giovedì 9 maggio 2024

Scienza e fantascienza Franco Puglia

 


Scienza e fantascienza 

Franco Puglia

Scienza e fantascienza sono due cose che spesso si toccano, sino a sovrapporsi.

La fantascienza immagina scenari incredibili, suggestivi, prodotti dalla nostra immaginazione, fondati anche su conoscenze reali, su una cultura scientifica, su nozioni scientifiche autentiche, mentre altre sono puramente immaginarie. La fantascienza ha spesso anticipato, in passato, cose che poi la scienza ha realizzato per davvero, come i voli spaziali immaginati dallo scrittore Giulio Verne.

Gli scienziati NON sono tutti uguali: alcuni sono studiosi strettamente collegati al REALE, a ciò che è possibile riprodurre in laboratorio, e non soltanto descritto con formule matematiche. Altri studiosi, invece, investigano l’inconoscibile, come tutti quelli che si occupano di astrofisica o di fisica delle particelle, dell’infinitamente piccolo.

I due aspetti della scienza si dovrebbero sempre tenere BEN DISTINTI E BEN DISTANTI: la scienza sperimentale è una cosa, ed è quella che può arrivare a determinare delle LEGGI che governano alcuni fenomeni, esprimendole anche in forma matematica.

La scienza dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande, invece, dovrebbe restare confinata nel suo ruolo di soddisfazione dell’infinita curiosità umana, senza sconfinare nella vita reale, che ha bisogno della scienza sperimentale, non di quella ai confini della fantascienza.

Gli studi dei fisici e dei matematici ci hanno condotto ben oltre i confini della realtà, attraversandola e lasciando tracce importanti, e sono le tracce materiali di questi studi quelle che ci interessano nella vita quotidiana, mentre le proiezioni lontane restano collocate nella curiosità che si nostre delle nostre fantasie.

Quali che siano le origini dell’universo, la nostra vita non cambia.

I buchi neri sono qualcosa che va ben oltre le possibilità della nostra esperienza, per fortuna, e possiamo limitarci a fantasticare di precipitare in un buco nero per emergere in un altro spazio-tempo.

Possiamo fantasticare sui viaggi nel tempo, con Harry Potter, ma restiamo nel nostro tempo, e con questo dobbiamo fare i conti. E il Bosone di Higgs vale un premi Nobel, ma non si può vendere nei supermercati.

Ma alcuni studiosi si sono messi a fantasticare sul clima del pianeta, che poi non esiste, perché esistono I CLIMI, al plurale, e sono parecchi. Gli esseri umani, però, insoddisfatti dall’esito avuto dalla Torre di Babele, che non riuscì ad ergersi sino a toccare il Cielo, vogliono ampliare i loro dominio sulla Natura, sino a controllare IL CLIMA , che a quanto pare non soddisfa più le esigenze dei tempi moderni.

E se il clima che abbiamo dipende da noi, se siamo noi a fare il bello ed il cattivo tempo, allora possiamo anche dirigerlo a nostro piacere. Cosa ci serve? Niente di speciale: alcune equazioni matematiche ed il gioco è fatto. Così i “climatologi” (ma chi diamine sono?) hanno messo in campo anche un certo Schwarzchild, che pare voler dire “bambino nero”, un nome che evoca il moderno terzomondismo.

Tutte le altre argomentazioni circa il ruolo disastroso della CO2 in atmosfera non sono convincenti? Nessun problema: una sequenza di equazioni di Schwarzchild e siamo proiettati nel nuovo mondo, quello in cui non contano le interazioni forti, ma le interazioni deboli, in cui Davide CO2 è più potente di Golia Azoto e di tutti gli altri giganti messi insieme.

Traggo e riporto da Wikipedia, per quel che vale:

Lo spaziotempo di Schwarzschild o metrica di Schwarzschild è una soluzione delle equazioni di campo di Einstein nel vuoto che descrive lo spaziotempo attorno a una massa a simmetria sferica, non rotante e priva di carica elettrica. È stata la prima soluzione esatta trovata per la relatività generale,proposta da Karl Schwarzschild pochi mesi dopo la pubblicazione della teoria.

Matematicamente, rappresenta la geometria di uno spazio-tempo statico e a simmetria sferica.

Anzi, come dimostrato dal teorema di Birkhoff, la staticità è una conseguenza della simmetria sferica e quella di Schwarzschild è la soluzione più generale che soddisfa queste due richieste.

Benché sia un’approssimazione (praticamente tutti i corpi celesti ruotano, Sole compreso), trova vaste applicazioni.

I moti planetari attorno al Sole, ad esempio, che nella teoria della gravitazione newtoniana erano descritti come moti in un campo di forze centrali, per cui erano valide le leggi di Keplero, sono descritti dalla relatività generale come moti di masse di prova (ossia moti geodetici) nello spazio-tempo di Schwarzschild. In particolare, se nella teoria kepleriana le orbite dei pianeti erano ellissi, in quella relativistica sono rosette (per approfondire si veda oltre) ed esibiscono una precessione dell’asse dell’orbita, che era stata osservata già tra il ‘700 e l ‘800 e non era spiegabile nel quadro newtoniano.

In particolare i calcoli di Le Verrier, lo scopritore teorico, insieme con Adams, del pianeta Nettuno, sfruttando la teoria delle perturbazioni secolari, riuscivano a spiegare quasi tutta la precessione osservata, tranne un residuo di meno di 50 secondi d’arco per secolo per il pianeta Mercurio.

Il calcolo esatto permesso dalla soluzione di Schwarzschild per l’angolo di precessione di Mercurio rafforzò la prima prima prova a sostegno della teoria della relatività costituita dal calcolo approssimato ad opera dello stesso Einstein. La soluzione di Schwarzschild è anche all’origine di una delle idee della fisica che più fortemente hanno stimolato l’immaginario collettivo, prestandosi spesso a speculazioni fantascientifiche: il buco nero.

Come sarà mostrato meglio in seguito, se il corpo sorgente del campo gravitazionale è abbastanza denso, la soluzione di Schwarzschild prevede che attorno alla sorgente, a una distanza nota come raggio di Schwarzschild, esista una superficie ideale, detta orizzonte degli eventi che divide lo spazio-tempo in due regioni non connesse causalmente, e che funziona come una membrana unidirezionale: tutto può entrare ma niente può uscire. In particolare neppure la luce, una volta entrata nel volume racchiuso dall’orizzonte degli eventi, non potrà più allontanarsene, e continuerà inesorabilmente a orbitare, inanellando giri attorno alla massa centrale. Poiché la luce non riesce a sfuggire dall’oggetto, John Archibald Wheeler, in un’intervista del 1968, per farsi capire dal giornalista, si espresse con un paragone: se l’oggetto si trovasse a passare davanti allo sfondo pieno di stelle della nostra galassia, l’osservatore sulla Terra non potrebbe vedere l’astro, ma vedrebbe nella sua posizione un “buco nero” rispetto allo sfondo luminoso. Da allora venne adottato questo termine, mentre il termine preciso è singolarità gravitazionale.

Karl Schwarzschild (Francoforte sul Meno, 9 ottobre 1873 – Potsdam, 11 maggio 1916) è stato un matematico, astronomo e astrofisico tedesco. Legò il proprio nome all’astrofisica moderna: dalla spettroscopia alla teoria dell’evoluzione stellare, effettuando diversi studi su modelli teorici di atmosfere stellari grazie alla scoperta dell’effetto fotografico che porta il suo nome (“effetto Schwarzschild“) e che consiste nella perdita di sensibilità delle emulsioni fotografiche sensibili in condizioni di bassa luminosità o di tempi di posa molto lunghi.

Ora ditemi se ha senso cercare di piegare questi studi di astrofisica alle condizioni FISICHE e MACROSCOPICHE dei fenomeni materiali dell’atmosfera terrestre.

Perché è anche questo che viene fatto. Si pubblicano studi astrusi, che nessuno o pochi leggono e comprendono, per avvalorare tesi strampalate secondo le quali poche molecole di gas atmosferico (0,04% di CO2) possono stravolgere la termodinamica dell’intero pianeta, costringendo quindi 8 miliardi crescenti di esseri umani ad abbandonare il motore energetico fossile del loro sviluppo negli ultimi due secoli per dare soddisfazione alle fantasie spazio temporali di un manipolo di matematici contemporanei?

A voi tutti l’ardua risposta

venerdì 3 maggio 2024

IL POZZO DEL PASSATO Estratto da , "I testamenti traditi" Milan Kundera


IL POZZO DEL PASSATO
Estratto da , "I testamenti traditi"
Milan Kundera

Milan Kundera si è chiesto in cosa consista l'identità di qualcuno, il suo io: "cos'è che definisce un io? Quello che fa, le sue azioni? Ma l'azione sfugge al suo autore, rivoltandosi quasi sempre contro di luiLa sua vita intima, allora, i pensieri, le emozionisegrete? Ma un uomo e' in grado di capire se stesso? I suoi pensieri segreti possono davvero fornire la chiave della sua identita'?. " (p. 20)
"Alla ricerca di tale fondamento - una ricerca interminabile - Thomas Mann ha dato un contributo assai importante: noi crediamo di agire, egli afferma, crediamo di pensare, ma è un altro o sono altri ad agire e a pensare in noi: abitudini ancestrali, archetipi tramandati sotto forma di miti da una generazione all'altra; e sono questi archetipi, dotati di un'immensa forza di attrazione, che dal fondo di quello che Mann definisce "il pozzo del passato" continuano a governarci ". (p. 20-21) 


MOLLOY Samuel Beckett


 

MOLLOY

Samuel Beckett


Molloy è un romanzo di Samuel Beckett del 1951. È il primo della trilogia di romanzi, che prosegue con Malone muore e L'innominabile. 

Recensione

Paolo Bertinetti

Molloy è un vecchio privo di entrambe le gambe. Si trova nella casa della madre morta e racconta la propria inutile odissea per raggiungerla. Divaga, dice palesi falsità. È privo di memoria, ma la cosa non ha importanza: ciò che conta è non smettere di raccontare perché nel raccontare sta l'unica probabilità di essere vivo.

 Il viaggio di Molloy, che procede per cerchi, che ha una meta e poi la perde e poi la ritrova, che è irto di difficoltà e che è interrotto da lunghe soste, è stato spesso paragonato a quello di Ulisse, di cui costituirebbe una versione parodica. O forse, più in generale, costituisce una parodia del viaggio in quanto costante della letteratura europea. Più in generale ancora, possiamo dire che è la cultura occidentale nel suo insieme che viene sbeffeggiata da Molloy, il cui percorso rifà e rifiuta le precedenti tappe filosofiche e artistiche dell'interpretazione dell'«uomo». È un fatto che il racconto di Molloy è asperso di momenti umoristici che nascono proprio dall'irrisione di principi filosofici e ideologici di grande rilievo per la nostra cultura; ma anche dall'irrisione di topoi basilari della letteratura occidentale, come quello dell'amore romantico.  

MOLLOY

I

Sono nella stanza di mia madre. Sono proprio io a viverci adesso. Non so come ci sono arrivato. Forse in un'ambulanza, certamente un mezzo qualsiasi. Mi hanno aiutato. Da solo non ci sarei arrivato. Quell'uomo che viene ogni settimana, forse son qua proprio per merito suo. Lui dice di no. Mi dà un po' di soldi e si porta via i fogli. Tanti fogli, tanti soldi. Sì, adesso lavoro, un po' come una volta, soltanto che non so più lavorare. Ciò non ha importanza, sembra. Quanto a me ora vorrei parlare delle cose che mi restano, congedarmi, finir di morire. Loro non vogliono. Sì, sono in molti, pare. Ma a venire è sempre lo stesso. Lo farete più tardi, dice. Bene. Di volontà, vedete, non ne ho più molta. Quando viene a prendere i fogli nuovi riporta quelli della settimana precedente. Portano dei segni che non capisco. D'altronde non li rileggo. Quando non ho fatto nulla non mi dà niente, mi sgrida. Però io non lavoro per i soldi. Allora per che cosa? Non lo so. Francamente, non so granché. La morte di mia madre, per esempio. Era già morta al mio arrivo? O invece è morta più tardi? Voglio dire morta e sotterrata. Non lo so. Forse non è stata ancora sotterrata. Comunque sia, sono io ad aver la sua stanza. Dormo nel suo letto. La faccio nel suo vaso. Ho preso il suo posto. Probabilmente le assomiglio sempre di più. Mi manca soltanto un figlio. Ne ho uno in qualche posto, forse. Ma non credo proprio. Adesso sarebbe vecchio, quasi quanto me. Lei era una servetta. No, non era il vero amore. Il vero amore era in un'altra. Adesso vedrete. Ecco che ho dimenticato ancora il suo nome. Talvolta mi sembra d'aver persino conosciuto mio figlio, d'essermi occupato di lui. Poi mi dico che è impossibile. È impossibile che abbia potuto occuparmi di qualcuno, io. Ho dimenticato anche l'ortografia, e metà delle parole. Ciò non ha importanza, pare. E va bene. È un tipo strano, quello che viene a trovarmi. È sempre di domenica che viene, a quanto pare. Negli altri giorni non è libero. Ha sempre sete. È stato proprio lui a dirmi che avevo iniziato male, che bisognava iniziare diversamente. L'ammetto anch'io. Avevo iniziato all'inizio, figuratevi, come un vecchio coglione. Ecco qua il mio inizio. Loro intendono conservarlo lo stesso, se ho capito bene. Mi son dato da fare. Eccolo. M'ha fatto fare molta fatica. Si trattava dell'inizio, capite bene. Mentre, adesso, è quasi la fine. È meglio, poi, quel che faccio adesso? Non lo so. Non è lì il problema. Ecco l'inizio mio proprio. Deve pur voler dire qualcosa, se loro lo conservano. Eccolo.


Questa volta, poi un'aaltra ancora penso, poi sarà finita penso, anche di quel mondo. È il senso del penultimo. Tutto si confonde. Ancora un po' e si diventerà ciechi. È proprio nella tasca. Non marcia più, dice, Non marcio più. Si diventa anche muti e i rumori si affievoliscono. Appena varcata la soglia è proprio così. Probabilmente è proprio la testa ad averne abbastanza. Dimodoché si dice, Arriverò pure stavolta, poi un'altra ancora, poi basta. Si fa fatica a formulare questo pensiero, perché lo è, in certo senso. Allora si vuol far attenzione, considerare attentamente tutte queste cose oscure, dicendo tra sé, penosamente, che la colpa di questo è propria. La colpa? È la parola che è stata usata. Ma che colpa? Non è l'addio, e quale magia in queste cose oscure a cui sarà opportuno dire addio, al loro prossimo passaggio. Perché bisogna dire addio, sarebbe proprio da stupidi non dire addio, al momento giusto. Se si pensa ai contorni alla luce di una volta è proprio senza rimpianti. Ma non ci si pensa troppo, con che cosa ci si penserebbe? Non so. Passa anche gente, da cui non è facile distinguersi con chiarezza. È scoraggiante davvero, questo. È così che vidi A e B andare lentamente l'uno verso l'altro, senza accorgersi di quel che facevano. Era su una strada sorprendentemente spoglia, intendo dire senza siepi né muretti né delimitazioni di nessuna specie, in aperta campagna, perché entro campi immensi delle vacche, ritte o coricate, masticavano nel silenzio della sera. Forse invento un po', forse abbellisco, ma nell'insieme era proprio così. Masticano, poi inghiottono, poi dopo una breve pausa prendono senza sforzo il boccone successivo. Si muove un tendine del collo e le mascelle ricominciano a tritare. Ma forse questi son solo dei ricordi. La strada, dura e bianca, tagliava i teneri pascoli, saliva e scendeva lungo gli avvallamenti. La città non era lontana. Si trattava di due uomini, impossibile sbagliarsi, uno piccolo e uno grande. Erano usciti dalla città, prima uno, poi l'altro, e il primo, stanco o ricordandosi di un impegno, era tornato sui suoi passi. L'aria era fresca, perché avevano il mantello. S'assomigliavano, ma non più degli altri. Dapprima un gran spazio li separava. Non sarebbero riusciti a vedersi, anche alzando il capo e cercandosi con gli occhi, per via di questo gran spazio, e poi per via degli avvallamenti del terreno, che rendevano la strada ondulata, non profondamente ma abbastanza, abbastanza. Ma giunse il momento in cui calarono insieme nella stessa cavità ed è proprio in questa cavità che s'incontrarono alla fine. Dire che si conoscessero, no, nulla mi permette d'affermarlo. Ma forse al rumore dei loro passi, o avvertiti da qualche oscuro istinto, i due alzarono il capo e si squadrarono, per una buona quindicina di passi, prima di fermarsi, uno di fronte all'altro. Sì, non s'incrociarono affatto, ma s'arrestarono, vicinissimi tra loro, come fanno spesso, in campagna, di sera, in una strada deserta, due viandanti che non si conoscono, senza che ci sia niente di straordinario. Ma può darsi che si conoscessero. Comunque sia, adesso si conoscono e immagino che si riconosceranno, e si saluteranno, anche nel cuore della città. Si rivolsero verso il mare che, lontano a est, oltre i campi, si alzava alto nel cielo che impallidiva, e scambiarono qualche parola. Poi ciascuno riprese il proprio cammino, A verso la città, B per regioni che sembrava conoscere poco, o niente del tutto, perché procedeva con passo incerto e si fermava spesso per guardarsi intorno, come chi cerchi di imprimersi nella mente dei punti di riferimento, perché un giorno, forse, dovrà tornare sui suoi passi, non si sa mai. Le colline infide in cui s'inoltrava spaventato, le conosceva probabilmente solo per averle viste di lontano, forse dalla finestra della sua stanza, o dalla cima di un monumento in un giorno di sconforto in cui, non avendo niente di speciale da fare e cercando una consolazione nelle altitudini, aveva pagato i suoi tre o quattro pence e si era arrampicato su per la scala a chiocciola fino al terrazzo. Di là doveva veder tutto, la pianura, il mare e poi queste stesse colline che taluni chiamano montagne, grige qua e là nella luce della sera, che si serrano una dietro l'altra a perdita d'occhio, attraversate da valli che non si vedono ma che s'indovinano, per via dei toni digradanti e poi per altri segni intraducibili in parole e anzi impensabili. Ma non s'indovinano tutte, anche da quell'altezza, e dove spesso non si vede che un fianco solo, una sola cresta, in realtà ce n'è due, due fianchi, due creste, separati da una valle. Ma queste colline, adesso lui le conosce, cioè le conosce meglio, e se per caso gli capita di contemplarle di nuovo da lontano lo farà immagino con occhi diversi, non solo, ma vedrà anche l'interno, tutto quello spazio interno che non si vede mai, il cervello e il cuore e le altre caverne dove sentimento e pensiero fanno la loro gazzarra, tutto ciò disposto differentemente. Ha un aspetto da vecchio e fa davvero pietà vederlo andare da solo dopo tanti anni, tanti giorni e notti dediti a dar retta a quel rumorio che sorge dalla nascita e anche prima, quell'insaziabile Come fare? Come fare?, ora basso, un mormorio, ora chiaro come il E come bevanda? del maggiordomo, e che poi spesso si gonfia fino al grido. Per andarsene alla fine, o quasi, da solo per sentieri sconosciuti, al cader della notte, con un bastone. Era proprio un grosso bastone, se ne serviva per spingersi avanti, e poi per difendersi, caso mai, dai cani e dai rapinatori. Sì, la notte cadeva, ma l'uomo era innocente, di una grande innocenza, non temeva nulla, sì, lui temeva, ma non aveva bisogno di temere nulla, non si poteva far nulla contro di lui, o così poco. Ma questo, lui non lo sapeva di sicuro. Anch'io, se ci pensassi, non lo saprei. Si vedeva minacciato, nel proprio corpo, nella ragione, e forse lo era, nonostante la sua innocenza. Cosa c'entra l'innocenza là dentro? Che relazione c'è con gl'innumerevoli agenti del maligno? Non è chiaro. Da quel che mi sembrava, portava un cappello a punta. Ne fui sorpreso, mi ricordo bene, come non lo sarei stato per un berretto, ad esempio, o per una bombetta. Stetti a guardarlo mentre si allontanava, preso dalla sua inquietudine, insomma da un'inquietudine che non era necessariamente la sua, ma di cui in qualche modo lui faceva parte. Era, chissà, proprio la mia inquietudine a prendere lui. Non mi aveva visto. Ero appollaiato al di sopra del livello più alto della strada e per di più attaccato a una roccia del mio stesso colore, vale a dire grigio. Che si sia accorto della roccia, è probabile. Si guardava attorno, l'ho già fatto notare, come per imprimersi nella memoria le caratteristiche della strada, e probabilmente vide la roccia alla cui ombra stavo acquattato io, alla maniera di Belacqua, o di Sordello, non mi ricordo più. Ma un uomo, e tanto più io, non fa proprio esattamente parte delle caratteristiche di una strada. Voglio dire che se un giorno, per un caso raro, dovesse ripassare di là, dopo molto tempo, sconfitto, o per cercare una cosa dimenticata, o per bruciare qualcosa, sarà la roccia che cercherà con gli occhi, e non il caso alla sua ombra di quella cosa irrequieta e fugace che è la carne ancor viva. No, non mi vide di sicuro, per le ragioni che ho detto e poi perché lui la testa non l'aveva per queste cose, quella sera là, dico la testa per i vivi, ma semmai per ciò che non si sposta, o si sposta così lentamente da far ridere un bambino, per non dire un vecchio. Comunque sia, vale a dire che m'abbia visto o no, ripeto che rimasi a guardarlo mentre si allontanava, alle prese (io) con la tentazione di alzarmi e di seguirlo, anzi forse un giorno di raggiungerlo, per conoscerlo meglio, per essere anch'io meno solo. Ma malgrado questo slancio verso di lui della mia anima, all'estremità del suo elastico, lo vedevo a malapena, per via dell'oscurità e poi anche del terreno, nelle cui pieghe ogni tanto spariva, per riemergere più lontano, ma credo soprattutto per via delle altre cose che mi chiamavano e verso cui la mia anima si slanciava ugualmente a turno, senza metodo e affannosamente. Parlo naturalmente dei campi bianchi di rugiada e degli animali che smettono di vagarvi per assumere le loro posizioni notturne, del mare di cui non dirò niente, della linea sempre più affilata delle creste, dal cielo dove senza vederle sentivo baluginare le prime stelle, della mia mano sul mio ginocchio e poi soprattutto dell'altro viandante, A o B, non mi ricordo più, che tornava saggiamente a casa. Sì, anche verso la mia mano, che il mio ginocchio sentiva tremare e di cui i miei occhi vedevano soltanto il polso, il dorso fortemente venato e il biancore delle prime falangi. Ma non è di lei, intendo parlare di questa mano, che voglio parlare adesso, ogni cosa a suo tempo, ma di questo A o B che si dirige verso la città da cui è appena uscito. Ma in fondo, cos'aveva la sua andatura di particolarmente urbano? Era a testa nuda, portava delle scarpe di tela, fumava un sigaro. Si spostava con una specie di indolenza bighellona che a ragione o a torto mi sembrava espressiva. Ma tutto ciò non dimostrava niente, non confutava niente. Può darsi che fosse venuto da lontano, anche dall'altro capo dell'isola, che andasse verso questa città forse per la prima volta o vi ritornasse dopo una lunga assenza. Un cagnolino lo seguiva, un pomerano credo, ma non credo. Non ne ero sicuro neanche allora e ancora adesso non lo sono affatto, benché ci abbia ripensato pochissimo. Il cagnolino gli teneva dietro molto male, alla maniera dei pomerani, si fermava, compiva lunghi giri, la faceva, vale a dire si liberava, poi ricominciava un po' più lontano. La colite nei pomerani è segno di buona salute. A un certo momento, prestabilito se vi va, per me va benissimo, il signore tornò sui suoi passi, prese il cagnolino in braccio, si tolse il sigaro di bocca e immerse il viso nel folto pelo arancione. Era proprio un signore, lo si vedeva. Sì, era proprio un pomerano arancione, più ci penso e più ne son convinto. Eppure. Ora questo signore poteva venir da lontano, a testa nuda, in scarpette di tela, con un sigaro in bocca, seguito da un pomerano? Non aveva semmai l'aspetto di uno uscito fuori porta, dopo un buon pranzo, per passeggiare e per portare a passeggio il cane, sognando e petando, come fa tanta gente di città, quando è bel tempo? Ma non può darsi che in realtà quel sigaro fosse una piccola pipa, e quelle scarpe di tela delle scarpe chiodate bianche di polvere, e cosa impediva poi che il cane non fosse uno di quei cani randagi che si raccolgono e si prendono in braccio, per compassione o perché abbiamo vagato a lungo soli senz'altra compagnia fuorché queste strade senza fine, queste sabbie, ciottoli, paludi, brughiere, questa natura che dipende da un'altra giustizia, e di tanto in tanto un co-detenuto che si vorrebbe avvicinare, abbracciare, mungere, allattare, e che s'incontra, con occhi torvi, per paura che si permetta delle familiarità. Fino al giorno in cui, non potendone più, in questo mondo che non ha braccia per voi, stringete nelle vostre i cani rognosi, li tenete il tempo necessario perché vi amino, perché li amiate, poi li buttate via. L'uomo forse era arrivato a qual punto, malgrado le apparenze. Sparì, con la cosa fumante in mano, la testa china sul petto. Mi spiego. Dagli oggetti che stanno per sparire io distolgo lo sguardo un bel pezzo prima. Fissarli fin all'ultimo, no, non ce la faccio. È proprio in questo senso che sparì. Con gli occhi altrove pensavo a lui, dicevo tra me, Si rimpicciolisce, Si rimpicciolisce. Mi capivo, io. Sapevo di poterlo raggiungere, storpio com'ero. Non avevo che da volerlo. Eppure no, perché lo volevo. Alzarmi, raggiungere la strada, lanciarmi zoppicando all'inseguimento, chiamarlo da lontano, cosa c'è di più facile. Lui sente le mie grida, si volta, mi aspetta. Sono vicinissimo a lui, vicinissimo al cane, ansimante, tra le stampelle. Lui ha un po' paura, un po' pietà di me. Gli faccio discretamente nausea. Non sono bello da vedere, non mando un buon odore. Cosa voglio? Ah come lo conosco questo tono, fatto di paura, di pietà, di disgusto. Voglio vedere il cane, io, vedere l'uomo, da vicino, sapere cosa fuma, esaminare le scarpe, raccogliere altri indizi. È buono, lui, mi parla di questo e di quello, mi fa saper delle cose, da dove viene, dove va. Io ci credo, so bene che è l'unica probabilità che ho di — l'unica probabilità che ho, io credo a tutto quel che mi si dice, mi sono astenuto anche troppo da questo nella mia lunga vita, adesso bevo tutto, avidamente. Ciò di cui ho bisogno son proprio delle storie, ci ho messo un bel pezzo a saperlo. D'altronde non ne sono affatto sicuro. Allora ecco, mi sono impresso certe cose, su di lui, delle cose che non sapevo, che mi agitavano, e anche delle cose di cui non avevo sofferto. Che lingua. Son capace persino d'aver saputo quale è il suo mestiere, proprio io che mi interesso tanto dei mestieri altrui. E dire che faccio tutto il possibile per non parlare di me. Tra poco parlerò delle vacche, del cielo, vedrete. Allora ecco, egli mi pianta in asso, ha fretta. L'aria frettolosa non l'aveva, andava a zonzo, l'ho già fatto notare, ma dopo tre minuti di colloquio con me ha fretta, deve spicciarsi. Ci credo. E io sono di nuovo non dirò solo, no, non son mica il tipo, ma, come dire, non so, restituito a me stesso, no, non mi son mai lasciato andare, libero, ecco, non so proprio che cosa voglia dire ma è la parola che sento usare, libero di far che, di non far niente, di sapere, ma cosa, le leggi della coscienza forse, della mia coscienza, che per esempio l'acqua sale man mano che ci si immerge e che si farebbe meglio, insomma altrettanto bene, a cancellare il testo che ad annerire i margini, a far piazza pulita finché tutto sia bianco e liscio e che la coglioneria assuma la sua vera faccia, un culo assurdo e senz'uscita. Dunque senza dubbio feci bene, insomma altrettanto bene, a non scomodarmi dal mio posto d'osservazione. Ma invece di osservare ebbi la debolezza di ritornar con la mente all'altro, all'uomo dal bastone. Ecco allora di nuovo i mormorii. Ristabilire il silenzio, è proprio la funzione degli oggetti. Dicevo tra me, chissà che non sia uscito semplicemente a prendere un po' d'aria, per distendersi, sgranchirsi, snebbiarsi il cervello facendo affluire il sangue ai piedi, per assicurarsi una buona notte, un felice risveglio, un incantevole domani. Aveva soltanto una bisaccia? Ma quell'andatura, quegli sguardi ansiosi, quella mazza, sono conciliabili con l'idea che ci si fa di quella che si suol dire una passeggiatina? Ma quel cappello era proprio un cappello da città, fuori moda ma da città, che il minimo vento avrebbe fatto volare lontano. A meno che non sia legato sotto il mento, per mezzo di un cordoncino o di un elastico. Mi tolsi il cappello e lo esaminai. Un lungo cordoncino lo congiunge all'occhiello, da sempre, sempre lo stesso, in qualsiasi stagione. Dunque son sempre vivo, io. È bene saperlo. La mano che si era impadronita del cappello e che continuava a stringerlo, l'allontanai più che potevo da me e le feci descrivere degli archi. Nel far questo osservai il bavero del mantello e lo vidi aprirsi e chiudersi. Adesso capisco perché non portavo mai fiori all'occhiello, che tuttavia era abbastanza ampio per accoglierne un mazzetto intero. L'occhiello era destinato al cappello. Era il cappello che infioravo, io. Ma non è del cappello e neanche del mantello che voglio parlare in questo momento, sarebbe prematuro. Ne parlerò senza dubbio più tardi, quando si tratterà di fare l'inventario dei miei beni e possessi. A meno che non li perda prima d'allora. Ma anche perduti, avranno il loro posto, nell'inventario dei miei beni. Ma sono tranquillo, non li perderò. E neppure le stampelle perderò. Ma un giorno forse le butterò via. Dovevo trovarmi in cima, o sui fianchi di un'altura non comune, altrimenti come avrei potuto tuffare lo sguardo su tante cose vicine e lontane, mobili e immobili. Ma cosa c'entrava un'altura in un simile paesaggio appena ondulato? E io, cosa c'entravo? È proprio quel che stiamo cercando di sapere. E poi non prendiamo queste cose sul serio. C'è di tutto, a quanto pare, nella natura e gli scherzi vi abbondano. E forse confondo parecchie occasioni diverse, e le ore, in fondo, e il fondo è il mio elemento, oh non l'intimo profondo, in qualche posto tra la schiuma e il fango. E può darsi che una volta sia stato A a trovarsi in quel tal posto, poi un'altra volta B nel talaltro, poi una terza la roccia e io, e così via per tutti gli altri componenti, le vacche, il cielo, il mare, le montagne. Non posso crederlo. No, non dirò bugie, faccio presto a immaginarlo. Non facciamoci caso, continuiamo, facciamo finta che tutto sia nato dalla stessa noia, accumuliamo, accumuliamo, fino al buio completo. Quel che è certo, è che l'uomo dal bastone quella notte non ripassò di là, perché l'avrei sentito. Non dico che l'avrei visto, dico che l'avrei sentito. Io dormo poco e il poco che dormo lo dormo di giorno. Oh mica sistematicamente, nella mia vita smisurata ho provato ogni tipo di sonno, ma all'epoca che sto scoprendo facevo il mio sonnellino di giorno e, per di più, al mattino. Non mi si venga a parlare della luna, nella mia notte non c'è luna, se mi capita di parlar delle stelle è solo una svista. Ora di tutti i rumori di quella notte non ce ne fu neanche uno che fosse quello di quei passi pesanti e incerti, di quella mazza con cui a tratti percuoteva la terra tanto da farla tremare. Com'è piacevole esser confermato, dopo un periodo più o meno lungo di tentennamenti, nelle prime impressioni. Senza dubbio è proprio questo ad attenuare i terrori del trapasso. Non che lo fossi in modo conclusivo, intendo dire confermato nella prima impressione riguardo a — aspettate — a B. Perché, un po' prima dell'alba, dei birocci e carretti passarono con frastuono portando al mercato frutta, uova, burro e formaggio, e forse proprio su uno di quelli egli era salito, vinto dalla stanchezza o dallo scoraggiamento, anzi morto. Oppure aveva potuto tornare in città da un'altra strada, troppo lontana perché potessi sentire quel che vi succedeva, o per piccoli sentieri attraverso i campi, calpestando silenziosamente l'erba e picchiando su un suolo muto. Fu così che trascorsi quella notte, diviso tra i mormorii del mio essere garbatamente perplesso e quelli così diversi (ma poi tanto?) di quanto resta e passa tra due soli. Mai una volta una voce umana. Ma le vacche che, al passaggio dei contadini, chiamavano invano perché si venisse a mungerle. A e B, non li ho mai più rivisti. Ma forse li rivedrò. Ma saprò riconoscerli? E son poi così sicuro di non averli più rivisti? E cosa indico con vedere e rivedere? Un attimo di silenzio, come quando il direttore d'orchestra picchia sul leggio, solleva le braccia, prima del fracasso delle prove. Fumo, bastoni, carni, capelli, di sera, in lontananza, intorno al desiderio di un fratello. Questi stracci li so suscitare, per coprire la mia vergogna. Mi chiedo cosa vuol dire. Ma non sarò mica sempre nella miseria. Ma a proposito del desiderio di un fratello dirò che essendomi svegliato tra le undici e mezzo e mezzogiorno (intesi l'Angelus, che ricorda l'incarnazione, poco dopo) decisi di andare a trovare mia madre. Per decidermi ad andare a trovare questa donna, occorrevano ragioni che presentassero un carattere d'urgenza, e, dato che non sapevo cosa fare, né dove andare, fu per me proprio un gioco da bambino, da figlio unico, riempirmi la testa di queste ragioni, fino al punto da bandire ogni altra preoccupazione e cominciare a fremere al solo pensiero che avrei potuto essere ostacolato nel recarmici, voglio dire da mia madre, seduta stante. Di conseguenza mi alzai, inforcai le stampelle e discesi sulla strada, dove trovai la mia bicicletta, (toh, non me l'aspettavo), allo stesso posto in cui probabilmente l'avevo lasciata. Questo mi permette di rilevare che, storpio com'ero, a quell'epoca salivo in bicicletta con una certa facilità. Ecco come me la cavavo. Appendevo le stampelle alla canna superiore del telaio, una per parte, incastravo il piede della gamba rigida (non ricordo quale, son tutt'e due rigide adesso) nella sporgenza del mozzo della ruota davanti e pedalavo con l'altra. Si trattava di una bicicletta senza catena, a ruota libera, se ne esistono. Cara bicicletta, non ti chiamerò velocipede, eri dipinta di verde, come tante biciclette della tua generazione, non so perché. La rivedo volentieri. Mi piacerebbe passarla pezzo per pezzo. Aveva una cornetta o trombetta invece del campanello di moda ai vostri giorni. Suonare questa cornetta era un vero piacere per me, quasi una voluttà. Dirò di più, dirò che se dovessi celebrare le cose che non mi han fatto cacare troppo nel corso della mia interminabile esistenza, l'atto di strombettare si piazzerebbe ad un posto onorevole. E quando dovetti separarmi dalla bicicletta ne staccai la cornetta e la conservai tutta per me. Credo d'avercela ancora, in qualche posto, e se non me ne servo più, è solo perché non suona più. Anche le automobili di oggi non hanno cornette nel senso che dico io, o ben raramente. Quando ne rintraccio una, per la strada, attraverso il vetro abbassato di un'automobile in posteggio, spesso mi fermo e la faccio suonare. Bisognerebbe riscrivere tutto ciò al trapassato prossimo. Parlare di biciclette e di cornette, che riposo! Disgraziatamente non si tratta di questo ma di colei che mi mise alla luce, dal buco del culo se ben ricordo. Prima scocciatura. Aggiungerò dunque soltanto che ogni cento metri circa mi fermavo per riposarmi le gambe, tanto la buona quanto quella cattiva, e non le gambe soltanto, no, non soltanto le gambe. Non smontavo dalla sella in modo vero e proprio, vi restavo a cavalcioni, con i piedi per terra, le braccia sul manubrio, la testa sulle braccia, e aspettavo di sentirmi meglio. Ma prima di abbandonare questi splendidi luoghi, sospesi tra la montagna e il mare, riparati da certi venti e aperti a tutto quel che il mezzogiorno, in questo dannato paese, porta con sé di profumi e di tepori, me la piglierei con me stesso se tacessi del terribile stridìo delle quaglie che corrono di notte nei campi di grano, nelle praterie, durante la bella stagione, agitando il loro crotalo. Ciò mi permette di sapere, per di più, quando cominciò questo viaggio irreale, penultimo viaggio di una forma evanescente tra altre forme evanescenti, e che senz'altra procedura dichiaro d'aver cominciato nella seconda o terza settimana di giugno, cioè nel momento più penoso in cui su quel che si suol dire nostro emisfero l'accanimento del sole raggiunge il massimo e il chiarore artico si mette a pisciare sulle nostre mezzenotti. È proprio allora che le quaglie si fanno sentire. Mia madre mi vedeva volentieri, cioè mi riceveva volentieri, perché da un bel pezzo ormai non vedeva più niente. Cercherò di parlarne con calma. Eravamo così vecchi, lei e io, lei m'aveva avuto così giovane, ch'eravamo proprio come una coppia di vecchi compari, senza sesso, senza parentela, con gli stessi ricordi, gli stessi rancori, la stessa aspettativa. Non mi chiamava mai figlio, d'altronde non l'avrei sopportato, ma Dan, non so perché, non mi chiamo mica Dan, io. Dan era forse il nome di mio padre, sì, forse mi prendeva per mio padre. Io la prendevo per mia madre e lei mi prendeva per mio padre. Dan, ti ricordi del giorno in cui ho salvato la rondine. Dan, ti ricordi del giorno in cui hai sotterrato l'anello. Ecco in che modo mi parlava. Ma ne ricordavo, me ne ricordavo, voglio dire che sapevo all'incirca di che cosa parlava, e se non sempre avevo partecipato personalmente agli episodi che rievocava, faceva lo stesso. Io, quando dovevo darle un nome, la chiamavo Mag. E la ragione per cui la chiamavo Mag era che secondo me, senza che sapessi dirne il motivo, la lettera g aboliva la sillaba ma, e per così dire ci sputava sopra, assai meglio di quel che avrebbe potuto fare un'altra lettera qualsiasi. E nello stesso tempo soddisfacevo un bisogno profondo e certo inconfessato, quello d'avere una ma, cioè una mamma, e di proclamarlo, ad alta voce. Perché prima di dire mag si dice ma, per forza. E da, nella mia regione, vuol dire papà. D'altronde per me il problema non si poneva affatto all'epoca in cui mi sto intrufolando, intendo dire il problema di chiamarla ma, Mag o la contessa Caca, perché da tempo immemorabile lei era sorda come una campana. Credo che se la facesse addosso, sia il grosso sia il piccolo bisogno, ma una specie di pudore ci faceva evitare quest'argomento, durante i nostri colloqui, e non ho mai potuto averne la sicurezza. Del resto doveva proprio essere ben poca roba, qualche caccola di capra parsimoniosamente annaffiata ogni due o tre giorni. La stanza puzzava di ammoniaca, oh non soltanto di ammoniaca, ma di ammoniaca di ammoniaca davvero. Ella mi riconosceva dal mio odore. La sua vecchia faccia incartapecorita e pelosa s'illuminava, era contenta di sentirmi. Articolava a malapena, in uno strepito di dentiere, e il più delle volte non si rendeva conto di quel che diceva. Al mio posto chiunque altro si sarebbe smarrito in quello scoppiettante chiacchiericcio, che si arrestava probabilmente solo nei brevi attimi d'incoscienza. D'altronde io non venivo mica per ascoltarla. Mi mettevo in comunicazione con lei dandole dei colpi sul cranio. Un colpo voleva dire sì, due no, tre non so, quattro quattrini, cinque addio. Avevo faticato ad ammaestrare il suo comprendonio rovinato e delirante a questo codice, ma ce l'avevo fatta. Che confondesse sì, no, non so e addio, mi era indifferente, li confondevo anch'io. Ma che associasse i quattro colpi a qualcosa di diverso dai quattrini, era una cosa che bisognava proprio evitare ad ogni costo. Durante il periodo d'addestramento allora, mentre le battevo i quattro colpi sul cranio, le strofinavo un biglietto di banca sotto il naso o in bocca. Che ingenuo! Perché se non sembrava aver perso del tutto la nozione della misurazione, certo la facoltà di contare oltre il due non l'aveva. Per lei, c'era troppa distanza, capite, fra l'uno e il quattro. Arrivata al quarto colpo lei credeva di essere solo al secondo, perché i primi due le si eran cancellati in modo così completo dalla memoria da non esser mai stati sentiti, anche se non vedo bene in che modo una cosa mai sentita possa cancellarsi dalla memoria, e dire che questo capita normalmente. Probabilmente credeva che le dicessi per tutto il tempo di no, mentre non c'era niente di più lontano dalle mie intenzioni. Illuminato da questi ragionamenti cercai, e finii col trovare, un mezzo più efficace per cacciarle in testa l'idea dei quattrini. Ciò consisteva nel sostituire ai quattro colpi del mio dito indice uno o più (a seconda delle mie necessità) pugni, sul suo cranio. Questo lo capiva. D'altronde non venivo mica per questo. Non ce l'ho troppo con mia madre, io. So che fece di tutto per non avermi, salvo evidentemente la cosa più importante, e, se non riuscì a sbarazzarsi di me, è proprio il destino che mi riservava una buca diversa da quella del cesso. Ma l'intenzione era buona e questo mi basta. No, questo non mi basta affatto, ma ne tengo conto, per mia madre dico, degli sforzi che fece per me. E le perdono d'avermi malmenato un po' nei primi mesi e d'avermi guastato l'unico periodo passabile della mia enorme storia. E così pure di non aver ricominciato, resa esperta dal mio esempio, o d'essersi fermata in tempo, anche di questo ne tengo conto, io. E se un giorno dovrò cercare un senso alla mia vita, è proprio da quel lato che per prima cosa mi metterò a grattare, dal lato di questa povera puttana unipara e di me ultimo di questa genìa, mi domando quale. Aggiungo, prima di venire ai fatti, perché si diranno davvero dei fatti, di quel lontano pomeriggio estivo, che con questa vecchia sorda, cieca, impotente e matta, che mi chiamava Dan e che io chiamavo Mag, e con lei sola, io — no, non posso dirlo. Cioè potrei dirlo ma non lo dirò, sì, mi sarebbe facile dirlo, perché tanto non sarebbe vero. Cosa vedevo di lei? Una testa sempre. Coperta di peli, di rughe, di sporcizia, di bava. Una testa che offuscava l'aria. Non che importi vederci, ma però è un piccolo inizio. Ero io a prender la chiave sotto il cuscino, a prendere i quattrini nel cassetto, a rimettere la chiave sotto il cuscino. Ma non venivo per i quattrini. Credo che ci fosse una donna che veniva ogni settimana. Una volta posai le mie labbra, vagamente, precipitosamente, su questa piccola pera grigiastra e raggrinzita. Puh. Questo le fece piacere? Non lo so. Il suo chiacchiericcio si arrestò un attimo, poi riprese. Probabilmente si domandò che cosa le capitasse. Forse tra sé disse puh. Sentii un odore terribile. Doveva provenire dagli intestini. Profumo d'antichità. Oh, io non la critico, anch'io non olezzo d'Arabia. Descriverò la stanza? No. Forse più tardi mi si presenterà l'occasione. Quando vi cercherò asilo, a corto d'espedienti, dopo aver sopportato ogni infamia, con la coda nel retto, chissà. Bene. Ora che si sa dove si va, andiamoci. È bene sapere dove si va, nei primi tempi. Vi toglie quasi la voglia di andarci. Ero distratto, io che lo sono così poco, perché da cosa mai potrei esserlo, e quanto ai miei movimenti ancor più incerto del solito. La notte doveva avermi stancato, insomma indebolito, e il sole, alzandosi sempre più ad est, mi aveva avvelenato mentre dormivo. Tra lui e me, prima di chiudere gli occhi, avrei dovuto mettere la massa della roccia. Confondo est. e ovest, e anche i poli, li inverto facilmente. Non ero nel mio brodo. È denso il mio brodo, quasi un minestrone, ed è raro per me non esserci. Proprio per questo lo segnalo. Tuttavia percorsi un po' di miglia senza difficoltà e arrivai così fino alle porte della città. Là smontai di sella, conformemente al regolamento. Sì, per entrare in città e per uscire la polizia esige che i ciclisti smontino dal sellino, che le automobili innestino la prima, che i cani o cavalli procedano al passo. La ragione di quest'ordinanza credo che sia la seguente, che le vie d'accesso, e beninteso d'uscita, di questa città sono strette e rese buie da volte immense, nessuna esclusa. È una buona regola ed io vi ottempero diligentemente, malgrado la fatica che faccio a procedere servendomi delle stampelle e spingendo contemporaneamente la bicicletta. M'arrangiavo. Bisognava pensarci. Varcammo così questo difficile varco, la mia bicicletta e io, contemporaneamente. Ma un po' più in là mi sentii interpellare. Alzai il capo e vidi un agente di polizia. Questo è un modo ellittico di parlare, perché solo più tardi, per via induttiva, o deduttiva, non so più, seppi di che cosa si trattava. Cosa fate là? disse lui. Sono abituato a questa domanda, e la capii subito. Mi riposo, dissi. Vi riposate, disse lui. Mi riposo, dissi. Volete rispondere alla mia domanda? strillò. Ecco quel che mi capita regolarmente quando son messo alle strette nella confabulazione, credo sinceramente d'avere risposto alle domande che mi si rivolgono e in realtà non è affatto così. Non starò a ricostruire questa conversazione in tutti i suoi meandri. Alla fine capii che il mio modo di riposare, il mio atteggiamento durante il riposo, a cavalcioni della bicicletta, con le braccia sul manubrio, la testa sulle braccia, era un attentato a non so più cosa, all'ordine, al pudore. Indicai con modestia le mie stampelle e azzardai qualche protesta sulla mia infermità, che mi obbligava a riposare come potevo, piuttosto di come dovevo. Mi parve di capire allora che non c'erano due leggi, una per i sani e l'altra per gl'invalidi, ma una sola, alla quale dovevano assoggettarsi ricchi e poveri, giovani e vecchi, felici e infelici. Era proprio un buon parlatore. Io feci notare che non ero mica infelice. Che cos'avevo detto mai! Mostratemi le vostre carte, disse lui, lo seppi un attimo dopo. Ma no, dico io, ma no. Le vostre carte! strillò. Ah le mie carte. Ora le uniche carte che porto con me sono un po' di carta di giornale, per pulirmi, capite, quando vado alla toilette. Oh non dico mica che mi pulisco tutte le volte che vado alla toilette, no, ma mi piace d'essere in grado di farlo, caso mai. È naturalissimo, mi sembra. Tristemente mi cavai questa carta di tasca e gliela misi sotto il naso. Il tempo era bello. Prendemmo delle stradine assolate, poco frequentate, io saltellando tra le stampelle, lui spingendo delicatamente la mia bicicletta, con la mano inguantata di bianco. Io non — non mi sentivo mica disgraziato. Mi fermai un attimo, mi assunsi questa responsabilità, alzai la mano e toccai la sommità del mio cappello. Scottava. Sentii voltarsi al nostro passaggio delle facce allegre e calme, facce d'uomini, di donne, di bambini. Mi parve d'udire, a un certo momento, una musica lontana. Mi fermai per ascoltarla meglio. Avanti, disse lui. Ascoltate, dissi io. Avanti, disse lui, Non mi si permetteva di ascoltare della musica. Questo avrebbe provocato un assembramento. Mi diede una botta sulla schiena. Ero stato toccato, oh non sulla pelle, ma la mia pelle l'aveva sentito lo stesso, questo duro pugno d'uomo, attraverso i panni. Pur procedendo nel modo più svelto possibile per me, mi abbandonavo a questi attimi dorati, come se fossi stato un'altra persona. Era proprio l'ora della siesta, tra il lavoro del mattino e quello del pomeriggio. I più saggi forse, distesi nei giardinetti o seduti davanti alla loro porta, ne assaporavano gli ultimi languori, dimentichi delle preoccupazioni recenti, indifferenti per quelle a venire. Altri invece ne approfittavano per fare dei programmi, con la testa fra le mani. Non ce n'era neanche uno, forse, capace di mettersi al mio posto, per sentire quant'ero poco, a quest'ora, quello che avevo l'aria d'essere, e in questo poco che potenza c'era, di gomene tese a spezzarsi? Possibilissimo. Sì, tiravo verso questa menzognera profondità, dai menzogneri portamenti di gravità e di pace, mi ci slanciavo con tutti i miei vecchi veleni, sapendo di non rischiare nulla. Sotto il cielo azzurro, sotto l'occhio del guardiano. Dimentico di mia madre, liberato dall'agire, fuso nell'ora degli altri, dicendo tra me un po' di riposo, riposo. Arrivato al posto di guardia, fui introdotto di fronte a un funzionario sorprendente. Vestito in borghese, in maniche di camicia, era stravaccato in una poltrona, con i piedi sulla scrivania, un cappello di paglia in testa e con in bocca un oggetto minuscolo e flessibile che non riuscii a identificare. Questi particolari, ebbi il tempo di registrarli, prima che mi congedasse. Ascoltò il rapporto del subordinato, poi cominciò ad interrogarmi con un tono che, dal punto di vista della correttezza, lasciava sempre più a desiderare, a parer mio. Tra le sue domande e le mie risposte, parlo di quelle che meritano di essere prese in considerazione, c'erano degli intervalli più o meno lunghi e rumorosi. Son così poco abituato al fatto che mi si chieda qualcosa che quando mi si chiede qualcosa ci metto un po' a sapere che cosa sia. E il mio torto è che invece di riflettere tranquillamente su quel che ho appena sentito, e che sento perfettamente bene, avendo l'udito abbastanza fine, malgrado la sua vetustà, mi affretto invece a rispondere una cosa qualunque, per paura che il mio silenzio non spinga al colmo la collera del mio interlocutore. Io sono un pauroso, tutta la mia vita l'ho vissuta nella paura, quella d'essere picchiato. Gli insulti, le invettive, li sopporto facilmente, ma ai colpi non mi ci son mai potuto abituare. È proprio strano. Anche gli sputi mi fanno ancora un po' soffrire. Ma mi si tratti con un po' di dolcezza, voglio dire ci si trattenga dal trattarmi duramente, ed è raro che, alla fin fine, non riesca a rispondere. Ora, il commissario s'accontentava di minacciarmi con un piccolo bastone cilindrico, dimodoché ebbe il vantaggio di apprendere, a poco a poco, che io non possedevo delle carte nel senso in cui questa parola aveva un senso per lui, né occupazione, né domicilio, che il nome di famiglia per il momento mi sfuggiva e che mi recavo da mia madre, alle cui spese agonizzavo. Quanto all'indirizzo di quest'ultima, non lo sapevo, ma sapevo andarci benissimo, anche al buio. Il rione? Quello dei macelli, mio signore, perché dalla stanza di mia madre, attraverso le finestre chiuse, più forte del suo chiacchiericcio, avevo sentito il mugghiare dei bovini, quel muggito violento, rauco e tremulo che non è quello dei pascoli, ma quello delle città, dei macelli e mercati di bestiame. Sì, ripensandoci era forse un po' troppo affrettato dire che mia madre abitava vicino ai macelli, perché poteva essere benissimo anche il mercato del bestiame, quello presso il quale lei abitava. Tranquillizzatevi, disse il commissario, si tratta dello stesso rione. Il silenzio che seguì queste dolci parole, lo impiegai per girarmi verso la finestra, veramente senza vedere nulla, perché avevo chiuso gli occhi, offrendo solamente a questa dolcezza d'azzurro e d'oro la faccia e la gola, e anche la mente vuota, o quasi, perché probabilmente mi stavo chiedendo se non avevo voglia di sedermi, dopo tanto tempo in piedi, e mi ricordavo quel che avevo imparato a questo proposito, vale a dire che lo star seduto non era più una posizione per me, per via della mia gamba corta e rigida, e che c'erano solo due posizioni per me, quella verticale, a piombo tra le stampelle, coricato in piedi, e l'orizzontale, per terra. E tuttavia la voglia di sedermi ogni tanto mi tornava, mi ritornava da un mondo scomparso. E non sempre riuscivo a resisterle, pur esperto com'ero. Sì, questo sedimento la mia mente lo sentiva di certo muoversi in chissà qual maniera, come dei sassolini in fondo a una pozzanghera, mentre fra i miei lineamenti e sul mio grosso pomo d'Adamo gravitavano il cielo superbo e l'aria estiva. E di colpo mi ricordai il mio nome, Molloy. Mi chiamo Molloy, esclamai, tutt'a un tratto, Molloy, mi è tornato in mente proprio adesso. Nulla mi obbligava a fornire quest'informazione, ma io la fornii, certo sperando di far piacere. Mi si lasciava tenere il cappello in testa, mi chiedo perché. È il nome della vostra mamma? disse il commissario. Cosa? dissi io. Vi chiamate Molloy, disse il commissario. Sì, dissi io, mi è tornato in mente proprio adesso. E la vostra mamma? disse il commissario. Non riuscivo ad afferrare. Si chiama Molloy anche lei? Si chiama Molloy? dissi io. Sì, disse il commissario. Mi misi a riflettere. Voi vi chiamate Molloy, disse il commissario. Sì, dissi io. E la vostra mamma, disse il commissario, si chiama —. Lasciatemi riflettere! sbottai io. Insomma mi pare che andasse proprio così. Riflettete, disse il commissario. Mamma si chiamava Molloy? Forse. Deve chiamarsi Molloy anche lei, dissi. Mi condussero via, nella sala di guardia credo, e là mi dissero di sedermi. Ci si spiegò. Riassumo. Ottenni il permesso, se non di distendermi su una panca, almeno di restare in piedi, appoggiato al muro. La sala era tetra e percorsa in ogni senso da gente frettolosa, malfattori, poliziotti, legali, preti e giornalisti, suppongo. L'insieme era tetro, forme tetre pigiate in uno spazio tetro. Non facevano attenzione a me e io facevo lo stesso con loro. Allora come potevo sapere che non facevano attenzione a me e come potevo fare io lo stesso, dato che non facevano attenzione a me? Non lo so. Lo sapevo e mi comportavo con loro nella stessa maniera, questo è quanto. Ma ecco d'improvviso sorgere davanti a me una donna grande e grossa vestita di nero, o meglio di bruno. Ancor oggi mi chiedo se non fosse proprio l'assistente sociale. Mi porgeva una tazza piena di una broda grigiastra che doveva esser tè verde saccarinato, con latte in polvere, sopra un piattino scompagnato. E non era tutto, perché tra la puzza e il piattino si ergeva precariamente una grossa fetta di pan secco, per cui cominciai a dire tra me, con una specie d'angoscia, adesso cade, adesso cade, come se importasse qualcosa, che cadesse o no. Un attimo dopo io stesso tenevo, nelle mie mani tremanti, questo mucchietto di roba eterogenea e dondolante, in cui si trovavano accanto il duro, il liquido e il molle, e senza capire in che modo si fosse effettuato il trasferimento. Adesso vi dico una cosa, quando le assistenti sociali vi offrono qualcosa per non crepare, a titolo gratuito, cosa che costituisce per loro un'ossessione, non serve a niente fuggire. V'inseguiranno fino ai confini della terra, con l'emetico in mano. Quelli della salvezza non valgono molto di più. No, contro il gesto caritatevole non esiste riparo, che io sappia. Si china la testa, si tendono le mani tutte tremanti e incrociate e si dice grazie, grazie signora, grazie buona signora. A chi non ha niente è proibito non amare la merda. Il liquido straripava, la tazza vacillava con un rumore di denti che battono, non erano i miei, io non ne avevo, e il pane sgocciolante s'inclinava sempre di più. Fino al momento in cui, al colmo dell'inquietudine, buttai il tutto lontano da me. Non lo lasciai proprio cadere, no, ma con una spinta convulsa delle mie mani lo spedii a fracassarsi per terra, o contro il muro, lontano da me quanto le forze me lo permettevano. Non starò a dire il seguito, perché sono stufo di questo posto e voglio andare altrove. Il pomeriggio era assai avanzato quando mi dissero che potevo andarmene. Mi fu fatta la raccomandazione di comportarmi meglio per l'avvenire. Conscio della mia colpa, sapendo adesso per quali motivi mi avessero arrestato, sensibile alle irregolarità che il mio interrogatorio aveva messo in luce, mi stupii di ritrovar così presto la libertà, se poi proprio lo era, e senza che si fosse accennato alla minima sanzione. Avevo, senza saperlo, un protettore in alto loco? Avevo imposto rispetto al commissario, a mia insaputa? Erano riusciti a raggiungere mia madre e a far confermare da lei, o dalla gente del rione, una parte delle mie dichiarazioni? Ritenevano che non valesse la pena di procedere contro di me in tribunale? Castigare sistematicamente un tipo come me, non è comodo. Capita, ma la saggezza lo sconsiglia. È preferibile rimettersi agli agenti. Non so. Se aver la carta d'identità è obbligatorio, come mai non insistettero perché me la procurassi? Perché costa quattrini e io non ne avevo? In tal caso non avrebbero potuto prendermi la bicicletta? Probabilmente no, senza un decreto del tribunale. Tutto ciò è incomprensibile. Quel che è certo, è che non mi sono mai più riposato in quel modo, con i piedi oscenamente posati per terra, le braccia sul manubrio e la testa sulle braccia, abbandonata e dondolante. Effettivamente era proprio un triste spettacolo, e un triste esempio, per i cittadini, che hanno invece tanto bisogno d'essere incoraggiati, nella loro dura fatica, e di vedere intorno a sé soltanto manifestazioni di forza, di gioia e di spavalderia, senza le quali sarebbero capaci di crollare per terra, alla fine della giornata. Non c'è che da insegnarmi in che cosa consista la buona condotta perché mi comporti bene, nella misura in cui il mio fisico me lo permette. Così non ho mai smesso di migliorarmi, da questo punto di vista, perché io — io ero intelligente e sveglio. E quanto a buona volontà, straripavo di buona volontà, io, quella esasperata degli ansiosi. Dimodoché il mio repertorio di contegni consentiti non ha mai smesso d'arricchirsi, dai miei primi passi fino agli ultimi, effettuati l'anno scorso. E se mi son sempre comportato come un porco, la colpa non è mia, ma dei miei superiori, che mi correggevano soltanto su dei punti particolari invece di mostrarmi l'essenza del sistema, come si fa nei grandi collegi anglosassoni, e i princìpi da cui derivano le buone maniere e il modo di passare, senza sbagliarsi, da quelli a queste, e di risalire alle origini partendo da un dato atteggiamento. Perché ciò mi avrebbe permesso, prima di mostrare in pubblico certi modi di fare dettati dalla pura comodità del corpo, come le dita nel naso, la mano sotto i coglioni, il soffiarsi il naso senza fazzoletto e la pisciata ambulante, di riferirmi alle regole fondamentali di una teoria ragionata. Sì, avevo in proposito soltanto delle osservazioni negative ed empiriche, il che significa che, il più delle volte, ero all'oscuro, e tanto più profondamente quanto più le mie osservazioni, raccolte durante tutto il secolo, mi mettevano nella disposizione di dubitare persino delle fondamenta delle buone maniere, anche in uno spazio ristretto. Ma è solo da quando non vivo più che penso, a queste e alle altre cose. Solo nella tranquillità della decomposizione mi ricordo questa lunga emozione confusa che fu la mia vita, e la giudico, come sta scritto che Dio giudicherà noi e con altrettanta impertinenza. Certo, decomporsi è vivere ancora, lo so, lo so, non tormentatemi, ma non si è ancora tutti interi. D'altronde anche su quella vita avrò forse la bontà d'intrattenervi un bel giorno, il giorno in cui saprò che presumendo di sapere non facevo che esistere e che la passione senza forma né sosta mi avrà mangiato persino le carni imputridite e che sapendo ciò io non so niente, che non faccio altro che gridare, più o meno forte, più o meno apertamente. Allora gridiamo, si pensa che faccia bene. Sì, gridiamo, stavolta, poi forse ancora un'altra. Gridiamo che il sole declinante batteva in pieno sulla bianca facciata del posto di guardia. Si sarebbe creduto d'essere in Cina. Un'ombra complicata vi si disegnava sopra. Ero io e la mia bicicletta. Mi misi a giocare, gesticolando, agitando il cappello, facendo andare e venire la bicicletta davanti a me, avanti, indietro, strombettando. Stavo a guardare il muro, io. Mi stavano guardando dalle finestre munite d'inferriate, sentivo i loro occhi su di me. L'agente di guardia davanti alla porta mi disse di filare. Mi sarei calmato da solo. L'ombra alla fine non è poi molto più divertente del corpo. Chiesi all'agente di aver compassione di me, di aiutarmi. Lui non capiva. Rimpiangevo lo spuntino dell'assistente sociale. Cavai un sasso di tasca e mi misi a succhiarlo. Era liscio a furia d'esser stato succhiato, da me, e di esser stato fatto rotolare, dalla tempesta. Un sassolino rotondo e liscio, in bocca, calma davvero, rinfresca, sopisce la fame, inganna la sete. L'agente veniva verso di me, era la mia lentezza a indispettirlo. Osservavano anche lui, dalle finestre. Qualcuno rideva. Anche in me c'era qualcuno che rideva. Presi la mia gamba malata in mano e la feci passare sopra il telaio. Partii. Avevo dimenticato dove andavo. Mi fermai per pensarci su. Per me è difficile riflettere pedalando. Quando voglio riflettere pedalando, perdo l'equilibrio e cado. Parlo al presente, è così facile parlare al presente, quando si tratta del passato. Si tratta del presente mitologico, non fateci caso. Mi ammucchiavo già nella mia stasi di cencio quando mi ricordai che era una cosa da non fare. Ripresi la mia strada, questa strada di cui non sapevo nulla, in quanto strada, che era solo una superficie chiara o scura, liscia o accidentata, e sempre cara a pensarci bene, e questo caro rumore della cosa che scorre e che una breve polvere saluta, quando è asciutto. Eccomi, senza ricordarmi d'esser uscito dalla città, sulle sponde del canale. Il canale attraversa la città, lo so, lo so, ce n'è anzi due. Ma allora queste siepi, questi campi? Non tormentarti, Molloy. Di botto vedo, era proprio la gamba destra quella rigida, a quell'epoca. Penosamente vidi lungo l'alzaia venire verso di me un tiro di asinelli grigi, sull'altra riva, e intesi delle grida di collera e dei colpi sordi. Misi il piede a terra per veder meglio la chiatta che si avvicinava, così adagio da non increspare l'acqua. Era carica di legname e di chiodi, di certo destinata a qualche falegname. Il mio sguardo incrociò lo sguardo di un asino, abbassai gli occhi verso i suoi passettini delicati e buoni. Il nocchiero appoggiava il gomito sui ginocchi, la testa sulla mano. Ogni tre o quattro boccate, senza togliersi la pipa di bocca, sputava nell'acqua. Il sole esponeva all'orizzonte i suoi colori di zolfo e di fosforo, verso quelli io andavo. Finalmente smontai di sella, raggiunsi saltellando il fosso e mi coricai, accanto alla bicicletta. Mi ci coricai lungo disteso, con le braccia incrociate. Il candido biancospino s'inclinava verso di me, disgraziatamente l'odore del biancospino non mi va. Nel fosso l'erba era folta e alta, mi tolsi il cappello e mi sistemai i lunghi steli fronzuti tutt'intorno alla faccia. E allora sentivo la terra, l'odore della terra era nell'erba, che le mani m'intrecciavano sulla faccia, in modo da esserne accecato. Ne mangiai anche un po'. In un modo altrettanto incomprensibile come poco prima col mio nome, mi rammentai ch'ero partito per andare a trovar mia madre, al mattino di questa giornata ormai al tramonto. Le ragioni? Le avevo dimenticate. Ma le conoscevo, credevo di conoscerle, non avevo che da ritrovarle per volare da mia madre sulle ali di gallina della necessità. Sì, appena si sa il perché tutto diventa facile, una semplice questione di magia. Sapere a che santo votarsi, non importa quale, è tutto lì. Quanto ai particolari, se ci si interessa dei particolari, non c'è da disperarsi, si può finire per bussare alla porta giusta, nella maniera giusta. È solo per l'insieme che sembra non esistere un incantesimo. Forse l'insieme non c'è, se non postumo. Non c'è bisogno d'esser poi tanto furbi per trovare un calmante alla vita dei morti. Che cos'aspetto; allora, per esorcizzare la mia? Arriva, arriva, sento già l'urlo alla gola che calmerà tutto, anche se non sarò io a proferirlo. Inutile frattanto sapersi defunti, quando s'aspetta, non lo si è, ci si contorce ancora, i capelli crescono, le unghie si allungano, le interiora si svuotano, tutti i beccamorti sono morti. Qualcuno ha calato la tela, forse se stesso. Non il minimo rumore. Dove sono le mosche di cui si è tanto sentito parlare? Ci si arrende all'evidenza, non siamo noi ad essere morti, son tutti gli altri. Allora ci si alza e si va dalla propria madre, che crede d'essere viva. Ecco la mia impressione. Ma adesso bisognerà che me ne esca da questo fosso. Vi sparirei dentro volentieri, sprofondandomi sempre più sotto l'influsso delle piogge. Un giorno tornerò di sicuro laggiù, o in una depressione analoga, ho fiducia nei miei piedi per questo, come un giorno troverò di certo il commissario e i suoi aiutanti. E se, troppo mutato per riconoscerli, non indicherò che sono proprio gli stessi, non lasciatevi ingannare, saranno proprio gli stessi, benché mutati. Perché il piantare in asso un essere, un sito, stavo per dire un'ora, ma non voglio offendere nessuno, e poi non servirsene più, sarebbe, come dire, non lo so. Non voler dire, non sapere quel che si vuol dire, non poter dire quel che si crede di voler dire, e sempre dire o quasi, ecco quel che conta non perder di vista, nell'ardore della stesura. Quella notte non fu come l'altra, se lo fosse stata l'avrei saputo. Perché quando provo a pensare a quella notte che trascorsi sulla sponda del canale, non ci trovo niente, nessuna notte vera e propria, soltanto Molloy nel fosso, e un perfetto silenzio, e dietro le mie palpebre chiuse la piccola notte in cui delle macchie chiare nascono, fiammeggiano, si estinguono, ora vuote, ora popolate, come la fiamma di spazzature di santi. Dico quella notte, ma forse ce ne furono parecchie. Falsiamo, falsiamo, il pensiero traditore. Ma la mattina, una mattina, la riconosco, la mattina già inoltrata, e il sonnellino che feci allora, secondo la mia abitudine, e lo spazio ritornato sonoro, e il pastore che mi guardava dormire e sotto i cui occhi aprii gli occhi. Accanto a lui un cane ansante, che mi guardava anch'esso, ma meno fissamente del padrone, perché ogni tanto smetteva di guardarmi per mordicchiarsi furiosamente le carni, probabilmente nei punti in cui le zecche lo assoggettavano a tributo. Che mi scambiasse per un montone nero impigliato tra i rovi e che aspettasse l'ordine del padrone per tirarmi fuori di lì? Non credo. Non puzzo di montone, mi piacerebbe molto puzzare di montone, o di caprone. Le prime cose che mi si offrono, al risveglio, le vedo abbastanza nitide, e le capisco, quando non sono troppo difficili. Poi nei miei occhi e nella testa comincia a cadere una pioggerellina, come da una rosetta d'annaffiatoio. Ecco una costatazione importante. Dunque seppi subito che era un pastore col suo cane a star davanti a me, anzi sopra di me, dato che non avevano abbandonato la strada. E anche il belare del gregge, inquieto di non sentirsi più tallonato, lo identificai senza fatica. È proprio in questi momenti che il senso delle parole mi è meno oscuro del solito, cosicché dissi, con tranquilla sicurezza: Dove le conducete, ai campi o al macello? Dovevo aver perso tutto il senso della direzione, come se ciò avesse a che fare con la domanda, la direzione. Perché anche se si dirigeva verso la città, che cosa gli avrebbe impedito d'aggirarla, o di uscirne da un'altra porta, per raggiungere dei pascoli freschi, e se invece se ne allontanava non voleva dire niente lo stesso, perché di macelli non ce n'è solo nelle città, ma se ne trovano dappertutto, anche nelle campagne, ogni macellaio ha il proprio macello e il diritto di macellare, secondo le proprie necessità. Ma sia che non capisse, sia che non volesse rispondere, lui non rispose, ma se ne andò senza dir parola, senza dire una parola per me voglio dire, perché al suo cane parlò e questi lo stette ad ascoltare attentamente, con le orecchie ritte. Mi misi in ginocchio, no, così non va, mi misi ritto in piedi e osservai la piccola carovana allontanarsi. Lo udii fischiare, il pastore, e gli vidi fare dei mulinelli col suo bordone, mentre il cane s'indaffarava attorno al gregge, che senza di lui sarebbe finito di sicuro nel canale. Tutto ciò attraverso una polvere scintillante e ben presto anche attraverso quell'acquerugiola che mi mette ogni giorno in balia di me stesso e mi vela tutto il resto e mi vela a me stesso. I belati si calmavano, o perché i montoni erano meno inquieti, o perché si allontanavano, o forse sentivo meno distintamente di poco prima, il che mi stupirebbe, perché io ho ancora l'udito abbastanza fine, appena un poco affievolito verso l'alba, e se mi capita di non sentir niente per delle ore, questo succede per motivi che mi son proprio sconosciuti, oppure perché ogni tanto intorno a me tutto diventa davvero silenzioso, mentre per i giusti i rumori del mondo non smettono mai. Ed ecco in che modo esordì questa seconda giornata, a meno che fosse la terza o la quarta, e fu un brutto esordio, perché insinuò in me una perplessità assai duratura, rispetto alla destinazione di quei montoni in mezzo ai quali si trovavano degli agnelli, e spesso mi chiedevo se fossero giunti in qualche libero pascolo o invece caduti, col cranio fracassato, in un dibattersi delle zampe sottili, prima in ginocchio, poi sul fianco lanoso, sotto la mazza. Ma hanno anche il lato buono, le piccole perplessità. Che paese rurale. Dio mio, si vedono quadrupedi dappertutto. E non basta, ci sono anche i cavalli e le capre, tanto per citar solo questi, sì, li sento che mi aspettano al varco, per mettersi di traverso sulla mia strada. Non ho bisogno di questo. Ma non perdevo di vista la meta del mio sforzo immediato, raggiungere cioè mia madre nella maniera più rapida possibile, e ritto nel fosso chiamai in aiuto i buoni motivi che avevo per andarci, senza perdere un attimo. E se ero capace di far molte cose senza stare a pensarci, senza sapere quel che stavo per fare se non quando era fatto, e neanche allora, l'andar via da mia madre non era fra queste. I piedi, vedete, non mi portavano mai da mia madre senza un'ingiunzione, in proposito, da molto più in alto. Chiunque altro, al mio posto, si sarebbe rallegrato del tempo delizioso, proprio delizioso. Ma io, del sole, non mi rallegro affatto, ed evito di farlo. L'Egeo, assetato di calore, di luce, io l'uccisi, si uccise lui, ben presto, in me. Le pallide ombre dei giorni di pioggia erano molto più di mio gusto, no, mi esprimo male, neppure adatte al mio umore, non avevo né gusti né umori, li ho persi ben presto. Forse quel che voglio dire è che le pallide ombre, ecc., mi nascondevano meglio, senza per questo apparirmi particolarmente gradevoli. Mimetico suo malgrado, ecco Molloy, visto da una certa prospettiva. E durante l'inverno mi avvolgevo, sotto il mantello, con strisce di giornale, e me ne sbarazzavo soltanto al risveglio della terra, quello vero, in aprile. Il Supplemento Letterario del Times era eccellente a tale scopo, di una solidità e non porosità a tutta prova. I peti non lo stracciavano. Che volete, il gas mi esce dal culo in qualsiasi circostanza, sono quindi proprio obbligato ad alludervi ogni tanto, malgrado la ripugnanza che m'ispira. Una volta li contai. Trecentoquindici peti in diciannove ore, cioè una media di sedici peti all'ora. Non è un'enormità, dopo tutto. Quattro peti ogni quarto d'ora. È una cosa da nulla. Neanche un peto ogni quattro minuti. È davvero incredibile. Via, via, non sono che un mediocre scoreggiatore, ho fatto male a parlarne. È straordinario come le matematiche ti aiutino a conoscerti. D'altronde tutto questo problema di clima non m'interessava affatto, io m'adattavo in tutte le salse. Aggiungerò dunque soltanto che al mattino, in questa regione, c'era spesso il sole fino alle dieci, dieci e mezzo, e che da quel momento il cielo si copriva e pioveva, pioveva fino a sera. Allora il sole usciva e tramontava, la terra fradicia scintillava per un attimo, poi si spegneva, priva di luce. Eccomi dunque di nuovo in sella, con una punta d'inquietudine nel cuore inebetito, quella del malato di cancro costretto a consultare un dentista. Perché non sapevo se ero sulla buona strada. È raro che una strada qualsiasi non mi vada bene. Ma quando andavo da mia madre c'era soltanto una strada buona, quella che mi ci portava, o una di quelle che mi ci portavano, perché non tutte portavan da lei. Non sapevo se ero su una delle strade buone e questo mi angustiava, come succede per ogni richiamo alla vita. Giudicate dunque il mio sollievo allorché a cento passi da me vidi sorgere le porte familiari. Dopo averle varcate, mi trovai in un rione sconosciuto, proprio io che pure conoscevo bene questa città, dov'ero nato e dalla quale non ero mai riuscito ad allontanarmi più di quindici o venti miglia, tant'era forte l'attrazione che esercitava su di me, non so perché. Cosicché non ero lungi dal chiedermi se mi trovavo veramente nella città giusta, quella che mi aveva dato al buio e che in qualche posto racchiudeva ancora mia madre, o se non ero capitato, in seguito ad un errore di manovra, in un'altra città, di cui ignorassi persino il nome. Perché conoscevo soltanto la mia città natale, non avendo mai messo piede in nessun'altra. Ma avevo letto attentamente, al tempo in cui sapevo leggere, dei racconti di viaggiatori più fortunati di me, in cui si parlava di altre città belle quanto la mia, e anche più belle, benché di una bellezza diversa. E di questa città, la sola che mi sia stato dato di conoscere, cercavo il nome nella mia memoria, con l'intenzione, una volta trovato, di fermarmi e di dire a un passante, levandomi il cappello, Perdonate, Signore, è proprio X questa, essendo X il nome della mia città. Questo nome che cercavo, mi sembra che cominciasse proprio per B o per P, ma nonostante quest'indizio, o forse proprio perché era sbagliato, le altre lettere continuavano a sfuggirmi. Da tanto tempo vivevo lontano dalle parole, che, capite bene, mi bastava vedere la mia città ad esempio, perché qui si tratta della mia città, per non essere capace, capite bene. È troppo difficile da dire, per me. E nello stesso modo la sensazione della mia persona s'avvolgeva in un anonimato spesso difficilmente penetrabile, l'abbiamo appena visto credo. E così via per tutte le altre cose che si facevan beffe dei miei sensi. Sì, anche a quel tempo, in cui tutto andava già sfumando, onde e particelle, la condizione dell'oggetto era quella d'esser senza nome e viceversa. Dico questo adesso, ma in fondo cosa ne so adesso, di quel tempo, adesso che grandinano su di me le parole dal senso congelato e che anche il mondo muore, vilmente, pesantemente nominato? So quel che sanno le parole e le cose morte e questo costituisce una bella somma, con un inizio, un mezzo e una fine, come nelle frasi ben costruite e nella lunga sonata dei cadaveri. E che io dica una cosa o un'altra o ancora un'altra, importa poco davvero. Dire è inventare. Falso per l'appunto. Non s'inventa nulla, si crede d'inventare, di evadere, non si fa che balbettare la propria lezione, dei frammenti di un compito imparato e dimenticato, la vita senza lacrime, così come la si piange. E poi al diavolo. Suvvia, vediamo. Incapace di ricordarmi il nome della mia città, decisi di fermarmi al bordo del marciapiede, di aspettare un passante dall'aria gentile e istruita, di levarmi il cappello e di dirgli, sorridendo, Perdonate, Signore, scusatemi, Signore, per favore, quale è il nome di questa città? Perché una volta sfuggita la parola avrei saputo se era appunto la parola che cercavo nella mia memoria, o un'altra. In tal modo sarei stato sicuro. Questa decisione, che giunsi a formulare sempre pedalando, fu ostacolata nell'esecuzione da un'assurda disdetta. Effettivamente le mie decisioni avevano questo di particolare, che appena prese sopraggiungeva un incidente incompatibile con la loro esecuzione. Senza dubbio è questo il motivo per cui sono ancor meno deciso adesso che al tempo di cui sto parlando e che in quel tempo lo ero relativamente poco rispetto a prima. Ma a dire il vero (a dire il vero!) non sono mai stato particolarmente deciso, voglio dire incline a prender delle decisioni, ma semmai disposto ad affondar nella merda a testa bassa, senza sapere chi fosse a cacare e su chi, né da che parte avessi interesse a imboscarmi. Ma nemmeno da questa inclinazione riuscivo ad ottenere qualche soddisfazione e se non ne sono mai completamente guarito non è stato proprio per mancanza di volontà. Fatto sta, si direbbe, che tutto quel che si può sperare è di essere un po' meno, alla fine, quel che si era all'inizio, e in seguito. Perché non appena ebbi stabilito, nella mia testa, il mio piano, andai a sbattere violentemente contro un cane, lo seppi più tardi, e capitombolai per terra, balordaggine tanto più imperdonabile in quanto il cane, al guinzaglio, non si trovava affatto in mezzo alla strada ma sul marciapiede, trotterellando buono buono accanto alla sua padrona. La precauzioni sono, come le decisioni, da prendere con precauzione. Questa signora credeva probabilmente di non aver lasciato nulla in balla del caso quanto alla sicurezza del suo cane, mentre in realtà non faceva che sfidare l'intera natura, tale quale come facevo io con le mie folli pretese di mettere in chiaro qualcosa. Ma a mia volta invece di strisciare, facendo valere l'età avanzata e le infermità che avevo, aggravai la situazione cercando di fuggire. Fui presto raggiunto, da una piccola muta di giustizieri d'ambo i sessi e d'ogni età, perché intravvidi delle barbe bianche e dei musetti quasi innocenti, e già stavano adoprandosi per farmi a pezzettini allorché la signora intervenne. In sostanza disse, me lo disse lei più tardi, e io le diedi retta, Lasciate stare questo povero vecchio. Ha ucciso Teddy, ormai è fatto, Teddy che amavo come un figlio, ma è meno grave di quel che sembri, perché lo conducevo da un veterinario, per porre fine alle sue sofferenze. Perché Teddy era vecchio, cieco, sordo, rattrappito dai reumatismi e la faceva continuamente, di giorno e di notte, in casa e in giardino. Questo povero vecchio mi ha quindi evitato un viaggio penoso, per non dire della spesa che non sono in grado di sopportare, avendo come unica risorsa la pensione di guerra del mio caro defunto, morto per una patria che diceva d'esser sua e dalla quale da vivo non cavò mai il minimo tornaconto, ma soltanto oltraggi e bastoni fra le ruote. L'assembramento si stava già sciogliendo, il pericolo era passato, ma la signora era ormai lanciata. Mi direte, disse, che egli ha fatto male a prender la fuga, che avrebbe dovuto farmi delle scuse, spiegarsi. D'accordo. Ma si vede che non ha la testa del tutto a posto, che non si controlla più, per delle ragioni che non conosciamo e che forse ci farebbero vergognare tutti, se le conoscessimo. Anzi mi chiedo se sa quel che fa. Una tal noia si sprigionava da quella voce monotona che stavo per riprender la mia strada allorché mi sorse davanti l'immancabile guardia municipale. Questa avventò pesantemente sul manubrio la sua grossa zampa rossa e pelosa, lo notai io stesso, e a quanto pare ebbe con la signora la conversazione seguente. Pare che quest'individuo abbia schiacciato il vostro cane, Signora. È esatto, e con questo? No, non posso riferire queste sciocche battute. Dirò dunque soltanto che la guardia municipale finì anch'essa per disperdersi, la parola non è esagerata, bofonchiando, seguita dagli ultimi bighelloni che non potevano più sperare che andasse a finire male per me. Ma quello si voltò e disse, Portate via immediatamente il vostro cane. Libero finalmente di andarmene mi misi in posizione di farlo. Ma la signora, una Signora Loy, tanto vale dirlo subito, o Lousse, non so più, dal nome sul tipo di Sofia, mi


