Don Delillo
Recensione
Un racconto distopico che immagina la fine dell’era tecnologica, a causa di un black out che spegne per sempre i collegamenti internet lasciando l’intero pianeta al buio. Le strade si svuotano, la gente resta a casa attonita, confusa, sconvolta e si scopre all’improvviso incapace a reagire, svuotata di ogni sentimento. In un romanzo breve, forse profetico, Delillo cerca di andare al di là del punto di rottura di questa nostra societá che si regge su sottili e precarie fondamenta, che potrebbero frantumarsi da un momento all'altro. Immaginiamo lo sgomento e smarrimento, e perdita d'identità riflessa in effimeri dispositivi tecnologici, dove gli uomini sembrano aver messo dentro la loro stessa anima. In questa finzione letteraria si potrebbe celare il punto di non ritorno che ci costringerebbe davvero ad azzerare tutte le illusioni di contenere il mondo intero nelle nostre mani in un solo click, e magari sperare di riottenere tutto quello che non ci siamo accorti di perdere. Tornare forse ad essere veramente collegati nella nostra essenza con tutto quello che ci circonda. Ed è lì che l'uomo deve riesce a trovare nuove risorse per risollevarsi e andare avanti, per combattere quel silenzio che da un momento all'altro potrebbe cadere su di noi.
IL SILENZIO
1.
Parole, frasi, numeri, distanza destinazione.
L’uomo sfiorò il pulsante, modificando la posizione verticale del sedile. Si ritrovò con gli occhi fissi sul piú vicino dei piccoli schermi posizionati in alto, appena sotto la cappelliera: parole e numeri che cambiavano di continuo con il procedere del volo. Altitudine, temperatura esterna, velocità, ora di arrivo. Aveva sonno, ma continuava a guardare.
Heure à Parigi. Heure à Londra.
– Guarda, – disse, e la donna annuí appena, continuando a scrivere su un quadernino azzurro.
L’uomo prese a snocciolare le parole e i numeri ad alta voce, perché altrimenti qual era il senso, a che pro limitarsi a osservare quei dettagli che cambiavano sempre per poi perdersi nei ronzii gemelli della sua mente e dell’aereo.
– Ok. Altitudine trentatremila e due piedi. Oh quanta precisione, – disse. – Température extérieure meno cinquantotto C.
S’interruppe e aspettò che la donna dicesse Celsius. Ma la donna, che guardava il quaderno poggiato sul tavolino estraibile davanti a sé, si fermò a pensare per qualche istante e poi riprese a scrivere.
– Ok. Ora di New York dodici e cinquantacinque. Non è specificato se a.m. o p.m. Ma direi che non ce n’è bisogno.
L’importante era dormire. Aveva bisogno di dormire. Ma il flusso di parole e numeri era incessante.
– Ora di arrivo sedici e trentadue. Velocità quattro sette uno miglia all’ora. Tempo di viaggio restante tre ore e trentaquattro minuti.
– Sto ripensando a quello che ci hanno dato da mangiare, – disse lei. – E allo champagne con il succo di mirtilli.
– Che però tu non hai preso.
– Mi sembrava un po’ troppo pretenzioso. Invece non vedo l’ora di assaggiare gli scones.
Parlava e scriveva contemporaneamente.
– Ci tengo a pronunciare la parola in modo corretto, – disse. – Con la o breve. Oppure è un suono lungo?
Lui la osservava scrivere. Cos’è che stava scrivendo? Quello che lei stessa diceva? Le cose che si dicevano?
Lei disse: – Celsius. C maiuscola. Era un cognome. Il nome non me lo ricordo.
– Ok. E vitesse? Che cosa significa vitesse?
– Sto pensando a Celsius e ai suoi studi sulla misurazione in gradi centigradi.
– E poi c’è Fahrenheit.
– C’è anche lui, sí.
– Ma che cosa significa vitesse?
– Eh?
– Vitesse.
– Vitesse. Velocità, – rispose lei.
– Vitesse. Settecentoquarantotto km all’ora.
L’uomo si chiamava Jim Kripps. Ma per tutte le ore del volo il suo nome coincideva con il numero del posto a sedere. Questa era la prassi consolidata, la sua prassi personale, in conformità con il numero scritto sulla carta d’imbarco.
– Era svedese, – disse lei.
– Chi?
– Il signor Celsius.
– Non avrai mica dato una sbirciatina di nascosto sul cellulare?
– Sai come vanno queste cose.
– Riemergono dalle profondità della memoria. Quando ti verrà anche il nome comincerò a sentirmi sotto pressione.
– Sotto pressione per cosa?
– Perché a quel punto a me toccherà farmi venire in mente il nome del signor Fahrenheit.
Lei disse: – Torna a guardare il tuo schermo d’alta quota.
– Questo volo. Tutti questi voli a lunga percorrenza. Tutte queste ore. Qualcosa che va oltre la noia.
– Accenditi il tablet. Guardati un film.
– Mi va di parlare. Niente cuffie. A tutti e due va di parlare.
– Niente auricolari, – disse lei. – Parlare e scrivere.
Lei, Tessa Berens, era la moglie di Jim: pelle scura, un misto di ascendenze caraibiche, europee e asiatiche, autrice di poesie che spesso venivano pubblicate su riviste letterarie. Inoltre, parte del suo tempo lo dedicava a curare i contenuti per un sito di consulenza che rispondeva agli abbonati su questioni che spaziavano dalla perdita dell’udito all’equilibrio corporeo passando per la demenza.
Lí, in aria, gran parte di ciò che loro due si dicevano sembrava la funzione di un qualche processo automatizzato, osservazioni generate dalla natura stessa del volo di linea. Niente chiacchiere a ruota libera, come succede alle persone che si trovano nella medesima stanza o al ristorante, luoghi dove il moto è in gran parte frenato dalla forza di gravità e le conversazioni tendono a fluttuare liberamente. Ore e ore passate a sorvolare oceani o sterminate distese continentali, frasi concise, racchiuse in se stesse, in un certo senso, passeggeri, piloti, hostess e steward, ogni parola cancellata dalla memoria nell’istante in cui l’aereo tocca la pista d’atterraggio e comincia a rullare per un tempo infinito alla volta del primo manicotto d’imbarco disponibile.
Solo lui, pensò, ne avrebbe conservato qualche frammento che gli sarebbe riaffiorato alla memoria nel cuore della notte, a letto: immagini di persone addormentate avvolte nelle coperte della compagnia aerea, simili a cadaveri, l’alta hostess che gli chiedeva se volesse dell’altro vino, la fine del volo, il segnale delle cinture di sicurezza che si spegneva, il senso di sollievo, i passeggeri in piedi nei corridoi, in attesa, gli assistenti di volo all’uscita, tutti che ringraziavano e facevano cenni di saluto con la testa, i sorrisi da mille miglia.
– Scegliti un film. Guardatelo.
– Ho troppo sonno. Distanza destinazione milleseicentouno miglia. Ora a Londra diciotto e quattro. Velocità quattrocentosessantacinque miglia all’ora. Leggo tutto quello che compare sullo schermo. Durée du vol tre ore e quarantacinque minuti.
Lei chiese: – A che ora è la partita?
– Inizia alle sei e mezzo.
– Facciamo in tempo ad arrivare a casa?
– Non l’avevo già letto sullo schermo? Ora di arrivo bla bla e bla bla.
– Atterriamo a Newark, non dimenticarlo.
La partita. In un’altra vita forse le sarebbe interessato qualcosa. Il volo. Avrebbe voluto trovarsi già a destinazione senza questo intermezzo. C’è qualcuno a cui piacciono i voli lunghi? Evidentemente questo qualcuno non era lei.
– Heure à Parigi diciannove e otto, – continuò lui. – Heure à Londra diciotto e otto. Velocità quattrocentosessantatre miglia all’ora. Abbiamo appena perso due miglia all’ora.
– Ok, ora ti dico quello che sto scrivendo. Semplice. Alcune delle cose che abbiamo visto.
– In che lingua?
– Inglese elementare. Da filastrocca per bambini.
– Ma se abbiamo opuscoli, libretti, interi volumi.
– Ho bisogno di vederlo scritto con la mia grafia, magari tra vent’anni, ammesso che sarò ancora viva, e trovare un elemento mancante, qualcosa che adesso mi sfugge, ammesso che saremo tutti ancora vivi tra venti, dieci anni.
– E per riempire il tempo. Anche questo.
– Per riempire il tempo. Per fare qualcosa di noioso. Vivere la vita.
– Ok. Température extérieure meno cinquantasette F, – disse lui. – Mi sto sforzando di pronunciare il piú correttamente possibile questo francese elementare. Distanza destinazione millecinquecentosettantotto miglia. Avremmo dovuto contattare il servizio di autonoleggio.
– Possiamo tranquillamente prendere un taxi.
– Tutte queste persone, un volo come questo. Avranno macchine che le aspettano. Una ressa immane alle uscite. Sanno tutti benissimo dove andare.
– Hanno imbarcato i bagagli, molti di loro, alcuni. Noi no. Siamo in vantaggio.
– Ora a Londra diciotto e undici. Ora di arrivo sedici e trentadue. La stessa dell’ultima volta. Rassicurante, direi. Ora a Parigi diciannove e undici. Altitudine trentatremila e tre piedi. Durée du vol tre ore e sedici minuti.
Pronunciare le parole e i numeri, parlare, entrare nel dettaglio, significava permettere a quegli indicatori di vivere per un po’, di essere ufficialmente, o volontariamente, osservati; la lettura udibile, pensò lui, del dove e del quando.
Lei disse: – Chiudi gli occhi.
– Ok. Velocità quattrocentosettantasei miglia all’ora. Tempo d’arrivo stimato.
Aveva ragione lei, meglio non imbarcare i bagagli, ci conviene ficcarli nella cappelliera. Guardò lo schermo e pensò alla partita, un pensiero fugace, non riusciva a ricordare chi fossero gli avversari dei Titans.
Ora di arrivo sedici e trenta. Température extérieure meno quarantasette C. Ora a Parigi venti e tredici. Altitudine trentaquattromila e due piedi. Gli piaceva l’idea dei due piedi. Una cosa decisamente degna di nota. Temperatura esterna meno cinquantatre F. Distance à parcours.
I Seahawks, ma certo.
Kripps era un tipico cognome da persona alta, e lui era alto, sí, ma con discrezione, e assecondava il suo bisogno di essere ordinario. Non era una di quelle figure la cui testa svetta fiera al di sopra della folla, ma una sagoma curva che si bea del proprio anonimato.
Ripensò alle procedure d’imbarco, tutti i passeggeri finalmente seduti, la cena che stava per arrivare, la sensazione umida e calda delle salviettine per le mani, lo spazzolino, il dentifricio, i calzini, la bottiglia d’acqua, il cuscino abbinato alla coperta.
Si vergognava forse un po’ all’idea di tutti questi comfort? Nonostante il costo, stavolta avevano preferito evitare di affrontare un lungo viaggio nello spazio angusto della classe economica e avevano deciso di volare in business.
Mascherina per gli occhi, crema idratante per il viso, un assistente di volo che ogni tanto passava con il carrello dei vini e altri alcolici.
Guardò lo schermo appeso in alto, e quello che sentiva era il richiamo di uno sciocco compiacimento. Si riteneva un turista nel senso piú rigoroso del termine. Aerei, treni, ristoranti. Non provava mai il desiderio di vestire in modo elegante. Sarebbe stato come indossare i panni di una seconda personalità fraudolenta. L’uomo nello specchio, l’ammirazione per la raffinatezza della sua stessa immagine.
– Che giorno era quando ha piovuto? – chiese lei.
– Sul tuo quaderno dei ricordi ti segni quando ha piovuto. Immortali un giorno di pioggia. Il senso di una vacanza è viverla in modo straordinario. Me l’hai detto tu stessa. Conservare il ricordo delle cose salienti, le ore e gli istanti piú intensi. Le lunghe passeggiate, il buon cibo, le enoteche, la vita notturna.
Nemmeno lui ascoltava quello che stava dicendo, sapeva che era solo aria fritta.
– Jardin du Luxembourg, Île de la Cité, Notre-Dame, mutilata ma viva. Centre Pompidou. Conservo ancora il biglietto.
– Mi serve sapere il giorno che ha piovuto. Lo scopo è andare a rileggermi gli appunti tra qualche anno e notare la precisione, il dettaglio.
– È piú forte di te.
