giovedì 29 maggio 2025

OGGETTO D'AMORE Edna O'Brien

 

OGGETTO D'AMORE 

Edna O'Brien

Recensione

La prima volta che ho saputo della esistenza di Edna O'Brien è stata quando ho letto "L'Animale morente" di Philip Roth ,è sua l'epigrafe che apre il romanzo

"Nel corpo, non meno che nel cervello, è racchiusa la storia della vita". 

Leggendo questi racconti 

ho apprezzato molto la capacità descrittiva di O'Brien nel saper catturare sempre quell'indefinibile non so che delle donne in continuo viaggio, a inseguire qualcosa ,i sogni , l'amore, la libertà di essere se stesse, a volte ferite , deluse ,offese dalle crudeltà quotidiane, ma sempre con una vitalità giovanile, una prorompente esuberanza e generosità,anche quando l'esistenza si presenta con le complicazioni che devi per forza affrontare. 

Anche se spesso si accomuna Edna O’Brien a James Joyce, di fatto leggendo i racconti si scopre che il suo vero maestro è Cechov: come lui Edna O’Brien scava a fondo nella coscienza delle personalità più disparate dei suoi personaggi.

Come scrive John Banville nella sua prefazione:

“La cosa che più colpisce nei racconti di Edna O’Brien, a parte l’inesausta maestria dell’esecuzione, è la varietà. Questa scrittrice conosce molti mondi e ce li presenta con un profondo acume, una precisione che ha del prodigioso, una tenerezza divertita e un’immancabile compassione. Pur avendo lasciato presto la terra dove è nata e cresciuta, (l’Irlanda, ndr) non se ne discosta mai. 

[...]“He simply said my name. He said ‘Martha’, and once again I could feel it happening. My legs trembled under the big white cloth and my head became fuzzy, though I was not drunk. It’s how I fall in love. He sat opposite. The love object.[...]

Oggetto d’amore

Disse semplicemente il mio nome. – Marta, – disse, e capii che stava succedendo di nuovo. Mi tremavano le gambe sotto la grande tovaglia bianca e avevo la testa confusa, anche se non ero ubriaca. È cosí che m’innamoro. Era seduto davanti a me. L’oggetto dell’amore. Attempato. Occhi azzurri. Capelli biondo sabbia. Stava ingrigendo ai lati e aveva distribuito le ciocche grigie esterne su tutta la testa quasi a nascondere il biondo, come certi nascondono la calvizie. Aveva quello che io chiamo un sorriso molto religioso. Un sorriso interiore che andava e veniva, governato, per cosí dire, da una gioia tutta sua per quello che sentiva o vedeva: un mio commento, il cameriere che toglieva i piatti freddi decorativi e portava quelli caldi di una foggia diversa, la tenda di nylon che si gonfiava al vento sfiorandomi il braccio nudo cotto dall’estate. Era la fine di una calda estate londinese.

– Non sono troppo simpatici nemmeno a me, – disse. Stavamo spettegolando. Parlavamo di una coppia famosa che conoscevamo tutti e due. Lui teneva sempre le mani giunte come per pregare. Non c’erano barriere fra noi. Eravamo estranei. Io faccio l’annunciatrice televisiva; ci eravamo conosciuti per motivi di lavoro, e lui aveva avuto la gentilezza di invitarmi a cena. Mi aveva raccontato di sua moglie, una trentenne come me, e disse che gli era bastato vederla per capire che l’avrebbe sposata. (Era la terza, di moglie). Non gli chiesi com’era fisicamente. Non lo so tuttora. L’unico ricordo che ho di lei sono le braccia inguainate in due grandi maniche color malva lavorate all’uncinetto; è un’immagine che mi è rimasta impressa e rivedo le mani rosa e oranti di lui svanire dentro quelle maniche, e loro due che ballano in una grande sala tetra sorridendo estatici per la fortuna di essere insieme. Ma questo succedeva molto dopo.

Fu una cena simpatica con i fichi per dessert. I primi fichi che avessi mai assaggiato. Lui li tastò delicatamente con le dita, poi me ne mise tre nel piatto. Rimasi a fissare la buccia nero-violacea perché il tremito mi faceva passare la voglia di pelarli. Lui mi distrasse dal nervosismo raccontandomi la storiella di una ragazza che in un’intervista radiofonica aveva ammesso di possedere trentasette paia di scarpe e di comprare un vestito nuovo ogni sabato, che poi cercava di rivendere a parenti e amici. In un certo senso sapevo che aveva scelto quella storia apposta per me e che non si sarebbe arrischiato a raccontarla a molti altri. Era a suo modo una persona seria, e famosa, anche se questo importa poco quando si racconta una storia d’amore. Oppure importa? Fatto sta che addentai un fico senza sbucciarlo.

Come si fa a descrivere un sapore? Erano un cibo nuovo e un uomo nuovo, e quella notte tra le mie lenzuola lui fu un estraneo e un amante, come dire il compagno di letto ideale.

La mattina mantenne un atteggiamento formale ma disinvolto; chiese perfino una spazzola per gli abiti perché sulla giacca aveva una macchia di cipria che gli avevo lasciato la sera prima quando ci eravamo abbracciati tornando a casa in taxi. Allora non ero sicura che saremmo andati a letto insieme, anche se tutto considerato mi sembrava improbabile. Non ho mai avuto una spazzola per gli abiti. Ho libri, dischi, svariate boccette di profumo e vestiti bellissimi, ma non compro mai strumenti per pulire o per far durare a lungo le cose. Sarà anche uno spreco, però preferisco buttarle. Lui comunque picchiettò col fazzoletto la macchia di cipria, che andò via senza difficoltà. Gli serviva anche un cerotto perché la scarpa nuova gli aveva tagliato il tallone. Guardai, ma la confezione era vuota. L’avevano ripulita i miei figli durante le lunghe vacanze estive. Anzi, per un attimo mi parve di vedere i miei due figli in quei giorni d’estate, stravaccati in poltrona, a leggere fumetti, a scorrazzare in bici, a fare la lotta, procurandosi tagli che subito coprivano con un cerotto e dopo, quando si staccava, esibivano gli sfregi bordati di marrone a riprova del loro valore. Quanto mi mancavano, avrei tanto voluto stringerli fra le braccia: un motivo in piú per apprezzare la sua compagnia. – Non è rimasto nemmeno un cerotto, – dissi, vergognandomi un po’. Pensai che mi avrebbe preso per una persona trascurata. Mi chiesi se era il caso di spiegargli come mai i miei figli erano entrati in collegio cosí piccoli. Avevano otto e dieci anni. Ma non glielo spiegai. Mi era passata la voglia di raccontare in giro che il mio matrimonio era naufragato e che mio marito, incapace di occuparsi di due bambini, aveva voluto a tutti i costi mandarli in collegio per farli crescere, a suo dire, in un clima equilibrato. Secondo me l’aveva fatto per privarmi del piacere che provavo a stare con loro. Non potevo spiegarglielo.

Facemmo colazione fuori. L’avvio di un’altra giornata calda. Dal cielo pendeva quella foschia incolore che precede la canicola e nel giardino accanto erano già partiti gli irrigatori. I miei vicini sono fanatici del giardinaggio. Lui mangiò tre fette di pane tostato con il bacon. Mangiai anch’io, tanto per metterlo a suo agio, anche se normalmente salto la colazione. – Farò incetta di cerotti, spazzole per gli abiti e smacchiatori, – dissi. Un modo per dire: «Tornerai?» Lui capí al volo. Si affrettò a ingoiare il pane, mise una di quelle sue mani oranti sulla mia e disse in tono solenne e gentile che non intendeva avere un’avventuretta squallida e volgare con me, ma che da lí a un mese ci saremmo rivisti e si augurava che diventassimo amici. L’amicizia non mi aveva nemmeno sfiorato la mente, anche se forse era un’eventualità interessante. Mi ricordai che cominciando a parlare, la sera precedente, aveva accennato alle prime due mogli e ai figli ormai adulti, e pensai che era una persona onesta e per niente nostalgica. Non ne potevo piú dei dispiaceri e di chi, non contento, ci ricamava pure sopra. Mi aveva anche intenerito vederlo ripiegare il copriletto di seta verde, una cosa che io non faccio mai.

Quando se ne andò mi sentii euforica e in un certo senso sollevata. Era stato bello e senza strascichi antipatici. Avevo il viso arrossato dai baci e i capelli arruffati dagli strapazzi. Sembravo una poco di buono. Stanca dopo la notte quasi insonne, chiusi le tende e tornai a letto. Ebbi un incubo. Il solito, l’uomo che mi uccide. Mi dicono che avere gli incubi è salutare e da quella volta ci credo. Erano mesi che non mi svegliavo cosí calma e trascorsi il resto della giornata di ottimo umore.

Due mattine dopo telefonò chiedendo se c’era speranza di vederci in serata. Risposi di sí, perché non avevo niente da fare e mi sembrava giusto suggellare il nostro segreto con una bella cena. Invece ripartimmo in quarta.

– Siamo stati benissimo, – disse. Mi accorsi di fare piccoli gesti raggelati che denotavano amore, timidezza; lo guardavo con tanto d’occhi, pendevo dalle sue labbra. Stavolta sbucciò i fichi per tutti e due. Mettevamo le gambe in modo che si toccassero e subito le ritiravamo, convinti che veicolassero il nostro desiderio. Mi accompagnò a casa. Fra le lenzuola mi accorsi che si era messo l’acqua di colonia sulle spalle e che aveva organizzato la cena con la speranza, se non con l’intenzione, di venire a letto con me. Il sapore della sua pelle mi piaceva piú di quella ributtante sostanza chimica e mi toccò dirglielo. Lui rise. Non mi ero mai sentita cosí a mio agio con un uomo. Per la cronaca, ero andata a letto con altri quattro ma sentendo sempre un divario sul piano verbale. Mi soffermai un attimo a riflettere sui loro vari odori mentre respiravo il suo, che mi ricordava qualche erba aromatica. Non era il prezzemolo, non era il timo e nemmeno la menta bensí un’erba aromatica inesistente che riassumeva tutti e tre i profumi. Quella seconda volta facemmo l’amore in modo piú rilassato.

– Come la mettiamo se farai di me una donna insaziabile? – chiesi.

– Ti cederò a un amico che sia all’altezza, – disse.

Ci accoccolammo e, con la testa sulla sua spalla, pensai ai piccioni sotto il ponte della ferrovia lí vicino che la notte si rannicchiano stretti stretti ripiegando la testa sul petto malvaceo. Mentre dormiva ci baciavamo scambiandoci paroline. Io non chiusi occhio. Non dormo mai quando sono troppo felice, troppo infelice o a letto con un estraneo.

Nessuno dei due disse: «Bene, eccoci qui alle prese con un’avventuretta squallida e volgare». Cominciammo semplicemente a frequentarci. Con regolarità. Smettemmo di andare al ristorante perché lui era famoso. Veniva a cena da me. Non dimenticherò mai il delirio di quei preparativi: mettere i fiori nei vasi, cambiare le lenzuola, sprimacciare i cuscini, sforzarmi di cucinare, truccarmi e tenere una spazzola a portata di mano casomai fosse arrivato in anticipo. Che strazio! Quando finalmente suonava il campanello andavo ad aprire con una certa difficoltà.

– Non puoi sapere che oasi è questa per me, – diceva. Poi nell’ingresso mi metteva le mani sulle spalle e me le stringeva attraverso l’abito leggero dicendo: – Fatti guardare, – e io chinavo la testa, perché ero imbarazzata e perché volevo esserlo. Ci baciavamo, spesso per cinque minuti buoni. Lui mi baciava l’interno delle narici. Poi ci trasferivamo in soggiorno per accomodarci sulla chaise-longue ancora ammutoliti. Lui mi toccava l’osso del ginocchio e diceva che avevo delle ginocchia bellissime. Vedeva e ammirava parti di me che gli altri avevano sempre trascurato. Subito dopo cena andavamo a letto.

Una volta si presentò inaspettatamente nel tardo pomeriggio, trovandomi pronta per uscire. Andavo a teatro con un altro.


– Quanto vorrei accompagnarti io, – disse.


– Andremo mai a teatro una sera? – Lui chinò la testa. Ci saremmo andati. Per la prima volta sembrò triste. Non facemmo l’amore perché fra il trucco e le ciglia finte sarebbe stato un po’ scomodo. Disse: – Nessuno ti ha mai detto che vedere una donna che desideri e non poterci fare niente dà un dolore fisico?


Quel dolore contagiò anche me, accompagnandomi per tutto lo spettacolo. Che rabbia non essere andata a letto con lui, e in seguito me ne pentii ancora di piú perché, a partire da quella sera, i nostri incontri si diradarono. La moglie, che era stata in Francia con i figli, rientrò. Lo scoprii una sera che lui venne a trovarmi in macchina e tra una parola e l’altra disse di sfuggita che quel giorno la figlioletta aveva fatto la pipí su un documento importante. A questo punto posso rivelarvi che era un avvocato.


Da allora vedersi di sera diventò quasi impossibile. Mi dava appuntamento di pomeriggio e con un preavviso minimo. Le rare notti in cui riusciva a fermarsi si presentava con una borsa da viaggio dove c’erano lo spazzolino, la spazzola per gli abiti e le poche cose necessarie a un uomo per una notte non d’amore in un albergo di provincia. Immagino che gliela preparasse lei. Pensavo: «È ridicolo». Lei non mi faceva nessuna pena. Anzi, solo a sentirla nominare – si chiamava Helen – mi veniva la rabbia. Lo disse con grande innocenza. Disse che nel cuore della notte avevano svaligiato casa loro e che lui era sceso in pigiama mentre la moglie telefonava alla polizia dall’apparecchio al piano di sopra.


– Capita, quando si è ricchi, – tagliai corto per cambiare discorso. Fu rassicurante scoprire che con lei, a differenza che con me, portava il pigiama. La mia gelosia era estrema, oltre che marchianamente ingiusta. Ma darei un’impressione sbagliata se dicessi che fu l’esistenza di lei che, a quel punto, deteriorò il nostro rapporto. Perché non è vero. Lui si premurava sempre di parlare come uno scapolo e dopo aver fatto l’amore si tratteneva come minimo un’ora prima di andarsene con tutta calma. Anzi, è proprio uno di quei momenti dopo l’amore che considero il non plus ultra del nostro rapporto. Eravamo seduti sul letto, nudi, a mangiare panini al salmone affumicato. Avevo acceso la stufa a gas perché era autunno inoltrato e i pomeriggi erano gelidi. La stufa emetteva un ronzio costante. Era l’unica luce nella stanza. Lui notò per la prima volta la forma del mio viso perché, disse, fino ad allora era stato l’incarnato ad attirare tutta la sua ammirazione. Anche il suo viso, la cassapanca di mogano e i quadri sembravano piú belli. Non rosei, perché la stufa a gas non aveva quel tipo di lucore, però risplendevano di una luce biancastra. Il tappeto in pelle di capra sotto la finestra era di una morbidezza voluttuosissima. Glielo feci notare. Lui disse di avere una leggera vena masochista e che spesso la notte, non riuscendo a dormire a letto, andava in un’altra stanza, si stendeva a terra con un cappotto addosso e si addormentava di schianto. Lo faceva anche da piccolo. L’immagine di quel bimbetto che dormiva in terra mi mosse a enorme compassione e, senza una parola da parte sua, lo portai vicino al tappeto e lo feci stendere. Fu l’unica volta in cui i ruoli si invertirono. Lui non era mio padre. Io diventai sua madre. Morbida e del tutto immune alle paure. Perfino i miei capezzoli, che sono molto suscettibili, non si sottrassero alle sue pretese furiose. Volevo fare tutto e di tutto per lui. Come spesso succede fra amanti, il mio ardore e la mia inventiva stimolarono i suoi. Non ci fermammo davanti a niente. Dopo, commentando l’impresa – com’era sua abitudine –, considerò che era stato il piú intimo dei nostri momenti intimi. Come dargli torto. Quando ci alzammo per vestirci si asciugò le ascelle con la camicetta bianca che portavo prima e mi chiese quale dei miei bei vestiti avrei indossato per la cena. Scelse lui, quello nero. Disse che gli faceva tantissimo piacere sapere che pur cenando con qualcun altro avrei rimuginato su quello che avevamo fatto noi. Una moglie, il lavoro, il mondo potevano anche separarci, ma nel pensiero eravamo legati.


– Ti penserò, – dissi.


– Anch’io.


Non fu nemmeno tanto triste separarci.


Tempo dopo ebbi quello che si può definire soltanto un sogno nel sogno. Stavo uscendo dal torpore, cercando di svegliarmi, asciugandomi la saliva sulla federa, quando sentii qualcosa tirarmi, un peso enorme che mi inchiodava al letto, e pensai: sono diventata invalida. Ho perso l’uso degli arti, ecco perché da mesi mi sento fiacca e ho voglia di prendere il tè e guardare fuori dalla finestra e basta. Sono paralizzata. Dappertutto. Non riesco a muovere nemmeno la bocca. Soltanto il cervello funziona ancora. Il cervello mi dice che la signora che sta stirando al piano di sotto è l’unica in grado di trovarmi, ma potrebbe non salire quassú per giorni, potrebbe pensare che sono a letto con un uomo, a peccare. A volte mi capita di dormire con un uomo, anche se di solito dormo da sola. Lascerà i vestiti stirati sul tavolo della cucina e il ferro in verticale sul pavimento per evitare che bruci qualcosa. Le camicette saranno appese alle grucce, le ruche dei colletti bianche e soffici come schiuma. È tipo da stirare perfino le punte e i calcagni delle calze di nylon, lei. Se ne andrà in silenzio e tornerà, come previsto, giovedí prossimo. Sento qualcosa dietro la schiena, per essere precisi strattona il copriletto che mi sono tirata su per la schiena per coprirmi la testa. Per ripararmi. E adesso so che non è l’invalidità a inchiodarmi al letto bensí un uomo. Come ha fatto a entrare? È in camera, vicino al muro. So che cosa sta per farmi, e la signora al piano di sotto non mi verrà mai a salvare, si vergogna troppo o forse non pensa che voglio essere salvata. Non so qual è dei tanti, se è il marcantonio grande e grosso che mi ritrovo di fronte ogni volta che apro ingenuamente la porta convinta che sia il ragazzo della tintoria e invece c’è Lui, con un vecchio coltello da scalco nero, la lama che scintilla perché l’ha appena affilata su un gradino. Vorrei urlare ma la lingua non è piú mia. O potrebbe essere l’Altro. Un colosso anche lui, mi afferra per il braccialetto mentre mi infilo tra i sostegni del corrimano. Ho dimenticato che non sono piú una bambina e non mi riesce facile infilarmi tra i sostegni del corrimano. Se il braccialetto si fosse spezzato sarei riuscita a scappare, lasciandolo con mezzo braccialetto d’oro in mano, invece, siccome è di nove carati, mia madre che, accidenti a lei, è cosí previdente ci ha fatto mettere una catenella di sicurezza. Fatto sta che è nel letto. Andrà per le lunghe, la cosa che vuole. Non oso girarmi a guardarlo. Poi una certa gentilezza nell’abbassare il lenzuolo mi fa capire che potrebbe essere Quello Nuovo. L’uomo che ho conosciuto qualche settimana fa. Non è affatto il mio tipo, con le venuzze rotte sulle guance e i capelli rossi, ma proprio rossi. Eravamo su una pelle di capra. Sollevata da terra però, alta come un letto. Durante l’amore avevo fatto quasi tutto io; seno, mani, bocca, tutto smaniava di soddisfarlo. Mi sentivo sicura, non mi ero mai sentita cosí sicura della validità di quello che facevo. Poi ha cominciato a baciarmi là sotto e sono venuta sulla lingua che mi leccava e avevo la sua testa sotto le natiche e mi sembrava di partorirlo, solo che provavo piacere anziché dolore. Si fidava di me. Eravamo due persone, nel senso che non mi stava sopra, non mi soffocava, non faceva cose che non vedevo. Vedevo. Volendo avrei potuto cacargli su quei capelli rossi. Si fidava di me. Ha trattenuto lo sburro fino all’ultimo. E tutte le cose che avevo amato fino a quel momento, come il vetro o le bugie, gli specchi e le piume, e i bottoni di madreperla, la seta e i salici piangenti, sono passate in secondo piano rispetto a quello che aveva fatto lui. Era steso in modo che potessi vederlo: cosí delicato, cosí magro, con un mucchio di vene azzurre preoccupate lungo i fianchi. Parlargli è stato come parlare con un bambino. La luce nella stanza era un bagliore bianco. Mi aveva ammorbidita e fatta bagnare molto perciò me lo sono messo dentro. È stato rapido, duro, energico, e lui ha detto: «Non sto pensando a te, adesso, a te ci abbiamo già pensato», e io ho detto che aveva ragione e che quella brutalità mi piaceva. Ho detto cosí. Non ero piú un’ipocrita, non ero piú una bugiarda. In precedenza mi aveva rimproverato spesso, aveva detto: «Ci sono parole che fra noi non useremo, parole come: “Scusa”, oppure: “Hai fame?”» Parole che io avevo usato tantissimo. Perciò dal delicato scivolare del copriletto, piú simile a una richiesta, in effetti, penso che potrebbe essere lui, e se è vero voglio affondare giú giú nel pozzo caldo, scuro e sonnolento di questo letto e restarci per sempre, venendo insieme a lui. Ma non guardo per la paura che non sia Lui ma Uno degli Altri.


Quando finalmente mi svegliai ero in preda al panico e avevo un bisogno terribile di telefonargli, solo che, anche se non me l’aveva mai davvero vietato, sapevo che gli avrebbe dato molto fastidio.


Quando una cosa è stata perfetta, come il nostro incontro alla luce della stufa, si tende a cercare disperatamente di ripeterla. Purtroppo l’occasione successiva fu velata di mestizia. Si presentò nel pomeriggio con una valigia piena di tutto l’occorrente per una cena di gala a cui avrebbe partecipato quella sera. All’arrivo mi chiese se poteva appendere il frac, per evitare che si stropicciasse. Attaccò la gruccia al bordo esterno dell’armadio e ricordo che rimasi colpita dalla fila di medaglie al valore militare che correva lungo il taschino. La parentesi a letto fu piacevole ma veloce. Aveva fretta di vestirsi. Io rimasi seduta a guardarlo. Volevo chiedergli delle medaglie e di come se l’era guadagnate, se si ricordava della guerra, se all’epoca gli era mancata la moglie di allora, se aveva ucciso qualcuno e se gli capitava ancora di sognarlo. Ma non gli chiesi niente. Rimasi lí seduta come paralizzata.


– Niente bretelle, – disse reggendosi i larghi pantaloni neri per la vita. Agli altri doveva avere la cintura.


– Vado a prendertene un paio da Woolworth, – dissi. Ma non era il caso, già cosí rischiava di fare tardi. Presi una spilla da balia e glieli appuntai dietro la vita. Un’operazione non semplice perché la spilla non era abbastanza robusta.


– Me la riporti? – dissi. Non regalo mai le spille da balia, sono superstiziosa. Ci mise un po’ a rispondere perché stava imprecando a mezza bocca. Non ce l’aveva con me. Ce l’aveva con quel colletto inamidato di una rigidità disumana in cui i bottoncini dorati non volevano saperne di infilarsi. Ci provai io. Ci provò lui. Ogni volta che uno dei due non ci riusciva, l’altro si spazientiva. Disse che a furia di provarci l’avremmo imbrattato tutto con le mani. Il che sarebbe stato peggio. Pensai a quanto dovevano essere criticoni i suoi commensali, ma ovviamente mi guardai bene dal dirlo. Alla fine riuscimmo a infilare un bottoncino ciascuno e lui per festeggiare mandò giú un sorsetto di whiskey. Il farfallino fu un’altra impresa. Lui non riuscí ad annodarlo. Io non osai nemmeno provarci.


– Non l’hai mai annodato? – chiesi. Immagino che glielo avessero sempre annodato le mogli, in successione. Mi sentii una vera stupida. Poi, un grumo di odio. Pensai a quant’erano orribili quelle gambe rosa, a quant’era ributtante la forma del corpo, senza nemmeno l’accenno della vita, a quant’erano falsi quegli occhi che si congratularono con lui allo specchio quando riuscí ad abbozzare una specie di farfallino. Quando si mise la giacca, il tintinnio delle medaglie mi diede lo spunto per un commento su quella musica. C’era ben poco da dire. Per ultima mise una sciarpa di seta bianca che gli scendeva oltre la vita. Sembrava uno che non conoscevo. Uscí in fretta e furia. Io corsi in strada con lui per aiutarlo a trovare un taxi, e stargli dietro e chiacchierare non era semplice. Ricordo soltanto l’immagine spettrale della sciarpa bianchissima che dondolava mentre correvamo. Le scarpe, che erano di pelle lucida, facevano uno sgradevole cigolio.


– È una cena fra maschi? – chiesi.


– No. È mista, – rispose.


Ecco il perché di tanta fretta. Aveva appuntamento con la moglie da qualche parte. L’odio cominciò a crescere.


Mi riportò la spilla da balia, ma la superstizione rimase, perché sul davanzale avevo trovato quattro spilli con la capocchia nera rotonda caduti dalla sua camicia nuova. Non volle riprenderseli. Non era superstizioso, lui.


I brutti momenti, come quelli belli, tendono a coalizzarsi, e quando penso a quella vestizione penso anche a un’altra circostanza che non ci vide in totale accordo. Eravamo per strada; stavamo cercando un ristorante. Ci era toccato uscire perché un’amica era venuta a stare da me e ci avrebbe imposto la sua compagnia. Mentre camminavamo – era ottobre e tirava molto vento – capii che era arrabbiato perché per colpa mia dovevamo stare fuori al freddo e non potevamo abbracciarci. Avevo i tacchi altissimi e mi vergognavo del rumore vuoto che facevano. In un certo senso capii che eravamo nemici. Lui guardava le vetrate dei ristoranti per vedere se c’era qualcuno che conosceva. Ne scartò due per motivi noti soltanto a lui. Uno sembrava molto grazioso. Aveva le lampadine arancioni incastonate nei muri con piccole grate di ferro quadrate che filtravano la luce. Attraversammo la strada per guardare i locali sul marciapiede di fronte. Vidi un gruppo di teppistelli venirci incontro e, tanto per dire qualcosa – tra i miei tacchi aggressivi, il vento, il traffico e quell’orribile via che non aveva niente di romantico eravamo rimasti a corto di argomenti piacevoli –, chiesi se l’avesse mai innervosito incontrare gruppi rumorosi come quello di sera tardi. Lui disse che giusto qualche sera prima tornando a casa a piedi molto tardi aveva visto un gruppo simile andargli incontro e, prima ancora di sentire la paura, si era accorto di aver allargato il mazzo di chiavi infilandoci in mezzo le dita e di essere pronto a sfilare di tasca la mano, armata delle punte acuminate delle chiavi, se per caso l’avessero minacciato. Mi sa che mentre parlavamo stava facendo la stessa cosa. Strano, ma non mi sentivo protetta da lui. Sentivo solo che eravamo due persone, che al mondo c’erano problemi, violenze, malattie, catastrofi che lui affrontava in un modo e io affrontavo – o, per essere precisi, rifuggivo – in un altro. Mentre ero assorta in quel pensiero malinconico il gruppo ci sfilò accanto e le mie congetture sulla violenza si rivelarono inutili. Trovammo un bel ristorante e bevemmo tantissimo vino.


Dopo, l’amore fu, al solito, perfetto. Lui si trattenne la notte. Mi sentivo molto privilegiata quando si tratteneva la notte e gli unici piccoli spasmi d’ansia che minavano la mia gioia nascevano dal timore che avesse detto alla moglie che era in un certo albergo e che lei telefonando non lo trovasse. Spesso davo libero sfogo alla fantasia e immaginavo che lei ci scoprisse, immaginavo di restare in un signorile silenzio mentre lui le diceva con grande freddezza di aspettare fuori che si rivestisse. Lei non mi faceva nessuna pena. Certe volte mi chiedevo se ci saremmo mai incontrate o se non ci fossimo già incontrate su qualche scala mobile. Ma era improbabile, visto che abitiamo ai poli opposti di Londra.


Poi, con mia grande sorpresa, si presentò l’occasione. Mi invitarono a una festa per il Ringraziamento organizzata da una rivista americana. Lui vide l’invito sulla mensola del camino e disse: – Ci vai anche tu? – e io sorrisi dicendo forse. E lui? – Sí, – disse. Cercò di convincermi a decidere su due piedi, ma non mi lasciai incantare. Certo che ci sarei andata. Ero curiosa di vedere sua moglie. Avrei incontrato lui in pubblico. Mi sconvolgeva pensare che non ci eravamo mai incontrati in compagnia di altre persone. Era come essere una reclusa… un piccolo animale sotto chiave. Pensai distintamente a un furetto che quand’ero piccola un guardaboschi teneva dentro una cassa di legno con la sommità scorrevole, e a un altro furetto che una volta aveva portato per farli accoppiare. Quel pensiero mi diede i brividi. Nel senso che mi si confusero le idee: pensai ai furetti bianchi con le piccole narici rosa e allo stesso tempo pensai a lui che ogni tanto faceva scorrere una porta e si infilava dentro la mia cassa. Il rosa abbondava sulla sua pelle.


– Non ho ancora deciso, – dissi, ma il giorno prestabilito ci andai. Curai tantissimo l’aspetto, mi feci acconciare i capelli e indossai una tenuta verginale. Bianca e nera. La festa si teneva in una grande sala con le pareti rivestite di legno marrone; a tutti i pannelli erano affisse le copertine ingrandite della rivista. Il bar era sul fondo, sotto una balconata. A colpo d’occhio sembrava che i baristi vestiti di bianco fossero rattrappiti e persi sotto la rupe di quella balconata che pareva pronta a crollargli addosso. Mai visto una sala meno adatta a una festa. Alcune donne si aggiravano con i vassoi ma mi toccò andare al bar perché su quei vassoi c’era lo champagne e io preferisco il whiskey. Mi accompagnò uno che conoscevo e durante il tragitto un altro mi stampò un bacio sulla schiena. Mi augurai che lui se ne fosse accorto, anche se in quella sala enorme con centinaia di persone non riuscivo a immaginare dove fosse. Notai un vestito che mi piaceva molto, un vestito malva con le maniche ampissime lavorate all’uncinetto. Facendo salire lo sguardo lungo le maniche vidi gli occhi della proprietaria puntati su di me. Forse le piaceva la mia mise. Capita, quando si hanno gli stessi gusti. Non ho idea di come fosse il suo viso ma dopo, quando chiesi a un’amica quale fosse la moglie di lui, indicò la donna con le maniche lavorate all’uncinetto. La seconda volta la vidi di profilo. Non so tuttora come sia, né gli occhi che guardai evocano qualcosa di speciale nel ricordo se non, forse, una vaga cupidigia.