icendo, se si fa l'aipotesi che l'ultima volta fosse proprio la stessa frase della prima, Signore, ho bisogno di voi. E vedendo certo dalla mia espressione, che mi tradisce facilmente, che avevo capito, probabilmente disse fra sé, Se capisce questo, può capire il resto. Non s'ingannava, perché nel giro in un certo tempo mi trovai in possesso di certe idee o punti di vista che potevano essermi venuti solo da lei, che cioè, avendo ucciso il suo cane, era mio dovere aiutarla a riportarlo a casa sua e a seppellirlo, che lei non voleva far denunce per quel che avevo fatto, ma che non sempre si faceva quel che non si voleva, che le ero simpatico malgrado il mio aspetto ributtante e che lei avrebbe gradito aiutarmi, e non so più cos'altro ancora. Ah sì, a quanto pareva anch'io avevo bisogno di lei per chissà quali motivi. Deve avermeli esposti, perché si trattava proprio di un'insinuazione che non potevo decentemente passare sotto silenzio, come avevo passato sotto silenzio il resto, e io non mi scomodai per dirle che non avevo bisogno né di lei né di nessuno, cosa forse un po' esagerata, perché probabilmente avevo bisogno di mia madre, se no perché accanirmi tanto per andare da lei? Questa è una delle ragioni per cui evito il più possibile di parlare. Perché mi capita sempre di dire troppo o troppo poco, cosa che mi cruccia, tanto sono innamorato della verità. E non abbandonerò quest'argomento, sul quale non avrò sicuramente mai più occasione di ritornare, tanto s'addensano le nuvole, prima d'aver fatto questo curioso rilievo, che, al tempo in cui parlavo ancora, mi capitava spesso d'aver detto troppo credendo d'aver detto troppo poco e d'aver detto troppo poco credendo d'aver detto troppo. Voglio dire che a ripensarci, o meglio a lungo andare, i miei eccessi verbali si dimostravano delle povertà e viceversa. Curioso rovesciamento, nevvero, operato dal semplice passare del tempo. In altri termini, qualunque cosa dicessi, non era mai abbastanza né abbastanza poco. Non stavo zitto, ecco, qualunque cosa dicessi non stavo zitto. Divina analisi, come vi aiuta ciò a conoscer voi stessi e pertanto i vostri simili, se ne conoscete. Perché dicendo di non aver bisogno di nessuno, non era troppo quel che dicevo, ma un'infima parte di quel che avrei dovuto dire, che non avrei saputo dire, che avrei dovuto tacere. Bisogno di mia madre! Sì, propriamente ineffabile, l'assenza di bisogno in cui naufragavo. Dimodoché probabilmente ella dovette dirmi, adesso parlo di nuovo di Sofia, le ragioni per cui io avevo bisogno di lei, dato che mi ero permesso di contraddirla su quest'argomento. E con un po' di fatica le ritroverei forse, grazie, ma non sarò di sicuro io a far fatica. Ne ho abbastanza di questo viale, doveva esser proprio un viale, di questi giusti che passano, di questi agenti che ti aspettano al varco, di tutti questi piedi, queste mani acciaccanti, protese, deluse di non pestare, di queste bocche che non osano urlare se non a ragion veduta, di questo cielo che si mette a gocciolare, abbastanza di esser fuori, circondato, visibile. Un signore spostava il cane, con l'estremità del suo bastoncino. Era un cane completamente giallo, senza dubbio bastardo, distinguo a malapena i cani bastardi da quelli di razza. Probabilmente aveva sofferto meno lui per la propria morte di quanto avessi sofferto io per la mia caduta. E poi era morto. Lo mettemmo di traverso sul sellino e partimmo, chissà come, aiutandoci l'uno con l'altro immagino, per tener su il cadavere, per far procedere la bicicletta, per procedere noi stessi, attraverso la folla beffarda. La casa di Sofia — no, non posso più chiamarla così, ora provo a chiamarla Lousse, Lousse e basta — la casa di Lousse non era lontana. Oh non era neanche vicina, avevo ciò che mi meritavo arrivandoci. Cioè non l'avevo realmente. Si crede di aver ciò che ci si merita, ma è raro che lo si abbia davvero. È proprio perché mi reputavo arrivato che avevo quel che mi meritavo, avrei dovuto fare un miglio di più e avrei avuto quel che mi meritavo solo un'ora più tardi. Ecco come siamo. Questa casa, devo descriverla? Non credo. Non ne farò nulla, questo per ora è tutto quel che so. Forse più tardi, a mano a mano che l'andrò scoprendo. È difficile deciderlo. Prima sotterriamo rapidamente il cane. Fu lei a scavare la buca, sotto un albero. Si sotterra sempre il proprio cane sotto un albero, non so perché. Cioè la mia idea ce l'ho. Fu lei a scavare la buca perché io, benché fossi l'uomo, non avrei potuto farlo, per via della gamba. Cioè avrei potuto scavare con una paletta, ma con una vanga no. Perché quando si vanga una gamba sopporta il peso del corpo mentre l'altra, piegandosi e stendendosi, affonda la vanga nella terra. Ora, la mia gamba malata, non so più quale, non conta in questo caso, non era in grado né di vangare, perché era rigida, né di servirmi da sola come sostegno, perché si sarebbe spezzata. Disponevo per così dire soltanto di una gamba, ero moralmente unigambista, e sarei stato più felice, più lieve, amputato all'altezza dell'inguine. E se m'avessero contemporaneamente asportato qualche testicolo non avrei detto niente. Perché dai miei testicoli, ballonzolanti a mezza coscia all'estremità di un magro cordone, non c'era più niente da cavare, al punto da non aver più voglia di cavarne qualcosa ma di vederli semmai sparire, questi testimoni d'accusa di difesa della mia lunga imputazione. Perché se mi accusavano d'averli coglionati, se ne congratulavano pure con me, dal fondo della loro sacca scoppiata, quello destro più basso del sinistro, o viceversa, non so più, fratelli da circo. E cosa ancor più grave, mi davano fastidio nel camminare e nel sedermi, come se non fosse bastata la gamba malata, e quando andavo in bicicletta s'ammaccavano dappertutto. Avevo dunque interesse perché sparissero e me ne sarei incaricato io stesso, con un coltello o una forbice da giardiniere, se non ci fosse stata la tremenda paura del dolore fisico e delle piaghe infette. Sì, per tutta la vita sono vissuto nel terrore delle piaghe infette, proprio io che non m'infettavo mai, tant'ero acido. La mia vita, la mia vita, ora ne parlo come di una cosa finita, ora come di uno scherzo che dura ancora, e ho torto, perché è finita e dura nello stesso tempo, ma allora con quale tempo del verbo si può esprimere questo? Orologio che, prima di morire, l'orologiaio seppellisce dopo averlo ricaricato, e i cui ingranaggi contorti un giorno parleranno di Dio, ai vermi. Ma dovevo avere in fondo un certo attaccamento per questi coglioni, tenerci come altri ci tengono alle loro cicatrici, all'album di foto della nonna. Ad ogni modo non erano loro ad impedirmi di vangare, ma la gamba. Fu Lousse a scavare la buca mentre, da parte mia, io tenevo in braccio il cane. Era già pesante e freddo, ma non aveva ancora cominciato a puzzare. Aveva un pessimo odore, se volete, ma pessimo come un cane vecchio, non come un cane crepato. Anche lui aveva scavato delle buche, forse in questo stesso posto. Lo si sotterrò così com'era, senza scatola né involucro di nessun genere, come un certosino, però col guinzaglio e il collare. Fu sempre lei a metterlo nella buca, io non posso chinarmi, né inginocchiarmi, per via dei miei acciacchi, e se per caso, dimenticandomi la parte, mi capita di chinarmi o d'inginocchiarmi, non credeteci affatto, non sarò io, ma un altro. Buttarlo nella buca, è tutto quel che avrei potuto fare, e questo l'avrei fatto volentieri. Eppure non lo feci. Tutte le cose che si farebbero volontieri, oh senza entusiasmo ma volontieri, che non c'è nessuna ragione apparente per non fare, e che non si fanno! Che non si sia liberi? È da vedere. Ma quale fu il mio contributo in questa sepoltura? Fu lei a scavare la buca, lei a introdurvi il cane, lei a riempire la buca. Insomma io non facevo altro che assistere. Vi contribuivo con la mia presenza. Come se si fosse trattato della mia sepoltura. E lo era. Era proprio un larice. È l'unico albero che riesco a identificare con sicurezza. Curioso che lei abbia scelto, per sotterrarvi sotto il proprio cane, l'unico albero che riesco a identificare con sicurezza. Gli aghi verdemarino son come di seta e cosparsi, mi sembra, di puntolini rossi. Il cane aveva delle zecche alle orecchie, ho l'occhio per queste cose io, furono sotterrate con lui. Quand'ebbe finito d'affossare, ella mi passò la vanga e si raccolse. Credetti che stesse per piangere, sarebbe stato proprio il momento, ma invece rise. Era forse il suo particolare modo di piangere. Oppure ero io a ingannarmi e lei piangeva davvero, con un rumore di ilarità. Non me ne intendo troppo, di lacrime e di risa. Non lo vedrà più, il suo Teddy, che aveva amato come un figlio. Mi domando perché, con l'intenzione così evidente e determinata di sotterrare il cane a casa sua, non abbia fatto venire il veterinario a sopprimere il cane sul posto. Andava veramente dal veterinario nel momento in cui la sua strada incrociò la mia? O l'aveva asserito solo per attenuare la mia colpevolezza? Le visite a domicilio costano più caro ovviamente. Mi condusse in salotto e mi diede da bere e da mangiare, cose buone di certo. Disgraziatamente le cose buone da mangiare non mi piacevano troppo. Ma mi ubriacavo volontieri. Se lei viveva nei disagi, proprio non lo si notava. Quel tipo di disagio, io lo sento subito. Vedendo la fatica che facevo a starmene seduto avvicinò una sedia per la mia gamba rigida. Sempre servendomi mi faceva dei discorsi di cui non afferravo la centesima parte. Con le sue stesse mani mi tolse il cappello, con quello si avviò, senza dubbio per appenderlo a un gancio in qualche posto, e sembrò stupita quando il laccio le arrestò lo slancio. Aveva un pappagallo, molto grazioso, con tutti i più apprezzati colori. Capivo meglio lui della sua padrona. Non voglio dire che lo capivo meglio io di quel che non lo capisse lei, voglio dire che lo capivo meglio di quanto non capissi lei. Ogni tanto diceva, Putain de conasse de merde de chiaison. Probabilmente era appartenuto a un francese prima di appartenere a Lousse. Gli animali cambiano spesso padrone. Non diceva gran che d'altro. Sì, diceva anche, Fuck! Tuttavia non era stato un francese ad avergli insegnato a dire, Fuck! Forse l'aveva scoperto da solo, non mi stupirebbe affatto. Lousse cercava di fargli dire, Pretty Polly! Credo che fosse troppo tardi. Lui ascoltava, con il capo piegato, rifletteva, poi diceva, Putain de conasse de merde de chiaison. Si vedeva che faceva uno sforzo. Un giorno sotterrerà anche lui. Nella sua gabbia probabilmente. Anche me avrebbe sotterrato, se fossi rimasto; Se avessi il suo indirizzo le scriverei, perché venisse a sotterrarmi. M'addormentai. Mi svegliai in un letto, svestito. Erano giunti persino alla sfrontatezza di ripulirmi, a giudicar dall'odore che esalavo, non esalavo più. Andai alla porta. Chiusa a chiave. Alla finestra. Sprangata dalle inferriate. Non era ancora completamente buio. Che cosa si può tentare quando sono state tentate la porta e la finestra? La cappa del camino forse. Cercai i miei vestiti. Trovai un interruttore e lo girai. Senza risultato. Che storia! Tutto ciò mi lasciava abbastanza indifferente. Trovai le stampelle appoggiate a una poltrona. Sembrerà strano che abbia potuto fare i movimenti che ho indicato senza il loro aiuto. Io lo trovo strano. Svegliandosi, non ci si ricorda subito chi si è. Trovai su una seggiola un vaso da notte bianco con dentro un rotolo di carta igienica. Non si lasciava nulla al caso. Racconto questi momenti con una certa minuzia, ciò mi dà sollievo rispetto a quel che sta per accadere, lo sento bene. La stanza era piena da crollare di sedie e di poltrone, che mi brulicavano attorno nella penombra. C'erano anche comodini, sgabelli, cassettoni, ecc., in abbondanza. Strana impressione d'ingombro che svanì con la luce, la quale accese anche il lampadario, poiché avevo lasciato il contatto. Mi mancavano dei peli sulla faccia, me ne accorsi passandoci sopra una mano angosciata. M'avevano rasato, m'avevano tagliato i miei ciuffetti di barba. In che modo il mio sonno aveva potuto resistere a tante familiarità? Il mio sonno di solito così leggero. A questa domanda trovai un certo numero di risposte. Ma non sapevo quale fosse quella giusta. Forse erano tutte sbagliate. La barba veramente mi spunta solo sul mento e sul gargarozzo. Là dove ad altri spuntano dei bei peli, a me non spunta niente. L'avevano tosata la mia povera barba. L'avevano fors'anche tinta, niente mi provava il contrario. Credevo d'essere nudo nella poltrona, ma alla fine capii che indossavo una camicia da notte d'estrema leggerezza. Se fossero venuti ad annunciarmi il mio sacrificio per l'alba, mi sarebbe sembrato naturale. Quanto si può essere scemi. Mi sembrava d'esser stato anche profumato, forse alla lavanda. Li conosco appena appena i profumi. Tra me dissi, Se la tua povera mamma potesse vederti. Mi piacciono abbastanza le formule. Mi sembrava lontana, mia madre, lontana da me, eppure le ero un po' più vicino della notte precedente, se i miei calcoli erano esatti. Ma lo erano? Se ero nella città giusta, avevo fatto progressi. Ma lo ero? Se invece ero in un'altra città, dalla quale mia madre sarebbe stata necessariamente assente, allora avevo perduto terreno. Devo essermi addormentato, perché ecco che un'enorme luna s'inquadrava nella finestra. Due sbarre la dividevano in tre parti, di cui quella di mezzo rimaneva costante, mentre a poco a poco la destra guadagnava quello che la sinistra perdeva. Perché la luna andava da sinistra a destra o la stanza andava da destra a sinistra, o forse l'uno e l'altro, o forse andavano tutt'e due da sinistra a destra, soltanto la stanza meno velocemente della luna, oppure da destra a sinistra, soltanto la luna meno velocemente della stanza. Ma si può parlare di destra e di sinistra in simili condizioni? Che stessero avvenendo dei movimenti di una grande complessità, questo sembrava sicuro, eppure che cosa apparentemente semplice questa gran luce gialla che remigava lentamente dietro le mie sbarre e che il muro opaco mangiava a poco a poco, fino ad eclissarla. E allora la sua corsa tranquilla si disegnava sui muri, sotto forma di chiarore rigato dall'alto in basso e che delle foglie fecero tremare per qualche attimo, se eran poi delle foglie, e che sparì a sua volta, lasciandomi al buio. Com'è difficile parlar della luna con discrezione! È così scema, la luna. Dev'esser proprio il culo quello che ci fa sempre vedere. Non voglio negarlo. Poi fu la geologia a farmi da passatempo per un po'. In seguito fu l'antropologia che mi fece cacare per un breve periodo e le altre discipline, come la psichiatria, che vi si riallacciano, se ne sciolgono, e vi si riallacciano di nuovo, secondo le ultime scoperte. Quel che mi piaceva nell'antropologia, era la sua potenza negatrice, il suo accanimento nel definire l'uomo, a somiglianza di Dio, in termini di ciò che egli non è. Ma a questo proposito non ho mai avuto altro che idee confusissime, conoscendo poco gli uomini e non sapendo molto bene che cosa ciò voglia dire, essere. Oh le ho tentate tutte. Alla fine alla magia toccò l'onore d'insediarsi nelle mie macerie, e ancor oggi, quando vi passeggio, ne rinvengo qualche traccia. Ma più spesso si tratta di un sito senza forma né limite e di cui neanche i materiali mi sono comprensibili, per non parlare della loro disposizione. E la cosa in rovina, non so che sia, che fosse, e quindi neppure se si tratti non tanto di rovine quanto dell'incrollabile confusione delle cose eterne, se questa è l'espressione giusta. Comunque è un luogo senza mistero, la magia l'ha abbandonato, trovandolo senza mistero. E se non ci vado facilmente, ci vado forse più facilmente che altrove, stupito e tranquillo, stavo per dire come in sogno, ma nient'affatto, nient'affatto. Ma questo luogo non è di quelli in cui ci si va, ma di quelli in cui talvolta ci si trova, senza saper come, e che non si abbandonano come si vuole, e in cui ci si trova senza nessun piacere, ma con minor dispiacere forse che in altri posti da cui ci si può allontanare solo facendo fatica, posti misteriosi adorni di tutti i misteri conosciuti. Sto in ascolto e mi sento dettare un mondo rappreso in perdita d'equilibrio, sotto una luce debole e calma senz'altro, sufficiente per vederci, capite bene, e rappresa anch'essa. E sento sussurrare che tutto si flette e si piega, come sotto dei pesi, ma qui non ci sono pesi, e anche il terreno, poco adatto a sostenere, e anche la luce, verso una fine che sembra non dover mai esserci. Perché che fine può esserci per queste solitudini in cui il vero chiarore non c'è mai stato, e neppure l'equilibrio, e neanche la semplice base, ma sempre queste cose pencolanti che sdrucciolano in un franare senza fine, sotto un cielo senza memoria di mattino o speranza di sera. Queste cose, che cose, da dove venute, fatte di che? E sembra che non si muova nulla qui, né si sia mai mosso, né mai si muoverà, salvo io che non mi muovo affatto, neanch'io, quando ci sono, che sto a guardare e mi faccio guardare. Sì, è un mondo finito, malgrado l'apparenza, è proprio la sua fine ad averlo suscitato, è proprio finendo che è cominciato, e chiaro abbastanza? E anch'io sono finito, quando ci sono, i miei occhi si chiudono, le mie sofferenze cessano e io finisco, piegato come nessun vivente può esserlo. E se stessi ancora ad ascoltare questo sussurro lontano, da un pezzo in silenzio e che infine sento, imparerei altre cose ancora, a questo proposito. Ma non l'ascolterò più, per il momento, perché non mi va, questo sussurro lontano, e anzi lo temo. Ma è un suono che non è come gli altri, che si ascoltano, solo quando si vuole, e che spesso è possibile far tacere, allontanandosi o turandosi le orecchie, ma è un suono che si mette a ronzarvi nella testa, non si sa come, né perché. È proprio con la testa che lo si sente, le orecchie non c'entrano per nulla, e non si può fermarlo, ma si ferma da solo, quando vuole lui. Che io stia ad ascoltarlo o no, non ha quindi proprio nessuna importanza, lo sentirò sempre, neanche il tuono riuscirebbe a liberarmene, finché non la smetta da sé. Ma nulla mi obbliga a parlarne, dal momento che non è affar mio. E ciò non è affar mio, per il momento. No, quel che è affar mio in questo momento, è di finirla con questa storia di luna rimasta incompiuta, lo so bene. E se devo finirla meno bene che se avessi la testa del tutto a posto, la finirò lo stesso, facendo del mio meglio, almeno credo. Questa luna dunque, a pensarci bene, mi riempì improvvisamente di stupore, o, se si preferisce, di sorpresa. Sì, stavo ripensandoci a modo mio, con indifferenza, la rivedevo in qualche modo, nella mia testa, quando un gran spavento s'impadronì di me. E ritenendo che valesse la pena di metterci il naso lo stesso, ve lo misi e non tardai a fare questa scoperta, tra le altre, ma io ricordo solo questa, che quella luna che mi era appena passata fiera e tronfia davanti alla finestra, già alla vigilia o all'antivigilia, all'antivigilia, l'avevo vista giovincella e smilza, rovesciata sulla schiena, come un truciolo. E tra me avevo detto, Toh, ha aspettato la luna nuova, lui, per lanciarsi su vie ignote, dirette verso il sud. E poi un po' più tardi, Se domani andassi a trovare la mamma. Perché tutto è connesso, per l'operazione dello spirito santo, come si suol dire. E se non ho ricordato questa circostanza al luogo dovuto, gli è che non tutto si può ricordare al dovuto luogo, ma occorre scegliere tra le cose che non val la pena di ricordare e quelle che la valgono ancor meno. Perché se si volesse menzionare tutto, non si finirebbe mai, ed è tutto lì, finire, farla finita. Oh lo so, anche se ci si limita a ricordare solo qualcuna delle circostanze che abbiamo di fronte, non si finisce prima, lo so, lo so. Ma si cambia merda. E se tutte le merde s'assomigliano, il che non è vero, non fa niente, fa bene cambiar merda, andare in un merda un po' più lontana, ogni tanto, svolazzare comunque, come se si fosse un'effimera. E se ci si sbaglia, e ci si sbaglia, voglio dire nel riferire delle circostanze che si sarebbe fatto meglio a tacere e nel tacerne delle altre, giustamente se volete ma, come dire, senza motivo, giustamente ma senza motivo, come questa luna nuova, questo capita in buona fede, in ottima fede. Dunque era trascorso, tra la notte sulla montagna, quella dei miei due ladroni e della decisione presa d'andare a trovar mia madre, e quella presente, più tempo di quel che non avessi immaginato, vale a dire quindici giorni completi o quasi. In questo caso questi quindici giorni completi o quasi, cos'erano diventati e dov'erano trascorsi? E come immaginare la possibilità, qualunque fosse il loro contenuto, di farli entrare nella concatenazione così rigorosa di casi di cui avevo appena fatto le spese? Semmai non conveniva supporre, sia che la luna vista all'antivigilia, lungi dall'essere nuova, come avevo creduto, stesse per diventar piena, sia che la luna vista da casa Lousse, lungi dall'essere piena, come mi era sembrato che fosse, in realtà stesse intaccando il suo primo quarto, sia infine che si trattasse di due lune lontane tanto dalla nuova quanto dalla piena e così somiglianti rispetto alla curvatura, da rendere difficile all'occhio nudo il distinguerle, e che tutto quel che si metteva di traverso in queste ipotesi non fosse altro che ombra e illusione? In ogni modo è proprio con queste considerazioni che riuscii a calmarmi e a ritrovare, di fronte ai brutti tiri della natura, quell'atarassia che val quel che vale. E così mi tornò nella mente, di cui il sonno stava impadronendosi di nuovo, che le mie notti erano senza luna e che la luna non aveva proprio niente a che fare con le mie notti, dimodoché questa luna che avevo visto trascinarsi attraverso la finestra, e che mi rimandava ad altre notti, ad altre lune, non l'avevo mai vista, e che avevo dimenticato chi ero (c'era di che) e parlato di me come se avessi parlato di un altro, se avevo avuto assolutamente bisogno di parlare di un altro. Sì, questo mi capita, e mi capiterà ancora di dimenticare chi sono e di fare evoluzioni davanti a me stesso come un estraneo. Proprio allora vedo il cielo diverso da quel che è, e anche la terra assume falsi colori. Questo ha l'aria d'essere un riposo, ma non è affatto così, m'insinuo soddisfatto nella luce degli altri, quella che una volta doveva essere la mia, non dico il contrario, poi c'è l'angoscia del ritorno, non dirò dove, non posso, forse all'assenza, bisogna ritornarci, so soltanto questo, non si sta bene restandoci, non si sta bene andandosene. Il giorno dopo volli indietro i miei vestiti. Il servitore partì per istruzioni. Tornò con la notizia che li avevano bruciati. Io continuai a ispezionare la stanza. A lume di naso era un cubo perfetto. Attraverso la grande finestra vedevo dei rami. Dondolavano dolcemente, ma non sempre, ogni tanto erano agitati da brusche scosse. Notai che il lampadario era acceso. I miei vestiti, dissi, le mie stampelle. Dimenticavo che le stampelle erano là, appoggiate alla poltrona. Mi lasciò di nuovo, lasciando la porta aperta. Dalla porta vidi una grande finestra, più grande della porta tanto da sorpassarla da tutte le parti, e opaca. Il servitore tornò e mi disse che i vestiti erano stati mandati in tintoria, per essere smacchiati. Recava con sé le mie stampelle, cosa che avrebbe dovuto sembrarmi strana che che invece mi parve naturale. Ne presi una e con quella mi misi a percuotere i mobili, ma non molto forte, solo quanto bastava per rovesciarli senza romperli. Erano meno numerosi della notte precedente. A dire il vero, più che batterli, davo loro delle spinte, erano delle stoccate, delle botte, che assestavo, il che non è neppure uno spingere, ma è più uno spingere che un battere. Ma ricordandomi chi ero, buttai subito via la stampella e rimasi immobile in mezzo alla stanza, deciso a non chiedere più nulla e a non far più mostra d'essere in collera. Perché se volevo i vestiti, e credevo di volerli, non era proprio una buona ragione per simulare la collera quando me li rifiutavano. E di nuovo solo, ripresi l'ispezione della stanza e stavo per scoprire nuove proprietà, quando tornò il servitore e mi disse che avevano mandato a prendere i miei vestiti e li avrei avuti tra poco. Poi si mise a raddrizzare i mobili che avevo rovesciato e a rimetterli a posto, spolverandoli via via con un piumino che improvvisamente ebbe in mano. E subito dopo mi misi ad aiutarlo come potevo, tanto per mostrare che non ce l'avevo con nessuno. E se non potevo far granché, per via della gamba rigida, facevo non di meno quel che potevo, cioè m'impadronivo dei mobili via via che lui li raddrizzava e procedevo con maniaca meticolosità a rimetterli al posto giusto, indietreggiando con le braccia alzate per giudicare meglio l'effetto e poi precipitandomi per apportarvi qualche impercettibile modifica. E raccogliendo le falde della mia camicia da notte assestavo loro qualche botta impetuosa. Ma non riuscii a resistere neanche in questa mimica e mi immobilizzai bruscamente in mezzo alla stanza. Ma vedendo che lui stava per andarsene, gli andai incontro d'un passo e dissi, La mia bicicletta. E questa frase, continuai a ripeterla finché egli mostrò di capire. Questo servitore, mingherlino e senza età, non so a che razza appartenesse, non a quella bianca di sicuro. Forse era un orientale, è un po' vago, un orientale, un figlio del levante. Indossava calzoni bianchi, una camicia bianca, e un panciotto giallo, si sarebbe detto di daino, con bottoni dorati, e sandali. È raro che riconosca con tanta chiarezza ciò che indossa la gente, sono felice di potervene far approfittare. Questo si spiega forse col fatto che per tutta quella mattinata non si era parlato per così dire d'altro che di vestiti, dei miei. E forse in sostanza dicevo tra me, Ma guarda un po' quello là, tranquillo nei suoi vestiti, mentre io ballo dentro a una camicia da notte altrui, e probabilmente da donna, perché era rosa e trasparente e piena di nastri, di pieghe e di pizzi. La stanza invece, la vedevo male, ogni volta che ricominciavo l'ispezione mi sembrava mutata, e questo si chiama veder male allo stato attuale delle nostre conoscenze. Gli stessi rami sembravano cambiare posto, come dotati di una velocità orbitale propria, e la porta non era più contenuta nella grande finestra opaca, ma si era leggermente spostata verso destra o verso sinistra, non so più, in modo da ricevere nella propria inquadratura un lembo di muro bianco, sul quale potevo provocare delle deboli ombre facendo certi movimenti. Ma che ci fossero per tutte queste cose delle spiegazioni naturali lo ammetto facilmente, perché le risorse della natura sono apparentemente infinite. Ero io a non essere abbastanza naturale per poter inserirmi con disinvoltura in quest'ordine di cose e per apprezzarne le finezze. Ma ero abituato a vedere il sole sorgere a sud e a non sapere neppure dove andavo, tanto tutto ruotava con incoerenza e arbitrio, e neppure che cosa abbandonavo, o mi accompagnava. Recarsi dalla propria madre in queste condizioni, ammetterete che non è facile, meno facile che andare dai Lousse, senza volerlo, o al posto di guardia, o in altri siti che mi aspettano, lo sento bene. Ma quando il servitore mi portò i vestiti in una carta che disfece davanti a me, rilevai che il mio cappello non c'era, cosa che mi fece dire, Il mio cappello. E quando capì cosa volevo se ne andò e ritornò poco dopo con il mio cappello. Non mancava più nulla allora, salvo il cordoncino per attaccare il cappello all'occhiello, ma questo disperavo di farglielo capire e di conseguenza non ne feci parola. Un vecchio cordoncino lo si trova sempre, non è poi eterno, un cordoncino, come lo sono i vestiti propriamente detti. Quanto alla bicicletta, avevo buone speranza che mi aspettasse da basso in qualche posto, anzi forse davanti alla scalinata, pronta a portarmi via, lontano da questi luoghi orribili. E non vedevo proprio che interesse avrei avuto a tirarla ancora in ballo, a obbligarci, lui e me, a questa nuova prova, quando c'era il modo di risparmiarcela. Queste considerazioni m'attraversarono la mente con una certa rapidità. Esaminai le tasche dei miei vestiti, quattro in tutto, davanti al servitore e constatai che il loro contenuto non era al completo. Nel caso specifico non c'era più la pietra da succhiare. Ma di pietre da succhiare se ne trovano facilmente nelle nostre spiagge, a condizione di sapere dove cercarle, e giudicai preferibile non dir niente in proposito, tanto più che dopo un'ora di discussione il servitore avrebbe potuto andare a cercarmi nel giardino una pietra affatto insucchiabile. Anche questa decisione la presi per così dire istantaneamente. Quanto agli altri oggetti che erano spariti, a che pro parlarne, dato che non sapevo esattamente quali fossero. E forse me li avevano presi al commissariato, a mia insaputa, o forse li avevo persi nella caduta o in un altro momento, forse mediante lancio, perché mi capitava di buttar via tutto ciò che recavo con me, in un moto di stizza. Allora a che pro parlarne. Mi decisi tuttavia ad affermare a gran voce che mi mancava un coltello, un bel coltello, e lo feci così bene che ricevetti una bella roncola da ortaggi, del tipo detto inossidabile, ma non ci misi molto a ossidarla, e che per di più si apriva e si chiudeva, a differenza di tutte le altre roncole che avevo visto, e inoltre aveva un bottone d'arresto che ben presto si rivelò impotente ad arrestare alcunché, donde ferite a non finire, lungo tutte le dita incuneate tra il manico d'autentico cosiddetto corno d'Irlanda e la lama rossa di ruggine e talmente smussata da provocare a dire il vero più che ferite contusioni. E se parlo così a lungo di questa roncola, è perché l'ho sempre in qualche posto credo, fra i miei possessi, e avendone parlato a lungo qui, non avrò più bisogno di parlarne quando verrà il momento, se mai verrà, di fare l'inventario dei miei possessi, e ne sarò esonerato, in un momento in cui avrò bisogno d'esserne esonerato, lo sento bene. Perché è naturale che su quel che ho perduto mi dilunghi meno che su quel che non ho potuto perdere, è ovvio. E se non sempre ho l'aria di uniformarmi a questo principio, ciò dipende dal fatto che ogni tanto mi sfugge e sparisce proprio come se non l'avessi mai scoperto. Frase demente, poco importa Perché non so più bene quel che faccio, né perché, son cose queste che capisco sempre meno, non ve lo nascondo, perché dovrei nascondermelo, e di fronte a chi, a voi, ai quali non si nasconde nulla? E poi il fare mi riempie di un tal non so, impossibile esprimerlo, per me, in questo momento, dopo tanto tempo, capite bene, che non mi fermo per sapere in virtù di chissà quale principio. E tanto più che qualsiasi cosa io faccia, cioè qualsiasi cosa io dica, sarà sempre in qualche modo la stessa cosa, sì, in qualche modo. E se parlo di princìpi, quando non ce ne sono, non ci posso far niente. Ce ne devono essere in qualche posto. E se far sempre la stessa cosa in qualche modo non è proprio la stessa cosa che uniformarsi allo stesso principio, non ci posso far niente lo stesso. D'altronde come si può sapere se ci si uniforma o no? E come aver voglia di saperlo? No, su tutta questa storia non val la pena di soffermarsi, e tuttavia ci si sofferma, incoscienti dei valori. E sulle cose che ne valgono la pena, non ci si sofferma, le si abbandonano, per la stessa ragione, o per saggezza, sapendo che queste storie di valori non sono fatte per voi, che non sapete bene ormai quel che fate, né perché, e che dovete continuare a non saperlo, sotto pena di, mi domando di che cosa, sì, me lo domando. Perché peggio di quello che faccio, senza saper che cosa, né perché, ecco una cosa di cui non son mai riuscito ad avere la minima idea, e non mi stupisce affatto, perché non mi ci sono mai provato. Perché se avessi potuto immaginare qualcosa di peggio di quel che avevo, mi ci sarei buttato, per averla, mi conosco troppo bene. E quel che ho, quel che sono, mi basta, mi è sempre bastato, e son tranquillo anche per il mio piccolo caro avvenire, non m'annoierò affatto. Allora mi vestii, dopo essermi accertato innanzitutto che non avessero cambiato niente allo stato dei miei vestiti, cioè indossai i calzoni, il mantello, il cappello e le scarpe. Le mie scarpe. Salivano fin dove avrei dovuto avere dei polpacci, se avessi avuto dei polpacci e per metà si abbottonavano, o si sarebbero abbottonate, se avessero avuto dei bottoni, e per metà si allacciavano, e credo d'averle sempre in qualche posto. Poi presi le stampelle e abbandonai la stanza. Tutta la giornata si era esaurita in queste stupidaggini e si era di nuovo all'imbrunire. Scendendo la scala, esaminai la finestra che avevo visto attraverso la porta. Dava luce alla scala, luce giallognola e violenta. Lousse era in giardino, indaffarata intorno alla tomba del cane. Vi seminava dell'erba, come se l'erba non fosse seminata da sé. Approfittava della caduta del caldo. Vedendomi, mi venne incontro con cordialità e mi diede da bere e da mangiare. Mangiai in piedi, cercando con gli occhi la bicicletta. Lei parlava. Rifocillato alla svelta, mi misi alla ricerca della bicicletta. Mi seguì. Finii per trovarla, la bicicletta, appoggiata ad un cespuglio molto molle che ne inghiottiva la metà. Buttai via le stampelle e la presi in mano, per il sellino e il manubrio, con l'intenzione di farle fare qualche giro di ruota, avanti e indietro, prima d'inforcarla e andarmene per sempre da quei luoghi maledetti. Ma ebbi un bello spingere e tirare, le ruote non giravano. Si sarebbe creduto che r freni fossero bloccati, il che però non poteva essere, perché la mia bicicletta non aveva freni. E sentendomi improvvisamente colto da una grande stanchezza, nonostante che l'ora fosse quella della mia massima vitalità, respinsi la bicicletta nel cespuglio e mi misi coricato per terra, sul prato, incurante della rugiada, non ho mai temuto la rugiada, io. Fu allora che Lousse, approfittando della mia debolezza mi si accoccolò accanto e si mise a farmi delle proposte, alle quali debbo confessare d'avere distrattamente prestato ascolto, non avendo nient'altro da fare, anzi non potendo fare nient'altro, e lei aveva messo di certo nella birra un prodotto destinato a rammollirmi, a rammollire Molloy, di modo che io per così dire non ero più che una massa di cera in stato di fusione. E di queste proposte, che lei enunciava lentamente, ripetendone parecchie volte ciascun articolo, finii col districare quel che segue e che ne costituiva senza dubbio la parte essenziale. Non poteva impedire che avesse simpatia per me, tanto meno lei. Io sarei rimasto da lei, dove avrei potuto fare come a casa mia. Avrei avuto da bere e da mangiare, anche da fumare se fumavo, gratuitamente, e la mia vita sarebbe trascorsa senza pensieri. Avrei sostituito in qualche modo il cane che avevo ucciso e che per lei faceva le veci di un figlio. Non sarei uscito in strada, perché una volta in strada non avrei più saputo ritornare. Avrei scelto il ritmo di vita che più m'avrebbe garbato, alzandomi, andando a letto e consumando i miei pasti all'ora che mi fosse piaciuta. Se non volevo essere in ordine, aver dei vestiti decenti, lavarmi, ecc., nulla mi ci avrebbe obbligato. Lei ne avrebbe avuto dispiacere, ma che cos'era il suo dispiacere di fronte al mio dispiacere? Tutto quel che mi domandava, era soltanto di sentirmi vicino a lei, con lei, e di poter contemplare ogni tanto questo corpo straordinario, nel suo star fermo e nel suo andirivieni. Io l'interrompevo ogni tanto, per chiederle in che città mi trovassi. Ma vuoi che non riuscisse a capirmi, vuoi che preferisse lasciarmi all'oscuro, a questa domanda non rispondeva, ma continuava il suo discorso, ritornando con infinita pazienza su ciò che aveva appena detto, poi lentamente, piano piano, andando ancor più in là nell'esposizione dei vantaggi che avrei avuto fissando da lei la mia residenza e che avrebbe avuto lei, avendo me. Finché non ci fu più nulla fuorché questa voce monotona, nella notte sempre più fonda e l'odore della terra umida e di un fiore profumatissimo che al momento non riuscii ad identificare, ma che identificai più tardi come quello della lavanda. Ce n'eran dei cespi dappertutto, nelle aiuole di questo giardino, perché a Lousse la lavanda piaceva, deve avermelo detto lei stessa, se no non l'avrei mai saputo, le piaceva più d'ogni altra erba o fiore, per via del suo odore, e poi per via anche delle sue spighe e del suo colore. E se avessi conservato il senso dell'odorato, l'odore della lavanda mi farebbe pensare sempre a Lousse, secondo il ben noto meccanismo dell'associazione. E questa lavanda, suppongo che la raccogliesse appena matura, la facesse seccare e ne confezionasse dei sacchetti che riponeva nei suoi armadi per render profumati i propri fazzoletti nonché la biancheria intima e da casa. Ma nondimeno, di tanto in tanto, sentivo suonar l'ora, da campanili e orologi, sempre più a lungo, poi di colpo brevissimamente, poi di nuovo sempre più a lungo. Questo vi dice quanto tempo ci mise a convincermi, la sua pazienza, la sua sopportazione fisica, perché durante tutto questo tempo rimaneva accoccolata o inginocchiata accanto a me, quando io invece me ne stavo tranquillamente disteso sul prato, ora sulla schiena, ora sul ventre, ora su un lato, ora sull'altro. Ed ella non smetteva di parlare mentre io non aprivo bocca se non per domandare, di quando in quando, e sempre più debolmente, in che città eravamo. E sicura del fatto suo, o semplicemente cosciente d'aver fatto tutto quel che poteva e che insistere non sarebbe servito a niente, alla fine si alzò e se ne andò non so dove, perché io me ne rimasi dov'ero, malvolentieri, ma solo un po'. Perché in me ci son sempre stati due pagliacci, oltre agli altri, quello che chiede soltanto di starsene dov'è e quello che s'immagina che più lontano si stia un po' meno peggio. In tal modo io, in quest'ambito, ero sempre a posto, in qualche modo, qualunque cosa facessi. E cedevo a turno a questi due tristi compari, per permetter loro di capire il loro errore. E quella notte non c'erano problemi di luna, né di nessuna luce, ma fu una notte d'ascolto, una notte dedicata ai minuscoli brusii e sospiri che agitano i piccoli giardini durante la notte, fatti dal timido sabba delle foglie e dei petali e dall'aria che vi circola in modo diverso che in altri luoghi, dove c'è minor costrizione, e in modo diverso dal giorno nel quale è permesso sorvegliare e incrudelire, e da qualcos'altro ancora che non è chiaro, non essendo né l'aria né ciò che vien mosso da lei. Forse è proprio quel lontano rumore sempre uguale che fa la terra e che gli altri rumori nascondono, ma non molto. Perché questi non spiegano quel rumore che si sente quando si ascolta davvero, quando tutto sembra tacere. E c'era un altro rumore, quello della mia vita che faceva sua questo giardino cavalcando la terra degli abissi e dei deserti. Sì, non mi capitava soltanto di dimenticare chi ero, ma anche che ero, di dimenticare di essere. Allora non ero più quella scatola chiusa a cui dovevo l'essermi così ben conservato, ma cadeva un tramezzo e io mi riempivo di radici e di fusti quieti e buoni, di tutori morti da un pezzo e che sarebbero stati ben presto bruciati, del riposo della notte e dell'attesa del sole, e poi dello stridio del pianeta che aveva buone spalle, perché roteava verso l'inverno, e l'inverno l'avrebbe sbarazzato da queste croste irrisorie. Oppure di quest'inverno io ero la calma precaria, il liquefarsi delle nevi che non cambiano niente e gli orrori del ricominciamento. Ma questo non mi capitava spesso, per lo più rimanevo nella mia scatola che non conosceva stagioni né giardini. Ed era molto meglio così. Ma là dentro bisogna fare attenzione, porsi delle domande, per esempio quella di sapere se si è ancora, e se no, quando finì, e se sì, quanto tempo durerà ancora, qualunque sia la cosa che v'impedisca di perdere il filo del sogno. Le domande me le facevo volentieri, una dopo l'altra, solo per stare a contemplarle. No, non volentieri, per saggezza, per credere d'esser sempre là. Eppure l'essere sempre là non mi diceva niente. Questo chiamavo riflettere. Riflettevo quasi senza sosta, non osavo fermarmi. Forse è proprio a ciò che dovevo la mia innocenza. Era un po' vizza e come smangiata agli orli, ma ero contento d'averla, sì, abbastanza contento. Grazie abbastanza, come un giorno mi disse un ragazzino al quale avevo raccolto la palla, non so perché, nulla m'obbligava a farlo, ed egli avrebbe preferito senza dubbio raccogliersela da sé. O forse non bisognava raccoglierla. E dire lo sforzo che m'era costato, per via della mia gamba rigida! Le parole mi s'impressero nella memoria per sempre, senza dubbio perché le afferrai immediatamente, cosa che non mi capitava spesso. Non che fossi duro d'orecchio, perché avevo l'orecchio abbastanza fine, io, e i rumori che non implicavano un senso ben determinato, li percepivo forse meglio di chiunque altro. Di che cosa si trattava allora? Forse di un difetto del comprendonio che si metteva a risuonare solo se percosso a più riprese, o che risuonava se si vuole, ma ad un livello inferiore a quello del raziocinio, se ciò è immaginabile, e ciò è immaginabile, dato che lo immagino io. Sì, le parole che sentivo, le sentivo benissimo, avendo l'orecchio abbastanza fine, le sentivo la prima volta, e pure la seconda, anzi, e spesso persino la terza, come dei puri suoni, liberi d'ogni significato, ed è questa probabilmente la ragione per cui la conversazione mi era indicibilmente faticosa. E le parole che io stesso pronunciavo e che dovevano congiungersi quasi sempre ad uno sforzo dell'intelligenza, spesso mi facevano l'effetto di un ronzio d'insetti. E questo spiega perché ero poco chiacchierone, quella fatica che facevo a capire non solo quanto mi dicevano gli altri, ma anche quanto dicevo io a loro. È vero che con un po' di pazienza si finiva con l'intendersi, ma intendersi a proposito di che, ve lo chiedo, e per che risultato. E anche ai rumori della natura, e delle opere degli uomini, reagivo a modo mio, credo, senza pensare affatto di trarne delle lezioni. E anche il mio occhio, quello buono, doveva essere mal connesso al cervello, perché era difficile che dessi un nome a ciò che vi si rifletteva, spesso nitidamente. E senza giungere a dire che vedevo il mondo sottosopra (sarebbe stato davvero troppo semplice), è certo che lo vedevo in un modo esageratamente formale, senza essere peraltro esteta, o artista. E non avendo che un occhio solo, su due, che funzionasse in maniera press'a poco decente, afferravo a malapena la distanza che mi separava dall'altro mondo, e spesso allungavo la mano verso ciò che si trovava decisamente fuori dalla mia portata e spesso andavo a cozzare contro solidi appena appena visibili all'orizzonte. Ma anche quando avevo tutt'e due gli occhi ero così, mi sembra, ma può darsi di no, perché questo periodo della mia vita è ormai lontano e ne conservo un ricordo assai imperfetto. E a pensarci bene, i miei tentativi di gusto e d'odorato non erano poi tanto migliori, sentivo e degustavo senza sapere cosa esattamente, neanche se fosse buona o se fosse cattiva, e raramente la stessa cosa due volte di seguito. Sarei stato un ottimo marito, credo, incapace di stancarmi della mia sposa, e l'avrei ingannata solo per distrazione. Adesso, dirvi perché rimasi con Lousse, per un bel po', mi è veramente impossibile. Cioè ci arriverò di sicuro, con un po' di fatica. Ma perché dovrei affaticarmi? Per stabilire in maniera irrefragabile che mi era impossibile fare diversamente? Perché giungerei fatalmente proprio a questa conclusione. Mi era piaciuta l'immagine di quel vechio Geulinex, morto giovane, il quale m'accordava la libertà, sulla nera nave d'Ulisse, di sgusciare verso il levante, sopra coperta. È una gran libertà per chi non ha l'anima del pioniere. E a poppa, chino sui flutti, schiavo tristemente ilare, considero l'orgogliosa ed inutile scia. Che, non allontanandomi da nessuna patria, non mi trasporta verso nessun naufragio. Dunque un bel po' da Lousse. È vago, un bel po', forse qualche mese, forse un anno. So che il giorno della mia partenza faceva caldo di nuovo, ma questo non vuol dir niente nella mia regione, in cui sembrava far caldo o freddo o semplicemente tiepido in qualsiasi momento dell'anno e in cui i giorni non scorrevano dolcemente, no, non scorrevano dolcemente. Può darsi che poi sia cambiato. So dunque soltanto che era press'a poco lo stesso bel tempo sia all'epoca della mia partenza sia a quella del mio arrivo, nella misura in cui ero capace di sapere che tempo facesse. Ed era ormai da tanto che me ne stavo all'aperto, in tutte le stagioni, che distinguevo abbastanza bene le une dalle altre, il mio corpo le distingueva e anzi sembrava avere le sue preferenze. Credo d'aver occupato parecchie stanze una dopo l'altra, o in modo alterno, non so. Nella mia testa ci sono parecchie finestre, di questo sono sicuro, ma forse si tratta sempre della stessa, diversamente aperta sull'universo in processione. La casa non si muoveva, ecco forse quel che volevo dire parlando di queste diverse stanze. Giardino e casa erano immobili, grazie a chissà che meccanismo di compensazione, e anch'io, quando me ne stavo tranquillo, cosa che facevo il più delle volte, anch'io ero immobile, e quando mi spostavo, avveniva con estrema lentezza, quasi entro una gabbia fuori dal tempo come si suol dire, nel gergo degli scolari, e beninteso fuori anche dallo spazio. Perché esser fuori dall'uno senza esserlo dall'altro, era cosa proprio da gente più furba di me, che furbo non ero, ma semmai gonzo. Ma posso sbagliarmi completamente. E queste finestre che si aprono nella mia testa, quando mi chino su questo periodo, forse esistevano realmente e forse esistono tuttora, nonostante non ci sia più io, voglio dire intento a guardarle, ad aprirle e chiuderle, o rannicchiato in fondo alla camera a stupirmi degli oggetti che vi s'inquadrano. Ma non starò ad insistere su quest'episodio d'una brevità alla fin fine così irrisoria e striminzita. Perché non aiutavo né in casa né in giardino e non sapevo niente dei lavori che vi si effettuavano, giorno e notte, e di cui mi giungevano i rumori, rumori sordi e anche secchi e poi spesso quello dell'aria sbattuta con forza, da quel che mi sembrava, e che forse era semplicemente quello della combustione. Preferivo il giardino alla casa, a giudicare dalle lunghe ore che vi trascorrevo, vi trascorrevo infatti la maggior parte della giornata e della notte, fosse bello o brutto tempo. Uomini vi si indaffaravano continuamente, occupati in chissà che lavoro. Perché il giardino rimaneva sensibilmente lo stesso, giorno per giorno, a prescindere dai minuscoli mutamenti dovuti al ciclo abituale delle nascite, delle vite e delle morti. E in mezzo a questi uomini io vagavo come una foglia morta a molla, o mi coricavo per terra, e allora mi scavalcavano con precauzione come se fossi stato un'aiuola di fiori preziosi. Sì, probabilmente era per impedire al giardino di mutare aspetto che quelli vi si accanivano a quel modo. La mia bicicletta era scomparsa di nuovo. Talvolta mi veniva voglia di cercarla, per rivederla e per farmi un'idea più chiara del suo stato o per girare un poco per i viali e i sentieri che collegavano tra loro le diverse parti del giardino. Ma questa voglia, invece di cercar di soddisfarla, me ne stavo a contemplarla, se così posso dire, a contemplarla mentre a poco a poco si raggrinziva e finalmente spariva, come la famosa pelle di zigrino, soltanto in modo assai più rapido. Perché sembra che ci siano due modi di comportarsi di fronte alle voglie, l'attivo e il contemplativo, e benché tutt'e due diano lo stésso risultato, le mie preferenze andavano al secondo, questione di temperamento senza dubbio. Il giardino era circondato da un alto muro, dalla sommità irta di frammenti di vetro a forma di pinna. Ma, cosa senza dubbio assolutamente inaspettata, un cancelletto a larghe maglie vi s'inseriva e dava libero accesso alla strada, perché non era chiuso a chiave, ne avevo la quasi certezza, per averlo aperto e chiuso più volte senza nessuna difficoltà, tanto di giorno come di notte, e per aver visto altra gente varcarlo, nei due sensi. Io mettevo fuori il naso, poi lo ritiravo in fretta. Ancora qualche osservazione. Entro questo recinto, e per recinto intendo non solo il giardino, come certo dovrei, ma anche la casa, non ho mai visto donne ma unicamente uomini, ad eccezione di Lousse evidentemente. Quello che vedevo e non vedevo, non voleva dire granché evidentemente, ma lo riferisco lo stesso. Lousse, la vedevo poco, non si faceva affatto vedere da me lei, forse per discrezione, temendo di spaurirmi. Ma credo che mi spiasse molto, nascosta dietro i cespugli, o le tende, o rannicchiata in fondo a una stanza al primo piano, forse con l'aiuto di un binocolo. Perché non aveva detto lei che desiderava innanzitutto vedermi, sia nei miei andirivieni sia in posizione di riposo? E per vedere bene occorre il buco della serratura, il piccolo pertugio tra le foglie, tutto ciò che impedisce d'esser visti e nello stesso tempo offre soltanto qualche frammento dell'oggetto alla volta. No? Sì, lei m'ispezionava pezzo per pezzo, e forse persino nell'intimità del mio coricarmi, del mio sonno, del mio alzarmi, nelle mattine in cui mi coricavo. Perché sotto quest'aspetto rimanevo fedele alla mia abitudine, ch'era di dormire al mattino, quando dormivo. Perché il mio vegliare era una specie di sonno. E non dormivo sempre nello stesso posto, ma ora dormivo nel giardino, che era grande, ora dormivo nella casa, che era grande anch'essa, davvero estremamente spaziosa. E quest'incertezza riguardo alle ore e ai luoghi del mio sonno doveva riempire Lousse di soddisfazione, immagino, e farle passare il tempo in modo assai piacevole. Ma è inutile insistere su questo periodo della mia vita. A furia di chiamare questa cosa la mia vita finirò col crederci. È il principio della pubblicità. Questo periodo della mia vita. Mi fa pensare, quando ci penso, a dell'aria in una conduttura d'acqua. Dunque aggiungerò soltanto che questa donna continuava ad avvelenarmi a fuoco lento, inoculando chi sa quali tossici sia in quel che mi dava da bere, sia in quel che mi dava da mangiare, e forse contemporaneamente, o un giorno l'uno e un giorno l'altro. È un'accusa grave, questa che preferisco, e non lo faccio alla leggera. E lo faccio senza risentimento, sì, l'accuso senza risentimento per avermi aggiunto nei cibi polveri e liquidi nocivi e insapori. D'altronde anche se avessero avuto un sapore, avrei trangugiato tutto esattamente con la stessa bonarietà. Quel famigerato tanfo di mandorla, per esempio, non m'avrebbe tolto l'appetito di sicuro. Il mio appetito! Parliamone un po'. Che cosa straordinaria, il mio appetito. L'avevo assai scarso, mangiavo come un uccellino, ma trangugiavo quel poco che mangiavo con una frenesia che si attribuisce piuttosto ai mangioni, e a torto, perché i mangioni in generale mangiano lentamente e con metodo, lo si deduce dalla nozione stessa di mangione. Io invece mi gettavo sul piatto unico, ne inghiottivo la metà o il quarto in due bocconi da pesce predatore, voglio dire senza masticare (e con che cosa avrei masticato?), poi lo respingevo da me con disgusto. Si sarebbe detto che mangiavo per vivere! Similmente tracannavo cinque o sei boccali di birra uno dopo l'altro, poi non bevevo più nulla per una settimana. Che volete farci, siamo quel che siamo, almeno in parte. Niente o poco da fare. Quanto ai tossici che lei m'inoculava in questo modo nei miei diversi sistemi, non saprei dire se fossero degli stimolanti o se non fossero invece dei deprimenti. A dir la verità, dal punto di vista della cenestesia s'intende, mi sentivo circa press'a poco come al solito, ossia — attenti, sto per mollare il boccone — di un nervosismo così fremebondo da perdere in qualche modo la sensibilità, per non dire la conoscenza, e ondeggiavo in fondo a un misericordioso torpore attraversato da brevi e abominevoli lampi, è proprio così come ho l'onore di dirvelo. Che potevano contro un equilibrio simile le miserabili erbe della Lousse, somministrate in dosi probabilmente infinitesimali, per far durare il piacere. Che ciò non rimanesse del tutto senza effetto, no, non giungerò fino a questo punto. Perché ogni tanto mi sorprendevo a fare un piccolo salto per aria, almeno di due o tre piedi, almeno, proprio io che non ho mai fatto dei salti. Assomigliava a qualcosa come la levitazione. E inoltre mi capitava, cosa meno sorprendente, quando camminavo, o anche appoggiato ad un sostegno qualunque, di crollare di colpo, come un burattino di cui si abbandonino i fili, e di restare per un bel po' in terra, letteralmente disossato. Sì, mi sembrava meno strano, questo, perché era abituato a simili cedimenti, ma con questo in meno, che li sentivo arrivare e prendevo le mie precauzioni, come fa un epilettico conscio dell'approssimarsi di una crisi. Voglio dire che, sapendo di star per cadere, mi distendevo, o mi bloccavo in piedi con una tale abilità che non avrebbe potuto sloggiarmi neanche un terremoto, e aspettavo. Ma non prendevo sempre queste precauzioni, preferendo la caduta alla fatica di coricarmi o di bloccarmi. Mentre le cadute che facevo da Lousse non avevo il tempo di sventarle. Ma mi sorprendevano meno lo stesso, facevano parte della mia indole, ben più dei piccoli salti. Perché anche da bambino non mi ricordo d'avere saltato, né la rabbia né il dolore mi facevano saltare, anche da bambino, pur così poco qualificato come sono a parlare di quel tempo. I miei piatti, mi sembra d'averli mangiati come, quando e dove più mi faceva comodo. Non mi capitava mai di doverli richiedere. Me li portavano, dove mi trovavo, su un vassoio. Vedo ancora il vassoio, posso rivederlo quasi a piacimento, era rotondo, con una piccola sponda, per impedire che cadesse la roba, e laccato di rosso, con qualche screpolatura qua e là. Inoltre era piccolo, come si conveniva per un vassoio che doveva accogliere solo un piatto e un tozzo di pane. Perché quel poco che mangiavo, me lo cacciavo in bocca con le mani, e le bottiglie, che vuotavo a garganella, me le portavano aperte, in un paniere. Ma questo paniere non mi fece nessuna impressione, né buona né cattiva, e non saprei dire quindi com'era fatto. E spesso, quando m'allontanavo per una ragione o per l'altra, dal luogo in cui m'avevano portato le provviste, non sapevo poi più ritrovarle, quando mi veniva voglia di mangiare. Allora mi mettevo a cercare dappertutto, spesso con esito felice, perché conoscevo abbastanza bene i posti che potevano avermi accolto, ma spesso anche a vuoto. Oppure non cercavo, preferendo la fame e la sete alla fatica di cercare senza sapere già prima che avrei trovato, o alla fatica di reclamare perché mi portassero un altro vassoio e un altro paniere, o gli stessi di prima, nel posto in cui mi trovavo. Allora rimpiangevo la mia pietra da succhiare. E quando per esempio dico preferire, o rimpiangere, non si deve credere che io optassi per il minor male, che l'adottassi, perché sarebbe un errore. Ma non sapendo esattamente quel che facevo o evitavo, lo facevo ed evitavo senza sospettare che un giorno, molto più tardi, sarei stato costretto a ritornare su tutti questi atti e omissioni, impalliditi e abbelliti dalla distanza, per trascinarli nella polluzione eudemonistica. Ma devo dire che da Lousse la mia salute si manteneva press'a poco stabile. Cioè quel che già avevo di guasto si guastava sempre di più, un po' alla volta, come c'era da aspettarsi. Ma non si accese nessun nuovo focolaio di sofferenza o d'infezione, a parte naturalmente quelli generati dall'estendersi delle pletore e deficienze già in loco. A dir la verità è difficile affermare in proposito qualcosa di certo. Perché quanto ai disordini di là da venire, come per esempio la caduta delle dita del piede sinistro, no, mi sbaglio, del piede destro, chi può sapere esattamente quando ne accolsi, oh certo mio malgrado, le funeste sementi? Tutto quel che posso dire, di conseguenza, e mi sforzo di non dir di più, è che proprio durante la permanenza da Lousse non si è manifestato nulla, sul piano patologico, di sorprendente o d'inatteso, nulla che non avessi potuto prevedere se avessi potuto, nulla di paragonabile alla perdita improvvisa di metà delle dita del piede. È una cosa, questa, che non avrei mai potuto prevedere e di cui non sono mai riuscito a penetrare il senso, voglio dire il rapporto con gli altri miei malesseri, probabilmente per mancanza di conoscenze mediche. Perché tutto si connette, nella lunga pazzia del corpo, lo sento bene. Ma non vale la pena di dilungarmi nel racconto di questa frazione della mia... del mio cammino, perché non ha senso, a mio parere. È una mammella che ho un bel strizzare, non vengono fuori altro che bolle e sputi. Aggiungerò quindi soltanto le poche osservazioni che seguono, e di cui la prima è questa, che Lousse era una donna straordinariamente piatta, fisicamente s'intende, tanto che ancora stasera, nel silenzio affatto relativo della mia ultima dimora, mi chiedo se non fosse piuttosto un uomo o perlomeno un androgino. Aveva un aspetto lievemente villoso, o sono io a immaginarlo per comodità della narrazione? L'ho vista così poco, quella disgraziata, e anche così poco osservata. E la sua voce non aveva una strana gravità? È così che m'appare adesso. Non tormentarti, Molloy, uomo o donna, che importanza può avere? Ma non posso dispensarmi dal pormi quest'altra domanda. Una donna avrebbe potuto fermarmi nel mio slancio verso mia madre? Forse. O meglio, un simile incontro era possibile, intendo tra me e una donna? Di uomini ne ho sfiorato qualcuno, ma di donne? E va bene, non nasconderlo più, sì, ne ho sfiorata una. Non parlo di mia madre, lei l'ho ben più che sfiorata. E poi lasceremo mia madre fuori da queste storie, se permettete. Ma di un'altra che avrebbe potuto essere mia madre, e anzi mia nonna credo, se il caso non avesse deciso diversamente. Ma guarda un po' che adesso parlo di caso. È stata lei a farmi conoscere l'amore. Si chiamava col placido nome di Ruth credo, ma non posso giurarlo. Può darsi che si chiamasse Edith. Anche lei era una donna eminentemente piatta e procedeva a rapidi passettini, appoggiata ad una canna d'ebano. Forse anche lei era un uomo, ancora un altro. Ma in questo caso non avrebbero dovuto scontrarsi i nostri testicoli, mentre ci dimenavamo? Forse ella li teneva chiusi in mano, i suoi, proprio per evitarlo. Indossava ampie e burrascose sottovesti, falpalà e altri indumenti intimi che non saprei nominare. Tutta questa roba si sollevava increspandosi e frusciando, poi, stabilito il contatto, vi ricadeva sopra in ampie pieghe, dimodoché io non vedevo nulla fuorché quella nuca gialla e tesa da scoppiare che ogni tanto mordicchiavo, tant'è potente l'istinto. Stringemmo conoscenza su un terreno di periferia, lo riconoscerei tra mille, e dire che s'assomigliano, quei terreni. Non so che cosa fosse venuta a fare. Stavo spostando svogliatamente dei detriti, dicendo probabilmente tra me, perché a quell'età dovevo avere ancora delle idee generali, Ecco la mia vita. Lei non aveva tempo da perdere, quanto a me non avevo niente da perdere, avrei fatto all'amore anche con una capra, pur di conoscere l'amore. Aveva un appartamento grazioso, no non proprio grazioso, ti faceva venir voglia di metterti a sedere e di non alzarti più. Mi piaceva. Era pieno di mobiletti, sotto i nostri colpi disperati il divanetto avanzava sulle sue rotelline, intorno a noi tutto cadeva, succedeva il pandemonio. I nostri rapporti conoscevano anche la tenerezza, lei mi tagliava le unghie dei piedi con mano tremolante e io le strofinavo la groppa con del balsamo Bengué. Il nostro idillio durò poco. Povera Edith, forse le affrettai la fine. Infine fu lei a prendere l'iniziativa, su quel terreno, passando la sua mano sull'abbottonatura dei miei calzoni. In modo più preciso, io me ne stavo chino su un mucchio d'immondizie, sperando di trovare di che disgustarmi d'avere fame, e lei, accostandomi da dietro, fece passeggiare la sua canna tra le mie gambe e cominciò ad accarezzarmi le parti. Dopo ogni passeggiata mi dava dei soldi, proprio a me che avrei accettato di conoscere l'amore a titolo gratuito. L'unica cosa che mi tormenta, in proposito, è l'indifferenza con cui appresi la sua morte, una notte in cui stavo trascinandomi da lei, indifferenza addolcita, è vero, dal disappunto di veder inaridirsi una fonte di rendite. Morì facendo un semicupio tiepido, come faceva di solito prima di ricevermi. Questo la rilassava. Quando penso che avrebbe potuto aspettare di essere fra le mie braccia! Il semicupio si rovesciò e l'acqua sporca si sparse dappertutto e perfino dalla vicina del piano di sotto, che diede l'allarme. Toh, non credevo di conoscere così bene questa storia. Sì, doveva essere comunque una donna, altrimenti lo si sarebbe saputo, nel rione. E vero che per tutto quel che riguarda i problemi sessuali erano estremamente chiusi, nella mia regione. Non so come vada adesso. Ed è possibilissimo che il fatto d'essersi imbattuti in un uomo laddove ci si sarebbe dovuti imbattere in una donna sia stato subito rimosso e dimenticato, da parte di quei pochi che avessero avuto la disgrazia di saperlo. Può anche darsi che tutti ne fossero al corrente, e ne parlassero, escluso me, Ma c'è una cosa che mi tormenta, quando m'interrogo in proposito, ed è proprio il problema di sapere se tutta la mia vita sia trascorsa senz'amore oppure se l'ho conosciuto davvero, con Ruth. Quel che posso dire di sicuro è che non cercai mai di rinnovare l'esperienza, senza dubbio perché intuivo che quella era stata perfetta e unica, nel suo genere, compiuta ed inimitabile, e che l'importante era di conservarne il ricordo, puro da ogni miscuglio, nel mio cuore, a costo di ricorrere ogni tanto ai pretesi buoni uffici del cosiddetto godimento soprannominato solitario. Non venite a parlarmi della servetta, ho fatto male a parlarne, è una vecchia storia, ero ammalato, può darsi che non ci sia mai stata nessuna servetta, nella mia vita. Molloy, o la vita senza servetta. Tutto ciò per dimostrare che il fatto d'aver incontrato Lousse e anzi d'averla frequentata, in certo senso, non prova nulla quanto al suo sesso. E acconsento a continuare a credere che si trattasse di una vecchia donna, vedova e inaridita, e che Ruth ne fosse un'altra, perché anche lei parlava del suo defunto marito e dell'impossibilità in cui si trovava di soddisfare i suoi legittimi furori. E ci sono dei giorni, come stasera, in cui queste due si confondono nella mia memoria e io son tentato di vedervi una sola e medesima vecchia, appiattita ed inferocita dalla vita. E Dio mi perdoni, per schiudervi il fondo del mio terrore, l'immagine di mia madre viene talvolta a sovrapporsi alle loro, cosa veramente insopportabile, per cui c'è da credersi in piena crocifissione, non so perché né ci tengo a saperlo. Ma finalmente lascia Lousse, in una notte calda e afosa, senza dirle addio, che sarebbe stato il meno, e senza che lei tentasse di trattenermi salvo che con dei sortilegi forse. Ma deve avermi visto partire, alzarmi, prendere le stampelle e andarmene, lanciandomi per il libero spazio, con il loro sostegno. Deve aver visto chiudersi dietro di me il cancelletto, perché si chiudeva da sé, grazie ad una molla di trazione, e dovette sapere che me n'ero andato per davvero. Perché lei sapeva come facevo quando andavo al cancelletto e mi limitavo a metter fuori il naso, per ritirarlo dopo un secondo. E non tentò di trattenermi ma forse andò a sedersi accanto alla tomba del cane, che era in certo senso anche la mia, e che, sia detto di sfuggita, ella non aveva affatto seminato d'erba, come avevo creduto, bensì d'ogni sorta di fiorellini multicolori e di erbaggi, selezionati in modo che quando si estinguevano gli uni s'accendevano gli altri, lo sento bene. Le lasciai la bicicletta che aveva cominciato a non piacermi più, sospettando che fosse un veicolo di un'impresa malefica e forse la causa delle mie recenti disgrazie. L'avrei presa lo stesso con me se avessi saputo dov'era e se era in grado di andare. Ma queste cose non le sapevo e avevo paura, occupandomene, di logorare la piccola voce che diceva, Squagliatela, Molloy, prendi le stampelle e squagliatela, e che ci avevo messo un bel po' a capire, perché già da un bel po' la sentivo. E forse la capivo malamente, ma la capivo e proprio questa era la novità. E mi sembrava anche che questa partenza non fosse necessariamente definitiva e che avrebbe potuto un giorno ricondurmi, attraverso giri complessi e informi, al suo focolare. E può darsi che non sia ancora nient'affatto alla fine del mio viaggio. In strada c'era vento, era proprio un altro mondo. Non sapendo dov'ero e quindi neppure in che direzione mi conveniva dirigermi, presi quella del vento. E quando sospeso per bene tra le stampelle mi lanciai in avanti, lo sentivo aiutarmi, quel venticello che soffiava da non so che parte. E quanto alle stelle, non parlatemene, le distinguo a malapena e non so decifrarle, malgrado i miei studi d'astronomia. Entrai invece nel primo riparo che capitò e ci rimasi fino all'alba, perché sapevo che il primo poliziotto m'avrebbe di sicuro sbarrato la strada e chiesto che cosa facessi, domanda alla quale non ho


