Il fantasma di Gaza: come è sopravvisuta HamasDiGregg Roman
13 Ottobre 2025
Il 10 ottobre 2025, all’una e venti del mattino, è entrato in vigore un cessate il fuoco a Gaza, ponendo fine a due anni di conflitto iniziato con l’eccidio del 7 ottobre.
Il governo israeliano, di fronte a pressioni senza precedenti da parte del presidente Donald Trump e a una crisi politica interna, ha approvato un quadro di pace che rappresenta tutto ciò contro cui si era messo in guardia nelle precedenti analisi strategiche: negoziare con i terroristi da una posizione di vittoria incompleta, rilasciare militanti incalliti in cambio di ostaggi e accettare ambigue promesse di futura demilitarizzazione in sostituzione dell’attuale sconfitta militare.
Cosa succederà ora? La prima fase dell’accordo prevede il ritiro tattico di Israele da Gaza City, il rilascio dei 48 ostaggi rimasti entro 72 ore e lo scambio di 250 ergastolani palestinesi e di 1.700 detenuti. La seconda fase, il cui inizio è previsto durante l’attuazione della prima, dovrebbe riguardare il disarmo di Hamas, il completo ritiro israeliano e il futuro politico di Gaza. Ogni precedente storico indica che la Fase Due crollerà sotto il peso delle sue contraddizioni, lasciando Israele in una posizione peggiore rispetto a prima del cessate il fuoco, mentre Hamas ricostituirà le proprie capacità e dichiarerà la propria vittoria strategica.
L’errore fondamentale alla base di questo accordo è trattare la Fase Uno e la Fase Due come componenti sequenziali di un piano unificato, quando in realtà sono quadri incompatibili costretti in una sequenza artificiale. La Fase Uno presuppone che Hamas possa essere un partner affidabile nel rilascio degli ostaggi e nella transizione di governance. La Fase Due presuppone che Hamas possa essere costretta al disarmo e alla marginalizzazione politica permanente. Queste ipotesi non possono essere contemporaneamente vere. O Hamas mantiene sufficiente potere e legittimità per funzionare come autorità di governo in grado di rilasciare gli ostaggi (nel qual caso non accetterà mai il disarmo completo) oppure è stata sufficientemente sconfitta da non avere più capacità di governo (in tal caso i meccanismi della Fase Uno diventano impraticabili). Israele ha scelto il peggiore dei due approcci: garantire ad Hamas la legittimità attraverso i negoziati, pur non avendo il potere necessario per imporre il rispetto degli obiettivi dichiarati dell’accordo.
Le contraddizioni del quadro di pace
Il piano in 20 punti annunciato dal presidente Trump il 29 settembre scorso rappresenta un’ambiziosa iniziativa diplomatica che affronta contemporaneamente molteplici aspetti: il rilascio degli ostaggi, gli aiuti umanitari, la transizione di governance, la cooperazione regionale in materia di sicurezza e lo sviluppo economico a lungo termine. La complessità del documento è evidente, ma non la sua attuabilità. Il piano prevede che Hamas non possa avere alcun ruolo, diretto, indiretto o in qualsiasi altra forma, nella futura governance di Gaza, richiedendo al contempo che Hamas rilasci gli ostaggi, coordini i ritiri e accetti la sostituzione tecnocratica. Questa logica circolare presuppone che Hamas faciliterà il proprio scioglimento.
Consideriamo le disposizioni relative al disarmo. Il quadro di pace proposto da Trump richiede la completa demilitarizzazione, con la distruzione di tutte le infrastrutture militari sotto la supervisione internazionale e la messa fuori uso definitiva delle armi. La risposta di Hamas del 3 ottobre ha accettato il rilascio degli ostaggi e la transizione di governance, ma non ha fatto alcun riferimento al disarmo. L’alto funzionario di Hamas Mousa Abu Marzouk ha dichiarato esplicitamente: “Consegneremo le [nostre] armi al futuro Stato palestinese, e chiunque governerà Gaza avrà le armi in mano”. Quando gli è stato fatto notare che Israele aveva già distrutto la maggior parte delle capacità di Hamas, Abu Marzouk ha risposto: “Se hanno distrutto il 90 per cento delle capacità militari di Hamas e ucciso la maggior parte dei combattenti di Qassam, come dice il presidente Trump, di chi sono le armi che volete disarmare?”
Questa domanda retorica mette in luce la contraddizione centrale dell’accordo. Se Hamas è stata sconfitta militarmente nella misura dichiarata, allora il disarmo diventa superfluo o impossibile: superfluo se le capacità non esistono più, impossibile se le armi sono sepolte sotto le macerie o distribuite tra cellule decentralizzate. Se Hamas conserva una capacità militare significativa, allora possiede un mezzo di pressione per resistere al disarmo e utilizzerà il periodo di cessate il fuoco per ricostituirsi. In entrambi i casi, la clausola sul disarmo esiste solo sulla carta, senza meccanismi di attuazione al di là della ripresa delle operazioni militari, il che non farebbe altro che riportare entrambe le parti allo status quo precedente al cessate il fuoco.
La transizione di governance presenta problemi simili. Ad Hamas è stato chiesto di farsi da parte per lasciare spazio a un “comitato tecnocratico palestinese composto da palestinesi qualificati ed esperti internazionali”, supervisionato da un “Consiglio di Pace” presieduto da Trump e comprendente l’ex primo ministro britannico Tony Blair. Hamas ha immediatamente respinto questo assetto. Abu Marzouk ha dichiarato: “Non accetteremo mai che sia qualcuno che non è palestinese a controllare i palestinesi”, opponendosi specificamente a Blair dato il suo ruolo nella guerra in Iraq del 2003. L’Autorità Palestinese, che dovrebbe assumere il controllo in attesa delle riforme, rimane debole, corrotta e profondamente impopolare. Il presidente Abbas, 89 anni e al ventesimo anno del suo mandato quadriennale, ha definito i membri di Hamas “figli di cani”, in quanto privi della capacità di governare il territorio che controllano.
La sequenza del ritiro israeliano amplifica queste contraddizioni. Netanyahu ha sottolineato ripetutamente nella sua intervista del 5 ottobre che “Israele effettua un ritiro tattico, e rimane a Gaza”. Tuttavia, il leader di Hamas Khalil al-Hayya chiede il ritiro completo dalla Striscia di Gaza con “garanzie reali” che la guerra finisca definitivamente. Il piano di Trump afferma che il ritiro sarà “basato su standard, tappe fondamentali e tempistiche concordati e legati alla demilitarizzazione”, un linguaggio che non risolve nulla poiché la demilitarizzazione stessa rimane controversa. Israele non si ritirerà completamente finché Hamas non deporrà le armi; Hamas non deporrà le armi finché Israele non si ritirerà completamente. Non si tratta di una differenza negoziabile, ma di una contraddizione esistenziale che nessun linguaggio diplomatico può risolvere.
Dimensione militare: la missione incompleta
L’operazione israeliana “Carri di Gedeone II”, lanciata il 15 settembre con 60 mila riservisti e tre divisioni complete, è stata la campagna più ambiziosa della guerra: la conquista sistematica della città di Gaza per costringere Hamas alla resa incondizionata. Il 1° ottobre, le Forze di Difesa Israeliane avevano completato la conquista del Corridoio Netzarim, separando Gaza City dalla parte centrale di Gaza e dividendo la parte settentrionale da quella meridionale. Il ministro della Difesa Israel Katz ha annunciato che Israele stava “rafforzando l’assedio” intorno a Gaza City con avvertimenti di “ultima possibilità” per i residenti di evacuare verso sud. Coloro che fossero rimasti sarebbero stati trattati come “terroristi e sostenitori del terrorismo”.