– Non voglio essere io la piú forte, – disse lei. – Voglio solo tornare a casa e mettermi a fissare il muro.
– Tempo d’arrivo stimato un’ora e ventisei minuti. Ti dico quello che mi ricordo. Il nome di questa compagnia aerea. Due settimane fa, all’andata, la compagnia era un’altra, le scritte sugli schermi non erano bilingui.
– Questo schermo però è di tuo gradimento. Ti piace il tuo schermo.
– Mi aiuta a nascondermi dal rumore.
Ogni cosa predeterminata, un lungo viaggio aereo, quello che pensiamo e quello che diciamo, il nostro essere immersi in una singola armonica prolungata, il rombo del motore, il fatto che accettiamo il bisogno di assecondarlo, di considerarlo tollerabile anche se non lo è.
Un sedile che gratifica il desiderio del passeggero di ricevere un massaggio.
– A proposito di ricordare. Me lo sono ricordato, – disse lei.
– Che cosa?
– È venuto fuori dal nulla. Anders.
– Anders.
– Il nome del signor Celsius.
– Anders, – disse lui.
– Anders Celsius.
Questa cosa le dava un senso di soddisfazione. Venuto fuori dal nulla. Non viene piú quasi niente fuori dal nulla. Quando un elemento mancante viene a galla senza l’ausilio di alcun supporto digitale, ognuno lo annuncia all’altro con lo sguardo perso in lontananza, l’aldilà di ciò che si sapeva un tempo e che è andato smarrito.
– I bambini su questo aereo, – disse lui.
– Sanno di non viaggiare in economica. Percepiscono di avere una responsabilità.
Parlava e scriveva contemporaneamente, a testa bassa.
– Ok. Altitudine diecimilatrecentosessantaquattro piedi. Ora di New York quindici e due.
– Sí però è a Newark che stiamo andando.
– Non dobbiamo per forza vedere ogni singolo istante della partita.
– Io no di certo.
– Nemmeno io, – disse lui.
– E invece tu sí.
Jim decise di appisolarsi per una mezz’oretta o finché non fosse passato un assistente di volo con il carrello degli snack, prima dell’atterraggio. Tè e pasticcini. Di colpo l’aereo cominciò a ballonzolare di qua e di là. Jim sapeva di dover fingere indifferenza e sapeva che Tessa doveva stringersi nelle spalle e dire: Fino a questo momento è stato un volo tranquillo. La lucina rossa delle cinture di sicurezza si accese. Lui si allacciò la cintura e alzò gli occhi verso lo schermo, lei si accasciò ancora di piú nel sedile, il corpo quasi tutt’uno con il quaderno. Lo sballottolio si fece violento e Jim guardava lo schermo e continuava a leggere, altitudine, temperatura esterna, velocità, ma senza emettere suono. Stavano sprofondando nel rumore. Una donna uscí dal bagno, attraversò il corridoio barcollando e riguadagnò il suo posto in prima fila aggrappandosi agli schienali dei sedili per non perdere l’equilibrio. Voci dagli altoparlanti, uno dei piloti disse qualcosa in francese, poi un assistente di volo, in inglese; Jim prese in considerazione l’idea di ricominciare a leggere ad alta voce le scritte sullo schermo, ma poi pensò che in circostanze cosí traumatiche a livello fisico e psichico un comportamento simile sarebbe sembrato una forma di stupida ostinazione. Adesso lei lo guardava, aveva smesso di scrivere, lo guardava e basta. Lui ricordò di dover rimettere il sedile in posizione verticale. Lei, che aveva già il sedile in posizione verticale, rimise a posto il tavolino e infilò quaderno e penna nella tasca del sedile. A quel punto ci fu una botta pazzesca, dal basso. Lo schermo diventò nero. Il pilota disse qualcosa in francese; non seguí nessuna spiegazione in inglese. Jim si afferrò ai braccioli del sedile, poi controllò la cintura di Tessa e strinse nuovamente la propria. Immaginò i passeggeri, ognuno a casa sua, gli occhi fissi sul telegiornale delle diciotto di Channel 4, in attesa di sentire la notizia dell’incidente del volo su cui avevano viaggiato.
– Abbiamo paura? – chiese lei.
Lui lasciò questa domanda sospesa lí a mezz’aria, continuando a pensare tè e pasticcini, tè e pasticcini.
2.
Deve essere l’impulso a guidare la logica.
Questo era il credo del giocatore d’azzardo, la sua formale professione di fede.
Erano in attesa, seduti davanti allo schermo gigante. Diane Lucas e Max Stenner. Lui aveva l’abitudine di puntare forte su eventi sportivi, e quella era la finale del campionato di football, football americano, due squadre, undici giocatori per parte, campo rettangolare lungo cento iarde, linee di touchdown e pali della porta alle estremità del campo, l’inno nazionale eseguito da una semicelebrità, sei Thunderbird della U.S. Air Force che sfrecciavano sopra lo stadio.
Max era abituato alla sedentarietà, al contatto del corpo con una superficie, la poltrona, a stare seduto, a guardare, imprecando in silenzio a ogni field goal che non andava in porto, a ogni fumble. L’imprecazione trapelava dai suoi occhi stretti a fessura, il destro praticamente chiuso; a seconda di come si metteva la partita e dell’entità della posta in gioco, l’imprecazione poteva trasformarsi in vera e propria bestemmia, il piú grosso pentimento della sua vita, labbra strette, mento tremolante, la ruga vicino al naso che tendeva ad allungarsi. Neanche una parola, solo questa tensione e la mano destra che si avvicinava all’avambraccio sinistro per grattarlo, un gesto antropoide, alla maniera dei primati, con le dita affondate nella carne.
In questo giorno, Super Bowl LVI dell’anno 2022, Diane era seduta sulla sedia a dondolo a un metro e mezzo da Max, e tra loro, arretrato di poco, c’era Martin, ex studente di Diane, trent’anni o poco piú, seduto col busto leggermente curvo in avanti su una delle sedie di cucina.
Spot pubblicitari, stacchetti vari, chiacchiere prepartita.
Max, girandosi indietro solo con la testa: – I soldi sono sempre lí, il point spread, la scommessa in sé. Ma mi rendo conto di riconoscere una spaccatura. Comunque vadano le cose in campo, io ho il point spread assicurato nella mia mente, ma non la scommessa in sé.
– Si tratta di un bel po’ di dollari. Ma l’entità precisa della somma, – disse Diane, – se la tiene per sé. È un territorio inviolabile. Aspetto che muoia lui prima di me, cosí, mentre esalerà l’ultimo respiro mi rivelerà quanti soldi ha sperperato in tutti gli anni della nostra associazione, o come vogliamo chiamarla.
– Chiedile quanti anni.
Il giovane non disse niente.
– Trentasette, – disse Diane. – Anni tutt’altro che infelici, seppure contrassegnati da una routine micidiale; abbiamo sempre vissuto cosí a stretto contatto che prima o poi finiremo per dimenticarci l’uno il nome dell’altra.
Una lunga sfilza di spot pubblicitari. Diane guardava Max. Birra, whisky, noccioline, sapone e una bibita gassata. Poi si girò verso il giovane.
Disse: – Max non smette di guardare. Diventa un consumatore che non ha la minima intenzione di comprare niente. Cento spot nel giro delle prossime tre o quattro ore.
– Me li guardo tutti.
– Non piange e non ride, lui. Ma guarda.
Altre due sedie, di fianco alla coppia, pronte ad accogliere i ritardatari.
Martin era sempre puntuale, vestito con cura, ben sbarbato. Viveva da solo e insegnava fisica in una scuola superiore del Bronx, per le cui strade si aggirava invisibile. Era un istituto privato frequentato da studenti particolarmente dotati a cui lui faceva da semieccentrica guida nel denso e meraviglioso mondo della sua materia.
– Magari spizzico qualcosa durante l’intervallo, – disse Max. – Ma intanto continuo a guardare.
– Lui ascolta anche.
– Guardo e ascolto.
– Con l’audio abbassato.
– Come adesso, – disse Max.
– Cosí si può parlare.
– Si parla, si ascolta, si mangia, si beve, si guarda.
Da un anno, Diane andava dicendo al giovane che era il caso di tornare sulla terra. A malapena occupava la sedia, sembrava presente solo a tratti, un cliché originale, diverso da tutti, una figura non prevedibile né superficiale, un uomo perso nello studio compulsivo del manoscritto di Einstein del 1912 sulla Teoria della relatività speciale.
Tendeva a cadere in un lieve stato di trance. Soffriva forse di una malattia, di un disturbo?
Intanto alla tv un telecronista e un ex allenatore discutevano dei due quarterback. A Max piaceva lamentarsi di come il football professionistico si fosse ridotto a due soli giocatori, sicuramente piú facili da gestire rispetto a comparti che cambiano in continuazione.
Un solo spot pubblicitario prima del calcio d’inizio. Max si alzò e ruotò il busto a destra e a sinistra, i piedi ben piantati a terra, forzando il movimento fino al limite massimo; per una decina di secondi, poi, guardò dritto davanti a sé. Quando Max tornò a sedersi, Diane fece un cenno con la testa, quasi a concedere agli eventi televisivi il permesso di procedere come da programma.
La telecamera sfilò sul pubblico.
Diane disse: – Chissà cosa si prova a stare seduti là in mezzo. Tra i sedili delle alte sfere. Com’è che si chiama, lo stadio? Qual è la ditta o il prodotto che lo sponsorizza?
Sollevò un braccio a indicare una pausa mentre rifletteva su un possibile nome per lo stadio.
– Il Memorial Coliseum Benzedrex - decongestionante nasale.
Max mimò un applauso, senza contatto tra le mani. Voleva sapere che fine avevano fatto gli altri, se il volo aveva subito un ritardo, se avevano avuto problemi di traffico, se avrebbero portato qualcosa da mangiare e da bere durante l’intervallo.
– Ne abbiamo a volontà.
– Potrebbe non bastare. Cinque persone. L’intervallo è lungo. Canti, balli, sesso… cos’altro?
Le squadre fecero il loro ingresso in campo e presero le rispettive posizioni. Squadra che calcia, squadra che difende.
Martin disse: – Una cosa che mi ha tenuto letteralmente incollato alla televisione è stata la Coppa del mondo di calcio. Una competizione di portata planetaria. La palla la puoi calciare, colpire di testa, ma non puoi toccarla con le mani. Tradizioni antichissime. Intere nazioni coinvolte fino all’inverosimile. Una religione condivisa. I giocatori sconfitti si buttano a terra in campo.
– Si buttano a terra anche quelli che vincono, – disse Diane.
– In ogni nazione piazze enormi gremite di gente, la Coppa del mondo, tifosi che esultano, tifosi che piangono.
– Tifosi che si buttano a terra per strada.
– Una volta mi sono soffermato a guardare, solo qualche istante. Tutti quei coglioni che fingevano di subire fallo, – disse Max. – Ma poi che razza di sport è uno dove non puoi usare le mani? L’unico che può toccare la palla è il portiere. È la repressione autoimposta di un impulso naturale. La palla ti arriva. E tu l’afferri e corri. È una cosa normale. L’afferri e la lanci.
– La Coppa del mondo, – ripeté Martin, la voce un sussurro. – Non riuscivo a smettere di guardare.
A quel punto successe qualcosa. Le immagini sullo schermo cominciarono a tremolare. Non era una normale distorsione del segnale: c’era un senso di profondità, forme astratte che si componevano per poi dissolversi secondo una cadenza ritmica, una serie di unità elementari che davano l’impressione di proiettarsi in avanti per poi retrocedere. Rettangoli, triangoli, quadrati.
E loro lí, a guardare e ascoltare. Solo che non c’era niente da ascoltare. Il telecomando era a terra, davanti a Max, che lo prese e cominciò a schiacciare ripetutamente il tasto del volume: niente audio.
E poi a un certo punto lo schermo diventò nero. Max schiacciò il tasto di accensione. On, off, on. Controllò il cellulare, lo stesso fece Diane con il suo. Morto. Diane andò all’altro capo della stanza, dove c’era il telefono di casa, il fisso, un cimelio sentimentale. Nessun segnale. Il computer portatile: privo di vita. Andò nella stanza accanto, toccò vari elementi del computer fisso, ma il monitor restava grigio.
Tornò da Max, si fermò dietro di lui, gli posò le mani sulle spalle aspettando di vederlo serrare i pugni, sentirlo imprecare.
Lui disse calmo: – Che ne sarà della mia scommessa?
E guardò Martin in attesa di una risposta.
