IL SENSO DELLE COSE
Richard P. Feynman
Recensione
P.b.
Uno dei più grandi fisici del secolo passato, nell'arco di tre conferenze, esprime riflessioni e provocazioni su scienza, filosofia, religione, politica. Feynman, geniale quanto umile, mostra la forza della onestà intellettuale, presentando una serie di ragionamenti che in un mondo ideale dovremmo considerare ovvi e banali. Quando uno scienziato è in grado di spiegare chiaramente il metodo scientifico che è il fondamento della scienza e la sconfitta delle balle che si vorrebbero far passare per scienza, estendendo lo stesso metodo come applicabile anche ad altri campi del sapere, non ci si può esimere dal leggerlo. Poi si possono condividere o meno le sue idee ma dal metodo non si può prescindere. Siamo nel 1963 negli USA. Sono tre conferenze sul tema "Impatto della scienza sulle idee umane in altri campi". La prima sulla natura della scienza, funzione del dubbio e incertezza. Sul metodo di indagine bella la notazione: "L'eccezione verifica la regola". La seconda ai rapporti tra scienza e politica e tra scienza e religione, dove, tra altro, osserva che la civiltà occidentale poggia su due pilastri: lo spirito scientifico di avventura (umiltà dell'intelligenza) e l'etica cristiana (umiltà dello spirito). La terza sulla società e le possibili implicazioni sociali delle scoperte scientifiche del futuro. Egli osserva come "all'origine di molti nostri guai" sia "quest'ansia della gente di volere la risposta, invece di cercare chi ha un metodo per arrivare alla risposta".
IL SENSO DELLE COSE
L’INCERTEZZA DELLA SCIENZA
Tutte le note sono del traduttore.
Voglio dedicarmi subito all’impatto della scienza sulle idee umane in altri campi, un tema che stava molto a cuore a John Danz. Nella prima di queste conferenze parlerò della natura della scienza, soffermandomi in particolare sulla funzione del dubbio e dell’incertezza. Dedicherò la seconda conferenza ai rapporti tra scienza e politica, compresa la questione dei nemici della nazione, e tra scienza e religione. Infine, nella terza, illustrerò il mio punto di vista sulla società (potrei anche dire «il punto di vista di un uomo di scienza», ma in realtà è soltanto il mio) e parlerò delle possibili implicazioni sociali delle scoperte scientifiche del futuro.
Che cosa so io di religione, o di politica? Molti colleghi si sono messi a ridere e mi hanno detto: «Vorrei proprio venirti a sentire. Non sapevo ti interessassero queste cose». Ovviamente sanno benissimo che mi interessano: solo, non pensavano che io osassi parlarne in pubblico.
A parlare dell’influsso che le idee di un campo hanno su un altro bisogna mettere in conto la possibilità di far brutte figure. In questi tempi di alta specializzazione sono ben pochi coloro che hanno una comprensione così profonda di due diversi campi della conoscenza da non rendersi ridicoli in almeno uno dei due.
Le idee che voglio descrivere non sono certo nuove; questa sera non dirò praticamente nulla che non fosse patrimonio dei filosofi del diciassettesimo secolo. Perché ripeterle, allora? Perché ci sono nuove generazioni che nascono ogni anno; perché nel corso della sua storia l’uomo ha sviluppato grandi idee, ma queste non durano se non vengono di proposito trasmesse con chiarezza da una generazione all’altra.
Molte vecchie idee sono diventate patrimonio comune, tanto che non è più necessario parlarne o spiegarle di nuovo. Ma le idee associate ai problemi dello sviluppo della scienza, per quello che posso vedere guardandomi intorno, non sono del tipo apprezzato da tutti. (Il mondo universitario è un po’ un’eccezione; qui molti hanno familiarità con tali questioni, e quindi forse mi sto rivolgendo al pubblico sbagliato).
Visto che per me questa faccenda dei rapporti tra ambiti diversi del pensiero è completamente nuova, comincerò da quello che conosco meglio. Di sicuro conosco la scienza. Ne conosco le idee, i metodi, l’atteggiamento verso la conoscenza, come conosco le condizioni che ne rendono possibile il progresso e la disciplina mentale che essa richiede. E quindi questa sera vi parlerò della scienza, che conosco, lasciando gli argomenti su cui il rischio del ridicolo è maggiore per le prossime conferenze, in cui, presumo, il pubblico sarà diminuito.
Che cos’è la scienza? Con questa parola di solito si intendono tre cose diverse, o un misto delle tre. Non credo ci sia bisogno di essere precisi: essere troppo precisi non è sempre una buona idea. «Scienza» a volte significa un metodo speciale di scoprire delle cose; a volte significa l’insieme delle conoscenze che si originano dalle cose scoperte, ma può anche significare tutte le cose nuove che si possono fare usando la conoscenza acquisita, o il fare effettivamente queste cose. Quest’ultimo campo di solito si chiama «tecnologia», ma se si guarda alla pagina delle scienze su un qualsiasi quotidiano si constata che per il 50 per cento parla di nuove scoperte, e per il restante 50 per cento di nuove cose che si possono fare, o che si fanno già. E quindi la definizione corrente di scienza include anche la tecnologia.
Esaminerò questi tre aspetti in ordine inverso, cominciando dalla tecnologia. La più ovvia caratteristica della scienza è che si può applicare, che grazie ad essa nuove cose diventano possibili, e le conseguenze sono talmente ovvie che non dovrei nemmeno parlarne. Senza lo sviluppo della scienza non ci sarebbe neppure stata la rivoluzione industriale. La capacità che abbiamo oggi di produrre cibo in quantità sufficiente per popolazioni così grandi, di controllare le malattie, o il fatto stesso che gli uomini possono essere liberi, senza bisogno di schiavi per assicurare la piena produzione, sono molto probabilmente il risultato dello sviluppo di mezzi di produzione scientifici.
Insieme a questo potere di fare nuove cose non abbiamo ricevuto un libretto di istruzioni che ci dica come usarlo, se per il bene o per il male; il risultato sarà buono o cattivo a seconda di come verrà usato. Migliorare la produzione è un’ottima cosa, ma non bisogna dimenticare i problemi legati all’automazione. Siamo tutti contenti dei progressi della medicina, ma ci preoccupiamo dei tassi demografici, e del fatto che non si muore più delle malattie che abbiamo debellato. E addirittura gli scienziati, forti della conoscenza dei batteri, lavorano in segreto come pazzi per creare malattie per cui nessun altro possa mai trovare una cura. Siamo tutti contenti dello sviluppo del trasporto aereo, e affascinati dai grandi aeroplani, ma rabbrividiamo al pensiero delle devastazioni prodotte dalla guerra aerea. Ci compiacciamo della possibilità di comunicazione tra nazioni diverse, ma ci preoccupiamo di poter essere spiati con tanta facilità. È eccitante poter finalmente viaggiare nello spazio; senza dubbio avremo qualche guaio anche lì. Il più noto di questi squilibri è lo sviluppo dell’energia nucleare e i problemi che ovviamente comporta.
Ma la scienza ha un qualche valore?
Io credo che il potere di fare sia comunque importante. Il risultato può essere buono o cattivo, dipende da come viene usato, ma il potere in sé è un valore.
Una volta, nelle Hawaii, mi portarono a visitare un tempio buddhista. Nel tempio un uomo mi disse: «Ora ti dirò una cosa che non dimenticherai mai. A ogni uomo viene data la chiave del paradiso. La stessa chiave apre le porte dell’inferno».
Così è per la scienza. In un certo senso è la chiave del paradiso, e la stessa chiave apre le porte dell’inferno, e non abbiamo istruzioni che ci dicano qual è la porta giusta. Dovremmo forse buttare via la chiave, e perdere l’unica speranza di aprire le porte del paradiso? O non dovremmo piuttosto sforzarci di trovare il modo migliore di usarla? Questa, ovviamente, è una domanda molto seria, ma io credo che non si possa negare il valore della chiave della porta del paradiso.
Tutti i maggiori problemi tra scienza e società nascono nella stessa area. Quando si parla della responsabilità sociale degli scienziati, ci si riferisce agli aspetti applicativi della scienza. Chi lavora allo sviluppo dell’energia nucleare deve rendersi conto che potrebbe essere usata contro l’uomo. In una discussione di questo tipo fatta da uno scienziato, vi aspettereste che questo sia l’argomento più importante. Ma io non dirò altro, a riguardo. Secondo me, dire che si tratta di questioni scientifiche è una forzatura: sono più che altro problemi di natura umanitaria. Il fatto è che come far funzionare questo potere è chiaro, ma come controllarlo non è affatto ovvio, è un problema non proprio scientifico, e non è una cosa su cui gli scienziati sappiano molto.
Lasciate che vi spieghi con un esempio perché sono un po’ riluttante a parlarne. Qualche tempo fa, nel 1949 o 1950, andai in Brasile a insegnare fisica. Erano gli anni del cosiddetto programma Point Four per l’assistenza ai Paesi in via di sviluppo, e c’era molto entusiasmo. Ovviamente, si pensava, quello che mancava laggiù erano le conoscenze tecniche.
In Brasile abitavo a Rio, dove ci sono colline disseminate di baracche fatte di pezzi di legno rimediati, vecchi cartelli stradali, lamiere ondulate e roba del genere. La popolazione è poverissima, non hanno fognature né acqua corrente. Per avere acqua portano vecchie taniche da benzina sulla testa giù per la collina, fino a un cantiere dove si costruisce un palazzo, perché lì c’è acqua per impastare il cemento. La gente riempie le taniche e trasporta l’acqua su per la collina; più tardi quella stessa acqua scende a valle in rigagnoli maleodoranti. Uno spettacolo penoso.
E lì di fianco gli sfavillanti palazzi di Copacabana, splendidi appartamenti, e così via.
Allora dico ai miei amici del programma Point Four: «È un problema tecnico? Non sanno come portare una tubazione su per la collina? Possibile che non riescano a mettere un tubo che arrivi fino in cima, così perlomeno la gente potrebbe salire con le taniche vuote e scendere con quelle piene?».
Ovviamente non è un problema di conoscenze tecniche, perché nei palazzi lì vicino ci sono tubature e pompe. Ora ce ne siamo resi conto. Ora pensiamo che sia un problema di assistenza economica, e non sappiamo se nemmeno quella funziona. E quanto costa mettere un tubo e una pompa in cima a ogni collina non è una questione che a me sembra valga la pena discutere.
Anche se non sappiamo come venirne a capo, vorrei far notare che abbiamo provato due cose diverse: assistenza tecnica ed economica. Entrambe hanno dato risultati deludenti, e ora stiamo provando con qualcos’altro. Per i motivi che illustrerò più tardi, trovo tutto questo molto incoraggiante: penso che continuare a provare nuove soluzioni sia il modo di fare qualsiasi cosa.
Questi, dunque, sono gli aspetti pratici della scienza: le nuove cose che si possono fare. Sono talmente ovvie che non c’è bisogno di parlarne più di così.
Il prossimo aspetto di cui voglio parlare è il contenuto della scienza: le cose che si scoprono. Questo è il ricavo. È la ciccia. È ciò che ripaga il duro lavoro e la disciplina mentale. Non si lavora per le applicazioni pratiche, ma per l’emozione della scoperta. Magari molti di voi lo sanno già; a quelli che non lo sanno mi è pressoché impossibile riuscire a comunicare, in una conferenza, questo importantissimo aspetto, l’emozione, che è la vera molla dell’impresa scientifica. Se non capite questo, non avete capito niente. Non si può capire la scienza (e la relazione tra la scienza e qualunque altra cosa) se non la si riconosce e si apprezza per quello che è: la grande avventura dei nostri tempi. Non potete dirvi cittadini del nostro tempo se non sentite quanto è meravigliosa ed esaltante questa avventura.
Pensate sia noiosa? Non lo è. È difficile spiegarlo, ma posso perlomeno tentare di darvene un’idea. Cominciamo da una cosa qualsiasi.
Per esempio, gli antichi credevano che la Terra fosse il dorso di un elefante in piedi su una tartaruga che nuotava in un mare senza fondo. Che cosa poi sostenesse il mare era un’altra questione, a cui nessuno sapeva rispondere.
Questa visione cosmologica era il risultato dell’immaginazione, era un’idea luminosa e poetica. Confrontiamola con la nostra. Si tratta forse di una visione scipita, o noiosa? Questa palla rotante, la Terra, con tutti gli omini attaccati da ogni parte, alcuni a testa in giù; tutti stiamo girando come uno spiedo davanti al fuoco, e intanto giriamo intorno al Sole. È ancora più romantico, ancora più emozionante. E che cosa ci trattiene? La forza di gravità, una forza che non appartiene solo alla Terra, ma è la stessa che dà alla Terra la sua forma rotonda, che tiene insieme il Sole e piega in un moto circolare il nostro continuo tentativo di fuggire via. La gravità non esercita il suo dominio solo sulle stelle, ma anche tra le stelle: le tiene insieme a formare le grandi galassie che vediamo attorno a noi per chilometri e chilometri in ogni direzione.
Molti hanno tentato di descrivere l’universo, ma più si spinge in là la visuale più il confine si allontana e appare irraggiungibile, come il fondo del mare senza fondo degli antichi. Una visione altrettanto misteriosa, altrettanto solenne, e anche altrettanto incompleta.
Vedete bene che l’immaginazione della natura è molto, molto più grande di quella dell’uomo. Non ci fosse stata l’osservazione a insospettire gli scienziati, a fare intravedere uno spiraglio, chi mai avrebbe immaginato una meraviglia come questa?
Oppure prendiamo la Terra, e il tempo. Avete mai letto nella letteratura, o nella poesia, qualcosa che assomigli al reale scorrere del tempo, qualcosa di confrontabile con il lunghissimo, lento processo dell’evoluzione? Un momento, procediamo con ordine. Prima c’era la Terra, e sulla Terra non c’era niente di vivo. Per miliardi di anni questa palla girava con i suoi tramonti, le onde del mare e tutti i rumori, e nessuna creatura vivente a goderseli. Riuscite a concepire, riuscite ad accettare l’idea di un mondo così fatto? Siamo talmente abituati a considerare il pianeta come il regno della vita che non riusciamo a immaginarcelo deserto e inanimato, eppure per un tempo lunghissimo così è stata la Terra. E probabilmente così è ancora oggi quasi tutto l’universo.
Oppure prendiamo la vita stessa. Il suo meccanismo interno, la chimica di ogni singola parte, è veramente bellissimo; ma non solo, poi si scopre che ogni forma di vita è in relazione con ogni altra. Nelle piante c’è la clorofilla, una sostanza molto importante in certi processi che coinvolgono l’ossigeno, e nella molecola di clorofilla c’è un complesso di atomi di forma quasi quadrata: un grazioso anello chiamato «anello porfirinico». Molto lontano dalle piante nella scala evolutiva troviamo gli animali come noi, e nel nostro sistema di trasporto dell’ossigeno, il sangue, c’è l’emoglobina, che ha gli stessi anelli. C’è il ferro al centro, al posto del magnesio, per cui sono rossi e non verdi, ma sono gli stessi anelli.
Il meccanismo di produzione delle proteine è lo stesso nei batteri e negli esseri umani; addirittura è stato recentemente scoperto che è possibile istruire i batteri affinché sintetizzino le proteine dei globuli rossi umani. La vita è vita, in tutte le sue forme. Che alla base di ogni essere vivente vi sia la stessa chimica è veramente una cosa fantastica. E per tutto questo tempo noi esseri umani siamo stati tanto orgogliosi da non voler riconoscere nemmeno la nostra parentela con gli animali.
Oppure prendiamo gli atomi. Bellissimi. Chilometri e chilometri di palline una a fianco all’altra a ripetere uno schema sempre uguale in qualche cristallo. Oggetti che sembrano fermi e silenziosi, come una bottiglia d’acqua che è lì su un tavolo da giorni, sono un fermento di attività, e all’interno l’immagine ingrandita mostra un incessante andirivieni di atomi, che saltano fuori dalla superficie e vi ritornano, rimbalzando per ogni dove. Quello che al nostro occhio miope sembra immobile è una danza selvaggia.
E poi si è anche scoperto che tutto l’universo è fatto degli stessi atomi, che la materia delle stelle è la stessa di cui siamo fatti noi. Nasce allora la domanda di dove venga questa roba, non solo la vita, o la Terra, ma di dove vengano gli atomi che costituiscono la vita e la Terra. Sembra che tutto sia stato prodotto dall’esplosione di una stella, simile alle esplosioni stellari che vediamo oggi. Quindi questo granello aspetta quattro miliardi e mezzo di anni, cambia, si evolve, e ora su di esso una strana creatura parla ad altre strane creature nel pubblico. Che mondo meraviglioso!
Oppure prendiamo la fisiologia del corpo umano, o qualunque altra cosa, non fa differenza. Se guardate da vicino una cosa qualsiasi vedrete che non c’è niente di più emozionante della verità, la ricompensa dello scienziato, guadagnata con sforzi sovrumani.
Consideriamo per esempio dal punto di vista del fisiologo i movimenti aggraziati di una bambina che salta la corda. Cosa succede all’interno? Il sangue circola più in fretta, e le innervazioni dei muscoli, tutte connesse tra loro, reagiscono all’istante, dicendo al cervello: «Ora abbiamo toccato il terreno, aumenta la tensione, così da attutire il colpo sul tallone». E intanto un altro gruppo di muscoli viene azionato da altri nervi e le fa dire «Un-due-tre, un-due-tre...». E mentre sta facendo tutto questo, magari sorride pure al professore che la guarda. Anche questo entra nel gioco!
E poi, l’elettricità. Le forze di attrazione tra cariche positive e negative sono così grandi che in ogni sostanza normale i più e i meno devono essere esattamente bilanciati, così che trazioni e repulsioni risultino in equilibrio. Per molto tempo il fenomeno dell’elettricità non venne nemmeno notato, eccetto ogni tanto, quando sfregando un pezzo di ambra questo poi attraeva piccoli ritagli di carta. Oggi, studiandoli scientificamente, abbiamo scoperto che i meccanismi interni al fenomeno sono straordinariamente complessi, eppure la scienza non è ancora pienamente apprezzata.
Per fare un esempio, ho avuto per le mani un’edizione moderna del classico Chemical History of a Candle di Faraday, una raccolta di «sei conferenze natalizie per un pubblico giovanile»,1 ove egli sostiene che qualunque fenomeno, se si osserva abbastanza da vicino, risulta collegato all’intero universo; e lo dimostra parlando di ogni aspetto della candela, combustione, chimica, eccetera. Nell’introduzione il curatore racconta della vita e delle scoperte di Faraday, tra cui la sua famosa legge: «L’ammontare di elettricità necessario per l’elettrolisi di sostanze chimiche è proporzionale al numero di specie chimiche trasformate, diviso la valenza». E spiega che è un principio utilissimo, usato nel processo di cromatura dei metalli e nell’anodizzazione dell’alluminio, così come in decine di altre applicazioni. L’ho trovato desolante. Ecco come Faraday parla della sua scoperta: «Gli atomi della materia sono dotati di elettricità, o associati a essa in qualche modo, e da questo discendono le loro più sorprendenti qualità, tra cui le affinità chimiche tra atomi diversi». Aveva scoperto che ciò che lega gli atomi tra loro, ciò che determina la combinazione giusta di ossigeno e ferro per formare l’ossido di ferro è il fatto che alcuni sono elettricamente positivi e altri negativi, e si attirano tra loro in proporzioni prestabilite. Aveva anche scoperto che l’elettricità si presenta in unità minime, in «atomi». Entrambe queste scoperte sono molto importanti, ma la cosa più emozionante è che questo è uno dei momenti più drammatici nella storia della scienza, uno di quei rari momenti in cui due grandi campi si fondono e vengono unificati. All’improvviso Faraday vide che due cose apparentemente diverse erano solo aspetti diversi della stessa realtà. Si studiava l’elettricità, e si studiava la chimica. D’un tratto diventarono due facce della stessa medaglia: trasformazioni chimiche prodotte da forze elettriche, ed è un’interpretazione valida ancora oggi. Quindi dire semplicemente che queste scoperte si usano nel processo di cromatura è imperdonabile.
Per ogni nuova scoperta nel campo della fisiologia i giornali, come ben sapete, usano una frase standard: «Gli scienziati dicono che potrebbe venire utilizzata nella lotta contro il cancro». Mai che spieghino il valore della scoperta in sé.
Cercare di capire in che modo funziona la natura mette a dura prova le capacità della mente. Il cammino è disseminato di trappole sottili, meravigliose assi di equilibrio logiche su cui bisogna procedere con cautela, attenti a non fare previsioni errate. (La relatività e la meccanica quantistica sono esempi eloquenti di tali difficoltà).
Il terzo aspetto di cui voglio parlare è la scienza come metodo di indagine. Il metodo si basa sul principio che l’osservazione è il giudice ultimo di come stanno le cose. Quando si capisce che solo l’osservazione può dimostrare la verità di un’ipotesi, ogni altro aspetto e caratteristica della scienza diventa immediatamente comprensibile. In questo contesto «dimostrare» significa «verificare», o «controllare», e il famoso detto «L’eccezione dimostra la regola» dovrebbe essere cambiato in «L’eccezione verifica la regola», o meglio «L’eccezione dimostra che la regola è sbagliata». Questo è il principio scientifico. Se c’è un’eccezione, e si può osservare direttamente, allora la regola è sbagliata.
