giovedì 27 dicembre 2018


UN PEZZO DA MUSEO (1954)
Philip K. Dick
Estratto da Racconti inediti
Volume 1
"Un Pezzo da Museo", è un esempio della produzione  di Philip K. Dick che contiene già, in nuce, molti elementi tipici delle tematiche che svilupperà successivamente (la guerra totale, l'alienazione dell'individuo, la realtà mutevole, l'arroganza e la stupidità del potere).


«È uno strano abito, quello che indossa», osservò il roboautista del servizio di pubblico trasporto, aprendo la porta ed accostando sul lato della strada. «Cosa sono quei piccoli oggetti rotondi?»
«Sono bottoni», gli spiegò George Miller. «In parte sono funzionali, in parte ornamentali. È un vecchio abito del ventesimo secolo. Lo indosso a causa del lavoro che svolgo».
Pagò il robot, afferrò la borsa e si affrettò lungo la scalinata dell'Agenzia Storica. L'edificio principale era già aperto, ed era pieno di uomini e donne vestiti con lunghe tuniche che sciamavano dovunque. Miller entrò in un ascensore riservato al personale, si infilò in mezzo a due enormi sovrintendenti della divisione precristiana, e cominciò subito a salire verso il suo livello, la metà del Ventesimo Secolo.
«'Giorno», mormorò incontrando il sovrintendente Fleming alla mostra di reperti sul motore atomico.
«'Giorno», ripose brusco Fleming. «Senta, Miller. Chiariamo una cosa una volta per tutte. Che succederebbe se tutti vestissero come lei? Il Governo ha impartito disposizioni molto rigide sull'abbigliamento. Una volta ogni tanto non può lasciar perdere il suo dannato anacronismo? In nome di Dio, cosa è quell'affare che ha in mano? Sembra una lucertola schiacciata del Giurassico».
«È una borsa in pelle di alligatore», spiegò Miller. «Ci tengo dentro i miei nastri. Nel tardo ventesimo secolo la borsa era un simbolo di superiorità, per la classe dirigente». Aprì la chiusura lampo. «Cerchi di capire, Fleming. Abituandomi agli oggetti quotidiani del periodo della mia ricerca io trasformo la mia relazione da mera curiosità intellettuale in autentica empatia. Lei ha notato spesso che io pronuncio certe parole in modo strano. L'accento è quello di un uomo d'affari americano dell'amministrazione Einsenhower. Afferrato?»
«Eh?» bofonchiò Fleming.
«Afferrato, un modo di dire del ventesimo secolo». Miller posò i nastri di studio sul tavolo. «Voleva qualcosa? Altrimenti comincio il lavoro di oggi. Ho scoperto qualcosa di molto interessante; tutto indica che gli americani del ventesimo secolo, benché sapessero posare le mattonelle del pavimento, non tessevano le loro stoffe. Penso che dovrò rivedere gli oggetti esposti».
«Nessuno è più fanatico di un accademico», disse Fleming con voce aspra. «Lei è indietro di due secoli, immerso nelle sue reliquie e nei suoi manufatti; le sue dannate copie autentiche di minuzie insignificanti».
«Io amo il mio lavoro», rispose sommessamente Miller.
«Nessuno si lamenta del suo lavoro. Ma ci sono altre cose, oltre il lavoro. Lei costituisce un'unità politico-sociale di questa società. Stia attento, Miller! La Commissione ha ricevuto molte indiscrezioni sulle sue stranezze. Approvano la sua dedizione al lavoro...» Strinse appena gli occhi. «Ma lei si è spinto troppo oltre».
«La mia prima lealtà è nei confronti della mia arte», disse Miller.
«La sua che cosa? Cosa significa?»
«È una frase del ventesimo secolo». Il volto di Miller esprimeva una superiorità non più tenuta a freno. «Lei non è altro che un piccolo burocrate di una macchina più vasta. Lei è una funzione di una totalità culturale impersonale. Lei non ha modelli suoi. Nel ventesimo secolo gli uomini avevano modelli autonomi di comportamento. Capacità artistica, orgoglio della realizzazione: queste parole non significano niente per lei. Lei non ha anima... un altro concetto dei tempi d'oro del ventesimo secolo, quando gli uomini erano liberi e potevano esprimere le loro opinioni».
«Attento, Miller!» Innervosito, Fleming impallidì ed abbassò il tono della voce. «Dannati studiosi. Uscite fuori dai vostri archivi e guardate in faccia la realtà. Ci metterete tutti nei guai, se andate avanti così. Adori pure il passato, se vuole, ma si ricordi... quel passato è morto e sepolto. Il tempo cambia. La società progredisce». Indicò con un gesto impaziente i reperti che occupavano il livello. «Questi sono solo una copia imperfetta».
