lunedì 30 settembre 2019

Il grande scrittore non è un oracolo: non indica, ma svela

Marco Archetti
Il foglio
29 SETTEMBRE, 2019
“Una domenica” (Einaudi) è il nuovo romanzo di Fabio Geda. Un romanzo che sembrerebbe germinare – in senso letterale – dalla frase di Raymond Carver che l’autore, non a caso, affigge in esergo. La frase recita: “C’è da scriverci un racconto: prendiamo un uomo che vive da solo tranne nei fine settimana quando un paio di nipoti scendono da Spokane”. E così, grazie alla voce narrante della figlia Giulia, Geda ci racconta di un uomo, un vedovo, un ex costruttore di ponti in giro per il mondo, che un giorno, assalito dai ricordi intermittenti di quando era la moglie a farlo, per la prima volta si cimenta nella preparazione di un pranzo di famiglia (se vi interessa il menù: tagliatelle, pollo in gelatina, cipolle ripiene e budino di Seraiss). Ma all’ultimo momento, per sopraggiunte urgenze ospedaliere, la famiglia non si presenta. L’uomo è disorientato: grande l’amarezza, lunga la passeggiata per prenderne atto – passeggiata al termine della quale, in un parchetto frequentato da alcuni skater, l’uomo incontra Elena e suo figlio. E siccome da qui il racconto abbandona la strada vecchia per la nuova e una rampa “quarter pipe” sarà solo il primo passo verso nuove e insperate possibilità perfino per un uomo che sembrerebbe aver perso tutte le possibilità, a parte consigliarne la lettura, altro non si farà.
Un passo indietro, però, sì. E precisamente a pagina 42. Perché è lì che la scrittura di Geda, in un solo paragrafo, riesce a darci tanto quanto un intero corso di scrittura creativa. Facendo quel che dovrebbe fare sempre la scrittura, ossia: trattenere un istante e riempirlo di un significato. La scena è semplicissima. E vede un padre e un figlio che stanno parlando via Skype. La comunicazione è disturbata, a un certo punto si interrompe, e “l’immagine di Alessandro restò congelata sullo schermo in una smorfia in cui papà – e raccontandomelo, anni dopo, ha fatto una pausa e ha assunto un’espressione di delusione infantile, quella di un bambino cui a causa del maltempo è negato il permesso di andare al parco e scopre di dover passare a casa il resto della giornata – ecco, una smorfia in cui papà, dicevo, riconobbe qualcosa di mamma: le sopracciglia inarcate, forse, o le labbra invisibili, o la fossetta sulla guancia dove io, un milione di anni prima, lo avevo colpito con uno schiaffo”. Ecco: trattenere un istante – quello in cui occorre un contrattempo normalissimo, di quelli che capitano quotidianamente come una linea che salta – e riempirlo di qualcosa che non fugga, ma che resti; che resti sulla carta così come nell’animo di chi legge. Qualcosa che assomigli a un momento reale, breve come un respiro, affollato come un moto interiore.
Inevitabile ripensare a Primo Levi, il quale si riferiva sempre allo scrittore come a un cacciatore. Un cacciatore di dettagli, di inavvertiti accadimenti, e di tutti quei momenti che andrebbero perduti nel tempo come lacrime nella pioggia, momenti in cui la vita solamente accenna e poi se ne va da un’altra parte senza spiegarci niente. Alla letteratura, il compito di rivelare. Alla letteratura il compito di farsi segno tangibile di ciò che è intangibile. Alla letteratura, l’onere di nominare. La letteratura, in fondo (ma anche in superficie), non è altro che la prosecuzione della vita con altri mezzi, non nel senso che ne sia un’appendice della vita o una sua verbosa didascalia, ma al contrario, il compimento di ciò che, nello srotolarsi irregolare delle cose e dei giorni, è a malapena accennato, oscuramente imbozzolato, pura allusione. La letteratura esiste per afferrare quei bozzoli e per svolgerli, per dispiegarli, perché li prende e li rigenera, dà loro un nome, un volto, il pensiero di un personaggio, li fa parlare, si fa acuto lirico del balbettio frettoloso delle cose. Ma sempre coi mezzi necessari – cioè i giusti mezzi. Basterebbe leggere anche solo un grande romanzo nella vita per godere di innumerevoli occasioni di comprensione della complessità dell’esistenza. È proprio per questo che leggere è un’esperienza che allarga la vita, la arricchisce e la moltiplica: laddove la vita, con la sua lallazione semi-incomprensibile, è avara, brutalmente sintetica, crudamente implicita, ecco che il grande scrittore (e Carver lo era, anche se è andato un po’ troppo di moda e nel suo fan club siedono, a volte, dei grandi insopportabili) – fa il contrario dell’oracolo di Delfi: non indica, ma svela. Non suggerisce, ma definisce. Non allude, ma conclude.
La vita è solo una scusa perché esista la letteratura

domenica 22 settembre 2019



Victor Šklovskij
VIAGGIO SENTIMENTALE MEMORIE 1917-1922 Traduzione di Mario Caramitti Nota introduttiva di Serena Vitale
Adelphi eBook

Dì che sei di carta
Serena Vitale

Grigorij Semënov nacque nel 1891 a Jur’ev (oggi Tartu), ultimo rampollo di una nobile famiglia. Anarco-comunista, ospite abituale delle patrie carceri fin da quando aveva quattordici anni, si andò progressivamente accostando al Partito socialista rivoluzionario, che dopo la rivoluzione di Febbraio contava un milione d’iscritti. Alla fine del ’17 ne guidava l’organizzazione militare. A partire dal maggio ’18 Semënov organizzò una serie di attentati contro i capi di quella che per i socialrivoluzionari era l’aborrita, antidemocratica «dittatura bolscevica». Il 20 giugno 1918 fu ucciso Volodarskij, membro del Presidium del Comitato esecutivo centrale panrusso; il 30 agosto (lo stesso giorno in cui a Mosca Fanja Kaplan sparò a Lenin –di propria iniziativa, sostenne prima di essere giustiziata, ma la pistola apparteneva a Semënov) venne assassinato Urickij, capo della Čeka di Pietrogrado. Nelle fucilazioni che immediatamente seguirono, morì, tra l’altro, un fratello di Šklovskij. Il 2 settembre Sverdlov annunciò l’inizio del «terrore rosso». Abile politicante, coraggioso quanto spregiudicato guerrigliero, Semënov finì col richiamare la non disinteressata attenzione dei bolscevichi: i socialrivoluzionari gli portavano un grandissimo rispetto e mai nessuno ne avrebbe messo in dubbio l’integrità morale, la devozione alla causa. Indotto a tradire, entrò segretamente nel Partito comunista. L’uomo («ottuso», con il «vuoto torricelliano nell’anima»), che portava sempre una grossa Mauser infilata nella cintura, intorno alla metà del ’19 iniziò la sua nuova carriera di spia, di agente segreto. Era il febbraio del ’22 quando pubblicò a Berlino un libretto di quarantatré pagine, senza indicazione dell’editore: Attività militare e sovversiva del Partito socialista rivoluzionario nel 1917-18. Vi si leggeva, fra l’altro: «Capo della sezione Mezzi blindati era Šklovskij, suo assistente Bergman. Un po’per volta la sezione creò una divisione segreta di mezzi corazzati di riserva; ritenevamo che ci sarebbe servita quando fossimo passati all’azione. Approfittando delle conoscenze che aveva nell’ambiente, Šklovskij, che per molto tempo aveva prestato servizio come militare in un battaglione di mezzi corazzati, raccolse gli uomini ... Il centro militare operativo fu trasferito a Saratov ... Lì venne mandata anche la nostra divisione segreta con a capo Šklovskij...». Non a caso il libricino di Semënov, delatorio vademecum dell’opposizione armata clandestina, presto ripreso dalla stampa sovietica, vide la luce quando si stava preparando il processo ai «socialrivoluzionari di destra» –primo grande processo politico dimostrativo nella Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa e primo processo, nella storia, in cui gli accusati erano divisi in «pentiti» e «non pentiti». Sarebbe stato celebrato a Mosca dall’8 giugno al 7 agosto 1922.     La sera del 4 marzo 1922, tornando alla Casa delle arti con lo slittino su cui trasportava la legna che l’indomani avrebbe consegnato ai genitori, Šklovskij notò che le luci alle finestre della sua stanza erano accese. Non poteva essere il fantasma di Eliseev, padrone del palazzo prima che venisse espropriato, né quello di Quarenghi, che oltre un secolo prima ci aveva abitato. Chiese a Efim Egorovič, unico custode rimasto dai vecchi tempi: «Efim, c’è qualcuno da me?». «Proprio così, Viktor Borisovič, avete ospiti». E Viktor Borisovič si dileguò nella notte. Portò ai genitori la legna, dormì non si sa dove, il giorno dopo andò a visitare Tynjanov: «Era un po’teso ma per nulla spaventato. Era più o meno quello di sempre, non particolarmente allegro, ma in grado di raccontare non solo che la Čeka lo stava cercando dappertutto –parlò anche delle forme prosodiche di Nekrasov, su cui in quel periodo Tynjanov stava lavorando...» (V. Kaverin). Nessuno sa dove trascorse le due settimane successive all’imboscata, al mancato arresto. Una notte, portandosi dietro quello stesso slittino, simbolo della nuova preistoria in cui era precipitata la Russia («... epoca tremenda, primordiale. È sotto i miei occhi che hanno inventato la slitta»), ripeté l’itinerario di Lenin nel 1907: sulle acque ghiacciate del golfo di Finlandia abbandonò clandestinamente la Russia. Il 16 marzo scrisse a Gor’kij da Raivola:   «Caro Aleksej Maksimovič, «su di me si è abbattuto un fulmine. «Nella brochure pubblicata a Berlino Semënov ha fatto il mio nome. «Volevano arrestarmi, mi hanno cercato dappertutto. Alla fine sono fuggito ... Non so come riuscirò a vivere senza la Russia. Ora sono nel posto di quarantena. Sto per scrivere il seguito di La rivoluzione e il fronte...».   In una lettera successiva (24 marzo) chiese a Gor’kij di offrire quel «seguito» all’editore Gržebin –«... poiché comunque Semënov ha reso pubblico molto di quello che ho fatto, voglio scriverne io». Così nacque Viaggio sentimentale. Talvolta la delazione giova alla letteratura.     Nel Punteggio di Amburgo Šklovskij raccontò: «Ho scritto Viaggio sentimentale in Finlandia; in dieci giorni, credo, perché avevo davvero bisogno di soldi. Non è che io sia capace di scrivere un libro ogni dieci giorni –il libro ovviamente era già pronto dentro di me e si è risvegliato in soli dieci giorni». In realtà Viaggio sentimentale si compone di almeno tre testi scritti in epoche diverse: 1) La rivoluzione e il fronte (giugno-agosto 1919), pubblicato nel 1921 dall’editore Gržebin, che però non volle far comparire il proprio nome. Autobiografia di un intellettuale russo inquieto, insofferente, in ogni senso nemico dell’immobilismo. Il giovane ricciuto che non ha portato a termine gli studi di filologia all’università ma ha già pubblicato La resurrezione della parola («Oggi le parole sono morte e la lingua somiglia a un cimitero...»), sodale dei cubofuturisti e dei membri di quello che sarà l’OPOJAZ, nel ’14 parte volontario per il fronte. L’anno successivo torna a Pietrogrado e, «spinto dalla fame», diventa istruttore in una scuola per autieri. Riparte –per il fronte sud-occidentale, questa volta; il coraggio gli vale una Croce di San Giorgio. Mosso da un’angosciosa malinconia, un malessere che lo incalza «come la luna spinge un sonnambulo sul tetto», incapace di restare per lungo tempo fermo nello stesso luogo, riesce a farsi mandare in Persia, dove sta per iniziare l’evacuazione delle truppe russe. Ciò che ogni volta vede al fronte, russo o sovietico (nell’estate del ’20 combatte con l’Armata Rossa nel Sud), lo conferma nell’idea che l’esercito del suo paese sia da tempo, da ancor prima della rivoluzione, gravemente malato. Avrebbe bisogno di delicati interventi chirurgici, ma i nuovi padroni della Russia sono chiaramente più inclini alla vivisezione. 2) Epilogo, pubblicato nel febbraio 1922. Sulla copertina del piccolo libro sono indicati due autori: Viktor Šklovskij e Lazar’Zervandov. Racconto, dalle cadenze a tratti bibliche, di un tragico esodo –quello degli assiri dalla Persia, dove i più sanguinosi massacri erano ormai routine quotidiana. 3) La scrivania. Paralipomeni dolenti, qua e là risentiti, del libricino di Semënov. Il lavoro –brutto, sporco, pericoloso –cospirativo. Il fallimento della congiura antibolscevica di Saratov, dove Šklovskij è costretto a nascondersi in un manicomio. L’amnistia. Il tentativo di abbattere Skoropadskij, autoproclamatosi «etmano di tutta l’Ucraina», in una caotica e opulenta Kiev (quella della Guardia bianca, dove Bulgakov ritrae beffardamente Šklovskij come il «fantasmista-futurista Špoljanskij»), che sembra abitata soltanto dai fuoriusciti russi in attesa degli «alleati» e dagli occupanti tedeschi. Di nuovo Pietrogrado: la fame, il gelo, le infinite code ovunque si vendesse o «distribuisse» qualcosa da mangiare, da ardere. La Casa delle arti, stultifera navis (O. Forš) e salvifico rifugio per molti grandi –poeti, prosatori, studiosi di letteratura –del tempo. I «Serapionidi», i «fratelli» di cui Šklovskij era anche l’amato maestro. La morte di Aleksandr Blok –fine di un’intera epoca, di una civiltà. Sempre in movimento, spesso in fuga, ora con i capelli viola, ora giallo come un canarino per l’itterizia, Šklovskij viaggia anche sui tetti o sui pavimenti dei treni, si lancia dai vagoni in corsa, con i suoi racconti da «narratore professionista» incanta come Shahrazad i funzionari della Čeka e torna in libertà, si sposa, si batte in duello per una donna che non è sua moglie... E legge, scrive. Lavora essenzialmente al Legame tra i procedimenti di composizione dell’intreccio e i procedimenti generali dello stile. È infatti «il fondatore della scuola russa del metodo formale (o morfologico)».     L’«eroe» del Viaggio sentimentale: quanto di meno eroico si possa immaginare. È audace fino alla spericolatezza, intelligente, ingegnoso, astuto, capace di adattarsi alle più ingrate circostanze (non lo fermano la povertà, la fame, la devastazione –nulla: «Posso scorrere come acqua e trasformarmi...»), eppure la sua storia è una quasi ininterrotta teoria di insuccessi. Dal fallimento della congiura socialrivoluzionaria di Saratov al sabotaggio delle autoblindo di Skoropadskij, che finisce per risolversi a favore dei nazionalisti di Petljura, dal vano tentativo di arrestare lo sfacelo dell’esercito russo in Persia alla tragicomica disavventura dell’esperto artificiere che per poco non si ammazza facendo esplodere il detonatore a cui ha incautamente avvicinato la sigaretta accesa. Il vero eroismo di Šklovskij è altrove –nella sua inafferrabilità. Non soltanto la Čeka è incapace di catturarlo. Perché il Percy Blakeney russo vive negli intervalli, nelle lacune, negli spazi vuoti, «nei buchi delle ciambelle». Una sera, nascondendolo in una stanza del Circolo linguistico di Mosca, Roman Jakobson gli disse: «Se stanotte ci sarà una perquisizione, tu fruscia, e di’che sei carta». Consiglio quasi superfluo. Šklovskij era «carta»: la sua vita si trasformava immediatamente in testo. Un testo, una pagina «ironica e distruttiva», come è sempre l’arte che ridà vita all’esistente. Nella Mosca postrivoluzionaria alcuni soldati occupano il secondo piano di un edificio ormai deserto. Chiuso a chiave l’appartamento al primo piano, aprono un largo foro nel pavimento e lo usano come latrina: «Più che una porcheria era un utilizzo delle cose da un nuovo punto di vista»... Significativa benché non olezzante variazione sul tema dell’arte e del fin troppo famoso, citato, «straniamento» šklovskiano: guardare le cose da un nuovo punto di vista, semplicemente. E poi scriverne. Con frasi essenziali, brevissime, in cui i legami sintattici sono ridotti al minimo. Con molti spazi vuoti, bianchi. Tutto il resto –anche le lacrime –è andato a finire nel piano inferiore della vita. 
    P.S. Accusato di crimini immaginari, l’8 ottobre del funesto anno 1937 Grigorij Semënov venne giustiziato.

Abbiamo usato la cosiddetta traslitterazione scientifica dal russo oggi di uso comune. La c si legge come la z sorda di «zucchero», č come la c di «cibo», ch come ch nel tedesco ich, š come la sc di «scimmia», ž come la j nel francese jamais, ë come il dittongo io in «rivoluzione». Delle località citate nel testo si è mantenuto il nome con cui erano note all’epoca degli eventi narrati. Ciò non vale per Pietroburgo: benché ribattezzata Pietrogrado nel 1914, Šklovskij continua a chiamarla prevalentemente col suo vecchio nome (o, talvolta, con l’affettuoso, familiare Piter). Quanto ai toponimi ucraini e dei territori che allo scoppio della prima guerra mondiale facevano parte dell’Impero russo, si è sempre adottata la grafia russa. 