Le eccezioni sono interessanti di per sé, perché dimostrano che c’era un errore, e il bello a questo punto è andare a caccia della regola giusta, se esiste. Si studia l’eccezione, e le condizioni che producono effetti analoghi. Lo scienziato cerca altre eccezioni e determina le loro caratteristiche, in un gioco che diventa sempre più emozionante. Non fa di tutto per evitare la caduta delle vecchie regole: il progresso sta nell’esatto opposto, è lì che ci si diverte, perciò paradossalmente tenta il più in fretta possibile di dimostrare che stava sbagliando.
Il principio che l’osservazione è l’unico giudice impone vincoli ben precisi al tipo di domande a cui si può cercare una risposta. Bisogna limitarsi a questioni del tipo «Se faccio questo, cosa succede?», dove c’è modo di provare, e verificare. Domande come «Dovrei fare questa cosa?» o «Qual è il valore di...?» sono di altra natura.
Ma se una cosa non è scientifica, se non può essere verificata tramite l’osservazione, non significa che sia inutile, o stupida, o sbagliata. Non stiamo cercando di dimostrare che la scienza è buona e le altre cose no. Gli scienziati si occupano di tutto ciò che si può esaminare con l’osservazione, e quindi scoprono quella cosa chiamata «scienza». Ma molto rimane escluso, fenomeni per i quali il metodo non funziona, e non significa che non siano importanti. In un certo senso sono i più importanti. In ogni decisione che riguarda l’azione, quando bisogna decidere il da farsi, c’è sempre di mezzo un «dovrei?» che non si può risolvere solo rispondendo a: «Se faccio questo, cosa succede?». Mi direte: «Be’, puoi cercare di capire che cosa succederà, e poi decidere se vuoi che succeda», ma questo è un passo che lo scienziato non può fare. La scienza può aiutarmi a fare previsioni, ma non a prendere decisioni.
Nella scienza ci sono varie conseguenze tecniche che derivano dall’avere come giudice l’osservazione. Per esempio, l’osservazione non deve essere grezza, ci vuole precisione. Magari c’era della polvere nello strumento, ed è stato questo, e non ciò che pensavo io, a far cambiare il colore del preparato. Bisogna controllare le osservazioni con molta cura, e poi controllarle di nuovo, per essere sicuri di aver capito tutte le condizioni e di non aver interpretato male i risultati.
Questa meticolosità, che è una virtù, talvolta viene fraintesa. Spesso si dice che una cosa è stata fatta «scientificamente», per dire che è stata fatta in modo meticoloso. Avrete senz’altro sentito parlare dello sterminio «scientifico» degli ebrei in Germania. Non c’era niente di scientifico, era solo meticoloso: non c’erano osservazioni oggettive, né controlli rigorosi per verificare alcunché. Allora potremmo anche usare l’aggettivo «scientifico» per le stragi compiute in tempi antichissimi, dai romani per esempio, quando la scienza non era affatto sviluppata come oggi, e certamente non ci si interessava di osservazioni e controlli rigorosi. In questi casi, bisognerebbe usare «sistematico», «completo», «meticoloso», ma non certo «scientifico».
Ci sono tutta una serie di tecniche speciali, associate alle osservazioni, di cui si occupa quella branca del sapere chiamata «filosofia della scienza». Una è l’interpretazione dei risultati. Per fare un esempio stupido, in una famosa storiella un tizio racconta a un amico che nella sua fattoria i cavalli bianchi mangiano più biada di quelli neri; lui non riesce a spiegarselo, finché l’amico non gli suggerisce che forse nella sua fattoria ci sono più cavalli bianchi che neri.
Sembra ridicolo, ma pensate quante volte si fanno errori simili. «Mia sorella aveva il raffreddore, e in due settimane...» è uno di quei casi lì, in cui ci sono più cavalli bianchi. Il ragionamento scientifico richiede una certa disciplina, e dovremmo cercare di insegnarla, questa disciplina, perché errori di questo tipo non sono inevitabili oggigiorno, perfino ai livelli più bassi.
Un’altra importante caratteristica della scienza è la sua obiettività. Dobbiamo sforzarci di guardare i dati delle nostre osservazioni in modo obiettivo, ben sapendo che, come sperimentatori, potremmo essere influenzati dalle nostre aspettative. Facciamo l’esperimento molte volte, e a causa di irregolarità varie (come granelli di polvere che cascano nello strumento) il risultato è diverso ogni volta; d’altra parte non si può avere tutto sotto controllo. Ci piacerebbe un certo risultato, e perciò quando si presenta diciamo: «Ecco, è proprio così». La volta dopo viene fuori una cosa diversa, e diciamo: «Sarà un granello di polvere nello strumento». Magari il granello di polvere c’era la prima volta, ma noi facciamo finta di niente.
Sembra tutto ovvio, ma in realtà non ci si fa abbastanza attenzione, quando bisogna pronunciarsi in merito a questioni di scienza, o ai margini della scienza. Le vostre aspettative, per esempio, potrebbero avere il loro peso quando analizzate le fluttuazioni della Borsa a seconda di ciò che dice o non dice il presidente degli Stati Uniti.
Un altro importante punto tecnico è che più una legge è precisa, più è interessante e più vale la pena di sottoporla a verifica. Se a qualcuno venisse in mente di sostenere che i pianeti girano intorno al Sole perché la materia di cui sono fatti ha una sorta di motilità, chiamiamolo «abbrivio», questa teoria magari potrebbe spiegare anche altri fenomeni. Quindi sarebbe una buona teoria, giusto? Sbagliato. Non è neanche lontanamente buona quanto quella di Keplero, secondo cui i pianeti girano intorno al Sole in virtù di una forza centrale che varia esattamente come l’inverso del quadrato della distanza dal centro. La seconda teoria è migliore perché è tanto precisa: non può essere frutto del caso. È talmente esatta nella sua definizione che la più piccola deviazione nel movimento dei pianeti potrebbe dimostrarne la falsità; invece, secondo l’altra teoria, anche se i pianeti se ne andassero in giro di qua e di là noi potremmo sempre dire: «Be’, è il tipico comportamento strano dell’abbrivio». Quindi, quanto più la legge è precisa, tanto più è potente e insieme vulnerabile alle eccezioni; e tanto più è interessante e importante controllarne la veridicità.
Le parole possono anche non voler dir nulla. Se il modo in cui vengono usate non consente di trarre conclusioni precise, come nell’esempio dell’abbrivio, allora danno luogo a enunciati pressoché privi di senso: si può spiegare qualunque cosa dicendo che la materia ha una tendenza alla motilità! I filosofi ne hanno fatto un tema di profonde riflessioni, e infatti sostengono che ogni parola va esattamente definita. A dir la verità io non sono del tutto d’accordo: penso che a volte sia impossibile definire i termini con assoluta precisione, e comunque spesso non ne valga la pena. In effetti non è possibile quasi mai, ma non voglio discutere di questo ora.
La discussione filosofica sulla scienza riguarda principalmente certi aspetti tecnici dei tentativi di dimostrare che il metodo funziona. Io non ho idea se questi tecnicismi potrebbero risultare utili in un campo in cui il giudizio non è affidato all’osservazione, e non sto dicendo che tutto deve essere fatto nello stesso modo quando viene usato un criterio di verifica diverso. Forse in altri campi non è così importante stare attenti al significato delle parole, o magari non è necessario che le regole siano tanto precise, e così via. Semplicemente non lo so.
In tutta questa discussione ho lasciato da parte qualcosa di molto importante. Ho detto che l’osservazione è il giudice della verità di un’idea, ma da dove viene l’idea? Il rapido progresso della scienza richiede infatti che gli esseri umani inventino sempre nuove idee da verificare.
Nel Medioevo si pensava che la semplice osservazione della natura suggerisse le leggi, ma non funziona così: ci vuole molta più fantasia. Quindi la prossima questione di cui parlare è: «Da dove vengono le idee?». In realtà non fa nessuna differenza, basta che vengano. Per controllare se un’idea sia corretta oppure no abbiamo un metodo che non ha nulla a che fare con l’origine dell’idea stessa: semplicemente la verifichiamo con l’osservazione.
Non c’è un’autorità che decida quale idea sia buona e quale no: non abbiamo più bisogno di verità rivelate. Possiamo consultare il luminare di turno e chiedergli di illustrarci il suo punto di vista, e poi fare gli esperimenti del caso e scoprire se quel che dice è vero oppure no. Se non è vero, peggio per lui: è così che le «autorità» perdono un po’ della loro «autorità».
I rapporti tra scienziati – soprattutto agli inizi, quando una disciplina è giovane – non sono sempre rose e fiori, e in passato, infatti, ci sono state rivalità e polemiche; come tra le persone normali, del resto. Ne sono un esempio le dispute infuocate che segnarono la nascita della fisica moderna. Bisogna dire che oggi, almeno nel nostro settore, i rapporti tra colleghi sono eccellenti: la discussione avviene in un clima rilassato, con scambi di battute, grandi risate, proposte di esperimenti e scommesse sui risultati, ed è raro che vengano espresse certezze granitiche. Nella nostra disciplina si è accumulata una tale massa di osservazioni che è quasi impossibile trovare un’idea originale, diversa da tutto ciò che è stato pensato finora, e allo stesso tempo in accordo con tutte le osservazioni fatte. Quindi se qualcuno, da qualche parte, in qualche modo ci dà un’idea nuova, ben venga! Non staremo certo a discutere perché e percome gli è venuta.
In altre scienze non c’è stato uno sviluppo paragonabile a questo, e la situazione è quella degli inizi della fisica, quando si litigava perché non c’erano ancora dati sufficienti. In generale, se c’è un metodo oggettivo e indipendente per giudicare cosa è vero e cosa è falso, si interagisce in modo molto meno polemico, e questo è interessante.
Molti si stupiscono che nel mondo scientifico si dia così poca importanza al prestigio o alle motivazioni di chi illustra una certa idea. La si ascolta, e se sembra qualcosa che valga la pena di verificare – nel senso che è un’idea diversa, e non banalmente in contrasto con qualche risultato precedente – allora sì che diventa divertente. Che importa quanto ha studiato quel tizio, o perché vuole essere ascoltato. In questo senso non fa nessuna differenza da dove vengano le idee. La loro origine vera è sconosciuta, la chiamiamo «immaginazione», «creatività» (in realtà non è sconosciuta, è solo un’altra cosa come l’«abbrivio»).
Stranamente molti non credono che nella scienza ci sia posto per la fantasia. È una fantasia di un tipo speciale, diversa da quella dell’artista. Il difficile è cercare di immaginare qualcosa che a nessuno è mai venuto in mente, che sia in accordo in ogni dettaglio con quanto già si conosce, ma sia diverso; e sia inoltre ben definito, e non una vaga affermazione. Non è per niente facile.
Per inciso, il fatto stesso che esistano leggi da verificare è qualcosa di miracoloso. Non ce ne rendiamo conto, ma è davvero straordinario che ci siano regole, come quella dell’inverso del quadrato nella gravitazione, che ti dicono in anticipo cosa ti devi aspettare in un certo esperimento non ancora eseguito.
È poi assolutamente essenziale che le varie leggi della scienza siano tra loro coerenti. Dato che le osservazioni hanno lo stesso valore per tutti, è inammissibile che due leggi predicano risultati contraddittori. Quindi, la scienza non è affare dei singoli specialisti, ma ha valenza universale. Ho parlato di atomi in fisiologia, poi ne ho parlato in astronomia, elettricità, chimica; dato che gli atomi sono universali, le loro proprietà in tutti questi campi devono essere reciprocamente compatibili. Non si può iniziare una nuova teoria che prescinda dagli atomi come li conosciamo.
È interessante vedere come la mente umana cerchi continuamente di individuare nuove leggi e come queste (perlomeno in fisica) via via si riducano. Ho fornito un esempio dell’elegante riduzione di chimica ed elettricità in un unico schema, ma ce ne sono molti altri.
Le leggi di natura hanno l’aspetto di leggi matematiche. Qui non c’entra il fatto che l’osservazione è il giudice ultimo, e nemmeno si può dire che la scienza in quanto tale debba essere matematica. Semplicemente constatiamo che si possono enunciare leggi in termini matematici – in fisica perlomeno – che sono molto potenti e utili. Perché poi la natura sia matematica è un altro mistero.
Ora veniamo a un punto importante, ed è che le leggi possono rivelarsi sbagliate. Com’è possibile, se avevano trovato conferma in accurati esperimenti? Le osservazioni non erano corrette? Perché i fisici devono cambiare le leggi in continuazione? La risposta è che: primo, una cosa sono le leggi e una cosa le osservazioni; secondo, gli esperimenti non sono mai accurati al cento per cento. Le leggi sono tentativi umani di estrapolare regole generali dai risultati sperimentali, e non l’oggetto dell’esperimento. Si tira a indovinare, e la congettura per un po’ sembra valida, perché passa attraverso il setaccio sperimentale. Ma con un setaccio più fine, può darsi che non passi più. Quindi le leggi sono solo congetture, sono estrapolazioni nell’ignoto.
Per esempio, un tempo si credeva (cioè, si era scoperto) che la massa di un corpo fosse indipendente dalle condizioni di moto, così che se si pesa una trottola mentre gira si misura lo stesso valore di quando è ferma. Questo risultò all’osservazione. Ma il fatto è che la precisione di quei primi esperimenti non andava oltre un certo limite. Oggi si sa dalla teoria della relatività che una trottola in moto pesa un po’ di più rispetto a quando è ferma, ma di pochissimo: in percentuale circa uno su un miliardo. Se la trottola girasse abbastanza rapidamente – diciamo che il bordo dovrebbe avere una velocità prossima a 300.000 chilometri al secondo, la velocità della luce – allora l’aumento di peso diventerebbe apprezzabile, ma ciò non accade a velocità più basse. Sembrava quindi che la massa della trottola fosse esattamente la stessa in moto o in quiete, e qualcuno tirò a indovinare e ipotizzò che la massa di un corpo, qualunque cosa accada, resta costante.
Tirare a indovinare? Un modo ben poco scientifico di procedere, una vera scemenza! E quella legge, una pura congettura, un’estrapolazione indebita. E invece no. È che in realtà non c’è nulla di cui lo scienziato possa essere sicuro in partenza. Egli può solo fare ipotesi, tirare a indovinare: sarebbe poco scientifico non farlo. In definitiva, le estrapolazioni nell’ignoto sono le sole cose che nella scienza abbiano un qualche valore. Cosa pensi che potrebbe accadere in un caso non ancora sperimentato: è questa l’unica regola da tener presente. La conoscenza non ha alcun valore se mi dice solo cos’è successo ieri: è necessario che mi dica cosa succederà domani. (Be’, magari non proprio «necessario», ma è più divertente). Però bisogna che qualcuno abbia il coraggio di rischiare.
Ogni legge, ogni principio scientifico, ogni descrizione dei risultati di un esperimento è una sorta di riassunto che lascia fuori i dettagli, perché non si può dire nulla con assoluta precisione. Il tizio di prima non ci ha pensato, avrebbe dovuto metterla così: «La massa di un corpo non cambia di molto, finché la sua velocità non è troppo alta». Il gioco consiste nel congetturare una regola precisa e poi vedere se supera il filtro delle osservazioni. Quindi lui ha tentato con «La massa non cambia». Possibilità interessante! Non è un male che si sia sbagliato; era solo una cosa incerta, e non c’è niente di male nell’incertezza. È meglio dire qualcosa senza esserne sicuri che non dire niente.
Le affermazioni della scienza devono per forza essere incerte – e difatti lo sono – perché sono solo deduzioni. Sono tentativi di predire cosa succederà, e non lo si può sapere con certezza, finché non si siano fatti esperimenti più completi.
Curiosamente, gli effetti del moto sulla massa della trottola sono così piccoli che si potrebbe pensare che non faccia alcuna differenza. Ma riuscire a trovare la legge giusta, o perlomeno una che resistesse a setacci sempre più fini, che continuasse a risultare valida anche dopo moltissime osservazioni, ha richiesto grande intelligenza e immaginazione, e anche un completo rinnovo della nostra filosofia, della nostra comprensione dello spazio e del tempo; sto parlando della teoria della relatività. Alla fine, i piccolissimi effetti rilevati richiedono le più rivoluzionarie modifiche teoriche.
Tutta la conoscenza scientifica è incerta; gli scienziati sono abituati a convivere con il dubbio e l’incertezza. Questo tipo di esperienza è preziosa, e a mio modo di vedere anche al di là della scienza. Nell’affrontare una nuova situazione bisogna lasciare aperta la porta sull’ignoto, ammettere la possibilità di non sapere esattamente come stanno le cose; in caso contrario, potremmo non riuscire a trovare le soluzioni.
Quando uno scienziato dice di non sapere la risposta, si rende conto di essere ignorante. Quando dice che ha una vaga idea di cosa succederà, è incerto. Quando è abbastanza sicuro e dice: «Scommetto che andrà così», ha ancora qualche dubbio. Ed è di primaria importanza, ai fini del progresso scientifico, riconoscere il valore di questa ignoranza e di questo dubbio. Il dubbio ci spinge a guardare in nuove direzioni e cercare nuove idee. Il progresso della scienza non si misura solo dalla quantità di nuovi esperimenti, ma anche, molto più importante, dall’abbondanza di nuove ipotesi da verificare.
Se non si potesse, o volesse, guardare in nuove direzioni, se non si avessero dubbi, o non si riconoscesse il valore dell’ignoranza, non si riuscirebbero ad avere idee nuove. Non ci sarebbe nulla che valga la pena di verificare, perché sapremmo già cos’è vero e cos’è falso. Quindi ciò che oggi chiamiamo «conoscenze scientifiche» è un corpo di affermazioni a diversi livelli di certezza. Alcune sono estremamente incerte, altre quasi sicure, nessuna certa del tutto. Noi scienziati ci siamo abituati, sappiamo che è possibile vivere senza sapere le risposte. Mi sento dire: «Come fai a vivere senza sapere?». Non capisco cosa intendano. Io vivo sempre senza risposte. È facile. Quello che voglio sapere è come si arriva alla conoscenza.
Questa libertà di dubitare è fondamentale nella scienza e, credo, in altri campi. C’è voluta una lotta di secoli per conquistarci il diritto al dubbio, all’incertezza: vorrei che non ce ne dimenticassimo e non lasciassimo pian piano cadere la cosa. Come scienziato, conosco il grande pregio di una soddisfacente filosofia dell’ignoranza, e so che una tale filosofia rende possibile il progresso, frutto della libertà di pensiero. E come scienziato sento la responsabilità di proclamare il valore di questa libertà, e di insegnare che il dubbio non deve essere temuto, ma accolto volentieri in quanto possibilità di nuove potenzialità per gli esseri umani. Se non siamo sicuri, e lo sappiamo, abbiamo una chance di migliorare la situazione. Chiedo la stessa libertà per le generazioni future.
Nella scienza il dubbio è chiaramente un valore. Se lo sia in altri campi è una questione aperta, una faccenda tutt’altro che sicura. Mi propongo nelle prossime conferenze di discutere proprio questo punto, e di cercare di dimostrare che è importante dubitare, e che il dubbio non deve incutere timore, ma dev’essere accolto come una preziosa opportunità.
L’INCERTEZZA DEI VALORI
È molto triste pensare alle meravigliose potenzialità umane, confrontate con i miseri risultati che riusciamo a ottenere. Sicuramente si potrebbe fare molto di più. Chi viveva nel passato, nell’incubo di quei tempi, sognava il futuro, e noi del futuro abbiamo in gran parte gli stessi sogni (anche se molti sono ormai sorpassati). Le speranze di oggi per il futuro sono perlopiù le stesse del passato. Una volta si pensava che il potenziale dell’umanità non fosse sviluppato appieno perché tutti erano ignoranti; l’istruzione era la soluzione al problema: con una buona istruzione, forse saremmo stati tutti dei Voltaire. Ma poi si capì che si possono insegnare la menzogna e il male tanto quanto la verità. L’istruzione è una grande forza, ma può funzionare sia per un verso che per l’altro. Si diceva che la comunicazione tra le nazioni avrebbe condotto a una maggiore comprensione tra i popoli, e quindi a un maggiore sviluppo delle potenzialità umane. Ma i mezzi di comunicazione possono essere manipolati, o soffocati. Si possono diffondere verità o bugie, buona informazione o semplice propaganda. Anche la comunicazione, dunque, è una grande forza, ma, di nuovo, può essere usata sia per il male che per il bene. Per qualche tempo si è pensato che le scienze applicate potessero perlomeno liberare l’uomo dalle difficoltà materiali, e qualche importante risultato in effetti è stato raggiunto, per esempio nella medicina. Per contro, oggi vi sono scienziati che lavorano in laboratori segreti per creare le malattie che per tanto tempo hanno cercato di tenere sotto controllo.
A nessuno piace la guerra. Oggi il nostro sogno è la pace, che sarà la soluzione giusta: senza le spese per gli armamenti, potremo fare tutto ciò che vorremo. E la pace è una grande forza, per il bene o per il male. Come può essere per il male? Non lo so. Lo scopriremo, se mai avremo la pace. Quindi abbiamo la pace, come grande forza, e il potere materiale, la comunicazione, l’istruzione, l’onestà e i valori di tanti idealisti. Abbiamo più forze di questo tipo di quante mai ne abbiano avuto gli antichi. E forse stiamo facendo meglio di quanto loro avrebbero mai potuto, ma quello che sentiamo di dover ancora fare sembra enorme, rispetto ai nostri confusi risultati. Perché succede questo? Perché non riusciamo a dominare noi stessi? La ragione sta nel fatto che perfino le più grandi forze e possibilità non portano con sé nessun libretto di istruzioni. Per esempio, il grande accumulo di sapere sul mondo fisico e le leggi che lo governano sembrano solo dimostrare una sorta di mancanza di senso del suo comportamento. La scienza non insegna il bene e il male.