«Lei contesta la mia ricerca?» Miller era fuori di sé. «Questa ricostruzione è assolutamente precisa! La correggo ad ogni nuova informazione. Non c'è niente che io non sappia del ventesimo secolo».
Fleming scosse la testa. «È inutile». Si voltò e si allontanò con aria di sussiego, diretto verso la rampa di discesa.
Miller si allargò il colletto e il nodo della cravatta sgargiante colorata a mano. Accarezzò il suo abito blu a righe, accese con abilità una pipa con del tabacco vecchio di due secoli e tornò ai suoi nastri.
Perchè Fleming non lo lasciava in pace? Fleming, l'invadente rappresentante della grande gerarchia che si allargava come una appiccicosa ragnatela grigia sull'intero pianeta. In ogni unità industriale, professionale e abitativa. Ah, la libertà del ventesimo secolo! Miller rallentò un attimo l'analizzatore dei nastri, mentre un'espressione sognante si dipingeva sul suo viso. L'età eccitante della virilità e dell'individualismo, quando gli uomini erano uomini...
Fu più o meno in quel momento, proprio mentre era immerso nella bellezza della sua ricerca, che udì quei rumori inspiegabili. Provenivano dal centro della sua ricostruzione, dall'interno di quella struttura complessa e perfettamente regolata.
C'era qualcuno dentro.
Poteva sentirli benissimo, quei rumori. Qualcosa o qualcuno aveva oltrepassato l'impianto di protezione che serviva a tenere lontano il pubblico. Miller spense l'analizzatore e si alzò lentamente in piedi. Tremava tutto, quando si avvicinò con prudenza alla struttura. Disattivò l'impianto e scavalcò la ringhiera, raggiungendo il marciapiede di cemento. I pochi visitatori incuriositi strabuzzarono gli occhi quando videro quell'ometto vestito in modo strano che si infilava in mezzo alle copie autentiche del ventesimo secolo che costituivano la sua ricostruzione, scomparendo alla vista.
Ansimante, Miller avanzò lungo il marciapiede e giunse fino ad un vialetto di ghiaia minuziosamente curato. Forse si trattava di un altro teorico, un beniamino della Commissione, che aveva messo il naso là dentro alla ricerca di qualcosa che servisse a screditarlo. Un'imprecisione qui... un minimo errore di nessuna rilevanza là. Miller cominciò a sudare, e la paura si trasformò in puro terrore. Sulla sua destra c'era un'aiuola: rose Paul Scarlet e viole nane. Poi il prato verde e umido, e il bianco e luminoso garage, con la porta semisollevata. Il retro lucido di una Buick del 1954... e infine la casa vera e propria.
Doveva essere prudente. Se si fosse trattato di qualcuno della Commissione, lui si sarebbe ritrovato davanti alla gerarchia ufficiale. Magari era qualcuno importante, forse Edwin Carnap in persona, il Presidente della Commissione, il più alto funzionario della sezione newyorchese del Direttorato Mondiale. Miller salì tremando i tre scalini di cemento. Adesso si trovava sul portico della casa del ventesimo secolo che costituiva il centro della ricostruzione.
Era una casa piccola e graziosa. Se lui fosse vissuto a quei tempi, ne avrebbe voluta una per sé. Tre camere da letto e un cortile con bungalow in stile californiano. Miller spinse la porta anteriore ed entrò nel soggiorno. In un angolo c'era il caminetto. Tappeti color vinaccia scuro. Un divano moderno e una poltrona comoda. Tavolino da caffè in legno duro ricoperto con un vetro. Portacenere di bronzo, un accendino e una pila di riviste illustrate. Lampade da tavolo lucide in plastica e metallo. Una libreria, un televisore. La finestra affacciava sul giardino anteriore. Miller attraversò il soggiorno e giunse in corridoio.
La casa era straordinariamente completa. Sotto i suoi piedi l'impianto termico del pavimento emanava un debole calore. Miller diede un'occhiata nella prima camera da letto. Quella di una signora. Una sovraccoperta di seta. Lenzuola bianche e inamidate. Tendaggi pesanti. Tavolino per il trucco. Boccette e vasetti. Un grosso specchio rotondo. Gli abiti appesi nello spogliatoio. Una vestaglia gettata sullo schienale di una sedia. Pantofole. Calze di nylon accuratamente sistemate ai piedi del letto.
Miller proseguì lungo il corridoio e scrutò dentro un'altra stanza. Carta da parati a colori vivaci. Pagliacci, elefantini e funamboli. La camera dei bambini. Due lettini, uno per ciascuno dei due. Modellini di aeroplani. Una credenza con sopra una radio, due pettini, libri di scuola, bandierine, un cartello di parcheggio vietato, fotografie attaccate allo specchio. Un album di francobolli.