– Un sacco di soldi. Che ne sarà della mia scommessa?
Martin disse: – Potrebbe essere il governo degli algoritmi. I cinesi. I cinesi lo guardano, il Super Bowl. Loro giocano a football americano. I Beijing Barbarians. Tutte cose verissime. E quelli che ci rimettono alla fine siamo noi. Hanno innescato un’apocalisse selettiva della rete. La partita: loro adesso la stanno guardando e noi no.
Max spostò lo sguardo su Diane, che nel frattempo si era riseduta e guardava Martin. Martin non era il tipo che amava scherzare su questioni serie. O forse le uniche cose che trovava divertenti erano proprio le questioni serie?
In quel preciso istante dallo schermo nero arrivò un frammento di dialogo. Provarono a identificarlo. Inglese, russo, mandarino, cantonese? Le voci svanirono, e loro rimasero in attesa di sentire altro. Guardavano, ascoltavano e aspettavano.
– Non è una lingua di questo mondo, – disse Diane. – È qualcosa di extraterrestre.
Forse adesso era lei quella che stava scherzando. Menzionò i jet militari che avevano sorvolato lo stadio dieci o dodici minuti prima o quand’era stato.
Max disse: – Succede ogni anno. I nostri apparecchi, un’esibizione aerea rituale.
Max ripeté quest’ultima frase e guardò Martin per avere conferma della portata espressiva di quanto aveva detto.
Poi riprese: – Un rituale antiquato. Abbiamo un po’ esagerato con i parallelismi tra football e guerra. Le guerre mondiali sono indicate da numeri romani proprio come i Super Bowl. La guerra è un’altra cosa, la guerra succede altrove.
– Reti nascoste, – disse Martin. – Che cambiano di minuto in minuto, di microsecondo in microsecondo, in modi che vanno al di là della nostra capacità d’immaginazione. Guardate lo schermo nero. Che cosa ci nasconde?
– Nessuno è piú intelligente dei cinesi, – disse Diane, – a parte Martin.
Max teneva sempre gli occhi fissi sul giovane.
– Di’ qualcosa di intelligente, – gli disse.
– Non fa che citare Einstein dalla mattina alla sera. Piú intelligente di cosí.
– Ok, una nota a piè di pagina dal manoscritto del 1912. «I concetti belli ed eterei di spazio e tempo». Nulla di particolarmente intelligente, ma è una cosa che amo ripetere spesso.
– In tedesco o in traduzione?
– Dipende.
– Spazio e tempo, – disse lei.
– Spazio e tempo. Spaziotempo.
– In classe non facevi che citare le note a piè di pagina. Scomparivi dentro le note a piè di pagina. Einstein, Heisenberg, Gödel. La relatività, l’incertezza, l’incompiutezza. E ora scioccamente cerco d’immaginare tutte le stanze in tutte le città dove viene trasmessa la partita. Tutte le persone prese a guardare l’incontro, oppure quelli che, come noi, se ne stanno seduti e perplessi, abbandonati dalla scienza, dalla tecnologia, dalla logica comune.
D’impulso Diane prese in prestito il cellulare di Martin, ritenendolo piú adeguato alle circostanze contingenti. Guardò Max. Avrebbe voluto chiamare le figlie: una era a Boston, sposata, con due figli, l’altra si trovava da qualche parte in Europa, in vacanza. Pigiò alcuni tasti, agitò il telefono, lo scrutò, diede dei colpetti con l’unghia del pollice.
Niente.
Martin disse: – Da qualche parte in Cile.
Diane aspettò che Martin proseguisse.
E lui proseguí: – Mi attengo rigorosamente a quanto affermato da Einstein, a dispetto di qualunque cosa possano aver scoperto, previsto o immaginato i teorici a proposito delle onde gravitazionali, le supersimmetrie, eccetera eccetera. Einstein e i buchi neri nello spazio. Lui ne ha parlato e poi noi li abbiamo visti. Miliardi di volte piú massicci del nostro sole. Lui ne ha parlato decenni e decenni fa. Il suo universo è diventato il nostro. Buchi neri. L’orizzonte degli eventi. Gli orologi atomici. Vedere ciò che non è visibile. Il Cile centrosettentrionale. L’ho già detto?
– Hai detto tutto.
– LSST, Telescopio ottico per survey ad ampio raggio.
– Da qualche parte in Cile. Hai detto anche questo.
Max finse di sbadigliare.
– Ma torniamo al qui e ora. Quello che si è verificato qui è un guasto a livello di sistemi di comunicazione che non coinvolge nessun altro in nessun altro luogo del mondo al di fuori di questo edificio, o forse di questo quartiere.
– E quindi cosa facciamo?
– Andiamo a parlare con gli altri inquilini del palazzo. I nostri cosiddetti vicini, – disse Max.
Guardò Diane, poi si alzò, si strinse nelle spalle e uscí dalla stanza.
Gli altri due rimasero seduti, senza dire niente per qualche secondo. Diane si rese conto che non sapeva star seduta in silenzio in compagnia di Martin.
– Qualcosa da mangiare.
– Magari durante l’intervallo. Se mai ci sarà, l’intervallo.
– Einstein, – disse lei. – Il manoscritto.
– Sí, le parole e le frasi che lui ha cancellato. Possiamo vederlo pensare.
– E poi?
– La natura del manoscritto. I numeri, le lettere, le espressioni.
– Quali espressioni?
– «La forza esercitata dal campo». «Il teorema dell’inerzia dell’energia».
– E poi?
– «Punto di universo». «Linea di universo».
– E poi?
– «Weltpunkt». «Weltlinie».
– E poi?
– Le pagine del facsimile che diventano meno sbiadite, ma solo per poco, verso la fine del libro.
– E poi?
– Una custodia, una copertina rigida, pagine 25 x 38. Un grosso volume, lo sollevo, giro le pagine, ci do una scorsa.
– E poi? – disse lei.
– È Einstein, la sua grafia, le sue formule, le sue lettere, i suoi numeri. La pura bellezza fisica di quelle pagine.
Tutto ciò, questo scambio di battute, aveva qualcosa di erotico. Le risposte di Martin erano rapide, la voce lasciava trapelare il fervore di chi non ha ancora rivelato quello che conta veramente.
Diane continuava a guardare lo schermo nero davanti a sé.
– E poi? E poi?
– Cinque parole.
– Quali sono?
– «Legge di composizione delle velocità».
– Ripetilo.
Lui lo ripeté. Diane avrebbe voluto farglielo ripetere un’altra volta, ma decise che era meglio finirla lí. La coppia insegnante e studente a parti invertite.
Martin Dekker. Questo il nome completo, o quasi. Diane chiuse gli occhi e ripeté mentalmente quel nome. Disse: Martin Dekker, vivrai da solo per sempre? Lo schermo nero sembrava una risposta plausibile.
Poi si girò a guardarlo.
– Ma lui che fine ha fatto? Che fine hanno fatto gli altri?
– Gli altri chi?
– Le due sedie vuote. Vecchi amici, piú o meno. Marito, moglie. Di ritorno da Parigi, mi pare. O da Roma.
– O dal Cile centrosettentrionale.
– Il Cile centrosettentrionale.
Max tornò e andò dritto alla finestra che dava sulle vuote vie domenicali. Parlarono delle porte alle quali aveva bussato e di quelle che invece aveva tralasciato. Le porte, considerate nella loro natura di strutture a pannelli, divennero il principale argomento di conversazione, meritavano descrizioni accurate: graffiate, macchiate, riverniciate di recente. Interpellare i vicini dello stesso piano non avrebbe avuto senso. Al piano di sotto, cinque porte, quelli che avevano aperto erano stati tre, disse Max sollevando tre dita. Al piano ancora sotto avevano aperto in quattro, di cui due avevano fatto esplicito riferimento alla partita.
– Stiamo aspettando, – disse Diane.
– Hanno visto e sentito quello che abbiamo visto e sentito anche noi. Ci siamo fermati a parlare sul pianerottolo, comportandoci per la prima volta da veri vicini. Uomini, donne, cenni di assenso con la testa.
– Vi siete presentati?
– Ci siamo fatti dei cenni di assenso con la testa.
– Ok. Domanda importante. L’ascensore funziona?
– Ho fatto le scale.
– Ok. Ma c’era qualcuno che avesse idea di cosa sta succedendo?
– Un problema tecnico. Nessuno ha dato la colpa ai cinesi. Un guasto ai sistemi. O anche una macchia solare. Questa è stata una risposta seria. Un tizio con la pipa. No, non gli ho fatto presente che in questo condominio è vietato fumare.
– Dal momento che nemmeno tu lo disdegni. Un sigaro, ogni tanto, – disse Diane rivolta a Martin.
– Una macchia solare. Un forte campo magnetico. E io lí che lo guardavo.
– Con la tua occhiata da condanna a morte.
– Secondo lui gli esperti faranno gli interventi del caso.
Max, sempre alla finestra, ripeté sottovoce quest’ultima osservazione.
Diane aspettava che Martin dicesse qualcosa. Sapeva cosa avrebbe voluto sentirgli dire. Ma lui non disse niente. E allora cercò di dirlo lei, in modo scherzoso, sotto forma di domanda.
– È questo l’abbraccio casuale che segna la caduta della civiltà mondiale?
Buttò fuori a forza uno spasimo di risata e rimase in attesa che qualcuno dicesse qualcosa.
3.
La vita a volte può diventare cosí interessante che ci dimentichiamo di avere paura.
A bordo del pulmino attraverso vie silenziose, Jim aspettava che Tessa lo guardasse, per poter scambiare qualche occhiata con lei.
Stipate sul veicolo c’erano altre persone, due assistenti di volo, un uomo che parlava da solo in francese, un altro che parlava con il cellulare scuotendolo e maledicendolo. Altri si lamentavano. Altri ancora, in silenzio, cercavano di ricostruire cos’era successo, chi erano.
Erano un tremolante ammasso di metallo, vetro e vite umane piovuto dal cielo.
Qualcuno disse: – Siamo precipitati. A un certo punto era come se stessimo fluttuando nell’aria, una cosa incredibile.
Qualcun altro disse: – Fluttuare non direi. Magari all’inizio. Ma l’urto è stato forte.
– Siamo usciti fuori pista?
– È stato un atterraggio di fortuna. È scoppiato un incendio, – disse una donna. – L’aereo sbandava, ho guardato fuori dal finestrino. L’ala era avvolta dalle fiamme.
Jim Kripps provò a ricordare cosa aveva visto. Provò a ricordare la sensazione di paura.
Aveva un taglio sulla fronte, una lacerazione che ora non sanguinava piú. Tessa continuava a guardargli la ferita, avrebbe quasi voluto toccargliela perché forse pensava che cosí entrambi avrebbero ricordato meglio gli eventi. Toccare, abbracciarsi, parlare senza sosta. I cellulari non funzionavano, ma in questo non c’era niente di strano. Uno dei passeggeri si era slogato un braccio e aveva perso alcuni denti. C’erano altri tipi di ferite. L’autista aveva detto che erano diretti a una clinica.
Tessa Berens. Il suo nome lo sapeva. Aveva con sé il passaporto, i soldi e il cappotto, ma il bagaglio e il quaderno no, né aveva memoria di aver superato la dogana o di aver provato paura. Si sforzava di ricordare le cose con maggiore chiarezza. Insieme a lei c’era Jim, e la sua compagnia era un punto fermo; di lavoro Jim faceva il perito liquidatore presso una compagnia di assicurazioni.
Chissà perché questa cosa la rassicurava.
Era buio, faceva freddo, ma in strada c’era una persona che faceva jogging: una donna in maglietta e pantaloncini che avanzava a ritmo costante sulla corsia riservata alle biciclette. Superarono altre sporadiche persone che andavano di fretta, lontane, pochissime, nessuna che li degnasse di uno sguardo.
– Ci manca solo la pioggia, – disse Jim, – e cosí avremmo la certezza di essere in un film.
Steward e hostess, con le divise leggermente strapazzate, non parlavano. Alcuni passeggeri del pulmino rivolsero due o tre domande al personale di volo. Vaghe risposte, poi niente.
– Dobbiamo ricordare di continuare a ripeterci che siamo ancora vivi, – disse Tessa, abbastanza forte da farsi sentire anche dagli altri.
Il tizio che parlava francese cominciò a chiedere cose all’autista. Tessa provò a fargli da interprete.