Alla fine andai a cercarlo. Mi feci accompagnare da un amico comune che finse di presentarci. Lui era scostante. Sembrava strano, il rossore che gli colorava le guance era acceso e innaturale. Parlò con l’amico comune e in pratica mi ignorò. Forse per rimediare mi chiese, dopo tanto, se mi divertivo.


– Questa sala è gelida, – dissi. Ovviamente mi riferivo al suo atteggiamento. Volendo definire la sala avrei usato l’aggettivo «tetro» o qualcosa di simile.


– Non so da dove le viene questa sensazione di gelo, io non ce l’ho, – disse in tono aggressivo. Poi una tizia molto ubriaca con un vestito a sacchetto venne a prenderlo per mano e cominciò a sbavargli addosso. Chiesi scusa e me ne andai. Lui disse senza mezzi termini che sperava di rivedermi.


Andando via dalla festa incrociai il suo sguardo e provai non solo dispiacere per lui ma anche rabbia. Sembrava attonito, come se gli avessero appena comunicato una notizia importante. Mi vide uscire con un gruppo di persone e io lo fissai senza l’accenno di un sorriso. Ebbene sí, mi dispiaceva per lui. Ero anche seccata. Ci vedemmo il giorno dopo, e quando sollevai l’argomento lui non si ricordava nemmeno che un amico comune ci avesse presentati.


– Clement Hastings! – disse, ripetendone il nome. Il che dimostra quanto fosse nervoso.


È impossibile sostenere che le brutte notizie, se comunicate in un certo modo e in un certo momento, hanno un effetto meno disastroso. Io però sono convinta che lui mi abbia dato il benservito nel momento sbagliato. Tanto per cominciare, era mattina. Suonò la sveglia e mi sollevai a sedere chiedendomi quando lui l’avesse messa. Era già in piedi e stava provvedendo a spegnerla.


– Scusami, cara, – disse.


– L’hai messa tu? – dissi, indignata. Sapeva di tradimento, come se avesse voluto svignarsela senza salutare.


– Pare proprio di sí, – disse. Mi abbracciò e ci stendemmo di nuovo. Fuori era buio e c’era una sensazione – ma forse esiste soltanto nel ricordo – di ghiaccio.


– Complimenti, oggi ritirerai il premio, – bisbigliò. Avrei ricevuto un premio come annunciatrice.


– Grazie, – dissi. Mi vergognavo di quel premio. Mi ricordava di quando a scuola primeggiavo sempre in tutto, provando un senso di colpa che però non bastava a farmi abbassare le ali.


– Che bello, ti sei fermato tutta la notte, – dissi. Lo accarezzavo ovunque. A letto non stavo mai ferma con le mani. Sveglia o addormentata, era un continuo accarezzarlo. Non per eccitarlo, semplicemente per rassicurarlo e consolarlo e forse per consolidare il mio diritto di proprietà. Trovo che ci sia un che di terapeutico nel tenersi strette le cose. Tengo per ore pietre lisce nel palmo della mano oppure impugno i lati di una poltrona e dopo mi sento meglio. Mi baciò. Disse di non aver mai conosciuto una persona piú dolce e premurosa. Io, incoraggiata, mi dedicai a una cosa molto intima. Sentivo i suoi sospiri di piacere, gli «oh, oh» goduti quando si abbandonava dicendosi allo stesso tempo che non doveva. Sulle prime non mi accorsi che stava parlando.


– Ehi, – disse in tono scherzoso, come se niente fosse. – Lo sai che cosí non può andare avanti –. Pensavo che si riferisse all’attività del momento, perché il tempo stringeva e lui doveva scappare. Poi sollevai la testa che tenevo affondata fra le sue gambe e lo guardai attraverso i capelli che mi erano ricaduti sul viso. Vidi che era serio.


– Mi sono appena reso conto che forse mi ami, – disse. Annuii e spinsi indietro i capelli per dargli modo di leggere l’attestazione che avevo scritta chiara in faccia. Mi fece stendere in modo da accostare la testa alla mia e cominciò:


– Ti adoro, ma non sono innamorato di te; con i miei impegni non credo che potrei innamorarmi di qualcuno, all’inizio l’ho presa alla leggera… – Quelle ultime parole mi offesero. Io non la vedevo né la ricordavo cosí: tutti i telegrammi che mi aveva mandato con scritto: «Muoio dalla voglia di vederti», oppure: «Che il sole risplenda su di te», i primissimi istanti a ogni incontro, quando eravamo sopraffatti dalla passione, dalla timidezza e dallo shock di essere cosí turbati dalla presenza dell’altro. Avevamo perfino cercato sul dizionario le parole per esprimere il modo unico in cui consideravamo l’altro. Lui aveva scelto «incensare», che significa adorare o coprire con il profumo dell’amore. Era la parola perfetta e la usavamo di continuo. Adesso rinnegava tutto. Parlava di inglobarmi nella sua vita, nella sua vita familiare… di farmi diventare un’amica. Anche se lo disse con poca convinzione. A me non veniva in mente una sola cosa da dire. Sapevo che se avessi aperto bocca avrei fatto una figura penosa, perciò rimasi in silenzio. Quando tacque fissai la fessura tra le due tende dritto davanti a me e, guardando il raggio di cruda luce che filtrava, dissi: – Mi sa che fuori c’è il ghiaccio, – e lui disse che era possibile, visto che era pieno inverno. Ci alzammo e lui come al solito tolse la lampadina dall’abat-jour sul comodino e infilò la spina del rasoio. Io andai a preparare la colazione. Fu l’unica mattina in cui dimenticai di fargli la spremuta d’arancia e spesso mi chiedo se lui l’abbia preso per un affronto. Se ne andò poco prima delle nove.


Il soggiorno serbava le tracce della sua presenza. O, per essere precisi, gli avanzi dei suoi sigari. In uno dei portacenere azzurri a forma di piattino c’erano grossi stronzi di cenere di sigaro grigio scuro. C’erano anche i mozziconi, ma erano i pezzi di cenere che continuavo a guardare, pensando che la loro grossezza mi ricordava quella delle sue brutte gambe. E ancora una volta lo odiai. Stavo per svuotare il portacenere nel camino quando qualcosa mi trattenne e invece presi una scatoletta di metallo e, aiutandomi con un foglio di carta, misi dentro i pezzi di cenere e portai la scatoletta di sopra. Gli stronzi spostandosi si disfecero e, anche se mi avevano ricordato le sue gambe, adesso erano una massa informe di cenere grigio scuro, simili probabilmente alle ceneri dei morti. Misi la scatoletta in un cassetto sotto alcuni indumenti.


Piú tardi mi diedero il premio: una grossa medaglia d’argento con su scritto il mio nome. Alla festa che seguí mi ubriacai. Gli amici mi dicono che non feci una figura proprio pessima, ma io ho il ricordo umiliante di aver cominciato a raccontare una storia che poi non riuscii a finire, non perché me ne sfuggisse il contenuto ma perché era troppo difficile pronunciare le parole. Un tizio mi accompagnò a casa e dopo avergli offerto una tazza di tè lo misi fin troppo pudicamente alla porta; dopodiché mi avviai barcollando verso il letto. Dormo male quando alzo il gomito. Mi svegliai che era ancora buio e mi tornò subito in mente l’intuizione del ghiaccio all’esterno la mattina prima e le sue parole fredde e ammonitrici. Mi vidi costretta a dargli ragione. Anche se i nostri incontri erano perfetti, avevo la sensazione che incombesse una minaccia, che fra noi si andasse spalancando un abisso, che qualcuno lo dicesse a sua moglie, che l’amore si guastasse, che andasse tutto in malora. E dire che ancora non ci eravamo spinti fin dove avremmo dovuto. C’erano vette di gioia e del suo contrario ancora da scalare, ma il tempo era scaduto. Lui, ovvio, aveva detto: «Fisicamente mi attiri ancora tantissimo», e questo, a suo modo, l’avevo trovato umiliante. Fare ancora l’amore dopo che mi aveva scaricato sarebbe stato disgustoso. Era finita. Continuavo a pensare a una viola nel bosco che a tempo debito appassisce e muore. Il ghiaccio doveva esercitare un influsso sui miei pensieri, o meglio, sulle mie riflessioni. Mi alzai e indossai una vestaglia. La sbronza mi aveva lasciato un gran mal di testa ma ero determinata e sapevo che dovevo approfittarne per scrivergli. Conosco le mie debolezze e sapevo che entro la fine della giornata mi sarebbe venuta voglia di rivederlo, di stare con lui, di riconquistarlo con la dolcezza e con la mia impotenza disarmante.


Scrissi una lettera tralasciando la parte sulla viola. Sono cose che messe per iscritto ti fanno sembrare stravagante. Dissi che se non riteneva prudente vedermi, evitasse pure di farlo. Dissi che era stata una piacevole parentesi e che dovevamo conservare un bel ricordo. Era una lettera controllatissima. Lui rispose subito. La mia decisione arrivava come una doccia fredda, disse. Però doveva ammettere che avevo ragione. A metà lettera diceva di dover sfondare una breccia nella mia compostezza e ammettere che malgrado tutto mi amava e mi avrebbe sempre amato. Ecco la parolina che andavo cercando da mesi. Serví a darmi il la. Gli scrissi una lunga lettera in risposta. Persi la testa. Straparlai. Professai di amarlo, di aver trascorso quei giorni sull’orlo della follia, di sperare in un miracolo.


Fortuna che non mi addentrai nel merito del miracolo, che probabilmente è, o era, abbastanza disumano. Riguardava la sua famiglia.


Lui tornava dal funerale della moglie e dei figli con il frac nero. Aveva anche la sciarpa di seta bianca che gli avevo già visto e all’occhiello portava un tetro tulipano nero. Vedendolo venire verso di me gli strappavo il tulipano nero e lo sostituivo con un narciso bianco e lui mi metteva la sciarpa intorno al collo e mi attirava a sé reggendola per le frange. Io continuavo a muovere il collo dentro l’abbraccio della sciarpa. Poi ballavamo divinamente su un pavimento di legno che era bianco e scivoloso. Ogni tanto pensavo che saremmo caduti, ma lui diceva: «Non preoccuparti, ci sono qua io». Il pavimento era anche una strada che ci stava portando in un posto bellissimo.


Aspettai per settimane una risposta alla mia lettera, che non arrivò. Portai piú volte la mano al telefono ma una specie di prudenza, sensazione che mi era del tutto nuova, nei recessi della mente mi esortava ad aspettare. A dargli tempo. A lasciare che il pentimento s’impossessasse del suo cuore. A lasciarlo tornare di sua spontanea volontà. Poi mi prese il panico. Pensai che la lettera fosse andata persa o fosse finita nelle mani sbagliate. Naturalmente l’avevo spedita all’ufficio di Lincoln’s Inn dove lui lavorava. Ne scrissi un’altra. Stavolta era un biglietto formale al quale acclusi una cartolina con le parole SÍ e NO. Gli chiesi, se aveva ricevuto la mia lettera precedente, di essere cosí gentile da farmelo sapere cancellando la parola errata e di rispedirmela. Tornò con il NO cancellato. Nient’altro. Dunque l’aveva ricevuta. Rimasi a guardare quella cartolina per ore. Non riuscivo a smettere di tremare e per calmarmi scolai vari bicchieri. C’era un che di tremendamente brutale in quella cartolina, ma del resto va detto che affrontando la situazione in quel modo me l’ero cercata. Tirai fuori la scatola con dentro le sue ceneri e ci piansi sopra, combattuta fra il desiderio di buttarla dalla finestra e di conservarla per sempre.


Assunsi un atteggiamento in linea di massima molto strano. Telefonai a una che lo conosceva e di punto in bianco le chiesi a suo parere che hobby poteva avere lui. Mi rispose che suonava l’armonium, e la notizia mi risultò intollerabile. Poi entrai in una zona grigia e il terzo giorno persi il controllo.


A furia di non dormire e prendere stimolanti e whiskey mi ridussi a uno straccio. Tremavo dalla testa ai piedi e avevo l’affanno, neanche avessi assistito a un incidente. Guardai dalla finestra della camera da letto, che è al secondo piano, il cemento sottostante. Le uniche piante ancora in fiore erano le ortensie, e sbiadendo avevano preso un delicato color ruggine molto piú grazioso del rosa stridulo che avevano avuto per tutta l’estate. Le fucsie del giardino accanto avevano un cappello di ghiaccio. Guardai prima le ortensie e poi le fucsie cercando di valutare come sarebbe andata se mi fossi buttata di sotto. Mi chiesi se il dislivello fosse sufficiente. Immaginai che con la mia malagrazia sarei riuscita tutt’al piú a procurarmi qualche danno irreversibile, il che sarebbe stato peggio perché mi avrebbe inchiodato al letto imprigionandomi in quegli stessi pensieri che mi stavano portando alla disperazione. Aprii la finestra e mi sporsi, ma mi ritrassi subito. Mi era venuta un’idea migliore. Al pianterreno c’era un idraulico che stava installando il riscaldamento centralizzato, impresa in cui mi ero imbarcata da quando il mio amante aveva cominciato a venire regolarmente a casa mia e avevamo scoperto che ci piaceva girare nudi mangiando panini e ascoltando i dischi. Decisi di uccidermi con il gas e di ricorrere all’aiuto dell’idraulico per farlo come si deve. Sapevo – doveva avermelo detto qualcuno – che a un certo punto, nel pieno dell’operazione, ci si pente e si cerca di tornare indietro ma non si può. Una nota tragica in piú che preferivo risparmiarmi. Perciò decisi di andare di sotto e di spiegare all’idraulico che volevo davvero morire, che non glielo dicevo perché me lo impedisse o mi consolasse, che non cercavo pietà – in certi momenti la pietà non serve a niente – e che volevo soltanto la sua assistenza. Poteva mostrarmi come si faceva, sistemarmi e – questo sí che è assurdo – provvedere per qualche ora a rispondere al telefono e ad aprire la porta. E anche a sbarazzarsi del cadavere in modo dignitoso. Questo volevo, al di sopra di tutto. Decisi perfino come mi sarei vestita: un abito lungo che, guarda caso, aveva lo stesso colore delle ortensie nella fase ruggine e che avevo indossato giusto per qualche servizio fotografico o in televisione. Prima di scendere al piano di sotto scrissi un biglietto che diceva semplicemente: «Mi suicido per mancanza di intelligenza e perché non so né ho imparato a vivere».


Mi giudicherete spietata a non aver considerato l’esistenza dei miei figli. In realtà non è vero. Molto prima che cominciasse quella storia ero arrivata alla conclusione che il collegio li aveva separati irrevocabilmente da me. Se preferite, avevo la sensazione di averli abbandonati anni prima. Pensavo, ed era un’ammissione fuori da isterismi, che nella loro vita cambiava poco se io ero viva o no. Va detto che non li vedevo da un mese ed è sconvolgente come l’assenza, pur non attenuando l’amore, plachi il bisogno fisico di chi amiamo. Dovevano tornare per le vacanze di metà anno proprio quel giorno ma, siccome toccava al padre tenerli, sapevo che li avrei visti un solo pomeriggio per qualche ora. E in quello stato di prostrazione mi sembrava peggio che non vederli affatto.


Inutile dire che quando scesi di sotto l’idraulico mi diede un’occhiata e disse: – Qui ci vuole una bella tazza di tè –. L’aveva preparato per davvero. Accettai e rimasi lí a scaldarmi le mani da bambina intorno al cilindro della tazza marrone. Ricordai in un lampo il mio amante che a letto misurava le nostre mani dicendo che le mie non erano piú grandi di quelle di sua figlia. E poi ecco un altro ricordo meno edificante sulle mani. Era la volta che, quando ci incontrammo, lui era visibilmente sconvolto perché aveva schiacciato le mani di quella stessa figlia nello sportello della macchina. Le dita non si erano rotte ma erano tutte ammaccate e lui era dispiaciutissimo e si augurava che la figlia lo perdonasse. Sentendo quella storia mi ero subito affrettata a dirgli che io una volta nello sportello di una Jaguar ci avevo quasi lasciato le dita. Osservazione inutile, anche se un ascoltatore ne avrebbe dedotto che ero una ragazzina vanitosa e senza cuore. Mi sarebbe dispiaciuto per qualunque bambina si fosse schiacciata le dita nella portiera di una macchina, ma in quel momento era un tentativo di richiamarlo a un mondo segreto tutto nostro. Forse è una delle cose che mi ha sminuito ai suoi occhi. Forse è stato allora che ha deciso di troncare i rapporti. Stavo per raccontarlo all’idraulico, per metterlo in guardia dal cosiddetto amore che spesso indurisce il cuore ma che, al pari delle viole, può fare una brutta fine sprofondando due persone in uno sconcerto mortale. Il tè era zuccherato e lo trovai stomachevole.


– Mi serve il suo aiuto, – dissi.


– Basta chiedere, – disse lui. Era prevedibile. Eravamo amici. Avrebbe fatto un impianto raffinatissimo. Quell’impianto sarebbero stato una piccola opera d’arte e il colore dei termosifoni si sarebbe armonizzato con quello delle pareti.


– Lei pensa che li dipingerò di bianco, invece sarà un avorio chiaro, – disse. Il bianco sulle pareti della cucina era un po’ ingiallito.


– Mi voglio ammazzare, – dissi.


– Dio santo, – disse, e scoppiò a ridere. L’aveva sempre saputo che ero un tipo melodrammatico. Poi mi guardò in faccia e capí come stavano le cose. Tanto per cominciare non controllavo il respiro. Mi prese sottobraccio e mi portò in soggiorno, dove ci facemmo un goccetto. Sapevo che non era tipo da disdegnare un goccetto e pensai: «Non tutti i mali vengono per nuocere». La cosa esasperante era che continuavo ad avere i pensieri di una persona viva. Disse che i motivi per vivere non mi mancavano. – Una ragazza giovane come lei, con la gente che le chiede l’autografo, una bella macchina nuova, – disse.


– È tutto… – annaspai in cerca della parola. Volevo dire «inutile», invece venne fuori «crudele».


– E i suoi figli, – disse. – Che ne sarà dei suoi figli? – Li aveva visti in fotografia, e una volta gli avevo letto la lettera di uno di loro. La parola «crudele» mi infuriava nella testa. Urlava da ogni angolo della stanza. Per evitare lo sguardo dell’idraulico abbassai gli occhi sulla manica del mio maglioncino di angora e mi diedi a staccare metodicamente i pezzetti di peluria arrotolandoli in una pallina.


Ci fu un attimo di silenzio.


– Questa è una via sfortunata. Lei è la terza, – disse.


– La terza di che cosa? – dissi, ammonticchiando industriosamente la peluria nera nel palmo.


– Una donna giú in fondo alla strada; il marito dirigeva una banda musicale e rientrava sempre tardi. Una sera è andata alla sala da ballo e l’ha visto con un’altra; è tornata a casa e l’ha fatto senza starci tanto a pensare.


– Col gas? – chiesi, sinceramente curiosa.


– No, coi sedativi, – disse, e passò a raccontare la storia di una ragazza che si era uccisa col gas ed era stato lui a trovarla perché era in casa a curare la carie del legno. – Nuda, aveva giusto un maglioncino, – disse, chiedendosi come mai fosse conciata cosí. Cambiò decisamente atteggiamento mentre ricordava che entrando in casa aveva sentito puzza di gas e aveva cercato di capire da dove venisse.


Lo guardai in faccia. Era serissimo. Aveva le palpebre pesanti. Non l’avevo mai visto cosí da vicino. – Povero Michael, – dissi. Un po’ fiacche come scuse. Stavo pensando che, se si fosse reso complice del mio suicidio, il ricordo l’avrebbe perseguitato per sempre.


– Una bella ragazza, – disse in tono mesto.


– Poveretta, – dissi, facendo appello alla pietà.


Sembrava che non ci fosse altro da aggiungere. Era riuscito a farmi vergognare. Mi alzai sforzandomi di essere normale: presi un po’ di bicchieri dal tavolino e mi diressi in cucina. Se i bicchieri sporchi sono prova di quanto si è bevuto, allora dovevo aver bevuto parecchio negli ultimi giorni.


– Bene, – disse lui, e si alzò con un sospiro. Ammise di essere soddisfatto del suo operato.


Il caso volle che quel giorno ci fosse un’altra crisi. I miei figli sarebbero dovuti tornare dal padre, ma lui telefonò per dirmi che il piú grande aveva la febbre e siccome – ma questo non lo disse – non era capace di prendersi cura di un bambino malato, si vedeva costretto a portarli da me. Arrivarono nel pomeriggio. Li aspettavo sulla soglia, il viso truccatissimo per mascherare l’angoscia. Il bambino malato aveva una coperta avvolta sul cappotto di tweed e una sciarpa del padre intorno al viso. Appena lo abbracciai si mise a piangere. Il piú piccolo girò per casa assicurandosi che tutto fosse rimasto come l’aveva lasciato. Di solito quando venivano da me li accoglievo con dei regali mentre stavolta non ci avevo pensato e loro ci rimasero un po’ male.


– Domani, – dissi.


– Perché hai le lacrime agli occhi? – chiese quello malato mentre lo svestivo.


– Perché stai male, – dissi, raccontando una mezza verità.


– Oh, mammina, – disse lui. Erano anni che non mi chiamava cosí. Mi abbracciò e ci mettemmo tutti e due a piangere. Capii che piangeva per i tanti tormenti che una famiglia divisa gli aveva fatto cadere tra capo e collo. Era strano e insoddisfacente stringerlo fra le braccia dopo che per mesi mi ero abituata alle dimensioni del mio amante, alla circonferenza delle sue spalle, all’esatta altezza del suo corpo che mi obbligava a stare sulle punte per far coincidere le nostre membra alla perfezione. Abbracciare mio figlio mi dava soltanto la consapevolezza di quanto fosse piccolo e della tenacia con cui si aggrappava.


Io e il piú piccolo ci installammo in camera da letto a fare un gioco in cui bisognava leggere domande come: «È un fiume?», «È un calciatore famoso?», poi girare una ruota finché non si fermava su una lettera e usare quella lettera come iniziale del fiume, del calciatore famoso e via dicendo, oggetto della domanda. Io ero piuttosto lenta, e anche l’ammalato. Il fratello vinse senza difficoltà, anche se gli avevo chiesto di lasciar vincere l’invalido. I bambini sono spietati.


Quando si accese il riscaldamento sobbalzammo tutti perché la caldaia, che era nel seminterrato proprio sotto di noi, fece un ribollio del diavolo con lo stesso slancio che avrei voluto avere io quella mattina quando mi ero piantata davanti alla finestra della camera da letto per provare a buttarmi di sotto. Per farmi una sorpresa e tirarmi su il morale, l’idraulico aveva chiesto rinforzi a due colleghi e fra tutti e tre avevano finito il lavoro. Cosí stavamo al caldo ed eravamo contenti, come disse quando venne in camera a riferirmelo. C’era un clima di imbarazzo. Dopo la sceneggiata di quella mattina avevo evitato di incontrarlo. All’ora del tè gli avevo perfino lasciato un vassoio con la tazza sul pianerottolo. Avrebbe raccontato in giro che gli avevo chiesto di essere il mio assassino? L’avrebbe interpretato in questi termini? Offrii da bere a lui e agli amici, che rimasero lí impacciati nella stanza dei bambini a guardare la faccia paonazza dell’ammalato dicendo che sarebbe guarito presto. Che altro potevano dire!


Io e i bambini passammo il resto della serata a fare il gioco delle domande non si sa quante volte e prima di metterli a letto lessi un racconto d’avventure. La mattina dopo avevano tutti e due la febbre. Trascorsi un paio di settimane a curarli. Preparavo litri di consommé, ci spezzavo dentro il pane e li convincevo a ingoiare quella gustosa zuppetta. Volevano essere continuamente distratti. Quando attingevo alla realtà dei fatti mi venivano in mente soltanto stralci di folclore naturalistico spigolati da un collega alla mensa televisiva. Ma, per quanto li infiorettassi, bastavano un paio di minuti per raccontarli ai miei figli: una tempesta di farfalle in Venezuela, certi animali chiamati bradipi talmente pigri che restavano appesi agli alberi fino a ricoprirsi di muschio, e i passerotti inglesi che cinguettavano in modo diverso da quelli parigini.


– Ancora, – dicevano loro. – Ancora, ancora –. Dopodiché dovevamo rifare quello stupido gioco o imbarcarci in un altro racconto d’avventure.


In quei momenti non permettevo alla mente di vagare, ma la sera, quando veniva il padre, mi ritiravo in soggiorno a bere qualcosa. Allora era un disastro. L’ozio mi portava a rimuginare; e poi la luce fioca delle mie lampade crea una penombra che stimola i ricordi. Venivo trasportata nel passato. Mi raffiguravo vari tipi di ricongiungimento con il mio amante, ma il mio preferito era un incontro inatteso in uno di quei sottopassaggi pedonali disumani e piastrellati dove ci correvamo incontro ritrovandoci davanti a una scala con la scritta (a Londra esiste davvero): SOLTANTO PER L’ISOLA CENTRALE, e ridevamo scavalcando quella scala d’un balzo, sospinti da ali miracolose. Nelle fasi meno compiaciute rimpiangevo di non aver visto con lui piú tramonti o pubblicità di sigarette o che so io, perché nel ricordo i nostri tanti incontri si risolvevano in un lungo e ininterrotto amplesso non inframmezzato da una normalità che facesse brillare le punte massime. I giorni, le notti con lui, sembravano compressi in una lunga, bellissima ma unica notte, anziché essere distribuiti nei diciassette incontri della realtà. Quelle punte massime, ahimè, non c’erano piú. Una volta ero cosí convinta che fosse entrato nella stanza da staccare uno spicchio dall’arancia che avevo appena sbucciato per offrirglielo.


Ma dall’altra stanza arrivava la voce sommessa e sicura del padre dei bambini che enunciava informazioni con la presunzione di chi enuncia dogmi, e rabbrividivo all’idea di tutto il veleno che c’era fra noi, anche se un tempo professavamo di amarci. Amore malato. Poi alcuni dei sentimenti che provavo per mio marito si trasferirono al mio amante e mi dissi che la lettera in cui lui aveva professato di amarmi era una farsa, che l’aveva scritta solo quand’era ormai convinto di essersi liberato di me ma poi, ritrovandosi di nuovo invischiato, si era tirato indietro e mi aveva mandato la cartolina. Ero diventata un’estranea ai miei stessi occhi. Traboccavo di odio. Gli augurai le peggiori umiliazioni. Escogitai perfino di partecipare a una cena dov’ero sicura che fosse invitato anche lui e di snobbarlo dall’inizio alla fine. I miei pensieri oscillavano tra l’odio e la speranza di una risoluzione finale che mettesse bene in chiaro quello che provava per me. Perfino una pubblicità vista di sfuggita sull’autobus mi rimandò immediatamente a lui. Diceva: NIENTE PANICO, CI SIAMO QUA NOI: RIPARIAMO, ADATTIAMO, RIMODELLIAMO. Era la pubblicità di qualcuno che infilava perle. Gliel’avrei fatto vedere io come si riparava.


Non saprei dire quando è cominciata, perché sarebbe troppo categorico, e in ogni caso non lo so. Ma i bambini erano tornati a scuola, Natale era passato e io e lui non ci eravamo scambiati nemmeno un biglietto d’auguri. Però avevo iniziato a pensare a lui con meno astio. In realtà erano pensieri un po’ stupidi. Speravo che gli fossero riservati piccoli piaceri come una cena al ristorante, un paio di calze pulite, il vino rosso alla temperatura che piaceva a lui e perfino… ma sí, perfino l’estasi a letto con la moglie. Pensieri che dentro di me mi facevano sorridere, un tipo di sorriso che avevo scoperto da poco. Rabbrividivo pensando al pericolo che aveva corso frequentandomi. Certo, i pensieri feriti di prima combattevano con quelli nuovi. Era come attraversare un corridoio dove infuriano gli spifferi con una candela che rischia a ogni momento di spegnersi. Pensavo contemporaneamente a lui e ai miei figli, e le piccole fisime degli uni diventavano quelle dell’altro: i miei figli che mi raccontavano complicate bugie sulle loro imprese sportive, lui che salendo le scale si sforzava di nascondere il fiatone. La differenza d’età fra noi doveva essergli pesata. È stato allora, credo, che mi sono innamorata veramente di lui. Il suo corteggiamento, i telegrammi, la dipartita, perfino il sesso non erano niente in confronto a quella nuova sensazione. Montava come linfa dentro di me, spesso piangevo perché lui non poteva beneficiarne! La tentazione di telefonargli si era spenta.


La sua telefonata fu un fulmine a ciel sereno. Di solito lasciavo squillare il telefono senza rispondere, e fui tentata di farlo anche quella volta. Chiese se potevamo vederci, se, e lo disse con estrema dolcezza, avevo i nervi abbastanza saldi. Dissi che i miei nervi non erano mai stati meglio. Era una libertà che dovevo concedermi. Prendemmo un tè al bar. Brindammo. Come all’inizio. Mi chiese come stavo. Disse che avevo un bel colorito. Nessuno dei due accennò all’episodio della cartolina. Né gli chiesi quale impulso l’avesse spinto a telefonarmi. Forse non era stato un impulso. Parlò del suo lavoro e di quanto l’avesse impegnato, poi mi raccontò di aver accompagnato una vecchia zia a sbrigare una commissione in macchina guidando cosí piano che lei gli aveva chiesto il favore di sbrigarsi perché a piedi ci avrebbe messo di meno.


– Sei guarita, – disse, cosí, all’improvviso. Lo guardai dritto in faccia. Capii le sue intenzioni.


– È passata, – dissi, e affondai il dito nella zuccheriera per fargli leccare i cristalli bianchi dalla punta. Poverino. Non potevo dirgli di piú, non avrebbe capito. In un certo senso mi sembrava di stare con un altro. Non era quello che aveva ripiegato il copriletto, mi aveva succhiato fino all’osso e mi aveva lasciato le ceneri di sigaro da conservare. Era la sua controfigura.


– Vediamoci ogni tanto, – disse.


– Come no –. Dovevo avere un’aria poco convinta.


– Magari non ti va.


