venerdì 28 febbraio 2020

STEPHEN KING
LA TORRE NERA (The Dark Tower, 2004)

PARTE PRIMA
IL PICCOLO RE ROSSO
DAN-TETE
1
Callahan e i vampiri
1
Père Donald Callahan era stato un tempo il sacerdote cattolico di un borgo, Salem's Lot si chiamava, che non esisteva più su nessuna carta geografica. Gli era indifferente. Per lui concetti come «realtà» avevano perso ogni significato.
Questo ex prete aveva ora nel palmo un oggetto pagano, una tartarughina d'avorio. Le era saltato via un pezzettino del becco e aveva un graffio a forma di punto interrogativo sulla schiena, ma per il resto era un piccolo gioiello.
Bello e potente. Ne avvertiva la forza nella mano come energia elettrica.
«Quant'è bella», bisbigliò al ragazzo che gli era accanto. «È la Tartaruga Maturin? È lei, vero?»
Il ragazzo era Jake Chambers e aveva compiuto un lungo percorso circolare per ritrovarsi quasi al punto da cui era partito, lì a Manhattan. «Non lo so», rispose. «Lei la chiama sköldpadda, e potrebbe aiutarci, ma non può uccidere i masnadieri che ci stanno aspettando là dentro.» Indicò con un cenno della testa il Dixie Pig, domandandosi se, quando ricorreva a quel generico lei si stesse riferendo a Susannah o Mia. In passato avrebbe detto che non aveva importanza visto com'erano strettamente interconnesse tra loro le due donne. Ora però riteneva che non fosse più così, o che presto non lo sarebbe più stato.
«Lo farai?» chiese Jake al Père, intendendo ti batterai? Resisterai? Ucciderai?
«Oh sì», rispose Callahan con calma. Ripose la tartarughina d'avorio con i suoi occhi saggi e il dorso graffiato nel taschino, dove teneva le munizioni di riserva per la pistola, poi tastò una volta per assicurarsi che fosse al sicuro. «Sparerò finché avrò proiettili e se resterò senza proiettili prima che mi uccidano, li pesterò con... il calcio della pistola.»
L'esitazione fu così lieve che Jake non se ne avvide. Ma in quella pausa, a Père Callahan aveva parlato il Bianco. Era una forza che conosceva da tempo, già dall'infanzia, sebbene ci fossero stati lungo la via anni di fede vacillante, anni in cui la sua comprensione di quella forza elementare si era dapprima affievolita e infine dissolta. Ma quei giorni non c'erano più, il Bianco era di nuovo con lui, e Callahan disse grazie a Dio.
Jake stava annuendo, diceva qualcosa che Callahan udì appena. E ciò di cui Jake parlava non aveva importanza. Ciò che contava, invece, era quello che diceva l'altra voce, la voce di qualcosa
(Gan) forse troppo grande perché lo si potesse chiamare Dio.
Il ragazzo deve andare avanti, gli diceva la voce. Comunque sia, comunque si risolvano le cose qui, il ragazzo deve andare avanti. La tua parte nella storia è quasi conclusa. La sua no.
Passarono sotto un cartello su un palo cromato (CHIUSO PER FUNZIONE PRIVATA), con Oy, l'amico speciale di Jake, che trotterellava tra loro, con la testa alzata e il muso inghirlandato dal suo solito sorriso dentuto. In cima ai gradini, Jake affondò la mano nella sacca che SusannahMio aveva portato da quest'altra parte da Calla Bryn Sturgis e afferrò due dei piatti, gli Oriza. Li batté delicatamente uno contro l'altro, fece un cenno d'assenso al sordo rintocco, quindi disse: «Vediamo la tua».
Callahan sollevò la Ruger che Jake aveva preso da Calla New York e che ora aveva portato indietro; la vita è una ruota e noi tutti diciamo grazie. Per un momento il Père si accostò la canna della Ruger alla guancia destra come un duellante. Poi si toccò il taschino, che era gonfio delle cartucce e della tartaruga. La sköldpadda.
Jake annuì. «Quando saremo dentro, resteremo insieme. Sempre insieme, con Oy tra di noi. Al
tre. E quando cominciamo, non smettiamo più.»
«Non smettiamo più.»
«Giusto. Sei pronto?»
«Sì. L'amore di Dio è con te, ragazzo.»
«E con te, Père. Uno... due... tre.» Jake aprì la porta e insieme entrarono nella luce fioca e nell'odore dolciastro e penetrante delle carni arrostite.
2
Jake andò a quella che era sicuro sarebbe stata la sua morte ricordando due cose che gli aveva detto Roland Deschain, il suo vero padre. Le battaglie che durano cinque minuti generano leggende che vivono mille anni. E: Non è indispensabile che tu muoia felice quando verrà il tuo giorno, ma devi morire soddisfatto, perché hai vissuto la tua vita dall'inizio alla fine e sempre si serve il ka.
Jake Chambers contemplò l'interno del Dixie Pig con una mente soddisfatta.
3
E anche cristallina. I suoi sensi erano così acuiti che non solo sentiva l'odore dell'arrosto ma anche l'aroma del rosmarino con cui la carne era stata strofinata; non udiva solo il ritmo calmo del proprio respiro, ma anche il mormorio oscillante del sangue che saliva verso il cervello da un lato del collo e discendeva verso il cuore dall'altro.
Ricordava anche che Roland gli aveva detto che persino la battaglia più breve, dal primo colpo all'ultimo corpo stramazzato, sembrava lunga a coloro che vi prendevano parte. Il tempo diventava elastico; si estendeva fino a scomparire. Jake aveva annuito come se avesse compreso, ma così non era.
Comprendeva ora.
Il suo primo pensiero fu che ce n'erano troppi, di gran lunga troppi. Calcolò il loro numero intorno al centinaio, per la maggior parte «uomini bassi», come li aveva definiti Père Callahan (c'erano anche donne basse, ma Jake era sicuro che il principio fosse il medesimo). Sparsi tra loro - tutti meno in carne del folken basso e alcuni aguzzi come lame di fioretto, con la carnagione cinerea e il corpo avvolto in diafane aure azzurre - c'erano quelli che dovevano essere vampiri.
Oy era ai piedi di Jake, con un'espressione seria seria sul musetto volpino e un guaito annidato in gola.
L'odore della carne che cuoceva non era di maiale.
4
Tre metri fra noi in qualsiasi momento, tre metri di distanza, Père, così Jake aveva detto in strada e, mentre si avvicinavano alla postazione del maître, Callahan svariò alla destra di Jake aprendo tra loro la distanza richiesta.
Jake gli aveva anche ordinato di urlare più forte e più a lungo che poteva e Callahan stava giusto prendendo fiato per cominciare, quando dentro di lui risuonò di nuovo la voce del Bianco.
Una sola parola, ma fu sufficiente.
Sköldpadda.
Callahan aveva ancora la Ruger contro la guancia destra. Ora fece scivolare la sinistra nel taschino. La sua percezione della scena non era così acutizzata come quella del suo giovane compagno, ma era pur molto ciò che vedeva: i flambeaux elettrici alle pareti, che emettevano luce rossastra, le candele in contenitori di vetro di un brillante arancione-Halloween, il nitore dei tovaglioli. Alla sinistra della sala da pranzo c'era un arazzo raffigurante cavalieri e dame seduti a un lungo tavolo da banchetti. C'era una sensazione in quell'immagine - Callahan non era del tutto certo di che cosa la provocasse, i vari indizi e stimoli rimanevano sottintesi - di persone appena riprese da un breve eccitamento: un principio d'incendio in cucina, per esempio, o un incidente automobilistico in strada.
O una donna che ha partorito, pensò Callahan mentre chiudeva la mano sulla tartaruga. Un parto viene sempre bene come interludio tra l'antipasto e la prima portata.
«Ecco che giungono i ka-mai di Gilead!» gridò una voce vibrante di nervosismo. Non umana, di questo Callahan era quasi certo. Era troppo ronzante perché fosse umana. Vide un mostruoso ibrido in parte uomo e in parte uccello fermo in fondo alla stanza. Indossava un paio di jeans e una semplice camicia bianca, ma la testa che usciva da quel colletto era ornata da lisce piume color giallo scuro. I suoi occhi sembravano gocce di catrame liquido.
«Prendeteli!» comandò quell'essere orribilmente ridicolo, liberando un oggetto da sotto un tovagliolo. Era un'arma di qualche genere. Una pistola, pensò Callahan, ma di quelle che si vedevano in Star Trek. Come le chiamavano? Phaser? Storditori?
Non aveva importanza. Lui aveva un'arma assai migliore e voleva che tutti la vedessero. Fece volar via dal tavolo più vicino i coperti e il contenitore di vetro con la candela, poi fu la volta della tovaglia come un numero di prestidigitazione. L'ultima cosa che voleva era inciampare in un ammasso di lino nel momento fatidico. Poi, con un'agilità che non si sarebbe nemmeno sognato solo una settimana prima, montò su una sedia e da lì sul tavolo. Finalmente alzò la sköldpadda sostenendone la base piatta con le dita e la mostrò a tutti i presenti.
Potrei cantare qualcosa, pensò. Magari Moonlight Becomes You oppure I Left My Heart in San Francisco.
A quel punto si trovavano dentro il Dixie Pig da precisamente trentaquattro secondi.
5
I professori di liceo alle prese con un gruppo consistente di studenti, per esempio in un'aula magna, vi diranno che gli adolescenti, anche se freschi di doccia, emanano l'odore degli ormoni che il loro corpo fabbrica con tanta alacrità. Un odore simile emette un qualsiasi gruppo di persone sotto stress e Jake, con tutti i sensi elevati al massimo della percezione, lo sentì. Quando oltrepassarono la postazione del maître (quella che a suo padre piaceva chiamare la Centrale dell'Estorsione), l'odore dei commensali del Dixie Pig era ancora debole, era l'odore di persone che tornano alla normalità dopo una baruffa. Ma quando la creatura-uccello gridò, Jake l'avvertì più forte. Era un sentore metallico, abbastanza simile a quello del sangue a scuoterlo. Sì, vide Titti spostare il tovagliolo sul tavolo; sì, vide l'arma che c'era sotto; sì, capì che Callahan, in piedi sul tavolo, era un bersaglio facile. Quel pericolo però lo preoccupava di meno di quello strumento di mobilitazione che era la bocca di Titti. Stava portando all'indietro il braccio destro, preparandosi a lanciare il primo dei suoi diciannove piatti e decapitare il proprietario di quella bocca, quando Callahan alzò la tartaruga.
Non succederà niente, non qui dentro, pensò Jake, ma ancor prima che l'idea si fosse articolata del tutto nella sua mente, vide che in effetti funzionava. Lo capì dal loro odore. La componente dell'aggressività non c'era più. E i pochi che avevano cominciato a levarsi dai loro posti - buchi rossi aperti nella fronte degli uomini bassi e aure azzurre più intense e compatte intorno ai vampiri - si risedettero, e lo fecero bruscamente, come se avessero perso all'improvviso il controllo dei muscoli.
«Prendeteli, sono quelli che Sayre...» Poi Titti smise di parlare. La sua mano sinistra, se si poteva definire mano quell'orribile artiglio, toccò il calcio della sua futuristica pistola e scivolò via. La luminosità dei suoi occhi si offuscò. «Sono quelli che Sayre... S-S-Sayre...» Un'altra pausa. Poi l'essere-uccello disse: «Oh sai, cos'è quel bell'oggetto che tieni nella mano?»
«Sai cos'è», gli rispose Callahan. Jake si stava muovendo e Callahan, ricordando bene ciò che il giovane pistolero gli aveva detto in strada - ogni volta che guardo alla mia destra, fai che veda sempre la tua faccia - ridiscese dal tavolo per spostarsi con lui, sempre tenendo in alto la tartaruga. Quasi sentiva il sapore del silenzio nel locale, ma...
C'era un'altra stanza. Risa sguaiate e schiamazzi da gozzoviglia, una festa di qualche genere, a giudicare dal chiasso, e molto vicina. A sinistra. Oltre l'arazzo con i cavalieri e le loro dame a pranzo. Là dietro sta succedendo qualcosa, rifletté Callahan, e probabilmente non una riunione di filantropi.
Sentì il respiro veloce e sommesso di Oy attraverso il suo sorriso perpetuo, un motorino perfetto. E qualcos'altro ancora. Un tramestio secco, frammisto a un rapido ticchettio, una combinazione che aggredì i nervi di Callahan e gli fece gelare la pelle. C'era qualcosa sotto i tavoli.
Fu Oy a vedere per primo gli insetti e si bloccò come un cane da punta, con una zampa sollevata da terra e il muso proteso in avanti. Per un momento di lui si mosse soltanto la pelle vellutata e scura del muso, dapprima raggricciandosi all'indietro a rivelare gli aghi serrati dei denti, poi rilassandosi a nasconderli, quindi tirandosi di nuovo.
Gli insetti vennero avanti. La Tartaruga Maturin nella mano del Père non aveva su di loro alcun effetto. Un grassone che indossava uno smoking con i risvolti a scacchi si rivolse all'essereuccello in un tono timoroso, quasi interrogativo: «Non dovevano venire più avanti di così, Meiman, né andarsene. Ci avevano detto...»
Oy partì con un ringhio tra i denti stretti. Era un verso decisamente estraneo al suo repertorio, che ricordò a Callahan la nuvoletta di un fumetto: Arrrrrr!
«No!» gridò Jake allarmato. «No, Oy!»
A quell'intimazione, gli schiamazzi e le risa dietro l'arazzo cessarono bruscamente, come se quel folken si fosse improvvisamente reso conto che qualcosa era cambiato nell'altra stanza.
Oy non badò alla protesta di Jake. Azzannò tre degli insetti in rapida successione, facendo crepitare in quel silenzio repentino il rumore macabro dei loro carapaci che si spezzavano. Non tentò di mangiarli, limitandosi a lanciare nell'aria i cadaveri di ciascuno, grandi come topi, allentando la contrazione delle mandibole con una frustata del collo.
E gli altri si ritirarono sotto i tavoli.
Ha l'istinto, pensò Callahan. Forse molto tempo fa lo avevano tutti i bimboli. Era predisposto come certi terrier sono predisposti a...
Un grido roco simile a uno starnuto da dietro l'arazzo interruppe quei pensieri: «Um!» proruppe una voce e subito dopo una seconda: «Ka-um!» Callahan provò l'assurdo impulso di gridare Salute!
Prima che potesse pronunciare quella parola o un'altra, all'improvviso la voce di Roland gli riempì la testa.
6
«Jake, va'.»
Il ragazzo si girò verso Père Callahan, incredulo. Camminava con le braccia incrociate davanti a sé, pronto a lanciare gli Oriza al primo essere basso che si fosse mosso, maschio o femmina. Oy era di nuovo ai suoi piedi, sebbene girasse incessantemente la testa di qua e di là e i suoi occhi brillassero dal desiderio di nuove prede.
«Andiamo insieme», rispose. «Hanno paura, Père! E siamo vicini! L'hanno portata per di qui... per questa stanza... e poi attraverso la cucina...»
Callahan non gli prestò attenzione. Sempre tenendo in alto la tartarughina (come tosse una lanterna in una grotta profonda), si era girato verso l'arazzo. Il silenzio là dietro era assai più terribile delle grida e delle risa convulse di prima. Era come un'arma spianata. E il ragazzo si era fermato.
«Vai finché puoi», insisté Callahan cercando di mantenersi calmo. «Raggiungila se puoi.
Questo è l'ordine del tuo dinh. Tale è anche la volontà del Bianco.»
«Ma tu non...»
«Vai, Jake!»
Le donne e gli uomini bassi del Dixie Pig, incantati o no dalla sköldpadda, reagirono con un mormorio di disagio all'echeggiare di quel grido ed era giusto che fosse così, perché non era la voce di Callahan quella che usciva dalla bocca del Père.
«Hai quest'unica occasione e devi prenderla! Trovala! Come tuo dinh, così ti ordino!»
Jake sgranò gli occhi nell'udire la voce di Roland scaturire dalla gola di Callahan. Rimase a bocca aperta. Si guardò intorno stordito.
Nei secondi precedenti al momento in cui l'arazzo alla loro sinistra fu squarciato, Callahan scorse la macabra realtà celata nell'apparenza, vide quello che l'occhio disattento avrebbe mancato a un primo sguardo: l'arrosto che era il piatto principale del banchetto aveva forma umana; i cavalieri e le loro dame mangiavano carni umane e bevevano sangue umano. La scena rappresentata dall'arazzo era quella di una comunione da cannibali.
Poi i vegliardi abbandonarono il proprio banchetto e strapparono l'osceno arazzo e piombarono nella sala lanciando strilli dalle fauci deformate e costrette dalle grandi zanne a restare costantemente aperte. I loro occhi erano neri come la cecità; la pelle di guance e fronte, persino del dorso delle mani, era deturpata dall'affiorare di denti matti. Come i vampiri della sala da pranzo, erano anch'essi circondati da un'aura, ma la loro era di un viola venefico così scuro da rasentare il nero. Dagli angoli di occhi e bocche colava una sorta di pus. Farfugliavano e alcuni di loro ridevano, dando l'impressione non già di produrre suoni, bensì di strapparli all'aria come dilaniando cose vive.
E Callahan li conosceva. Naturale. Non era stato forse uno di loro a mostrargli la via? Lì c'erano i vampiri veri, il Tipo Uno, conservati come un segreto e ora lanciati sugli intrusi.
La tartaruga che teneva nella mano non li rallentò minimamente.
Callahan vide Jake che, di fronte a quei mostri, esitava inorridito, pallido e con gli occhi lucidi e strabuzzati.
Senza sapere che cosa stesse per uscire dalla sua bocca prima di udirlo con le orecchie,
Callahan urlò: «Uccideranno prima Oy! Lo uccideranno davanti a te e berranno il suo sangue!»
Sentendo il suo nome, Oy abbaiò. Il latrato parve rianimare gli occhi di Jake, ma Callahan non ebbe tempo di occuparsi della sorte del ragazzo.
La tartaruga non li ferma, ma almeno tiene a bada gli altri. Le pallottole non li possono fermare, però...
Con un sensazione di déjà vu - e perché no, aveva già vissuto tutto questo nella casa di un ragazzo di nome Mark Petrie - Callahan infilò la mano sotto la camicia ed estrasse la croce che portava al collo. Tintinnò sul calcio della Ruger prima di rimanere sospesa nell'aria sotto la pistola. Era illuminata di una brillante luce bianco-azzurra. I due esseri decrepiti in testa al gruppo stavano per afferrarlo, ma a un tratto arretrarono strillando di dolore. Callahan vide la loro pelle sfrigolare e cominciare a liquefarsi. Un fenomeno che lo riempì di selvaggia felicità.
«Indietro!» comandò. «Ve lo ordina il potere di Dio! Ve lo ordina il potere di Cristo! Ve lo ordina il ka del Medio-Mondo! Ve lo ordina il potere del Bianco!»
Uno di loro si fece sotto lo stesso, uno scheletro deforme in un vecchio abito da sera ammuffito. Al collo portava un'onorificenza antica... la Croce di Malta forse? Allungò la mano dalle lunghe unghie cercando di strappare il crocifisso dalle dita di Callahan, il quale lo abbassò all'ultimo istante, cosicché l'artiglio del vampiro sfrecciò nell'aria vuota due centimetri sopra di esso. Allora, senza pensare, Callahan si protese e affondò l'estremità della croce nella pergamena ingiallita che rivestiva la fronte della cosa. Il crocifisso d'oro penetrò come uno spiedo rovente in un panetto di burro. La cosa nello smoking color ruggine lanciò un verso liquido di sgomento e dolore e barcollò all'indietro. Callahan estrasse la croce. Per un momento, prima che il vecchio mostro si portasse le zampe alla fronte, Callahan vide lo squarcio provocato dalla sua croce. Poi fra le dita scheletriche cominciò a fluire una materia densa e giallastra. Le ginocchia della creatura cedettero. Stramazzò al suolo tra due tavoli. I suoi compagni si ritrassero urtando la loro indignazione. La faccia dell'essere si andava già disfacendo sotto le sue mani deformi. L'aura che lo circondava si dissolse come la fiamma di una candela e di esso non restò che una pozza di materia gialla, che fluiva liquefatta come vomito dalle maniche e dai calzoni.
Callahan avanzò deciso verso gli altri. Non aveva più paura. Era scomparsa anche l'ombra di vergogna che lo aveva perseguitato da quando, un giorno lontano, Barlow il vampiro gli aveva preso la croce e gliel'aveva spezzata.
Finalmente libero, pensò. Finalmente libero, grande Dio onnipotente, sono finalmente libero. Poi: Credo che questa sia redenzione. Ed è bello, vero? Molto bello.
«'Uttala via!» gridò uno di loro, proteggendosi il volto con le mani. «Insipido fronzolo del
Dio-'ecora, 'uttala via se ne hai il fegato!»
Insipido fronzolo del Dio-pecora, certo. Allora perché siete così atterriti?
Di fronte a Barlow non aveva osato rispondere a quella provocazione e ne aveva pagato un prezzo altissimo. Al Dixie Pig, Callahan rivolse la croce alla cosa che aveva avuto l'ardire di sfidarlo.
«Non metterò in gioco la mia fede per la brutta faccia di un essere come te, sai», disse e le sue parole risuonarono chiare nella sala. Aveva costretto i vecchi a retrocedere fin quasi all'arco da sotto il quale erano emersi. Grossi tumori scuri erano comparsi sulle mani e il volto di quelli in prima linea, escrescenze che divoravano come un acido la carta della loro vecchia pelle. «E non getterei mai via una vecchia amica come questa in ogni caso. Ma metterla via? Aye, se vi fa piacere.» E lasciò ricadere la croce nella camicia.
Subito alcuni dei vampiri si lanciarono in avanti, torcendo le bocche zeppe di denti in una smorfia che poteva essere un sogghigno. Callahan protese le mani verso di loro. Le dita (e la canna della Ruger) si accesero come fossero state intinte in un fuoco blu. Si erano riempiti di luce anche gli occhi della tartaruga; il suo guscio brillava.
«Lontani da me!» tuonò Callahan. «Il potere di Dio e del Bianco ve lo comanda!»
7
Quando il terribile sciamano si girò verso gli Avi, Meiman dei taheen sentì che l'affascinante, orribile malia della tartaruga perdeva una parte del suo effetto. Vide che il ragazzo non c'era più e questo lo riempì di sgomento, tuttavia forse non tutto era perduto, visto che era andato avanti, penetrando più a fondo nella scena invece che ritirarsi. Ma se avesse trovato la porta per Fedic e se ne fosse servito, Meiman si sarebbe potuto trovare in un gran brutto guaio. Perché Sayre rispondeva a Walter o'Dim e Walter rispondeva solo al Re Rosso in persona.
Pazienza. Una cosa per volta. Prima di tutto bisognava neutralizzare lo sciamano. Scatenargli addosso gli Avi. Poi il ragazzo: magari gridargli che il suo amico ci aveva ripensato e lo voleva indietro, uno stratagemma che avrebbe potuto funzionare...
Meiman (l'uomo canarino per Mia, Titti per Jake) avanzò di soppiatto e afferrò con una mano Andrew, il grassone con lo smoking dai risvolti a scacchi, e la sua ancor più grassa compagna con l'altra. Indicò la schiena girata di Callahan.
Tirana scosse con forza la testa. Meiman aprì il becco e le sibilò qualcosa. Lei si chinò impaurita. Detta Walker aveva già infilato le dita nella maschera di Tirana che ora le pendeva a brandelli dal collo e dal mento. Al centro della fronte una ferita rossa si apriva e chiudeva come la branchia di un pesce in agonia.
Meiman si rivolse ad Andrew, staccandosi da lui per indicare lo sciamano, quindi passandosi l'artiglio che aveva per mano sulla gola pennuta in un gesto di truce eloquenza. Andrew annuì e respinse le mani della moglie che cercavano di trattenerlo. La maschera umana che indossava l'uomo basso nel suo pacchiano smoking era abbastanza naturale da assumere l'espressione tipica di chi fa appello a tutto il proprio coraggio. Dopodiché spiccò il balzo con un verso strozzato e afferrò Callahan per il collo, non con le mani, bensì con i grassi avambracci. Contemporaneamente la sua compagna si lanciò in avanti con un grido e fece volar via la tartarughina d'avorio dalla mano del Père. La sköldpadda rotolò sul tappeto rosso, rimbalzò su uno dei tavoli e lì (come una certa barchetta di carta che qualcuno di voi forse ricorda) uscì per sempre da questa storia.
Gli Avi ancora non intervenivano, né si muovevano i vampiri del Tipo Tre che cenavano nella sala comune, ma i tizi bassi sentirono il momento di debolezza e si fecero sotto, dapprima titubanti, poi con crescente sicurezza. Circondarono Callahan, sostarono per un momento e infine gli furono addosso tutti assieme.
«Nel nome di Dio, lasciatemi andare!» proruppe Callahan, ma naturalmente non servì. A differenza dei vampiri, gli esseri con la ferita rossa sulla fronte non reagivano al nome della divinità invocata da Callahan. La sola cosa che poteva fare era sperare che Jake non si fermasse, o peggio ancora che non tornasse indietro; sperare che lui e Oy proseguissero come il vento fino a Susannah. Che la salvassero, se potevano. Che morissero con lei, altrimenti. E che uccidessero il neonato, se ne avessero avuta l'occasione. Che Dio lo perdonasse, ma si era sbagliato su quel conto. Avrebbero dovuto spegnere quella vita già nel Calla, quando ne avevano avuto la possibilità.
Qualcosa gli penetrò nel collo. Ora i vampiri avrebbero attaccato, nonostante la croce. Alla prima zaffata del suo sangue, lo avrebbero aggredito da quegli squali che erano. Dio aiutami, dammi forza, pensò e la sentì sopraggiungere. Rotolò sulla sinistra mentre cento mani gli laceravano la camicia. Per un momento la sua mano destra fu libera e in essa c'era ancora la Ruger. La ruotò verso il volto sudato e congestionato dall'odio del grassone di nome Andrew e posò la canna della pistola (acquistata per protezione personale in un lontanissimo passato da quel dirigente di rete televisiva un po' paranoico che era stato il padre di Jake) sulla morbida ferita rossa al centro della fronte.
«No-ooo, non t'azzardare!» sbraitò Tirana e, quando si allungò per cercare di strappargli la pistola, il vestito che indossava infine si strappò, rovesciando fuori l'enorme seno. Che era coperto di dure setole.
Callahan premette il grilletto. Nella sala da pranzo la detonazione della Ruger fu assordante. La testa di Andrew esplose come una zucca piena di sangue, inondando le creature che si accalcavano dietro di lui. Ci furono grida di orrore e incredulità. Non doveva andare così, vero?
ebbe tempo di pensare Callahan. E poi: Basta questo a iscrivermi al club? Ora sono un pistolero?
Forse no. Ma c'era l'uomo-uccello, proprio davanti a lui tra due dei tavoli, che apriva e chiudeva il becco sopra la gola che gli pulsava di eccitazione.
Sorridendo, sollevandosi su un gomito mentre il sangue gli usciva a fiotti dalla gola squarciata sul tappeto, Callahan puntò la Ruger di Jake.
«No!» gridò Meiman portandosi le mani deformi al volto in un gesto di protezione assolutamente inutile. «No, non puoi...»
Posso, posso, pensò Callahan con gioia infantile e fece fuoco di nuovo. Meiman indietreggiò barcollando, prima due passi, quindi un terzo. Urtò un tavolo e crollò su di esso. Sopra di lui, librate nell'aria, dondolarono pigramente tre piume gialle.
Callahan udì urla selvagge, non di collera o di paura, ma di fame. Il profumo del sangue era finalmente penetrato nelle smunte narici dei vecchi e ora nulla avrebbe potuto fermarli. Così, se non voleva finire come loro...
Père Callahan, colui che era stato padre Callahan di Salem's Lot, girò contro di sé la canna della Ruger. Non perse tempo a cercare l'eternità nel buio della canna e senza indugio se la spinse sotto la mascella.
«Hile, Roland!» disse e sentì (l'onda sono sollevati dall'onda) di essere udito. «Hile, pistolero!»
Il suo dito si contrasse sul grilletto nel momento in cui i mostri centenari gli piombavano addosso. Fu sepolto dal tanfo del loro alito freddo ed esangue, ma non ne fu turbato. Mai si era sentito tanto forte. Di tutti gli anni vissuti, i più felici erano stati quando aveva viaggiato da semplice vagabondo, non più sacerdote ma solo Callahan delle Strade, e sentì che presto sarebbe stato libero di riprendere quella vita e vagabondare a piacimento, avendo compiuto il suo dovere, e fu una sensazione appagante.
«Che tu possa trovare la tua Torre, Roland, ed entrarvi, e che tu possa salire fino in cima!»
I denti dei suoi vecchi nemici, quegli antichi fratelli e sorelle di una cosa che si era fatta chiamare Kurt Barlow, affondarono in lui come pungiglioni. Callahan non sentì niente. Sorrideva mentre premeva il grilletto e fuggiva da loro per sempre.
2
Sollevati dall'onda
1
Sulla strada sterrata che li aveva portati all'abitazione dello scrittore nella circoscrizione di Bridgton, Eddie e Roland si imbatterono in un pick-up arancione sulle cui fiancate campeggiava la scritta CENTRAL MAINE POWER MAINTENANCE. Poco distante, un individuo in casco protettivo giallo e giubbotto catarifrangente arancione tagliava i rami bassi che potevano costituire pericolo per le linee elettriche. E non è che Eddie avvertisse qualcosa in quel momento, un'avvisaglia di energia? Forse il precursore dell'onda che scorreva lungo il Sentiero del Vettore venendo verso di loro? Così avrebbe riflettuto in seguito, ma lì per lì non seppe spiegarselo. Dio sa quanto fosse già in uno stato d'animo bizzarro e ne aveva ben donde: a quanti capita di fare la conoscenza del proprio creatore? Be'... Stephen King non aveva propriamente creato Eddie Dean, un giovane la cui Co-Op City si trovava a Brooklyn e non nel Bronx, quanto meno ancora non lo aveva fatto, non nell'anno 1977, ma Eddie era certo che a tempo debito sarebbe accaduto. Altrimenti come si sarebbe potuto trovare lì?
Eddie procedette oltre il veicolo della manutenzione, smontò e chiese all'uomo sudato con la sega a motore come arrivare in Turtleback Lane, in un posto chiamato Lovell. L'uomo della Central Maine Power lo accontentò con simpatica cortesia, poi aggiunse: «Se davvero volete arrivare a Lovell oggi, vi conviene prendere la Route 93. Quella che alcuni chiamano la Strada Grande».
Alzò la mano e scosse la festa come per rintuzzare un'obiezione, sebbene Eddie non avesse più aperto bocca dopo aver chiesto le indicazioni che gli servivano.
«È sette miglia più lunga, lo so, ed è tutta sconnessa, ma oggi non si può passare per East Stoneham. Sono arrivati sbirri da tutte le parti a chiuderla. Gli statali, i locali, perfino gli uomini dello sceriffo della contea di Oxford.»
«Pazzesco», commentò Eddie, rifugiandosi nella reazione che gli sembrò più prudente.
L'addetto alla manutenzione annuì incurvando la bocca. «Nessuno sa bene che cosa sia successo, ma ci sono state sparatorie, forse con armi automatiche, ed esplosioni.» Batté la mano sul walkie-talkie sporco di segatura che portava agganciato alla cintura. «Oggi pomeriggio ho perfino sentito due volte parlare di ti. E non mi sorprende.»
Eddie non aveva idea di che cosa fosse «ti», ma sapeva che Roland aveva fretta. Percepiva nella testa l'impazienza del pistolero; quasi gli pareva di vedere il tipico roteare del dito, il gesto con cui Roland indicava: muoversi, muoversi.
«Sto parlando di terrorismo», precisò l'addetto alla manutenzione, quindi abbassò la voce. «La gente crede che porcate del genere qui in America non possano succedere, ma se vuole dar retta a me, si sbagliano. Se non è oggi, prima o poi ci toccherà. Qualcuno farà saltare in aria la Statua della Libertà o l'Empire State Building, ecco come la penso io, quelli di destra, quelli di sinistra, o quei dannati arabi. Troppi balordi in giro.»
Eddie, che aveva conoscenza saltuaria di un'ulteriore decina d'anni, annuì. «Probabilmente ha ragione. In ogni caso grazie delle informazioni.»
«Ho solo cercato di farvi risparmiare un po' di tempo.» E, mentre Eddie apriva la portiera della
Ford di John Cullum: «Ha avuto qualche problema, mister? La vedo un po' acciaccato. E zoppica, anche».
Sì, qualche problema Eddie lo aveva avuto: aveva ricevuto un colpo di striscio a un braccio ed era stato preso in pieno al polpaccio destro. Nessuna delle due ferite era grave e nel precipitare degli eventi, se ne era quasi scordato. Ora gli facevano di nuovo un male della malora. Perché mai aveva rifiutato il flacone di Percocet che gli aveva offerto Aaron Deepneau?
«Già», rispose, «per questo vado a Lovell. Mi ha morsicato un cane. Vado a fare due chiacchiere con il suo padrone.» Una storia bizzarra, un po' fiacca quanto a trama, ma non era uno scrittore. Quello era il mestiere di King. Bastò comunque a dargli il tempo di riparare dietro il volante della Ford di Cullum prima che l'uomo della manutenzione potesse rivolgergli altre domande e per questo Eddie la giudicò riuscita. Ripartì alla svelta.
«Ti ha spiegato dove?» chiese Roland.
«Sì.»
«Bene, i nodi stanno venendo al pettine tutti assieme, Eddie. Dobbiamo raggiungere Susannah il più presto possibile. E anche Jake e Père Callahan. E il bambino sta arrivando, qualunque cosa sia. Può essere già nato.»
Giri a destra appena sarà tornato su Kansas Road, aveva indicato a Eddie l'addetto alle manutenzioni (Kansas come in Dorothy, Toto e zia Em, un groviglio di nodi al pettine), e così fece. In quel modo procedettero verso nord. Il sole era finito dietro gli alberi alla loro sinistra, lasciando interamente nell'ombra la strada asfaltata a due corsie. Eddie provava la sensazione quasi palpabile del tempo che gli scivolava tra le dita come un tessuto di gran pregio troppo liscio per poterlo afferrare. Pigiò l'acceleratore e la vecchia Ford di Cullum, nonostante le valvole sfiatate, trovò un po' di brio. Eddie la portò a cinquantacinque miglia orarie e la tenne a quell'andatura. Forse avrebbe potuto dare di più, ma Kansas Road era tortuosa e accidentata.
Roland si era tolto dal taschino della camicia un foglio, lo aveva aperto e ora lo stava studiando (sebbene Eddie dubitasse che il pistolero potesse leggere molto di quel documento; per lui le parole scritte di questo mondo sarebbero sempre state quanto mai misteriose). In cima al foglio, sopra la scrittura alquanto tremolante ma perfettamente leggibile di Aaron Deepneau (e l'importantissima firma di Calvin Torre), c'erano il disegnino di un castoro sorridente e l'intestazione COSE MALEDETTAMENTE IMPORTANTI DA FARE.
Non farmi domande sciocche, sciocchi scherzi non ti farò, pensò Eddie e a un tratto sorrise. Era un punto di vista al quale Roland era ancora fedele, ne era certo, nonostante il fatto che, a bordo di Blaine il Mono, avevano avuto salva la vita da alcune tempestive domande sciocche. Aprì la bocca con l'intenzione di sottolineare come quel pezzo di foglietto spiegazzato avrebbe potuto rivelarsi più importante della Magna Charta o della Dichiarazione d'Indipendenza o della Teoria della Relatività di Albert Einstein, ma prima di poter pronunciare una sola parola arrivò l'onda.
2
Il piede gli scivolò via dal pedale dell'acceleratore e fu un bene. Se fosse rimasto al suo posto, sicuramente avrebbero fatto entrambi una brutta fine, a rischio di restare uccisi. Quando l'onda arrivò, il mantenere il controllo della Ford di John Cullum scese a precipizio nella scala delle priorità di Eddie Dean. Fu come quando la navetta giunge al culmine della prima montagna russa ed esita per un momento... s'inclina... piomba giù... e tu cadi colpito dallo schiaffo improvviso dell'aria calda dell'estate, con il petto schiacciato e lo stomaco che ti schizza all'indietro.
In quel momento Eddie vide librarsi tutto ciò che si trovava nell'abitacolo: cenere di pipa, due penne e un fermaglio usciti dal cruscotto, il suo dinh, e - si accorse - il ka-mai del suo dinh, il buon vecchio Eddie Dean. Ovvio che avesse perso lo stomaco! (Non si rese conto che l'automobile stessa, che si era fermata ai bordi della strada, si librava a sua volta, beccheggiando pigramente a una spanna dal suolo come una barchetta su un mare invisibile.)
Poi la strada di campagna e gli alberi che la costeggiavano scomparvero. Scomparve Bridgton.
Scomparve il mondo. Suonarono le campanelle della contezza, ripugnanti e nauseanti, facendogli venire voglia di digrignare i denti per protesta... se non che erano scomparsi anche i suoi denti.
3
Come Eddie, Roland provò la netta sensazione di essere dapprima sollevato e quindi tenuto sospeso, come un oggetto che ha perso i suoi legami con la gravità terrestre. Udì le campanelle e si sentì sollevato attraverso il muro dell'esistenza, ma capì che non era contezza reale, non certo del tipo che avevano sperimentato in precedenza. Questa era molto probabilmente quella che Vannay chiamava aven kal, parole che significavano sollevati sul vento oppure trasportati dall'onda. Solo che l'espressione nella forma kal, invece della più comune kas, stava a indicare una forza naturale di proporzioni rovinose: non un vento ma un uragano; non un'onda ma uno tsunami.
Il Vettore vuole parlarti, Ciarla, gli disse nella mente Vannay: Ciarla, il vecchio soprannome sarcastico che Vannay gli aveva appioppato per deridere la laconicità del figlio di Steven Deschain. Lo zoppo, geniale tutore aveva smesso di usarlo (probabilmente dietro insistenza di Cort) quando Roland aveva compiuto undici anni. Farai bene ad ascoltarlo.
Ascolterò molto bene, rispose Roland e fu lasciato ricadere a terra. Represse un conato di vomito, privo di peso e nauseato com'era.
Altre campanelle. Poi, all'improvviso, era sospeso di nuovo, questa volta sopra una stanza piena di letti vuoti. Uno sguardo gli fu sufficiente per sapere che non era quella dove i Lupi avevano portato i bambini rapiti dai Calla della frontiera. In fondo alla stanza...
Una mano lo afferrò per il braccio, una cosa che in quello stato Roland avrebbe ritenuto impossibile. Guardò a sinistra e trovò Eddie accanto a sé, che fluttuava nudo. Erano nudi entrambi, i loro indumenti erano rimasti nel mondo dello scrittore.
Roland aveva già visto quello che Eddie gli stava indicando. In fondo alla stanza, c'erano due letti ravvicinati. Su uno di essi era distesa una donna bianca. Le sue gambe, le stesse che Susannah aveva usato quando erano andate a contezza a New York, Roland ne era sicuro - erano spalancate. Tra esse si chinava una donna con la testa di topo, senz'altro una taheen.
Di fianco alla donna bianca ce n'era una dalla pelle scura, le cui gambe finivano appena sotto le ginocchia. Nudo o no, sospeso nel vuoto o no, nauseato o no, contezza o no, mai in vita sua Roland era stato tanto felice nel vedere una persona. E lo stesso sentimento era condiviso da Eddie. Roland lo sentì mandare un grido di gioia al centro della testa e allungò la mano per zittire il giovane compagno. Doveva assolutamente farlo tacere, perché Susannah li stava guardando, quasi certamente li aveva visti, e se avesse rivolto loro la parola, era indispensabile udire tutto ciò che aveva da dire. Perché sebbene le parole sarebbero uscite dalla sua bocca, a parlare sarebbe stato con tutta probabilità il Vettore, nella Voce dell'Orso o in quella della Tartaruga.
Entrambe le donne avevano sulla testa una calotta metallica. Le univa un tubo d'acciaio snodabile.
Un aggeggio per fondere le menti, disse Eddie, riempiendo di nuovo il centro della sua testa e oscurando tutto il resto. O magari...
Zitto! intervenne Roland. Zitto, Eddie, per l'amore di tuo padre!
Un uomo in camice bianco prese da un vassoio un forcipe dall'aspetto cruento e spinse via l'infermiera taheen con la testa di topo. Si chinò a scrutare tra le gambe di Mia con il forcipe sospeso sopra la testa. Poco distante, con addosso una T-shirt con una scritta del mondo di Eddie e Susannah, c'era un taheen con la testa di un rapace.
Ci sentirà, pensò Roland. Se ci tratteniamo troppo, di sicuro ci sentirà e darà l'allarme.
Ma Susannah lo stava guardando con occhi febbrili da sotto il peso della calotta. Occhi brillanti. Occhi che li vedevano, aye, dico il vero.
Pronunciò una sola parola e in un momento di inspiegabile ma assolutamente affidabile intuizione, Roland sentì che la parola non proveniva da Susannah bensì da Mia. Ma era anche la Voce del Vettore, una forza forse abbastanza senziente da capire la gravità della minaccia a cui era esposta e da volersi proteggere.
Chassit fu la parola che Susannah disse; lui la udì nella testa perché erano ka-tet e an-tet; la vide anche formarsi senza suono sulle labbra di lei, che guardava in alto, nel punto dov'erano sospesi loro, spettatori di qualcosa che stava avvenendo in un altro dove e quando in quello stesso istante.
Alzò la testa anche il taheen con la testa di falco, forse seguendo il suo sguardo, forse per aver sentito le campanelle grazie alla percezione soprannaturale delle sue orecchie. Poi il dottore abbassò il forcipe e lo spinse sotto la veste di Mia. Lei gridò. Susannah gridò con lei. E come se l'essere essenzialmente incorporeo di Roland potesse essere soffiato via dalla forza di quelle grida come un baccello in balia del vento ottobrino, il pistolero si sentì spingere violentemente verso l'alto, perdendo contatto dal luogo su cui era affacciato, ma conservandolo su quell'unica parola. Portava con sé il ricordo fulgido di sua madre che si chinava su di lui sdraiato sul letto. Accadeva nella stanza dei molti colori, la nursery; e naturalmente ora li comprendeva quei colori che da bambino aveva semplicemente accettato, come è naturale che ogni cosa sia accettata da un bambino appena svezzato: con meraviglia senza riserve, con l'intima certezza che tutto fosse opera di magia.
Le finestre della nursery erano di vetri policromi che rappresentavano le Curve dell'Iride, naturalmente. Ricordò sua madre che si chinava su di lui, il volto di lei variegato da quella bella luce policroma, il cappuccio spinto all'indietro a lasciargli percorrere la linea del collo con l'occhio di un bimbo (è tutto opera di magia)
e l'animo di un innamorato; ricordò di aver pensato a come l'avrebbe corteggiata e conquistata
strappandola a suo padre, se lei fosse stata disposta ad averlo; come si sarebbero sposati e avrebbero avuto dei figli e sarebbero vissuti per sempre in quel regno da fiaba che si chiamava Tuttosplende; e come lei avrebbe cantato per lui, come Gabrielle Deschain cantava al suo bambino, che la guardava solenne dal guanciale con gli occhi grandi e già disegnati sul viso i colori mutevoli della sua vita raminga; cantava una filastrocca senza senso che diceva così:
Bimbo caro, bel bambino, Porta tanti frutti grassi.
Chussit, chissit, chassit!
Da riempire il tuo cestino!
Da riempire il mio cestino, pensò mentre veniva spinto, senza peso, attraverso la tenebra e il terribile suono delle campanelle della contezza. Le parole non erano del tutto insensate, perché contenevano antichi numeri, gli aveva rivelato lei quando lui glielo aveva chiesto. Chussit, chissit, chassis, diciassette, diciotto, diciannove.
Chassit è diciannove, pensò. Ovvio, tutto è diciannove. Poi lui e Eddie furono di nuovo nella luce, una luce arancione color della febbre, e c'erano Jake e Callahan. Vide perfino Oy contro il piede sinistro di jake, con il pelo ritto e il muso arricciato a mostrare i denti.
Chussit, chissit, chassit, pensò Roland mentre guardava suo figlio, un maschietto così piccolo, così infinitesimale di fronte all'orda che popolava la sala da pranzo del Dixie Pig. Chassit è diciannove. Da riempire il mio cestino. Ma quale cestino? Che cosa vuol dire?
4
A Bridgton, ai bordi di Kansas Road, la Ford di John Cullum, vecchia di dodici anni (centoseimila sul contamiglia e cominciava appena a scaldarsi, si compiaceva di dire in giro il proprietario) dondolò pigramente sul terreno soffice del ciglio, prima toccando terra con le ruote anteriori e poi sollevandole per baciare brevemente il suolo con quelle posteriori. Nell'abitacolo due uomini che sembravano non solo svenuti ma trasparenti oscillavano pigramente in sintonia con i movimenti dell'automobile come cadaveri in una barca affondata. E intorno a loro fluttuava il bric-à-brac tipico di qualunque vecchio macinino che sia stato usato e abusato: cenere e penne e fermagli e la più vecchia nocciolina americana del mondo e un soldino sbucato dal sedile posteriore e aghi di pino saliti dai tappetini e perfino uno dei tappetini stessi. Nell'oscurità dello stipetto del cruscotto tintinnavano timidamente oggetti vari.
Qualcuno che fosse passato di lì sarebbe rimasto senz'altro costernato alla vista di tutta quella roba - e di esseri umani! Persone che potevano essere morte! - che fluttuavano dentro un'automobile come relitti in una capsula spaziale. Ma non passò nessuno. La gente che abitava su quel lato di Long Lake era quasi tutta intenta ad allungare lo sguardo verso l'altra sponda, quella di East Stoneham, sebbene praticamente ormai non ci fosse più niente da vedere. Perfino il fumo si era quasi dissolto.
Pigramente fluttuava l'automobile e in essa Roland di Gilead salì lentamente al soffitto, dove il suo collo premette contro il rivestimento sporco e le gambe scivolarono dietro il sedile anteriore seguendolo nella sua ascensione. Eddie fu dapprima trattenuto dal volante, finché un movimento laterale del veicolo lo sganciò, cosicché salì a sua volta con il volto disteso come sognando. Un filo argenteo di saliva gli sfuggì dall'angolo della bocca e rimase sospeso, luccicante e ricolmo di minuscole bollicine, a pochi centimetri dalla guancia incrostata di sangue.
5
Roland sapeva che Susannah lo aveva visto e probabilmente aveva visto anche Eddie. Per questo si era tanto sforzata per pronunciare quell'unica parola. Jake e Callahan invece non li videro. Il ragazzo e il Père erano entrati nel Dixie Pig, un'iniziativa che poteva essere o molto coraggiosa o molto stupida, e ora dovevano focalizzare tutta la loro concentrazione su ciò che vi avevano trovato.
Stupido o no, Roland era infinitamente fiero di Jake. Vide che il ragazzo aveva stabilito un canda, tra sé e Callahan, quella distanza (mai la medesima a seconda della situazione) che scongiurava che due pistoleri in inferiorità numerica potessero essere uccisi da un unico colpo. Erano arrivati entrambi pronti al combattimento. Callahan impugnava la pistola di Jake... e aveva in mano un'altra cosa, un piccolo oggetto intagliato. Roland era quasi sicuro che fosse un can-tah, uno dei piccoli dei. Il ragazzo aveva gli Oriza di Susannah e la loro sacca, recuperata da solo gli dei sapevano dove.
Il pistolero scorse una grassona la cui umanità finiva all'altezza del collo. Sopra la sua tripletta di menti flaccidi, la maschera che aveva indossato era a brandelli. Guardando la sottostante testa da topo, Roland comprese all'improvviso molte cose. Alcune gli si sarebbero rivelate prima se la sua attenzione, come quella del ragazzo e del Père in quel preciso istante, non fosse stata concentrata su altre questioni.
Gli uomini bassi di Callahan, per esempio. Erano quasi certamente taheen, creature che non appartenevano né al Prim né al mondo naturale, bensì erano esseri miserabili di una realtà rimasta a metà strada. E non erano nemmeno della stirpe che Roland chiamava Lenti Mutanti, perché costoro erano il risultato delle guerre avventate e degli esperimenti disastrosi degli Antichi. No, erano taheen genuini, talvolta noti come «terza gente» o can-toi, e sì, Roland avrebbe dovuto saperlo. Quanti dei taheen servivano ora l'essere conosciuto come Re Rosso? Alcuni? Molti?
Tutti?
Se la terza risposta era quella giusta, allora la strada per la Torre sarebbe stata davvero ardua. Ma guardare oltre l'orizzonte non era nella natura del pistolero e in questo caso la mancanza di immaginazione era sicuramente una fortuna.
6
Vide ciò che gli serviva vedere. Sebbene i can-toi - quelli che Callahan definiva la «gente bassa» - avessero circondato Jake e il Père (non si erano neppure accorti dei due che avevano alle spalle, quelli che piantonavano la porta sulla Sessantunesima Strada), il Père li aveva congelati con il piccolo amuleto proprio come Jake era stato capace di congelare e stregare con la chiave trovata nel lotto vacante. Un taheen giallo, con il corpo di uomo e la testa di uccello, aveva a portata di mano un'arma strana ma non tentò di afferrarla.
C'era però un altro problema, che l'occhio di Roland, allenato a individuare ogni possibile trappola e imboscata, colse all'istante. Vide la blasfema parodia dell'Ultima Colleganza dell'Eld appesa alla parete e ne comprese a fondo il significato nei secondi precedenti all'attimo in cui fu lacerata. E l'odore: non solo di carni cotte, ma carni umane. Anche questo avrebbe inteso prima, avesse avuto il tempo di pensarci... ma la vita a Calla Bryn Sturgis gli aveva concesso poco tempo per pensare. Al Calla, come in un libro di fiabe, la vita era stata un maledetto susseguirsi di fatti uno via l'altro.
Ma gli era chiaro ora, non è vero? La gente bassa era costituita da semplici taheen; gli orchi di un bambino, orsì. Quelli dietro l'arazzo erano gli stessi che Callahan aveva definito vampiri di Tipo Uno e quelli che Roland conosceva come gli Avi, forse i più cruenti e potenti superstiti dell'antico recedere del Prim. E se forse i taheen sarebbero rimasti prigionieri dell'incantesimo a contemplare il sigul che Callahan mostrava loro, gli Avi non lo avrebbero degnato di un solo sguardo.
Poi da sotto il tavolo uscirono numerose orde di insetti. Erano di un tipo che Roland aveva già visto, e al loro comparire scomparve ogni dubbio che potesse ancora albergare in lui di ciò che si trovava dietro quell'arazzo. Erano parassiti, bevitori di sangue, rastrellatori: i pidocchi degli Avi.
Probabilmente non pericolosi finché c'era un bimbolo nelle vicinanze, ma era pur vero che quando vedevi i piccoli dottori in tal numero, gli Avi non erano distanti.
Mentre Oy attaccava gli insetti, Roland di Gilead fece la sola cosa che seppe pensare: scese su Callahan.
Dentro Callahan.
7
Père, sono qui.
Aje, Roland. Cosa...
Non c'è tempo. MANDALO VIA. Devi. Mandalo via da qui prima che sia troppo tardi!
8
E Callahan ci provò. Naturalmente il ragazzo non voleva andare. Avrei dovuto addestrarlo meglio nell'arte del tradimento, pensò con una punta di amarezza Roland guardandolo attraverso gli occhi del Père. Ma tutti gli dei sanno che ho fatto del mio meglio.
«Vai finché puoi», disse Callahan a Jake, sforzandosi di parlare con voce calma. «Raggiungila se puoi. Questo è l'ordine del tuo dinh. Tale è anche la volontà del Bianco.»
Avrebbe dovuto bastare, ma lui recalcitrava - dei del cielo, era quasi cocciuto quanto Eddie! e Roland non poteva aspettare oltre.
Père, lasciami.
Roland assunse il controllo senza attendere una risposta. Già sentiva che l'onda, l'aven kal, cominciava a recedere. E gli Avi avrebbero attaccato da un momento all'altro.
«Vai, Jake!» gridò usando la bocca e le corde vocali del Père come un megafono. Se avesse riflettuto su come fosse possibile una cosa come quella, si sarebbe smarrito, ma la meditazione non era mai stata il suo forte e guardò invece con gratitudine il lampo che si accendeva negli occhi del ragazzo. «Hai quest'unica occasione e devi prenderla! Trovala! Come tuo dinh, così ti ordino!»
Poi, come all'ospedale con Susannah, si sentì di nuovo proiettato verso l'alto come se fosse privo di peso, soffiato fuori della mente e del corpo di Callahan come una ragnatela o il soffione di un dente di leone. Per qualche istante cercò di indietreggiare, sbracciandosi come un nuotatore che resiste a una corrente forte per tornare alla spiaggia, ma fu impossibile.
Roland! Era la voce di Eddie ed era colma di sgomento. Gesù, Roland, che cosa sono quelli, nel nome di Dio?
L'arazzo era stato strappato. Le creature che stavano invadendo la sala da pranzo erano vecchie e orribili, facce stregonesche deturpate da denti che sporgevano dalle guance, bocche tenute perennemente aperte da zanne enormi, rughe e barbe sporche di sangue e brandelli di carne.
E... oh dei, dei del cielo... il ragazzo era ancora lì!
«Uccìderanno prima Oy!» gridò Callahan, ma Roland ebbe l'impressione che non fosse lui e pensò che fosse invece Eddie che usava la sua voce come lui stesso aveva fatto poco prima. Eddie doveva aver trovato correnti più navigabili o una forza più sicura, una spinta sufficiente a prendere il suo posto quando lui era stato proiettato fuori. «Lo uccideranno davanti a te e berranno il suo sangue!»
Finalmente il ragazzo si girò e fuggì con Oy che gli correva accanto. Tagliò davanti all'uomouccello e tra due uomini bassi, ma nessuno tentò di fermarlo. Erano ancora incantati dalla tartaruga nel palmo di Callahan, erano come ipnotizzati.
Gli Avi non badarono minimamente al ragazzo in fuga, come Roland aveva previsto. Dal racconto di Père Callahan sapeva che uno di loro era stato nella cittadina di Salem's Lot, dove il Père aveva predicato per qualche tempo. Callahan gli era sopravvissuto, fatto non comune per coloro che si trovano a dover affrontare simili mostri dopo aver perso le loro armi e i loro sigul di potere; la creatura però lo aveva costretto a bere il suo sangue infetto prima di lasciarlo andare.
Con questo lo aveva segnato per gli altri.
Callahan mostrava loro il suo sigul a forma di croce, ma prima che potesse vedere altro, Roland fu risospinto nel buio. Suonarono di nuovo le campanelle, un tintinnio insopportabile che gli faceva rasentare la follia. In lontananza sentì urlare Eddie. Lo cercò nel buio, gli sfiorò il braccio, lo perse, trovò la sua mano e gliel'afferrò. Rotolarono e rotolarono, stretti l'uno all'altro, sforzandosi di rimanere uniti, sperando di non smarrirsi nell'oscurità priva di porte tra i mondi.
3
Eddie fa una telefonata
1
Eddie si ritrovò nell'abitacolo come talvolta da adolescente emergeva dagli incubi: aggrovigliato e ansimante di paura, del tutto disorientato, avendo perso la memoria di chi era e ancor più di dov'era.
Ebbe un secondo per rendersi conto che, per quanto incredibile, galleggiava nell'aria abbracciato a Roland, quasi che fossero due gemelli in un utero materno. Ma non era un utero quello in cui si trovavano, davanti agli occhi vide fluttuare una penna e un fermaglio. C'era anche un astuccio giallo di plastica, nel quale riconobbe un nastro magnetico a otto tracce. Non perdere tempo, John, pensò. Quella è una bufala, non troverai nessun appiglio lì.
Qualcosa gli grattava la nuca. Era forse la luce di cortesia della vecchia caffettiera di John Cullum? Santo cielo, gli pareva proprio che...
Poi fu ristabilita la forza di gravità e caddero in una pioggia di oggetti disparati. Il tappetino che volteggiava nell'abitacolo della Ford cadde a coprire il volante. Eddie urtò con la bocca dello stomaco lo schienale del sedile anteriore e l'aria gli esplose dalla bocca in un soffio sibilante. Roland piombò giù al suo fianco, sull'anca dolente. Mandò un solo grido, quasi un latrato, poi cominciò a manovrare per riguadagnare il sedile anteriore.
Eddie aprì la bocca per parlare. Non ne ebbe il tempo, perché in quel momento la voce di Callahan gli riempì la testa: Hile, Roland! Hile, pistolero!
Quale sforzo medianico doveva essere costato al Père parlare da quell'altro mondo! E dietro la sua voce, debole ma presente, un coro di grida bestiali e trionfanti. Versi che non erano propriamente parole.
Gli occhi sgranati e stupiti di Eddie incontrarono quelli chiari di Roland. Cercò con la propria la mano sinistra del pistolero, mentre pensava: Se ne sta andando. Dio del cielo, credo che il Père stia andando.
Che tu possa trovare la tua Torre, Roland, ed entrarvi...
«... e che tu possa salire fino in cima!» mormorò Eddie.
Erano di nuovo nell'auto di John Cullum e parcheggiati, di sghimbescio ma nel complesso abbastanza serenamente, ai bordi di Kansas Road nelle ombrose prime ore della sera di una giornata d'estate, ma ciò che Eddie vide fu l'infernale luce arancione di quel ristorante che non era affatto un ristorante bensì una tana di cannibali. Il pensiero che cose del genere potessero esistere davvero, che ci fosse gente che tutti i giorni passava davanti al loro nascondiglio senza sapere che cosa vi si celava, senza accorgersi degli occhi avidi che forse spiavano i passanti valutandoli e scegliendoli...
Poi, prima che potesse portare a termine le sue riflessioni, mandò un grido di dolore sentendosi affondare denti fantasma nel collo e nelle guance e nel ventre; sentendosi sulle labbra un bacio violento di ortiche e uno spiedo che gli infilzava i testicoli. Urlò, annaspando con la mano libera, finché Roland gliel'afferrò trascinandogliela giù.
«Smetti, Eddie. Smetti. Non ci sono più.» Una pausa. Il contatto s'interruppe e il dolore svanì. Naturalmente Roland aveva ragione. A differenza del Père, loro l'avevano scampata. Eddie vide che Roland aveva gli occhi lucidi di lacrime. «E se n'è andato anche lui. Il Père.»
«I vampiri? Quei cannibali? Lo hanno... lo hanno?...» Eddie non poté finire. L'idea di Père Callahan diventato uno di loro era troppo orrenda per poterla articolare.
«No, Eddie. Assolutamente no. Non...» Roland estrasse la pistola. Le incisioni nel metallo scintillarono nell'ultimo scampolo di luce. Si spinse la canna della pistola sotto il mento per un istante guardando Eddie.
«Non si è fatto prendere», mormorò Eddie.
«Aye, e chissà com'erano arrabbiati.»
Eddie annuì, improvvisamente esausto. E gli facevano di nuovo male le ferite. Era come se stessero singhiozzando. «Bene», disse. «Adesso rimetti a posto quell'aggeggio prima che ti spari.» E mentre Roland riponeva la pistola: «Che cosa ci è successo poco fa? Siamo andati a contezza o c'è stato un altro vettoremoto?»
«L'uno e l'altro, credo», rispose Roland. «C'è una cosa chiamata aven kal, che è come un'onda di marea che corre lungo il Sentiero del Vettore. È stata quella a sollevarci.»
«E a permetterci di vedere quello che volevamo vedere.»
Roland rifletté per un momento su quelle parole, poi scosse la testa con grande fermezza.
«Abbiamo visto quello che il Vettore voleva che vedessimo. Dove vuole che andiamo.»
«Roland, queste sono cose che hai studiato da ragazzo? Il vecchio Vannay teneva corsi di... non so, anatomia dei Vettori e Curve dell'Iride?»
Roland stava sorridendo. «Sì, suppongo che queste cose ci siano state insegnate in Storia e Summa Logicales.»
«Logi-cosa?»
Roland tacque. Guardava dal finestrino dell'automobile di Cullum, cercando ancora di riprendere fiato, in senso fisico ma anche figurato. Non era poi molto difficile farlo, non lì; trovarsi in quel punto di Bridgton era come trovarsi nelle vicinanze di un certo terreno edificabile a Manhattan. Perché c'era un generatore poco distante. Non sai King, come Roland aveva creduto all'inizio, bensì il potenziale di sai King... o ciò che sai King avrebbe potuto creare, ne avesse avuto mondo e tempo a sufficienza. Non era forse vero che anche King veniva trasportato dall'aven kal, magari generando lui stesso l'onda che lo sollevava?
Non ci si rialza in piedi attaccandosi ai lacci dei propri stivali, per quanto forte si possa tirare, aveva sentenziato Cort, quando Roland, Cuthbert, Alain e Jamie erano ancora solo dei marmocchi. Cort che parlava in un tono di allegra fiducia in se stesso, un tono che sarebbe diventato gradatamente più aspro a mano a mano che il suo ultimo gruppo di ragazzi si avvicinava al momento cruciale della maturità. Ma forse sui quei lacci lui non aveva visto giusto. Forse, in certe circostanze, un uomo poteva tirarsi su da solo. O dar vita all'universo dal proprio ombelico, come si diceva avesse fatto Gan. Come scrittore di storie, non era forse King un creatore? E alla resa dei conti, la creazione non era in fondo fare qualcosa dal nulla, vedere il mondo in un granello di sabbia o rialzarsi in piedi attaccandosi ai lacci dei propri stivali?
E che cosa stava facendo lui lì, seduto a indugiare in lunghe meditazioni filosofiche, quando due membri del suo tet mancavano all'appello?
«Metti in moto questa carrozza», ordinò, cercando di ignorare la dolce armonia che gli giungeva all'orecchio, se fosse la Voce del Vettore o la Voce di Gan il Creatore non lo sapeva. «Dobbiamo trovare questa Turtleback Lane a Lovell e vedere se c'è un modo per raggiungere Susannah.»
E non solo lei. Se Jake era riuscito a eludere i mostri del Dixie Pig, anche lui era diretto alla stessa meta. Su questo Roland non aveva dubbi.
Eddie allungò la mano sulla leva del cambio - nonostante le evoluzioni di poco prima, il motore della vecchia Ford di Cullum non si era spento - ma subito la ritrasse. Si girò a guardare Roland con un'espressione contrita.
«Che cosa ti angustia, Eddie? Qualunque cosa sia, parla subito. Il bambino sta nascendo, forse è già nato. Presto non avranno più bisogno di lei!»
«Lo so», ribatté Eddie. «Ma non possiamo andare a Lovell.» Fece una smorfia come se dirlo gli provocasse dolore fisico. Roland pensò che probabilmente soffriva davvero. «Non ancora.»
2
Rimasero in silenzio per un po' ad ascoltare l'armonico mormorio del Vettore, un mormorio che in certi momenti diventava un coro di voci gioiose. Guardarono le ombre sempre più dense tra gli alberi, dove si nascondevano un milione di volti e un milione di storie, O diciamo insieme porta introvata, diciamo insieme perduta.
Eddie si aspettava quasi che Roland lo prendesse a male parole, non sarebbe stata la prima volta, o che magari lo percuotesse con un colpo alla testa, come Cort, il vecchio insegnante del pistolero, era incline a fare quando i suoi allievi erano lenti o recalcitranti. Quasi sperava che lo facesse. Una bella botta al mento gli avrebbe schiarito il cervello, per Shardik.
Ma non c'è nulla di torbido nel tuo cervello e lo sai bene, pensò. La tua testa è più limpida della mia. Se così non fosse, potresti lasciar perdere questo mondo e correre a caccia della tua moglie perduta.
Finalmente Roland parlò. «Che cosa c'è, dunque? Questo?» Si chinò a raccogliere il foglio di carta ripiegato con la scrittura contratta di Aaron Deepneau. Lo guardò per un momento, poi lo lasciò cadere sulle ginocchia di Eddie con una piccola smorfia di disgusto.
«Sai quanto la amo», mormorò Eddie in un tono teso e sommesso. «Lo sai.»
Roland annuì, ma senza guardarlo. Si stava contemplando i vecchi stivali polverosi e screpolati, guardava il pavimento sporco dell'abitacolo. Quegli occhi abbassati, quello sguardo che si rifiutava di girarsi verso l'uomo che era giunto quasi a venerare Roland di Gilead, quasi spezzò il cuore di Eddie Dean. Ma tenne duro. Se mai c'era stato spazio per gli errori, esso si era esaurito. Erano alla fine della partita.
