sabato 18 maggio 2024

GLI INCONSOLABILI Kazuo Ishigur




GLI INCONSOLABILI 
Kazuo Ishiguro
Presentazione 
  La città degli inconsolabili esiste e prospera forse davvero in un angolo d'Europa non troppo lontano, non troppo diverso da  quelli che conosciamo. Nel suo stemma non campeggiano il grifo,  il giglio o la croce, ma piuttosto il malinteso, la distrazione e l'ineluttabile.   
  All'inizio tutto sembra essere soltanto una bizzarra forma di  amnesia: assistiamo all'arrivo di un famoso pianista, Ryder, in  un albergo della città e ci assale il dubbio vertiginoso che  quell'uomo non abbia passato. Mentre un facchino pieno di idee lo  accompagna alla stanza che gli è stata assegnata, Ryder prende  atto con un'imperturbabilità appena venata d'ansia di non saper quasi nulla del soggiorno che lo attende. Il programma, amuleto  magico che regola la vita delle personalità come lui, è andato  smarrito.   
  Eppure Ryder, probabilmente, è già vissuto in quella città,  forse lì c'è una donna che l'aspetta, addirittura un bambino. Ma  perché Ryder ha dimenticato? E perché tutti sembrano aspettarsi  da lui una parola definitiva, un giudizio di salvezza o una  condanna? Ryder, inconsolabile tra gli inconsolabili, è destinato  a promettere e non mantenere; non sa rifiutare un aiuto a  nessuno, ma nessuno ne trarrà conforto.  
  Dopo "Quel che resta del giorno", allegoria della nostra vocazione di «maggiordomi» di poteri lontani, Ishiguro disegna  qui un universo malinconico e labirintico, in cui basta un colpo  di tosse a far fallire una riconciliazione e le cui chiavi di  volta sono il mistero e la sconfitta. E malgrado ciò, anche  contro le evidenze più dolorose, la speranza non scompare dalla  città degli inconsolabili. Perché potrebbe sempre succedere che  «una corda si spezzi all'improvviso e uno spesso sipario cada a  terra, rivelando un mondo pieno di luce e di calore». _  
  Kazuo Ishiguro è nato a Nagasaki nel 1954 e si è trasferito con  la famiglia in Inghilterra nel 1960. Ha frequentato l'Università  del Kent e l'Università di East Anglia. I suoi romanzi sono: “Un pallido orizzonte di colline” (1982), “Un artista del mondo effimero” (1986) e “Quel che resta del giorno” (1989), da cui è stato tratto un film con Anthony Hopkins ed Emma Thompson. Vive  a Londra con la moglie e una figlia. Tutti i suoi libri sono  stati pubblicati in Italia da Einaudi.^  
   
 
 
 
 
 
 
 
 
  A Lorna e Naomi
Parte prima 
1.  
  Il taxista parve imbarazzato quando vide che non c'era nessuno  - nemmeno un portiere dietro il banco della reception - ad  accogliermi. Attraversò l'atrio deserto, forse sperando di  scoprire un dipendente dell'albergo nascosto dietro una pianta o  una poltrona. Alla fine posò le mie valigie accanto alla porta  dell'ascensore e borbottando una scusa mi lasciò.   
  L'atrio era abbastanza spazioso perché i numerosi tavolini da  caffè sparsi in giro non dessero una sensazione di affollamento,  ma il soffitto, basso e visibilmente incurvato, induceva una  lieve claustrofobia. La luce, sebbene fuori splendesse il sole,  era tetra. Solo sulla parete vicino al banco della reception  c'era una luminosa striscia di sole, che rischiarava un tratto di  rivestimento di legno scuro e uno scaffale di riviste tedesche,  francesi e inglesi. Vidi anche un campanello d'argento posato sul  banco, e stavo per andare a scuoterlo quando alle mie spalle si  aprì una porta e comparve un giovane in uniforme.   
  - Buon giorno, signore, - disse il portiere stancamente, e  infilatosi dietro il banco della reception cominciò le procedure  di registrazione. Anche se devo dargli atto che mormorò delle  scuse per la sua assenza, per un po' le sue maniere rimasero sbrigative. Solo quando gli dissi il mio nome sussultò e  raddrizzò la schiena.   
  - Signor Ryder, mi perdoni se non l'ho riconosciuta. Il signor  Hoffman, il direttore, desiderava moltissimo riceverla  personalmente. Ma proprio ora, purtroppo, ha dovuto assentarsi  per una riunione importante.   
  - Nessun inconveniente. Farò la sua conoscenza più tardi.   
  Il portiere s'affrettò a compilare i moduli, continuando a  borbottare quanto sarebbe rincresciuto al direttore che io fossi  arrivato mentre lui non c'era. Per due volte accennò al fatto che  i preparativi per «giovedì sera» l'avevano messo in grande  agitazione e lo tenevano lontano dall'albergo molto più del  solito. Mi limitai ad annuire, incapace di fare uno sforzo per  indagare sull'esatta natura del «giovedì sera».  
  - Oh, e oggi il signor Brodsky ha fatto meraviglie, - disse il  portiere, ravvivandosi. - Davvero meraviglie. Questa mattina ha  provato con l'orchestra per quattro ore di fila. E lo senta  adesso! Non molla un attimo, ci sta ancora lavorando per conto  suo.   
  Indicò il fondo dell'atrio. Solo allora mi accorsi che da un  punto invisibile dell'edificio giungeva il suono di un  pianoforte, appena udibile sopra i rumori smorzati del traffico.  Sollevai il capo e ascoltai più attentamente. Qualcuno stava  suonando e risuonando, con fare lento e preoccupato, una breve  frase dal secondo movimento di £Verticalità di Mullery.   
  - Naturalmente, se il direttore fosse qui, - stava dicendo il  portiere, - forse stanerebbe il signor Brodsky per  presentarglielo. Ma io non so... - Gli sfuggì una risata. - Io  non so se sia il caso di disturbarlo. Lei capisce, se è  concentrato...   
  - Certo, certo. Sarà per un'altra volta.   
  - Se il direttore fosse qui... - Il giovane divagò e rise di  nuovo. Poi, chinandosi in avanti, disse a bassa voce: - Lo sa che  ci sono dei clienti che hanno avuto il coraggio di lamentarsi?  Perché vietiamo l'accesso al salotto ogni volta che il signor  Brodsky ha bisogno del pianoforte? C'è davvero da chiedersi che  cosa abbia in testa certa gente! Ieri si sono lamentati  addirittura in due. Ma può star sicuro che il signor Hoffman li  ha subito messi a posto.   
  - Non ne dubito affatto. Brodsky, ha detto? - Ripensai al nome,  ma non mi diceva nulla. Poi vidi che il portiere mi guardava  stupefatto e mi affrettai a dire: - Sì, sì. Al momento buono  incontrerò volentieri il signor Brodsky.   
  - Ah, se il direttore fosse qui, signor Ryder.   
  - Su, non si preoccupi. E ora, se ha finito, le sarei grato  se...   
  - Certamente. Deve essere stanchissimo dopo un viaggio così  lungo. Ecco la sua chiave. Gustav l'accompagnerà in camera.   
  Mi voltai e vidi che dall'altra parte dell'atrio mi stava  aspettando un vecchio facchino. Era in piedi davanti  all'ascensore aperto, e ne guardava con aria turbata l'interno.  Quando mi avvicinai, trasalì. Poi afferrò i miei bagagli e mi  seguì in fretta nell'ascensore.   
  Mentre salivamo, il vecchio facchino continuò a stringere  entrambe le valigie, e vidi che diventava sempre più rosso per la  fatica. Le valigie erano molto pesanti, e il timore che potesse  svenirmi davanti al naso mi indusse a dire:   
  - Sa, credo che le convenga metterle giù.   
  - La ringrazio per l'attenzione, signore, - rispose lui, e  nella sua voce, stranamente, non c'era quasi traccia dello sforzo  che stava facendo. - Quando ho cominciato questo lavoro, moltissimi anni fa, posavo sempre le valigie per terra. Le tiravo  su solo quando non potevo farne a meno. Durante gli spostamenti,  per intenderci. Anzi, nei primi quindici anni che ho lavorato  qui, confesso di avere usato quel metodo. In città molti dei  facchini più giovani se ne servono ancora. Ma oggi non mi  vedrebbe mai fare una cosa del genere. E poi, siamo quasi  arrivati.   
  Continuammo l'ascesa in silenzio. Poi dissi:   
  - Così è un pezzo che lavora nell'albergo.   
  - Ventisette anni, ormai. E in tutto questo tempo ho visto  molto. Ma naturalmente l'albergo esisteva ben prima che arrivassi  io. Si dice che Federico il Grande vi abbia passato una notte nel  Settecento, e pare che già allora fosse una locanda con una lunga  tradizione. Oh sì, in tanti anni sono successe cose di grande  interesse storico, qui dentro. Una volta, quando non sarà così  stanco, mi farebbe piacere raccontargliene qualcuna.   
  - Mi stava spiegando perché, secondo lei, è sbagliato posare le  valigie per terra, - dissi.   
  - Ah, sì, - riprese il facchino. - $è una questione  interessante. Vede, come può immaginare, in una città così ci  sono tanti alberghi. Ciò significa che molte persone, prima o  poi, provano a fare il facchino. Molti credono che basti  indossare un'uniforme per conoscere il mestiere. Quest'illusione  era assai diffusa in città. La chiami un mito locale, se vuole. E  confesso che un tempo persino io l'ho condivisa senza pensarci.  Poi una volta... oh, ormai sono passati molti anni... mia moglie  e io ci siamo presi una breve vacanza. Siamo andati in Svizzera,  a Lucerna. Mia moglie è passata a miglior vita, adesso, ma ogni  volta che penso a lei mi viene in mente la nostra piccola  vacanza. $è molto bello là, in riva al lago. Sicuramente conosce  il posto. Dopo colazione facevamo incantevoli gite in barca. Be',  per venire al dunque, durante la vacanza ho notato che la gente  di Lucerna non aveva certi pregiudizi sui facchini, come qui da  noi. Come dire? C'era molto più £rispetto. I facchini migliori  erano personaggi con una certa rinomanza, e i principali alberghi  se li contendevano. Devo dire che quell'esperienza mi aprì gli  occhi. Ma qui in questa città vige ormai da molti anni un'idea.  Anzi, certe volte mi chiedo persino se potrà mai essere  sradicata. Guardi che non sto dicendo che qui la gente è sgarbata  con noi. Tutt'altro, sono sempre stato trattato con cortesia e  tenuto nella dovuta considerazione. Però la gente si è fatta  l'idea che tutti, se vogliono, possono fare questo mestiere,  basta che se lo prefiggano. Probabilmente perché tutti, prima o  poi, hanno dovuto spostare una valigia da qui a là. E solo per  questo ritengono che fare il facchino in un albergo non sia altro  che un'estensione di quell'esperienza. Nel corso degli anni,  signore, ci sono state persone che proprio qui, in questo  ascensore, mi hanno detto: «Uno di questi giorni pianterò lì  tutto e mi metterò a fare il facchino». Proprio così. Pensi che  una volta, non molto tempo dopo quella piccola vacanza a Lucerna,  uno dei nostri consiglieri comunali più in vista mi ha rivolto  quasi esattamente queste parole. «Mi piacerebbe farlo anch'io uno  di questi giorni, - mi ha detto, indicando le valigie. - $è la  vita che fa per me. Non una preoccupazione al mondo». Immagino  che cercasse di essere gentile. Di farmi capire che ero da  invidiare. $è successo quando ero più giovane, signore, allora  non tenevo sollevate le valigie, le mettevo giù, anche qui in  questo ascensore, e forse davo un po' quell'impressione. Sa, di  spensieratezza, come sosteneva il consigliere. Be', mi creda,  signore, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non  mi fraintenda, non mi sono infuriato per le parole in sé. Ma  quando quel tale mi ha detto così, be', è stato come se le cose mi si chiarissero d'incanto. Cose che mi frullavano in testa da  tempo. E come le ho spiegato, venivo giusto dalla nostra piccola  vacanza a Lucerna, dove avevo scoperto una nuova prospettiva. E  mi sono detto, be', è davvero ora che i facchini di questa città  si mettano d'impegno e cambino andazzo. Vede, signore, a Lucerna  avevo visto qualcosa di diverso, e avevo la sensazione, insomma,  che il modo di fare di qui non fosse all'altezza. Così ci ho  riflettuto su per bene e ho deciso di prendere di persona un  certo numero di provvedimenti. Naturalmente, è probabile che già  allora sapessi quanto sarebbe stato difficile. Parlo di tanti  anni fa, ma mi rendevo già conto, credo, che forse per la mia  generazione era troppo tardi. Che la situazione era ormai  compromessa. Ma ho pensato che se fossi riuscito a fare la mia  parte e a cambiare anche di poco le cose, be', se non altro avrei  reso la vita più facile a chi sarebbe venuto dopo di me. Così ho  adottato i miei provvedimenti, signore, e non li ho più  abbandonati dal giorno in cui il consigliere comunale ha  proferito quelle parole. E sono fiero di dire che parecchi altri  facchini di questa città hanno seguito il mio esempio. Questo non  significa che abbiano adottato esattamente i miei stessi  provvedimenti. Diciamo però che i loro provvedimenti sono, be',  compatibili.  
  - Capisco. E uno dei provvedimenti è stato quello di non  mettere giù le valigie ma di tenerle sollevate.   
  - Precisamente, signore, ha capito benissimo il succo del  discorso. Devo dire, naturalmente, che quando mi sono scelto  queste regole ero molto più giovane e forte, e probabilmente non  ho tenuto conto che con l'età mi sarei indebolito. $è buffo,  signore, ma sono cose cui non si pensa. Gli altri facchini mi  hanno detto lo stesso. Però cerchiamo tutti di mantenere i nostri  vecchi propositi. Con il passare degli anni abbiamo formato un  gruppo molto unito; siamo dodici, ciò che resta di quelli che  tanto tempo fa hanno cercato di cambiare le cose. Se adesso  dovessi rimangiarmi qualcosa, signore, mi sembrerebbe di deludere  gli altri. E se uno di loro tradisse una qualsiasi delle sue  vecchie regole, mi sentirei altrettanto deluso. Perché senza  dubbio qualche progresso in città l'abbiamo fatto. C'è ancora  molta strada da fare, è vero, ma ne abbiamo parlato spesso... sa,  ci troviamo tutte le domeniche pomeriggio al Caffè Ungherese  nella città vecchia, potrebbe venire anche lei, ci farebbe molto  piacere... dicevo che abbiamo discusso spesso di queste cose, e  siamo tutti d'accordo che in questa città ci sono stati, senza  alcun dubbio, significativi miglioramenti nell'atteggiamento nei  nostri confronti. I giovani che sono venuti dopo di noi,  naturalmente, danno tutto per scontato. Ma noi del Caffè  Ungherese sappiamo di avere contribuito a cambiare le cose, anche  se di poco. Se viene ci farà molto piacere. Sarei felice di  presentarla al gruppo. Non siamo più rigidi come una volta, e già  da un pezzo è tacitamente ammesso che in particolari circostanze  si possano portare ospiti al nostro tavolo. E in questo periodo  dell'anno, con questo solicello pomeridiano, si sta proprio bene.  Il nostro tavolo è all'ombra della tenda e dà sulla Piazza  Vecchia. Si sta d'incanto, signore, sono sicuro che le piacerà.  Ma per tornare a ciò che stavo dicendo, al Caffè Ungherese  abbiamo discusso spesso di questo argomento. Voglio dire dei  vecchi propositi che ciascuno di noi ha fatto tanti anni fa.  Vede, allora nessuno pensava a cosa sarebbe successo con la  vecchiaia. Probabilmente eravamo così presi dal nostro lavoro che  ragionavamo alla giornata. O forse abbiamo sottovalutato il tempo  che ci sarebbe voluto per cambiare certi atteggiamenti  incancreniti. Ma che vuole, signore. Adesso ho l'età che ho, e  ogni anno che passa la fatica aumenta.  
  Il facchino fece una pausa e, nonostante il notevole sforzo  fisico che stava compiendo, parve perdersi nei suoi pensieri. Poi  disse:  
  - Devo essere onesto con lei. Quel che è giusto è giusto. Da  giovane, quando mi sono imposto queste regole, portavo sempre  fino a tre valigie, per quanto grandi o pesanti. Se il cliente ne  aveva una quarta, quella la mettevo giù. Ma fino a tre ce la  facevo sempre. Be', la verità, signore, è che quattro anni fa non  sono stato bene e ho cominciato a trovarmi in difficoltà, così ne  abbiamo parlato al Caffè Ungherese. Alla fine tutti i miei  colleghi hanno sostenuto che non c'era bisogno che fossi così  severo con me stesso. In fondo, mi hanno detto, l'unica cosa  indispensabile è inculcare nel cliente qualcosa della vera natura  del nostro mestiere. Due valigie o tre, l'effetto è più o meno lo  stesso. Potevo ridurre il minimo a due valigie e non ci sarebbe  stato niente di male. Ho preso per buone le loro parole, signore,  ma so che non è così. Mi accorgo che l'effetto è tutt'altro che  uguale, quando la gente mi guarda. Tra vedere un facchino che  porta due valigie e vederne uno che ne porta tre, deve ammettere,  signore, che c'è una bella differenza, anche per l'occhio meno  esercitato. Me ne rendo conto, e non le nascondo che per me è  stato doloroso accettarlo. Ma per tornare alla mia teoria, spero  che adesso capisca perché non voglio mettere giù le sue valigie.  Ne ha solo due. Almeno per qualche anno, ce la faccio ancora a  portarle.   
  - Be', tutto ciò è lodevolissimo, - dissi. - Su di me ha  sicuramente ottenuto l'effetto desiderato.  
  - Desidero informarla, signore, che non sono l'unico che ha  dovuto cambiare abitudini. Discutiamo di queste cose in  continuazione, al Caffè Ungherese, e la verità è che ognuno di  noi ha dovuto introdurre qualche cambiamento. Ma non vorrei darle  la sensazione che ci concediamo a vicenda deroghe ai nostri  principî. Se così fosse, tutti gli sforzi di questi anni  sarebbero vanificati. Diventeremmo in quattro e quattr'otto degli  zimbelli. I passanti sbeffeggerebbero vedendoci riuniti al nostro  tavolo la domenica pomeriggio. Oh no, signore, restiamo  severissimi l'uno con l'altro, e la comunità, come sono certo che  la signorina Hilde le confermerà, ha imparato a rispettare le  nostre riunioni domenicali. Come le dico, signore, se viene ci  farà molto piacere. Sia nel caffè sia nella piazza si sta  d'incanto in questi pomeriggi di sole. E qualche volta il  proprietario del caffè fa venire dei violinisti zigani che  suonano in piazza. Anche il proprietario ha il massimo rispetto  per noi. Il caffè non è grande, ma lui fa sempre in modo che ci  sia spazio a sufficienza perché possiamo sederci comodamente  intorno al nostro tavolo. Persino quando il resto del caffè è  sovraffollato, lui bada che non ci impediscano di entrare e non  ci disturbino. Anche nei pomeriggi di massima calca, se tutti,  intorno al nostro tavolo, ci mettessimo contemporaneamente a  roteare le braccia tese, non ci sfioreremmo nemmeno. Questo per  dirle quanto ci rispetta il proprietario. Sono sicuro che la  signorina Hilde le confermerà ciò che le sto dicendo.   
  - Mi scusi, - dissi, - ma chi è questa signorina Hilde che  nomina in continuazione?   
  Non appena terminai la frase, notai che il facchino stava  fissando un punto alle mie spalle. Mi girai e trasalii scoprendo  che non eravamo soli nell'ascensore. Schiacciata nell'angolo  dietro di me, c'era una donna giovane e minuta in un completo  elegante. Vedendo che finalmente mi ero accorto di lei, sorrise e  fece un passo avanti.   
  - Mi spiace, - disse, - spero non pensi che stessi ascoltando  di nascosto, ma non ho potuto farne a meno. Ho sentito ciò che le stava raccontando Gustav, e devo dire che mi è sembrato piuttosto  ingiusto nei confronti di chi vive in questa città. Mi riferisco  a quando dice che non stimiamo i facchini dei nostri alberghi.  Non è vero, li stimiamo, eccome, e Gustav più di ogni altro.  Tutti gli vogliono bene. Noterà che c'è una contraddizione anche  in ciò che le ha appena detto. Se siamo così freddi, come spiega  il grande rispetto con cui sono trattati al Caffè Ungherese?  Davvero, Gustav, non è affatto gentile da parte tua metterci in  cattiva luce con il signor Ryder.   
  Le parole erano state pronunciate in tono inequivocabilmente  affettuoso, ma il facchino parve vergognarsi sul serio. Cambiò  posizione come volesse girarsi e, mentre le pesanti valigie gli  battevano sulle gambe, distolse lo sguardo con fare imbarazzato.   
  - Colto in fallo, - disse la giovane donna sorridendo. - Ma  Gustav è uno dei migliori. Tutti gli vogliamo bene. $è così  modesto che non glielo direbbe mai, ma gli altri facchini di  questa città hanno una grande ammirazione per lui. Anzi, non è  esagerato dire che hanno nei suoi confronti un timore  reverenziale. A volte li vedi seduti intorno al loro tavolo la  domenica pomeriggio, e se Gustav non è ancora arrivato, non  cominciano a parlare. Giudicherebbero una mancanza di rispetto,  capisce, cominciare senza di lui. Spesso ne vedi dieci o undici  che aspettano in silenzio davanti ai loro caffè. Tutt'al più si  scambiano qualche bisbiglio, come se fossero in chiesa. Ma finché  non arriva Gustav non si rilassano e non cominciano a conversare.  Vale la pena andare al Caffè Ungherese solo per assistere  all'arrivo di Gustav. Il contrasto tra prima e dopo è  incredibile, glielo assicuro. Fino a un momento prima ci sono  delle vecchie facce cupe e silenziose intorno al tavolo. Poi  compare Gustav, e tutti cominciano a urlare e a ridere. Si danno  pugni per gioco, grandi pacche sulle spalle. Qualche volta  ballano addirittura, sì, sui tavoli! Hanno una speciale «Danza  del facchino», vero, Gustav? Oh sì, se la spassano proprio. Ma  finché non arriva Gustav, niente. Naturalmente, lui non le  racconterebbe mai queste cose, è così modesto. Gli vogliamo tutti  un gran bene in città.  
  Mentre la giovane donna parlava, Gustav doveva avere continuato  a girarsi, perché quando lo guardai di nuovo era rivolto verso  l'angolo opposto dell'ascensore e ci dava la schiena. Il peso  delle valigie gli piegava le ginocchia e gli faceva tremare le  spalle. La testa era così china che da dietro, dove ci trovavamo  noi, era quasi nascosta, ma era difficile dire se ciò fosse  dovuto alla timidezza o al semplice sforzo fisico.   
  - Mi scusi, signor Ryder, - disse la giovane donna. - Non mi  sono ancora presentata. Mi chiamo Hilde Stratmann. Sono stata  incaricata di fare in modo che tutto scorra liscio durante il suo  soggiorno qui da noi. Sono così contenta che finalmente sia  arrivato. Cominciavamo a essere un po' preoccupati. Questa  mattina tutti hanno aspettato fin quando hanno potuto, ma molti  avevano impegni importanti e a uno a uno sono dovuti andare via.  Tocca dunque a me, umile impiegata dell'Istituto Civico di Belle  Arti, dirle quanto ci sentiamo onorati della sua visita.   
  - Sono felice di essere qui. Ma a proposito di questa mattina.  Diceva che...   
  - Oh, la prego di non preoccuparsi per questa mattina, signor  Ryder. Non c'è stato il minimo inconveniente. L'importante è che  adesso lei sia qui. Sa, signor Ryder, su una cosa sono certamente  d'accordo con Gustav, la città vecchia. $è davvero bellissima, e  consiglio sempre ai nostri ospiti di andarci. C'è un'atmosfera  meravigliosa, con caffè all'aperto, botteghe di artigiani e  ristoranti da per tutto. Di qui ci vogliono pochi minuti a piedi;  ne approfitti non appena il suo programma glielo consentirà.  
  - Farò il possibile per andarci. A proposito di programma,  signorina Stratmann... - Mi interruppi deliberatamente,  aspettandomi che la giovane donna esclamasse qualcosa maledicendo  la propria sbadataggine, o magari frugasse nella borsa per  estrarne un foglio o una cartellina. Invece, anche se colmò  subito la pausa, si limitò a dire:   
  - Lo so, il programma è fitto. Ma spero che non sia eccessivo.  Abbiamo cercato di limitarlo rigorosamente alle cose essenziali.  Era inevitabile che fossimo sommersi di richieste da una miriade  di associazioni, dai giornali e dalle emittenti locali, da tutti.  Lei ha tantissimi ammiratori in questa città, signor Ryder. Molti  qui sono convinti che lei sia non solo il miglior pianista  vivente, ma forse il più grande del nostro secolo. Alla fine,  però, crediamo di essere riusciti a lasciare solo l'essenziale.  Mi auguro che non abbia nulla da obiettare.   
  In quel momento le porte dell'ascensore si aprirono e il  vecchio facchino si avviò per il corridoio. A causa delle  valigie, strascicava i piedi sulla guida, e la signorina  Stratmann e io, che lo seguivamo, dovemmo trattenere il passo per  non raggiungerlo.   
  - Spero che nessuno si sia offeso, - dissi, mentre camminavamo.  - Voglio dire, per il fatto che non ci fosse spazio nel mio  programma.   
  - Oh no, la prego di non preoccuparsi. Sappiamo tutti perché è  qui, e nessuno vuole essere accusato di averla infastidita. In  realtà, signor Ryder, se si escludono due ricevimenti assai  importanti, tutti gli altri impegni del suo programma sono più o  meno direttamente legati alla serata di giovedì. Ormai,  naturalmente, avrà avuto modo di familiarizzarsi con il  programma.   
  Nel tono di quest'ultima osservazione c'era qualcosa che mi  impedì di rispondere in maniera aperta e sincera. Così borbottai:  - Sì, certo.   
  - Riconosco che il programma £è faticoso. Ma abbiamo rispettato  la sua richiesta di toccare il più possibile le cose con mano. Un  atteggiamento davvero encomiabile, se mi consente.   
  Poco più avanti, il vecchio facchino si fermò di fronte a una  porta, posò finalmente le mie valigie e cominciò ad armeggiare  con la serratura. Quando lo raggiungemmo, riprese i bagagli,  entrò barcollando nella camera e disse: - Venga, per piacere -.  Stavo per seguirlo, quando la signorina Stratmann mi mise una  mano sul braccio.   
  - Non la tratterrò oltre, - disse. - Ma volevo assicurarmi  subito che non avesse nulla da obiettare sul programma.   
  La porta si richiuse, lasciandoci fuori nel corridoio.   
  - Be', signorina Stratmann, - dissi, - tutto sommato, mi  sembra... un programma molto equilibrato.   
  - Proprio tenendo conto della sua richiesta, abbiamo combinato  l'incontro con il Gruppo di Mutuo Soccorso dei Cittadini. Il  gruppo è composto di gente di ogni condizione sociale, accomunata  dalla sensazione di avere sofferto a causa della crisi attuale.  Avrà modo di ascoltare direttamente ciò che certe persone hanno  dovuto sopportare.   
  - Oh, sì. Mi sarà sicuramente utilissimo.   
  - Come avrà notato, abbiamo rispettato anche il suo desiderio  di incontrare il signor Christoff. Date le circostanze,  comprendiamo perfettamente le ragioni che l'hanno spinta a  chiedere questo incontro. Il signor Christoff, dal canto suo, ne  è felicissimo, come può immaginare. Naturalmente ha le sue  ragioni personali per volerla incontrare. Intendo dire che lui e  i suoi amici faranno l'impossibile per indurla a vedere le cose a  modo loro. Naturalmente, le diranno un mucchio di sciocchezze, ma sono sicura che nell'insieme giudicherà la cosa molto utile per  farsi un'idea chiara di ciò che è successo qui. Ha la faccia  stanca, signor Ryder. Non voglio trattenerla oltre. Ecco il mio  biglietto da visita. La prego, non esiti a chiamarmi per  qualsiasi problema o domanda.   
  La ringraziai e rimasi a guardarla mentre si allontanava lungo  il corridoio. Quando entrai nella mia camera, stavo ancora  rimuginando sulle varie ripercussioni di questa conversazione, e  impiegai un momento ad accorgermi della presenza di Gustav in  piedi accanto al letto.   
  - Oh, eccola, signore.   
  Dopo la preponderanza dei rivestimenti di legno scuro nel resto  dell'edificio, fui sorpreso dall'aspetto luminoso e moderno della  stanza. La parete di fronte a me era quasi tutta di vetro, dal  pavimento al soffitto, e il sole filtrava piacevolmente  attraverso le liste verticali degli scuri. Le mie valigie erano  state posate l'una di fianco all'altra vicino al guardaroba.  
  - Adesso, signore, se ha un attimo di pazienza, - disse Gustav,  - le mostrerò le caratteristiche della camera, per rendere il suo  soggiorno il più piacevole possibile.   
  Lo seguii per la stanza, mentre mi indicava gli interruttori e  gli altri servizi. A un certo punto mi condusse in bagno e lì  continuò le sue spiegazioni. Ero stato sul punto di troncargli la  parola in bocca, come sono solito fare quando un facchino mi  illustra una stanza d'albergo, ma nella diligenza con cui  svolgeva il suo compito, nei suoi sforzi per dare un carattere  personale a un'azione ripetuta molte volte ogni giorno, c'era  qualcosa che mi commosse e mi impedì di interromperlo. Poi,  mentre Gustav continuava le sue spiegazioni, gesticolando di qui  e di là per la stanza, mi accorsi che, nonostante la sua  professionalità, nonostante il suo genuino desiderio di vedermi  sistemato comodamente, i suoi pensieri erano di nuovo dominati da  una certa questione che l'aveva assillato per tutto il giorno.  Gustav, in altre parole, era ancora in ansia per la figlia e il  suo bambino.   
  Quando la cosa gli era stata proposta parecchi mesi prima,  Gustav non si sarebbe mai sognato che potesse procurargli altro  che una gioia priva di complicazioni. Un pomeriggio alla  settimana avrebbe passato un paio di ore a gironzolare per la  città vecchia con il nipote, in modo da consentire a Sophie di  uscire e di avere un po' di tempo per se stessa. Tra l'altro,  nonno e nipote si erano subito trovati bene, e nel giro di poche  settimane avevano preso delle abitudini piacevolissime per  entrambi. Nei pomeriggi in cui non pioveva cominciavano dal parco  giochi, dove Boris poteva esibirsi nelle sue ultime prodezze. Se  il tempo era piovoso, cominciavano dal museo delle barche. Poi  andavano a spasso per le viuzze della città vecchia, dando  un'occhiata a diversi negozi di giocattoli, magari fermandosi  nella Piazza Vecchia per guardare un mimo o un acrobata. Dato che  il vecchio facchino era molto conosciuto nella zona, a ogni piè  sospinto qualcuno li salutava, e Gustav riceveva numerosi  complimenti per il nipote. La tappa successiva era il vecchio  ponte, per guardare le barche che passavano sotto. La spedizione  si concludeva nel caffè preferito, dove ordinavano una fetta di  torta o un gelato e aspettavano il ritorno di Sophie.  
  Inizialmente queste piccole gite avevano procurato a Gustav un  immenso piacere. Ma i crescenti contatti con la figlia e il  nipote lo avevano costretto a notare cose sulle quali un tempo,  forse, avrebbe chiuso gli occhi, finché non era più riuscito a  fingere che tutto andasse bene. Tanto per cominciare, c'era il  problema dell'umore di Sophie. Nelle prime settimane la figlia li  salutava allegramente, scappando via per andare in centro a fare commissioni o a trovarsi con un'amica. Ma negli ultimi tempi  aveva preso l'abitudine di allontanarsi ciondolando, come se non  sapesse che fare di se stessa. Inoltre, era evidente che il suo  misterioso turbamento stava cominciando a lasciare il segno su  Boris. $è vero, il nipotino, per lo più, conservava ancora la sua  solita allegria. Ma il facchino aveva notato che di tanto in  tanto, soprattutto quando si accennava alla vita in casa, il  bambino, per un istante, si rannuvolava. Poi, due settimane  prima, era successo qualcosa che il vecchio facchino non era più  riuscito a togliersi dalla testa.  
  Stava passando con Boris davanti a uno dei numerosi caffè della  città vecchia quando improvvisamente aveva scorto sua figlia  seduta all'interno. La tenda faceva ombra sul vetro, consentendo  una visione nitida dell'intero locale; Sophie era ben in vista,  sola davanti a una tazza di caffè, con la faccia abbacchiata. La  scoperta che la figlia non aveva nemmeno trovato la forza di  uscire dalla città vecchia, per non parlare dell'espressione del  suo volto, aveva lasciato il facchino di sasso, tanto che ci era  voluto un momento prima che gli venisse in mente di distrarre  Boris. Troppo tardi: seguendo il suo sguardo, Boris aveva colto  di sfuggita la nitida immagine della madre. Il bambino aveva  subito distolto gli occhi, e tutti e due avevano ripreso la  passeggiata senza un accenno a ciò che avevano visto. Boris aveva  ritrovato il suo buon umore in pochi minuti, ma l'episodio aveva  profondamente turbato il facchino, che da quel momento ci  ripensava in continuazione. Era proprio il ricordo di  quell'incidente che gli aveva dato un'aria così pensierosa giù  nell'atrio, e che ora tornava a tormentarlo mentre mi guidava per  la stanza.   
  Avevo preso il vecchio in simpatia, e provai un impeto di  tenerezza nei suoi confronti. Era evidente che stava rimuginando  da molto tempo, e che ormai correva il rischio che le sue  preoccupazioni assumessero proporzioni ingiustificate. Pensai di  affrontare l'intero argomento con lui, poi però, non appena  Gustav concluse la sua tiritera, la stanchezza che mi aveva  assalito a intermittenza sin da quando ero sceso dall'aereo mi  ripiombò addosso. Decisi di parlargliene più tardi e lo congedai  con una mancia generosa.  
  Quando la porta si richiuse alle sue spalle, crollai sul letto  senza svestirmi e per un po' fissai il soffitto con sguardo  vacuo. Sulle prime continuarono a tornarmi in mente Gustav e le  sue ansie. Poi, mentre me ne stavo sdraiato, mi accorsi che avevo  ricominciato a pensare alla conversazione con la signorina  Stratmann. Era ovvio che la città si aspettava da me qualcosa di  più di un semplice concerto. Ma quando cercai di ricordare  qualche punto essenziale della mia visita, non mi venne in mente  nulla. Mi resi conto che ero stato uno sciocco a non parlare più  apertamente con la signorina Stratmann. Se non avevo ricevuto una  copia del programma, la colpa era sua, non mia, e il mio  atteggiamento difensivo era stato del tutto irragionevole.   
  Ripensai al nome Brodsky, e questa volta ebbi la netta  sensazione di averlo già udito o letto in un passato non molto  lontano. Poi, all'improvviso, rividi un momento del lungo viaggio  in aereo che avevo appena concluso. Ero seduto nella cabina  oscurata, circondato dagli altri passeggeri addormentati, e  studiavo il programma della mia visita alla fioca luce della  lampadina di lettura. A un certo punto il signore accanto a me si  era svegliato, e dopo un paio di minuti aveva detto qualcosa in  tono allegro. O meglio, ora ricordavo, si era chinato verso di me  e mi aveva fatto una specie di piccolo quiz sui calciatori dei  Campionati Mondiali. Non volendo essere distratto proprio mentre esaminavo il mio programma, lo avevo messo a tacere con un gesto  un po' brusco. La scena mi si ripresentò con notevole chiarezza.  Ricordai addirittura la grana della spessa carta grigia su cui  era stato battuto a macchina il programma, la chiazza di luce  gialla e smorta della lampadina di lettura, il ronzio dei motori  dell'aereo, ma per quanto mi sforzassi non riuscivo a rammentare  nulla di ciò che era scritto su quel foglio.  
  Poi, dopo qualche minuto, sentii che la stanchezza stava per  sopraffarmi e mi dissi che era inutile continuare a preoccuparmi  se prima non avessi dormito un po'. Sapevo infatti per esperienza  che quando si è riposati tutto appare sotto una luce diversa.  Allora sarei andato a cercare la signorina Stratmann, le avrei  spiegato il malinteso, mi sarei fatto dare una copia del  programma e le avrei chiesto i chiarimenti del caso.  
  Stavo per appisolarmi, quando all'improvviso qualcosa mi  costrinse a riaprire gli occhi e a fissare il soffitto. Rimasi a  scrutarlo per un po', poi mi sedetti sul letto e mi guardai  intorno, mentre la sensazione di déjà vu diventava sempre più  forte. Mi accorsi che la stanza in cui mi trovavo era esattamente  la stessa che mi aveva fatto da camera da letto nei due anni in  cui ero vissuto con i miei genitori nella casa di mia zia sul  confine tra Inghilterra e Galles. Mi guardai ancora una volta  intorno, poi mi sdraiai di nuovo e ricominciai a fissare il  soffitto. Era stato rintonacato e ridipinto da poco, era stato  ampliato, le cornici erano sparite, le decorazioni intorno al  lampadario erano del tutto diverse. Ma era innegabilmente lo  stesso soffitto che avevo contemplato così spesso dal mio  scricchiolante lettuccio di allora.   
  Mi rotolai su un fianco per guardare il pavimento accanto al  letto. L'albergo forniva un tappetino scuro nel punto esatto in  cui si sarebbero posati i miei piedi. Ricordavo che un tempo  quello stesso tratto di pavimento era coperto da una lisa stuoia  verde, dove parecchie volte la settimana disponevo in accurate  formazioni i miei soldatini di plastica - più di cento in tutto -  che tenevo in due scatole di latta per i biscotti. Abbassai una  mano e lasciai che le mie dita sfiorassero il tappetino  dell'albergo, e così facendo mi ricordai di un pomeriggio in cui  ero perso nel mondo dei miei soldatini di plastica e al piano di  sotto era scoppiato un furioso litigio. La violenza delle voci  era tale che pur essendo solo un bambino di sei o sette anni  avevo capito che non si trattava di un litigio ordinario. Ma mi  ero detto che non c'era da preoccuparsi e, posando di nuovo la  guancia sulla stuoia verde, avevo ripreso i miei piani di  battaglia. Più o meno in centro alla stuoia c'era uno strappo che  mi aveva sempre irritato moltissimo. Ma quel pomeriggio, mentre  di sotto le voci infuriavano, mi era balenata per la prima volta  l'idea che quella lacerazione poteva trasformarsi in un tratto di  boscaglia da far attraversare ai soldatini. Questa scoperta -  cioè che il difetto che aveva sempre rischiato di minare il mio  mondo immaginario poteva, in realtà, esservi inglobato - mi aveva  dato una certa emozione, e da quel momento la «boscaglia» era  diventata un fattore determinante in molte delle battaglie che  orchestravo.   
  Tutto ciò mi tornò alla memoria mentre continuavo a fissare il  soffitto. Naturalmente, ero più che consapevole che intorno a me  molte cose erano cambiate o sparite. Ciò nonostante, l'idea di  ritrovarmi dopo tanto tempo nel vecchio rifugio della mia  infanzia mi diede una grande pace. Chiusi gli occhi, e per un  momento mi parve di essere di nuovo circondato dai vecchi mobili.  Dalla parte opposta della stanza, nell'angolo di destra, l'alto  guardaroba bianco con il pomolo della porta rotto. Sul muro sopra  la mia testa, il quadro di mia zia con la cattedrale di Salisbury. Accanto al letto il comodino, con i due cassettini  pieni dei miei piccoli tesori e segreti. Tutte le tensioni della  giornata - il lungo volo, i malintesi sul mio programma, i  problemi di Gustav - parvero svanire, e io mi sentii scivolare in  un sonno profondo e spossato. 
2.  
  Quando fui svegliato dal telefono accanto al letto, ebbi  l'impressione che stesse suonando da un pezzo. Sollevai la  cornetta e una voce disse:   
  - Pronto? Signor Ryder?   
  - Sì, pronto.   
  - Ah, signor Ryder. Sono Hoffman, il direttore dell'albergo.   
  - Ah, sì. Piacere di conoscerla.   
  - Signor Ryder, siamo felicissimi di averla finalmente fra noi.  Si consideri come a casa sua.   
  - Grazie.   
  - Dico davvero, signor Ryder. E la prego di non preoccuparsi  minimamente per il suo ritardo. Come credo le abbia già detto la  signorina Stratmann, tutti hanno capito benissimo. In fondo,  quando si devono fare tanti chilometri e si hanno così tanti  impegni in giro per il mondo... ah ah!... sono cose che capitano.   
  - Ma...   
  - No, davvero, non c'è bisogno di spendere un'altra parola  sull'argomento. Come le dico, tutti, signore e signori, sono  stati molto comprensivi. Dunque mettiamoci una pietra sopra.  L'importante è che lei sia qui. E solo per questo, signor Ryder,  la nostra gratitudine è sconfinata.   
  - Be', grazie, signor Hoffman.   
  - E ora, se in questo momento le avanza un attimo di tempo, mi  farebbe molto piacere salutarla finalmente faccia a faccia.  Porgerle il mio personale benvenuto nella nostra città e in  questo albergo.   
  - Molto gentile da parte sua, - dissi. - Ma avevo intenzione di  fare un sonnellino...   
  - Un sonnellino? - Notai una punta di irritazione. Ma un attimo  dopo la voce tornò cordiale come prima. - Ma sì, naturalmente.  Deve essere stanchissimo. Ha fatto un viaggio così lungo. Diciamo  allora quando sarà pronto.   
  - Sono ansioso di conoscerla, signor Hoffman. Non dubiti, sarò  giù fra non molto.   
  - La prego, faccia assolutamente con comodo. Quanto a me,  resterò qui ad aspettarla... qui nell'atrio, voglio dire... fino  a quando lo deciderà lei. Dunque la prego di non affrettarsi.   
  Riflettei un attimo sulla frase. Poi dissi: - Ma signor  Hoffman, avrà sicuramente molto da fare.   
  - Certo, questo è un momento particolarmente intenso della  giornata. Ma per lei, signor Ryder, sarò lieto di aspettare tutto  il necessario.   
  - La prego, signor Hoffman, non sprechi il suo tempo prezioso  per me. Sarò giù a momenti e verrò io a cercarla.   
  - Signor Ryder, non c'è il minimo inconveniente. Anzi, sarò  onorato di aspettarla. Quindi, come le dico, faccia con comodo.  Non abbia timore, me ne starò qui in piedi fino a quando non  scende.   
  Lo ringraziai di nuovo e riattaccai. Poi mi misi a sedere e mi  guardai intorno; dalla luce dedussi ch'era tardo pomeriggio. Mi  sentivo più stanco che mai, ma mi sembrava che ci fosse poco  altro da fare se non scendere nell'atrio. Mi alzai, aprii una  delle valigie e trovai una giacca meno stropicciata di quella che  avevo ancora indosso. Mentre mi cambiavo, mi venne una gran  voglia di caffè, e qualche istante più tardi, quando uscii dalla stanza, la voglia si era trasformata in qualcosa di molto simile  a un bisogno impellente.   
  Sbucando dall'ascensore, trovai l'atrio molto più animato di  quando l'avevo lasciato. Da per tutto c'erano clienti seduti in  poltrona che sfogliavano giornali o chiacchieravano davanti a una  tazza di caffè. Vicino al banco della reception c'erano parecchi  giapponesi che si salutavano fra loro facendosi grandi feste.  Rimasi leggermente confuso dal cambiamento e non notai il  direttore dell'albergo fino a quando non mi venne incontro.   
  Era sulla cinquantina, più grande e più grosso di come me lo  ero immaginato dalla voce. Mentre mi porgeva la mano con un  sorriso radioso, notai che aveva il respiro affannato e la fronte  lievemente imperlata di sudore.   
  Stringendomi la mano, ripeté parecchie volte che la mia  presenza era un grande onore per la città e per il suo albergo in  particolare. Poi si sporse verso di me e mi disse in tono  confidenziale:   
  - Desidero assicurarle che per giovedì sera è tutto sotto  controllo. Non deve preoccuparsi di nulla.   
  Aspettai che aggiungesse qualcosa, ma quando vidi che si  limitava a sorridere, dissi: - Be', mi fa molto piacere.   
  - Nossignore, non deve assolutamente preoccuparsi.   
  Vi fu una pausa imbarazzata. Poi Hoffman parve sul punto di  aggiungere qualcosa, ma si interruppe, rise e mi diede una  piccola pacca sulla spalla - un gesto che giudicai invadente e  inopportuno. Alla fine disse: - Signor Ryder, se posso fare  qualcosa per rendere più piacevole il suo soggiorno, la prego di  comunicarmelo senza indugio.   
  - Grazie, davvero gentile.   
  Vi fu un'altra pausa. Poi Hoffman rise di nuovo, scosse un po'  la testa e per la seconda volta mi batté sulla spalla.   
  - Signor Hoffman, - dissi, - c'è forse qualcosa di cui desidera  parlarmi?   
  - Oh, niente di particolare, signor Ryder. Volevo solo darle il  benvenuto e assicurarmi che tutto fosse di suo gradimento -. Poi,  di colpo, si lasciò sfuggire un'esclamazione. - Ma certo, adesso  che mi ci fa pensare, sì, qualcosa ci sarebbe. Ma è una cosina da  niente -. Di nuovo scosse la testa e rise. Poi disse: - Si tratta  degli album di mia moglie.   
  - Gli album di sua moglie?   
  - Mia moglie, signor Ryder, è una donna molto colta. E  naturalmente è una sua grande ammiratrice. Per dirle, segue la  sua carriera con vivo interesse, e da qualche anno raccoglie i  ritagli di giornale che parlano di lei.   
  - Davvero? Che bel pensiero.  
  - In effetti, ha completato due album di articoli interamente  dedicati a lei. I ritagli sono ordinati cronologicamente e vanno  indietro di molti anni. Ma veniamo al dunque. Il grande sogno di  mia moglie è sempre stato che un giorno lei potesse esaminare gli  album di persona. Naturalmente la notizia che avrebbe visitato la  nostra città ha riacceso le sue speranze. Tuttavia, sapendo che  sarebbe stato molto preso, non voleva assolutamente che la  disturbassimo per causa sua. Ma io ho capito che sotto sotto ci  sperava, così le ho promesso che almeno gliene avrei parlato. Se  riuscisse a trovare un minutino per dare un'occhiata agli album,  non ha idea di che cosa significherebbe per lei.  
  - Dica a sua moglie che non so come ringraziarla, signor  Hoffman. Sarò felicissimo di vedere i suoi album.   
  - Ah, grazie, signor Ryder! Grazie infinite! In realtà, ho già  portato gli album qui in albergo per averli sottomano. Ma  immagino che lei sia occupatissimo.  
  - $è vero che ho un programma molto intenso. Ma sono sicuro che  riuscirò a trovare un momento per gli album di sua moglie.   
  - Davvero gentile, signor Ryder! Ma sia chiaro che l'ultima  cosa che voglio è complicarle la vita. Dunque mi consenta di  farle una proposta. Aspetterò che sia lei a dirmi quando sarà  pronto a esaminare gli album. Finché non lo farà, io non la  disturberò. In qualsiasi momento del giorno o della notte, quando  le sembrerà più opportuno, la prego di venirmi a cercare. Di  solito sono facilmente reperibile e vado via molto tardi.  Interromperò quello che sto facendo, qualunque cosa sia, e andrò  a prendere gli album. Mi sentirei molto più tranquillo se  restassimo d'accordo così. Davvero, non sopporterei il pensiero  di rendere ancora più pesante il suo programma.   
  - Grazie per le sue premure, signor Hoffman.   
  - Anzi, mi viene in mente una cosa, signor Ryder. Forse nei  prossimi giorni le darò l'impressione di essere occupatissimo. Ma  sappia che, per quanto impegnato, troverò sempre un momento di  tempo da dedicare a questa faccenda. Quindi, anche se mi vedesse  con un diavolo per capello, la prego di non farci caso.   
  - Va bene. Me ne ricorderò.   
  - Forse dovremmo stabilire una specie di segnale. Lo dico  perché magari, quando viene a cercarmi, io sono dall'altra parte  di una sala affollata, e per lei sarebbe davvero un fastidio  doversi fare largo a gomitate nella calca. E poi, quando arriva  nel punto della sala dove mi ha visto, io potrei essermi  spostato. Ecco perché sarebbe raccomandabile un segnale. Un gesto  facilmente riconoscibile, che lei possa fare sopra la testa della  folla.   
  - Mi sembra un'idea molto sensata.   
  - Ottimo. Mi fa piacere che lei sia una persona così  disponibile e gentile, signor Ryder. Sarebbe bello poter dire lo  stesso di certe altre celebrità che abbiamo ospitato qui. Allora.  Non resta che stabilire il segnale. Se posso dare un  suggerimento... be', diciamo qualcosa di questo genere.   
  Alzò una mano con il palmo in fuori e le dita divaricate, e  fece un movimento come se stesse lavando una finestra.   
  - $è solo un esempio, - disse, nascondendo in fretta la mano  dietro la schiena. - Magari lei preferisce un segnale diverso.   
  - No, questo va benissimo. Glielo farò non appena sarò pronto a  esaminare gli album di sua moglie, che per altro è stata davvero  gentile a prendersi tanta briga.   - So che le ha dato grande soddisfazione. Naturalmente, se più  tardi le venisse in mente un segnale che l'aggrada di più, la  prego di telefonarmi dalla sua camera, o di lasciare un messaggio  a qualcuno del personale.   
  - La ringrazio, ma il suo segnale mi sembra molto elegante. E  adesso, signor Hoffman, sarebbe così gentile da indicarmi dove  trovare del buon caffè. Sento che potrei berne molte tazze.   
  Il direttore rise un po' istrionicamente. - Conosco bene questa  sensazione. La condurrò nel patio. Mi segua, per piacere.   
  Si diresse verso un angolo dell'atrio e spinse due pesanti  porte oscillanti. Ci trovammo in un corridoio lungo e buio, con  entrambe le pareti rivestite di legno scuro. L'illuminazione  naturale era così scarsa che persino a quell'ora del giorno c'era  una fila di fioche lampade a muro accese. Hoffman continuò a  precedermi camminando a passo svelto e girandosi di tanto in  tanto per sorridermi al di sopra della spalla. Più o meno a metà  corridoio passammo davanti a una porta dall'aspetto imponente, e  Hoffman, che doveva aver notato il mio sguardo, disse:   
  - Ah, sì. In condizioni normali il caffè verrebbe servito lì.  Un magnifico salotto, signor Ryder, molto accogliente. E ora  abbellito anche da alcuni tavoli fatti a mano, trovati dal sottoscritto 1 durante un recente viaggio a Firenze. Sono sicuro  che li approverebbe. Ma in questo momento, come sa, abbiamo  riservato il salotto al signor Brodsky.   
  - Oh, sì. Era già lì quando sono arrivato.   
  - Ed è ancora lì, signor Ryder. La farei entrare volentieri per  presentarvi, ma, be', forse non è il momento. Il signor Brodsky  potrebbe... be', diciamo, che potrebbe non essere il momento  giusto. Ah, ah! Ma non si preoccupi, ci saranno molte altre  occasioni in cui potrete conoscervi.   
  - Il signor Brodsky è in quel salotto?   
  Mi girai per dare un'occhiata alla porta, e forse rallentai  leggermente il passo. Fatto sta che il direttore mi afferrò per  il braccio e cominciò a trascinarmi via risolutamente.   
  - Sì, è lì dentro, signor Ryder. Certo, in questo momento se ne  sta lì seduto in silenzio, ma le assicuro che da un momento  all'altro riattaccherà a suonare. E questa mattina ha provato con  l'orchestra per quattro ore filate. A detta di tutti, le cose  vanno molto bene. Quindi la prego, non deve assolutamente  preoccuparsi.   
  In fondo, il corridoio svoltava ad angolo retto e diventava  molto più luminoso. Su uno dei lati, adesso, c'erano delle  finestre, che proiettavano sul pavimento pozze di sole. Solo dopo  avere percorso un buon tratto Hoffman mi lasciò andare. Mentre  rallentava e assumeva un'andatura più disinvolta, rise per  nascondere l'imbarazzo.   
  - Ci siamo quasi, signore. Essenzialmente il patio è un bar, ma  vedrà che è accogliente. Le serviranno il caffè e tutto ciò che  vorrà. La prego, da questa parte.   
  Abbandonammo il corridoio e passammo sotto un arco.   
  - Questo annesso, - disse Hoffman, facendomi strada, - è stato  ultimato tre anni fa. Lo chiamiamo il patio e ne siamo molto  fieri. $è stato progettato appositamente per noi da Antonio  Zanotto.  
  Sbucammo in una sala ampia e luminosa. Grazie all'alto soffitto  di vetro si aveva quasi l'impressione di uscire in un cortile. Il  pavimento era una vasta distesa di piastrelle bianche, al cui  centro torreggiava una fontana - un groviglio di statue di marmo,  forse ninfe, che sprizzavano acqua con una certa veemenza. A dire  il vero, mi parve che la pressione dell'acqua fosse esagerata;  ovunque si volgesse lo sguardo, il patio era velato da una  sottile nebbiolina sospesa nell'aria. Ciò nonostante, constatai  rapidamente che in ogni angolo del patio c'era un bar, con il suo  schieramento separato di sgabelli, poltrone e tavolini. Camerieri  in uniforme bianca andavano avanti e indietro per la sala; sparsi  qui e là c'erano parecchi clienti, anche se la sensazione di  spazio era tale che quasi non si notavano.   
  Vidi che il direttore mi osservava con aria compiaciuta,  aspettando che manifestassi la mia approvazione. In quel momento,  però, mi prese un tale bisogno di caffè che gli voltai le spalle  e mi diressi verso il bar più vicino.   
  Quando il direttore mi raggiunse, ero già seduto su uno degli  alti sgabelli, con i gomiti sul banco. Hoffman schioccò le dita  al barista, che in ogni caso stava già avvicinandosi per  servirmi, e disse: - Il signor Ryder desidera un bricco di caffè.  Keniano! - Poi, rivolgendosi a me, aggiunse: - Non sa quanto mi  farebbe piacere poterle fare compagnia, signor Ryder.  Chiacchierare in santa pace di musica e arte. Purtroppo mi  attendono parecchie cose che non posso assolutamente più  rimandare. Vuole essere così gentile da scusarmi?  
  Anche se lo assicurai che aveva già fatto molto più del dovuto,  spese ancora parecchi minuti per prendere congedo. Poi diede  un'occhiata all'orologio, si lasciò sfuggire un'esclamazione e scappò via.   
  Rimasto solo, probabilmente sprofondai quasi subito nei miei  pensieri, perché non vidi tornare il barista. Ma che fosse  tornato non c'erano dubbi, perché presto mi accorsi che stavo  bevendo un caffè con lo sguardo fisso sulla parete di specchi  dietro al bar, nella quale si rifletteva non solo la mia immagine  ma anche gran parte della sala alle mie spalle. Dopo un po', non  so perché, scoprii che stavo rivivendo nella testa i momenti  cruciali di una partita di calcio cui avevo assistito molti anni  addietro, un incontro tra Germania e Olanda. Cambiai posizione  sullo sgabello - vedevo che stavo troppo gobbo - e cercai di  ricordare i nomi dei giocatori della nazionale olandese di  quell'anno. Rep, Krol, Haan, Neeskens. Ci misi parecchi minuti,  ma riuscii a ricostruire tutti nomi tranne due, che mi rimasero  sulla punta della lingua. Mentre mi sforzavo di ricordarli, il  suono della fontana alle mie spalle, che sulle prime mi era  sembrato distensivo, cominciò a infastidirmi. Avevo l'impressione  che, se fosse cessato, la memoria si sarebbe sbloccata e avrei  finalmente ricordato i nomi.   
  Stavo ancora frugando nella memoria, quando dietro di me una  voce disse:   
  - Mi scusi, lei è il signor Ryder, vero?   
  Mi voltai e vidi un giovane dalla faccia pulita, di poco più di  vent'anni. Quando gli feci cenno, si avvicinò sollecitamente al  banco.  
  - Spero di non essere invadente, - disse. - Ma un momento fa,  quando l'ho vista, non sono riuscito a trattenermi. Volevo  assolutamente dirle quanto sono eccitato della sua visita. Vede,  anch'io suono il pianoforte. Solo e unicamente da dilettante,  questo è ovvio. E, be', l'ho sempre ammirata moltissimo. Quando  papà ha finalmente saputo della sua venuta, ero elettrizzato.  
  - Papà?  
  - Mi scusi. Sono Stephan Hoffman. Il figlio del direttore.  
  - Ah, capisco. Lieto di conoscerti.  
  - Le spiace se mi siedo un momento qui con lei? - Il ragazzo si  arrampicò sullo sgabello accanto al mio. - Sa, papà è  elettrizzato quanto me, se non di più. Conoscendolo, è probabile  che non glielo abbia detto. Ma mi creda, la sua visita significa  tutto per lui.   
  - Davvero?  
  - Oh, sì, non esagero affatto. Ricordo quando ancora aspettava  la sua risposta. Come diventava taciturno ogni volta che si  faceva il suo nome. Poi, quando stava per esplodere, cominciava a  borbottare sottovoce. «Quanto tempo ci vuole ancora? Quanto tempo  ci vuole perché risponda? Rifiuterà. Me lo sento». In quei  momenti dovevo davvero mettercela tutta per tenerlo su di morale.  Quindi può immaginare che cosa significhi per lui che lei sia  arrivato. Papà è un perfezionista! Quando organizza una serata  come quella di giovedì, tutto, dico £tutto, deve essere a  puntino. Ripassa mentalmente ogni particolare mille volte. Di  tanto in tanto esagera un po', con questa mania. Ma se non avesse  quel carattere, probabilmente non sarebbe lui e non realizzerebbe  la metà di quello che riesce a fare.   
  - Ma sì. Mi sembra un'eccellente persona.   
  - Veramente, signor Ryder, - continuò il ragazzo, - volevo  parlarle di una cosa. O meglio, volevo farle una richiesta. Se  pensa che sia impossibile, la prego di dirmelo. Non me la  prenderò.   
  Stephan Hoffman fece una pausa, come per darsi coraggio. Io  bevvi un altro po' di caffè e fissai l'immagine riflessa delle  nostre due persone sedute l'una accanto all'altra.   
  - Be', si tratta sempre di giovedì sera, - riprese il ragazzo. - Vede, papà mi ha chiesto di suonare un pezzo al concerto. Mi  sono esercitato e sono pronto; non è che sia preoccupato o  altro... - Per un attimo, mentre diceva queste parole, le sue  maniere sicure lo abbandonarono, e io vidi di sfuggita un  adolescente ansioso. Ma quasi subito il ragazzo si riprese e fece  disinvoltamente spallucce. - Solo che la serata di giovedì è così  importante che non voglio deluderlo. Per venire al dunque, mi  chiedevo se ha qualche minuto per ascoltarmi mentre ripasso il  pezzo. Ho deciso di suonare £Dalia di Jean-Louis La Roche. Sono  solo un dilettante, e dovrà avere molta pazienza. Ma ho pensato  di suonarglielo, e lei potrebbe darmi qualche suggerimento per  migliorare l'esecuzione.   
  Riflettei sulla richiesta. - Dunque, - dissi dopo un momento, -  hai intenzione di suonare giovedì sera.   
  - Naturalmente, il mio contributo sarà minimo rispetto, be', -  qui il giovane proruppe in una risata, - a tutto il resto. Ma lo  stesso, voglio fare del mio meglio.   
  - Sì, capisco molto bene. Be', ti aiuterò volentieri.   
  Il ragazzo si illuminò in volto. - Signor Ryder, sono senza  parole! Non sa quanto ne ho bisogno...   
  - Ma c'è un problema. Come puoi immaginare, ho pochissimo  tempo. Non so quando potrò disporre di qualche minuto libero.   
  - Non si preoccupi. Quando le farà più comodo, signor Ryder.  Dio mio, sono davvero lusingato. A essere sincero, temevo che mi  cacciasse in malo modo.   
  Un cercapersone cominciò a suonare tra i vestiti del ragazzo.  Stephan trasalì, poi infilò una mano dentro la giacca.   
  - Mi spiace moltissimo, - disse, - ma è una chiamata urgente.  Dovevo essere in un altro posto già da un pezzo. Ma quando l'ho  vista qui, non ho saputo resistere alla tentazione. Spero che  potremo continuare presto la nostra conversazione. Per il momento  devo chiederle di scusarmi.   
  Dopo essere sceso dallo sgabello, però, ebbe un'esitazione,  come se gli fosse venuta di nuovo voglia di chiacchierare. Poi il  cercapersone trillò di nuovo e lui scappò via con un sorriso  impacciato.   
  Tornai alla mia immagine riflessa dietro il banco e ricominciai  a sorseggiare il caffè. Non riuscii, però, a ricatturare quello  stato di serafica contemplazione in cui mi trovavo prima  dell'arrivo del ragazzo. Invece, provai di nuovo la fastidiosa  sensazione che in questo posto si pretendesse troppo da me, e che  le cose stessero prendendo una piega tutt'altro che  soddisfacente. In fondo, l'unica soluzione sembrava quella di  scovare la signorina Stratmann per chiarire certi equivoci una  volta per tutte. Decisi di andare a cercarla non appena avessi  finito la tazza di caffè. Non c'era motivo perché l'incontro  dovesse essere imbarazzante; non sarebbe stato difficile spiegare  ciò che era successo. «Signorina Stratmann, - avrei detto, -  prima ero molto stanco, così, quando mi ha chiesto del programma,  l'ho fraintesa. Pensavo volesse sapere se ero disposto a darvi  subito un'occhiata, se per caso ne avesse tirata fuori una copia  lì sui due piedi». Oppure sarei potuto partire all'attacco,  usando addirittura un tono di rimprovero. «Signorina Stratmann,  devo confessarle che sono un po' preoccupato e, sì, anche deluso.  Dato il tipo di responsabilità che lei e i suoi concittadini  volete far ricadere sulle mie spalle, penso di avere il diritto a  un minimo di sostegno organizzativo».   
  Udii muovere al mio fianco e, sollevando gli occhi, vidi che  Gustav, il vecchio facchino, era in piedi accanto al mio  sgabello. Mentre mi giravo verso di lui, mi sorrise e disse:   
  - Salve. Passavo di qui e l'ho vista. Si trova bene?   
  - Oh, benissimo. Anche se purtroppo non ho ancora avuto modo di visitare la città vecchia, secondo le sue raccomandazioni.  
  - Peccato, signore. Perché è una parte davvero bella della  nostra città, e poi è così vicina. E il tempo, oggi, direi che è  ideale. L'aria è fredda, ma c'è un bel sole. Si può ancora stare  seduti all'aperto, anche se credo che dovrà mettersi una giacca o  un soprabito leggero. Sono le giornate migliori per visitare la  città vecchia.  
  - Sa una cosa, - dissi, - forse ho proprio bisogno di prendere  una boccata d'aria fresca.  
  - Mi sembra 
  un'ottima idea, signore. Sarebbe davvero   increscioso se dovesse andare via di qui senza neppure avere  fatto quattro passi nella città vecchia.  
  - Ma sì, farò così. Ci andrò subito.  
  - Se trova il tempo di sedersi a un tavolino del Caffè  Ungherese in Piazza Vecchia, sono sicuro che non se ne pentirà.  Le consiglio di ordinare un caffè e una fetta di strudel. Tra  l'altro, mi domandavo... - Il facchino s'interruppe un momento.  Poi continuò: - Mi domandavo se posso chiederle un piccolo  favore. Di solito non chiedo favori ai clienti dell'albergo, ma  nel suo caso, mi sembra che ormai ci conosciamo bene.  
  - Se posso fare qualcosa per lei, ben felice, - dissi.  
  Per un istante il facchino rimase accanto a me in silenzio.  
  - Non le chiedo molto, - disse alla fine. - Vede, so che in  questo momento mia figlia è al Caffè Ungherese. Con lei ci sarà  il piccolo Boris. Sophie è giovane e molto simpatica, signore,  sono sicuro che si sentirebbe ben disposto nei suoi confronti. 