In tutte le epoche l’umanità ha cercato di svelare il significato della vita, nella convinzione che se si potesse dare una direzione e un senso al nostro agire, e a tutto il resto, grandi forze umane verrebbero liberate. A questo grande interrogativo sono state date nei millenni le risposte più diverse. I sostenitori di una teoria guardavano con orrore ai sostenitori di un’altra, convinti che un punto di vista differente avrebbe incanalato tutte le energie del genere umano nella direzione sbagliata, portandoci in un vicolo cieco. Appunto studiando la storia delle enormi mostruosità create da false credenze, i filosofi si sono resi conto delle fantastiche potenzialità degli esseri umani.
Il sogno dell’umanità è trovare il canale giusto. Qual è il significato di tutto quanto? Cosa possiamo dire, oggi, intorno al mistero dell’esistenza? Se teniamo conto di tutto, non solo di quanto sapevano gli antichi, ma anche di quello che loro ignoravano e noi abbiamo scoperto, allora credo che l’unica risposta onesta sia: nulla. Ma credo anche che con questa ammissione abbiamo probabilmente fatto un passo nella direzione giusta.
Ammettere di non sapere, e mantenere sempre l’atteggiamento di chi non sa quale direzione è necessario prendere, ci dà modo di variare, di riflettere, di scoprire cose nuove e di avanzare nella conoscenza di noi stessi, per riuscire a fare quello che veramente vogliamo, anche quando non sappiamo cosa vogliamo.
Guardando indietro, si ha l’impressione che i periodi peggiori della nostra storia siano quelli in cui era più forte la presenza di persone che credevano in qualcosa con fede cieca e dogmatismo assoluto, prendendosi tanto sul serio da pretendere che il mondo intero la pensasse come loro. E poi facevano cose espressamente in contrasto con i loro stessi princìpi al fine di dimostrare la verità della propria dottrina.
Come ho già detto in precedenza, e qui lo ribadisco, l’unica speranza per un progresso dell’umanità in una direzione che non ci porti in un vicolo cieco (come già tante volte è successo in passato) risiede nell’ammissione dell’ignoranza e dell’incertezza. Io dico che non sappiamo quale sia il significato della vita e quali i giusti valori morali, e non abbiamo modo di sceglierli.
Non si può discutere di valori morali, di significato della vita e cose del genere senza giungere a quella grande fonte di sistemi morali e teorie sul significato dell’universo che è la religione. Perciò non credo di poter tenere tre conferenze sull’impatto delle idee scientifiche sulle altre idee senza discutere a fondo e con franchezza del rapporto tra scienza e religione. (Suona un po’ come una giustificazione, ma in realtà non ce n’è motivo, quindi la smetto subito e vado avanti). Ho più o meno descritto cosa intendo per «scienza», e ora devo spiegare cosa intendo per «religione», il che è estremamente difficile, perché ognuno dà un diverso significato a questa parola. Qui io parlerò della religione ordinaria, «da tutti i giorni», quella di chi va in chiesa; non l’elegante teologia che la sostiene, ma il sentire (più o meno convenzionale) della gente comune riguardo alle proprie credenze religiose.
Credo fermamente che tra scienza e religione, ove per «religione» si intenda più o meno quanto sopra, un conflitto ci sia. Per semplificare la discussione, invece di imbarcarmi in un profondo studio teologico descriverò un problema che di tanto in tanto si presenta.
Un ragazzo proveniente da una famiglia religiosa va all’università e si iscrive a una facoltà scientifica. Come conseguenza del suo studio delle scienze, comincia naturalmente a dubitare, così come si conviene, dati i suoi studi. Quindi all’inizio dubita, poi comincia forse a non credere più nel Dio dei suoi padri. Il termine «Dio» qui indica il Dio personale che ciascuno prega, quello che ha qualcosa a che fare con la Creazione e magari i valori morali. È un fenomeno abbastanza frequente, non un caso isolato o immaginario. Anche se non conosco le statistiche, penso che più della metà degli scienziati non creda in un Dio così inteso, o in Dio in senso convenzionale. La maggior parte degli scienziati non ci crede. Perché? Cosa succede? La risposta a questa domanda ci aiuterà a mettere a fuoco più chiaramente i problemi tra scienza e religione.
Dunque, perché succede questo? Ci sono tre possibili spiegazioni. La prima è che il ragazzo frequenta le lezioni tenute da scienziati, i quali, come ho appena detto, sono dei senza-Dio, e quindi il Male si diffonde per contagio da insegnante ad allievo... Chi ragiona così dimostra di conoscere la scienza molto meno di quanto io conosca la religione.
La seconda ipotesi è che l’allontanamento dalla religione sia semplicemente il frutto di una conoscenza limitata: il ragazzo che ha imparato un po’ di scienza pensa di sapere tutto di tutto; magari quando diventerà più maturo capirà meglio queste cose. Non mi convince. Vi sono molti scienziati che chiunque, nulla sapendo delle loro convinzioni religiose, giudicherebbe persone mature e che non credono in Dio. Secondo me è esattamente il contrario: non è che lui pensi di sapere tutto, è che all’improvviso si rende conto di non sapere tutto.
La terza spiegazione è che forse il ragazzo non comprende la scienza correttamente, non ha capito che la scienza non può dimostrare la non-esistenza di Dio, e che è possibile credere sia nella scienza sia nella religione. Sono assolutamente d’accordo: non credo si possa dimostrare scientificamente che Dio non esiste, e penso anche che fede e scienza non siano incompatibili. Conosco molti scienziati che credono in Dio. Non è mio scopo confutare alcunché. Ci sono molti scienziati che credono in Dio, forse anche in modo convenzionale – non so esattamente come e quanto ci credano –, per i quali credere è perfettamente compatibile con il lavoro scientifico. Compatibile, ma difficile. E quello di cui vorrei discutere ora è perché sia così difficile rendere compatibili le due cose, e forse anche se valga la pena perseguirla, questa compatibilità.
All’origine dei problemi che il nostro ragazzo incontra quando intraprende lo studio delle scienze ci sono innanzitutto due cose. La prima è che impara a dubitare, impara che è necessario dubitare, che è giusto dubitare. Quindi inizia a mettere in dubbio qualunque cosa. La domanda che prima poteva essere «Dio esiste o non esiste?» ora diventa «Fino a che punto posso essere sicuro che Dio esiste?». Ora ha un nuovo problema, più sottile. Deve determinare quanto è sicuro, dire a che punto è la sua fede nella scala che va dalla certezza assoluta dell’esistenza divina alla certezza assoluta della non-esistenza, perché ora sa che ogni conoscenza è incerta, e non c’è nulla di cui essere assolutamente sicuri. Deve capire: crede al 50 per cento o al 97 per cento? Sembra una differenza da poco, ma è estremamente importante, e molto sottile. Inizialmente, è ovvio, i dubbi non sono rivolti all’esistenza stessa di Dio. Di solito si comincia da qualche particolarità della dottrina, come la vita oltre la morte, o qualche dettaglio della vita di Cristo, o qualcosa del genere. Ma per andare subito al cuore del problema e chiarirne l’essenza il più possibile, semplifico assumendo che la questione riguardi proprio l’esistenza di Dio.
Al fondo di questa autoanalisi, di queste riflessioni, quello che sono, può esservi la quasi certezza che Dio esiste, ma anche, in molti casi, la quasi certezza che è sbagliato credere in Dio.
Ora, la seconda difficoltà che incontra lo studente denota un qualche tipo di conflitto tra scienza e religione, perché insorge quando si viene educati in due modi diversi. Possiamo anche ragionare di teologia o di alta filosofia e sostenere che non c’è incompatibilità tra le due cose, ma è un fatto che quando inizia a studiare scienza un ragazzo proveniente da una famiglia religiosa entra regolarmente in crisi con se stesso e con i suoi amici, e quindi un certo attrito c’è. Dunque, la seconda fonte del disagio è associata ai fatti – più precisamente, ai fatti parziali – che il ragazzo impara. Per esempio, impara quali siano le dimensioni dell’universo. La grandezza dell’universo è veramente impressionante: noi siamo su una minuscola particella che gira vorticosamente attorno al Sole, uno tra i centomila soli di questa galassia, che è una in un miliardo di galassie. E poi impara quanto sia stretta la relazione tra noi e gli animali, tra le diverse forme di vita, e che l’uomo è solo l’ultimo arrivato sulla scena di un dramma vastissimo in continua evoluzione. Possibile che tutto il resto sia solo lo sfondo alla Sua creazione? E poi ci sono gli atomi, i mattoni di cui tutto è costituito secondo leggi immutabili. Niente può sfuggire. Le stelle sono fatte di atomi, e anche gli animali sono fatti degli stessi atomi, ma combinati in una tale complessità da apparire misteriosamente vivi.
Che grande avventura contemplare l’universo, al di là dell’uomo, contemplare come sarebbe senza l’uomo, così com’è stato per quasi tutta la sua lunga storia, e quasi ovunque! Raggiungere finalmente questa visione obiettiva, apprezzando appieno il mistero e la maestà della materia, e poi puntare di nuovo la lente sull’uomo, visto come materia, guardare la vita come parte di questo profondo mistero universale, è un’esperienza rara ed esaltante. Solitamente si conclude in una risata, quando ci si arrende di fronte all’impossibilità di capire che cos’è mai questo atomo dell’universo, questa cosa – un atomo curioso – che guarda se stesso e si meraviglia della propria meraviglia. Ebbene, queste visioni scientifiche finiscono in un senso di mistero, perse al margine dell’incertezza, ma appaiono così profonde e impressionanti da far sembrare la teoria che tutto sia solo un palcoscenico su cui l’uomo si dibatte tra bene e male, con Dio come spettatore, semplicemente inadeguata.
Qualcuno mi dirà che ho appena descritto un’esperienza religiosa. Chiamatela un po’ come volete: usando lo stesso linguaggio potrei dire che l’esperienza religiosa del ragazzo è tale da essere difficilmente descritta e inclusa nella religione della sua Chiesa. Il Dio della Chiesa non è abbastanza grande.
Forse. Ognuno ha la sua idea.
Comunque, ammettiamo che il nostro studente giunga alla conclusione che le preghiere individuali sono inascoltate. Non sto cercando di dimostrare che Dio non esiste, sto solo cercando di darvi un’idea delle difficoltà che incontra chi viene educato in due ottiche diverse. È impossibile dimostrare che Dio non esiste, per quanto ne so. Ma è sicuramente difficile conciliare due diverse visioni del mondo. Supponiamo allora che questo particolare studente sia particolarmente critico e giunga alla conclusione che le preghiere individuali sono inascoltate. Cosa succede allora? Succede che il meccanismo dubitativo, i suoi dubbi, si rivolgono agli aspetti etici. Infatti, gli avevano insegnato che i valori etici e morali sono la Parola di Dio, e allora se Dio non esistesse questi valori potrebbero essere sbagliati. Ma la cosa veramente interessante è che sono sopravvissuti, praticamente intatti. Magari c’è stato un momento in cui certe posizioni della sua Chiesa in materia di morale gli sembravano sbagliate, ha dovuto ragionarci su, ma alla fine le ha accettate quasi tutte.
Vedo d’altra parte che i miei colleghi atei (che non includono tutti gli scienziati) non si comportano in modo particolarmente diverso da altri che hanno la fede – perlomeno a me non pare, forse perché sono uno di loro – e anche per quanto riguarda il sentire morale, la comprensione del prossimo, l’umanità e così via sembra proprio che non ci sia differenza tra credenti e non credenti. Tra etica e morale e le teorie sul funzionamento dell’universo esiste, credo, una certa indipendenza.
La scienza ha sicuramente un impatto su molte idee legate alla religione, ma non credo abbia alcun effetto rilevante sulla condotta morale e l’etica. La religione risponde a tutta una gamma di domande diverse, ha molti aspetti, e io qui vorrei sottolinearne tre.
Il primo è quello che dice chi siamo, da dove veniamo noi e l’universo, cos’è Dio, quali sono le sue caratteristiche e così via. Chiamerò questo l’aspetto metafisico della religione.
Poi ci dice come comportarci. Non dico i riti e le cerimonie e cose del genere, intendo il comportamento in generale, in senso morale. Potremmo chiamare questo l’aspetto etico della religione.
E infine, l’uomo è debole. Non basta avere coscienza di ciò che è giusto per comportarsi rettamente; sappiamo bene che non sempre agiamo come vorremmo. Uno degli aspetti più potenti della religione è la sua forza ispiratrice: la religione ispira a comportarsi in un certo modo. Ma non solo, dà anche ispirazione all’arte e a molte altre attività umane.
Questi tre aspetti, in una visione religiosa, sono strettamente intrecciati. Di solito, la si racconta così: i valori morali sono Parola di Dio, e questo non solo collega l’aspetto metafisico e quello etico, ma è anche fonte di ispirazione, perché se stiamo lavorando per Dio e obbedendo alla Sua volontà ci sentiamo in qualche modo parte dell’universo, le nostre azioni acquistano significato in un mondo più grande, e questo è un principio ispiratore. Quindi i tre aspetti sono intimamente collegati. Il problema è che la scienza in qualche caso entra in conflitto con i primi due, cioè la metafisica e l’etica religiose.
Si scatenò una battaglia furibonda quando si scoprì che la Terra ruota sul suo asse e attorno al Sole; questo non era previsto dalla religione del tempo. Al termine del confronto la religione si ritirò dalle sue posizioni e abbandonò il geocentrismo, ma alla fine della ritirata non ci fu alcun cambiamento nella morale religiosa. Un’altra infuocata discussione fu scatenata dall’ipotesi della nostra discendenza dagli animali. Quasi tutte le religioni si sono, anche questa volta, ritirate dalla posizione metafisica che nega questa possibilità, e il risultato sulla morale è praticamente nullo. Va bene, la Terra ruota attorno al Sole, e allora? Questo ci dice forse se è giusto o non è giusto porgere l’altra guancia? L’aspetto metafisico pone una doppia difficoltà, perché il conflitto non riguarda solo i fatti ma chiama in causa qualcosa di molto più profondo. Non c’è solo la questione se effettivamente il Sole ruoti attorno alla Terra o meno, ma c’è anche una difficoltà di carattere spirituale, dovuta al diverso atteggiamento che scienza e religione hanno verso la realtà. L’incertezza necessaria ad apprezzare la natura mal si concilia con la sensazione di certezza fideistica che solitamente accompagna un profondo sentimento religioso. Io non credo che gli scienziati possano mai avere quel tipo di certezza. Forse sì, non lo so, penso sia difficile. Ma comunque sembra che gli aspetti metafisici della religione non abbiano molto a che fare con l’etica, e i valori morali siano in qualche modo al di fuori dell’ambito scientifico. Tutti questi conflitti non sembrano avere alcun effetto sui valori etici.
Ho appena detto che i valori etici sono al di fuori del regno della scienza, e lo devo argomentare, perché molti la pensano in modo opposto. Pensano che scientificamente si dovrebbe riuscire a raggiungere qualche conclusione riguardo ai valori morali.
Ho molte ragioni per sostenere la mia idea. Vedete, se uno non ha una buona ragione, deve averne molte, così io ne ho ben quattro per pensare che i valori morali siano al di fuori dell’ambito scientifico. Prima di tutto, nel passato ci sono stati dei conflitti, le posizioni metafisiche sono cambiate, e questo non ha avuto praticamente alcun effetto sull’etica. Questo suggerisce che le due cose siano indipendenti.
Poi, come ho già sottolineato, secondo me ci sono uomini buoni, che praticano l’etica cristiana anche se non credono alla divinità di Cristo. Tra parentesi, ho scordato di dirvi che in questa discussione avrò una visione alquanto provinciale della religione. So benissimo che molti seguono religioni non occidentali, ma trattandosi di un tema vastissimo preferisco fare un esempio specifico; e poi chi vuole farà una trasposizione per vedere come il ragionamento si adatta agli arabi, o ai buddhisti, o quello che vi pare.
La terza cosa è che, per quanto ne so, in tutto il sapere scientifico raccolto finora non c’è niente, da nessuna parte, che dica se sia giusto «non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te». Non c’è alcuna prova di questo, sulla base di studi scientifici.
E, per finire, vorrei fare un piccolo ragionamento filosofico. Non sono molto bravo, in questo tipo di cose, ma vorrei lo stesso spiegare, da un punto di vista generale, perché considero scienza e questioni morali indipendenti. Il problema umano più comune, la grande domanda, è sempre: «Cosa devo fare?». Riguarda dunque l’azione: «Devo fare questa cosa? Cosa devo fare?». E come si può rispondere a una tale domanda? Si può dividerla in due parti. Prima possiamo chiederci: «Se faccio questo, cosa succede?». La risposta non mi dice se lo devo fare o no; infatti abbiamo un’altra parte, che è: «Bene, voglio che succeda o no?». La prima domanda – «Se faccio questo, cosa succede?» – è perlomeno suscettibile di indagine scientifica; e difatti è una tipica domanda scientifica. Non significa che sappiamo esattamente cosa succederà. Per niente. Non sappiamo mai cosa succederà: la scienza è molto rudimentale. Ma, perlomeno, ci fornisce un metodo per trattare questo tipo di domande. Il metodo (ne abbiamo già parlato) è provare, e guardare cosa succede, accumulare informazione, e così via. Quindi la domanda «Se faccio questo, cosa succede?» è sicuramente una domanda scientifica. Invece la domanda «Voglio che succeda?», alla fin fine, non lo è. Mi direte: se faccio questo, tutti verranno uccisi, e ovviamente io non voglio che succeda. E come fate a essere sicuri di non volerlo? Vedete, alla fine bisogna esprimere una sorta di giudizio ultimo.
Potreste farmi un esempio diverso. Potreste dirmi: «Seguendo questa politica economica, prevedo che ci sarà una depressione, e ovviamente io non la voglio». Un momento. Vedete, il solo sapere che ci sarà una depressione non significa che non la vogliamo. Bisogna, dopo, giudicare se il senso di potere che ne deriva, o l’importanza che il Paese si muova in una certa direzione, è più grande della sofferenza dei cittadini. O magari alcuni soffriranno e altri no. E quindi deve pur esserci in qualche punto del ragionamento un giudizio ultimo su ciò che ha valore, se le persone o la vita hanno valore. Alla fin fine, possiamo seguire il filo di cosa succederà sempre più in dettaglio, ma dovremo decidere: «Sì, voglio che succeda», oppure: «No, non voglio». E il giudizio qui è di natura diversa. Non vedo proprio come, semplicemente sapendo cosa succederà, si possa stabilire se ciò è desiderabile o meno. Credo, quindi, che sia impossibile decidere su questioni morali usando tecniche scientifiche, e che le due cose siano indipendenti.
Ora vorrei parlare della forza ispiratrice, la terza caratteristica della religione, e questo mi porta a una domanda cruciale che rivolgo a tutti voi, perché io non ho idea di quale possa essere la risposta. Oggi la fonte dell’ispirazione, ciò che in ogni religione dà forza e serenità, è strettamente legata all’aspetto metafisico. Cioè, l’ispirazione viene dal fatto che si lavora per Dio, si obbedisce alla Sua volontà, e così via. Ora, un legame emozionale che si esprime in questo modo, la sensazione profonda di essere nel giusto, viene indebolito dal benché minimo dubbio sull’esistenza di Dio. Quando la fede vacilla, questa particolare fonte di ispirazione viene a mancare. Se si possa mantenere il valore della religione come fonte di forza e coraggio per quasi tutti gli uomini senza richiedere al tempo stesso una fede assoluta nel suo sistema metafisico, è una cosa a cui non so rispondere. Si potrebbe pensare di inventare una metafisica religiosa non in contrasto con la scienza. Ma, con la scienza che avanza avventurosamente nell’ignoto, io non credo davvero possibile dire in anticipo quali saranno le risposte e non aspettarsi che prima o poi, qualunque cosa si faccia, qualcuna risulterà sbagliata. Quindi io credo sia inevitabile entrare in conflitto se si richiede una fede assoluta su aspetti metafisici, e allo stesso tempo non vedo come si possa conservare il vero valore della religione come ispirazione se si hanno dubbi sulla metafisica. È un problema serio.
La civiltà occidentale, mi sembra, poggia su due grandi pilastri. Uno è lo spirito scientifico di avventura – avventura in un ignoto che va innanzitutto riconosciuto come tale, se lo vogliamo esplorare –, l’esigenza che gli enigmi insolubili dell’universo rimangano senza risposta, l’atteggiamento mentale che tutto è incerto. In poche parole: l’umiltà dell’intelletto.
L’altro grande pilastro è l’etica cristiana – l’amore come base di ogni azione, la fratellanza universale, il valore dell’individuo, l’umiltà dello spirito. Dal punto di vista logico queste due grandi eredità sono del tutto coerenti. Ma la logica non è tutto: ci vuole il cuore, per seguire un’idea. Chi torna alla religione, a cosa torna? La Chiesa moderna è un luogo di conforto, per chi dubita dell’esistenza di Dio? O addirittura non ci crede? La Chiesa moderna è un luogo di conforto e di incoraggiamento del valore di questi dubbi? Fino a oggi abbiamo tratto forza e sicurezza per sostenere ciascuna di queste eredità a discapito dell’altra. È inevitabile questo? Come possiamo trarre ispirazione per sostenere questi due pilastri della civiltà occidentale così che stiano saldi insieme, in tutto il loro vigore, senza paura l’uno dell’altro? Io non lo so. Ma questo è il meglio che io possa dire sul rapporto tra scienza e religione, quella religione che è stata nel passato, e quindi è ancora, origine di un codice morale così come dell’ispirazione a seguire quel codice.