Ma nemmeno lì dentro c'era nessuno.
Miller guardò nella moderna stanza da bagno, perfino nella doccia con le piastrelle gialle. Attraversò la sala da pranzo e diede un'occhiata nel seminterrato, dove c'era la lavatrice e l'asciugabiancheria. Allora aprì la porta posteriore e controllò il cortile. C'era il prato ben rasato e il forno per bruciare i rifiuti. Un paio di alberelli e infine lo sfondo tridimensionale proiettato di altre case, che sfumavano in una serie di collinette azzurre incredibilmente verosimili. E ancora nessuno. Il cortile era vuoto... deserto. Richiuse la porta e rientrò in casa.
Dalla cucina giunse il suono di una risata.
Una risata femminile. Il tintinnio di piatti e posate. E odori. Gli ci volle un attimo per identificarli, da quello studioso che era. Pancetta affumicata e caffè. E dolci caldi. Qualcuno stava facendo colazione. Una colazione del ventesimo secolo.
Tornò indietro lungo il corridoio, oltrepassò la porta della stanza di un uomo, con scarpe e vestiti gettati alla rinfusa, e giunse sulla soglia della cucina.
Una bella donna sui trentasei, trentasette anni e due adolescenti erano seduti intorno al tavolo di plastica cromata. Avevano terminato di mangiare; i due ragazzi erano impazienti ed eccitati. La luce del sole filtrava attraverso la finestra sopra il lavello e l'orologio elettrico segnava le otto e mezzo. La radio cinguettava allegramente in un angolo. Una grossa caraffa di caffè nero era posata al centro del tavolo, circondata da piatti vuoti, bicchieri di latte e posate d'argento.
La donna era vestita con una camicetta bianca e una gonna di tessuto quadrettato. I ragazzi indossavano blue-jeans stinti, magliette e scarpe da tennis. Ancora non si erano accorti di lui. Miller rimase impalato sulla soglia, mentre l'eco delle risate e delle parole gli turbinava intorno.
«Dovrai chiederlo a tuo padre», stava dicendo la donna, con finta serietà. «Aspetta che torni».
«Lui ha già detto che potevamo», protestò uno dei ragazzi.
«Be', richiediglielo».
«La mattina è sempre di malumore».
«Stamattina no. Ha fatto una bella notte di sonno. La sua febbre da fieno non gli dà più fastidio. Merito di quella nuova medicina che gli ha prescritto il dottore». Guardò l'orologio. «Va' a vedere che fine ha fatto, Don. Farà tardi al lavoro».
«Stava cercando il giornale». Uno dei ragazzi spinse indietro la sedia e si alzò in piedi. «L'hanno tirato ancora fuori dal portico ed è finito in mezzo ai fiori». Si girò verso la porta, e Miller se lo ritrovò proprio davanti. Lo folgorò la sensazione improvvisa che quel ragazzo avesse un'aria familiare. Dannatamente familiare... come di qualcuno che lui conosceva, ma molto più giovane. Si irrigidì, mentre il ragazzo si fermava di scatto.
«Ehi», disse il ragazzo. «Mi hai messo paura».
La donna alzò subito gli occhi su Miller. «Che stai facendo lì fuori, George?» gli chiese. «Vieni dentro e finisci il tuo caffè».
Miller entrò lentamente nella cucina. La donna stava terminando anche lei di bere il caffè, mentre i ragazzi erano tutti e due in piedi e gli stavano girando intorno.
«Non mi avevi detto che per il fine settimana potevo andare al campeggio sul Russian River insieme ai compagni della scuola?» gli chiese Don. «Hai detto che potevo prendere in prestito il sacco a pelo dalla palestra perchè quello che avevi tu lo avevi dato all'Esercito della Salvezza perchè eri allergico al capok».
«Già», farfugliò Miller, incerto. Don. Quello era il nome del ragazzo. E suo fratello si chiamava Ted. Ma come faceva a saperlo? Intanto la donna si era alzata e stava togliendo i piatti sporchi per metterli nel lavello. «Hanno detto che glielo avevi già promesso», gli disse da sopra la spalla posando rumorosamente i piatti nel lavello e cominciando a versarci sopra del sapone in polvere. «Ma ti ricordi di quella volta in cui volevano guidare la macchina, e da come lo chiedevano sembrava che tu gli avessi detto di sì. E invece non era vero, naturalmente».
Attonito, Miller si sedette al tavolo e si mise a giocherellare stupidamente con la pipa. Poi l'appoggiò nel portacenere e prese a guardarsi il polsino della giacca. Che cosa stava succedendo? La testa gli girava. Si alzò di scatto e corse verso la finestra sopra il lavello.