re la risposta adatta. Ma quello non doveva essere un riparo vero e proprio e non ci rimasi fino all'aalba, perché un uomo vi penetrò poco dopo di me e mi cacciò di là. E dire che, per due, ce n'era di posto. Credo che fosse una specie di guardiano notturno, era un uomo di sicuro, doveva avere la sorveglianza di chissà che lavori di scavo. Vedo un braciere. Doveva far piuttosto fresco. Andai di conseguenza più lontano e mi sistemai sui gradini di una scala in una casa povera, dato che non aveva la porta o la porta non chiudeva, non lo so. Molto prima dell'alba questa casa povera cominciò a svuotarsi. Qualcuno scendeva le scale. Mi strinsi contro il muro. Non fecero attenzione a me, nessuno mi fece del male. Anch'io uscii alla fine, quando lo giudicai prudente, e vagai per la città, alla ricerca di un monumento di mia conoscenza, che mi permettesse di dire, Sono nella mia città, dopo tutto, ci sono sempre rimasto. La città si risvegliava, le soglie si animavano, il rumore raggiungeva un volume già rispettabile. Ma scorgendo uno stretto passaggio tra due alti casamenti mi guardai attorno, poi vi sgattaiolai dentro. Vi si affacciavano solo delle alte finestrelle da una parte e dall'altra, una per ciascun piano. Disposte simmetricamente si fronteggiavano. Erano senz'alcun dubbio le finestre dei gabinetti. Malgrado tutto ci sono ogni tanto delle cose che s'impongono all'intelletto con la forza d'assiomi, senza che si sappia il perché. Il passaggio era senza sbocco, dunque non un passaggio vero e proprio ma semmai un vicolo cieco. In fondo c'erano due incavi, no, non è questa la parola, uno di fronte all'altro, ambedue disseminati di svariati detriti e d'escrementi, di cane e di padrone, gli uni secchi e inodori, gli altri ancora umidi. Ah queste carte che nessuno leggerà più, che nessuno ha mai letto forse. Là di notte ci si doveva accoppiare e scambiare giuramenti. Entrai in uno dei cantucci, non è nemmeno questa la parola, e m'appoggiai contro il muro. Avrei preferito distendermi e nulla mi diceva che non l'avrei fatto. Ma per il momento m'accontentai d'appoggiarmi al muro, con i piedi lontani dal muro, in una posizione sdrucciolante, ma avevo altri punti d'appoggio, le estremità delle stampelle. Ma qualche minutò più tardi attraversai il vicolo cieco per andare nell'altra cappella, ecco, in cui mi sembrava che sarei stato un po' meglio, e mi ci disposi nello stesso atteggiamento a ipotenusa. E dapprima mi parve di stare effettivamente un po' meglio. Ma a poco a poco ebbi la certezza che non era mica così. Cadeva una pioggia fine e io mi tolsi il cappello perché ne approfittasse il cranio tutto rugoso e screpolato e scottante, scottante. Ma me lo tolsi anche perché mi s'incastrava nella nuca, per via della spinta del muro. Avevo dunque due buone ragioni per togliermelo e non erano di troppo, una sola non m'avrebbe mai deciso a farlo, credo. Lo buttai via con gesto incurante e generoso ed esso tornò verso di me, all'estremità del mio cordone o laccio, e dopo qualche sussulto rimase immobile, contro il mio fianco. Infine mi misi a riflettere, cioè a stare maggiormente ad ascoltare. Poco probabile che mi trovassero là così, potevo star tranquillo per tutto il tempo in cui avrei sopportato la tranquillità. Per un attimo esaminai la possibilità di stabilirmi lì, di farne la mia dimora e il mio rifugio, per un attimo. Estrassi di tasca la roncola e con questa tentai di tagliarmi le vene del polso. Ma il dolore ebbe presto il sopravvento. Dapprima gridai, poi mi trattenni, richiusi la roncola e me la rimisi in tasca. La mia delusione non fu poi grande, in fondo non avevo preveduto un risultato diverso. Ecco. Mi ha sempre rattristato il fatto di ricadere nella colpa, ma la vita, si direbbe, è fatta di recidive e anche la morte dev'essere una specie di recidiva, non me ne stupirei affatto. Ho detto che il vento era scemato? Una pioggia fine che cade, esclude proprio ogni idea di vento in un certo senso. Ho delle ginocchia enormi, l'ho appena visto, sollevandomi per un attimo. Le mie gambe sono rigide come la giustizia e tuttavia di tanto in tanto mi sollevo. Cosa volete farci. Così di tanto in tanto ricorderò la mia esistenza attuale di cui quella che racconto non può dare che una pallida idea. Ma solo ogni tanto, così da potersi dire, caso mai. Ma è mai possibile che costui viva ancora? O ancora, Ma questo è un diario intimo, la smetterà presto. Che io abbia delle ginocchia enormi, che mi sollevi ogni tanto, sulle prime non si capisce bene che cosa possa voler dire davvero. Vi faccio tanto più volontieri caso. Uscito dunque finalmente dal vicolo cieco, dove mezzo in piedi mezzo coricato forse avevo appena fatto un breve sonnellino, perché era proprio la mia ora per questo, mi diressi, credetemi se vi pare, verso il sole, in mancanza d'altro, poiché il vento era scemato. O meglio verso il settore meno cupo del cielo che una vasta nuvolaglia copriva dallo zenit fino all'orizzonte. È da questa nuvolaglia che cadeva la pioggia a cui ho accennato. Vedete come tutto è connesso. E quanto a giudicare quale fosse il settore meno cupo del cielo, non era una cosa facile davvero. Perché a prima vista il cielo appariva uniformemente cupo. Ma scomodandomi un po', perché nella vita ogni tanto mi scomodavo, giunsi a un risultato, presi cioè una decisione, in proposito. Ciò mi permise di riprendere il cammino, dicendo tra me, Vado verso il sole, cioè in linea di massima verso est, o forse sud-est, perché non sto più da Lousse, ma di nuovo nel bel mezzo dell'armonia prestabilita, che produce una musica tanto dolce, che è una musica tanto dolce, per chi sa intenderla. La gente andava e veniva con un passo per lo più irritato e precipitoso, chi al riparo del proprio ombrello, chi sotto la protezione forse un po' meno efficace del mantello impermeabile. E vedevo anche certuni che si erano rifugiati sotto un albero o sotto delle arcate. E fra quelli che, più coraggiosi e meno delicati, andavano e venivano, e fra quelli che si erano fermati per inzupparsi meno di pioggia, ve n'erano parecchi che dicevano tra sé, Farei meglio a far come loro, intendendo per loro la categoria di cui non facevano parte, almeno suppongo. Come dovevano pur essercene molti che si compiacevano della loro disinvoltura, pur bestemmiando contro il tempaccio che li costringeva a ricorrervi. Ma scorgendo un giovane vegliardo d'aspetto miserabile, solo e tremante di freddo sotto una piccola tettoia, mi ricordai improvvisamente del progetto concepito il giorno del mio incontro con Lousse e col suo cane e che quest'incontro m'aveva impedito di condurre a termine. Andai dunque a piazzarmi accanto al vecchio, assumendo, lo speravo almeno, l'aria di quello che dice tra sé, Quello là è un furbo, adesso faccio come lui. Ma prima che avessi il tempo di rivolgergli la parola, che desideravo spontanea e quindi non immediata, se ne uscì sotto la pioggia e s'allontanò. Perché si trattava di una parola suscettibile, quanto al suo contenuto, se non proprio d'offendere almeno di stupire. E proprio per questo era importante pronunciarla al momento giusto e nel tono adatto. Mi scuso di tutti questi particolari, ma fra poco andrò più svelto, molto più svelto. Senza escludere la possibilità di una ricaduta in tratti meticolosi e fetidi. Ma che a loro volta daranno origine a dei grandi affreschi, dipinti con disgusto. All'homo mensura occorre l'accessorio ornamentale. Eccomi dunque solo a mia volta sotto la tettoia. Non mi aspettavo che qualcuno venisse a mettercisi sotto, accanto a me, eppure non escludevo una possibilità simile. Questa è una caricatura abbastanza buona del mio stato d'animo in quel momento. Risultato, rimasi dov'ero. Avevo portato con me da casa Lousse un po' d'argenteria, oh non granché, per lo più cucchiaini da caffè massicci, e poi qualche altro oggettino di cui non riuscivo ad afferrare l'utilità ma che sembrava aver qualche valore. Tra quest'ultimi ce n'era uno che, ogni tanto, m'arrovella ancora. Consisteva in due X riunite, all'altezza dell'intersezione, da una sbarra, e assomigliava ad un minuscolo cavalletto da taglialegna, con questa differenza però, che le X del vero cavalletto non sono delle X perfette, ma troncate in alto, mentre le X dell'oggettino di cui parlo erano perfette, composte cioè ciascuna da due V identiche, una superiore aperta in alto, come d'altronde tutte le V, e l'altra inferiore aperta in basso, o più precisamente da quattro V rigorosamente uguali, le due che ho appena nominato e poi altre due, una a destra, l'altra a sinistra, aventi l'apertura rispettivamente a destra e a sinistra. Ma forse parlare di destra e di sinistra, d'inferiore e di superiore, in questo caso, è fuori luogo. Perché quest'oggettino non sembrava avere propriamente una base, ma rimaneva ugualmente stabile su una qualunque delle quattro basi e senz'affatto mutare aspetto, il che non succede per il vero cavalletto. Credo d'avercelo ancora in qualche posto, questo strano strumento, non essendomi mai potuto decidere a rivenderlo, anche nell'estremo bisogno, perché non ce la facevo a capire a che cosa potesse servire e neanche a formulare un'ipotesi qualsiasi in proposito. E ogni tanto lo cavavo di tasca e lo fissavo, con uno sguardo stupito e non direi affettuoso, perché non ero capace d'affetto, io. Ma per un po' di tempo m'ispirò, credo, una specie di venerazione, perché ritenevo per certo che non fosse un oggetto d'arte, ma che avesse una funzione assai specifica che mi rimaneva ancora celata. Potevo quindi interrogarlo senza fine e senza pericolo. Perché non saper nulla, è cosa da nulla, non voler saper nulla anche, ma non poter saper nulla, sapere di non poter sapere nulla, ecco per dove passa la pace, nell'anima del ricercatore incurioso. Proprio allora comincia la vera divisione, di ventidue per sette per esempio, e i quaderni si riempiono finalmente di vere cifre. Ma in proposito non vorrei affermare niente. Quel che invece mi sembra innegabile è che, vinto dall'evidenza, o meglio da una fortissima probabilità, uscii dalla tettoia e mi misi ad altalenare lentamente in avanti attraverso l'atmosfera. L'andatura di chi cammina con le stampelle ha proprio, dovrebbe proprio avere, qualcosa d'esaltante. Perché si tratta proprio di una serie di piccoli voli, a fior di terra. Si decolla, si atterra, in mezzo alla folla dei sani di gambe, che non osano sollevare un piede dal suolo prima di avervi inchiodato l'altro. E neanche la loro corsa più gioconda è più aerea del mio zoppicare. Ma sono ragionamenti, questi, basati sull'analisi. E benché il pensiero di mia madre fosse sempre presente nella mia mente, come pure il desiderio di sapere se mi trovassi dalle sue parti, tuttavia cominciavano ad esserlo meno, forse per via dell'argenteria che avevo nelle tasche, ma in fondo non lo credo, e poi anche perché questi erano pensieri vecchi e la mente non può rimuginare sempre gli stessi pensieri, ma ha bisogno di cambiar pensieri ogni tanto, per poter riprendere quelli vecchi al momento buono, con accresciuto vigore. Ma qui è proprio il caso di parlare di pensieri vecchi e nuovi? Non lo penso proprio. Ma mi sarebbe difficile fornirne la prova. Quel che posso affermare, senza timore di — senza timore, è che mi diventava particolarmente indifferente sapere in che città fossi e se avrei raggiunto presto mia madre per regolare la faccenda che c'interessava. E per conto mio, anche la natura di questa faccenda stava perdendo consistenza, senza tuttavia dissolversi del tutto. Perché non era una faccenduola, e io ci tenevo. Ci avevo tenuto per tutta la vita, credo. Sì, nella misura in cui potevo tenere a qualcosa, per tutta la durata di una vita simile, avevo tenuto a saldare questa faccenda tra mia madre e me, ma non avevo potuto farlo. E pur dicendo tra me che il tempo incalzava e che ben presto sarebbe stato troppo tardi, che poteva darsi che lo fosse già, per procedere al saldo in questione, sentivo d'andare deviando verso altri pensieri, altri fantasmi. E assai più che di sapere in che città mi trovassi adesso non vedevo l'ora d'uscirmene, anche se fosse stata quella giusta, quella in cui mia madre aveva tanto aspettato e forse aspettava ancora. E mi sembrava che andando in linea retta avrei finito, necessariamente, per uscirne. È proprio a questo che m'applicai, con tutta la mia scienza, tenendo conto dello spostamento verso destra del debole chiarore che mi guidava. E mi ci accanii tanto, e così bene, che giunsi effettivamente alle porte, al cader della notte, dopo aver fatto di sicuro almeno un quarto di cerchio, per inabilità a navigare. Ma bisogna anche dire che non mi ero risparmiato soste, tanto per riposarmi, ma soste brevi, perché mi sentivo pedinato, a torto di sicuro. Ma in campagna c'è un'altra giustizia, e, per i primi tempi, altri giustizieri. E varcate le porte devo avere riconosciuto che il cielo si schiariva, prima di ricoprirsi con un altro sudario, quello della notte. Sì, il grande annuvolamento si sfilacciava, per lasciar sbucare qua e là un pallido cielo morente. E il sole, senza essere esattamente visibile come disco, si manifestava con certe faville gialle e rosa, che si slanciavano verso lo zenit, ricadendo, slanciandosi di nuovo, sempre più deboli e rade, e destinate ad estinguersi appena accese. Questo fenomeno, se mi posso fidare delle mie osservazioni, era caratteristico della mia regione. Forse oggi non è più così. Anche se non riesco a veder bene, non essendo mai uscito dalla mia regione, con che diritto possa parlare delle sue caratteristiche. No, non sono mai fuggito di qui, e non conoscevo neanche i confini della mia regione. Ma li credevo abbastanza remoti. Ma questa credenza non era basata su niente di serio, era solo una semplice credenza. Perché se la mia regione avesse avuto una fine alla portata dei miei passi, mi sembra che una specie di sfumatura me l'avrebbe fatto presentire. Perché, le regioni non terminano bruscamente, che io sappia, ma si fondono insensibilmente una nell'altra. E io non ho mai notato niente di simile. Ma per quanto lontano sia andato, in un senso e nell'altro, c'è sempre stato lo stesso cielo, la stessa terra, proprio così, giorno per giorno, notte per notte. D'altra parte, se le regioni si fondono insensibilmente una nell'altra, cosa che dev'essere ancora dimostrata, è possibile che, dalla mia, me ne sia uscito parecchie volte, credendo d'esserci ancora. Ma preferivo continuare ad aderire alla semplice credenza che avevo, quella che mi diceva, Molloy, la tua regione è vastissima, tu non ne sei mai uscito e non ne uscirai mai. E dovunque tu vada errando, entro i suoi vasti confini, sarà sempre lo stesso, né più né meno. Ciò farebbe supporre che i miei spostamenti non dipendessero affatto dai luoghi che essi facevano sparire, ma che fossero dovuti ad altre cose, alla ruota invisibile che, per esempio, mi trasportava, con imprevedibili strattoni, di fatica in riposo, e viceversa. Ma adesso non vado più errando, da nessuna parte, e anzi non mi muovo quasi, eppure non è cambiato nulla. E i confini della mia stanza, del mio letto, del mio corpo, mi sono altrettanto lontani di quelli della mia regione, all'epoca del mio splendore. E il ciclo continua, sobbalzante, di fughe in bivacchi, in un Egitto senza confini, senza figlio e senza madre. E quando mi osservo le mani, sulla coperta, che già si prendono piacere a spiegazzare, esse non mi appartengono, meno che mai mi appartengono, non ho affatto braccia, io, sono una coppia, giocano con la coperta, forse sono giochi amorosi, forse stanno per montare l'una sull'altra. Ma tutto ciò non dura molto, a poco a poco le riconduco verso di me, è il riposo. E quanto ai piedi è la stessa cosa, talvolta, quando li vedo in fondo al letto, uno con le dita, l'altro senza. E ciò è ben altrimenti degno di rilievo. Perché le gambe, che qui rimpiazzano le braccia di poco fa, sono tutt'e due rigide adesso e sensibilissime, e non dovrei poterle dimenticare come posso dimenticarmi delle braccia, che sono per così dire intatte. Eppure le dimentico e mi metto a guardare la coppia che si sta osservando, lontano da me. Ma i piedi, quando ridiventano tali, non li riconduco verso di me, perché non posso, ma rimangono là, lontano da me, anche se meno lontano di prima. Fine del richiamo. Ma si direbbe che una volta decisamente uscito dalla città, ed essendomi voltato per guardarla, in una porzione del suo insieme, si direbbe che in quel momento avrei dovuto accorgermi se quella fosse o no appunto la mia città. Macché, la guardai invano, e forse senza interrogarla in nessun modo, e semplicemente per sollecitare il destino, voltandomi. Può darsi che fingessi semplicemente di guardarla. Non avevo il senso di rimpiangere la bicicletta, no, proprio no. Non mi ripugnava granché, come ho già detto, di procedere sfiorando la terra, nel buio, per i sentieri deserti della campagna. E tra me dicevo che avevo poche probabilità d'essere disturbato e che sarei stato io semmai a disturbare gli altri, se m'avessero visto. È proprio al mattino che bisogna nascondersi. La gente si sveglia, fresca e ben disposta, assetata d'ordine, di bellezza e di giustizia, e pretende la controparte. Sì, il periodo pericoloso è dalle otto o dalle nove fino a mezzogiorno. Ma verso mezzogiorno tutto si calma, i più inesorabili sono sazi, tornano a casa, non è tutto perfetto ma è stato fatto un buon lavoro, c'è chi è riuscito a scamparla ma non è molto pericoloso, ciascuno pensa ai fatti suoi. Nel primo pomeriggio la storia può ricominciare, dopo il banchetto, le celebrazioni, le congratulazioni, le allocuzioni, ma in confronto alla mattina son rose e fiori, dello sport, non di più. Verso le quattro o le cinque c'è la squadra notturna, le guardie di notte, che cominciano ad agitarsi, questo è evidente. Ma ormai il giorno è alla fine, le ombre si allungano, i muri si moltiplicano, si rasentano i muri, saggiamente curvi, pronti alla ossequiosità non avendo nulla da nascondere, nascondendosi solo per paura, senza guardare né a destra né a sinistra, nascondendosi ma non al punto da suscitare le ire, pronti a farsi vedere, a sorridere, ad ascoltare, a strisciare, nauseabondi senza essere pestilenziali, più rospi che topi. Poi c'è la vera notte, pericolosa anch'essa, ma favorevole a chi la conosca, a chi sappia aprircisi come il fiore al sole, a chi è notte pure lui, giorno e notte. No, non è eccellente neanche lei, la notte, ma rispetto al giorno è eccellente, e specialmente rispetto alla mattina è incontestabilmente eccellente. Perché l'epurazione a cui si procede qui, è assicurata da tecnici, per lo più. Non fanno altro, il grosso della popolazione, tutto considerato, non vi partecipa, preferendo dormire. Si lincia di giorno, e soprattutto di mattina, tra la prima colazione e il pranzo, dato che il sonno è sacro. Mio primo pensiero dunque, dopo aver fatto qualche miglio nell'alba deserta, fu di cercare un luogo in cui dormire, perché anche il sonno è una specie di protezione, anche se ciò può sembrar paradossale. Perché il sonno, se suscita l'istinto di cattura, sembra acquietare quello dell'uccisione immediata e cruenta, qualsiasi cacciatore ve lo può dire. Con il mostro che si sposta, o che sta in agguato, acquattato nella sua tana, si è spietati, mentre quello che si lascia sorprendere mentre dorme ha qualche probabilità di poter contare su sentimenti diversi, che fanno abbassare la canna e ringuainare il kriss. Perché in fondo il cacciatore non è altri che un debole e un sentimentale, con delle riserve di dolcezza e di compassione che chiedono soltanto di espandersi. Ed è proprio al dolce sonno dello sfinimento, o del terrore, che parecchie bestie feroci, e degne di sterminio, debbono la possibilità di attendere tranquillamente la fine dei loro giorni al giardino zoologico, dove spesso prorompe la gioia innocente dei bambini e quella più ragionata degli adulti, di domenica e nei giorni di vacanza. E per quel che mi riguarda personalmente, ho sempre preferito la schiavitù alla morte, o meglio all'uccisione. Perché la morte è una condizione di cui non sono mai riuscito a farmi un'idea soddisfacente e che quindi non può essere legittimamente presa in considerazione, nel bilancio dei mali e dei beni. Invece sull'uccisione avevo delle nozioni che m'ispiravano fiducia, a ragione o a torto, e alle quali mi pareva lecito riferirmi in determinate circostanze. Oh non erano nozioni come le vostre, erano nozioni come le mie, tutte a sussulti, a sudori e tremori, in cui non penetrava neanche un atomo di buon senso o di sangue freddo. Ma mi accontentavo. Ma per farvi intravvedere fino a che punto arrivava la confusione delle mie idee sulla morte, vi dirò con franchezza che non escludevo la possibilità che fosse ancor peggio della vita, in quanto condizione. Non precipitarvi dentro, dunque, lo trovavo normale e così fermarmi in tempo quando mi distraevo al punto da provarmici. È l'unica scusa che ho. M'infilai dunque in una buca qualsiasi probabilmente e, mezzo dormendo, mezzo sospirando, piagnucolando e ridendo, o passandomi le mani sul corpo, per vedere se non c'erano stati dei cambiamenti, aspettai che la frenesia mattutina si calmasse. Poi ricominciai le mie spirali. E quanto al dire cosa diventassi, e dove andassi, nei mesi se non negli anni che seguirono, non ne ho proprio intenzione. Perché incomincio ad averne abbastanza di queste invenzioni e altre ancora mi chiamano. Ma tanto per annerire qualche pagina ancora dirò che trascorsi qualche tempo in riva al mare, senza incidenti. C'è della gente alla quale il mare non fa bene, che preferisce la montagna o la pianura. Personalmente non ci sto poi peggio che altrove. Gran parte della mia vita si è infranta davanti a questa fremente immensità, al rumore delle onde grandi e piccole e degli artigli della risacca. Cosa dico davanti, allo stesso livello, disteso sulla sabbia o in un grotta. Nella sabbia ero nel mio elemento, la facevo scorrere tra le dita, vi scavavo delle buche che subito ricolmavo o che si riempivano da sé, la gettavo in aria a piene mani, mi ci rotolavo. E quanto alla grotta, dove di notte penetravano le luci dei fari, conoscevo il modo di non starci peggio che altrove. E che la mia terra non andasse più lontano, almeno da un lato, non mi dispiaceva proprio. E sentire che c'era almeno una direzione in cui non potevo andare, senza prima bagnarmi e poi annegare, mi era davvero dolce. Perché mi sono sempre detto, Prima impara a camminare, in seguito prenderai delle lezioni di nuoto. Ma non crediate che la mia regione si fermasse al litorale, no, sarebbe un grave errore. Perché essa era anche questo mare, le sue scogliere, le sue isole lontane, e i suoi abissi nascosti. E anch'io vi ero andato in gita, in una specie di canotto senza remi, ma mi ero costruito una pagaia. E mi chiedo talvolta se son mai tornato, da questa gita. Perché se mi vedo mettermi in mare, e remare a lungo sui flutti, non vedo il ritorno, la danza sui frangenti, e non sento scricchiolare la fragile carena sulla riva. Approfittai di questo soggiorno per far provvista di pietre da succhiare. Erano dei ciottoli ma io li chiamo pietre. Sì, quella volta ne feci una considerevole riserva. Le distribuii equamente fra le mie quattro tasche e le succhiavo a turno. Questo fatto poneva un problema che dapprima risolsi nel modo seguente. Avevo supponiamo sedici pietre, quattro in ognuna delle quattro tasche che erano le due tasche dei miei calzoni e le due tasche del mio mantello. Nel prendere una pietra dalla tasca destra del mantello, e nel mettermela in bocca, la sostituivo nella tasca destra del mantello con una pietra della tasca destra dei calzoni, che sostituivo con una pietra della tasca sinistra dei calzoni, che sostituivo con una pietra che si trovava nella mia bocca, appena finito di succhiarla. Così c'erano sempre quattro pietre in ognuna delle quattro tasche, ma nient'affatto le stesse pietre. E quando mi riprendeva la voglia di succhiare attingevo di nuovo alla tasca destra del mantello, con la certezza di non prendervi la stessa pietra dell'ultima volta. E così via. Ma questa soluzione mi lasciava soddisfatto solo a metà. Perché non mi sfuggiva la possibilità che, per effetto di un caso straordinario, si trattasse sempre delle stesse quattro pietre che circolavano. E in tal caso, lungi dal succhiare le sedici pietre a turno, ne succhiavo in realtà solo quattro, sempre le stesse, a turno. Ma le rimescolavo per bene nelle tasche, prima di mettermi a succhiare, e durante la succhiata, prima di procedere ai trasferimenti, nella speranza di render generale la circolazione delle pietre, di tasca in tasca. Ma non era che un andare avanti alla meno peggio di cui un uomo come me non avrebbe potuto accontentarsi, a lungo andare. Mi misi dunque a cercare qualcos'altro. E prima di tutto mi chiesi se non avrei fatto meglio a trasferire le pietre a quattro a quattro, invece che a una a una, cioè a prendere, mentre succhiavo, le tre pietre rimaste nella tasca destra del mantello e a mettere al loro posto le quattro della tasca destra dei calzoni, e al posto di queste le quattro della tasca sinistra dei calzoni, e al posto di queste ancora le quattro della tasca sinistra del mantello, e finalmente al posto di quest'ultime le tre della tasca destra del mantello più quella, appena avessi finito di succhiarla, che si trovava nella mia bocca. Sì, dapprima mi sembrava che così facendo sarei arrivato a un risultato migliore. Ma, ripensandoci, dovetti cambiar parere e confessare a me stesso che la circolazione delle pietre in gruppi di quattro otteneva esattamente lo stesso risultato della loro circolazione per unità. Perché se ero sicuro di trovare ogni volta, nella tasca destra del mantello, quattro pietre totalmente diverse da quelle che le avevano immediatamente precedute, nondimeno sussisteva la possibilità di capitare sempre sulla stessa pietra, all'interno di ciascun gruppo di quattro, e che di conseguenza, invece di succhiare le sedici a turno, come avrei desiderato, avrei finito per succhiarne realmente solo quattro, sempre le stesse, a turno. Era necessario quindi qualcosa di diverso dal sistema di circolazione. Perché in qualsiasi maniera avessi fatto circolare le pietre, ricadevo sempre nella stessa incertezza. Era evidente che aumentando il numero delle tasche avrei aumentato contemporaneamente le probabilità che avevo d'approfittare delle pietre com'era nelle mie intenzioni, cioè una dopo l'altra fino a esaurimento del numero. Se avessi avuto, per esempio, otto tasche invece delle quattro che avevo, anche il caso più malevolo non avrebbe potuto impedirmi che di sedici pietre ne succhiassi almeno otto, a turno. Per farla finita avrei avuto bisogno di sedici tasche per essere del tutto tranquillo. E per un bel pezzo mi fermai a questa conclusione, che salvo aver sedici tasche, ciascuna con la sua pietra, non sarei mai arrivato al fine che mi ero proposto, a meno di un caso straordinario. E se si poteva pensare di raddoppiare il numero delle tasche, dividendo semplicemente ciascuna tasca in due, mediante supponiamo qualche spilla doppia, il quadruplicarle mi sembrava che superasse le mie possibilità. E non ci tenevo a far fatica per delle mezze misure. Perché cominciavo a perdere il senso della misura, da quando avevo cominciato a dibattermi in questa storia e a dire tra me, O tutto o nulla. E se per un attimo considerai la possibilità di stabilire una proporzione più equa tra le pietre e le tasche riducendo quelle al numero di queste, fu per un attimo soltanto. Perché sarebbe stato un darmi per vinto. E seduto sulla spiaggia, davanti al mare, con le sedici pietre allineate dinanzi agli occhi, le stavo a contemplare incollerito e perplesso. Perché come mi era difficile sedere su una sedia, o in una poltrona, per via della gamba rigida, capite, così altrettanto facilmente mi sedevo per terra, per via della gamba rigida e della gamba che stava irrigidendosi, perché fu proprio verso quest'epoca che la gamba buona, buona nel senso che non era rigida, cominciò ad irrigidirsi. Mi occorreva, capite bene, un sostegno sotto il garretto, e anzi sotto tutta la lunghezza della gamba, il sostegno della terra. E mentre stavo a guardare così le pietre, ruminando tutte le sistemazioni possibili, tutte indistintamente difettose, e schiacciando manciate di sabbia, così che la sabbia mi scorreva tra le dita e ricadeva sulla spiaggia, sì, mentre mantenevo così occupata la mente e una parte del corpo, un giorno improvvisamente scopersi, in un barlume, che forse avrei potuto raggiungere i miei scopi senz'aumentare il numero delle tasche, né ridurre quello delle pietre, ma semplicemente sacrificando il principio dello stivamento. Ci volle un po' di tempo perché penetrassi il significato di questa proposizione, che si mise improvvisamente a cantare dentro di me, come un versetto di Isaia o di Geremia, e in particolare mi rimase oscuro per un pezzo il termine stivamento, che non conoscevo. Ma infine credetti d'indovinare che il termine stivamento non poteva aver significato migliore o diverso da quello della distribuzione delle sedici pietre in quattro gruppi di quattro, un gruppo per ciascuna tasca, e che era stato proprio il rifiuto di prospettare una distribuzione diversa da quella ad aver deformato tutti i miei calcoli fino allora e reso il problema veramente insolubile. Ed è proprio a partire da quest'interpretazione, fosse poi quella buona o no, che riuscii finalmente a giungere a una soluzione, una soluzione certo poco elegante, ma solida, proprio solida. Ora, che esistesse, anzi che esista tuttora, qualche altra soluzione a questo problema, altrettanto solida di quella che adesso cercherò di descrivere, ma più elegante, non stento a crederlo, anzi lo credo fermamente. E credo anche che con un po' più di testardaggine, un po' più di resistenza, avrei potuto trovarla io stesso. Ma ero stanco, proprio stanco, e fiaccamente mi accontentavo della prima soluzione di questo problema, qualunque fosse. E senza stare a ricapitolare le tappe, gli affanni, attraverso i quali passai prima di trovare una via d'uscita, eccola questa soluzione, in tutta la sua schifezza. C'era soltanto (soltanto!) da mettere, ad esempio, tanto per cominciare, sei pietre nella tasca destra del mantello, perché è sempre questa la tasca distributrice, cinque nella tasca destra dei calzoni, che faceva, due volte cinque più sei, in totale sedici, e nessuna, perché non ne avanzavano, nella tasca sinistra del mantello, che per il momento rimaneva vuota, vuota di pietre s'intende, perché il suo contenuto abituale c'era sempre, come anche degli oggetti di passaggio, perché dove credete che andassi a cacciare la roncola, l'argenteria, la cornetta e tutto il resto che non ho nominato ancora, che forse non nominerò mai? Bene. Adesso posso cominciare a succhiare. Statemi a vedere. Prendo una pietra dalla tasca destra del mantello, la succhio, non la succhio più, la metto nella tasca sinistra del mantello, quella vuota (di pietre). Prendo una seconda pietra dalla tasca destra del mantello, la succhio, la metto nella tasca sinistra del mantello. E così via finché la tasca destra del mantello non si svuota (a parte il suo contenuto abituale e di passaggio) e finché le sei pietre che ho appena succhiate, una dopo l'altra, non siano tutte nella tasca sinistra del mantello. Allora, fermandomi e concentrandomi, perché si tratta di non far coglionate, trasferisco nella tasca destra del mantello, dove non ci sono più pietre, le cinque pietre della tasca destra dei calzoni, che sostituisco con le cinque pietre della tasca sinistra dei calzoni, che sostituisco con le sei pietre della tasca sinistra del mantello. Ecco che quindi, di nuovo, non ci sono più pietre nella tasca sinistra del mantello, mentre la tasca destra del mantello è rifornita di nuovo, e nella maniera giusta, cioè di pietre diverse da quelle che ho appena succhiato e che a loro volta mi metto a succhiare, l'una dopo l'altra, e a trasferire via via nella tasca sinistra del mantello, con la certezza, nella misura in cui la si può avere in quest'ordine d'idee, di non succhiare le stesse pietre di prima, ma delle altre. E quando la tasca destra è di nuovo vuota (di pietre), e le cinque che ho appena succhiato si trovano tutte senza eccezione nella tasca sinistra del mantello, allora procedo all'identica ridistribuzione di prima, o a una distribuzione analoga, cioè a trasferire alla tasca destra del mantello, nuovamente disponibile, le cinque pietre della tasca destra dei calzoni, che sostituisco con le sei pietre della tasca sinistra dei calzoni, che sostituisco con le cinque pietre della tasca sinistra del mantello. Ed eccomi pronto a ricominciare. Debbo continuare? No, perché alla fine della prossima serie, di succhiamenti e di trasferimenti, è chiaro che la situazione iniziale sarà stata ristabilita, avrò cioè di nuovo le prime sei pietre nella tasca distributrice, le cinque successive nella tasca destra dei miei vecchi calzoni e finalmente le ultime cinque nella tasca sinistra degli stessi, e le mie sedici pietre saranno state succhiate una prima volta secondo un'impeccabile successione, senza che neppure una sia stata succhiata due volte, senza che neppure una sia rimasta insucchiata. È vero che ricominciando non potevo sperar troppo di succhiarmi le pietre nello stesso ordine della prima volta, e che, per esempio, la prima, settima e dodicesima del primo ciclo potevano benissimo non essere che la sesta, undicesima e sedicesima rispettivamente del secondo, a voler essere pessimisti. Ma questo era un inconveniente che non potevo proprio evitare. E se nei cicli presi complessivamente doveva regnare una confusione inestricabile, all'interno di ogni ciclo almeno stavo tranquillo, abbastanza tranquillo insomma, quanto lo si può essere in questo genere di attività. Perché infatti ciascun ciclo potesse essere uguale, quanto alla successione delle pietre in bocca, e Dio sa quanto ci tenessi, avrei avuto bisogno o di sedici tasche o di pietre numerate. E piuttosto di farmi dodici tasche in più o di numerare le pietre, preferivo accontentarmi della tranquillità tutta relativa che potevo assicurarmi all'interno di ciascun ciclo separatamente preso. Perché non ci sarebbe stato solo da numerare le pietre, ma avrei dovuto, ogni volta che mi fossi ficcato una pietra in bocca, ricordarmi necessariamente il numero giusto e cercarlo nelle tasche. Cosa che m'avrebbe fatto passare in pochissimo tempo la voglia di succhiare pietre. Perché non sarei mai stato sicuro di non sbagliarmi, a meno di possedere una specie di registro, su cui avrei potuto segnare le pietre, a mano a mano che le succhiavo. Cosa di cui mi ritenevo incapace. No, l'unica soluzione perfetta sarebbe stata nelle sedici tasche, disposte simmetricamente, ciascuna con la sua pietra. Allora non avrei avuto bisogno né di numeri né di riflessioni, ma soltanto di far procedere, mentre succhiavo una data pietra, le altre quindici, ognuna di una tasca, lavoro abbastanza delicato se volete, ma alla mia portata, e di attingere sempre alla medesima tasca quando avessi avuto voglia di succhiare. In tal modo sarei stato tranquillo, non soltanto all'interno di ogni ciclo separatamente preso, ma anche per l'insieme dei cicli, anche se fossero stati senza fine. Ma questa mia soluzione, per imperfetta che fosse, ero piuttosto contento di averla trovata da solo, sì, abbastanza contento. E se era meno solida di quel che avevo creduto, nel primo entusiasmo della scoperta, pure la sua ineleganza rimaneva intatta. E, secondo me, era inelegante soprattutto per questo, che la distribuzione disuguale delle pietre mi era faticosa, fisicamente. È vero che a un certo momento, all'inizio di ogni ciclo, si stabiliva una specie d'equilibrio, vale a dire dopo la terza succhiata e prima della quarta, ma ciò non durava molto. E per il resto del tempo sentivo il peso delle pietre che mi stiracchiava, ora a destra, ora a sinistra. Si trattava dunque di qualcosa di più di un semplice principio, quello a cui rinunciavo, rinunciando allo stivamento, si trattava di un bisogno fisico. Ma succhiare le pietre nel modo che ho detto, non importa come, ma con metodo, anche questo era un bisogno fisico. Si trattava dunque di due bisogni fisici messi a confronto, inconciliabili. Son cose che capitano. Ma in fondo me ne infischiavo profondamente di sentirmi squilibrato, stiracchiato a destra, a sinistra, avanti, indietro come pure mi era del tutto indifferente il succhiare ogni volta una pietra diversa o sempre la stessa, fosse stato per tutti i secoli dei secoli. Perché tutte avevano esattamente lo stesso sapore. E se ne avevo raccolte sedici, non era mica stato per zavorrarmi in un modo qualsiasi, o per succhiarle a turno, ma semplicemente per averne una piccola scorta, per non restarne senza. Ma quanto a restarne senza in fondo me ne fregavo lo stesso, quando non ne avessi più avute non ne avrei più avute, non mi sarei sentito affatto peggio, o talmente poco. E la soluzione dalla cui parte finii per schierarmi, fu quella di sbattere tutte queste pietre in aria, salvo una, che conservai ora in una tasca, ora in un'altra, e che naturalmente non tardai a perdere, o a buttar via, o ad inghiottire. Era una zona della costa, quella, abbastanza selvaggia. Non ricordo d'esser stato seriamente molestato, qui. Quel punto nero che ero io, nella pallida immensità delle sabbie, come volergli male? Si avvicinavano, sì, per vedere che cosa fosse, se non si fosse trattato di un oggetto prezioso, proveniente da un naufragio e respinto dalla tempesta. Ma vedendo che il relitto viveva, decentemente anche se poveramente vestito, se ne andavano via. Qualche vecchia, e in fede mia anche qualche giovane, arrivate là per raccogliere legna, le prime volte si eccitavano alla mia vista. Ma erano sempre le stesse e io avevo un bel spostarmi, finivano tutte per sapere che cosa fossi e si tenevano a distanza. Credo che un giorno una di loro, staccandosi dalle compagne, sia venuta ad offrirmi da mangiare e che io sia stato a guardarla senza rispondere, finché non si ritirò. Sì, mi sembra che a quell'epoca si sia verificato un qualche fatto di questo tipo. Ma forse mi confondo con un'altra sosta, precedente, perché sarà proprio questa la mia ultima, la mia penultima, non può esserci ultima, in riva al mare. Comunque sia vedo una donna che, nel venire verso di me, ogni tanto si ferma e si volta verso le sue compagne. Strette insieme come pecore quelle la guardano mentre si allontana e le fanno segni d'incoraggiamento, forse ridendo, perché mi par di sentir ridere, in lontananza. Poi la vedo di schiena, ritorna sui suoi passi, ed è verso di me questa volta che si volta, ma senza fermarsi. Ma forse fondo in una sola due occasioni, e due donne, una che viene verso di me, con timidezza, seguita dalle grida e dalle risa di queste compagne, e l'altra che si allontana, con passo piuttosto deciso. Perché la gente che veniva verso di me, per lo più la vedevo venire da lontano, è proprio uno dei vantaggi delle spiagge. La vedevo come punti neri in lontananza, potevo sorvegliarne le evoluzioni dicendo tra me, Si rimpicciolisce, oppure, Si ingrandisce. Sì, esser preso alla sprovvista, era per così dire impossibile, perché mi voltavo spesso anche verso la terra. Adesso vi dico una cosa, in riva al mare ci vedevo meglio! Sì, frugando da tutte le parti queste distese per così dire senza oggetto, senza verticale, l'occhio buono mi funzionava meglio e quanto a quello cattivo c'erano dei giorni in cui doveva mettersi anche lui a girare. E non solo ci vedevo meglio, ma mi era meno difficile affibbiare un nome alle rare cose che vedevo. Son proprio questi alcuni dei vantaggi e degli svantaggi della riva del mare. O forse ero proprio io a cambiare, perché no? E al mattino nella mia grotta, e talvolta anche di notte, quando fischiava la tempesta, mi sentivo discretamente al riparo, dagli elementi e dagli esseri. Ma anche là c'è uno scotto da pagare. Anche nella propria scatola, nelle grotte, anche là c'è uno scotto da pagare. E che, per un po', si paga facilmente, ma non si può pagare sempre. Perché comperare sempre la stessa cosa, con il proprio esiguo vitalizio, non è possibile. E disgraziatamente esistono altre necessità oltre a quella di marcire in pace, non è la parola giusta, parlo naturalmente di mia madre, la cui immagine, da un po' di tempo ridotta al lumicino, ricominciava adesso a tormentarmi. M'inoltrai dunque di nuovo nell'entroterra, perché la mia città non si trova proprio in riva al mare, nonostante quel che si è potuto dire in proposito. E per accedervi bisognava passare dall'entroterra, io almeno non conoscevo altra via. Ma fra la mia città e il mare c'era una specie di palude che, per