Oggi, come sempre, abbiamo un conflitto tra le nazioni, in particolare tra gli Stati Uniti e la Russia. Ribadisco che non abbiamo certezze sui valori morali. Persone diverse hanno idee diverse su ciò che è giusto o sbagliato. Ma se non siamo sicuri di cosa è bene e cosa è male, come facciamo a scegliere, in questo conflitto? Nel caso del capitalismo contro l’economia di Stato, è proprio assolutamente e perfettamente chiaro dove sta la ragione? Dobbiamo quindi rimanere nell’incertezza. È probabile che il capitalismo sia meglio dell’economia pianificata, ma anche noi abbiamo la nostra brava quota di controllo statale. Esattamente il 52 per cento: a tanto ammonta l’imposta sul reddito delle persone giuridiche.
In certe discussioni la religione, che di solito rappresenta il nostro Paese, viene simbolicamente contrapposta all’ateismo della società sovietica. Due punti di vista – nient’altro che due punti di vista – tra i quali è impossibile decidere. Sui valori umani, o il ruolo dello Stato, o le questioni legate alla sicurezza è possibile vederla in modo opposto, e possiamo solo restare nell’incertezza. C’è davvero un conflitto? Forse la dittatura sta facendo qualche progresso e si avvicina un po’ alla confusione della democrazia, e la confusione democratica forse assomiglia un po’ di più a un sistema dittatoriale. Sembra che l’incertezza implichi assenza di conflitti; bello, vero? Ma io non ci credo. Credo che sia in atto un conflitto molto preciso: credo che la Russia sia pericolosa quando dice di conoscere la soluzione ai problemi dell’uomo e che tutti gli sforzi dovrebbero essere a favore dello Stato, perché questo significa l’assenza di qualsiasi novità. Alla macchina umana non è permesso sviluppare le proprie potenzialità, le sorprese, le varietà, le nuove soluzioni a problemi difficili, i punti di vista diversi.
Il sistema di governo degli Stati Uniti fu creato in base al principio che nessuno sa come fare uno Stato, o come governare. Bisognava inventare un modo per governare quando non si sa come fare: questo è possibile in un sistema, come il nostro, in cui si possono sviluppare nuove idee, provare nuove soluzioni, e scartarle, se non funzionano. Chi ha scritto la Costituzione riconosceva il valore del dubbio. A quei tempi, per esempio, la scienza si era già sviluppata abbastanza da mostrare le potenzialità che risultano dall’incertezza, il valore dell’apertura a tutte le possibilità. Il non essere sicuri di qualcosa implica la possibilità che un giorno si troverà un’altra strada. Questa apertura è un’opportunità: il dubbio e la discussione sono essenziali al progresso. Il sistema di governo degli Stati Uniti, da questo punto di vista, è nuovo, è moderno, ed è scientifico. È anche un gran casino. I senatori vendono il proprio voto in cambio di una diga nel loro Stato, le discussioni si animano e le lobby schiacciano le minoranze, che non riescono a far sentire la propria voce, e così via. Il sistema americano non è un granché, ma, insieme forse a quello inglese, è il migliore al mondo, il più soddisfacente, il più moderno. Ma non è un granché.
La Russia è un Paese arretrato. Oh, certo, tecnologicamente è all’avanguardia. Ho già parlato della differenza tra scienza e tecnologia. Purtroppo pare che l’ingegneria e lo sviluppo tecnologico non siano incompatibili con la soppressione di nuove idee. Pare che sia così, perlomeno guardando agli ultimi giorni del regime nazista, in cui non si sviluppava nuova scienza, ma lo stesso si costruivano razzi, così come si costruiscono in Russia. Mi dispiace molto che sia così, ma è vero che lo sviluppo tecnologico, l’applicazione della scienza, può andare avanti anche senza libertà. La Russia è arretrata perché non ha imparato a limitare il potere dello Stato. La grande scoperta degli anglosassoni (non sono gli unici ad averci pensato, ma tanto per limitarci alla storia recente) è che a tale potere ci può essere un limite. In Russia non c’è libertà di critica. Mi direte: «Invece sì: discutono sull’antistalinismo». Solo in ambiti molto limitati, e solo fino a un certo punto. Noi dovremmo approfittarne. Perché non discutiamo anche noi sull’antistalinismo? Perché non parliamo di tutti i problemi che avevamo con quel signore? E dei pericoli che comporta un sistema in cui possono svilupparsi mostruosità simili? Perché non sottolineiamo le analogie tra lo stalinismo che i russi ora criticano e le cose che proprio oggi stanno succedendo in Russia? Va bene, va bene...
Vedete? Vado in agitazione... È l’emozione... Non dovrei fare così, perché la questione va trattata scientificamente. Non convincerò nessuno, se non faccio finta che questa sia un’analisi del tutto razionale, scientifica e senza pregiudizi.
La mia esperienza in quei Paesi è limitata. Sono stato in Polonia, e ho visto cose molto interessanti. I polacchi, naturalmente, amano la libertà, e sono sotto l’influenza russa. La stampa non è libera, ma quando io ero là, un anno fa, potevano stranamente dire tutto quello che volevano, pur non potendo pubblicare niente. Ricordo discussioni molto animate, in luoghi pubblici, sulle più svariate questioni. La cosa che colpisce di più riguardo ai polacchi è che la loro esperienza con i tedeschi è stata così tremenda che non riescono in alcun modo a liberarsene, e quindi ogni loro atteggiamento riguardo alla politica estera ha a che fare con la paura del risorgere della Germania. (Mentre io ero lì, pensavo che sarebbe veramente un delitto se le nazioni libere permettessero il ripetersi di una cosa simile). Quindi, accettano la Russia. Mi spiegavano: «Vedi, i russi stanno decisamente schiacciando i tedeschi dell’Est. È del tutto impossibile che nella Germania Est i nazisti possano rialzare la testa, e comunque non c’è dubbio che la Russia sia in grado di tenerli sotto controllo. Perlomeno abbiamo questo cuscinetto». La cosa strana era come non si rendessero conto che una nazione ne può proteggere un’altra, e garantirla, senza dominarla completamente, senza viverci in casa.
Un’altra cosa che mi sono sentito dire spesso, da diverse persone, è che magari noi occidentali non ci crederemo, ma anche se la Polonia si liberasse della Russia e avesse il suo proprio governo e fosse un Paese libero, le cose andrebbero avanti più o meno allo stesso modo. Io ribattevo: «Come sarebbe a dire? Non avreste libertà di parola, o di stampa?». «Oh, no, godremmo di tutte le libertà, ma avremmo ancora industrie nazionalizzate e così via. Noi crediamo nell’idea socialista». Ero alquanto sorpreso, perché non vedo il problema in questo modo, come una contrapposizione tra capitalismo e socialismo, ma piuttosto come una questione di libertà di pensiero. Se la ricetta libertà più socialismo è meglio del comunismo, sarà la formula vincente, e sarà meglio per tutti. E se il capitalismo è meglio del socialismo, alla fine vincerà. Abbiamo quel 52 per cento... va be’...
Il fatto che la Russia non sia un Paese libero è chiaro a tutti, e le conseguenze in campo scientifico sono ovvie. Uno degli esempi più eclatanti è Lysenko, con la sua teoria genetica che le caratteristiche acquisite possono essere trasmesse alla discendenza. Probabilmente c’è del vero. Comunque, la stragrande maggioranza delle influenze genetiche sono di tipo diverso, e vengono portate dal «plasma germinale». Senza dubbio ci sono dei casi, molto pochi, in cui un certo tipo di caratteristica acquisita si trasmette alla generazione successiva per ereditarietà diretta, che ci piace chiamare «psicoplasmica», ma il punto è che la gran parte del meccanismo genetico funziona in modo diverso da come la pensa Lysenko. E così Lysenko ha rovinato la Russia. Il grande Mendel, che ha inventato la genetica e scoperto le sue leggi, è morto. La genetica può progredire solo nei Paesi occidentali, perché in Russia non possono studiare e analizzare liberamente i dati, sono troppo impegnati a discutere e litigare con noi. Il risultato è interessante: non solo non c’è progresso nella ricerca biologica (che, fra l’altro, è il campo più attivo, più eccitante e in più rapido sviluppo in Occidente, mentre in Russia è fermo), ma addirittura, avendo le teorie genetiche sbagliate, l’agricoltura rimane indietro, e questa è una cosa assolutamente incredibile dal punto di vista economico. Non riescono a produrre i giusti ibridi di mais, o le varietà migliori di patate. Una volta lo sapevano fare. In Russia c’erano le patate migliori del mondo, prima di Lysenko; oggi stanno lì a litigare con l’Occidente.
Nella fisica ci sono stati anni di tensione. Da qualche tempo i fisici in Russia godono di molta libertà, anche se non al cento per cento; ci sono diverse scuole di pensiero contrapposte. I rappresentanti di queste diverse scuole si trovavano a un convegno in Polonia. Aveva organizzato la trasferta l’agenzia Polorbis, l’Intourist polacco; naturalmente c’era un problema di camere, e alla Polorbis avevano fatto l’errore di mettere dei russi in camere doppie. Arrivavano giù gridando: «Sono diciassette anni che non rivolgo la parola a quel tizio, e non ho affatto intenzione di dividere la camera con lui!». Ci sono due scuole di fisica, e anche qui abbiamo i buoni e i cattivi. La Russia vanta fisici di prim’ordine, ma la fisica si sta sviluppando molto più rapidamente in Occidente, e sebbene a un certo punto sembrasse che qualcosa di buono stesse per accadere di là, alla fine non è successo.
Questo non significa che la tecnologia non sia avanzata, che siano arretrati da quel punto di vista: quello che sto cercando di dimostrare è che in Paesi così non ci può essere avanzamento delle idee.
Sicuramente avrete sentito parlare di quello che è successo recentemente in campo artistico. Quando ero in Polonia, c’erano opere d’arte moderna esposte agli angoli dei vicoli, e qualche inizio di sviluppo di quest’arte si è avuto anche in Russia. (Non ho idea di quale sia il suo valore, ma in un modo o nell’altro...). Poi però il signor Chruščëv ha visitato un’esposizione, e il signor Chruščëv ha deciso che quei quadri sembravano dipinti dalla coda di un asino. Il mio commento è: se non lo sa lui...
Per fare un esempio ancora più concreto, vi parlerò di un certo signor Nekrasov, che ha visitato gli Stati Uniti e l’Italia, poi è tornato a casa e ha descritto quello che aveva visto.2 Fu punito (cito il giudice) «per la sua imparzialità borghese». Vi pare una nazione scientifica?! Come abbiamo potuto pensare che i russi fossero, in qualche senso, «scientifici»? Avranno anche avuto, nel primo periodo rivoluzionario, idee diverse da oggi. Di sicuro non può considerarsi scientifico condannare l’imparzialità, cioè il tentativo di capire come è fatto il mondo, per poi cambiarlo: questo è coprirsi gli occhi, rimanere ciechi al fine di perpetrare l’ignoranza.
Ma lasciatemi continuare sul caso Nekrasov. Voglio darvi ulteriori dettagli della sua pubblica censura, opera di Podgornyj, segretario del Partito comunista ucraino.3 Dice Podgornyj: «Tu ci hai detto qui [Nekrasov aveva appena parlato, ma non sappiamo cosa disse, perché non fu reso pubblico] che avresti riferito la verità, la grande, la vera verità, quella nel cui nome combattesti a Stalingrado. Questo va bene, tutti noi ti consigliamo di scrivere così. [Speriamo lo faccia davvero]. Ma il tuo discorso, e le idee che continui a sostenere, trasudano meschina anarchia borghese. Il Partito e il popolo non possono tollerarlo. Farai meglio a pensarci seriamente, compagno Nekrasov». Cosa vuol dire «pensarci seriamente»? Come può quel poveretto, o chiunque altro, pensare seriamente di essere un meschino anarchico borghese? Riuscite a figurarvi un vecchio anarchico che sia anche un borghese? E meschino, per di più? È tutto assurdo. Quindi io spero proprio che riusciremo sempre a ridere di persone come il signor Podgornyj, e allo stesso tempo proveremo a comunicare in qualche modo a Nekrasov che ammiriamo e rispettiamo il suo coraggio, perché la razza umana è solo all’inizio. Abbiamo migliaia di anni alle spalle, e un tempo indeterminato davanti a noi, un futuro pieno di rischi e di opportunità. Già è successo che il cammino dell’uomo si sia arrestato perché le sue idee vennero soffocate; l’umanità è rimasta incastrata per lunghi periodi, e noi non possiamo tollerarlo. Spero che le generazioni future vivranno nella libertà: libertà di dubitare, di sviluppare nuove idee, di continuare nell’avventura di scoprire nuovi modi di fare le cose, di risolvere i problemi.
Perché sentiamo l’urgenza di trovare soluzioni? Siamo solo all’inizio, abbiamo tutto il tempo necessario. L’unico vero rischio è che, nell’impeto della gioventù, l’umanità si convinca di conoscere già la soluzione a ogni problema. Eccola. Non ce n’è una migliore, e nessuno ne troverà mai un’altra. E allora ci bloccheremo. L’umanità futura pagherà a caro prezzo la scarsa immaginazione degli esseri umani di oggi.
Non siamo poi così intelligenti. Siamo stupidi, siamo ignoranti, e dobbiamo mantenere un canale aperto. Io credo che i poteri dello Stato debbano avere un limite, ma qui mi preme sottolineare soprattutto una cosa, che riguarda la vita intellettuale.
Lo Stato non può arrogarsi il diritto di decidere della verità di princìpi scientifici, né di prescrivere in alcun modo su quali questioni indagare. Lo Stato non può determinare il valore estetico di creazioni artistiche, né limitare le forme di espressione letteraria e artistica. Lo Stato non può pronunciarsi sulla validità di dottrine economiche, storiche, religiose o filosofiche. Ha invece il dovere verso i suoi cittadini di mantenere le libertà, e di permettere a ciascuno di contribuire all’avventura e al progresso del genere umano. Grazie.
UN’EPOCA SCIENTIFICA, LA NOSTRA?
Quando ho ricevuto l’invito a tenere un ciclo di conferenze intitolate a John Danz, mi sono rallegrato all’idea che avrei avuto tre serate a disposizione, perché avendo riflettuto a lungo su questi temi mi sarebbe dispiaciuto far le cose di fretta e concentrare tutto in una volta sola: era mia intenzione sviluppare le idee con calma, in modo ordinato, in tre tappe. Ho poi scoperto di averle sviluppate con calma, in modo ordinato, tutte quante, in due.
Ho finito la mia scorta di idee organizzate, ma ci sono nel mondo ancora numerose cose che non mi tornano, e che non sono ancora riuscito a mettere in una forma ragionevole, logica e ovvia. Quindi, dato che ormai ho firmato un contratto per tre conferenze, l’unica cosa che posso fare è presentarvi questo pot-pourri di cose che non mi tornano, non bene organizzate.
Forse un giorno, quando avrò trovato una ragione profonda dietro a tutto questo, sarò in grado di tenervi una conferenza che abbia un senso, invece di questa cosa. Comunque, se per caso vi venisse in mente di dar credito a tutto ciò che ho detto solo perché sono uno scienziato – e come dice il dépliant che tenete in mano ho vinto premi e cose del genere – invece di ragionare sulle idee fin qui esposte e farvi una vostra opinione, sappiate che stasera vi libererete di ogni soggezione nei miei confronti. Lo scopo di questa serata, infatti, sarà mostrare di quali ridicole conclusioni e affermazioni sconclusionate cotanto uomo è capace.
Dopotutto, il sabato sera bisogna divertirsi, e quindi... penso di avere lo spirito giusto, ora, e possiamo andare avanti. È sempre un buon sistema, in una conferenza, scegliere un titolo a sorpresa, un po’ improbabile, che spiazzi l’uditorio e desti qualche dubbio. «Un’epoca scientifica, la nostra?». Certo, se con «scientifica» intendiamo le applicazioni tecnologiche, la risposta è senz’altro affermativa: oggi abbiamo ogni sorta di applicazioni della scienza, che ci creano ogni sorta di problemi, così come ci forniscono ogni sorta di vantaggi.
La nostra, di nuovo, è un’epoca scientifica, se con questa denominazione intendiamo riferirci ai periodi in cui la scienza ha avuto il suo massimo sviluppo e allargato rapidamente i propri confini. Negli ultimi duecento anni le nostre conoscenze nelle varie discipline sono aumentate a un ritmo crescente, e oggi stiamo girando al massimo. In particolare in biologia siamo alla vigilia di scoperte straordinarie; non saprei dirvi quali saranno, e naturalmente è proprio questo il bello. L’eccitazione proveniente dal rivoltare una pietra dopo l’altra e trovarci sotto nuove scoperte prosegue ininterrottamente da centinaia di anni, in un incessante crescendo rossiniano. In questo senso, viviamo nell’età dell’oro della scienza; c’è chi l’ha chiamata «eroica» (uno scienziato, è ovvio, nessun altro ne sa niente). Un giorno, quando la Storia guarderà indietro a questi anni, si vedrà che questa è stata un’epoca drammatica e straordinaria, che ha segnato il passaggio dal non sapere quasi nulla del mondo a una conoscenza neppur lontanamente immaginabile in passato. Ma se intendiamo che oggigiorno la scienza svolge un ruolo importante nella letteratura, nell’arte, nella visione del mondo della gente, ebbene, in tal caso, quest’epoca ha ben poco di scientifico. Nell’età eroica dell’antica Grecia, i poeti cantavano le gesta di mitici guerrieri. Nel Medioevo l’arte traeva ispirazione dalla religione, e l’atteggiamento comune verso la vita era strettamente legato alle concezioni religiose: era un’epoca religiosa. Questa non è un’epoca scientifica, da quel punto di vista.
Ora, la mia doglianza (bella parola, fra l’altro) non è che esistano fenomeni non scientifici. Se un aspetto del mondo è non scientifico non vuol dire che ci sia qualcosa che non va, è solo non scientifico, tutto lì. In fin dei conti, si può avere un atteggiamento scientifico solo riguardo alle cose che si possono studiare per tentativi ed errori. Oggi per esempio, i giovani ripetono queste canzoni assurde: mostri venuti dallo spazio che divorano uomini viola, e altre cose del genere. Ma qui non abbiamo davvero il diritto di scandalizzarci, vista la roba che era di moda al tempo dei nostri ruggenti anni giovanili, o quando erano giovani i nostri genitori. Nella vita, per quanto riguarda la felicità, le emozioni, i piaceri, o nella letteratura e nell’arte, non c’è bisogno di avere un atteggiamento scientifico, non ce n’è ragione. Rilassiamoci e godiamoci la vita, non è questo che sto criticando, non è questo il punto.
Ma se ci fermiamo a riflettere un momento, ci rendiamo conto di quante cose (stupidaggini, nella maggior parte dei casi) siano irrazionali, e senza un motivo. Per esempio, là dietro delle persone sono rimaste in piedi, anche se qua davanti ci sono poltrone vuote.
Parlando con degli studenti, mi è stato chiesto se lo stile di lavoro dello scienziato alle prese con i dati di un problema – le sue esperienze, i suoi criteri di giudizio, il suo atteggiamento mentale – non possa applicarsi vantaggiosamente in altri campi. Nella fisica, è vero, abbiamo il vantaggio di poter fare esperimenti, cosa che non in tutti i campi è possibile. Ma comunque, determinate esperienze e determinati criteri di giudizio hanno sicuramente validità generale. Parlerò allora di qualche piccolo trucco del mestiere, che potreste trovare utile.
Per esempio, se qualcuno fa un discorso, come si fa a capire se sa di cosa sta parlando, se quello che dice è fondato o meno? È molto semplice. Fate come i bambini. Fategli delle domande ingenue, come farebbe un bambino, ma pertinenti; domande intelligenti, e cioè profonde, interessate, oneste, franche, dirette, non cose complicate – e vedrete che quel tale andrà immediatamente nel pallone. E, se è onesto, vi dirà che non è in grado di rispondere. È essenziale riconoscere l’importanza di questa cosa. Vorrei illustrare ora un aspetto non scientifico del mondo, che se fosse più scientifico sarebbe molto meglio per tutti. Ha a che fare con la politica. Supponiamo che due candidati alla presidenza stiano facendo la loro campagna elettorale in una zona rurale. A uno viene posta la domanda: «Cosa intende fare per i problemi dell’agricoltura?» e lui spara subito la risposta – bang, bang, bang. Poi arriva l’altro candidato. «Cosa intende fare per i problemi dell’agricoltura?». «Be’, non saprei. Io ero un generale, e non so niente di agricoltura. Ma non dev’essere una cosa tanto facile, perché negli ultimi dodici, quindici, venti anni tutti ci hanno provato e di risultati se ne sono visti pochi. Per cercare di risolvere il problema credo che la cosa migliore sia di riunire intorno a un tavolo degli esperti, gente che ne sappia qualcosa, e studiare insieme cos’è stato fatto in passato. Ci vorrà del tempo, ma poi arriveremo a una conclusione ragionevole. Non chiedetemi di dirvi in anticipo quale sarà. Posso solo dirvi che in linea di massima cercheremo di non peggiorare la condizione dei singoli contadini, di tener conto di tutte le situazioni particolari, eccetera, eccetera».