   Succede quasi a tutti. Non è quel che si dice una bellezza, ma ha  un aspetto piacevole. In fondo all'animo è una persona allegra.  Ma credo che abbia sempre avuto un piccolo punto debole. Forse  dipende dal modo in cui è stata allevata, chi può saper? Sta di  fatto che l'ha sempre avuto. Mi riferisco alla sua tendenza a  lasciarsi sopraffare alle difficoltà, anche quando sarebbe  ampiamente in grado di superarle. Spunta un problemino, e invece  di prendere i pochi semplici provvedimenti che sarebbero  necessari, mia figlia ci rimugina su. In questo modo, come lei  sa, anche i problemi piccoli diventano grandi. Di lì a poco,  Sophie comincia a vedere tutto nero e piomba nella disperazione.  $è una cosa così inutile. Non so di preciso che cosa la tormenti  in questo momento, ma sono sicuro che non c'è nulla di  insormontabile. $è già capitato tante altre volte. Ma adesso  Boris comincia ad accorgersene. E se Sophie non affronta i suoi  problemi al più presto, temo che il bambino ne sarà gravemente  scosso. Ed è una tale delizia, in questo periodo. Così schietto e  pieno di fiducia. So che è impossibile che resti così per tutta  la vita; forse non è nemmeno auspicabile. Ma alla sua età, e per  qualche anno ancora, penso che abbia il diritto di credere che il  mondo è un luogo di calore e allegria -. Il facchino tacque di  nuovo, e per qualche istante parve sprofondare nei suoi pensieri.  Poi, sollevando lo sguardo, riprese a parlare: - Se Sophie  riuscisse a capire con chiarezza ciò che le sta succedendo, sono  sicuro che prenderebbe in mano la situazione. In realtà e molto  coscienziosa, dispostissima a fare di tutto per le persone che le  stanno a cuore. Ma il guaio, quando cade in questo stato, e che  ha bisogno di un po' di aiuto per ritrovare il senso della  prospettiva. Una bella chiacchierata; in realtà non ha bisogno di  altro. Una persona che si sieda accanto a lei per qualche minuto  e le mostri le cose con chiarezza, tutto lì. Che la aiuti a  stabilire quali sono i veri problemi. Quali sono i provvedimenti  da prendere per superarli. Non ha bisogno di altro, signore, solo  di una bella chiacchierata, qualcosa che le restituisca la  capacità di vedere le cose in prospettiva. Il resto lo farà da  sé. Sa essere molto giudiziosa, quando vuole. E con questo vengo al dunque, signore. Già che va nella città vecchia, mi chiedevo  se non le spiacerebbe scambiare due parole con Sophie.  Naturalmente, mi rendo conto di darle una seccatura e che  potrebbe non averne voglia, ma visto che va da quelle parti, ho  pensato di chiederglielo lo stesso. Non deve mica essere una cosa  lunga. Solo quattro chiacchiere, per scoprire che cosa la  tormenta e per restituirle il senso della misura.   
  Il facchino tacque e mi guardò con aria supplichevole. Dopo un  momento gli dissi con un sospiro:   
  - Mi piacerebbe poterla aiutare, glielo assicuro. Ma dopo avere  ascoltato ciò che mi ha detto, mi sembra assai probabile che le  preoccupazioni di Sophie, di qualunque natura siano, possano  dipendere da questioni familiari. E come lei sa, questi problemi  tendono a essere profondamente aggrovigliati. Un osservatore  esterno, come sarei io, magari giunge, dopo un'aperta  discussione, al fondo di un problema, ma solo per scoprire che è  collegato a un altro. E così via, di problema in problema.  Sinceramente, per districare l'intera matassa delle questioni  familiari, la persona più adatta mi sembra lei. D'altronde, in  quanto padre di Sophie e nonno del bambino, avrebbe un'autorità  naturale che io semplicemente non ho.   
  Il facchino parve piegarsi sotto il peso delle mie parole e  quasi mi pentii di averle pronunciate. Era ovvio che avevo  toccato un tasto dolente. Gustav si scostò un po' e per un lungo  momento fissò imbambolato la fontana in centro al patio. Alla  fine disse:   
  - Capisco il suo ragionamento, signore. Sì, a rigor di logica  dovrei essere io a parlarle, me ne rendo conto. Be', sarò sincero  con lei... non so come spiegare... ma voglio essere sincero sino  in fondo. La verità è che Sophie e io non ci parliamo da molti  anni. Si può dire da quando era bambina. Capisce dunque che per  me è un po' difficile fare ciò di cui c'è bisogno.   
  Il facchino aspettò la mia frase successiva guardandosi i  piedi, come un imputato in attesa della sentenza.   
  - Mi scusi, - dissi dopo un po', - ma la cosa non mi è chiara.  Per tutto questo tempo non ha più visto sua figlia?   
  - No, no. Come lei sa, la £vedo regolarmente, ogni volta che  vado a prendere Boris. Quello che voglio dire è che non ci  parliamo. Forse capirà meglio se le faccio un esempio. Prenda le  volte che Boris e io aspettiamo Sophie dopo una delle nostre  passeggiatine nella città vecchia. Magari siamo seduti nel caffè  del signor Krankl, e Boris è di buon umore, parla ad alta voce,  ride di tutto. Ma appena vede entrare sua madre, si zittisce.  Mica che sia turbato. Semplicemente si trattiene. Rispetta il  rituale, capisce? Poi Sophie si avvicina al nostro tavolo e si  rivolge a £lui. Ci siamo divertiti? Dove siamo andati? Il nonno  non ha preso freddo? Oh sì, si informa sempre della mia salute.  Ha paura che mi ammali a girare così per il quartiere. Ma come le  dico, non ci parliamo direttamente, Sophie e io. «Saluta il  nonno», dice lei a Boris a mo' di commiato, poi se ne vanno  insieme. I nostri rapporti sono così ormai da molti anni, e a  questo punto non vedo che motivo ci sarebbe di cambiarli. Anche  se, in una situazione come questa, non so più che pesci prendere.  Sono convinto che quel che ci vuole è una bella chiacchierata. E  secondo me lei è la persona adatta. Solo due parole, signore. Per  aiutarla a capire esattamente quali sono i suoi problemi. Basta  quello, e Sophie farà il resto, può giurarci.  
  - Va bene, - dissi dopo averci riflettuto. - Va bene, vedrò  cosa posso fare. Ma le ripeto. Spesso queste situazioni sono  troppo complicate per un osservatore esterno. Comunque sia, vedrò  cosa posso fare.   
  - Non so come ringraziarla, signore. A quest'ora la troverà al Caffè Ungherese. Non dovrebbe avere difficoltà a riconoscerla. Ha  i capelli lunghi e scuri e mi somiglia. E in caso di dubbio può  sempre chiedere al proprietario o a un cameriere di  indicargliela.   
  - Va bene. Vado.   
  - Gliene sarò riconoscente per il resto dei miei giorni,  signore. E anche se per qualche ragione non dovesse riuscire a  parlare con mia figlia, sono sicuro che troverà molto piacevole  passeggiare per la città vecchia.   
  Scesi dall'alto sgabello. - Bene, allora, - dissi, - le farò  sapere.   
  - Grazie mille, signore. 
3.  
  Il tragitto dall'albergo alla città vecchia - una passeggiata  di un quarto d'ora - fu tutt'altro che promettente. Per gran  parte si svolse in strade rese assordanti dal traffico del tardo  pomeriggio, sovrastate da vitrei palazzi di uffici. Ma quando  giunsi al fiume e cominciai ad attraversare il ponte a schiena  d'asino che portava nella città vecchia, intuii che stavo per  entrare in un mondo completamente diverso. Sulla riva opposta  spiccavano le tende colorate e gli ombrelloni dei caffè  all'aperto. Notai l'animazione dei camerieri e dei bambini che  correvano in tondo. Un cagnolino abbaiava eccitato sulla  banchina, forse perché mi aveva visto arrivare.   
  Pochi minuti dopo ero nella città vecchia. Le viuzze  acciottolate brulicavano di gente che camminava senza fretta. Per  un po' andai a zonzo, passando davanti a un gran numero di  negozietti di souvenir, di pasticcerie e di panetterie.  Oltrepassai anche parecchi caffè, e per un istante mi chiesi se  avrei avuto difficoltà a riconoscere quello di cui mi aveva  parlato il facchino. Ma poco dopo sbucai in una grande piazza nel  cuore del quartiere e vidi subito il Caffè Ungherese. Lo sciame  di tavoli, che occupava interamente l'angolo opposto della  piazza, scaturiva, a quanto potevo vedere, da un'unica porticina  sotto una tenda a strisce.   
  Mi fermai un momento a riprendere fiato e a esaminare il luogo.  Il sole cominciava a tramontare lasciando la piazza nell'ombra.  C'era, come Gustav aveva previsto, una brezzolina fredda che di  tanto in tanto faceva fremere gli ombrelloni del caffè. Ciò  nonostante, la maggior parte dei tavoli era occupata. Molti degli  avventori sembravano turisti, ma ne vidi anche un buon numero che  aveva l'aria di gente del posto uscita presto dal lavoro con  l'intenzione di scaricare i nervi davanti a una tazza di caffè e  a un giornale. Ed effettivamente, mentre attraversavo la piazza,  passai accanto a parecchi gruppetti di impiegati che  chiacchieravano allegramente con la cartella in mano.  
  Giunto davanti al caffè, girellai tra i tavoli cercando  qualcuno che somigliasse alla figlia del facchino. Due studenti  discutevano di un film. Un turista leggeva «Newsweek». Una  vecchia gettava pezzetti di pane ai piccioni che le facevano  ressa intorno ai piedi. Ma non vidi nessuna giovane con i capelli  lunghi e scuri e un bambino. Entrai nel caffè e scoprii una  stanzetta quasi buia, con non più di cinque o sei tavoli. Capii  che il problema del sovraffollamento, di cui mi aveva parlato il  facchino, poteva diventare molto serio nei mesi più freddi, ma in  quel momento l'unico avventore era un vecchio con il basco,  seduto verso il fondo. Decisi di abbandonare le ricerche e tornai  fuori. Stavo cercando un cameriere per ordinargli un caffè,  quando mi accorsi che qualcuno mi stava chiamando.   
  Girandomi, vidi una donna in compagnia di un bambino che mi  faceva cenno da un tavolo non lontano. I due corrispondevano perfettamente alla descrizione del facchino, e non capii come  avessero potuto sfuggirmi. Inoltre, fui un po' stupito che mi  aspettassero, e ci volle qualche secondo prima che ricambiassi il  saluto e mi avviassi verso il loro tavolo.   
  Anche se il facchino l'aveva definita «giovane», Sophie era una  donna di mezza età, forse sulla quarantina. Tuttavia, era assai  più bella di quanto mi fossi immaginato. Era piuttosto alta,  snella, e i lunghi capelli scuri le davano un aspetto un po'  zingaresco. Il bambino che era con lei tendeva al grassottello, e  in quel momento fissava la madre con aria indispettita.   
  - Ebbene? - Sophie mi guardava da sotto in su sorridendo. - Non  ci sediamo?   
  - Sì, sì, - dissi, accorgendomi di essere rimasto in piedi un  po' esitante. - Se non disturbo -. Sorrisi al bambino, ma lui si  limitò a guardarmi con riprovazione.   
  - Nessun disturbo. Vero, Boris? Saluta il signor Ryder.   
  - Ciao, Boris, - dissi, sedendomi.   
  Il bambino continuava a guardarmi nello stesso modo. Poi si  rivolse alla madre: - Perché gli hai detto che poteva sedersi? Ti  stavo spiegando una cosa.   
  - Questo è il signor Ryder, Boris, - disse Sophie. - $è un caro  amico. Se ne ha voglia, può benissimo sedersi con noi.   
  - Ma io ti stavo spiegando come vola il Voyager. Lo sapevo che  non mi ascoltavi. Dovresti imparare a fare attenzione.   
  - Mi dispiace, Boris, - disse Sophie, scambiando con me un  rapido sorriso. - Ci stavo provando, ma tutti quei termini  scientifici mi superano. Adesso perché non saluti il signor  Ryder?   
  Boris mi guardò un istante, disse ciao in tono scontroso, poi  distolse gli occhi.   
  - Vi prego, non voglio che litighiate per colpa mia, - dissi. -  Per piacere, Boris, continua quello che stavi spiegando. Ti  assicuro che mi interessa moltissimo sentire di questo aereo.   
  - Non è un aereo, - disse Boris spazientito. - $è un mezzo per  viaggiare attraverso i sistemi stellari. Ma non capiresti niente,  come la mamma.   
  - Davvero? Chi te lo dice che non capirei? Magari ho una mente  molto scientifica. Non dovresti giudicare le persone così in  fretta, Boris.   
  Il bambino sospirò rumorosamente e tenne gli occhi girati  dall'altra. - Sono sicuro che sei come la mamma, - disse. -  Incapace di concentrarti.   
  - Adesso basta, Boris, - disse Sophie. - Cerca di essere un po'  più accomodante. Il signor Ryder è un carissimo amico.   
  - Non solo, - aggiunsi, - sono amico di tuo nonno.   
  Per la prima volta Boris mi guardò con interesse.   
  - Proprio così, - dissi. - Siamo diventati buoni amici, tuo  nonno e io. Sto nel suo albergo.   
  Boris continuò a studiarmi con attenzione.   
  - Boris, - disse Sophie, - perché non saluti il signor Ryder  come si deve. Ti sembrano queste le buone maniere? Non vorrai che  se ne vada pensando che sei un giovanotto maleducato, vero?   
  Boris mi guardò ancora per un po'. Poi di colpo si buttò sul  tavolo e nascose la testa tra le braccia. Nello stesso tempo  cominciò a dondolare i piedi, perché sentii i colpi delle sue  scarpe contro la gamba di metallo del tavolo.   
  - Chiedo scusa, - disse Sophie. - $è tutto il giorno che è di  cattivo umore.   
  - Veramente, - cominciai con un tono di voce basso, - c'era una  cosa di cui volevo parlare. Ma, ehm... - E feci cenno con gli  occhi in direzione di Boris. Sophie mi guardò, poi si rivolse al  bambino, dicendo:  
  - Boris, devo parlare un momento con il signor Ryder. Perché  non vai a vedere i cigni? Solo per poco.   
  Boris tenne la testa tra le braccia come se dormisse, anche se  i suoi piedi continuavano a colpire ritmicamente il tavolo.  Sophie lo scosse delicatamente per una spalla.   
  - Basta, adesso, - disse. - C'è anche un cigno nero. Vai a  metterti vicino alla ringhiera, dove ci sono quelle suore. Di lì  lo vedrai di sicuro. Puoi tornare fra qualche minuto a  raccontarci che cosa hai visto.  
  Per un po' Boris fece ancora finta di niente. Poi si raddrizzò  , emise un altro sospiro spazientito e si lasciò scivolare giù  dalla sedia. Per qualche strana ragione, si mise a imitare il  comportamento di un ubriaco e si allontanò dal tavolo  barcollando.  
  Quando se ne fu andato, mi girai verso Sophie. Poi fui assalito  dai dubbi e, non sapendo da che parte cominciare, ebbi un attimo  di esitazione. Sophie, però, sorrise e parlò per prima:  
  - Ci sono buone notizie. Il signor Mayer mi ha telefonato per  una casa. L'hanno messa in vendita proprio oggi, e sembra  promettere bene. $è tutto il giorno che ci penso. Qualcosa mi  dice che forse è la cosa giusta, quella che cerchiamo da così  tanto tempo. Gli ho detto che sarei andata a vederla domani  mattina per prima cosa. Sembra perfetta. Circa mezz'ora a piedi  dal paese, isolata su un crinale, tre piani. Il signor Mayer dice  che erano anni che non gli capitava una vista così sul bosco. So  che in questo momento hai molto da fare, ma se la casa fosse  davvero bella come sembra, ti telefonerò, e magari potresti  raggiungermi. Con Boris. Forse è proprio la casa che stavamo  cercando. So che c'è voluto molto tempo, ma chi sa che non  l'abbia finalmente trovata.  
  - Ah, sì. Sono contento.  
  - Prenderò il primo autobus domani mattina. Bisogna muoversi in  fretta. Non resterà a lungo in vendita.  
  Sophie si mise a raccontarmi altri particolari sulla casa.  Quanto a me, rimasi zitto, ma il mio silenzio era dovuto solo in  parte al fatto di non sapere cosa rispondere. Infatti, mentre ero  lì con lei, il suo volto aveva cominciato a sembrarmi sempre più  familiare, finché mi era addirittura parso di ricordare vagamente  altre discussioni precedenti sull'acquisto di una casa nei  boschi. Nel frattempo, dovevo essere diventato scuro in volto,  perché Sophie si interruppe, poi disse con una voce diversa e più  esitante:  
  - Mi spiace per quell'ultima telefonata. Spero che tu non mi  tenga il broncio?  
  - Il broncio? Oh, no.  
  - Continuo a ripensarci. Non avrei dovuto dirti niente. Spero  che non te la sia presa. In fondo, come si può pretendere che tu  venga a stare da noi proprio adesso? In quale casa? Con la cucina  in quello stato! E io che ci metto un'eternità a trovare un posto  che faccia al caso nostro. Ma adesso conto proprio sulla casa di  domani.  
  Ricominciò a parlare della casa. E mentre lei parlava, io  cercai di ricordare qualcosa della conversazione telefonica cui  aveva appena accennato. Dopo un po', mi venne la vaga sensazione  di avere già sentito quella voce - o meglio una versione più  aspra, più arrabbiata di quella voce - all'altro capo del  telefono, in un passato non lontano. Alla fine mi parve anche di  ricordare una certa frase che le avevo urlato nella cornetta: -  Vivi in un mondo così meschino! - Lei aveva continuato a  discutere, e io avevo ripetuto sprezzante: - Un mondo così  meschino! Vivi in un mondo così meschino! - Ma con mia gran  delusione non riuscii a ricostruire altro di quel colloquio.  
  Forse, mentre mi sforzavo di scavare nella memoria, avevo  cominciato a fissarla, perché Sophie mi domandò un po' titubante:   
  - Mi trovi ingrassata?   
  - No, no, - dissi, distogliendo lo sguardo e mettendomi a  ridere. - Hai un bellissimo aspetto.   
  Mi venne in mente che non avevo ancora toccato il discorso di  suo padre, e cercai di nuovo di pensare al modo migliore per  affrontare l'argomento. Ma proprio allora qualcosa urtò da dietro  la mia sedia, e mi accorsi che Boris era tornato.   
  Il bambino stava correndo in tondo vicino al nostro tavolo,  prendendo a calci una scatola di cartone abbandonata come fosse  un pallone. Vedendo che lo osservavo, si passò la scatola da un  piede all'altro, poi la calciò violentemente tra le gambe della  mia sedia.   
  - Numero Nove! - urlò, sollevando le braccia in alto. -  Magnifico gol di Numero Nove!   
  - Boris, - dissi, - non sarebbe meglio che tu buttassi quella  scatola nel cestino?   
  - Quando andiamo? - domandò il bambino, rivolgendosi a me. -  Faremo tardi. Fra poco sarà buio.   
  Alzando gli occhi vidi che effettivamente il sole aveva  cominciato a scendere dietro i tetti, e che molti tavoli si erano  svuotati.   
  - Mi spiace, Boris. Cosa volevi fare?   
  - Sbrigatevi! - Il bambino mi tirò per il braccio. - Non ci  arriveremo più!   
  - Dov'è che vuole andare Boris? - domandai a sua madre senza  scompormi.   
  - Al parco giochi, naturalmente -. Sophie sospirò e si alzò in  piedi. - Vuole mostrarti i progressi che ha fatto.   
  Non vedendo altra scelta, mi alzai anch'io, e un attimo dopo ci  avviammo tutti e tre verso il lato opposto della piazza. 
    
  - Allora, - dissi a Boris, che si era messo a camminare al mio  fianco, - mi farai vedere qualche acrobazia?   
  - Prima, quando ci siamo andati, - disse il bambino,  afferrandomi per il braccio, - c'era un ragazzo molto più grande  di me che non sapeva nemmeno fare il siluro! Mamma dice che aveva  almeno due anni più di me. Gli ho mostrato come si faceva cinque  volte, ma lui aveva troppa paura. Continuava a salire fino in  cima, ma poi non si lanciava!   
  - Davvero? E naturalmente tu non hai nessuna paura di fare  questo siluro.   
  - Ci mancherebbe altro! $è facile! Facilissimo!   
  - Bravo.   
  - E lui aveva troppa paura! Che ridere!   
  Lasciammo la piazza e ci addentrammo nelle viuzze acciottolate  della città vecchia. Boris sembrava conoscere molto bene la  strada, e spesso correva avanti di qualche passo per  l'impazienza. Poi, a un tratto, tornò al mio fianco e mi domandò:   
  - Conosci il nonno?   
  - Sì, te l'ho detto. Siamo buoni amici.   
  - Il nonno è molto forte. $è uno degli uomini più forti della  città.   
  - Davvero?   
  - Sa lottare bene. Una volta faceva il soldato. Adesso è  vecchio, ma a fare la lotta è ancora più bravo di molta gente. I  delinquenti che non lo sanno hanno delle brutte sorprese -. Boris  fece un improvviso affondo mentre camminava. - Prima che se ne  accorgano, il nonno li stende.   
  - Sì? Molto interessante.   
  In quel momento, mentre percorrevamo le stradine acciottolate,  mi tornò in mente un altro frammento della discussione che avevo avuto con Sophie. Era avvenuta forse una settimana prima; io mi  trovavo in una stanza d'albergo chi sa dove, e ascoltavo la sua  voce che dall'altro capo del telefono mi urlava:   
  - Per quanto tempo pensano che tu possa andare avanti così? Non  siamo più giovani come una volta! Hai fatto la tua parte, ormai!  Lascia che adesso ci pensi qualcun altro!   
  - Vedi, - le avevo detto, mantenendo la calma, - il guaio è che  la gente ha bisogno di me. Arrivo in un posto e il più delle  volte trovo dei problemi spaventosi. Dei problemi incancreniti,  all'apparenza insolubili, e la gente è così contenta di vedermi.   
  - Ma per quanto ancora pensi di poterti occupare degli altri? E  intanto, per me, per te, per Boris, il tempo vola via. Prima che  te ne accorga, Boris sarà cresciuto. Nessuno può pretendere che  tu continui così. E tutta questa gente, perché non si risolve da  sé i suoi problemi? Magari le farebbe bene!  
  - Non capisci niente! - l'avevo interrotta, questa volta  arrabbiato. - Non sai quello che dici! Vado in certi posti dove  la gente è di un'ignoranza spaventosa. Non hanno la minima idea  di che cosa sia la musica moderna, e se li lasciassi a loro  stessi, è evidente che si caccerebbero sempre di più nei guai.  Hanno bisogno di me, non lo capisci? Quaggiù hanno bisogno di me!  Non sai neppure di che cosa parli! - Ed era allora che le avevo  urlato: - Un mondo così meschino! Vivi in un mondo così meschino!   
  Eravamo giunti davanti a un piccolo terreno di gioco circondato  da una ringhiera. Era deserto, e mi fece un'impressione piuttosto  malinconica. Boris, però, era entusiasta e ci guidò attraverso il  cancelletto.   
  - Guarda com'è facile! - disse, lanciandosi verso il castello.   
  Per un momento restammo nella luce evanescente a osservare la  sua figurina che si arrampicava sempre più in alto. Poi Sophie  disse sottovoce:   
  - Sai, è buffo. Mentre ascoltavo quel signor Mayer, il modo in  cui descriveva il salotto della casa, continuavo a rivedermi  l'alloggio in cui vivevo da piccola. Per tutto il tempo che ha  parlato ho continuato a rivedere le immagini del nostro vecchio  salotto. Di mamma e papà come erano allora. Probabilmente quella  casa non è affatto somigliante, non mi faccio grandi illusioni.  Domani andrò lì e scoprirò che è completamente diversa. Ma la  cosa mi ha dato fiducia. Sai, come una specie di augurio -.  Sophie si lasciò sfuggire una breve risata, poi mi toccò la  spalla. - Sei così cupo.   
  - Sì? Mi dispiace. $è colpa di tutti questi viaggi. Devo essere  un po' stanco.   
  Boris era giunto sulla sommità del castello, ma ormai la luce  era così fievole che il bambino era poco più di una sagoma contro  il cielo. Ci lanciò un urlo, poi si afferrò alla sbarra più alta  ed eseguì una capovolta ruotandole attorno.   
  - $è così fiero di esserne capace, - disse Sophie. Poi gridò: -  Boris, fa troppo buio adesso. Scendi, da bravo.   
  - $è facile. E al buio è ancora più facile.   
  - Su, da bravo, scendi.   
  - $è colpa di tutti questi viaggi, - dissi. - Da una stanza  d'albergo all'altra. Senza vedere mai nessuno che conosci. $è  molto stancante. E anche qui, in questa città, mi stanno tutti  alle costole. Tutti. Ovviamente si aspettano molto da me. Voglio  dire, è ovvio che...  
  - Senti, - mi interruppe Sophie con garbo, mettendomi una mano  sul braccio, - perché non lasciamo perdere per un momento. Avremo  tempo di discuterne più tardi. Siamo tutti e due stanchi. Vieni a  casa con noi. $è a pochi minuti di qui, appena oltre la cappella  medievale. Sono sicura che una bella cena e la possibilità di  stendere le gambe ci farebbero bene.  
  Aveva parlato sottovoce, con la bocca vicino al mio orecchio  perché sentissi il suo fiato. La stanchezza di prima mi ripiombò  addosso, e l'idea di rilassarmi nel tepore di casa sua - magari  gingillandomi con Boris sul tappeto mentre lei preparava da  mangiare - mi parve improvvisamente molto allettante. Tanto che  per un attimo, forse, chiusi addirittura gli occhi e sorrisi con  aria sognante. In ogni caso, fui strappato alle mie  fantasticherie dal ritorno di Boris.   
  - $è facile farlo al buio, - disse.   
  Solo allora mi accorsi che il bambino era infreddolito e un po'  scosso. Tutta la sua esuberanza era svanita, e capii che  l'esibizione di poc'anzi gli aveva richiesto un grande dispendio  di energie.   
  - Adesso andiamo tutti a casa, - dissi. - E ci prepariamo una  bella cenetta.   
  - Su, - disse Sophie, avviandosi. - Si sta facendo tardi.   
  Aveva cominciato a piovigginare, e adesso che il sole era  tramontato l'aria si era fatta molto più fredda. Boris mi prese  di nuovo per mano, e insieme uscimmo dal parco giochi e seguimmo  Sophie in una viuzza deserta. 
4.  
  Era evidente che ci eravamo ormai lasciati alle spalle la città  vecchia. I sudici muri di mattoni che torreggiavano ai due lati  della strada erano privi di finestre, probabilmente il retro di  qualche deposito. Sophie procedeva di buon passo, e presto mi  accorsi che Boris stentava a starle dietro. Ma quando gli  domandai: - Andiamo troppo in fretta? - il bambino mi lanciò  un'occhiataccia furiosa.   
  - Posso andare molto più veloce! - gridò, e si mise a  trotterellare tirandomi per la mano. Quasi subito, però, rallentò  di nuovo, con la faccia offesa. Sebbene stessi attento a non  camminare troppo in fretta, udii che il suo respiro si faceva  affannoso. E un attimo dopo Boris cominciò a mormorare fra sé e  sé. Sulle prime non gli prestai molta attenzione, convinto che  stesse semplicemente cercando di tenersi su di morale. Poi però  lo sentii bisbigliare:   
  - Numero Nove... è Numero Nove...   
  Lo guardai con curiosità. Era bagnato e infreddolito, e pensai  di distrarlo chiacchierando.   
  - Questo Numero Nove, - gli domandai, - è un calciatore?   
  - Il giocatore più bravo del mondo.   
  - Numero Nove. Sì, certo.   
  Un bel po' davanti a noi, Sophie scomparve dietro un angolo, e  Boris mi strinse più forte la mano. Fino a quel momento non mi  ero reso conto di quanto ci fossimo lasciati staccare da sua  madre; pur accelerando il passo, mi parve di impiegare  un'eternità per giungere all'angolo. E quando finalmente  svoltammo anche noi, vidi un po' seccato che Sophie aveva  accresciuto ancora il suo distacco.   
  Oltrepassammo altri muri di mattoni sporchi, alcuni con grandi  chiazze di umidità. Il selciato era sconnesso, e davanti a noi  vedevo scintillare qualche pozzanghera alla luce dei lampioni.   
  - Non preoccuparti, - dissi a Boris. - Siamo quasi arrivati.   
  Il bambino continuava a bisbigliare fra sé e sé, ripetendo al  ritmo del suo respiro affannoso: - Numero Nove... Numero Nove...  
  Sin dal principio gli accenni di Boris al «Numero Nove» mi  avevano vagamente ricordato qualcosa. Ora, ascoltando il suo  mormorio, ricordai che «Numero Nove» non era un vero calciatore,  ma uno dei giocatori in miniatura del suo subbuteo. I calciatori,  modellati nella plastica e dotati di una base pesante, potevano,  con un colpetto del dito, scartare gli avversari, passarsi una minuscola palla di plastica e tirare in rete. Il gioco era per  due persone, ciascuna delle quali doveva manovrare una squadra,  ma Boris giocava sempre da solo, passando ore sdraiato sulla  pancia a inscenare partite piene di drammatici capovolgimenti di  fronte e di emozionanti recuperi. Aveva sei squadre complete,  oltre a due porte in miniatura munite di autentica rete e a un  panno verde che serviva da campo. Tra l'altro, disdegnava la  presunzione del fabbricante che dovesse piacergli fingere che le  squadre fossero «vere», come l'Ajax o il Milan, e aveva dato loro  dei nomi inventati. I giocatori, invece - sebbene avesse imparato  a conoscerne a fondo pregi e difetti - non li aveva mai  battezzati, preferendo chiamarli semplicemente con il numero  della maglia. Forse perché non conosceva il significato di questo  numero nel gioco del calcio - o forse per un altro ostinato  capriccio della sua fantasia - la posizione che assegnava al  giocatore nella formazione non aveva alcuna relazione con il suo  numero. Per esempio, il dieci di una squadra poteva essere uno  stopper leggendario, e il due una giovane ala promettente.   
  «Numero Nove» faceva parte della squadra preferita di Boris, ed  era di gran lunga il più dotato dei giocatori. Tuttavia, per  quanto bravissimo, aveva un carattere assai lunatico. La sua  posizione nella squadra era più o meno a centrocampo, ma spesso,  per lunghi tratti di partita, se ne stava imbronciato in una zona  opaca del terreno di gioco, quasi non gli importasse che la sua  squadra perdesse malamente. A volte protraeva questo  comportamento letargico per più di un'ora, mentre i suoi andavano  sotto di quattro, cinque, sei gol, e il radiocronista - perché  naturalmente c'era anche un radiocronista - diceva in tono  perplesso: - Oggi Numero Nove non è in vena. Non so che cosa gli  prenda -. Poi magari, a venti minuti dal termine, Numero Nove  dava finalmente un saggio delle sue vere capacità, salvando la  sua rete con una bella prodezza. - Così va meglio! - esclamava il  radiocronista. - Numero Nove si è deciso a farci vedere di che  cosa è capace! - Da quel momento il giocatore continuava a  crescere, finché presto cominciava a segnare un gol dopo l'altro,  e la squadra avversaria era costretta a dannarsi l'anima al solo  scopo di impedirgli di ricevere la palla. Ma prima o poi la palla  gli arrivava, e Numero Nove, non importa quanti avversari ci  fossero tra lui e la rete, trovava il varco per segnare. Presto  l'inevitabilità delle conseguenze quando Numero Nove riceveva la  palla diventava così palese che il radiocronista diceva: - $è gol  - in tono di rassegnata ammirazione non quando la palla finiva in  rete, ma quando Numero Nove se ne impossessava, anche se ciò  avveniva ancora nella sua metà campo. Anche gli spettatori -  c'erano gli spettatori naturalmente - cominciavano a ruggire di  trionfo non appena vedevano che Numero Nove aveva ricevuto la  palla, e il loro ruggito si manteneva intenso e costante mentre  il giocatore serpeggiava con eleganza tra gli avversari,  insaccava il pallone alle spalle del portiere e si girava a  ricevere gli elogi sperticati dei suoi riconoscenti compagni di  squadra.   
  Mentre mi tornava in mente tutto ciò, ebbi la vaga sensazione  che di recente Numero Nove avesse avuto qualche guaio. Interruppi  il mormorio di Boris domandandogli:   
  - Come sta Numero Nove di questi tempi? In forma?   
  Boris fece qualche passo in silenzio, poi disse: - Ci siamo  dimenticati di prendere la scatola.   
  - La scatola?   
  - A Numero Nove si era staccata la base. La perdono spesso, ma  è facile da aggiustare. Così l'ho messo in una scatola speciale,  aspettando che la mamma trovasse la colla adatta per aggiustarlo.  L'ho messo in quella scatola, una scatola speciale, per ricordarmi dov'era. Ma poi l'abbiamo lasciato là.  
  - Capisco. Vuoi dire che l'hai dimenticato nella casa dove  stavate prima?   
  - Quando la mamma ha fatto i bagagli non l'ha preso. Ma ha  detto che torneremo presto nella casa vecchia, e che Numero Nove  sarà ancora lì. Adesso posso aggiustarlo, perché abbiamo la colla  adatta. Ne ho tenuta da parte un po'.   
  - Capisco.   
  - La mamma dice di non preoccuparmi, che ci pensa lei ad  avvertire i nuovi inquilini perché non lo buttino via per  sbaglio. Ha detto che torneremo presto a prenderlo.   
  Ebbi la netta sensazione che Boris stesse suggerendo qualcosa,  e quando tacque gli dissi:   
  - Boris, se vuoi, ti porto io. Sì, possiamo andarci insieme,  noi due. Torniamo nella casa vecchia e prendiamo Numero Nove.  Possiamo farlo presto. Magari anche domani se trovo un attimo di  tempo. Poi, come hai detto, hai già la colla. E in quattro e  quattr'otto Numero Nove sarà di nuovo in forma smagliante. Quindi  non preoccuparti. Lo andiamo a prendere prestissimo.   
  Sophie sparì di nuovo dalla nostra vista, questa volta così  bruscamente che pensai fosse entrata in un portone. Boris mi tirò  per la mano, e insieme ci affrettammo verso il punto in cui era  svanita.  
  Scoprimmo che in realtà Sophie aveva svoltato in un vicolo  laterale, la cui imboccatura era poco più di una crepa nel muro.  La viuzza scendeva ripida, ed era così stretta che sembrava  impossibile percorrerla senza grattare i gomiti contro l'uno o  l'altro dei due ruvidi muri. L'oscurità era rotta solo da due  fanali, l'uno a metà strada, l'altro in fondo.   
  Quando cominciammo a scendere, Boris si aggrappò alla mia mano,  e presto il suo respiro si fece di nuovo affannoso. Dopo un po'  notai che Sophie era già giunta in fondo al vicolo; sembrava  essersi finalmente accorta delle nostre difficoltà e si era  fermata sotto il fanale, voltandosi a guardarci con aria  leggermente preoccupata. Quando infine la raggiungemmo, le dissi  furente:   
  - Non vedi che facciamo fatica a starti dietro? $è stata una  giornata faticosa, sia per me sia per Boris.   
  Sophie sorrise con aria sognante. Poi mise un braccio sulla  spalla di Boris e lo tirò a sé. - Non preoccuparti, - gli disse  in tono sommesso. - So che questo è un posto poco piacevole, e  che fa freddo e piove. Ma non badarci, presto saremo a casa. E lì  farà un bel calduccio, vedrai. Farà così caldo che potremo girare  tutti in maglietta, se vorremo. E a casa ci sono le grosse  poltrone nuove, dove puoi rannicchiarti. Un bambino come te  rischia di perdersi in quelle poltrone. Potrai sfogliare i tuoi  libri, o guardare una videocassetta. O se preferisci, possiamo  tirare giù un gioco di società dall'armadio. Se vuoi te li tiro  giù tutti, così tu e il signor Ryder scegliete quello che  preferite. Potete mettere i cuscinoni rossi sul tappeto e giocare  sul pavimento. E intanto io preparerò la cena e apparecchierò la  tavola nell'angolo. Magari, invece di un piatto unico abbondante,  potrei fare un po' di cosette assortite. Le polpettine di carne,  i piccoli flan di formaggio, qualche dolcetto. Non temere, mi  ricorderò di tutti i tuoi piatti preferiti, e metterò tutto in  tavola. Poi ci siederemo e mangeremo, e dopo continueremo tutti  insieme il gioco di società. Naturalmente, se non avrai più  voglia di giocare, nessuno ci obbligherà. Magari preferirai  chiacchierare di calcio con il signor Ryder. Poi, solo quando  deciderai che sei veramente stanco, andrai a letto. So che la tua  nuova camera è piccola, ma è molto accogliente, l'hai detto anche  tu. Vedrai che questa notte dormirai benissimo. Dimenticherai tutto di questa brutta camminata al freddo. Anzi, ti basterà  entrare in casa e sentire il bel tepore del riscaldamento per non  pensarci più. Quindi su con il morale. Ormai siamo quasi  arrivati.   
  Aveva detto queste cose abbracciandolo stretto, ma  all'improvviso lo spinse via, si girò e riprese a camminare. La  rudezza del gesto mi colse di sorpresa, perché io stesso mi ero  lasciato cullare dalle sue parole e per un istante avevo chiuso  gli occhi. Anche Boris sembrava sbigottito, e quando finalmente  gli presi la mano, sua madre era di nuovo parecchi passi davanti  a noi.   
  Questa volta ero risoluto a non lasciarmela scappare, ma  proprio in quel momento udii dei passi alle nostre spalle e non  potei fare a meno di girarmi un attimo a guardare su per il  vicolo. In quel preciso istante un uomo entrò nell'alone di luce  del fanale più vicino, e mi accorsi che lo conoscevo. Si chiamava  Geoffrey Saunders, ed era stato mio compagno di classe in  Inghilterra. Non ne avevo saputo più niente dai tempi della  scuola, e naturalmente fui colpito dal vederlo così invecchiato.  Anche scontando gli effetti poco lusinghieri della luce del  fanale e della pioggerella, era davvero male in arnese. Indossava  un impermeabile che sembrava aver perso la capacità di chiudersi,  e camminando se lo teneva stretto sul petto. Non ero affatto  sicuro di volerlo salutare, ma quando Boris e io ci rimettemmo in  cammino, Geoffrey Saunders si piazzò al nostro fianco.   
  - Ciao, vecchio mio, - disse. - Mi era sembrato che fossi tu.  Come si è rovinato il tempo, eh?   
  - Sì, una serataccia, - dissi. - Prima era così piacevole.   
  Il vicolo ci aveva portati in una strada buia e deserta. Tirava  vento, e la città sembrava lontana.   
  - Tuo figlio? - domandò Geoffrey Saunders, accennando con il  capo a Boris. Poi, prima che potessi rispondere, aggiunse: -  Bravo, bel bambino. Ha l'aria sveglia. Io invece non mi sono mai  sposato. Ho sempre pensato di farlo, ma il tempo è volato via e  adesso probabilmente non mi sposerò più. A dire il vero, credo  che non sia solo per quello. Ma non voglio seccarti con tutte le  mie disavventure di questi anni. Qualcosa di buono è capitato  anche a me. Comunque sia, bravo. Bel bambino.   
  Geoffrey Saunders si chinò in avanti a salutare Boris. Il  bambino, o perché stravolto o perché distratto, non lo degnò di  uno sguardo.   
  La strada adesso scendeva. Mentre camminavamo nell'oscurità, mi  ricordai che a scuola Geoffrey Saunders era l'allievo modello del  nostro anno, quello che si distingueva sempre negli studi e negli  sport. Veniva perennemente portato a esempio per rimproverarci la  mancanza di impegno, e tutti pensavano che prima o poi sarebbe  diventato capitano della squadra. Ma non era stato così,  ricordai, a causa di qualche guaio che l'aveva costretto a  lasciare improvvisamente la scuola durante il quinto anno.   
  - Ho letto sui giornali che saresti arrivato, - mi stava  raccontando. - Mi aspettavo che ti facessi vivo. Sai, per dirmi  quando avresti fatto un salto a casa mia. Sono andato a comprare  delle paste in panetteria per avere qualcosa da offrirti con una  tazza di tè. In fondo, la mia camera ammobiliata sarà un po'  triste, con questo fatto che sono scapolo e via dicendo, ma io  continuo a sperare che ogni tanto qualcuno venga a trovarmi e mi  sento ancora capace di trattarlo come si deve. Così, quando ho  saputo che saresti arrivato, sono corso fuori a comprare un po'  di paste assortite per il tè. Questo è successo l'altroieri. Ieri  mi sono detto che erano ancora presentabili, anche se la glassa  si era un po' indurita. Ma oggi, quando continuavi a non  telefonare, le ho buttate via. Per orgoglio, immagino. Perché sei un uomo di successo, e non voglio che te ne vada di qui pensando  che faccio una vita da pitocco in una stanzetta ammobiliata, e  che posso offrire solo paste vecchie agli amici. Così sono  tornato in panetteria e ho comprato delle altre paste. E ho fatto  un po' di ordine nella camera. Ma tu non hai telefonato. Be', non  credo di poterti biasimare. Ehi, - e tornò a chinarsi in avanti  per guardare Boris, - ti senti bene tu? Sembri completamente  senza fiato.   
  Boris, che effettivamente stava di nuovo arrancando, non diede  mostra di avere sentito.   
  - Meglio che rallentiamo per il nostro lumachino, - disse  Geoffrey Saunders. - Vedi, a un certo punto sono stato un po'  sfortunato in amore. Qui in città molti pensano che sia  omosessuale. Perché vivo da solo in una camera d'affitto, non per  altro. Sulle prime mi scocciava, ma adesso non più. Va bene, mi  prendono per un omosessuale. E allora? Guarda caso, i miei  bisogni sono soddisfatti dalle donne. Sai, quelle a pagamento.  Più che sufficienti per me, e devo dire che ce n'è di passabili.  Anche se dopo un po' cominci a disprezzarle, e loro cominciano a  disprezzare te. $è inevitabile. Conosco la maggior parte delle  prostitute di questa città. Non dico di avere dormito con tutte.  Neanche per sogno! Ma sanno chi sono e io so chi sono loro. Con  molte ci salutiamo. Probabilmente penserai che faccio una vita da  cani. Non è così. $è solo questione di punti di vista. Ogni tanto  gli amici vengono a trovarmi. Sono ancora capace di offrire una  tazza di tè. Me la cavo egregiamente, e dopo mi dicono quasi  tutti che sono contenti di essere venuti.   
  La strada, dopo una ripida discesa, era di nuovo pianeggiante.  Ci trovammo in una specie di aia abbandonata. Tutto intorno si  intravedevano alla luce della luna le sagome scure di fienili e  rimesse. Sophie continuava a precederci, ma era così avanti che  spesso la scorgevo solo di sfuggita mentre spariva dietro qualche  costruzione diroccata.   
  Per fortuna Geoffrey Saunders sembrava conoscere bene la strada  e si dirigeva nell'oscurità senza esitazioni. Mentre badavo a  stargli incollato, mi tornò in mente un episodio dei tempi della  scuola. Era una rigida mattina d'inverno, con il cielo coperto e  il suolo brinato. Avevo quattordici o quindici anni, e mi trovavo  con Geoffrey Saunders davanti a un pub sperso nelle campagne del  Worcestershire. Ci avevano messi insieme per segnalare il  tracciato di una corsa campestre; dovevamo semplicemente indicare  ai concorrenti, man mano che sbucavano dalla nebbia, la direzione  giusta attraverso un campo. Quella mattina ero insolitamente  depresso, e dopo circa un quarto d'ora che eravamo lì a fissare  la nebbia in silenzio, a dispetto di tutti i miei sforzi, ero  scoppiato in lacrime. Allora non conoscevo ancora bene Geoffrey  Saunders, ma come tutti gli altri avevo sempre desiderato fare  buona impressione su di lui. Quindi ero molto mortificato, e  sulle prime, quando finalmente ero riuscito a dominarmi, mi era  sembrato che Geoffrey Saunders mi ignorasse con sommo disprezzo.  Lui, però, si era messo a parlare, all'inizio senza guardarmi in  faccia, poi girandosi verso di me. Adesso non riuscivo più a  ricordare che cosa mi avesse detto in quella mattina nebbiosa, ma  avevo ben chiaro l'effetto che avevano avuto le sue parole. Tanto  per cominciare, sebbene fossi propenso soprattutto a commiserare  me stesso, mi ero accorto della grande generosità del suo gesto e  avevo provato un'intensa gratitudine. Era stato in quel momento  che, con un brivido, mi ero reso conto per la prima volta che  l'allievo modello della nostra scuola aveva un lato nascosto, una  dimensione profondamente vulnerabile che gli avrebbe sempre  impedito di tenere fede alle speranze che venivano riposte in  lui. Mentre procedevamo insieme nell'oscurità, cercai di nuovo di ricordare che cosa, di preciso, mi avesse detto quella mattina,  ma inutilmente.   
  Adesso che il terreno era pianeggiante, Boris sembrava avere  ripreso un po' di fiato e aveva ricominciato il suo mormorio.  Forse reso ardito dalla sensazione di essere prossimo alla meta,  trovò persino la forza di dare un calcio a un sasso sul suo  cammino, esclamando ad alta voce: - Numero Nove! - Il sasso  saltellò sul terreno accidentato e finì in acqua, nel buio.   
  - Così mi piaci, - disse Geoffrey Saunders a Boris. - $è la tua  maglia? Giochi con il numero nove?   
  Visto che Boris non rispondeva, mi affrettai a dire: - Oh no, è  solo il suo calciatore preferito.   
  - Davvero? Guardo spesso le partite. Alla televisione,  naturalmente -. Si chinò di nuovo verso Boris. - Di che numero  nove si tratta?   
  - Oh, è solo il suo giocatore preferito, - ripetei.   
  - Fra i centroavanti, - proseguì Geoffrey Saunders, - mi piace  molto l'Olandese che gioca nel Milan. $è davvero bravo.   
  Stavo per aggiungere qualcosa per spiegare chi fosse Numero  Nove, quando all'improvviso ci fermammo. Mi accorsi che eravamo  sul limitare di un vasto campo erboso. Quanto fosse grande, non  avrei saputo dire, ma indovinavo che si stendeva ben oltre il  tratto reso visibile dalla luna. Mentre eravamo lì, una violenta  folata di vento piegò l'erba e si allontanò nell'oscurità.   
  - A quanto pare ci siamo persi, - dissi a Geoffrey Saunders. -  Sai dove siamo?   
  - Oh, sì. Io vivo non lontano di qui. Purtroppo non posso  invitarti a casa mia perché sono stanchissimo e devo andare a  dormire. Ma domani sarai il benvenuto in qualsiasi momento.  Diciamo dalle nove in poi.   
  Fissai le tenebre al di là del campo.   
  - Veramente, siamo un po' nei guai, - dissi. - Vedi, dovevamo  andare a casa della donna che stavamo seguendo prima. Adesso ci  siamo persi, e io non so il suo indirizzo. Ha detto che abitava  vicino alla cappella medievale.   
  - La cappella medievale? Ma quella è in centro.   
  - Ah. E tagliando di qui ci si arriva? - Indicai il campo.   
  - Oh, no. Da quella parte non c'è più niente. Solo il vuoto.  L'unico che vive laggiù è quel Brodsky.   
  - Brodsky, - dissi. - Hmm. L'ho sentito oggi in albergo mentre  si esercitava. Sembra che qui in città lo conosciate tutti questo  Brodsky.   
  Geoffrey Saunders mi lanciò un'occhiata che mi fece sospettare  di avere detto una stupidaggine.   
  - Be', vive qui da anni. Perché non dovremmo conoscerlo?   
  - Sì, sì, certamente.   
  - $è un po' difficile convincersi che quel vecchio pazzo si sia  ficcato in testa di dirigere un'orchestra. Ma sono disposto ad  aspettare. Vedremo come va a finire. Tanto, molto peggio di così  le cose non possono andare. E se £tu dirai che Brodsky è quel che  fa per noi, be', chi sono io per stare a discutere?   
  Non mi venne in mente niente da rispondere. D'altronde,  Geoffrey Saunders si era allontanato di colpo dal campo dicendo:  
  - No, no, la città è da quella parte. Se vuoi posso spiegarti  la strada.   
  - Non so come ringraziarti, - dissi, mentre venivamo scossi da  una gelida raffica.   
  - Allora -. Geoffrey Saunders rifletté per un momento. Poi  disse: - Veramente, fareste meglio a prendere l'autobus. A piedi,  di qui, ci vuole una buona mezz'ora. Forse la donna ti ha  lasciato credere che casa sua fosse vicina. Be', fanno sempre  così. $è uno dei loro trucchi. Non bisogna mai credere a quello che dicono. Ma con l'autobus non ci sono problemi. Ti faccio  vedere dove potete prenderlo.   
  - Non so come ringraziarti, - ripetei. - Boris sta gelando.  Spero che la fermata non sia lontana.   
  - Oh, no. Vicinissima. Seguimi, vecchio mio.   
  Geoffrey Saunders fece dietrofront e ci guidò di nuovo in  direzione dell'aia abbandonata. Mi accorsi però che non stavamo  ritornando esattamente sui nostri passi; poco dopo, infatti, ci  trovammo nella stretta strada di un sobborgo dall'aspetto  tutt'altro che prospero. Da una parte e dall'altra c'erano file  di casette a schiera. Qui e là, vedevo qualche finestra accesa,  ma sembrava che la maggior parte degli abitanti fosse già a  dormire.   
  - Non preoccuparti, - dissi sottovoce a Boris, che sentivo  prossimo al cedimento. - Saremo a casa prestissimo. Quando  arriveremo, tua madre ci avrà già preparato tutto.   
  Camminammo ancora per un pezzo, passando davanti ad altre file  di case. Poi Boris ricominciò a bofonchiare:   
  - Numero Nove... $è Numero Nove...   
  - Senti, ma £quale numero nove? - gli domandò Geoffrey  Saunders, girandosi verso di lui. - Vuoi dire l'Olandese, vero?   
  - Numero Nove è il più grande giocatore di tutti i tempi, -  disse Boris.   
  - Sì, ma di quale numero nove stai parlando? - Adesso nel tono  di Geoffrey Saunders c'era una punta di impazienza. - Come si  chiama? In che squadra gioca?   
  - Boris chiama così...   
  - Una volta ha segnato diciassette gol negli ultimi dieci  minuti! - disse Boris.   
  - Sciocchezze -. Geoffrey Saunders sembrava davvero seccato. -  Pensavo parlassi sul serio. Invece dici un mucchio di  sciocchezze.   
  - Lo giuro! - gridò Boris. - $è un record mondiale!   
  - $è vero! - intervenni. - Record mondiale! - Poi, ritrovando  un po' di contegno, scoppiai a ridere. - Cioè, voglio dire, non  può essere altrimenti, no? - Sorrisi supplichevole a Geoffrey  Saunders, ma lui mi ignorò.   
  - Ma di chi stai parlando? Dell'Olandese? E poi, giovanotto,  sappi che fare gol non è tutto. I difensori sono importanti  uguale. Spesso i giocatori £veramente grandi sono difensori.   
  - Numero Nove è il più grande giocatore di tutti i tempi! -  ripeté Boris. - Quando è in vena, non c'è difesa che possa  fermarlo!   
  - Proprio così, - dissi. - Numero Nove è senza dubbio il  migliore del mondo. A centrocampo, sotto porta, dappertutto. $è  un giocatore estremamente versatile. Te l'assicuro.   
  - Dici un mucchio di sciocchezze, vecchio mio. Parlate tutti e  due a vanvera.   
  - Ti sbagli -. Cominciavo a essere furioso con Geoffrey  Saunders. - Lo sanno tutti. Quando Numero Nove è in forma,  davvero in forma, il radiocronista urla «gol» 
  nel momento in cui  riceve la palla, in qualunque punto del campo si trovi...   
  - Santo cielo -. Geoffrey Saunders si girò dall'altra  disgustato. - Se queste sono le stupidaggini che metti in testa a  tuo figlio, che Dio l'aiuti.   
  - Stammi a sentire... - Accostai il volto al suo orecchio e gli  mormorai furibondo: - Non lo capisci che...   
  - Stupidaggini, vecchio mio. Stai mettendo in testa al ragazzo  un mucchio di stupidaggini...   
  - Ma è piccolo, non è che un bambino. Non lo capisci che...   
  - Non è una buona ragione per riempirgli la testa di  stupidaggini. E poi, non mi sembra così piccolo. Secondo me, un ragazzo della sua età dovrebbe già dare una mano. Cominciare a  fare la sua parte. Imparare a tappezzare, per esempio, o a  piastrellare. Non tutte queste sciocchezze su calciatori  inesistenti...   
  - Senti, razza d'idiota, chiudi la bocca! Taci!   
  - Un ragazzo della sua età, è un pezzo che dovrebbe fare la sua  parte...   
  - $è figlio mio, e lo deciderò io quando sarà il momento che...   
  - Tappezzare, piastrellare, qualcosa del genere. Penso che  siano queste le cose...   
  - Senti, che cosa ne sai tu? Che cosa può saperne un povero  scapolo solitario come te? Che cosa vuoi saperne?   
  E così dicendo gli diedi uno spintone. Di colpo, Geoffrey  Saunders parve avvilirsi. Strisciando i piedi, ci sopravanzò di  qualche passo, poi continuò a farci strada con la testa  leggermente china, sempre stringendosi il bavero  dell'impermeabile.   
  - Non preoccuparti, - dissi a Boris sottovoce. - Ci siamo  quasi.   
  Boris non rispose, e vidi che stava fissando la figura  barcollante di Geoffrey Saunders davanti a noi.   
  Mentre camminavamo, la rabbia contro il mio vecchio compagno di  scuola cominciò a sbollire. D'altronde, non avevo dimenticato che  solo lui poteva indicarci la fermata dell'autobus. Dopo qualche  istante gli andai vicino, chiedendomi se mi avrebbe ancora  rivolto la parola. Con mia gran sorpresa sentii che borbottava  sottovoce tra sé e sé:  
  - Sì, sì, ne riparleremo quando verrai da me a prendere una  tazza di tè. Riparleremo di tutto, passeremo un paio di ore a  chiacchierare con nostalgia della scuola e dei vecchi compagni.  Io farò un po' di ordine nella stanza, e potremo sederci in  poltrona, ai lati del camino. Sì, è vero che somiglia molto alle  camere che si affittano in Inghilterra. O se non altro, che si  affittavano qualche anno fa. Per questo l'ho presa. Mi ricordava  l'Inghilterra. Comunque, ci siederemo davanti al camino e  parleremo di tutti quanti. Professori, compagni, e ci scambieremo  notizie sugli amici comuni con cui siamo ancora in contatto. Oh,  eccoci arrivati.   
  Sbucammo in uno slargo che sembrava una piccola piazza di  paese. I pochi negozietti - dove probabilmente gli abitanti del  quartiere facevano la spesa - erano tutti chiusi, con la  saracinesca abbassata per la notte. In mezzo alla piazza c'era  un'aiuola verde, non molto più grande di uno spartitraffico.  Geoffrey Saunders puntò il dito verso un lampione solitario  davanti ai negozi.   
  - Tu e il ragazzo dovete aspettare là. So che non c'è il  cartello, ma non preoccuparti, è una fermata riconosciuta. Adesso  temo di dovervi lasciare.  
  Boris e io fissammo il punto indicato. Aveva smesso di piovere,  ma intorno alla base del lampione indugiava un po' di nebbiolina.  Intorno a noi, tutto era immobile.   
  - Sei sicuro che passerà un autobus? - domandai.   
  - Oh, sì. Naturalmente, può darsi che a quest'ora della notte  ci voglia un po'. Ma prima o poi passerà di sicuro. Basta avere  pazienza. Forse vi verrà un po' freddo ad aspettare, ma credetemi  che ne vale la pena. L'autobus sbucherà dalla notte tutto  illuminato. E quando salirete, starete comodi e al calduccio. $è  sempre pieno di gente allegra. I passeggeri ridono e scherzano,  si passano bevande calde e spuntini. Vi accoglieranno a braccia  aperte. Tu chiedi al conducente di lasciarvi alla cappella  medievale. In autobus ci vuole poco.   
  Geoffrey Saunders ci diede la buona notte, poi si girò e se ne andò. Boris e io lo guardammo sparire in un vicolo tra due case,  poi ci incamminammo verso la fermata dell'autobus.  
5.  
  Restammo sotto il lampione per parecchi minuti, avvolti dal  silenzio. Poi misi un braccio sulle spalle di Boris e gli dissi:  - Hai freddo, vero?   
  Si strinse a me, ma non disse nulla; quando abbassai gli occhi,  vidi che fissava pensieroso la strada buia. Da qualche parte in  lontananza un cane cominciò a latrare, poi smise. Dopo un altro  po', dissi:   
  - Mi spiace, Boris. Dovevo pensarci prima. Mi spiace molto.   
  Il bambino rimase zitto per un momento. Poi disse: - Non  preoccuparti. Fra poco arriva l'autobus.   
  Sull'altro lato della piazza vedevo la nebbia addensarsi  davanti alla breve fila di negozi.   
  - Non sono affatto sicuro che l'autobus arrivi, Boris, - dissi  alla fine.   
  - E perché? Devi avere pazienza.   
  Aspettammo ancora per un lungo momento. Poi ripetei:   
  - Boris, non sono affatto sicuro che l'autobus arrivi.   
  Il bambino si girò verso di me e sospirò spazientito. -  Piantala di preoccuparti, - disse. - Non hai sentito cosa ha  detto il signore? Dobbiamo semplicemente aspettare.   
  - Boris. A volte le cose non vanno come si vuole. Anche se te  lo dice qualcuno.   
  Boris sospirò di nuovo. - Senti, l'ha detto il signore, no? E  poi, mamma ci starà aspettando.   
  Stavo pensando a che cosa rispondere, quando un colpetto di  tosse ci fece sobbalzare entrambi. Girandomi, vidi, appena oltre  la zona di luce del lampione, una testa che si sporgeva da  un'automobile ferma.   
  - Buona sera, signor Ryder. Mi scusi, ma passavo di qui per  caso e l'ho vista. Tutto bene?   
  Feci qualche passo verso l'automobile e riconobbi Stephan, il  figlio del direttore dell'albergo.   
  - Oh, sì, - dissi. - Tutto bene, grazie. Siamo qui che... be',  stiamo aspettando l'autobus.   
  - Se volete, vi do un passaggio. Mio padre mi ha affidato un  incarico piuttosto delicato e ci stavo andando, ma deve fare un  bel freddo lì fuori. Perché non saltate su?   
  Il ragazzo scese e aprì le portiere sul lato del passeggero.  Ringraziandolo, aiutai Boris a salire dietro, poi presi posto  davanti. L'automobile ripartì subito.   
  - Dunque questo è il suo bambino, - disse Stephan, mentre  sfrecciavamo per le strade deserte. - Sono contento di fare la  sua conoscenza, anche se adesso ha l'aria un po' stanca. Oh, be',  lasciamolo riposare. Gli stringerò la mano un'altra volta.   
  Dandomi un'occhiata alle spalle, vidi che Boris era sul punto  di addormentarsi con la testa sul bracciolo imbottito.   
  - Allora, signor Ryder, - proseguì Stephan. - Immagino che  voglia tornare in albergo.   
  - Veramente, Boris e io stavamo andando a casa di una persona.  In centro, vicino alla cappella medievale.   
  - La cappella medievale? Hmm.   
  - Ci sono inconvenienti?   
  - Oh, no. Nessun inconveniente -. Stephan imboccò con una  brusca sterzata un'altra strada buia e stretta. - $è solo che,  be', come le ho detto, anch'io stavo andando in un posto. Ho un  appuntamento. Vediamo, mi lasci pensare...   
  - Si tratta di una cosa urgente?   
  - Be', sì. Vede, riguarda il signor Brodsky. Se devo dire, temo sia piuttosto importante. Hmm. Mi chiedevo se lei e Boris sareste  così gentili da aspettare qualche minuto mentre io me la sbrigo;  poi vi porto dove volete.   
  - Certo, certo, è giusto che tu faccia prima la tua  commissione. Ma non farci aspettare troppo, per piacere. Sai,  Boris non ha ancora cenato.   
  - Farò il più in fretta possibile, signor Ryder. Vorrei proprio  poterla portare subito, ma vede, non oso arrivare in ritardo.  Come le dico, è un incarico un po' scabroso...   
  - Ma certo, fai prima quel che devi fare. Aspetteremo senza  problemi.   
  - Cercherò di metterci il meno possibile. Anche se sinceramente  non vedo molte possibilità di accorciare i tempi. Si tratta di  una di quelle cose che di solito fa papà di persona, o di cui si  occupa uno dei consiglieri, ma vede, la signorina Collins ha  sempre avuto un debole per me... - Il ragazzo si interruppe,  improvvisamente imbarazzato. Poi disse: - Cercherò di fare in  fretta.   
  Stavamo attraversando un quartiere più salubre - e più vicino,  mi parve -, al centro della città. L'illuminazione stradale era  migliorata, e notai che accanto a noi correvano le rotaie del  tram. Di tanto in tanto incontravamo un caffè o un ristorante  chiusi per la notte, ma la zona era occupata in gran parte da  imponenti condomini. Le finestre erano tutte buie; la nostra  macchina sembrava l'unica cosa che disturbasse la quiete nel  raggio di chilometri. Stephan Hoffman guidò in silenzio per  qualche minuto. Poi, all'improvviso, come se ci stesse pensando  da un pezzo, disse:  
  - Senta, so di essere impertinente. Ma è davvero £sicuro di non  voler tornare in albergo? Ci sono i giornalisti che l'aspettano,  non so se mi spiego.   
  - Giornalisti? - Guardai fuori nella notte. - Ah, sì. I  giornalisti.   
  - Cribbio, non mi prenda per uno sfacciato. $è solo che li ho  visti mentre uscivo. Seduti nell'atrio con una borsa o qualche  foglio in grembo, tesi come corde di violino al pensiero di  incontrarla. Come le dico, non sono fatti miei. E poi, sono  sicuro che ha già pensato a tutto.   
  - Certo, certo, - dissi sottovoce, continuando a guardare fuori  del finestrino.   
  Stephan tacque, decidendo evidentemente che fosse meglio non  insistere. Ma io cominciai a pensare ai giornalisti, e dopo un  po' mi parve di ricordare vagamente un appuntamento con la  stampa. Senza dubbio, l'immagine di quella gente seduta con la  borsa o i fogli in grembo, così come l'aveva evocata Stephan, era  andata a toccare qualcosa. Alla fine, però, non riuscii a  stabilire con certezza se nel mio programma ci fosse un impegno  di quel genere e risolsi di dimenticare la faccenda.   
  - Oh, eccoci qui, - disse Stephan di fianco a me. - Adesso la  prego di scusarmi per un momento. Si metta comodo. Sarò di  ritorno il più in fretta possibile.   
  Ci eravamo fermati davanti a un grande condominio bianco di  parecchi piani; i balconi di ferro battuto nero gli davano un  aspetto spagnolesco.   
  Stephan scese dall'automobile. Lo seguii con gli occhi mentre  si avvicinava all'ingresso. Si chinò su una fila di campanelli,  ne schiacciò uno, poi rimase ad aspettare, con un atteggiamento  di palese nervosismo. Un attimo dopo nell'atrio si accese una  luce.   
  La porta fu aperta da una donna anziana, con i capelli  argentati. Aveva un aspetto esile e fragile, ma quando sorrise e  fece entrare Stephan notai che i suoi gesti avevano un certo garbo. La porta si richiuse dietro il giovane, ma appoggiandomi  allo schienale scoprii che li vedevo ancora tutti e due  nitidamente illuminati nello stretto pannello di vetro di fianco  all'ingresso. Stephan si puliva i piedi sullo zerbino, dicendo:   
  - Mi scusi se vengo così, senza avvertirla per tempo.   
  - Stephan, ti ho già detto tante volte, - ribatté l'anziana  signorina, - che sono qui a tua disposizione ogni volta che vuoi  parlarmi.   
  - Be', veramente, signorina Collins, non è... Insomma, questa  volta è diverso. Volevo parlarle di un'altra cosa, una questione  molto importante. Papà sarebbe venuto lui, ma, be', era  occupatissimo...   
  - Ah, - lo interruppe la donna con un sorriso, - tuo padre ti  ha di nuovo incastrato. Continua a farti fare tutto il lavoro  sporco.  
  C'era una nota scherzosa nella sua voce, ma Stephan parve non  accorgersene.   
  - Si sbaglia, - ribatté convinto. - Anzi, mi ha affidato una  missione particolarmente delicata e difficile, e io sono stato  ben contento di accettare...   
  - Così adesso sono diventata una missione! E per di più  delicata e difficile!   
  - Ma no. Voglio dire... - Stephan si interruppe confuso.   
  Probabilmente la signorina Collins decise di avere canzonato  Stephan a sufficienza. - Va bene, - disse, - meglio che entriamo  e discutiamo come si deve bevendo un bicchierino di sherry.   
  - La ringrazio molto. Ma veramente non posso fermarmi a lungo.  Ci sono delle persone che mi aspettano in macchina -. Stephan  fece un cenno nella nostra direzione, ma la donna stava già  aprendo la porta del suo alloggio.   