PARTE PRIMA LA RIVOLUZIONE E IL FRONTE
Prima della rivoluzione ero istruttore in un battaglione corazzato di riserva: una posizione privilegiata nell’esercito. Non dimenticherò mai il tremendo senso di oppressione che provavamo io e mio fratello, scritturale allo stato maggiore. Ricordo le corse furtive per strada dopo le otto di sera, i tre mesi di fila chiusi in caserma, ma soprattutto i tram. La città era stata trasformata in un accampamento militare. I «duesoldi», così chiamavano i soldati delle ronde, che, si diceva, ricevevano due copechi per ogni arrestato, ci davano la caccia, ci inseguivano nei cortili, ci portavano davanti alla commissione di disciplina. Causa di quella guerra erano i tram stracarichi di soldati che si rifiutavano di pagare il biglietto. Gli alti gradi ne facevano una questione d’onore. Noi, la massa dei soldati, li ricambiavamo con un sabotaggio sordo e incattivito. Sarà infantile, ma sono convinto che quel tenerci nelle caserme, strappati a casa e lavoro, senza mai una licenza, a far nulla e marcire sulle brande, l’accidia da caserma, la cupa estenuazione e la rabbia dei soldati ai quali si dava la caccia per le strade, hanno, tutt’insieme, alimentato la rivolta nella guarnigione di Pietroburgo più che le continue disfatte al fronte e le insistenti, sempre più diffuse voci sul «tradimento della corte». Attorno ai tram si andava creando uno specifico folklore, squallido e inconfondibile. Ad esempio: una crocerossina viaggia con dei feriti, un generale se la prende con i feriti, offende pure la crocerossina. Allora quella getta via il mantello e si scopre che ha l’uniforme da granduchessa; dicevano proprio così: «uniforme». Il generale si mette in ginocchio e chiede perdono, ma lei non lo perdona. Un folklore, come vedete, ancora a tutti gli effetti monarchico. L’episodio veniva ambientato ora a Varsavia, ora a Pietroburgo. C’era anche la storia del cosacco che ammazza un generale perché quello voleva tirarlo giù dal tram e strappargli le onorificenze. Un omicidio per via del tram sembra ci sia stato davvero da noi in città, anche se il generale lo ricondurrei piuttosto a una rielaborazione epicizzante; a quell’epoca i generali ancora non andavano in tram, salvo alcuni a riposo e in miseria. Nei reparti non si faceva propaganda politica; almeno non nel mio, dove passavo tutto il tempo con i soldati, dalle cinque-sei del mattino fino alla sera. Non si faceva, cioè, propaganda di partito, ma indipendentemente da quella la rivoluzione era comunque data per certa: si sapeva che ci sarebbe stata, solo ci si aspettava che sarebbe scoppiata dopo la guerra. Chi potesse fare propaganda nei reparti proprio non c’era: gli iscritti ai partiti erano pochissimi e, se anche c’erano, si trattava di operai che non avevano quasi nessun legame coi soldati; l’intelligencija, nel senso più elementare della parola, cioè chiunque avesse fatto almeno due classi di ginnasio, era finita tutta tra gli ufficiali, che si comportavano, per lo meno nella guarnigione di Pietroburgo, non meglio, o forse peggio, degli ufficiali di carriera. I sottotenenti erano impopolari, soprattutto nelle retrovie, attaccati com’erano coi denti al battaglione di riserva. Di loro i soldati cantavano: Prima «razza di pezzente», ora «sì, signor tenente». Molti di loro avevano l’unica colpa di essersi lasciati attrarre con troppa leggerezza dall’aura sontuosa di cui era ammantata l’estenuante disciplina delle scuole militari. In gran numero questi stessi hanno poi sposato la causa della rivoluzione, pur se, va detto, con troppo facile trasporto, analogo a quello con cui erano diventati ottusi e brutali esecutori di ordini. Non meno diffusa era la storia di Rasputin; storia che a me non piaceva, perché nel modo in cui veniva raccontata era evidente lo sfacelo spirituale della popolazione. Il successo dei libelli postrivoluzionari della serie «Grigorij: brogli e onori» mi ha fatto capire che, per le più vaste masse, Rasputin era una specie di eroe nazionale, un po’come il Van’ka dei canti popolari, quello che va a letto con la principessa. Ma ecco che per effetto di tutta una serie di cause, alcune delle quali laceravano i nervi e innescavano scintille, mentre altre agivano dall’interno, modificando progressivamente la psiche del popolo, le catene arrugginite che imprigionavano la Russia si sono tese oltre ogni limite. La città era sempre peggio approvvigionata, c’era penuria di tutto, almeno per come eravamo abituati allora. Il pane scarseggiava, davanti ai negozi si formavano lunghe file, al canale Obvodnyj avevano cominciato a saccheggiare i forni, e i fortunati che erano riusciti a procurarsi il pane lo portavano a casa tenendolo ben stretto, rimirandolo deliziati. Rivendevano il pane anche i soldati, nelle caserme erano scomparsi i tozzi secchi e le croste, prima marchio di fabbrica, assieme all’aria inacidita, di quei luoghi di costrizione. Il grido «pane!» risuonava sotto le finestre e davanti ai portoni delle caserme, dove si era di molto allentata la vigilanza di sentinelle e sottufficiali di picchetto, che ormai lasciavano uscire liberamente i commilitoni. Senza più alcuna fiducia nel vecchio ordinamento, schiacciata dalla mano crudele ma ormai titubante dei superiori, la caserma era in fermento. All’epoca non solo i soldati di carriera, ma qualunque coscritto che raggiungesse i ventidue-venticinque anni era una rarità. Tanto spietato e insulso era stato il massacro della guerra. I sottufficiali di carriera erano stati inseriti come soldati semplici nei primi contingenti ed erano morti in Prussia, a L’vov e durante la celebre «grande» ritirata, quando l’esercito russo aveva lastricato la terra di cadaveri. Il soldato pietroburghese di quei giorni era un contadino insoddisfatto o un borghesuccio. Non li avevano neanche vestiti di pastrani grigi: glieli avevano gettati addosso, formando quella marmaglia, quelle bande e combriccole che venivano chiamate battaglioni di riserva. In sostanza, le caserme erano diventate stalle dove a suon di cartoline precetto venivano rinchiuse mandrie di uomini. In termini di percentuale numerica, rispetto alla massa dei soldati, i graduati probabilmente non erano più numerosi degli aguzzini che sorvegliavano gli schiavi imbarcati sulle navi negriere. Ma dietro le pareti delle caserme le voci correvano: «Gli operai si preparano a scendere in piazza», «quelli di Kolpino vogliono marciare sulla Duma il 18 febbraio». Metà contadini, metà popolino, i soldati nel loro insieme avevano scarsi legami con gli operai, ma le circostanze andavano delineandosi in modo da favorire una deflagrazione. Ricordo i giorni della vigilia. Gli istruttori autieri e i carristi che andavano fantasticando di rubare un blindato, sparare contro la polizia e poi abbandonarlo fuori porta con il biglietto: «Da riportare al maneggio». Un tratto molto caratteristico: non veniva meno l’attaccamento ai mezzi. Evidentemente non c’era ancora la convinzione di poter abbattere il vecchio regime, volevano soltanto fare gazzarra. E con i poliziotti ce l’avevano da un pezzo, in primo luogo perché quelli avevano scampato il fronte. Ricordo che un paio di settimane prima della rivoluzione, mentre marciavamo a ranghi compatti per la strada (almeno in duecento), abbiamo incontrato un drappello di poliziotti di quartiere, e li abbiamo sfottuti subissandoli di grida: «Scagnozzi! Scagnozzi!». Gli ultimi giorni di febbraio la gente saltava letteralmente addosso alla polizia, i reparti di cosacchi mandati di rinforzo giravano a cavallo per le strade senza toccare nessuno, scherzando allegramente. Il che rinfocolava ancora di più gli umori insurrezionali della folla. Sul Nevskij prospekt ci sono stati degli spari, anche dei morti, un cavallo morto è restato a lungo sulla strada, non lontano dall’incrocio con il Litejnyj. Mi è rimasto impresso, tanto allora era uno spettacolo insolito. In piazza Znamenskaja un cosacco ha ucciso un ispettore di polizia che aveva dato una sciabolata a una dimostrante. Le pattuglie sulle strade non sapevano che cosa fare. Ricordo la perplessità di un plotone con piccole mitragliatrici a rotelle (l’affusto Sokolov) e le cartuccere nelle bisacce dei cavalli: evidentemente un plotone di mitraglieri con il supporto di animali da soma. Erano fermi in via Bassejnaja, all’angolo con via Baskovaja. Una mitragliatrice, come una bestiolina, se ne stava afflosciata sul selciato, pure lei perplessa, circondata da una folla che non l’attaccava ma spingeva con le spalle, come priva di mani. Sul Vladimirskij prospekt c’erano le pattuglie del reggimento Semënovskij, di famigerata crudeltà. Titubanti anche loro: «Non c’entriamo niente, facciamo come tutti gli altri». Il poderoso apparato repressivo predisposto dal governo si era bloccato. Durante la notte ha rotto i freni il reggimento di Volinia: si sono messi d’accordo tra loro, e al comando: «Tutti alla preghiera!» si sono precipitati ai fucili, hanno assaltato l’armeria per rifornirsi di munizioni, sono corsi in strada e, dopo aver coinvolto alcuni piccoli reparti lì nei pressi, hanno cominciato a piazzare pattuglie nella loro zona, il Litejnyj prospekt. Tra l’altro i voliniani hanno dato l’assalto pure alle nostre celle di rigore, che stavano vicino alla loro caserma. I soldati liberati si sono presentati ai superiori. I nostri ufficiali avevano assunto una posizione neutrale, anche loro nella moderata forma di opposizione del giornale «Večernee vremja». La caserma era in subbuglio, aspettavano che arrivasse qualcuno per farli uscire. I nostri ufficiali dicevano: «Fate quello che volete». Per strada, nel mio quartiere, gli ufficiali già venivano disarmati da uomini in borghese che saltavano fuori a gruppetti dai portoni. Benché di tanto in tanto si sentissero degli spari, davanti ai palazzi c’era molta gente, anche donne e bambini. Sembravano aspettare un matrimonio, o un funerale solenne. Già tre o quattro giorni prima, per ordine dei superiori, erano stati resi inservibili tutti i nostri mezzi. Nel nostro garage Belinkin, un ingegnere, volontario nell’esercito, ha restituito ai soldati e agli operai i pezzi che erano stati smontati. Ma i blindati del nostro garage li avevano trasferiti al maneggio del castello Michajlovskij. Sono andato al deposito, già pieno di gente che portava via le macchine. Per i blindati mancavano i pezzi. La prima cosa che mi è sembrato opportuno fare è stato rimettere in sesto un’autoblindo Lanchester armata di cannoncino. I pezzi di ricambio li avevamo noi alla scuola. Dove subito sono tornato. I sottufficiali di picchetto e i soldati di turno, pur in grande agitazione, erano ai loro posti. La cosa in quel momento mi ha sorpreso. Più tardi, quando alla fine del 1918 a Kiev ho provato a sollevare un battaglione di blindati contro l’etmano, ho visto che quasi tutti i soldati si tiravano indietro dicendosi di picchetto o di turno, ma per me non era già più una sorpresa. Alla scuola ero molto amato. Il soldato che ha aperto la porta mi ha chiesto: «Lei, Viktor Borisovič, è per il popolo?», e alla mia risposta affermativa ha cominciato a baciarmi. Era un momento in cui ci si baciava tutti. Mi hanno dato i pezzi, promettendo anche che non avrebbero detto chi li aveva presi. Da lì sono tornato al mio reparto: ancora adesso non saprei dire se erano venuti a ordinare lo scioglimento o se era stata un’iniziativa spontanea. I nostri vagavano attorno alla caserma. Ho preso due capisquadra del garage, Gnutov e Bliznjakov, e con gli strumenti siamo andati a riparare il blindato.