L’autista rallentò, adattandosi al passo della donna che correva. Non aveva nessuna risposta in nessuna lingua da dare a quelle domande. Un signore anziano disse che doveva andare in bagno. Ma l’autista non accelerò, chiaramente intenzionato a procedere di pari passo con la donna.
E la donna continuava imperterrita la sua corsa, lo sguardo dritto davanti a sé.
4.
Di come a mezzanotte i santi e gli angeli abitino le chiese vuote, abbandonate dalle torme diurne di turisti estasiati.
Max era di nuovo in poltrona e imprecava contro le circostanze. Continuava a guardare lo schermo nero. Continuava a ripetere Gesú, o Cristo santo, o Cristo di un Dio.
Diane era seduta di sbieco, in modo da poter guardare entrambi gli uomini. Suggerí a Max di approfittarne per preparare gli spuntini dell’intervallo. Perché era possibilissimo, no?, che nel giro di pochi minuti il collegamento sarebbe stato ripristinato, che sarebbero tornate in onda le immagini della partita che intanto era andata normalmente avanti; aggiunse poi di non credere nemmeno a una parola di quanto aveva appena detto.
Invece di andare in cucina, Max raggiunse il mobile bar e si versò un bicchiere di Widow Jane, un bourbon invecchiato dieci anni in botti di rovere americano.
In situazioni normali l’avrebbe annunciato a tutti i presenti. Invecchiato dieci anni in botti di rovere americano. Era il genere di cosa che gli piaceva dire, con una punta di ironia nella voce.
Stavolta però non disse niente e non offrí un bicchiere a Martin. Sua moglie beveva vino, ma solo a cena, mai durante le partite di football.
Bofonchiò il nome di Gesú ancora diverse volte e si sedette a guardare lo schermo, con il bicchiere in mano, in attesa.
Diane guardava Martin. Le piaceva guardarlo. Fingeva di scrutarlo. Nei suoi pensieri lui era il Giovane Martin, il titolo del capitolo di un libro.
Poi disse sottovoce: – Gesú di Nazareth.
Martin avrebbe reagito come lei immaginava?
– Il nome radioso, – disse lui.
– Questo lo diciamo noi. Lo dici tu e lo dico io. Ma cosa ha detto Einstein?
– Ha detto: «Sono un ebreo, ma sono affascinato dalla figura luminosa del Nazareno».
Max fissava lo schermo nero. Guardava e beveva. Diane cercava di tenere gli occhi fissi su Martin. Sapeva che il nome Gesú di Nazareth aveva qualcosa d’ineffabile che attirava Martin nella propria aura. Martin non praticava nessuna religione e non venerava nessun essere dai presunti poteri soprannaturali.
Era quel nome ad affascinarlo. La bellezza del nome. Del nome e del luogo.
Max era tutto proteso in avanti. Pareva che cercasse di invocare l’apparizione di un’immagine sullo schermo attraverso uno sforzo di volontà.
Diane disse: – Roma, Max, Roma. Te lo ricordi, questo. Gesú nelle chiese, sulle pareti e sui soffitti dei palazzi. Te lo ricordi meglio di me. Quel palazzo, in particolare, con i turisti che si spostavano lentamente di sala in sala. Dipinti enormi. Le pareti e i soffitti. Quel posto lí in particolare.
Diane guardava Martin. Non era un uomo minuto e tenero dall’aria da bambino. A lei appariva come una mente che cercava di affrancarsi dal vincolo che la legava al lungo corpo dinoccolato, mani che si agitavano quasi non fossero attaccate alle braccia. Si sentí in colpa per avergli offerto una sedia della cucina sprovvista di cuscino.
– Ho provato a intrufolarmi con Max in una visita guidata, ma lui me l’ha impedito. Non sopportava l’idea della guida, – disse Diane. – I quadri, i mobili, le sculture in quelle lunghe gallerie. Soffitti ad arco con pitture murali spettacolari. Qualcosa di assolutamente, potentemente incredibile.
Lo sguardo di Diane era ora perso nel vuoto.
– Quale palazzo? – chiese a Max. – Tu te lo ricordi. Io no.
Max bevve un sorso di bourbon, annuendo appena.
In una galleria, i turisti con le cuffie alle orecchie, immobili, esistenze sospese, gli occhi rivolti in alto verso le figure dipinte sul soffitto, angeli, santi, Gesú con i suoi indumenti, i suoi vestimenti.
Diane parlava con trasporto, la testa buttata all’indietro, una guida estemporanea.
– Quanti anni fa? Max.
Max si limitò ad annuire.
Martin disse: – I suoi vestimenti. Cerco d’immaginare un indumento sgualcito inglobato in questa parola.
– Altri con le audioguide in mano, appoggiate alle orecchie. Voci in chissà quante lingue. Ogni tanto mi capita ancora di pensarci, prima di addormentarmi: quelle figure ferme nelle lunghe gallerie.
– Con gli occhi fissi verso il soffitto, – disse Martin.
– Max. Quando è stato di preciso? Gli anni sono un guazzabuglio ormai. Sto invecchiando a vista d’occhio.
Max disse: – La squadra è pronta a uscire allo scoperto per approfittare dell’occasione.
Scrutava con apparente attenzione lo schermo nero.
Il giovane guardava la donna, la moglie, l’ex docente, l’amica, la quale invece non trovava niente, nessun luogo dove posare lo sguardo.
Max disse: – Che incursione travolgente, l’attacco sta spingendo all’inverosimile.
Diane si trattenne dall’interromperlo, dal dire qualcosa, qualunque cosa, e a un certo punto spostò lo sguardo su Martin semplicemente perché le sembrava fondamentale scambiare un’occhiata perplessa con qualcuno, chiunque.
Max disse: – Evita il sack, prende palla… intercetto!
Era il momento di un altro sorso di bourbon; Max s’interruppe e bevve. Diane era colpita dall’estrema scioltezza di quel linguaggio, parole che emergevano da telecronache presenti nell’inconscio di Max, anni e anni di discorso innato contaminato dalla natura del gioco, uomini che se le davano di santa ragione, che si scaraventavano a terra a vicenda.
– Ground game, ground game, il tifo del pubblico, lo stadio in fermento.
Mezze frasi, parole spoglie, ripetizioni. Diane avrebbe voluto considerarlo una sorta di canto gregoriano, monofonico, rituale, ma poi si disse che queste non erano altro che sciocchezze pretenziose.
Max emise un suono gutturale, la voce della folla.
– Di-fe-sa. Di-fe-sa. Di-fe-sa.
Si alzò, si stiracchiò, si risedette, bevve.
– Il numero settantasette, coso lí, sembrerebbe un po’ frastornato, non è vero? Punizione per aver sputato in faccia a un avversario.
E poi: – Le squadre combattono piú o meno alla pari. Calcio di allontanamento da metà campo. Che azione spettacolare, signori.
Diane cominciava a provare una certa ammirazione.
Max disse: – L’allenatore dell’attacco. Murphy, Murray, Mumphrey, sta per uscirsene con qualche invenzione delle sue.
Senza smettere di parlare cambiò tono di voce; adesso era piú calmo, misurato, suadente.
– Il tuo wireless su misura. Lenisce e idrata. Il doppio a un prezzo imbattibile. Riduce il rischio di malattie cardiache e psichiche.
Poi, cantando: – Già già già che felicità-tà-tà.
Diane era strabiliata. È il bourbon a dargli questa cadenza vivace, questa infiorettatura di gergo sportivo e di slogan pubblicitari? Non è mai successo, né con il bourbon, né con lo scotch, né con la birra, né con la marijuana. La cosa la divertiva, o almeno cosí le sembrava, ma tutto dipendeva da quanto lui avrebbe continuato con questa sua telecronaca.
O forse è lo schermo nero, un impulso negativo, a stimolare l’immaginazione di Max, a dargli la sensazione che la partita si stia svolgendo chissà dove nello Spazio Profondo al di fuori della fragile portata della nostra consapevolezza attuale, in una qualche curvatura transrazionale che appartiene esclusivamente alla dimensione temporale di Martin, ma non alla nostra?
Con una vocetta stridula Max disse: – A volte vorrei tanto essere umano, uomo, donna o bambino, per potermi gustare questo buonissimo succo di prugna.
Disse: – Finanziamenti Perpetui Postmortem. Avvia le pratiche online e scegli il finanziamento giusto per te.
Poi: – Ecco che riprende il gioco, secondo quarto, mani, piedi, ginocchia, testa, petto, inguine, giocatori che le danno, giocatori che le prendono. Super Bowl numero Cinquantasei. Il nostro Desiderio di morte nazionale.
Con un filo di voce, Diane disse a Martin che non c’era niente che impedisse a loro due di continuare a parlare. Max aveva la sua partita e non c’era modo di distrarlo.
Il giovane disse piano: – Sto prendendo una medicina.
– Sí.
– Per via orale.
– Sí. Lo facciamo tutti. Una pillolina bianca.
– Ci sono degli effetti collaterali.
– Pillola o compressa. Bianca, rosa, quello che è.
– A volte è la stitichezza. A volte la diarrea.
– Sí, – sussurrò lei.
– A volte la sensazione che gli altri siano in grado di sentire ciò che pensi o di controllare il tuo comportamento.
– Questa mi è nuova.
– Paura irrazionale. Sfiducia negli altri. Se vuoi ti faccio vedere il bugiardino, – disse lui. – Me lo porto sempre dietro.
Max intanto aveva ripreso a grattarsi l’avambraccio, non con le dita stavolta, ma con le nocche.
Disse: – Tentativo di field goal da quasi metà campo… è una finta, è una finta!
Lo schermo. Diane ogni tanto girava di poco la testa per controllare che fosse sempre nero. Non riusciva a capire perché questa cosa la rassicurasse.
– Ma andiamo direttamente in campo, – disse Max. – Esther, raccontaci cosa sta succedendo.
Sollevò la testa reggendo in mano un microfono fantasma; poi, guardando una telecamera posizionata molto in alto rispetto al campo, cominciò a parlare con un tono di voce piú acuto.
– Qui a bordocampo la squadra sprizza sicurezza da tutti i pori nonostante sia stata funestata da una caterva di infortuni.
– Una caterva di infortuni.
– Esatto, Lester. Ho parlato con il coordinatore dell’attacco, della difesa, quello che è. Sta godendo come un maiale che sguazza nella merda.
– Grazie, Esther. E ora, torniamo all’azione.
Piano piano Diane si rese conto che Martin parlava, ma forse non necessariamente con lei.
– Guardo lo specchio e non so chi è la persona che ho davanti, – diceva Martin. – La faccia che mi guarda non sembra la mia. Ma in fondo perché dovrebbe? Lo specchio è davvero una superficie riflettente? E la faccia che vedo io è la stessa che vedono anche gli altri? Oppure è qualcosa o qualcuno di mia invenzione? Sono le pillole che prendo a dare vita a quest’altra versione di me? Guardo quella faccia con interesse. Sono interessato, ma anche un po’ confuso. Capita mai anche agli altri? La faccia di ognuno di noi. Cos’è che vedono gli altri quando camminano per strada e si guardano a vicenda? La stessa cosa che vedo io? Tutte le nostre vite, tutto questo guardare. La gente che guarda. Ma cos’è che vede?
Max aveva interrotto la sua telecronaca. Stava guardando Martin. Lo guardavano tutti e due, marito e moglie. Il giovane scrutava un punto in quella che si dice la media distanza, con sguardo cauto, in modo misurato, e intanto continuava a parlare.
– Il cinema è una via di fuga. Lo dico sempre ai miei alunni. Loro stanno seduti e ascoltano. Film in bianco e nero, in lingua straniera. Film in lingue sconosciute. Una lingua morta, una sottofamiglia, un dialetto, una lingua artificiale. Non leggete i sottotitoli. Glielo dico chiaro e tondo. Cercate di non leggere i dialoghi in traduzione che compaiono nella parte bassa dello schermo. Quello che vogliamo è cinema allo stato puro, lingua allo stato puro. Indo-iranico. Sino-tibetano. Gente che parla. Gente che cammina, parla, mangia, beve. La nuda potenza del bianco e nero. L’immagine, la copia a livello visivo. I miei alunni stanno seduti e ascoltano. Ragazzi e ragazze intelligenti. Solo che non mi guardano mai, o cosí sembrerebbe.
– Ascoltano, – disse Diane, – ed è questo che conta.