  La guardai mentre accompagnava Stephan attraverso un ingressino  ordinato, oltre una seconda porta e lungo un corridoio semibuio  con le pareti decorate da piccoli acquerelli incorniciati. Il  corridoio finiva nel soggiorno - una grande stanza a forma di L  sul retro dell'edificio. La luce era bassa e accogliente, e di  primo acchito la camera sembrava arredata all'antica in maniera  costosa ed elegante. Esaminandola meglio, però, vidi che gran  parte dei mobili erano molto frusti, e che quelli che sulle prime  avevo preso per pezzi d'antiquariato erano in realtà poco più che  ciarpame. Divani e poltrone che avevano conosciuto tempi migliori  erano sparsi per il salotto in condizioni di sfacelo; le tende di  velluto lunghe fino a terra erano macchiate e sfrangiate. Stephan  si accomodò con una disinvoltura che rivelava una notevole  familiarità con la casa, ma mentre la signorina Collins  armeggiava davanti al mobiletto dei liquori conservò  un'espressione ansiosa. Poi, quando finalmente la donna gli porse  un bicchiere e si sedette accanto a lui, esclamò bruscamente: -  Si tratta del signor Brodsky.  
  - Ah, - disse la signorina Collins. - Lo sospettavo.   
  - Signorina Collins, ecco, ci chiedevamo se potesse aiutarci. O  meglio, aiutare £lui... - Stephan s'interruppe con una risata e  distolse gli occhi.   
  L'anziana signorina inclinò il capo meditabonda. Poi domandò: -  Mi stai chiedendo di aiutare Leo?   
  - Oh, non le chiediamo di fare niente che vada contro i suoi  principî o... insomma che possa farla stare male. Papà si rende  perfettamente conto del suo stato d'animo -. Stephan proruppe in  un'altra risatina. - Ma il suo aiuto potrebbe dimostrarsi  essenziale in questa fase del... recupero del signor Brodsky.   
  - Ah -. La signorina Collins annuì e parve riflettere sulla  richiesta. Poi disse: - Stephan, devo dedurre che i successi di  tuo padre con Leo sono solo parziali?  
  Il tono canzonatorio mi parve ancora più pronunciato di prima,  ma di nuovo Stephan non se ne accorse.   
  - Si sbaglia! - disse in tono seccato. - Anzi, papà ha compiuto  miracoli, fatto enormi passi avanti! Non è stato facile, ma la  sua perseveranza ha avuto dell'incredibile, persino per noi che  conosciamo il suo modo di affrontare i problemi.   
  - Forse non ha perseverato abbastanza.   
  - Ma lei non sa, signorina Collins! Non sa! Certe volte torna a  casa sfinito da una dura giornata di lavoro in albergo, così  sfinito che deve filare subito a letto. Mi è già successo che la  mamma scenda le scale brontolando. Allora vado su a vedere in  camera loro e trovo papà che russa disteso sulla schiena, buttato  di traverso sul letto. Come sa, sono anni che si sono messi  d'accordo... e certi accordi sono importanti... che papà deve  addormentarsi sul fianco, e mai sulla schiena, altrimenti russa  come un mantice, dunque può immaginare l'irritazione della mamma  quando lo scopre così. Di solito è una faticaccia svegliarlo, ma  devo farlo, altrimenti, gliel'ho già detto, la mamma si rifiuta  di tornare in camera. Resta lì in corridoio con la faccia  arrabbiata, e non torna dentro finché non ho svegliato papà, non  l'ho svestito, non gli ho messo l'accappatoio e non l'ho  accompagnato in bagno. Ma dove voglio arrivare è che, anche  quando è così stanco, capita che suoni il telefono, e che  dall'albergo dicano che il signor Brodsky ha i nervi a pezzi e  chiede con insistenza da bere, e vuole saperlo? Papà, chissà  come, ritrova le forze. Si tira su, gli ritorna lo sguardo di  sempre, si veste e sparisce nella notte, per rientrare magari  dopo ore. Ha detto che avrebbe rimesso in sesto il signor  Brodsky, e sta dando l'anima, fino all'ultima briciola, per  mantenere la parola data.  
  - Davvero lodevole. Ma con quali risultati finora?   
  - Le garantisco, signorina Collins, che i progressi sono stati  straordinari. Tutte le persone che hanno visto il signor Brodsky  di recente sono d'accordo. Adesso dietro quegli occhi si muove  qualcosa. Anche i suoi commenti, con il passare dei giorni,  diventano più sensati. Ma la cosa importante è che la sua  abilità, la grande abilità del signor Brodsky, £quella sta  tornando. Non ci sono più dubbi. A detta di tutti, le prove sono  estremamente incoraggianti. L'orchestra è rimasta affascinata. E  quando non prova nel palazzo dei concerti, il signor Brodsky  lavora e rielabora per conto suo. Adesso, girando per l'albergo,  capita spesso di intravedere la sua figura china sul pianoforte.  Quando lo sente suonare, papà si rianima al punto che non è  difficile capire perché sia disposto a sacrificare anche tutte le  sue ore di sonno.  
  Il ragazzo fece una pausa e guardò la signorina Collins. Per un  momento la donna parve assente; teneva la testa inclinata, come  se anche lei sperasse di cogliere qualche nota di un pianoforte  lontano. Poi sul suo volto tornò un sorriso garbato, e i suoi  occhi guardarono di nuovo Stephan.   
  - Io ho sentito dire, - cominciò, - che tuo padre lo mette  davanti al pianoforte, in quel salotto dell'albergo, come se  fosse un manichino, e che Leo resta lì ore e ore ondeggiando  dolcemente sullo sgabello senza suonare una nota.   
  - Signorina Collins, questo è ingiusto! Forse è successo  qualche volta nei primi tempi, ma ora le cose sono molto  cambiate. E poi, anche se di tanto in tanto il signor Brodsky se  ne sta seduto in silenzio, non vuole affatto dire che sia  inoperoso. E lei dovrebbe saperlo meglio di tutti. Il silenzio  può benissimo indicare che sta cercando di dare forma alle idee  più profonde, di raccogliere le energie più riposte. L'altro  giorno, per esempio, dopo un silenzio particolarmente lungo, papà è entrato nel salotto, e il signor Brodsky era lì che fissava i  tasti del pianoforte. Dopo un momento ha sollevato gli occhi e  gli ha detto: «Bisogna che i violini siano aspri. Devono avere un  suono aspro». Così ha detto. Era rimasto in silenzio, ma la sua  testa era piena di musica, come un universo a parte. Non sto  nella pelle al pensiero di quello che ci farà vedere giovedì  sera. Sempre che non abbia un cedimento adesso.   
  - Però volete che lo aiuti, non è così, Stephan?   
  Il giovane, che parlando si era scaldato, ritrovò la sua  compostezza.   
  - Be', sì, - disse. - $è di questo che sono venuto a parlarle.  Come ho detto, il signor Brodsky sta recuperando rapidamente le  capacità di un tempo. E naturalmente, insieme con le sue grandi  doti, stanno tornando a galla parecchie altre cose. Per noi che  non lo conoscevamo bene, è stata una specie di rivelazione. In  questi giorni è spesso così loquace, così educato. Ma il guaio è  che, oltre a tutto il resto, ha cominciato anche a ricordare.  Be', per essere chiari, parla di lei. Non fa che pensare a lei e  parlare di lei. L'altra notte, solo per farle un esempio... è  imbarazzante, ma glielo dico lo stesso... l'altra notte ha  cominciato a piangere e non la smetteva più. E mentre piangeva,  dava libero sfogo a tutti i suoi sentimenti per lei. Era la terza  o quarta volta che succedeva, ma questa è stata la più grave.  Verso mezzanotte, visto che il signor Brodsky non era ancora  uscito dal salotto, papà è andato dietro la porta e lo ha sentito  singhiozzare. Allora è entrato e ha trovato la stanza immersa  nell'oscurità, e il signor Brodsky che piangeva riverso sul  pianoforte. Be', di sopra c'era una suite libera, così l'ha  portato lì e gli ha fatto mandare su dalla cucina le sue minestre  preferite, perché il signor Brodsky, in genere, mangia solo  minestra. Poi lo ha riempito di aranciata e di bibite, ma le  assicuro che ce la siamo vista brutta. Pare che il signor Brodsky  si avventasse sui cartoni di aranciata smaniando. Molto  probabilmente, se papà non fosse stato lì, sarebbe crollato,  proprio in vista del traguardo. E intanto continuava a parlare di  lei. Be', per arrivare al dunque... oh cielo, devo sbrigarmi, ci  sono delle persone che mi aspettano in macchina... Quello che  voglio dire è questo. Dato che buona parte del futuro della città  è nelle sue mani, dobbiamo fare di tutto perché superi indenne  questi ultimi giorni. Il dottor Kaufmann è d'accordo con papà,  siamo davanti all'ostacolo finale. Dunque vede anche lei che la  posta in gioco è molto alta.  
  La signorina Collins continuava a guardare Stephan con lo  stesso sorrisetto assente, ma non diceva nulla. Dopo un momento  il ragazzo proseguì:   
  - Signorina Collins, mi rendo conto che le mie parole possono  riaprire delle vecchie ferite. E so che lei e il signor Brodsky  non vi parlate più da molto tempo...   
  - Oh, questo non è esatto. Non più tardi di qualche mese fa Leo  mi ha urlato delle oscenità mentre passeggiavo per il  Volksgarten.   
  Stephan rise impacciato, incerto su come interpretare il tono  della donna. Poi, facendosi serio, continuò: - Signorina Collins,  nessuno pretende che abbia contatti prolungati con lui. Santo  cielo, no. Lei vuole dimenticare il passato. Tutti, a cominciare  da papà, se ne rendono conto. Le chiediamo solo un piccolo  favore, una cosa che potrebbe salvare la situazione, e per lui  sarebbe così incoraggiante, così importante. Spero che almeno non  si arrabbi se osiamo chiederglielo.   
  - Ho già accettato di presenziare al banchetto.   
  - Sì, sì, naturalmente. Papà me l'ha detto. aliene siamo molto  grati...  
  - A patto che non ci siano contatti diretti...  
  - Questo è inteso, nel modo più assoluto. Il banchetto, certo.  Veramente, però, volevamo chiederle un piccolo sforzo in più,  signorina Collins, se fosse possibile. Vede, domani un gruppo di  consiglieri, tra cui il signor von Winterstein, porterà il signor  Brodsky allo zoo. Pare che in tutti questi anni non l'abbia mai  visitato. Il suo cane non può entrare, naturalmente, ma il signor  Brodsky ha finalmente acconsentito a lasciarlo in buone mani per  un paio di ore. Siamo convinti che una gita di questo genere  servirebbe a calmarlo. Pensiamo che le giraffe, soprattutto,  possano avere un effetto distensivo. Be', per venire al dunque, i  consiglieri si domandavano se non le spiacerebbe unirsi al  gruppo. Magari rivolgere qualche parola al signor Brodsky. Non  occorre che vada allo zoo insieme con loro; può unirsi al gruppo  laggiù, solo per pochi minuti. Dirgli qualcosa di carino, magari  due parole di incoraggiamento, non sa come potrebbe essere  importante. Pochi minuti, poi se ne va per la sua strada. La  prego, signorina Collins, ci pensi su. Dalla sua decisione può  dipendere tutto.   
  Mentre Stephan parlava, la donna si era alzata e si era  avvicinata lentamente al camino. Per parecchi secondi rimase  1'immobile, con una mano sulla mensola come per ritrovare  l'equilibrio. Quando finalmente si voltò di nuovo verso Stephan,  vidi che aveva gli occhi umidi.   
  - Cerca di capirmi, Stephan, - disse. - $è vero che sono stata  sua moglie. Ma ormai da molti anni, le poche volte che lo  incontro, mi grida solo insulti. Lo vedi anche tu, come faccio a  sapere che cosa gli piacerebbe sentirsi dire?   
  - Signorina Collins, le giuro che oggi è un uomo diverso. In  questi giorni è così cortese ed educato e... ma sono certo che le  verrà spontaneo. La prego di pensarci. La posta in gioco è così  alta.   
  L'anziana signorina sorseggiò il suo sherry meditabonda.  Sembrava sul punto di rispondere, quando alle mie spalle sentii  Boris agitarsi sul sedile posteriore della macchina. Girandomi,  capii che il bambino doveva essere sveglio da un pezzo. Guardava  fuori del suo finestrino, fissando la strada silenziosa e  deserta, e mi parve un po' triste. Stavo per dirgli qualcosa, ma  probabilmente si era accorto che lo guardavo, perché, senza  muoversi, mi domandò con voce calma:   
  - Tu sai fare i bagni?  
  - Se io so fare i bagni?   
  Boris sospirò rumorosamente e continuò a fissare l'oscurità.  Poi disse: - Io non avevo mai messo le piastrelle. Per questo ho  fatto tutti quei pasticci. Se qualcuno mi avesse fatto vedere, ci  sarei riuscito.   
  - Sì, sono sicuro che ci saresti riuscito. Parli del bagno del  vostro nuovo alloggio, vero?   
  - Se qualcuno mi avesse fatto vedere, sarei riuscito a metterle  bene. Così la mamma sarebbe stata contenta. Il bagno le sarebbe  piaciuto.   
  - Ah. Vuoi dire che adesso non è contenta?   
  Boris mi guardò come se avessi detto un'incredibile  stupidaggine. Poi, con pesante ironia, mi domandò: - Perché  piangerebbe tanto se il bagno le piacesse?  
  - Già. Sicché piange per il bagno. Mi chiedo perché lo faccia.   
  Boris si girò di nuovo verso il finestrino, e nella luce  incerta che filtrava dentro la macchina vidi che lottava per non  scoppiare in lacrime. All'ultimo momento riuscì a trasformare la  sua mortificazione in uno sbadiglio e si sfregò la faccia con i  pugni.   
  - Sistemeremo tutto, - dissi. - Vedrai.  
  - Le avrei messe bene, se qualcuno mi avesse fatto vedere. Così  la mamma non avrebbe pianto.   
  - Sì, sono sicuro che avresti fatto un bel lavoro. Ma non  preoccuparti, sistemeremo tutto.   
  Tornai a guardare davanti, fuori del parabrezza. In tutta la  strada si stentava a vedere una finestra accesa. Dopo un po'  dissi: - Boris, adesso dobbiamo pensare bene a quello che  vogliamo fare. Mi stai ascoltando?   
  Dietro tutto taceva.   
  - Boris, - proseguii, - dobbiamo prendere una decisione. So che  stavamo andando da tua madre. Ma adesso si è fatto molto tardi.  Boris, mi stai ascoltando?   
  Diedi un'occhiata alle mie spalle e vidi che il bambino stava  ancora fissando la notte con aria assente. Restammo seduti in  silenzio per un lungo momento. Poi dissi:   
  - Il fatto è che adesso è molto tardi. Se torniamo in albergo,  ci sarà tuo nonno. Sarà felice di vederti. Puoi avere una camera  tutta per te, o se preferisci chiediamo che preparino un altro  letto in camera mia. Ci facciamo portare su qualcosa di buono da  mangiare, poi te ne vai a dormire. E domani mattina a colazione  decidiamo cosa fare.   
  Ancora silenzio dietro di me.   
  - Avrei dovuto pensarci prima, - dissi. - Mi spiace. Ma... ma  questa sera avevo la testa confusa. Ho avuto così tanto da fare.  Ma senti, ti prometto che domani recuperiamo il tempo perduto.  Facciamo tutto quello che vuoi tu, domani. Magari torniamo nel  vecchio appartamento a prendere Numero Nove. Che cosa ne dici?   
  Boris continuava a tacere.   
  - Sono state giornate faticose per tutti e due. Boris, che cosa  ne dici?   
  - $è meglio andare in albergo.   
  - Penso anch'io che sia la soluzione migliore. Siamo d'accordo,  allora. Quando il signore ritorna, gli diciamo che abbiamo  cambiato programma.  
6.  
  Proprio in quell'istante colsi un movimento con la coda  dell'occhio e, girandomi verso la casa, vidi che il portone  d'ingresso era aperto. La signorina Collins aveva accompagnato  Stephan, e sebbene si stessero separando amichevolmente, qualcosa  nell'atteggiamento di entrambi mi fece intuire che l'incontro si  era concluso con un certo imbarazzo. Poco dopo la porta si  richiuse, e Stephan tornò a passo rapido verso di noi.   
  - Scusate se c'è voluto così tanto, - disse, salendo in  macchina. - Spero che Boris non si sia annoiato -. Mentre  afferrava il volante, sospirò con aria preoccupata. Poi si  costrinse a sorridere e disse: - Be', andiamo.   
  - Veramente, - dissi, - mentre tu non c'eri, Boris e io ci  siamo parlati. Tutto sommato, pensiamo sia meglio tornare in  albergo.   
  - Se mi consente, signor Ryder, credo che sia una buona idea.  All'albergo, dunque. Magnifico -. Stephan diede un'occhiata al  suo orologio. - Saremo lì in un amen. I giornalisti non avranno  nessun motivo per lamentarsi. Nessunissimo motivo.   
  Stephan avviò il motore e partì. Mentre percorrevamo le strade  deserte, ricominciò a piovere, e il giovane accese il  tergicristallo. Dopo un po' disse:   
  - Signor Ryder, posso essere così sfrontato da ricordarle la  nostra conversazione di questo pomeriggio? Sa, quando ci siamo  incontrati nel patio.   
  - Ah, sì, - dissi. - Sì, abbiamo parlato del pezzo che suonerai  giovedì sera.  
  - E lei è stato così gentile da dirmi che forse mi avrebbe  dedicato qualche minuto. Per ascoltarmi mentre provo La Roche.  Certo, mi rendo conto che probabilmente non è affatto possibile,  ma ho pensato di chiederglielo lo stesso. Questa sera, quando  torniamo in albergo, ho intenzione di fare un po' di esercizio, e  mi chiedevo se dopo i giornalisti, sì, lo so che è una seccatura,  ma se potesse venire ad ascoltarmi, anche solo pochi minuti, per  dirmi che cosa ne pensa... - Le sue parole si spensero in una  risata.  
  Mi accorsi che la cosa gli stava molto a cuore, e fui tentato  di esaudire la sua richiesta. Tuttavia, dopo averci riflettuto  su, dissi:   
  - Mi spiace, ma questa sera sono stanchissimo, devo  assolutamente andare a dormire. Ma non preoccuparti, sono sicuro  che ci sarà presto un'altra occasione. Senti, perché non facciamo  così? Io non so con esattezza quando avrò qualche minuto libero,  ma la prima volta che mi capita, telefono alla reception e dico  di cercarti. Se tu non sei in albergo, riprovo la volta dopo e  così via. In questo modo sono sicuro che troveremo presto un  momento che vada bene per tutti e due. Ma questa sera, se non ti  spiace, ho proprio bisogno di fare una bella dormita.   
  - Si figuri, signor Ryder, capisco perfettamente. Sì, facciamo  come dice lei. La ringrazio di cuore. Aspetterò che mi cerchi,  allora.   
  Stephan aveva parlato in modo educato, ma mi parve deluso,  quasi interpretasse la mia risposta come un sottile rifiuto.  Evidentemente, era così emozionato per la sua prossima  esibizione, che qualsiasi intoppo, anche piccolo, bastava a  gettarlo nel panico più nero. Mi fece compassione, e ripetei in  tono rassicurante:   
  - Non preoccuparti, sono sicuro che troveremo presto un'altra  occasione.   
  La pioggia continuò a cadere ostinatamente mentre percorrevamo  le strade notturne. Il giovane rimase a lungo zitto, e mi  domandai se fosse arrabbiato con me. Poi però scorsi il suo  profilo nella luce intermittente e capii che stava ripensando a  un episodio di parecchi anni prima. Si trattava di un incidente  su cui aveva già riflettuto molte volte - soprattutto quando  stentava a prendere sonno di notte o quando guidava da solo - e  ora la paura che io non riuscissi ad aiutarlo glielo aveva  riportato alla mente.   
  Era successo in occasione del compleanno di sua madre. Quella  sera Stephan aveva posteggiato la sua auto nel familiare vialetto  di casa - erano gli anni in cui frequentava l'università e viveva  in Germania - dopo un paio di penosissime ore passate a farsi  coraggio. Ma suo padre gli aveva aperto la porta, bisbigliando  eccitato: - La mamma è di buon umore. Di ottimo umore -. Poi si  era girato e aveva gridato in casa: - C'è Stephan, cara. Un po'  in ritardo, ma è arrivato -. E di nuovo in un bisbiglio: - Di  ottimo umore. Come non la vedevo da molto tempo.   
  Il ragazzo era passato in salotto e aveva trovato la madre  adagiata su un sofà, con un cocktail in mano. Indossava un  vestito nuovo, e Stephan era rimasto colpito dalla sua eleganza  come fosse la prima volta che la vedeva. La madre non si era  alzata per salutarlo, obbligandolo a chinarsi per baciarle la  guancia, ma il calore con cui l'aveva invitato a sedersi sulla  poltrona di fronte a lei lo aveva colto di sorpresa. Alle sue  spalle, il padre, compiaciuto di come era cominciata la serata,  aveva ridacchiato, poi, indicando il grembiule, era scappato di  nuovo in cucina.   
  Rimasto solo con sua madre, Stephan aveva provato innanzitutto  un gran terrore - terrore di dire o fare qualcosa che guastasse il suo buon umore, distruggendo così ore, forse giorni, di  diligenti sforzi da parte di suo padre. Sicché aveva cominciato a  dare risposte brevi e artefatte alle domande sull'università, ma  l'atteggiamento di sua madre era rimasto indulgente, e dopo un  po' Stephan si era accorto che le sue risposte diventavano sempre  più lunghe. A un certo punto aveva parlato di un professore  definendolo «una versione mentalmente equilibrata del nostro  ministro degli Esteri» - una frase di cui era particolarmente  fiero, che aveva usato più di una volta con i suoi compagni  riscuotendo notevole successo. Se la precedente conversazione con  sua madre non fosse andata così bene, Stephan non si sarebbe mai  azzardato a ripetergliela. Invece l'aveva fatto, e mentre il  cuore gli batteva all'impazzata aveva visto un lampo di  divertimento attraversarle il volto. Con tutto ciò, quando suo  padre era tornato ad annunciare la cena, aveva respirato di  sollievo.   
  Erano passati in sala da pranzo, dove il direttore d'albergo  aveva messo in tavola la prima portata. Il pasto era cominciato  in silenzio. Poi suo padre - un po' bruscamente, secondo Stephan  - aveva cominciato a raccontare un divertente aneddoto su un  gruppo di italiani ospiti dell'albergo. Terminata la storia,  aveva incitato Stephan a raccontarne una anche lui, e quando il  figlio aveva cominciato un po' esitante, lo aveva incoraggiato  con risate esagerate. Ed erano andati avanti così, padre e  figlio, raccontando a turno storielle divertenti, sostenendosi  chiassosamente a vicenda. La tattica sembrava funzionare, perché  alla fine - Stephan stentava a crederlo - anche sua madre aveva  cominciato a ridere per lunghi momenti. La cena, poi, era stata  preparata con la fanatica attenzione ai particolari tipica del  direttore d'albergo, ed era quindi una stupefacente opera di arte  culinaria. Il vino doveva essere molto speciale, perché a metà  della portata principale - un delizioso miscuglio di oca e bacche  selvatiche - l'allegria era diventata genuina. Poi il direttore  d'albergo, con la faccia arrossata dal vino e dalle risate, si  era chinato in avanti e aveva detto:  
  - Stephan, raccontaci di quell'ostello della gioventù. Sai,  quello nei boschi della Borgogna.   
  Per un attimo Stephan era inorridito. Com'era possibile che suo  padre, che fino a quel momento aveva condotto tutto in maniera  tanto impeccabile, commettesse un simile errore di valutazione?  Quella storia richiedeva un'ampia descrizione dei gabinetti  dell'ostello, quindi era chiaramente inadatta a sua madre.  Tuttavia, mentre Stephan esitava, suo padre gli aveva fatto  l'occhiolino, come per dire: «Sì, sì, fidati di me. Funzionerà.  La storia le piacerà, sarà un successone». Sebbene nutrisse seri  dubbi, Stephan aveva una tale fiducia in suo padre che aveva  cominciato a raccontare, e un attimo dopo era stato folgorato dal  pensiero che quella serata miracolosa, fino a quel momento così  riuscita, si sarebbe sgretolata intorno a loro. Tuttavia,  istigato dalle sghignazzate di suo padre, aveva continuato, e a  un certo punto, con suo gran stupore, aveva udito l'aperta risata  di sua madre. Alzando gli occhi, si era accorto che stava  scuotendo la testa in preda alla ridarella. Poi, verso la fine  della storia, fra una risata e l'altra, l'aveva vista lanciare  uno sguardo affettuoso al marito. Un'occhiata fugace ma  inequivocabile. Anche il direttore d'albergo, che per il gran  ridere aveva gli occhi velati dalle lacrime, l'aveva notata, e  girandosi verso il figlio gli aveva fatto di nuovo l'occhiolino,  questa volta con aria di trionfo. In quell'istante il ragazzo  aveva sentito un'emozione molto potente gonfiargli il petto. Ma  prima che avesse il tempo di analizzarne l'esatta natura, suo  padre gli aveva detto:  
  - Stephan, prima del dolce dobbiamo fare una pausa. Perché non  suoni qualcosa per il compleanno di tua madre? - E così dicendo  gli aveva indicato il pianoforte verticale appoggiato alla  parete.   
  Quel gesto - quel gesto casuale in direzione del pianoforte  delle sala da pranzo - Stephan l'avrebbe ricordato un'infinità di  volte negli anni a venire. E in ogni occasione gli sarebbe  tornato in parte anche il brivido di nausea provato allora. Sulle  prime aveva guardato suo padre incredulo, ma il direttore aveva  continuato a sorridere soddisfatto, con il braccio teso verso il  pianoforte.   
  - Su, Stephan. Qualcosa che piaccia a tua madre. Magari un  pezzo di Bach. O di un contemporaneo. Che ne dici di Kazan? O di  Mullery?  
  Il ragazzo si era costretto a girare lo sguardo verso la madre  e aveva visto il suo volto, insolitamente ammorbidito dal riso,  sorridergli. Poi, rivolgendosi più al marito che a Stephan, la  donna aveva detto: - Sì, caro, penso che Mullery vada bene.  Sarebbe magnifico.  
  - Su, Stephan, - aveva detto il direttore d'albergo in tono  gioviale. - In fondo, si tratta del compleanno di tua madre. Non  deluderla.   
  Nella mente di Stephan era balenato il pensiero - subito  respinto - che i suoi genitori stessero complottando contro di  lui. Una cosa era certa: dal modo in cui lo fissavano - così  gonfi di orgogliosa attesa - sembrava che avessero completamente  dimenticato l'angosciosa storia dei suoi rapporti con il  pianoforte. Ma l'accenno di protesta si era spento sulle sue  labbra, e Stephan si era alzato in piedi con l'impressione che  fosse qualcun altro a farlo.   
  La posizione del pianoforte contro il muro era tale che  Stephan, dopo essersi seduto, riusciva a vedere con la coda  dell'occhio le figure dei suoi genitori, con i gomiti sul tavolo,  l'uno leggermente inclinato verso l'altro. Dopo un momento si era  girato a guardarli in faccia, consapevole, con quel gesto, di  volerli vedere così ancora una volta, seduti vicini, come legati  da una felicità priva di complicazioni. Poi si era voltato di  nuovo verso il pianoforte, schiacciato dalla certezza che la  serata stava per precipitare. Stranamente, non era affatto  meravigliato della piega presa dagli eventi negli ultimi istanti,  anzi, si era accorto di avere aspettato quel momento sin dal  principio, e che il suo sopraggiungere aveva portato con sé un  senso di sollievo.   
  Per qualche secondo era rimasto immobile senza suonare,  cercando disperatamente di liberarsi degli effetti del vino e di  ripassare mentalmente il brano che stava per tentare. Per un  istante da capogiro aveva intravisto la possibilità - non era  forse una serata miracolosa? - di riuscire in qualche modo a  suonare come mai prima di allora; finito il pezzo, i genitori gli  avrebbero sorriso, avrebbero battuto le mani, si sarebbero  scambiati occhiate di profondo affetto. Ma non appena aveva  attaccato le prime note di £Epicicloide di Mullery, Stephan si  era reso conto della totale impossibilità del suo sogno.   
  Ciò nonostante aveva continuato a suonare. Per un lungo momento  - per quasi tutto il primo movimento - le figure ai margini del  suo campo visivo erano rimaste fermissime. Poi Stephan aveva  visto sua madre appoggiarsi leggermente allo schienale della  sedia e portare una mano al mento. Parecchie battute più tardi,  suo padre aveva distolto lo sguardo dal figlio, posato le mani in  grembo e chinato la testa in avanti, come se stesse studiando una  macchiolina sulla tavola davanti a sé.   
  Nel frattempo il brano era andato avanti, e ancora avanti, e sebbene il ragazzo avesse avuto più volte la tentazione di  lasciar perdere, l'idea di smettere gli era sembrata chissà  perché la soluzione più orrenda. Così aveva continuato, e quando  finalmente era giunto in fondo al pezzo, era rimasto a fissare la  tastiera per un lungo momento prima di trovare il coraggio di  girarsi ad affrontare ciò che lo aspettava.   
  Né l'uno né l'altro dei suoi genitori lo stava guardando. La  testa di suo padre era così china che ormai la fronte sfiorava  quasi il piano della tavola. Sua madre fissava un punto  dall'altra parte della stanza, con quell'espressione gelida che  Stephan conosceva così bene e che fino a quel momento, con suo  gran stupore, era stata assente.   
  Gli era bastato un secondo per valutare la scena. Poi si era  alzato ed era tornato in fretta a tavola, come se in quel modo i  minuti trascorsi da quando l'aveva lasciata potessero essere  cancellati. Per un istante erano rimasti tutti e tre in silenzio.  Poi sua madre si era alzata dicendo:   
  - $è stata una serata molto piacevole. Vi ringrazio tutti e  due. Ma adesso sono stanca e penso sia meglio che vada a letto.   
  Sulle prime Stephan aveva avuto l'impressione che il padre non  avesse udito. Ma quando la madre si era avviata verso la porta,  il direttore d'albergo aveva sollevato la testa per mormorare: -  La torta, cara. La torta. $è... è una cosa speciale.   
  - Ti ringrazio, ma davvero, ho già mangiato troppo. Adesso devo  andare a dormire.   
  - Certo, certo -. Il direttore d'albergo aveva riabbassato gli  occhi sulla tavola con aria rassegnata. Ma quando la madre di  Stephan era già sulla soglia, si era tirato su e aveva detto  forte: - Almeno vieni a vederla, cara. Dàlle solo uno sguardo.  Come dico, è una cosa speciale.   
  La madre di Stephan aveva esitato, poi: - Va bene. Fammela  vedere in fretta. Dopo, però, devo proprio dormire. Sarà il vino,  ma mi sento stanchissima.   
  A queste parole, il direttore d'albergo era scattato in piedi,  e un attimo dopo stava accompagnando la moglie fuori della sala  da pranzo.   
  Il ragazzo aveva sentito i passi dei genitori dirigersi verso  la cucina poi, dopo non più di un minuto, tornare indietro nel  corridoio e salire le scale. Stephan era rimasto seduto a tavola  per un po'. Dal piano di sopra gli erano giunti diversi piccoli  rumori, ma non gli era parso di udire voci. Alla fine aveva  pensato che la cosa migliore da fore era prendere l'auto e  tornare nel cuore della notte nella sua camera ammobiliata.  Sicuramente la sua presenza a colazione non sarebbe stata di  grande aiuto a suo padre nella lenta, titanica opera di  ricostruzione degli umori materni.   
  Aveva lasciato la sala da pranzo con la speranza di poter  scivolare via di casa senza farsi notare, ma in corridoio aveva  incontrato il padre che scendeva le scale. Il direttore d'albergo  si era portato un dito alle labbra, dicendo:   
  - Dobbiamo parlare piano. Tua madre si è appena coricata.   
  Stephan aveva informato il padre della propria intenzione di  tornare a Heidelberg, e il direttore d'albergo aveva detto: -  Peccato. Tua madre e io pensavamo che ti fermassi di più. Ma se  dici che domani mattina hai lezione. Lo spiegherò a tua madre,  sono sicuro che capirà.   
  - E la mamma, - aveva detto Stephan, - spero che questa sera si  sia divertita.   
  Suo padre aveva sorriso, ma prima, per un breve istante,  Stephan aveva visto passare nei suoi occhi uno sguardo di  profonda desolazione.   
  - Oh, sì. Ne sono sicuro. Oh, sì. Era così contenta che tu fossi riuscito a prenderti una vacanza per venire fin qui. So che  sperava che ti fermassi qualche giorno, ma non preoccuparti. Le  spiegherò io.   
  Quella notte, mentre viaggiava lungo le strade deserte, Stephan  aveva ripensato a ogni singolo istante della serata - così come  avrebbe fatto e rifatto negli anni successivi. Con il passare del  tempo, l'angoscia che lo assaliva ogni volta che ricordava  quell'episodio si era attenuata, ma ora l'implacabile  approssimarsi del concerto di giovedì gli aveva risvegliato molti  degli antichi terrori, facendogli rivivere per l'ennesima volta -  mentre viaggiavamo nella notte piovosa - quell'amara serata di  parecchi anni prima.   
  Provai pena per il ragazzo e ruppi il silenzio dicendogli:   
  - So che non sono fatti miei, e spero di non sembrarti  maleducato, ma penso che i tuoi genitori siano stati un po'  ingiusti con te. Il mio consiglio è di provare a goderti più che  puoi ciò che riesci a fare al pianoforte, e di cercare lì la  soddisfazione e il significato di cui hai bisogno, senza più  curarti di loro.   
  Il ragazzo rifletté per un lungo momento sulle mie parole. Poi  disse:   
  - La ringrazio per l'interessamento, signor Ryder. Ma  veramente... se mi permette la franchezza... credo che non abbia  capito. Mi rendo conto che dal di fuori il comportamento di mia  madre quella sera può sembrare un po', be', un po' sconsiderato.  Ma sarebbe un giudizio ingiusto nei suoi confronti, e non vorrei  mai che lei se ne andasse con questa impressione. Vede, non  conosce tutti i retroscena. Tanto per cominciare, dai quattro  anni in poi ho avuto come insegnante di pianoforte la signora  Tilkowski. Probabilmente questo non le dice niente, ma deve  sapere che la signora Tilkowski è un personaggio molto riverito  in questa città, e certamente non un'insegnante di pianoforte  £qualsiasi. I suoi servizi non sono a disposizione di tutti,  anche se naturalmente si fa pagare come gli altri. Voglio dire  che prende le cose molto sul serio, e accetta solo bambini  dell'élite artistica e intellettuale della città. Per esempio, il  pittore surrealista Paulo Rozario è vissuto qui per un po', e la  signora Tilkowski ha insegnato a entrambe le sue figlie. E ai  figli del professor Diegelmann. E anche alle nipoti della  Contessa. Sceglie i suoi allievi con grande cura, dunque capisce  che ero molto fortunato ad averla come insegnante, soprattutto  perché allora papà non aveva ancora la posizione di oggi  all'interno della comunità. Ma immagino che già allora i miei  genitori fossero appassionati d'arte, non meno di oggi. Per tutta  l'infanzia ricordo di averli sentiti parlare di pittori e  musicisti, e di quanto sia importante incoraggiare queste  persone. Oggi la mamma sta quasi sempre chiusa in casa, ma allora  usciva molto di più. Per esempio, se un musicista, o  un'orchestra, arrivava in città, lei correva sempre a offrire il  suo sostegno. E dopo le prove cercava di entrare nei camerini per  complimentarsi di persona. Magari il musicista aveva suonato  male, ma mia madre vi andava lo stesso per dirgli due parole di  incoraggiamento e dargli qualche garbato consiglio. Spesso  invitava a casa nostra i musicisti, oppure si offriva di portarli  a visitare la città. In genere erano sempre molto impegnati e non  potevano accettare, ma come sicuramente anche lei può  confermarmi, questi inviti sono sempre di grande conforto per gli  artisti. Quanto a mio padre, era sempre occupatissimo, ma anche  lui si faceva in quattro. Naturalmente, se c'era un ricevimento  in onore di qualche celebrità, vi accompagnava sempre mia madre,  anche se era sommerso di lavoro, in modo da dare anche lui il  benvenuto al visitatore. Vede dunque, signor Ryder, che da quando mi ricordo, i miei genitori sono sempre state persone molto colte  che sapevano apprezzare l'importanza dell'arte nella nostra  società, e sono sicuro che è per questo che la signora Tilkowski  alla fine mi ha accettato come allievo. Oggi mi rendo conto che  deve essere stato un vero trionfo per i miei, soprattutto per mia  madre, che aveva preso tutti gli accordi. Eccomi lì, a lezione  dalla signora Tilkowski insieme con i figli di Rozario e del  professor Diegelmann! Dovevano essere veramente orgogliosi. E nei  primi anni me la sono cavata molto bene, gliel'assicuro, tanto  che una volta la signora Tilkowski ha detto che ero uno degli  allievi più promettenti che avesse mai avuto. Le cose sono andate  davvero bene fino... be', fino ai dieci anni.   
  All'improvviso il giovane tacque, forse pentito di avere  parlato così liberamente. Ma vedevo che un'altra parte di lui era  ansiosa di continuare le rivelazioni, così domandai:   
  - Che cosa è successo quando avevi dieci anni?   
  - Be', mi vergogno di dirlo, soprattutto a lei, signor Ryder.  Ma a dieci anni ho smesso di esercitarmi al pianoforte. Mi  presentavo dalla signora Tilkowski senza avere fatto gli esercizi  e, quando lei mi chiedeva perché, non rispondevo. $è davvero  imbarazzante, mi sembra di parlare di un'altra persona, e vorrei  tanto che per magia fosse così. Ma purtroppo è la verità, che  vuole che le dica, mi comportavo a quel modo. E dopo qualche  settimana, la signora Tilkowski è stata costretta ad avvertire i  miei che, se avessi continuato così, non avrebbe più potuto  tenermi. Più tardi ho scoperto che in quell'occasione la mamma  aveva perso le staffe e si era messa a gridare con la signora  Tilkowski. Fatto sta che le cose sono finite piuttosto male.   
  - E dopo sei andato da un'altra insegnante?   
  - Sì, una certa signorina Henze, che non era affatto male. Ma  non c'era confronto con la signora Tilkowski. Io ho continuato a  non fare gli esercizi, ma la signorina Henze era molto meno  severa. Poi, quando avevo dodici anni, c'è stato il cambiamento.  $è difficile spiegarle che cosa è successo, le sembrerà un po'  strano. Ero seduto nel salotto di casa nostra in un pomeriggio  pieno di sole. Ricordo che stavo leggendo una rivista di  football, quando mio padre è entrato con aria sfaccendata.  Indossava un panciotto grigio e aveva le maniche della camicia  arrotolate. Si è fermato in mezzo alla stanza ed è rimasto a  fissare il giardino oltre i vetri della finestra. Sapevo che mia  madre era là fuori, sulla panca che allora tenevamo sotto gli  alberi da frutta, e mi aspettavo che papà uscisse e andasse a  farle compagnia. Ma lui restava lì. Mi dava la schiena, quindi  non lo vedevo in faccia, ma ogni volta che sollevavo lo sguardo,  lui era ancora lì che fissava il giardino, dove c'era mia madre.  Be', la terza o quarta volta che ho alzato gli occhi, qualcosa,  all'improvviso, si è fatto strada nella mia mente. Voglio dire  che è stato allora che me ne sono reso conto. Che i miei genitori  non si rivolgevano la parola da mesi. Strano, mi sono detto in  quel momento, che non si parlino più. Ed era strano anche che non  l'avessi notato prima, ma di fatto era così, me ne ero accorto  solo allora, anche se con terribile chiarezza. Di colpo, mi sono  tornati in mente diversi episodi, momenti in cui, in altri tempi,  mio padre e mia madre si sarebbero detti qualcosa, e invece non  l'avevano fatto. Non dico che stessero sempre zitti. Ma fra di  loro era calata una specie di freddezza, e io non me ne ero mai  accorto. Le assicuro, signor Ryder, che mi ha fatto uno  stranissimo effetto, quando finalmente me ne sono reso conto. E  quasi nello stesso istante mi è venuta in mente una cosa  terribile, e cioè che il cambiamento risaliva a quando la signora  Tilkowski mi aveva cacciato via. Non potevo esserne certo, perché  era passato molto tempo, ma ripensandoci mi sono convinto che la cosa era cominciata allora. Non ricordo se mio padre sia poi  andato in giardino. Io non ho detto niente, ho finto per un po'  di continuare a leggere la mia rivista di football, poi sono  salito in camera mia, mi sono sdraiato sul letto e ci ho  riflettuto su. E da quel momento ho ricominciato a lavorare come  si deve, a esercitarmi con grande impegno, e devo avere fatto  molti progressi, perché dopo qualche mese mia madre è andata  dalla signora Tilkowski a chiederle se poteva riprendermi. Oggi  capisco che per lei deve essere stata una bella umiliazione, dopo  che le aveva urlato quell'ultima volta, e probabilmente ha anche  penato parecchio a convincerla. Fatto sta che la signora  Tilkowski ha accettato di riprendermi, e io ci ho dato dentro,  esercitandomi a più non posso. Ma vede, avevo perso due anni  cruciali. Gli anni tra i dieci e i dodici, lei sa meglio di me  quanto siano importanti. Mi creda, signor Ryder, ho cercato di  ricuperarli, ho fatto tutto il possibile, ma ormai era troppo  tardi. Ancora oggi ogni tanto mi fermo e mi domando: «Ma che cosa  diavolo ti era passato per la testa?» Oh, che cosa non darei per  riavere quegli anni! Ma vede, non credo che i miei genitori  abbiano capito veramente il danno che mi aveva fatto  quell'interruzione. Secondo me pensavano che, ritrovata la  signora Tilkowski, purché lavorassi sodo, tutto sarebbe tornato  come prima. So che la signora Tilkowski ha provato a  spiegarglielo più di una volta, ma secondo me erano così pieni di  amore e di orgoglio per loro figlio che semplicemente non  riuscivano ad accettare la realtà. Per un bel po' di anni sono  andati avanti convinti che facessi notevoli progressi, che fossi  davvero dotato. Solo quando ho avuto diciassette anni hanno  aperto gli occhi. A quei tempi c'era un concorso di pianoforte,  il Premio JÜrgen Flemming; era organizzato dall'Istituto Civico  di Belle Arti per le giovani promesse della città, e aveva una  certa rinomanza, anche se oggi non si tiene più per mancanza di  fondi. Quando avevo diciassette anni, i miei si sono messi in  testa che dovevo parteciparvi, e mia madre si è occupata di  sbrigare tutte le pratiche per iscrivermi. $è stato allora che si  sono accorti di quanto fossi lontano dalla meta. Mi hanno  ascoltato attentamente mentre suonavo - probabilmente era la  prima volta che ascoltavano £sul £serio - e hanno capito che  partecipando al concorso avrei solo umiliato me stesso e la  famiglia. Io avevo abbastanza voglia di provarci, ma i miei hanno  deciso che se l'avessi fatto mi sarei scoraggiato troppo. Come le  dico, quella è stata la prima volta che si sono accorti di come  suonassi male. Fino a quel momento, le loro grandi speranze, e  immagino anche il loro amore per me, gli avevano impedito di  ascoltare con un minimo di obiettività. E per la prima volta  hanno colto appieno il danno fatto da quell'interruzione di due  anni. Be', è abbastanza naturale che dopo fossero molto delusi.  Mia madre, in particolare, si è rassegnata all'idea di avere  fatto tutto per niente, che tutta la pena che si era data, tutti  gli anni con la signora Tilkowski, la volta che era andata a  supplicarla di riprendermi, tutto fosse stato un immenso spreco.  Si è demoralizzata, ha smesso quasi di uscire, ha smesso di  andare ai concerti e ai ricevimenti. Papà, invece, ha conservato  un filo di speranza. $è tipico del suo carattere. Spera sempre  fino all'ultimo. Di tanto in tanto, magari una volta all'anno,  vuole sentirmi suonare, e quando me lo chiede mi accorgo che  nutre ancora speranza in me, mi accorgo che pensa: «Questa volta,  questa volta sarà diverso». Ma per ora, ogni volta che finisco di  suonare e alzo gli occhi, lo vedo di nuovo sconsolato.  Naturalmente fa del suo meglio per nasconderlo, ma io me ne  accorgo lo stesso. Però non ha mai rinunciato a sperare, e per me  questo ha voluto dire molto.  
  Stavamo sfrecciando per un ampio corso fiancheggiato da alti  palazzi di uffici. Ogni tanto passavamo accanto a file di  automobili ordinatamente posteggiate, ma il nostro sembrava  ancora l'unico veicolo in movimento nel raggio di chilometri.   
  - Ed è stata un'idea di tuo padre? - domandai. - Quella di  farti suonare giovedì sera?   
  - Sì. Se questa non è fiducia! Me l'ha proposto sei mesi fa.  Non mi sente suonare da quasi due anni, ma sta dimostrando una  grande fiducia in me. Naturalmente, mi ha lasciato aperta ogni  scappatoia per dire di no, ma ho trovato così commovente che dopo  tutte queste delusioni dimostrasse ancora tanta fiducia in me,  che ho detto sì, suonerò.  
  - Sei stato molto coraggioso. Spero che i fatti ti diano  ragione.   
  - Veramente, signor Ryder, ho accettato perché, anche se non  dovrei dirlo io, be', credo di avere fatto un gran passo avanti  negli ultimi tempi. Forse lei capirà quello che voglio dire, è  piuttosto difficile da spiegare. $è come se qualcosa nella mia  testa, una specie di diga che bloccava i miei progressi, si fosse  rotto all'improvviso, liberando uno spirito interamente nuovo.  Non so spiegare bene che cosa mi è successo, ma sono convinto di  essere un pianista notevolmente migliore dell'ultima volta che  papà mi ha sentito. Per questo, quando mi ha proposto di suonare  giovedì sera, anche se la cosa mi spaventava, ho detto di sì. Se  non l'avessi fatto, mi sarebbe sembrato di tradire la fiducia che  aveva riposto in me. Questo non significa che non sia  preoccupato. Ho lavorato tantissimo sul mio pezzo, e lo ammetto,  un po' preoccupato lo sono. Ma so che è un'ottima occasione per  lasciare stupefatti i miei genitori. Vede, ho sempre sognato  qualcosa del genere. Anche quando suonavo in maniera disastrosa.  Sognavo di passare mesi e mesi chiuso da qualche parte a  esercitarmi. I miei genitori non mi avrebbero più visto. Poi un  giorno sarei tornato a casa all'improvviso. Una domenica  pomeriggio, probabilmente. In ogni caso, in un momento in cui ci  fosse anche papà. Sarei entrato e, senza dire niente a nessuno,  sarei andato al pianoforte, avrei sollevato il coperchio e  cominciato a suonare. Non mi sarei nemmeno tolto il cappotto.  Avrei solo suonato e suonato. Bach, Chopin, Beethoven. Poi i  moderni. Grebel. Kazan. Mullery. Avrei solo suonato e suonato. E  i miei, dopo avermi seguito in sala da pranzo, sarebbero rimasti  a guardarmi a bocca aperta. Nemmeno nei loro sogni più pazzi, si  sarebbero immaginati qualcosa del genere. Poi, con loro grande  meraviglia, si sarebbero accorti che, man mano che suonavo,  toccavo vette sempre più alte. Adagi sublimi e delicati.  Virtuosismi impetuosi e mozzafiato. Su, sempre più su. E loro lì  in mezzo alla stanza, papà con il giornale che stava leggendo  ancora distrattamente in mano, tutti e due sbalorditi. Avrei  concluso con un finale stupefacente, poi mi sarei voltato verso  di loro e... be', a questo punto non so mai bene che cosa  succede. Ma è una fantasia che mi torna da quando avevo tredici o  quattordici anni. Magari giovedì sera non andrà proprio così, ma  è possibile che succeda qualcosa di abbastanza simile. Come le  dico, le cose sono cambiate, e sono sicuro di avercela quasi  fatta. Ah, signor Ryder, eccoci arrivati. In tempo per i suoi  giornalisti, ne sono certo.   
  Il centro della città era così silenzioso e privo di traffico  che non l'avevo riconosciuto. Ma effettivamente stavamo  avvicinandoci all'entrata dell'albergo.   
  - Se non le spiace, - proseguì Stephan, - vi lascio qui. Io  devo fare il giro e portare la macchina sul retro.   
  Boris, sul sedile posteriore, aveva la faccia stanca ma era  ancora sveglio. Scesi e mi assicurai che il bambino ringraziasse Stephan, poi lo condussi verso l'albergo.  
7.  
  Le luci dell'atrio erano state abbassate, e tutto l'albergo, in  generale, dava l'impressione di essere sprofondato nel silenzio.  Il giovane portiere che avevo trovato al mio arrivo era di nuovo  in servizio, anche se sembrava dormire della grossa sulla sua  sedia dietro il banco della reception. Quando ci avvicinammo,  alzò gli occhi e, riconoscendomi, fece uno sforzo per svegliarsi.   
  - Buona sera, signore, - disse alacremente, ma un attimo dopo  parve di nuovo sopraffatto dalla stanchezza.   
  - Buona sera. Ho bisogno di un'altra stanza. Per Boris -. Misi  una mano sulla spalla del bambino. - Il più possibile vicino alla  mia, per piacere.   
  - Vedrò che cosa posso fare, signor Ryder.   
  - Tra l'altro, il facchino che si chiama Gustav è il nonno di  Boris. Chi sa se è ancora in albergo?   
  - Oh, sì. Gustav vive qui. Ha una cameretta su in soffitta. Ma  credo che in questo momento stia dormendo.   
  - Forse non gli spiacerà essere svegliato. Penso che ci tenga a  vedere subito Boris.   
  Il portiere guardò ansiosamente l'orologio. - Be', come vuole,  signore, - disse esitante, e sollevò il telefono. Dopo una breve  attesa sentii che aveva ottenuto la comunicazione.   
  - Gustav? Gustav, scusami molto. Sono Walter. Sì, sì, mi  dispiace averti svegliato. Sì, lo so, scusami molto. Ma  ascoltami, per piacere. $è appena rientrato il signor Ryder. C'è  tuo nipote con lui.   
  Per qualche istante il portiere rimase in ascolto, annuendo  ripetutamente. Poi posò il telefono e mi sorrise.   
  - Viene subito. Dice che penserà lui a tutto.   
  - Magnifico.   
  - Deve essere stanchissimo, signor Ryder.   
  - Sì, lo sono. $è stata una giornata faticosa. Ma temo di avere  ancora un appuntamento. Dovrebbero esserci dei giornalisti che mi  aspettano.   
  - Ah. Se ne sono andati circa un'ora fa. Hanno detto che  combineranno per un'altra volta. Mi sono permesso di suggerire  che contattassero direttamente la signorina Stratmann, in modo da  non disturbare lei. Davvero, signore, ha una faccia stanchissima.  Smetta di pensare a queste cose e vada a dormire.   
  - Sì, ha ragione. Hmm. Così se ne sono andati. Prima arrivano  in anticipo, poi se ne vanno.   
  - Sì, un bella scocciatura. Ma le consiglio di andare a  dormire, signor Ryder. Non ci pensi più, davvero. Sono arcisicuro  che tutto si aggiusterà.   
  Fui riconoscente al giovane portiere per queste parole di  conforto, e per la prima volta dopo ore e ore fui pervaso da una  sensazione di rilassamento. Posai i gomiti sul banco della  reception e lì, in piedi, sonnecchiai per qualche istante. Non mi  addormentai nel vero senso della parola, perché per tutto il  tempo rimasi consapevole della testa di Boris pesantemente  appoggiata contro il mio fianco e della voce del portiere, che  continuava a parlare con lo stesso tono rassicurante a un palmo  dalla mia faccia.  
  - Gustav sarà qui fra un attimo, - diceva, - si prenderà cura  lui del bambino. Davvero, signore, non si preoccupi più di nulla.  Quanto alla signorina Stratmann, in questo albergo la conosciamo  da molto tempo. Una donna efficientissima. Si è già occupata di  molti visitatori importanti, e tutti ne sono stati entusiasti al  cento per cento. $è una che non commette mai errori. Dunque lasci  che pensi lei ai giornalisti, vedrà che non ci saranno problemi. Quanto a Boris, gli daremo una camera proprio di fronte alla sua.  Al mattino avrà una vista molto bella, che sicuramente gli  piacerà. Quindi, signor Ryder, perché adesso non va su a dormire?  Non c'è assolutamente nulla che lei possa ancora fare oggi. Anzi,  se mi consente, non appena sarete di sopra, le consiglierei di  lasciare Boris con suo nonno. Gustav sarà qui da un momento  all'altro, sta solo indossando l'uniforme, è per questo che ci  mette un po'. Fra un attimo scenderà tutto lustro, lui è fatto  così, uniforme immacolata, non un filo fuori posto. E quando  arriva, lasci che si occupi lui di tutto, è meglio. Sta  senz'altro facendo più in fretta che può. In questo momento si  starà legando le stringhe delle scarpe, seduto sulla sponda del  suo lettuccio. Fra un attimo sarà pronto e scatterà in piedi,  anche se dovrà fare attenzione a non battere la testa nella  trave. Una rapida pettinata ed eccolo in corridoio. Sì, sarà qui  fra un secondo, e lei potrà salire in camera sua, rilassarsi e  farsi una bella dormita. Prima di andare a letto le raccomando un  liquorino, uno dei cocktail speciali che troverà già pronti nel  suo frigobar. Sono ottimi. O forse vorrà farsi mandare su  qualcosa di caldo. E potrebbe ascoltare un po' di musica  distensiva alla radio. A quest'ora c'è un canale che trasmette da  Stoccolma, solo jazz da tarda notte, molto sobrio, molto  distensivo, gliel'assicuro, lo ascolto spesso anch'io per  scaricarmi. Oppure, se ha bisogno di rilassarsi £sul £serio,  perché non va anche lei a vedere il film? In questo preciso  istante molti dei nostri clienti sono lì.  
  L'ultima osservazione - a proposito del film - mi riscosse dal  sopore. Raddrizzandomi, domandai:   
  - Mi scusi, che cosa stava dicendo? Che molti clienti sono  andati a vedere un film?   
  - Sì, c'è un cinema appena girato l'angolo, dove danno un film  a tarda ora. Molti clienti vanno a vederlo perché li aiuta a  distendere i nervi dopo una giornata faticosa. Potrebbe fare un  salto anche lei, invece di prendere il cocktail o qualcosa di  caldo.   
  Il telefono accanto alla sua mano si mise a suonare;  scusandosi, il portiere sollevò il ricevitore. Mentre ascoltava,  mi lanciò un paio di occhiate imbarazzate. Poi disse: - Sì, è  qui, signora, - e mi porse il telefono.   
  - Pronto, - dissi.   
  Per qualche secondo vi fu silenzio. Poi una voce disse: - Sono  io.   
  Impiegai un momento a capire che era Sophie. Ma nell'istante in  cui la riconobbi, mi sentii invadere da una gran rabbia nei suoi  confronti, e fu solo la presenza di Boris che mi impedì di  mettermi a urlare furibondo al telefono. Alla fine dissi  gelidamente: - Ah, sei tu.   
  Vi fu un altro breve silenzio, prima che Sophie dicesse: -  Chiamo da fuori. Sono in strada. Ti ho visto entrare con Boris.  Probabilmente è meglio che in questo momento lui non mi veda.  Dovrebbe essere a letto da un pezzo. Cerca di non fargli capire  con chi stai parlando.   
  Abbassai gli occhi su Boris, che si era appisolato in piedi  appoggiandosi contro di me.   
  - Allora, che cosa hai intenzione di fare? - domandai.  
  La udii sospirare rumorosamente. Poi disse:   
  - Hai tutti i diritti di essere arrabbiato. Io... io non so che  cosa mi sia preso. Solo adesso mi rendo conto di quanto sono  stata sciocca...  
  - Senti, - la interruppi, temendo di non riuscire a trattenere  a lungo la mia rabbia, - dove sei, esattamente?   
  - Dall'altra parte della strada. Sotto gli archi, di fronte ai negozi di antiquariato.   
  - Sarò li fra un minuto. Resta dove sei.   
  Restituii il ricevitore al portiere e notai con sollievo che  Boris aveva dormito per tutta la durata della telefonata. In ogni  caso, proprio in quel momento, le porte dell'ascensore si  aprirono e ne ti uscì Gustav.   
  La sua uniforme aveva davvero un aspetto immacolato. I suoi  sottili capelli bianchi erano stati inumiditi e pettinati. Solo  dal lieve gonfiore intorno agli occhi e dall'andatura un po'  rigida si poteva capire che fino a pochi minuti prima stava  dormendo.   
  - Oh, buona sera, signore, - disse, avvicinandosi.   
  - Buona sera.   
  - Ha portato Boris con sé. La ringrazio moltissimo, non doveva  scomodarsi -. Gustav fece qualche passo verso di noi, osservando  il nipote con un tenero sorriso sulle labbra. - Santo cielo,  signore, ma lo guardi. Dorme come un sasso.   
  - Si, si è stancato molto, - dissi.   
  - Sembra ancora così piccolo quando dorme -. Commosso, il  facchino fissò Boris per qualche istante. Poi sollevò lo sguardo  verso di me e disse: - Mi domandavo, signore, se è riuscito a  parlare con Sophie. $è tutto il pomeriggio che mi chiedo come è  andata.  
  - Be', sì, le ho parlato.   
  - Ah. E ha qualche sentore?   
  - Sentore?   
  - Sì, dei motivi della sua inquietudine.   
  - Ah. Be', mi ha detto parecchie cose molto rivelatrici... ma  sinceramente, come le ho già spiegato, è difficilissimo che dal  di fuori si possa capire come stanno le cose. Qualche vaga idea  sui possibili motivi della sua preoccupazione me la sono fatta,  questo è ovvio, ma sono sempre più convinto che la cosa migliore  è che le parli lei.   
  - Vede, signore, come mi sembra di averle spiegato prima...   
  - Sì, sì, non vi rivolgete più la parola, me lo ricordo, -  dissi, con un improvviso scatto di impazienza. - Di sicuro, però,  se la cosa le sta a cuore...   
  - La cosa mi sta molto a cuore. Oh, sì, £moltissimo. $è per il  bene di Boris, capisce. Se non troviamo una soluzione in fretta,  il bambino ne soffrirà, ne sono sicuro. Ci sono già i primi  segni. E non ha che da guardarlo adesso, signore, guardarlo  mentre dorme, per capire che è ancora piccolo. $è nostro dovere  sgombrargli il mondo da queste preoccupazioni ancora per un po',  non le sembra? In verità, dire che la cosa mi sta a cuore è dire  poco. Negli ultimi tempi ci penso quasi senza interruzione,  giorno e notte. Ma vede... - Il facchino fece un pausa, fissando  con aria assente un punto del pavimento davanti ai suoi piedi.  Poi scosse piano piano la testa e sospirò. - Lei dice che dovrei  parlare a Sophie di persona. Non è così semplice. Deve capire  come si è creata questa situazione. Vede, ormai questa... questa  £intesa funziona da molti anni. Dai tempi in cui Sophie era  bambina. Naturalmente, quando era £molto piccola, le cose erano  diverse. Fino a quando ha avuto otto o nove anni, oh, Sophie e io  ci parlavamo in continuazione. Le raccontavo le storie, facevamo  lunghe passeggiate nella città vecchia, tenendoci per mano, solo  noi due, parlando e parlando. Non creda, signore, volevo bene a  Sophie allora e gliene voglio oggi. Oh, sì. Quando lei era  piccola, eravamo  £molto vicini. L'intesa è cominciata solo verso gli otto anni.  Sì, aveva quell'età lì. Detto per inciso, all'inizio non pensavo  che questa nostra intesa fosse destinata a durare a lungo.  Probabilmente me la figuravo come una cosa di qualche giorno. Tutto lì, signore, non mi proponevo altro. Ricordo che il primo  giorno ero a casa dal lavoro e stavo montando una mensola in  cucina per mia moglie. Sophie mi seguiva dappertutto,  domandandomi questo, offrendosi di portarmi quello, cercando di  aiutarmi. E io sono rimasto zitto, signore, assolutamente zitto.  Presto, mi sono accorto che Sophie era confusa e turbata. Ma  avevo deciso così e dovevo essere irremovibile. Non è stato  facile. Buon Dio, non è stato affatto facile; amavo la mia  bambina più di ogni altra cosa al mondo, ma mi sono detto che  dovevo essere forte. Tre giorni, ho pensato, tre giorni saranno  sufficienti, tre giorni e non se ne parla più. Solo tre giorni,  poi sarei tornato a casa dal lavoro e avrei potuto di nuovo  prenderla in braccio, tenerla stretta, e ci saremmo detti tutto.  Avremmo recuperato, per così dire. A quel tempo lavoravo  all'Hotel Alba, e alla fine del terzo giorno, come può  immaginare, non vedevo l'ora che il mio turno finisse per correre  di nuovo dalla mia piccola Sophie. Può quindi capire la mia  delusione quando, entrando in casa, ho chiamato Sophie e lei si è  rifiutata di venire a salutarmi. Come se non bastasse, quando  sono andato a cercarla, lei si è girata dall'altra ed è uscita  dalla stanza senza aprire bocca. Come può immaginare, ci sono  rimasto molto male. E devo essermi arrabbiato un po'; come le  dico, avevo avuto una giornataccia, e friggevo dalla voglia di  vederla. Mi sono detto, se è così che vuole comportarsi, peggio  per lei. Ho cenato con mia moglie e sono andato a letto senza  dire nemmeno una parola a Sophie. Credo che tutto sia nato di lì.  $è passato un giorno, ne è passato un altro, e prima che ce ne  accorgessimo, il silenzio era diventato la norma. Non voglio che  lei mi fraintenda, signore; non si trattava di un litigio, anzi,  qualsiasi animosità tra noi è cessata molto in fretta. Già allora  eravamo come oggi. Sophie e io siamo rimasti molto premurosi  l'uno nei confronti dell'altra. Semplicemente, abbiamo smesso di  parlarci. Ammetto che non avrei mai immaginato che la cosa  potesse trascinarsi così a lungo. La mia intenzione, credo, è  sempre stata quella, al momento giusto, magari in un giorno  speciale come il suo compleanno, di dimenticare tutto e ritornare  come eravamo prima. Ma poi il compleanno è venuto e passato, ed è  venuto e passato anche il Natale, e noi per qualche ragione non  abbiamo mai ricominciato a parlarci. Poi, quando Sophie aveva  undici anni, è successa una cosa un po' triste. Sophie aveva un  piccolo criceto bianco. Lo chiamava Ulrich, e gli voleva molto  bene. Passava ore e ore a parlargli, e lo portava in giro per  casa tenendolo in mano. Poi un giorno la bestiola è scomparsa.  Sophie l'ha cercata da per tutto. Sua madre e io abbiamo messo  sottosopra l'appartamento, abbiamo chiesto ai vicini, ma  inutilmente. Mia moglie ha fatto del suo meglio per convincere  Sophie che Ulrich stava bene, che si era solo preso una vacanzina  e che sarebbe tornato presto. Poi, un pomeriggio, mia moglie è  uscita, e io e Sophie siamo rimasti soli in casa. All'improvviso,  mentre ero in camera da letto che ascoltavo un concerto con la  radio a tutto volume, mi sono accorto che Sophie era in salotto e  stava singhiozzando convulsamente. Quasi subito ho capito che  aveva ritrovato Ulrich. O meglio, quel che restava di lui, visto  che il criceto era ormai sparito da qualche settimana. Be', la  porta tra la camera e il salotto era chiusa, e come le ho detto  tenevo la radio a tutto volume, quindi avrei potuto benissimo non  sentire Sophie. Così sono rimasto in camera da letto, con  l'orecchio incollato alla porta e il concerto che suonava alle  mie spalle. Naturalmente ho pensato parecchie volte di andare da  lei, ma quanto più me ne stavo lì, dietro la porta, tanto più mi  sembrava innaturale piombare dentro all'improvviso. Vede, non è  che singhiozzasse così forte. Per un po' sono persino tornato a sedermi, ho cercato di fingere di non essermi accorto di niente.  Ma naturalmente sentirla piangere a quel modo mi straziava  l'anima, e quasi subito mi sono ritrovato davanti alla porta,  chino in avanti per cogliere i rumori di Sophie nonostante il  frastuono del concerto. Se mi chiama, mi sono detto, se bussa o  mi chiama, allora entrerò. Questa è stata la decisione che ho  preso. Se grida: «Papà!», allora entrerò e le spiegherò che non  sentivo a causa della musica. Ho aspettato, ma Sophie non ha  chiamato né bussato. L'unica cosa che ha fatto, dopo un lungo  pianto disperato che mi è andato dritto al cuore, glielo posso  assicurare, l'unica cosa che ha fatto è stata di urlare come a se  stessa... voglio sottolinearlo, signore, come a se stessa: «Ho  lasciato Ulrich nella scatola! $è stata colpa mia! Me ne sono  dimenticata! $è stata colpa mia!» Era successo, come ho scoperto  più tardi, che Sophie aveva messo Ulrich in una scatoletta che le  avevano regalato. Voleva portarlo da qualche parte, lo faceva  spesso di portarlo in giro per «mostrargli» le cose. Lo aveva  messo in quella scatoletta, pronta per uscire, ma per qualche  motivo si era distratta e non era più uscita, e nel frattempo si  era dimenticata di avere messo Ulrich nella scatola. Il  pomeriggio di cui le parlo, cioè parecchie settimane dopo, Sophie  stava trafficando per casa quando improvvisamente se ne era  ricordata. Le lascio immaginare che momento terribile deve essere  stato per la mia bambina! Ricordarsi così all'improvviso, magari  sperare contro ogni logica di ricordare male, correre a prendere  la scatola. E naturalmente dentro c'era Ulrich. Lì per lì, mentre  ascoltavo attraverso la porta, non ero riuscito a stabilire che  cosa fosse successo esattamente, ma nel momento in cui Sophie ha  urlato ho cominciato a capire. «Ho dimenticato Ulrich nella  scatola! $è stata colpa mia!» Ma voglio che abbia chiaro,  signore, che Sophie ha detto queste parole come rivolgendosi a se  stessa. Se avesse detto: «Papà! Ti prego, vieni...» Invece no.  Con tutto ciò, ho pensato fra me e me: «Se grida di nuovo così,  entro». Ma lei non ha più gridato. Si è limitata a singhiozzare.  Me la vedevo, con Ulrich in mano, magari con la speranza che  potesse ancora essere salvato... Oh, non è stato facile, signore.  Ma la radio continuava a trasmettere il concerto, e così sono  rimasto in camera da letto. Ho sentito mia moglie che rientrava  molto più tardi, le due che parlottavano, Sophie che piangeva di  nuovo. Poi mia moglie è venuta in camera e mi ha raccontato  quello che era successo. «Non hai sentito nulla?» mi ha chiesto.  E io: «Oh cielo, no, stavo ascoltando il concerto». La mattina  dopo, a colazione, Sophie non mi ha detto niente, e io non ho  detto niente a lei. In altre parole, abbiamo mantenuto la 
  nostra  intesa. Ma io mi sono accorto, al di là di ogni possibile dubbio,  che Sophie £sapeva che l'avevo sentita. E soprattutto, che non ce  l'aveva con me. Mi ha passato la brocca del latte come sempre, il  burro, ha addirittura portato via il mio piatto, un piccolo  servizio extra. Quello che voglio dire, signore, è che Sophie  capiva la nostra intesa e la rispettava. Dopo quella volta, come  può immaginare, la situazione si è un po' cristallizzata. Vede,  dato che non avevamo rotto l'intesa per la faccenda di Ulrich,  non sarebbe stato giusto farlo fino a quando non fosse successo  qualcosa di altrettanto importante. Capisce anche lei che  interromperla di punto in bianco, senza nessun motivo  particolare, non solo sarebbe stato imbarazzante, ma avrebbe  sminuito l'intero episodio di Ulrich, che per mia figlia  costituiva una tragedia. Spero proprio che lo capisca, signore.  In ogni caso, come le dico, dopo quella volta la nostra intesa si  è, be', cementata, e persino nelle attuali circostanze mi  sembrerebbe poco opportuno rompere all'improvviso un accordo che  dura da così tanto tempo. E oso dire che Sophie la penserebbe nello stesso modo. Per questo le ho chiesto, come un favore  particolare, visto che questo pomeriggio andava da quelle  parti...   