  • Tutto questo è successo di mattina, due o tre ore dopo che il battaglione di Volinia si era sollevato: il primo giorno della rivoluzione. Fatico a rendermi conto di come tanti eventi abbiano potuto concentrarsi in una sola giornata. Abbiamo preso il blindato e lo abbiamo rimorchiato fino a un garage in vicolo Kovenskij, dove, occupati i locali e staccato il telefono, abbiamo cominciato a ripararlo, trafficando fino a sera. Il serbatoio era stato riempito d’acqua, che si era ghiacciata. Ci è toccato rimuovere il ghiaccio e asciugare il serbatoio con degli stracci. In una pausa dal lavoro ho fatto un salto da un amico letterato. Nelle sue stanze non ci si muoveva e mancava l’aria, cibo ovunque, una muraglia di fumo, tutti che giocavano a carte e avrebbero continuato a giocare per due giorni di fila. In seguito quest’uomo è diventato –molto presto e con piena convinzione –bolscevico e membro del partito. Così come sono divenuti comunisti quasi tutti quelli che giocavano a quel tavolo. A me però resta ancora nitidamente impressa nella memoria la loro altezzosa ironia nei confronti dei «disordini di strada». Prima ancora di tutto questo, in città era stato proclamato lo sciopero. I tram non andavano. I vetturini che non avevano aderito allo sciopero venivano fermati. All’angolo tra il Nevskij e via Sadovaja ho incontrato un mio conoscente, professore universitario, uomo tanto dotato di talento quanto sconclusionato, un tempo vicino ai membri dell’antirivoluzionaria Unione accademica, perché quelli, evidentemente, gli pagavano da bere. Urlava, e comandava un gruppo di persone che fermava le carrozze. Era sobrio, ma completamente fuori di sé. Tutto il quartiere intorno alla Duma era in preda alla rivolta. La vicinanza al Palazzo di Tauride della caserma dei voliniani, ma anche di quelle di altri reggimenti –Preobraženskij, di Lituania, del genio (in via Špalernaja) –, molto più che la memoria dei discorsi parlamentari, avevano fatto della Duma il centro dell’insurrezione. Sembra che il primo a guidare un distaccamento alla Duma sia stato il compagno Linde, che poi sarebbe stato ucciso dai soldati dell’Armata Speciale, dove era commissario. Si tratta dello stesso Linde che in aprile ha portato in piazza il reggimento di Finlandia e ha provato a mettere agli arresti il Governo provvisorio dopo la celebre nota di Miljukov. Il nostro blindato è sceso in strada e si è messo a scorrazzare per la città. Le vie buie erano animate da gruppetti non molto folti di persone. Dicevano che qua e là c’erano poliziotti che sparavano. Sul ponte Sampsonievskij abbiamo visto dei poliziotti, ma non siamo riusciti a sparargli perché sono corsi via prima. C’era già chi saccheggiava le cantine, i miei compagni volevano prendere il vino che veniva distribuito, ma, quando gli ho detto di non farlo, non hanno obiettato. Nello stesso tempo erano avanzati dei blindati anche da via Dvorjanskaja, guidati dai compagni Anardovič e Ogon’nec. Hanno subito occupato la zona della Peterburgskaja storona e sono andati verso la Duma. Non so chi ce l’abbia detto, ma ci siamo diretti alla Duma anche noi. Davanti all’ingresso c’era già, mi sembra, un blindato Garford. Alle porte della Duma ho incontrato L., un volontario, mio vecchio commilitone, allora sottotenente d’artiglieria. Ci siamo baciati. Sono stati momenti molto belli. Un unico fiume trasportava tutti, e la saggezza stava nell’abbandonarsi alla corrente. È scesa la notte. Nel Palazzo di Tauride il caos era assoluto. Portavano armi, arrivava gente, ancora alla spicciolata, trascinavano provviste requisite non si sa dove; in una camera vicino all’ingresso erano stati sistemati dei sacchi. Già arrivavano, sotto scorta, i primi arrestati. Alla Duma una signorina mi ha nominato comandante del blindato e mi ha persino dato delle disposizioni militari. Munizioni per il cannone ne avevo, non so dove me le fossi procurate, forse ancora al deposito del maneggio. Le disposizioni naturalmente non le ho eseguite: chi, del resto, in quel momento eseguiva qualcosa? Ho dormito un’ora o due dietro a una colonna, avvolto nella pelliccia. Alla Duma ho incontrato Suchanov. Lo avevo conosciuto alla redazione della rivista «Letopis’», con cui avevo collaborato pubblicando note bibliografiche nella rubrica letteraria. Ma in redazione avevo anche tenuto una lezione sulla poetica, spiegando l’arte come forma pura, il che aveva scatenato un’aspra discussione con i marxisti. Per questo, forse, Suchanov si è stupito di vedermi lì: io e l’insurrezione, per lui, eravamo due cose inconciliabili. E anch’io, per via della mia ingenuità politica, mi sono stupito della sua presenza: non sapevo nemmeno che già si fossero formati e strutturati i centri politici bolscevichi. Che certo però, in quel momento, non potevano ancora influenzare gli eventi. La massa andava per conto suo, come aringhe a deporre le uova, obbedendo all’istinto. Nella notte hanno portato il tenente D., comandante delle officine dei mezzi corazzati, in stato d’arresto. I soldati che gli facevano da scorta non sembravano molto convinti, e l’arrestato mi ha detto, con aria di riprovazione: «Stava così male agli ordini del capitano Sokolichin che gli si è messo contro?». Gli ho risposto che non avevo nulla contro il capitano Sokolichin. Tempo una mezz’ora e il tenente è uscito tutto allegro. La commissione militare della Duma, avendolo riconosciuto tra i primi ufficiali autieri lì «convenuti», gli aveva assegnato l’incarico di organizzare tutto quanto riguardava i mezzi di trasporto a Pietroburgo. Era una persona furba e a suo modo intelligente, avida, se non di potere, almeno di carriera; in seguito sarebbe figurata tra i comunisti anarchici. Mi ci sono soffermato in quanto è stato il primo fantino che io abbia visto lanciarsi nella corsa alle cariche. In seguito di persone così ne ho incontrate a frotte. Di mattino presto siamo nuovamente usciti in città. Qualcuno mi aveva anche dato un incarico militare e un artigliere per comandante. Questo comandante me lo sono perso, o è lui che si è perso me, e mi sono mescolato all’allegro carosello del popolo insorto. Mi sono diretto alle caserme del reggimento Preobraženskij, in via Millionnaja. Qualcuno aveva detto che stavano facendo resistenza. Siamo arrivati. Era un mattino di sole del più fenomenale azzurro. Sparando allegre salve, correvano fuori dalle caserme gli insorti del reggimento Preobraženskij, indossando pastrani nuovi con mostrine di un rosso fiammante. Qua e là c’erano stati tentativi di resistenza. Sembra che a sparare fossero stati gli allievi del 6° battaglione del genio e del reggimento di Mosca. La compagnia ciclisti del Lesnoj prospekt ha resistito abbastanza a lungo. Penso che sia successo perché ci sono andati solo gli operai, senza soldati, e quelli hanno avuto paura a unirsi a loro. Gli hanno mandato contro alcune autoblindo Fiat, che hanno fatto saltare un’ala in legno della caserma, con tutta la gente che c’era dentro. Quella notte è morto uno dei nostri carristi, Fëdor Bogdanov. Si è imbattuto, con la torretta del blindato aperta, in un appostamento di poliziotti (l’unico in cui, correttamente, avessero piazzato la mitragliatrice alla finestra di una cantina e non sul tetto, da dove la mitragliatrice fa solo rumore e le traiettorie sono incontrollabili). Il corpo di Bogdanov non è sepolto al Campo di Marte, i parenti sono venuti a prenderlo e lo hanno portato fuori città. Qualcosa in più a proposito delle mitragliatrici sui tetti. Per quasi due settimane mi hanno chiamato a toglierle di mezzo. Di solito, quando sembrava che ci sparassero dalle finestre, cominciavamo a sparare scompostamente con i fucili contro i palazzi, scambiando per fuoco di risposta la polvere che si sollevava dagli intonaci. Sono convinto che la maggior parte dei morti della rivoluzione di Febbraio vada imputata alle nostre stesse pallottole, che letteralmente ci piovevano in testa dall’alto. La mia compagnia ha perlustrato quasi per intero i quartieri Vladimirskij, Kuznečnyj, Jamskoj e Nikolaevskij, e non ho trovato alcuna conferma alle segnalazioni di mitragliatrici sui tetti. In aria invece si sparava molto, anche cannonate. Sul mio blindato sono capitati cannonieri di varia estrazione. Ricordo soprattutto il primo, che, ferito a un braccio, era rimasto al pezzo. Era un gendarme delle caserme di via Kiročnaja. Diceva che i gendarmi erano stati tra i primi a passare dalla parte degli insorti. E non c’è stato cannoniere che non mi abbia chiesto l’autorizzazione a sparare per far vedere che avevamo persino un cannone, e si sparava in aria sul Nevskij prospekt. Quel giorno l’ho passato quasi tutto stando in vedetta davanti alla stazione Nikolaevskij. La stazione era priva di ogni difesa, e io proponevo (all’aria, perché non c’era nessuno a cui proporre) di occupare l’ultimo piano degli alberghi Severnaja e Znamenskaja per tenere l’intera stazione sotto tiro, ma le nostre forze erano assolutamente insufficienti. Se pure si mettevano di sentinella dei soldati che passavano di lì, quelli o andavano via, o provavano a resistere fino allo svenimento, e comunque non arrivavano al cambio della guardia. Responsabili del comando erano –o così mi sembrava –uno studente senza un braccio e un ufficiale di marina molto anziano, in uniforme, se ricordo bene, da guardiamarina. Era stravolto dalla stanchezza. Arrivavano convogli che trasportavano truppe –non era chiaro da dove venissero né dove andassero –, noi ci avvicinavamo al treno con il blindato e quattro o cinque fanti, e l’esausto guardiamarina chiedeva agli ufficiali al comando: «La città è nelle mani del popolo insorto: voi volete unirvi al popolo insorto?». Dai vagoni sgranavano gli occhi uomini e cavalli. Gli ufficiali rispondevano che non c’entravano nulla, che erano lì di passaggio; i soldati ci guardavano, e non sapevamo se sarebbero scesi o no dal loro alto vagone. Venivano in supporto autoblindo con carristi che conoscevo. Stavano un po’lì, poi se ne andavano. La città era percorsa in lungo e in largo dalle muse e dalle erinni della rivoluzione di Febbraio: camion e automobili, straripanti e rigurgitanti soldati, che andavano non si sa dove, trovavano la benzina non si sa come, e si aveva l’impressione di campane suonate a festa in tutta la città. Sfrecciavano in lungo e in largo, giravano in tondo, ronzavano come api. Era la strage delle macchine innocenti. Per reintegrare le compagnie autotrasportate, un numero sterminato di autoscuole militari aveva sfornato a nugoli autieri con appena mezz’ora di pratica. Ed ecco arrivato il momento della festa per questi semiautisti che finalmente avevano messo le mani sulle macchine. In città uno schianto dopo l’altro. Non saprei dire quanti incidenti ho visto in quei giorni. In poche parole, tutti i miei allievi avevano imparato a guidare in due giorni. Dopo di che la città si è riempita di autovetture abbandonate al loro destino. Erano stati organizzati dei punti di ristoro, dove con oche e salame preparavano piatti mostruosamente grassi. Ero felice in mezzo a quella marea di gente. Era insieme Pasqua e un allegro, carnascialesco, ingenuo, sgangherato paradiso. Nel frattempo quasi tutti si erano armati a spese degli ufficiali e soprattutto saccheggiando i depositi. Le armi erano tante, passavano di mano in mano, non venivano vendute, ma circolavano liberamente. C’erano molte splendide Colt. Non eravamo in alcun modo una reale unità di combattimento, ma non ce ne preoccupavamo. C’erano notti di panico, notti in cui aspettavamo l’attacco di non si sa quali contingenti. Ma intanto la guarnigione di Pietroburgo si andava sempre più infoltendo. Erano arrivati, tirandosi dietro le mitragliatrici con le corde, trasportando mitragliatrici senza affusti gettate come legna da ardere su un furgone, drappeggiandosi nelle cartuccere, soldati dei reggimenti di mitraglieri e delle Accademie di Strel’na e di Oranienbaum. Nei pressi di Strel’na un gruppo dei nostri in esplorazione ha incontrato un colonnello che viaggiava in macchina e somigliava vagamente allo zar. È stato accolto, prima che si chiarisse l’equivoco, con impetuoso, frenetico entusiasmo. Le mitragliatrici che arrivavano a Pietroburgo erano per lo più inutilizzabili, la maggioranza, ad esempio, non aveva manicotti di raffreddamento, di modo che era impossibile versarci l’acqua. Ce n’erano fin troppe, ma la quantità non aumentava il nostro potenziale bellico. Ricordo che attorno alle stazioni Baltijskij e Varšavskij c’erano mitragliatrici piazzate quasi a ogni passo. È ovvio che, con quella dislocazione, sparare sarebbe stato tremendamente scomodo. Ma il potenziale bellico non aveva importanza. Stava ormai diventando chiaro che la Pietroburgo insorta non aveva avversari. Dalla parte degli insorti erano comparsi gli ufficiali, era passata a ranghi compatti l’Accademia d’Artiglieria Michajlovskoe. Un po’più tardi si è unito a noi anche il 1° reggimento di riserva con tutti gli ufficiali. I nostri ufficiali è andato a prenderli casa per casa un ingegnere ebreo molto energico, un volontario che di fatto ormai da un anno e mezzo dirigeva la scuola. Gli ufficiali si sono radunati. Avevano trovato anche il comandante del battaglione; in quel periodo di comandanti temporanei ne avevamo già avuti ben tre, ma tutti quanti si facevano dare l’autorizzazione scritta della Duma e sparivano non si sa dove. Gli ufficiali, dunque, si sono radunati. Senza troppa convinzione hanno deciso di unirsi agli insorti, perfino di opporre resistenza alle truppe governative. Il Governo provvisorio era già stato formato. Hanno deciso anche di indossare, a differenza di chi non partecipava all’insurrezione, delle fasce rosse –all’inizio le volevano cremisi –sulle maniche. I reparti ormai non esistevano praticamente più. Non funzionavano più nemmeno le mense. Le compagnie erano disperse. Il maneggio era occupato. I mezzi erano andati a finire chissà dove. Un po’migliore era la situazione della nostra compagnia. I plotoni si erano organizzati in turni di vigilanza, in caso di allarme accorrevano tutti, anche di notte. Abbiamo organizzato delle pattuglie che fermavano le vetture in giro senza meta e le radunavano nel cortile della caserma. In questo modo si sono salvate un gran numero di macchine. Ma alle macchine abbandonate e congelate già avevano tolto le dinamo, il cui costo era molto diminuito dopo la rivoluzione. Per effetto dello strano, eterogeneo assortimento di armi, la compagnia aveva assunto il variopinto aspetto di un gruppo di liceali in armi. Di quei giorni restano due pellicole cinematografiche. In una si vede come diamo da mangiare ai piccioni nel cortile della compagnia, nell’altra un’uscita della compagnia in assetto da combattimento, con un’autoblindo Austin in testa e dietro i soldati e gli ufficiali con le sciabole sguainate. Con gli ufficiali non c’erano particolari tensioni. Il nostro comandante, il capitano Sokolichin, lo amavano tutti perché non maltrattava la compagnia e si dava un gran da fare per rifornirci di scarpe. Il primo giorno della rivoluzione gli avevano dato una pelliccia da autista senza gradi e una scorta armata di cinque persone, perché nessun estraneo gli facesse del male. A un altro nostro ufficiale, per strada, non avevano tolto le armi perché aveva la spada di San Giorgio conferita al coraggio. Sono cominciate le elezioni degli ufficiali, la compagnia delle autofficine ha chiesto la rimozione del comandante del battaglione. Sono cominciati gli intrighi per ottenere posti con l’aiuto dei soldati. Ma continuava, senza posa, il flusso delle truppe verso il Palazzo di Tauride, dal rumore dei passi sembrava che dovesse sfondarsi il selciato, il colore rosso era un luccichio ininterrotto. Il Soviet di Pietrogrado già si riuniva, ma ancora non c’era stato l’Ordine n. 1, e Rodzjanko era popolare tra i soldati. Ma erano riunioni in armi, tra grida e invettive. Per molti dei reparti arrivati al Palazzo di Tauride, quelli di Čcheidze e di altri erano i primi discorsi rivoluzionari che sentivano. Cosa pensavano della guerra? Mi sembra che credessero che sarebbe finita da sé; era una convinzione generale al momento dell’appello ai popoli di tutto il mondo. Ricordo che i soldati di ritorno dall’Operazione Albion, nell’arcipelago di Moonsund, dicevano che lì era già stato trovato un accordo con i tedeschi: non avrebbero sparato né loro né noi. Insomma, dominava l’euforia, si stava bene e c’era fiducia che quello fosse solo l’inizio della pace e del benessere. I volantini con l’Ordine n. 1 sono stati lanciati tra i soldati schierati nella piazza del Maneggio per una parata. Tutti hanno cominciato a salutare con: «Buongiorno, signor colonnello!» invece del vecchio «eccellenza», e lo facevano con lo spirito giusto, in tono cordiale e amichevole. Penso che l’Ordine n. 1, per quanto sembrasse anticipare gli eventi –di comitati politico-militari nei reparti ancora non ce n’erano –, sia stato assolutamente tempestivo e necessario. Non si potevano lasciare i reparti in mano ai soli ufficiali, che si erano appena ripresentati dopo una lunga assenza. I comitati, è vero, sono del tutto inadatti all’esercito, ancor più che i comandanti eletti, eppure erano l’unico modo per tenere in piedi l’esercito. L’aspetto più negativo dei comitati era che in brevissimo tempo perdevano il contatto con chi li aveva eletti. E i delegati al Soviet non si facevano vedere nei loro reparti per mesi. I soldati non erano minimamente informati di quello che succedeva nei Soviet. Giovava alla causa solo la fiducia enorme e non ancora sperperata di cui godeva la rappresentanza diretta dei soldati. Nel primo Soviet di Pietrogrado sono stati eletti in gran numero volontari e soldati istruiti, il che evidentemente accentuava il distacco. D’altra parte nelle caserme non lavorava quasi più nessuno, l’intelligencija si era data alla fuga, e non c’erano uomini disposti a occuparsi delle attività formative. In uno dei battaglioni del genio, mi pare il 6°, tra alcune centinaia di volontari se ne sono trovati meno di dieci che hanno dato la disponibilità a lavorare nelle scuole di alfabetizzazione. Per i più la rivoluzione non era che una licenza fuori programma. Nel comitato politico-militare del nostro reparto sono stati eletti dei comandanti di plotone e capomeccanici: il comitato aveva carattere essenzialmente pratico. Intanto, reggimento dopo reggimento, i soldati continuavano ad attraversare la Sala di Caterina del Palazzo di Tauride. Sui manifesti c’era ancora: «Fiducia al Governo provvisorio», e persino: «In guerra fino alla vittoria finale». Ma di combattere non eravamo più in grado. Mi riferisco, per il momento, alla sola guarnigione di Pietroburgo. Gli enormi reparti della riserva, che contavano fino a decine di migliaia di effettivi, ormai non mandavano più contingenti al fronte, ma anche in città avevano ben poco da fare, e senza armi non potevano difendere la rivoluzione: così se ne restavano a marcire e putrefarsi nelle caserme. Ancora nessuno pronunciava lo slogan: «Pace a ogni costo». Ancora non era tornato Lenin, i bolscevichi dicevano ancora che bisognava tenere il fucile pronto, ma la guarnigione ormai non c’era più, era solo un deposito di soldati. Tra le masse ancora divampava il fuoco della rivoluzione, ma non era la calda fiamma del carbone, piuttosto il focherello dell’alcol che non riesce a far bruciare la legna su cui è stato versato. Un focherello del genere era Kerenskij. La prima volta che ho visto Kerenskij era in preda alla sua isteria generalesca, quando, dopo un articolo delle «Izvestija» che lo attaccava, si è precipitato al Soviet dei soldati per chiedere se «avevano fiducia in lui». Urlava frasi incomprensibili, e davvero sembrava brillare con secche, lunghe, crepitanti scintille. Urlava con la faccia stravolta di un uomo che ha giorni contati, poi, sfinito, si è lasciato cadere su una poltrona. Ha suscitato un’impressione tremenda. La seconda volta ho visto Kerenskij dopo la mia nomina a commissario. Lo cercavo per consultarlo, e l’ho finalmente individuato davanti all’Accademia Navale. C’era la sua Locomobile grigia parcheggiata, così mi sono messo ad aspettarlo parlando con l’autista. «Adesso lo portano» mi ha detto quello. E in effetti, dopo qualche minuto, dall’Accademia hanno portato fuori Kerenskij. Era seduto, nella sua consueta posa esausta, su una sedia tenuta in alto sopra la folla. Sono salito con lui in macchina e ho cominciato a parlare. Labbra secche ed esangui, viso magro e livido, voce roca, ha detto stringendo debolmente i pugni: «Più di tutto contano la determinazione e la costanza». Mi ha fatto l’impressione di una persona ormai allo stremo delle forze, conscia di non avere scampo. Mi affretto a smettere di scrivere di quello che è già noto a tutti, per passare il prima possibile alla guerra. Come sono finito al fronte? È arrivato Lenin. Nelle officine del battaglione corazzato c’erano dei bolscevichi, iscritti al partito; hanno messo a disposizione di Lenin un blindato, che dalla stazione lo ha portato al palazzo della Kšesinskaja, occupato dal nostro reparto come residenza. Una parte del battaglione aveva simpatie molto marcate per i bolscevichi. Allora ero membro del comitato di battaglione, e con la mia scuola rappresentavo l’ala più propensa a una guerra difensiva contro i tedeschi. A questo punto devo introdurre un nuovo personaggio, Maksimilian Filonenko. A suo tempo era stato comandante delle officine dei mezzi corazzati, rivelandosi uomo di generosità impulsiva e a suo modo molto umano; poi era andato al fronte, pieno d’entusiasmo. Là non aveva avuto successo, si sentiva escluso, era incupito e non vedeva l’ora di tornare. È rientrato a Pietroburgo dopo la rivoluzione e ci ha messo radici. Quello che avveniva in città lo interessava enormemente di più che un ruolo di poco conto al fronte. Era un ometto con la casacca militare, i capelli corti, la testa piuttosto grande e rotonda che lo faceva assomigliare a un gattino. Ingegnere per formazione, sapevaquattro o cinque lingue straniere, ma soprattutto si compiaceva della sua pronuncia francese. Figlio di un importante ingegnere, aveva più volte ricoperto incarichi di responsabilità in grandi cantieri navali, e ogni volta li aveva lasciati dopo aver compromesso la sua posizione. Aveva buone qualità intellettuali, senza, però, il profumo del talento. Un primo della classe che avrebbe voluto essere genio. Il suo cuore non lo conosco, nei miei confronti nutriva sentimenti di amicizia e di affetto. Ma per fine non aveva altro che il proprio fine, e la sua stella era lui stesso. Tuttavia, non c’era una stella nel suo cielo, e invano lui continuava a cercarla. All’inizio aveva preso a frequentare il comitato di battaglione come ospite, e non c’è dubbio che nel deserto di uomini che era allora la Russia, in mezzo agli altri del comitato, apatici come pesci, lui avesse ogni agio di brillare. Poi ha iniziato ad accettare mansioni su richiesta di qualche compagnia, in prevalenza officine di mezzi corazzati, dove lo stimavano per il suo passato di servizio e da lui tolleravano quello che non avrebbero tollerato da nessun altro. Nella cupa penombra delle officine di montaggio, piene di blindati in condizioni mostruose, sopra ai quali, in mezzo ai fumi dei gas di scarico, si accalcavano gli stessi che nei giorni dell’insurrezione di luglio avrebbero abbandonato il proprio mezzo alla prima difficoltà, Filonenko intesseva i suoi viluppi dialettici, intelligenti e oculati, prensili e seducenti. Alla fine è riuscito a farsi mettere a capo di tutta l’area tecnica. Al fronte, nonostante glielo proponessero, non aveva nessuna voglia di tornare. Era stato coinvolto, come in seguito ho scoperto, in una brutta storia: un soldato frustato. Là era un uomo finito. Qui invece aveva scelto il giusto «angolo di attacco» e si preparava a decollare, come un aeroplano. La fiducia concessagli dal comitato di battaglione aveva del prodigioso: era stato eletto –a nome del comitato, non del reparto –al Soviet dei deputati. Va detto che di delegati al Soviet ce n’erano di ben più strani. Una volta tra loro ho incontrato un ebreo non privo di talento, il violoncellista Č., prima in servizio presso la banda musicale del reggimento Preobraženskij e ora rappresentante dei cosacchi del Don. Al Soviet Filonenko si è distinto per alcuni efficaci discorsi in polemica con Zinov’ev, e all’assemblea della guarnigione, dopo la sollevazione del reggimento di Finlandia, in aprile, ha difeso il governo di coalizione. Aveva apprezzabili qualità: immagine, volontà, chiarezza. E si capiva che avrebbe avuto un ruolo di peso. Allora il suo atteggiamento nei confronti del Soviet era della più assoluta lealtà. Ma aveva bisogno di una sua invenzione, di un’idea da brevettare; l’idea era quella di mandare al fronte commissari che prendessero parte di persona ai combattimenti. La proposta l’ha fatta a me e al compagno Anardovič. Ho accettato. Ero inquieto, mi mancava l’azione vera, e Filonenko mi si prospettava come persona competente e fedele alla rivoluzione. Ora qualcosa su Anardovič. Il compagno Anardovič, futuro commissario dell’Armata Speciale, era un operaio dei cantieri navali Sormovo di Nižnij Novgorod, ferito sulle barricate nel 1905. Di provata fede socialrivoluzionaria, aveva una grande influenza sui soldati delle officine e da solo aveva fatto uscire sedici o diciassette blindati pronti a combattere, quando compagni che si sono in seguito collocati ben più a sinistra di lui erano rimasti nella più assoluta inattività. Quest’uomo dal naso aquilino e dal volto energico era di una semplicità ed essenzialità commoventi. Scriveva versi strappalacrime alla maniera di Nadson, credeva alla missione del primo Soviet come un prete di campagna al messale, e alla rivoluzione era dedito senza timori né incertezze. La sua frase preferita era: «Semplice e chiaro ». Era capace di parlare per tre o quattro ore di fila, senza che niente potesse distrarlo. Come ho poi avuto occasione di constatare, sapeva gestire in modo eccellente le masse, senza alcuna paura, e sapeva imporre anche a una folla in subbuglio le proprie posizioni. Merita, fra l’altro, che ci si soffermi su di lui perché, nell’insieme dei commissari dell’esercito, Anardovič era l’unico di chiara estrazione operaia, un vero operaio appena prelevato dal banco di lavoro. Il comitato di battaglione aveva già esaminato e accettato la proposta di mandare al fronte persone che si impegnassero a prendere parte alla guerra, testimoni viventi delle capacità difensive della Russia democratica. Si erano proposti di partire tutti i non bolscevichi del battaglione. Ricordo come me ne stavo con la testa china, in pieno scoramento. Provavo la stessa sensazione di un operaio che, impigliato con un lembo della giubba alla cinghia di trasmissione, si sente trascinare via: oppone ancora resistenza, ma il cuore si è già rassegnato all’inevitabilità della morte. Sono stato mandato al fronte come terzo della lista: Filonenko, Anardovič, Šklovskij. Il battaglione ci ha sempre considerato, fino agli ultimi giorni di ottobre, suoi emissari, con un mandato preciso. Così mi consideravo anch’io, mentre Filonenko si è presto allontanato dal battaglione che gli aveva permesso di ottenere quell’incarico. È cominciata la complessa trafila per far approvare il nostro mandato dal Governo provvisorio, che mai su nulla aveva da ridire, e dal Comitato esecutivo del Soviet di Pietrogrado –riverita accademia del tipo Fabio Massimo il Temporeggiatore –, che aveva sempre da ridire, ma non sapeva assolutamente cosa voleva. Il Comitato esecutivo non aveva la minima idea di che cosa fare dell’esercito. Essendosi contrapposto al Governo provvisorio –o meglio, avendolo esso stesso creato e a sé contrapposto –, non poteva né prendere provvedimenti né non prenderli, aveva in mano tutto il potere reale ma chissà in testa cosa aveva. L’esercito non poteva capire questa situazione, intricata nella miglior tradizione del socialismo scientifico: esigeva un comando, degli ordini. Al Comitato esecutivo di Čcheidze frotte di uomini accorrevano dai vari reparti chiedendo ordini. Per questo il Comitato esecutivo era già pronto ad accettare l’idea di commissari con duplice mandato. Quando ripenso a quello stato di cose, mi convinco che l’istituzione dei commissari militari si debba a Filonenko. Era passato molto in fretta dall’idea di persone mandate a dare il proprio esempio a quella di persone che comandassero –commissari militari. Perché la sezione militare del Comitato esecutivo del Soviet di Pietrogrado ha accettato la candidatura di Filonenko? Penso che, per la totale mancanza di alternative, abbia dovuto chiudere un occhio e farselo andar bene. Sembra che un tempo fosse stato socialrivoluzionario, ma all’epoca della rivoluzione non aveva più legami col partito. Come suoi vice si sono messi in viaggio Anardovič e l’ingegner Cipkevič, anche lui con un passato da socialrivoluzionario, ma ormai, in sostanza, uomo «fuori dalla politica». Di Cipkevič ancora non ho parlato. Ne parlerò più avanti. Con il tempo ho avuto modo di convincermi del suo enorme talento organizzativo. Era un ingegnere, coordinatore dei processi produttivi. La rivoluzione, sovvertendo tutti gli schemi e i grafici, lo aveva turbato, e lui pensava di poterla regolare come se si trattasse di un motore o di una ferrovia. Io invece sono stato mandato come responsabile della propaganda. Ora spiegherò perché sono andato al fronte, perché ritenevo necessaria l’offensiva e perché all’offensiva ho partecipato. Ero a favore dell’offensiva perché consideravo la rivoluzione stessa un’offensiva. Per le mie convinzioni di allora, l’offensiva era possibile. Bisognava passare all’attacco, oppure piantare le baionette in terra e tornarsene a casa fischiettando. All’affratellamento col nemico non credevo, e avevo ragione. Il mio errore stava nel non capire l’impossibilità di un’offensiva avendo alle spalle questa sirena: un governo democratico con una coda borghese. Non si può combattere quando ci si combatte nelle retrovie. Ritenevo necessaria l’offensiva perché una vittoria delle forze repubblicane avrebbe rapidamente provocato la rivoluzione in Germania. Prospettiva ben più rosea che una rivoluzione sotto la scure della revanche. Bisognava attaccare finché ancora esisteva un esercito, ma sarebbe servito un governo unito, impegnato nella rapida attuazione di un programma minimo. E un’altra cosa. Gli alleati, che siano maledetti, non davano il loro assenso al nostro progetto di «pace senza annessioni né indennità»: parole abusate sui giornali, ma posso ben dire quanto sacre per ogni uomo in trincea, con i piedi spappolati dal fango e il collo roso dai pidocchi. Erano parole autenticamente sacre per i soldati scalzi. Quelli che le hanno rifiutate sono responsabili del sangue versato, delle lordure e delle crudeltà. Oh, se alla testa dei reggimenti di giugno avessimo potuto dispiegare il sacro vessillo di una guerra giusta, non dovrei adesso, miei cari compagni, piangere sulle vostre tombe. Ma sto tradendo i miei propositi: non voglio essere un critico degli eventi, voglio solo fornire un po’di materiale per i critici. Racconto gli eventi, e di me stesso faccio, per le generazioni a venire, un campione da laboratorio. Dunque, siamo partiti. Mi dispiaceva separarmi dalla mia compagnia, dalla nostra scuola, che avevamo portato a una perfezione senza precedenti per la Russia. La mia compagnia rimaneva in città, a logorarsi come tutta la guarnigione rivoluzionaria. Solo un po’più lentamente degli altri reparti. L’armeria, almeno, l’aveva conservata intatta. Ancora un ultimo ricordo su Pietroburgo. Il Soviet minore della sezione militare, che con un suo giornaletto assai moralistico si opponeva a Lenin di ritorno in patria, aveva pubblicato una risoluzione in cui si affermava che la propaganda leninista era nociva al pari della propaganda controrivoluzionaria. Lenin allora è venuto a spiegarsi al Soviet. È stato un giorno di grande turbamento. La sala era piena di delegati. Presiedeva il volontario Zavad’e. Lenin ha pronunciato il suo discorso con impeto elementare: i pensieri rotolavano come enormi ciottoli. Spiegando quanto fosse facile avviare una rivoluzione sociale, schiantava i dubbi innanzi a sé come un cinghiale abbatte i giunchi. Gli astanti, così incalzati, concordavano con lui e si sentivano invasi da qualcosa di simile all’angoscia. Ricordo un soldato barbuto che gridava all’indirizzo del Soviet minore: «Borghesucci!», «Figli di papà!», e reclamava: «Čcheidze presidente! Čcheidze!». Posso immaginare che guazzabuglio d’idee avesse in testa quel soldato.

sabato 21 settembre 2019



NON IN DIALECTICA
"Non in dialectica complacuit Deo salvum facere populum suum."
(Ambrogio)
"Dio non ha salvato il suo popolo con la via della dialettica".
Questa citazione è diventata celebre grazie a Newman. 
Egli l'ha riportata come motto sul frontespizio della sua "Grammar of Assent"
Egli nutriva «una grande avversione per gli scritti di logica», come scrive nella "Apologia pro vita sua" . Il pensiero che conduce ad agire o a cambiare punto di vista è per Newman sempre una questione che riguarda l'uomo considerato nella sua totalità. Il cuore non viene mosso dalla logica e dalla comprensione concettuale-astratta di uno stato di cose ( notional apprehension ), ma da una comprensione reale-vivente ( real apprehension ), da immagini mentali per la facoltà immaginativa, da simboli e dalla testimonianza di fatti ed eventi. Questo vale per le cose della fede come per quelle del mondo.

martedì 17 settembre 2019


LE NOTTI DIFFICILI 
Dino Buzzati

Parte prima


  • Il Babau
  • Solitudini
  • La confessione
  • L'autostrada
  • Il sepolcro di Attila
  • Il registratore
  • I giorni perduti
  • Equivalenza
  • Lo scoglio
  • Lettera noiosa