«Correrei da lei immediatamente se pensassi che fosse la cosa giusta. Roland, in questo preciso istante! Ma noi dobbiamo finire la nostra missione in questo mondo. Perché questo mondo è a senso unico. Quando ce ne andremo da oggi, 9 luglio 1977, qui non potremo tornare mai più. Dobbiamo...»
«Eddie, ci abbiamo già ragionato.» Sempre senza guardarlo.
«Sì, ma lo capisci? Solo una pallottola da sparare, un Oriza da lanciare. È per questo che siamo venuti a Bridgton! Dio sa quanto avrei voluto correre in Turtleback Lane appena John Cullum ce ne ha parlato, ma ho pensato che dovevamo prima vedere lo scrittore e parlare con lui. E avevo ragione, no?» Ora quasi supplichevole. «Non avevo ragione?»
Finalmente Roland lo guardò e Eddie ne fu felice. Era già abbastanza dura, abbastanza insopportabile, senza l'aggiunta dello sguardo abbassato del suo dinh.
«E forse non è così importante se ci intratteniamo ancora un po' qui. Se ci concentriamo sulle due donne sdraiate insieme su quei letti, Roland, se ci concentriamo su Suze e Mia come le abbiamo viste, allora forse possiamo entrare nella loro storia in quel punto preciso. Non è vero?»
Dopo un lungo momento di riflessione durante il quale Eddie non si rese nemmeno conto di respirare, il pistolero annuì. Non si sarebbe potuto avverare se in Turtleback Lane avessero trovato quella che in cuor suo il pistolero aveva ribattezzato «porta degli Antichi» perché quelle porte erano dedicate e sfociavano sempre nello stesso luogo. Ma se avessero trovato una porta magica, in quella Turtleback Lane di Lovell, un ingresso rimasto dai tempi in cui il Prim si era ritratto, allora sì, avrebbero potuto entrare in un punto prescelto. Ma quelle erano aperture insidiose, come avevano scoperto nella Grotta delle Voci, quando la porta che si trovava in quell'antro aveva mandato a New York Jake e Callahan invece di Eddie e Roland, stravolgendo così tutti i loro piani nel Paese del Diciannove.
«Che cos'altro dobbiamo fare?» chiese Roland. Non c'era più collera nella sua voce, che alle orecchie di Eddie suonò stanca e insicura.
«Qualunque cosa sia, sarà difficile. Questo te lo garantisco.»
Eddie prese l'atto di vendita e lo fissò con l'aria cupa di un Amieto che contempla il teschio del povero Yorick. Poi alzò gli occhi su Roland. «Con questo entriamo in possesso del pezzo di terra con la rosa. Dobbiamo portarlo a Moses Carver della Holmes Dental Industries. E dov'è? Non lo sappiamo.»
«Se è per questo, Eddie, non sappiamo neppure se è ancora vivo.»
Eddie fece una risata sarcastica. «Tu dici il vero, io dico grazie! Che ne dici se torniamo indietro, Roland? Torniamo a casa di Stephen King. Possiamo spillargli venti o trenta dollari, visto che, caro mio, non so se l'hai notato, ma non abbiamo uno straccio di centesimo tra tutti e due, ma sopratutto possiamo obbligarlo a tirar fuori dal suo cilindro uno di quegli investigatori privati a muso duro, uno con la faccia di Bogart e la spaccaculaggine di Clint Eastwood. Che ci vada lui a scovare Carver per noi!»
Scosse con forza la testa come per schiarirsi le idee. Le voci gli riempivano le orecchie di un dolce sottofondo, l'antidoto perfetto alle orribili campanelle della contezza.
«Dico: mia moglie è in grave pericolo da qualche parte, per quel che ne so ci sono dei vampiri o insetti-vampiro che se la stanno divorando viva, e io sono qui seduto in una macchina in una
strada di campagna con un tizio che fondamentalmente sa solo ammazzare il prossimo a pistolettate, a cercare di pensare a come si fa a metter su una cazzo di società!»
«Calma», disse Roland. Ora che si era rassegnato a rimanere ancora per un po' in quel mondo, sembrava più tranquillo. «Dimmi che cosa secondo te occorre che facciamo prima che ci scrolliamo per sempre dalle scarpe la polvere di questo dove e quando.» E Eddie glielo disse.
3
Roland ne aveva già sentita una buona parte, senza però comprendere appieno la delicatezza della posizione in cui erano. Possedevano il lotto vacante della Seconda Avenue, sì, ma il documento che ne attestava la proprietà era un documento olografico che difficilmente avrebbe retto il vaglio di una corte di tribunale, specialmente se i vertici della Sombra Corporation avessero contrattaccato con un plotone di avvocati.
Eddie voleva portare quella carta a Moses Carver, assieme all'informazione che la sua figlioccia, Odetta Holmes, scomparsa da tredici anni nell'estate del 1977, era viva e in buona salute e sopra ogni altra cosa desiderava che Carver assumesse il ruolo di guardiano, non solo del pezzo di terra, ma anche di una certa rosa che cresceva selvatica entro i suoi confini.
Se era ancora vivo, bisognava convincere Moses Carver a riversare la cosiddetta Tet Corporation nella Holmes Industries (o viceversa). Di più! Era indispensabile che dedicasse quanto restava della sua vita (e secondo Eddie Carver doveva ormai avere più o meno l'età di Aaron Deepneau) alla creazione di un gigante industriale il cui solo autentico scopo fosse quello di mettere a ogni occasione il bastone tra le ruote di altri due colossi, la Sombra e la North Central Positronics. Schiacciarli, se possibile, e impedire che si trasformassero in quel mostro che avrebbe lasciato una scia di distruzione nelle morenti distese del Medio-Mondo e avrebbe ferito a morte la Torre Nera.
«Forse avremmo dovuto lasciare a sai Deepneau l'atto di vendita», commentò Roland dopo aver ascoltato Eddie fino in fondo. «Lui almeno avrebbe potuto trovare questo Carver e raccontargli la nostra storia.»
«No, abbiamo fatto bene a tenerlo noi.» Era una delle poche cose di cui Eddie si sentiva assolutamente certo. «Se avessimo lasciato ad Aaron Deepneau questo pezzo di carta, a quest'ora sarebbe cenere nel vento.»
«Credi che Torre si sarebbe pentito e avrebbe persuaso il suo amico a distruggerlo?»
«Lo so», ribatté Eddie. «Ma anche se Deepneau avesse resistito al tormentone del vecchio amico - me lo vedo a infiammargli l'orecchio ripetendo per ore cose come: 'Brucialo, Aaron, me l'hanno strappato con la forza e adesso hanno intenzione di fregarmi, lo sai bene quanto me, brucialo e facciamo arrestare quei mostri dalla polizia' - credi che Moses Carver avrebbe preso per buona una storia così pazzesca?»
Roland fece un sorriso amaro. «Dubito che ci saremmo dovuti preoccupare della reazione di
Moses Carver, Eddie. Perché, pensaci un momento, quanto della nostra storia pazzesca Aaron
Deepneau ha veramente sentito?»
«Non abbastanza», convenne Eddie. Chiuse gli occhi e vi premette contro la base dei palmi.
Con forza. «Riesco a pensare a una sola persona che potrebbe veramente convincere Moses
Carver a fare le cose che dovremo chiedergli e al momento è in altre faccende affaccendata.
Nell'anno 1999. Quando Carver sarà morto e defunto quanto Deepneau e forse anche Torre.» «E che cosa possiamo fare senza di lei? Che cosa ti soddisferebbe?»
Eddie pensava che forse Susannah sarebbe stata in grado di tornare nel 1977 senza di loro, poiché almeno lei non ci era stata. Be'... ci sarebbe venuta a contezza, ma a suo avviso c'era il rischio di un ostacolo. Era possibile che il 1977 le fosse bandito per il solo fatto di essere ka-tet con lui e Roland. O per qualche altro motivo. Eddie non riusciva a immaginare quale: leggere le scritte in piccolo non era mai stato il suo forte. Si girò verso Roland per chiedergli che cosa ne pensasse, ma egli parlò prima di dargliene il tempo.
«Usiamo il nostro clan-tete», disse.
Sebbene Eddie conoscesse il termine, che significava dio neonato o piccolo salvatore, non capì lì per lì che cosa intendesse Roland. Poi ci arrivò. Non era stato il loro dan-tete di Waterford a prestare loro il veicolo a bordo del quale si trovavano in quel momento, diciamo grazie? «Cullum? È di lui che stai parlando, Roland? Quello con la mania delle palline da baseball autografate?»
«Hai detto il vero», confermò Roland. Aveva parlato in quel tono asciutto che indicava lieve esasperazione. «Non sopraffarmi con il tuo entusiasmo per la mia proposta.»
«Ma... tu gli hai ordinato di andare via! E lui ha accettato!»
«E quanto entusiasta era secondo te di andare a trovare il suo amico nel Vermong?»
«Mont», lo corresse Eddie senza riuscire a sopprimere un sorriso. Ma, con o senza sorriso, ciò che provava soprattutto era sgomento. Sospettava che il rumore sgradevole che udiva nella sua immaginazione fossero le due dita della mano destra di Roland che grattavano il fondo del barile.
Roland alzò le spalle come a dire che poco gl'importava se Cullum avesse parlato del Vermont o della Baronia di Garlan. «Rispondi alla mia domanda.»
«Be'...»
In effetti Cullum non aveva espresso molto entusiasmo all'idea di quella gita. Fin da principio si era comportato più come uno di loro che come uno dei mangiatori d'erba tra i quali viveva (Eddie riconosceva molto facilmente i mangiatori d'erba per esserlo stato lui stesso fino a quando
Roland lo aveva rapito per cominciare a impartirgli le sue lezioni omicide). Era evidente che Cullum era affascinato dai pistoleri e curioso di sapere di più dei motivi che li avevano spinti al suo piccolo borgo. Ma Roland era stato molto enfatico nell'esternare la sua volontà e la gente era solitamente propensa a ubbidirgli.
Ora fece quel movimento rotatorio con la mano destra, quel vecchio gesto d'impazienza. Muoviti, per l'amore di tuo padre. Falla o togliti dalla comoda.
«Direi che non aveva nessuna voglia di andare», ammise Eddie. «Ma questo non significa che sia ancora a casa sua a East Stoneham.»
«Invece sì. Non è partito.»
Solo con un certo sforzo Eddie riuscì a evitare di rimanere a bocca aperta. «Come fai a saperlo? Lo puoi toccare? È così?» Roland scosse la testa.
«Allora come...»
«Ka.»
«Ka? Ka? E che cosa cazzo dovrebbe voler dire?»
La faccia di Roland era tirata e stanca, s'intravedeva il pallore sotto l'abbronzatura. «Chi altri conosciamo in questa parte del mondo?»
«Nessuno, ma...»
«Allora è lui.» Era stata una sentenza, nel tono piatto con cui si enuncia a un bambino un'ovvietà della vita: su è sopra la tua testa, giù è dove i tuoi piedi toccano terra.
Eddie fu sul punto di ribattere che era una stupidaggine, nient'altro che una sciocca superstizione, ma ci ripensò. Tolti Deepneau, Torre, Stephen King e l'odioso Jack Andolini, John Cullum era davvero la sola persona che conoscevano in quella parte del mondo (o a quel livello della Torre, se si preferisce pensarla così). E dopo quello che Eddie aveva visto in quegli ultimi mesi - diavolo, in quell'ultima settimana - poteva veramente deridere una superstizione?
«Va bene», disse. «Vale la pena provare.»
«Come ci mettiamo in contatto?»
«Possiamo telefonargli da Bridgton. Ma in una storia, Roland, non succederebbe mai che a salvare baracca e burattini sia un personaggio marginale come John Cullum. Non verrebbe considerato realistico.»
«Nella vita sono sicuro che succede in continuazione», dichiarò Roland. E Eddie rise. Che cos'altro poteva fare? Era così perfettamente Roland.
4
BRIDGTON HIGH STREET 1
HIGHLAND LAKE 2
HARRISON 3
WATERFORD 6
SWEDEN 9
LOVELL 18
FRYEBURG 24
Avevano da poco superato questo cartello quando Eddie disse: «Fruga un po' nel cruscotto, Roland. Vedi se il ka o il Vettore o che so io ci ha lasciato qualche spicciolo per telefonare». «Cru... Intendi questo pannello qui davanti?»
«Sì.»
Roland tentò prima di ruotare il pulsante cromato, poi capì come funzionava e lo pigiò. Nel portaoggetti c'era un caos che la momentanea perdita di peso della Ford non aveva certo migliorato. C'erano ricevute di carte di credito, un tubetto molto vecchio di quello che Eddie definì «dentifricio» (su di esso Roland lesse distintamente le parole HOLMES DENTAL), la fottergrafia di una bambina sorridente su un pony, la nipotina di Cullum, magari, un candelotto che lì per lì pensò fosse di esplosivo (Eddie gli spiegò che era un segnale luminoso per i casi di emergenza), una rivista che gli parve s'intitolasse Peplo... e una scatola di sigari. La parola che c'era scritta sopra risultò incomprensibile a Roland. Frodi. Possibile? Mostrò la scatola a Eddie, i cui occhi s'illuminarono. «C'è scritto 'FONDI'», disse. «Forse avevi ragione su Cullum e il ka.
Aprila, Roland, se ti è gradito.»
La bimba che aveva fatto dono al vecchio di quella scatola, l'aveva munita di un bel fermaglio (ma non molto pratico). Roland l'aprì e mostrò a Eddie un notevole quantitativo di monete d'argento. «Bastano per chiamare sai Cullum?»
«Sì», rispose Eddie. «Direi che basterebbero per chiamare Fairbanks in Alaska. Ma non ci servirà a molto se Cullum è in viaggio per il Vermont.»
5
Intorno alla piazza di Bridgton c'erano un supermercato e una pizzeria da una parte; un cinematografo (The Magic Lantern) e un grande magazzino (Reny's) dall'altra. Tra il cinema e il supermercato c'era un piccolo spazio con delle panchine e tre telefoni pubblici.
Eddie consegnò a Roland sei dollari in monete da un quarto prelevate dalla scatola delle riserve di Cullum. «Voglio che tu vada là dentro», disse indicandogli il supermercato, «e mi prenda una scatola di aspirine. Saprai riconoscerla?»
«Astina. La conosco.»
«La più piccola che hanno è quella che voglio io, perché sei dollari non sono un gran che. Poi vai di fianco, in quel posto dove c'è scritto 'BRIDGTON PIZZA E SANDWICH'. Se ti sono rimaste almeno sedici di quelle monete, di' che vuoi un Hoagie.»
Roland annuì, cosa che non fu sufficiente a Eddie. «Voglio sentirtelo dire.»
«Hoggie.»
«Hoagie.»
«Hog-gie.»
«Ho...» Eddie desistette. «Roland, fammi sentire come dici 'Poorboy'.»
«Poor boy.»
«Bene. Se ti restano almeno sedici monete, chiedi un Poorboy. Sei capace di dire 'con molta maio'?»
«Molta maio.»
«Bene. Se ti restano meno di sedici monete, chiedi un sandwich al salame e formaggio.
Sandwich, non strozzino.»
«Sandiciamàggio.»
«Meglio che niente. E non dire assolutamente altro se non è strettamente indispensabile.»
Roland annuì. Eddie aveva ragione, meglio se non avesse parlato. Alla gente bastava un'occhiata per sapere, nel segreto del proprio cuore, che non era di quelle parti. Avevano anche la tendenza a stargli alla larga. Meglio non peggiorare la situazione.
Mentre si girava verso la strada, il pistolero abbassò la mano all'anca sinistra, una vecchia abitudine che questa volta non gli arrecò conforto: entrambe le rivoltelle erano nel bagagliaio della Ford di Cullum, avvolte nei loro cinturoni.
Prima che potesse incamminarsi, Eddie lo afferrò per una spalla. Il pistolero si voltò a posare sull'amico gli occhi scoloriti da sotto le sopracciglia inarcate.
«Abbiamo un detto nel nostro mondo, Roland: arrampicarsi sugli specchi.» «E che cosa significa?»
«Questo. Quello che stiamo facendo noi. Augurami buona fortuna, amico.»
Roland annuì. «Aye, così sia. A entrambi.»
Cominciò a girarsi di nuovo e Eddie lo richiamò. Questa volta nell'espressione di Roland comparve un principio di impazienza.
«Non farti ammazzare attraversando la strada», gli raccomandò Eddie. Poi imitò la parlata di Cullum aggiungendo: «I villeggianti sono più asini di un ciuco. E non vanno a cavallo».
«Fai la tua telefonata, Eddie», ribatté Roland, dopodiché attraversò a passo lento e sicuro, con quella camminata elastica che lo aveva portato attraverso mille altre strade principali di mille cittadine.
Eddie lo guardò, poi si girò dall'altra parte e lesse le istruzioni sul telefono. Finalmente staccò il ricevitore e compose il numero del servizio abbonati.
6
Non era partito, aveva detto il pistolero parlando di John Cullum con serafica sicurezza. E perché? Perché Cullum era il loro capolinea, non avevano nessun altro da chiamare. Il vecchio dannato ka di Roland di Gilead, in altre parole.
Dopo una breve pausa, l'operatrice gli diede il numero. Eddie cercò di memorizzarlo, era sempre stato bravo a ricordare i numeri, tanto che Henry lo chiamava talvolta Piccolo Einstein, ma questa volta non seppe fidarsi di se stesso. Aveva l'impressione che fosse successo qualcosa ai suoi processi mentali in generale (cosa che non credeva) o alla sua capacità di ricordare certi manufatti di quel mondo (cosa che era disposto a credere). Mentre chiedeva all'operatrice di ripetergli il numero - e lo scriveva nella polvere accumulatasi sulla mensolina del chiosco - si ritrovò a domandarsi se fosse ancora capace di leggere un romanzo o seguire la trama di un film nella successione delle immagini su uno schermo. Ne dubitava. Ma aveva importanza? Al Magic Lantern lì accanto davano Guerre stellari e Eddie concluse in quel momento che se fosse arrivato alla fine del sentiero della sua vita e nella radura senza più rivedere Luke Skywalker e ascoltare il respiro rumoroso di Darth Vader, non avrebbe avuto di che disperarsi.
«Grazie, signora», disse al telefono e mentre stava per comporre il numero che aveva ricevuto, alle sue spalle ci fu una serie di esplosioni. Ruotò su se stesso, con il cuore già in gola, mentre abbassava la mano destra, aspettandosi di vedere i Lupi, o masnadieri, o magari quel figlio di puttana di Flagg...
Ciò che vide fu una decappottabile piena di liceali con le facce tonte e scottate dal sole. Stavano ridendo. Uno di loro aveva appena buttato fuori una catena di castagnole avanzate dal Quattro di Luglio, quelle che i loro coetanei di Calla Bryn Sturgis avrebbero chiamato banger.
Avessi avuto una pistola a portata di mano, avrei potuto far fuori un paio di quei ragazzi, pensò Eddie. Se ti va di spararle grosse, puoi cominciare da qui. Già. Bene. Ma forse non lo avrebbe fatto. In ogni caso doveva ammettere che forse non era più un elemento affidabile nel mondo più civile.
«Convivici», mormorò, poi aggiunse il consiglio preferito di sua eminenza e saggezza il tossico per i piccoli problemi della vita: «Patteggia».
Compose il numero di John Cullum sul vecchio telefono a disco e quando una voce sintetizzata - la bis-bis-bis-bis-nonna di Blaine il Mono, forse - gli chiese di introdurre novanta centesimi, Eddie ci mise un dollaro intero. Che diamine, stava salvando il mondo.
Il telefono squillò una volta... squillò due volte... e qualcuno rispose!
«John!» quasi gridò Eddie. «Che il cielo ti baci il fondoschiena! John, sono...»
Ma all'altro capo del filo una voce stava già parlando. Da figlio degli anni Ottanta, Eddie sapeva che non è un buon segno.
«... l'abitazione di John Cullum del servizio di manutenzione e sorveglianza Cullum», recitava la voce che ben conosceva nella sua familiare cantilena yankee. «Sono stato chiamato per un intervento urgente e non so prevedere quando sarò di ritorno. Se questo per voi è un problema, vi chiedo scusa, ma potete chiamare Gary Crowell al 926-5555, o Junior Barker al 929-4211.»
L'iniziale smarrimento di Eddie si era dissolto nel momento in cui la tremolante registrazione lo aveva informato che Cullum non era in grado di prevedere quando sarebbe stato di ritorno. Perché Cullum era proprio là, nel suo piccolo cottage da hobbit sulla sponda occidentale del Keywadin Pond, seduto forse sul suo iperimbottito divano da hobbit o in una delle due iperimbottite poltrone da hobbit. Seduto ad ascoltare i messaggi registrati da una segreteria telefonica degli anni Settanta che non poteva non essere un mezzo catafalco. E Eddie lo sapeva perché... be'...
Perché lo sapeva.
La primitiva registrazione non poteva nascondere del tutto la vena sorniona che aveva trapuntato la voce di Cullum sul finire del messaggio. «Certo che se proprio non volete saperne di parlare con nessun altro che con il sottoscritto, lasciate un messaggio dopo il segnale acustico.
Siate brevi.»
Eddie attese il segnale e disse: «Sono Eddie Dean, John. So che sei lì e penso che stessi aspettando la mia chiamata. Non chiedermi perché lo penso, perché proprio non lo so, ma...»
Ci fu un clic sonoro, seguito dalla voce di Cullum, la sua voce dal vivo: «Ehi, figliolo, hai trattato bene la mia macchina?»
Per un momento Eddie fu troppo confuso per rispondere, nuovamente colto alla sprovvista dal modo in cui l'accento di Cullum storpiava tutte le parole.
«Ragazzo?» lo sollecitò Cullum, improvvisamente preoccupato. «Sei ancora in linea?»
«Sì», rispose Eddie. «E ci sei anche tu. Credevo che andassi nel Vermont, John.»
«Be', se vuoi saperlo, questo posto era rimasto un mortorio fin da quando nel 1923 un incendio distrusse il South Stoneham Shoe. Gli sbirri hanno bloccato tutte le strade d'uscita.»
Eddie era sicuro che lasciassero transitare dai posti di blocco chiunque fosse in grado di farsi adeguatamente identificare, ma decise di soprassedere, per sottolineare invece un altro aspetto. «Vuoi dirmi che, se lo avessi voluto, non saresti stato capace di trovare un modo per uscire da lì senza incontrare un solo poliziotto?»
Ci fu una breve pausa. In quel mentre Eddie avvertì la presenza di qualcuno al suo fianco. Non si girò a guardare; era Roland. Chi altri in quel mondo avrebbe emanato l'odore, sotterraneo ma indiscutibile, di un altro mondo?
«Oddio», rispose finalmente Cullum, «in effetti forse conosco una o due strade nei boschi che sbucano a Lovell. L'estate è stata secca e suppongo che il mio pick-up dovrebbe farcela.»
«Una o due?»
«Be', diciamo tre o quattro.» Una pausa, che Eddie non interruppe. Si stava divertendo troppo. «Cinque o sei», si corresse Cullum e Eddie scelse di non rispondere nemmeno questa volta. «Otto», concluse finalmente Cullum e quando Eddie rise, rise con lui. «Che cos'hai in mente, figliolo?»
Eddie lanciò un'occhiata a Roland, che fra le tre dita superstiti della mano destra stringeva una confezione di aspirina. Eddie la prese ringraziandolo con gli occhi. «Voglio che tu venga a
Lovell», disse a Cullum. «Sembra che alla fine abbiamo da confabulare ancora un po'.»
«Ayuh, e sembra che quasi quasi lo sapessi anch'io», ribatté Cullum. «Anche se non è che proprio stessi lì a pensarci sopra; quello che continuavo a pensare è che era ora di mettermi in viaggio per Montpelier e invece mi veniva sempre in mente un'altra cosa da fare qui. Se avessi cercato di chiamarmi cinque minuti fa, avresti trovato la linea occupata. Ero al telefono con Charlie Beemer. Erano sua moglie e sua cognata quelle due che rimasero uccise al mercato, sai? E poi ho pensato: Al diavolo, prima di mettere un po' di roba in macchina, meglio dare una bella ripulita qui dentro. Non è che stavo a ragionarci su, se mi spiego, però sotto sotto mi sa che da quando sono tornato qui non ho fatto che aspettare la tua telefonata. Dove vi trovo? In Turtleback Lane?»
Eddie aprì la confezione di aspirina e guardò le compresse pregustandole. Tossicodipendente una volta, tossicodipendente per sempre. Di qualunque cosa si trattasse. «Ayuh», disse, scherzando solo in parte; da quando aveva incontrato Roland a bordo di un Delta in procinto di atterrare al Kennedy Airport, aveva sviluppato una certa tendenza ad assimilare i dialetti regionali. «Avevi detto che era solo una stradina lunga un paio di miglia, un ferro di cavallo che entra ed esce dalla Route 7, vero?»
«Proprio così. Gran belle casette sulla Turtleback.» Una breve pausa riflessiva. «E molte in vendita. Ultimamente ci sono stati parecchi walk-ins da quelle parti. Come mi pare di aver già affermato. Sono cose che rendono la gente nervosa e i ricchi almeno possono permettersi di prendere le distanze da quello che gli rende difficile dormire di notte.»
Eddie non poté aspettare oltre; si mise in bocca tre aspirine e se le fece sciogliere sulla lingua gustandone il sapore amaro. Per quanto insopportabile fosse il dolore in quel momento, avrebbe resistito a sofferenze ben peggiori se solo avesse potuto sentire Susannah. Ma percepiva solo silenzio. Aveva il sospetto che le comunicazioni tra loro, già ondivaghe, avessero cessato di esistere alla nascita del dannato bambino di Mia.
«Voi due farete bene a tenere a portata di mano le vostre bang-bang, se intendete andare alle Turtleback», concluse Cullum. «Quanto a me, credo che butterò sul pick-up il fucile prima di mettermi in moto.»
«Buona idea», convenne Eddie. «Quando sei arrivato, cerca la tua macchina, capito? La vedrai.»
«Ayuh, difficile perdere quella vecchia Ford», rispose Cullum. «Ti dirò una cosa, figliolo. Non andrò nel Vermont, ma ho la sensazione che voi due abbiate intenzione di spedirmi da qualche altra parte, se sarò disposto ad andarci. Ti va di dirmi dove?»
Uno yankee del Maine alla corte del Re Rosso, pensò Eddie: così Mark Twain avrebbe probabilmente scelto di intitolare il prossimo capitolo della vita senza dubbio pittoresca di John Cullum. Decise di tenerlo per sé. «Sei mai stato a New York?»
«Sì, cacchio. Ci ho fatto un permesso di quarantott'ore quand'ero sotto le armi.» Nella sua parlata, «armi» si trasformò in un ridicolo verso inarticolato: «Aaaam». «Andai al Radio City Music Hall e all'Empire State Building, fin qui me lo ricordo. Ma devono esserci state delle altre fermate turistiche, perché mi sono trovato un ammanco di trenta dollari nel portafogli e un paio di mesi dopo mi diagnosticarono un caso di scolo di quelli sodi.»
«Questa volta sarai troppo occupato per prendere lo scolo. Porta le carte di credito. So che ne hai, perché ho visto le ricevute nel portaoggetti della macchina.»
«Hai ficcato il naso là dentro, eh?» lo apostrofò senza malanimo Cullum.
«Ayuh, ci ho trovato quel che resta di solito dopo che il cane si è masticato le scarpe. Ci vediamo a Lovell, John.» Eddie riattaccò. Guardò il sacchetto nella mano di Roland e sollevò le sopracciglia.
«E un 'Poorboy'», disse Roland. «Con molta 'maio', come avevi chiesto. Non so che roba è, certo che io avrei preferito una salsa che non somigliasse tanto a una venuta, ma se è gradita a te...»
Eddie alzò gli occhi. «Uuuh, questo sì che solletica l'appetito.»
«Così dici?»
Eddie dovette ricordare di nuovo a se stesso che Roland era quasi privo di senso dell'umorismo. «Lo dico, lo dico. Vieni. Mangerò il mio sandwich al formaggio e venuta mentre guido. Dobbiamo discutere su come organizzarci.»
7
Il miglior modo per organizzarsi, convennero, sarebbe stato raccontando a John Cullum quanto della loro storia ritenevano che la sua disponibilità a credere (e il suo equilibrio mentale) avrebbe sopportato. Poi, se tutto fosse andato per il meglio, gli avrebbero affidato il prezioso documento di vendita e lo avrebbero spedito da Aaron Deepneau. Con l'ordine preciso di conferire con il suddetto escludendo dal loro abboccamento Calvin Torre, del quale era bene diffidare.
«Cullum e Deepneau possono lavorare insieme per rintracciare Moses Carver», considerò Eddie, «e credo di poter dare a Cullum abbastanza informazioni su Suze, di quelle di carattere privato, intendo, da convincere Carver che è ancora viva. Dopo, però... be', molto dipenderà da quanto sapranno essere persuasivi quei due. E da quanta voglia avranno di lavorare per la Tet Corporation nei loro anni del tramonto. D'altra parte... potrebbero sempre sorprenderci! Cullum in giacca e cravatta non me lo vedo proprio, ma a girare per il paese a incasinare le iniziative della Sombra...» Rifletté, con la testa inclinata su un lato, poi annuì sorridendo. «Sì, sì. Ce lo vedo benissimo.»
«Probabile che il padrino di Susannah sia anche lui un vecchio barbogio», osservò Roland. «Solo di un colore diverso. Quelli così spesso parlano un proprio linguaggio quando sono an-tet. E magari io ho qualcosa da dare a John Cullum con cui convincere Carver a mettersi con noi.» «Un sigul?»
«Sì.»
Eddie era curioso. «Di che genere?»
Ma prima che Roland potesse rispondere, videro qualcosa che spinse Eddie a schiacciare il pedale del freno. Ora erano a Lovell, sulla Route 7. Davanti a loro camminava a passo insicuro sul ciglio della strada un vecchio con in testa un groviglio di capelli bianchi. Indossava un cencio lurido che nessuno avrebbe osato chiamare tunica. Le braccia e le gambe erano magre e coperte di graffi. E anche di ulcere di un color rosso scuro. Era a piedi scalzi e al posto delle dita aveva orribili artigli gialli dall'aria assai pericolosa. Sotto il braccio stringeva un oggetto di legno un po' malconcio che poteva essere una lira rotta. Agli occhi di Eddie nessuno sarebbe potuto apparire più fuori luogo di quell'individuo su una strada dove i soli pedoni che avevano visto fino a quel momento erano persone dall'aria molto composta, fuori per una sgambata; gente evidentemente forestiera, vestita con proprietà con calzoncini da corsa, berretti da baseball e T-shirt (su di una Eddie aveva letto: NON SPARATE AL TURISTA).
La cosa che sopraggiungeva ai bordi della Route 7 si girò verso di loro e Eddie mandò un involontario grido di orrore. Gli occhi erano fusi insieme e gli fecero pensare a un uovo con due tuorli in una padella. Da una narice gli pendeva una zanna come una caccola d'osso. Ma peggio di tutto era l'opaca luce verde che la creatura emanava dal volto. Era come se avesse sulla pelle uno strato sottile di una sostanza fluorescente.
Li vide e immediatamente s'infilò tra gli alberi lasciando cadere la lira rotta.
«Cristo!» strillò Eddie. Se quello era un walk-in, si augurava di non doverne vedere mai più un altro.
«Fermati, Eddie!» ordinò Roland, puntellandosi immediatamente sul cruscotto quando la vecchia Ford di Cullum slittò nella brusca frenata, arrestando la sua corsa più o meno all'altezza del punto in cui la creatura era scomparsa.
«Apri il bagagliaio», disse Roland mentre scendeva dalla macchina. «Prendi la mia creavedove.»
«Roland, avremmo un tantino di fretta, se non sbaglio, e mancano ancora tre miglia a
Turtleback Lane. Credo che faremmo meglio a...»
«Chiudi quella tua bocca da idiota e prendimela!» tuonò Roland. Poi corse verso gli alberi. Trasse un respiro profondo e, quando cominciò a chiamare l'inquietante creatura, Eddie si sentì accapponare la pelle. Aveva sentito parlare Roland in quel modo una o due volte in precedenza, ma era facile dimenticarsi che nelle sue vene scorreva sangue reale.
Pronunciò una serie di frasi che Eddie non riuscì a capire, poi una che gli fu comprensibile: «Dunque vieni avanti, oh tu Figlio di Roderick, tu rovinato, tu perduto, e fai il tuo inchino al mio cospetto, Roland, figlio di Steven, della stirpe dell'Eld!»
Per un momento non accadde nulla. Eddie aprì il bagagliaio della Ford e recuperò la pistola di Roland. Questi si allacciò il cinturone senza degnarlo di un'occhiata, meno che mai di una parola di ringraziamento.
Trascorsero forse trenta secondi. Eddie aprì la bocca per parlare. Prima che lo facesse, il fogliame impolverato ai bordi della strada cominciò a stormire. Pochi istanti dopo l'infelice creatura riapparve. Venne avanti barcollando e a capo chino. Sulla tunica che indossava c'era un'ampia macchia di bagnato. Eddie rabbrividì all'odore forte e selvatico dell'orina di un essere malato.
Questi tuttavia s'inchinò flettendo un ginocchio e portandosi la mano deforme alla fronte, uno sconsolato gesto di lealtà che fece venire a Eddie voglia di piangere. «Hile, Roland di Gilead,
Roland di Eld! Vuoi mostrarmi un sigul, caro?»
In un posto chiamato Crocefiume, una vecchia che si faceva chiamare zia Talitha aveva regalato a Roland una croce d'argento appesa a una catenella dello stesso metallo a maglie sottili. Da allora lui l'aveva sempre portata al collo. Ora infilò la mano nella camicia per mostrarla alla creatura inginocchiata - un Lento Mutante che le radiazioni stavano uccidendo, Eddie ne era più che sicuro -, la quale emise uno spezzato grido di meraviglia.
«Avrai pace alla fine del tuo viaggio, tu Figlio di Roderick? Avrai la pace della radura?»
«Aye, mio caro», rispose il mutante piangendo, aggiungendo poi molto altro ancora in un linguaggio farfugliato che Eddie non capì. Eddie guardò in entrambe le direzioni contro la Route 7, sicuro di vedere veicoli in arrivo - del resto si era in piena stagione estiva - ma almeno per il momento la fortuna li assisteva.
«Quanti di voi ci sono da queste parti?» domandò Roland, interrompendo il walk-in. Contemporaneamente estrasse la sua vecchia macchina di morte e se la appoggiò alla camicia.
Il Figlio di Roderick allungò la mano all'orizzonte senza alzare gli occhi. «Delah, pistolero», rispose, «perché qui i mondi sono sottili, diciamo anro con fa; sey-sey desene fanno billet cobair can. I Chevin devar don do. Perché mi sento triste per loro. Can-toi, can-tah, can Discordia, aven la cam mah can. May-mi? Iffin lah vainen, eth...»
«Quanti dan devar?»
La creatura meditò sulla domanda di Roland, poi distese le dita (che erano dieci, notò Eddie) cinque volte. Cinquanta. Ma cinquanta di che cosa, Eddie non aveva idea.
«E Discordia?» chiese brusco Roland. «Dici il vero?»
«Oh aye, così io dico Chevin di Chayven, figlio di Hamil, menestrello delle Pianure
Meridionali che un tempo erano casa mia.»
«Dimmi il nome della città che si trova vicino al Castello Discordia e ti libererò.»
«Ah, pistolero, sono tutti morti laggiù.»
«Io non credo. Dimmelo.»
«Fedic!» esclamò Chevin di Chayven, un musica ambulante, che mai avrebbe sospettato che la sua vita sarebbe finita in un luogo così lontano e straniero, non le pianure del Medio-Mondo, bensì le montagne del Maine occidentale. Alzò all'improvviso l'orribile faccia luminosa. Spalancò le braccia, come un crocifisso. «Fedic sul lato lontano di Rombo di Tuono, sul sentiero del
Vettore! Su Shardik V, Maturin V, la Via alla Torre N...»
La rivoltella di Roland parlò una sola volta. Il proiettile raggiunse al centro della fronte l'essere genuflesso, completando la rovina del suo volto devastato. Mentre era proiettato all'indietro, Eddie vide le sue carni trasformarsi in fumo verdastro, diafano come l'ala di un calabrone. Per un attimo Eddie vide, sospesi nell'aria, i denti di Chevin di Chayven, come una spettrale chiostra di coralli, poi scomparvero anch'essi.
Roland lasciò ricadere la rivoltella nella fondina, poi si passò sulla fronte le dita della mano mutilata in un gesto in cui Eddie riconobbe una benedizione.
«Ti dia pace», disse Roland. Poi si slacciò il cinturone e cominciò ad avvolgere l'arma nella fondina.
«Roland, quello era... un Lento Mutante?»
«Aye, suppongo che si possa dire così, poveraccio. Ma i Roderick sono di un tempo precedente a tutte le terre da me conosciute, sebbene prima che il mondo andasse avanti rendessero la loro grazia a Arthur Eld.» Rivolse a Eddie un'espressione stanca in cui gli occhi celesti bruciavano di una luce intensa. «Fedic è dove è andata Mia a partorire il suo bambino, ne sono certo. Dove ha portato Susannah. Vicino all'ultimo castello. Dovremo tornare a Rombo di Tuono, prima o poi, ma prima dovremo andare a Fedic. Buono a sapersi.»
«Ha detto che si sentiva triste per qualcuno. Per chi?»
Roland scosse solo la testa e non rispose alla domanda di Eddie. Passò rumoroso un furgone della Coca-Cola e a occidente, lontano, rombò un tuono.
«Fedic della Discordia», mormorò invece il pistolero. «Fedic della Morte Rossa. Se possiamo salvare Susannah, e anche Jake, torneremo in direzione dei Calla. Ma ci torneremo dopo che avremo compiuto la nostra missione laggiù. E quando torneremo di nuovo a sud-est...»
«Cosa?» chiese in modo ansioso Eddie. «Cosa allora, Roland?»
«Allora non ci saranno più fermate finché non avremo raggiunto la Torre.» Protese le mani e le guardò tremare lievemente. Poi alzò gli occhi su Eddie. La sua espressione era stanca ma senza paura. «Non sono mai stato tanto vicino. Sento il bisbiglio di tutti i miei perduti amici e dei loro perduti padri. Bisbigliano sul fiato stesso della Torre.»
Eddie lo fissò affascinato e impaurito, poi dissolse quell'atmosfera di tensione con uno sforzo quasi fisico. «Be'», disse, tornando alla Ford, «se qualcuna di quelle voci ti spiega che cosa dobbiamo dire a Cullum, in quale modo convincerlo di ciò che vogliamo da lui, fammelo sapere.»
Eddie salì in macchina e chiuse lo sportello prima che Roland potesse rispondere. Con gli occhi della mente continuava a vederlo puntare quella sua grossa rivoltella. Lo vedeva prendere la mira sulla figura inginocchiata e premere il grilletto. Era l'uomo che chiamava insieme dinh e amico. Ma poteva affermare con una qualsiasi certezza che Roland non avrebbe fatto lo stesso a lui, o a Suze... o a Jake... se il cuore gli avesse indicato che così si sarebbe avvicinato alla sua Torre? No, non poteva. Ciononostante sarebbe rimasto con lui. Sarebbe andato avanti anche se in cuor suo fosse stato certo - oh, Dio non volesse! - che Susannah era morta. Perché doveva. Perché Roland era diventato per lui ben più che il suo dinh o il suo amico.
«Mio padre», mormorò Eddie un istante prima che Roland aprisse lo sportello sull'altro lato dell'automobile e salisse al suo fianco.
«Hai parlato, Eddie?» chiese il pistolero.
«Sì», rispose Eddie. «'Solo un piccolo padre.' Alla lettera.»
Roland annuì. Eddie inserì la marcia e riprese la via per Turtleback Lane. Ancora lontano, ma un po' più vicino di prima, il tuono brontolò di nuovo.
4
Dan-Tete
1
Mentre l'ora della nascita si avvicinava, Susannah Dean si guardò intorno, contando ancora una volta i suoi nemici come Roland le aveva insegnato. Non devi mai estrarre, aveva detto, finché non sai quanti sono quelli che devi affrontare oppure non ti sarai convinta che non potrai mai saperlo, oppure avrai deciso che è venuto il tuo giorno per morire.
Peccato che dovesse anche vedersela con quell'orribile calotta che le invadeva i pensieri, la quale però, qualunque cosa fosse, sembrava ignorare lo sforzo che Susannah faceva per contare le persone presenti al momento dell'arrivo del tizio di Mia. Ed era un bene che fosse così.
C'era Sayre, il soprintendente. L'uomo basso con uno di quei cerchi rossi che gli pulsava al centro della fronte. C'era Scowther, il medico che, tra le gambe di Mia, si preparava a officiare al parto. Sayre lo aveva aspramente censurato quando Scowther aveva dato segni di eccessiva arroganza, ma probabilmente non tanto da pregiudicare la sua efficienza. C'erano altri cinque uomini bassi, oltre a Sayre, ma aveva colto solo altri due nomi. Quello con la pappagorgia da bulldog e il pancione era Haber. Vicino ad Haber c'era un essere uccellesco con la testa coperta di piume marrone e gli occhi malvagi e acuti di un falco. Il nome di quella creatura era forse Jey o Gee. Sette in tutto, armati di pistole automatiche in prese del portuale. Quella di Scowther spuntava sbadatamente da sorto il camice bianco ogni volta che si chinava. Susannah l'aveva già messa in lista.
Intorno a Mia c'erano anche tre umanoidi pallidi e vigili. Costoro, avvolti in aure blu scuro, erano sicuramente vampiri. Probabilmente di quelli che Callahan chiamava «Tipo Tre». («Pesci pilota», li aveva definiti una volta il Père.) E siamo a dieci. Due dei vampiri erano armati di bah, il terzo aveva una sorta di spada elettrica ora tenuta accesa al livello di flebile lumicino. Se fosse riuscita a impossessarsi della pistola di Scowther (quando te ne sarai impossessata, dolcezza, si corresse: aveva letto Come acquistare fiducia e avere successo e credeva ancora fino all'ultima parola a tutto ciò che il reverendo Peale aveva scritto), l'avrebbe usata prima di tutto sull'uomo con la spada elettrica. Dio forse sapeva che danni era capace di infliggere quell'arma, ma di certo Susannah Dean non aveva voglia di scoprirlo.
C'era poi un'infermiera con la testa di un enorme topo marrone. L'occhio che pulsava rosso al centro della sua fronte fece dedurre a Susannah che la maggior parte del folken basso indossasse maschere dalle sembianze umane, evidentemente per evitare di terrorizzare la selvaggina quando i mostri si aggiravano per i marciapiedi di New York. Forse non erano tutti topi, là sotto, ma nessuno di loro somigliava a quel bellone di Robert Goulet, era pronta a scommetterlo. L'infermiera con la testa di roditore era la sola fra i presenti che, almeno a giudizio di Susannah, non fosse armata.
Il conto totale era di undici. Undici in quella vasta e quasi deserta infermeria che, ne era sicura, non si trovava certo nella giurisdizione di Manhattan. E se lei voleva agire, avrebbe dovuto farlo mentre erano presi dal bambino di Mia, dal suo prezioso tizio.
«Sta uscendo, dottore!» esclamò palpitante l'infermiera, al colmo della tensione.
Era vero. Il conteggio di Susannah s'interruppe nell'esplosione del dolore più forte. Che prese entrambe. Seppellì entrambe. Gridarono all'unisono. Scowther stava ordinando a Mia di spingere, di spingere ADESSO!
Susannah chiuse gli occhi e spinse a sua volta, perché era anche il suo bambino, o lo era stato. Nel momento in cui sentì il dolore defluire da sé come acqua che scivola in un gorgo per uno scarico buio, provò un dispiacere profondo come non aveva mai conosciuto. Perché era in Mia che fluiva il bambino; le ultime poche righe del messaggio vivente a cui il corpo di Susannah era stato assegnato il compito di trasmettere. Stava finendo. Comunque fosse andata da lì in avanti, quella parte stava finendo, e Susannah Dean mandò un grido che era insieme di sollievo e rimpianto; un grido che era esso stesso come una canzone.
Poi, prima che cominciasse l'orrore, una cosa così terrificante che ne avrebbe ricordato ogni minimo particolare come se nel fascio di luce di un riflettore fino al giorno della sua entrata nella radura, sentì una mano piccola e calda che le afferrava il polso. Girò la testa, ruotando con essa lo sgradevole peso della calotta. Si sentì respirare a fatica. I suoi occhi incontrarono quelli di Mia. Mia dischiuse le labbra e pronunciò una sola parola. Susannah non la udì nel ruggito di Scowther (si era chinato ora a scrutare tra le gambe di Mia con il forcipe alzato e appoggiato alla fronte). Però la sentì lo stesso e capì che Mia stava cercando di mantenere la sua promessa.
Ti lascerò libera, se ne avrò la possibilità, aveva promesso la sua rapitrice e la parola che ora Susannah udì nella mente e vide sulle labbra della partoriente fu chassit.
Susannah, mi senti?
Ti sento molto bene, rispose Susannah.
E capisci il nostro patto?
Aye. Ti aiuterò a salvarti da questi con il tuo tizio, se posso e...
Uccidici se non puoi! finì con impeto la voce. Mai era stata così potente. Era in parte dovuto al cavo che le collegava, pensò Susannah. Dillo, Susannah, figlia di Dan!
Vi ucciderò entrambi se non...
S'interruppe lì. Mia parve comunque soddisfatta ed era meglio così, perché Susannah non avrebbe potuto proseguire nemmeno se fosse stata in gioco la vita di entrambe. Il suo sguardo era involontariamente salito al soffitto di quella stanza enorme, in un punto che si trovava a metà della fila dei letti. E lì vide Eddie e Roland. Erano diafani, spuntavano dal soffitto e riscomparivano, guardandola dall'alto come pesci fantasma.
Un altro dolore, ma non così forte. Avvertì le cosce irrigidirsi, poi una spinta, ma erano sensazioni lontane. Non importanti. In quel momento contava solo se stesse vedendo o no quello che le sembrava di vedere. Era stata forse la sua mente iperstressata a creare quell'allucinazione perché portasse conforto al suo anelito di salvezza?
Era quasi disposta a crederlo. E lo avrebbe creduto, con tutta probabilità, se non fossero entrambi stati nudi e attorniati da un'incredibile collezione di cianfrusaglie: una bustina di fiammiferi, un'arachide, ceneri, un soldino. E un tappetino d'automobile, Dio del cielo! Un tappetino con il marchio FORD.
«Dottore, vedo la te...»
Uno squittio sfiatato. Il dottor Scowther, non certo un gentiluomo, allontanò la rattiforme infermiera senza tanti complimenti con una gomitata e si protese ancor di più tra le cosce di Mia. Quasi che volesse estrarre il suo tizio con i denti. La creatura con la testa di falco, Jey o Gee, stava parlando in un dialetto infervorato e ronzante a un tipo chiamato Haber.
Sono lì davvero, concluse Susannah. Il tappetino lo dimostra. Non sapeva nemmeno lei come quel tappetino ne fosse la prova, ma ne era sicura. E formulò la parola che le aveva dato Mia: chassit. Era una parola d'ordine. Avrebbe aperto almeno una porta e forse molte. Chiedersi se Mia avesse detto il vero non le passò neppure per l'anticamera del cervello. Erano legate l'una all'altra, non solo dal cavo e dalle calotte, ma dal più primitivo (e mille volte più potente) atto del parto. No, Mia non aveva mentito.
«Spingi, fottuta fancazzista!» quasi urlò Scowther e Roland e Eddie scomparvero all'improvviso per sempre attraverso il soffitto, come soffiati via dal fiato di quell'uomo. Per quel che Susannah poteva dire, così era stato.
Si girò sul fianco sentendosi i capelli appiccicati a ciocche al cranio, sentendo che il suo corpo versava sudore a litri. Si spinse un po' più vicino a Mia; un po' più vicino a Scowther; un po' più vicino al calcio della pistola di Scowther che sporgeva dal camice.
«Stai ferma tu, odimi ti prego», intervenne uno degli uomini bassi e le toccò il braccio. La mano era fredda e flaccida, piena di grossi anelli. La carezza le fece raggricciare la pelle. «Sarà tutto finito in un minuto e poi tutti i mondi cambieranno. Quando questo si unirà ai Frangitori di
Rombo di Tuono...»
«Zitto, Straw!» latrò Haber e spinse via l'improbabile consolatore di Susannah. Poi tornò con trepidazione a occuparsi del parto.
Mia inarcò la schiena gemendo. L'infermiera con la testa di topo le posò le mani sui fianchi e li spinse dolcemente contro il letto. «Buona, buona, spingi con la pancia.»
«Mangia merda, troia!» strepitò Mia e Susannah avvertì soltanto una debole tensione di dolore. Il collegamento tra loro si andava allentando.
Fece appello a tutta la sua capacità di concentrazione e gridò nel pozzo della propria mente: Ehi! Ehi tu, signora della Positronics! Sei ancora lì?
«Il contatto... è spento», rispose la bella voce femminile. Come la prima volta, parlò al centro della testa di Susannah, ma a differenza della volta precedente suonò ovattata, non più pericolosa di una voce che giunge per radio da lontano per un capriccio atmosferico. «Ripeto: il contatto... è spento. Noi speriamo che ricorderai la North Central Positronics per ogni tua ulteriore necessità di incremento intellettuale. E la Sombra Corporation! Una società leader nella comunicazione mente-a-mente dal diecimila!»
Nella profondità della mente di Susannah risuonò un BIII... BIIIP da far saltare i denti, poi il collegamento s'interruppe. Non fu solo l'assenza di quella voce femminile così orribilmente gradevole; fu tutto. La sensazione che provò fu quella di essere liberata da una dolorosa trappola che le comprimeva il corpo intero.
Mia gridò di nuovo e Susannah le fece eco. In parte era perché non voleva che Sayre e i suoi soci sapessero che il collegamento tra lei e Mia si era spezzato; in parte era dispiacere genuino.
Aveva perso una donna che, in un certo senso, era diventata una sua sorella vera.
Susannah! Suze, sei lì?
All'udire quella nuova voce cominciò a sollevarsi sui gomiti, quasi dimenticando per un momento la donna al suo fianco. Quello era...
Jake? Sei tu, tesoro? Mi senti?
SÌ! gridò lui. Finalmente! Dio, con chi stavi parlando? Continua a gridare così riesco a individuarti...
La voce s'interruppe, ma non prima che Susannah udisse il crepitare fantasma di una sparatoria in lontananza. Jake che sparava a qualcuno? Pensava di no. Pensava che fosse qualcuno che stava sparando a lui.
2
«Ora!» sbraitò Scowther. «Ora, Mia! Spingi! Con tutte le forze! Mettici tutto quello che hai! SPINGI!»
Susannah cercò di avvicinarsi all'altra donna girandosi sul letto - Oh, sono preoccupata e in cerca di conforto, guarda come sono preoccupata, preoccupata e desiderosa di conforto, niente di più - ma quello che si chiamava Straw la tirò indietro. Il cavo flessibile oscillò e si tese tra le due. «Mantieni la distanza, troia», l'apostrofò Straw e per la prima volta Susannah pensò che non avrebbe avuto l'occasione d'impossessarsi della pistola di Scowther. O di quella di qualcun altro.
Mia gridò di nuovo, un'invocazione a un dio strano in una lingua strana. Quando cercò di sollevarsi dal tavolo, l'infermiera - Alia, a Susannah sembrava che si chiamasse così - la spinse giù di nuovo e Scowther emise un verso secco che poteva essere di soddisfazione. Abbandonò il forcipe.
«Perché?» volle sapere Sayre. Ora le lenzuola tra le gambe aperte di Mia erano bagnate di sangue e il soprintendente era al colmo della tensione.
«Non ne ho bisogno!» rispose gioviale l'ostetrico. «Questa è fatta per far figli, avrebbe potuto sfornarne una decina in una risaia senza smettere di raccogliere. Ecco che scivola fuori come olio!»
Scowther fece per afferrare il grosso catino in attesa sul letto accanto e decise che non ne avrebbe avuto il tempo e infilò invece le sue mani rosee e senza guanti tra le cosce di Mia. Questa volta, quando Susannah tentò di avvicinarsi a Mia, Straw non la fermò. Tutti, uomini bassi e vampiri, seguivano assolutamente incantati l'ultima fase della venuta al mondo, per la maggior parte assiepati ai piedi dei due letti, accostati per farne uno più grande. Solo Straw rimaneva vicino a Susannah. Il vampiro con la spada di luce fu declassato; decise che il primo ad andarsene sarebbe stato Straw.
«Ancora una volta!» gridò Scowther. «Per il tuo bambino!»
Come gli uomini bassi e i vampiri, Mia si era scordata di Susannah. I suoi occhi feriti e pieni di dolore erano fissi su Sayre. «Posso tenerlo, signore? Ti prego, dimmi che posso tenerlo, anche se solo per un po'!»
Sayre le prese la mano. La maschera che copriva il suo vero volto sorrise. «Sì, mia cara», rispose. «Il tizio è tuo per anni e anni. Solo spingi per quest'ultima volta.»
Mia, non credere alle sue menzogne! gridò Susannah, ma il suo ammonimento si perse nel nulla. Probabilmente era meglio così. Meglio che in quel momento tutti si dimenticassero di lei.
Rivolse i suoi pensieri in una direzione nuova. Jake! Jake, dove sei?
Nessuna risposta. Brutta storia. Volesse Iddio che fosse ancora vivo.
Forse è solo occupato. A scappare... nascondersi... combattere. Il silenzio non significa necessariamente che...
Mentre non smetteva di spingere, Mia sbraitò una sequela di parole incomprensibili, probabilmente una serie di volgarità. Le labbra della sua vagina già dilatate si aprirono ancora di più. Un nuovo fiotto di sangue andò ad alimentare la scura macchia a forma di delta sul lenzuolo su cui era adagiata. Poi, in quel miscuglio di rosso, Susannah scorse l'affiorare del bianco e del nero. Bianco, pelle. Nero, capelli.
Poi il bianco e il nero cominciarono a ritirarsi nel rosso e Susannah pensò che il nascituro scivolasse all'indietro non ancora pronto del tutto a uscire nel mondo, ma Mia non aveva intenzione di aspettare oltre. Spinse con tutte le sue considerevoli forze, con le mani davanti agli occhi, strette in pugni serrati e tremanti, gli occhi ridotti a due fessure, i denti scoperti. Una vena le pulsava pericolosamente al centro della fronte, un'altra le affiorava sulla gola.
«HEEEYAHHHH!» urlò. «COMMALA, BASTARDINO! COMMALA-COME-COME!»
«Dan-tete», mormorò Jey, l'essere-falco, e gli altri risposero in una sorta di bisbiglio riverente: Dan-tete... dan-tete... commala dan-tete. La venuta del piccolo dio.
Questa volta la testa del bambino non si limitò ad affiorare, ma fu sparata in avanti. Susannah vide i pugni minuscoli e tremanti di vita che il neonato teneva contro il petto sporco di sangue. Vide gli occhi blu, spalancati e stupefacenti per quanto erano vivi di consapevolezza e per quanto simili a quelli di Roland. Vide ciglia nere come carbone. Erano imperlate di goccioline di sangue, un barbarico ornamento natale. Susannah vide - e mai avrebbe dimenticato - come il labbro inferiore del bambino restasse momentaneamente impigliato sul labbro inferiore della vulva di sua madre. Nell'istante brevissimo in cui il neonato aprì la bocca, mise in mostra una fila perfetta di dentini. Ed erano denti davvero, non zanne ma dentini perfetti, tuttavia, vederli nella bocca di un neonato, fece provare a Susannah un brivido di gelo. Non meno inquietante fu la vista del pene del tizio, spropositatamente grosso e in piena erezione. Doveva essere più lungo del suo dito mignolo.
Con un urlo di dolore e trionfo, Mia si sollevò sui gomiti, strabuzzando gli occhi colmi di lacrime. Si allungò ad afferrare la mano di Sayre in una stretta ferrea nel momento in cui Scowther prendeva con destrezza il bambino. Sayre gemette e cercò di ritrarsi, ma fu come cercare di liberarsi da... be', da uno sceriffo di Oxford, Mississippi. La cantilena era terminata e ci fu un momento di silenzio sospeso nello stupore. In quella pausa Susannah udì distintamente il rumore delle ossa che scricchiolavano nel polso di Sayre.
«È VIVO?» strillò Mia in faccia a uno sbigottito Sayre. Le volò saliva dalla bocca. «DIMMI, SIFILITICO FIGLIO DI PUTTANA, DIMMI SE IL MIO TIZIO È VIVO!»
Scowther sollevò il tizio portandoselo all'altezza del volto. Gli occhi castani dell'ostetrico incontrarono quelli azzurri del neonato. E nel momento in cui il tizio fu sospeso così, tra le mani di Scowther, con il pene orgogliosamente ritto all'insù, Susannah vide bene il segno rosso sul suo tallone sinistro. Era come se fosse stato intinto nel sangue un attimo prima di uscire dall'utero di Mia.
Invece di sculacciare il neonato, Scowther trasse un respiro e gli soffiò ripetutamente negli occhi. Il tizio di Mia sbatté le palpebre in un gesto comico (e innegabilmente umano) di sorpresa. Trasse un respiro del suo, lo trattenne per un momento e lo esalò. Fosse stato anche il Re dei Re, o un distruttore di mondi, si presentava alla vita come tanti prima di lui, starnazzando indignato. All'udire quegli strilli, Mia scoppiò in lacrime di contentezza. Le diaboliche creature raccolte intorno alla neomamma erano servi giurati del Re Rosso, ma questo non li rendeva immuni a quello a cui avevano appena assistito. Ci furono risa e applausi. Con non poco disgusto, Susannah si ritrovò a unirsi alla celebrazione. A quei suoni il neonato si guardò intorno con un'espressione di chiara meraviglia.
Piangendo, con le lacrime che le rigavano le guance e muco trasparente che le colava dal naso, Mia protese le braccia. «Dammelo!» singhiozzò; così implorò Mia, figlia di nessuno e madre di uno. «Lasciamelo tenere in braccio, io prego, lasciatemi abbracciare mio figlio! Lasciatemi abbracciare il mio tizio! Lasciatemi tenere tra le braccia il mio tesoro!»
E, al suono della voce di sua madre, il neonato girò la testa. Susannah lo avrebbe pensato impossibile, ma naturalmente avrebbe ritenuto impossibile che un bambino nascesse sveglio e vigile, con i denti in bocca e un'erezione. Eppure per ogni altro verso le sembrava del tutto normale: grassottello e ben formato, umano e per questo adorabile. C'era quel segno rosso sul tallone, sì, ma quanti altri bambini, normali in tutto e per tutto, nascevano con una voglia di questa o quella forma? Secondo una leggenda di famiglia, suo padre stesso non era forse nato con una mano rampante? Quello era un segno che non avrebbe visto mai nessuno, se non quando il bambino fosse stato in spiaggia.
Sempre tenendo il neonato all'altezza del proprio volto, Scowther guardò Sayre. Ci fu una breve pausa durante la quale Susannah avrebbe potuto facilmente impossessarsi dell'automatica di Scowther. Non ci pensò neppure. Aveva scordato l'invocazione telepatica di Jake, aveva slmilmente dimenticato la strana visita ricevuta da Roland e suo marito. Era rapita come gli altri, Jey e Straw e Haber e l'intera congrega, incantata in quel momento dall'arrivo di un nuovo nato in un mondo consunto.
Sayre annuì quasi impercettibilmente e Scowther abbassò il piccolo Mordred, che ancora frignava (e ancora guardava oltre la propria spalla, cercando apparentemente la madre), tra le braccia protese di Mia.
Mia lo girò immediatamente per poterlo guardare e il cuore di Susannah fu gelato da una frustata di sgomento e orrore. Perché Mia era impazzita. La pazzia le brillava negli occhi; era nel modo in cui la sua bocca riusciva a ringhiare e sorridere contemporaneamente mentre dai lati le colava verso il mento bava bianca arrossata e addensata dal sangue spillato dal morso che si era data alla lingua; soprattutto era nel suo riso trionfale. Avrebbe forse ritrovato la sanità nei giorni futuri, ma...
«Quella troia non rinsavirà mai più», intervenne Detta non senza commiserazione. «Lo sforzo di arrivare fin qui e scaricare il suo fardello l'ha fottuta. È scoppiata, e lo sai meglio di me!»
«Oh, come sei bello!» tubò Mia. «Oh, guarda questi occhi blu, questa pelle bianca come il cielo prima della prima neve di Grande Terra! Guarda i tuoi capezzoli, piccoli e perfetti frutti di bosco, guarda il tuo pene e le tue palle lisce come pesche novelle!» Guardò intorno a sé, prima Susannah, scivolando con lo sguardo sul viso di lei senza assolutamente riconoscerla, poi gli altri. «Guardate il mio tizio, voi sventurati, voi gonick, il mio tesoro, il mio bambino, il mio maschietto!» Gridava, pretendeva, ridendo con i suoi occhi folli e piangendo con la sua bocca storta. «Guardate la ragione per cui ho rinunciato all'eternità! Guardate il mio Mordred, guardatelo molto bene, perché non ne vedrete mai altro uguale!»
Ansimando pesantemente, coprì di baci il viso insanguinato e sorpreso del neonato, sporcandosi la bocca fino a sembrare un'ubriaca che avesse tentato di applicarsi del rossetto alle labbra. Rise e baciò il tenero collare che era il doppio mento del suo infante, e gli baciò i capezzoli, l'ombelico, la punta protesa del pene e, tenendolo in alto e sempre più su con le braccia tremanti, sotto la buffa espressione di stupore del bambino che intendeva chiamare Mordred, gli baciò le ginocchia e poi, uno dopo l'altro, i piedi minuscoli. Susannah udì quel primo suono di risucchio: non del neonato al seno di sua madre, ma della bocca di Mia su ciascuno di quei ditini dalla forma perfetta.
3
Tuo figlio è la condanna a morte del mio dinh, pensò freddamente Susannah. A costo della vita potrei prendere la pistola di Scowther e sparargli. Sarebbe questione di due secondi.
Data la sua velocità, la sua soprannaturale velocità da pistolera, era probabilmente vero. Ma si ritrovò incapace di muoversi. Aveva previsto molti esiti diversi a conclusione di quella scena, ma non la pazzia di Mia, quella mai, e ne era stata colta completamente alla sprovvista. Indugiò per un istante a riflettere sulla fortuna che aveva avuto per essersi scollegata in tempo. Se il congegno della Positronics fosse stato ancora in funzione, ora probabilmente sarebbe stata pazza anche lei.
E potrebbe essere riattivato in qualsiasi momento, bella mia... non credi che faresti meglio a muoverti finché puoi?
Ma non poteva, quello era il suo problema, era paralizzata dalla meraviglia, inchiodata dall'incantesimo.
«Piantala!» ordinò stizzito Sayre. «Tu devi nutrirlo, non sbavarci sopra! Se vuoi tenerlo, sbrigati! Fallo poppare! O devo chiamare una balia? Ce ne sono molte che darebbero gli occhi per poterlo fare!»
«Mai... e... poi... MAI!» strillò Mia e rise, ma si abbassò il bimbo al seno e scostò con un gesto impaziente la scollatura della semplice casacca bianca che indossava, scoprendo il capezzolo destro. Susannah capì perché potesse esercitare una così irresistibile influenza sugli uomini: anche in quelle condizioni il suo seno era perfetto, una sfera con la punta di corallo che sembrava più adatta alla mano di un uomo, alla sua concupiscenza, che a nutrire un neonato. Mia vi avvicinò il tizio. Per un momento grufolò nella maniera comica con cui l'aveva guardata poco prima, colpendo il capezzolo e dando l'impressione di rimbalzare all'indietro. Quando vi si avvicinò di nuovo, però, la rosa della sua piccola bocca si chiuse sul bocciolo eretto del seno di lei e cominciò a succhiare.
Sempre ridendo, Mia accarezzò i suoi riccioli neri, aggrovigliati e sporchi di sangue. Erano risate che alle orecchie di Susannah suonavano come urla.
Un rumore sordo di passi annunciò l'arrivo di un robot. Somigliava parecchio a Andy, il Robot Messaggero, stessa struttura magra sui due metri e mezzo di statura, stessi occhi blu elettrico, stessa corporatura scintillante e piena di articolazioni. Portava sulle braccia uno scatolone di vetro pieno di luce verde.