  - Sì, sì, sì, - lo interruppi, con un altro scatto  d'impazienza. Poi, più gentilmente, aggiunsi: - Comprendo la  situazione che si è creata tra lei e sua figlia. Ma mi chiedo,  non è possibile che questa storia... questa storia dell'intesa...  sia proprio la causa delle sue preoccupazioni? Non è possibile  che la volta che l'ha vista seduta in quel caffè con l'aria  disperata stesse pensando proprio a questo?   
  La mia osservazione fulminò Gustav, che per qualche istante  rimase zitto. Alla fine disse: - Non mi era mai venuto in mente,  signore, questo che lei dice. Bisognerà che ci pensi su. No, non  mi era mai venuto in mente -. Tacque di nuovo per qualche  istante, con la faccia scura. Poi alzò gli occhi e disse: - Ma  perché la nostra intesa dovrebbe preoccuparla £adesso? Dopo tutto  questo tempo? - Il facchino scosse la testa lentamente. - Posso  chiederle una cosa, signore? Quest'idea le è venuta dopo avere  parlato con lei?  
  All'improvviso mi sentii stanchissimo, e non so che cosa avrei  dato per potermene lavare le mani. - Non lo so, non lo so, -  dissi. - Lo ripeto, le questioni familiari... io sono un  osservatore esterno. Come posso giudicare? Stavo solo  prospettando una possibilità.   
  - Di sicuro dovrò pensarci su. Per il bene di Boris sono  disposto a esaminare qualsiasi possibilità. Sì, dovrò pensarci su  -. Gustav tacque di nuovo, sempre più scuro in volto. - Mi stavo  domandando, signore, - disse dopo un po', - se posso chiederle un  altro piacere. La prossima volta che vede Sophie, potrebbe  indagare su questa possibilità? Sono sicuro che saprebbe farlo  con tutto il tatto necessario. In condizioni normali non le  chiederei mai una cosa simile, ma vede, lo faccio per il piccolo  Boris. Gliene sarei davvero riconoscente.  
  Mi guardò supplichevole. Alla fine sospirai e dissi: -  D'accordo. Farò il possibile, per il bene di Boris. Ma voglio che  sia ben chiaro che per uno come me, che vede le cose dal di  fuori...   
  Sarà stato perché avevamo fatto il suo nome, ma in quel momento  Boris cominciò a svegliarsi.   
  - Nonno! - esclamò e, staccandosi da me, si slanciò tutto  eccitato verso Gustav, con l'evidente intenzione di abbracciarlo.  Ma all'ultimo momento si trattenne e gli tese invece la mano.   
  - Buona sera, nonno, - disse con compostezza.   
  - Buona sera, Boris -. Gustav lo accarezzò delicatamente sulla  testa. - Mi fa piacere vederti. Com'è andata oggi?   
  Boris fece spallucce con aria indifferente. - Una giornata un  po' faticosa. Ma niente di speciale.   
  - Solo un minuto, - disse Gustav, - mi occupo io di tutto.   
  Con un braccio sulle spalle del nipote, il facchino si avvicinò  al banco della reception. Per qualche istante parlottò con il  portiere in gergo alberghiero. Poi entrambi annuirono di comune  accordo, e il portiere gli consegnò una chiave.   
  - Se vuole seguirmi, signore, - mi disse Gustav. - Le farò  vedere la camera di Boris.   
  - Veramente, ho un altro impegno.   
  - A quest'ora? Una vita davvero frenetica, signore. Be', in tal  caso, che ne dice se porto su Boris e lo sistemo io?   
  - Mi sembra un'ottima idea. Mi farebbe un gran piacere.   
  Li accompagnai fino all'ascensore e li salutai con la mano  mentre le porte si richiudevano. Poi, tutto d'un tratto, la  frustrazione e la rabbia che fino a quel momento ero riuscito a  dominare mi ripiombarono addosso, e senza più rivolgere la parola al portiere attraversai l'atrio e uscii di nuovo nella notte.  
8.  
  La strada era deserta e silenziosa. Impiegai un momento per  scoprire - un po' più in là e sul lato opposto - gli archi di  pietra di cui Sophie aveva parlato al telefono. Mentre mi  dirigevo da quella parte, temetti per un istante che si fosse  persa d'animo e fosse fuggita. Poi però vidi la sua sagoma  emergere dall'ombra, e di nuovo mi sentii invadere dalla rabbia.   
  I suoi occhi non erano sottomessi come avrei voluto; vidi che  mi osservavano attentamente. E, quando le fai vicino, Sophie mi  disse in tono quasi serafico:   
  - Hai tutti i diritti di essere arrabbiato. Non so che cosa mi  sia preso. Dovevo essere confusa. Hai tutti i diritti di essere  arrabbiato, lo so.   
  La guardai con indifferenza. - Arrabbiato? Ah, capisco. Ti  riferisci a come ti sei comportata questa sera. Be', sì, devo  dire che ci sono rimasto molto male per Boris. Era disperato,  come puoi immaginare. Ma sinceramente, per quanto mi riguarda,  non sono stato certo a tormentarmi. Ho ben altro per la testa in  questo momento.   
  - Mi chiedo come sia potuto succedere. So che avevate bisogno  di me...   
  - Non ho mai avuto bisogno di te. E adesso vedi di calmarti -.  Proruppi in una breve risata e mi incamminai lentamente. - Per  quanto mi riguarda, non merita nemmeno parlarne. Sono sempre  stato capace di badare a me stesso, con o senza il tuo aiuto. Ci  sono rimasto male per Boris, tutto lì.   
  - Sono stata una stupida, adesso me ne rendo conto -. Sophie si  era messa a camminare al mio fianco. - Non so, probabilmente  pensavo che tu e Boris... prova a metterti nei miei panni... che  tu e Boris faceste apposta a rimanere indietro, che non foste  affatto entusiasti del mio programma per la serata, e mi sono  detta che vi sareste sganciati in ogni caso... Senti, se vuoi, ti  dirò tutto. Tutto quel che vuoi sapere. Nei minimi particolari...  
  Mi fermai e mi girai verso di lei. - Evidentemente non mi sono  spiegato. Tutto ciò non mi interessa. Sono uscito solo perché  volevo prendere una boccata d'aria e distendere un po' i nervi.  $è stata una giornata faticosa. Anzi, sono uscito perché prima di  andare a letto volevo vedere un film.   
  - Un film? E che film?   
  - Come faccio a saperlo? C'è un cinema qui vicino che dà un  film a quest'ora. Non mi importa quale, pensavo di andarci in  ogni caso. $è stata una giornata molto faticosa.   
  Ripresi a camminare, questa volta più risoluto. Un istante dopo  ebbi la soddisfazione di sentire i suoi passi che mi seguivano.   
  - Davvero non sei arrabbiato? - mi domandò Sophie  raggiungendomi.   
  - Certo che no. Perché dovrei?   
  - Posso venire anch'io? A vedere questo film?  
  Alzai le spalle e continuai a camminare di buon passo. - Se ti  fa piacere. Io non ho nulla in contrario.   
  Sophie mi afferrò il braccio. - Se vuoi, vuoto il sacco. Ti  dico tutto. Tutto quello che vuoi sapere su...   
  - Senti, quante volte devo ancora dirtelo? Non sono minimamente  interessato. Adesso voglio solo distendere i nervi. Nei prossimi  giorni non avrò un attimo di respiro.   
  Per un momento, mentre camminavamo in silenzio, Sophie continuò  a stringermi il braccio. Poi mi disse sottovoce: - Ti ringrazio.  Sei così comprensivo.   
  Finsi di non avere sentito. Poco dopo scendemmo dal marciapiede  e proseguimmo in mezzo alla strada deserta.  
  - Quando avrò trovato una casa adatta per noi, - disse Sophie,  - allora le cose andranno meglio. Ne sono sicura. Ci spero  proprio in questo posto che vado a vedere domattina. Si direbbe  la casa che abbiamo sempre desiderato.   
  - Sì. Speriamo sia così.   
  - Potresti dimostrare un po' più di entusiasmo. Potrebbe essere  la svolta della nostra vita.   
  Feci spallucce e continuai a camminare. Il cinema era ancora  abbastanza lontano, ma essendo in pratica l'unico edificio  illuminato della strada buia, già da un pezzo aveva attirato i  nostri sguardi. Poi, quando fummo più vicini, Sophie sospirò e si  fermò.   
  - Magari io non vengo, - disse, districando il braccio. -  Domani ho bisogno di parecchio tempo per vedere la casa. Dovrò  partire presto. $è meglio che me ne vada.   
  Non so perché, le sue parole mi colsero un po' di sorpresa, e  per un secondo non seppi che cosa risponderle. Guardai prima il  cinema, poi di nuovo Sophie.   
  - Non hai detto che volevi... - cominciai, poi, dopo una pausa,  aggiunsi con voce più calma: - Senti, è un film molto bello. Sono  sicuro che ti piacerà.   
  - Ma se non sai nemmeno che film danno.   
  Mi balenò il pensiero che volesse prendersi gioco di me. Ma  stavo cominciando a provare una strana sensazione di panico, e  non potei fare a meno di usare un tono supplichevole.   
  - Sai cosa voglio dire. Il portiere. Me l'ha raccomandato lui.  Lo conosco, ed è una persona di fiducia. D'altronde l'albergo ha  una reputazione da difendere. Mi sembra poco probabile che  consiglino ai clienti... - Le parole mi si spensero sulle labbra,  mentre il panico cresceva e Sophie cominciava ad allontanarsi da  me. - Senti, - dissi ad alta voce, senza più curarmi che qualcuno  potesse sentirmi, - sono sicuro che è un bel film. Ed è così  tanto tempo che non andiamo al cinema. Ci hai mai pensato?  Quand'è l'ultima volta che abbiamo fatto qualcosa insieme?   
  Sophie parve riflettere sulle mie parole, infine sorrise e  tornò indietro.   
  - Va bene, - disse, prendendomi con garbo il braccio. - Va   
  bene. $è tardi, ma verrò con te. Hai ragione, sono secoli che  non facciamo qualcosa insieme. Abbiamo bisogno di un po' di  distrazione.   
  Provai un gran sollievo, e mentre entravamo nel cinema mi  trattenni a stento dall'abbracciarla. Sophie dovette  accorgersene, perché mi posò la testa sulla spalla.   
  - Sei così buono, - disse sottovoce, - a non essere arrabbiato  con me.   
  - E perché dovrei essere arrabbiato? - bofonchiai, mentre  esaminavo il foyer.   
  - Poco più avanti si vedeva la coda di una fila di persone che  stavano entrando nella sala. Mi guardai intorno cercando un posto  per comprare i biglietti, ma il botteghino era chiuso, e pensai  che ci fosse un accordo speciale tra l'albergo e il cinema. Fatto  sta che, quando Sophie e io chiudemmo la fila, l'uomo vestito di  verde che stava sulla soglia ci sorrise e ci fece entrare come  tutti gli altri.   
  La sala era quasi piena. Le luci non erano ancora spente, e  molte persone si aggiravano in cerca di un posto. Stavo guardando  anch'io dove sederci, quando Sophie mi strinse il braccio  eccitata.  
  - Oh, prendiamo qualcosa, - disse. - Un gelato, o dei  popcorn...   
  Mi indicò la parte anteriore della sala, dove si era formata  una breve fila di fronte a una donna in uniforme con un vassoio di dolciumi.   
  - Certamente, - dissi. - Ma dobbiamo sbrigarci, o non troveremo  più posto. La sala è affollatissima.  
  Andammo anche noi a unirci alla coda. Ma dopo un momento,  mentre ero lì che aspettavo, provai un nuovo impeto di rabbia,  tanto che non potei fare a meno di dare le spalle a Sophie. Poi  la sentii dire dietro di me:   
  - Devo essere sincera. Questa sera non sono venuta in albergo  per cercare te. Non sapevo nemmeno che saresti ripassato di lì.   
  - Davvero? - Mi sporsi in avanti per esaminare i dolciumi.   
  - Dopo quello che era successo, - proseguì Sophie, - voglio  dire, quando ho capito che mi ero comportata come una sciocca,  be', non sapevo più che cosa fare. Poi, improvvisamente, mi sono  ricordata. Del cappotto invernale di papà. Mi sono ricordata che  non glielo avevo ancora portato.   
  Udii un fruscio. Mi girai, e solo allora notai che Sophie aveva  sul braccio un grosso fagotto informe di carta marrone. Lo  sollevò in aria, ma doveva essere piuttosto pesante, perché  subito lo riabbassò.   
  - Sono stata sciocca, - disse. - Non c'era nessun motivo di  agitarsi. Ma vedi, di colpo mi è sembrato di sentire l'inverno  nell'aria. Ho pensato al cappotto e ho voluto portarglielo  subito. Così l'ho avviluppato in un pezzo di carta e sono uscita.  Ma quando sono arrivata davanti all'albergo la notte era tiepida.  Ho capito che mi ero spaventata per nulla, e non sapevo più se  entrare per darglielo questa sera oppure no. Così sono rimasta lì  fuori, e intanto si faceva sempre più tardi, finché mi sono resa  conto che a quell'ora papà era sicuramente andato a dormire. Ho  pensato di lasciarlo al portiere, ma poi mi è venuta voglia di  darglielo di persona. E stavo dicendomi che intanto non c'era  nessuna fretta perché l'aria era ancora tiepida, quando è  arrivata la macchina e ne siete scesi tu e Boris. Ecco, adesso  sai la verità.  
  - Capisco.   
  - Altrimenti non so se avrei avuto il coraggio di affrontarti.  Ma ero lì, proprio davanti all'albergo, così ho respirato a fondo  e ho telefonato.  
  - Bene, sono contento che tu l'abbia fatto -. Accennai alla  sala. - In fondo è molto tempo che non andiamo al cinema insieme.   
  Sophie non rispose, e quando abbassai gli occhi vidi che  fissava amorevolmente il pacco che teneva sul braccio,  accarezzandolo con la mano libera.   
  - Il tempo non cambierà ancora per un po', - mormorò, parlando  più al cappotto che a me. - Quindi non c'è nessuna fretta.  Possiamo darglielo fra qualche settimana.   
  Eravamo finalmente arrivati in fondo alla coda, e Sophie mi  passò davanti per sbirciare con impazienza nel vassoio della  donna in uniforme.   
  - Tu che cosa prendi? - mi domandò. - Io penso che sceglierò  una coppetta di gelato. No, un ricoperto al cioccolato. Uno di  questi.   
  Guardando al di sopra della sua spalla, vidi che il vassoio  conteneva il solito assortimento di gelati e di barrette di  cioccolato. Ma stranamente i dolci erano stati ammassati ai  margini per fare spazio a un grosso libro malconcio. Mi chinai a  esaminarlo.   
  - Un manuale molto utile, signore, - disse subito la donna in  uniforme. - Glielo raccomando caldamente. So che non è il posto  adatto. Ma il direttore chiude un occhio se di tanto in tanto  vendiamo un oggetto personale, basta non farlo troppo spesso.   
  Sulla sopraccoperta c'era la fotografia di un uomo sorridente a  metà di una scala a libro, con un pennello in mano e un rotolo di carta da parati sotto il braccio. Quando presi il volume in mano,  sentii che la rilegatura si stava sfasciando.   
  - Veramente apparteneva al mio figlio più grande, - continuò la  donna in uniforme. - Ma adesso è cresciuto e se ne è andato in  Svezia. La settimana scorsa mi sono finalmente decisa a fare  ordine tra le sue cose. Ho tenuto tutto ciò che mi sembrava  avesse un valore affettivo e ho buttato via il resto. Poi però mi  sono capitate tra le mani un paio di cosette che non rientravano  in nessuna delle due categorie. Questo manuale, per esempio, non  posso dire che abbia un gran valore affettivo, ma è molto utile:  ti insegna a fare un sacco di lavoretti in casa, come decorare, o  piastrellare, ti spiega tutto per gradi, con disegni molto  chiari. Mi ricordo che mio figlio, quand'era piccolo, l'ha  trovato utilissimo. So che è un po' sciupato, ma è davvero un  libro indispensabile. Non chiedo molto, signore.   
  - Magari a Boris piacerebbe, - dissi a Sophie, sfogliando il  volume.   
  - Oh, se avete un figlio piccolo, è il libro che ci vuole.  Posso garantirvelo per esperienza. Per il nostro è stato una  miniera di informazioni. Ti spiega tutto, come dipingere, come  mettere le piastrelle.   
  Le luci cominciarono ad abbassarsi, e io mi ricordai che  dovevamo ancora cercarci un posto.   
  - Va bene, lo prendo, - dissi.   
  Mentre pagavo, la donna si profuse in ringraziamenti, poi ce ne  andammo con il libro e i nostri gelati.   
  - Sei gentile a interessarti così di Boris, - disse Sophie  mentre risalivamo il corridoio centrale. Poi sollevò di nuovo il  pacco e se lo strinse al petto, facendo frusciare la carta.   
  - Non so come papà abbia potuto passare l'ultimo inverno senza  un cappotto come si deve, - disse. - Ma era troppo orgoglioso per  portare quello vecchio. L'anno scorso non faceva molto freddo,  per fortuna. Ma non può passare un altro inverno così.   
  - No di certo.   
  - Io non sono una sentimentale. So che papà sta invecchiando. E  ho già pensato a tutto. Per esempio, a quando andrà in pensione.  $è inutile nascondersi che sta invecchiando -. Poi aggiunse  sottovoce: - Questo glielo do fra un paio di settimane. Dovrebbe  bastare.   
  Le luci avevano continuato ad abbassarsi, e il pubblico si era  zittito in attesa dello spettacolo. Mi accorsi che la sala era  ancora più affollata di prima e temetti di avere aspettato troppo  a cercare un posto. Poi però, mentre calava l'oscurità, ci venne  incontro una maschera, che ci mostrò con la torcia due poltrone  libere vicino allo schermo. Borbottando qualche scusa, Sophie e  io strisciammo di traverso lungo la fila e ci sedemmo nel preciso  istante in cui cominciava il fuori programma.   
  Le pubblicità erano quasi tutte di aziende locali, e mi parvero  interminabili. Quando finalmente cominciò lo spettacolo vero e  proprio, eravamo seduti da almeno mezz'ora; vidi con sollievo che  il film era un classico della fantascienza, v2001: Odissea nello spazio,v uno dei miei preferiti, che non mi stancherò mai di rivedere. Non appena sullo schermo comparvero le impressionanti  immagini di apertura di un mondo preistorico, provai una  sensazione di rilassamento, e presto mi calai piacevolmente nel  film. Eravamo nel bel mezzo della storia, con Clint Eastwood e  Yul Brynner a bordo dell'astronave diretta verso Giove, quando  accanto a me udii Sophie che diceva:   
  - Ma il tempo può cambiare. Così, quando meno te l'aspetti.  
  Pensai si riferisse al film e borbottai che ero d'accordo con  lei. Ma qualche minuto dopo Sophie ricominciò:   
  - L'anno scorso ha fatto un bell'autunno soleggiato, proprio come adesso. Un autunno lunghissimo. La gente prendeva il caffè  nei bar all'aperto ancora a novembre. Poi di colpo, quasi da un  giorno all'altro, è arrivato il freddo. Magari succede così anche  quest'anno. Non si può mai sapere, no?   
  - No, penso di no -. Ormai avevo capito che ce l'aveva ancora  con il cappotto.   
  - Ma non c'è fretta, - mormorò Sophie.   
  Quando le gettai un'occhiata, mi parve che stesse di nuovo  guardando il film. Mi girai anch'io verso lo schermo, ma pochi  secondi dopo, nell'oscurità del cinema, cominciarono a tornarmi  alla mente certi frammenti di ricordo, e la mia attenzione fu  nuovamente distolta dal film.   
  Con grande vividezza mi rividi seduto in una poltrona scomoda,  forse sporca. Probabilmente era mattina, una mattina grigia e  opaca, e davanti a me avevo un giornale. Boris era lì vicino,  sdraiato a pancia in giù sul tappeto, e disegnava su un album con  un pastello a cera. Dall'età del bambino - che era ancora molto  piccolo - dedussi che la scena risaliva a sei o sette anni prima,  anche se non ricordavo né in quale stanza, né in quale casa, si  fosse svolta. La porta che comunicava con la camera accanto era  stata lasciata spalancata, e si sentiva un chiacchiericcio di  voci femminili.   
  Per un po' avevo continuato a leggere il giornale nella mia  scomoda poltrona, finché qualcosa in Boris - un sottile mutamento  del suo contegno o della sua posizione - mi aveva fatto abbassare  gli occhi su di lui. E in un baleno mi ero reso conto di ciò che  stava avvenendo davanti a me. Boris era riuscito a disegnare un  Superman perfettamente riconoscibile. Erano settimane che ci  provava, ma nonostante i nostri incoraggiamenti i suoi  scarabocchi non avevano mai la minima somiglianza. Adesso invece,  forse per quella miscela di fortuna e di reali progressi così  frequente nell'infanzia, ce l'aveva improvvisamente fatta. Anche  se lo schizzo non era finito - la bocca e gli occhi erano  incompleti - mi ero subito reso conto che il disegno  rappresentava un immenso trionfo per lui. Gli avrei senza dubbio  detto qualcosa, se in quel momento non l'avessi visto chino sul  foglio in uno stato di grande tensione, con il pastello a  mezz'aria. Era evidente che esitava a rifinire il disegno per  timore di rovinarlo. Sentivo acutamente il suo dilemma, e avrei  voluto esclamare ad alta voce: - Fermati, Boris. Basta così.  Fermati lì e fa vedere a tutti quello che hai fatto. Fallo vedere  a me, poi a tua madre, poi alla gente che chiacchiera di là. Che  cosa importa se non è finito? Tutti resteranno a bocca aperta e  saranno fierissimi di te. Fermati adesso, prima di guastare tutto  -. Ma non avevo detto niente, ed ero rimasto a osservarlo  nascosto dietro il giornale. Alla fine Boris, vinte le  esitazioni, aveva cominciato ad aggiungere qualche tocco con  grande prudenza. Poi, acquistando fiducia, si era curvato sul  foglio e si era messo a usare il pastello quasi con temerarietà.  Un attimo dopo si era fermato di botto, fissando il foglio in  silenzio. Poi - e ancora adesso mi sentii invadere dall'angoscia  - lo avevo visto compiere un tentativo per salvare il suo  disegno, aggiungendo altro colore. Alla fine sulla sua faccia era  comparsa un'espressione di disappunto, e Boris, lasciato cadere  il pastello sul foglio, si era alzato ed era uscito dalla stanza  senza dire una parola.   
  L'intero episodio mi aveva turbato più di quanto mi aspettassi,  e stavo ancora cercando di dominare la commozione, quando la voce  di Sophie, a due passi da me, aveva detto:   
  - Ma dove ce l'hai il cuore?   
  Avevo abbassato il giornale, colpito dall'acredine del suo  tono. Sophie era nella stanza e mi fissava. Poi aveva detto:  
  - Tu non sai che cosa ho provato osservando la scena. Tu non  proverai mai nulla di simile. Ma guardati, leggi il giornale e  non pensi ad altro -. Poi aveva abbassato la voce, conferendole  ancora maggiore intensità: - C'è poco da fare, è diverso! Boris  non è tuo. Checché tu ne dica, è diverso. Non gli vorrai mai bene  come un vero padre. Ma guardati! Tu non sai che cosa ho provato.   
  Detto questo, aveva girato sui tacchi e si era dileguata.   
  Avevo pensato di seguirla, infischiandomene dei visitatori  della stanza accanto, e di riportarla indietro per parlarle. Ma  alla fine avevo preferito restare dov'ero e aspettare che fosse  lei a tornare. E infatti, pochi minuti dopo, Sophie era  ricomparsa, ma qualcosa nel suo atteggiamento mi aveva impedito  di parlarle, e lei era uscita di nuovo. A dire il vero, nella  successiva mezz'ora Sophie era entrata e uscita dalla camera  parecchie altre volte, ma sempre, per quanto risoluto a  manifestarle i miei sentimenti, ero rimasto zitto. Alla fine mi  ero reso conto che la possibilità di affrontare l'argomento senza  apparire ridicolo era svanita, così ero tornato al mio giornale,  profondamente offeso e avvilito.   
  - Mi scusi, - disse una voce dietro di me, mentre una mano mi  sfiorava una spalla. Girandomi vidi un signore che si chinava in  avanti studiandomi attentamente.   
  - Lei è il signor Ryder, vero? Santo cielo, è proprio lei. La  prego di scusarmi, sono qui da un pezzo ma non l'avevo  riconosciuta. C'è così poca luce. Mi chiamo Karl Pedersen. Non  vedevo l'ora di conoscerla, questa mattina. Ma naturalmente i  soliti imprevisti le hanno impedito di partecipare al  ricevimento. E adesso, neanche a farlo apposta, la incontro qui.   
  L'uomo aveva i capelli bianchi, gli occhiali e un volto  affabile. Mi girai leggermente verso di lui.   
  - Ah, sì, il signor Pedersen. Sono molto lieto di fare la sua  conoscenza. Come dice, è stato un vero peccato per questa  mattina. Anch'io ero ansioso di, ehm, incontrarvi tutti.   
  - Per combinazione, in questo momento ci sono parecchi altri  consiglieri qui al cinema, tutti spiaciutissimi del disguido di  questa mattina -. Pedersen si guardò intorno nell'oscurità. - Se  riesco a scoprire dove sono seduti, mi piacerebbe portarla a  conoscerne almeno un paio -. Si girò e allungò il collo per  scrutare le file alle sue spalle. - Purtroppo in questo momento  non ne vedo nessuno...  
  - Naturalmente sarei lietissimo di conoscere i suoi colleghi.  Ma adesso è piuttosto tardi, e se stanno guardando il film, forse  è meglio che rimandiamo a un'altra volta. Sono sicuro che le  occasioni non mancheranno.   
  - In questo momento non vedo nessuno, - ripeté Pedersen,  voltandosi di nuovo verso di me. - Che peccato. So che sono da  qualche parte nel cinema. Comunque, signor Ryder, in qualità di  membro del consiglio comunale, mi consenta di dirle quanto siamo  felici e onorati della sua visita.   
  - Molto gentile.   
  - Tutti dicono che questo pomeriggio il signor Brodsky ha fatto  grandi progressi all'auditorium. Tre o quattro ore di prove  ininterrotte.   
  - Sì, ho sentito. Magnifico.   
  - Mi domandavo se oggi è riuscito a visitare il nostro palazzo  dei concerti, signor Ryder.   
  - Il palazzo dei concerti? Be' no. Purtroppo non ne ho ancora  avuto modo...   
  - Mi rendo conto, dopo un viaggio così lungo. Be', c'è tutto il  tempo. Sono sicuro che il nostro auditorium le farà una splendida  impressione, signor Ryder. $è davvero un bel palazzo d'altri  tempi, e anche se in questa città abbiamo lasciato andare in sfacelo molte cose, nessuno può accusarci di trascurarlo. Un  vecchio palazzo bellissimo, nella meravigliosa cornice del Parco  Liebmann. Vedrà con i suoi occhi, signor Ryder. Una piacevole  passeggiata tra gli alberi, poi si arriva in una radura, ed ecco  il palazzo dei concerti! Vedrà, vedrà. Un luogo ideale, dove la  comunità può riunirsi lontano dal trambusto delle strade. Ricordo  che in città, quando ero bambino, c'era un'orchestra, e la prima  domenica di ogni mese tutti si riunivano nella radura prima del  concerto. Ricordo l'arrivo delle diverse famiglie, tutte in abiti  eleganti, e le frotte di persone che sbucavano dal bosco e si  salutavano a vicenda. Noi bambini scorrazzavamo dappertutto.  D'autunno facevamo un gioco un po' particolare. Andavamo di qui e  di là a raccogliere tutte le foglie che trovavamo per terra, e  correvamo ad ammucchiarle contro la baracca del giardiniere. Sul  muro della baracca c'era un'asse alta più o meno così con una  macchia. Bisognava raccogliere foglie a sufficienza perché il  mucchio arrivasse all'altezza della macchia prima che gli adulti  cominciassero a entrare nell'auditorium. Se non ce l'avessimo  fatta, l'intera città sarebbe esplosa in un milione di pezzi. E  noi tutti lì, a correre avanti e indietro, con le braccia piene  di foglie fradicie! $è facile che le persone della mia età  diventino nostalgiche, signor Ryder, ma non ci sono dubbi, questa  una volta era una comunità molto felice. C'erano famiglie  numerose e felici, qui da noi. E amicizie che duravano davvero.  La gente si trattava con calore e affetto. Che magnifica  comunità. E siamo andati avanti così per tantissimo tempo. L'anno  che viene ne compio settantasei, quindi glielo posso garantire  personalmente.   
  Pedersen tacque per un momento. Era ancora chino in avanti, con  il braccio sullo schienale della mia poltrona, e quando lo  guardai in faccia vidi che i suoi occhi non fissavano lo schermo  ma un punto lontano del passato. Nel frattempo ci stavamo  avvicinando alla parte del film in cui gli astronauti cominciano  a sospettare di H$a$l, il calcolatore che regola ogni particolare  della vita a bordo della nave spaziale. Clint Eastwood si stava  aggirando furtivo negli angusti corridoi, con la faccia scavata e  una pistola a canna lunga. Stavo di nuovo appassionandomi al  film, quando Pedersen riprese a parlare.   
  - Sinceramente, non posso fare a meno di compatirlo un po'. Il  signor Christoff, intendo. Sì, per quanto possa sembrarle strano,  lo £compatisco. L'ho detto a un paio di colleghi, e loro avranno  pensato, oh, il vecchio Pedersen sta rimbambendo, come si fa a  provare un briciolo di pietà per quel ciarlatano? Ma vede, io ho  una memoria migliore di tanti altri. Ricordo come sono andate le  cose quando il signor Christoff è arrivato la prima volta in  questa città. Naturalmente sono furioso con lui non meno dei miei  colleghi. Ma vede, io so che agli inizi, proprio agli inizi, non  è stato il signor Christoff a farsi avanti. No, no, siamo  stati... be', siamo stati £noi a spingerlo. Voglio dire le  persone come me, che, non lo nego, avevano una notevole  influenza. L'abbiamo incoraggiato. L'abbiamo esaltato e adulato,  gli abbiamo fatto capire che volevamo da lui lumi e sostegno.  Almeno parte della responsabilità di ciò che è accaduto è nostra.  I miei colleghi più giovani, forse, non erano ancora molto  presenti in quei primi anni. Vedono nel signor Christoff solo il  dominatore che ha finito con l'attirare su di se ogni attenzione.  Dimenticano che lui non ha mai chiesto di essere messo sul  piedistallo. Oh, sì, ricordo perfettamente quando il signor  Christoff è arrivato in città. Era molto giovane, allora, schivo,  senza pretese, persino modesto. Sono sicuro che, se nessuno lo  avesse incoraggiato, si sarebbe accontentato di restare  nell'ombra, dando di tanto in tanto un concerto a un ricevimento privato, nient'altro. Colpa del momento, signor Ryder. Un momento  infelice. Quando il signor Christoff è arrivato in città, stavamo  attraversando, come dire, una specie di vuoto. Il signor Bernd,  il pittore, e il signor Vollmöller, un ottimo compositore, che  per lungo tempo avevano governato la nostra vita culturale, erano  entrambi morti a pochi mesi l'uno dall'altro, e c'era una certa  sensazione di... be', di £instabilità. Il trapasso di due così  eccellenti persone ci aveva molto rattristati, ma credo che tutti  fossero anche coscienti che finalmente si presentava la  possibilità di un cambiamento. La possibilità di qualcosa di  nuovo e di fresco. Per quanto nessuno potesse lamentarsi, era  inevitabile che, dopo così tanti anni di indiscussa preminenza di  quei due signori, si fossero create certe insoddisfazioni.  Dunque, quando si è sparsa la voce che lo straniero a pensione  dalla signora Roth era un violoncellista di professione, che  aveva suonato con l'Orchestra Sinfonica di Göteborg e parecchie  volte sotto la direzione di Kazimierz Studzinski, be', può  immaginare l'eccitazione. Anch'io ho partecipato attivamente alla  sua accoglienza, e ricordo come sono andate le cose. Ricordo  anche che in principio il signor Christoff era una persona  schiva. Anzi, con il senno di poi, addirittura insicura. Molto  probabilmente era reduce da qualche fiasco. Ma noi l'abbiamo  circondato di attenzioni, abbiamo insistito per conoscere la sua  opinione su tutto, sì, è così che è cominciato. Ricordo di avere  fatto anch'io la mia parte per strappargli l'assenso al primo  concerto. Lui era sinceramente riluttante. Quel primo concerto  doveva essere un avvenimento per pochi, in casa della Contessa.  Solo due giorni prima della data prevista, quando è stato chiaro  che moltissima gente voleva parteciparvi a tutti i costi, la  Contessa è stata costretta a spostare la sede nella Galleria  Holtmann. Da allora i concerti di Christoff... ne esigevamo  almeno uno ogni sei mesi... si sono tenuti nel palazzo che le  dicevo, e sono diventati il nostro grande argomento di  discussione, anno dopo anno. Ma agli inizi Christoff era  riluttante. Non solo quella prima volta. Abbiamo dovuto  continuare a insistere per parecchio tempo. Poi naturalmente le  lodi, gli applausi e le adulazioni hanno compiuto la loro opera,  e presto Christoff ha cominciato a pavoneggiarsi e a imporre le  sue idee. «Qui sono sbocciato, - lo si sentiva dire spesso a quei  tempi. - Da quando sono qui, sono sbocciato». Vede, io dico che  siamo stati £noi a spingerlo. E adesso lo compatisco sul serio,  anche se suppongo di essere l'unico in città. Come avrà notato,  c'è molta rabbia nei suoi confronti. Io non mi nascondo la  gravità della situazione, signor Ryder. So che occorre essere  spietati. La nostra città è vicina al collasso. C'è un estremo e  diffuso disagio. Da qualche parte, se si vogliono sistemare le  cose, bisogna pur cominciare, e allora tanto vale partire dal  centro. Dobbiamo essere spietati, e per quanto compatisca  Christoff, mi rendo conto che non ci sono altre soluzioni. Ormai  quell'uomo, e con lui tutto ciò che egli ha finito con il  rappresentare, va sepolto in un angolo buio della nostra storia.   
  Sebbene fossi ancora leggermente girato verso di lui per  dimostrargli che non avevo smesso di ascoltare, la mia attenzione  era stata nuovamente attirata dal film. Clint Eastwood, con il  volto rigato di lacrime, stava parlando in un microfono alla  moglie rimasta sulla terra. Mi accorsi che ci stavamo avvicinando  alla famosa scena in cui Yul Brynner entra nella stanza e mette  alla prova la velocità di Eastwood nell'estrarre la pistola  battendogli le mani davanti al volto.   
  - Mi scusi, - dissi, - ma quanti anni fa è arrivato il signor  Christoff?   
  Feci questa domanda quasi sovrappensiero, dato che almeno metà della mia attenzione era rivolta allo schermo. Continuai persino  a guardare il film per due o tre minuti prima di accorgermi che  alle mie spalle Pedersen aveva chinato il capo in un  atteggiamento di profonda vergogna. Sentendo di nuovo il mio  sguardo su di sé, il consigliere sollevò gli occhi e disse:   
  - Ha tutte le ragioni, signor Ryder. Tutte le ragioni di  sgridarci. Diciassette anni e sette mesi sono un'eternità. Un  errore come il nostro potevano farlo tutti, ma è inammissibile  averci messo tutto questo tempo a correggerlo. Mi rendo conto di  che cosa può pensare un osservatore esterno, qualcuno come lei,  signor Ryder, e mi lasci dire che provo una gran vergogna. Non  cerco giustificazioni. C'è voluta un'eternità per ammettere il  nostro errore. Non per £vederlo, questo credo di no. Ma per  confessarlo, anche solo a noi stessi; questo sì che è stato  difficile e ha richiesto molto tempo. Vede, eravamo legati a  doppio filo con il signor Christoff. Quasi ogni consigliere,  prima o poi, l'aveva invitato a casa sua. Gli era sempre stato  riservato un posto accanto al signor von Winterstein al Banchetto  Annuale della città. La sua fotografia era comparsa sulla  copertina del nostro almanacco. Gli era stato chiesto di scrivere  l'introduzione per il catalogo della Mostra di Roggenkamp. E non  finiva lì. C'era di peggio. Per esempio l'infelice caso del  signor Liebrich. Ah, ma mi scusi, mi sembra di avere visto il  signor Kollmann laggiù -. Pedersen allungò di nuovo il collo,  guardando verso il fondo del cinema. - Sì, è proprio il signor  Kollmann, e con lui, se non sbaglio, è così difficile capire con  questa luce, c'è il signor Schaefer. Questa mattina, al  ricevimento di benvenuto, c'erano tutti e due, e so che sarebbero  felicissimi di conoscerla. E poi, sono sicuro che hanno molto da  dire sull'argomento della nostra conversazione. Le spiace se  facciamo un salto da loro?  
  - Ne sarei onorato. Ma mi stava dicendo...   
  - Ah, sì, è vero. L'infelice caso del signor Liebrich. Vede,  per molti anni, prima che arrivasse il signor Christoff, Liebrich  era stato uno dei nostri maestri di violino più rispettati.  Insegnava ai figli delle famiglie più in vista. Era  ammiratissimo. Ebbene, poco dopo il primo concerto, qualcuno ha  chiesto a Christoff un'opinione su Liebrich, e lui ha fatto  sapere che non gli piacevano né il suo modo di suonare, né i suoi  metodi di insegnamento. E quando Liebrich è morto qualche anno  fa, aveva ormai perso tutto. Gli allievi, gli amici, la posizione  sociale. Questo è solo il primo caso che mi viene in mente.  Capisce l'enormità di dover riconoscere che sin dall'inizio ci  eravamo sbagliati sul conto del signor Christoff? Sì, siamo stati  deboli, lo riconosco. E poi, allora non immaginavamo che le cose  potessero deteriorarsi fino a questo punto. La gente,  nell'insieme, sembrava ancora felice. Gli anni scivolavano via, e  se qualcuno di noi aveva dei dubbi li teneva per sé. Ma non  voglio difendere la nostra negligenza, signor Ryder, nemmeno per  un secondo. E io, dato che già allora facevo parte del consiglio  comunale, so di essere colpevole quanto gli altri. Alla fine, e  provo una gran vergogna ad ammetterlo, alla fine è stata la gente  di questa città, la gente comune, che ci ha messo di fronte alle  nostre responsabilità. Sì, la gente comune, pur conducendo ormai  una vita sempre più miseranda, era un bel po' più avanti di noi.  Ricordo il preciso istante in cui me ne sono reso conto. $è  successo tre anni fa, mentre tornavo a casa dopo l'ultimo  concerto di Christoff; ricordo che aveva suonato il vGrottesco per violoncello e tre flautiv di Kazan. Faceva molto freddo, e stavo attraversando di buon passo il Parco Liebmann, avvolto  nell'oscurità, quando poco più avanti ho visto il signor Kohler,  il farmacista. Sapevo che anche lui era stato al concerto, così l'ho raggiunto e abbiamo cominciato a chiacchierare. In principio  sono stato attento a tenere per me i miei pensieri, ma alla fine  gli ho domandato se il concerto di Christoff gli fosse piaciuto.  Sì, ha risposto il signor Kohler. Ma il modo in cui l'ha detto  non deve avermi convinto, perché ricordo che dopo qualche istante  gli ho ripetuto la domanda. Questa volta Kohler ha detto sì, che  gli era piaciuto, ma che forse l'esecuzione di Christoff era  stata un po' schematica. Sì, ha proprio usato la parola  «schematica». Come può immaginare, signor Ryder, ho riflettuto  attentamente prima di parlare di nuovo. Ma alla fine ho deciso di  abbandonare ogni cautela e ho detto: «Signor Kohler, sono  sostanzialmente d'accordo con lei. L'esecuzione è stata un po'  asciutta». Al che il signor Kohler ha osservato che il primo  aggettivo che gli era venuto in mente era «fredda». Davanti  all'ingresso del parco ci siamo augurati la buona notte e ci  siamo separati. Ma ricordo che quella notte non ho quasi dormito,  signor Ryder. Ormai era la gente comune, erano i cittadini per  bene come il signor Kohler che manifestavano simili opinioni.  Evidentemente la finzione non poteva più reggere. Era ora che  tutti noi che ci trovavamo in una posizione di prestigio  ammettessimo il nostro errore, anche se le conseguenze sarebbero  state terribili. Ah, ma mi scusi, quello seduto accanto al signor  Kollmann è proprio il signor Schaefer. Sono sicuro che hanno  tutti e due un'opinione interessante su quanto è accaduto.  Essendo di una generazione successiva alla mia, vedranno le cose  in una prospettiva leggermente diversa. E poi, so quanto  tenessero questa mattina a conoscerla. Andiamo da loro, se non le  spiace.   
  Pedersen si alzò in piedi, e io seguii con lo sguardo la sua  figura china che strisciava lungo la fila mormorando scuse.  Giunto in fondo, si raddrizzò e mi fece cenno. Per quanto  seccato, capii che non mi restava che raggiungerlo. Mi alzai e  cominciai a dirigermi anch'io verso il corridoio. Mi accorsi così  che nel cinema regnava un'atmosfera quasi festosa. La gente si  scambiava battute e brevi osservazioni mentre guardava il film.  Nessuno sembrava minimamente disturbato dal mio passaggio. Anzi,  mi parve che gli spettatori rannicchiassero le gambe di lato o  saltassero in piedi con grande zelo. Qualcuno si rovesciò  addirittura all'indietro sul sedile, restando lì a squittire  allegramente con i piedi per aria.   
  Non appena fui nel corridoio, Pedersen si avviò su per la rampa  di moquette. Poi, giunto nei pressi delle ultime file, si fermò  e, facendosi da parte, mi disse:   
  - Dopo di lei, signor Ryder. 
9.  
  E di nuovo mi intrufolai fra le gambe della gente, questa volta  seguito da Pedersen, che bisbigliava scuse per tutti e due. In  breve arrivammo dove un gruppetto di uomini formava una specie di  capannello. Impiegai un momento a capire che stavano giocando a  carte; quelli della fila dietro erano chini in avanti, quelli  della fila davanti si sporgevano all'indietro. Vedendoci  arrivare, tutti alzarono gli occhi, e quando Pedersen mi  presentò, si sollevarono a metà dalle loro poltrone. Si  risedettero solo quando mi fui comodamente sistemato in mezzo a  loro ed ebbi cominciato a stringere le numerose mani che  spuntavano dall'oscurità.   
  Il tizio più vicino indossava una giacca, ma aveva il colletto  della camicia sbottonato e la cravatta allentata. Sapeva di  whisky, e notai che stentava a mettermi a fuoco. Il suo compagno,  che faceva capolino dietro la sua spalla, era magro, con una  faccia curiosamente piena di lentiggini; sembrava più sobrio, ma anche lui aveva allentato il nodo della cravatta. Non ebbi il  tempo di osservare il resto della combriccola, perché l'ubriaco  mi strinse la mano una seconda volta e disse:   
  - Spero che il film le piaccia, signor Ryder.   
  - Molto. $è uno dei miei preferiti.   
  - Ah. Be', allora è una bella fortuna che lo diano questa sera.  Sì, piace anche a me. Un classico. A proposito, vuole prendere il  mio posto? - E così dicendo, l'ubriaco mi mise le sue carte  davanti al naso.   
  - No grazie. Anzi, vi prego di non interrompere la partita per  colpa mia.   
  - Stavo raccontando al signor Ryder, - s'intromise Pedersen  alle mie spalle, - che qui, una volta, si viveva molto meglio di  oggi. Sono sicuro che persino voi che siete più giovani di me  potete confermarglielo...   
  - Oh, sì, i bei tempi, - disse l'ubriaco con aria sognante. -  Oh, sì, si stava bene nella nostra città, ai bei tempi.   
  - Theo sta pensando a Rosa Klenner, - disse l'uomo con le  lentiggini dietro di lui, suscitando una risata generale.   
  - Stupidaggini, - protestò l'ubriaco. - E piantala di mettermi  in imbarazzo davanti al nostro illustre ospite.   
  - Invece sì, invece sì, - continuò l'amico. - A quei tempi Theo  era innamorato pazzo di Rosa Klenner. Vale a dire dell'attuale  signora Christoff.   
  - Non sono mai stato innamorato di lei. E poi, ero già sposato.  
  - Questo non fa che rendere la storia ancora più lacrimosa,  Theo. Oh, sì, ancora più lacrimosa.   
  - Tutte stupidaggini.   
  - Theo, - disse un'altra voce dalla fila posteriore, - ricordo  che ci facevi una testa così quando ci parlavi di Rosa Klenner.   
  - Allora non sapevo ancora com'era fatta.   
  - Ti piaceva proprio perché era fatta così, - continuò la voce.  - Sei sempre corso dietro alle donne che non ti degnavano di uno  sguardo.   
  - C'è qualcosa di vero, in questo, - disse l'uomo con le  lentiggini.   
  - Non c'è proprio niente di vero...   
  - No, lascia che spieghi al signor Ryder -. L'uomo con le  lentiggini mise una mano sulla spalla dell'amico ubriaco e si  sporse verso di me. - L'attuale signora Christoff, che spesso noi  chiamiamo ancora Rosa Klenner, è una ragazza di qui, una di noi,  cresciuta in mezzo a noi. Ancora oggi è una donna molto bella, e  allora, be', ci aveva stregati tutti. Era bellissima ma  terribilmente scostante. Lavorava alla Galleria Schlegal, che  adesso non c'è più. Se ne stava lì, dietro una scrivania; a fare  la sorvegliante, in pratica. La potevi trovare il martedì e il  giovedì...   
  - Martedì e £venerdì, - lo interruppe l'ubriaco.   
  - Mi scusi. Martedì e venerdì. Figuriamoci se Theo non se ne  ricorda! Lui la frequentava la galleria, che poi era solo una  saletta con le pareti imbiancate. Ci andava in continuazione e  fingeva di guardare i quadri.   
  - Stupidaggini...   
  - Non eri l'unico, vero, Theo? Avevi un mucchio di rivali.  Jürgen Haase. Erich Brull. Persino Heinz Wodak. Tutti visitatori  regolari.   
  - E Otto Röscher, - disse Theo con nostalgia. - Era sempre lì.  
  - Anche lui? Eh, Rosa aveva un macchio di ammiratori.   
  - Non le ho mai rivolto la parola, - disse Theo. - Tranne una  volta, quando le ho chiesto un catalogo.   
  - Già quando eravamo poco più che ragazzini, - continuò l'uomo  con le lentiggini, - avevamo capito che Rosa giudicava tutti i maschi locali indegni di lei. Si era fatta la fama di respingere  i pretendenti nelle maniere più crudeli. Per questo i poveretti  come il nostro Theo, molto saggiamente, non le rivolgevano mai la  parola. Ma ogni volta che un personaggio famoso, che so, un  pittore, un musicista, uno scrittore o qualcuno del genere,  visitava la città, Rosa gli dava la caccia senza il minimo  pudore. Visto che faceva sempre parte di questo o di quel  comitato, aveva la possibilità di avvicinare quasi tutte le  celebrità di passaggio. Riusciva a infilarsi nei ricevimenti, e  dopo mezz'ora aveva già stretto l'ospite in un angolo, e gli  parlava e parlava fissandolo negli occhi. Naturalmente correvano  molte voci, sul suo comportamento sessuale, intendo, ma nessuno è  mai riuscito a provare niente. Stava molto attenta, la nostra  Rosa. Ma da come si buttava sugli ospiti illustri, non potevi  dubitare che qualcuno se lo portasse a letto. Sicuramente, bella  com'era, ne conquistava molti. Noi, invece, non ci guardava  nemmeno.   
  - Hans Jongboed ha sempre giurato di avere avuto una relazione  con lei, - s'intromise l'uomo chiamato Theo. Questa uscita  provocò grandi risate, e parecchie voci, intorno a noi,  ripeterono in tono beffardo: - Hans Jongboed! - Pedersen, invece,  fremeva imbarazzato.   
  - Vi prego, - esordì. - Il signor Ryder e io stavamo  discutendo...   
  - Io non le ho mai rivolto la parola. Tranne quella volta. Per  chiederle un catalogo.   
  - Su, Theo, non pensarci più -. L'uomo con le lentiggini diede  una pacca all'amico, che per il colpo insaccò leggermente le  spalle. - Non pensarci più. Guarda ora in che guaio si trova.   
  Theo sembrava perso nei suoi pensieri. - Rosa era così in  tutto, - disse. - Non solo per quel che riguarda l'amore. Aveva  tempo solo per gli artisti, anzi, solo per la crema del mondo  dell'arte. Non c'era altro modo di ottenere il suo rispetto. Era  antipatica a tutti. Già molto tempo prima di sposare Christoff  era antipatica a tutti.   
  - Se non fosse stata così bella, - disse l'uomo con le  lentiggini rivolgendosi a me, - l'intera città l'avrebbe odiata.  Invece, c'era sempre qualcuno come Theo pronto a lasciarsi  stregare da lei. In ogni caso, un giorno è arrivato Christoff. Un  violoncellista di professione, per giunta con un curriculum di  tutto rispetto! Rosa si è fatta sotto senza alcun ritegno.  Sembrava che non le importasse affatto quello che avremmo potuto  pensare di lei. Sapeva ciò che voleva e gli ha dato la caccia in  maniera implacabile. Spaventoso, ma in un certo senso ammirevole.  Christoff si è lasciato ammaliare e l'ha sposata dopo meno di un  anno. Era l'uomo che Rosa aspettava da tanto tempo. Be', mi  auguro che abbia avuto il suo tornaconto. Sedici anni di  matrimonio. Non deve essere stato male. Ma adesso? Christoff è un  uomo finito. E Rosa che cosa farà?   
  - Oggi non troverebbe lavoro neppure in una galleria, - disse  Theo. - Per troppo tempo ci ha offesi. Per troppo tempo ci ha  feriti nel nostro orgoglio. Qui ha chiuso, né più né meno di  Christoff.   
  - C'è chi sostiene, - disse l'uomo con le lentiggini, - che  Rosa lascerà la città con Christoff e non lo pianterà fino a  quando non saranno ben sistemati altrove. Ma il nostro signor  Dremmler, - e così dicendo indicò una persona seduta nella fila  davanti a noi, - è convinto che Rosa resterà qui.   
  Sentendo fare il suo nome, l'uomo si girò. Evidentemente aveva  seguito la discussione, perché subito disse con una certa  autorità: - Non dovete dimenticare che Rosa Klenner ha un  carattere estremamente pauroso. Io andavo a scuola con lei, facevamo lo stesso anno. Le ha sempre avute, queste paure; sono  la sua dannazione. Anche se la nostra città non è degna di lei,  Rosa è troppo timorosa per andarsene. Non vi siete mai accorti  che, con tutte le sue ambizioni, non ha mai tentato di lasciarci?  Molta gente non lo nota, questo lato del suo carattere, ma è  innegabile. Per questo sono pronto a scommettere che resterà.  Resterà e ritenterà la sorte qui. Spererà di accalappiare qualche  altra celebrità di passaggio. In fondo, per l'età che ha, è  ancora una donna molto bella.   
  Una voce stridula disse: - Magari proverà con Brodsky.   
  L'uscita provocò la risata più fragorosa che ci fosse stata  fino a quel momento.  
  - $è possibilissimo, - continuò la voce in tono fintamente  offeso. - D'accordo, Brodsky è vecchio, ma neppure Rosa è di  primo pelo. E poi, qui da noi c'è forse qualcun altro degno di  lei? - Ci fu una nuova esplosione di risate, che incitò la voce a  continuare. - Brodsky è la soluzione migliore che le resta. Io  per primo gliela consiglierei. In qualsiasi altro caso, Rosa si  porterebbe dietro tutto il rancore che la città prova in questo  momento nei confronti di Christoff. Ma se dovesse diventare  l'amante di Brodsky, o addirittura sua £moglie, be', quale modo  migliore per cancellare il suo passato con Christoff? Tra  l'altro, potrebbe continuare nella sua... nella sua attuale  £posizione.   
  Ormai intorno a noi ridevano tutti. Persino le persone sedute  tre file più avanti si giravano e davano libero sfogo alla loro  ilarità. Accanto a me, Pedersen si schiarì la gola.   
  - Signori, vi prego, - disse. - Mi deludete. Che cosa penserà  il signor Ryder? Continuate a parlare del signor Brodsky... il  £signor Brodsky, mi raccomando... continuate a parlare di lui  come ai vecchi tempi. E vi date la zappa sui piedi. Il signor  Brodsky non è più una macchietta. Qualunque cosa si pensi dei  suggerimenti del signor Schmidt per il futuro della signora  Christoff, il signor Brodsky £non è, in nessun caso, un argomento  faceto...   
  - La ringraziamo di essere venuto, signor Ryder, - lo  interruppe Theo. - Ma è troppo tardi. Le cose sono allo sfascio,  ormai è troppo tardi...   
  - Stupidaggini, Theo, - disse Pedersen. - Siamo a una svolta, a  una svolta importante. Il signor Ryder è venuto qui a dirci  questo. Non è vero, signor Ryder?   
  - Sì..   
  - $è troppo tardi. Abbiamo perso. Perché non ci rassegniamo a  essere semplicemente una delle tante città fredde e desolate?  Altri l'hanno fatto. Almeno seguiremmo la corrente. L'anima di  questa città non è malata, signor Ryder, è morta. $è troppo tardi  ormai. Dieci anni fa, forse. Allora c'era ancora una possibilità.  Ma ora non più. Lei, signor Pedersen, - e l'ubriaco puntò  fiaccamente il dito contro il mio accompagnatore, - lei, con il  signor Thomas e il signor Stika. Siete voi, miei cari signori,  che avete £tergiversato...  
  - Non ricominciamo, Theo, - lo interruppe l'uomo con le  lentiggini. - Il signor Pedersen ha ragione. Non è ancora giunto  il momento di rassegnarci. Abbiamo trovato Brodsky... il £signor  Brodsky... e per quel che ne sappiamo potrebbe essere...   
  - Brodsky, Brodsky. $è troppo tardi. Ormai siamo finiti.  Rassegniamoci a essere una città qualsiasi, fredda e moderna, e  smettiamola di illuderci.   
  Sentii la mano di Pedersen sul mio braccio. - Signor Ryder,  sono molto spiaciuto...   
  - Voi avete £tergiversato, signor Pedersen! Diciassette anni.  Per diciassette anni avete lasciato che Christoff facesse i suoi porci comodi indisturbato. E che cosa ci venite a offrire adesso?  Brodsky! $è troppo tardi, signor Ryder.  
  - Sono davvero spiaciuto, - mi disse Pedersen, - che debba  ascoltare certi discorsi.  
  Qualcuno dietro di noi aggiunse: - Theo, sei solo ubriaco e  depresso. Domani mattina ti conviene cercare il signor Ryder per  chiedergli scusa.   
  - Be', - dissi, - a me interessa sentire tutte le campane...   
  - Ma questa non ha alcun valore! - protestò Pedersen. - Le  assicuro, signor Ryder, che i sentimenti di Theo non sono  minimamente condivisi dagli abitanti di questa città. Nelle  strade, sui tram, da per tutto, si nota uno straordinario  ottimismo.   
  Questa affermazione provocò un mormorio di assenso.  
  - Non gli creda, signor Ryder, - disse Theo, afferrandomi per  la manica. - Lei è qui per una missione priva di senso. Facciamo  un rapido sondaggio qui in questo cinema. Proviamo a chiedere a  qualcuno degli spettatori...   
  - Signor Ryder, - disse Pedersen in fretta, - io torno a casa e  mi ritiro per la notte. Il film è molto bello, ma l'ho già visto  parecchie volte. Immagino che anche lei cominci a essere stanco,  vero?  
  - Sì, sono stanchissimo. Posso venire via con lei? - Poi,  rivolto agli altri, aggiunsi: - Scusatemi, signori, ma credo che  me ne tornerò in albergo.   
  - Signor Ryder, - disse in tono premuroso l'uomo con le  lentiggini, - non se ne vada proprio adesso. La prego, resti  almeno fino a quando l'astronauta demolisce H$a$l.  
  - Signor Ryder, - disse una voce qualche poltrona più in là, -  non vuole prendere il mio posto? Per questa sera ne ho abbastanza  di giocare. Si fa così fatica a vedere le carte con questa luce.  E la mia vista non è più quella di una volta.   
  - La ringrazio, ma devo proprio andare.   
  Stavo per dare la buona notte a tutti, quando vidi che Pedersen  era già in piedi e camminava di sghembo per uscire dalla fila. Lo  seguii, e mentre mi allontanavo feci un cenno di saluto con la  mano alla compagnia.  
  Pedersen era chiaramente sconvolto da ciò che era successo,  perché anche nel corridoio continuò a camminare in silenzio, a  testa china. Prima di uscire dalla sala, gettai un'ultima  occhiata allo schermo e vidi Clint Eastwood che esaminava  attentamente il suo gigantesco cacciavite, pronto a demolire  H$a$l.  
  Fuori la notte - con la sua quiete mortale, il freddo, la nebbia sempre più fitta - ci offrì un tale contrasto con il  tiepido brusio del cinema che ci fermammo tutti e due sul  marciapiede come per ritrovare l'orientamento.   
  - Signor Ryder, non so che cosa dirle, - esordì Pedersen. -  Theo è un'ottima persona, ma qualche volta, dopo una cena  abbondante... - Il mio accompagnatore scosse la testa avvilito.   
  - Non si preoccupi. Chi lavora tutto il giorno ha bisogno di  scaricare i nervi. $è stata una serata molto piacevole.   
  - Che vergogna...   
  - La prego. Non pensiamoci più. Le assicuro che mi sono  divertito.   
  Ci avviammo, e i nostri passi riecheggiarono nella strada  deserta. Per un po' Pedersen mantenne un silenzio pensieroso. Poi  disse:   
  - Deve credermi, signor Ryder. Non abbiamo mai sottovalutato la  difficoltà di far accettare un'idea del genere alla nostra  comunità. Mi riferisco al signor Brodsky. Le posso assicurare che ci siamo mossi con notevole cautela.   
  - Sì, ne sono certo.   
  - In principio abbiamo fatto molta attenzione a non dire nulla  se non alle persone giuste. Era fondamentale che nelle fasi  iniziali venisse a sapere del progetto solo chi, in linea di  massima, poteva essere d'accordo. Poi, tramite queste persone,  abbiamo lasciato che la cosa trapelasse lentamente e giungesse  alle orecchie di tutti. In questo modo abbiamo ottenuto che il  progetto venisse presentato nella luce migliore.  Contemporaneamente, abbiamo preso altri provvedimenti. Per  esempio, abbiamo organizzato una serie di cene in onore del  signor Brodsky, scegliendo con cura gli invitati nell'alta  società. Dapprima si è trattato di cene ristrette e quasi  segrete, ma gradualmente siamo riusciti ad allargare la nostra  rete, aumentando il sostegno per la nostra iniziativa. Abbiamo  anche fatto in modo che a tutti gli eventi pubblici di una certa  importanza il signor Brodsky fosse visto in compagnia dei pezzi  grossi. Quando è venuto il Balletto di Pechino, per esempio, lo  abbiamo messo nello stesso palco dei signori Weissel. Poi  naturalmente tutti, anche in privato, ci siamo impegnati a  parlare di lui solo nei termini più riguardosi. Ormai sono due  anni che lavoriamo con impegno a questo progetto, e nell'insieme  siamo molto soddisfatti. L'immagine di Brodsky è andata  nettamente cambiando. Tanto che abbiamo giudicato fosse giunto il  momento di compiere il gran passo. Per questo quel che è successo  poco fa è così demoralizzante. Quei signori là dentro dovrebbero  essere i primi a dare l'esempio. Se £loro ricascano in questo  atteggiamento ogni volta che allentano un po' i freni, come  possiamo sperare che la gente comune... - Pedersen scosse di  nuovo la testa mentre le parole gli morivano sulle labbra. - Sono  molto deluso. Per me e per lei, signor Ryder.  
  Pedersen tacque, e dopo una lunga pausa dissi con un sospiro:  
  - Non è facile cambiare l'opinione pubblica.   
