CRAXI L'ULTIMO VERO POLITICO
Aldo Cazzullo
INTRODUZIONE
Sono uno dei tanti italiani a cui Craxi, quando era Craxi, non piaceva.
A molti non piaceva perché erano comunisti; e Craxi, anche senza mai avvicinarsi al loro consenso elettorale, i comunisti li aveva battuti politicamente più volte, in modo clamoroso al referendum sulla «scala mobile». Inoltre, aveva irriso il loro amatissimo leader, Enrico Berlinguer, fischiato dai socialisti al congresso di Verona: «Non l’ho fischiato solo perché non so fischiare» maramaldeggiò Bettino. Era l’11 maggio 1984. Berlinguer morì l’11 giugno. «Per voi Craxi è l’assassino di Berlinguer» disse, rivolto ai suoi ex compagni, Giuliano Ferrara.
A molti che – come me – non erano comunisti, Craxi non piaceva per via di quella che appariva arroganza. Chi lo conosceva bene la definiva timidezza. Ma a noi che lo guardavamo da lontano, in tv, sembrava alterigia, senso di superiorità, sete di potere.
Ascoltavamo Antonello Venditti, e lo sentivamo cantare: «È un ottimista, / dall’aria vagamente socialista, e poi e poi non sbaglia mai / […] Lui emerse sulle rive del Tevere, / disse “forte, bello grande mio, / si potrebbe costruire una metropoli, / il cui nome somigliasse un po’ più al mio…”». Francesco De Gregori fu ancora più duro: «È solo il capobanda ma sembra un faraone, / ha gli occhi dello schiavo e lo sguardo del padrone, / si atteggia a Mitterrand ma è peggio di Nerone».
Certo, proprio incapaci di intendere e di volere non eravamo. Capivamo bene che Bettino Craxi aveva doti politiche eccezionali. Ci sarà però un motivo, se l’unico vero leader che la politica italiana abbia espresso in quegli anni Ottanta considerati formidabili non è mai andato oltre il 14 per cento dei voti.
Credo che il motivo sia questo.
Per la destra, per i moderati, per i cattolici, per i liberali, Craxi era pur sempre uno di sinistra. Certo, meno pericoloso dei comunisti; ma pur sempre uno che stava dall’altra parte. Eppure, per la sinistra o comunque per la sua parte maggioritaria, Craxi di sinistra non era più. Peggio che un avversario; era un nemico, quasi un traditore, con cui combattere una battaglia per la vita e per la morte.
Certo, per quanto detestato, Craxi aveva anche molto consenso non votante. Potevi non sopportarlo; non ne potevi prescindere. Dovevi prenderlo molto sul serio.
Poi Craxi declinò, cadde, si ammalò. Fuggì all’estero. Latitante per la giustizia italiana. Esule per i suoi sostenitori.
All’inizio, la presenza di Craxi ad Hammamet appariva ingombrante, incombente, minacciosa. Lo era per i suoi nemici, i comunisti, che nel frattempo si erano affrettati a cambiare nome e simbolo, lasciando però immutata la loro nomenklatura, nella speranza di farla franca. E lo era più ancora per i suoi amici.
Il 26 gennaio 1994, Bettino Craxi aveva seguito il discorso della discesa in campo di Silvio Berlusconi insieme con il figlio Bobo. Qualche passaggio aveva suscitato la sua ilarità. Ma non era la singola frase o la specifica postura a farlo sorridere. È che Berlusconi gli appariva del tutto fuori contesto.
Per lui, Silvio era stato fino a quel momento l’amico di vacanze e cene; quell’abbigliamento formale e quel tono ricercato gli apparivano assolutamente inusuali. E poi Bettino era abituato a dare ordini, e Silvio a riceverli. Ora l’amico si accingeva a diventare il padrone d’Italia. E Craxi non se ne fidava.
Non è vero quello che si racconta adesso, che nessuno si attendeva la vittoria di Berlusconi e dei suoi alleati, Umberto Bossi al Nord e Gianfranco Fini nel Centrosud. Da settimane non c’era sondaggio che non attribuisse al Polo delle libertà e al Polo del buongoverno – questi gli immaginifici nomi delle due alleanze del centrodestra, entrambe imperniate su Berlusconi – un’ampia maggioranza. Il voto era fissato per il 27 marzo. Eppure il 21 marzo 1994, sei giorni prima, Craxi decollò da Ciampino per Tunisi, su un aereo preso in affitto tramite Giuseppe Ciarrapico, imprenditore vicino ad Andreotti ma dal cuore nero.
Alla procura di Milano risulta che Craxi sia tornato in Italia nella seconda metà di aprile, per poi partire definitivamente il 5 maggio.
In ogni caso, da quella primavera del 1994 Bettino Craxi nel suo e nostro Paese non è tornato più. E quella voce, che un tempo tuonava, che decretava fortune e disgrazie, che alleati e avversari ascoltavano con grande interesse, poco per volta perse il suo timbro e il suo peso.
A Craxi non dava retta nessuno.
Facevo già il giornalista, e ricordo bene i fax scritti di suo pugno che arrivavano in redazione, accolti da sogghigni non esattamente benevoli. Ogni tanto a qualcuno di noi toccava la corvée di telefonare ad Hammamet, per chiedergli di commentare qualche notizia. Non era detto che l’opinione di Craxi sarebbe stata pubblicata: dipendeva sia dalla virulenza delle sue risposte, sia dallo spazio in pagina.
