OLOCAUSTI
Gilles Kepel
Recensione
«L’autore di queste righe è appena stato cacciato». Così scrive Gilles Kepel nel saggio “Olocausti. Israele, Gaza e lo sconvolgimento del mondo dopo il 7 ottobre”,«Mi mancavano due anni alla pensione, ma hanno deciso di mandarmi via in anticipo e chiudere la mia cattedra e sostituirla con un “master sul decolonialismo”, nel silenzio delle autorità». Siamo di fronte, quindi, ad una trasformazione del modo stesso in cui l’Occidente si pone di fronte allo studio di sé stesso. Spiega Gilles Kepel: «“Olocausti”, al plurale, è da prendere nel senso proprio dei sacrifici di vittime in massa, che musulmani palestinesi ed ebrei israeliani si sono reciprocamente inflitti durante un processo specifico che si è svolto nell’autunno del 2023. Queste atrocità avvengono tre quarti di secolo dopo la fine della Seconda guerra mondiale, nel momento in cui gli equilibri del mondo stanno cambiando in maniera decisiva, in termini demografici ed economici. Questo grande sconvolgimento è accompagnato dalla offensiva contro i paesi occidentali che controllano le principali leve internazionali. Vengono chiamati “Nord” dai loro avversari di un improbabile “Sud globale”, che sostituirebbe al vecchio confronto tra Occidente e Oriente, Nato e Patto di Varsavia – in competizione per il dominio sul “Terzo mondo” di allora – un nuovo antagonismo: il “Nord”, che si vedrebbe isolato, e il “Sud”, la cui leadership sarebbe simboleggiata, al primo gennaio del 2024, dall’alleanza ad hoc dei dieci Stati Brics+, tra cui Cina e Russia. (…)
Scrive Kepel, le sue parole sono migliori di qualunque perifrasi: "L’Occidente è stato demonizzato e squalificato da alcuni dei suoi stessi giovani come un odioso Nord a cui si oppone la virtuosa coalizione del Sud globale."
OLOCAUSTI
Lo sconvolgimento del mondo dopo il 7 ottobre
Il cataclisma del 7 ottobre 2023 e le sue conseguenze mi hanno immediatamente convinto, per le dimensioni della tragedia umana e del trauma cosmico che ha scatenato, che era necessario raccogliere la sfida del significato di un tale evento e di contestualizzarlo. Era quindi urgente individuare senza indugio i sintomi di quella disgrazia, che stava per diffondersi con la velocità fulminea della pandemia da cui stavamo appena uscendo, e di fare una diagnosi il più rapidamente possibile. In particolare, di fronte al frastuono della contraddittoria e assordante retorica militante che riempiva l’arena pubblica, oscurando le complesse cause del fenomeno per promuovere il clamore semplificatorio delle ideologie, volevo individuare il più rapidamente possibile i “punti ciechi” trascurati da simili ideologie, per proporre una riflessione spassionata, razionale e verificabile. Questi massacri, che si rispecchiavano l’uno nell’altro, ci riguardavano tutti, e avevo previsto fin dall’inizio, attraverso il loro impatto simbolico, le conseguenze a medio e lungo termine in tutto il Mediterraneo, in Europa e in America. Tali conseguenze avrebbero sconvolto l’ordine mondiale stabilito nel 1945.
Per fare ciò, ho collocato questa tragedia alla fine della narrazione che ho sviluppato nel corso del mio mezzo secolo di esperienza nello studio del Medio Oriente a partire dall’estate del 1974, tra cui quattro decenni come professore dedicato a questa regione nelle università in Francia e nel mondo, la supervisione di quarantacinque tesi e la pubblicazione di oltre venti opere tradotte in quasi altrettante lingue. Questo libro di attualità si propone di collocarli in una prospettiva più ampia, al fine di chiarire quanto accaduto e anticiparne i probabili effetti. Il mio obiettivo è osservare, analizzare le cause, riferire sulle conseguenze e contribuire a informare il dibattito pubblico. E questo mi sembrava tanto più urgente in quanto stavo lasciando il mondo accademico in un momento in cui era devastato dal rumore e dalla furia di questi stessi eventi, tenuto in ostaggio dalle passioni antagoniste che suscitavano. I campus occupati dalla California all’Europa da gruppi di studenti e insegnanti hanno trasformato questi spazi privilegiati per la riflessione e la produzione di conoscenza in campi di battaglia dove l’impegno ideologico sostituisce la ricerca del sapere. Al contrario, attraverso discorsi e interviste scritte con le persone più colpite dall’esacerbazione del conflitto, così come attraverso conferenze nelle sinagoghe europee fino alla pubblicazione della traduzione in arabo, realizzata in Libano e pubblicata in Kuwait nel maggio del 2023, della prima edizione francese di Olocausti, ho cercato di condividere l’esperienza accumulata per aiutare chi lo desidera a raccogliere gli elementi necessari per trovare una via d’uscita realistica e salvifica a una tragedia inaudita.
In effetti, gli eventi di sabato 7 ottobre 2023 e le loro conseguenze – la sanguinosa razzia pogromista di Hamas contro lo Stato ebraico, seguita dall’ecatombe di palestinesi di Gaza uccisi dall’offensiva israeliana – costituiscono il dramma parossistico del primo quarto del Ventunesimo secolo. Eppure, questo terzo millennio dell’era cristiana era già stato inaugurato, l’11 settembre 2001, da una “doppia razzia benedetta su New York e Washington”, come lo definì il suo sponsor, il saudita Osama bin Laden, parlando da una grotta afghana al canale Al Jazeera il 7 ottobre 2001.
Ma questa “doppia razzia”, perpetrata dall’organizzazione transnazionale sunnita Al-qaida, è stata l’atto fondativo del millennio islamista e non ha fatto breccia nei cuori del mondo occidentale dell’epoca; anzi, ha suscitato inizialmente un riflesso di solidarietà di fronte al terrorismo. Il quotidiano parigino “Le Monde”, difficilmente sospettabile di atlantismo, titolava in prima pagina: “Siamo tutti americani”. Due decenni dopo, l’ultima razzia di un movimento islamista, questa volta di matrice palestinese e legato all’“asse della resistenza” sciita iraniana, non solo ha inflitto allo Stato ebraico il più grave shock militare ed esistenziale dalla sua proclamazione nel 1948, ma ha anche profondamente fratturato l’egemonia “occidentale” dall’interno, a un livello senza precedenti. Di riflesso, l’Occidente è stato demonizzato e squalificato da alcuni dei suoi stessi giovani come un odioso “Nord” a cui si oppone la virtuosa coalizione ad hoc del “Sud globale”. Israele, ridotto alla somma dei suoi peccati, simboleggia questo “Nord”, di cui esemplifica l’abiezione. Gaza, che in questa rielaborazione morale del mondo rappresenta la sofferenza per eccellenza, è diventata l’espressione contemporanea di un “genocidio” inflitto al Sud dal Nord. La vera e propria ecatombe subita dal territorio palestinese a seguito dei bombardamenti, che hanno causato decine di migliaia di morti e feriti, lo spostamento forzato delle popolazioni da un capo all’altro dell’enclave e la carestia che si sta diffondendo in quel territorio con l’interruzione degli aiuti umanitari sono tutti fatti interpretati come il culmine del principale crimine della storia dell’umanità che la colonizzazione europea costituisce, accanto alla tratta degli schiavi e alla schiavitù. In questa meta-narrazione, la razzia perpetrata da Hamas viene opportunamente messa in secondo piano.
Questo colpo di mano epistemologico, coronamento della penetrazione delle ideologie woke e decoloniale nei campus americani ed europei dalla fine del Ventesimo secolo e della loro ubiquità sui social network, consiste innanzitutto in un rovesciamento del termine “Olocausto”, entrato nell’uso contemporaneo alla fine della Seconda guerra mondiale per descrivere lo sterminio degli ebrei europei da parte dei nazisti. È su questa base che l’Onu ha creato lo Stato ebraico nel 1947 come rifugio per i sopravvissuti alla “Shoah”, la parola ebraica che indica l’annientamento. Nel tardo autunno del 2023, in seguito al bombardamento di Gaza come rappresaglia per la razzia del 7 ottobre, Israele, ora bollato come genocida dai suoi avversari, si è trovato squalificato sulla scena internazionale proprio da ciò che lo aveva fondato moralmente e legalmente tre quarti di secolo prima, quando fu creato dall’Onu. E l’obbrobrio si sta estendendo ai governi vilipesi per la loro appartenenza al “Nord” che sostengono il diritto all’esistenza di questo Stato, anche se non risparmiano le critiche a Netanyahu. I nostri ideologi li richiamano al loro stesso peccato originale: l’espansione coloniale europea, ricodificata come l’olocausto per eccellenza della storia mondiale, che ora sostituisce lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti come principio organizzatore del Male universale.
Così, mentre continua l’offensiva omicida israeliana su Gaza, l’Iran e i suoi alleati nell’“asse della resistenza” si scambiano missili con lo Stato ebraico e interrompono i flussi marittimi internazionali nel Mar Rosso e nel Canale di Suez, un’altra battaglia si sta combattendo all’interno del “Nord” stesso: i campus sono stati occupati da attivisti studenteschi globalizzati che esigono la rottura di tutte le relazioni con le università israeliane, scandendo nell’inglese globish diventato il loro idioma di riferimento “From the River to the Sea, Palestine will be Free!”. La rima orecchiabile e l’esaltante riferimento alla libertà non tolgono il fatto che, tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, lo slogan considera legittima solo la Palestina, e che quindi Israele ne venga eliminato. Da parte loro, i coloni suprematisti ebrei stanno cacciando dalla Cisgiordania i suoi abitanti palestinesi per trasformarla in una biblica Giudea e Samaria che l’Eterno avrebbe dato esclusivamente agli stessi ebrei.
Di fronte a chi sacralizza retrospettivamente la storia per subordinarla alla propria ipermnesia mistica, i giovani manifestanti che scandiscono il loro slogan in rima nei campus euro-americani hanno una conoscenza della geografia e della cronologia – anche la più recente – ormai appiattita dall’assalto ideologico: hanno fatto tabula rasa del passato, salvo ricodificarlo dottrinalmente per giustificare i cavalli di battaglia di oggi. Nel 1993 – all’epoca della nascita della “generazione z”, cresciuta a telefoni e social network – il processo di pace cosiddetto “di Oslo” avviò l’attuazione di una “soluzione a due Stati” nella Terra tre volte Santa per ebrei, cristiani e musulmani, alla ricerca di una conclusione politica dopo la “prima Intifada”, la rivolta palestinese iniziata nel 1987. Questo sforzo è stato silurato, come vedremo in seguito, dalla determinazione complementare del partito Likud di Netanyahu, ispirato dai neoconservatori americani, e da Hamas palestinese, sostenuto dalla Repubblica islamica dell’Iran. Gli Accordi di Abramo del 2020, sotto l’egida di Donald Trump, avrebbero dovuto creare una ricchezza sufficiente in Medio Oriente per spazzare via, come la polvere sotto il tappeto, la questione dello Stato palestinese, grazie alla prosperità che sarebbe stata creata da una joint venture tra la nazione tecnologica di Israele e le ricche petromonarchie della penisola arabica. L’esplosione di violenza nell’autunno del 2023 è stata il culmine di questa grande illusione. Ma il suo significato può essere compreso solo se lo si colloca nel contesto della storia recente.
La comprensione di questa tragedia è dispersa dalla sua diffrazione istantanea attraverso la miriade di immagini che si riversano sugli schermi, cancellando ogni memoria e inibendo ogni prospettiva. Si tratta di un fenomeno senza precedenti su tale scala, che ha portato alla prima mobilitazione politica globale ispirata principalmente dai social network, a loro volta consustanziali all’ubiquità delle fake news. A differenza della “doppia razzia benedetta” dell’11 settembre 2001, che apparteneva alla morente era catodica della televisione satellitare e trovava la sua eco soprattutto nel canale qatariota Al Jazeera, la razzia pogromista del 7 ottobre 2023, a distanza di vent’anni, si inserisce nell’era digitale, inaugurata dalla licenza operativa di YouTube, ottenuta in California il 14 febbraio 2005. Daesh ne aveva esasperato l’uso mostruoso nel decennio successivo, diffondendo senza alcun freno video delle torture inflitte ai suoi prigionieri e ostaggi. La proliferazione delle immagini del massacro filmate in tempo reale dai circa tremila jihadisti delle brigate Ezzedin al-Qassam che hanno attraversato il confine con Israele il 7 ottobre, e trasmesse all’infinito sugli schermi di tutto il mondo, ha creato per loro una “leggenda dorata” digitale tra i potenziali sostenitori, gettando al contempo nel panico gli avversari e spaventando la gente comune.
In Francia, in particolare, è stata espressa una forte solidarietà nei confronti delle vittime: il ricordo degli attacchi di Daesh sul suolo nazionale era ancora vivido, e il massacro dei festivalieri al Nova Tribe risvegliava la memoria del massacro al Bataclan del 13 novembre 2015, con lo sferragliare delle armi automatiche scandito dall’identica invocazione di “Allahu Akbar” che favoriva l’identificazione delle vittime dei due attacchi jihadisti.
Ma dopo qualche decina di giorni di fluttuazione, durante i quali vari attori islamisti – come Hezbollah – ansiosi di mantenere i contatti con gli influencer occidentali “progressisti” hanno attribuito la maggior parte dei morti nel kibbutz e al festival al fuoco amico dell’esercito israeliano, l’offensiva dell’Idf (Israel Defense Forces, l’esercito israeliano) sulla Striscia di Gaza ha trasformato istantaneamente le vittime in carnefici. Attraverso i social network, le immagini di bombardamenti, cadaveri insanguinati schiacciati sotto il cemento e persone in fuga in condizioni apocalittiche hanno saturato la rete. Certo, i piloti e gli artiglieri israeliani non hanno squartato nessuno a mani nude, ma l’entità del massacro ha rapidamente superato il numero delle vittime della razzia, aumentando di venti volte in poche settimane. Naturalmente sono proliferate le notizie false e il conteggio dei morti, effettuato da un “ministero della Sanità di Hamas” che li presentava tutti come civili quando invece comprendeva anche combattenti delle brigate Ezzedin al-Qassam, è stato giudicato inattendibile… anche se, in mancanza di un’alternativa, è stato alla fine la fonte primaria di riferimento per le compagnie internazionali di gas a cui Israele ha vietato l’ingresso nella Striscia di Gaza.
In ogni caso, a prescindere dalle esagerazioni o dalle manipolazioni dell’informazione da parte delle fazioni in conflitto, si è rapidamente affermato un principio mediatico di realtà: la colpevolezza di Israele nel numero delle vittime palestinesi è dovuta alla potenza del suo esercito, tanto più che esso incarnava il forte contro il debole, i cacciabombardieri F-16 e i carri armati Merkava contro i carretti trainati da animali e carichi di materassi su cui stavano bambini spaventati. Questo ha strutturato una Grande Narrazione normativa che ha catturato i cuori e le menti della parte più emotiva della gioventù euro-americana e ha aperto una frattura etica all’interno dell’Occidente di ieri ricodificato come il “Nord” di oggi. È perfettamente legittimo, nel dibattito pubblico, ricordare con la dovuta insistenza la spaventosa portata della strage di civili a Gaza e condannarla. Non è meno legittimo ricordare l’orrore del nuovo stile di pogrom causato dalla razzia del 7 ottobre e la terribile sorte degli ostaggi tenuti prigionieri nei tunnel di Gaza. Ma il riconoscimento di questa tragedia si è diviso così tanto che ogni parte si nasconde dietro un punto cieco che cela la sofferenza dell’altra. Su tale base, non c’è nulla da attendere se non un dialogo tra sordi, e questo ostacola il futuro, che si riduce al perpetuarsi di operazioni militari che dovrebbero portare all’eliminazione dell’avversario, anche se tali operazioni stanno raggiungendo i loro limiti. Il ricorrente fallimento dei colloqui tra Israele e Hamas, con la mediazione del Qatar, dell’Egitto e degli Stati Uniti – dopo un primo scambio di ostaggi con prigionieri avvenuto nel novembre del 2023 – ne è stata un’evidente espressione.
Ma la questione che preoccupa la comunità internazionale, per trovare una soluzione politica che ponga fine al conflitto seguito al 7 ottobre, è il rilancio della “soluzione a due Stati”, la cui prima versione era stata incarnata nel processo di pace di Oslo del 1993 tra l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) guidata all’epoca da Yasser Arafat e l’establishment laburista israeliano, rappresentato da Yitzhak Rabin. Rabin avrebbe pagato con il resto della sua vita, ucciso il 4 novembre 1995 da un fanatico ebreo i cui eredi sono oggi i coloni suprematisti della Cisgiordania. Questa soluzione è stata poi silurata parallelamente da Netanyahu, che ha trascorso quindici anni come primo ministro, e da Hamas, al potere a Gaza dal 2007 con il tacito incoraggiamento, anche se paradossale, di Netanyahu stesso. Qualsiasi prospettiva di pace presuppone, oggi come in passato, la ricerca di modalità di convivenza tra i due popoli nel territorio della Palestina così come delimitato tra la Prima e la Seconda guerra mondiale del Ventesimo secolo dal mandato affidato alla Gran Bretagna dalla Società delle Nazioni.
Tuttavia, le manifestazioni successive al 7 ottobre si fanno beffe di questa “soluzione a due Stati”, in nome di nazionalismi messianici reciprocamente esclusivi che si contendono la Terra Santa. Le tensioni sono esacerbate nel luogo simbolicamente sovraccarico che gli ebrei chiamano Monte del Tempio, alla cui base si trova il Muro del Pianto (Kotel in ebraico), e i musulmani chiamano Spianata delle Moschee (al-Aqsa e la Cupola della Roccia), il terzo santuario dell’Islam dopo La Mecca e Medina. I chierici radicalizzati di ciascuna fede ne sacralizzano l’inviolabilità nello stesso momento in cui si accusano a vicenda di una profanazione che giustifica l’uso illimitato della violenza contro il nemico. Ne è prova il nome “Diluvio di al-Aqsa” dato da Hamas all’incursione del 7 ottobre: conferisce un carattere sacrificale al massacro delle vittime israeliane, perpetrato a immagine del diluvio inviato da Allah per punire chi rifiuta di accettare il messaggio del suo profeta. Questo è il sacrilegio che, ai loro occhi, il controllo israeliano di questa moschea costituisce e che i fedeli, debitamente indottrinati, purgano spargendo sangue ebraico. D’altra parte, lo sterminio dei cananei dopo la conquista di Gerico da parte degli ebrei sotto la guida di Giosuè, di cui la Tradizione stabilisce il riferimento mitico, giustifica agli occhi dei sionisti religiosi degli insediamenti, oltre all’espulsione dei palestinesi dalla Cisgiordania, a cui gli zeloti sostituiscono una biblica Giudea-Samaria espressamente donata dal Signore al popolo eletto, la liquidazione dei palestinesi di Gaza. Questo rafforza la continuazione della guerra che porta all’illusoria eliminazione dell’avversario, essendo Hamas di Yahya Sinwar protetto dal suo labirinto di tunnel.
Tuttavia, alla fine di maggio del 2024, questa strategia ha visto opporsi il primo ministro Netanyahu, che ne è il difensore incondizionato, al ministro della Difesa Yoav Gallant, così come al capo di Stato maggiore Herzi Halevi. Questi ultimi hanno trovato il favore del Pentagono, i cui più alti funzionari hanno prestato servizio in Iraq dopo l’invasione americana della Mesopotamia nel marzo del 2003 e hanno imparato la lezione del fallimento di una contro-insurrezione inizialmente concepita come esclusivamente armata, prima che il generale Petraeus incoraggiasse l’emergere di un’amministrazione sunnita per contrastare l’insurrezione jihadista sostenuta dagli ex baathisti sunniti. Sul campo di battaglia di Gaza, questo fallimento ha incrinato il sostegno politico di cui godeva il primo ministro in nome dell’efficacia di una soluzione puramente militare, a prescindere da considerazioni umanitarie o morali. Di conseguenza, la credibilità strategica di Netanyahu, consolidata nel corso della sua vita politica, è stata minata. Allo stesso tempo, la pressione è aumentata quando, il 24 maggio, la Corte internazionale di giustizia, presieduta dal giudice libanese Nawaf Salam, ha ordinato a Israele di interrompere “immediatamente” l’offensiva su Rafah, definendo la situazione umanitaria “disastrosa”.
Ma, secondo il leader del Likud, qualsiasi processo di pace con un’entità statale palestinese riconosciuta indebolirebbe irrimediabilmente lo Stato ebraico. All’indomani della seconda Intifada (2000-2005), la cui violenza ha minato le fondamenta del processo di Oslo, con un massiccio ricorso agli attentati suicidi (l’ispirazione dell’11 settembre 2001), Israele ha reagito in due modi complementari. Da un lato, Ariel Sharon, allora primo ministro, smantellò ed evacuò gli insediamenti ebraici a Gaza, il che avrebbe incoraggiato Hamas a prendere il potere… esso stesso nemico – specularmente al Likud – del processo di pace. Da quel momento in poi, Hamas avrebbe regnato su una striscia costiera abitata esclusivamente da palestinesi e avrebbe gareggiato con crescente successo con l’Olp per la leadership del movimento nazionale. Inoltre, è stato costruito il “muro di separazione” tra lo Stato ebraico e la Cisgiordania per impedire qualsiasi infiltrazione di terroristi. Questo territorio è ora diviso tra le aree controllate dall’Olp, con sede a Ramallah in Cisgiordania, e gli insediamenti dei sionisti religiosi, incoraggiati dal partito Likud. Il 7 ottobre, questi insediamenti contavano circa settecentomila persone e sono quasi raddoppiati in due decenni, riducendo l’Autorità palestinese a uno Stato di fatto. Incompetenza e nepotismo gareggiano con l’autoritarismo, sotto la guida dell’ottuagenario presidente Mahmoud Abbas, che ha sospeso il Parlamento.
Parafrasando François Mauriac che, dopo la Seconda guerra mondiale, dichiarò ironicamente di amare talmente tanto la Germania da volerne due (le vecchie Repubblica federale e Repubblica democratica, separate dall’impenetrabile cortina di ferro), Netanyahu ha favorito la divisione della Palestina in due territori distinti per farla scomparire come entità storica. E soprattutto favorendo l’ascesa a Gaza del più radicale dei leader di Hamas, Yahya Sinwar, che aveva fatto uscire di prigione in pompa magna nel 2011 insieme ad altri 1206 detenuti palestinesi.
Dal 2012, Hamas ha abbandonato la sua originaria fedeltà ai Fratelli Musulmani per allinearsi a Teheran e al suo “asse della resistenza” anti-israeliano. La violenza della sua retorica e delle sue azioni ha avuto un effetto repellente sull’Occidente: il territorio che controlla non riconosce alcun trattato internazionale. Al contrario, la causa palestinese incarnata dall’Olp di Arafat aveva conquistato molte simpatie in Europa e negli Stati Uniti. Avendo così consacrato Sinwar come avversario per eccellenza, Netanyahu ha fatto in modo che il Qatar finanziasse mensilmente Hamas con una navetta aerea che trasportava valigie contenenti fino a 40 milioni di dollari, per sostenere nell’enclave, collegata al commercio regionale da tunnel di contrabbando che conducevano nel Sinai egiziano, una redditizia economia sommersa che avrebbe mantenuto il sistema in vita. “Bibi” riteneva che ciò avrebbe dissuaso il movimento islamista dal tradurre in azione la sua retorica bellicosa. L’autointossicazione da questa conceptzia fondamentalmente errata ha reso il governo israeliano incapace sia di prevedere la sanguinosa razzia del 7 ottobre sia di anticiparne gli effetti. E il bombardamento consecutivo ed eccessivo di Gaza serve anche a nascondere a posteriori la responsabilità storica del primo ministro per la catastrofe che si è abbattuta su Israele all’alba di quello Shabbat. In attesa che la storia – o i tribunali israeliani – stabiliscano la portata della sua personale incompetenza, a capo di un governo che ha ritirato i carri armati posizionati al confine per inviare reggimenti operativi a dare una mano ai coloni che si confrontano con la rivolta dei palestinesi continuamente espropriati delle loro terre in Cisgiordania.
Questi elementi, e molti altri che compongono i pezzi sparsi di questo puzzle, sono ricordati e messi in prospettiva qui di seguito. La priorità del mio racconto è prendere le distanze dalla tempesta ideologica che ha attanagliato i media internazionali, la politica e il mondo accademico dopo il 7 ottobre. Senza dubbio perché l’autore ha trascorso quattro decenni come ricercatore e poi professore di Scienze politiche applicate al mondo arabo e musulmano contemporaneo, sono particolarmente attento a scrivere una narrazione che sia il più possibile coesa. Ciò presuppone che sia spassionata. Naturalmente, è legittimo schierarsi sulla scena pubblica. L’orrore dei massacri del 7 ottobre, titolo dell’omonimo libro di Lee Yaron, giornalista del quotidiano israeliano di sinistra “Haaretz”, che li documenta, e il racconto Croire en la vie [Credere alla vita], della giovane franco-israeliana Laura Blajman-Kadar, co-organizzatrice del festival musicale in cui sono state massacrate più di trecento persone e che ha vissuto lei stessa il calvario nascondendosi in una roulotte, rendono tangibile il trauma della società israeliana con un’acutezza senza precedenti. Oltre agli eventi in sé, l’eco all’interno della società israeliana – come tra molti ebrei diasporici – dell’improvviso ripetersi dei pogrom, il cui spettro mostruoso l’esistenza stessa dello Stato ebraico avrebbe dovuto allontanare per sempre, riaccende un trauma profondo. Tutto questo contribuisce a spiegare perché, nei mesi successivi, l’elettorato israeliano, ben oltre i sostenitori del primo ministro, ha dato carta bianca a una guerra totale in cui non è stato fatto nulla per risparmiare i civili palestinesi dai bombardamenti incessanti. Questi, a loro volta, si trovano disumanizzati, come i kibbutzniks di Be’eri o i partecipanti al concerto di musica trance Nova Tribe, massacrati e profanati in un misto di bestialità e fanatismo religioso. Al contrario, l’ecatombe dei palestinesi, la vista di persone private delle loro case, delle cure e del cibo, e sfollate come bestiame a causa delle offensive dell’Idf, scuotono le coscienze di molti. Questo fornisce materiale per la mobilitazione di solidarietà che sta infiammando alcuni campus nei paesi del “Nord” contro i loro governi, accusati di esercitare una pressione insufficiente su Israele per ottenere un cessate il fuoco.
L’università emblematica di questo fenomeno globale è la Columbia, situata tra l’Upper West Side di Manhattan, il quartiere ebraico più prestigioso di New York, e Harlem, un quartiere povero, nero e ispanico dove negli ultimi decenni sono sorte moschee. Uno dei suoi insegnanti più famosi è stato Edward Said, anch’egli di origine palestinese. Il suo best seller Orientalismo – pubblicato nel 1978 – funge da bibbia per le ideologie woke e decoloniali che fanno del destino di Gaza bombardata l’epitome del Sud globale nella sua resistenza al “Nord”, ora vituperato da alcuni dei suoi stessi figli, nonché dai figli delle popolazioni immigrate del Sud che sono state accolte sul suo suolo, in fuga dalla miseria e dalla repressione dei loro paesi di origine. E fu anche un professore della Columbia, Raphael Lemkin, che da ebreo era fuggito dalla sua città natale di Lemberg per scampare al nazismo, a sviluppare nel 1943 il concetto di “genocidio” per descrivere la “soluzione finale”, sulla base di una riflessione iniziale sul massacro degli armeni da parte dell’Impero ottomano tre decenni prima. Lo stesso termine è ora rivolto contro lo Stato fondato dai sopravvissuti alla Shoah, Israele, per designare e incriminare, davanti alla Corte internazionale di giustizia, il massacro dei palestinesi di Gaza come rappresaglia per la razzia pogromista del 7 ottobre.
Esattamente ottant’anni dopo che Lemkin coniò il suo neologismo, esso è servito come slogan generale per le proteste studentesche alla Columbia e nel resto del mondo occidentale, ed è stato diffuso dall’azione capillare dei social network a molti altri settori della società, anche a quelli che potevano sembrare impermeabili a tali movimenti, come l’Eurovision Song Contest del maggio del 2024, tenutosi nella città svedese di Malmö. In un paese che ha accolto milioni di rifugiati dal Medio Oriente, in virtù di una tradizione di asilo latitudinale caratteristica del modello socialdemocratico scandinavo e per compensare la debolezza della demografia autoctona, questo agglomerato urbano è caratterizzato da un’ampia popolazione di origine palestinese, in particolare proveniente da Gaza. La forte presenza di gruppi militanti altamente politicizzati in Svezia ha già portato a incidenti con la Turchia, che ha bloccato l’adesione di Stoccolma alla Nato dal 2022 al gennaio del 2024 a causa dell’attivismo del partito irredentista curdo Pkk, alcuni dei cui sostenitori sono membri del Parlamento nazionale. Le forme di espressione separatiste comunitarie e persino islamiche incoraggiate dalla tradizione multiculturalista locale hanno portato a un aumento spettacolare del numero di voti per l’estrema destra, il cui partito, i Democratici di Svezia, membro della coalizione di governo, vuole ridurre l’asilo al minimo.
In tutto questo acuirsi della tensione, una serie di roghi pubblici del Corano, in particolare nel 2023, ha provocato forti reazioni tra le popolazioni musulmane di tutto il mondo, fino a Bruxelles, dove due tifosi della nazionale di calcio svedese, che stavano disputando una partita, sono stati uccisi nell’ottobre di quest’anno per lo stesso motivo da un cittadino tunisino. Residente illegalmente in Belgio, era stato precedentemente detenuto in Svezia e poi espulso, e sosteneva di essere un membro di Daesh. In questo clima avvelenato, la mobilitazione di circa diecimila persone che si sono opposte alla partecipazione all’Eurovision della giovane cantante israeliana Eden Golan è sfociata in fischi che hanno oscurato la sua esibizione quando è salita sul palco. È stata la prima volta che una questione politica globale ha avuto un impatto così importante su questo concorso popolare e piuttosto spontaneo, che si svolge da sessantaquattro anni e che fino a quel momento era stato poco coinvolto in questioni sociali. Oltre alla presenza in loco di una comunità palestinese numerosa e altamente mobilitata, i social network hanno incoraggiato l’adesione di un movimento di estrema sinistra, alternativo ed ecologico, caratterizzato dalla partecipazione alle marce di protesta dell’attivista ambientale Greta Thunberg, che indossava una kefiah e denunciava in un colpo solo il riscaldamento globale, il sionismo e il massacro dei palestinesi a Gaza. Sulla stessa scia dell’industria musicale, un centinaio dei quattrocento artisti che avrebbero dovuto esibirsi al festival The Great Escape di Brighton, in Inghilterra, alla fine di maggio del 2024, ha annullato la propria partecipazione perché l’evento era sponsorizzato dalla Barclays Bank, che ha concesso prestiti per 7,6 miliardi di dollari ad aziende produttrici di attrezzature utilizzate nella guerra di Gaza, secondo il gruppo britannico Palestine Solidarity Group. Altri festival estivi sponsorizzati dalla stessa banca si troveranno nella stessa situazione.
Su un piano più istituzionalmente politico, oltre all’impatto diretto e inedito sulle elezioni presidenziali americane del novembre del 2024, che per la prima volta hanno visto il conflitto israelo-palestinese diventare un tema significativo e incidere sulle politiche messe in atto dal presidente Joe Biden per favorire la sua rielezione, la mobilitazione per Gaza di alcune frange di giovani del Vecchio continente si è inserita anche nella campagna elettorale europea di inizio giugno. In Francia, ha esacerbato le tensioni in una sinistra divisa tra La France Insoumise (Lfi) di Jean-Luc Mélenchon, totalmente impegnata nell’opposizione a Israele e nel sostegno a Gaza, e il Partito socialista, che comprende alcuni intellettuali ebrei radicalmente ostili a Benyamin Netanyahu ma visceralmente legati allo Stato ebraico. Questa guerra tra le due sinistre, “decoloniale” contro “coloniale”, come ha detto la leader della lista Lfi, l’europarlamentare Manon Aubry, è stata cristallizzata dalla promozione dell’avvocata franco-palestinese Rima Hassan a una posizione eleggibile. Il tema, che avrebbe dovuto concentrarsi sulle questioni sociali, ha finito per esacerbare le questioni identitarie, perché mettere la causa palestinese in cima all’agenda elettorale di Lfi sembrava garantire la solidarietà degli elettori provenienti da contesti di immigrazione musulmana e di una parte della gioventù della classe media.
Un fenomeno precursore si era già verificato nel Regno Unito post-Brexit: le elezioni locali di maggio sono state segnate per la prima volta da un fenomeno simile di cristallizzazione del voto musulmano attorno al sostegno alle vittime palestinesi dei bombardamenti. Nelle città deindustrializzate delle Midlands, dove questo elettorato – proveniente soprattutto dal subcontinente indiano, l’ex Raj dell’Impero coloniale britannico – è fortemente concentrato, decine di candidati si sono presentati con l’etichetta “For Gaza” e hanno battuto i loro rivali, spesso ex deputati laburisti, che tradizionalmente risiedono in queste circoscrizioni operaie. Il leader del partito, Sir Keir Starmer, già designato come primo ministro per le elezioni parlamentari previste per il luglio del 2024, si era rifiutato di sostenere la richiesta di un cessate il fuoco a Gaza.
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Ciascuna delle cause antagoniste del conflitto in Terra Santa ha un numero abbastanza elevato di sostenitori. D’altra parte, anche in assenza del senno di poi storico, troppe poche opere sono state dedicate a una semplice analisi fattuale degli eventi, della catena causale che li ha portati e delle conseguenze senza precedenti in tutto il pianeta. In effetti, gli attivisti di ciascuna fazione prendono in considerazione solo le loro vittime e si preoccupano esclusivamente del proprio impegno, attraverso il cui prisma costruiscono la propria norma particolare, sotto l’influenza dell’immediato. Mentre una notizia ne scaccia un’altra, la rappresentazione permanente fornita dai canali satellitari e dai social network confonde la raccolta ragionata dei fatti in una gara di emozioni, e appiattisce qualsiasi prospettiva diversa da quella militante. Il mio obiettivo, al contrario, è cogliere il momento in cui questa tragedia, con i suoi molteplici aspetti, è diventata parossistica, ma per collocarla nel contesto storico del mezzo secolo precedente, in modo da vederne al meglio i lati positivi e negativi e proporli al dibattito da una prospettiva informata.
Durante il mio insegnamento universitario, ho trasmesso elementi di conoscenza per forgiare lo spirito critico degli studenti, in modo che potessero utilizzarli come meglio credevano in seguito. Ma oggi non è più così: il wokismo è ostile allo sviluppo di grandi narrazioni, cioè all’assunzione di prospettive deduttive. Questo approccio intellettuale è ora vilipeso come un atto di violenza simbolica esercitato da un uomo bianco dominante, e quindi illegittimo. L’attenzione si concentra invece sulla frammentazione e sulla divisione infinita della società e dei suoi individui, portando a quello che Freud chiamava “il narcisismo delle piccole differenze”. Questa confusione multi-identitaria spinge alla perdita di fiducia nella conoscenza e nei punti di riferimento cognitivi e alla distruzione del magistero razionale, che viene sostituito dall’entusiasmo ideologico e mistico-politico: un terreno fertile per demagoghi e studiosi mediocri.
Da ex attivista di sinistra ai tempi del liceo e dell’università, mezzo secolo fa, credo di avere abbastanza esperienza per sapere che, a prescindere dal ricambio generazionale, è sempre più esaltante quando si fanno stupidaggini – prima di entrare nella vita lavorativa e nella dolorosa scoperta delle responsabilità che ne derivano – avere, come si diceva, “torto con Sartre piuttosto che ragione con Aron”. Ma della copiosa opera dell’autore di Le parole, esempio dell’“intellettuale impegnato” in cause che, con il senno di poi, appaiono spesso aleatorie, probabilmente non rimane molto se non le “parole” della sua autobiografia. D’altra parte, Pace e guerra tra le nazioni, scritto dal suo erudito avversario, Raymond Aron, rimane un classico che è attuale come non lo è mai stato. Pace e guerra tra Israele e Palestina? Paradossalmente, in un momento in cui la “decostruzione” è il mantra della French Theory – quel pot-pourri di strutturalismo francese rielaborato in traduzioni americane che ha prodotto il woke e il decolonialismo e alimenta il furore ideologico dei nostri campus –, è senza dubbio giunto il momento di interessarsi alla “ricostruzione” che dovrà avvenire dopo la guerra in Terra Santa per instaurarvi la pace. Partendo dalla premessa della creazione di uno Stato palestinese, come proposto dall’ex ambasciatore palestinese presso l’Unesco, Elias Sanbar, nel suo “trattato” La Dernière guerre? Palestine, 7 octobre 2003-2 avril 2024 (Gallimard, Parigi 2024), anche se ciò significa “mettere il carro davanti ai buoi” per stabilire una tabella di marcia. È questo anche l’argomentato appello di Martin Indyk, ex negoziatore del presidente Clinton e ambasciatore statunitense in Israele, per la “resurrezione della soluzione a due Stati”.1 A parte il fatto che questa prospettiva ha il sostegno della stragrande maggioranza degli Stati membri dell’Onu e divide le capitali dell’Ue, essendo intensamente osteggiata dall’attuale governo israeliano e tenuta a distanza dal presidente Joe Biden, in corsa per la rielezione, si tratta soprattutto di cambiare il paradigma, al di là delle polemiche a breve termine.
In questo caso, il 7 ottobre è stato il culmine del fallimento della visione neoconservatrice del Medio Oriente. Questa strategia era stata originariamente sviluppata all’indomani degli Accordi di Oslo nel 1996, in un memorandum intitolato A Clean Break, consegnato a Benjamin Netanyahu e redatto da un gruppo di neoconservatori americani guidati da Richard Perle, che avrebbero raggiunto l’apice della loro influenza sotto il presidente George W. Bush tra il 2001 e il 2008. Sosteneva l’abbandono della dinamica “pace in cambio di territorio”, mirata a indebolire Israele, per sostituirla con “pace in cambio di pace”.2 Questo avrebbe portato, dopo la passeggiata provocatoria dell’allora leader dell’opposizione, Ariel Sharon, sulla Spianata delle Moschee il 28 settembre 2000, allo scoppio della seconda Intifada, la cui violenza, segnata in particolare dall’uso massiccio di attentati suicidi, ha permesso a Sharon di salire al potere dal marzo del 2001 all’aprile del 2006 e ha creato il contesto per gli attacchi dell’11 settembre 2001. Questa strategia avrebbe portato all’attuazione degli Accordi di Abramo da parte di Donald Trump e Benjamin Netanyahu, che basavano la pace regionale su una relativa prosperità, un “accordo” o una joint venture tra la start-up nation israeliana e le petromonarchie del Golfo, trascurando l’esistenza di uno Stato palestinese (andando così contro il precedente processo di Oslo).
È stata l’intera strategia americano-israeliana a implodere il 7 ottobre 2023, costringendo a riesaminare la cosiddetta “soluzione a due Stati” in vista di una pace realistica e duratura. Ma questo presuppone la comprensione e l’interpretazione del contesto di un evento che ha provocato un trauma globale e che, scatenando una violenza insopportabile, ha rimesso in discussione l’intera questione israelo-palestinese, ribaltando anche le basi morali dell’ordine mondiale sviluppatosi dopo la vittoria sul nazismo nel 1945. Questo immenso progetto di creatività politica presuppone che l’aspirazione, qualunque sia il suo esito, sia stata costruita sulla conoscenza del contesto. Le pagine che seguono non hanno altro intento che quello di contribuirvi.
Prologo
Dall’autunno del 2023, sono due gli olocausti a incarnare la maledizione della Terra Santa: la razzia pogromista di Hamas, il 7 ottobre,1 in cui sono stati massacrati, stuprati e mutilati 1140 israeliane e israeliani, dai neonati agli anziani, e l’ecatombe di Gaza, provocata dai bombardamenti e dalle operazioni di terra dell’esercito dello Stato ebraico,2 in cui nel corso dei primi cento giorni dell’offensiva sono morti quasi venticinquemila palestinesi.
Nel suo primo significato, “olocausto” indica un sacrificio religioso nel corso del quale la vittima viene interamente consumata dal fuoco. Per estensione, designa tutti i sacrifici, poi figura la vittima stessa. Nell’uso moderno della parola, significa “annientamento” – indicando in particolare, dopo la Seconda guerra mondiale, i massacri sistematici degli ebrei effettuati specialmente nei campi di concentramento nazisti e completati nei forni crematori, o con uccisioni a colpi di proiettile. In quest’ultimo senso, il nome ebraico Shoah (“annientamento”) ha gradualmente sostituito quello di “olocausto”, a sottolineare la singolarità di un fenomeno eccezionale per il suo orrore e le sue dimensioni. La parola “genocidio”, in compenso, ha potenzialmente uno spettro universale. Quel neologismo, creato nel 1943, è stato oggetto di appropriazioni e dinieghi a carattere politico. Nel contesto precedente al 7 ottobre, è stato applicato a diverse categorie di “gruppi umani”, secondo condizioni che questo libro esamina.
“Olocausti”, al plurale, è da prendere nel senso proprio dei sacrifici di vittime in massa, che musulmani palestinesi ed ebrei israeliani si sono reciprocamente inflitti durante un processo specifico che si è svolto nell’autunno del 2023. Queste atrocità avvengono tre quarti di secolo dopo la fine della Seconda guerra mondiale, nel momento in cui gli equilibri del mondo stanno cambiando in maniera decisiva, in termini demografici ed economici. Questo grande sconvolgimento è accompagnato da un’offensiva contro i paesi occidentali che controllano le principali leve internazionali. Vengono ora chiamati “Nord” dai loro avversari di un improbabile “Sud globale”, che sostituirebbe al vecchio confronto tra Occidente e Oriente, Nato e Patto di Varsavia, in competizione per il dominio sul “Terzo mondo” di allora, un nuovo antagonismo. Il “Nord”, che vi si vedrebbe isolato, e il “Sud”, la cui leadership sarebbe simboleggiata, al primo gennaio del 2024, dall’alleanza ad hoc dei dieci Stati Brics+,3 tra cui Cina e Russia.
In questo autunno, il conflitto israelo-palestinese materializza ed esacerba la frattura tra quelle due entità – Israele è identificato con il Nord e la Palestina con il Sud –, tanto più che i loro confini sono sfumati e alcune figure politiche vogliono galvanizzarle in una dinamica aggressiva. Ad esempio, il 29 dicembre 2023 il Sudafrica, testa di ponte del “Sud”, ha presentato una denuncia di “genocidio” contro Israele alla Corte internazionale di giustizia. Facendo coincidere il 1947 e il 2023 – la creazione dello Stato ebraico da parte dell’Onu come rifugio per gli ebrei dopo il nazismo, e il massacro di Gaza – per delegittimare l’esistenza stessa di Israele, Pretoria tenta di sostituire la memoria della lotta anticoloniale, simboleggiata dalla lotta contro l’apartheid, a quella della battaglia contro l’antisemitismo hitleriano.
Gli attori della tragedia, cristallizzata dal confronto tra le religioni abramitiche in Terra Santa, si esprimono in termini che mescolano teologia e politica. All’islamismo radicale del sunnita Hamas e dei suoi alleati sciiti e uomini dell’“asse di resistenza all’entità sionista” guidato da Teheran,4 si oppongono i messianisti e i suprematisti ebrei che controllano l’agenda del governo Netanyahu, in un analogo fanatismo inebriato dall’olocausto delle rispettive vittime. La storia è scritta nel loro sangue. All’inizio del terzo millennio cristiano, la “doppia razzia benedetta” di Bin Laden a New York e Washington l’11 settembre 2001 aveva già tentato di sostituirgli un millennio islamico. L’incursione pogromista di Hamas del 7 ottobre 2023 ne diffonde l’eco due decenni dopo.
Le pagine che seguono sono state scritte all’indomani di quel fatidico 7 ottobre,5 con l’obiettivo di collocare in una prospettiva temporale lunga l’effimero di Israele e Gaza e i luoghi della memoria del conflitto in una geografia tanto regionale quanto universale. Queste pagine combinano – alla maniera degli attori che si confrontano nello stesso momento sulla scena internazionale – l’osservazione degli eventi del presente e circa mezzo secolo di studi dedicati agli spazi arabo-musulmani.
L’argomentazione viene articolata in cinque capitoli, che analizzano in successione la logica della razzia pogromista di Hamas, le contraddizioni d’Israele che invade e bombarda Gaza, le tensioni estreme del contesto regionale attorno all’“asse della resistenza” guidato da Teheran, e la nuova guerra mondiale contro l’Occidente condotta sul fronte dei valori morali e della demografia politica da parte di alcuni che parlano in nome di un “Sud globale” più eterogeneo e conflittuale di quanto non sostengano loro.
Nel capitolo 4, mi soffermo sulla costruzione dottrinale di questi messianismi di liberazione del pianeta, propugnati da paesi per lo più governati da regimi autoritari di fronte a un “Nord” stigmatizzato come colonialista, imperialista, razzista, “islamofobo” ecc. ma che opera secondo le regole dello Stato di diritto e dei principi democratici. Si tratta di un paradosso eclatante in un momento in cui, su una scala mai vista prima, le persone del Sud del mondo stanno migrando attraverso il Mediterraneo, e dopo questo forse anche attraverso la Manica, a rischio della vita e su zattere di fortuna, verso quel tanto vituperato Nord, alla ricerca di un benessere e di un ambiente di giustizia che viene loro negato dalla maggior parte dei poteri illiberali che regnano nel “Sud globale”.
Questo fenomeno sta trasformando profondamente le società del supposto “Nord”, la cui demografia è ingrossata dagli effetti di un crescente mescolamento razziale e culturale. Vi si stanno sviluppando antagonismi tra coloro che aspirano all’integrazione delle popolazioni provenienti dalle migrazioni meridionali e orientali, aderendo ai valori civici dei paesi ospitanti, e coloro che, in nome di un’etica di rottura con l’aborrito Nord, propugnano un separatismo di fatto e di regole, la suddivisione dei territori in enclave come preludio alla sovversione identitaria. Questo inverso “scontro di civiltà”6 implica la sostituzione dell’ideologia alla conoscenza, ed è per questo che uno dei campi di battaglia è l’università occidentale, fino ai campus più prestigiosi o – almeno – simbolici, come Harvard negli Stati Uniti o l’École normale supérieure in Francia. Nella prima di queste istituzioni, il 2 gennaio 2024 la presidente è stata costretta a dimettersi, dopo un’audizione congressuale in cui non è riuscita a convincere riguardo alla protezione degli studenti di confessione ebraica. Dalla seconda l’autore di queste righe è stato appena cacciato, e i corsi sul Medio Oriente e sul Mediterraneo sono stati sospesi per essere sostituiti proprio dalla promozione del “Sud globale”. Le pagine che seguono sono state redatte in questo clima, che produce nei campus occidentali un’eco sommessa degli olocausti del Medio Oriente.
1.
La razzia del 7 ottobre
All’alba di sabato 7 ottobre 2023, dopo il lancio di migliaia di razzi, quasi duemila fedayin di Hamas, il “Movimento di resistenza islamica” palestinese, hanno attraversato in ventinove punti la barriera di sicurezza, ritenuta inviolabile, al confine tra Gaza e Israele. I suoi sensori elettronici erano stati precedentemente neutralizzati da alcuni droni.1 Contemporaneamente, altri commando sbarcavano da gommoni sulle spiagge, mentre degli ultraleggeri trasportavano per via aerea motociclisti armati fino ai denti. I loro obiettivi erano i kibbutz vicini, popolati principalmente da attivisti israeliani di sinistra, adepti di vari movimenti pacifisti, oltre a un grande festival musicale di giovani, il Nova Tribe. I suoi partecipanti si erano riuniti la sera prima in un punto d’incontro geolocalizzato da coordinate Gps, punto di cui forse molti non sapevano – o non volevano sapere – che confinava con la Striscia di Gaza, dove più di due milioni di persone, per lo più discendenti dei palestinesi cacciati dalla creazione di Israele nel 1948, sono stipati in 365 chilometri quadrati. Ballando in abiti succinti, consumando sostanze psicotrope nel tepore della notte levantina di inizio autunno, i festivalieri si proiettavano in un mondo in cui l’inquinamento, i vincoli sociali e la guerra sarebbero scomparsi. Celebravano “l’amore e gli spiriti liberi, la preservazione dell’ambiente e dei valori della natura”.