Il Babau
L'ingegnere Roberto Paudi, assistente alla direzione della COMPRAX e assessore all'urbanistica, andò sulle furie quando una sera sorprese la bambinaia Ester che, per placare un capriccio del piccolo Franco, gli diceva:
«Guarda che se non fai il bravo, questa notte arriverà il Babau». 
Era intollerabile, secondo lui, che per educare i bambini si ricorresse ancora a stolte superstizioni che potevano creare nell'acerba psiche dei penosi complessi. Fece una predica alla ragazza che se ne andò piangendo e lui stesso mise in letto il figliolo il quale ben presto si quietò. 
La notte medesima il Babau, lievitando a mezz~aria come era suo costume, si presentò nella camera dove l'ingegnere Paudi dormiva da solo, procurandogli qualche minuto di orgasmo. 
Il Babau, come è noto, assumeva, a seconda dei paesi e delle costumanze locali, forme diverse. In quella città, da immemorabile tempo aveva le sembianze di un gigantesco animale di colore nerastro, la cui sagoma stava tra l'ippopotamo e il tapiro. Orribile a prima vista. Ma a ben osservarlo con occhi spassionati, si notava, per la piega benigna della bocca e il luccichìo quasi affettuoso delle pupille, relativamente minuscole, una espressione tutt'altro che malvagia. 
Si intende che, in circostanze di una certa gravità, sapeva incutere trepidazione, e anche paura. Ma di solito eseguiva le sue incombenze con discrezione. Avvicinatosi al lettuccio del bambino da redarguire, non lo svegliava nemmeno, limitandosi a penetrare nei suoi sogni dove lasciava, questo sì, una traccia imperitura. Si sa bene infatti che pure i sogni degli infanti
piccolissimi hanno una capienza illimitata e accolgono senza sforzo anche bestioni mastodontici come il Babau, i quali possono compiervi tutte le evoluzioni del caso in piena libertà. 
Naturalmente, presentandosi all'ingegnere Paudi, l'antica creatura non aveva una faccia troppo bonaria, adottando anzi la fisionomia, si intende ingigantita, del professore Gallurio, da due mesi nominato commissario straordinario della COMPRAX, società che stava navigando in difficili acque. E questo professore Gallurio, uomo severissimo se non addirittura intrattabile, era appunto la bestia nera del Paudi, la cui eminente posizione nella ditta poteva, in tale regime commissariale, correre notevoli rischi. 
Il Paudi, risvegliatosi in un sudario di gelida traspirazione, fece in tempo a scorgere il visitatore che se la filava attraverso il muro (la finestra non sarebbe bastata a tanta mole) mostrandogli la monumentale cupola del suo posteriore. 
Si guardò bene il Paudi, il mattino successivo, dallo scusarsi con la povera Ester. L'avere constatato di persona che il Babau esisteva davvero accresceva anzi, insieme al suo sdegno, la ferma determinazione di fare tutto il possibile per togliere di mezzo il tipo. 
Nei giorni successivi, in tono scherzoso come è naturale, egli andò tastando il terreno con la moglie, gli amici e i collaboratori. E rimase stupito nell'apprendere che l'esistenza del Babau era generalmente data per scontata, quale classico evento della natura, come la pioggia, il terremoto e l'arcobaleno. Soltanto il dottor Gemonio, dell'ufficio legale, sembrò cadere dalle nuvole: si, da piccolo aveva sentito parlare vagamente della cosa, ma poi si era ben persuaso ch'era un'ebete favola senza costrutto. 
Quasi intuisse la sua aspra avversione, il Babau da allora prese a frequentare con notevole assiduità l'ingegnere, sempre con la sgradevole maschera del professore Gallurio, facendogli le boccacce, tirandolo per i piedi, scuotendogli il letto, e una notte giunse al punto da accucciarglisi sul petto, che per poco non lo soffocava. 
Non c'è quindi da meravigliarsi se il Paudi, alla successiva riunione del Consiglio comunale, ne parlasse a qualche collega: si poteva consentire, in una metropoli che si vantava di essere all'avanguardia, il perpetuarsi di un simile sconcio, degno del medioevo? Non era il caso di provvedere finalmente, con mezzi risolutivi? 
Furono dapprima fuggevoli pour-parler di corridòio, scambi informali di vedute. In breve, il prestigio di cui godeva l'ingegnere Paudi gli diede via libera. Non passarono due mesi che il problema veniva portato in Consiglio comunale. Va da sé che, a scanso di ridicolo, l'ordine del giorno non faceva parola del Babau ma al comma 5
accennava soltanto a "Un deplorevole fattore di disturbo per la quiete notturna della città" 
Contrariamente a quanto il Paudi si aspettava, non solo l'argomento fu preso da tutti in seria considerazione ma la sua tesi, che poteva apparire ovvia, incontrò vivaci opposizioni. Si levarono voci a difendere una pittoresca quanto inoffensiva tradizione che si perdeva nella notte dei tempi, a sottolineare la complessiva innocuità del mostro notturno, tra l'altro del tutto*
silenzioso, a rilevare i benefìci educativi di quella presenza. Ci fu chi parlò addirittura di un "attentato al patrimonio culturale della città" 
qualora si fosse ricorsi a misure repressive; e l'oratore si ebbe una salva di applausi. 
D'altro canto, nella questione di merito, prevalsero alla fine gli irresistibili argomenti di cui troppo spesso si fa forte il cosiddetto progresso per smantellare le ultime rocche del mistero. Si accusò il Babau di lasciare una malsana impronta negli animi infantili, di suscitare talora incubi contrari ai principi della corretta pedagogìa. 
Furono messi sul tappeto anche motivi di igiene: si, è vero, il mastodonte notturno non insudiciava la città né spargeva escrementi di alcun genere, ma chi poteva garantire non fosse portatore di germi e virus? Né si sapeva nulla di positivo circa il suo credo politico: come escludere che le sue suggestioni, in apparenza così elementari se non rozze, nascondessero insidie sovversive? 
Il dibattito, a cui i giornalisti non erano stati ammessi data la delicatezza del tema, terminò alle due dopo mezzanotte. La proposta Paudi venne approvata con una esile maggioranza di cinque voti. In quanto alla sua applicazione pratica, si nominò una apposita commissione di esperti, di cui il Paudi stesso fu presidente. 
Infatti: proclamare l'ostracismo al Babau era una cosa, un'altra il riuscire a eliminarlo. Chiaro che non si poteva fare assegnamento sulla sua disciplina civica, tanto più che era dubbio se fosse in grado di capire la lingua. Né era pensabile di catturarlo e di assegnarlo allo zoo municipale: quale gabbia avrebbe trattenuto un animale, se era animale, capace di volare attraverso i muri? 
Anche il veleno era da scartare: mai il Babau era stato
Visto nell'atto di mangiare o di bere. 
Il lanciafiamme allora? Una piccola bomba al napalm? Il rischio per la cittadinanza era eccessivo. 
La soluzione, insomma, se non impossibile, si presentava assai problematica. E già il Paudi si sentiva sfuggire di mano il desiderato successo, quando gli si profilò un dubbio: sì, la composizione chimica e la struttura fisica del Babau erano ignote ma, come è di molte creature registrate nell'anagrafe delle leggende, non poteva per caso essere molto più debole e vulnerabile di quanto si supponesse? Chi lo sa, forse bastava una semplice pallottola tirata nel punto giusto, e giustizia era fatta. 
Le forze di pubblica sicurezza, dopo la delibera del Consiglio comunale controfirmata dal sindaco, non potevano che collaborare. Fu istituita, in seno alla Squadra mobile, una pattuglia speciale, dotata di automezzi veloci radiocollegati. La cosa fu semplice. Unica circostanza strana: una certa riluttanza, da parte di sottufficiali ed agenti, a partecipare alla battuta; era paura? 
era il timore oscuro di violare una porta proibita? o semplicemente un nostalgico attaccamento a certi esagitati ricordi di infanzia? 
L'incontro avvenne in una notte gelida di plenilunio. 
La pattuglia, appostata in un angolo scuro di piazza Cinquecento, avvistò il vagabondo che navigava placido a circa trenta metri di altezza, simile a dirigibile giovanetto. Gli agenti, il mitra puntato, avanzarono. Intorno, non un'anima viva. Il breve crepitìo delle raffiche si ripercosse, d'eco in eco, molto lontano. 
Fu una scena bizzarra. Lentamente il Babau si girò su se stesso senza un sussulto e, zampe all'aria, calò fino a posarsi sulla neve. Dove giacque supino, immobile per sempre. 
La luce della luna si rifletteva sul ventre enorme e teso, lucido come guttaperca. 
«Una cosa che preferirei non rivedere una seconda volta» disse poi l'appuntato Onofrio Cottafavi. Una chiazza di sangue si allargò, incredibilmente, di sotto alla vittima, nera alla luce lunare. 
Furono chiamati subito per telefono quelli della Sardigna per lo sgombero del relitto. Non arrivarono in tempo. 
In quei pochi minuti il gigantesco coso, come fanno i palloncini bucati, si rattrappì a vista d'occhio, si ridusse a una povera larva, divenne un vermettino nero sul bianco della neve, infine anche il vermettino sparì, dissolvendosi nel nulla. Rimase soltanto la turpe chiazza di sangue che prima dell'alba gli idranti dei netturbini cancellarono. 
Si disse che in cielo, mentre la creatura moriva, risplendesse non una luna, ma due. Si raccontò che per tutta la città uccelli notturni e cani si lamentassero lungamente. Si sparse voce che molte donne, vecchie e bambine, ridestate da un oscuro richiamo, uscissero dalle case, inginocchiandosi e pregando intorno all'infelice. 
Tutto ciò non è storicamente provato. 
Di fatto, la luna proseguì senza scosse il suo viaggio prescritto dall'astronomia, le ore passarono regolarmente ad una ad una, e tutti i bambini del mondo continuarono a dormire placidi, senza immaginare che il buffo amico-nemico se n'era andato per sempre. 
Era molto più delicato e tenero di quanto si credesse. 
Era fatto di quell'impalpabile sostanza che volgarmente si chiama favola o illusione: anche se vero. 
Galoppa, fuggi, galoppa, superstite fantasia. Avido di sterminarti, il mondo civile ti incalza alle calcagna, mai più ti darà pace. 

La parete
Solitudini
Non era ancora giorno quando partimmo, il vecchio Stratzinger, guida alpina e ottimo amico, mio fratello Adriano e io, per fare la parete sud-est della Ota Muragì nelle Alpi Oniriche. 
Come è caratteristico di quel gruppo, si tratta di una gigantesca muraglia mista di ghiaccio, roccia, sabbia, terra, vegetazione e infissi artificiali. 
Quando uscimmo dal rifugio
piovigginava, e compatti filoni di nubi rivestivano completamente le montagne. Confesso che me ne rallegrai perché anche il più accanito alpinista si rallegra, in un primo momento, se il tempo gli impedisce di sfidare il pericolo, salvo poi a piangere lacrime amare per l'occasione perduta. 
Senonché Stratzinger disse:
«Fortunati, siamo, oggi sarà una bellissima giornata». E
immediatamente le fasce di nubi si dissolsero, restò soltanto un argenteo velo di neve pulviscola dietro al quale si spalancarono il cielo violetto e la potente parete della Ota Muragi, già inondata di sole. 
Ci legammo in cordata e si attaccò un erto canalone di ghiaccio vivo nel quale però i ramponi entravano come fosse burro. 
Ai lati, sulle due precipitose quinte di roccia che chiudevano il canalone, finestre e porte si aprivano e chiudevano, le donne di casa dandosi un gran daffare per pulire, lucidare, mettere ordine. Ci vedevano benissimo naturalmente, vicini come eravamo, ma sembrava non se ne interessassero affatto. 
Tutta la parete, del resto, era popolata da gente che scriveva in piccoli uffici, leggeva, lavorava, ma per lo più si affollava a far chiacchiere nei caffè sistemati sulle cenge e in certe caverne. 
A un certo punto ci trovammo alle prese con un pericolosissimo muro fatto di pietroni tenuti insieme da erbacce e radici. Tutto mollava. 
Stratzinger propose di tornare. Noi due fratelli insistendo, lui disse che allora era meglio slegarsi. Tanto, se uno cadeva, gli altri due, non potendosi in alcun modo affrancare, lo avrebbero seguito fatalmente nella catastrofe. 
Poco dopo Stratzinger e mio fratello disparvero dietro un costolone. Io mi trovai aggrappato a un macigno che, trattenuto solo da filamenti vegetali, dondolava in modo pauroso. A tre metri di distanza, in una cavità della parete, un folto gruppo stava prendendo l'aperitivo. 
Prima che il macigno si staccasse trascinandomi nel baratro, con un balzo disperato riuscii ad afferrare un telaio metallico che sporgeva a mensola dalle rocce, forse allo scopo di sostenere una tenda. 
«Agile, però, per la sua età»! 
commentò sorridendo un giovanotto affacciato all'apertura della grotta. 
Aggrappato con le mani al telaio di ferro, il corpo penzolante nel vuoto, cercavo con le estreme forze di issarmi. Il macigno, sotto di me, stava ancora rimbombando nelle viscere profonde della voragine. 
Purtroppo, sotto il peso, il telaio accennò a piegarsi, cedendo. Era chiaro che stava per rompersi. Non sarebbe costato niente, a quelli là dell'aperitivo, tendermi una mano e salvarmi. Ma oramai non si occupavano più di me. 
Mentre cominciavo a precipitare, nel silenzio sacro della montagna, li potèi udire distintamente che discorrevano del Vietnam, del campionato di calcio, del Cantagiro. 

La confessione
La signora Laurapaola era in letto indisposta, una cosa da niente, questione di tre quattro giorni, aveva detto il medico. 
Da tempo soffriva di questi noiosi malesseri, ma i familiari quasi la prendevano in giro sostenendo che era una fissata, anche il medico diceva che non doveva in alcun modo preoccuparsi. 
Nel pomeriggio, mentre stava sonnecchiando, la cameriera le annunciò padre Quarzo, del vicino convento dei minori francescani, presso il quale Laurapaola andava solitamente a confessarsi. Come mai era venuto? 
«Buongiorno, cara figliola», fece padre Quarzo entrando. «Passavo di qua, stavo facendo un giro per i miei poveri bambini focomelici, pensavo di bussare anche alla sua porta. E mi dicono che lei... Ma sono cose da fare? Su, su, da brava, la voglio sana e svelta come al solito. Una signora moderna e attiva come lei! Ma a proposito... come mai non c'è più quella simpatica vecchietta che mi apriva sempre la porta? 
«Non me ne parli, padre», fece Laurapaola. «Troppo vecchia, non capiva più niente, non combinava più niente, l'ho dovuta licenziare». 
«E da quanti anni era con lei»? 
«Chi lo sa, da quando sono nata l'ho sempre vista in casa. E credo che lei ci fosse già da parecchi anni». 
«L'ha licenziata»? 
«Come si fa? Per forza, caro padre. 
Non è mica un ricovero per vecchi, questa casa... 
«Capisco, capisco» fece padre Quarzo. «Ma mi racconti, figliola, cosa abbiamo fatto questa estate? »
Laurapaola cominciò allora a raccontare le cose dell'estate, il viaggio in Spagna, le corride, il matrimonio della cognatina di Arezzo, poi la crociera in barca, giù fino a Cipro e all'Anatolia. 
«Una simpatica compagnia, immagino...»
«Sicuro, caro padre. In otto eravamo, non le dico che giornate, che allegria, che sole, non mi sono mai divertita tanto». 
«Suo marito, così, si è finalmente concesso un po' di riposo, vero»? 
«Ah, no. Mio marito il mare non lo può vedere. E poi aveva tanto da fare, non so più che congressi in Francia e in Svezia». 
«E i bambini»? 
«Oh, i miei piccoli! Sono rimasti nel loro collegio in Svizzera, un vero paradiso, sapesse, per loro lassù è vacanza tutto l'anno». 
Parlava parlava, la nuova villa a Porto Ercole, le lezioni di yoga ("Anche spiritualmente, padre, ci si sente trasformati, sa?"), la prossima partenza per Saas Fee, l'ultima asta di quadri, parlava parlava, si era fatta tutta accesa in volto. 
Padre Quarzo ascoltava. Seduto, se ne stava ritto come una statua. Non sorrideva più. 
«Figliola», disse alla fine «lei ha parlato abbastanza, non vorrei si stancasse», si alzò lungo lungo. «Ora le darò l'assoluzione». 
«Come»? 
«Non la vuole, figlia mia? 
«Oh no, padre... Grazie anzi... Ma non capisco...»
«In nomine Patris et Filii» cominciò padre Quarzo, il volto severo. E anche lei congiunse le mani. 
Così Laurapaola seppe che le toccava morire. 

L'autostrada
Viaggiavo da solo, alle due circa di un pomeriggio di luglio, sull'autostrada del Sole, nel tratto fra Parma e Fidenza. 
Era l'ora torpida e greve della sonnolenza e dei miraggi. Poche macchine si incontravano. 
A un tratto vidi distrattamente, che procedeva in senso opposto sull'altra corsia, una grande vettura di colore bianco, a bordo della quale sembrava non ci fosse nessuno. 
Pensai di avere travisto o che in quel momento il guidatore si fosse chinato, così da risultare invisibile. 
Ma un brivido mi corse su per la schiena: una "spider" grigia metallizzata, - e riconobbi chiaramente la marca, - mi superò passandomi rasente: a bordo non c'era anima viva. 
Due, tre, cinque altre macchine, che incontrai subito dopo, erano ugualmente vuote: auto fantasma che procedevano regolarmente e nei sorpassi accendevano il lampeggiatore, come è prescritto. 
L'impressione fu paralizzante. Che mi avesse preso un malore? Che fossi colto da allucinazioni? Col batticuore rallentai, fermandomi sulla corsia esterna, all'estremo ciglio. E discesi, frastornato. In quell'istante passò una multipla carica sul tetto di bagagli, compresa una carrozzina da neonato. Una intera famigliòla, probabilmente, che andava in villeggiatura. Ma la famiglia, dentro, non c'era. 
Che cosa era successo? Quale incantesimo di solitudine si era prodotto per cui, nella contrada, le persone, pur esistendo, scomparivano? 
In quel momento da un gruppo d'alberi, alquanto discosto, udii un canto fisso di cicale. 
Mi guardai intorno. Non si vedeva una casa. La campagna dormiva assopita nel sole. Sotto di me, appena di là dalla rete metallica di separazione, un fiumiciattolo asciutto, parallelo all'autostrada. Sulla riva opposta un breve lembo di prato chiuso da cespugli. 
Mentre, smarrito, consideravo l'assurda situazione, qualcosa si mosse di là dal fiumicello. Guardai. 
Dai cespugli era uscito un cane nero, di mediana statura, che, incerto nel passo, arrancava verso il fosso. 
Ebbi un lampo. Ma quello era Moro, il mio cane, che avevo lasciato due giorni prima nella casa di campagna, vecchio e malazzato! 
Era quasi ridicolo, eppure chiamai: Moro! Moro! 
Chiaro che non poteva essere lui, lontano oltre duecento chilometri in linea d'aria. 
Tuttavia il cane per un istante mi guardò e mi parve che muovesse la coda. 
Moro! Moro! chiamai ancora. Ma lui non rispondeva più. Tremolando, cominciò a girare su se stesso come fanno appunto i cani prima di accucciarsi. Si accucciò infatti, crollando, quasi le ultime forze lo avessero lasciato. 
Povera bestia, pensai. Era venuto, come fanno le bestie, a morire in solitudine e io gli avevo guastato questo estremo conforto. 
Si accucciò regolarmente, quindi con due tre nevrotiche contrazioni si stese su un fianco, le gambe irrigidite: cercò ancora di alzare il muso con un tenero mugolìo, lo lasciò ricadere, restò immobile. 
Alle mie spalle un tof tof di motociclette. Erano due agenti della polizia stradale. 
«Meglio non fermarsi qui, signore»
disse uno. «Ci sono le apposite piazzòle. O le serve qualcosa»? 
«No, niente, grazie», balbettai, riscuotendomi. 
Passò una coupé, ruggendo, al volante stava in maniche di camicia un tipo grosso e sanguigno. Passò una seicento, guidata da una signora anziana. Tutto era tornato normale? 
Guardai allora il prato, di là dal fiumicello. Era quieto e deserto, del cane non esisteva più traccia. 
(Poi seppi che in quell'ora precisa Moro era andato a morire, solo soletto, sulla riva del Piave, più di duecento chilometri lontano).

Il sepolcro di Attila

Dopo vent'anni, trent'anni, quarant'anni di ricerche, finalmente Giovanni Tassol ha scoperto, nel cuore della Selva Nord, il leggendario sepolcro di Attila, è la grande vittoria della sua vita. 
Ne aveva sentito parlare per la prima volta, ragazzo, dal professore di quarta ginnasio Giorgio Nicara (che non c'è più), e la sera stessa aveva dichiarato a suo padre (che non c'è più), la sua intenzione di fare l'archeologo esploratore. 
Anche il più intimo suo compagno di scuola Enrico Ermogene, (che non c'è più), aveva concepito la medesima passione e insieme erano andati dal famoso geografo Azzolina (che non c'è più), a chiedergli se per
caso conservasse qualche antica carta geografica della Selva Nord, e l'Azzolina (che non c'è più), gliene aveva fatta vedere una, ma era sbagliata. 
Poi c'erano stati gli anni intensi di studi, finché il professore Sullavita, (che non c'è più), lo aveva nominato suo assistente, incaricandolo, insieme all'altro neolaureato Nicola De Merzi (che non c'è più), di una prima puntata lungo il presunto tracciato della Via Olobrona che anticamente attraversava da un capo all'altro la temuta Selva settentrionale. 
Erano i begli anni della gioventù quando gli amici si riunivano ogni sabato nel salotto della signora Mimì Dominguez (che non c'è più), centro della vita culturale e artistica. E
proprio qui aveva conosciuto la deliziosa Annetta Fossadoro, che doveva diventare sua sposa (anche lei non c'è più). 