quanto lontano vada col ricordo, e certi miei ricordi sono profondamente immersi nel passato immediato, si trattava sempre di prosciugare, senza dubbio per mezzo di canali, o di trasformare in una vasta opera portuale, o di installarvi quartieri operai su palafitte, insomma di sfruttarla in un modo o nell'altro. E si sarebbe contemporaneamente fatto sparire lo scandalo alle porte della loro grande città, costituito da una palude fetida e fumante, in cui sprofondava ogni anno un numero incalcolabile di vite umane, le statistiche per il momento mi sfuggono e senza dubbio mi sfuggiranno sempre, tanto questo aspetto del problema mi lascia indifferente. E che, sì certo, siano stati iniziati dei lavori e che anzi certi cantieri abbiano potuto finora resistere allo scoraggiamento, ai fallimenti, al lento sterminio dei loro effettivi e all'inerzia dei pubblici poteri, non mi sognerò mai di negarlo. Ma da qui all'affermare che il mare veniva a lambire i piedi della città, ce ne vuole. E da parte mia non mi assocerò mai a un simile pervertimento (della verità), a meno che non vi sia costretto o abbia bisogno che le cose stiano così. E questa palude la conoscevo un po', per averci prudentemente rischiato la vita, diverse volte, in un periodo della mia vita più ricco d'illusioni di quello che sto architettando adesso, vale a dire più ricco di certe illusioni, più povero di altre. Di modo che era impossibile avvicinare la mia città direttamente, per via mare, ma bisognava sbarcare più a nord o a sud e lanciarsi sulle strade, ve ne rendete conto, perché le ferrovie erano ancora allo stato di progetto, ve ne rendete conto. Ed ora la mia andatura, sempre lenta e penosa, lo era più che mai, per via della gamba corta e rigida, quella che ormai da un pezzo mi faceva l'impressione d'avere raggiunto i limiti della rigidità, ma andate a farvi fottere, perché diventava più rigida che mai, cosa che avrei creduto impossibile, e contemporaneamente si accorciava ogni giorno di più, ma soprattutto per via dell'altra gamba, che diventava anch'essa completamente rigida, da elastica ch'era stata, ma non si accorciava ancora, disgraziatamente. Perché quando le due gambe s'accorciano contemporaneamente, e con lo stesso ritmo, non è poi una cosa tanto terribile, no. Ma quando ce n'è una che s'accorcia, mentre l'altra rimane stazionaria, allora sì che comincia ad esser proprio preoccupante. Oh non che fossi veramente preoccupato, ma ero seccato, ecco. Perché non sapevo più a che piede appoggiarmi, tra un volteggio e l'altro. Cerchiamo di vederci un po' chiaro, in questo dilemma. La gamba ormai rigida, seguitemi bene, mi faceva male, siamo d'accordo, ed era proprio l'altra che di solito mi serviva da perno, o da pilastro. Ma ecco che quest'ultima, senza dubbio per il fatto del suo irrigidimento, che non andava esente da un certo scompiglio fra i nervi e i tendini, cominciava a farmi più male dell'altra. Bella faccenda, sperando che non mi sbagli. Perché alla vecchia sofferenza, capite bene, mi ci ero abituato, in qualche modo, sì, in qualche modo. Ma con la nuova, anche se era esattamente della stessa famiglia, non avevo ancora avuto il tempo d'arrangiarmi. Inoltre non dimentichiamo che avendo una gamba cattiva e poi un'altra, quasi buona, potevo risparmiare quella là, e ridurre le sue sofferenze al minimo, al massimo, servendomi esclusivamente di questa qui, grazie alle mie stampelle. Ma non avevo più questa risorsa! Perché adesso non possedevo più una gamba cattiva e una quasi buona, ma erano ormai tutt'e due cattive. E la più cattiva, a parer mio, era quella che fin allora era stata buona, relativamente buona insomma, e dalla cui alterazione ancora non avevo potuto riprendermi. Di modo che, in certo senso, se volete, avevo sempre una gamba cattiva e una buona, o meglio una meno cattiva, salvo che la meno cattiva adesso non era più la stessa di prima. Dunque era proprio su quella cattiva di prima che spesso mi veniva voglia d'appoggiarmi, tra un colpo e l'altro di stampelle. Perché se questa rimaneva estremamente sensibile, lo era tuttavia meno dell'altra, o lo era altrettanto, se si vuole, ma non mi faceva lo stesso effetto, per via della sua anzianità. Ma non potevo! Cosa? Appoggiarmici sopra. Perché s'accorciava, quella, non dimentichiamolo, mentre l'altra, pur irrigidendosi, non s'accorciava ancora, o con un tale ritardo sulla sua compagna ch'era proprio lo stesso, proprio lo stesso, sono perduto, non fa nulla. Se avessi potuto piegarla, al ginocchio, o anche solo all'anca, avrei potuto renderla artificialmente corta come l'altra, al momento di poggiare su quella corta davvero, prima di riprendere lo slancio. Macché, non lo potevo! Cosa? Piegarla. Perché come piegarla, se era rigida? Dunque ero costretto a far lavorare la stessa gamba di prima, benché fosse diventata, almeno sul piano della sensazione, la peggiore delle due e quella che aveva maggior bisogno d'esser risparmiata. È vero che talvolta, quando avevo la fortuna di capitare su una strada convenientemente incurvata, oppure approfittando di un fosso non troppo profondo o di qualunque altro dislivello che potesse servire, m'arrangiavo in modo da fornire alla gamba corta una temporanea aggiunta e farla lavorare così al posto dell'altra. Ma non aveva più lavorato da un pezzo e così non era ormai più capace di farcela. E credo che una pila di piatti m'avrebbe potuto fornire un sostegno migliore del suo. E dire che m'aveva sostenuto così bene, quand'ero una larva. D'altra parte proprio in quei casi, voglio dire quando sfruttavo a quel modo le irregolarità del terreno, interveniva un altro elemento di squilibrio, parlo delle stampelle, che avrebbero dovuto essere una corta e l'altra lunga, per impedirmi di marciare obliquamente rispetto alla verticale. No? Non lo so. Del resto le mie strade erano per lo più dei sentierini nella foresta, questo lo s'intuisce, in cui le differenze di livello, se pur non mancavano, eran troppo confuse e seguivano dei tracciati troppo erratici perché potessero essermi utili. Ma in fondo, che la gamba potesse far sciopero oppure che dovesse lavorare, c'era poi questa gran differenza, quanto al dolore? Non credo proprio. Perché la sofferenza di quella che non faceva nulla restava costante e monotona. Mentre quella obbligata a questo soprappiù di sofferenza che era il lavoro conosceva anche la diminuzione di sofferenza data, per la durata di un attimo, dalla sospensione del lavoro. Ma sono un essere umano, credo, e il mio procedere risentiva di questo stato di cose, e da lento e faticoso ch'era sempre stato, qualunque cosa io abbia potuto dire, si trasformava in autentico calvario, senza limiti di stazioni né speranza di crocefissione, lo dico senza falsa modestia, e senza Simone, e mi costringeva a frequenti fermate. Sì, il mio procedere mi obbligava a fermarmi sempre più spesso, l'unico modo d'andare avanti era quello di fermarmi. E benché non c'entri con le mie vacillanti intenzioni trattare a fondo, come pure meriterebbero, questi brevi attimi dell'espiazione immemorabile, ne accennerò nondimeno un po', avrò questa bontà, affinché la mia narrazione, in generale così chiara, non si concluda nell'oscurità, nell'oscurità di queste immense boscaglie, di queste fronde gigantesche, in mezzo alle quali vado zoppicando, ascolto, mi distendo, mi rialzo, ascolto, vado zoppicando, chiedendo talvolta tra me, c'è bisogno di riferirlo, se rivedrò mai l'odiato giorno, insomma poco amato, pallidamente teso fra gli ultimi tronchi, e mia madre, per regolare la nostra faccenda, o se invece non farei meglio, insomma altrettanto bene, ad impiccarmi a un ramo, con una liana. Perché al giorno francamente non ci tenevo, e mia madre, potevo sperare che m'aspettasse ancora, dopo tanto tempo? E la mia gamba, le mie gambe? Ma le idee di suicidio facevano scarsa presa su di me, non so più perché, credevo di saperlo, ma m'accorgo di no. L'idea di strangolamento in particolare, per quanto allettante, l'ho sempre superata, dopo una breve lotta. Adesso vi dico una cosa, non ho mai avuto niente alle vie respiratorie, salvo naturalmente le miserie inerenti a tale sistema. Sì, i giorni in cui l'aria, che a quanto pare contiene ossigeno, non voleva più discendere in me e neppure, finalmente discesa, lasciarsi espellere, li potrei contare, avrei potuto contarli. Ah sì, la mia asma, quante volte son stato tentato di farla finita con lei, tagliandomi la carotide o la trachea. Ma ho tenuto duro. Il rumore mi tradiva, diventavo viola. Questo mi capitava soprattutto di notte, cosa di cui non sapevo se dovevo essere contento o scontento. Perché se di notte i bruschi mutamenti di colore sono minori, d'altra parte però il minimo rumore insolito si fa allora tanto più notare, per via del silenzio della notte. Ma queste erano soltanto crisi, e son poca cosa, le crisi, in confronto a tutto ciò che non si ferma mai, che non conosce né flusso né riflusso, dalla plumbea superficie, dalle profondità infernali. Non una parola, neanche una contro le crisi, che mi afferravano, mi torcevano e finalmente mi scaraventavano con gentilezza, senza segnalarmi a terze persone. E m'avvolgevo il mantello intorno alla testa, così da soffocare l'oscuro rumore del soffocamento, oppure lo mascheravo in un accesso di tosse, universalmente ammesso e approvato e il cui unico inconveniente è quello di provocare la compassione. E forse è proprio il momento di far notare, dato che non è mai troppo tardi per far bene, che quando dico che il mio procedere rallentava, in seguito al venir meno della gamba buona, esprimo soltanto un'infima parte della verità. Perché in verità avevo altri punti deboli, com'era prevedibile. Ma una cosa non era davvero prevedibile, ed era la rapidità con cui aumentava la loro debolezza, dopo la mia partenza dalla riva del mare. Perché finché ero rimasto in riva al mare i miei punti deboli, pur aumentando in debolezza, come c'era d'aspettarsi, aumentavano però solo insensibilmente. Dimodoché avrei stentato molto, per esempio tastandomi il buco del culo, ad affermare, Toh, va molto peggio d'ieri, non si direbbe più che è lo stesso buco. Mi scuso di tornare ancora su questo vergognoso orificio, ma è la mia musa a volerlo. Forse bisogna scorgere in esso non tanto la tara che viene nominata, quanto piuttosto il simbolo di quelle che taccio, dignità dovuta forse alla sua centralità e alle sue movenze di punto intermedio tra me e l'altra merda. Lo si misconosce, a mio parere, questo piccolo buco, lo chiamano buco del culo e fanno mostra di disprezzarlo. Ma che non si tratti piuttosto della vera porta dell'essere, di cui la celebre bocca non sarebbe che l'entrata di servizio? Nulla vi penetra, o così poco, che non venga istantaneamente espulso, o poco ci manca. Quasi tutto quel che gli viene di fuori gii ripugna e per quel che gli giunge da dentro non si può dire che si dia molto da fare. Non sono queste tutte cose significative? Ma ciò nonostante in avvenire proverò a concedergli meno spazio. E mi sarà facile, perché l'avvenire, non parliamone, è non poco incerto. E per quanto riguarda il lasciar da parte l'essenziale, credo d'intendermene, e tanto meglio in quanto su questo fenomeno si hanno soltanto informazioni contraddittorie. Ma per tornare ai miei punti deboli, ripeto che in riva al mare si erano normalmente sviluppati, sì, non avevo notato niente d'anormale. Sia perché non ci son stato abbastanza attento, tutto preso com'ero dalla metamorfosi della mia gamba ottima, sia perché realmente non c'era niente di speciale da segnalare, in proposito. Ma appena lasciai la spiaggia, incalzato dal timore di svegliarmi un bel giorno, lontano da mia madre, e con le due gambe rigide come le stampelle, i miei punti deboli fecero un balzo in avanti, e da deboli diventarono letteralmente moribondi, con tutti gli inconvenienti che ciò implica, quando non si tratta di punti vitali. Colloco in quest'epoca il vile abbandono delle dita del mio piede, per così dire in aperta campagna. Mi direte che questo fa parte delle mie solite storie di gambe, che non aveva nessuna importanza, perché tanto non potevo appoggiare per terra il piede in questione. D'accordo. Ma sapete soltanto di che piede si tratta? No. Neanch'io. Aspettate, adesso ve lo dico. Ma avete ragione voi, non era un punto debole propriamente detto, questo delle dita del piede, io le credevo in ottimo stato, a parte qualche callo, durone e unghia incarnita e una tendenza ai crampi. No, i miei veri punti deboli erano altrove. E se non stendo seduta stante la loro lista impressionante, non la stenderò mai più. E infatti non la stenderò mai, sì, forse sì. E poi non vorrei offrire un'idea sbagliata della mia salute che, pur senza essere quel che si suol dire splendida, o sfacciata, in fondo era d'una inaudita robustezza. Perché se no come avrei potuto raggiungere l'enorme età che ho raggiunto? Grazie a qualità morali? A un'igiene appropriata? All'aria aperta? Alla denutrizione? All'assenza di sonno? Alla solitudine? Alla persecuzione? Alle lunghe urla mute (urlare è pericoloso)? Al quotidiano desiderio che la terra m'inghiottisse? Via, via. Il destino è astioso, ma non fino a questo punto. Guardate mamma. Alla fine, di che cos'è crepata? Me lo chiedo. Non mi meraviglierei proprio se l'avessero sotterrata viva. Ah, me le ha ben trasmesse, quella vacca, le sue indefettibili porcherie di cromosomi. Bella roba, esser eccome. Avere gli ureteri... neppure una parola su quegli eccome. Avere gli ureteri ... neppure una parola su quest'argomento. E le capsule. E la vescica. E l'uretra. E il glande. Santa Maria. Adesso vi dico una cosa, non piscio più, parola d'onore. Ma il mio prepuzio, sat verbum, stilla orina, giorno e notte, insomma credo che si tratti d'orina, puzza di rognone. E dire che avevo perso il senso dell'odorato. Si può parlar di pisciare in queste condizioni? Via, via. Il sudore lo stesso, e non faccio altro che sudare, ha un bizzarro odore. E credo che anche la saliva, sempre abbondante, se ne trascini dietro. Ah me ne sbarazzo, di questi rifiuti, non sarà certo l'uremia a chiudermi gli occhi. Anch'io sarei da seppellire vivo, in ultima istanza, se ci fosse una giustizia. E questa lista dei miei punti deboli, che non farò mai, per timore di farla finita con me, forse un giorno la farò, quando si tratterà di fare l'inventario dei miei beni e possessi. Perché in quel giorno, se mai spunterà, avrò meno paura di oggi a farla finita. Perché oggi, anche se non mi sento all'inizio della corsa, non ho la pretesa di credermi in vista dell'arrivo. Di conseguenza mi risparmio, in vista della volata finale. Perché non poter fare la volata, quando suona l'ora, no, tante vale rinunciare. Ma è proibito rinunciare e anzi fermarsi anche per un attimo. Dunque io aspetto, pur procedendo con precauzione, che la campana mi dica, Molloy, non risparmiarti più, è proprio la fine. Io ragiono così, con l'aiuto d'immagini poco appropriate alla mia situazione. E non m'abbandona più, o quasi più, non so perché, il sentimento che un giorno avrò da dire quel che mi rimane di tutto quel che avrò avuto. Ma per questo bisogna che aspetti, per esser sicuro di non poter più acquistare, né perdere, né buttar via, né dare più nulla. Allora potrò dire, senza timore di sbagliarmi, quel che, in fin dei conti, mi resta dei miei possessi. Perché sarà proprio la fine dei conti. E prima d'allora posso impoverirmi, arricchirmi, oh mica al punto da modificare la situazione, ma abbastanza per impedirmi d'annunciare, fin d'ora, quei che mi resta di tutto quel che avrò avuto, perché non ho davvero ancora avuto tutto. Ma non capisco nulla di questo presentimento, ed è proprio il caso frequentissimo dei presentimenti migliori, credo, quello in cui non ci si capisce nulla. Dunque si tratterebbe di un vero presentimento, che potrebbe verificarsi. Ma i falsi presentimenti sono più comprensibili? Credo di sì, credo che tutto quel che è falso si lasci ridurre di più, in nozioni chiare e distinte, distinte da tutte le altre nozioni. Ma posso sbagliarmi. Ma non ero una creatura da presentimenti, io, ma da sentimenti e basta, da episentimenti anzi, oso dire. Perché io sapevo in anticipo, il che mi evitava di presentire. Andrò più lontano ancora (che cosa mi costa?), io sapevo solo in anticipo, perché al momento non sapevo più niente, forse sarà stato notato, o soltanto a prezzo di sforzi sovrumani, e subito dopo non sapevo di nuovo più niente, ritrovavo l'ignoranza. E tutto questo, preso insieme, se ciò è possibile, può spiegare probabilmente molte cose, e specialmente la mia stupefacente vecchiaia, ancor verde qua e là, supposto che il mio stato di salute, malgrado tutto quel che ho detto sopra, sia insufficiente a motivarla. Semplice supposizione, per niente impegnativa. Ma stavo dicendo che se, allo stadio in cui ero arrivato, il mio procedere si faceva sempre più lento e doloroso, non avveniva unicamente per via delle mie gambe, ma anche per una moltitudine di cosiddetti punti deboli, che con le gambe non avevano niente a che fare. A meno di supporre, e nulla c'induce a farlo, che tanto questi quanto le gambe dipendessero dalla stessa sindrome, che in tal caso sarebbe stata diabolicamente complessa. Il fatto è, me ne dispiace, ma è troppo tardi ormai per rimediarvi, che ho messo troppo l'accento sulle mie gambe, durante tutta questa passeggiata, a scapito del resto. Perché non ero un volgare storpio, tutt'altro, e c'erano dei giorni in cui le mie gambe costituivano quanto avevo di meglio, fatta astrazione dal cervello in grado di formulare un giudizio simile. Ero dunque costretto a fermarmi sempre più spesso, non mi stancherò di dirlo, e a distendermi, in barba al regolamento, ora sulla schiena, ora sul ventre, ora su un lato, ora sull'altro, e con i piedi più in alto della testa, affinché il sangue si decoagulasse. E coricarsi con i piedi più in alto della testa, allorché si hanno le gambe rigide, non è proprio così semplice. Ma state tranquilli, ce la facevo. Quando era in ballo la mia comodità non mi risparmiavo la fatica. La foresta mi circondava completamente e i rami, intrecciandosi ad un'altezza prodigiosa, in rapporto alla mia, mi proteggevano dalla luce e dalle intemperie. In certi giorni non facevo più di trenta o quaranta passi, lo giuro. Che inciampassi fra tenebre impenetrabili, no, non posso dirlo. Inciampavo, ma le tenebre non erano affatto impenetrabili. Perché regnava una specie di ombra azzurra, più che sufficiente per le mie necessità visive. Mi stupivo che quest'ombra, invece che azzurra, non fosse verde, ma io la vedevo azzurra, e forse lo era. Il rosso del sole, mescolandosi al verde delle foglie, dava un risultato azzurro, ragionavo proprio così, io. Ma ogni tanto. Ogni tanto. Che bontà in queste paroline, che ferocia. Ma ogni tanto capitavo in una specie di crocicchio, che dico, una radura, come se ne trovano anche nelle foreste più inesplorate. E allora voltandomi metodicamente verso i corridoi che vi s'irraggiavano, con chissà che speranza, compivo un giro completo su me stesso, o meno di un giro, o più di un giro, tanto s'assomigliavano tra loro questi corridoi tra gli alberi. In questi siti l'ombra era meno profonda e io m'affrettavo ad allontanarmene. Non mi va che l'ombra si attenui, è una cosa sospetta. In questa foresta feci naturalmente un certo numero di incontri, dove non se ne fanno? Ma incontri senza importanza. In particolare incontrai un carbonaio. Avrei potuto amarlo credo, se avessi avuto settant'anni di meno. Ma non è per niente sicuro. Perché allora anche lui sarebbe stato altrettanto meno vecchio, oh non proprio altrettanto, ma certo molto meno. Non ho mai avuto molta tenerezza da vendere, ma ne avevo comunque la mia piccola aliquota, da piccolo, ed è proprio ai vecchi che andava, di preferenza. E credo d'aver avuto il tempo d'amarne uno o due, oh non di autentico amore sicuramente, non c'è confronto con la vecchia, ho dimenticato ancora il suo nome, Rosa, no, insomma sapete chi intendo dire, ma comunque, come dire, con tenerezza, come i promessi ad una terra migliore. Ah ero precoce, da piccolo, e tale son rimasto da grande. Adesso mi fan vomitare, i vecchi decrepiti, alla stessa stregua dei giovani o dei non ancora maturi. Egli si precipitò su di me e mi supplicò di dividere con lui la sua capanna, credetemi se vi pare. Dico carbonaio, ma in fondo non ne so nulla. Vedo del fumo in qualche luogo. È una cosa che non mi sfugge mai, il fumo. Seguì un lungo dialogo, interrotto da gemiti. Non riuscii a domandargli la strada per la mia città, il cui nome mi sfuggiva sempre. Gli domandai la via per la città più vicina, trovai le parole necessarie, e il tono. Non lo sapeva. Probabilmente era nato nella foresta e vi aveva trascorso tutta la vita. Lo pregai di spiegarmi il modo di uscire più rapidamente possibile dalla foresta. Diventai eloquente. La sua risposta fu quanto mai confusa. O io non capivo nulla di quel che diceva, o era lui a non capire nulla di quel che dicevo io, oppure non sapeva niente, o voleva tenermi con sé. È proprio per questa quarta ipotesi che propendo con tutta modestia, perché quando volli allontanarmi, mi trattenne per la manica. Allora sfilai con sveltezza una stampella e gli assestai un bel colpo sul cranio. Questo lo calmò. Quel vecchio disgustoso. Mi rialzai e ripresi la mia strada. Ma fatto qualche passo appena, e a quell'epoca far qualche passo per me voleva dir qualcosa, feci dietrofront e ritornai verso di lui, per esaminarlo. Vedendo che respirava ancora, mi accontentai di allungargli qualche fervido colpo nelle costole con il calcagno. Ecco in che modo ci riuscii. Scelsi accuratamente il posto, a qualche passo dal corpo, s'intende voltandogli la schiena. Poi, ben sistemato fra le stampelle, mi misi a oscillare, avanti, indietro, a piedi riuniti, o meglio a gambe strette, perché come potevo riunire i piedi dato lo stato delle mie gambe? Ma come stringere le gambe, una contro l'altra, dato il loro stato? Le strinsi e basta, questo è tutto quel che vi posso dire. Questo è ciò che importa. Oppure non le strinsi. Che importanza può aver ciò? Mi misi ad oscillare, ecco l'essenziale. Con un'ampiezza sempre più grande, fino al momento in cui, giudicandolo favorevole, mi lanciai con tutte le forze in avanti e quindi, un attimo dopo, all'indietro, il che provocò il risultato che avevo già preveduto. Da dove mi veniva quest'accesso di forza? Forse dalla mia debolezza. Il colpo naturalmente mi rovesciò per terra. Feci un capitombolo. Non si può avere tutto, l'ho notato spesso. Mi riposai un po', quindi mi rialzai, raccolsi le stampelle e andai a mettermi all'altro lato del corpo, dove mi dedicai metodicamente allo stesso esercizio. Ho sempre avuto la mania della simmetria. Ma avevo mirato un po' in basso e uno dei calcagni affondò nel molle. Insomma, se avevo fallito le costole, con quel calcagno, avevo certamente raggiunto il rene, oh non con una forza sufficiente a farlo scoppiare, no, non lo credo proprio. La gente immagina che, per il fatto d'essere vecchi, poveri, infermi, timidi, non si sia capaci di difendersi, e in generale è proprio vero. Ma quando esistono condizioni favorevoli, un aggressore fiacco e inetto, che dico, della vostra statura, e un luogo solitario, si può talvolta far vedere di che tempra si è fatti. E senza dubbio è proprio al fine di richiamare questa possibilità, troppo spesso dimenticata, che mi sono soffermato su un incidente in se stesso privo di interesse, come tutto ciò che ammaestra, o. rende accorti. Ma almeno mangiavo, ogni tanto? Per forza, per forza, qualche radice, qualche bacca, talvolta una piccola mora, un fungo ogni tanto, con tremore, perché conoscevo a malapena i funghi. Cos'altro ancora, ah sì, delle carrube, che piacciono tanto alle capre. Insomma quel che trovavo, le foreste sono ricche di cose buone. E avendo sentito dire, o più probabilmente letto da qualche parte, ai tempi in cui credevo di avere interesse a istruirmi, o a divertirmi, o ad abbrutirmi, o ad ammazzare il tempo, che pur credendo d'andare sempre diritto davanti a sé nella foresta, in realtà non si fa altro che girare intorno, facevo del mio meglio per girare intorno, sperando così d'andare diritto davanti a me. Perché, ogni volta che facevo un piccolo sforzo, smettevo d'essere gonzo e diventavo furbo. E avevo conservato tutti gli insegnamenti che potevano essermi utili, nella vita. E se anche non andavo rigorosamente in linea retta, a furia di girare in tondo, almeno non giravo in tondo, ed era già qualcosa. E così facendo, giorno per giorno, notte per notte, speravo di uscire un bel giorno dalla foresta. Perché la mia regione non era tutta foresta, macché. C'erano la pianura, la montagna e il mare, e qualche città e villaggio, collegato tra loro da strade e vie. Ed ero tanto più fiducioso, che me ne sarei uscito, un bel giorno, dalla foresta, in quanto ne ero già uscito, più d'una volta, e conoscevo la difficoltà di non fare un'altra volta quel che si è già fatto. È vero che le cose erano andate un po' diversamente allora. Ciò nonostante avevo buone speranze di vedere un giorno tremolare, attraverso i lembi immobili delle foglie, come incisi nel rame, e che mai alito di vento agitava, la strana luce della pianura, dai rapidi e pallidi risucchi. Ma nello stesso tempo paventavo quel giorno. Cosicché ero sicuro che, presto o tardi, sarebbe arrivato. Perché non stavo poi tanto male nella foresta, potevo starmene ben peggio, e vi sarei rimasto per sempre, senza troppo rammarico, senza rimpiangere troppo la luce e la pianura e le altre amenità della mia regione. Perché le conoscevo bene, le amenità della mia regione, e ritenevo che la foresta le equivalesse. E, secondo me, non soltanto le equivaleva, ma aveva su di loro questo vantaggio, che c'ero io. Ecco uno strano modo, di intendere le cose, nevvero. Forse meno di quel che sembra, perché essendo nella foresta, luogo non peggiore né migliore degli altri, ed essendo libero di restarci, non avevo forse diritto di trovarmi dei vantaggi, non per via di quel che era, ma dato che c'ero io. Perché c'ero. Ed essendoci già non avevo bisogno di andarci, fatto da non disprezzare, visto lo stato delle mie gambe e del corpo in generale. Ecco tutto quel che volevo dire, e se non l'ho detto subito significa che c'era proprio qualcosa ad impedirlo. Ma io non potevo, dico, restare nella foresta, non mi era proprio permesso. Cioè avrei potuto, sì, quanto al corpo, nulla mi sarebbe stato più facile, ma non ero soltanto un corpo io, e rimanendo nella foresta, avrei avuto come la sensazione di trascurare un imperativo, o almeno avevo quest'impressione. Ma potevo sbagliarmi, e forse avrei fatto meglio a rimanere nella foresta, avrei potuto, chissà, rimanerci senza rimorsi, senza la penosa impressione d'esser colpevole, quasi in stato di peccato. Perché ho sempre cercato di sottrarmi, di sottrarmi il più possibile ai miei suggeritori. E anche se non posso decentemente rallegrarmene non vedo però nessuna ragione per affliggermene. Ma per gli imperativi è un po' diverso, e ho sempre avuto la tendenza ad ottemperare, non so perché. Perché non mi hanno mai condotto in nessun luogo, ma mi hanno sempre strappato da luoghi in cui, pur senza starci bene, non ci stavo peggio che altrove, e poi hanno taciuto, lasciandomi alla deriva. Dunque li conoscevo bene, questi imperativi, e tuttavia vi ottemperavo. Era diventata un'abitudine. Bisogna dire che quasi tutti si riferivano alla stessa faccenda, quella dei rapporti con mia madre, e alla necessità di portarvi al più presto un po' di chiarezza, e persino il tipo di chiarezza che conveniva portarvi, e ai mezzi per arrivarci con la massima efficienza. Sì, erano degli imperativi abbastanza espliciti, quelli, e persino particolareggiati, fino al momento in cui, dopo essere riuscito a mettermi in moto, non cominciavano a impappinarsi, per poi tacere del tutto, piantandomi in asso come un coglione che non sa dove va né perché. E quasi tutti si riferivano, forse l'ho già detto, alla stessa penosa e spinosa questione. E anzi credo di non saperne citare neanche uno che avesse un contenuto diverso. E quello che allora m'ingiungeva d'abbandonare la foresta, al più presto, non era per niente diverso da quelli a cui ero ormai abituato, nella sostanza. Perché nella forma credetti di notare un particolare inedito. Perché dopo il solito versetto venne a piazzarsi il seguente solenne avvertimento: Forse è già troppo tardi. Era proprio in latino, nim sero, mi pare che sia proprio latino. Son davvero graziosi, gl'imperativi ipotetici. Ma se non ero mai riuscito a liquidare questa faccenda di mia madre, non bisogna incolpare solo questa voce che m'abbandonava prima del tempo. Aveva la sua parte di responsabilità, questo è quel che le si può rimproverare. Perché anche il di fuori vi si opponeva, con mezzi svariati e astuti, ne ho già dato qualche esempio. E anche se la voce m'avesse bersagliato fino a pochi passi dalla casa di mia madre, forse non ce l'avrei fatta lo stesso, per via d'altri ostacoli che avrebbero sbarrato il cammino. E in quest'ordine che prima esitava e poi moriva, come non dar per sottinteso un, Molloy, lascia stare! Che mi richiamasse incessantemente al dovere solo per farmene veder meglio l'assurdità? Può darsi benissimo. Per fortuna alla fin fine non faceva altro che convalidare, allo scopo poi, se si vuole, di renderla ridicola, una disposizione permanente che non aveva bisogno di apostrofi per riconoscersi velleitaria. E da solo, e da sempre, andavo verso mia madre, mi sembra, per sistemare i nostri rapporti su una base meno vacillante. E quando c'ero, a casa sua, e ci sono arrivato spesso, la lasciavo senz'aver fatto nulla. E quando non c'ero più, ero di nuovo in viaggio verso di lei, con la speranza di far meglio la prossima volta. E quando avevo l'aria di rinunciarvi e d'occuparmi d'altro o di non occuparmi più di niente, in realtà non facevo altro che star a rispolverare i miei piani e a cercare la strada di casa sua. Questa faccenda prende una piega curiosa. Dimodoché, anche senza questo cosiddetto imperativo che tiro in ballo, mi sarebbe stato difficile rimaner nella foresta, giacché dovevo immaginare che mia madre non poteva esserci. Ma forse avrei fatto meglio a tentarla, questa difficile permanenza. Ma tra me dicevo anche, Tra non molto, andando di questo passo, non potrò più spostarmi, ma dove mi troverò sarò obbligato a starci, a meno d'esser trasportato. Oh non avevo un linguaggio così limpido. E quando dico dicevo tra me, ecc., intendo dire soltanto che sapevo confusamente che le cose stavano così, senza saper esattamente di che cosa si trattasse. E tutte le volte che dico, Dicevo tra me quella cosa o quell'altra, o che parlo di una voce interna che mi dice, Molloy, e poi una bella frase più o meno chiara e semplice, o che mi trovo costretto a prestare a terze persone delle parole intelligibili, o che escono dalla mia bocca, diretti ad altri, dei suoni articolati in modo press'a poco adeguato, non faccio altro che piegarmi alle esigenze di una convenzione che vuole che si menta o si taccia. Perché le cose andavano del tutto diversamente. Quindi non dicevo affatto tra me, Andando di questo passo, tra non molto, ecc., ma questo assomigliava forse a quel che avrei detto tra me, se ne fossi stato capace. Effettivamente non dicevo assolutamente nulla tra me, ma sentivo un rumore, qualcosa di mutato nel silenzio, e vi prestavo ascolto, come immagino che faccia un animale che trasalisce e fa il morto. E allora, qualche volta, sorgeva confusamente in me una specie di coscienza, quella che esprimo dicendo, Dicevo tra me, ecc., Molloy, lascia stare, oppure, È proprio questo il nome della vostra mamma? disse il commissario, cito a memoria. Oppure che esprimo senza cader così in basso come nella oratio recta, ma per mezzo d'altre figure, altrettanto menzognere, come per esempio, Mi sembrava che, ecc., oppure, Avevo l'impressione di, ecc., perché non mi sembrava nient'affatto e non avevo impressioni di nessun genere, ma c'era semplicemente qualcosa di cambiato in qualche luogo, cosicché anch'io dovevo cambiare, o doveva cambiare il mondo, affinché non cambiasse niente. E son proprio questi piccoli accordi, come tra i vasi di Galileo, che posso esprimere solo dicendo, Temevo che, oppure, Speravo che, oppure, È questo il nome della vostra mamma? disse il commissario, per esempio, e che, con un po' di sforzo, potrei esprimere senza dubbio in un modo diverso e migliore. E forse lo farò un giorno in cui lo sforzo mi farà meno orrore d'adesso. Ma non credo. Dunque dicevo tra me, Tra non molto, andando di questo passo, non potrò più spostarmi, ma dove mi troverò in quel momento, sarò obbligato a starci, a meno che non si trovi qualcuno abbastanza gentile che mi trasporti. Perché le tappe diventavano sempre più corte e le soste, di conseguenza, sempre più frequenti e aggiungo prolungate, perché la nozione di sosta lunga non deriva necessariamente da quella di tappa corta, e neppure quella di sosta frequente, a pensarci bene, a meno di dare a frequente un significato che non ha, cosa che non vorrei fare per nulla al mondo. E mi pareva sempre più desiderabile l'uscire al più presto da questa foresta in quanto mi sarei trovato prestissimo nell'impossibilità di uscire da un posto qualunque, fosse stato soltanto un boschetto. Era inverno, doveva esser proprio inverno, e non solo molti alberi avevano perduto le foglie, ma queste foglie erano diventate nere spugnose e le stampelle vi affondavan dentro, talvolta fino alla diramazione. Cosa degna di rilievo, non avevo più freddo che in passato. Forse era soltanto autunno. Ma son sempre stato poco sensibile ai mutamenti di temperatura. E anche se l'ombra sembrava aver perso l'azzurrognolo che aveva, rimaneva non meno fitta di prima. Questo finiva col farmi dire, È meno azzurra perché c'è meno verde, ma non è meno fitta per via del cielo plumbeo invernale. Poi qualcosa sui rami neri da cui cadeva del nero, qualcosa di questo genere. I mucchi di foglie nere e come fangose mi rallentavano sensibilmente. Ma all'andatura diritta, quella degli uomini, avrei rinunciato anche senza di loro. E mi ricordo ancora il giorno in cui, coricato sul ventre, tanto per riposarmi, in barba al regolamento, improvvisamente esclamai, battendomi la fronte, Toh, ma c'è lo strisciar per terra, non ci pensavo più. Ma come fare, dato lo stato delle gambe, e del tronco? E della testa. Ma prima di andare avanti, un cenno sui mormorii della foresta. Avevo un bell'ascoltare, non percepivo niente di simile. Ma piuttosto, con molta buona volontà e un po' d'immaginazione, di quando in quanto un lontano colpo di gong. Il corno, nella foresta, ci sta bene, lo si aspetta. È il cacciatore. Ma il gong! Anche il tam-tam, alla peggio, non m'avrebbe affatto urtato. Ma il gong! Era proprio una delusione, voler approfittare almeno dei celebri mormorii e arrivare a sentire semplicemente un gong da lontano, di quando in quando. Per un momento potevo sperare che si trattasse semplicemente del mio cuore, intento a battere ancora. Ma per un momento solo. Perché non percuote affatto, il mio cuore, bisognerebbe andarlo a cercare semmai nell'idraulica il rumore fatto da questa vecchia pompa. Ascoltavo anche le foglie, prima che cadessero, attentamente, invano. Tacevano, immobili e rigide, si sarebbero dette d'ottone, scommetto che l'ho già fatto notare. Questo quanto ai mormorii della foresta. Ogni tanto azionava la mia trombetta, attraverso la stoffa della mia tasca. Produceva un suono sempre più soffocato. L'avevo tolta dalla bicicletta. Quando? Non lo so. E adesso, finiamola. Disteso sul ventre, servendomi delle stampelle come di rampone, le affondavo davanti a me nel sottobosco, e quando le sentivo ben bene uncinate, mi trascinavo in avanti, a forza di polsi, fortunatamente ancora abbastanza robusti, nonostante la mia cachessia, anche se tutti gonfi e probabilmente torturati da una specie di artrite deformante. Ecco in poche parole come ce la facevo. Questo tipo di movimento ha sugli altri, parlo di quelli che ho sperimentato io, questo vantaggio, che quando ci si vuol riposare ci si ferma e ci si riposa, senz'altra procedura. Perché in piedi non c'è riposo, seduti nemmeno. E ci sono uomini che circolano seduti, e persino in ginocchio, trascinandosi a destra, a sinistra, avanti, indietro, per mezzo d'uncini. Ma nel movimento dei rettili, fermarsi significa cominciare immediatamente a riposare, e anche lo stesso movimento è una specie di riposo, in confronto agli altri movimenti, parlo di quelli che mi han tanto stancato. E procedevo in questo modo nella foresta, lentamente, ma con una certa regolarità, e facevo i miei bravi quindici passi quotidiani senza impegnarmi a fondo. E li facevo anche di schiena, affondando alla cieca dietro di me le stampelle nella sterpaglia, con il nero cielo dei rami negli occhi socchiusi. Andavo dalla mamma. E ogni tanto dicevo, Mamma, senza dubbio per farmi coraggio. Perdevo continuamente il cappello, ormai da un pezzo il laccio s'era spezzato, finché, in un moto di stizza, me lo ficcai sul cranio con una violenza tale che non riuscii più a togliermelo. E se avessi conosciuto delle signore, e ne avessi incontrate, non avrei avuto la possibilità di salutarle educatamente. Ma avevo sempre presente nella mente, che funzionava sempre, anche se al rallentatore, la necessità di girare, di girar senza posa, e ogni tre o quattro appoggi modificavo la rotta, il che mi faceva descrivere, se non proprio un cerchio, almeno un vasto poligono, si fa quel che si può, permettendomi così la speranza di procedere dritto davanti a me, malgrado tutto, in linea retta, giorno e notte, verso mia madre. Ed effettivamente arrivò un bel giorno in cui la foresta finì e vidi la luce della pianura esattamente come avevo previsto. Ma non la vidi da lontano, baluginante al di là dei tronchi severi, come m'aspettavo, ma mi ci trovai di colpo, aprii gli occhi e constatai d'essere arrivato. E questo si spiega senza dubbio con il fatto che già da un bel pezzo non aprivo più gli occhi salvo in casi del tutto eccezionali. E anche i piccoli mutamenti di direzione, li facevo a naso, nel buio. La foresta terminava con un fosso, non so per quale ragione, e proprio in questo fosso, divenni cosciente di quel che mi era capitato. Forse proprio nel cadere là dentro aprii gli occhi, altrimenti perché li avrei aperti? Mi misi a guardare la pianura che mi si spalancava davanti a perdita d'occhio. Perché una volta che il mio occhio si abituò alla luce, credetti di veder profilarsi debolmente all'orizzonte le torri e i campanili della città, di cui naturalmente nulla, fino a più ampio ragguaglio, mi lasciava supporre che fosse la mia. La pianura, è vero, mi pareva familiare, ma nella mia regione le pianure si assomigliavano tutte, conoscerne una voleva dire conoscerle tutte. D'altronde che fosse la mia città o no, che in qualche luogo sotto queste esili fumate respirasse mia madre o che invece ammorbasse l'atmosfera cento miglia più lontano erano proprio questioni prodigiosamente oziose, per un uomo nella mia situazione, anche se d'innegabile interesse sul piano della conoscenza pura. Perché come potevo trascinarmi attraverso questa distesa di prati, dove le mie stampelle avrebbero brancolato invano? Forse rotolandomi. E poi? Mi avrebbero lasciato rotolare fino alla casa di mia madre? Per fortuna in questa penosa congiuntura, che avevo vagamente prevista, ma senza prospettarne tutta l'amarezza, intesi dire di stare calmo, che stavano accorrendo in mio aiuto. Testuale. Posso dire che queste parole mi risuonano altrettanto alte e chiare alle orecchie, e all'intelletto, quanto il grazie abbastanza del ragazzino al quale avevo raccolto la palla, non esagera. Sta' calmo, Molloy, arriviamo. Insomma, senza dubbio bisogna aver visto tutto, aiuto compreso, per avere un quadro completo delle risorse del loro pianeta. Mi lasciai ruzzolare fino in fondo al fosso. Doveva essere primavera, un mattino di primavera. Mi sembrava di udire gli uccelli, forse allodole. Da un pezzo ormai non li avevo più uditi. Come si metteva il fatto che non li avessi uditi nella foresta? Né visti. Allora questo non m'era sembrato strano. Ma allora mi sembrò strano. Li avevo sentiti in riva al mare? Dei gabbiani? Non riuscivo a ricordarmene. Mi ricordai le quaglie. Mi tornarono in mente i due viaggiatori. Uno aveva una mazza. Li avevo dimenticati. Rividi le pecore. Insomma dico questo adesso. Non mi rodevo il fegato, mi tornavano in mente altre scene della mia vita. Mi sembrava che piovesse, che ci fosse il sole, a turno. Davvero un tempo primaverile. Avevo voglia di tornare nella foresta. Oh non proprio una vera voglia. Molloy poteva restare, là dov'era.