  Pedersen fece ancora qualche passo in silenzio, poi disse: -  Deve tenere presente il punto di partenza. Se esamina le cose  sotto questo aspetto, cioè considerando il punto di partenza,  allora converrà anche lei che £abbiamo fatto notevoli progressi.  Cerchi di capire. Il signor Brodsky viveva qui da noi da molto  tempo, ma in tutti quegli anni nessuno l'aveva mai sentito  parlare di musica, figuriamoci suonare. Sì, tutti, vagamente,  sapevamo che nel suo paese d'origine aveva fatto il direttore  d'orchestra. Ma non vedendo mai nulla di questo lato della sua  personalità, non pensavamo a lui come a un musicista. Anzi, se  devo essere sincero, fino a poco tempo fa il signor Brodsky si  faceva notare solo quando si ubriacava e andava in giro per la  città barcollando e sbraitando. Per il resto del tempo viveva  come un eremita in compagnia del suo cane dalle parti dell'uscita  nord della città. Be', questo non è del tutto vero; lo vedevamo  regolarmente anche in biblioteca. Due o tre mattine la settimana  arrivava lì, si sedeva al suo solito posto sotto le finestre e  legava il cane a una gamba del tavolo. $è contro il regolamento,  portare dentro il cane, ma già da parecchio tempo i bibliotecari  avevano deciso ch'era più semplice lasciar correre. Molto più  semplice che cominciare a litigare con il signor Brodsky. Così  capitava di vederlo lì, con il cane ai suoi piedi, intento a  sfogliare la sua pila di libri, sempre gli stessi rigonfi volumi  di storia. E se qualcuno in sala s'azzardava a bisbigliare due  parole, o anche solo a salutare un conoscente, il signor Brodsky  si drizzava in piedi e inveiva contro il colpevole. In teoria,  naturalmente, aveva ragione. Ma nella nostra biblioteca non siamo  mai stati molto rigidi sul silenzio. In fondo, alla gente piace  fare quattro chiacchiere quando si incontra, come in ogni altro luogo pubblico. E dal momento che il signor Brodsky infrangeva  lui stesso le regole portandosi dentro il cane, non stupisce che  il suo comportamento fosse considerato balzano. Poi però, in  certe rare mattine, capitava che fosse di umore diverso.  All'improvviso, mentre leggeva al suo tavolo, gli veniva un'aria  sconsolata. Lo vedevi lì, con lo sguardo perso nel vuoto, qualche  volta con gli occhi gonfi di lacrime. In questi casi, la gente  sapeva di poter parlare. In genere qualcuno saggiava il terreno.  E se il signor Brodsky non reagiva, allora in un baleno l'intera  sala si metteva a chiacchierare. La gente è così malvagia! A  volte, in queste occasioni, la biblioteca diventava molto più  rumorosa di quando il signor Brodsky non c'era. Ricordo che un  giorno sono andato a restituire un libro, e mi è sembrato di  entrare in una stazione ferroviaria. Ho dovuto quasi urlare per  farmi sentire al banco. E il signor Brodsky era lì, immobile in  mezzo a quella baraonda, in un mondo tutto suo. Devo dire che  metteva tristezza guardarlo. La luce del mattino gli dava un  aspetto molto fragile. Aveva la goccia al naso, gli occhi  assenti, la mente a mille miglia dalla pagina che stringeva in  mano. E mi è parso che ci fosse un po' di crudeltà  nell'animazione della sala. Come se la gente stesse approfittando  di lui, anche se non saprei spiegarle in che modo. Ma vede, in  un'altra mattina, il signor Brodsky sarebbe stato capacissimo di  zittirli tutti in un amen. Insomma, signor Ryder, quello che sto  cercando di dirle è che per molti anni il signor Brodsky che  abbiamo avuto sotto i nostri occhi era questo. Immagino che sia  impossibile sperare che la gente cambi £completamente opinione su  di lui in un tempo in fin dei conti piuttosto breve. Abbiamo  fatto notevoli progressi, ma come ha potuto vedere lei stesso  poco fa... - Di nuovo l'esasperazione parve sopraffarlo. - Ma  £loro dovrebbero dimostrare un po' di buon senso, - borbottò  Pedersen tra sé e sé.   
  Ci fermammo a un incrocio. La nebbia era diventata molto più  fitta, e mi accorsi di avere perso l'orientamento. Pedersen si  guardò intorno, poi riprese a camminare, conducendomi in una  viuzza con file di macchine posteggiate sui marciapiedi.   
  - L'accompagno in albergo, signor Ryder. Per andare a casa mia  una strada vale l'altra. Si trova bene, spero?   
  - Oh, sì. Benissimo.   
  - Il signor Hoffman gestisce un buon albergo. $è un ottimo  direttore, e nell'insieme anche un'ottima persona. Come saprà, è  a lui che dobbiamo dire grazie per il... ehm... recupero del  signor Brodsky.   
  - Ah, sì, certamente.   
  Per un breve tratto le macchine sul marciapiede ci costrinsero  a camminare in fila indiana. Poi ci spostammo in mezzo alla  strada, e quando mi riaffiancai a Pedersen vidi che il suo umore  era meno cupo. Mi sorrise e disse:   
  - So che domani andrà a casa della Contessa per ascoltare i  dischi. Pare che il nostro sindaco, il signor von Winterstein,  voglia raggiungerla lì. Non vede l'ora di prenderla in disparte e  di discutere della situazione con lei. Ma la cosa principale,  naturalmente, sono quei dischi. Straordinari!   
  - Sì. Non vedo l'ora.   
  - La Contessa è una donna eccezionale. Più di una volta ha  dimostrato capacità intellettuali così straordinarie da farci  vergognare di noi stessi. Le chiedo spesso come le sia venuta  l'idea. «Un presentimento, - dice sempre. - Mi sono svegliata una  mattina con questo presentimento». Che donna! Poteva essere  tutt'altro che facile procurarsi quei dischi. Ma lei ci è  riuscita tramite un negoziante specializzato di Berlino.  Naturalmente allora nessuno di noi ne sapeva niente, e suppongo che se avessimo avuto sentore del suo progetto ci saremmo messi a  ridere. Poi un pomeriggio la Contessa ci ha convocati a casa sua.  Sono passati due anni, due anni, due anni il mese scorso, da quel  bellissimo pomeriggio di sole. Ci siamo riuniti nel suo salotto,  tutti e undici, senza la minima idea di quello che ci aspettava.  La Contessa ci ha servito un rinfresco, poi è passata subito al  dunque. Da troppo tempo ci affliggevamo, ha detto. Era giunto il  momento di passare all'azione. Di ammettere che ci eravamo  sbagliati e di prendere qualche provvedimento concreto per  cercare di rimediare al danno. Altrimenti i nostri nipoti, e i  figli dei nostri nipoti, non ci avrebbero mai perdonati. Be', non  diceva nulla di nuovo, erano mesi ormai che andavamo ripetendoci  le stesse cose, sicché ci siamo limitati ad annuire, con i soliti  mormorii d'assenso. Ma la Contessa non si è fermata lì. Per  quanto riguardava il signor Christoff, ha detto, c'era poco altro  da aggiungere. Ormai quell'uomo si era completamente screditato,  aveva perso la stima dell'intera cittadinanza. Ma di per sé  questo non era sufficiente per arrestare la spirale di infelicità  che si avvolgeva sempre più stretta intorno al cuore della nostra  comunità. Dovevamo trovare il modo di creare un nuovo spirito,  una nuova era. Annuimmo di nuovo, ma come le ripeto, signor  Ryder, queste cose ce le eravamo già dette un'infinità di volte.  Credo che il signor von Winterstein l'abbia addirittura fatto  presente alla Contessa, seppure con la massima cortesia. Ed è  stato allora che la Contessa ha cominciato a rivelarci il suo  progetto. Forse, ha dichiarato, la soluzione era in mezzo a noi  da molto tempo. Poi si è spiegata meglio, e naturalmente sulle  prime, be', non riuscivamo a credere alle nostre orecchie. Il  signor Brodsky? Quello della biblioteca, quello che girava  ubriaco per la città? Stava parlando sul serio del signor  £Brodsky? Se si fosse trattato di qualcun altro e non della  Contessa, sono sicuro che saremmo scoppiati a ridere. Ma ricordo  che lei era molto sicura di sé. Ci ha detto di sederci, perché  voleva farci ascoltare qualcosa. E voleva che lo ascoltassimo con  molta attenzione. Poi ha messo su quei dischi, l'uno dopo  l'altro. E noi abbiamo ascoltato, mentre fuori il sole  tramontava. Le registrazioni erano di cattiva qualità. L'impianto  stereo della Contessa, come avrà modo di vedere domani, è un po'  antiquato. Ma che cosa importa? In pochi minuti la musica ci ha  stregati. Cullati dal suo suono ci siamo sentiti invadere da una  quiete profonda. Alcuni di noi avevano le lacrime agli occhi. Ci  siamo accorti che stavamo ascoltando qualcosa di cui ci eravamo  dolorosamente privati per anni. Improvvisamente ci è parso ancora  più incomprensibile che avessimo potuto esaltare una persona come  il signor Christoff. Ecco di nuovo un po' di vera musica. L'opera  di un direttore che, oltre a essere immensamente dotato,  vcondivideva i nostri stessi valori.v Quando la musica è finita, ci siamo alzati per sgranchirci le gambe, visto che  eravamo rimasti ad ascoltare per più di tre ore, e di colpo  l'idea di rivolgerci al signor Brodsky, al signor Brodsky! ci è  sembrata più assurda che mai. Le registrazioni erano molto  vecchie, abbiamo fatto notare. E il signor Brodsky, per ragioni  sue, aveva abbandonato la musica da tantissimo tempo. E poi, be',  aveva i suoi problemi. Era difficile considerarlo ancora la  stessa persona. E presto abbiamo cominciato tutti a scuotere la  testa. Poi però la Contessa ha ripreso a parlare. Eravamo  sull'orlo del baratro, ha detto. Dovevamo abbandonare i  pregiudizi. Cercare il signor Brodsky, parlare con lui,  accertarci delle sue attuali capacità. Nessuno di noi,  sicuramente, aveva bisogno che gli venisse ricordata la gravità  della situazione. Tutti eravamo in grado di elencare dozzine di  tristi casi. Di vite distrutte dalla solitudine. Di famiglie che disperavano di poter ritrovare una felicità che un tempo avevano  dato per scontata. $è stato a questo punto che il signor Hoffman,  il direttore del suo albergo, si è schiarito la gola e ha  dichiarato che si sarebbe occupato lui del signor Brodsky. Ha  pronunciato queste parole con grande solennità, alzandosi  addirittura in piedi. Ha detto che si sarebbe incaricato di  esaminare la situazione, e se ci fosse stata una qualche speranza  di recuperare il signor Brodsky, ebbene, avrebbe pensato lui a  tutto. Ha giurato che, se gli avessimo affidato il compito, non  avrebbe deluso la nostra comunità. Questo, come le dico, è  successo poco più di due anni fa. E da allora abbiamo osservato  stupefatti l'impegno con cui il signor Hoffman ha mantenuto la  sua promessa. I progressi, anche se non sempre regolari, sono  stati nel complesso notevoli. E oggi il signor Brodsky ha... be',  è stato riportato nelle condizioni in cui è adesso. Tanto che ci  siamo persuasi che non fosse più opportuno rimandare il gran  passo. In fondo, £presentando il signor Brodsky sotto una luce  migliore non possiamo ottenere più di tanto. A un certo punto la  gente di questa città deve giudicare con i suoi occhi e le sue  orecchie. Be', finora tutto fa pensare che non abbiamo peccato di  eccessiva presunzione. Il signor Brodsky va regolarmente alle  prove, e a detta di tutti si è pienamente conquistato il rispetto  dell'orchestra. Forse sono passati molti anni dall'ultima volta  che si è esibito in pubblico, ma non ha perso il suo smalto. La  passione, la visione raffinata che abbiamo scoperto quel  pomeriggio nel salotto della Contessa, sono rimaste assopite  dentro di lui, e ora si stanno a poco a poco risvegliando. Sì,  siamo sicuri che giovedì sera il signor Brodsky ci renderà  orgogliosi di lui. Noi, da parte nostra, abbiamo fatto tutto il  possibile per garantire il successo della serata. L'orchestra  della Fondazione Nagel di Stoccarda, come lei sa, pur non essendo  di primissimo piano, è molto considerata. Si fa pagare  profumatamente. Ma quando l'abbiamo messa sotto contratto per  questa importantissima occasione quasi nessuno ha avuto da  ridire, neppure sulla durata del periodo. In principio avevamo  pensato a due settimane di prove, ma alla fine, con il pieno  appoggio della Commissione finanze, abbiamo portato il periodo a  tre settimane. Tre settimane di vitto e alloggio per un'orchestra  ospite, oltre al cachet, capisce anche lei, signor Ryder, che non  è cosa da poco. Ormai ogni consigliere si è convinto  dell'importanza di giovedì sera. Tutti concordano che bisogna  dare al signor Brodsky ogni opportunità. E con tutto ciò, -  improvvisamente Pedersen emise un sospiro, - con tutto ciò, come  lei stesso ha visto poco fa, i vecchi pregiudizi sono duri a  morire. Proprio per questo, signor Ryder, il suo aiuto, il fatto  che abbia accettato di venire nella nostra umile città, potrebbe  rivelarsi determinante. La gente la ascolterà come non  ascolterebbe mai uno di noi. Anzi, le posso assicurare che  l'umore della città è cambiato alla semplice notizia del suo  arrivo. C'è grande trepidazione per quello che ci dirà giovedì  sera. Nei tram, nei bar, la gente non parla quasi d'altro.  Naturalmente non so con esattezza che cosa ci abbia preparato.  Forse starà attento a non dipingere un quadro troppo roseo. Forse  ci avvertirà che ognuno di noi ha davanti a sé un duro lavoro, se  vogliamo ritrovare la felicità perduta. Farà benissimo a metterci  sull'avviso. Ma so anche che saprà fare appello con grande  abilità allo spirito di collaborazione e al senso civico dei suoi  ascoltatori. In ogni caso, una cosa è certa. Quando avrà finito  di parlare, nessuno in questa città vedrà più nel signor Brodsky  il vecchio ubriaco trasandato di un tempo. Perché quella faccia,  signor Ryder? La prego di non preoccuparsi. Le sembreremo una  città del terzo mondo, ma in certe occasioni sappiamo eccellere. Il signor Hoffman ha lavorato sodo per organizzare una serata  davvero magnifica. Non tema, signor Ryder, tutti i cittadini che  contano saranno presenti. E per quanto riguarda il signor  Brodsky, come le dico, sono sicuro che non ci deluderà. Supererà  le nostre migliori aspettative, ne sono certo.   
  In realtà, l'espressione che Pedersen aveva notato sul mio  volto non era dettata dall'inquietudine, ma dalla crescente  irritazione che provavo nei miei confronti. Il mio discorso alla  città era tutt'altro che pronto; dovevo persino finire di  raccogliere i dati. Non riuscivo a capire come, con tutta la mia  esperienza, mi fossi lasciato prendere alla sprovvista. Ricordai  che non più tardi di quel pomeriggio, mentre sorseggiavo una  tazza di caffè forte e amaro nell'elegante patio dell'albergo, mi  ero ripetuto quanto fosse importante organizzare con cura il  resto della mia giornata in modo da sfruttare nel modo migliore  il pochissimo tempo a disposizione. Osservando il nebuloso  riflesso della fontana nello specchio dietro il banco, mi ero  addirittura immaginato una situazione non dissimile da quella in  cui mi ero trovato poco prima al cinema, una situazione in cui  avrei fatto colpo su chi mi stava intorno con la mia disinvolta e  autorevole opinione su una serie di temi locali, procurando di  pronunciare almeno una battuta spontanea ai danni di Christoff,  una frecciata memorabile che il giorno dopo avrebbe fatto il giro  della città. Invece mi ero lasciato frastornare da altre  questioni, con il risultato che per tutta la permanenza al cinema  non ero riuscito a fare un solo commento degno di nota. Forse  avevo addirittura dato l'impressione di essere una persona un po'  maleducata. Improvvisamente sentii un'intensa irritazione nei  confronti di Sophie per tutto lo scompiglio che aveva creato, per  il modo in cui mi aveva costretto a trascurare completamente le  mie abitudini.  
  Ci fermammo di nuovo, e mi accorsi che eravamo davanti  all'albergo.  
  - Be', è stato un vero piacere, - disse Pedersen, tendendomi la  mano. - Spero di rivederla nei prossimi giorni. Ma ora cerchi di  riposarsi.   
  Lo ringraziai, gli augurai la buona notte ed entrai nell'atrio  mentre i suoi passi si perdevano nella notte.   
  Il giovane portiere era ancora in servizio. - Spero che il film  le sia piaciuto, signor Ryder, - disse, porgendomi la chiave.   
  - Moltissimo. Grazie per il consiglio. L'ho trovato proprio  rilassante.   
  - Sì, parecchi clienti pensano sia un buon modo per chiudere la  giornata. A proposito, Gustav dice che Boris si è trovato  benissimo nella sua camera e si è addormentato subito.   
  - Ah, magnifico.  
  Gli augurai la buona notte e filai verso l'ascensore.   
  Quando arrivai in camera, mi sentii sporco dopo la lunga  giornata; mi spogliai, misi la vestaglia e mi preparai a fare la  doccia. Poi, mentre esaminavo il bagno, mi venne una tale  stanchezza che a stento riuscii a tornare in camera e a lasciarmi  cadere sul letto, dove sprofondai immediatamente nel sonno. 
10.  
  Mi ero appena addormentato quando il telefono mi squillò  nell'orecchio. Lo lasciai suonare per un pezzo, poi mi tirai su e  risposi.  
  - Ah, signor Ryder. Sono io. Hoffman.   
  Aspettai che mi spiegasse perché mi aveva disturbato, ma il  direttore dell'albergo non aggiunse altro. Solo dopo un silenzio  imbarazzato ripeté:   
  - Sono io, signor Ryder. Hoffman -. Altra pausa, poi: - Sono giù nell'atrio.   
  - Oh, certo.   
  - Mi spiace, signor Ryder, forse l'ho interrotta mentre faceva  qualcosa.   
  - Veramente stavo solo dormendo un po'.   
  Le mie parole dovevano averlo lasciato di sasso, perché vi fu  un altro silenzio. Risi e mi affrettai ad aggiungere:   
  - Si fa per dire; ero sdraiato sul letto. Naturalmente non  dormirò sul serio fino... fino a quando non avrò esaurito gli  impegni della giornata.   
  - Certo, certo -. Hoffman sembrava sollevato. - Insomma, stava  tirando il fiato. Più che comprensibile. Be', in ogni caso io  sono qui nell'atrio che l'aspetto, signor Ryder.   
  Riattaccai e mi sedetti sul letto, chiedendomi che cosa dovessi  fare. Mi sentivo più che mai spossato - non potevo avere dormito  più di qualche minuto - e avevo la tentazione di mandare tutti a  quel paese e di tornarmene semplicemente a dormire. Alla fine,  però, capii che la cosa era impossibile, così mi alzai.   
  Mi accorsi di essermi addormentato in vestaglia; stavo per  toglierla e rivestirmi, quando pensai che potevo scendere a  parlare con Hoffman così com'ero. A quell'ora della notte, in  fondo, era improbabile che incontrassi qualcun altro oltre a  Hoffman e al portiere, e il fatto di scendere in vestaglia  avrebbe sottolineato in maniera garbata ma inequivocabile che era  tardi e che mi si impediva di dormire. Non poco contrariato,  uscii in corridoio e mi diressi verso l'ascensore.   
  In principio, se non altro, la vestaglia parve ottenere  l'effetto desiderato, perché le prime parole di Hoffman quando  arrivai nell'atrio furono: - Mi spiace avere disturbato il suo  riposo, signor Ryder. Questi viaggi devono essere terribilmente  faticosi per lei.   
  Non feci il minimo sforzo per nascondere la mia stanchezza.  Passandomi una mano nei capelli, dissi: - Non c'è bisogno di  scusarsi, signor Hoffman. Ma mi auguro che si tratti di una cosa  rapida. Comincio proprio a non poterne più.   
  - Oh, ci metteremo pochissimo, gliel'assicuro.   
  - Bene.   
  Notai che sotto l'impermeabile Hoffman indossava un abito da  sera con fascia di seta e farfallino.   
  - Naturalmente avrà saputo della cattiva notizia, - disse.   
  - La cattiva notizia?   
  - Sì, è un brutto colpo, signor Ryder, ma lasci che le dica che  continuo a essere fiducioso, molto fiducioso. Vedrà che non ci  saranno conseguenze. Sono sicuro che se ne convincerà anche lei  prima che finisca la serata.   
  - Certamente, - dissi, annuendo conciliante. Ma dopo un momento  capii che la situazione era senza speranza e gli domandai a  bruciapelo: - Mi scusi, signor Hoffman, ma di quale notizia sta  parlando? Si sentono solo cattive notizie, di questi tempi.   
  Hoffman mi guardò allarmato. - Solo cattive notizie?   
  Scoppiai a ridere. - Mi riferisco ai combattimenti in Africa e  a tutto il resto. Solo cattive notizie. Dappertutto -. Risi di  nuovo.  
  - Oh, capisco. No, ovviamente io sto parlando del cane del  signor Brodsky.   
  - Ah. Il cane del signor Brodsky.   
  - Ammetterà anche lei, signor Ryder, che è una bella sfortuna.  Proprio adesso. Fai tutto con la massima cura, e poi ti succede  una cosa del genere! - Hoffman sospirò esasperato.   
  - Sì, è terribile. Terribile.   
  - Ma le ripeto che sono fiducioso. Sì, sono sicuro che non ci  saranno intoppi. Be', che ne dice se usciamo subito? Sa, aveva proprio ragione lei, signor Ryder. $è molto meglio se partiamo  adesso. Così non arriveremo né troppo presto né troppo tardi. Sì,  bisogna saper affrontare le cose con calma. Mai lasciarsi  prendere dal panico. Bene, signor Ryder, andiamo.  
  - Ehm... signor Hoffman. Temo di avere fatto un piccolo errore  di valutazione a proposito dell'abbigliamento. Mi concede qualche  minuto per tornare di sopra a cambiarmi?   
  - Oh, - Hoffman mi guardò di sfuggita, - così va benissimo,  signor Ryder. Non si preoccupi. E adesso, - il direttore diede  un'occhiata ansiosa all'orologio, - penso sia meglio andare. Sì,  è proprio l'ora giusta. Per piacere.   
  Fuori la notte era buia e cadeva una pioggia incessante. Seguii  Hoffman, che girò intorno all'albergo, percorse un vialetto ed  entrò in un piccolo posteggio all'aperto in cui c'erano cinque o  sei macchine. Grazie a un fanale solitario legato a un palo della  recinzione riuscivo a distinguere le grandi pozzanghere che  ricoprivano il terreno.   
  Hoffman corse verso una grossa macchina nera e mi aprì la  portiera. Mentre lo raggiungevo, sentii l'acqua passare  attraverso le pantofole. Proprio salendo in macchina, misi un  piede in una pozzanghera profonda e mi infradiciai completamente.  Lanciai un'esclamazione, ma Hoffman stava già girando intorno  alla macchina per mettersi al volante.   
  Mentre il direttore usciva dal posteggio, cercai di asciugarmi  il piede sulla soffice moquette del tappetino. Quando finalmente  alzai gli occhi, eravamo già nel corso, e fui sorpreso  dall'intensità del traffico. Molti negozi e ristoranti si erano  risvegliati, e si vedevano folle di clienti aggirarsi dietro le  vetrine illuminate. Poco più avanti il traffico aumentò ancora,  finché, non lontano dal centro della città, restammo bloccati in  mezzo a tre file di macchine. Hoffman guardò l'orologio e,  indispettito, batté la mano sul volante.   
  - Bella sfortuna, - commentai, cercando di dimostrarmi  comprensivo. - E dire che fino a poco fa l'intera città sembrava  addormentata.   
  Hoffman appariva molto agitato. Distrattamente, rispose: - Il  traffico di questa città non fa che peggiorare. Non so proprio  come faremo -. E di nuovo batté la mano sul volante.   
  Restammo per qualche minuto in silenzio, mentre la macchina  avanzava a passo d'uomo. Poi Hoffman disse sottovoce:   
  - Il signor Ryder ha fatto un lungo viaggio.   
  Pensai di non avere capito bene, ma un attimo dopo il direttore  ripeté la frase - questa volta accompagnandola con un soave cenno  di mano; allora capii che stava provando ciò che avrebbe detto al  nostro arrivo per giustificare il ritardo.   
  - Il signor Ryder ha fatto un lungo viaggio. Il signor Ryder...  ha fatto un £lungo viaggio.  
  Mentre procedevamo nell'intenso traffico notturno, Hoffman  continuò, a sprazzi, a borbottare, anche se per lo più non  riuscii ad afferrare le sue parole. Era entrato in un mondo tutto  suo, e aveva la faccia sempre più tesa. A un certo punto, dopo  avere perso un semaforo verde, lo sentii mormorare: - No, no,  signor Brodsky! Era una bestiola magnifica, magnifica!   
  Finalmente svoltammo a un incrocio e cominciammo a uscire dalla  città. Presto le case sparirono, e ci trovammo su una lunga  strada fiancheggiata, a destra e a sinistra, da spazi aperti e  bui, forse campi coltivati. Il traffico diradò e la potente  vettura poté accelerare. Hoffman si rilassò visibilmente, e  quando mi rivolse di nuovo la parola aveva ritrovato gran parte  della sua compitezza.   
  - Mi dica, signor Ryder. Ha qualche appunto da muovere  all'albergo?  
  - Oh, no. Tutto è perfetto, grazie.   
  - La camera le piace?   
  - Oh, sì.   
  - E il letto. $è comodo?   
  - Comodissimo.   
  - Glielo chiedo perché i letti sono il nostro vanto. Rinnoviamo  i materassi molto spesso. Nessun altro albergo in questa città  cambia tanti materassi quanti ne cambiamo noi. Di questo sono  arcisicuro. I materassi che noi buttiamo via sarebbero  considerati buoni ancora per parecchi anni da molti dei nostri  così detti concorrenti. Lo sa, signor Ryder, che, mettendo in  fila tutti i materassi che noi buttiamo via in cinque esercizi  consecutivi, si potrebbe partire dal municipio, seguire il corso  fino alla fontana, svoltare in Sterngasse e arrivare alla  farmacia del signor Winkler?   
  - Davvero? Impressionante.   
  - Signor Ryder, mi consenta di parlarle apertamente. Ho pensato  molto alla sua camera. Com'è naturale, nei giorni precedenti il  suo arrivo ho dedicato parecchio tempo a studiare quale  assegnarle. La maggior parte degli alberghi è in grado di dare  una risposta univoca alla domanda: «Qual è la nostra camera  migliore?» Ma nel mio albergo non è così, signor Ryder. In tutti  questi anni ho avuto modo di curare a fondo un gran numero di  camere diverse. Ci sono momenti in cui divento... ah, ah!...  qualcuno direbbe £ossessionato, sì, ossessionato da una camera in  particolare. Quando intuisco il potenziale di una stanza, passo  giorni e giorni a figurarmela, poi metto la massima cura nel  farla ristrutturare in modo da avvicinarmi il più possibile al  modello che ho in mente. Non sempre ci riesco, ma in parecchie  occasioni i risultati, dopo molta fatica, si avvicinano a ciò che  ho in mente, e naturalmente la cosa è molto gratificante. Ma non  appena ho finito una ristrutturazione soddisfacente di una  stanza, forse per una specie di difetto della mia indole, subito  sono affascinato dal potenziale di un'altra. E prima che me ne  accorga, sto già di nuovo dedicando un mucchio di tempo e di  energie mentali al nuovo progetto. Sì, qualcuno la definirebbe  un'ossessione, ma io non ci vedo nulla di male. Poche cose sono  uggiose come un albergo con una sfilza di camere tutte arredate  secondo gli stessi triti concetti. Per quanto mi riguarda, ogni  camera deve essere pensata in modo da adeguarsi alle sue  specifiche caratteristiche. Questo per dirle, signor Ryder, che  nel mio albergo non ho una camera preferita. Così, dopo avere  riflettuto a lungo, ho concluso che la camera in cui si sarebbe  trovato meglio era quella attuale. Ma dopo averla conosciuta non  ne sono più così sicuro.  
  - Oh, no, signor Hoffman, - lo interruppi. - La mia camera va  benissimo.   
  - Ma da quando ci siamo conosciuti non faccio altro che  pensarci, signor Ryder. E sono persuaso che per il suo carattere  sia più adatta un'altra camera. Magari domani mattina gliela  faccio vedere. Sono quasi certo che le piacerà di più.  
  - No, signor Hoffman, gliel'assicuro. La mia camera...   
  - Voglio essere sincero, signor Ryder. La sua venuta sta  sottoponendo la camera che occupa attualmente al suo primo vero  collaudo. Vede, è la prima volta che metto un ospite di riguardo  in quella camera da quando l'ho riconcepita quattro anni fa.  Naturalmente, non potevo in alcun modo prevedere che un giorno  proprio lei ci avrebbe fatto questo onore; ma guarda caso ho  lavorato su quella camera immaginandomi un personaggio molto  simile a lei. Quello che voglio dire è che solo adesso, grazie al  suo arrivo, abbiamo potuto utilizzare la camera per la  destinazione prevista in origine. E ora mi è perfettamente chiaro che quattro anni fa ho compiuto parecchi gravi errori di  valutazione. $è così difficile, anche con la mia esperienza. No,  quella camera proprio non mi soddisfa. L'abbinamento è infelice.  La proposta che le faccio, signor Ryder, è di trasferirsi nella  343, che ritengo più consona al suo spirito. Lì si sentirà molto  più a suo agio e dormirà meglio. Quanto alla sua camera attuale,  be', oggi ci ho pensato a lungo. Così com'è non mi resta che  demolirla.   
  - Signor Hoffman, non lo faccia!   
  Avevo urlato, e Hoffman si girò a guardarmi stupito. Risi e,  riprendendomi in fretta, aggiunsi:   
  - Non voglio che vada incontro a spese e fastidi per causa mia.   
  - Lo faccio per mia tranquillità, glielo assicuro, signor  Ryder. A quest'albergo ho dedicato la mia vita. Quella camera è  stata un brutto errore. Non vedo altra soluzione se non  demolirla.  
  - Signor Hoffman, quella stanza... Insomma, mi ci sono  affezionato. Le assicuro che lì sto benissimo.   
  - Non la capisco, signor Ryder -. Hoffman sembrava sinceramente  meravigliato. - $è ovvio che quella camera non è adatta a lei.  Adesso che la conosco, posso affermarlo con notevole certezza.  Non c'è bisogno che faccia complimenti. Mi stupisce che lei sia  così attaccato a quella camera.   
  Scoppiai in una risata forse un po' troppo fragorosa. - Ma che  cosa dice? Io attaccato? - Risi di nuovo. - $è solo una camera,  nient'altro. Se è necessario demolirla, la demolisca! Mi  trasferirò volentieri in un'altra.  
  - Ah. Sono contento che la pensi così. Non mi sarei dato pace,  non solo per il resto del suo soggiorno, ma anche negli anni a  venire, al pensiero di averla avuta ospite nel mio albergo e di  averla costretta a sopportare una camera così inadeguata. Non  riesco nemmeno a immaginare che cosa mi sia passato per la testa  quattro anni fa. Ho sbagliato tutto!   
  Da un pezzo sfrecciavamo nell'oscurità senza incontrare altri  fari. In lontananza intravedevo qualche casa, forse delle  fattorie, ma per il resto c'era ben poco che interrompesse lo  spazio nero e vuoto ai due lati della strada. Viaggiammo in  silenzio per un po'. Poi Hoffman disse:   
  - Il destino è crudele, signor Ryder. Quel cane, be', non era  giovane, ma avrebbe potuto tirare avanti senza problemi ancora  per due o tre anni. E dire che i preparativi stavano procedendo  per il meglio -. Il direttore scosse la testa. - Proprio adesso  doveva succedere -. Poi, girandosi verso di me con un sorriso,  continuò: - Ma io resto fiducioso. Sì, fiducioso. Il signor  Brodsky non si lascerà distrarre, nemmeno da una cosa del genere.     - Magari bisognerebbe regalargli un altro cane. Un cucciolo,  per esempio.   
  L'avevo detto così, senza riflettere, ma Hoffman si fece  scrupolo di considerare rispettosamente la mia proposta.   
  - Non saprei, signor Ryder. Tenga presente che il signor  Brodsky era affezionatissimo a Bruno. In questo momento sarà in  lutto. Ma forse ha ragione, adesso che Bruno non c'è più dobbiamo  trovare il modo di alleviare la sua solitudine. Magari con un  animale diverso. Un animale che lenisca il suo dolore. Un uccello  da gabbia, per esempio. Poi, con il tempo, quando sarà pronto, si  potrebbe provare con un altro cane. Ma, non saprei.   
  Hoffman tacque per parecchi minuti, come se si fosse messo a  pensare ad altro. Ma all'improvviso, senza staccare gli occhi  dalla strada buia che si snodava davanti a noi, mormorò con  veemenza:   
  - Un bue! Sì, un bue, un bue, un bue!   
  Ma ormai ne avevo le tasche piene del cane di Brodsky; mi appoggiai allo schienale senza dire nulla, deciso a rilassarmi  per il resto del viaggio. A un certo punto, nel tentativo di  ottenere qualche informazione sul posto dove eravamo diretti,  dissi: - Spero che non saremo troppo in ritardo.   
  - No, no. Siamo in orario, - rispose Hoffman, ma sembrava che  avesse la mente altrove. Poi, qualche minuto più tardi, lo sentii  mormorare di nuovo in tono brusco: - Un bue! Un bue!   
  Dopo un po' lasciammo la strada e ci trovammo in una zona  residenziale dall'aspetto molto pulito. Nell'oscurità intravidi  grandi case circondate da parchi privati, spesso cintati da alti  muri o da siepi. Hoffman guidò lentamente per i viali frondosi,  provando ancora una volta sottovoce le frasi da dire.   
  Varcato un imponente cancello di ferro entrammo nel cortile di  una casa di tutto rispetto. C'erano già molte altre macchine, e  il direttore dell'albergo ci mise un po' a trovare un posto. Poi  scese dall'auto e si precipitò verso la porta d'ingresso.   
  Rimasi in macchina ancora un momento, studiando la grande casa  per cercare di capire che cosa mi aspettasse. Lungo la facciata  c'era una fila di finestroni che arrivavano quasi fino a terra.  La maggior parte era illuminata, ma a causa delle tende non  riuscivo a vedere che cosa vi fosse dentro.   
  Hoffman suonò il campanello e mi fece cenno di raggiungerlo.  Quando scesi dalla macchina, notai che la pioggia si era  attenuata, trasformandosi in acquerugiola. Mi strinsi la  vestaglia intorno alla vita e mi diressi verso la casa, evitando  con cura le pozzanghere.   
  La porta fu aperta da una cameriera che ci introdusse in un  ampio vestibolo ornato di grandi ritratti. Apparentemente la  donna conosceva Hoffman, e mentre gli prendeva l'impermeabile  scambiò con lui qualche rapida parola. Hoffman si fermò un  momento davanti a uno specchio per raddrizzarsi il cravattino,  poi mi fece strada addentrandosi nella casa.   
  Arrivammo in una grande sala inondata di luce, in cui era in  pieno svolgimento una festa. C'erano almeno cento persone vestite  elegantemente da sera, che chiacchieravano divise in gruppetti  con i bicchieri in mano. Sulla soglia, Hoffman mi mise un braccio  davanti al corpo come per proteggermi ed esplorò la sala con lo  sguardo.   
  - Non c'è ancora, - borbottò alla fine. Poi, girandosi verso di  me con un sorriso, disse: - Il signor Brodsky non è ancora  arrivato. Ma io resto fiducioso. Sono sicuro che non tarderà.   
  Hoffman si voltò di nuovo a guardare la sala e per un attimo  parve smarrito. Poi aggiunse: - Le spiace aspettarmi un momento,  signor Ryder? Vado a cercare la Contessa. Oh, e stia un po' più  indietro, ecco così... ah! ah!... in modo che non la vedano. Non  dimentichi che lei è la nostra grande sorpresa. Mi aspetti, torno  subito.   
  Hoffman entrò nella sala, e per qualche istante lo seguii con  gli occhi mentre si aggirava fra gli invitati; il suo  atteggiamento preoccupato strideva con l'allegria generale. Vidi  che parecchie persone cercavano di rivolgergli la parola, ma ogni  volta Hoffman si allontanava in fretta con un sorriso inquieto.  Alla fine lo persi di vista, e probabilmente feci un passetto  avanti nel tentativo di ritrovarlo. Fatto sta che devo essere  uscito allo scoperto, perché una voce accanto a me disse: - Oh,  signor Ryder, è arrivato. Sono felice che sia finalmente tra noi.   
  Una robusta signora di circa sessant'anni mi aveva posato una  mano sul braccio. Sorrisi e bofonchiai un po' di convenevoli, e  lei aggiunse: - Sono tutti ansiosissimi di conoscerla -. Detto  questo, mi condusse con mano sicura nel bel mezzo del  ricevimento.   
  Mentre la seguivo sgomitando fra gli ospiti, cominciò a farmi domande. In principio mi chiese le solite cose sulla salute e sul  viaggio. Poi, mentre continuavamo ad aggirarci per la sala, mi  interrogò a fondo sull'albergo. Entrò in tali particolari -  approvavo la scelta del sapone? Che cosa ne pensavo della  moquette dell'atrio? - che cominciai a sospettare che fosse una  concorrente di Hoffman, indispettita che non stessi al suo  albergo. Tuttavia, tanto il suo contegno quanto il modo in cui  scambiava cenni di capo e sorrisi con le persone cui passavamo  accanto non lasciavano il minimo dubbio che fosse la padrona di  casa, e conclusi che doveva essere la Contessa.   
  Mi ero fatto l'idea che volesse condurmi in un punto  particolare della sala o da una particolare persona, ma dopo un  po' ebbi la netta impressione che stessimo girando in tondo in  lenti cerchi. Infatti, passai per certi punti della sala dove  avrei giurato di essere già stato almeno due volte. L'altra cosa  che m'incuriosì fu che la mia accompagnatrice, sebbene parecchie  teste si girassero a salutarla, non mi presentasse a nessuno.  Inoltre, sebbene ricevessi molti sorrisi compiti, nessuno  sembrava provare particolare interesse per la mia persona.  Sicuramente, nessuno interruppe la conversazione vedendomi  passare. La cosa mi lasciò un po' perplesso, visto che mi ero  preparato al solito profluvio di domande e complimenti  asfissianti.   
  Dopo un po' notai anche che l'atmosfera della sala aveva  qualcosa di strano - quasi la festosità fosse un po' forzata,  addirittura teatrale - anche se sulle prime non riuscii a capirne  la ragione. Poi però ci fermammo, e mentre la Contessa si metteva  a chiacchierare con due signore coperte di gioielli, ebbi  l'opportunità di guardarmi intorno e di raccogliere qualche  impressione. Solo allora mi accorsi che il ricevimento non era un  semplice cocktail, e che gli invitati, in realtà, stavano  aspettando di essere chiamati a tavola; era anche evidente che la  cena doveva essere servita almeno due ore prima, e che la  Contessa e i suoi colleghi avevano dovuto posticiparne l'inizio a  causa dell'assenza sia di Brodsky, ospite d'onore, sia del  sottoscritto, grande sorpresa della serata. Poi, mentre  continuavo a guardarmi intorno, cominciai piano piano a capire  ciò che era successo prima del nostro arrivo.   
  Di tutti i ricevimenti organizzati fino a quel momento in onore  di Brodsky, questo era il più grandioso. Inoltre, essendo anche  l'ultimo prima della fatidica serata di giovedì, doveva avere  tenuto tutti sulla corda sin dall'inizio. Il ritardo di Brodsky  non aveva fatto che accrescere la tensione, anche se in principio  gli ospiti - consapevoli di rappresentare l'élite della città -  avevano mantenuto la calma, evitando scrupolosamente ogni  commento che si potesse interpretare come un dubbio  sull'attendibilità di Brodsky. Molti, a dire il vero, erano  riusciti a non nominarlo neppure, limitandosi, per scaricare la  loro apprensione, a fare interminabili congetture sull'ora in cui  sarebbe stata servita la cena.   
  Poi era arrivata la notizia del cane di Brodsky. Come mai una  cosa simile fosse stata resa di pubblico dominio con tanta  leggerezza, non era chiaro. Forse nella casa era giunta una  telefonata, e uno dei consiglieri, nel malaccorto tentativo di  calmare le acque, aveva rivelato la notizia a qualche invitato.  In ogni caso, le conseguenze di avere lasciato che una simile  bomba passasse di bocca in bocca in una folla con i nervi a fior  di pelle per l'ansia e per la fame erano state del tutto  prevedibili. Presto nella sala avevano cominciato a circolare le  voci più assurde. Brodsky era stato scoperto, completamente  ubriaco, mentre cullava il cadavere del suo cane. Brodsky era  stato trovato disteso in una pozzanghera in mezzo alla strada, intento a farfugliare cose incomprensibili. Brodsky, sopraffatto  dal dolore, aveva cercato di uccidersi bevendo kerosene.  Quest'ultima storia traeva origine da un incidente di parecchi  anni prima, quando effettivamente Brodsky era stato portato di  corsa in ospedale da un agricoltore che abitava vicino a lui  perché aveva ingerito una notevole quantità di kerosene - anche  se non si era mai stabilito se l'avesse fatto con l'intenzione di  uccidersi o semplicemente per un errore causato dall'ubriachezza.  E poco dopo, sulla scia di queste voci, erano cominciate le scene  di disperazione.   
  - Quel cane significava tutto per lui. Brodsky non si  risolleverà mai più da questo colpo. Dobbiamo guardare in faccia  la realtà, siamo tornati alla casella di partenza.   
  - Bisogna cancellare la serata di giovedì. Cancellarla subito.  Ormai sarebbe sicuramente un disastro. Se non fermiamo tutto, la  gente di questa città non ci darà mai più una prova d'appello.   
  - Quell'uomo è sempre stato un pericolo. Non ci saremmo mai  dovuti cacciare in questo pasticcio. Ma adesso che cosa facciamo?  Siamo perduti, irrimediabilmente perduti.   
  Poi, mentre la Contessa e i suoi colleghi cercavano di  riportare l'ordine, si erano udite improvvisamente delle grida in  mezzo alla sala.   
  Molti si erano precipitati a vedere, mentre altri  indietreggiavano dallo spavento. Era successo che uno dei  consiglieri più giovani aveva inchiodato al pavimento un signore  calvo e grassoccio, nel quale tutti, dopo un attimo, avevano  riconosciuto il veterinario Keller. Qualcuno aveva tirato via il  giovane consigliere, ma lui si era aggrappato con tanto  accanimento al bavero di Keller, che il veterinario era venuto su  con lui.   
  - Ho fatto del mio meglio! - strillava Keller rosso in volto. -  Ho fatto del mio meglio! Che altro potevo fare? Due giorni fa  l'animale stava bene!   
  - Impostore! - aveva mugghiato il giovane consigliere tentando  un nuovo assalto. Di nuovo era stato trattenuto, ma ormai  parecchie altre persone, avendo scoperto un buon capro  espiatorio, avevano cominciato a gridare contro Keller. Per  qualche istante sul veterinario erano piovute da ogni parte  accuse, ora di negligenza, ora di avere messo a repentaglio il  futuro dell'intera comunità. Poi una voce aveva urlato: - E i  gattini dei Breuer? Passi le tue giornate a giocare a bridge, e  hai lasciato che quei gattini morissero a uno a uno...  
  - Gioco a bridge solo una volta alla settimana, e poi... -  aveva tentato flebilmente di protestare il veterinario, ma subito  altre voci lo avevano aggredito. Di punto in bianco era sembrato  che tutti in sala ce l'avessero con lui per qualche vecchia  storia riguardante le loro adorate bestiole. Poi qualcuno aveva  urlato che Keller gli doveva dei soldi, un altro che Keller non  gli aveva mai restituito un rastrello imprestato sei anni prima.  Presto il rancore nei confronti del veterinario era giunto a un  tale parossismo che non c'è da stupirsi se le persone che  trattenevano il giovane consigliere avevano allentato la presa. E  quando quest'ultimo era partito di nuovo all'attacco, tutti  avevano avuto l'impressione che questa volta avesse il benestare  della stragrande maggioranza dei presenti. Le cose si stavano  mettendo molto male, quando una voce tonante aveva fatto  ritornare tutti in sé.   
  Se in sala era piombato di colpo il silenzio, ciò era dovuto,  probabilmente, più allo stupore provocato dall'identità della  persona che aveva parlato che non a una sua reale autorità.  Infatti l'uomo che tutti si erano girati a guardare, e che ora li  fulminava dall'alto del palco, era Jakob Kanitz, noto in città soprattutto per la sua timidezza. Ormai prossimo alla  cinquantina, l'impiegato Jakob Kanitz aveva sempre lavorato, a  memoria dei presenti, nello stesso grigio ufficio municipale. Era  raro che azzardasse un'opinione, e ancora più raro che  contraddicesse o discutesse quelle degli altri. Non aveva  praticamente amici, e parecchi anni prima aveva lasciato la  casetta in cui viveva con la moglie e i tre figli per affittare  una piccola mansarda nella stessa strada. Ogni volta che qualcuno  toccava quel tasto, Kanitz giurava che sarebbe tornato presto  dalla sua famiglia, ma gli anni erano passati e la situazione non  era cambiata. Nel frattempo, soprattutto per la sua disponibilità  a occuparsi dei mille lavoretti che si presentano quando si  organizza un evento culturale, era stato accettato, anche se con  un po' di condiscendenza, dai circoli artistici della città.   
  La sala non aveva avuto il tempo di riprendersi dalla sorpresa,  che Jakob Kanitz - forse consapevole che i suoi nervi non  avrebbero retto a lungo - aveva cominciato a parlare.   
  - Le altre città! E non dico Parigi! O Stoccarda! Mi riferisco  a città più piccole, non più grandi di noi. Ebbene, le altre  città, radunate i loro cittadini migliori, metteteli davanti a  una crisi di questo genere, e come pensate che reagirebbero?  Sarebbero calmi, sicuri di sé. Saprebbero cosa fare, come  comportarsi. Quello che voglio dirvi, che voglio dire a tutti noi  che siamo qui, è che siamo la crema di questa città. Il problema  non è insormontabile. Insieme possiamo farcela. Pensate che a  Stoccarda litigherebbero?! Non dobbiamo lasciarci prendere dal  panico. Guai se ci arrendiamo e cominciamo a bisticciare fra noi.  Va bene, il cane è un guaio, ma non è mica la fine del mondo. Non  è ancora detta l'ultima parola. Non so in che stato sia il signor  Brodsky in questo momento, ma sono sicuro che possiamo ridargli  la carica. Ce la possiamo fare, a patto che tutti questa sera si  rimbocchino le maniche. Dobbiamo farcela. Perché se non riusciamo  a ridargli la carica, se stasera tutti insieme non salviamo la  situazione, vi dico questo, non ci resta che l'infelicità! Sì,  una profonda, scoraggiante infelicità! Non abbiamo nessun altro  cui rivolgerci, deve essere il signor Brodsky, perché in questo  momento non c'è nessun altro. Probabilmente sta per arrivare.  Dobbiamo restare calmi. Che cosa facciamo, litighiamo? Pensate  che litigherebbero a Stoccarda? Cerchiamo di ragionare con mente  lucida. Nei suoi panni, come ci sentiremmo? Dobbiamo dimostrargli  che soffriamo con lui, che l'intera città partecipa al suo  dolore. E poi, amici, non scordatevelo, è fondamentale tirargli  su il morale. Oh, sì! Guai se passassimo tutta la sera a  disperarci, se lo mandassimo via di qui con la convinzione che la  vita non gli riserva più nulla; potrebbe ricominciare a... No,  no! Ci vuole una giusta via di mezzo! Dobbiamo anche essere  allegri, fargli capire che nella vita ci sono tante altre cose,  che contiamo tutti su di lui, che dipendiamo da lui. Sì, nelle  prossime ore spetta a noi salvare la situazione. Il signor  Brodsky sarà qui a momenti, Dio solo sa in che stato, e le  prossime ore saranno cruciali, cruciali. Dobbiamo fare le cose  per bene. Altrimenti saremo condannati all'infelicità.  Dobbiamo... Dobbiamo...   
  A questo punto Jakob Kanitz si era confuso. Era rimasto sul  palco ancora per qualche secondo, senza più parlare, sopraffatto  da una crescente vergogna. Con ciò che restava dell'ardore di  poc'anzi, aveva lanciato un'ultima occhiata di fuoco ai presenti,  poi, un po' impacciato nei movimenti, si era girato ed era sceso.   
  Ma il suo goffo appello aveva avuto un effetto immediato.  Ancora prima che Jakob Kanitz terminasse di parlare, si era  levato un basso mormorio d'assenso, e più di una persona aveva  dato uno spintone al giovane consigliere - che ormai strisciava i piedi per terra con aria vergognosa - per rimproverarlo. Quando  Jakob Kanitz aveva abbandonato il palco, c'era stato qualche  secondo di silenzio imbarazzato. Poi, a poco a poco, la sala si  era rianimata, e tutti si erano messi a discutere in tono grave  ma sereno su che cosa fare all'arrivo di Brodsky. In breve gli  invitati si erano trovati d'accordo: Jakob Kanitz aveva colpito  nel segno. Bisognava trovare la giusta via di mezzo tra  compunzione e allegria. Gli umori dovevano essere accuratamente  sorvegliati, istante per istante, da ciascuno dei presenti. Nella  sala si era diffuso un senso di determinazione, poi, piano piano,  la gente aveva cominciato a rilassarsi, finché tutti avevano  ripreso a sorridersi, a chiacchierare e a salutarsi in toni  garbati e civili, come se i disdicevoli episodi dell'ultima  mezz'ora non fossero mai avvenuti. Era stato più o meno a quel  punto - non più di venti minuti dopo che Jakob Kanitz aveva  finito il suo discorso - che Hoffman e io eravamo arrivati. Non  c'era dunque da meravigliarsi se avevo notato qualcosa di strano  sotto quella vernice di ricercata giovialità.   
  Stavo ancora riflettendo su quanto era successo prima del  nostro arrivo, quando scorsi Stephan dall'altra parte della sala,  intento a parlare con un'anziana signora. Accanto a me, la  Contessa era ancora tutta presa dalla conversazione con le due  donne ingioiellate, così, mormorando una scusa, mi allontanai da  loro. Mentre mi avvicinavo, Stephan mi vide e sorrise.   
  - Oh, signor Ryder. Ce l'ha fatta a venire. Posso presentarle  la signorina Collins?   
  Solo allora riconobbi nell'esile vecchia la proprietaria  dell'alloggio dove Stephan si era recato quella sera mentre  eravamo in macchina insieme. Era vestita in maniera semplice ma  elegante, con un lungo abito nero. Mi sorrise e mi porse la mano.  Dopo le presentazioni stavo per proseguire con i convenevoli,  quando Stephan si chinò verso di me e mi disse sottovoce:   
  - Sono stato uno sciocco, signor Ryder. Sinceramente non so più  che pesci prendere. La signorina Collins, come al solito, è stata  molto gentile, ma mi piacerebbe sentire anche la sua opinione.   
  - Vuoi dire... a proposito del cane del signor Brodsky?   
  - Oh. No, no. Quella è una storia terribile, me ne rendo conto.  Ma adesso stavamo discutendo di un'altra cosa. Ho davvero bisogno  di un suo consiglio. La signorina Collins mi stava appunto  suggerendo di venire a cercarla, vero, signorina Collins? Vede,  mi spiace seccarla, ma c'è stata una complicazione. Sa, a  proposito della mia esibizione di giovedì sera. Dio mio, come  sono stato sciocco! Come le ho detto, stavo preparando £Dalia di  Jean-Louis La Roche, ma papà non lo sapeva ancora. Non fino a  questa sera, almeno. Pensavo di fargli una sorpresa, sa, va pazzo  per La Roche. E poi, non mi avrebbe mai creduto capace di suonare  bene un pezzo così difficile, quindi la sorpresa sarebbe stata  doppia. Ma 
  ultimamente, con l'avvicinarsi del grande evento, ho  cominciato a pensare che era poco pratico mantenere il segreto.  Per esempio, c'è da stampare il programma ufficiale. Ce ne sarà  una copia accanto a ogni tovagliolo; papà si è lambiccato il  cervello per decidere le goffrature, l'illustrazione sul retro e  tutto il resto. Qualche giorno fa mi sono reso conto che avrei  dovuto dirglielo, però volevo fargli lo stesso una sorpresa, così  ho aspettato che si presentasse l'occasione giusta. Be', questa  sera, poco dopo avere scaricato lei e Boris, sono andato nel suo  ufficio a riportare le chiavi della macchina, e l'ho trovato a  quattro zampe sul pavimento. Stava esaminando mucchi di  scartoffie sparse intorno a lui sul tappeto. Niente di insolito,  papà lavora spesso così. Il suo ufficio è piccolino, la scrivania  porta via un sacco di spazio, così, per mettere a posto le chiavi  senza calpestare niente, ho dovuto saltellare sulla punta dei piedi. Papà mi ha chiesto come andava, poi, prima ancora che gli  rispondessi, si è rituffato nelle sue carte. Be', mentre uscivo,  vedendolo lì sul pavimento, ho sentito che quello era il momento  giusto. Non so perché. $è stato un impulso. Così, con noncuranza,  gli ho detto: «A proposito, papà, giovedì sera suonerò £Dalia di  La Roche. Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere saperlo». Non  ho usato nessun tono particolare, mi sono limitato a dirglielo e  ho aspettato la sua reazione. Be', papà ha posato il foglio che  stava leggendo, ma ha continuato a fissare il tappeto. Poi sul  suo volto è comparso un sorriso. Ho sentito che mormorava  qualcosa come: «Ah, sì, £Dalia», e per qualche secondo mi è  sembrato molto felice. $è rimasto con la testa china, a quattro  zampe, ma mi è sembrato molto felice. Poi ha chiuso gli occhi e  si è messo a canticchiare la prima parte dell'adagio, lì sul  tappeto, muovendo la testa a tempo. Sembrava così felice e  tranquillo, signor Ryder, che stavo già congratulandomi con me  stesso. Poi ha riaperto gli occhi, mi ha sorriso con aria  sognante e ha detto: «Sì, un pezzo magnifico. Non ho mai capito  perché tua madre lo odi tanto». Come stavo giust'appunto  raccontando alla signorina Collins, sulle prime ho pensato di  avere sentito male. Ma lui ha ripetuto: «Tua madre lo odia. Sì,  come sai, ha preso in odio le ultime opere di La Roche. In casa  non mi lascia sentire i suoi dischi da nessuna parte, nemmeno con  le cuffie». Poi deve essersi accorto della mia faccia stravolta.  Perché ha cercato immediatamente di confortarmi. $è tipico di  papà. «Avrei dovuto chiedertelo prima, - continuava a dire. - $è  tutta colpa mia». Poi si è battuto la fronte come se si fosse  ricordato di un'altra cosa e ha aggiunto: «Sì, Stephan, ho  tradito la fiducia di £tutti £e £due. Pensavo di fare la cosa  giusta, non interferendo, ma adesso mi accorgo che ho tradito la  fiducia di tutti e due». E quando gli ho chiesto di spiegarsi  meglio, mi ha detto che il grande desiderio della mamma era di  sentirmi suonare £Passioni £di £vetro di Kazan. Pare che glielo  avesse fatto capire da un po' di tempo, e in questi casi, be', la  mamma dà per scontato che papà l'accontenti. Ma vede, papà si è  messo anche nei miei panni. $è molto attento a queste cose. Sa  che un musicista, anche un dilettante come me, vuole decidere da  solo in un'occasione di tale importanza. Così non mi ha detto  nulla, ripromettendosi di spiegare tutto a mia madre alla prima  occasione. Poi, però... be', credo che qui sia necessario un  chiarimento, signor Ryder. Vede, quando dico che la mamma ha  fatto capire a papà che voleva che suonassi Kazan, questo non  significa che glielo abbia £detto. $è un po' difficile da  spiegare a chi non c'è dentro. Succede che la mamma, in qualche  modo, non so se mi capisce, in qualche modo £lascia £intendere a  papà quello che vuole senza mai dirlo apertamente. Si serve di  segnali che per lui sono molto chiari. Non so dirle con esattezza  come abbia fatto questa volta. Forse un giorno papà è tornato a  casa e l'ha trovata che ascoltava £Passioni £di £vetro. Be',  visto che è raro che la mamma usi l'impianto stereo, quello  sarebbe stato un segnale piuttosto ovvio. O forse papà, fatto il  bagno, è andato a letto e l'ha trovata che leggeva un libro su  Kazan, che ne so, fra di loro hanno sempre fatto così. Quindi  capisce anche lei che papà non poteva dirle di punto in bianco:  «No, Stephan deve fare la sua scelta». Stava aspettando, cercando  il modo giusto per comunicarglielo. E naturalmente non poteva  sapere che con tutta la musica che c'è stessi preparando proprio  £Dalia di La Roche. Dio, come sono stato stupido! Non avevo la  minima idea che la mamma lo odiasse a tal punto! Be', quando papà  mi ha raccontato come stavano le cose, gli ho chiesto che cosa  dovevo fare, e lui, dopo averci pensato su, mi ha detto di non  cambiare, perché ormai era troppo tardi. «Non se la prenderà con te, - continuava a ripetere. - No, non se la prenderà con te. Se  la prenderà con me, e giustamente». Povero papà, si sforzava di  consolarmi, ma vedevo che era sempre più angosciato. Dopo un po'  si è messo a fissare un punto del tappeto... era ancora a quattro  zampe, ma tutto rannicchiato, come se stesse facendo una  flessione... fissava il tappeto e borbottava tra sé. «Ce la farò.  Ce la farò. Ho passato di peggio. Ce la farò». Sembrava che si  fosse dimenticato di me, così sono uscito, chiudendomi piano  piano la porta alle spalle. E da quel momento... be', signor  Ryder, non penso ad altro. Non so proprio che pesci prendere.  Rimane così poco tempo. E £Passioni £di £vetro è un pezzo  difficilissimo, non c'è verso che possa prepararlo in tempo.  Anzi, se proprio devo dire, mi sembra ancora un po' fuori delle  mie possibilità, anche se avessi un anno intero davanti a me.   
  Il giovane emise un sospiro angustiato e tacque. Dopo qualche  istante, visto che né lui né la signorina Collins aggiungevano  altro, conclusi che stavano aspettando la mia opinione. Così  dissi:   
  - Non sono fatti miei, naturalmente. Sei tu che devi decidere.  Ma secondo me, a questo punto, devi andare dritto per la tua  strada...   
  - Sì, prevedevo che avrebbe detto così, signor Ryder.   
  L'interruzione era stata della signorina Collins. L'inaspettato  cinismo della sua voce mi bloccò e mi fece girare verso di lei.  L'anziana signora mi guardava con aria saputa e lievemente  sprezzante. - Senza dubbio, - proseguì, - lei la definirebbe...  com'è già?... ah, sì, «integrità artistica».   
  - Non è tanto per questo, signorina Collins, - dissi. - $è solo  che dal punto di vista pratico mi sembra un po' tardi...   
  - Ma chi gliel'ha detto che è troppo tardi, signor Ryder? - mi  interruppe di nuovo la donna. - Lei non sa nulla delle capacità  di Stephan. Per non parlare delle possibili conseguenze di questa  difficile situazione. Perché si permette di sentenziare, come se  fosse dotato di un sesto senso che a noi manca?   
  Mi ero sentito a disagio sin dalla prima interruzione della  signorina Collins, e mi accorsi che mentre lei parlava mi ero  girato dall'altra per evitare il suo sguardo. Non mi venne in  mente nulla di ovvio da ribattere alle sue domande, e dopo un  momento, pensando fosse meglio tagliar corto, proruppi in una  breve risata e mi allontanai nella folla.   
  Per parecchi minuti girovagai senza meta. Come già in  precedenza, di tanto in tanto qualcuno si girava a guardarmi, ma  sembrava che nessuno mi riconoscesse. A un certo punto vidi  Pedersen, l'uomo che avevo incontrato al cinema, ridere con un  gruppetto di invitati, e pensai di andare da lui. Prima che  potessi raggiungerlo, però, sentii un lieve tocco al gomito e  voltandomi trovai Hoffman al mio fianco.   
  - Mi scusi se ho dovuto abbandonarla per qualche istante. Spero  che si siano occupati di lei. Che situazione!   
  Il direttore dell'albergo aveva il respiro affannato e la  faccia imperlata di sudore.   
  - Oh, sì, non mi sto affatto annoiando.   
  - Mi spiace, ho dovuto lasciare la sala perché mi hanno  chiamato al telefono. Ma adesso le posso dire che stanno  arrivando, proprio così, stanno arrivando. Il signor Brodsky sarà  qui a momenti. Santo cielo! - Hoffman si guardò intorno, poi si  chinò verso di me e abbassò la voce: - L'elenco degli invitati è  stato fatto con leggerezza. Io li avevo avvertiti. C'è di quella  gente! - Scosse la testa. - Che situazione!   
  - Be', per fortuna che il signor Brodsky sta per arrivare...   
  - Oh, sì, sì. Sa, signor Ryder, sono davvero sollevato che lei  sia qui con noi questa sera, nel momento del bisogno. In linea di massima, non credo che debba cambiare molto il suo discorso a  causa delle... ehm... circostanze. Forse un paio di accenni alla  tragedia non guasterebbero, ma faremo in modo che qualcun altro  dica due parole sul cane, dunque non occorre che lei si discosti  dalla sua traccia. L'unica cosa... ah! ah!... non faccia un  discorso troppo lungo. Anche se lei è l'ultima persona alla  quale... - Rise brevemente e non completò la frase. Poi  ricominciò a guardarsi intorno. - C'è di quella gente, - ripeté.  - Hanno fatto gli inviti con grande leggerezza. Io li avevo  avvertiti.   
  Hoffman continuò a studiare la sala, così ebbi un attimo di  tempo per riflettere sulla questione del discorso. Dopo un po'  dissi:   
  - Signor Hoffman, date le circostanze, mi stavo domandando  quando, esattamente, dovrei alzarmi per...   
  - Oh, certo, certo. Che accortezza. Ha ragione, se lei si  alzasse al solito momento, chi sa che cosa potrebbe succedere...  sì, sì, pensa davvero a tutto. Io sarò seduto accanto al signor  Brodsky, quindi è meglio che lasci giudicare a me il momento  migliore. Le spiace aspettare che le faccia un segnale? Santo  cielo, signor Ryder, è così rassicurante avere qui con noi una  persona come lei in questo frangente.   
  - Se posso essere d'aiuto lo faccio molto volentieri.   
  Un rumore proveniente dall'altro lato della sala fece girare  bruscamente Hoffman. Il direttore allungò il collo per vedere  meglio, sebbene fosse ovvio che non era successo niente di  importante. Diedi un colpetto di tosse per richiamare la sua  attenzione.   
  - Signor Hoffman, c'è un altro problemino. Mi stavo  chiedendo... - Indicai la mia vestaglia. - Ecco, non sarebbe  meglio se mettessi qualcosa di un po' più elegante? Chi sa se  qualcuno può imprestarmi un vestito. Niente di speciale.   
  Hoffman esaminò preoccupato il mio abbigliamento, ma quasi  subito distolse di nuovo gli occhi, dicendo distrattamente: - Oh,  va bene così, signor Ryder. Qui non siamo per nulla rigidi.   
  Stava di nuovo allungando il collo per guardare verso il fondo  della sala. Mi parve evidente che non aveva assolutamente colto  il mio problema, e stavo per ritornare sull'argomento quando vi  fu un improvviso fermento vicino all'ingresso. Hoffman sussultò e  si girò verso di me con un ghigno spaventoso. - $è arrivato! -  bisbigliò, poi mi sfiorò la spalla e scappò via.   
  La sala piombò nel silenzio, e per qualche secondo tutti  guardarono in direzione della porta. Cercai anch'io di vedere che  cosa stesse succedendo, ma la vista era irrimediabilmente  ostruita. Poi, di punto in bianco, come ricordandosi della  decisione di poc'anzi, gli invitati intorno a me ripresero a  conversare in tono moderatamente allegro.   
  Mi feci largo tra la folla finché riuscii a vedere Brodsky che  veniva accompagnato attraverso la sala. La Contessa gli  sorreggeva un braccio, Hoffman l'altro, e quattro o cinque  persone gli svolazzavano intorno premurose. Brodsky, chiaramente  dimentico dei suoi accompagnatori, esaminava con sguardo cupo il  soffitto decorato della sala. Era più alto e più diritto di  quanto mi aspettassi, anche se da lontano la rigidezza - e la  strana inclinazione - del suo corpo davano l'impressione che  avesse le rotelle e che il suo seguito lo spingesse. Aveva la  barba lunga ma nei limiti del decoro, e la giacca dello smoking  un po' sbilenca, come se gliel'avesse infilata qualcun altro. Il  volto era inselvatichito e invecchiato, ma i suoi lineamenti  conservavano ancora una traccia di affabilità.   
  Per un istante credetti che lo conducessero da me, poi mi  accorsi che Brodsky e i suoi accompagnatori, in realtà, stavano puntando verso la sala da pranzo. Sulla porta furono accolti da  un cameriere, e nell'attimo in cui scomparvero tutti ammutolirono  per la seconda volta. Pochi secondi, poi gli invitati ripresero a  parlare, ma nell'aria sentii una nuova tensione.  
  Notai a questo punto una sedia solitaria, con lo schienale alto  e dritto, abbandonata contro il muro, e mi venne in mente che  studiando la sala da un diverso punto di osservazione avrei  potuto valutare meglio gli umori della gente e stabilire quale  fosse il tipo di discorso più adatto per la cena. Così andai a  sedermi e rimasi per parecchi minuti a guardarmi intorno.  
  Gli ospiti ridevano e parlavano ancora, ma senza dubbio la  tensione di fondo stava crescendo. Stando così le cose, e visto  che del cane avrebbe parlato qualcun altro, mi parve saggio, nei  limiti del ragionevole, fare un discorso allegro. Alla fine  decisi che la cosa migliore era raccontare qualche aneddoto sulle  divertenti disavventure che mi erano capitate dietro le quinte  durante il mio ultimo giro in Italia. Mi ero già servito spesso  in pubblico di queste storie, ed ero sicuro che nelle attuali  circostanze avrebbero smorzato le tensioni e riscosso molto  successo.   
  Stavo provando tra me e me un paio di possibili frasi di  apertura, quando notai che la folla si era considerevolmente  assottigliata. Solo allora mi accorsi che gli invitati avevano  cominciato a passare in sala da pranzo e mi alzai in piedi.   