Alle prime luci dello Shabbat, l’improbabile arrivo degli ultraleggeri nei cieli è sembrato all’inizio parte di un bad trip da incubo, prima che il panico si trasformasse in una fuga frenetica, con gli islamisti che cacciavano e mitragliavano senza pietà i giovani idealisti. I kibbutz sono stati invasi, i loro abitanti – uomini, donne e bambini – sorpresi all’alba della festività che inaugura la festa ebraica di Simchat Torah, massacrati nelle loro case, mentre una nuova ondata di residenti di frontiera della Striscia di Gaza, approfittando della ghiotta occasione, si è precipitata dietro i fedayin, eccitati dai saccheggi, dagli stupri, dalle mutilazioni e dagli omicidi. Gli assalitori erano dotati sul torso di videocamere GoPro per filmare e trasmettere istantaneamente online le loro gesta “eroiche”, per l’edificazione dei loro correligionari e dei potenziali simpatizzanti in tutto il mondo. Alcuni hanno gridato “Questa è la nostra terra!”, terra da cui i loro genitori erano stati evacuati. Le vittime sono state circa 1140, oltre a duecentocinquanta ostaggi rapiti e nascosti nei tunnel di Gaza, centocinque dei quali sono stati poi rilasciati durante una tregua di una settimana alla fine di novembre, in cambio di oltre trecento palestinesi prigionieri in Israele.2
Il trauma provocato da quella fatale giornata del 7 ottobre 2023 deriva innanzitutto dai suoi echi violentemente polarizzati in tutto il mondo: portando al suo parossismo lo scontro israelo-arabo, essa preannunciava ormai – secondo alcuni auspici post-coloniali – la fine del dominio occidentale sul pianeta, o addirittura la rivincita finale di un “Sud globale” che unisce Gaza e Teheran a Pechino e Mosca, Niamey, Bamako, Caracas e Algeri.
Per il popolo ebraico – a cui apparteneva la stragrande maggioranza dei bersagli, oltre ai braccianti thailandesi e africani – il massacro ha immediatamente evocato l’orrore dei pogrom, addirittura della Shoah a colpi di proiettile, inscrivendosi così nel solco della soluzione finale nazista e delle innumerevoli persecuzioni subite nel corso della loro storia. Eppure la creazione dello Stato avrebbe dovuto porre fine a tutto questo. Ma è stato il più grande massacro di israeliti dalla fine della Seconda guerra mondiale.
In Europa, e specialmente in Francia, dove la carneficina perpetrata il 13 novembre 2015 dai jihadisti di Daesh al Bataclan è ancora fresca nella memoria collettiva, c’è stata – inizialmente – un’identificazione con le vittime. In entrambi i casi, giovani dall’aspetto e dalla morale occidentali che partecipavano a un concerto che esprimeva i loro valori culturali – per quanto utopici o deliquescenti – sono stati sterminati dalle mitragliate degli islamisti radicali arabi al grido di “Allahu Akbar”. Il clamore dello slogan della jihad e i colpi mortali delle armi automatiche avevano messo a tacere la musica psichedelica. Nel Vecchio continente, la risonanza del massacro è avvenuta in un contesto sociale di crescenti tensioni interetniche e interreligiose, unite a flussi migratori illegali e permanenti apparentemente inarrestabili attraverso il Mediterraneo. A ciò si è aggiunta l’ubiquità del salafismo, della Fratellanza e del jihadismo, che predicavano la separazione e l’opposizione tra i “fedeli” da un lato e i miscredenti e gli apostati dall’altro, il cui sangue e le cui proprietà erano dichiarati leciti obiettivi, con tanto di omicidi e saccheggi a sostegno.
Tuttavia, questa forte compassione per le vittime ebree – nella gioventù occidentale direttamente presa di mira dai jihadisti – si è diluita in poche settimane, quando il numero di civili palestinesi morti sotto i bombardamenti e nei combattimenti durante l’offensiva militare israeliana contro Gaza, iniziata il 27 ottobre, è aumentato esponenzialmente. Anche negli Stati Uniti, dove il sostegno a Israele sembrava godere di un ampio consenso, nei campus di alcune delle più prestigiose università del paese e del mondo si sono svolte grandi manifestazioni di denuncia delle sofferenze inflitte ai palestinesi. Queste manifestazioni hanno suscitato lo stupore della classe politica, seguito da una crisi di governance degli istituti di istruzione superiore, afflitti da un’ideologia wokista e “decoloniale” che si è sollevata contro la reazione israeliana, alimentando le accuse di antisemitismo da parte dei suoi oppositori. Questa situazione si sarebbe rapidamente trasformata in una questione elettorale, con l’avvio della stagione delle primarie per le elezioni presidenziali dell’autunno del 2024.
Quando il 25 novembre è stata dichiarata la prima tregua, il bilancio provvisorio delle vittime è stato stimato in circa quindicimila, per lo più civili, molti dei quali bambini, secondo i dati di Hamas citati dai media internazionali. Si tratta di un massacro senza precedenti in qualsiasi guerra condotta dallo Stato ebraico dalla sua creazione nel 1948.
Tradizione e attualità della “razzia benedetta”
L’attacco del 7 ottobre è stato chiamato in arabo dai suoi iniziatori, i leader di Hamas a Gaza, il “Diluvio di al-Aqsa”. È un’espressione che richiama direttamente quello, inviato da Allah, che annegò tutti i miscredenti che avevano negato la sua rivelazione. Nella Sura 11, “Hûd”, dedicata al castigo divino, il Corano riscrive parzialmente la storia biblica dell’Arca di Noè. Alla menzione del diluvio divino si aggiunge il riferimento alla moschea di al-Aqsa a Gerusalemme, che è diventata – nella narrazione arabo-musulmana contemporanea predominante – il simbolo dell’usurpazione sacrilega della Palestina da parte di Israele e della violazione dei suoi luoghi sacri musulmani da parte dell’empia “entità sionista”. Il nome spinge oltre l’islamizzazione della causa palestinese e la sua identificazione con la jihad, in continuità con l’“Intifada di al-Aqsa” (o “seconda Intifada”, dal 28 settembre 2000 all’8 febbraio 2005).
Scatenata dalla “passeggiata” deliberatamente provocatoria sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme da parte di Ariel Sharon, allora leader dell’opposizione di destra del governo di Ehud Barak, quella rivolta darà origine a un ciclo di violenza che avrebbe fatto deragliare il processo di pace iniziato con l’Olp a Oslo nel 1993. Per rappresaglia, è stato eretto il muro di separazione tra lo Stato ebraico e la Cisgiordania, mentre Hamas ha vinto le elezioni municipali a Gaza nel 2005 e le elezioni legislative nel 2006. Da allora, quel territorio è passato sotto il suo controllo esclusivo, a scapito dell’Olp, guidata da Mahmoud Abbas dopo la morte di Yasser Arafat, avvenuta l’11 novembre 2004 all’ospedale militare Percy di Clamart, nella periferia parigina. La menzione di al-Aqsa inseriva la razzia del 7 ottobre nella continuità di quella “seconda Intifada”, di cui ha beneficiato Hamas, e le aggiungeva un riferimento coranico attraverso l’uso del termine “diluvio” (toufân).
All’esatto opposto della connotazione peggiorativa di pogrom o Shoah – che esprimeva l’esperienza delle vittime della tragedia, in riferimento al peggior trauma della storia ebraica contemporanea – i suoi autori la collocarono all’interno di una grandiosa ed esaltante narrazione del virtuosismo religioso islamico. Al di là del riferimento trascendentale al diluvio, si trattava di un riferimento più concreto e preciso a una grande azione del Profeta dell’Islam, che ha un valore edificante per i fedeli: la razzia (ghazoua) da lui condotta contro gli ebrei che vivevano nell’oasi di Khaibar (150 chilometri a nord di Medina), datata all’anno 7 dell’Egira (628). Durante questo evento di esplicita crudeltà, che consisteva in una punizione esemplare dei nemici di Dio, gli uomini furono torturati e passati per la spada, le donne furono catturate e distribuite negli harem dei vincitori e i bambini furono ridotti in schiavitù, al grido di “O tu, il Vittorioso, dai la morte, dai la morte” (Ya mansûr! Amit, amit!).3
Il 7 ottobre ha voluto emulare questa impresa della storia sacra con l’implacabile massacro di ebrei, il rapimento di donne e bambini nei kibbutz di confine o tra i partecipanti al festival Nova Tribe. I video che hanno fatto il giro del web mostrano prigionieri picchiati, fatti sfilare come trofei sulle jeep, donne sventurate denudate sui pianali dei pick-up, appollaiate sulle moto per essere trasportate nei tunnel di Gaza, proprio come i prigionieri di Khaibar sui cammelli di un tempo. Questa epopea viene ritualmente invocata durante le operazioni anti-israeliane contemporanee condotte dagli Hezbollah libanesi, da vari gruppi islamisti palestinesi e da altri, cantando lo slogan in rima (in arabo): “Khaibar, Khaibar, ehi ebrei (ya yahûd), l’esercito di Maometto è tornato (jayshu Muhammad sa ya’ûd)”.4 Il primo missile a lungo raggio di Hezbollah, sparato contro una città israeliana nell’agosto del 2006, si chiamava “Khaibar 1”. Nel maggio del 2023, Teheran ha presentato il suo nuovo missile balistico in grado di raggiungere lo Stato ebraico, anch’esso chiamato Khaibar. È stato oggetto di un documentario televisivo in cui lo si vedeva accanto a una replica della moschea di al-Aqsa. Inoltre, un hadith ripetuto dai predicatori e onnipresente in rete ci ricorda che il Messaggero di Allah ha dichiarato: “Alla fine dei tempi, resteranno sulla terra un solo musulmano e un solo ebreo: quest’ultimo si nasconderà dietro una pietra, o un albero, che inizierà a parlare e dirà ‘O musulmano, c’è un ebreo nascosto dietro di me, vieni e uccidilo’”.5 Per coloro che prendono alla lettera tale ingiunzione, la disumanizzazione di qualsiasi vittima ebrea è una conclusione scontata.
Anche in ragione della sua modalità operativa, il “Diluvio di al-Aqsa” si inserisce nella più ampia tradizione arabo-islamica della “razzia benedetta”. Prima dell’avvento dell’Islam, le razzie (il termine deriva dall’arabo ghazoua) si riferivano ad assalti improvvisi e violentissimi fra tribù, soprattutto nella penisola arabica, che la devastavano e cancellavano ogni possibilità di sviluppo economico e sociale. Sono stati riclassificati come jihad non appena la conversione all’Islam è diventata un’alternativa alla morte per gli sconfitti, socializzandoli in una comunità religiosa più grande della loro tribù d’origine e dando loro la possibilità di costruire una società. Fu la risorsa fondante del wahhabismo saudita nel Diciottesimo secolo, che permise a una dinastia – la famiglia Al Saud – sostenuta dalla legittimità islamica di un predicatore e dei suoi discendenti – l’imam Mohammed Ibn ‘Abd al-Wahhab – di conquistare e amministrare l’area desertica che sarebbe diventata l’Arabia Saudita al posto dell’anarchia tribale che prevaleva.
A livello generale, la razzia benedetta divenne il motore per eccellenza della “conquista islamica” (fath: letteralmente “apertura di un territorio”). Il suo apice fu la conquista di Costantinopoli nel 1453, ma fu compensato dalla contemporanea scomparsa dell’Andalusia musulmana a causa della Reconquista dei Re cattolici, con la caduta di Granada nel 1492. La sconfitta più eclatante in epoca moderna fu il fallimento dell’assedio ottomano di Vienna nel 1683, preludio all’inevitabile crollo della Sublime Porta, la cui economia politica era basata sull’espansione permanente attraverso la conquista.
Nel Ventunesimo secolo, l’espressione araba “la doppia razzia benedetta” (al-ghazuatan al-mubarakatan) è stata usata dagli autori dell’11 settembre 2001 per descrivere l’attacco a New York e Washington. Quei termini, che si volevano elogiativi, portano l’evento all’apice di una teleologia il cui fine ultimo, per i fedeli, non sarà altro che la sottomissione dell’intero pianeta all’Islam. Secondo questa narrazione della storia universale, la distruzione del sacrilego Israele e la restaurazione di una Palestina islamica “dal mare [Mediterraneo] al fiume [Giordano]” è un passo necessario, perché ogni territorio conquistato dall’Islam rimarrà tale per l’eternità.
Ma anche l’11 settembre è stato un’estensione immediata dell’Intifada di al-Aqsa, che l’aveva preceduta di diversi mesi, proiettandola su scala globale. Questa intifada aveva stabilito l’“operazione martirio”6 come modus operandi jihadista per eccellenza all’inizio del Ventunesimo secolo, moltiplicando gli attacchi suicidi palestinesi in territorio israeliano. Bin Laden ha improvvisamente trasformato questa jihad antisionista, eminentemente simbolica ma troppo strettamente localizzata, in una jihad globale anti-imperialista contro l’iperpotenza americana7 e poi contro l’Occidente, colpendo in seguito Madrid e Londra. Ha spiegato questo cambiamento nella sua prima dichiarazione pubblica dopo l’11 settembre, filmata in una grotta afghana e trasmessa dal canale qatariota Al Jazeera il… 7 ottobre 2001. In essa ha giurato “in nome di Allah, che ha innalzato i cieli senza colonne, che l’America non assaporerà mai più la sicurezza finché la Palestina non la conoscerà e tutti gli eserciti miscredenti dell’Occidente non avranno lasciato le terre sante”.
La razzia del 7 ottobre 2023 è quindi un ritorno al punto di partenza, una risposta all’attacco agli Stati Uniti pianificato da Bin Laden l’11 settembre 2001, e di cui ha precisato il significato il 7 ottobre 2001, ventidue anni prima della razzia di Hamas. Concentrandosi sulla Palestina e su al-Aqsa, riporta l’attenzione della jihad universale su Israele. In entrambi i casi, il presunto avversario invincibile si rivela un colosso dai piedi d’argilla, che i jihadisti scuotono con il loro zelo (questo è il significato dell’acronimo hamas in arabo), incoraggiando così le masse credenti a mobilitarsi sotto la loro bandiera per distruggerlo definitivamente. Inoltre, i gesti di crudeltà esibita, le mutilazioni, gli stupri e, nel caso di Hamas, l’esposizione di simile efferatezza registrata dalle videocamere GoPro (come il jihadista e delinquente franco-algerino Mohammed Merah, che ha filmato la carneficina che ha commesso nella scuola ebraica Ozar-Hatorah di Tolosa il 19 marzo 2012) hanno un legame con episodi precedenti della lotta anticoloniale che cercavano di cancellare l’umiliazione dell’occupazione e di reinstaurare la virilità dei popoli sottomessi. Cosa che ai francesi riporta alla mente scene simili di massacri, sventramenti e varie forme di abuso nell’Algeria coloniale, ordinati dal Fronte di liberazione nazionale (Fln) ed eseguiti, come il 7 ottobre, da militanti e saccheggiatori, al grido di “Jihad!” e “Allahu Akbar!”, in particolare le uccisioni di europei a Philippeville nell’estate del 1955. A queste è seguita una repressione deliberatamente “sproporzionata”, che ha portato il biasimo internazionale sulle autorità francesi, una catena di eventi non dissimile da quella dell’autunno del 2023 a Gaza. Ne seguì una reazione politica e mediatica globale ostile alla Francia – perfino sulla stampa americana, che pubblicò le foto delle fucilazioni di massa – e favorevole all’Fln, sostenuto dall’Urss, dalla Cina, dal blocco sovietico in generale, dai paesi arabi indipendenti e da quello che allora si chiamava Terzo mondo… un aggregato di cui il “Sud globale” è una sorta di residuo contemporaneo.8
Tuttavia, negli ultimi due decenni il modo di agire è cambiato. Negli anni cinquanta le notizie erano scandite dai giornali e dalle foto della stampa. All’inizio del Ventunesimo secolo, prima dell’esplosione dei social network, vivevamo nell’era della televisione satellitare: lo spettacolo “hollywoodiano” del crollo delle Torri Gemelle era stato formattato per i notiziari televisivi, adattando l’effetto emotivo desiderato, che fosse di orrore o di esaltazione, alle condizioni delle produzioni mediatiche dell’epoca, che richiedevano cospicue risorse, quali il dirottamento di aerei civili. L’attuazione della nuova razzia benedetta scatenata ventidue anni dopo da Gaza, per quanto elaborata fosse nella preparazione e nel coordinamento, sembrava alla portata di tutti. Necessitava semplicemente di droni, moto e jeep, di mitragliatrici, coltelli e videocamere GoPro, materiali facilmente reperibili in commercio, alcuni anche tramite e-commerce, e altri nel mercato nero della criminalità o nel dark web. Questa jihad dei poveri è facilmente riproducibile in tutto il mondo. Attraverso l’esibizione dell’omicidio – tradotto in un morboso gioco al massacro nell’era dei reality – si intrufola nello schermo del telefono. Disinibisce l’orrore e cancella le barriere tra il simbolico e l’immaginario che si dispiegano in rete da un lato e nel mondo reale dall’altro.
Daesh si era già mosso in questo modo tra il 2014 e il 2019, mettendo in rete lo spettacolo permanente delle esecuzioni di “miscredenti” e degli “apostati”, alimentando un voyeurismo dell’atrocità, come uno specchio fra il Levante e l’Europa. Il “Diluvio di al-Aqsa” è sulla stessa linea, ma utilizza un lessico superiore, perché, ricorrendo al vocabolario coranico, si colloca esplicitamente nel registro sacro. Inoltre, mira a rimettere al centro del gioco globale l’originario confronto arabo-israeliano, mentre Daesh rimaneva confinato alla violenza settaria tra sunniti e sciiti o alla guerriglia dei giovani immigrati delle periferie popolari contro le società e gli Stati europei.
L’operazione mira a creare emuli in tutto il mondo, senza bisogno di persone che ne danno l’ordine, ma attraverso il semplice meccanismo dell’imitazione e dell’invocazione. La penetrazione di molti “imprenditori della rabbia” islamisti, per usare l’espressione del professor Bernard Rougier, nello spazio digitale rende possibile la creazione di un’atmosfera di jihadismo in cui individui idonei, conformati dalla loro dipendenza ai social network, possono passare all’azione adattando questo paradigma. E tutto questo nonostante la liquidazione di quelle organizzazioni transnazionali che sono state Al-qaida – tra il 1996 e il 2005 –, centralizzata e gerarchica, e poi Daesh – tra il 2005 e il 2019 –, più policentrica e reticolare.
Oltre alla dimensione specifica dell’islamismo politico, l’effetto di stupore della “razzia del 7 ottobre” richiama e ravviva la memoria di un altro evento cardine, a carattere più nazionalistico, avvenuto in Medio Oriente esattamente cinquant’anni – più un giorno – prima. Si tratta della commemorazione, da parte dei presidenti Anwar al-Sadat e Hafez al-Assad, dello scoppio della “guerra d’ottobre”, nota come “guerra dello Yom Kippur” o del “Ramadan”, il 6 ottobre 1973. Quel conflitto aveva lo scopo di riparare all’umiliazione della naqsa (“sconfitta”) araba nella “guerra dei sei giorni” del giugno del 1967, quando Israele aveva conquistato il Sinai e Gaza dall’Egitto, la Cisgiordania e Gerusalemme Est dalla Giordania e le Alture del Golan dalla Siria. L’effetto sorpresa dell’ottobre del 1973, che approfittò del calo di attenzione legato alla massiccia osservanza del digiuno ebraico dello Yom Kippur, permise ai soldati egiziani di attraversare la linea fortificata di Bar-Lev, sulla sponda orientale del Canale di Suez. Esattamente mezzo secolo dopo, la barriera di sicurezza di Gaza verrà oltrepassata proprio nello stesso modo, la mattina di Shabbat e all’inizio della festa di Simchat Torah. Durante la guerra dello Yom Kippur, e grazie a un ponte aereo militare americano (paragonabile all’assistenza del Pentagono all’indomani del 7 ottobre 2023), l’Idf aveva poi ribaltato le sorti delle armi, ma la sua vittoriosa controffensiva era stata infranta da un fallimento politico ed economico. Washington aveva infatti costretto Israele a fermarsi al chilometro 101 della strada che da Suez porta al Cairo, nonostante fosse una città aperta, dopo che il re Faysal dell’Arabia Saudita aveva dichiarato un embargo petrolifero contro i sostenitori dello Stato ebraico, scatenando una crisi mondiale.
Quell’iniziativa avrebbe trasformato gli idrocarburi in una formidabile arma politica nelle mani dei leader arabi. In primo luogo, essa favorì il wahhabismo conservatore allora prevalente a Riad, wahhabismo che divenne l’ideologia prevalente nel mondo arabo-musulmano per il mezzo secolo successivo, godendo a quel punto di una favolosa manna finanziaria grazie all’esplosione dei prezzi del greggio. Inoltre, con il nome di “guerra dello Yom Kippur” se ne profilò un’altra, frutto di una rottura culturale all’interno delle società arabe: la “guerra del Ramadan”. Lo Yom Kippur ebraico di quel 1973 coincideva nel calendario dell’Egira con il Ramadan. Per consentire ai soldati egiziani e siriani di mangiare a sufficienza per poter combattere, gli ulema, incitati dai leader del Cairo e di Damasco, proclamarono che questa guerra costituiva una jihad, cosa che sospende il digiuno. Il grido di marcia degli eserciti arabi era “Allahu Akbar”, e non più “Terra, aria, mare” come nel giugno del 1967: il ritorno alla fede aveva portato la vittoria, dopo che la sua dimenticanza aveva causato la sconfitta, secondo i pii esegeti. La rilettura islamica rientrava in un’espressione della volontà divina, visto che la realtà del trionfo arabo era la conseguenza non del destino delle armi sovietiche fornite da Mosca all’Egitto e alla Siria, ma dell’embargo petrolifero deciso dalla monarchia wahhabita, che capovolse l’ordine mondiale.
Tutto questo non ha impedito a Sadat e Assad di celebrare la propria apoteosi in pompa magna negli anni successivi, arrivando perfino a trasformare il nome del mese (aktubir in egiziano, tishrîn in siriano) in un mantra e a rendere il 6 un giorno festivo… propizio per una gigantesca parata militare. Otto anni dopo, nel 1981, sarà durante la parata annuale della vittoria che Sadat sarà assassinato dall’“organizzazione della jihad”, come se il ritorno del rimosso avesse rovinato la mascherata politica. Quel regicidio avrebbe rivoluzionato l’islamizzazione socialmente conservatrice dell’Arabia Saudita, legata ai grandi petrolieri americani ben rappresentati ai vertici del Partito repubblicano. Farà spazio al militantismo radicale, all’unisono con la presa di potere da parte di Khomeini nel 1979, la successiva jihad in Afghanistan tra il 1979 e il 1989 e le sue conseguenze terroristiche illustrate da Al-qaida e Daesh… fino all’incursione pogromista di Hamas del 7 ottobre 2023.
A differenza della controffensiva israeliana della guerra dello Yom Kippur, che riuscì ad attraversare il Canale di Suez fino al Cairo nel giro di una settimana e a respingere i siriani sulle Alture del Golan fino a quaranta chilometri da Damasco, l’operazione di terra lanciata il 27 ottobre 2023 con l’invasione della Striscia di Gaza accompagnata da massicci bombardamenti, con lo scopo di sradicare Hamas, non ha portato ad alcun successo militare significativo, nonostante il sostegno degli Stati Uniti in entrambi i casi. Come l’Idf era stato in grado di prevalere su due eserciti nemici regolari nel 1973, una volta superato l’effetto sorpresa dell’attacco del giorno dello Yom Kippur, così lo Stato ebraico si è trovato impotente nel 2023 di fronte a un avversario duttile che aveva stabilito regole di confronto totalmente nuove. Sul modello di una razzia lampo, rifiutandosi di combattere, si nascondeva nelle profondità dei tunnel, senza uniformi e tra una fitta popolazione civile che serviva da scudo – oltre agli ostaggi ebrei –, e lanciava scaramucce mortali. La guerra del 1973 si concluse in diciannove giorni. Al contrario, l’attacco di terra alla Striscia di Gaza e i bombardamenti avrebbero causato più di ventimila vittime, metà delle quali bambini, entro la fine di dicembre del 2023, senza che nessuno degli obiettivi fosse stato raggiunto: né la distruzione di Hamas né la liquidazione dei suoi leader. Il primo ministro Netanyahu, in visita alle truppe il 23 dicembre, ha annunciato l’intensificazione di un’offensiva destinata a “durare a lungo”, ovvero un’ammissione di momentaneo fallimento. Lo Stato ebraico, con la sua modalità di ritorsione massiccia e indiscriminata, era stato colto alla sprovvista, e i suoi strateghi non hanno ancora trovato la risposta adeguata al 7 ottobre. Nel frattempo, il numero crescente di morti – civili e bambini – ha avuto un effetto deleterio sull’originaria solidarietà dell’opinione pubblica internazionale nei confronti di Israele. Nel giro di poche settimane, la vittima di un pogrom è stata considerata l’aggressore e il popolo sopravvissuto alla Shoah si è ritrovato accusato di genocidio, in un rovesciamento di tutti i valori il cui clamore si sarebbe levato dai quartieri popolari del “Sud globale” fino al prestigioso campus di Harvard, vivaio delle élite globalizzate.
L’ambiguità che circonda i dettagli del 7 ottobre non è stata sciolta da chi l’ha ideato, e questo elemento di mistero, destinato a destabilizzare l’avversario confondendo il suo obiettivo, fa parte della guerra psicologica che ne diventa la prosecuzione. Allo stesso modo, la “doppia razzia benedetta” dell’11 settembre non venne esplicitamente rivendicata da Al-qaida per molte settimane, al fine di ostacolare la risposta militare degli Stati Uniti e dei suoi alleati, costretti a incriminare un “asse del male” dai contorni indefiniti. Contro di quello, in seguito all’invasione dell’Afghanistan il… 7 ottobre 2001, e la successiva liquidazione del regime talebano (prima del loro trionfale ritorno a Kabul vent’anni dopo), si sarebbe scatenata la “guerra al terrore”. Lo stesso tipo di formulazione evasiva divise l’Occidente, con in particolare Francia e Germania che si sono rifiutate di partecipare alla campagna di Mesopotamia che è seguita nel marzo del 2003. I neoconservatori del circolo del presidente George W. Bush avevano preso il fatto che Bin Laden non si trovava da nessuna parte come pretesto per innescare un cambiamento radicale negli equilibri di potere in Medio Oriente. Questo ha portato al rovesciamento di Saddam Hussein, accusato a torto di possedere armi di distruzione di massa, per far nascere con la forza un Iraq guidato dalla sua maggioranza sciita e destinato a diventare uno Stato democratico alleato degli Stati Uniti e di Israele. Gli eventi successivi non hanno dato ragione a questo chimerico stratagemma…
L’inafferrabile leader di Hamas nella Striscia di Gaza, Yahya Sinwar, è una sorta di remake del Bin Laden di un tempo. È scomparso da qualche parte nel labirinto di tunnel sotterranei, protetto dai bombardamenti da due milioni di civili erranti cacciati dalle loro case, che ne sono il primo obiettivo, e dal caotico ammasso di edifici in rovina. Il leader di Al-qaida, a sua volta, si era dileguato nei meandri delle montagne afghane e la sua caccia era stata accantonata a favore della liquidazione di Saddam. Allo stesso modo, all’indomani della razzia del 7 ottobre 2023, gli inganni diffusi dai portavoce dell’“asse della resistenza” sulle origini e le responsabilità dell’operazione e l’opacità dei reali obiettivi bellici di Israele, al di là della devastazione e dello sfollamento della popolazione in un’enclave invivibile, hanno lasciato spazio a preoccupanti interrogativi. Dopo la fine della tregua del primo dicembre, gli abitanti, spinti verso il confine meridionale con il Sinai egiziano, stanno rivivendo ogni giorno di più una seconda Nakba (“catastrofe”), dopo l’esodo dei palestinesi espulsi dai territori che sarebbero diventati lo Stato ebraico nel 1948, e i cui discendenti popolano i campi profughi. L’estrema destra israeliana, che assicura a Netanyahu la maggioranza alla Knesset, spinge in questa direzione. Per spiegare questa vicenda in corso, è necessario innanzitutto contestualizzare il processo decisionale all’interno di Hamas e dei suoi sostenitori nell’“asse della resistenza” guidato da Teheran, che ha portato alla razzia e alla sua catena di conseguenze.
Il racconto dello sceicco Nasrallah
Il primo racconto del 7 ottobre da parte di quell’“asse della resistenza” guidato da Hamas, di cui Hamas è la testa di ponte, è stato fatto dal suo portavoce arabo per eccellenza, lo sceicco Hassan Nasrallah, segretario generale del partito sciita libanese Hezbollah, divenuto famoso in tutto il mondo musulmano. Ha tenuto un discorso che è stato trasmesso piuttosto tardi, il 3 novembre, quasi un mese dopo la tragedia. Tuttavia, il discorso è stato ampiamente pubblicizzato in anticipo, come il lancio di un blockbuster di Hollywood. È stato ascoltato religiosamente dagli arabofoni “dal Golfo all’oceano” – secondo l’espressione usata per designare l’estensione spaziale del dominio arabo tradizionale –, aggiungendovi le periferie dell’Islam europeo, dove si sono ormai insediate e strutturate grandi enclave di popolazioni immigrate. Eccellente oratore in arabo, lo sceicco Nasrallah ha raggiunto l’apice della fama dopo la “guerra dei trentatré giorni” fra Israele e le sue truppe nell’estate del 2006, soprannominata “la vittoria divina”, giocando sul significato del suo cognome (Nasr Allah significa “vittoria di Allah”). In seguito, questo sciita semplice leader di partito, sostenuto a debita distanza dall’Iran, ha impressionato i governanti arabi, quasi tutti sunniti, per la sua capacità di “sconfiggere” lo Stato ebraico, o almeno di infliggergli pesanti perdite.
Molti attivisti e osservatori si aspettavano quindi che Nasrallah annunciasse una escalation generalizzata nella regione, a vantaggio di Teheran: le batterie missilistiche del “Partito di Dio” nel Sud del Libano avrebbero colpito Israele al confine settentrionale, per ostacolare l’offensiva dell’Idf su Gaza. Ma il dignitario sciita non ha dichiarato niente del genere. Ha ribadito il suo sostegno ad Hamas, ma ha attribuito l’iniziativa delle operazioni esclusivamente al suo comando militare nella Striscia, assolvendo se stesso da ogni responsabilità. Questa presa di posizione, che ha sorpreso per la sua apparente “moderazione”, potrebbe essere spiegata da ragioni sia geostrategiche che interne.
In primo luogo, il posizionamento della portaerei statunitense Gerald Ford e del suo gruppo d’attacco aeronavale al largo della costa aveva un forte effetto deterrente. Inoltre, le conseguenze della guerra del 2006 per il Libano, duramente colpito dai bombardamenti punitivi israeliani, sono state disastrose per la popolazione locale, la cui economia non si è mai ripresa. Il “Partito di Dio”, padrone di fatto del paese dei cedri, e imputabile della crisi abissale in cui è sprofondato, non era più in grado di trascinarlo in nuove devastazioni di cui sarebbe stato ritenuto il primo responsabile. Infine, era più efficace in termini di propaganda attribuire la razzia benedetta a un’azione autonoma palestinese piuttosto che al risultato di una macchinazione orchestrata dall’“asse della resistenza” (a Israele) guidato da Teheran e che include la Siria di Assad, Hezbollah, Hamas… e gli Houthi nello Yemen. Ciò avrebbe potuto prestare il fianco nei media arabi a reazioni tiepide all’interventismo persiano negli affari mediorientali.
L’ingresso in scena degli Houthi
Il principale sostegno dello sceicco Nasrallah alla Palestina e ad Hamas è stato, all’inizio sorprendentemente, quello degli Houthi9 – che fino ad allora non erano stati tra i combattenti sul campo di battaglia. Questi abitanti delle montagne disagiate del Nord dello Yemen, appartenenti alla setta eterodossa degli zaydi – assimilata allo sciismo – hanno preso il potere nella capitale Sana’a nel 2014, durante la guerra civile scatenata nel paese dalla “Primavera araba” del 2011, che ha portato al rovesciamento e alla successiva morte del presidente Ali Abdallah Saleh.
Originariamente si erano organizzati in un movimento politico per resistere al proselitismo aggressivo del wahhabismo saudita, che convertiva i loro figli all’ortodossia sunnita e faceva scomunicare i loro genitori come eretici. Il loro nome comune, “Houthis”, deriva dal patronimico della famiglia che li guida, ma il loro nome ufficiale è Ansar Allah (“i seguaci di Allah”). L’ostilità viscerale al wahhabismo è valsa loro l’appoggio entusiasta di Teheran, che ha visto in loro l’opportunità di creare una sorta di Hezbollah di fianco all’Arabia Saudita, di cui avrebbero minacciato il territorio come l’originario Hezbollah libanese minacciava quello di Israele, con cui confina. Durante la guerra civile in Yemen, hanno moltiplicato gli attacchi con i droni contro il regno, colpendo alcuni dei suoi aeroporti, con il sostegno delle Guardie rivoluzionarie iraniane, esperte in materia. La mediazione cinese tra Teheran e Riad, che ha portato al ripristino delle relazioni diplomatiche tra le due capitali nel marzo del 2023, ha ridotto l’intensità di questi attacchi, con sollievo delle autorità saudite. In cambio, l’Arabia Saudita si sarebbe astenuta dal bombardare lo Yemen, dove il bilancio dei combattimenti è stato stimato in diverse decine di migliaia di morti, in una belligeranza che ha lasciato il paese insanguinato e devastato, ma che raramente ha fatto notizia sulla stampa mondiale.
Inoltre, gli Houthi sono l’unico movimento islamista di una certa levatura che, nel suo stemma, esplicita l’odio per gli ebrei e lo Stato ebraico come un articolo di fede. È esposto ovunque sul loro territorio sotto forma di un logo rettangolare verde e rosso, che proclama: “Allahu Akbar, morte all’America, morte a Israele, siano maledetti gli ebrei, vittoria all’Islam!”.
Una grande comunità di ebrei viveva in Yemen dalla notte dei tempi e i suoi circa settantamila membri sono emigrati in massa in Israele al momento della creazione dello Stato, ma la relazione tra questo patrimonio storico e lo slogan degli Houthi rimane oscura. D’altra parte, il riferimento al ruolo specifico assegnato loro dall’“asse della resistenza” all’indomani del “Diluvio di al-Aqsa” è molto chiaro. Questi Houthi sono designati dallo sceicco Nasrallah per l’estensione regionale e internazionale del conflitto, al posto di Hezbollah. I recenti progressi nella capacità di proiezione militare dei droni hanno permesso loro di svolgere questo ruolo senza precedenti, nonostante la relativa distanza dal campo di battaglia.
Dopo aver inviato senza molto successo alcuni droni verso Eilat, che hanno mancato il bersaglio cadendo nel Sinai a spese di vittime egiziane o sono stati polverizzati in volo dall’“Iron Dome” israeliano, gli Houthi, sostenuti dai pasdaran iraniani, hanno iniziato a prendere di mira le navi che attraversano il Mar Rosso e che si suppone abbiano destinazione, carico o armatore israeliano. Il 19 novembre un commando a bordo di un elicottero è atterrato sulla nave cargo Galaxy Leader, presumibilmente di proprietà israeliana, e l’ha abbordata. La pubblicità dell’operazione è stata garantita dalle telecamere degli aggressori, i cui video, come quelli del 7 ottobre, hanno fatto il giro del web, ripresi in particolare dai siti di propaganda iraniani. Il costo delle assicurazioni è salito alle stelle e la maggior parte degli armatori ha immediatamente sospeso le spedizioni nel Mar Rosso e nel Canale di Suez, deviandole verso l’Africa. Questa rotta è una delle principali Nuove vie della seta tra Cina ed Europa. L’obiettivo era anche colpire l’economia egiziana, che ha guadagnato quasi nove miliardi di dollari dall’attraversamento del Canale tra le estati del 2022 e del 2023. La task force istituita su iniziativa degli Stati Uniti ha avuto difficoltà a convincere i principali Stati arabi che si affacciano sul Canale a aderirvi per paura dei droni Houthi sul loro territorio. L’ammiraglio iraniano Ali Kaviani ha dichiarato, all’indomani dell’abbordaggio del cargo, che la flotta della Repubblica islamica svolge missioni nel Mar Rosso da quindici anni e non si lascerà intimidire dalle “forze dell’arroganza”, mentre le invincibili armate occidentali sono tenute in scacco da modeste macchine volanti.
Hamas e l’Iran: convergenza delle lotte
Da questo punto di vista, la negazione da parte dell’“asse della resistenza” di qualsiasi coinvolgimento iraniano nella preparazione e nell’attuazione della razzia del 7 ottobre, al di là della strategia propagandistica messa in atto, è da relativizzare. Per quello che riguarda Hezbollah, deriva da una prudenza opportunistica dettata sia dalla situazione interna del Libano sia dalla situazione regionale. Neanche la Repubblica islamica può permettersi un confronto diretto con Israele o con gli Stati Uniti in questa fase. Dal punto di vista del rapporto costi-benefici, è il rappresentante Houthi di Teheran a essere messo in campo con il maggior profitto politico, soprattutto perché non ha praticamente alcun margine di manovra nei confronti dei suoi mandanti. Hamas, invece, ha una sua storia infinitamente ricca e un livello operativo specifico molto più alto di quello dei suoi partner yemeniti. Tuttavia, esiste un legame tra il suo apparato e le Guardie rivoluzionarie.
Questo processo si basa soprattutto sulla storia edificante dell’uomo forte di Gaza, Yahya Sinwar. A sessantuno anni il 7 ottobre 2023, ha trascorso ventidue anni nelle carceri dello Stato ebraico. È stato rilasciato nel 2011 dopo un sorprendente scambio di 1027 prigionieri palestinesi con il caporale franco-israeliano Gilad Shalit, rapito da Hamas nel 2006. La sua vita si è svolta inizialmente in un campo profughi della città di Khan Yunis, nel Sud della Striscia, dove è nato e cresciuto e sotto la quale dovrebbe nascondersi secondo i suoi inseguitori israeliani, che nel dicembre 2023 hanno bombardato la città nella speranza di ucciderlo.
Sinwar ha studiato l’arabo classico all’Università islamica di Gaza, e questo è evidente nel fraseggio perfetto dei suoi discorsi, con un vocabolario ben scelto e una grammatica sempre precisa. La sua oratoria è in grado di impressionare e galvanizzare le masse, per le quali la sua virtuosa padronanza dei registri nazionalisti e coranici di questo idioma rappresenta un ideale di identità, a maggior ragione quando il suo pubblico non possiede più né terra né Stato. Durante la sua prigionia, questo linguista ha imparato l’ebraico, l’idioma semitico vicino che parlava correntemente,10 e ha acquisito un’intima familiarità con il modo di pensare del nemico penetrando il funzionamento della sua lingua. Il suo arresto e la sua condanna all’ergastolo nel 1989 erano dovuti al ruolo importante che aveva svolto nella fondazione di Hamas nel 1987, durante la prima Intifada, nella creazione del servizio di intelligence del Movimento di resistenza islamica, il Majd (acronimo che significa “gloria”). La sua attività principale consisteva nel rintracciare e giustiziare gli informatori palestinesi per conto di Israele. Questo gli valse il soprannome di “macellaio di Khan Yunis”. Il suo ascendente sui compagni di prigionia lo ha reso il loro portavoce (i prigionieri rappresentano una delle quattro organizzazioni palestinesi, insieme a Gaza, alla Cisgiordania e alla diaspora). È da dietro le sbarre che Sinwar ha vissuto la seconda Intifada (“di al-Aqsa”), la morte di Arafat e la vittoria di Hamas alle elezioni del 2006. Nel 2011 è stato lui stesso a negoziare i termini del suo rilascio, rifiutando qualunque concessione o compromesso.
Al momento del suo rilascio, Sinwar era diventato un leader di spicco, noto per la sua intransigenza, laddove alcuni dei suoi colleghi avevano trovato qualche accomodamento con Israele in cambio dell’istituzione di un “governo” di Hamas a Gaza che avrebbe di fatto sostituito l’Autorità palestinese guidata dall’Olp a Ramallah, in conformità con il processo di pace nato dai colloqui di Oslo. La sua liberazione ha coinciso con lo scoppio delle “Primavere arabe” nel 2011. Il crollo del regime di Mubarak in Egitto ha avuto conseguenze importanti per l’enclave. Ha permesso ai nuovi governanti del Cairo di aprire il confine terrestre di Rafah e per due anni i palestinesi hanno potuto uscire ed entrare senza passare da Israele. Sinwar ne ha approfittato per fare il suo unico viaggio all’estero, in Iran, dove è stato ricevuto personalmente dal generale Qasem Soleimani, capo della forza esterna Al-Quds delle Guardie rivoluzionarie e principale architetto dell’“asse di resistenza” iraniano.
Nel racconto che ha fatto al canale televisivo in lingua araba Al Mayadeen (vicino a questo asse) il 25 dicembre 2017, poco dopo essere diventato leader di Hamas a Gaza, Sinwar ha dichiarato che “il fratello Qasem” gli aveva assicurato il pieno sostegno dei pasdaran, “che avrebbero messo tutte le loro capacità a nostra disposizione”. Parallelamente alla militarizzazione del regime iraniano, dove le Guardie hanno gradualmente preso il sopravvento sul clero sciita, Yahya Sinwar ha fatto dell’ascesa al potere delle brigate Ezzedin al-Qassam, il braccio armato di Hamas, lo strumento della sua conquista del potere a Gaza a scapito dei “civili” del movimento. L’ex fondatore del Majd ha triplicato il numero dei membri, da diecimila a trentamila combattenti, ovvero più dell’uno per cento della popolazione dell’enclave, permettendo di creare una rete piuttosto fitta. Essi furono poi posti sotto il comando di un leader molto popolare, che doveva il suo “nome di battaglia” di Mohammed Deif (“l’ospite”) ai suoi continui cambi di domicilio per evitare di essere individuato dall’intelligence israeliana.
Yahya Sinwar non ha mai abitato all’estero, a differenza delle altre personalità che hanno guidato il movimento nel decennio precedente. Khaled Meshal, che ha presieduto l’ufficio politico in esilio a Damasco tra il 2000 e il 2012 e che proveniva anch’egli dalla diaspora, non aveva mai messo piede a Gaza fino a quest’ultima data. Fuggito dalla Siria dopo la lotta armata tra i Fratelli Musulmani e il regime di Assad durante lo scoppio della “Primavera araba” in quel paese, è entrato per la prima volta nell’enclave per un breve soggiorno, attraverso il confine egiziano aperto durante la rivoluzione, per fare campagna elettorale per la sua rielezione. Ma si trasferì presto a Doha, dove le autorità del Qatar, in stretta collaborazione d’intelligence con gli Stati Uniti, mantenevano una certa distanza tra i leader di Hamas e l’Iran, con l’aiuto dei petrodollari. Meshal, che nel 2012 aveva assistito alla battaglia di al-Qusayr tra le forze di Hezbollah che difendevano il governo e le brigate al-Qassam di Hamas che sostenevano la ribellione, non è stato da meno nel vilipendio dell’asse iraniano, cosa che ha portato Teheran a dimezzare le sovvenzioni al movimento, da 150 a 75 milioni di dollari l’anno.11
Questa sanzione non ha destabilizzato eccessivamente le sue finanze, visto che l’emirato del gas ospite poteva ampiamente compensare. Così il 23 ottobre 2012, sempre via terra dall’Egitto, l’emiro Hamad del Qatar si è recato a Gaza per una visita “storica” al “primo ministro” Ismail Haniyeh, a capo del “governo di Hamas” dal 2007, al quale ha promesso 400 milioni di dollari in investimenti. In questo modo ha segnato il primo riconoscimento internazionale di un’amministrazione islamista autonoma a Gaza, durante le “Primavere arabe” in cui è stato pesantemente coinvolto con i Fratelli Musulmani, di cui il suo canale Al Jazeera si fa quotidianamente portavoce. Questa visita avrebbe stabilito il canale di finanziamento di Doha ad Hamas per il prossimo decennio, con l’assenso del primo ministro Netanyahu. L’emiro è stato duramente criticato dall’Autorità palestinese a Ramallah, dove il giornale “Al Ayyam” ha pubblicato la sua foto a Gaza accanto al capo di Hamas con la seguente didascalia: “Il divisore in capo”.
Nel 2017, Ismail Haniyeh è succeduto a Khaled Meshal alla guida dell’ufficio politico, mentre Yahya Sinwar è diventato il capo di Gaza, completando così il suo reale controllo sul territorio, ma senza rivendicare il titolo puramente simbolico di “primo ministro”, che avrebbe suggerito un’eccessiva normalizzazione della situazione nell’enclave. Nel 2019, Haniyeh si è trasferito a sua volta in Qatar. Per facilitare i suoi spostamenti, il presidente Erdogan gli ha concesso la cittadinanza turca, così come a suo figlio.
Sinwar e i due leader che lo hanno preceduto sono in netto contrasto nell’aspetto. Coltivando il look degli apparati dei Fratelli Musulmani che sono saliti al potere – abiti ben cuciti, barbe accuratamente tagliate – vivono con stile nella capitale di uno dei microstati più opulenti del mondo, dove si intrattengono con diplomatici e uomini d’affari. La fortuna di Khaled Mishal è stimata in oltre 2 miliardi di dollari. Al contrario, l’uomo forte di Gaza dal 2017, emaciato, con la barba tagliata alla bell’e meglio che gli invade il viso, sguardo penetrante, vestito con una camicia, una giacca e dei pantaloni spaiati, arringa le riunioni con la sua voce roca, mantenendo il suo habitus di militante. Il suo linguaggio del corpo evoca i gesti degli attivisti iraniani durante la Rivoluzione islamica del 1979.
Prendendo il controllo dell’enclave, Sinwar ha spostato il centro di gravità di Hamas verso di essa, a scapito dell’ufficio politico con sede a Doha. Quest’ultimo ha favorito una strategia regionale di compromesso piuttosto che di scontro, e ha manovrato il Qatar affinché consegnasse con ritmo mensile a Gaza, per via aerea, una somma di denaro stimata in 40 milioni di dollari. Le valigie di denaro, arrivate all’aeroporto Ben-Gurion di Tel Aviv, venivano trasportate dal Mossad alla barriera di Erez (la stessa che sarebbe stata attraversata in senso opposto dalla razzia del 7 ottobre), dove la staffetta veniva fornita dai servizi segreti egiziani, per dare un’apparenza di “normalità” all’operazione e per coprire i due governi coinvolti. Per Netanyahu, e in misura minore per il maresciallo al-Sisi, l’obiettivo era evitare l’implosione dell’enclave “comprando” una relativa pace sociale che avrebbe dovuto proteggere i due paesi confinanti. I dettagli di questi accordi, a cui ha partecipato a Doha il capo del Mossad Yossi Cohen, non sono stati resi pubblici, ma sono stati oggetto di critiche virulente dopo il 7 ottobre. È possibile che l’intelligence israeliana si sia lasciata convincere che le regolari arringhe di Yahya Sinwar contro lo Stato ebraico e i suoi ricorrenti appelli alla sua distruzione avessero la sola funzione di retorica per uso interno, ma sembra che si siano sovrapposte due linee di Hamas.
La prima manteneva contatti indiretti con gli Stati Uniti e Israele, in cambio di un contributo finanziario del Qatar, dove risiedeva il “canale storico” dei gerarchi tradizionali più “fraterni” del movimento. Durante le “Primavere arabe”, i Fratelli Musulmani hanno aperto una serie di canali di comunicazione con i leader occidentali, alcuni dei quali, in particolare nell’entourage del presidente Obama, erano convinti di incarnare una via pietistica alla democrazia. Il rais turco Erdogan era visto all’epoca come l’esempio di un’etica islamica compatibile con lo spirito del capitalismo, di cui il Qatar era un’opulenta variante produttrice di gas. Quegli interlocutori ritenevano probabilmente che il circuito finanziario di cui Doha abbondava potesse garantire una certa tranquillità nell’enclave. La sua contropartita sarebbe stata un miglioramento del tenore di vita, un boom dei traffici attraverso i tunnel del contrabbando e un’espansione della sfera religiosa: in breve, un “arricchitevi!” a spese dell’attivismo violento. La seconda linea, incarnata da Yahya Sinwar, ricordava più i pasdaran iraniani, sul cui modello erano state riorganizzate le brigate Ezzedin al-Qassam. Era guidata da un progetto completamente diverso, il cui culmine è stato il 7 ottobre. Il tutto era meglio mascherato dall’illusione di una relativa prosperità nella fascia costiera, per la quale il flusso di denaro attraverso la rete del Qatar era il viatico.