Max era in cucina a preparare i piatti. Lei avrebbe voluto uscire a farsi una passeggiata, da sola. Oppure avrebbe voluto che fosse Max a farsi una passeggiata e che Martin tornasse a casa sua. Dove sono gli altri, Tessa, Jim e compagnia bella, i viaggiatori, i giramondo, i pellegrini, la gente nelle case, nelle villette, negli appartamenti o nelle capanne dei villaggi. Dove sono le macchine e i camion, i rumori del traffico? Super Sunday. Sono tutti a casa o nella penombra di bar e circoli ricreativi e cercano di guardare la partita? Pensa ai diversi milioni di schermi neri. Cerca di immaginare i telefoni fuori uso.
Cosa succede alle persone che vivono dentro il loro telefono?
Max tornò al suo bourbon. Diane si rese conto che il giovane si era alzato, abbandonando la sua tipica postura stravaccata: testa indietro, occhi puntati in alto.
Diane rifletté per qualche istante.
– I soffitti dipinti. A Roma, – disse. – I turisti che guardavano in alto.
– Tutti immobili.
– Santi e angeli. Gesú di Nazareth.
– La figura luminosa. Il Nazareno. Einstein, – disse lui.
5.
Sistemi perduti nel nucleo cruciale della vita di ogni giorno.
La clinica era un susseguirsi disordinato di stanze e corridoi situati al pianterreno. Jim e Tessa passavano davanti a porte, segnali di uscita, luci rosse lampeggianti, avvisi scritti a mano. Incrociavano membri dello staff che andavano di corsa; sotto i lembi svolazzanti dei camici si intravedevano gli abiti civili.
Altri tra quelli scesi dal pulmino entravano in questa o quella stanza, si mettevano in fila oppure si fermavano a chiacchierare. Alcuni invece non erano scesi e avevano proseguito il viaggio verso chissà dove.
C’era una donna accovacciata su uno sgabello in uno spazio angusto, un bugigattolo.
– L’impiegata statale, – disse Tessa. – La funzionaria.
Si accodarono a una lunga fila di persone che aspettavano di poter parlare con questa donna. Le luci del corridoio diventavano sempre piú fioche.
A un certo punto Jim disse: – Ma che ci facciamo qui?
– Sei ferito.
– Ferito. Alla testa. Me n’ero dimenticato.
– Te n’eri dimenticato. Fammi dare un’occhiata, – disse Tessa. – Uno squarcio. Informe. Dopo l’atterraggio d’emergenza, quando ci siamo slacciati le cinture di sicurezza e ci siamo alzati in fretta e furia per scappare, ho visto che sanguinavi.
– Ho sbattuto la testa contro il finestrino.
– Portiamo pazienza, mettiamoci in fila e vediamo cos’ha da dirci l’impiegata seduta sullo sgabello.
– Prima però.
– Prima però, – ripeté lei.
Lasciarono la fila e riuscirono a trovare un gabinetto vuoto. In quell’angusto spazio, Jim appoggiò Tessa contro una parete nuda, lei si aprí il cappotto, gli slacciò la cintura, gli abbassò i pantaloni e le mutande e gli chiese se gli facesse male la testa; per tutta risposta lui cominciò a spogliarla lentamente, con cura. Descrivevano quello che facevano man mano che lo facevano, come, dove, quando, avanzando proposte, consigli, cercando di non ridere. Il corpo di lei scivolò lentamente lungo la parete e lui puntò le ginocchia per mantenere distanza e ritmo.
Qualcuno bussò, poi cominciò a urlare contro la porta chiusa. Abbiate un minimo di rispetto. E dopo un’altra voce, dall’accento straniero. Tessa sussurrò una serie di possibili nazionalità mentre completavano l’atto e poi si pulivano vicendevolmente alla meglio con i fazzoletti di carta dal dispenser accanto allo specchio.
Finirono di rivestirsi e rimasero a guardarsi per diversi secondi. Lo sguardo che si scambiarono riassumeva quella giornata, il fatto di averla scampata bella e la profondità del loro legame. Lo stato delle cose, il mondo esterno, tutto questo avrebbe richiesto un altro tipo di sguardo non appena le circostanze l’avessero consentito.
Uscirono dal bagno e attraversarono il corridoio. Adesso la fila era molto meno lunga; decisero di riprendere posto e aspettare il loro turno.
– Direi che a casa loro possiamo arrivarci a piedi, se non c’è altro modo.
– Sono nostri amici. Ci daranno qualcosa da mangiare.
– Ascolteranno il nostro racconto.
– Ci diranno quello che sanno.
– Il Super Bowl. Dov’è che si tiene?
– In un qualche posto dal clima temperato, con il sole e con l’ombra, – disse lui, – davanti a migliaia di spettatori urlanti.
Arrivati nel bugigattolo la donna alzò lo sguardo verso di loro, ecco altre facce e altri corpi, avanti cosí tutto il giorno, gente ferma in piedi che diceva cose, ascoltava, aspettava istruzioni su dove andare, chi vedere, quale corridoio prendere, quale porta imboccare. La donna annuí come se già sapesse chi erano e cosa volevano.
Pareva incollata allo sgabello.
– Il nostro volo, c’è stato un atterraggio d’emergenza, – disse Tessa. – Lui ha riportato una ferita.
Jim, che svettava vicino alla donna, si piegò in avanti e le mostrò la ferita come un ragazzino che si fosse fatto male a scuola durante l’intervallo.
– Io non mi occupo dei corpi umani. Non guardo, non tocco. Adesso le indico una stanza, – disse la donna, – dove una persona appositamente formata la medicherà oppure la indirizzerà a sua volta da qualcun altro. Ogni persona che ho visto oggi ha la sua storia. Voi due siete quelli dell’aereo precipitato. Altri sono quelli della metropolitana abbandonata, o degli ascensori bloccati; poi ci sono quelli degli uffici evacuati, quelli delle vetrine barricate. Io ci tengo a precisare che siamo qui per i feriti. Non sono qui per dispensare consigli sulla situazione contingente. Qual è la situazione contingente?
Indicò gli schermi neri nel pannello sulla parete davanti a lei. Era una donna di mezz’età, indossava un paio di stivali, jeans robusti, un maglione pesante e anelli su tre dita.
– Posso dirvi questo. Di qualunque cosa si tratti, quello che è successo ha messo fuori uso la nostra tecnologia. La parola stessa mi pare obsoleta, persa nello spazio. Dov’è la fede nell’autorità dei nostri device sicuri, delle nostre capacità di criptaggio, dei nostri tweet, dei troll e dei bot. Ogni cosa nella datasfera è soggetta a distorsioni o furti? E a noi non resta che starcene seduti qui e piangere per il nostro destino?
Jim era ancora chino in avanti per mostrarle la ferita. La donna si sporse in avanti e piegò il collo in modo da poterlo guardare.
Disse: – Ma perché vi sto dicendo queste cose? Perché il vostro aereo è precipitato, piú o meno, e voi siete curiosi di sapere cosa sta succedendo. E perché, quando le circostanze me lo consentono, io sono la solita ragazzina chiacchierona di un tempo.
Tessa disse: – Siamo qui per ascoltare.
Le luci sul soffitto cominciarono a sfarfallare e ad affievolirsi finché non si spensero del tutto. La clinica piombò improvvisamente nel silenzio. Tutti aspettavano. E oltre a questo, un senso generale di paura per l’attesa stessa, perché ancora non era chiaro il significato di ciò che stava avvenendo, quanto fosse catastrofica e definitiva quell’anomalia che andava ad aggiungersi a una serie di eventi già di per sé drammatici.
La donna parlò per prima, la sua voce un sussurro: disse dov’era nata e cresciuta, il nome dei suoi genitori e dei suoi nonni, il nome delle sorelle e dei fratelli, delle scuole, delle cliniche, degli ospedali, con un tono che comunicava una calma interiore permeata di isteria.
Loro aspettavano.
La donna riprese a parlare, raccontando del suo primo matrimonio, del suo primo cellulare, del primo divorzio, del primo viaggio, del primo fidanzato francese, delle prime sommosse di strada.
Loro continuavano ad aspettare.
– Niente e-mail, – disse la donna, inclinando il busto all’indietro, con i palmi delle mani rivolti verso l’alto. – Piú o meno impensabile. E ora che si fa? A chi diamo la colpa?
Gesti appena visibili.
– Niente e-mail. Provate a immaginarlo. A dirlo. Sentite l’effetto che fa. Niente e-mail.
La testa ballonzolava piano a ogni sillaba. Sulla soglia c’era una persona con una torcia elettrica; puntava il raggio di luce su ognuno di loro, una volta, poi di nuovo; alla fine se ne andò senza dire una parola.
Dopo una breve pausa, la donna riprese a parlare nel buio, sempre sussurrando, ma in modo piú concitato.
– Piú sono avanzati piú sono vulnerabili. I nostri sistemi di sorveglianza, i nostri dispositivi di riconoscimento facciale, la risoluzione delle immagini. Come facciamo a sapere chi siamo? Sappiamo che qua dentro comincia a fare freddo. Cosa succederà quando dovremo andarcene? Niente luce, niente riscaldamento. Tornare a casa, abitare dove abito io, sopra un ristorante che si chiama Verità e Bellezza, se la metropolitana e gli autobus non circolano, se i taxi non ci sono, l’ascensore del palazzo immobilizzato, se, se, se. Io a questo cubicolo ci sono affezionata, ma non voglio morirci.
Per un po’ non disse niente. Quando le luci tornarono ad accendersi, fioche, Jim era dritto in piedi, con il viso privo di espressione. Un androide alto e bianco.
La donna riprese a parlare con voce normale.
– Ok, ora vedo la ferita e posso dirle senza esitazione che deve andare in fondo al corridoio, la terza stanza sulla sinistra.
Indicò in quella direzione, poi si infilò un paio di guanti di lana e indicò di nuovo, con autorevolezza.
– E una volta finito qui, cosa farete?
– Andremo da amici, – disse Tessa. – Come da programma.
– Come ci arrivate?
– A piedi.
– E poi cosa? – disse la donna.
– E poi cosa? – disse Jim.
Aspettarono che anche Tessa aggiungesse la sua voce all’espressione di questo dilemma elementare, ma lei si limitò a stringersi nelle spalle.
In una stanza in fondo al corridoio c’era un uomo giovane con un camice larghissimo e un berretto da baseball. In punta di piedi spennellò un medicinale sulla ferita di Jim, e poi la fasciò con cura. Jim fece per stringergli la mano, ma cambiò idea all’ultimo istante. Uscirono.
In strada parlarono della donna che avevano visto correre quando erano sul pulmino. Rivederla avrebbe avuto un effetto rassicurante. Procedevano spediti a testa bassa contro il vento che soffiava forte. L’unica persona che videro era un tizio claudicante che spingeva un carretto mezzo scassato che probabilmente conteneva tutti i suoi averi. L’uomo si fermò per fare un cenno di saluto, poi si allontanò dal carretto con alcune ampie falcate, il corpo curvo, imitando i loro movimenti. Jim e Tessa risposero al saluto e continuarono per la loro strada. A un ampio incrocio, il vigile digitale era fermo, un braccio meccanico appena sollevato.
Non potevano far altro che continuare a camminare.
6.
Contare alla rovescia di sette in sette verso un futuro che sta prendendo forma troppo presto.
C’erano sei candele sistemate in vari punti del soggiorno; Diane aveva appena avvicinato un fiammifero all’ultima.
Disse: – È una di quelle situazioni in cui bisogna pensare a quello che vogliamo dire prima di dirlo?
– La semioscurità. È in qualche punto della mente collettiva, – disse Martin. – L’interruzione, la sensazione di aver già vissuto tutto questo. Un qualche guasto naturale o un’intrusione esterna. Quell’istinto alla cautela che ereditiamo dai nonni o dai bisnonni o che ci viene da ancora piú lontano. Gente in balia di una grave minaccia.
– È questo ciò che siamo?
– Sto straparlando, – disse lui. – Sto sciorinando una sfilza di teorie e congetture.
Il giovane era alla finestra e Diane si chiese se avesse intenzione di tornare a casa sua nel Bronx. Immaginò che probabilmente avrebbe dovuto farsela a piedi, attraversare tutta East Harlem per raggiungere uno dei ponti. Erano anche pedonali, quei ponti, o potevano passarci solo le macchine e gli autobus? C’era ancora qualcosa là fuori che funzionava normalmente?
A questo pensiero si intenerí e si chiese se non fosse il caso di offrirgli ospitalità per quella notte. Il divano, una coperta, niente di troppo complicato.