II

 


 


È mezzanotte. La pioggia sferza i vetri. Sono calmo. Tutto dorme. Tuttavia mi alzo e vado alla mia scrivania. Non ho sonno. La lucerna m'illumina con luce ferma e dolce. L'ho regolata. Mi durerà fino a giorno. Sento il gufo reale. Che terribile grido di guerra! Una volta l'ascoltavo impassibile. Mio figlio dorme. Che dorma pure. Verrà la notte in cui anch'egli, non riuscendo a dormire, si metterà al suo tavolo di lavoro. Io sarò dimenticato.


La mia relazione sarà lunga. Forse non la porterò a termine. Mi chiamo Moran, Jacques. Mi chiamano così. Sono spacciato. Anche mio figlio. Non deve sospettarlo. Probabilmente crede di essere alle porte della vita, della vera vita. Cosa d'altronde esatta. Si chiama Jacques, come me. Ciò non può prestarsi a delle confusioni.


Ricordo il giorno in cui ricevetti l'ordine d'occuparmi di Molloy. Era una domenica d'estate. Me ne stavo seduto nel mio giardinetto, in una poltrona di vimini, con un libro nero chiuso sulle ginocchia. Dovevano esser circa le undici, ancora troppo presto per andare in chiesa. Mi godevo il riposo domenicale, pur deplorando l'importanza che vi si attribuisce, in certe parrocchie. Lavorare, anzi giocare di domenica, non era una cosa necessariamente biasimevole, secondo me. Tutto dipendeva, secondo me, dallo stato d'animo di chi lavorava, o giocava, e dalla natura dei suoi lavori, dei suoi giochi. Riflettevo con soddisfazione proprio al fatto che questo modo un po' libertario di vedere stava guadagnando terreno, anche fra il clero, sempre più disposto ad ammettere che il sabato, una volta che si va a messa e si versano le proprie decime, può esser considerato un giorno come tutti gli altri, sotto certi aspetti. Ciò personalmente non mi riguardava, ho sempre preferito non far niente, io. E, se ne avessi avuto i mezzi, mi sarei riposato volentieri anche nei giorni feriali. Non che fossi pigro in senso vero e proprio. La faccenda era un'altra. Guardando fare quel che io stesso, se avessi voluto, avrei fatto meglio e che facevo meglio ogni volta che mi ci mettevo, avevo l'impressione di adempiere a una funzione alla quale nessuna attività avrebbe saputo innalzarmi. Ma a questa gioia mi potevo abbandonare soltanto di rado, durante la settimana.


Era bel tempo. Guardavo distrattamente le mie arpie, l'entrare e l'uscire delle api. Sentivo i passi precipitosi di mio figlio sulla ghiaia, rapito in chissà quale fantasticheria di fughe e d'inseguimenti. Gli gridai di non sporcarsi. Non rispose.


Tutto era calmo. Non un alito di vento. Dai comignoli dei vicini il fumo saliva diritto e azzurro. Rumori consueti, un tintinnare di mazze e di palle, un rastrello sulla sabbia d'arenaria, una lontana falciatrice meccanica, la campana della mia cara chiesa. E s'intende uccelli, merlo e tordo in testa, dai canti che svanivano a malincuore, vinti dalla calura, e che abbandonavano gli alti rami dell'aurora per l'ombra dei cespugli. Respiravo con piacere gli effluvi della mia verbena cedrina.


In questa cornice trascorsero proprio i miei ultimi momenti di felicità e di quiete.


Un uomo entrò nel mio giardino e venne in fretta verso di me. Lo conoscevo bene. Che un vicino venga a darmi il buongiorno, di domenica, se gli gira, posso anche ad ammetterlo, benché preferisca non veder nessuno. Ma l'uomo in proposito non era un vicino. I nostri rapporti erano esclusivamente d'affari ed era venuto a disturbarmi; da lontano. Ero dunque preparato a riceverlo abbastanza freddamente, tanto più che si era permesso di venir direttamente nel posto dove me ne stavo seduto, sotto il melo. Perché vedevo assai di cattivo occhio le persone che si permettevano una libertà simile. Se desideravano parlarmi non avevano che da suonare alla porta di casa mia. Marthe aveva le sue istruzioni. Mi ritenevo sottratto agli occhi di tutte le persone che fossero entrate da me e avessero percorso il breve vialetto che congiunge il cancello del giardino alla porta di casa, e dovevo esserlo effettivamente. Ma al rumore dell'ingresso sbattuto mi voltai irritato e vidi, attenuata dalle foglie, quella lunga figura che puntava diritto su di me, attraverso il prato. Non mi alzai né lo invitai a sedersi. Si fermò davanti a me e ci squadrammo in silenzio. Era goffamente, cupamente vestito a festa, cosa che finì coll'indispormi del tutto. Questa grossolana osservanza esteriore, mentre dentro l'anima esulta negli stracci, mi è sempre apparsa una cosa orribile. Guardai quei piedi enormi che calpestavano le mie pratoline. L'avrei cacciato volentieri, a colpi di scudiscio. Disgraziatamente non si trattava soltanto di lui. Accomodatevi, dissi, reso più accondiscendente dal pensiero che, dopo tutto, lui non faceva altro che il suo mestiere di intermediario. Sì, improvvisamente ebbi pietà di lui, pietà di me. Si sedette e s'asciugò la fronte. M'accorsi che mio figlio ci stava spiando dietro un cespuglio. Mio figlio aveva allora tredici o quattordici anni. Era grande e robusto per la sua età. La sua intelligenza sembrava raggiungere a tratti quella media. Be', è mio figlio. Lo chiamai e gli ordinai di andare a prendere della birra. Quanto a me, abbastanza spesso mi trovavo costretto ad assumere degli atteggiamenti da voyeur. Mio figlio m'imitava istintivamente. Ritornò dopo un periodo di tempo notevolmente breve con due bicchieri e una bottiglia di birra da un litro. Stappò la bottiglia e ci servì. Gli piaceva molto stappare le bottiglie. Gli dissi d'andarsi a lavare, di mettersi in ordine, in una parola di prepararsi a presentarsi in pubblico, perché tra poco sarebbe stata l'ora della messa. Può rimanere, disse Gaber. Non voglio che rimanga, dissi io. E rivolgendomi a mio figlio gli dissi di nuovo d'andarsi a preparare. Se c'era una cosa che mi dispiaceva, a quell'epoca, era proprio d'arrivare in ritardo alla messa di mezzogiorno. Come volete, disse Gaber. Avevamo provato a darci del tu. Invano. Quanto a me do, davo del tu a due persone soltanto. Jacques s'allontanò brontolando con il dito in bocca, abitudine detestabile e poco igienica, ma tutto considerato preferibile, secondo me, a quella del dito nel naso. Se il mettersi le dita in bocca evitava a mio figlio di mettersele nel naso, o altrove, in certo senso aveva ragione di farlo.


Ecco le vostre istruzioni, disse Gaber. Cavò di tasca un taccuino e si mise a leggere. Ogni tanto richiudeva il taccuino, stando attento a lasciarvi il dito infilato dentro, e si abbandonava a commenti e considerazione di cui non sapevo che farmene, perché conoscevo il mio mestiere. Quando finalmente ebbe terminato, gli dissi che questo lavoro non m'interessava e che il padrone avrebbe fatto meglio a rivolgersi ad un altro agente. Vuol proprio che siate voi, Dio sa perché, disse Gaber. Forse vi ha detto il perché, dissi fiutando l'adulazione, di cui ero abbastanza ghiotto. Ha detto, rispose Gaber, che ci siete solo voi capace di far questo lavoro. Era più o meno proprio quel che volevo sentire. Però, dissi, quest'affare mi sembra che sia d'una semplicità puerile. Gaber cominciò a criticare stizzosamente il nostro imprenditore, che l'aveva fatto alzare nel cuor della notte, proprio mentre stava mettendosi in posizione per far l'amore con sua moglie. Per una simile sciocchezza, aggiunse. E vi ha detto che aveva fiducia solo in me? dissi. Non sa più quel che dice, disse Gaber. Aggiunse, E nemmeno quel che fa. Si asciugò la fodera della bombetta, e intanto vi guardava dentro attentamente, come per cercarvi qualcosa. Dunque mi è difficile rifiutare, dissi, sapendo benissimo che comunque stessero le cose mi sarebbe stato impossibile rifiutare. Rifiutare! Ma noialtri agenti ci divertiamo spesso a recalcitrare, tra noi, e a darci l'aria d'uomini liberi. Partirete oggi, disse Gaber. Oggi! esclamai, ma è picchiato nella testa! Vostro figlio vi accompagnerà, disse Gaber. Me ne stavo zitto. Quando queste cose diventavano serie ce ne stavamo zitti. Gaber abbottonò il taccuino e se lo rimise in tasca, abbottonando anche questa. Si alzò, si passò le mani sul petto. Berrei volentieri un altro boccale, disse. Andate in cucina, dissi, la cameriera vi servirà. Salve Moran, disse lui.


Era troppo tardi per andare a messa. Non avevo bisogno di consultare l'orologio per saperlo, sentivo che la messa era cominciata senza di me. Proprio io che non perdevo mai la messa, averla persa proprio quella domenica! Quando ne avevo tanto bisogno! Per mettermi in cammino! Presi la decisione di sollecitare un'ammissione particolare, nel corso del pomeriggio. Avrei fatto a meno della colazione. Con il buon padre Ambroise c'era sempre modo d'arrangiarsi.


Chiamai Jacques. Senza risultato. Dissi tra me, vedendomi ancora in colloquio se n'è andato a messa da solo. Questa spiegazione, in seguito, si rilevò giusta. Ma aggiunsi, Avrebbe potuto venire a trovarmi prima d'andarsene. Ragionavo volentieri per monologhi e allora mi si vedevano muovere le labbra. Ma senza dubbio aveva avuto paura di disturbarmi e di farsi pescare. Perché quando pescavo mio figlio, mi capitava d'oltrepassare la misura e lui di conseguenza aveva un po' paura di me. Di me che non sono mai stato sufficientemente punito. Oh non che sia stato viziato, no, m'hanno semplicemente trascurato. Donde le cattive abitudini a cui non si può più rimediare e che ormai neanche la più meticolosa devozione è riuscita a raddrizzare. Speravo di risparmiare questa sventura a mio figlio, dandogli qualche bravo schiaffo ogni tanto, con ragionamento di sostegno. Poi dissi tra me, Avrà il coraggio di dirmi che torna da messa se non c'è stato, se per esempio non ha fatto altro che andare a raggiungere i suoi compagni, dietro il macello? E mi ripromisi di far cantare in proposito padre Ambroise. Perché non bisognava che mio figlio si mettesse in testa d'esser capace di mentirmi impunemente. E se padre Ambroise non avesse potuto informarmi, mi sarei rivolto allo scaccino, al quale era impossibile che fosse sfuggita la presenza di mio figlio alla messa di mezzogiorno. Perché sapevo con certezza che lo scaccino possedeva una lista dei fedeli e che, appostato vicino alla pila dell'acquasanta, ci segnava tutti quanti al momento dell'abluzione. Particolare degno di nota, padre Ambroise ignorava tutto quest'intrigo, proprio così, tutto ciò che sapeva di sorveglianza era esecrabile ai suoi occhi, agli occhi del buon padre Ambroise. E avrebbe cacciato su due piedi lo scaccino se l'avesse creduto capace di una simile arroganza. Probabilmente lo scaccino teneva aggiornato il registro, con tanta assiduità, solo a propria edificazione. Io sapevo soltanto come andavano le cose alla messa di mezzogiorno, questo è pacifico, non avendo personalmente nessuna esperienza delle altre funzioni, in cui non mettevo mai piede. Ma avevo sentito dire che veniva esercitato esattamente lo stesso controllo, se non dallo scaccino, certamente occupato altrove, da uno dei suoi numerosi figli. Strana parrocchia, questa, le cui pecorelle la sapevan più lunga del pastore su un fatto tanto specifico che sembrava spettare più a lui che a loro.


Ecco a che cosa pensavo in attesa che mio figlio tornasse e Gaber se ne andasse, perché non l'avevo ancora sentito uscire. E stasera mi par strano di aver potuto pensare, in un momento simile, a mio figlio, al mio difetto d'educazione, a padre Ambroise, allo scaccino Joly col suo registro. Non potevo darmi da fare per qualcosa di più utile, dopo quel che avevo appena sentito? Il fatto è che non avevo ancora cominciato a prender sul serio quest'affare. E ne son tanto più sorpreso in quanto una simile negligenza non era nel mio carattere. O forse era soltanto per assaporare ancora qualche attimo di quiete che evitavo istintivamente di pensarci? Anche se, alla lettura della relazione di Gaber, l'affare non m'era parso degno di me, tuttavia l'insistenza del padrone per aver proprio me, Moran, invece d'un altro, e la notizia che mio figlio m'avrebbe accompagnato, avrebbero dovuto farmi avvertire che si trattava di un lavoro insolito. E invece d'impegnarvi senza indugio tutte le risorse di spirito e d'esperienza che avevo, stavo a fantasticare sulle debolezze del mio sangue e sulle stranezze del mio ambiente. Ma intanto il veleno mi torturava, il veleno che m'avevano appena travasato. Mi agitavo senza posa nella poltrona, mi passavo le mani sulla faccia, accavallavo e distendevo le gambe, ecc. Il mondo cambiava già colore e peso, tra poco avrei dovuto ammettere d'essere in ansia.


Mi ricordai con stizza della birra che avevo appena bevuto. M'avrebbero concesso il corpo di Cristo dopo un boccale di Wallenstein? E se non avessi detto niente? Siete a digiuno, figliolo? Non m'avrebbero chiesto niente. Ma Dio sarebbe venuto a saperlo, presto o tardi. Forse m'avrebbe perdonato. Ma l'eucaristia produce lo stesso effetto, presa sulla birra, anche se fosse marzolina? Avrei sempre potuto tentare. Quale era in proposito l'insegnamento della Chiesa? Se fossi stato sul punto di commettere un sacrilegio? Decisi di succhiare qualche pastiglia di menta, strada facendo verso il presbiterio.


Mi alzai e andai in cucina. Chiesi se Jacques era tornato. Non l'ho visto, rispose Marthe. Sembrava di cattivo umore. E l'altro? dissi. Quale altro? disse lei. Quello che è venuto da parte mia a chiedervi un bicchiere di birra, dissi. Nessuno m'ha chiesto nulla, disse Marthe. A proposito, dissi senza scompormi, oggi non farò colazione. Mi chiese se ero malato. Il fatto è che, per temperamento, ero piuttosto un gran mangione. E riguardo alla colazione domenicale, la volevo sempre assai abbondante. In cucina c'era un buon odore. Farò colazione un po' più tardi, ecco tutto, dissi. Marthe mi diede un'occhiata furibonda. Facciamo alle quattro, dissi. Sapevo bene cos'è che galoppava e s'impennava dietro quella fronte stretta e sempre più grigia. Oggi non uscirete, dissi freddamente, mi dispiace. Lei si buttò sulle pentole, in un silenzio iroso. Mi terrete tutto quanto al caldo, come meglio potrete, dissi. E, sapendola capace d'avvelenarmi, aggiunsi, Avrete tutta la giornata di domani, se vi fa comodo.


Uscii e andai sulla strada. Dunque Gaber se n'era andato senza prendersi la birra. Eppure ne aveva avuto una gran voglia. È proprio una buona marca, la Wallenstein. Spiai l'arrivo di Jacques. Arrivando dalla chiesa sarebbe comparso alla mia destra, alla mia sinistra se fosse venuto dal macello. Un vicino libero pensatore capitò a passare di là. Toh, fece lui, quest'oggi non si adora? Conosceva le mie abitudini, intendo le mie abitudini domenicali. Le conoscevano tutti e il padrone forse meglio di chiunque altro nonostante la sua lontananza. Avete proprio la faccia sconvolta, disse il vicino. Siete voi a sconvolgermi, dissi, ogni volta che vi vedo. Rientrai, con quel sorriso coscienziosamente laido sulla mia schiena. Lo vedevo correr già dalla sua concubina a dirle, Conosci quel povero coglione di Moran, avresti dovuto vedermi a sfotterlo! Non sapeva più cosa dire! Se l'è squagliata!


Jacques ritornò poco dopo. Non sembrava aver fatto il monello. Disse ch'era stato da solo in chiesa. Gli dissi di lavarsi le mani e di mettersi a tavola. Ritornai in cucina. Non facevo che andare e venire. Potete mettere in tavola, dissi. Aveva pianto. Diedi un'occhiata nelle pentole. Dell'Irish Stew. Piatto nutriente ed economico, un po' indigesto. Gloria al paese di cui ha reso popolare il nome. Mi metterò a tavola alle quattro, dissi. Non avevo bisogno d'aggiungere in punto. Amavo l'esattezza, e dovevano amarla anche tutti quelli che abitavano sotto il mio tetto. Salii in stanza. E là, disteso sul letto, a tende chiuse, feci un primo tentativo di affrontare l'affare Molloy.


Prima di tutto volevo considerarne solo le seccature immediate, i preparativi a cui mi obbligava. Al nocciolo dell'affare Molloy evitavo ancora di pensare. Mi sentivo invadere da una gran confusione.


Sarei partito in ciclomotore? Cominciai proprio da questa domanda. Avevo un carattere metodico e non partivo mai in missione senza aver prima lungamente ponderato sul modo migliore di partire. Era proprio quello il primo problema da risolvere, all'inizio di ogni investigazione, e non mi muovevo mai senza averlo prima risolto, con mia soddisfazione. Talvolta prendevo il ciclomotore, talvolta il treno, talvolta la corriera, e mi capitava anche di partire a piedi, o in bicicletta, silenziosamente, di notte. Perché quando si è circondati di nemici, come lo sono io, non si può partire in ciclomotore, neanche di notte senza farsi notare, a meno di servirsene come di una semplice bicicletta, il che non ha senso. Ma se il decidere anzitutto questo delicato problema del trasporto faceva parte delle mie abitudini, questo non avveniva mai senza aver prima, se non approfondito, preso almeno in considerazione, i fattori da cui dipendeva. Come decidere, infatti, la maniera di partire se prima non si sa dove si va, o almeno a che scopo ci si va? Ma nel caso presente mi ero messo a voler risolvere il problema del trasporto senza nessuna preparazione salvo la conoscenza distratta che avevo preso della relazione di Gaber. I particolari minori di questa relazione, li avrei saputi ritrovare quando avessi voluto, ma non mi ero preso ancora questa briga, avevo evitato di prenderla, dicendo tra me, È un affare banale. Voler definire il problema del trasporto in queste condizioni, era veramente pazzesco. Eppure è proprio quel che facevo. Stavo già perdendo la testa.


Mi piaceva molto partire in ciclomotore, ero affezionato a questa forma di locomozione. E nell'ignoranza in cui mi trovavo riguardo ai motivi che vi si opponevano, decisi di partire in ciclomotore. Così, alla soglia dell'affare Molloy, s'inscriveva il funesto principio del piacere.


I raggi del sole passavano attraverso lo spiraglio delle tende, rendendo visibile la folle danza del pulviscolo. Da ciò conclusi che il tempo era sempre bello e me ne rallegrai. Quando si parte in ciclomotore il bel tempo è preferibile. Mi sbagliavo, il tempo non era più bello, il cielo si andava coprendo, presto si sarebbe messo a piovere. Ma per il momento il sole splendeva ancora. Mi basai proprio su questo fatto, con una leggerezza incredibile, senza aver altri elementi di valutazione.


Quindi, secondo la consuetudine che avevo, mi misi a voler risolvere il problema capitale del vestiario da portare con me. E anche qui avrei preso una decisione completamente oziosa se mio figlio non avesse fatto irruzione, volendo sapere se poteva uscire. Io mi dominai. Stava pulendosi la bocca col dorso della mano. È una cosa che non m'è mai piaciuto vedere. Ma ci sono dei gesti ben più sconci, ne so qualcosa.


Uscire? dissi, per andar dove? Uscire! Che detestabile vagabondo. Cominciai ad aver molta fame. Agli Olmetti, rispose. Il nostro piccolo giardino pubblico si chiama così. Eppure, di olmetti non se ne vedono, me l'hanno assicurato. A far cosa? dissi. A ripassare la botanica, rispose. C'erano dei momenti in cui sospettavo che mio figlio simulasse. Fu proprio uno di questi. Avrei preferito quasi che mi dicesse, A prendere un po' d'aria, oppure, A guardare le ragazze. Il guaio era che la sapeva più lunga di me, sulla botanica. Altrimenti avrei potuto fargli qualche domandina, al suo ritorno. A me i vegetali piacevano, e basta. Talvolta anzi vedevo in essi una prova superfetatoria dell'esistenza di Dio. Va', dissi, ma torna alle quattro e mezzo, devo parlarti. Va bene papà, disse. Va bene papà! Ah!


Dormii per un po'. Abbreviamo. Passando davanti alla chiesa qualcosa mi fece fermare. Diedi un'occhiata al portale, in stile gesuitico, molto bello. Lo trovai orrido. Affrettai il passo fino al presbiterio. Il parroco dorme, disse la cameriera. Aspetterò, dissi io. È urgente? disse lei. Sì e no, dissi io. Mi fece entrare nel salone, spaventosamente spoglio. Padre Ambroise entrò stropicciandosi gli occhi. Vi disturbo, padre, dissi. Fece schioccare la lingua contro il palato, in segno di protesta. Non starò a descrivere i nostri contegni, il suo e il mio. Mi offrì un sigaro che accettai garbatamente e che mi ficcai nel taschino, tra la stilografica e il portalapis. Si lusingava d'essere uomo di mondo, padre Ambroise, di conoscer le buone maniere, lui che non fumava mai. E tutti dicevano di lui ch'era un uomo generoso. Gli chiesi se aveva notato mio figlio alla messa di mezzogiorno. Certo, disse, abbiamo anche chiacchierato insieme. Probabilmente mi mostrai sorpreso. Sì, disse, non vedendovi al vostro posto, nella prima fila dei celebranti, ho temuto che foste ammalato. Allora ho fatto chiamare quel caro bambino, che mi ha rassicurato. Ho avuto una visita assai inopportuna, dissi, da cui non ho potuto liberarmi in tempo. È proprio quel che mi ha spiegato vostro figlio, disse. Aggiunse, Ma sediamoci dunque, non ci stanno mica inseguendo. Rise e si sedette, rimboccando le pesante tonaca. Posso offrirvi un digestivo? disse. Ero perplesso. Che Jacques si fosse lasciata sfuggire qualche allusione alla birra. Capacissimo. Son venuto a chiedervi un favore, dissi. Accordato, disse lui. Rimanemmo ad osservarci. Ecco, dissi, una domenica senza viatico, per me è come —. Alzò la mano. Soprattutto niente paragoni profani, disse. Forse pensava al bacio senza baffi o all'arrosto senza mostarda. Non mi va d'esser interrotto. Divenni imbronciato. Vedo dove volete arrivare, disse, ditelo subito, desiderate fare la comunione. Chinai il capo. È piuttosto irregolare, disse. Mi chiesi se avesse mangiato. Sapevo che si sottoponeva volentieri a digiuni prolungati, evidentemente per spirito di mortificazione, e poi perché il suo medico gliel'aveva consigliato. Così pigliava due piccioni con una fava. Non dite niente a nessuno, disse, resti solo tra noi e... S'interruppe alzando il dito, e gli occhi, al soffitto. Toh, disse, cos'è quella macchia? Guardai a mia volta il soffitto. È una macchia d'umidità, dissi. Oh là là, disse, che seccatura. La parola oh là là mi parve di una demenza senza pari. Ci son dei momenti, disse, in cui si è tentati di lasciarsi andare allo scoraggiamento. Si alzò. Vado a cercare il mio bagaglio, disse. Lo chiamava il suo bagaglio, questo. Solo, con le mani giunte da farmi scricchiolare le falangi, chiesi consiglio al Signore. Senza risultato. Questo era già qualcosa. Quanto a padre Ambroise, dato il modo con cui era scattato a prendere il suo bagaglio, mi sembrava che non avesse proprio alcun sospetto. O che si divertisse a veder fin dove sarei arrivato? O che si prendesse il gusto d'indurmi in peccato? Riassunsi la situazione nella formula seguente. Se lui sa che ho bevuto la birra e mi dà lo stesso la comunione, pecca né più né meno come me, se c'è peccato. Dunque non rischiavo granché. Tornò con una specie di ciborio-valigia, l'aprì e mi sbrigò senza un attimo d'esitazione. Mi rialzai e lo ringraziai con calore. Eh via, sciocchezze. Adesso possiamo chiacchierare.


Io non aveva altro da dirgli. Aspiravo ad una cosa sola, raggiungere di nuovo il mio domicilio il più svelto possibile e rimpinzarmi di Stew. Saziata l'anima rimaneva lo stomaco. Ma essendo in lieve anticipo sull'orario, mi rassegnai a concedergli otto minuti. Mi sembrarono interminabili. M'informò che la signora Clément, la moglie del farmacista e anche lei farmacista di prima classe, era caduta nel suo laboratorio, da una scala, e si era rotta il collo —. Il collo! esclamai. Del femore, disse, non mi lasciate finire. Aggiunse che questo doveva succedere. E io, per non essere in debito, l'informai che le mie galline mi davan molte preoccupazioni, e particolarmente la gallina grigia, che non voleva più far uova né covare e che da più di un mese rimaneva accoccolata, dalla mattina alla sera, con il sedere nella polvere. Come Giobbe, ah ah, disse lui. Anch'io feci ah ah. Come fa bene ridere, ogni tanto, disse. Vero? dissi io. È proprio dell'uomo, disse lui. L'ho notato, dissi io. Seguì un breve silenzio. Con che cosa la nutrite? chiese. Col granoturco, dissi io. Aggiunsi che non mangiava quasi più. Gli animali non ridono mai, disse. Siamo solo noi a trovarlo divertente, dissi. Come? disse lui. Siamo solo noi a trovarlo divertente, dissi con energia. Si mise a riflettere. Nemmeno Cristo ha mai riso, disse, che si sappia. Mi guardò. Che volete, dissi. Sicuro, disse lui. Ci sorridemmo tristemente. Che abbia la pepita? disse. Risposi di no, no di certo, tutto quel che si voleva, ma la pepita no. Si mise a riflettere. Avete provato col bicarbonato? disse. Prego? dissi io. Il bicarbonato di sodio, disse, l'avete provato? Veramente no, dissi io. Provatelo! esclamò, arrossendo dal piacere, fategliene inghiottire qualche cucchiaino, parecchie volte al giorno, per qualche mese. Vedrete, questo la rimetterà in sesto. È una polvere? dissi. Diamine, disse lui. Vi ringrazio, dissi, proverò da oggi. Una gallina così bella, disse lui, una covatrice così buona. Insomma da domani, dissi io. Avevo dimenticato che la farmacia era chiusa. Salvo in caso d'urgenza, è chiaro. E adesso il nostro piccolo digestivo, disse. Lo ringraziai.


Questo colloquio con padre Ambroise mi lasciò un'impressione penosa. Era sempre lo stesso caro uomo, eppure no. Mi sembrava d'aver sorpreso, sulla sua faccia, un difetto, come posso dire, un difetto di nobiltà. Bisogna dire che l'ostia non andava giù. E mentre tornavo a casa mi facevo l'effetto di un uomo che, dopo aver inghiottito un analgesico, dapprima si stupisce e poi s'indigna, constatando di soffrire sempre lo stesso. E quasi quasi giungevo a sospettare che padre Ambroise, informato delle mie intemperanze della mattinata, m'avesse rifilato del pane non benedetto. O avesse fatto una riserva mentale, mentre pronunciava le parole magiche. E così arrivai a casa di pessimo umore, sotto una pioggia torrenziale.


Lo Stew mi deluse. Dove sono le cipolle? strillai. Si son sfatte, disse Marta. Mi precipitai in cucina, alla ricerca delle cipolle, sospettando che le avesse fatte sparire, sapendo quanto mi piacevano. Rovistai persino nel bidone della spazzatura. Niente. Lei stava a guardarmi, beffarda.


Risalii in stanza, aprii le tende davanti a un cielo disastroso e mi buttai disteso. Non riuscivo a capire quel che mi succedeva. M'era penoso non capire, a quell'epoca. Feci uno sforzo per riprendermi. Fu un fiasco. Per forza. La mia vita se ne andava, ma non sapevo da che parte. Nondimeno riuscii ad assopirmi, cosa tutt'altro che facile, quando la disdetta non ha confini. E durante questo sonno crepuscolare, mentre mi compiacevo d'esserci arrivato, mio figlio entrò, senza bussare. Ora se c'è una cosa che detesto, è proprio che qualcuno entri nella mia stanza senza bussare. Avrei potuto trovarmi benissimo intento a masturbarmi, davanti al mio specchio Brot. Spettacolo certo poco edificante per un giovinetto, quello di suo padre, con i calzoni aperti, gli occhi fuori dall'orbita, in preda a un tetro e brusco godimento. Lo richiamai rudemente alla buona educazione. Lui asserì d'aver bussato due volte. Anche se avessi bussato cento volte, risposi, non avresti nessun diritto d'entrare prima d'esser invitato a farlo. Ma, disse. Ma che cosa? dissi io. M'hai detto di venire alle quattro e mezzo, disse. C'è qualcosa, dissi, di più importante della puntualità, ed è il pudore. Ripeti. Su quelle labbra sprezzanti la frase che avevo detto mi faceva vergognare. Era zuppo di pioggia. Che cos'hai esaminato? disse. Le liliacee, papà, rispose. Le liliacee, papà! Quando voleva ferirmi, mio figlio aveva un modo particolarissimo di dire papà. Stammi bene a sentire, adesso, dissi. La sua faccia assunse un'espressione attenta e angosciata. Stasera, dissi in sostanza, ci mettiamo in viaggio. Ti metterai il vestito di scuola, quello verde —. Ma è blu, papà, disse lui. Blu o verde, ti metterai quello, dissi con energia. Aggiunsi, Metterai nello zaino, quello che ti ho regalato per la tua festa, le cose per lavarti oltre a una camicia, sette paia di mutande e uno di calzini. Hai capito? Quale camicia, papà? disse lui. Una qualunque, esclamai, una camicia! Che scarpe devo mettere? disse. Hai due paia di scarpe, quelle della domenica e quelle di tutti i giorni, e mi chiedi quali devi mettere. M'inalberai. Non mi starai prendendo in giro? dissi.


Avevo appena dato a mio figlio precise istruzioni. Ma eran poi quelle giuste? Avrebbero retto al vaglio della riflessione? Non sarei stato indotto in un tempo brevissimo, a revocarle? Proprio io che non cambiavo mai parere davanti a mio figlio. C'era tutto da temere.


Dove andiamo, papà? disse. Quante volte gli avevo detto di non farmi domande. E poi, effettivamente, dove andavamo. Fa' quel che ti ho detto, dissi. Domani ho un appuntamento dal signor Py, disse. Lo vedrai un altro giorno, dissi io. Ma mi fa male, disse lui. Esistono altri dentisti, dissi, il signor Py non è l'unico dentista dell'emisfero settentrionale. Imprudentemente aggiunsi, Non andiamo poi nel deserto. Ma è un dentista molto bravo, disse lui. Tutti i dentisti si equivalgono, dissi io. Avrei potuto dirgli di non seccarmi col suo dentista, ma no, ragionavo dolcemente con lui, lo trattavo alla pari. Avrei potuto parimenti fargli notare che mentiva dicendomi che gli faceva male. Gli aveva fatto male un premolare, credo, ma ora non soffriva più. Me l'aveva detto Py stesso. Ho medicato il dente, m'aveva detto, è impossibile che vostro figlio soffra ancora. Me la ricordavo bene, questa conversazione. Ha naturalmente una cattiva dentatura, disse Py. Naturalmente? dissi io, come naturalmente? Che cosa volete insinuare? È nato con una cattiva dentatura, disse Py, e avrà sempre una cattiva dentatura. Farò naturalmente quel che potrò. Ciò significava, Sono nato con l'inclinazione a far tutto quel che potrò, farò per forza sempre tutto quel che potrò. Nato con una cattiva dentatura! Quanto a me, non mi erano rimasti che gli incisivi, quelli che addentano.


Piove ancora? dissi. Mio figlio aveva cavato di tasca uno specchietto e si stava esaminando la bocca all'interno, tenendo sollevato col dito il labbro superiore. Hi, disse, senza interrompere l'ispezione. Smettila di toccarti la bocca con le mani! strillai. Va' alla finestra e dimmi se piove ancora. Andò alla finestra e mi disse che pioveva ancora. Il cielo è tutto coperto? dissi. Sì, disse lui. Nemmeno la minima schiarita? dissi. No, disse lui. Chiudi le tende, dissi. Attimi deliziosi, prima che l'occhio si abitui al buio. Sei ancora lì? dissi. Era ancora lì. Gli chiesi cosa aspettava a far quel che gli avevo detto. Al suo posto, io mi sarei levato d'attorno da un pezzo. No, non era alla mia altezza, non c'era la stessa stoffa. Non potevo sottrarmi a questa conclusione. Che misera conclusione effettivamente sentirsi superiore al proprio figlio, e per di più insufficiente a calmare il rimorso d'averlo messo al mondo. Posso portare con me la raccolta dei francobolli? disse. Mio figlio aveva due album, uno grande che costituiva la raccolta propriamente detta e uno piccolo per i doppioni. Lo autorizzai a portarsi via quest'ultimo. Quando posso fare un favore, senza dover violentare i miei princìpi, lo faccio volentieri. Egli si ritirò.


M'alzai e andai alla finestra. Non riuscivo a star tranquillo. Infilai la testa fra le tende. Pioggia sottile, cielo ermeticamente chiuso. Non m'aveva mentito. Schiarita prevedibile per le otto, otto e mezzo. Sereno al tramonto, crepuscolo, notte. Luna calante, sorgente verso mezzanotte. Suonai per chiamare Marta e mi coricai di nuovo. Pranzeremo a casa, dissi. Mi guardò stupita. Non pranzavamo sempre a casa? Non le avevo ancora detto che partivamo. Gliel'avrei detto solo all'ultimo momento, col piede nella staffa come si suol dire. Avevo scarsa fiducia in lei. L'avrei chiamata all'ultimo momento e le avrei detto, Marta, si parte, per un giorno, due giorni, tre giorni, otto giorni, quindici giorni, cosa ne so, addio. Non c'era bisogno che fosse sicura. Allora perché disturbarla? Ci avrebbe servito il pranzo comunque, come aveva sempre fatto. Avevo commesso l'errore di mettermi nei suoi panni. E perché averle tolto il pomeriggio? Questo era più comprensibile. Ma dirle che pranzavamo a casa, che sproposito. Perché lei lo sapeva già, credeva di saperlo, lo sapeva di fatto. E in seguito a quest'inutile precisazione ella avrebbe fiutato l'insolito e ci avrebbe spiato, per cercar di sapere cosa c'era sotto. Primo sbaglio. Secondo, primo nel tempo, avevo tralasciato d'imporre a mio figlio che non andasse a dire a nessuno ciò che gli avevo detto. Questo non avrebbe evidentemente impedito nulla. Non importa, avrei dovuto esigerlo, era per me un obbligo. Non facevo altro che sciocchezze, proprio io di solito così furbo. Cercai di aggiustare la cosa, dicendo, Un po' più tardi del solito, non prima delle nove. Se ne stava andando, con la rozza mente già in ebollizione. Non ci sono per nessuno, dissi. Sapevo bene quel che stava per fare, andava a buttarsi uno scialle sulle spalle e sarebbe sgattaiolato fino in fondo al giardino. Là avrebbe chiamato Hanna, la vecchia cuoca della sorella Elsner, e insieme avrebbero parlottato per un bel po', attraverso la cancellata. Hanna non usciva mai, non le piaceva uscire. Le sorelle Elsner erano delle vicine abbastanza buone. La sola cosa che potevo rimproverare loro, era quella di fare un po' troppo spesso musica. Se c'è una cosa che urta il mio sistema nervoso è proprio la musica. Ciò che affermo, nego, metto in dubbio, al tempo presente posso farlo ancora per oggi. Ma userò soprattutto le diverse forme del passato. Perché per lo più non son sicuro, forse non è più così, non lo so ancora, non so e basta, forse non lo saprò mai. Per un po' rimasi a pensare alle sorelle Elsner. C'era ancora tutto da organizzare e io stavo a pensare alle sorelle Elsner. Avevano un aberdeen chiamato Zulù. Lo chiamavano Zulù. Talvolta, quand'ero di buon umore chiamavo, Zulù! Piccolo Zulù! e lui veniva a darmi il buongiorno, attraverso la cancellata. Ma bisognava che fossi allegro, non mi piacciono le bestie. È proprio curioso, non mi piacciono gli uomini e non mi piacciono le bestie. Quanto a Dio, comincia a disgustarmi. Accoccolato gli stuzzicavo le orecchie, dicendogli delle parole carezzevoli, attraverso la cancellata. Non s'accorgeva di disgustarmi. Si rizzava sulle zampe posteriori, e appoggiava il petto alle sbarre. Allora vedevo il suo piccolo pene nero prolungato da un'esile treccia di peli umidi. Si sentiva instabile, i suoi garretti tremavano, le zampine cercavano un punto d'appoggio, una dopo l'altra. Anch'io vacillavo, seduto sui talloni. Con la mano libera mi aggrappavo all'inferriata. Forse lo disgustavo anch'io. Feci fatica a strapparmi da questi futili pensieri.


In un moto di rivolta, mi chiesi cosa ci fosse ad obbligarmi ad accettare questo lavoro. Ma l'avevo già accettato, avevo dato la mia parola. Troppo tardi. L'onore. Feci presto a indorare la mia impotenza.


Ma non avrei potuto rimandare a domani la nostra partenza? O partire da solo? Inutili sotterfugi. Ma saremmo partiti solo all'ultimo momento, un po' prima di mezzanotte. Questa decisione è irrevocabile, dissi tra me. Lo stato della luna, d'altronde, la giustificava. Facevo come quando non riuscivo a dormire. Gironzolavo lentamente nel mio spirito, notando ogni particolare del labirinto, con i suoi sentieri che mi eran familiari quanto quelli del mio giardino, e tuttavia sempre nuovi, meravigliosamente deserti o animati da strani incontri. E sentivo i tamburi lontani, Ho tempo, ho tempo. Ma il segno di no, fu dato dal fatto che mi fermai, tutto sparì e di nuovo cercai di pensare all'affare Molloy. Spirito incomprensibile, una volta mare, una volta faro.


Noialtri agenti non mettiamo mai niente per iscritto. Gaber non era agente nel senso in cui lo ero io. Gaber era messaggero. Aveva quindi diritto al taccuino. Per esser messaggero occorrevano qualità singolari, i buoni messaggeri erano più rari dei buoni agenti. Io che ero un ottimo agente, non sarei stato che un mediocre messaggero. Questo mi rincresceva. Gaber era protetto in modo molteplice. Si serviva di un tipo di annotazione comprensibile soltanto a lui. Ogni messaggero, prima d'esser scelto, doveva sottoporre il proprio tipo di annotazione alla direzione. Gaber non capiva niente dei messaggi che portava, ci pensava su e ne traeva delle conclusioni così false da lasciar stupiti. Sì, non bastava che non ci capisse nulla, bisognava anche che credesse di capirci tutto. E non basta. La sua memoria era talmente difettosa che i suoi messaggi non esistevano nella sua testa, ma soltanto nel suo taccuino. Gli bastava chiudere il taccuino per diventare, nel giro di un minuto, perfettamente innocente quanto al suo contenuto. E quando dico che pensava ai suoi messaggi e ne traeva delle conclusioni, non vuol dire che lo facesse come avremmo fatto noi, voi e io, a libro chiuso e probabilmente anche ad occhi chiusi, ma via via che leggeva. Quando alzava gli occhi e si lasciava andare a far dei commenti, lo faceva senza perdere un istante, perché se avesse perduto un solo istante avrebbe dimenticato tutto, e testo e glossa. Spesso mi son chiesto se i messaggeri non fossero sottoposti a un intervento chirurgico per diventare così amnesici. Ma non credo. Infatti per tutto quel che non riguardava i messaggi avevano una memoria abbastanza buona. E ho sentito Gaber parlare della sua infanzia e della sua famiglia in termini assai plausibili. Essere solo a poter decifrarsi, chiuso senza saperlo al senso delle proprie commissioni e incapace di conservarle per più di qualche secondo, sono davvero delle attitudini assai raramente riunite in uno stesso individuo. Eppure è proprio quel che si esigeva dai nostri messaggeri. E la prova che erano più considerati degli agenti, di qualità più solida che brillante, è lo stipendio di otto sterline settimanali che essi ricevevano, mentre a noi ne toccavano soltanto sei e mezzo, escludendo da queste cifre i premi e le spese di trasporto. E quando parlo di agenti e di messaggeri al plurale, lo faccio senza garanzia. Perché non avevo mai visto altri messaggeri oltre a Gaber né altri agenti oltre a me. Ma supponevo che non fossimo soli e probabilmente Gaber supponeva la stessa cosa. Perché non credo che il sentirci soli nei nostri rispettivi generi l'avremmo sopportato. E doveva sembrarci naturale, a me che a ciascun agente fosse assegnato un solo messaggero e a Gaber che a ciascun messaggero fosse assegnato un solo agente. Ed è proprio per questo che avevo potuto dire a Gaber, Lo dia a un altro questo lavoro, io non lo voglio, e che Gaber avevo potuto rispondermi, Vuole voi e nessun altro. E proprio queste parole, ammesso che Gaber non le avesse inventate espressamente per seccarmi, forse il padrone le aveva pronunciate unicamente per conservarci questa illusione, se poi lo era. Tutto ciò è poco chiaro.


Se noi ci vedevamo membri di un'immensa rete, senza dubbio era anche in virtù del sentimento umanissimo che l'essere in tanto diminuisce la sventura. Ma per me almeno che sapevo ascoltare il falsetto della ragione, era evidente che forse eravamo soli a far quel che facevamo. Sì, nei momenti di lucidità lo ritenevo possibile. E per non nascondervi nulla, aggiungo che questa lucidità raggiungeva a volte una tale acutezza, che arrivavo a dubitare persino dell'esistenza di Gaber. E se non mi fossi rituffato in fretta nelle tenebre, forse sarei arrivato persino a far sparire anche il padrone e a considerarmi solo e unico responsabile della mia esistenza infelice. Perché sapevo d'essere infelice con sei sterline e mezzo settimanali più premi e spese. Una volta soppressi Gaber e il padrone (un tale chiamato Youdi), forse non avrei potuto rifiutarmi al favore di — mi avete capito. Ma non ero fatto per la gran luce che annienta, mi era stata data solo una piccola lucerna e una grande pazienza, da condurre fra le ombre vacue. Ero un solido, io, in mezzo ad altri solidi.


Discesi in cucina. Non mi aspettavo di trovarvi Marthe, ma ve la trovai. Era seduta sulla sua sedia a dondolo, accanto al camino e stava cullandosi con mala grazia. Questa sedia a dondolo, se si dà credito alle sue parole, era l'unico possesso a cui tenesse e da cui non si sarebbe separata neanche per un impero. Particolare degno di nota, non l'aveva collocata nella sua stanza, ma in cucina, accanto al camino. Dato che andava tardi a letto e che s'alzava presto, è proprio in cucina che poteva meglio approfittarne. Molti padroni, e io fra questi, vedono malvolentieri i bei mobili sui posto di lavoro. La cameriera vuol riposarsi? Che si ritiri nella sua stanza. In cucina tutto dev'essere in legno bianco e rigido. Debbo dire che Marthe, prima d'entrare al mio servizio, aveva preteso che l'autorizzassi a tenere la sua sedia a dondolo in cucina. Io avevo rifiutato, con indignazione. Poi, vedendola irremovibile, avevo ceduto. Avevo troppo buon cuore, io.


Ogni sabato mi veniva consegnata la provvista settimanale di lager, cioè una mezza dozzina di bottiglie da un litro. Non la toccavo mai fino al giorno dopo, perché anche dopo il più piccolo spostamento bisogna che il lager si riposi. Di queste sei bottiglie Gaber e io, tra tutt'e due, ne avevamo vuotata una. Dunque dovevano esserne rimaste cinque, più un fondo di bottiglia della settimana scorsa. Andai in dispensa. Le cinque bottiglie c'erano, tappate e sigillate, e una bottiglia aperta vuota per tre quarti. Marta mi seguiva con gli occhi. Me ne andai senza rivolgerle la parola e risalii al piano superiore. Non facevo altro che andare e venire. Entrai nella stanza di mio figlio. Seduto davanti al tavolino da lavoro stava ammirando i suoi francobolli, nei due album, quello grande e quello piccolo, aperti davanti. All'avvicinarmi li richiuse in fretta. Capii subito quel che stava macchinando. Ma prima dissi, Hai preparato la tua roba? Si alzò, prese il suo zaino e me lo diede. Vi guardai dentro. V'infilai la mano e ne tastai il contenuto, con gli occhi nel vuoto. C'era tutto. Glielo resi. Cosa stai facendo? dissi. Guardo un po' i francobolli, rispose. E questo lo chiami guardare i francobolli? dissi. Certo, disse lui, con una sfrontatezza da non immaginarsi. Sta' zitto, piccolo bugiardo! esclamai. Sapete quel che stava facendo? Stava semplicemente trasferendo dalla bella collezione propriamente detta all'album dei doppioni dei francobolli rari e di valore, quelli che ogni giorno stava a contemplare incantato e che non poteva decidersi a lasciare, anche per pochi giorni soltanto. Fammi vedere il tuo Timor nuovo, il cinque reis giallo, dissi. Esitò. Fammelo vedere! strillai. Gliel'avevo regalato io stesso, mi era costato un fiorino. Un'occasione, a quell'epoca. L'ho messo là dentro, disse miseramente, sollevando l'album dei doppioni. Era proprio quel che volevo sapere, о meglio sentir dire da lui, perché io lo sapevo già. Va bene, dissi. Andai alla porta. Lascerai a casa i due album, dissi, il piccolo e il grande. Non una parola di rimprovero, un semplice futuro profetico, sul tipo di quelli che usava Youdi. Vostro figlio vi accompagnerà. Uscii. Ma mentre percorrevo il corridoio, a passi leggeri, quasi danzati, compiacendomi come al solito della morbidezza della mia moquette, in direzione della mia stanza, fui colpito da un pensiero che mi costrinse a tornare nella stanza di mio figlio. Era seduto allo stesso posto, ma in un atteggiamento lievemente modificato, con le braccia sul tavolo e la testa sulle braccia. Quella vista m'andò dritta al cuore, ma ciononostante feci il mio dovere. Non si muoveva. Per maggiore sicurezza, dissi, metteremo quegli album nella cassaforte, fino al nostro ritorno. Egli rimaneva sempre immobile. Mi hai sentito? dissi. Si alzò di scatto tanto da rovesciare la sedia e pronunciò queste parole furibonde, Fanne quel che vuoi! Non voglio più vederli, io! Bisogna lasciar passare la collera, questo è il mio parere, bisogna agire a freddo. Presi gli album e mi ritirai, senza dir parola. M'aveva mancato di rispetto, ma non era il momento di farglielo riconoscere. Immobile nel corridoio sentii dei colpi e dei tonfi. Un altro, meno padrone di sé di quanto lo sia io di me, sarebbe intervenuto. Ma non mi dispiaceva affatto che mio figlio desse libero sfogo alla sua pena. Ciò purifica. Il muto dolore, secondo me, è molto più temibile.


Con gli album sotto il braccio tornai nella mia stanza. Avevo risparmiato a mio figlio una grave tentazione, quella di mettersi in tasca qualche francobollo a cui era particolarmente affezionato, per potersene pascere durante il nostro viaggio. Non che il fatto d'aver con sé qualche francobollo fosse in sé una cosa riprensibile. Ma sarebbe stata una disobbedienza. Per guardarseli sarebbe stato costretto a nascondersi da suo padre. E quando li avesse perduti, come non poteva mancar di farlo, sarebbe stato spinto alla menzogna, per giustificarmi la loro sparizione. No, se proprio non gli era possibile separarsi dalle sue vignette, sarebbe stato meglio per lui prender con sé tutto l'album. Perché un album si perde meno facilmente di un francobollo. Ma ero migliore giudice io di lui su quel che poteva e non poteva fare. Perché io sapevo quel che lui non sapeva ancora, tra l'altro che questa prova gli sarebbe stata salutare. Sollst entbehren1, ecco la lezione che volevo inculcargli, finché era giovane e tenero. Magiche parole che fino a quindici anni non avevo neppure immaginato che si potessero legare insieme. Ed anche se avessi dovuto rendermi odioso ai suoi occhi e fargli odiare, al di là della mia persona, finanche l'idea di padre, non avrei spinto con minor energia fino in fondo quest'impresa. Il pensiero che tra la mia morte e la sua, egli potesse, smettendo per un attimo d'insultar la mia memoria, domandarsi, anche solo per un baleno, se non avessi avuto ragione io, per me questo era sufficiente, mi ricompensava di tutta la fatica che avevo fatto e che avrei fatto ancora. La prima volta, avrebbe potuto rispondere a se stesso negativamente, e avrebbe ricominciato ad esecrarmi. Ma il dubbio sarebbe stato ormai seminato. Ci sarebbe ritornato su. È così che ragionavo, io.


Mi restava ancora qualche ora prima del pranzo. Mi decisi a metterle seriamente a profitto. Perché dopo pranzo mi viene da sonnecchiare. Mi levai giacca e scarpe, sbottonai i calzoni e tornai sotto le coperte. Proprio quando son disteso, ben al caldo, nel buio, riesco a penetrare meglio la falsa turbolenza esteriore, a collocarvi la creatura che m'è stata data in balìa, ad aver l'intuizione della via da seguire, ad acquietarmi nell'assurda angoscia degli altri. Lontano dal mondo, dal suo frastuono, dalle sue mosse, dai suoi morsi e lugubre chiarezza, io lo giudico, e così quelli che, come me, vi sono irrimediabilmente immersi, e così colui che ha bisogno ch'io lo liberi, proprio io che non so liberarmi. Tutto è oscuro, ma di quella semplice oscurità che si riposa dai grandi smembramenti. Si mettono in moto intere masse, nude come leggi. Non ci si tiene a sapere di che cosa son fatte. Là c'è anche l'uomo, in qualche luogo, vasto blocco impastato d'ogni regno, semplice e solo in mezzo agli altri, spoglio d'imprevisti come una roccia. E in questo blocco, da qualche parte, credendosi un essere a parte, è sepolto il cliente. Andrà bene chiunque. Ma mi si paga per cercare. Arrivo io e lui si stacca, non ha aspettato altro per tutta la vita che d'essere preferito, di credersi dannato, fortunato, di credersi mediocre superlativamente. È questo l'effetto che talvolta provocano su di me il silenzio, il caldo, la penombra, gli odori del mio letto. Mi alzo, esco, e tutto è mutato. La mia testa si svuota di sangue, m'assalgono d'ogni parte i rumori delle cose che si sfuggono, s'uniscono, volano in frantumi, i miei occhi cercano invano delle rassomiglianze, ogni punto della mia pelle lancia un diverso messaggio, naufrago nella schiuma dei fenomeni. Ed è in preda a queste sensazioni, che per fortuna riconosco illusorie, che debbo vivere e lavorare. Ed è proprio per merito loro che trovo a me stesso un senso. Come chi viene destato da un dolore improvviso. S'irrigidisce, trattiene il respiro, aspetta, dice tra sé, È un brutto sogno, oppure, È un po' di nevralgia, respira, si riaddormenta, ancora tutto tremante. Eppure non è spiacevole, prima di mettersi al lavoro, ritemprarsi in questo mondo massiccio e lento, in cui tutto si muove con la tetra pesantezza dei buoi, pazientemente per le vie immemorabili, e in cui s'intende sarebbe impossibile qualsiasi lavoro d'inchiesta. Ma per il caso, dico bene, per il caso avevo altri motivi più seri spero e dipendenti non tanto dal dilettevole quanto dall'utile. Perché ero soltanto con lo spostarlo in quest'atmosfera, come dire, di finalità senza fine, perché no, che potevo affrontare il lavoro da eseguire. Perché laddove Molloy non poteva essere, e d'altronde neppure Moran, Moran poteva chinarsi su Molloy. E anche se da quest'esame probabilmente non sarebbe scaturito nulla di particolarmente fecondo e utile per l'esecuzione del mandato, nondimeno una specie di rapporto l'avrei stabilito, e un rapporto non necessariamente falso. Perché la falsità dei termini, che io sappia, non implica fatalmente quella della relazione. Non solo, ma avrei attribuito al mio brav'uomo, fin dall'inizio, un'aria di essere favoloso, il che, ne avevo il presentimento, m'avrebbe sicuramente servito. Mi levai dunque la giacca e le scarpe, mi sbottonai i calzoni e m'infilai sotto le coperte, con la coscienza tranquilla, sapendo fin troppo bene quel che facevo.