– Tutte le volte che vuoi –. L’idea non mi entusiasmava né mi spaventava. I miei sentimenti non sarebbero cambiati di una virgola. Mi resi conto per la prima volta che per tutta la vita avevo temuto di restare prigioniera: nella cella di un convento, in un letto d’ospedale, in luoghi dove ti confronti con te stesso senza distrazioni, senza gli altri a fare da stampella; ma mentre stavo lí seduta a imboccarlo con lo zucchero, pensai: «Adesso sí che sono entrata in una cella, e quest’uomo non può sapere che cosa significhi per me amarlo come lo amo, e io non posso scaricargli addosso questo peso, perché lui è in un’altra cella alle prese con altre difficoltà».


La cella mi fece pensare a un convento e, tanto per dire qualcosa, accennai a mia sorella, che era suora.


– Sono andata a trovare mia sorella.


– Come sta? – chiese. Mi domandava spesso di lei. Lo incuriosiva, mi chiedeva com’era fisicamente. Mi ero fatta perfino l’idea che fantasticasse di sedurla.


– Bene, – dissi. – Mentre percorrevamo un corridoio mi ha chiesto di dare un’occhiata in giro per assicurarmi che non ci fossero altre suore in circolazione, poi si è tirata su le gonne e ha sceso la rampa di scale scivolando col sedere sul corrimano.


– Che simpatica, – disse. Quella storia gli piacque. Traeva un enorme piacere dalle piccole cose.


Fu bello prendere quel tè. Fu uno dei pomeriggi meno infruttuosi che passavo da mesi, e all’uscita lui mi afferrò per il braccio e disse che sarebbe stato perfetto poter evadere qualche giorno. Forse lo pensava davvero.


In effetti abbiamo mantenuto la promessa. Ogni tanto ci vediamo. Diciamo che le cose sono tornate alla normalità. Per normalità intendo una condizione che mi permette di notare la luna, gli alberi, lo sputo fresco sul marciapiede; guardo gli estranei e riconosco nella loro espressione una traccia del mio disagio; faccio parte della quotidianità, ecco. In camera mia c’è una lampada che emette un crepitio secco ogni volta che passa un treno elettrico, e la notte conto i crepitii perché è allora che viene lui. Quello vero, dico, non l’uomo che ogni tanto mi siede davanti al tavolino di un bar, ma l’uomo che ha preso dimora dentro di me. Si leva davanti ai miei occhi: le mani oranti, la lingua a cui piaceva succhiare, gli occhi mascalzoni, il sorriso, le vene sulle guance, la voce pacata che mi parla con giudizio. Vi chiederete come mai mi tormento cosí con i particolari della sua presenza, ma ne ho bisogno, non posso lasciarlo andare adesso perché, se lo facessi, tutta la nostra felicità e il dolore che ha provocato in me – per lui non posso garantire – non sarebbero serviti a niente, e aggrapparsi al niente è spaventoso.

mercoledì 28 maggio 2025

LA NOSTRA BARRICATA CONTRO L'ANTISEMITISMO Filippo Piperno



LA NOSTRA BARRICATA CONTRO L'ANTISEMITISMO 
Filippo Piperno
La nostra barricata contro l’antisemitismo che non accetta patenti da nessuno
 
Benjamin Netanyahu avrebbe dovuto dimettersi alle prime luci dell’alba dell’8 ottobre 2023.

Perché, in qualità di primo ministro d’Israele, aveva (ha ed avrà per sempre) la responsabilità oggettiva di aver mancato nell’unico vera missione per cui lo Stato d’Israele è nato: proteggere l’incolumità e la vita degli ebrei nel mondo.

Nel 1974 Golda Meir e il ministro della Difesa Moshe Dayan, che a differenza di Netanyahu hanno fatto la storia d’Israele, si dimisero per le scorie lasciate dalle gravi mancanze e dai troppi errori commessi durante la guerra del Kippur. Questo, nonostante i laburisti avessero vinto le elezioni del dicembre 1973.

Netanyahu non si è dimesso perché, al pari del suo sodale politico Donald Trump, è un potenziale eversore che teme, a ragione, per la sua libertà personale nel caso in cui lasciasse il suo ufficio di primo ministro.

I connotati politici e morali di Netanyahu gli comportano un’ulteriore gravissima colpa che è sotto gli occhi di chi conserva ancora un po’ di buon senso e senso della misura: sta disintegrando il fronte, già esiguo, di chi ha a cuore la sopravvivenza dello Stato d’Israele.

Solo per questo, se Netanyahu avesse avuto a cuore le sorti d’Israele e di quell’esiguo fronte che ancora lo sostiene più dei propri interessi personali, si sarebbe dovuto fare da parte. Ma Netanyahu non è un uomo d’onore.

Beninteso, la distanza che ci separa da Netanyahu non è una clausola di stile né un pedaggio da pagare per difendere Israele. La distanza che ci separa da Netanyahu è la stessa distanza che ci separa da Donald Trump e da tutti i loro sodali politici. In questa piccola rivista d’opinione, sia ben chiaro, non si concede a nessuno il diritto di elargire patenti di nessun tipo. Da una parte e dall’altra.

Anche perché, se qualcuno pensa che non vi sarebbe stata una guerra a Gaza, qualora Netanyahu si fosse dimesso l’8 ottobre 2023, starebbe commettendo un grossolano errore.

Come ha efficacemente scritto Gérard Biard, caporedattore di Charlie Hebdo, nel suo editoriale di questa settimana, “l’attacco di Hamas del 7 ottobre è stato uno shock assoluto. Per la sua portata, per la sua crudeltà, per ciò che rivelava di un progetto dichiarato: non la fine dell’occupazione, ma la fine di Israele. Civili massacrati, bambini presi in ostaggio, famiglie distrutte. Quel giorno è stata assassinata l’idea stessa di coesistenza”.

Se non si comprende questo disegno, e non si comprende quindi il devastante impatto emotivo del 7 ottobre sulla società israeliana, non si comprende tutto quello che ne è conseguito. Ed è molto probabile, se non certo, che qualsiasi altro primo ministro israeliano avrebbe agito in modo non molto dissimile dall’obiettivo di sgominare una volta per tutte l’organizzazione terroristica di Hamas. Accettando, per le particolari caratteristiche che una guerra senza quartiere nello scenario di Gaza comporta, di correre il rischio di coinvolgere un numero elevato di vittime civili.

Un rischio lucidamente calcolato e pianificato da Hamas, un’organizzazione criminale che in vent’anni di potere ha utilizzato i molti miliardi di dollari ricevuti in aiuti umanitari per progettare ed attuare il massacro del 7 ottobre. Un’organizzazione criminale e sciacalla che considera, senza alcuna remora, i propri concittadini alla stregua di utili candidati al martirio, da sbattere in prima pagina sui compiacenti media occidentali per aumentare la pressione internazionale su Israele. Questa, insieme alla conseguente distruzione di Gaza, è l’unica eredità di Hamas degna di nota che verrà ricordata dai libri di storia.

È ben vero che Netanyahu e i suoi sodali politici, ultrareligiosi ed estremisti, hanno consapevolmente e colpevolmente derubricato la questione palestinese a problema di “ordine pubblico” e non hanno fermato – come cercò di fare finanche il “falco” Sharon – quelli che nella società israeliana miravano ad un’esasperazione del conflitto con i palestinesi.

Ma il contesto in cui si collocano queste scellerate scelte politiche, comunque adottate nell’ambito di un processo democratico di formazione di decisioni reversibili, è quello che vede, dall’altro lato della barricata, Hamas condurre i palestinesi, con l’appoggio finanziario, militare e morale dell’Iran e di qualche emiro, a perseguire l’unico obiettivo della distruzione e cancellazione dell’”Entità sionista” dal fiume al mare.

Questo obiettivo incendiario ed irresponsabile non poteva che generare morti innocenti, distruzione e macerie. E, allo stato attuale delle cose, null’altro di molto diverso è alle viste.

Nell’anno e mezzo trascorso dal 7 ottobre 2023, il piccolo punto di osservazione d’InOltre si è però concentrato su un’altra conseguenza, efficacemente pianificata dalla propaganda di Hamas, che questo conflitto all’ultimo sangue ha recato con sé: la più grande e diffusa ondata di odio antiebraico che si ricordi dagli anni Trenta del secolo scorso. 

E non stiamo affermando che il conflitto israelo-palestinese si condensi o si esaurisca esclusivamente in questo. Sarebbe una pretesa insostenibile. Stiamo affermando che questo è il nostro punto di vista in base alla nostra sensibilità, alla dislocazione del nostro osservatorio, alla realtà concreta che ci troviamo a vivere ogni giorno.

Perché, se gli israeliani hanno il diritto legittimo di cercare di salvare la propria esistenza, se i palestinesi hanno legittimamente deciso di affidarsi alle mani sanguinarie di Hamas nella tragica illusione di salvaguardare così la loro causa territoriale, ci sembra giusto considerare anche la causa dei milioni di ebrei, e di una minoranza di persone non ebree che solidarizzano con essi, che sono divenuti tutti, loro malgrado, altre vittime collaterali di questo interminabile e sanguinoso conflitto.

Il compito morale e civile che InOltre si è dato consiste nel denunciare senza tregua chi ha trovato in quel conflitto un comodo paravento per dissotterrare l’ascia dei propri pregiudizi antiebraici.

Quelli che bestemmiano senza pudore né ritegno la parola Genocidio, quelli che s’indignano solo per Israele, quelli che hanno pensato e detto che il 7 ottobre “non veniva dal nulla”, quelli che usano deliberatamente e senza riserve la propaganda di Hamas, quelli che assaltano le sinagoghe, quelli che profanano i cimiteri ebraici, quelli che costringono gli ebrei nel mondo a celare e dissimulare il proprio ebraismo, quelli che negano alla Brigata ebraica il proprio sacrosanto diritto a sfilare con orgoglio il 25 aprile.

Quelli che si nascondono dietro la foglia di fico dell’antisionismo “lecito” a fronte dell’antisemitismo “proibito” (mostrando di non sapere nulla né dell’uno né dell’altro). Quelli, ancora, che passano disinvoltamente dalle bolse ed ipocrite contrizioni routinarie del “Giorno della memoria” ad osceni ed irresponsabili parallelismi tra Gaza ed Auschwitz.

Quelli che non hanno riempito piazze ribollenti di sdegno, per dirne solo una, quando Assad gassava i suoi cittadini e che, anche dopo le peggiori stragi russe in Ucraina, hanno irenicamente manifestato per la “pace”, e non contro il responsabile del martirio ucraino, mentre oggi, quando c’è di mezzo Israele, puntano l’indice vibrante di sdegno, fanno nomi e cognomi. 

Perché’, come abbiamo ormai imparato da un pezzo, le “guerre di Israele” (peraltro tutte difensive) hanno sempre qualcosa di “speciale”, a titolo di aggravante beninteso, così come le vittime di Israele hanno sempre qualcosa di “speciale”, sono sempre più vittime delle vittime di ogni altra guerra, strumentalizzate senza ritegno con un criminalizzante conteggio quotidiano, inverificato ed inverificabile, ma idoneo a far montare l’odio verso Israele.             

Ecco.

In questa battaglia che – per parafrasare ancora Biard – non dice più: «giustizia per i palestinesi» ma «vergogna eterna per gli israeliani» — e, per ignobile estensione, per gli ebrei nel loro insieme, InOltre farà la sua parte per combattere questa ennesimo capitolo del bimillenario odio nei confronti degli ebrei. Senza cedere mai di un solo millimetro e con buona pace di quelli che “e allora Netanyahu?”. 

*Un grazie per il suo contributo a Giulio Massa

CAMMINARE Thomas Bernhard


CAMMINARE

Thomas Bernhard

Recensione

«Mentre io, prima che Karrer impazzisse, camminavo con Oehler solo di mercoledì, ora, dopo che Karrer è impazzito, cammino con Oehler anche di lunedì ... ho salvato Oehler dall'orrore ... perché non c'è nulla di più orribile del dover camminare da soli di lunedì»: bastano poche frasi, ad apertura di pagina, a immergerci nel flusso ipnotico della scrittura di Thomas Bernhard.

Camminare frenetico, senza meta, che  incoraggia il flusso dei pensieri, al punto tale che risulta impossibile pensare senza camminare e viceversa. L’alternativa, non pensare, è fuori discussione. Anche “se noi stessi per la maggior parte del tempo crediamo all’insensatezza del pensiero”, resta il fatto che senza tale insensatezza “non siamo nulla”. 

Il racconto, un lungo soliloquio di Oehler mentre cammina per le strade di Vienna, è scritto con uno stile asciutto, labirintico, martellante, ossessivo, serrato, senza sosta che avvolge, affascina e non dà tregua.

Come in Antichi Maestri, come ne La fornace, come nel finale di Perturbamento, il testo coincide con un torrenziale monologo. Perché  la forma monologante prescelta, così ripetitiva e convoluta, rispecchia il proposito di svelare l’inconsistenza del linguaggio. E tuttavia, tale inconsistenza può liberare una possibilità. La vita è senza senso o scopo, ma ammettendo quest’evidenza straziante è possibile ricavare un qualche fondamento su cui esistere. Anche nel vuoto pneumatico, la vita, questa ossessione suprema, può germogliare.

CAMMINARE

È un continuo pensare fra tutte le possibilità di una mente umana e un continuo sentire fra tutte le possibilità di un cervello umano e un continuo essere trascinati di qua e di là fra tutte le possibilità di un carattere umano.

 