Case, strade. Le colline lontane al di là della città. Immagini e rumori di persone. Quella proiezione tridimensionale era proprio convincente; ma era davvero una proiezione? Come poteva esserne sicuro? Che cosa stava succedendo?
«George, che cos'hai?» gli domandò Marjorie, legandosi alla vita un grembiule rosa e cominciando a fare scorrere l'acqua calda. «Sarà meglio che tu prenda la macchina e vada a lavorare. Non mi hai detto ieri sera che il vecchio Davidson se l'era presa con gli impiegati che arrivano in ritardo e che perdono tempo a chiacchierare ed a fare battute a spese dell'azienda accanto al distributore dell'acqua potabile?»
Davidson. Quel nome penetrò nel cervello di Miller. Lo conosceva, naturalmente. Emerse un'immagine distinta: un uomo alto, con i capelli bianchi, magro e austero. Panciotto e orologio da polso. E poi l'intero ufficio, la United Electronics Supply. Un palazzo di dodici piani nel centro di San Francisco. Il negozio di tabacchi e di giornali nel salone. Le automobili che suonano il clacson, i parcheggi pieni. L'ascensore pieno di segretarie dagli occhi grandi, profumate, con le giacche aderenti.
Uscì dalla cucina, attraversò la sala, oltrepassò la sua stanza da letto, quella di sua moglie e giunse nel soggiorno. La porta anteriore era aperta e lui uscì sul portico.
L'aria era fredda e dolce. Era un luminosa mattina di aprile. Il prato era ancora umido, e le automobili si muovevano lungo Virginia Street, dirette verso Shattuck Avenue. Il traffico dei pendolari del primo mattino, uomini d'affari che si recavano al lavoro. Al di là della strada Earl Kelly agitò allegramente una copia dell'Oakland Tribune mentre correva lungo il marciapiede verso la fermata dell'autobus.
In lontananza, Miller riuscì a distinguere il Bay Bridge, l'isola Yerba Buena e l'isola del Tesoro. Al di là c'era San Francisco. Entro pochi minuti si sarebbe ritrovato ad attraversare il ponte a bordo della sua Buick, diretto verso l'ufficio. Insieme a migliaia di altri uomini d'affari vestiti con abiti a righe blu.
Ted lo spinse di lato ed uscì sul portico. «Allora d'accordo? Non ti dispiace se andiamo al campeggio?»
Miller si umettò le labbra secche. «Ted, stammi a sentire. C'è qualcosa di strano».
«Cioè?»
«Non lo so». Miller si mise a passeggiare nervosamente sul portico. «Oggi è venerdì, no?»
«Certo».
«Lo sapevo». Ma come faceva a saperlo? Come faceva a sapere tutte quelle cose? Certo che era venerdì. Una settimana lunga e faticosa... con il fiato del vecchio Davidson sempre sul collo. Specialmente mercoledì, quando l'ordine della General Electric era stato rallentato a causa di uno sciopero.
«Lascia che ti chieda una cosa», disse Miller al figlio. «Questa mattina... io ho lasciato la cucina per andare a prendere il giornale?»
Ted annuì. «Già. E con questo?»
«Mi sono alzato e sono uscito dalla stanza. Quanto tempo sono stato via? Non a lungo, vero?» Cercò le parole, ma la sua mente era un labirinto di pensieri sconnessi. «Io ero seduto a tavola per la colazione insieme a tutti voi, e poi mi sono alzato e sono andato a cercare il giornale. Giusto? E poi sono tornato dentro. Giusto?» Il tono della voce divenne stridulo per la disperazione. «Stamattina mi sono svegliato, mi sono fatto la barba e mi sono vestito. Ho fatto colazione, dolci caldi, caffè e pancetta affumicata. Giusto?»
«Sì», convenne Ted. «E allora?»
«Come faccio sempre».
«I dolci caldi li mangiamo solo il venerdì».
Miller annuì lentamente. «È vero. Dolci caldi il venerdì. Perchè tuo zio Frank mangia con noi il sabato e la domenica, e lui non sopporta i dolci caldi, perciò abbiamo smesso di mangiarli nei fine settimana. Frank è il fratello di Marjorie, e nella prima guerra mondiale era nei marines. Era caporale».
«Ciao», gli disse Ted, quando Don lo raggiunse. «Ci vediamo stasera».
Afferrati i libri, i ragazzi si avviarono al piccolo trotto verso la grossa e moderna scuola nel centro di Berkeley.