  Quando mi unii alla processione che si recava a cenare, qualche  persona mi rivolse un vago sorriso, ma nessuno mi parlò. Non vi  feci molto caso, perché stavo ancora cercando di dare forma nella  mia mente a un esordio che potesse conquistare gli ascoltatori.  Mentre mi avvicinavo alla porta della sala da pranzo, ero incerto  tra due possibilità. La prima era: «Con il passare degli anni il  mio nome viene associato sempre più spesso ad alcune qualità.  Meticolosa attenzione al particolare. Precisione di esecuzione.  Severo controllo della dinamica». Poi avrei potuto smantellare  questo inizio ironicamente tronfio con la spassosa rivelazione di  ciò che mi era successo a Roma. L'alternativa era giocare su un  tono più apertamente farsesco sin dal principio: «Sipari che  crollano. Roditori avvelenati. Partiture piene di errori. A pochi  di voi, sono sicuro, verrebbe in mente di associare il mio nome a  fenomeni del genere». Entrambi gli esordi avevano i loro pro e i  loro contro, e alla fine preferii rimandare la decisione a più  tardi, dopo avere studiato meglio gli umori della gente durante  la cena.   
  Entrai in sala da pranzo circondato da persone che parlavano  animatamente. Fui subito colpito dalla sua vastità, e capii  perché, persino con tutti quegli invitati - assai più di un  centinaio - fosse necessario illuminarne solo una parte. Un buon  numero di tavoli rotondi era stato apparecchiato con tovaglie  bianche e posate d'argento, ma se ne vedevano almeno altrettanti,  spogli e senza sedie, perdersi in file ordinate nell'oscurità sul  lato opposto della sala. Molti invitati erano già seduti, e il  quadro d'insieme - il baluginio dei gioielli delle signore, il  terso biancore delle giacche dei camerieri e il muro di smoking  neri sullo sfondo delle tenebre - non era privo d'effetto. Stavo  contemplando la scena dalla soglia, approfittandone per  sistemarmi la vestaglia, quando al mio fianco comparve la  Contessa, che cominciò a tirarmi per un braccio come aveva fatto  prima, dicendo:   
  - Signor Ryder, l'abbiamo messa qui a questo tavolo, dove non  darà nell'occhio. Non vogliamo che la gente la riconosca e rovini  la sorpresa! Ma non si preoccupi, quando annunceremo la sua  presenza e lei si alzerà in piedi, tutti saranno in grado di  vederla e di sentirla.  
  Il tavolo al quale mi aveva accompagnato era in un angolo, ma  non capii perché lo considerasse più discreto degli altri. La  Contessa mi fece sedere, poi disse qualcosa ridendo - il brusio  mi impedì di udirla - e scappò via.   
  C'erano altre quattro persone - una coppia di mezza età e una  leggermente più giovane - che mi rivolsero tutte un sorriso di  convenienza prima di riprendere a chiacchierare. Il marito della  coppia più anziana stava spiegando perché il figlio desiderasse  restare negli Stati Uniti, poi il discorso passò agli altri figli  della coppia. Di tanto in tanto l'uno o l'altro dei miei  commensali si ricordava di farmi partecipe almeno in maniera  formale, guardando verso di me oppure sorridendomi come se  qualcuno avesse detto una spiritosaggine. Ma nessuno mi rivolse  la parola, e presto rinunciai a seguire.   
  Poco dopo, mentre i camerieri cominciavano a servire la  minestra, notai che la conversazione si era fatta più rada e  distratta. Finché, durante la portata principale, i miei compagni  di tavolo abbandonarono ogni finzione e si misero a discutere di  ciò che li preoccupava veramente. Lanciando occhiate furtive ma  non troppo in direzione di Brodsky, cominciarono a scambiarsi  sottovoce congetture sulle sue condizioni. A un certo punto la  più giovane delle due donne disse:   
  - Qualcuno dovrebbe andare da lui e dirgli quanto ci dispiace,  non credete? Dovremmo andarci tutti. Sembra che nessuno abbia  ancora affrontato l'argomento. Guardate quelli del suo tavolo,  quasi non gli parlano. Forse dovremmo andarci £noi, dare il buon  esempio. Sono quasi sicura che gli altri ci verrebbero dietro.  Secondo me, stanno aspettando anche loro, come noi.   
  I suoi amici si affrettarono a rassicurarla, dicendo che i  nostri ospiti sapevano il fatto loro e che Brodsky, in ogni caso,  sembrava in ottimo stato, ma un attimo dopo anche loro  cominciarono a gettare sguardi imbarazzati verso il centro della  sala.   
  Naturalmente avevo approfittato dell'opportunità per osservare  Brodsky con molta cura. Lo avevano messo a un tavolo un po' più  grande. Da una parte aveva Hoffman, dall'altra la Contessa. Gli  altri commensali formavano un anello di solenni teste grige,  tutte intente a parlottare sottovoce. Sembrava una tavolata di  cospiratori, e questo non giovava affatto all'atmosfera della  serata. Quanto a Brodsky, non mostrava segni evidenti di  ubriachezza e mangiava regolarmente, anche se senza entusiasmo.  Sembrava però essersi ritirato in un mondo tutto suo. Per gran  parte della portata principale, Hoffman gli tenne un braccio  dietro la schiena bisbigliandogli in continuazione nell'orecchio,  ma Brodsky rimase a fissare malinconicamente il vuoto senza  rispondergli. Anche quando la Contessa gli sfiorò un braccio e  disse qualcosa, Brodsky parve non sentire.   
  Poi, verso la fine del dolce - la cena, se non straordinaria,  era stata discreta -, vidi Hoffman attraversare la sala scansando  i camerieri che correvano di qui e di là e capii che stava  venendo da me. Quando mi giunse vicino, si chinò e mi disse  nell'orecchio:   
  - Sembra che il signor Brodsky voglia dire due parole, ma  sinceramente... ah ah!... stiamo cercando di convincerlo a non  farlo. Ci sembra che per questa sera i suoi nervi abbiano già  sopportato abbastanza. Quindi, la prego di fare attenzione al mio  segnale e di alzarsi non appena lo vede. Poi, subito dopo che lei  avrà finito di parlare, la Contessa chiuderà la parte ufficiale  del ricevimento. Sì, pensiamo che non convenga sottoporre i nervi  del signor Brodsky ad altre prove. Pover'uomo, ah ah! Se penso  alla gente che hanno invitato... - Hoffman scosse il capo e  sospirò. - Per fortuna che c'è lei, signor Ryder.  
  Prima che potessi dirgli qualcosa, il direttore dell'albergo  stava di nuovo schivando i camerieri per tornare in tutta fretta  al suo tavolo.   
  Passai parecchi minuti a studiare la gente e a soppesare i pro  e i contro dei due diversi esordi che avevo preparato per il mio  discorso. Stavo ancora tergiversando, quando il brusio cessò  all'improvviso. Mi accorsi allora che il signore dalla faccia  severa seduto accanto alla Contessa si era alzato in piedi.   
  Era molto vecchio e aveva i capelli d'argento. Emanava grande  autorità, e quasi subito nella sala scese il silenzio. Per  qualche secondo ancora il signore dalla faccia severa si limitò a  fissare gli ospiti radunati con aria di rimprovero. Poi, in una  voce allo stesso tempo misurata e squillante, disse:  
  - Signor Brodsky. Quando un compagno così prezioso e nobile ci  lascia, è difficile, difficilissimo che le parole di conforto  degli altri non suonino vuote o superficiali. Tuttavia, non  potevo permettere che la serata si concludesse senza porgerle  formalmente, a nome di tutti i presenti, le mie più sincere  condoglianze -. L'oratore fece una pausa, mentre dalla sala si  levava un mormorio di assenso. Poi riprese: - Il suo Bruno,  signor Brodsky, era molto amato da tutti coloro che lo vedevano  bighellonare per la città. Ma non solo. Era assurto a una  condizione rara tra gli esseri umani, figuriamoci poi tra i  quadrupedi. In altre parole, era diventato un simbolo.  Sissignore. Per noi aveva finito con il rappresentare alcune  virtù fondamentali. Un'indomita fedeltà. Un'impavida passione per  la vita. Il rifiuto di sentirci da meno degli altri. Il desiderio  di fare le cose a modo nostro, a costo di apparire bizzarri agli  occhi di un osservatore altezzoso. In altre parole, le virtù che  con il passare degli anni hanno contribuito a costruire questa  nostra straordinaria e fiera comunità. Virtù, signor Brodsky,  che, se mi è consentito, - qui la sua voce rallentò caricandosi  di significato, - speriamo di veder presto rifiorire in ogni ceto  e professione.   
  L'oratore fece una pausa e si guardò di nuovo intorno. Per  qualche istante tenne il pubblico sotto i suoi occhi gelidi, poi  concluse:   
  - E ora, tutti insieme, osserviamo un minuto di silenzio in  memoria dell'amico che ci ha lasciati.   
  Mentre l'oratore abbassava gli occhi, gli invitati chinarono il  capo all'unisono, e di nuovo calò il silenzio. A un certo punto  sollevai la testa e notai che alcuni consiglieri seduti al tavolo  di Brodsky - forse ansiosi di dare il buon esempio - avevano  assunto pose così esageratamente afflitte da apparire comici.  Uno, per esempio, si stringeva la fronte tra le mani. Da parte  sua, Brodsky - che era rimasto immobile per tutto il discorso,  senza mai alzare gli occhi verso l'oratore o la sala - non si  mosse, e di nuovo mi parve che il suo corpo avesse una strana  angolazione. Non avrei potuto escludere che si fosse addormentato  sulla sedia, e che il braccio di Hoffman dietro la sua schiena  avesse una funzione essenzialmente fisica.   
  Al termine del minuto il signore dalla faccia severa si  risedette senza dire altro, creando un vuoto imbarazzante nel  protocollo. Qualcuno ricominciò timorosamente a chiacchierare, ma  un attimo dopo vi fu un movimento a un altro tavolo. Vidi che si  era alzato in piedi un omaccione quasi calvo, con la pelle  pustolosa.   
  - Signore e signori, - disse costui con voce possente. Poi,  girandosi verso Brodsky, gli fece un lieve inchino e mormorò: -  Signor Brodsky -. Il nuovo oratore abbassò gli occhi e si fissò  le mani per qualche secondo, poi si guardò intorno. - Come molti  di voi già sapranno, sono io che questo pomeriggio ho trovato il corpo del nostro caro amico. Spero dunque che mi concederete  qualche istante per dire due parole su... su ciò che è successo.  Perché vede, signore, - di nuovo si rivolse a Brodsky, - io le  devo delle scuse. Lasci che le spieghi -. L'omaccione fece una  pausa e deglutì. - Questo pomeriggio, come al solito, stavo  facendo le consegne. Avevo quasi finito, mi restavano solo due o  tre pacchi, e per abbreviare la strada ho preso il vicolo tra la  ferrovia e Schildstrasse. Normalmente non prendo questa  scorciatoia, soprattutto con il buio, ma oggi era più presto del  solito, e come sapete, c'era un bel tramonto. Così sono passato  di li. E, più o meno a metà del vicolo, l'ho visto. Il nostro  caro amico. Aveva scelto un luogo appartato, quasi nascosto tra  un lampione e la staccionata di legno. Mi sono inginocchiato  accanto a lui per assicurarmi che fosse davvero spirato. E mentre  ero lì, mi sono venuti molti pensieri. Naturalmente ho pensato a  lei, signor Brodsky. Alla grande amicizia che vi aveva sempre  legati, al suo dolore per questa tragica perdita. Ho pensato  anche che la città avrebbe sentito la mancanza di Bruno, e che si  sarebbe stretta intorno a lei in quest'ora di lutto. E lasci che  le dica, signor Brodsky, che, per quanto afflitto, ho capito che  il destino mi aveva concesso un privilegio. Sissignore, un  privilegio. Il destino mi aveva scelto per portare il corpo del  suo amico alla clinica veterinaria. Poi, per quello che è  successo dopo, io... io non ho scuse. Un momento fa, mentre il  signor von Winterstein parlava, ero tormentato dal dubbio.  Alzarmi o non alzarmi? Alla fine, come vede, ho deciso di alzarmi  e di parlare. Molto meglio che lo venga a sapere dalle mie  labbra, signor Brodsky, invece che domani mattina dai  pettegolezzi. Signore, mi vergogno profondamente di ciò che è  successo. Posso solo dire che non rifarei mai una cosa simile,  nemmeno vivessi un secolo... Posso solo chiederle perdono. Ci ho  ripensato cento volte nelle ultime ore, e adesso so quel che  avrei dovuto fare. Avrei dovuto posare i pacchi. Vede, ne avevo  ancora due, le ultime due consegne. Avrei dovuto posarli. Nel  vicolo sarebbero stati al sicuro, messi ben contro la  staccionata. E anche se qualcuno se li fosse portati via, poco  male. Ma per qualche stupida ragione, forse per un imbecille  istinto professionale, non l'ho fatto. Non ci ho pensato. In  altre parole, quando ho sollevato il corpo di Bruno, avevo ancora  i pacchi in mano. Non so che cosa mi sia passato per la testa.  Sta di fatto che... lo verrà a sapere domani, quindi tanto vale  che glielo dica io adesso... sta di fatto che Bruno doveva essere  lì da un pezzo, perché il suo corpo, quantunque magnifico nella  morte, era freddo e, be', un po' rigido. Sissignore, rigido. Mi  perdoni, ciò che dirò adesso forse la sconvolgerà, ma... ma la  prego di lasciarmi finire. Per non posare i pacchi... ah, come me  ne pento, mille volte mi sono già pentito... per non dover posare  i pacchi, mi sono messo Bruno in spalle, senza tenere conto della  sua rigidità. Solo quando avevo percorso un buon tratto del  vicolo ho sentito un bambino gridare e mi sono fermato. E  all'improvviso mi sono reso conto dell'enormità del mio errore.  Signori miei, volete proprio che scenda nei particolari? Sì?  Allora ascoltate. Un po' per la rigidità del nostro amico, un po'  per l'idiozia di mettermelo in spalla, cioè praticamente in  posizione eretta... be', per farla breve, dalle case di  Schildstrasse l'intera parte superiore del suo corpo era visibile  al di sopra della staccionata. Per colmo di sventura, era proprio  l'ora della sera in cui gran parte delle famiglie si riuniscono  nella stanza sul retro per cenare. E mentre mangiavano e  guardavano il loro giardino, si sono viste passare davanti agli  occhi il nostro nobile amico, con le zampe protese... ah, che  affronto! Una casa dopo l'altra! Il pensiero mi tormenta, signor Brodsky, mi rivedo tutta la scena, nei minimi particolari. Mi  perdoni, mi perdoni. Non potevo restare qui un secondo di più  senza sgravarmi la coscienza di questa... questa palese  dimostrazione della mia inettitudine. Quale sventura che questo  triste privilegio sia toccato proprio a uno zuccone come me!  Signor Brodsky, la supplico di accettare le mie misere scuse per  l'umiliazione cui ho sottoposto il suo nobile compagno così poco  tempo dopo la sua dipartita. Anche la brava gente di  Schildstrasse, forse qualcuno di loro è qui adesso, era  profondamente affezionata a Bruno, e doverlo vedere così per  l'ultima volta... Chiedo perdono, a lei signor Brodsky, a tutti,  chiedo perdono, chiedo perdono.   
  L'omaccione si risedette, scuotendo il capo con aria afflitta.  Poi una donna di un tavolo accanto al suo si alzò, toccandosi gli  occhi con un fazzoletto.   
  - Non c'è sicuramente alcun dubbio, - disse. - $è stato il cane  migliore della sua generazione. Non c'è sicuramente alcun dubbio.   
  Un mormorio d'assenso serpeggiò in sala. Intorno a Brodsky i  consiglieri comunali annuivano vigorosamente, ma Brodsky non  aveva ancora alzato gli occhi.   
  Aspettammo che la donna aggiungesse qualcosa, ma lei, pur  restando in piedi, non disse altro, limitandosi a singhiozzare e  ad asciugarsi gli occhi. Dopo un po' il signore accanto a lei,  che indossava uno smoking di velluto, si alzò e la aiutò con  gentilezza a risedersi. Lui invece restò in piedi e, dopo avere  lanciato uno sguardo accusatorio alla sala, disse:   
  - Una statua. Una statua di bronzo. Propongo di erigere una  statua di bronzo a Bruno in modo da poterlo ricordare per sempre.  Un monumento grande e solenne. Magari in Walserstrasse. Signor  von Winterstein, - aggiunse rivolgendosi al signore dalla faccia  severa, - decidiamo qui, questa sera stessa, di erigere una  statua a Bruno!   
  Qualcuno gridò «bene», «bravo», e dalla sala si levò un vociare  di approvazione. Non solo il signore dalla faccia severa, ma  tutti i consiglieri comunali seduti al tavolo di Brodsky parvero  colti alla sprovvista. Vi fu un rapido scambio di occhiate  spaventate, poi von Winterstein disse senza alzarsi:   
  - Certo, signor Haller, prenderemo attentamente in  considerazione la sua proposta. E, naturalmente, ogni altra idea  per commemorare nel modo migliore...   
  - Qui si esagera, - lo interruppe una voce maschile proveniente  dall'altro capo della sala. - Che idea assurda. Una statua per  quel cane? Se quella bestia merita una statua di bronzo, allora  la nostra tartaruga Petra ne merita una cinque volte più grande.  Lei che ha trovato una morte così crudele. Assurdo. E poi, non  più tardi di qualche mese fa quel cane ha assalito la signora  Rahn...   
  Il resto della frase fu coperto da un'improvvisa baraonda. Per  un momento parve che tutti si fossero messi a urlare insieme.  L'uomo che aveva appena parlato, ancora in piedi, si girò verso  qualcuno del suo tavolo e cominciò una furiosa discussione. Nella  crescente confusione, mi accorsi che Hoffman stava gesticolando  verso di me. O meglio, faceva con la mano uno strano movimento  circolare, come se pulisse un'invisibile finestra. Mi parve di  ricordare vagamente che fosse un segnale che gli era  particolarmente caro, così mi alzai in piedi e mi schiarii la  gola con enfasi.   
  Quasi subito in sala scese il silenzio, e tutti gli occhi si  girarono verso di me. L'uomo che aveva criticato la statua di  bronzo interruppe la discussione e si affrettò a riprendere il  suo posto. Mi schiarii di nuovo la gola, ed ero sul punto di  attaccare il mio discorso, quando mi accorsi che la vestaglia si era aperta, rivelando interamente le mie nudità. Sopraffatto  dalla vergogna, esitai un istante, poi mi risedetti. Quasi  subito, dall'altra parte della sala, si alzò una donna che disse  con voce stridula:   
  - Se una statua non va bene, perché non diamo il suo nome a una  strada? Si cambia spesso il nome alle strade per commemorare i  defunti. Sicuramente, signor von Winterstein, questo non è  chiedere molto. Magari Meinhardstrasse. O addirittura  Jahnstrasse.   
  A sostegno di quest'idea si levò un coro di approvazione, e  subito gli invitati cominciarono a urlare tutti insieme i nomi di  altre possibili vie. I consiglieri comunali erano di nuovo  palesemente a disagio.   
  Un uomo alto, con la barba, seduto a un tavolo vicino al mio,  si alzò a sua volta e disse con voce tonante: - Sono d'accordo  con il signor Holländer. Qui si esagera. Certo, siamo tutti molto  spiaciuti per il signor Brodsky. Ma siamo onesti, quel cane era  una minaccia, non solo per gli altri animali ma anche per gli  esseri umani. E se il signor Brodsky si fosse preso la briga di  pettinargli di tanto in tanto il pelo, e di curargli  quell'infezione alla pelle che ovviamente si trascinava da  anni...  
  L'uomo fu subissato da una tempesta di rabbiose proteste. Da  tutte le parti si levarono grida di «Ignominia!» e «Vergogna!», e  
parecchie persone lasciarono il loro tavolo per andare a dare una  lezione al colpevole. Hoffman stava di nuovo facendomi il  segnale, pulendo l'aria furiosamente, con il volto deformato da  un ghigno orribile. Sentii la voce dell'uomo barbuto che tuonava  al di sopra del baccano. - Ma è così. Quella bestia era  disgustosamente sudicia!   
  Dopo avere controllato che la vestaglia fosse ben legata,  riprovai ad alzarmi, ma proprio in quel momento vidi Brodsky  riscuotersi e scattare in piedi.   
  Mentre si alzava, il suo tavolo fece rumore, e tutte le teste  si girarono verso di lui. Un istante dopo, chi aveva abbandonato  la sedia era di nuovo al suo posto, e in sala era tornato il  silenzio.   
  Per un attimo temetti che Brodsky piombasse sul tavolo. Invece  riuscì a conservare l'equilibrio e si guardò intorno. Quando  parlò, la sua voce era leggermente roca.   
  - Si può sapere che cos'è questa storia? - disse. - Pensate  davvero che quel cane fosse così importante per me? $è morto,  chiuso l'argomento. Io voglio una donna. La vita a volte è così  vuota. Io voglio una donna -. Fece una pausa, e per un momento si  perse nei suoi pensieri. Poi, con voce sognante, aggiunse: - I  nostri marinai. I nostri marinai ubriachi. Che cosa ne sarà di  loro, adesso? Lei era così giovane allora. Così giovane e bella  -. Brodsky tacque di nuovo e alzò gli occhi verso i lampadari  appesi all'alto soffitto. Per la seconda volta temetti che  cadesse in avanti sul tavolo. Probabilmente anche Hoffman ebbe lo  stesso pensiero, perché si alzò, gli mise con garbo una mano  dietro la schiena e gli bisbigliò qualcosa nell'orecchio. Brodsky  non rispose subito. Poi borbottò: - Una volta mi amava. Mi amava  più di ogni cosa al mondo. I nostri marinai ubriachi. Dove sono  adesso?  
  Hoffman rise di cuore, come se Brodsky avesse detto qualcosa di  spiritoso. Poi rivolse un largo sorriso alla sala e gli parlò di  nuovo all'orecchio. Brodsky parve finalmente ricordare dove si  trovava e, girandosi incerto verso il direttore dell'albergo, si  lasciò convincere con le buone a risedersi.   
  Vi fu un momento di silenzio in cui nessuno si mosse. Poi la  Contessa si alzò con un sorriso pieno di brio.  
  - Signore e signori, a questo punto abbiamo per voi una  magnifica sorpresa! $è arrivato solo questo pomeriggio, deve  essere stanchissimo, ma ha accettato lo stesso di essere nostro  ospite. Sì, amici! Il signor Ryder è qui con noi!   
  La Contessa fece uno svolazzo con la mano nella mia direzione,  mentre in sala si levava un brusio eccitato. Prima che potessi  fare qualcosa, i miei compagni di tavolo si strinsero intorno a  me cercando di darmi la mano. Un attimo dopo mi accorsi di essere  circondato da persone boccheggianti dalla gioia, che mi  salutavano e mi tendevano le braccia. Ricambiai tanto entusiasmo  il più cortesemente possibile, ma guardandomi alle spalle - non  ero ancora riuscito ad alzarmi dalla sedia - vidi che dietro di  me si stava radunando una folla di persone che si spingevano e si  sollevavano sulla punta dei piedi. Capii che dovevo prendere in  pugno la situazione prima che degenerasse nel caos. Visto che  buona parte degli invitati erano già in piedi, pensai che la cosa  migliore fosse sovrastarli da un piedistallo. Così, assicurandomi  rapidamente che la vestaglia fosse legata, mi arrampicai sulla  sedia.   
  Il clamore cessò immediatamente, tutti s'irrigidirono dov'erano  e alzarono gli occhi verso di me. Dal mio nuovo punto  d'osservazione vidi che più di metà dei commensali avevano già  lasciato i loro tavoli, e decisi di attaccare senza indugio.   
  - Sipari che crollano! Roditori avvelenati! Spartiti pieni di  errori!   
  Mi accorsi che una figura solitaria stava venendo verso di me  serpeggiando tra i gruppetti immobili di persone. Giuntami  accanto, la signorina Collins tirò a se una sedia da un tavolo  vicino, si sedette e mi guardò da sotto in su. Qualcosa nel suo  contegno mi turbò, e per un momento non riuscii più a ricordare  la frase successiva. Vedendomi esitare, la donna accavallò le  gambe e disse in tono premuroso:   
  - Signor Ryder, si sente male?   
  - Sto bene, grazie, signorina Collins.   
  - Spero, - proseguì la donna, - che non se la sia presa troppo  per quello che le ho detto poco fa. Volevo venire da lei a  scusarmi, ma non sono più riuscita a trovarla. Probabilmente sono  stata molto più burbera del necessario. Spero che mi perdonerà.  $è che ancora oggi, quando incontro qualcuno del suo mestiere,  vengo riassalita dai ricordi e non posso fare a meno di usare  quel tono.   
  - Non c'è di che, signorina Collins, - dissi con voce pacata,  sorridendole dall'alto della mia sedia. - Non si preoccupi. Non  me la sono presa. Se sono andato via così bruscamente, è solo  perché ho pensato che volesse parlare con Stephan in santa pace.   
  - La ringrazio di essere così comprensivo,- disse la signorina  Collins. - Mi scusi ancora se mi sono un po' arrabbiata. Ma mi  deve credere, signor Ryder, nelle mie parole non c'era solo  rabbia. Io desidero sinceramente aiutarla. Mi rattristerebbe  moltissimo vederla commettere di nuovo gli stessi errori. Già che  ci siamo conosciuti, volevo invitarla a prendere il tè da me uno  di questi pomeriggi. Mi farebbe piacere. Da parte mia sarò più  che lieta di discutere con lei i suoi problemi. In me troverà  un'ascoltatrice attenta, glielo posso garantire.   
  - La ringrazio, signorina Collins. Sono sicuro che lo dice con  le migliori intenzioni. Ma se mi consente, mi sembra che le sue  passate esperienze l'abbiano lasciata un po' maldisposta nei  confronti, come dice lei, delle persone che fanno il mio  mestiere. Non so fino a che punto gradirebbe la mia visita.  
  La signorina Collins parve riflettere sulle mie parole. Poi  disse: - Capisco i suoi timori. Ma sono convinta che non avremmo  alcuna difficoltà a comportarci in maniera civile. Cominci con una visita molto breve. Se poi si trova bene, può sempre tornare.  Magari potremmo addirittura fare quattro passi insieme. Il  Giardino Sternberg è vicinissimo a casa mia. Signor Ryder, ho  avuto molti anni per riflettere sul passato e ormai sono pronta a  metterci una pietra sopra. Ma mi piacerebbe tendere ancora una  volta la mano a qualcuno come lei. Naturalmente, non posso  prometterle i di avere una risposta per ogni domanda. Ma la  ascolterò attentamente. E può stare certo che non la idealizzerò  né mi permetterò dei sentimentalismi, come rischierebbe di fare  una persona con meno esperienza.   
  - Prenderò in debita considerazione il suo invito, signorina  Collins, - le dissi. - Ma non posso fare a meno di pensare che mi  abbia preso per qualcuno di completamente diverso. Dico questo  perché il mondo è pieno di individui che si proclamano geni di  questo o di quello, e che in realtà sono degni di nota solo per  la loro colossale incapacità di organizzarsi la vita. Ma per  qualche ragione ci sono sempre frotte di persone come lei,  signorina Collins, persone per altro animate dalle migliori  intenzioni, pronte a buttarsi al salvataggio di costoro. Forse mi  sbaglio, ma le assicuro che io non sono uno di questi. Anzi,  posso dirle con certezza che in questo momento non ho alcun  bisogno di essere salvato.   
  Già da un po' la signorina Collins stava scuotendo la testa.  Quando finii, disse: - Signor Ryder, mi rattristerebbe davvero  moltissimo se lei dovesse continuare a ripetere i suoi errori.  Non sopporterei il pensiero di essere rimasta lì a guardare senza  fare niente. Sono più che convinta che potrei esserle di aiuto in  questa difficile situazione. Naturalmente, quando stavo con Leo,  - e la donna fece un vago gesto in direzione di Brodsky, - ero  troppo giovane, non ne sapevo abbastanza, non potevo capire che  cosa stava succedendo. Ma adesso ho avuto molti anni per  riflettere. E quando ho saputo che lei sarebbe venuto nella  nostra città, mi sono detta che era giunto il momento di  accantonare la mia amarezza. Sono vecchia, ma tutt'altro che  finita. Sono riuscita a capire bene certe cose della vita, molto  bene, e non è ancora troppo tardi per metterle a frutto. $è con  questo spirito che la invito a casa mia, signor Ryder. Le chiedo  di nuovo scusa se prima, quando ci siamo conosciuti, sono stata  brusca con lei. Non succederà più, glielo prometto. Per piacere,  mi dica che verrà.   
  Mentre la donna parlava, vidi passarmi davanti l'immagine del  suo soggiorno - la luce bassa e accogliente, le tende di velluto  liso, i mobili sgangherati - e per un istante il pensiero di  adagiarmi su uno dei suoi sofà, lontano dagli assilli della vita,  mi parve stranamente allettante. Inalai a fondo e sospirai.   
  - Terrò presente il suo cortese invito, signorina Collins, -  dissi. - Ma adesso ho bisogno di dormire un po'. Si metta nei  miei panni: sono mesi che viaggio, e da quando sono arrivato qui  non ho avuto un attimo di tregua. Sono esausto.   
  E mentre dicevo questo, tutta la stanchezza mi ripiombò  addosso. La pelle sotto gli occhi cominciò a prudermi, e mi  sfregai la faccia con le palme. Stavo ancora sfregandomela,  quando mi sentii sfiorare il gomito e una voce disse gentilmente:  
  - L'accompagno io a piedi, signor Ryder. Così mi sgranchisco le  gambe.  
  Stephan stava porgendomi un braccio per aiutarmi a scendere  dalla sedia. Gli posai una mano sulla spalla e saltai giù.  
  - Anch'io sono molto stanco, - disse Stephan. - Venga con me.  
  - A piedi?   
  - Sì, questa notte dormo in una delle camere. Lo faccio spesso  quando devo prendere servizio la mattina presto.   
  Per un attimo continuai a non capire. Poi, guardando oltre i gruppetti di invitati in piedi o seduti, oltre i camerieri e i  tavoli, là dove l'immensa sala spariva nell'oscurità, mi accorsi  all'improvviso che eravamo nel patio dell'albergo. Non l'avevo  riconosciuto perché nel pomeriggio vi ero entrato - e l'avevo  visto - dall'altro lato. Da qualche parte là in fondo, nel buio,  c'era il bar dove avevo bevuto il mio caffè e fatto i programmi  per la giornata.  
  Non ebbi però modo di soffermarmi su questa scoperta, perché  Stephan mi stava trascinando via con strana insistenza.  
  - Su, andiamo, signor Ryder. Devo parlarle.  
  - Buona notte, signor Ryder, - mi disse la signorina Collins  mentre le passavamo davanti.   
  Mi voltai per salutarla, e l'avrei fatto in maniera meno  sbrigativa se Stephan non avesse continuato a tirarmi. Anzi,  mentre attraversavamo la sala, mi sentii augurare da ogni parte  la buona notte, e sebbene mi sforzassi di sorridere e di  gesticolare, mi accorsi che la mia uscita era meno elegante del  dovuto. Ma Stephan era chiaramente preoccupato, e mentre ancora  cercavo di ricambiare i saluti voltandomi indietro, mi afferrò  per il braccio e mi disse:   
  - Signor Ryder, ci ho riflettuto molto. Forse mi sto montando  la testa, ma credo proprio che dovrei tentare il brano di Kazan.  Non ho dimenticato il suo consiglio, quello di tirare dritto per  la mia strada. Ma le assicuro che ci ho riflettuto, e mi sento in  grado di farcela. £Passioni £di £vetro non è più al di sopra  delle mie capacità, ne sono più che convinto. Il vero problema è  il tempo. Ma se mi metto d'impegno, se lavoro giorno e notte,  forse ce la farò.  
  Eravamo entrati nella parte buia del patio. I tacchi di Stephan  rimbombavano nel vuoto, accompagnati dal ciabattante contrappunto  delle mie pantofole. Un po' sulla nostra destra, nell'oscurità,  intravidi il marmo chiaro della grande fontana, ora silenziosa e  spenta.   
  - Non sono affari miei, - dissi. - Ma al tuo posto io  continuerei con il pezzo che avevi deciso di suonare. L'hai  scelto tu e questo è sufficiente. E poi, è sempre un errore  cambiare programma all'ultimo minuto...   
  - Ma signor Ryder, lei non capisce. La mamma...   
  - Ho perfettamente presente. E come dico, non desidero  interferire. Ma con tutto il rispetto, penso che nella vita di  ognuno di noi venga il momento di difendere le nostre scelte. Il  momento di dire: «Questo sono io, ho deciso di fare così e lo  farò».   
  - Signor Ryder, capisco il suo punto di vista. Ma forse dice  così... so che lo fa con le migliori intenzioni... ma forse dice  così perché non crede che un dilettante come me possa rendere in  maniera decente il pezzo di Kazan, soprattutto con così poco  tempo a disposizione. Ma vede, ci ho riflettuto per tutta la  cena, e credo proprio...   
  - Non hai afferrato il concetto, - dissi, con un briciolo di  insofferenza. - Non l'hai proprio afferrato. Sto dicendo che devi  prendere posizione.   
  Ma il giovane non mi ascoltava. - Signor Ryder, - continuò, -  mi rendo conto che è spaventosamente tardi e che lei comincia a  essere stanco. Ma mi chiedevo, me lo concederebbe qualche minuto,  magari un quarto d'ora? Se andiamo subito nel salotto, le suono  un pezzo del brano di Kazan, non tutto, solo un pezzo. Così mi  dice se ho qualche possibilità di farcela per giovedì sera. Oh,  mi scusi.   
  Eravamo giunti in fondo al patio, e ci fermammo al buio mentre  Stephan apriva la porta chiusa a chiave che dava sul corridoio.  Mi voltai a dare un'occhiata; la zona dove avevamo cenato era poco più di una piccola pozza di luce nell'oscurità. Gli invitati  sembravano di nuovo seduti, e si vedevano le sagome dei camerieri  aggirarsi fra i tavoli con i loro vassoi.   
  Il corridoio era mal illuminato. Stephan richiuse la porta del  patio alle nostre spalle, poi riprendemmo a camminare a fianco a  fianco, in silenzio. Dopo un po' vidi che il giovane mi guardava  di sottecchi e capii che stava aspettando la mia decisione.  Sospirai e dissi:  
  - Ti aiuterei volentieri. Capisco che ti trovi in un bel guaio.  Solo che si è fatto davvero tardi e...   
  - Signor Ryder, mi rendo conto che è stanco, ma posso farle una  proposta? In salotto ci vado solo io. Lei resti fuori della porta  ad ascoltare. Poi, non appena ha sentito abbastanza per farsi  un'opinione, zitto zitto se ne vada a letto. Io non saprò se lei  è ancora lì o no, così sarò spronato a dare il meglio di me  stesso sino in fondo... che è quello di cui ho bisogno. E domani  mattina mi dirà se ho qualche possibilità per giovedì sera.   
  Riflettei un momento. - Va bene, - dissi alla fine. - Mi sembra  una proposta molto ragionevole, che tiene conto delle esigenze di  entrambi. Va bene, facciamo pure come dici tu.   
  - Signor Ryder, non so come ringraziarla. Non ha idea  dell'aiuto che mi dà. Sono in un tale pasticcio.   
  Per l'eccitazione il giovane accelerò il passo. Il corridoio  svoltò e divenne così buio che più di una volta misi una mano  avanti per timore di andare a sbattere contro una delle due  pareti. Tranne che proprio in fondo, dove un po' di luce filtrava  dalle porte a vetri dell'atrio, non c'era illuminazione di sorta.  Stavo ripromettendomi di farlo presente a Hoffman la prima volta  che l'avessi visto, quando Stephan disse: - Eccoci, - e si fermò.  Mi accorsi che eravamo davanti alla porta del salotto.   
  Stephan armeggiò con le chiavi facendole tintinnare, ma quando  finalmente i battenti si aprirono non vidi altro che buio. Il  giovane si precipitò nella stanza, poi mise di nuovo fuori la  testa.   
  - Mi dà un secondo per trovare la partitura? - disse. -  Dev'essere da qualche parte nello scanno del pianoforte, ma c'è  un tale disordine qui dentro.   
  - Non preoccuparti, me ne andrò solo dopo essermi formato un  opinione precisa.   
  - Signor Ryder, non so come ringraziarla. Be', faccio in un  attimo.   
  La porta si richiuse con un colpo secco, e per qualche minuto  non sentii più niente. Rimasi li nell'oscurità, guardando di  tanto in tanto in fondo al corridoio, dove trapelava la luce  dell'atrio.   
  Finalmente Stephan attaccò il movimento d'apertura di £Passioni  £di £vetro. Dopo le prime battute mi accorsi di ascoltare con  crescente attenzione. Si capiva subito che il giovane aveva  scarsa dimestichezza con il brano, eppure, sotto le esitazioni e  la rigidezza, si intravedeva un'immaginazione capace di  un'originalità e di una sottigliezza spirituale che mi lasciarono  stupefatto. Sebbene ancora rozza, la lettura di Stephan metteva  in luce certe dimensioni che non avevo mai visto nella stragrande  maggioranza delle interpretazioni del brano di Kazan.   
  Mi chinai in avanti per accostarmi alla porta, sforzandomi di  cogliere ogni sfumatura, per quanto esitante. Ma di colpo, verso  la fine del movimento, fui sopraffatto dalla stanchezza e mi  ricordai che era tardissimo. Mi dissi che non c'era alcun bisogno  di ascoltare ancora - con sufficiente tempo a disposizione, il  pezzo di Kazan era sicuramente nelle possibilità di Stephan - e  mi avviai lentamente in direzione dell'atrio. 
 
 Parte seconda 
11.  
  Fui svegliato dallo squillo del telefono sul comodino accanto  al letto. Il mio primo pensiero fu che mi avessero di nuovo  disturbato dopo pochi minuti di sonno, ma un attimo dopo capii  dalla luce che doveva essere mattino inoltrato. Colto  dall'improvviso timore di avere dormito più del previsto,  sollevai il ricevitore.   
  - Ah, signor Ryder, - disse la voce di Hoffman. - Spero che  abbia dormito bene.   
  - Grazie, signor Hoffman, ho dormito benissimo. Stavo per  l'appunto alzandomi. Con tutto quello che ho da fare oggi, -  risi, - è ora che mi muova.   
  - Certo, signor Ryder, e che giornata l'aspetta! Capisco che in  questa prima parte della mattina desideri conservare il più  possibile le forze. Molto saggio, se mi consente. Soprattutto  dopo essersi prodigato come la notte scorsa. Ah, che discorso  meravigliosamente arguto! Questa mattina in città non si parla  d'altro! Comunque, sapendo che si sarebbe alzato più o meno a  quest'ora, ho pensato di telefonarle per aggiornarla sulla  situazione. Sono lieto di informarla che adesso la 343 è pronta.  Posso suggerirle di prenderne subito possesso? I suoi bagagli, se  non ha nulla in contrario, saranno trasferiti mentre fa  colazione. Vedrà che la 343 le piacerà molto di più della sua  camera attuale. Le chiedo ancora scusa per l'errore. Non sa  quanto mi dispiace. Ma come penso di averle spiegato ieri sera, a  volte può essere molto difficile valutare queste cose.   
  - Sì, sì, capisco -. Mi guardai intorno e mi sentii invadere da  una disperata tristezza. - Ma signor Hoffman, - dissi, dominando  a stento la voce, - c'è un piccolo problema. Boris, il mio  bambino, è qui in questo albergo con me, e...   
  - Ah, sì, e mi fa molto piacere poter ospitare anche il  ragazzo. Ci ho già pensato, e l'ho fatto spostare nella 342, la  camera accanto alla sua. Gustav ha provveduto a trasferire il  bambino questa mattina presto. Vede che non ha alcun motivo di  preoccuparsi. Dunque la prego, dopo colazione, di tornare nella  343. Troverà là tutte le sue cose. Non è che un piano più in alto  di dove è adesso, e sono sicuro che la troverà molto più consona  ai suoi gusti. Ma naturalmente, se non dovesse piacerle, la prego  di farmelo sapere immediatamente.   
  Lo ringraziai e riattaccai. Poi scesi dal letto, mi guardai di  nuovo intorno e trassi un profondo respiro. Nella luce del  mattino, la camera non aveva niente di speciale - non era che una  tipica stanza d'albergo - e pensai che stavo dando mostra di un  attaccamento assolutamente indecoroso. Tuttavia, mentre facevo la  doccia e mi vestivo, mi sentii di nuovo propenso a un certo  sentimentalismo. Poi all'improvviso mi venne in mente che prima  di scendere a fare colazione, prima di qualsiasi altra cosa,  dovevo andare a vedere che Boris stesse bene. Per quel che ne  sapevo, in quel momento il bambino poteva essere solo e  disorientato nella sua stanza. Finii in fretta di vestirmi e,  dando un'ultima occhiata alle mie spalle, uscii dalla camera.  
  Stavo percorrendo il terzo piano in cerca della camera 342,  quando udii un rumore e vidi Boris correre verso di me dal capo  opposto del corridoio. Correva in maniera strana, e vedendolo mi  bloccai all'istante. Poi mi accorsi che muoveva le mani come  girasse un volante, e capii che stava impersonando il conducente  di una macchina lanciata a folle velocità. Borbottava qualcosa in  tono rabbioso all'invisibile passeggero alla sua destra, e quando mi passò accanto fece finta di non vedermi. Più avanti c'era una  porta aperta, e quando le fu vicino urlò: - Attento! - poi deviò  bruscamente nella camera. Dall'interno giunse il fracasso di uno  schianto nell'interpretazione vocale di Boris. Mi avvicinai alla  porta, controllai che fosse proprio la 342 ed entrai.   
  Trovai Boris disteso sul letto, con i due piedi per aria.   
  - Boris, - dissi, - non devi andare in giro correndo e urlando  così. Siamo in un albergo. Magari c'è gente che dorme.   
  - Che dorme! A quest'ora?   
  Chiusi la porta alle mie spalle. - Non fare tutto questo  chiasso. La gente si lamenterà.   
  - Peggio per loro se si lamentano. Dirò al nonno di fargliela  vedere.   
  Aveva ancora i piedi per aria, e cominciò a sbattere pigramente  le scarpe l'una contro l'altra. Mi sedetti e rimasi a guardarlo  per un momento.   
  - Boris, devo parlarti. O meglio, dobbiamo parlarci tutti e  due. Ci farà bene. Chissà quante domande hai da fare. Un po' su  tutto. Per esempio, sul perché siamo in questo albergo.  
  Feci una pausa per dargli la possibilità di dire qualcosa, ma  lui continuò a sbattere i piedi nell'aria.  
  - Boris, finora sei stato molto paziente, - proseguii. - Ma  sono sicuro che ci sono tante cose che vorresti chiedermi. Mi  spiace di non avere mai avuto il tempo di sedermi a chiacchierare  con te come si deve. E mi spiace anche per la notte scorsa. $è  stato increscioso, per tutti e due. Boris, chissà quante domande  hai da fare. A qualcuna non sarà facile rispondere, ma cercherò  di farlo meglio che posso.   
  Non so perché, mentre dicevo queste parole - forse al pensiero  che non avrei mai più rivisto la mia vecchia stanza - fui colto  da un profondo smarrimento e dovetti fare una pausa. Boris  continuò ancora per un po' a battere i piedi, poi probabilmente  le sue gambe cominciarono a stancarsi perché le lasciò ricadere  sul letto. Mi schiarii la gola e dissi:  
  - Allora, Boris. Da dove cominciamo?  
  - Uomo solare! - strepitò improvvisamente Boris, e si mise a  canticchiare ad alta voce le prime battute di una sigla musicale.  Poi si scaraventò nello spazio tra il letto e la parete e sparì.  
  - Boris, sto parlando sul serio. Per amor del cielo. Dobbiamo  parlarci di queste cose. Boris, per piacere, esci di lì.  
  Non vi fu risposta. Sospirai e mi alzai in piedi.   
  - Boris, voglio che tu sappia che puoi domandarmi quello che  vuoi in qualsiasi momento. Qualunque cosa stia facendo, pianterò  lì tutto e verrò a parlare con te. Anche se sarò con gente  dall'aria molto importante. Voglio che tu capisca che per me  nessuno è più importante di te. Boris, mi ascolti? Boris, vieni  fuori di lì.   
  - Non posso. Non riesco a muovermi.   
  - Boris, per piacere.   
  - Non riesco a muovermi. Mi sono rotto tre vertebre.   
  - Va bene, Boris. Magari ne riparliamo quando sarai guarito.  Adesso scendo a fare colazione. Senti, se ti fa piacere, dopo  colazione possiamo tornare nella vecchia casa. Se vuoi, possiamo  andare là a prendere la scatola. Quella di Numero Nove.  
  Di nuovo non ebbi risposta. Aspettai ancora un momento, poi  aggiunsi: - Bene, pensaci, Boris. Io scendo a fare colazione.   
  Detto questo, uscii dalla camera, richiudendo piano piano la  porta alle mie spalle.  
  Fui condotto in una lunga sala piena di sole di fianco  all'atrio. Le grandi finestre davano sulla strada all'altezza del  marciapiede, ma i pannelli inferiori erano di vetro opaco per dare un po' di intimità, e i rumori del traffico esterno  giungevano attutiti. Alte palme e ventilatori al soffitto davano  all'ambiente un aspetto vagamente esotico. Le tavole erano  disposte in due lunghe file, e mentre percorrevo il corridoio  centrale accompagnato dal cameriere, notai che in gran parte  erano già state sparecchiate.   
  Il cameriere mi fece sedere verso il fondo e mi versò il caffè.  Quando se ne andò, vidi che gli unici altri clienti erano una  coppia che parlava spagnolo vicino all'ingresso e un vecchio che  leggeva un giornale qualche tavolo più in là. Forse ero sceso a  colazione per ultimo, ma insomma, avevo avuto una notte  incredibilmente faticosa, e mi dissi che non avevo alcun motivo  di sentirmi in colpa.   
  Anzi, mentre osservavo le palme che ondeggiavano dolcemente  sotto i ventilatori accesi, mi sentii pervadere da un senso di  appagamento. In fondo, avevo tutte le ragioni di essere  soddisfatto di ciò che ero riuscito a fare in così poco tempo.  Certo, molti aspetti di questa crisi locale erano ancora poco  chiari, addirittura misteriosi. Ma ero arrivato da meno di  ventiquattr'ore, ed ero sicuro che presto avrei scoperto anche le  risposte a queste domande. Più tardi, per esempio, avrei fatto  visita alla Contessa, dove avrei avuto modo non solo di  rinfrescarmi la memoria sul lavoro di Brodsky ascoltando i suoi  vecchi dischi, ma anche di analizzare l'intera crisi nei minimi  particolari con la Contessa e il sindaco. Poi c'era la riunione  con i cittadini più colpiti dai recenti problemi - la cui  importanza io stesso avevo sottolineato il giorno prima alla  signorina Stratmann - e l'incontro con Christoff. In altre  parole, avevo ancora davanti a me parecchi degli appuntamenti più  significativi, ed era inutile che cercassi già di trarre qualche  conclusione o addirittura di pensare a come impostare il mio  discorso. Per il momento, avevo ogni diritto di sentirmi  soddisfatto delle informazioni che avevo già assimilato, e potevo  sicuramente permettermi qualche minuto di indulgente rilassamento  mentre facevo colazione.   
  Il cameriere tornò con carni fredde, formaggi e un cestino di  pagnottelle fresche. Cominciai a mangiare senza fretta,  versandomi di tanto in tanto una tazza di caffè forte, e quando  Stephan Hoffman comparve nella sala da pranzo ero ormai molto  prossimo alla pace interiore.   
  - Buon giorno, signor Ryder, - disse il giovane, sorridendomi e  venendo verso di me. - Ho saputo che è appena sceso. Non voglio  disturbare la sua colazione, e non mi tratterrò a lungo.  
  Poi rimase a ciondolare accanto al mio tavolo, con lo stesso  sorriso appiccicato sul volto, aspettando che dicessi qualcosa.  Solo allora mi ricordai del patto della notte precedente.   
  - Ah, sì, - dissi. - Il pezzo di Kazan. Sì -. Posai il coltello  del burro e lo guardai. - Come sai è uno dei pezzi per pianoforte  più difficili che siano mai stati composti. E dato che hai appena  cominciato a studiarlo, be', non mi ha sorpreso sentire certe  asperità. Non molto più di questo, semplici asperità. Con un  pezzo del genere c'è poco da fare, ci vuole tempo. £Molto tempo.  
  Feci di nuovo una pausa. Il sorriso era sparito dalla faccia di  Stephan.   
  - Ma nell'insieme, - proseguii, - e non lo dico alla leggera,  ritengo che la tua esecuzione della notte scorsa fosse davvero  molto promettente. A patto che tu vi dedichi il tempo necessario,  sono sicuro che sarai in grado di dare un'ottima interpretazione  di questo difficile pezzo. Naturalmente il guaio è...   
  Ma il giovane non mi stava più ascoltando. Avvicinandosi di un  passo, disse:   
  - Signor Ryder, mi faccia capire. Sta dicendo che basta che mi eserciti? Che il pezzo è nelle mie possibilità? - Improvvisamente  il suo volto si contorse, poi Stephan si piegò in due e picchiò  il pugno sul ginocchio sollevato. Un attimo dopo si raddrizzò,  respirò a fondo e mi guardò raggiante. - Signor Ryder, lei non ha  idea, non ha idea di che cosa significhi questo per me. Che  magnifico incoraggiamento, lei non ha idea! So che le sembrerò  immodesto, ma le assicuro che ne ero certo sin dall'inizio, che  nell'intimo ho sempre saputo che ce l'avrei fatta. Ma sentirselo  dire da lei, proprio da lei, Dio mio, è fantastico! Questa notte,  signor Ryder, non la finivo più di suonare. Ogni volta che stavo  per cedere alla stanchezza, ogni volta che mi veniva la  tentazione di smettere, una vocina dentro di me diceva:  «Continua. Magari il signor Ryder è ancora lì fuori. Forse gli  serve ancora un pochino per poter valutare». E allora ce la davo di nuovo tutta e mi rimettevo a suonare. Quando ho finito, circa  due ore fa, le confesso che sono andato alla porta e ho sbirciato  fuori. E naturalmente ho scoperto che lei era già andato a  letto... com'è giusto, d'altronde. Ma non so come ringraziarla  per essere rimasto lì ad ascoltare. Spero solo che non abbia  perso troppo sonno per colpa mia.   
  - Oh, no, no. Sono rimasto dietro la porta per... per un po'. A  sufficienza per poter giudicare.   
  - Non so come ringraziarla, signor Ryder. Questa mattina mi  sento un altro. Le nuvole sono sparite dalla mia vita!   
  - Sentimi bene, non voglio che tu ti faccia un'idea sbagliata.  Ti ho solo detto che quel pezzo sei in grado di suonarlo. Non che  hai abbastanza tempo per... 
    
  - Al tempo ci penso io. Approfitterò di ogni momento libero per  sedermi al pianoforte ed esercitarmi. Rinuncerò a dormire. Non si  preoccupi, signor Ryder. Domani sera i miei genitori saranno  fieri di me.   
  - Domani sera? Oh, certo...   
  - Oh, ma che egoista, continuo a parlare di me stesso e non le  ho nemmeno fatto i complimenti per lo strepitoso successo della  notte scorsa. Mi riferisco alla cena. In città ne parlano tutti.  $è stato davvero un discorso affascinante.   
  - Grazie. Sono contento che sia piaciuto.   
  - E sono sicuro che ha contribuito in maniera determinante a  creare le condizioni per ciò che è accaduto dopo. Sì, pare che...  questa è la notizia £veramente buona che avrei dovuto darle  subito... Come sa, ieri sera c'era anche la signorina Collins.  Ebbene, pare che a un certo punto, mentre stava andando via, la  signorina Collins abbia scambiato un sorriso con il signor  Brodsky. Sì, non è una storia! Ci sono molti testimoni. Persino  papà li ha visti. Lui non aveva cercato in alcun modo di farli  incontrare; era stato ben attento a non forzare troppo le cose,  soprattutto perché la signorina Collins doveva ancora dare una  risposta per l'incontro allo zoo. Ma mentre la signorina stava  andando via, il signor Brodsky l'ha vista uscire e si è alzato in  piedi. Era rimasto seduto al suo tavolo per tutta la sera, anche  se ormai gli invitati se ne andavano in giro liberamente, come  fanno sempre. Ma ecco che si è alzato e ha guardato in direzione  della porta, dove la signorina Collins stava augurando la buona  notte ad alcune persone. Uno dei consiglieri, penso fosse il  signor Weber, la stava accompagnando fuori, ma l'istinto deve  averla messa sull'avviso. Fatto sta che si è girata a dare  un'ultima occhiata alla sala, e naturalmente ha visto il signor  Brodsky in piedi che la fissava. Papà se ne è accorto, e come lui  parecchia altra gente, e nella sala il brusio è scemato. Papà  dice che per un terribile istante ha temuto che la signorina  Collins gelasse il signor Brodsky con uno sguardo d'odio. Dalla  faccia che aveva, sembrava proprio sul punto di farlo. Ma all'ultimo momento, gli ha sorriso. Sì, ha rivolto al signor  Brodsky un sorriso! Poi è uscita. Il signor Brodsky, be', può  immaginare che cosa deve essere stato per lui. Pensi un po', dopo  tutti questi anni! Poco fa ho visto mio padre, e mi ha detto che  il signor Brodsky sta lavorando con rinnovato vigore. $è già al  pianoforte da un'ora! Meno male che l'ho lasciato libero! Papà  dice che questa mattina gli sembra un'altra persona, l'ultima al  mondo che abbia bisogno di un bicchierino. Un vero trionfo per  papà e per gli altri, ma sono sicuro che il suo discorso ha dato  un contributo determinante. Stiamo ancora aspettando una risposta  dalla signorina Collins, per sapere se verrà allo zoo, ma dopo  quanto è successo questa notte non possiamo fare a meno di essere  ottimisti. Dio mio, che mattinata! Bene, signor Ryder, non mi  tratterrò oltre, sono sicuro che non vede l'ora di finire la sua  colazione. Voglio solo dirle ancora una volta grazie di tutto.  Sono sicuro che ci incontreremo di nuovo nell'arco della  giornata, e le dirò come vanno le cose con il pezzo di Kazan.   
  Gli augurai buona fortuna e lo osservai mentre usciva a passo  baldanzoso dalla sala.   
  L'incontro con il giovane Stephan mi lasciò più soddisfatto che  mai. Per parecchi minuti continuai la colazione con la stessa  calma di prima, godendomi soprattutto il sapore fresco del burro  locale. A un certo punto il cameriere mi portò un altro bricco di  caffè, poi scomparve di nuovo. Dopo un po', non so perché, mi  accorsi che stavo cercando di ricordare la risposta a una domanda  che mi aveva fatto tanti anni prima un signore seduto accanto a  me in aereo. Nelle finali dei Mondiali di calcio avevano giocato  tre coppie di fratelli, mi aveva detto. Ne ricordavo i nomi? Io  avevo trovato una scusa per tornare al mio libro, perché non  avevo nessuna voglia di conversare. Ma da allora, nei rari  momenti come questo, in cui disponevo di qualche minuto tutto per  me, la domanda di quel signore mi tornava in mente. La cosa più  fastidiosa era che c'erano delle volte in cui riuscivo a  ricordare tutte e tre le coppie di fratelli, ma altre in cui  scoprivo di averne dimenticata ora l'una ora l'altra. E così mi  stava succedendo quella mattina. Ricordavo che i fratelli  Charlton avevano giocato con l'Inghilterra nella finale del 1966,  e i fratelli Van der Kerkhof con l'Olanda nel 1978. Ma per quanto  mi sforzassi non riuscivo a ricordare la terza coppia. Dopo un  po' cominciai a provare una profonda irritazione nei miei  confronti, e arrivai persino a stabilire che non mi sarei alzato  da tavola e non mi sarei dedicato agli impegni della giornata se  prima non fossi riuscito a ricordare la terza coppia di fratelli.   
  Fui strappato alle mie fantasticherie da Boris. Vidi che era  entrato nella sala e si stava dirigendo verso di me. Avanzava per  gradi, passando con noncuranza dall'uno all'altro dei tavoli  vuoti, come se stesse avvicinandosi a me per puro caso. Evitava  di guardarmi, e anche quando arrivò al tavolo accanto al mio,  rimase a palpeggiarne la tovaglia dandomi la schiena.   
  - Boris, hai già fatto colazione? - domandai.   
  Il bambino continuò a giocherellare con la tovaglia. Poi, con  un tono che stava a significare che la risposta gli era  indifferente, mi chiese: - Andiamo nella vecchia casa?   
  - Se vuoi. Ti ho promesso che se volevi ci saremmo andati. Ti  farebbe piacere?   
  - Non devi lavorare?   
  - Sì, ma posso rimandare il lavoro a più tardi. Se vuoi,  andiamo pure. Ma in quel caso dobbiamo partire subito. Sai anche  tu che ho una giornata molto piena.   
  Boris parve riflettere. Continuava a darmi le spalle e a  giocherellare con la tovaglia.   
  - Allora, Boris? Andiamo?  
  - Ci sarà Numero Nove?   
  - Penso di sì -. Poi capii che dovevo prendere io l'iniziativa;  mi alzai e gettai il tovagliolo accanto al piatto. - Muoviamoci,  Boris. Sembra che fuori ci sia un bel sole. Non dobbiamo nemmeno  salire a prendere la giacca. Su, andiamo.   
  Boris esitava ancora, ma gli misi un braccio sulle spalle e lo  condussi fuori della sala.   
  Mentre attraversavamo l'atrio, mi accorsi che il portiere mi  stava facendo dei cenni.   
  - Signor Ryder, - disse. - I giornalisti sono tornati. Ho  pensato che per il momento era meglio mandarli via, ma gli ho  detto di riprovare fra un'ora. Non si preoccupi, sono  estremamente disponibili.   
  Riflettei un momento, poi dissi: - Purtroppo in questo momento  ho una cosa importante da fare. Sia così gentile da dire a quei  signori di combinare un appuntamento con la signorina Stratmann.  E adesso, se non le spiace, dobbiamo proprio andare.   
  Solo quando fummo fuori dell'albergo, sul marciapiede assolato,  mi accorsi che non ricordavo la strada per andare alla vecchia  casa. Per qualche secondo rimasi a osservare il traffico che  scorreva lentamente davanti a noi, finché Boris, forse intuendo  il mio problema, disse: - Possiamo prendere il tram. Davanti alla  stazione dei pompieri.  
  - Benissimo. Fai strada tu, allora.  
  Il traffico era così rumoroso che per qualche minuto non  scambiammo quasi parola. Avanzammo scansando la gente lungo i  marciapiedi affollati, attraversammo due stradine molto animate,  poi sbucammo su un largo corso con le rotaie del tram e parecchie  carreggiate intasate dal traffico. Il marciapiede era molto più  largo, e potemmo camminare più speditamente tra la gente,  passando davanti a banche, uffici e ristoranti. Dopo un po' udii  dietro di me dei passi che si avvicinavano di corsa e sentii una  mano toccarmi la spalla.   
  - Signor Ryder! Finalmente!   
  L'uomo che vidi girandomi somigliava a un cantante rock sul  viale del tramonto. Aveva una faccia sciupata e lunghi capelli  sudici con la riga in mezzo. La camicia e i pantaloni erano  larghi e color panna.   
  - Con chi ho il piacere? - domandai cautamente, notando che  Boris guardava l'uomo con sospetto.   
  - Che disgraziatissima serie di malintesi! - disse l'uomo  ridendo. - Ci avranno dato dieci appuntamenti diversi. E ieri  sera abbiamo aspettato più di due ore, ma non importa! Sono cose  che capitano. Immagino che non sia colpa sua, signor Ryder. Anzi,  ne sono sicuro.   
  - Ah, sì. E questa mattina eravate di nuovo lì. Sì, sì, il  portiere me l'ha detto.   
  - E deve esserci stato un altro malinteso -. Il capellone fece  spallucce. - Ci hanno detto di tornare dopo un'ora. Così stavamo  ammazzando il tempo in quel caffè, io e il fotografo. Ma già che  è passato di qui, mi chiedevo se non sarebbe meglio sbrigare  subito l'intervista e le foto. Così non dovremo più disturbarla.  Naturalmente, ci rendiamo conto che un personaggio come lei ha  cose ben più importanti da fare che rilasciare interviste a un  piccolo quotidiano locale come il nostro...   
  - Al contrario, - mi affrettai a dire. - Do sempre la massima  importanza ai giornali come il vostro. Voi avete la chiave per  aprire il cuore della gente. Le persone come voi sono  preziosissime per conoscere una città.   
  - La ringrazio per le sue gentili parole, signor Ryder. Gentili  e, se posso dire, acute.  
  - Ma come stavo per aggiungere, purtroppo in questo momento  sono già occupato.  
  - Certo, certo. Proprio per questo le proponevo di toglierci  subito il pensiero, così non dobbiamo continuare a disturbarla  per tutto il giorno. Il nostro fotografo, Pedro, è in quel caffè.  Può scattarle qualche rapida foto, mentre io le faccio due o tre  domande. Poi può correre con questo giovanotto ovunque foste  diretti. In tutto non ci vorranno più di quattro o cinque minuti.  Mi sembra di gran lunga la soluzione più semplice.   
  - Hmm. Solo qualche minuto, dice?   
  - Oh, saremo più che felici se ci concede qualche minuto.  Sappiamo benissimo che il suo tempo è prezioso e che ha cose più  importanti da fare. Come le dico, siamo laggiù. In quel caffè.   
  L'uomo indicò un punto non molto lontano, dove un po' di tavoli  e di sedie si erano riversati sul marciapiede. Non aveva certo  l'aspetto di un posto che avrei scelto per un'intervista, ma  pensai che così, almeno, avrei chiuso l'argomento giornalisti.   
  - D'accordo, - dissi. - Ma voglio ricordarle ancora una volta  che questa mattina sono occupatissimo.   
  - Signor Ryder, lei è un angelo. E per un umile giornale come  il nostro! Bene, sbrighiamoci, allora. La prego, da questa parte.   
  Il giornalista capellone si avviò per il marciapiede, e dalla  fretta di tornare nel suo caffè rischiò di sbattere contro un  passante. Presto ci distanziò di qualche passo, e io ne  approfittai per dire a Boris:   
  - Non preoccuparti, ci metto pochissimo. Te lo garantisco.   
  Boris continuava a tenermi il broncio, così aggiunsi:   
  - Senti, mentre aspetti, perché non ti mangi qualcosa di buono?  Un gelato o una fetta di torta di ricotta. Poi filiamo via.   
  Ci fermammo davanti a uno stretto cortile pieno di ombrelloni.   
  - Eccoci arrivati, - disse il giornalista indicando uno dei  tavoli. - Siamo seduti là.   
  - Se non le spiace, - gli dissi, - prima voglio sistemare Boris  dentro il bar. Vi raggiungo fra un minuto.   
  - Ottima idea.   
  Molti dei tavolini esterni erano occupati, ma dentro non c'era  nessuno. Il locale, arredato in stile leggero e moderno, era  inondato di sole. Dietro il banco di vetro in cui erano esposti i  dolci e i pasticcini c'era una cameriera giovane e grassottella  dall'aspetto nordico. Non appena Boris si sedette a un tavolino  nell'angolo, la giovane donna venne verso di noi con un sorriso.   
  - Che cosa gradisci? - domandò a Boris. - Questa mattina  abbiamo le torte più fresche della città. Sono arrivate da appena  dieci minuti. $è tutto freschissimo.  
  Boris la interrogò a fondo sui diversi dolci, poi scelse la  torta di ricotta con le mandorle e il cioccolato.   
  - Bene, - gli dissi. - Vado un momento da quelle persone e  torno subito. Se hai bisogno di qualcosa, mi trovi fuori.   
  Boris fece spallucce; aveva occhi solo per la cameriera, che  stava estraendo dalla vetrina un dolce tutto arzigogolato.    12.  
  Quando tornai nel cortile, non vidi più il giornalista  capellone. Passeggiai per un po' tra gli ombrelloni, scrutando in  faccia le persone sedute ai tavolini. Dopo avere fatto tutto il  giro del cortile, presi in esame la possibilità che il  giornalista avesse cambiato idea e fosse andato via. Ma la cosa  mi parve così inaudita che ricominciai a guardarmi intorno.  C'erano parecchie persone che leggevano il giornale davanti a una  tazza di caffè. Un vecchio stava parlando con i piccioni che si  erano radunati intorno ai suoi piedi. Poi udii fare il mio nome,  mi girai e vidi il giornalista seduto proprio al tavolino alle mie spalle. Conversava fitto fitto con un individuo atticciato,  di carnagione scura, che presi per il fotografo. Prorompendo in  un'esclamazione, mi avvicinai, ma stranamente i due uomini  proseguirono la loro discussione senza degnarmi di uno sguardo.  Anche quando scostai l'unica sedia libera e mi sedetti, il  giornalista - che era a metà di una frase - si limitò a darmi  un'occhiata di sfuggita. Poi, rivolgendosi di nuovo al fotografo  dalla pelle olivastra, continuò:   
  - Quindi non fare alcun accenno al significato dell'edificio.  Dovrai inventarti qualche scusa pseudoartistica per spiegargli  perché lo vuoi sempre lì davanti.   