Mentre io, prima che Karrer impazzisse, camminavo con Oehler solo di mercoledì, ora, dopo che Karrer è impazzito, cammino con Oehler anche di lunedì. Poiché Karrer veniva a camminare con me di lunedì, ora che Karrer non viene più a camminare con me di lunedì, Lei venga a camminare con me anche di lunedì, dice Oehler, ora che Karrer è impazzito ed è subito finito su allo Steinhof. E senza esitare ho detto a Oehler: bene, camminiamo anche di lunedì, ora che Karrer è impazzito ed è allo Steinhof. Mentre noi di mercoledì camminiamo sempre e solo in una direzione (verso est), di lunedì camminiamo verso ovest, curiosamente camminiamo molto più in fretta di lunedì che di mercoledì, è probabile, penso, che Oehler abbia sempre camminato molto più in fretta con Karrer che con me, perché di mercoledì cammina molto più adagio, di lunedì molto più in fretta. Per abitudine, vede, dice Oehler, cammino molto più in fretta di lunedì che di mercoledì, poiché ho sempre camminato molto più in fretta con Karrer (quindi di lunedì) che non con Lei (di mercoledì). Poiché Lei, ora che Karrer è impazzito, non cammina più con me solo di mercoledì, ma anche di lunedì, non ho bisogno di cambiare la mia abitudine di camminare di lunedì e di mercoledì, dice Oehler, mentre Lei, poiché adesso cammina con me di mercoledì e di lunedì, ha dovuto cambiare la Sua abitudine in tutto e per tutto, e cioè ha dovuto cambiarla in modo per Lei probabilmente inaudito, dice Oehler. Ma è bene, dice Oehler, e lo dice in tono inequivocabilmente didattico, è di grande importanza per l’organismo, di tanto in tanto e a intervalli non troppo lunghi, cambiare abitudine, e non pensa solo a cambiare abitudine, bensì a un cambiamento radicale dell’abitudine. Lei cambia la Sua abitudine, dice Oehler, in quanto adesso cammina con me non solo di mercoledì, ma anche di lunedì, e questo adesso significa camminare con me ora in una direzione (quella del mercoledì) ora nell’altra (quella del lunedì), mentre io cambio la mia abitudine perché finora ho sempre camminato di mercoledì con Lei, ma di lunedì con Karrer, adesso invece cammino con Lei di lunedì e di mercoledì, e quindi anche di lunedì, e quindi di mercoledì con Lei in una direzione (verso est) e di lunedì con Lei nell’altra (verso ovest). Inoltre con Lei cammino senza dubbio, e com’è naturale, in modo diverso che non con Karrer, dice Oehler, perché Karrer è un uomo del tutto diverso da Lei, e quindi il camminare (e quindi il pensare) di Karrer è un camminare (e quindi un pensare) del tutto diverso, dice Oehler. Lui, Oehler, si è salvato per il fatto che io, dopo che Karrer è impazzito ed è finito allo Steinhof – e probabilmente è finito allo Steinhof per sempre, dice Oehler –, ho salvato Oehler dall’orrore, così dice lui stesso, di dover camminare da solo di lunedì; in tal caso di lunedì non avrei proprio più camminato, dice Oehler, perché non c’è nulla di più orribile del dover camminare da soli di lunedì. Di lunedì, dice Oehler, e il dover camminare da soli, è la cosa più orrenda. Per me è semplicemente inconcepibile l’idea, dice Oehler, che Lei non cammini con me di lunedì. E quindi che io di lunedì debba camminare da solo, cosa per me del tutto inconcepibile. Mentre Oehler ha l’abitudine di portare il cappotto completamente abbottonato, io porto il cappotto completamente sbottonato. Ciò che in lui, penso, è riconducibile alla continua paura, con il cappotto sbottonato, di prendere freddo e di raffreddarsi, in me è riconducibile alla continua paura, con il cappotto abbottonato, di soffocare. E così di fatto Oehler ha sempre paura di poter gelare, mentre io ho sempre paura di poter soffocare. Mentre Oehler indossa scarpe alte che arrivano fino a coprirgli le caviglie, io indosso scarpe basse, perché non c’è nulla che io odii di più delle scarpe alte, così come non c’è nulla che Oehler odii di più delle scarpe basse. È un malvezzo (e una stupidaggine!), camminare con le scarpe basse, dice sempre Oehler; è un’insensatezza, camminare con simili scarpe alte e pesanti, dico io. Mentre Oehler ha un cappello nero a tesa larga, io ho un cappello grigio a tesa stretta. Se Lei potesse abituarsi a portare un cappello a tesa larga come quello che porto io, dice spesso Oehler, mentre io dico spesso a Oehler: se Lei potesse abituarsi a portare un cappello a tesa stretta come quello che porto io. Alla Sua testa non si addice a tesa stretta, ma solo a tesa larga, il cappello, mi dice Oehler; mentre io dico a Oehler: alla Sua testa il cappello si addice solo a tesa stretta, certo non a tesa così larga come il Suo. Mentre Oehler porta le muffole, sempre quelle muffole, spesse e ruvide muffole di lana fatte a maglia da sua sorella, io porto i guanti, guanti di pelle di porco fini ma imbottiti, comprati per me da mia moglie. Solo con le muffole uno sta davvero al caldo, dice sempre Oehler; solo con i guanti, e solo con simili guanti di pelle morbida, dico io, le mani restano, come le mie, libere di muoversi. Oehler porta pantaloni neri senza risvolto, mentre io porto pantaloni grigi col risvolto. Ma noi non rinunceremo più ai nostri vestiti, e quindi è insensato dire che Oehler dovrebbe portare un cappello a tesa stretta, pantaloni col risvolto, giacche non così attillate come quelle che indossa, eccetera, e che io dovrei indossare muffole, scarpe alte e pesanti, eccetera, perché noi non rinunceremo più ai vestiti che indossiamo quando usciamo, e che indossiamo già da anni, che indossiamo da decenni quando usciamo, indipendentemente da dove andiamo, perché per noi nei decenni questi vestiti sono diventati un’abitudine definitiva e quindi sono diventati i vestiti definitivi. Se ascoltiamo qualcosa, dice Oehler mercoledì, passiamo al vaglio quello che ascoltiamo, e quello che ascoltiamo lo passiamo al vaglio fino a dover dire: ciò che abbiamo ascoltato non è vero, è una menzogna ciò che abbiamo ascoltato. Se vediamo qualcosa, passiamo al vaglio quello che vediamo fino a dover dire: quello che vediamo è orribile. Così per tutta la vita non riusciamo più a venir fuori dall’orrore e dalla falsità e dalla menzogna, dice Oehler. Se facciamo qualcosa, riflettiamo su quello che facciamo fino a dover dire: è qualcosa di meschino, è qualcosa di vile, è qualcosa di vergognoso, è qualcosa d’un’immane desolazione, quello che facciamo; e che quello che facciamo sia, com’è naturale, sbagliato, è ovvio. E così per noi ogni giorno diventa un inferno, che lo vogliamo o no, e quello che pensiamo diventa, se ci riflettiamo, se abbiamo la necessaria freddezza mentale e l’acume mentale per farlo, in ogni caso sempre qualcosa di meschino e di vile e di superfluo; il che ci deprime per il resto della vita nel modo più sconvolgente. Perché tutto ciò che viene pensato è superfluo. La natura non ha bisogno del pensiero, dice Oehler, è solo la presunzione umana a voler proiettare ininterrottamente nella natura il proprio pensiero. Ciò che non può non deprimerci da cima a fondo è il fatto che, con questo pensiero insolente che proiettiamo nella natura, del tutto immunizzata, com’è naturale, nei confronti di questo pensiero, noi affondiamo sempre più in uno stato di deprimazione ben maggiore di quello in cui già siamo. Con il nostro pensare, le condizioni diventano, com’è naturale, condizioni sempre più intollerabili. Non appena pensiamo di trasformare le condizioni intollerabili in condizioni tollerabili, subito dobbiamo ammettere che non abbiamo trasformato (non abbiamo potuto trasformare) le condizioni intollerabili in condizioni tollerabili e neppure più tollerabili, bensì solo in condizioni ancora più intollerabili. E con le circostanze è come con le condizioni, dice Oehler, e con i fatti è la stessa cosa. L’intero processo vitale è un processo di peggioramento, in cui di continuo – questa legge è la più atroce – tutto peggiora. Se vediamo una persona, in breve tempo dobbiamo dirci: una persona orribile, una persona insopportabile. Se vediamo la natura, dobbiamo dirci: una natura orribile, insopportabile. Se vediamo qualcosa di artificiale, indipendentemente dall’artificio, in breve tempo dobbiamo dirci: un’insopportabile artificialità. Se camminiamo, di nuovo in brevissimo tempo ci diciamo: un camminare insopportabile, come, se corriamo, un correre insopportabile, come, se sostiamo, un sostare insopportabile, come, se pensiamo, un pensare insopportabile. Se facciamo un incontro, in brevissimo tempo pensiamo: un incontro insopportabile. Se facciamo un viaggio, in brevissimo tempo ci diciamo: un viaggio insopportabile, un clima insopportabile, diciamo, dice Oehler, di qualsiasi clima, se riflettiamo su un clima qualsiasi. Se l’intelletto è acuto, se il pensiero è il più spietato e il più chiaro, dice Oehler, in brevissimo tempo dobbiamo dire di tutto che è insopportabile e orribile. Dunque l’arte è senza dubbio quella di sopportare l’insopportabile e di non sentire ciò che è orribile come tale, cioè orribile. Definire quest’arte come la più difficile, è ovvio. L’arte di esistere contro i fatti, dice Oehler, è l’arte più difficile. Esistere contro i fatti significa esistere contro ciò che è insopportabile e contro ciò che è orribile, dice Oehler. Se noi non esistiamo costantemente contro, ma solo costantemente con i fatti, dice Oehler, andiamo a fondo in brevissimo tempo. Il fatto è che la nostra esistenza è un’esistenza insopportabile e orribile, se esistiamo con questo fatto, dice Oehler, senza esistere contro questo fatto, andiamo a fondo nel più miserabile e nel più comune dei modi; nulla quindi dovrebbe essere più importante per noi di esistere costantemente, anche se solo nel, tuttavia al contempo contro il fatto di un’esistenza insopportabile e orribile. Il numero di possibilità di esistere nel (e con il) fatto dell’esistenza insopportabile e orribile è uguale a quello di esistere contro l’esistenza insopportabile e orribile, e quindi nel (e con il) e al contempo contro il fatto dell’esistenza insopportabile e orribile. L’uomo ha sempre la possibilità di esistere in (e con) un fatto e di conseguenza in tutti e contro tutti i fatti senza esistere contro questo fatto e contro tutti i fatti, così come ha sempre la possibilità di esistere senz’altro in (e con) un fatto e con tutti i fatti e contro un e tutti i fatti e quindi, in particolare, contro il fatto che l’esistenza è insopportabile e orribile. È sempre un problema di freddezza mentale e di acume mentale e di spietatezza della freddezza mentale e dell’acume mentale, dice Oehler. La maggior parte delle persone, dice Oehler, più del novantotto per cento, dice Oehler, non ha né freddezza mentale né acume mentale e non ha neppure intelletto. L’intera storia sino a oggi ne ha dato senz’altro prova. Ovunque guardiamo, né freddezza mentale, né acume mentale, dice Oehler, il tutto è una gigantesca storia, spaventosamente lunga, priva di freddezza mentale e priva di acume mentale, e quindi priva di intelletto. Se guardiamo alla storia, qui deprime in particolare la totale mancanza di intelletto, per non parlare poi di acume mentale e di freddezza mentale. In tal senso non è un’esagerazione dire che tutta la storia è una storia totalmente priva di intelletto, ragion per cui è anche una storia completamente morta. È vero che, se guardiamo alla storia, se guardiamo ben dentro la storia – e a uno come me di tanto in tanto non manca l’audacia per farlo –, abbiamo dietro di noi, in effetti in mezzo a noi, una natura spropositata, ma, in realtà, dice Oehler, nessuna storia. La storia è una menzogna storica, sostengo, dice Oehler. Ma torniamo al singolo, dice Oehler. Avere intelletto non significherebbe nient’altro se non farla finita con la storia e in primo luogo con la propria storia personale. Da un momento all’altro non accettare assolutamente più nulla, questo significa avere intelletto, nessun essere umano e nessuna cosa, nessun sistema e com’è naturale anche nessun pensiero, semplicemente più nulla, e con tale consapevolezza, in effetti l’unica rivoluzionaria, uccidersi. Ma pensare così conduce immancabilmente all’improvvisa alienazione mentale, dice Oehler, cosa che sappiamo e che Karrer ha dovuto pagare con un’improvvisa totale pazzia. Lui, Oehler, non crede che Karrer potrà mai essere dimesso dallo Steinhof, in quanto la sua è una pazzia troppo radicata, dice Oehler. Esercitarsi sempre più nei pensieri più spiazzanti e più immani e più dirompenti e abbandonarsi in pieno a simili pensieri, i soli ancora possibili per lui, con sempre maggior determinatezza, è la sua disciplina quotidiana, ma sempre e soltanto fino al punto estremo prima della pazzia assoluta. Quando ci spingiamo lontano come Karrer, dice Oehler, tutt’a un tratto diventiamo decisamente e assolutamente pazzi e di colpo non abbiamo più alcun valore. Pensare, e sempre di più e sempre di più con intensità sempre maggiore e con una sempre maggiore spietatezza e con un sempre maggiore fanatismo conoscitivo, dice Oehler, ma non spingersi troppo lontano col pensiero neppure per un istante. In ogni istante possiamo spingerci troppo lontano col pensiero, dice Oehler, semplicemente andare troppo lontano col nostro pensiero, dice Oehler, e niente ha più valore. E qui ritorno adesso al punto al quale tornava sempre Karrer, dice Oehler, e cioè che nel mondo, o meglio, in quello che definiamo il mondo, perché l’abbiamo sempre definito il mondo, non esiste intelletto alcuno; se analizziamo che cos’è l’intelletto, dobbiamo dire che non esiste intelletto alcuno, questo però Karrer l’aveva già analizzato, dice Oehler, e cioè che, come diceva Karrer in modo del tutto giusto e come infine aveva concluso essendosi misurato di continuo con quest’argomento dal fascino incredibile, non esiste intelletto alcuno, ma solo un sottointelletto. Il cosiddetto intelletto umano, dice Oehler, è, come diceva Karrer, sempre e soltanto un cosiddetto sottointelletto, anche subintelletto. Infatti, se l’intelletto fosse possibile, dice Oehler, sarebbe possibile anche la storia, ma la storia non è possibile perché l’intelletto non è possibile, e dal sottointelletto o dal subintelletto, un’invenzione di Karrer, dice Oehler, non nasce la storia. Ma il dato di fatto del sottointelletto o del cosiddetto subintelletto, dice Oehler, senza dubbio rende possibile la continuità della natura tramite gli esseri umani. Avessi l’intelletto, dice Oehler, avessi ininterrottamente l’intelletto, dice, mi sarei ucciso da tempo, ma non mi sono ucciso perché non ho ininterrottamente l’intelletto. Ciò che si può capire in quello o di quello che dico, dice Oehler, lo si può capire, ciò che non si può capire, non lo si può capire. Anche se non si può capire tutto, tutto è pur sempre univoco, dice Oehler. In fondo anche ciò che chiamiamo pensare non ha niente a che fare con l’intelletto, dice Oehler, qui Karrer ha ragione quando dice che non abbiamo intelletto proprio perché pensiamo, infatti avere intelletto vorrebbe dire non pensare e quindi non avere alcun pensiero. Ciò che abbiamo non è altro che un surrogato dell’intelletto. Un pensare surrogato rende possibile la nostra esistenza. Tutto il pensare che si pensa è un pensare surrogato, perché un pensare vero e proprio non è possibile, perché un pensare vero e proprio non esiste, perché la natura esclude il pensare vero e proprio, perché deve escludere il pensare vero e proprio. Adesso Lei mi crederà pazzo, dice Oehler, ma il pensare vero e proprio, e cioè quello effettivo, è del tutto escluso. Ma noi definiamo pensare ciò che riteniamo sia pensare, così come definiamo camminare ciò che riteniamo sia camminare, così come diciamo che camminiamo quando crediamo di camminare e camminiamo, dice Oehler. Quanto ho appena detto non ha assolutamente nulla a che fare con causa ed effetto, dice Oehler. E diciamo tranquillamente pensare quando non si tratta di pensare, e diciamo tranquillamente intelletto quando non può in nessun caso trattarsi di intelletto, e diciamo tranquillamente che si tratta di tutti i concetti dei quali non può in nessun caso trattarsi. Progrediamo solo grazie al fatto che definiamo come azioni e cose azioni e cose che non sono in nessun caso queste azioni e queste cose, perché non possono in nessun caso essere queste azioni e queste cose, solo grazie a ciò, dice Oehler, qualcosa è possibile, quindi è possibile tutto. L’esperienza è un fatto al quale non possiamo assolutamente sottrarci e a cui soprattutto dobbiamo sottostare, dice Oehler. D’altra parte è però ugualmente un fatto che noi agiamo sempre in modo preciso ma anche molto più del necessario condizionati dal fatto che quello che io faccio (e riconosco) nel dire: questi bambini che vediamo qui nella Klosterneuburgerstrasse sono stati fatti perché l’intelletto è venuto meno, non corrisponde a ciò che è. Ma io, anche se so che questo non è vero, perché è falso, dico: questi bambini che vediamo qui nella Klosterneuburgerstrasse sono stati fatti perché l’intelletto è venuto meno, anche se sappiamo che i concetti usati nella frase sono falsi e di conseguenza anche le parole usate nella frase sono false, e dunque, come sappiamo, tutto in questa frase è falso. Se però ci atteniamo alla nostra esperienza, che è una linea direttrice al di sopra di tutto, non possiamo parlare proprio di nulla, e allora non esistiamo proprio più, dice Oehler. E quindi io affermo senz’altro che questi bambini che vediamo qui nella Klosterneuburgerstrasse sono stati fatti perché l’intelletto è venuto meno. E solo perché io non mi attengo all’esperienza è possibile tutto. Solo così è possibile dire una frase come: la gente cammina semplicemente per strada e fa un figlio, oppure la frase: la gente ha fatto un figlio perché il suo intelletto è venuto meno. Non si chiede nulla, questa gente che fa un figlio, è una frase completamente vera e al tempo stesso anche completamente falsa, dice Oehler, come ogni frase. Bisogna sapere, dice Oehler, che tutte le frasi che vengono dette e che vengono pensate e in generale che esistono, sono al tempo stesso vere e al tempo stesso false, se si tratta di frasi vere. Adesso interrompe la conversazione e dice: in effetti questa gente non si chiede nulla quando fa un figlio, anche se sa che fare un figlio, e in particolare fare un figlio proprio, significa fare un’infelicità e quindi fare un figlio, e quindi fare un figlio proprio, non è altro che un’infamia. E una volta fatto il figlio, dice Oehler, quelli che l’hanno fatto si fanno pagare dallo Stato per il figlio che hanno fatto loro stessi di testa propria. Lo Stato deve accollarsi questi milioni e milioni di figli fatti di testa propria, figli, come sappiamo, completamente superflui, che non hanno portato altro se non una nuova infelicità, per milioni e milioni di volte. Ma l’isteria della storia, dice Oehler, tralascia la circostanza che fare un figlio significa sempre fare qualcosa di infelice e qualcosa di superfluo. A quelli che fanno figli non si può risparmiare il rimprovero di aver fatto i loro figli del tutto sconsideratamente e nel più comune e volgare dei modi, sebbene costoro, come sappiamo, non siano sconsiderati. Nessuna peggiore catastrofe, dice Oehler, di tutti questi figli fatti sconsideratamente, per i quali a dover pagare è lo Stato, preso in giro con questi figli. Chi fa un figlio, dice Oehler, dev’essere punito con il massimo della pena, e non ricevere sovvenzioni. Null’altro se non questo entusiasmo della sovvenzione da parte dello Stato, entusiasmo cosiddetto sociale, completamente falso, che, come sappiamo, non è affatto sociale e di cui si deve dire che è soltanto l’anacronismo più disgustoso al mondo, è colpevole del fatto che il crimine di fare un figlio e di mettere al mondo un figlio – cosa che definisco il crimine più grave in assoluto – dice Oehler, che questo crimine, dice Oehler, non sia punito, ma riceva sovvenzioni. Lo Stato avrebbe la responsabilità di punire la gente che fa figli, dice Oehler adesso, ma no, sovvenziona questo crimine. E che tutti i figli che si fanno siano fatti in modo sconsiderato, dice Oehler, è una realtà. Con la testa non si fanno figli, dice Oehler, e quello che si fa senza la testa, e in particolare quello che si fa in modo sconsiderato, va punito. Compito del parlamento e dei parlamenti sarebbe quello di emanare e imporre leggi per coloro che fanno figli in maniera sconsiderata e di comminare il massimo della pena per coloro che fanno figli in maniera sconsiderata, e ognuno, dice Oehler, dovrebbe introdurre e applicare il massimo della pena per se stesso. Dopo l’introduzione di una simile legge, dice Oehler, il mondo cambierebbe molto in fretta a proprio vantaggio. Uno Stato che sovvenziona il far figli, e non soltanto il far figli in maniera sconsiderata, dice Oehler, è uno Stato sconsiderato, in ogni caso non è uno Stato evoluto, dice Oehler. Lo Stato che sovvenziona il far figli non ha né esperienza né discernimento. Uno Stato simile è criminale perché è cieco di proposito, uno Stato simile non è al passo coi tempi, dice Oehler, ma, come sappiamo, lo Stato odierno o, diciamo, il cosiddetto Stato odierno non è assolutamente possibile e quindi anche questo nostro Stato non è assolutamente uno Stato al passo coi tempi. Chi fa un figlio, dice Oehler, sa di fare un’infelicità, sa di fare qualcosa che sarà infelice, perché deve essere infelice qualcosa di catastrofico da cima a fondo per natura, qualcosa che non può null’altro se non essere catastrofico da cima a fondo per natura. Si fa un’infelicità infinita anche facendo un solo figlio, dice Oehler. È un crimine. Non dobbiamo mai smettere di dire che chi fa un figlio – lo faccia in modo sconsiderato o meno –, dice Oehler, commette un crimine. La circostanza che adesso, mentre camminiamo per la Klosterneuburgerstrasse, ci siano tutti questi bambini, centinaia e centinaia di bambini nella Klosterneuburgerstrasse, induce Oehler a proseguire nelle sue osservazioni sul far figli. Fare un essere umano, di cui si sa che non la vuole, la vita che gli hanno fatto, dice Oehler – e che nessuno voglia averla, la vita fatta per lui, risulta evidente presto o tardi, ma in modo certo, in qualsiasi essere umano prima che quest’essere umano non ci sia più –, fare un simile essere umano è davvero criminale. Nella loro bassezza mascherata da inermità gli esseri umani se la raccontano soltanto, dice Oehler: vogliono avere la loro vita!, mentre in realtà non vogliono mai avere la loro vita, perché dal fatto che nulla detestano più della loro vita, e in fondo nulla più dei loro irresponsabili procreatori – si siano sottratti questi procreatori agli esseri da loro procreati o meno –, da tale fatto non vogliono essere distrutti. Tutta questa gente si racconta questa inconcepibile menzogna, dice Oehler, milioni di persone si raccontano questa menzogna. Vogliono avere la loro vita, dicono, lo dichiarano ogni giorno in pubblico, ma la verità è che non vogliono avere la loro vita. Nessuno vuole avere la sua vita, dice Oehler, ognuno si è fatto una ragione della sua vita, ma volerla avere, questo no; una volta che ha la sua vita deve illudersi che la sua vita sia qualcosa per lui, ma in realtà e in verità per lui non è altro che orribile. La vita non vale neanche un singolo giorno, dice Oehler, se Lei si prende minimamente la briga di guardare queste centinaia di esseri umani in questa strada, se Lei tiene gli occhi aperti là dove ci sono degli esseri umani. Se anche solo una volta cammina per questa strada con gli occhi aperti, se cammina per questa strada traboccante di bambini. Tanta inermità, tanto orrore e tanta miseria, dice Oehler. La verità non è diversa da ciò che vedo qui: spaventosa. Mi chiedo come siano possibili tanta inermità e tanta infelicità e tanta miseria, dice Oehler. Come la natura possa generare tanta infelicità e tanta materia d’orrore. Come la natura possa produrre tanta spietatezza nei confronti delle sue creature più inermi e più commiserabili. Questa sconfinata capacità di soffrire, dice Oehler. Questa sconfinata ricchezza d’immaginazione nel produrre e nel sopportare l’infelicità. Questo malessere del singolo che in effetti solo qui, in questa strada, tocca le migliaia. Frastornato e inerme, Lei deve star a guardare, dice Oehler, come si produca ogni giorno una gran mole di rinnovata e crescente infelicità umana, tanta bruttura umana e tanta schifezza umana, dice, ogni giorno, con una regolarità e un’ottusità senza uguali. Lei conosce se stesso, dice Oehler, come io conosco me stesso, e così anche tutti questi uomini, non saranno diversi da noi, ovvero solo infelici e inermi e, in fondo, perduti. Detto in modo radicale, lui, Oehler, sarebbe per l’estinguersi lento e totale dell’umanità; se fosse per lui più nessun figlio, neanche uno, e dunque più nessun uomo, neanche uno; il mondo pian piano si estinguerebbe, dice Oehler, sempre meno uomini, infine solo un paio di uomini, da ultimo proprio nessun uomo, proprio più nessuno. Ma ciò che ha appena detto, lasciare che la Terra si estingua a poco a poco e che gli esseri umani a poco a poco diminuiscano nel modo più naturale e infine scompaiano del tutto dalla faccia della Terra, è solo l’aberrazione di un cervello ormai asservito già in pieno e nel modo più totale al pensiero, ed è, così Oehler testualmente, un nonsenso. Certo, una Terra che si estingue a poco a poco, alla fine del tutto priva di esseri umani, con ogni probabilità sarebbe la cosa più bella, dice Oehler. Detto ciò, questo pensiero, com’è naturale, è un nonsenso. Resta comunque il fatto, dice Oehler, che Lei giorno dopo giorno deve star a guardare – del tutto frastornato – come vengano fatti sempre più esseri umani, sempre più inadeguati e sempre più infelici, i quali altro non sono che la stessa capacità di contenere sofferenza e lo stesso orrore e la stessa bruttura e schifezza che Lei stesso è, e con gli anni raggiungono una capacità di contenere sofferenza, e un orrore e una bruttura e schifezza sempre maggiori. Di identico parere era Karrer, dice Oehler. Oehler ripete sempre, di identico parere era Karrer oppure Karrer era di parere simile oppure Karrer era di parere diverso oppure Karrer è stato di parere (o di avviso) opposto. La frase-tipo di Karrer suonava così, dice Oehler: come mai gli uomini – non sapendo in che modo arrivano a questo punto e non essendo stati interpellati sulle questioni che li riguardano, come dobbiamo continuamente constatare, e soprattutto non essendo stati interpellati sulle questioni fondamentali –, come mai tutti questi uomini – con i quali noi, se ci pensiamo, non possiamo che identificarci sempre e di continuo e con la massima capacità d’intendere e di volere, non importa chi siano, cosa siano o dove siano –, si lasciano trascinare per un’intera vita di qua e di là, avanti e indietro, da un’infelicità perfetta e definitiva, con tutti i mezzi abominevoli, dunque con mezzi umani, a una velocità sempre più allarmante. Per un’intera vita mi sono ben guardato dal fare un figlio, ha detto Karrer, dice Oehler, dall’aggiungere un altro essere umano all’essere umano che sono io e che sta nel carcere più orribile ci si possa immaginare, definito spietatamente dalla scienza Natura Umana, dal richiudere nel carcere più orribile che esista, insieme a quell’essere umano che sono io, un altro essere umano, il quale debba portare il mio nome. Camminando nella Klosterneuburgerstrasse e soprattutto camminando nella Klosterneuburgerstrasse con gli occhi ben aperti, dice Oehler, uno si fa passare completamente l’idea di far figli e qualsiasi idea connessa col far figli. Uno si fa passare tutto, dice Oehler citando Karrer. Mi colpisce quanto spesso Oehler citi Karrer, senza far notare espressamente che cita Karrer. Spesso Oehler dice parecchie frasi che vengono da Karrer e pensa molto spesso un pensiero pensato da Karrer, penso, senza dire espressamente: ciò che dico ora è di Karrer, ciò che penso ora è di Karrer. In fondo tutto ciò che viene detto è citato è anch’essa una frase di Karrer, che mi viene in mente in questo contesto e che Oehler usa molto spesso quando fa al caso suo. Il continuo uso del concetto di Natura Umana e di Natura e, in questo contesto, di orribile e ripugnante e atroce e infinitamente triste e tremenda e schifosa, è da ricondurre a Karrer. Con Karrer sono vent’anni, penso ora, dice Oehler, che camminiamo nella Klosterneuburgerstrasse, come Karrer io ci sono cresciuto nella Klosterneuburgerstrasse, ed entrambi abbiamo sempre saputo che cosa volesse dire essere cresciuti nella Klosterneuburgerstrasse, c’era questa consapevolezza in ognuna delle nostre azioni e in tutto il nostro pensiero, e specialmente era sempre in noi ogni volta che camminavamo insieme. La pronuncia di Karrer era la più chiara, il pensiero di Karrer il più corretto, il carattere di Karrer il più ineccepibile, dice Oehler. Ma negli ultimi tempi avevo già constatato segni di stanchezza nella sua persona, soprattutto nella sua mente, dice Oehler; da un lato, dice Oehler, segni d’affaticamento nella sua mente, dall’altro un’incredibile attività della sua mente, in lui mai osservata prima. Da un lato il corpo di Karrer invecchiato di colpo, dice Oehler, dall’altro il cervello di Karrer provvisto di un inverosimile acume mentale. Da una parte, di colpo, la sua debolezza fisica, dice Oehler, dall’altra l’improvvisa stranezza perturbante e l’improvvisa mostruosità del pensiero prodotto dalla sua mente. Mentre il corpo di Karrer, soprattutto nell’ultimo anno, appariva ormai molto spesso come un corpo di per sé già in disfacimento e sfacelo, al tempo stesso la capacità della sua mente era tale, in conclusione, da spaventarmi di fatto per la sua mostruosità. Di quale mostruosità è capace, di colpo, questa mente – la mente di Karrer –, ho dovuto pensare tutt’a un tratto, dice Oehler, d’altra parte, com’è di colpo debole questo corpo, il corpo di Karrer, un corpo di per sé non ancora vecchio. Senza dubbio, dice Oehler, Karrer è impazzito all’apice del suo pensiero. In persone come Karrer la scienza può fare di continuo questa osservazione, e cioè che all’apice del loro pensiero e quindi all’apice della loro efficienza mentale, tutt’a un tratto impazziscono. È un attimo, dice Oehler, quello in cui la pazzia subentra. È un attimo solo, in cui chi è colpito tutt’a un tratto è pazzo. Oehler dice di nuovo: per Karrer si tratta di una pazzia totale, definitiva. È impensabile che Karrer, come otto anni fa, possa uscire di nuovo dallo Steinhof. Probabilmente Karrer non lo vedremo proprio più, dice Oehler. Tutto sembra indicare che Karrer allo Steinhof ci resterà e dallo Steinhof non ne uscirà più. La deprimazione causata dall’andare a trovare Karrer allo Steinhof sarebbe con ogni probabilità così violenta, dice Oehler, e soprattutto una simile visita influirebbe in modo così devastante sulla sua mente e di conseguenza, com’è naturale, sul suo pensiero, che una visita a Karrer allo Steinhof non è pensabile. Neppure se ci andiamo insieme a trovare Karrer allo Steinhof, dice Oehler. Se ci vado da solo da Karrer sono distrutto per settimane, se non per mesi, se non per sempre, dice Oehler. Anche se ci va Lei, a far visita a Karrer, mi dice Oehler, Lei si distrugge. E se ci andiamo insieme, una simile visita avrà lo stesso effetto su entrambi. Far visita a una persona nello stato in cui si trova adesso Karrer è un nonsenso, perché far visita a qualcuno che è totalmente e definitivamente pazzo è cosa insensata. Per tacere poi del fatto, dice Oehler, che fra l’altro ogni visita allo Steinhof mi ha completamente depresso. Visitare un manicomio richiede il massimo sforzo di volontà, dice Oehler, a meno che chi ci va in visita non sia un imbecille in fatto di sentimenti e di pensieri. Già avvicinarmi allo Steinhof mi dà malessere, dice Oehler, figurarsi quando ci entro. È che è già difficile sopportare il mondo al di fuori dei manicomi, dice. Quando poi vediamo centinaia e migliaia di persone delle quali, con tutta la buona volontà e con la massima abnegazione, non possiamo più dire che si tratta ancora di persone, dice, quando vediamo che nei manicomi è ogni volta ben peggio di quello che ci aspettavamo prima di entrare in un manicomio, e quando poi, infine, siamo allo Steinhof, dice Oehler, riconosciamo che l’insopportabilità al di fuori dei manicomi – la cui vita e l’esistere e l’esistenza abbiamo sempre separato dalla vita, dall’esistere e dall’esistenza che si trova dentro i manicomi – è davvero ridicola, al di fuori dei manicomi, rispetto all’insopportabilità dentro i manicomi. Sempre se siamo capaci di stabilire confronti, dice Oehler, di accontentarci della modestia dei concetti di dentro e di fuori, e cioè dentro i manicomi e fuori dai manicomi, della modestia dei concetti del cosiddetto mondo integro in contrapposizione ai concetti del cosiddetto mondo non integro. Quando poi dobbiamo dirci che, per finire allo Steinhof, basta la brutalità di un attimo. E quando poi sappiamo che ogni attimo può essere questo attimo. Quando poi sappiamo che ogni attimo può essere il passaggio del confine per lo Steinhof. Se Lei tre settimane fa avesse detto a Karrer che oggi sarebbe stato allo Steinhof, dice Oehler, Karrer ne avrebbe dubitato, anche se ha sempre messo in conto di poter essere di nuovo allo Steinhof in qualsiasi momento. Qui, in questo posto, dice Oehler, e si ferma, ho detto a Karrer: se è possibile controllare anche l’attimo che mai nessuno finora ha controllato, l’attimo del passaggio definitivo del confine per lo Steinhof, ovvero l’ingresso nella pazzia definitiva... senza poter concludere la frase inconclusa, dice Oehler. Karrer all’epoca aveva detto di non capire quella frase senza dubbio inconclusa, ma di sapere che cosa si intendeva con questa frase inconclusa. Neppure Karrer è riuscito ad avere ciò che finora nessuno è riuscito ad avere, la consapevolezza riguardo l’attimo del passaggio del confine per lo Steinhof e quindi la consapevolezza riguardo l’attimo del passaggio del confine per la pazzia definitiva. Quando facciamo qualcosa non dobbiamo riflettere sul perché facciamo ciò che facciamo, dice Oehler, in quanto poi – di colpo – ci sarebbe assolutamente impossibile fare qualcosa. Non dobbiamo fare di ciò che facciamo un oggetto del nostro pensiero, in quanto poi cadremmo prima in un dubbio letale, infine in una disperazione letale. Come non dobbiamo neppure riflettere su ciò che accade ed è accaduto e accadrà intorno a noi, se non abbiamo la forza d’interrompere una simile riflessione su ciò che accade ed è accaduto e accadrà intorno a noi e quindi sul passato, sul presente e sul futuro, nell’attimo esatto in cui questa riflessione per noi è letale. L’arte della riflessione consiste nell’arte, dice Oehler, di interrompere il pensiero esattamente prima dell’attimo letale. Ma possiamo rinviare in modo consapevole questo attimo letale, dice Oehler, più o meno a lungo, a seconda dei casi. Si tratta di sapere quand’è l’attimo letale. Ma nessuno sa quand’è l’attimo letale, dice Oehler. La questione non è che io sappia quand’è l’attimo letale, la questione è: può essere che l’attimo letale ancora non ci sia e che ancora continui a non essere arrivato?, ma su questo non possiamo fare affidamento. Non dobbiamo mai pensare, dice Oehler, come e perché facciamo quello che facciamo, perché poi saremmo condannati in un attimo, se non al nulla, a un’inattività totale e a un’immobilità totale, proprio secondo il grado di consapevolezza riguardo a tale questione. Infatti il pensiero più chiaro, che è la comprensione più profonda e nello stesso tempo più chiara, è l’inattività assoluta e l’immobilità assoluta, dice Oehler. Non dobbiamo pensare al motivo per cui camminiamo, dice Oehler, in quanto poi, in breve, non ci sarebbe più possibile camminare e di conseguenza, in breve, non ci sarebbe più possibile nulla, come anche quando pensiamo al perché non dobbiamo pensare a perché camminiamo e così via, come non dobbiamo neanche pensare a come camminiamo, a come non camminiamo – ovvero stiamo fermi –, come non dobbiamo neanche pensare a come pensiamo e così via quando non camminiamo e stiamo fermi. Noi non dobbiamo chiederci: perché camminiamo? come altri a cui, invece, senza dubbio è lecito (e possibile) chiedersi perché camminano. Agli altri, dice Oehler, è lecito (è possibile) chiedersi tutto, noi non dobbiamo chiederci nulla. Se si tratta di oggetti non dobbiamo chiederci nulla, e allo stesso modo se non si tratta di oggetti (ovvero del contrario degli oggetti). Ciò che vediamo, lo pensiamo e di conseguenza non lo vediamo, dice Oehler, mentre altri senza dubbio vedono ciò che vedono perché ciò che vedono non lo pensano. Quello che definiamo visione, in fondo per noi è stasi, immobilità, nulla, Nulla. L’accaduto è pensato, non visto, dice Oehler. Così è proprio naturale che, quando vediamo, non vediamo nulla, e al tempo stesso pensiamo tutto. D’un tratto Oehler dice: se facessimo visita a Karrer allo Steinhof, è probabile che saremmo atterriti esattamente come otto anni fa, ma adesso in effetti la pazzia di Karrer non soltanto è molto più grave della sua pazzia di otto anni fa, ma è anche definitiva, e, se pensiamo a com’eravamo atterriti otto anni fa durante la nostra visita a Karrer, è insensato pensare anche solo per un attimo di far visita a Karrer, ora che le condizioni di Karrer sono in effetti tremende. Probabilmente Karrer non può ricevere visite, dice Oehler. Karrer è ricoverato nel Padiglione VII, il più temuto. Questo carcere orribile, in cui vengono rinchiuse le più miserevoli fra tutte le creature, dice Oehler. Nient’altro che sudiciume e puzza. Tutto arrugginito e putrido. Sentiamo le cose più incredibili. Vediamo le cose più incredibili. Oehler dice: ma il mondo di Karrer, nella stessa misura in cui è il suo mondo, è anche il nostro. Allo stesso modo, dice Oehler, potrei camminare con Karrer qui e ora per la Klosterneuburgerstrasse e parlare con Karrer di Lei, se le cose stessero in modo che non Karrer, bensì Lei al momento fosse allo Steinhof, o se si fosse dato il caso che avessero consegnato me allo Steinhof e avessero internato me allo Steinhof e che fosse Lei a camminare con Karrer per la Klosterneuburgerstrasse e a parlare di me. Non possiamo essere certi di non trovarci da un momento all’altro nella situazione in cui si trova la persona di cui parliamo e che è l’oggetto del nostro pensare e del nostro discutere. Allo stesso modo sarei potuto impazzire io nel negozio di Rustenschacher, dice Oehler, se quel giorno fossi entrato io nel negozio di Rustenschacher nelle condizioni in cui era Karrer, e mi fossi lasciato coinvolgere nella discussione con Rustenschacher in cui si è lasciato coinvolgere Karrer e se, come Karrer, non avessi tratto le conclusioni da quella discussione; e ora sarei allo Steinhof. Ma in effetti sarebbe stato impossibile per me agire come Karrer, dice Oehler, perché io non sono Karrer, io avrei agito come me, esattamente come Lei ha agito come Lei e non come Karrer, e anche se fossi entrato nel negozio di Rustenschacher come Karrer per cominciare la discussione con Rustenschacher e suo nipote, io avrei condotto la discussione in modo decisamente diverso, e com’è naturale tutto si sarebbe svolto in modo decisamente diverso da come si è svolto tra Karrer e Rustenschacher e suo nipote, la discussione sarebbe stata una discussione diversa, soprattutto non saremmo arrivati a una simile discussione, perché al posto di Karrer io avrei condotto quella discussione in modo decisamente diverso, e forse non l’avrei condotta affatto, dice Oehler. Spesso il concorrere di più circostanze letali – che di per sé non sono affatto circostanze letali: diventano circostanze letali solo quando coincidono – provoca una disgrazia come la disgrazia successa a Karrer nel negozio di Rustenschacher, dice Oehler. Allora, poiché siamo stati testimoni, ce ne restiamo lì, e reagiamo come uno che sia rimasto ferito e offeso. Impensabile che io, in ogni caso, quand’anche fossi stato Karrer, mettessi piede nel negozio di Rustenschacher quel pomeriggio, dice Oehler, la veemenza di Karrer tuttavia quel pomeriggio è stata ben più intensa del solito, e ho seguito Karrer nel negozio di Rustenschacher. Ma chiedere perché io abbia seguito Karrer nel negozio di Rustenschacher è insensato. Allora diciamo che si tratta di una tragedia, diciamo, dice Oehler. Un evento imprevisto, come l’evento nel negozio di Rustenschacher, lo giudichiamo irrevocabile e predeterminato, quando ai concetti di irrevocabile e di predeterminato manca la pur minima fondatezza. Nulla infatti è irrevocabile e nulla è predeterminato, ma molte cose, e spesso le più terribili, avvengono e basta. Adesso posso dire che a stupirmi sono la mia passività nel negozio di Rustenschacher, il mio mutismo, il fatto che io sia rimasto lì e in fondo non abbia reagito a nulla, che io cioè abbia temuto qualcosa senza sapere (o intuire) che cosa temevo, e che non abbia fatto nulla considerando un simile timore e quindi considerando lo stato di Karrer. Noi diciamo che le circostanze portano una persona in una data condizione. Se questo è vero, allora le circostanze hanno portato Karrer nella condizione in cui lui, nel negozio di Rustenschacher, tutt’a un tratto è diventato pazzo, definitivamente pazzo. Si è trattato d’un caso di paura: paura di interrompere una pazienza priva di senso, devo dire, dice Oehler. Osserviamo una persona in una situazione disperata, che riconosciamo come situazione disperata e anche il concetto di situazione disperata ci è chiaro, ma non facciamo nulla contro la situazione disperata di questa persona perché non possiamo fare nulla contro la situazione disperata di questa persona, perché nel senso più vero della parola siamo impotenti di fronte a una persona simile e alla sua situazione disperata, anche se non non dobbiamo affatto essere impotenti di fronte a una persona simile e alla sua situazione disperata, cosa che ammettiamo, dice Oehler. Tutt’a un tratto ci rendiamo conto che per una natura disperata non c’è via d’uscita, ma in quel momento è già troppo tardi. La colpa non è di Rustenschacher e di suo nipote, dice Oehler, entrambi si sono comportati come evidentemente dovevano comportarsi per non essere vittime di Karrer. Ma le circostanze non si creano mai in un tempo così breve, dice Oehler, sono sempre e comunque circostanze derivanti da un processo di lunga durata. Non si sono create quel giorno, non quel pomeriggio, e certo non ventiquattr’ore o quarantotto ore prima, quelle circostanze che hanno portato alla pazzia di Karrer nel negozio di Rustenschacher e quindi al diverbio di Karrer con Rustenschacher e con suo nipote. Cerchiamo sempre tutto nelle immediate vicinanze, questo è un errore. Se almeno non cercassimo sempre tutto nelle immediate vicinanze, dice Oehler; cercare nelle immediate vicinanze non dimostra altro che incompetenza. Bisognerebbe in ogni caso risalire sempre a tutto, dice Oehler, foss’anche al passato più profondo, quindi già quasi non più riscontrabile e percettibile. Naturalmente è la cosa più insensata, dice Oehler, chiedersi perché si è entrati con Karrer nel negozio di Rustenschacher, per non parlare poi di farsene un rimprovero. Anche in questo caso non poteva che ripetere: nulla, e al tempo stesso tutto, lasciava presagire una improvvisa pazzia di Karrer. Se non dobbiamo porci le domande più semplici, non dobbiamo neppure porci una domanda come la domanda sul perché, in generale, Karrer sia entrato nel negozio di Rustenschacher quando non c’era la minima ragione per farlo – a parte il fatto che un motivo può essere stato proprio l’improvvisa stanchezza di Karrer, dopo la nostra camminata nella Alserbachstrasse e ritorno –, e neanche la domanda sul perché io abbia seguito Karrer nel negozio di Rustenschacher. Ma, poiché non ci poniamo domande, non dobbiamo neppure dirci che tutto è un’ovvietà, che tutto è ovvio. Di colpo sarebbe impossibile ciò che fino a questo punto era sempre ancora possibile, dice Oehler. D’altra parte quello che è, è ovvio. Ciò che lui osserva mentre camminiamo, lo scruta a fondo, e per questo motivo non lo osserva affatto, perché qualcosa che puoi scrutare (completamente) non lo puoi osservare. Questa osservazione l’ha fatta anche Karrer. Se scrutiamo qualcosa non vediamo la cosa, dobbiamo dire; d’altra parte, nessun altro vede la cosa, perché chi non scruti una cosa non può neanche vederla, la cosa. Dello stesso avviso era Karrer. La domanda: perché mi alzo la mattina? può (deve) essere assolutamente letale, se è posta in modo da essere davvero posta, e se è portata all’estremo o se dev’essere portata all’estremo. Come la domanda: perché mi corico la sera?, come la domanda: perché mangio? Perché mi vesto? Perché a certe persone mi lega tutto (o molto, o molto poco), e a certe altre niente? Se la domanda viene portata all’estremo, il che significa che pure chi pone una domanda e la porta all’estremo, perché la porta all’estremo o perché deve portarla all’estremo, porta all’estremo anche se stesso, la domanda ha ottenuto risposta, una risposta definitiva, e colui che ha posto la domanda non esiste più. Se però diciamo: questa persona è morta nel momento in cui ha risposto alla domanda che si è posto, la facciamo troppo facile, dice Oehler. D’altra parte, però, non troviamo miglior definizione se non dire: quindi chi ha posto la domanda è morto. In quanto non possiamo definire tutto, e perciò non possiamo mai pensare in modo assoluto, noi esistiamo, e c’è esistenza al di fuori di noi, dice Oehler. Non chieda però che cosa sia, l’esistenza al di fuori di noi, dice Oehler. Essendoci spinti così lontano come ci siamo spinti adesso (nei pensieri), dice Oehler, dobbiamo trarne le conclusioni e interrompere questi pensieri (o questo pensiero), il quale o i quali ci ha (o ci hanno) reso possibile spingerci così lontano. Karrer metteva in pratica tale capacità con un virtuosismo da definirsi senz’altro maestria cerebrale, così Karrer, dice Oehler. Immaginiamo che adesso allo Steinhof ci fossi io, e non Karrer, dice Oehler, e che Lei parlasse qui di me con Karrer. Questo pensiero è insensato, dice Oehler. Il suicidio del chimico Hollensteiner ha agito su Karrer in modo catastrofico, dice Oehler, non poteva non agire su Karrer così come ha agito su Karrer: nel modo più devastante, seminando il caos più mortifero nello stato mentale quanto mai vulnerabile di Karrer. Hollensteiner, un amico di gioventù di Karrer, si era ucciso, come viene ricordato, nel momento in cui da parte del cosiddetto ministero della Pubblica istruzione gli erano stati rifiutati i mezzi necessari alla sopravvivenza del suo Istituto di Chimica. Alle menti più lontane dall’ordinario lo Stato rifiuta i mezzi necessari alla sopravvivenza, dice Oehler, e perciò avviene che proprio le menti fuori dall’ordinario e più lontane che mai dall’ordinario, e Hollensteiner è stata una delle menti più lontane dall’ordinario, si uccidano. Lui non si mette neppure a enumerarla, la sfilza di menti fuori dall’ordinario e più lontane che mai dall’ordinario, tutte menti giovani, di genio, dice Oehler, le quali, poiché lo Stato, non importa in che forma, ha rifiutato loro i mezzi necessari alla sopravvivenza, si uccidono. E che Hollensteiner sia stato un genio, per me è fuori questione. Proprio nell’attimo decisivo per la sopravvivenza dell’Istituto di Hollensteiner e quindi per Hollensteiner, lo Stato gli ha sottratto i mezzi (a lui e quindi al suo Istituto). Hollensteiner, il cui nome è stato un grande nome nell’ambito oggi così importante della chimica fin dal tempo in cui qui, nel suo stesso paese, nessuno ancora conosceva il suo nome, Hollensteiner anche oggi, se lei chiede, è un nome sconosciuto dice Oehler; nominiamo il nome di un uomo assolutamente fuori dall’ordinario, dice Oehler, e sperimentiamo che nessuno conosce questo nome, e soprattutto non quelli che questo nome lo dovrebbero conoscere; lo sperimentiamo sempre, la gente che dovrebbe conoscere il nome del proprio scienziato più lontano dall’ordinario, questo nome non lo conosce o non vuole conoscere questo nome, nel caso specifico i chimici non conoscono neppure il nome di Hollensteiner o non vogliono conoscere il nome Hollensteiner; e così Hollensteiner è stato spinto al suicidio, come tutte le menti fuori dall’ordinario in questo paese. Mentre in Germania tra i chimici il nome di Hollensteiner è stato ed è ancor oggi il nome più degno di stima, qui in Austria Hollensteiner l’hanno completamente ignorato, in questo paese, dice Oehler, chi è fuori dall’ordinario viene ignorato sempre e in ogni tempo, viene ignorato tanto a lungo da essere indotto al suicidio. Se una mente austriaca è fuori dall’ordinario, dice Oehler, non occorre aspettare molto perché si uccida, è solo questione di tempo, ed è quello su cui conta lo Stato. Hollensteiner aveva una quantità di offerte, dice Oehler, ma non ne ha accettata neppure una. A Basilea avrebbero accolto Hollensteiner a braccia aperte, a Varsavia, a Copenaghen, a Oxford, in America. Ma pure a Göttingen – dove avrebbero messo a disposizione di Hollensteiner tutti i mezzi che lui voleva avere – Hollensteiner non ci è andato, perché non se l’è sentita di andarsene a Göttingen, una persona come Hollensteiner, dice Oehler, è incapace di andarsene a Göttingen o in generale di andarsene in Germania; prima di andare in Germania una persona simile si uccide. E si uccide, e cioè, lo Stato la uccide, proprio nel momento in cui è disperatamente costretta a contare sull’aiuto dello Stato. Il genio viene piantato in asso e spinto al suicidio. Uno scienziato, dice Oehler, in Austria è un povero diavolo, che prima o poi, ma soprattutto quando appare più insensato, deve crepare per l’ottusità dell’ambiente, o meglio, per l’ottusità dello Stato. Abbiamo uno scienziato fuori dall’ordinario e lo ignoriamo, non si ostacola nessuno con tanta perfidia come chi è fuori dall’ordinario, e il genio se ne va al diavolo, perché in questo Stato non può che andarsene al diavolo. Se solo un talento come Hollensteiner avesse avuto forza e spirito di sacrificio tali da rinunciare senz’altro all’Austria, e cioè a Vienna, per andarsene a Marburg o a Göttingen – tanto per fare due esempi riguardanti Hollensteiner –, e là, a Marburg e a Göttingen, portare avanti il lavoro scientifico che è diventato impossibile portare avanti in Austria e a Vienna, dice Oehler; ma una persona come Hollensteiner non era nelle condizioni di andarsene a Marburg o a Göttingen, Hollensteiner è stato in assoluto il tipo di persona che non se la sente di andarsene in Germania. Ma anche andare in America per Hollensteiner è stato impossibile, come vediamo, perché altrimenti Hollensteiner, che non se l’è sentita di andare in Germania perché quel paese gli era estraneo e in sommo grado ostile, in America ci sarebbe andato senz’altro. Pochissimi hanno la forza di deporre l’avversione nei confronti del paese che in fondo è pronto ad accoglierli a braccia aperte e con una benevolenza senza pari, e di andarci, in questo paese. Preferibilmente si uccidono nel proprio paese, perché alla fin fine l’amore per il proprio paese, o meglio, per il proprio paesaggio, quello austriaco, è più grande delle energie necessarie a sostenere la propria disciplina in un altro paese. Quanto a Hollensteiner, dice Oehler, abbiamo qui un esempio di come lo Stato tratti una testa fuori dal comune, lucida e insigne. Per anni Hollensteiner ha elemosinato i mezzi necessari alla sua ricerca, dice Oehler, per anni Hollensteiner, pur di ottenere i suoi mezzi, si è umiliato di fronte a una burocrazia che è la più ripugnante al mondo, per anni Hollensteiner ha tentato quello che prima di lui avevano già tentato centinaia di persone fuori dall’ordinario e geniali: realizzare un progetto di natura scientifica significativo, e significativo non solo per l’Austria, ma senza dubbio per l’intera umanità, con l’aiuto dello Stato. Ma ha dovuto riconoscere che in Austria, con l’aiuto dello Stato, non si può realizzare nulla, quantomeno nulla fuori dall’ordinario, nulla di significativo, nulla di dirompente. Lo Stato a cui si rivolge una natura come quella di Hollensteiner, all’apice della disperazione, non ha nessun interesse per una natura come quella di Hollensteiner. Allora una natura come quella di Hollensteiner deve riconoscere di esistere in uno Stato che, va detto senza esitazioni e con la massima spietatezza nei confronti di questo Stato, odia chi è fuori dall’ordinario, e nulla odia più profondamente di chi è fuori dall’ordinario. Infatti, che in questo Stato siano di continuo protetti e incoraggiati solo l’ottusità e la povertà e il dilettantismo e che in questo Stato tutti i mezzi si accumulino a iosa solo per il superfluo e il raffazzonato, è chiaro. Lo vediamo ogni giorno in centinaia di esempi. E questo Stato pretende di essere un cosiddetto Stato civile, e pretende di essere definito tale in ogni occasione. Non raccontiamocela, dice Oehler, con uno Stato civile questo Stato non ha nulla da spartire, non stanchiamoci di ripeterlo sempre e di continuo e in ogni occasione; e da questa incessante constatazione, in forma di ritorno dell’eguale, che tale Stato non ha limiti alla mancanza di intelletto e di sentimento, insorgono per noi le massime difficoltà. La disgrazia di Hollensteiner è stata quella di legarsi con tutto se stesso a questo paese, non a questo Stato, capisce, a questo paese. E sappiamo che cosa significhi, dice Oehler, amare un paese come il nostro con tutto se stesso contro uno Stato che fa l’impossibile per distruggerti anziché venirti in aiuto, che fa l’impossibile per paralizzarti anziché venirti in aiuto. Il suicidio di Hollensteiner è uno fra i tanti suicidi, ogni anno dobbiamo constatare che molti di coloro che stimiamo e che hanno dimostrato talento e genio e si sono rivelati fuori dall’ordinario e fuori dal comune, si sono uccisi; infatti andiamo al cimitero sempre e solo per assistere alla sepoltura di uomini che si sono uccisi per disperazione nei confronti dello Stato, se ci riflettiamo, che si sono gettati dalla finestra o si sono appesi per il collo o sparati un colpo perché si sono sentiti piantati in asso da questo nostro Stato, e da questo Stato sono stati anche effettivamente piantati in asso. Andiamo al cimitero, dice Oehler, solo per seppellire un genio condotto alla rovina e spinto alla morte dallo Stato, ecco la verità. Se paragoniamo la bellezza di questo paese alla bassezza di questo Stato, dice Oehler, arriviamo al suicidio. Quanto a Hollensteiner, è chiaro che il suo suicidio non poteva non perturbare Karrer, considerando l’incredibile rapporto di amicizia che li legava. Io però avevo sempre creduto che Hollensteiner avesse la forza di andare in Germania, a Göttingen, dove avrebbe avuto tutto a sua disposizione, dice Oehler: non aver avuto questa forza l’ha ucciso. Né sarebbe servito cercar di convincere Hollensteiner con ancora maggiore intensità ad andarci comunque, a Göttingen – così Karrer, dice Oehler. Un’indole non ipersensibile come quella di Hollensteiner naturalmente avrebbe avuto la forza di andare a Göttingen, di andare non importa dove, di andare semplicemente là dove avrebbe avuto a disposizione tutti i mezzi adatti ai suoi scopi scientifici, dice Oehler. Ma naturalmente per un’indole come quella di Hollensteiner è del tutto impossibile stabilirsi in un luogo intollerabile, volendovi per giunta lavorare con obiettivi scientifici e in un settore scientifico, qualunque esso sia. E non avrebbe senso, dice Oehler, andare da un paese che ami – ma in cui a poco a poco, come si vede, puoi solo affondare in un pantano di indifferenza e stupidità – verso un paese in cui non esci più dalla depressione sviluppata contro questo stesso paese, così come da una condizione in cui uno a poco a poco può solo andare a fondo; allora meglio commettere un suicidio nel paese che ami, foss’anche solo per abitudine, dice Oehler, che non nel paese che, detto molto apertamente, odi. Persone come Hollensteiner sono le più difficili, d’accordo, dice Oehler, e non è semplice restare in contatto con loro, perché da queste persone uno viene di continuo ferito e offeso – la caratteristica di chi è fuori dall’ordinario, la sua caratteristica più spiccata, è sempre stata quella di ferire e offendere –, ma d’altra parte non c’è piacere più grande che essere in contatto con queste persone difficilissime. Dobbiamo fare di tutto, dice Oehler, e riconoscere a questo, in modo pienamente consapevole, il più alto valore, per essere in contatto proprio con le persone più difficili, quelle più fuori dall’ordinario e più fuori dal comune, perché solo questo contatto ha in effetti valore. Tutti gli altri contatti sono privi di valore, dice Oehler, sono necessari ma privi di valore. Peccato, dice Oehler, che io non abbia incontrato Hollensteiner già molto tempo prima, ma una singolare cautela nei confronti di questa persona, che ho sempre ammirato, devo dirlo, dice Oehler, mi ha indotto a entrare in contatto più stretto con Hollensteiner solo molto più tardi, almeno vent’anni dopo, e anche allora questo contatto non è stato intenso come avrei voluto. Persone come Hollensteiner, dice Oehler, non lasciano neppure che uno gli si avvicini, lo attirano e nel momento decisivo lo respingono sempre. Crediamo di avere un rapporto più stretto con queste persone, mentre in realtà non possiamo mai avere un rapporto più stretto con persone come Hollensteiner. In realtà diventiamo succubi di persone come Hollensteiner, senza sapere precisamente quale sia la causa di questo comportamento. Poiché da un lato, in effetti, non è la persona, dall’altro però non è neanche la sua dottrina, dato che entrambe ci risultano del tutto incomprensibili. È qualcosa di cui non possiamo dire che cos’è, e che per questo ha un enorme effetto su di noi. Con una persona come Hollensteiner bisognerebbe, al pari di Karrer, esserci andati a scuola insieme fin dalle elementari, e poi al liceo e all’istituto superiore, cioè all’università, dice Oehler, per poter sapere che cos’è. Uno come me non lo sa. Con una sprovvedutezza davvero spaventosa commentiamo un fatto, un caso o più semplicemente una disgrazia come il fatto, il caso o più semplicemente la disgrazia di Hollensteiner. Ne ho parlato con Karrer proprio qui, un paio d’ore dopo che eravamo stati alla sepoltura di Hollensteiner. Solo al cimitero di Döbling, dice Oehler, nel quale abbiamo sepolto Hollensteiner, sepolto nel modo più semplice – lui desiderava, com’è naturale, una sepoltura molto semplice, dice Oehler, una volta di fronte a Karrer vi aveva fatto cenno e quindi già molto presto, già a ventun anni, aveva fatto cenno di desiderare una sepoltura molto semplice –, solo al cimitero di Döbling, dice Oehler, sono seppellite così tante persone fuori dall’ordinario, tutte mandate in rovina dallo Stato, sconfitte dalla brutalità della burocrazia e dall’ottusità della massa. Commentiamo un fatto, un caso o più semplicemente una disgrazia e ci chiediamo, com’è potuta accadere questa disgrazia?, com’è stata possibile la disgrazia?, evitiamo intenzionalmente di parlare di una cosiddetta tragedia umana. Abbiamo di fronte a noi un singolo individuo e dobbiamo dirci che questo singolo individuo deve la sua sconfitta allo Stato, ma d’altro canto anche lo Stato la sua a questo singolo individuo. Ora è facile dire che si tratta di una disgrazia, dice Oehler – che sia di questo singolo individuo o che sia di questo Stato. Non ha senso dirsi ora che Hollensteiner potrebbe essere a Göttingen (o a Marburg), perché Hollensteiner non è a Göttingen e non è a Marburg, Hollensteiner non c’è più. Abbiamo sepolto Hollensteiner al cimitero di Döbling, anche questo è falso. Fra l’altro, per quanto riguarda Hollensteiner, noi siamo soli con la nostra assoluta inermità (del pensiero). Quello che facciamo è meditare sino allo sfinimento su cose insolubili, tra le quali non intendiamo il pensiero, ma ciò che definiamo pensiero, dice Oehler. Occupandoci di Hollensteiner e del suicidio di Hollensteiner e della pazzia di Karrer che, come credo, è direttamente connessa con il suicidio di Hollensteiner, riacquistiamo consapevolezza della nostra inquietudine. Per trovare soddisfazione, approfittiamo anche di un argomento come il rapporto fra Hollensteiner e Karrer. Una singolare spietatezza, per nulla riconoscibile quale spietatezza, domina una persona come Hollensteiner, dice Oehler, e noi finiamo irrimediabilmente succubi di tale spietatezza nel riconoscere che è una condizione emotiva di incredibile lucidità, di cui possiamo anche dire che è una condizione mentale. Chi ha conosciuto Hollensteiner, di tanto in tanto ha dovuto chiedersi a che cosa portasse mai il modo di fare di Hollensteiner. Oggi lo vediamo con estrema chiarezza, a che cosa ha portato il modo di fare di Hollensteiner. Nel caso di Hollensteiner e di Karrer, si tratta delle due persone più insolite che abbia mai conosciuto, dice Oehler. Ha senza dubbio un carattere dimostrativo, il fatto che Hollensteiner si sia impiccato nel suo Istituto, dice Oehler. Ma lo sgomento per il suicidio di Hollensteiner è stato, come lo sgomento per tutti gli altri suicidi, di brevissima durata. Una volta sepolto il suicida, il suo suicidio e lui stesso sono dimenticati, nessuno ci pensa più e lo sgomento si rivela un’ipocrisia. Tra il suicidio di Hollensteiner e la sepoltura di Hollensteiner, molto è stato detto sul salvataggio dell’Istituto di Chimica, dice Oehler, sul fatto che ora avrebbero messo a disposizione del successore di Hollensteiner – come se ce ne fosse uno!, esclama Oehler – i mezzi che a Hollensteiner hanno rifiutato, i giornali hanno scritto che il ministero avrebbe in programma un cosiddetto risanamento esteso e radicale dell’Istituto di Hollensteiner, anche alla sepoltura si è parlato del fatto che lo Stato adesso avrebbe fatto per l’Istituto di Chimica quello che finora non ha fatto per l’Istituto di Chimica, ma oggi, un paio di settimane dopo, dice Oehler, tutto questo è bell’e dimenticato. Impiccandosi nel suo Istituto, Hollensteiner dimostra lo stato d’emergenza in cui versano le scienze nel nostro paese, dice Oehler; e il mondo, e quindi l’ambiente di Hollensteiner, simula sgomento e va alla sepoltura di Hollensteiner, e nell’attimo in cui Hollensteiner è sepolto dimentica tutto ciò che è connesso a Hollensteiner. Oggi nessuno parla più di Hollensteiner e nessuno parla più del suo Istituto di Chimica e nessuno pensa più a cambiare le condizioni che hanno portato al suicidio di Hollensteiner. E poi arriva di nuovo uno che si suicida, dice Oehler, e un altro, e si ripete lo stesso procedimento. Lentamente si compie in tal modo la piena estinzione dell’attività intellettuale di questo paese. E ciò che con Hollensteiner osserviamo a proposito del suo settore, possiamo osservarlo in tutti gli altri settori scientifici, dice Oehler. Finora ci siamo sempre chiesti se un paese e uno Stato possano permettersi di lasciar andare in rovina il loro patrimonio intellettuale in modo così infame, dice Oehler, ma adesso questo problema non si pone più. Karrer ha parlato di Hollensteiner come di un tipico esempio di persona che non si poteva aiutare perché era fuori dall’ordinario, insolita. Karrer mi ha spiegato con la massima chiarezza il concetto di eccentrico connesso a Hollensteiner, dice Oehler. Se tra lui, Karrer, e Hollensteiner ci fosse stato un rapporto meno essenziale, aveva detto Karrer a Oehler, un rapporto distaccato, lui, Karrer, avrebbe fatto di Hollensteiner l’oggetto di uno scritto dal titolo La relazione fra persone e caratteri come Hollensteiner, in quanto chimico, e ciò che a poco a poco li distrugge e li uccide con estrema coerenza: lo Stato. In effetti esistono molte osservazioni di Karrer su Hollensteiner, dice Oehler, centinaia di foglietti; come anche su di Lei, mi dice Oehler, esistono centinaia di foglietti di Karrer; come anche su di me. Si tratta di non permettere che tutte queste idee, osservazioni e pensieri di Karrer vadano perduti, è ovvio, ma è difficile arrivare a queste annotazioni di Karrer, perché, se si vogliono salvare questi scritti di Karrer, bisogna rivolgersi alla sorella di Karrer, la quale però, di tutto ciò che è connesso con il pensiero di Karrer, non vuole più sapere nulla. Lui, Oehler, si chiede se la sorella di Karrer non abbia già annientato gli scritti di Karrer, perché, a quanto si osserva di continuo, i parenti ottusi, come ad esempio sorelle e mogli o fratelli e nipoti di pensatori defunti o internati definitivamente in manicomio, proprio quando si tratta di caratteri geniali come nel caso di Karrer, agiscono in fretta, non aspettano neppure il momento della morte definitiva o della pazzia definitiva dell’oggetto odiato, dice Oehler, ma annientano, cioè bruciano, gli scritti irritanti dell’odiato pensatore loro congiunto, in genere ancor prima della sua morte definitiva o del suo definitivo internamento. Proprio come la sorella di Hollensteiner, che ha distrutto subito dopo il suicidio di Hollensteiner tutto ciò che Hollensteiner ha scritto. Un errore supporre che la sorella di Hollensteiner si sia messa dalla parte di Hollensteiner, dice Oehler, al contrario, la sorella di Hollensteiner si è vergognata del fratello e si è messa dalla parte dello Stato, e quindi dalla parte della bassezza e della stupidità. Quando Karrer è andato a trovarla, lei l’ha buttato fuori, dice Oehler, o meglio, non l’ha neppure fatto entrare in casa sua, Karrer. E, alla richiesta degli scritti di Hollensteiner, ha risposto che gli scritti di Hollensteiner non esistevano più, lei li aveva bruciati, gli scritti di Hollensteiner, perché le erano sembrati scritti deliranti. È un fatto, dice Oehler, che con gli scritti di Hollensteiner siano andati perduti pensieri immani per il mondo, una filosofia immane per la filosofia, una scienza immane per la scienza. Perché Hollensteiner era una mente scientifica che pensava di continuo, dice Oehler, e di continuo ha messo nero su bianco questo costante pensiero scientifico. In effetti, nel caso di Hollensteiner non si trattava solo di uno scienziato, ma anche di un filosofo, in Hollensteiner lo scienziato e il filosofo si sono potuti concentrare in un’unica mente lucida nel modo più disciplinato e quindi più produttivo, dice Oehler. Così, quando si parla di Hollensteiner, si può parlare di uno scienziato che in fondo è stato anche un filosofo, come di un filosofo che in fondo è stato anche uno scienziato. La scienza di Hollensteiner, in fondo, è stata una filosofia, la filosofia di Hollensteiner una scienza, dice Oehler. Altrimenti siamo sempre costretti a dire: qui abbiamo uno scienziato, ma (purtroppo) non un filosofo, qui abbiamo un filosofo, ma (purtroppo) non uno scienziato. Non così nel giudizio su Hollensteiner. Una caratteristica molto austriaca, dice Oehler, come è risaputo. Se ci occupiamo di Hollensteiner, dice Oehler, ci occupiamo di un filosofo e al tempo stesso di uno scienziato, anche se sarebbe del tutto falso dire che Hollensteiner era uno scienziato filosofeggiante e così via. Era un filosofo di completa scientificità. Se parliamo di un uomo, dice Oehler, come adesso di Hollensteiner (e quando parliamo di Hollensteiner in fondo parliamo di Karrer, o quando parliamo di Karrer in fondo molto spesso parliamo di Hollensteiner, e così via), ne parliamo sempre muovendo da un risultato. Siamo dei matematici, dice Oehler, o perlomeno proviamo sempre a essere dei matematici. Quando pensiamo, dice Oehler, si tratta non già di filosofia ma di matematica. Tutto è un calcolo mostruoso, estremamente facile, se l’abbiamo impostato sin dall’inizio senza interruzione. Ma non sempre siamo in grado di avere in testa come un tutto unico quanto da noi calcolato, e interrompiamo ciò che pensiamo accontentandoci di quel che vediamo, e a lungo non ci stupiamo di accontentarci di quel che vediamo, ovvero di milioni e milioni di immagini che si pongono l’una sull’altra e l’una sotto l’altra, che si spingono in continuazione l’una nell’altra e l’una lontano dall’altra. Possiamo dire allora che quanto a una persona come me sembra fuori dall’ordinario, e che anche per me è fuori dall’ordinario perché è fuori dall’ordinario, per lo Stato non significa nulla. Infatti Hollensteiner non ha significato nulla per lo Stato perché non ha significato nulla per la massa, dice Oehler. Ma con questo pensiero non andiamo avanti, dice Oehler. E mentre lo Stato e mentre la società e mentre la massa fanno di tutto per eliminare il pensiero, dice Oehler, noi ci opponiamo a questi sviluppi con tutti i mezzi a nostra disposizione, anche se noi stessi per la maggior parte del tempo crediamo all’insensatezza del pensiero, perché sappiamo che il pensiero è piena insensatezza, ma perché – d’altra parte – sappiamo con altrettanta precisione che noi senza l’insensatezza del pensiero non siamo, ovvero non siamo nulla. Allora proviamo a adeguarci alla disinvoltura con cui la massa ha il coraggio di esistere, anche se in ogni sua dichiarazione essa nega tale disinvoltura, dice Oehler, ma com’è naturale non riusciamo a essere effettivamente disinvolti nella disinvoltura della massa. Di tanto in tanto, però, non possiamo fare ameno, dice Oehler, di adeguarci all’errore, di abbandonarci all’errore e cioè a tutti gli errori in generale, e di non essere in assoluto in nient’altro che nell’errore. Infatti, a guardar con esattezza, dice Oehler, tutto è errore, come Lei sa. Esistiamo però all’interno di questo fatto perché all’esterno di questo fatto non potremmo proprio esistere, in ogni caso non in modo costante. L’esistenza è errore, dice Oehler. Ce ne dobbiamo fare una ragione con una certa tempestività, in modo da avere un fondamento su cui esistere, dice Oehler. Di conseguenza l’errore è l’unico fondamento reale. Ma non sempre siamo tenuti a pensare questo fondamento come un principio; non dobbiamo farlo, dice Oehler, non possiamo farlo. Possiamo solo continuare a dire sempre e soltanto di sì nel caso in cui dobbiamo dire di no senza riserve, capisce, dice Oehler, questo è il fatto. Così la pazzia di Karrer è in rapporto causale con il suicidio di Hollensteiner, che con la pazzia non ha nulla da spartire, dice Oehler. A una natura come quella di Karrer un modo d’agire come quello di Hollensteiner doveva essere dannoso nello stesso modo in cui, se si considera il rapporto di Hollensteiner con Karrer e viceversa, il suicidio di Hollensteiner è stato dannoso per la natura di Karrer, dice Oehler. Molto spesso Karrer, parecchio tempo prima che Hollensteiner si suicidasse, aveva considerato con Oehler l’eventualità che Hollensteiner potesse suicidarsi. Ma in quel caso si trattava della riflessione su un suicidio di Hollensteiner insorto dall’interno, non su uno causato dall’esterno, dice Oehler; a parte il fatto che interno ed esterno, per nature come quelle di Hollensteiner e Karrer, sono identici. Perché, così Karrer, dice Oehler, è sempre esistita la possibilità che Hollensteiner si suicidasse per cause interne, poi – con l’ampliamento dell’Istituto di Hollensteiner e con gli evidenti successi di Hollensteiner nella sua disciplina, e al contempo con l’ignorare e il silurare i successi di Hollensteiner da parte del suo ambiente – anche per cause esterne. Ma mentre è caratteristico e indicativo di Hollensteiner, dice Oehler, che alla fine si sia suicidato, cosa che adesso sappiamo e cosa che non potevamo sapere fino al momento in cui Hollensteiner non si è suicidato, è indicativo di Karrer che non si sia suicidato dopo che si è suicidato Hollensteiner, bensì che lui, Karrer, sia impazzito. Terribile è già solo il pensiero, dice Oehler, che uno come Karrer, poiché è impazzito e, come credo, è in effetti impazzito definitivamente, per il fatto di essere impazzito definitivamente sia caduto nelle mani di gente come Scherrer. Lo scorso sabato Oehler parlando con Scherrer ha fornito diverse indicazioni riguardo a Karrer che, così Scherrer, dice Oehler, per lui, Scherrer, hanno la loro importanza ai fini del trattamento di Karrer. Lui, Oehler, non crede che quanto ha esposto sabato a Scherrer, soprattutto sull’evento determinante per la pazzia di Karrer, l’evento nel negozio di pantaloni di Rustenschacher, non crede dunque che quanto ha detto a Scherrer sulle sue percezioni nel negozio di Rustenschacher poco prima che Karrer impazzisse, abbia ancora un senso vero e proprio. Per il lavoro scientifico di Scherrer sì, per Karrer no. Perché adesso, per la pazzia di Karrer, dice Oehler, non cambia più nulla il fatto che Scherrer sappia quello che io ho percepito nel negozio di Rustenschacher prima che Karrer impazzisse nel negozio di Rustenschacher. Gli avvenimenti del negozio di Rustenschacher, dice Oehler, in fondo sono stati solo il momento che ha scatenato la pazzia definitiva di Karrer, nient’altro. Ad esempio sarebbe stato molto più importante, dice Oehler, se Scherrer si fosse occupato del rapporto di Karrer con Hollensteiner, ma su questo rapporto Scherrer non ha voluto sapere niente da Oehler, il rapporto di Karrer con Hollensteiner non ha interessato affatto Scherrer, dice Oehler; più volte ho tentato di richiamare l’attenzione di Scherrer su questo rapporto, di fargli notare questa connessione davvero importante e gli avvenimenti davvero importanti all’interno della connessione di anni e di decenni fra Karrer e Hollensteiner, ma Scherrer non gli ha dato ascolto, dice Oehler, com’è proprio di queste persone, di questi medici psichiatri del tutto digiuni di filosofia e quindi del tutto inservibili, continuava a insistere sugli avvenimenti nel negozio di Rustenschacher, a mio avviso istruttivi, sì, ma non certo decisivi, dice Oehler, senza però capire nulla dell’importanza del rapporto Karrer/Hollensteiner. Di continuo mi sono sentito chiedere da Scherrer perché noi, Karrer e io, fossimo entrati nel negozio di Rustenschacher, e io ogni volta ho risposto che a questa domanda non ero in grado di rispondere e che non capivo affatto come Scherrer potesse pormi questa domanda, dice Oehler. Le domande poste da Scherrer a mio avviso sono sempre state domande irrilevanti, perciò Scherrer, com’è naturale, dice Oehler, ha avuto da me una risposta irrilevante. Queste persone pongono di continuo domande irrilevanti, e quindi ricevono di continuo risposte irrilevanti, ma non se ne accorgono neppure. Così come non si accorgono che le domande da loro poste sono irrilevanti e quindi insensate, non si accorgono che le risposte che ricevono sono irrilevanti e quindi insensate. Se non avessi menzionato di continuo Hollensteiner, dice Oehler, Scherrer non sarebbe neppure arrivato a Hollensteiner. È qualcosa che deprime in modo singolare, ritrovarsi di fronte a una persona che con la sua sola presenza afferma in continuazione di essere competente – e nella faccenda di cui si tratta non è affatto competente. Questa osservazione la facciamo di continuo, dice Oehler: siamo con persone che dovrebbero essere competenti e che per di più affermano e pretendono, e lo pretendono di continuo, di essere competenti nella questione per cui ci siamo incontrati con loro, mentre sono incompetenti in un modo irresponsabile e sconvolgente e addirittura ripugnante. Quasi tutte le persone con cui ci siamo incontrati per una questione, foss’anche la più importante, sono incompetenti. Scherrer, dice Oehler, a mio avviso è il più incompetente per quanto riguarda Karrer, e il pensiero che Karrer sia alla mercé di Scherrer, poiché Karrer è internato nel reparto di Scherrer, è uno dei pensieri più tremendi. Il mostruoso senso di superiorità che si avverte, dice Oehler, quando si sta di fronte a un uomo come Scherrer. In brevissimo tempo ci si chiede, ma che cosa avrà mai a che fare Karrer (il paziente) con Scherrer (il suo medico)? Che una persona come Karrer sia alla mercé di una persona come Scherrer è una mostruosità umana senza pari, dice Oehler. Ma per Karrer, dato che conosciamo la sua condizione, è irrilevante essere o no affidato a Scherrer. Che Karrer sia o no allo Steinhof, in fondo è diventato irrilevante nel momento in cui Karrer è definitivamente impazzito, dice Oehler. Tuttavia ciò che ripugna in un uomo come Scherrer non è la totale assenza di filosofia, dice Oehler, è la sua vergognosa ignoranza, anche se un uomo nella posizione di Scherrer dovrebbe non solo avere nozioni di medicina, ma soprattutto essere una mente filosofica. Qualsiasi cosa io dica, viene subito fuori l’ignoranza di Scherrer, dice Oehler, l’ignoranza di Scherrer emerge di continuo, ho dovuto pensarlo, dice Oehler, di continuo, qualsiasi cosa avessi detto a Scherrer o qualsiasi cosa Scherrer avesse risposto a ciò che avevo chiesto. Ma anche quando Scherrer non dice nulla, in lui si avverte solo ignoranza, dice Oehler, uno come Scherrer non ha bisogno di dire cose da ignorante per farci sapere che si tratta di un ignorante calzato e vestito. Quando siamo in compagnia di medici, ci sconvolge osservare come esercitino la professione in piena ignoranza, dice Oehler. Anche se, tra i medici, l’ignoranza è un’abitudine alla quale si sono assuefatti nei secoli, dice Oehler. A parte qualche eccezione, dice Oehler. L’incapacità di Scherrer di pensare, in generale, in modo conseguente e dunque di porre domande in modo conseguente e di dare risposte, e così via, dice Oehler. Proprio in presenza di questa persona ho di nuovo pensato, dice Oehler, che soggetti come Scherrer non potranno mai impazzire. Come sappiamo, i medici psichiatri con il tempo si ammalano di nervi, ma non impazziscono.