La logica militare dell’offensiva era solida: concentrare una forza schiacciante, isolare la leadership di Hamas, distruggere le infrastrutture rimanenti e costringere alla resa da una posizione di dominio. Tra il 27 settembre e il 3 ottobre, Israele ha colpito oltre 300 obiettivi in tutta la città di Gaza, con Netanyahu che ha affermato: “50 torri del terrore abbattute in due giorni”. Il 30 settembre, circa 1.250 edifici erano stati distrutti a Gaza City. La pressione militare stava dando i suoi frutti: l’accettazione da parte di Hamas, il 3 ottobre, del quadro proposto da Trump è derivata direttamente da questa realtà sul campo di battaglia.
Poi, il 4 ottobre, Netanyahu ha ordinato lo stop dell’offensiva in seguito all’appello pubblico di Trump a Israele di “cessare immediatamente i bombardamenti su Gaza”. Le IDF sono passate a “operazioni esclusivamente difensive”, mantenendo le posizioni senza avanzare né ritirarsi. Questa decisione, presa nel momento di massimo vantaggio per Israele, rappresenta il punto di svolta cruciale della guerra. Anziché completare l’operazione e negoziare da una posizione di assoluto dominio, con la leadership di Hamas isolata e le infrastrutture distrutte, Israele ha accettato un cessate il fuoco che preserva la struttura organizzativa di Hamas e offre un margine di manovra per la ricostituzione.
Le implicazioni militari si estendono su più dimensioni. Israele sostiene di aver ucciso tra i 17 mila e i 23 mila miliziani di Hamas, anche se il database dell’intelligence israeliana a maggio 2025 confermava l’uccisione di soli 8.900 combattenti di Hamas e della Jihad Islamica. I servizi segreti statunitensi hanno stimato che Hamas abbia reclutato circa 15 mila nuovi combattenti durante la guerra, il che sta a indicare che l’organizzazione ha continuato a reclutare nonostante le perdite. Le IDF hanno annunciato di aver smantellato 20 dei 24 battaglioni di Hamas, con le forze israeliane che controllano circa il 75 per cento del territorio della Striscia di Gaza, lasciando ad Hamas il controllo effettivo solo del 20-25 per cento del territorio.
Queste statistiche possono essere interpretate in modo diverso a seconda della prospettiva. Da un certo punto di vista, Hamas ha subito un degrado catastrofico con l’eliminazione dei vertici, la distruzione della struttura di comando e la riduzione del controllo territoriale a un quarto della Striscia. Da un altro punto di vista, Hamas ha dimostrato una notevole resilienza, reclutando tanti combattenti quanti ne ha persi, mantenendo la coesione organizzativa nonostante la decapitazione della leadership e costringendo Israele ad accettare i negoziati nonostante detenesse solo il 20-25 per cento del territorio prebellico. La questione non è quale interpretazione sia accurata, ma quale sia più importante dal punto di vista strategico. Una Hamas indebolita ma intatta, che sopravvive per tornare a combattere, rappresenta un successo strategico per l’organizzazione, indipendentemente dalle perdite tattiche.
Consideriamo la rete di tunnel: la risorsa strategica più preziosa di Hamas e l’infrastruttura che ha reso possibile l’attacco del 7 ottobre. Sebbene Israele abbia distrutto molti ingressi e gallerie, la mappatura completa e la distruzione dell’intera rete sono rimaste incomplete al momento dell’interruzione delle operazioni. L’accordo di cessate il fuoco prevede la distruzione dei tunnel sotto la supervisione internazionale, ma i meccanismi di attuazione rimangono indefiniti. Gli osservatori internazionali avranno accesso a tutte le posizioni sospette dei tunnel? Avranno le competenze tecniche necessarie per verificare la completa distruzione? Hamas collaborerà all’identificazione dei tunnel che ha impiegato decenni a costruire? Ancor più importante, una volta che le forze israeliane si saranno ritirate e il monitoraggio sarà ridotto, cosa impedirà ad Hamas di riaprire i tunnel sigillati o di costruirne di nuovi utilizzando le stesse competenze che ha impiegato per costruire la rete originale?
Il cessate il fuoco lascia intatto circa il 10-15 per cento dell’arsenale missilistico prebellico di Hamas, pari a 20 mila proiettili, con capacità di lancio sporadica. Sebbene ridotta rispetto ai continui bombardamenti dell’ottobre 2023, questa capacità residua assume un’importanza strategica durante la ricostituzione.
Nonostante i bombardamenti israeliani, Hamas ha mantenuto le conoscenze tecniche, le competenze ingegneristiche e le infrastrutture industriali necessarie per fabbricare razzi durante tutta la guerra.
Il cessate il fuoco offre il tempo e lo spazio necessari per ricostruire gli impianti di produzione, formare nuovo personale e ripristinare la capacità produttiva. A meno che i “programmi di smantellamento” menzionati nel piano Trump non prevedano la distruzione fisica di ogni tornio, fresatrice e officina a Gaza, cosa questa impossibile, Hamas finirà per riprendere la produzione di razzi.
L’aspetto più critico è che Izz al-Din al-Haddad, noto come “Il fantasma di al-Qassam”, è emerso come nuovo leader militare e amministrativo di Hamas dopo la morte di Mohammed Sinwar, nel maggio scorso. Il comandante 55enne, che parla fluentemente l’ebraico, è sopravvissuto a sei tentativi di assassinio da parte di Israele e ha perso due figli durante la guerra, pur mantenendo il comando. Israele ha offerto 750 mila dollari per informazioni che portassero alla sua cattura o alla sua morte. Al-Haddad detiene il potere di veto su qualsiasi accordo di cessate il fuoco o di rilascio degli ostaggi ed è descritto come più pragmatico dei suoi predecessori per quanto riguarda i negoziati, pur rimanendo impegnato nella resistenza armata. Il cessate il fuoco lo lascia vivo, al comando e in grado di orchestrare la ricostituzione di Hamas.
Dimensione psicologica: vittoria negata
Le guerre non finiscono quando una delle parti non è più in grado di combattere, ma quando accetta di non poter vincere. Questa dimensione psicologica, ossia la convinzione dell’avversario che continuare a resistere sia inutile, conta più dei dati relativi al campo di battaglia. L’esercito della Germania nazista fu distrutto alla fine del 1944, ma la guerra continuò per un altro anno fino a quando l’occupazione fisica del Reich e il suicidio di Hitler non mandarono in frantumi ogni speranza di vittoria. Il Giappone possedeva la capacità di continuare a combattere dopo Hiroshima e Nagasaki, ma il discorso radiofonico senza precedenti dell’imperatore che annunciava la resa spezzò la volontà della popolazione. Le Tigri Tamil controllavano il territorio e comandavano i combattenti fino a quando la morte di Prabhakaran e l’accerchiamento militare dimostrarono in modo definitivo che la loro causa era persa.
L’accettazione da parte di Hamas del quadro proposto da Trump rappresenta un adeguamento pragmatico alla realtà del campo di battaglia, non una sconfitta psicologica. L’organizzazione è sopravvissuta, la sua leadership continua a operare da Doha, il suo comandante militare è ancora vivo a Gaza ed è riuscita a costringere Israele a negoziare nonostante controllasse solo un quarto del territorio. Dal punto di vista di Hamas, il cessate il fuoco rappresenta un successo strategico: ha attaccato Israele, uccidendo 1.195 israeliani, tra cui 815 civili, ha preso 251 ostaggi, ha scatenato una guerra che ha distrutto gran parte delle infrastrutture di Gaza, eppure ne è uscita con la capacità di negoziare i termini e la sopravvivenza organizzativa intatta.
La narrazione che Hamas promuoverà nel mondo arabo e islamico è semplice: hanno fatto sanguinare il naso di Israele il 7 ottobre, hanno resistito a due anni di bombardamenti, hanno costretto le IDF a ritirarsi da Gaza City attraverso la resistenza e hanno negoziato il rilascio di 2 mila prigionieri palestinesi, tra cui 250 terroristi condannati all’ergastolo. La distruzione di Gaza sarà presentata come un eroico sacrificio nella resistenza all’occupazione. Le vittime civili, conseguenza diretta dell’uso di scudi umani da parte di Hamas e dell’integrazione delle infrastrutture militari nelle aree civili, saranno attribuite interamente a Israele dalla loro macchina propagandistica.