All’epoca lavoravo alla redazione Esteri della «Stampa», quindi chiamare Craxi nella sua casa di Hammamet fu un compito che mi toccò poche volte, non più di tre o quattro. Tuttavia fu un’esperienza interessante, anche piacevole. Perché, contrariamente alle mie aspettative, Craxi era molto gentile. Ad esempio mi diede subito del tu, parlandomi con una confidenza che ovviamente non avevamo. Un giorno dell’autunno 1998 mi chiese notizie di un libro che avevo appena pubblicato, una storia di Lotta continua: aveva destato il suo interesse soprattutto la parte che riguardava Adriano Sofri e gli altri ex di Lc che, anche in odio al Partito comunista, nel tempo avevano guardato al Psi di Craxi, con la mediazione di Claudio Martelli e Giuliano Ferrara.
Insomma, la persona che sentivo dall’altro capo del filo, e dall’altra sponda del Mediterraneo, non aveva davvero nulla in comune con il personaggio che mi ero figurato. O forse era lui a essere cambiato, rispetto agli anni del potere. Di sicuro doveva essere un uomo molto solo. Abbandonato anche da molti tra coloro che gli dovevano tutto.
Poi, a un tratto, la ruota del destino diede un giro. La vicenda di Craxi entrò nella fase finale, quella della vita e della morte. In poche settimane la situazione sarebbe precipitata, in modo insieme epico e grottesco, sino a un epilogo che ancora oggi – comunque si valuti il personaggio – pesa sulla coscienza della nazione.
Iniziava una tragedia. Che tanti all’inizio considerarono una farsa.
Perché l’Italia è convinta di essere un Paese comico, al più melodrammatico. Invece la storia unitaria del nostro Paese è una storia tragica.

OTTOBRE 1999, HAMMAMET

Andreotti fu assolto di sabato. La notizia del malore di Craxi arrivò la domenica. Un po’ tutti stabilirono un nesso non casuale tra le due cose.
Il 23 ottobre 1999, un sabato appunto, la quinta sezione penale del tribunale di Palermo, dopo una camera di consiglio durata undici giorni, assolse Andreotti Giulio dall’accusa infamante di aver favorito la mafia, perché «il fatto non sussiste».
In realtà, qualche dubbio i magistrati lo lasciavano aperto. La corrente andreottiana era la più legata alla mafia, i mafiosi ne avevano eliminato il capo, Salvo Lima, proprio perché ai loro occhi aveva tradito un patto. Però il collegio giudicante aveva considerato «confuse e contraddittorie» le dichiarazioni del pentito Baldassare Di Maggio sul presunto incontro tra Andreotti e Totò Riina nell’attico dell’esattore Ignazio Salvo, durante il quale il politico simbolo della Prima Repubblica e il capo della mafia si sarebbero salutati con un bacio: dettaglio che si vede nel film di Sorrentino Il divo, ma che coloro che conoscevano Andreotti e ricordavano le sue mosce strette di mano e la sua scarsa propensione alla fisicità escludevano nel modo più assoluto. «Non sufficientemente provati» invece i due presunti incontri di Andreotti con Stefano Bontate e altri esponenti di Cosa nostra a Catania e Palermo, in cui sarebbe maturata la decisione di uccidere il presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella (il fratello dell’attuale capo dello Stato).
Insomma, la sentenza, pur lasciando ai colpevolisti più di uno spiraglio, fu accolta con sollievo e senso di riscatto non soltanto dai superstiti della Prima Repubblica, ma in genere da quel fronte della restaurazione che aveva sempre diffidato dell’operazione Mani pulite e dell’idea di una rinascita politica e morale del Paese per via giudiziaria. Un fronte che aveva il suo punto di riferimento naturale in Silvio Berlusconi, un portavoce sottile e ascoltato in Francesco Cossiga, e ramificazioni più profonde di quanto si pensasse anche nello schieramento di centrosinistra allora al governo. Compreso il presidente del Consiglio dell’epoca: Massimo D’Alema.
In sintesi: molti erano convinti che sui giudici D’Alema la pensasse come Berlusconi e come il mentore del suo governo, che era appunto Cossiga. L’unica differenza era che D’Alema non lo poteva dire.
In ogni caso, l’assoluzione di Andreotti dall’accusa di mafia pareva chiudere un decennio e una stagione: quella della giustizia, secondo i sostenitori; o del giustizialismo, secondo i detrattori.
Mancava un solo tassello, il più grande. L’uomo che, proprio per la sua figura ingombrante, aveva evocato immagini da caccia grossa, compreso il soprannome – coniato da Vittorio Feltri sulla stampa di destra – di «Cinghialone».
Dal giornale mi telefonarono la domenica sera. Ero stato trasferito da Torino alla redazione romana della «Stampa». In questi casi le chiamate sono sempre di poche parole: «Craxi sta male, dicono che sia grave, parti subito per Hammamet».
Arrivammo a Tunisi il giorno dopo. Era un tempo in cui i quotidiani italiani erano ancora ricchi. Gli inviati viaggiavano molto, spesso diventavano amici tra loro. Da quel punto di vista, la trasferta tunisina fu molto fortunata. Sull’aereo c’era Fabrizio Roncone del «Corriere della Sera», che oggi è per me persona di famiglia. C’era Daniele Mastrogiacomo di «Repubblica», anche lui destinato a diventare un amico caro, per cui avrei trepidato al tempo del suo rapimento in Afghanistan e della sua ammirevole resistenza nelle mani dei talebani. E c’era uno dei giornalisti più simpatici di tutti i tempi, Vittorio Dell’Uva del «Mattino» di Napoli, che rendeva gradevoli persino cose abbastanza insopportabili come le barzellette.
Sul posto, poi, c’era già da giorni l’inviato del «Giornale», il mio fraterno amico Gianni Pennacchi, destinato a diventare un uomo-chiave di questa storia. Ci siamo voluti un bene profondo, lo considero tuttora una delle persone migliori – professionalmente e umanamente – incontrate nel mio lavoro, e mi piace aprire una parentesi privata in questo racconto per mettere in comune con voi lettori il ricordo di Gianni.