I fornelli: morti; il frigorifero: morto. Le pareti stavano perdendo tutto il calore accumulato. Max Stenner era seduto in poltrona, gli occhi puntati sullo schermo nero. Probabilmente ora toccava a lui parlare. Diane lo percepí, fece un cenno di assenso col capo e rimase in attesa.
Max disse: – Adesso si mangia. Altrimenti poi le cose finiscono per diventare dure o molli o calde o fredde o quello che è.
Tutti rifletterono su questa cosa. Ma nessuno fece un passo in direzione della cucina.
Poi Martin disse: – Football.
Tanto per ricordare com’era iniziato quel lungo pomeriggio. Assunse una postura strana per un individuo come lui: imitò l’azione rallentata di un giocatore che lanciava la palla, il corpo in bilico a mezz’aria, il braccio sinistro in avanti, per non perdere l’equilibrio, il destro all’indietro, quello della mano che stringeva la palla.
Da una parte Martin Dekker e dall’altra Diane Lucas, in piedi all’altro capo della stanza, perplessa da quell’apparizione.
Martin sembrava perso nella sua posa, poi finalmente riacquistò una postura normale. Max intanto era tornato a guardare il suo schermo nero. Le pause cominciavano a diventare silenzi e a comunicare un senso di normalità, anche se era una normalità per nulla rassicurante. Diane aspettava che suo marito si versasse dell’altro whisky, ma lui non sembrava averne alcuna intenzione, almeno per il momento. Le cose semplici, descrittive: che fine avevano fatto?
Martin disse: – Ci troviamo a vivere in una realtà alternativa? L’ho già detto, questo? Un futuro che per il momento non dovrebbe ancora prendere forma?
– Un guasto in una centrale elettrica. Questo è quanto, – disse lei. – Pensiamola in questi termini. Un impianto sulle rive del fiume Hudson.
– Intelligenza artificiale che tradisce ciò che siamo e il modo in cui viviamo e pensiamo.
– Tornerà la luce, il riscaldamento riprenderà a funzionare, la nostra mente collettiva sarà di nuovo nel punto dov’era prima, piú o meno, nel giro di un paio di giorni.
– Il futuro artificiale. L’interfaccia neurale.
Era come se stessero evitando di proposito di guardarsi.
Martin, rivolto a nessuno in particolare, sollevò l’argomento dei suoi alunni. Ragazzi che venivano da ogni parte del mondo, accenti assortiti, tutti intelligenti, appositamente selezionati per seguire il suo corso, pronti per qualunque cosa gli saltasse in mente di dire, qualunque compito, qualunque proposta lui avanzasse su ambiti di studio che esulavano dalla fisica. Aveva snocciolato liste e liste di nomi ai suoi studenti. Taumatologia, ontologia, escatologia, epistemologia. Non riusciva a fermarsi. Metafisica, fenomenologia, trascendentalismo. S’interruppe per pensare a qualcosa, poi riprese. Teleologia, eziologia, ontogenesi, filogenetica. Loro guardavano, ascoltavano, annusavano l’aria viziata. Era questo lo scopo per cui erano lí, tutti, gli studenti come l’insegnante.
– E uno degli studenti una volta ha raccontato un sogno che aveva fatto. Era un sogno incentrato sulle parole, non sulle immagini. Due parole. Si era svegliato con queste parole, e gli occhi persi nel vuoto. Ombrell’ascoso. Ombrell’ con l’apostrofo finale. E ascoso. Questa parola aveva dovuto cercarla sul dizionario. Come aveva fatto a sognare una parola che non conosceva? Ascoso. Nascosto. Ma la cosa davvero misteriosa era ombrell’ con l’apostrofo. E le due parole insieme. Ombrell’ascoso.
Rimase in attesa per un po’.
– Tutto questo nel Bronx, – disse infine, facendo sorridere Diane. – Io lí che ascoltavo quei ragazzi e quelle ragazze che discutevano di questa cosa, gli studenti, i miei alunni, e anch’io mi chiedevo come interpretare quelle parole. Un uomo nascosto sotto un ombrello? Pronto a tendere un’imboscata? E intanto l’autore del sogno mi guardava come se io fossi responsabile di quanto gli era successo mentre dormiva. Tutta colpa mia. Ombrell’ con l’apostrofo.
Bussarono alla porta. Un suono fiacco, gli ascensori non funzionavano, bisognava farsi a piedi otto piani. Diane era pronta davanti alla porta, ma aspettò qualche istante prima di afferrare la maniglia.
– Speravo foste voi.
– Siamo noi, piú o meno, – disse Jim Kripps.
Si sfilarono i cappotti e li buttarono sul divano; Diane fece un gesto in direzione di Martin e disse il suo nome, seguirono strette di mano e mezzi abbracci, Max era in piedi, con un pugno serrato in alto a mo’ di saluto. Vide la benda sulla fronte di Jim e simulò una scazzottata.
Quando tutti si furono seduti – qua, là – i nuovi arrivati raccontarono del volo, degli eventi che erano seguiti e dello spettacolo delle strade di Midtown, il reticolo di vie completamente vuote.
– Al buio.
– Niente lampioni, niente insegne, palazzi, grattacieli, le finestre, ovunque.
– Tutto buio.
– Un quarto di luna lí, nel cielo.
– E voi siete appena rientrati da Roma.
– Siamo appena rientrati da Parigi, – disse Tessa.
Diane pensò che Tessa era davvero bella: figlia di un matrimonio misto, autrice di versi oscuri, intimi, di notevole impatto.
I due vivevano nell’Upper West Side, il che significava che avrebbero dovuto attraversare Central Park nel buio totale per farsi poi un’altra scarpinata piú lunga verso Uptown.
Dopo un po’ la conversazione si fece faticosa, offuscata da un senso d’inquietudine. Jim parlava guardando in basso un punto in mezzo ai piedi, e Diane faceva ampi gesti con le braccia indicando eventi che stavano succedendo in posti al di là della loro limitatissima portata.
– Mangiare. È il momento di mettere qualcosa sotto i denti, – disse Diane. – Ma prima sono curiosa di sapere che cosa vi hanno servito in volo. Mi rendo conto che sto parlando un po’ a vanvera. Ma ogni volta che faccio questa domanda non c’è mai nessuno che se lo ricordi. Se chiedo cos’hanno ordinato l’ultima volta che sono andati al ristorante anche se è stato una settimana fa tutti me lo sanno dire. Senza problemi. Il nome del ristorante, la portata principale, il tipo di vino, il paese d’origine. Ma quello che ti servono in volo, no. Prima classe, business class, economica, poco importa. Nessuno ricorda cosa ha mangiato.
– Tortellini spinaci e formaggio, – disse Tessa.
Rimasero tutti zitti per qualche istante.
Poi Diane disse: – Il nostro cibo. Qui e ora. Cibo da partita di football.
Martin l’accompagnò in cucina. Gli altri rimasero ad aspettare in silenzio a lume di candela. Di colpo Tessa cominciò a contare lentamente alla rovescia di sette in sette da duecentotre a zero, imperturbabile, passando da una lingua a un’altra. Finalmente arrivarono i piatti, che Max aveva preparato in precedenza; i cinque individui si sedettero a mangiare. Una sedia della cucina, una sedia a dondolo, la poltrona, una poltroncina senza braccioli, una sedia pieghevole. Finito di mangiare nessuno degli ospiti manifestò l’intenzione di tornare a casa propria, nemmeno Jim e Tessa, dopo aver preso i cappotti dal divano ed esserseli infilati al semplice scopo di riscaldarsi. Martin masticava tenendo gli occhi chiusi.
Forse ognuno di quegli individui rappresentava un mistero per l’altro, per quanto il loro legame potesse essere stretto, ognuno di loro era racchiuso nella propria individualità in modo cosí naturale da sfuggire a una definizione conclusiva, a una valutazione immutabile da parte degli altri presenti nella stanza?
Max mangiava con lo sguardo fisso sullo schermo; dopo aver finito, mise giú il piatto e continuò a guardare. Prese dal pavimento la bottiglia di bourbon e il bicchiere e si versò da bere. Riposò la bottiglia a terra, tenne il bicchiere tra le mani.
E riprese a fissare lo schermo nero.
Seconda parte
Ormai è chiaro che i codici nucleari vengono manipolati a distanza da determinati gruppi o organismi. Le armi nucleari di tutto il mondo non rispondono ai comandi. Niente missili che si alzano in volo sopra gli oceani, niente bombe sganciate da aerei supersonici.
E intanto la guerra procede e i termini continuano ad accumularsi.
Attacchi informatici, intrusioni digitali, aggressioni biologiche. Antrace, vaiolo, agenti patogeni. I morti e i menomati. Morte per fame, pestilenze, cos’altro?
Reti elettriche che collassano. Le nostre percezioni personali che sprofondano nella supremazia quantistica.
Il livello degli oceani si sta rapidamente alzando? Le temperature continuano ad aumentare, di ora in ora, di minuto in minuto?
La gente vive in prima persona i ricordi di conflitti passati, la diffusione del terrorismo, le riprese traballanti di qualcuno che si avvicina a un’ambasciata con addosso un giubbotto esplosivo? Pregare e morire. Una guerra che possiamo vedere ed esperire sensorialmente.
Si può dire che queste memorie contengano sprazzi di nostalgia?
La gente ricomincia a farsi vedere nelle strade, con una certa cautela all’inizio, e poi sulla scia di un senso di liberazione, tutti camminano, guardano, s’interrogano, donne e uomini, drappelli casuali di adolescenti, tutti che si accompagnano vicendevolmente mentre attraversano l’insonnia di massa di questo tempo inaudito.
E non è strano il fatto che certi sembrino aver accettato questa sospensione, questo guasto? Forse è qualcosa che hanno sempre desiderato a livello subliminale, subatomico? Alcune persone, sempre e solo alcune, un numero minuscolo di abitanti umani del pianeta terra, il terzo pianeta piú vicino al sole, regno dell’esistenza mortale.
Nessuno vuole chiamarla Terza guerra mondiale, ma è di questo che si tratta, – dice Martin.
A quanto pare tutti gli schermi, ovunque, si sono svuotati. Cosa ci resta da vedere, da sentire, da provare? Esiste un selezionato numero di persone che hanno una sorta di telefono impiantato nel corpo? Questa è una domanda seria, dice il giovane. Si può considerare una sorta di protezione contro il silenzio globale che segna le nostre ore, i nostri minuti e i nostri secondi? Chi sono queste persone? Come fanno ad accedere alle chiamate sottocutanee? Esiste un prefisso corporeo, una sorta di battito cardiaco parallelo che trasmette un allarme a livello locale?
La mezzanotte è passata da un po’ e lui è ancora lí che parla, Diane è ancora lí che ascolta, gli amici, Jim Kripps e Tessa Berens, sono ancora lí, con Max spiaccicato in poltrona.
Energia oscura, onde fantasma, hackeraggio e controhackeraggio.
Un software di controllo di massa che prende decisioni autonome, contravvenendo a volte alle sue stesse norme.
Dati di geolocalizzazione satellitare.
Obiettivi spaziali che restano nello spazio.
Tutti in soggiorno, tutti con il cappotto addosso, tre anche con i guanti, quattro che sembrano impegnati ad ascoltare Martin, l’unico in piedi, che parla e gesticola senza freni.
Il tempo, che sembra aver fatto un balzo in avanti. A mezzanotte c’è stato forse un peggioramento del guasto? E la voce di Martin, che sta cominciando a cambiare.
Le armi biologiche e i paesi che ne sono in possesso.
Comincia a snocciolare una lunga lista, interrotta da un accesso di tosse. Gli altri distolgono lo sguardo. Martin si asciuga la bocca con il dorso della mano che poi guarda attentamente prima di riprendere a parlare.
Alcuni paesi. Un tempo accaniti sostenitori delle armi nucleari, parlano adesso la lingua delle armi viventi.
Germi, geni, spore, polveri.
Diane comincia a rendersi conto che Martin sta parlando con un finto accento straniero. Sta usando una voce non solo diversa dalla sua, ma che vuole imitare quella di un individuo ben preciso. Sta facendo la voce di Albert Einstein che parla inglese.
Diane non saprebbe dire con certezza se le cose che Martin sta dicendo siano frutto di pura invenzione. C’è qualcosa in lui, il suo tono, l’accento posticcio, la sensazione che abbia accesso agli eventi mondiali, anche se non si sa bene cosa significhino né come lui riesca a ottenere notizie sottoposte a censura. L’ha detto lui stesso: gente con telefoni impiantati nel corpo.