Molloy, o Mollose, non era uno sconosciuto per me. Se avessi avuto dei colleghi, avrei potuto supporre d'averne parlato con loro, come di qualcuno destinato presto o tardi a darci da fare. Ma non avevo colleghi e ignoravo in quali circostanze fossi stato informato della sua esistenza. Forse me l'ero inventata io, voglio dire trovata bell'e fatta in testa. Certo è che talvolta s'incontrano degli sconosciuti che non lo sono affatto, per aver recitato una parte in certe sequenze cerebrali. Ciò non mi era mai capitato, non credevo d'esser tagliato a simili esperienze, e persino il semplice già visto mi pareva molto al di là delle mie capacità. Ma ciò aveva tutta l'aria di capitarmi proprio allora. Chi avrebbe mai potuto parlarmi di Molloy se non io stesso e a chi se non a me stesso avrei potuto parlarne io? Mi misi invano a cercare. Perché nelle rare conversazioni con gli uomini evitavo simili argomenti. Se un'altro m'avesse parlato di Molloy, l'avrei pregato di stare zitto e, quanto a me, non avrei mai per nulla al mondo confidato la sua esistenza ad anima viva. Se avessi avuto dei colleghi sarebbe stato evidentemente diverso. Tra colleghi si dicono cose che in qualsiasi altra società si tacciono. Ma non avevo colleghi. E questo senza dubbio spiega l'enorme disagio che avevo provato fin dall'inizio di quest'affare. Perché non è un affarino davvero, per un uomo maturo che ritiene d'esser ormai alla fine delle sue sorprese, vedersi teatro di una ignominia simile. C'era veramente di che essere allarmati.


Nemmeno la madre di Molloy, o Mollose, mi era del tutto estranea, così mi sembrava. Ma mi era molto meno distinta di suo figlio, che sa Dio quant'era per me lontano dall'esserlo, voglio dire distinto. Dopo tutto può darsi che non sapessi niente della madre Molloy, o Mollose, salvo nella misura in cui un figlio simile ne porta le tracce, come brandelli di placenta.


Di questi due nomi, Molloy e Mollose, forse il secondo mi sembrava più corretto. Ma di poco. Ciò che sentivo, nell'intimo forse, dall'acustica così cattiva, era una prima sillaba, Mol, chiarissima, seguita quasi subito da una seconda quanto mai ovattata, come smozzicata dalla prima, e che poteva essere oy come poteva essere ose, oppure ote, o anche oc. E se propendevo per ose, era dovuto probabilmente al fatto che il mio spirito aveva un debole per questa finale, mentre le altre non vi facevano vibrare nessuna corda. Ma dal momento che Gaber aveva detto Molloy, non una ma parecchie volte, ed ogni volta con uguale chiarezza, ero costretto a riconoscere che anch'io avrei dovuto dire Molloy e che dicendo Mollose sbagliavo. E d'ora innanzi, dimentico delle mie preferenze, mi costringerò a dire Molloy, come Gaber. Che potesse trattarsi di due persone diverse, l'una il mio Mollose, l'altra il Molloy dell'inchiesta, no, quest'idea non mi sfiorava neppure, e se l'avesse fatto l'avrei scacciata, come si scaccia una mosca o un calabrone. Dio mio, com'è poco d'accordo con se stesso, l'uomo. Proprio io che mi lusingavo d'essere equilibrato, freddo come un cristallo e altrettanto privo di doppi fondi.


Dunque ero al corrente di Molloy, tuttavia senza sapere granché sul suo conto. Dirò in breve quel poco che sapevo su di lui. Al tempo stesso, indicherò, di quel poco, le lacune più sorprendenti.


Disponeva di pochissimo spazio. Aveva anche il tempo contato. Senza posa, come disperato, si affrettava verso delle mete estremamente vicine. Ora, prigioniero, si precipitava verso chissà quali angusti confini, e ora, inseguito, si rifugiava verso il centro.


Ansimava. Non aveva che da sorgere in me per riempirmi di ansimi.


Anche in aperta compagna aveva l'aria di aprirsi una strada. Più che marciare, andava alla carica. Eppure procedeva solo molto lentamente. Si dondolava, a destra e a sinistra, come un orso.


Roteava la testa pronunciando parole incomprensibili.


Era grosso e goffo, anzi deforme. E, pur senza esser nero, di color terreo.


Era sempre in cammino. Non l'avevo mai visto riposarsi. Talvolta si fermava e lanciava intorno degli sguardi furibondi.


È proprio così che mi faceva visita, a lunghissimi intervalli. Allora io ero ormai solo frastuono, pesantezza, ira, soffocamento, sforzo incessante, forsennato e vano. Insomma tutto il contrario di me. Ciò mi trasformava. Quasi con dispiacere, lo vedevo sparire, in una specie di urlo in tutto il corpo.


Quanto al sapere dove volesse arrivare, non ne avevo la minima idea.


Non c'era nulla ad indicarmi l'età che poteva avere. Tra me dicevo che l'aspetto che vedevo in lui, doveva averlo sempre avuto e che l'avrebbe sempre conservato sino alla fine, fine del resto che facevo fatica ad immaginare. Perché non riuscendo ad immaginare che cosa avesse potuto ridurlo in quello stato, non riuscivo ad immaginare neppure in che modo, lasciato a se stesso, avrebbe potuto porvi termine. Una fine naturale, non so perché, mi sembrava poco probabile. Ma proprio la mia fine naturale, e a ciò ero ben deciso, non sarebbe stata contemporaneamente anche la sua? Modesto com'ero, non lo davo per scontato. D'altronde, ci sono forse delle fini innaturali, non avvengono tutte nella bella natura, tanto quelle innegabilmente buone, quanto le cosiddette cattive? Non perdiamoci in vane congetture.


Sulla sua faccia non possedevo nessuna informazione. La supponevo irsuta, aspra e tutta smorfie. Niente mi ci autorizzava.


Che un uomo come me, così meticoloso e calmo nell'insieme, rivolto così pazientemente verso l'esterno come verso il minor male, creatura di casa, dedita al proprio giardino, ai pochi e poveri beni che possiede, che compie fedelmente e con abilità un lavoro ripugnante, che mantiene il proprio pensiero nei limiti del calcolo tanto ha in orrore l'incerto, che un uomo fabbricato come ero io, perché ero proprio una fabbricazione, si lasci invadere e possedere da simili chimere, avrebbe dovuto sembrare strano, anzi spingermi a riportarvi il buon ordine, nel mio stesso interesse. Macché. Non ci vedevo altro che un bisogno da solitario, bisogno certo poco raccomandabile ma che doveva essere soddisfatto, se volevo rimaner solitario, e ci tenevo, con lo stesso scarso entusiasmo che avevo per le mie galline o per la mia fede, ma con altrettanta chiaroveggenza. D'altronde tutto ciò occupava ben poco posto in quella inenarrabile falegnameria che era la mia esistenza, non la comprometteva più dei miei sogni e svaniva altrettanto rapidamente. Tener conto del fuoco prima della conflagrazione, m'è sempre parso una cosa ragionevole. E se avessi dovuto raccontare la mia vita non avrei neanche accennato a queste presenze, e meno di ogni altra a quella dello sventurato Molloy. Perché non c'erano delle altre, ben più avvincenti.


Ma queste specie di immagini, la volontà le ritrova solo facendo violenza. Toglie e aggiunge. E il Molloy che facevo venire a galla in quella memorabile domenica d'agosto, senza dubbio non era affatto quello dei miei bassi fondi, perché la sua ora non era ancora arrivata. Ma quanto ai lineamenti essenziali, potevo star tranquillo, la somiglianza c'era. E anche se lo scarto fosse stato ancora più grande, non l'avrei deplorato. Perché quel che facevo, non lo facevo né per Molloy, di cui m'infischiavo, né per me, a cui rinunciavo, bensì nell'interesse di un lavoro che, anche se aveva bisogno di noi per compiersi, era anonimo per essenza propria, e avrebbe continuato a sussistere, ad abitare lo spirito degli uomini, anche quando i suoi miserabili artefici non fossero più esistiti. Non si dirà, credo, che non prendevo sul serio il mio lavoro. Semmai si dirà, con commozione, Ah questi vecchi compagni, la loro razza si è estinta e si è spezzato lo stampo.


Due osservazioni.


Il Molloy al quale mi accostavo con tanta precauzione, probabilmente assomigliava piuttosto alla lontana al vero Molloy, quello col quale, per monti e per valli, sarei ben presto venuto alle prese.


Forse, senza rendermene conto, mescolavo già al Molloy in me così ricuperato certi elementi del Molloy descritto da Gaber.


Insomma c'erano tre, no, quattro Molloy. Quello delle mie viscere, la caricatura che ne facevo, quello di Gaber e quello che, in carne ad ossa, mi stava aspettando in qualche posto. Aggiungerei quello di Youdi, se non ci fosse stata la prodigiosa esattezza di Gaber per tutto quel che riguardava le sue commissioni. Cattivo ragionamento. Perché si poteva davvero supporre seriamente che Youdi avesse confidato tutto quel che sapeva, o credeva di sapere (tutt'uno, per Youdi) sul suo protetto? Sicuramente no. Aveva detto soltanto quel che giudicava utile alla buona e rapida esecuzione dei suoi ordini. Aggiungerò quindi un quinto Molloy, quello di Youdi. Ma questo quinto Molloy non doveva confondersi per forza con il quarto, quello vero come si suol dire, quello che accompagna la propria ombra? Avrei pagato caro per saperlo. Evidentemente ce n'erano altri. Ma fermiamoci qua, se ci state, al nostro piccolo circolo d'iniziati. E non impicciamoci nemmeno di voler sapere fino a che punto erano soggetti a fluttuazioni. Perché Youdi aveva questo di particolare, che cambiava parere con una facilità abbastanza grande.


Con ciò siamo a tre osservazioni. Ne avevo previste soltanto due.


Rotto così il ghiaccio, mi giudicai in grado di sostenere la relazione di Gaber e di entrare nel vivo dei dati ufficiali. Mi sembrava che l'inchiesta stesse finalmente per cominciare.


Fu press'a poco in quel momento che il rumore di un gong, colpito con forza, riempì tutta la casa. Erano infatti le nove. M'alzai, mi rimisi in ordine il vestito e discesi a precipizio. Avvertire che la minestra era in tavola, che dico, che stava gelandosi, era sempre un piccola vittoria e una gran soddisfazione, per Marthe. Perché di solito, a tavola, mi trovavo qualche minuto prima dell'ora stabilita, con il tovagliolo spiegato sul petto, a sbriciolare il pane, a stuzzicare la forchetta col coltello, a giocherellare con il reggiposate, in attesa d'esser servito. Mi buttai sulla minestra. Dov'è Jacques? dissi. Alzò le spalle. Che detestabile gesto da schiava. Ditegli di scendere immediatamente, dissi, Davanti a me la minestra non fumava più. Aveva mai fumato? Marthe ritornò. Non vuol scendere, disse. Deposi il cucchiaio. Ditemi, Marthe, dissi, che roba è questa? Me lo indicò. L'ho già mangiata altre volte? dissi. Mi assicurò di sì. Allora son io a non essere nel mio brodo, dissi. Questa spiritosaggine mi piacque enormemente, ne risi al punto di farmi venire il singhiozzo. Marthe non capì affatto il motto di spirito e stette a guardarmi come una stupida. Che scenda, dissi finalmente. Come dite? disse Marthe. Ripetei la frase. Aveva ancora un'aria schiettamente perplessa. In questo piccolo Trianon siamo in tre, dissi, voi, mio figlio e finalmente io. Ho detto che scenda. Ma sta male, disse Marta. Anche se stesse agonizzando, dissi, deve scendere lo stesso. L'ira talvolta mi spingeva a dei lievi scarti di linguaggio. Non riuscivo a rammaricarmene. Mi sembrava che qualsiasi linguaggio fosse uno scarto di linguaggio. Naturalmente li andavo a confessare. Bisognava pure che mi macchiassi un po'.


Jacques ero rosso come un papavero. Mangia la tua minestra, dissi, vedrai com'è buona. Non ho fame, disse. Mangia la tua minestra, dissi io. Capii che non l'avrebbe mangiata. Cosa c'è che non va? dissi. Non sto bene, disse lui. Che cosa abominevole la gioventù. Cerca di essere più esplicito, dissi. Usai apposta quel termine un po' difficile per le persone molto giovani, perché, qualche giorno prima, gliene avevo spiegato il significato e il modo d'usarlo. Dunque avevo buone speranze che mi dicesse di non capire. Ma, a suo modo, era un furbetto. Marthe! vociai. Ella si fece sulla porta. Il resto, dissi. Guardai più attentamente dalla finestra. Non solo aveva smesso di piovere, questo lo sapevo già, ma ad ovest delle strisce di un bel rosso cangiante guadagnavano sempre più in altezza. Più che vederle le indovinavo, attraverso il mio boschetto. Una gran gioia m'invase, non esagero, davanti a tanta bellezza, a tanta promessa. Me ne distolsi con un sospiro, perché la gioia che ispira la bellezza spesso non è senza ombre, e vidi davanti a me ciò che a ragione avevo chiamato il resto. E questo cos'è? dissi. Di solito alla domenica sera facciamo un pranzo freddo con gli avanzi del pollame, che so io, pollo, anatra, oca, tacchino, del sabato sera. Ho sempre fatto un'ottima riuscita con le mie tacchine, secondo me sono più interessanti delle anatre, come allevamento. Forse più delicate ma dal rendimento di gran lunga migliore, per chi sa secondarle, insomma per chi le ama e sa farsi amare da loro. È il piatto del pastore, disse Marthe. L'assaggiai appena prendendo dal piatto. E cosa ne avete fatto del pollo di ieri? dissi. Il viso di Marthe prese un'espressione di trionfo. Segno che si aspettava questa domanda, è evidente, ci contava, Ho pensato, disse, che avreste fatto bene a mangiare qualcosa di caldo, prima della partenza. E chi vi ha detto che stavo per partire, dissi. Si diresse verso la porta, segno sicuro che stava per lanciare uno strale. Sapeva insultare solo fuggendo. Non sono mica cieca, disse. Aprì la porta. Disgraziatamente, disse. Richiuse la porta dietro di sé.


Guardai mio figlio. Aveva la bocca aperta e gli occhi chiusi. Sei stato tu a tradirci? dissi. Fece finta di non capire. Hai detto a Marthe che partivamo? dissi. Disse di no. E perché no? dissi. Non l'ho vista, disse con cinismo. Ma è appena salita nella tua stanza, dissi. Il piatto era già pronto, disse lui. In certi momenti era quasi degno di me. Ma avevo torto ad invocare il piatto. Ma era ancor giovane e inesperto e rinunciai a metterlo alle strette. Cerca di dirmi con un po' più di precisione, dissi, che cosa ti senti. Ho mal di pancia, disse lui. Mal di pancia! Hai febbre? dissi. Non lo so, disse lui. Misuratela, dissi. Aveva un aspetto sempre più istupidito. Per fortuna mi piaceva abbastanza mettere i puntini sugli i. Vai a cercare il termometro, dissi, nel secondo cassetto a destra della mia scrivania, partendo dall'alto, pròvati la temperatura e portami il termometro. Lasciai passare qualche minuto, poi, senza esserne pregato, ridissi parola per parola, e lentamente, questa frase abbastanza lunga e difficile, in cui comparivano almeno tre imperativi. Mentre mi allontanavo, senza dubbio avendo capito l'essenziale, aggiunsi con giovialità, Sai in che bocca devi metterlo? Nelle conversazioni con mio figlio, mi abbandonavo volentieri a scherzi di dubbio gusto, per un fine educativo. Su quelli di cui non afferrava subito tutto il sale, e dovevano essere numerosi, avrebbe avuto modo di riflettere con comodo oppure cercarne l'interpretazione più verosimile con i suoi piccoli compagni. Il che costituiva in se stesso un ottimo esercizio. E contemporaneamente spronavo il suo giovane ingegno verso una delle vie più feconde, quella dell'orrore del corpo e delle sue funzioni. Ma avevo formulato male la frase, avrei dovuto semmai dire, Non sbagliare entrata. Ebbi questa resipiscenza appunto mentre scrutavo più da vicino il piatto del pastore. Ne sollevai la crosta col cucchiaio e vi guardai dentro. L'assaggiai con la punta della forchetta. Chiamai Marthe e dissi, Non lo vorrebbe il cane. Pensai sorridendo alla mia scrivania che in totale non aveva che sei cassetti, tre per ciascun lato del vano nel quale sprofondavo le gambe. Dato che il vostro pranzo è immangiabile, dissi, siate almeno così brava da preparare un involtino di sandwiches, con quel che non avete potuto mangiare del pollo. Finalmente tornò mio figlio. Che valeva avere un termometro che in un minuto dava la temperatura, se ci metteva tanto tempo a portarlo? Me lo passò. L'hai almeno asciugato? dissi. Vedendomi diventar guercio sul mercurio andò alla porta e accese. Com'era lontano Youdi, in quel momento. Qualche volta d'inverno, rientrando stanco morto dopo una giornata di corse infruttuose, trovavo le mie pantofole a scaldarsi davanti al fuoco, con la tomaia rivolta verso la fiamma. Aveva la febbre. Non hai niente, dissi. Posso salire? disse lui. Per far che? dissi io. Andarmene a letto, disse lui. Non si stava proprio sviluppando un bel caso di forza maggiore? Forse, ma non avrei mai osato invocarlo. Non mi sarei mai attirato dei fulmini da cui forse non mi sarei mai più sollevato, semplicemente perché mio figlio aveva delle coliche. Se si fosse seriamente ammalato per strada, sarebbe stata un'altra faccenda. Non avevo studiato l'antico testamento così per niente. Hai cacato, figlio mio? dissi con tenerezza. Ho provato, disse. Ne hai voglia? dissi io. Sì, disse lui. Ma non esce niente, dissi io. No, disse lui. Un po' d'aria, dissi io. Sì, disse lui. Mi ricordai improvvisamente del sigaro di padre Ambroise. Lo accesi. Vediamo un po', dissi alzandomi. Salimmo di sopra. Gli feci un clistere, con acqua salata. Si dimenò, ma non a lungo. Ritirai la cannetta. Cerca di trattenerlo, dissi, non star seduto sul vaso, mettiti disteso sulla pancia. Eravamo nella stanza da bagno. Si distese sulle piastrelle, col grosso culo per aria. Lascialo penetrare bene, dissi. Che giornata. Rimasi a guardare la cenere del sigaro. Era azzurra e salda. Mi sedetti sulla sponda della vasca. Le porcellane, gli specchi, le cromature, fecero scendere in me una gran calma. Almeno credo che fossero loro. Non era d'altronde una gran calma. M'alzai, deposi il sigaro e mi lavai con lo spazzolino gli incisivi. Mi spazzolai anche le gengive in fondo. Mi guardai, con le labbra sollevate che, quando sono in riposo, mi s'infossano in bocca. Che faccia ho? dissi tra me. La vista dei miei baffi, come sempre, m'irritò. Non erano a posto. Mi stavano bene, senza baffi non potevo neppure immaginarmi. Ma avrebbero dovuto starmi meglio. Una piccola modifica nel taglio sarebbe bastata. Ma quale? Eran troppo folti, non lo erano abbastanza? Adesso rimettiti sul vaso, dissi, senza smettere d'ispezionarmi, e spingi. Non era semmai il colore? Un rumore di spurgo mi riportò a cure meno elevate. Si rialzò tutto tremante. Ci chinammo insieme sul vaso che dopo un bel po' presi per il manico e inclinai di qua e di là. Nel liquido giallastro, nuotava qualche frammento filamentoso. E come vuoi cacare, dissi, quando non hai niente nella pancia. Mi fece notare che aveva fatto colazione. Non hai toccato nulla, dissi. Egli taceva. Avevo colpito nel segno. Ti dimentichi che partiamo tra un'ora o due, dissi. Non potrò, disse lui. E quindi, proseguii, bisogna che mangi. Un acuto dolore m'attraversò il ginocchio. Cos'hai papà? disse. Mi lasciai cadere sullo sgabello, mi sollevai un pantalone, esaminai il ginocchio, piegai e distesi parecchie volte la gamba. Presto, lo iodio, dissi. Ci sei seduto sopra, disse lui. Mi alzai e il pantalone ricadde attorno alla caviglia. In quest'inerzia delle cose c'è realmente da impazzire, Lanciai un ruggito che dovettero sentire le sorelle Elsner. Smettono di leggere, sollevano il capo, si guardano, ascoltano. Più nulla. Un grido nella notte, un'altra volta. Due vecchie mani, venate, inanellate, si cercano, si stringono. Sollevai di nuovo il pantalone, lo arrotolai rabbiosamente sulla coscia, alzai il coperchio dello sgabello, vi presi lo iodio e me lo strofinai sul ginocchio. Il ginocchio è pieno d'ossicini che si muovono. Lascialo penetrare bene, disse mio figlio. Questa me la pagherà più tardi. Quand'ebbi finito, rimisi tutto a posto, srotolai il pantalone, mi rimisi seduto sullo sgabello e stetti in ascolto. Più nulla. A meno che tu non preferisca provare con un emetico vero e proprio, dissi, come se niente fosse. Ho sonno, disse lui. Comincia ad andare a letto, dissi, ti porterò uno spuntino che ti farà piacere, dormirai un poco, poi partiremo insieme. Lo strinsi al petto. Cosa ne dici? dissi. Lui disse, Sì, papà. In quel momento mi amava quanto lo amavo io? Non si poteva mai sapere con quel piccolo sornione. Vai presto a letto, dissi, copriti bene, io vengo subito. Discesi in cucina, preparai e disposi sul mio bel vassoio laccato una tazza di latte caldo e una tartina con marmellata. Ha voluto una relazione. Avrà la mia relazione. Marta mi stava a guardare senza dire niente, sprofondata nella sedia a dondolo. La si sarebbe detta una Parca con il filo bloccato. Rimisi tutto a posto dietro di me e mi diressi verso la porta. Posso andare a letto? disse. Aveva aspettato che fossi in piedi, con il vassoio carico in mano, per farmi questa domanda. Uscii, deposi il vassoio sulla sedia in fondo alla scala, ritornai in cucina. Avete preparato i sandwiches? dissi. Intanto il latte si raffreddava e si ricopriva di una pellicola disgustosa. Li aveva preparati. Vado a letto, disse. Andavano tutti a letto. Bisognerà che vi alziate tra un'ora o due, dissi, per chiudere i chiavistelli. A lei, poi, di decidere se proprio valeva la pena d'andare a letto, in queste condizioni. Mi chiese per quanto tempo contavo di assentarmi. Si rendeva conto che non partivo da solo? Probabilmente. Salendo da mio figlio per dirgli di scendere, anche se lui non le aveva detto niente, ella doveva aver notato lo zaino. Non lo so proprio, dissi. Poi subito, vedendola così vecchia, peggio che vecchia, invecchiante, così sola e mesta nel suo eterno cantuccio, Via, non sarà per molto. E la esortai, in termini secondo me calorosi, a riposarsi per bene e a distrarsi andando a visitare e ricevendo le amiche. Non risparmiate né tè né zucchero, dissi, e se per caso avete bisogno di soldi, rivolgetevi a Mastro Savory. Spinsi quest'improvvisa amabilità fino a stringerle la mano, che lei, appena capì la mia intenzione, asciugò in fretta nel grembiale. Finita la stretta, non l'abbandonai, quella mano rossa e molle. Ma ne presi un dito con la punta delle mie, lo trassi verso di me e lo guardai. Se avessi avuto delle lacrime da versare le avrei versate proprio allora, a torrenti, per ore e ore. Probabilmente lei si stava chiedendo se non stessi per farle delle proposte disoneste. Le resi la mano, presi i sandwiches e me ne andai.


Era ormai un pezzo che Marthe si trovava al mio servizio. Io ero spesso in viaggio. Con lei non avevo mai preso commiato a quel modo, ma sempre con disinvoltura, anche quando avevo da temere un'assenza prolungata, cosa non prevista per quel giorno. Certe volte me ne andavo senza dirle nulla.


Prima d'entrare nella stanza di mio figlio, entrai nella mia. Avevo sempre il sigaro in bocca ma la bella cenere era caduta in qualche posto. Mi rimproverai questa negligenza. Feci sciogliere nel latte una polvere saporifera. Non gli risparmierò nessun particolare, a Youdi. Stavo andandomene con il vassoio quando lo sguardo mi cadde sui due album deposti sulla scrivania. Mi chiesi se non era il caso di ritirare il divieto, almeno per quanto riguardava l'album dei doppioni. Un momento fa egli era venuto qui, a cercare il termometro. Ci aveva messo un bel pezzo. Che avesse approfittato dell'occasione per impadronirsi di qualche francobollo preferito? Non avevo il tempo di controllare tutto. Deposi il vassoio e cercai qualche francobollo a caso, il Togo da un marco carminio col il bel battello, il Nyassa da dieci reis del 1901, e qualche altro. Il Nyassa mi piaceva molto. Era verde e raffigurava una giraffa intenta a brucare la cima di un palmizio. Erano al loro posto. Però non era una prova. Questo provava soltanto che quei francobolli erano al loro posto. Ritenni che non mi sarebbe stato possibile tornare sulla mia decisione, liberamente presa e chiaramente enunciata, senza far subire alla mia autorità una diminuzione, che non era affatto in grado di sopportare. Ne provai dispiacere. Mio figlio dormiva già. Lo svegliai. Bevve e mangiò facendo smorfie di disgusto. Ecco in che modo mi ringraziava. Aspettai che l'ultima goccia, l'ultima briciola fossero sparite. Si voltò verso il muro e io lo rimboccai. Per un pelo non gli diedi un bacio. Né lui né io avevamo detto una sola parola. Non avevamo più bisogno di parole, per il momento. D'altra parte era raro che mio figlio mi rivolgesse la parola per primo. E quando gli parlavo io, mi rispondeva per lo più lentamente e quasi mal volontieri. Eppure con i suoi piccoli amici, quando mi credeva lontano, diventava incredibilmente volubile. Che la mia presenza avesse l'effetto di smorzare quest'inclinazione, non mi dispiaceva affatto. Tacere ed ascoltare, nemmeno una persona su cento ne è capace, non immagina neppure che cosa significhi. Eppure è proprio allora che, al di là dell'assurdo frastuono, si riesce a distinguere il silenzio di cui è fatto l'universo. Desideravo questo vantaggio per mio figlio. E che restasse in disparte da coloro che si compiacciono d'essere capaci d'aprire gli occhi. Non avevo davvero lottato, faticato, sofferto, creato una situazione, vissuto come un ottentotto, perché mio figlio facesse altrettanto. Mi ritirai in punta di piedi. Andavo abbastanza volontieri fino in fondo alle mie parti.


Giacché allontanavo in questo modo la scadenza, c'è bisogno che me ne scusi? Lascio cadere questo suggerimento, succeda quel che succeda. E senza interessarmene oltremodo. Perché nello scrivere di quella giornata sono di nuovo colui che la subì, che la infarcì d'una vita ansiosa e futile, al solo fine di distrarsi, di poter non fare quello che aveva da fare. E proprio come allora il mio pensiero, così stanotte è la mia penna a rifiutare Molloy. Questa confessione, già da un po' mi fa pensare. Non mi dà sollievo.


Riflettevo con amara soddisfazione che se mio figlio fosse crepato per strada, non sarei stato io ad averlo voluto. A ciascuno le proprie responsabilità. Conosco qualcuno a cui queste cose non tolgono il sonno.


Tra me dissi, In questa casa c'è qualcosa che m'impedisce d'agire. Un uomo come me, nell'atto di sottrarsi, non può dimenticare ciò a cui si sottrae. Discesi in giardino e passeggiai nel buio quasi totale. Se il giardino mi fosse stato meno familiare, sarei finito in mezzo ai cespugli o addosso alle arnie. Il sigaro s'era spento senza che me ne fossi accorto. Lo scossi e me lo misi in tasca, con l'intenzione di buttarlo più tardi nel portacenere o nel cestino. Ma il giorno dopo, lontano da Shit, me lo ritrovai in tasca e in fede mia non senza soddisfazione. Perché riuscii a tirarvi ancora qualche boccata. Scoprire il sigaro freddo tra i denti, sputarlo, cercarlo nel buio, raccoglierlo, chiedermi che cosa convenisse farne, scuoterne la cenere e mettermelo in tasca, ricordarmi il portacenere e il cestino, tutto ciò costituiva soltanto i raccordi principali di un processo che feci durare almeno un quarto d'ora. Ce n'erano altri poi che erano in relazione col cane Zulù, coi profumi esaltati dalla pioggia e di cui mi divertivo, nella mente e con le mani, a riconoscere le sorgenti, con la luce in casa del tal vicino, con un rumore in casa del talaltro, e così via. La finestra di mio figlio era debolmente illuminata. Gli piaceva dormire con una lampadina da notte accanto. Mi rimproveravo un po' di lasciargliela correre, questa sua fisima. Ancora non molto tempo fa non riusciva a dormire senza tener stretto tra le braccia il suo orso di felpa. Quando avesse dimenticato l'orso (Jeannot) gli avrei soppresso anche la lampadina da notte. Cos'avrei fatto quel giorno senza la distrazione di mio figlio? Il mio dovere forse.


Accorgendomi di non essere più coraggioso in giardino che in casa, ripresi la via di quest'ultima, dicendo tra me che, una delle due, o la mia casa non si trovava affatto in quella specie d'annientamento in cui stavo evolvendo io, oppure bisognava imputare la cosa a tutto l'insieme della mia piccola proprietà. Adottando la seconda ipotesi mi scolpavo per quel che avevo fatto e, anticipatamente, per quel che stavo per fare, fino alla partenza. Mi offriva una parvenza di perdono e un attimo di libertà fittizia. Quindi l'adottai. Da lontano la cucina m'era sembrata buia. E in certo senso lo era. Ma in un altro senso non lo era. Perché accostando l'occhio al vetro vi distinsi un debole chiarore rossastro che non poteva provenire dal forno, perché non avevo un forno, ma una semplice cucina a gas. Un forno, se così volete, ma un forno a gas. Vale a dire, c'era anche un vero forno in cucina, ma in disuso. Che volete, in una casa senza forno a gas non mi sarei sentito a mio agio. Di notte, interrompendo la mia passeggiata, mi piace avvicinarmi alle finestre, illuminate o no, e guardare nelle stanze, per veder quel che vi succede. Mi copro la faccia con le mani e guardo attraverso le dita. Ho spaventato parecchi vicini, in questo modo. Quelli si precipitano fuori, non trovano nessuno. Allora per me le stanze più buie escono dall'ombra, come cariche ancora della luce sparita o della lampada appena spenta, per motivi più o meno confessabili. Ma i bagliori della cucina appartenevano a un'altra categoria e provenivano dal lume con la boccia rossa che nella stanza di Marthe, attigua alla cucina, ardeva perpetuamente ai piedi di una madonnina di legno scolpito, appesa al muro. Stanca di cullarsi, ella aveva lasciato la cucina per andare a stendersi sul letto, tenendo aperta la porta della sua stanza perché nessun rumore in casa potesse sfuggirle. Ma forse si era addormentata.


Ritornai di sopra. Mi fermai davanti alla porta di mio figlio. Mi chinai e accostai l'orecchio alla serratura. C'è chi accosta l'occhio alla serratura, io l'orecchio. Con mio stupore non udii nulla. Perché mio figlio dormiva rumorosamente, a bocca aperta. Mi guardai bene dall'aprire la porta. Perché questo silenzio aveva di che occuparmi, per un po' di tempo. Me ne andai in camera.


Fu proprio allora che si vide questo fatto senza precedenti, Moran prepararsi a partire senza sapere in che cosa stesse per avventurarsi, senz'aver consultato né carta né orario, senz'avere considerato il problema della strada e delle tappe, noncurante delle previsioni meteorologiche, disponendo solo di nozioni confuse sull'attrezzatura di cui necessitava provvedersi, sulla durata probabile della spedizione, sulla somma di danaro di cui avrebbe avuto bisogno e persino sulla natura del lavoro da fornire e di conseguenza sui mezzi da usare. Eppure fischiettavo, mentre ficcavo nel mio carniere un minimo di roba analoga a quella che avevo indicato a mio figlio. Indossai il mio vecchio vestito da cacciatore pepe e sale con brache che si abbottonavano sotto il ginocchio, calze in tinta e un paio di scarpe nere robuste a stivale. Mi chinai, con le mani sulle natiche e mi detti un'occhiata alle gambe. Gracili e storte mal s'adattavano a quella strana acconciatura, che d'altronde il mio villaggio non mi conosceva. Ma quando me ne andavo di notte, verso una destinazione remota, la indossavo volentieri, sentendomi a mio agio là dentro anche se avevo l'aria di essere in maschera. Non mi mancava che una rete per farfalle per avere un vago aspetto da maestro di campagna in congedo per convalescenza. I goffi stivaletti di un nero scintillante, e che sembravano implorare dei calzoni di tela blu scuro, davano il colpo di grazia a quell'insieme che senza di loro avrebbe potuto apparire, a gente sprovveduta, di un cattivo gusto alla moda. Come cappello, dopo matura esitazione, mi decisi per la paglietta, ingiallita dalla pioggia. Aveva perduto il nastro, il che la faceva apparire smisuratamente alta. Fui tentato di prendere la pellegrina nera, ma alla fine preferii un pesante ombrello invernale dal manico massiccio. La pellegrina è un indumento pratico e ne avevo parecchie. Lascia alle braccia una gran libertà di manovra e contemporaneamente le nasconde. Ci sono delle occasioni in cui la pellegrina è per così dire indispensabile. Ma anche l'ombrello ha grandi meriti. E se fosse stato inverno o anche autunno, invece che estate, forse li avrei presi tutt'e due. Questo m'era già capitato e non avevo avuto che da compiacermene.


Vestito in questo modo non potevo sperare troppo di passare inosservato. D'altronde non lo desideravo. Farsi notare, nel mestiere che facevo, è solo da principianti. Far nascere dei sentimenti di pietà, d'indulgenza, provocare l'ilarità e i sarcasmi, questo sì che è indispensabile. Altrettanti succhielli nella botte dei segreti. A patto di non poter commuoversi, né denigrare, né ridere. In questo stato mi ci metteva facilmente. Poi c'era la notte.


Mio figlio non avrebbe fatto altro che impacciarmi. Assomigliava ai mille altri ragazzi della sua età e condizione. Un padre è qualcosa d'immediatamente più serio. Anche se grottesco impone un certo rispetto. E quando lo si vede scorazzare con il suo ragazzo, la cui faccia si fa sempre più lunga, allora non c'è più modo di lavorare. Lo si prende per un vedovo, anche i colori più gai non servono a niente, anzi aggravano la situazione, gli si attribuisce una sposa morta da lunga data, probabilmente di parto. E nelle mie eccentricità si sarebbe scorto soltanto un effetto della vedovanza, che m'avrebbe squilibrato il cervello. Ero preso dall'ira contro chi m'imponeva un simile impaccio. Se avesse voluto vedermi fallire, non avrebbe potuto scegliersi un mezzo migliore. Se fossi riuscito a riflettere con il mio abituale sangue freddo sul lavoro che mi era stato richiesto, forse l'avrei giudicato di natura tale che la presenza di mio figlio, più che danneggiarmi, m'avrebbe facilitato. Ma non stiamo a rivangare questo problema. Forse avrei potuto farlo passare come il mio aiutante, o come un semplice nipote. Avrei potuto proibirgli di chiamarmi papà, o di dimostrarmi affetto, davanti ad altre persone, sotto la minaccia di ricevere uno di quegli schiaffi di cui egli aveva così gran paura.


E se, pur rimuginando questi lugubri pensieri, mi capitava tuttavia ogni tanto di fischiettare qualche battuta, vuol dire che in fondo dovevo essere contento d'andarmene via da casa, dal giardino, dal villaggio, proprio io che di solito li abbandonavo malvolentieri. C'è della gente che fischia senza motivo. Non io. E mentre andavo e venivo per la stanza, riordinando, sistemando i vestiti nell'armadio e, nelle loro scatole, i cappelli che avevo tirato fuori per farvi la mia scelta con libertà, chiudendo a chiave i vari cassetti, durante tutto questo tempo mi vedevo con gioia lontano dal mio comune, dalle facce note, da tutte le mie ancore di salvezza, seduto al buio sopra un paracarro, con le gambe accavallate, una mano sulla coscia, gomito in questa mano, mento nell'altra, occhi fissi per terra, come su una scacchiera, a stendere freddamente i miei piani, per l'indomani, il dopodomani, a creare il tempo di là da venire. E allora dimenticavo che mio figlio mi sarebbe stato accanto, ad agitarsi, a lamentarsi, a reclamare la cena, un letto, a sporcarsi le mutande. Riaprii il cassetto del comodino e vi presi un intero tubetto di compresse di morfina, il mio calmante preferito.


Il mio mazzo di chiavi è enorme, pesa più di una libbra. Non una porta, nemmeno un cassetto di casa mia, la cui chiave non mi accompagni, dovunque vada. Le porto nella tasca destra dei calzoni, delle brache all'occorrenza. Una massiccia catena, assicurata alle bretelle, m'impedisce di perderle. Questa catena, quattro o cinque volte più lunga del necessario, riposa, nella mia tasca, arrotolata sul mazzo. Il peso mi fa inclinare a destra quando sono stanco o mi dimentico di compensarlo con uno sforzo dei muscoli.


Gettai uno sguardo intorno a me, notai d'aver trascurato alcune precauzioni, vi rimediai, presi il carniere, per poco non scrivevo chitarra, la paglietta, l'ombrello, spero di non dimenticare nulla, uscii in corridoio e chiusi a chiave la porta dietro di me. Così è chiaro. Udii subito un rumore di strangolamento. Era mio figlio che dormiva. Lo svegliai. Non abbiamo un istante da perdere, dissi. S'aggrappava disperatamente al sonno. Era naturale. Qualche ora di sonno anche di piombo non basta ad un organismo appena pubere squassato dall'indigestione. E siccome lo scuotevo e l'aiutavo ad uscire dal letto, tirandolo prima per un braccio, poi per i capelli, lui mi si voltò rabbiosamente di spalle, verso il muro, e affondò le unghie nel materasso. Dovetti fare appello a tutte le mie forze per riuscire a sopraffare la sua resistenza. Ma appena l'ebbi tirato giù dal letto egli sfuggì alla mia presa, si buttò per terra e vi si rotolò, gettando delle grida di collera e di ribellione. Cominciava già la solfa. Davanti a questa disgustosa esibizione dovetti usare per forza l'ombrello, tenendolo con le due mani. Ma una parola sulla mia paglietta, prima che me ne dimentichi. La tesa era attraversata da due fori, uno per parte naturalmente, li avevo praticati io stesso, con il mio trivello. E in questi fori avevo fissato i due capi di un elastico lungo abbastanza da passarmi sotto il mento, o meglio sotto le mascelle, ma non troppo lungo, perché bisognava che fai s'adattasse bene, meglio sotto le mascelle. In tal modo, qualsiasi movimento facessi, la paglietta rimaneva al proprio posto, ch'era la mia testa. Non hai vergogna, esclamai, piccolo maleducato disgustoso! Se non facevo attenzione, stavo per andare in collera. E la collera è un lusso che non mi posso permettere. Perché in tal caso divento cieco, davanti agli occhi mi scende una cortina di sangue e, a somiglianza del grande Gustave, odo scricchiolare i banchi della corte d'assise. Oh non si può essere dolci, gentili, ragionevoli, pazienti, giorno per giorno, anno per anno, impunemente. Buttai via l'ombrello e mi precipitai fuori dalla stanza. Sulle scale incontrai Marthe che saliva, senza berretta, con i capelli scarmigliati e le vesti in disordine. Cosa succede? gridò. Io la guardai. Se ne tornò in cucina. Corsi tutto tremante nella rimessa, presi la scure, uscii nella corte e mi misi a picchiare a brevi bracciate su un vecchio ceppo che vi si trovava e su cui, tranquillo, d'inverno fendevo in quattro la legna. La lama finì per affondarvi così profondamente che non riuscì più a liberarla. Gli sforzi che feci a tal fine, insieme allo sfinimento, mi restituirono la calma. Ritornai di sopra. Mio figlio si vestiva, piangendo. Piangevamo tutti. Lo aiutai a mettersi lo zaino. Gli dissi di non dimenticare l'impermeabile. Volle metterlo nello zaino. Gli dissi di tenerlo sul braccio, per il momento. Era quasi mezzanotte. Raccolsi l'ombrello. Intatto. Vai avanti, dissi. Uscì dalla stanza che io, per un attimo, prima di seguirlo, rimasi a contemplare. Vi regnava un gran disordine. Fuori il tempo era buono, a mio umile parere. L'aria era odorosa. La ghiaia scricchiolò sotto i nostri passi. No, dissi, da questa parte. M'inoltrai nel boschetto. Dietro di me mio figlio incespicava, urtava contro i tronchi. Non sapeva orientarsi al buio. Era ancora giovane, le parole di rimprovero mi morirono sulle labbra. Mi fermai. Prendimi la mano, dissi. Avrei potuto dire, Dammi la mano. Dissi, Prendimi la mano. Strano. Ma il sentiero era troppo stretto per potervi avanzare in due, affiancati. Mi misi dunque la mano dietro la schiena e mio figlio l'afferrò, mi parve con gratitudine. Arrivammo così davanti al cancelletto rustico di legno, chiuso a chiave. L'aprii e mi feci da parte, perché passasse per primo mio figlio. Mi voltai verso casa. Il boschetto me la nascondeva parzialmente. La cresta smerlata del tetto, l'unico camino con i suoi quattro comignoli, si stagliavano a malapena contro il cielo dove qualche stella sbavava incerta. Offrii il viso a questa massa di vegetazione odorosa ch'era tutta mia, di cui potevo fare quel che volevo senza che nessuno mi dicesse niente. Era piena d'uccelli canori con il capo sotto l'ala che nulla temevano, perché mi conoscevano. I miei alberi, i miei arbusti, le mie aiuole, i miei minuscoli prati, credevo d'amarli, io. Se talvolta ne troncavo un ramo, un fiore, lo facevo soltanto per il loro bene, perché potessero crescere più vigorosi e più belli. Ma lo facevo con una stretta al cuore. D'altronde è semplice, non lo facevo io, lo facevo fare a Christie. Legumi non ne coltivavo, io. Il pollaio non era lontano. Ho mentito quando ho detto che avevo delle tacchine, ecc. Avevo solo qualche gallina. La mia gallina grigia se ne stava là, non sulla stanga con le altre, ma per terra, in un cantuccio, nella polvere, in balia dei topi. Il gallo non le si avvicinava più per saltarle addosso. Se non si riprendeva, sarebbe stato vicino il giorno in cui le altre galline, unendo le loro forze, l'avrebbero fatta a pezzi, a colpi di becco e di artigli. Tutto era silenzioso. Io ho un orecchio assai fine. Ma non sono nient'affatto musicista. Percepii quel delizioso brusio fatto di sottili scalpiccii, di piume nervose, d'un infimo chioccare subito represso, che è quello dei pollai di notte e che smette molto prima dell'alba. Quante sere l'avevo ascoltato rapito, dicendo tra me, Domani sono libero. Mi volgevo così un'ultima volta verso il mio piccolo podere, prima d'abbandonarlo, con la speranza di conservarlo.


Nel viottolo, dopo aver chiuso a chiave il cancelletto, dissi a mio figlio, A sinistra. Ormai da un pezzo avevo rinunciato a passeggiare con mio figlio, nonostante ne provassi talvolta vivo desiderio. La più piccola passeggiata con lui mi sottoponeva ad un vero supplizio, perché sbagliava sempre direzione. Eppure quando era solo sembrava che conoscesse bene tutte le scorciatoie. Quando lo mandavo dal droghiere, o dalla Signora Clément, o anche più lontano, sulla strada di V. a cercare della semenza, ritornava in metà del tempo che ci avrei impiegato io per compiere lo stesso tragitto, e senza che avesse corso. Perché non volevo che si vedesse mio figlio sgambettare per le strade, come quei mascalzoni che frequentava di nascosto. No, volevo che camminasse come me, a passettini rapidi, a testa alta, con la respirazione regolare e misurata, facendo oscillare le braccia e senza guardare a destra o a manca, con l'aria di chi non vede nulla e in realtà è attento ai minimi particolari della strada. Ma con me prendeva invariabilmente la svolta sbagliata, bastava un crocicchio o il semplice imbocco d'un'altra strada perché si allontanasse dalla strada giusta, quella che avevo scelto io. Non credo che facesse apposta. Ma quando si affidava a me non stava più attento a quel che faceva, non guardava più dove andava e procedeva come un automa, come immerso in un sogno. E sarebbe detto che si lasciasse aspirare da tutti gli spiragli capaci di farlo sparire. Di modo che c'eravamo abituati a passeggiare ciascuno per proprio conto. E l'unica passeggiata che facevamo regolarmente insieme era quella che, di domenica, ci conduceva da casa in chiesa e, finita la messa, dalla chiesa a casa. Allora, preso dentro alla lenta marea dei fedeli, mio figlio non era più solo con me. Ma faceva parte di quel docile gregge che andava a ringraziare ancora una volta Dio dei suoi benefizi e a implorare perdono e misericordia, e che se ne tornava poi, con l'anima rassicurata, ad altre soddisfazioni.


Aspettai che tornasse sui suoi passi, poi pronunciai le parole destinate a regolare quella faccenda una volta per tutte. Ti metterai dietro di me, dissi, e mi seguirai. Questa soluzione aveva dei vantaggi, sotto molti punti di vista. Ma sarebbe stato poi capace di seguirmi? Non sarebbe fatalmente giunto il momento in cui alzando la testa si sarebbe trovato solo, in un luogo sconosciuto, e in cui io, scrollandomi di dosso i pensieri, mi sarei voltato per constatare la sua scomparsa? Per un po' mi trastullai con l'idea di legarlo a me per mezzo di una corda lunga, le cui estremità fossero arrotolate ai nostri fianchi. Ci son vari modi di farsi notare ma non ero sicuro che questo fosse uno di quelli buoni. E lui avrebbe potuto sciogliersi i nodi in silenzio, e prendere il largo, lasciandomi andare avanti da solo, seguito da una buona corda che si trascinava nella polvere, come un borghese di Calais. Finché la corda, impigliandosi in qualche oggetto fisso o pesante, m'avesse fermato lo slancio. Quindi, al posto della corda molle e silenziosa, sarebbe stata necessaria una catena, cosa che non bisognava neppur pensare. Ma io ci pensai lo stesso, mi divertii per un attimo a pensarci, a immaginarmi in un mondo meno malfatto e a cercare in che modo, disponendo solo di una semplice catena, senza gogna né collare né manette né ceppi di nessun genere, avrei potuto incatenare mio figlio a me in maniera che non potesse più squagliarsela. Era un semplice problema di lacci e di nodi e se ce ne fosse stato bisogno l'avrei risolto. Ma già me ne distoglieva l'immagine di mio figlio in cammino, non dietro bensì davanti a me. Così sistemato in rapporto a lui avrei potuto averlo sott'occhio e intervenire, al minimo movimento falso da parte sua. Ma oltre al fatto che tra poco avrei avuto da sostenere parti ben diverse da quella del sorvegliante o dell'infermiere, la prospettiva di non poter fare un passo senza aver sotto gli occhi quel corpicciolo malfatto e grassoccio mi era intollerabile. Vieni qui! strillai. Perché sentendomi dire che bisognava andare a sinistra se n'era andato a sinistra, come se il mandarmi fuori dai gangheri gli fosse stato a cuore. Accasciato sul mio ombrello, a capo chino come sotto una maledizione, con le dita della mano libera infilate tra due assi del cancelletto, non mi muovevo più di una statua. Tornò quindi una seconda volta sui suoi passi. Ti sto dicendo di seguirmi e tu mi precedi, dissi.


Erano le vacanze. Il suo berretto da scolaro era verde con le iniziali davanti e una testa di cervo o di cinghiale ricamate in oro. Era posato sul suo grosso cranio biondo con la precisione di una capsula. Gli piaceva portarlo a quel modo. C'è un non so che nei copricapi sistemati in modo così rigorosamente a piombo, che ha la capacità di esasperarmi. Quanto al suo impermeabile, invece di portarlo piegato sul braccio, o buttato sulla spalla, come gli avevo detto, l'aveva appallottolato e lo teneva sulla pancia con le mani. Se ne stava là davanti a me, con i grossi piedi divaricati, le ginocchia piegate, la pancia in fuori, il petto in dentro, il mento per aria, la bocca aperta, in atteggiamento da autentico minorato. Anch'io dovevo avere l'aria di stare in piedi soltanto grazie all'ombrello e al sostegno del cancelletto. Finalmente riuscii ad articolare, Sei capace di seguirmi? Non rispose. Ma colsi il suo pensiero non meno chiaramente che se l'avesse espresso, e cioè, E tu, sei capace di guidarmi? Dal campanile della mia cara chiesa, suonò mezzanotte. Importava poco. A casa mia non c'ero più. Andai a frugare nella mia mente, là dove si trovava tutto ciò di cui ho bisogno, che cosa che gli stesse particolarmente a cuore egli potesse avere con sé. Spero, dissi, che non ti sarai dimenticato del coltello da scout, potremmo averne bisogno. Questo coltello possedeva, oltre alle cinque o sei lame di prima necessità, un cavatappi, un apriscatole, un punteruolo, un cacciavite, un piede di porco e non so più quali altre bazzecole. Glielo avevo regalato io, in occasione del suo primo premio di storia e geografia, scienze, nella scuola che lui frequentava, assimilate l'una all'altra per oscure ragioni. L'ultimo degli asini, per tutto quel che riguardava le lettere e le discipline cosiddette esatte, non aveva rivali quanto a date di battaglie, rivoluzioni, restaurazioni e altre gesta del genere umano, nella sua lenta ascesa verso la luce, e quanto a tracciato di frontiere e altezze di vette. Tutto ciò meritava davvero un coltello da campeggio. Non dirmi che l'hai lasciato a casa, dissi. No di certo, disse lui, fiero e soddisfatto, battendosi la tasca. Bene, allora dammeno, dissi io. Naturalmente non rispose. Tener conto del primo avvertimento, non era nelle sue abitudini. Dammi quel coltello, esclamai. Me lo diede. Cosa volete che facesse lui, solo con me, nella notte senza testimoni? Era per il suo bene, per evitare che si traviasse. Perché dov'è il coltello dello scout, là è anche il suo cuore, a meno che non abbia i mezzi per comprarsene un altro, il che era impossibile nel caso di mio figlio. Perché soldi in contanti non ne portava mai addosso, non avendone bisogno. Ma ogni penny che riceveva, e non ne riceveva molti, prima lo metteva nel suo salvadanaio italiano, poi alla cassa di risparmio di cui, dal canto mio, conservavo il libretto. Senza dubbio in quel momento m'avrebbe volentieri sgozzato, con quello stesso coltello che mi stavo mettendo in tasca così tranquillamente. Ma era ancora troppo giovincello, mio figlio, ancora un po' tenero, per i grandi atti di giustizia. Ma il tempo lavorava per lui ed egli, per stupido che fosse, forse si consolava con questa considerazione. Comunque sia, stavolta trattenne le lacrime, cosa di cui gli fui grato. Mi raddrizzai e appoggiai la mano sulla sua spalla dicendo, Pazienza, figlio mio, pazienza. Quel ch'è terribile in simili faccende, è il fatto che quando se ne ha voglia non si hanno i mezzi, e viceversa. Ma ciò mio figlio non poteva sospettarlo ancora, poverino, credeva probabilmente che quella rabbia che lo faceva tremare, sconvolgendogli i lineamenti, non l'avrebbe abbandonato finché lui non avesse potuto darle soddisfazione. E poi. Sì, doveva presumere d'aver un animo da piccolo Dantès, le cui buffonate gli erano d'altronde familiari, nel modo in cui le edizioni Hatchet si permettono di riferirle. Poi, con un colpetto su quella scapola impotente, dissi, In cammino. E perbacco mi misi davvero in cammino e mio figlio si mise in movimento dietro di me. Partivo accompagnato da mio figlio, conformemente alle istruzioni che avevo ricevuto.


Non ho intenzione di raccontare le diverse avventure che, insieme e separatamente, capitarono a me e a mio figlio, prima d'arrivare nel paese di Molloy. Sarebbe davvero stucchevole. Ma non è questo a trattenermi. È tutto stucchevole, in questo racconto a cui mi si costringe. Ma lo condurrò a mio piacimento, fino a un certo punto. E se non ha la buona sorte di piacere all'accomandante, se lui ci trova dei passi spiacevoli per sé e per i suoi soci, tanto peggio per tutti noi, per tutti loro, perché per me peggio di così non può andare ormai. Vale a dire che per farmene un'idea m'occorrerebbe più immaginazione di quel che ho. Eppure ne ho di più di una volta. E a questo triste lavoro d'amanuense a cui non sono tagliato, mi sottometto per motivi che non sono affatto quelli che si potrebbe supporre che siano. Obbedisco ancora agli ordini, se si vuole, ma non è più la paura ad ispirarmi. Sì, ho sempre paura, ma è semmai l'effetto di una abitudine. E la voce che ascolto, non ho poi avuto bisogno di Gaber per farmela trasmettere. Perché è dentro di me e mi esorta ad essere fino in fondo quel fedele servitore che sono sempre stato, di una causa che non è mia, e di adempiere pazientemente alla mia funzione fino alle sue ultime amarezze e agli estremi istanti, come volevo, al tempo del mio volere, che facessero gli altri. E tutto ciò in odio al mio padrone e nel disprezzo dei suoi piani. Come vedete, si tratta di una voce piuttosto ambigua e non sempre facile da seguire, nei suoi ragionamenti e decreti. Ma ciononostante la seguo, più o meno, la seguo per questo verso, che la comprendo, e per questo verso, che le obbedisco. E credo che siano rare le voci di cui si possa dire altrettanto. E ho l'impressione che d'ora innanzi la seguirò, qualunque cosa mi imponga. E quando tacerà, lasciandomi nel dubbio e nell'oscurità, aspetterò che ritorni, prima di fare qualcosa, anche se l'intero mondo, tramite le sue innumerevoli autorità riunite e unanimi, mi ordinasse questo o quello, sotto la minaccia di indescrivibili sevizie. Ma stasera, stamattina, ho bevuto un po' più del solito e può darsi che domani sia di diverso parere. Mi dice anche, questa voce che comincio appena a conoscere, che il ricordo di questo lavoro eseguito accuratamente fino in fondo m'aiuterà a sopportare i lunghi terrori della libertà e del vagabondaggio. Questo significa che, un giorno, sarò scacciato da casa mia, dal mio giardino? Che perderò i miei alberi, le mie aiuole, gli uccelli che mi sono uno ad uno familiari, ciascuno con il modo tutto suo di cantare, di volare, di venirmi incontro o di fuggire al mio avvicinarmi, e tutte le assurde dolcezze della mia intimità, dove ogni cosa è al proprio posto, dove sotto mano ho tutto il necessario per poter tollerare d'essere uomo, dove i miei nemici non possono colpirmi, che ho impiegato un'intera vita per costruire, per abbellire, per perfezionare, per conservare? Sono troppo vecchio per perdere tutte queste cose, per ricominciare, son troppo vecchio! Via, Moran, un po' di calma. Niente emozione, per favore.