Dal giornale mi telefonarono la domenica sera. Ero stato trasferito da Torino alla redazione romana della «Stampa». In questi casi le chiamate sono sempre di poche parole: «Craxi sta male, dicono che sia grave, parti subito per Hammamet».
Gianni Pennacchi era stato un extraparlamentare di sinistra. Un giorno a Trastevere, per difendere un compagno disabile dai poliziotti, si era messo nei guai ed era dovuto partire latitante, maturando una certa insofferenza verso la magistratura. Era senza dubbio innocente: dolcissimo, incapace di fare del male a una mosca, marito innamorato di Anna, genitore adottivo di Larissa, sarebbe morto per le conseguenze di un incidente domestico mal curato negli ospedali: era caduto mentre saliva su una scala per prendere l’albero di Natale da addobbare per sua figlia bambina.
Come molti di quella cerchia e di quella generazione, Pennacchi aveva trovato rifugio prima tra i radicali, poi nei giornali berlusconiani, un altro ambiente dove i magistrati non erano visti con simpatia. Bello come il sole, Gianni era diventato anche un personaggio letterario e cinematografico, grazie a suo fratello Antonio Pennacchi, autore del romanzo autobiografico Il fasciocomunista. Gianni era Manrico, il fratello più grande, più alto e appunto più bello. Nel film tratto dal libro, Mio fratello è figlio unico, Gianni era interpretato dal bello per eccellenza del cinema italiano, Riccardo Scamarcio. «il Giornale» si divertì a pubblicare in prima pagina le due foto accostate di Scamarcio e di Gianni da giovane: non c’era confronto, e a vantaggio del giornalista.
Il Gianni Pennacchi del 1999, al momento della nostra storia, era ovviamente molto diverso. Il tempo gli aveva scavato il viso che assomigliava un po’ a quello affilato di una vecchina, cui i lunghi capelli bianchi davano l’aspetto di una strega dei cartoni animati, indulgente anche se talora dispettosa
Craxi in Tunisia negli anni Novanta. (Fondazione Craxi ETS)
La prima cosa che mi colpì in quella Tunisi di fine ottobre, oltre al caldo innaturale, furono le strade piene di buche. L’Italia di allora era ancora un Paese ricco, almeno abbastanza da potersi permettere strade curate e relativamente sicure. La Tunisia di fine millennio faceva a un occidentale l’effetto che oggi può fare Roma e in genere l’Italia a un turista americano.
A Tunisi scendemmo in un albergone impersonale da sceicchi, l’Abou Nawas, con i marmi, le fontane e le scale mobili nella hall. Su suggerimento di Gianni, l’avrei presto abbandonato per un piccolo albergo alle porte della medina, la Maison Blanche, una casa appunto bianca piena di pezzi di antiquariato, un ambiente intimo che ricordava un po’ l’hotel dove a Roma viveva Bettino Craxi, il Raphaël. Ma sul momento non c’era tempo da perdere nelle sistemazioni alberghiere. Bisognava capire come stava Craxi, e soprattutto dove diavolo fosse.
La famiglia, almeno all’apparenza, non aveva alcuna intenzione di collaborare alla ricerca. Verso i giornalisti sembrava diffidente, se non ostile; e con qualche buona ragione. Troppi i voltafaccia, i cronisti e i direttori amici, quando non cortigiani, che erano passati dall’altra parte, e si erano trasformati in critici, se non in accusatori. E questo era accaduto sia tra i filocomunisti, sia in parte tra i filoberlusconiani. Per entrambi, Bettino Craxi era un ricordo ingombrante. Il nemico che a un tratto si era fatto indulgente, ad esempio aiutando il partito nato dalle ceneri del Pci a entrare nell’Internazionale socialista. E l’amico che da presidente del Consiglio aveva salvato le nascenti tv private ma che, caduto in disgrazia, divenuto impopolare, rappresentava un problema, un peso inutile di cui liberarsi.
Fatto sta che come prima cosa ci precipitammo nella clinica di Nabeul, vicino ad Hammamet, dove secondo le notizie d’agenzia Craxi era stato ricoverato. Solo che in quella clinica Craxi non c’era più.
Il mattino dopo si seppe che era all’ospedale militare di Tunisi, un palazzone alla periferia della capitale. Le guardie all’ingresso avevano l’incarico di non far passare i giornalisti, ma solo i familiari. Con l’inviata del «Messaggero», Marida Lombardo Pijola – anche lei come Gianni purtroppo non c’è più –, ci guardammo negli occhi, ci prendemmo sottobraccio e ci dicemmo che avremmo potuto essere una coppia di cugini di Craxi, venuti dall’Italia a trovarlo.
Marida era una giornalista bravissima, oltre che bellissima, e nessuno osò fermarla. Salimmo al quinto piano, nella sala 1 del reparto Rianimazione e terapia intensiva, dov’era ricoverato Craxi. Solo che Craxi non era neppure lì. Cioè era lì, in ospedale, ma in quel momento era stato portato a fare un’ecografia. Il letto disfatto era vuoto, il televisore da cui il paziente poteva seguire Rai 1 era spento. Colpiva un mazzo di rose rosse, dono del cerimoniale del presidente – diciamo pure dittatore – Ben Ali, ignaro che il fiore simbolo del craxismo fosse semmai il garofano. A mezzogiorno era atteso l’arrivo del professor Guediche, potente medico personale di Ben Ali, in visita al «paziente italiano», come presero a chiamarlo i giornali di Tunisi.
Fuori dalla stanza trovammo un infermiere, che sul camice bianco esibiva orgogliosamente una grossa spilla con il proprio nome, che poi era uguale al cognome: «Ahmed Ahmed». Il signor Ahmed Ahmed era lì per portare il pranzo: una scodella di brodo di verdure. Soddisfatto per quell’inattesa attenzione riservata alla sua persona, ci disse tutto fiero che Craxi non stava poi così male, che era presente a se stesso, financo di buon umore, e che le analisi del sangue segnalavano un miglioramento: in particolare erano scese le transaminasi, segno che il danno epatico stava regredendo.