«E quello a che cazzo serve?» protestò Sayre. Era insieme adirato e incredulo.
«Un'incubatrice», rispose Scowther. «Ho pensato che fosse meglio non lasciare nulla al caso.»
Quando si girò, la pistola nella fondina ascellare dondolò in direzione di Susannah. Le si presentò così un'occasione ancora migliore, la migliore di tutte, e se ne rese conto, ma prima che potesse estrarla, il tizio di Mia trasmutò.
4
Susannah vide una luce rossa correre sulla pelle levigata del bimbo, dai capelli fino alla macchia sul tallone del piede destro. Non fu un rossore bensì un lampo, che illuminò il bimbo da dentro: Susannah lo avrebbe giurato. Poi, mentre il bambino giaceva sul ventre sgonfiato di Mia con le labbra strette sul suo capezzolo, il lampo rosso fu seguito da un'ombra nera che si levò e si espanse, trasformandolo in uno gnomo buio, la negazione stessa del roseo neonato uscito dall'utero di Mia. Contemporaneamente il suo corpo cominciò ad avvizzirsi, le gambe si ritirarono e si fusero con l'addome, la testa scivolò all'ingiù, trascinando con sé il seno di Mia, rientrando nel collo, che si gonfiò come la gola di un rospo. I suoi occhi passarono dall'azzurro al nero catrame, poi di nuovo al blu.
Susannah cercò di gridare e non poté.
Sulla superficie nera della nuova creatura spuntarono escrescenze, che subito dopo si squarciarono lasciando emergere delle gambe. La macchia rossa del tallone era ancora visibile, ma ora era diventata un grumo come il marchio cremisi sul ventre di una vedova nera. Perché quello era l'essere in cui si era trasformato: un ragno. Eppure il bambino non era scomparso del tutto. Dal dorso del ragno spuntò un tumore bianco. In esso Susannah scorse una minuscola faccia deforme e due scintille blu che erano gli occhi.
«Cosa?...» cominciò Mia e tentò di nuovo di sollevarsi sui gomiti. Dal seno aveva iniziato a uscirle del sangue. Il bambino lo bevve come fosse latte, senza lasciarsene scappare una sola goccia. Vicino a lei, Sayre era immobile come una figura scolpita, con la bocca aperta e gli occhi che gli sporgevano dalle orbite. Qualunque cosa si fosse aspettato da quella nascita, qualunque cosa gli fosse stato detto di aspettarsi, non era quello che vedeva. La Detta che c'era in Susannah trasse un maligno piacere infantile nel guardare quell'espressione sbalordita: sembrava Jack Benny in uno dei suoi numeri strapparisate.
Per un momento solo Mia sembrò rendersi conto di che cosa stava accadendo, perché il suo volto cominciò ad allungarsi in una maschera informe di orrore e, forse, dolore. Poi il sorriso riapparve, quel sorriso angelico da effigie religiosa. Allungò la mano e accarezzò il mostro che ancora si andava trasformando al suo seno. Il ragno nero con la minuscola testa umana e la bolla rossa sul ventre irsuto.
«Non è bellissimo?» proruppe. «Non è bellissimo mio figlio, bello come il sole d'estate?» Furono le sue ultime parole.
5
Non si può dire che il suo volto si paralizzò, ma di certo si fermò. Le sue guance e fronte e gola, colorite fino a poco prima dagli sforzi del parto, si spensero nel biancore cereo di un petalo d'orchidea. I suoi occhi brillanti sostarono fissi al centro delle orbite. E a un tratto fu come se Susannah non stesse guardando una donna distesa su un letto, ma il disegno di una donna. E di straordinaria fattura, se è per questo, ciononostante qualcosa che esisteva solo nella forma di linee di carboncino e qualche pallida coloritura su un foglio di carta.
Ricordò com'era tornata al Plaza-Park Hyatt dopo la sua prima visita al cammino di Castello Discordia e come era giunta lì, a Fedic, dopo il suo ultimo conciliabolo con Mia, al riparo della merlatura. Come il cielo e il castello e ogni pietra della merlatura si fossero spalancati. E allora, come se fosse stato il suo pensiero a provocarlo, il volto di Mia si lacerò dall'attaccatura dei capelli fino al mento. Gli occhi fissi e opachi caddero di sbieco di qua e di là. Le labbra si spaccarono in un folle ghigno raddoppiato. E non fu sangue quello che scaturì dagli squarci che si andavano aprendo nella sua faccia, bensì una polvere bianca dall'odore di stantio. Susannah ritrovò nella memoria un frammento di T.S. Eliot (uomini cavi uomini impagliati teste piene di paglia) e Lewis Carroll
(non siete che un mazzo di carte)
prima che il dan-tete di Mia rialzasse la testa raccapricciante dal suo primo pasto. La sua
bocca lorda di sangue si aprì e le zampe posteriori annasparono cercando presa sul ventre sempre più convesso della madre, mentre quelle anteriori sembravano quasi fingere colpi da pugile in direzione di Susannah.
Squittì di trionfo e se avesse scelto quel momento per aggredire l'altra donna che lo aveva nutrito dentro di sé, Susannah Dean sarebbe certamente morta con Mia. Tornò invece alla sacca sgonfia del seno dal quale aveva prelevato la sua prima poppata e la strappò via. La masticò producendo orribili sciacquii. Un attimo dopo si tuffò nell'apertura rimasta nel petto di lei e la sua bianca faccia umana scomparve mentre quella di Mia finiva di esaurirsi nella polvere che le usciva come ribollendo dalla testa implosa. Ci fu un forte rumore di risucchio, quasi industriale, e Susannah pensò: Sta estraendo da lei tutti i liquidi, tutti quelli che le sono rimasti. E guarda! Guarda come si gonfia! Come una sanguisuga sul collo di un cavallo!
Proprio allora una ridicola voce dall'accento britannico - era il tono compito del paradigma stesso del gentiluomo - cantilenò: «Chiedo scusa, signori, ma pensate ancora di utilizzare questa incubatrice? Perché la situazione si è un po' modificata, se mi è concesso farlo rilevare».
Sciolse Susannah dalla sua paralisi. Si alzò puntellandosi con una mano e con l'altra afferrò l'automatica di Scowther. Tirò con forza, ma l'arma era trattenuta da un laccio. Tastando con l'indice, trovò il minuscolo cursore della sicura e lo spinse. Ruotò quindi la pistola con tutta quanta la fondina verso la scatola toracica di Scowther.
«Cosa dia...» cominciò lui, poi lei premette il grilletto con il medio mentre contemporaneamente strattonava con tutte le forze che aveva l'imbracatura a cui era agganciata la fondina. Le cinghie principali ressero, ma quelle più sottili che trattenevano l'automatica si strapparono e, mentre Scowther cadeva di lato cercando di guardare il foro nero e fumante che aveva nel camice bianco, Susannah s'impadronì del tutto della sua arma. Sparò a Straw e al vampiro che gli era accanto, quello con la spada elettrica. Per un momento il vampiro fu ancora lì, con gli occhi fissi sul dio-ragno che all'inizio era sembrato un bambino, poi la sua aura svanì. Con essa scomparve anche il corpo del vampiro. Per qualche attimo al suo posto rimase una camicia vuota infilata in un paio di blue jeans vuoti. Poi gli indumenti si afflosciarono.
«Uccidetela!» urlò Sayre mettendo mano alla propria pistola. «Uccìdete quella troia!»
Rotolando, Susannah si allontanò dal ragno accovacciato sul corpo della madre che sotto di esso si andava rapidamente sgonfiando. Mentre cadeva dal letto, si strappò dalla testa la calotta. Provò un dolore lancinante quando applicò pressione temendo di non poterla staccare, ma un istante dopo era sul pavimento, libera. La calotta rimase appesa oltre il bordo del letto, orlata dai suoi capelli. L'essere-ragno, strappato per un momento dalla sua sede quando il corpo di sua madre sussultò, mandò uno stridio di collera.
Susannah rotolò sotto il letto mentre sopra di lei partiva una serie di spari. Una pallottola colpì una molla che emise un forte tremolio melodico. Susannah vide i piedi e le gambe pelose dell'infermiera con la testa di topo e le piantò un proiettile in un ginocchio. L'infermiera lanciò un urlo, ruotò su se stessa e cominciò a scappare zoppicando e sbraitando.
Sayre si protese puntando la pistola appena oltre il corpo accasciato di Mia. Nel letto c'erano già tre fori fumanti. Prima che potesse aggiungerne un quarto, una delle zampe del ragno gli accarezzò la guancia, strappando la maschera che indossava ed esponendo il pelo sottostante. Sayre si ritrasse con un grido. Il ragno si girò verso di lui e mandò un miagolio. La cosa bianca che aveva sul dorso, un nodulo con un volto umano, parve ammonire Sayre con lo sguardo a stare lontano dal suo pasto. Poi tornò alla donna, che per la verità non era più riconoscibile in quanto tale; sul letto c'erano ora i resti di una mummia di età incommensurabile, ridotta ormai a polvere e stracci.
«Mi sia concesso, ma tutto questo mi sembra un po' caotico», commentò il robot con l'incubatrice. «Devo ritirarmi? Forse è meglio che torni quando la situazione si sarà chiarita.»
Susannah invertì la direzione, rotolando fuori da sotto il letto. Vide che due degli uomini bassi avevano alzato i tacchi. Jey, l'uomo-falco, sembrava incapace di prendere una decisione. Restare o andare? La prese Susannah per lui, piazzandogli un colpo preciso nella fronte pennuta. Volarono sangue e piume.
Si alzò come meglio poteva, aggrappandosi alla sponda del letto per sostenersi e tendendo il braccio armato davanti a sé. Ne aveva uccisi quattro. L'infermiera con la testa di topo e un altro erano fuggiti. Sayre aveva lasciato cadere la pistola e stava cercando di nascondersi dietro il robot con l'incubatrice.
Susannah liquidò gli ultimi due vampiri e l'uomo basso con la faccia da bulldog. Costui, Haber, non si era scordato di lei; era rimasto al suo posto in attesa del momento propizio. Susannah era stata più veloce di lui e ora, con profonda soddisfazione, lo guardò stramazzare all'indietro. È stato il più pericoloso, pensò.
«Signora, mi chiedevo se potesse spiegarmi...» cominciò il robot e Susannah scaricò due rapidi colpi nella sua testa di metallo spegnendo i suoi occhi blu. Era un trucco che aveva imparato da Eddie. Partì immediatamente una sirena gigantesca. Susannah temette che ascoltandola troppo a lungo ne sarebbe stata assordata.
«SONO STATO ACCECATO DA COLPI D'ARMA DA FUOCO!» tuonò il robot, senza perdere il suo assurdo accento da desidera-un'altra-tazza-di-té-madame. «VISIONE ZERO, HO BISOGNO
DI AIUTO, CODICE 7, RIPETO AIUTO!»
Sayre si allontanò dal robot a mani alzate. Con quella sirena e le esternazioni del robot, Susannah non poteva udirlo, ma lesse le parole sulle labbra del bastardo: Mi arrendo, vuoi accettare la mia parola?
Susannah sorrise a quell'idea divertente, senza accorgersi di sorridere. Fu un sorriso privo di piacere e privo di pietà e significava una sola cosa. Avrebbe voluto obbligarlo a leccarle i moncherini, come lui aveva obbligato Mia a leccargli gli stivali. Ma non c'era tempo. Lui lesse il proprio destino nel sorriso di lei e si girò per scappare e Susannah gli sparò due volte nella nuca, una per Mia e una per Père Callahan. Il cranio di Sayre si sgretolò in un turbinio di sangue e cervello. Si appese al muro, annaspò sul ripiano carico di attrezzature e scorte, e piombò a terra morto.
Ora Susannah puntò l'arma sul dio-ragno. La minuscola testa umana sul dorso ispido e nero si girò verso di lei. Dagli occhi azzurri, così incredibilmente simili a quelli di Roland, si sprigionò un lampo.
No, non puoi! Non devi! Perché io sono il solo figlio del Re!
Non posso? Rispose mentalmente lei spianando l'automatica. Oh, zuccherino, come... ti... SBAGLI!
Ma prima che potesse premere il grilletto, alle sue spalle echeggiò uno sparo. Un proiettile le ustionò il collo. Susannah reagì all'istante, voltandosi e gettandosi lateralmente tra due letti. Uno degli uomini bassi fuggiti poco prima aveva ritrovato il coraggio ed era tornato sui suoi passi. Susannah glielo fece rimpiangere con due pallottole al petto.
Si girò, desiderosa di trovare altri bersagli - sì, era quello che voleva, quello per cui era stata creata, e avrebbe sempre riverito Roland per averglielo fatto scoprire - ma gli altri erano o morti o in fuga. Il ragno corse giù dal letto con le sue molte zampe, lasciando dietro di sé il cadavere di cartapesta di sua madre. Girò per un istante verso di lei la bianca testa da neonato.
Farai bene a lasciarmi passare, muso nero, se non...
Susannah sparò, ma mentre premeva il grilletto inciampò sulla mano protesa dell'uomo-falco. Il proiettile che avrebbe ucciso l'abominevole creatura fu sviato e fece saltar via una delle otto zampe pelose della bestia. Un liquido rosso e giallastro, più simile a pus che a sangue, sprizzò dal punto in cui la zampa era articolata al corpo. L'essere strillò di dolore e sorpresa, la porzione udibile di quel grido fu quasi del tutto ingoiata dal ciclico ululato della sirena del robot, ma Susannah lo sentì forte e chiaro dentro la testa.
Te la farò pagare per questo! Io e mio padre, noi, te la faremo pagare! Ti faremo invocare la morte, credimi!
Non ne avrai l'occasione, dolcezza, fu il messaggio che inviò Susannah in risposta, cercando di proiettare su di esso tutta la fiducia in sé di cui era capace per impedire alla cosa di intuire il suo timore: che l'automatica di Scowther fosse scarica. Prese la mira con una posa fin troppo plateale e il ragno si diede precipitosamente alla fuga, sfrecciando prima dietro il robot e la sua incessante sirena e quindi attraverso una porta buia.
Bene. Niente di cui rallegrarsi, senz'altro non la migliore delle soluzioni, ma era ancora viva e questo era già un fatto importante.
E il fatto che tutta la ciurmaglia di sai Sayre era morta o fuggita? Anche quello non era malaccio.
Gettò via la pistola di Scowther e ne scelse un'altra, una Walther PPK. La estrasse dalla presa del portuale di Straw, poi frugò nelle tasche del morto, dove trovò una mezza dozzina di caricatori di ricambio. Valutò per un istante se aggiungere al suo arsenale la spada elettrica del vampiro e decise di lasciarla dov'era. Meglio gli strumenti che si conoscono di quelli di cui non si sa nulla.
Cercò di mettersi in contatto con Jake, non riuscì a udire i propri pensieri e si rivolse al robot. Ehi, tu! Spegni quella dannata sirena, vuoi?
Non pensava che sarebbe servito, invece funzionò. Il silenzio fu immediato e splendido, aveva la consistenza sensuale della seta moiré. Il silenzio poteva essere utile. Se ci fosse stato un contrattacco, li avrebbe sentiti arrivare. E la sporca verità? Sperava in un contrattacco, voleva che tornassero, e pazienza se non c'era logica nei suoi sentimenti. Aveva una pistola carica e si sentiva non meno carica lei stessa. Solo quello contava.
(Jake! Jake, mi senti, ragazzo mio! Se mi senti, rispondi alla tua sorellona!) Niente. Nemmeno il crepitare di una sparatoria in lontananza. Era uscito da...
Poi una singola parola... se era una parola:
(wimeweh) ma soprattutto era Jake?
Non poteva giurarlo, ma pensava che fosse lui. E a suo modo anche quella parola le sembrava familiare.
Susannah raccolse tutta la concentrazione con il proposito di chiamare di nuovo ma con maggiore energia, ma in quell'attimo le venne un'idea strana, troppo forte per poterla definire intuizione. Jake si sforzava di non farsi sentire. Si stava... nascondendo? Forse preparandosi a tendere un'imboscata? Balzana, come idea, ma forse anche lui era carico al massimo. Chissà, forse quella parola stramba (wimeweh)
le era stata inviata volutamente, ma forse gli era solo scappata. Meglio comunque non
disturbarlo almeno per un po'.
«Dico, sono stato accecato da colpi d'arma da fuoco!» ripeté il robot. La sua voce era ancora potente, ma il volume era sceso a un livello che quanto meno si avvicinava alla normalità. «Non vedo un fico secco e ho questa incubatrice...» «Mollala», disse Susannah.
«Ma...»
«Mollala, Ferraglia.»
«Chiedo scusa, madame, ma il mio nome è Nigel il Maggiordomo e veramente non posso...»
Durante quel piccolo botta e risposta Susannah si era trascinata più vicina al robot - scoprendo che, solo per aver ottenuto una breve vacanza provvista di gambe, non ci si dimenticavano le antiche manovre di locomozione - e ora lesse il nome e il numero di serie sul suo ventre cromato.
«Nigel DNK 45932, molla quel cazzo di scatola di vetro, dico grazie!»
Il robot (DOMESTICO c'era scritto subito sotto il numero di serie) lasciò cadere l'incubatrice e, quando il contenitore andò in pezzi ai suoi piedi d'acciaio, si mise a piagnucolare.
Susannah lo raggiunse faticosamente e scoprì di dover dominare una momentanea paura prima di allungare la mano verso quella metallica e a tre dita dell'uomo-macchina. Dovette ricordare a se stessa che non era Andy di Calla Bryn Sturgis, né Nigel poteva sapere dell'esistenza di Andy. Forse il robot-maggiordomo non era tanto sofisticato da poter sviluppare desiderio di vendetta com'era stato invece nel caso di Andy - ma sicuramente non poteva avere reazioni a fatti di cui non era a conoscenza.
Così sperava.
«Tirami su, Nigel.»
Il robot si chinò in un ronzio di servomotori.
«No, caro, devi venire un po' più avanti. Lì ci sono cocci di vetro.»
«Chiedo scusa, madame, ma sono cieco. Credo che sia stata lei a spararmi negli occhi.»
«Be'», rispose Susannah sperando che il tono d'irritazione dissimulasse la paura sottostante, «non potrò certo procurartene di nuovi se non mi tiri su, giusto? Ora vieni un pochettino più avanti, se ti è gradito. Il tempo scappa.»
Nigel ubbidì, schiacciando cocci di vetro sotto i piedi, procedendo in direzione del suono della sua voce. Susannah controllò l'istinto di ritrarsi, ma quando il Robot Domestico l'ebbe presa, trovò la sua stretta più che delicata. Fu sollevata tra le sue braccia.
«Ora portami alla porta.»
«Madame, chiedo scusa, ma ci sono molte porte al Sedici. Altre ancora sotto il Castello.» «Quante?»
«Direi...» Una breve pausa. «Direi cinquecentonovantacinque attualmente operative.» Susannah notò subito che sommando cinque più nove più cinque si otteneva diciannove. Si otteneva chassit.
«Ti spiacerebbe trasportarmi a quella che hanno usato per portarmi qui?» Indicò il fondo della stanza.
«No, madame, non mi spiace affatto, ma purtroppo devo dirle che non le servirà.» Nigel lo dichiarò nel suo tono pomposo. «Quella porta, New York #7/Fedic, è a senso unico.» Una pausa. Relè scattarono sotto la cupola d'acciaio della sua testa. «Inoltre, dopo l'ultima volta che è stata usata, è bruciata. È, potremmo dire, andata alla radura in fondo al sentiero.»
«Ah, ma che bellezza!» esclamò Susannah, ma sapeva di non essere veramente sorpresa dalla notizia che le aveva dato Nigel. Ricordava il mugolio distorto che aveva udito un attimo prima che Sayre la spingesse attraverso, ricordava di aver pensato che era il gemito di una cosa morente.
E... sì, era morta. «Che bellezza davvero!»
«La sento contrariata, madame.»
«Puoi dirlo forte, che sono contrariata! Era già una bella fregatura che fosse a senso unico!
Ora si è anche chiusa definitivamente!» «Rimane quella di default», obiettò Nigel.
«Default? Cosa sarebbe questo default?»
«Sarebbe la New York #9/Fedic, rispose lui. «Un tempo c'erano più di trenta portali a senso unico tra New York e Fedic, ma credo che ormai resti solo il numero #9. Tutti i comandi relativi a New York #7/Fedic sono stati trasferiti di default al numero #9.»
Chassit, pensò Susannah... quasi lo pregò. Sta parlando di chassit. Credo. Oh Dio, spero che sia così.
«Intendi parole d'ordine e tutto il resto, Nigel?»
«Oh sì, madame.»
«Portami alla numero nove!»
«Come desidera.»
Nigel risalì a passo sostenuto il corridoio tra le centinaia di letti vuoti, su cui le lenzuola bianche e tese brillavano della luce riflessa delle forti plafoniere. Per un momento l'immaginazione popolò la mente di Susannah di grida di bambini impauriti, appena arrivati da Calla Bryn Sturgis, forse anche dai Calla circostanti. Non vide una sola infermiera con la testa di topo, ma ne vide a battaglioni, ansiose di applicare le calotte sulla testa dei bimbi rapiti e dare inizio al processo che... che cosa? Che li guastava, in un certo senso. Risucchiava dalla loro testa l'intelligenza e sconvolgeva i loro ormoni della crescita, rovinandoli per sempre. Probabilmente all'inizio si sentivano confortati dalla voce piacevole che udivano nel cervello, la voce che dava loro il benvenuto nel mondo favoloso della North Central Positronics e della Sombra. Avrebbero smesso di piangere, con gli occhi colmi di speranza. Forse avrebbero pensato che le infermiere nelle loro divise bianche fossero buone nonostante il loro spaventoso muso ispido e le loro zanne gialle. Buone come la voce della cara signora.
Poi sarebbe cominciato il ronzio e sarebbe cresciuto di volume spostandosi verso il centro della loro testa e lo stanzone si sarebbe riempito di nuovo delle loro urla di terrore...
«Madame? Tutto bene?»
«Sì. Perché me lo chiedi, Nigel?»
«Mi è sembrato di sentirla rabbrividire.»
«Non ci pensare. Tu conducimi alla porta per New York, quella che funziona ancora.»
6
Uscito dall'infermeria, Nigel la trasportò veloce prima per un corridoio, poi per un altro. Giunsero a delle scale mobili che sembravano ferme da secoli. A metà della loro discesa, una sfera d'acciaio con le gambe fece balenare gli occhi ambra. «Howp! Howp!» esclamò a Nigel, il quale rispose: «Howp, howp!» e quindi si rivolse a Susannah (nel tono confidenziale che certi pettegoli adottano quando discutono dei «meno fortunati»): «È un caporeparto Mech ed è inchiodato lì da più di ottocento anni. Schede fritte, immagino. Poveretto! Ma si sforza di fare ancora del suo meglio».
Due volte Nigel le chiese se riteneva che i suoi occhi potessero essere rimpiazzati. La prima volta Susannah gli rispose che non lo sapeva. La seconda, provando un po' di compassione per lui (lo considerava un essere vivente ormai), volle sapere quale fosse la sua opinione.
«Credo che i miei giorni di servizio siano al termine», disse il robot. Poi aggiunse qualcosa che le fece formicolare la pelle delle braccia: «O Discordia!»
I Fratelli Diem sono morti, pensò, ricordando - era stato un sogno? Una visione? Uno scorcio della sua Torre? - qualcosa della sua avventura con Mia. O risaliva ai suoi tempi di Oxford, nel Mississippi? O entrambe le cose? Papa Doc Duvalier è morto. Christa McAuliffe è morta. Stephen King è morto, popolare scrittore ucciso durante passeggiata pomeridiana, O Discordia, O perduta!
Ma chi era Stephen King? E chi era Christa McAuliffe, se è per questo?
A un certo punto incrociarono un uomo basso di quelli che erano stati presenti alla nascita del mostro di Mia. Era raggomitolato come un gambero umano sul pavimento polveroso di un corridoio con la pistola in mano e un foro nella testa. Doveva essersi ucciso da sé. Aveva una sua logica, in un certo senso. Perché era andato tutto storto, no? E se il figlio di Mia non avesse trovato la propria destinazione da solo, Paparone Rosso l'avrebbe presa male. L'avrebbe presa male forse anche se Mordred fosse riuscito a tornare a casa.
Il suo altro padre. Perché quello era un mondo di gemelli e immagini speculari e ora Susannah comprendeva di ciò che vedeva più di quanto realmente desiderasse. Anche Mordred era un gemello, una creatura alla Jekyll-e-Hyde con due personalità, e aveva da ricordare, essere umano o no, i volti di due padri.
S'imbatterono in altri cadaveri, tutti suicidi, a giudizio di Susannah. Chiese a Nigel se era in grado di stabilirlo, dall'odore o da qualcos'altro, ma lui rispose che gli era impossibile.
«Quanti ce ne sono ancora, secondo te?» domandò lei. Aveva avuto tempo di placare un po' l'animo e adesso cominciava a sentirsi nervosa.
«Non molti, madame. Credo che se ne siano andati quasi tutti. Molto probabilmente al
Derva.»
«Che cos'è il Derva?»
Nigel rispose che era profondamente desolato, ma l'informazione era riservata ed era accessibile solo con la giusta parola d'ordine. Susannah provò chassit, ma non funzionò. Non ottenne risultati nemmeno con diciannove o novantanove, che fu il suo ultimo tentativo. Avrebbe dovuto accontentarsi di sapere che per la maggior parte non c'erano più.
Nigel girò a sinistra imboccando un nuovo corridoio con porte su entrambi i lati. Susannah lo fece fermare per provarne una, ma dentro non c'era nulla di particolarmente interessante. Era un ufficio abbandonato da tempo, a giudicare dal denso strato di polvere. La incuriosì il manifesto appeso a una parete con l'immagine di alcuni adolescenti che ballavano freneticamente. Sotto di essa, a grandi lettere blu, c'era questa scritta:
EHI ROCCHETTARI E ROCCHETTINE! IO HO ROCCATO CON ALAN FREED!
CLEVELAND, OHIO, OTTOBRE 1954
Susannah era sicura che sul palcoscenico si stesse esibendo Richard Penniman. I frequentatori di dancing come lei manifestavano disprezzo per ogni forma di rock più duro di quello di Phil Ochs, ma sotto sotto Suze aveva sempre avuto un debole per Little Richard: Good golly, miss Molly, you sure like to ball. Doveva esserci lo zampino di Detta...
Ma questa gente usava le proprie porte per andarsene in vacanza scegliendo di volta in volta un dove e quando? Usavano il potere dei Vettori per trasformare certi livelli della Torre in attrazioni turistiche?
Lo chiese a Nigel, il quale le rispose di essere sicuro di non saperlo. Nigel sembrava ancora rattristato per la perdita degli occhi.
Giunsero finalmente in un'echeggiante rotonda con porte che si aprivano in tutta la sua ampia circonferenza. Le piastrelle di marmo del pavimento formavano una scacchiera bianca e nera che Susannah ricordò di aver visto in certi sogni tormentati nei quali Mia nutriva il suo tizio. Sopra di lei, su e su, costellazioni di stelle elettriche ammiccavano in un firmamento azzurro che ora era devastato da una miriade di crepe. Quel luogo le ricordava la Culla di Lud, ma ancor più la Grand Central Station. Dietro le pareti rumoreggiavano macchinari, condizionatori d'aria o scambiatori. L'odore era vagamente familiare e dopo qualche sforzo Susannah lo identificò: Comet Cleanser. Sponsorizzavano Il prezzo è giusto, che qualche volta guardava alla TV se le capitava di essere a casa di mattina. «Sono Don Pardo, e ora a voi Mister Bill Cullen!» Susannah ebbe un attacco di vertigini e chiuse gli occhi.
Bill Cullen è morto. Don Pardo è morto. Martin Luther King è morto, ucciso a Memphis. Sia fatta la volontà di Discordia!
Oh Cristo, quelle voci, perché non tacevano?
Aprì gli occhi e vide porte contrassegnate con SHANGAI/FEDIC e BOMBAY/FEDIC e una con la scritta DALLAS (NOVEMBRE 1963)/FEDIC. Su altre la scritta era in geroglifici che per lei non avevano alcun significato. Nigel si fermò infine davanti a una scritta che riconobbe.
NORTH CENTRAL POSITRONICS, LTD.
NEW YORK/FEDIC
MASSIMA SICUREZZA
Era la stessa che si trovava sull'altro lato, solo che al posto di RICHIESTO CODICE VERBALE D'ACCESSO, subito sotto lampeggiava sinistra in rosso questo avviso:
#9 DEFAULT FINALE
7
«Che cosa vuole fare ora, madame?» chiese Nigel.
«Mettimi giù, dolcezza.»
Ebbe tempo di domandarsi come avrebbe reagito se Nigel avesse rifiutato di ubbidire, ma il robot non esitò. Strisciò fino alla porta e vi posò contro le mani. La sensazione che provò non fu né di legno né di metallo. Le parve di udire un ronzio molto sottile. Valutò se tentare con chassit, la sua versione dell'apriti sesamo di Alì Baba, ma rinunciò. Non c'era nemmeno una maniglia. Se il passaggio era in un senso solo, c'era poco da rimuginare. (JAKE!)
Lo spedì con tutte le forze.
Nessuna risposta. Neppure quel fievole
(wimeweh)
verso senza senso. Attese ancora un istante, poi si girò a sedersi con la schiena contro la porta. Si lasciò cadere tra le ginocchia divaricate le munizioni di riserva e alzò la Walther PPK nella mano destra. Una buona arma da avere con la schiena a una porta sprangata, rifletté; il suo peso la rassicurava. In un lontano passato lei e altri erano stati addestrati a una tecnica di protesta che si chiamava resistenza passiva. Ci si sdraiava per terra e ci si copriva con le mani ventre e genitali, non si rispondeva a quelli che ti picchiavano e oltraggiavano te e i tuoi genitori. Si cantava «in catene, come il mare». Che cosa avrebbero pensato i suoi amici se l'avessero vista adesso?
«Sai una cosa?» sbottò. «Non me ne frega un cazzo. Anche la resistenza passiva è morta.»
«Madame?»
«Niente, Nigel.»
«Madame, posso chiederle...»
«Che cosa sto facendo?»
«Precisamente, madame.»
«Aspetto un amico, Ferraglia. Semplicemente aspettando un amico.»
Pensò che il robot le avrebbe rammentato che il suo nome era Nigel, ma non lo fece. Le domandò viceversa per quanto tempo avrebbe aspettato il suo amico. Susannah gli rispose fino a quando si fosse ghiacciato l'inferno. Queste parole provocarono un silenzio prolungato. Alla fine Nigel chiese: «Allora posso andare, madame?»
«Come farai a vedere?»
«Sono passato agli infrarossi. È meno soddisfacente della macrovisione tre-X, ma mi basterà per ritrovare l'officina.»
«E in officina c'è qualcuno che può ripararti?» domandò distrattamente Susannah. Schiacciò il bottone che fece scivolare fuori il caricatore dal calcio della Walther, poi lo reinserì, provando un piacere elementare nel rumore metallico e ben lubrificato dello scatto.
«Sono sicuro di non saperlo, madame», rispose Nigel, «sebbene la probabilità di un simile evento sia molto bassa, di certo inferiore all'uno per cento. Se non viene nessuno, allora anch'io, come lei, aspetterò.»
Susannah annuì, improvvisamente stanca e più sicura che mai che lì stesse avendo termine il suo lungo viaggio, in quel luogo, appoggiata a quella porta. Ma non ci si arrende, vero? Arrendersi è per i codardi, non per i pistoleri.
«Che ti sia gradito, Nigel, grazie per avermi trasportata. Lunghi giorni e piacevoli notti. Spero che ti rimettano gli occhi. Mi spiace di averteli distrutti, ma ero in una situazione un po' complicata e non sapevo da che parte fossi.»
«E auguri a lei, madame.»
Susannah annuì. Nigel ripartì e allora fu sola, appoggiata alla porta per New York. In attesa di Jake. In ascolto di Jake.
Tutto quello che sentì fu l'ansimare rugginoso e morente dei macchinari nei muri.
5
«In the jungle, the mighty jungle»
1
Se Jake non morì accanto al Père, fu solo per via della minaccia che gli uomini bassi e i vampiri uccidessero Oy. Non dovette arrovellarsi per prendere la decisione; Jake gridò
(OY, A ME!)
con tutta la forza mentale che aveva e Oy si precipitò alle sue calcagna. Jake passò davanti a
uomini bassi ipnotizzati dalla tartaruga e spalancò con una manata una porta con la scritta RISERVATO AL PERSONALE. Dal bagliore arancione scuro del ristorante, Jake e Oy entrarono in una zona di brillante luce bianca, dove l'aria era pervasa dagli odori penetranti di arrosti e bolliti. Fu investito da una nuvola di vapore, caldo e umido,
(the jungle)
forse preambolo di quanto sarebbe seguito,
(the mighty jungle)
forse no. Al restringersi delle pupille, quando poté vedere di nuovo con chiarezza, riconobbe la cucina del Dixìe Pig. E non era nemmeno la prima volta che la visitava. Non molto tempo prima dell'arrivo dei Lupi a Calla Bryn Sturgis, Jake aveva seguito Susannah (solo che all'epoca era Mia) in un sogno in cui perlustrava una cucina vasta e deserta in cerca di cibo. Questa cucina, solo che stavolta era in piena attività. Su un fuoco aperto cuoceva un enorme maiale allo spiedo. A ogni goccia di grasso, le fiamme guizzavano alte attraverso una grata di ferro imbrattata di condimenti. Ai due lati, su due giganteschi piani cottura, sotto enormi cappe di rame, fumavano pentole alte quasi quanto Jake stesso. A rimestare in una di esse c'era una creatura dalla pelle grigia così raccapricciante che gli occhi di Jake non sapevano come guardarla. A incorniciarle i labbroni grigi, le sbucavano dalla bocca due zanne. Le guance pendevano in lunghi lembi sovrapposti e bitorzoluti. La tenuta bianca e macchiata di condimenti e la nuvola bianca del cappello da cuoco come un grande pop-corn costituivano una sorta di patina di normalità che riusciva solo a metterne in risalto la bruttezza da incubo. Più avanti, quasi perse nel vapore, altre due creature vestite di bianco lavavano piatti fianco a fianco a un lavello a due pozzetti. Entrambe portavano un foulard. Una era umana, un ragazzo di forse diciassette anni. L'altra di umano aveva solo le gambe, su un corpo mostruoso da felino.
«Vai, vai, los mostros pubes, tre cannits en founs!» gracchiò lo chef zannuto agli sguatteri. Non si era accorto di Jake. Uno dei due addetti al lavaggio, il felino, sì. Abbassò le orecchie e soffiò. Senza pensare, Jake scagliò l'Oriza che stringeva nella mano destra. Cantò nell'aria torbida e attraversò il collo dell'essere-gatto come un coltello in una forma di lardo. La testa, con gli occhi verdi ancora brillanti, piombò nel lavello alzando uno schizzo d'acqua insaponata.
«San fai, can dit los!» sbraitò lo chef. O non si era accorto di che cosa era accaduto, o non era in grado di comprenderlo. Si girò verso Jake. Gli occhi sotto la fronte sfuggente e merlata erano di un fosco blu-grigio, gli occhi di un essere pensante. Visto di fronte, Jake capì che cos'era: una mutazione di facocero, provvista di intelligenza. Il che significava che stava cucinando un membro della sua specie. Perfettamente in tono con il Dixie Pig.
«Can foh pube ain-tet con fah! She-so pan! Vai!» Queste parole furono indirizzate a Jake. Poi, per completare la follia: «E se non hai voglia di pulire, non cominciare neanche!»
L'altro sguattero, il ragazzo umano, stava gridando un avvertimento, ma il cuoco non gli badò. Sembrava che secondo lui, ora che aveva ucciso uno dei suoi aiutanti, Jake avesse assunto su di sé l'onore e l'onere di prendere il suo posto.
Jake lanciò l'altro piatto, che tagliò di netto la testa al facocero e mise fine ai suoi vaneggiamenti. Sui fornelli si rovesciò un'ondata di sangue che sfrigolò spargendo nell'aria uno spaventoso odore di bruciato. La testa del facocero ricadde sulla sinistra del collo e poi s'inclinò all'indietro senza staccarsi. La creatura, alta sicuramente più di due metri, barcollò spostandosi sulla sinistra e andando ad abbracciare il maiale che ruotava sullo spiedo. La testa si allentò un po' di più e finì sulla spalla destra di Chef Facocero, con un occhio fisso alle sovrastanti lampade fluorescenti avvolte nel vapore. Le mani del cuoco, incollate dal calore della cottura all'arrosto, cominciarono a fondersi. Poi l'essere cadde in avanti nelle fiamme e la sua casacca prese fuoco.
Jake si girò in tempo per vedere l'altro sguattero che gli veniva incontro armato di un coltello da macellaio e di una mannaia. Jake estrasse un altro Oriza dalla sacca ma indugiò a dispetto della voce che nella testa lo incitava a colpire, lanciare, dare a quel bastardo quello che Margaret Eisenhart aveva una volta definito «una bella rasata». Quell'espressione aveva fatto ridere di gusto le altre Sorelle di Oriza. Eppure, per quanto desiderasse lanciare, trattenne la mano.
Stava guardando un giovane la cui pelle, sotto le luci forti della cucina, era di un pallido grigio giallognolo. Sembrava denutrito e terrorizzato. Jake lo minacciò alzando il piatto e il giovane si fermò. Non stava guardando l'Oriza, però, bensì Oy, fermo tra i piedi di Jake. Il bimbolo, che aveva scoperto i denti, sembrava raddoppiato nelle sue dimensioni per via del pelo drizzato.
«Parli...» cominciò Jake e in quel momento la porta del ristorante si spalancò. Fece irruzione uno degli uomini bassi. Jake scagliò senza esitazione. Fischiò nell'aria luminosa e piena di vapore decapitando l'intruso con micidiale precisione appena sopra il pomo d'Adamo. Il corpo privo di testa s'inclinò prima a sinistra e poi a destra, come un comico che accetta un applauso con una gigioneria, quindi stramazzò.
Jake si munì immediatamente di altri due piatti, uno per mano, incrociando di nuovo le braccia davanti al petto nella posizione che sai Eisenhart chiamava «il carico». Guardò lo sguattero, ancora armato di coltello e mannaia. Tutt'altro che minaccioso, giudicò Jake. Provò di nuovo e questa volta riuscì a formulare l'intera domanda. «Parli inglese?»
«Yar», rispose il ragazzo. Lasciò cadere la mannaia per poter avvicinare il pollice e l'indice, entrambi arrossati dai lavaggi, a misurare un centimetro d'aria. «Tanto così. L'ho imparato da quando sono venuto qui.» Aprì l'altra mano e anche il coltello cadde sul pavimento. «Vieni dal Medio-Mondo?» chiese Jake. «È da lì che vieni, vero?»
Non gli dava l'impressione di essere particolarmente sveglio («Non è un ragazzo prodigio» avrebbe senz'altro malignato Elmer Chambers), ma era comunque abbastanza sensibile da avere nostalgia di casa; Jake scorse un riflesso di quella pena negli occhi del ragazzo, sotto il velo dell'espressione atterrita. «Yar», rispose. «Viene da Ludweg, me.»
«Vicino alla città di Lud?»
«A nord, se ti piace o no», disse lo sguattero. «Tu me uccidere? Io non volere morire, anche se triste.»
«Non sarò io a ucciderti se mi dirai la verità. È passata una donna di qui?»
Lo sguattero esitò. «Aye», confessò poi. «La portavano Sayre e i suoi. Occhi chiusi, quella, la testa tutta ciondoloni...» Glielo mostrò, roteando la testa con l'aria ebete dello scemo del villaggio. Jake pensò a Sheemie, quello di cui Roland aveva raccontato dei suoi giorni a Mejis.
«Ma non morta.»
«Nar. Me l'ha sentita respirare.»
Jake guardò la porta, ma non stava arrivando nessuno. Non ancora. Era meglio che se andasse, ma...
«Come ti chiami, camerata?»
«Jochabim, sarebbe io, figlio di Hossa.»
«Allora, Jochabim, ascolta. Fuori di questa cucina c'è un mondo che si chiama New York, dove i pube come te sono liberi. Ti consiglio di uscire ora che ne hai la possibilità.»
«Loro riportare indietro me e picchiare.»
«No, tu non ti rendi conto di quanto sia grande. Come Lud quando Lud era...»
Guardò l'espressione spenta di Jochabim e pensò: No, sono io quello che non capisce. E se perdo tempo cercando di convincerlo a disertare, va a finire che mi busco esattamente quello che...
La porta dalla parte del ristorante si aprì di nuovo. Questa volta due uomini bassi cercarono di varcare contemporaneamente la stretta soglia e per un momento rimasero incastrati, spalla contro spalla. Jake lanciò entrambi i suoi piatti e li vide incrociare le rotte nell'aria, decapitando entrambi i nuovi arrivati nell'attimo in cui si disincagliavano. Caddero all'indietro e la porta si richiuse un'altra volta. Alla Piper School Jake aveva studiato la battaglia delle Termopili, il passo dove un manipolo di greci aveva tenuto in scacco truppe persiane dieci volte più numerose di loro. I greci avevano attirato il nemico in una stretta gola tra le montagne, lui aveva quella porta. Finché fossero arrivati a uno o due per volta, com'era inevitabile se non esisteva modo per aggirarlo, avrebbe potuto difendersi.
Almeno finché non avesse esaurito gli Oriza.
«Armi da fuoco?» chiese a Jochabim. «Ci sono pistole o fucili qui?»
Jochabim scosse la testa, ma data la sua irritante espressione da tonto, era difficile capire se intendeva che non c'erano armi da fuoco in cucina o che non aveva capito un'acca.
«Va bene, io vado», dichiarò. «E se non vai anche tu ora che ne hai l'occasione, Jochabim, sei ancora più stupido di quel che sembri. E vuol dire stupido parecchio. Ci sono i videogiochi là fuori, ragazzo mio. Pensaci.»
Jochabim continuò a guardarlo con quell'aria da duh e Jake si arrese. Stava per rivolgersi a Oy, quando qualcuno gli parlò attraverso la porta.
«Ehi, ragazzo!» Brusco, sicuro di sé. Smaliziato. La voce di un uomo capace di farti fesso in qualsiasi momento o andare a letto con la tua ragazza, pensò Jake. «Il tuo amico padre è morto. O per meglio dire, il padre, lo abbiamo finito. Ora vieni fuori senza tante storie e magari puoi evitare di fare da dessert.»
«Giratelo di sghimbescio e schiaffatelo su per il culo», rispose Jake. Il senso della frase fece breccia nel muro di stupidità di Jochabim: era scioccato.
«Ultima occasione», lo ammonì la voce ruvida e smaliziata. «Vieni fuori.»
«Vieni dentro tu!» ribatté Jake. «Ho piatti a volontà. In verità dominava a stento la voglia matta di avventarsi su quella porta, irrompere nel ristorante e dare battaglia agli uomini e alle donne basse che lo presidiavano. Né l'idea era così folle, come avrebbe ammesso lo stesso Roland; era l'ultima cosa che si sarebbero aspettati e c'era almeno la discreta possibilità che, con cinque o sei lanci ben piazzati, riuscisse a seminare il panico e indurii a una ritirata precipitosa.
Il problema era costituito dai mostri che banchettavano dietro l'arazzo. I vampiri. Quelli erano insensibili al panico e Jake lo sapeva. Aveva il sospetto che se gli Avi fossero riusciti a entrare in cucina (forse era solo la mancanza di interesse a trattenerli in sala da pranzo... e gli ultimi brandelli del cadavere del Père), a quell'ora sarebbe stato già morto. E anche Jochabim, con tutta probabilità.
Si abbassò su un ginocchio. «Oy», mormorò, «trova Susannah!» e rafforzò l'ordine con una rapida immagine mentale.
Il bimbolo rivolse a Jochabim un'ultima occhiata diffidente, poi cominciò ad annusare il pavimento. Le piastrelle erano umide dell'ultimo passaggio di uno straccio bagnato e Jake temette che ogni traccia fosse andata persa. Poi Oy emise un verso secco, più simile a un latrato che a una parola umana, e cominciò a trotterellare lungo un percorso che attraversava la cucina tra i fornelli e i tavoli, tenendo il naso a contatto con il pavimento, e deviando solo quando si trattò di passare intorno ai resti fumanti di Chef Facocero.
«Ascoltami, piccolo bastardo!» gridò l'uomo basso dall'altra parte della porta. «Sto perdendo la pazienza con te!»
«Bene!» lo sfidò Jake. «Entra allora! Vediamo se riesci a tornare indietro!»
Guardò Jochabim portandosi il dito alle labbra per esortarlo a fare silenzio. Era sul punto di voltarsi e seguire Oy (non sapeva per quanto ancora avrebbe resistito lo sguattero prima di urlare che il ragazzo e il suo bimbolo non tenevano più il Passo delle Termopili), quando Jochabim gli parlò a voce così bassa, che non fu sicuro di aver capito bene.
«Come?» chiese guardandolo titubante. Gli era sembrato di sentire qualcosa come attento alla trappola mentale, ma non aveva senso. O si sbagliava?
«Attento alla trappola mentale», disse Jochabim, questa volta molto più distintamente, prima di tornare alle sue stoviglie e all'acqua insaponata.
«Quale trappola mentale?» chiese Jake, ma Jochabim diede l'impressione di non aver udito e Jake non poteva trattenersi oltre per sottoporlo a un interrogatorio. Corse per raggiungere Oy, lanciandosi sguardi dietro le spalle. Se qualche altro uomo basso avesse fatto irruzione in cucina, voleva essere il primo a saperlo.
Ma non arrivò nessuno, almeno non prima che avesse seguito Oy attraverso un'altra porta e nella dispensa del ristorante, un locale buio pieno di scatoloni e odoroso di caffè e spezie. Era come il magazzino dietro all'East Stoneham General Store, solo più pulito.
2
In un angolo della dispensa del Dixie Pig c'era una porta chiusa. Da quella parte si accedeva a una scala piastrellata che scendeva Dio solo sapeva fin dove. Era illuminata da lampadine di bassa potenza protette da paralumi opachi e punteggiati di insetti. Oy cominciò a scendere senza esitare con un gioco ritmico di quarti anteriori e quarti posteriori che era quanto mai comico. Teneva il naso contro gli scalini e Jake sapeva che era sulla scia di Susannah; riceveva il messaggio dalla mente del suo piccolo amico.
Jake cercò di contare i gradini, arrivò fino a centoventi, poi perse il filo. Chissà se erano ancora a New York (o sotto di essa). A un certo punto gli parve di udire un brontolio sommesso che aveva qualcosa di familiare e concluse che se quello era un treno della metropolitana, allora erano nelle viscere della metropoli.
Arrivarono finalmente in fondo alle scale. Lì c'era una vasta area con il soffitto a volta che somigliava a una gigantesca hall d'albergo, solo senza l'albergo. Oy l'attraversò, sempre tenendo il muso rasente il suolo e agitando l'esile coda. Jake dovette correre per stargli dietro. Ora che la sacca non era più piena, gli Oriza tintinnavano al suo interno. In fondo alla hall c'era un chiosco con un cartello in una vetrina polverosa che diceva: ULTIMA OCCASIONE PER SOUVENIR DI NEW YORK e un altro con la scritta: VISITATE L'UNDICI SETTEMBRE 2001! BIGLIETTI
ANCORA DISPONIBILI PER QUESTO FANTASTICO EVENTO! VIETATO AGLI ASMATICI SENZA CERTIFICATO MEDICO! Jake si chiese che cosa ci fosse stato di così fantastico l'undici settembre del 2001 e subito dopo decise che forse preferiva non saperlo.
All'improvviso, nella testa, ma forte come se qualcuno gli urlasse direttamente dentro l'orecchio, una voce disse: Ehi! Ehi tu, signora della Positronics! Sei ancora lì!
Jake non aveva idea di chi fosse la signora della Positronics, ma riconobbe la voce che faceva la domanda.
Susannah! gridò fermandosi improvvisamente all'altezza del chiosco di souvenir. Il sorriso sorpreso e gioioso che gl'increspò il volto tirato lo fece ridiventare ragazzino. Suze, sei lì?
E la sentì mandare un grido di felice sorpresa.
Oy, accortosi che Jake non era più dietro di lui, si girò a lanciare un impaziente Eik-Eik! Per un momento almeno, Jake lo ignorò.
«Sì!» gridò. «Finalmente! Dio, con chi stavi parlando? Continua a gridare così riesco a individuarti...»
Alle sue spalle, forse dalla cima delle scale o forse già dai gradini, qualcuno urlò: «È lui!» Ci furono degli spari, ma Jake quasi non li udì. Era alle prese con l'orrore di qualcosa che gli si era intrufolato nella testa. Qualcosa come una mano mentale. Pensò che fosse l'uomo basso che gli aveva parlato attraverso la porta. Che la mano dell'uomo basso avesse trovato le manopole di qualche misterioso Jake Chambers Dogan e le stesse manipolando. Stesse cercando
(di congelarmi sul posto congelarmi i piedi) di fermarlo. E quella voce si era intromessa perché mentre inviava e riceveva, era aperto...
Jake! Jake, dove sei?
Non c'era tempo per risponderle. Una volta, mentre cercava di aprire la porta introvata nella Grotta delle Voci, Jake aveva evocato la visione di un milione di porte che si spalancavano. Ora evocò quella di una porta che si richiudeva sbattendo e provocando un tonfo potente come il bang sonico di Dio stesso.
Giusto in tempo. Per un istante ancora i piedi rimasero inchiodati al pavimento, poi qualcosa mandò un grido di dolore e si staccò da lui. Che se ne andasse pure.
Jake era di nuovo in movimento, dapprima a scatti, poi con gesti sempre più fluidi. Dio, come ci era stato vicino! Udì lontanissima la voce di Susannah che ripeteva il suo nome, ma non osò aprirsi di nuovo per rispondere. Doveva limitarsi a sperare che Oy non perdesse la sua scia e che lei continuasse a inviare messaggi.
3
Avrebbe poi concluso di essersi messo a cantare la canzone trasmessa dalla radio della signora Shaw, la governante, poco dopo l'ultima debole invocazione di Susannah, ma era un ipotesi per la quale era impossibile trovare conferma. Tanto sarebbe valso cercare di determinare il momento della genesi di un'emicrania o l'attimo preciso in cui ci si rende perfettamente conto che ti sta venendo il raffreddore. Di sicuro Jake sapeva che c'erano stati altri spari, compreso il sibilo di un colpo di rimbalzo, ma tutto questo era avvenuto a notevole distanza, cosicché a un certo momento smise di tenere la testa incassata tra le spalle (e anche di guardare indietro). Inoltre ormai Oy correva veloce, mulinando con vigore quei suoi piccoli e veloci quarti posteriori. I macchinari invisibili pompavano e sbuffavano. Nel pavimento affioravano rotaie d'acciaio che indussero Jake a pensare che una volta per di lì era passato un tram o qualche altro tipo di navetta. A intervalli regolari sulle pareti apparivano comunicati ufficiali (PATRICIA AL PROSSIMO NODO; FEDIC; HAI IL TUO PASS BLU?). Qua e là il rivestimento mancava, per certi tratti le rotaie non c'erano più, e in diversi punti vecchia acqua verminosa riempiva quelle che in tutto il mondo sarebbero state considerate tipiche buche stradali. Passarono oltre due o tre veicoli in panne, incroci tra un golf-cart e un vagone a pianale. Oltrepassarono anche un robot con la testa a forma di rapa che fece balenare i bulbi rossi degli occhi e mandò un singolo suono gracchiante che poteva essere un alt. Jake alzò un Oriza, domandandosi se sarebbe servito a qualcosa nel caso in cui il robot lo avesse inseguito. Ma non successe niente, quel solitario lampo rossastro doveva aver esaurito le ultime poche energie delle sue batterie, o cellule energetiche o pappa atomica o qualunque cosa fosse ad alimentarlo. Qua e là c'erano dei graffiti. Due gli furono familiari. Il primo era AVE RE ROSSO, con l'occhio rosso al posto delle due O. L'altro era BANGO SKANK, '84. Cribbio, pensò distrattamente Jake, gran bel giramondo questo Bango. Fu allora che si accorse che stava cantando sottovoce. Non erano parole, non proprio, era solo un vecchio refrain che ricordava vagamente d'aver sentito alla radio della cucina della signora Shaw: «A-wimeweh, a-wimeweh e, a-weee...»
S'interruppe, messo a disagio dall'eco lamentosa e talismanica di quella cantilena e si rivolse a
Oy. «Devo fare pipì! Dammi un momento, vuoi?»
«Oy!» Il resto del messaggio era nelle orecchie drizzate e nel brillio degli occhi: Non metterci troppo.
Jake spruzzò orina su una delle pareti piastrellate, dalle cui fughe filtrava una porcheria verdastra. Tese anche l'orecchio e udì come previsto i suoi inseguitori. Quanti potevano essere? Roland probabilmente lo avrebbe saputo, ma lui non ne aveva idea. L'eco li faceva sembrare un reggimento.
Mentre si scrollava, gli venne da pensare che quella era una manovra che il Père non avrebbe fatto mai più, né gli avrebbe sorriso o puntato il dito, né si sarebbe fatto il segno della croce prima di desinare. Lo avevano ucciso. Gli avevano preso la vita. Gli avevano fermato respiro e polso. Tolti forse i sogni, il Père era ormai fuori della storia. Jake cominciò a piangere. Come quando sorrideva, anche le lacrime lo fecero ridiventare bambino. Oy si era voltato, ansioso di riprendere la corsa, ma ora era fermo con una chiara espressione preoccupata sul musetto.
«Va tutto bene», lo rassicurò Jake, riabbottonandosi la patta e quindi asciugandosi le guance con il dorso della mano. Solo che non andava tutto bene. Era peggio che triste, peggio che infuriato, peggio che preoccupato degli irriducibili uomini bassi che lo stavano rincorrendo. Ora che non era più sotto gli effetti dell'adrenalina, si rese conto di non essere solo triste, ma anche affamato. E stanco. Stanco? Ai limiti dell'esaurimento fisico. Non ricordava quand'era stata l'ultima volta che aveva dormito. L'essere stato risucchiato a New York attraverso quella porta, questo lo ricordava, e che Oy era stato quasi investito da un taxi, e quel prete della bomba di Dio con quel nome che gli rammentava Jimmy Cagney nei panni di George M. Cohan in quel vecchio film in bianco e nero che aveva visto alla TV nella sua stanza quand'era piccolo. Perché, gli veniva in mente adesso, c'era una canzone su un certo Harrigan. H-A-double-R-I; Harrigan, that's me. Tutte queste cose, le ricordava, ma non quando aveva messo per l'ultima volta sotto i denti qual...
«Eik!» abbaiò Oy, implacabile come il destino. Se i bimboli avevano un punto di rottura, rifletté stancamente Jake, Oy ne era ancora lontanissimo. «Eik-Eìk!»
«Sì, sì», rispose staccandosi dalla parete. «Eik-Eik adesso farà un bel corri-corri. Vai. Trova Susannah.»
Avrebbe voluto limitarsi a camminare, ma sapeva che non sarebbe bastato. Si costrinse al piccolo trotto e riprese a cantare sottovoce, questa volta mettendo anche le parole nella canzone: «In the jungle, the mighty jungle, the lion sleeps tonight... In the jungle, the quiet jungle, the lion sleeps tonight... ohhh...» Dopodiché ripartì con: a-wimeweh, a-wimeweh, a-wimeweh. Parole senza senso prese da una radio di cucina che era sempre sintonizzata sui vecchi successi della WCBS... Ma quella canzone in particolare non resuscitava nella sua memoria ricordi di qualche film? Non era una canzone tratta da Ribalta di gloria, vero? Era di un altro film, vero? Un film di mostri spaventosi? Qualcosa che aveva visto quand'era piccolo, forse quand'era ancora
(in fasce) tanto piccolo da portare il pannolino? «Near the vìllage, the quiet village, the lion sleeps tonight... Near the village, the peaceful village, the lion sleeps tonight... HYH-oh, a-wimeweh, a-wimeweh...»
Si fermò a massaggiarsi il fianco, con il fiato corto. Sentiva una fitta ma non era grave, non ancora almeno, non gli si era affondata nell'articolazione tanto da bloccarlo. Ma quella schifezza... quella porcheria verdastra che scivolava dalle fughe tra le piastrelle... trapelava dal vecchio stucco e dalla ceramica crepata perché era
(la giungla)
in profondità sotto la metropoli, come una catacomba
(wimeweh) oppure come...
«Oy» disse dalle labbra screpolate. Dio, che sete! «Oy, questa non è muffa, questa è erba. O erba... oppure...»
Oy abbaiò il nome del suo amico, ma Jake non lo sentì nemmeno. L'eco degli inseguitori persisteva (si era per la verità avvicinato un po'), ma per la prima volta ignorò anche loro.
Erba che cresceva dal muro piastrellato.
Sopraffaceva il muro.
Guardò giù e vide altra erba, un verde brillante che era quasi viola sotto le lampade fluorescenti, erba che cresceva dal pavimento. E cocci di piastrelle sgretolate in frammenti come i resti di vecchi, gli antenati che erano vissuti e avevano costruito prima che i Vettori cominciassero a infrangersi e il mondo cominciasse ad andare avanti.
Si chinò. Affondò le dita nell'erba. Raccolse cocci aguzzi di piastrelle, sì, ma anche terra. La terra
(della giungla) di qualche profonda catacomba o tomba o forse...
C'era uno scarafaggio nella manciata di terra che aveva raccolto, uno scarafaggio con un segno rosso sul guscio come un sorriso insanguinato, e Jake lo buttò via con un grido di disgusto. Il marchio del Re! Diciamo il vero! Tornò in sé e si ritrovò abbassato su un ginocchio a esercitarsi in archeologia come un eroe di qualche vecchio film mentre i bracchi arrancavano sulle sue tracce. E Oy lo stava guardando con gli occhi lucidi di ansietà.
«Eik! Eik-Eik!»
«Sì», disse rialzandosi in piedi. «Arrivo. Ma Oy... che posto è questo?»
Oy non capiva perché avvertisse ansia nella voce del suo ka-dinh; quello che vedeva lui era lo stesso posto di prima e quello che fiutava era lo stesso odore, l'odore di lei, l'odore che il ragazzo gli aveva chiesto di cercare e seguire. Ed era più fresco ora. Corse sulla sua viva scia.
4
Cinque minuti dopo Jake si fermò di nuovo. «Oy!» gridò. «Aspetta un momento.»
Aveva di nuovo la fitta al fianco ed era più profonda, ma anche questa volta non era stata la fitta a fermarlo. Era cambiato tutto. Ovvero stava cambiando. E, Dio lo assistesse, credeva di sapere in che cosa stesse cambiando.
Sopra di lui le lampade fluorescenti brillavano ancora, ma le pareti piastrellate erano fitte di verzura. L'aria era diventata umida e ora la camicia si era inzuppata e gli si era incollata al corpo. Davanti ai suoi occhi sbigottiti transitò una splendida farfalla arancione di dimensioni incredibili. Cercò di acchiapparla, ma la farfalla lo evitò senza difficoltà. Quasi allegramente, gli parve.
Il corridoio a mattonelle si era trasformato in un sentiero nella giungla. Davanti a loro saliva a un varco frastagliato nella fitta vegetazione, probabilmente una radura. Più avanti scorgeva grandi alberi che si alzavano in una bruma, alberi con il tronco ricoperto di muschio e i rami agghindati di rampicanti. Vedeva felci gigantesche e, attraverso le trine verdi delle foglie, un ardente cielo da giungla. Sapeva di essere sotto New York, doveva essere sotto New York, però...
Udì uno stridio di scimmia, tanto vicino da farlo sussultare e fargli alzare di scatto la testa, sicuro di trovarne una direttamente sopra di sé, a sogghignare da dietro una plafoniera. Poi, a gelargli il sangue, giunse il ruggito fondo di un leone. Che sicuramente non stava dormendo.
Era sul punto di tornare indietro, e a tutta birra, quando si rese conto di non poterlo fare; da quella parte c'erano gli uomini bassi (probabilmente guidati da quello che gli aveva detto che il padre era finito). E Oy lo guardava con gli occhi vibranti di impazienza, chiaramente desideroso di proseguire. Oy non era certamente stupido, tuttavia non aveva mostrato segni di allarme, almeno non riguardo a quanto potesse trovarsi sulla loro strada.
Per parte sua, Oy ancora non riusciva a capire dov'era il problema del ragazzo. Sapeva che era stanco, lo sentiva dall'odore, ma sapeva anche che Eik aveva paura. Perché? C'erano odori cattivi in quel posto, l'odore di molti uomini assieme, soprattutto, ma a Oy non sembrava che rappresentassero un pericolo immediato. Inoltre c'era anche l'odore di lei. Che ora era molto fresco. Quasi nuovo.
«Eik!» abbaiò di nuovo.
Jake aveva ripreso a respirare. «Va bene», rispose guardandosi intorno. «Okay. Ma adagio.» «Gio», disse Oy, ma anche a Jake non sfuggì il suo tono di totale disapprovazione.
Jake si incamminò perché non aveva scelta. Risalì il pendio sul sentiero in mezzo alla vegetazione (nella percezione di Oy la via era perfettamente dritta e lo era da quando avevano lasciato le scale) verso l'apertura tra rampicanti e felci, verso il capriccioso chiacchiericcio della scimmia e il ruggito gelatesticoli della belva cacciatrice. Nella testa riprese a girargli la canzone
(in the village... in the jungle... hush my darling, don't stir my darling...) e adesso ne ricordò il titolo, ricordò persino il nome del gruppo
(sono i Tokens in The Lion Sleeps Tonight, usciti di classifica ma non dai nostri cuori) che l'aveva interpretata, ma qual era il film? Come diavolo s'intitolava quel...
Arrivò in cima alla salita e sul bordo della radura. Allungò lo sguardo attraverso un intreccio di grandi foglie verdi e vivaci fiori viola (dentro uno dei quali era in viaggio un minuscolo bruco verde) e, mentre guardava, gli sovvenne il titolo del film e la pelle gli s'increspò dalla nuca giù fino ai piedi. Un attimo dopo dalla giungla («la maestosa giungla») uscì il primo dinosauro ed entrò nella radura.
5
Molto molto tempo fa
(per la dama e il suo signore) quando era ancora bambino; (merendina per favore)
molto molto tempo fa quando mamma andò a Montreal con il suo circolo artistico e papà
andò a Vegas per l'annuale presentazione degli show d'autunno;
(marmellata e tè di more) molto molto tempo fa quando 'Bama aveva tre anni...
6
'Bama, è così che l'unica persona buona (signora Shaw signora Greta Shaw)
lo chiama. Lei gli taglia via le croste dai sandwich, lei appende i disegni che lui fa all'asilo allo sportello del frigorifero con delle calamite che hanno la forma di piccoli frutti di plastica, lei lo chiama 'Bama ed è un nome speciale per lui
(per loro)
perché un sabato pomeriggio, ubriaco, suo padre gli ha insegnato a cantare: «Go wide, go
wide, roll you Tide, we don't run and we don't hide... siamo i 'Bama Crimson Tide!» e così lei lo chiama 'Bama, è un nome segreto e sapere che cosa significa quando non lo sa nessun altro è come avere una casa dove potersi rifugiare, una casa sicura nel bosco che fa paura dove tutte le ombre fuori sembrano mostri e orchi e tigri.
(«Tigre, tigre! Divampante fulgore nelle foreste», gli recita la mamma, perché questa è la sua idea di ninna nanna, assieme a: «Morendo, ho udito ronzare una mosca», che mette addosso a 'Bama Chambers una fifa terribile, anche se lui non glielo ha mai detto; certe volte di notte, a letto, e certe volte di pomeriggio, all'ora del sonnellino, sta lì a pensare sentirò una mosca e sarà quella della mia morte, il mio cuore si fermerà e la mia lingua mi cascherà dentro la gola come un sasso in un pozzo e questi sono ricordi che respinge)
È bello avere un nome segreto e quando scopre che mamma deve andare a Montreal per amore dell'arte e che papà va a Vegas ad aiutare a presentare i nuovi programmi del network, prega sua madre perché chieda alla signora Greta Shaw di rimanere con lui e finalmente sua madre cede. Il piccolo Jakie sa che la signora Shaw non è la mamma e in più di un'occasione la signora Greta Shaw stessa gli ha detto che non è la mamma
(«Spero che tu sappia che io non sono la tua mamma, 'Bama», dice, dandogli un piatto, e sul piatto c'è un sandwich al burro di arachidi, bacon e banana con le croste di pane tagliate via, come solo Greta Shaw sa tagliarle via, «perché questo non c'è nel mio contratto di lavoro.»)