La spedizione gli avrebbe dovuto aprire la via alla cattedra, senonché il collega Sergio Basottoli, già suo grande amico, gli fece le scarpe (anche lui non c'è più), e in un certo senso Tassol dovette ricominciare da Un periodo difficile, funestato anche da un processo a Luca, suo figlio primogenito (che non c'è più), per oltraggio a sua maestà. 
Le vicissitudini accademiche, alleviate dal costante generoso appoggio del magnifico rettore professore Tullio Brosada (che non c'è più), ebbero termine con la caduta della monarchia. 
Dopodiché, divenuto cattedratico, egli organizzò la prima vera spedizione per la ricerca del sepolcro di Attila, affiancandosi a due valorosi giovani studiosi, Max Serantini e Gianfranco Sibili (che non ci sono più). 
Contemporaneamente, altre spedizioni vennero intraprese dal peruviano Salvador Lasa, dal marchese Alfred Sofregon e dall'apolide Giusto De Fonseca (che non ci
sono più). Una lunga epopea costata molte lacrime e sangue, ma adesso Giovanni Tassol ha piantato la bandiera nazionale sui ruderi del favoloso monumento; e verso di lui già naviga, a bordo di tre elicotteri, una équipe della televisione con tutta l'attrezzatura necessaria. 
Nell'accampamento accanto al rudere, nel cuore profondo della selva, hanno acceso i fuochi della sera. Seduto su una pietra, Tassol si guarda intorno. 
Non vede che abeti, abeti, abeti, fittissimi, neri. Pensa a coloro che lo hanno aiutato alla vittoria, il caro Ennio De Tibertis, sovrintendente all'amministrazione forestale, così comprensivo (non c'è più), la infaticabile segretaria del suo istituto Grazia Marasca (che non c'è più), il devotissimo autista Armando (che non c'è più), il pilota Arduino Mahinoschi che gli fece sorvolare molte volte la zona, e scoprire il sepolcro (anche lui non c'è più). 
Il Capo dello Stato gli ha fatto pervenire un caloroso radio gratulatorio. I giovani assistenti, i tecnici, i lavoranti si preparano a festeggiarlo là sul posto, con mezzi di fortuna. C'è allegria. 
Seduto su una pietra, si guarda intorno. Alberi, alberi, alberi. 
Nient'altro. E' solo.

Il registratore
Le aveva detto, (a bassissima voce), l'aveva supplicata sta zitta ti prego, il registratore sta registrando dalla radio non far rumore lo sai che ci tengo, sta registrando Re Arturo di Purcell, bellissimo, puro. Ma lei dispettosa menefreghista carogna su e giù con i tacchi secchi per il solo gusto di farlo imbestialire e poi si schiariva la voce e poi tossiva (apposta) e poi ridacchiava da sola e accendeva il fiammifero in modo da ottenere il massimo rumore e poi ancora a passi risentiti su e giù proterva, intanto Purcell Mozart Bach Palestrina i puri e divini cantavano inutilmente, lei miserabile pulce pidocchio, angustia della vita, così non era possibile durare. 
E adesso, dopo tanto tempo, egli fa andare il tormentato nastro, torna il maestro, il sommo, purcell Bach Mozart Palestrina. 
Lei non c'è più, se ne è andata, lo ha lasciato, ha preferito lasciarlo, lui non sa neppure vagamente dove è andata a finire. 
Ecco Purcell Mozart Bach Palestrina suonano suonano stupidissimi maledetti nauseabondi. Quel ticchettìo su e giù, quei tacchi, quella risatina (la seconda specialmente), quel raschio in gola, la tosse, Questa sì, musica divina. 
Lui ascolta. Sotto la luce della lampada, seduto, ascolta. pietrificato sulla vecchia sfondata poltrona, egli ascolta. Senza muovere menomamente alcuna delle sue membra, siede ascoltando quei rumori, quei versi, quella tosse, quei suoni adorati, supremi. Che non esistono più, non esisteranno mai più.

I giorni perduti
Qualche giorno dopo aver preso possesso della sontuosa villa, Ernst Kazirra, rincasando, avvistò da lontano un uomo che con una cassa sulle spalle usciva da una porticina secondaria del muro di cinta, e caricava la cassa su di un camion. 
Non fece in tempo a raggiungerlo prima che fosse partito. Allora lo inseguì in auto. E il camion fece una lunga strada, fino all'estrema periferia della città, fermandosi sul ciglio di un vallone. 
Kazirra scese dall'auto e andò a vedere. Lo sconosciuto scaricò la cassa dal camion e, fatti pochi passi, la scaraventò nel botro; che era ingombro di migliaia e migliaia di altre casse uguali. 
Si avvicinò all'uomo e gli chiese:
«Ti ho vistO portar fuori quella cassa dal mio parco. Cosa c'era dentro? E cosa sono tutte queste casse»? Quello lo guardò e sorrise: «Ne ho ancora sul camion, da buttare. Non sai? 
Sono i giorni». 
«Che giorni? 
«I giorni tuoi. 
«I miei giorni»? 
«i tuoi giorni perduti. i giorni che hai perso. Li aspettavi, vero? Sono venuti. Che ne hai fatto? 
Guardali, intatti, ancora gonfi. E adesso... 
Kazirra guardò. Formavano un mucchio immenso. 
Scese in fondo alla scarpata e ne aprì uno. C'era dentro una strada d'autunno, e in fondo Graziella, la sua fidanzata che se n'andava per sempre. 
E lui neppure la chiamava. 
Ne aprì un secondo. C'era una camera d'ospedale, e sul letto suo fratello Giosuè che stava male e lo aspettava. 
Ma lui era in giro per affari. 
Ne aprì un terzo. Al cancellletto della vecchia misera casa stava Duk, il fedele mastino che lo attendeva da due anni, ridotto pelle e ossa. E lui non si sognava di tornare. 
Si sentì prendere da una certa cosa qui, alla bocca dello stomaco. 
Lo scaricatore stava diritto sul ciglio del vallone, immobile come un giustiziere. 
«Signore», gridò Kazirra. «Mi ascolti. Lasci che mi porti via almeno questi tre giorni. La supplico. Almeno questi tre. io sono ricco. Le darò tutto quello che vuole». 
Lo scaricatore fece un gesto con la destra, come indicare un punto irraggiungibile, come per dire che era troppo tardi e che nessun rimedio era più possibile. 
Poi svanì nell'aria, e all'istante scomparve anche il gigantesco cumulo delle casse misteriose. E l'ombra della notte scendeva. 

Equivalenza

A un certo punto il famoso clinico, nella camera del malato, fece un minuscolo cenno alla moglie del malato e con un dolce sorriso si avviò alla porta. La signora intuì. 
Come furono nel corridòio, il clinico assunse un volto di assoluta circostanza, profondamente umano e comprensivo. Si schiarì la voce:
«Signora», disse «è mio
imprescindibile dovere, ahimè, farle presente... suo marito... 
«E' grave? 
«Signora», disse lui «purtroppo... 
la situazione è tale... Conviene rendersi conto che... 
«No, non mi dica!... Lei vuol intendere che...»
«Affatto, signora... Non bisogna, non bisogna assolutamente precipitare le cose... ma diciamo... diciamo... 
entro tre mesi... sì, sì, possiamo dire tre mesi...»
«Condannato»? 
«Limiti alla Provvidenza non ci sono, cara signora. 
Ma per quello che la nostra povera scienza può dirci... 
le ripeto.., tre mesi al massimo... 
tre mesi... 
Un groppo violentissimo la colse. 
Parve accartocciarsi SU se stessa. Si nascose la faccia tra le mani. 
Selvaggi singhiozzi la scuotevano:
«Dio, Dio, il mio povero Giulio»! 
Quand'ecco il luminare, che stava al capezzale del malato, con un minuscolo ammicco invitò la moglie degente a uscire. E lei capì. 
Una volta usciti, il medico chiuse lentamente la porta della camera. Poi si rivolse alla donna con la voce vellutata
delle grandi occasioni:
«Signora», disse «per un medico questi sono compiti estremamente ingrati. 
Tuttavia devo essere franco..... Suo marito...»
«Sta molto male»? 
«Signora», fece l'altro abbassando ancor più il tono. «è motivo per me di profondo disagio... ma è pure indispensabile che lei...»
«Allora, mi sembra di dover capire...»
«Intendiamoci: sarebbe assolutamente fuori luogo anticipare gli eventi... 
Ci rimane, suppongo, un certo respiro... 
ecco... un anno... un anno almeno...»
«Inguaribile, dunque»? 
«Non c'è nulla di impossibile, signora, neanche i miracoli. Ma per quello che la scienza mi consente di capire... direi proprio un anno...»
La poveretta ebbe un sussulto, piegò la testa, si coperse gli occhi con le mani scoppiando in un pianto disperato:
«Oh, povero il mio cocco»! 
Ma ci fu un momento che gli sguardi del grande clinico e quelli della moglie del malato si incontraron E lei capì che l'uomo la invitava a uscire. 
Lasciarono così il malato solo. Di fuori, dopo avere chiuso la porta, il professore, con accento grave e insieme denso di partecipazione affettiva, mormorò:
«Triste, mi creda, è per un medico assolvere certi indesiderabili doveri... 
Ecco, signora, sono costretto a farle sapere che... suo marito...»
«E' in pericolo? 
Rispose il dotto terapeuta:
«Una menzogna in questi casi, signora, sarebbe una cattiva azione... 
non posso nasconderle che... 
«Professore, professore, mi parli pure con il cuore in mano, mi dica tutto... 
«Qui bisogna intenderci, signora... 
guai a mettere il carro davanti ai buoi... Non è imminente.., non posso neppure essere preciso... però come minimo.., ancora una tregua di tre anni... 
«Così, non c'è più niente da sperare»? 
«Sarebbe leggerezza da parte mia offrirle inutili illusioni... 
malauguratamente la situazione è chiara... entro tre anni...»
La sciagurata non seppe dominarsi. 
Mandò un penoso gemìto, quindi si sciolse in lacrime gridando:
«Ah, mio marito.., il mio povero marito! 
Senonché nella camera dell'infermo si fece un silenzio. E allora, quasi per trasmissione telepatica, la moglie seppe che il celebre medico desiderava uscire dalla stanza insieme con lei. 
Uscirono infatti. E quando fu certo che il malato non poteva udirlo, il patologo, chinatosi verso la signora, le sussurrò in un orecchio:
«Ahimè, signora, è questo per me un momento assai penoso... Non posso fare a meno d'avvertirla.., suo marito...»
«Non ci sono più speranze»? 
«Signora, » disse l'uomo «sarebbe sciocco e disonesto se io con eufemismi tentassi di... 
«Povera me... e dire che mi ero illusa... povera me»! 
«Eh no, signora, proprio perché io non intendo tacerle nulla, non voglio neppure che adesso lei faccia tragedie premature... Vedo avvicinarsi sì il termine tale.., ma non prima.., non prima di vent'anni...»
«Dannato senza remissione»? 
«In un certo senso sì... Non posso dissimularle signora, l'amara verità.., al massimo vent'anni... più di venti anni non posso garantire...»
Fu più forte di lei. Per non cadere dovette appoggiarsi a una parete, singhiozzando. E mugolava: «No, non posso crederci, il mio povero Giulio»! 
Tossicchiò allora con diplomazia il dottore guardando in un certo modo la moglie del cliente, che stava a lui idi fronte, di là del letto: era evidentemente un invito a uscire con lui. 
Appena nel vestibolo, la signora afferrò per un braccio il famoso oracolo, chiedendogli, apprensiva:
«E allora»? 
Al che lui rispose con voce da giudizio universale: «Allora è mio dovere essere franco... Signora, suo marito...». 
«Mi devo rassegnare»? 
Fece il medico:
«Le do la mia parola che se appena si prospettasse una vaga possibilità.., ma invece...»
«Mio Dio, è terribile.., mio Dio»! 
«La capisco, signora... e mi creda partecipe al suo dolore... D'altra parte non si tratta di una forma galoppante. 
Penso che, a compiersi, la funesta parabola impiegherà... impiegherà circa cinquant'anni». 
«Come? Non c'è più scampo»? 
«No, signora, no... e glielo dico col cuore stretto. 
mi creda... C'è un margine, ma non più di cinquan t'anni... 
Ci fu una pausa. Poi il grido straziante di lei, come se un carbone acceso le fosse penetrato nelle viscere:
«Uhhhh! uhhhh!... No e poi no!... il mio uomo!... il mio tesoro benedetto! 
All'improvviso si riscosse. Guardò fissa il luminare negli occhi. Gli strinse un polso. 
«Professore, dico, ma allora... Ho saputo da lei una cosa terribile. Ma, dico, tra cinquant'anni, dico... mezzo secolo.., tra cinquant'anni anch'io... 
anche lei... In fondo, allora è una condanna di tutti, no»? 
«Proprio così, signora. Tra cinquant'anni noi tutti saremo sotto terra, per lo meno è probabile. Ma c'è una differenza, la differenza che ci salva, noi due, e invece condanna suo marito... Per noi due, almeno che si sappia, nulla ancora è stabilito... 
Noi possiamo vivere ancora, in beata stoltezza forse, come quando avevamo dieci anni dodici anni. Noi potremo morire tra un'ora, tra dieci giorni, tra un mese, non ha importanza, è un'altra cosa. Lui no. Per lui la sentenza esiste già. La morte, in sé, non è poi una cosa così orribile, forse. Tutti la avremo. Guai però se sappiamo, fosse anche tra un secolo, due secoli, il tempo preciso che verrà. 