Miller rientrò in casa e cominciò automaticamente a cercare il ripostiglio dove teneva la borsa. Dov'era? Dannazione, ne aveva bisogno. C'era dentro l'intero acconto della Throckmorton; Davidson gli avrebbe staccato la testa se lui l'avesse perduto, come era successo al bar True Blue quella volta in cui stavano tutti festeggiando la vittoria in campionato degli Yankees. Dove diavolo era andata a finire la borsa?
Lentamente si raddrizzò, mentre gli tornava la memoria. Ma certo. L'aveva lasciata accanto alla scrivania, dove l'aveva appoggiata dopo averne tirato fuori i nastri. Mentre Fleming gli stava parlando. All'Agenzia Storica.
Raggiunse sua moglie in cucina. «Ascoltami», le disse con voce rauca. «Marjorie, credo che forse questa mattina non andrò in ufficio».
Marjorie si voltò di scatto, allarmata. «George, c'è qualcosa che non va?»
«Io sono... sono tutto confuso».
«Hai di nuovo la febbre da fieno?»
«No. È la mia mente. Come si chiama quello psichiatra che ci raccomandò la PTA quando il figlio della signora Bentley ebbe quella crisi?» Miller frugò nel suo cervello disastrato. «Grunberg, mi pare. Al palazzo medico-dentista». Si diresse verso la porta. «Andrò a fargli una visita. C'è qualcosa che non va... che non va proprio. E io non so che cosa sia».

Adam Grunberg era un uomo massiccio prossimo alla cinquantina, con capelli neri e ricci e occhiali con la montatura di corno. Quando Miller gli ebbe raccontato tutto, Grunberg si schiarì la gola, tolse qualche granello di polvere dalla manica del suo elegante completo e gli si rivolse con aria pensierosa.
«È successo qualcosa mentre lei è uscito a cercare il giornale in giardino? Qualche incidente? Potrebbe tentare di ricostruire quel momento in ogni particolare. Lei si è alzato dal tavolo, è uscito sul portico ed ha cominciato a frugare in mezzo ai cespugli. E poi?»
Miller si grattò la fronte, perplesso. «Non lo so. È tutto confuso. Non ricordo di essere uscito a cercare nessun giornale. Ricordo di essere rientrato in casa, e dopo diventa tutto chiaro. Ma i miei ricordi di prima sono legati all'Agenzia Storica e alla mia discussione con Fleming».
«Cos'è quella storia della borsa? Me la racconti di nuovo».
«Fleming ha detto che assomigliava a una lucertola del giurassico schiacciata. E io ho risposto...»
«No. Mi riferivo al fatto di averla cercata nel ripostiglio e di non averla trovata».
«Ho cercato nel ripostiglio e non c'era, naturalmente. È appoggiata sulla mia scrivania all'Agenzia Storica, al livello del ventesimo secolo. Vicino alla ricostruzione che ho fatto». Una strana espressione attraversò il volto di Miller. «Buon Dio, Grunberg. Si rende conto che questa potrebbe essere nient'altro che una ricostruzione? Lei e tutti gli altri... forse non siete reali, ma solo un parto della struttura».
«Non sarebbe molto piacevole per noi, non crede?» commentò Grunberg con un sorriso stentato.
«Nei sogni i personaggi sembrano sempre reali, finché il sognatore non si sveglia», ribatté Miller.
«Perciò lei mi sta sognando». Grunberg rise con indulgenza. «Immagino che dovrei ringraziarla».
«Io non sono qui perchè lei mi piaccia particolarmente. Io sono qui perchè non sopporto Fleming e tutta l'Agenzia Storica».
Grunberg rifletté. «Questo Fleming. Si ricorda di avere pensato a lui prima di uscire in giardino a cercare il giornale?»
Miller si alzò in piedi e si mise a passeggiare per l'ufficio elegante di Grunberg, tra le poltrone in pelle e l'enorme scrivania di mogano. «Voglio guardare in faccia la questione. Io sono un reperto, una copia artificiale del passato. Fleming diceva che mi sarebbe successo qualcosa del genere».
«Si sieda, signor Miller», disse Grunberg in tono gentile ma deciso. Quando Miller si fu rimesso a sedere, Grunberg proseguì: «Capisco quello che vuole dire. Lei ha la vaga sensazione che tutto ciò che la circonda sia irreale. Una specie di rappresentazione».
«Una ricostruzione».
«Sì, un pezzo da museo».
«All'Agenzia Storica di New York, Livello R, quello del ventesimo secolo».
«E in aggiunta a questa generica sensazione di... sogno, vi sono gli specifici ricordi proiettati di persone e luoghi che non appartengono a questo mondo. Un'altra realtà in cui questa è contenuta. Dovrei dire, anzi, la realtà all'interno della quale questa è solo una specie di mondo ombra».