Appena salito al potere a Gaza nel 2017, Sinwar si è vantato, come abbiamo visto, della sponsorizzazione offerta ad Hamas dalla forza esterna Al-Quds dei pasdaran iraniani e in particolare dalle brigate Ezzedin al-Qassam. Aveva allora espresso la sua gratitudine per la multiforme assistenza fornita in questo modo, suggellata dal suo incontro personale con il generale Soleimani nel 2012. Questo nemico per eccellenza degli Stati Uniti e di Israele è stato ucciso nel gennaio 2020 da un drone americano all’aeroporto di Baghdad, e la Repubblica islamica ha giurato una terribile vendetta.
Per ricostruire il complicato processo che ha portato al 7 ottobre occorre mettere in prospettiva la storia del movimento islamista palestinese, che si è trovato prima stretto nella morsa tra il nazionalismo arabo e lo Stato sionista, poi tra il sunnismo conservatore della penisola arabica e lo sciismo rivoluzionario iraniano, prima che il suo ramo di Gaza compisse il passo decisivo di avvicinarsi a quest’ultimo.
Il Movimento di resistenza islamica è nato dal Centro islamico palestinese, fondato a Gaza nel 1973 da Ahmed Yassin, uno sceicco trentasettenne tetraplegico e membro dei Fratelli Musulmani (verrà ucciso da Israele nel marzo del 2004). Quest’ultimo concentrava i suoi sforzi sulla re-islamizzazione della società, in contrasto con gli obiettivi dell’Olp, che erano mescolati con il marxismo e il terzomondismo filosovietico di rigore all’epoca. Per questo motivo, fin dall’inizio fu visto con favore dalle autorità israeliane e costruì senza ostacoli una vasta rete di moschee, dispensari e istituzioni caritatevoli e educative, che in seguito gli avrebbero fornito un’ampia base militante. Questa strategia è tipica dei Fratelli Musulmani in tutti i paesi in cui sono presenti.
In occasione della prima Intifada, nel dicembre del 1987, lo sceicco approfittò della rivolta per fondare l’Mri – in arabo “Hamas” –, che si contese la leadership con i nazionalisti e si affermò gradualmente come attore rivale, poi egemone a Gaza. Al contrario di Arafat, le cui posizioni si evolveranno fino a riconoscere l’esistenza di Israele e a coinvolgere l’Autorità palestinese negli Accordi di pace di Oslo nel 1993, il movimento adottò la lotta armata, in particolare attraverso la sua ala militare, le brigate Ezzedin al-Qassam, dotate di un servizio di intelligence, il Majd, creato, come abbiamo visto, da Yahya Sinwar. Nel dicembre del 1992, una guardia di frontiera israeliana fu rapita da queste brigate e fu trovata sgozzata. Per rappresaglia, il governo di Yitzhak Rabin deportò più di quattrocento membri di Hamas e della jihad islamica sulla montagna innevata di Marj az-Zohour, nel Sud del Libano. Lì furono accolti da Hezbollah, che avviò un decisivo riavvicinamento all’Iran.
A differenza dei salafiti, per i quali gli sciiti sono condannati all’inferno, i Fratelli Musulmani, per quanto sunniti, hanno adottato un approccio inclusivo nei confronti degli sciiti. L’ayatollah iracheno Mohammed Baqir al-Sadr (1935-1980), uno dei chierici più influenti del Ventesimo secolo, è stato il loro autore di riferimento per la sua opera sull’economia islamica, La nostra economia (Iqtisaduna), pubblicata negli anni sessanta. L’attuale leader iraniano, Ali Khamenei, ha tradotto in persiano due libri del teorico della Fratellanza radicale Sayyid Qotb, impiccato da Nasser nel 1966. Nel 1984, la Repubblica islamica ha emesso un francobollo con l’effigie dell’uomo divenuto martire dietro le sbarre del carcere, in attesa dell’esecuzione.
Infine, il movimento della Jihad islamica palestinese, che rappresenta il legame più esplicito fra la tradizione della Fratellanza e quella di Khomeini, è stato creato da Fathi Shqaqi, un Fratello palestinese che ha studiato in Egitto ed è stato entusiasta della Rivoluzione islamica in Iran del 1979. Il suo manifesto, Khomeini. L’alternativa islamica, pubblicato al Cairo all’inizio degli anni ottanta, era dedicato ai “due imam del secolo: il martire Hassan al-Banna (fondatore dei Fratelli Musulmani, ucciso nel 1949) e il rivoluzionario Khomeini”. Quel libretto ha avuto una certa fama fin dalla sua pubblicazione: tanto che lo acquistai, poco prima dell’assassinio di Sadat, su un marciapiede del Cairo dove era in libera vendita (non avevo idea, allora, di quale sarebbe stata la sua sorte futura…). Giustiziato dal Mossad a Malta nel 1995, Shqaqi ha fondato il suo movimento nell’interscambio tra Iran e Palestina, preparando il terreno per un rapporto di reciproco aiuto e complementarità.
Visto da Teheran, Hamas era certamente meno potente di Hezbollah, che sarebbe diventato il padrone del Libano dopo aver costretto le forze di occupazione israeliane nel Sud del paese ad andarsene nel 2000 e aver poi bloccato il governo di Beirut nel 2008. Ma il Libano rappresentava una risorsa geostrategica unica per esercitare una forte pressione su Israele, perché si trovava nel cuore della Palestina. In particolare, poteva essere utilizzato da Teheran per proteggere il proprio territorio per procura, con una capitale terroristica dissuasiva in grado di sferrare colpi terribili all’interno di Israele, nel caso in cui Israele volesse distruggere il centro nucleare iraniano di Natanz, ad esempio, sul modello del reattore iracheno di Osirak, fatto esplodere nel giugno del 1981. Inoltre, Hamas, con la sua radicale esemplarità di fronte all’“oppressione sionista”, ha messo i governi arabi che avevano stretto patti con lo Stato ebraico in contrasto con le loro popolazioni, spontaneamente filo-palestinesi. Ironia della sorte, la Persia islamista è diventata così il campione della causa araba, debitamente islamizzata da Hamas, a scapito dei “fratelli arabi”…
Le “Primavere arabe” hanno cambiato temporaneamente la situazione nel 2010. La questione palestinese ha lasciato il centro della scena, sembrando temporaneamente diluita nelle richieste democratiche di ogni società civile di fronte al suo regime autoritario. Le grandi ideologie unificanti, siano esse arabe o islamiche, sono sembrate inizialmente risentirne. È così che la situazione in Siria, dove il regime di Assad aveva accolto Hamas nel 2000 in nome della comune lotta esistenziale contro l’entità sionista, è diventata insostenibile per il movimento, con le brigate Ezzedin al-Qassam che hanno addirittura partecipato con i ribelli alla battaglia per la città siriana di Qousseir nel 2012. Khaled Meshal e gli altri capi dell’ufficio politico in esilio si sono rifugiati in Qatar e solo nel 2022 è stato riaperto un ufficio di rappresentanza a Damasco. In Egitto, il maresciallo al-Sisi ha rovesciato nel luglio del 2013 il presidente dei Fratelli Musulmani Mohamed Morsi, vicino ad Hamas, che ha così perso il diritto di utilizzare il valico di Rafah. Il nuovo rais, alleato con l’Arabia e gli Emirati Arabi Uniti contro il Qatar, non ha alcuna simpatia per un movimento appartenente alla Fratellanza che ha appena liquidato. Lo stima, ma mantiene con esso un rapporto strumentale che gli consente di sfruttare al meglio il suo potere di mediazione tra Hamas e Israele quando gli Stati Uniti ne hanno bisogno. Il Cairo, che ha controllato la striscia costiera palestinese fino al 1967, vi dispone ancora di importanti reti di intelligence.12
Nel complesso, il decennio inaugurato dalle “Primavere arabe” si è concluso – oltre che con il crollo delle speranze democratiche nei paesi interessati – con il crollo generale dei Fratelli Musulmani e dell’islamismo politico sunnita. I rami della Fratellanza sono stati sciolti in Tunisia, Egitto e Siria e anche il sostegno del Qatar sta diminuendo. L’emirato del gas si è riconciliato con il suo grande vicino, l’Arabia Saudita, nel 2020, dopo la revoca del blocco da parte di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto. La rete globale della Fratellanza, che serviva a contrastare le reti internazionali wahhabite, ha perso la sua importanza. Queste ultime non sono più vicine al nuovo sovrano dell’Arabia, il principe ereditario Mohammed bin Salman, che sta aprendo il regno a una modernità culturale globalizzata. Anche il presidente Erdogan, che è stato nutrito dall’ideologia della Fratellanza mista al nazionalismo turco, ha preso le distanze da quando il crollo della moneta turca ha richiesto l’assistenza finanziaria delle due petromonarchie, visceralmente ostili alla Fratellanza. In cambio dei capitali che depositano nelle banche di Istanbul, agli esuli arabi appartenenti al movimento viene chiesto di lasciare il paese e i loro media audiovisivi vengono chiusi.
Questo generale indebolimento della leadership dell’islamismo politico sunnita internazionale, unito alla capitolazione di Al-qaida e poi di Daesh, crea un vuoto in termini di risorse e sostegno per un’organizzazione dedita alla lotta armata, che ne ha un bisogno vitale. A cavallo degli anni venti, Hamas, guidato da Yahya Sinwar a Gaza, non ha alternative se non quella di diventare innanzitutto la punta di diamante sunnita dell’“asse della resistenza” strutturato dalla Forza Al-Quds delle Guardie rivoluzionarie iraniane. I suoi obiettivi coincidono sempre più con l’agenda di Teheran. Da allora, ha dovuto presentare l’enclave come luogo emblematico di resistenza a Israele, di fronte all’Olp di Mahmoud Abbas, di cui sta sfidando la vacillante autorità in Cisgiordania, e si sta affermando tra gli arabi di Israele, cittadini dello Stato ebraico, che vuole radicalizzare contro di esso. Per quanto riguarda la Forza Al-Quds, essa sta cercando il modo più eclatante per riparare all’affronto subìto con la liquidazione del suo leader Qasem Soleimani a Baghdad nel gennaio del 2020 – il suo obiettivo è riprendere il controllo sui suoi nemici americani e israeliani attraverso un successo spettacolare che compensi questa suprema umiliazione – minando i loro servizi di intelligence.
Il riepilogo di alcune posizioni pubbliche di Yahya Sinwar da quando ha preso il controllo di Gaza nel 2017 mostra la qualità del suo rapporto con i pasdaran, nonché la genealogia delle diverse fasi della sua strategia fino al 7 ottobre.13 Nel 2018 ha presieduto le manifestazioni palestinesi per il “diritto al ritorno”. Prendendo volutamente in contropiede la semantica della “Legge del ritorno”, che autorizza qualsiasi ebreo della diaspora a “tornare” nella terra delle sue origini bibliche, nell’attuale Stato di Israele, e a ottenere la cittadinanza, quelle manifestazioni hanno riunito gli abitanti di Gaza – la maggior parte dei quali appartiene a famiglie espulse dal territorio di questo stesso Stato nel 1948 e rifugiatesi nell’enclave – per esigere il diritto all’aliyah (emigrazione). Intervistato il 16 maggio 2018 dal canale Al Mayadeen, il capo di Hamas ha affermato che il suo movimento partecipava a queste marce, che dovevano essere pacifiche e alle quali partecipavano anche membri delle brigate Ezzedin al-Qassam, che per l’occasione avevano sostituito le loro uniformi militari con abiti civili. A suo avviso, questa mobilitazione popolare era un mezzo complementare alla lotta armata, per allargare la cerchia dei sostenitori all’estero. Le ha permesso di raccogliere il sostegno internazionale di fronte alla decisione del presidente Trump, il 14 maggio 2018, di trasferire l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, una decisione male accolta in Europa e in molti altri paesi.
L’obiettivo era anche testare la barriera di sicurezza, che è stata violata in alcuni punti, causando una sessantina di vittime uccise dai soldati israeliani. Sono stati utilizzati anche palloni incendiari, droni e aquiloni infuocati, che hanno distrutto decine di ettari di coltivazioni e foreste, in una sorta di prefigurazione della ben più cruenta incursione del 7 ottobre 2023. Del resto, nel registro dell’azione armata, Sinwar non mancava occasione di ringraziare l’Iran, i pasdaran ed Hezbollah per aver consegnato i missili Grad e Fajr che hanno colpito lo Stato ebraico, o per aver fornito assistenza tecnica e finanziaria per la loro fabbricazione locale.14 Il 24 maggio 2021, su Al Jazeera, tiene in braccio un bambino con l’uniforme delle brigate al-Qassam, una fascia verde intorno alla fronte e una mitragliatrice sproporzionata tra le mani. Si tratta del figlio di un ingegnere della Nasa, Jamal al-Zebda, tornato a Gaza per sviluppare quei dispositivi in loco e ucciso da Israele. Chiede vendetta, annunciando: “Spianeremo la strada della liberazione con i pezzi dei vostri corpi e faremo dei vostri teschi la scala che porta alla moschea di al-Aqsa”. Il 26 marzo 2021, durante le rivolte nelle città arabe israeliane colpite da povertà, traffico di droga e violenza omicida, ha rilasciato un’intervista ad Al Jazeera, “in solidarietà con i coraggiosi arabi di Jaffa, Haifa, San Giovanni d’Acri, Galilea, del Negev… che hanno dimostrato che i tentativi di ‘israelizzazione’ sono falliti”, e rivendica il lancio di razzi contro lo Stato ebraico. D’altra parte, il 30 aprile 2022, sullo stesso canale, ha stigmatizzato il membro islamista della ventiquattresima Knesset, Mansour Abbas, leader della Lista araba unita, i cui voti hanno contribuito a garantire la maggioranza al breve (giugno 2021-dicembre 2022) governo Bennett-Lapid, in cambio di consistenti trasferimenti finanziari alle città arabe di Israele: “Hai commesso un crimine,” ha proclamato, “che non possiamo perdonarti”. In seguito, Sinwar ha esaltato l’attacco con coltello contro la colonia di Ariel, in Cisgiordania, che ha causato la morte di tre israeliani il 15 novembre 2023. Ha deplorato il fatto che l’Olp non abbia incoraggiato il moltiplicarsi di tali omicidi e ha esortato i palestinesi residenti a votare in massa per Hamas. Ha invitato ad affilare “coltelli, asce e coltelli da macellaio” per le offensive a venire… che saranno attuate in modo decisivo dieci mesi dopo.
Tuttavia, nel periodo precedente, è notevole che le dichiarazioni di Sinwar coprano uno spettro di grande pervasività. Da Gaza, ha presentato l’azione del suo movimento come un modello per la Cisgiordania – minando sia la legittimità che l’efficienza dell’Autorità palestinese di Ramallah – ma anche per i cittadini arabi di Israele,15 e si è dimostrato un avversario della strategia del deputato della Knesset Mansour Abbas. Pur essendo anch’egli un autoproclamato Fratello Musulmano, Abbas ha avviato un rapporto transazionale con Israele, che è stato denunciato come un atto di tradimento e un ostacolo alla lotta armata. Sulla scena internazionale, Yahya Sinwar critica i governi arabi che stringono patti con lo Stato ebraico e riserva le sue lodi alla Repubblica islamica dell’Iran, che ringrazia in particolare per l’immancabile sostegno finanziario e operativo.
Nel primo pomeriggio del 25 dicembre 2023, nel sobborgo di Sayyeda Zaynab, nella periferia di Damasco, vicino alla moschea devozionale che ospita la tomba della nipote del Profeta, particolarmente cara agli sciiti, e dove vivono molti iraniani che sostengono il regime di Bashar al-Assad, l’aviazione israeliana ha compiuto un raid di notevole importanza e portata. Ha ucciso il generale delle Guardie rivoluzionarie Razi Moussavi, “uno dei più esperti consiglieri” della Forza Al-Quds, “responsabile della logistica dell’asse della resistenza” per il Medio Oriente e molto vicino al defunto Qasem Soleimani. Una fotografia diffusa dall’agenzia di stampa iraniana mostra i due uomini insieme, in atteggiamento rilassato. Il presidente Ebrahim Raisi ha immediatamente annunciato che “il regime sionista pagherà per questo crimine”. Paragonabile alla liquidazione di Soleimani a Baghdad nel gennaio del 2020 da parte di un drone americano, questo assassinio mirato era rivolto al più alto funzionario operativo dell’organizzazione coordinata con Hamas a Gaza. Ciò completa il quadro della razzia del 7 ottobre nel suo contesto regionale. Ciò che resta da chiarire è la politica israeliana che ne ha creato le condizioni.
2.
Le contraddizioni d’Israele
Il 30 ottobre 2023, il “New York Times” ha pubblicato un articolo basato su fughe di notizie provenienti dall’intelligence israeliana. In esso si affermava che, più di un anno prima della razzia del 7 ottobre, i servizi segreti dello Stato ebraico erano in possesso di documenti in cui si pianificava un’operazione militare simile, sotto molti aspetti, a quella che avrebbe avuto luogo quel giorno. Uno dei più dettagliati era denominato “Mura di Gerico”, in riferimento al racconto biblico del miracoloso crollo delle mura della città cananea assediata dagli ebrei, datato dalla tradizione al Tredicesimo secolo a.C. Questo famoso episodio avvenne quando gli ebrei lasciarono l’Egitto e si impadronirono della Terra Promessa, la terra di Canaan, che occupava più o meno il territorio corrispondente alla Palestina sotto il mandato britannico della Società delle Nazioni tra le due guerre mondiali. In quei tempi antichi, Gerico sarebbe stata la sua capitale. Dopo aver suonato lo shofar – trombe rituali fatte di corna di ariete – su indicazione del Signore, suo Dio, Giosuè, successore di Mosè, fece crollare il muro di cinta della città fortificata, che conquistò e di cui massacrò gli abitanti prima di renderla una rovina da cima a fondo. Questa narrazione mitologica, che si sarebbe concretizzata nel progetto sionista che ha portato alla creazione di Israele, è stata stravolta da Hamas in una sorta di vendetta semantica, quando, quasi con la stessa facilità con cui sono crollate le mura di Gerico, ha abbattuto la barriera protettiva di Erez, che separa il territorio dello Stato ebraico dalla Striscia di Gaza.
Ostaggio degli zeloti
La maggior parte degli osservatori ha attribuito lo sconcertante fallimento dello Stato ebraico il 7 ottobre alla gestione politica da parte di Netanyahu dell’uso delle sue forze militari.1 Infatti non c’erano più truppe di stanza al confine con Gaza perché erano state dislocate in Cisgiordania. L’espansione violenta degli insediamenti su istigazione degli alleati di estrema destra del primo ministro – componente necessaria della maggioranza alla Knesset del governo “Netanyahu vi” formato il 29 dicembre 2022 – è stata accompagnata da aggressioni e omicidi di abitanti palestinesi, che hanno suscitato violenza a loro volta. Al momento della firma degli Accordi di pace di Oslo, nel 1993, i coloni erano circa centomila. Alla fine del 2023 saranno quasi mezzo milione.2 Dall’inizio dell’anno non sono stati posti ostacoli legali al loro sviluppo. Nel 2023 sono stati registrati dall’Ong israeliana Yesh Din e dalle Nazioni Unite 1225 attacchi di coloni contro otto città o villaggi arabi. Questa situazione di massima tensione ha richiesto la presenza dell’esercito per mantenere l’ordine, condizione del sostegno a Netanyahu da parte dei deputati dei partiti Potere ebraico e Mafdal – Partito nazionale religioso, guidati da Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze e dell’“Amministrazione civile”3 presso il ministro della Difesa, e da Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza nazionale,4 entrambi residenti in Cisgiordania.
Suprematisti ebrei, si battono affinché Israele diventi uno Stato teocratico governato esclusivamente dalla legge biblica e per l’annessione della Cisgiordania e di Gaza, anche a costo dell’espulsione dei palestinesi. Controllano quattordici dei centoventi membri della Knesset, sui sessantaquattro che formano la coalizione di governo. Presentandosi come parte di un’unica lista, su insistenza di Netanyahu, hanno guadagnato otto seggi rispetto alla precedente Knesset: è grazie a loro che Netanyahu ha la sua maggioranza, e ne è strutturalmente in debito.
Il sistema di voto proporzionale del Parlamento israeliano permette ai partiti di minoranza di imporre la loro particolare agenda politica a un’alleanza che può rimanere al potere solamente a questo prezzo. Ma, al di là di queste considerazioni elettorali, la decisione di rafforzare la presenza dell’esercito in Cisgiordania liberando il confine con Gaza dalle truppe si è basata sul calcolo errato che i leader di Hamas non avrebbero attaccato: senza dubbio avrebbero troppo da perderci e si accontenterebbero di una situazione in cui gestiscono quel territorio a proprio vantaggio, alla maniera dei bantustan sudafricani durante l’era dell’apartheid. L’oltranzismo bellicoso di Yahya Sinwar non è stato preso sul serio: si tratta solo di retorica a uso interno. Nel 2011, lo stesso primo ministro ha guidato il governo “Netanyahu ii” che ha deciso di scambiare 1027 prigionieri – primo fra tutti Yahya Sinwar – per la liberazione del caporale Gilad Shalit. Una simile spinta al Movimento di resistenza islamica e al suo futuro leader a Gaza faceva parte di un complotto per indebolire l’Autorità palestinese guidata da Mahmoud Abbas a Ramallah. Ha dato ad Hamas un prestigio senza pari per aver estorto una così stravagante concessione allo Stato ebraico…
Questa scelta strategica, che consiste nel puntare sull’aspetto irritante di Hamas rafforzandone il carattere di mostro, è stata una costante per Netanyahu nel corso di una carriera che, con quindici anni al potere, batte il record del più lungo mandato di un primo ministro israeliano. Questo lo ha portato, nel 2012, a vedere con favore la visita a Gaza dell’emiro Hamad del Qatar dall’Egitto, allora in rivoluzione, che ha promesso di investire 400 milioni di dollari per costruirvi abitazioni. Ciò inaugurò – come abbiamo visto – quello che sarebbe diventato il metodo di finanziamento di Hamas da parte dell’emirato del gas, sistematizzato dal 2018 con la rotazione mensile di un aereo della Qatar Airways che porta a Gaza fino a 40 milioni di dollari in contanti, attraverso l’aeroporto Ben-Gurion. Il modo migliore per mantenere in vita l’economia dell’enclave e le varie forme di traffico che avevano contribuito a stabilire un equilibrio sociale e politico, per quanto precario. La fiducia nella durata di questo accordo, apparentemente così ben regolato e funzionale, non poteva che alimentare l’incredulità del primo ministro e della sua cerchia ristretta verso i segnali di allarme che giungevano ai suoi servizi di intelligence riguardo ai preparativi per l’incursione del 7 ottobre.
In ogni caso, le manovre interne hanno costretto Netanyahu ad accontentare l’estrema destra, che ha chiesto il trasferimento di battaglioni operativi in Cisgiordania per proteggere l’espansione degli insediamenti. Inoltre, il primo ministro si trova in una situazione legale precaria a seguito del suo rinvio a giudizio dal novembre del 2019 con i capi d’accusa di corruzione, frode e favoritismo, accuse per le quali, se condannato, rischia sedici anni di carcere. Il suo predecessore Ehud Olmert, come l’ex presidente Moshe Katsav, ha già trascorso anni dietro le sbarre. Interrotto dopo il 7 ottobre, il suo processo è ripreso il 4 dicembre, gettando un’ombra sulla sua continuità al potere e sollevando interrogativi sulla sua conduzione della guerra in relazione a questo rischio.
Il pogrom perpetrato da Hamas ha colpito soprattutto israeliani eredi di valori di sinistra: nel kibbutz Be’eri, il kibbutz più colpito dal massacro, il reddito veniva messo in comune e ridistribuito nel modo egualitario e collettivista idealizzato dal socialismo di un tempo. Il festival Nova Tribe5 celebrava l’ecologia, la musica psichedelica e l’amore libero, ovvero le utopie del futuro. Dall’inizio dell’anno, questo Israele era in rivolta contro una delle disposizioni più controverse del gabinetto “Netanyahu vi”, che cercava di minare il primato della Corte suprema per modificare la natura democratica dello Stato. Approvata in prima lettura dalla Knesset il 21 febbraio e poi convalidata a luglio, la riforma mirava a stabilire un controllo più stretto sulla nomina dei giudici della Corte da parte della maggioranza parlamentare e a limitare il ruolo della Corte togliendole il diritto – garantito dalle leggi fondamentali di Israele – di annullare una decisione presa dal governo per motivi ritenuti “irragionevoli” da questi alti giudici.6
Per Netanyahu, il vantaggio sarebbe stato “limitare le conseguenze delle sue battute d’arresto legali”,7 mentre i suoi alleati di estrema destra avrebbero potuto far prevalere le regole della legge ebraica (la halakha) sulla legislazione democratica e attuare il suprematismo tanto contro gli arabi israeliani quanto contro i palestinesi. La gigantesca ondata di proteste – propagatasi all’estero fino al presidente Biden – ha contribuito a ritardare l’esame finale del disegno di legge. Andava dalla sinistra all’industria informatica, che fornisce alla start-up nation gran parte della sua prosperità, fino ai riservisti volontari dell’esercito, in particolare i piloti, che hanno creato il movimento “Brothers in Arms” (Fratelli in armi), rifiutandosi di svolgere il loro periodo di addestramento e di prestare servizio se la riforma fosse stata adottata. Ciò ha esercitato una notevole pressione sull’esecutivo, perché lo “Sherut Milu’im [servizio di riserva] permette all’Idf, che ha 169.000 combattenti, di disporre di 465.000 riservisti che non sono volontari, ma cittadini obbligati a rimanere a disposizione del loro reggimento e tenuti permanentemente a essere in grado di unirsi molto rapidamente alle loro unità”.8 Date le sfide strutturali che lo Stato ebraico si trova ad affrontare, questo disegno di legge sarebbe stato infine invalidato dalla Corte suprema il primo gennaio 2024, infliggendo uno schiaffo a Netanyahu e ai suoi alleati di estrema destra.
Per i nemici dello Stato ebraico, quelli dell’“asse della resistenza” da Teheran ad Hamas, questa spaccatura di una profondità senza precedenti nella società israeliana è stata una sorpresa divina. È stata ampiamente coperta dai media in lingua araba e dai social network, che l’hanno vista come una prefigurazione del crollo dell’“entità sionista”, minata dalle sue contraddizioni. La spaccatura ha creato un contesto favorevole per l’offensiva decisiva che avrebbe avuto la meglio. Ironia della sorte, il programma sionista religioso di Itamar Ben-Gvir e di Bezalel Smotrich era sorprendentemente simile a quello dei Fratelli Musulmani, dei salafiti e della velayat-e faqih khomeinista, con i primi che chiedevano l’applicazione della halakha e i secondi l’applicazione della sharia. Ma con metodi e obiettivi paragonabili…
Questa combinazione di fattori, sia strutturali che congiunturali, in cui si mescolavano considerazioni tattiche, orientamenti a lungo termine e pregiudizi cognitivi, ha creato le condizioni più favorevoli per la peggiore catastrofe che lo Stato di Israele abbia mai conosciuto fin dalla sua creazione. Oltre alla dottrina dello Judenstaat di Theodor Herzl in reazione all’Affare Dreyfus e alla successiva creazione di colonie ebraiche nella Palestina mandataria britannica – l’Yishuv – prima della Seconda guerra mondiale, fu l’orrore della Shoah nazista a spingere le Nazioni Unite a creare lo “Stato degli ebrei”, un rifugio che li avrebbe protetti da ulteriori tragedie dello stesso tipo. La creazione di uno Stato avvenne a scapito dei palestinesi che, nonostante la simpatia del Mufti di Gerusalemme, Hajj Amîn al-Husseini (1895-1974), per Hitler, non avevano alcuna responsabilità nel genocidio nazista. Infatti gli arabi, che allora vivevano sotto il giogo europeo o ne erano usciti da poco, non rappresentavano la forza politica che sarebbero diventati dopo l’ottobre del 1973. Il culmine è stato raggiunto grazie ai proventi petroliferi accumulati da allora, che hanno reso la penisola arabica uno dei principali centri finanziari del mondo.
È la stessa capacità di Israele di esercitare in modo strutturale questo ruolo di protezione degli ebrei a essere stata brutalmente messa in discussione il 7 ottobre, con il peggior pogrom dalla caduta del nazismo. Il trauma causato da questo shock, rafforzato dalla rivelazione dei mostruosi dettagli dell’operazione e dalla sua immediata diffusione sui social network di tutto il mondo, avrebbe dovuto indurre il paese a interrogarsi innanzitutto sulla responsabilità del primo ministro e sulle sue scelte politiche. I leader laburisti israeliani al potere nell’ottobre del 1973, sorpresi dall’offensiva araba della guerra dello Yom Kippur, pagarono il prezzo di una mancanza di vigilanza che al confronto appare molto minore, emarginando il partito che era stato associato alla creazione dello Stato e al primo quarto di secolo della sua esistenza. Sono stati soppiantati dall’emergere della destra, di cui Netanyahu è stato l’esempio, e dall’ascesa di movimenti politico-religiosi che non sono mai stati così potenti come nel governo insediato nel dicembre del 2022. Tuttavia, per le stesse ragioni di sopravvivenza politica e giudiziaria che lo hanno portato ad allearsi con gli estremisti che lo hanno preso in ostaggio in Cisgiordania – e il cui “successo” nella razzia del 7 ottobre è stata una diretta conseguenza – il primo ministro ha lanciato una massiccia operazione aerea e di terra nella Striscia di Gaza a partire dal 27 ottobre. Ha così scatenato un’incontrollabile escalation di violenza e distruzione, in cui è in gioco il suo stesso futuro, almeno quanto quello di Israele.
Dal pogrom di Be’eri al massacro di Gaza
Netanyahu ha proclamato tre obiettivi di guerra: la distruzione delle infrastrutture di Hamas, la liquidazione di Yahya Sinwar e dei suoi collaboratori e la neutralizzazione di Gaza, affinché l’enclave non costituisca mai più una minaccia per Israele. Tuttavia, come abbiamo visto, è stato lui stesso, attraverso i suoi successivi mandati, a incoraggiare come nessun altro leader dello Stato ebraico il consolidamento del potere di Hamas a Gaza e la “resistibile ascesa” del suo leader dopo il suo rilascio nel 2011, credendo di poterli manipolare a proprio vantaggio. In Israele questa strategia è stata soprannominata “concetto”: consisteva nel rafforzare Hamas per indebolire l’Autorità palestinese e nel farlo sponsorizzare dal Qatar per acquistare sicurezza al confine meridionale. Netanyahu è caduto nella trappola che aveva teso, sottovalutando, al di là del personaggio stesso di Sinwar, il legame tra le azioni di Hamas e la strategia globale dell’“asse della resistenza” controllato da Teheran, di cui Hamas è la punta di diamante sunnita, che dal 7 ottobre si è infilata nel fianco di Israele. La risposta attuata il 27 ottobre, che porterà all’annientamento pressoché totale della Striscia di Gaza, deriva da una combinazione di due logiche.
Da un lato, tale risposta è in linea con la dottrina definita nel Libro bianco dell’Idf del 2015, scritto sotto l’autorità dell’allora capo di Stato maggiore, il generale Benny Gantz, poi rivale di Netanyahu, ma incluso nel gabinetto di guerra istituito dopo il 7 ottobre. Si fonda sul principio della “risposta sproporzionata”, che consiste in una reazione determinata a qualsiasi attacco alle frontiere. Esso afferma che “lo Stato degli ebrei, uno Stato in armi, deve essere in grado di proteggersi da qualunque nuovo progetto di sterminio […] e che qualsiasi sconfitta potrebbe portare non a una semplice sconfitta, ma alla scomparsa stessa del suo popolo”.9
Ma su di essa si innesta un’altra logica, propria della psicologia politica di Netanyahu. Gli obiettivi bellici ultimi che si è prefissato sembrano avere poco di razionale ed essere irraggiungibili, almeno a breve termine, se non quello di massacrare collettivamente coloro che ha personalmente ingannato e che Netanyahu ha fantasticato di trasformare in Amalek, il mitico nemico degli ebrei che essi devono annientare secondo la Tradizione. Perché è la sua stessa empietà che ha portato alla più grande catastrofe per lo Stato ebraico dalla sua fondazione.10 Ed è il suo imperativo individuale di sopravvivenza politica e giudiziaria – per il quale non prevede altra salvezza che un’alleanza con i suprematisti di estrema destra – che lo ha lanciato nella corsa a capofitto per bombardare indiscriminatamente i civili a Gaza. Ecco che, al 23 dicembre 2023, dopo due mesi di impegno, più di ventimila palestinesi morti, un terzo dei quali bambini, e quasi due milioni di sfollati interni (cioè circa l’85 per cento della popolazione), durante una visita alle truppe dispiegate nell’enclave, che contava già 167 soldati uccisi, non ha potuto che proclamare – di fronte alla realtà sul campo – che “la guerra sarà lunga”.
I danni collaterali causati nelle relazioni israelo-americane – che restano cruciali, come dimostra l’urgente rifornimento di munizioni per carri armati e artiglieria il giorno dopo il 7 ottobre e il 9 dicembre 2023, senza passare per l’approvazione del Congresso – sono molto significativi, soprattutto tra gli studenti universitari dell’altra sponda dell’Atlantico, dove viene reclutata l’élite globalizzata del futuro. Nella politica interna israeliana, il rovesciamento di tutti i valori causato dal pogrom del 7 ottobre e la scelta della risposta massiccia fanno parte di una visione suprematista e messianica. Il 31 dicembre 2023, ad esempio, il ministro Bezalel Smotrich (seguito dal collega Ben-Gvir) ha caldeggiato il ritorno dei coloni ebrei nella Striscia di Gaza e ha chiesto l’“evacuazione” dei due milioni di abitanti palestinesi dell’enclave abbandonati lungo il confine con il Sinai egiziano, dove le condizioni di sopravvivenza sono insopportabili, per fuggire dalle operazioni militari. Due giorni prima, il Sudafrica aveva presentato un’istanza alla Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite accusando Israele di “atti di genocidio” a Gaza. L’ex Stato dell’apartheid, ora governato dai neri che ne furono vittime – e a cui vengono spesso paragonati i palestinesi sotto occupazione – è una voce che ha un peso nel nuovo ordine mondiale, come leader dei Brics (del cui acronimo rappresenta la lettera s), così come in Africa, dove Israele ha intessuto un’intera rete diplomatica. Il primo ministro si è trovato costretto a rispondere che la guerra è stata “condotta nel modo più morale possibile”, rinviando ad Hamas l’accusa di genocidio.
Il modo in cui sta conducendo l’offensiva a Gaza espone Netanyahu a un pericoloso dilemma. Per il suo elettorato, l’eliminazione di Hamas, anche a costo di sterminare decine di migliaia di palestinesi, è una sorta di compensazione per la paura provocata nella psiche collettiva dal pogrom del 7 ottobre.11 Ma la gestione di relazioni internazionali vitali per questo Stato di meno di dieci milioni di abitanti, che trae gran parte delle sue risorse dal coinvolgimento nella globalizzazione, lo costringe ad astenersi dal massacro di civili. Tuttavia, il primo ministro ha agito sulla base di imperativi politici strettamente interni, segnati dal costante aumento del voto religioso in Israele, voto che gli ha permesso di ottenere una maggioranza parlamentare. È una delle tendenze chiave della demografia elettorale israeliana. Questo vale per gli ebrei ma anche, specularmente, per gli arabi, che rappresentano il 23,5 per cento della popolazione. Ad esempio, il deputato islamista della Knesset Mansour Abbas, capo della Lista araba unita (Ra’am), ha dato il suo sostegno12 – prima volta nella storia dello Stato ebraico – alla fragile coalizione Bennett-Lapid che dal giugno del 2021 al dicembre del 2022 ha brevemente tenuto il potere tra i governi Netanyahu v e vi.
La demografia dei partiti religiosi
La pressione esercitata dai partiti religiosi sul sistema elettorale israeliano non è così lontana da quella esercitata dall’Islam politico nei paesi musulmani vicini, anche se le modalità variano a seconda che siano governati da un regime autoritario – come nel caso degli Stati arabi – o da un regime democratico illiberale, come in quello della Turchia. A ogni modo, la differenza nei tassi di fertilità tra i contesti tradizionali e quelli moderni ha comportato l’erosione demografica delle classi medie laiche nell’arco di una o due generazioni e l’ascesa al potere dei figli delle grandi famiglie che provengono dall’esodo rurale e che si sono insediati nelle periferie delle città, portando con sé la loro etica conservatrice, agevolmente intercettata dagli attivisti rigoristi. La Turchia, che nel Ventunesimo secolo ha visto il laicismo di Atatürk sostituito dall’adesione alla fratellanza di Erdogan all’apice del potere, ne è l’illustrazione più eclatante, perché si può misurare alle urne. La rielezione di Erdogan alla presidenza nel maggio del 2023, la sua quindicesima vittoria consecutiva, nonostante la sua disastrosa gestione del terremoto del 6 febbraio, l’inflazione galoppante e il crollo della moneta, è una testimonianza eloquente dello spostamento demografico a favore degli elettori impregnati di valori conservatori e islamici, indipendentemente dalle vicissitudini del clima economico.
In Libano, la sovranatalità degli sciiti poveri, emarginati da quando nel 1943 fu istituito il Patto nazionale libanese, che divideva il potere tra la classe media urbana cristiana e sunnita, ha portato Hezbollah a prendere il controllo dello Stato, debitamente assistito da Teheran. Dahiyé – un sobborgo informale nel Sud di Beirut dove si concentrano i neo-cittadini sciiti cacciati dalle campagne meridionali dalla povertà e dai bombardamenti israeliani – è ora la vera capitale del paese, a scapito del Gran Serraglio dove siede il primo ministro sunnita e del Palazzo Ba’abda dove vive il presidente della Repubblica maronita. È da questa roccaforte che lo sceicco Nasrallah, principale portavoce dell’“asse della resistenza”, ha tenuto i suoi discorsi il 3 novembre 2023 e il 3 gennaio 2024. Quest’ultimo ha fatto seguito alla liquidazione israeliana, avvenuta il giorno precedente, di Salah al-Arouri, numero due dell’ufficio politico di Hamas, che si riuniva in un appartamento di questa zona densamente popolata con sei dei più alti dirigenti dell’ala militare del movimento.
In Israele, la stessa preoccupazione per la fertilità fa sì che le cinque mogli dei leader dei partiti religiosi della coalizione che ha vinto le elezioni del primo novembre 2022 abbiano dato alla luce ben 42 figli!13 Gli haredim (ultra-ortodossi) sono i primi in questo senso: nel 2020 rappresentavano il 20 per cento della popolazione ebraica14 e nel 2040 dovrebbero raggiungere il 35 per cento, ceteris paribus. Il voto comunitario per lo Jut (United Torah Judaism) (sette membri alla Knesset) assicura loro la maggioranza nelle città devote e a Gerusalemme ottengono il 24 per cento dei voti. Lo Shas (che rappresenta i sefarditi tradizionalisti provenienti dai paesi arabi, di estrazione popolare e le cui famiglie sono prolifiche) detiene undici seggi, e i sionisti religiosi – altrettanto prolifici, soprattutto negli insediamenti della Cisgiordania – quattordici deputati. In questo modo i partiti hanno un totale di trentadue seggi, a pari merito con il Likud di Netanyahu, e gli forniscono una base socio-ideologica che non ha subìto vicissitudini nonostante il crollo del potere constatato il 7 ottobre.
All’interno di questa coalizione, sono i sionisti religiosi, guidati da Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, ad aver garantito il passaggio al potere, grazie al loro obiettivo esplicitamente militante. Il loro suprematismo ebraico si esprime ora nel desiderio di annettere la “Giudea-Samaria” (la Cisgiordania) il più rapidamente possibile, intensificando l’attività di insediamento per cacciare i palestinesi e, con l’offensiva su Gaza del 27 ottobre, approfittando di questa opportunità per riconquistare l’enclave e ristabilirsi lì. A differenza dello Jut e dello Shas, che si preoccupano solo della difesa particolaristica della loro comunità e i cui studenti delle yeshivah sono esentati dal servizio di leva per dedicarsi completamente alla teologia, questi militanti sionisti hanno preso il controllo dell’esercito. Addestrano i loro giovani nelle hesder yeshivot, che combinano un’intensa preparazione militare con gli studi biblici, e i diplomati ottengono posizioni di responsabilità nelle unità di combattimento, in particolare nella brigata d’élite Golani. Si addestrano specificamente all’uso della forza letale contro i palestinesi e gli arabi in generale.
Questo movimento, la cui dottrina fu sviluppata da Rav Abraham Isaac Kook (1865-1935), il primo rabbino capo ashkenazita della Palestina sotto il mandato britannico, e da suo figlio Zvi Yehuda Kook (1891-1982), fu marginale nei primi anni dello Stato ebraico, allora dominato da un’élite politica laburista laica. I suoi adepti credevano tuttavia che i leader israeliani, secolarizzati com’erano, stessero inconsapevolmente attuando la Redenzione finale (Geulah) giudaizzando la Terra Promessa, che sarebbe culminata nella venuta del Messia.
La “guerra dei sei giorni” del giugno del 1967 e le conquiste territoriali che ne seguirono – in particolare Gerusalemme (Est) e il Muro del Pianto (o Kotel per gli ebrei), ma anche la Giudea e Samaria bibliche (la Cisgiordania) e Gaza – rafforzarono la loro convinzione che si trattasse dell’esecuzione di un piano divino nascosto agli occhi dei profani. In questo modo, hanno trovato una giustificazione “divina” per l’annessione della Città vecchia di Gerusalemme e la colonizzazione dei territori occupati con insediamenti e città per soli ebrei.
Ma il fallimento di Israele durante la guerra dello Yom Kippur nell’ottobre del 1973 e la prospettiva di negoziati con i palestinesi – che avrebbero portato al difficile processo di pace di Oslo – radicalizzarono i seguaci del movimento che, di fronte a questi potenziali ostacoli all’imminente arrivo del Messia nella Terra Promessa, crearono il Gush Emunim(Blocco dei fedeli), composto da attivisti ultra-militanti determinati a forzare questo destino ormai contrastato. Durante l’indagine che ho svolto nel 1988-1989 in alcuni dei loro insediamenti in “Giudea-Samaria” per il mio libro La rivincita di Dio (1990), sono stato colpito dalla virulenza anti-palestinese dei loro membri iperarmati (alcuni dei quali, i più illuminati, erano appena arrivati dagli Stati Uniti e altri dalle periferie operaie francesi in via di islamizzazione)15 e dal loro risentimento nei confronti dell’establishment, sospettato di volerli abbandonare e di ostacolare l’attesa parusia ebraica. Hanno accelerato il declino dei laburisti alleandosi con i partiti di destra, che da quel momento in poi hanno incarnato i cambiamenti politici e sociali che Israele ha vissuto, a partire dall’arrivo al potere, nel giugno del 1977, di Menachem Begin, fondatore del Likud. Durante i negoziati per la creazione di un’Autorità palestinese in Cisgiordania, culminati nella firma dei cosiddetti Accordi di Oslo nel 1993, hanno lottato con le unghie e con i denti per garantire il mantenimento perenne dei loro insediamenti, compresa una rete stradale speciale riservata ai coloni. In questo modo, hanno contribuito alla parcellizzazione “a macchia di leopardo” della Cisgiordania, che ha ulteriormente ridotto il controllo di Yasser Arafat.
Nell’agosto del 2005, il Gush Emunim e i coloni al suo interno hanno subìto un trauma politico di lungo corso, causato dall’evacuazione forzata dei ventuno insediamenti ebraici nella Striscia di Gaza, su ordine del primo ministro Ariel Sharon, a seguito della seconda Intifada. Lo stesso primo ministro aveva tuttavia favorito lo scoppio dell’Intifada deridendo Arafat sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme il 28 settembre 2000. Ne seguì una terribile catena di violenze e un aumento degli attacchi suicidi palestinesi in territorio israeliano. Ciò permise a Sharon – la cui carriera politica era stata interrotta dal suo coinvolgimento “indiretto”, durante la guerra del Libano del 1982, nei massacri di palestinesi da parte dei cristiani falangisti nei campi di Sabra e Shatila il 16 settembre16 – di vincere le elezioni e diventare, nel marzo del 2001, il simbolo del partito dell’ordine.
Ma, per ripristinare la sicurezza dopo quattro anni di caos, non ha avuto altra scelta che costruire un muro di separazione tra Israele e la Cisgiordania (annettendo di fatto gli insediamenti vicini alla “linea verde”)17 e, soprattutto, ordinare l’evacuazione degli ottomila abitanti degli insediamenti nella Striscia di Gaza nell’agosto del 2005. Quegli insediamenti erano stati considerati indifendibili di fronte ai due milioni di palestinesi che vivevano nell’enclave, in un momento di massima violenza. Il piano è stato inizialmente respinto dal Likud, il partito del primo ministro, poi modificato e rifiutato dalla metà degli israeliani, secondo i sondaggi. Benjamin Netanyahu, allora ministro delle Finanze – aveva già ricoperto la carica di capo del governo dalla primavera del 1996 all’estate del 1999 –, rassegnò le dimissioni il 7 agosto per protestare contro un’iniziativa denunciata come “cieca a lungo termine”. I coloni sono stati risarciti e ricollocati in Cisgiordania, dove alcuni hanno costruito “musei commemorativi” con scatole mobili e fotografie di dune paradisiache sulle acque turchesi del Mediterraneo. Il Gush Emunim ha subìto il colpo, smobilitato dalla Realpolitik di Sharon, che gli aveva dato un grande sostegno nel portafoglio dell’Agricoltura tra il 1977 e il 1981, incoraggiando l’insediamento di venticinquemila ebrei nei territori occupati.
La generazione di sionisti religiosi che ha preso il sopravvento ed è ora ai vertici della struttura di potere è nata negli anni ottanta ed è ossessionata dall’idea di rimediare a questa battuta d’arresto diventando più radicale dei suoi anziani, che erano rimasti ai margini della politica. Bezalel Smotrich, avvocato quarantatreenne, figlio di un rabbino e colono in Cisgiordania, dove vive in una casa costruita illegalmente, crede né più né meno che i palestinesi debbano andarsene, essere uccisi o servire gli ebrei se rimangono nella Terra Promessa. Nel maggio del 2021 ha preso parte ai raid dell’estrema destra contro gli arabi israeliani a Lod, durante i disordini noti come “guerra degli undici giorni”18 che hanno contribuito alla caduta del governo “Netanyahu v” nelle settimane successive (prima del suo ritorno in carica sedici mesi dopo). Ha deliberatamente assunto una posizione divisiva contro gli israeliani Lgbt che, a suo avviso, tradivano l’identità ebraica, e li ha disumanizzati simbolicamente organizzando una “Marcia degli animali” che derideva la loro “Marcia dell’orgoglio”. Il suo collega Itamar Ben-Gvir, quarantasei anni, residente nell’insediamento ultra-radicale di Kiryat Arba’, vicino a Hebron, è stato attivo nel violento partito razzista Kach del rabbino Kahane fin dall’età di quattordici anni, cosa che gli è valsa l’estromissione dal servizio militare. Nel 2021, con un atto di spavalderia, ha aperto il suo ufficio parlamentare nel quartiere arabo di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est. Ben-Gvir si è fatto fotografare mentre entrava a forza nella moschea di al-Aqsa, come membro della Knesset, con la pistola in mano: sulla linea provocatoria di Ariel Sharon, una tacca sopra.
Proprio come i jihadisti che leggono i testi sacri dell’Islam in modo letterale e decontestualizzato, come dimostra la razzia del 7 ottobre, nota come “Diluvio di al-Aqsa”, gli zeloti dell’ebraismo contemporaneo trovano nelle Scritture bibliche, che predicano nella loro vasta rete di yeshivot, ampio materiale per il terrore sacro contro i goyim (gentili). Così Yahweh dice a Mosè nell’Esodo (23, 27): “Il mio terrore ti precederà perturbando i popoli prima del tuo arrivo, e tutti i tuoi nemici sceglieranno di fuggire”. E continua: “Yahweh, è la Tua mano destra che fa a pezzi i tuoi nemici”. A Gerico, dopo l’episodio delle trombe che fecero crollare le mura, Giosuè massacra “tutto quello che c’era”.