Prendiamo in esame il destino dei vertici di Hamas. Sì, Israele ha eliminato Yahya Sinwar, Mohammed Deif, Mohammed Sinwar, Marwan Issa e Ismail Haniyeh, ovvero l’intera leadership che ha pianificato gli eventi del 7 ottobre. Ma dal punto di vista ideologico di Hamas, questi uomini hanno raggiunto il martirio portando avanti la causa. Yahya Sinwar è morto combattendo contro le forze israeliane, senza arrendersi. Mohammed Deif è stato eliminato mentre era ancora al comando delle operazioni militari. Queste morti saranno commemorate, le strade intitolate a loro nome e le nuove reclute ispirate dal loro esempio. L’assenza di processi pubblici significa che non ci sarà alcun confronto con i loro crimini, nessun riconoscimento forzato delle atrocità, nessuna rottura della narrativa del martirio. Sono morti come terroristi anziché affrontare la giustizia per i loro crimini.
Il comitato direttivo temporaneo di cinque membri con sede a Doha continua a governare Hamas, con Khaled Mashal, Khalil al-Hayya e altri che operano apertamente in Qatar. Le elezioni per la leadership, rinviate a causa della guerra, alla fine si terranno garantendo continuità. A differenza delle Tigri Tamil, la cui intera leadership è stata uccisa o catturata, o di Sendero Luminoso, il cui alone di mistero è svanito quando Abimael Guzmán è stato esposto in una gabbia, la leadership esterna di Hamas rimane intatta, ben finanziata e trattata come un legittimo partner negoziale da vari attori internazionali. Il precedente degli incontri tra funzionari dell’amministrazione Trump e rappresentanti di Hamas e mediatori arabi per facilitare le discussioni garantisce all’organizzazione la legittimità che ha cercato per decenni.
L’impatto psicologico sulla società palestinese richiede una valutazione onesta. Sebbene alcuni abitanti di Gaza abbiano manifestato contro il governo di Hamas con slogan come “Fuori, fuori, fuori Hamas”, e i sondaggi del maggio 2025 abbia mostrato un consenso del 48 per cento per le manifestazioni anti-Hamas, l’organizzazione continua a godere di un significativo sostegno ideologico. La macchina propagandistica di Hamas attribuirà le disposizioni umanitarie del cessate il fuoco (aumento degli aiuti, fondi per la ricostruzione, ripristino dei servizi) al loro successo negoziale piuttosto che alla moderazione di Israele o alle pressioni internazionali.
L’obiettivo dichiarato di Israele all’inizio di questa guerra era quello di eliminare Hamas come forza militare e di governo. Due anni dopo, Hamas non governa più nulla, ma esiste come organizzazione politico-militare in grado di schierare combattenti, negoziare accordi e imporre la propria lealtà. Ciò rappresenta la sconfitta degli obiettivi di guerra di Israele, indipendentemente dai successi militari tattici. Quando il Vietnam del Nord accettò gli Accordi di pace di Parigi nel 1973, non aveva sconfitto militarmente gli Stati Uniti, ma era sopravvissuto abbastanza a lungo da sopravvivere all volontà politica americana. Due anni dopo, Saigon cadde. Il parallelo con la pazienza strategica di Hamas è ovvio e inquietante.
Dimensione istituzionale: il vuoto di governance
Hamas è molto più che un gruppo di militanti armati nascosti nei tunnel. Nei 18 anni in cui ha governato Gaza dal 2007, ha costruito un’infrastruttura istituzionale completa che influisce su ogni aspetto della vita palestinese: istruzione, sanità, servizi sociali, istituzioni religiose, media, amministrazione civile e attività economica. Questa profondità istituzionale spiega la resilienza di Hamas, nonostante la decapitazione della leadership e il degrado militare. Per distruggere l’organizzazione è necessario smantellare queste istituzioni e sostituirle con alternative che aiutino la popolazione di Gaza senza dare potere ai terroristi. L’accordo di cessate il fuoco presuppone che questa transizione possa avvenire attraverso una sostituzione tecnocratica supervisionata da osservatori internazionali. L’esperienza storica suggerisce il contrario.
Prendiamo in considerazione l’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati palestinesi che ha assunto i partecipanti al 7 ottobre e le cui strutture hanno ospitato le armi di Hamas. Il piano Trump prevede la chiusura definitiva dell’UNRWA a Gaza, con indagini sui dipendenti e procedimenti giudiziari contro gli affiliati di Hamas. Si tratta di una politica corretta, ma che solleva alcune domande immediate: chi fornirà istruzione, assistenza sanitaria e servizi sociali a due milioni di palestinesi se l’UNRWA cesserà le sue attività? Il piano di Trump menziona nuove “strutture di aiuto non politicizzate”, ma crearle da zero mentre l’Agenzia chiude creerà enormi lacune nei servizi. Hamas ha prosperato colmando le lacune nei servizi quando l’Autorità Palestinese si è dimostrata inefficace. Le bande criminali e le milizie rivali hanno già colmato il vuoto di potere nelle zone in cui Hamas ha perso il controllo. A meno che non vengano istituite istituzioni sostitutive contemporaneamente alla rimozione di Hamas, prevarrà il caos piuttosto che una governance tecnocratica.
Il sistema educativo rappresenta il campo di battaglia più critico per il futuro di Gaza. I libri di testo di Hamas hanno insegnato il martirio e l’antisemitismo a un’intera generazione. Gli insegnanti hanno indottrinato i bambini. Le strutture scolastiche sono state utilizzate come depositi di armi e ingressi ai tunnel. Il riferimento del piano Trump ai tecnocrati che sviluppano nuovi programmi di studio che enfatizzano la matematica, la scienza e la formazione professionale sembra sensato, ma ignora gli ostacoli pratici. Il corpo docente di Gaza è stato formato sotto il governo di Hamas, è impiegato dai ministeri di Hamas e in molti casi ha collaborato attivamente con le operazioni di Hamas. È impossibile controllare ogni insegnante; sostituirli in massa significa che nessuna scuola funzionerebbe. L’alternativa, ovvero accettare che gli insegnanti formati da Hamas impartiscano programmi di studio “riformati” sotto il controllo internazionale, non fa altro che dare una nuova immagine all’infrastruttura educativa di Hamas.
La rete delle moschee utilizzata per il reclutamento e l’istigazione presenta sfide simili. Arrestare gli imam che predicavano la violenza e demolire le moschee utilizzate come depositi di armi sembra appropriato, ma crea problemi immediati. La leadership religiosa a Gaza si è evoluta nel corso di decenni all’interno di strutture controllate da Hamas. Trovare una “nuova leadership religiosa, vagliata per il suo rifiuto della violenza e dell’estremismo” richiede l’identificazione di musulmani palestinesi che godano di rispetto, possiedano credenziali religiose e si oppongano a Hamas, una popolazione esigua data la realtà politica di Gaza. Monitorare i sermoni del venerdì per individuare eventuali istigazioni presuppone una capacità di monitoraggio che è inesistente e che non può essere sostenuta. Ancor più importante, la teologia radicale predicata da Hamas non è esclusiva di Gaza, ma riflette interpretazioni estremiste più ampie diffuse in tutta la regione. Cambiare la cultura religiosa di Gaza richiede una trasformazione generazionale, non un rimpasto istituzionale.
Il sistema sanitario utilizzato da Hamas per scopi militari, con ospedali che ospitano centri di comando e personale medico che ha preso attivamente parte alle attività di Hamas, dovrà essere ricostruito in base alle disposizioni umanitarie del cessate il fuoco. Il piano Trump sottolinea giustamente che solo 14 dei 36 ospedali erano parzialmente funzionanti a ottobre e nessuno era pienamente operativo.