  - Sta tranquillo, - disse il fotografo annuendo. - Sta  tranquillo.   
  - Ma non essere troppo insistente. Sembra che sia stato questo  l'errore di Schulz a Vienna, il mese scorso. E ricordati che  quelli come lui sono sempre molto vanitosi. Quindi fa finta di  essere un suo ammiratore sfegatato. Digli che al giornale non lo  sapevano, quando hanno deciso di mandare te, ma che si dà il caso  che sia proprio il tuo idolo. Lo conquisterai. Ma non tirare in  ballo l'edificio Sattler prima di avere instaurato un buon  rapporto.   
  - Va bene, va bene -. Il fotografo continuava ad annuire. -  Però pensavo che la cosa fosse ormai combinata. Che tu l'avessi  già convinto.  
  - Volevo provare a farlo per telefono, ma Schulz me l'ha  consigliato, pare che lo stronzo sia un osso duro -. Mentre  diceva queste parole, il giornalista si girò verso di me e mi  sorrise educatamente. Il fotografo, seguendo lo sguardo del  compagno, mi fece un cenno distratto con il capo, poi i due  riattaccarono a discutere.   
  - Il guaio di Schulz, - disse il giornalista, - è che non li  adula mai abbastanza. E poi ha un modo di fare, come se avesse  sempre fretta, anche quando non ce l'ha. Questa gente, non devi  smettere un istante di adularla. Quindi, mentre scatti, continua  a gridare «magnifico». Continua a esclamare. Alimenta senza sosta  il suo narcisismo.   
  - Va bene, va bene. Sta' tranquillo...   
  - Allora comincerò io con... - Il giornalista sospirò  stancamente. - Comincerò a parlare del concerto di Vienna, o di  qualcosa del genere. Mi sono preso degli appunti, e farò un po'  di scena. Ma cerchiamo di non sprecare troppo tempo. Dopo qualche  minuto salti fuori tu dicendo che ti è venuta l'ispirazione di  andare all'edificio Sattler. All'inizio fingerò di essere un po'  scocciato, ma poi finirò con l'ammettere che è una bella idea.  
  - Va bene, va bene.   
  - Adesso sai tutto. Vedi di non fare errori. Ricordati che  abbiamo che fare con un bastardo permaloso.   
  - Ho capito.   
  - Se le cose girano storte, tu pensa solo ad adularlo.   
  - D'accordo, d'accordo.   
  I due uomini si fecero un cenno di intesa. Poi il giornalista  respirò a fondo, batté le mani l'una contro l'altra e si girò  verso di me, illuminandosi improvvisamente in volto.   
  - Ah, eccola qui, signor Ryder! $è davvero gentile a concederci  un po' del suo tempo prezioso. E il giovanotto, è là dentro che  se la gode, immagino?   
  - Oh, sì. Ha ordinato un'enorme fetta di torta di ricotta.   
  I due uomini risero compiaciuti. Il fotografo dalla pelle  olivastra sorrise scoprendo i denti e disse:   
  - Torta di ricotta. La mia preferita. Anche quando ero piccolo.   
  - A proposito, signor Ryder, questo è Pedro.   
  Il fotografo sorrise di nuovo e mi porse prontamente la mano. - Felicissimo di conoscerla, signor Ryder. Questo è il sogno della  mia vita, glielo assicuro. Mi hanno assegnato l'incarico solo  questa mattina. Quando mi sono alzato, mi aspettava l'ennesimo  servizio nelle aule del municipio. Poi, mentre faccio la doccia,  mi arriva questa telefonata. Hai voglia di andarci tu? mi  chiedono. Se ne ho voglia? Accidenti, quell'uomo è il mio idolo  da quando ero bambino, gli rispondo. Se ne ho voglia? Cristo, ci  vado gratis. Anzi, vi pago per andarci, gli rispondo. Ditemi solo  dove devo andare. Giuro che non sono mai stato tanto eccitato per  un lavoro.  
  - Deve sapere, signor Ryder, - disse il giornalista, - che il  fotografo che mi ha accompagnato ieri sera in albergo, be', dopo  due ore che aspettavamo ha incominciato a spazientirsi.  Naturalmente la cosa mi ha fatto arrabbiare. «Tu non capisci, -  gli ho detto. - Se il signor Ryder è in ritardo, significa che è  stato trattenuto da impegni improrogabili. E se è così gentile da  concederci un po' del suo tempo e ci fa aspettare, be', si  aspetta e basta». Glielo giuro, mi ha fatto proprio arrabbiare. E  quando siamo tornati al giornale ho detto al direttore che così  non andava. «Trovami un altro fotografo per domani mattina, - gli  ho chiesto. - Voglio qualcuno che si renda ben conto che il  signor Ryder è una celebrità e sappia dimostrargli la dovuta  riconoscenza». Sì, me la sono proprio presa. Comunque, adesso c'è  Pedro, che a quanto 
  pare l'ammira come me.  
  - Molto di più, molto di più, - protestò Pedro. - Questa  mattina, quando ho ricevuto la telefonata, non riuscivo a  crederci. Il mio idolo era in città e io gli avrei fatto le foto.  Cristo, farò il più bel servizio della mia vita, ecco quello che  mi sono detto mentre finivo la doccia. Per uno come lui, devi  superarti. Portalo davanti all'edificio Sattler. $è quello che ci  vuole, mi sono detto, e mentre finivo la doccia mi figuravo già  l'inquadratura nei minimi particolari.   
  - Senti, Pedro, - disse il giornalista, lanciandogli  un'occhiata severa, - dubito molto che il signor Ryder abbia  voglia di andare fino all'edificio Sattler per le nostre  fotografie. $è vero che è a pochi minuti d'auto di qui, ma pochi  minuti sono pur sempre un tempo non indifferente per una persona  con un programma scandito al secondo. No Pedro, dovrai fare del  tuo meglio qui, scattare qualche foto al signor Ryder mentre  chiacchieriamo a questo tavolo. Sì, lo so, un caffè all'aperto è  banale, difficilmente riuscirà a mettere in risalto lo  straordinario carisma che emana dal signor Ryder. Ma dovrai  arrangiarti. Ammetto che l'idea del signor Ryder sullo sfondo  dell'edificio Sattler è suggestiva. Ma purtroppo lui non ha  tempo. Dovremo accontentarci di un'immagine molto più ordinaria.   
  Pedro si batté il pugno sul palmo della mano e scosse la testa.  - Sì, probabilmente hai ragione. Però, accidenti, è dura da  accettare. L'occasione di riprendere il grande Ryder, una di  quelle occasioni che capitano una sola volta nella vita, e devo  accontentarmi della solita inquadratura in un caffè. Dico io se  la vita deve farti di questi scherzi -. Il fotografo scosse di  nuovo la testa tristemente. Poi, per qualche istante, i due  rimasero lì a fissarmi.   
  - Be', - dissi, - questo vostro edificio. $è veramente a pochi  minuti d'auto di qui?   
  Pedro si raddrizzò di scatto sulla sedia, con la faccia che  brillava d'entusiasmo.   
  - Dice davvero? Poserà davanti all'edificio Sattler? Dio mio,  che colpo! Lo sapevo che lei era un tipo coi fiocchi!   
  - Ehi, un momento...   
  - Ne è sicuro, signor Ryder? - mi domandò il giornalista  afferrandomi per il braccio. - Ne è proprio sicuro? So che ha un programma molto fitto. Accidenti, ma è fantastico! E le assicuro  che in taxi non ci vogliono più di tre minuti. Anzi, se mi  aspetta qui, vado a chiamarne uno. Pedro, mentre mi aspettate,  perché non ne approfitti per fare qualche foto al signor Ryder?   
  Il giornalista scappò via. Un attimo dopo lo vidi sull'orlo del  marciapiede, tutto proteso verso il traffico che gli veniva  incontro, con un braccio sollevato in aria.   
  - Signor Ryder. Per piacere.  
  Pedro si era piegato su un ginocchio e mi guardava attraverso  l'obbiettivo strizzando la palpebra. Mi sistemai sulla sedia -  assumendo un atteggiamento disteso ma non esageratamente languido  - e sfoderai un sorriso cordiale.   
  Pedro fece scattare un paio di volte l'otturatore. Poi si  allontanò di qualche passo e si accucciò di nuovo, questa volta  accanto a un tavolino vuoto; così facendo, disturbò una frotta di  piccioni che becchettavano le briciole. Stavo per cambiare  posizione, quando il giornalista tornò di corsa.   
  - Signor Ryder, non riesco a trovare un taxi, ma sta arrivando  il tram. Se si sbriga riusciamo ad acchiapparlo. Pedro, in  fretta, il tram.   
  - Ma non ci metteremo di più che in taxi? - domandai.   
  - No, no. Anzi, con questo traffico, il tram ci metterà meno.  Davvero, signor Ryder, non deve preoccuparsi. L'edificio Sattler  e vicinissimo. Anzi, - il giornalista alzò una mano per  schermarsi gli occhi e guardò in lontananza, - anzi, si vede  quasi di qui. Se non fosse per quella torre grigia laggiù, lo  vedrebbe anche adesso. Per dirle come siamo vicini. Anzi, se una  persona di altezza normale... come me o come lei... se una  persona così salisse in piedi sul tetto dell'edificio Sattler e  tenesse sollevato un oggetto con un manico... che so, una scopa,  per esempio... in una mattina come questa riusciremmo a vederlo  senza difficoltà sopra la torre grigia. Capisce anche lei che ci  si arriva in un baleno. Ma la prego, c è il tram, dobbiamo  spicciarci.   
  Pedro, con la pesante borsa dell'attrezzatura in spalla, era  già alla fermata. Vidi che stava cercando di convincere il  tramviere ad aspettarci. Seguii il giornalista fuori del cortile  e salii a bordo.   
  Mentre il tram ripartiva, ci facemmo largo lungo il corridoio.  La carrozza era affollata, e non riuscimmo a sederci tutti e tre  vicini. Io mi infilai in un sedile verso il fondo, tra un  vecchietto e una madre giunonica che teneva un bambino in grembo.  Il sedile era stranamente comodo, e dopo pochi istanti cominciai  a godermi il viaggio. Davanti a me c'erano tre anziani signori  che leggevano un unico giornale tenuto aperto da quello seduto in  mezzo. Gli scossoni del tram sembravano metterli in difficoltà, e  di tanto in tanto i tre lettori si azzuffavano per imporre una  determinata pagina.   
  Stavamo viaggiando da un po', quando mi accorsi di un certo  fermento intorno a me e vidi una donna in divisa da controllore  avanzare lungo il corridoio. Pensai subito che i miei compagni  dovevano avere fatto il biglietto anche per me; salendo, io non  avevo certo pagato. Quando mi girai di nuovo a guardare, il  controllore, una donnina in una brutta uniforme nera che non  riusciva a nascondere del tutto le sue grazie, aveva quasi  raggiunto il nostro settore della carrozza. Intorno a me i  passeggeri stavano tirando fuori biglietti e tessere. Ricacciai  la sensazione di panico e mi preparai a dire qualcosa di  dignitoso e allo stesso tempo convincente.  
  Poi di colpo il controllore fu al nostro fianco. Tutti i miei  vicini porsero il biglietto, e mentre la donna era ancora intenta a perforarli, dichiarai con voce ferma:   
  - Io sono senza biglietto, ma ciò è dovuto a particolari  circostanze che, se mi permette, le spiegherò.   
  La donna mi guardò. Poi disse: - Non avere il biglietto è un  conto. Ma quello che mi hai fatto ieri sera è stato proprio un  brutto tiro.   
  Nel momento in cui diceva queste parole, riconobbi Fiona  Roberts, una bambina che frequentava la mia stessa scuoletta  elementare nel Worcestershire. Quando avevo nove anni, eravamo  diventati molto amici. Viveva vicino a noi, in una casetta simile  alla nostra poco più giù lungo la strada, e io andavo spesso il  pomeriggio a giocare da lei, soprattutto durante il difficile  periodo che aveva preceduto la nostra partenza per Manchester.  Non la vedevo più da allora, quindi la sua accusa mi colse un po'  di sorpresa.   
  - Ah, - dissi. - Ieri sera. Sì, certo.   
  Fiona Roberts continuò a fissarmi. Sarà stato per il suo  sguardo pieno di rimprovero, ma all'improvviso mi ricordai di un  pomeriggio della nostra infanzia, in cui ce ne stavamo sotto il  tavolo da pranzo dei suoi. Come al solito, avevamo creato il  nostro «covo» appendendo un vasto assortimento di coperte e tende  sui lati del tavolo. Quel pomeriggio faceva caldo e c'era il  sole, ma noi avevamo insistito per stare nel nostro covo, in un  calore soffocante e nella semioscurità. Ero sconvolto e avevo  parlato a lungo a Fiona. Lei aveva cercato di interrompermi più  di una volta, ma io avevo continuato. Alla fine della mia tirata,  Fiona aveva detto:   
  - Sei sciocco. Questo vuol dire che resterai solo. Ti verrà la  malinconia.   
  - Non me ne importa, - avevo detto. - Mi piace stare solo.   
  - Questa è un'altra sciocchezza. A nessuno piace stare solo.  £Io avrò una grande famiglia. Almeno cinque figli. E tutte le  sere preparerò loro una cena deliziosa -. Poi, vedendo che non  ribattevo, aveva ripetuto: - Sei sciocco. A nessuno piace restare  solo.   
  - A me sì.  
  - Ma una cosa così non può £piacere.  
  - Invece a me piace.   
  In realtà l'avevo detto con una certa convinzione. Erano  infatti parecchi mesi che avevo cominciato i miei «allenamenti»;  anzi, è probabile che quella particolare ossessione fosse giunta  al culmine proprio in quel periodo.   
  Gli «allenamenti» erano nati in maniera del tutto imprevista.  Un pomeriggio di cielo grigio, mentre giocavo da solo per strada,  assorto in chi sa quali fantasticherie - ricordo che entravo e  uscivo da un fosso asciutto che correva tra una fila di pioppi e  un campo - ero stato colto all'improvviso da una sensazione di  terrore e dal bisogno di sentire vicini i miei genitori. Casa  nostra non era lontana - riuscivo a vederne il retro in fondo al  campo - ma la sensazione di terrore era andata rapidamente  crescendo, finché ero stato lì lì per cedere e mettermi a correre  all'impazzata verso casa nell'erba alta. Ma per qualche ragione -  forse perché avevo subito collegato la paura a un'idea di  immaturità - mi ero costretto a resistere ancora qualche istante.  Nella mia mente non dubitavo affatto che da un momento all'altro  sarei partito come una scheggia attraverso il campo. Si trattava  semplicemente di rimandare il momento di qualche secondo con uno  sforzo di volontà. Mentre me ne stavo lì immobile nel fosso  asciutto, avevo provato uno strano miscuglio di paura e di  ebbrezza, una sensazione che avrei imparato a conoscere bene  nelle settimane successive. In pochi giorni, infatti, i miei  «allenamenti» erano diventati una caratteristica regolare e importante della mia vita. Con il passare del tempo avevano  acquistato una certa ritualità, tanto che non appena sentivo  affacciarsi il bisogno di tornare a casa mi costringevo ad andare  in un punto particolare della strada, sotto una grande quercia,  dove restavo parecchi minuti a lottare con le mie emozioni.  Spesso decidevo che avevo resistito abbastanza, che potevo  finalmente mettermi a correre, ma solo per trattenermi di nuovo,  per forzarmi a restare sotto l'albero ancora per qualche secondo.  Non c'è dubbio che in queste occasioni il terrore che mi assaliva  fosse accompagnato da un brivido di piacere, altrimenti non si  spiegherebbe perché avessi finito con il non poter fare a meno  dei miei «allenamenti».   
  - Ma lo sai, no, - mi aveva detto Fiona quel pomeriggio,  avvicinando la sua faccia alla mia nell'oscurità, - che quando ti  sposerai £tu, non è mica obbligatorio che le cose vadano come tra  la tua mamma e il tuo papà. Non sarà affatto così. I mariti e le  mogli non bisticciano mica in continuazione. Bisticciano solo  quando... quando succedono certe cose.  
  - Quali cose?   
  Fiona era rimasta zitta per qualche istante. Stavo per rifarle  la domanda, questa volta più aggressivamente, quando, con  cautela, mi aveva detto:   
  - I tuoi genitori non bisticciano così perché non vanno  d'accordo. Non lo sai? Non lo sai perché litigano in  continuazione?   
  Poi all'improvviso si era sentita una voce arrabbiata fuori del  nostro covo, e Fiona era sparita. Io ero rimasto tutto solo sotto  il tavolo, al buio, e mentre ero lì mi erano giunti dalla cucina  i brandelli di una discussione bisbigliata tra Fiona e sua madre.  A un certo punto avevo udito Fiona ripetere in tono offeso: - Ma  perché no? Perché non posso dirglielo? Lo sanno tutti -. E sua  madre dire, sempre sottovoce: - $è più piccolo di te. $è troppo  piccolo. Non devi parlargliene.   
  Questi ricordi si interruppero quando Fiona Roberts si avvicinò  di un passo e mi disse:   
  - Ho aspettato fino alle dieci e mezzo. Poi ho detto che  mangiassero pure. Stavano morendo di fame.   
  - Certo. Naturalmente -. Risi fiaccamente e mi guardai intorno.  - Le dieci e mezzo. Be', sì, a quell'ora è inevitabile che venga  fame...  
  - E a quell'ora era anche ovvio che non saresti venuto. Nessuno  ci credeva più.   
  - No. Sicuramente a quell'ora...   
  - All'inizio era andata a meraviglia, - disse Fiona Roberts. -  Non avevo mai organizzato niente di simile, ma stava andando a  meraviglia. C'erano tutte, Inge, Trude, tutte a casa mia. Ero un  po' tesa, ma le cose andavano a meraviglia, e io non stavo più  nella pelle dall'eccitazione. Certe di loro si erano preparate  con cura per la serata, sono arrivate con cartelline piene di  informazioni e fotografie. $è andato tutto bene fin verso le  nove, poi ha cominciato a serpeggiare un po' di nervosismo, e per  la prima volta mi è balenato il sospetto che tu non venissi.  Continuavo a entrare e uscire dal salotto portando altro caffè,  riempiendo le ciotole degli stuzzichini, cercando di tener viva  la conversazione. Vedevo bene che cominciavano a bisbigliare, ma  mi illudevo che saresti ancora arrivato, che fossi solo rimasto  bloccato dal traffico. Poi si è fatto sempre più tardi, e alla  fine tutte parlavano e bisbigliavano apertamente. Sai, persino  mentre ero in salotto. In casa mia! $è stato allora che ho detto  che mangiassero pure. Ormai volevo solo farla finita. Così si  sono sedute e hanno cominciato a mangiare, sai, avevo preparato  una montagna di frittatine, e qualcuna ha continuato a bisbigliare e a ridacchiare persino mangiando, come quell'Ulrike.  Be', ti dirò che in un certo senso preferivo quelle che  ridacchiavano. Le preferivo alle serpi come Trude, che fingevano  di commiserarmi, che si sforzavano di essere gentili sino in  fondo. Oh, come la detesto quella donna! Gliel'ho letto negli  occhi, quando se ne è andata, che pensava: «Poveretta. Vive di  fantasie. Dovevamo immaginarlo». Oh, le odio tutte, e non mi  perdonerò mai di essermi lasciata immischiare. Ma vedi, sono  quattro anni che vivo in quel complesso residenziale, e non avevo  ancora fatto una sola amicizia come si deve. Ero sola come un  cane. Per anni quelle donne, quelle stesse che ieri sera erano a  casa mia, non hanno voluto avere niente che fare con me. Si  considerano l'élite del nostro complesso residenziale, capisci.  Si fanno chiamare Fondazione Femminile di Arte e Cultura. $è una  sciocchezza, perché la loro non è una vera fondazione, ma pensano  che suoni bene. Ogni volta che in città si organizza qualcosa si  danno un gran daffare. Per esempio, quando è venuto il Balletto  di Pechino, hanno preparato tutte le bandierine per il  ricevimento di benvenuto. Fatto sta che si considerano un gruppo  molto esclusivo, e fino a poco tempo fa non avrebbero mai degnato  una come me. Quando ci incontravamo, quella Inge non mi salutava  nemmeno. Ma naturalmente le cose sono cambiate non appena si è  saputo. Che ti conoscevo, voglio dire. Non so come sia saltato  fuori, io non sono certo andata in giro a vantarmene.  Probabilmente devo averlo accennato a qualcuna di loro. Be', come  puoi immaginare, quello ha cambiato tutto. Un giorno, qualche  tempo fa, la stessa Inge mi ha fermato per le scale e mi ha  invitata a una delle loro riunioni. In realtà io non avevo  nessuna voglia di lasciarmi immischiare, ma ci sono andata lo  stesso, forse pensando che finalmente avrei fatto qualche  amicizia, non so. Be', in principio parecchie di loro, fra cui  Inge e Trude, non sapevano bene se crederci o no, capisci, al  fatto che fossi una tua vecchia amica. Ma alla fine hanno preso  la cosa per buona, probabilmente perché avevano voglia di farsi  belle. L'idea di occuparsi dei tuoi genitori non è stata mia, ma  ovviamente il fatto che ti conoscessi ha avuto il suo peso.  Quando si è saputo della tua visita, Inge è andata dal signor von  Braun e gliel'ha contata; gli ha detto che ormai la Fondazione  era pronta, dopo il Balletto di Pechino, pronta ad assumersi un  impegno importante per davvero, e che tra l'altro nel gruppo  c'era una tua vecchia amica. Cose di questo genere. E così la  Fondazione ha ricevuto l'incarico. Di occuparsi dei tuoi genitori  durante il loro soggiorno qui in città. E tutte naturalmente  erano elettrizzate, anche se qualcuna ha cominciato a spaventarsi  per la grande responsabilità. Ma Inge ci ha dato fiducia, dicendo  che questo incarico non era nulla di più di quanto meritassimo.  Abbiamo fatto riunioni su riunioni, in cui proponevamo le nostre  idee su come intrattenere i tuoi. Inge ci ha detto... mi è  rincresciuto sentirlo... che i tuoi genitori non stavano bene, e  quindi che molte delle attività più ovvie, come le visite guidate  della città, eccetera, non erano adatte. Ma le idee si  sprecavano, e tutte cominciavano a essere eccitatissime. Poi,  all'ultima riunione, una ha detto, be', perché non chiedere a £te  di venire a conoscerci di persona? Per discutere di ciò che  sarebbe potuto piacere ai tuoi genitori? C'è stato un momento di  silenzio tombale. Poi Inge ha detto: «Perché no? In fondo, chi è  più qualificato di noi per invitarlo?» E subito tutte si sono  girate verso di me. Così alla fine ho detto: «Be', immagino che  sarà molto impegnato, ma se volete posso provare a  chiederglielo». E ho visto che non stavano più nella pelle. Poi,  quando è arrivata la tua risposta, sono diventata una  principessa, hanno cominciato a trattarmi con ogni riguardo, sorridendomi e vezzeggiandomi ogni volta che mi incontravano,  portando regalini ai bambini, offrendosi di fare questo o quello  per me. Quindi puoi immaginare che cosa devono avere pensato ieri  sera quando non sei comparso.   
  Fiona Roberts trasse un profondo sospiro e tacque per un  momento, fissando con sguardo assente le case che passavano  davanti al finestrino. Poi prosegui:   
  - Immagino che non dovrei prendermela con te. In fondo, non ci  vedevamo da molto tempo. Ma pensavo che saresti venuto per i tuoi  genitori. Avevamo così tante idee su come intrattenerli. Questa  mattina sparleranno tutte di me. Non ce n'è quasi nessuna che  lavora, hanno mariti che guadagnano bene; staranno telefonandosi  o facendosi visita, e si diranno: «Povera donna, vive in un mondo  tutto suo. Dovevamo accorgercene prima. Mi piacerebbe poter fare  qualcosa per aiutarla, peccato però che sia così £noiosa». Mi  pare di sentirle, se la staranno godendo un mondo. E Inge sarà  anche furiosa. «Quella puttanella ci ha prese in giro», starà  pensando. Ma sarà contenta, sollevata. Vedi, anche se l'idea che  ti conoscessi le piaceva, mi ha sempre considerata una minaccia.  Me ne accorgevo. E il modo in cui le altre mi trattavano in  queste ultime settimane, da quando è arrivata la tua risposta,  probabilmente l'ha fatta riflettere. Era terribilmente  combattuta, lo erano tutte. In ogni caso questa mattina se la  staranno godendo un mondo, ne sono sicura.   
  Naturalmente, mentre ascoltavo Fiona, mi dissi che avrei dovuto  sentirmi in colpa per ciò che era successo la sera prima.  Tuttavia, nonostante la vivida descrizione della scena in casa  sua, nonostante tutto il dispiacere che provavo per lei, scoprii  di rammentare solo in maniera estremamente vaga la presenza nel  mio programma di un impegno di quel genere. Inoltre, le sue  parole mi avevano riportato bruscamente alla realtà, facendomi  ricordare che fino a quel momento avevo trascurato la questione  dell'imminente arrivo dei miei genitori in città. Come Fiona  aveva accennato, nessuno dei due godeva di buona salute, e non  era pensabile lasciare che si arrangiassero da soli. Mentre  osservavo dal finestrino il traffico caotico e i palazzi di  vetro, provai un intenso desiderio di proteggere i miei vecchi  genitori. In realtà, l'idea di affidarli a un gruppo di signore  del posto era perfetta, e io ero stato immensamente stupido a non  approfittare dell'occasione per conoscerle e parlare con loro.  Sentii crescere il terrore dì non sapere che fare dei miei  genitori; non riuscivo a spiegarmi come avessi potuto tralasciare  a quel modo questo aspetto della mia visita, e per un momento la  mia mente si mise a correre. Improvvisamente vidi mia madre e mio  padre, entrambi minuti, con i capelli bianchi, curvi per l'età,  davanti alla stazione ferroviaria, circondati di bagagli che non  potevano nemmeno sperare di portare da sé. Guardavano la strana  città in cui erano capitati, poi mio padre, lasciando che  l'orgoglio prendesse il sopravvento sul buon senso, prendeva due,  tre valigie, mentre mia madre cercava invano di trattenerlo,  afferrandogli il braccio con la sua mano sottile, dicendogli: -  No, no, non puoi portarle tu. Sono troppo pesanti -. Ma mio  padre, con il volto duro e risoluto, si liberava di lei e diceva:  - E chi le porta, altrimenti? Come facciamo ad andare in albergo?  Chi credi che ci aiuterà in questo posto se non ce la caviamo da  soli? - Tutto ciò mentre le macchine e gli autocarri sfrecciavano  rombando davanti a loro e i pendolari li oltrepassavano correndo.  Mia madre, triste e rassegnata, osservava mio padre barcollare  sotto il peso - quattro, cinque passi - poi finalmente  arrendersi, posare le valigie, con le spalle curve e il respiro  affannoso. Dopo un momento gli andava vicino, gli posava con  garbo una mano sul braccio. - Non importa. Troveremo qualcuno che ci aiuti -. Allora mio padre, anche lui rassegnato, forse  contento di avere dato almeno una prova della sua forza d'animo,  si guardava intorno tranquillamente, cercando nella ressa  qualcuno che fosse venuto a prenderli, che si occupasse dei loro  bagagli, che dicesse qualche parola di benvenuto e li portasse in  un albergo su una comoda automobile.   
  Tutte queste immagini si accavallarono nella mia testa mentre  Fiona parlava, e per qualche istante non fui più in grado di  pensare alla sua infelice situazione. Poi, però, mi accorsi che  stava ancora parlando.   
  - Si staranno dicendo che d'ora in poi dovranno fare più  attenzione. Mi sembra di sentirle. «Abbiamo un tale prestigio,  ormai, che è inevitabile che gente di ogni sorta cerchi di  intrufolarsi nel nostro gruppo con l'inganno. Dobbiamo stare  attente, soprattutto adesso che abbiamo tanta responsabilità.  Quella puttanella ci serva da lezione». E via di questo passo.  Dio solo sa che vita farò adesso nel complesso residenziale. E i  miei figli che sono costretti a crescere lì in mezzo...   
  - Senti, - la interruppi, - non sai quanto mi dispiaccia. Ma  ieri sera ho avuto un contrattempo assolutamente imprevedibile,  che non starò a raccontarti. Naturalmente ero scocciatissimo di  verti giocare questo brutto tiro, ma non sono nemmeno riuscito a  trovare un telefono. Vorrei tanto non averti causato tutti questi  guai.  
  - Una £montagna di guai. Non è facile, sai, per una madre sola  con due figli nell'età della crescita...   
  - Mi spiace moltissimo. Ascolta, ti faccio una proposta. Adesso  sono occupato con quei due giornalisti seduti là davanti, ma non  ci vorrà molto. Me ne libero il più in fretta possibile, salto su  un taxi e vengo a casa tua. Sarò là, diciamo, fra mezz'ora,  quarantacinque minuti al massimo. Poi facciamo così. Ce ne  andiamo a spasso per il complesso residenziale, in modo che le  tue vicine, come questa Inge, questa Trude e tutte le altre  vedano con i loro occhi che siamo davvero vecchi amici. Poi  andiamo a trovare quelle che contano di più, come questa Inge. Tu  mi presenti, io chiedo scusa per ieri sera, spiego che all'ultimo  momento sono stato trattenuto mio malgrado. A una a una le  riconquisteremo e rimedieremo al guaio che ti ho combinato ieri.  Anzi, se facciamo le cose per bene, può darsi che alla fine la  considerazione delle tue amiche sia maggiore di prima. Che cosa  ne dici?   
  Per qualche istante Fiona continuò a guardare fuori del  finestrino. Poi rispose: - Il mio primo impulso sarebbe di dirti:  «Scordati dell'intera faccenda». Non mi ha procurato nessun  vantaggio raccontare che ero tua amica. E poi, chi dice che ho  bisogno di entrare nella cerchia di Inge? Mi sentivo proprio sola  in quel complesso residenziale, ma adesso che ho avuto un  assaggio del loro modo di comportarsi, non so se non sia meglio  accontentarmi della compagnia dei miei figli. La sera posso  leggere un buon libro o guardare la televisione. Però non ci sono  solo io, devo pensare anche ai bambini. Devono crescere in quel  posto, e voglio che siano ben visti. Forse, per il loro bene,  dovrei accettare la tua proposta. Come dici tu, se facciamo così,  potrei venirne fuori persino meglio che se il ricevimento fosse  andato bene. Ma tu devi promettere, giurare su ciò che hai di più  caro, che non mi tradirai una seconda volta. Perché, vedi, se  vogliamo mettere in atto il tuo piano, appena finisco il mio  turno devo attaccarmi al telefono per fissare le visite. Non è  mica di quei posti dove si può andare in giro a bussare alle  porte senza preannunciarsi. Capisci che cosa succederebbe se io  combinassi tutti gli appuntamenti e poi tu non comparissi? Sarei  costretta ad andarci da sola per spiegare un'altra volta la tua assenza. Quindi devi promettermi che non mi farai più un altro  tiro del genere.   
  - Hai la mia parola, - promisi. - Come ti dico, sbrigo questa  faccenda, salto su un taxi e sono da te. Non preoccuparti, Fiona,  sistemeremo tutto.   
  Mentre dicevo così, mi sentii toccare un braccio. Girandomi,  vidi Pedro in piedi, con il suo borsone in spalla.   
  - La prego, signor Ryder, - disse, indicandomi l'uscita in  fondo alla carrozza.   
  Il giornalista era già davanti, pronto a scendere.   
  - Questa è la nostra fermata, signor Ryder, - mi gridò,  facendomi cenno con la mano. - Se non le spiace.  
  Sentii il tram rallentare e fermarsi. Mi alzai in piedi,  sgusciai fuori del sedile e mi avviai lungo il corridoio. 
13.  
  Il tram si allontanò sferragliando, lasciandoci soli in aperta  campagna, circondati da campi battuti dal vento. La brezza era  piacevole, e per qualche istante rimasi a guardare il tram che  spariva in fondo ai campi, oltre l'orizzonte.   
  - Signor Ryder, da questa parte per piacere.   
  Il giornalista e Pedro stavano aspettando a qualche passo da  me. Non appena li raggiunsi, si incamminarono nell'erba alta. Di  tanto in tanto una folata più violenta delle altre ci tirava i  vestiti e increspava il prato. Alla fine giungemmo ai piedi di  una collina e ci fermammo a riprendere fiato.   
  - C'è da fare una piccola salita, - disse il giornalista,  indicando il pendio.   
  Dopo avere arrancato nell'erba alta, vidi con sollievo un  sentiero di terra battuta che si inerpicava sul fianco della  collina.   
  - Bene, - dissi, - visto che non ho molto tempo, forse è meglio  che ci muoviamo.   
  - Naturalmente, signor Ryder.   
  Il giornalista si avviò su per i ripidi zigzag del sentiero. Io  riuscii a stargli dietro, seguendolo a pochi passi di distanza.  Pedro, invece, forse rallentato dalle sue borse, perse  rapidamente terreno. Mentre salivamo, mi accorsi che avevo  ricominciato a pensare a Fiona, al brutto tiro che le avevo  giocato la sera prima; fino a quel momento mi ero comportato con  grande padronanza ottenendo notevoli risultati, ma avevo la  sensazione che il modo in cui stavo affrontando certi aspetti  della mia visita lasciasse - almeno secondo il mio metro di  giudizio - alquanto a desiderare. Al di là dell'imbarazzo in cui  avevo messo Fiona, ero seccatissimo, dato che l'arrivo dei miei  genitori in città era ormai imminente, di essermi lasciato  sfuggire l'occasione di discutere delle loro numerose e  complicate esigenze con le persone cui sarebbero stati affidati.  Mentre cominciavo a sbuffare, sentii tornare un'intensa  irritazione nei confronti di Sophie, che aveva seminato lo  scompiglio nei miei programmi. Non mi sembrava affatto esagerato  chiederle, nei momenti cruciali della mia vita - come questo - di  tenersi per sé il suo caos. Tutte le cose che all'improvviso  avrei voluto dirle mi si accavallarono nella testa, e se non  avessi avuto il fiato corto, forse mi sarei addirittura messo a  borbottare ad alta voce.   
  Dopo tre o quattro svolte del sentiero, ci fermammo a riposare.  Alzando lo sguardo, fui colpito dalla vista sconfinata sulla  campagna circostante. I campi si susseguivano a perdita d'occhio.  Solo in lontananza, all'orizzonte, c'era qualcosa che sembrava un  gruppetto di cascine.   
  - Una vista magnifica, - disse il giornalista, ansimando e ravviandosi i capelli con le dita per toglierseli dalla faccia. -  $è così tonificante venire quassù. L'aria fresca ci farà sentire  bene per il resto della giornata. Be', anche se è bello, meglio  non perdere tempo -. Poi rise allegramente e riprese a camminare.   
  Come prima lo seguii da vicino, mentre Pedro restava sempre più  indietro. Poi, mentre arrancavamo su per un tratto  particolarmente ripido, Pedro gridò qualcosa dal basso. Pensai  che ci stesse chiedendo di rallentare, ma il giornalista non  modificò il passo. Si limitò a girare la testa e a urlare  controvento: - Come hai detto?   
  Vidi che Pedro si sforzava di guadagnare qualche passo, poi lo  sentii gridare:   
  - Ho detto che a quanto pare siamo riusciti a convincerlo.  Credo che lo stronzo abbia abboccato.   
  - Be', - gridò di rimando il giornalista, - finora ha  collaborato, ma con questi individui non bisogna mai cantare  vittoria. Quindi non dimenticarti di adularlo. Fin qui è venuto,  e sembra addirittura contento. Ma non credo che questo idiota  conosca il significato dell'edificio.   
  - Che cosa gli diciamo se ce lo chiede? - urlò Pedro. - Lo farà  di sicuro.   
  - Tu parla d'altro. Chiedigli di cambiare posa. $è probabile  che tutto ciò che riguarda il suo aspetto riesca a distrarlo. Se  poi insiste, be', alla fine dovremo dirglielo, ma ormai avremo  tutte le foto che ci servono, e il nostro stronzo non potrà più  fare nulla.   
  - Non vedo l'ora che questa storia sia finita, - disse Pedro,  sbuffando sempre di più. - Dio, quel suo modo di sfregarsi le  mani mi mette i brividi.   
  - Ci siamo quasi. Finora ce la siamo cavata bene, vediamo di  non guastare tutto all'ultimo momento.   
  - Mi scusi, - lo interruppi, - ma devo fermarmi un secondo.  
  - Ma certo, signor Ryder, che sbadato, - disse il giornalista,  e finalmente fece una sosta. - Io sono un maratoneta, - aggiunse,  - dunque ho un vantaggio inconsueto. Ma devo dire che lei mi  sembra in gran forma. E per un uomo della sua età... la so perché  l'ho letta sui miei appunti, altrimenti non l'avrei mai  indovinata... guardi come ha staccato il povero Pedro -. Poi,  mentre quest'ultimo ci raggiungeva, gli urlò: - Sbrigati, lumaca.  Ti fai ridere dietro dal signor Ryder.   
  - Non è giusto, - disse Pedro sorridendo. - Oltre a essere un  uomo di grande ingegno, il signor Ryder ha anche il fisico di un  atleta. Mica tutti sono così fortunati.   
  Restammo a contemplare il paesaggio mentre riprendevamo fiato.  Poi il giornalista disse:   
  - Siamo quasi arrivati, ormai. Su, andiamo. Non scordiamoci che  il signor Ryder ha davanti una giornata molto intensa.   
  L'ultima parte del tragitto fu la più ardua. Il sentiero  diventava sempre più ripido, e spesso si disintegrava in una  successione di pozzanghere fangose. Davanti a me il giornalista  non accennava a rallentare, anche se adesso camminava curvo per  lo sforzo. Mentre gli andavo dietro barcollando, pensai di nuovo  a tutte le cose che avrei voluto dire a Sophie. - Ma la vuoi  capire? - mi sentii borbottare a denti stretti, a tempo con i  miei passi. - Ma la vuoi capire? - Non so perché, la frase  terminava sempre lì, ma io la ripetevo a ogni passo, mentalmente  o sottovoce, finché queste stesse parole cominciarono ad  alimentare la mia irritazione.   
  Finalmente il sentiero si appiattì, e sulla sommità della  collina vidi un edificio bianco. Il giornalista e io ci dirigemmo  incespicando verso la costruzione, e un attimo dopo ci  appoggiammo al muro soffiando come mantici. Qualche istante più tardi ci raggiunse anche Pedro, ormai quasi asfittico, che crollò  contro l'edificio afflosciandosi sulle ginocchia. Per un attimo  temetti che gli venisse un colpo apoplettico; invece, pur  continuando ad ansimare e a sbuffare, Pedro cominciò ad aprire la  cerniera lampo della borsa. Tirò fuori una macchina fotografica,  poi un obbiettivo. Ma a questo punto non ce la fece più, appoggiò  un braccio al muro, seppellì la testa nell'incavo del gomito e  rimase lì a boccheggiare.   
  Quando mi parve di avere recuperato a sufficienza le forze, mi  scostai di qualche passo dalla costruzione per darle un'occhiata  d'insieme. Una folata di vento mi ricacciò contro il muro, ma  alla fine raggiunsi un punto da cui potei vedere dinanzi a me  l'alto cilindro di mattoni imbiancati, privo di finestre se si  esclude un'unica fessura verticale vicino alla sommità. Sembrava  che qualcuno avesse strappato una torretta a un castello  medievale e l'avesse trapiantata sulla cima della collina.  
  - Signor Ryder, ci dica lei quando è pronto.   
  Il giornalista e Pedro si erano allontanati di una decina di  metri dalla costruzione. Pedro, che evidentemente si era ripreso,  aveva montato il treppiede e stava guardando nel mirino.   
  - Proprio contro il muro, signor Ryder, se non le spiace, - mi  gridò il giornalista.   
  Tornai verso l'edificio. - Scusate, - dissi, alzando la voce  per sovrastare il vento, - prima di cominciare, vorrei che mi  spiegaste perché abbiamo scelto proprio questo posto.   
  - Signor Ryder, per piacere, - gridò Pedro, sventolando una  mano. - Stia contro il muro. Magari si appoggi con un braccio.  Così -. E protese un gomito esponendolo al vento.   
  Mi avvicinai al muro e feci come mi era stato chiesto. Pedro  scattò un bel po' di fotografie, ora spostando il treppiede ora  cambiando obbiettivo. Per tutto il tempo, il giornalista gli  rimase accanto, sbirciandogli sopra la spalla e parlottando con  lui.   
  - Scusate, - dissi dopo un momento, - non mi sembra così  irragionevole chiedervi...   
  - Signor Ryder, la prego, - disse Pedro, raddrizzandosi di  scatto dietro la macchina fotografica. - La cravatta!   
  Il vento mi aveva spinto la cravatta sulla spalla. La rimisi a  posto e ne approfittai per ricompormi anche i capelli.   
  - Signor Ryder, - gridò Pedro, - se potessimo farne un paio con  la mano alzata, così. Sì, sì! Come se mostrasse a qualcuno  l'edificio. Sì, perfetto, perfetto. Ma la prego, sorrida con  fierezza. Più fiero, come se l'edificio fosse il suo bebè. Sì,  così è perfetto. Verrà magnifico.   
  Feci del mio meglio per obbedire alle istruzioni, anche se le  violente raffiche di vento rendevano difficile mantenere  un'espressione cordiale, come si conveniva.   
  Dopo un po' mi accorsi di una presenza alla mia sinistra. Ebbi  l'impressione che contro il muro ci fosse un uomo con un cappotto  nero, ma in quel momento non potevo muovermi perché ero in posa,  e lo vedevo solo con la coda dell'occhio. Pedro continuava a  urlarmi istruzioni tra una raffica e l'altra - spostare il mento  un briciolino più in là, sorridere con più convinzione - e passò  un certo tempo prima che fossi finalmente libero di guardare. Non  appena mi girai, l'uomo - un tipo alto e rigido come un manico di  scopa, con la testa calva e la faccia ossuta - si diresse verso  di me. Si teneva l'impermeabile stretto al corpo, ma quando mi fu  vicino mi porse la mano.   
  - Signor Ryder, come sta? $è un onore.   
  - Ah, sì, - dissi, studiandolo. - Lieto di conoscerla,  signor... ehm...?   
  Il manico di scopa mi guardò meravigliato. Poi disse: - Christoff. Sono Christoff.   
  - Ah, il signor Christoff -. Una raffica più forte delle altre  ci costrinse a puntellarci per qualche istante, consentendomi di  riprendermi un po' dalla sorpresa. - Ah, sì, il signor Christoff.  Ma certo. Mi hanno parlato molto di lei.   
  - Signor Ryder, - disse Christoff, chinandosi verso di me, - mi  permetta di ringraziarla subito per avere accettato di  partecipare a questo pranzo. Sapevo di avere che fare con una  persona educata, dunque non mi ha stupito affatto che accogliesse  l'invito. Vede, ero sicuro che lei, almeno, ci avrebbe ascoltati  imparzialmente, avrebbe voluto conoscere anche la nostra campana.  No, non mi ha stupito affatto, ma ciò non toglie nulla alla mia  riconoscenza. Bene, - aggiunse dando un'occhiata all'orologio, -  siamo un po' in ritardo, ma non importa. Non dovremmo avere  problemi di traffico. La prego, da questa parte.   
  Seguii Christoff intorno all'edificio bianco. Sul retro il  vento era meno forte, e dal muro di mattoni spuntava un groviglio  di tubature che emetteva un lieve ronzio. Christoff continuò a  precedermi dirigendosi verso il ciglio della collina, in un punto  segnato da due pali di legno. Oltre i pali mi immaginavo un  precipizio, invece, quando guardai giù, vidi una lunga scalinata  di pietra, tutta sgangherata, che scendeva il vertiginoso fianco  della collina. In fondo, la scalinata finiva contro una strada  asfaltata, dove si scorgeva la sagoma di un'automobile nera che,  presumibilmente, aspettava noi.   
  - Dopo di lei, signor Ryder, - disse Christoff. - Scenda con il  suo passo. Non c'è nessuna fretta.   
  Notai però che dava un'altra occhiata ansiosa al suo orologio.   
  - Mi spiace molto se siamo in ritardo, - dissi. - Quelle  fotografie hanno portato via più tempo del previsto.   
  - La prego di non preoccuparsi, signor Ryder. Sono sicuro che  arriveremo perfettamente in orario. Dopo di lei.   
  Quando affrontai i primi gradini mi venne un po' di capogiro.  Non c'era ringhiera né da una parte né dall'altra, e il timore di  mettere un piede in fallo e di rotolare giù sino in fondo alla  collina mi fece concentrare al massimo. Per fortuna il vento  divenne meno fastidioso, e dopo un po' mi accorsi che stavo  acquistando confidenza: non era poi così diverso dallo scendere  una qualsiasi scala. Presto cominciai addirittura a staccare gli  occhi da terra per contemplare il panorama che si stendeva  davanti a noi.   
  Il cielo era ancora coperto, ma il sole filtrava attraverso le  nubi. Adesso vedevo che la strada dove ci aspettava la macchina  tagliava un pianoro, oltre il quale la collina riprendeva a  scendere tra fitti alberi. Ancora più giù, si vedevano campi a  perdita d'occhio in ogni direzione. All'orizzonte si scorgeva  appena la linea dentellata della città.   
  Christoff rimase incollato alle mie spalle. Per i primi minuti,  forse notando la mia apprensione per la discesa, si trattenne dal  conversare. Ma quando finalmente ebbi trovato il mio ritmo,  sospirò e disse:   
  - Quei boschi, signor Ryder. Laggiù alla sua destra. Sono i  boschi di Werdenberger. Tra la gente ricca della nostra città, va  di moda comprarsi uno chalet laggiù. I boschi di Werdenberger  sono un luogo incantevole. A pochi minuti dal centro, eppure ti  senti lontano da tutto e da tutti. Quando saremo in macchina e  scenderemo il fianco della montagna, vedrà gli chalet. Alcuni  sono appollaiati proprio sul ciglio di dirupi scoscesi. Devono  avere una vista incredibile. Rosa avrebbe tanto desiderato uno  chalet. A dire il vero, ne avevamo adocchiato uno, glielo  indicherò mentre scendiamo. Uno dei più modesti, ma non per  questo meno carino. L'attuale proprietario non lo usa quasi mai, non più di due o tre settimane all'anno. Se gli avessi fatto una  buona offerta, l'avrebbe sicuramente presa in considerazione. Ma  ormai è inutile continuare a pensarci. Non c'è più nulla da fare.   
  Christoff tacque per qualche istante. Poi la sua voce riprese a  parlare alle mie spalle.   
  - Non è niente di speciale. Rosa e io non l'abbiamo mai visto  dentro. Ma ci siamo passati davanti così tante volte che ci  immaginiamo come deve essere fatto. Si trova su un piccolo  promontorio, proprio sul burrone; oh, devi avere l'impressione di  essere sospeso in cielo. E sono sicuro che da tutte le finestre,  andando da una stanza all'altra, vedi le nuvole. Rosa ne sarebbe  incantata. Ogni volta che ci passavamo davanti, avevamo  l'abitudine di rallentare, o persino di fermarci, per immaginarlo  dentro, per figurarcelo stanza per stanza. Be', come le dico,  tutto ciò appartiene al passato, ormai. $è inutile pensarci  ancora. E poi, signor Ryder, non credo che lei ci abbia concesso  il suo tempo prezioso per sentire queste storie. Mi perdoni.  Torniamo ad argomenti più importanti. Sa, le siamo tutti  £immensamente riconoscenti per avere accettato di parlare con  noi. Una bella differenza rispetto agli altri, a quegli individui  che sostengono di guidare questa comunità! Per ben tre volte li  abbiamo invitati a uno dei nostri pranzi, per discutere dei vari  argomenti così come faremo con lei. Non ci hanno neanche degnati.  Figuriamoci! Sono troppo orgogliosi, dal primo all'ultimo. Von  Winterstein, la Contessa, von Braun, tutti. Perché, vede, in  realtà sono insicuri. In fondo al cuore sanno di non capire  niente, per cui rifuggono da una discussione aperta. Per tre  volte li abbiamo invitati, e per tre volte ci hanno risposto in  malo modo. Ma intanto sarebbe stato inutile. Non avrebbero capito  la metà delle nostre parole.  
  Di nuovo mi passò la voglia di parlare. Mi rendevo conto che  sarebbe stato opportuno dire qualcosa, ma per farmi sentire avrei  dovuto girare la testa e urlare, e non ero affatto disposto a  correre il rischio di staccare gli occhi dai gradini. Così, per  qualche minuto, continuammo la discesa in silenzio. Alle mie  spalle, il respiro di Christoff si faceva sempre più affannoso.  Poi il violoncellista disse:   
  - Onestamente, la colpa non è loro. Le forme moderne sono così  complesse. Kazan, Mullery, Yoshimoto. Persino per un musicista  esperto come me è diventato difficile, molto difficile. Che  possibilità hanno le persone come von Winterstein, o la Contessa?  Queste cose esulano dal loro comprendonio. Per loro sono rumori,  nient'altro che vortici di ritmi incomprensibili. Forse con il  passare degli anni si erano convinti di cogliervi qualcosa, che  so, delle emozioni, dei significati. Ma la vera verità è che non  ci trovavano niente. La musica moderna esula dal loro  comprendonio, non la capiranno mai. Una volta c'erano solo  Mozart, Bach, Cajkovskij. Persino l'uomo di strada poteva fare  delle congetture sensate su quel genere di musica. Ma le forme  moderne! Come può della gente come quella, inesperta,  provinciale, come potrà mai capire queste cose? Non basta essere  animati da un grande senso del dovere nei confronti della  comunità. Non c'è nessuna speranza, signor Ryder. Non sanno  distinguere una cadenza frantumata da un motivo sincopato. O  un'indicazione di tempo spezzato da una sequenza di pause palesi.  E adesso interpretano alla rovescia l'intera situazione! Pensano  che sia tutto il contrario! Signor Ryder, se è stanco perché non  ci riposiamo un momento?   
  In realtà mi ero fermato perché un uccello, svolazzandomi  vicinissimo al volto, mi aveva spaventato e quasi fatto  inciampare.  
  - No, no, non ce n'è bisogno, - dissi, girandomi, poi ripresi la discesa.   
  - I gradini sono un po' sudici per sedersi. Ma se vuole  possiamo fermarci e restare in piedi.   
  - No, davvero, grazie. Va bene così.   
  Per qualche minuto proseguimmo in silenzio. Poi Christoff  disse:   
  - Le assicuro che nei momenti in cui riesco a vedere le cose  con distacco quella gente mi fa pena. Non ce l'ho con loro.  Nonostante quello che mi hanno fatto, nonostante quello che hanno  detto di me, riesco ancora a vedere le cose oggettivamente. E mi  dico, no, non è colpa loro. Non è colpa loro se la musica è  diventata così difficile e complicata. $è assurdo sperare che  qualcuno, in un posto simile, la capisca. Ma queste persone, i  maggiorenti della città, devono far credere di sapere il fatto  loro. Così continuano a ripetersi certe cose, e dopo un po' si  convincono di essere delle autorità in materia. Vede, in un posto  come questo non c'è nessuno che possa contraddirli. Faccia  attenzione ai prossimi gradini, signor Ryder. Sono un po'  sgretolati ai margini.   
  Scesi parecchi gradini molto lentamente. Poi alzai gli occhi e  vidi che eravamo quasi giunti in fondo alla scala.   
  - Sarebbe stato inutile, - disse la voce di Christoff alle mie  spalle. - Anche se avessero accettato il nostro invito, sarebbe  stato inutile. Non avrebbero capito la metà delle nostre parole.  Lei, signor Ryder, almeno capirà le nostre ragioni. Magari non  riusciremo a convincerla, ma sono sicuro che se ne andrà  rispettando la nostra opinione. Anche se naturalmente ci  auguriamo di persuaderla. Di convincerla che, al di là della  sorte del sottoscritto, bisogna continuare a tutti i costi lungo  questa strada. Sì, lei è un brillante musicista, uno dei massimi  talenti in circolazione. Ma anche un esperto del suo calibro deve  applicare le sue conoscenze tenendo conto delle particolari  condizioni locali. Le persone che le presenterò fra poco, signor  Ryder, sono fra le poche, anzi le pochissime, che si possano  ragionevolmente definire intellettuali in questa città. Si sono  date la briga di analizzare le particolari condizioni che  predominano da queste parti, e soprattutto, a differenza di von  Winterstein e dei suoi, capiscono qualcosa di musica moderna. Con  il loro aiuto, in maniera estremamente civile e rispettosa, spero  di riuscire a farle cambiare idea. Naturalmente, tutte le persone  che incontrerà hanno il massimo rispetto per lei e per ciò che  lei rappresenta. Ma nonostante il suo straordinario acume,  temiamo che possano esserci ancora alcuni aspetti della  situazione che forse non le sono del tutto chiari. Oh, eccoci  arrivati.   
  In realtà mancavano ancora una ventina di gradini alla strada.  Per quest'ultimo tratto di discesa Christoff rimase zitto. Ne fui  contento, perché le sue ultime frasi avevano cominciato a  infastidirmi. Quel suo insinuare che conoscevo poco o male le  condizioni locali, che sarei stato capace di tirare le mie  conclusioni senza badare a questi fattori, era davvero offensivo.  Ripensai all'impegno con cui avevo cercato di informarmi sulla  situazione locale sin da quando avevo messo piede in città, a  dispetto di un programma senza respiro e della stanchezza.  Ricordai, per esempio, che il pomeriggio del giorno prima, invece  di godermi un meritato riposo nell'accogliente patio  dell'albergo, come avrei potuto fare benissimo, ero partito a  raccogliere impressioni in giro per la città. Sì, quanto più  pensavo alle parole di Christoff, tanto più sentivo crescere  l'irritazione. Così, quando finalmente arrivammo alla macchina e  Christoff mi aprì la porta sul lato del passeggero, salii senza  dire una parola.  
  - Non siamo molto in ritardo, - disse il mio accompagnatore  mettendosi al volante. - Se non troviamo traffico, saremo là in  un attimo.   
  Mentre diceva queste parole, mi ricordai di colpo i numerosi  impegni della giornata. C'era Fiona, per esempio, che sicuramente  mi stava aspettando a casa sua da un momento all'altro. Era  evidente che le circostanze avrebbero richiesto una certa  fermezza da parte mia.   
  La macchina partì, e poco dopo la strada si fece ripida e  tortuosa. Christoff sembrava conoscerla bene, perché prendeva le  curve con notevole disinvoltura. Più in basso la strada divenne  meno vertiginosa; a destra e a sinistra cominciarono a comparire  gli chalet di cui mi aveva parlato Christoff, spesso  precariamente sospesi sul vuoto. Alla fine mi girai verso di lui  e gli dissi:   
  - Signor Christoff, desideravo molto pranzare con lei e i suoi  amici. Per sentire la vostra campana. Ma questa mattina mi sono  capitati parecchi imprevisti, con la conseguenza che mi aspetta  una giornata piena di impegni. Anche adesso, invece di stare a  parlare con lei...   
  - La prego, signor Ryder, non c'è bisogno di spiegazioni.  Sapevamo sin dall'inizio che molto probabilmente sarebbe stato  impegnatissimo, e tutti i presenti, glielo assicuro,  dimostreranno la massima comprensione. Se decide di andare via  dopo un'ora e mezzo, o dopo un'ora, nessuno, glielo posso  assicurare, si offenderà minimamente. Sono tutte persone in  gamba, le uniche qui in città capaci di pensieri e sentimenti  elevati. Comunque vada questo pranzo, signor Ryder, sono sicuro  che sarà contento di averle conosciute. Molte le ricordo quando  erano giovani e piene di entusiasmo. Tutte persone in gamba,  dalla prima all'ultima, glielo garantisco io. Una volta, forse,  si consideravano i miei protetti. Dimostrano ancora una grande  devozione. Ma oggi siamo colleghi, £amici, forse persino qualcosa  di più. Questi ultimi anni ci hanno avvicinati moltissimo.  Naturalmente qualcuno mi ha abbandonato, era inevitabile. Ma  quelli che sono rimasti, oh, sono irremovibili. Sono fiero di  loro; per me sono come dei figli. Rappresentano l'unica speranza  per questa città, anche se so che non avranno voce in capitolo  ancora per parecchio tempo. Ah, fra poco passeremo davanti allo  chalet di cui le parlavo, signor Ryder. $è dietro la prossima  curva. Lo vedrà dalla sua parte.  
  Christoff tacque, e quando lo guardai notai che aveva gli occhi  pieni di lacrime. Provai un po' di compassione per lui e gli  dissi gentilmente:   
  - Non si può mai sapere che cosa ci riserva il futuro, signor  Christoff. Forse un giorno troverà con sua moglie uno chalet  molto simile a questo. Se non qui, in un'altra città.   
  Christoff scosse la testa. - So che sta cercando di consolarmi,  signor Ryder. Ma creda, è inutile. Tra me e Rosa è tutto finito.  Mi lascerà. Lo so da un pezzo. Lo sa l'intera città. Sono sicuro  che avrà sentito i pettegolezzi.   
  - Be', un paio di cosette le ho sentite...   
  - Sono sicuro che siamo sulla bocca di tutti. Non che me ne  importi molto ormai. L'unica cosa che conta è che Rosa mi  lascerà. Non sopporterà a lungo l'idea di essere mia moglie, non  dopo quanto è successo. Ma non si faccia un'idea sbagliata. In  tutti questi anni ci siamo amati, ci siamo amati moltissimo. Ma  vede, fra noi c'è sempre stato un patto, sin dal principio. Ah,  ecco lo chalet, signor Ryder. Alla sua destra. Quante volte sono  transitato qui davanti a passo d'uomo, con Rosa seduta dove è lei  adesso! Una volta andavamo così piano, ed eravamo così distratti,  che abbiamo quasi bocciato con una macchina che veniva su in senso contrario. Sì, avevamo un patto. Fino a quando avessi avuto  una posizione di preminenza in questa comunità, lei mi avrebbe  amato. Oh, e mi amava, mi amava davvero. Ne sono perfettamente  convinto, signor Ryder. Perché vede, per Rosa la cosa più  importante della vita era essere moglie di una persona nella mia  posizione. Forse questo gliela farà sembrare un po' superficiale.  Ma non deve fraintenderla. A modo suo, nell'unico modo che  conosceva, Rosa mi amava profondamente. E poi, è una sciocchezza  pensare che la gente continui ad amarsi qualunque cosa capiti. E  per Rosa è lo stesso, è fatta così, può amarmi solo a certe  condizioni. Ma questo non rende il suo amore per me meno reale.   
  - Per un po' Christoff tacque di nuovo, evidentemente assorto  nei suoi pensieri. La strada fece un'ampia curva, offrendo una  vista a precipizio dalla mia parte. Guardai nella valle sotto di  noi e vidi quel che mi sembrò un ricco sobborgo di case piuttosto  grandi, ciascuna con un bel giardino.  
  - Stavo ripensando, - disse Christoff, - a quando sono arrivato  in questa città. All'eccitazione generale. Alla prima volta che  Rosa mi ha avvicinato nel Palazzo delle Arti -. Tacque di nuovo  per qualche istante, poi proseguì: - Sa, allora non mi facevo  grandi illusioni sul mio conto. Ormai avevo accettato l'idea di  non essere un genio. E neppure una persona particolarmente  dotata. Avevo fatto un po' di carriera, è vero, ma poi erano  successe delle cose che mi avevano aperto gli occhi e fatto  capire i miei limiti. Quando sono arrivato in questa città, avevo  intenzione di vivere tranquillo... ho una piccola rendita  personale... magari dedicandomi un po' all'insegnamento, o a  un'attività del genere. Ma la gente di qui dimostrava un tale  entusiasmo per le mie modeste doti, sembrava così contenta che  fossi arrivato, che dopo un po' ho cominciato a pensare. In fondo  avevo lavorato con impegno, con molto impegno, per venire a patti  con i metodi musicali moderni. Qualcosa ne capivo. Mi sono  guardato intorno e mi sono detto: sì, qui il mio contributo posso  darlo. Mi sono reso conto che in una città come questa, nelle  condizioni di allora, c'era spazio per fare qualcosa, qualcosa di  veramente utile. Be', signor Ryder, sono passati tanti anni, e  sono convinto di avere compiuto un'opera meritoria. Lo credo  sinceramente. Non solo perché me lo dicono i miei protetti... o  meglio, i miei colleghi, gli £amici che fra poco conoscerà anche  lei. No, ne sono convinto, fermamente convinto. La mia opera è  stata meritoria. Ma si sa come vanno le cose in queste città.  Prima o poi nella vita degli abitanti entra un tarlo. Cresce lo  scontento. Cresce la solitudine. E di colpo la gente, che non  capisce niente di musica, si sveglia e dice, oh no, abbiamo  sbagliato tutto. Facciamo il contrario. Ma le ha sentite le  accuse che mi rivolgono? Dicono che la mia tecnica esalta la  meccanicità, che io soffoco i sentimenti naturali. Ah, non  capiscono proprio niente! Come le dimostreremo fra pochissimo,  signor Ryder, mi sono limitato a introdurre una tecnica, un  sistema che permettesse a gente così rozza di accostarsi anche a  musicisti come Kazan e Mullery. Che desse loro modo di scoprire  un significato e un valore nelle loro opere. E le assicuro che,  quando sono arrivato qui, chiedevano a gran voce proprio questo.  Volevano un po' d'ordine, volevano un metodo che fosse alla loro  portata. La gente non sapeva più che pesci prendere, vedeva tutto  crollare. Aveva paura, temeva che la situazione sfuggisse loro di  mano. Ho dei documenti che le farò vedere fra poco. E lei stesso,  ne sono sicuro, si renderà conto di come sia stata fuorviata  l'opinione pubblica. D'accordo, sono un mediocre, questo non lo  nego. Ma vedrà anche lei che ho sempre battuto la strada giusta.  Che quel poco che ho conseguito, anche se non è che un inizio, è  stato utile. Quello di cui c'è bisogno adesso... e spero che lei lo capisca, signor Ryder, perché se lo capirà allora non tutto  sarà perduto... quello di cui c'è bisogno è qualcuno...  d'accordo, più dotato di me... ma qualcuno che continui la mia  opera, che £costruisca su ciò che ho fatto io. Io ho dato il mio  contributo, signor Ryder. Ne ho le prove, e gliele farò vedere  non appena arriviamo.  
  Ci eravamo immessi in un'arteria più grande. La strada era  larga e diritta, e schiudeva dinanzi a noi un vasto settore di  cielo. In lontananza vedevo due pesanti autocarri che viaggiavano  sulla corsia di sorpasso, ma per il resto la strada sembrava  deserta.   
  - Mi auguro che non pensi, signor Ryder, - disse Christoff dopo  un po', - che questo invito a pranzo sia una disperata manovra da  parte mia per riconquistare l'autorità di un tempo. Mi rendo  pienamente conto che la mia posizione personale, ormai, è  insostenibile. E poi, non ho più niente da dare. Ho dato tutto,  tutto quello che avevo, fino all'ultimo, a questa città. Adesso  voglio andarmene lontano, in un posto tranquillo, solo, e non  sentire parlare mai più di musica. I miei protetti, naturalmente,  cadranno nello sconforto quando partirò. Non hanno ancora  accettato la sconfitta. Vogliono che lotti. Basterebbe una mia  parola e si metterebbero all'opera, farebbero di tutto,  andrebbero persino di porta in porta. Ho spiegato loro la  situazione, gliel'ho spiegata con la massima onestà, ma non  riescono ancora a capacitarsi. Per loro è così difficile. Da  troppo tempo mi seguono con devozione, da troppo tempo sono il  loro faro. Cadranno nello sconforto. Ma non cambia nulla, questa  storia deve finire. Voglio che finisca. Anche con Rosa. Per me  ogni minuto del nostro matrimonio è stato prezioso, signor Ryder.  Ma sapere che finirà, e non sapere quando, è terribile. Voglio  metterci subito una pietra sopra. Auguro a Rosa ogni bene. Spero  che si trovi qualcun altro, qualcuno degno di lei. Spero solo che  abbia il buon senso di guardare più in là di questa città. Questo  posto non è in grado di offrirle la persona di cui ha bisogno  come marito. Nessuno qui capisce veramente la musica. Ah, se  avessi il suo genio, signor Ryder! Allora Rosa e io potremmo  invecchiare insieme   
  - Il cielo si era rannuvolato. Il traffico era rado. Di tanto  in tanto raggiungevamo un autocarro diretto lontano, lo  superavamo e riprendevamo la corsa. Ai lati della strada  comparvero fitte foreste, che furono poi sostituite da vaste  pianure coltivate. Sentii tornare la stanchezza degli ultimi  giorni, e mentre osservavo la strada scorrere davanti a noi, non  ebbi difficoltà ad appisolarmi. Poi sentii la voce di Christoff  che diceva: - Oh, eccoci arrivati, - e riaprii gli occhi. 