Per ignoranza riguardo al tema dominante della propria vita, questa gente alla fin fine e in conclusione si ammala sempre di nervi, ma non impazzisce mai. Per incapacità, dice Oehler, e in fondo per via di una decennale e continua incompetenza. E in un attimo ho di nuovo constatato in quale misura la pazzia sia qualcosa che giunge a compimento alle più inaudite altezze. E che nella pazzia in un attimo è in gioco effettivamente tutto. Ma già solo dire una cosa simile a Scherrer, dice Oehler, sarebbe equivalso a sopravvalutare Scherrer in tutto, così ho rinunciato ben presto a dire a Scherrer una cosa come quella appena accennata nella definizione della pazzia effettiva, dice Oehler. Probabilmente a Scherrer non interessava neppure quanto è avvenuto nel negozio di Rustenschacher, dice Oehler, ma poiché non ha saputo trovare nulla di meglio, mi ha convocato allo Steinhof per interrogarmi sugli avvenimenti nel negozio di Rustenschacher, dice Oehler. I medici psichiatri amano prender nota di quello che uno gli dice, lo fanno senza rifletterci sopra, ed è del tutto indifferente quello che uno gli dice, quindi è a loro del tutto indifferente ciò su cui non riflettono. Poiché un medico psichiatra deve indagare, dice Oehler, loro indagano, e di tutte le tracce seguono quella più irrilevante. Naturalmente l’evento nel negozio di Rustenschacher non è insignificante, dice Oehler, ma è solo uno delle centinaia di eventi che hanno preceduto l’evento nel negozio di Rustenschacher e che hanno lo stesso valore che ha l’evento nel negozio di Rustenschacher. Nessuna domanda su Hollensteiner, dice Oehler, nessuna domanda sull’ambiente di Hollensteiner, nessuna domanda riguardo alla posizione di Hollensteiner nel mondo attuale della scienza, nessuna domanda sui riferimenti filosofici di Hollensteiner, sulle sue annotazioni, per non parlare del rapporto di Hollensteiner con Karrer, di Karrer con Hollensteiner. Scherrer si sarebbe pur dovuto interessare, com’è naturale, al periodo in cui Hollensteiner e Karrer, dice Oehler, andavano a scuola insieme, e al sentiero che i due percorrevano per andare a scuola insieme, alla loro origine e così via, alle loro comuni e divergenti opinioni e mire e così via, dice Oehler. Scherrer ha insistito che io, per tutto il tempo, dessi notizie solo sull’evento nel negozio di Rustenschacher; qui, ovvero in rapporto agli eventi nel negozio di Rustenschacher, dice Oehler, Scherrer ha preteso da me la massima esattezza, non tralasci nulla, diceva di continuo, dice Oehler, ancora mi sembra di sentirlo ripetere tutto il tempo, non tralasci nulla, così Oehler, mentre io parlavo ininterrottamente dell’evento nel negozio di Rustenschacher. Quell’evento è stato un cosiddetto evento scatenante, ho detto a Scherrer, dice Oehler, ma non è per nulla un evento fondamentale. A questo commento, che non ho fatto solo una volta di fronte a Scherrer, l’ho fatto più volte questo commento, dice Oehler, Scherrer non ha però reagito – e quindi ho dovuto riparlare in continuazione dell’evento nel negozio di Rustenschacher. Certo che è proprio grottesco, ha detto Scherrer più volte mentre descrivevo l’evento nel negozio di Rustenschacher. Questo commento, su di me, ha avuto solo un effetto repellente.