Sono questi gli attori israeliani del dramma di Gaza dopo il pogrom del 7 ottobre 2023, che sono diventati i ministri chiave che controllano l’agenda e la sopravvivenza politica di Netanyahu. Hanno influenzato la risposta fulminea dello Stato ebraico, mantenendo il ricordo del “lungo termine”, quello della traumatica evacuazione dell’agosto del 2005. Queste considerazioni non sono probabilmente estranee al desiderio di devastazione irreparabile dell’enclave, per espellere la maggior parte dei suoi abitanti e tenere solo “cento o duecentomila persone”, secondo Smotrich, né al progetto di reinsediamento nelle colonie perse vent’anni prima, per affrettare il ritorno di un Messia che si fa desiderare…
Il contrappeso dell’ebraismo americano
L’offensiva a Gaza si sta rivelando estremamente controproducente per raccogliere il sostegno esterno di cui Israele ha urgentemente bisogno. Negli Stati Uniti esiste una comunità ebraica il cui numero di membri corrisponde all’incirca a quelli dello Stato ebraico e che esercita un’influenza senza pari all’interno del paese più potente del mondo. L’orrore del pogrom del 7 ottobre è stato profondamente sentito da Brooklyn a Los Angeles. Ma, visto dall’altra parte dell’Atlantico, questo non giustifica un tipo di risposta che alienerebbe il sostegno necessario alla sopravvivenza stessa di Israele tra le nazioni dei gentili. Né vieta di sfidare il patto faustiano siglato da Netanyahu con i suoi affiliati di estrema destra.
Una serie di fattori ha fatto precipitare questo allontanamento del governo israeliano dai suoi alleati, sia alla Casa Bianca che in una parte significativa della comunità ebraica, tre mesi dopo il 7 ottobre. A prescindere da qualsiasi criterio etico o morale, sta diventando chiaro che l’offensiva armata che ha portato al massacro di oltre venticinquemila civili a Gaza, allo sfollamento di quasi due milioni di persone immerse nella miseria e nella fame e alla devastazione del territorio da cima a fondo è un fallimento sia militare che politico. Il disastro umanitario non permette di prescindere dalla necessità di raggiungere gli obiettivi di guerra assegnati: dopo tre mesi di assalti, l’infrastruttura sotterranea di Hamas non è stata distrutta, come dimostra la comparsa di combattenti che emergono dai tunnel nella parte settentrionale dell’enclave, cogliendo di sorpresa i soldati israeliani e uccidendoli. Quanto a Yahya Sinwar e ai suoi principali luogotenenti, rimangono irraggiungibili, tra gli ostaggi nascosti nelle profondità dei tunnel. Il primo ministro e i suoi accoliti suprematisti non avevano previsto la risposta palestinese e l’assegno in bianco che è stato loro concesso viene gradualmente rimesso in discussione.
La decisione della Corte suprema, il primo gennaio 2024, di invalidare un elemento chiave del progetto di riforma costituzionale che avrebbe dato a Netanyahu e ai suoi alleati pieni poteri per minare lo Stato di diritto dimostra che, anche in Israele, non ci può essere alcuna unione sacra dietro di loro, e che l’indagine giudiziaria su di lui sarà portata fino in fondo. Il giorno successivo, l’esercito ha annunciato il ritiro di cinque brigate da combattimento da Gaza. Questo in risposta alle pressioni degli Stati Uniti per frenare un’offensiva tanto micidiale quanto infruttuosa e per diversificarsi con un’altra strategia che in passato si era dimostrata valida: gli assassinii mirati di leader di Hamas (in mancanza di Yahya Sinwar) e le operazioni di rappresaglia contro l’“asse della resistenza”, volte a indebolirlo.
Dopo la liquidazione del capo della Forza Al-Quds per il Medio Oriente, il generale maggiore Razi Moussavi, ucciso a Damasco il 25 dicembre 2023,19 è stato inferto un colpo molto pesante sia al movimento islamista palestinese che a Hezbollah quando sono stati neutralizzati dal fuoco dei droni, il 2 gennaio, nel cuore della roccaforte del “Partito di Dio” nella periferia sud di Beirut, il vicepresidente dell’ufficio politico di Hamas, Salah al-Arouri, responsabile anche della Cisgiordania, e sei gerarchi militari di primo piano.
Ufficialmente “secondo in comando” di Ismail Haniyeh, sebbene abbia scelto di vivere a Beirut piuttosto che in Qatar, l’etica e l’orientamento di Arouri sono più vicini a quelli di Yahya Sinwar. Questo cinquantenne figlio di un imam, nato nel 1966, si è unito ad Hamas nel 1987 durante la prima Intifada ed è stato uno dei fondatori della sua ala militare, le brigate al-Qassam. Imprigionato per circa quindici anni in Israele, vi ha imparato l’ebraico, prima di essere liberato condizionalmente nel 2010 e andare in esilio. All’epoca si è unito all’ufficio politico di Hamas a Damasco, ma è stato costretto a fuggire dalla Siria nel 2012, durante la rivolta della “Primavera araba”, quando le brigate hanno combattuto a fianco dei ribelli contro le truppe di Hezbollah che sostenevano il regime di Assad, nella battaglia di Qousseir.20 Accolto con favore in Turchia, dove Erdogan sosteneva i Fratelli Musulmani e combatteva contro la Siria, Salah al-Arouri dovette andarsene tre anni dopo, perché lo Stato ebraico pose la sua espulsione come precondizione per la riconciliazione turco-israeliana, sullo sfondo di contratti per il gas.
È infatti incriminato per il rapimento e l’omicidio di tre adolescenti ebrei in Cisgiordania nel 2014 (è ciò che avrebbe scatenato la guerra di Gaza nell’estate del 2014). La sua unica opzione in Medio Oriente è rimasta quindi Beirut, dove si è stabilito sotto la protezione di… Hezbollah – anche se tre anni prima aveva combattuto contro di esso, armi in pugno.
In una svolta improntata al pragmatismo, Salah al-Arouri non ha avuto altra scelta che diventare il principale ufficiale di collegamento tra Hamas e i pasdaran iraniani. In questa veste, ha persino incontrato il leggendario Qasem Soleimani. Nel 2017 è stato eletto vicepresidente dell’ufficio politico di Hamas, affiancando Ismail Haniyeh. Yahya Sinwar21 lo avrebbe contattato trenta minuti prima della razzia del 7 ottobre, affinché avvertisse Hassan Nasrallah e Teheran dell’imminente attacco, prova della sua posizione centrale nella gerarchia del movimento. Il significato simbolico della sua esecuzione è rafforzato dalla tempistica, alla vigilia di una commemorazione sacra che unisce l’“asse della resistenza” in tutto il mondo: il quarto anniversario della morte di Qasem Soleimani, ucciso da un drone americano a Baghdad il 3 gennaio 2020.
Il segretario generale del “Partito di Dio”, il cui secondo discorso dal 7 ottobre, dopo quello del 3 novembre,22 era stato annunciato urbi et orbi per celebrare il culto di quel martire, deve rifare tutto da capo sotto la pressione di questo evento imprevisto, e giurare vendetta per il leader palestinese ucciso mentre godeva della sua ospitalità e protezione. Questa battuta d’arresto arriva in un momento in cui Hezbollah, che scambia quotidianamente missili al confine con Israele, deve gestire un’equazione difficile nel contesto deteriorato del Libano. Il coinvolgimento del Libano in una belligeranza incontrollata con il suo vicino meridionale potrebbe portare a una spirale di nuovi disastri.
Nello stesso Iran, il 3 gennaio, in una folla riunita intorno al mausoleo di Qasem Soleimani a Kerman, una doppia esplosione, definita “terroristica” dalle autorità, ha ucciso un centinaio di persone. L’attentato è stato rivendicato il giorno successivo da Daesh, che dal 2019 è relativamente inattivo in quest’area. Il successore di Soleimani alla guida della Forza Al-Quds, Esmail Qaani, ha incolpato Israele, a cui la capacità di colpire all’interno del paese, grazie in particolare agli informatori locali, è stata attribuita durante le campagne per l’assassinio di scienziati nucleari.23 Si è trattato dell’attacco di massa più letale in Iran da quando, durante la Rivoluzione islamica del 1978, fu dato alle fiamme un cinema.
Questo cambiamento nella strategia israeliana obbedisce alle raccomandazioni americane. Il raggiungimento di un obiettivo bellico esplicito con la liquidazione dei leader di Hamas a Beirut rappresenta un target preciso, sia del movimento islamista palestinese che dell’“asse della resistenza”. Questi atti di belligeranza sono molto meno criticabili dall’opinione pubblica mondiale rispetto ai massacri indiscriminati commessi a Gaza. Il virtuosismo mostrato dai servizi segreti dello Stato ebraico offre anche una sorta di compensazione per la débâcle di tre mesi prima. Testimonia la presa di controllo delle operazioni, all’interno del gabinetto, da parte di professionisti che contestano la gestione populista di fanatici esaltati, i cui effetti perversi hanno prevalso.
Lo stesso 3 gennaio dell’attentato di Kerman, uno dei più prestigiosi settimanali americani, il “New Yorker”, a cui collaborano alcuni famosissimi giornalisti ebrei, ha pubblicato un’intervista, intitolata Gaza sta morendo di fame, tra il suo principale intervistatore, Isaac Chotiner, e l’economista alla guida del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, Arif Husain. Quest’ultimo, sulla base dei dati di 17 agenzie delle Nazioni Unite, dichiara che il 90 per cento della popolazione dell’enclave soffre di insicurezza nutrizionale acuta – la percentuale più alta al mondo, oggi – e che nei prossimi sei mesi si raggiungerebbe lo stadio di carestia, se la situazione non cambia. Gli aiuti umanitari soddisfano al massimo il 25 per cento dei bisogni. Tra gli sfollati ammassati lungo il confine con l’Egitto al valico di Rafah c’è solo una doccia ogni 4500 persone e un bagno ogni 220 utenti.
È diventato sempre più difficile per il governo di Biden dare il suo appoggio incondizionato alla conduzione della guerra a Gaza da parte di Netanyahu, data l’erosione della simpatia per lo Stato ebraico tra l’elettorato democratico, soprattutto tra i giovani, in un momento in cui le primarie per le elezioni presidenziali di novembre del 2024 stanno per iniziare. Di fronte a Donald Trump che, in caso di un nuovo duello come quello del 2020, è visto come favorito all’inizio dell’anno – nonostante i ricorrenti problemi legali che ricordano quelli del primo ministro israeliano – l’occupante della Casa Bianca non può alienarsi il sostegno della sua ala sinistra “progressista”, la cui astensione sarebbe fatale. Un sondaggio condotto tra la fine di novembre e il 3 dicembre 2023 dal Pew Research Center mostra che il 50 per cento dei democratici ritiene che il governo israeliano abbia una grande responsabilità nel conflitto (contro il 21 per cento dei repubblicani). Il 55 per cento dei giovani democratici (tra i 18 e i 29 anni) la pensa allo stesso modo, rispetto al 46 per cento che attribuisce la responsabilità ad Hamas (ma al 60 per cento dei democratici più anziani). Il 53 per cento teme che la guerra possa portare a violenze anti-musulmane negli Stati Uniti (contro il 22 per cento dei repubblicani). Per quanto riguarda la risposta di Biden al conflitto, è disapprovata dal 51 per cento dei repubblicani, ma anche dal 38 per cento dei democratici, e dal 60 per cento degli under 30. Il 45 per cento ritiene che Israele si stia spingendo troppo oltre, e addirittura il 56 per cento degli under 34 (contro solo il 17 per cento dei giovani repubblicani e il 2 per cento degli over 65).
Questi dati ribaltano la “relazione speciale” che ha fatto degli Stati Uniti – fin dalla guerra dell’ottobre del 1973, quando il ponte aereo militare permise all’Idf di invertire la rotta e lanciare la sua controffensiva in Egitto e Siria – il partner strutturale di tutti i successivi gabinetti israeliani. Prima di allora, la Francia, che aveva fornito a Tel Aviv gli aerei Dassault Mirage con cui vinse la “guerra dei sei giorni” nel giugno del 1967, aveva stretto un legame speciale con lo Stato ebraico, costruito sulla comune ostilità al nazionalismo arabo: Nasser sosteneva l’Fln algerino contro Parigi. Dopo quella guerra, la conferenza stampa del generale de Gaulle del 27 novembre 1967 criticò, non senza una certa preveggenza, il processo di occupazione dei territori, seguito da “quella resistenza a essa che viene chiamata terrorismo”. Mentre la Francia inaugurava mezzo secolo di “politica araba”, Washington riceveva il testimone di principale alleato dello Stato ebraico.
Il Partito democratico, a cui l’elettorato ebraico degli Stati Uniti contribuisce con la maggioranza dei suoi voti, è stato in prima linea in questo processo, mentre i repubblicani sono rimasti più legati all’industria petrolifera. I loro gerarchi – come la famiglia Bush – avevano stretto legami con i produttori e gli esportatori della penisola arabica. Negli anni dieci, la presidenza Obama, sensibile all’espressione politica delle minoranze e delle diversità sul suolo americano e alle cause con cui si identificavano all’estero, in particolare in Medio Oriente, ha sostenuto le “Primavera arabe”, ha fatto dei Fratelli Musulmani un partner e ha preso un po’ le distanze dai leader dello Stato ebraico. Il suo successore Donald Trump ha adottato un approccio opposto, ribadendo il suo incrollabile sostegno a Israele. Ha dato un impulso decisivo alla sicurezza promuovendo il riconoscimento reciproco con gli Stati arabi che hanno firmato gli Accordi di Abramo nel 2020, una strategia dalla quale il suo successore Joe Biden non si è discostato. Tuttavia, affinché questa iniziativa sia sostenibile, è indispensabile che la risposta di Israele alla razzia del 7 ottobre 2023 non sconfini nell’irreparabile con i governi interessati, compromettendo l’obiettivo di estenderla all’Arabia Saudita, il gigante del Medio Oriente e l’unico paese in grado di investire in una prosperità regionale generatrice di pace duratura. Questo dilemma americano – esposto alle vicissitudini della competizione elettorale dell’autunno del 2024 – stabilisce i limiti che non possono essere oltrepassati dalla strategia militare israeliana, data la dipendenza dello Stato ebraico da Washington. La devastazione inflitta agli abitanti della Striscia di Gaza, mettendo il Partito democratico in contrasto con una parte del suo elettorato e indebolendo le prospettive di vittoria di Joe Biden, è, in questo senso, off limits.
Inoltre, il passaggio di una parte dei campus americani, sotto la spinta di una minoranza progressista attivista di studenti e professori, all’ostilità totale nei confronti della posizione israeliana non solo indebolisce il campo presidenziale, che potrebbe essere a corto di voti, ma rafforza anche i suoi avversari prestandosi alle accuse di antisemitismo. È questo l’esito paradossale della vicenda che ha gettato l’università d’élite più famosa del mondo, Harvard, in una crisi senza precedenti. A seguito di virulente manifestazioni anti-Israele tenutesi in quella sede – come in altre prestigiose istituzioni della Ivy League – il 5 dicembre 2023 tre presidenti di università sono stati convocati a Washington per un’audizione da parte della Camera dei rappresentanti, dominata dai repubblicani dopo le elezioni di metà mandato del 2022. A Claudine Gay, figlia di immigrati haitiani e figura emblematica di tutte le diversità, in particolare di genere e di razza, promosse dall’ideologia woke, è stato chiesto dalla rappresentante eletta nello Stato di New York Elise Stefanik – a sua volta laureata ad Harvard, con ascendenze cecoslovacche e italiane – se “invocare il genocidio degli ebrei violasse le norme di Harvard sulle molestie, sì o no”. La sua risposta dilatoria (“Potrebbe, a seconda del contesto”), invece della dichiarazione prevista (per paura di violare la libertà di espressione), ha suscitato scalpore in tutto il paese, fino alla Casa Bianca. Quest’ultima ha costretto Gay a dimettersi il 2 gennaio 2024. La presidente è stata anche accusata di plagio per la sua tesi di dottorato. Il conflitto tra Israele e Hamas, spaccando l’università più prestigiosa del mondo, era riuscito a rivelare le contraddizioni del rapporto fra Stati Uniti, Stato ebraico e Medio Oriente.
3.
Geopolitica di un massacro
All’inizio del 2024, la guerra era già in corso da più di tre mesi. La strategia israeliana aveva subìto un cambiamento di rotta in seguito alle pressioni della Casa Bianca, preoccupata per gli effetti negativi dell’offensiva dell’Idf nella Striscia di Gaza. Il massacro di oltre ventimila civili, la maggior parte dei quali donne e bambini, ha alienato molte simpatie per lo Stato ebraico presso l’opinione pubblica di tutto il mondo, incluso presso i suoi abituali sostenitori in Occidente. E ha radicalizzato e cristallizzato la formazione di un introvabile “Sud globale” che si oppone alle democrazie liberali del “Nord”, di cui Israele sarebbe la figura più detestabile, favorendo a sua volta l’avvicinamento dell’ex Terzo mondo, grazie ai Brics+, a Mosca e Pechino. Inoltre, nonostante tutte le devastazioni provocate, l’offensiva su Gaza non ha raggiunto i suoi obiettivi: i leader di Hamas sul terreno, in particolare Yahya Sinwar e Mohammed Deif, dopo tre mesi di combattimenti non sono ancora stati stanati. E se alcune “infrastrutture” di Hamas sono state smantellate, ciò è avvenuto al prezzo di una carneficina tra la popolazione locale che difficilmente si riconcilierà con l’aggressore nel breve o medio termine, ostacolando così la fase postbellica.
La svolta strategica consisteva innanzitutto nell’alleggerimento della forza di spedizione inviata nell’enclave. All’inizio di gennaio, sono state ritirate dall’enclave cinque brigate da combattimento: a quel punto gli assalitori avevano subìto almeno 175 morti e quasi 12.000 feriti, molti dei quali sarebbero rimasti invalidi. La massiccia mobilitazione dei riservisti ha comportato lo svuotamento dei settori in cui lavoravano e l’economia del paese ha iniziato a risentire dei postumi dello scontro. D’altro canto, al volgere dell’anno, saranno presi di mira e colpiti obiettivi esterni ad alto valore simbolico, appartenenti ad Hamas o all’“asse della resistenza” regionale sotto l’impulso iraniano. Questo riorientamento sta ripristinando la fiducia nella superiorità militare di Israele, che era stata intaccata dall’inutile devastazione di Gaza. È un nuovo corso accompagnato da attacchi statunitensi paralleli, in particolare in Iraq e in Siria, contro milizie locali legate a Teheran, con il rischio che la situazione sfugga di mano. Per rappresaglia, il 28 gennaio tre soldati americani sono stati uccisi in una base giordana adiacente al confine con la Siria, durante un attacco di droni che Washington ha imputato a gruppi basati nel territorio controllato dal regime di Damasco.
Il fronte regionale
Dopo aver eliminato il 25 dicembre a Damasco il generale maggiore iraniano Razi Moussavi e il numero due di Hamas, Salah al-Arouri, oltre a sei suoi comandanti militari a Beirut il 2 gennaio, grazie a operazioni che dimostrano una grande padronanza dell’intelligence e dell’intelligenza artificiale, sei giorni dopo l’Idf ha colpito uno dei più alti capi operativi della forza d’élite Radwan di Hezbollah, Wissam Hassan Tawil, di quarantotto anni, ucciso da un attacco israeliano alla sua auto nei pressi di un villaggio del Libano meridionale situato a quindici chilometri dal confine.1 Tawil era stato celebrato come un eroe per essere entrato in Israele nel luglio del 2006, catturando due soldati e scatenando così la “guerra dei trentatré giorni”. La sera stessa è stato eliminato Hassan Akasha, un comandante militare di Hamas coinvolto nel lancio di razzi dal territorio siriano verso le Alture del Golan annesse.
In risposta, il 4 gennaio un drone americano ha neutralizzato a Baghdad Jawad al-Jawari, leader del gruppo sciita legato a Teheran Harakat al-Nujaba (“il movimento dei valorosi”), che aveva lanciato missili contro le basi statunitensi in Iraq e Siria.
In questo contesto di estrema tensione regionale, un centinaio di persone era già morto il 3 gennaio in un’esplosione a Kerman, in Iran, tra una folla di fedeli e attivisti che commemoravano la morte del generale Soleimani. Il doppio attentato con cintura esplosiva è stato rivendicato dallo Stato islamico/Provincia del Khorassan, un movimento salafita-jihadista sunnita fondato nel gennaio del 2015 in quest’area confinante con l’Afghanistan e violentemente anti-sciita. Qualunque sia la catena di comando che ha portato a questa carneficina (su cui non è ancora stata fatta luce), è chiaro, a dir poco, che l’“asse della resistenza” sta sperimentando gravi falle nella sicurezza nei suoi luoghi di memoria più centrali.
La spietata repressione del movimento femminile dopo l’assassinio, da parte della polizia morale, della “mal velata” (bad-hejabi) Mahsa Amini il 16 settembre 2022 e la brutalità della risposta alla rivolta della minoranza sunnita dei beluci che vive nella mezzaluna orientale del paese testimoniano la graduale militarizzazione della Repubblica islamica. Le Guardie rivoluzionarie hanno ormai la precedenza sui mullah.2 L’idolatria del generale Soleimani, venerato come un santo sciita, come un residuo del culto del martire imam
Hossein, ne è un’espressione eclatante. L’ipotesi di un’origine endogena dell’attentato rivelerebbe nuove e preoccupanti debolezze per un regime dittatoriale in cui solo l’esacerbazione della violenza di Stato può compensare il logorio dell’ideologia religiosa tradizionale. Il 16 e il 18 gennaio, l’Iran e il Pakistan si sono lanciati missili attraverso il loro comune confine, con Teheran che ha suggerito a fini di propaganda interna di voler liquidare nel paese vicino i responsabili del sacrilegio di Kerman. Ma la rappresaglia di Islamabad, potenza nucleare legata agli Stati Uniti da accordi militari, ha avuto un tale effetto deterrente che il ministro degli Esteri iraniano si è recato sul posto il 29 gennaio per risolvere l’incidente. La Repubblica islamica non poteva permettersi di aprire un fronte in Oriente quando stava già giocando una partita delicata con gli Stati Uniti e Israele attraverso i suoi alter ego yemeniti, iracheni e libanesi.
Infatti, se il primo fronte regionale e internazionale attivato dall’“asse della resistenza” in rappresaglia alla campagna israeliana su Gaza – la pirateria degli Houthi dello Yemen del Nord contro le navi mercantili che percorrono il Mar Rosso fra lo stretto di Bab-el-Mandeb3 sull’Oceano Indiano e il Canale di Suez – è stato parzialmente tamponato, esso evidenzia anche le contraddizioni degli alleati degli Stati Uniti davanti a una simile sfida. Di fronte a un’offensiva condotta dai delegati locali della Repubblica islamica, che mette a rischio una delle principali rotte di navigazione del mondo, gli Stati Uniti hanno organizzato una coalizione di navi da guerra denominata “Guardiani della prosperità” attorno alla portaerei Dwight-Eisenhower e al suo gruppo da battaglia di portaerei, che sta navigando nell’area dalle ore successive al 7 ottobre. Nelle notti dall’11 al 13 gennaio, dopo ventisette assalti a navi da carico, petroliere e altre imbarcazioni che hanno colpito gli interessi di una cinquantina di nazioni, gli attacchi americani e britannici hanno distrutto numerosi radar e siti di lancio di missili installati dagli iraniani sul territorio degli Houthi. Ma la persistenza del fuoco contro queste navi indica i limiti di questa strategia. I servizi segreti americani si sono avvicinati anche alle fazioni yemenite che controllano il resto del paese, tra cui il governo in esilio a Riad, le Forze di transizione del Sud, sostenute dagli Emirati Arabi Uniti, che dominano il porto di Aden e la costa meridionale sull’Oceano Indiano, e le milizie di Tareq Saleh, nipote del presidente deposto, ben radicate vicino allo Stretto. Ma sia l’Arabia Saudita che gli Emirati Arabi Uniti – che hanno subìto attacchi missilistici sul loro territorio da parte degli Houthi e di altri membri dell’“asse della resistenza” – sono riluttanti a impegnarsi ulteriormente a fianco degli Stati Uniti. Temono che nuovi attacchi possano minacciare le enormi infrastrutture industriali e turistiche in costruzione nei rispettivi paesi. Lo stesso vale per gli Stati dell’Unione Europea, tra cui la Francia – l’unico paese con una flotta operativa e una base aerea navale regionale a Gibuti –, che limitano il loro coinvolgimento su questo fronte marittimo a sostegno di Israele, nonostante il 75 per cento delle esportazioni europee passi per il Mar Rosso, dove il traffico è diminuito di un quinto dopo gli attacchi alle navi mercantili. L’obiettivo di Parigi, come vedremo in seguito, è massimizzare gli elementi a sua disposizione per trovare una posizione di mediazione allo scopo di porre fine alla crisi.4
Il conflitto tra Israele e Palestina nell’ultimo trimestre del 2023 si è incentrato su Gaza. L’agenda politica e militare di Israele è stata tenuta in ostaggio dai membri suprematisti del governo Netanyahu. Ma la svolta del 2024 sposta l’organo decisionale e arbitrale ultimo all’esercito, rappresentato dal ministro della Difesa Yoav Gallant. Questi, che era contrario al progetto di riforma della giustizia, era stato licenziato da Netanyahu il 26 marzo ma, in seguito alle proteste di piazza per il suo licenziamento, era stato reintegrato il 10 aprile. Inviso ai suoi colleghi Smotrich e Ben-Gvir, dai primi giorni del 2024 si è opposto a loro e ha annunciato che in futuro non ci sarebbe stata alcuna presenza civile israeliana a Gaza, mentre questi ultimi avevano proclamato il contrario: il ritorno degli insediamenti evacuati nel 2005… sotto la supervisione dello stesso Yoav Gallant, che solo tre mesi prima aveva ricevuto le spalline di generale e comandante del fronte meridionale.5
Scegliendo di regionalizzare il conflitto attraverso attacchi all’“asse della resistenza”, Israele cerca di prendere le distanze – almeno temporaneamente – dagli effetti controproducenti delle accuse di genocidio riguardanti Gaza. Questi attacchi mirati, che non hanno un impatto diretto sulla popolazione, sono tutti segnali rivolti principalmente agli Stati arabi sunniti che hanno firmato accordi di pace con lo Stato ebraico: Egitto, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan. Indebolendo Teheran e i suoi alleati, da Hezbollah agli Houthi, passando per la Siria e le milizie in Iraq, si diluisce l’insistente minaccia esterna che incombe su questi governi. Inoltre, questi ultimi vengono facilitati nella gestione delle relazioni con le loro società, fortemente mobilitate nel sostegno emotivo alla Palestina.
Al massimo, gli Stati membri della Lega araba e dell’Organizzazione della cooperazione islamica, riuniti a Riad l’11 novembre 2023, avevano “condannato vigorosamente l’aggressione israeliana contro la Striscia di Gaza e i crimini e i massacri barbari, crudeli e disumani”. Ma a queste dichiarazioni non è seguita alcuna decisione collettiva, tanto erano evidenti gli interessi contrastanti di chi partecipava, in particolare fra Iran e Arabia Saudita. In ogni caso, l’indignazione è stata relativizzata dalla presenza in prima fila, al centro della foto ufficiale, di Bashar al-Assad, che dominava l’assemblea dei colleghi grazie alla sua alta statura (1,89 m). Il bilancio della tragedia siriana supera i trecentocinquantamila morti, oltre a sei milioni di sfollati interni e otto milioni di cittadini cacciati dal loro paese o fuggiti senza speranza di ritorno.6 Il massacro di Gaza è solo uno di una lunga serie di massacri in Nord Africa e in Medio Oriente che hanno suscitato una compassione universale di vario grado, dal massacro degli armeni in Turchia nel 1915 ai curdi gassati ad Halabja in Iraq da Saddam Hussein nel 1988, dalle uccisioni interconfessionali durante la guerra civile libanese tra il 1975 e il 1990 alle carneficine del “decennio nero” della jihad in Algeria negli anni novanta, dai bagni di sangue nello Yemen dall’estate del 2014 alle devastazioni etniche in Sudan, i cui leader sono stati perseguiti per i loro crimini. Il termine “genocidio”, che nell’uso occidentale sembrava riservato allo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti durante la Seconda guerra mondiale, è ora una questione politica importante.
Applicato al massacro di Gaza, il termine mira a classificare la carneficina provocata da Israele come perpetrata da un intruso occidentale in Medio Oriente, e quindi specificamente colpevole perché rientra nei crimini della colonizzazione e dell’imperialismo. Inoltre, facendo riferimento a una pratica caratteristica del nazismo, equipara le persone vittime della Shoah alle atrocità commesse contro di loro dal loro carnefice, mettendo in discussione la logica delle Nazioni Unite, che hanno fondato Israele nel 1947 come Stato-rifugio per gli ebrei.
Questa polemica, nella dimensione accentuata che ha raggiunto dopo il 7 ottobre, aveva già cominciato a prendere forma negli ultimi anni del Novecento, quando l’orientalista anglo-americano Bernard Lewis dichiarò, in un’intervista al quotidiano “Le Monde” del 13 novembre 1993, che “la qualifica di genocidio attribuita ai massacri perpetrati dai turchi nel 1915 era solo ‘la versione armena di questa storia’”. Il 21 giugno 1995, il Tribunal de Grande Instance di Parigi lo condannò al pagamento di un risarcimento danni di un franco simbolico, con la motivazione che “è nascondendo gli elementi contrari alla sua tesi che l’imputato ha potuto affermare che non esistevano ‘prove serie’ del genocidio armeno”.7
Paradossalmente, la punizione del professor Lewis è stata motivata dalla “legge Gayssot” approvata dal Parlamento il 13 luglio 1990, volta a punire qualsiasi negazione dell’esistenza di crimini contro l’umanità. Questa prima legge francese sulla memoria è stata concepita per criminalizzare la negazione dell’Olocausto, allora promossa da polemisti di estrema destra; è stata usata contro uno storico che voleva limitare la nozione di “genocidio” all’Olocausto, non estendendola ad altri massacri.8 È lo stesso argomento usato dal Sudafrica davanti alla Corte internazionale di giustizia: la condanna di Israele per “genocidio” da parte della maggioranza degli Stati del “Sud globale” (la maggior parte dei quali è governata da regimi illiberali o dittatoriali) avrebbe l’effetto di minare il principio stesso di fondazione dello Stato ebraico.9
Bernard Lewis era tanto più incline a mettere in dubbio l’esistenza di un “genocidio armeno” in quanto lui stesso era molto legato alla Turchia – di cui era un esperto riconosciuto – durante l’era kemalista, prima che Erdogan salisse al potere nel 2003. Le sue élite nazionaliste e laiche hanno voltato le spalle al mondo arabo, che in passato era stato sotto il giogo ottomano ed era generalmente percepito come ostile a causa dell’assoggettamento di alcuni dei suoi Stati, come Siria, Iraq ed Egitto, all’Urss, e persino come “arretrato” in vista dell’occidentalizzazione della Turchia come membro della Nato. Al contrario, esse erano favorevoli a strette relazioni politiche, commerciali e militari con lo Stato ebraico. Tanto più che gli ebrei locali non erano stati espulsi, a differenza dei greci cristiani, durante gli scambi di popolazione che hanno caratterizzato la creazione della Repubblica all’indomani della Prima guerra mondiale. Di conseguenza, avevano goduto di un monopolio virtuale delle funzioni di intermediazione – precedentemente svolte dai dragomanni10 – con l’Europa occidentale e poi con l’America, che in precedenza erano state condivise con queste altre minoranze religiose.
La vittoria elettorale degli islamo-conservatori dell’Akp (Partito per la giustizia e lo sviluppo) nel 2003, sostenuta dalla crescita demografica esponenziale delle classi lavoratrici e medie dell’Anatolia,11 ha portato a una ripresa dei legami storici con l’ex territorio della Sublime Porta, che era stato trascurato dalle élite urbane secolari precedentemente al potere. Questo Kulturkampf rivitalizzò le confraternite sunnite, le reti tribali e familiari, le rotte commerciali e di contrabbando che erano rimaste sotterranee e che vennero riattivate e trasformate con profitto in vettori d’influenza, per l’esportazione di manufatti turchi e poi ai fini dell’espansione politico-militare e religiosa neo-ottomana.
Ambiguità turche
Erdogan, che proviene da un movimento islamo-conservatore legato ai Fratelli Musulmani ed è stato educato in una scuola per imam e predicatori, nel corso dei suoi due decenni al potere ha notevolmente relativizzato lo stretto rapporto con Israele stabilito dai precedenti leader laici. L’ha riequilibrato a favore della Palestina, e in particolare del movimento “gemello” Hamas. Il deterioramento delle relazioni bilaterali ha raggiunto il suo zenit nel maggio del 2010, quando la Striscia di Gaza è stata sottoposta all’assedio del ministero “Netanyahu ii”, in seguito alla presa in ostaggio del caporale Gilad Shalit12 da parte di Hamas. Una flottiglia umanitaria, nota con il nome della sua imbarcazione principale, il traghetto Mavi Marmara, utilizzata dall’Ong islamista Ihh, vicina al governo turco e ad Hamas, e partita da Istanbul con a bordo settecento persone di oltre trentasei nazionalità e diecimila tonnellate di merci per rompere il blocco, è stata abbordata dai commando navali israeliani. Nove persone sono state uccise e decine ferite. Di conseguenza, la cooperazione militare tra i due Stati – che era rimasta forte grazie all’adesione della Turchia alla Nato, nonostante le vicissitudini politiche – è stata interrotta.
Tuttavia, a dispetto della retorica aggressiva di Erdogan, le relazioni israelo-turche persistono, soprattutto in ambito economico: entrambi sono alleati dell’Azerbaigian, Israele perché Baku è ostile all’Iran, principale nemico dello Stato ebraico, e la Turchia perché il presidente Aliyev, leader di una nazione di lingua turca, è in guerra con l’Armenia, di cui occupa parte del territorio.13 Il petrolio azero destinato a Israele (in cambio dei droni che lo Stato ebraico ha fornito a Baku, consentendole di riconquistare l’enclave armena del Nagorno-Karabakh nel 2020) passa attraverso un oleodotto turco fino al porto, dove viene caricato su navi cisterna dirette ad Haifa o Ashdod. La Turchia ha fornito gli ausiliari – reclutati dall’Esercito siriano libero, pagato da Ankara e composto da ribelli non assegnati dopo la vittoria militare di Bashar al-Assad sull’insurrezione del 2019 – che hanno contribuito alla sottomissione del Nagorno-Karabakh. Questa alleanza di realpolitik sembra paradossale in termini storici, dal momento che Israele e Armenia sono due Stati rifugio dopo i rispettivi olocausti dei loro popoli. Ma lo Stato ebraico, così rapido nell’usare l’ingiunzione di Zakhor!14 (“Ricorda!”) per sostenere la propria esistenza, ha un uso più distanziato per la memoria delle nazioni dei goyim (“gentili”)… dall’Armenia alla Palestina.
All’indomani della razzia pogromista del 7 ottobre, Erdogan ha iniziato a adottare un cauto atteggiamento di attesa. Trovandosi in una situazione geopolitica complessa, per le prime tre settimane – prima dell’inizio dell’offensiva israeliana su Gaza – ha cercato di sfruttare al meglio il suo potenziale ruolo di intermediario tra le due parti. Tradizionale sostenitore di Hamas, che ha conferito la nazionalità turca a Ismail Haniyeh e ha ospitato alcuni dei suoi leader, si è appena riconciliato con Netanyahu, che ha incontrato nel settembre del 2023 a New York a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. In quell’occasione ha dichiarato che la Turchia “può collaborare con Israele nei settori dell’energia, della tecnologia, dell’innovazione, dell’intelligenza artificiale e della sicurezza informatica” per “lottare insieme per un mondo in cui prevalga la pace”. A marzo ha accolto il presidente israeliano Isaac Herzog ad Ankara per una sontuosa visita di Stato definita “storica”.
Allo stesso tempo, le relazioni della Turchia con gli Stati Uniti sono irte di controversie e l’appoggio di Israele alla Turchia può giocare a suo favore a Washington. Pur essendo uno Stato membro della Nato, la Turchia ha acquistato nel 2017 missili terra-aria russi S-400. Ad Ankara è ipso facto vietato l’acquisto di bombardieri stealth americani F-35, per timore che gli hacker di Mosca possano penetrare nei codici informatici dei velivoli più potenti dell’Alleanza atlantica. I suoi aerei sono ormai obsoleti di fronte ai suoi rivali, in particolare la Grecia, a cui la Francia ha fornito 24 Rafales che superano i suoi F-16 antiquati. Preso da una spirale di protagonismo, Erdogan sta usando il suo diritto di veto alla Nato per bloccare l’adesione di Finlandia e Svezia – che avrebbero dovuto rafforzare l’organizzazione in un momento in cui sta serrando i ranghi per sostenere l’Ucraina contro la Russia nel luglio del 2022 – con la motivazione che questi due Stati scandinavi ospitano “terroristi del Pkk” (Partito dei lavoratori del Kurdistan). Questo movimento irredentista curdo in Turchia è responsabile di numerosi e sanguinosi attentati e il suo leader, Abdullah Öcalan, vi è imprigionato. Lo scopo principale di questo tipo di logica transazionale, al di là delle motivazioni addotte, è barattare la revoca del “rifiuto” di Ankara in cambio della consegna da parte degli Stati Uniti di quaranta nuovi F-16 e duecento kit di ammodernamento per quelli già in possesso. Rinnovando la cooperazione economica e tecnologica con lo Stato ebraico, il cui accesso al vertice del potere americano rimane incomparabile (nonostante il raffreddamento delle relazioni tra Biden e Netanyahu), Erdogan sta cercando di utilizzarlo a questo scopo. Otterrà finalmente i suoi aerei il 26 gennaio 2024, quando il Pentagono darà il via libera, tre giorni dopo che il Parlamento turco, controllato dal presidente, avrà approvato l’adesione della Svezia alla Nato.
In un contesto del genere, nelle prime tre settimane dopo il 7 ottobre il rais turco ha cercato di attribuirsi una posizione di mediatore tra Israele e il movimento islamista palestinese. Ma questo non è stato accettato dai belligeranti, per mancanza di credibilità e affidabilità. Erdogan ha quindi cambiato rotta, con uno dei suoi consueti voltafaccia. Il 28 ottobre, il giorno dopo l’inizio dell’offensiva dell’Idf sulla Striscia di Gaza e alla vigilia della celebrazione del centenario della Repubblica fondata da Atatürk il 29 ottobre 1923, ha tenuto un grande comizio a Istanbul, dove al collo faceva sfoggio di una kefiah palestinese con la bandiera turca. Rivolgendosi agli elettori più islamisti del suo elettorato, ha vilipeso Israele con un linguaggio inedito, apostrofandolo in seconda persona singolare e negandogli qualsiasi status: “Israele, sei un occupante, sei un’organizzazione…”. Accusando “l’Occidente, il peggior colpevole dei massacri a Gaza”, di ricreare “un’atmosfera di crociata della croce contro la mezzaluna, contro i musulmani”, elogia Hamas, “un gruppo di combattenti per la libertà, che lotta per proteggere il proprio popolo”. Il linguaggio usato è ancora più sorprendente se si considera che solo tre settimane prima aveva incontrato Netanyahu, ponendo apparentemente fine a dieci anni di tensioni aperte dall’abbordaggio della Mavi Marmara, che stava tentando di rompere il blocco di Gaza.
Al di là degli accomodamenti tattici che hanno permesso a Erdogan di tranquillizzare i partner occidentali, mentre le elezioni presidenziali del 2023 hanno dimostrato che egli è in sintonia con l’evoluzione demografica e religiosa della maggioranza dei suoi concittadini, la sua strategia fa parte del grande sogno del sultanato-califfato che egli mette in pratica e a parole ogni volta che se ne presenta l’occasione. Il principio guida è stato enunciato durante la spettacolare re-islamizzazione di Santa Sofia il 24 luglio 2020, novantasettesimo anniversario del Trattato di Losanna, una cerimonia che ha coinciso, quell’anno, con il pellegrinaggio alla Mecca (hajj). La coincidenza di temporalità sacre e secolari rivela le falle del Medio Oriente, e non solo, nel rapporto ambivalente del mondo musulmano con l’Occidente.
Trasformando ancora una volta in moschea l’antica basilica bizantina – che la lingua turca chiama foneticamente Ayasofia, derivazione dell’originale greco Haghia Sophia – Erdogan indossa gli stivali del “sultano conquistatore” Mehmet ii “Fatih”, che prese Costantinopoli il 29 maggio 1453. Egli riconquistò Costantinopoli, non più sulle rovine dell’Impero bizantino, ma sul crollo del secolarismo. Atatürk, lettore di Auguste Comte, aveva trasformato l’edificio religioso musulmano in un museo nel 1935 come “dono all’umanità”. Tuttavia, il giorno scelto per questo atto simbolico non era l’anniversario della conquista islamica del Quindicesimo secolo, bensì quello del Trattato di Losanna del 24 luglio 1923, massima espressione della moderna forza militare turca.
Erdogan, infatti, sta imparando la lezione delle vittorie di Atatürk in Anatolia sui greci insorti e sulle potenze europee, stremate dalle trincee del 1914-1918, che avevano precedentemente architettato il Trattato di Sèvres del 10 agosto 1920 per sbriciolare l’ex califfato ottomano dell’Anatolia in un mosaico di cantoni etnico-confessionali. Così facendo, Erdogan fondeva nel suo gesto il sultano Mehmet del 1453 e l’Atatürk del 1923. Come quest’ultimo, impose un braccio di ferro all’Europa occidentale. Ma Mustafa Kemal, originario di Salonicco, era imbevuto della cultura del laicismo francese a cavallo del Diciannovesimo secolo, come vettore di modernizzazione che gli avrebbe permesso di combattere la decadenza dell’ottomanismo fanatico, corrotto e prossimo alla fine.15 Erdogan, invece, sta difendendo i valori islamisti di fronte all’eredità laica della Turchia, diventata uno strumento dei militari venali e asserviti agli interessi americani. A tal fine, sta manipolando l’eredità del guerriero Atatürk, il gazi (termine arabo che significa colui che sconfigge gli infedeli per mezzo della ghazwa: la razzia, come quella compiuta il 7 ottobre da Hamas),16 per rovinare l’eredità del laico Atatürk che ha reso Santa Sofia un museo universale.
Inoltre, la re-islamizzazione di quest’ultima arriva in un momento cruciale per la conquista della leadership islamica globale, con la pandemia di Covid-19 che ha reso impossibile il consueto svolgimento del pellegrinaggio nel 2020. Tre milioni di musulmani riuniti alla Mecca e alla Medina hanno offerto una favolosa photo-opportunity per mostrare urbi et orbi la forza inarrestabile di quella fede globale, incanalata dai governanti sauditi che controllano i luoghi santi. Quell’anno, segnato dall’antagonismo tra Erdogan e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, dopo l’assassinio dell’oppositore Jamal Khashoggi il 2 ottobre 2018 nel consolato saudita di Istanbul, il presidente turco ha colto l’occasione per avvalersi del raduno dei suoi numerosi sostenitori nella moschea di Ayasofya, con il capo imam Ali Erbaş che ha brandito una scimitarra a significare che “ciò che è stato conquistato con la spada di Allah sarà ceduto solo con la spada” (turco: kiliç hakkı), per ergersi a leader dell’Islam universale.
Nel suo discorso, Erdogan ha dichiarato che “la resurrezione di Ayasofia preannuncia la liberazione della moschea di al-Aqsa […], il riaccendersi del fuoco della speranza non solo dei musulmani, ma anche di tutti gli oppressi, i lesi e gli sfruttati. Dimostra che la nazione turca, l’Islam e l’umanità nel suo complesso hanno ancora qualcosa di nuovo da dire al mondo”.17
Questa ambizione turca, che sfidava l’egemonia saudita sulla Ummah, ha comportato la creazione di una triplice alleanza “fratello-sciita”18 attorno ad Ankara, Doha e Teheran, che ha fatto del sostegno ad Hamas – rappresentato da Ismaël Haniyeh, residente in Qatar – la sua principale espressione geopolitica. Soprattutto, per Ankara è un’occasione per minare la strategia del presidente Trump che, attraverso gli Accordi di Abramo, sta rafforzando la sicurezza dello Stato ebraico e la sua integrazione regionale firmando trattati di pace con Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan, accompagnati da accordi commerciali e joint venture, a partire da Abu Dhabi. Questa rivitalizzazione economica del Vicino e Medio Oriente sotto l’egida degli Stati Uniti, che fa della start-up nation Israele un partner essenziale, è costruita sull’occultamento della questione palestinese nell’agenda politica mondiale.
D’altra parte, è la persistenza dell’irritante problema palestinese, esacerbato da Hamas, che l’alleanza a tre tra la Fratellanza e il movimento sciita sta evidenziando per far deragliare questa strategia. Haniyeh, accompagnato da una folta delegazione, è stato ricevuto in Turchia il 22 agosto 2020, con tutti gli onori dovuti a una visita di un capo di Stato, nel mese successivo alla re-islamizzazione di Santa Sofia e la settimana dopo l’annuncio dell’accordo di pace tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti.19 Ciò è valso a Erdogan la critica del dipartimento di Stato americano, che ha biasimato la sua “vicinanza a questa organizzazione terroristica”. Il primo settembre successivo, il leader di Hamas ha compiuto un sontuoso tour in Libano, visitando sia le regioni musulmane sunnite e sciite, sia i campi profughi palestinesi. Trattato come un ospite di riguardo dal vero padrone del paese, lo sceicco Nasrallah, capo di Hezbollah e vicario generale di Teheran, è stato portato in trionfo nel campo di Aïn al-Helweh, dove un decimo dei 450.000 palestinesi che risiedono in Libano vive in condizioni precarie, terreno fertile per le fazioni islamiste estreme.20 Una videoconferenza organizzata con i capi dell’Autorità palestinese a Ramallah ha gettato una luce crudele sullo spostamento dell’equilibrio di potere dall’Olp ad Hamas. Il 21 settembre, a Istanbul, Haniyeh ha ricevuto la fedeltà di Jibril Rajoub, numero due di Fatah, suggellando la riconciliazione palestinese sotto i suoi auspici. All’Assemblea generale delle Nazioni Unite, tenutasi contemporaneamente a New York, Erdogan ha dichiarato solennemente che “l’occupazione della Palestina rimane una ferita sanguinosa”, mentre il Qatar ha annunciato che avrebbe saldato tutti i debiti dell’Autorità palestinese, consentendole di pagare gli stipendi dei suoi dipendenti. All’ottuagenario Mahmoud Abbas non resta che esprimere la sua gratitudine a Erdogan e informarlo che non chiederà il rinnovo del suo mandato (era ancora in carica nel gennaio del 2024…).
La triplicità del Qatar
La strategia della Turchia, nonostante l’appartenenza alla Nato e le relazioni economiche di lunga data con Israele, è stata di sostenere esplicitamente Hamas, rendendo così impossibile per Ankara agire come intermediario nel 2023, essendosi alienato lo Stato ebraico. Un altro Stato, il Qatar, che ospita l’ufficio politico del movimento islamista palestinese da quando ha dovuto lasciare la Siria nel 2012, ha invece messo in campo una mediazione che gli ha permesso di affermarsi al centro del gioco geopolitico regionale.
L’emirato del gas trae profitto da una posizione di neutralità attiva in questa vicenda, cosa che lo ha autorizzato a interporre i suoi buoni uffici durante la settimana di tregua nei combattimenti a Gaza alla fine di novembre del 2023. Anche i leader di Hamas residenti a Doha, in particolare Ismail Haniyeh e il suo predecessore Khaled Meshal, che secondo tutti gli indizi erano stati tenuti fuori dalla decisione di Yahya Sinwar di lanciare la razzia del 7 ottobre, hanno visto il loro ruolo affermato in questa occasione. Sono stati loro a trasmettere le condizioni formulate dai leader di Gaza, nascosti nelle profondità dei tunnel, agli emissari del Qatar, che le hanno poi comunicate
ai loro interlocutori israeliani. Di conseguenza, centodieci ostaggi sono stati liberati. In caso di tregua o di cessazione delle ostilità e dei negoziati alla fine del conflitto, il ruolo unico del Qatar verrebbe ulteriormente rafforzato. Ciò sarà confermato dalla presenza del primo ministro dell’emirato, Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, ai colloqui di Parigi del 28 gennaio 2024, insieme ai capi dei servizi segreti israeliani, americani ed egiziani, in vista di un cessate il fuoco e del rilascio dei restanti ostaggi israeliani e dei prigionieri palestinesi in cambio.