(E Jakie - solo che qui è 'Bama, lui è 'Bama tra loro due - non sa bene come risponderle che lo sa, questo, lo sa, lo sa, ma si accontenterà di lei finché non arriverà quella vera o finché sarà diventato abbastanza grande da superare la sua paura della Mosca della Morte)
E Jackie dice non ti preoccupare, non c'è problema, ma è lo stesso contento che la signora Shaw abbia accettato di rimanere invece di essere consegnato all'ultima au pair che porta le sottane corte e gioca sempre con i capelli e il rossetto e non gliene frega un cazzo di lui e non sa che nel suo cuore segreto lui è 'Bama e ragazzi se quella piccola Daisy Mae
(che è come suo padre chiama tutte le ragazze alla pari)
non è stupida stupida stupida. La signora Shaw non è stupida. La signora Shaw gli dà una merenda che certe volte chiama Afternoon Tea o anche High Tea, e qualunque cosa sia - ricotta e frutta, un sandwich con le fette di pane senza crosta, budino di crema e torta, canapè avanzati dal cocktail party della sera prima - gli canta sempre la stessa canzoncina, mentre prepara la tavola: «Per la dama e il suo signore, merendina per favore, marmellata e tè di more».
Nella sua stanza c'è una TV e ogni giorno quando i suoi non ci sono lui va lì con la sua merenda e guarda guarda guarda e ascolta la sua radio in cucina, sempre le vecchie canzoni, sempre la WCBS, e qualche volta sente lei, sente la signora Greta Shaw che canta con i Four Seasons Wanda Jackson Lee «Yah-Yah» Dorsey, e qualche volta lui fa finta che i suoi siano morti in un incidente aereo e che lei sia diventata davvero sua madre e che lo chiami povero piccolo e povero marmocchio smarrito e poi grazie a qualche trasformazione magica lo ami invece che accudirlo soltanto, lo ami lo ami lo ami come lui ama lei, lei è la sua mamma (o magari sua moglie, non ha chiara nella mente la differenza che corre tra le due cose), ma lei lo chiama 'Bama invece di tesorino (la sua vera mamma) o campione (papà)
e sebbene sappia che è un'idea stupida, pensarci quando è a letto è divertente, pensarci è
pisciosamente meglio che pensare alla Mosca della Morte che verrà a ronzare sul suo cadavere quando morirà con la lingua in gola come un sasso in fondo a un pozzo. Di pomeriggio quando torna a casa dall'asilo (quando sarà abbastanza grande da sapere che in realtà è una scuola materna ne sarà già fuori) guarda Million Dollar Movie in camera sua. A Million Dollar Movie mostrano esattamente lo stesso film a esattamente la stessa ora - le quattro - di tutti i giorni della settimana. La settimana prima che i suoi genitori partissero e la signora Greta Shaw rimanesse per la notte invece di tornare a casa sua
(oh che felicità, perché la signora Greta Shaw è la negazione di Discordia, diciamo amen) giungeva musica da due fonti diverse, c'erano i vecchi successi in cucina
(WCBS diciamo bomba di Dio)
e in TV James Cagney in bombetta si pavoneggia e canta di Harrigan - «H-A-double R-I, Harrigan, that's me!» - E poi anche quella del vero nipote in carne e ossa di mio Zio Sam.
Poi è una settimana nuova, la settimana in cui i suoi sono via, e c'è un nuovo film, e la prima volta che lo vede gli prende una fifa che è un miracolo che non se la faccia sotto. Questo film s'intitola Il continente scomparso e il protagonista è Cesar Romero, e quando Jake lo vedrà di nuovo (e ormai avrà dieci anni) si domanderà come sia stato possibile che si fosse fatto spaventare da un film così idiota. Perché, vedete, racconta di certi esploratori che si smarriscono nella giungla e in quella giungla ci sono dei dinosauri e a quattro anni non si era accorto che quei dinosauri non erano che fottuti DISEGNI ANIMATI, tali e quali a Titti e Silvestro e Braccio di Ferro, ak-ak-ak, diciamo Poldo, datemi Olivia. Il primo dinosauro che vede è un triceratopo che sbuca al galoppo dalla giungla e la giovane esploratrice
(tettona mozzafiato, avrebbe senzaltro dichiarato suo padre, è così che dice sempre suo padre di Quel Certo Tipo Di Ragazza, come le chiama la mamma) strilla con quanto fiato ha in corpo e strillerebbe anche Jake se potesse, ma ha il petto
bloccato dal terrore, o questa è l'incarnazione di Discordia! Negli occhi del mostro vede il nulla assoluto che significa la fine di ogni cosa, perché con un simile mostro le suppliche non servirebbero a niente e un simile strillare non servirebbe a niente, è troppo stupido, strillare otterrebbe solo di attirare l'attenzione del mostro, ed è proprio così, si gira verso Daisy Mae con quelle tettone mozzafiato e poi si avventa su Daisy Mae con le tettone mozzafiato e nella cucina («la maestosa cucina») sente i Tokens, usciti dalle classifiche, ma non dai nostri cuori, stanno cantando della giungla, la pacifica giungla, lì davanti agli occhi del bambino ingigantiti dall'orrore c'è una giungla che non è niente affatto pacifica e non c'è un leone ma un colosso pencolante che somiglia un po' a un rinoceronte ma è molto più grosso, e ha una specie di collare osseo intorno al collo e più tardi Jake scoprirà che quel tipo di mostro è un triceratopo, ma al momento non ha un nome, che è ancora peggio, anonimo è peggio. «Wimeweh», cantano i Tokens, «a-wimeweh», e naturalmente Cesar Romero uccide il mostro un attimo prima che sbrani la ragazza con le tettone mozzafiato pezzo a pezzo, e fin lì va tutto bene, se non che quella notte il mostro ritorna, il triceratopo torna, adesso è nel suo armadio, perché anche a quattro anni capisce che certe volte il suo armadio non è il suo armadio, è una porta che può aprirsi su luoghi disparati dove ci sono in agguato cose orribili.
Comincia a gridare, di notte può gridare, e nella sua stanza accorre la signora Greta Show. Si siede sul bordo del letto, ha la faccia resa spettrale da una maschera di bellezza azzurrognola, e gli chiede che cosa succede 'Bama e lui riesce anche a spiegarglielo. Non avrebbe mai potuto dirlo a papà o a mamma, ci fosse stato uno di loro, e naturalmente non ci sono, ma può dirlo alla signora Shaw perché anche se non è molto diversa dalle altre assistenti, le ragazze alla pari le badanti le sorveglianti - è un po' diversa, abbastanza diversa da applicare i suoi disegni sul frigorifero con quelle piccole calamite, abbastanza da fare una grande differenza, da sostenere la torre dell'equilibrio mentale di uno sciocco bambinello, diciamo alleluia, diciamo trovato non perso, diciamo amen.
Ascolta tutto quello che lui ha da raccontare, annuendo, e gli fa dire tri-CER-a-TOPO finché finalmente riesce a pronunciarlo a dovere. Dirlo giusto è meglio. E poi dice: «Quelle bestie erano reali molto tempo fa, ma sono morte da cento milioni di anni, 'Bama. Forse anche più. Ora non disturbarmi più perché ho bisogno di dormire».
Quella settimana Jake guarda Il continente scomparso su Million Dollar Movie tutti i giorni. Ogni volta che lo vede, ne è un po' meno impaurito. Un giorno la signora Greta Shaw si siede a vederne un pezzo con lui. Gli porta la sua merenda, una scodellona di Hawaiian Fluff (lo mangia anche lei) e gli canta quella splendida canzoncina «Per la dama e il suo signore, merendina per favore, marmellata e tè di more». Non ci sono more nell'Hawaiian Fluff ovviamente, e invece del tè bevono un avanzo di succo di pompelmo, ma la signora Greta Shaw dice che è il pensiero che conta. Gli ha insegnato a dire Rooty-tooty-salutie prima di bere, e a far tintinnare i bicchieri.
Per Jake è una figata, il massimo del massimo.
Presto arrivano i dinosauri. 'Bama e la signora Greta Shaw sono seduti vicini a mangiare l'Hawaiian Fluff e a guardarne uno enorme (la signora Greta Shaw dice che quelli si chiamano tirannosorbi) mangiare l'esploratore cattivo. «Li hanno disegnati, i dinosauri», sbuffa la signora Greta Show. «Che bambinata.» Dal punto di vista di Jake, questa è la critica cinematografica più geniale che abbia mai udito in vita sua. Geniale e utile.
Poi tornano i genitori. Per tutta la settimana su Million Dollar Movie danno Cappello a cilindro e dei terrori notturni del piccolo Jakie non si parla mai. Con il passare del tempo dimentica le sue paure dei triceratopi e del tirannosorbo.
7
Ora, sdraiato nell'erba alta a spiare nella radura nebbiosa attraverso le foglie di una felce, Jake scoprì che ci sono cose che non si dimenticano mai.
Attento alla trappola mentale, lo aveva ammonito Jochabim e guardando quel goffo dinosauro Jake capì di che cosa parlava. Un triceratopo disegnato in una giungla vera come un rospo immaginario in un giardino vero. Era quella la trappola mentale. Il triceratopo non era reale per quanto impressionante fosse il suo ruggito, per quanto forte l'odore che arrivava alle narici di Jake - i brandelli di vegetazione che marcivano nelle pieghe molli delle articolazioni delle sue tozze zampe, gli avanzi di sterco che imbrattavano il lato posteriore della sua possente armatura, la bava che gli colava incessantemente dalle fauci zannute - e per quanto all'orecchio gli giungesse il suo ansimare. Non poteva essere reale, era un disegno animato, Dio del cielo!
E tuttavia sapeva che era abbastanza reale da poterlo uccidere. Se fosse entrato in quella radura, il triceratopo di carta lo avrebbe dilaniato come avrebbe fatto con Daisy Mae con le tettone mozzafiato se Cesar Romero non fosse intervenuto in tempo a piantargli una pallottola in quell'Unico Punto Vulnerabile con il suo potente fucile da caccia grossa. Jake aveva neutralizzato la mano che aveva cercato di manomettere i controlli del suo motore - aveva sbattuto tutte quelle porte con tanta violenza da maciullare le dita dell'intruso, per quel che ne sapeva - ma qui la situazione era diversa. Non poteva chiudere gli occhi e passare oltre, quello creato dalla sua mente traditrice era un mostro vero e poteva veramente sbranarlo.
Lì non c'era un Cesar Romero a impedirlo. E nemmeno Roland.
C'erano solo gli uomini bassi che lo stavano inseguendo ed erano sempre più vicini.
Come a sottolineare quell'aspetto, Oy si girò a guardare da dove erano arrivati e abbaiò una volta, un latrato forte e penetrante.
Il triceratopo lo sentì e ruggì in risposta. Jake si aspettava che a quel verso terribile Oy si sarebbe precipitato a nascondersi al suo fianco, invece il bimbolo continuò a guardare oltre la spalla del suo padroncino. Era preoccupato degli uomini bassi, non del triceratopo poco distante o del tirannosorbo che sarebbe potuto arrivare di lì a poco, o...
Perché Oy non lo vede, pensò.
Si baloccò con quell'ipotesi e non riuscì a liberarsene. Oy non ne aveva neppure sentito l'odore o il ruggito. La conclusione ineludibile: per Oy, il tremendo triceratopo nella maestosa giungla sottostante non esisteva.
Ma non cambia il fatto che esiste per me. È una trappola che è stata tesa per me, o per chiunque altro provvisto di immaginazione che fosse passato per di qui. Un congegno degli Antichi, senza dubbio. Peccato che non si fosse guastato come quasi tutto il resto. Purtroppo questo funziona. Io vedo quel che vedo e non ci posso fare nien...
No, aspetta.
Un momento.
Non aveva idea di quanto salda fosse la sua connessione mentale con Oy e decise di scoprirlo subito.
«Oy!»
Ormai i richiami degli uomini bassi erano orribilmente vicini. Presto avrebbero visto il ragazzo e il bimbolo fermi laggiù e avrebbero dato l'assalto. Oy ne sentiva l'odore, ma guardò lo stesso Jake con sufficiente calma negli occhi. Era il suo amato Jake, per il quale, se necessario, avrebbe dato la vita.
«Oy, puoi scambiarti di posto con me?» Scoprì che poteva.
8
Oy vacillò dritto sulle zampe posteriori con Eik tra le braccia, rollando pericolosamente di qua e di là, orripilato dalla scoperta di quanto precario fosse l'equilibrio del piccolo umano. L'idea di percorrere anche una breve distanza su due zampe sole era di per sé da brividi, ma andava fatto e andava fatto subito. Così voleva Eik.
Per parte sua, Jake sapeva che avrebbe dovuto chiudere gli occhi che aveva preso in prestito. Era nella testa di Oy ma vedeva lo stesso il triceratopo; ora vedeva anche uno pterodattilo attraversare l'aria calda sopra la radura, con le coriacee ali distese sulla corrente ascensionale che saliva dagli scambiatori.
Oy! Devi farlo da solo. E se vogliamo sperare di non farci raggiungere devi farlo ora.
Eik! Rispose Oy e fece un primo passo titubante. Il corpo del ragazzo oscillò da una parte all'altra, fino al limite estremo dell'equilibrio e poi oltre. Lo stupido corpo bipede di Eik cadde di lato, Oy cercò di salvarlo e riuscì solo a peggiorare il ruzzolone, finendo sul fianco destro del ragazzo e facendo sbattere la sua testa pelosa.
Cercò di esprimere con un latrato la sua frustrazione. Dalla bocca gli scaturì una stupidaggine che somigliava più a parole che versi: «Bah! Bau! Merdau!»
«L'ho sentito!» gridò qualcuno. «Corriamo! Avanti, muovetevi, inutili pappamolle! Prima che quel piccolo bastardo arrivi alla porta!»
Le orecchie di Eik non erano particolarmente sensibili, ma lo aiutavano le pareti a piastrelle che amplificavano i suoni. Oy sentiva i rumori dei loro passi in corsa.
«Devi alzarti e andare!» cercò di gridare Jake e, quello che gli scaturì dalla gola, fu un latrato distorto: «Eik-Eik, art! Are-are!» In altre circostante sarebbe stato anche buffo, ma non in quel momento.
Oy si rialzò appoggiando la schiena di Eik al muro e spingendo con le gambe di Eik. Stava cominciando a capire come funzionava il sistema motorio; erano in un posto che Eik chiamava Dogan e i comandi erano abbastanza semplici da usare. A sinistra, tuttavia, un corridoio ad arco portava a uno stanzone pieno di macchinari scintillanti come specchi. Oy sapeva che se fosse entrato là dentro - la stanza dove Eik teneva tutti i suoi pensieri meravigliosi e la sua scorta di parole - si sarebbe perso per sempre.
Fortunatamente non ci doveva andare. Tutto quello di cui aveva bisogno era nel Dogan. Piede sinistro... avanti. (E pausa.) Piede destro... avanti. (E pausa.) Sostieni la cosa che somiglia a un bimbolo ma in realtà è il tuo amico e usa l'altro braccio per mantenerti in equilibrio. Resiste all'istinto di mettersi a quattro zampe. Se lo facesse, gli inseguitori lo raggiungerebbero; non ne avverte più l'odore (non con quell'incredibilmente insensibile patatina di muso che ha Eik), ma ne è sicuro lo stesso.
Per parte sua, Jake ne sentiva l'odore distintamente, almeno una decina e forse anche fino a sedici inseguitori. I loro corpi erano perfette macchine da puzzo, che li precedeva come una zaffata di discarica. Sentiva gli asparagi che uno di loro aveva mangiato per cena; sentiva l'olezzo carnoso del cancro che cresceva in uno degli altri, probabilmente nella testa ma forse in gola.
Poi udì di nuovo il ruggito del triceratopo. A esso rispose l'animale alato che veleggiava sopra di loro.
Jake chiuse gli occhi... di Oy. Al buio, l'incedere ondulatorio del bimbolo era ancora peggiore. Cominciò a temere che, se fosse andata avanti così per troppo tempo (specialmente con gli occhi chiusi), avrebbe vomitato l'anima. Si sentiva 'Bama il Marinaio con il mal di mare.
Vai, Oy, pensò. Più veloce che puoi. Non cadere di nuovo, ma... corri più forte che puoi!
9
Ci fosse stato Eddie, gli sarebbe forse tornata alla mente la signora Mislaburski che abitava qualche casa più in là: la signora Mislaburski in febbraio, dopo una tempesta di neve, quando il marciapiede era glassato di ghiaccio e non ancora cosparso di sale. Ghiaccio o non ghiaccio, nessuno però avrebbe potuto sottrarle la sua quotidiana costoletta o filetto di pesce al Castle Avenue Market (ovvero la messa della domenica, perché la signora Mislaburski era forse la più pia di tutti i cattolici di Co-Op City). Eccola, allora, a gambe ben larghe, serrate nelle calze elastiche rosa confetto, un braccio a schiacciarsi la borsetta contro il petto immenso, l'altro proteso per tenersi in equilibrio, a testa abbassata, occhi a caccia degli isolotti di cenere rovesciati fuori dai custodi di stabili più mattinieri e zelanti (Gesù e Maria madre di Dio, che benedicessero quella brava gente), e anche alle lastre più infide che avrebbero potuto tradirla, che avrebbero potuto mandarla a patapunfete con le grosse ginocchia rosa slanciate di qua e di là e lei sbam, una deretanata, o magari una schienata, roba che una donna può spezzarsi la spina dorsale, una donna può rimanere paralizzata come la povera figlia della signora Bernstein in quell'incidente d'auto a Mamaroneck, guai che capitano. Dunque ignorava i lazzi dei bambini (spesso c'erano anche Henry Dean e il suo fratellino Eddie) e andava per la sua strada, a testa china, con il braccio teso per non perdere l'equilibrio, la solida borsetta nera da vecchia signora strizzata contro il seno, risoluta a proteggere la borsetta e il suo contenuto a ogni costo, fosse finita a patapunfete, decisa a caderci sopra come Joe Namath sapeva cadere sulla palla quando veniva placcato.
Così camminava Oy del Medio-Mondo nel corpo di Jake in un tratto di tunnel sotterraneo che (almeno a lui) sembrava in tutto e per tutto uguale a quello che aveva percorso fino a quel momento. La sola differenza che vedeva era nei tre fori su entrambi i lati, con grossi occhi di vetro che li guardavano, occhi che emettevano un costante e sommesso ronzio.
Tra le braccia sosteneva qualcosa che somigliava a un bimbolo con gli occhi strizzati, chiusi chiusi. Fossero stati aperti, Jake avrebbe forse riconosciuto le lenti di proiettori. Più probabilmente, però, non li avrebbe visti affatto.
Camminando lentamente (Oy sapeva che gli inseguitori guadagnavano terreno, ma sapeva anche che camminare adagio era meglio che cadere), con le gambe divaricate e dondolandosi di qua e di là, sostenendo Eik rannicchiato contro il petto come la signora Mislaburski stringeva la sua borsetta nei giorni di gelata, passò davanti agli occhi di vetro. Il ronzio si affievolì. Bastava? Sperò di sì. Camminare come un umano era semplicemente troppo arduo, roba da far saltare i nervi. Insopportabile anche essere così vicino al macchinario che produceva i pensieri di Eik. Aveva la tentazione di girare e guardare da quella parte, guardare tutte quelle brillanti superfici a specchio, ma non lo fece. Rischiava di restarne ipnotizzato. Se non peggio.
Si fermò. «Jake! Guarda!»
Jake cercò di rispondere okay e invece abbaiò. Molto divertente. Aprì con cautela gli occhi e vide pareti piastrellate su entrambi i lati. D'accordo, qua e là cresceva ancora erba nelle fughe e c'erano piccoli ciuffi di felci, ma erano comunque piastrelle. Ed erano in un corridoio. Guardò dietro di sé e vide la radura. Il triceratopo si era dimenticato di loro. Era impegnato in una battaglia mortale con il tirannosorbo, una scena che ricordava chiaramente di aver visto in Il continente scomparso. La ragazza con le tettone mozzafiato aveva seguito lo svolgersi della battaglia fra le braccia protettive di Cesar Romero e, quando il tirannosorbo di cartapesta aveva stretto le enormi fauci sulla testa del triceratopo in un morso fatale, aveva nascosto il volto contro il petto virile di Cesar Romero.
«Oy» abbaiò Jake, ma abbaiare era una cosa rozza e decise di ricorrere invece al pensiero.
Cambia di nuovo con me!
Oy lo accontentò molto volentieri, mai aveva desiderato tanto farlo, ma prima di poter effettuare lo scambio, gli inseguitori li videro.
«Là!» gridò quello con l'accento di Boston, quello che lo aveva informato che il Padre era finito. «Eccoli là! Prendeteli! Uccideteli!»
E, mentre Jake e Oy si riscambiavano le menti restituendo ciascuna al proprio corpo, intorno a loro cominciarono a volare le pallottole come uno schioccar di dita.
10
A guidare il drappello c'era un uomo di nome Flaherty. Dei diciassette componenti, era l'unico umano. Gli altri erano uomini bassi vampiri, eccetto uno. Quest'ultimo era un taheen con la testa di una faina, occhi intelligenti, e due enormi zampe pelose coperte per metà da un paio di bermuda. In fondo alle gambe aveva piedi lunghi e stretti che terminavano in corni affilatissimi. Un calcio di Lamla avrebbe segato un uomo adulto in due.
Flaherty - cresciuto a Boston ma per quegli ultimi vent'anni uno degli uomini del Re in una manciata di New York di fine ventesimo secolo - aveva riunito la sua squadra il più velocemente possibile, in preda a una lancinante crisi di paura e furore. Niente entra al Pig. Così aveva detto Sayre a Meiman. E se per caso qualcosa fosse entrato lo stesso, per nessun motivo sarebbe potuto uscire. E questo valeva il doppio per il pistolero o per chiunque del suo ka-tet. Le loro interferenze avevano superato da tempo i limiti della semplice seccatura, e non c'era bisogno di far parte dell'elite per saperlo. Intanto Meiman, quello che i pochi amici chiamavano il Canarino, era morto e il ragazzo era miracolosamente riuscito a passare. Un moccioso, santa pace! Un moccioso del cazzo! Ma come avrebbero potuto sapere che erano in possesso di un totem potente come quella tartaruga? Se quel ninnolo maledetto non fosse finito sotto uno dei tavoli, forse ora sarebbero ancora tutti lì come impietriti.
Flaherty sapeva che sarebbe andata così, ma sapeva anche che Sayre non lo avrebbe mai accettato come giustificazione valida. Non gli avrebbe neppure permesso di formularla. No, sarebbe morto molto prima, lui e tutti gli altri assieme. Morto stecchito per terra, a farsi bere il sangue dagli insetti-dottori.
Facile obiettare che il ragazzo si sarebbe fermato davanti alla porta, perché non conosceva, non poteva conoscere nessuna delle parole d'ordine che l'aprivano, ma Flaherty non si fidava più di queste rassicurazioni teoriche, per quanto tentatrici. Restava una sola cosa da fare e Flaherty si sentì sommergere dal sollievo quando scorse il ragazzo e il suo piccolo amico peloso fermi in fondo al tunnel. Alcuni della sua squadra fecero fuoco, ma andarono a vuoto. Non se ne sorprese. C'era una zona verde tra loro e il ragazzo, un fottuto scampolo di giungla sotto la città, così sembrava, e si stava alzando una nebbia che rendeva difficile prendere la mira. E poi... quei ridicoli dinosauri a disegni animati! Ne vide uno sollevare il crapone lordo di sangue e ruggire portandosi le minuscole zampe anteriori al petto squamoso.
Sembra un drago, pensò Flaherty, e davanti ai suoi occhi il dinosauro di carta diventò un drago. Ruggì di nuovo e vomitò una fiammata che incendiò liane e muschio. Intanto il ragazzo aveva ripreso a correre.
Lamla, il taheen con la testa di faina, si fece largo tra gli altri per raggiungere il capo e si portò alla fronte il pugno peloso. Flaherty ricambiò il saluto con impazienza. «Cosa c'è laggiù, Lam? Lo sai?»
Flaherty non era mai stato sotto il Pig. Quando viaggiava per affari, era sempre tra una New York e l'altra, vale a dire usando o la porta sulla Quarantasettesima Strada, tra la Prima e la Seconda, quella nel magazzino perennemente vuoto di Bleecker Street (solo che in certi mondi era uno stabile eternamente incompiuto), oppure quella che si trovava più su, nella Novantaquattresima. (Sempre difettosa quest'ultima, e naturalmente nessuno sapeva come ripararla.) C'erano altre porte in città - New York era infestata di portali per altri dove e quando ma quelle due erano le sole che funzionavano ancora.
E quella per Fedic, naturalmente. Quella in fondo al tunnel.
«C'è un miraggiatore», rispose l'essere con la testa da faina. La sua voce era un gorgoglio che non aveva niente di umano. «È una macchina che intercetta le tue paure e le fa diventare reali. Deve averla messa in funzione Sayre quando è passato di qui con il suo tet e la donna con la pelle nera. Per coprirsi le spalle.»
Flaherty annuì. Una trappola mentale. Molto furbo. Ma a che cosa era servito alla fine? Quel marmocchio merdoso era passato lo stesso, no?
«Quello che ha visto il ragazzo si trasformerà in quello di cui abbiamo paura noi», spiegò il taheen. «Sfrutta l'immaginazione.»
Immaginazione. «Benissimo. Qualunque cosa vedano laggiù, digli di ignorarlo.»
Levò il braccio per ordinare ai suoi uomini di avanzare, molto risollevato da quanto gli aveva detto Lam. Perché non potevano demordere, giusto? Quasi certamente Sayre (o Walter o'Dim, che era ancora peggio) li avrebbe ammazzati tutti se non fossero stati capaci di fermare quel moccioso. E i draghi facevano veramente paura a Flaherty, questo era l'altro aspetto; ne aveva paura fin da quando suo padre gliene aveva letto una fiaba quand'era ancora bambino.
Il taheen lo trattenne prima che potesse completare il gesto.
«Cosa c'è ora, Lam?» sbottò Flaherty.
«Non capisci. Quello che c'è laggiù è abbastanza reale da ucciderti. Da uccidere tutti noi.»
«Tu che cosa vedi?» Non era il momento adatto a togliersi qualche curiosità, ma quello era sempre stato il lato debole di Conor Flaherty.
Lamla abbassò la testa. «Non mi va di dirlo. È già abbastanza brutto così. Il fatto è, sai, che se non stiamo attenti va a finire che laggiù faremo tutti una brutta fine. Visto da fuori, potrà anche sembrare un infarto o un colpo apoplettico, ma sarà quello che vedrai tu. Chiunque pensi che l'immaginazione non può uccidere è uno sciocco.»
Ora alle spalle del taheen si erano riuniti anche gli altri. Alternavano sguardi verso la radura brumosa a occhiate lanciate a Lamla. A Flaherty piacque poco ciò che lesse sui loro volti, molto poco. Ammazzare uno o due di quelli meno disposti a velare la loro contrarietà avrebbe restituito forse l'entusiasmo al resto del branco, ma se Lamla aveva ragione, a che cosa sarebbe servito? Maledetti Antichi, loro e i loro giocattoli! Quei giocattoli pericolosi che avevano abbandonato in ogni dove! Come complicavano la vita di un brav'uomo! Che gli venisse un canchero, dal primo all'ultimo!
«Allora come passiamo?» esclamò Flaherty. «Anzi, mi sai dire come ha fatto quel moccioso a passare?»
«Del moccioso non so», rispose Lamla, «ma a noi basta sparare ai proiettori.»
«Di che cazzo di proiettori parli?»
Lamla indicò la giungla... o il corridoio, se quel brutto bastardo diceva la verità. «Laggiù», rispose Lam. «So che non li vedi, ma credimi, ci sono. Su entrambi i lati.»
Flaherty stava osservando non poco affascinato la radura di Jake che, immersa nella nebbia, continuava a cambiare davanti ai suoi occhi nel folto della foresta buia, come in C'era una volta, quando tutti vivevano nella profonda foresta buia e nessuno viveva altrove, un drago terribile.
Flaherty non poteva sapere che cosa stessero vedendo Lamla e tutti gli altri, ma davanti ai suoi occhi il drago (quello che era stato un tirannosorbo non molto prima) diede debita prova della sua terribilità incendiando alberi e guardandosi intorno in cerca di un cristiano-cristianuccio da divorare.
«Io non vedo NIENTE!» gridò a Lamla. «E credo che a te abbia dato di volta quel po' di cervello che hai!»
«Li ho visti quando erano spenti», insisté pacato Lamla. «E ricordo abbastanza bene dove si trovano. Se mi lasci prendere quattro uomini, credo che potremo distruggerli tutti in poco tempo.»
E come reagirà Sayre quando andrò a dirgli che abbiamo fatto a pezzetti la sua preziosa trappola mentale? Avrebbe potuto ribattere Flaherty. E Walter o'Dim, che cosa dirà lui? Perché una volta guasti, non si potranno più riparare, non certo da gente come noi capace al massimo di far sprizzare una scintilla sfregando due legnetti.
Così avrebbe potuto ribattere, ma non lo fece. Perché prendere il ragazzo era più importante di qualunque vecchio gingillo degli Antichi, fosse anche un congegno stupefacente come una trappola mentale. Ed era stato Sayre ad attivarla, no? Di' aye! Se c'era da dare spiegazioni, le desse Sayre! Che s'inginocchiasse davanti ai pezzi grossi e parlasse fino a quando gli avessero chiuso il becco loro! Intanto quel bimbino moccioso e maledetto dagli dei stava ricostruendo bellamente il vantaggio che Flaherty (che aveva fantasticato gli onori guadagnati con il tempismo della sua azione) e i suoi uomini avevano così radicalmente ridotto. Se solo uno del branco fosse stato tanto fortunato da colpire il ragazzo quando era ancora a tiro con il suo irsuto amichetto! Ah, ma riempiti una mano di merda e l'altra di sogni e dimmi tu quale pesa di più!
«Prendi i più bravi», ordinò Flaherty nel suo accento alla John F. Kennedy. «E vai.»
Lamla chiamò a sé tre uomini bassi e uno dei vampiri, li schierò due per parte e parlò loro rapidamente in un'altra lingua. Flaherty ne dedusse che un paio di loro erano già stati lì e, come Lam, ricordavano dov'erano nascosti i proiettori nelle pareti.
Intanto il drago di Flaherty, o per meglio dire il drago di suo padre, continuava a devastare la foresta fitta e buia (ora la giungla era scomparsa completamente) incendiando questo e quello.
Finalmente - anche se a Flaherty sembrò che passasse un tempo lunghissimo, non potevano essere stati più di trenta secondi - i tiratori scelti cominciarono a sparare. Quasi immediatamente la foresta e il drago impallidirono sotto lo sguardo di Flaherty, trasformati in una specie di pellicola fotografica sovresposta.
«Eccone uno, camerati!» belò Lamla, la cui voce, quando cambiava registro, diventava disgraziatamente ovina. «Dateci addosso! Dateci addosso per l'amore dei vostri padri!»
Metà di questa gente non ne ha mai avuto uno, rifletté con malanimo Flaherty. Udì quindi distintamente uno schianto di vetri infranti e il drago si bloccò all'improvviso, mentre gli scaturivano ancora fiamme da bocca e narici e anche dalle branchie ai lati della bocca corazzata.
Incoraggiati, i cecchini cominciarono a sparare più velocemente e pochi istanti dopo radura e drago scomparvero. Al loro posto riapparve un semplice tratto di corridoio piastrellato, dove la polvere, posata sul fondo, conservava le impronte di chi vi era transitato di recente. Dall'una e dall'altra parte c'erano gli oblò distrutti dei proiettori.
«Ottimo!» gridò Flaherty con un cenno d'approvazione rivolto a Lamla. «Ora inseguiremo il ragazzo e lo raggiungeremo e, quando l'avremo preso, lo porteremo indietro con la testa conficcata su un palo! Siete con me?»
Gli rispose un coro selvaggio e famelico, nel quale spiccava, più potente di tutte, la voce di Lamla, i cui occhi ardevano dello stesso feroce giallo-arancio del fiato del drago.
«Bene, dunque!» Flaherty si lanciò in avanti, tuonando . un motivetto che tutte le reclute dei marines avrebbero riconosciuto: «Corri corri finché vuoi...»
«CORRI CORRI FINCHÉ VUOI!» latrarono i suoi soldati passando al trotto, in fila per quattro, attraverso il luogo da cui era scomparsa la giungla di Jake. Pestarono cocci di vetri.
«Ti prendiamo prima o poi!»
«TI PRENDIAMO PRIMA O POI!»
«Fosse a Lud, fosse in un Calle...»
«FOSSE A LUD, FOSSE IN UN CALLE!»
«Ci rimetterai le palle!»
La truppa ripeté l'ultimo verso e Flaherty allungò il passo.
11
Jake li sentì riprendere l'inseguimento cantando come-come-commala. Li sentì giurare che gli avrebbero mangiato le palle.
Poveri spacconi, pensò, ma cercò comunque di accelerare. Si spaventò nello scoprire che non poteva. Lo scambio mentale con Oy lo aveva molto stancato...
No.
Roland gli aveva insegnato che l'autoinganno altro non era che orgoglio travestito, un'indulgenza da respingere. Jake aveva fatto del suo meglio per seguire il suo consiglio, cosicché ora ammise che «sentirsi stanco» non bastava più a descrivere le sue condizioni. La fitta al fianco aveva sviluppato zanne che gli si erano affondate fin sotto l'ascella. Sapeva di aver guadagnato terreno; sapeva anche dal loro canto cadenzato che gli inseguitori lo stavano recuperando. Presto avrebbero cominciato a sparare di nuovo a lui e a Oy e per quanto male si potesse prendere la mira correndo, a qualcuno poteva sempre scappare un colpo casuale ma fortunato.
Vide qualcosa davanti a sé, qualcosa che bloccava il corridoio. Una porta. Mentre vi si avvicinava, si concesse di chiedersi che cosa avrebbe fatto se dall'altra parte non ci fosse stata Susannah. O se ci fosse stata ma non avesse saputo come aiutarlo.
Pazienza, in quel caso avrebbe dato battaglia. Senza copertura, senza più la possibilità di reinterpretare il Passo delle Termopili, avrebbe lanciato i suoi piatti e decapitato nemici finché non fosse stato abbattuto.
Se fosse stato costretto.
Ma forse no.
Corse dunque verso la porta, con il fiato che ormai gli scorticava la gola, quasi infuocato. Meglio così, pensò. Non ce la facevo più comunque.
Arrivò Oy per primo. Appoggiò al legno fantasma le zampe anteriori e guardò su come leggendo le parole incise o stampate sulla porta e il messaggio lampeggiante. Poi si girò a guardare Jake, che lo raggiunse ansimando con una mano premuta sul fianco e gli Oriza che tintinnavano rumorosamente nella loro sacca.
NORTH CENTRAL POSITRONICS, LTD.
New York/Fedic
Massima Sicurezza
RICHIESTO CODICE VERBALE D'ACCESSO
#9 DEFAULT FINALE
Tentò la maniglia, ma fu solo una formalità. Quando il pomolo di gelido metallo si rifiutò di ruotare, evitò di perdere tempo sforzandolo una seconda volta e piantò invece entrambe le mani sul legno. «Susannah!» gridò. «Se sei lì, fammi entrare!»
Neppure per un pelo della mia bar-bar-barbetta sentì dire a suo padre e sua madre, in tono assai più solenne, perché lei sapeva che raccontare era una faccenda seria: Morendo, udivo ronzare una mosca...
Da dietro la porta non giunse niente. Da dietro Jake giunsero, ora più vicine, le voci appartenute agli uomini del Re Rosso.
«Susannah!» urlò più forte. E questa volta, quando non ottenne risposta, si voltò, appoggiò la schiena (non aveva sempre saputo che sarebbe finita così, con la schiena a una porta sprangata?), e si preparò con un Oriza in ciascuna mano. Ai suoi piedi Oy divaricò le zampe, con il pelo irto e la pelle vellutata del muso arricciata all'indietro a scoprire i denti.
Jake incrociò le braccia assumendo la posa del «carico».
«Avanti, bastardi!» ringhiò. «Per Gilead e l'Eld. Per Roland, figlio di Steven. Per me e Oy.»
Sulle prime rimase troppo accanitamente concentrato su una morte valorosa, portando via con sé almeno uno di loro (come preferenza personale avrebbe scelto quello che gli aveva detto che il Padre era finito), ma anche più d'uno se gli fosse stato possibile, per rendersi conto che la voce che stava udendo proveniva da dietro la porta e non dalla sua stessa mente.
«Jake? Sei tu, tesoro? Mi senti?»
Sgranò gli occhi. Oh ti prego fai che non sia un trucco. Se lo era, c'era da credere che sarebbe stato l'ultimo.
«Susannah, stanno arrivando! Sai come...»
«Sì! È chassit, mi hai sentito. Mi hai sentito la parola è cha...»
Jake non le diede la possibilità di ripeterlo. Ora li vedeva arrivare correndo all'impazzata.
Alcuni scaricavano già colpi nell'aria.
«Chassit!» esclamò. «Chassit per la Torre! Apriti! Apriti, figlia di puttana!»
Sotto la pressione della schiena, nella porta tra New York e Fedic ci fu uno scatto. Alla testa degli aggressori all'attacco, Flaherty la vide aprirsi, lanciò la più rabbiosa delle imprecazioni nel suo dialetto e sparò un colpo. Era un bravo tiratore e la forza della sua non inconsiderevole volontà viaggiò con quella particolare pallottola guidandola. Avrebbe senza dubbio raggiunto la fronte di Jake poco sopra l'occhio sinistro, entrando nel suo cervello e ponendo fine alla sua vita, se una forte mano dalla pelle scura non lo avesse afferrato in quel preciso istante per il colletto e strattonato all'indietro attraverso lo stridulo fischio da vano dell'ascensore che risuonava incessantemente tra i livelli della Torre Nera. Il proiettile gli sibilò a pochi millimetri dalla testa invece di penetrarla.
Oy andò con lui, abbaiando con la gola strozzata il nome dell'amico - Eik-Eik, Eik-Eik! - e con un tonfo la porta si richiuse dietro di loro. Flaherty vi arrivò venti secondi dopo e la tempestò di pugni fino a sanguinare (quando Lamla cercò di trattenerlo, Flaherty lo respinse con tanta ferocia da mandarlo a gambe levate), ma non poteva più farci niente. Martellarla non serviva; imprecare non serviva; niente serviva.
All'ultimo momento, il bambino e il bimbolo gli erano sfuggiti. Ancora per un po' il nucleo del ka-tet di Roland rimaneva integro.
6
In Turtleback Lane
1
Vedi qui, io ti imploro, e vedi molto bene, perché questo è uno dei luoghi più belli che ancora restano in America. Ti mostrerò una semplice strada sterrata che percorre tortuosa un crinale boscoso del Maine occidentale, sfociando a entrambe le sue estremità sulla Route 7 a sud e a nord, a due miglia di distanza. Appena a ovest di questo crinale, come il castone di un gioiello, c'è una profonda conca verde, che spicca nel paesaggio circostante. In fondo a essa, la pietra nel castone, c'è Kezar Lake. Come tutti i laghi di montagna, nel corso di una sola giornata può mutare d'aspetto in vario modo, poiché qui il tempo è peggio che capriccioso; a definirlo mezzo matto si sarebbe perfettamente accurati. Gli indigeni saranno felici di raccontarti delle nevicate estemporanee capitate in questa parte del mondo una volta sul finire d'agosto (fu nel 1948) e una volta proprio il Quattro Glorioso (1959). Ancor più felici nel raccontarti del tornado che spazzò la superficie ghiacciata del lago nel gennaio del 1971, risucchiando la neve e dando origine a una minitempesta turbinosa nel cuore della quale crepitavano i tuoni. Fenomeni atmosferici difficili da credere, ma tu vai a trovare Gary Barker, se diffidi di me, lui ha le foto da mostrarti.
Oggi il lago in fondo alla conca è più nero del peccato perché non solo riflette le nuvole che si ammassano in cielo, ma ne amplifica l'umore. Di tanto in tanto i fulmini che pugnalano quella coltre disegnano schegge argentate su quello specchio di ossidiana. L'eco del tuono percorre il cielo congestionato da ovest a est, come le ruote di un grande carro di pietra in un vicolo celeste. Pini e querce e betulle sono immobili e tutto il mondo trattiene il fiato. Tutte le ombre sono scomparse. Gli uccelli si sono ammutoliti. In alto transita un altro di quegli enormi carri sulla sua rotta solenne e nella sua scia - ahi! - udiamo un motore. Ed ecco che appare tutta impolverata, la Ford di John Cullum con il volto ansioso di Eddie Dean che spunta da dietro il volante e i fanali che brillano nel buio prematuro.
2
Eddie aprì la bocca per chiedere a Roland quanta strada avevano fatto, ma naturalmente lo sapeva da sé. L'estremità sud di Turtleback Lane era contrassegnata da un cartello con un grande 1 nero e ciascuno dei vialetti d'accesso che si aprivano alla loro sinistra dalla parte del lago portava un proprio numero più alto. Attraverso gli alberi coglievano di tanto in tanto qualche scorcio del lago, ma le case erano sotto di loro su un pendio nascosto alla loro vista. Eddie aveva la sensazione di avvertire sapore di ozono e residui elettrici a ogni respiro e due volte si passò la mano sulla nuca, sicuro di trovare i capelli drizzati. Non lo erano, ma saperlo non modificò le ondate di euforia nervosa che gli illuminavano il plesso solare come sovraccarichi di energia e da lì si diffondevano in tutto il corpo. Era il temporale, naturalmente; lui era semplicemente una di quelle persone che ne percepiscono l'arrivo nelle terminazioni nervose. Ma mai con tanta forza.
Non è solo il temporale e lo sai bene.
Certo. Sebbene non escludeva che quel turbinio di volt avesse in qualche modo facilitato il suo contatto con Susannah. Andava e veniva come talvolta la ricezione notturna di qualche lontana stazione radio, ma dopo il loro incontro con
(Oh tu Figlio di Roderick, tu rovinato, tu perduto)
Chevin di Chayven, era diventato molto più potente. Perché tutto quel lato del Maine era sottile, così sospettava, e attiguo a molti mondi. Come il loro ka-tet era di nuovo vicino all'integrità. Perché Jake era con Susannah e insieme sembravano tutti e due abbastanza sicuri al momento, grazie al solido uscio che c'era tra loro e i loro inseguitori. C'era tuttavia qualcos'altro più avanti, qualcosa che Susannah non era in grado di chiarire o di cui non voleva parlare. Ciononostante Eddie percepiva il suo senso di orrore e il terrore che aveva Susannah che quel qualcosa potesse riapparire e credeva di sapere che cosa fosse: il bambino di Mia. Che era stato anche di Susannah in una maniera che ancora non comprendeva pienamente. Perché una donna armata dovesse aver paura di un neonato, Eddie non lo capiva, ma era sicuro che se così era, doveva esserci un'ottima ragione.
Oltrepassarono un cartello con scritto FENN, 11 e poi un altro che diceva ISRAEL, 12. Poi sbucarono da dietro una curva e Eddie piantò il piede sul pedale del freno bloccando bruscamente la Ford in una nuvola di polvere. A lato della strada, vicino a un cartello con la scritta BECKHARDT, 13, c'era un pick-up che conosceva e appoggiato con nonchalance al cassone maculato di ruggine, c'era un uomo che conosceva ancora meglio, in blue jeans con risvolti e una camicia blu di batista ben stirata e abbottonata fino alla gola barbigliuta e ben sbarbata. Indossava anche un berretto dei Red Sox di Boston, un po' inclinato, quasi a dire: Ti tengo in pugno. Fumava la pipa e il fumo azzurrognolo saliva e sembrava essersi sospeso attorno al suo volto rugoso e bonario nell'aria immota che precedeva il temporale.
Tutto questo Eddie vide con la chiarezza che gli davano i nervi ipereccitati, consapevole di sorridere come accade quando ci si imbatte in un vecchio amico in un luogo imprevisto - alle piramidi d'Egitto, al mercato della vecchia Tangeri, magari su un'isola davanti a Formosa, oppure in Turtleback Lane, a Lovell, in un pomeriggio estivo del 1977 vibrante di tuoni. E stava sorridendo anche Roland. Il brutto spilungone... sorrideva! I prodigi non finivano proprio mai.
Scesero dalla macchina per raggiungere John Cullum. Roland si portò il pugno alla fronte e flesse un ginocchio. «Hile, John! Ti vedo molto bene!»
«Ayu, anch'io vedo te», rispose John Cullum. «Chiaro come il giorno.» Abbozzò un saluto militaresco da sotto la visiera del berretto e sopra il groviglio delle sopracciglia. Poi alzò il mento in direzione di Eddie. «Giovanotto...»
«Lunghi giorni e piacevoli notti», rispose Eddie e si toccò la fronte con le nocche. Lui non era di quel mondo, non più, e fu un sollievo poter smettere di fingere.
«Bella frase», commentò John. «Sono arrivato prima io», aggiunse poi. «Avevo il sospetto.»
Roland guardò il bosco su entrambi i lati della strada e il nastro di oscurità che si andava addensando nel cielo. «Non credo che questo sia esattamente il posto...» C'era una lieve inflessione interrogativa nella sua voce.
«No, non è il posto dove volete arrivare», convenne John. Succhiò dalla pipa. «Ci sono passato davanti, al posto dove volete andare, e una cosa ho da dirvi: se avete intenzione di confabulare, è meglio che lo facciamo qui piuttosto che lì. Quando ci arriverete, non saprete far altro che restare a bocca aperta. Vi assicuro che io non ho mai visto niente di simile.» Per un momento il suo viso s'illuminò come quello di un bambino che ha catturato la sua prima lucciola in un barattolo di vetro e Eddie sentì che era assolutamente convinto di ciò che stava dicendo.
«Perché?» chiese. «Che cosa c'è laggiù? I walk-in? O c'è una porta?» Una volta che ebbe l'idea, ne fu prigioniero. «È veramente una porta! Ed è aperta!»
John cominciò a scuotere la testa, poi parve ripensarci. «Potrebbe essere una porta», gli concesse, allungando quell'ultima parola fino a farla diventare un'espressione di autocompiacimento, come l'inarticolato commento finale a una giornata di lungo proficuo lavoro: por-taaaahh. «Non è che somigli a una porta, però... ayu. Potrebbe essere. Magari dentro quella luce?» Parve riflettere. «Ayu. Ma credo che voialtri vogliate tenere conciliabolo e se andiamo prima a Cara Laughs, non ci sarà nessun conciliabolo; ci sarete solo voi impalati a bocca aperta.»
Rovesciò la testa all'indietro e rise. «E io con voi!» «Che cos'è Cara Laughs?» chiese Eddie.
John si strinse nelle spalle. «Molti di quelli che hanno una casa sul lago si scelgono un nome.
Credo che sia perché gli costa un occhio della testa ed è un modo per sentirsi ricompensati.
Comunque, al momento Cara è vuota. È di proprietà di una famiglia di nome McCray, di Washington, ma l'hanno messa in vendita. Gli sono andate storte certe cose. Lui ha avuto un colpo e lei...» Fece il gesto di uno che alza il gomito.
Eddie annuì. Erano molte le cose di quella caccia alla Torre che non capiva, ma ce n'erano altre che capiva senza bisogno di chiedere delucidazioni. Una di esse era che il centro dell'attività dei walk-in in quella parte del mondo era la casa di Turtleback Lane che John Cullum aveva identificato come Cara Laughs. E quando ci fossero arrivati, avrebbero scoperto che il numero che vi corrispondeva, all'imboccatura del vialetto, era il diciannove.
Alzò lo sguardo e vide le nuvole del temporale viaggiare costanti in direzione ovest sopra il Kezar Lake. A ovest verso le White Mountains - quelle che quasi certamente in un mondo non molto distante da quello erano chiamate Discordia - e lungo il Sentiero del Vettore.
Sempre lungo il Sentiero del Vettore.
«Che cosa proponi, John?» domandò Roland.
Cullum indicò il cartello con la scritta BECKHARDT. «Bado alla casa di Dick Beckhardt fin dagli anni Cinquanta», rispose. «Un brav'uomo come pochi. Ora è a Washington a fare non so cosa per l'amministrazione Carter. Io ho la chiave. Secondo me faremo meglio ad andare da lui. Si sta al caldo ed è asciutto e mi sa che tra poco da queste parti sarà tutto freddo e bagnato. Voialtri potrete raccontare la vostra storia e io starò ad ascoltare, cosa che mi riesce benissimo, dopodiché potremo fare tutti un salto a Cara. Non... be' proprio...» Scosse la testa, si tolse la pipa dalla bocca e li guardò con un'aria di sincero sbigottimento. «Non ho mai visto niente di simile, vi dico. Anzi, era come se non sapessi come guardarlo.»
«Andiamo», tagliò corto Roland. «Saliremo tutti sul tuo autocarrozzone, se ti è gradito.» «Mi è più che gradito», ribatté John e salì sul pick-up.
3
Il cottage di Dick Beckhardt era a mezzo miglio, un'accogliente piccola costruzione di assi di pino. Nel soggiorno c'erano una stufa panciuta e un tappeto intrecciato. La parete rivolta a ovest era una vetrata e Eddie non poteva fare a meno di sostarvi davanti per un momento a guardare fuori, nonostante l'urgenza della loro missione. Il lago aveva assunto un funebre color ebano da far paura, come l'occhio di uno zombie, pensò, e non capì perché gli fosse venuto in mente. Aveva idea che se il vento si fosse rinforzato (come sicuramente sarebbe accaduto all'arrivo della pioggia), le creste bianche della superficie increspata ne avrebbero reso più sopportabile la vista.
Avrebbero cancellato quella sensazione di qualcosa che guardava te.
John Cullum si sedette al tavolo di pino levigato di Dick Beckhardt, si tolse il berretto e lo tenne agganciato nelle dita della mano destra. Guardò con aria solenne Roland e Eddie. «Noi ci conosciamo molto bene per essere gente che si conosce da così poco tempo», esordì. «Siete d'accordo?»
Gli altri due annuirono. Eddie si aspettava di sentire da un momento all'altro il vento che rinforzava, ma il mondo continuò a trattenere il fiato. Era pronto a scommettere che, quando fosse cominciata, sarebbe stata una tempesta infernale.
«È il modo in cui si fa conoscenza nell'esercito», continuò John. «In guerra.» La sua parlata yankee si andava facendo sempre più marcata. «Come sempre succede quando le carte sono in tavola, mi verrebbe da dire.»
«Aye», concordò Roland. «'La battaglia crea rapporti stretti', diciamo noi.»
«Davvero? Ora so che avete delle cose da raccontarmi, ma prima che cominciate, c'è qualcosa che ho da dire io a voi. E mi ciuccio sorridendo la coda di un maiale se non vi farà immenso piacere.»
«Cosa?» lo sollecitò Eddie.
«Un paio d'ore fa, lo sceriffo della contea Eldon Royster ha preso quattro tizi in custodia, giù a Auburn. Sembra che avessero cercato di saltare un posto di blocco della polizia aggirandolo su una strada che passa nel bosco e che siano finiti impantanati.» John si mise in bocca la pipa, prese un fiammifero di legno dal taschino della camicia e applicò l'unghia del pollice allo zolfanello. Per un momento però non lo accese. Restò così. «A quanto pare il motivo per cui cercavano di non farsi vedere è che trasportavano un notevole quantitativo di armi ed esplosivi. Mitragliatori, granate e un po' di quella roba che chiamano Ch4. Uno di loro è Jack Andolini e mi sembra che sia un nome che abbiate fatto anche voi, vero?» E così dicendo fece sprigionare la fiamma dallo zolfanello.
Eddie piombò a sedere in una delle multifunzionali poltrone di sai Beckhardt, alzò la testa al soffitto e lanciò risate sonore alle travi. A fargli il solletico, rifletté Roland, nessuno sapeva sorridere come Eddie Dean. Almeno da quando Cuthbert Allgood era andato alla radura. «Il bel Jack Andolini chiuso in una gattabuia di contea dello stato del Maine!» esclamò. «Rotolatemi nello zucchero e chiamatemi ciambella alla marmellata! Se solo mio fratello Henry fosse vivo!»
Poi pensò che con tutta probabilità Henry era sì vivo, o che comunque esistesse di lui una qualche versione. Posto che i fratelli Dean appartenessero a quel mondo.
«Ayu, mi sapeva che vi avrebbe fatto piacere», commentò John risucchiando nel fornello della pipa la fiamma del fiammifero che si andava rapidamente annerendo. Era chiaramente compiaciuto lui stesso. A sorridere in quel modo, faticava ad accendere il suo tabacco.
«Oh povero me», sospirò Eddie asciugandosi gli occhi. «Questa mi vale la giornata, anzi, l'anno intero!»
«Ho qualcos'altro per voi», riprese John, «ma al momento lo tengo da parte.» Finalmente la pipa aveva preso e tacque soddisfatto spostando lo sguardo dall'uno all'altro dei due strani vagabondi che aveva conosciuto poche ore prima. Uomini il cui ka era intrecciato con il suo, nel bene o nel male, nella ricchezza o nella povertà. «Ora come ora vorrei sentire la vostra storia. E che cosa volete che faccia.»
«Quanti anni hai, John?» gli chiese Roland.
«Non tanti da aver smesso di portare il mio cavalluccio al pascolo, di tanto in tanto», rispose John un po' stizzito. «E tu? Quanti giri di boa hai fatto?»
Roland gli rivolse un sorriso di quelli che significavano: touché, ora cambiamo discorso. «Parlerà Eddie per tutti e due», annunciò. Lo avevano deciso durante il tragitto da Bridgton. «La mia storia è troppo lunga.»
«Se lo dici tu», ribatté John.
«Lo dico», ribadì Roland. «Che sia Eddie a raccontare la sua storia, per quanto il tempo glielo conceda, e insieme ti diremo poi che cosa vorremmo che facessi tu. Se sarai d'accordo, Eddie ti
darà una cosa da portare a un certo Moses Carver... e io te ne darò un'altra.»
John Cullum rifletté per qualche istante, quindi annuì. Si rivolse a Eddie.
Eddie riprese fiato. «La prima cosa che devi sapere è che ho conosciuto questo qui a bordo di un aereo in volo da Nassau, nelle Bahamas, al Kennedy di New York. All'epoca io e anche mio fratello eravamo eroinomani. In quel momento stavo trasportando un carico di cocaina.» «E quando sarebbe stato, figliolo?» volle sapere John Cullum.
«Nell'estate del 1987.»
Videro la meraviglia disegnarsi sul volto di Cullum, ma senza traccia d'incredulità. «Allora è vero che venite dal futuro! Cacchio!» Si sporse in avanti nel fragrante fumo della pipa. «Racconta la tua storia, figliolo», disse. «E non tralasciare una sola parola.»
4
Eddie impiegò quasi un'ora e mezzo e in ossequio alla brevità tralasciò in effetti alcune delle cose che gli erano accadute. Ancor prima che finisse, sul lago sotto di loro era scesa una notte prematura. E il temporale minaccioso né si era scatenato, né si era spostato altrove. Sopra il cottage di Dick Beckhardt di tanto in tanto rombava il tuono e ogni tanto i fulmini crepitavano così violenti da farli sussultare tutti e tre. Una folgore scese come una scudisciata direttamente nel centro del piccolo lago, illuminandone per un attimo l'intera superficie di un delicato viola madreperlaceo. A un certo punto si levò il vento suscitando voci in mezzo agli alberi e Eddie pensò: Ora arriva, sta per scoppiare. Invece no. Il temporale continuò tuttavia a incombere senza allontanarsi e quella strana sospensione, come una spada appesa per un filo sottilissimo, gli fece ricordare la lunga e innaturale gravidanza di Susannah, ora portata a compimento. Verso le sette andò via la corrente e John cercò in cucina delle candele mentre Eddie continuava il suo racconto: i vecchi di Crocefiume, i pazzi della città di Lud, la popolazione atterrita di Calla Bryn Sturgis, dove avevano conosciuto un ex prete che sembrava fosse uscito da un libro. John portò le candele sul tavolo, assieme a cracker e formaggio e una bottiglia di tè freddo. Eddie finì con la visita a Stephen King e raccontò di come il pistolero avesse ipnotizzato lo scrittore perché dimenticasse il loro incontro, come avessero visto per qualche istante la loro amica Susannah e come avessero telefonato a John Cullum perché, come aveva detto Roland, non c'era in quella parte del mondo nessun altro che avrebbero potuto chiamare. Quando Eddie tacque, Roland raccontò dell'incontro con Chevin di Chayven sulla via per Turtleback Lane. Il pistolero posò accanto al piatto di formaggio la croce d'argento che aveva mostrato a Chevin e John toccò gli anelli della sottile catena con l'unghia spessa del pollice.
Poi, per molto tempo, ci fu silenzio.
Quando non riuscì a sopportarlo oltre, Eddie chiese al vecchio a quanto di ciò che aveva udito fosse disposto a credere.
«Tutto», rispose senza esitare John. «Dovete prendervi cura di quella rosa che c'è a New York, giusto?»
«Sì», confermò Roland.
«Perché quella rosa sta proteggendo uno di quei Vettori quando quasi tutti gli altri sono stati infranti da questi telepatici o che so io, i Frangitori.»
Eddie si sorprese di quanto svelto e perspicace fosse stato Cullum nell'assimilare quel concetto, ma forse non ne aveva motivo. Occhi nuovi vedono bene, diceva sempre Susannah. E Cullum era quello che i grigi di Lud avrebbero definito «un tipo fino».
«Sì», rispose Roland. «Dici il vero.»
«La rosa sta proteggendo un Vettore. Stephen King ne sta sostenendo un altro. Almeno così pensate voi.»
«Infatti», rispose Eddie. «Va tenuto d'occhio, John. A parte il fatto che ha alcune brutte abitudini, quello che conta è che, una volta che noi avremo lasciato il 1977 di questo mondo, non potremo più tornare a controllarlo.»
«King non esiste in nessuno degli altri mondi?»
«Quasi sicuramente no», gli rispose Roland.
«Anche se fosse», aggiunse Eddie, «quello che fa negli altri mondi non conta. È questo il mondo chiave. Questo è quello da cui arriva Roland. Sono due mondi gemelli.»
Cercò conferma da parte del cavaliere e Roland annuì, accendendosi l'ultima delle sigarette che gli aveva regalato John.
«Credo che potrei tenere d'occhio Stephen King», dichiarò John. «E senza che lui lo sappia. Questo naturalmente se ritornerò da quella piccola spedizione che volete assegnarmi a New York. Mi sono già fatto un'idea abbastanza chiara di che cosa si tratta, ma forse è meglio che me lo spieghiate voi.» Dalla tasca posteriore sfilò un taccuino sgualcito con le parole MEAD MEMO scritte sulla copertina verde. Lo sfogliò quasi fino in fondo, trovò un foglio bianco, pescò una matita dal taschino della camicia, ne leccò la punta (Eddie trattenne un brivido), e finalmente li guardò con l'aria trepidante di un allievo del primo anno al primo giorno di liceo. «Ora, miei cari», disse, «perché non raccontate il resto allo zio John.»
5
Questa volta fu soprattutto Roland a parlare e, sebbene avesse meno di Eddie da raccontare, gli ci volle lo stesso mezz'ora, perché parlò con grande cautela, girandosi ogni tanto a cercare aiuto da Eddie per una parola o una frase. Eddie aveva già visto il killer e il diplomatico che coabitavano in Roland di Gilead, ma quella fu la sua prima esperienza al cospetto dell'emissario, il messaggero impegnato a scegliere con cura tutte le parole giuste. Fuori il temporale si rifiutava ancora di cominciare o andarsene.
Finalmente il pistolero concluse. Nel bagliore giallo delle candele, il suo volto era insieme antico e stranamente bello. Guardandolo, Eddie ebbe per la prima volta il sospetto che in lui si nascondesse qualcosa di più di quel malanno che Rosalita Munoz aveva chiamato «agra secca». Roland era dimagrito e le occhiaie scure erano quelle di una persona malata. Bevve un intero bicchiere di tè rosso in un sol sorso e domandò: «Hai capito le cose che ti ho raccontato?» «Ayu.» Niente di più.
«Hai capito molto bene?» insisté Roland. «Nessuna domanda?»
«Non credo.»
«Allora raccontacelo tu a noi.»
John aveva riempito due pagine di taccuino della sua scrittura circonvoluta. Ora tornò indietro e poi di nuovo avanti, annuendo tra sé. Infine emise un grugnito e ripose il taccuino nella tasca posteriore. Sarà anche un campagnolo, ma è tutt'altro che stupido, rifletté Eddie. E averlo incontrato era ben di più che un colpo di fortuna; era il ka in una delle sue giornate più fulgide.
«Vado a New York», cominciò John. «Trovo questo Aaron Deepneau. Tengo fuori il suo socio. Convinco Deepneau che proteggere la rosa nel lotto vacante è più o meno la consegna più importante nel mondo.»
«Puoi togliere il più o meno», notò Eddie.
John annuì. Prese il foglio intestato dal castorino e lo infilò nel suo voluminoso portafogli. Consegnargli l'atto di vendita era stata una delle imprese più ardue che Eddie Dean aveva dovuto affrontare da quando era stato risucchiato attraverso la porta introvata ed era finito a East Stoneham. Dovette sforzarsi per non strapparlo dalla mano del vecchio prima che scomparisse nel suo logoro Lord Buxton. In quel momento gli parve di capire molto meglio che cosa dovesse aver provato Calvin Torre.
«Poiché voi ora siete proprietari del terreno, siete anche proprietari della rosa», ricapitolò John.
«Ora la rosa è di proprietà della Tet Corporation», precisò Eddie. «Una società di cui tu stai per diventare vicepresidente esecutivo.»
John Cullum si mostrò poco sensibile a quel nuovo titolo putativo. «Deepneau deve redigere gli articoli dello statuto e assicurarsi che la Tet sia legale. Poi andiamo da questo Moses Carver e lo inseriamo nel consiglio di amministrazione. Questa dovrebbe essere la parte più difficile, ma ce la metteremo tutta.»
«Mettiti al collo la croce della zia», gli raccomandò Roland. «E quando ti troverai da sai Carver, mostragliela. Potrà tornarti molto utile nel convincerlo della tua buonafede. Ma prima devi soffiarci sopra, così.»
Durante il viaggio da Bridgton, Roland aveva chiesto a Eddie se fosse capace di indicargli qualche segreto, piccolo o grande, che Susannah e il suo padrino avessero eventualmente condiviso. In verità Eddie conosceva un segreto e ora ascoltò sbigottito la voce di Susannah che lo rivelava parlando dalla croce posata sul tavolo di pino di Dick Beckhardt.
«Seppellimmo Pimsy sotto il melo, da dove in primavera avrebbe potuto veder cadere i fiori», recitò la voce. «E papà Mose mi disse di non piangere più, perché Dio pensa che piangere per troppo tempo la morte di un animale domestico...»
A quel punto le parole si smorzarono, da un mormorio inarticolato al silenzio. Eddie però ricordava come proseguiva e lo ripeté ora: «'... piangere troppo a lungo la morte di un animale domestico sia peccato.' Papà Mose gli aveva detto che poteva andare ogni tanto sulla tomba di Pimsy a bisbigliare 'Sii felice in paradiso', ma non doveva raccontarlo a nessuno, perché ai preti non piace molto l'idea degli animali che vanno in paradiso. E lei conservò il segreto. Io sono la sola persona a cui lo abbia confidato». Forse perché ricordava la confidenza ricevuta nel cuore della notte dopo aver fatto l'amore con lei, sul viso di Eddie era apparso un sorriso colmo di dolore.
John Cullum guardò la croce, poi alzò gli occhi sgranati su Roland. «Che cos'è? Una specie di registratore? È così, vero?»
«È un sigul», gli spiegò Roland paziente. «Che potrà aiutarti con questo Carver, se dovesse essere quello che Eddie chiama 'uno scassacazzi'.» Abbozzò un sorriso. Scassacazzi era un termine che gli piaceva. Che capiva. «Mettitela.»
Ma Cullum non lo accontentò, almeno non subito. Da quando li aveva conosciuti, pur contando quando erano stati tutti coinvolti nella sparatoria al General Store, per la prima volta sembrava veramente sconcertato. «È magica?» volle sapere.