Ora, da noi un politico così fa poca strada, credo; e comunque nessuno ci ha mai provato. La gente vuole delle risposte, e chi è in grado di dargliene è meglio ai suoi occhi di chi non gliene dà, mentre nella maggior parte dei casi è proprio vero il contrario. E così i politici, in campagna elettorale, ostentano certezze e si spingono a fare promesse che – è matematico – non possono mantenere. Così alla fine nessuno ci crede più, ed ecco allora il rifiuto della politica, e una generale mancanza di rispetto per chi, magari, i problemi cerca di risolverli davvero. Sarà pure una visione semplicistica la mia, ma mi pare innegabile che all’origine di molti nostri guai ci sia quest’ansia della gente di volere la risposta, invece di cercare chi ha un metodo per arrivare alla risposta.
Ora passiamo a un altro punto che riguarda specificamente la scienza, ed è in che modo trattare l’incertezza, un concetto sul quale circolano le battute più strane. Vorrei ricordarvi che si può essere abbastanza sicuri di una cosa anche senza averne la certezza assoluta, e non si è necessariamente «nel mezzo», anzi non lo si è quasi mai. Mi sento chiedere: «Come puoi insegnare a tuo figlio cosa è giusto e cosa è sbagliato se non lo sai?». Perché sono abbastanza sicuro di cosa sia giusto e sbagliato. Non lo sono del tutto, potrei cambiare idea, ma so cosa vorrei insegnargli. Naturalmente, un bambino non impara mai quello che gli si insegna, ma questo è un altro discorso.
Vorrei descrivere un concetto un po’ tecnico, che però serve a capire come si possa gestire l’incertezza. In che modo un’ipotesi da «quasi certamente falsa» diventa «quasi certamente vera»? In che modo l’esperienza cambia le nostre convinzioni? Come riusciamo a gestire questo cambiamento, mentre avviene? È molto complicato, tecnicamente, e quindi ricorrerò a una semplificazione.
Supponiamo di avere due teorie sull’evolversi di un certo fenomeno, chiamiamole teoria A e teoria B. È possibile che per qualche ragione (esperienza passata, altri esperimenti, intuizione, o altro) siamo a priori molto più in favore della teoria A: siamo quasi sicuri che sia quella giusta. Ora facciamo un esperimento. Secondo la teoria A, non dovrebbe succedere niente. Secondo la teoria B, il preparato dovrebbe diventare blu. Osserviamo i risultati dell’esperimento, e vediamo che è diventato verdognolo. Secondo la teoria A questo risultato è molto improbabile. Allora ci rivolgiamo alla teoria B che ci dice: «Be’, doveva diventare blu, ma non è impossibile che diventasse questa sorta di verdognolo». Quindi il risultato dell’esperimento è che la teoria A sta diventando più debole, e la teoria B si rafforza. Fra l’altro, rifare lo stesso esperimento un milione di volte non serve a niente: se ogni volta ridiventa verdognolo non riusciamo ancora a decidere quale teoria scegliere. Se invece troviamo molte cose che differenziano le due teorie, allora accumulando un gran numero di risultati di esperimenti diversi potremmo riuscire a decidere in favore della teoria B.
Esempio. Vado a Las Vegas, mettiamo, e incontro un mago, anzi, uno che sostiene di avere il potere della telecinesi, cioè di spostare gli oggetti col pensiero. Questo tipo mi si avvicina e mi dice: «Ora te lo dimostro. Andiamo a quel tavolo da roulette e io ti dico in anticipo se esce il rosso o il nero».
Prima di cominciare, vi dico subito che non ha alcuna importanza quale tipo di numero da circo scegliamo per questo esempio. Io non credo ai maghi, ho un forte pregiudizio contro questo genere di cose che deriva dalla mia esperienza della natura, dalla fisica. Dopotutto l’uomo è fatto di atomi; e siccome gli atomi li conosco, e conosco tutti (be’, quasi tutti) i modi in cui interagiscono tra loro, non vedo proprio come le macchinazioni della mente possano influenzare direttamente il movimento di una pallina. Perciò dalle mie esperienze e conoscenze generali ho un forte pregiudizio contro i maghi. Diciamo uno a un milione.
Ora cominciamo. Il mago dice che uscirà il nero. Nero. Poi dice che uscirà il rosso. Rosso. Credo al mago? No. Può succedere. Il mago dice nero. Nero. Dice rosso. Rosso. Comincio a sudare. Sto per imparare qualcosa di nuovo. Diciamo che va avanti così per dieci volte di fila. Ora, è possibile che per caso il mago indovini dieci volte di fila, ma le probabilità sono una a mille. Quindi, visto che prima le probabilità che lui fosse veramente un mago erano una a un milione, ora devo concludere che sono una a mille. Vedete bene che se indovina altre dieci volte mi convincerà. Non proprio... Bisogna sempre considerare le possibili spiegazioni alternative. Avrei dovuto dirvi prima che mentre ci avvicinavamo al tavolo da roulette io nella mia mente consideravo la possibilità che il cosiddetto mago e il croupier fossero d’accordo. È possibile, anche se questo tizio non dà l’idea di avere amici altolocati al Flamingo Club, e quindi diciamo che le probabilità sono una a cento. Tuttavia, dopo che ha indovinato dieci volte, dato il mio fortissimo pregiudizio contro i maghi io concludo che c’è un accordo. Dieci a uno. Voglio dire che le probabilità che ci sia un accordo col croupier piuttosto che un caso sono dieci a uno, mentre le probabilità che ci sia un accordo rispetto al suo essere veramente un mago sono ancora diecimila a uno. Come farà a convincermi di essere un mago se i miei pregiudizi sono così forti e io ora penso che sia d’accordo col croupier? Possiamo fare un altro esperimento, andare in un altro casinò.
Possiamo fare altri tipi di esperimenti, con i dadi, magari, in una stanza chiusa. Possiamo continuare e scartare tutte le possibili spiegazioni alternative. Non serve stare davanti allo stesso tavolo da roulette all’infinito: lui predirà il risultato, ma la mia conclusione sarà che è d’accordo col croupier.
Ma può dimostrarmi di essere un mago facendo altre cose. Supponiamo che vada in un altro casinò, e funziona, in un altro ancora, e funziona. Proviamo con i dadi, e funziona. Lo porto a casa mia, compro una roulette, e funziona. Cosa concludo? Che è veramente un mago. Questo è il modo giusto di convincermi, anche se naturalmente non c’è la certezza assoluta, si tratta solo di probabilità: una certa (alta) probabilità che quel tizio sia veramente un mago. Magari, studiando meglio il fenomeno, scoprirei che il mago, senza dare nell’occhio, riesce a soffiare dall’angolo della bocca, spostando la pallina, e allora le probabilità cambiano di nuovo, e l’incertezza rimane sempre. Però, almeno per un po’, potremmo concludere che la magia, o meglio, la telecinesi, esiste davvero. Se fosse così sarebbe veramente esaltante, perché non è quello che mi aspettavo. Ho imparato qualcosa che non sapevo, e come fisico vorrei studiare il fenomeno. Dipende dalla distanza della pallina? E se mettiamo una lastra di vetro o un foglio di carta nel mezzo, funziona ancora? Questo è il modo di studiare i fenomeni della natura, è il metodo con cui sono stati studiati il magnetismo e l’elettricità. Facendo abbastanza esperimenti anche la telecinesi potrebbe essere studiata.
Comunque, questo è un esempio di come si tratta l’incertezza e come si studia scientificamente qualcosa. Avere un pregiudizio di uno a un milione contro la magia non significa che non si possa mai venire convinti della sua esistenza. Solo in due casi questo è impossibile: se il numero di esperimenti è limitato, perché poi il «mago» si sottrae, oppure se il pregiudizio iniziale è infinito.
Un altro esempio di «test della verità», che funziona nella scienza e probabilmente funzionerebbe anche in altri campi, in una certa misura, è che se una teoria è vera, è vera davvero, ripetendo gli esperimenti e migliorando l’efficacia delle osservazioni gli effetti da essa previsti si manifestano più chiaramente, non meno. Cioè, se quella cosa esiste, ma si vede male perché il vetro è appannato, pulendo il vetro e guardando meglio risulta più ovvio che la cosa è lì, non meno.
Vi farò un esempio. Un professore, in Virginia credo, condusse per anni esperimenti sui fenomeni telepatici. Nei primi tentativi si servì di carte, simili a carte da gioco, che recavano vari disegni (forse le avete viste anche voi, perché all’epoca erano addirittura in vendita nei negozi, e la gente si dilettava a fare esperimenti in proprio): il soggetto guardava una certa carta e pensava intensamente all’oggetto raffigurato, mentre un altro, senza poterla vedere, cercava di indovinare se fosse un cerchio, un triangolo, o cos’altro. All’inizio si ebbero risultati sorprendenti. C’era chi riusciva a indovinare dieci o quindici carte, mentre la media avrebbe dovuto essere cinque. E alcuni addirittura rasentavano il cento per cento: telepati meravigliosi.
Qualcuno iniziò a sollevare delle obiezioni. Per esempio, quella statistica era falsata dal fatto che il professore non teneva conto di tutte le volte in cui il soggetto sbagliava, e in pratica attribuiva maggior peso alle previsioni azzeccate. E bisognava pure considerare la possibilità che chi teneva in mano la carta lanciasse all’altro inavvertitamente (o «avvertitamente») segnali rivelatori.
A seguito di queste e altre critiche il procedimento fu perfezionato, e, dove il calcolo delle probabilità prevedeva una media di cinque carte indovinate, la media effettiva si stabilizzò intorno a 6,5, e i casi con dieci, quindici o venticinque carte indovinate sparirono del tutto. Morale della favola, i primi esperimenti erano sbagliati: la seconda serie mostrava con sufficiente chiarezza il carattere illusorio di quelle mirabolanti prestazioni. Il fatto che la media fosse comunque più alta di 1,5 rispetto al valore previsto portò a considerare un’altra possibilità: forse la telepatia c’era, ma a un livello più sottile. È una supposizione diversa da quella precedente, perché se l’idea iniziale fosse giusta in qualche modo, allora migliorando i metodi sperimentali l’effetto sarebbe stato ancora lì, avremmo avuto ancora quindici carte indovinate. Perché erano scese a 6,5? Perché, guarda caso, la tecnica era stata migliorata! Resta il fatto che 6,5 è più di quanto previsto dal calcolo delle probabilità; e qui altre critiche richiamarono l’attenzione su alcuni effetti secondari che potevano rendere conto di questo fenomeno. Il professore per esempio asseriva che i soggetti durante l’esperimento si stancavano: verso la fine la media di carte indovinate scendeva un po’ rispetto all’inizio. Quindi, siccome il soggetto era stanco, gli ultimi due o tre risultati venivano scartati. Vedete, se si scartano gli insuccessi le leggi della statistica non valgono più, e quindi la media totale risulta un po’ più alta di cinque, e così via. Errori di questo tipo furono trovati e corretti, e alla fine risultò che la telepatia c’era, ma questa volta la media era 5,1, e quindi tutti gli esperimenti che indicavano 6,5 erano sbagliati. Ora, perché 5,1 e non 5?... Vedete bene che possiamo andare avanti all’infinito: comunque negli esperimenti ci saranno sempre degli errori sottili e sconosciuti. Ma la ragione del mio scetticismo sul valore dimostrativo di queste ricerche è che migliorando le tecniche gli effetti sono stati minori; in breve, ogni volta i nuovi esperimenti dimostrano l’inconsistenza dei risultati precedenti. Riassumendo la storia in questo modo si riesce a valutare appieno la situazione.
All’epoca, certo, c’erano forti pregiudizi contro la telepatia e i fenomeni paranormali in genere, poiché erano comparsi quando, nel secolo scorso, andavano di moda il misticismo, lo spiritualismo e ogni sorta di magia. I pregiudizi rendono più difficile la dimostrazione di un fenomeno, ma, se questo esiste davvero, prima o poi viene fuori.
Uno degli esempi più interessanti è l’ipnosi: ci volle del bello e del buono perché venisse accettata. Tutto iniziò con il signor Mesmer che curava l’isteria mettendo i pazienti a bagno in vasche piene d’acqua, attaccati a dei tubi, e ogni sorta di stranezze di questo tipo. Parte del fenomeno era di natura ipnotica, un effetto mai riconosciuto prima. Con una simile partenza, era assai improbabile che qualcuno prendesse l’ipnosi tanto sul serio da fare degli esperimenti. Ciò nonostante, ed è sicuramente un bene, l’ipnosi è stata studiata e dimostrata senza ombra di dubbio. Alla lunga, se un fenomeno non riesce a scrollarsi di dosso i pregiudizi, non si può darne la colpa al suo esordio infelice. Perché sì, all’inizio magari nessuno ci crede, ma poi, dopo un’indagine rigorosa, è possibile cambiare idea.
Un altro principio della stessa idea generale è che l’effetto sotto esame deve avere una certa permanenza o coerenza di qualche tipo, e se un fenomeno è difficile da esaminare, allora deve avere degli aspetti che rimangano più o meno costanti anche visti da diverse angolature.
I dischi volanti, per esempio: chiunque ne veda uno descrive una cosa diversa, a meno che non fosse preventivamente informato di cosa doveva aspettarsi. Quindi i resoconti sono popolati di sfere di luce arancione, palle blu che rimbalzano sul pavimento, nebbioline grigie, fiumi sottilissimi che evaporano istantaneamente, cose piatte e rotonde da cui escono oggetti di svariate forme, a volte simili a esseri umani.
Se avete una qualche idea di quant’è complessa la natura e di come si è evoluta la vita sulla Terra, potrete capire l’enorme varietà di forme in cui la vita può presentarsi. Si pensa che necessiti di aria, ma esiste anche sott’acqua (anzi è proprio di lì che è cominciata). Oppure che abbia bisogno di un sistema nervoso, per il movimento. Ma le piante non hanno nervi. Considerando per un attimo le innumerevoli forme di vita già esistenti, è facile convincersi che dal portello del disco non uscirà mai nulla di simile alle cose descritte dai presunti testimoni oculari. E poi, non è curioso che gli extraterrestri si facciano vivi proprio oggi, senza aver mai dato, in passato, alcun segno della loro presenza?
Guarda caso, non appena la scienza giunge al livello in cui possiamo ritenere possibili e normali i rapidi spostamenti in volo da un punto all’altro della Terra, ecco che arrivano i marziani!
Per quanto ne sappiamo, e sarà pure un’informazione incompleta, è lecito avere i più seri dubbi sul fatto che in questo momento astronavi marziane, venusiane o vattelappesca siano in rotta verso di noi. Certo, per capire come davvero stanno le cose, se ci sia un fondamento di verità in tutti questi resoconti, ci vorrebbero accuratissime verifiche, una quantità di esperimenti, ma al momento la natura contraddittoria e incostante del fenomeno, la totale non-coerenza e non-permanenza delle sue caratteristiche, suggerisce come molto probabile una conclusione negativa. Non è dunque il caso che ci agitiamo più di tanto, a meno che, ovviamente, esso non prenda a delinearsi con sufficiente chiarezza.
Ho discusso di questa cosa, degli extraterrestri, con un sacco di gente. (Per inciso, ci tengo a precisarlo, non è che io, perché sono uno scienziato, non abbia contatti con gli altri esseri umani. Le persone normali, beninteso. Mi piace andare a Las Vegas, parlare con le ragazze dello show, con gli scommettitori, e così via. Vedete, sono un uomo di mondo, io, e so benissimo com’è la gente). Ad ogni modo, mi è capitato di parlare di dischi volanti in spiaggia con delle persone, e la cosa che ho trovato interessante è questa: continuano a dire che è possibile.
Ed è vero: è possibile.
Ma il problema – ed è questo che la gente si ostina a non capire – è un altro, e qui vengo al quarto tipo di atteggiamento verso le idee: non si tratta di decidere cosa sia teoricamente possibile, ma di cercare di capire cosa è probabile, che cosa sta succedendo. Non serve dimostrare ogni volta che non si può essere sicuri al cento per cento che lo strano oggetto lassù non sia un disco volante. Quello che dobbiamo fare è cercare di prevedere se dovremo o no preoccuparci di un’invasione marziana, se quello è un disco volante, se è ragionevole che lo sia. E tutto questo in base ai dati dell’esperienza, una cosa ben più impegnativa che dire semplicemente se è possibile o meno. In genere la gente non ha una percezione chiara del numero di cose possibili. E quindi non ha chiaro nemmeno il numero di cose possibili che tuttavia non stanno accadendo, né il fatto che è impossibile che tutte le cose possibili accadano. Ce n’è una tale varietà che molto probabilmente la stragrande maggioranza delle cose che vi vengono in mente come possibili sono fasulle. In fisica teorica è un principio generale: qualunque ipotesi vi venga in mente è quasi sempre falsa. Ci sono cinque, o forse dieci teorie rivelatesi giuste, nella storia della fisica, e sono quelle che vogliamo. (Non che tutto quanto sia falso, ma di questo parleremo più avanti).
Un tipico caso di confusione tra ciò che è possibile e ciò che è probabile è la beatificazione di Madre Seaton. Era una donna pia, dedita alle opere di bene e, agli occhi della gente, «una santa». E questi sono fatti accertati, sicuri (scusate, quasi sicuri). Già l’autorità ecclesiastica annunciava che c’erano prove irrefutabili di una virtù «eroica». A questo punto della procedura cattolica per determinare chi è santo e chi no, entrano in scena i miracoli. Si tratta di stabilire con assoluta certezza se Madre Seaton abbia fatto dei miracoli.
Una bambina malata di leucemia era in fase terminale, e i medici non sapevano più come curarla. Nel dolore e nella disperazione degli ultimi momenti, la famiglia le prova tutte: medicine di ogni tipo, e ogni sorta di cose. Qualcuno suggerisce di appuntare al lenzuolo un nastro di stoffa che ha toccato le ossa di Madre Seaton, e organizzare preghiere collettive con centinaia di fedeli. Il risultato – no, non il risultato, quello che succede – è che la bambina guarisce.
Si istituisce quindi un tribunale speciale che indaghi sulla vicenda. Molto formale, molto accurato, molto scientifico, come dev’essere del resto in questi casi. Domande precise, circostanziate. E tutto, domande e risposte, viene accuratamente riportato in un libro, successivamente tradotto in italiano e spedito al Vaticano, avvolto con nastri speciali, ceralacca e tutto quanto. Il tribunale chiede ai medici di descrivere il caso, e tutti rispondono di non aver mai visto niente del genere, che è assolutamente inusuale, e mai prima d’allora una leucemia di quel tipo si era arrestata per un periodo così lungo. Perfetto.
È vero, non sappiamo cosa sia successo, nessuno lo sa. È possibile che sia stato un miracolo. Il punto non è se sia possibile, la vera questione è se sia probabile che fosse un miracolo. E il problema, per il tribunale, è decidere se il miracolo sia o no probabile, e se Madre Seaton abbia avuto niente a che fare con il miracolo. Oh, l’hanno fatto, a Roma. Non sono riuscito a scoprire come, e questo è il punto cruciale.
La domanda è se la guarigione abbia avuto qualcosa a che fare con il processo associato alle preghiere a Madre Seaton. Per rispondere, bisognerebbe raccogliere dati su tutti i casi in cui si è pregata Madre Seaton in favore di persone malate più o meno gravemente. Poi bisognerebbe confrontare la percentuale di guarigioni tra questi malati con quella di un altro gruppo che non ha beneficiato di preghiere, e così via. Sarebbe un metodo franco e diretto, tutto avverrebbe alla luce del sole, senza sotterfugi, e non ci sarebbe nulla di sacrilego, perché, se è un miracolo, verrà fuori. E, se non è un miracolo, il metodo scientifico lo farà a pezzettini.
I ricercatori in medicina cercano di curare i malati e, com’è ovvio, sono interessati a verificare l’efficacia di ogni possibile terapia. A questo scopo hanno messo a punto precise metodologie, in cui, per fare un esempio (ma la cosa è alquanto complicata) provano sui pazienti questo o quel farmaco; e magari capita che quel particolare paziente migliori. Poco prima, però, gli è venuta la varicella, e allora si chiedono: «Che ci sia una relazione?». Ha così inizio una trafila quanto mai rigorosa, si fanno confronti con altri casi, e così via. Il punto però non è stabilire che è successo qualcosa di eccezionale, ma usare questa informazione nel modo migliore in vista del passo successivo, perché se davvero risultasse che la guarigione ha a che fare con le preghiere a Madre Seaton, allora varrebbe la pena di riesumarne il corpo (l’hanno fatto) e raccogliere le ossa per strofinarvi sopra nastri da appuntare ai lenzuoli di altri malati.
Ora mi occuperò di un altro principio, o concetto, cioè che non ha senso calcolare la probabilità di un evento dopo che è già avvenuto. Perfino molti scienziati non l’hanno ben chiaro. In effetti, la prima volta che ebbi una discussione su questo fu quando ero studente di dottorato a Princeton, e c’era un tizio al dipartimento di psicologia che faceva correre i topi. C’era un percorso fatto a T: i topi corrono, e arrivati in fondo vanno a destra o a sinistra, una cosa di questo tipo. Il ricercatore aveva progettato l’esperimento in modo che avrebbe dimostrato una certa cosa se i topi fossero andati tutti a destra, diciamo, non ricordo esattamente. Naturalmente i topi potevano andare a destra per caso. Di regola in psicologia si cerca di progettare il test in modo che la probabilità di una risposta casuale sia bassa, in genere meno di uno a venti. (Il che, tra l’altro, significa che mediamente una su venti delle leggi che scoprono è sbagliata). Per arrivare a quel valore ci voleva un gran numero di prove; lui le fece, e scoprì che non funzionava. I topi andavano sia a destra che a sinistra, e quindi non riuscì a dimostrare la sua teoria. Però notò una cosa molto interessante: i topi alternavano, prima a destra, poi a sinistra, poi a destra, poi a sinistra, e così via. Allora arrivò trafelato nel mio ufficio e mi disse: «Calcolami la probabilità che alternino, e dimmi se è meno di uno su venti». Io risposi: «Probabilmente è molto meno, ma non vale». «Perché?». «Perché non ha senso calcolare la probabilità dopo l’evento. Tu hai scoperto la peculiarità, e quindi hai selezionato a priori un caso particolare».