«A me questo non sembra affatto un mondo ombra». Miller colpì con violenza il bracciolo in pelle della poltrona. «Questo mondo è completamente reale. È proprio questo che non va. Io sono venuto a cercare l'origine di quei rumori e adesso non riesco ad uscirne. Buon Dio, dovrò rimanere prigioniero all'interno di questa copia per il resto della mia vita?»
«Lei sa, naturalmente, che la sua sensazione è comune alla maggior parte del genere umano. Specialmente durante periodi di grande tensione. A proposito, dov'era il giornale? Lo ha poi trovato?»
«Per quanto me ne importa...»
«Per lei questo è un motivo di irritazione? Vedo che ha reagito con durezza quando ho parlato del giornale».
Miller scosse stancamente la testa. «Non ci faccia caso».
«Sì, è una cosa di poco conto. Senza farci caso il ragazzo lancia il giornale in mezzo ai cespugli, e non sul portico. Questo la fa arrabbiare. Succede più di una volta, al mattino presto, quando lei sta per recarsi al lavoro. Sembra simboleggiare in piccolo tutte le insignificanti frustrazioni e delusioni del suo lavoro. Della sua vita intera».
«Personalmente non me ne frega un bel niente del giornale». Miller guardò l'orologio. «Devo andare... è quasi mezzogiorno. Il vecchio Davidson mi concerà per le feste se non sono in ufficio per le...» S'interruppe. «Eccolo di nuovo».
«Che cosa?»
«Quello!» Esasperato, Miller indicò la finestra. «Tutto questo posto, questo maledetto mondo. Questa ricostruzione».
«Ho un'idea», disse lentamente il dottor Grunberg. «Gliela riferisco per quello che vale, e lei è libero di rifiutarla, se non le va bene». Gli rivolse la sua espressione più seria e professionale. «Ha mai visto i bambini giocare con le navi spaziali?»
«Buon Dio,» rispose avvilito Miller. «Ho visto degli incrociatori commerciali che facevano servizio di trasporto tra la Terra e Giove, atterrando allo spazioporto La Guardia».
Grunberg sorrise appena. «Adesso mi segua. Una domanda. È tensione da lavoro?»
«Che cosa intende dire?»
«Sarebbe bello», disse soavemente Grunberg, «vivere nel mondo di domani. Con i robot e le navi spaziali che fanno tutto il lavoro per noi. Lei potrebbe starsene seduto senza far niente. Nessun impegno, nessuna preoccupazione. Nessuna frustrazione».
«La mia posizione all'interno dell'Agenzia Storica comporta molti impegni e molte frustrazioni». Miller si alzò di scatto. «Senta, Grunberg. O questa è una ricostruzione del Livello R dell'Agenzia Storica, o io sono un uomo d'affari di classe media con una tendenza all'evasione mentale. Adesso come adesso non sono in grado di decidere quale sia la verità. Un momento questo mondo mi sembra reale, e il momento successivo...»
«Possiamo deciderlo facilmente», lo interruppe Grunberg.
«Come?»
«Lei stava cercando il giornale. Sul vialetto, sul prato. Dove è accaduto? Sul vialetto? O sul portico? Cerchi di ricordare».
«Non c'è bisogno di fare sforzi. Ero ancora sul marciapiede. Avevo appena scavalcato la barriera di protezione».
«Sul marciapiede. Allora torni là. Ritrovi il punto esatto».
«Perchè?»
«Così potrà dimostrare a se stesso che dall'altra parte non c'è niente».
Miller respirò a fondo, lentamente. «E se invece ci fosse qualcosa?»
«Non può essere. Lo ha detto lei stesso: solo uno di questi mondi può essere reale. E questo mondo è reale...» Grunberg picchiò sulla grossa scrivania. «Ergo, dall'altra parte lei non troverà niente».
«Sì», disse Miller dopo un attimo di silenzio, mentre una strana espressione si dipingeva sul suo volto, e vi rimaneva. «Lei ha individuato l'errore».
«Quale errore?» Grunberg era stupito. «Che cosa...»
Miller si diresse verso la porta dell'ufficio. «Sto incominciando a capire. Mi sono posto un falso problema, cercando di decidere quale dei due mondi fosse reale». Rise senza allegria, voltandosi a guardare Grunberg per l'ultima volta. «Sono entrambi reali, naturalmente».

Prese al volo un taxi e tornò a casa. Non c'era nessuno. I ragazzi erano a scuola e Marjorie era andata in città per acquisti. Aspettò dentro casa finché non fu sicuro che per strada non passava nessuno e poi percorse il vialetto fino al marciapiede. Ritrovò il punto senza problemi. C'era un nebuloso scintillio nell'aria, un punto debole proprio in prossimità della riga del parcheggio. Attraverso vi poteva distinguere delle forme vaghe.