Anche perché poi quale fosse esattamente la malattia di Craxi non lo sapeva nessuno. Sapevamo che aveva il diabete, e che tentava di arginarlo con feroci diete, sempre disattese una volta che si sedeva a tavola: magari ordinava verdure, poi però mangiava nei piatti degli altri, e a Bettino nessuno dei commensali osava dire di no (lo racconta Enzo Bettiza, che Craxi aveva fatto eleggere al Parlamento europeo, nel suo bellissimo libro Mostri sacri, di cui riparleremo). Non sapevamo però che la situazione era molto più grave di quel che si pensasse. Quando il piede di Craxi si aprì, in una di quelle lesioni difficilissime da curare tipiche delle fasi avanzate del diabete, Antonio Di Pietro disse che Craxi aveva un «foruncolone».
E anche noi quel giorno contribuimmo un poco a creare quel clima di sottovalutazione.
All’uscita dell’ospedale Marida e io fummo assaliti dai cronisti in attesa, un po’ incuriositi, un po’ insospettiti: non erano mica lì per farsi dare un «buco» da «Messaggero» e «Stampa». C’erano gli inviati delle agenzie, dei giornali nazionali e regionali, delle tv. Quasi tutti credevano che la malattia di Craxi fosse una manovra politica per facilitarne il rientro in Italia. E quasi tutti avevano voglia di tornare a casa.
Così, quando riferimmo le parole di Ahmed Ahmed, la reazione fu un misto di ilarità e di sollievo. Ahmed Ahmed fu rapidamente promosso caposala – ma temo che un collega d’agenzia l’avesse presentato come cardiochirurgo, anzi come il primario di Cardiochirurgia – e Craxi venne dato per convalescente, sul punto di essere dimesso, insomma quasi guarito.
Le cose però stavano molto diversamente.
Per il pomeriggio era annunciata una conferenza stampa improvvisata di Stefania Craxi. La primogenita di Bettino compiva quel giorno trentanove anni. Indossava un vestito berbero molto bello, verde con decorazioni argentate, lungo fino ai piedi, di cui tormentava di continuo la manica; ed era incazzatissima. Con tutti: i giudici, i comunisti, Luciano Violante che aveva definito la sua famiglia «sudamericana», Giuliano Amato e gli altri socialisti che lei definiva traditori e ignavi, e ovviamente noi giornalisti.
Stefania ringraziò i medici tunisini che si stavano prendendo cura di lui. E spazzò via ogni ipotesi di rientro in Italia: «Un uomo che ha servito il Paese per quarant’anni non ha certo interesse a rientrarvi grazie a un salvacondotto medico».
Non conoscevo Stefania, e mi colpì molto. La sua rabbia sembrava sempre sul punto di esplodere, nell’aggressività o nel pianto, ma nello stesso tempo era il suo carburante, il suo modo di restare legata alle persone e alle cose. Si creò tra lei e noi inviati uno strano legame. Da una parte eravamo i persecutori: il tono dei reportage dalla Tunisia era decisamente severo nei confronti di Craxi. Ma avevamo pur sempre bisogno di notizie dalla famiglia. E quindi finivamo per diventare, se non complici, comprimari di una vicenda molto più grande anche dei protagonisti. Che erano da una parte Bettino Craxi, e dall’altra lo Stato italiano, che Craxi aveva governato e condizionato per tanti anni.
Quel giorno Stefania parlò a lungo. Disse che il padre stava molto male. Tanto male da non aver sfogliato il pacco dei quotidiani italiani, che a Tunisi arrivavano dopo tre giorni, e neppure la rassegna stampa, che si faceva mandare ogni mattina via fax. La crisi era dovuta a complicazioni epatiche, innescate da un virus o dall’insufficienza cardiaca. Precisò che il cuore pompava solo il 25 per cento del sangue: nessuno capì bene cosa volesse dire, e che ne fosse del restante 75 per cento; comunque la cosa fece una certa impressione. Tutto nasceva dal diabete, ma richiedeva una serie di esami. Stefania ringraziò i medici tunisini che si stavano prendendo cura del padre. E spazzò via ogni ipotesi di rientro in Italia: «Un uomo che ha servito il Paese per quarant’anni non ha certo interesse a tornarvi grazie a un salvacondotto medico».
La conferenza stampa finì, quasi tutti se ne andarono, ma Stefania continuò a parlare, in un conciliabolo con pochi di noi. Raccontò che il padre era di umore pessimo e si comportava da paziente difficile: «Stefania, sollevami il letto», «Stefania, vorrei del sale», «Stefania, portami dell’acqua». Qualcuno le riferì le aperture del premier D’Alema e del nuovo capo della procura di Milano, Gerardo D’Ambrosio: entrambi si erano detti favorevoli, a determinate condizioni, al rientro di Craxi in Italia. D’Ambrosio aveva appena preso il posto di Francesco Saverio Borrelli, e sembrava aver scelto un approccio più morbido, più «politico» alla vicenda (nel 2006 sarebbe stato eletto al Senato con il centrosinistra).
La morte di Craxi in terra straniera avrebbe rappresentato un problema grave per il governo. Nella maggioranza c’erano sì i nemici di Bettino – tra cui lo stesso Di Pietro, che quel giorno aveva ribadito: «Se Craxi torna in Italia deve essere arrestato, i benefici si danno ai detenuti non ai latitanti». Ma nella maggioranza di governo c’erano anche i socialisti di Enrico Boselli. Oltre a storici dirigenti del Pci che a Craxi avevano sempre guardato con favore, a cominciare dall’ex ministro dell’Interno (e futuro presidente della Repubblica) Giorgio Napolitano.