Gli aiuti internazionali consentiranno di ricostruire le strutture, formare il personale e ripristinare i servizi. Tuttavia, se gli amministratori affiliati ad Hamas non verranno allontanati e il personale medico che ha partecipato ad atti terroristici non perderà la licenza, il sistema sanitario ricostruito non farà altro che ripristinare le infrastrutture di Hamas. L’alternativa, ovvero importare personale medico straniero per sostituire i medici e gli infermieri di Gaza, non è né fattibile né sostenibile. Gaza ha bisogno dei propri professionisti sanitari, che operano all’interno delle reti politico-sociali che Hamas ha coltivato per anni.
Il vuoto di governance creato dall’abbandono concordato da Hamas dell’amministrazione formale crea opportunità per l’emergere di centri di potere alternativi. Le bande criminali hanno già riempito i vuoti nelle aree perse da Hamas con “l’erosione della barriera della paura” tra i civili di Gaza. Gruppi estremisti rivali più radicali di Hamas competono per ottenere influenza. I clan familiari e le strutture tribali riaffermano l’autorità tradizionale. L’Autorità Palestinese, debole e corrotta, non gode di alcun rispetto. In questo caos, il piano Trump introduce un “comitato palestinese tecnocratico” supervisionato da un “Consiglio di Pace” internazionale che Hamas ha già respinto. Anche se istituito, cosa governa esattamente questo comitato? Non controlla alcuna forza armata, non gode della lealtà popolare, non ha spessore istituzionale e dipende interamente dalla protezione e dai finanziamenti esterni. Si tratta di autorità la cui legittimità deriva dal sostegno straniero piuttosto che dal consenso interno.
Dimensione regionale: esaurimento arabo senza allineamento
Il piano Trump sfrutta la reale stanchezza araba nei confronti della causa palestinese per costruire un’architettura di sicurezza regionale a sostegno del cessate il fuoco. L’Egitto, che ha allagato i tunnel di Hamas e ha designato i miliziani come terroristi, ospita negoziati cruciali a Sharm el-Sheikh. Il Qatar media nonostante ospiti la leadership di Hamas a Doha. La Giordania accoglie con favore l’accordo quadro. L’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Marocco e il Bahrein, i firmatari degli Accordi di Abramo più i sauditi, sostengono tutti pubblicamente il piano. Questo consenso regionale rappresenta un reale progresso diplomatico e risponde alle legittime preoccupazioni israeliane riguardo alla minaccia che Gaza potrebbe rappresentare in futuro per la stabilità regionale. Tuttavia, il sostegno arabo rimane condizionato, limitato e, in ultima analisi, allineato agli interessi arabi piuttosto che a quelli israeliani.
Si consideri il ruolo dell’Egitto. Il presidente al-Sisi ha definito il cessate il fuoco un “momento storico che incarna il trionfo della volontà di pace” e, secondo il piano, l’Egitto stabilirà una presenza di sicurezza nel sud di Gaza. Tuttavia, l’interesse principale del Cairo è impedire che il caos di Gaza si estenda oltre il confine del Sinai, mantenendo al contempo buoni rapporti con la nuova amministrazione Trump. L’Egitto non ha alcun interesse a governare Gaza, a confrontarsi militarmente con Hamas per conto di Israele o ad accogliere i profughi di Gaza. Quando Hamas prese il controllo di Gaza nel 2007, l’Egitto chiuse il confine e lasciò morire di fame i palestinesi piuttosto che aprire i valichi. La “cooperazione in materia di sicurezza” egiziana significa impedire il contrabbando di armi e mantenere la sicurezza dei confini: un obiettivo importante, ma insufficiente per garantire la sconfitta definitiva di Hamas.
La posizione della Giordania è simile. Avendo represso la propria rivolta palestinese durante il Settembre Nero, la Giordania comprende la minaccia rappresentata dall’estremismo palestinese. La cooperazione dei servizi segreti giordani nel controllo degli amministratori e del personale di sicurezza aiuta a identificare gli infiltrati di Hamas. Ma la Giordania non invierà forze a Gaza, non governerà i territori palestinesi né si assumerà la responsabilità degli esiti politici palestinesi. La popolazione a maggioranza palestinese della Giordania fa sì che la stabilità del regno dipenda dal non essere visto come un oppressore delle aspirazioni palestinesi. La Giordania collabora a distanza, assicurandosi al contempo che i problemi di Gaza rimangano responsabilità di qualcun altro.
Gli Stati del Golfo offrono fondi per la ricostruzione con aspettative di ritorno commerciale. Gli Emirati Arabi Uniti potrebbero ricostruire il porto di Gaza; l’Arabia Saudita potrebbe finanziare l’edilizia abitativa. Questi progetti creerebbero occupazione, ripristinerebbero le infrastrutture e dimostrerebbero tangibili dividendi di pace. Tuttavia, i finanziamenti del Golfo sono soggetti a condizioni, principalmente che vengano attuate riforme della governance palestinese e che la sicurezza si stabilizzi. Se la Fase Due fallisce e la violenza riprende, gli investimenti del Golfo svaniscono. Inoltre, gli Stati del Golfo danno sempre più priorità allo sviluppo economico e al contenimento dell’Iran rispetto alle questioni palestinesi. Il loro sostegno al piano di Trump riflette l’allineamento con la politica americana e l’interesse personale nella stabilità regionale, non l’impegno a garantire la sicurezza di Israele contro una rinascita di Hamas.
La posizione dell’Arabia Saudita merita particolare attenzione. Il regno era tra gli “Stati arabi e musulmani chiave” da cui Trump si è assicurato il sostegno, aderendo a una dichiarazione congiunta del 29 settembre scorso che ne ha accolto con favore gli sforzi. Tuttavia, l’Arabia Saudita sostiene che la normalizzazione con Israele rimane subordinata ai progressi verso la creazione di uno Stato palestinese basato sull’Iniziativa di pace araba, alla fine dell’occupazione e al ritiro israeliano dai territori occupati. Queste condizioni non sono soddisfatte dal linguaggio vago di Trump su un “percorso credibile verso l’autodeterminazione palestinese” una volta completate le riforme dell’Autorità Palestinese. L’Arabia Saudita cerca garanzie di sicurezza americane, tecnologia nucleare e leadership regionale, obiettivi perseguiti sostenendo il piano Trump indipendentemente dagli esiti per Israele.
Il ruolo della Turchia rivela in modo molto chiaro i limiti del consenso regionale. Il presidente Erdoğan, che descrive Hamas come un “gruppo di liberazione” piuttosto che come un’organizzazione terroristica, ha dichiarato il 4 ottobre che “si è aperta una finestra di opportunità per una pace duratura”. Il sostegno della Turchia al piano riflette il miglioramento delle relazioni di Erdoğan con Trump e il desiderio di cooperazione economica, non un vero e proprio allineamento con gli interessi di sicurezza israeliani. La Turchia non eserciterà pressioni su Hamas oltre quanto necessario per mantenere la benevolenza di Trump. L’intelligence turca non condivide alcuna informazione con Israele. Le organizzazioni della società civile turca che parteciperanno alla ricostruzione di Gaza sostengono ideologicamente Hamas e forniscono copertura alla sua continua influenza.
I Paesi firmatari degli Accordi di Abramo (Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco) rappresentano i partner regionali più promettenti, date le loro relazioni formali con Israele. Tuttavia, tali relazioni rimangono subordinate all’allineamento della politica israeliana con gli interessi arabi. Il pacchetto di sanzioni dell’UE di settembre che prende di mira alcuni individui israeliani, sebbene richieda l’approvazione unanime dell’Unione Europea per l’attuazione, segnala una crescente pressione internazionale. Se i negoziati della Fase Due falliscono e Israele riprende le operazioni militari, i Paesi firmatari degli Accordi di Abramo dovranno affrontare pressioni interne per prendere le distanze da Israele. Il loro sostegno al cessate il fuoco riflette l’attuale allineamento politico; il loro sostegno a Israele in caso di fallimento del cessate il fuoco è incerto.