Aveva ragione. Eccolo là... completo e reale. Reale come il marciapiede sotto i suoi piedi.
Una lunga sbarra metallica si interrompeva ai margini del cerchio. La riconobbe: era la ringhiera di sicurezza che lui aveva oltrepassato per entrare nella ricostruzione. Al di là vi era l'impianto di protezione. Disattivato, naturalmente. E oltre ancora, c'era il resto del livello e le pareti dell'Agenzia Storica.
Cautamente fece un passo dentro la debole luminescenza. Gli scintillava intorno, nebbiosa e sfumata. Le figure divennero più distinte. Una persona con una tunica color blu scuro; qualche curioso che osservava la ricostruzione. La persona si spostò di lato e scomparve. Adesso poteva vedere la sua scrivania, con l'analizzatore e i mucchi di nastri. Su un lato della scrivania c'era la borsa, esattamente dove lui si sarebbe aspettato di vederla.
Mentre si domandava se doveva oltrepassare la ringhiera per prendere la borsa, apparve Fleming.
L'istinto fece retrocedere Miller nella connessione, mentre Fleming si avvicinava. Forse fu a causa dell'espressione sul volto del suo superiore. In ogni caso Miller tornò indietro, e rimase in piedi sul solido marciapiede; rosso in faccia, Fleming si venne a fermare proprio al di là del punto di collegamento, piegando le labbra per l'indignazione.
«Miller», disse con voce alterata. «Venga fuori di lì».
Miller rise. «Faccia il bravo, Fleming. Mi getti la borsa. È quell'oggetto dalla forma strana che si trova sulla scrivania. Gliel'ho fatta vedere... si ricorda?»
«La finisca di giocare, e mi stia a sentire!» scattò Fleming. «È una cosa seria. Carnap lo sa. Ho dovuto informarlo».
«Meglio per lei. È un burocrate leale».
Miller si piegò per accendersi la pipa. L'aspirò ed emise un grosso sbuffo di fumo grigio che attraversò il punto debole giungendo fino al livello R. Fleming tossì e indietreggiò.
«Che diavolo è questa roba?» chiese.
«Tabacco. Una delle cose che loro avevano. Molto comune nel ventesimo secolo. Ma certo lei non ne sa niente... il periodo che lei conosce è il secondo secolo avanti Cristo, il mondo ellenistico. Non so se le sarebbe piaciuto. L'idraulica lasciava molto a desiderare e l'aspettativa di vita era dannatamente bassa».
«Di che sta parlando?»
«A paragone, l'aspettativa di vita del mio periodo di ricerca è piuttosto alta. E dovrebbe vedere che bella stanza da bagno che ho. Mattonelle gialle, e la doccia. Non c'è niente di simile nel reparto igienico dell'Agenzia».
«In altre parole lei ha intenzione di rimanere lì dentro», borbottò acidamente Fleming.
«È un posto piacevole», rispose Miller, rilassato. «Naturalmente io occupo una posizione superiore alla media. Lasci che gliela descriva. Ho una bella moglie: il matrimonio è permesso, anzi è proprio previsto dalla legge in quest'epoca. Ho due bei figli - entrambi maschi - che in questo fine settimana andranno sul Russian River. Vivono con me e con mia moglie, e ci occupiamo noi della loro educazione. Lo stato non ha ancora nessun potere, in proposito. Possiedo una Buick nuova di zecca...»
«Illusioni», ringhiò Fleming. «Illusioni da psicopatico».
«Ne è sicuro?»
«Maledetto pazzo! L'ho sempre detto che lei era troppo regressivo per affrontare la realtà. Lei e i suoi ritiri anacronistici. A volte mi vergogno di essere uno studioso. Avrei voluto fare l'ingegnere». Fleming digrignò i denti. «Lei è pazzo, lo sa? Si trova nel bel mezzo di una ricostruzione artificiale, di proprietà dell'Agenzia Storica, un'impalcatura fatta di plastica, pali di sostegno e cavi elettrici. Un'imitazione di un'età passata. E preferisce starsene là dentro piuttosto che nella realtà».
«Strano», disse pensieroso Miller. «Mi sembra di aver sentito dire la stessa cosa piuttosto di recente. Lei non conosce un certo dottor Grunberg, vero? Uno psichiatra».
Senza formalità il direttore Carnap giunse con la sua squadra di assistenti ed esperti. Fleming si ritrasse subito. Miller si ritrovò a fronteggiare uno degli uomini più potenti del ventiduesimo secolo. Sorrise e porse la mano.