Stavo dicendo che non avrei raccontato tutte le vicissitudini della strada che dal mio paese conduceva a quello di Molloy, per la semplice ragione che non ne ho intenzione. E scrivendo queste righe so come mi espongo a suscitare dei sospetti proprio in chi, ora più che mai, avrei tutto l'interesse a tener buono. Ma le scrivo lo stesso, e con mano ferma, inesorabile spola che divora la mia pagina con l'indifferenza di un flagello. Ma ne racconterò qualcuna in breve, perché mi sembra desiderabile, e per dare un'idea dei metodi della mia piena maturità. Ma prima d'arrivarci dirò quel poco che sapevo, quando lasciai casa mia, del paese di Molloy, così diverso dal mio. Perché una delle caratteristiche del penso che sto scrivendo è proprio il fatto che non mi si permette di bruciar le tappe e di dire d'un fiato di che cosa si tratta. Ma debbo ignorare di nuovo ciò che non ignoro più e creder di sapere ciò che partendo da casa mia credevo di sapere. E se ogni tanto derogo a questa regola, è solo per qualche particolare di scarsa importanza. Mentre in complesso mi ci conformo. E con tale ardore che, senza esagerare, tuttora, per lo più, sono prevalentemente colui che scopre che colui che narra. Ed è davvero a malapena se, nel silenzio della mia stanza, ad affare archiviato per quel che mi concerne, so meglio dove vado e ciò che mi aspetta che quella notte in cui mi aggrappavo al cancelletto, accanto a quell'abbrutito di mio figlio, nel viottolo. E non mi stupirei proprio se, nelle pagine che seguiranno, mi scostassi dal corso rigoroso e reale degli avvenimenti. Ma penso che nemmeno a Sisifo sia stato imposto di grattarsi, o di lamentarsi, o di esultare, a voler credere da una dottrina di moda, sempre ed esattamente negli stessi posti. Ed è anzi possibile che non si sia poi tanto addentro al cammino che egli batte dal momento che arriva senza incidenti, entro i limiti previsti. E chissà se ogni volta non crede che sia proprio la prima? Ciò lo manterrebbe nella speranza, nevvero, la speranza che è la disposizione infernale per eccellenza, contrariamente a ciò che si è potuto credere fino ad oggi. Mentre invece esser senza fine recidivi, ci riempie di soddisfazione.


Per paese di Molloy intendo la regione assai angusta di cui egli non aveva mai varcato, e con ogni probabilità non avrebbe mai varcato, i confini amministrativi, vuoi che questo gli fosse stato proibito vuoi che non ne abbia mai avuto voglia lui, vuoi naturalmente in seguito ad un caso straordinario. Questa regione era situata a nord, rispetto a quella più amena in cui vivevo io, ed era costituita da un agglomerato gratificato da qualcuno col nome di borgo laddove altri non vedeva che un villaggio, e dalle campagne circonvicine. Questo borgo, o villaggio, diciamolo subito, si chiamava Bally, e rappresentava con le terre che gli erano annesse, una superficie di cinque o sei miglia quadrate al massimo. Nei paesi evoluti si dice che questo è un comune, credo, o un cantone, non lo so; ma da noi non esistono termini astratti e generici per queste suddivisioni territoriali. E per esprimerle possediamo un altro sistema, di notevole bellezza è semplicità, e che consiste nel dire Bally (dato che qui si tratta di Bally) quando si vuol dire Bally e Ballyba quando si vuol dire Bally più le terre di sua competenza e Ballybaba quando si vuol dire le terre di Bally ad esclusione di Bally stesso. Io per esempio vivevo, e a pensarci bene vivo ancora, a Shit, capoluogo di Shitba. E alla sera, quando passeggiavo, tanto per prendere il fresco, fuori da Shit, il fresco che prendevo ero solo quello di Shitbaba, e nessun altro.


Ballybaba, nonostante la sua esigua estensione, non mancava d'offrire una certa varietà. Qualche cosiddetto pascolo, un po' di torbiera, qualche boschetto e a mano a mano che ci si avvicinava ai suoi confini, un paesaggio ondulato e quasi ridente, come se Ballybaba fosse stata contenta di non andar più lontano. Ma la principale bellezza della regione era una specie di insenatura strozzata che grige e lente maree svuotavano e riempivano, svuotavano e riempivano. E la gente meno romantica usciva in massa dal borgo, per venire ad ammirare questo spettacolo. Gli uni dicevano, Non c'è niente di più bello di queste sabbie appena bagnate. Gli altri, È proprio con l'alta marea che bisogna venire, per veder l'insenatura di Ballyba. Com'è bella allora quest'acqua plumbea che si direbbe morta, se non si sapesse che è proprio il contrario! E altri infine affermavano che assomigliava ad un lago sotterraneo. Ma, a somiglianza degli abitanti d'Isigny, erano tutti d'accordo nel dire che la loro città era sul mare. E intestavano la loro carta da lettere con un Bally-sur-Mer.


Ballyba era poco popolata, cosa che francamente mi rallegrava in anticipo. Le terre mal si prestavano alla coltivazione. Perché non appena un'aratura o un prato assumevano una certa ampiezza andavano ad incocciare in un boschetto druidico o in una fascia paludosa da cui non c'era niente da cavare salvo un po' di torba di pessima qualità o qualche avanzo di quercia pressata con cui si fabbricavano amuleti, tagliacarte, anelli da tovagliolo, rosari, scapolari e altre inezie. La Madonna di Marthe, ad esempio, proveniva da Ballyba. I pascoli, malgrado le piogge torrenziali, erano poverissimi e disseminati di rocce. Solo la gramigna cresceva rigogliosa e una specie di graminacea azzurra e amara disadatta all'alimentazione del grosso bestiame, ma a cui bene o male s'adattavano l'asino, la capra e la pecora nera. Ma allora Ballyba da dove traeva la propria opulenza? Adesso ve lo dico. No, non dirò niente. Niente.


Ecco dunque una parte di quel che credevo di sapere su Ballyba quando partii da casa mia. Mi chiedo se non l'avevo confusa con un altro posto.


A una ventina di passi dal mio cancelletto il viottolo si mette a costeggiare il muro del cimitero. Il viottolo scende, il muro s'innalza sempre di più. Oltrepassato un certo punto si cammina più in basso dei morti. È proprio là che ho la mia concessione perpetua. Finché la terra durerà, questo posto sarà tutto mio, in linea di massima. Di tanto in tanto mi recavo a contemplare la mia tomba. Era già sistemata. Si trattava di una semplice croce latina, bianca. Avevo voluto farvi incidere sopra il mio nome, con il qui giace e la data della mia. nascita. Non ci sarebbe stato da aggiungere altro che quella della mia morte. Non me l'avevano permesso. Talvolta sorridevo, come se fossi già morto.


Per qualche giorno, andammo a piedi seguendo delle strade nascoste. Non volevo farmi vedere sulla strada maestra.


Il primo giorno trovai la cicca del sigaro di padre Ambroise. Non solo non l'avevo buttata via, nel portacenere, nel cestino, ma mutando abitudine l'avevo messa in tasca. Questo era successo a mia insaputa. La guardai stupito, la accesi, ne tirai qualche boccata. La buttai via. Fu questo il fatto notevole di quella prima giornata.


Insegnai a mio figlio il modo di servirsi della bussola tascabile. Lui ci pigliava gusto. Si comportava bene, meglio di quel che avessi sperato. Il terzo giorno gli resi il coltello.


Il tempo ci favoriva. Facevamo con facilità le nostre dieci miglia giornaliere. Ci coricavamo all'aria aperta. La prudenza lo consigliava.


Insegnai a mio figlio il modo di costruirsi un riparo coi rami. Era negli scout, lui, ma non sapeva far nulla. Sì, sapeva fare un fuoco d'accampamento. Ad ogni tappa, mi supplicava che gli lasciassi mettere in pratica questo suo talento. Non ne vedevo l'utilità.


Mangiavamo cibi freddi, roba in scatola che spedivo lui a cercarci nei villaggi. Mi serviva a questo. Bevevamo la acqua dei ruscelli.


Tutte queste precauzioni erano certamente inutili. Un giorno in un campo scorsi un fittavolo di mia conoscenza. Veniva verso di noi. Feci subito dietro-front, presi mio figlio per il braccio e lo trascinai nella direzione opposta a quella giusta. Il fittavolo, come avevo previsto, ci raggiunse. Dopo avermi salutato, mi chiese dove eravamo diretti. Il campo doveva essere suo. Risposi che tornavamo a casa. Per fortuna non ne eravamo ancora molto lontani. Allora mi chiese dove eravamo stati. Forse gli avevano rubato un bue o un maiale. A fare un giro, risposi. Vi riaccompagnerei molto volentieri con la mia vettura, disse, ma non parto prima di notte. Che peccato, dissi. Se volete aspettare, disse, lo farò proprio di cuore. Lo ringraziai. Per fortuna non era ancora mezzogiorno. A non voler aspettare fino a notte, non c'era proprio niente di strano. E allora, buon ritorno, disse lui. Compimmo un grande giro e riprendemmo la strada del nord.


Queste precauzioni erano senza dubbio esagerate. A fare per bene si avrebbe dovuto viaggiare di notte e di giorno nascondersi, almeno nei primi tempi. Ma c'era un tempo così bello che non mi ci potevo decidere. Non pensavo che al mio piacere, ma ci pensavo! Una cosa simile non mi era mai capitata durante il mio lavoro. E con che lentezza andavamo avanti! Probabilmente non avevo fretta d'arrivare.


A sbalzi, pur abbandonandomi alla dolcezza dell'estate morente, ripensavo alle istruzioni di Gaber. Non riuscivo a ricostituirle in modo del tutto soddisfacente. Di notte, sotto i rami, sottratto alle attrazioni della natura, mi dedicavo completamente a questo problema. I rumori che faceva mio figlio dormendo mi disturbavano notevolmente. Talvolta uscivo dal riparo e andavo su e giù nell'oscurità. Oppure mi sedevo con la schiena contro un tronco, ritiravo i piedi sotto il sedere, mi prendevo le gambe tra le braccia e appoggiavo il mento sopra un ginocchio. Anche in quest'atteggiamento non riuscivo a vederci chiaro. Che cosa cercavo precisamente? È difficile dirlo. Cercavo quella cosa che mancava perché la relazione di Gaber fosse completa. Mi sembrava che dovesse avermi detto quel che bisognava fare di Molloy una volta trovato. Il mio lavoro non si limitava mai all'azione di riconoscimento. Sarebbe stato troppo bello. Ma dovevo sempre agire sull'interessato in un modo o nell'altro, seguendo le istruzioni. Questi interventi assumevano forme estremamente varie, da quelle più energiche fino a quelle più delicate. L'affare Yerk, che impiegai circa tre mesi per condurre in porto, finì il giorno in cui riuscii a impadronirmi della sua spilla da cravatta e a distruggerla. Stabilire il contatto, era solo la parte minore del mio lavoro. Yerk lo trovai il terzo giorno. Non mi si chiedeva mai la prova della mia riuscita, mi si prendeva in parola. Youdi doveva possedere diversi modi di controllo. Talvolta mi chiedevano una relazione.


Un'altra volta la mia missione era consistita nel condurre la persona in un certo luogo a una cert'ora. Lavoro fra i più delicati perché non si trattava di una donna. Non m'è mai capitato di dovermi occupare di una donna. Me ne rincresce. Non credo che Youdi se ne interessasse molto. Mi ricordo a questo proposito la vecchia storiella sull'anima delle donne. Domanda, Le donne hanno un'anima? Risposta, Sì. Domanda, Perché? Risposta, Perché possano essere dannate. Molto divertente. Per fortuna mi era stata concessa un'ampia libertà riguardo al giorno. L'importante era l'ora, non la data. Una volta all'appuntamento lo lasciai con una scusa qualunque. Si trattava di un ragazzo amabile, abbastanza triste e taciturno. Ho il vago ricordo d'aver inventato una storia di donna. Aspettate, mi viene in mente. Sì, gli avevo detto che lei era innamorata di lui da sei mesi e desiderava incontrarlo in un luogo appartato. Le avevo persino dato un nome. Si trattava di un'attrice abbastanza nota. Avendolo condotto nel luogo designato da lei, era quindi naturale che mi ritirassi, per delicatezza. Lo vedo ancora guardarmi mentre mi allontano. Gli sarebbe piaciuto avermi come amico, credo. Non so che cosa sia successo di lui. A intervento terminato, mi disinteressavo dei miei pazienti. Anzi dirò che non ne ho rivisto neanche uno, in seguito. Lo dico senza secondi fini. Oh ve ne avrei potuto raccontare delle belle, se fossi stato tranquillo. Che folla nella mia testa, che galleria di crepati. Murphy, Watt, Yerk, Mercier e tanti altri. Non avrei creduto che... sì, lo credo facilmente. Delle belle, delle belle. Non sono riuscito a raccontarle. Non sarò riuscito a raccontare neanche questa.


Non riuscivo dunque a sapere in che modo avrei dovuto agire su Molloy una volta che l'avessi trovato. Le indicazioni che Gaber non aveva potuto mancare di fornirmi in proposito mi erano uscite del tutto di mente. Ecco il risultato di aver passato l'intera domenica dietro a delle stupidaggini. Inutile dire tra me, Vediamo, che cosa mi si chiede abitualmente? Le mie istruzioni non avevano niente d'abituale. C'era, sì, una certa operazione che ritornava ogni tanto, ma non così spesso da avere grandi probabilità che fosse quella che cercavo. Ma anche se m'avessero chiesto una sola volta un'altra cosa, questa volta sarebbe stata sufficiente per legarmi le mani, tanto ero scrupoloso.


Mi dicevo che era meglio non pensarci più, che non mi restava che da trovar Molloy, e che poi ci avrei pensato su, che prima d'allora avrei avuto tempo, che me ne sarei rammentato quando meno me lo fossi aspettato e che se, trovato Molloy, avessi continuato a non sapere che cosa bisognasse farne avrei potuto fare in modo di mettermi in contatto con Gaber senza che Youdi lo venisse a sapere. Avevo il suo indirizzo e lui aveva il mio. Gli avrei spedito un telegramma, Che fare di M? Avrebbe saputo rispondere in termini chiari anche se eventualmente velati. Ma esisteva il telegrafo in Ballyba? Non essendo io altro che un essere umano, dicevo anche tra me che quanto più avessi ritardato a trovare Molloy, altrettanto maggiori probabilità avrei avuto di ricordarmi quel che dovevo farne. E avremmo continuato a procedere quieti quieti a piedi, se non fosse accaduto il seguente incidente.


Una notte, in cui avevo finito per addormentarmi come al solito accanto a mio figlio, mi svegliai di soprassalto, con l'impressione che m'avessero colpito violentemente. State tranquilli, non sto per raccontarvi un sogno vero e proprio. Nel riparo regnava la più profonda oscurità. Stetti attentamente in ascolto senza muovermi. Non udivo nulla salvo il russare e l'ansimare di mio figlio. Stavo per dirmi come al solito che si trattava di un brutto sogno, allorché un dolore lancinante m'attraversò il ginocchio. Ecco dunque spiegato il mio subitaneo risveglio. Effettivamente assomigliava ad un colpo, a un calcio di cavallo immagino. Aspettavo ansiosamente che tornasse, immobile, respirando a fatica, e naturalmente in un bagno di sudore. Insomma facevo esattamente come credevo di sapere che si facesse in simili situazioni. E infatti il dolore tornò qualche minuto dopo, ma meno forte della prima volta, o meglio della seconda. O forse mi sembrava meno forte solo perché me l'aspettavo? Oppure perché cominciavo già a farci l'abitudine? Non credo. Perché tornò ancora, più volte, e ogni volta meno forte della precedente, e finalmente si calmò del tutto, tanto che riuscii ad addormentarmi discretamente tranquillizzato. Ma prima di riaddormentarmi feci in tempo a ricordarmi che il dolore in questione non mi era affatto nuovo. Perché l'avevo già provato, nella mia stanza da bagno, mentre facevo il clistere a mio figlio. Ma allora mi aveva assalito solo una volta e non era più ritornato. E mi riaddormentai mentre mi stavo chiedendo, tanto per cullarmi, se quella volta era stato lo stesso ginocchio di quello che mi aveva fatto così male oppure l'altro. Nemmeno mio figlio, interrogato a questo proposito, fu capace di dirmi quale delle due ginocchia avevo frizionato davanti a lui, con lo iodio, la sera della nostra partenza. E mi riaddormentai un po' rincorato, col dire tra me, È un po' di nevralgia provocata dalle lunghe marce e dalle notti fredde e umide, e ripromettendomi di procurarmi, alla prima occasione, una scatola di thermogène, con sopra quel prezioso diavoletto. Tant'è la rapidità del pensiero. Ma non era finita. Perché quando, verso l'alba, mi svegliai di nuovo, stavolta sotto l'effetto di un bisogno naturale, e, per essere più verosimili, con la verga in leggera erezione, non riuscii ad alzarmi. Cioè, finii per alzarmi, certo, era ben necessario, ma a prezzo di che sforzi! È presto detto, e presto scritto, non riuscire, mentre in realtà non c'è niente di più penoso. Per via della volontà senza dubbio, che sembra scatenarsi alla minima opposizione. Così credetti in principio di non poter piegare la gamba, ma accanendomici arrivai a piegarla, un poco. L'anchilosi non era completa. Parlo sempre del mio ginocchio. Ma era lo stesso che m'aveva svegliato sul far della notte? Non l'avrei giurato. Non mi faceva male. Semplicemente resisteva alla flessione. Il dolore, dopo avermi a più riprese messo sull'avviso, aveva taciuto. Ecco come vedevo la cosa. Non mi sarebbe stato possibile inginocchiarmi, per esempio, perché in qualsiasi maniera ci s'inginocchi, bisogna piegare sempre le due ginocchia; a meno d'adottare un atteggiamento decisamente grottesco e impossibile da sopportare più di pochi secondi, voglio dire con la gamba malata distesa davanti a sé, alla maniera dei danzatori Caucasi. Diedi un'occhiata al ginocchio malato alla luce della pila. Non era né arrossato né gonfio. Feci giocare la rotula. Si sarebbe detto che fosse un clitoride. Durante tutto questo tempo mio figlio soffiava come una foca. Non sospettava ciò che la vita poteva fare. Anch'io ero ingenuo, ma lo sapevo.


C'era quell'orribile luce che precede di poco il levare del sole. Le cose riacquistano alla chetichella la loro posizione diurna, si assestano, fanno il morto. Mi sedetti con precauzione per terra e debbo dire con una certa curiosità. Chiunque altro avrebbe voluto, di primo impulso, sedersi come al solito. Io no. Per nuova che fosse questa nuova croce, trovavo subito il modo migliore per portarla. Ma quando ci si siede per terra bisogna sedersi come lo scalpellino, o come un feto, son queste per così dire le sole posizioni possibili per un principiante. Non tardai dunque a lasciarmi scivolare sulla schiena. Non avrei tardato neppure ad aggiungere alla somma delle mie conoscenze questa, che quando di tutte le posizioni che l'uomo normale assume senza pensarci ve ne restano accessibili soltanto due o tre, allora si verifica un arricchimento di quest'ultime. Avrei proprio sostenuto il contrario e ostinatamente, se non l'avessi provato io stesso. Sì, non potendo restare comodamente né in piedi né seduti, ci si rifugia nelle diverse stazioni orizzontali come il bambino nel grembo di sua madre. Le si esplora come mai prima d'allora e vi si trovano delle insospettate delizie. Insomma diventano infinite. E se malgrado tutto alla lunga si finisce per stancarsi, basta mettersi in piedi per qualche istante, anzi mettersi semplicemente seduti. Ecco i vantaggi di una paralisi locale e indolore. E non mi stupirei affatto se le grandi paralisi classiche comportassero soddisfazioni analoghe e anzi, forse ancor più sconcertanti. Insomma esser davvero nell'impossibilità di muoversi, dev'essere qualcosa! Quando ci penso mi si strugge l'anima. E insieme una completa afasia! E magari una sordità totale! E chi sa, una paralisi della retina! E molto probabilmente la perdita della memoria! E quel tanto appena di cervello rimasto intatto per poter esultare! E per temere la morte come una rinascita.


Mi misi a riflettere al da farsi nel caso che il ginocchio non migliorasse o che peggiorasse. Guardavo, attraverso i rami, il cielo abbassarsi. Il cielo si abbassa di mattina, questo fenomeno non lo si è abbastanza rilevato. Si avvicina come per vedere. A meno che non sia la terra a sollevarsi, per farsi approvare prima di partire.


Hai dormito bene? dissi, quando mio figlio aprì gli occhi. Avrei potuto svegliarlo, ma no, lasciai che si svegliasse in modo naturale. Finì per dirmi che non si sentiva bene. Rispondeva spesso in modo indiretto alla domanda, mio figlio. Dove siamo, dissi, e qual è il villaggio più vicino? Mi disse il nome. Lo conoscevo, c'ero già stato, si trattava di un grosso borgo, la sorte ci era favorevole. Anzi, tra gli abitanti, avevo qualche conoscenza. Che giorno è oggi? dissi. M'indicò il giorno senza un attimo d'esitazione. E dire che aveva appena ripreso conoscenza! Ve l'avevo detto che era proprio un asso in storia e geografia. E proprio da lui seppi che Condom è bagnata dalla Baïse. Bene, dissi. Vai subito a Hole, ne avrai per — calcolai — per tre ore al massimo. Mi guardò stupito. Là, dissi, comprerai una bicicletta della tua misura, possibilmente d'occasione. Puoi arrivare fino a cinque sterline. Gli diedi cinque sterline, in biglietti da dieci scellini. Occorre un portapacchi molto solido, dissi, e se non è molto solido lo farai sostituire, con uno molto solido. Cercai d'essere chiaro. Gli chiesi se era contento. Non aveva un'aria contenta. Gli volli ripetere queste istruzioni e gli chiesi di nuovo se era contento. Aveva un'aria piuttosto stupita. Effetto forse della gran gioia che provava. Forse non credeva alle proprie orecchie. Hai capito almeno? dissi. Come fa bene di tanto in tanto, un po' di vera conversazione. Dimmi quel che devi fare, dissi. Era l'unico modo per sapere se aveva capito. Devo andare a Hole, disse, a quindici miglia di qui. Quindici miglia? dissi. Sì, disse lui. Bene, dissi io, continua. A comprare una bicicletta, disse lui. Aspettavo. Più nulla. Una bicicletta! strillai. Ma ci sono milioni di biciclette a Hole! Che genere di bicicletta? Si mise a riflettere. D'occasione, azzardò. E se non ne trovi d'occasione? dissi. Tu m'hai detto d'occasione, disse lui. Rimasi in silenzio abbastanza a lungo. Se non ne trovi d'occasione, dissi finalmente, che cosa farai? Non me l'hai detto, disse lui. Com'è riposante, un po' di colloquio ogni tanto. Quanti soldi ti ho dato? dissi. Contò i biglietti. Quattro sterline e dieci. Conta ancora, dissi. Li contò ancora. Quattro sterline e dieci. Dammi qui, dissi. Mi diede i biglietti e io li contai. Quattro sterline e dieci. Te ne ho date cinque, dissi. Non rispose, lasciò parlare le cifre. Mi aveva preso dieci scellini che nascondeva sulla sua persona? Svuotati le tasche, dissi. Cominciò a svuotarle. Io stavo sempre disteso, non dimentichiamolo. Lui non sapeva che ero malato. D'altronde non ero malato. Diedi un'occhiata distratta agli oggetti che mi stava sciorinando davanti. Li cavava di tasca ad uno ad uno, li teneva delicatamente in aria tra il pollice e l'indice, mostrandomene le varie facce e finalmente li deponeva per terra accanto a me. Quando aveva svuotato una tasca ne estraeva la fodera e la scuoteva. Si formava allora una nuvoletta di polvere. L'assurdità di questa verifica non tardò a pesarmi. Gli dissi di smettere. Forse i dieci scellini li nascondeva nella manica o in bocca. Sarebbe stato necessario che m'alzassi io e lo perquisissi, da cima a fondo. Ma allora avrebbe visto ch'ero malato. Non che fossi proprio malato. E poi perché non volevo che sapesse ch'ero malato? Non lo so. Avrei potuto contare i soldi che mi rimanevano. Ma a cosa mi sarebbe servito? Sapevo almeno che somma avevo portato con me da casa? No. Applicavo volentieri anche a me stesso il metodo socratico. Sapevo forse quanto avevo speso? No. Di solito tenevo una contabilità rigorosissima dei miei viaggi d'affari, motivavo fino all'ultimo centesimo le mie spese di trasferta. Stavolta no. Se fosse stato un viaggio di piacere, non avrei scialacquato i quattrini con maggior disinvoltura. Mettiamo che sia stato io a sbagliarmi, dissi, e che ti abbia dato solo quattro sterline e dieci. Lui stava raccogliendo flemmaticamente gli oggetti disseminati per terra e se li rimetteva in tasca. Come fargli capire? Piantala e stammi a sentire, dissi. Gli porsi i biglietti. Contali, dissi. Li contò. Quanto? dissi. Quattro sterline e dieci, disse lui. Dieci cosa? dissi. Dieci scellini, disse lui. Hai quattro sterline e dieci scellini, dissi io. Sì, disse lui. Ti ho dato quattro sterline e dieci scellini, dissi io. Sì, disse lui. Non era affatto vero, gliene avevo date cinque. Sei d'accordo, dissi io. Sì, disse lui. E per cosa credi che ti abbia dato tanti soldi? dissi. Gli s'illuminò il volto. Per comprare una bibicletta, disse. Che specie di bicicletta? dissi io. D'occasione, disse lui pronto. Credi che una bicicletta d'occasione costi quattro sterline e dieci? dissi. Non lo so, disse lui. Neanch'io ne sapevo nulla. Ma non era lì il problema. Che cosa t'ho detto esattamente? dissi. Tutt'e due ci mettemmo a cercare. Possibilmente d'occasione, dissi finalmente, ecco quel che ti ho detto. Ah, disse lui. Questo duetto, non lo riferisco per esteso, ne indico solo le linee essenziali. Non ti ho detto d'occasione, dissi, ti ho detto possibilmente d'occasione. Si era rimesso a raccogliere le sue cose. Piantala, strillai, e fa' attenzione a quel che ti dico. Egli lasciò cadere ostentamente un grosso gomitolo di spago tutto imbrogliato. Forse i dieci scellini erano lì in mezzo. Non vedi che differenza ci sia, tu, fra d'occasione e possibilmente d'occasione, dissi. Guardai l'orologio. Erano le dieci. Non facevo altro che aumentare la confusione nelle nostre idee. Non cercare più di capire, dissi, ma ascolta quel che sto per dirti, perché non lo ripeterò un'altra volta. Mi si avvicinò e si mise in ginocchio. Si sarebbe detto che stessi per render l'anima. Sai che cos'è una bicicletta nuova? dissi. Sì, papà, disse lui. Ebbene, dissi, se non trovi una bicicletta d'occasione comprerai una bicicletta nuova. Ripeto. Gli ridissi tutto. Io che avevo detto che non avrei ripetuto. Adesso dimmi che cos'hai da fare, dissi. Aggiunsi, Fatti in là, ti puzza il fiato. Per poco non aggiunsi, Non ti lavi i denti e poi ti lamenti d'avere degli ascessi, ma mi trattenni in tempo. Non era proprio il momento d'introdurre un altro tema. Tornai a ripetere, Che cosa devi fare? Si raccolse. Andare a Hole, disse, a quindici miglia —. Lascia stare le miglia, dissi io. Tu a Hole ci sei. Per far che? No, non ce la faccio. Finì col capire. Per chi è questa bicicletta, dissi, per Goering? Ancora non aveva capito che la bicicletta era per lui. E vero che, a quell'epoca, non era molto più piccolo di me. Quanto al portapacchi, era proprio come se non avessi detto nulla. Ma la sua mente finì coll'abbracciar tutto. Tanto che mi chiese cosa doveva fare se non avesse avuto danaro sufficiente. Tornerai qui e decideremo, dissi. Naturalmente, quando mi ero messo a riflettere a tutti questi problemi prima del risveglio di mio figlio, avevo previsto che avrebbero potuto fargli delle difficoltà e chiedergli, data la sua giovane età, dove avesse pescato tutti quei soldi. E sapevo quel che doveva fare in questo caso, andar cioè a trovare, o chiedere che glielo conducessero, il brigadiere Paul, presentarsi e dire ch'ero io, Jacques Moran, ad averlo incaricato di comprare una bicicletta a Hole, lasciando sempre supporre ch'io fossi rimasto a Shit. Si trattava qui evidentemente di due operazioni distinte, prima quella che consisteva nel prevedere il caso (prima del risveglio di mio figlio) e poi quella che vi poneva riparo (alla notizia che Hole era l'agglomerato più vicino). Ma rinunciai a comunicargli delle istruzioni così acute. Ma non aver paura, dissi, ne hai più che a sufficienza per comprarti una bella bicicletta, che porterai qui senza perdere un attimo. Con mio figlio bisognava considerar tutto. Non avrebbe mai saputo indovinare quel che bisognava fare della bicicletta una volta comprata. Sarebbe stato capace di restare a Hole, lo sa Dio in che condizioni, in attesa di nuove direttive. Mi chiese che cosa avevo. Dovevo aver fatto una smorfia. Ho che son stufo di vederti, dissi. E gli chiesi cosa aspettasse. Non mi sento bene, disse. Io, al quale aveva chiesto come stavo, non dicevo niente, e lui, al quale non aveva chiesto niente nessuno, annunciava che non si sentiva bene. Non sei contento, dissi, d'avere una bella bici nuova fiammante, tutta per te? Decisamente ci tenevo molto a sentirlo dire ch'era contento. Ma mi pentii della frase, che non poteva far altro che aumentare il suo turbamento. Ma direi che basta per questo colloquio familiare. Uscì dal riparo e quando ritenni che fosse abbastanza lontano uscii a mia volta, stentatamente. Aveva fatto venti passi all'incirca. Assunsi un portamento disinvolto, la schiena appoggiata con noncuranza ad un tronco e la gamba buona largamente piegata davanti all'altra. Lo chiamai ad alta voce. Si voltò. Agitai la mano. Mi stette a guardare per un attimo, poi mi voltò la schiena e riprese il cammino. Gridai il suo nome. Si voltò di nuovo. Un fanale! gridai. Un buon fanale! Non capiva. E come avrebbe potuto capire, a venti passi, lui che non capiva niente ad uno solo. Ritornò verso di me. Gli feci segno d'allontanarsi, gridando sempre, Vattene! Vattene! Si fermò e stette a guardarmi, con il capo di traverso come un pappagallo, completamente disorientato all'apparenza. Feci avventatamente l'atto di chinarmi, per raccogliere una pietra o un pezzo di legno o una zolla, un proiettile qualsiasi, e per poco non caddi. Spezzai sopra la mia testa un ramo verde e lo gettai con violenza nella sua direzione. Fece dietro-front e partì di corsa. C'erano dei momenti in cui non capivo niente di mio figlio. Doveva sapere che non avrei potuto raggiungerlo, anche con un buon sasso, e ciò nonostante se la dava a gambe. Forse aveva paura che gli corressi dietro. Effettivamente, credo che ci sia qualcosa di spaventoso nel mio modo di correre, con la testa rovesciata all'indietro, i denti stretti, i gomiti piegati al massimo e le ginocchia che m'arrivano fino a colpirmi il mento. E spesso ho raggiunto persone più veloci di me grazie a questo modo di correre. Si fermano e m'aspettano, piuttosto di far prolungare uno scatenamento così orribile alle loro costole. Quanto al fanale, non avevamo bisogno di fanali. Più tardi, quando la bicicletta si fosse insediata nella vita di mio figlio, nella sua vita di doveri e di giuochi innocenti, allora sì che un fanale sarebbe diventato indispensabile, per illuminare le sue corse notturne. E forse era stato proprio in previsione di questo felice avvenire che avevo pensato al fanale e che avevo gridato a mio figlio di comprarne uno buono, perché in seguito i suoi andirivieni fossero illuminati e senza pericolo. E avrei potuto dirgli di far ben attenzione anche al campanello, di svitarne il coperchietto e di guardarvi dentro per bene, per esser sicuro che fosse davvero un buon campanello e in buono stato, prima di concludere l'acquisto, e di farlo suonare per rendersi conto del suono che produceva. Ma avremmo avuto tempo d'occuparci di tutte queste cose, più tardi. E al momento giusto, mi sarei messo con gioia ad aiutare mio figlio nel far mettere alla sua bicicletta i fari migliori, sia di dietro che davanti, e il campanello migliore e i freni migliori che ci siano.


La giornata mi parve lunga. Mio figlio mi mancava! Ingannavo il tempo facendo del mio meglio. Mangiai parecchie volte. Approfittai finalmente del fatto d'esser solo, senz'altro testimone che Dio, per masturbarmi. Mio figlio doveva aver avuto la stessa idea, probabilmente si era fermato per masturbarsi. Spero che gli abbia dato più piacere che a me. Feci più volte il giro del riparo, pensando che quest'esercizio avrebbe giovato al mio ginocchio. Procedevo abbastanza spedito e senza troppo dolore, ma mi stancavo in fretta. Dopo una diecina di passi una gran fatica, o meglio una pesantezza, s'impadroniva della gamba e dovevo fermarmi. Subito dopo tutto passava e potevo ripartire. Presi un po' di morfina. Mi posi alcune domande. Perché non avevo detto a mio figlio che mi portasse qualcosa per curarmi? Perché gli avevo nascosto ch'ero malato? Ero forse contento di quel che mi capitava, al punto di non voler guarire? M'abbandonai alle bellezze del sito abbastanza a lungo, rimasi lungamente a guardare gli alberi, i campi, il cielo, gli uccelli, e ascoltai attentamente i rumori che mi giungevano da vicino e da lontano. Per un attimo credetti di percepire il silenzio di cui s'è già discusso, credo. Disteso nel riparo, pensai all'impresa in cui m'ero cacciato. Cercai daccapo di ricordarmi quel che dovevo fare di Molloy, quando l'avessi trovato. Mi trascinai fino al ruscello. Coricato mi ci specchiai, prima di lavarmi la faccia e le mani. Aspettai che la mia immagine si ricomponesse, stetti a guardarla nel tempo che, tremula, ritornava sempre più ad assomigliarmi. Ogni tanto una goccia, cadendo dalla mia faccia, la scomponeva di nuovo. Per tutta la giornata non vidi nessuno. Ma verso sera udii dei passi girare attorno al riparo. Rimasi immobile. I passi si allontanarono. Ma un po' più tardi, sbucato con chissà quali intenzioni, vidi un uomo a poca distanza da me, in piedi e immobile. Mi voltava le spalle. Portava un mantello pesante per la stagione e s'appoggiava ad un bastone così voluminoso, e di tanto più grosso in basso che in alto, che si sarebbe detto che fosse una clava. Si voltò e ci squadrammo in silenzio abbastanza a lungo. Cioè da parte mia lo fissai con decisione, come faccio sempre, per far credere che non ho paura, mentre lui mi gettava ogni tanto uno sguardo rapido, poi abbassava gli occhi, in apparenza più che per timidezza per riflettere tranquillamente a ciò che aveva appena visto, prima d'aggiungervi altre immagini. Perché l'occhiata era di una freddezza e di una forza estreme. Il viso era pallido e bello, io ne sarei stato soddisfatto. Stavo per dargli cinquantacinque anni allorché si levò il cappello, lo tenne un attimo in mano, poi se lo rimise in testa. Ciò non assomigliava per nulla a quel che si suol dire un far tanto di cappello. Io pensai bene di fare un inchino. Il cappello era davvero straordinario, e per forma e per colore. Non tenterò di descriverlo, non rientrava in nessuna delle categorie che mi erano familiari. I capelli, il cui sudiciume non riusciva a nascondere le canizie, erano abbondanti e si sollevavano. Feci in tempo, prima che se li comprimesse di nuovo sotto il cappello, a vederli rizzarsi lentamente sul cranio. La faccia era sporca e pelosa, sì, era pallida, bella, sporca e pelosa. Ebbe un movimento bizzarro, come una gallina che gonfia le penne e poi lentamente diventa più piccola di prima. Credetti che stesse per andarsene senza rivolgermi la parola. Ma improvvisamente mi chiese se gli davo un tozzo di pane. Accompagnò questa umiliante richiesta con un'occhiata di fuoco. L'accento era quello di uno straniero o di un uomo che ha perso l'abitudine alla parola. Effettivamente, tra me, al solo vederlo di spalle, avevo detto con sollievo, È uno straniero. Volete una scatola di sardine? dissi. Lui mi chiedeva del pane e io gli proponevo del pesce. Tutto il mio carattere è lì. Pane, disse. Rientrai nel riparo e presi il tozzo di pane che avevo serbato per mio figlio, il quale avrebbe avuto fame di sicuro al suo ritorno. Glielo diedi. M'aspettavo che lo divorasse immediatamente. Invece lo ruppe in due e si mise i pezzi nelle tasche del mantello. Permettete che guardi il vostro bastone? dissi. Allungai la mano. Egli non si mosse. Posi la mano sul bastone, sotto la sua. Sentii le sue dita mollare lentamente la presa. Adesso ero io a stringere il bastone. La sua leggerezza mi stupì. Glielo rimisi in mano. Egli mi gettò un'ultima occhiata e se ne andò. Era quasi notte. Camminava con passo rapido e incerto, più che servirsene trascinava il bastone, spesso cambiava direzione. L'avrei seguito a lungo volentieri con gli occhi. Avrei voluto essere in pieno mezzogiorno, in mezzo a un deserto, e seguirlo con gli occhi finché fosse diventato solo un punto, ai confini dell'orizzonte. Rimasi fuori ancora per un bel pezzo. Ogni tanto tendevo l'orecchio. Ma mio figlio non arrivava. Siccome cominciavo ad avere freddo rientrai nel riparo e mi distesi sotto il mantello di mio figlio. Ma sentendomi vincere dal sonno uscii di nuovo e accesi un gran fuoco di legna, per guidare mio figlio verso di me. Quando il fuoco riuscì ad appiccarsi, dissi tra me, Adesso potrò riscaldarmi! Mi riscaldai, stropicciandomi le mani una contro l'altra dopo averle esposte alla fiamma e prima di esporle di nuovo, e voltando la schiena alla fiamma e sollevando i lembi della giacchetta, e rigirandomi come allo spiedo. E alla fine, non potendone più per il calore e la fatica, mi distesi per terra vicino al fuoco e mi addormentai, dicendo tra me, Può darsi che una scintilla incendi i miei vestiti e che mi svegli torcia vivente. E dicendo tra me molte altre cose ancora, che appartenevano apparentemente a serie distinte e senza nessi tra loro. Ma al mio risveglio faceva giorno di nuovo e il fuoco si era spento. Ma la brace era ancora calda. Il ginocchio non andava meglio, ma non andava nemmeno peggio. Cioè andava forse un po' peggio senza che fossi in grado di rendermene conto, per via dell'abitudine sempre più misericordiosa che vi facevo. Ma non lo credo. Perché pur stando attento al mio ginocchio, e poi sottoponendolo a delle prove, diffidavo di quest'assuefazione e cercavo di farne astrazione. E semmai era un altro, ammesso nel segreto delle mie sensazioni soltanto, a dire, Nessun cambiamento, Moran, nessun cambiamento. Può sembrar impossibile. Andai nel boschetto per tagliarmi un bastone. Ma una volta trovato finalmente il ramo che faceva per me, mi venne in mente di non aver il coltello. Ritornai nel riparo, sperando di trovarci il coltello di mio figlio in mezzo agli oggetti che aveva deposto per terra e tralasciato di raccogliere. Non c'era. In compenso lo sguardo mi cadde sull'ombrello e tra me dissi, Perché tagliarmi un bastone quando ho già il mio ombrello? M'esercitai a camminare appoggiandomi all'ombrello. E anche se in tal modo non procedevo né più svelto né con minor dolore, almeno mi affaticavo meno in fretta. E invece di dovermi fermare ogni dieci passi, per riposarmi, ne facevo quindici con facilità, prima d'esser costretto a fermarmi. E mi serviva anche durante il riposo, l'ombrello. Perché constatavo che, una volta appoggiatomi sopra, la pesantezza della gamba, dovuta certamente a un difetto di circolazione, spariva ancor più rapidamente di quando mi mantenevo ritto con il solo aiuto dei miei muscoli e dell'albero della vita. E così attrezzato non m'accontentavo di girare soltanto intorno al riparo, come avevo fatto il giorno prima, ma m'irraggiavo in tutte le direzioni. E raggiunsi persino una piccola altura da dove potevo dominare tutta la distesa da cui mio figlio avrebbe dovuto spuntare da un momento all'altro. E ogni tanto lo vedevo nell'immaginazione, curvo sul manubrio o ritto sui pedali, avvicinarsi sempre più, e lo sentivo ansimare e gli vedevo dipinta sul viso paffuto la gioia di tornare finalmente. Ma nello stesso tempo sorvegliavo il riparo, che m'attirava in un modo straordinario, cosicché mi era impossibile passare da un raggio all'altro, all'altezza della loro maggior distanza, cosa che m'avrebbe fatto comodo. Ma ogni volta dovevo rifare il percorso in senso contrario, fino al riparo, per accertarmi che qui fosse tutto in ordine, prima di ricominciare da capo. E sciupai la maggior parte di questa seconda giornata in questi inutili andirivieni, in questo stare all'erta e in queste immaginazioni, ma non proprio per tutta la giornata. Perché ogni tanto mi distendevo ancora sotto il riparo, che diventava per me la mia piccola casa, per poter riflettere tranquillamente ad alcune cose, e specialmente ai miei viveri che si stavano esaurendosi rapidamente, tanto che dopo un pasto trangugiato alle cinque non mi rimanevano che due scatole di sardine, una manciata di biscotti e qualche mela. Ma cercai anche di ricordarmi quel che dovevo fare di Molloy, una volta che l'avessi trovato. E mi chinai anche su me stesso, su ciò che da un po' di tempo c'era di cambiato in me. E mi sembrava di vedermi invecchiare alla velocità di un'effimera. Ma non era esattamente l'idea d'invecchiamento quella che allora mi si presentava. E semmai ciò che vedevo assomigliava a uno sbriciolamento, a un crollo rabbioso di tutto ciò che da sempre mi aveva protetto da ciò che da sempre ero stato condannato ad essere. Oppure assistevo ad una specie di perforazione sempre più rapida verso chissà quale giorno e quale volto, conosciuti e rinnegati. Ma come descrivere questa sensazione che da cupa e massiccia, stridente e pietrosa, diventava improvvisamente liquida. E allora vedevo una bollicina salire lentamente dalle profondità, attraverso le acque chete, liscia dapprima, appena più chiara dei risucchi che la scortano, poi a poco a poco divenire un volto, con i buchi degli occhi e della bocca e le altre stigmate, senza che si riuscisse a capire se fosse un volto d'uomo o di donna, giovane o vecchio, e neppure se la sua calma non fosse un effetto dell'acqua che lo separava dalla luce. Ma devo dire che stavo attento in modo piuttosto distratto a queste povere apparenze, dove il sentimento di sfacelo che provavo cercava sicuramente di tenersi a freno. E il fatto di non occuparsene maggiormente dimostrava una volta di più com'ero mutato e come ormai il padroneggiarmi mi diventava indifferente. E dire che, se avessi insistito, sarei sicuramente andato avanti di scoperta in scoperta, sul mio conto. Ma bastava che cominciassi a far sprizzare un po' di chiarezza, dico in quest'oscura agitazione che s'impadroniva di me, con l'aiuto di un'immagine o di un giudizio, perché mi buttassi verso tutt'altri pensieri. E poco più tardi bisognava ricominciare tutto daccapo. E anche in questa maniera di fare facevo fatica a riconoscermi. Perché non era nel mio temperamento, voglio dire nelle mie abitudini, regolare i calcoli contemporaneamente, ma li separavo gli uni dagli altri e li spingevo al massimo a turno. E persino dalle indicazioni che mi mancavano riguardo a Molloy, mi scostavo bruscamente per rivolgermi ad altre incognite, quando sentivo che quelle si agitavano in fondo alla memoria. E proprio io che quindici giorni prima avrei calcolato con gioia quanto tempo avrei potuto tirare avanti con i viveri che mi rimanevano, facendo probabilmente intervenire il problema delle vitamine e delle calorie, e avrei stabilito nella mia testa una serie di menù che si avvicinassero asintoticamente al nulla alimentare, proprio io quel giorno m'accontentavo di constatare fiaccamente che ben presto sarei morto d'inanizione, se non fossi riuscito a rinnovar le provviste. Così trascorse quella seconda giornata. Ma rimane un incidente da segnalare, prima di passare all'indomani.


Avevo appena acceso il fuoco e stavo a guardarlo appiccarsi quando mi sentii interpellare. La voce, già tanto vicina da farmi sobbalzare, era quella d'un uomo. Ma dopo aver sobbalzato mi ripresi e continuai ad occuparmi del mio fuoco come se niente fosse, smuovendolo con un ramo che avevo strappato proprio per questo poco prima e da cui avevo tolto le fronde e anche una parte della scorza, con le mie unghie soltanto. Mi è sempre piaciuto scorticare i rami e mettere a nudo il leggiadro fusto liscio e chiaro. Ma il più delle volte oscuri sentimenti d'amore e di pietà di fronte all'albero me lo impedivano. E annoveravo fra i miei intimi la dracèna di Teneriffa che perì all'età di cinquemila anni, colpita dal fulmine. Era un esempio di longevità. Era un grosso ramo pieno di linfa che, quando lo ficcavo nel fuoco, non bruciava. Lo tenevo per l'estremità più sottile. Il crepitare del fuoco, o meglio della legna che vi si torceva, perché il fuoco non crepita affatto, ma fa un rumore del tutto diverso, aveva permesso all'uomo d'arrivarmi vicino, a mia insaputa. Se c'è una cosa che mi irrita, è proprio l'essere preso alla sprovvista. Continuai dunque, malgrado il mio moto di spavento e sperando che fosse passato inosservato, continuai ad attizzare il fuoco come se fossi stato solo. Ma al contatto della sua mano, che mi piombò sulla spalla, fui pur costretto a fare quel che chiunque altro al mio posto avrebbe fatto, cioè a voltarmi di colpo con un movimento spero ben dissimulato di paura e di collera. Eccomi faccia a faccia con un uomo di cui sulle prime distinguevo a malapena la corporatura e i lineamenti, per via del buio. Salve amico, disse lui. Ma a poco a poco mi feci un'idea di che tipo d'individuo fosse. E perbacco, tra le sue diverse parti c'era una gran concordanza e una grande armonia, e si poteva dire di lui che aveva la corporatura del suo volto e viceversa. E se gli avessi potuto vedere il culo, nessun dubbio che l'avrei trovato degno del resto. Non m'aspettavo proprio di trovare qualcuno in questo deserto, disse, è una fortuna davvero. E scostandomi dal fuoco, che cominciava a fiammeggiare, e la cui luce, non più intercettata da me, cadde sull'intruso, ebbi modo d'accorgermi che non mi ero sbagliato e che si trattava proprio del tipo di scocciatore che avevo intravisto. Ditemi, disse lui. Sono costretto a descriverlo succintamente, benché ciò sia contrario ai miei princìpi. Era piuttosto piccolo, ma tarchiato. Indossava un rozzo abito blu scuro (doppio-petto) d'un taglio orribile e un paio di scarpe nere, smisuratamente larghe e dall'estremità più alta del collo del piede. Questa foggia schifosa sembra esser monopolio delle calzature nere. Non sapete, disse. Le estremità a frange di una sciarpa scura, lunga almeno sette piedi, arrotolata diverse volte attorno al collo, gli pendevano sulle spalle. In testa aveva un feltro blu cupo a tesa corta, sul nastro del quale aveva appuntato un amo munito di una mosca, che faceva quanto mai sportivo. Mi sentite? disse. Ma tutto ciò non era niente in confronto alla faccia che assomigliava vagamente, mi dispiace dirlo, alla mia, meno fine naturalmente, con gli stessi baffetti rosicchiati, stessi occhietti da furetto, stessa parafimosi del naso, e una bocca minuscola e rossa quasi congestionata a furia di voler cacare la lingua. Parlate dunque! disse lui. Mi rivolsi verso il mio fuoco. Cominciava ad andar bene. Vi buttai sopra della legna. Sono cinque minuti che vi sto parlando, disse. Mi diressi verso il riparo, lui mi sbarrò la strada. Vedendomi zoppicare s'imbaldanziva. Vi consiglio di rispondermi, disse. Non vi conosco, dissi io. Risi. Era buona davvero. Il signore desidera vedere il mio biglietto da visita? disse lui. Non mi farebbe saper niente, dissi. Mi venne più vicino. Toglietevi di lì, dissi. Fu lui a ridere allora. Vi rifiutate di rispondere? disse. Feci un grande sforzo. Cosa volete sapere? dissi. Credette probabilmente che ritornassi a sentimenti migliori. Questo mi piace di più, disse. Chiamai in aiuto l'immagine di mio figlio che poteva capitare da un momento all'altro. Ve l'ho già detto, disse lui. Tremavo. Abbiate la cortesia di ripetere, dissi. Riassumiamo. Mi chiese se avevo visto passare un vecchio con un bastone. Lo descrisse. Male. La voce sembrava giungermi da lontano. No, dissi. Come no? disse lui. Non ho visto nessuno, dissi. Eppure è passato di qui, disse lui. Me ne stavo zitto. Da quando siete qui? disse lui. Anche il suo corpo diventava vaporoso, come se si stesse scindendo. Che cavolo state facendo qui? disse. Siete incaricato della sorveglianza del territorio? dissi. Allungò una mano verso di me. Credo proprio d'avergli detto daccapo di togliersi di lì. Mi ricordo ancora la mano che veniva verso di me, biancastra, aprendosi e chiudendosi. Si sarebbe detto che si muovesse da sola. Non so cosa sia accaduto. Ma un po' più tardi, forse molto più tardi, lo trovai steso per terra, con la testa spappolata. Mi dispiace di non poter indicare più chiaramente in che modo sia stato ottenuto questo risultato. Sarebbe stato davvero un bel frammento. Ma non è capitato in quella parte del mio racconto in cui mi slancerò nella letteratura. Personalmente io non avevo nulla, sì, qualche graffio che scoprii solo il giorno dopo. Mi chinai su di lui. Nel far ciò capii che la mia gamba si piegava di nuovo. Lui non m'assomigliava più. Lo presi per le caviglie e lo trascinai fino al riparo, andando all'indietro. Le sue scarpe brillavano per uno spesso strato di lucido grasso. I calzini erano ornati con ricami a galloni. I calzoni risalivano, scoprendo la carne bianca e glabra delle gambe. Aveva le caviglie sottili e ossute, come le mie. Le mie dita riuscivano quasi a circondarle. Portava delle giarrettiere, una delle quali s'era sciolta e pendeva. Questo particolare m'intenerì. Ritornai accanto al fuoco. Il ginocchio mi si stava irrigidendo di nuovo. Non avevo più bisogno d'essere flessibile. Ritornai nel riparo e presi il mantello di mio figlio. Ritornai accanto al fuoco e mi distesi, coperto col mantello. Non dormii granché, ma un poco dormii. Ascoltai le civette. Non erano dei gufi reali, questo era un grido come un fischio di locomotiva. Ascoltai un usignolo. E delle quaglie lontane. Se avessi sentito parlare d'altri uccelli che lancian grida e cantano di notte, avrei ascoltato anche questi. Rimasi a guardare il fuoco che moriva, con le due mani appoggiate una sull'altra e con la guancia sopra. Stetti a spiare l'alba. Appena cominciò a spuntare m'alzai e andai al riparo. Anche lui aveva le ginocchia discretamente rigide, ma le articolazioni lombari funzionavano ancora per fortuna. Lo trascinai fino al boschetto, fermandomi spesso per riposare, ma senza mollare le gambe, per non dovermi abbassare a riprenderle. Poi disfeci il riparo e gettai sul corpo i rami così recuperati. Rifeci e mi misi in spalla i due sacchi, presi il mantello e l'ombrello. Insomma levai le tende. Ma prima di partire rimasi per un attimo raccolto per esser sicuro di non aver dimenticato nulla, e senza fidarmi soltanto del mio cervello, perché mi palpai le tasche e mi guardai attorno. E fu proprio tastandomi le tasche che constatai l'assenza delle mie chiavi, assenza di cui il mio cervello non era stato capace d'informarmi. Non tardai a ritrovarle sparpagliate per terra, essendosi spezzato l'anello. E a dire il vero ritrovai prima la catena, poi le chiavi e finalmente l'anello, spezzato in due. E siccome non si poteva neppur pensare, anche con l'aiuto dell'ombrello, di chinarmi ogni volta per raccogliere una chiave. deposi i sacchi, l'ombrello e il mantello, e mi distesi bocconi in mezzo alle chiavi che in questo modo riuscii a recuperare abbastanza facilmente. E quando una si trovava fuori dalla mia portata, mi trascinavo fino ad essa afferrando l'erba con le mani. E, prima di rimetterla in tasca, asciugavo ogni chiave nell'erba, ne avesse o no avuto bisogno. E ogni tanto mi sollevavo sulle mani, per dominar meglio la scena. E parecchie chiavi, scoperte in tal modo ad una distanza piuttosto grande da me, le raggiunsi rotolandomi, come un grosso cilindro. E quando non trovai più chiavi, dissi tra me, Non val la pena di contarle, tanto non so quante fossero. Allora mi rimisi a cercar con gli occhi. Ma alla fine dissi tra me, Tanto peggio, m'accontenterò di quelle che ho. E mentre cercavo le mie chiavi, trovai un orecchio che buttai nel boschetto. E, cosa ancor più strana, trovai la mia paglietta che credevo d'aver in testa! Uno dei buchi attraverso cui passava l'elastico si era slargato fino alle falde della falda, se così si può dire, e perciò non era più un buco ma uno spacco. Ma l'altro aveva resistito e l'elastico vi si trovava sempre. E alla fine dissi tra me, Adesso mi alzerò e, con uno sguardo dall'alto, farò un'ultima ispezione del terreno. Cosa che feci. Fu allora che trovai l'anello, prima un pezzo, poi l'altro. Poi, non trovando più niente di mio o di mio figlio, mi caricai di nuovo dei sacchi, calcai per bene la paglietta sul cranio, ripiegai sul braccio il mantello di mio figlio, presi l'ombrello e me ne andai. Ma non andai lontano. Perché ben presto mi fermai in cima ad una montagnola da dove potevo sorvegliare, senza far fatica, il luogo del campo e la campagna circostante. E feci questo curioso rilievo, che la terra in quel posto, e anche le nuvole del cielo, eran disposte in modo da guidar dolcemente gli occhi verso il campo, come in un quadro d'autore. M'insediai il più comodamente possibile. Mi sbarazzai dei vari fardelli e mangiai un'intera scatola di sardine e una mela. Mi distesi bocconi sul mantello di mio figlio. E ora m'appoggiavo col gomito per terra puntellandomi le mascelle con le mani, nel qual caso i miei sguardi eran sospinti verso l'orizzonte, e ora facevo un cuscinetto con le due mani sempre per terra e vi appoggiavo sopra la guancia, cinque minuti una, cinque minuti l'altra, sempre bocconi. Avrei potuto farmi un guanciale con i due sacchi, ma non lo feci, non ci pensai. La giornata trascorse nella quiete, senza nessun incidente. E solo un cane mi spezzò la monotonia di questa terza giornata, prima gironzolando attorno agli avanzi del mio fuoco, poi entrando nel boschetto. Ma non lo vidi uscire, vuoi che la mia attenzione fosse altrove, vuoi che ne fosse uscito dall'altra parte, non avendo in qualche modo fatto altro che attraversarlo da parte a parte. Aggiustai il cappello, praticandovi, con l'aiuto della chiavetta della scatola delle sardine, un nuovo buco vicino a quello vecchio e infilandovi di nuovo dentro l'elastico. E aggiustai pure l'anello, attorcigliando i due pezzi l'uno nell'altro, e infilai le chiavi e v'attaccai la lunga catena, di nuovo. E perché il tempo mi sembrasse meno lungo mi posi alcune domande e mi sforzai di rispondervi. Eccone qualcuna.


Domanda. Cos'era diventato il feltro blu?


Risposta.


Domanda. Non sarebbe stato sospettato il vecchio dal bastone?


Risposta. Molto probabilmente


Domanda. Che possibilità aveva di scolparsi?


Risposta. Minime.


Domanda. Avrei dovuto informare mio figlio dell'accaduto?


Risposta. No. Perché allora sarebbe suo dovere denunciarmi.


Domanda. Mi avrebbe denunciato?


Risposta.


Domanda. Come mi sentivo?


Risposta. Press'a poco come al solito.