Roland alzò le spalle spazientito, come se considerasse quella parola e il suo significato del tutto inutili in quel contesto. «Mettitela», ripeté.
Con molta titubanza, come se temesse che la croce di zia Talitha potesse diventare improvvisamente ardente e provocargli una bruciatura grave, John Cullum ubbidì. Abbassò la testa per guardarla facendosi affiorare per un momento intorno al collo un buffo doppio mento da gaudente, poi se la infilò nella camicia. «Cacchio», ripeté, molto sottovoce.
6
Cosciente di parlare ora come una volta altri si erano rivolti a lui, Eddie Dean disse: «Esponi il resto della tua lezione, John di East Stoneham, e con il cuore in mano».
Quella mattina Cullum si era alzato dal letto nient'altro che tuttofare di campagna, uno dei tanti sconosciuti e ignorati di questo mondo. Sarebbe andato a letto quella sera in procinto di diventare forse una delle persone più importanti al mondo, un autentico principe della Terra. E se l'idea lo intimoriva, non lo diede a vedere. Forse non l'aveva ancora assimilata.
Ma Eddie non era di quell'avviso. Quello era l'uomo che il ka aveva messo sulla loro strada ed era insieme fino e intrepido. Se in quel momento Eddie fosse stato Walter (o Flagg, come si faceva talvolta chiamare Walter), avrebbe sicuramente tremato.
«Be'», rispose John, «a voi non importa niente chi dirige la società, ma volete che la Tet inglobi la Holmes, perché d'ora in avanti il suo compito non avrà più a che fare con la produzione di dentifrici e capsule per i denti, anche se per qualche tempo continuerà a sembrarlo da fuori.» «E cosa...»
Eddie non poté proseguire. John alzò la mano per fermarlo. Eddie cercò d'immaginare in quella mano una calcolatrice della Texas Instruments e vi riuscì senza la minima difficoltà.
Strano.
«Fammi respirare, giovanotto, e ti dico tutto.»
Eddie si zittì facendo il gesto di chiudersi le labbra con una cerniera lampo.
«Proteggere quella rosa, questa è la priorità assoluta. Proteggere lo scrittore è la seconda. Ma soprattutto, io e questo Deepneau e quest'altro tizio, Carver, dobbiamo mettere su la multinazionale più potente del mondo. Ci occupiamo di immobili, lavoriamo con... ehm...» Estrasse il taccuino, lo consultò rapidamente e lo ripose. «Lavoriamo con 'sviluppatori di software', che non so che cos'è, ma che saranno il prossimo sbocco tecnologico. E dobbiamo ricordare tre parole», le contò sulle dita. «Microsoft. Microchip. Intel. E per quanto grandi diventeremo, per quanto in fretta lo diventeremo, i nostri tre compiti principali non cambieranno: proteggere la rosa, proteggere Stephen King e cercare di metterlo in quel posto a due altre società a ogni occasione che avremo. Una si chiama Sombra. L'altra...» Ci fu un'esitazione quasi impercettibile. «L'altra è la North Central Positronics. La Sombra si occupa soprattutto di mercato immobiliare, secondo quello che mi avete detto voi. La Positronics... be', ricerca scientifica e congegni vari, è evidente persino a me. Se la Sombra vuole un pezzo di terra, la Tet cerca di soffiarglielo. Se la North Central vuole un brevetto, cerchiamo di arrivare prima noi, o almeno di impedirgli di registrarlo. Girarlo a qualcun altro, se dovesse essere il caso.»
Eddie annuiva soddisfatto. Quest'ultima variante, non era stato lui a proporla a John, ma il vecchio ci era arrivato per conto suo.
«Noi siamo i tre moschettieri sdentati, i Vecchiacci dell'Apocalisse, e dobbiamo impedire che quelle due società ottengano quello che vogliono, con le buone o le cattive. Sono assolutamente consentite le peggiori porcate.» John sogghignò. «Io non sarò mai stato ad Harvard, ma se si tratta di tirare un calcio nei coglioni a qualcuno credo di cavarmela bene.»
«A posto», concluse Roland. Cominciò ad alzarsi. «Credo sia ora che...»
Eddie lo fermò con la mano. Sì, voleva raggiungere Susannah e Jake; non vedeva l'ora di accogliere di nuovo il suo amore tra le braccia e coprirla di baci. Gli sembrava che fossero passati anni dall'ultima volta che l'aveva vista sull'East Road di Calla Bryn Sturgis. Ma lui non poteva sentirsi appagato da così poco, a differenza di Roland, che era da sempre abituato ad accettare l'ubbidienza altrui e il sacrificio in suo nome di perfetti sconosciuti come fatti del tutto naturali. Quello che Eddie vedeva seduto dall'altra parte del tavolo di Dick Beckhardt non era l'ennesimo strumento, bensì uno yankee indipendente, sveglio e tenace, questo sì, ma in realtà troppo vecchio per quello che gli stavano chiedendo. E a proposito di troppo vecchio, che dire di Aaron Deepneau, il Chemioterapico?
«Il mio amico vuole mettersi in marcia e lo desidero anch'io», disse. «Abbiamo parecchie miglia davanti a noi.»
«Lo so. Te lo vedo scritto in faccia, figliolo. Come una cicatrice.»
Eddie indugiò affascinato dall'idea di una missione e del ka come di qualcosa che lasciasse un segno, un marchio che a uno sguardo poteva apparire come un fregio e a un altro come uno sfregio. Fuori balenò un lampo e crepitò un tuono.
«Ma perché sei disposto a farlo?» volle sapere Eddie. «Me lo devi dire. Perché sobbarcarti un'impresa simile per due uomini che hai appena conosciuto?»
John meditò. Toccò la croce che ora portava appesa al collo e che avrebbe tenuto lì fino alla morte, nell'anno 1989, la croce che Roland aveva ricevuto in dono da una vecchia in un posto dimenticato dagli dei. L'avrebbe toccata in quel modo negli anni a venire tutte le volte che avesse dovuto prendere una decisione importante (la più fatale delle quali sarebbe stata forse quella di tagliare i ponti della Tet con l'IBM, una società che aveva manifestato una crescente tendenza a trattare di comune accordo con la North Central Positronics) o che si fosse preparato per qualche azione clandestina (l'attentato alla Sombra Enterprises di Nuova Delhi, per esempio, l'anno prima della sua morte). La croce avrebbe parlato a Moses Carver e non avrebbe parlato mai più in presenza di Cullum, per quanto si sforzasse di soffiarci sopra, tuttavia, certe volte, mentre si assopiva stringendola strettamente nella mano, avrebbe pensato: È un sigul. Questo è un sigul, caro mio, una cosa arrivata da un altro mondo.
Se verso la fine ebbe dei rimpianti (oltre che per alcuni dei suoi interventi, che sarebbero stati senz'altro deprecabili e sarebbero costati la vita di più di una persona), ebbe quello di non aver avuto l'occasione di visitare il mondo dall'altra parte, quello che aveva intravisto in una sera di temporale in Turtleback Lane, a Lovell. Di tanto in tanto il sigul di Roland gli avrebbe inviato sogni di un campo pieno di rose e di una torre color della fuliggine. Talvolta lo avrebbe assalito la visione terribile di due occhi rossi che scrutavano senza posa l'orizzonte, sospesi nel nulla, privi di un corpo. Talvolta ci sarebbero stati sogni in cui avrebbe udito qualcuno suonare incessantemente un corno. Da questi ultimi si sarebbe svegliato con le guance bagnate di pianto, lacrime di nostalgia e lutto e amore. Si sarebbe svegliato con la mano stretta intorno alla croce pensando: Ho rinnegato Discordia e non rimpiango nulla. Ho sputato negli occhi senza corpo del Re Rosso e ne ho goduto; ho consegnato me stesso al ka-tet del pistolero e al Bianco e mai una volta ho dubitato della mia scelta.
E nonostante tutto avrebbe voluto spingersi, fosse stato per una sola volta, in quell'altra terra, quella al di là della porta.
«Voialtri volete che siano fatte tutte le cose giuste», dichiarò ora. «Non saprei metterla in parole migliori. Io vi credo.» Esitò. «Io credo in voi. Quello che vedo nei vostri occhi è sincero.» Eddie ritenne di avere concluso e a quel punto Cullum sorrise come un bambino.
«E ho anche l'impressione che mi stiate offrendo la chiave di un motore fantastico. Chi non vorrebbe accenderlo per vedere che cosa fa?» «Hai paura?» chiese Roland.
John Cullum considerò la sua domanda quindi annuì. «Ayu», rispose.
Roland annuì a sua volta. «Bene.»
7
Risalirono Turtleback Lane sulla macchina di Cullum sotto un cielo vorticoso e nero. Sebbene fosse il culmine della stagione estiva e quasi tutti i cottage sul Kezar fossero probabilmente occupati, non incontrarono un solo veicolo, né in una direzione né nell'altra. Da tempo ormai tutte le imbarcazioni avevano trovato riparo.
«Avevo detto che avevo qualcos'altro per voi», annunciò John e andò al suo pick-up a prelevare dal cassone una cassetta di sicurezza d'acciaio. Intanto si era levato il vento, che agitava la rada corona di capelli bianchi del vecchio. Inserì la combinazione del lucchetto, aprì la cassetta e alzò il coperchio. Ne estrasse due fagotti impolverati che i viaggiatori conoscevano bene. L'uno sembrava quasi nuovo a confronto dell'altro, che era di quel colore indefinibile della polvere del deserto e stretto da un lungo laccio di cuoio.
«La nostra roba!» esclamò Eddie, così felice, ma anche così stupefatto, che il suo fu quasi un grido. «Ma come diavolo...»
John rivolse loro un sorriso che era un augurio di buona fortuna da lestofante: perplesso in superficie, ma sotto sotto sornione. «Bella sorpresa, vero? È quello che pensavo anch'io. Sono tornato a dare un'occhiata allo spaccio di Chip, a quello che ne resta, approfittando della gran confusione che c'era ancora. Gente che correva di qua e di là, intendo, quelli che coprivano i cadaveri, quelli che tiravano il nastro giallo, quelli che scattavano foto. Qualcuno aveva messo in disparte quei fagotti e se ne stavano lì, così mesti e abbandonati...» Sollevò una spalla ossuta. «Mi hanno fatto compassione e li ho presi io.»
«Dev'essere stato mentre noi eravamo con Calvin Torre e Aaron Deepneau», commentò Eddie. «Dopo che tu eri tornato a casa con l'ordine di fare i bagagli e partire per il Vermont. Giusto?» Accarezzava il suo fagotto. Conosceva così bene quella superficie liscia, non era stato lui stesso a uccidere il cervo che gliene aveva fornito la pelle e a grattarne via il pelo con il coltello di Roland e a cucirne i lembi con l'aiuto di Susannah? Era stato non molto tempo dopo che il grande orso robot di nome Shardik gli aveva quasi aperto il ventre. Come dire il secolo scorso, in apparenza.
«Yuh», confessò Cullum e quando il sorriso del vecchio si addolcì, Eddie sentì spegnersi dentro di sé anche gli ultimi dubbi che aveva su di lui. Avevano trovato l'uomo giusto per quel mondo. Diciamo il vero e ringraziamo Dio alla grande-grande.
«Mettiti la tua pistola, Eddie», lo esortò Roland, porgendogli la rivoltella con il calcio di legno di sandalo.
Mia. Adesso la definisce «mia». Eddie provò un piccolo fremito.
«Credevo che andassimo da Susannah e Jake.» Intanto però accettò la rivoltella e si allacciò il cinturone senza protestare.
Roland annuì. «Ma credo che prima abbiamo un lavoretto da sbrigare, contro quelli che hanno ucciso Callahan e poi hanno cercato di uccidere Jake.» La sua espressione non mutò mentre parlava, ma Eddie Dean e John Cullum provarono un brivido. Per un momento a entrambi fu quasi impossibile guardare il pistolero.
Così fu sentenziata - anche se loro non lo sapevano, un atto di misericordia che sicuramente non meritavano - la condanna a morte di Flaherty, il taheen Lamla e il loro ka-tet.
8
Oh mio Dio, cercò di ribattere Eddie, ma dalla bocca non gli uscì alcun suono.
Avevano visto il bagliore crescere mentre procedevano in direzione nord lungo Turtleback Lane dietro l'unico fanalino di coda funzionante del pick-up di Cullum. Sulle prime Eddie aveva pensato che potessero essere le lanterne da carrozza disposte a ornamento del vialetto d'accesso di qualche ricco abitante della zona, poi aveva cominciato a credere che fossero riflettori. Ma il bagliore continuava a intensificarsi, una luce blu e dorata alla loro sinistra, dove il crinale scendeva verso il lago. Quando furono ancora più vicini alla fonte della luce (ora il pick-up di Cullum procedeva a passo d'uomo), Eddie trasalì sbalordito, indicando un cerchio luminoso che si staccava dal corpo principale e volava verso di lui cambiando continuamente colore: dal blu all'oro al rosso, dal rosso al verde all'oro e di nuovo al blu. Al centro c'era una specie di insetto con quattro ali. Prese quota sopra il cassone del pick-up di Cullum e virò nell'oscurità del bosco sul lato est della strada. Quando li guardò, Eddie vide che l'insetto aveva un volto umano.
«Cosa... Dio mio, Roland, ma che cosa...»
«Taheen», rispose Roland e non aggiunse altro. Incorniciato dal bagliore crescente, il volto era calmo e stanco.
Altri dischi luminosi si staccarono dal corpo principale e scesero a pioggia nella strada in uno splendore da cometa. Eddie vide mosche e minuscoli colibrì ingioiellati ed esseri che sembravano rane alate. Dietro di loro...
Il solitario fanalino di coda del pick-up di Cullum lampeggiò, ma Eddie era così inebriato che lo avrebbe facilmente tamponato se Roland non lo avesse ripreso bruscamente. Eddie mise l'auto in folle senza curarsi di tirare il freno a mano o spegnere il motore. Scese e s'incamminò verso il vialetto asfaltato che scendeva per il pendio boscoso. Nella luce delicata i suoi occhi erano giganteschi e la sua bocca spalancata. Cullum si unì a lui e si fermò a guardare giù. C'erano due cartelli all'imboccatura del vialetto: CARA LAUGHS a sinistra e 19 a destra.
«Niente male, eh?» mormorò Cullum.
Puoi dirlo forte cercò di rispondere Eddie e di nuovo dalla bocca non gli scaturirono parole, ma solo un sospiro sfiatato.
Il grosso della luce proveniva dal bosco a est della strada e a sinistra del viale di Cara Laughs. Lì gli alberi, perlopiù pini, abeti e betulle incurvate da una tardiva tempesta di neve, erano distanziati e tra essi camminavano solenni centinaia di figure come in una bucolica sala da ballo, facendo frusciare le foglie sotto i piedi scalzi. Alcuni erano più che evidentemente Figli di
Roderick, guasti come Chevin di Chayven. Avevano la pelle coperta dalle piaghe provocate dalle radiazioni e pochi avevano più che una parvenza di capelli, ma la luce nella quale vagavano conferiva loro una bellezza che era quasi insopportabile allo sguardo. Eddie notò una donna con un occhio solo che trasportava un bambino apparentemente morto. Lo guardò con un'espressione di pena e mosse la bocca, ma Eddie non udì nulla. Si portò il pugno alla fronte e fletté la gamba. Poi si toccò l'angolo di un occhio e puntò un dito verso di lei. Ti vedo, le comunicava con quel gesto... o così sperava. Ti vedo molto bene. La donna con il bimbo morto o addormentato ricambiò il gesto e subito dopo scomparve.
Dal cielo scaturì un fulmine che piombò balenando al centro del bagliore, mentre crepitava secco un tuono. La folgore centrò un vecchio abete spaccando di netto in due il gagliardo tronco ornato di muschio: metà cadde su un lato e metà sull'altro. Al centro si sprigionò il fuoco. E una ventata di scintille, non fiamme, non queste, ma qualcosa di più etereo e simile a fuochi fatui, s'innalzò in una spirale verso la coltre irrequieta delle nuvole. In quelle scintille Eddie scorse minuscoli corpi danzanti e per un momento rimase senza fiato. Fu come vedere Campanellino, uno squadrone di Campanellini. Un attimo e poi niente più.
«Guardate», disse John in tono ossequioso. «Walk-in! Cacchio, ce ne sono a centinaia!
Quanto vorrei che fosse qui anche il mio amico Donnie.»
Probabilmente aveva ragione, rifletté Eddie, c'erano centinaia, tra uomini, donne e bambini a camminare nel bosco sotto di loro, a camminare nella luce, comparendo e scomparendo e poi apparendo di nuovo. Mentre contemplava la scena, sentì il freddo di una goccia che gli cadeva sul collo, seguita da una seconda e da una terza. Una folata s'insinuò tra gli alberi provocando un'altra corrente ascensionale di quelle creature fiabesche e trasformando l'albero spezzato dal fulmine in una doppia torcia crepitante.
«Andiamo», disse Roland afferrando il braccio di Eddie. «Sta per piovere forte e tutto questo si spegnerà come una candela. Se saremo ancora da questa parte, resteremo bloccati.»
«Dove...» cominciò Eddie, ma poi vide da sé. In fondo al vialetto, dove le fronde lasciavano il posto ai resti di una frana scivolata verso il lago, c'era il cuore del bagliore, così intenso in quel momento che era impossibile guardarlo. Roland lo trascinò in quella direzione. John Cullum rimase ipnotizzato dai walk-in ancora per un momento, poi cercò di seguirli.
«No!» gli gridò Roland. Intanto la pioggia cadeva più forte, gocce gelide sulla sua pelle e grandi come monete. «Tu hai il tuo lavoro, John! Buona fortuna!»
«Lo stesso a voi, ragazzi!» rispose John. Si fermò e alzò la mano in un saluto. Una scarica di elettricità attraversò il cielo e per un istante gli illuminò di un azzurro brillante il viso segnato da zone d'ombra nere come pece. «Anche a voi!»
«Eddie, dovremo correre in quel nucleo di luce», disse Roland. «È una porta che non appartiene agli Antichi ma al Prim. Ed è una magia. Ci porterà dove vogliamo andare, se sapremo concentrarci a dovere.»
«Dove...»
«Non c'è tempo! Me lo ha detto Jake dove, con il tocco! Tu tienimi per mano e svuota la mente! Adesso ti ci porto io!»
Eddie avrebbe voluto domandargli se era assolutamente sicuro di quel che faceva, ma non ce ne fu il tempo. Roland si mise a correre. Eddie corse con lui. Scesero a rotta di collo per il pendio e si tuffarono nella luce. Eddie la sentì respirare sulla sua pelle come un milione di piccole bocche. I loro stivali produssero scricchiolii nel folto tappeto di foglie. Alla sua destra bruciava l'albero. Sentì l'odore della linfa e della corteccia che arrostiva. Ormai erano vicini al nucleo. Dapprima Eddie scorse attraverso di esso il Kezar, poi si sentì ghermire da una forza spaventosa che lo trascinò attraverso la pioggia fredda fin dentro quella luce accecante e vibrante di mormorii. Per un istante soltanto intravide la forma di una porta. Poi si aggrappò ancor più alla mano di Roland e chiuse gli occhi. Il tappeto di foglie scomparve da sotto i suoi piedi e spiccò il volo.
7
Riunione
1
Flaherty sostava davanti alla porta tra New York e Fedic, che era stata scheggiata da alcune pallottole ma era ancora tutta intera e solida, un ostacolo invalicabile che quel bambino merdoso era chissà come riuscito a valicare. Accanto a lui, in silenzio, Lamla attendeva che la collera del capo si esaurisse. Aspettavano anche gli altri, rispettosi dello stesso, prudente silenzio.
Finalmente i colpi che Flaherty scaricava sulla porta cominciarono a rallentare. Ne calò ancora uno al di sopra della testa e Lamla fece una smorfia vedendo lo schizzo di sangue che volò dalle nocche dell'umano.
«Cosa?» chiese Flaherty accorgendosi della smorfia. «Cosa? Hai qualcosa da dire?»
A Lamla piacevano assai poco i cerchi bianchi attorno agli occhi di Flaherty e il rosso intenso delle sue guance. Ma peggio ancora, la mano di Flaherty era salita al calcio della Glock automatica sotto l'ascella. «No», rispose. «No, sai.»
«Avanti, caccia fuori che cosa hai in mente, se ti è gradito», insisté Flaherty. Cercò di sorridere e gli riuscì invece un ghigno da brivido, un'espressione da pazzo. In silenzio, senza produrre più di un fruscio lievissimo, gli altri del drappello si ritrassero. «Non mancheranno quelli che avranno parecchio da dire, dunque perché non cominci tu mio camerata? L'ho perso! Dai inizio tu alla lagna generale, brutto bastardo!»
Sono morto, pensò Lamla. Dopo una vita al servizio del Re, un'espressione imprudente alla presenza di un uomo che ha bisogno di un capro espiatorio e sono morto.
Si guardò intorno, trovando conferma che nessuno degli altri lo avrebbe assistito, e finalmente disse: «Flaherty, se in qualche modo ti ho offeso ti chiedo...»
«Oh, certo che mi hai offeso!» strillò Flaherty e al crescere della sua ira, l'accento bostoniano diventò più pesante. «Sono sicuro che pagherò per il lavoro di oggi, aye, ma credo che tu pagherai prima...»
Ci fu una sorta di rumore di risucchio nell'aria intorno a loro, come se il corridoio stesso avesse tratto un brusco respiro. A Flaherty s'incresparono i capelli, a Lamla il pelo. La squadra di uomini bassi e vampiri cominciò a girarsi. All'improvviso uno di loro, un vampiro di nome Albrecht, lanciò un grido e cominciò a correre, concedendo così a Flaherty la vista di due nuovi arrivati, uomini con la camicia, i jeans e gli stivali ancora macchiati da gocce di pioggia appena cadute. C'erano fagotti da viaggio ai loro piedi e rivoltelle appese ai loro fianchi. Flaherty vide i calci di legno di sandalo un istante prima che il più giovane dei due estraesse, più veloce della folgore azzurra, e capì immediatamente perché Albrecht era scappato. C'era un solo tipo di uomo che portava pistole come quelle.
Il giovane sparò un solo colpo. I capelli biondi di Albrecht si sollevarono come se strattonati da una mano invisibile, poi il vampiro stramazzò, dissolvendosi dentro i propri vestiti.
«Hile, fedeli del Re», li salutò il più anziano. Il tono era del tutto colloquiale. Flaherty, le cui mani sanguinavano ancora per le martellate con cui si era accanito sulla porta attraverso la quale era scomparso il moccioso, non riusciva a raccapezzarsi. Quello doveva essere l'uomo di cui erano stati avvertiti, era sicuramente Roland di Gilead, ma come era arrivato lì e oltre a tutto prendendoli alle spalle? Come?
I gelidi occhi celesti di Roland li contemplarono. «Chi in questo pietoso branco si fa chiamare dinh? Vuole costui onorarci facendosi avanti o no? No?» Gli occhi celesti erano fissi su di loro; la mano sinistra si allontanò dalla pistola per salire all'angolo della bocca, dov'era spuntato un sorrisetto sarcastico. «No? Peccato. Del resto siete dei codardi, vedo con dispiacere. Avete ucciso un prete e dato la caccia a un ragazzino ma non avete il fegato di rivendicare il vostro operato.
Siete dei codardi e figli di codardi...»
Flaherty fece un passo avanti con la mano destra insanguinata appoggiata al calcio della pistola che portava appesa all'ascella sinistra in una presa del portuale. «Sono io, Roland-diSteven.»
«Dunque sai come mi chiamo?»
«Aye! Conosco il tuo nome dal tuo volto e il tuo volto dalla tua bocca. È la stessa bocca di tua madre, che succhiava con tanto godimento John Farson fino a fargli sparare il suo...»
Flaherty estrasse mentre parlava, una mossa da guerrigliero in cui si era senza dubbio esercitato e che doveva aver usato con profitto più di una volta. E sebbene fosse rapido e l'indice della mano sinistra di Roland stesse ancora toccando la sua bocca quando Flaherty cominciò a estrarre, il pistolero lo precedette senza difficoltà. La prima pallottola passò tra le labbra del capo masnadiero facendogli esplodere gli incisivi superiori in frammenti che Flaherty ingoiò con il suo ultimo respiro. Il secondo proiettile gli trapassò la fronte in mezzo alle sopracciglia e Flaherty fu scaraventato contro la porta, mentre la Glock gli sfuggiva dalla mano sparando il suo ultimo colpo nel pavimento.
Quasi tutti gli altri estrassero una frazione di secondo più tardi. Eddie uccise i sei che aveva davanti a sé, avendo tranquillamente ricaricato dopo aver sparato ad Albrecht. Quando la rivoltella fu vuota si spostò, come gli era stato insegnato, dietro il suo dinh per caricare di nuovo. Roland ne abbatté altri cinque, poi rotolò alle spalle di Eddie, che stava liquidando gli altri all'infuori di uno.
Lamla era stato abbastanza furbo da non provarci, cosicché fu l'ultimo a restare in piedi. Alzò le mani vuote, con le sue dita pelose e i palmi glabri. «Mi accorderai fiducia, pistolero, se ti prometto pace?»
«Nemmeno per sogno», rispose Roland e armò il cane.
«Che tu sia maledetto, allora, chary-ka», ribatté il taheen e Roland di Gilead gli sparò e Lamla di Galee crollò a terra morto.
2
Gli uomini di Flaherty erano ammucchiati davanti alla porta come una catasta di legna, con Lamla bocconi davanti agli altri. Non uno aveva avuto una sola possibilità di fare fuoco. Il corridoio piastrellato puzzava del fumo delle armi sospeso nell'aria in uno strato azzurrognolo. Poi entrarono in funzione i purificatori diffondendo dai muri un rumore stanco e i pistoleri sentirono l'aria che dapprima cominciava a muoversi e poi li accarezzava defluendo.
Eddie ricaricò la pistola, quella che ora era diventata sua, e la ripose nella fondina. Poi spostò di forza quattro dei cadaveri, aprendosi un varco per avvicinarsi alla porta. «Susannah! Suze, sei lì?»
Chi di noi, se non in sogno, si aspetta veramente di riunirsi con il più puro amore del nostro cuore, anche quando ci abbandona solo per qualche minuto e per la più ordinaria delle commissioni? Nessuno. Ogni volta che il nostro amore scompare alla nostra vista, nel segreto del nostro cuore lo diamo per morto. Avendo avuto un così grande dono, ragioniamo, come potremmo sperare di non essere trattati come Lucifero, colpevoli noi stessi di una presunzione pari alla sua?
Così Eddie non si aspettò di udire risposta finché non gli giunse... da un altro mondo e attraverso il legno massiccio della porta. «Eddie? Tesoro, sei tu?»
All'improvviso Eddie si sentì la testa, perfettamente normale fino a un secondo prima, così pesante da non poterla reggere. Si appoggiò alla porta. Altrettanto pesanti erano le palpebre, così fu costretto a chiudere gli occhi. Doveva essere il peso delle lacrime, perché all'improvviso vi nuotava dentro. Le sentiva scendere per le guance, calde come sangue. E sentì la mano di Roland che gli toccava la schiena.
«Susannah», mormorò Eddie. Aveva ancora gli occhi chiusi. Teneva la mano con le dita aperte contro la porta. «Puoi aprire?»
«No, ma potete farlo voi», rispose la voce di Jake.
«Con che parola?» chiese Roland. Alternava sguardi alla porta e dietro di sé, quasi sperando che giungessero rinforzi (perché si sentiva a casa), ma il tunnel piastrellato era deserto. «Quale parola, Jake?»
Ci fu una pausa, breve ma lunghissima per Eddie, poi la risposta arrivò all'unisono da tutti e due. «Chassit», dissero.
Eddie non aveva il coraggio di pronunciarla, aveva la gola inondata di lacrime. Roland invece non aveva impedimenti di sorta. Spostò alcuni altri cadaveri dalla porta (compreso quello di Flaherty, il cui volto era rimasto fissato nel suo ultimo ringhio) e ripeté la parola d'ordine. Di nuovo la porta tra i mondi si aprì. Fu Eddie a spalancarla e allora si ritrovarono di nuovo faccia a faccia, Susannah e Jake in un mondo, Roland e Eddie nell'altro, e tra loro una membrana trasparente e luccicante come mica vivente. Susannah allungò le braccia e le sue mani passarono attraverso la membrana come affiorando da una cortina d'acqua magicamente sollevatasi in verticale.
Eddie le afferrò. Lasciò che le dita di lei si chiudessero sulle sue e lo attirassero a Fedic.
3
Quando passò dall'altra parte anche Roland, Eddie aveva già sollevato da terra Susannah e la reggeva tra le braccia. Il ragazzo guardò il pistolero. Nessuno dei due sorrise. Fu Oy a farlo, accovacciato ai piedi del suo padrone.
«Hile, Jake», disse Roland.
«Hile, padre.»
«Così mi chiamerai?»
Jake annuì. «Sì, se mi è concesso.»
«Mi sarebbe immensamente gradito», rispose Roland. Poi, lentamente, con l'atteggiamento di chi sta facendo qualcosa che non gli è consueto, protese le braccia. Guardandolo con un'espressione solenne, senza mai distogliere gli occhi dal suo volto, il piccolo Jake avanzò tra quelle mani di assassino e attese che gli si posassero sulla schiena. Aveva vissuto quella scena in sogni che non avrebbe mai osato rivelare.
Intanto Susannah stava coprendo di baci il volto di Eddie. «Per poco non hanno preso Jake», stava raccontando. «Mi sono seduta dalla mia parte della porta... ed ero così stanca che mi sono addormentata. Deve avermi chiamato tre, quattro volte prima che io...»
Avrebbe ascoltato la sua storia più tardi, parola per parola e fino alla fine. Più tardi ci sarebbe stato tempo per confabulare. Al momento le posò la mano a coppa sul seno sinistro, dove poteva sentire il battito forte e regolare del suo cuore, e interruppe il suo racconto con la bocca.
Jake invece non parlava. Aveva appoggiato la guancia al petto di Roland. Teneva gli occhi chiusi. Sentiva sulla camicia del pistolero l'odore della pioggia e della polvere e del sangue. Pensò ai suoi genitori, che erano scomparsi; al padre di Benny, l'amico morto; al Père, che era stato catturato da coloro dai quali per tanto tempo era fuggito. L'uomo che lo teneva tra le braccia lo aveva già tradito una volta in nome della Torre, lo aveva lasciato precipitare, e Jake non poteva escludere che accadesse di nuovo. C'erano certamente miglia ancora da percorrere e sarebbe stato un arduo viaggio. Per il momento però era sereno. La sua mente era tranquilla e il suo cuore sofferente era in pace. Bastava abbracciare e sentirsi abbracciare.
Bastava restare lì con gli occhi chiusi e pensare: Mio padre è venuto a prendermi.
PARTE SECONDA
CIELO BLU
DEVAR-TOI
1
Il Devar-Tete
1
I quattro viaggiatori riuniti (cinque, contando Oy del Medio-Mondo) sostavano ai piedi del letto di Mia a contemplare quel che restava della twim di Susannah, vale a dire la sua gemella. Senza indumenti che abbozzassero in qualche modo le sembianze del cadavere, probabilmente nessuno di loro avrebbe potuto determinare con certezza che cosa fosse stato. Persino il ciuffo di capelli sopra la zucca spaccata della testa di Mia non aveva niente di umano; sarebbe potuto essere un batuffolo di polvere di eccezionale grandezza.
Cercando con lo sguardo lineamenti che non c'erano più, Roland si sorprese che restasse così poco della donna la cui ossessione - il tizio, il tizio, sempre il tizio - per molto poco non aveva pregiudicato per sempre la loro missione. E senza di loro, chi sarebbe rimasto a combattere contro il Re Rosso e il suo diabolico cancelliere? John Cullum, Aaron Deepneau e Moses Carver. Tre vecchi, uno dei quali malato di boccanera, quel morbo che Eddie chiamava can'cro.
Quante cose hai fatto, pensò rimirando il volto che finiva di polverizzarsi. Quante cose hai fatto e quante ancora avresti fatto, aye, e tutto senza controllo o scrupolo, e così il mondo sarebbe finito, credo, vittima dell'amore più che dell'odio. Perché l'amore è da sempre la più distruttiva delle armi.
Si sporse in avanti, sentì un odore che poteva essere di vecchi fiori o spezie antiche e soffiò. La cosa che somigliava ancora vagamente a una testa volò via come la lanugine di un'asclepiade o di un dente di leone.
«Non aveva intenzione di recare danno all'universo», commentò Susannah con una voce non del tutto salda. «Rivendicava solo il privilegio di ogni donna, quello di avere un figlio. Da amare e crescere.»
«Aye», convenne Roland, «tu dici il vero. Ed è questo che rende la sua morte così triste.»
«Certe volte», disse Eddie, «penso che sarebbe meglio per tutti se i benintenzionati scomparissero dalla faccia della terra.»
«Sarebbe anche la nostra fine, Ed», obiettò Jake.
Rifletterono tutti su quel concetto e Eddie si ritrovò a chiedersi quanti avessero già ucciso spinti dalle loro buone intenzioni. Di quelli che lo meritavano non gli importava affatto, ma ce n'erano stati altri... Susan, per esempio, l'amore perduto di Roland.
Roland distolse lo sguardo dai resti impalpabili del cadavere di Mia e si avvicinò a Susannah, che sedeva su uno dei letti vicini con le mani strette tra le cosce. «Raccontami tutto quello che è accaduto da quando ci hai lasciati sull'East Road, dopo la battaglia», la esortò. «Abbiamo bisogno di...»
«Roland, io non volevo lasciarvi. È stata Mia. Comandava lei. Se non avessi avuto un luogo dove rifugiarmi, un Dogan, avrebbe potuto sopraffarmi del tutto.»
Roland annuì per mostrarle che capiva. «Ciononostante dimmi come sei giunta a questo devar-tete. E altrettanto chiederò a Jake.»
«Devar-tete», ripeté Eddie. Un'espressione che aveva qualcosa di vagamente familiare. Aveva a che fare con Chevin di Chayven, il lento mutante che Roland aveva dovuto liberare dalle sue sofferenze a Lovell? Pensava di sì. «Che cos'è?»
Roland spaziò con la mano a indicare la stanza con tutti i suoi letti, ciascuno con la sua calotta all'estremità del flessibile tubo d'acciaio; letti dove solo gli dei sapevano quanti bambini dei Calla si erano sdraiati ed erano stati guastati. «Significa piccola prigione o camera di tortura.»
«A me non dà questa impressione», commentò Jake. Non sapeva quanti letti ci fossero, ma giudicava che il numero dovesse essere intorno a trecento. Almeno trecento.
«Magari ne troveremo una più grande prima della fine. Racconta la tua storia, Susannah, e anche tu Jake.»
«Dove andiamo da qui?» volle sapere Eddie.
«Forse la storia ce lo dirà», rispose Roland.
2
Roland e Eddie ascoltarono in religioso silenzio Susannah e Jake che raccontavano le loro avventure, una serie incredibile di colpi di scena. La prima volta in cui Roland intervenne fu per fermare Susannah mentre riferiva loro di Mathiessen van Wyck, che le aveva consegnato i suoi soldi e le aveva prenotato una camera d'albergo. Il cavaliere chiese a Eddie della tartaruga nella fodera della borsa.
«Io non sapevo che fosse una tartaruga. Pensavo potesse essere un sasso.» «Se vuoi raccontare di nuovo questa parte, io udirò», lo sollecitò Roland.
Così, concentrandosi, cercando di ricordare tutto alla perfezione (perché gli pareva accaduto tanto tempo prima), Eddie tornò a quando lui e Père Callahan erano saliti alla Grotta di Passo e avevano aperto l'astuccio di legno fantasma che conteneva la Tredici Nera. Pensavano che la Tredici Nera avrebbe aperto la porta, e in effetti così fu, ma prima...
«Infilammo l'astuccio nella borsa», ricordò Eddie. «Quella che a New York aveva la scritta SOLO STRIKE A MID-TOWN LANES e a Calla Bryn Sturgis SOLO STRIKE NEL MEDIO-
MONDO. Rammenti?»
Lo ricordavano tutti.
«E sentii qualcosa nella fodera. Lo dissi a Callahan e lui...» Eddie rimuginò. «E forse non è questo il momento di indagare, disse lui. O qualcosa del genere. Ero d'accordo. Ricordo di aver pensato che avevamo già a che fare con misteri a sufficienza e potevamo conservarci quello per un altro giorno. Roland, sai chi mai può aver messo quella cosa nella borsa?» «Se è per questo, chi lasciò la borsa nel lotto vacante?» chiese Susannah.
«O la chiave?» aggiunse Jake. «È stato sempre in quel pezzo di terreno che io trovai la chiave della casa di Dutch Hill. È stata la rosa? È possibile che la rosa abbia... non so... creato quegli oggetti?»
Roland rifletté. «Se devo avanzare un'ipotesi», dichiarò poi, «direi che è stato King a lasciare quei segni e sigul.»
«Lo scrittore», fece eco Eddie. Soppesò l'idea, quindi annuì adagio. Gli sovvenne il vago ricordo di un concetto discusso al liceo, quello del dio dalla macchina, doveva essere. C'era una pittoresca espressione in latino, ma non gli venne in mente. Probabilmente, mentre i compagni prendevano diligentemente i loro appunti, lui stava incidendo sul banco il nome di Mary Lou Kenopensky. Comunque l'idea era che quando un drammaturgo si trovava in un vicolo cieco, faceva scendere dall'alto una divinità che appariva su un carro inghirlandato e salvava i personaggi dai guai in cui si erano cacciati. Questo espediente compiaceva senza dubbio gli spettatori più religiosi che credevano che Dio - non la versione da effetti speciali che scendeva da una piattaforma invisibile al pubblico, ma Quello che risiedeva nel cielo - salvasse veramente le persone meritevoli. Erano concetti sicuramente ormai fuori moda, ma Eddie pensava che i romanzieri popolari del genere in cui sembrava fosse destinato a rientrare sai King - ricorressero ancora a quella tecnica, dissimulandola un po' meglio. Piccole scappatoie. Carte con la scritta
USCITE GRATIS DI PRIGIONE oppure SFUGGI AI PIRATI oppure TEMPORALE IMPROVVISO FA SALTARE LA LUCE, ESECUZIONE RINVIATA. Il deus ex machina (che in realtà era lo scrittore stesso) si adoperava pazientemente perché i suoi personaggi sopravvivessero in modo che la storia non dovesse concludersi con una frase insoddisfacente come:
Così il ka-tet fu spazzato a Jericho Hill e i cattivi vinsero, Discordia imperante, molto desolato, andrà meglio la prossima volta, (quale prossima volta, ah-ah).
FINE
Piccole reti di salvataggio, per esempio una chiave. Per non parlare di una tartarughina intagliata.
«Se ha introdotto quegli oggetti nella sua storia», notò Eddie, «è stato molto tempo dopo che l'abbiamo visto noi nel 1977.» «Aye», convenne Roland.
«E io non credo che sia stato lui a inventarle», continuò Eddie. «Lui è solo... non so... solo un...»
«Un blablà?» lo soccorse Susannah sorridendo.
«No!» esclamò Jake un po' scosso. «Quello no. È un sender. Un trasmettitore.» Stava pensando a suo padre e al suo impiego al Network.
«Ma certo!» si felicitò con se stesso Eddie indicando il ragazzo. Quell'idea gliene originò un'altra: che se Stephen King non fosse rimasto in vita abbastanza a lungo da introdurre quegli oggetti nella sua storia, quando ce ne fosse stato bisogno, la chiave e la tartaruga non sarebbero esistite. Jake sarebbe stato divorato dal guardiano della porta nella casa di Dutch Hill... posto sempre che vi arrivasse, cosa che probabilmente non sarebbe accaduta. E se fosse scampato al mostro di Dutch Hill, sarebbe stato divorato dagli Avi del Dixie Pig, i vampiri del Tipo Uno di Callahan.
Susannah si chiese se rivelare loro la visione che aveva avuto quando Mia aveva cominciato il suo ultimo viaggio dal Plaza-Park al Dixie Pig. In quella visione veniva scaraventata nella cella di una prigione di Oxford, nel Mississippi, dove udiva voci provenire da un misterioso televisore. Chet Huntley, Walter Cronkite, Frank McGee: annunciatori che facevano un appello di defunti. Alcuni di quei nomi, come il presidente Kennedy e i fratelli Diem, li conosceva. Altri, come Christa McAuliffe, le erano ignoti. Ma fra gli altri c'era anche il nome di Stephen King, ne era sicura. Il collega di Chet Huntley (buonanotte Chet buonanotte David)
che annunciava che Stephen King era stato investito e ucciso da un minivan Dodge mentre
passeggiava vicino a casa sua. Secondo Brinkley, King aveva cinquantadue anni.
Se Susannah lo avesse rivelato, moltissime cose sarebbero andate diversamente o non sarebbero successe per niente. Stava aprendo la bocca per entrare nella conversazione - un sassolino che cade dalla montagna colpisce un sasso che colpisce un sasso più grande che ne colpisce altri due e ha inizio la frana - quando si udirono lo scatto di una porta che si apriva e il rumore secco di passi in avvicinamento. Si girarono tutti, Jake infilando la mano nella sacca per prendere un Oriza, gli altri preparandosi a sfoderare le loro pistole.
«Calma, ragazzi», mormorò Susannah. «È tutto a posto. So chi è.» Poi, rivolgendosi a DNK 45932, DOMESTICO, aggiunse: «Non mi aspettavo di rivederti così presto. Anzi, non mi aspettavo di vederti e basta. Come va, Nigel, vecchio mio?»
Fu così che qualcosa che stava per essere detto non fu detto mai e il deus ex machina che sarebbe potuto scendere a salvare uno scrittore che aveva appuntamento con un minivan Dodge sul finire della primavera dell'anno 1999 rimase nel suo cielo, alto sopra i mortali che, sul palcoscenico, interpretavano i loro ruoli.
3
Il bello dei robot, nell'opinione di Susannah, era che generalmente non serbavano rancore. Nigel le riferì di non aver trovato nessuno che riparasse il suo sistema visivo (sebbene, disse, avrebbe potuto farlo da sé se avesse avuto accesso ai componenti, i dischi e i manuali giusti), così era dovuto tornare lì, usando gli infrarossi, a raccogliere i resti dell'incubatrice (fracassata e per la verità del tutto inutile). La ringraziò d'essersi interessata a lui e si presentò ai suoi amici.
«Lieto di conoscerti, Nigel», disse Eddie, «ma capisco che tu sia ansioso di metterti al lavoro per quelle riparazioni, perciò non ti tratteniamo.» Gli parlò con cordialità e ripose la pistola nella fondina, ma mantenne la mano sul calcio. In verità lo teneva un po' sulle spine la somiglianza di Nigel con un certo robot messaggero di un posto chiamato Calla Bryn Sturgis. Quel robot aveva serbato rancore.
«No, resta», interloquì Roland. «Potremmo avere dei compiti da assegnarti, ma al momento preferirei che te ne stessi zitto. Spento, se ti è gradito.» E anche se non ti va, sottintendeva il tono della sua voce.
«Certamente, sai», rispose Nigel nel suo affettato accento britannico. «Potrete riattivarmi con le parole: Nigel, mi servi.»
«Molto bene.»
Nigel s'incrociò sul petto le magre (ma senza dubbio potenti) braccia d'acciaio inossidabile e si zittì.
«È tornato a prendere dei cocci di vetro», si meravigliò Eddie. «Forse la Tet Corporation potrebbe metterli in vendita. Non c'è casalinga americana che non ne vorrebbe almeno due, uno per la casa e uno per il giardino.»
«Meno ci immischiamo con la scienza, meglio è», mormorò Susannah in tono amaro. Nonostante il breve sonno che si era concessa appoggiata alla porta tra Fedic e New York, era pallida e provata, quasi del tutto sfinita. «Guardate dove ha portato questo mondo.»
Roland incalzò con un cenno Jake, che raccontò le sue avventure con Père Callahan nella New York del 1999, a cominciare dal taxi che per poco non aveva travolto Oy e finendo con il loro attacco contro gli uomini bassi e i vampiri nella sala da pranzo del Dixie Pig. Non dimenticò di spiegare come si fossero disfatti della Tredici Nera lasciandola nell'armadietto di un deposito bagagli al World Trade Center, dove sarebbe rimasta al sicuro fino ai primi di giugno del 2002, e come avessero trovato la tartaruga, che Susannah aveva lasciato cadere come un messaggio in una bottiglia davanti al Dixie Pig.
«Così coraggioso», mormorò Susannah e arruffò i capelli di Jake. Poi si allungò ad accarezzare la testa a Oy. Il bimbolo protese il collo per accoglierla meglio, con gli occhi semichiusi e un sorriso beato sul musetto volpino. «Così coraggioso. Grazie-sai, Jake.» «Grazie Eik!» fece eco Oy.
«Non fosse stato per la tartaruga, ci avrebbero uccisi tutti e due.» La voce di Jake fu sicura, ma il suo viso si era sbiancato come quello di Susannah. «Invece il Père...» Si asciugò una lacrima e guardò Roland. «Tu hai usato la sua voce per spingermi a proseguire. Ti ho sentito.»
«Aye, ho dovuto», ammise il pistolero. «Era quello che voleva anche lui.»
«I vampiri non ce l'hanno fatta con lui», riprese Jake. «Ha usato la mia Ruger prima che potessero succhiargli il sangue e trasformarlo in uno di loro. Ma io credo che non lo avrebbero
fatto in ogni caso. Credo che lo avrebbero dilaniato e divorato. Erano fuori di sé.» Roland annuiva.
«L'ultima cosa che ha inviato... credo che lo abbia detto a voce alta, ma non ne sono certo...» Jake rifletté. Ora piangeva apertamente. «Ha detto: Che tu possa trovare la tua Torre, Roland, ed entrarci... e che tu possa salire fino in cima! Poi...» Jake soffiò sommessamente dalle labbra spinte in fuori. «Andato. Come una fiamma di candela. In quali mondi non so.»
Tacque. Per qualche momento nessuno parlò e il silenzio palpitò come una cosa viva. Finalmente Eddie disse: «Va bene, ora siamo di nuovo tutti assieme. Che cosa diavolo si fa adesso?»
4
Roland si sedette con una smorfia, poi rivolse a Eddie Dean uno sguardo che, più chiaramente di quanto avrebbe potuto fare un'esternazione verbale, significava: perché metti alla prova la mia pazienza!
«Andiamo», si schermì Eddie, «è solo un'abitudine. Smettila di guardarmi in quel modo.» «Che cosa è un'abitudine, Eddie?»
In quei giorni Eddie pensava più raramente al suo ultimo, penoso anno di tossicodipendenza con Henry, ma ci pensò ora. Solo che non gli andava di confessarlo, non perché se ne vergognasse - era più che convinto di aver superato quella fase - ma perché avvertiva l'irritazione crescente del pistolero per la sua tendenza a ricorrere al fratello maggiore quando aveva da dare qualche spiegazione. E forse era giusto così. Henry era stato senza dubbio il punto di riferimento di Eddie negli anni della sua formazione. Come Cort era stato nella vita di Roland... però il pistolero non parlava in continuazione del suo vecchio insegnante.
«Fare domande quando conosco già la risposta», dichiarò.
«E qual è la risposta questa volta?»
«Torneremo a Rombo di Tuono prima di proseguire per la Torre. O per uccidere i Frangitori o per liberarli. A seconda di che cosa sarà necessario fare per salvare i Vettori. Uccideremo Walter, o Flagg, o comunque si faccia chiamare. Perché è lui il comandante in capo, non è vero?»
«Lo era», corresse Roland, «ma ora è entrato in scena un altro protagonista.» Guardò il robot.
«Nigel, mi servi.»
Nigel abbassò le braccia e sollevò la testa. «In che modo posso servire?»
«Trovandomi qualcosa con cui scrivere. C'è?»
«Penne, matite e gesso nella guardiola del Supervisore in fondo alla Sala di Estrazione, sai. O così era l'ultima volta che ho avuto l'occasione di entrarci.»
«La Sala di Estrazione», ripeté Roland osservando i ranghi serrati dei letti. «Così la chiamate?»
«Sì, sai.» Poi, quasi timidamente: «Vocali elise e consonanti fricative indicano che sei in collera. È così?»
«Hanno portato qui bambini a centinaia e migliaia, bambini sani, perlopiù, presi da un mondo dove troppi ancora nascono deviati, e gli hanno succhiato via la mente. Perché dovrei essere in collera?»
«Sono sicuro di non saperlo, sai», rispose Nigel. Si stava forse pentendo di aver deciso di tornare. «Ma io non ho preso parte alle procedure di estrazione, te lo assicuro. Io sono addetto ai servizi domestici, manutenzione compresa.»
«Portami una matita e un pezzo di gesso.»
«Sai, non mi distruggerai, vero? In questi ultimi tredici o quattordici anni c'era il dottor Scowther a occuparsi delle estrazioni e il dottor Scowther è morto. L'ha ucciso questa signora-sai, e usando la pistola del dottore.» C'era una nota di rimprovero nella voce di Nigel, che seppure in un registro modesto sapeva essere espressiva.
«Portami una matita e un pezzo di gesso», si limitò a ripetere Roland, «e fallo jin-jin.» Nigel partì.
«Quando parli di un nuovo protagonista, alludi al neonato», osservò Susannah.
«Certamente. Ha due padri, quel bah-bo.»
Susannah annuì. Ripensava al racconto che le aveva fatto Mia durante la loro visita a contezza nella città abbandonata di Fedic... abbandonata da tutti meno che da creature come Sayre e Scowther e i Lupi razziatori. Due donne, una bianca e una nera, una incinta e una no, sedute davanti al Gin-Puppy Saloon. Lì Mia aveva raccontato molte cose alla moglie di Eddie Dean, forse più di quanto entrambe si rendessero conto.
Fu lì che mi cambiarono, le aveva confidato Mia, riferendosi forse a Scowther e a una équipe di altri medici. E anche maghi? Individui come i Manni, ma votatisi all'altra parte? Forse. Chi poteva dirlo? Nella Sala di Estrazione era stata resa mortale. Poi, quando già lei portava lo sperma di Roland, era accaduto qualcos'altro ancora. Non ricordava molto di quella parte, solo una tenebra rossa. Ora Susannah si domandò se il Re Rosso si fosse presentato a lei in persona, montandola con il suo vecchio ed enorme corpaccio di ragno, o se il suo seme diabolico fosse stato altrimenti trasportato in lei a mescolandosi in qualche modo con quello di Roland. Fatto sta che il feto era cresciuto in quell'ibrido disgustoso che Susannah aveva visto: non un licantropo, bensì un ragnantropo. E ora era libero e chissà dove. Forse lì vicino a spiarli mentre confabulavano e Nigel tornava portando materiale per scrivere.
Sì, pensò. Ci sta spiando e ci odia... ma non tutti alla stessa maniera. Soprattutto è Roland il dan-tete che odia. Il suo primo padre.
Rabbrividì.
«Mordred ha intenzione di ucciderti, Roland», affermò. «È la sua missione. È stato messo al mondo per questo. Per porre fine a te e alla tua ricerca e alla Torre.»
«Sì», ribatté Roland. «E per governare in luogo di suo padre. Perché il Re Rosso è vecchio e io sono andato sempre più convincendomi che è in qualche modo tenuto prigioniero. Se è così, non è più lui il nostro vero nemico.»
«Andremo al suo castello dall'altra parte di Discordia?» chiese Jake. Era la prima volta che apriva bocca da mezz'ora. «Ci andremo, vero?»
«Credo di sì», confermò Roland. «Le Casse Roi Russe, dicono le antiche leggende. Ci andremo ka-tet e spegneremo la vita di chi vi alberga.»
«Così sia», chiosò Eddie. «Per Dio, così sia.»
«Aye», annuì Roland. «Ma la nostra prima missione sono i Frangitori. Il Vettoremoto che abbiamo avvertito a Calla Bryn Sturgis, poco prima di venire qui, indica che hanno quasi compiuto il loro lavoro. Ma anche se così non fosse...» «Fermarli è il nostro compito», finì per lui Eddie.
Roland annuì. Sembrava più stanco che mai. «Aye», disse. «Ucciderli o liberarli. In un modo o nell'altro dobbiamo distoglierli dai due Vettori superstiti. E dobbiamo liquidare il dan-tete. Quello che appartiene al Re Rosso... e a me.»
5
Nigel si rivelò molto utile (sebbene non solo a Roland e al suo ka-tet, per come andranno le cose). Per cominciare portò due matite, due penne (una delle quali era un prezioso oggetto d'antiquariato che ben si sarebbe adattato a uno scrivano dei tempi di Dickens) e tre pezzi di gesso, uno dei quali in un portagesso d'argento che sembrava quello di un rossetto da signora. Roland scelse quest'ultimo e offrì un altro pezzo a Jake. «Io non so scrivere parole che voi possiate capire facilmente», spiegò, «ma i nostri numeri sono gli stessi, o molto simili. Scrivi quello che io ti dico su un lato, Jake, e scrivi onestamente.»
Jake fece come gli era stato chiesto. Il risultato fu una mappa rozza ma abbastanza comprensibile, corredata di una legenda.

«Fedic», disse Roland indicando il numero 1, e da lì trasse una breve linea con il gesso fino al 2. «E qui c'è Castello Discordia, con sotto le porte. Un incredibile groviglio di porte, da quel che sentiamo. Sotto il Castello ci sarà un passaggio che ci porterà da qui a qui. Ora, Susannah, spiega di nuovo come escono i Lupi e che cosa fanno.» Le porse il gesso nel tubetto d'argento.
Susannah lo prese notando con ammirazione come si andava affilando con l'uso. Un trucco da poco ma elegante.
«Passano da una porta a senso unico che li fa uscire qui», disse, tracciando una linea dal 2 al 3, il numero accanto al quale Jake aveva scritto STAZIONE DI ROMBO DI TUONO. «Dovremmo riconoscere questa porta quando la vediamo, perché sarà grande, a meno che escano in fila indiana.»
«Forse lo fanno», osservò Eddie. «Se non mi sbaglio, si devono adattare a quello che gli hanno lasciato gli Antichi.»
«Non ti sbagli», intervenne Roland. «Procedi, Susannah.» Invece di stare accovacciato, sedeva con la gamba destra distesa e rigida. Eddie si domandò quanto male gli facesse l'anca e se avesse ancora di quell'olio di gatto di Rosalita nel fagotto da poco recuperato. Ne dubitava.
«I Lupi partono da Rombo di Tuono lungo la strada ferrata, almeno finché non sono usciti dall'ombra... o dalla tenebra... o da qualunque cosa sia», proseguì Susannah. «Tu lo sai, Roland?» «No, ma presto vedremo.» Fece il suo gesto impaziente roteando le dita della mano sinistra.
«Attraversano il fiume per raggiungere i Calla e rapiscono i bambini. Quando tornano alla stazione di Rombo di Tuono, credo che debbano imbarcare i cavalli e il loro bottino su un treno per tornare a Fedic in quel modo, perché la porta non è più utilizzabile.»
«Aye, credo anch'io che funzioni così», concordò Roland. «E scavalcano il devar-toi, la prigione che abbiamo segnato con il numero 8.»
«Scowther e i suoi dottori nazisti usavano quei cappucci che ci sono sui letti per estrarre qualcosa dai bambini», continuò Susannah. «È quello che danno ai Frangitori. Non so se glielo fanno mangiare o glielo iniettano. I bambini e la materia cerebrale tornano alla stazione di Rombo di Tuono passando per la porta. I bimbini vengono rispediti a Calla Bryn Sturgis, forse anche agli altri Calla, e a quella che hai chiamato devar-toi...»
«Padrone, la cena è servita», recitò sotto voce Eddie.
A quel punto s'intromise Nigel in un tono di voce più che mai gaio. «Desiderate un boccone, sai?»
Jake consultò il proprio stomaco e lo sentì gorgogliare. Era orribile avere appetito dopo la morte del Père... e dopo quello che aveva visto al Dixie Pig. Ma aveva proprio fame. «C'è da mangiare, Nigel? Davvero?»
«Ma certamente, giovanotto», rispose Nigel. «Solo cibi in scatola, temo, ma ho da offrire più di due dozzine di varietà, fra cui fagioli al forno, tonno, diversi tipi di minestra...» «Per me il pesce», rispose Roland. «Ma portane in quantità, per favore.»
«Certamente, sai.»
«Immagino che non sapresti rimediarmi un Elvis Special», commentò Jake trasognato.
«Sarebbe burro d'arachidi, banana e bacon.»
«Gesù, ragazzo mio», gemette Eddie. «Non so se si vede in questa luce, ma sto diventando verde.»
«Non ho né bacon né banane, purtroppo», si rammaricò Nigel. «Ma ho burro d'arachidi e tre tipi di confetture. E anche burro di mele.»
«Il burro di mele andrà bene.»
«Vai avanti, Susannah», disse Roland mentre Nigel si allontanava. «Anche se non credo che ci sia molta fretta; dopo mangiato, sarà meglio che ci riposiamo un po'.» Sembrava gradire poco quella prospettiva.
«Non credo che ci sia altro da aggiungere», rispose lei. «A descriverlo, sembra un po' un giro dell'oca, e anche a vederlo sulla mappa, in fondo, ma è solo perché non è in scala. Fondamentalmente, comunque, si tratta di un doppio andata e ritorno che compiono ogni ventiquattro anni: da Fedic a Calla Bryn Sturgis e di nuovo a Fedic con i bambini per l'estrazione. Dopodiché i bambini vengono riportati ai Calla e la materia cerebrale alla prigione dove sono rinchiusi i Frangitori.»
«Il devar-toi», disse Jake.
Susannah annuì. «La domanda è che cosa possiamo fare per interrompere il ciclo.»
«Useremo la porta per arrivare alla stazione di Rombo di Tuono», spiegò Roland, «dalla Stazione andremo alla prigione e lì...» Guardò a uno a uno i membri del suo ka-tet, poi alzò il dito e mimò in modo eloquente una pistola che spara.
«Ci saranno delle guardie», obiettò Eddie. «Molte, forse. Se ce ne fossero troppe?» «Non sarà la prima volta», disse Roland.
2
L'osservatore
1
Nigel tornò con un enorme vassoio. Su di esso erano impilati dei sandwich accanto a due thermos di minestra (manzo e pollo), e bibite in lattina. C'erano Coca-Cola, Sprite, Nozz-A-La e una cosa chiamata Wit Green Wit. Eddie provò quest'ultima e la dichiarò vomitevole oltre ogni descrizione.
Tutti si accorsero che Nigel non era più la stessa macchina gioviale e pimpante che era stata per Dio solo sapeva quanti decenni e secoli. Continuava a girare la testa romboidale di qua e di là. Quando la girava a sinistra mormorava: «Un-deux-trois!» A destra diventava: «Ein-zwei-drei!» Dal diaframma avevano cominciato a salirgli sordi rumori metallici.
«Che cosa ti succede, dolcezza?» si informò Susannah quando il robot domestico posò il vassoio per terra in mezzo al gruppo.
«Gli esami di autodiagnostica indicano un'aspettativa di funzionamento da un minimo di due a
un massimo di sei ore prima del blocco totale del sistema», annunciò Nigel, calmo, seppure con una punta di amarezza. «I preesistenti difetti logici rimasti finora in quarantena sono filtrati nei GMS.» Torse quindi violentemente la testa a destra. «Ein-zwei-drei! Attento a quel che fai, o Greg ti buscherai!»
«Che cosa sono i GMS?» domandò Jake.
«E chi è Greg?» volle sapere Eddie.
«GMS indica il complesso dei sistemi preposti alle attività mentali», spiegò Nigel. «Ce ne sono due, razionale e irrazionale. Coscienza e inconscio, potremmo dire. Quanto a Greg, sarebbe Greg Stillson, il personaggio di un romanzo che sto leggendo. Molto piacevole. S'intitola La zona morta, di Stephen King. Perché l'ho introdotto in questo contesto, non ne ho idea.»
2
Nigel spiegò che i difetti di logica erano comuni in quelli che lui chiamava Robot di Asimov. Più il robot era intelligente, più alto era il numero dei bachi logici... e più velocemente avrebbero cominciato a manifestarsi. Gli Antichi (Nigel li chiamava i Fattori) vi avevano posto rimedio introducendo un rigoroso sistema di quarantena che trattava i difetti mentali come se fossero vaiolo o colera. (A Jake sembrò un ottimo modo per neutralizzare le anomalie psichiche, ma sospettava che gli psichiatri non avrebbero accettato volentieri una proposta del genere; sarebbero rimasti senza lavoro.) Nigel riteneva che il trauma subito dagli occhi avesse indebolito i suoi sistemi di sopravvivenza mentale e che ora nei suoi circuiti si fossero travasati ogni sorta di difetti a scapito delle sue capacità di ragionamento deduttivo e induttivo e della linearità dei suoi sistemi logici. Assicurò Susannah che non la riteneva assolutamente responsabile. Susannah si portò il pugno alla fronte e lo ringraziò alla grande-grande. In verità, non credeva del tutto al buon vecchio DNK 45932, ma in nessun modo sarebbe stata capace di spiegare perché. Forse era un residuo del suo soggiorno a Calla Bryn Sturgis, dove un robot non molto diverso da Nigel si era infine rivelato quanto mai maligno e vendicativo. E c'era qualcos'altro ancora.
Ti vedo, ti vedo, pensò Susannah.
«Mostrami le mani, Nigel.»
Quando il robot ubbidì, tutti videro i peli coriacei rimasti impigliati nelle giunture delle dita d'acciaio. C'era anche una goccia di sangue su... si poteva chiamarla «nocca»? «Questi che cosa sono?» gli chiese lei, staccandogli alcuni peli dall'articolazione.
«Chiedo scusa, madame, non...»
Non vedo, questo intendeva. No, certo che no. Nigel usava gli infrarossi, ma la sua vista normale era fuori gioco, per gentile concessione di Susannah Dean, figlia di Dan, pistolero ka-tet del Diciannove.
«Sono peli. Vedo anche del sangue.»
«Ah, sì», confermò Nigel. «Topi in cucina, madame. Sono programmato per eliminare i parassiti quando li trovo. Ce ne sono in gran numero in questi giorni, mi spiace dirlo; il mondo sta andando avanti.» Dopodiché, con uno scatto violento della testa sulla sinistra: «Un-deux-trois! Minnie Mouse est le mouse pour moi!»
«Mmm... hai ucciso Minnie e Mickey prima o dopo aver preparato i sandwich, Nigel caro?» chiese Eddie.
«Dopo, sai, te lo assicuro.»
«Be', allora mi sa che io passo», concluse Eddie. «Mi sono fatto un Poorboy nel Maine e mi è rimasto qui.» Si batté la mano di taglio contro il petto.
«Dovresti dire un-deux-trois», obiettò Susannah. Le parole le sfuggirono di bocca prima che sapesse che stava per pronunciarle.
«Invoco perdono?» Eddie sedeva accanto a lei tenendole un braccio intorno alla schiena. Da quando i quattro si erano riuniti, toccava Susannah a ogni occasione, come se avesse bisogno di assicurarsi che fosse davvero lì con lui in carne e ossa.
«Niente.» Più tardi, quando Nigel fosse stato lontano o guasto del tutto, gli avrebbe rivelato la sua intuizione. Pensava che i robot come Nigel e Andy, al pari di quelli dei racconti di Isaac Asimov che aveva letto da adolescente, non potessero mentire. Forse Andy era stato modificato o si era modificato da sé, perciò per lui il problema era stato superato. Nel caso di Nigel, invece, credeva che un problema ci fosse: diciamo problema alla grande-grande. Aveva il sospetto che, a differenza di Andy, Nigel fosse essenzialmente in buona fede, eppure... sì, quanto ai topi nella dispensa o aveva mentito o ci aveva messo un po' del suo. Ein-zwei, dreì e un-deux-trois, erano il suo modo per scaricare la pressione. Almeno per il momento.
È Mordred, pensò guardandosi intorno. Prese un sandwich perché aveva bisogno di mangiare come Jake, era famelica - ma non aveva più appetito e sapeva che non avrebbe ricavato alcun gusto da quello che sarebbe stata costretta a ingoiare di malavoglia. Ha concupito Nigel e adesso ci sta spiando. Lo so... lo sento.
E, mentre staccava il primo morso di una carne misteriosa, conservata per chissà quanto tempo sottovuoto:
Una madre sa sempre.