Oehler ha detto a Scherrer, fra l’altro, di essere entrato, lui con Karrer, in modo del tutto casuale nel negozio di Rustenschacher; a un tratto abbiamo detto, così Oehler: entriamo nel negozio di Rustenschacher, e siamo entrati nel negozio di Rustenschacher e ci siamo fatti mostrare parecchi pantaloni invernali, di quelli spessi, caldi e nel contempo resistenti (così Karrer). Il nipote di Rustenschacher, il suo commesso, così Oehler a Scherrer, che ci aveva già serviti altre volte, ha tirato giù un pacco di pantaloni da quegli scaffali contrassegnati dai numeri di tutte le taglie possibili, e ha gettato il pacco sul banco, e Karrer ha chiesto al nipote di Rustenschacher di tenere tutti quei pantaloni contro luce per esaminarli, mentre io rimanevo discosto rispetto alla porta d’ingresso, sul lato sinistro vicino allo specchio, così Oehler a Scherrer. E con il suo modo di fare tipico, suo di Karrer, così Oehler a Scherrer, Karrer ha cominciato a indicare più e più volte con il bastone e con crescente insistenza tutti i punti radi che quei pantaloni, se tenuti contro luce, rivelavano, così Oehler a Scherrer, i punti radi che in effetti erano chiaramente evidenti, come continuava a ripetere Karrer, così Oehler a Scherrer; Karrer diceva sempre e solo: questi cosiddetti pantaloni nuovi, così Oehler a Scherrer, facendosi tenere i pantaloni contro luce, e soprattutto continuava a dire: questi punti stranamente radi in questi cosiddetti pantaloni nuovi, così Oehler a Scherrer. Lui, Karrer, si era fatto di nuovo indurre a commenti: ma perché questi cosiddetti, continuava a dire Karrer, questi cosiddetti pantaloni nuovi, continuava e continuava, così Oehler a Scherrer, perché questi cosiddetti pantaloni nuovi che, quand’anche in effetti nuovi, perché mai indossati, sono però già da anni in giacenza e quindi hanno ormai un aspetto ben poco allettante, cosa che lui, Karrer, non voleva tacere di fronte a Rustenschacher, così come lui, Karrer, in generale, di fronte a Rustenschacher non voleva tacere nulla riguardo ai pantaloni, perché lui, di tutto ciò che riguardava quei pantaloni posati sul banco e tenuti di continuo contro luce dal nipote di Rustenschacher, non poteva tacere nulla, non era da lui, da Karrer, tacere, di fronte a Rustenschacher, il pur minimo dettaglio riguardo a quei pantaloni, come del resto nel caso di molte altre cose che non riguardavano quei pantaloni: non poteva tacerle di fronte a Rustenschacher, mentre per lui, Karrer, sarebbe stato senz’altro vantaggioso tacere di fronte a Rustenschacher ciò che non taceva di fronte a Rustenschacher, ma perché quei pantaloni rivelano, in un modo che induce subito a sospettare di quei pantaloni, così Karrer a Rustenschacher ammiccando, così Oehler a Scherrer, quei punti radi chiaramente vistosi; proprio quei pantaloni nuovi, in giacenza e quindi ben poco allettanti, e nondimeno mai indossati, rivelano quei punti radi, disse Karrer a Rustenschacher, così Oehler a Scherrer. Che si tratti magari, quanto alla stoffa di cui sono fatti quei pantaloni, di merce di scarto importata dalla Cecoslovacchia?, così Oehler a Scherrer. Karrer ha ripetuto più volte l’espressione merce di scarto cecoslovacca, così Oehler a Scherrer, e anzi l’ha ripetuta con tale insistenza che l’autocontrollo del nipote di Rustenschacher, il commesso, è stato, in fin dei conti, grandissimo. Quanto a Rustenschacher, finché siamo rimasti nel negozio di Rustenschacher, lui si è occupato esclusivamente dell’etichettatura dei pantaloni nel retro del negozio di Rustenschacher, così Oehler a Scherrer. L’autocontrollo del commesso, dal momento in cui noi, io e Karrer, siamo entrati nel negozio, è stato sempre grandissimo. Anche se, al nostro ingresso nel negozio di Rustenschacher, tutto già indicava una catastrofe imminente (in Karrer), così Oehler a Scherrer, non ho pensato neanche per un momento che si potesse arrivare davvero a una simile catastrofe, com’è naturale, orrenda per Karrer, così Oehler a Scherrer. Questa osservazione, però, l’ho fatta a ogni nostra visita nel negozio di Rustenschacher, così Oehler a Scherrer: il nipote di Rustenschacher mantiene l’autocontrollo per molto, moltissimo tempo, anzi sempre, finché Karrer non ricorre al concetto o espressione merce di scarto cecoslovacca. E Rustenschacher stesso, durante tutte le nostre visite al suo negozio, esibiva il più grande autocontrollo, fino al punto in cui, così Oehler a Scherrer, Karrer a un tratto non ricorreva all’espressione o concetto merce di scarto cecoslovacca, in tono volutamente quasi impercettibile, ma proprio per questo tanto più efficace. A protestare per primo contro le parole merce di scarto era però il nipote e commesso di Rustenschacher, così Oehler a Scherrer. Il commesso, com’è naturale in tono esasperato, diceva a Karrer che i tessuti utilizzati per i pantaloni, lì sul banco, non erano né merce di scarto né merce di scarto cecoslovacca, bensì tessuti inglesi di primissima qualità, ma non appena Karrer diceva: tutti questi pantaloni sono merce di scarto cecoslovacca, il commesso gettava i pantaloni che aveva appena tenuto contro luce su quel cumulo di pantaloni, e faceva il gesto di uscire dal negozio per andare nell’ufficio sul retro del negozio. Sempre uguale, così Oehler a Scherrer: di colpo Karrer dice merce di scarto cecoslovacca, il commesso getta i pantaloni, appena tenuti in alto contro luce, sul cumulo di pantaloni, dice esasperato tessuti inglesi di primissima qualità e fa il gesto di uscire dal negozio per andare nell’ufficio sul retro del negozio, muove anche qualche passo, così Oehler a Scherrer, e precisamente verso Rustenschacher, ma davanti a Rustenschacher si ferma, si gira e torna al banco, dove Karrer con il bastone alzato dice: non ho niente contro la lavorazione dei pantaloni, no, non ho niente contro la lavorazione, non parlo certo della lavorazione ma della qualità dei tessuti, niente contro la lavorazione, assolutamente niente contro la lavorazione, cerchi di capirmi, ripete Karrer più volte al commesso, così Oehler a Scherrer, d’accordo, la lavorazione di questi tessuti è la migliore in assoluto, così Karrer, così Oehler a Scherrer, e subito Karrer dice al nipote di Rustenschacher: del resto conosco Rustenschacher da troppo tempo per non sapere che la lavorazione di questi tessuti è la migliore che possiamo immaginarci. Ma constatare che, di là dalla lavorazione, nel caso dei tessuti di quei pantaloni si trattava di merce di scarto e, come appariva con ogni evidenza, merce di scarto cecoslovacca, lui, Karrer, non poteva ometterlo, doveva molto semplicemente continuare a ripetere che nel caso dei tessuti di quei pantaloni si trattava di merce di scarto cecoslovacca. Tutt’a un tratto Karrer alzò di nuovo il bastone, così Oehler a Scherrer, picchiò più volte sonoramente sul banco col bastone e disse con enfasi: me lo deve concedere, nel caso dei tessuti di questi pantaloni si tratta di merce di scarto cecoslovacca! me lo deve concedere! me lo deve concedere!, al che Scherrer mi chiede se Karrer ha detto più volte me lo deve concedere e precisamente con che tono di voce l’ha detto, al che io ho detto a Scherrer cinque volte, perché avevo ancora nell’orecchio quante volte e come Karrer aveva detto: me lo deve concedere!, esattamente cinque volte, e a Scherrer indico anche esattamente il tono di voce, così Oehler. Nel momento in cui Karrer dice: me lo deve concedere! e me lo dovete concedere, signori! e me lo dovete concedere, signori, nel caso dei pantaloni posati su questo banco si tratta di merce di scarto cecoslovacca, il nipote di Rustenschacher tiene di nuovo un paio di pantaloni contro luce e per l’esattezza un paio di pantaloni con un punto particolarmente rado, dico a Scherrer, così Oehler, due volte lo ripeto a Scherrer, con un punto particolarmente rado, con un punto particolarmente rado davanti alla luce, dico, così Oehler, ognuno di questi pantaloni che Lei mi mostra, così Karrer, così Oehler a Scherrer, è la prova che nel caso dei tessuti di tutti questi pantaloni si tratta di merce di scarto cecoslovacca. Ma il fatto singolare e sorprendente e che al momento gli dà da pensare, così Oehler a Scherrer, per lui, Karrer, non sono affatto tutti quei punti radi nei pantaloni, e neppure il fatto che nel caso dei tessuti di quei pantaloni si tratti di merce di scarto e per la precisione, come continua a ripetere, merce di scarto cecoslovacca, in fondo tutto ciò non è né singolare, né strano e neppure sorprendente; singolare e strano e sorprendente è il fatto, così Karrer al nipote di Rustenschacher, così Oehler a Scherrer, che la verità – e lui, Karrer, dice soltanto la verità quando dice che questi pantaloni hanno moltissimi punti radi e che questi tessuti sono soltanto merce di scarto cecoslovacca –, che la verità possa irritare a tal punto un commesso, il quale per di più è il nipote del titolare; al che il nipote di Rustenschacher, così Oehler a Scherrer, dice di giurare che nel caso dei tessuti in questione non si tratta affatto di merce di scarto cecoslovacca, bensì di tessuti inglesi di primissima qualità; più volte il commesso giura a Karrer che, nel caso dei tessuti in questione, si tratta di tessuti inglesi di primissima qualità, di primissima qualità, di primissima qualità, non di prima qualità, ripeto più volte, dice Oehler a Scherrer, ripeto, di primissima qualità e non di prima qualità, perché ero dell’opinione che fosse decisivo se qualcuno dice di prima o di primissima qualità, di primissima qualità, ripeto più volte a Scherrer, in effetti i tessuti in questione sono tessuti inglesi di primissima qualità, dice il commesso, così Oehler a Scherrer, al che la voce del commesso – del nipote di Rustenschacher, devo rispiegare di continuo a Scherrer –, proprio quando diceva tessuti inglesi di primissima qualità, diventava sgradevolmente alta, se la voce del nipote di Rustenschacher è sgradevole già di per sé, dico a Scherrer, così Oehler, quando costui dice tessuti inglesi di primissima qualità diventa la più sgradevole in assoluto, non conosco voce più sgradevole della voce del nipote di Rustenschacher quando dice tessuti inglesi di primissima qualità, così Oehler a Scherrer. Solo il fatto che i tessuti non siano marcati, dice il nipote di Rustenschacher, rende possibile la loro assoluta convenienza, così Oehler a Scherrer, di proposito questi tessuti non sono marcati come tessuti inglesi, è più che evidente che qui si tratta di frode del dazio, dice il nipote di Rustenschacher – anche Rustenschacher dallo sfondo –, così Oehler a Scherrer, questi tessuti possono arrivare sul mercato a prezzi così convenienti perché non sono marcati. Il cinquanta per cento della merce dall’Inghilterra non è marcata, così Rustenschacher a Karrer, dico a Scherrer, così Oehler, per questo è più conveniente di quella marcata, ma per quanto riguarda la qualità non c’è nessuna differenza fra la merce marcata e quella non marcata. La merce non marcata, soprattutto se si tratta di tessili, spesso è più conveniente del quaranta, molto spesso addirittura del cinquanta o del sessanta per cento rispetto a quella marcata, e per il compratore, ma soprattutto per il consumatore, è del tutto indifferente usare una merce marcata o non marcata, indossare un cappotto di tessuto marcato o un cappotto di tessuto non marcato in fondo per me è del tutto indifferente, dice Rustenschacher dal retro, così Oehler a Scherrer. Naturalmente per le autorità doganali si trattava di merce di scarto, di cosiddetta merce di scarto cecoslovacca, come dice Lei, Karrer, dice Rustenschacher, così Oehler a Scherrer. Ma in realtà molto spesso quella che è indicata come merce di scarto cecoslovacca, e quindi dichiarata tale dalle autorità doganali, è merce inglese di primissima qualità o altra merce estera di primissima qualità, così Rustenschacher a Karrer. Durante questa discussione tra Rustenschacher e Karrer il nipote di Rustenschacher continua a tenere contro luce sempre nuove paia di pantaloni, dice Oehler a Scherrer. Mentre io stesso, così Oehler a Scherrer, stavo là appoggiato al banco senza partecipare minimamente alla discussione, si noti bene, senza partecipare minimamente alla discussione tra Karrer e Rustenschacher, i due discutevano, così Oehler a Scherrer, come se io non fossi stato neppure presente in negozio, ma proprio questa circostanza mi permetteva di osservare entrambi con la massima attenzione, e com’è naturale il mio sguardo era rivolto principalmente a Karrer, per il quale in quel momento iniziavo a preoccuparmi, così Oehler a Scherrer. Di nuovo dico a Scherrer che io, rispetto alla porta d’ingresso, ero alla sinistra di Karrer, di nuovo ho dovuto dire: davanti allo specchio, perché Scherrer non sapeva più che avevo detto già una volta di essere sempre stato davanti allo specchio, finché siamo rimasti nel negozio di Rustenschacher. D’altra parte Scherrer annotava tutto, così Oehler, anche le mie ripetizioni, Scherrer se le annotava, così Oehler. Con ogni evidenza Karrer si divertiva a farsi tenere contro luce il maggior numero possibile di pantaloni, possibilmente tutti, ma non era certo nulla di nuovo che Karrer si facesse tenere tutti i pantaloni contro luce e uscisse dal negozio di Rustenschacher solo dopo che il nipote di Rustenschacher gli aveva tenuto contro luce tutti i pantaloni, così Oehler a Scherrer; in fondo, ogni volta che sono entrato con Karrer nel negozio di Rustenschacher, è sempre successa la stessa cosa, ma mai con una simile foga, con una simile incredibile intensità e, come adesso sappiamo, mai con un simile spaventoso tracollo di Karrer. Nei confronti dell’impazienza e dell’avversione e del timore in effetti costante del nipote di Rustenschacher verso Karrer, Karrer non aveva il benché minimo riguardo, così Oehler a Scherrer, al contrario, Karrer metteva alla prova il commesso, il nipote di Rustenschacher, sempre di più e con invenzioni sadiche sempre nuove dirette in modo fin troppo evidente contro di lui, il commesso. Il nipote di Rustenschacher nei confronti di Karrer reagiva sempre con troppa lentezza, Lei nei miei confronti reagisce sempre con troppa lentezza, dice Karrer più volte, dice Oehler a Scherrer, in fondo Lei non ha la minima capacità reattiva, come Lei sia in grado di servirmi e come Lei, in generale, sia in grado di lavorare qui, nel negozio davvero eccellente di Suo zio, proprio non me lo spiego, così Karrer più volte al nipote di Rustenschacher, così Oehler a Scherrer. Mentre Lei tiene contro luce due paia di pantaloni, io ne tengo contro luce dieci o dodici, di paia di pantaloni, dice Karrer al nipote di Rustenschacher. Quanto Rustenschacher fosse contrariato per la discussione fra Karrer e suo nipote, il nipote di Rustenschacher, lo dimostra il fatto che Rustenschacher continuava ad andare dal negozio all’ufficio, probabilmente per non dover intervenire in quella discussione fin troppo penosa. Io stesso temevo in ogni momento di dover intervenire nella discussione, ma poi Karrer alzava di nuovo il bastone, picchiava sul banco e diceva: probabilmente si tratta di uno stato di esaurimento, è possibile si tratti di uno stato di esaurimento, ma io non posso avere nessun riguardo per un simile stato di esaurimento, nessun riguardo, si diceva picchiando con il bastone sul banco, allo stesso ritmo con cui ha sempre picchiato con il bastone sul banco di Rustenschacher, probabilmente per placare la sua eccitazione, così Oehler a Scherrer, e poi lui, Karrer, ha ricominciato con le sue affermazioni e accuse eccessive contro il commesso riguardo ai pantaloni e ai tessuti. E sì che Rustenschacher dal retro ascoltava tutto, e dal retro osservava pure tutto, così Oehler a Scherrer, anche se sembrava che Rustenschacher non osservasse nulla di quanto avveniva tra Karrer e suo nipote, l’autocontrollo di Rustenschacher, dico a Scherrer, così Oehler, è sempre stato grandissimo, e con il surriscaldarsi della discussione fra Karrer e il nipote di Rustenschacher, Rustenschacher infine è riuscito a controllarsi in una misura in cui un altro non si sarebbe affatto controllato. Ma la modalità con cui Karrer, in determinati periodi, entrava nel negozio di Rustenschacher era ben nota a Rustenschacher, perché Rustenschacher sapeva come Karrer agiva sempre nel negozio di Rustenschacher, in quel modo a malapena sopportabile, e in che modo Karrer reagiva a tutto, anche se poi alla fine si calmava sempre. In effetti, ogni volta che siamo entrati nel negozio di Rustenschacher, Rustenschacher ha mostrato una capacità di giudizio, riguardo alle condizioni di Karrer, ben maggiore rispetto a quella di Scherrer. A un tratto Karrer dice a Rustenschacher, così Oehler a Scherrer, se Lei, Rustenschacher, si piazza proprio dietro questi pantaloni che suo nipote sta tenendo contro luce, proprio dietro questi pantaloni tenuti dietro la luce da Suo nipote, attraverso questi pantaloni io posso vedere il Suo viso con una chiarezza con cui non ho nessuna voglia di vederlo, il Suo viso. Ma Rustenschacher mantiene l’autocontrollo. Al che Karrer dice: basta con i pantaloni!, basta con i tessuti!, basta!, così Oehler a Scherrer. Ma subito dopo Karrer dice di nuovo, così Oehler a Scherrer, che quei tessuti posati sul banco sono al cento per cento merce di scarto cecoslovacca. Prescindendo dalla lavorazione, dice Karrer, così Oehler a Scherrer, anche per il profano è del tutto evidente che nel caso di questi tessuti si tratta di merce di scarto cecoslovacca. La lavorazione è ottima, naturalmente la lavorazione è ottima, ripete Karrer più volte, lo si è sempre potuto constatare in tutti questi anni in cui Karrer ha frequentato il negozio di Rustenschacher. E da quanto tempo ormai frequenta il negozio di Rustenschacher, e quante paia di pantaloni ha comperato ormai nel negozio di Rustenschacher! dice Karrer, così Oehler a Scherrer. Non un bottone staccato! dice Karrer, così Oehler a Scherrer, non una cucitura strappata! dice Karrer a Rustenschacher. Mia sorella, dice Karrer, finora non ha dovuto cucirmi neppure un bottone staccato, questo è vero, mia sorella non ha mai dovuto cucirmi un solo bottone di uno dei pantaloni comprati qui da Lei, Rustenschacher, perché tutti i bottoni cuciti da Lei su questi pantaloni comprati qui da Lei, sono in effetti cuciti così saldamente che non se ne può staccare neppure uno, di questi bottoni. E in tutti questi anni non ha ceduto neppure una cucitura, in neppure uno dei pantaloni acquistati da Lei! Di quello che dico, Scherrer prende nota in cosiddetta stenografia, come si usa tra i medici psichiatri. E mi sento inorridire al pensiero, dice Oehler, di essere qui davanti a Scherrer nel Padiglione VI a dare queste indicazioni su Karrer mentre Karrer è internato nel Padiglione VII, diciamo internato perché non vogliamo dire rinchiuso o rinchiuso come un animale, dice Oehler. Sono qui seduto nel Padiglione VI e parlo di Karrer nel Padiglione VII, senza che Karrer ne sappia nulla, del fatto che io nel Padiglione VI sto parlando di lui nel Padiglione VII. E com’è naturale non ho fatto visita a Karrer, né entrando allo Steinhof né uscendo dallo Steinhof, dice Oehler. Ma probabilmente Karrer non avrebbe potuto neppure ricevere visite. Non è permesso far visita agli internati del Padiglione VII, dice Oehler. Chi è nel Padiglione VII non può ricevere visite. Tutt’a un tratto Rustenschacher dice, dico a Scherrer, così Oehler, Karrer potrebbe fare la prova di staccare un bottone da questi pantaloni posati sul banco. Oppure faccia la prova di strappare una di queste cuciture! dice Rustenschacher a Karrer, sottoponga pure tutti questi pantaloni a un esame accurato, dice Rustenschacher, e Rustenschacher esorta Karrer a strappare e a tirare e a lacerare come vuole tutti quei pantaloni posati sul banco, così Oehler a Scherrer. Rustenschacher ha esortato Karrer a fare, con quei pantaloni, qualsiasi cosa volesse. È possibile che in quel momento Rustenschacher agisse con intenti pedagogici, così Oehler a Scherrer. A quel punto, Karrer a Rustenschacher: essendo invitato in modo così diretto a lacerare tutti quei pantaloni di Rustenschacher, così Oehler a Scherrer, lui, Karrer, rinunciava a farlo. Preferisco non farla, una simile prova di lacerazione! dice Karrer a Rustenschacher, così Oehler a Scherrer. Poiché se facessi la prova, così Karrer, di strappare via anche solo una cucitura di questi pantaloni o di tirare via anche solo un bottone di uno solo di questi pantaloni, significherebbe subito che sono pazzo, ma io me ne guardo bene, perché bisogna guardarsi bene dall’essere definiti pazzi, così Oehler a Scherrer. Ma se io strappassi davvero questi pantaloni, così Karrer a Rustenschacher e a suo nipote, senza dubbio ridurrei in brandelli tutti questi pantaloni in brevissimo tempo, per non parlare poi di tutti i bottoni che in un attimo tirerei via da tutti questi pantaloni. Che imprudenza, esortarmi a strappare tutti questi pantaloni! dice Karrer. Che imprudenza! Più volte Karrer dice: che imprudenza!, così Oehler a Scherrer. Poi Karrer torna di nuovo sui punti radi, così Oehler a Scherrer. Di nuovo Karrer dice, così Oehler a Scherrer, è notevole che tutti questi pantaloni, tenuti contro luce, rivelino punti radi, quei punti radi tipici proprio della merce di scarto e dozzinale. Al che il nipote di Rustenschacher dice: non si dovrebbe, com’è noto, tenere contro luce neanche un singolo paio di pantaloni, perché tutti i pantaloni, se tenuti contro luce, rivelano punti radi. Mi dica quali pantaloni al mondo si possono tenere contro luce, dice Rustenschacher a Karrer dal retro. Neppure i più nuovi, neppure i più cari, dice Rustenschacher, così Oehler a Scherrer. In un paio di pantaloni tenuti contro luce si scopre in ogni caso come minimo un punto rado, dice il nipote di Rustenschacher, dice Oehler a Scherrer. E qui Rustenschacher tutt’a un tratto dal retro: qualsiasi articolo tessile tenuto contro luce, quando lo si tenga contro luce, rivelerà un punto rado. E qui Karrer, è ovvio che qualsiasi compratore intelligente tiene contro luce la merce che ha scelto di comprare, se non vuol essere imbrogliato, così Oehler a Scherrer. Per prima cosa bisognerebbe tenere contro luce ogni e qualsivoglia merce si intenda comprare, così Karrer. Anche se non c’è nulla che i commercianti temano con più timore di chi tiene contro luce la loro merce, così Karrer, dice Oehler a Scherrer. Ma naturalmente ci sono tessuti di pantaloni e dunque pantaloni, dico a Scherrer, così Oehler, che si possono senz’altro tenere contro luce; se si tratta davvero di tessuti di prima qualità, dico, si possono senz’altro tenere contro luce. Ma probabilmente, dico a Scherrer, così Oehler, nel caso dei tessuti in questione si trattava proprio di tessuti inglesi e non, come credeva Karrer, cecoslovacchi, quindi neppure di merce di scarto cecoslovacca, ma che si trattasse di tessuti inglesi di prima qualità, addirittura di primissima qualità, dico a Scherrer, non credo, perché anch’io ho visto quei punti radi in tutti quei pantaloni. Solo che io, naturalmente, non mi sarei dilungato come si è dilungato Karrer sui punti radi in tutti quei pantaloni e quindi in quei tessuti, dico a Scherrer. Probabilmente non sarei neppure entrato nel negozio di Rustenschacher, visto che eravamo stati nel negozio di Rustenschacher solo due o tre giorni prima di questa visita nel negozio di Rustenschacher. Anche durante quella penultima visita, la stessa cosa: Karrer si fa tenere contro luce i pantaloni dal nipote di Rustenschacher, anche se non così tanti, e già poco dopo Karrer dice, no, grazie, non compro nessun pantalone, andiamo, rivolgendosi a me, e andiamo via dal negozio di Rustenschacher. Ma questa volta le cose erano proprio diverse. Karrer aveva messo piede nel negozio di Rustenschacher già in uno stato di irritazione, poiché durante tutto il tragitto dalla Klosterneuburgerstrasse fino alla Alserbachstrasse avevamo parlato di Hollensteiner, durante quel tragitto Karrer era caduto in una sempre maggiore irritazione, e al culmine di questa irritazione – prima non avevo mai osservato un’irritazione simile in Karrer – eravamo entrati nel negozio di Rustenschacher. Naturalmente non saremmo dovuti entrare nel negozio di Rustenschacher in un simile stato di irritazione, dico a Scherrer. Sarebbe stato meglio non andare nel negozio di Rustenschacher, bensì andare di nuovo nella Klosterneuburgerstrasse, ma a Karrer non garbava la mia proposta di andare di nuovo nella Klosterneuburgerstrasse, ho programmato di andare nel negozio di Rustenschacher, mi dice Karrer, così Oehler a Scherrer, e poiché il tono di Karrer aveva proprio il carattere di un comando incontestabile, dico a Scherrer, così Oehler, non ho potuto fare a meno di andare ancora una volta con Karrer nel negozio di Rustenschacher. E non avrei mai lasciato andare Karrer da solo nel negozio di Rustenschacher, così Oehler, non in quelle condizioni. Che ci esponessimo a un rischio, andando nel negozio di Rustenschacher, mi era chiaro, dico a Scherrer, ma lo stato d’agitazione di Karrer mi impediva di aggiungere una sola parola contro il suo proposito di entrare nel negozio di Rustenschacher. Conoscendo la natura di Karrer, dico a Scherrer, così Oehler, si sa che se Karrer dice di voler andare nel negozio di Rustenschacher è inutile cercare di opporsi. Qualsiasi cosa Karrer si proponesse quando era in simili condizioni, era impossibile ostacolarlo, impossibile dissuaderlo. Da un lato era Rustenschacher che lo induceva ad andare nel negozio di Rustenschacher, dall’altro il nipote di Rustenschacher, entrambi in fondo lo disgustavano, come in generale tutti gli esseri umani in fondo lo disgustavano, anche la mia persona lo disgustava, questo bisogna saperlo, era disgustato sempre da tutti, anche da quelli che frequentava per suo proprio desiderio, chi lo frequentava per un suo proprio desiderio non era escluso dal fatto che Karrer fosse disgustato da tutti gli esseri umani, dico a Scherrer, dice Oehler. Nessuno con una così grande sensibilità. Nessuno con simili oscillazioni della coscienza. Nessuno con una così alta irritabilità e con un simile grado di vulnerabilità, dico a Scherrer, dice Oehler. La verità è che Karrer si sentiva costantemente osservato e che reagiva sempre come se si sentisse costantemente osservato, per questo non aveva mai un solo attimo di quiete. Questa irrequietezza incessante è anche ciò che lo distingue da tutti gli altri – se la continua irrequietezza può essere il segno distintivo di un individuo, di una persona, dico a Scherrer, così Oehler. E stare con una persona continuamente irrequieta, uno che s’immagina sempre di essere irrequieto anche quando in realtà non è affatto irrequieto, è quanto di più difficile, dico a Scherrer, dice Oehler. Anche se nulla indicava uno o più motivi d’irrequietezza, se tutto non indicava la minima irrequietezza, Karrer era irrequieto, perché aveva l’impressione (la sensazione) di essere irrequieto, perché ne aveva motivo, come credeva. In Karrer si poteva studiare la teoria secondo la quale si è tutto ciò che ci si immagina di essere, ad esempio si era sempre immaginato, e probabilmente se l’era immaginato per un’intera vita, di essere affetto da una malattia mortale, senza sapere da quale malattia mortale fosse affetto, e quindi con ogni probabilità e certezza, dico a Scherrer, dice Oehler, secondo questa teoria era davvero affetto da una malattia mortale. Se noi ci immaginiamo una condizione mentale, una qualsiasi, siamo in questa condizione mentale e quindi anche nella condizione patologica che immaginiamo, in ogni condizione in cui ci immaginiamo di essere. E noi non ci lasciamo distogliere da ciò che immaginiamo, dico a Scherrer, e quindi nulla, soprattutto nulla di esterno, può levare ciò che abbiamo immaginato. L’incredibile sicurezza di sé da una parte e l’incredibile inconsistenza e inettitudine dei medici psichiatri dall’altra, penso, mentre siedo di fronte a Scherrer e dico queste cose su Karrer e soprattutto sul comportamento di Karrer nel negozio di Rustenschacher, dice Oehler. Scherrer ascoltava con attenzione, ma senza il minimo acume, dice Oehler. Poco dopo mi chiedo, perché sto seduto di fronte a Scherrer e do queste indicazioni, e faccio queste dichiarazioni su Karrer? Ma non me lo sono chiesto a lungo, per non dare occasione a Scherrer di riflettere su questo mio comportamento di certo insolito nei suoi confronti, poiché quel pomeriggio mi ero dichiarato senz’altro pronto a dirgli il più possibile su Karrer. Sarebbe stato meglio, penso adesso, alzarsi e andarsene senza riguardi per ciò che Scherrer avrebbe pensato se, contrariamente alla mia assicurazione di parlare di Karrer per un’ora o due, me ne fossi andato, pensavo, così Oehler. Se solo potessi uscire, mi dicevo mentre stavo seduto di fronte a Scherrer, uscire da questa stanza spaventosa dipinta di bianco con le inferriate alle finestre e andarmene, andarmene il più lontano possibile. Ma come chiunque sieda di fronte a un medico psichiatra, io avevo un unico pensiero: non destare nell’interlocutore alcun sospetto circa le mie condizioni mentali, e cioè circa la mia capacità d’intendere e di volere. Ho pensato che in fondo, andando da Scherrer, ho agito contro Karrer, dice Oehler. A un tratto avevo la coscienza sporca, Lei sa cosa significhi quando, a un tratto, uno ha la sensazione di avere la coscienza sporca nei confronti di un amico, e peggio ancora quando un amico è nella posizione di Karrer, pensavo. Parlare solo di cattiva coscienza sarebbe già un’attenuazione inammissibile, dice Oehler, io mi vergognavo. Perché indubbiamente nella persona di Scherrer avevo riconosciuto presto un nemico di Karrer, ma di questa circostanza mi ero reso conto solo dopo un certo tempo, dopo aver osservato per un certo tempo Scherrer, che in verità conosco già da anni, da quando Karrer è finito allo Steinhof per la prima volta; ho acconsentito a fargli una visita anche per questo motivo, per via della nostra conoscenza, eppure non lo conoscevo al punto da poter dire conosco quest’uomo, perché in tal caso non avrei aderito alla richiesta di Scherrer di andare allo Steinhof per parlare di Karrer. Più volte ho pensato di alzarmi e di andarmene, dice Oehler, ma poi rinunciavo a questo pensiero, mi dicevo: è indifferente. Scherrer ha iniziato a turbarmi proprio per via della sua superficialità. Avevo creduto di andare a trovare un uomo di scienza in quanto medico e quindi scienziato, ma, come avevo presto riconosciuto, sedevo di fronte a un ciarlatano. Troppo spesso riconosciamo con eccessivo ritardo che non ci saremmo dovuti far coinvolgere in qualcosa che inaspettatamente ci umilia. D’altra parte ho pur dovuto ammettere che Scherrer, in presenza di Karrer, ha una qualche funzione utile per Karrer, dice Oehler, ma ho constatato più e più volte che Scherrer, nonostante sia ritenuto l’esatto opposto e lui stesso creda di essere l’esatto opposto – anzi, è senz’altro convinto di essere l’esatto opposto –, è in realtà un nemico di Karrer che appare come medico in camice bianco nel ruolo di benefattore. Per Scherrer Karrer non è nient’altro che un oggetto di cui lui, Scherrer, abusa. Nient’altro che una vittima. Disgustato da Scherrer dico che Karrer dice: sì, in effetti ci sono pantaloni e tessuti di pantaloni che si possono senz’altro tenere contro luce, ma questi, dice Karrer – scoppiando in una risata, una risata insolita per lui, niente affatto tipica di Karrer, perché tipica solo della pazzia di Karrer –, questi pantaloni non devi neanche metterli contro luce, così Karrer, picchiando al tempo stesso sul banco col bastone, per accorgerti che si tratta di merce di scarto cecoslovacca. In quel momento ho visto per la prima volta con estrema chiarezza segni di pazzia, dico a Scherrer, al che Scherrer annota subito, Oehler (cioè io!) in questo momento dice: per la prima volta con estrema chiarezza segni di pazzia, come vedo, dice Oehler, poiché vedo tutto quello che Scherrer annota mentre parlo, osservo non solo come Scherrer reagisce, osservo anche quello che Scherrer annota e come lo annota. Non mi sorprende, dice Oehler, che Scherrer sottolinei la mia osservazione: per la prima volta con estrema chiarezza segni di pazzia. Questo ha dimostrato solo la sua incompetenza, dice Oehler. Rustenschacher nel retro continuava a etichettare pantaloni, questo mi ha colpito, dico a Scherrer, e pensavo, è incomprensibile e dunque inquietante che Rustenschacher etichetti così tanti pantaloni, forse è anche questo incessante etichettare pantaloni da parte di Rustenschacher nel retro a causare di colpo l’incredibile impennarsi dell’agitazione in Karrer, perché l’incessante etichettare pantaloni da parte di Rustenschacher cominciava a irritare anche me, in effetti Rustenschacher non vende mai tutti i pantaloni che etichetta, pensavo – d’improvviso dico a Scherrer –, e probabilmente rifornisce anche altri negozi minori nei quartieri periferici come il ventunesimo e il ventiduesimo e il ventitreesimo distretto, nei quali dunque si possono anche acquistare i pantaloni di Rustenschacher, pensavo, e dunque Rustenschacher nei distretti periferici fa il grossista di pantaloni per tutta una serie di dettaglianti di tessuti. Nel caso di questi pantaloni, che Lei mi tiene di fronte agli occhi anziché tenerli contro luce, dice adesso Karrer, così Oehler a Scherrer, si tratta con ogni evidenza di merce di scarto cecoslovacca. Con questa ennesima obiezione contro i pantaloni di Rustenschacher per poco Karrer non ferisce in viso il nipote di Rustenschacher, così Oehler a Scherrer. Dapprincipio Karrer l’ha tirata in lungo, lì nel negozio di Rustenschacher, per via dei suoi dolori alle gambe, dico a Scherrer, dice Oehler, con tutta evidenza noi, prima di entrare nel negozio di Rustenschacher, ci eravamo spinti troppo lontano e non solo troppo lontano ma anche a velocità eccessiva, intrattenendo nel contempo una conversazione defatigante su Wittgenstein, dico a Scherrer, dice Oehler – cito apposta questo nome sapendo che Scherrer non l’aveva mai sentito nominare prima, cosa che fra l’altro subito si conferma non appena dico il nome Wittgenstein, dice Oehler –, poi però probabilmente Karrer non ha più pensato in alcun modo alle sue gambe doloranti, ma per il semplice motivo che non poteva più lasciare il negozio, non poteva più uscire dal negozio di Rustenschacher. Questa osservazione la facciamo spesso anche su noi stessi, e cioè che quando siamo in una stanza (in uno spazio qualsiasi), quasi fossimo inchiodati a quella stanza (a quello spazio qualsiasi), in quella stanza (in quello spazio qualsiasi) ci dobbiamo rimanere, perché non possiamo lasciarla (o lasciarlo) in uno stato di irritazione. Probabilmente Karrer voleva uscire dal negozio di Rustenschacher, dico a Scherrer, così Oehler, ma Karrer non ne ha più avuto la forza. E anch’io non sono più stato capace di portare Karrer fuori dal negozio di Rustenschacher nell’attimo decisivo. Dopo che anche Rustenschacher, come in precedenza suo nipote, ha detto che nel caso dei tessuti dei pantaloni si trattava di tessuti di prima qualità – non ha detto, come in precedenza suo nipote, di primissima qualità, bensì solo di prima qualità – e che era insensato sostenere che, nel caso dei tessuti di quei pantaloni, si trattasse di merce di scarto o addirittura di merce di scarto cecoslovacca, Karrer ripete ancora una volta che nel caso dei tessuti di quei pantaloni si tratta con ogni evidenza di merce di scarto cecoslovacca – e fa come se volesse tirare un profondo respiro e non riuscisse a dire qualcosa che voleva ancora dire –, dico a Scherrer, dice Oehler, ma lui, Karrer, non aveva più aria, e poiché non aveva più aria non poteva più dire quello che con ogni evidenza avrebbe voluto ancora dire. Questi punti radi, questi punti radi, questi punti radi, questi punti radi, questi punti radi, ancora e ancora questi punti radi, questi punti radi, questi punti radi, ininterrottamente questi punti radi, questi punti radi, questi punti radi. Rustenschacher aveva subito capito, dice Oehler a Scherrer, e su mia disposizione il nipote di Rustenschacher ha predisposto tutto quello che bisognava predisporre, dice Oehler a Scherrer.