Lo scoglio
Un amico siciliano mi aveva detto che molti anni fa, nell'isola di Lipari, un vecchio signore si era trasformato in uno scoglio. 
La cosa non mi aveva esageratamente stupito, dato l'aspetto di quelle rupi marine. 
In breve, la storia che l'amico mi aveva raccontato di terza o quarta mano, era questa:
Viveva nel secolo scorso, a Messina, un signore che possedeva una piccola flottiglia di barche da pesca. 
Suo figlio unico, ancora giovinetto, fu preso dall'amore del mare e spesso usciva con i pescherecci del padre, il quale ne era insieme orgoglioso e preoccupato. Ma una notte, a ridosso dell'isola di Lipari, poche decine di metri dalla costiera occidentale, un colpo di mare travolse il ragazzo che non fu più ritrovato. 
Da quel giorno il padre, impazzito dal dolore, si trasferì a Lipari e ogni giorno, mare permettendo, andava con una barchetta sul posto dove il figlio aveva trovato la morte, qui trattenendosi per ore. E invocava ad alta voce il ragazzo e gli faceva discorsi interminabili. 
Parecchi anni passarono così. Il padre, rimasto vedovo, era ormai vecchio, e soltanto nelle giornate di grande bonaccia poteva assecondare il suo vizio dissennato. 
Finché una sera egli fu atteso invano di ritorno. Si andò sul posto, non si trovò che la barchetta, vuota, la quale oscillava al placido respiro delle acque. Ma, con sommo stupore, proprio in quel punto, i pescatori, che conoscevano quella costa meglio della loro casa, notarono che era spuntato dalle acque uno scoglio che prima non esisteva. Si pensò quindi che finalmente il dolore senza rimedio avesse pietrificato il vecchio. E da allora, -
mi raccontava l'amico, - di notte anche i giovani più fieri non osano avventurarsi nei pressi e girano al largo. Ma da lontano, specialmente nei periodi di grande luna, sì odono le invocazioni, i singhiozzi, le grida e i gemiti del padre disperato. 
Mi diceva anche, l'amico, che verso sud, quello scoglio ha le fattezze di un uomo vecchio e scarno. E che appunto nelle alte ore notturne la bocca si apre e chiude parlando, e pure gli occhi si aprono per lacrimare. Ma guai a colui che osasse, con sguardi indiscreti, violare la solitaria afflizione. Un pescatore che si arrischiò a farlo perdette, nel giro di pochi mesi, tutti e quattro i suoi figli. 
La favola, in un certo senso, era molto bella. E quest'anno, tornato per diporto nelle Eolie, chiesi più precise informazioni. 
Le leggende però fioriscono e si espandono quanto più viaggiano lontano per il mondo. Se si va a cercarne il costrutto nel luogo d'origine, di solito non si trovano che brandelli di nebbia. 
A Lipari alcuni pescatori conoscevano, tra i molti picchi, piccoli e grandi, emergenti dal mare, lo scoglio denominato "U vecchiu signore" ma non sapevano dire niente di più. La lacrimevole storia dell'armatore impazzito per la morte del figlio nessuno la conosceva. Tranne un signore anziano, di notevole dignità esteriore, che tentai di avvicinare a un caffè. 
Avrà avuto sessant'anni, era massiccio, sbarbato alla perfezione, indossava una camicia immacolata con le maniche corte e mi ricordava l'attore che impersonò il capo della
"onorata società" nel film "Il mafioso" con Alberto Sordi. 
«Mi perdoni» gli dissi. «Lei è qui di Lipari? 
«Proprio così» rispose con lentezza. 
«Ma qui d'inverno non vivo. Potrei sapere..»? 
«Ecco, vorrei chiederle soltanto una informazione, di carattere diremo così folcloristico». 
«Dica, dica..». 
«Lei ha mai sentito la storia di un signore di Messina che tanti anni fa si è trasformato in uno scoglio»? 
«Udimmo, udimmo da piccoli» furono le sue testuali parole«tante bizzarre cose..». e qui fece un sorriso tra il diplomatico e il diffidente. «Ma gli anni passano... 
gli anni passano..». 
«Per caso lei sa come si chiamava? E
quando è successo il fatto»? 
«Il fatto, se si può dire fatto, risàle al 1870 per lo meno, ma potrebbe anche essere anteriore, o addirittura non essere mai avvenuto..». 
«Perché? Lei non ci crede»? 
«Non mi faccia dire, la prego, cose che io non..». 
guardò l'orologio a polso. «Ma tardi è, mi scusi..». Se ne andò salutato con ossequio da tutti gli avventori del caffè. 
Sulla banchina del porticciolo, il giorno dopo, chiesi a due ragazzetti dove potessi trovare una barca con fuoribordo per fare il giro dell'isola. Il mare giaceva immoto senza palpito di onde, non occorreva gran bastimento per simile spedizione. 
I ragazzi schizzarono via e dopo neanche cinque minuti erano di ritorno col più strambo barcaiolo che avessi mai incontrato. 
Era alto, scheletrico, intensamente pallido e gli si sarebbero dati per lo meno novanta anni se il volto, affilatissimo, avesse avuto una sola ruga. Anche per il singolare cappello di paglia a tesa orizzontale larghissima ricordava certe meridiane apparizioni dei tropici cariche di fatalità, balenanti dalle pagine di Conrad. Ma ciò che più colpiva era la sua totale "assenza" quale è dei fantasmi, i quali ignorano tutto quello che avviene intorno. 
Notai che le scarne braccia terminavano in mani morbosamente nocchiute che si muovevano con fatica, a rivelare lunghi travagli di artrosi. 
Anche il passo era stento e alquanto tremulo. Se il mare non fosse stato così rassicurante, mai avrei accettato un accompagnatore tanto problematico. 
«Lo sai» chiesi per prima cosa «dove è lo scoglio del Vecchio Signore»? 
Lui abbassò un poco la testa forse in segno di assenso e senza più guardarmi si diresse a un guscio miserabile ormeggiato con un moncone di spago pochi metri più in là. Per salirvi fece un inceppato saltìno, che si ripercosse in tutto il filiforme corpo con spasimo doloroso. Io lo seguìi. 
L'uomo, che disse di chiamarsi Crescenzo, con facilità insospettata mise subito in azione uno sdrucito motorino della dimensione di una macchina fotografica. E si partì, noi due, con ritmico borbottìo. 
Io gli sedevo di fronte. Immobile, con una mano sul comando del fuoribordo, egli mi guardava in volto, però non mi vedeva, tale almeno era la mia sgradevole impressione. 
Intanto si era varcato il molo e la barchetta si avviava verso il passaggio tra Lipari e Vulcano. 
Oltrepassato il paese, la natura si faceva subito selvaggia e le rive si drizzavano in dirupati anfratti di forme insolite e sinistre. 
Quanto diverse le architetture delle Eolie dai solenni, romantici e così umani scenari della Costiera amalfitana, per esempio, o di Ischia, o di Capri. Anche qui pareti a picco, guglie e precipizi. Ma conformi alle fantasie dell'uomo: fondali da melodrammi verdiani, antri e strapiombi coronati di verde, insieme asperrimi e soavi, propizi alle vertigini d'amore. Mentre laggiù le muraglie e i picchi si contorcono, nudi e bruciati, in pose di angoscia e delirio, sempre rammemorando l'inferno che di sotto cova col suo fuoco. 
Molti scultori d'oggi farebbero bene a rinsanguare la loro gracile ispirazione costeggiando le Eolie. 
Dove la natura ha moltiplicato inesauribili invenzioni di mostri, giganti, ragni accartocciati, ciclopici organi dalle canne sbilenche, contorte sirene, ruderi crollanti, mascheroni dilaniati, combusti altari, granitiche saette, nefande piaghe suppurate, gnomi e orchi in castigo, perfide cittadelle, sconsacrate cattedrali. E così crea in brevissimi spazi solitudini profonde, e in ogni angolo addensa cio che è la sua suprema bellezza, cioè il mistero. 
«È quello il Vecchio Signore»? 
chiesi a Crescenzo, come si fu circa a metà della costa occidentale dell'isola. 
Lo avevo riconosciuto subito. 
Lui si voltò a guardare, poi fece cenno di sì. 
Addossato a una drammatica muraglia, per cui facilmente può sfuggire, lo scoglio non era alto più di una quindicina di metri. La forma era tozza e tondeggiante, senza aculei o spine. Verso sud, cioè verso di noi che ci avvicinavamo, presentava una lieve concavità tormentata da un groviglio di orribili protuberanze gialle e violacee che si incurvavano in giù come cera in procinto di fusione. Il sole illuminandola quasi a picco, le ombre disegnavano un volto
lontanamente umano, la faccia di un corrucciato despota che si disfaceva nella morte. 
Dalle due presunte cavità orbitàli scendevano, ormai cristallizzati, abbietti scoli di colore purpureo. E
alla base, là dove le tenere onde, urtando, segnavano una minima striscia di schiuma, si apriva una minuscola caverna. 
Quando si fu molto vicini, benché il mare fosse morto, si udì tuttavia là dentro, nel pertugio nero, il rigurgito dell'onda, che dava suono di singhiozzo. 
Pregai Crescenzo di spegnere il motorino. Con stento egli sistemò sugli scalmi i due remi, che servivano a non scarrocciare. 
Ora nel grande silenzio, nel grande sole, il singulto dell'acqua nel botro si scandiva più dolente e cavernoso. 
«E' vero» chiesi «che questo è un vecchio signore di Messina trasformato in pietra»? 
«Dicono, dicono» egli mormorò, afono. 
«È  vero che di notte chiama suo figlio morto e gli parla»? 
«Dicono, dicono» rispose. 
«È vero che venire qui di notte porta disgrazia»? 
Mi guardò inespressivo, come se non avesse capito. 
Sotto la assurda tesa del cappello, il volto senza età aveva la trasparenza delle meduse morte. Poi disse:
«Anche io. Anch'io sono di pietra. Da venticinque anni» e mi fissava dondolando adagio la testa. 
«Anche tu, un figlio..».? 
Il fantasma fece cenno di sì. 
«Giovanni, si chiamava» disse. 
«Sottocapo di Marina. Matapan». 
Nessuno crederà
Ricevetti in settembre questa lettera:
"Caro Buzzati, ti ricordi ancora di Bruno Bisia, tuo compagno di classe in quarta e quinta ginnasio? Penso di no, dopo tanti anni. Ora mi faccio vivo con te per un motivo preciso. Vedo che ti stai occupando, come giornalista, di personaggi, episodi, ambienti misteriosi e strani. Ebbene, sono sicuro che il posto dove io lavoro, la Morgenhaus, nei Grigioni, ti potrebbe offrire materiale di eccezionale interesse. 
"Forse ne avrai sentito parlare, benché si sia sempre cercato di tenere la cosa segreta. Si tratta di una specie di ritiro, o clinica, per i malati senza speranza, con intenti filantropici; tanto che vi sono ricoverate anche persone senza un soldo. I capitali vengono soprattutto dagli Stati Uniti, dal Messico e dalla Svizzera. Lo scopo è di assicurare a quegli infelici una fine senza sofferenze, soprattutto morali. In che modo? Vorrei che tu venissi a constatarlo, ne rimarresti affascinato, e sbalordito. 
"Per lettera non ti posso dire di più. 
Se accetterai il mio consiglio, scrivimi, io ne sarei felice. Verrèi a prenderti alla stazione di Klaris per proseguire insieme in macchina. Ti avverto onestamente che la Morgenhaus non potrai visitarla internamente; la presenza anche momentanea di estranei è assolutamente proibita. Ma non è l'organizzazione interna della casa che può interessarti. Altro, e ben più meraviglioso, è il motivo di questa lettera". 
Mi ricordavo vagamente di Bisia, un ragazzo allora abbastanza
insignificante. E avevo sentito parlare della Morgenhaus come di una favolosa clinica di avanguardia creata a combattere il male del secolo. Di tanto in tanto giornali e riviste ne avevano parlato, ma sempre in termini vaghi. Si diceva che in un certo modo lassù la malattia maledetta perdeva ogni crudeltà, diventava un pensiero sopportabile. Ma come? Era un inedito procedimento di eutanasia? Un miracolo di suggestione collettiva? Una iniziazione religiosa? 
L'occasione, in ogni modo, era giornalisticamente stimolante. Dopo qualche giorno risposi a Bisia dicendogli che ero pronto a venire. 
Quando lo rividi, alla stazione di Klaris, egli mi apparì ben diverso dai lontani ricordi. Era diventato un uomo alto e potente di membra, con una corta barba rosso-grigia che gli contornava la cordiale faccia. Mi sembrò molto più giovane di me.... 
Ritrovammo subito la confidenza. 
L'automobile, dopo aver percorso una decina di chilometri sulla strada per Kameden, prese una diramazione, più stretta ma ben asfaltata, che si inoltrò in una valle angusta. Erano le cinque di un limpido pomeriggio. 
Via via che si saliva, i casolari, le coltivazioni, i segni di presenza umana si facevano più rari. A una svolta, lo sguardo spaziò fino in fondo alla valle, che risultò chiusa da un ripido muraglione di foresta alto un trecento metri. Su per questo erto pendio, la macchina si inerpicò a stretti tornanti in mezzo agli abeti. 
Non si incontrò anima viva. 
Come si raggiunse il ciglione sommitale, apparve uno stupendo scenario. Le montagne si aprivano a cerchio intorno a una conca di praterie e di foreste. E sulla sommità di un colle, a ridosso di una curiosa rupe a forma di monaco accovacciato, risplendeva una sorta di reggia. 
Ora mi è impossibile descrivere come meriterebbe quella architettura, di gusto ultramoderno, tuttavia estremamente movimentata e fantasiosa, così da esprimere in modo intenso la serenità, il benessere, il lusso, la felicità umana. Sopra le torri, da alti pennoni, gloriose bandiere sventolavano lentamente. 
Ma, a un centinaio di metri dal ciglio dell'altopiano, una cancellata bianca si stendeva da un lato all'altro della stretta, chiudendo ogni passaggio. Nel mezzo, dinanzi ad essa, in
corrispondenza dell'ingresso, sorgeva una villa, piccola ma elegante. 
«una specie di corpo di guardia»
spiegò Bisia, «e nello stesso tempo foresteria. Tu dormirai qui, è molto meglio. E stasera ti terrò compagnia». 
Entrammo nella villa, accolti da un maggiordomo. Mi diedero un
appartamentino sontuosamente arredato, sembrava di essere in casa di miliardari. Nel silenzio, un lontano suono di pianoforte. Ma il segreto? Il fatto straordinario? Il motivo per cui l'amico mi aveva portato lassù? 
Bisia me lo spiegò mentre già calavano sull'incantevole eremo le ombre della sera. Si uscì dalla villa, lui fece aprire una porticina della cancellata ed entrammo nel regno proibito. 
Dinanzi a noi gobbe di prato raso si accavallavano in progressione dolcemente, fino a sbocciare nel portentoso palazzo. Ai piedi del quale mi parve di scorgere qualche figura umana vestita di bianco che si muoveva con lentezza. 
«Perché la morte fa paura»? disse Bisia.«Perché è la cosa più temuta al mondo? La risposta è semplice: perché chi muore se ne va, ma gli altri restano. Se tutto il prossimo ci accompagnasse nell'aldilà, alla morte ci si rassegnerebbe facilmente. Se una catastrofe distruggesse di colpo l'intero genere umano, la morte non ci procurerebbe più un gran dolore. Ora, tu immagina che un uomo condannato da un male incurabile venga trasportato nel futuro, si ritrovi portato avanti di qualche secolo o millennio. I suoi cari, i suoi amici, i compagni di lavoro, tutti quelli che, giovani e sani, adesso lo vedono languire, e lo commiserano con quell'atroce senso di superiorità, saranno ossa e cenere. 
Anche i figli, anche i nipoti, i pronipoti. Mi capisci? In questa condizione, all'ammalato non importerebbe più niente di morire. 
Dirai che si fa leva su di un sentimento basso e meschino. Sarà. Ma questo è l'uomo». 
«E tutto questo, cosa c'entra»? 
«Bravo, questo è appunto il metodo Morgenhaus. I nostri ospiti, i nostri ammalati, qui muoiono quasi volentieri. Qui si trovano trasportati in un lontanissimo futuro: mogli, mariti, fratelli, figli, nipoti non esistono più da immemorabile tempo. I superstiti sono loro, qui; e perciò aspettano la morte senza angoscia. 
Lo guardavo attentamente, sembrava che parlasse sul serio. 
«In che modo li trasferite nel futuro? 
Con la magia? 
Con la fantascienza? Con gli stupefacenti? Oppure li ipnotizzate? 
Oppure è tutto uno scherzo? 
«Ascolta» continuò Bisia procedendo flemmatico su per i prati. «Nella trama del tempo esistono qua e là delle specie di fessure, delle brecce. 
È una cosa piuttosto astrusa, bisognerebbe che ci fosse un fisico a spiegartela e probabilmente non capiresti lo stesso, come in fondo non ho capito neppure io. Bene, una di quelle rarissime smagliature si è determinata qui, dove siamo, in questo recondito angolo delle Alpi. Sopra di noi c'è come un buco che ci mette in comunicazione col futuro». 
«Che futuro»? 
«Ciò che avverrà fra centinaia e centinaia di anni. 
L'epoca precisa non la Possiamo conoscere. In questa valle la dimensione tempo si è rotta, per così dire, ha subito una frattura, l'oggi di noi viene a contatto con l'oggi dell'umanità dell'anno 2500, dell'anno 3000, chissà»! 
Era chiaro che stava parlando un matto. 
Con pazienza cercai di obiettare. 
«Ma, dico, i vostri malati riceveranno pur notizie da casa. Leggeranno i giornali, vedranno la televisione. 
Come Possono illudersi»? 
«Completo isolamento, questo sì. Loro non se ne meravigliano, perché dovrebbero meravigliarsene se sono convinti di vivere nel duemila, nel tremila»? 
«Ma li avete persuasi come? Questa frattura del tempo, come dici tu, come si rivela»? 
«O bella! Si sono persuasi da soli, semplicemente tenendo aperti gli occhi. Per quello che hanno visto e continuano a vedere quasi ogni giorno», 
«Dischi volanti, alle volte»? 
Gli ultimi raggi abbandonarono le vette circostanti, rapide scendevano le ombre, a circa mezzo chilometro da noi le vetrate del palagio si accesero di romantiche luci. 
La voce di Bisia assunse un tono solenne:
«Di notte, qualche rara volta anche di giorno, ma specialmente di notte, dalla Morgenhaus noi li vediamo passare». 
«Chi»? 
«I nostri remoti discendenti, no? 
Altro che dischi volanti. Anche tu li vedrai». 
Perché discutere ancora? Era chiaro che non c'era nulla da fare: un caso evidente di quieta follia. E capii finalmente che la Morgenhaus non era che una clinica di lusso per malati di mente, che il Povero Bisia era uno di questi; e siccome non faceva male a un a mosca, qualche volta lo lasciavano uscire. 
Ero a disagio.«Senti» gli dissi
«io ho freddo. Vorrei rientrare. E tu non fare complimenti, se devi tornare alla clinica»
«No, no. Ti accompagno, ci
mancherebbe altro. Pranzeremo insieme, ho già dato disposizioni. Stasera sono libero dal servizio». 
Fu una pena, il resto di quella sera, con una sequela di sproloqui bislacchi sul tempo e il non tempo, a cui dovevo rispondere sì sì, è una scoperta meravigliosa ne farò un articolo formidabile Finché, verso le dieci e mezzo, io protestando sonno, egli mi lasciò e con un sospiro di sollievo, mi chiusi in camera. Ora si trattava di trovare un'auto per il ritorno. 
Whisky e ghiaccio erano preparati su un tavolino. Ne bevvi un paio di bicchieri. Poi scesi dabbasso a cercare qualcuno che mi cercasse una macchina per l'indomani. 
Scale e sale erano illuminate ma non incontrai anima viva. Chiamai, nessuno rispose. Stavo per aprire la porta (forse avrei trovato fuori un cameriere o un guardiano) quando un brontolìo di timbro profondo cominciò a vibrare nell'aria. Suono strano, come un cupo rotolare ripercosso da arcani echi di cavèrne. Da dove veniva? 
Uscii all'aperto. Le luci, là fuori, erano spente, anche le vetrate della Morgenhaus, laggiù, tutte buie. Nel cielo sereno era tuttavia diffuso un velo sottile di caligine come succede in montagna. 
Però, come levai gli occhi al cielo, il cuore ebbe un tonfo. Di là dal Sottilissimo Sipario di bruma che non nascondeva del tutto le stelle, vidi avanzare dalla catena montagnosa incombente alla mia destra, tre aeroplani. Dovevano essere immensi data la loro estrema lontananza. 
Avevano un Colore grigio, 
senza lumi di sorta, ma parevano emanare da tutto il loro corpo una Sommessa luce. 
Mi ripresi: che stupido ero: tre aerei qualsiasi Che importava se erano così lunghi e le ali così piccole in proporzione? Di modelli nuovi se ne inventano a getto continuo. 
In formazione a triangolo, 
attraversarono il cielo visibile, scomparendo dietro le opposte montagne. 
Ma adesso, che cosa accadeva? Nel cielo avanzava una formazione geometrica di incredibili vascelli rettangolari con gli angoli smussati, Simili a tozzi camion, pure grigi e fosforescenti. Anch'essi davano una sensazione di sovrumana altitudine e risultavano perciò giganteschi. A un certo punto l'intera cupola del cielo ne fu disseminata. Si Spostavano con apparente lentezza, grevi e misteriosi. 
Saranno stati per lo meno cinquecento. 
Finché l'ultima fila disparve dietro le nere creste e il cielo ritornò vuoto. No, non era finita. Ora immaginate due interminabili treni sospesi nel cielo coi vagòni non di uguale larghezza e qualcuno perfino messo a sghimbescio. apocalittici bruchi appesantiti da geometrici rigonfi qua e là. Le loro teste erano ora scomparse dietro le opposte montagne e io vedevo come due favolosi archi a protuberanze irregolari che ruotavano sopra la valle a centomila metri d'altezza. Era l'abisso del futuro spalancato ai nostri sguardi e ne veniva un sentimento grandissimo che è forse impossibile dire. Che cos'erano? 
La migrazione di un Popolo? Una deportazione? Un'àrmata che andava alla guerra? Una fatalità cupa trascinava quello schieramento di mostri, ottusi e invincibili. Ci volle almeno un quarto d'ora perché i due spaventosi treni cessassero di sfilare. Era uno spettacolo, non so dire perché, tutt'altro che esaltante. Anzi, minaccioso e spettrale, come se fosse un'òrda straniera che portava la sventura: i tartari, i rinoceronti del nero cosmo orribilmente diversi da tutto ciò che noi di solito immaginiamo. 
per i prossimi felici millenni. Grigi, disumani, aridi, massacranti, malati, sinistri. Era un
Sogno? O era vero? Mai lo Potrò raccontare, mai lo Potrò scrivere, nessuno mi crederà. 

Lettera noiosa
Non so neppure io, Elena cara, come abbia potuto stare così a lungo senza scriverti, senza farmi viva in alcun modo. Ma il tempo passa così veloce, e l'inverno mi aveva messo addosso un'uggia tale. Finalmente l'ho ammazzato. 
Breve, ci è voluto che passassero ben cinque mesi dall'ultimo nostro incontro, e che battesse alle porte, finalmente, la benedetta primavera, qui in campagna così radiosa, così confortatrice, perché io prendessi la penna in mano e mi rimettessi a chiacchierare con la mia cara Elenuccia. 
Ti giuro che non ne
potevo più. 
Come vorrei che tu ora fossi qui accanto a me, tu che hai una sensibilità tanto vicina alla mia, che sai ascoltare le piccole misteriose voci della natura e delle vecchie case, che come me sai cogliere i minuscoli incanti della vita domestica, per altri piatta e meschina. 
Credimi, sbarazzarsi di un marito simile è stata una grande consolazione. 
E' sera, gli alberi e i prati stanno per chiudersi nel sonno. 
Non so neppure io come abbia fatto a resistere tanti anni. Una pace meravigliosa si stende intorno alla mia casa (per fortuna la strada è lontana) e un sentimento di sicurezza, di bontà, di appagamento, come dire, di intimità profonda placa il mio animo. 
E poi il «professore" non mi tormenta più, non si lamenta più, non impartisce più lezioni. 
In questo momento non si vede, perché è già buio, ma di giorno, seduta qui, al mio scrittoio, scorgo i nuovi germogli della spiridina rampicante che spunta dal davanzale. Che verde tenero, amoroso, struggente. E' la vita stessa, è, - ma non dirmi poi che sono matta, - la speranza incarnata. 
Di notte, dormendo, mandava sempre un fischiolino dal naso, era una cosa spaventosa. E poi mi tradiva. 
Sistematicamente. 
Ma lo sai che la primavera fa scricchiolare le assi dei mobili antichi, delle preistoriche palafitte? 
Anche con la figlia del casellante, mi tradiva, qua sotto, appena fuori del bosco, sulla strada ferrata. 
Ma lo sai che la primavera fa scattare anche dentro di me, non so propriamente in che parte di me, certo nel profondo dei nervi e dei sensi, fa scattare delle specie di molle, rimaste, chissà come, compresse lungo tempo. Zic, zic, ho la sensazione che tanti
saltamartini microscopici annidati nelle più recondite parti del mio corpo all'improvviso facciano un balzo. Sensazioni minime, appena percettibili, eppure così provocatrici e soavi. Anche tu? Dimmi: anche tu, Elena cara? 
E' stato semplice, sai. 
Dormiva col suo solito fischiolino. 
Avevo trovato uno spillone, chissà, forse di mia nonna, di quelli che servivano a fissare i cappelli in testa. Un bello spillone. 
Queste sono per me, forse, le giornate più buone dell'anno. 
Ho calcolato bene il punto. 
Lui continuava col suo fischiolino. 
Ho spinto dentro con tutta la mia forza. 
Come nel burro. 
Stamattina, uscita in giardino, ho avuto una deliziosa sorpresa: la gwadinna tropicale, sai quella che mi aveva portata da Zanzibar il dottor Genck, e che pensavo fosse morta, nello spazio di una notte aveva messo fuori un fiore, ma che dico un fiore? una specie di fiamma, di torcia, di eruzione incandescente. 
Lui ha soltanto aperto gli occhi. Non si è mosso. Ha sussurrato «Devi ch..». 
forse voleva dirè<Devi chiamare il medico". Non ha capito che ero stata io. Con quel "ch..." 
è schiattato come un palloncino con poco gas. 
E' una piccola pianta, la gwadinna, te la ricordi? un gingillìno, uno scherzo, eppure teneva nascosta in sé, nelle sue riposte fibre, tanta carica di vita. 
Che cosa meravigliosa, la natura. Io non cesso di stupirmi. Inesauribile miniera di bellezza, di generosità, di sapienza, di genio artistico. 
E sai la cosa più straordinaria? Le farfalle valkirie, quelle a strisce celesti e lilla, quel capolavoro del creato, le più belle, le più delicate, le più liberty, le più femminili, che poi volano in quella maniera speciale, te le ricordi?, quasi ancheggiando, bene, tu magari non lo crederai, ma tutte, dico tutte, erano addosso al prorompente fiore della gwadinna, profumatissimo, il quale ne sembrava compiaciuto. 
Che tonfo quando l'ho tirato giù dal letto. Mica potevo sollevarlo, pesante e grosso com'era. 
E poi altri tonfi quando l'ho trascinato giù per le scale. Ogni gradino un tonfo. Un lavoro bellissimo. 
Lui sempre più brutto, invece, con i baffi penzoloni. 
Ah, un'altra bella novità. Mirandola, la mia siamese, ha messo al mondo sei micini che più belli non si potrebbero immaginare. L'incontro col fusto di casa Soffiati ha dato i suoi frutti. 
Perfetti, ti dico. Il veterinario che ha assistito al parto, quel simpatico di Scorlesi, lo conosci anche tu, no? 
era esterrefatto. Neonati, diceva, e già con le orecchie prepostilate! Già da adesso, diceva, potrebbero vincere i concorsi. 
L'ho portato fino alla botola che precipita giù nella fogna. 
"Sciac", ho sentito, quando è arrivato in fondo. 
Nel tedio dell'inverno, che qui in campagna forse si fa sentire ancora più che da voi in città dove avete tante luci, tanto movimento, tante belle occasioni, tante (ahimè) telefonate, sai che ho letto una quantità di libri? Tu riderai. E
concluderai che sono diventata una bacucca, una baciapile, una pinzochera. Ridi, ridi. Mi sono appassionata ai vecchi Vangeli. 
Tante volte mi aveva spiegato come la nostra fogna comunichi con una corrente sotterranea che si perde chissà dove, la casa sorge su un terreno carsico, tutto traforato da cunicoli e cavèrne. 
Naturalmente i Vangeli da ragazza me li avevano fatti leggere come libro di testo, perciò li avevo odiosi. Adesso, invece: tutte le sere, proprio tutte, prima di chiudere gli occhi, apro a caso il piccolo volume. Che pagine divine! 
Ho denunciato la scomparsa alla polizia il mattino dopo. Ho detto che dal pomeriggio precedente non ne sapevo niente. Ogni volta è una iniezione di fede, di serenità, di bene. Tanto che penso di far rimettere in sesto la chiesetta qui, di famiglia, ormai piuttosto delabrée. 
Chissà che non se ne terrà conto un giorno, quando sarò condotta dagli angeli (o dai diavoli?) dinanzi al trono di Dio! 
Ma, a proposito, prima di lasciarti -
forse sono stata un po' noiosa, vero? 
- devo spiegarti quel poncho peruviano che ti era tanto piaciuto. 
Era tornato verso l'una di notte, giurerei che veniva dalla figlia del casellante. 
La polizia lo sta cercando in quei paraggi, io stessa ho lasciato intuire qualche cosa. 
Dunque senti: Occorrono due etti circa di lana shetland grigia (o beige), più novanta grammi della stessa lana nera (o tabacco), più mezzo etto della stessa lana bianca (o panna) e i ferri numero 3. Si lavora in due parti calando una maglia per parte ad ogni ferro dritto. 
Comunque, mai lo troveranno qui sotto. 
Mi aveva spiegato molto bene, il professore defunto, le risorse dei terreni carsici. 
Per la prima parte: con la lana grigia avviare 262 maglie e lavorare per dieci ferri a punto legaccio, quindi sempre con la lana grigia, lavorare 16 ferri a maglia rasata. 
Nei romanzi si sostiene che esiste il rimorso, sapessi invece che pace, che tranquillità, che silenzio. 
Ventisettesimo ferro: * una maglia con la lana bianca, tre maglie con la lana grigia *; ripetere da * a * fino alla fine del ferro terminando con una maglia in lana bianca. Ventottesimo ferro: * tre maglie con la lana bianca, una maglia con la lana grigia
~`<, ripetere da * a * fino alla fine del ferro, terminando con tre maglie in lana bianca. 
Impossibile che lo trovino, assolutamente. 