3
Nessuno di loro voleva dormire nella Sala di Estrazione (sebbene avrebbero avuto da scegliere fra trecento o più letti appena fatti), né nella città deserta, così Nigel li condusse al suo alloggio, fermandosi ogni tanto per un'energica scrollata di testa e per contare in tedesco o in francese. Intanto aveva cominciato ad aggiungere numeri in un'altra lingua che nessuno di loro conosceva.
Passarono attraverso la cucina - tutta in acciaio inossidabile e fornita di macchinari che ronzavano sommessamente, molto diversa da quella d'altri tempi che Susannah aveva visitato a contezza sotto Castello Discordia - e sebbene tutti notassero il minimo disordine lasciato da Nigel quando aveva preparato il loro spuntino, non videro traccia di topi, né vivi né morti. Nessuno commentò.
La sensazione che aveva Susannah di essere osservata, andava e veniva. Dietro la dispensa c'era un bell'appartamentino di tre locali, presumibilmente il posto dove Nigel appendeva il suo cappello. Non c'era una camera da letto: oltre al soggiorno e a un ufficio da maggiordomo pieno di attrezzature da monitoraggio, c'era uno studio con molte librerie, una scrivania di quercia e una chaise longue sotto una lampada alogena da lettura. Il computer sulla scrivania era stato fabbricato dalla North Central Positronics e non fu una sorpresa. Nigel portò loro coperte e guanciali assicurandoli che erano freschi e puliti.
«Forse dormirai in piedi, ma scommetto che per leggere preferisci sederti come fanno tutti», commentò Eddie.
«Oh, ma certamente, un-due-trente», rispose Nigel. «Leggere mi piace un sacco. Rientra nella mia programmazione.»
«Dormiremo sei ore, poi ci metteremo in marcia», annunciò Roland.
Intanto Jake stava esaminando più attentamente i libri. Oy lo accompagnava, come sempre alle sue calcagna, mentre Jake sostava a leggere i titoli sui dorsi, sfilando ogni tanto un libro per studiarlo meglio. «Ha tutta la collezione di Dickens, mi sembra», mormorò. «Ci sono anche Steinbeck... Thomas Wolfe... e molti di Zane Gray... di un certo Max Brand... uno che si chiama Elmore Leonard... e il solito Steve King.»
Indugiarono tutti a osservare i due ripiani dei libri di King, più di trenta in tutto, quattro almeno dei quali molto voluminosi e due decisamente enormi. A quanto pareva, dai tempi di Bridgton, quel King ci aveva dato proprio dentro. L'ultimo volume in ordine di tempo s'intitolava Cuori in Atlantide ed era stato pubblicato in un anno che conoscevano tutti assai bene: 1999. Gli unici a mancare, per quel che potevano vedere, erano quelli che raccontavano di loro. Posto che King fosse andato avanti a scriverne. Jake controllò le pagine dei copyright, ma non trovò assenze che balzassero all'occhio. Poteva non significare nulla, però, visto quanto aveva scritto.
Susannah interrogò Nigel, che dichiarò di non aver mai visto libri di Stephen King che raccontassero di Roland di Gilead o della Torre Nera. Poi, detto questo, girò di scatto la testa a sinistra e contò in francese, arrivando questa volta fino a dieci.
«Comunque», disse Eddie quando Nigel si fu ritirato uscendo dalla stanza su una scia di clic e clac e cloc, «scommetto che qui ci sono parecchie informazioni che possono tornarci utili.
Roland, credi che potremmo portar via con noi le opere di Stephen King?»
«Forse sì», rispose Roland, «ma non lo faremo. Potrebbero confonderci.»
«Perché dici così?»
Roland scosse la testa e niente più. Non sapeva perché lo avesse detto, ma sapeva che era vero.
4
Il centro nevralgico della Stazione Sperimentale dell'Arco 16 era quattro livelli sotto la Sala di Estrazione, la cucina e lo studio di Nigel. Si entrava nel Centro di Controllo attraverso un vestibolo a forma di capsula. Dall'esterno il vestibolo poteva essere aperto solo usando tre tessere magnetiche, una dopo l'altra. Il Muzak di sottofondo, a livello più basso del Dogan di Fedic, era di melodie beatlesiane eseguite da un ensemble che doveva chiamarsi Comatose String Quartet.
Il Centro di Controllo era costituito da una decina di locali, ma il solo di cui dobbiamo occuparci era quello pieno di schermi e apparecchiature di sorveglianza. Una di queste ultime coordinava l'operato di un piccolo ma micidiale esercito di robot-killer, armati di bocce e pistole laser; un'altra era programmata perché rilasciasse gas velenoso (lo stesso che aveva usato Blaine per sterminare la popolazione di Lud) nel caso di un sopravvento del nemico. La qual cosa, dal punto di vista di Mordred Deschain, si era appunto verificata. Aveva cercato di attivare i cacciatori-killer e il gas, ma le apparecchiature non avevano risposto. Ora Mordred aveva il naso insanguinato, un livido sulla fronte e il labbro inferiore tumefatto, per essere caduto dalla poltrona a rotelle su cui sfrecciava di qua e di là, mandando stridule grida infantili che in nessun modo riflettevano l'autentica profondità del suo furore.
Poterli vedere su almeno quattro schermi diversi e non essere in grado di ucciderli e nemmeno ferirli! Per forza era infuriato! Aveva sentito avvicinarsi la tenebra vivente, quella tenebra che segnalava la sua metamorfosi, e si era costretto a rimanere calmo per impedire che il procedimento avesse luogo. Aveva già scoperto che la trasformazione da umano a ragno (e viceversa) consumava spaventosi quantitativi di energia. In seguito forse non sarebbe stato più molto importante, ma al momento doveva agire con la massima prudenza se non voleva spegnersi d'inedia come un'ape in un bosco carbonizzato da un incendio.
Vi illustro ora qualcosa che batte per bizzarria tutto quanto avete visto finora e vi avverto in anticipo che il vostro primo impulso sarà di ridere. Va bene così. Ridete se vi viene di farlo. Solo, non distogliete lo sguardo da ciò che vedete, perché anche se solo immaginata, questa è una creatura che può farvi del male. Ricordate che è stata generata da due padri, entrambi assassini.
5
Dunque, già poche ore dopo la nascita, il tizio di Mia pesava otto chili e aveva in tutto e per tutto l'aspetto di un florido bebè di sei mesi. Mordred indossava un solo indumento, una salvietta a mo' di pannolino che gli aveva messo Nigel quando aveva portato al neonato il suo primo pasto a base di selvaggina Dogan. Il piccolo aveva bisogno del pannolino perché non era ancora in grado di trattenere le sue evacuazioni. Sapeva che avrebbe assunto molto presto il controllo di quelle funzioni, forse prima che finisse il giorno se avesse continuato a crescere a quella velocità, ma per il momento doveva suo malgrado sopportare quell'inconveniente. Era imprigionato in quell'inadeguato corpo da infante.
Essere intrappolato in quel modo era orribile. Cadere dalla poltrona e non poter far altro che rimanere lì ad agitare braccia e gambe ammaccate, sanguinando e strillando! DNK 45932 sarebbe corso a raccoglierlo, non avrebbe potuto resistere agli ordini del figlio del Re più di quanto un piombo lasciato cadere da una finestra resisterebbe alla forza di gravità; ma Mordred non osava chiamarlo. La troia color cioccolato già sospettava qualcosa sul conto di Nigel. La troia color cioccolato era maledettamente percettiva e Mordred era tremendamente vulnerabile. Era capace di manovrare tutto l'equipaggiamento della stazione dell'Arco 16, entrare in sintonia con le macchine era uno dei suoi molteplici talenti, ma mentre giaceva sul pavimento della stanza sulla cui porta c'era scritto CENTRO CONTROLLO (quella che prima che il mondo andasse avanti chiamavano La Testa), Mordred si rese conto che c'era assai poco da controllare, in fatto di macchinari. Per forza suo padre voleva abbattere la Torre e cominciare tutto di nuovo! Quel mondo era da buttar via.
Dovette ritrasformarsi in ragno per poter risalire sulla poltrona, dove assunse di nuovo le sembianze umane... ma quand'ebbe finito, si ritrovò in preda a una fame micidiale, con lo stomaco che protestava e la bocca che sbavava. Non era solo la metamorfosi a consumarlo; sospettava infatti che, poiché la sua vera forma era quella del ragno, quando si trovava in quella condizione il suo metabolismo subiva un'accelerazione pressante. Cambiavano anche i suoi pensieri in una maniera che lo affascinava non poco, perché i suoi pensieri umani erano conditi dalle emozioni (sulle quali sembrava non avere controllo, anche se forse in futuro lo avrebbe sviluppato), perlopiù sgradevoli. Da ragno, i suoi pensieri non erano affatto pensieri, almeno non secondo un punto di vista umano; erano cose scure e ringhianti che salivano da un liquido livello inferiore. Erano pensieri di
(MANGIARE)
e
(CACCIARE) e
(STUPRARE) e
(UCCIDERE!)
I molti modi gustosi per fare tutte queste cose attraversavano la rudimentale coscienza del dan-tete come enormi veicoli con i fari accesi lanciati senza controllo nella più buia notte di questo mondo. Pensare in quel modo - staccarsi dalla sua metà umana - gli procurava un piacere immenso, ma pensava che se ci si fosse provato ora, quand'era praticamente privo di difese, ne sarebbe rimasto ucciso.
E già aveva corso un bel rischio, in quel senso. Sollevò il braccio destro - roseo e liscio e perfettamente nudo - per guardarsi il fianco. Era lì che la troia color cioccolato gli aveva sparato e, sebbene da allora fosse considerevolmente cresciuto, raddoppiando in statura e peso, la ferita era ancora aperta e trasudava sangue mescolato a una sostanza densa come crema pasticciera, color giallo scuro e puzzolente. Pensava che quella ferita nel suo corpo umano non si sarebbe mai rimarginata. Come del resto il suo altro corpo non sarebbe mai stato capace di riprodurre la zampa che la troia gli aveva staccato sparandogli. E se non fosse inciampato - ka: aye, ne era certo - ci avrebbe rimesso la testa invece della zampa e allora buonanotte al secchio, perché...
Ci fu un ronzio secco e crepitante. Guardò il monitor che trasmetteva l'immagine dell'altro lato dell'ingresso principale e vide il robot domestico con un sacco in mano. Il sacco si contorceva e il bambino bruno seduto davanti ai monitor nel suo pannolino di fortuna, cominciò immediatamente a sbavare. Pigiò una serie di tasti con la tenera manina. La porta convessa si aprì e Nigel entrò nel vestibolo, che era costruito come una camera stagna. Mordred passò velocemente alla tastiera con cui si apriva la porta interna in risposta alla sequenza 2-5-4-1-3-1-2-1, ma il controllo che aveva sui propri movimenti era ancora quasi nullo, cosicché ottenne solo un altro stridulo ronzio e quell'irritante voce femminile (lo mandava in bestia perché gli ricordava la voce della troia color cioccolato) che disse: «HAI INSERITO IL CODICE DI SICUREZZA SBAGLIATO PER
QUESTA PORTA. PUOI PROVARE UN'ALTRA VOLTA ENTRO I PROSSIMI DIECI SECONDI. DIECI... NOVE...»
Mordred l'avrebbe mandata a fare in culo, se fosse stato capace di parlare. Riuscì solo a produrre un farfugliare da neonato che senza dubbio avrebbe inorgoglito profondamente Mia. Lasciò perdere i tasti. Il desiderio di quello che il robot aveva nel sacco era troppo forte. Questa volta i topi (presumeva che fossero topi) erano vivi. Sì, vivi, per Dio, con il sangue che correva ancora nelle loro vene.
Mordred chiuse gli occhi e si concentrò. Sotto la sua pelle chiara, dalla testa fino al tallone destro con la sua voglia, fluì nuovamente la luce rossa che Susannah aveva visto apparire in occasione della sua prima trasformazione. Quando quella luce passò dalla ferita aperta che aveva sul fianco, il lento deflusso di sangue e sostanza purulenta s'intensificò per un istante e Mordred si lasciò sfuggire un gemito. Si portò la mano alla ferita e si spalmò il sangue sul piccolo addome in un distratto gesto di autoconforto. Per un momento il flusso rosso fu sostituito da una sensazione di buio, accompagnata da un tremito che percorse tutte le sue forme infantili. Questa volta però non ci fu metamorfosi. Il bambino si accasciò contro lo schienale della poltroncina, ansimando, mentre dal pene gli scaturiva un rivoletto di orina chiara a bagnargli la salvietta legata tra le gambe. La consolle davanti alla poltrona, su cui il neonato si era accasciato messo di traverso ad ansimare come un cane, emise un rumore ovattato.
Dall'altra parte della stanza, la porta scorrevole con scritto INGRESSO PRINCIPALE si aprì. Entrò a passi pesanti Nigel, che ora non smetteva praticamente più di voltare la capsula che aveva per testa da una parte e dall'altra, contando non più in due oltre lingue, ma forse in una decina intera.
«Signore, non posso davvero continuare a...»
Con una serie di allegri gu-gu-ga-ga da neonato, Mordred protese le mani verso il sacco. Il pensiero che inviò al robot fu tanto esplicito quanto perentorio: Zitto. Dammi qui.
Nigel posò il sacco sulle sue ginocchia. Da esso uscì uno squittio simile quasi a un gemito umano e solo in quel momento Mordred si rese conto che ad agitarsi era una sola creatura. Non un topo, dunque! Qualcosa di più grosso! Più carne e più sangue!
Aprì il sacco e vi guardò dentro. Lo guardarono imploranti due occhi cerchiati d'oro. Per un momento pensò che fosse l'uccello che volava di notte, l'uccello hu-hu, non ricordava il nome, poi vide che l'animale era coperto di pelo e non di penne. Era un throcken, conosciuto in molte parti del Medio-Mondo come bimbolo, così piccolo, quello, da non poter esser stato svezzato da molto da sua madre.
Buono buono, pensò rivolgendosi al bimbolo mentre cominciava a sbavare. Siamo nella stessa barca, mio piccolo camerata, figli orfani in un mondo duro e crudele. Buono, che ci penso io a consolarti.
Comunicare con una creatura così giovane e intellettualmente elementare come quella non era molto diverso che comunicare con le macchine. Mordred guardò nei suoi pensieri e localizzò il nodo che controllava il suo semplice centro della volontà. Lo afferrò con una mano fatta di pensiero, fabbricata con la propria volontà. Per un istante percepì il timido pensiero di speranza formulato dalla creatura
(non farmi del male ti prego non farmi del male; ti prego lasciami vivere; voglio vivere e divertirmi e giocare un po'; non farmi del male ti prego non farmi del male ti prego lasciami vivere) e rispose:
Va tutto bene, non temere, camerata, va tutto bene.
Il bimbolo dentro il sacco (Nigel l'aveva trovato al parco macchine, separato da madre, fratelli e sorelle dal chiudersi di una porta automatica) si rilassò... non tanto perché ci credesse, ma perché sperò di crederci.
6
Nello studio di Nigel le luci erano state abbassate a un quarto della loro potenza. Quando Oy cominciò a gemere, Jake si svegliò di scatto. Gli altri continuarono a dormire, almeno sulle prime. Che cosa c'è, Oy?
Il bimbolo non rispose e continuò invece a guaire dal fondo della gola. I suoi occhi cerchiati d'oro erano fissi nell'ombra fitta dell'angolo più distante, come se laggiù vedessero qualcosa di terribile. Jake ricordava di aver sbirciato nell'angolo della sua camera da letto in quella stessa maniera dopo che si svegliava da un incubo nelle ore piccole della notte, un sogno con Frankenstein o Dracula o (un tirannosorbo)
qualche altro spauracchio, qualunque fosse. Ora, pensando che forse anche i bimboli avessero
gli incubi, s'impegnò ancora di più nel toccare la mente di Oy. Dapprincipio non trovò niente, poi l'immagine sfocata e profonda
(occhi... occhi che guardavano dalla tenebra) di qualcosa che poteva essere un bimbolo dentro un sacco.
«Sssst», bisbigliò all'orecchio di Oy, cingendolo con un braccio. «Non svegliarli, hanno bisogno di riposare.»
«Sare», disse Oy, a voce bassissima. «Hai solo fatto un brutto sogno», sussurrò Jake. «Qualche volta capita anche a me. Non sono cose vere. Nessuno ti ha messo in quel sacco. Torna a dormire.»
«Mire.» Oy posò il muso sulla zampa anteriore destra. «Oy-buono.» Bravo, Jake si rivolse a lui, Oy sta buono.
Gli occhi cerchiati d'oro, ancora turbati, rimasero aperti ancora un po'. Poi Oy strizzò un occhio a Jake e li chiuse entrambi. Un istante dopo, il bimbolo dormiva di nuovo. Poco distante uno della sua specie era morto... ma morire era cosa di questo mondo; era un mondo duro e sempre lo sarebbe stato.
Oy sognò di essere con Jake sotto il grande globo arancione della Luna dell'Ambulante. Jake, dormendo a sua volta, lo intercettò tramite il tocco e insieme sognarono la Luna del Girovago.
Chi è morto, Oy? chiese Jake sotto l'ammiccare sagace dell'unico occhio dell'Ambulante.
Oy, rispose il suo amico. Delah... Molti.
Sotto il vuoto sguardo arancione del Girovago, Oy non aggiunse altro; aveva in verità trovato un sogno dentro il suo sogno e lì si recò anche Jake con lui. Quel sogno era migliore. In esso giocavano insieme nella luce scintillante del sole. Si unì a loro un altro bimbolo, un animaletto triste, a giudicare dall'espressione. Cercò di parlare, ma né Jake né Oy capirono che cosa stesse dicendo, perché parlava in inglese.
7
Mordred non era abbastanza forte da estrarre il bimbolo dal sacco e Nigel o non voleva o non poteva aiutarlo. Il robot sostava appena oltre la porta del Centro di Controllo e torceva la testa di qua e di là, contando e sferragliando più che mai. Aveva cominciato a emanare un odore di surriscaldamento e circuiti cotti.
Mordred riuscì a rovesciare il sacco e il bimbolo, probabilmente di pochi mesi, gli cadde in grembo. Aveva gli occhi aperti per metà, ma le pupille gialle e nere erano spente e immobili.
Mordred rovesciò la testa all'indietro con una smorfia di concentrazione. Il lampo rosso gli percorse il corpo e i capelli cercarono di drizzarglisi sulla testa. Ma prima che potessero cominciare a sollevarsi dal cranio, scomparvero assieme al corpo da infante al quale appartenevano. Tornò ragno. Agganciò quattro delle sue sette zampe al corpo del bimbolo e se lo portò senza fatica alla bocca agognante. In venti secondi lo aveva prosciugato completamente. Conficcò la bocca nel ventre soffice della creatura, glielo squarciò, levò il corpo ancora più in alto e ne divorò le budella che rotolavano fuori: squisite masse rifocillanti di carni madide. Mangiò più a fondo tra sommessi mugolii di soddisfazione, spaccò la spina dorsale del bimbolo e succhiò il poco midollo che affiorò dall'osso. La gran parte dell'energia era contenuta nel sangue - aye, sempre nel sangue, come ben sapevano gli Avi - ma c'era forza anche nella carne. Come neonato umano (Roland aveva usato il vecchio vezzeggiativo di Gilead, bah-bo), non avrebbe potuto trovare nutrimento né nel succo, né nelle carni. Anzi, ne sarebbe stato probabilmente strozzato a morte. Ma da ragno...
Quand'ebbe finito, buttò il cadavere per terra, dove già aveva gettato i corpi smunti e disseccati dei topi. Nigel, il devoto zelante maggiordomo, li aveva fatti scomparire. Non avrebbe portato via il bimbolo. Per quanto Mordred strepitasse Nigel, ho bisogno di te! Nigel rimaneva in silenzio. Attorno al robot l'odore di plastica bruciata era diventato abbastanza forte da attivare i ventilatori a soffitto. DNK 45932 era immobile con la faccia orbata girata a sinistra. Gli conferiva un'espressione stranamente incuriosita, come se fosse morto mentre era sul punto di formulare una domanda importante: qual è il significato della vita, forse, oppure chi è che bussa al mio convento? In tutti i modi, la sua breve carriera di acchiappatopi e acchiappabimboli era finita.
Intanto Mordred era ricaricato di energie - il cibo era stato fresco e gustoso - ma quella condizione non sarebbe durata a lungo. Se fosse rimasto nella sua forma di ragno, avrebbe consumato le sue nuove scorte di forza ancor più velocemente. D'altra parte, se fosse ridiventato bambino, non sarebbe neppure stato in grado di scendere da quella poltroncina, o rimettersi il pannolino, che naturalmente gli era scivolato via quando si era trasformato.
Me era costretto a cambiare di nuovo, perché da ragno non era assolutamente in grado di pensare con lucidità. E quanto al ragionamento deduttivo... c'era solo da riderci sopra. Il nodulo bianco che sporgeva dal dorso del ragno chiuse i suoi occhi umani e il nero corpo sottostante balenò di una luce color rosso cupo. Le zampe si ritrassero e scomparvero. Il nodulo che era la testa del neonato crebbe e assunse la sua fisionomia mentre il corpo si schiariva e assumeva forma umana; poi gli occhi azzurri del bambino, occhi da bombardiere, occhi da pistolero, si accesero. Era ancora pieno delle forze acquisite dal sangue e dalle carni del bimbolo, lo sentiva mentre la metamorfosi giungeva velocemente a conclusione, ma un buon quantitativo (come dire la schiuma di un boccale di birra) era già andato perso. E non solo per essere passato da una parte all'altra. Il fatto è che cresceva a velocità supersonica. Quel genere di sviluppo richiedeva un'alimentazione incessante, mentre alla Stazione Sperimentale dell'Arco 16 il cibo scarseggiava parecchio. E anche in tutta Fedic, se è per questo. C'erano generi alimentari in scatola e cibi confezionati e bibite energetiche liofilizzate, yar, ce n'erano in abbondanza, ma nulla di tutto quello avrebbe potuto nutrirlo come lui aveva bisogno di essere nutrito. Mordred aveva bisogno di carne fresca, e ancor più della carne, aveva bisogno di sangue. E il sangue degli animali avrebbe sopperito alle spaventose esigenze della sua crescita solo per un po'. Presto avrebbe avuto bisogno di sangue umano, altrimenti il ritmo del suo sviluppo sarebbe dapprima rallentato e infine si sarebbe bloccato del tutto. Sarebbe affiorato il dolore della fame, ma quel dolore, che gli si sarebbe avvitato con sadismo nelle viscere come una trivella, nulla sarebbe stato al confronto del dolore mentale e spirituale di vedere loro su tutti quei monitor: ancora vivi, riuniti nella loro fratellanza, confortati dalla loro causa.
Il dolore di vedere lui. Roland di Gilead.
Come tuttavia sapeva le cose che sapeva? Grazie a sua madre?
Alcune, sì, perché mentre si nutriva al suo seno erano stati milioni i pensieri e i ricordi di Mia (molti dei quali rubati a Susannah) che gli si erano versati nella mente. Ma come faceva a sapere che era così anche per gli Avi? Che, per esempio, un vampiro tedesco che succhiava il sangue della vita da un francese parlava poi francese per una settimana o anche dieci giorni, lo parlava come se fosse la sua lingua madre, e che poi quella peculiarità, come i ricordi della sua vittima, cominciava ad appannarsi...
Come faceva a sapere una cosa così?
Aveva importanza?
Ora li guardò dormire. Il ragazzo, Jake, si era svegliato, ma per poco. In precedenza Mordred li aveva guardati mangiare, quattro imbecilli e un bimbolo - pieno di sangue, pieno di energia che desinavano seduti insieme, disposti in circolo. Sempre in circolo si sarebbero seduti, avrebbero ricreato quel circolo ogni volta che si fossero fermati a riposare per cinque minuti lungo il cammino, lo avrebbero composto senza nemmeno rendersene conto, quel circolo che escludeva il resto del mondo. Mordred non aveva un circolo. Sebbene novello, già capiva che fuori era il suo ka, come era il ka del vento d'inverno soffiare solo per metà della bussola: da nord a ovest poi di nuovo verso il gelido nord. Lo accettava, questo, ciononostante li osservava con l'invidia di «quello di fuori», sapendo che avrebbe fatto loro del male e che la soddisfazione sarebbe stata amara. Lui era di due mondi, il preconizzato congiungersi di Prim e Am, di gadosh e godosh, di Gan e Gilead. Era in un certo senso come Gesù Cristo, ma a modo suo era più puro dell'uomo-dio-pecora, perché l'uomo-dio-pecora aveva un solo vero padre, che risiedeva nell'alto di un cielo ipotetico, e un patrigno che si trovava sulla Terra. Povero vecchio Giuseppe, che portava le corna che gli aveva affibbiato Dio stesso.
Mordred Deschain, invece, aveva due padri veri. Uno dei quali dormiva ora sullo schermo davanti a lui.
Sei vecchio, padre, pensò. Provò un piacere maligno nel pensare così. Lo fece anche sentire piccolo e cattivo, niente più che... be', niente più che un ragno, che guarda dall'alto della sua tela. Mordred era due gemelli e così sarebbe rimasto fino a quando Roland dell'Eld non fosse morto e il suo ultimo ka-tet non fosse stato spezzato. E la voce nostalgica che lo incitava ad andare da Roland e chiamarlo padre? Chiamare Eddie e Jake suoi fratelli, Susannah sua sorella? Quella era la risibile voce di sua madre. Lo avrebbero ucciso prima che avesse potuto spiccicare una sola parola (posto che avesse superato lo stadio dei farfugliamenti infantili). Gli avrebbero tagliato via le palle e le avrebbero date da mangiare al bimbolo di quel moccioso. Avrebbero seppellito il suo cadavere castrato e avrebbero cacato sulla terra che lo ricopriva e se ne sarebbero andati via senza rimpianti.
Sei finalmente vecchio, padre, e ora cammini zoppicando e alla fine del giorno io ti vedo strofinarti il fianco con una mano in cui scorgo un principio di tremito.
Guarda, se ti va. Qui siede un neonato con del sangue che gli riga la pelle immacolata. Qui siede un neonato che piange le sue lacrime silenziose e strane. Qui siede un neonato che sa troppo e troppo poco e sebbene dobbiamo stare attenti a tenere le dita lontane dalla sua bocca (morde, costui; morde come un coccodrillino), ci è concesso provare per lui un minimo di compassione. Se il ka è un treno - e lo è, un grande Mono lanciato, forse sano di mente, forse no - allora questo perfido piccolo licantropo ne è lo stadio più vulnerabile, non legato alle rotaie come la piccola Nell, ma ai fanali stessi della motrice.
Racconti pure a se stesso di avere due padri, e potrebbe anche esserci del vero in questo, ma qui non ci sono né padre né madre. Sua madre, l'ha divorata viva, diciamo il vero, l'ha mangiata alla grande-grande, è stata il suo primo pasto, e che scelta aveva? Lui è l'ultimo miracolo generato dalla Torre Nera che ancora si regge, il connubio distorto di razionale e irrazionale, naturale e soprannaturale, e tuttavia è solo ed è affamato. Sarà forse destinato a governare su una catena di universi (o a distruggerli tutti), ma finora è riuscito a stabilire il suo dominio solo su un vecchio robot domestico, ora finito nella radura in fondo al sentiero.
Osserva il pistolero addormentato con amore e odio, rancore e desiderio. Ma supponiamo che vada da loro e non sia ucciso. Supponiamo che lo accolgano. Ridicolo, sì, ma ammettiamo l'ipotesi in via puramente teorica. In tal caso ci si aspetterebbe che riverisse Roland, lo accettasse come suo dinh, e questo mai farà, mai e poi mai.
3
Il laccio
1
«Li stavi spiando», disse una voce sommessa e divertita. Recitò quindi alcuni versi di una filastrocca infantile, in cui Roland avrebbe riconosciuto subito una nenia dei suoi primi anni di vita: «'Ucci-ucci bel nasino! Cosa spia quell'occhiolino? Ma chi è quel birichino? Guarda un po', è il mio bimbino!' Ti è piaciuto quello che hai visto prima di addormentarti? Li hai visti andare avanti con il resto di questo precario mondo?»
Erano trascorse forse dieci ore da quando Nigel il robot domestico aveva eseguito la sua ultima mansione. Mordred, che veramente era caduto in un sonno profondo, girò la testa senza torpore residuo o sorpresa verso la voce sconosciuta. Vide un uomo in blue jeans e giaccone con cappuccio fermo sul pavimento di piastrelle grigie del Centro di Controllo. Posato ai suoi piedi c'era il suo bagaglio, nient'altro che un frusto sacco da marinaio. Aveva le guance arrossate, un volto piacente, occhi ardenti. In mano stringeva un'automatica e, mentre guardava nell'occhio nero della sua canna, Mordred Deschain si rese conto per la seconda volta che persino gli dei potevano morire se la loro divinità era stata diluita con sangue umano. Ma non ebbe paura. Non ora. Guardò tuttavia di nuovo i monitor che mostravano l'appartamento di Nigel ed ebbe conferma che lo sconosciuto aveva ragione: era vuoto.
Sorridendo, lo sconosciuto che sembrava sbucato dal pavimento alzò la mano libera e rovesciò all'infuori un lembo del cappuccio. Mordred vide scintillare del metallo. Il cappuccio era foderato di una sorta di rete di cavi.
«Io lo chiamo il mio 'cappello pensante'», disse lo sconosciuto. «Non posso sentire i tuoi pensieri, che è una limitazione, ma tu non puoi entrare nella mia testa, che è...»
(che è sicuramente un vantaggio, non ti pare)
«... che è sicuramente un vantaggio, non ti pare?»
Aveva due toppe cucite sulla giacca. Su una si leggeva U.S. ARMY con un uccello, l'uccelloaquila, non l'uccello hu-hu. L'altra toppa era un nome: RANDALL FLAGG. Mordred scoprì di saper leggere e nemmeno questo lo sorprese.
«Perché se sei solo anche lontanamente simile a tuo padre, e intendo quello rosso, allora i tuoi poteri mentali potrebbero andare al di là della semplice comunicazione.» L'uomo con il giaccone ridacchiò. Non voleva che Mordred si accorgesse che aveva paura. Forse si era convinto di non aver paura, di essere andato lì spontaneamente. Forse era vero. A Mordred non importava, né in un senso né nell'altro. Né gli interessavano i progetti di quell'uomo, che gli scorrevano mischiati nella testa come un minestrone. Davvero credeva che il suo «cappello pensante» gli nascondesse i pensieri? Mordred guardò meglio, affondò la sua sonda e vide che la risposta era sì. Molto conveniente.
«Io comunque tengo in alta considerazione la prudenza. Non c'è strategia migliore. Come altrimenti sarei sopravvissuto alla caduta di Farson e alla morte di Gilead? Non mi va che tu ti introduca nella mia testa e mi induca a buttarmi da un grattacielo, ti sembra? D'altra parte, perché dovresti farlo? Hai bisogno di me o di qualcuno, ora che il tuo sacco di dadi e bulloni si è spento e tu sei solo un bah-bo nemmeno capace di legarti uno straccio tra quelle chiappe sporche di merda!»
Lo sconosciuto, che non era affatto uno sconosciuto, rise. Mordred lo guardava dalla sua poltrona. Su un lato della guancia il bambino aveva un baffo rosso, perché si era addormentato appoggiato da quella parte alla manina.
«Io credo che possiamo comunicare più che bene se io parlo e tu fai segno con la testa di sì e di no», continuò lo sconosciuto. «Se non capisci, batti sul bracciolo. Semplicissimo! D'accordo?»
Mordred annuì. L'uomo sentiva qualcosa di inquietante - très inquietante - nella fissità di quello sguardo azzurro, ma cercò di non darlo a vedere. Si chiese di nuovo se andare lì fosse stato saggio, ma aveva seguito le tracce di Mia fin da quando aveva avuto inizio la sua gravidanza e perché lo aveva fatto se non per questo? Era un gioco pericoloso, ma ora rimanevano solo due creature in grado di aprire la porta ai piedi della Torre prima che la Torre cadesse... cosa che sarebbe avvenuta presto, perché allo scrittore rimanevano solo pochi giorni da vivere in questo mondo e gli ultimi Libri della Torre, tre in tutto, non erano ancora stati scritti. Nell'ultimo che aveva scritto in quel mondo-chiave, il ka-tet di Roland aveva scacciato sai Randy Flagg da un palazzo di sogno su un'Interstate, un palazzo che a Eddie, Susannah e Jake era sembrato simile al Castello di Oz il Grande e Terribile (Oz il Re Verde, di grazia). A dirla tutta, avevano quasi ammazzato quel vecchio bastardo di un blablà di Walter o'Dim, realizzando quello che senza dubbio qualcuno avrebbe definito un lieto fine. Ma una volta concluso La sfera del buio, non una parola su Roland e la Torre Nera aveva scritto Stephen King e Walter considerava questo il vero lieto fine. La gente di Calla Bryn Sturgis, i bimbi guasti, Mia e il figlio di Mia: tutto questo dormiva ancora in un confuso stato embrionale nell'inconscio dello scrittore, creature non nate dietro una porta introvata. E ora Walter giudicava che fosse troppo tardi per liberarle. Per quanto maledettamente veloce fosse stato King nella sua scalata al successo - uno scrittore di talento genuino che si era trasformato in un dozzinale (ma ricco) scribacchino usa e getta, un Algernon Swinburne senza rima, di grazia - con il poco tempo che gli restava non sarebbe riuscito a mettere assieme neppure le prime cento pagine di quanto rimaneva da raccontare, lavorasse pure giorno e notte.
Troppo tardi.
Il giorno giusto c'era stato, Walter lo sapeva bene: era stato al Le Casse Roi Russe, e lo aveva visto nella sfera di cristallo che la Vecchia Cosa Rossa possedeva ancora (ma ormai senza dubbio accantonata in qualche angolo del castello). Nell'estate del 1997, King aveva ben chiara nella mente la storia dei Lupi, i gemelli e i piatti volanti chiamati Oriza. Ma lo scrittore aveva considerato tutto questo troppa fatica. Aveva scelto un libro di racconti più o meno legati a uno stesso filo che aveva intitolato Cuori in Atlantide, e anche ora, nella sua casa in Turtleback Lane (dove non aveva mai visto nemmeno l'ombra di un walk-in), lo scrittore sperperava il poco tempo restante scrivendo di pace e amore e Vietnam. C'era sì un personaggio in quello che sarebbe stato l'ultimo libro di King che avrebbe avuto un ruolo nell'eventuale sviluppo della Torre Nera, ma quel tizio, un vecchio dall'intelletto vivace, non avrebbe mai avuto l'occasione di pronunciare battute di qualche conto. Splendido.
Nell'unico mondo veramente importante, il mondo vero dove il tempo non tornava mai indietro e non c'erano seconde possibilità (diciamo il vero), era il 12 giugno 1999. Allo scrittore restavano meno di duecento ore.
Walter o'Dim sapeva di non avere altrettanto tempo a disposizione per arrivare alla Torre Nera, perché da questa parte il tempo (come il metabolismo di certi ragni) scorreva più veloce e affannoso. Diciamo cinque giorni. Cinque e mezzo al massimo. Tanto aveva a disposizione per raggiungere la Torre con il piede amputato di Mordred Deschain, quello con la voglia... aprire la porta in basso e salire quelle scale mormoranti... oltrepassare il Re Rosso intrappolato...
Se avesse trovato un veicolo... o la porta giusta...
Era troppo tardi per diventare il Dio di Tutti?
Forse no. E allora che male c'era a provarci?
Walter o'Dim aveva vagato a lungo e sotto cento nomi, ma la Torre era sempre stata la sua meta. Come Roland, voleva salire in cima e vedere chi c'era. Se qualcosa c'era.
Non aveva aderito a nessuna delle conventicole e sette e superstizioni e chiesuole spuntate come funghi negli anni confusi da quando la Torre aveva cominciato a vacillare, sebbene ne avesse portato i sigul quando gli tornava comodo. La sua sottomissione al Re Rosso era cosa degli ultimi tempi, come i servigi resi a John Farson, il Buono che aveva precipitato Gilead, l'ultimo bastione della civiltà, in un gorgo di sangue e sterminio. Walter aveva avuto la sua parte negli assassini di quegli anni, vivendo una vita lunga e solo quasi mortale. Aveva assistito alla fine di quello che allora credeva fosse l'ultimo ka-tet di Roland, caduto a Jericho Hill. Assistito? Ma che eccesso di modestia, per tutti gli dei del cielo e i pesci del mare! Sotto il nome di Rudin Filaro, aveva combattuto con la faccia pitturata di blu, aveva gridato e assaltato con gli altri barbari puzzolenti ed era stato lui stesso ad abbattere Cuthbert Allgood con una freccia in un occhio. Ma tutto questo aveva fatto senza mai perdere di vista la Torre. Forse è il motivo per cui il maledetto pistolero - mentre il sole scendeva sull'operato di quel giorno, Roland di Gilead era stato l'ultimo - era riuscito a fuggire, seppellendosi sotto i morti trasportati da un carro e sgusciandone fuori al tramonto, un attimo prima che appiccassero l'incendio.
Aveva visto Roland anni prima, a Mejis, e anche lì lo aveva mancato (ma ne aveva attribuito la responsabilità soprattutto a Eldred Jonas, dalla voce tremula e dai lunghi capelli grigi, e per questo Jonas aveva pagato). Allora il Re gli aveva detto che con Roland non avevano ancora chiuso, che il pistolero avrebbe dato inizio alla fine di ogni cosa e avrebbe provocato la caduta di ciò che desiderava salvare. A questo pronostico Walter aveva incominciato a credere solo quando, nel deserto di Mohaine, guardandosi intorno un giorno aveva scoperto di essere inseguito da un certo pistolero, invecchiato nel corso di anni crepuscolari, e non vi aveva creduto completamente fino al riapparire di Mia, che avverò un'antica e buia profezia dando i natali al figlio del Re Rosso. Certamente la Vecchia Cosa Rossa non gli era più di alcuna utilità, ma anche nella prigionia e nella follia, rimaneva un essere pericoloso... qualunque cosa fosse.
Comunque, finché non aveva avuto Roland a completarlo - a renderlo più grande forse del suo stesso destino - Walter o'Dim non era stato che un viandante avanzato dai tempi andati, un mercenario con la vaga ambizione di penetrare nella Torre prima che fosse fatta crollare. Non era stata forse quella la prima ragione per cui si era rivolto al Re Rosso? Sì. E non era colpa sua se il grosso re-ragno era impazzito.
Pazienza. Lì c'era suo figlio con lo stesso marchio sul tallone - Walter lo vedeva in quel preciso istante - e tutti i conti tornavano. Naturalmente avrebbe dovuto agire con cautela. La creatura su quella poltroncina sembrava inoffensiva e vulnerabile, forse addirittura pensava di esserlo, ma sarebbe stato un errore sottovalutarla perché aveva le sembianze di un neonato.
Walter ripose la pistola in tasca (per un momento, solo per quel momento) e protese le mani, vuote e con i palmi all'insù. Poi ne chiuse una in un pugno, che si portò alla fronte. Lentamente, senza mai distogliere lo guardo da Mordred, attento a eventuali mutamenti (Walter aveva visto quella trasmutazione e che cosa era successo alla madre di quella bestiolina), l'uomo si abbassò su un ginocchio.
«Hile, Mordred Deschain, figlio di Roland di Gilead che fu e del Re Rosso il cui nome era conosciuto un tempo da Fine-Mondo a Oltre-Mondo; hile, figlio di due padri, entrambi discendenti da Arthur Eld, primo re a sorgere dopo la recessione del Prim, e Guardiano della Torre Nera.»
Per un istante non accadde nulla. Nel Centro di Controllo c'era solo silenzio e l'odore persistente dei circuiti bruciati di Nigel.
Poi il neonato alzò i pugnetti, li aprì e levò le mani: Alzati, servo, e vieni a me.
2
«Ti conviene non pensare forte, comunque», lo ammonì Walter avvicinandosi. «Sapevano che eri qui e Roland è ma' gistralmente astuto; fino-delah è quel pistolero. Una volta mi raggiunse, sai, e credetti che per me fosse la fine. Davvero.» Dal suo fagotto l'uomo che talvolta si faceva chiamare Flagg (a un altro livello della Torre sotto quel nome aveva portato a rovina un mondo intero) aveva prelevato burro d'arachidi e cracker. Aveva chiesto il permesso al suo nuovo dinh e il neonato (nonostante divorato lui stesso dalla fame) glielo aveva concesso con un cenno regale del capo. Ora Walter si sedette sul pavimento a gambe incrociate a mangiare svelto, protetto dal suo cappello pensante, senza sapere che nella sua testa un intruso stava saccheggiando tutte le sue cognizioni. Sarebbe stato al sicuro finché fosse stata in corso la razzia, ma poi...
Mordred alzò nell'aria la mano neonata e paffuta e la riabbassò in un gesto aggraziato nella forma di un punto interrogativo.
«Come sono fuggito?» chiese Walter. «Oh, ma ho agito come sempre fa un ingannatore in circostanze simili: gli ho detto la verità! Gli ho mostrato la Torre, almeno per alcuni dei suoi livelli. L'ho sbalordito, ho fatto sbocciare il suo stupore, e mentre era in tal modo aperto, ho preso un foglio dal suo stesso libro e l'ho ipnotizzato. Eravamo in una di quelle fistole del tempo che talvolta la Torre sprigiona come un vortice e mentre noi tenevamo il nostro conciliabolo in quel cimitero di ossa, il mondo tutt'intorno andò avanti, aye! E io portai altre ossa, ossa umane, e mentre lui dormiva le vestii con quanto restava dei miei indumenti. Avrei potuto ucciderlo, in quel momento, ma che cosa sarebbe stato della Torre se lo avessi fatto, eh? E di te, se è per questo? Tu non saresti mai stato generato. Si può ben affermare, Mordred, che permettendo a Roland di vivere e trarre i suoi tre, ho salvato la vita a te prima ancora che la tua vita fosse cominciata, orsì. Mi ritirai in riva al mare, eh sì, avevo proprio bisogno di una piccola vacanza! Quando Roland arrivò, lui andò da una parte, verso le tre porte. Io dall'altra, Mordred mio caro, ed eccomi qui!»
Rise con la bocca piena di cracker e si spruzzò briciole sul mento e la camicia. Mordred sorrise, ma era nauseato. Con quel coso avrebbe dovuto lavorare? Quello? Un cretino che ingollava cracker e sputacchiava briciole, tanto tronfio delle proprie passate imprese da non avvertire il pericolo presente o da sapere che le sue difese erano state violate? Per tutti gli dei, ma quello meritava di schiattare! Prima che avvenisse, però, c'erano altre due cose di cui aveva bisogno. Una era sapere dove erano andati Roland e i suoi amici. L'altra era nutrirsi. Quell'imbecille sarebbe servito a entrambe. E perché sarebbe stato facile? Ma perché anche Walter era invecchiato, era diventato vecchio e fatalmente sicuro di sé, e troppo vanesio da rendersene conto.
«Ti incuriosisce forse perché io sono qui e non i progetti di tuo padre», insinuò Walter. «Vero?»
Non era così, ma Mordred annuì lo stesso. Gli gorgogliò lo stomaco.
«In verità, io sono i suoi progetti», disse Walter e gli rivolse il più affascinante dei suoi sorrisi (un po' guastato dal burro d'arachidi che aveva sui denti). Forse un tempo sapeva che ogni affermazione che iniziava con le parole in verità era quasi sempre una bugia. Non più. Troppo vecchio per saperlo. Troppo vanitoso per saperlo. Troppo stupido per ricordarlo. Ma era vigile lo stesso. Percepiva la forza del bambino. Nella testa? Che gli frugava nella testa? Sicuramente no.
La cosa prigioniera in quel corpo da neonato era potente, ma senz'altro non così potente.
Walter si protese in avanti con le mani premute sulle ginocchia.
«Il tuo padre rosso è... indisposto. In conseguenza d'essere vissuto così vicino alla Torre per tanto tempo e di avere pensato a essa così profondamente, non ho dubbio. Spetta a te finire quello che lui ha cominciato. Io sono venuto ad aiutarti in questo.»
Mordred annuì, come se ne fosse contento. Ne era contento. Però, ah, aveva anche tanta fame.
«Ti sarai forse chiesto come ti ho raggiunto in questa stanza che sarebbe dovuta essere inviolabile», riprese Walter. «In verità ho contribuito anch'io a costruire questo posto, in quello che Roland chiamerebbe il tempo che fu.»
Di nuovo quell'incipit, palese come una strizzata d'occhio.
Si era infilato la pistola nella tasca sinistra del giaccone. Ora, da quella destra, estrasse un aggeggio grande quanto un pacchetto di sigarette, ne protrasse un'antenna argentea e pigiò un pulsante. Una sezione di piastrelle grigie si ritrasse senza rumore aprendosi su una rampa di scale. Mordred annuì. Dunque Walter - oppure Randall Flagg se così si faceva chiamare ora - era veramente sbucato dal pavimento. Un bel trucco, ma d'altra parte aveva un tempo servito Steven, padre di Roland, come mago di corte di Gilead, giusto? Sotto il nome di Marten. Un uomo dalle molte facce e dai molti bei trucchetti, questo Walter o'Dim, ma mai ingegnoso quanto credeva di essere. Nemmeno la metà. Perché Mordred ora aveva avuto l'ultima cosa che stava cercando, il modo cioè in cui Roland e i suoi amici erano usciti da lì. Così non gli sarebbe stato necessario stanarlo dal nascondiglio in cui era conservato nella mente di Walter. Gli sarebbe bastato ripercorrere il percorso di quel cretino.
Prima, però...
Il sorriso di Walter si era attenuato. «Hai detto qualcosa, sire? Perché mi è sembrato di sentire il suono della tua voce, in fondo alla mente.»
Il neonato scosse la testa. E chi è più credibile di un neonato? Non è forse il suo viso il paradigma stesso di innocenza e franchezza?
«Ti prendo con me e li inseguo, se vuoi venire», propose Walter. «Che coppia faremmo! Sono partiti per il devar-toi di Rombo di Tuono, a liberare i Frangitori. Avevo già giurato di vedermela con tuo padre, il tuo padre bianco e il suo ka-tet se avessero avuto la temerarietà di andarci, e quello è un giuramento che intendo onorare. Perché, odimi bene, Mordred, il pistolero Roland Deschain mi ha avversato a ogni piè sospinto e io non lo sopporto più. Non più! Hai sentito?» L'ira gli aveva fatto alzare la voce.
Mordred rispose con un cenno innocente di affermazione, sgranando gli occhi da bel bambino in un'espressione che si sarebbe potuta scambiare per paura o meraviglia o entrambe. Walter o'Dim parve comunque gongolare sotto quello sguardo e a quel punto l'unico vero interrogativo che rimaneva era quando prenderlo, se subito o più tardi. Mordred aveva una gran fame, ma pensò che avrebbe resistito ancora un poco. C'era qualcosa di stranamente avvincente nello spettacolo che offriva quell'imbecille nell'atto di tessere le ultime maglie del suo destino con tanto trasporto.
Tracciò di nuovo nell'aria il segno di un punto di domanda.
Sul volto di Walter sfumarono le ultime vestigia di un sorriso. «Che cosa voglio davvero? È questo che chiedi?»
Mordred fece cenno di sì.
«Non è affatto la Torre Nera, se vuoi la verità. È Roland che mi si è fissato nella mente e nel cuore. Lo voglio morto.» Il suo tono fu di truce finalità. «Per le lunghe e polverose leghe del suo inseguimento; per tutti i guai che mi ha provocato; e per il Re Rosso, sì, il vero re, orsì; per la sua ostinazione nel rifiutare di rinunciare alla sua missione a dispetto di tutti gli ostacoli incontrati sul suo cammino; soprattutto per la morte di sua madre, che una volta amai.» E, in un tono più dimesso: «O almeno desiderai. Fu comunque lui a ucciderla. Quale che sia la parte che abbiamo avuto in merito io o Rhea del Cöos, fu quel ragazzo a strapparle l'ultimo respiro con le sue dannate pistole, la mente tarda e le mani veloci.
«Quanto alla fine dell'universo... che venga come vuole, dico io, con il ghiaccio, il fuoco o le tenebre. Che cosa ha mai fatto per me l'universo perché io debba avere a cuore il suo benessere? Io so solo che Roland di Gilead è vissuto troppo a lungo e voglio vedere quel figlio di puttana sotto terra. E con lui quelli che ha tratto».
Per la terza e ultima volta Mordred disegnò nell'aria la forma di un punto interrogativo.
«C'è una sola porta praticabile da qui al devar-toi, giovane signore. È quella che usano i Lupi... o quella che usavano; credo che abbiano compiuto il loro ultimo viaggio, orsì. Roland e i suoi amici sono passati per di lì, ma non fa niente, dove usciranno troveranno di che essere occupati... potrebbero ricevere un'accoglienza fin troppo calorosa! Magari possiamo attaccarli nel momento in cui saranno occupati con i Frangitori e quelli che restano dei Figli di Roderick e le guardie. Ti andrebbe?»
L'infante annuì senza esitare. Poi si portò le mani alla bocca per succhiarsele.
«Sì», disse Walter. Riapparve il sorriso. «Hai fame, ma certo. E credo che non sarai più costretto a pasteggiare mangiando topi e cuccioli di bimbolo, giusto?» Mordred annuì di nuovo. Ne era più che certo.
«Vuoi che faccia il bravo paparino e ti porti io?» propose Walter. «Così non sarai costretto a trasformarti in ragno. Puah! Una forma che non ispira amore, devo dire, e nemmeno simpatia.» Mordred protendeva le braccia verso di lui.
«Non mi cacherai addosso, vero?» chiese Walter fermandosi a pochi passi da lui. Si fece scivolare la mano nella tasca e Mordred si accorse con una certa apprensione che l'infido bastardo era riuscito comunque a nascondergli qualcosa: sapeva che il suo «cappello pensante» non bastava. Ora aveva infine deciso di usare la pistola.
3
In realtà Mordred accordava a Walter o'Dim un credito eccessivo, ma non è questo tipico dei giovani, se non addirittura una forma di istinto di sopravvivenza? Agli occhi spalancati del ragazzino, appaiono come prodigi anche i trucchi più scadenti del più goffo dei prestidigitatori. Walter si rese conto di ciò che stava accadendo solo all'ultimo momento, ma era un sopravvissuto vecchio e scaltro, e dico il vero, e quando comprese, lo fece fino in fondo.
C'è un'espressione, «l'elefante in soggiorno», che vorrebbe descrivere una situazione eclatante: droga, alcolismo, violenza. Le persone talvolta chiedono, quando la magagna è saltata fuori: «Come hai potuto lasciare che andasse avanti così per tanti anni? Non hai visto l'elefante in soggiorno?» Ed è così difficile per chi vive in una situazione più normale capire la risposta che più si avvicina alla verità: «Mi spiace, ma quando sono arrivato io, era già lì. Non sapevo che fosse un elefante; credevo che fosse parte dell'arredamento». Per alcuni, quelli fortunati, arriva un momento-aha! quando si rendono conto all'improvviso della differenza. E quel momento giunse per Walter. Giunse troppo tardi, ma non di molto.
Non mi cacherai addosso, vero? Quella era la domanda che aveva posto, ma tra le parole cacherai e addosso, sentì a un tratto che in casa sua c'era un intruso... e che c'era stato fin dall'inizio. E non era un neonato. Era un adolescente allampanato e dalla fronte sfuggente con la pelle butterata e occhi spenti ma curiosi. Era forse la visualizzazione migliore e più fedele che Walter avrebbe potuto fare di Mordred Deschain in quel momento della sua esistenza: un adolescente introdottosi in casa altrui dopo essersi probabilmente fatto con una bomboletta spray di qualche smacchiatore.
Ed era lì fin dal principio! Dio, come aveva potuto non accorgersene? E non aveva neppure cercato di nascondersi! Era lì, allo scoperto, in piedi contro quel muro laggiù, ad assimilare tutto quanto a bocca aperta.
Il suo progetto di portare Mordred con sé, di usarlo per mettere fine alla vita di Roland (se non lo avessero preceduto in questo le guardie del devar-toi, naturalmente), e quindi uccidere il piccolo bastardo e prendersi il prezioso piedino sinistro, tutto questo bel piano crollò in un istante. In quello successivo ne fiorì un altro, tanto semplice da essere elementare. Non devo lasciargli vedere che lo so. Un colpo, solo uno posso arrischiare, e solo perché devo rischiarlo. Poi me la do a gambe. Se è morto, bene, se no, c'è sempre la speranza che muoia di fame prima...
Poi Walter si rese conto che la sua mano si era fermata. Quattro dita si erano flesse intorno al calcio della pistola nella tasca della giacca, ma lì erano rimaste come paralizzate. Uno era molto vicino al grilletto, ma non poteva muovere neppure quello. Nemmeno fosse stato conficcato nel cemento. E ora Walter vide per la prima volta con chiarezza il filo metallico. Scaturì dalla bocca rosea di gengive del neonato seduto sulla poltroncina, attraversò la stanza, ammiccando sotto le luci, e gli si avvinghiò attorno al corpo all'altezza del torace, serrandogli le braccia contro i fianchi. Capiva che il laccio non c'era davvero... ma contemporaneamente c'era. Non poteva muoversi.
4
Mordred non vide il laccio, forse perché non aveva mai letto La collina dei conigli. Aveva avuto però l'occasione di esplorare la mente di Susannah e ciò che vedeva ora somigliava molto al Dogan di Susannah. Solo che invece di interruttori con scritto cose come TIZIO e TEMPERATURA EMOTIVA, ne vide altri che controllavano la deambulazione di Walter (girò velocemente questo su OFF), la sua attività intellettuale e le sue motivazioni. Era sicuramente un meccanismo più complesso di quello che aveva trovato nella testa del piccolo bimbolo - lì c'erano solo pochi, semplici schemi, nodi elementari - ma pur sempre ordinaria amministrazione.
L'unico problema era che lui era un neonato.
Un maledetto infante inchiodato a una poltrona.
E se davvero intendeva trasformare quella leccornia bipede in un affettato misto, doveva muoversi alla svelta.
5
Walter o'Dim non era tanto vecchio da cedere alla credulità, ora se ne rendeva conto - aveva sottovalutato il mostriciattolo, fidandosi troppo di come appariva e non abbastanza di quel che pur sapeva dalla sua natura - ma almeno l'età veneranda lo esonerava dalla trappola del panico totale tipica dei giovani.
Se ha intenzione di fare qualcosa di più che starsene seduto su quella poltrona a guardarmi, dovrà trasformarsi. Quando lo farà, è possibile che perda il controllo. Quella sarà la mia occasione. Non è molto, ma è la sola che mi resta.
In quel momento vide una brillante luce rossa scorrere sulla pelle del neonato dalla testa fino alla punta dei piedi. Sulla sua scia, il corpo roseo del bah-bo cominciò a scurirsi e gonfiarsi. Dai fianchi emersero le zampe da ragno. Contemporaneamente il filo metallico che gli usciva dalla bocca scomparve e Walter sentì dissolversi la morsa soffocante che lo aveva paralizzato.
Non c'è tempo di arrischiare nemmeno un solo colpo, non ora. Scappa. Scappa da lui... da questa cosa. Solo questo puoi fare. Non avresti mai dovuto venire qui. Ti sei lasciato accecare dal tuo odio per il pistolero, ma potrebbe ancora non essere troppo tardi per...
Si girò verso la botola mentre quel pensiero gli si andava formulando nella mente, e stava per posare il piede sul primo scalino quando il filo riapparve, questa volta non per cingergli le braccia intorno al busto, ma per attorcigliarglisi sulla gola, come una garrotta.
Boccheggiando in preda a conati di vomito e sparando saliva di qua e di là, con gli occhi fuori delle orbite, Walter ruotò convulsamente su se stesso. Il cappio che aveva intorno al collo si allentò. Nello stesso momento senti qualcosa di molto simile a una mano invisibile che gli scivolava sulla fronte e gli spingeva il cappuccio all'indietro. Vestiva sempre in quel modo, quando gli era possibile, in certe province a sud persino di Garlan lo conoscevano come Walter Hodji, un appellativo che significava assieme «diafano» e «cappuccio». Ma quello speciale copricapo (preso in prestito da una certa casa abbandonata nella cittadina di French Landing, Wisconsin) non gli era servito a niente, giusto?
Ho paura di essere arrivato alla fine del sentiero, pensò guardando il ragno che andava verso di lui sulle sue sette zampe, una creatura enfiata e vivace (molto più vivace del bebè, aye, e quattromila volte più brutta) con quella bolla aliena di testa umanoide che spuntava dalla curva pelosa della schiena. E sul ventre aveva la macchia rossa che coloriva il tallone del neonato. Ora era a forma di clessidra, come quella della vedova nera femmina, e allora capì che quello era il marchio che gli sarebbe servito. Uccidere il neonato e amputargli il piede probabilmente non gli sarebbe servito affatto. Aveva sbagliato tutto.
Il ragno si sollevò su quattro zampe nere. Le tre zampe superiori palpeggiarono i jeans di Walter producendo un orribile, ruvido fruscio. Gli occhi sporgenti lo guardavano con la spenta curiosità dell'intruso che già aveva immaginato fin troppo bene.
Oh sì, mi sa che questa per te è proprio la fine del sentiero. Enorme dentro la testa. Un rimbombo come di parole da un altoparlante. Ma era quello che tu avevi in mente per me, o sbaglio?
No! Almeno non subito...
E dai! «Non imbrogliare un imbroglione», come direbbe Susannah. Dunque io ora farò un piccolo favore a quello che tu chiami il mio Padre Bianco. Può darsi che tu non sia stato il suo peggior nemico, Walter Padick (come ti chiamavano quando hai cominciato, in quel tempo che fu), ma sei stato il più vecchio, te lo concedo. E adesso io ti tolgo di mezzo.
Walter non si era reso conto di essere rimasto appeso a un sottile filo di speranza di fuga anche quando quell'essere spaventoso gli fu davanti, ritto sulle zampe posteriori, a fissarlo con quell'indolente avidità e la bava alla bocca, finché non ebbe udito per la prima volta in mille anni il nome a cui rispondeva una volta un bambino in una fattoria di Delain: Walter Padick. Walter, figlio di Sam il Mugnaio della Baronia di Eastar'd. Quello che a tredici anni era scappato, era stato violentato nel culo un anno dopo da un altro vagabondo e aveva lo stesso resistito alla tentazione di tornare a casa con la coda tra le gambe. Aveva invece proseguito verso il suo destino.
Walter Padick.
Al suono di quella voce, l'uomo che si era fatto chiamare Marten e poi Richard Fannin e Randall Flagg (tra moltissimi altri nomi), abbandonò ogni speranza salvo quella di morire bene.
Ho fame, Mordred ha tanta fame, ripeteva implacabile la voce al centro della testa di Walter, una voce che gli giungeva lungo il laccio della volontà del piccolo re. Ma voglio mangiare come si deve, cominciando con l'antipasto. I tuoi occhi, penso. Dammeli.
Walter lottò valorosamente, ma senza trovare neppure una parvenza di successo. Il filo era troppo forte. Vide le proprie mani alzarsi a livello del volto. Vide le dita piegarsi come uncini. Sollevarono le palpebre come tapparelle, poi s'infilarono nelle orbite da sopra i bulbi oculari. Udì il rumore che fecero gli occhi quando vennero strappati dai tendini che ne garantivano il movimento e dai nervi ottici che trasmettevano i loro meravigliosi messaggi. Il rumore che determinò la fine della sua vista fu sordo e liquido. La testa gli si riempì di vividi lampi rossi, poi fluirono prepotenti le tenebre per sempre. Nel caso di Walter, sempre non sarebbe stato un tempo molto lungo, ma se il tempo è una percezione soggettiva (e i più fra noi sanno che è così), allora per lui fu senz'altro troppo lungo.
Dammeli, ti dico! Basta scastagnare e cincischiare! Ho fame!
Walter o'Dim, colui che da Diafano era diventato Buio, girò le mani all'ingiù e lasciò cadere gli occhi. Precipitarono scodinzolando, simili a grossi girini. Il ragno ne acchiappò uno in volo. L'altro finì sul pavimento dove una zampa sorprendentemente agile lo raccolse per infilarlo nella bocca del ragno. Mordred lo fece scoppiare come un acino d'uva ma non lo inghiottì, preferendo il piacere del lento scivolare nella gola di quella squisita massa vischiosa. Fantastico.
Ora la lingua, per piacere.
Ubbidiente, Walter se la strinse nella mano e tirò, ma riuscì a staccarla solo in parte. All'estremità era troppo scivolosa. Avrebbe pianto di dolore e frustrazione se le orbite sanguinanti private degli occhi avessero potuto produrre lacrime.
Cercò di afferrarsi la lingua di nuovo, ma il ragno era troppo ottenebrato dalla voracità per poter aspettare.
Chinati! Sporgi la lingua come faresti sulla fica della tua donna. Presto, per l'amore di tuo padre! Mordred ha fame!
Walter, ancora troppo cosciente di quanto gli stava accadendo, lottò contro questo nuovo orrore non meno invano della volta precedente. Si chinò con le mani sulle cosce e la lingua sanguinante che gli sporgeva storta dalle labbra, mal sostenuta dai muscoli strappati in fondo alla bocca. Sentì di nuovo il fruscio ruvido delle zampe anteriori di Mordred che gli grattavano la tela dei jeans. Le fauci pelose della bestia si chiusero sulla lingua di Walter e la succhiarono come un lecca-lecca per uno o due momenti di beatitudine, poi la strapparono con un unico, potente strattone. Walter, ora privato della parola oltre che della vista, mandò un urlo gonfio di dolore e cadde in avanti, rotolando avanti e indietro sulle piastrelle con le mani schiacciate sul volto distorto.
Mordred morsicò la lingua che aveva nella bocca. Il sangue delizioso che ne sprizzò gli cancellò per qualche secondo ogni pensiero. Intanto Walter era rotolato su un fianco e cercava a tentoni la botola, spinto da una voce interiore che continuava a strillargli di non arrendersi e di cercare ancora di sfuggire al mostro che lo stava divorando vivo.
Con il sapore del sangue in bocca, si spense in Mordred il piacere dei preamboli. La sua percezione si ridusse al nucleo centrale, che era costituito principalmente da appetito. Balzò su Randall Flagg, Walter o'Dim, Walter Padick che fu. Ci furono altre grida, ma poche. Poi del vecchio nemico di Roland non restò niente.
6
Era stato quasi immortale (un'espressione idiota come «ben preciso») e costituì un pasto leggendario. Dopo essersi così ben rimpinzato, il primo istinto di Mordred, forte ma non insormontabile, fu di vomitare. Lo dominò e altrettanto fece con quello successivo, che fu ancora più forte: ritrasformarsi in neonato e dormire.
Se doveva cercare la porta di cui gli aveva parlato Walter, il momento migliore era adesso e nella forma che gli avrebbe consentito di muoversi con grande celerità: la forma del ragno. Così, superata la carcassa svuotata senza degnarla di uno sguardo, Mordred scese veloce per le scale della botola fino al corridoio sottostante. Il tunnel era pervaso da un forte odore alcalino e sembrava scavato nel fondo roccioso del deserto.
Tutte le conoscenze di Walter, almeno millecinquecento anni di nozioni, vociarono nel suo cervello.
Il suo percorso portò al vano di un ascensore. Quando una zampa irsuta schiacciò il bottone della salita, ottenne in cambio solo un ronzio stanco dal cavedio e da dietro la pulsantiera uscì un odore come di stringhe da scarpe bruciate. Allora Mordred si arrampicò per la parete della cabina, spinse lo sportello della manutenzione e s'infilò nel pertugio. Che dovesse fare uno sforzo non lo sorprese: ora era più grosso.
Si arrampicò per il cavo
(ragno ragnetto che scala il rubinetto)
finché giunse alla porta attraverso la quale, glielo dicevano i sensi, Walter era salito in
ascensore per il suo ultimo viaggio. Venti minuti dopo (ancora ben corroborato da tutto quel sangue meraviglioso, sangue a tini, gli sembrava), arrivò a un bivio. Avrebbe potuto rappresentare una difficoltà per quell'infante che per un certo verso era ancora, ma in quel punto all'odore di Walter si mescolava quello degli altri e Mordred prese da quella parte, seguendo ora Roland e il suo ka-tet e non più l'itinerario percorso dal mago. Walter doveva averli seguiti per un po', prima di tornare indietro per andare a cercare lui. E trovare il suo destino.