Stefania ci ascoltò, fece uno di quei suoi sorrisi brevi, nervosi, e sibilò: «Ma non l’avete ancora capito? Mio padre non tornerà mai in Italia appeso alla benevolenza dei giudici. Non lo vedrete mai atteso dalla polizia, piantonato in ospedale, tenuto sotto controllo. Mio padre vuole tornare in Italia da uomo libero». Altrimenti? «Altrimenti non tornerà più.»
Qualche giorno dopo venne a trovarci in albergo a Tunisi il secondogenito di Bettino, da lui designato come erede politico. Si chiamava Vittorio, come il nonno, avvocato socialista siciliano divenuto il viceprefetto di Milano con la Liberazione; ma tutti lo chiamavano Bobo.
Bobo Craxi era molto diverso dalla sorella, e forse questa differenza di carattere ha fatto sì nel tempo che i due non si siano sempre capiti. Nei giorni della malattia e della morte del padre, però, Bobo e Stefania furono sempre molto uniti. Non a caso quel pomeriggio Bobo ci disse – in modo meno secco, meno duro – le stesse cose che ci aveva detto la sorella: il padre stava male sul serio. Aggiunse che gli esami avevano evidenziato un’ombra al rene sinistro: forse una cisti, forse qualcosa di più grave. In ogni caso, il rientro in Italia non era all’ordine del giorno.
Eppure, in Italia ci si stava convincendo del contrario.
Bobo era un giovane uomo che stava molto soffrendo. Quando lo vidi, ripensai a una copertina di «Cuore», il settimanale di Michele Serra che allietava i lunghi lunedì in redazione: in prima pagina c’era un gigantesco fotomontaggio di Craxi dietro le sbarre con il titolo Pensiero stupendo, e un fotomontaggio più piccolo del figlio, sempre in carcere, con il titolo Pensierino stupendino. Non ho conosciuto Bobo nei giorni del potere, e non posso dire come fosse allora. In Tunisia quel suo tratto un po’ infastidito, con qualche punta di sussiego, da figlio di Craxi insomma, non riusciva a celare la sua reale natura di persona dolce, malinconica, affettuosa. Con molti di noi stabilì un ottimo rapporto, che divenne una stretta amicizia in particolare con Gianni Pennacchi: insieme firmarono un libro pieno di dettagli che ancora adesso è indispensabile per ricostruire quella vicenda. L’ha pubblicato Elvira Sellerio e si intitola come l’indirizzo di casa Craxi: Route El Fawara. Hammamet.
Gli uomini di potere non sono mai soli. Quando era potente, Craxi aveva semmai nella sua vita il problema del sovraffollamento. Ora che potente non era più, si era creato una piccola corte, appunto da monarca decaduto in esilio.
Quella casa, ribattezzata un po’ pomposamente «Dar Craxi», alla araba, con il giardino dove nel 1969 i rabdomanti tunisini avevano trovato l’acqua, protetta da un lungo muro bianco e da una pattuglia di «tigri», come si chiamavano gli agenti del corpo speciale che Ben Ali aveva mandato a vigilare e già che c’erano a spiare l’esilio – o la latitanza, o la cattività – di Craxi, era e sarebbe rimasta a noi sbarrata.
Craxi tra i piedi non voleva nessun giornalista.
Eppure quella casa era piena di gente.
Gli uomini di potere non sono mai soli. Quando era potente, Craxi aveva semmai nella sua vita il problema del sovraffollamento. Ora che potente non era più, si era creato una piccola corte, appunto da monarca decaduto in esilio. Una corte di familiari e famigli. Di parenti e di imparentati. A volte i ruoli si intrecciavano sino a mescolarsi. Umberto Cicconi, il fotografo ufficiale, incaricato pateticamente di tracciare nottetempo scritte sui muri di Milano – «Craxi, ritorna!» –, era il fratello di Scintilla, la moglie di Bobo e quindi nuora di Bettino. Nicola Mansi, l’autista, non potendo più scarrozzarlo in giro insisteva per passare le notti in ospedale, in aggiunta o al posto degli infermieri. Depositario dei segreti più intimi del leader, ci raccontò che un giorno a Roma l’auto di Craxi era stata seguita da due motociclisti che ai semafori la affiancavano gridando «ladro, ladro». Al terzo semaforo Craxi gli aveva detto: «Nicola, chiudili». Lui li aveva chiusi con la macchina. Craxi era sceso, li aveva affrontati e riempiti di botte, poi era risalito ansimante sull’auto e aveva mormorato: «Nicola, riparti».
Intanto l’estate di San Martino tunisina era finita. I primi giorni Gianni mi aveva portato a fare il bagno sulla spiaggia di Cartagine; ma ormai l’acqua era diventata fredda. Facevamo su e giù tra Tunisi e Hammamet, alla ricerca di ristoranti che offrissero un menù diverso da quello consueto: la mechouia, l’insalata con tonno e peperoni, insaporita con l’harissa, una salsa piccante; il cuscus con la cernia, che Vittorio Dell’Uva evitava perché gli ricordava il cibo che dava al suo gatto; l’agnello al forno, i datteri, e un vino rosso molto forte, il Vieux Magon, di cui Gianni era ghiotto.
La Tunisia era una dittatura retta con pugno di ferro da Ben Ali, un satrapo con baffoni da barbiere anni Cinquanta, devotissimo a Craxi ma inviso a gran parte del popolo, che infatti l’avrebbe deposto al tempo delle primavere arabe. Il Paese era molto sicuro, ma guidare di notte era impossibile, le strade erano una via crucis di posti di blocco dove ci fermavano sempre, con le torce e i mitra.