Dal ventinovesimo al trentaduesimo ferro, in lana bianca. Trentatreesimo e trentaquattresimo, in lana grigia. Dal trentacinquesimo al trentottesimo, in lana nera. Trentanovesimo e quarantesimo, in lana grigia. 
Quarantunesimo e quarantaduesimo, in lana bianca. 
E non ti verrà mica in
mente di parlarne in giro, spero, anche se sei la figlia di un magistrato. 
Si hanno così 226 maglie sul ferro. 
Quarantatreesimo e quarantaquattresimo ferro, in lana nera. 
Quarantacinquesimo... 
L'influsso degli astri
Di passaggio a Milano per un viaggio all'estero, l'amico Gustavo Ceriello, avendo saputo che la domenica successiva sarei dovuto andare a Masta, dove lui abita, per far vedere un mio quadro al grande collezionista Fossombroni, volle assolutamente darmi la chiave della sua casa, dove ero già stato ospite, affinché vi passassi la notte. 
A Masta vado sempre volentieri. A parte lo splendore della città, la gente è cordiale e gentile come da nessuna altra parte ho trovato. 
Arrivai in aereo a Masta il sabato sera. Trovai, come mi aveva detto Ceriello, l'appartamento in ordine perfetto. ~ un vasto superattico in un quartiere residenziale costruito recentemente su una piccola collina della periferia; di lassù si gode la vista di tutta la immensa città. 
Prima di coricarmi, mi divertii, nello studio di Ceriello, a sfogliare alcuni antichi libri di astrologia. Come si sa, Masta è per eccellenza la capitale dell'astrologia, che vi si coltiva con un impegno e una serietà altrove sconosciuti. Ed è orgogliosa del suo Istituto superiore di scienze astrologiche, una vera università con oltre duemila studenti che vengono da ogni parte del mondo. 
Ceriello stesso, musicista di mestiere, è un appassionato dilettante di astrologia e per lunghe sere, a me decisamente scettico, aveva cercato di spiegare le meravigliose possibilità, almeno teoriche, di prevedere il futuro e di decifrare il destino delle singole persone attraverso lo studio degli astri e dei loro moti relativi. 
Su un tavolone dello studio era ammucchiata la raccolta degli ultimi mesi del "Monitore degli incontri", il giornale quotidiano che si pubblica a Masta, dedicato interamente a quelle ricerche. 
una pubblicazione di dodici pagine a grande formato, composta in prevalenza da dettagliatissimi oroscopi a carattere generale e particolare. 
C'è per esempio il settore politico, la sezione degli affari, la tabella della situazione sanitaria e quindi i pronostici personali a seconda dell'anno di nascita, della professione, del sesso e perfino del colore dei capelli. 
Nello sfogliare quelle pagine, constatai che diagnosi e pronostici non erano ricavati soltanto, come si usa da noi, dalla posizione dei corpi celesti del nostro sistema planetario: nei calcoli si teneva conto anche di stelle lontanissime, ignote ai non specialisti. 
Cercai, negli ultimi numeri, oroscopi che potessero riguardare me personalmente, ma non ce n'erano. 
Tutte le previsioni si riferivano soltanto alla contrada di Masta. 
Allargare le indagini a tutti gli altri paesi, evidentemente, sarebbe stato troppo complicato e
industrialmente non remunerativo. 
Benché fosse una stagione molto calda, dormii molto bene. Mi risvegliò il sole che filtrava attraverso le persiane. Nell'attraversare il corridòio per raggiungere il bagno scorsi per terra una cosa bianca. Era il numero domenicale del "Monitore", con inserto a colori, che il fattorino aveva passato di primo mattino sotto l'uscio di ingresso. 
Lo raccolsi e lo guardai. Come ogni giorno, spiccava un grande titolo a tutta pagina che sintetizzava la situazione della giornata. Diceva: MATTINATA DI DEPLORABILI INCIDENTI CONTRARIETAÈ INCRESCIOSI FASTI'DI? 
(Di regola gli oroscopi infausti venivano annunciati dal "Monitore" in forma dubitativa.) In compenso però c'era una terza riga di titolo, a carattere un po' meno rilevato: SEGUIRÀ REPENTINA SCHIARITA Dopodiché l'editoriale esortava alla prudenza soprattutto i gitanti festivi, gli automobilisti, i cacciatori, gli alpinisti e specialmente i bagnanti. 
Raccomandazioni ovviamente un po' 
tardive poiché la più parte si era mossa verso i colli, i monti, i laghi e il mare nelle prime ore del mattino quando non era ancora comparso il giornale. 
D'altra parte Ceriello mi aveva spiegato come non -fosse possibile enunciare oroscopi esatti per la giornata se non ricavandoli dalle osservazioni astrali fatte durante la notte precedente; d'accordo che il movimento dei corpi celesti si poteva calcolare in precedenza ma, data la quantità di astri presi in
considerazione, ogni volta ci sarebbero voluti anni di lavoro. 
In quinta pagina, dopo gli oroscopi
"personali", era pubblicata perfino una lista degli abitanti di Masta a cui l'influsso negativo di quella mattinata poteva essere specialmente pericoloso. Ebbi un soprassalto scorgendo anche il nome di Ceriello. 
Buon per lui che quel giorno si trovava molto lontano, praticamente fuori tiro. 
Fino allora, per la verità, alla astrologia non avevo dato il minimo credito. Ma non si sa mai. Mi proposi di mettere in tutti i miei atti, per alcune ore almeno, la maggior circospezione: trovandomi a Masta, dopo tutto, anch'io ero immerso in quel presunto «campo astrale" 
controproducente. 
Che gli astrologi del "Monitore" 
avessero in parte ragione? In casa di Ceriello, uomo meticoloso, tutto funziona sempre alla perfezione. 
Eppure, in bagno, notai subito che lo scarico del lavandino era intoppato e l'acqua stentava a scendere. 
Appunto per via di quell'ingorgo, finito che ebbi di lavarmi, badai a chiudere bene i due rubinetti. Chissà, forse con quello di destra ci misi una forza esagerata, fatto sta che si udì un crac e la manopola girò a vuoto, mentre l'acqua sbottava fuori con la massima violenza. 
Un bel guaio. In pochi istanti la vaschetta sarebbe stata colma e il liquido avrebbe cominciato a traboccare. 
Per fortuna la finestra era vicina. 
Corsi in cucina a prendere una pentola con cui rovesciare all'esterno l'acqua, via via che si accumulava. 
Come se non bastasse, rientrando in bagno inciampai nel "Monitore" che io dovevo aver lasciato cadere per terra e caddi lungo disteso stortandomi malamente un polso. 
Mi misi dunque, imprecando, a scaricare fuori della finestra l'acqua inesorabile. Ma a che serviva quell'affannoso lavoro? Non potevo certo resistere sino al mattino successivo quando sarebbe giunta la donna a ore, oggi in riposo festivo. 
Avvertire allora qualcuno? Ma chi? In quella casa il portiere non c'era. 
Chiedere allora aiuto a un coinquilino se non altro perché mi indicasse un idraulico vicino. 
Però era domenica, figurarsi se un idraulico si trovava. 
Pensai agli stupendi tappeti antichi, dello studio e del soggiorno, a cui Ceriello teneva tanto e che tra poco sarebbero rimasti sommèrsi. Pensai ai danni negli appartamenti di sotto dove l'inondazione, sarebbe sicuramente filtrata. Non restava che telefonare ai pompieri. 
Ma che numero avevano i pompieri? 
Rinunciando a lottare con l'acqua, corsi in anticamera, dove era sistemato il telefono. Ma non trovai gli elenchi. Aprii febbrilmente i cassetti dei mobili più vicini. 
Niente. Dove li aveva imbucati, l'ordinatissimo Ceriello, quei dannati volumi? Mica potevo, a parte l'indiscrezione, rovistare tutti i mobili della casa. 
Mi precipitai in camera e indossai il minimo necessario per essere presentabile. Nel momento che uscivo sul pianerottolo per chiedere il numero dei pompieri a un coinquilino qualsiasi, mi resi conto di non aver preso le chiavi dell'appartamento. In quel preciso istante una corrente d'aria fece sbattere d'impeto l'uscio. 
Io ero rimasto chiuso fuori. 
Una disgrazia sull'altra. Gemendo maledizioni, suonai alla porta dirimpetto. Una, due, tre volte: non venne nessuno. (Di là dell'uscio di Ceriello, udivo lo scroscio dell'acqua grondante giù dal lavandino). Scesi una rampa di scale e suonai a un appartamento di sotto. Venne ad aprirmi una dolce vecchietta che si spaventò vedendo la mia faccia. Durai fatica a calmarla e a spiegarle la situazione.«Gli elenchi sono là», mi disse alla fine «in quello scaffale. Ma guardi che stamattina il mio telefono non funziona». 
«Come non funziona»? 
«Chissà,» adesso sorrideva benigna
«sono bloccati in tutto il palazzo». 
«E dov'è il telefono pubblico più vicino»? 
«Non saprèi, signore. Io di solito adopero il mio». 
«Ci sarà, dico, qualche bar qui intorno». 
«Oh, è possibile, è possibile... 
Di corsa, fuori, nel torrido sole. Le strade erano deserte, sembrava un quartiere abbandonato. File di macchine in sosta da una parte e dall'altra, però non un'anima viva. 
Era un maledetto quartiere
residenziale, quasi completamente privo di botteghe. 
Almeno mezzo chilometro prima di trovare un bar. 
Aveva il telefono? L'aveva. 
Funzionava? Sì certo, funzionava. 
C'era l'elenco? C'era. 
Di là del filo, il centralinista dei pompieri, uditi che ebbe i miei guai, fece una piccola risata filosofica, non priva di bontà:«Eh, caro signore, ci vuol altro che un rubinetto, stamattina. Dall'alba è una continua chiamata. Le squadre sono tutte fuori». «E allora»? «Allora prendo nota, signore, appena possibile si provvederà». 
Dove era arrivata intanto la inondazione? Con la fantasia vedevo il bel palazzo condominiale trasformato in una fontana di Trevi fra un coro ruggente di feroci imprecazioni. Chiesi al barista se conosceva un idraulico. 
«Mio zio, no»? rispose. «un bravissimo operaio».«E me lo potrebbe chiamare»? «Il fatto è che non so a che ora torni. Oggi è andato a pescare». 
A che serviva poi un idraulico da solo se non interveniva anche un fabbro per forzare la porta? In città, tranne Ceriello, conoscevo, ma soltanto per lettera, il famoso Fossombroni. Ma naturalmente neppure lui c'era: mi aveva aspettato fino alle undici, poi era uscito e non si sapeva per quanto. 
Col cuore in gola, da una strada all'altra, da una casa all'altra, chiedendo, supplicando. E tutti erano gentili, comprensivi, partecipanti. Ma era domenica. Idraulici in gita, fabbri tutti in escursione. 
Il sole a un tratto cessò. Con rapidità appunto estiva, nuvoloni stavano invadendo il cielo. Guardai l'ora. Quasi per tre ore, ero andato girando come un pazzo. Erano le una e mezza. 
Ormai la casa di Ceriello, per non parlare degli appartamenti di sotto, doveva essere un Niagara. 
E il Niagara venne anche dal cielo. 
Cateratte di pioggia battente che spopolarono in un baleno le strade. 
Trovare un tassi, adesso! C'era da ridere. 
A perdifiato arrancando nelle pozzanghere. A quest'ora, pensavo, i pompieri magari erano arrivati a casa Ceriello, dovevo trovarmi anch'io sul posto, era il minimo. 
Ma non vidi macchine rosse dinanzi al condominio, quando mi avvicinai, fradicio dalla testa ai piedi, più morto che vivo dalla stanchezza e dalla rabbia. Sfogato l'uragano, il cielo si stava riaprendo. 
Guardai in su, al superattico, cercando i segni dell'alluvione. Ma tutto appariva normale. 
«Dino, cosa fai qui in questi stati? 
Che cosa è successo»? 
Mi voltai. 
REPENTINA SCHIARITA
aveva annunciato il "Monitore". 
Ceriello in carne ed ossa stava scendendo da un tassi. Sapendomi a Masta, aveva, per stare un poco con me, anticipato il ritorno. 
Balbettando, confondendomi, gli spiegai il disastro che avevo combinato. Stranamente lui non fece una grinza, anzi la prese sul ridere. 
«Su, andiamo a vedere. Magari la catastrofe non è poi così tremenda». 
Si uscì dall'ascensore. Strano, il pianerottolo era asciutto. Lui aprì la porta. Strano, il pavimento dell'anticamera era asciutto. (Eppure si udiva, di là, lo scroscio sinistro.) Asciutto era anche il soggiorno, anche lo studio. Entrammo in bagno. L'acqua, ruscellando dal lavandino, si spandeva sulle piastrelle, per sfogarsi, gorgogliando, giù da una griglia di ottone predisposta dal lungimirante Ceriello (e che io nell'agitazione non avevo notato). 
Di fradicio, non c'era che la copia del "Monitore" 
accartocciata per terra, così che, del funesto titolo, si leggevano soltanto le lettere:
ORA CI CREDI? 
Alias in via Sesostri
La morte per infarto, a sessantanove anni, del professore Tullio Larosi, titolare della cattedra di ginecologia all'Università e direttore
dell'Ospedale di Santa Maria Immacolata comunemente detto La Maternità, fu un avvenimento per gli inquilini dello stabile in via Sesostri 5, di cui il Larosi era proprietario. 
Da quindici anni, cioè da quando sono venuto a stabilirmi in questa città, io abito un appartamentino al terzo piano appunto di quella casa, e mi ci trovo benissimo. L'ufficio della mia ditta - pubblicità e pubbliche relazioni - è invece in centro. 
Costruita negli anni venti in uno stile sobrio che vagamente ricorda il barocchetto viennese, la casa di via Sesostri 5 è la rispettabilità fatta pietra. Prima di tutto il quartiere, oggi passato un po' di moda ma sempre di ottima reputazione. Poi l'aspetto esterno, la dignità un po' severa dell'ingresso, la pronta e rispettosa sollecitudine del portiere e sua moglie, l'ariosità della scala, l'estrema pulizia di tutto, le stesse targhe d'ottone alle porte dei vari appartamenti, targhe esprimenti, per i nomi e per i caratteri grafici, sicurezza economica e alto tenore di moralità. Ma soprattutto gli inquilini, uno migliore dell'altro, se si può dire così: professionisti reputati, mogli incensurabili anche quando giovani e belle, figli sani, affezionati ai genitori e dediti agli studi. 
Relativamente estraneo a questo solido mondo borghese, uno solo: il Pittore Bruno Lampa, scapolo, che ha lo studio in una ampia mansarda: però è nobile, dei  Lampa di Campochiaro di Modena. 
Innegabilmente il più illustre, di questa Piccola omogenea Società insediatasi nella casa, era il proprietario stesso, Tullio Larosi. 
Studioso di fama internazionale, operatore dalle mani d'oro, anche nella persona esprimeva un superiore livello umano e intellettuale. Alto, magro, la corta barbetta grigia accuratissima, gli occhi vivi e penetranti che vi scrutavano intensamente dagli occhiali cerchiati d'oro, le mani aristocratiche e il passo lungo e un po' altèro, la voce suasiva e profonda. Ci furono, da Parte di noi inquilini, le dovute visite di condoglianze alla vedova, ancor giovane perché il Larosi si era sposato già Oltre la cinquantina. 
L'appartamento, al primo piano, era magnifico senza arrivare ad essere sontuoso. Ci Impressionò lo stile in cui, da parte della famiglia, erano mantenute le manifestazioni di dolore e di lutto: né isterismi, né teatrali scene di disperazione come spesso si usano da noi, bensì una silenziosa e controllata compostezza che faceva sentire ancor di più intensamente la gravità dell'accaduto. 
Ci si aspettava, logicamente un funerale coi fiocchi. E infatti di primissimo mattino cominciò l'andirivieni dei preposti alle pubbliche onoranze, funzionari e addetti, - lo si capiva lontano un miglio, - della più seria e reputata organizzazione cittadina. Nel cortile, alle ore nove, le corone di fiori formavano già, ai piedi delle tre pareti, una ininterrotta siepe di raro splendore. Il corteo, informava il necrologio della famiglia, si sarebbe mosso alle undici. Alle dieci già la folla bloccava la strada e i vigili urbani dirottavano per altre vie il flusso dei veicoli. Alle dieci e un quarto giunsero in numeroso e dolente drappello, le suore della Maternità. 
Tutto si svolgeva con calma, ordine e silenzio. 
Senonché, verso le 10.20, si ebbe una sensazione di un intoppo imprevisto, di qualcosa che non andava come sarebbe dovuto. Furono visti per le scale volti strani e tutt'altro che compunti. Si udì l'eco di una discussione vivace e nervosa, se non addirittura di un alterco, che proveniva dall'anticamera di casa Larosi. Seguirono nella gente assiepata nell'andito della scala e nel vestibolo dell'appartamento segni evidenti di imbarazzo e confusione. 
Riecheggiò perfino, per la prima volta in quei giorni, un alto grido disperato: ed era la voce
inconfondibile della vedova, signora Lucia. 
Incuriosito da quelle stranezze, scesi di due piani e feci per entrare in casa Larosi; era la cosa più naturale del mondo, anch'io ero in dovere di partecipare al trasporto funebre. 
Fui però respinto. Tre giovanotti, che non occorreva grande immaginazione per identificare quali agenti di pubblica sicurezza, invitavano energicamente ad uscire la gente già entrata e sbarravano il passo a quella che faceva atto di entrare. Ne derivò quasi un tafferuglio sembrando addirittura pazzesco, oltre che irriverente, un simile intervento. 
In quel mentre, di là della densa cortina di teste in agitazione intravidi l'amico dottor Sandro Luccifredi commissario di Polizia, capo della Squadra mobile. Accanto a lui il dottor Uscirò, capo della sezione omicidi Luccifredi, quando mi scorse, agitò alta una mano gridandomi. «Incredibile, Sentirai. Incredibile». Subito venni portato via dal rigurgito degli espulsi. 
Poco dopo, fattosi sul Pianerottolo, il dottor Luccifredi annunciò alla folla:
«Signore e signori, ho il dovere di informarvi che, per causa di forza maggiore, i funerali del professor Larosi sono sospesi. Gli intervenuti sono vivamente pregati di allontanarsi». 
Non è difficile immaginare il vulcano di esclamazioni, commenti, discussioni congetture, provocato dal brusco annuncio. Ma durò poco perché gli agenti provvidero a far sfollare prima le scale, poi l'atrio d'ingresso e infine il tratto di via prospiciente Che cosa era successo? Perché era intervenuta la polizia? Il professore non era deceduto di morte naturale? 
Di chi si sospettava? Il dubbio come era sorto? Queste le domande che la gente si faceva. 
Ma tutti erano fuori strada. I primi succinti dati della verità, di gran lunga più incredibile, si seppero all'uscita dei giornali della sera. Né radio né televisione si erano mossi. 
In breve: si trattava di uno dei più sbalorditivi colpi di scena nelle cronache del secolo: era sorto cioè il dubbio che il defunto, ginecologo illustre, titolare di cattedra universitaria e direttore di uno dei maggiori ospedali cittadini, non fosse realmente Tullio Larosi. Ma fosse invece un medico di Torino, di nome Enzo Siliri, specialista anche lui in ostetricia, già ripetutamente condannato in tempo fascista per pratiche illecite, ed espulso dall'albo, quindi riemerso durante l'occupazione tedesca, fattosi complice dei nazisti e distintosi quale efferato criminale di guerra in un campo di concentramento della Turingia, dove, a preteso scopo sperimentale, aveva seviziato e praticamente squartato centinaia di ragazze ebrèe. Quindi scomparso durante i sommovimenti della liberazione e invano ricercato dalle polizie di tutta Europa. 
La cosa era talmente enorme che gli stessi giornali, annunciando la inverosimile rivelazione in base a elementi forniti dalla polizia, usavano la massima cautela, lasciando trasparire il sospetto che l'autorità stesse per prendere un granchio mostruoso. 
Granchio però non era. Nella medesima serata ci fu una cateratta di edizioni straordinarie con abbondanza di sempre nuovi e più trasecolanti particolari. 
Risultava che il famigerato Siliri, capitato in questa città subito dopo la fine della guerra, giovandosi di una vaga somiglianza facilmente accentuata da una improvvisata barbetta, si era appropriato l'identità del professor Tullio Larosi, noto ginecologo che, osteggiato dalle autorità nazifasciste per via di una nonna ebrèa, era fuggito nel 1942 con l'intenzione di trasmigrare in Argentina. Raggiunta la Spagna, era salito a bordo di un bastimento mercantile brasiliano che per errore venne silurato in Atlantico da un sommergibile tedesco, andando perduto, corpo e beni. 
Il Larosi era scapolo e i suoi soli parenti vivevano appunto in una remota
"fazenda" argentina. In pratica la sua morte passò del tutto ignota, nessuno si curò della sua scomparsa, nessuno intervenne quando, nell'estate del 1945, il Siliri comparve in questa città presentandosi come il ginecologo dovuto emigrare all'estero. La sua fuga, le persecuzioni fasciste opportunamente drammatizzate nei suoi resoconti, le peripezìe del Nuovo Mondo gli conferirono un'aureola romanzesca, per poco non venne esaltato come un eroe della resistenza. Fatto è che qualche tempo dopo il titolo di concorso per la cattedra gli fu assegnato quasi automaticamente. E siccome non era un imbecille, e possedeva una cultura specifica, prolungare per lunghi anni la finzione non gli fu esageratamente difficile. In quanto al vero Tullio Larosi, era come se si fosse dissolto nel nulla, lui e l'intero suo parentado. 
Così i giornali. Ora ci si chiedeva come la verità fosse venuta improvvisamente a galla proprio in occasione dei funerali. La spiegazione era semplice, dicevano le cronache: la registrazione del decesso all'anagrafe aveva fatto venire in luce alcune discordanze tra i dati ufficiali e quelli che risultavano dai documenti del morto. Di qui l'interessamento della questura e tutto il resto. 
In realtà questa tardiva scoperta aveva molto del misterioso. E lasciava molte perplessità nei conoscenti, soprattutto tra i coinquilini della rispettabilissima casa, dominata ora da una atmosfera di disagio. Sembrava quasi che il disonore, subitamente caduto su un uomo già stimato modello di virtù civili, si allargasse intorno, contaminando pure quelli che per anni gli erano vissuti accanto. 
Confesso che anch'io ero rimasto profondamente scosso. Se un valore umano così venerato e degno crollava di colpo nel fango e nell'obbrobrio, a che cosa si poteva credere più? Ad eccitare la mia inquietudine intervenne una telefonata che mai mi sarei atteso. Mi chiamò a casa, una mattina, il dottor Luccifredi della squadra mobile. 
Ho detto che Luccifredi era mio amico. 
Ho sempre tenuto ad avere tra i miei amici qualche grosso personaggio della questura. E' una cosa che dà tranquillità e sicurezza, nella vita non si sa mai. Luccifredi lo avevo incontrato alcuni anni prima in casa di comuni amici, mi aveva dimostrato subito viva simpatia. Ne avevo approfittato cercando di incontrarlo fuori ufficio, invitandolo a pranzo, procurandogli interessanti conoscenze. 
E ci si vedeva abbastanza spesso. Mai però era capitato che mi telefonasse al mattino. 
«Ciao Andreatta» mi disse. «Sarai rimasto sbalordito, no? L'illustre professore! Il tuo spettabile padrone di casa»! 
«Eh, puoi immaginare» risposi, senza capire dove volesse andare a parare. 
«Suppongo anche che sarai curioso di sapere qualcosa di più, vero? I giornali hanno detto e non hanno detto». 
«Si capisce che sarei curioso»
«E se ti raccontassi tutto quanto io? 
Perché non ci vediamo? Che cosa fai stasera»? 
Venne a pranzo. La mia cameriera, ai fornelli, è formidabile, gli amici sono lieti di approfittarne. La pregai, per l'occasione, di dare il meglio di sé. 
Eccoci dunque a tavola, tranquilli, con dinanzi un piatto di impeccabili canneiloni alla crema e un bicchiere di Chateau Neuf du Pape. La luce a picco del lampadario fa risaltare la profonda cicatrice scavata nella guancia sinistra di Luccifredi, il suo volto segaligno vagamente simile a quello di Frank Sinatra, è ancora più arguto e penetrante del solito. 
«Forse non ci crederai» mi dice «ma era un anno e mezzo che lo tenevo d'occhio. Forse non ci crederai ma era un anno che sapevo la verità. Ma si continuava a soprassedere. Sai? lo scandalo, le ripercussioni negli ambienti accademici... 
«E allora» dico «a maggior ragione dopo la morte, Potevate tacere.. 
«No, perché c'era il problema dell'eredità»
«E vuoi dirmi come ti è venuto il sospetto»? 
Luccifredi fa una bella risata«. 
Semplicemente una lettera anonima. Che veniva chissà da dove perché il timbro postale era alterato. Anonima ma circostanziatissima. Naturalmente poi si dovevano trovare le prove... E io scavo, sai, io scavo... In questo, credilo, ho una certa abilità». 
«Ma possibile che in tanti anni nessuno lo avesse riconosciuto»? 
«Uno c'era. Solo che Siliri gli chiudeva la bocca a suon di grana. 
Milioni su milioni. Abbiamo trovato un taccuino con segnati gli esborsi e le date. Con noi però l'uomo non si è fatto mai vivo..». 
E allora, che prove avevate»? 
«Anche qui molto semplice. Le impronte digitali lasciate dal professore all'ospedale. Quelle di Siliri erano all'archivio di Torino». 
«Scusami sai, la faccenda mi diverte. 
Ma allora tu che cosa hai scavato? 
Avete trovato la pappa fatta, no»? 
«E chi lo sa»? scuote il capo con espressione ambigua.«Come escludi per esempio che a scrivere la lettera anonima non sia stato proprio io»? E
fa un'altra bella risata. 
Io invece, chissà perché, non sono capace di ridere. 
Gli dico:«Non è un po' strano che tu mi dica queste cose»? 
«Strano non è» risponde. «Forse un giorno capirai il motivo... Eh, io scavo, io scavo.., io sono paziente... 
Io so aspettare... Il momento giusto verrà». 
«Infatti è venuto». 
«~ venuto. E verrà». 
«Verrà come»? 
«Eh, io scavo, io scavo... Per qualcuno il momento verrà... Una strada elegante, via Sesostri... una via che fa indirizzo, vero?... 
Specialmente al numero 5... Tutta gente intemerata... eh, eh... Ma io scavo, io ho scavato..». 
Sono impallidito? Non so. Gli dico:
«Confesso che non ti capisco «Ma capirai» fa lui con il sorrisetto delle grandi occasioni, ed estrae un taccuino.«Vuoi proprio sapere? 
Vuoi che ti dica tutto? Ma sarai poi capace di tacere»? 
Io:«Penso di sì». 
Mi fissa in silenzio: «Sì» conclude
«ho motivo di ritenere che tu tacerai». 
«Ti fidi»? 
«In un certo senso mi fido... Adesso ascolta» e intanto sfoglia il taccuino.«Il commendator Guido Scoperti, lo conosci? 
«Abita di fianco a me, la porta qui accanto». 
«Bene. Che ne diresti se venissi a sapere che Scoperti è un nome fasullo? 
Che lui in realtà si chiama Boccardi, GuidoBoccardi, di Campobasso, e che sulle sue spalle sta un carico pendente di Otto anni di reclusione per bancarotta fraudolenta? Grazioso, eh»? 
«Non è possibile! 
«Boccardi Guido fu Antonio, condannato a nove anni nel 1945. Nel 1946 amnistiato per un errore di trascrizione. Dal settembre del medesimo anno ricercato». 
«E ve ne siete accorti adesso»? 
«Un mese fa... E il nome Germiniani Marcella ti dice niente»? 
«E' quella che abita al primo piano. 
Piena di soldi. 
Ha una Rolls Royce». 
«Bene. Cadresti dalle nuvole se si scoprisse che la benestante vedova non si è mai chiamata Germiniani bensì Cossetto, Maria Cossetto, processata per uxoricidio, assolta in prima istanza, in appello condannata all'ergastolo in contumacia e da allora uccel di bosco? Che ne dici»? 
Tu hai voglia di scherzare. 
«E il noto dottor Publiconi, quello che abita al secondo, proprio qui sotto, presidente della Federazione pugilistica, ti farebbe impressione apprendere che il suo
vero nome di battesimo è Armando Pisco? Non ti dice niente il nome Pisco? Non ti ricorda niente»? 
«Be', ci fu un processo in Francia, tanti anni fa». 
«Per l'appunto. Maniaco sessuale, detto lo strangolatore delle Halles, condannato alla ghigliottina dalle Assise della Senna, evaso alla vigilia dell'esecuzione... 
Ne ha,~ mai osservate le mani»? 
«Hai una bella fantasia». 
«E la Lozzani? Armida Lozzani, creatrice d'alta moda, che occupa tutto il quarto piano?... Alias Marietta Bristot, cameriera a tutto fare, fuggita con tre milioni di gioielli e condannata in contumacia a cinque anni... 
Squisita, sai, questa fagianella ai capperi... complimenti davvero... Ma non basta: il conte Lampa, Lampa di Campochiaro Pittore neoimpressionista locatario della mansarda, te lo raccomando, il tuo conte, alias monsignor Buttafuoco primo segretario alla nunziatura apostolica di Rio de Janeiro, a quei tempi non esisteva Brasilia, organizzat~r~ della famosa Opera Apostolica di San Severio, in parole Povere appropriazioni indebite per oltre cinquantamila dollari, dopodiché fuga, latitanza e dissoluzione nel nulla. 
«Così», faccio io «sono tutti sistemati. A salvarsi, il solo, a quanto pare, sarei io..». 
«Ah davvero»? fa Luccifredi alquanto ironico. 
«Guarda un po'. E io che, scava scava, credevo di aver pescato una cosettina anche per te». 
Fingo stupore: «Per me, dici? 
«Sì, egregio Serponella, l'hai fatta franca dopo la strage di Lione, quando hai fatto saltare il palco delle autorità... Ma una sia pur minima traccia l'hai lasciata... 
E l'Interpol mi ha interessato, e io ho scavato del mio solito... Ed ora finalmente eccoci qua, io commissario Luccifredi, capo della Squadra mobile, e il caro amico Lucio Andreatta, alias Luis Serponella, anarchico terrorista di vecchio stampo... Credilo, mi dispiace veramente doverti arrestare, sei un uomo simpatico. No, non agitarti, non illuderti, la casa è circondata da un doppio cordone di agenti... Col repulisti che c'è da fare»! 
«Sei in grande forma, dottor Luccifredi» gli rispondo. «Complimenti dottor Sandro Luccifredi alias Carmine Nichiarico vero? Adesso è lui che fa atto di alzarsi, e si è fatto bianco in faccia, e le fagianelle ai capperi non lo interessano più. 
«Che vuoi dire con questo Nichiarico»? 
«Nichiarico Carmine fu Salvatore» e mi alzo in piedi, «moschettiere della banda Rossari, almeno tre begli omicidi a carico... 
Lui beffeggia:«E sarei diventato capo della Squadra mobile con un passato così brillante? 
«Be', anch'io nel mio piccolo, ho scavato.. Inondazione del Polesine.., ti dice niente? La fine eroica del vice~commissario Luccifredi travolto dalle acque mentre accorre in aiuto di una famiglia pericolante E dopo un paio di giorni la inopinata ricomparsa del valoroso quasi irriconoscibile, con la faccia tutta pesta e ferita... 
Sì, devo ammettere, egregio Nichiarico che sei stato di un'abilità infernale. 
Adesso, se credi, chiama pure i tuoi agenti... 
Anche lui si alza, non sogghigna più come prima. 
«Bel colpo, amico» e mi tende la mano. 
«Confesso che non me l'aspettavo. Bel colpo. Non mi resta che ringraziarti per lo squisito pranzetto. 
«Aspetterai almeno il caffè, spero». 
A fare il furbo adesso sono io. 
«Grazie ma è meglio che torni in ufficio. C'è un mucchio di lavoro arretrato... A ben vederci, caro Serponella. E amici come prima».