Qualche tempo dopo si trovò al cospetto di una porta che, invece che da parole, era contrassegnata da un sigul che interpretò senza fatica:

Si chiese se aprirla ora o aspettare. L'impazienza infantile lo spingeva a procedere, la prudenza crescente a desistere. Si era rifocillato a dovere e al momento non aveva bisogno di nutrirsi ancora, specialmente se avesse assunto di nuovo le sembianze umane per un po'. Inoltre Roland e i suoi amici potevano essere ancora al di là di quella soglia. Se dunque, vedendolo, avessero estratto le armi? La loro velocità era infernale e le armi da fuoco erano in grado di ucciderlo.
Poteva aspettare; non avvertiva l'impellenza del bisogno al di là della smania del bambino che vuole tutto e lo vuole ora. Non pativa certamente l'avida intensità dell'odio di Walter. I suoi sentimenti erano molto complessi, venati di tristezza e solitudine e - sì, avrebbe fatto bene ad ammetterlo - amore. Mordred provava il desiderio di gustare per un po' quella malinconia. Avrebbe trovato cibo in abbondanza dall'altra parte di quella porta, ne era sicuro, dunque avrebbe mangiato. E sarebbe cresciuto. E avrebbe vegliato. Avrebbe spiato suo padre e la sua sorellamadre e i suoi ka-fratelli, Eddie e Jake. Li avrebbe spiati quando si fossero accampati per la notte e avessero acceso i loro fuochi e formato il loro circolo intorno alle fiamme. Li avrebbe osservati dal suo posto che era fuori. Forse avrebbero avvertito la sua presenza e nel buio si sarebbero sentiti a disagio, domandandosi che cosa c'era là fuori.
Si avvicinò alla porta, si alzò davanti a essa e la tastò per esaminarla meglio. Peccato che non ci fosse uno spioncino. E probabilmente non c'era rischio a passare subito. Che cosa aveva detto Walter? Che il ka-tet di Roland aveva intenzione di liberare i Frangitori, qualunque cosa fossero (nella mente di Walter questa nozione c'era, ma Mordred non si era curato di cercarla).
Dove usciranno troveranno di che essere occupati... potrebbero ricevere un'accoglienza fin troppo calorosa!
E se Roland e i suoi amici fossero stati uccisi? Se fossero caduti in un'imboscata? Mordred riteneva che, in quel caso lo avrebbe saputo. Lo avrebbe percepito nella mente come un vettoremoto.
A ogni modo avrebbe aspettato un po' prima di attraversare la soglia di quella porta con il sigul del nembo e la folgore. E quando fosse stato di là? Ah, ma li avrebbe trovati! E origliato il loro conciliabolo. E li avrebbe spiati, da svegli e addormentati. Soprattutto, avrebbe tenuto d'occhio quello che Walter aveva chiamato il suo Padre Bianco. Il suo solo vero padre ormai, se Walter aveva detto il vero sulla follia del Re Rosso.
E adesso?
Adesso, per un po', posso anche dormire.
Il ragno s'arrampicò rapido per il muro di quella stanza, che era piena di grandi oggetti appesi, e tessé una tela. Ma fu il neonato - nudo e ora cresciuto alle dimensioni di un bimbo di un anno a dormire in essa, la testa all'ingiù, sospesa nel vuoto e irraggiungibile per qualunque predatore fosse venuto a cacciare da quelle parti.
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La porta di Rombo di Tuono
1
Quando i quattro viandanti si destarono dal loro sonno (Roland per primo e precisamente dopo sei ore), c'erano altri strozzini impilati su un vassoio protetto da una tovaglietta e anche altre bevande. Del robot domestico, invece, non c'era traccia.
«Va bene, basta così», concluse Roland, dopo avere chiamato Nigel per la terza volta. «Ci aveva detto che era agli sgoccioli; a quanto pare l'ultima goccia è caduta mentre noi dormivamo.»
«Stava facendo una cosa che non voleva fare», commentò Jake. Era pallido e aveva la faccia un po' gonfia. Per aver dormito di un sonno troppo pesante, fu il primo pensiero di Roland, e subito si diede dello stupido. Il ragazzo aveva pianto per Père Callahan.
«Che cosa?» domandò Eddie, caricandosi il fagotto sulla spalla e quindi issandosi Susannah contro l'anca. «Per chi? E perché?»
«Non lo so», ammise Jake. «Non ha voluto che io lo sapessi e non mi è sembrato giusto spiare. So che era solo un robot, ma con quel bell'accento britannico e tutto il resto, si presentava come qualcosa di più.»
«È uno scrupolo che forse faresti bene a superare», lo rimproverò Roland con tutta la dolcezza di cui era capace.
«Quanto ti peso, dolcezza?» chiese allegramente Susannah a Eddie. «O forse farei meglio a domandarti quanto ti manca quella cara, vecchia sedia a rotelle. Per non parlare dell'imbracatura a spalla.»
«Suze, hai detestato quell'imbracatura dal momento stesso in cui l'hai vista e lo sappiamo tutti e due.»
«Non parlavo di quella e lo sai.»
Roland era sempre affascinato dal modo in cui Detta s'introduceva di soppiatto nella voce di Susannah, o, peggio ancora, nei lineamenti del suoi viso. Susannah dal canto suo sembrava non accorgersi di quelle incursioni, né le notò ora suo marito.
«Sono pronto a trasportarti in capo al mondo», dichiarò con passione Eddie e le baciò la punta del naso. «Basta che non mi metti su altri quattro o cinque chili, s'intende. Perché in quel caso potrei doverti abbandonare per andare a cercarmi una signora un po' più leggera.»
Lei gli diede una gomitata, senza troppa delicatezza, quindi si rivolse a Roland. «Qua sotto il posto è vastissimo. Come facciamo a trovare la porta per Rombo di Tuono?»
Roland scosse la testa. Non lo sapeva.
«E tu, Cisco?» chiese Eddie a Jake. «Tu sei quello con il tocco. Puoi usarlo per trovare la porta che ci serve?»
«Se sapessi come cominciare...» si schermì Jake. «Ma non lo so.»
E con questo, tornarono tutti e tre a guardare Roland, anzi, facciamo quattro, perché lo stava fissando anche quel birbaccione di bimbolo. Eddie avrebbe cercato di alleggerire il disagio di quello sguardo collettivo con qualche battuta e in effetti Roland si sforzò di trovarne qualcuna. Qualcosa sui troppi occhi che facevano macerare la torta... no. Il modo di dire che aveva sentito da Susannah riguardava cuochi e minestre. «Bazzicheremo un po' in giro», disse alla fine, «come fanno i cani da caccia quando hanno perso la traccia, e vediamo se troviamo qualcosa.»
«Magari un'altra sedia a rotelle per me», scherzò Susannah. «Questo ragazzaccio dalla pelle bianca ne approfitta per palpeggiare tutta la mia purezza!»
Eddie la guardò con un'espressione innocente. «Se fossi così intatta, tesoro, non avresti questa crepa proprio qui in mezzo.»
2
Fu infine Oy a risolvere la situazione, ma non prima che fossero tornati in cucina. Gli umani si aggiravano con un'aria smarrita che stava cominciando a innervosire Jake, quando Oy si mise ad abbaiare il suo nome: «Eik! Eik-Eik!»
Raggiunsero il bimbolo che si era fermato davanti a una porta tenuta aperta con una zeppa e con la scritta LIVELLO C. Oy s'inoltrò di qualche metro per il corridoio, poi si girò a guardare con gli occhi scintillanti. Quando vide che non lo seguivano, manifestò sonoramente il suo disappunto.
«Che cosa ne pensate?» chiese Roland. «Dobbiamo andargli dietro?» «Sì», rispose Jake.
«Che cosa ha fiutato?» domandò Eddie. «Qualcuno lo sa?»
«Forse qualche odore del Dogan», azzardò Jake. «Quello vero, sull'altra sponda del fiume Whye. Dove io e Oy avevamo ascoltato il papà di Ben Slightman che parlava con... lo sapete, il robot.»
«Jake?» si preoccupò Eddie. «Tutto bene, figliolo?»
«Sì», lo rassicurò Jake, anche se aveva appena passato un momentaccio nel ricordare come aveva urlato il padre di Benny. Apparentemente stanco delle lagnanze di Slightman, Andy, il Robot Messaggero, gli aveva pigiato o pizzicato qualcosa nel gomito, probabilmente un nervo, e Slightman aveva «starnazzato come un gufo», avrebbe forse detto Roland (quasi certamente con almeno una punta di disprezzo). Slightman il Giovane era ormai estraneo a quelle cose, naturalmente, ed era stato quel pensiero - un ragazzo un tempo così esuberante e ora freddo come l'argilla in riva al fiume a chiudere momentaneamente la bocca al figlio di Elmer. Morire era una necessità, sì, e Jake si augurava che, quando fosse venuta la sua ora, il suo trapasso potesse essere almeno moderatamente sereno. Non si poteva dire che in quegli ultimi tempi non gli fossero mancati corsi di addestramento sulle modalità specifiche. Era il pensiero di tutto quel tempo tombale a gelargli il sangue nelle vene. Quel timeout interminabile. Quello starsene-immobili-econtinuare-a-essere-morti.
Nel Dogan sull'altra riva del Whye l'odore di Andy saturava ogni cosa, freddo ma oleoso e caratteristico, perché il robot e Slightman il Vecchio si erano incontrati lì molte volte prima che i Lupi fossero accolti e affrontati da Roland e il suo minuscolo esercito. Quest'altro odore non era proprio lo stesso, ma era interessante. Era in ogni caso l'unico familiare in cui Oy si fosse imbattuto in quel momento e voleva seguirlo.
«Un momento, un momento», esclamò Eddie. «Vedo qualcosa che ci serve.»
Posò Susannah, attraversò la cucina e tornò spingendo un carrello di metallo usato probabilmente per il trasporto di stoviglie o grossi utensili.
«Salta in sella, bimba bella», disse Eddie aiutando Susannah a montarci sopra.
Lei trovò una posizione abbastanza comoda, afferrando i bordi, ma con un'espressione dubbiosa. «E quando troveremo una rampa di scale? Come la mettiamo allora, zuccherino?»
«Vedrai che zuccherino ti spianerà la via», rispose Eddie e spinse il carrello nel corridoio. «Forza, Oy! Muovetevi voi husky!»
«Oy! Husk!» Il bimbolo s'avviò di buon passo, abbassando di tanto in tanto la testa per annusare, ma soprattutto per un eccesso di zelo. La pista era troppo fresca e viva perché avesse di che preoccuparsi. Quello che aveva trovato, era l'odore dei Lupi. Dopo un'ora di cammino, passarono davanti a una porta grande come quella di un hangar con la scritta AI CAVALLI. Più avanti ce n'era un'altra con la scritta ZONA DI RACCOLTA e SOLO PERSONALE AUTORIZZATO. (Che per parte del loro tragitto fossero seguiti da Walter o'Dim era un fatto che nessuno di loro sospettava, neppure Jake, a dispetto della grande sensibilità del suo tocco. Almeno nei suoi confronti il «cappello pensante» dell'uomo incappucciato funzionava più che bene. Dopo essersi accertato della direzione che aveva preso il bimbolo, Walter era tornato indietro per confabulare con Mordred: un errore, era emerso, ma con la consolazione che non ne avrebbe mai più commesso un altro.)
Oy si sedette davanti alla porta chiusa, che era di quelle che sventagliano in entrambe i sensi, con la coda sottile a contatto delle zampe posteriori. «Eik, apri-apri! Apri, Eik!» abbaiò.
«Sì, sì», rispose Jake, «fra un attimo. Porta pazienza.»
«Zona di raccolta», lesse a voce alta Eddie. «Moderatamente promettente, direi.»
Stava ancora spingendo Susannah sul carrello d'acciaio, avendo superato senza troppo difficoltà l'unica rampa di scale (di pochi gradini) che avevano incontrato. Susannah era scesa per prima trascinandosi sulle natiche, come soleva fare normalmente, mentre Roland e Eddie trasportavano il carrello dietro di lei. Jake si era messo tra la donna e gli uomini, con la pistola di Eddie alzata e la lunga canna posata contro la spalla sinistra, nella posizione conosciuta come «la guardia».
Ora Roland estrasse la propria e se la posò contro la spalla destra, poi spinse la porta. Varcò la soglia con la testa leggermente incassata, pronto a tuffarsi dall'una o dall'altra parte o a spiccare un balzo all'indietro, se così avesse richiesto la situazione.
La situazione non richiese nulla. Se fosse entrato per primo, Eddie avrebbe forse creduto (magari per non più di un istante) di essere attaccato da Lupi volanti simili alle scimmie volanti del Mago di Oz. Roland viceversa non era particolarmente dotato di immaginazione e sebbene la gran parte dei tubi al neon appesi al soffitto di quell'enorme capannone fossero spenti, non perse né tempo né adrenalina scambiando gli oggetti sospesi per qualcosa di diverso da ciò che erano in realtà: robot razziatori guasti in attesa di riparazione.
«Entrate», esortò gli altri e le sue parole gli tornarono indietro sull'onda di un'eco. Nelle ombre del soffitto ci fu un frullare d'ali. Rondini, o forse ruggii da stalla che avevano trovato un pertugio per infilarsi nel capannone. «Credo che sia tutto sotto controllo.»
Entrarono anche gli altri e si fermarono ammutoliti dalla meraviglia. Solo l'amico quadrupede di Jake non restò impressionato. Oy approfittava della pausa per pulirsi il pelo, prima a sinistra e poi a destra. Finalmente Susannah, ancora seduta sul carrello, ritrovò il dono della parola: «Ne avevo viste di belle, credetemi, ma mai niente del genere».
Lo stesso valeva per gli altri. Lo stanzone era gremito di Lupi che sembravano sospesi in volo. Alcuni indossavano le mantelle e i cappucci verdi; altri pendevano denudati di indumenti e rivestiti solo delle loro corazze d'acciaio. Alcuni erano privi di testa, alcuni mancanti delle braccia, altri erano mutilati negli arti inferiori. Le loro grigie facce metalliche sembravano ringhiare o sogghignare, a seconda di come venivano colpite dalla luce. Sul pavimento c'erano mucchi di mantelle verdi e guanti di ferro. E a una quarantina di metri da loro (sembrava che il capannone si estendesse per almeno duecento metri) c'era un cavallo grigio solitario, posato sulla schiena con le zampe dritte all'insù. Era senza testa. Dal collo usciva un groviglio di cavi gialli, verdi e rossi.
Procedettero lentamente dietro Oy, che sgambettava tranquillo nel capannone. Il rumore delle ruote del carrello era forte là dentro e l'eco ne restituiva un rombo sinistro. Susannah continuava a guardare su. Dapprima - e solo perché restava ora pochissima luce in un posto che un tempo doveva essere abbagliante - pensò che i Lupi fossero sospesi nell'aria grazie a qualche congegno antigravitazionale. Poi giunsero in un punto dove quasi tutte le lampade erano ancora in funzione e vide i cavi di sostegno.
«Qui dev'essere dove li riparavano», osservò. «Se c'era ancora qualcuno capace di farlo, si capisce.»
«E io credo che laggiù è dove li alimentavano», disse Eddie puntando il dito. Contro la parete di fondo, che cominciavano solo adesso a vedere, distintamente, erano allineati un gran numero di scomparti. Alcuni di essi erano occupati da Lupi immobili. Altri erano vuoti e in essi si vedevano le prese.
Jake scoppiò improvvisamente a ridere.
«Cosa?» volle sapere Susannah. «Che cosa c'è?»
«Niente», rispose lui. «È solo che...» Poi le sue risa echeggiarono di nuovo, favolosamente giovanili nella tetraggine di quello stanzone. «È solo che sembrano pendolari alla Penn Station, allineati ai telefoni pubblici a chiamare casa o l'ufficio.»
Eddie e Susannah rifletterono per un momento, poi risero con lui. Dunque, pensò Roland, la somiglianza notata da Jake c'era davvero. Dopo tutto quello che avevano passato, non se ne stupì. Lo rallegrò invece sentir ridere il ragazzo. Era giusto che Jake piangesse la morte del Père, che era stato suo amico, ma era bello che non avesse perso la capacità di ridere. Molto bello davvero.
3
La porta che cercavano era a sinistra degli scomparti di ricarica. Riconobbero subito il sigul della nuvola con il fulmine, identica a quella del messaggio che «R.F.» aveva lasciato loro su un foglio dell'Oz Daily Buzz. Ma la porta era molto diversa da quella che avevano incontrato fino ad allora; a parte il nembo e la folgore, per il resto era solo funzionale. Sebbene fosse dipinta di verde, si vedeva che era di acciaio, non di legno-ferro o del più pesante legno fantasma. Lo stipite era grigio, anch'esso d'acciaio, con grossi cavi rivestiti di materiale isolante che uscivano da entrambi i lati. Entravano in una delle pareti. Da dietro quella parete giungeva un brontolio irregolare che a Eddie parve di riconoscere.
«Roland», disse a voce bassa. «Ricordi il portale del Vettore che trovammo quando eravamo ancora all'inizio? Ancora prima che Jake si unisse alla nostra allegra brigata?»
Roland annuì. «Dove uccidemmo i Piccoli Guardiani. La scorta di Shardik. Quel che ne restava.»
Eddie confermò con un cenno della testa. «Io avvicinai l'orecchio alla porta per ascoltare. Tutto è dimenticato nelle sale di pietra dei defunti, pensai. Queste sono le sale dei defunti, dove i ragni tessono e i grandi circuiti si ammutoliscono a uno a uno.»
Per la verità aveva pronunciato quelle parole a voce alta, ma Roland non si meravigliava che Eddie non ricordasse d'averlo fatto; in quel momento era ipnotizzato, del tutto o quasi.
«Allora noi eravamo all'esterno», continuò Eddie. «Ora siamo dentro.» Indicò la porta per Rombo di Tuono, poi con un dito tracciò il percorso dei grossi cavi. «Le macchine che inviano corrente qui dentro non mi sembrano molto ben messe. Se vogliamo usare questa porta, penso che ci convenga sbrigarci. Il sistema di alimentazione potrebbe guastarsi da un momento all'altro. E per sempre. E noi?»
«Dovremmo chiamare il soccorso stradale», commentò distratta Susannah.
«Non credo che servirebbe. Saremmo fritti... tu che ne dici, Roland?»
«Più che fritti, tostati. Guarda le stanze della rovina. Anche questo avevi detto. Ti ricordi?»
«Di averlo detto? A voce alta?»
«Aye.» Roland li condusse alla porta. Toccò la maniglia e ritrasse le dita.
«Scotta?» chiese Jake. Roland scosse la testa.
«Elettrificata?»
Il pistolero scosse la testa di nuovo.
«E allora avanti, coraggio», lo incalzò Eddie. «Balliamo.»
Serrarono i ranghi alle spalle di Roland. Eddie si era caricato di nuovo Susannah sull'anca e Jake aveva preso in braccio Oy. Il bimbolo ansimava con il suo solito sorriso gaio e dentro i cerchi dorati gli occhi gli brillavano come onice levigata.
«Che cosa facciamo...» Se è chiusa a chiave era il resto della frase che Jake stava per pronunciare, ma Roland lo precedette ruotando il pomolo con la mano destra (nella sinistra stringeva la pistola) e tirò. Dietro il muro, il rumore della macchina salì di registro raggiungendo un tono che sapeva di disperazione. A Jake parve di sentire un odore nuovo, forse di isolante che si bruciava. Stava per esortare se stesso a tenere a bada l'immaginazione, quando sopra di loro entrarono in funzione alcuni ventilatori. Trasalirono tutti, perché fecero un baccano più assordante di uno stormo di caccia pronti a decollare in un film sulla seconda guerra mondiale. Susannah si portò addirittura la mano alla testa, come per proteggersi da una pioggia di oggetti.
«Venite», sbottò Roland. «Muoviamoci.» Passò oltre senza guardarsi indietro. Nel breve istante in cui fu attraverso la soglia, però, parve spezzato in due. Al di là del pistolero, Jake scorgeva una stanza grande e immersa nella penombra, molto più grande della Zona di Raccolta.
E un intrico di linee argentate che sembravano fasci di pura luce.
«Forza, Jake», disse Susannah. «Tocca a te.»
Jake respirò a fondo e passò di là. Non ci fu la sensazione di un incresparsi, come era accaduto nella Grotta delle Voci, e non ci fu scampanio. Nessuna sensazione di contezza, neppure per un momento. Ci fu invece quella orribile di essere rovesciato da dentro all'infuori e un attacco violentissimo di nausea come non aveva mai sperimentato in vita sua. Gli cedettero le gambe. Un attimo dopo era in ginocchio. Lasciò cadere Oy, senza nemmeno accorgersene. Fu scosso da un primo conato. Roland era carponi al suo fianco e faceva lo stesso. Intorno a loro vibravano uno sferragliare ritmico e costante, l'insistente din-din-din-din di una campanella e una sonora voce amplificata.
Jake girò la testa con l'intenzione di dire e Roland che ora capiva perché spedivano dei robot razziatori attraverso quella dannata porta, ma vomitò di nuovo. I resti del suo ultimo pasto scivolarono nelle crepe del cemento.
A un tratto Susannah si mise a gridare: «No! No!» con una voce piena di sgomento. «Mettimi giù! Eddie, mettimi giù prima che...» La sua voce fu interrotta da versacci di rigurgito. Eddie riuscì a posarla sul cemento crepato prima di girare la testa e unirsi a sua volta al Coro dei Vomitanti.
Oy stramazzò su un fianco, rigettò emettendo suoni rauchi, poi si rimise in piedi. Sembrava stordito e disorientato... o forse Jake stava solo attribuendo al bimbolo le proprie sensazioni.
Quando la nausea cominciava a placarsi, udì dei passi pesanti. Tre uomini correvano verso di loro, tutti in jeans, camicia blu di batista e strane calzature dall'aspetto casereccio. Uno dei tre, un uomo anziano con una matassa di scompigliati capelli bianchi sulla testa, precedeva gli altri due. Tutti e tre tenevano le mani alzate.
«Pistoleri!» proruppe l'uomo con i capelli bianchi. «Siete pistoleri? Se lo siete, non sparate! Siamo dalla vostra parte!»
Roland, che non sembrava in condizioni di sparare a nessuno (non che vorrei metterlo alla prova, rifletté Jake), cercò di rialzarsi, quasi ci riuscì, poi ricadde su un ginocchio e fece un altro verso strozzato. L'uomo con i capelli bianchi lo afferrò per un polso e lo issò in piedi senza complimenti.
«È un malore insopportabile», disse il vecchio, «nessuno lo sa meglio di me. Per fortuna passa subito. Dovete venir via con noi immediatamente. So quanta poca voglia avete, ma, vedete, nello studio del ki'-dam c'è un allarme e...»
Si fermò. I suoi occhi, azzurri quasi come quelli di Roland, si andavano dilatando. Nonostante la luce scarsa Jake vide impallidire il volto del vecchio. I suoi compagni li avevano raggiunti, ma lui non se n'era nemmeno accorto. Era Jake Chambers che stava guardando.
«Bobby?» disse con un filo stentato di voce. «Dio mio, sei Bobby Garfield?»
5
Steek-Tete
1
I compagni dell'uomo canuto erano di gran lunga più giovani di lui (Roland giudicò che uno dovesse essere poco più che adolescente), e sembravano entrambi terrorizzati. Timorosi d'essere uccisi per sbaglio, questo sì, ed era il motivo per cui si erano precipitati fuori del buio a braccia levate, ma c'era anche qualcos'altro, perché ormai doveva essere chiaro che non stavano per essere assassinati senza motivo.
Il vecchio ebbe un sussulto, quasi uno spasmo, con il quale si ritrasse da un momento di privata astrazione. «Ma certo che non sei Bobby», mormorò. «Tanto per cominciare i capelli sono del colore sbagliato e poi...»
«Ted, dobbiamo uscire da qui», protestò ansioso il più giovane dei tre. «E intendo seduta stante.»
«Sì», annuì il vecchio, ma il suo sguardo rimase su Jake. Si portò una mano agli occhi (a Eddie fece venire in mente un telepatico da luna park che si prepara al suo fantastico numero di lettura del pensiero), poi la riabbassò. «Sì, naturalmente.» Guardò Roland. «Tu sei il dinh?
Roland di Gilead? Roland dell'Eld?»
«Sì, io...» cominciò Roland, poi si chinò a vomitare di nuovo. Non gli uscì niente dalla gola oltre a una lunga bava argentata; aveva già perso la sua razione di minestra e sandwich di Nigel. Levò quindi un pugno un po' tremante e si toccò la fronte nel segno del saluto. «Sì. Tu mi conosci e io non conosco te, sai.»
«Questo non è importante», ribatté l'uomo con i capelli bianchi. «Verrai con noi? Tu e il tuo ka-tet?»
«Senz'altro.»
Dietro di lui Eddie vomitò di nuovo. «Ma porco-schifo!» gracchiò. «E io pensavo che viaggiare su un Greyhound era brutto! Al confronto di questa porta, l'autobus è... è...»
«Come una cabina di prima classe sulla Queen Mary», finì per lui Susannah quasi senza voce.
«Andiamo!» insisté il più giovane del terzetto. «Se la Donnola è sulle vostre tracce con la sua squadra di taheen, sarà qui entro cinque minuti! Quella è una bestiaccia che sa far andare le gambe!»
«Sì», fece eco l'uomo con i capelli bianchi. «Dobbiamo proprio andare, signor Deschain.» «Fai strada», rispose Roland. «E noi ti seguiamo.»
2
Non erano finiti in una stazione, bensì in una sorta di colossale scalo merci coperto. Le linee argentee che aveva visto Jake erano incroci di binari, forse una settantina. Su un paio di essi, viaggiavano avanti e indietro tozze motrici automatiche occupate in manovre diventate obsolete da secoli. Una spingeva un carro a pianale carico di putrelle arrugginite. Dall'altra partì l'invocazione di una voce sintetizzata: «UNA CAMKA-A ALL'USCITA 9, PER PIACERE. UNA CAMKA ALLA 9, PREGO».
Rimbalzare sull'anca di Eddie fece tornare la nausea a Susannah. L'ansiosa premura dell'uomo con i capelli bianchi, però, l'aveva contagiata come un raffreddore. Inoltre ora sapeva che cos'erano i taheen: creature mostruose con il corpo di essere umano e la testa di uccello o mammifero. Gli ricordavano le creature di quel dipinto di Bosch intitolato Il giardino delle delizie.
«Potrei dover vomitare di nuovo, zolletta», annunciò. «Se lo faccio, guai a te se rallenti.»
Eddie rispose con un grugnito che Susannah interpretò come un'affermazione. Vedeva il sudore che gli sgorgava dalla pelle chiara e provò compassione per lui. Stava male anche Eddie. Dunque ora sapeva che effetto faceva usare un congegno scientifico di teletrasporto che evidentemente non funzionava più molto bene. E si chiese se sarebbe mai riuscita a obbligarsi a usarne un altro.
Jake guardò in alto e vide un tetto di un milione di pannelli di forme e dimensioni diverse; era come osservare un mosaico di piccoli tasselli dipinto di un uniforme grigio scuro. Poi attraverso una sezione volò un uccello e si rese conto che quelle non erano tessere o piastrelle, bensì lastre di vetro, alcune delle quali rotte. Il grigio scuro era evidentemente come appariva il mondo esterno visto da Rombo di Tuono. Come una eclissi costante, pensò e rabbrividì. Accanto a lui Oy emise una serie di versi rochi, dopodiché riprese a trottare scuotendo il capo.
3
Passarono oltre un ammasso di macchinari spiaggiati, forse generatori, quindi s'inoltrarono in un labirinto di carri ferroviari che erano molto diversi dai vagoni trainati da Blaine il Mono. Nel caos generale, alcuni ricordarono a Susannah le carrozze dei convogli pendolari che poteva aver visto alla Grand Central Station nel suo quando del 1964. Come a confermare la sua impressione, notò la scritta BAR CAR sulla fiancata di un vagone. Ce n'erano tuttavia altri che sembravano molto più vecchi, carrozze di lamiere rivettate invece che di paratie cromate, che somigliavano piuttosto a quelle per passeggeri di qualche vecchio film western, o di telefilm come Maverick. Davanti a una di quelle carrozze c'era un robot, dal cui collo germogliava un mazzo disordinato di cavi. Sotto il braccio reggeva la testa, sulla quale c'era un cappello con un distintivo e la scritta
CONTROLLORE CLASSE A.
All'inizio Susannah cercò di tenere il conto di tutte le volte che svoltavano a destra e a sinistra in quel dedalo di vagoni, poi lasciò perdere ritenendo il suo sforzo inutile. Emersero finalmente a una cinquantina di metri da una baracca di assi di legno, sull'architrave del cui ingresso si leggeva la scritta BAGAGLI IN CARICO/SMARRITI. Nello spazio antistante, sul fondo di cemento percorso dalle crepe, erano sparsi carrelli abbandonati e cataste di casse. C'erano anche due Lupi morti. No, pensò Susannah, facciamo pure tre. Il terzo era appoggiato al muro nelle ombre più dense intorno all'angolo di BAGAGLI IN CARICO/SMARRITI.
«Presto», li esortò l'uomo con la matassa di capelli bianchi, «siamo quasi arrivati. Ma dobbiamo fare in fretta, perché se ci raggiungono i taheen della Casa Crepacuore, vi uccideranno.»
«Uccideranno anche noi», tenne a precisare il più giovane del terzetto. Si tolse una ciocca di capelli dagli occhi. «A parte Ted. Ted è l'unico di noi a essere indispensabile. È solo troppo modesto per dirlo.»
Dietro BAGAGLI IN CARICO/SMARRITI c'era (abbastanza prevedibilmente, rifletté Susannah) UFFICIO SPEDIZIONI. L'uomo dai capelli bianchi provò la porta. Era chiusa a chiave. Ne parve più contento che no. «Dinky?» chiamò.
Era evidentemente il più giovane dei tre. Afferrò la maniglia e Susannah sentì il rumore brusco di un meccanismo. Dinky indietreggiò. Questa volta, quando Ted provò la porta, l'aprì senza difficoltà. Entrarono in un ufficio buio diviso in due da un bancone. Su di esso c'era un avviso che fece provare una nota di nostalgia a Susannah: MUNIRSI DI NUMERO E ATTENDERE, diceva.
Quando la porta si richiuse, Dinky afferrò di nuovo il pomolo. Ci fu un altro scatto secco.
«L'hai bloccata di nuovo», osservò Jake. Il tono era d'accusa, ma sulle sue labbra c'era un sorriso e sulle guance gli stava rinascendo il colorito naturale. «Non è vero?»
«Non ora, per piacere», intervenne l'uomo canuto... Ted. «Non c'è tempo. Seguitemi.»
Sollevò una sezione del bancone e li fece passare per di lì. Dietro, nell'area ufficio, c'erano due robot che sembravano morti da tempo e tre scheletri.
«Perché continuiamo a trovare ossa?» chiese Eddie. Come Jake, anche lui si sentiva meglio e stava soltanto riflettendo a voce alta, senza veramente attendersi una risposta. Tuttavia la ottenne. Da Ted.
«Sai del Re Rosso, giovanotto? Naturalmente sì. Io credo che tempo fa abbia invaso tutta questa parte del mondo di gas velenoso. Probabilmente per capriccio. Uccidendo quasi tutti. Il buio che vedi ne è un residuo. È pazzo, naturalmente. E questo è una larga parte del problema. Per di qui.»
Li guidò oltre una porta con la scritta PRIVATO, in una stanza appartenuta presumibilmente a un papaverone del meraviglioso mondo del carico e scarico. Susannah vide che per terra c'erano delle impronte di qualche visita recente. Quasi certamente da parte di quegli stessi tre individui. C'erano una scrivania, sotto una spanna di soffice polvere, due poltrone e un divano. Dietro la scrivania c'era una finestra. La veneziana che l'aveva protetta in passato era ora crollata sul pavimento e lasciava che lo sguardo spaziasse su un panorama minaccioso, sebbene non privo di fascino. Il paesaggio dietro la stazione di Rombo di Tuono ricordò a Susannah le distese deserte sull'altra sponde del fiume Whye, ma più rocciose e avvolte in un'atmosfera più tetra.
E naturalmente il buio era maggiore.
Lì dietro i binari (su alcuni dei quali sostavano convogli in eterna attesa) partivano a raggiera come i fili di una ragnatela d'acciaio. Sopra di loro il cielo di scura ardesia sembrava imbarcarsi sotto il proprio peso, scendendo fin quasi a poterlo toccare. Tra cielo e terra l'aria era densa; Susannah si ritrovò a sforzare gli occhi per vedere qualcosa, sebbene non ci fossero né fumo né nebbia.
«Dinky», chiamò l'uomo con i capelli bianchi.
«Sì, Ted.»
«Che cosa hai lasciato da trovare al nostro amico la Donnola?»
«Un addetto alla manutenzione», rispose Dinky. «Sembrerà che abbia trovato il modo di passare per la porta di Fedic, abbia fatto scattare l'allarme e sia finito abbrustolito su uno dei binari in fondo allo scalo ferroviario. Ce ne sono ancora alcuni roventi. Si vedono spesso uccelli morti, fritti a dovere e belli croccanti, ma anche un ruggio di buone dimensioni è troppo piccolo per far scattare l'allarme. Un operaio, invece... sono sicuro che ci cascherà. La Donnola non è uno stupido, ma la scena è molto credibile.»
«Bene. Molto bene. Guardate laggiù, pistoleri.» Ted indicò loro un affilato spuntone di roccia che si ergeva all'orizzonte. Susannah lo individuò facilmente in un paesaggio buio dove tutti gli orizzonti sembravano così vicini. Non notò niente di particolare, però, solo sacche di ombre più fitte e sterili pendii franosi. «Quello è il Can Steek-Tete.» «La Piccola Guglia», disse Roland.
«Eccellente traduzione. È lì che andiamo.»
Susannah provò un tuffo al cuore. Quella montagna, o pinnacolo che fosse, doveva essere a una decina di miglia da loro. Al limite estremo della loro visuale, in ogni caso. Eddie, Roland e i due giovani compagni di Ted non avrebbero potuto trasportarla di peso per un tratto così lungo. E comunque come sapevano di potersi fidare di quei tre sconosciuti?
D'altra parte, pensò, che alternativa abbiamo?
«Non sarà necessario trasportarti», la rassicurò Ted, «ma Stanley avrà bisogno del tuo aiuto. Ci prenderemo per mano, come si fa per una seduta spiritica. Voglio che tutti voi visualizziate quella formazione rocciosa, quando passeremo attraverso. E che teniate il nome ben presente: Steek-Tete, la Piccola Guglia.»
«Ohi ohi», esclamò Eddie. Erano davanti a un'altra porta ancora, aperta come l'anta di un armadio. Dentro c'erano appendini di fil di ferro, uno dei quali occupato da un vecchio blazer rosso. Eddie afferrò Ted per una spalla e lo costrinse a voltarsi. «Passiamo attraverso cosa? Per andare dove? Perché se questa porta è come l'ultima...»
Ted alzò lo sguardo su Eddie (dovette alzarlo, perché Eddie era più alto) e in quel mentre Susannah notò qualcosa di sorprendente e inquietante: sembrava che gli occhi di Ted gli ballassero nelle orbite. Poi si rese conto che non era propriamente così. Erano le pupille che si dilatavano e restringevano con una rapidità straordinaria. Era come se non sapessero decidersi se c'era luce o buio.
«Non dobbiamo passare attraverso nessuna porta, almeno non una di quelle che già conoscete.
Ma dovete fidarvi di me, giovanotto. Ascoltate.»
Si zittirono tutti e, nel silenzio, Susannah colse il rombo di motori in avvicinamento.
«Quello è la Donnola», disse loro Ted. «Avrà con sé i suoi taheen, almeno quattro, forse anche cinque o sei. Se ci vedono qui, è quasi sicuro che per Dinky e Stanley non ci sarà salvezza. Non c'è bisogno che ci prendano, basterà che ci vedano. Stiamo rischiando la vita per voi. Questo non è un gioco e occorre che smettiate di fare domande e mi seguiate!» «Lo faremo», promise Roland. «E penseremo alla Piccola Guglia.» «Steek-Tete», fece eco Susannah.
«Non vi verrà di nuovo la nausea», annunciò Dinky. «Lo giuro.» «Meno male», sospirò Jake.
«No-ale», convenne Oy.
Stanley, il secondo dei compagni di Ted, continuò a non dire nulla.
4
Era un semplice sgabuzzino, un ripostiglio da ufficio, stretto e con l'odore di chiuso. Sul vecchio blazer rosso c'era una targhetta d'ottone appuntata al taschino con le parole CAPO SPEDIZIONIERE. Stanley andò fino in fondo, davanti a un comune muro nudo. Gli appendini danzavano tintinnando e Jake doveva stare attento a dove metteva i piedi per non calpestare Oy. Aveva sempre sofferto un po' di claustrofobia e ora cominciò a sentire le dita grasse del Panico che gli attraversavano il collo, prima da una parte e poi dall'altra. Ai tintinnii degli appendini si unirono i rintocchi sommessi degli Oriza nella sacca. Sette persone e un bimbolo stretti nel ripostiglio di un ufficio abbandonato? Follia pura. Si sentiva ancora il rombo dei motori in arrivo.
Quelli sotto il comando della Donnola.
«Prendiamoci per mano», mormorò Ted. «E concentriamoci.»
«Steek-Tete», ripeté Susannah, ma a Jake parve di cogliere un'inflessione di dubbio.
«Piccola Gu...» cominciò Eddie e subito si fermò. Il nudo muro in fondo al ripostiglio non c'era più. Al suo posto c'era ora una piccola radura con dei massi su un lato e un ripido pendio cosparso di cespugli sull'altro. Jake era pronto a scommettere che fosse lo Steek'Tete, e se era un modo per uscire da quell'angusta prigione, era ben lieto di vederlo.
Stanley emise un piccolo gemito di dolore o sforzo o entrambi. Aveva gli occhi chiusi e da sotto le palpebre gli scivolavano lacrime sugli zigomi.
«Ora», disse Ted. «Facci passare, Stanley.» Rivolgendosi agli altri disse: «E aiutatelo se potete! Aiutatelo, per l'amore dei vostri padri!»
Jake cercò di trattenere l'immagine della punta rocciosa che Ted aveva indicato attraverso la finestra dell'ufficio e s'incamminò, tenendo per mano Roland che lo precedeva e Susannah che lo seguiva. Avvertì un alito di aria fredda sulla pelle sudata e uscì sul pendio dello Steek-Tete di Rombo di Tuono, pensando per un attimo al signor C.S. Lewis e al fiabesco guardaroba che ti portava a Narnia.
5
Non emersero a Narnia.
Faceva freddo sul pendio della guglia e Jake cominciò presto ad avere i brividi. Quando guardò giù, non vide traccia del portale dal quale erano passati. L'aria era opaca e vi aleggiava un odore penetrante e non particolarmente gradevole, come di kerosene. C'era un'altra piccola nicchia che si apriva nel pendio (più o meno un altro ripostiglio), dal quale Ted prese delle coperte e una borraccia che conteneva un'acqua dal sapore pungente e alcalino. Jake e Roland si avvolsero ciascuno in una coperta; Eddie ne prese due per proteggere se stesso e Susannah insieme. Jake, sforzandosi di non battere i denti (una volta che avesse cominciato, non sarebbe più riuscito a fermarsi), provò invidia per il calore supplementare prodotto dall'unione dei loro corpi.
Anche Dinky era scomparso dentro una coperta, mentre sembrava che Ted e Stanley fossero insensibili al freddo.
«Guardate laggiù», disse Ted. Stava indicando la ragnatela di binari. Da lassù si vedevano il vasto tetto di vetro dello scalo ferroviario e l'attigua struttura con il tetto verde, lunga forse mezzo miglio. C'erano binari che andavano in tutte le direzioni. La stazione di Rombo di Tuono, rifletté incredulo. Dove i Lupi caricano i bambini rapiti sul treno e li spediscono a Fedic lungo il Sentiero del Vettore. E dove li riportano dopo averli guastati.
Nonostante tutte le bizzarrie del suo recente passato, gli era difficile credere che, meno di due minuti prima, fossero ancora laggiù, a sette o otto miglia di distanza. Sospettava che avessero preso tutti quanti parte all'apertura del portale, ma che fosse stato quello che si chiamava Stanley ad averlo creato. Ora lo vedeva pallido e stanco, quasi stremato. A un certo punto si levò faticosamente in piedi e Dinky (un nomignolo davvero disgraziato, nell'umile opinione di Jake) lo afferrò per un braccio per mantenerlo in equilibrio. E Stanley sembrò non accorgersene.
Guardava Roland con soggezione e devozione.
E non solo, pensò Jake, e non è nemmeno paura. Qualcos'altro. Che cosa?
Alla stazione stavano sopraggiungendo due carri motorizzati con enormi ruote balloon: ATV. Dovevano essere la Donnola (chiunque fosse) e i suoi taheen.
«Come sicuramente avete intuito», spiegò loro Ted, «nell'ufficio del soprintendente del DevarToi c'è un allarme. L'ufficio del direttore del carcere, se vogliamo chiamarlo così. Scatta tutte le volte che qualcuno o qualcosa usa la porta tra la Zona di Raccolta di Fedic e la stazione...»
«Credo che il termine che usavate», intervenne asciutto Roland, «non fosse né soprintendente né direttore, ma ki'-dam.»
Dinky rise. «Complimenti.»
«Che cosa vuol dire ki'-dam?» volle sapere Jake, sebbene ne avesse un'idea vaga. Al Calla la gente aveva un modo di dire: «testascatola, cuorescatola, chiamascatola». Che significava in ordine decrescente, intelletto, emozioni e funzioni elementari. Funzioni animali, direbbe qualcuno; a voler essere volgari, chiamascatola potrebbe essere tradotto con cacca-scatola.
Ted si strinse nelle spalle. «Ki'-dam vuol dire uno che pensa con il culo. È così che Dinky chiamava sai Prentiss, il comandante del Devar. Ma questo lo sapevate già, vero?» «Più o meno», ammise Jake.
Ted lo fissò a lungo e, quand'ebbe identificato quell'espressione, Jake trovò più facile definire il modo in cui Stanley osservava Roland: non da persona impaurita, ma da persona estatica. Jake aveva l'intimo sospetto che Ted stesse ancora meditando sulla sua incredibile somiglianza con un certo Bobby ed era più che sicuro che Ted fosse dotato del tocco. Ma da che cosa era originato il fascino che provava Stanley? Ma forse era lui a esagerare. Forse molto semplicemente Stanley non si era aspettato di vedere un pistolero in carne e ossa.
Ted staccò bruscamente gli occhi da Jake per tornare a guardare Roland. «Ora guardate da questa parte», li invitò.
«Caspita!» proruppe Eddie. «E quello che cosa diavolo è?»
Susannah era insieme sorpresa e divertita. Ted stava indicando loro una scena che le faceva venire in mente I dieci comandamenti, il polpettone biblico di Cecil B. DeMille, specialmente là dove il Mar Rosso aperto da Mosè ricordava in maniera sospetta un budino tagliato a metà e la voce di Dio che usciva dal cespuglio in fiamme somigliava fin troppo a quella di Charles Laughton. Ma era stupefacente lo stesso. Almeno nella prospettiva dei più triti effetti speciali hollywoodiani.
Vedevano un solitario raggio di sole, un'ampia, limpida, fulgida lama di luce, che scendeva obliqua da un'apertura nella coltre gravida delle nuvole. Tagliava l'aria stranamente scura come il fascio di luce di un proiettore e illuminava uno spiazzo che poteva essere a sei miglia circa dalla stazione di Rombo di Tuono. E «sei miglia circa» era quanto di meglio si potesse azzardare, visto che in quel mondo non c'erano più il nord e il sud, non nel senso di affidabili punti cardinali. Ora c'era solo il Sentiero del Vettore.
«Dinky, c'è un binocolo...»
«Nella grotta bassa, giusto?»
«No, l'ultima volta che siamo stati qui l'ho portato su», rispose Ted con deliberata pazienza. «È su quella pila di casse subito oltre l'ingresso. Prendilo, per piacere.»
Eddie registrò solo distrattamente quello scambio di battute. Era troppo incantato (e divertito) da quel singolo e vasto raggio di sole che brillava su un tratto di terreno verde e invitante, improbabile in quel deserto oscuro e sterile quanto... be', quanto doveva apparire il Central Park a dei turisti arrivati per la prima volta a New York dalle campagne.
C'erano edifici che somigliavano a dormitori universitari, ma di quelli belli, però, e altri fabbricati che sembravano vecchie e accoglienti residenze di campagna, ciascuna con un ampio prato antistante. Sul lato esterno della zona illuminata c'era una strada di negozi. La perfetta, piccola America provinciale con la sua Main Street, salvo che per un particolare: in tutte le direzioni era circondata da deserto buio e roccioso. Contò quattro torri di pietra, ornate dal verde dell'edera. No, erano sei. Le ultime due erano quasi completamente nascoste da una macchia di olmi dalle fronde eleganti. Olmi in un deserto!
Dinky riapparve con il binocolo e lo offrì a Roland che scosse la testa.
«Non ti offendere», disse Eddie. «I suoi occhi... be', limitiamoci a dire che sono un po' speciali. A me piacerebbe dare un'occhiata, però.» «Anche a me», intervenne Susannah.
Eddie le passò il binocolo. «Prima le signore.»
«No, davvero...»
«Smettetela!» s'interpose Ted quasi con stizza. «Il nostro tempo qui è breve, il nostro rischio enorme. Non sprecate l'uno e non aumentate l'altro, per piacere.»
Sebbene contrariata, Susannah evitò di rimbeccarlo. Accettò invece il binocolo, se lo portò agli occhi e regolò le lenti. L'impressione immediata fu quella di osservare veramente un piccolo ma perfetto campus di provincia, che si fondeva meravigliosamente con il borgo accanto. Niente tensioni tra comunità studentesca e comunità locale laggiù, scommetto, pensò. Scommetto che Olmopoli e l'Università dei Frangitori convivono serenamente come il burro d'arachidi e la marmellata, Gianni e Pinotto, mano e guanto. Tutte le volte che sul Saturday Evening Post c'era un racconto di Ray Bradbury, leggeva sempre quello per primo, lei adorava Bradbury, e quello che vedeva in quel momento attraverso le lenti del binocolo le faceva pensare a Greentown, il borgo dell'Illinois uscito dalla fantasia di Bradbury. Un luogo dove gli adulti sedevano in veranda sulle sedie a dondolo a bere limonata e i bambini giocavano a rincorrersi con le torce elettriche nel crepuscolo punteggiato di lucciole delle sere d'estate. E il vicino college? Niente alcolici lì, almeno non in eccesso. Niente spinelli o pasticche o rock and roll. Doveva essere un posto dove le ragazze davano ai ragazzi il bacio della buonanotte con casto ardore e rispettavano il coprifuoco serale in modo che la direttrice del dormitorio non pensasse male di loro. Un posto dove il sole splendeva per tutto il giorno, dove alla radio cantavano Perry Comò e le Andrews Sisters, e nessuno sospettava di vivere in realtà nelle rovine di un mondo che era andato avanti.
No, pensò freddamente. Alcuni di loro lo sanno. È per questo che sono arrivati questi tre ambasciatori.
«Quello è il Devar-Toi», annunciò Roland con distacco.
«Sì», confermò Dinky. «Il buon vecchio Devar-Toi.» Si avvicinò a Roland e indicò una grande costruzione bianca vicino ai dormitori. «Vedi quella casa bianca. Quella è la Casa Crepacuore, dove vivono i can-toi. Ted li chiama uomini bassi. Sono ibridi, in parte umani e in parte taheen. E loro non lo chiamano Devar-Toi, loro lo chiamano Algul Siento, che vuol dire...»
«Cielo blu», lo anticipò Roland e Jake capì come mai tutti gli edifici, a parte le torri di roccia, avevano il tetto di tegole blu. Non era Narnia, quella, era Cielo Blu. Dove certa gente era impegnata a provocare la fine del mondo. Di tutti i mondi.
6
A guardarlo sembra il luogo più bello dell'universo, almeno dalla caduta dell'Entro-Mondo», commentò Ted. «Non è vero?»
«Molto accogliente, sì», convenne Eddie. Aveva almeno mille domande da fare e un altro migliaio dovevano averne in serbo Suze e Jake, ma non era il momento giusto. Intanto non riusciva a staccare lo sguardo da quell'invitante piccola oasi di poche decine di ettari. L'unica soleggiata macchia di verde in tutta Rombo di Tuono. L'unico posto bello. E perché no? Solo il meglio per i Nostri Amici Frangitori.
Poi, suo malgrado, una domanda gli sfuggì.
«Ted, perché il Re Rosso vuol far crollare la Torre? Tu lo sai?»
Ted gli scoccò una breve occhiata. A Eddie sembrò freddo, per non dire gelido, finché sulle labbra del vecchio non apparve un sorriso. Allora gli si illuminò tutto il volto. E i suoi occhi avevano smesso quell'inquietante andirivieni e questo era un miglioramento decisivo.
«È pazzo», disse Ted. «Matto da legare. Matto come il mitico, povero cavallo. Non ve l'avevo detto?» Poi, prima che Eddie potesse rispondere: «Sì, è proprio bello. Devar-Toi, Grande Prigione, o Algul Siento che dir si voglia, sembra un piccolo paradiso. È un piccolo paradiso».
«Una residenza di gran classe», sottolineò Dinky. Anche Stanley contemplava l'oasi soleggiata con un'espressione di vaga nostalgia.
«La cucina soprattutto», continuò Ted, «e al Gem Theater cambiano il programma del doppio spettacolo due volte alla settimana. E se non hai voglia di andare al cinema, puoi portarti i film a casa in DVD.»
«Cioè?» s'informò Eddie, ma scosse subito la testa. «Non fa niente. Va' avanti.» Ted si strinse nella spalle come a dire: che cos'altro ti serve?
«Sesso assolutamente galattico, per dirne una», s'intromise Dinky. «È simulato, ma è lo stesso incredibile. Io in una sola settimana l'ho fatto con Marilyn Monroe, Madonna e Nicole Kidman.» Lo disse con una punta di imbarazzato orgoglio. «Avrei potuto farlo con tutte e tre assieme, se avessi voluto. L'unico modo per capire che non sono reali è alitarci direttamente addosso, da vicino. Se lo fai, là dove hai soffiato... è come se scomparisse. Non è un bell'effetto.» «Alcolici? Droghe?» chiese Eddie.
«Alcol in quantitativi limitati», rispose Ted. «Se ti intendi di enologia, per esempio, avrai da conoscere nuove meraviglie a ogni pasto.» «Che cos'è l'enologia?» domandò Jake.
«La scienza dello snobismo nella categoria dei vini, zuccherino», spiegò Susannah.
«Se arrivi a Cielo Blu con qualche tipo di vizio», disse Dinky, «te lo fanno passare. Con delicatezza. I pochissimi, uno o due che si erano dimostrati ossi particolarmente duri da questo punto di vista...» I suoi occhi incontrarono per un attimo quelli di Ted, il quale alzò le spalle e annuì. «Sono scomparsi.»
«Per la verità gli uomini bassi non hanno più bisogno di Frangitori», riprese Ted. «Ne hanno abbastanza per portare a termine il lavoro.» «Quanti?» domandò Roland.
«All'incirca trecento», gli rispose Dinky.
«Trecentosette, per la precisione», puntualizzò Ted. «Sono acquartierati in cinque dormitori, anche se messa così è facile farsi un'idea shagliata. Ciascuno ha la propria suite e indipendenza assoluta nel decidere il grado di intimità da accordare ai colleghi Frangitori.» «E sapete quello che state facendo?» chiese Susannah.
«Sì. Anche se la maggior parte non sta a rifletterci sopra più che tanto.»
«Non capisco perché non si ribellano.»
«Lei di che quando è, signora?» s'informò Dinky.
«Di che?...» Poi comprese. «1964.»
Dinky sospirò scuotendo la testa. «Dunque lei non sa di Jim Jones e del Tempio del Popolo. È più facile spiegarlo a chi ne è a conoscenza. In questo centro religioso allestito in Guyana da un fanatico di San Francisco ci fu un suicidio collettivo. Quasi mille persone bevvero da una vasca da bagno Kool-Aid avvelenato, mentre lui li guardava dalla veranda di casa sua e raccontava loro storie di sua madre con un megafono.»
Susannah lo fissava con un'espressione di orrore e incredulità, Ted con mal dissimulata impazienza. Ma riteneva evidentemente che ci fosse qualcosa di importante in quella storia, perché rimase in silenzio.
«Quasi mille», ripeté Dinky. «Perché erano confusi e soli e pensavano che Jim Jones fosse loro amico. Perché, questo è il punto, non avevano nulla a cui tornare. È la stessa cosa qui. Se si unissero, i Frangitori potrebbero creare una catapulta mentale con cui scaraventare Prentiss e la Donnola e tutti i taheen e i can-toi in un'altra galassia. Invece non ci siamo che io, Stanley e il superfrangitore che sta nel cuore di tutti noi, l'unico definitivo e ineguagliabile signor Theodore Brautigan di Milford, Connecticut. Harvard, classe del Venti, Filodrammatica, Circolo dei Dibattiti, direttore del Crimson e, ma naturalmente! Phi Beta Kacca.»
«Possiamo fidarci di voi tre?» chiese Roland. Il tono blando era ingannevole, sembrava una di quelle frasi che si dicono per ammazzare il tempo.
«Dovete», rispose Ted. «Non avete nessun altro. Nemmeno noi.»
«Se noi fossimo dalla loro parte», intervenne Dinky, «non vi pare che avremmo qualcosa di meglio da metterci ai piedi di questi mocassini fatti con pezzi di copertoni? A Cielo Blu trovi tutto quello che ti può servire, tranne alcuni articoli di base, cose che normalmente non considereresti indispensabili, ma cose che... be', è più difficile battersela quando non hai di meglio che metterti ai piedi le classiche scarpe da Algul Siento, in poche parole.»
«Io continuo a non crederci», insisté Jake. «Tutta quella gente occupata a infrangere i Vettori, intendo. Senza offesa, ma...»
Dinky si girò verso di lui con i pugni chiusi e un sorriso stretto da un moto di collera. Oy si frappose immediatamente, mostrandogli i denti ringhiando. Dinky non lo notò o comunque lo ignorò. «Sì? Allora sappi una cosa, piccolo. Io mi offendo. Io mi offendo di brutto. Che cosa sai tu di come ci si sente a passare la vita intera stando fuori, a essere sempre lo zimbello di tutti, a essere Carrie a ogni fottuto ballo della scuola?»
«Chi?» chiese Eddie confuso, ma Dinky era partito nella sua filippica e non sentiva più niente.
«Laggiù ci sono tizi che non possono camminare o parlare. C'è una ragazza senza braccia. Alcuni sono idrocefali, che vuol dire che sul collo hanno della zucche che arrivano fino al New Jersey.» Si portò le mani a mezzo metro dalla testa, da una parte e dall'altra, un gesto che tutti presero per un'esagerazione. Avrebbero avuto modo di scoprire che non lo era. «Il povero vecchio
Stanley, per esempio, è uno di quelli che non possono parlare.»
Roland lanciò un'occhiata a Stanley, con la sua faccia pallida e ruvida e la sua criniera di riccioli bruni. E il pistolero quasi sorrise. «Io credo sappia parlare», obiettò. «Ricordi il nome di tuo padre, Stanley? Io credo di sì.»
Stanley abbassò la testa e le guance gli si infiammarono, ma invece di sorridere, cominciò a piangere di nuovo. Ma che cosa diamine sta succedendo qui? si domandò Eddie.
Era sconcertato anche Ted. «Sai Deschain, se mi è concesso chiedere...»
«No, no, invoco perdono», lo interruppe Roland. «Attualmente il tuo tempo è breve, come tu stesso hai detto, e tutti noi ce ne rendiamo conto. I Frangitori sanno come vengono nutriti? Con che cosa vengono nutriti per accrescere i loro poteri?»
Ted si sedette pesantemente su un grosso sasso e abbassò lo sguardo sulla scintillante ragnatela di binari. «Cristo», disse. «Ha a che fare con i bambini che portano passando dalla stazione, vero?» «Sì.»
«Non lo sanno loro e non lo so io», dichiarò allora Ted in quello stesso tono pesante. «Non proprio. Ci danno decine di pillole tutti i giorni. La mattina, a mezzogiorno e la sera. Alcune sono vitamine, altre servono senza dubbio a mantenerci docili. A me è andata bene per essere riuscito a eliminarne un po'. Lo stesso hanno fatto Dinky e Stanley. Solo... perché questa forma di depurazione funzioni, pistolero, è necessario volere che funzioni. Capisci?» Roland annuì.
«Per molto tempo ho pensato che ci somministrassero anche qualche tipo di... non so... tonificatore cerebrale... ma con tutte quelle pillole è impossibile capire quale possa essere. Quale ci trasformi in cannibali o vampiri o entrambi.» Fece una pausa guardando quell'improbabile raggio di sole. Aprì quindi le braccia. Dinky gli prese una mano e Stanley l'altra.
«Guardate», li esortò Dinky. «Ne vale la pena?»
Ted chiuse gli occhi. Lo stesso fecero gli altri due. Per un momento non ci fu altro da vedere che tre uomini che guardavano il raggio di sole di Cecil B. DeMille sul deserto buio... e stavano veramente guardando, Roland lo sapeva. Anche con gli occhi chiusi.
Il raggio si spense. Per uno spazio forse di dodici secondi il Devar-Toi fu buio come il deserto e la stazione di Rombo di Tuono e i pendii dello Steek-Tete. Poi quell'assurdo bagliore dorato riapparve. Dinky emise un sospiro roco (ma non insoddisfatto) e fece un passo all'indietro staccandosi da Ted. Un momento dopo, Ted lasciò andare Stanley e si rivolse a Roland.
«Siete stati voi?» chiese il pistolero.
«Noi tre assieme», annuì Ted. «Ma soprattutto Stanley. Lui è un sender estremamente potente. Una delle poche cose che atterriscono Prentiss, gli uomini bassi e i taheen, è quando perdono la loro luce artificiale. Accade sempre più spesso, sapete, e non sempre perché siamo noi a sabotare la macchina. È solo che la macchina...» Si strinse nelle spalle. «Si sta esaurendo.» «Come tutto il resto», aggiunse Eddie.
Ted lo guardò, molto serio in volto. «Ma non abbastanza in fretta. Questi attacchi ai due Vettori rimasti devono finire e al più presto, altrimenti non farà più differenza. Io, Dinky e
Stanley vi aiuteremo in ogni modo che ci sarà possibile, a costo di dover uccidere tutti gli altri.»
«Sicuro», fece eco Dinky con un sorriso tetro. «Se ha potuto farlo il reverendo Jim Jones perché non dovremmo riuscirci noi?»
Ted gli rivolse uno sguardo di rimprovero, poi tornò a guardare il ka-tet di Roland. «Forse non si dovrà arrivare a tanto. Ma se così fosse...» Si alzò all'improvviso e afferrò Roland per un braccio. «Siamo cannibali?» chiese e la concitazione gli strozzò la voce facendogliela diventare quasi stridula. «Abbiamo mangiato i bambini che le mantelle verdi portavano qui dalle terre della Frontiera?» Roland tacque.
Ted si rivolse a Eddie. «Voglio saperlo.» Eddie non rispose.
«Madame-sai?» chiese allora Ted, guardando la donna appoggiata all'anca di Eddie. «Noi siamo pronti ad aiutarvi. Voi non volete aiutare me rispondendo alla mia domanda?» «Sapere cambierebbe qualcosa?» ribatté Susannah.
Ted la fissò per un momento ancora, poi si girò verso Jake. «Tu potresti essere il gemello del mio giovane amico», gli disse. «Lo sai, figliolo?»
«No, ma non mi sorprende», rispose Jake. «Così funzionano le cose da queste parti, mi pare d'aver capito. Direi che... ehm... siamo in sintonia.»
«Vuoi dirmi tu quello che voglio sapere? Bobby lo farebbe.»
Per poter mangiare vivo te stesso? pensò Jake. Mangiare te stesso invece che loro?
Scosse la testa. «Io non sono Bobby», dichiarò. «Posso somigliargli quanto vuoi, ma non sono lui.»
Ted sospirò e annuì. «Tutti alleati tra di voi e perché dovrei meravigliarmi? Siete un ka-tet.»
«Dobbiamo andare», intervenne Dinky. «Siamo rimasti qui anche troppo. Non è solo che dobbiamo essere presenti all'appello; io e Stanley dobbiamo anche falsare quel loro fottuto telemetro, e così quando Prentiss e la Donnola controlleranno, penseranno che Teddy B non si è mai mosso. 'Anche Dinky Earnshaw e Stanley Ruiz non si sono mossi, nessun problema da parte di quei ragazzi', diranno.»
«Sì», concordò Ted. «Avete ragione. Ancora cinque minuti?»
Dinky annuì con riluttanza. Il vento portò il suono di una sirena, indebolito dalla lontananza, e i denti del giovane apparvero in un sorriso di sincero divertimento. «Diventano così nervosi quando scende il sole», commentò. «Quando devono affrontare la realtà nuda e cruda che li circonda, che è una specie di versione incasinata dell'inverno nucleare.»
Ted s'infilò per un istante le mani in tasca, si guardò i piedi, poi alzò lo sguardo su Roland. «È tempo che questa... questa grottesca commedia finisca. Noi tre torneremo domani, se tutto va bene. Intanto una quarantina di metri più giù c'è una caverna più grande, dalla parte contraria a quella della stazione di Rombo di Tuono e Algul Siento. C'è da mangiare e ci sono sacchi a pelo e un fornello che funziona a gas propano. C'è una mappa di Algul, molto schematica. Vi ho lasciato anche un registratore e alcuni nastri. Probabilmente non spiegheranno tutto quello che vorreste sapere, ma faranno luce su molti punti rimasti oscuri. Per ora sappiate solo che Cielo Blu non è allettante come sembra. Le torri avvolte nell'edera sono torrette di sorveglianza. Tutt'attorno ci sono tre ordini di reticolato. Se cerchi di uscire da dentro, la prima recinzione ti punge...» «Come filo spinato», intervenne Dinky.
«La seconda contiene abbastanza corrente da farti svenire», riprese Ted. «E la terza...» «Credo d'aver intuito», disse Susannah.
«Che cosa mi dici dei Figli di Roderick?» volle sapere Roland. «Hanno qualcosa a che fare con il Devar, perché così ci ha detto uno di loro.»
Susannah guardò Eddie inarcando le sopracciglia. Eddie le rispose con un'espressione che significava: te lo dico dopo. Fu quel tipo di comunicazione non verbale, semplice e perfetta, che viene così naturale alle persone che si amano.
«Ah, quei tonti», disse Dinky, non senza compassione. «Sono... come li chiamano nei vecchi film? Caporali, forse. Hanno un piccolo villaggio a due miglia circa dalla stazione, andando per di là.» Glielo indicò. «Ad Algul fanno lavori di giardinaggio e ce ne saranno forse tre o quattro abbastanza abili da occuparsi di riparazioni di carpenteria, sostituire le assicelle di un tetto o cose del genere. Gli agenti contaminanti che ci sono nell'aria quaggiù agiscono specialmente su quei poveri disgraziati. Invece di foruncoli ed eczemi, per loro gli effetti sono come quelli di un'esposizione alle radiazioni.»
«Spiegami», lo invitò Eddie ricordando il povero Chevin di Chayven: la faccia piagata e la veste zuppa di orina.
«È un folken nomade, il loro», intervenne Ted. «Beduini. Credo che per lo più seguano le rotaie della ferrovia. Sotto la stazione e sotto Algul Siento ci sono delle catacombe. I Rod le conoscono bene. Laggiù c'è da mangiare a tonnellate e due volte alla settimana loro portano del cibo a Devar trascinando delle slitte. Ora mangiamo più che altro quella roba. È ancora commestibile, ma...» Alzò le spalle.
«Tutto va rapidamente alla malora» disse Dinky con un'amarezza che gli era insolita. «Ma come si è detto, il vino è squisito.»
«Se vi chiedessi di portare con voi uno dei Figli di Roderick domani», domandò Roland, «voi potreste farlo?»
Ted e Dinky si scambiarono uno sguardo stupito. Poi guardarono entrambi Stanley. Stanley annuì, si strinse nelle spalle e aprì le mani con i palmi all'ingiù: perché, pistolero?