Diane si rende conto che sono tutte sciocchezze. Ma sa anche che c’è qualcosa nella natura del suo ex studente a dare adito a simili congetture.
Diane ha ripreso a parlare a ruota libera, ma stavolta tra sé.
Decide di non commentare con gli altri l’accento posticcio di Martin. Intanto il giovane ha cominciato a parlare piú sommessamente, le mani adesso accarezzano le parole.
Struttura dell’onda, tensore metrico, caratteristiche di covarianza.
Potrebbe risultare troppo complicato portare Einstein in quella stanza. E lei non sa se questi termini vengono dal manoscritto del 1912, la bibbia di Martin, il libro degli schemi, o se sono semplici rumori che fluttuano nell’aria, la lingua della Terza guerra mondiale.
Dà l’idea di un genio o di uno squilibrato – Martin, non Einstein – mentre snocciola i nomi degli scienziati presenti a una conferenza tenutasi a Bruxelles nel 1927, ventotto uomini e una donna, Marie Curie, Madame Curie, nome dopo nome, con Einstein che parla di sé con la voce di Martin che imita Albert Einstein seduto al centro, in prima fila.
E di colpo passa dall’inglese con l’accento straniero a un vivacissimo tedesco. Diane prova a seguire il discorso, ma dopo poco perde completamente il filo. Non c’è la minima traccia di intento parodico, nemmeno autoparodico. È tutto nella mente di Martin da solo davanti allo specchio di casa sua; ma non è a casa sua, è qui, e pensa ad alta voce, si ritira in se stesso, scuote la testa.
I genitori di Einstein si chiamavano Pauline ed Hermann.
Diane capisce questa semplice frase, ma non si sforza di continuare ad ascoltare. Vorrebbe che Martin ci desse un taglio e ha intenzione di chiederglielo esplicitamente. Lui si alza dritto in piedi e continua a parlare tutto serio, alternando la sua voce normale con quella di Einstein, ma che importanza ha?
Max si alza e si stiracchia. Max Stenner. Max. Tanto basta a ridurre il giovane al silenzio.
– Stiamo subendo un processo di zombificazione, – dice Max. – I nostri cervelli si stanno gallinizzando.
Si avvia verso la porta d’ingresso e intanto continua a parlare con la testa leggermente girata all’indietro.
– Ho chiuso con questa roba. È domenica, oggi? O lunedí? Oggi è il boh di febbraio. La mia data di scadenza.
Nessuno ha idea di cosa stia dicendo.
Si tira su la cerniera del giubbotto ed esce, e Diane se lo immagina mentre scende le scale, un passo dopo l’altro. La mente di lei adesso funziona al rallentatore. Si sente quasi obbligata a sedersi davanti al televisore al posto di Max in attesa che arrivi un’immagine a inondare improvvisamente lo schermo.
Martin riprende a parlare per un po’, di nuovo in inglese, senza piú accento straniero.
Corsa digitale agli armamenti, segnali wireless, controsorveglianza.
– Violazioni di dati, – dice. – Criptovalute.
Quest’ultima parola la pronuncia guardando direttamente Diane.
Criptovalute.
Lei si va costruendo quella parola nella mente, senza trattino.
Si guardano.
Lei dice: – Criptovalute.
Non ha bisogno di chiedergli cosa significhi.
Lui dice: – Soldi senza piú controllo. Non è una nuova forma di sviluppo. Niente standard governativi. Il caos finanziario.
– E quand’è che succederà tutto questo?
– Adesso, – dice lui. – Sta succedendo già da un bel po’. Sta per succedere.
– Criptovalute.
– Adesso.
– Cripto, – dice lei, interrompendosi per qualche istante, lo sguardo fisso su Martin. – Valute.
In tutte quelle sillabe, da qualche parte, qualcosa di segreto, recondito, intimo.
Poi è Tessa a prendere la parola.
Dice: – E se?
Segue una lunga pausa, un cambio d’atmosfera. Gli altri aspettano che prosegua.
– E se tutto questo fosse soltanto pura fantasia?
– Che però è diventata in qualche modo reale, – dice Jim.
– E se non fossimo davvero quello che crediamo di essere? E se il mondo che conosciamo venisse sottoposto a un nuovo assetto davanti ai nostri occhi mentre stiamo fermi a guardare, oppure mentre stiamo seduti a parlare?
Alza una mano e sbatte le dita contro il pollice, a imitare le vuote chiacchiere della vita di tutti i giorni.
– Forse il tempo ha fatto un balzo in avanti, come dice il nostro giovane amico? Oppure è collassato? E la gente per le strade si trasformerà in orde violente, senza piú controllo, spaccheranno tutto, introducendosi ovunque, a livello planetario, rigetteranno il passato, perderanno ogni legame con ogni abitudine, con tutti gli schemi?
Nessuno va alla finestra per guardare fuori.
– E poi cosa succederà? – dice Tessa. – È sempre stato ai margini della nostra percezione. L’interruzione della corrente, la tecnologia che piano piano si dilegua, un aspetto, poi un altro. Ci è già capitato tante e tante volte di assistere a cose simili, in questo paese come altrove, forti temporali, incendi incontrollati, evacuazioni, tifoni, tornado, siccità, nebbia fitta, aria irrespirabile. Frane, tsunami, fiumi che scompaiono, case che crollano, interi edifici che si sgretolano, cieli oscurati dall’inquinamento. Chiedo scusa, prometto che cercherò di stare zitta. Ma abbiamo ancora freschi nella nostra mente i ricordi del virus, della peste, delle code infinite nei terminal degli aeroporti, delle mascherine, delle vie cittadine completamente vuote.
Tessa si accorge del silenzio che accoglie le sue pause.
– A partire dallo schermo nero in questo appartamento fino ad arrivare a questa situazione che ci coinvolge tutti. Cosa sta succedendo? Chi ci sta facendo tutto questo? Qualcuno ha rimasterizzato digitalmente il nostro cervello? Siamo forse un esperimento riuscito male, un piano messo in moto da forze che vanno al di là della nostra capacità di comprensione? Non è la prima volta che queste domande vengono poste. Gli scienziati si sono espressi a voce e per iscritto, fisici, filosofi.
Al secondo silenzio tutte le teste si girano verso Martin.
Comincia a parlare di satelliti in orbita in grado di vedere ogni cosa. La via dove abitiamo, l’edificio in cui lavoriamo, i calzini che indossiamo. Una pioggia di asteroidi. Una folla di asteroidi nel cielo. Può succedere in qualunque momento. Asteroidi che diventano meteoriti man mano che si avvicinano a un pianeta. Interi esopianeti che vengono spazzati via.
Perché non noi? Perché non adesso?
– Non dobbiamo far altro che considerare la situazione in cui ci troviamo, – dice. – Qualunque cosa stia succedendo là fuori, noi siamo pur sempre persone, i frammenti umani di una civiltà.
Lascia galleggiare queste parole nell’aria. I frammenti umani.
Max si fa largo tra la folla nelle strade e ripensando suo malgrado a una cosa che ha detto il giovane si chiede se quanto sta vedendo qui e ora non sia solo un aspetto della mente di Martin Dekker che si riadatta alla tridimensionalità.
È cosí anche nelle altre città, gente in preda a una furia distruttrice, nessun posto dove andare a rifugiarsi? Le folle di una città canadese si allargheranno sempre piú fino a unirsi alle folle di qui? L’Europa è un’unica folla dalle proporzioni inverosimili? Che ore sono adesso in Europa? Le pubbliche piazze ora pullulano di gente, decine di migliaia di persone, in tutta l’Asia, in tutta l’Africa, ovunque nel mondo?
Mentre la gente cerca di rivolgere la parola a lui e alle altre persone, gli passano per la mente nomi di paesi e gli torna in mente sua figlia che sta a Boston, con due figli e un marito, e l’altra figlia in viaggio chissà dove; per uno strano momento condensato di claustrofobia allo stato puro non riesce a ricordare i loro nomi.
Si appoggia a un muro e osserva.
In altri tempi, piú o meno ordinari, c’era sempre qualcuno con lo sguardo perso nel proprio cellulare, di mattina, a mezzogiorno, di sera, in mezzo al marciapiede, incurante degli altri che gli passavano velocemente accanto, completamente immerso, ipnotizzato, consumato dall’apparecchio, con gli altri che quasi gli andavano incontro per poi schivarlo all’ultimo momento; e adesso questi tossicodipendenti digitali non possono fare niente, i cellulari sono fuori uso, ogni cosa è fuori uso, completamente totalmente fuori uso.
Dice a se stesso che è giunta l’ora di tornare a casa e che dovrà farsi largo vigorosamente tra la folla che avanza china per proteggersi dal freddo, mille facce al minuto, gente che lotta, che mena le mani, piccole sommosse qua e là, imprecazioni che si librano nell’aria. Rimane fermo ancora per qualche istante, tende i muscoli delle spalle per l’impresa e decide che quando arriverà al suo edificio conterà tutti i gradini fino al suo appartamento. Lo faceva un tempo, ma sono passati decenni, e comincia a chiedersi il senso di tutto questo.
E poi si immerge nella fiumana di gente.
Diane, a casa, dove altro mai, cerca di soffocare una serie di striduli singulti.
Dice: – Da qualche parte in Cile.
Queste parole dovrebbero avere un senso, ma lei non se lo ricorda. Guarda Martin, poi gli altri due appena usciti dalla camera da letto. L’uomo sbadiglia, la donna è quasi completamente vestita, ai piedi ha un paio di calzini bassi senza scarpe. A Diane sfugge qualche imprecazione, contro se stessa, per aver ceduto allo spirito del momento e concesso l’uso della camera da letto ai suoi ospiti in fregola.
O magari stavano veramente solo riposando. Questo avevano detto, e questo è quanto lei aveva originariamente creduto.
Martin dice: – Cerro Pachón, la montagna nel Cile centrosettentrionale.
– Di cosa stai parlando? – chiede Jim.
– Del Telescopio ottico per survey ad ampio raggio.
Comincia a illustrare la cosa quando Max torna a casa e si abbassa la cerniera del giubbotto. Tutti aspettano che dica qualcosa. Max si sfila il giubbotto e lo butta a terra vicino al telecomando, alla bottiglia di bourbon e al bicchiere vuoto. Si riempie il bicchiere e beve, scuotendo la testa alla botta corroborante del whisky puro.
Cosa sta succedendo nelle strade? Cosa c’è? Chi c’è là fuori?
Lui dice: – Meglio non saperlo.
Poi solleva il bicchiere.
– Widow Jane, – dice. – Invecchiato dieci anni in botti di rovere americano. L’ho già detto?
Beve e si sporge in avanti, a sinistra, guarda i piedi di Tessa.
– Che fine hanno fatto le tue scarpe?
– Se ne sono andate senza di me, – dice lei.
Adesso tutti si sentono meglio.
Martin non ha finito. Dice: – La spinta propulsiva del momento, il flusso del momento. La gente deve continuare a ripetere a se stessa di essere ancora viva.
Jim Kripps ascolta il proprio respiro. Poi si tocca la benda sulla fronte, controlla, a conferma che è ancora lí.
Due degli altri, Tessa e Max, sono svegli a malapena. Diane si rende conto di essere qui per ascoltare il suo ex studente proprio come un tempo era lui ad ascoltare lei.
– Quando ci saremo lasciati alle spalle tutto questo, forse sarà giusto che io vada incontro a una libera morte. Freitod, – dice Martin. – Ma parlo seriamente o sto solo mendicando un po’ di attenzione? E la situazione in cui ci troviamo. Non dovrei essere a casa mia in questo momento, da solo, in camera da letto? Non è qualcosa che le circostanze legittimano? Nessuna notizia da parte di nessuno, in nessun luogo. È il momento di stare fermi, seduti.
Tocca i bordi della poltrona, a conferma del fatto di essere seduto.
– Parlo in modo un po’ troppo saccente? – dice pronunciando le parole con lentezza, tirando la domanda fuori a forza, le mani che si irrigidiscono, lo sguardo che sembra indietreggiare man mano che si addentra in quella sorta di trance in cui Diane l’ha già visto cadere altre volte, uno stato che lei definirebbe metafisico.
– È tutta la vita che aspetto questo, e non lo sapevo, – dice lui.
Diane Lucas decide di dire qualcosa, pur non avendo la minima idea di ciò che potrebbe uscirle di bocca.