Per esempio, questa sera è successa una cosa davvero straordinaria. Mentre venivo qui, ho visto una macchina targata ANZ 912. Potreste per favore calcolarmi la probabilità che di tutte le targhe dello Stato di Washington io vedessi proprio ANZ 912? Vedete bene che è ridicolo. Come è ridicolo quello che lui mi chiedeva di fare. Avrebbe dovuto ragionare così: il fatto che le direzioni dei topi si alternino suggerisce la possibilità che i topi per qualche ragione si comportino sempre (o spesso) così. Ma per verificare questa ipotesi, fino a esserne sicuri in misura di uno a venti, non ci si può riferire agli stessi dati che l’hanno suggerita. Bisogna fare un altro esperimento e vedere se alternano di nuovo. Lui l’ha fatto, e non ha funzionato.
Molti credono alle cose più strane per aver sentito storie in cui si parla di un singolo caso, invece di un gran numero di casi come sarebbe necessario. Si riferiscono episodi per dimostrare correlazioni tra le cose più disparate. È accaduto per davvero, se lo ricordano tutti, e «Come te lo spieghi?» ti chiedono. Anch’io mi ricordo di eventi speciali nella mia vita; vi racconterò di due esperienze personali veramente degne di nota.
La prima fu quando ero studente al MIT e vivevo in una fraternity. Stavo al piano di sopra, alle prese con un componimento di filosofia, ed ero completamente immerso nel mio lavoro, non stavo pensando ad altro, quando all’improvviso, in modo misterioso, attraversò la mia mente il pensiero: «La nonna è morta». Esagero, naturalmente, raccontando questo tipo di storie si fa sempre. In realtà ho avuto solo una mezza idea del genere per qualche istante, niente di trascendentale. Ora viene il bello. Subito dopo è suonato il telefono, al piano di sotto. (Me lo ricordo distintamente, e ora capirete perché). Qualcuno rispose al telefono e chiamò: «Ehi, Pete!». Io non mi chiamo Peter, era per qualcun altro. Mia nonna stava benone, e la storia è finita lì. Dovremmo registrare un bel numero di episodi così, quando si presentano, per bilanciare i pochi casi in cui invece suona il telefono e la nonna è morta davvero. Può succedere. Poteva succedere, quella volta. Non è impossibile, ma allora io da quel momento avrei dovuto credere nel miracolo che riesco a sentire nel cervello la morte di mia nonna?
Un’altra caratteristica di questi aneddoti è che non si raccontano tutte le circostanze; per questa ragione vi racconterò un’altra esperienza, meno allegra.
Quando avevo tredici o quattordici anni conobbi colei che sarebbe diventata mia moglie. L’amavo moltissimo, e ci vollero tredici anni per arrivare a sposarla. Non è la mia attuale moglie, come vedrete. Si ammalò di tubercolosi, e la malattia durò diversi anni. Quando si ammalò le regalai un orologio che invece delle lancette aveva dei grandi numeri che giravano man mano; a lei piaceva molto. Lo tenne con sé per tutto il tempo, sul comodino accanto al letto, per quattro, cinque, sei anni. Alla fine morì. Morì alle 9.22 di sera. E alle 9.22 in punto l’orologio si fermò, e non si mosse mai più. Non è incredibile? Mi ricordai però di un paio di cose. Da qualche tempo – diciamo cinque anni dopo che l’avevo acquistato – l’orologio perdeva colpi: ogni tanto lo dovevo aggiustare, e quindi gli ingranaggi erano tutti un po’ più laschi. Inoltre, essendo la stanza in penombra, l’infermiera che compilò il certificato di morte lo aveva preso in mano per guardare l’ora, e poi lo aveva riposto. Se non avessi notato questi particolari, avrei qualche problema. Bisogna stare molto attenti, in questi casi, a prender nota di tutto: a volte la spiegazione del mistero sta in un piccolo dettaglio che è passato inosservato.
Quindi, in breve, un paio di casi non dimostrano nulla. Bisogna controllare tutto con cura, altrimenti si diventa come quelli che bevono qualunque cosa e non capiscono nulla del mondo in cui viviamo. (Nessuno capisce il mondo in cui viviamo, ma alcuni se la cavano un po’ meglio). L’altra cosa importante è la «campionatura statistica», un concetto che ho implicitamente introdotto quando dicevo che gli psicologi cercano di progettare esperimenti in cui sia bassa la probabilità di risposte casuali. La statistica e la probabilità sono argomenti matematici, e quindi non mi addentrerò nei dettagli. L’idea generale è abbastanza ovvia: per sapere quante persone sono più alte di un metro e ottanta, possiamo prendere cento persone a caso, vedere che magari quaranta sono più alte, e concludere che lo stesso vale su tutta la popolazione. Sembra una cosa da nulla. Be’, lo è e non lo è. Se scegliamo le cento persone tra quelle che passano nel vano di una porta un po’ bassa, la conclusione sarà sicuramente sbagliata. Se le scegliamo in un gruppo di amici sbaglieremo di nuovo, perché magari saranno tutti localizzati in una zona. Ma se le scegliamo in modo assolutamente indipendente dalla loro statura, allora, se quaranta di loro superano il metro e ottanta, possiamo aspettarci che, su cento milioni di persone, più o meno quaranta milioni abbiano questa caratteristica. Quanto più e quanto meno si può calcolare con grande esattezza: per un errore non superiore all’un per cento dovremo prendere un campione di diecimila persone. Spesso non ci si rende conto di quanto sia difficile raggiungere una precisione elevata; diecimila tentativi per avere l’uno o il due per cento.
Gli esperti della pubblicità televisiva, nei loro sondaggi, utilizzano questo metodo. O meglio, così credono. Non è per niente facile, e la parte più difficile è scegliere il campione. Come si fa a convincere una persona normale a tenersi in casa questo aggeggio che registra quali programmi sta guardando alla televisione? Quanto è «nella media» uno che ogni quarto d’ora, al suono di un campanello, accetta di segnarsi quale programma sta ascoltando? Lo farà davvero, ogni volta? Non lo sapremo mai. Quindi dalla risposta delle mille o diecimila persone sottoposte a questo tipo di test non sembra proprio possa dedursi alcunché sui programmi preferiti dalla media della popolazione: sicuramente il campione è sballato. Chiunque faccia della statistica sa bene quanto sia cruciale la scelta di un campione attendibile. L’indagine statistica è una cosa scientificamente fondata, a patto di farla sul serio. Ad ogni modo, a giudicare da quel che va in onda, gli esperti devono essere giunti a conclusioni deprimenti sul nostro livello intellettivo: è evidente che «mediamente» siamo tutti dei cretini e l’unico modo di farci capire qualcosa è trattarci costantemente come tali. Può darsi che le cose stiano così, ma può anche darsi di no, e in questo caso si tratta di un errore pericoloso. Mi sembra una questione di grande responsabilità cercare di chiarirsi le idee su come valutare la risposta della gente ai diversi tipi di pubblicità.
Come dicevo, io conosco un mucchio di persone, persone normalissime ma nient’affatto stupide; e penso che spesso si faccia torto alla loro intelligenza. Accendete la radio: se avete un briciolo di spirito, diventerete matti. La gente trova modo di non ascoltarla, io non l’ho ancora imparato. Quindi per preparare questa conferenza ho acceso la radio per tre minuti, e ho ascoltato due cose.
Prima ho sentito della musica indiana, musica degli indiani Navajo, del New Mexico. L’ho riconosciuta perché l’avevo già ascoltata, a Gallup, e mi era piaciuta moltissimo. Vi risparmierò un’imitazione del canto di guerra, anche se mi piacerebbe molto farla, e sono veramente tentato. È una musica interessante, con radici profonde nella loro religione; è qualcosa di serio e degno di rispetto, per loro. Onestamente vi dirò che ero molto contento di sentire che alla radio c’era qualcosa di interessante, di culturale. Mi piaceva, era buona musica. Ma sul più bello s’interrompe, e una voce fa: «Siamo sul sentiero di guerra contro gli incidenti automobilistici». E continua dicendo quanto sia importante essere prudenti sulla strada. Questo non è solo un insulto all’intelligenza: è un insulto ai Navajo, alla loro religione e filosofia. Continuando ad ascoltare ho appreso che c’è una certa bibita, credo si chiami Pepsi-Cola, per chi «pensa giovane». Quindi mi sono detto: «Va bene, basta così, adesso ci rifletto un po’». Prima di tutto, mi sembra una follia: cos’è uno che «pensa giovane»? Immagino sia una persona a cui piacciono le cose che piacciono ai giovani. D’accordo, accettiamo per un momento questo fatto. Quindi c’è una bibita per persone così. Immagino che chi lavora nel settore ricerca della Pepsi-Cola decida la formula in questo modo: «Be’, avevamo una bibita qualunque, ma dobbiamo aggiustarla, non per gente qualunque, ma per gente che pensa giovane. Più zucchero». L’idea stessa che una bibita sia espressamente progettata per chi pensa giovane è un’assurdità totale.
Il risultato di tutto questo è che noi, e la nostra intelligenza, veniamo insultati in continuazione. E io ho un piano di battaglia. (Le idee del resto non mancano, e anche la Federal Trade Commission4 sta cercando di prendere provvedimenti). Affittiamo per un mese ventisei cartelloni pubblicitari a Seattle, di cui magari diciotto luminosi, con sopra scritto: «Vi trattano da scemi? Non comprate quel prodotto». Poi potremmo acquistare degli spazi pubblicitari alla radio o alla televisione, di modo che nel bel mezzo di un programma viene fuori uno e dice: «Scusate l’interruzione. Se trovaste troppo imbecille o fastidiosa la pubblicità di un certo prodotto, vi consiglieremmo di non procedere all’acquisto», e le cose si aggiusteranno in men che non si dica. Grazie.
Questo mi sembra un buon test per misurare l’intelligenza dello spettatore televisivo medio, un po’ costoso, forse, ma sarebbe sicuramente un metodo veloce per risolvere questa interessante questione. Mi direte: «Non è poi così importante. I pubblicitari devono pur spingere il prodotto». D’altra parte, l’idea che il cittadino medio sia poco intelligente è rischiosa. Anche se fosse vero, sarebbe una faccenda da trattare con ben altra cautela.
Per esempio, non pochi giornalisti e commentatori televisivi partono dal presupposto che il pubblico non sia alla loro altezza, e che se qualcosa risulta loro oscuro nessuno lo capisca. È ridicolo. Non dico che siano più stupidi della media, ma sicuramente in qualche campo ci saranno persone nel pubblico che ne sanno più di loro. Se mi capita di dover illustrare un concetto scientifico a un giornalista, userò parole semplicissime, come farei con il mio vicino di casa. Lui ancora non capisce – è possibile, perché ha un retroterra culturale diverso, non sa aggiustare la lavatrice, non sa cos’è un motore, in altre parole non ha esperienze tecniche. Ma al mondo ci sono migliaia di ingegneri. Ci sono un mucchio di persone portate per la meccanica e la tecnica. E un mucchio di persone con una mente più scientifica del giornalista. Quel signore quindi ha il dovere di riportare fedelmente, parola per parola, quel che dico io – che l’abbia capito oppure no – così come accade in economia o in molti altri campi. In generale, quando l’intervistatore si rende conto di non capir bene come funziona il commercio internazionale, si limita a riferire quello che l’esperto gli ha detto, più o meno fedelmente. Ma quando tocca a me, quando si parla di scienza, allora, per qualche ragione, si sente autorizzato a mettermi una mano sulla spalla e spiegare al povero scemo (io) che i poveri scemi là fuori non capiranno niente, perché il povero scemo che è lui non ci ha capito niente. Ma io so che là fuori ci sono persone in grado di capire. Non tutti, leggendo un giornale, devono per forza capire ogni singolo articolo. Alcuni non si interessano di scienza, altri sì, e perlomeno questi ultimi avrebbero diritto a capire di cosa si tratta, invece di doversi sorbire idiozie come: «Un proiettile atomico è stato sparato da una macchina di sette tonnellate». Io non riesco a leggere il giornale, non capisco mai di che cosa stanno parlando. Una macchina di sette tonnellate! Cosa sarà mai. E a tutt’oggi ci sono sessantadue tipi diversi di particelle, e io vorrei tanto sapere a quale «proiettile atomico» si riferiscono.
Questa faccenda della campionatura statistica e del suo uso per determinare le caratteristiche di una popolazione è molto seria, perché questo metodo viene usato di continuo, e bisognerebbe stare molto attenti. Si usa per selezionare il personale (facendo dei test), nella consulenza matrimoniale, e in mille altre applicazioni. Si usa anche per le prove di ammissione all’università, in un modo che a me non piace affatto, ma non vi esporrò le mie ragioni ora. Le tengo per quelli che decidono chi ammettere al Caltech; parlo con loro, poi torno qui e vi dico qualcosa. Comunque la cosa più grave, al di là del problema della campionatura, è che in pratica, ai fini della selezione, si considerano solo caratteristiche misurabili. Lo spirito di una persona, il suo atteggiamento verso la vita, difficilmente lo sono; e a ciò si supplisce, in genere, con il colloquio personale, ed è una buona cosa. Ma è molto più facile fare un maggior numero di test che perdere tempo con i colloqui, e il risultato è che le uniche qualità che contano sono quelle che si possono misurare, o che si crede si possano misurare. E così molte caratteristiche interessanti non vengono mai prese in considerazione e molti buoni studenti vengono scartati. Perciò il sistema è pericoloso, e bisognerebbe pensarci seriamente.
Quanto ai test matrimoniali, tipo «Quanto andate d’accordo con vostro marito?», che si trovano anche sulle riviste, dal punto di vista statistico sono delle stupidaggini. Ti dicono: «Sperimentato su mille coppie di coniugi», e poi fanno una serie di domande, del tipo «Gli portate la colazione a letto?»: uno confronta le proprie risposte con quelle delle mille coppie campione e capisce fino a che punto il suo è un matrimonio riuscito. In pratica la cosa funziona così. Si butta giù un questionario, lo si dà a mille coppie e si registrano le risposte. Per stabilire se sono felicemente sposate o meno si usa un metodo indipendente, per esempio glielo si chiede (ma in realtà non fa differenza; supponiamo pure che il test sia perfetto e si riesca veramente a stabilire chi è felice e chi no nell’insieme delle coppie, non è questo il problema). Poi si guardano i questionari delle coppie felicemente sposate – come hanno risposto a questo, come hanno risposto a quello, e a proposito, gliela porta la colazione a letto?, e così via – e si assegnano punteggi alti alle loro risposte. Dopodiché si passa alle coppie un po’ meno felici, poi a quelle con un matrimonio così così, e via di seguito fino alle coppie infelicissime, che ovviamente avranno punteggi minimali. Vedete bene che questo ragionamento è lo stesso dei topi che alternavano andando una volta a destra e una a sinistra. Non si può, ragionando a posteriori su un solo esperimento, asserire che c’è una correlazione statistica tra il grado di felicità e i punteggi più o meno alti ottenuti dalle coppie. Per essere onesti, bisognerebbe fare così: ora che è stato progettato un test, e c’è un metodo per assegnare i punti a ogni domanda (così che nel campione i matrimoni riusciti hanno punteggi alti e quelli meno riusciti bassi), bisogna rifare il test su altre mille coppie, e vedere se quelle felici ottengono punteggi alti oppure no, e solo allora sapremo se il test funziona. La ragione per cui nessuno fa questo «test del test» è, primo: perché ci vuole troppo tempo, e secondo: perché le poche volte che ci hanno provato si è visto che il test non funzionava.
Se guardiamo da vicino tutti gli innumerevoli atteggiamenti non scientifici, che ci procurano tanti guai, vedremo che molto spesso non hanno niente a che fare con incapacità di ragionamento, ma sono dovuti a semplice ignoranza, alla mancanza di informazione. In particolare, consideriamo i cultori dell’astrologia, che credo siano ben rappresentati anche questa sera tra il pubblico. Gli astrologi sostengono che ci sono giorni in cui è meglio non prendere l’aereo, se si è nati in un dato giorno a una data ora. È tutto calcolato molto accuratamente in base alla posizione delle stelle. Se fosse vero sarebbe molto interessante: le compagnie di assicurazione, per esempio, potrebbero diminuire il premio sulla vita per chi dimostrasse di attenersi alle prescrizioni degli astrologi, perché rischierebbe di meno. Ma gli astrologi non hanno mai fatto un esperimento per accertare se veramente le persone che volano nei giorni sconsigliati rischiano di più, e neppure si è mai stabilito quale giorno sia migliore di un altro per concludere un affare. Che cosa se ne deduce?
Certo, gli astrologi potrebbero avere ragione, ma d’altra parte ci sono moltissimi dati a indicare che non è vero affatto. Abbiamo accumulato conoscenza su come funzionano le cose, le persone, il mondo, le stelle; sappiamo cosa sono quelle stelle e quei pianeti, sappiamo come e perché si muovono, e sappiamo anche quale sarà la loro posizione nei prossimi duemila anni. Gli astrologi non devono nemmeno alzare gli occhi al cielo per scoprirlo. Inoltre, basta guardare a ciò che scrivono, per vedere che non sono nemmeno d’accordo tra loro. Cosa possiamo concludere, quindi? Che non è vero. Non c’è alcuna prova a favore dell’astrologia, è una cosa completamente priva di senso. L’unica ragione per cui qualcuno ci crede è una generale ignoranza sulle stelle, sul mondo, e su come funziona tutto il resto. Se le influenze astrali fossero fenomeni reali sarebbe una cosa notevolissima, in contrasto con tutto quanto si conosce; ma, a meno che i signori astrologi non ce lo dimostrino con un esperimento serio, mettendo a confronto persone che seguono le loro indicazioni e persone che non le seguono, e così via, non c’è alcuna ragione di starli a sentire. Fra l’altro, anticamente esperimenti di questo tipo si sono fatti, è una storia interessantissima. Ho scoperto che due secoli fa – più o meno ai tempi della scoperta dell’ossigeno,5 per darvi un’idea – si era tentato di stabilire se persone come i missionari, persone buone, che pregano molto, rimanessero coinvolte in naufragi e in disastri con maggiore o minore frequenza di altri. Quando una nave diretta oltreoceano colava a picco, si controllava se i missionari a bordo annegavano o si salvavano in percentuale maggiore delle altre persone. (Sembra stupido, lo so, ma è solo perché avete paura di andare a controllare). Si è visto che non c’era alcuna differenza, e quindi oggi molti non credono che essere una persona buona, o pregare molto, diminuisca le probabilità di una disgrazia.
Se accendete la radio – non so come sia qui a Seattle, ma in California è così – sentirete ogni sorta di guaritori vantare l’effetto miracoloso delle preghiere. Li ho visti anche in televisione. È snervante, credetemi, tentare di spiegare perché sono tutte stupidaggini. Se fosse vero, se avessero ragione, non sarebbe difficile stabilirlo, e non basandosi su pochi aneddoti, ma con controlli accurati, usando gli stessi metodi clinici che servono a valutare l’efficacia di tutte le terapie. Il fatto è che se uno crede che le preghiere lo guariranno, tenderà a evitare le altre cure. Magari andrà dal dottore solo in un secondo tempo. Sicuramente c’è chi, per motivi religiosi, l’ha fatto troppo tardi. Alla fin fine credere nell’efficacia terapeutica della preghiera potrebbe non essere una cosa così buona. È possibile anzi che sia pericoloso, e questa non è una banalità, non è come l’astrologia, che dopotutto non fa molti danni nella vita delle persone (è solo una seccatura dover fare certe cose in certi giorni, ma è tutto lì). Credere che Cristo possa guarirci dal cancro potrebbe essere molto pericoloso, e a questo punto io vorrei sapere con certezza se è vero o no; ci vorrebbe un’indagine seria, perché tutti hanno il diritto di sapere se questa fede ha globalmente fatto più male che bene. Non dovrebbe essere semplicemente lasciato a ognuno come un problema di coscienza, senza dati certi.
Nelle trasmissioni radiofoniche si dà largo spazio non solo ai guaritori, ma anche a predicatori che usano la Bibbia per fare ogni sorta di previsioni. L’altro giorno c’era un tipo che aveva incontrato Dio in sogno, e Lui gli aveva detto cose bellissime sulla sua congregazione, e altre cose del genere. Un’epoca scientifica, la nostra? Ma con questo qua non saprei proprio cosa fare, non saprei che ragionamento seguire per dimostrarvi immediatamente che è matto da legare. Penso che tutto ciò abbia semplicemente a che fare con una diffusa mancanza di comprensione di quanto è complesso il mondo che ci circonda. Ma non posso dimostrare che sono stupidaggini, a meno di indagare più approfonditamente. Forse un modo sarebbe di chiedere sempre, a questi signori: «Come fa a esserne sicuro? Guardi che forse si sbaglia». Cercate di ricordarvene, così magari eviterete di mandar loro troppi soldi.
Al mondo, naturalmente, ci sono tutta una serie di fenomeni che non si riescono a estirpare, e sono semplicemente il risultato della stupidità generale. Tutti facciamo cose stupide, alcuni più di altri, e il punto non è certo scoprire chi ne faccia di più. Lo Stato tenta di fare leggi per proteggerci dalla stupidità, ma non funzionano al cento per cento.