Una di quelle gite alla ricerca di un ristorante decente fu funestata dall’intervista che avevo strappato ad Anna Craxi. Mi annoiavo a scrivere sempre le stesse cose, così un pomeriggio composi il numero del villone di Hammamet, rispose la moglie di Craxi, e accettò di rispondere a qualche domanda. Mi raccontò delle telefonate che riceveva dall’Italia: Veronica Berlusconi chiamava ogni sera, ma pure Giuliano Amato e Claudio Martelli, considerati dai craxiani stretti come traditori, si erano fatti vivi.
La signora Craxi aveva l’impressione che il clima in Italia nei confronti del marito stesse cambiando. Qualcosa si stava muovendo.
Scrissi l’articolo. Il direttore della «Stampa», Marcello Sorgi – anche lui avrebbe scritto un libro su Hammamet –, mi chiamò per complimentarsi. Con i colleghi sul posto, però, c’era un tacito patto di non belligeranza, insomma di non scannarci per una notizia in più o in meno. Che fare? Andare a cena e far finta di nulla? Se ne sarebbero accorti il giorno dopo, e sarebbe stato peggio. Così, a metà strada – ricordo che eravamo in cinque ed ero seduto dietro, in mezzo – la buttai lì: «Oggi ho fatto due parole con Anna Craxi…». In auto scese il gelo, che continuò pure a tavola. Quando Fabrizio Roncone si alzò per andare in bagno, lo seguii e gli chiesi se avessi sbagliato qualcosa. Ricordo ancora il suo tono affettuoso, bonario, ma pure un po’ incazzato: «Aldo mio, tu hai fatto il tuo lavoro, ma siamo tutti qui, lontani da casa, abbiamo detto ai nostri giornali che pure oggi non succede niente, e tu te ne spunti fuori alle undici di sera a dire che hai intervistato Anna Craxi… dai, su».
Altre sere con Gianni Pennacchi uscivamo a passeggiare sulla spiaggia, fino a un posto che ci piaceva molto: il cimitero cristiano. Era un angolino di terra proprio sotto le mura della medina, la città vecchia, e il mare. Dall’Ottocento in poi vi si seppellivano i morti della comunità coloniale, che con il tempo si era rarefatta. Alcune lapidi erano molto antiche e non venivano visitate da tempo. Una commemorava un bambino che «visse tra due crepuscoli», insomma un solo giorno.
Poi dall’Italia arrivavano altri cronisti a dare il cambio a quelli che erano sul posto da settimane. Il più simpatico era Marco Sassano del «Giorno»: aveva una lunga storia alle spalle, era stato uno degli studenti del liceo Parini processato per l’inchiesta sul sesso del giornale scolastico, «La Zanzara», dove scrivevano anche Walter Tobagi e Vittorio Zucconi, due grandi giornalisti che non ci sono più, uno assassinato dai terroristi rossi, uno spento da una malattia precoce. Marco era stato un cronista di punta al tempo delle stragi di Stato, ma ci raccontava soprattutto dei viaggi attorno al mondo che faceva con i punti accumulati con la carta American Express. Quel servizio tunisino però gli piaceva, lo riportava agli anni della giovinezza, e poi aveva lavorato all’«Avanti!», il mondo socialista lo conosceva bene. Ricordo poi l’inviato di un giornale progressista che era ossessionato dalle prostitute, era reduce dall’Africa nera dove assicurava di averne trovate di bellissime, e non si capacitava che in Tunisia fossero praticamente introvabili, se non nel bordello della medina, un altro posto che pareva uscire dall’Italia anni Cinquanta, prima dell’abolizione delle case chiuse. Era un luogo giornalisticamente straordinario da raccontare – un alveare di stanzette aperte, ognuna con una donna seduta sui gradini in attesa, e un materasso dietro la porta pronto alla bisogna –, ma che avrebbe scoraggiato anche il più ardimentoso degli amatori occidentali, e non solo perché era frequentato da sfruttatori e borseggiatori. Era un luogo di dolore, non di amore.
Vizio per vizio, meglio il casinò di Hammamet, che non chiudeva mai. Lì mi resi conto che, a segnarsi i numeri della roulette – cosa perfettamente lecita –, e a puntare sui numeri in ritardo, prima o poi si potevano vincere anche grosse somme: gli statistici lo negano, in teoria ogni volta che si getta la pallina qualsiasi numero ha le stesse possibilità di uscire; in realtà, se il 9 è uscito venti volte e l’8 mai, prima o poi, se la roulette non è truccata, l’8 uscirà. Ma giocare così diventava un lavoro, e Gianni e io ci stufammo presto.
Era un’altra la partita che ci interessava.
Da Milano arrivarono i due avvocati di Craxi, Giannino Guiso e Vincenzo Lo Giudice. Entrambi erano stati difensori dei militanti di estrema sinistra, e quindi avevano confidenza con processi che ritenevano politici. Stavano preparando un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, contro le due condanne passate in giudicato.
Ma a noi la questione legale non interessava più di tanto. Volevamo sapere se Craxi stava guarendo o stava morendo. E se sarebbe tornato in Italia o sarebbe rimasto ad Hammamet.
La famiglia stava esplorando varie piste. Si pensava a un ricovero a Parigi; ma, dopo un’iniziale disponibilità, il governo francese aveva fatto sapere che Craxi non era persona gradita. Il suo vecchio amico François Mitterrand era morto, il nuovo presidente Jacques Chirac era di destra, e il primo ministro socialista Lionel Jospin aveva altro cui pensare.
Un’altra ipotesi era chiedere un passaporto Onu: Craxi era stato alto commissario delle Nazioni Unite per il debito dei Paesi in via di sviluppo; un documento internazionale avrebbe potuto rappresentare un salvacondotto.