Roland rimase per un momento assorto nei suoi pensieri. Poi si rivolse a Ted. «Portatene uno a cui sia rimasto mezzo cervello nella testa», spiegò. «Ditegli: 'Dan sur, dan tur, dan Roland, dan Gilead'. Ripetete.» Ted lo fece senza esitare.
Roland annuì. «Se è ancora recalcitrante, ditegli che è Chevin di Chayven a ordinargli di venire. Parlano in un modo un po' elementare, non è vero?»
«Sì», confermò Dinky. «Ma... non potete permettere a un Rod di venire quassù e vedervi e poi tornarsene giù liberamente. Quelli hanno la bocca in mezzo al corpo e blaterano da una parte e dall'altra.»
«Portatemene uno», ribadì Roland, «e vedremo quel che c'è da vedere. Ho quel che il mio kamai Eddie chiama un'intuizione. Voi conoscete il pensiero intuitivo?» Ted e Dinky annuirono.
«Se funziona, bene. Altrimenti... state pur certi che il Rod che porterete qui non racconterà mai a nessuno ciò che ha visto.»
«Lo uccideresti se la tua intuizione non avesse esito?» chiese Ted.
Roland annuì.
Ted emise una risata triste. «Ma certo. Mi viene in mente quel pezzo in Huckleberry Finn in cui Huck vede un battello a vapore che salta in aria. Corre da Miss Watson e dalla vedova Douglas a portare la notizia e quando una di loro gli chiede se è rimasto ucciso qualcuno, lui, con perfetto aplomb, risponde: 'No, signora, solo un negro'. In questo caso potremmo dire: 'Solo un Rod. Un pistolero aveva un'intuizione, ma era sballata'.»
Roland gli rivolse un sorriso gelido, innaturalmente pieno di denti. Eddie lo aveva già visto in passato ed era contento che non fosse rivolto a lui. «Credevo che sapessi qual era la posta in gioco, sai Ted. Ti ho frainteso?» lo provocò.
Ted resse il suo sguardo per qualche istante, poi abbassò gli occhi. Muoveva la bocca come ruminando.
Frattanto Dinky aveva tenuto un muto conciliabolo con Stanley. «Se volete un Rod», disse ora, «ve ne procureremo uno. Non è così difficile. Il problema potrebbe essere piuttosto quello di arrivare fin qui. Se non...»
Roland attese paziente che il giovane finisse. Poiché non lo fece, gli domandò: «Se non riuscite a tornare, che cosa volete che facciamo?»
Ted alzò le spalle. Il gesto fu un'imitazione così perfetta di quello di Dinky, da apparire comico. «Il meglio che potete», rispose. «Nella grotta inferiore ci sono anche delle armi. Una decina di quelle sfere di fuoco elettriche che chiamano bocce. Delle mitragliatrici che, da alcuni degli uomini bassi, ho sentito chiamare sparasvelto. Sono AR15 dell'esercito degli Stati Uniti.
Altre cose ancora che non conosco bene.»
«C'è anche una specie di pistola a raggi, una cosa fantascientifica come si vedono nei film», disse Dinky. «Credo che dovrebbe disintegrare il bersaglio, ma o io sono troppo stupido per farla funzionare come si deve, o la batteria è esaurita.» Si rivolse ansioso all'uomo con i capelli bianchi. «I cinque minuti sono passati, e anche di più. Dobbiamo caricarci in spalla le gambe e filare, Ted. Muoviamoci.»
«Sì. Saremo di ritorno domani, dunque. Forse a quell'ora avrete un piano.» «Tu non ce l'hai?» lo apostrofò Eddie sorpreso.
«Il mio piano era scappare, giovanotto. Un'idea terribilmente brillante, mi era sembrato all'epoca. Scappai fino alla primavera del 1960. Mi presero e mi riportarono indietro, con un piccolo aiuto da parte della madre del mio giovane amico Bobby. Ma ora dobbiamo proprio...»
«Ancora un minuto, di grazia», lo fermò Roland e si avvicinò a Stanley. Stanley abbassò il capo, ma le sue guance irsute si colorirono di nuovo. E...
Sta tremando, pensò Susannah. Come un animale del bosco che vede il suo primo essere umano.
Stanley dimostrava trentacinque anni circa, ma sarebbe potuto essere più vecchio; la sua pelle aveva quel nitore innaturale che Susannah associava a certi problemi mentali. Ted e Dinky avevano i brufoli, Stanley no. Roland gli posò le mani sugli avambracci e lo guardò con affetto.
Per qualche secondo gli occhi del pistolero non incontrarono altro che i folti riccioli bruni sulla testa china di Stanley.
Dinky fece per parlare. Ted lo zittì con un gesto.
«Non vuoi guardarmi in faccia?» domandò Roland. Aveva assunto un tono dolce che raramente Susannah gli aveva sentito. «Non vuoi prima andare, Stanley, figlio di Stanley? Sheemie che fu?»
Susannah si sentì spalancare la bocca. Accanto a lei Eddie fece un verso come per aver ricevuto un pugno allo stomaco. Ma Roland è vecchio... così vecchio! pensò lei. E questo significa che se questo è il ragazzo della taverna che aveva conosciuto a Mejis... quello con l'asino e la sombrera rosa... allora deve anche essere...
L'uomo alzò lentamente la testa. Stava piangendo.
«Buon vecchio Will Dearborn», disse. La sua voce era roca e cambiava repentinamente registro come accade quando rimane per molto tempo in disuso. «Mi spiace tanto, sai. Tu dovessi estrarre la pistola e spararmi, capirei. Orsì.»
«Perché dici così, Sheemie?» chiese Roland nello stesso tono dolce di prima.
Le lacrime di Stanley fluirono più veloci. «Tu mi hai salvato la vita e anche Arthur e Richard, ma soprattutto tu, buon vecchio Will Dearborn che era in realtà Roland di Gilead. E io l'ho lasciata morire! Colei che tu amavi! E l'amavo anch'io!»
Contorse i lineamenti in una smorfia di dolore e cercò di sottrarsi a Roland, che però lo trattenne.
«Niente di tutto quello fu colpa tua, Sheemie.»
«Avrei dovuto morire per lei!» proruppe lui. «Avrei dovuto morire al posto suo! Io sono stupido! Un idiota come mi chiamano!» Si schiaffeggiò in viso, prima da una parte e poi dall'altra, stampandosi impronte rosse sulle guance. Prima che potesse rifarlo, Roland gli ghermì la mano e lo costrinse ad abbassarla lungo il fianco.
«Fu tutta opera di Rhea», disse il pistolero.
Stanley, che in un lontano passato era stato Sheemie, guardò Roland in faccia cercando i suoi occhi.
«Aye», disse Roland annuendo. «Fu la Cöos... e anch'io. Avrei dovuto rimanere con lei. Se c'è qualcuno senza colpa, Sheemie, o Stanley, sei tu.»
«Così dici, pistolero? Vero-veramente?»
Roland fece un gesto affermativo. «Se ci sarà tempo, confabuleremo finché vuoi in proposito, e anche dei tempi che furono, ma non ora. Ora tempo non c'è. Tu devi andare con i tuoi amici e io devo rimanere con i miei.»
Sheemie lo fissò per un momento ancora e, sì, ora Susannah vedeva il ragazzo indaffarato in una taverna antica che si chiamava Riposo dei Viaggiatori a ritirare i boccali vuoti e tuffarli nel barile di lavaggio sotto la testa dell'alce bicefalo conosciuto come il Romp, evitando gli spintoni di Coral Thorin o i calci ancor meno scherzosi che gli rifilava un'attempata prostituta di nome Pettie the Trotter. Vide il ragazzo che era stato quasi ucciso per aver versato del liquore sugli stivali di un tipo poco raccomandabile di nome Roy Depape. Era stato Cuthbert a salvare la vita a Sheemie quella notte... ma era stato Roland, conosciuto dalla gente del posto come Will Dearborn, a salvarli tutti.
Sheemie protese le braccia intorno al collo di Roland e lo strinse con forza. Roland sorrise e gli accarezzò i riccioli con il moncherino della mano destra. Un singhiozzo sfuggì alla gola di Sheemie, sonoro come un raglio. Susannah scorse le lacrime negli angoli degli occhi del pistolero.
«Aye», mormorò Roland a voce bassissima. «Ho sempre saputo che eri speciale, lo sapevano anche Bert e Alain e qui ci ritroviamo, fausto incontro più avanti sul sentiero. Perché è così, Sheemie figlio di Stanley. Così è. Così è.»
6
Il Capataz di Cielo Blu
1
Quando Finli (noto in certi ambienti come la Donnola) bussò alla porta, Pimli Prentiss, il Capataz di Algul Siento, era in bagno. Si stava esaminando la pelle nella luce spietata della lampada al neon sopra il lavandino. Nello specchio a ingrandimento appariva come una grigia pianura butterata di crateri, non molto diversa dalla superficie delle terre desolate che si estendevano intorno ad Algul in tutte le direzioni. L'ascesso sul quale stava in quel momento concentrando la sua attenzione somigliava a un vulcano in eruzione.
«Chi mi cerca?» latrò, sebbene l'avesse già intuito.
«Finli o'Tego!»
«Entra, Finli!» Senza distogliere gli occhi dallo specchio. Le sue dita, comparendo enormi nella lente, si avvicinarono al brufolo infetto. Applicarono pressione.
Finli attraversò l'ufficio e si fermò sulla soglia del bagno. Dovette piegarsi un po' per guardare dentro. Superava di un bel po' i due metri di statura, molto alto anche per un taheen. «Sono stato alla stazione», annunciò Finli. «Andato e tornato.» Come accadeva alla maggior parte dei taheen, la sua voce passava irregolarmente dal guaito al ringhio e viceversa. A Pimli ricordavano tutti gli ibridi de L'isola del dottor Moreau di H.G. Wells e si aspettava sempre che prorompessero all'improvviso in un corale: «Non siamo forse uomini?» Un giorno Finli aveva pescato questa considerazione nella sua mente e lo aveva interrogato al riguardo. Prentiss aveva risposto con sincerità assoluta, sapendo che in una società in cui la telepatia di infimo livello era la regola, la sincerità era sempre la miglior politica. L'unica politica praticabile quando avevi a che fare con i taheen. E poi a lui Finli o'Tego piaceva.
«Di ritorno dalla stazione, bene», si compiacque. «E che cosa hai trovato?»
«Un operaio della manutenzione. Sembra che abbia messo il piede in fallo sul lato dell'Arco
16 e...»
«Aspetta», lo interruppe Prentiss. «Per favore, per favore, grazie.»
Finli attese. Prentiss si chinò di più sullo specchio, corrugando la fronte per la concentrazione. Era alto anche il Capataz di Cielo Blu, sul metro e novanta di statura, con una pancia spropositata sorretta da lunghe gambe con cosce possenti. Andava in piazza e aveva il naso a tubero del bevitore veterano. Dimostrava cinquant'anni. Si sentiva cinquantenne (anche più giovane di così, quando non aveva trascorso la notte precedente ad alzare il gomito con Finli e alcuni dei can-toi). Aveva cinquant'anni quand'era arrivato lì, parecchi anni prima, almeno venticinque, e solo per una stima prudente. Il tempo era un fatto teorico da questa parte, come i punti cardinali, ed era facile perdere la cognizione dell'uno e degli altri. C'era gente che perdeva anche la testa. E se la macchina solare si fosse inceppata per sempre...
La cima del foruncolo si gonfiò... tremò... esplose. Ah!
Un fiotto di pus sanguinolento sprizzò dall'ascesso infetto, inzaccherò lo specchio e cominciò a colare sulla sua superficie lievemente concava. Pimli Prentiss lo raccolse con la punta del dito, si girò per lanciarlo nel water, poi l'offrì invece a Finli.
Il taheen scosse la testa, quindi emise il verso angosciato di chi sa che sta trasgredendo alla dieta che si è imposto con tanto rigore e guidò verso la propria bocca il dito del Capataz. Ne succhiò il pus e si sfilò il dito dalle labbra con uno schiocco.
«Non avrei dovuto, ma non ho potuto resistere», si scusò. «Non mi avevi detto che il folken dall'altra parte ha concluso che mangiare carne al sangue gli fa male?»
«Yar», confermò Pimli asciugandosi il brufolo (che colava ancora con un fazzoletto di carta. Era lì da molto tempo e non ci sarebbero stati ripensamenti, per un mucchio di ragioni, ma fino a poco prima si era tenuto aggiornato; fino a... l'anno precedente? Possiamo chiamarlo così? Fatto sta che gli arrivava regolarmente il Times di New York. Era molto affezionato al Times, gli piaceva soprattutto compilare il cruciverba quotidiano. Era come un sottile cordone ombelicale con le sue origini.
«Ma hanno continuato a mangiarne lo stesso.»
«Yar, suppongo che siano in molti a farlo.» Aprì l'armadietto dei medicinali e prese un flacone di acqua ossigenata.
«È colpa tua d'avermelo messo sotto il naso», lo accusò Finli. «Non che normalmente ci faccia male, in fondo è un dolce naturale, come il miele o i frutti di bosco. Il problema è Rombo di Tuono.» Poi, come se il suo principale potesse non aver afferrato il concetto, aggiunse: «Troppo di quello che circola da quelle parti si è deteriorato, per quanto dolce continui a essere. Veleno, orsì».
Prentiss inzuppò un batuffolo di cotone nell'acqua ossigenata e si medicò la ferita sulla guancia. Sapeva benissimo a che cosa alludeva Finli, come avrebbe potuto ignorarlo? Prima di trasferirsi lì e indossare il mantello del Capataz, in più di trent'anni non aveva patito il benché minimo malanno cutaneo. Ora aveva brufoli sulle guance e sulla fronte, acne nell'incavo delle tempie, orribili grappoli di punti neri sul naso e una ciste sul collo che presto Gangli, il medico locale, avrebbe dovuto rimuovergli. (Secondo Prentiss, Gangli era un nome terribile per un medico; gli faceva venire in mente ganglio e gangrena.) I taheen e i can-toi erano meno sensibili ai problemi dermatologici, ma spesso le loro carni si aprivano spontaneamente, soffrivano di emorragie dal naso e persino le ferite di minor grado, un graffio o la puntura di un rovo, se non medicate prontamente, potevano portare infezione e morte. All'inizio si era potuto contare sugli antibiotici, ora non più. Lo stesso valeva per prodigi farmaceutici come l'Accutane. Era colpa dell'ambiente, morte che germogliava dalle stesse rocce e dalla terra circostante. A voler constatare con i propri occhi quali potessero essere gli effetti peggiori, bastava guardare i Rod, ridotti ormai alla pari dei Lenti Mutanti. Loro del resto si spingevano lontano a... lo si poteva ancora definire sud-est? Si spingevano lontano nella direzione di quel debole bagliore rosso che si scorgeva di notte e tutti dicevano che laggiù la situazione era molto peggiore. Pimli non sapeva con certezza se fosse vero, ma lo sospettava. Se chiamavano Discordia le terre oltre Fedic, non era senz'altro perché le consideravano luoghi di villeggiatura.
«Ne vuoi ancora?» chiese a Finli. «Ne ho un paio già maturi sulla fronte.»
«Nay, voglio fare il mio rapporto, ricontrollare i nastri e il telemetro, fare un salto a dare un'occhiata veloce allo Studio, e staccare. Poi mi faccio un bagno caldo e tre orette con un buon libro. Sto leggendo Il collezionista.»
«E ti piace», commentò Prentiss incuriosito.
«Moltissimo, dico grazie. Mi ricorda la nostra situazione qui. Se nonché mi piace pensare che i nostri scopi siano un po' più nobili e le nostre motivazioni un po' più alte della semplice attrazione sessuale.»
«Nobili? È così che li definiresti?»
Finli alzò le spalle e tacque. Era una convenzione implicita non discutere nei particolari di quanto avveniva a Cielo Blu.
Prentiss condusse Finli nel proprio studio-biblioteca, che si affacciava sul quartiere di Cielo Blu che chiamavano il Mall. Finli abbassò la testa sotto la plafoniera con la grazia inconscia di una pratica consolidata. Una volta (dopo qualche bicchiere di graf) Prentiss gli aveva detto che nell'NBA sarebbe stato un centrale straordinario. «La prima squadra di soli taheen», aveva aggiunto. «Vi avrebbero chiamati I Mostri, ma dove sta il problema?»
«Questi giocatori di basket, sono trattati con tutti gli onori?» si era informato Finli. Aveva il muso slanciato della donnola e grandi occhi neri. Non più espressivi degli occhi di una bambola, a giudizio di Pimli. Portava un gran numero di catene d'oro, diventate di moda per il personale di Cielo Blu, tanto che negli ultimi anni era fiorito un vivace commercio di quel genere di oggetti. Si era anche fatto mozzare la coda. Era stato probabilmente un errore, aveva confidato una sera a Prentiss quand'erano entrambi ubriachi. Un intervento incredibilmente doloroso e che, al momento del trapasso, lo avrebbe spedito nell'Inferno delle Tenebre, a meno che...
A meno che non ci fosse niente. Era un'idea che Pimli respingeva con tutta la forza di mente e cuore, ma sarebbe stato un bugiardo se non avesse ammesso (seppure anche solo a se stesso) che quell'idea lo tormentasse qualche volta durante le veglie notturne. Per pensieri di quel genere c'erano i sonniferi. E c'era Dio, naturalmente. La sua convinzione inattaccabile che tutte le cose servissero la volontà di Dio, persino la Torre.
In ogni caso Pimli aveva confermato che, sì, i giocatori di pallacanestro, quelli americani, almeno, ottenevano il meglio di tutto, comprese più passere di un'asse del cesso. Quell'ultima battuta aveva scatenato l'ilarità di Finli, che aveva riso fino a farsi spremere lacrime rossicce dagli angoli di quei suoi strani occhi inespressivi.
«Ma l'aspetto migliore», aveva continuato Pimli, «è che, a confronto delle medie dell'NBA, potresti giocare praticamente per sempre. Prendiamo per esempio il giocatore più celebrato della mia vecchia patria (anche se io non l'ho mai visto giocare perché venne dopo il mio tempo), uno che si chiamava Michael Jordan, ebbene...»
«Se fosse stato un taheen, che cosa sarebbe stato?» lo aveva interrotto Finli. Era un gioco a cui indugiavano spesso, specialmente dopo qualche bevuta.
«Una donnola, naturalmente, e parecchio piacente», aveva risposto Pimli in un tono sorpreso che Finli aveva trovato comico. Era scoppiato di nuovo a ridere fino a lacrimare.
«Ebbene», aveva ripreso Pimli, «la sua carriera si concluse poco oltre i quindici anni di attività, includendo un abbandono e un paio di rientri. Per quanti anni potresti praticare un sport per cui hai da correre avanti e indietro per una distanza non maggiore di quella di una campa per un'oretta circa, Fin?»
Finli di Tego, che allora aveva poco più di trecento anni, si era stretto nelle spalle e aveva ruotato la mano verso l'orizzonte. Delah. Innumerevoli.
E da quanto tempo esisteva Cielo Blu, la prigione che per i nuovi detenuti era Devar-Toi e per i taheen e i Rod era Algul Siento? Delah anche qui. Ma se Finli aveva visto giusto (e il cuore diceva a Pimli che quasi certamente era così), allora delah era quasi finito. E che cosa avrebbe potuto farci lui, un tempo Paul Prentiss di Rahway, New Jersey, e ora Pimli Prentiss di Algul Siento?
Il suo lavoro, niente di più. Il suo fottuto lavoro.
2
«Allora», disse Pimli, prendendo posto in una delle due poltrone vicino alla finestra, «hai trovato un operaio della manutenzione. Dove?»
«Vicino al punto in cui il binario 97 esce dallo scalo», rispose Finli. «Quel binario è ancora caldo, ha quella che tu chiami la 'terza rotaia', dunque l'incidente si spiega. Poi, dopo che ce ne siamo andati, tu hai chiamato per dire che c'era stato un secondo allarme.»
«Sì. E che cosa avete trovato?»
«Niente. Quest'altra volta, niente. Un malfunzionamento, probabilmente, provocato forse dal primo allarme.» Si strinse nelle spalle, un gesto in cui si rispecchiava una consapevolezza che condividevano: tutto stava andando a rotoli. E più si avvicinavano alla fine, più veloce era il degrado.
«Tu e tuoi avete guardato bene, però?»
«Naturalmente. Nessun intruso.»
Entrambi tuttavia avevano in mente estranei in forma di umani, taheen, can-toi o macchine. Nessuno della pattuglia di Finli aveva pensato di guardare su e in ogni caso difficilmente avrebbe visto Mordred: un ragno ora grande come un cane di medie dimensioni, accovacciato nell'ombra profonda sotto lo spiovente della stazione, sorretto da una piccola amaca di fili intessuti.
«Hai intenzione di controllare di nuovo il telemetro per via del secondo allarme?»
«In parte», rispose Finli. «Ma più che altro perché mi pare di sentire qualcosa che non quaglia.» Era un'espressione che aveva preso da uno dei molti romanzi polizieschi dell'altra parte che leggeva - era un'autentica passione, la sua - e se ne serviva a ogni opportunità.
«Non ti quaglia in che modo?»
Finli si limitò a scuotere la testa. Non sapeva rispondere. «Ma il telemetro non mente. O così mi hanno insegnato.»
«Ne dubiti?»
Consapevole di essere di nuovo in un terreno insidioso - lo erano entrambi - Finli esitò, ma poi decise di osare. «Viviamo tempi di declino, capo. Dubito praticamente di tutto.»
«Anche dei tuoi compiti, allora, Finli o'Tego?»
Finli fece segno di no senza riserve. No, le sue mansioni erano escluse. Lo stesso valeva per tutti, compreso l'ex Paul Prentiss di Rahway. Finli ricordò un vecchio soldato, forse «Dugout» Doug MacArthur, che diceva: «Quando la morte mi chiuderà gli occhi, signori, il mio ultimo pensiero andrà alla mia compagnia. E la compagnia. E la compagnia». Probabilmente il suo ultimo pensiero sarebbe stato per Algul Siento. Che cos'altro c'era ormai? Con le parole di un'altra grande americana, Martha Reeves di Martha e i Vandellas: non avevano nessun posto dove scappare, baby, nessun posto dove nascondersi. Tutto era scappato di mano, scendeva a rotta di collo senza freni, e non restava altro da fare che godersi la corsa.
«Ti disturba un po' di compagnia mentre fai la tua ronda?» chiese Pimli.
«Perché dovrebbe?» rispose la Donnola. Sorrise, scoprendo file di denti aguzzi. «Sogna con me», cantò nella sua strana voce ondivaga. «Sono in viaggio per la luna dei miei pa-aadri...» «Dammi un minuto», chiese Pimli alzandosi.
«Per pregare?» domandò Finli.
Pimli si fermò sulla soglia. «Sì», rispose. «Visto che me lo hai chiesto. Qualche commento, Finli o'Tego?»
«Solo uno, forse.» La creatura sorridente con il corpo di un essere umano e il muso allungato e bruno di una donnola continuò a sorridere. «Se la preghiera è un fatto così spirituale, perché ti inginocchi nella stessa stanza dove ti siedi a cacare?»
«Perché la Bibbia, nel caso ci siano presenti altre persone, suggerisce di farlo nel privato. Altri commenti?»
«Nay, nay.» Finli agitò la mano in un gesto di negligente concessione. «Fai il tuo meglio e il tuo peggio, come dicono i Manni.»
3
In bagno, Paul o'Rahway abbassò il coperchio del water e giunse le mani.
Se la preghiera è un fatto così spirituale, perché ti inginocchi nella stessa stanza dove ti siedi a cacare?
Forse avrei dovuto rispondere che così mi sento umile, pensò. Perché così resto nelle mie giuste dimensioni. È dalla terra che sorgiamo ed è alla terra che ritorniamo e se c'è una stanza dove è difficile dimenticarlo, è proprio questa.
«Dio», cominciò, «dammi la forza quando sono debole, risposte quando sono confuso, coraggio quando ho paura. Aiutami a non fare del male ad alcuno che non lo meriti e anche allora a farlo solo se mi è negata ogni altra alternativa. Signore...»
E mentre quest'uomo è in ginocchio davanti al water chiuso e si accinge di lì a poco a chiedere a Dio di perdonargli di operare per portare a termine la creazione (detto senza la minima ironia), noi possiamo approfittarne per esaminarlo un po' meglio. Non ci metteremo molto, perché Pimli Prentiss non è uno dei protagonisti principali della nostra storia di Roland e del suo ka-tet. È comunque un uomo molto interessante, pieno di risvolti e contraddizioni e vicoli ciechi. È un alcolizzato che crede fermamente in un dio personale, un uomo compassionevole che è ora sul punto estremo di far crollare la Torre e spedire i trilioni di mondi che ruotano sul suo asse nelle tenebre in un trilione di direzioni diverse. Ucciderebbe senza batter ciglio Dinky Earnshaw e Stanley Ruiz se sapesse che cosa stanno tramando... e passa in lacrime quasi tutte le giornate dedicate alla Festa della Mamma perché aveva amato immensamente la sua e immensamente ne sentiva la mancanza. Nella prospettiva dell'apocalisse, è l'uomo perfetto, uno che sa inginocchiarsi e sa parlare da vecchio amico al Signore Dio degli Angeli.
Ed ecco qui l'ironia: Paul Prentiss è la testimonianza vivente delle pubblicità che proclamano «Ho trovato lavoro tramite il New York Times!» Nel 1970, licenziato dal carcere che allora si chiamava Attica (lui e Nelson Rockefeller avevano almeno mancato la megainsurrezione), aveva trovato sul Times un annuncio che diceva così:
CERCASI: ESPERTO FUNZIONARIO CARCERARIO
PER POSIZIONE DI ALTA RESPONSABILITÀ IN ISTITUTO PRIVATO
Ottima retribuzione! Benefit speciali! Dev'essere disposto a viaggiare!
L'alta retribuzione era quella che l'adorata madre avrebbe definito «una palla extra large», perché non c'era nessuna retribuzione, non nel senso comprensibile a un funzionario carcerario del lato americano, ma quanto ai benefit speciali... be', quelli erano eccezionali. Tanto per cominciare si era abbuffato di sesso come ora si abbuffava di cibo e alcol, ma non era questo il più importante. Dal suo punto di vista, il quesito fondamentale era il seguente: che cosa vuoi dalla vita? Se la risposta è solo guardare gli zeri moltiplicarsi sul tuo conto in banca, allora Algul Siento non era il luogo adatto... e sarebbe stato un bel guaio, visto che una volta firmato, non si poteva più tornare indietro; era tutto per la compagnia. Solo e sempre la compagnia.
E fin qui era okay al cento per cento per Prentiss, che dodici anni prima si era sottoposto alla solenne cerimonia taheen di cambio del nome e non lo aveva mai rimpianto. Paul Prentiss era diventato Pimli Prentiss. E in quel momento aveva staccato la mente oltre che il cuore da quello che ora chiamava «il lato americano». E non perché qui aveva mangiato il miglior salmone e aveva bevuto lo champagne migliore. E neppure perché aveva fatto sesso simulato con centinaia di donne bellissime. Era perché questo era il suo lavoro e intendeva portarlo a termine. Perché si era convinto che il loro lavoro al Devar-Toi era il lavoro di Dio oltre che del Re Rosso. E sotto il concetto di Dio c'era qualcosa di ancor più potente: l'immagine di un miliardo di universi contenuto in un uovo che lui, l'ex Paul Prentiss di Rahway, impiegato a quarantamila dollari l'anno con un'ulcera e una pessima assistenza medica garantita da un sindacato corrotto, teneva ora nel palmo della propria mano. Si rendeva conto che dentro quell'uovo c'era lui stesso e che quando lo avesse rotto sarebbe cessato di esistere come essere in carne e ossa, ma se esisteva un paradiso e in esso c'era un Dio, allora entrambi trascendevano il potere della Torre. Sarebbe stato in paradiso che sarebbe andato e davanti a quel trono si sarebbe inginocchiato a chiedere perdono per i suoi peccati. E sarebbe stato accolto con un caloroso: ben fatto, mio buon e fedele servitore. Lì avrebbe trovato sua madre che lo avrebbe abbracciato e insieme sarebbero entrati a far parte della fratellanza di Gesù. Quel giorno sarebbe arrivato, Pimli ne era certissimo, e probabilmente prima del sorgere della prossima Luna delle Messi.
Non che si considerasse un fanatico religioso. Nient'affatto. Questi pensieri di Dio e paradiso, li riservava rigorosamente a se stesso. Agli occhi del resto del mondo, era un qualsiasi individuo che svolgeva il proprio lavoro, un uomo impegnato a operare al meglio fino alla fine. Senza dubbio non si vedeva come un cattivo, ma nessun uomo veramente pericoloso lo ha mai fatto. Pensiamo a Ulysses S. Grant, il generale della Guerra Civile che aveva dichiarato di volerla far fuori combattendo su quel fronte, avesse dovuto prendergli l'estate intera. Ad Algul Siento, l'estate era quasi finita.
4
L'abitazione del Capataz era un'elegante Cape Cod in fondo al Mall. Si chiamava Casa Shapleigh (Pimli non aveva idea del perché), e i Frangitori la chiamavano Casa dello Sciacquone. All'altra estremità del Mall c'era un'abitazione molto più grande, un'aggraziata Queen Anne chiamata (per ragioni ugualmente oscure) Casa Damli. L'avresti vista bene in Fraternity Row a Clemson o Ole Miss. I Frangitori la chiamavano Casa Crepacuore, o talvolta Hotel Crepacuore.
Benissimo. Era dove vivevano e lavoravano i taheen e un nutrito contingente di can-toi. Quanto ai Frangitori, che ci scherzassero sopra a piacimento e, per l'amor del cielo, che restassero convinti che il personale non ne sapesse niente.
Pimli Prentiss e Finli o'Tego passeggiarono per il Mall in cameratesco silenzio... eccetto s'intende quando incrociavano qualche Frangitore fuori servizio, da solo o in compagnia. Pimli li salutava immancabilmente con puntuale cortesia. Le reazioni che ottenevano variavano dalla giovialità totale ai grugniti imbronciati. Tutti però in qualche modo rispondevano e Pimli la considerava una vittoria personale. I suoi detenuti gli stavano a cuore. Che a loro piacesse o no, e a molti non piaceva, a lui stavano a cuore. Erano sicuramente più trattabili degli assassini, violentatori e rapinatori dell'Attica.
Alcuni leggevano vecchi giornali o riviste. Un quartetto giocava a lanciare ferri di cavallo. Un altro quartetto tirava colpi su un green di golf. Tania Leeds e Joey Rastosovich giocavano a scacchi sotto un bell'olmo, con le facce variegate dalle ombre che la luce del sole proiettava su di loro passando attraverso le fronde. Loro due lo salutarono con sincero piacere e perché no? Tania Leeds era ormai Tania Rastosovich, da quando Pimli li aveva sposati un mese prima, celebrando le nozze come il comandante di una nave. E in un certo senso era così che la vedeva: un vecchio, solido scafo di nome Algul Siento, un vascello da crociera che solcava i mari tenebrosi di Rombo di Tuono nella propria bolla di luce solare. Ogni tanto il sole si spegneva, diciamo il vero, ma il guasto di quel giorno era stato marginale, solo quarantatré secondi.
«Come va, Tania? Joseph?» Sempre Joseph e mai Joey, almeno non davanti a lui; non gli piaceva.
Risposero che andava benissimo, con quei sorrisi incantati e rimbambiti di cui sono capaci solo gli sposi novelli. Finli non disse niente ai Rastosovich, ma quando furono vicini a Casa Damli, in fondo al Mall, sostò davanti a un giovane seduto sotto un albero su una panchina di finto marmo che era intento a leggere un libro.
«Sai Earnshaw?» lo chiamò il taheen.
Dinky alzò la testa e inarcò le sopracciglia in un educato gesto interrogativo. Il suo viso, punteggiato da una grave forma di acne, rispecchiava la stessa blanda espressione educata.
«Vedo che stai leggendo Il mago», notò Finli quasi con imbarazzo. «Io sto leggendo Il collezionista. Ma che coincidenza!»
«Se lo dici tu.» La sua espressione non mutò.
«Mi chiedevo che cosa pensi di Fowles. Al momento sono parecchio occupato, ma magari in un'altra occasione potremmo discuterne insieme.»
Sempre con quell'espressione inespressiva ma educata, Dinky rispose: «Forse più tardi puoi prendere la tua copia del Collezionista, che spero sia con la copertina rigida, e ficcartela su per quel culo peloso che hai. Di traverso.»
Il sorriso speranzoso si spense sulle labbra di Finli. Fece un inchino, piccolo ma perfetto. «Mi spiace che la pensi così, sai.»
«Vai a rompere il cazzo a qualcun altro», ribatté Dinky e riaprì il suo libro. Se lo alzò davanti alla faccia, giusto per chiarire.
Pimli e Finli o'Tego ripresero il cammino. Ci fu un periodo di silenzio durante il quale il Capataz di Algul Siento tentò in vari modi di indurre Finli a rispondergli, desiderando sapere fino a che punto quel giovane lo avesse ferito. Il taheen era orgoglioso della sua capacità di leggere e comprendere la letteratura degli umani, tanto Pimli sapeva. Finalmente Finli lo esonerò dal compiere altri sforzi infilandosi tra le gambe le mani dalle lunghe dita (il sedere non era in verità peloso, ma le dita sì).
«Controllo che le palle siano ancora al loro posto», spiegò e Pimli pensò che il buonumore che c'era nella voce del capo della Sicurezza fosse sincero e non forzato.
«Mi spiace per quello che è successo», disse Pimli. «Se c'è uno a Cielo Blu che soffre gravemente di angst postadolescenziale, è sai Earnshaw.»
«Mi state distruggendo!» gemette Finli e quando il Capataz lo guardò stupito, sorrise malizioso mostrando quelle file di denti aguzzi. «È una battuta famosa di un film intitolato Gioventù bruciata», disse. «Dinky Earnshaw mi ricorda James Dean.» Rifletté per un momento.
«Senza il suo speciale fascino scontroso, sia inteso.»
«Un caso interessante», commentò Prentiss. «Era stato reclutato per un programma terroristico da una sussidiaria della Positronics. Uccise il suo referente e fuggì. Noi naturalmente lo abbiamo preso. Non ha mai creato problemi veri, non a noi, ma ha sempre quell'atteggiamento bilioso.»
«Però non hai la sensazione che sia un problema.»
Pimli gli scoccò un'occhiata di traverso. «C'è qualcosa che tu ritieni che dovrei sapere sul suo conto?»
«No, no. Non ti ho mai visto così nervoso come in queste ultime settimane. Anzi, diciamo pane al pane: così paranoico.»
«Mio nonno aveva un proverbio», ribatté Pimli. «'Non ti preoccupi di lasciar cadere le uova finché non sei quasi a casa.' Noi siamo quasi a casa.»
Ed era vero. Diciassette anni prima, alla vigilia dell'ultima galoppata dei Lupi attraverso la porta dell'area di raccolta dell'Arco 17, le loro attrezzature nella cantina di Casa Damli avevano registrato la prima apprezzabile curvatura nel Vettore Orso-Tartaruga. Dopo di allora si era spezzato il Vettore dell'Aquila-Leone. Presto dei Frangitori non ci sarebbe più stato bisogno, presto il penultimo Vettore si sarebbe disintegrato con o senza il loro aiuto. Era come un oggetto in equilibrio precario che aveva ormai cominciato a oscillare. Presto si sarebbe spostato oltre il limite accettabile dell'escursione consentita e sarebbe caduto. O, nel caso del Vettore, si sarebbe infranto. Cancellato dall'esistenza. Sarebbe stata la Torre a cadere. L'ultimo Vettore, quello del Lupo e dell'Elefante, avrebbe retto forse per un'altra settimana o un mese ancora, ma non molto di più.
Erano pensieri che avrebbero dovuto compiacere Pimli, ma non era così. Soprattutto perché la memoria lo aveva ricondotto alle mantelle verdi. L'ultima volta erano partiti in una sessantina per i Calla, il contingente d'ordinanza, e sarebbero dovuti ritornare dopo le solite settantadue ore con il solito bottino di bambini.
Invece... niente.
Chiese a Finli che cosa pensava lui di quella disavventura.
Finli si fermò. Aveva assunto un'espressione grave. «Io credo che possa essere stato un virus», disse.
«Invoco perdono?»
«Un virus informatico. L'abbiamo visto succedere a molti dei nostri computer a Damli e conviene che non ti dimentichi che, per quanto minacciose possano sembrare le mantelle verdi a un branco di coltivatori di riso, in realtà sono solo computer con le gambe.» Fece una pausa. «O può darsi che il folken del Calla abbia trovato un modo per ucciderli. Mi stupirebbe scoprire che si sono levati sulle zampe posteriori e hanno dato battaglia? Un po', ma non troppo. Specialmente se fosse intervenuto qualcuno di fegato a guidarli.»
«Dici un pistolero, magari?»
Finli gli rivolse uno sguardo che rasentava la condiscendenza.
Sopraggiunsero sul marciapiede Ted Brautigan e Stanley Ruiz su biciclette a dieci velocità e quando il Capataz e il capo della Sicurezza alzarono la mano, entrambi ricambiarono il saluto alla stessa maniera. Brautigan non sorrise, ma Ruiz sì, con il sorriso beato e bamba dell'autentico cerebroleso. Era tutto occhi cisposi, guance lanuginose e labbra luccicanti di saliva, ma era lo stesso un bastardo di quelli potenti, da giurarlo davanti a Dio, e un tipo così poteva di peggio che bighellonare con Brautigan, il quale era cambiato completamente da quando era stato riportato lì dalla sua piccola «vacanza» nel Connecticut. Pimli era divertito dai berretti di tweed che portavano e che erano uguali - erano identiche anche le biciclette - ma non agli occhi di Finli.
«Smettila», disse Pimli.
«Smettere che cosa, sai?» chiese Finli.
«Di guardarmi come se fossi un bambino che ha appena perso il gelato che aveva nel cono e non ha abbastanza cervello da accorgersene.»
Ma Finli non desistette. Raramente lo faceva, ed era una delle cose che di lui a Pimli piacevano di più. «Se non vuoi che la gente ti guardi come se tu fossi un bambino, allora non agire da tale. Sono mille anni e più che circolano voci di pistoleri giunti dal Medio-Mondo a portare la salvezza. E mai un solo avvistamento confermato. Personalmente, sono più incline ad aspettarmi una visita del tuo Uomo Gesù.»
«I Rod dicono...»
Finli fece una smorfia come se avesse ricevuto una bastonata in testa. «Non cominciare con quello che vanno dicendo i Rod. Sono sicuro che porti abbastanza rispetto alla mia intelligenza, nonché alla tua stessa. Il loro cervello è marcito più velocemente della loro pelle. Quanto ai Lupi, lasciami esporre un concetto radicale: non ha importanza dove siano o che cosa sia stato di loro. Abbiamo abbastanza con cui portare a termine il lavoro ed è solo questo che conta per me.»
Il capo della Sicurezza si fermò per un momento davanti ai gradini che salivano alla veranda di Casa Damli. Stava guardando i due uomini sulle biciclette identiche e una riflessione gli fece increspare la fronte. «Brautigan è stato una vera scocciatura.»
«Puoi dirlo forte!» rise Pimli con una nota di afflizione. «Ma è un capitolo chiuso. Gli hanno detto che se si prova a renderci di nuovo la vita difficile, i suoi speciali amici del Connecticut, un ragazzino di nome Robert Garfield e una bambina di nome Carol Gerber, moriranno. Inoltre si è reso conto che, sebbene alcuni dei suoi colleghi Frangitori lo considerino un mentore e altri, come quella testa vuota con cui va in giro, lo venerano, nessuno è interessato alle sue... idee filosofiche, se vogliamo chiamarle così. Non più, posto che lo fossero. E io ho fatto quattro chiacchiere con lui quando è rientrato. A cuore aperto.»
Per Finli era una novità. «A che riguardo?»
«Certi fatti della vita. Sai Brautigan ha finalmente capito che i suoi poteri speciali non contano più come un tempo. La situazione si è evoluta abbastanza da lasciarlo indietro. I due Vettori che restano si infrangeranno con o senza di lui. E sa che alla fine ci sarà... della confusione. Paura e confusione.» Pimli annuì lentamente. «Brautigan vuole essere qui fino alla fine, fosse solo per consolare quelli come Stanley Ruiz quando il cielo si squarcerà.»
«Andiamo, diamo un'altra occhiata ai nastri e al telemetro. Giusto per essere sicuri.» Salirono fianco a fianco gli ampi scalini di legno di Casa Damli.
5
Due dei can-toi stavano aspettando di scortare da basso il Capataz e il capo della Sicurezza. Pimli rifletté sulla bizzarria del modo in cui tutti, i Frangitori e il personale di Algul Siento, avevano preso a chiamarli: uomini bassi. Perché era stato Brautigan a coniare quell'espressione. «A parlare degli angeli, senti il frullio delle loro ali», avrebbe forse detto la sua amata madre, e Pimli pensava che se c'erano veri uomanimali in quegli ultimi giorni di quel vero mondo, allora i can-toi si sarebbero qualificati assai meglio dei taheen per quella definizione. Vedendoli senza le loro speciali maschere viventi, li avresti anche scambiati per taheen, con quella testa di topo. Ma a differenza dei taheen veri, che consideravano gli umani (a parte alcune rimarchevoli eccezioni come Pimli stesso) una razza inferiore, i can-toi veneravano le sembianze umane considerandole divine. Indossavano la maschera nei loro riti religiosi? Tenevano la bocca chiusa al riguardo, ma Pimli pensava di no. Pensava che credessero di diventare umani, ed era questo il motivo per cui, quando indossavano per la prima volta la loro maschera (era di carne viva, cresciuta più che fabbricata), assumevano anche un nome umano che accompagnasse il loro aspetto da uomo. Pimli sapeva che credevano di sostituire gli esseri umani dopo il Crollo... sebbene gli sfuggisse totalmente come avessero potuto concepire una simile idea. Dopo il Crollo ci sarebbe stato il paradiso, questo era evidente a chiunque avesse letto il Libro delle Rivelazioni... ma la terra?
Una nuova Terra, forse, ma Pimli non era sicuro nemmeno di quello.
Due guardie can-toi, Beeman e Trelawney, sostavano in fondo al corridoio a guardia delle scale che scendevano in cantina. Agli occhi di Pimli tutti gli uomini can-toi, anche quelli di corporatura snella e con i capelli biondi, ricordavano molto quell'attore degli anni Quaranta e Cinquanta che si chiamava Clark Gable. Avevano tutti quei labbroni sensuali e quelle orecchie a sventola. Poi, quando ti avvicinavi parecchio, notavi le rughe artificiali sul collo e dietro le orecchie, dove la loro maschera umana s'increspava in filamenti e s'insinuava nella loro realtà autentica (che la volessero accettare o no), pelosa e dentuta. E c'erano gli occhi. Erano mascherati dai capelli, ma a guardare bene, si vedeva che in origine quelle che scambiavano per orbite, erano in realtà fori in quelle strane maschere di materia vivente. In certi momenti si sentiva addirittura la maschera respirare, un fenomeno che Pimli trovava poco simpatico e un tantino ributtante.
«Hile», disse Beeman.
«Hile», disse Trelawney.
Pimli e Finli risposero al saluto, tutti si portarono il pugno alla fronte, dopodiché Pimli cominciò a scendere per primo. Nel corridoio sottostante, passando davanti a un cartello con la scritta DOBBIAMO LAVORARE TUTTI INSIEME PER CREARE UN AMBIENTE LIBERO DAL FUOCO e un altro con scritto AVE CAN-TOI, a voce molto bassa Finli disse: «Sono così strani».
Pimli sorrise e gli batté la mano sulla schiena. Per questo gli andava tanto a genio Finli o'Tego:
come culo e camicia, andavano di comune accordo.
6
La cantina di Casa Damli era in larga misura costituita da uno stanzone pieno zeppo di attrezzature. Non tutte funzionavano e alcuni degli strumenti ancora attivi, non erano in grado di usarli (ce n'erano molti che non capivano per niente), ma avevano assoluta dimestichezza con gli apparecchi di sorveglianza e il telemetro che misurava gli scuri: unità di energia psichica spesa. Ai Frangitori era espressamente proibito usare le loro capacità psichiche fuori dello studio, e non tutti loro erano comunque in grado di farlo. Molti erano come uomini e donne così severamente addestrati al controllo delle proprie funzioni fisiologiche da non essere capaci di orinare senza uno stimolo visuale che assicurasse loro che, sì, erano in un gabinetto, e, sì, era consentito allentare i muscoli. Altri, come bambini che non hanno ancora raggiunto il controllo completo, erano incapaci di impedire qualche estemporanea proiezione psichica. La qual cosa poteva risolversi nel mal di testa passeggero di qualche malcapitato o in una panchina che si rovesciava al Mall, ma gli uomini di Pimli mantenevano una sorveglianza accurata e le trasgressioni che venissero giudicate «di proposito» erano punite, con castighi lievi per la prima volta, con severità rapidamente crescente in caso di recidività. E, come piaceva declamare a Pimli ai nuovi arrivati (ai tempi in cui i nuovi arrivati c'erano ancora): «State sicuri che il vostro peccato vi troverà». Il credo di Finli era ancora più semplice: il telemetro non mente.
Quel giorno sui tabulati del telemetro trovarono solo blip transitori. Erano insignificanti quanto sarebbe potuta essere una registrazione di quattro ore di peti e rutti di qualche gruppo.
Niente di interessante risultò parimenti dai video e dai verbali dei guardiani.
«Soddisfatto, sai?» chiese Finli e qualcosa nel tono della sua voce indusse Pimli a girarsi bruscamente a guardarlo.
«E tu?»
Finli o'Tego sospirò. In quei momenti Pimli avrebbe desiderato che Finli fosse un umano oppure che lui stesso fosse un taheen autentico. Il problema erano quegli inespressivi occhi neri. Sembravano quasi i bottoncini che si cuciono al posto degli occhi sulle bambole di pezza ed era semplicemente impossibile interpretarli. A meno forse di essere un taheen come lui.
«Sono settimane ormai che non mi sento a posto», confessò finalmente Finli. «Con tutto il graf che bevo non riesco più a dormire, dopodiché mi trascino per tutta la giornata, tirando su tutti di peso. In parte è la perdita di comunicazioni da quando si è infranto l'ultimo Vettore...»
«Sai che era inevitabile...»
«Sì, certo, lo so. Dico solo che sto cercando ragioni razionali con cui spiegare sentimenti irrazionali e questo non è mai un buon segno.»
Sulla parete in fondo c'era una fotografia delle Cascate del Niagara. Una guardia can-toi l'aveva rovesciata. Gli uomini bassi trovavano che i quadri rovesciati fossero la cosa più esilarante del mondo. Pimli non aveva idea del perché. Ma alla fine chi se ne fregava? So come fare il mio lavoro del cazzo, pensò rigirando le Cascate del Niagara. lo so fare il mio mestiere e tutto il resto non conta, diciamo grazie a Dio e all'Uomo-Gesù.
«Abbiamo sempre saputo che verso la fine tutto avrebbe cominciato a scollarsi», riprese Finli. «Così io dico a me stesso che è colpa della situazione. Questa... sai...»
«Questa sensazione che provi», lo soccorse l'ex Paul Prentiss. Poi sorrise e posò l'indice destro sul cerchio composto dall'indice e il pollice sinistri. Era un gesto taheen che significava ti dico la verità. «Questa sensazione irrazionale.»
«Yar. So che a nord non è riapparso il Leone Sanguinante, né credo che il sole si stia raffreddando da dentro. Ho sentito storie della follia del Re Rosso e del Dan-Tete che sarebbe venuto a prenderne il posto e tutto quello che posso dire è: ci crederò quando l'avrò visto. Per questa fantastica notizia di un uomo-pistolero arrivato dall'Ovest a salvare la Torre, come predicono leggende e canzoni. Stronzate, dall'inizio alla fine.»
Pimli gli batté la mano sulla spalla. «Mi fa bene al cuore sentirti parlare così!»
Era consolazione autentica. Durante il suo mandato Finli o'Tego aveva svolto un lavoro ineccepibile. Il suo servizio di sicurezza aveva dovuto uccidere cinque o sei Frangitori, tutta gente che aveva cercato di scappare, rincitnillita dalla nostalgia di casa, e due altri erano stati lobotomizzati, ma solo Ted Brautigan era riuscito a «passare sotto il reticolato» (era un'espressione, questa, che Pimli aveva preso a prestito da un film intitolato Stalag 17) e, davanti a Dio, lo avevano ripescato e riportato al suo posto. Il credito dell'operazione era andato ai can-toi e il capo della Sicurezza aveva soprasseduto, ma Pimli conosceva la verità: era stato Finli a orchestrare ogni mossa, dall'inizio alla fine.
«Ma potrebbe non essere solo nervosismo, questo mio stato d'animo», continuò Finli. «Perché sono convinto che alle volte la gente ha intuizioni fondate.» Rise. «Come si fa a non crederlo in un posto che brulica come questo di precognitivi e postcognitivi?»
«Passino le intuizioni, ma niente psicocinetici», ribatté Pimli. «Dico bene?»
Il teletrasporto era l'unica cosiddetto facoltà paranormale di cui il personale di Devar aveva veramente paura e a buona ragione. Non c'erano limiti al caos che poteva provocare. Far arrivare un paio d'ettari di spazio siderale, per esempio, o creare un uragano aprendo una zona di vuoto assoluto. Per fortuna esisteva un semplice test con cui isolare quella particolare capacità (facile da amministrare, sebbene i macchinari necessari fossero residui degli Antichi e nessuno di loro sapeva prevedere per quanto ancora avrebbero funzionato) e c'era una semplice procedura (anch'essa lasciata dagli Antichi) con cui mettere in corto dei circuiti organici così pericolosi. Il dottor Gangli era in grado di neutralizzare potenziali psicocinetici in meno di due minuti. «Così elementare che al confronto una vasectomia sembra un intervento di chirurgia cerebrale», aveva affermato una volta.
«Cazzolutamente niente psicocinetici», stava rispondendo ora Finli, mentre conduceva Prentiss a una consolle che somigliava in maniera inquietante a quella che Susannah Dean aveva visualizzato nel suo Dogan. Gli indicò due quadranti contrassegnati dalla scrittura a zampa di gallina degli antichi (segni simili a quelli sulla Porta Introvata). In entrambi l'ago era posato sulla base del lato sinistro in corrispondenza dello 0. Quando Finli ne picchiettò il vetro con le nocche pelose, gli aghi sobbalzarono per un istante prima di ricadere al loro posto.
«Noi non sappiamo di preciso che cosa dovessero misurare questi quadranti», disse, «ma una cosa che sicuramente misurano è il potenziale telecinetico. Ci sono stati Frangitori che hanno invano cercato di nascondere la loro facoltà. Se ci fosse uno psicocinetico nei paraggi, Pimli o'New Jersey, questi aghi balzerebbero fino a cinquanta e perfino ottanta.»
«Dunque...» Per metà sorridendo e per metà serio Pimli cominciò a spuntare sulle dita. «Niente psicocinetici, niente Leone Sanguinante proveniente dal nord, niente uomo-pistolero. Ah, già: e le mantelle verdi sono state spazzate via da un virus informatico. Ma se le cose stanilo così, che cosa ti rode? Che cosa senti che non quaglia-glia-glia?»
«Dev'essere l'avvicinarsi della fine», si schermì Finli con un sospiro pesante. «Per questa notte raddoppierò le guardie sulle torri e anche lungo il recinto.»
«Perché non ti quaglia-glia-glia», lo canzonò un po' Pimli.
«Quaglia-glia-glia, yar.» Finli non sorrise. I suoi dentini aguzzi rimasero nascosti dalle lucide labbra scure.
Pimli gli batté la spalla. «Vieni, saliamo nello Studio. Forse vedere tutti quei Frangitori al lavoro ti rasserenerà.»
«Speriamo», rispose Finli, ma continuò a non sorridere.
«È tutto a posto, Fin», lo rassicurò con affetto Pimli.
«Sarà», disse il taheen, osservando dubbioso l'attrezzatura circostante» e poi Beeman e Trelawney, i due uomini bassi, che attendevano rispettosi vicino alla porta che i due pezzi grossi concludessero il conciliabolo. «Speriamo che tu abbia ragione.» Ma il suo cuore restava scettico. La sola cosa di cui sentiva il proprio cuore assolutamente convinto era che non fossero rimasti psicocinetici ad Algul Siento. Il telemetro non mentiva.
7
Beeman e Trelawney li accompagnarono per tutto il lungo corridoio sotterraneo rivestito in pannelli di quercia fino al montacarichi del personale, perlinato anch'esso. In cabina c'era un estintore e un altro cartello ricordava al folken di Devar che dovevano lavorare insieme per creare un ambiente ignifugo.
Anche quello era a gambe all'aria.
Gli occhi di Pimli incontrarono quelli di Finli. Il Capataz ebbe l'impressione di scorgere divertimento nello sguardo del suo capo della Sicurezza, ma naturalmente poteva trattarsi del proprio umorismo riflesso come in uno specchio. Finli staccò senza una parola il cartello dal muro e lo rigirò. Nessuno dei due commentò sulla macchina che muoveva l'ascensore, il cui rumore era eccessivo e poco rassicurante. Né parlarono del modo in cui la cabina tremava durante la salita. Se si fosse bloccata, sarebbero tranquillamente usciti dalla botola sovrastante, una manovra che non avrebbe presentato difficoltà nemmeno per una persona leggermente sovrappeso (be'... parecchio sovrappeso) come Prentiss. Casa Damli non era certo un grattacielo e potevano comunque contare su soccorsi celeri.
Raggiunsero il terzo piano, dove il cartello sulla porta chiusa era diritto. Diceva SOLO
PERSONALE e INSERIRE LA CHIAVE PREGO e SCENDETE IMMEDIATAMENTE SE AVETE RAGGIUNTO QUESTO LIVELLO PER ERRORE. NON SARETE PENALIZZATI SE FARETE IMMEDIATAMENTE RAPPORTO.
Mentre estraeva la tessera, in un tono distratto che poteva essere simulato (maledetti quegli occhi neri indecifrabili), Finli chiese: «Notizie da sai Sayre?»
«No», rispose Pimli (alquanto contrariato), «né mi aspetto di averne, per la verità. Se qui siamo isolati, c'è una buona ragione, votatamente dimenticati in mezzo al deserto come gli scienziati del progetto Manhattan degli anni Quaranta. L'ultima volta che l'ho visto, mi aveva detto che poteva essere... be', l'ultima volta che lo vedevo.»
«Rilassati», lo rintuzzò Finli. «La mia era semplice curiosità.» Infilò la tessera nella fessura e
la porta della cabina si aprì con un cigolio più inquietante che mai.
8
Lo Studio era un locale lungo e con il soffitto alto al centro della Damli, anch'esso rivestito di pannelli di quercia. Il tetto di vetro, sopra pareti alte tre piani, lasciava entrare la preziosa luce solare di Algul. Sul ballatoio davanti alla porta attraverso la quale entrarono Prentiss e il Tego c'era un singolare quartetto composto da un taheen con la testa di corvo di nome Jakli, un tecnico can-toi di nome Conroy e due guardie umane di cui lì per lì Pimli non seppe rammentare il nome. Durante le ore lavorative, taheen, can-toi e umani convivevano in virtù di un'attenta e talvolta fragile cortesia, ma nessuno si aspettava di vederli socializzare fuori servizio, e in effetti da questo punto di vista il ballatoio era rigorosamente off-limits. I Frangitori che si trovavano di sotto non erano né animali in uno zoo né pesci esotici in un acquario; era un aspetto che sia Pimli sia Finli o'Tego avevano ripetutamente enfatizzato. Nei suoi numerosi anni di direzione, il Capataz di Algul Siento era stato costretto a lobotomizzare solo uno dei suoi uomini, una guardia umana peggio che idiota di nome David Burke, che aveva buttato qualcosa sulla testa dei Frangitori, forse gusci di noccioline, non ricordava bene. Quando Burke si era reso conto che il Capataz aveva seriamente intenzione di lobotomizzarlo, lo aveva implorato perché gli concedesse una seconda occasione, promettendo che non avrebbe mai più fatto un gesto così stupido e umiliante. Pimli aveva fatto orecchie da mercante. Aveva sottomano l'opportunità per un esempio che sarebbe rimasto per anni, se non per decenni, scolpito nella mente di tutto il personale, e non se l'era lasciata sfuggire. Ancora oggi era possibile vedere il signor Burke, ora veramente idiota, aggirarsi per il Mall o lungo il Confine Sinistro con la mascella penzoloni e gli occhi vagamente perplessi: so quasi chi sono, ricordo quasi che cosa ho fatto per finire così, si leggeva in quegli occhi. Era un esempio vivente di ciò che semplicemente non si può fare quando si è in presenza di Frangitori al lavoro. Non c'era però una norma che vietasse espressamente al personale di salire lassù, come infatti facevano di tanto in tanto.
Perché era rinfrescante.
Per prima cosa, quando si era nelle vicinanze dei Frangitori al lavoro diventava inutile parlare. Camminando per il ballatoio del terzo livello, uscendo dall'uno o dall'altro dei due ascensori, si era sotto l'influsso della «buona mente» come la chiamavano, che ti sbocciava nella testa nel momento stesso in cui aprivi la porta e ti affacciavi fuori, aprendoti nella mente canali percettivi di ogni sorta. Avesse fatto una visitina lassù, Aldous Huxley sarebbe diventato matto, aveva riflettuto spesso Pimli. Ogni tanto qualcuno si staccava letteralmente dal pavimento come abbozzando una levitazione, e il contenuto delle tasche aveva la tendenza a sfilarsi e rimanere sospeso nell'aria. Questioni che prima ti sembravano intricatissime si dissolvevano d'incanto nel momento in cui ti soffermavi a pensarci. Se avevi scordato qualcosa, il tuo appuntamento delle cinque o il secondo nome di tuo cognato, per esempio, quello era il posto giusto dove ricordarlo. E anche se ti accorgevi che quello che avevi dimenticato era importante, non ne eri minimamente turbato. Il folken lasciava il ballatoio sorridendo anche quando vi era salito nel peggiore degli stati d'animo (una luna storta era una ragione eccellente per farci un salto). Era come se dai Frangitori al piano di sotto salisse fino al ballatoio un gas esilarante, invisibile all'occhio ed elusivo anche per il più sofisticato dei telemetri.
I due alti funzionari salutarono le quattro creature e si affacciarono alla balaustrata di quercia a guardare giù. La stanza sottostante faceva pensare alla biblioteca di qualche dovizioso club londinese per soli uomini. Dalle pareti e dai numerosi tavolini spargevano luce diffusa appliques e abat-jour, molti dei quali con autentici paralumi di Tiffany. Pannelli di quercia rivestivamo i muri e pregiati tappeti turchi proteggevano i pavimenti. A una parete era appeso un Matisse, a un'altra un Rembrandt... a una terza la Gioconda. Quella vera, non la riproduzione esposta al Louvre del Mondo Cardine. Davanti al quadro sostava un uomo con le braccia conserte. Da lassù sembrava che lo stesse studiando, che stesse forse cercando di decifrare quel famoso sorriso enigmatico, ma Pimli sapeva che non era così. Anche gli uomini e le donne muniti di riviste davano l'impressione di essere intenti alla lettura, ma, potendo scendere a osservarli da vicino, si sarebbe visto che tenevano tutti gli occhi persi nel vuoto poco sopra la loro copia di McCalls o di Harper's. Una bambina di undici o dodici anni in uno squisito vestitino estivo a strisce che sarebbe potuto costare anche milleseicento dollari in una boutique per bambini di Rodeo Drive sedeva davanti a una casa delle bambole posata sul focolare del caminetto, ma Pimli sapeva che non stava affatto contemplando la raffinata replica di Casa Damli.
Erano trentatré in tutto. Alle otto, un'ora dopo lo spegnimento del sole artificiale, ne sarebbero arrivati trentatré nuovi. C'era poi un Frangitore, uno e uno soltanto, che andava e veniva a piacimento. Un individuo che era passato sotto il recinto e non aveva pagato per la sua trasgressione... se non per essere stato riportato lì, naturalmente, e per un uomo come lui quella era stata una punizione più che sufficiente.
Come se il pensiero lo avesse evocato, la porta in fondo alla stanza si aprì e Ted Brautigan fece il suo silenzioso ingresso. Indossava ancora il berretto di tweed. Daneeka Rostov staccò gli occhi dalla casa delle bambole e gli rivolse un sorriso. Brautigan la ricambiò con una strizzata d'occhio. Pimli diede una leggera gomitata a Finli.
Finli: (Lo vedo)
Ma era qualcosa di più. Lo percepivano. Nel momento in cui Brautigan era comparso nella stanza sottostante, quelli che si trovavano sul ballatoio, e più ancora quelli che si trovavano al suo stesso livello, avevano avvertito un aumento di energia. Nessuno aveva ancora ben chiaro che cosa avesse di speciale Brautigan e i macchinari di rilevazione non erano stati di grande aiuto (macchinari in parte resi inutilizzabili da quel vecchio bastardo in persona e di proposito, il Capataz ne era più che certo). Se c'erano altri come lui, gli uomini non ne avevano trovati nelle loro perlustrazioni (ora sospese, poiché avevano raccolto il quantitativo sufficiente di talento con cui portare a termine il lavoro). Una cosa che sembrava però chiara era che Brautigan agisse come un catalizzatore, che fosse cioè un paranormale non solo potente in sé ma capace di intensificare le capacità psichiche di chi gli era vicino. I pensieri di Finli, solitamente inaccessibili persino ai Frangitori, presero ora a risplendere nella sua mente come un'incandescenza.
Finli: (È straordinario)
Pimli: (E, per quel che ne sappiamo, unico   Hai visto la cosa)
Immagine: occhi che si dilatano e restringono, si dilatano e restringono.
Finli: (Sì   sai che cosa lo provoca)
Pimli: (Assolutamente no e non m'importa caro Finli   Quel vecchio)
Immagine: un vecchio cane randagio con il pelo pieno di nodi e lappole, che camminava zoppicando su tre sole zampe.
(ha quasi finito il suo lavoro   è quasi tempo di)
Immagine: una pistola, una delle Beretta delle guardie umane, con la canna posata sulla testa del vecchio randagio.
Tre piani più sotto, l'oggetto della loro conversazione raccolse un quotidiano (i giornali erano tutti vecchi, ormai, vecchi come Brautigan stesso, vecchi di anni), si sedette in una poltrona di pelle così ampia che parve quasi inghiottirlo e diede l'impressione di mettersi a leggere.
Pimli sentì la forza psichica salire fino a loro e attraverso loro, su attraverso il soffitto di vetro, fino al Vettore che passava direttamente sopra Algul, e attaccarlo, scorticando e intaccando e strofinando senza posa. Aprendo crepe nella magia. Consumando pazientemente gli occhi dell'Orso. Assottigliando il guscio della Tartaruga. Per infrangere il Vettore che correva da Shardik a Maturin. Per far crollare la Torre Nera che si ergeva tra loro.
Pimli si rivolse al compagno e non si meravigliò di poter ora vedere gli astuti dentini nella testa da donnola di Tego. Finalmente sorrideva! Né lo sorprese di riuscire a leggere in quegli occhi neri. I taheen, in circostanze normali, erano in grado di inviare e ricevere qualche comunicazione molto semplice, ma erano impenetrabili. Lì però era tutto diverso. Lì...
...Finli o'Tego era in pace. Le sue preoccupazioni
(quaglia-glia-glia) si erano sciolte. Almeno per il momento.
Pimli inviò a Finli una serie di immagine vivide: una bottiglia di champagne che s'infrangeva sulla poppa di una nave, centinaia di neri copricapi che volavano nell'aria il giorno della consegna dei diplomi; una bandiera che veniva piantata sulla vetta dell'Everest; una coppia che scappava dalla chiesa ridendo e abbassando la testa sotto una tempesta di grani di riso; un pianeta, la Terra, che esplodeva all'improvviso in un bagliore spaventoso.
Immagini che raccontavano tutte la stessa storia.
«Sì», disse Finli e Pimli si domandò come avesse mai potuto pensare che fosse difficile leggere in quegli occhi. «Sì, certo. Il successo alla fine del giorno.»
Nessuno dei due guardò giù in quel momento. Se lo avessero fatto, avrebbero visto Ted Brautigan, un vecchio cane randagio, sì, e anche stanco, ma forse non così stanco quanto alcuni presumevano, che levava la testa a guardare loro.
Con uno spettro di sorriso nascosto nelle labbra.
9