Dimensione internazionale: pressione senza strategia
Il cessate il fuoco ha ottenuto un notevole sostegno internazionale: il segretario generale delle Nazioni Unite Guterres ha accolto con favore l’accordo, l’UE ha appoggiato i principi di demilitarizzazione, il presidente francese Macron ha ringraziato Trump per il suo “impegno per la pace”, il cancelliere tedesco Merz lo ha definito “la migliore opportunità per la pace” e il primo ministro britannico Starmer lo ha descritto come “un significativo passo avanti”. Questa unanimità diplomatica rappresenta un autentico traguardo che distingue l’ottobre 2025 dai precedenti tentativi falliti. La pressione internazionale sostenuta da parte dei funzionari dell’amministrazione Trump, tra cui l’inviato speciale Steve Witkoff e Jared Kushner che hanno partecipato direttamente ai negoziati, si è rivelata decisiva. L’ultimatum di Trump del 3 ottobre, in cui avvertiva che se Hamas avesse rifiutato il piano si sarebbe scatenato “l’inferno”, unito al suo appello a Israele di “cessare immediatamente i bombardamenti su Gaza”, ha dimostrato la volontà di esercitare pressione su entrambe le parti.
Il dispiegamento da parte del Comando Centrale degli Stati Uniti di 200 militari in Israele per istituire un centro di coordinamento a sostegno del monitoraggio del cessate il fuoco e del flusso di aiuti umanitari è un segnale dell’impegno americano per il successo dell’accordo. È fondamentale sottolineare che non si tratta di truppe da combattimento e che non saranno dispiegate a Gaza. Il coinvolgimento americano rimane strettamente diplomatico e logistico, senza fornire alcuna garanzia di sicurezza al di là della pressione politica per il rispetto degli accordi. Se Hamas violerà l’accordo, la risposta degli Stati Uniti sarà una condanna diplomatica, non un’azione militare. Ciò limita l’influenza americana alla persuasione piuttosto che alla coercizione, sufficiente forse per mantenere un cessate il fuoco, ma insufficiente per costringere Hamas al disarmo contro la sua volontà.
L’interesse personale dell’amministrazione Trump nel successo di questo accordo crea sia opportunità che vincoli. Trump presiede il “Consiglio di Pace” e ha puntato sulla reputazione diplomatica per raggiungere ciò che le amministrazioni precedenti non sono riuscite a ottenere. Quest’attenzione presidenziale garantisce un impegno costante ad alto livello che potrebbe impedire la negligenza che ha condannato gli accordi precedenti. Tuttavia, ciò significa anche che la flessibilità della politica americana è limitata dall’impegno personale di Trump. Se i negoziati della Fase Due dovessero arenarsi, Trump dovrebbe affrontare dei costi politici nell’ammettere che il quadro non è in grado di produrre i risultati promessi. La tentazione di esercitare pressioni su Israele affinché accetti un disarmo parziale di Hamas o impegni vaghi, piuttosto che riconoscere i limiti del piano, diventa forte.
Le organizzazioni umanitarie internazionali invieranno ingenti fondi per la ricostruzione di Gaza, creando incentivi economici per il mantenimento del cessate il fuoco. La Banca Mondiale ha stimato danni materiali diretti per 53 miliardi di dollari a febbraio 2025, con il 92 per cento degli edifici residenziali danneggiati o distrutti. I costi effettivi della ricostruzione potrebbero superare i 100 miliardi di dollari in un arco di tempo compreso tra i 3 e i 5 anni. Ciò rappresenta un’opportunità per trasformare l’economia di Gaza e migliorare le condizioni di vita. Tuttavia, i fondi per la ricostruzione che fluiranno attraverso i tecnocrati palestinesi senza solidi meccanismi anticorruzione e senza il controllo di Hamas saranno dirottati per la ricostituzione di Hamas.
La capacità di monitoraggio internazionale è limitata e organizzazioni come l’UNRWA si sono dimostrate vulnerabili alle infiltrazioni di Hamas. Il denaro destinato alle scuole e agli ospedali può finanziare la ricostruzione dei tunnel e l’acquisto di armi.
L’influenza della comunità internazionale su Israele rimane principalmente economica e diplomatica piuttosto che militare. Diversi organismi internazionali e nazioni possono esercitare pressioni, ma gli aiuti militari americani continuano indipendentemente dalle scelte politiche israeliane. L’effetto combinato crea una pressione sufficiente a costringere l’accettazione di un cessate il fuoco quando le circostanze lo favoriscono, ma insufficiente a imporre un allineamento della politica israeliana con le preferenze internazionali se il governo israeliano ritiene che la sua sicurezza richieda approcci diversi. Ciò crea una dinamica problematica: la pressione internazionale impedisce a Israele di ottenere una vittoria militare decisiva, ma non può imporre esiti che pongano realmente fine al conflitto.
Lo scambio di ostaggi: il rischio morale si è concretizzato
I 48 ostaggi rimasti (20 ancora in vita e 28 deceduti) rappresentano l’ultima risorsa strategica di Hamas e il tallone d’Achille emotivo di Israele. Il loro rilascio entro 72 ore dal ritiro israeliano rappresenta il risultato umanitario più immediato del cessate il fuoco e il suo costo strategico più ingente. Israele rilascerà 250 palestinesi condannati all’ergastolo per reati legati al terrorismo, oltre a circa 1.700 palestinesi detenuti a Gaza dal 7 ottobre, comprese tutte le donne e i bambini. Si tratta del più grande rilascio di prigionieri nella storia di Israele, superiore persino all’accordo per la liberazione di Gilad Shalit del 2011 che ha liberato 1.027 prigionieri, tra cui Yahya Sinwar, l’artefice degli eventi del 7 ottobre.
Il dilemma morale che la leadership israeliana si trova a dovere affrontare è incredibilmente crudele: accettare le condizioni di Hamas e riportare a casa gli ostaggi, oppure mantenere una pressione militare che potrebbe uccidere gli ostaggi ma evita di alimentare futuri atti terroristici. Le famiglie degli ostaggi, riunite in Hostages Square a Tel Aviv, hanno accolto l’annuncio con grande gioia. Einav Zangauker, madre dell’ostaggio Matan, ha dichiarato: “Ho pregato per queste lacrime (…) Matan sta tornando a casa!”. La potenza emotiva di questo momento è innegabile e l’imperativo umanitario di salvare vite umane è profondo. Nessun leader israeliano può facilmente dire a queste famiglie che i loro cari devono rimanere prigionieri per ragioni strategiche.
Tuttavia, il precedente stabilito da questo scambio garantisce di fatto futuri sequestri di ostaggi. L’attacco di Hamas del 7 ottobre ha ucciso 1.195 israeliani e preso 251 ostaggi. Nonostante due anni di devastanti risposte militari che hanno ucciso la leadership, distrutto le infrastrutture e ridotto Hamas al controllo del 20-25 per cento del suo territorio prebellico, Hamas ha negoziato con successo il rilascio di 2 mila prigionieri, tra cui 250 condannati all’ergastolo. Dal punto di vista di Hamas e di altre organizzazioni terroristiche che osservano la situazione, questo rapporto di scambio convalida la presa di ostaggi come strategicamente efficace. I futuri attacchi daranno la priorità alla cattura di israeliani, sapendo che un numero sufficiente di ostaggi costringerà a negoziare indipendentemente dai risultati militari.
I prigionieri rilasciati amplificano queste preoccupazioni. Mentre il governo ha confermato che Marwan Barghouti, leader di Fatah che sta scontando cinque ergastoli e potenziale futuro leader palestinese, non sarà rilasciato, altri 250 prigionieri condannati all’ergastolo saranno liberati. Si tratta di individui condannati per aver pianificato o eseguito attacchi che hanno ucciso israeliani. Molti possiedono competenze tecniche, esperienza operativa e impegno ideologico che li rendono risorse preziose per Hamas. Alcuni torneranno direttamente al terrorismo, altri addestreranno nuove reclute, ricostruiranno reti e trasferiranno conoscenze. La lezione dell’accordo Shalit del 2011 è illuminante: Yahya Sinwar, rilasciato in quello scambio, è diventato il leader di Hamas a Gaza e l’artefice del 7 ottobre. Quanti futuri Sinwar sono inclusi negli attuali 250?