L’incredibile sensibilità di una persona come Karrer da un lato, la sua grande spietatezza dall’altro, diceva Oehler. Da un lato la sua sovrabbondante sensibilità, dall’altro la sua immensa brutalità. È un continuo pensare fra tutte le possibilità di una mente umana e un continuo sentire fra tutte le possibilità di un cervello umano e un continuo essere trascinati di qua e di là fra tutte le possibilità di un carattere umano, dice Oehler. D’altra parte, quando siamo con una persona come Karrer, siamo in una ininterrotta prontezza della mente affatto naturale, mai, neppure per un momento, artificiale. Raggiungiamo un’intuizione – una relazione con tutti gli oggetti – sempre più radicale e cioè sempre più radicalmente chiara, anche se questi oggetti sono oggetti che sfuggono di norma alla comprensione umana. Ciò che per noi finora, fino al momento in cui di colpo siamo entrati in contatto con una persona come Karrer, è stato irraggiungibile perché imperscrutabile, di colpo diventa per noi raggiungibile e perscrutabile. All’improvviso il mondo per noi non è più fatto solo e interamente di strati di tenebra, ma è interamente fatto di strati di chiarezza, dice Oehler. Nel riconoscerlo, però, e nell’ininterrotta prontezza a riconoscerlo, dice Oehler, stanno le difficoltà di uno scambio continuo con una persona quale Karrer. Com’è naturale una persona del genere è temuta, perché è essa stessa a temere (la perscrutabilità). Adesso parliamo di una persona come Karrer perché in effetti (con il suo ricovero allo Steinhof) ci è stata sottratta. Se Karrer adesso non fosse allo Steinhof e noi non sapessimo con certezza che è allo Steinhof, se questo per noi non fosse un fatto compiuto, adesso non oseremmo parlare di Karrer, ma poiché adesso Karrer è definitivamente impazzito, come sappiamo – non occorre che la scienza lo confermi, basta semplicemente constatarlo con la nostra testa e l’abbiamo constatato con la nostra testa, e la scienza oltretutto ce l’ha confermato, infatti senza dubbio Scherrer, dice Oehler, è un tipico esponente di quella scienza che Karrer ha sempre definito solo cosiddetta scienza –, noi adesso osiamo parlare di Karrer. Poiché Karrer in generale, dice Oehler, ha definito tutto sempre e solo come un Cosiddetto, non c’è nulla che non abbia definito un solo Cosiddetto, e la sua competenza, in questo, è arrivata a un incredibile rigore. Lui, Karrer, non aveva mai detto, dice Oehler – anche se poi in realtà l’ha detto molto spesso, e forse anche in parecchi casi di continuo, con quelle parole che di continuo si dicono e con quei concetti che di continuo si usano –, che si trattava di scienza, ma solo di cosiddetta scienza, non aveva mai detto che si trattava di arte, ma solo di cosiddetta arte, non di tecnica, ma solo di cosiddetta tecnica, non di malattia, ma solo di cosiddetta malattia, non di sapere, ma solo di cosiddetto sapere, e dato che ha sempre definito tutto sempre solo come Cosiddetto, è riuscito a conseguire incredibili capacità e competenze e un’attendibilità senza uguali. Quando abbiamo a che fare con persone, abbiamo a che fare solo con cosiddette persone, come quando abbiamo a che fare con fatti, abbiamo a che fare solo con cosiddetti fatti, così come anche l’intera materia, poiché da altro non deriva se non dalla mente umana, è solo una cosiddetta materia, poiché, come sappiamo, tutto deriva dalla mente umana e da nient’altro, se comprendiamo il concetto di sapere e lo accettiamo come concetto da noi compreso. A questo pensiamo di continuo e su questo fondamento e su nient’altro ininterrottamente fondiamo tutto. Che le cose e le cose in sé siano solo cosiddette, e per essere precisi, così Karrer, solo cosiddette cosiddette, dice Oehler, si capisce da sé. In fondo la struttura del tutto è, come sappiamo, perfettamente semplice, e se muoviamo sempre da questa struttura semplicissima, progrediamo. Se non muoviamo da questa struttura semplicissima del tutto, abbiamo quel che si definisce stasi assoluta, ma anche ciò che definiamo il tutto in quanto Cosiddetto tutto. Come potrei arrischiarmi, così Karrer, a definire qualcosa non come solo un Cosiddetto, e in questo modo fare un calcolo e progettare un mondo, non importa quanto grande e non importa quanto ragionevole o irragionevole, visto che continuo a parlare (e quindi a comportarmi) come se si trattasse sempre solo di un Cosiddetto e poi di nuovo di un cosiddetto Cosiddetto e così via. Proprio come anche il modo di agire, nella sua ripetitività così come nella sua assolutezza, è solo un cosiddetto modo di agire, così Karrer, dice Oehler. Proprio come anche noi stessi, che dobbiamo prendere solo una cosiddetta posizione nei confronti di tutto ciò che comprendiamo come di tutto ciò che non comprendiamo, ma che riteniamo effettivo, e quindi vero. Camminare con Karrer è stato un susseguirsi ininterrotto di processi del pensiero, dice Oehler, che spesso abbiamo sviluppato a lungo l’uno accanto all’altro e poi d’un tratto abbiamo concluso in un qualche luogo di sosta o luogo di pensiero, ma per lo più in un preciso luogo di sosta e di pensiero. Quando di fatto si trattava, dice Oehler, di trasformare un pensiero, il mio, e un altro pensiero (il suo), in un pensiero unico, non duplice, poiché, come sappiamo, un pensiero duplice è impossibile e quindi è un nonsenso. Continua a esserci sempre e solo un unico pensiero, infatti è sbagliato anche dire che accanto a questo pensiero c’è un pensiero e quello che molto spesso, in questa impossibile costellazione, viene definito pensiero secondario, il che è un assoluto nonsenso. Quando di fatto Karrer aveva un pensiero e anch’io avevo un pensiero, e qui bisogna dire che ci trovavamo ininterrottamente in tale condizione, perché una condizione diversa da questa per noi da tempo non era più possibile, entrambi avevamo sempre un pensiero, ininterrottamente, oppure, come avrebbe detto Karrer, anche se non l’ha detto, un cosiddetto pensiero ininterrotto, fino al momento in cui ci siamo azzardati a fare dei nostri due pensieri separati un unico pensiero, proprio come diciamo nel caso di pensieri molto importanti, cioè di cosiddetti pensieri molto importanti, che pensiero però non sono, perché un cosiddetto pensiero molto importante, un cosiddetto pensiero importante, non è mai un pensiero, è una somma di tutti i pensieri riferiti a una cosiddetta questione importante, dice Oehler, quindi il pensiero molto importante non esiste, ci azzardiamo – ci siamo detti in un caso simile, dice Oehler, avendo camminato a lungo l’uno accanto all’altro e avendo avuto a lungo un pensiero l’uno accanto all’altro, ognuno per proprio conto e ognuno avendo fissato nella mente e scrutato questo pensiero – a fare di questi due pensieri, di colpo scrutati pienamente, un unico pensiero. Non era nulla di più di un gioco, si può dire, ma allora si potrebbe dire che tutto è un gioco, dice Oehler, che noi, in qualsiasi cosa, abbiamo a che fare con un gioco, è anche possibile, dice Oehler, ma non lo credo. Il pensiero è del tutto giusto, dice Oehler; non appena ci fermiamo davanti alla locanda di Obenaus, e ci fermiamo all’improvviso davanti alla locanda di Obenaus, Oehler dice questa frase: il pensiero è del tutto giusto, Karrer non andrà più da Obenaus. In effetti Karrer non andrà più da Obenaus, perché non uscirà più dallo Steinhof. Sappiamo che Karrer non uscirà più dallo Steinhof, quindi sappiamo che non entrerà più da Obenaus. Che cosa ci perde con questo? ci chiediamo subito, dice Oehler, se affrontiamo questa domanda, anche se sappiamo che è insensato aver posto questa domanda, una volta posta la domanda la affrontiamo e andiamo in cerca della risposta a questa domanda. Che cosa ci perde Karrer, per il fatto di non andare più da Obenaus? La domanda è posta in modo semplice, rispondere però è complicato, perché non possiamo rispondere né solo con il sì né solo con il no a una domanda come la domanda Che cosa ci perde Karrer, se non va più da Obenaus? Anche se sappiamo che sarebbe stato più semplice non porsi questa domanda (qualsiasi domanda), ci siamo posti questa (e quindi una) domanda. Ci siamo posti una domanda incredibilmente complicata e ce la siamo posta in modo del tutto consapevole, dice Oehler, poiché crediamo che sia possibile rispondere anche a una domanda complicata e non abbiamo dunque paura di una domanda complicata come la domanda Che cosa ci perde Karrer, se non va più da Obenaus? e ciò poiché crediamo di sapere che su Karrer sappiamo tante cose (e tanto profonde), da poter rispondere alla domanda Che cosa ci perde Karrer, se non va più da Obenaus?; ci azzardiamo allora a non rispondere alla domanda, sappiamo di potervi rispondere, crediamo di non rischiare nulla con tale domanda, anche se solo per il fatto di constatare che con questa domanda non rischiamo nulla, rischiamo tutto, e non solo con questa domanda. Ma non arriverò sino al punto di spiegare come rispondo alla domanda Che cosa ci perde Karrer, se non va più da Obenaus? dice Oehler, e neppure risponderò alla domanda senza una spiegazione, e precisamente senza la spiegazione di come sono arrivato a rispondere alla domanda, e anche e soprattutto a pormi la domanda. Se vogliamo rispondere a una domanda come la domanda Che cosa ci perde Karrer, se non va più da Obenaus?, dobbiamo rispondere alla domanda stessa, il che però presuppone la conoscenza completa della condizione di Karrer in rapporto a Obenaus e inoltre, com’è naturale, la conoscenza completa di tutto ciò che è connesso a Karrer e di tutto ciò che è connesso a Obenaus, per cui arriviamo a capire che alla domanda Che cosa ci perde Karrer, se non va più da Obenaus? non possiamo rispondere. L’affermazione che, rispondendo, rispondiamo alla domanda è dunque falsa, perché alla domanda abbiamo sì risposto e, come crediamo e sappiamo, abbiamo risposto alla domanda stessa, ma, come sappiamo adesso, non abbiamo risposto proprio per nulla, perché semplicemente non abbiamo risposto alla domanda stessa, perché non è possibile rispondere a una domanda come la domanda Che cosa ci perde Karrer, se non va più da Obenaus?, anche perché non abbiamo domandato Karrer andrà ancora da Obenaus?, cosa alla quale si dovrebbe semplicemente rispondere con un sì o con un no, nel caso specifico dunque con un no, e dunque non ci sarebbe difficoltà alcuna, ma, dato che domandiamo Che cosa ci perde Karrer, se non va più da Obenaus?, si tratta automaticamente di una domanda alla quale non si può rispondere, dice Oehler. Tuttavia, a prescindere da questo, in fondo rispondiamo a tale domanda, in quanto definiamo la domanda che ci siamo posti come cosiddetta domanda e la risposta che diamo come cosiddetta risposta. In quanto agiamo e dunque pensiamo di nuovo all’interno del concetto di Cosiddetto, rispondere alla domanda Che cosa ci perde Karrer, se non va più da Obenaus? è per noi senz’altro possibile. Ma la domanda Che cosa ci perde Karrer, se non va più da Obenaus? può anche essere rivolta a me, posso domandarmi: Che cosa ci perdo io, se non vado più da Obenaus? o Lei può domandarsi: Che cosa ci perdo io, se non vado più da Obenaus? – per quanto ci sia un’altissima probabilità che io un giorno ci vada di nuovo, da Obenaus, e probabilmente anche Lei ci andrà di nuovo, da Obenaus, per mangiare qualcosa o per bere qualcosa, dice Oehler. Posso dire, dice Oehler, a mio avviso Karrer non andrà più da Obenaus, posso perfino dire, probabilmente Karrer non andrà più da Obenaus, posso dire, con sicurezza o di certo Karrer non andrà più da Obenaus, dice Oehler. Ma non posso domandare Che cosa ci perde, se non va più da Obenaus?, perché a questa domanda non posso rispondere. Ma facciamo semplicemente il tentativo di domandarci Che cosa ci perde una persona che è stata spesso da Obenaus, se tutt’a un tratto non va più (e anzi mai più) da Obenaus? dice Oehler. Se una persona del genere, semplicemente, non va più a sedersi fra quella gente lì, dice Oehler. Ponendo questa domanda, vediamo che alla domanda non possiamo rispondere, perché nel frattempo l’abbiamo estesa a una quantità incredibile di domande. Ma poniamola ugualmente, dice Oehler, e cominciamo dalla gente che sta seduta lì da Obenaus. Per prima cosa domandiamo Chi c’è o chi siede lì da Obenaus?, per poi poter domandare Che cosa ci perde una persona che tutt’a un tratto non va più (mai più) da Obenaus? Subito dopo ci domandiamo Da chi comincio, tra le persone che stanno sedute lì da Obenaus? e così via. Vede, dice Oehler, possiamo porre una qualsiasi domanda, ma non possiamo rispondere alla domanda, se vogliamo davvero rispondere, in quanto nel mondo dei concetti non si può rispondere a nessuna domanda. Ma, a prescindere da questo, si pongono ininterrottamente milioni e milioni di domande a cui si danno risposte, come sappiamo, e chi domanda e chi risponde non si preoccupa se ciò è falso o meno, perché non può preoccuparsene, altrimenti smetterebbe, altrimenti di colpo tutto smetterebbe di esserci, dice Oehler. Qui, vede, dice Oehler davanti alla locanda di Obenaus, qui sopra, al terzo piano, una volta ho abitato in una stanza, una stanza molto piccola, ero appena tornato dall’America, dice Oehler. Era tornato dall’America e si era detto: ti prenderai una stanza là dove hai abitato un tempo, trent’anni fa, nel nono distretto, e si era preso una stanza nel nono distretto, nella casa di Obenaus. Ma tutt’a un tratto non aveva più resistito, basta con questa stanza, basta con questa strada, basta con questa città, dice Oehler. Nella città in cui adesso, di colpo, era tornato a vivere dopo trent’anni, tutto era cambiato in modo così spaventoso durante il suo soggiorno in America; non l’avrei mai immaginato, dice Oehler. Di colpo ho capito che in questa città ero davvero fuori luogo, dice Oehler, ma poiché ci ero ritornato, e con l’intenzione di starci per sempre, non potevo neppure voltarle subito le spalle e ritornare in America. Anche perché me ne ero andato dall’America con l’intenzione di andarmene per sempre dall’America, dice Oehler. Ho capito che a Vienna ero fuori luogo, dice Oehler, e d’altra parte, con assoluta lucidità, dice Oehler, ho capito che ero fuori luogo anche in America, e così per giorni e settimane e mesi se n’era andato in giro per la città riflettendo sul modo in cui si sarebbe ucciso, perché il fatto che mi sarei ucciso mi era chiaro, completamente chiaro, dice Oehler, solo non sapevo come e neppure con precisione quando, ma che sarebbe stato presto, perché doveva avvenire presto, questo mi era chiaro. Continuava a fermarsi là, nel centro storico, dice Oehler, proprio davanti ai portoni delle case del centro storico e su quei portoni delle case del centro storico aveva cercato qualche nome a lui familiare dall’infanzia o dalla giovinezza, amato o temuto ma familiare, senza però trovare più nessuno di quei nomi. Dove sono finite tutte quelle persone connesse a quei nomi, nomi che mi sono familiari e che non riesco più a trovare qui su nessun portone? si era chiesto, dice Oehler. Per settimane e per mesi si era posto tale domanda. Spesso per mesi poniamo la stessa domanda, dice, la poniamo a noi o ad altri, ma soprattutto la poniamo a noi, e se anche in un arco di tempo lunghissimo, di anni, non abbiamo potuto rispondere alla nostra domanda, perché, a prescindere dalla domanda, non ci è possibile rispondere, dice Oehler, poniamo un’altra domanda, diversa, ma forse è di nuovo una domanda che già una volta ci siamo posti, e così per tutta la vita, finché la mente non ce la fa più. Dove sono finite tutte queste persone, amici, parenti, nemici? si era chiesto, e aveva ancora e poi ancora continuato a cercare nomi, anche durante la notte questo interrogarsi su quei nomi non gli aveva dato pace. Non erano forse centinaia e migliaia di nomi? si era chiesto. Dove sono tutte queste persone con cui ero in contatto allora, trent’anni fa? si chiedeva. Se potessi incontrare almeno una di queste persone. Dove? si chiedeva senza sosta, e perché? D’un tratto si era reso conto che tutta quella gente che cercava non c’era più. Non c’è più, tutta questa gente, aveva pensato di colpo, non ha senso cercare questa gente perché non c’è più, si era detto di colpo, e aveva abbandonato la stanza sopra Obenaus e se n’era andato in montagna, fuori città; sono andato in montagna, dice Oehler, ma non ho resistito neppure in montagna e sono tornato in città. Con Karrer mi sono fermato spesso qui, sotto Obenaus, e gli ho parlato di tutti questi nessi terribili. Poi noi, Oehler e io, abbiamo raggiunto la Friedensbrücke. Non si era andati oltre il proposito di Karrer, quello di spiegarmi sulla Friedensbrücke una frase di Wittgenstein: per lo sfinimento Karrer non menzionò neppure una volta il nome di Wittgenstein sulla Friedensbrücke, e anch’io non fui più in grado di menzionare il nome di Ferdinand Ebner, così Oehler. Negli ultimi tempi ci eravamo trovati molto spesso in uno stato di sfinimento in cui tutt’a un tratto non eravamo più riusciti a spiegarci quello che volevamo spiegarci, e usavamo la Friedensbrücke per alleviare i nostri stati di sfinimento, così Oehler. Volevamo spiegarci a vicenda due frasi, dice Oehler, io a Karrer una frase di Wittgenstein che gli era totalmente oscura, lui, Karrer, una frase di Ferdinand Ebner che mi era totalmente oscura. Ma per via dello sfinimento sulla Friedensbrücke, a un tratto non eravamo più stati in grado di pronunciare i nomi Wittgenstein e Ferdinand Ebner, perché avevamo fatto del nostro camminare e del nostro pensare, derivanti l’uno dall’altro, dice Oehler, una tensione nervosa incredibile, quasi intollerabile. L’avevamo pensato, che trasformare quella prassi di camminare e pensare in una immane tensione nervosa non sarebbe stato a lungo sostenibile senza danni, e in effetti non abbiamo potuto sostenere a lungo quella prassi, dice Oehler, Karrer ha dovuto trarne le conseguenze, e io stesso sono stato talmente indebolito dal tracollo nervoso di Karrer – grave quanto mai, devo dire, perché posso senz’altro definire così la pazzia di Karrer, e cioè come un letale tracollo nervoso della struttura cerebrale di Karrer – che adesso sulla Friedensbrücke non riesco neppure a pronunciare la parola Wittgenstein, e meno che mai a dire qualcosa su Wittgenstein o qualcosa di connesso a Wittgenstein, così come in generale non riesco a dire più nulla, dice Oehler guardando il traffico sulla Friedensbrücke. Mentre abbiamo sempre pensato di poter fare del camminare e del pensare, anche per lungo tempo, un unico processo totale, adesso devo dire che è impossibile fare per lungo tempo del camminare e del pensare un unico processo totale. Poiché in effetti non è possibile camminare e pensare per lungo tempo con la stessa intensità, a tratti camminiamo più intensamente ma non pensiamo con la stessa intensità con cui camminiamo, a tratti pensiamo intensamente e non camminiamo con la stessa intensità con cui pensiamo, a tratti pensiamo con una presenza di spirito ben superiore a quella con cui camminiamo e a tratti camminiamo con una presenza di spirito ben maggiore di quella con cui pensiamo, ma non possiamo pensare e camminare con la stessa presenza di spirito, dice Oehler, così come non possiamo camminare e pensare per lungo tempo con la stessa intensità e non possiamo fare del camminare e del pensare sempre più a lungo un insieme totale e di valore totalmente uguale. Se camminiamo più intensamente, a svigorirsi è il nostro pensare, dice Oehler, se pensiamo più intensamente, lo è il nostro camminare. D’altra parte dobbiamo camminare per poter pensare, dice Oehler, così come dobbiamo pensare per poter camminare, l’una cosa deriva dall’altra, e l’una dall’altra con crescente maestria. Ma tutto sempre e solo fino alla soglia dello sfinimento. Non possiamo dire: pensiamo come camminiamo, così come non possiamo dire: camminiamo come pensiamo, perché non possiamo camminare come pensiamo né pensare come camminiamo. Se camminiamo intensamente per lungo tempo con un pensiero intenso, dice Oehler, ben presto dobbiamo smettere di camminare o ben presto dobbiamo smettere di pensare, perché non è possibile camminare e pensare per lungo tempo con la stessa intensità. Possiamo anche dire, senz’altro, che spesso riusciamo a camminare in modo regolare e a pensare in modo regolare, ma evidentemente questa è la più difficile e la meno padroneggiabile fra le arti. Di uno diciamo che è un pensatore eccellente, di un altro che è un camminatore eccellente, ma di una sola persona non possiamo dire che è al contempo un pensatore e un camminatore eccellente (o eccezionale). D’altra parte camminare e pensare sono due concetti assolutamente uguali, e possiamo dire (e affermare) senz’altro che chi cammina, e quindi sia ad esempio un camminatore eccellente, è anche un pensatore eccellente, così come chi pensa, e quindi sia un pensatore eccellente, è anche un camminatore eccellente. Se osserviamo con attenzione uno che cammina, sappiamo anche come pensa. Se osserviamo con attenzione uno che pensa, sappiamo anche come cammina. Osservando per lungo tempo con la massima attenzione uno che cammina, arriviamo a poco a poco a capire il suo modo di pensare, la struttura del suo pensare; così come, osservando per lungo tempo come una persona pensa, arriviamo a poco a poco a capire come cammina. Osserva dunque per lungo tempo uno che pensa, e poi osserva come cammina, viceversa osserva per lungo tempo uno che cammina, e poi osserva come pensa. Nulla è più istruttivo del veder camminare uno che pensa, così come nulla è più istruttivo del veder pensare uno che cammina, per cui possiamo dire senz’altro che vediamo come pensa colui che cammina, così come possiamo dire che vediamo come cammina colui che pensa, perché vediamo camminare colui che pensa e viceversa vediamo pensare colui che cammina e così via, dice Oehler. Camminare e pensare sono in un rapporto costante di reciproca intimità, dice Oehler. La scienza del camminare e la scienza del pensare sono in fondo un’unica scienza. Come cammina questa persona, e come pensa! spesso ci poniamo questa domanda a mo’ di constatazione, senza davvero porci questa domanda a mo’ di constatazione, allo stesso modo ci poniamo spesso la domanda a mo’ di constatazione (senza davvero porcela), come pensa questa persona e come cammina! Quindi, vedendo uno che pensa, posso sempre desumere come cammina? mi domando, dice Oehler, e vedendo uno che cammina, posso sempre desumere come pensa? No, questa domanda, com’è naturale, non devo pormela, perché è una di quelle domande che non si devono porre, perché non è possibile porle senza che ciò risulti insensato. Ma naturalmente, se uno cammina, e noi abbiamo analizzato come cammina, non possiamo rinfacciargli come pensa prima di sapere come pensa. Così come a uno che pensa non dobbiamo rinfacciare come cammina prima di sapere come cammina. Che maniera sciatta di camminare ha questa persona, pensiamo spesso, e molto spesso: com’è sciatto il pensiero di questa persona, e ben presto concludiamo che questa persona cammina proprio così come pensa e pensa proprio così come cammina. Ma non dobbiamo domandare a noi stessi come camminiamo, perché allora cammineremmo diversamente da come camminiamo in realtà, e in generale il nostro camminare è ingiudicabile, e altrettanto non dobbiamo domandarci come pensiamo, perché allora non potremmo più giudicare come pensiamo, in quanto non sarebbe più il nostro pensare. Mentre possiamo senza dubbio osservare un Altro, e quindi il suo camminare e il suo pensare, senza che lui lo sappia (e lo percepisca), non possiamo mai osservare noi stessi senza saperlo (percepirlo). Quando ci osserviamo, in fondo non osserviamo mai noi stessi, bensì sempre un altro. Quindi non possiamo mai parlare di auto-osservazione; o parliamo del fatto che ci osserviamo per quello che siamo quando ci osserviamo, ma che non siamo mai quando non ci osserviamo, e quindi, quando ci osserviamo, non osserviamo mai colui che avevamo intenzione di osservare, bensì un Altro. Il concetto di auto-osservazione, e dunque anche quello di autodescrizione, è pertanto sbagliato. Vista così, tutti i concetti (le rappresentazioni), dice Oehler, come auto-osservazione, autocompassione, autoaccusa e così via, sono sbagliati. Noi stessi non ci vediamo, non ci è mai data la possibilità di vedere noi stessi. Ma non possiamo neppure spiegare a un altro (a un altro oggetto) come è lui, perché possiamo spiegargli soltanto come noi lo vediamo, il che probabilmente corrisponde a quello che è, ma che noi non possiamo spiegare dicendo lui è così. Quindi tutto è sempre qualcosa di completamente diverso da come è per noi, dice Oehler. E sempre qualcosa di completamente diverso da come è per tutti gli altri. Per non parlare poi del fatto che anche le definizioni, con cui noi definiamo, sono completamente diverse rispetto a quelle effettive. Motivo per cui tutte le definizioni di fatto non tornano, dice Oehler. Ma quando abbiamo simili pensieri, dice, vediamo ben presto che in questi pensieri siamo perduti. In ogni pensiero siamo perduti, se ci abbandoniamo a questo pensiero, se ci abbandoniamo davvero anche a un solo pensiero, siamo perduti. Quando cammino, dice Oehler, penso e affermo che cammino e di colpo penso e affermo che cammino e penso, perché lo penso mentre cammino. E quando noi camminiamo insieme e pensiamo questo pensiero, pensiamo che camminiamo insieme e di colpo pensiamo, anche se non insieme, che pensiamo, ma è qualcosa di diverso. Quando io penso che cammino, è qualcosa di diverso da quando Lei pensa che io cammino, come è una cosa diversa quando noi due, entrambi allo stesso modo (o entrambi nello stesso momento), pensiamo che camminiamo, posto che ciò sia possibile. Su, camminiamo sulla Friedensbrücke, ho detto prima, dice Oehler, e abbiamo camminato sulla Friedensbrücke perché ho pensato che penso di dire: io cammino sulla Friedensbrücke; ci cammino con Lei, quindi ci camminiamo insieme, sulla Friedensbrücke. Ma sarebbe stato completamente diverso se l’avesse avuto Lei questo pensiero, se Lei avesse pensato: camminiamo sulla Friedensbrücke e così via. Quando camminiamo, dice Oehler, insieme al movimento del corpo si mette in movimento anche la mente. Questa constatazione la facciamo di continuo, e cioè che, quando camminiamo, e il nostro corpo si mette quindi in movimento, si mette in movimento anche il nostro pensare, che nella mente ancora non era un pensare. Camminiamo con le nostre gambe, diciamo, e pensiamo con la nostra mente. Ma potremmo anche dire che camminiamo con la nostra mente. Camminare in una disposizione mentale di così incredibile labilità, pensiamo vedendo camminare uno che supponiamo essere in una disposizione mentale del genere, come crediamo e diciamo. Questa persona cammina in modo del tutto sconsiderato, diciamo, così come diciamo, questa persona sconsiderata cammina in modo incredibilmente spedito o incredibilmente lento o incredibilmente risoluto. Camminando, diciamo, entriamo nella stazione Franz-Josef, quando sappiamo che diremo: camminando, entriamo nella stazione Franz-Josef. Oppure pensiamo di dire: camminiamo sulla Friedensbrücke, e camminiamo sulla Friedensbrücke, perché abbiamo previsto di fare quello che facciamo, ossia camminare sulla Friedensbrücke. Pensiamo quello che abbiamo previsto e facciamo quello che abbiamo previsto, dice Oehler. Dopo quattro o cinque minuti avevamo intenzione di fare un salto nel parco della Klosterneuburgerstrasse; aver camminato fino al parco della Klosterneuburgerstrasse, dice Oehler, implica che per quattro o cinque minuti abbiamo saputo che fino al parco della Klosterneuburgerstrasse noi avremmo camminato. Allo stesso modo se dico: camminiamo fin da Obenaus, significa che ho pensato: camminiamo fin da Obenaus, indipendentemente dal fatto che io cammini o no fin da Obenaus, che noi camminiamo o no fin da Obenaus. Ma con simili pensieri siamo perduti, dice Oehler, ed è inutile dedicarsi per lungo tempo a simili pensieri. Così siamo sempre lì a buttar via i pensieri che abbiamo, e ne abbiamo sempre perché è nostra abitudine avere sempre dei pensieri; per tutta la vita, a quanto ne sappiamo, buttiamo via i pensieri, non facciamo altro, perché non siamo altro che persone intente a rovesciare e a svuotare di continuo le proprie menti come secchi di rifiuti, ovunque siano. Quando la nostra mente è piena di pensieri, rovesciamo la mente come un secchio di rifiuti, dice Oehler, e non tutto in un mucchio, dice Oehler, ma sempre proprio lì nel punto in cui ci troviamo. Per questo il mondo è pieno di puzza, perché tutti svuotano le loro menti ovunque, come secchi di rifiuti. Un giorno il mondo intero, noi, saremo senza dubbio soffocati dalla puzza causata da questo infinito lordume dei pensieri, dice Oehler, se non troviamo un altro sistema. Ma è improbabile che esista un altro sistema. Tutti riempiono le loro menti spietatamente e senza rifletterci e le svuotano dove vogliono, dice Oehler, e per me questa immagine è la più atroce delle immagini. In fondo, colui che pensa concepisce pure il suo pensare come un camminare, dice Oehler. Dice il cammino del mio del suo o di quest’altro pensiero. Quindi è più che giusto dire, camminiamo all’interno di questo pensiero, come se dicessimo, entriamo in questa casa spaventosa. Infatti si dice così, dice Oehler, infatti ce lo rappresentiamo così, perché, avrebbe detto Karrer, abbiamo questa cosiddetta rappresentazione di un simile cosiddetto cammino del pensiero. Camminiamo oltre (nel pensiero), diciamo, quando vogliamo avanzare nello sviluppo di un pensiero, quando vogliamo andare avanti con un pensiero. Questo pensiero va troppo in là e così via, si dice. Quando crediamo di dover camminare più in fretta (o più adagio), pensiamo di dover pensare più in fretta, anche se sappiamo che pensare non è una questione di velocità, o meglio si tratta sì di qualcosa che è un camminare, come quando si tratta di camminare, ma con la velocità il pensare non ha niente da spartire, dice Oehler. La differenza tra il camminare e il pensare è che il pensare non ha niente da spartire con la velocità, mentre in effetti il camminare ha sempre qualcosa da spartire con la velocità. Dire quindi: camminiamo in fretta verso Obenaus o camminiamo in fretta sulla Friedensbrücke è più che giusto, ma dire: pensiamo più in fretta, pensiamo in fretta, è sbagliato, è un nonsenso e così via, così Oehler. Quando camminiamo, dice Oehler, si tratta di cosiddetti concetti d’uso (così Karrer), quando pensiamo, si tratta semplicemente di concetti. Ma possiamo senz’altro, dice Oehler, volgere il pensare in camminare e viceversa il camminare in pensare, senza dimenticarci che il pensare non ha nulla da spartire con la velocità, il camminare tutto. Possiamo anche continuare a dire, dice Oehler: adesso abbiamo camminato per questa e quella via, una via qualunque, sino alla fine; mentre non potremo mai dire: adesso abbiamo pensato questo pensiero sino alla fine; questo non esiste e dipende dal fatto che il camminare ha qualcosa da spartire con la velocità ma il pensare no, il pensare proprio nulla, mentre il camminare, semplicemente, è velocità. Ma alla base c’è, come in tutto, dice Oehler, il mondo (e quindi il pensare) dei concetti d’uso o concetti ausiliari. Tramite il mondo dei concetti d’uso o concetti ausiliari, noi progrediamo, non certo tramite il mondo dei concetti. In effetti noi adesso abbiamo l’intenzione di fare un salto nel parco della Klosterneuburgerstrasse, e dopo quattro o cinque minuti siamo nel parco della Klosterneuburgerstrasse. Nelle tasche del cappotto abbiamo ancora il mangime destinato agli uccelli che stanno sotto la Friedensbrücke. Tutt’a un tratto Oehler dice: anche Lei ce l’ha ancora nelle tasche del cappotto, il mangime destinato agli uccelli sotto la Friedensbrücke? al che rispondo di sì. Con nostra sorpresa entrambi, io e Oehler, adesso, nel parco della Klosterneuburgerstrasse, continuiamo ad avere nelle tasche del cappotto il mangime destinato agli uccelli sotto la Friedensbrücke. È del tutto insolito, dice Oehler, che ci siamo dimenticati di dare il nostro mangime agli uccelli sotto la Friedensbrücke. Diamolo adesso il nostro mangime, dice Oehler, e noi diamo il nostro mangime. Gettiamo molto in fretta il nostro mangime agli uccelli, e il mangime viene pappato in breve tempo. Un modo del tutto diverso di papparsi il nostro mangime, questi uccelli, dice Oehler; un modo molto più rapido rispetto agli uccelli sotto la Friedensbrücke. Quasi nello stesso momento anch’io dico: un modo del tutto diverso, già prima che Oehler dicesse la sua frase io volevo per certo dire le parole: un modo del tutto diverso, penso. Diciamo qualcosa, dice Oehler, e l’altro sostiene di avere appena pensato la stessa cosa e di averla anche voluta dire così come l’abbiamo detta noi. Questo fatto singolare dovrebbe essere lo spunto per affrontare insieme questo fatto singolare. Ma non oggi. Non ho mai camminato così in fretta dalla Friedensbrücke alla Klosterneuburgerstrasse, dice Oehler. Era stata anche nostra intenzione, mia e di Karrer, di tornare subito dalla Friedensbrücke nella Klosterneuburgerstrasse, ma no, siamo entrati nel negozio di Rustenschacher; oggi non so davvero spiegarmi perché siamo entrati nel negozio di Rustenschacher, ma questo pensiero è inutile. Mi sembra ancora di sentirmi dire, dice Oehler, andiamo nella Klosterneuburgerstrasse, cioè qui dove siamo adesso, perché anche con Karrer venivo sempre qui, certo non per dare il mangime agli uccelli, come faccio con Lei; mi sembra ancora di sentirmi dire: torniamo nella Klosterneuburgerstrasse, nella Klosterneuburgerstrasse ci calmeremo, avevo già avuto l’impressione che la cosa più importante per Karrer fosse calmarsi, in quel momento tutto il suo organismo non era altro che agitazione, andiamo nella Klosterneuburgerstrasse, ripeto effettivamente più volte la mia esortazione ma Karrer non mi dà ascolto, lo esorto a tornare nella Klosterneuburgerstrasse ma Karrer non mi ascolta, di colpo si ferma davanti al negozio di Rustenschacher, che io odio, dice Oehler, il fatto è che io odio il negozio di Rustenschacher, e dice: entriamo nel negozio di Rustenschacher, e siamo entrati nel negozio di Rustenschacher, anche se non era affatto nostra intenzione entrare nel negozio di Rustenschacher, perché quando eravamo ancora alla stazione Franz-Josef ci eravamo detti oggi né da Obenaus né nel negozio di Rustenschacher, mi sembra ancora di sentire la nostra categorica dichiarazione, né da Obenaus (a berci la nostra birra) né nel negozio di Rustenschacher, ma di colpo siamo entrati nel negozio di Rustenschacher, dice Oehler, e il seguito Le è noto. Quale insensatezza, capovolgere una decisione presa – come dobbiamo dire (a posteriori), a ragion veduta – in una sciagura spesso orribile, dice Oehler. Un modo di camminare così febbrile non l’avevo mai notato prima d’allora in Karrer, quando con Karrer ho lasciato la Friedensbrücke in direzione della Klosterneuburgerstrasse, e poi, malgrado tutto, sono entrato nel negozio di Rustenschacher, dice Oehler. E anche la piazza davanti alla stazione Franz-Josef non l’avevamo mai attraversata così in fretta. Incurante della massa umana che dalla stazione veniva verso di noi, incurante di queste centinaia di persone che tutt’a un tratto venivano verso di noi, Karrer si era avviato verso la stazione Franz-Josef, per cui avevo pensato: vorrà sedersi, com’è sempre stata sua abitudine, su una delle vecchie panchine destinate ai viaggiatori della stazione Franz-Josef, in mezzo alla terribile sporcizia della stazione Franz-Josef; com’è sempre stata sua abitudine, dice Oehler, sedersi su una di queste panchine a osservare la gente che salta giù dai treni e in breve affolla la stazione, ma no; poco prima di entrare nella stazione per sederci, come credevo, su una di quelle panchine, Karrer fa dietro front e corre verso la Friedensbrücke, dice Oehler, corre, dice Oehler più volte, corre verso la Friedensbrücke, passa davanti al negozio d’abbigliamento Dal Ferroviere, attraversa la Friedensbrücke e da lì s’infila nel negozio di Rustenschacher a una velocità inimmaginabile, dice Oehler. In effetti Karrer aveva distanziato Oehler, Oehler era riuscito a seguire Karrer solo a dieci metri di distanza, per un certo tempo solo a quindici o addirittura venti metri di distanza e, durante questo correr dietro a Karrer, Oehler aveva continuato a pensare: purché Karrer non entri nel negozio di Rustenschacher, purché non commetta l’imprudenza di entrare nel negozio di Rustenschacher, ma era successo proprio quello che Oehler aveva temuto mentre inseguiva Karrer, Karrer aveva detto: entriamo nel negozio di Rustenschacher, e, senza aspettare il commento di Oehler, sfinito, Karrer era subito entrato nel negozio di Rustenschacher, Karrer aveva spalancato la porta del negozio di Rustenschacher con una veemenza incredibile, poi era riuscito a controllarsi, dice Oehler, ma com’è naturale subito dopo aveva perso di nuovo il controllo. Karrer corre verso il banco, dice Oehler, e il commesso, senza ribattere, comincia a mostrare tutti i pantaloni a Karrer – al quale la settimana precedente aveva già mostrato tutti i pantaloni –, tenendo contro luce tutti i pantaloni. Vede, così Karrer, dice Oehler, tutt’a un tratto il suo modo di parlare si era fatto calmo, probabilmente perché ci eravamo fermati, conosco questa strada sin dall’infanzia e ho vissuto tutto quello che ha vissuto questa strada e non c’è niente in questa strada che non mi sia familiare – lui, Karrer, conosceva ogni regolarità e ogni irregolarità di quella strada; fosse anche stata una delle più brutte, lui amava quella strada come nessun’altra. Quante volte lui, Karrer, si era detto: queste persone le vedi ogni giorno e sono sempre le stesse persone che vedi e che conosci, sempre gli stessi visi e sempre gli stessi movimenti della testa e la stessa andatura, che sono poi i movimenti della testa e l’andatura caratteristici della Klosterneuburgerstrasse. Queste centinaia e migliaia di persone le conosci, così Karrer a Oehler, e le conosci anche se non le conosci, perché in fondo sono sempre le stesse persone, tutte queste persone sono uguali e si distinguono solo per l’osservatore superficiale (che le giudica). Come camminano e come non camminano, e come fanno acquisti e come non fanno acquisti, e come si comportano in estate e come in inverno, e come nascono e come muoiono, così Karrer a Oehler. Tu li conosci, questi terribili rapporti. Conosci tutti questi tentativi (di vivere) che non riescono a essere altro se non tentativi, questa intera vita di tentativi, questa condizione di tentativi come vita, così Karrer a Oehler, dice Oehler. Qui sei andato a scuola e qui sei sopravvissuto a tuo padre e a tua madre e altri sopravvivranno a te, come tu sei sopravvissuto a tuo padre e a tua madre, così Karrer a Oehler. A tutti i pensieri a cui sei arrivato, sei arrivato nella Klosterneuburgerstrasse (a dire la verità, a tutte le tue idee, a tutti i tuoi rimproveri nei confronti del mondo esterno, del mondo interno). Di quante mostruosità è piena per te la Klosterneuburgerstrasse (così Karrer a Oehler). Ti basta entrare nella Klosterneuburgerstrasse e l’intera miseria e desolazione della vita ti piombano addosso. Queste mura, queste stanze, con le quali e nelle quali sei invecchiato, tutte queste malattie così tipiche della Klosterneuburgerstrasse, pensava lui, Karrer, così Oehler, questi cani, e questi vecchi attaccati a questi cani. Non c’era da stupirsi per il modo in cui Karrer diceva simili frasi, in seguito al suicidio di Hollensteiner, così Oehler, per Karrer tutto aveva qualcosa di sconfortante; un abbattimento che in lui non avevo mai notato prima si era impadronito di lui dopo la morte di Hollensteiner. D’un tratto tutto aveva il colore cupo di chi non vede più nient’altro se non il trapassare, e di chi sente che non accade più nient’altro se non il trapassare delle cose intorno a lui. Ma Scherrer, così Oehler, non aveva mostrato interesse per tutte queste modificazioni della personalità di Karrer connesse con il suicidio di Hollensteiner. Quante volte da bambino ti hanno trascinato dentro l’ingresso di casa e in questo ingresso ti hanno schiaffeggiato, dice Karrer in un tono per me sconvolgente, dice Oehler. Quasi la morte di Hollensteiner avesse oscurato per lui l’intero scenario umano, o meglio disumano. Come loro hanno picchiato tua madre e come loro hanno picchiato tuo padre, dice Karrer, dice Oehler. Queste centinaia e migliaia di finestre sbarrate estate e inverno, dice Karrer, e lo dice con tutta la disperazione possibile. Quei giorni prima della visita al negozio di Rustenschacher non li dimenticherò più: dice Oehler, come lo stato di Karrer peggiorasse di giorno in giorno, come si incupisse sempre, e sempre più, tutto ciò che si pensava essere già totalmente incupito. Quelle grida e quelle cadute nella Klosterneuburgerstrasse, e quel silenzio che seguiva quelle grida e quelle cadute, così Karrer, dice Oehler. E quella tremenda sporcizia! dice, come se per lui al mondo non ci fosse nient’altro che sporcizia. Proprio il fatto che nella Klosterneuburgerstrasse tutto sia sempre stato così com’è e che, a pensarci, c’era da temere che sarebbe rimasto sempre uguale – così Karrer, dice Oehler –, a poco a poco aveva fatto sì che la Klosterneuburgerstrasse, per lui, diventasse un problema inaudito e insolubile. Questo svegliarsi nella Klosterneuburgerstrasse e questo addormentarsi nella Klosterneuburgerstrasse, ripeteva sempre Karrer. Questo andirivieni incessante nella Klosterneuburgerstrasse. Questa sua peculiare inermità e immobilità nella Klosterneuburgerstrasse. Negli ultimi due giorni erano andati ripetendosi, senza interruzioni, queste frasi e questi brandelli di frasi, dice Oehler. Non possediamo la minima capacità di andare via dalla Klosterneuburgerstrasse. Non abbiamo più la forza di decidere. Quello che facciamo è nulla. Quello che respiriamo è nulla. Quando camminiamo, andiamo da una disperazione a un’altra. Camminiamo, e andiamo sempre a finire in una disperazione ancora più disperata. Andare via, nient’altro che andare via, continuava a ripetere Karrer, così Oehler. Nient’altro che andare via. Per tutti questi anni ho pensato, cambiare qualcosa e cioè cambiare tutto e andare via dalla Klosterneuburgerstrasse, ma non è cambiato nulla (perché lui non ha cambiato nulla), così Oehler, e non è andato via. Se non si va via per tempo, diceva Karrer, di colpo è troppo tardi e non si può più andar via. Di colpo è chiaro, si può fare ciò che si vuole, ma non si può più andar via. Allora, con questo problema di non poter più andar via, di non poter cambiare più nulla, uno fa i conti per tutta la vita, sembra abbia detto Karrer, e poi non fa più i conti con nient’altro. Diventiamo sempre più inetti e sempre più deboli e non facciamo che ripeterci: avremmo dovuto andar via per tempo, e ci domandiamo perché non siamo andati via per tempo. Ma se ci domandiamo perché non siamo andati via, ovvero andati via per tempo, cioè perché non siamo andati via nel momento in cui era ora di andare via, non capiamo più nulla, così Karrer a Oehler.