Per esempio, qualche tempo fa sono andato a visitare uno di quei siti nel deserto in cui si vendono appezzamenti di terra. Sapete come funziona: gli agenti immobiliari vi raccontano che proprio lì verrà costruita una città modernissima, una cosa esaltante, non potete lasciarvi scappare questa opportunità. Immaginatevi in mezzo al deserto, in un posto dove non c’è assolutamente niente, eccetto delle bandierine che segnano i vari lotti di terra e cartelli con i nomi delle strade. Con la macchina raggiungete la quarta strada, dove c’è il lotto 369, il vostro. E poi state lì, a dar calci alle pietre in mezzo a questo quadrato di deserto, mentre l’agente immobiliare vi spiega quanto sia vantaggioso assicurarsi un lotto d’angolo, e come sarà comodo il vialetto d’accesso perché così potrete portar dentro la macchina da quella parte. Peggio ancora, credeteci o no, vi scoprite a discutere della spiaggia privata che ci sarà proprio lì, sull’oceano, quale sarà il regolamento e quanti amici potrete portare. Vi giuro, io mi sono ritrovato in questa situazione.
E quando viene il momento di metter mano al portafoglio, allora scoprite che lo Stato ha fatto qualcosa per aiutarvi, per salvarvi dalla vostra stupidità. L’agente vi mostra un dépliant con una descrizione dettagliata della proprietà, e vi dice che è la legge, che per legge deve farvelo vedere, e mentre lo scorrete vi dice che è solo una formalità, che è un affare immobiliare del tutto simile ad altri conclusi in California e bla, bla, bla. Fra le altre cose, sul pieghevole c’era scritto che nella nuova città si prevedono circa cinquantamila abitanti, ma ci sarà acqua solo per... – non me lo ricordo esattamente e preferisco non sbilanciarmi, non voglio rischiare una denuncia, ma comunque un numero molto inferiore, diciamo intorno ai cinquemila. Quindi l’agente si affretta a spiegare che hanno appena trovato acqua in un altro posto più lontano, e la porteranno lì sicuramente con un sistema di pompe. E quando gli ho chiesto precisazioni in proposito, mi ha spiegato, gentilissimo, che era cosa di pochi giorni prima, e quindi non avevano avuto tempo di scriverlo sul dépliant. Humm, sarà.
Vi farò un altro esempio. Ero ad Atlantic City, e sono entrato in uno di quei... bah, diciamo un negozio. C’era della gente seduta, intenta ad ascoltare un uomo che faceva un discorso molto interessante. Sapeva tutto del cibo, parlava di nutrizione e altri argomenti correlati; ricordo alcune frasi memorabili, tipo «Nemmeno i vermi mangiano la farina bianca», cose del genere. Era interessante, e sembrava tutto vero; magari non è vera la storia dei vermi, ma le cose in generale sulle proteine e la salute e la nutrizione sembravano molto sensate. Poi si è messo a parlare del Federal Pure Food and Drug Act, una legge per la difesa dei consumatori, spiegando che su ogni prodotto alimentare che vanta presunte virtù terapeutiche (in cui per esempio ci sono vitamine o minerali aggiunti) deve esserci un’etichetta che specifichi gli ingredienti, le proprietà del prodotto, perché fa bene, e così via. La racconta nei dettagli più minuziosi. Io intanto mi dico: «Ma che cosa ci guadagna?», ed ecco comparire le bottiglie. Finalmente si scopre che lui vende questi speciali prodotti alimentari, che fanno benissimo alla salute, naturalmente, e stanno dentro a bottiglie marroncine. Guarda caso, mentre veniva qui era in ritardo, aveva molta fretta, e quindi non ha avuto tempo di incollare le etichette. E qui ci sono le bottiglie, e qui ci sono le etichette che dovrebbero starci sopra, ma lui ha fretta, e quindi vi vende la bottiglia e l’etichetta separatamente, e poi non potreste per favore appiccicarla voi stessi? Ci vuole una bella faccia tosta. Prima vi spiega per filo e per segno da che cosa guardarsi e da che cosa la legge cerca di proteggerci, e poi lo fa lui.
Mi viene in mente una cosa in qualche modo analoga al discorso di quel signore. Era la conferenza da me tenuta nella seconda serata, quella sull’incertezza dei valori. Ho iniziato parlando della totale assenza di una mentalità scientifica, del fatto che in realtà vi sono ben poche certezze, soprattutto in politica, e poi ho parlato del confronto tra queste due nazioni: la Russia e gli Stati Uniti. E dopo qualche parola magica e un po’ di fumo negli occhi si è scoperto che noi siamo i buoni e gli altri i cattivi. Eppure, all’inizio, non c’era modo di decidere quale sistema fosse migliore; infatti, era questo il punto centrale di tutta la conferenza. Quindi come per magia sono riuscito a far scaturire delle certezze dall’incertezza totale. Vi ho raccontato che su ogni bottiglia ci dev’essere un’etichetta, e poi vi ho venduto delle bottiglie senza etichetta. Come ci sono riuscito? Provate a pensarci un po’. Innanzitutto, se siamo nell’incertezza, c’è comunque una cosa di cui possiamo essere certi: che siamo nell’incertezza. Ma il punto non è questo. Il numero da contorsionista, in quella conferenza, il punto debole del ragionamento, su cui dobbiamo riflettere, è stato quando ho sostenuto a spada tratta e senza ombra di dubbio che è positivo essere aperti a nuove soluzioni, che l’incertezza è preziosa, che è più importante non precluderci la possibilità di scoprire nuove cose piuttosto che scegliere ora una volta per tutte. E che scegliere qualcosa – non importa in che modo – è molto peggio che aspettare e lavorarci sopra. E mentre dicevo questo sceglievo eccome, e in realtà posso solo essere incerto, su quella decisione. D’accordo. Ora la mia autorità è andata a farsi benedire.
Ci sono problemi legati principalmente alla scarsità di informazione che sono più seri, credo, dell’astrologia. Preparando questa conferenza ho studiato un fenomeno che sta avvenendo nella mia città. Al centro commerciale c’è un negozio su cui sventola una bandiera a stelle e strisce: si tratta dell’Americanism Center, di Altadena. Sono entrato per vedere di che si trattava, e mi hanno spiegato che è un’associazione di volontari. In vetrina ci sono la Costituzione degli Stati Uniti, il Bill of Rights e lo statuto dell’associazione, dove si legge che il suo scopo è difendere i diritti del cittadino, conformemente alla Costituzione e al Bill of Rights. Questa è l’idea, e il negozio ha funzioni semplicemente educative: vendono libri su vari argomenti che aiutino a essere buoni cittadini, libri di educazione civica, e hanno anche i resoconti delle sedute del Congresso, per ricercatori e studiosi. Tengono gruppi di studio serali e cose di questo tipo. Così, essendo io interessato ai diritti civili, ho chiesto se per caso avessero qualcosa sulla libertà di voto dei neri nel Sud, dicendo di non sapere molto su questo argomento. Sì, l’avevano, avevano due cose. Una riportava il punto di vista dei notabili della città di Oxford, nel Mississippi, sulla situazione locale, e l’altra era un opuscoletto con un titolo tipo «L’Associazione Nazionale per l’Avanzamento della Popolazione di Colore e i suoi Rapporti col Comunismo».
Seguì una lunga chiacchierata con la signora nel negozio: volevo capire come stavano le cose (abbiamo parlato un po’ di tutto, e, vi sembrerà strano, in modo cordiale). Mi ha spiegato che no, lei non era della Birch Society,6 ma non le sembravano poi così male. Aveva visto un film sulla Birch; perlomeno non è gente che sta a guardare, si rimboccano le maniche e cercano di fare quello che credono giusto. E poi l’iscrizione mica è obbligatoria – lo diceva anche il signor Welch –, se sei d’accordo firmi, e se no, no. (Proprio come i comunisti: va tutto bene finché non vanno al potere. Dopo la musica cambia). Ho cercato di spiegarle che non è questa la libertà di cui si parla nella Costituzione, e che in ogni organizzazione ci dev’essere democrazia, possibilità di dialogo. Che stare a guardare è un’arte, e anche molto difficile, ed è bene farlo anziché partire in tromba in una direzione o nell’altra. Ma non è meglio fare qualcosa? Nossignora, se non hai le idee chiare è meglio stare a guardare.
Allora ho comprato un paio di libri a caso; uno è The Dan Smoot Report (mi piaceva il nome), parla della Costituzione e l’idea generale è che la Costituzione andava bene così com’era quando fu scritta la prima volta: sono tutte le modifiche aggiunte il problema. Fondamentalisti, questi, non della Bibbia, ma della Costituzione. Segue una graduatoria di «correttezza costituzionale» dei membri del Congresso, divisi in buoni e cattivi a seconda di come hanno votato su varie questioni, e dice espressamente: «Ecco i punteggi di deputati e senatori, calcolati sulla base delle posizioni pro o contro la Costituzione, espresse nelle singole votazioni». La graduatoria viene presentata non come un’opinione, ma come un fatto obiettivo: basta guardare a come hanno votato. In quest’ottica ogni votazione equivale a un pronunciamento pro o contro la Costituzione in quanto tale. L’assistenza sanitaria gratuita agli anziani, per esempio, è contro la Costituzione, e così via. Ho cercato di spiegare a quelli dell’associazione che ciò è contrario ai loro stessi princìpi, perché la Costituzione stessa dice che bisogna votare le leggi. Non dice che in base alla Costituzione si può decidere a priori se una cosa è giusta o sbagliata. Che senso avrebbe altrimenti istituire un Senato? Se bisogna votare, vuol dire che bisogna decidere di volta in volta in che direzione andare, ed è impossibile determinare a priori cosa è meglio fare. Violano i loro stessi princìpi.
Tutto nasce con le migliori intenzioni – la bontà, l’amore, Cristo – e poi la cosa va avanti da sé, si estende, finché a un bel momento non si trova un nemico di cui avere paura. E allora si dimentica l’idea originaria. Tutto viene stravolto e diventa l’opposto di ciò che era all’inizio. Sono convinto che in molti casi coloro che hanno dato vita a queste iniziative – mi riferisco in particolare alle pasionarie di Altadena – siano persone generose e in buona fede, e capiscano, magari vagamente, che la Costituzione è una cosa positiva, ma poi vengano traviate dal sistema. In che modo non mi è del tutto chiaro, così come non mi è chiaro cosa fare per impedirlo.
Comunque, sono andato a fondo di questa cosa, e ho scoperto di cosa parlano nel gruppo di studio, e se non vi dispiace ve lo racconto. Nella stanza c’erano file di sedie, ho chiesto quale fosse il motivo e mi hanno spiegato che quella sera ci sarebbe stato un gruppo di studio; mi hanno dato un volantino con il programma, e io mi sono scritto degli appunti. Aveva a che fare con la SPXRA, la SPX Research Associates, che è... be’, è un’organizzazione nata nel 1943 a seguito dell’interesse professionale di agenti dei servizi segreti delle forze armate americane per la ripresa, da parte dei sovietici, di un piano strategico da lungo tempo inutilizzato, il numero dieci, chiamato «Paralisi». Ecco il Male. Un piano strategico dimenticato in fondo a un cassetto, misterioso, terrorizzante. Le menti mistiche, gli esaltati dei comandi militari hanno piani strategici fin dai tempi delle legioni romane. Numero uno, numero due, numero tre... qui siamo al numero dieci. Vi piacerebbe sapere qual è il numero sette, eh? L’idea stessa di strategie che da tempo immemorabile giacciono inutilizzate, ma un giorno, chissà... è completamente assurda, e ancora di più lo è l’ipotesi che ci sia un piano strategico numero dieci. Comunque, di che si tratta? Perché si chiama «Paralisi»? Abbiamo ora un babau, come funziona? Quelli della SPXRA la raccontano così: siamo in presenza di un’operazione capillare di condizionamento psicologico pericolosissima, volta ad annientare, a «paralizzare», la volontà americana di resistere, ovunque la pressione sovietica abbia una speranza di successo. Agricoltura, arti, scambi culturali, scienza, istruzione, mezzi di informazione, finanza, economia, lavoro, legge, medicina, e l’esercito e la religione, le aree più a rischio.
In altre parole, ora abbiamo una scusa per sostenere che chiunque dica qualcosa su cui non siamo d’accordo è stato in realtà «paralizzato» dalla forza mistica del piano strategico numero dieci.
È una sorta di paranoia: è impossibile dimostrare che il piano strategico numero dieci non esiste. L’unico modo di uscirne è di ritrovare un certo equilibrio, una certa comprensione del mondo, tanto da capire che è sproporzionato pensare a una Corte Suprema paralizzata e diventata uno «strumento di conquista globale». Qui tutto è «paralizzato». Vedete come diventi terrorizzante: un esempio dopo l’altro, si dimostra che qualsiasi cosa è sotto l’influsso di questo potere inventato di sana pianta.
Mostriamo con un esempio che cos’è la paranoia. Una donna diventa nervosa, comincia a sospettare che il marito voglia farle del male, e un bel giorno non gli permette di rientrare in casa. Lui ovviamente cerca di entrare, e questo dimostra che le vuol fare del male. Allora il marito cerca di farle parlare da un amico; lei sa che è un amico del marito, e quindi il suo intervento ha solo il risultato di terrorizzarla ulteriormente e di accrescere il castello che si va costruendo nella sua mente, ormai vacillante. I vicini vanno da lei a consolarla, a cercare di farla ragionare, e per un po’ funziona. Ma poi l’amico del marito va a trovarli, e ora – pensa la donna – il marito verrà a sapere tutto ciò che lei pensa di lui. Oddio, cos’avevo detto di lui ai vicini? Ora la donna non si fida nemmeno dei vicini, perché il marito li può usare contro di lei. Chiama la polizia, dicendo: «Ho paura, sono chiusa in casa e qualcuno sta tentando di entrare». La polizia arriva, cercano di parlare con lei, ma non c’è nessuno che sta tentando di entrare, e quindi gli agenti se ne vanno. Allora lei si ricorda che suo marito è una persona importante in città, e aveva un amico al dipartimento di polizia, e quindi chiaramente anche la polizia fa parte del complotto. Ecco un’altra prova che il complotto esiste. Ora guarda fuori dalla finestra, e vede qualcuno che va a trovare un vicino. Di che cosa staranno parlando? Nel giardino qualcosa si muove in un cespuglio: la stanno spiando con un telescopio! (Ovviamente era un bambino che giocava). È un crescendo continuo di costruzioni una sopra l’altra, finché l’intera popolazione viene coinvolta. L’avvocato a cui si è rivolta – le viene in mente – anni fa aveva lavorato per un amico di suo marito. Il dottore che sta tentando di convincerla a ricoverarsi è ovviamente dalla parte di suo marito.
L’unico modo di venirne fuori è riuscire a riguadagnare l’equilibrio perduto, rendersi conto che è impossibile che l’intera città sia contro di lei, e che chiunque stia reggendo il gioco a quel tonto del marito. Perché mai dovrebbero fare tutte queste cose per lui? Tutti i vicini, tutti quanti in città ad aiutare il marito contro di lei. È fuori da ogni proporzione. Ma come spiegarlo a chi non ha più il senso delle proporzioni?
Lo stesso succede con questi qua: non hanno il senso delle proporzioni, e quindi credono a una cosa come il piano strategico sovietico numero dieci. L’unico modo per batterli è di usare le loro stesse armi, e dire: avete ragione. E proprio come il tizio con le bottiglie e l’etichetta, i sovietici sono molto, molto astuti e ingegnosi, ci raccontano perfino i dettagli dei loro piani strategici contro di noi. Infatti, vedete, quelli della SPXRA sono in realtà a servizio dei sovietici per aiutarli in questa storia della paralisi. Vogliono che perdiamo fiducia nella Corte Suprema, nel ministero dell’Agricoltura, negli scienziati e in tutti quelli che lavorano per il nostro benessere. E per farci perdere la fiducia nel nostro Paese si sono infiltrati nel vostro movimento – sì, proprio quello, con le bandiere e la Costituzione – e intendono paralizzarlo. La dimostrazione è nelle loro stesse parole: hanno giurato in tribunale di essere la maggiore autorità in America sul piano strategico numero dieci; se è vero, dove hanno preso le informazioni sul piano? C’è un solo posto al mondo: l’Unione Sovietica.
Questa paranoia – ma in realtà non dovrei usare questa parola, non sono uno psichiatra –, questo fenomeno, diciamo, è molto pericoloso, e ha causato estrema infelicità all’umanità intera come ai singoli individui.
Un altro esempio sono i famosi Protocolli dei savi Anziani di Sion – una falsificazione propagandistica –, presunto resoconto di sedute segrete in cui sarebbe stato elaborato un piano di dominio mondiale degli ebrei. Mezzi per realizzarlo: l’alta finanza e l’agitazione terrorista... una macchina fantastica, grandiosa. Una cosa enorme, ma non tanto che qualcuno non potesse prenderla sul serio. Molti ci hanno creduto, ed è stato uno dei cavalli di battaglia della propaganda antisemita in Europa.
Quello che io vorrei, in molti campi, è una spietata onestà – per esempio in politica – e penso che saremo tutti più liberi.
Lasciatemi dire che in generale le persone non sono oneste, nemmeno gli scienziati, e la gente invece di solito crede che lo siano, il che è ancora peggio. Nessuno è onesto. Con la parola «onesto» non intendo semplicemente una persona che non mente. Intendo uno che chiarisce l’intera situazione, che fornisce tutte le informazioni necessarie perché qualunque essere pensante possa farsi un’idea e decidere con la propria testa.
Per esempio, sugli esperimenti nucleari confesso d’essere indeciso: c’è il pro e il contro da ambo le parti. Producono radioattività, che è pericolosa, e inoltre la guerra è sicuramente una cosa da evitare. Ma se sia più probabile o meno l’esplosione di un conflitto per via dei test, io non lo so. Se prepararsi alla guerra la eviterà, o la avvicinerà, io non lo so. Non è un modo, il mio, per tenere il piede in due scarpe; in questo senso credo di poter affermare di essere onesto. Il grosso problema, ovviamente, riguarda la pericolosità delle radiazioni, in particolare sul lungo periodo. Le distruzioni e la radioattività causate da un’eventuale guerra sarebbero talmente maggiori di quelle prodotte dagli esperimenti nucleari odierni che alla lunga sarebbero l’unica cosa di cui preoccuparsi veramente. In questo senso l’ammontare di radioattività prodotta ora è trascurabile. Quanto è trascurabile, comunque? La radioattività è sempre nociva. Non è noto alcun suo effetto benefico, e quindi aumentando la sua quantità nell’atmosfera sicuramente stiamo causando dei danni. Da questo punto di vista fare esperimenti nucleari è dannoso e ogni scienziato dovrebbe sentire il diritto e il dovere di sottolineare questo fatto.
Detto questo, si tratta di fare due conti. Quanto sono nocivi i loro effetti? A occhio e croce, possiamo dimostrare che dieci milioni di persone moriranno nei prossimi duemila anni per questo. (Del resto, se io ho ancora la possibilità di avere dei figli e mi butto sotto un autobus, anche questo mio gesto ucciderà diecimila persone nei prossimi diecimila anni, facendo i conti in un certo modo). La domanda è: quanto è grande l’effetto? La prossima volta che vi capita di sentire una conferenza su questo argomento, fate una domanda precisa. Io l’ho fatto tempo fa e mi ricordo la risposta, ma non ho ricontrollato le cifre, quindi posso solo riassumervi il concetto. La domanda è: quanto incide in proporzione l’aumento di radioattività dovuto agli esperimenti nucleari rispetto alle normali variazioni della radioattività da un posto a un altro? Per esempio, i valori di fondo in una costruzione di legno e in una di mattoni sono diversi, perché il legno è meno radioattivo dei mattoni. Quella volta risultò che l’effetto degli esperimenti nucleari era meno della differenza tra i valori misurati in una costruzione di legno e in una di mattoni, e addirittura circa cento volte meno della differenza tra i valori al livello del mare e a duemila metri.
Ora, a me sembra che se vogliamo essere del tutto sinceri e davvero c’interessa proteggere la gente dalle conseguenze nocive delle radiazioni (che è quello che tanti sostengono di voler fare), allora dovremmo badare alle dosi maggiori, non a quelle minori, e dovremmo far presente, per esempio, che vivere a Denver è molto pericoloso, cento volte di più dell’inquinamento radioattivo dovuto ai test, e che quindi chi vive a Denver farebbe meglio a traslocare in una città a una minore altitudine. Adesso non spaventatevi se vivete a Denver: è solo per farvi capire che l’effetto delle esplosioni è piccolo, e non fa molta differenza. Perlomeno questo è quello che mi ricordo, non sono sicurissimo, e quindi vi dico: chiedete informazioni, sollevate la questione la prossima volta che vi capita l’occasione, così saprete se c’è più d’aver paura degli esperimenti nucleari o di entrare in un edificio in muratura. Ci sono molte buone ragioni per invocare la sospensione dei test, ragioni politiche che ciascuno può ritenere molto importanti, ma questo è un altro problema.
Nell’attuale situazione l’attività scientifica è sempre più spesso subordinata a interessi politici, e le conseguenze si vedono: la corruzione dilaga e non c’è abbastanza trasparenza. In particolare sulle imprese spaziali non si dicono le cose come stanno. Per fare un esempio, consideriamo il lancio del Mariner 2 alla volta di Venere.7 Il solo fatto che l’uomo sia riuscito a mandare un oggetto alla distanza di 60 milioni di chilometri, un pezzetto della Terra finalmente fuori dalla Terra, è tremendamente esaltante, è meraviglioso. E che sia arrivato a riprendere Venere da appena 35.000 chilometri, dandoci la possibilità di studiarlo, da così lontano, a distanza ravvicinata! Faccio fatica a dirvi quanto sia eccitante e interessante tutto questo, e comunque ho già parlato più a lungo del dovuto.