I 1.700 palestinesi detenuti dal 7 ottobre sollevano diverse preoccupazioni. Tra questi vi sono partecipanti al massacro del 7 ottobre, membri di Hamas arrestati durante la guerra e civili arrestati nel corso di operazioni militari. Il piano di Trump offre l’amnistia ai membri di Hamas che si impegnano a coesistere pacificamente e a consegnare le armi, con un passaggio sicuro verso i Paesi di accoglienza per coloro che desiderano lasciare Gaza. Ciò presuppone che i miliziani di Hamas abbandonino davvero la loro causa, un presupposto contraddetto dall’impegno ideologico e dalle reti familiari/sociali che li vincolano alla resistenza continua. La maggior parte dei prigionieri rilasciati rimarrà a Gaza o in Cisgiordania, dove si ricongiungerà alle reti di Hamas o ne creerà di nuove.
Il termine di 72 ore per il rilascio crea ulteriori complicazioni. Secondo le valutazioni dei servizi segreti israeliani, Hamas potrebbe non conoscere l’ubicazione dei resti di 7-15 ostaggi deceduti, che potrebbero essere sepolti sotto le macerie nelle zone devastate dai bombardamenti israeliani. Alcuni ostaggi sono detenuti da gruppi che Hamas non controlla completamente, tra cui la Jihad Islamica e altre fazioni. Se Hamas non riuscisse a consegnare tutti gli ostaggi entro 72 ore, Israele considererebbe l’accordo violato e riprenderebbe le operazioni? Il piano non prevede alcun meccanismo per affrontare questo scenario. In alternativa, se Israele accettasse il ritorno parziale degli ostaggi, quale incentivo avrebbe Hamas a localizzare in un secondo momento gli ostaggi rimanenti?
La manipolazione emotiva utilizzata da Hamas durante la prigionia, attraverso la diffusione di video che mostravano gli ostaggi in condizioni deplorevoli, gravemente malnutriti e sottoposti a torture psicologiche, ha esercitato con successo pressioni su Israele affinché avviasse i negoziati. Questa tecnica verrà replicata. Le future organizzazioni terroristiche, osservando il successo di Hamas, capiranno che tenere gli ostaggi in condizioni sufficientemente crudeli, diffondere video che documentano le loro sofferenze e attendere che la pressione dell’opinione pubblica costringa il governo a fare concessioni rappresenta una strategia collaudata.
Il precedente fa sì che il terrorismo abbandoni la tattica della violenza immediata per puntare sul sequestro prolungato di ostaggi come tattica primaria.
L’approccio alternativo, ovvero mantenere la pressione militare senza negoziare per gli ostaggi, sembra incredibilmente duro, ma rappresenta una logica di deterrenza a lungo termine. Se la presa di ostaggi si rivela costantemente controproducente perché Israele risponde con operazioni militari intensificate che uccidono i rapitori senza fare concessioni, i gruppi futuri eviteranno questa tattica. Le operazioni militari dello Sri Lanka contro le Tigri Tamil sono continuate nonostante le vittime civili e la pressione internazionale fino alla completa distruzione dell’organizzazione. L’approccio della Russia nei confronti dei terroristi ceceni che hanno preso ostaggi nel teatro Dubrovka di Mosca e nella scuola di Beslan ha comportato assalti militari che hanno ucciso terroristi e ostaggi anziché negoziati. Questi approcci hanno impedito futuri sequestri di ostaggi dimostrando che sarebbero falliti.
L’approccio alternativo, ovvero mantenere la pressione militare senza negoziare per gli ostaggi, sembra incredibilmente duro, ma rappresenta una logica di deterrenza a lungo termine. Se la presa di ostaggi si rivela costantemente controproducente perché Israele risponde con operazioni militari intensificate che uccidono i rapitori senza fare concessioni, i gruppi futuri eviteranno questa tattica. Le operazioni militari dello Sri Lanka contro le Tigri Tamil sono continuate nonostante le vittime civili e la pressione internazionale fino alla completa distruzione dell’organizzazione. L’approccio della Russia nei confronti dei terroristi ceceni che hanno preso ostaggi nel teatro Dubrovka di Mosca e nella scuola di Beslan ha comportato assalti militari che hanno ucciso terroristi e ostaggi anziché negoziati. Questi approcci hanno impedito futuri sequestri di ostaggi dimostrando che sarebbero falliti.
La società israeliana, tuttavia, non può sostenere una tale spietatezza, data la responsabilità democratica e i legami emotivi tra cittadini e soldati. La dichiarazione del Forum delle famiglie degli ostaggi e dei dispersi secondo cui “la nostra lotta non è finita, e non finirà, finché l’ultimo ostaggio non tornerà a casa” riflette il sentimento pubblico che nessun governo israeliano può ignorare all’infinito. Questo impulso umanitario rappresenta la forza morale della società israeliana, ma crea vulnerabilità strategiche che le organizzazioni terroristiche sfruttano. Il rischio morale insito nello scambio, ossia che salvare questi ostaggi incoraggia futuri sequestri, non può essere risolto attraverso la politica, ma riflette la tensione fondamentale tra i valori democratici e le esigenze della lotta al terrorismo.
Fase due: la crisi imminente
L’attuazione della Fase Uno nelle prossime 72 ore procederà senza intoppi con il rilascio di tutti gli ostaggi, lo scambio di prigionieri, il ritiro delle forze israeliane secondo le linee concordate, il flusso di aiuti umanitari, oppure fallirà immediatamente a causa dell’incapacità o della riluttanza di Hamas a consegnare tutti gli ostaggi. Se la Fase Uno avrà successo, l’attenzione si sposterà immediatamente sui negoziati della Fase Due, che dovrebbero iniziare durante l’attuazione della Fase Uno. È qui che il cessate il fuoco si consoliderà in un accordo sostenibile o fallirà, dando luogo a un nuovo conflitto.
Le questioni principali che richiedono una risoluzione nella Fase Due sono:
Completo disarmo di Hamas, compresa la distruzione delle armi rimanenti, lo smantellamento degli impianti di produzione e la dismissione permanente delle infrastrutture militari. Hamas non ha assunto alcun impegno in materia di disarmo nella sua risposta del 3 ottobre e ha dichiarato esplicitamente che non deporrà le armi fino alla creazione di uno Stato palestinese. Israele considera il disarmo assolutamente non negoziabile. Ciò rende i negoziati della Fase Due una sorta di confronto a somma zero: o Hamas si disarma e cessa di esistere come forza militare, oppure mantiene le armi e rimane una potenziale minaccia. Non esiste una via di mezzo; un disarmo parziale significa che Hamas mantiene la sua capacità di operare in futuro.
Ritiro completo di Israele da Gaza, tra cui l’evacuazione del Corridoio Philadelphi e delle zone cuscinetto di sicurezza. Hamas chiede il “ritiro completo dalla Striscia di Gaza” con “garanzie reali” che la guerra finisca definitivamente. Israele insiste sul fatto che il ritiro è subordinato ai progressi nella smilitarizzazione con accordi di sicurezza permanenti che garantiscano che Gaza non rappresenti una minaccia. Netanyahu ha ripetutamente affermato che “Israele effettua un ritiro tattico, e rimane a Gaza” con le forze israeliane che mantengono una presenza di sicurezza perimetrale fino a quando Gaza non sarà al sicuro dalle minacce terroristiche. Il linguaggio del piano Trump che collega il ritiro a “standard, tappe fondamentali e tempistiche concordati e legati alla demilitarizzazione” non risolve nulla, poiché la sequenza rimane controversa.