Fino al 2021, quando è stato revocato il blocco contro il Qatar messo in atto nel 2017 da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto, Doha ha costruito una strategia di sostegno ai Fratelli Musulmani in tutto il mondo, mostrata in particolare durante le “Primavere arabe” del 2010. Inizialmente, la strategia era motivata dal desiderio di questo Stato, ricco ma scarsamente popolato, di resistere alla sovranità saudita su tutta la penisola, affidandosi a questa rete islamica internazionale per controbilanciare quella del salafismo wahhabita, che ha giurato fedeltà a Riad. Poiché Hamas fa parte di questa confraternita globalizzata, è stato molto facile stabilire il suo quartier generale a Doha nel 2012, perché l’ambiente era propizio. Il canale Al Jazeera ospitava il principale telepredicatore della Fratellanza al mondo, lo sceicco egiziano naturalizzato qatariota Yusuf al-Qaradawi (morto nel settembre del 2022 all’età di novantasei anni), e ha svolto un ruolo cruciale nel “fratellizzare” le rivolte popolari da Tunisi a Sana’a. Il Qatar ha fatto il contrario dei suoi vicini Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Kuwait, che fin dall’inizio hanno assunto un atteggiamento tanto più ostile alle rivolte in quanto una di esse minacciava il regime al potere a Manama, la capitale del Bahrein (dove il 14 marzo 2011 è stata inviata una spedizione del Consiglio di cooperazione del Golfo per ristabilire l’ordine). Allo stesso modo, gli eventi rivoluzionari nel vicino Yemen hanno portato a una sanguinosa guerra civile che ha destabilizzato la regione. A differenza di questi, Doha ha cercato di accompagnare i cambiamenti politici incoraggiando l’emergere di una classe media devota. Questa strategia è stata favorita da alcuni membri dell’amministrazione Obama, ma è stata poi minata da Donald Trump, la cui visita a Riad nel 2017, durante la quale ha accusato il Qatar di finanziare il terrorismo, si è conclusa con un blocco di tre anni dell’emirato da parte dei suoi vicini. Tuttavia, la favolosa ricchezza dell’emirato gli ha permesso di resistere al blocco senza subire gravi danni.
Il declino della Fratellanza dopo il fallimento delle “Primavere arabe” e il disinteresse del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman nei confronti dei salafiti hanno modificato la situazione tra Doha e Riad, rasserenando le loro relazioni bilaterali a partire dal 2021. L’emirato si è così trovato in una situazione in cui l’ospitalità estesa ad Hamas non faceva più parte di una strategia di sostegno complessivo alla Fratellanza Musulmana, ma ne faceva una variabile di aggiustamento nelle relazioni tra lo Stato ebraico e i suoi confinanti arabi. Un ufficio di rappresentanza commerciale israeliano operava a Doha a intermittenza dagli anni novanta, dopo la firma degli Accordi di Oslo, e gli accademici israeliani (con doppia nazionalità) erano da allora una presenza regolare in numerose conferenze in Qatar, dove ho avuto l’opportunità di incontrarli. Su richiesta degli americani, il Qatar ha aperto un canale di comunicazione informale con Hamas dopo che quest’ultimo ha vinto le elezioni a Gaza nel 2006. Ma è stato soprattutto nel 2012 che Khaled Meshal si è trasferito nell’emirato e l’emiro Hamed ha visitato l’enclave, dove il processo è stato istituzionalizzato.
Il primo settembre 2020, su istruzioni del primo ministro Netanyahu, il presidente dello Stato di Israele, Reuven Rivlin, ha ricevuto ufficialmente l’ambasciatore Mohammed al-Emadi, capo del Comitato del Qatar per la ricostruzione di Gaza, e lo ha ringraziato per “il suo investimento e i suoi intensi sforzi per risolvere la situazione”, nonostante i due Stati non avessero relazioni diplomatiche… e mentre Ismail Haniyeh era impegnato in una tournée trionfale in Libano.
Nel 2020, le tensioni tra il Qatar e la leadership di Gaza hanno portato a una riduzione del sussidio e, secondo l’ex ministro israeliano Avigdor Lieberman, lo stesso Netanyahu inviò il capo del Mossad Yossi Cohen e il generale Herzi Halevi (all’epoca comandante del fronte meridionale, sarebbe diventato capo di Stato maggiore il 7 ottobre 2023) a “implorare” la parte qatariota di non sospendere i pagamenti.
Con il coinvolgimento personale di Netanyahu, l’emirato ha così svolto un ruolo tanto paradossale quanto cruciale nel mantenere un fragile equilibrio di “guerra controllata” tra Israele e Hamas, in un momento in cui la questione palestinese è stata cancellata dall’agenda geopolitica istituzionale dagli Accordi di Abramo. Lo scoppio del “Diluvio di al-Aqsa” ha mostrato i tragici limiti di questa tattica, ma Doha rimane l’impareggiabile intermediario tra i belligeranti finché dura il confronto e finché la crisi non sarà risolta.
Gli altri Stati arabi sono divisi in diversi gruppi antagonisti, una volta affermata la solidarietà con le vittime di Gaza e la condanna dell’offensiva israeliana, come emerso al vertice congiunto della Lega araba e dell’Organizzazione della cooperazione islamica a Riad l’11 novembre 2023. Oltre alla Siria e al governo Houthi nello Yemen del Nord, che fanno parte dell’“asse della resistenza” guidato da Teheran e ne seguono le indicazioni, gli Stati più violentemente ostili a Israele sono l’Algeria – tanto più che il suo avversario e vicino Marocco è parte degli Accordi di Abramo – e la Tunisia, il cui presidente Kaïs Saïed manifesta un virulento antisionismo ideologico.
Tra i sei Stati che hanno riconosciuto Israele, sono state rilasciate dichiarazioni calibrate all’opinione pubblica e talvolta sono stati richiamati diplomatici come misura precauzionale. Ma i benefici attesi dagli scambi economici, una volta terminata la guerra, superano i calcoli a breve termine. Gli Stati confinanti, Egitto e Giordania, hanno aggiunto a tutto ciò il loro rifiuto assoluto di accogliere sul loro territorio i rifugiati cacciati da Gaza. Al di là della loro opposizione a qualsiasi espulsione di palestinesi dalla loro terra – che costituirebbe una seconda Nakba (la “catastrofe” del 1948, quando fu creato lo Stato ebraico) – il loro arrivo in massa sarebbe percepito come profondamente destabilizzante. In Giordania,21 la monarchia hashemita, che regna su una società a maggioranza palestinese, ha mantenuto vivo il ricordo del “settembre nero” del 1970, quando re Hussein lanciò operazioni militari contro i fedayin dell’Olp di Arafat che avevano cercato di rovesciarlo. I fedayin furono infine banditi in Libano, dove gli scontri causarono migliaia di morti. Quanto al sovrappopolato Egitto – il paese più immediatamente interessato da questa minaccia, dal momento che la popolazione dell’enclave è stata spinta fino al confine di Rafah dai bombardamenti e dalle offensive di terra – teme la destabilizzazione che deriverebbe dall’arrivo di questi rifugiati, equivalenti a due milioni di bocche in più da sfamare.22
Il regno saudita, il più potente degli Stati arabi, detiene una delle chiavi principali dell’esito del conflitto. La sua capacità di investimento è incommensurabile e il suo impegno in una strategia che possa rimettere in piedi la Palestina sarebbe decisivo. Se prima della guerra si chiedeva loro perché si fossero tenuti lontani dal processo degli Accordi di Abramo, le autorità del paese davano sempre la stessa risposta: “I diritti del popolo palestinese devono essere salvaguardati!”. Durante i colloqui avuti a Parigi nel giugno del 2023 con i più alti dirigenti del regno, mi è stato detto che nascondere deliberatamente la questione palestinese dal meccanismo degli accordi ne minava la durata, perché avrebbe portato a crisi e violenze. L’Arabia avrebbe potuto partecipare a questo processo e stabilire relazioni con Israele – principio contro il quale non aveva obiezioni – solo se questo avesse incluso la creazione di uno Stato palestinese. Tuttavia, alla fine di settembre, il principe ereditario ha dichiarato alla televisione americana che “ogni giorno le posizioni si avvicina[va]no” allo Stato ebraico. Il più importante progetto destinato a riorientare il Medio Oriente globale sotto la guida saudita nel Ventunesimo secolo, l’avveniristica città di Neom, si trova sul Mar Rosso, vicino ai golfi di Aqaba e di Suez, e a poche decine di chilometri da Eilat. Di fatto, due ministri israeliani, con i portafogli del Turismo e delle Comunicazioni, sono stati ricevuti ufficialmente per la prima volta nel regno – nell’ambito di vertici multilaterali – nel settembre e nell’ottobre del 2023, a distanza di otto giorni l’uno dall’altro, il secondo esattamente cinque giorni prima della razzia pogromista lanciata da Hamas. La coincidenza è stata così eclatante da indurre a chiedersi se la successione dei due eventi sia stata fortuita.
Durante la fase più intensa degli scontri, segnata dal massacro di Gaza nell’ultimo trimestre del 2023, tutti i contatti sono stati congelati. Ma il 9 gennaio 2024 l’ambasciatore saudita a Londra, il principe Khalid bin Bandar Al Saud, ha dichiarato alla Bbc che il regno era stato vicino a un accordo prima del 7 ottobre, che da allora i colloqui erano stati sospesi, ma che Riad era ora pronta a impegnarsi in un processo di normalizzazione, ribadendo con forza la precondizione che i palestinesi ottenessero uno Stato. Queste dichiarazioni, che fanno seguito a quelle rilasciate dal principe ereditario alla fine di settembre del 2023, sono state rilasciate mentre il segretario di Stato Antony Blinken era al suo quarto viaggio in Medio Oriente dal 7 ottobre, chiarendo la volontà del presidente – e candidato alla rielezione – Joe Biden di porre dei limiti a Israele. Questi si oppone inoltre a qualsiasi espulsione di palestinesi da Gaza, come proposto dai ministri israeliani Ben-Gvir e Smotrich, prevedendo un futuro in cui l’Autorità palestinese assuma il potere nell’enclave, e rendendo a sua volta la creazione di uno Stato a tutti gli effetti una condizione sine qua non.
Negli Stati Uniti, il 10 gennaio associazioni di musulmani americani si sono riunite a Dearborn, nel Michigan, dove vivono molti elettori di origine mediorientale, con lo slogan Abandon Biden! – Biden è stato accusato di aver contribuito al bombardamento di Gaza dopo aver fornito munizioni a Israele. Nel 2016, il presidente ha ricevuto il 60 per cento dei voti musulmani. Paradossalmente, anche Benjamin Netanyahu ha visto la sconfitta di Joe Biden e il ritorno in carica del suo accolito degli Accordi abramitici Donald Trump come un’opportunità per guadagnare tempo prezioso nella prima parte del 2024 per limitare le concessioni richieste dalla Casa Bianca democratica. Quanto al principe ereditario saudita, trattato come un paria dall’uomo eletto nel 2020, aveva dimostrato la sua capacità di influenzare l’ordine mondiale snobbando le richieste americane di aumentare la produzione di petrolio per far scendere i prezzi e avere un impatto negativo sulla Russia, impegnata nella guerra contro l’Ucraina.
I tempi non erano più quelli del famoso “accordo di San Valentino” del 14 febbraio 1945, che aveva regolato l’integrazione del Medio Oriente nel sistema internazionale sulla scia dei patti di Yalta. All’epoca, il presidente Roosevelt, lasciando la città della Crimea dove aveva appena firmato gli accordi di “spartizione del pianeta” con Stalin (e Churchill come partner minore), fece scalo sui laghi amari del Canale di Suez, non lontano dal sito della futura Neom. Lì, a bordo dell’incrociatore Uss Quincy, incontrò il re Ibn Saud. In cambio della protezione americana, il monarca gli avrebbe venduto il suo oro nero al miglior prezzo, assicurando agli Stati Uniti (essi stessi produttori) un surplus di forniture contro Mosca per tutta la durata del confronto tra il “mondo libero” e il blocco socialista. E questo nonostante le vicissitudini di questa saga durata mezzo secolo, il cui evento cardine fu la guerra dell’ottobre del 1973, durante la quale il re Faisal, successore di Ibn Saud, trasformò il petrolio in un’arma politica. La sconfitta dell’Urss con la caduta del Muro di Berlino fu il culmine di un’altra collaborazione saudita-americana, la jihad in Afghanistan, sancita dalla sconfitta dell’Armata Rossa, che lasciò Kabul il 15 febbraio 1989, quarantacinque anni dopo l’accordo del Quincy. Con nuove tragiche conseguenze, a partire dall’esplosione del jihadismo universale, sul cui tema la razzia-pogrom del 7 ottobre 2023 sarebbe stata l’ultima variazione. Ma l’Arabia ha visto l’opportunità di emanciparsi dal ruolo che le era stato assegnato a bordo del Quincy: essere nient’altro che una pompa di benzina per gli Stati Uniti. L’arrivo in carica del principe ereditario Mohammed bin Salman, classe 1985, che nel 2017 ha traghettato il regno nell’era postmoderna, ha permesso al suo paese di assumere il ruolo di potenza a tutti gli effetti, scegliendo i partner in base ai propri interessi, sia a livello regionale che internazionale.
In questo modo bin Salman ha aumentato il suo potere su base transazionale: pur rimanendo vicino all’Occidente, potrebbe diventare uno dei pesi massimi dei Brics+, di cui l’Arabia Saudita è membro dal gennaio del 2024. Ha promosso la solidarietà finanziaria degli esportatori di petrolio con la Russia di Vladimir Putin mantenendo alti i prezzi, piuttosto che impegnarsi politicamente con la Nato e l’Ucraina facendo scendere i prezzi del greggio e aumentando la produzione per penalizzare Mosca. Così ha tenuto testa all’ottuagenario Joe Biden, un uomo del Ventesimo secolo, durante la visita del presidente americano in Arabia Saudita nell’estate del 2022, che gli ha parlato come se i rapporti di forza del “patto di San Valentino” del 1945 tra Roosevelt e Ibn Saud fossero ancora attuali… Biden, che aveva giurato di non incontrare mai il principe ereditario dopo l’eliminazione di Jamal Khashoggi, gli ha chiesto un aumento della produzione, ma non se ne è fatto nulla. Mohammed bin Salman, che ha accolto il suo ospite con un “pugno di mosche” invece della consueta stretta di mano, potrebbe ora anche scegliere la sua strategia di alleanze in Medio Oriente. Sfiduciato nei confronti dell’“asse della resistenza” guidato dall’Iran – pur ricorrendo alla mediazione cinese per ristabilire le relazioni diplomatiche con la Repubblica islamica nel marzo del 2023 –, si è detto aperto alla complementarità economica con Israele, previo riconoscimento di uno Stato palestinese.
Mosca e Pechino: dal Terzo mondo al “Sud globale”
L’appetito di Riad per Mosca, legato all’interesse comune delle due “petromonarchie” a mantenere alti i prezzi del greggio – mentre l’Urss di un tempo era la bestia nera, a causa della sua ideologia comunista, del regno allora esplicitamente wahhabita e ultraconservatore – fa sì che Vladimir Putin abbia ora in mano una serie di nuove carte in Medio Oriente. E la crisi internazionale innescata dalla razzia di Hamas, avendo focalizzato l’attenzione e le risorse degli Stati Uniti sul sostegno a Israele, ha meccanicamente ridotto l’interesse della Nato e le sue forniture militari all’Ucraina. È stato questo conflitto con la Russia che, dall’annessione della Crimea da parte di Mosca nel 2014 fino al 7 ottobre, ha determinato la natura specifica del rapporto tra l’ospite del Cremlino e il primo ministro dello Stato ebraico. Anche dopo l’invasione russa del 24 febbraio 2022, quest’ultimo ha mantenuto legami molto più stretti con Mosca rispetto ad altri occidentali. Dal punto di vista di Israele, la Russia aveva il vantaggio di assicurarsi il territorio siriano e di controllare Bashar al-Assad per contenere il lancio di missili iraniani contro le Alture del Golan annesse da Israele.23 Ma le relazioni russo-israeliane si sono notevolmente deteriorate dopo il 7 ottobre 2023.
Difensore d’Israele fin dalla sua creazione nel 1948, quando contava numerosi kibbutz in cui c’era chi sentiva l’eco dei kolkhoz, il regime di Stalin (Golda Meïr, nata a Kiev, fu la prima ambasciatrice dello Stato ebraico a Mosca) fece consegnare armi cecoslovacche a Israele fino al 1951 e permise a duecentomila ebrei dell’Europa orientale di fare l’aliyah. Dal 1953 in poi, lo sviluppo dell’antisemitismo nel blocco sovietico, il divieto di emigrazione e poi le forniture militari da parte della Cecoslovacchia all’Egitto di Nasser nel 1955 fecero pendere la bilancia di Mosca a favore di vari Stati arabi dove il potere passò a militari e insegnanti nazionalisti di modeste condizioni, che abbracciarono il socialismo e si schierarono contro l’Occidente. L’Egitto nasserista, la Siria e l’Iraq baathisti, l’Algeria dell’Fln, e più tardi la Libia di Gheddafi e lo Yemen meridionale passarono tutti nel campo sovietico, la cui dottrina includeva l’antisionismo. Tra la resistenza palestinese, il Fronte democratico e il Fronte popolare di liberazione (entrambi fondati da cristiani ortodossi) erano di fede comunista.
Tuttavia, con la fine dell’Urss Mikhail Gorbaciov ha ristabilito le relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico nell’ottobre del 1991 e ha autorizzato di nuovo l’aliyah di un milione di ebrei ex sovietici, che avrebbero dovuto formare una “minoranza molto influente”24 nella loro Terra Promessa. Il partito laico di estrema destra Israel Beitenu, guidato da Avigdor Lieberman, nato a Chișinău e ministro della Difesa e degli Affari esteri, ne è una delle principali espressioni politiche. Nel 2014, mentre gli occidentali condannavano alle Nazioni Unite l’annessione della Crimea e poi boicottavano la celebrazione della vittoria sulla Germania nazista ogni 9 maggio sulla Piazza Rossa, Israele si è astenuto e Netanyahu ha continuato ad apparire in pubblico al fianco di Vladimir Putin.
Questi esercizi di equilibrio con la Russia per ragioni geopolitiche regionali hanno portato lo Stato ebraico a ridurre il suo sostegno all’Ucraina, il cui presidente Volodymyr Zelensky è eppure ebreo e dove ogni anno si svolge un importante pellegrinaggio chassidico internazionale nella città di Umran. Kiev non ha potuto acquistare il sistema di difesa missilistico “Iron Dome” a causa delle pressioni russe su Israele, mentre Mosca ha fatto ricorso all’importazione di un numero crescente di missili iraniani Shahed per attaccare le città ucraine. Il deterioramento delle relazioni è peggiorato in modo significativo all’indomani del 7 ottobre. Dopo aver offerto le proprie condoglianze allo Stato ebraico per le vittime del massacro, Mosca ha ricevuto una delegazione di Hamas guidata dal suo capo degli affari internazionali, Musa Abu Marzuq. Poi Mikhail Bogdanov, viceministro russo per il Medio Oriente, ha incontrato i leader del movimento islamista in Qatar, suscitando reazioni indignate in Israele. Mentre il prolungamento della guerra russo-ucraina, le sanzioni occidentali contro Mosca, l’evitamento del servizio di leva in Russia e la fuga dalla devastazione militare in Ucraina hanno portato a un’impennata di aliyah da entrambi i paesi verso Israele – in particolare da parte di famosi oligarchi come Roman Abramovich – dopo il decennio di intesa cordiale tra Vladimir Putin e Benjamin Netanyahu, dal 7 ottobre la politica estera della Russia ha preso una nuova direzione. In un contesto internazionale in cui molti Stati dell’ex Terzo mondo si sono rifiutati di condannare l’invasione dell’Ucraina, questa è l’occasione per capitalizzare simbolicamente il risentimento anti-occidentale che sta prendendo forma nel “Sud globale” e che si esprime in ambito economico con i Brics (la cui r sta per Russia).
La Cina – che dà la c all’acronimo Brics – si muove in maniera simile, ferme restando le sue caratteristiche specifiche. Meno presente per ragioni storiche in Medio Oriente, vede nella crisi aperta dal 7 ottobre, oltre a quella dell’Ucraina, una nuova preoccupazione occidentale che riduce la disponibilità di Washington e dei suoi alleati a farsi coinvolgere nella difesa di Taiwan, minacciata di invasione da Pechino.
Come la Russia, aveva stabilito relazioni equilibrate con Israele, gli arabi e l’Iran, motivate soprattutto dall’apertura di scali sulle Nuove vie della seta attraverso i quali i suoi manufatti venivano esportati in Europa e in Africa. Pechino ha costruito con Teheran un patto – leonino – che ha permesso all’Iran di uscire dall’isolamento economico causato dalle sanzioni statunitensi, in cambio di forniture di petrolio e gas a basso costo e della creazione di basi cinesi con extraterritorialità.25 Allo stesso tempo, e per le stesse ragioni di espansione commerciale, la Cina ha concesso importanti prestiti all’Egitto, sostenendo l’allargamento del Canale di Suez, che nel 2015 ha raddoppiato la sua capacità, in particolare a beneficio delle navi cargo e portacontainer che fanno la spola con l’impero produttivo. Infine, sempre secondo questa logica, la Cina, candidata ad acquisire quote del porto di Haifa, è stata estromessa dall’India nel 2023, ma lo Shanghai International Port Group vi aveva già un terminal per un periodo di venticinque anni, nonostante gli avvertimenti americani. È il secondo partner commerciale di Israele dopo gli Stati Uniti, con 22,5 miliardi di dollari di scambi nel 2022, ed è molto interessata alla tecnologia delle start-up dello Stato ebraico e alle sue applicazioni militari.
Nel marzo del 2023, Pechino ha fatto un passo avanti in campo più esplicitamente geopolitico organizzando una mediazione irano-saudita che ha portato al ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra le due potenze nemiche del Golfo Persico. Mentre la Cina è rimasta cauta nelle sue reazioni immediate al 7 ottobre, astenendosi dal condannare Hamas, nelle settimane successive ha assunto una posizione anti-israeliana più decisa, in particolare denunciando l’offensiva sulla Striscia di Gaza. Come nel caso della Russia, la crisi internazionale innescata dalla razzia pogromista di Hamas del 7 ottobre e la carneficina causata dagli attacchi israeliani nell’enclave palestinese hanno offerto a Pechino un’occasione eccezionale per unire il “resto” del mondo contro l’Occidente. In questo modo, sta capovolgendo la famosa frase di Samuel Huntington “l’Occidente e il resto” (“The West and the Rest”) del suo best seller Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale.
4.
Anatema contro l’Occidente!
L’11 e il 12 gennaio 2024, la Corte internazionale di giustizia (Cig) si è riunita nella sede del Palazzo della pace all’Aia per esaminare la denuncia presentata il 29 dicembre dal Sudafrica contro Israele per il genocidio che avrebbe commesso a Gaza. La denuncia era motivata non tanto dal numero di morti – stimato all’epoca in oltre ventitremila dal “ministero della Salute” nell’enclave (sotto controllo di Hamas) – quanto dall’“intento”. Secondo il querelante, le operazioni in questione “sono di natura genocida, perché accompagnate dalla specifica intenzione di distruggere i palestinesi di Gaza come gruppo”. Questa tesi è sostenuta in particolare dalle dichiarazioni dei ministri Itamar Ben-Gvir, Bezalel Smotrich e Yoav Gallant, che hanno negato l’esistenza di un “popolo palestinese”, giustificato lo spostamento forzato degli abitanti di Gaza al di fuori dell’enclave e verso l’Egitto,1 e annunciato che la campagna militare li avrebbe trattati come “animali umani”, dal momento che i fedayin di Hamas si erano comportati “come animali”2 durante la razzia del 7 ottobre.
Il richiedente ha anche chiesto alla Corte di adottare immediatamente “misure cautelari” per ingiungere a Israele di sospendere l’offensiva il prima possibile.
La Corte internazionale di giustizia è l’organo giudiziario supremo delle Nazioni Unite, che nomina i suoi quindici giudici, eletti per nove anni dall’Assemblea generale e dal Consiglio di sicurezza. Istituita nel 1945 e riunitasi fin dall’anno successivo, ha il compito di risolvere pacificamente le controversie tra gli Stati e può essere adita solo da questi ultimi. Non ha capacità penale e non ha potere coercitivo, ma ha un impatto soprattutto morale, in quanto emette una qualificazione giuridica le cui conseguenze politiche possono rivelarsi estremamente importanti. In questo caso, la designazione di Israele come “genocida” da parte della Commissione arrecherebbe un grave danno allo Stato creato dall’Onu nel 1947 per dare protezione territoriale alle popolazioni vittime della Shoah.
Una tale contraddizione tra causa ed effetto implicherebbe una sorta di illegittimità retrospettiva di questa creazione. Al di là dello stesso Stato ebraico, screditerebbe il magistero politico occidentale sul pianeta, nato dalla vittoria sul nazismo dopo la Seconda guerra mondiale e rafforzato dalla scomparsa dell’Urss dopo la caduta del Muro di Berlino il 9 novembre 1989. In effetti, il sostegno all’esistenza di Israele e al suo diritto di difendersi è parte integrante dell’identità dell’Occidente contemporaneo, come dimostrano eloquentemente le numerose condanne del pogrom del 7 ottobre da parte degli Stati interessati. Tuttavia, l’incriminazione da parte della Corte internazionale di giustizia aprirebbe la strada al considerare i massacri commessi dalla colonizzazione europea in tutte le sue forme – di cui la catastrofe di Gaza sarebbe il culmine – i sostituti della Shoah come paradigma del genocidio.
In questa prospettiva, Israele simboleggia il punto di inflessione storico per eccellenza di questa svolta morale nell’ordine mondiale: la vittima del nazismo di ieri diventerebbe così il carnefice dei palestinesi, trascinando nel biasimo espresso dal “Sud globale” – di cui i Brics+, guidati da Russia e Cina, pretendono di essere la guida – l’Occidente che sostiene lo Stato ebraico guidato da Netanyahu.
La trappola del genocidio
Nel caso in questione, il ricorso sudafricano fa riferimento al mancato adempimento da parte delle autorità israeliane “dell’obbligo di prevenire il genocidio e di punire l’incitamento diretto e pubblico a commetterlo”. Queste disposizioni sono contenute nella Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, firmata a Parigi il 9 dicembre 1948 e vincolante per i centocinquantadue paesi che da allora l’hanno sottoscritta, tra cui Sudafrica e Israele. L’evento avvenne alla vigilia della Dichiarazione universale dei diritti umani, il 10 dicembre al Palais de Chaillot. In un certo senso, è stato il suo preambolo cronologico, in un periodo in cui gli animi erano traumatizzati dal recente orrore del nazismo.
La posta in gioco simbolica è quindi alta, in un momento in cui il punto di riferimento dell’Occidente per i diritti umani e la sua capacità morale di definirli e articolarli sono messi in discussione dalla coalizione Brics+. Per questi paesi, dominati da regimi illiberali, la lotta contro gli Stati Uniti, l’Europa e i loro alleati comporta un’offensiva che mina il valore dell’etica occidentale, di pari passo con il loro crescente peso nell’economia internazionale e le loro aspirazioni all’egemonia di domani. Nel 2022, per la prima volta, i cinque membri dei Brics hanno superato di poco il G7 nella loro quota di Pil mondiale. Nel 2024, con cinque nuovi membri, lo supereranno in modo significativo.
Il termine “genocidio”, oggetto della controversia davanti alla Corte internazionale di giustizia, è un neologismo coniato nel 1943 da Raphael Lemkin (1900-1959), giurista ebreo polacco formatosi a Lemberg (oggi Leopoli, in Ucraina), capitale della Galizia, poi naturalizzato americano. Iniziò studiando il massacro e la deportazione di armeni e assiri nell’Impero ottomano nel 1915. Fu profondamente colpito dal processo a Berlino nel 1921 del giovane armeno che uccise Talat Pascià, ex ministro di Istanbul, nella capitale tedesca e dichiarò di voler vendicare il massacro della sua famiglia a Erzurum, la sua città natale. Secondo Lemkin, che nel 1915 aveva diciotto anni, Talat Pascià era “il criminale più spaventoso”, in quanto era uno dei principali responsabili dello sterminio di “1,2 milioni di armeni uccisi per il crimine di essere cristiani”. L’imputato fu assolto, ma i giuristi di Lemberg discussero all’infinito sulle norme giuridiche applicabili al suo caso. Nominato successivamente procuratore in Polonia, Lemkin dovette riparare negli Stati Uniti per sfuggire al nazismo e fu lì che nel 1943 coniò il termine “genocidio”, definito come l’intenzione, seguita dalla sua attuazione, di cancellare uccidendo (“-cidio”) un genos.3 Questo termine greco, che significa “nascita” o “razza” e che si riferisce a una popolazione in relazione a un “gene” o un’eredità comuni, nell’uso giuridico contemporaneo è diventato un “gruppo umano”. La sua distruzione comporta non solo l’uccisione dei suoi membri, ma anche il desiderio degli sterminatori di liquidare l’identità socio-culturale del “gruppo” in questione, la sua lingua e la sua religione, e di sradicarlo dal suo territorio ancestrale.
In ogni caso, al processo di Norimberga del 1947, in cui comparvero, furono condannati e giustiziati vari gerarchi nazisti, il concetto di “crimine contro l’umanità” – anch’esso ideato da un giurista ebreo della Galizia, Hersch Lauterpacht (1897-1960), che in seguito diventerà cittadino britannico naturalizzato e sarà uno dei primi giudici della Corte internazionale di giustizia – fu preferito a quello di “genocidio”. La controversia, caduta nell’oblio negli anni venti tra i due giuristi laureati alla Facoltà di Leopoli e le cui rispettive famiglie furono sterminate dalla Shoah, ha assunto una straordinaria attualità con il ricorso del Sudafrica contro Israele alla Corte internazionale di giustizia nel gennaio del 2024.
Secondo Lauterpacht, “l’essere umano, l’individuo, è la fonte ultima del diritto”, e la nozione di genocidio, basata su una definizione aleatoria di “gruppo”, è “irta di scappatoie, trucchi e potenziali pericoli”,4 che aprono dibattiti infiniti sull’intenzionalità dei criminali e faranno perdere il diritto in meandri da cui non potrà uscire.
Il partito di Nelson Mandela, l’African National Congress, che governa il Sudafrica dalla fine dell’apartheid, ha una disputa di lunga data con Israele. “La nostra libertà è incompleta senza quella dei palestinesi,” diceva spesso il fondatore dell’Anc. Durante un tour negli Stati Uniti, in seguito al suo rilascio nel febbraio del 1990 dopo ventisette anni di prigione nel suo paese, spiegò che la politica di apartheid perseguita dai bianchi in Sudafrica era identica a quella perseguita dagli ebrei in Israele contro i palestinesi. Questo gli alienò molte simpatie dall’altra parte dell’Atlantico, anche se il movimento americano per i diritti civili degli anni sessanta aveva riunito neri ed ebrei, discriminati dall’establishment “bianco, anglosassone e protestante” (Wasp), in particolare nel reclutamento degli studenti da parte delle università, prima fra tutte Harvard.5 Ma negli anni ottanta l’ascesa al potere dei Black Muslims,6 esplicitamente antisemiti, aveva già confermato questa frattura tra i due gruppi, un tempo solidali fra loro.
Il 21 dicembre 2023, a Pretoria, il presidente Cyril Ramaphosa, leader dell’Anc fondato da Mandela e alle prese con elezioni incerte nell’estate del 2024 in un contesto di corruzione e disoccupazione di un terzo della popolazione, ha denunciato il “genocidio” di Gaza sul palco di un meeting e ha ricordato che lo Stato ebraico è stato costruito su “settantacinque anni di apartheid”. Il vocabolario utilizzato ha deliberatamente equiparato queste due nozioni con un’audace mossa semantica. Tuttavia, l’Anc al potere non ha sempre dato un esempio di grande zelo nella lotta contro il genocidio – in particolare sul suolo africano. Nel luglio del 2017, la Corte penale internazionale – un organismo istituito dalle Nazioni Unite nel 1998 per perseguire individui, come i criminali di guerra dell’ex Jugoslavia o del Ruanda, e che ha forza coercitiva vincolante (a differenza della Corte internazionale di giustizia) – ha stabilito che il Sudafrica ha mancato al suo dovere rifiutandosi di arrestare ed estradare l’allora presidente sudanese, Omar al-Bashir, nonostante la richiesta della Cpi di farlo. Nel giugno del 2015 al-Bashir ha partecipato a un vertice dell’Unione Africana ed è stato discretamente espulso dal paese, nonostante sia stato perseguito per la sua responsabilità nel genocidio del Darfur, che ha causato più di trecentomila morti.
Dal 22 al 24 agosto 2023, Johannesburg ha ospitato il quindicesimo vertice dei Brics, a cui hanno partecipato i governi di Cina (Xi Jinping), India (Narendra Modi) e Brasile (Lula da Silva) e il capo della diplomazia russa, Sergei Lavrov, in rappresentanza di Vladimir Putin.7 L’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, l’Etiopia e l’Iran – la cui adesione è del primo gennaio 2024 – hanno aderito all’organizzazione. È in questo periodo che Pretoria ha presentato la sua denuncia contro Israele alla Corte internazionale di giustizia, il 29 dicembre 2023. Due decenni prima, lo Stato ebraico era già stato chiamato a rispondere davanti a questa Corte, quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite le aveva chiesto un parere consultivo (emesso il 9 luglio 2004) sulla legalità del muro di separazione costruito all’indomani della seconda Intifada tra Israele e la Cisgiordania per impedire l’infiltrazione di terroristi suscettibili di commettere attacchi suicidi. Israele ha incluso gli insediamenti ebraici situati oltre la Linea verde che separa lo Stato ebraico dai territori palestinesi, annettendo di fatto questa “zona riservata”. All’epoca, Israele disdegnò l’opportunità di comparire, ritenendo che il tribunale fosse prevenuto nei suoi confronti. Il tribunale avrebbe concluso che “la costruzione del muro nei territori palestinesi occupati è contraria al diritto internazionale”.
Vent’anni dopo, nel gennaio del 2024, la crescente indignazione mondiale, anche nei paesi occidentali, per l’ecatombe perpetrata a Gaza, ha costretto lo Stato ebraico a recarsi all’Aia per far valere le proprie ragioni. In applicazione della regola che prevede che ogni parte debba nominare un giudice della Cig oltre ai quindici magistrati eletti, Netanyahu ha nominato Aharon Barak, ex presidente della Corte suprema tra il 1995 e il 2006. È una prova del disagio del premier, visto che si trattava proprio della Corte di cui aveva cercato invano di ridurre drasticamente il ruolo. È noto che il giudice Barak non è un sostenitore di Netanyahu, ma quest’ultimo non ha avuto altra scelta che nominarlo nella speranza di allargare la base della legittimità di Israele agli occhi dell’opinione pubblica internazionale e dei giuristi. E per far dimenticare, in qualche modo, che il suo governo era tenuto in ostaggio da fanatici e suprematisti di estrema destra, la cui accesa retorica anti-palestinese ha fornito la base per l’accusa di “intento genocida” nei confronti dello Stato ebraico.
L’11 gennaio, la parte sudafricana ha presentato i propri argomenti. La principale espositrice è stata l’avvocata Adila Hassim, il cui nome dal suono musulmano le ha fatto guadagnare l’entusiasmo dei social network islamici di tutto il mondo, anche se lei stessa non è velata e non si è mai deliberatamente identificata come qualcosa di diverso da “sudafricana”. Dopo brillanti studi presso università americane e britanniche, ha acquisito notorietà nel suo paese per aver difeso con successo cause umanitarie che vanno dai diritti dei lavoratori alla lotta contro la corruzione.
Nel suo appello, la signora Hassim ha ritenuto che “tredici settimane di prove accumulate [all’11 gennaio 2024, cioè dalle conseguenze del 7 ottobre] dimostrano un comportamento genocida”, e che il crimine consisteva nell’“intenzione di sterminare i palestinesi di Gaza come gruppo umano”. La prova: sono state sganciate sull’enclave seimila bombe al giorno, trasformandola in un vero e proprio cimitero di bambini, e l’85 per cento della popolazione è stata sfollata. Gli ordini di evacuazione, lanciati tramite volantini, costituivano di per sé atti intenzionali di genocidio (contrariamente all’affermazione israeliana secondo cui erano destinati a risparmiare i civili che venivano avvertiti prima dei bombardamenti affinché fuggissero dalle aree prese di mira).
Il ragionamento giuridico era quindi in linea con la definizione di genocidio come “l’intenzione di annientare un gruppo umano”, enunciata da Raphael Lemkin e criticata da Hersch Lauterpacht. Non sorprende che la risposta israeliana del giorno successivo, il 12 gennaio, consegnata da un avvocato del ministero degli Affari esteri, abbia iniziato facendo riferimento al pogrom del 7 ottobre, assente dalla dichiarazione sudafricana, con la motivazione che, non essendo Hamas uno Stato, non rientrava nella giurisdizione della Cig. Sono stati prodotti documenti audio e video per dimostrare l’intento genocida degli autori della razzia: in particolare, la traduzione di una conversazione telefonica in cui uno dei fedayin del Movimento di resistenza islamica chiedeva con orgoglio al padre di dire alla madre di guardare il filmato girato con la sua telecamera GoPro su WhatsApp. Si vantava di aver già massacrato dieci ebrei solo lui.
Quanto alle dichiarazioni incriminanti dei ministri Ben-Gvir, Smotrich e Gallant, su cui si basava l’accusa sudafricana, il difensore ha obiettato che non avevano valore vincolante… e che non erano quindi probanti, nonostante il generale Gallant avesse il controllo del ministero della Difesa. Infine, si è sostenuto che la giurisprudenza della Corte, se mai si fosse pronunciata a favore del ricorrente, equivarrebbe a vietare a qualsiasi Stato attaccato da un gruppo terroristico di difendersi, semplicemente su richiesta di uno Stato terzo. In questo modo, la Corte è stata pregata di respingere le “misure provvisorie” che esigevano il ritiro delle truppe israeliane da Gaza.
In realtà, questo non sarebbe stato vincolante in ogni caso: l’Ucraina si era rivolta alla Cig il 27 febbraio 2022 per chiedere il ritiro delle truppe russe dal suo territorio (invocando a tal fine la Convenzione sul genocidio del 1948), senza che Mosca ne tenesse conto in alcun modo. Ma l’effetto atteso nel gennaio del 2024 sarebbe stato più politico che giuridico o militare. Non avrebbe fatto altro che aumentare la pressione morale su Israele, in particolare negli Stati Uniti, dove il presidente Biden sta affrontando una difficile campagna elettorale in cui avrà bisogno, fra l’altro, della parte più “progressista” dei democratici per la sua rielezione contro il suo avversario Donald Trump, che il 16 gennaio ha trionfato nelle primarie repubblicane in Iowa.
Inoltre, una sentenza a favore dell’accusa potrebbe facilitare un successivo deferimento alla Corte penale internazionale, che incriminerebbe i funzionari israeliani a titolo personale, sull’esempio dei leader hutu, serbi, sudanesi o russi perseguiti per i genocidi in Ruanda, nell’ex Jugoslavia, nel Darfur o in Ucraina. Per i Brics+, sostenuti dal Sudafrica contro l’Occidente, non c’è solidarietà con l’Ucraina, stigmatizzata come “europea” o addirittura “nazista”. L’Ucraina stessa è stata vittima dell’Holodomor, una carestia progettata per distruggere il nazionalismo ucraino spazzando via parte della popolazione. Tra il 1931 e il 1933, questo genocidio ha causato quattro milioni di morti su ordine di Stalin, con l’obiettivo di collettivizzare l’agricoltura. La causa dei Brics+ è Gaza, non il Donbass o la Crimea.
Lemkin e Lauterpacht, se resuscitassero nella loro alma mater di Lemberg – oggi Leopoli, in Ucraina, invasa e bombardata dalle truppe di Putin – avrebbero molto materiale per continuare la loro polemica del secolo precedente. Si ritroverebbero in un mondo in cui l’“accelerazione della storia”8 è anche parte di una sorprendente regressione alle tragedie di un passato che gli autori della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e della Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio del dicembre del 1948, settantacinque anni prima, speravano fosse finito.
La razzia pogromista di Hamas del 7 ottobre, che potrebbe essere oggetto di un procedimento giudiziario davanti alla Corte penale internazionale come “crimine contro l’umanità” – se saranno accusate persone identificabili –, ha visto la sua natura mostruosa cancellata, a posteriori, nell’opinione pubblica mondiale dai bombardamenti su Gaza, il cui bilancio delle vittime è circa venti volte superiore, nel gennaio del 2024, a quello delle 1140 vittime del “Diluvio di al-Aqsa”.
In Israele, invece, questo attacco rimane un trauma nazionale,9 sia per gli atroci ricordi che evoca nella storia del popolo ebraico, sia per ciò che si sa sulla ferocia degli omicidi, fino a quando non saranno accuratamente documentati. La sorte del centinaio di ostaggi trattenuti dai loro rapitori nel labirinto di tunnel scavati da Hamas ricorda chiaramente che la battaglia non è stata vinta dallo Stato ebraico, nonostante l’enorme dispiegamento militare e l’elevato numero di vittime.
I sondaggi – con solo il 15 per cento degli israeliani nel gennaio del 2024 che vuole che Netanyahu rimanga in carica dopo la fine della guerra – mostrano l’impopolarità del primo ministro, ritenuto in gran parte responsabile della peggiore catastrofe nella storia dello Stato, per il suo errato “concetto”. Ma la maggioranza dell’opinione pubblica – il 56 per cento degli intervistati – ha sostenuto l’operazione militare a Gaza fino alla liberazione degli ostaggi. In effetti, non c’è stata alcuna vittoria tangibile su Hamas che avrebbe cauterizzato le ferite di una società sotto shock. La “risposta sproporzionata” – almeno in termini di numero di vittime avute dal nemico – è il cuore della strategia di deterrenza di Israele.10 Ma, per la prima volta dal 1948, sembra non sortire alcun effetto. In questo senso, Hamas, di fronte a un nemico soverchiante, incarna la figura opposta di un Davide palestinese che avrebbe la meglio su un Golia ebraico, che non riesce a uscire dalla spirale della guerra. La trappola tesa allo Stato ebraico indebolisce per transitività i suoi tradizionali sostenitori occidentali e galvanizza i suoi nemici con la promessa di un successo regionale e persino internazionale. Fa presagire un auspicato rovesciamento dell’equilibrio di potere che sconfiggerebbe prima Israele e poi l’Occidente, su scala globale.
L’ equivoca offensiva del Sudafrica
Tre Stati sono apparsi subito politicamente avvantaggiati, almeno all’indomani del 7 ottobre. Il principale avversario dello Stato ebraico, la Repubblica islamica dell’Iran, che fa di questa ostilità la sua ragion d’essere come leader dell’“asse della resistenza”, è sembrato guadagnare punti in diversi “spazi di significato” internazionali. In primo luogo, ha ottenuto un vantaggio simbolico nella rivalità con i suoi concorrenti nella ricca penisola arabica per conquistare “cuori e menti” nel mondo musulmano, in quanto araldo ed eroe della causa palestinese, che è stata rimessa al centro del gioco mediorientale. Anche se non ci sono prove che Teheran abbia favorito la decisione di attaccare la mattina del fatidico 7 ottobre, le Guardie rivoluzionarie hanno fornito addestramento, infrastrutture e finanziamenti, senza i quali nulla sarebbe stato possibile. Questa assistenza è accreditata da tutti coloro che all’interno della Ummah islamica sono orgogliosi del terribile colpo inferto all’“entità sionista”, compresi “gli oppressi di tutto il mondo” che detestano l’Occidente.
Oltre a rafforzare queste consuete alleanze, il “sostegno a Gaza” ha permesso all’Iran di sviluppare sinergie con i due nuovi principali partner Brics+: Cina e Russia. Pechino aveva già firmato un “patto di cooperazione strategica venticinquennale” con Teheran il 27 marzo 2021, fornendole un prezioso accesso a tecnologie e manufatti che hanno permesso alla Repubblica islamica di aggirare l’embargo americano – e occidentale – da quando Donald Trump si è ritirato dall’accordo nucleare nel 2018. La Cina ha poi compiuto una svolta nella regione nel marzo del 2023, organizzando una mediazione con l’Arabia Saudita che ha portato alla ripresa delle relazioni diplomatiche tra Teheran e Riad. Fino ad allora, la Cina si era accontentata di tessere la sua rete commerciale estendendo le sue Nuove vie della seta al Medio Oriente.
La Cina interviene in un’area che era di dominio esclusivo degli Stati Uniti, fornendo al regno garanzie di sicurezza grazie alla sua capacità di influenzare direttamente le decisioni di Teheran e di moderarne le azioni ostili, cosa che Washington non può “fornire”. Dal primo gennaio, i due paesi che si affacciano sul Golfo persico sono anche partner della Cina nel gruppo Brics+, insieme a un terzo, gli Emirati Arabi Uniti.11 Finora, la Cina ha visto Israele – il suo secondo partner più importante dopo gli Stati Uniti – come una sponda per la sua espansione commerciale e ha considerato la nazione in fase di avvio come una fonte di forniture tecnologiche che potrebbero far pendere la bilancia a suo favore contro gli Stati Uniti. Ma all’indomani del 7 ottobre ha preso una serie di decisioni contro lo Stato ebraico. La sua compagnia di navigazione Cosco, il quarto armatore di navi portacontainer al mondo, ha deciso all’inizio di gennaio di non servire più i porti di scalo israeliani. Tale scelta non è dovuta alla pirateria nel Mar Rosso: gli Houthi, alleati di Teheran, non attaccano le navi battenti bandiera della Cina, che acquista il 90 per cento del petrolio esportato dall’Iran (in applicazione dell’accordo del 2021). Una dichiarazione rilasciata da Sana’a il 18 gennaio 2024 affermava che i ribelli erano pronti a “garantire il passaggio delle navi russe e cinesi nel Mar Rosso”, ma a vietare tutto il traffico presumibilmente diretto in Israele. Pechino non ha mai condannato la razzia del 7 ottobre né ha definito “terrorista” il Movimento di resistenza islamica palestinese. L’evoluzione della sua posizione, al di là dell’ostilità verso Israele, è un segno dell’indurimento del suo antagonismo con l’Occidente nell’ultimo decennio, sotto l’ombrello comune dei Brics+.
L’inversione di rotta di Mosca è ugualmente significativa. Dal 7 ottobre, Vladimir Putin ha abbandonato il ruolo di mediazione tra lo Stato ebraico e la Repubblica islamica, che aveva trovato la sua principale applicazione nella neutralizzazione delle forze iraniane in Siria per prevenire qualsiasi aggressione contro Israele. La piega presa dalla guerra in Ucraina a partire dal 2023, nonostante il cauto rifiuto di Israele di condividere con Kiev la tecnologia antimissile “Iron Dome”, è stata segnata dall’improvvisa dipendenza dell’esercito russo, che aveva problemi di approvvigionamento di equipaggiamenti e munizioni, dalle armi iraniane, molto utili per colpire le popolazioni civili e abbattere il morale del nemico. Questo riavvicinamento russo-iraniano, rafforzato ancora una volta dalla partnership all’interno dei Brics+, in vigore dal primo gennaio 2024, è illustrato da un simmetrico deterioramento delle relazioni con Israele.