Oehler dice: perché non abbiamo pensato abbastanza intensamente a cambiare, mentre, in effetti, avremmo sempre dovuto pensare intensamente a cambiare e, in effetti, a cambiare, ci abbiamo anche pensato intensamente, ma non abbastanza intensamente, perché non abbiamo pensato nel modo più disumano e intenso a cambiare qualcosa e cioè soprattutto noi: cambiare noi stessi e quindi cambiare tutto, così Karrer. Le circostanze sono sempre state tali da rendercelo impossibile. Le circostanze sono tutto, noi non siamo nulla, così Karrer. In quali condizioni e circostanze, per tutti questi anni, io non sono assolutamente riuscito a cambiare me stesso!, perché si trattava di condizioni e di circostanze che non potevano essere cambiate, così Karrer. Trent’anni fa, così come Lei, Oehler – pur se nelle più terribili circostanze, a quanto ne so io – è andato in America, sembra abbia detto Karrer, io sarei dovuto andare via dalla Klosterneuburgerstrasse, ma non sono andato via; adesso tutto questo avvilimento lo vivo come una punizione davvero spaventosa. Questa intera vita non è fatta d’altro che di circostanze (come condizioni) tremende e nel contempo sempre terrificanti, e se la scomponiamo si sgretola solo in circostanze e condizioni terribili, così Karrer a Oehler. E quando si è rimasti così a lungo in una strada del genere, così a lungo da aver già scoperto da tempo che si è invecchiati, com’è naturale, non si può più andar via; con il pensiero sì ma in realtà no, e andare via con il pensiero e non in realtà è un doppio tormento, così Karrer. Dopo i quaranta, la stessa forza di volontà è già così debole che non ha senso fare anche solo il tentativo di andar via. Per una persona del mio stampo, della mia età, una strada come la Klosterneuburgerstrasse è una tomba sprangata, nella quale ormai si sentono solo cose spaventose, così Karrer. Sembra che Karrer abbia pronunciato più volte l’espressione crudele processo entropico, più volte l’espressione precoce rovina. Come ho odiato queste case, sembra abbia detto Karrer, eppure per tutta la vita non ho smesso di entrarci, in queste case, con un attaccamento che può solo e soltanto deprimere. Tutte le centinaia e migliaia di malati di mente, che in tanti anni solo la morte ha fatto uscire da queste case, così Karrer. Questo sconsiderato aumento della popolazione, che possiamo osservare qui, e che è il più ripugnante d’Europa, così Karrer. Per ognuna di queste persone orribili, che la morte fa uscire da queste case grigie e cadenti, in quelle stesse case vengono introdotte altre due o tre persone orribili, sembra abbia detto Karrer a Oehler. Da settimane non ho più messo piede nel negozio di Rustenschacher, ha detto Karrer solo un giorno prima di entrare nel negozio di Rustenschacher, dice Oehler. È un’epoca, questa, in cui bisognerebbe essere più giovani di trenta o almeno vent’anni per sopportarla, così Karrer a Oehler. Una simile artificialità non è mai esistita, una simile artificialità con una simile naturalezza, per la quale però non si dovrebbe aver superato la quarantina. Ovunque Lei guardi, non vede altro che artificialità, così Karrer. Due, tre anni fa questa strada non era ancora di un’artificialità tale da spaventarmi, così Karrer. Ma a spiegarla, questa artificialità, non ci riesco, così Karrer. Come non riesco a spiegare più nulla, così Karrer. Sporcizia e vecchiaia e artificialità assoluta, così Karrer. Prima Lei con il Suo Ferdinand Ebner, così Karrer più volte, e io con il mio Wittgenstein, poi Lei con il Suo Wittgenstein e io con il mio Ferdinand Ebner, così Karrer. E per giunta, poi, si è pure in balìa di una persona di sesso femminile, mia sorella, così Karrer. Ma, dopo anni di assenza, ripresentarsi di colpo a tutta questa gente (a Obenaus) è tremendo, così Karrer. Se all’improvviso Lei venisse trascinato di nuovo nella loro sporcizia, così Karrer. Nella sporcizia che senza dubbio in trent’anni è aumentata, così Karrer. Dopo trent’anni è una sporcizia molto più sporca di trent’anni fa, così Karrer. Se intorno a me c’è quiete, in me c’è inquietudine; un’inquietudine sempre più grande in me, una quiete sempre più grande intorno a me e viceversa, così Karrer. Quando sono a letto, sempre che mia sorella stia quieta, che non vada avanti e indietro nella sua stanza apposta per darmi contro, così Karrer, che non apra, com’è sua abitudine, tutti i cassetti, tutti i comò proprio quando mi sono messo a letto e a un tratto non cominci a vuotare tutti questi cassetti e comò, ripenso a quello che ho pensato durante il giorno, così Karrer. Chiudo gli occhi e appoggio i palmi delle mani sulla coperta e ripercorro con grande intensità l’intera giornata trascorsa, così Karrer. Con un’intensità che sempre più cresce, e sempre più va accresciuta, così Karrer. L’intensità va accresciuta sempre di più, può essere che un giorno questo esercizio oltrepassi il limite della pazzia, ma, in merito, non posso avere alcun riguardo, così Karrer. Il tempo in cui usavo riguardi è passato, non uso più alcun riguardo, così Karrer. Lo stato di totale indifferenza in cui mi trovo, così Karrer, è uno stato filosofico da cima a fondo.