Transizione di governance da Hamas ai tecnocrati palestinesi sotto la supervisione internazionale. Sebbene Hamas abbia accettato di rinunciare all’autorità di governo, ha rifiutato la struttura del “Consiglio di Pace” con Trump e Blair, insistendo sul fatto che solo i palestinesi possono controllare i palestinesi. L’Autorità Palestinese non ha la capacità e la credibilità necessarie per assumere il controllo. Chi governa effettivamente l’amministrazione quotidiana di Gaza, fornisce servizi, mantiene l’ordine, impiega funzionari pubblici e gode di legittimità popolare rimane una questione irrisolta. Senza una governance efficace, elementi criminali, fazioni militanti rivali e Hamas che opera in segreto colmeranno i vuoti.
La creazione di uno Stato palestinese rappresenta l’orizzonte politico finale che potrebbe fornire una soluzione duratura, ma rimane volutamente vaga nel piano di Trump. Il quadro menziona solo che “quando il programma di riforma dell’Autorità Palestinese sarà fedelmente attuato, potrebbero finalmente esserci le condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la creazione di uno Stato palestinese”. Netanyahu ha categoricamente e ripetutamente respinto la creazione di uno Stato palestinese, definendola “il premio finale per il terrorismo” e dichiarando alle Nazioni Unite il 26 settembre: “Israele non vi consentirà di imporci uno Stato terrorista”. Ha sottolineato che questo rappresenta “la politica dello Stato e del popolo dello Stato di Israele”. Hamas insiste sul fatto che la creazione di uno Stato comprenda tutta la “Palestina” storica con Gerusalemme come capitale. Il divario tra queste posizioni non può essere colmato attraverso i negoziati.
La crisi politica interna di Netanyahu complica notevolmente i negoziati della Fase Due. La sua coalizione detiene solo 60 seggi nella Knesset, che ne conta 120, e non ha la maggioranza parlamentare. Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir e il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich hanno entrambi votato contro l’accordo della Fase Uno, con Ben Gvir che ha dichiarato che il suo partito lascerà il governo se Hamas non verrà smantellato nella Fase Due. L’accordo è stato approvato solo perché il leader dell’opposizione Yair Lapid ha offerto una “rete di sicurezza” politica, fornendo voti per impedire il crollo del governo. Questa cooperazione senza precedenti tra rivali, quando gli interessi nazionali coincidono, dimostra la resilienza della democrazia israeliana, ma crea dinamiche insostenibili. Netanyahu deve negoziare contemporaneamente con Hamas e gestire i partner della coalizione che considerano intollerabile qualsiasi accordo con Hamas.
Se i negoziati della Fase Due porteranno a un accordo che richiede ulteriori concessioni da parte di Israele (accettare il disarmo parziale di Hamas, concordare il ritiro completo senza garanzie di sicurezza incondizionate o riconoscere percorsi verso la creazione di uno Stato palestinese) Ben Gvir e Smotrich probabilmente faranno cadere il governo. Se Netanyahu resisterà alle richieste di Hamas e i negoziati si areneranno, aumenterà la pressione internazionale affinché Israele dia prova di flessibilità, mentre Hamas consoliderà il controllo sulle aree da cui Israele si è ritirato. Se i negoziati dovessero fallire completamente e Israele riprendesse le operazioni militari, torneranno le critiche internazionali, amplificate dalle accuse secondo cui Israele avrebbe negoziato in malafede.
Lo scenario più probabile prevede negoziati prolungati nella Fase Due che porteranno ad accordi parziali su questioni secondarie, mentre le questioni fondamentali (disarmo, ritiro, governance, statualità) rimarranno irrisolte. Hamas attuerà riforme sufficienti a mantenere il sostegno internazionale, preservando al contempo la propria capacità di condurre operazioni future. Israele manterrà la propria presenza di sicurezza in alcune aree, ritirandosi da altre, creando accordi ambigui che non soddisferanno nessuno. Verranno istituite strutture di governance tecnocratiche sulla carta, mentre Hamas influenzerà qualsiasi amministrazione attraverso reti clientelari e intimidazioni. Entrambe le parti rivendicheranno progressi mentre si preparano a un eventuale confronto.
I precedenti storici suggeriscono che gli accordi di cessate il fuoco che non risolvono realmente le questioni fondamentali finiscono per fallire. Il cessate il fuoco del novembre 2023 è durato una settimana. Il cessate il fuoco del gennaio 2025 è fallito a marzo. Entrambi i fallimenti sono stati caratterizzati da reciproche accuse di malafede, con Israele che sosteneva che Hamas si fosse rifiutato di rispettare gli accordi e Hamas che accusava Israele di sabotare deliberatamente gli accordi. Questo schema non indica che una delle due parti sia particolarmente inaffidabile, ma che le questioni di fondo che le dividono non possono essere risolte attraverso un compromesso negoziato. O Hamas viene sconfitto militarmente e cessa di esistere come minaccia, oppure sopravvive e alla fine riprende il conflitto quando le circostanze lo favoriscono.
Conclusione: il percorso da seguire
Il cessate il fuoco del 10 ottobre 2025 rappresenta un punto di svolta nella guerra più lunga di Israele. L’accordo arreca benefici immediati tangibili: il ritorno a casa degli ostaggi, la fornitura di aiuti umanitari, la riduzione della pressione internazionale e la sospensione delle operazioni militari, consentendo così alle Forze di Difesa Israeliane di riorganizzarsi e prepararsi per future emergenze. Questi risultati sono importanti e non devono essere sottovalutati. Il ritorno a casa di un solo ostaggio vivo giustifica costi significativi. Fornire aiuti umanitari alla popolazione di Gaza risponde sia a imperativi morali che a interessi strategici, dimostrando l’impegno di Israele a ridurre al minimo le sofferenze dei civili e a prendere di mira i terroristi di Hamas.
Tuttavia, la traiettoria strategica del cessate il fuoco punta verso un rinnovato conflitto piuttosto che verso una pace sostenibile. Le contraddizioni fondamentali dell’accordo, ossia il disarmo di Hamas, la transizione di governance senza alternative funzionali, il ritiro subordinato a una sicurezza che non esisterà, le aspirazioni di uno Stato incompatibili con la politica israeliana) non possono essere risolte attraverso i negoziati perché riflettono posizioni realmente inconciliabili. Hamas sopravvive militarmente indebolito ma intatto a livello organizzativo. La sua ideologia, secondo cui la distruzione di Israele è sia possibile che obbligatoria, rimane immutata. La sua leadership esterna continua a operare da Doha. Il suo comandante militare a Gaza è sopravvissuto. La sua infrastruttura istituzionale, sebbene danneggiata, conserva la capacità di ricostituirsi.
La scelta strategica di Israele si concretizza nei negoziati della Fase Due. Un percorso prevede l’accettazione di risultati parziali: Hamas consegna la maggior parte delle armi, ma non tutte, Israele si ritira dalla maggior parte del territorio, ma non da tutto, la transizione di governance è parziale mentre Hamas mantiene un’influenza informale, la creazione di uno Stato rimane una vaga possibilità. Questo percorso mantiene il cessate il fuoco, soddisfa l’opinione pubblica internazionale e offre un momento di respiro necessario. Garantisce inoltre la sopravvivenza di Hamas e il suo eventuale ritorno al conflitto una volta ripristinate le sue capacità. L’altra strada consiste nell’insistere sulla completa attuazione di tutte le disposizioni della Fase Due: disarmo totale, ritiro completo solo dopo la verifica, esclusione assoluta di Hamas dalla governance e rifiuto esplicito della statualità per le entità terroristiche. Questa strada rischia di far fallire i negoziati, di innescare la ripresa delle operazioni militari e di ripristinare le critiche internazionali. Ma potenzialmente completa la missione della sconfitta definitiva di Hamas.
La scelta non è tra vittoria e compromesso, ma tra azione decisiva e deriva strategica. Il governo dello Sri Lanka si è trovato di fronte a una scelta simile nel 2009: accettare accordi di condivisione del potere con le Tigri Tamil, preservandone così la capacità, o completare le operazioni militari distruggendole completamente, nonostante la pressione internazionale. Lo Sri Lanka ha scelto il completamento. Oggi le Tigri Tamil non esistono più. Il Perù si è trovato di fronte a una scelta simile con Sendero Luminoso: negoziare la condivisione del potere o catturarne la leadership e smantellare il movimento. Il Perù ha scelto di catturare i leader. Oggi, Sendero Luminoso è un ricordo storico. La Germania nazista e il Giappone imperiale non sono stati moderati attraverso negoziati, ma distrutti completamente e le loro società sono state ricostruite da zero. Questi esempi storici hanno avuto successo non grazie alla sofisticatezza diplomatica, ma grazie all’impegno costante nel raggiungere una vittoria autentica a prescindere dai costi.