Contestazione globale
Alla grande assemblea dei pensionati, un vecchio funzionario di
assicurazioni, di nome Modesto Svampa, chiese la parola. 
«Sapete tutti, cari amici, quello che sta succedendo nel mondo. E' un fenomeno meraviglioso e nuovo nella storia. Che può, che deve servire da esempio anche a noi, non importa se siamo ormai al tramonto della vita, anzi, proprio per questo». 
Un brusìo interrogativo e perplesso si levò dall'auditorio, saranno stati almeno quindicimila "matusa". Che razza di balordaggine avrebbe tirato fuori il vecchio Svampa, solito a movimentare le assemblee annuali con le più bizzarre proposte? Nessuno però lo interruppe. 
«Il fatto nuovo nella storia, a quanto risulta, è questo. Basta l'azione decisa di alcune migliaia di giovani, animosi sì, irruenti sì, però disarmati, a mettere in crisi il governo di una potente nazione che ha decine e decine di milioni di abitanti. Tutto sta nella volontà unanime, nella fermezza dei propositi. 
Voi direte: la polizia, l'autorità amministrativa, le forze dell'ordine. 
Avete visto cosa contano. I più autoritari e superbi uomini di Stato, di fronte a quell'ondata di giovinezza che pure non dispone di carri armati, né di aerei, né di bombe, neppure di un temperìno, si sono calati le brache, e vogliate perdonare l'espressione un po' 
cruda. 
«E che cosa vogliono questi ragazzi?»
proseguì lo Svampa, impetuoso, prima che alcuno avesse avuto il modo di fare obiezioni.«Che cosa vogliono? 
Che cosa rappresentano? La loro bandiera è fin troppo chiara: contestazione globale. Vogliono smantellare tutto ciò che è oggi la impalcatura, probabilmente putrefatta, della società, le divisioni in classi, le ingiustizie, le menzogne, gli inumani rapporti di lavoro, i privilegi, la schiavitù dell'uomo inserito, come dicono loro, in un mondo meccanizzato, opprimente, livellatore, dominato da polverose cariatidi, più vecchie ancora di noi. 
E ci riusciranno, state pur certi che ci riusciranno. Con che mezzi, ditemi voi, è possibile fermarli»? Prese fiato, si fece uno strano silenzio. Tutti lo fissavano stupefatti. 
«Ma sono giovani!» riprese. «Con tutte le loro buone intenzioni, non possono conoscere la vita. E noi la conosciamo, invece, purtroppo. Loro si battono per un ideale, forse anche folle e confuso, tuttavia
affascinante. Ma, dico, è veramente totale la loro contestazione? Perché, disponendo di una forza d'urto irresistibile, non la rivolgono contro la peggiore dannazione di noi uomini? 
Che contestazione è, se trascura la ingiustizia più orrenda? Perché al primissimo piano di questa totalità contestataria non considerano la morte? 
Altro che sperequazioni sociali, altro che schiavitù di massa, altro che riforma universitaria! La morte, questa sì la piaga che affligge, dal tempo dei tempi, la storia dell'uomo! 
Ci furono, qua e' là, delle risatìne. 
Si udì anche un sibilo. I rimanenti zittirono. Pendevano dalle labbra dello Svampa. Al che, egli disse:
«Ma possiamo pretendere che questi sbarbatelli, magnifici sbarbatelli se volete, ma inevitabilmente inesperti e inconsapevoli, facciano loro questa suprema istanza? 
Possiamo illuderci che siano loro a contestare, e a rimuovere, la più triste legge che ha regnato finora implacabile sul mondo? 
«Oh, cari amici, vi rendete conto di quale meravigliosa occasione si presenta a noi, nonni, bisnonni, ma ancora vivi e padroni di noi stessi? 
Basterà un gesto d'esempio e milioni di creature sul declino della vita saranno con noi. Vi rendete conto che è in nostro potere mutare radicalmente il corso della storia? Occupazione! 

Occupazione! Occupazione degli ospedali! Occupazione dei cimiteri! 
Sbarriamo, per la prima volta, finalmente, il passo alla morte»! 
Fu un urlo immenso, anche se un poco rauco, di migliaia di vecchi. Il seme della sommossa era gettato. 
La ordinata assemblea divenne un ribollente calderone. 
Sembravano invasati. "Occupazione! 
Occupazione!" si urlava. Dal teatro Magnum, sede dell'assemblea, il corteo mosse verso le sette di sera. Ordinati, impassibili, stringendosi l'uno all'altro, a passi lenti ma sicuri. 
Misteriosamente spuntarono dalla fiumana cartelli e striscioni:
«Basta con la morte! Viva la vera contestazione globale! 
Via per sempre la maledetta signora"! 
Arrivarono fotografi, reporters, telecronisti coi camioncini azzurri. 
La notizia corse per il paese, per il mondo. 
Per fortuna era la buona stagione. I matusa stesero un ininterrotto cordone di picchettamento intorno all'ospedale maggiore. Non avevano coltelli, né pistole, né mitra, solo qualcuno disponeva di un bastone. Furono accesi falò. Un venerando musicista di riviste dell'epoca di Ines Lidelba improvvisò un inno bellissimo. Il ritornello diceva: "Cambierà cambierà la nostra sorte, siamo arcistufi della morte"! Un chitarrista che ai suoi bei tempi aveva lavorato nell'orchestra di Jack Hilton, lo adattò al ritmo dello shake. La notte calò sulla frenesìa dei vecchietti che danzavano con incredibile trasporto. 
Verso le undici e mezzo arrivò in volo, da Samarcanda, con la velocità del pensiero, la terribile signora. 
Aveva da riscuotere, quella notte, nell'ospedale, una ventina di vite. 
Era naturalmente camuffata da dottoressa, vestita sobriamente, ma con una certa distinzione. Tentò l'ingresso principale. Qui, per sua sfortuna, stava lo Svampa, il quale la riconobbe al primo sguardo. Venne dato l'allarme. La malcapitata fu respinta sotto una pioggia di vitupèri. 
Nelle corsie, gli assistenti e le suore che da un minuto all'altro aspettavano il decesso dell'ultramoribondo per poter andare a dormire, videro il degente sollevarsi sui cuscini con un inverosimile rigurgito di vita e chiedere un piatto di fettuccine all'aglio. Trapassi clinicamente più che scontati all'improvviso si risolvevano in fulminee guarigioni. 
Da parte sua, la morte, riparatasi all'ombra di un cantiere vicino, sfogliava nervosamente il suo notes, controllando gli innumerevoli impegni della notte. Cosa fare? Ricorrere alla forza contro lo sbarramento dei vecchi? 
Sapeva di essere già abbastanza impopolare, ci sarebbe mancato anche questo per riuscire esageratamente odiosa. Fra tanta esecrazione, la vita le sarebbe diventata impossibile. 
Calcolato il pro e il contro, se n'andò, per attingere il suo bottino notturno in altre sedi, certo il lavoro non le mancava, mai le era mancato. 
Con lo sviluppo odierno delle comunicazioni, ci volle poco perché tutto il paese fosse messo al corrente. 
Personaggi altolocatissimi che qui conviene non citare, emanarono alati proclami augurali, cercando in qualche modo di lucrare personalmente una particola di quella strepitosa vittoria, la gente cominciò a montarsi la testa, decaduta era dunque l'eterna condanna dell'uomo? 
Senonché, alla notizia, nell'aula magna dell'università venne subitamente convocata l'assemblea degli studenti protestatari. Non era gelosia di mestiere che li richiamava, era una ben giustificata preoccupazione. 
Se quei dannati vecchietti bloccavano l'attività della morte, nessuno dei vecchietti se ne sarebbe andato più, la popolazione avrebbe assunto dimensioni spaventose, nutrirla sarebbe diventato impossibile non già coi mezzi attualmente disponibili ma anche con quelli che loro, giovani studenti, avrebbero procurato al mondo per mezzo della contestazione globale. Bisognava correre ai ripari. 
Ecco quindi un corteo violentissimo muovere dall'università in direzione dell'ospedale maggiore. E qui le due schiere si fronteggiarono. i vecchi, stesi intorno al nosocomio, i giovani schierati di faccia, a una cinquantina di metri. Cominciarono a volare aspre frecciate: "Bacucchi, alla fossa! 
Camera ardente! Putrefatti! Nemici del popolo lavoratore"! 
Lo Svampa girava qua e là, cercando di rianimare i compagni disorientati. 
Anche lui però era pallido, all'improvviso si sentì stanco e sfiduciato. Con struggente invidia, guardava i fusti che stavano di fronte, cattivi, duri, scalcinati, avidi, barbuti, spietati, però come scandalosamente giovani! Chi aveva ragione? 
In quel momento, di là dalla siepe degli studenti, avvistò lei, la infame, che, ritornata in volo dalla Terra del Fuoco, girovagava in cerca di un passaggio. 
«Ehi, ehi, signora»! le gridò con tutta la sua possibile voce. E quella si voltò. 
Avanzò, lasciando i suoi. Si fece largo tra gli studenti, stupefatti, passò oltre, la raggiunse. 
«Su, contessa» le disse con un amaro e bellissimo sorriso, prendendola per mano. «Sono qui. La prego, mi porti lontano. 
Tre storie del Veneto
Un amico da Vicenza che da molti anni ha lasciato la sua città mi ha raccontato tre storie curiose. (Nomi di persone e luoghi qui sono cambiati).