Il 26 ottobre Putin ha fatto ricevere una delegazione di Hamas dal suo viceministro e inviato speciale per il Medio Oriente Mikhail Bogdanov, che ha paragonato l’assedio di Gaza a quello della sua nativa Leningrado da parte dei nazisti durante la Seconda guerra mondiale. Inizialmente il leader russo ha visto l’attenzione del mondo sul Medio Oriente come un gradito diversivo dall’attenzione ostile dei paesi occidentali nei confronti della sua offensiva ucraina. Il 7 dicembre ha accolto in pompa magna il presidente iraniano Ebrahim Raisi, denunciando un sistema internazionale segnato dal “neocolonialismo” e invocando lo sviluppo del multilateralismo, che consiste soprattutto nel rafforzare un multipolarismo anti-occidentale di cui vuole fare dei Brics+ il braccio armato. Ma questo atteggiamento – che ha suscitato molti commenti negativi in Israele, oltre a smascherare la miope ingenuità di Netanyahu che aveva pensato di poter fare la sua parte da solo tra Mosca e Sochi – paradossalmente conferisce al padrone del Cremlino una nuova posizione di mediazione tra lo Stato ebraico e Hamas. E questo in un momento in cui la guerra a Gaza si trascina, aumentando il numero di morti senza che gli ostaggi siano stati liberati. Facendo trattare nuovamente Mikhail Bogdanov con una delegazione di Hamas il 18 gennaio 2024, dove “la parte russa ha sottolineato la necessità di rilasciare rapidamente i civili catturati durante gli attacchi del 7 ottobre 2023 e detenuti dalle fazioni palestinesi, tra cui tre cittadini russi”, Putin sta mostrando la sua capacità di buoni uffici, a scapito dell’Occidente, implicitamente presentato come incapace di ottenere qualcosa da Hamas per il fatto di essere allineato con Israele. La liberazione degli ostaggi avrebbe potenzialmente l’effetto di minare il sostegno della popolazione israeliana alla prosecuzione della guerra e di danneggiare Netanyahu nel processo.
Ma un tale successo sarebbe attribuibile a Mosca e non alla forza delle armi dell’Idf, e rappresenterebbe un significativo indebolimento dello Stato ebraico, e di conseguenza dimostrerebbe il declino dell’Occidente che gli ha permesso di portare avanti la sua offensiva su Gaza, segnata da un fallimento militare e da un palese fallimento politico.
Per ovviare a questa situazione potenzialmente dannosa, gli Stati Uniti, dopo la spola di Blinken in Medio Oriente nella prima settimana di gennaio, hanno proposto una propria via d’uscita dal conflitto. Per il presidente Biden, infatti, c’è l’urgenza elettorale di apparire come il portatore di una pace duratura nella regione, mentre il suo avversario repubblicano Donald Trump aveva costruito, con gli Accordi di Abramo (che lui avrebbe preferito chiamare “Accordi di Donald”), una tregua momentanea che ha portato alla tragedia attuale. Ha aggirato la Palestina, la cui identità nazionale avrebbe dovuto dissolversi, grazie alle forze di mercato, in una prosperità economica senza precedenti. Come abbiamo visto, il governo Biden non ha messo in discussione questa logica, né ha sviluppato un’alternativa. È stato colto di sorpresa dall’incursione pogromista del 7 ottobre.
La superpotenza saudita e le sfide globali
Un altro Stato ha adottato un atteggiamento cauto nei confronti degli Accordi di Abramo: l’Arabia Saudita. Permettendo al suo vassallo, il Bahrein, di firmarli, il regno aveva espresso il suo nulla osta; ma non si era impegnato, facendo del “riconoscimento dei diritti del popolo palestinese” un prerequisito per la sua partecipazione. A settembre, due ministri israeliani sono stati ricevuti ufficialmente in Arabia, in un quadro multilaterale, il secondo cinque giorni prima del 7 ottobre. Infine, il progetto di punta attraverso il quale il regno sta pianificando il futuro come superpotenza dominante in Medio Oriente è l’avveniristica città di Neom, costruita tra le sabbie della penisola arabica nord-occidentale, all’imboccatura del Golfo di Aqaba sul Mar Rosso, a un’ora dal porto israeliano di Eilat. Non vedrà mai la luce se rimarrà intrappolata tra due focolai di conflitto. A nord, in Palestina, la zona di Gaza è diventata un inferno sulla terra e un importante fattore di potenziale destabilizzazione della regione. A sud, le montagne dello Yemen, controllate dai sostenitori Houthi di Teheran, sono diventate nient’altro che un covo di pirati che ora conducono una jihad marittima contro le navi che percorrono le Vie della seta del Mar Rosso tra la Cina e l’Europa attraverso lo stretto di Bab-el-Mandeb e il Canale di Suez. La nuova attività di questo focolaio, che la mediazione cinese tra l’Arabia Saudita e la Repubblica islamica sembrava aver spento dopo la ripresa delle relazioni diplomatiche nel marzo del 2023 tra Riad e Teheran, è la conseguenza dell’attacco israeliano a Gaza. Come ha indicato lo sceicco Nasrallah nel suo discorso del 3 novembre,12 l’“asse della resistenza” ha sostituito gli Houthi a Hezbollah. L’Arabia Saudita, scottata dalla propria guerra in Yemen contro gli Houthi tra il 2015 e il 2023, responsabile di diverse centinaia di migliaia di morti e di ingenti distruzioni dovute ai bombardamenti, si era tenuta lontana dalla coalizione occidentale dei “Guardiani della prosperità”, sotto la guida americana e britannica. Gli attacchi della coalizione contro i siti militari degli Houthi, ricorrenti dall’inizio di gennaio del 2024 per proteggere la navigazione in mare, non hanno quasi mai prodotto risultati significativi, perché il fuoco sulle navi non è cessato.
È in questo contesto fortemente vincolato che, a seguito dell’incontro tra il segretario di Stato Antony Blinken e il principe ereditario Mohammed bin Salman nella zona turistica di al-Oula – anch’essa situata vicino alla costa del Mar Rosso – l’8 gennaio 2024, gli Stati Uniti hanno proposto un piano per porre fine alla crisi congruente con i piani della diplomazia saudita. Questi piani erano tanto più inevitabili in quanto il regno era l’unico ente in grado di investire nella ricostruzione delle infrastrutture palestinesi devastate. Tuttavia, se da un lato Riad ha a disposizione immense risorse, dall’altro è soggetta a imperativi non meno pressanti. Il primo è limitare, se non eliminare, la minaccia dell’Iran, la cui rinascita attraverso la riattivazione degli Houthi da parte di Teheran è motivo di preoccupazione. La comune appartenenza ai Brics+ forse incoraggerà un percorso negoziale. Ma sotto gli auspici di Russia e Cina, soprattutto perché l’uso della forza americano-britannica contro i pirati di Sana’a e Hodeida nel gennaio del 2024 non è stato affatto risolutivo. Il secondo principale imperativo per l’Arabia Saudita è che la governance di una Gaza ricostruita, che in futuro beneficerà della prosperità regionale con Neom come hub, non dovrà più dipendere ideologicamente da Teheran e dal suo “asse della resistenza”, all’opposto dell’Hamas di Yahya Sinwar.
Questa prospettiva, che prevede l’istituzione di uno Stato palestinese a Gaza – l’unico modo per salvare la struttura geoeconomica degli Accordi di Abramo e rafforzarla includendovi l’Arabia Saudita – ha incontrato fin dall’inizio l’esplicita opposizione di Netanyahu. Quest’ultimo chiede che Israele mantenga il controllo sulla sicurezza nella striscia costiera, accettando solo uno Stato fantoccio, paragonabile all’Autorità palestinese di Ramallah emersa dagli Accordi di Oslo.
Per Riad, il finanziamento della ricostruzione di Gaza, alla duplice condizione che l’organo di governo abbia il carattere di uno Stato a tutti gli effetti e sia libero dal controllo iraniano, è un prerequisito per la pacificazione regionale, essenziale per il futuro funzionamento di Neom. L’opposizione di Netanyahu è un ostacolo solo fino a quando rimarrà al potere, il che dipende dal fatto che l’operazione armata a Gaza continui o si concluda. Se gli ostaggi sopravvissuti saranno liberati e la guerra finirà, in Israele si terranno elezioni, le cui probabilità di successo sono per lui scarse. Ma la cancellazione di questa ipoteca, se mai avverrà, lascerà intatta quella sul governo di Gaza, con le sue infrastrutture distrutte e l’85 per cento della sua popolazione sfollata nella zona di confine con il Sinai egiziano intorno a Rafah, e sprofondata in uno stato di indigenza e di stress sanitario e alimentare catastrofico. La popolarità di Yahya Sinwar tra quei rifugiati che hanno perso tutto rimane incerta alla fine di gennaio del 2024. Sarà ancora l’eroe di un popolo a cui ha restituito la dignità infliggendo all’oppressore e depredatore israeliano il più violento colpo militare e morale dal 1948? Oppure, al contrario, sarà visto come colui che, attraverso una strategia le cui conseguenze non sono state ben calcolate, ha fatto sì che i palestinesi della striscia costiera soffrissero su una scala ancora maggiore rispetto ai loro genitori costretti a fuggire dalla loro terra nel 1948, divenuta territorio israeliano durante la Nakba (“catastrofe”) originale?
Per quanto riguarda il futuro organo di governo di Gaza, sembra impossibile imporre un’Autorità palestinese sotto il controllo dell’Olp incarnata dal senescente Mahmoud Abbas, il cui discredito sarebbe solo accentuato se arrivasse con i furgoni dell’Idf, o prolungare il governo di Hamas, che dura da tre lustri e che Netanyahu ha fatto finanziare sottobanco dal Qatar.
Il 10 gennaio 2024, il quotidiano israeliano “Haaretz” ha pubblicato un’intervista all’ammiraglio in pensione Ami Ayalon, capo dello Shin Bet (“servizio segreto interno”) dal 1995 al 2000 e coautore, insieme all’accademico siro-israeliano Sari Nusseibeh, nel 2003, di un’iniziativa di pace a sostegno della soluzione a due Stati, senza il diritto al ritorno per i palestinesi le cui famiglie sono dovute fuggire dal territorio divenuto israeliano nel 1948. Nelle sue risposte all’intervistatore chiedeva di uscire dallo scontro armato del 7 ottobre liberando tutti gli ostaggi in cambio della liberazione dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, primo fra tutti Marwan Barghouti. Questo ex leader e parlamentare di Fatah ha svolto un ruolo importante nella seconda Intifada. È stato arrestato nel 2002 e condannato a cinque ergastoli. Dopo ventidue anni di carcere (la stessa durata di Yahya Sinwar), è considerato la figura più popolare in Palestina. A differenza del leader di Hamas a Gaza, che è stato manipolato dal primo ministro fino a quando la manipolazione non gli si è ritorta contro, Barghouti è uno statista palestinese in grado di negoziare con Israele nell’interesse del suo paese. Questo spiega sia la sua continua incarcerazione da parte di Netanyahu, che ha preferito navigare tra il Sinwar estremista e l’impotente Mahmoud Abbas, sia il desiderio di coloro che si preparano all’era post-Netanyahu di affrettare il suo rilascio. Vedono in lui l’unica figura ragionevole, i cui due decenni di prigionia – in condizioni molto dure, progettate per spezzarne la volontà – non poco hanno fatto per aumentare la sua popolarità tra i compatrioti, compresi gli islamisti.
Ayalon è convinto che non ci sarà alcuna “foto della vittoria” israeliana della guerra, anche se l’obiettivo dichiarato di “restituire Sinwar al suo creatore” dovesse avere successo. Per lui, il principale errore di calcolo del primo ministro, ideologicamente rafforzato dai suoi alleati suprematisti, è stato sostenere che “i palestinesi non sono un popolo e che se permettiamo loro di accedere alla prosperità economica, abbandoneranno il loro sogno di indipendenza. Ma loro stessi si definiscono un popolo, sono determinati a uccidere ed essere uccisi per la loro indipendenza, e i terroristi che vengono uccisi diventano martiri ai loro occhi”. Infine, “l’Autorità palestinese, non unendosi alla violenza, è vista come collaboratrice di Israele”.
Affrontare questa sfida presuppone, al di là della fine del governo Netanyahu, una rivoluzione culturale nelle relazioni tra Israele e i suoi vicini palestinesi. Ma questa rivoluzione si inserisce anche in uno sconvolgimento internazionale. A livello dello Stato ebraico, questo processo è stato avviato giovedì 18 gennaio 2024, dopo il tour regionale di Antony Blinken, quando il generale Gadi Eizenkot, ex capo di Stato maggiore e membro del gabinetto di guerra, ha manifestato per la prima volta in pubblico le divisioni all’interno del gabinetto e la crescente opposizione alla strategia della linea dura di Netanyahu. Chiedendo che si tengano al più presto le elezioni, ritiene che la liberazione degli ostaggi ancora vivi sia una condizione necessaria. Ciò presuppone un contatto con Hamas, come è stato fatto alla fine di novembre, in cambio di una tregua.
In risposta, il giorno dopo, in una conversazione telefonica con il presidente Biden, il primo ministro ha fatto sapere di rimanere contrario a qualsiasi sovranità palestinese di natura statale sia su Gaza che sulla Cisgiordania, per ragioni di controllo della sicurezza. Ha preso precauzioni contro le posizioni americane, britanniche ed europee, nonché contro quella del segretario generale delle Nazioni Unite. In questo braccio di ferro in cui Netanyahu e i suoi stretti alleati cercano di superarsi a vicenda per garantire la propria sopravvivenza politica e in cui l’Occidente spinge per un compromesso al fine di svincolarsi dall’agenda del primo ministro, che contribuisce all’isolamento dell’Occidente di fronte all’offensiva del “Sud globale” e dei leader dei Brics+, alcuni segnali dal campo avverso indicano una disponibilità a negoziare.
Oltre al messaggio con cui Bogdanov ha ricevuto la delegazione di Hamas a Mosca e l’ha esortata a raggiungere un accordo sul rilascio degli ostaggi in cambio di prigionieri palestinesi, il 21 gennaio il Movimento islamista ha pubblicato un documento che, a suo modo, apre la strada ai colloqui. Il testo ammette “possibili errori” nella condotta della razzia del 7 ottobre e sostiene di aver “fatto del proprio meglio per evitare di colpire civili, bambini e anziani”, che è un “obbligo religioso e morale dei combattenti delle brigate Ezzedin al-Qassam”. Le immagini e i racconti dei testimoni oculari del massacro del “Diluvio di al-Aqsa” dimostrano il contrario, anche se si può ipotizzare che i saccheggiatori che hanno approfittato della fortuna accorrendo dietro i fedayin si siano lasciati andare ad altri omicidi, stupri e mutilazioni senza ritegno. Ma la palinodia di Hamas, al di là di ogni considerazione sulla sincerità o anche solo sulla manifestazione di un disaccordo tra il braccio armato con sede a Gaza e l’ufficio politico con sede in Qatar, rappresenta un passo di quest’ultimo verso l’apertura di negoziati. L’esortazione di Bogdanov a sfruttare al meglio l’accordo che sta per sbocciare e a evitare che l’Occidente ne approfitti sembra essere stata ascoltata. Cinque giorni dopo, Hamas ha diffuso un video in cui tre donne in ostaggio, due soldatesse diciannovenni e una civile trentunenne, hanno parlato per quasi cinque minuti, chiedendo il ritiro dell’Idf da Gaza e un cessate il fuoco, e accusando Netanyahu di disinteressarsi della loro sorte. Rispetto al video precedente, del 14 gennaio, che durava solo 37 secondi e in cui un soldato e un civile parlavano brevemente prima della minaccia di una voce di Hamas che diceva: “Domani vi informeremo della loro sorte”, questo video, con le sue testimonianze di vita, sembra essere un prerequisito per il processo negoziale iniziato poco dopo a Parigi.
In effetti, la situazione dell’“asse della resistenza”, dopo l’euforia della “razzia benedetta” del 7 ottobre e l’effetto shock provocato in Israele e tra i suoi alleati occidentali, è meno brillante di quanto Teheran e i suoi alleati avessero sperato. Come abbiamo visto, Hezbollah non è più in grado di lanciare un’offensiva contro Israele per timore di perdere la sua posizione presso la popolazione libanese, che ora lo incolpa della spirale verso il collasso in cui il paese è stato trascinato da quando ne ha preso il controllo. Gli attacchi israeliani che hanno neutralizzato Salah al-Arouri, il leader di Hamas, nel mezzo della roccaforte del “Partito di Dio” nella periferia sud di Beirut, all’inizio di gennaio del 2024, e Wissam Tawil, l’“eroe” della “guerra dei trentatré giorni” del 2006, non hanno ricevuto una risposta della stessa portata, così come la liquidazione di alti membri delle Guardie rivoluzionarie iraniane a Damasco. In Iran, alla carneficina di Kerman durante la celebrazione del culto del “generale martire” Soleimani, che indica quantomeno le falle nella sicurezza della dittatura dei pasdaran, sono seguiti alcuni attacchi missilistici senza effetti reali in Iraq, Siria e Pakistan.13 Il 16 e 18 gennaio, lo scambio di missili tra Iran e Pakistan, seguito dalla visita del ministro degli Esteri della Repubblica islamica Abdollahian a Islamabad, è stato visto come un tentativo poco convincente di dimostrare che Teheran aveva una qualche capacità di deterrenza.14 Solo gli Houthi hanno momentaneamente guadagnato punti, senza che gli attacchi americano-britannici riuscissero a far cessare il loro fuoco sulle navi commerciali occidentali. Ma questa strategia è rischiosa, perché l’alleato cinese, anche se le sue navi sono “protette” dai pirati yemeniti, non può accettare di vedere ostacolata nel medio termine una delle rotte principali delle sue Nuove vie della seta,15 chiave della prosperità e quindi del potere economico e politico dell’impero produttivo di Pechino.
L’apertura – sotto la guida americana e con il sostegno del Qatar – di negoziati che, al di là di Israele e Hamas, mirano a stabilire un equilibrio di potere tra l’Occidente e i suoi avversari del “Sud globale”, guidati dai leader dei Brics+, è un modo per imparare dall’impasse raggiunta nei cento giorni successivi al 7 ottobre. Si tratta di una questione cruciale per Joe Biden, che deve affrontare responsabilità internazionali storiche. Per lui questa sfida è ancora più complessa perché, al momento del suo insediamento nel gennaio del 2021, non è stato in grado di capire che Donald Trump ha commesso un errore occultando la questione palestinese nella logica degli Accordi di Abramo. Perché se gli Stati Uniti e l’Occidente non si danno i mezzi per creare uno Stato palestinese, alla fine subiranno una sconfitta strategica per mano dell’asse illiberale e anti-occidentale russo-cinese ora simboleggiato dai Brics+.
L’analisi di Ami Ayalon sopra riportata non menziona il ruolo centrale dell’Arabia Saudita in questo processo, che egli auspica. Eppure il regno ha una posizione geopolitica unica perché possiede una risorsa unica: le sue riserve di idrocarburi e la sua forza come unico “produttore elastico” al mondo. Questo lo mette in condizione di influenzare la produzione e i prezzi, e anche di negoziare su un piano di parità con i suoi partner che mirano a esercitare la loro egemonia sul “Sud globale”, i giganti cinesi, russi e indiani. Questi ultimi dipendono dai flussi o dai prezzi del petrolio, sui quali Riad mantiene il controllo, e intanto beneficia degli armamenti occidentali e del sostegno militare americano-europeo per la sua stabilità interna, indipendentemente dalle fluttuazioni della relazione speciale tra Washington e Riad e dall’“alchimia” tra i due capi di Stato.
In una simile situazione planetaria è in gioco il futuro dell’Occidente, dopo l’euforia dell’iperpotenza americana seguita alla caduta del Muro di Berlino. Non è un piccolo paradosso che la patria di Osama bin Laden contenga molte delle chiavi del futuro dell’America e dei suoi alleati.
Stallo e la Corte internazionale di giustizia
Il 26 gennaio 2024, la Corte internazionale di giustizia dell’Aia ha presentato le sue conclusioni. Con soddisfazione di Pretoria, ha invitato Israele a fare tutto il possibile per “impedire la commissione di qualsiasi atto che rientri nell’ambito di applicazione” della Convenzione del 1948 che punisce il genocidio e a prendere “tutte le misure in suo potere per prevenire e punire l’incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio”. Tuttavia, non ha fatto alcun riferimento a cessate il fuoco o a tregue, a differenza della sua decisione sull’invasione russa dell’Ucraina nel 2022, in cui aveva chiesto – senza alcun risultato – che Mosca ritirasse le sue truppe. Né si è pronunciata sull’esplicita qualificazione di “genocidio” delle azioni di Israele a Gaza dopo il 7 ottobre, lasciando questo compito a un verdetto di merito, per il quale sarebbero necessari diversi anni di indagini.
Con tutte le apparenze di un “giudizio di Salomone”, senza dubbio appropriato alle terre bibliche in cui si sono verificati gli olocausti in questione, la decisione della Corte è stata accolta con favore dai rappresentanti dei Brics+ e dell’Unione Europea, e criticata da Israele e dagli Stati Uniti. In ogni caso, ha contribuito a sollevare il sospetto di una colpa morale da parte dello Stato ebraico, anche tra alcuni Stati e istituzioni occidentali. L’Ue, ad esempio, è passata da una solidarietà incondizionata con Israele all’indomani della razzia del 7 ottobre a una posizione più sfumata. Il Sudafrica ha applaudito “una vittoria decisiva per lo Stato di diritto internazionale e un passo importante nella ricerca della giustizia per il popolo palestinese”. Si è spinto fino a interpretare il verdetto della Corte internazionale di giustizia come “la determinazione che le azioni di Israele a Gaza sono plausibilmente genocide”. Hamas, da parte sua, ha accolto con favore una sentenza che “isola Israele”, mentre l’Autorità palestinese la considera un obbligo per la comunità internazionale di “porre fine alla guerra genocida di Israele contro il popolo palestinese di Gaza”. Anche Erdogan si è detto d’accordo.
Gli Stati Uniti, da parte loro, hanno preso atto del fatto che la Corte internazionale di giustizia “non ha riscontrato un genocidio o chiesto un cessate il fuoco”, ribadendo che tali accuse e ingiunzioni contro lo Stato ebraico sono infondate. Netanyahu, pur scagliandosi contro qualsiasi potenziale ordine proveniente “dall’Aia, dall’asse del male [cioè l’Iran e i suoi affiliati]” o da chiunque altro, che sarebbe uno “spregevole tentativo di negare a Israele il diritto fondamentale di difendersi”, si è rallegrato del fatto che la Corte, non pronunciandosi su questo punto, abbia “giustamente respinto” quella che altrimenti avrebbe costituito una “palese discriminazione contro lo Stato ebraico”.
L’Unione Europea, attraverso la voce del suo Alto rappresentante per la politica estera e di difesa e vicepresidente del Comitato, il catalano Josep Borrell, ha sottolineato che le sentenze della Corte internazionale di giustizia sono “vincolanti per le parti”, che devono rispettarle, compreso l’obbligo per lo Stato ebraico di “consentire la fornitura dei servizi di base e dell’assistenza umanitaria di cui i palestinesi hanno urgente bisogno per far fronte alle avverse condizioni di vita che devono affrontare”. Nelle relazioni internazionali contemporanee, tuttavia, una simile ingiunzione non ha altro effetto che quello morale. Questo punto è stato sottolineato dalla Spagna, lo Stato membro dell’Ue che ha preso maggiormente le distanze da Israele. Il suo primo ministro socialista Pedro Sánchez ha chiesto l’applicazione esplicita delle misure cautelari ordinate dalla Corte.
Le crescenti critiche dell’Unione Europea alla politica di Netanyahu erano già evidenti in un discorso tenuto da Borrell in castigliano il 19 gennaio all’Università di Valladolid, dove riceveva una laurea honoris causa. In quel discorso, Borrell si è espresso a favore della creazione di uno Stato palestinese e, deplorando la ferma opposizione di Netanyahu, ha dichiarato che Israele si è spinto “fino a creare e finanziare Hamas” per indebolire l’Olp. Come abbiamo visto, il primo ministro israeliano ha effettivamente messo in piedi questo sorprendente “concetto”, grazie al coinvolgimento del Qatar. Ma è un’aberrazione sostenere che sia stato lo stesso Stato ebraico a “creare” il Movimento di resistenza islamica, come se fosse un semplice agente provocatore manipolato da un servizio segreto. Hamas è il frutto della storia della Fratellanza Musulmana in Medio Oriente e delle sue varie vicissitudini contemporanee, anche se le autorità israeliane non hanno posto alcun ostacolo al suo sviluppo. Hanno visto in esso un’opportunità per diluire il potere dell’Olp, riconosciuto come “unico rappresentante del popolo palestinese” dalla Lega araba nel vertice di Algeri del novembre del 1973.
Tali carenze cognitive, imbarazzanti per il massimo diplomatico dell’Unione Europea, dovrebbero indurre l’Unione a fare ordine in casa propria, mettendo in discussione la ricerca universitaria che ha finanziato sul Medio Oriente, ricerca che avrebbe potuto fornire all’Alto rappresentante una reale comprensione della regione e delle questioni in gioco. Purtroppo, il principale ente finanziatore, l’Erc (European Research Council), ha sistematicamente favorito, fin dall’inizio del secolo, sia gruppi che negavano l’importanza e il significato dell’islamismo politico, con il pretesto di un’evanescente “islamizzazione del radicalismo”, per usare la formulazione preferita di Olivier Roy, sia, successivamente, apologeti dei Fratelli Musulmani. Questo è stato il caso del programma principale che ha alimentato il pensiero errato della Commissione dal 2013 al 2017, chiamato “Wafaw” (acronimo per “When Authoritarianism Fails in the Arab World”). Contrariamente al titolo, questi regimi sono tornati in auge dopo l’utopica “primavera” dei primi anni dieci – dalla Tunisia all’Egitto –, quando i paesi interessati non sono precipitati in una guerra civile ancora in corso nel 2024 – in Libia, Yemen, Siria e Sudan – dove il bilancio è stato di centinaia di migliaia di vittime. Questo programma di ricerca, finanziato con 2 milioni di euro e che ha mobilitato tutte le risorse dell’Unione Europea sul mondo arabo contemporaneo in un momento in cui i Fratelli Musulmani avevano il vento in poppa in Egitto e Tunisia, è stato diretto dal principale compagno di viaggio della Fratellanza e fanatico europeo, il ricercatore del Cnrs François Burgat. Dopo il 7 ottobre, si è distinto per aver ribadito con entusiasmo il suo sostegno ad Hamas. Una sorta di coming out che conferma la strategia scientifica di infiltrazione dell’ideologia della Fratellanza ai più alti livelli dell’Ue e del Consiglio d’Europa.
Il 2 gennaio 2024, il ricercatore in questione, ora in pensione, ha trasmesso sul suo account X (ex Twitter) un messaggio dell’organizzazione islamista palestinese che contestava un articolo del “New York Times” che riportava gli stupri, le mutilazioni e i massacri di donne e bambini perpetrati durante l’operazione “Diluvio di al-Aqsa”. In risposta alle proteste, il 10 gennaio ha risposto sullo stesso social network: “Ho infinitamente, ripeto infinitamente, più rispetto e considerazione per i leader di Hamas che per quelli dello Stato di Israele”. È stato questo il culmine di una lunga carriera in cui milioni di euro del Consiglio europeo della ricerca gli hanno permesso di ristrutturare il campo degli studi sul mondo arabo e sull’Islam in Francia e in Europa, e di incoraggiare il reclutamento di accademici della sua stessa idea ovunque. E tutto questo in un ambito in cui il denaro pubblico è particolarmente scarso, a scapito dei ricercatori che privilegiano la conoscenza rispetto all’adesione a un’ideologia e che si sono visti rifiutare i finanziamenti da Bruxelles. Un’anomalia che ha contribuito non poco al ritardo dell’Unione Europea nella capacità di riflettere e interpretare le questioni in gioco nell’attuale catastrofe mediorientale.
Eppure l’Europa sta subendo un forte cambiamento demografico, con l’insediamento sul suo territorio di persone provenienti dal Sud e dall’Est del Mediterraneo, che compensano il suo deficit di nascite. Dopo le molteplici crisi seguite alle “Primavere arabe” dell’ultimo decennio, a queste popolazioni si sono aggiunti milioni di immigrati clandestini provenienti dal “Sud globale”, i cui leader e portavoce disprezzano il “Nord”. Eppure l’Europa è un laboratorio eccezionale per la fusione attraverso le divisioni razziali e religiose. Il suo dilemma consiste in una battaglia culturale tra coloro che desiderano fondersi con i valori democratici del Vecchio continente e coloro che vogliono creare enclave separatiste per sovvertire lo Stato di diritto. Questo dibattito, mal condotto da élite politiche che privilegiano il clientelismo rispetto alla conoscenza, è ormai costretto fra un’estrema destra che grida alla “Grande Sostituzione” e cresce elettoralmente, sondaggio dopo sondaggio, e una sinistra radicale che adula il comunitarismo per conquistare pacchetti di voti nei quartieri popolari a forte maggioranza di immigrati. In un momento in cui l’Europa dovrebbe dimostrare, attraverso la sua capacità di integrazione, l’inutilità del divario esistenziale tra il “Sud globale” – molti dei cui abitanti aspirano a farne parte con qualsiasi mezzo – e il “Nord” occidentale, e far sentire la sua voce, l’Europa è diventata quasi impercettibile.
Tuttavia, le prospettive di superare il cataclisma che è derivato dalla razzia del 7 ottobre e la conseguente catastrofe dei palestinesi di Gaza la preoccupano moltissimo e deve quindi agire. È a Parigi, sul suo territorio, sia vicino al campo di battaglia che lontano dall’esacerbazione della sua violenza, che si sono svolti alla fine di gennaio del 2024 gli incontri tra i capi dei principali servizi segreti di Israele, Egitto, Qatar e Stati Uniti. Il loro obiettivo era preparare un accordo che potesse portare a una tregua nei combattimenti a Gaza e consentire il rilascio di ostaggi israeliani in cambio della liberazione di prigionieri palestinesi.
Questa dinamica internazionale, avviata dagli Stati Uniti e dall’Europa, aveva anche lo scopo di favorire nuove elezioni in Israele, come auspicato dalla maggioranza della popolazione dopo il silenzio delle armi. Tale prospettiva ostacola notevolmente l’ambizione di rimanere al potere per Netanyahu, che i sondaggi danno in forte ribasso, anche se solo una mezza dozzina dei suoi deputati lo abbandonasse e la Knesset venisse di conseguenza sciolta. Questo spiega l’accelerazione delle operazioni militari nella settimana del 22 gennaio, intraprese nella speranza di raggiungere uno degli obiettivi della guerra prima del cessate il fuoco, sia esso la distruzione di importanti infrastrutture di Hamas o la liquidazione di Yahya Sinwar. Ma questa corsa al traguardo è stata accompagnata da un’assunzione di rischi che ha portato alla morte in azione di 24 soldati israeliani solo il 22 gennaio, facendo salire il numero di morti nelle operazioni a Gaza a 210, una cifra particolarmente alta rispetto alle passate. Al contempo, nella stessa settimana, l’area di rifugio in cui lavorano i dipendenti dell’Unrwa nella città di Khan Yunis è stata presa di mira dai carri armati, aumentando le pressioni americane su Netanyahu per limitare le sue attività.
È in questo contesto che l’Onu, il cui organo giudiziario supremo ha preso una decisione che tende a sostenere gli oppositori dello Stato ebraico, è stata duramente colpita da uno scandalo che riguarda direttamente l’Unrwa. Le autorità israeliane hanno comunicato al suo direttore, lo svizzero Philippe Lazzarini, che dodici dei suoi dipendenti avevano preso parte alla razzia del 7 ottobre – sei si erano infiltrati in Israele, quattro avevano catturato ostaggi e due avevano fornito supporto logistico – e che uno dei dodici era stato ucciso. Il segretario di Stato Antony Blinken ha ritenuto queste informazioni “altamente credibili”. Washington ha pagato 120 milioni di dollari all’Agenzia in questione dal primo ottobre 2023 e, alla vigilia del suo quinto viaggio in Medio Oriente all’inizio di febbraio del 2024 per cercare di finalizzare un accordo tra i belligeranti, ha annunciato che il seguente pagamento di 300.000 dollari era stato sospeso. L’Agenzia ha licenziato le persone accusate a titolo precauzionale, ma l’autorità morale dell’Onu è stata immediatamente intaccata, a partire da quella del suo segretario generale, l’ex primo ministro portoghese António Guterres, le cui dichiarazioni sul massacro di Gaza e gli appelli per un cessate il fuoco avevano suscitato le ire del governo israeliano. Con un effetto a catena, l’intero sistema delle Nazioni Unite è entrato nell’era del sospetto, soprattutto la Corte internazionale di giustizia, i cui membri sono nominati dall’Assemblea generale e dal Consiglio di sicurezza. La sua risposta al Sudafrica è stata resa pubblica lo stesso giorno dell’annuncio del licenziamento dei dipendenti in questione.
L’Unrwa è finanziata sulla base di un rinnovo ad hoc del suo bilancio da parte degli Stati, i più grandi dei quali provengono dal “Nord”. Il bilancio del 2022 era di 1,2 miliardi di dollari. Accusato regolarmente da Israele e dal Partito repubblicano degli Stati Uniti di essere un fornitore di Hamas e di utilizzare libri di testo antisemiti nelle sue scuole, l’Agenzia aveva già visto i suoi sussidi americani tagliati da Donald Trump nel 2018. Sono stati ripristinati nel 2021 da Joe Biden.
A seguito dell’incriminazione di dodici dipendenti (su un totale di circa quindicimila), gli Stati Uniti e la Germania (i due maggiori donatori), insieme ad altri quindici paesi occidentali, hanno deciso a fine gennaio di sospendere i loro contributi, mentre l’Unione Europea (terza), la Francia (settima) e la Svizzera (nona) erano in attesa di prendere una decisione sui risultati dell’indagine indipendente condotta dalle Nazioni Unite. Se dovessero avere effetto a lungo termine, queste risoluzioni condannerebbero l’Unrwa a cessare di esistere in futuro. Questo è il desiderio del ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, che ritiene che “l’Unrwa non farà parte” della soluzione post-bellica a Gaza.
L’Agenzia riceve la maggior parte del suo budget dai paesi occidentali perché le sue operazioni costituiscono una sorta di compensazione finanziaria per la spoliazione dei rifugiati palestinesi (e dei loro discendenti) che ne beneficiano, cacciati dalle loro case e dalle loro terre in seguito alla decisione dell’Onu nel 1947 di creare lo Stato ebraico, in un’epoca in cui i membri dell’organizzazione internazionale erano per lo più europei e americani. Nel corso dei decenni, l’Unrwa è diventato l’organismo per eccellenza che fornisce servizi sociali e medici di base e assicura la scolarizzazione a 4,7 milioni di persone. La cessazione delle sue attività, che potrebbe avvenire molto presto dopo l’interruzione dei pagamenti, mentre la guerra continua e la devastazione di Gaza è totale, metterebbe in moto un disastro umanitario senza precedenti. Dal punto di vista israeliano, ciò rappresenterebbe – nel breve termine – un formidabile mezzo di pressione su Hamas affinché liberi gli ostaggi e accetti il cessate il fuoco alle migliori condizioni per lo Stato ebraico. L’organizzazione islamista sarebbe ritenuta responsabile della catastrofe che stanno vivendo gli abitanti di Gaza, per due motivi: per aver scatenato il pogrom del 7 ottobre e per aver inviato militanti a parteciparvi mentre erano dipendenti delle Nazioni Unite.
Secondo lo Stato ebraico, circa il 10 per cento dei dipendenti dell’Agenzia appartiene ad Hamas, alla jihad islamica o ad altri gruppi, e la metà di essi ha legami familiari di primo grado con loro. D’altra parte, molte organizzazioni umanitarie stanno facendo del loro meglio per allertare l’opinione pubblica sulle terribili conseguenze dell’interruzione dei pagamenti, facendo pressione sui governi occidentali.
I negoziati per il “dopo” si sono svolti in questo complesso contesto internazionale. La prima fase è stata raggiunta a Parigi durante i colloqui tra funzionari dell’intelligence americana, israeliana ed egiziana, alla presenza del primo ministro del Qatar, nel fine settimana del 26-28 gennaio 2024. Al termine di questi negoziati, il primo ministro si è dichiarato “ottimista”, in attesa della risposta di Hamas alle proposte avanzate.
È sotto questi auspici che il 5 febbraio 2024 è iniziata la quinta visita del segretario di Stato americano in Medio Oriente. Il numero cinque, nelle credenze popolari orientali, è di buon auspicio. Durante la sosta a Doha prima del suo arrivo a Gerusalemme, Blinken si è detto “cautamente ottimista” sul fatto che Hamas risponderà alle proposte quadro elaborate a Parigi dai rappresentanti dei servizi segreti americani, israeliani ed egiziani, nonché dal primo ministro del Qatar. Ma le richieste del movimento islamista sono state definite “folli” da Netanyahu, ormai convinto che non ci sarà altra soluzione che quella militare, grazie a una netta vittoria israeliana. Il presidente Biden ha replicato che Netanyahu stava “esagerando”. Mentre l’esercito israeliano era in grado di lanciare un’offensiva contro la città di Rafah – al confine egiziano chiuso dalle autorità del Cairo e dove sono parcheggiati in condizioni terribili i profughi cacciati dal resto della Striscia di Gaza – il capo del governo ha ribadito che non avrebbe mai accettato uno Stato palestinese. Si è attirato la replica dell’Arabia Saudita, che ha ricordato come questa sia la conditio sine qua non per qualsiasi riconoscimento dello Stato ebraico da parte di Riad.
L’improvviso irrigidimento di Netanyahu, in controtendenza rispetto ai suoi servizi di intelligence, si basa su un lascia o raddoppia. In politica interna, il prolungamento della guerra per diversi mesi costringe la sua opposizione a una “Sacra unione”, escludendo la liberazione, o addirittura la sopravvivenza, del centinaio di ostaggi ancora vivi nelle mani di Hamas. Gli permette di non dover rendere conto ai cittadini dello Stato ebraico del “concetto” calamitoso che gli ha impedito di anticipare l’attacco del 7 ottobre, convinto che il finanziamento di Gaza da parte del Qatar avesse annientato le ambizioni offensive di Yahya Sinwar. Questa prosecuzione della guerra ha suggellato un patto di sangue con i suoi alleati suprematisti e religiosi, il cui incrollabile sostegno gli ha permesso di mantenere la maggioranza alla Knesset, senza rischiare uno scioglimento seguito da pericolose elezioni. Gli alleati stanno intensificando i loro sforzi sfrenati per estendere il loro dominio sulla Cisgiordania e trasformarla nella biblica “Giudea-Samaria”. Con questo azzardo, il primo ministro spera di sfuggire alla sua comparsa in tribunale.
La radicalizzazione della posizione israeliana attorno a una narrazione nazionale fondamentalista e guerrafondaia è resa possibile dalle prossime elezioni presidenziali americane, che inibiscono la capacità di pressione del candidato Joe Biden, stretto tra l’ala più a sinistra e “multiculturale” dei democratici, che lo esortano a prendere le distanze da questo ingombrante alleato, e i tradizionali sostenitori del partito nella comunità ebraica. Questi ultimi, pur essendo critici nei confronti del primo ministro, non potrebbero accettare che lo Stato ebraico sia messo in pericolo per mancanza di armi o finanziamenti americani. Netanyahu scommette che l’occupante della Casa Bianca del febbraio del 2024 non riuscirà a uscire vittorioso da questo dilemma (oltre alla rivelazione dei suoi problemi di salute legati all’invecchiamento) e che il suo avversario, Donald Trump, il 5 novembre vincerà. Ben-Gvir ha esplicitamente invocato la vittoria di Trump durante la visita di Blinken a Gerusalemme, senza incorrere in alcun rimprovero da parte del primo ministro. Lo stupefacente parallelismo di destino tra i due accoliti degli Accordi di Abramo – la cui perpetuazione o il cui ritorno al potere, nonostante i loro guai con la legge, mina la credibilità del modello democratico occidentale basato sullo Stato di diritto, proprio nel momento in cui quest’ultimo viene vilipeso dai regimi illiberali del “Sud globale” – non è l’ultimo degli effetti della sequenza aperta il 7 ottobre. Un preludio all’Armageddon a cui aspirano i belligeranti in Terra Santa.
5.
La globalizzazione del conflitto
Alla fine del maggio del 2024, i due supremi organi di diritto del mondo, la Corte internazionale di giustizia e la Corte penale internazionale, entrambe con sede all’Aia, si sono nuovamente occupati del conflitto israelo-palestinese, in pieno svolgimento in Medio Oriente dal 7 ottobre 2023, che ha creato una linea di frattura senza precedenti in tutto il mondo, tra un autoproclamato “Sud globale” e un “Nord” designato come suo avversario.
Dall’ambivalenza della giustizia internazionale agli indugi dell’Onu
Il 24 maggio, la Corte internazionale di giustizia (Cig), pronunciandosi per la terza volta dall’inizio delle ostilità sul ricorso del Sudafrica relativo alla natura “genocida” del massacro di civili a Gaza, ha ordinato allo Stato ebraico di “fermare immediatamente la sua offensiva militare” a Rafah, in quanto tale operazione “sarebbe suscettibile di sottoporre il gruppo di palestinesi a Gaza a condizioni di esistenza in grado di portare alla sua distruzione fisica in tutto o in parte”. Il riferimento al “gruppo” (umano), cioè al genos, significa in termini giuridici che esso è potenzialmente oggetto di genocidio, secondo la definizione originale di questo neologismo coniato nel 1943 dal giurista Raphael Lemkin, a indicare la volontà di sterminare collettivamente individui che condividono caratteristiche nazionali, religiose, linguistiche, territoriali o identitarie. La prevenzione e la repressione di questo crimine supremo ed emblematico della barbarie e del male sono state sancite dalla Convenzione del 9 dicembre 1948, che ha costituito il preambolo cronologico della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo adottata il giorno successivo dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite al Palais de Chaillot di Parigi.
Questa decisione ha fatto seguito a quelle precedentemente emesse dalla Corte, a partire dalla denuncia originaria presentata contro Israele dal Sudafrica il 29 dicembre 2023. Mentre la prima, resa pubblica il 29 gennaio, riteneva “plausibile” il rischio di genocidio a Gaza e chiedeva a Israele di prendere tutte le misure per evitarlo, la decisione del 24 maggio ha ritenuto il rischio “aumentato” perché “reale e imminente”. Il nuovo presidente del tribunale, il giudice libanese Nawaf Salam, proveniente da una grande famiglia di notabili sunniti che aveva dato al paese dei cedri un primo ministro, ha descritto la situazione umanitaria come “deteriorata” fino a diventare “disastrosa”, poiché lo Stato ebraico non ha applicato gli ordini precedenti. Nonostante la quasi unanime condanna internazionale, gli attacchi su Rafah sono continuati, colpendo anche le tendopoli dove si erano rifugiati gli sfollati delle successive offensive dell’Idf, causando un gran numero di vittime civili. Proprio alla fine del mese l’esercito israeliano, in violazione degli accordi di pace con l’Egitto, aveva preso il controllo della “Philadelphi Route”, la striscia demilitarizzata e deserta che separa Gaza dall’adiacente Sinai, occupando anche il posto di frontiera palestinese-egiziano di Rafah, dove aveva issato la propria bandiera. L’Idf ha di fatto impedito l’ingresso di qualsiasi convoglio umanitario nell’area, nonostante fosse il principale punto di passaggio degli aiuti internazionali, in particolare quelli alimentari.
Questa strategia, puramente militare, era indifferente ai danni collaterali, che si traducevano nel crescente isolamento dello Stato ebraico sulla scena internazionale. Lo stesso maresciallo al-Sisi, pur essendo scrupolosamente fedele al trattato fra i due paesi firmato nel 1979 da Anwar al-Sadat e Menachem Begin, ha finito per unirsi alla denuncia sudafricana contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia, come ritorsione per la disinvoltura di Netanyahu nei suoi confronti e per calmare l’opinione pubblica che si scaldava di fronte alle immagini quotidiane del massacro a Gaza. La Spagna ha seguito l’esempio il primo giugno, primo Stato membro dell’Unione Europea a reagire in questo modo ai bombardamenti sulla striscia costiera. Superando la memoria dell’Inquisizione, delle conversioni forzate al cristianesimo, dei roghi e dell’espulsione di massa degli ebrei dalla penisola iberica nel Quindicesimo secolo, la Spagna ha ripudiato apertamente la politica israeliana e ha così incrinato la solidarietà generale dell’Occidente nei confronti dello Stato ebraico. L’ostinazione di Netanyahu è arrivata al punto di mettere in una situazione imbarazzante il candidato presidente Biden, con ripercussioni sulla sua campagna di rielezione nel novembre del 2024. Si è convinto che avrebbe raggiunto il suo obiettivo di guerra esistenziale, cioè la cattura o la liquidazione di Yahya Sinwar e la liberazione degli ostaggi israeliani ritenuti nascosti nei tunnel sotterranei, a tappe forzate, senza tener conto delle vittime civili. L’occupazione della “Philadelphi Route” ha fatto correre il rischio politico di violare gli accordi con l’Egitto sulla smilitarizzazione del corridoio, nella speranza di sigillare così gli accessi e le uscite che consentono il movimento clandestino di uomini e armi verso Gaza: il suo sottosuolo, punto di passaggio obbligato per i tunnel (che terminano tutti nel Sinai egiziano), è in un certo senso l’“ancora di salvezza” di Hamas, il che spiega perché la posta in gioco militare per controllarlo sia stata oggetto di una mediazione israeliana positiva a fronte degli effetti diplomatici negativi sulle relazioni con Il Cairo. L’esercito ha annunciato di aver distrutto chilometri di tunnel sotterranei e di aver sequestrato scorte di armi e munizioni; sta inoltre prendendo precauzioni contro qualsiasi tentativo di Sinwar di fuggire dall’enclave, qualora fosse costretto a farlo dall’offensiva su Rafah.
Per il primo ministro questa corsa al traguardo, il cui obiettivo proclamato diventava sempre più remoto con l’aumentare delle vittime civili, era la chiave della propria salvezza politica, ma il suo fallimento e i suoi effetti perversi hanno rafforzato l’opposizione dei rivali nel gabinetto di guerra, in particolare i generali Gantz e Gallant, quest’ultimo ministro della Difesa. Essi consideravano suicida per Israele questa fuga in avanti e sostenevano una strategia diversa, che favorisse fin dall’inizio l’emergere di un’alternativa politica ad Hamas sul terreno, in mancanza della quale questa guerra interminabile, diversa da qualsiasi altra dalla creazione dello Stato nel 1948, si sarebbe conclusa con una sconfitta politica senza appello. Un approccio così critico trovava risonanza presso il Pentagono, forte delle “lezioni apprese” dall’occupazione americana dell’Iraq a partire dal 2003, dove la soluzione puramente militare attuata inizialmente dal primo “proconsole” americano Paul Bremer contro la ribellione sunnita si era rivelata un amaro e costoso fallimento. Inoltre, il mantenimento al potere di Netanyahu, giudicato responsabile di questa strategia del peggio, prometteva di alienare al candidato Biden voti cruciali per la sua rielezione. Quei voti erano venuti dalla sinistra del suo elettorato, sia tra i giovani studenti che ora occupano alcuni campus negli Stati Uniti in solidarietà con le vittime di Gaza, sia tra le persone di origine immigrata del “Sud” che si sono identificate con esse e hanno minacciato di non dare il proprio voto al candidato democratico, il partito a cui solitamente lo davano. Alla domanda sul suo sostegno alle vittime di Gaza, una studentessa americana di origine messicana, fra le altre, ha espresso la propria identificazione con i palestinesi, vedendosi come una “indigena” derubata della sua terra ancestrale dalla “colonizzazione spagnola”… secondo un reportage di “Le Monde”.
La situazione di isolamento in cui il primo ministro stava gettando Israele e la sua corsa contro il tempo sono state aggravate a livello internazionale da altri due eventi che si sono verificati alla fine di maggio del 2024, nel bel mezzo dell’offensiva contro Rafah. In primo luogo, il procuratore della Corte penale internazionale, Karim Khan, ha presentato una mozione chiedendo ai giudici di perseguire Netanyahu e Gallant per “crimini di guerra e crimini contro l’umanità” per la catastrofe causata agli abitanti di Gaza, e di farlo anche con i tre principali leader, militari e civili, di Hamas, Yahya Sinwar, Mohammed Deif e Ismail Haniyeh, per i massacri del 7 ottobre. Il giurista in questione, nativo di Edimburgo, il cui padre veniva da una famiglia del vecchio Impero britannico delle Indie e di confessione Ahmadi, comunità perseguitata dagli islamisti sunniti, riguardo alla morte dei civili ha mantenuto tra i belligeranti un equilibrio paritario, con la motivazione che “tutte le vite valgono allo stesso modo”. Tale incriminazione in parallelo ha suscitato l’indignazione di quanti, come il presidente Biden, si sono rifiutati di permettere che i membri di un governo democraticamente eletto fossero messi sullo stesso piano dei leader di un gruppo definito terroristico dalla maggior parte dei paesi occidentali. In termini giuridici, la richiesta ha contribuito a indebolire la posizione del primo ministro sulla scena internazionale, in una situazione in cui Israele dipende quotidianamente dalle forniture di armi e munizioni, soprattutto dagli Stati Uniti, per le sue operazioni di guerra, la cui continuità o restrizione è diventata una delle principali questioni di politica interna sull’altra sponda dell’Atlantico in vista delle elezioni presidenziali. Biden lo ha ribadito l’8 maggio, minacciando di sospenderle “in caso di operazioni importanti a Rafah”, sotto la pressione dell’ala più a sinistra dei democratici. E lo Stato ebraico si è trovato in una posizione ancora più delicata quando, il 28 maggio, il quotidiano britannico “The Guardian”, seguito da altre testate della stampa internazionale, ha rivelato che il Mossad sta cercando da diversi anni di intimidire la Cpi per impedire qualsiasi incriminazione di leader israeliani, in particolare agendo per destabilizzare Fatou Bensouda, il procuratore del Gambia sostituito da Karim Khan nel giugno del 2021.