La storia del viaggio è ugualmente avventurosa: l’avaria improvvisa, il fatto che dalla Terra hanno dovuto spegnere tutti gli strumenti a bordo perché le batterie si stavano scaricando, ma poi sono riusciti a riaccenderli. Il problema del surriscaldamento, e poi un dispositivo dopo l’altro che smetteva di funzionare per poi riprendere: tutti gli imprevisti dell’avventura. Un po’ come mandare Colombo o Magellano intorno al mondo: c’erano ammutinamenti, peripezie di ogni sorta, naufragi, tutto ciò che rende la storia emozionante. Per esempio, quando ci fu l’inconveniente del surriscaldamento, sui giornali si leggeva: «La temperatura sale e questo insegna molte cose». Balle! Come sa persino uno studente alle prime armi, non stavamo imparando un bel nulla. Abbiamo i nostri satelliti in orbita attorno alla Terra, e sappiamo esattamente quanta radiazione solare ricevono. Quanta ne riceverà un oggetto vicino a Venere? C’è una legge precisissima, ben conosciuta, l’inverso del quadrato della distanza: più ci si avvicina al Sole, più luce (e calore) si riceve. È facile. E bastano due calcoli per capire quanta superficie dipingere di bianco e quanta di nero perché la temperatura rimanga al giusto livello.
L’unica cosa che abbiamo imparato in questa storia del surriscaldamento è che tutta l’impresa è stata preparata in gran fretta: a quanto pare all’ultimo minuto erano state fatte delle modifiche; come conseguenza si è sviluppata più energia all’interno e la temperatura è aumentata più di quanto avessero previsto i progettisti. Tutte informazioni non scientifiche. Abbiamo imparato che bisogna stare un po’ più attenti, che queste cose non dovrebbero essere fatte così di corsa, cambiando idea all’ultimo momento. Ad ogni modo per qualche miracolo tutto è filato liscio, una volta che il Mariner è arrivato laggiù. Avrebbe dovuto fare una serie di passaggi sopra il pianeta, effettuando riprese all’infrarosso: ventun passaggi, per la precisione. Ne ha fatti tre. Ed è un miracolo che sia riuscito a farne tre, è un grande successo. Colombo era partito per cercare oro e spezie, è tornato senza oro e con pochissime spezie. Ma è stato un grande momento per l’umanità, molto importante. Il Mariner era partito per raccogliere importanti conoscenze scientifiche, è tornato a mani vuote. Proprio così: non ha scoperto niente di importante (quasi niente, mi correggerò tra un minuto). E nonostante ciò è stata un’esperienza bellissima ed emozionante, e nel futuro sicuramente qualcosa di buono ne uscirà. Intanto la stampa dava notizia di un’importante scoperta del Mariner: sotto la coltre di nuvole, la temperatura del pianeta Venere è di circa 450 gradi centigradi. Quello lo sapevamo già. Ed è stato confermato proprio in questi giorni, grazie al telescopio di monte Palomar, con misurazioni da qui, dalla Terra. Come siamo furbi. Abbiamo mandato una sonda fino là per scoprire quello che potevamo avere da qui. Un mio amico ha nel suo ufficio una bellissima mappa di Venere, con le diverse temperature nei diversi punti, le isoterme e tutti i dettagli, fatta qui, sulla Terra. Non tre patacche fumose in cui non si capisce niente. L’unica vera informazione ottenuta è che Venere, al contrario della Terra, non ha campo magnetico, e questo, da qui, non lo potevamo scoprire.
Nel corso di quel viaggio il Mariner ha comunque scoperto una quantità di cose interessanti sullo spazio tra noi e Venere. Però, vedete, se una navicella spaziale non deve proprio arrivare al pianeta, non c’è bisogno di mettere un sistema frenante, i razzi per farla rallentare e cose del genere. Si lancia, e basta. Quindi si possono mettere all’interno più strumenti, strumenti migliori, progettati in modo più accurato; per scoprire che cosa c’è in mezzo, non c’è bisogno di mettere in piedi tutta questa baraonda per arrivare fino a Venere. Le informazioni più importanti erano sullo spazio vuoto, e quindi, per favore, se vogliamo saperne di più, evitiamo di complicarci la vita e mandiamo su un’altra navicella che non debba arrivare vicino al pianeta!
E poi c’è il programma Ranger.8 Mi sento male quando leggo sul giornale che per cinque volte di fila qualcosa non ha funzionato. E dicono anche che ogni volta «impariamo qualcosa», e intanto il programma non va avanti. Ah, sì, impariamo davvero molto. Impariamo che qualcuno si è dimenticato di chiudere una valvola, che qualcun altro ha fatto entrare della sabbia nella strumentazione... Sì, certo, si scopre anche qualcosa di utile, ma il più delle volte impariamo solo che c’è qualcosa che non va nella nostra industria, nei nostri ingegneri e scienziati, e che una tale catena di insuccessi non ha alcuna spiegazione plausibile. Non è necessario fallire a ripetizione, per quanto ne so io. C’è allora qualcosa che non va nell’organizzazione, nell’uso, nella progettazione, o nella costruzione di questi strumenti. E sarebbe bene scoprirlo, invece di dire sempre che stiamo imparando qualcosa!
Tra l’altro, la gente mi chiede: «Perché mai dovremmo andare sulla Luna?». Perché è una grande avventura scientifica, e tra le altre cose contribuisce al progresso tecnologico. Bisogna costruire tutti gli strumenti necessari, razzi e cose del genere, e la tecnologia è fondamentale. Inoltre gli scienziati sono più contenti, e se gli scienziati sono contenti lavoreranno più volentieri a qualcosa di utile per la difesa del Paese. Bisogna inoltre considerare la possibilità di un uso militare dello spazio. Non so ancora di che tipo, nessuno lo sa, ma in futuro si potrebbe scoprire. In ogni modo, continuando a sviluppare gli aspetti militari del volo sulla Luna, riusciremo forse a impedire ai russi di usare militarmente lo spazio in modi che oggi non possiamo neppure immaginare. Poi ci sono i vantaggi militari indiretti. Cioè, se costruiamo razzi più grandi e potenti, potremo usarli per andare più velocemente in qualche parte della Terra, invece di andare sulla Luna. C’è poi una ragione politica, d’immagine. Diciamolo, abbiamo perso un po’ la faccia nel lasciare che gli altri ci superassero tecnologicamente, ed è un bene riuscire a riguadagnare prestigio. Nessuna di queste ragioni, da sola, giustificherebbe il viaggio sulla Luna, ma io credo che tutte insieme, più altre che ora non mi vengono in mente, potrebbero bastare.
Bene, ce l’ho fatta!
C’è un’altra cosa di cui vorrei parlare, ed è: com’è che vengono le idee? Di solito sono frutto di analogie, ma a volte questo sistema porta a errori madornali. È divertente guardare alle epoche passate, a un’età prescientifica, considerare una certa cosa, e cercare l’analogo nella nostra epoca. Prendiamo la medicina. Una volta c’erano gli stregoni. Lo stregone dice di saper curare le malattie: ci sono spiriti dentro al corpo del malato che premono per uscire, bisogna aiutarli soffiandoli via, cose di questo genere. Mettetevi addosso una pelle di serpente e prendete del chinino estratto dalla corteccia di un albero. Il chinino funziona. Non per il motivo che crede lo stregone: la sua teoria non sta in piedi. Però funziona, e se io sono malato, e faccio parte di quella tribù, vado dallo stregone, perché ne sa più di chiunque altro. Però continuerò a dirgli che in fondo lui non sa cosa sta facendo, e che arriverà un giorno in cui l’uomo indagherà liberamente su queste cose e farà piazza pulita di tutta questa messa in scena, e ci cureremo molto meglio. E chi sono oggi gli stregoni? Psicoanalisti e psichiatri, ovviamente. Se guardate a quante teorie complicate sono riusciti a tirar fuori in un tempo infinitesimo, e fate il confronto con qualunque altra scienza, quanto è lungo il processo che conduce a mettere in fila un’idea nuova dietro l’altra, se considerate tutto questo gran castello, e le pulsioni, le inibizioni, l’Io e l’Es, e le forze, le tensioni, vi renderete conto che non può essere tutto vero. Sarebbe troppo perché una sola mente (o poche menti) ci potesse arrivare in così breve tempo. Tuttavia, vi ricordo che se fate parte della tribù non c’è nessun altro a cui rivolgersi, c’è solo lo stregone.
Ora ci divertiamo un po’, e mi rivolgo specialmente agli studenti qui in sala. Stavo pensando, vedete, a quegli studiosi arabi che nel Medioevo si occupavano di scienza. Un po’, certo, ne facevano anche loro, ma più che altro scrivevano opere erudite sui grandi che li avevano preceduti. Scrivevano il commento, e il commento del commento, e commentavano quello che ognuno aveva detto di ogni altro. Un’ossessione. Io penso che si tratti di una sorta di malattia dell’intelletto: tutto l’interesse è concentrato sulla tradizione, in base al principio che comunque quel che si è fatto in passato è superiore a qualunque cosa si possa fare oggi. Non toccate nulla, va bene così! Guai a creare, o anche solo a immaginare alcunché di nuovo. Ai ragazzi dico: ecco i vostri professori di lettere. Anche loro immersi nella tradizione fino al collo e amanti del commento erudito. Naturalmente insegnano anche la lingua inglese, ed è qui che l’analogia non regge più.
Ma proseguendo con l’analogia, vediamo che se questi professori fossero un po’ meno parrucconi, e avessero una visione più illuminata del mondo, potrebbero occuparsi di un sacco di cose interessanti. Che ne so, quante parti del discorso esistono? Se ne potrebbe magari inventare una nuova? Apriti cielo!
D’accordo, allora pensiamo al vocabolario. Ci sono troppe parole? No, no, abbiamo bisogno di tante parole, per esprimere le idee. Ce ne sono troppo poche? Neppure. Guarda caso, l’evoluzione della lingua ha prodotto proprio la combinazione di parole che ci servono. Consideriamo la questione a un livello elementare; quante volte sentite qualcuno chiedersi: «Perché Johnny non sa leggere?». La risposta è: «A causa dell’ortografia». I fenici, tre o quattromila anni fa, più o meno, riuscirono a inventare un sistema per descrivere i suoni della loro lingua. Era molto semplice: a ogni suono corrispondeva un simbolo, e viceversa. Un’invenzione meravigliosa. Da allora è passata molta acqua sotto i ponti, e nella lingua inglese il sistema si è guastato. Perché allora non cambiamo l’ortografia? E chi altri dovrebbe farlo, se non quelli che insegnano la lingua? Se il collega di inglese viene da me e si lamenta: «Arrivano all’università e con tutti quegli anni di scuola non sanno neppure come si scrive la parola friend!», io gli dico che allora c’è qualcosa di storto nel modo in cui scriviamo la parola friend.
Si potrebbe sostenere, volendo, che è anche una questione di stile, di eleganza, che non possiamo stravolgere la nostra lingua senza imbruttirla irreparabilmente. Nego che l’ortografia delle parole abbia a che fare con lo stile. Non esiste forma d’arte, o letteraria, con la sola eccezione dei cruciverba, in cui l’ortografia possa minimamente influenzare alcunché. E comunque anche i cruciverba si potrebbero fare con parole scritte diversamente. Potremmo quindi dare ai professori di lettere un compito: inventate una nuova ortografia delle parole, e, per favore, non inventatene due o tre, ma una sola, su cui tutti siano d’accordo. Aspettiamo due o tre anni e, se non succede niente, chiederemo ai filologi e ai linguisti di farlo, perché ne sono capaci. Sapevate che hanno un alfabeto per scrivere qualunque lingua in modo da poter leggere e riprodurre i suoni giusti? Si chiama «alfabeto fonetico». Incredibile, no? Quindi non dovrebbe essere troppo difficile fare una cosa del genere solo per l’inglese.
Un’altra cosa vorrei chiedere di fare, ai nostri cari professori. Tutto questo discorso dimostra, fra l’altro, quanto siano infide le analogie. Lascio a chi v’insegna la lingua il compito di mostrare gli errori del ragionamento analogico.
Per tornare alla domanda iniziale: «È un’epoca scientifica, la nostra?», vorrei sottolineare che ci sono molte cose positive, ambiti in cui il ragionamento di tipo scientifico funziona, e ha consentito un considerevole progresso; anche se finora sono andato a caccia dei casi negativi. Sappiate che sono sensibile agli aspetti positivi (e anche al fatto che ormai è tardi, ho parlato troppo, e quindi li elencherò solamente. Peccato, vorrei aver avuto più tempo). In molti casi, dicevo, il metodo scientifico, o anche il semplice buon senso, unito al duro lavoro, ha dato ottimi risultati.
Per esempio, c’è un sistema assai efficace per la regolazione del traffico urbano, con modelli che simulano la situazione delle diverse città. Le indagini giudiziarie utilizzano conoscenze scientifiche al più alto livello per raccogliere le prove, valutarle, studiare le reazioni del soggetto.
Ma il progresso dell’umanità non è fatto solo di novità tecnologiche, bisogna considerare anche tutte le importantissime invenzioni non tecnologiche. Pensiamo, in economia, agli assegni, o al sistema bancario, cose così; o agli accordi internazionali nel campo della finanza: sono tutte invenzioni meravigliose, assolutamente essenziali e rappresentano un grande progresso. Come lo sono i sistemi di contabilità aziendale. La contabilità di una grande azienda è un problema risolto in modo scientifico – be’, magari non scientifico, ma sicuramente razionale. Gradualmente abbiamo dato vita a un sistema di leggi, con giudici e giurie, e benché qui ci siano, ovviamente, molti difetti e carenze, su cui bisogna continuare a lavorare, è un risultato ammirevole. Così come per il sistema di governo che si è evoluto durante i secoli. Molti problemi vengono risolti in altri Paesi in modi che a volte ci ripugnano. Uno, in particolare, mi dà da pensare. E riguarda il controllo del potere reale, in particolare della forza militare, una necessità vitale per qualsiasi governo. Molti guai si sono avuti perché i militari erano insofferenti del potere politico, e tentavano di prenderne il controllo; come nell’Impero romano, dove i pretoriani tenevano praticamente in ostaggio il Senato, e questo problema sembrava insolubile. Da noi, per fortuna, questo pericolo non esiste, perché i militari obbediscono a un codice di autodisciplina che impedisce loro di interferire direttamente nelle decisioni politiche. È meraviglioso che il debole riesca a controllare il forte, vero? La gente ride di quei tromboni, li prende in giro in continuazione. Eppure, con tutti i rospi che li abbiamo costretti a ingoiare, noi civili abbiamo ancora il controllo sui militari! Io credo che la lealtà delle forze armate verso le istituzioni, il fatto che sappiano qual è il loro posto, sia un valore importantissimo, una delle grandi eredità del nostro Paese. E non mi sembra saggio continuare a metterli sotto pressione, perché potrebbero perdere la pazienza. Non fraintendetemi: hanno le loro pecche, come chiunque altro. Basta guardare come funziona, in certi casi, la giustizia militare per rendersi conto di cosa succederebbe se fossero loro a prendere il potere.
Guardando al futuro, dovrei parlare degli sviluppi della meccanica, delle nuove opportunità che emergeranno quando si riuscirà ad arrivare alla fusione nucleare controllata, che ci fornirà energia a costo zero, o quasi. E nel futuro più immediato ci saranno problemi diversi da tutti quelli affrontati finora, creati dal progredire della biologia. (Se volete farvene un’idea leggete Il mondo nuovo di Aldous Huxley).
Nel futuro riesco anche a vedere degli sviluppi positivi: in effetti molte cose stanno andando nella giusta direzione. Prima di tutto, grazie ai mezzi di comunicazione le diverse nazioni si parlano, anche se a volte cercano di chiudere le orecchie. E quindi le idee circolano, e diventa molto difficile tenerle fuori della porta. Spero proprio che la difficoltà che oggi hanno i russi a imbavagliare la libera voce di Nekrasov non resti un caso isolato, e che in futuro casi come questo si moltiplichino.
Un altro punto su cui vorrei aggiungere qualcosa è il seguente: come ho già detto, la scienza non è in grado di affrontare il problema dei valori morali e dei giudizi etici, un problema che non riesco nemmeno a formulare con precisione. Tuttavia, c’è una via d’uscita. Vedete bene che abbiamo bisogno di un qualche meccanismo, qualcosa come il trucchetto di fare un’osservazione e crederci, uno schema per scegliere i valori morali. Ai tempi di Galileo ci furono grandi discussioni su che cosa fa cadere un corpo, si parlava di forze, tensioni, impulsi, e così via. La grande idea di Galileo fu di ignorare tutte le discussioni e concentrarsi sui fatti, osservare se un corpo cadeva e come cadeva, e semplicemente descriverlo. Tutti dovevano essere d’accordo, su quello. E continuò in questa direzione, cioè a studiare ciò su cui tutti dovevano essere d’accordo, senza preoccuparsi dei meccanismi e della teoria sottostante, finché fu possibile. Gradualmente, accumulando esperienze, si trovano teorie più soddisfacenti che spiegano i fenomeni. Per esempio, agli albori della scienza scoppiavano accese discussioni sulla luce. Newton sperimentalmente dimostrò che un raggio di luce scomposto da un prisma nei colori dello spettro non era ulteriormente scomponibile: i fascetti monocromatici, attraversando un secondo prisma, venivano semplicemente deviati. Perché litigava con Hooke? Perché avevano teorie diverse sulla natura della luce, non certo per via del fenomeno in sé. Hooke prese due prismi, ripeté l’esperimento e osservò la stessa cosa.
Quindi la questione è se sia possibile fare qualcosa di simile (e ragionare per analogia) con i problemi morali. Anche se non concordiamo sui motivi per cui dovremmo comportarci in un certo modo, penso non sia impossibile trovarci uniti nel valutare le conseguenze, il risultato dell’azione. Tra i cristiani del quarto secolo ebbe inizio una interminabile discussione sulla questione se Gesù fosse di sostanza simile al Padre o della stessa sostanza del Padre, e si formarono due schieramenti, denominati, in greco «omoiusiani» e «omousiani». Voi ridete, ma loro prendevano la cosa tremendamente sul serio. Ingiurie, reputazioni distrutte, e persino uccisioni, perché non riuscivano a mettersi d’accordo su «simile» e «la stessa»... Oggi dovremmo riflettere su questa lezione e smettere di litigare sul perché siamo d’accordo, se siamo d’accordo.
Perciò considero l’enciclica Pacem in terris di papa Giovanni XXIII uno dei più notevoli eventi dei nostri tempi, un grande passo verso il futuro. Non riesco a trovare parole migliori per esprimere ciò in cui io credo riguardo alla morale, ai doveri e alle responsabilità dell’uomo, degli uni verso gli altri, di quelle del pontefice. Non sono d’accordo sul meccanismo che sorregge alcune delle idee, personalmente non credo che provengano da Dio, o siano conseguenza naturale e ovvia di idee di papi precedenti. Non ci credo e non ho intenzione di discutere o ridicolizzare questi aspetti. Concordo invece con la visione del papa delle responsabilità e dei doveri dell’umanità, e accolgo questa enciclica come il possibile inizio di un futuro in cui riusciremo a dimenticare le ragioni del nostro credere in qualcosa, se poi, alla fine, per quanto riguarda le cose pratiche, crediamo negli stessi princìpi.
Grazie, mi sono divertito molto.
1
Michael Faraday, A Course of Six Lectures on the Chemical History of a Candle. Delivered before a Juvenile Auditory at the Royal Institution of Great Britain during the Christmas Holidays of 1860-1, Griffin, Bohn & Co., London, 1861.
2
Viktor Platonovič Nekrasov, scrittore e giornalista ucraino, combatté a Stalingrado nell’esercito sovietico e acquistò vasta notorietà come narratore di guerra (Le trincee di Stalingrado, 1946, gli valse il premio Stalin). Le opere successive, significative espressioni della letteratura del disgelo, gli procurarono in varie occasioni critiche e risentimenti: tra esse due resoconti di viaggi (Prima conoscenza, 1960, e Di qua e di là dell’oceano, 1962), duramente attaccati perché troppo benevoli verso l’Occidente. Espulso dal Partito comunista nel 1972, Nekrasov nel 1974 emigrò in Francia.
3
Nikolaj Viktorovič Podgornyj, Primo segretario del Partito comunista ucraino nei primi anni Cinquanta, fu membro del Soviet Supremo e, dal 1965 al 1977, a capo dell’Ufficio politico.
4
Comitato di cinque membri nominati dal presidente degli Stati Uniti con l’incarico di segnalare pratiche illegali nelle attività commerciali, in particolare i casi di pubblicità ingannevole.
5
L’ossigeno fu scoperto dall’inglese Joseph Priestley nel 1774.
6
Organizzazione ultraconservatrice, dominata dall’idea del complotto mondiale comunista, fondata nel 1958 da Robert Henry Welch.
7
Il programma Mariner per l’esplorazione del sistema solare fu varato nel 1962 con il lancio del Mariner 2. La sonda giunse alla minima distanza da Venere (35.000 km) il 14 dicembre.
8
Denominazione di una serie di sonde spaziali per l’esplorazione della Luna, lanciate tra il 1961 e il 1965. I primi sei tentativi fallirono, ma i Ranger 7, 8 e 9 riuscirono a trasmettere immagini televisive ad alta risoluzione della superficie lunare fino all’istante dell’impatto.