– Fissare il vuoto. Perdere la cognizione del tempo. Andare a letto. Alzarsi dal letto. Mesi, anni, decenni passati a insegnare. Gli studenti tendono ad ascoltare. Ognuno con il suo background. Facce scure, chiare, gradazioni intermedie. Cosa sta succedendo nelle piazze di tutta Europa, gli stessi posti dove ho camminato, guardato, ascoltato? Mi sento cosí sprovveduta. Una docente universitaria che ha lasciato il lavoro troppo presto. Che avrebbe voluto ispirare i suoi studenti, uno dei quali è seduto accanto a me qui e ora. Il film apocalittico. Un gruppo di persone bloccate in una stanza. Solo che noi non siamo bloccati. Possiamo andarcene quando ci pare. Cerco d’immaginare l’enorme senso di confusione che regna fuori. Mio marito non vuole descrivere quello che ha visto, ma io immagino che per le strade adesso ci sia il pandemonio e chissà come mai sono cosí restia ad alzarmi, ad andare alla finestra e, semplicemente, a guardare fuori? Tutto quello che sta accadendo non era in fondo scontato? Non è quello che alcuni di noi stanno pensando? Era la nostra meta. Niente piú meraviglia, niente piú curiosità. Il senso dell’orientamento gravemente compromesso. Un eccesso di cose generato da un codice sorgente troppo limitato. E se adesso parlo cosí è perché la mezzanotte è passata da un pezzo e io non ho chiuso occhio e perché ho mangiato sí e no un boccone e perché le persone qui presenti ascoltano quello che dico con un orecchio sí e uno no? Qualcuno mi dica che ho torto, ma naturalmente nessuno parla. Voglio riprendere a insegnare, voglio tornare in classe, parlare con i miei studenti dei principî della fisica. La fisica di questo, la fisica di quest’altro. La fisica del tempo. Il tempo assoluto. La freccia del tempo. Tempo e spazio. Voglio citare, e poi mi taccio, una frase a caso da Finnegans Wake, libro che sto leggendo a sprazzi, qua e là, da un tempo che definirei immemore. Questa frase è rimasta al sicuro nell’apposita sacca della mente dove si conservano le parole. Prima che il sockson luccasse le dure. Ho ancora un’ultima cosa da dire. A me stessa stavolta. Taci, Diane.
Jim Kripps è seduto sulla sedia, curvo, lo sguardo basso, parla rivolto al tappeto, le lunghe mani ciondoloni.
– E cosí stavamo lí seduti, mezzo addormentati, in attesa che ci portassero uno spuntino prima di atterrare. A quel punto è iniziata la turbolenza. L’aereo ha cominciato a ballonzolare di qua e di là, abbiamo sentito una serie di botte fragorose. Credo che fossimo ancora ben lontani dall’aeroporto, dalla pista d’atterraggio. Bum bum bum. Ho guardato fuori dal finestrino, ma non riuscivo a vedere niente, aspettavo che il pilota ci dicesse qualcosa di rassicurante. Tessa era seduta accanto a me, proprio come adesso. Non credo di averla guardata perché non volevo vedere la sua espressione. L’aereo traballava in modo spaventoso. Poi abbiamo sentito delle voci dall’altoparlante, tutt’altro che rassicuranti. Ecco come comincia, ecco cosa si prova, tutte le migliaia e migliaia di passeggeri che prima di noi hanno vissuto un’esperienza simile per poi essere ridotti per sempre al silenzio. Ci ho pensato davvero, alle migliaia e migliaia di persone, o me lo sto inventando adesso in questo mio resoconto disordinato? Sembrano passati dodici anni, ma è successo oggi, piú o meno, solo poche ore fa, quante, il pilota che parlava francese, le nostre cinture di sicurezza, il nostro spuntino prima dell’atterraggio, che cazzo di fine aveva fatto il nostro spuntino. Tessa parla francese. Mi ha fatto da interprete? Non mi pare, e probabilmente è stato per il mio bene. Scusate se continuo a parlare di queste cose. Poi l’atterraggio d’emergenza, un forte rumore, come un razzo in partenza, e l’impatto che sembrava la voce di Dio in persona, vi chiedo scusa, e poi ho sbattuto la testa contro il finestrino, sono stato sballottato di lato contro il finestrino, qualcuno gridava al fuoco, c’era un’ala avvolta dalle fiamme, e io mi sono accorto del sangue che mi colava nell’occhio e ho afferrato la mano di Tessa, lei è vicino a me, dice qualcosa, e una persona dall’altra parte del corridoio comincia a urlare, oppure sta soffocando. No no no. Vabbè, ad ogni modo, per farla piú breve di quello che è, l’impatto è stato fortissimo e poi per un po’ l’aereo ha continuato a slittare e saltare e naturalmente solo in seguito ho avuto modo di collegare questo evento con il collasso totale di tutte le reti, tenevo la mano sul polso di Tessa e lei guardava il sangue che mi colava in faccia. Questa è stata la prima occasione che ho avuto per riflettere davvero, per ricordare quello che è successo. Prima c’è stato il pulmino, la clinica, quella donna che parlava parlava parlava, l’uomo con il berretto da baseball che mi ha medicato la ferita. Poi siamo usciti in strada. Una ragazza che faceva jogging.
Max Stenner cerca di assumere un’aria annoiata. È seduto nella sua poltrona, quella con i braccioli, tiene gli occhi appena aperti.
– I gradini. Tornando dalla folla per le strade. Qui e ora. Contare i gradini. Una cosa che facevo da bambino. Gli scalini erano diciassette. Ma a volte il numero cambiava, o cosí mi sembrava. Forse perché contavo male? Oppure perché il mondo si restringeva o si allargava? Ma tutto questo succedeva tanto tempo fa. Oggi mi dicono che è difficile immaginarmi da bambino. Mi chiamavo Max? Cresciuto in una cittadina di provincia. Un’altra cosa che la gente non riesce a immaginare. Madre, fratello, sorella. Niente folle rabbiose, niente palazzoni. Diciassette gradini. Stavamo in affitto, al secondo piano di uno stabile di due soli piani che apparteneva a qualcun altro. Nove passi lungo il garage, e poi altri otto fino al nostro appartamento. Un bambino di nome Max. E di colpo eccomi qua, un padre, un uomo che per lavoro va nei grattacieli di lusso a ispezionare gli scantinati, le scale, i tetti, e che cerca e trova violazioni del codice condominiale. Io le adoro, le violazioni. Giustificano ciò che provo, a tutto tondo. Qui e ora, in queste ore cruciali, sono tornato in questa via, in questo edificio, facendomi largo a gomitate tra la folla, ho recuperato la chiave di casa, ho aperto la porta di casa, inutile dire che non ho dovuto fare un grande sforzo per ricordarmi che gli ascensori non funzionano, e lentamente ho cominciato a salire le scale, guardando ogni singolo gradino, una rampa dopo l’altra, e a un certo punto mi sono accorto che mi stavo reggendo al corrimano e la cosa non mi andava a genio e allora ho continuato a salire e a contare, un gradino dopo l’altro, rampa dopo rampa. Mi piacerebbe poter dire che ho rivissuto gli anni della mia infanzia, ma in realtà la mia mente era praticamente vuota. Solo le scale e i numeri, terzo piano, quarto piano, quinto piano, e ho continuato a salire finché non ho spinto la porta del pianerottolo, ho preso la chiave dal fazzoletto appallottolato e incrostato di moccio che tengo in tasca, e ora che sono qui non sento di dovermi scusare per questa lunga sciocca descrizione di me che salgo otto piani di scale perché la situazione contingente ci dice che non c’è altro da dire se non quello che ci viene in mente, perché tanto alla fine nessuno di noi ne conserverà memoria.
Tessa Berens si studia il dorso delle mani come a cercare conferma del colore, del colore della sua stessa pelle, e si chiede come mai si trova qui e non in qualunque altra parte del mondo, a parlare francese o una sorta di creolo haitiano smozzicato.
– Da anni, tantissimi anni, prendo appunti sui miei quadernini. Idee, ricordi, parole, quaderno dopo quaderno, ormai ne ho tantissimi, pile su pile sui ripiani, nei cassetti della scrivania, eccetera; ogni tanto mi capita di rivedere qualche vecchio quaderno e rimango stupefatta nel leggere le cose che ho ritenuto degne di nota. Le parole mi riportano indietro in un tempo ormai morto. Quaderni azzurri, piú o meno sette per dieci, che mi infilo nella tasca della giacca, a casa ho altre decine di quaderni ancora intonsi che aspettano di essere riempiti. Quando viaggio me ne porto sempre dietro due o tre, e guardo, ascolto, scrivo le cose nero su bianco. È il mio diario. Una cosa che non ha alcuna importanza per nessuno se non per me. Può trattarsi del verso di una poesia che solo qualche secondo dopo deciderò di scartare. Può trattarsi di un prodotto su un ripiano del supermercato, il design della confezione, il nome dell’articolo, e allora tiro fuori il quaderno, prendo la biro, eccetera eccetera. Ma adesso voglio soltanto andare a casa. Insieme a Jim. Dovremo farcela a piedi, ma va bene, sí, tanto è giorno. Ci sarà il sole? O non ci sarà nessuna traccia del sole nel cielo? Chi sa cosa significa tutto questo? La nostra normale esperienza ha semplicemente subito una battuta d’arresto? Stiamo assistendo a una deviazione della natura? Una sorta di realtà virtuale? Tutto ciò mi porta a dire: è il caso che tu stia zitta, Tessa. Dovete capire che quando parlo cosí non si tratta di un commento autocritico, bensí di presunzione. Io scrivo, penso, consiglio, fisso nel vuoto. È naturale in momenti come questo pensare e parlare in termini filosofici, come alcuni di noi stanno facendo? Oppure dovremmo avere un atteggiamento piú pragmatico? Qualcosa da mangiare, un luogo dove stare riparati, amici, tirare lo sciacquone, se possibile? Tendere alle cose fisiche piú semplici. Toccare, percepire, mordere, masticare. Il corpo alla fine fa di testa sua.
Martin Dekker si alza e si siede. Ecco che si alza di nuovo e parla, perso in quel suo sguardo rivolto al nulla.
– Sarebbe il caso di finirla, giusto? Solo che io continuo a vedere quel nome. Einstein. La teoria della relatività di Einstein che provoca tumulti nelle strade, o se mi metto a immaginare certe cose è perché è tardi e io non ho chiuso occhio e perché ho mangiato poco e niente e le persone qui presenti ascoltano quello che dico con un orecchio sí e uno no? Einstein che parla da un punto di vista che va oltre la nostra attuale situazione, situazione che io ho definito Terza guerra mondiale. Einstein non ha avuto una premonizione su come si sarebbe combattuta questa guerra, ma ha detto chiaro e tondo che il successivo conflitto di portata globale, la Quarta guerra mondiale, si sarebbe combattuta con pietre e bastoni. E la Teoria speciale, che risale al 1912, centodieci anni fa. L’inchiostro marrone del manoscritto, la carta non filigranata, la qualità della carta che migliora e l’inchiostro che diventa nero. Queste cose mi porto dentro la testa, nel bene, nel male e nel peggio. Cos’altro c’è? Mi devo fare la barba. Ecco cos’altro c’è. Devo guardarmi allo specchio e ricordarmi che è ora di farmi la barba. Ma se adesso esco da questo soggiorno ed entro in bagno, ne verrò mai fuori? La faccia nello specchio. Controllo granulare. Tecnosfera. Autenticazione a due fattori. Gateway tracking. È piú forte di me. Sono circondato da questa terminologia. A volte cerco di pensare in un contesto preistorico. Vedo un’immagine su una lastra di pietra, un disegno rupestre. Tutti questi brandelli sgranati della nostra lunga memoria umana. E poi Einstein. Quella lingua esaltante. In tedesco, in traduzione. «La dipendenza della massa dall’energia». Mi piacerebbe camminare con lui per il campus di Princeton. Senza dire niente, in silenzio. Due uomini che camminano e basta.
Poi dice: – E le strade, queste strade. Non ho bisogno di guardare fuori dalla finestra. La folla ormai dispersa. Le strade ormai vuote.
Questo è quanto dice il giovane Martin, lo sguardo rivolto verso il basso tra le dita a ventaglio.
– Il mondo è tutto, l’individuo niente. L’abbiamo capito tutti, questo?
Max non ascolta. Non ha capito niente. Sta seduto davanti al televisore con le mani intrecciate sulla nuca, i gomiti all’infuori.
E poi fissa lo schermo nero.