C’è però una differenza notevole tra l’azione della Corte internazionale di giustizia e quella della Corte penale internazionale. La Corte internazionale di giustizia, che è di competenza degli Stati e può trattare solo con gli Stati, per il 7 ottobre e la razzia pogromista si trovava in un’impasse, perché Hamas non era, in senso stretto, uno Stato, anche se ne aveva l’aspetto e alcune caratteristiche: ne era prova il controllo di un territorio sulla cui popolazione esercitava la sua coercizione e dove manteneva una quasi-amministrazione. La comunità internazionale ha così fatto riferimento senza battere ciglio al “ministero della Sanità di Hamas”, la stampa ha dato credito al conteggio dei morti palestinesi che questo organismo pubblicava regolarmente, a sostegno della denuncia del “genocidio” commesso dall’esercito israeliano, come se avesse costituito il vero ministero di uno Stato. In altre parole, la Cig aveva contribuito a oscurare il 7 ottobre per concentrarsi sui massacri di Gaza, unico oggetto legittimo del suo rinvio in base al suo statuto e alla definizione di “genocidio” elaborata da Raphael Lemkin. A questa data emblematica, che rappresentava un evento traumatico sulla scala non solo dello Stato ebraico ma del mondo, ha sostituito un luogo, “Gaza”, la cui sola menzione costituiva una metafora del genocidio attribuito a Israele.
Questo era il significato dello slogan globish cantato nei campus delle università occupate di tutto il mondo: “All eyes on Gaza!”. In quanto tale, questa richiesta era perfettamente legittima, perché denunciava il massacro subìto dalla popolazione della striscia costiera. Ma, nel contesto, significava anche che, concentrandosi esclusivamente su Gaza, si distoglievano gli occhi dalla carneficina del 7 ottobre. Alla dea dei wokes, Judith Butler, non restava che rivalutare positivamente quella data simbolica, ribaltandone la dimensione pogromista ed esaltandola come “atto di resistenza”. Lo ha fatto tra gli applausi del movimento Indigènes de la République il 3 marzo, nel sobborgo parigino di Pantin, nell’ambito di “Paroles d’Honneur”, interviste organizzate da Houria Bouteldja, nata a Costantina (Algeria), autrice dell’infuocato Les Blancs, les Juifs et nous e musa del “decolonialismo”. Quell’incontro è stato il momento culminante della visita in Francia dell’ideologa dell’Università della California a Berkeley, che ha messo in imbarazzo i promotori del suo tour parigino su invito del Centro d’arte e cultura Georges Pompidou e del municipio della capitale francese. L’autrice stava anche tenendo un seminario ben frequentato all’École Normale Supérieure, il cui direttore Frédéric Worms aveva pubblicato l’anno precedente un libro scritto insieme a lei, oggetto di una recensione entusiastica sul quotidiano “Le Monde”, che aveva conferito ai due autori una comune aureola mediatica. Di fronte allo scandalo suscitato dalla benedizione di Judith Butler al 7 ottobre, le ultime sessioni del seminario furono “rinviate a data da destinarsi”… e l’Ens avrebbe a sua volta subìto, dopo Sciences Po, l’occupazione dei suoi locali da parte di un “Comitato di sostegno al popolo palestinese presso l’Ens” dal 22 al 26 maggio. Nonostante i colloqui con gli occupanti, il direttore ha dovuto farli sgomberare dalla polizia dopo che foto dei membri del consiglio di amministrazione imbrattate di sangue erano state pubblicate sul loro account Instagram…
Mentre le università francesi erano in tale stato confusionale, all’Aia la Corte penale internazionale esaminava gli eventi in Terra Santa nella loro interezza, dalla carneficina commessa su ordine dei leader di Hamas il 7 ottobre ai bombardamenti israeliani sui civili a Gaza, agli ostacoli posti alla distribuzione degli aiuti alimentari, al rischio di carestia e così via. L’atto d’accusa onnicomprensivo del suo procuratore incriminava innanzitutto i tre leader dell’organizzazione islamista, sia i capi militari Sinwar e Deif, sia il presidente dell’ufficio politico del movimento, Ismail Haniyeh, che risiede in Qatar e che è colui che ha svolto il ruolo di negoziatore, in particolare negli incontri tenutisi al Cairo attraverso i servizi segreti egiziani e il primo ministro dell’emirato del gas, con le parti israeliane e americane. Khan ha poi accusato Netanyahu e Gallant, nelle rispettive vesti di primo ministro e ministro della Difesa dello Stato ebraico, dello stesso reato, ovvero di aver commesso crimini “di guerra” e crimini “contro l’umanità”. La Corte penale internazionale ha una funzione di giustizia penale – sul modello del tribunale di Norimberga del 1945-1946, dove comparivano i dignitari nazisti, che emetteva sentenze di morte, di reclusione o di assoluzione e si assicurava che le sentenze fossero eseguite. Essa sistematizza ed estende universalmente l’esperienza dei tribunali ad hoc per l’ex Jugoslavia e il Ruanda, che si sono riuniti negli anni novanta e hanno processato e condannato un certo numero di imputati, detenuti durante i loro processi. Ma la Corte dipende dai centoventiquattro Stati che hanno aderito allo Statuto di Roma – il suo trattato istitutivo è del luglio del 1998 –, membri che sono obbligati a eseguire i suoi mandati d’arresto. La maggior parte di quelli che non hanno ratificato lo Statuto sono non-democratici, ma includono anche gli Stati Uniti e Israele. Dei dieci membri dei Brics, solo Brasile e Sudafrica lo hanno fatto, ma le autorità di Pretoria non hanno adempiuto all’obbligo di arrestare l’ex dittatore sudanese Omar al-Bashir quando era presente sul loro territorio nel giugno del 2015, nonostante sia stato perseguito dalla Corte per il genocidio del Darfur, che secondo le Nazioni Unite ha causato 330.000 morti e due milioni di sfollati. Gli Stati del “Sud globale” dell’Asia hanno ignorato in massa la Cpi, e nessun membro della Lega araba l’ha ratificato, a differenza dell’America centrale e meridionale e di parte dell’Africa francofona e anglofona. In compenso, tutti gli Stati europei hanno ratificato lo Statuto di Roma.
Infine, oltre al controverso coinvolgimento dei due organi supremi del diritto internazionale nel conflitto israelo-palestinese, esacerbato dal massacro del 7 ottobre e dalla catastrofe di Gaza, le stesse Nazioni Unite sono da allora in perenne tensione. Il 10 maggio 2024, centoquarantatré Stati membri (su centonovantatré) hanno ritenuto che la Palestina soddisfacesse i criteri necessari per entrare a far parte dell’Onu, dopo che l’11 aprile il Consiglio di sicurezza l’aveva respinta in seguito al veto degli Stati Uniti. L’ambasciatore americano ha motivato il suo voto con la necessità che l’Autorità palestinese intraprenda delle riforme a tal fine e con il fatto che “Hamas, un’organizzazione terroristica, esercita potere e influenza a Gaza – parte integrante dello Stato previsto”, dichiarandosi a favore del principio di una “soluzione a due Stati”, ma a condizione che il riconoscimento di uno Stato palestinese avvenga attraverso “negoziati diretti tra le parti”. In questo contesto, la decisione di Spagna e Irlanda il 24 maggio (a cui si è aggiunta la Norvegia, che non è membro dell’Ue), e poi della Slovenia il 4 giugno, di riconoscere lo Stato palestinese, conferendo questo status all’Autorità guidata da Mahmoud Abbas e con sede a Ramallah, anche se ha guadagnato loro qualche commento poco amichevole da parte di Netanyahu, ha fatto sì che l’Unione Europea potesse iniziare a muoversi in questa direzione, dando maggiore sostanza a questa “soluzione”. Questo approccio sarebbe l’opposto geopolitico della strategia degli Accordi di Abramo, attuata da Donald Trump nel 2020 e lasciata invariata dal suo successore alla Casa Bianca. Tale strategia è stata concepita per cancellare ogni prospettiva di creazione di uno Stato palestinese di qualsiasi tipo, sostituendola con una prosperità regionale stimolata dalla cooperazione economica tra Israele e le petromonarchie della penisola arabica che hanno firmato gli accordi. Una simile promessa di “arricchimento” avrebbe dovuto rendere obsoleta qualsiasi pretesa di Stato.
Il 28 maggio, in occasione della sua visita di Stato in Germania, Emmanuel Macron ha dichiarato, alla presenza del cancelliere Olaf Scholz, che anche la Francia è favorevole al principio del riconoscimento dello Stato palestinese “al momento opportuno”. Una dichiarazione così cauta è stata tanto più realistica nel paese ospite, la Germania, dove Berlino, a causa del suo passato nazista, è attenta a evitare qualsiasi gesto o commento che possa contrariare lo Stato ebraico facendo rivivere le accuse di retaggio di un antisemitismo che il Terzo Reich portò all’estremo. Sulla questione israelo-palestinese l’Unione Europea rimane paralizzata da grandi divisioni, con gli Stati germanici e slavi che determinano in larga misura la loro posizione in relazione alla dolorosa eredità della Seconda guerra mondiale e al tragico destino dell’ebraismo ashkenazita, presente soprattutto sul loro territorio. Ciò significa che la prospettiva di una “soluzione a due Stati” sta gradualmente emergendo, per un numero crescente di paesi, come la via da seguire per una soluzione duratura del conflitto, ma che l’annuncio sarà fatto solo quando un governo israeliano non ostile a tale opzione avrà sostituito quello guidato da Netanyahu.
In quest’ottica, e per la prima volta dal 7 ottobre, due giorni dopo, il 30 maggio, è stata presentata a Gerusalemme una richiesta di scioglimento del Parlamento. La richiesta proveniva dal partito Unione nazionale (centro-destra) guidato dal generale Benny Gantz, membro del gabinetto di guerra (ma non oggetto dell’accusa del procuratore della Corte penale internazionale per “crimini di guerra”). Egli aspirava a creare un’ampia coalizione da destra a sinistra, dalla quale sarebbe stato escluso il primo ministro, ritenuto responsabile della mancanza di vigilanza che ha permesso ad Hamas di perpetrare la sua razzia pogromista, nonché dei blocchi militari e politici derivanti dall’offensiva su Gaza. Anche i partiti sionisti religiosi che hanno tenuto in ostaggio Netanyahu durante il venticinquesimo mandato della Knesset sarebbero stati esclusi dalla futura maggioranza di governo. Questo cambiamento di paradigma in Israele potrebbe tradursi in un processo di ritorno alla pace solo se, allo stesso tempo, emergesse una nuova leadership nel campo palestinese che permettesse di superare le strutture politiche combinate che l’hanno portato allo stallo, l’Autorità palestinese di Mahmoud Abbas, inefficace e corrotta, e Hamas, sanguinario e pogromista, di Yahya Sinwar. Facendo seguito alle sue dichiarazioni in Germania, Emmanuel Macron ha invitato il presidente dell’Autorità palestinese ad “attuare le riforme necessarie” nella “prospettiva del riconoscimento dello Stato della Palestina”.
Lo sconvolgimento geopolitico dopo il 7 ottobre
La portata senza precedenti del colpo inferto a Israele all’alba di sabato 7 ottobre e i suoi effetti a catena hanno ribaltato gli equilibri di potere regionali rispetto alla situazione precedente, congelata dagli Accordi di Abramo fin dalla loro firma su iniziativa e mandato di Donald Trump nell’estate del 2020. Il suo successore alla Casa Bianca non aveva osato mettere in discussione la logica degli accordi, anche se questi avrebbero costituito le premesse per uno stallo geopolitico che avrebbe generato in Palestina una frustrazione tale da favorire i preparativi per l’incursione pogromista di Hamas. Inizialmente, questa grande battuta d’arresto per l’egemone americano in Medio Oriente è stata vista come un successo per l’“asse della resistenza” allo Stato ebraico, e all’Occidente, che ne sostiene la legittimità. Ma le condizioni stesse in cui si è scatenato il “Diluvio di al-Aqsa” e il successivo coinvolgimento di Teheran, dei suoi rappresentanti regionali nel Levante, in Iraq e nella penisola arabica, e infine dei suoi alleati globali Russia e Cina, fanno sì che, a posteriori, questa lettura binaria debba essere sfumata. Con il passare del tempo, nell’anno successivo, è stata soprattutto l’ascesa al potere dell’Arabia Saudita di Mohammed bin Salman a cambiare strutturalmente la situazione regionale a suo favore, come risultato della graduale trasformazione del regno in una potenza finanziaria globale di primo piano e dell’aggiornamento culturale in atto nella sua società, precedentemente imbrigliata dal rigido wahhabismo. Per cogliere questi profondi cambiamenti è necessario ripercorrere e interpretare la sequenza degli eventi successivi nella regione alla luce dello scontro principale e di cui la belligeranza israelo-palestinese costituisce la manifestazione esacerbata: il conflitto strategico fra Teheran e Washington.
Il gioco vincolato dell’Iran
Innanzitutto, il lancio dell’offensiva di Hamas solleva questioni ancora irrisolte. È stato ipotizzato che l’attacco sia riconducibile a una decisione esclusiva della leadership politico-militare dell’organizzazione a Gaza, e di Yahya Sinwar in particolare, senza che questi abbia esplicitamente interpellato i suoi mentori nella Repubblica islamica o i suoi sponsor negli Hezbollah libanesi. A differenza di questi ultimi, Hamas rimane un movimento sunnita e nazionalista religioso palestinese. Ha stretto un’alleanza politica e militare di opportunità con la teocrazia iraniana duodecimana, ma non giura a quest’ultima l’assoluta fedeltà spirituale che lega indissolubilmente gli sciiti libanesi del “Partito di Dio” o le milizie irachene della “Mobilitazione popolare” alla Guida della Rivoluzione islamica Ali Khamenei, in virtù della velayat-e faqih, o “dottrina della supremazia del teologo” (cioè quest’ultimo). Sarebbe stato impensabile per questi movimenti avere la minima capacità di iniziativa senza fare riferimento a Teheran per l’approvazione o la disapprovazione. Questa presa di distanza dottrinale può aver dato una certa libertà a Sinwar, le cui ostinazione, inflessibilità e disinibizione omicida sono state documentate fin dalle liquidazioni di massa che ha organizzato contro potenziali “informatori” israeliani quando ha fondato il servizio di intelligence di Hamas nel 1987. È stato poi seguito da vicino durante i suoi due decenni di detenzione nelle galere israeliane grazie ai resoconti del dentista del carcere che gli ha salvato la vita individuando un potenziale tumore e facendolo operare d’urgenza, diventando di conseguenza il suo interlocutore privilegiato nonché medico curante. Infine, la trasformazione di Gaza sotto la sua guida, dal suo ritorno dopo l’allargamento del 2011, in un universo totalitario comincia a essere meglio conosciuta. L’uso sistematico della tortura contro i dissidenti, come testimoniano gli archivi sequestrati nei tunnel dall’intelligence israeliana dopo il 7 ottobre e resi pubblici dal quotidiano “Haaretz” il 3 aprile 2024, mostra la sua estrema determinazione, a costo di una crudeltà sfrenata, anche nei confronti di chi gli è vicino. Uno dei suoi comandanti caduti in disgrazia, Mahmoud Ishtiwi, appartenente a una potente famiglia dell’enclave e capo del commando d’élite “Zeitoun” delle brigate Ezzedin al-Qassam, è stato condannato a morte per “sodomia” dal tribunale della Sharia delle brigate e giustiziato nel 2016, in un momento in cui Sinwar stava terrorizzando i suoi rivali mentre marciava verso il potere assoluto nel 2017. L’ex “primo ministro” di Gaza, Ismail Haniyeh, è partito per il Qatar quell’anno per dirigere l’ufficio politico del movimento in esilio e forse anche, con l’occasione, per salvarsi la pelle. L’episodio ricorda le esecuzioni di omosessuali da parte di Daesh a Raqqa nello stesso periodo e le liquidazioni di Saddam Hussein dei suoi rivali durante la sanguinosa epurazione del partito Baath nel luglio del 1979.
Se l’aiuto militare, materiale e tecnico di Teheran si è rivelato decisivo per l’accumulo di armi attraverso i tunnel del contrabbando, per l’addestramento dei combattenti e per l’attuazione della preparazione discreta ma efficiente che si sarebbe tradotta nella portata senza precedenti e nel carattere emblematico della carneficina del 7 ottobre, la segretezza mantenuta fino all’ultimo da Sinwar e dalle persone a lui vicine testimonierebbe il primato dell’agenda specificamente palestinese di Hamas rispetto alla strumentalizzazione da parte di Teheran (questo sarà oggetto di una successiva rivalutazione da parte della Guida Khamenei; vedi più avanti). Una tale decisione, presa in una cerchia ristretta e senza consultazioni regionali preliminari, avrebbe anche permesso di prendere precauzioni contro l’efficiente spionaggio elettronico israeliano in aria e a terra, ma sordo e cieco nei tunnel di Gaza, dove le informazioni circolavano tramite corrieri non individuabili. La tempistica specificamente palestinese dell’offensiva ha approfittato sia del momentaneo svuotamento della frontiera, in seguito all’invio da parte di Netanyahu delle unità operative, che erano lì state posizionate, a sorvegliare la Cisgiordania a fianco dei coloni suprematisti ebrei, sia della riattivazione dell’immaginario nazionalista arabo mezzo secolo più un giorno dopo l’offensiva della “guerra dello Yom Kippur” del 6 ottobre 1973. Questo parallelismo, attraverso lo stesso effetto sorpresa dovuto all’osservanza di una festività ebraica che abbasserebbe il livello di vigilanza dell’avversario, infliggerebbe allo Stato ebraico danni di portata traumatica di pari livello – a distanza di cinque decenni – e con conseguenze più gravi di allora, come dimostra la longevità degli scontri del 2023-2024, mentre nel 1973 i combattimenti durarono solo diciannove giorni. Ma al di là di questo notevole impatto sull’ordine regionale, che lo sta sconvolgendo a danno di Israele minando la logica degli Accordi di Abramo basata sull’occultamento dello Stato palestinese, gli effetti positivi dell’operazione sia per Hamas sia per l’“asse della resistenza” sono forse più una questione di tattica a breve e medio termine che di strategia a lungo termine.
Al di là della gloria simbolica e religiosa di un’incursione paragonabile a quella del Profeta nell’oasi ebraica di Khaybar nel 628, e dell’inflizione a Israele del primo pogrom dopo le violenze dei nazisti contro gli ebrei durante la Seconda guerra mondiale, gli effetti perversi non sono trascurabili a danno del movimento islamista palestinese così come di Teheran e dei suoi alleati, una volta passata l’euforia delle conseguenze dell’offensiva. L’ecatombe che ne è seguita, compiuta per rappresaglia dai bombardamenti israeliani su Gaza, ha certamente dato vita a un movimento mondiale di solidarietà con le vittime che sta preoccupando persino l’Occidente nei suoi campus universitari e nelle sue periferie musulmane. Il Nord è ora vilipeso come un “Nord” colpevole a posteriori dell’imprescrittibile crimine morale del “genocidio coloniale”, di cui lo Stato ebraico è l’autore ultimo. Questo galvanizza anche, opportunamente, l’aggregazione di un “Sud globale” che è più congiunturale che strutturante. Ma la catastrofe che si è abbattuta sulla popolazione palestinese di Gaza le ha inflitto una sofferenza incommensurabile, pari a quella della Nakba del 1948 subita dalla generazione dei suoi genitori e antenati. Gli ultimi sondaggi più o meno attendibili sulla popolarità di Hamas a Gaza prima del 7 ottobre davano al partito islamista solo il 35 per cento di pareri favorevoli (il doppio in Cisgiordania, dove l’Autorità palestinese è al massimo dell’impopolarità, ma il totalitarismo di Hamas non si fa sentire nella vita quotidiana perché lì non esercita il potere, a differenza dell’enclave costiera). Certo, sono le bombe – fornite dagli Stati Uniti – dell’esercito israeliano a causare la morte e il ferimento dei civili; ma il massacro viene compiuto come ritorsione per la carneficina del 7 ottobre. Per questo, il partito islamista è stato accusato, in particolare dal suo rivale Olp, di aver “calcolato male” le ripercussioni catastrofiche della sua razzia sulla popolazione dell’enclave, che ha tenuto in ostaggio con il suo estremismo irresponsabile, e di condividere la colpa con lo Stato ebraico. Questo dibattito si inserisce nel confronto politico tra palestinesi per il “dopo”, e la sua validità sarà solo a posteriori, a seconda di chi vincerà e potrà poi scrivere la storia. Ma sembra improbabile che, dato il ruolo che le petromonarchie sunnite della penisola arabica dovranno svolgere nella ricostruzione di Gaza, queste non subordinino il loro futuro impegno finanziario all’eliminazione dell’alleato locale del loro nemico esistenziale, la Repubblica islamica dell’Iran. Nel qual caso, la Grande Narrazione che farebbe di Hamas un eroe nazionale avrà difficoltà ad affermarsi come fondamento memoriale su cui costruire il futuro Stato palestinese.
In ogni caso, all’indomani del 7 ottobre, Teheran è stata costretta a mettere a nudo i limiti della sua capacità militare e di quella dei suoi alleati, dall’Iraq al Libano, passando per la Siria e gli Houthi dello Yemen, in un contesto di improvvisa esacerbazione della belligeranza per cui la Repubblica islamica non sembra essersi preparata a combattere. Seguendo le orme di Yahya Sinwar, per non perdere la faccia dal punto di vista ideologico, l’“asse della resistenza” ha comunque impiegato più di tre settimane per esprimere la propria posizione, attraverso il suo principale portavoce globale di lingua araba, lo sceicco Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, il 3 novembre 2023. Il suo discorso ha lasciato delusi coloro che si aspettavano l’imminente proclamazione della Terza guerra mondiale. Per la cronaca, l’autore di queste righe, che ha ascoltato in diretta l’arringa in lingua originale, era stato “prenotato” quella sera da alcuni siti radiotelevisivi, convinti dell’immediato scoppio del cataclisma universale, per fornire un commento “a caldo”. Ma sono stato prontamente cancellato quando è emerso che, pur congratulandosi con la “resistenza islamica palestinese” per l’operazione “Diluvio di al-Aqsa”, lo sceicco ha assolto il suo partito e il suo mentore iraniano da ogni responsabilità per l’attacco, e ha attribuito l’entità della strage di civili al fuoco irregolare dell’esercito israeliano. Ha semplicemente annunciato che gli Houthi dello Yemen del Nord, i più recenti alleati caduti sotto il controllo di Teheran nella regione, avrebbero dimostrato solidarietà alla Palestina attaccando le navi in transito nel Mar Rosso dirette a Eilat o Ashdod, o appartenenti ad armatori israeliani. Questa controffensiva, tuttavia, non era insignificante, in quanto avrebbe regionalizzato e poi globalizzato il conflitto, al costo di un investimento militare, politico e finanziario molto ridotto da parte di Teheran. I missili terra-mare consegnati via nave dai porti iraniani del Golfo Persico alle basi marittime degli Houthi sulla costa del Mar Rosso avevano soprattutto un valore simbolico, in quanto servivano a ricordare la persistente capacità della Repubblica islamica di causare danni. Quest’ultima aveva appena smesso di molestare il territorio saudita ed emiratino, utilizzando contro questi due Stati arabi ricchi di petrolio, ma militarmente non all’altezza del nemico persiano, un ricatto alla loro sicurezza e promemoria della loro fragilità. Questa tregua era dovuta in particolare alla recentissima mediazione cinese, nel marzo del 2023, fra i ministri degli Esteri iraniano e saudita.
Poiché i droni degli Houthi mettevano in pericolo la navigazione mercantile, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno messo insieme una forza aeronavale per proteggere il Mar Rosso, con conseguenti bombardamenti sul territorio yemenita controllato dagli Houthi. Tuttavia, la loro pirateria, che ha dirottato la maggior parte dei flussi commerciali verso l’Atlantico, ha causato un crollo delle entrate derivanti dai diritti di passaggio del Canale di Suez, fondamentali per l’equilibrio economico dell’Egitto. Ciò ha espresso de facto la solidarietà dell’“asse della resistenza” con il suo alleato Hamas, ma in modo minimalista e principalmente per fare scena. Ben presto ha avuto un imbarazzante effetto collaterale per Teheran, ponendo un ostacolo a un altro “asse”, questa volta economico: la Via della seta cinese che passa per il Mar Rosso verso l’Europa. Pechino, di fronte al rallentamento della propria crescita, allo scoppio della bolla immobiliare nazionale e all’impoverimento della popolazione, che rendeva necessaria una presa di controllo autoritaria della società sotto il pugno di ferro del Partito comunista di Xi Jinping, ha espresso il proprio disappunto all’Iran, che aveva sostenuto a distanza acquistando il suo petrolio sotto le sanzioni americane. Ciò ha fatto sì che nel maggio del 2024, durante la visita di Putin a Pechino, le importazioni di idrocarburi del Regno di Mezzo venissero reindirizzate verso Mosca a scapito di Teheran, come punizione per l’interruzione dei flussi commerciali nel Mar Rosso, mentre i container si accumulavano sulle banchine di Nanchino e Shanghai perché non c’erano navi disponibili a caricarli. Allo stesso tempo, la Cina ha ribadito il suo sostegno alla posizione degli Emirati Arabi Uniti sulla sovranità su tre isole del Golfo Persico, le isole Tunb e Abu Musa, occupate dall’Iran, che la contesta: un altro avvertimento negativo di Pechino a Teheran. Infine, Pechino avrebbe votato al Consiglio di sicurezza dell’Onu a favore della road map del presidente Biden per il cessate il fuoco tra Israele e Hamas (vedi più avanti), mentre Teheran l’avrebbe trovata oltraggiosa. Come ha analizzato il sito di riferimento per il Medio Oriente al-Monitor il 13 giugno, la corsa al nucleare iraniano è vista come un grande pericolo per i principali partner economici di Pechino nel Golfo Persico, le petromonarchie della penisola arabica. Con quattrocentomila espatriati cinesi negli Emirati Arabi Uniti e quasi 100 miliardi di dollari di scambi commerciali entro il 2023 – rispetto a meno di 16 miliardi di dollari con l’Iran – Pechino dà priorità alla sua politica economica e media a favore di Abu Dhabi, tenendo Teheran in secondo piano e non sostenendo le sue opzioni geopolitiche radicali.
L’erraticità della politica iraniana si è manifestata anche nel rapporto diretto con lo Stato ebraico, che ha inflitto alla Repubblica islamica danni militari simbolicamente significativi, costringendola a una rappresaglia che ne ha messo in luce le debolezze anziché dimostrarne la forza. Gli audaci attacchi aerei israeliani su Damasco hanno liquidato il principale gerarca delle Guardie rivoluzionarie per il Levante, il generale Mohammad Reza Zahedi, comandante della Forza Al-Quds, insieme ad altri alti ufficiali, nel consolato iraniano della capitale siriana il primo aprile 2024. Hanno decapitato il quartier generale regionale dei pasdaran, in un modo che ricorda l’eliminazione del loro leader supremo Qasem Soleimani all’aeroporto di Baghdad il 3 gennaio 2020 da parte di un drone americano. Ai funerali solenni del generale Zahedi, svoltisi tre giorni dopo nella sua città natale, è stato reso omaggio al suo “ruolo strategico nella formazione e nel rafforzamento del fronte di resistenza e nella pianificazione ed esecuzione del ‘Diluvio di al-Aqsa’ [il 7 ottobre]”. Contrariamente alle dichiarazioni di Hezbollah del 3 novembre, che avevano minimizzato, se non negato, qualsiasi coinvolgimento straniero nella razzia pogromista di Hamas, questa è stata la prima rivendicazione retrospettiva, certamente destinata al consumo interno, di un ruolo operativo dell’Iran nell’attacco.
In ogni caso, il livello gerarchico del bersaglio neutralizzato ha obbligato Teheran a una ritorsione rapida e spettacolare, per non perdere la faccia. Nella notte tra il 13 e il 14 aprile, centinaia di droni e missili sono stati lanciati dal suolo iraniano verso il territorio israeliano: un attacco annunciato in anticipo per evitare una reazione eccessiva e incontrollabile da parte dello Stato ebraico, potenza nucleare, ma che ha portato alla neutralizzazione in volo di quasi tutti gli ordigni nei cieli di Iraq, Giordania e Siria, illuminando la notte levantina con un gigantesco spettacolo pirotecnico. Le forze aeree americane, britanniche, francesi e giordane vi hanno contribuito al fianco di quelle israeliane: un segno di immediata solidarietà occidentale di fronte a una minaccia apparentemente esistenziale per lo Stato ebraico, nonostante i governi degli Stati europei coinvolti e degli Stati Uniti non abbiano risparmiato le loro critiche alla politica di Netanyahu a Gaza. L’abolizione del tabù su un attacco diretto iraniano in territorio israeliano – anche se ha causato solo un ferito, una giovane donna beduina del Negev – ha suscitato un’immensa preoccupazione nelle capitali arabe del Golfo, secondo il principio che chi può fare di più può fare di meno. L’avvertimento valeva sia per Riad che per Abu Dhabi, i cui alleati occidentali avrebbero potuto non reagire con la stessa velocità a un attacco della stessa origine rivolto alle petromonarchie sunnite. Ciò ha accelerato il riavvicinamento militare saudita-americano, che fonti anonime della Casa Bianca hanno annunciato alla stampa il 21 maggio successivo come imminente, sotto forma di un accordo regionale. In cambio, l’Arabia Saudita avrebbe riconosciuto lo Stato ebraico, a condizione che Israele si dichiarasse favorevole al principio di uno Stato palestinese.
Questo accresciuto isolamento dell’Iran è avvenuto in un momento in cui la Repubblica islamica ha dato un’evidente dimostrazione di malgoverno – per usare un eufemismo – con la morte in elicottero, il 19 maggio, nella regione settentrionale al confine con l’Azerbaigian, del presidente Ebrahim Raisi e del ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian. Sebbene la sequenza sembrasse una continuazione della neutralizzazione del generale Zahedi a Damasco un mese e mezzo prima, e somigliasse a una rappresaglia per l’attacco iraniano in territorio israeliano del 13 aprile – una voce che l’ampia cooperazione militare tra lo Stato ebraico e Baku ha contribuito a rendere credibile –, è stata comunque dichiarata ufficialmente un incidente, attribuito all’uso di un fatiscente elicottero americano Bell risalente all’epoca dello scià. Sorprende che il presidente, il suo ministro e il governatore della provincia siano saliti sullo stesso elicottero, quando ce n’erano altri due, di fabbricazione russa, ancora meno efficienti in linea di principio, ma che sono atterrati in sicurezza. E il decollo è avvenuto nonostante condizioni atmosferiche particolarmente uggiose… Anche se Israele non è stato incolpato, la morte del presidente – ex capo di una corte islamica che ha fatto giustiziare migliaia di oppositori, e successore favorito dell’ottuagenario leader in cattive condizioni di salute – ha opportunamente messo in luce i difetti e le debolezze ricorrenti ai vertici dell’apparato statale. L’elezione del suo successore Pezeshkian il 28 giugno sarà un banco di prova della capacità del regime di resistere serrando i ranghi attorno agli ultraconservatori e ai pasdaran, concentrati sul confronto con Israele e spietati nel reprimere ogni accenno di espressione indipendente della società civile.
Il 3 giugno, durante la commemorazione del trentacinquesimo anniversario della morte dell’ayatollah Khomeini, fondatore e ispiratore della Repubblica islamica, Ali Khamenei ha ribadito la strategia della linea dura dell’Iran. Lodando il “‘Diluvio di al-Aqsa’ come un colpo decisivo al regime sionista, che ha avviato sulla strada della distruzione, perché si sta gradualmente disintegrando agli occhi del mondo e, prima o poi, l’America dovrà ritirargli il proprio appoggio”, ha affermato che questo miracolo è arrivato “al momento giusto”, aggiungendo: “Non posso pretendere che i suoi creatori sapessero che grande cosa stavano facendo, ma hanno fatto qualcosa di incomparabile: hanno spazzato via e annullato un grande complotto occidentale per controllare il Medio Oriente”. Ha poi citato in sostegno della sua dichiarazione “un grande esperto europeo, che non ci ama, ma che ha detto che il 7 ottobre è stato più importante dell’11 settembre”. Dopo il funerale del generale Zahedi, avvenuto un mese prima, quando il regime iraniano aveva rivendicato una certa responsabilità per la razzia di Hamas, il leader le ha dato una dimensione cosmica, descrivendola come un evento chiave nel confronto con l’Occidente e il preludio alla sua disintegrazione. Nei sei mesi successivi al “Diluvio di al-Aqsa”, la figura toponomastica di “Gaza”, come metafora del “genocidio” perpetrato da Israele sulla popolazione civile palestinese, aveva oscurato la data emblematica della carneficina originaria, cancellandola dalla memoria dei militanti come uno stigma di orrore troppo difficile da sopportare. Da quel momento in poi, la Guida Khamenei l’ha riqualificata come l’arrivo del giorno della gloria. Stava diventando politicamente più accettabile, e persino conveniente, che l’“asse della resistenza” e il Sud globale, di cui voleva essere il campione, se ne vantassero.
Il leader ha anche elogiato gli studenti che hanno occupato il campus di Sciences Po a Parigi a sostegno di Gaza. Eppure il regime di Teheran aveva arbitrariamente detenuto la ricercatrice franco-iraniana di Sciences Po Fariba Adelkhah per più di quattro anni, in particolare nella famigerata prigione di Evin, con l’accusa di spionaggio e complotto contro la sicurezza dello Stato. È potuta finalmente tornare in Francia il 18 ottobre 2023, undici giorni dopo la razzia pogromista di Hamas, in un momento in cui la Repubblica islamica cercava momentaneamente di migliorare la sua deplorevole immagine in Europa dopo essere stata associata ad Hamas come mentore della carneficina… e prima che il bombardamento israeliano di Gaza spostasse la colpa del male universale sullo Stato ebraico, favorendo la ridefinizione positiva del 7 ottobre come “atto di resistenza” da parte di Judith Butler e dei suoi seguaci in tutto il mondo. Un grande ritratto della ricercatrice imprigionata, che era apparso su uno striscione attaccato alla facciata dell’edificio durante i quattro anni del suo calvario, era stato appena rimosso quando le manifestazioni nella stessa rue Saint-Guillaume, elevata al rango di fronte francese dell’“asse della resistenza”, sarebbero state benedette dalla Guida Khamenei. I giovani occupanti e manifestanti di Sciences Po, dove gli studi sul Medio Oriente erano diminuiti e la cui memoria si limitava al tempo di un tweet, non facevano il collegamento… mentre l’istituzione che tradizionalmente formava le élite della Repubblica francese stava vivendo una grave crisi di governo con la partenza del suo terzo direttore consecutivo in circostanze non proprio gloriose.
L’anfiteatro Émile Boutmy, dove ho insegnato per molti anni le questioni contemporanee del Medio Oriente, sarebbe stato occupato e ribattezzato “anfiteatro di Gaza”. Più tardi, lunedì 22 aprile, sarebbe stato messo a disposizione, come sala per riunioni elettorali, di Jean-Luc Mélenchon, che stava orientando la sua campagna per le elezioni europee del giugno del 2024 sul sostegno alla Palestina, nella speranza di unire i voti degli studenti indignati dai bombardamenti israeliani a quelli delle persone provenienti dal mondo musulmano che vivono nei sobborghi della classe operaia. È stata una scommessa riuscita, con il suo partito La France Insoumise (Lfi) che ha ottenuto quattro seggi in più rispetto al voto del 2019, tra cui quello dell’avvocata franco-palestinese Rima Hassan, eretta a candidata simbolo. Lo slogan principale della campagna è stato il sostegno a Gaza, un “dovere morale” che ha messo in ombra i temi del potere d’acquisto e del clima. Rima Hassan, vestita con un magnifico abito tradizionale palestinese ricamato in rosso, era sotto i riflettori la sera dell’annuncio dei risultati, il 9 giugno. Ma all’altro estremo dello spettro politico, e in modo speculare, il Rassemblement National ha provocato un maremoto elettorale, arrivando in testa e mettendo insieme il 40 per cento dei voti con il resto dell’estrema destra, spingendo di conseguenza il presidente Macron a sciogliere il Parlamento francese. Alla base di questo spettacolare successo di mobilitazione c’è il timore ansiogeno della “Grande Sostituzione”, cioè la combinazione di flussi migratori incontenibili dal Sud e dall’Est del Mediterraneo con il separatismo in enclave comunitarie messo in atto dai vari movimenti islamisti affermatisi in Francia, dai salafiti ai jihadisti e ai Fratelli Musulmani, di cui Hamas è il ramo palestinese. E per molti degli elettori che hanno votato per l’estrema destra, gli scontri fra Israele e Gaza prefigurano quelli che temono in Europa, come immaginato nella famosa distopia di Michel Houellebecq, Sottomissione, romanzo pubblicato il 7 gennaio 2015, il giorno in cui i fratelli Kouachi hanno assassinato i membri della redazione di “Charlie Hebdo” a Parigi.
Il dilemma elettorale americano dopo il 7 ottobre
Il 30 maggio, un tribunale di Manhattan ha dichiarato Donald Trump colpevole di tutti i trentaquattro capi d’accusa del suo processo penale. Il verdetto emesso è stato di colpevolezza per il versamento occulto di 130.000 dollari all’attrice di film per adulti Stormy Daniels, in seguito a una relazione sessuale a pagamento prima delle elezioni presidenziali vinte nel novembre del 2016. Il giorno dopo, il suo successore alla Casa Bianca e avversario per il novembre del 2024, Joe Biden, ha rilasciato una dichiarazione in televisione. Ha iniziato reagendo ai commenti del suo rivale che, con uno stile piuttosto scomposto e scioccato, aveva lanciato accuse di giudizio truccato e giudici manipolati. Il presidente-candidato, che a quel punto era in svantaggio nei sondaggi e si trovava di fronte a un dilemma elettorale senza precedenti legato alle sue decisioni sul Medio Oriente – quando le questioni estere tradizionalmente contano poco in questo tipo di campagna – ha colto l’occasione per riprendere l’iniziativa e – sperava – il vantaggio, attaccando il suo rivale. Ricordandogli che negli Stati Uniti “nessuno è al di sopra della legge”, ha annunciato, senza alcuna soluzione di continuità, una “tabella di marcia per un cessate il fuoco duraturo”, di cui ha affermato di essere alla guida, in Israele e Palestina. In caso di successo, si aspetta che ciò si rifletterebbe favorevolmente nelle urne e che, attraverso questa iniziativa, riprenderebbe il controllo di un processo internazionale che sta seriamente dividendo la sua base elettorale e che rappresenta una grave minaccia per la sua rielezione. Le manifestazioni a sostegno delle vittime dei bombardamenti di Gaza hanno continuato a diffondersi a macchia d’olio dalla sede iniziale della Columbia University di New York a un gran numero di campus in tutto il paese. Hanno messo in discussione il sostegno degli Stati Uniti a Israele, in particolare perché le armi e le munizioni utilizzate per massacrare i civili palestinesi sono principalmente di fabbricazione americana. Alcune occupazioni prevedevano l’organizzazione di preghiere del venerdì nei campus, mentre video di propaganda islamista diffondevano sui social network interviste a studenti americani che dichiaravano di aver trovato la logica conseguenza della loro solidarietà con gli abitanti di Gaza bombardati convertendosi all’Islam, rifiutando così definitivamente i valori della civiltà occidentale, stigmatizzati come “menzogneri”.
La Casa Bianca aveva tentato di passare al contrattacco di fronte all’incriminazione di complicità con il governo Netanyahu: ha annunciato che avrebbe limitato il peso delle bombe consegnate a Israele per consentire solo attacchi mirati contro i combattenti di Hamas ed evitare “operazioni su larga scala” con conseguente massacro indiscriminato di civili. Ma i criteri di distinzione per i due tipi di operazione sono rimasti così vaghi e variabili che hanno avuto difficoltà a convincere gli studenti attivisti della sincerità politica del candidato in vista della sua rielezione in novembre. In effetti, dall’inizio dei combattimenti sono state sganciate 45.000 tonnellate di bombe, fornite dagli Stati Uniti, sui 365 chilometri quadrati dell’enclave e sui suoi 2,5 milioni di abitanti, ovvero 123 tonnellate per chilometro quadrato. Inoltre, la professione di fede filo-sionista rivendicata e regolarmente ribadita da Joe Biden, fin da quando era a capo della Commissione esteri del Senato nel 2001, ha reso impossibile al presidente democratico, eletto nel novembre del 2020, prendere le distanze dagli Accordi di Abramo firmati l’estate precedente alla Casa Bianca, nonostante fossero opera del suo predecessore Donald Trump, da cui si differenziava per quasi tutto il resto, e fossero la controversa eredità di una strategia neo-conservatrice promossa dal Partito repubblicano. Nella prima metà dell’anno elettorale 2024, il veto americano all’Onu contro qualsiasi risoluzione che mettesse in discussione lo Stato ebraico e l’opposizione al riconoscimento di uno Stato palestinese gli ha alienato definitivamente le simpatie di una parte significativa di giovani di sinistra, che altrimenti sarebbero stati propensi a votare per lui contro Trump. L’attivismo sui social network degli studenti in rivolta per il massacro dei palestinesi a Gaza ha contribuito a creare un’opinione ostile.
La disaffezione di questo elettorato, anche se si rifugiasse nell’astensione, potrebbe essere sufficiente per perdere un ballottaggio che si preannuncia molto combattuto, a maggior ragione se a questi studenti mobilitati si unissero minoranze “sensibili” provenienti dall’immigrazione araba o musulmana o determinate da criteri identitari ad assimilarsi ai palestinesi. Durante le primarie democratiche del 27 febbraio 2024 nello swing state del Michigan, che ha sedici elettori del collegio che al livello dell’Unione sceglie il presidente degli Stati Uniti e che ha contribuito in modo significativo alla stretta vittoria di Joe Biden nel novembre del 2020, i votanti uncommitted (non impegnati a favore del candidato) hanno mobilitato il 13 per cento dei voti (ovvero centomila persone). Quello Stato deindustrializzato conta duecentomila elettori arabo-americani, molti dei quali sciiti libanesi, con una presenza non trascurabile di Hezbollah e di varie reti islamiste molto attive… Il risultato è stato un segno di sfiducia per il candidato Biden, che nel 2020 ha vinto il Michigan solo per centocinquantamila voti. Questo schiaffo è stato direttamente attribuito a coloro che hanno criticato il suo sostegno a Israele e la sua mancanza di empatia per le sofferenze dei palestinesi. D’altra parte, un cambio di rotta che soddisfacesse questo elettorato metterebbe a rischio il sostegno della comunità ebraica, prevalentemente democratica, che potrebbe passare al suo avversario.
La dichiarazione televisiva del presidente del 31 maggio ha cercato di risolvere questo dilemma non alienando nessuno dei due gruppi di elettori interessati e proponendo una road map che potesse riconciliarli in vista di un processo di cessate il fuoco da iniziare il prima possibile e comprendente tre fasi. La prima prevederebbe la cessazione dei combattimenti e il ritiro per sei settimane delle truppe israeliane dalle aree densamente popolate di Gaza, nonché il rilascio dei prigionieri palestinesi dello Stato ebraico, in cambio di una liberazione graduale da parte di Hamas degli ostaggi più vulnerabili tra i sessanta che si presume siano ancora vivi, donne, bambini e anziani. La seconda porrebbe fine alle ostilità, permettendo il ritorno a casa di tutti gli ostaggi rimasti e la restituzione delle spoglie dei morti, in cambio di un’evacuazione totale dell’enclave e del rilascio di altri detenuti palestinesi. La terza – appena abbozzata – riguarda la ricostruzione, che necessariamente comporterebbe il finanziamento da parte delle petromonarchie della penisola arabica. In caso di successo, potrebbe emergere un piano di pace regionale inclusivo, che combini il successivo riconoscimento di uno Stato palestinese da parte di Israele e della comunità internazionale, nonché l’apertura di relazioni diplomatiche tra l’Arabia Saudita e lo Stato ebraico. Questa proiezione del conflitto è emersa nel contesto dell’iniziativa del generale Gantz, ben accolta dalla Casa Bianca, che lo ha ricevuto il 4 marzo 2024 (scatenando l’ira di Netanyahu, che non è stato invitato): Gantz ha chiesto a gran voce lo scioglimento della Knesset per creare una coalizione senza di lui e senza i suprematisti religiosi. Ciò consentirebbe al presidente Biden, oltre alle conseguenze a medio o lungo termine sul terreno, di consolidare nel breve termine i due segmenti del suo elettorato che minacciano di bocciarlo. I sostenitori dei palestinesi vittime dei bombardamenti a Gaza potrebbero ringraziarlo per aver posto fine, almeno temporaneamente, alle loro sofferenze, mentre gli elettori filo-israeliani potrebbero ringraziarlo per aver contribuito a far uscire lo Stato ebraico dall’impasse politico-militare in cui era intrappolato.
Sebbene questo piano sia chiaramente in linea con l’agenda dei cinque mesi che separano Joe Biden dalle elezioni presidenziali, esso presuppone che gli attori sul campo in Medio Oriente allineino le proprie posizioni di conseguenza. Ma è qualcosa di niente affatto scontato, dal momento che hanno tutti i propri obiettivi a medio termine. Per questo, contrariamente alla scadenza pressante della fine del mandato presidenziale, gli antagonisti della Terra Santa si sono potuti permettere di guadagnare tempo, mescolando assenso di principio e perpetuazione della belligeranza sul campo. In un primo momento Israele sembrava essere il partner più malleabile, per via della sua dipendenza da Washington. Ma Netanyahu rischiava di essere espulso dal potere se la guerra fosse cessata, e ha moltiplicato le tattiche dilatorie, in attesa di un’eventuale vittoria di Donald Trump il 5 novembre. L’accettazione della prima fase della road map non rappresenta un grosso problema per Netanyahu, visto lo stallo militare regionale, e il rilascio di alcuni ostaggi, di cui si è preso il merito, gli ha permesso di arginare l’erosione della sua popolarità. Nulla gli impedirebbe di riprendere l’offensiva dopo sei settimane, anche se ciò significa rinunciare ai prigionieri ancora nelle mani di Hamas – uomini e soldati, e quindi combattenti reali o potenziali – il cui sacrificio di fronte all’opinione pubblica sarebbe meno pesante, rispetto a bambini, donne o anziani.
Netanyahu nel frattempo ha continuato i bombardamenti in attesa che l’eventuale tregua diventi realtà e che la sua accettazione da parte di Hamas equivalga a una sorta di congedo da cui trarre vantaggio. E la pausa a Gaza permetterebbe di concentrare le energie sul fronte settentrionale, di colpire Hezbollah in Libano sfruttando i segnali di fragilità mostrati dall’“asse della resistenza”, Repubblica islamica in primis, dopo la liquidazione dei suoi vertici militari nel Levante da parte degli attacchi israeliani, la dimostrazione inconcludente dei missili lanciati dall’Iran verso lo Stato ebraico il 13 aprile e la morte in elicottero del presidente Raisi il 19 maggio. Questo permetterebbe di piegare i rapporti di forza a detrimento del principale alleato di Teheran nel Levante. Una guerra lampo contro il “Partito di Dio”, oltre al prestigio che deriverebbe a Netanyahu da un eventuale successo che ridia lustro alla sua immagine, impedirebbe un probabile scioglimento della Knesset seguito da elezioni durante l’offensiva, confermando così la sua continuità al potere di fronte alle ambizioni di Benny Gantz. Nell’ipotesi più favorevole a Israele, permetterebbe anche ai sessantamila abitanti del Nord del paese evacuati dalle loro abitazioni, che vivono in alloggi precari, di rientrare, loro che chiedono regolarmente di poter tornare nelle proprie case. Nell’ipotesi meno favorevole, temuta tanto in America quanto in Europa – e soprattutto in Francia, culturalmente legata al Libano –, l’arsenale dei missili di Hezbollah riuscirebbe a toccare centri vitali d’Israele, con il rischio di scatenare, per rappresaglia, l’apocalisse.