C’era anche la pista americana: un intervento a Houston, nella clinica specializzata in cardiochirurgia frequentata pure da Agnelli e Berlusconi. Ma Craxi entrò subito in fibrillazione: «Non mi fido del presidente Clinton. Gli americani non hanno mai dimenticato la beffa di Sigonella. Me la farebbero pagare».
La via più naturale pareva il rientro in Italia. Ma come? La famiglia pensava a una commissione d’inchiesta parlamentare su Tangentopoli, i cui lavori sarebbero stati conclusi da un’amnistia. Ma era un’operazione dai tempi lunghi. I politici potevano aspettare, i medici no.
Il 19 novembre, intervenendo al congresso di quel che restava del Psi, Berlusconi si era rivolto a Ciampi, «il presidente che noi abbiamo contribuito a eleggere», chiedendo la grazia per Craxi. La famiglia non prese bene quella mossa. La grazia era impossibile; anche perché Bettino non aveva alcuna intenzione di chiederla.
Berlusconi era stato prudente. Intervistato dai giornalisti al Parlamento europeo di Strasburgo sul rientro in Italia di Craxi, aveva risposto: «Non credo che i tempi lo rendano possibile». I giornalisti l’avevano incalzato: ma come, non era suo amico? E lui si era fatto ancora più cauto: «Mi trovo a essere vincolato a forme di prudenza perché, ahimè, mi trovo sottoposto al giudizio dei magistrati. Non sono un uomo libero». Berlusconi, insomma, doveva badare a se stesso.
Qualche giorno dopo, il 19 novembre, intervenendo al congresso di quel che restava del Psi, in mano a Gianni De Michelis, Berlusconi si era rivolto a Ciampi, «il presidente che noi abbiamo contribuito a eleggere», chiedendo la grazia per Craxi.
La famiglia non prese bene quella mossa. La grazia era impossibile; anche perché Bettino non aveva alcuna intenzione di chiederla. «La grazia la dà il capo dello Stato, non il capo dell’opposizione» sorrise amaro Bobo. In serata Carlo Azeglio Ciampi fece un comunicato per ricordare che il presidente è vincolato solo alla Costituzione e alle leggi, non insomma ai partiti che l’avevano eletto.
La storia della grazia morì lì. E i giudici di Milano fecero sapere: se Craxi torna, potrà avere gli arresti domiciliari. Niente carcere. Ma neppure niente libertà.
Qualcos’altro bolliva però nel pentolone della politica.
Il governo D’Alema fece sapere che una qualche soluzione si sarebbe trovata. Anche perché circolava la voce che Craxi avesse bisogno di un intervento chirurgico urgente.
L’ombra sul rene non era una cisti. Era un tumore.
Bisognava saperne di più. E, siccome nella casa non c’era verso di entrare, bisognava trovare una fonte che nella casa ci fosse già. E chi poteva averla, quella fonte? Il mio amico Gianni Pennacchi.
Gianni aveva tentato in ogni modo. Aveva anche girato la costa tunisina alla ricerca di garofani, un fiore che d’autunno in Nord Africa è praticamente introvabile. Alla fine Gianni li aveva trovati, e ne aveva mandato un mazzo a casa con una lista di domande, accompagnata da un biglietto indirizzato a «Monsieur le Président» con la scritta: «I suoi fiori torneranno a fiorire».
La risposta di Craxi non arrivò mai.
Ma Gianni trovò un’altra strada.
Nella strana corte in esilio riunita nel villone di Hammamet, c’era mezza giunta di Aulla, ridente borgo della Lunigiana, capitanata dal sindaco, Lucio Barani, cui non pareva vero di vivere una pagina di storia dal di dentro. Uno degli assessori di Aulla si era fidanzato con una nipote di Craxi. In cambio di qualche citazione sui giornali – Barani e i suoi erano fissati con i «club Craxi» che avrebbero voluto costituire ovunque, pure in Sud America –, ci riferirono di una drammatica telefonata tra Bettino e Paolo Pillitteri, suo cognato – che se n’è andato il 5 dicembre 2024, nel giorno del suo ottantaquattresimo compleanno –, bloccato a Milano perché la procura gli aveva ritirato il passaporto.
Pillitteri invitava Craxi a tornare. E lui replicò con parole definitive: «Voglio restare qui, in Tunisia. Farmi operare qui e, se deve accadere, morire qui, e qui essere sepolto. Avevo detto che sarei tornato in Italia da uomo libero, oppure da morto. Ma ora non tornerei neppure in una bara: perché neanche da morto sarei libero, ora che la mia figura è stata infangata».
Invano la sorella Rosilde lo implorava in lacrime: «Bettino, non fare sciocchezze, Bettino, non correre rischi inutili, pensa alla tua salute, non lasciarti morire». Ma Craxi insisteva: «Non posso tornare in Italia e farmi piantonare in ospedale dai carabinieri. Mi condannano a morire in esilio. Sia. Meglio morto che continuare così. Io amo troppo l’Italia per tornarci da carcerato». A quel punto anche la figlia di Rosilde, Maria Vittoria, era scoppiata a piangere: «Zio, lascia almeno che ti operino in Francia. Se resti lì, muori». E lui: «Voglio essere operato qui, voglio che la Tunisia abbia l’orgoglio di poterlo fare, perché è l’unico Paese che mi ha dato asilo e amore. La mia salute non mi interessa. Ho dato tutto per il mio Paese. Vivo per il mio Paese. Perché mi ripaga con l’ingratitudine e con l’offesa?».
Ci riferirono di una drammatica telefonata di Craxi a Pillitteri: «Voglio restare qui, in Tunisia. Farmi operare qui e, se deve accadere, morire qui, e qui essere sepolto. Avevo detto che sarei tornato in Italia da uomo libero, oppure da morto. Ma ora non tornerei neppure in una bara: perché neanche da morto sarei libero, ora che la mia figura è stata infangata».