Domanda. E tuttavia ero mutato e avrei continuato a mutare?


Risposta. Sì.


Domanda. E ciononostante mi sentivo press'a poco come al solito?


Risposta. Sì.


Domanda. Com'era possibile?


Risposta.


Queste e altre domande ancora eran separate da intervalli più o meno lunghi non soltanto tra loro, ma anche dalle risposte che le riguardavano. E le risposte non si presentavano sempre nell'ordine delle domande. Ma mentre cercavo la risposta, o le risposte, a una data domanda, trovavo la risposta, o le risposte, a una domanda che mi ero già posto invano, nel senso che non avevo saputo rispondervi, oppure trovavo un'altra domanda, o altre domande, che esigevano a loro volta una risposta immediata.


Riferendomi adesso con l'immaginazione al momento presente, affermo d'avere scritto tutto questo passo con mano ferma e persino soddisfatta, e con l'animo più tranquillo, come non lo era da un pezzo. Perché sarò lontano, prima che si leggano queste righe, e dove nessuno penserà di venirmi a cercare. E poi Youdi si prenderà cura di me, non mi lascerà punire per un errore commesso durante il servizio. E contro mio figlio non potranno fare nulla, ma semmai lo compiangeranno, per aver avuto un padre simile, e le offerte d'assistenza e le assicurazioni di stima gli perverranno da tutte le parti.


Così trascorse quella terza giornata. E verso le cinque mangiai la mia ultima scatola di sardine e qualche biscotto, di buon appetito. Cosicché non mi restava che qualche mela e qualche biscotto. Ma verso le sette, quando il sole era già molto basso, arrivò mio figlio. Dovevo essermi assopito un momento, perché non lo scorsi affatto dapprima all'orizzonte, e ingrandirsi poi sempre più, come avevo previsto. Ma, quando lo scorsi, era già fra me e il campo, e si stava dirigendo verso quest'ultimo. M'invase una grande irritazione e m'alzai in fretta e mi misi a urlare, brandendo l'ombrello. Si voltò e gli feci segno d'avvicinarsi, agitando l'ombrello come se avessi voluto uncinare qualcosa con il manico. Credetti per un attimo che stesse per sfidarmi e proseguire il cammino fino al campo, o meglio fino al luogo del campo, perché il campo non esisteva più. Ma finì col dirigersi verso di me. Stava spingendo una bicicletta che, non appena mi raggiunse, lasciò cadere con un gesto che voleva dire che non ne poteva più. Tirala su, dissi, che la veda. Effettivamente doveva essere stata una bicicletta abbastanza buona. La descriverei con facilità, vi scriverei sopra con facilità quattromila parole. È questa, la tua bicicletta? dissi. Non aspettandomi che a mezzo una risposta, continuai a guardar la bicicletta. Ma c'era nel suo silenzio un non so che d'inusitato che mi fece sollevare gli occhi verso di lui. Gli uscivan gli occhi dalla testa. Cos'hai, dissi, ho forse i calzoni sbottonati? Lasciò andare di nuovo la bicicletta. Tirala su, dissi. La tirò su. Che cosa ti sei fatto? disse lui. Sono caduto, dissi io. Caduto? disse lui. Sì, caduto, esclamai, non sei mai caduto tu? Cercai il nome della pianta nata dalle eiaculazioni degli impiccati e che grida quando la si coglie. Quanto l'hai pagata? dissi. Quattro sterline, disse lui. Quattro sterline! esclamai. Se m'avesse detto due sterline, o anche trenta scellini, avrei protestato lo stesso. M'hanno chiesto quattro sterline e cinque, disse. Hai la ricevuta? dissi. Non sapeva cosa fosse una ricevuta. Gliela descrissi. Con tutto il danaro che spendevo per l'istruzione di mio figlio, lui non sapeva cosa fosse una semplice ricevuta. Ma credo che lo sapesse come me. Perché quando gli dissi, Dimmi adesso che cos'è una ricevuta, me lo disse benissimo. In fondo che gli avessero fatto pagare la bicicletta tre o quattro volte quel che valeva o che lui si fosse tenuto una parte dei soldi, tutto ciò mi era completamente indifferente. Non erano le mie tasche che ci avrebbero rimesso. Dammi i dieci scellini, dissi. Li ho spesi, disse lui. Basta, basta. Cominciò a spiegarmi che il primo giorno le botteghe erano rimaste chiuse, che il secondo. — Gli dissi, Basta, basta. Esaminai il portapacchi. Era quanto di meglio avesse quella bicicletta. Con la pompa. Viaggia almeno? dissi io. Ho forato a due miglia da Hole, disse, ho fatto il resto della strada a piedi. Guardai le sue scarpe. Rigonfiamela, dissi. Presi la bicicletta. Non so più di che ruota si trattasse. Quando ci sono due cose press'a poco uguali io mi ci perdo. Barava, l'aria se ne andava tra la valvola e il cannello che lui aveva fatto apposta a non avvitare fino in fondo. Tieni la bicicletta, dissi, e dammi la pompa. La gomma s'indurì in fretta. Guardai mio figlio. Lui si mise a protestare. Lo feci stare zitto. Dopo cinque minuti tastai la gomma. Non aveva perso nulla della sua durezza. Sei un miserabile, dissi. Si cavò di tasca una tavoletta di cioccolata e me la porse. La presi. Ma invece di. mangiarla come avevo voglia e benché detestassi lo spreco, la gettai lontana da me, dopo un attimo d'esitazione. Ma quest'attimo d'esitazione, speravo che mio figlio non l'avesse notato. Basta. Scendemmo sulla strada. O meglio era un sentiero. Cercai di sedermi sul portapacchi. Il piede della gamba rigida voleva rientrarmi sottoterra, nella tomba. Mi rialzai per mezzo dello zaino. Tienla forte, dissi. Non bastava. Aggiunsi il carniere. Le sue gobbe mi s'incastravano nelle natiche. Più le cose mi oppongono resistenza più io m'accanisco. Solo con le unghie e con i denti, riuscirei col tempo a risalire dalle viscere della terra fino alla sua crosta, pur sapendo perfettamente che non ci avrei niente da guadagnare. E quando non avessi più né unghie né denti, gratterei la roccia con le mie ossa. Ecco in poche parole la soluzione a cui pervenni. Prima il carniere, poi lo zaino, poi il mantello di mio figlio piegato in quattro, il tutto solidamente legato, con i pezzi di spago di mio figlio, al portapacchi e al sostegno del sellino. Quanto all'ombrello, me l'appesi al collo, in modo da avere le mani libere per stringere mio figlio alla vita, o meglio alle ascelle, perché ero finalmente riuscito ad appollaiarmi più in alto di lui. Pedala, dissi. Credo che abbia fatto davvero uno sforzo disperato. Cademmo. Sentii un dolore acuto alla tibia. Mi ero impigliato per bene nella ruota posteriore. Aiutami! gridai. Mio figlio m'aiutò a rialzarmi. Mi si era strappata la calza e la gamba mi sanguinava. Per fortuna era la gamba malata. Cosa avrei potuto fare, con tutt'e due le gambe bloccate? Mi sarei arrangiato. Anzi invece che un male forse era un bene. Naturalmente pensavo alla flebotomia. Non ti sei fatto niente? dissi. No, disse lui. Naturalmente. Gli affibbiai con l'ombrello un duro colpo al pòplite, dove vedevo biancheggiare la carne tra i calzoncini e le calze. Lanciò un grido. Vuoi che ci ammazziamo? dissi. Non ce la faccio, disse lui, non ce la faccio. La bicicletta apparentemente non si era fatta niente, forse la ruota posteriore si era un po' storta. Immediatamente capii lo sbaglio che avevo fatto. Era stato l'essermi seduto di colpo, con i piedi penzoloni, prima della partenza. Mi misi a riflettere. Cerchiamo di fare un altro tentativo, dissi. Non ce la faccio, disse lui. Non farmi uscire dai gangheri, dissi. Inforcò la bicicletta. Partirai pian piano al mio segnale, dissi. Ripresi il mio posto di dietro. Seduto, i piedi non m'arrivavano a terra. Era quel che ci voleva. Aspetta il mio segnale, dissi. Mi lasciai scivolare da un Iato finché il piede della gamba buona non avesse toccato terra. Sulla ruota motrice ormai pesava soltanto la mia gamba malata, penosamente sollevata e divaricata. Affondai le dita nella giacchetta di mio figlio. Procedi piano piano, dissi. Le ruote cominciarono a girare. Io venivo dietro, mezzo trascinato, mezzo saltellante. Avevo paura per i miei testicoli che sono piuttosto penzolanti. Più svelto! gridai. Fece forza sui pedali. Con un balzo ricuperai il mio sedile. La bicicletta vacillò, riprese equilibrio, guadagnò velocità. Bravo! gridai, pazzo di gioia. Hurrà! gridò mio figlio. Come detesto quest'esclamazione! Mancò poco che non la notassi. Credo che fosse anche lui contento come me. Il suo cuore batteva sotto la mia mano, eppure la mia mano era lontana dal suo cuore. Per fortuna il sentiero era in discesa. Per fortuna avevo calcato il cappello, altrimenti il vento me l'avrebbe portato via. Per fortuna era bel tempo, non ero più solo. Per fortuna, per fortuna.


In questo modo raggiungemmo Ballyba. Non starò a dire gli ostacoli che dovemmo superare, gli esseri malvagi da cui dovemmo girare al largo, le scappatelle del figlio, i crolli del padre. Avevo intenzione, quasi avevo voglia, di raccontare tutto ciò, mi rallegravo all'idea che sarebbe giunto il momento in cui l'avrei potuto fare. Adesso non ne ho più l'intenzione, il momento è giunto e la voglia m'è passata. Il ginocchio non migliorava. Nemmeno peggiorava. La ferita alla tibia si era rimarginata. Non sarei mai arrivato da solo. Lo debbo all'aiuto di mio figlio. Che cosa? D'essere arrivato. Si lamentava spesso della propria salute, della pancia, dei denti. Io gli davo della morfina. La sua cera diventava sempre più brutta. Quando gli chiedevo cosa avesse non sapeva rispondermi. Avremmo delle noie con la bicicletta. Ma ne venni a capo. Non sarei mai arrivato senza mio figlio. Impiegammo un bel po' ad arrivare. Settimane. A furia di sbagliare strada, di non fare in fretta. Non ero ancora riuscito a sapere quel che dovevo fare di Molloy, quando l'avessi trovato. Non ci pensavo più. Pensavo molto a me, lungo la strada, seduto dietro a mio figlio, con la testa più in alto della sua, e all'accampamento durante il suo andirivieni, e durante le sue assenze. Perché si assentava spesso, per andare ad informarsi o per comprare delle provviste. Io non facevo per dir così più niente. Egli si prendeva molta cura di me, devo dirlo. Era goffo, stupido, lento, sporco, bugiardo, spendaccione, falso, poco affettuoso, ma non mi abbandonava. Pensavo molto a me. Vale a dire che spesso vi davo un'occhiata, chiudevo gli occhi, dimenticavo, tornavo da capo. Impiegammo un bel pezzo ad arrivare in Ballyba, anzi ci arrivammo senza saperlo. Ferma, dissi un giorno a mio figlio. Avevo appena scorto un pastore il cui aspetto mi piaceva. Seduto per terra accarezzava il suo cane. Delle pecore nere, poco lanose, vagavano attorno ai due, senza timore. Che paese pastorale, Dio mio. Lasciando mio figlio sul ciglio della strada andai verso di loro, attraverso i prati. Spesso mi fermavo e mi riposavo, appoggiandomi all'ombrello. Il pastore mi guardava venire, senza alzarsi. Anche il cane, senza abbaiare. Anche le pecore. Sì, a poco a poco, uno dopo l'altro, si mettevano a guardarmi venire avanti. Solo qualche brusco movimento all'indietro, una zampa sottile che percuoteva il terreno, tradivano la loro agitazione. Per esser pecore, sembravano poco paurose. E mio figlio naturalmente mi guardava mentre m'allontanavo, sentivo il suo sguardo sulla schiena. Il silenzio era assoluto. Insomma, profondo. Tutto considerato fu proprio un momento solenne. Il tempo era delizioso. Scendeva la sera. Ogni volta che mi fermavo mi guardavo attorno. Guardavo il pastore, le pecore, il cane e persino il cielo. Ma mentre camminavo non vedevo che la terra e il movimento dei miei piedi, quello buono che si slanciava in avanti, si tratteneva, si posava, aspettava che l'altro venisse a raggiungerlo. Finalmente mi fermai a una diecina di passi dal pastore. Non valeva la pena d'andar più lontano. Che piacere sarebbe per me parlar diffusamente di lui. Il suo cane l'amava, le sue pecore non lo temevano. Presto si sarebbe alzato, sentendo cadere la rugiada. L'ovile era lontano lontano. Avrebbe scorto in lontananza la luce della sua casa. Adesso mi trovavo in mezzo alle pecore, esse facevano crocchio intorno a me, i loro sguardi convergevano su di me. Poteva darsi che fossi il beccaio che veniva e fare la sua scelta. Mi levai il cappello. Vidi gli occhi del cane seguire il movimento della mia mano. Mi guardai attorno ancora una volta senza riuscire a dire nulla. Non sapevo come avrei potuto rompere questo silenzio. Poco mancò che me ne tornassi senza avere parlato. Finalmente dissi, Ballyba, con un tono che speravo interrogatore. Il pastore si tolse di bocca la pipa e ne diresse il cannello verso il suolo. Avevo voglia di dirgli, Prendetemi con voi, vi servirò fedelmente, per l'alloggio soltanto e il nutrimento. Aveva capito, ma probabilmente senza averne l'aria, perché rinnovò il gesto, puntando verso il suolo il cannello della pipa, parecchie volte. Bally, dissi. Alzò la mano, questa esitò un attimo come sopra una carta, poi s'irrigidì. La pipa fumava ancora debolmente, il fumo azzurrava l'aria per un attimo, poi spariva. Guardai nella direzione indicata. Anche il cane. Tutt'e due eravamo rivolti verso nord. Le pecore cominciavano a disinteressarsi di me. Forse avevano capito. Le sentivo rimettersi a brucare, a vagare. Scorsi finalmente, ai limiti della pianura, un rosseggiare confuso, complesso di mille luci distinte fuse insieme dalla distanza. Aveva qualcosa della galassia. Produceva come una piccola frattura nella bella linea dritta e cupa dell'orizzonte. Ringraziai la sera che fa vedere le luci, in cielo le stelle e in terra le brave piccole luci degli uomini. Di giorno il pastore avrebbe alzato invano la pipa, verso la lunga connessura nitida e chiara del cielo e della terra. Ma adesso li sentivo, l'uomo e il cane, voltarsi di nuovo verso di me, e il primo che si rimetteva a tirare dalla pipa, nella speranza che non si fosse spenta. E capivo d'essere il solo a fissare quel lontano bagliore di cui sapevo che sarebbe andato via via ravvivandosi, per poi spegnersi bruscamente. E mi metteva davvero soggezione essere il solo, con mio figlio forse, no, il solo ad essere affascinato così. E mi stavo chiedendo come avrei potuto ritirarmi senza scoraggiarmi troppo, senza farmi troppo pena, quando una specie d'immenso sospiro tutt'intorno a me annunciò che non ero io a partire, ma il gregge. Rimasi a guardarli mentre s'allontanavano, con l'uomo in testa, poi le pecore serrate, a testa bassa, scompigliandosi, mettendosi ogni tanto a trotterellare, strappando senza fermarsi e come alla cieca un ultimo boccone dalla terra, e alla fine il cane, dondolante e dimenando la gran coda nera e folta, malgrado non ci fosse nessuno a veder la sua contentezza, se poi era contentezza. E il piccolo branco se ne andava così in perfetto ordine, senza che il padrone dovesse gridare o il cane dovesse intervenire. E sarebbe andato sicuramente così fino alla stalla o al recinto. E una volta arrivati il pastore si scosta per lasciar passare le bestie, e per scrupolo di coscienza le conta mentre gli sfilano davanti. Poi va verso la sua casa, la porta della cucina è aperta, la lampada arde, lui entra e si mette a tavola, senza levarsi il cappello. Ma il cane si ferma sulla soglia incerto, se può entrare o deve restar fuori.


Quella notte ebbi una scenata abbastanza violenta con mio figlio. Non mi ricordo a che proposito. Aspettate, può darsi che sia importante.


No, non lo so proprio. Ne ho avute tante di scenate con mio figlio. Al momento quella dovette sembrarmi come le altre, tutto quel che so è questo. Dovetti condurla in porto seguendo una tecnica consumata, dimostrargli con maestria l'enormità dei suoi torti. Ma all'indomani capii d'essermi sbagliato. Perché svegliandomi di buon mattino mi trovai solo, nel riparo, io che mi ero sempre svegliato per primo. E anzi dovevo esser solo da un pezzo, l'istinto me lo diceva, da un pezzo il respiro di mio figlio non si mescolava più col mio, nell'angusto riparo che lui aveva costruito sotto la mia direzione. E che se ne fosse partito in bicicletta, durante la notte o ai primi rossori dell'alba, in sé non aveva nulla d'inquietante in modo grave. E sarei stato capace di trovarvi ottime ed onorevoli spiegazioni, se non si fosse trattato d'altro. Disgraziatamente aveva portato via tanto il sacco quanto il suo mantello. E non era rimasto, né dentro al riparo, né fuori del riparo, più nulla di suo, assolutamente più nulla. E non basta, ma se n'era andato con una considerevole somma di danaro, lui che aveva diritto sì e no a qualche soldo ogni tanto, per il suo salvadanaio italiano. Perché da quando si dava pensiero di tutto, beninteso sotto la mia direzione, ed in particolare delle compere, gli avevo affidato in una certa misura il danaro. E aveva sempre su di sé una somma ben superiore allo stretto necessario. E affinché tutto ciò sembri più verosimile, aggiungerò questo.


1° Desideravo che imparasse a tenere una contabilità in partita doppia e gliene avevo inculcato i rudimenti.


2° Non mi sentivo più il coraggio d'occuparmi di quelle miserie che un tempo avevano costituito la mia gioia.


3° Gli avevo detto di tenere gli occhi aperti, durante le sue scorribande, per una seconda bicicletta leggera e a buon mercato. Perché ero stufo del portapacchi e per di più vedevo arrivare il giorno in cui mio figlio non ce l'avrebbe più fatta a pedalare per due. E credevo d'esser capace, che dico, sapevo d'esser capace, con un po' d'allenamento, d'imparare a pedalare con un piede solo. E allora avrei ripreso il posto che mi spettava, voglio dire in testa. E mio figlio m'avrebbe seguito. E non si sarebbe più prodotto quel fatto scandaloso, di mio figlio cioè che se ne infischiava delle mie istruzioni, andando a sinistra quando gli dicevo a destra, o a destra quando gli dicevo a sinistra, o dritto quando gli dicevo a destra o a sinistra, come era successo sempre più di frequente in quest'ultimo periodo.


Ecco quanto volevo aggiungere.


Ma controllando il mio borsellino constatai che conteneva soltanto quindici scellini, ciò che mi faceva supporre che mio figlio non si era accontentato della somma già nelle sue mani ma aveva rastrellato le mie tasche, prima di partire, mentre dormivo. E il mio primo moto, tant'è bizzarra l'anima, fu d'essergli grato d'avermi lasciato questa piccola somma, sufficiente a togliermi d'imbarazzo fino all'arrivo dei soccorsi, e la vedevo come una specie di delicatezza!


Dunque ero solo, con il mio carniere, il mio ombrello che lui avrebbe potuto portar via benissimo e quindici scellini, sapendomi freddamente abbandonato, per deliberato proposito e senza dubbio con premeditazione, in Ballyba, se vi pare, se poi mi ci trovavo realmente, ma ancora abbastanza lontano da Bally. E rimasi parecchi giorni, non so quanti, nello stesso posto in cui mio figlio m'aveva abbandonato, mangiando le ultime provviste (le avrebbe potute portar via facilmente) senza vedere anima viva, incapace d'agire, o forse abbastanza forte per non agire più. Perché ero tranquillo, sapevo che tutto stava per finire, o per ravvivarsi, contava poco, e contava poco in che modo, non avevo che da aspettare. E anzi mi divertivo di tanto in tanto a lasciar crescere in me, per schiacciarle meglio, delle speranze puerili, per esempio che mio figlio, una volta cessata l'ira, avrebbe avuto pietà di me, sarebbe tornato verso di me! Oppure che Molloy, il cui paese era proprio questo, sarebbe venuto da me, che non avevo saputo andare da lui, e che ne avrei fatto un amico, un padre, e che m'avrebbe aiutato a far quel che dovevo fare, in modo che Youdi non fosse irritato contro di me e non mi punisse! Sì, le lasciavo crescere e ammucchiarsi dentro di me, farsi ammirare e adornarsi di mille particolari incantevoli, e poi le spazzavo via con un gran colpo di scopa disgustato, me ne ripulivo e guardavo con soddisfazione il vuoto che avevano profanato. E di sera mi rivolgevo alle luci di Bally, le guardavo risplendere sempre più accese, poi spegnersi quasi tutte contemporaneamente, luride piccole luci ammiccanti d'uomini atterriti. E dicevo tra me, E dire che avrei potuto esserci, senza questa sciagura capitatami! E anche quell'Obidil, di cui per poco non ho parlato, che avrei tanto desiderato veder da vicino, ebbene non lo vidi mai, né da vicino né da lontano, e anche se non fosse esistito non ne sarei impressionato granché. E al pensiero delle sanzioni che Youdi poteva infliggermi ero scosso da un'enorme risata, senza che si facesse sentire il più piccolo rumore o che la mia faccia esprimesse qualcosa di diverso dalla tristezza e dalla calma. Ma ne era scosso tutto il corpo, fino alle gambe, tanto che dovevo appoggiarmi a un albero, o a un alberello, quando mi prendeva mentre ero in piedi, perché l'ombrello non era più sufficiente a tenermi in equilibrio. Strana risata se pur lo fu e che a pensarci bene chiamo in questo modo soltanto per pigrizia, o per ignoranza. E in quanto a me, a quel costante passatempo che ero, devo dire che non stavo più molto a pensarci. Ma di quando in quando mi sembrava di non esserci più tanto lontano, d'avvicinarmici come i banchi di sabbia ai marosi che si gonfiano e spumeggiamo, immagine debbo dire poco appropriata alla mia situazione, che semmai era quella della merda in attesa dello scroscio d'acqua. E a questo punto annoto quel piccolo colpo al cuore che provai una volta, a casa mia, quando una mosca, volando rasente al mio portacenere, vi sollevò un poco di cenere, con il movimento delle sue ali. E diventavo via via sempre più debole e contento. Da molti giorni non mangiavo più nulla. Probabilmente avrei potuto trovar delle more e dei funghi, ma ciò non m'importava. Per tutta la giornata rimanevo disteso nel riparo, rimpiangendo vagamente il mantello di mio figlio, e di sera uscivo a far delle belle risate davanti alle luci di Bally. E pur soffrendo di un po' di crampi e di gonfiore allo stomaco mi sentivo straordinariamente contento, contento di me, quasi esaltato, affascinato dalla mia figura. E tra me dicevo, Tra poco perderò completamente i sensi, ormai è solo questione di tempo. Ma l'arrivo di Gaber pose fine a questi sollazzi.


Era una sera. Mi ero da poco trascinato fuori dal riparo per la mia solita risatina e per sentir meglio la mia debolezza. Era già da un po' che se ne stava lì. Era seduto su un ceppo, mezzo addormentato. Salve Moran, disse. Mi riconoscete? dissi io. Sì cavò il taccuino e l'aprì, sfogliò le pagine, trovò quella giusta, l'alzò verso i propri occhi abbassandoli contemporaneamente verso di essa. Non vedo niente, disse. Era vestito come l'ultima volta. Avevo fatto male dunque a considerare con ripugnanza il suo vestito da festa. A meno che non fossimo ancora di domenica. Ma non l'avevo sempre visto vestito in quel modo? Avreste un fiammifero? disse lui. Non gli conoscevo questa voce lontana. Oppure una lampadina tascabile, disse. Dalla mia faccia dovette avvertire che non avevo niente di luminoso. Cavò di tasca una pila elettrica e con questa illuminò la pagina. Lesse, Moran, Jacques, farà ritorno a casa sua, l'affare potendosi considerare sospeso. Spense la pila, chiuse il taccuino col suo dito e mi guardò. Non posso camminare, dissi. Come? disse lui. Sono malato, non mi posso muovere, dissi. Non sento una sola parola di quel che dite, disse lui. Gli gridai che non potevo spostarmi, che ero malato, che sarebbe stato necessario trasportarmi, che mio figlio mi aveva abbandonato, che ne avevo abbastanza. Mi esaminò goffamente da capo a piedi. Feci qualche passo appoggiato all'ombrello per mostrargli che non riuscivo a camminare. Riaprì il taccuino, illuminò di nuovo la pagina, la consultò a lungo e disse, Moran raggiungerà il proprio domicilio, l'affare potendosi considerare sospeso. Chiuse il taccuino, se lo rimise in tasca, si rimise in tasca la pila, si alzò, si passò le mani sul petto e annunciò che moriva di sete. Nemmeno una parola sull'aspetto che avevo. Eppure non mi ero rasato dal giorno in cui mio figlio aveva ricondotta la bicicletta da Hole, e nemmeno pettinato, o lavato, per non dire delle privazioni d'ogni sorta e delle grandi metamorfosi interiori. Mi riconoscete? gridai. Se vi riconosco? disse lui. Si mise a pensare. Sapevo quel che stava facendo, cercava la frase più adatta per ferirmi. Maledetto Moran! disse. Io vacillavo di debolezza. Se fossi deceduto ai suoi piedi avrebbe detto. Ah 'sto vecchio Moran, sempre lo stesso. Diventava sempre più buio. Mi chiesi se era proprio Gaber. E lui è adirato? dissi. Non avreste un po' di birra alle volte, disse lui. Vi sto chiedendo se lui è adirato, gridai. Adirato, disse Gaber, ne avete delle buone voi, si frega le mani dal mattino alla sera, le sento dall'anticamera. Questo non vuol dir niente, dissi io. Se la ride da solo, disse Gaber. È adirato con me di sicuro, dissi io. Sapete cosa m'ha detto l'altro giorno? disse Gaber. È cambiato? dissi. Come? disse Gaber, ma no non è cambiato, perché dovrebbe essere cambiato, diventa vecchio, ecco tutto, come tutti quanti. Avete una voce ben curiosa stasera, dissi io. Non credo che mi abbia sentito. Bene, disse, passandosi di nuovo le mani sul petto, dall'alto in basso, me ne vado, dato che non avete niente da offrirmi. Si allontanò, senza dirmi addio. Ma io lo raggiunsi, malgrado il disgusto che m'ispirava, malgrado la debolezza e la gamba malata, e lo trattenni per la manica. Che cosa vi ha detto? dissi. Si fermò. Moran, disse, cominciate seriamente a rompermi le scatole. Vi supplico, dissi io, ditemi cosa v'ha detto. Mi diede uno spintone. Caddi. Non l'aveva fatto apposta per farmi cadere, non si rendeva conto in che stato fossi, aveva voluto soltanto scostarmi. Non cercai di rialzarmi. Lanciai un urlo. Egli s'avvicinò e si chinò su di me. Aveva dei gran baffi castani all'antica. Li vidi agitarsi, aprirsi le labbra, e intesi quasi subito come sussurrate delle parole premurose. Non era un uomo brutale, Gaber, lo conoscevo bene. Gaber, dissi, non vi chiedo poi molto. Mi ricordo bene questa scena. Volle aiutarmi a rialzarmi. Lo respinsi. Stavo bene dov'ero. Cosa vi ha detto? dissi. Non capisco, disse Gaber. Poco fa dicevate che lui vi aveva detto qualcosa, dissi, poi io vi ho interrotto. Interrotto? disse Gaber. Sapete cosa m'ha detto l'altro giorno, dissi io, ecco le vostre stesse parole. La sua faccia s'illuminò. Era sveglio press'a poco come mio figlio, questo rozzo Gaber. Mi ha detto, disse Gaber, mi ha... Più forte, strillai. Mi ha detto, disse Gaber, Gaber, così m'ha detto, la vita è una gran bella cosa, Gaber, una cosa straordinaria. Avvicinò la sua faccia alla mia. Una cosa straordinaria, disse, una gran bella cosa, una cosa straordinaria. Sorrise. Io chiusi gli occhi. I sorrisi, certo, sono molto belli, molto incoraggianti, ma occorre che siano un po' lontani. Dissi, Credete che parlasse della vita umana? Rimasi in ascolto. Cioè se parlasse della vita umana, dissi. Riaprii gli occhi. Ero solo. Avevo le mani piene d'erba che avevo strappato senza accorgermene, che stavo ancora strappando. Letteralmente sradicavo. Mi trattenni dal farlo, sì, nell'attimo stesso in cui compresi quel che avevo fatto, quel che stavo facendo, una cosa tanto brutta, vi misi fine, aprii le mani, che si vuotarono subito.


La notte stessa mi misi sulla via del ritorno. Non andai lontano. Ma fu un piccolo inizio. È proprio il primo passo che conta. Il secondo conta meno. Ogni giorno mi vedeva procedere un po' di più. Questa frase non è chiara, non dice quel che speravo. In principio contavo a decine di passi. Mi fermavo quando non ne potevo più e dicevo tra me, Bravo, con questo siamo a tante decine, tante più di ieri. Poi contavo a quindicine, a ventine e finalmente a cinquantine. Sì, alla fine riuscivo a fare cinquanta passi prima di fermarmi, per riposarmi, appoggiato al mio fedele ombrello. Probabilmente agli inizi vagavo per Ballyba, se pur c'ero veramente. In seguito andavo press'a poco lungo le stesse strade che avevamo preso nel venire. Ma le strade, ripercorse in senso inverso, cambiano aspetto. Mangiavo, con rassegnazione, tutto quel che la natura, i boschi, i campi, le acque, mi offrivano di commestibile. Finii la morfina.


Ricevetti l'ordine di rientrare in agosto, al più tardi in settembre. Me ne arrivai a casa in primavera, non voglio esser più preciso. Dunque avevo camminato tutto l'inverno.


Chiunque altro al mio posto si sarebbe disteso nella neve, ormai deciso a non rialzarsi più. Io no. Una volta credevo che gli uomini non m'avrebbero sopraffatto. Mi ritengo sempre più furbo delle cose. Ci sono gli uomini e le cose, non venite a parlarmi degli animali. E nemmeno di Dio. Una cosa che mi opponga resistenza, anche se sia per il mio bene, non mi resiste a lungo. Questa neve, per esempio. Anche se essa, a dir la verità, più che resistermi, mi chiamava. Ma in certo senso mi opponeva resistenza. Ciò era sufficiente. Io la vinsi, digrignando i denti di gioia, si può benissimo digrignare gli incisivi. Mi scavai un sentiero, verso ciò che avrei definito la mia perdizione se avessi potuto immaginarmi quel che avevo da perdere. Forse ci sono arrivato dopo, ad immaginarlo, forse non ho finito d'immaginarlo, col tempo ci si arriva per forza, ci arriverò anch'io. Ma durante il viaggio non l'immaginavo, esposto com'ero alla malignità delle cose e della gente, e alle debolezze della mia carne. Il ginocchio, tenuto conto dell'assuefazione, mi faceva soffrire né più né meno come il primo giorno. Il male, qualunque fosse, non evolveva. Si può spiegare una cosa simile? Ma per tornare alle mosche, credo che ce ne siano di quelle che si schiudono all'inizio dell'inverno, nelle case, e che muoiono poco dopo. Le si vedono piccole piccole volare nei cantucci riscaldati, senza brio né ronzio. Devono morire giovanissime, senz'aver potuto deporre le uova. Le si spazza via, le si sospinge nella paletta con la scopa, senza accorgersene. Una strana generazione di mosche davvero. Ma cadevo in preda ad altre affezioni, non è la parola giusta, per lo più intestinali. Non ho più voglia di comunicarle, me ne dispiace, sarebbe stato un pezzo grazioso. Dirò soltanto che un altro al mio posto non le avrebbe superate, senza essere assistito. Ma quanto a me! Piegato in due, comprimendomi la pancia con la mano libera, procedevo, lanciando ogni tanto un ruggito d'angoscia e di trionfo. Taluni muschi che mangiavo dovevano avere una certa responsabilità nelle affezioni intestinali. Se mi cacciassi in testa di presentarmi puntualmente sul luogo del supplizio, nemmeno la dissenteria sanguinolenta me l'impedirebbe, procederei a quattro zampe cacando trippa e budella e intonando maledizioni. Ve l'ho detto, solo i miei fratelli avrebbero potuto vincermi.


Ma non starò a farla lunga con questo viaggio di ritorno, con i suoi furori e tradimenti. E passerò sotto silenzio gli uomini malvagi e gli spettri che vollero impedirmi di tornare a casa, come Youdi m'aveva ordinato. Ma ne farò qualche accenno lo stesso, unicamente per mia edificazione e per fabbricarmi un'anima che mi permetta di concludere. Dapprima i miei pensieri peregrini.


Certi problemi d'ordine teologico mi preoccupavano bizzarramente. Eccone alcuni.


1o Che valore ha la teoria che vuole Eva uscita, non dalla costola di Adamo, ma da un tumore alla polpa della gamba (culo?)?


2° Il serpente strisciava o, come afferma Comestore, Camminava ritto?


3° Maria concepì dall'orecchio, come vogliono Sant'Agostino e Adobardo?


4° L'Anticristo per quanto tempo ancora ci farà stare ad aspettarlo?


5° È davvero molto importante con che mano ci si pulisce il podice?


6° Cosa pensare del giuramento degli irlandesi pronunciato con la mano destra sulle reliquie dei santi e con la sinistra sul membro virile?


7° La natura festeggia il riposo del sabato?


8° Sarebbe esatto asserire che i diavoli non soffrono affatto dei tormenti infernali?


9° Teologia algebrica di Craig. Che cosa pensarne?


10° Sarebbe esatto quanto si dice di San Rocco che da bambino non voleva poppare né al mercoledì né al venerdì?


11° Cosa pensare della scomunica degli insetti parassiti nel sedicesimo secolo?


12° Bisogna approvare il calzolaio italiano Lovat il quale, dopo essersi castrato, si crocifisse?


13° Che cavolo faceva Dio prima della creazione?


14° La visione beatifica non diventerebbe, a lungo andare, una fonte di noia?


15° Sarebbe esatto asserire che il supplizio di Giuda è sospeso di sabato?


16° Se si dicesse la messa dei morti per i vivi?


E mi recitavo il bel Pater quietista; Dio che non sei affatto in cielo più di quanto tu non sia in terra e negl'inferi, non voglio né desidero che il tuo nome sia santificato, sai quel che ti conviene. Ecc. La parte di mezzo e la fine son molto graziosi.


Proprio in questo mondo frivolo e affascinante mi rifugiavo, quando il vaso cominciava a traboccare.


Ma mi ponevo anche altre domande che mi riguardavano più da vicino. Eccone alcune.


1° Perché non aver chiesto in prestito a Gaber qualche scellino?


2° Perché aver obbedito all'ordine di far ritorno?


3° Che ne era di Molloy?


4° Identica domanda per me.


5° Che cosa sarebbe stato di me?


6° Identica domanda per mio figlio.


7° Sua madre era in cielo?


8° Identica domanda per mia madre.


9° Sarei andato in cielo?


10° Ci saremmo ritrovati tutti quanti in cielo un giorno, io, mia madre, mio figlio, sua madre, Youdi, Gaber, Molloy, sua madre, Yerk, Murphy, Watt, Camier e tutti gli altri?


11° Che cosa ne era delle mie galline, delle mie api? La gallina grigia viveva ancora?


12° Zulù, le sorelle Elsner, erano ancora vivi?


13° Youdi aveva ancora l'ufficio nello stesso posto in Largo delle Acacie 8? Se gli avessi scritto? Se fossi andato a trovarlo? Gli avrei spiegato. Che cosa gli avrei spiegato? Gli avrei chiesto perdono. Perdono di che?


14° L'inverno non era eccezionalmente rigido?


15° Da quanto tempo ormai non ero più andato a confessarmi e a comunicarmi?


16° Quale era il nome di quel martire che, in prigione, carico di catene, coperto di pidocchi e di ferite, non potendo muoversi, celebrò la consacrazione sul proprio stomaco e si diede l'assoluzione?


17° Cos'avrei fatto fino alla mia morte? Non ci sarebbe stato il modo di accelerarla, senza cadere in peccato?


Ma prima di mettere in moto, attraverso queste solitudini ghiacciate, poi, col disgelo, fangose, il mio corpo propriamente detto, dirò che pensavo molto alle mie api, più che alle mie galline, e lo sa Dio quanto ci pensassi, alle mie galline E pensavo soprattutto alla loro danza, perché le api danzano, oh non come danzano gli uomini, per divertirsi, ma in un'altra maniera. E mi credevo l'unico al mondo che lo sapesse. Su questo punto avevo fatto delle ricerche assai approfondite. Questa danza si manifestava soprattutto nelle api che ritornavano nell'arnia, più o meno cariche di nettare, e comportava una gran varietà di figure e di ritmi. E avevo finito col vedervi un sistema di segnali per mezzo dei quali le api contente o scontente del loro raccolto indicavano a quelle in partenza da che parte bisognava o non bisognava dirigersi. Ma danzavano anche le api in partenza. Doveva esser sicuramente la loro maniera di dire, Ho capito, oppure, Non preoccuparti per me. Ma lontane dall'arnia, in pieno lavoro, le api non danzavano affatto. In quel caso la parola d'ordine sembrava essere, Ciascuno per proprio conto, supposto che le api siano capaci di simili nozioni. La danza consisteva soprattutto in certe figure complicatissime, tracciate dal loro volo, e ne avevo classificate una gran quantità, con i loro significati probabili. Ma c'era anche il problema del ronzio, la cui varietà di timbri, all'avvicinarsi o alla partenza dall'arnia, difficilmente poteva essere un effetto del caso. Dapprima avevo concluso che ogni figura era sottolineata per mezzo di un ronzo che le apparteneva in proprio. Ma fui costretto ad abbandonare questa opinione così congeniale. Perché vedevo la stessa figura (insomma ciò che io chiamavo la stessa figura) accompagnarsi con ronzii diversissimi. Cosicché dissi tra me, Il ronzo non serve affatto a sottolineare la danza, ma al contrario a variarla. E la stessa identica figura cambia di senso a seconda del ronzo che l'accompagna. E avevo raccolto è classificato una grande quantità d'osservazioni su quest'argomento, non senza risultato. Ma non si trattava della figura e del ronzo soltanto, ma anche dell'altezza a cui la figura veniva eseguita. Ed ero pienamente convinto che la stessa figura, accompagnata dallo stesso ronzo, a dodici piedi dal suolo non voleva dir la stessa cosa che a sei. Perché le api non danzavano ad un livello qualunque, così come capitava, ma c'erano tre o quattro livelli, sempre gli stessi, a cui danzavano. E se vi dicessi quali erano questi livelli, e che rapporti c'erano tra loro, perché li avevo calcolati accuratamente, certamente non mi credereste. Ora non è questo il momento per tirarsi addosso degli increduli. E malgrado tutto il lavoro che avevo consacrato a questi problemi, ero più che mai sbalordito dalla complessità di questa danza svariatissima, nella quale dovevano intervenire ancora altri fattori di cui non avevo la minima idea. E tra me dicevo incantato, Ecco una cosa che potrei studiare per tutta la vita, senza mai capirla. E durante questo viaggio di ritorno, quando m'interrogavo sulle possibilità di una piccola gioia futura, proprio pensando alle mie api e alla loro danza quasi mi rincuoravo. Perché a una piccola gioia ogni tanto, io ci tenevo ancora! E che questa danza in fondo non fosse altro che quella degli occidentali, frivola e insignificante, sì, son pronto ad ammetterlo, è possibilissimo. Ma per me, seduto vicino alle mie arnie bagnate di sole, sarebbe pur sempre una cosa bella da vedere e di una altezza che i miei ragionamenti pur sempre d'uomo non arriverebbero mai a insozzare. E alle api non sarei capace di fare il torto che avevo fatto al mio Dio, cioè di prestargli come mi era stato insegnato le mie ire, le mie paure e i miei desideri, e persino il mio corpo.


Ho parlato di una voce che mi dava delle istruzioni, o meglio dei consigli. Fu proprio durante questo ritorno che la sentii per la prima volta. Non vi feci attenzione.

Adesso dal lato corpo mi sembrava di diventare rapidamente irriconoscibile. E quando mi passavo le mani sulla faccia, con gesto familiare e ora più che mai scusabile, non era più la stessa faccia che le mie mani sentivano e non erano più le stesse mani che la mia faccia sentiva. Eppure la sostanza della sensazione era la stessa del tempo in cui ero sbarbato e profumato per bene e avevo le mani bianche ed effeminate dell'intellettuale. E questa pancia che non mi conoscevo rimaneva la mia pancia, la mia vecchia pancia, grazie a chissà quale intuizione. E per dirla fino in fondo continuavo a riconoscermi e anzi possedevo della mia identità un senso più chiaro e vivo di prima, nonostante le intime lesioni e le piaghe che la coprivano. E da questo punto di vista ero nettamente in uno stato d'inferiorità rispetto alle altre mie conoscenze. Mi spiace che quest'ultima frase non sia riuscita meglio. Meritava, chi sa, d'essere priva di ambiguità.


Eppure ci sono anche i vestiti che aderiscono così bene al corpo e ne sono per così dire inseparabili, in tempo di pace. Sì, sono sempre stato molto sensibile per i vestiti, io, senza esser nient'affatto dandy. Non avevo da lamentarmi dei miei, solidi e di buon taglio. Ero insufficientemente coperto, è naturale, ma di chi era la colpa? E dovetti separarmi dalla paglietta, poco adatta a tenere testa alla stagione morta, dalle calze (due paia) che il freddo e l'umidità, le lunghe marce e l'impossibilità di lavarle per bene, ridussero in poco tempo letteralmente al nulla. Ma mi allungavo al massimo le bretelle, e le brache, assai ampie come si conviene, mi scesero fino ai polpacci. E alla vista di quelle carni illividite, fra le brache e i gambali delle mie scarpe, talvolta ripensavo a mio figlio e al colpo che gli avevo dato, tanto la mente è stimolata anche dalla minima analogia. Le scarpe mi s'irrigidirono, per mancanza di manutenzione. È la maniera con cui la pelle morta e conciata si difende. L'aria vi circolava liberamente, forse impedendo che i piedi mi si congelassero. Dovetti separarmi malvolentieri anche dalle mie mutande (due). Erano marcite a contatto delle mie incontinenze. Allora il fondo delle brache, corroso ben presto anch'esso, finiva con lo sfregarmi il solco dal coccige fino all'attaccatura dello scroto. Che cosa dovetti buttare via ancora? La mia camicia? Ah questa no. Ma la indossavo spesso rovesciata e col davanti di dietro. Vediamo. Avevo quattro maniere d'indossare la camicia. Col davanti verso il davanti, col davanti rovesciato davanti, col davanti verso il di dietro, col davanti rovesciato di dietro. E il quinto giorno ricominciavo daccapo. Era nella speranza di farla durare. Ciò la fece durare? Non lo so. Durò. Affaticarsi per le piccole cose, significa riuscire ad arrivare alle grandi, col tempo. Ma cosa dovetti buttar via ancora? I miei colletti mobili, sì, li buttai via tutti, e prima ancora d'averli completamente logorati. Ma la mia cravatta la conservavo, anzi la portavo, annodata sul collo nudo, suppongo per vanteria. Era una cravatta a pallini, ma non mi ricordo di che colore.


Quando pioveva, quando nevicava, quando grandinava, mi trovavo allora di fronte al dilemma seguente. O continuare a procedere appoggiato all'ombrello e a lasciarmi inzuppare oppure fermarmi e ripararmi sotto l'ombrello aperto. Si trattava di uno pseudo dilemma, come avviene per tanti dilemmi. Perché della volta dell'ombrello non rimaneva che qualche brandello fluttuante intorno alle stecche e avrei potuto continuare a procedere, molto lentamente, adoperando l'ombrello non più come sostegno, ma come riparo. Ma ero talmente abituato, da un lato alla perfetta impermeabilità del mio bell'ombrello, d'altro lato a non riuscir più a camminare senza il suo sostegno, che per me il dilemma rimaneva intatto. Avrei naturalmente potuto farmi un bastone, con un ramo, e continuare a procedere nonostante la pioggia, la neve, la grandine, appoggiato a quello e con l'ombrello aperto sopra di me. Ma non ne feci nulla, non so perché. Ma quando cadeva la pioggia, e quando cadevano le altre cose che ci cadono dal cielo, talvolta procedevo imperterrito, appoggiato all'ombrello, lasciandomi inzuppare, ma per lo più me ne restavo immobile, aprivo l'ombrello e aspettavo che finisse. Anche allora mi lasciavo inzuppare. Ma non era lì il problema. E anche se avesse cominciato a piovere manna avrei aspettato, immobile, sotto l'ombrello, che finisse, prima d'approfittarne. E quando il mio braccio era stanco di tenere per aria l'ombrello, allora lo davo all'altra mano. E con quella libera mi battevo e fregavo tutte quelle parti del corpo che riuscivo a raggiungere, per mantenervi una circolazione abbondante, oppure me la passavo sulla faccia, con un mio gesto caratteristico. E il lungo puntale dell'ombrello era come un dito. I miei pensieri migliori mi venivano durante queste tappe. Ma quando si verificava che la pioggia, ecc., non cessasse per tutta la giornata, o per tutta la notte, allora mi rassegnavo e mi costruivo un vero riparo. Ma i veri ripari, fatti con fronde, non mi andavano più. Perché ben presto non ci furono più foglie, ma soltanto gli aghi di certe conifere. Ma non era quella la vera ragione per cui non mi andavano più i veri ripari, no. Bensì era che là dentro pensavo senza tregua al mantello di mio figlio, addirittura lo vedevo (il mantello), non riuscivo a vedere altro che quello, riempiva lo spazio. A dire la verità era quel che i nostri amici inglesi chiamano un trench-coat e io ne odoravo la gomma, anche se i trench-coats, in generale, non sono coperti di gomma. Evitavo quindi il più possibile di dover ricorrere ai veri ripari, fatti con fronde, e a loro preferivo quello del mio fedele ombrello, o quello di un albero, di una siepe, di un cespuglio, di una rovina.


Quanto al raggiungere la strada maestra, a farmi trasportare da un veicolo, no, quest'idea non mi sfiorò neppure.


Quanto all'idea di farmi soccorrere nei villaggi, dai paesani, essa mi sarebbe dispiaciuta, se mi fosse venuta.


Ritornai a casa con i miei quindici scellini sempre intatti. No, ne spesi due. Ecco in quali circostanze.


Dovetti sopportare ben altre molestie oltre a queste, ben altre villanie, ma non starò a raccontarle. Limitiamoci ai paradigmi. Dovrò sopportarne ancora delle altre in avvenire, forse, non è sicuro, ma non le si verrà a sapere, questo è sicuro.


Era una sera. Sotto il mio ombrello, stavo aspettando tranquillamente che si schiarisse il tempo, quando fui investito brutalmente da dietro. Non avevo sentito nulla, una mano mi fece fare dietro-front. Si trattava di un grosso, rubicondo fittavolo. Indossava un incerato, con una bombetta in testa e degli stivali. Le guance grassocce grondavano di pioggia, l'acqua gli gocciolava dai grossi baffi. Ma a che servono queste indicazioni. Ci si squadrò con odio. Può darsi che fosse proprio lo stesso che aveva offerto tanto cortesemente di far tornare in vettura mio figlio e me. Credo di no. Eppure la sua faccia non mi era nuova. E non solo la faccia. Reggeva in mano una lanterna. Non era accesa. Ma poteva accenderla da un momento all'altro. Nell'altra reggeva una vanga. Mi afferrò i risvolti della giacchetta. Ancora non mi scuoteva in modo vero e proprio, avrebbe incominciato a scuotermi quando gli fosse parso il momento buono. M'insultava soltanto. Tra me andavo cercando quel che avevo potuto fare, per metterlo in uno stato simile. Probabilmente sollevai le sopracciglia. Ma sollevo sempre le sopracciglia, io, in modo che mi si appoggiano quasi alla capigliatura, la mia fronte ormai non è che un accavallarsi di rughe. Finii col capire che non mi trovavo a casa mia. Ero sulle sue terre. Che cosa stavo facendo sulle sue terre? Se c'è una domanda di cui ho paura, alla quale non son mai riuscito a fornire una risposta soddisfacente, è proprio quella. E per di più sulle terre altrui! E di notte! E con un tempo che farebbe scappare i cani! Ma non smarrii il mio sangue freddo. È per un voto, dissi quando voglio ho una voce abbastanza elegante. Probabilmente lo impressionò. Lasciò andare la stretta. Un pellegrinaggio, dissi, rincarando la dose. Mi chiese dove. La partita era vinta. Alla madonna di Shit, dissi. La madonna di Shit? disse lui, col tono di chi conosce Shit come le sue tasche e come se a Shit non fossero mai esistite madonne. Ma dove non esiste almeno una madonna? Proprio quella, dissi. Quella nera? disse lui per mettermi alla prova. Che io sappia non è nera, dissi. Un altro si sarebbe smontato. Io no. Li conoscevo bene, i punti deboli, dei miei campagnoli. Non arriverete mai, disse. Devo proprio a lei d'aver perso mio figlio, dissi io, ma di aver conservato la mamma. Sentimenti simili non potevano che piacere ad un allevatore di vacche. Se avesse saputo! Gli spiegai più a lungo quel che ahimè non era mai successo. Non che io rimpianga Ninette. Ma forse lei, ad ogni modo, sì, peccato, insomma. È la madonna delle donne incinte, dissi, delle donne sposate incinte, e io ho fatto giuramento di trascinarmi miseramente fino alla sua nicchia, per esprimerle la mia riconoscenza. Quest'incidente permetterà d'ammirare l'abilità che avevo ancora, a quell'epoca. Ma dovevo essere andato troppo in là, perché il suo sguardo si fece di nuovo cattivo. Posso chiedervi un favore, dissi, Dio ve ne renderà merito. Aggiunsi, Dio vi ha inviato da me, stasera. Chiedere umilmente un favore alla gente che sta per massacrarvi, talvolta dà dei buoni risultati. Un po' di tè caldo, implorai, senza latte né zucchero, per ridarmi un po' di forza. Ammetterete che fare questo piccolo favore a un pellegrino ridotto in poltiglia, era davvero allettante. Beh, venite a casa, disse lui, vi asciugherete. Non posso, non posso, esclamai, ho fatto giuramento d'andare in linea retta. E per vincere la cattiva impressione creata da queste parole mi cavai di tasca un fiorino e glielo diedi. Per i vostri poveri, dissi. E aggiunsi, per via del buio, Un fiorino per i vostri poveri. È molto lontano, disse lui. Dio m'accompagnerà, dissi io. Si mise a riflettere. Ne aveva motivo davvero. Soprattutto niente da mangiare, dissi, davvero no, non devo mangiar niente. Ah quel vecchio Moran, furbo come un serpente. Naturalmente avrei preferito la maniera forte, ma non osavo arrischiarmici. Finalmente si allontanò dicendomi d'aspettarlo. Non so proprio quali fossero le sue intenzioni. Quando ritenni che si fosse allontanato abbastanza chiusi l'ombrello e partii in direzione opposta perpendicolarmente a quella giusta, sotto la pioggia scrosciante. Fu così che spesi un fiorino.


E adesso potrò concludere.


Costeggiai il cimitero. Era di notte. Forse mezzanotte. Il viottolo sale, io penavo. Un venticello scacciava le nubi attraverso il cielo debolmente rischiarato. È una bella cosa avere una concessione perpetua. È una bellissima cosa. Se non ci fosse che quello, di perpetuo. Arrivai davanti al cancelletto. Era chiuso a chiave. Per l'appunto. Ma non riuscii ad aprirlo. La chiave entrava nella toppa ma non girava. Il lungo disuso? Una nuova serratura? Lo sfondai. Indietreggiai fino all'altro lato del viottolo e mi ci scagliai sopra. Ero ritornato a casa mia, come Youdi m'aveva ordinato. Alla fine mi rialzai. Che cosa c'era di tanto profumato? I lillà? Forse le primule. Mi diressi verso le mie arnie. Come temevo, erano là. Sollevai il coperchio di una di loro e lo deposi per terra. Era un tettuccio ad angolo acuto, dalle pendenze ripide e sporgenti. Infilai la mano nell'arnia, la feci passare attraverso i cunei vuoti, la feci scorrere sul fondo. In un angolo incontrò un globo secco e poroso. Al contatto delle mie dita andò in polvere. Si erano messe in grappolo per avere un po' più caldo, per cercar di dormire. Ne cavai una manciata. Era troppo buio per vederci, me le misi in tasca. Tanto non pesava niente. Erano state lasciate fuori durante tutto l'inverno, era stato portato via il miele, non era stato dato loro dello zucchero. Sì, adesso posso concludere. Non andai al pollaio. Anche le mie galline erano morte, lo sapevo. Solo che queste erano state uccise in un altro modo, eccetto forse quella grigia. Le api, le galline, le avevo abbandonate, io. Mi diressi verso la casa. Era completamente buia. La porta era chiusa a chiave. La sfondai. Forse sarei riuscito ad aprirla, con una delle mie chiavi. Girai l'interruttore. Niente luce. Andai in cucina, nella stanza di Marthe. Nessuno. Ma basta storie. La casa era abbandonata. L'azienda aveva tolto la corrente. Hanno voluto ridarmela. Soltanto che io non ho voluto. Ecco quel che sono diventato. Ritornai in giardino. All'indomani guardai la manciata di api. Una polvere di ali e d'anelli. Nella cassetta, in fondo alla scala, trovai della posta. Una lettera di Savory. Mio figlio stava bene. Naturalmente. Non parliamone più di costui. È ritornato. Dorme. Una lettera di Youdi, in terza persona, con richiesta di una relazione. L'avrà, la sua relazione. Adesso è di nuovo estate. Un anno fa io partivo. Me ne vado. Un giorno ricevetti una visita di Gaber. Voleva la relazione. Toh, credevo che fossero finiti, gli incontri, i discorsi. Ripassate, dissi. Un giorno ricevetti la visita di padre Ambroise. È mai possibile! disse al vedermi. Gli dissi di non contare più su di me. Lui si mise a discorrere. Aveva ragione. E chi non ha ragione. Lo lasciai. Me ne vado. Forse incontrerò Molloy. Il ginocchio non è migliorato. Non è nemmeno peggiorato. Adesso ho le stampelle. Con queste andrò più svelto. Sarà al momento giusto. Imparerò. Tutto quel che c'era da vendere, l'ho venduto. Ma avevo dei grossi debiti. Non sopporterò più d'essere un uomo, non ci proverò più. Non accenderò più questa lucerna. Adesso la spegnerò con un soffio e andrò in giardino. Un giorno parlai con Hanna. Mi diede notizie di Zulù, delle sorelle Elsner. Sapeva chi ero, non aveva paura di me. Non usciva mai, non le andava d'uscire. Mi parlava dalla finestra. Le notizie erano cattive, ma non del tutto. Anche tra quelle c'era del buono. Erano proprio delle belle giornate. L'inverno era stato eccezionalmente rigido, lo dicevano tutti. Avevamo diritto quindi a questa magnifica estate. Non so se ne avevamo diritto. I miei uccelli non erano stati uccisi. Erano proprio degli uccelli selvatici. Eppure abbastanza confidenti. Li riconoscevo e loro sembravano riconoscermi. Ma non si sa mai. Ce n'era qualcuno che mancava e anche qualcuno nuovo. Cercai di capire meglio il loro linguaggio. Senza fare riferimenti al mio. Erano proprio le giornate più lunghe, più belle dell'anno. Vivevo in giardino. Ho parlato di una voce che mi diceva delle cose. Proprio in quest'epoca cominciavo ad andare d'accordo con lei, a capire che cosa volesse. Non si serviva delle parole che avevano insegnato a Moran da piccolo, che lui aveva insegnato a propria volta al suo piccino. Cosicché in principio non riuscivo a sapere che cosa volesse. Ma ho finito col capire questo linguaggio. L'ho capito, lo capisco, di traverso forse. Non è lì il problema. Proprio lei mi ha detto di fare la relazione. Significa che adesso sono più libero? Non lo so. Imparerò. Allora rientrai in casa e mi misi a scrivere. È mezzanotte. La pioggia sferza i vetri. Non era mezzanotte. Non pioveva.


1) In tedesco: « Devi rinunciare ». ↵