Per Hamas la posta in gioco è di ordine diverso, ma l’organizzazione subordinerebbe – come il suo “nemico sionista” – le azioni a breve scadenza alle considerazioni di medio termine. Oltre all’indebolimento del suo potenziale militare, aggravato dal taglio della cima di salvataggio dei tunnel sotto la “Philadelphi Route”, una tregua, soprattutto se accompagnata dalla ripresa degli aiuti umanitari, e dalla riapertura dei valichi regolari, permetterebbe a una popolazione stremata dai bombardamenti, dagli sfollamenti forzati e dalla malnutrizione di godere di una pausa, per evitare che finisca per rivoltarsi definitivamente contro l’organizzazione islamista e incolparla dell’origine delle proprie sofferenze, come l’Olp la spingeva a fare. Ciononostante, i negoziatori incaricati da Yahya Sinwar hanno condizionato il loro assenso ad avviare i colloqui alla promessa di un ritiro totale e definitivo delle truppe israeliane da Gaza. Questo obiettivo permetterebbe a Sinwar di perpetuare la propria sopravvivenza e di ottenere una vittoria politica, cosa che né Israele né gli Stati Uniti volevano. È toccato agli intermediari egiziani e qatarioti convincerli ad accettare la tregua, sulla base del fatto che l’impopolarità internazionale e le contraddizioni interne di Israele gli avrebbero comunque impedito di riprendere un’offensiva su larga scala. Il principale negoziatore di Hamas, Khalil al-Hayya, di stanza in Libano, ha dichiarato il 25 maggio, in una video-intervista all’Associated Press, un Gargantua tutto curve e sorrisi che ostentano una grande affabilità, che l’organizzazione (secondo lui intatta all’80 per cento…) era pronta a una tregua di cinque anni e a unirsi allo Stato palestinese unificato, deponendo le armi… lasciando intendere che la capacità militare di Hamas le avrebbe permesso di dominare facilmente la futura struttura statale. Ma, ansioso di incolpare lo Stato ebraico di ogni possibile blocco della road map, si è presentato come una forza di pace e una fonte di proposte.
Sottoposti a forti pressioni, sia interne che esterne, per entrare nel processo di tregua, Israele e Hamas hanno entrambi interesse – all’indomani della dichiarazione di Joe Biden del 31 maggio – a proclamarsi favorevoli all’attuazione della prima fase: un cessate il fuoco di sei settimane e uno scambio di ostaggi con prigionieri palestinesi. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, perché nessuna delle due parti vuole accettare le conseguenze previste dall’altra nella fase successiva. Per lo Stato ebraico, la fase successiva deve portare alla scomparsa di Hamas, condizione necessaria per un futuro Stato palestinese. Questa era anche la posizione, seppur implicita, dell’Occidente e dell’Arabia Saudita, e il prerequisito per qualsiasi finanziamento da parte di Riad per la ricostruzione della striscia costiera. Per Hamas, invece, come ha stabilito al-Hayya, la seconda fase dovrebbe significare la fine definitiva della presenza armata israeliana a Gaza e l’integrazione del partito islamista nel cuore del futuro Stato palestinese, consentendogli di sovvertirlo nel breve periodo.
Qatar ed Egitto: il gioco delle mediazioni
Spetta al Qatar e all’Egitto, i due Stati arabi che fungono da intermediari tra Palestina e Israele e tra i quali i rapporti sono tanto di competizione quanto di complementarità, regolare la pressione araba su Hamas, massimizzando i propri interessi e minimizzando ragionevolmente quelli di Israele. Il successo del processo negoziale delineato dal presidente Biden, come trampolino di lancio per la sua rielezione, ha rappresentato in Medio Oriente un importante atto di equilibrio tra gli attori regionali, che potrebbe di conseguenza conferire una statura internazionale sia al Cairo che a Doha. I due paesi si trovano ai due estremi dei contrasti arabi: da un lato l’emirato del gas, un nuovo Stato, ricco e sottopopolato, dall’altro la Valle del Nilo, con i suoi centotredici milioni di abitanti, le cui risorse si stanno esaurendo sotto il peso di una demografia galoppante e incontenibile. L’ex impero dei faraoni, un tempo gigante arabo, è diventato un’entità obesa, artritica e miope, il cui potenziale collasso, attraverso l’ondata migratoria che provocherebbe, costituisce una minaccia per la sicurezza dell’intera regione, oltre che dell’intero bacino del Mediterraneo, una questione che le autorità del Cairo usano costantemente come ricatto per ottenere sussidi dalle petromonarchie arabe e dall’Unione Europea.
Per il Qatar, il cui primo ministro Mohammed bin Abdulrahman Al Thani è stato coinvolto nei negoziati, sono in gioco diverse questioni interconnesse. In quanto ospite dell’ufficio politico di Hamas e tradizionale sostenitore finanziario dei Fratelli Musulmani, di cui aveva ospitato il principale telepredicatore, lo sceicco di origine egiziana Yusuf al-Qaradawi, fino alla sua morte avvenuta a Doha il 26 settembre 2022, l’emirato ha un’influenza sulla Fratellanza. Ma non è né esclusiva né definitiva con Hamas, organizzazione autonoma grazie ai legami privilegiati che ha stretto con la Repubblica islamica, e le cui scelte ultime sono stabilite nei tunnel di Gaza da Yahya Sinwar. Finché rimane in vita, Sinwar è l’autorità di ultima istanza, in coordinamento con Teheran, in particolare con i capi pasdaran e l’ufficio della Guida Khamenei. Ma anche in questo caso, come suggeriscono le incertezze sulla decisione di lanciare la razzia pogromista del 7 ottobre, Sinwar ha una certa libertà d’azione rispetto alla capitale dell’“asse della resistenza”. Egli incarna “Gaza” e la causa palestinese martirizzata, il che gli permette in una certa misura di imporre la propria agenda ai suoi vari padrini.
Nonostante queste limitazioni, il Qatar ha comunque svolto un ruolo chiave poiché si è prestato, in coordinamento con Israele e sotto la copertura del nihil obstat degli Stati Uniti, a finanziare Hamas per accompagnare la conquista del potere assoluto sulla striscia costiera da parte del suo capo, favorito come abbiamo visto da Netanyahu. Questo trasferimento di fondi, che nell’ultimo decennio è ammontato a diversi miliardi di dollari, è stato personalmente supervisionato da due dei negoziatori della road map americana, lo stesso Mohammed Al Thani e David Barnea, il capo del Mossad. Tale posizionamento consente a Doha di massimizzare i benefici del suo ruolo di intermediario indispensabile, cosa che le fornisce una garanzia di sicurezza contro le ambizioni predatorie dei suoi vicini su entrambe le sponde del Golfo. Tra il 2017 e il 2020, la piccola penisola dell’emirato del gas è stata sottoposta a un rigido blocco marittimo, terrestre e aereo da parte di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto – con il pretesto del “finanziamento del terrorismo”, per i suoi legami con i Fratelli Musulmani, l’Iran e la Turchia. In effetti, una “triplice Fratellanza sciita”, sostenuta da Ankara, Teheran e Doha,1 e di cui il canale satellitare Al Jazeera trasmetteva la visione del mondo a tutti gli arabofoni del pianeta, aveva cercato di approfittare delle “Primavere arabe” democratiche all’inizio del decennio del 2010 per affermare la propria ideologia, che ha favorito la presa di potere dell’organizzazione nella Tunisia di Rashed Ghannushi, nell’Egitto di Mohammed Morsi, nella Libia tripolitana, che controlla le opposizioni siriana e yemenita eccetera, culminando nell’appoggio all’Hamas palestinese. Questa volontà di “spaventare le rivolte arabe” ha incontrato la ferma opposizione di Riad e Abu Dhabi, che avevano sostenuto fin dal 2013 la presa di potere del maresciallo al-Sisi al Cairo e altri governi autoritari che di conseguenza avevano represso i Fratelli Musulmani. L’embargo del Qatar da parte del “blocco saudita” rientrava in questa dinamica globale.
Lo stesso Al Thani ha svolto un ruolo cruciale nel dispiegare la ricca diplomazia finanziaria che ha permesso la revoca dell’embargo di tre anni e di riallacciare ulteriormente i rapporti con gli altri leader arabi, anche se ciò ha significato riequilibrare i rapporti con i Fratelli Musulmani. Quanto all’Iran, il Qatar ha il dovere di continuare ad andarci piano, soprattutto perché i due Stati condividono l’immenso giacimento di gas che si trova a cavallo delle rispettive acque territoriali, chiamato South Pars dall’uno e North Pole dall’altro. È la fonte della favolosa ricchezza dell’emirato, mentre la Repubblica islamica, sottoposta a sanzioni occidentali, la sfrutta solo parzialmente. Gli impianti per la liquefazione del Qatar sarebbero un bersaglio facile per i pasdaran. Ma questi ultimi non li hanno mai attaccati, a differenza dei centri di lavorazione del petrolio sauditi di Abqaiq e Khurais, gravemente colpiti da un attacco di droni imputato all’“asse della resistenza” il 14 settembre 2019, così come della raffineria di Mussafah ad Abu Dhabi il 17 gennaio 2022. Questo posizionamento multiplo del Qatar, il cui soft power, oltre alla già citata Al Jazeera, è stato dispiegato con grande clamore durante l’organizzazione dei Mondiali di calcio che si sono tenuti a Doha nel novembre-dicembre del 2022, si riflette anche in investimenti mirati in diversi paesi europei e arabi, oltre che in Turchia, Russia e, naturalmente, Stati Uniti. Ricevuto a Parigi il 27 e 28 febbraio 2024 per una fastosa visita di Stato, nel contesto dei negoziati per la liberazione degli ostaggi israeliani e per il tentativo di ottenere un cessate il fuoco a Gaza, l’emiro Tamin bin Hamad ha firmanto un impegno a investire 10 miliardi di euro nell’economia francese. L’emirato dispone di tutti i mezzi per mettersi nella posizione di mediatore di fronte a una vasta rete di partner internazionali a lui legati, ma deve comunque coordinarsi sul campo con l’Egitto e collaborare con l’Iran per riuscire a esercitare pressioni significative su Hamas.
L’Egitto, da parte sua, è rappresentato, nel processo di road map avviato da Joe Biden, dal capo dei suoi servizi segreti (o moukhabarât), il sessantenne generale Abbas Kamel. Egli è responsabile della gestione del confine meridionale di Gaza, in un complesso rapporto negoziale con lo Stato ebraico, al quale Il Cairo è legato dal 1979 da un accordo di pace che frutta oltre un miliardo di dollari di aiuti militari annuali degli Stati Uniti. Tra queste, la supervisione dei tunnel strategici e del contrabbando che corrono sotto l’enclave e che si estendono con la “metropolitana”, il soprannome dato all’immensa rete di gallerie sotterranee che, secondo varie stime, va dai 400 ai 700 chilometri sotto Gaza. All’indomani del 7 ottobre, resta difficile capire come il governo di Netanyahu abbia potuto ritenere che questo titanico cumulo di talpa fosse solo un mezzo di trasporto del contrabbando per garantire la sopravvivenza economica della fascia costiera, senza prevedere il suo eccezionale potenziale di azione terroristica e persino bellica. Da qui passavano greggi di pecore da macellare per l’Eid al-Adha e missili Shahed. Armi e munizioni provenienti dall’Iran, trasferite dal Sudan e poi dallo Yemen con i dau sul Mar Rosso – mezzi di trasporto da tempo immemorabile e ben noti in Occidente fin dai racconti di Henri de Monfreid e dalle attività metapoetiche di Arthur Rimbaud a Aden –, poi attraverso il Sinai dalle tribù beduine fino ai tunnel, hanno costituito il formidabile arsenale che ha permesso il massacro di dimensioni inaudite del 7 ottobre, poi la resistenza ostinata che ha preso in contropiede la conseguente offensiva israeliana su Gaza.
Perché Il Cairo ha consentito che tutto ciò accadesse? La risposta sta innanzitutto nelle difficoltà incontrate dallo Stato nilotico nato dai faraoni nel controllare un’area desertica popolata da beduini nomadi tradizionalmente ribelli, tra i quali Daesh ha stabilito una provincia del suo Stato islamico nel 2016, scatenando numerosi attacchi mortali alle truppe egiziane. La cosa si è poi calmata grazie ai compromessi fatti con queste stesse tribù, subappaltando loro la gestione di lucrosi traffici di ogni genere con Gaza in cambio della pace civile e sociale nel Sinai. Questo processo aveva una serie di parallelismi con quello messo in atto da Israele nell’enclave palestinese, vedendo in quegli stessi traffici un modo di regolazione sociale grazie al fiorire dell’economia sommersa. Per lo Stato maggiore egiziano, inoltre, costituiva un’importante fonte di predazione, e quindi di entrate, oltre che un mezzo per esercitare pressione sullo Stato ebraico, regolando i flussi e raccogliendo informazioni strategiche sensibili, ed eventualmente negoziabili. Il subappalto della frontiera a reti tribali è stato documentato in tutta evidenza quando è stata portata alla luce l’estorsione di fondi da parte di queste reti ai palestinesi in grado di pagare un baksheesh medio di 5000 dollari per riparare clandestinamente in Egitto e sfuggire ai bombardamenti.
A capo del conglomerato di imprese e milizie noto come “I Figli del Sinai” (Abna’ Sina’), l’ex contrabbandiere ed ex detenuto Ibrahim al-Argani, cinquantenne proveniente da una potente confederazione tribale, supervisiona tutti i passaggi di ogni tipo di merce attraverso i tunnel scavati sotto la “Philadelphi Route” e descritti come una vera e propria galleria autostradale. È diventato uno dei principali miliardari d’Egitto. Il movimento di armi ed equipaggiamenti era così esteso prima del 7 ottobre che il generale Kamel, debitamente informato, ha personalmente avvertito Netanyahu, cosa che Netanyahu ha negato.
Per Il Cairo il controllo del passaggio tra Gaza e il Sinai è una risorsa geopolitica essenziale, che gli consente di massimizzare gli effetti della sua presa territoriale e di minimizzare le sue debolezze strutturali di fronte alle ricche petromonarchie arabe vicine, nonché all’Unione Europea. Nel marzo del 2024, la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha consegnato al maresciallo al-Sisi la somma di 7,4 miliardi di euro per impedire qualsiasi trasferimento di massa di palestinesi da Gaza all’Egitto, temuto presupposto per il loro imbarco su natanti di fortuna diretti verso le coste mediterranee del Vecchio continente. È anche un’opportunità per esercitare pressioni sullo Stato ebraico garantendo una potenziale limitazione del flusso di armi verso Hamas, in vista di un processo di cessate il fuoco sostenuto da Joe Biden, e poi della nascita di uno Stato palestinese possibilmente sovvenzionato dall’Arabia Saudita. L’occupazione della “Philadelphi Route” da parte dell’esercito israeliano e la distruzione dei tunnel situati lungo di essa, come parte dell’offensiva del maggio del 2021, non piace alle autorità del Cairo. Poco dopo, per ritorsione, l’Egitto si è unito alla denuncia di genocidio presentata dal Sudafrica contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia. Ma questo non è altro che un aggiustamento temporaneo dell’equilibrio di potere tra i due Stati confinanti. La sopravvivenza e la vitalità future di Gaza dipendono totalmente dai rifornimenti attraverso il Sinai, come dimostra, al contrario, l’interruzione degli aiuti umanitari attraverso il valico di Rafah, che ha portato alla malnutrizione e alla minaccia di carestia nell’enclave assediata. Il Cairo mantiene quindi un ruolo chiave nel processo negoziale e nei suoi effetti, e il maresciallo al-Sisi è determinato a negoziare al prezzo più alto.
Il “lascia o raddoppia” di Benjamin Netanyahu
La diplomazia statunitense ha mobilitato tutte le sue risorse per attuare il più rapidamente possibile la road map annunciata dal presidente Biden il 31 maggio, in vista del conto alla rovescia per le elezioni presidenziali di novembre. Su richiesta della Casa Bianca, sono state esercitate pressioni su Egitto e Qatar affinché minacciassero Hamas di rappresaglie, come l’espulsione da Doha, se non avesse mostrato l’interesse che aveva inizialmente manifestato nel partecipare al processo. Osama Hamdan, membro dell’ufficio politico e residente a Beirut, ha risposto che le parole del presidente degli Stati Uniti erano solo “parole pronunciate in una dichiarazione” senza alcun documento scritto di impegno. Netanyahu, anch’egli sottoposto a pressioni insistenti, ha diversificato la sua strategia sia sul piano interno che su quello regionale, per evitare di trovarsi emarginato ed estromesso dal potere, temuto presupposto per essere consegnato alla giustizia. Sul fronte della politica interna, ha dovuto neutralizzare l’offensiva del generale Gantz volta a provocare nuove elezioni e rafforzare la coesione della sua maggioranza alla Knesset. Nonostante la feroce opposizione dei suoi alleati zeloti, i ministri Ben-Gvir e Smotrich, a qualsiasi processo negoziato con Hamas, questi ultimi avevano bisogno di mantenere la coalizione in piedi, altrimenti si sarebbero trovati isolati di fronte a un ipotetico futuro governo che riunisse il Likud, il centro e il centro-sinistra. Non potevano quindi esercitare una vera pressione sul primo ministro e contavano sul fatto che egli facesse accontentare la Casa Bianca delle sue parole, con la speranza di una vittoria di Donald Trump in autunno.
In attesa di un possibile avvio del processo di cessate il fuoco, il primo ministro ha intrapreso un’azione militare su due fronti. Da un lato, la continuazione dei bombardamenti “mirati” e la ricerca di ostaggi a Gaza avevano lo scopo di esercitare una tale pressione su Gaza che il movimento islamista sarebbe stato costretto a negoziare in condizioni di svantaggio. Dall’altro, sono stati annunciati i preparativi per un’imminente grande offensiva contro Hezbollah in Libano, volta a neutralizzare la sua capacità di nuocere e ad assestare un colpo decisivo all’“asse della resistenza”. Nella fascia costiera ciò ha provocato decine di nuovi morti nei primi dieci giorni di giugno, vittime civili collaterali degli “attacchi mirati”, che hanno ulteriormente aumentato le critiche a Israele presso gli organismi internazionali e il suo isolamento. Il 5 giugno, il bombardamento di una scuola delle Nazioni Unite a Deir al-Balah, che avrebbe “ospitato dei terroristi”, ha causato trentasette morti, soprattutto bambini. La sera dopo è stato ucciso il sindaco della vicina città di Nuseirat, che ospita un campo profughi, mentre sono proseguiti gli attacchi intensivi contro le “infrastrutture” militari di Hamas.
Alla fine hanno ottenuto un risultato tangibile la mattina dell’8 giugno, quando i soldati hanno liberato, dopo otto mesi di prigionia, quattro ostaggi, vivi e in buona salute, che erano stati rapiti al festival musicale Nova Tribe il 7 ottobre. Per Netanyahu si è trattato di un’operazione spettacolare, meticolosamente preparata in anticipo, carica di simbolismo e il cui esito positivo è stato accuratamente sceneggiato. Hamas si è affrettato a controbattere la sera stessa, con una campagna di pubbliche relazioni che includeva il proprio resoconto dell’evento, secondo cui duecentosettanta civili palestinesi sono stati uccisi nelle vicinanze del raid. Ma questa liberazione, che ha avuto immediatamente una copertura mediatica mondiale, ha permesso al primo ministro di avvicinarsi al processo voluto dal presidente Biden con carte migliori in mano. Da Parigi il presidente Biden, che su invito di Emmanuel Macron stava partecipando alle cerimonie per l’ottantesimo anniversario dello sbarco alleato in Normandia del giugno del 1944, preludio decisivo al crollo del nazismo e alla fine del genocidio del giudaismo europeo, ha accolto con favore la liberazione dei quattro ostaggi e ha ribadito il suo impegno a sostenere lo Stato ebraico fino alla liberazione di tutti gli altri. Per quanto riguarda la politica israeliana, il generale Gantz ha rinviato la conferenza stampa prevista per la sera dell’8 giugno, ma ha annunciato le sue dimissioni il giorno successivo. Il “gabinetto di guerra”, che ha dato a Netanyahu una tregua creando un’unione sacra di fronte alle avversità e gli ha permesso di evitare di essere chiamato a rispondere della sua incapacità di anticipare l’incursione del “Diluvio di al-Aqsa”, è ormai un ricordo del passato.
La maggioranza del primo ministro alla Knesset si è trovata più che mai alla mercé dei suoi diciotto alleati, eletti dai partiti ultraortodossi, Shas sefardita e Jut ashkenazita, i cui studenti di yeshivah sono esentati dal servizio militare. In un momento in cui le vittime militari israeliane sono salite a seicentocinquanta dal 7 ottobre, tale esenzione non ha più trovato consenso. Essa si basava sul fatto che la sopravvivenza dell’ebraismo durante le diverse migliaia di anni di esilio era stata strutturata attorno al ricordo del Libro Sacro, della Torah e dei commenti dei rabbini nel corso della storia. Quando Ben Gurion, il fondatore dello Stato sionista, l’aveva accordata nel 1948, riguardava solo quattrocento persone. Era un’eccezione alla regola che vuole che Israele tragga da allora la perpetuazione della propria esistenza dal controllo di un territorio con la forza armata, e quindi dalla mobilitazione di tutta la popolazione in età di combattere – comprese le donne – nell’esercito. Si tratta di una grande trasformazione dell’identità, costruita sul nazionalismo e non più solo sulla tradizione. Ma il carattere specificamente ebraico dello Stato impone di preservare questo precedente punto di riferimento, che mantiene il legame tra la Diaspora, passata e presente, nel tempo e nello spazio, e la moderna entità statale israeliana. Tuttavia la portata senza precedenti del sacrificio umano compiuto dai soldati cambia la situazione, anche se, per gli oppositori dello Stato ebraico, queste perdite sembrano irrisorie rispetto ai trentasettemila palestinesi uccisi, secondo le cifre del “ministero della Sanità di Hamas” riportate dalla stampa. Lo spargimento di sangue è il fondamento dell’identità civica e l’esenzione degli studenti della yeshivah dal servizio di leva non trova più consenso: ormai non si tratta di un’eccezione riguardante un numero insignificante, perché esenta circa sessantaseimila persone. Ma tutto questo comporta un grosso rischio per Netanyahu. In un sistema elettorale basato sulla rappresentanza proporzionale, i partiti interessati hanno negoziato il loro blocco di voti principalmente in cambio di questa esenzione, oltre a laute sovvenzioni. Indifferenti al colore politico della coalizione che mandano al potere, possono sottrarsi, ritirare i propri diciotto seggi al primo ministro e portare alla caduta del suo governo. Ma il 25 giugno la Corte suprema ha deciso all’unanimità che l’esecutivo non aveva “l’autorità per ordinare di non applicare la legge sul servizio militare agli studenti di yeshivah in assenza di un quadro legale”, e doveva “applicare la legge”.
Questa rilevante crisi politico-religiosa è arrivata in un momento in cui la Casa Bianca stava esercitando la massima pressione per attuare la road map annunciata da Joe Biden il 31 maggio. Il segretario di Stato Antony Blinken, giunto in Medio Oriente il 10 giugno per la sua ottava spola regionale dal 7 ottobre, voleva far avanzare il processo in modo significativo approfittando dell’esaurimento delle risorse degli avversari. Da parte palestinese, l’estremismo di Yahya Sinwar, la cui corrispondenza d’archivio scoperta nei tunnel è stata divulgata dall’intelligence israeliana e riportata lo stesso giorno dal “Wall Street Journal”, ne ha dato l’immagine di un fanatico sanguinario per il quale il trionfo della causa comportava il massacro deliberato di un numero infinito di palestinesi sotto i bombardamenti israeliani, mentre liquidava ogni opposizione interna. Ciò ha fatto eco alle critiche che gli sono state rivolte sia nella diaspora che a Ramallah, mettendo in discussione la sua leadership e minando il suo carisma attraverso l’esposizione della sua brutalità. Le riunioni dei palestinesi a Doha e in Kuwait, con l’appoggio delle petromonarchie ospitanti, hanno iniziato a tenere a distanza sia l’Hamas militare che il Fatah di Mahmoud Abbas a Ramallah, per dare forma a squadre che potrebbero incarnare il futuro “Stato palestinese”, ora in fase di resurrezione sotto gli auspici dell’Onu, e che diventerebbe un partner in una “soluzione a due Stati” rendendo nulli gli Accordi di Abramo di Donald Trump e facilitando la rielezione di Joe Biden. Da parte israeliana, le dimissioni del generale Gantz dal gabinetto di guerra lo hanno reso il potenziale successore di Netanyahu. Questi si è reso protagonista della spettacolare liberazione dei quattro ostaggi di Nousseirat, al prezzo di un massacro di civili palestinesi nella zona, che gli è valso una forte condanna internazionale. Sarebbe la prima e ultima “vittoria” militare che può essere offerta all’elettorato israeliano da un primo ministro la cui mancanza di vigilanza e la cui conceptzia hanno reso possibile il disastro del 7 ottobre.
Il tour di Antony Blinken, di fronte ad avversari logorati da una belligeranza inefficace, ha cercato di ottenere una loro dichiarazione di interesse per la prima fase della road map di Joe Biden, salvo aggiustamenti da negoziare preventivamente. Il 10 giugno, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato all’unanimità – con l’astensione della Russia – la proposta di tregua avanzata dal presidente degli Stati Uniti. Presentata da Washington come accettata da Israele, questa risoluzione è stata “accolta con favore” da Hamas, deciso a “cooperare con i fratelli mediatori” per attuare i negoziati per il cessate il fuoco e lo scambio di una prima ondata di ostaggi con i prigionieri, e appoggiata da Mahmoud Abbas a Ramallah. Ma, al termine del suo tour di tre giorni, quando il segretario di Stato ha raggiunto il presidente al summit del G7 in Italia, si è inevitabilmente constatato che la road map per un cessate il fuoco non è corrisposta a una traduzione concreta sul campo.
Inoltre, l’offensiva contro l’“asse della resistenza” ha aperto un nuovo fronte sul confine settentrionale di Israele con il Libano e i suoi territori sotto il controllo di Hezbollah. In precedenza, un primo attacco del 3 giugno ha neutralizzato un nuovo generale dei pasdaran nei pressi di Homs, in territorio siriano: Saïd Abiyar, uno dei più stretti consiglieri iraniani del presidente Assad, responsabile della contro-insurrezione fin dalla guerra civile, è diventato l’ufficiale di più alto rango ucciso dopo l’eliminazione del generale Zahedi nel consolato iraniano di Damasco il primo aprile. L’attacco è avvenuto alla vigilia del ricevimento a Damasco del nuovo ministro degli Esteri iraniano, Ali Bagheri Kani, che subentrava ad Amir-Abdollahian, morto nell’incidente in elicottero del 19 maggio. L’avvertimento intendeva dimostrare la padronanza dei cieli da parte di Israele e la qualità della sua intelligence in Iran. Subito dopo, il capo di Stato maggiore, generale Halevy, durante un giro di frontiera libanese, ha annunciato la disponibilità delle sue forze a passare all’offensiva contro il “Partito di Dio” per infliggergli un colpo decisivo, approfittando di una situazione in cui l’Iran aveva mostrato segni di esitazione. L’11 giugno, un attacco nel Sud del paese, a una quindicina di chilometri dal confine, ha ucciso Taleb Sami Abdallah, comandante della sua unità speciale Al Nasr (Vittoria) e il più alto ufficiale di Hezbollah ucciso dal 7 ottobre, costringendo il “Partito di Dio” a reagire il giorno dopo intensificando gli attacchi con razzi, granate e droni, colpendo nove basi dell’esercito israeliano e appiccando incendi nel Nord del paese. Nel frattempo, il comandante dell’esercito libanese, il generale Joseph Aoun, è stato ricevuto al Pentagono per incoraggiare la futura riemersione dell’esercito, che è sotto-finanziato, sotto-equipaggiato e incapace di pagare la sua forza lavoro, di fronte all’efficiente macchina da guerra di Hezbollah.
Questi tamburi di guerra, accompagnati dall’intensificarsi dei bombardamenti sull’enclave palestinese, hanno dimostrato quanto meno che la partecipazione dello Stato ebraico al processo di road map avviato da Joe Biden sarebbe avvenuta da una posizione di forza, non di debolezza. Netanyahu ha così espresso l’intenzione di far prevalere la propria sopravvivenza politica su quella del presidente americano, in corsa per la rielezione. Ma il rischio di un confronto massiccio con Hezbollah, che la Repubblica islamica ha dotato di un arsenale stimato in oltre centocinquantamila missili e razzi di tutte le categorie, in grado di colpire centri vitali israeliani, significherebbe che Washington, volente o nolente, dovrebbe fornire un sostegno politico e militare cruciale a Israele in questo scontro decisivo. Più che mai dal 7 ottobre, e mentre sia il primo ministro israeliano sia il leader di Hamas giocavano a prendere tempo per raggiungere una posizione migliore nel processo dei negoziati, la conflagrazione israelo-palestinese, al di là della sua estensione regionale, sta avendo un impatto sull’ordine mondiale nel suo complesso, spingendo le sue linee di faglia fino agli Stati occidentali con un’interferenza senza precedenti nelle loro principali scadenze elettorali.
Note
Lo sconvolgimento del mondo dopo il 7 ottobre
1 Martin Indyk, The Strange Resurrection of the Two-State Solution. How an Unimaginable War Could Bring About the Only Imaginable Peace, in “Foreign Affairs”, marzo-aprile 2024.
2 Richard Perle et al., The Clean Break: A New Strategy for Securing the Realm, Institute for Advanced Political Studies, Gerusalemme-Washington 1996. A proposito di questo memorandum, mi permetto di rimandare alla mia analisi in: Gilles Kepel, Fitna. Guerra nel cuore dell’Islam, tr. it. di Chiara Brancaccio e Leonardo Capezzone, Laterza, Roma-Bari 2004, capitolo 2.
Prologo
1 Si veda la mappa n. 3.
2 Si veda la mappa n. 4.
3 L’acronimo indica il conglomerato Brasile-Russia-India-Cina-Sudafrica. A questi si uniranno, nel 2024, Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Iran, tutti situati nella penisola arabica e nei suoi dintorni. Con il 46 per cento della popolazione mondiale – rispetto a meno del 10 per cento per il G7 – rappresentano il 36 per cento del Pil mondiale a parità di potere d’acquisto (meno del 30 per cento per il G7). Fonte: “Bulletin de la Banque de France”, 250/2, gennaio-febbraio 2024.
4 Si veda la mappa n. 7.
5 All’indomani dell’11 settembre 2001, avevo già scritto un breve libro di attualità, Chroniques d’une guerre d’Orient (Gallimard, Parigi 2002), basato su impressioni raccolte a caldo nella regione. Questo libro, invece, privilegia una prospettiva più lunga… “vent’anni dopo”, per parafrasare Alexandre Dumas.
6 Faccio riferimento al celebre dibattito sorto quando nel 1993 il professore dell’Università di Harvard Samuel P. Huntington pubblicò sulla rivista americana “Foreign Affairs” l’articolo The Clash of Civilizations?, che in tre anni suscitò più reazioni di qualsiasi altro articolo pubblicato fin dagli anni quaranta.
1. La razzia del 7 ottobre
1 Si veda la mappa n. 3.
2 Al momento in cui questo testo va in stampa, Israele ha identificato dodici degli aggressori del 7 ottobre come dipendenti dell’Agenzia delle Nazioni Unite che distribuisce aiuti internazionali ai rifugiati palestinesi, l’Unrwa (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East, fondata nel 1949). Sulle dimensioni e il significato di questo scandalo, si veda capitolo 4, p. 133.
3 Si veda la biografia canonica di Maometto: Ibn Hichâm, al-Sîra al-nabawiyya, M. Saqqa, Il Cairo 1955, t. ii, pp. 47-50, 190-198, 233-245 e 328-344.
4 Si legga Antonio Elorza, “La cruauté dans le jihad”, in Stéphane Courtois (a cura di), De la cruauté en politique, Perrin, Parigi 2023.
5 Questo hadith del Profeta è autenticato dal tradizionalista Bukhari, nella sua raccolta canonica, al n. 3593. Viene abitualmente citato nei sermoni del venerdì in arabo e ripreso da algoritmi che indirizzano immediatamente gli utenti di Internet verso siti salafiti. La sua espressione rientra nel campo di applicazione della legge degli Stati europei per l’apologia del crimine antisemita, non appena gli imam la traducono nella lingua del paese e la pronunciano pubblicamente. Nel maggio del 2022, ad esempio, l’imam della Grande Moschea di Tolosa, laureato dell’Università islamica di Al-Azhar al Cairo, è stato filmato mentre la recitava in francese e condannato.
6 L’espressione “operazione di martirio” (‘amaliyya istish. hadiyya) è preferita a quella di “attentato suicida”, perché il suicidio è vietato nell’Islam, in quanto solo Allah decide di togliere la vita all’uomo, così come gliel’ha data. Il martirio, invece, è molto apprezzato, in quanto mira, attraverso il sacrificio dell’individuo, a promuovere l’espansione della religione con un atto eroico.
7 Non c’era consenso su questo punto tra i militanti islamisti. Lo sceicco egiziano, naturalizzato qatariota, Yusuf al-Qaradawi (1926-2022), principale figura di riferimento dei Fratelli Musulmani, giustificava le “operazioni di martirio” in Israele, terra islamica usurpata, ma non negli Stati Uniti, che non avevano mai fatto parte del “dominio dell’Islam” (dar al-islam). Al di là delle argomentazioni teologiche, la strategia della Fratellanza prevede una tattica transazionale con l’avversario occidentale, a patto che l’Islam non domini l’equilibrio di potere (marhalat al-tamkîn) con quest’ultimo.
8 Si legga a questo proposito l’efficace sintesi dei fatti e della storiografia da parte di Yves Santamaria: “Usages de la cruauté en guerre d’Algérie: le cas du Fln”, in Stéphane Courtois (a cura di), De la cruauté en politique, cit.
9 Si veda la mappa n. 8.
10 Alcuni degli ostaggi israeliani liberati durante la tregua di fine novembre del 2023 hanno raccontato di aver ricevuto la visita di quest’uomo, che ha parlato loro in perfetto ebraico, presentandosi come il leader di Hamas a Gaza e assicurando loro che nei tunnel erano al sicuro.
11 Sull’itinerario di Yahya Sinwar, si veda l’articolo di Leila Seurat (figlia di Michel Seurat), Hamas’s Goal in Gaza. The Strategy That Led to the War – and What It Means for the Future, in “Foreign Affairs”, 11 dicembre 2023.
12 Durante la “guerra degli undici giorni” tra Israele e Hamas nel maggio del 2021, il maresciallo al-Sisi, che era sulla “no call list” del presidente Biden a causa della situazione dei diritti umani in Egitto, ha svolto il ruolo di mediatore tra i due avversari per ottenere un cessate il fuoco dal movimento islamista e garantirne l’attuazione. È emerso come un mediatore indispensabile ed è stato ricompensato con calorose telefonate da parte dell’occupante della Casa Bianca. Cfr. Gilles Kepel, Israël/Palestine: chronique de la guerre des onze jours, in “Le Grand Continent”, 27 maggio 2021.
13 Il florilegio che segue si basa su una selezione di estratti di video in lingua araba di discorsi pubblici di Sinwar, attraverso vari media come Al Jazeera, il canale libanese Al Mayadeen, vicino a Hezbollah e all’“asse della resistenza”, oltre ad al-Aqsa Tv, l’organo di Hamas a Gaza. Si veda “Memri Reports”, n. 11037, 22 dicembre 2023. La linea filoisraeliana di questa organizzazione (Middle East Media Research Initiative) non è nascosta, ma i documenti che identifica sono pubblici, autentici e offerti in lingua originale – sulla base dei quali spetta a ognuno di noi esercitare il proprio discernimento.
14 Al-Aqsa Tv, 30 maggio 2019.
15 Si veda la mappa n. 6.
2. Le contraddizioni d’Israele
1 Su questo tema si legga l’intervista con un ex responsabile arabofono dell’intelligence israeliana: Jacques Neriah, Israël: une guerre sans fin?, in “Politique Internationale”, n. 182, inverno 2023-2024, pp. 179-197.
2 Si veda la mappa n. 2.
3 “L’amministrazione civile” indica la gestione (da parte dell’esercito) degli affari civili in Cisgiordania. È questo ad aver permesso a Smotrich, per tutto il 2023, di acconsentire all’installazione di “avamposti”, di norma illegali, delle colonie di popolamento senza che i militari li ostacolassero, provocando violenze ricorrenti, che hanno portato al trasferimento dei battaglioni posizionati alla frontiera con Gaza.
4 Responsabile della polizia e degli agenti di frontiera, Ben-Gvir, discepolo del rabbino Meir Kahane, è favorevole al trasferimento dei cittadini arabi d’Israele fuori dal paese.
5 Si veda la mappa n. 3.
6 Nel febbraio del 2023, ad esempio, il leader del partito religioso sefardita Shas si è visto revocare la nomina a ministro a causa della sua condanna per corruzione.
7 Olivier Lami, Israël: la société civile résiste pour défendre la Cour suprême, in “Commentaire”, n. 182, estate 2023, p. 371.
8 Antony Dabila, La politique extérieure d’Israël est-elle juive?, in “Société, droit et religion”, n. 11/1, 2022, Éditions Cnrs, p. 83.
9 Ivi, p. 82. Si veda anche la mappa n. 6.
10 Si veda Aluf Benn (caporedattore di “Haaretz”), Israel’s Self-Destruction, in “Foreign Affairs”, marzo-aprile 2024.
11 Si veda Lionel Bailly, Prévention de la répétition du trauma, in “Contraste”, n. 26/1, 2007, pp. 233-240.
12 Questo gli è valso l’avversità del leader di Hamas Yahya Sinwar. Si veda il capitolo 1, p. 59. In cambio del suo sostegno, Mansour Abbas aveva ottenuto finanziamenti statali per i comuni arabi israeliani colpiti dalla disoccupazione e dalla delinquenza. Questa modalità operativa transazionale, facilitata dalla rappresentanza proporzionale, era identica a quella dei partiti ultraortodossi ebraici, che negoziavano finanziamenti per le loro yeshivot (istituti talmudici) e l’esenzione dal servizio militare per i loro studenti, in cambio dei voti dei loro deputati.
13 Philippe Devilla, Les élections du 1er novembre 2022en Israël: à droite toute!, in “Pouvoirs”, n. 185/2, 2023, p. 153. Si veda anche la mappa n. 2.
14 Si legga Alain Dieckhoff, Les religieux en force en Israël, in “Études”, luglio-agosto 2023, pp. 19 sgg.
15 Si veda Jérôme Fourquet, Sylvain Manternach, L’an prochain à Jérusalem? Les juifs de France face à l’antisémitisme, L’Aube/Fondation Jean-Jaurès, Parigi 2016.
16 Si veda il film d’animazione di Ari Folman, Valzer con Bashir (2008), che racconta questo episodio.
17 Si veda la mappa n. 1.
18 Si veda Gilles Kepel, Israël/Palestine: chronique de la guerre des onze jours, in “Le Grand Continent”, cit.
19 Si veda il capitolo 1, pp. 59-60.
20 Si veda il capitolo 1, p. 50.
21 Secondo le informazioni raccolte dal giornalista Georges Malbrunot, Comment le Hamas a organisé dans le plus grand secret son attaque contre Israël, in “Le Figaro”, 1° gennaio 2024.
22 Si veda il capitolo 1, p. 44.
23 Fra il 2010 e il 2020 hanno eliminato cinque persone.
3. Geopolitica di un massacro
1 Si veda la mappa n. 5.
2 Su questo tema si legga: Stéphane Dudoignon, Les Gardiens de la révolution islamique d’Iran. Sociologie politique d’une milice d’État, Éditions Cnrs, Parigi 2022.
3 Si veda la mappa n. 8.
4 Si veda il capitolo 4, pp. 135-136.
5 Il generale Gallant ha anche guidato l’operazione “Piombo fuso” nella Striscia di Gaza per ventidue giorni tra dicembre del 2008 e gennaio del 2009, lanciata in risposta agli attacchi missilistici di Hamas contro la città israeliana di Sderot. L’operazione ha provocato la morte di 1400 palestinesi e 17 israeliani. L’esercito dello Stato ebraico è stato successivamente accusato di “crimini di guerra” da un rapporto del Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, guidato dal giudice sudafricano Richard Goldstone, e fortemente criticato da Israele e dagli Stati Uniti. Il giudice sotto pressione alla fine ha ritrattato la sua dichiarazione. A posteriori, l’operazione “Piombo fuso” appare come un preliminare all’offensiva dell’autunno del 2023, e le reazioni internazionali che ha provocato prefigurano quelle che si sentiranno quindici anni dopo. È stato il Sudafrica, patria del giudice Goldstone, a riprendere e amplificare l’incriminazione di Israele davanti alla Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite, accusandolo di “genocidio” a Gaza nel dicembre del 2023. Si veda il capitolo 4, pp. 113 sgg.
6 Si veda Gilles Kepel, “Le sommeil de la raison engendre des monstres”, prefazione a Fabrice Balanche, Les Leçons de la crise syrienne, Odile Jacob, Parigi 2024, p. 7.
7 “Le Monde”, 21 giugno 1995. Si veda anche il mio necrologio su di lui, morto il 19 maggio 2018 all’età di 101 anni, ivi, 22 maggio 2018. Bernard Lewis, anch’egli ebreo e sostenitore di Israele, è stato il principale bersaglio del libro di Edward Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente (1978, traduzione italiana Feltrinelli, Milano 1999), considerato il testo fondante degli studi “postcoloniali”, da cui sarebbe derivato il wokismo.
8 La legge è stata contestata in particolare da molti storici, che hanno firmato la petizione “Liberté pour l’histoire” nel dicembre del 2005 e che la criticano per aver introdotto il reato di opinione nella legge francese.
9 Si veda il capitolo 4, p. 108.
10 Dall’arabo turdjuman (“traduttore”).
11 Si veda il capitolo 2, pp. 70-71.
12 Si veda il capitolo 1, p. 48, e il capitolo 2, p. 63. I negoziati per il rilascio dell’ostaggio porterebbero alla liberazione di 1027 militanti di Hamas prigionieri in Israele, tra cui in prima linea Yahya Sinwar.
13 Si veda la mappa n. 8.
14 Si veda Yosef Hayim Yerushalmi, Zakhor! Histoire juive et mémoire juive, Gallimard, Parigi 1982.
15 Il romanzo di Orhan Pamuk, Le notti della peste (tr. it. di Barbara La Rosa Salim, Einaudi, Torino 2022) restituisce questo ambiente.
16 Si veda il capitolo 1, pp. 34 sgg.
17 Su questo tema si legga L’imam et le sultan: Erdogan et la réislamisation de Sainte-Sophie, in “Le Grand Continent”, 7 maggio 2023. Testo integrale della dichiarazione del presidente turco e commento ex tempore dell’autore.
18 Su questa nozione mi permetto di rimandare a Gilles Kepel, Il ritorno del profeta. Perché il destino dell’Occidente si decide in Medio Oriente, tr. it. di Jean-Pierre Milelli e Chiara Rea, Feltrinelli, Milano 2021, capitolo 1.
19 I trattati di pace tra Israele, da un lato, e gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, dall’altro, sono stati firmati a Washington il 15 settembre 2020, ma il progetto è stato presentato all’inizio dell’estate.
20 Su questo tema si veda l’illuminante analisi di Bernard Rougier, Le Jihad au quotidien, Presses universitaires de France, Parigi 2004.
21 Si veda la mappa n. 6.
22 Si veda la mappa n. 4.
23 Si veda la mappa n. 1.
24 Si legga Anne de Tinguy, Les Russes d’Israël. Une minorité très influente, in “Études du CERI”, n. 48, dicembre 1998.
25 Sul partenariato sino-iraniano e sulle controversie che ha generato nello stesso Iran, si veda Gilles Kepel, Il ritorno del profeta. Perché il destino dell’Occidente si decide in Medio Oriente, cit., pp. 82 sgg.
4. Anatema contro l’Occidente!
1 Si veda il capitolo 2, p. 69.
2 Si veda la mappa n. 4.
3 Cfr. capitolo 3, nota 7. In contrasto con la posizione di Bernard Lewis che nega che i massacri armeni del 1915 siano stati un “genocidio”. Allo stesso modo, durante la commemorazione del centenario del massacro nel 2015, lo Stato di Israele si è ancora rifiutato di riconoscerlo, nonostante le notevoli pressioni in tal senso da parte dell’ebraismo internazionale. La ragione addotta è stata la necessità di preservare le relazioni dello Stato ebraico con la Turchia e l’Azerbaigian (cfr. capitolo 3, p. 91), anche se il dogma dell’unicità della Shoah è stato spesso la ragione non espressa di questo rifiuto.
4 Sulla controversia fra i due giuristi, si legga Philippe Sands, La strada verso est, tr. it. di Isabella C. Blum, Guanda, Milano 2017, da cui viene la maggior parte di queste informazioni.
5 Nel 1925, l’Università di Harvard limitò il numero di studenti ebrei al 15 per cento. Di conseguenza, il loro tasso di ammissione scese dal 22 per cento nel 1920 al 10 per cento nel 1930. Ogni anno venivano accettati alcuni studenti neri. Romain Huret, Le recrutement des élites aux États-Unis au vingtième siècle, in “Revue internationale d’éducation de Sèvres”, n. 39, settembre 2005.
6 Si veda Gilles Kepel, La Revanche de Dieu, Seuil, Parigi 1990, cap. 2, passim. I Black Muslims rimproveravano agli ebrei di aver manipolato i neri americani a proprio vantaggio e poi di non aver più prestato loro attenzione una volta raggiunto l’obiettivo.
7 Da quando la Corte penale internazionale ha emesso un mandato d’arresto per l’inquilino del Cremlino il 17 marzo 2023 per “deportazione illegale di bambini ucraini”, ora Putin viaggia solo in paesi assolutamente “sicuri” e indifferenti a questa giurisdizione. Il Sudafrica avrebbe offuscato la propria immagine “morale”, schierandosi contro il “genocida” Israele presso la Corte internazionale di giustizia, se, dopo averlo ricevuto con tutti gli onori, avesse nuovamente violato un’ingiunzione della Corte penale internazionale, dopo aver eluso l’arresto del dittatore sudanese nel 2015.
8 Secondo l’espressione di Thomas Gomart in L’Accélération de l’histoire. Les nœuds stratégiques d’un monde hors de contrôle, Tallandier, Parigi 2024.
9 Si veda la mappa n. 3.
10 Si veda il capitolo 2, p. 67.
11 Si veda la mappa n. 8.
12 Si veda il capitolo 1, p. 44.
13 Si veda la mappa n. 7.
14 Per una buona analisi delle contraddizioni interne e delle difficoltà della Repubblica islamica nel gestire le conseguenze del 7 ottobre, si può leggere Daniel Brumberg, Iran Between Managing Allies and Modulating Its Deterrence, in “Arab Center Washington DC”, 25 gennaio 2024.
15 Si veda la mappa n. 8.
5. La globalizzazione del conflitto
1Su questo episodio si veda Gilles Kepel, Il ritorno del profeta. Perché il destino dell’Occidente si decide in Medio Oriente, tr. it. di Jean-Pierre Milelli e Chiara Rea, Feltrinelli, Milano 2021.
Elenco delle mappe
Mappa n. 1. La spartizione del territorio
Mappa n. 2. La popolazione d’Israele e dei territori occupati nel 2023
Mappa n. 3. La razzia del 7 ottobre 2023: 1140 morti e 240 ostaggi
Mappa n. 4. Gaza: una lunga guerra urbana
Mappa n. 5. Fronte nord. Hezbollah è il prossimo obiettivo
Mappa n. 6. Israele sotto minaccia. Intifada, razzie e missili iraniani
Mappa n. 7. Israele e gli Stati Uniti di fronte all’asse iraniano
Mappa n. 8. I fronti del “Sud globale”