«Pazzo di un idiota», ruggì Carnap. «Esca fuori di lì prima che veniamo noi a tirarla fuori. Se saremo costretti a farlo, lei è finito. Lo sa quello che fanno agli psicotici avanzati, no? Significa eutanasia. Io le offro un'ultima possibilità di uscire da quella finta ricostruzione...»
«Mi scusi», lo interruppe Miller. «Non è una ricostruzione».
Il volto pesante di Carnap rivelò un'improvvisa sorpresa e per un attimo il suo piglio autoritario sembrò venir meno. «Ancora insiste a comportarsi...»
«Questa è una porta temporale», disse con calma Miller. «Lei non può tirami fuori, Carnap. Non può raggiungermi. Io mi trovo nel passato, due secoli indietro. Ho raggiunto la coordinata di un'esistenza precedente. Ho trovato un ponte e sono fuggito dal vostro continuum per venire fin qui. E voi non potete farci niente».
Carnap e i suoi esperti si radunarono per un rapido consulto tecnico. Miller attese pazientemente. Aveva tutto il tempo che voleva: aveva deciso di non andare in ufficio fino a lunedì.
Dopo un po' Carnap si avvicinò nuovamente alla connessione, stando bene attento a non oltrepassare la ringhiera di sicurezza. «Interessante teoria, Miller. C'è questo di strano, negli psicopatici, che razionalizzano le loro allucinazioni in un sistema logico. A priori, il suo concetto regge. È apparentemente spiegabile. Però...»
«Però?»
«Però si da il caso che non sia vero». Carnap aveva recuperato tutta la sua baldanza, e sembrava divertirsi su quel concetto di porta temporale. «Lei crede sul serio di essere tornato nel passato. Sì, questa ricostruzione è davvero assai accurata. Lei ha sempre svolto un lavoro di ottima qualità. L'autenticità dei particolari non ha eguali in nessuna delle altre ricostruzioni».
«Ho sempre cercato di fare del mio meglio», mormorò Miller.
«Lei indossava abiti arcaici e si dilettava ad usare vecchie espressioni semantiche. Lei ha fatto tutto il possibile per immedesimarsi in quel passato. Si è dedicato totalmente al suo lavoro». Carnap tamburellò con le dita sulla ringhiera di sicurezza. «Sarebbe un peccato, Miller, un vero peccato demolire una replica così verosimile».
«Capisco il suo punto di vista», disse Miller dopo un momento di riflessione. «E sono d'accordo con lei, certo. Sono molto orgoglioso del mio lavoro... non vorrei proprio vederlo fare a pezzi. Ma tutto ciò non le servirebbe ugualmente a nulla. Riuscirebbe soltanto a chiudere la porta temporale».
«Ne è sicuro?»
«Certo. La ricostruzione è solo un ponte, un tramite con il passato. Io sono passato attraverso la ricostruzione, ma adesso non mi trovo qui dentro. Ne sono al di là». Fece un sorriso tirato. «La sua demolizione non potrebbe raggiungermi. Ma mi chiuda pure qui, se vuole. Non credo che avrò voglia di tornare indietro. Vorrei che lei potesse vedere questa parte, signor Carnap. È un bel posto, qui. C'è libertà, opportunità. Un governo con poteri limitati, responsabile verso i cittadini. Se qui non le piace un lavoro può licenziarsi. E non c'è l'eutanasia. Venga dentro. Le presenterò mia moglie».
«La prenderemo, Miller», disse Carnap. «Insieme a tutte le sue farneticazioni da psicopatico».
«Dubito che le mie "farneticazioni da psicopatico" diano fastidio a qualcuno. Grunberg non si è preoccupato molto. E credo che nemmeno Marjorie sia...»
«Stiamo già iniziando i preparativi per la demolizione», disse Carnap con voce calma. «La smonteremo un pezzo per volta, non tutta insieme. Così lei avrà la possibilità di apprezzare il modo scientifico e... artistico in cui porremo fine al suo mondo immaginario».
«State perdendo il vostro tempo», disse Miller. Si voltò e si allontanò lungo il marciapiede, fino al vialetto di ghiaia che conduceva al portico di casa sua.
Giunto nel soggiorno si lasciò cadere nella comoda poltrona e accese il televisore. Poi andò in cucina, prese una lattina di birra ghiacciata e tornò allegramente nel soggiorno sicuro e accogliente.
Mentre stava per mettersi seduto di fronte al televisore notò qualcosa di arrotolato sul basso tavolinetto per il caffè.
Fece una smorfia. Era il giornale del mattino, che aveva cercato con tanta insistenza. Marjorie glielo aveva portato insieme al latte, come faceva sempre. E naturalmente si era dimenticato di dirglielo. Miller sbadigliò soddisfatto e allungò la mano per prenderlo. Fiducioso lo aprì... e lesse il titolo a caratteri cubitali.