Pennacchi e io scrivemmo tutto. Mentre in Italia ci si attendeva il rientro di Craxi da un giorno all’altro, «il Giornale» e «La Stampa» aprirono con il titolo: Craxi: muoio qui, in Italia non torno.
Potevano sembrare parole enfatiche, retoriche, gettate al vento.
Invece era esattamente quello che stava per accadere.
L’ombra sul rene era davvero un tumore. Craxi doveva essere operato subito. I medici però erano divisi. Per i cardiologi, bisognava prima intervenire sul cuore, per applicare un triplice by-pass. Ma per i nefrologi, capitanati dal professor Patrizio Rigatti del San Raffaele di Milano, l’intervento al rene era molto urgente. Certo rappresentava un rischio; non si sapeva se il cuore avrebbe tenuto; ma non c’era tempo da perdere.
Craxi, dimesso dall’ospedale militare, aspettava a casa. Di notte non riusciva a dormire, prendeva sonno all’alba, poi restava a letto fino a mezzogiorno. Lo tenevano a stecchetto: un brodo di verdure, un piatto di pasta in bianco, un po’ di pane ma solo tostato, per abbassare l’indice glicemico. Scriveva furiosamente memoriali che pochi avrebbero letto, lavorava a un romanzo giallo ambientato a Parigi, dai tratti ovviamente autobiografici. Sbuffava quando andavano a prelevargli il sangue.
A conferma della gravità della situazione, arrivò dall’India il fratello Antonio, seguace di Sai Baba. Si raccontava di un interessamento del Vaticano. Stefania era stata dal segretario di Stato Angelo Sodano, senza ottenerne molto più di qualche buona parola e di un rosario benedetto da papa Wojtyła, per confortare l’infermo. Da Roma venne in visita monsignor Lino Lozza, rettore della basilica di Santa Maria in Lata, vecchio amico di famiglia, che assicurò: «Bettino sta ritrovando la fede, come quando da ragazzo serviva messa e voleva farsi prete».
Ma solo quando atterrò l’aereo del San Raffaele, con a bordo l’équipe medica e il fondatore don Luigi Verzé in persona, si capì che l’intervento era imminente. C’erano anche Rigatti e la diabetologa di Craxi, Ornella Melogli. E c’erano altri amici e familiari. Pagava Berlusconi.
Don Verzé era il più arrabbiato di tutti. Covava un odio personale per Francesco Saverio Borrelli, cui aveva scritto una lettera piena di maledizioni che il magistrato gli aveva restituito con un biglietto – «non voglio che questo scritto resti tra le mie carte» – accolto dal religioso come un’umiliazione personale. Don Verzé assicurava che Giovanni Paolo II era indignato dal trattamento riservato a Craxi e preoccupato per lo strapotere della magistratura. Quanto ci fosse di vero, non lo sapremo mai. Sull’aereo c’era anche un inviato del «Corriere», venuto a rimpiazzare Roncone, che aveva scritto pezzi bellissimi. Il nuovo venuto fu accolto con una punta di freddezza e ci rimase malissimo; ma ormai eravamo un gruppo affiatato, un po’ chiuso, animato dalla voglia di vedere come andava a finire.
L’intervento fu rocambolesco, eppure riuscì. Si era rotto il neon che illuminava la camera operatoria, e un infermiere dovette reggere una lampada con le mani per tutto il tempo. Il rene era stato asportato. Si seppe solo allora che era il destro, non il sinistro.
Prima dell’anestesia Bettino aveva pianto, nel timore di non svegliarsi più. A mezzanotte era ancora intubato; ma ce l’aveva fatta. Al risveglio, Stefania gli sussurrò: «Papà, non ti hanno voluto neanche lassù».
Don Verzé mi raccontò che Craxi era molto agitato. Non aveva chiuso occhio, come d’abitudine, e all’ospedale militare non si trovava neanche il solito pane tostato, il fido Nicola Mansi aveva percorso tutti i dodici piani senza trovare neppure una galletta. Prima dell’anestesia Bettino aveva pianto, nel timore di non svegliarsi più. A mezzanotte era ancora intubato; ma ce l’aveva fatta. Al risveglio, Stefania gli sussurrò: «Papà, non ti hanno voluto neanche lassù».
Noi passammo la giornata all’addiaccio fuori dall’ospedale, in attesa di notizie. Uscirono i medici, molto provati, molto prudenti. Stefania si gettò nelle braccia del marito Marco Bassetti. Si fece sotto la telecamera del Tg5, bloccata dalla polizia tunisina: «Che bello, adesso gliela sequestrano» sogghignò la figlia di Craxi.
L’atmosfera era quella di un pericolo scampato, ma anche di un torto subìto. Qualche agenzia aveva dato notizia che Craxi fosse in realtà in volo per Parigi, anzi per Londra, e la cosa aveva innervosito i familiari: «Sono sette anni che raccontate balle su di noi!». Un po’ tutti ripeterono che i medici tunisini avevano fatto il possibile, ma pure che in un ospedale italiano sarebbe stato molto diverso.
In visita ufficiale a Madrid, il presidente della Repubblica Ciampi fece gli auguri a Craxi. A parte quel gesto di attenzione, in Italia stava andando in scena un gioco delle parti. Ognuno offriva o proponeva quello che non dipendeva da lui: D’Alema il rientro in patria, bloccato dai magistrati; Berlusconi la grazia, impossibile per il Quirinale.
I tempi della convalescenza erano incerti. Intanto si poteva fare il Natale a casa: Craxi ad Hammamet, noi con le nostre famiglie.
Poi si sarebbe visto.
Nessuno poteva immaginare che eravamo all’epilogo di quella che all’inizio era sembrata una farsa, e stava per finire in tragedia. L’epilogo di una vita non lunghissima ma molto intensa, iniziata sessantasei anni prima.