L’attuale cessate il fuoco offre a Israele l’opportunità di prepararsi al collasso della Fase Due rafforzando il proprio governo di coalizione, assicurandosi il sostegno internazionale per una potenziale ripresa delle operazioni, mantenendo la prontezza militare e sviluppando strutture di governance alternative per Gaza che non dipendano dalle capacità dell’Autorità Palestinese. Se i negoziati della Fase Due dovessero sorprendentemente riuscire a ottenere il completo disarmo di Hamas e la sua esclusione permanente dalla governance, Israele dovrebbe accogliere con favore tale risultato, mantenendo al contempo meccanismi di verifica per impedire la ricostituzione segreta di Hamas. Se la Fase Due dovesse fallire come previsto, Israele dovrà essere pronto a portare a termine le operazioni in modo deciso, piuttosto che accettare un altro cessate il fuoco che preservi Hamas in forma indebolita.
I due anni trascorsi dal 7 ottobre hanno dimostrato la vulnerabilità di Hamas a una pressione militare prolungata. La sua leadership è stata eliminata, le sue capacità militari sono state ridotte, il suo controllo territoriale è diminuito, le sue risorse finanziarie sono state esaurite e la sua rete di sostegno internazionale è stata smantellata. L’organizzazione è sopravvissuta, ma a stento. Per completarne la sconfitta occorrerà forse un altro anno di operazioni: distruzione totale dei tunnel, eliminazione della leadership residua, smantellamento istituzionale e sostituzione dell’establishment governativo. Questo percorso comporta dei costi: ulteriori vittime tra le Forze di Difesa Israeliane, continue critiche internazionali, impegno militare prolungato e tensioni politiche interne. Ma l’alternativa, ossia accettare la sopravvivenza di Hamas e scommettere che gli accordi politico-diplomatici ne impediranno la rinascita, garantisce un futuro conflitto in circostanze potenzialmente meno favorevoli di quelle attuali.
La lezione fondamentale del 7 ottobre è che la deterrenza basata sulla comprensione reciproca fallisce contro avversari la cui ideologia esige la distruzione di Israele a qualsiasi costo. L’attacco di Hamas è stato militarmente irrazionale: ha garantito una risposta devastante da parte di Israele senza alcuna possibilità realistica di vittoria strategica. Hamas lo ha lanciato comunque perché l’ideologia ha prevalso sul calcolo razionale. La convinzione che Hamas, avendo sperimentato la potenza militare israeliana, accetterà ora una coesistenza pacifica attraverso accordi di governance tecnocratica confonde il pragmatismo tattico con la sconfitta strategica. I nemici veramente sconfitti non negoziano i termini; si arrendono incondizionatamente o cessano di esistere.
Israele deve decidere: accettare i benefici immediati del cessate il fuoco pur riconoscendo che probabilmente esso preserva anziché risolvere il conflitto sottostante, oppure utilizzare i negoziati della Fase Due per insistere sulla completa sconfitta di Hamas, comprendendo che ciò potrebbe richiedere la ripresa delle operazioni. Entrambe le strade comportano rischi profondi. La scelta sbagliata, tuttavia, è credere che un compromesso negoziato possa colmare il divario tra l’esistenza di Israele e l’ideologia di Hamas che ne esige la distruzione. Alcuni conflitti si concludono con un compromesso, altri con una vittoria. Il 7 ottobre ha dimostrato in quale categoria rientra questo conflitto. La domanda è se Israele possiede la chiarezza strategica e la volontà politica per agire di conseguenza.
Gli ostaggi torneranno a casa. Gaza sarà ricostruita. Il cessate il fuoco avrà una durata temporanea. La seconda fase dei negoziati inizierà con la dovuta serietà diplomatica. E a un certo punto, tra settimane, mesi, forse un anno, le contraddizioni fondamentali insite in questo accordo emergeranno, poiché Hamas si opporrà al disarmo, Israele rifiuterà il ritiro completo, le strutture di governo si dimostreranno inadeguate ed entrambe le parti si prepareranno a un nuovo conflitto. Quando arriverà quel momento, Israele dovrà scegliere tra accettare un accordo inadeguato che preserva la minaccia terroristica o portare a termine la missione resa necessaria dal 7 ottobre. La scelta di oggi è prepararsi a quella inevitabile decisione di domani.
Traduzione di Angelita La Spada
https://www.meforum.org/mef-online/the-ghost-of-gaza-how-hamas-survived
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DiNiram FerrettiPostato il 12 Ottobre 2025
Il palazzo della Knesset addobbato con illuminazione USA, blu rosso e bianco, è l’emblema dell’accordo raggiunto tra Israele e Hamas, in virtù dell’imposizione di Donald Trump, il quale, pochi giorni fa, ha dichiarato che l’accordo andava bene anche a Netanyahu, perché con lui “è meglio andare d’accordo”.
È chiaro a tutti che questo accordo, che, nella prima fase vede la liberazione degli ostaggi, il principale asset di Hamas, arriva in un momento in cui Israele è alle corde, dopo il fallito attentato in Qatar, dopo due anni logoranti di una guerra che non accenna mai a concludersi nonostante operazioni folgoranti in Libano e in Iran e la decapitazione dell’intero vertice storico di Hamas, a fronte di un Paese sfinito, e per il quale, la priorità non è più da tempo la sconfitta di Hamas ma la liberazione degli ostaggi.
Il piano Trump, faraonico nella sua architettura e basato sul presupposto delle magnifiche sorti e progressive, più che il frutto di una concertazione, è quello della presa d’atto americana che Netanyahu non ha predisposto nulla per il dopoguerra continuando imperterrito ad annunciare per due anni che gli ostaggi sarebbero stati portati a casa e che Hamas sarebbe stato sconfitto, due obiettivi inconciliabili se non praticabili unicamente nella fantasia degli irriducibili ottimisti nonostante l’evidenza contraria. Spem contra spem.
Alla vigilia dell’assegnazione del premio Nobel per la Pace Trump ha voluto il suggello del pian0 coltivando l’illusione che a Oslo sarebbero rimasti particolarmente impressi.
In attesa degli ostaggi e della fine di un incubo per loro e le loro famiglie si cerca in tutti i modi di affermare che la vittoria è stata conseguita, ma appare evidente che questo è solo uno spot pubblicitario nel quale sia Trump che Netanyahu sono maestri.
Nella prospettiva del piano, a Hamas è chiesto di liquidarsi, ovvero di cedere le armi e sparire dalla scena. Sarebbe bello se i trattasse del finale di un film di Frank Capra, la realtà però resta maledettamente complicata e poco incoraggiante. In una Gaza in cui Israele inizia già a retrocedere e nella quale si è impegnato a non riprendere più la guerra, la formazione jihadista responsabile del 7 ottobre, dichiara già che si disarmerà solo e quando dei soldati israeliani ci saranno pochi drappelli e consegnerà le armi solo ai fratelli arabi. Nessuno dotato del minimo senso della realtà riesce a credere che poi, come per miracolo si ritirerà in Svizzera con i forzieri pieni.
Il jihad, di cui Hamas è impregnato, è il nocciolo duro della questione e non ci sono agi o incentivi che possano depotenziarlo, ma solo l’opzione militare, come è stato per Al Qaeda o con l’Isis, il resto sono solo illusioni ad occhi spalancati.
Festeggiamo dunque quando avverrà, il ritorno degli ostaggi, ma dopo la festa si dovrà fare i conti con quel che resta, non del giorno, ma di Hamas, che a Gaza è ancora in sella.