14.  
  Avevamo rallentato moltissimo e ci stavamo avvicinando a un  piccolo bar, una casetta bianca che sorgeva isolata ai margini  della strada. Era il tipico posto dove uno si immagina che si  fermino i camionisti a mangiare un panino, ma quando Christoff  entrò nel cortile di ghiaia e posteggiò l'automobile vidi che non  c'erano altri veicoli.   
  - $è qui che pranziamo? - domandai.   
  - Sì. Il nostro piccolo circolo, ormai sono anni che ci  riuniamo qui. $è un posto alla buona.   
  Scendemmo dalla macchina e ci dirigemmo verso il bar. Mentre ci  avvicinavamo, vidi che alla tenda erano appesi vivaci cartelli di  cartone che annunciavano diverse offerte speciali.   
  - $è un posto alla buona, - ripeté Christoff, aprendomi la  porta. - La prego di fare come se fosse a casa sua.   
  Dentro, l'arredamento era molto semplice. C'erano grandi finestre panoramiche che giravano tutto intorno alla sala. Qui e  là erano stati attaccati con lo scotch dei manifesti con la  pubblicità di bibite e arachidi. Alcuni erano scoloriti dal sole,  e uno si era trasformato in un semplice rettangolo azzurro. La  luce era cruda nonostante il cielo coperto.   
  C'erano già otto o nove persone sedute ai tavoli in fondo alla  sala. Tutte avevano davanti a sé una scodella fumante che  sembrava contenere purea; stavano mangiando voracemente con  lunghi cucchiai di legno, ma si interruppero e mi fissarono. Una  o due cominciarono ad alzarsi. Christoff salutò allegramente e  fece segno di restare seduti. Poi, rivolgendosi a me, disse:   
  - Come vede, hanno cominciato senza di noi. Ma dato che non  siamo molto puntuali, sono sicuro che li scuserà. Quanto agli  altri, be', penso che non tarderanno. In ogni caso, non  sprechiamo altro tempo. Se viene da questa parte, signor Ryder,  la presenterò ai miei cari amici.   
  Stavo per seguirlo, quando ci accorgemmo che dietro il bancone  c'era un uomo con una folta barba e un grembiule a strisce che ci  faceva dei cenni furtivi.   
  - Va bene, Gerhard, - disse Christoff, girandosi verso l'uomo e  facendo spallucce. - Comincerò da te. Questo è il signor Ryder.   
  L'uomo barbuto mi strinse la mano dicendo: - Un secondo e le  preparo il pranzo. Deve avere una bella fame -. Poi mormorò  rapidamente qualcosa a Christoff, lanciando un'occhiata verso il  fondo del bar.   
  Christoff e io seguimmo lo sguardo dell'uomo barbuto. Come se  stesse aspettando che ci accorgessimo di lui, un signore che fino  a quel momento era rimasto seduto da solo nell'angolo più lontano  si alzò in piedi. Era corpulento, grigio di capelli, intorno ai  cinquantacinque anni, e indossava una camicia e una giacca di un  bianco brillante. Ci venne incontro di qualche passo, si fermò in  centro alla sala e sorrise a Christoff.   
  - Henri, - disse, e sollevò le braccia in segno di saluto.   
  Christoff lo guardò freddamente, poi si girò dall'altra. - Che  cosa ci fai qui? - disse.   
  L'uomo in giacca bianca parve non sentire. - Ti stavo  osservando, Henri, - continuò giovialmente, indicando la  finestra. - Mentre venivi in qua dalla macchina. Cammini ancora a  capo chino. Una volta era una specie di posa, ma adesso sembra  che tu faccia sul serio. Non ce n'è bisogno, Henri. Anche se le  cose ti vanno male, non c'è bisogno di camminare a capo chino.   
  Christoff continuava a dargli la schiena.   
  - Su, Henri. Ti comporti come un bambino.   
  - Te lo ripeto, - disse Christoff. - Non abbiamo niente da  dirci.   
  L'uomo in giacca bianca strinse le spalle e fece qualche passo  verso di noi.   
  - Signor Ryder, - disse, - dal momento che Henri sembra deciso  a non presentarci, mi presenterò da solo. Sono il dottor  Lubanski. Come sa, una volta Henri e io eravamo molto amici. Ma  ora, lo vede anche lei, non mi parla nemmeno.   
  - La tua presenza non è gradita -. Christoff si ostinava a non  guardarlo. - Qui nessuno ti vuole.   
  - Lo vede, signor Ryder? Henri ha sempre avuto un carattere  infantile. $è una cosa così sciocca. Per quanto mi riguarda, ho  accettato ormai da molto tempo che le nostre strade si siano  divise. Una volta eravamo capaci di chiacchierare insieme per ore  e ore. Vero, Henri? Dissezionando questa o quell'opera,  rigirandola da ogni parte davanti a una bella birra, alla  Schoppenhaus. Ricordo ancora con affetto quei giorni. Di tanto in  tanto vorrei persino non avere avuto il lampo di genio di  dissentire. Non mi spiacerebbe ritrovarci questa sera, passare di nuovo ore e ore a discutere e a litigare di musica, o su come hai  intenzione di preparare questo o quell'altro pezzo. Vivo per  conto mio, signor Ryder. E come può immaginare, - l'uomo si  lasciò sfuggire un risolino, - è facile immalinconirsi. Allora  comincio a ripensare a com'erano le cose una volta. E mi dico che  sarebbe bello ritrovarsi con Henri e discutere ancora sulle  partiture che sta preparando. Una volta non faceva niente senza  prima consultarmi. Non era così, Henri? Su, non siamo infantili.  Cerchiamo almeno di comportarci civilmente.   
  - Ma perché proprio oggi? - urlò all'improvviso Christoff. -  Non ti vuole nessuno, qui! Ce l'hanno ancora con te! Non te ne  accorgi! Guardati intorno!   
  Ignorando questo sfogo, il dottor Lubanski attaccò con un'altra  reminiscenza dei tempi in cui lui e Christoff andavano d'accordo.  Ben presto persi il filo della storia, e il mio sguardo cominciò  a vagare sulle persone sedute alle sue spalle, che lo osservavano  nervosamente dai tavoli in fondo al bar.   
  Sembravano tutte sotto i quarant'anni. C'erano tre donne, e  notai che una, in particolare, mi fissava con strana intensità.  Doveva avere poco più di trent'anni, indossava un lungo vestito  nero e portava occhiali con lenti piccole e spesse. Mi sarei  soffermato anche sugli altri con maggiore attenzione, se in quel  momento non mi fossi nuovamente ricordato dei numerosi impegni  che mi attendevano. Era assolutamente necessario che mi  dimostrassi risoluto con i miei attuali ospiti, se non volevo  essere trattenuto oltre il tempo a mia disposizione.   
  Alla prima pausa del dottor Lubanski, sfiorai il braccio di  Christoff, dicendogli sottovoce: - Mi chiedo se gli altri  tarderanno molto.   
  - Be'... - Christoff si guardò intorno. Poi disse: - Forse per  oggi ci siamo tutti.   
  Ebbi l'impressione che sperasse di essere contraddetto. Ma  vedendo che nessuno faceva commenti, si girò verso di me e  proruppe in una breve risata.   
  - Una riunione per pochi intimi, - disse, - ma le assicuro che  qui con noi ci sono... ci sono i cervelli migliori della città. E  adesso, signor Ryder, se permette...   
  Cominciò a presentarmi i suoi amici. Ognuno, quando mi veniva  detto il suo nome, mi rivolgeva un sorriso nervoso e due parole  di saluto. Nel frattempo notai che il dottor Lubanski era tornato  lentamente verso il fondo della sala, senza staccarci gli occhi  di dosso. Alla fine delle presentazioni, scoppiò a ridere  fragorosamente, ottenendo che Christoff si interrompesse e gli  lanciasse un'occhiata gelida e furibonda. Il dottor Lubanski, che  intanto si era riseduto al suo tavolo nell'angolo, rise di nuovo  e disse:   
  - Be', Henri, avrai perso tutto in questi anni, ma non la  faccia tosta. Hai intenzione di raccontare l'intera saga degli  Offenbach al signor Ryder? Al signor £Ryder? - Scosse la testa.   
  Christoff continuò a fissare torvamente l'amico d'un tempo e  parve sul punto di dargli una rispostaccia, ma all'ultimo momento  si girò senza dire nulla.   
  - Buttami fuori, se vuoi, - aggiunse il dottor Lubanski,  ricominciando a mangiare la sua purea. - Ma ho l'impressione che  non tutti qui - e accennò con il cucchiaio alla sala - trovino la  mia presenza così fastidiosa. Perché non mettiamo la cosa ai  voti? E se davvero sono indesiderato, me ne vado senza fare  storie. Che ne dici di votare per alzata di mano?   
  - Se vuoi restare a tutti i costi, non me ne importa niente, -  disse Christoff. - Non mi fa nessuna differenza. Io ho le prove.  Le ho qui con me -. Sollevò una cartellina blu saltata fuori dal  nulla e vi batté sopra con la mano. - Io sono sicuro di avere ragione. Tu fa' quello che ti pare.     Il dottor Lubanski si girò verso gli altri alzando le spalle,  come per dire: - Che cosa si può fare con uno così? - La giovane  donna con le lenti spesse distolse subito lo sguardo, ma la  maggior parte dei suoi compagni apparvero confusi, e un paio si  lasciarono persino sfuggire un timido sorriso.   
  - Signor Ryder, - disse Christoff, - la prego, si metta comodo.  Non appena torna, Gehrard le servirà il pranzo. E adesso, -  Christoff batté le mani e la sua voce assunse il tono di chi si  rivolge a una grande sala, - signore e signori... In primo luogo  voglio ringraziare il signor Ryder da parte di tutti i presenti  per avere accettato di venire a discutere con noi pur avendo  pochi giorni e sicuramente pochissimo tempo...   
  - Hai una bella faccia tosta, - gridò il dottor Lubanski dal  fondo della sala. - Non solo non ti lasci intimidire da me, ma  neppure dal signor Ryder. Davvero una bella faccia tosta, Henri.   
  - Io non mi lascio intimidire, - ribatté Christoff, - perché ho  le prove! Prove incontrovertibili! Le ho qui! Sì, persino il  signor Ryder. Sissignore, - aggiunse rivolgendosi a me, - persino  un uomo della sua fama. Persino lei deve rimettersi ai £fatti!  
  - Be', questo è uno spettacolo che merita, - disse il dottor  Lubanski agli altri. - Un violoncellista di provincia che monta  in cattedra davanti al signor Ryder. Bene, bene, stiamo a  sentire.   
  Per qualche secondo Christoff esitò. Poi aprì la cartellina in  maniera risoluta e disse: - Se mi consentite, comincerò con un  caso specifico che credo ci porterà dritti al cuore della  controversia sulle armonie circolari.   
  Per qualche minuto Christoff tratteggiò a grandi linee la  storia di una famiglia del posto dedita al commercio, sfogliando  il suo fascicolo e leggendo qui e là una citazione o un dato  statistico. Mi parve che presentasse il caso con una certa  competenza, ma nel suo tono c'era qualcosa - l'inutile scansione  delle parole, il ripetere due o tre volte le cose - che presto mi  urtò i nervi. Sì, mi dissi, il dottor Lubanski non aveva tutti i  torti. Non si poteva negare che fosse un po' ridicolo che quel  musicista di provincia fallito pretendesse di montare in  cattedra.   
  - E questa la chiami una prova? - interruppe improvvisamente  Lubanski mentre Christoff leggeva il verbale di una riunione del  consiglio comunale. - Ah ah! Le «prove» di Henri sono proprio  interessanti, vero?   
  - Lasciamolo parlare! Lasciamo che presenti il caso al signor  Ryder!   
  Il giovane che aveva parlato aveva la faccia tonda e una corta  giacchetta di pelle. Christoff gli rivolse un sorriso  d'approvazione. Il dottor Lubanski alzò le mani e disse: - Va  bene, va bene.   
  - Lasciamolo parlare! - ripeté il giovane dalla faccia tonda. -  Poi vedremo. Vedremo che cosa ne pensa il signor Ryder e  finalmente sapremo come stanno le cose per davvero.   
  Christoff ci mise un pezzo a capire il significato di queste  ultime parole. Sulle prime rimase di sasso, con la cartellina fra  le mani. Poi si guardò intorno come se vedesse quelle facce per  la prima volta, e in tutta la sala incontrò solo occhi scrutatori  puntati su di lui. Per un attimo parve sul punto di crollare, poi  abbassò lo sguardo e borbottò, quasi a se stesso:   
  - Questi sono fatti. Ho qui le prove. Potete guardarle anche  voi, esaminarle -. Sbirciò nella cartellina. - Io le sto solo  riassumendo per non dilungarmi. Ecco tutto -. Poi, con uno  sforzo, riacquistò un po' di padronanza. - Signor Ryder, - disse,  - se ha ancora un attimo di pazienza, sono sicuro che presto vedrà le cose con maggiore chiarezza.   
  Christoff riprese la sua esposizione in maniera molto simile a  prima, se si esclude una lieve tensione nella voce. Mentre  parlava, i tornò in mente che la sera precedente avevo rinunciato  a preziose ore di sonno per approfondire le mie ricerche sulle  condizioni locali; che, nonostante la grande stanchezza, ero  andato al cinema e avevo discusso della situazione con i  maggiorenti della città. Il fatto che Christoff continuasse a  dare per scontata la mia ignoranza - in quel momento, per  esempio, si era lanciato in una lunga digressione per spiegare un  punto che mi era del tutto ovvio - mi stava portando  all'esasperazione.   
  Apparentemente, non ero il solo a provare insofferenza.  Parecchi altri si dimenavano a disagio sulla sedia. Notai che la  giovane donna con le lenti spesse guardava torva ora Christoff  ora me. Parecchie volte mi parve che stesse per interrompere. Ma  alla fine fu un uomo con i capelli cortissimi seduto da qualche  parte alle mie spalle che intervenne.   
  - Un momento, aspetta un momento. Prima di continuare chiariamo  una cosa. Una volta per tutte.   
  Di nuovo dall'angolo più lontano del bar giunse la risata del  dottor Lubanski. - Claude e la sua triade pigmentata! Non ti sei  ancora messo il cuore in pace?   
  - Claude, - disse Christoff, - non mi sembra questo il  momento...   
  - No! Visto che il signor Ryder è qui, voglio definire la  questione.   
  - Claude, non è il caso di tornare su quell'argomento. Sto  presentando dei fatti per dimostrare...   
  - Sarà una stupidaggine. Ma chiariamola una volta per tutte.  Signor Ryder, signor Ryder, secondo lei è vero che le triadi  pigmentate hanno una carica emotiva intrinseca indipendente dal  contesto? Lei ne è convinto?   
  Sentii tutti gli sguardi puntati su di me. Christoff mi lanciò  una rapida occhiata, a metà fra il supplichevole e lo spaventato.  Ma dato l'ardore con cui mi era stata posta la domanda - per non  parlare del presuntuoso atteggiamento di Christoff fino a quel  momento - non vidi alcuna ragione per non rispondere con la  massima schiettezza. Così dissi:  
  - Le triadi pigmentate non hanno alcuna proprietà emotiva  intrinseca. Anzi le loro sfumature emotive possono cambiare  notevolmente non solo secondo il contesto, ma anche secondo il  volume. Questa, almeno, è la mia opinione personale.  
  Nessuno fiatò, ma si vedeva che la mia affermazione aveva 
   avuto l'effetto di un maglio. A uno a uno, gli sguardi si  indurirono e si girarono verso Christoff, che nel frattempo  fingeva di darsi da fare con la sua cartellina. Poi l'uomo  chiamato Claude disse con voce pacata:   
  - Lo sapevo. L'ho sempre saputo.   
  - Ma lui ti ha convinto che sbagliavi, - disse il dottor  Lubanski. - Ti ha costretto a credere che avevi torto.   
  - Che cosa c'entra questo adesso? - strillò Christoff. - Senti,  Claude, ci stai portando completamente fuori strada. E il signor  Ryder ha pochissimo tempo. Dobbiamo tornare al caso Offenbach.   
  Ma Claude sembrava sprofondato nei suoi pensieri. Alla fine si  girò verso il dottor Lubanski, che annuì con il capo e gli  sorrise con aria grave.   
  - Il signor Ryder ha pochissimo tempo, - ripeté Christoff. -  Quindi, se me lo consentite, cercherò di riassumere il mio  ragionamento.   
  Christoff cominciò a esaminare quelli che considerava i punti  chiave della tragedia della famiglia Offenbach. Ostentava un atteggiamento disinvolto, anche se era chiaro a tutti che aveva  accusato il colpo. In ogni caso, io smisi quasi subito di  prestargli attenzione, perché la sua osservazione sulla scarsità  del mio tempo mi aveva fatto ricordare all'improvviso che Boris  stava aspettandomi nel piccolo caffè.   
  Mi resi conto che era trascorso un tempo notevole da quando  l'avevo lasciato laggiù. Vidi nella mia mente l'immagine del  bambino poco dopo la mia partenza, seduto nel suo angolo con la  bibita e la torta di ricotta, tutto trepidante al pensiero della  gita imminente. Lo vidi scrutare allegramente gli altri avventori  seduti nel cortile pieno di sole, lanciare di tanto in tanto  un'occhiata al traffico in strada, dicendosi che presto anche lui  sarebbe stato là fuori diretto alla meta. Avrebbe ripensato al  vecchio alloggio, all'armadio nell'angolo del soggiorno dove, ne  era sempre più sicuro, aveva lasciato la scatola con Numero Nove.  Poi, con il passare dei minuti, i dubbi che erano sempre rimasti  in agguato dentro di lui, quei dubbi che fino a quel momento  aveva seppellito con cura, sarebbero tornati strisciando in  superficie. Ma lui, ancora per un po', sarebbe riuscito a non  perdersi d'animo. Avevo avuto un semplice contrattempo. O forse  ero andato a comprare qualcosa per il picnic. D'altronde, il  giorno era ancora lungo. Poi la cameriera, la scandinava  grassottella, gli avrebbe chiesto se voleva ancora qualcosa, con  un filo di inquietudine che a Boris non sarebbe sfuggito. Il  bambino avrebbe finto di nuovo di non essere preoccupato, forse  avrebbe spavaldamente chiesto un altro bicchiere di frullato. Ma  i minuti continuavano a scorrere. Boris avrebbe notato, fuori nel  cortile, che certi avventori arrivati molto dopo di lui  ripiegavano il giornale, si alzavano, se ne andavano. Avrebbe  visto il cielo annuvolarsi, la mattina diventare pomeriggio.  Avrebbe ripensato al vecchio appartamento tanto amato,  all'armadio del soggiorno, a Numero Nove, e piano piano, mentre  mangiucchiava le ultime briciole di torta, avrebbe cominciato a  rassegnarsi all'idea di essere stato abbandonato ancora una  volta, di dovere, alla fin fine, rinunciare alla gita.   
  Parecchie voci stavano urlando intorno a me. Un giovanotto con  un vestito verde si era alzato in piedi e cercava di far sentire  le sue ragioni a Christoff, mentre almeno altre tre persone  agitavano il dito per sottolineare qualcosa.   
  - Ma è irrilevante, - stava urlando Christoff più forte di  tutti. - E poi, non è che l'opinione personale del signor  Ryder...   
  Questa frase provocò una reazione furibonda. Quasi tutti  cercarono di rispondergli contemporaneamente, ma alla fine  Christoff riuscì di nuovo a farsi sentire sopra le grida.   
  - Sì! Sì! So benissimo chi è il signor Ryder! Ma le condizioni  locali, le condizioni locali, sono tutt'altra cosa! Lui non  conosce ancora la nostra particolare situazione! Mentre io... ho  qui...   
  Il resto della frase si perse nella baraonda, ma Christoff  sollevò in alto la cartellina blu e la sventolò sopra la testa.   
  - Che faccia tosta! Che faccia tosta! - gridava il dottor  Lubanski dal fondo della sala, ridendo.   
  - Con tutto il rispetto, signor Ryder, - disse Christoff,  questa volta rivolgendosi a me, - con tutto il rispetto, mi  stupisce che le interessi così poco conoscere la situazione  locale. Anzi, sono £meravigliato, sì, £meravigliato che, a  dispetto di tutta la sua competenza, lei balzi subito alle  conclusioni...  
  Si levò un nuovo coro di proteste, più furibondo che mai.   
  - Per esempio... - strillò Christoff per farsi sentire. - Per  esempio, mi ha molto stupito che lei abbia acconsentito a farsi fotografare dalla stampa davanti al monumento di Sattler!   
  Con mia grande costernazione, queste parole provocarono un  improvviso silenzio.   
  - Sì! - Christoff era palesemente soddisfatto dell'effetto  ottenuto. - Sì! L'ho visto con i miei occhi! Quando sono andato a  prenderlo questa mattina. Era proprio davanti al monumento di  Sattler. Sorrideva e lo mostrava a gesti!   
  Il silenzio esterrefatto si protrasse. Alcuni dei presenti  cominciarono a dare segni d'imbarazzo, mentre altri - tra i quali  la giovane donna con le lenti spesse - mi fissavano con sguardo  interrogativo. Sorrisi, e stavo per dire qualcosa quando il  dottor Lubanski, questa volta in tono serio e autoritario,  intervenne dal fondo:   
  - Se il signor Ryder ha scelto di compiere un simile gesto, può  significare una sola cosa. E cioè che siamo stati indotti in un  errore ancora più grave di quanto sospettassimo.   
  Poi si alzò e si avvicinò di qualche passo al nostro gruppo, e  tutti si girarono verso di lui. Il dottor Lubanski si fermò e  inclinò la testa come se stesse ascoltando i lontani rumori del  traffico. Poi proseguì:   
  - Che ciascuno di noi rifletta attentamente su questo messaggio  e ne faccia tesoro. Il monumento di Sattler! Ma certo, il signor  Ryder ha ragione! Non c'è nulla di esagerato in questo, proprio  nulla! Ma non vedete che cercate ancora di aggrapparvi alle  stupide opinioni di Henri? La verità è che persino quelli fra noi  che le hanno smascherate, persino noi, continuiamo a cascarci. Il  monumento di Sattler! Sì, eccoci serviti. Questa città è  sull'orlo del baratro. Sull'orlo del baratro!   
  Fui contento che il dottor Lubanski avesse messo subito in  evidenza l'assurdità delle parole di Christoff, sottolineando  allo stesso tempo il messaggio forte che avevo voluto inviare  alla città. Ma ormai ero troppo indignato con Christoff, e mi  dissi ch'era giunto il momento di stracciarlo. Purtroppo, tutti  stavano di nuovo urlando. L'uomo chiamato Claude picchiava il  pugno sul tavolo cercando di far intendere ragione a un tizio  brizzolato con le bretelle e gli stivali sporchi di fango. Almeno  quattro persone, da diversi punti della sala, inveivano contro  Christoff. La situazione era prossima al caos; pensai che tanto  valeva togliere il disturbo. Ma nell'istante in cui mi alzai, la  giovane donna con le lenti spesse si materializzò davanti a me.   
  - Signor Ryder, ce lo dica lei per piacere. Andiamo a fondo  della cosa. Henri ha ragione quando sostiene che non possiamo  assolutamente abbandonare la dinamica circolare in Kazan?   
  Non aveva parlato forte, ma la sua voce era penetrante. Tutti  udirono la domanda e tacquero immediatamente. Qualcuno dei suoi  compagni la fissò sorpreso, ma lei respinse le occhiate con aria  di sfida.   
  - No, io glielo chiedo, - disse. - Questa è un'occasione unica.  Non possiamo sprecarla. Io glielo chiedo. Ce lo dica lei, per  piacere, signor Ryder.   
  - Ma io ho le prove, - bofonchiò Christoff miseramente. - Qui,  sono tutte qui.   
  Nessuno gli prestò attenzione, perché gli sguardi dei presenti  erano di nuovo puntati su di me. Capii di dover scegliere con  cura le mie prossime parole e feci una breve pausa. Poi dissi:   
  - La mia opinione è che Kazan non ci guadagna mai dalle  limitazioni formali. Né dalla dinamica circolare, né da una  struttura a doppia battuta. Vedete, ci sono troppi strati, troppe  emozioni, soprattutto nelle opere dell'ultimo periodo.   
  Mi parve di sentire, quasi fisicamente, l'ondata di rispetto  che si frangeva contro di me. L'uomo con la faccia tonda mi  guardava con un'espressione molto simile allo sgomento. Una donna che indossava una giacca a vento scarlatta continuava a  mormorare: - Ecco, ecco, - come se avessi appena pronunciato  qualcosa che la sua mente si sforzava di formulare da anni.  L'uomo chiamato Claude si era alzato in piedi e aveva fatto  qualche passo verso di me annuendo energicamente. Anche il dottor  Lubanski annuiva, ma piano piano, con gli occhi chiusi, come per  dire: «Sì, sì, ecco finalmente qualcuno che se ne intende». La  giovane donna con le lenti spesse, invece, era rimasta immobile e  continuava a squadrarmi.   
  - Posso capire, - proseguii, - la tentazione di ricorrere a  questi stratagemmi. $è naturale che il musicista abbia paura che  la musica sommerga le sue capacità. Ma sicuramente bisogna  accettare la sfida, non ricorrere a limitazioni. Naturalmente, se  la sfida è superiore alle nostre forze, il consiglio è di  lasciare Kazan in santa pace. E in ogni caso non si dovrebbe mai  tentare di trasformare in virtù i propri limiti.  
  A quest'ultima osservazione, molti in sala non riuscirono più a  trattenersi. L'uomo brizzolato con gli stivali infangati proruppe  in un vigoroso applauso, guardando Christoff come se volesse  morderlo. Parecchi altri si misero di nuovo a inveire contro  Christoff, e la donna con la giacca a vento scarlatta ricominciò  a ripetere, questa volta a voce più alta: - Ecco, ecco, ecco -.  Mi sentii stranamente inebriato e, alzando la voce per farmi  sentire nel crescente tumulto, continuai:   
  - Questa mancanza di coraggio, nella mia esperienza, è molto  spesso legata ad altre sgradevoli caratteristiche. A un'ostilità  verso il tono introspettivo, quasi sempre accompagnata da un  impiego smodato della cadenza frantumata. A una predilezione per  l'inutile accoppiamento di passaggi frammentati. E su un piano  più personale, a una megalomania che tenta di celarsi dietro  maniere modeste e garbate...   
  Fui costretto a interrompermi perché tutti, ormai, inveivano  contro Christoff, il quale, a sua volta, tenendo alta la  cartellina blu e sfogliandone le pagine per aria, urlava: - Le  prove sono qui! Qui!   
  - Naturalmente, - strillai per sovrastare il chiasso, - questo  è un altro tipico errore. Credere che basti mettere qualcosa in  una cartellina per trasformarlo in prova!   
  Le mie parole furono accolte da una fragorosa risata, sotto la  quale si intuiva che era pronta a scatenarsi la rabbia. Poi la  giovane donna con le lenti spesse si alzò e si avvicinò a  Christoff. Lo fece con estrema calma, violando il piccolo spazio  vuoto che fino a quel momento era stato mantenuto intorno al  violoncellista.   
  - Vecchio idiota, - gli disse, e di nuovo la sua voce  penetrante si udì chiaramente nel clamore. - Ci hai trascinati  tutti giù con te -. Poi, quasi con ponderatezza, lo colpì sulla  guancia con il rovescio della mano.   
  Vi fu un attimo di stupore. Poi all'improvviso tutti si  alzarono dalle sedie e cominciarono a spingersi a vicenda per  avvicinarsi a Christoff, evidentemente colti dal desiderio di  seguire al più presto l'esempio della giovane donna. Mi accorsi  che qualcuno mi stava scuotendo la spalla, ma in quel momento ero  troppo preso dallo spettacolo per farci caso.   
  - No, no, basta così! - Il dottor Lubanski, non so come, era  riuscito a raggiungere Christoff per primo e aveva alzato le  braccia. - No, lasciate stare Henri! Ma che cosa vi salta in  mente? Basta così!   
  Probabilmente fu solo grazie all'intervento del dottor Lubanski  che Christoff si salvò dall'assalto generale. Vidi ancora di  sfuggita la sua faccia sconvolta e spaventata, poi il cerchio di  persone inferocite si richiuse su di lui nascondendomelo alla vista La mano stava di nuovo scuotendomi la spalla; mi girai e  vidi l'uomo barbuto - quello con il grembiule, che si chiamava  Gerhard - che teneva in mano una scodella di purea fumante.   
  - Vuole mangiare, signor Ryder? - mi domandò. - Mi scusi se è  un po' tardi. Ma vede, abbiamo dovuto farne un'altra pentolata.   
  - La ringrazio molto, - dissi, - ma devo proprio andare. C'è il  mio bambino che mi aspetta -. Poi, dopo che ci fummo allontanati  un po' dal chiasso, aggiunsi: - Mi potrebbe portare dall'altra? -  In quel momento, infatti, mi ero ricordato che il bar in cui mi  trovavo e quello in cui avevo lasciato Boris erano entrambi nello  stesso edificio; il locale era di quelli con due sale  contrapposte, che danno su strade parallele e soddisfano diversi  tipi di clientela.  
  - L'uomo barbuto fu chiaramente deluso dal mio rifiuto di  pranzare, ma si riprese in fretta e disse: - Ma certamente,  signor Ryder. Venga che l'accompagno.   
  Lo seguii dietro il banco. Qui Gerhard aprì una porticina e mi  fece cenno di precederlo. Mentre entravo, mi girai un'ultima  volta e vidi l'uomo con la faccia tonda che sventolava la  cartellina blu di Christoff in piedi su un tavolo. Adesso le  grida di rabbia erano frammiste a grandi risate; sentii la voce  del dottor Lubanski che, un po' commossa, supplicava: - No, Henri  ha già avuto quel che si meritava! Vi prego, vi prego! Basta  così!   
  Mi trovai in una vasta cucina interamente piastrellata di  bianco. C'era un forte odore di aceto; con la coda dell'occhio  scorsi un donnone chino su un fornello sfrigolante, ma l'uomo  barbuto aveva già attraversato la stanza e stava aprendo un'altra  porta nell'angolo opposto.   
  - Da questa parte, signore, - mi disse, mostrandomi la strada.   
  La porta era stranamente piccola e stretta. Anzi, era così  stretta che per passare mi sarei dovuto mettere di traverso.  Inoltre, quando vi sbirciai dentro, vidi solo buio; tutto  lasciava pensare che stessi guardando in un armadio delle scope.  Ma l'uomo barbuto mi fece nuovamente cenno di entrare e disse:   
  - Mi raccomando, faccia attenzione ai gradini, signor Ryder.   
  Solo allora notai che subito oltre la soglia c'erano tre  gradini; sembravano fatti con casse di legno inchiodate l'una  sull'altra. Mi infilai nella porta e li salii a uno a uno con  cautela. Quando giunsi in cima, scorsi davanti a me un piccolo  rettangolo di luce. Lo raggiunsi in due passi e mi trovai a  guardare attraverso un pannello di vetro in una sala illuminata  dal sole. Vidi tavoli e sedie, e riconobbi la sala dove avevo  lasciato Boris quella mattina. Vidi anche la giovane cameriera  paffuta - stavo osservando la sala dalla parete dietro il banco -  e, in un angolo, Boris, con gli occhi persi nel vuoto e l'aria  imbronciata. Aveva finito la sua torta di ricotta e faceva  scorrere distrattamente la forchetta avanti e indietro sulla  tovaglia. Se si esclude una giovane coppia seduta accanto alle  finestre, il bar era vuoto.  
  Mi sentii spingere sul fianco e mi accorsi che l'uomo barbuto  si era intrufolato alle mie spalle e, dopo essersi accucciato nel  buio, armeggiava con un mazzo di chiavi. Un attimo dopo l'intera  parete divisoria si aprì davanti a me, e con un passo fui nel  bar.   
  La cameriera si girò e mi sorrise. Poi chiamò Boris: - Ehi,  guarda un po' chi c'è!   
  Boris si voltò verso di me con la faccia lunga. - Dove sei  stato? - domandò. - Non tornavi più.   
  - Scusami tantissimo, Boris, - dissi. Poi chiesi alla  cameriera: - Si è comportato bene?  
  - Oh, è un amore. Mi ha raccontato tutto del posto dove  vivevate. Nel complesso residenziale vicino al lago artificiale.   
  - Ah, sì, - dissi. - Il lago artificiale. Sì, stavamo giusto  andandoci.   
  - Non tornavi più! - disse Boris. - Adesso faremo tardi!   
  - Scusami tantissimo, Boris. Ma non preoccuparti, c'è ancora  tempo. E poi il vecchio appartamento non scappa mica, no? Però  hai ragione, dobbiamo muoverci. Vediamo un po' -. Mi girai verso  la cameriera, che aveva cominciato a parlare con l'uomo barbuto.  - Mi scusi, sa dirmi il modo più facile per andare a questo lago  artificiale?   
  - Il lago artificiale? - La cameriera indicò fuori della  finestra. - Vede l'autobus che sta aspettando là fuori? Quello vi  porta dritti laggiù.   
  Seguii con gli occhi la direzione del suo dito e, oltre gli  ombrelloni del cortile, vidi un autobus posteggiato più o meno  davanti a noi nella strada piena di traffico.   
  - $è lì da un pezzo, ormai, - proseguì la cameriera. - Quindi  vi conviene sbrigarvi. Credo che debba partire da un momento  all'altro.   
  La ringraziai e, facendo segno a Boris di seguirmi, uscii nella  luce del sole.  
15.  
  Quando salimmo, l'autista stava accendendo il motore. Mentre  compravo i biglietti, vidi che l'autobus era molto pieno e, un o'  inquieto, osservai:   
  - Spero di potermi sedere vicino al bambino.   
  - Oh, non si preoccupi, - disse l'autista. - $è brava gente.  Lasci fare a me.   
  Poi si girò e urlò qualcosa. Fino a quel momento c'era stata  un'atmosfera chiassosa e insolitamente allegra, ma di colpo calò  il silenzio. Poi, in tutto l'autobus, i passeggeri cominciarono  ad alzarsi dai sedili, a gesticolare, a indicare di qui e di là  con il dito, a discutere quale fosse la sistemazione migliore per  noi. Una donna corpulenta si sporse nel corridoio centrale e ci  chiamò: - Venite qui! Potete sedervi qui! - Ma una seconda voce  da un altro punto dell'autobus gridò: - Se ha un bambino piccolo,  è meglio qui, così non patirà. Io mi sposto vicino al signor  Hartmann -. Poi le consultazioni parvero ricominciare da capo.   
  - Vede, è brava gente, - disse tutto allegro l'autista. - Ai  nuovi venuti viene sempre riservata un'accoglienza speciale.  Bene, se vuole essere così gentile da sedersi, possiamo andare.   
  Boris e io ci dirigemmo in tutta fretta verso due passeggeri in  piedi che ci stavano indicando i nostri posti. Lasciai Boris  accanto al finestrino e mi sedetti nel preciso istante in cui  l'autobus partiva.   
  Quasi subito mi sentii battere sulla spalla, e dal sedile  dietro al nostro qualcuno si sporse per offrire un pacchetto di  caramelle.   
  - Crede che al bambino possano fare piacere? - domandò una voce  maschile.   
  - Grazie, - dissi. Poi più forte, in modo che mi sentissero in  tutto l'autobus, aggiunsi: - Grazie. Grazie a tutti. Siete stati  di una cortesia esemplare.   
  - Guarda! - Boris, eccitato, mi afferrò il braccio. - Stiamo  prendendo l'uscita nord della città.  
  Prima che potessi rispondergli, vidi comparire al mio fianco  una donna di mezza età. Tenendosi al poggiatesta del mio sedile  per non cadere, ci porse una fetta di torta su un tovagliolino di  carta.   
  - C'è un signore là dietro che l'ha avanzata, - disse. - Chissà se il bambino la vuole?   
  Accettai con riconoscenza, ringraziando di nuovo tutto  l'autobus. Poi, mentre la donna si dileguava, sentii una voce un  paio di file più indietro che diceva: - $è bello vedere un padre  e un figlio che vanno così d'accordo. Guardateli, si fanno una  gitarella per conto loro. $è uno spettacolo che oggi si vede  troppo di rado.   
  A queste parole provai un impeto di orgoglio e lanciai  un'occhiata a Boris. Forse anche lui aveva sentito, perché mi  rivolse un sorriso in cui c'era qualcosa di più di una semplice  punta di complicità.   
  - Boris, - dissi, porgendogli la torta, - non è fantastico  questo autobus? Valeva la pena aspettare, non ti sembra?   
  Boris sorrise di nuovo, ma stava esaminando la sua fetta e non  disse nulla.   
  - Boris, - proseguii, - è un pezzo che volevo dirtelo. Perché  ogni tanto potrebbero venirti dei dubbi. Sai, non avrei mai  potuto desiderare niente di meglio... - Scoppiai improvvisamente  a ridere. - Ti sembrerà cretino. Ma quello che voglio dire è che  sono felice di come sei. E felice di essere qui con te -. Risi di  nuovo. - Non ti piace questo viaggio in autobus?   
  Boris annuì con la bocca piena di torta. - Buona, - disse.   
  - Io me lo sto proprio godendo. E che persone gentili.   
  In fondo all'autobus qualche passeggero si mise a cantare.  Provai un grande rilassamento e mi abbandonai sul sedile. Il  cielo era di nuovo nuvoloso. Stavamo ancora attraversando una  zona piena di case, ma mentre guardavo fuori vidi sfilare due  cartelli stradali, l'uno dopo l'altro, che dicevano: «Uscita  nord».   
  - Mi scusi, - disse una voce maschile da qualche parte alle  nostre spalle. - Ma ho sentito che diceva all'autista che vuole  andare al lago artificiale. Spero che laggiù non faccia troppo  freddo. Se cerca solo un posto carino dove passare il pomeriggio,  le consiglio di scendere un paio di fermate prima, ai Giardini  Maria Christina. C'è uno stagno dove si può andare in barca, e  credo che al bambino piacerebbe.   
  Chi parlava era seduto proprio dietro di noi, ma lo schienale  dei sedili era molto alto; per quanto mi girassi e allungassi il  collo, non riuscivo a vederlo bene in faccia. In ogni caso lo  ringraziai per il suggerimento - offerto sicuramente con le  migliori intenzioni - e cominciai a spiegare lo scopo un po'  speciale della nostra visita al lago artificiale. Non avevo  alcuna intenzione di scendere nei particolari, ma quand'ebbi  cominciato a parlare mi sentii quasi costretto a continuare da  quell'atmosfera conviviale. Devo dire che in realtà fui molto  soddisfatto dal tono perfettamente equilibrato che ero riuscito a  dare al mio discorso, a metà fra il serio e il faceto. Inoltre,  dai mormorii che udivo alle mie spalle, capii che il passeggero  stava ascoltando con grande sensibilità e partecipazione. Fatto  sta, che presto mi ritrovai a spiegare chi era Numero Nove e  perché fosse così importante. Avevo appena cominciato a  raccontare come mai Boris l'avesse dimenticato nella scatola,  quando il passeggero mi interruppe con un colpetto di tosse.  
  - Mi scusi, - disse, - ma è quasi inevitabile che una gita di  questo genere provochi una certa agitazione. $è più che naturale.  Ma se mi permette, credo che abbiate tutte le ragioni di essere  ottimisti -. Probabilmente il signore si era chinato in avanti,  perché adesso la voce, calma e carezzevole, veniva da un punto a  metà tra la spalla di Boris e la mia. - Sono sicuro che troverete  il vostro Numero Nove. Anche se ovviamente in questo momento  siete un po' preoccupati. Può essere successo di tutto, starete  pensando. Ed è normale. Ma da ciò che mi avete raccontato, sono sicuro che andrà a finire bene. Naturalmente, quando busserete  alla porta, i nuovi inquilini potrebbero non riconoscervi ed  essere un po' sospettosi. Ma quando avrete spiegato chi siete,  senza dubbio vi faranno entrare. Se viene ad aprirvi la moglie,  dirà: «Oh, finalmente! Ci chiedevamo proprio quando sareste  venuti». Sì, sono sicuro che dirà così. Poi si girerà e griderà  al marito: «$è il bambino che abitava qui!» Allora arriverà anche  il marito, un signore dall'aria affabile, che magari in quel  momento stava dando il bianco alle pareti. E vi dirà: «Be', era  ora. Entrate a prendere una tazza di tè». Poi vi farà passare in  salotto, mentre sua moglie scapperà in cucina a preparare la  merenda. Voi noterete subito che la casa è molto cambiata da  quando ci vivevate voi; il nuovo inquilino se ne accorgerà, e  sulle prime si sentirà un po' in colpa. Ma non appena gli avrete  chiarito che non gli serbate rancore per i cambiamenti, sono  sicuro che vi farà visitare l'alloggio da cima a fondo,  mostrandovi le varie modifiche, tutte cose che ha fatto con le  sue mani e di cui è fierissimo. Poi la moglie porterà in salotto  il tè e qualche pasticcino casalingo; allora vi siederete e,  mangiando e bevendo piacevolmente, ascolterete la coppia cantarvi  le lodi della casa e del complesso residenziale. Nel frattempo,  naturalmente, sarete tutti e due un po' in ansia per Numero Nove,  e aspetterete il momento adatto per spiegare lo scopo della  vostra visita. Ma credo che saranno i vostri ospiti a parlarne  per primi. Dopo un po' che chiacchierate e bevete tè, la moglie  dirà: «Siete per caso venuti a cercare qualcosa? Qualcosa che  avevate dimenticato?» E a questo punto potrete tirare fuori la  storia di Numero Nove e della scatola. E allora lei, senza  dubbio, dirà: «Oh, sì, abbiamo messo la scatola in un posto  sicuro. Avevamo capito che era importante». E prima ancora di  avere finito la frase, farà un piccolo cenno al marito. Magari  neppure un cenno, mogli e mariti diventano quasi telepatici  quando sono vissuti felicemente insieme per tanti anni come quei  due. Questo non vuol dire, naturalmente, che non litighino mai.  Oh, no. Magari litigano spesso, magari in tutti questi anni hanno  anche attraversato dei momentacci in cui non andavano per niente  d'accordo. Ma vedrete voi stessi, quando li conoscerete; vedrete  che in queste coppie le cose alla fine si aggiustano, e moglie e  marito, sostanzialmente, stanno benissimo insieme. Ebbene, il  marito andrà a prendere la scatola nel posto dove tengono le cose  di valore e la porterà in salotto. Magari sarà avvolta nella  carta velina. E naturalmente voi la aprirete subito, e il vostro  Numero Nove sarà lì, esattamente come l'avevate lasciato, con la  base da incollare. Allora potrete richiudere la scatola, e quella  simpatica coppia vi offrirà un'altra tazza di tè. Dopo un po'  direte che dovete proprio andare, che avete già approfittato  abbastanza della loro cortesia. Ma la moglie insisterà perché  prendiate un'altra fetta di torta. E il marito vorrà farvi fare  ancora una volta il giro dell'alloggio perché vediate come ha  dato bene il bianco. Alla fine vi saluteranno dalla porta di casa  sventolando la mano, dicendovi di tornare a trovarli la prossima  volta che passerete di lì. Naturalmente, non è detto che vada  esattamente così, ma da quello che mi avete raccontato sono  sicuro, nel complesso, di non sbagliarmi molto. Quindi non avete  nessun bisogno di preoccuparvi, nessun bisogno...   
  Quella voce nell'orecchio, unita al dolce rollio dell'autobus  che viaggiava sulla strada statale, ebbe un effetto  straordinariamente distensivo. Avevo già chiuso gli occhi poco  dopo che l'uomo si era messo a parlare, e più o meno a questo  punto mi abbandonai sul sedile e mi appisolai felicemente.   
  Boris mi stava scuotendo la spalla. - Dobbiamo scendere, - diceva.   
  Improvvisamente sveglio, vidi che l'autobus si era fermato e  che eravamo gli unici passeggeri rimasti a bordo. L'autista si  era alzato in piedi e aspettava pazientemente che scendessimo.  Mentre ci avviavamo lungo il corridoio, ci disse:   
  - Riguardatevi. Fa un bel freddo fuori. Quel lago, secondo me,  dovrebbero interrarlo. Dà solo fastidio, e ogni anno ci annegano  in parecchi. Certo, in qualche caso si tratta di suicidi, ma  forse, se non ci fosse il lago, sceglierebbero un metodo meno  sgradevole per ammazzarsi. Secondo me, dovrebbero interrarlo.   
  - Sì, - dissi. - $è naturale che il lago susciti polemiche. Ma  io non sono di queste parti e preferisco non immischiarmi.   
  - Molto saggio. Be', buona giornata -. Poi, salutando Boris,  aggiunse: - E divertiti, giovanotto.  
  Scendemmo e, mentre l'autobus si allontanava, ci guardammo  intorno. Ci trovavamo sul margine esterno di un grande bacino di  cemento. Un po' più in là, al centro del bacino, c'era il lago  artificiale; con quella sua forma a rene, sembrava una versione  gigantesca delle volgari piscine che un tempo erano prerogativa  dei divi di Hollywood. Non potei fare a meno di ammirare con  quanta fierezza il lago - anzi, l'intero complesso - proclamasse  la sua artificialità. Non c'era traccia d'erba. Persino gli esili  alberelli sparsi sui pendii di cemento erano ben racchiusi in  vasi di ghisa e inseriti con precisione nel rivestimento  artificiale. Tutto intorno a noi, le innumerevoli e identiche  finestre dei condomini sembravano contemplare la scena dall'alto.  Notai che la facciata di ogni edificio era lievemente convessa,  per ottenere un effetto di circolarità ininterrotta che ricordava  gli spalti di uno stadio. Ma sebbene fossimo letteralmente  circondati da appartamenti - almeno quattrocento, calcolai - non  si vedeva quasi anima viva. Scorsi un paio di persone che  camminavano di buon passo sulla sponda opposta del lago - un uomo  con un cane, una donna con una carrozzina - ma evidentemente  nell'aria c'era qualcosa che invitava a starsene chiusi in casa.  Come ci aveva preannunciato l'autista, il clima non giovava.  Appena arrivati, fummo subito investiti da una gelida raffica  proveniente dal lago.   
  - Su, Boris, - dissi, - meglio affrettarci.   
  Il bambino sembrava avere perso ogni entusiasmo e fissava il  lago con aria assente. Non si mosse. Mi diressi verso il  condominio alle nostre spalle, sforzandomi di camminare con passo  scattante, ma subito mi venne in mente che in quel complesso  sterminato non sarei mai riuscito a trovare il nostro alloggio.   
  - Boris, perché non fai strada tu? Su, che cosa ti prende?   
  Il bambino tirò un sospiro, poi s'incamminò. Lo seguii su per  un'interminabile gradinata di cemento. A un certo punto, mentre  svoltavamo per affrontare una nuova rampa, Boris lanciò un grido  e si irrigidì in una posa da arti marziali. Sussultai, ma mi  accorsi subito che l'assalitore era solo nella sua immaginazione.  Mi limitai a dire:   
  - Bravo, Boris.   
  Da quel momento il bambino ripeté l'urlo e la mossa ogni volta  che le scale cambiavano direzione. Poi, con mio grande sollievo,  visto che cominciavo a sbuffare, Boris abbandonò le scale e  imboccò una specie di lungo ballatoio orizzontale. Dall'alto, la  forma a rene del lago era ancora più evidente. Il cielo era  lattiginoso, e sebbene il ballatoio fosse coperto - dovevano  essercene almeno altri due o tre direttamente sopra di noi - il  riparo era scarso e le folate di vento ci investivano con forza  selvaggia. Alla nostra sinistra c'erano gli appartamenti; una  serie di brevi scale di cemento simili a ponticelli gettati su un  fossato collegava il ballatoio al corpo dell'edificio. Alcune delle scale salivano, altre scendevano. Mentre procedevamo,  cominciai a studiare con cura le porte, ma dopo qualche minuto,  visto che nessuno di quegli ingressi mi risvegliava il minimo  ricordo, rinunciai e guardai il panorama del lago.   
  Nel frattempo Boris mi precedeva baldanzosamente di qualche  passo; sembrava di nuovo eccitato per la nostra avventura. Aveva  cominciato a bisbigliare tra sé e sé, e quanto più camminavamo  tanto più i suoi bisbigli aumentavano d'intensità. A un certo  punto, senza mai fermarsi, si mise a saltare e a menare colpi di  karatè nell'aria; ogni volta che ricadeva a terra il rumore dei  suoi piedi rimbombava sul ballatoio. Visto però che aveva smesso  di gridare come sulle scale, e che non avevamo ancora incontrato  anima viva, pensai che non fosse il caso di redarguirlo.   
  Dopo un po' abbassai gli occhi sul lago e mi accorsi con  stupore che l'angolazione era notevolmente cambiata. Solo allora  mi resi conto che quella specie di ballatoio faceva il giro di  tutto il complesso. Avremmo potuto camminare in tondo  all'infinito. Guardai Boris, che mi precedeva di corsa  gesticolando come un matto, e mi chiesi se sapesse davvero la  strada. Avevo fatto le cose proprio male, pensai. Avrei dovuto  cercare almeno di avvisare i nuovi inquilini. In fondo, a ben  rifletterci, non c'era motivo perché dovessero accoglierci con  particolare entusiasmo. Cominciai a vedere l'intera spedizione  sotto una luce pessimistica.   
  - Boris, - gridai, - spero che tu stia facendo attenzione.  Cerca di non oltrepassare l'appartamento.   
  Il bambino si voltò a guardarmi senza interrompere i suoi  feroci mormorii, poi si allontanò correndo di qualche passo e  ricominciò a menare colpi di karatè.   
  Avevo l'impressione di camminare da un'eternità e, quando  guardai di nuovo il lago, vidi che avevamo fatto almeno un giro  completo. Davanti a me Boris continuava a parlottare dimentico di  tutto.   
  - Ehi, aspetta un momento, - gli gridai. - Boris, aspetta.   
  Il bambino si fermò e mentre mi avvicinavo mi guardò  accigliato.   
  - Boris, - dissi gentilmente, - sei sicuro di ricordarti dov'è  il vecchio appartamento?   
  Il bambino fece spallucce e abbassò gli occhi. Poi disse con un  filo di voce: - Certo che me lo ricordo.   
  - Però mi sembra che abbiamo già fatto tutto il giro.   
  Boris fece di nuovo spallucce. Si stava guardando una scarpa,  inclinandola ora da una parte ora dall'altra. Alla fine disse: -  L'avranno tenuto bene Numero Nove?   
  - Penso di sì, Boris. Era in una scatola, in una scatola  dall'aspetto importante. Le cose come quelle si mettono da parte.  Magari su uno scaffale, o in un altro posto.   
  Per un momento Boris continuò a fissarsi la scarpa. Poi disse:  - Ci siamo già passati davanti. Ci siamo passati davanti due  volte.   
  - Come? Vuoi dire che mi hai fatto girare in tondo quassù, con  questo vento gelido, per niente? Perché non me l'hai detto,  Boris? Non ti capisco.   
  Il bambino rimase zitto, spostando il piede ora da una parte  ora dall'altra.   
  - Allora: ci conviene tornare indietro, - domandai, - oppure  dobbiamo fare un altro giro del lago?   
  Boris sospirò e per un momento parve riflettere. Poi alzò gli  occhi e disse: - E va bene. $è poco più indietro. L'abbiamo  appena passato.   
  Tornammo per un breve tratto sui nostri passi. A un certo punto  Boris si fermò davanti a una delle scale e lanciò un'occhiata alla porta. Poi le girò la schiena e ricominciò a studiarsi la  scarpa.   
  - Ah, sì, - dissi, guardando attentamente la porta. Anche se in  realtà quell'uscio dipinto di blu - che non aveva praticamente  nulla che lo distinguesse dagli altri - non mi risvegliava alcun  ricordo.   
  Boris si voltò a dare un'altra occhiata alla casa, poi abbassò  gli occhi e cominciò a colpire il battuto di cemento con la punta  della scarpa. Per qualche istante rimasi ai piedi della scala, un  po' incerto sul da farsi. Alla fine dissi:   
  - Boris, aspettami qui un momento. Salgo a vedere se c'è  qualcuno.   
  Il bambino continuò a battere il piede. Io salii i gradini e  bussai alla porta. Non ottenni risposta. Dopo avere bussato una  seconda volta inutilmente, accostai la faccia al piccolo riquadro  di vetro, ma il vetro era smerigliato e non vidi nulla.   
  - La finestra, - mi gridò Boris dal basso. - Dài un'occhiata  dalla finestra.   
  Alla mia sinistra vidi una specie di balcone - in realtà poco  più di un cornicione che correva lungo tutta la facciata  dell'edificio, così stretto che non ci sarebbe stata nemmeno una  sedia. Allungai una mano per afferrarmi alla ringhiera di ferro  e, sporgendomi oltre il parapetto della scala, riuscii a  sbirciare dentro la finestra più vicina. Vidi un soggiorno a  pianta aperta, con un tavolo da pranzo spinto contro il muro e  qualche mobile moderno un po' fuori moda.   
  - La vedi? - stava urlando Boris. - La vedi, la scatola?   
  - Un momento.   
  Mi sporsi ancora di più, cercando di non pensare al vuoto che  si spalancava sotto di me.   
  - La vedi?   
  - Ti ho detto un momento, Boris.   
  Intanto la stanza cominciava a sembrarmi sempre più familiare.  L'orologio triangolare appeso alla parete, il divano di  gommapiuma color panna, il mobiletto a tre piani per l'impianto  stereo; e mi parve che ogni oggetto, man mano che il mio sguardo  lo sfiorava, portasse con sé un doloroso lampo di riconoscimento.  Tuttavia, mentre continuavo a sbirciare nella stanza, ebbi la  netta impressione che l'intera parte posteriore - unita al corpo  principale per formare una L - un tempo non esistesse, e fosse  stata aggiunta solo di recente. Ciò nonostante, quanto più la  guardavo, tanto più quella parte di stanza mi sembrava nota,  finché mi accorsi che ciò era dovuto, probabilmente,  all'incredibile somiglianza con la parte posteriore del soggiorno  della casa di Manchester in cui ero vissuto per parecchi mesi con  i miei genitori. Quella casetta di città era umida e aveva un  gran bisogno di una mano di bianco, ma ci eravamo rassegnati a  quella sistemazione perché dovevamo restarci solo finché il  lavoro di mio padre ci avesse consentito di trasferirci in un  posto migliore. Per me, ragazzino di nove anni, la casa aveva  rappresentato un cambiamento emozionante, ma soprattutto la  speranza che per tutti noi stesse cominciando un capitolo nuovo e  più felice della nostra vita.   
  - Non c'è nessuno lì dentro, - disse una voce alle mie spalle.  Raddrizzandomi, vidi che l'uomo che aveva parlato era uscito  dall'alloggio vicino. Se ne stava davanti alla sua porta, in cima  a una scala parallela a quella su cui mi trovavo io. Aveva circa  cinquant'anni e lineamenti grossolani, da bull-dog. I suoi  capelli erano scarmigliati, e la sua maglietta aveva una chiazza  di sudore sul petto.   
  - Ah, - dissi, - l'appartamento è vuoto?  
  L'uomo alzò le spalle. - Chi può dirlo? Magari torneranno. A me e a mia moglie non piace avere un appartamento vuoto accanto al  nostro, ma dopo tutto quel pandemonio, abbiamo tirato un sospiro  di sollievo, gliel'assicuro. Non siamo gente senza cuore. Ma dopo  quello che è successo, be', lo preferiamo vuoto  quell'appartamento.   
  - Ah. Quindi è vuoto da un pezzo. Settimane? Mesi?   
  - Oh, più o meno da un mese. Chi sa? Magari torneranno, ma se  non tornano per noi è lo stesso. Non mi fraintenda, c'erano volte  in cui mi spiaceva per loro. Non siamo gente senza cuore. E anche  noi abbiamo attraversato i nostri momenti difficili. Ma quando  non la smettono più, be', ti viene proprio voglia che se ne  vadano. Meglio vuoto.   
  - Capisco. Fastidi a non finire.   
  - Oh, sì. Anche se a dire il vero non credo che siano mai  venuti alle mani. Però, quando li sentivamo urlare nel cuore  della notte, c'era da perdere il sonno.   
  - Mi scusi, ma faccia attenzione... - Mi avvicinai di un passo  e gli accennai con gli occhi che Boris poteva sentirci.   
  - No, mia moglie non era affatto contenta, - continuò l'uomo,  ignorandomi. - Quando cominciava la cagnara, nascondeva la testa  sotto il cuscino. Una volta l'ha fatto persino in cucina. Sono  entrato e l'ho trovata che cucinava con un cuscino intorno alla  testa. Non era piacevole. Lui, a vederlo, sembrava sempre sobrio;  un tipo molto rispettabile. Ci faceva un cenno di saluto e andava  per i fatti suoi. Ma mia moglie è convinta che sotto ci fosse  qualcosa. Sa, l'alcool...   
  - Senta, - sussurrai inferocito, sporgendomi dal parapetto di  cemento che ci separava, - non vede che c'è un bambino? Le  sembrano discorsi da fare in sua presenza?   
  L'uomo guardò con aria stupita in direzione di Boris. Poi  disse: - Le sembra tanto piccolo? Non può mica proteggerlo da  tutto. Comunque, se non vuole parlare di queste cose, bene,  parliamo pure d'altro. Trovi lei un argomento migliore, se ci  riesce. Io le stavo solo raccontando. Ma se lei non vuole  parlarne...   
  - No che non voglio! Non mi interessa affatto sentire...   
  - Be', non era niente di importante. Solo che è naturale che io  parteggiassi per lui e non per lei. Se avesse alzato le mani,  be', sarebbe tutto un altro discorso, ma non mi risulta che  l'abbia mai picchiata. Quindi per me il torto era della donna.  D'accordo, lui stava via molto, ma da quel che abbiamo capito era  costretto, faceva parte del suo lavoro. Mica una buona ragione,  dico io. Mica una buona ragione per fare la matta a quattro...   
  - La vuole piantare? Non ha un briciolo di buon senso? Il  bambino! Può sentirci...   
  - Va bene, e anche se ascolta? I bambini prima o poi le vengono  a sapere queste cose. Io le stavo solo spiegando perché  parteggiavo per lui. $è stato per questo che mia moglie ha tirato  fuori la storia dell'alcool. Stare via è un conto, diceva, ma  bere è un altro...   
  - Senta, se continua così, sarò costretto a porre  immediatamente fine a questa conversazione. L'avverto che lo  farò.   
  - Non può sperare di proteggere il bambino per sempre, non lo  capisce? Quanti anni ha? Non mi sembra così piccolo. Non serve a  niente essere iperprotettivi. Il bambino deve imparare ad  affrontare il mondo, con tutte le sue magagne...   
  - Non deve affatto! Non ancora! E poi, me n'infischio delle sue  idee. Che cosa c'entra lei? $è figlio mio, sotto la mia  responsabilità, e non ammetto simili discussioni...   
  - Non capisco perché se la prenda tanto. Stavo solo facendo  conversazione. Le raccontavo le nostre impressioni. Quei due non erano cattivi, e nemmeno antipatici, ma a volte il troppo  stroppia. Anche se le cose, sentite dall'altra parte di un muro,  sembrano sempre peggio di quel che sono. Guardi che è inutile  cercare di nascondere la realtà a un bambino di quell'età. La sua  è una battaglia persa. E a che cosa serve...   
  - Le sue opinioni non mi interessano! Ancora per qualche anno  non voglio assolutamente che ascolti certi discorsi...   
  - Lei è uno sciocco. Quello che le sto raccontando è vita di  tutti i giorni. Anche mia moglie e io abbiamo i nostri alti e  bassi. Per questo lui mi faceva pena. Perché so come ci si sente  la prima volta che ti accorgi...   
  - L'avverto! Metterò fine a questa conversazione! Guardi che  l'avverto!   
  - Ma io non ho mai bevuto. E questo cambia le cose. Viaggiare  molto è un conto, ma bere a quel modo...   
  - Questo è l'ultimo avvertimento! Un'altra frase del genere e  me ne vado!   
  - Quando era ubriaco, diventava crudele. Non la picchiava,  d'accordo, ma noi sentivamo, e le assicuro che era crudele. Non  riuscivamo a capire tutto quello che le diceva, ma anche se era  buio pesto ci tiravamo su a sedere e ascoltavamo...   
  - Ecco! Ecco! Io l'avevo avvertita! Adesso me ne vado! Me ne  vado!   
  Girandogli la schiena, corsi giù da Boris. Lo afferrai per un  braccio e cominciai ad allontanarmi in tutta fretta, ma in quel  momento l'uomo cominciò a urlarci dietro:   
  - La sua è una battaglia persa! Il bambino deve scoprire com'è  fatto il mondo! La vita è così! Non c'è niente di male se è fatta  così!   
  Boris si voltò incuriosito, e fui costretto a tirarlo  energicamente per il braccio. Camminammo per un bel po' a passo  spedito. Più di una volta mi accorsi che Boris cercava di  rallentare, ma io continuai a trascinarlo, ansioso di evitare il  rischio di un inseguimento. Quando infine ci fermammo, ero senza  fiato. Barcollando verso il parapetto - che era stranamente basso  e mi arrivava poco sopra la vita - vi appoggiai i gomiti e mi  sporsi a guardare. Contemplai il lago, gli alti condomini sulla  riva opposta, il cielo pallido e sconfinato, e aspettai che il  mio respiro si calmasse.   
  Dopo un momento mi accorsi che Boris era di fianco a me. Mi  dava la schiena e giocherellava con un frammento ballerino di  mattone sulla sommità del parapetto. Cominciai a provare un certo  imbarazzo per ciò che era successo, e mi resi conto che avrei  dovuto dargli qualche spiegazione. Stavo cercando le parole  giuste, quando Boris, senza girarsi, mormorò:   
  - Quell'uomo era matto, vero?   
  - Sì, Boris, completamente matto. Uno squilibrato.   
  Boris continuò a giocherellare con il parapetto. Poi disse: -  Non importa, sai. Posso stare senza Numero Nove.   
  - Se non fosse per quell'uomo, Boris...   
  - Non ha importanza. Non ha più importanza -. Poi il bambino si  voltò verso di me e sorrise. - Finora è stata una bellissima  giornata, - disse, animandosi.   
  - Ti stai divertendo?   
  - $è stata magnifica. Il viaggio in autobus, tutto. Davvero  magnifica.   
  Mi venne una gran voglia di abbracciarlo, ma pensai che il  gesto lo avrebbe confuso e forse allarmato. Mi limitai ad  arruffargli leggermente i capelli e tornai a contemplare il  panorama.   
  Il vento era calato e non dava più fastidio; per un momento  restammo l'uno accanto all'altro in silenzio, a guardare il complesso residenziale. Poi gli dissi:   
  - Boris, probabilmente ti chiederai perché non possiamo  sistemarci da qualche parte e vivere tranquilli, noi tre insieme.  Sono sicuro, non potrebbe essere altrimenti, che ti chiedi perché  me ne vado in continuazione, anche a costo di far soffrire tua  madre. Be', devi capire che se viaggio tanto non è perché non vi  voglio bene o non voglio stare con voi. In un certo senso, il mio  sogno sarebbe di rimanere a casa con te e la mamma, vivere in un  alloggio come questo, in un posto qualsiasi. Ma vedi, non è così  semplice. Sono costretto a viaggiare perché nessuno può dire  quando si presenterà la grande occasione. Mi riferisco al viaggio  con la V maiuscola, al viaggio che cambierà la vita non solo a me  ma a tutti, al mondo intero. Come faccio a spiegarti, Boris? Sei  così giovane. Vedi, basta un niente per lasciarselo sfuggire. Un  giorno ti dici, no, questa volta non parto, sto a casa a  riposare. E solo più tardi scopri che hai perso la grande  occasione, il viaggio della tua vita. E una volta che te lo sei  lasciato sfuggire, non puoi più tornare indietro. Troppo tardi.  Dopo potrei dannarmi l'anima a viaggiare, ma non servirebbe a  nulla, sarebbe troppo tardi, e tutti questi anni sarebbero  buttati via. L'ho visto succedere ad altri, Boris. Viaggiano per  anni, finché cominciano a sentirsi stanchi, magari un po' pigri.  Spesso è proprio in quel momento che si presenta la grande  occasione. E loro se la lasciano sfuggire. E sai cosa capita? La  rimpiangono per il resto dei loro giorni. Diventano tristi e  scontrosi. E quando muoiono sono ormai dei rottami. Ecco perché,  Boris. Ecco perché adesso non posso fermarmi, perché devo  continuare a viaggiare e viaggiare. Lo so che i miei viaggi ci  rendono la vita difficile. Ma dobbiamo essere forti e pazienti,  tutti e tre. Non ci vuole più molto, ne sono sicuro. La grande  occasione arriverà presto, poi basta, potrò finalmente rilassarmi  e riposare. Potrò stare a casa quanto voglio, e non avrà più  importanza. Potremo rimanere insieme, noi tre soli. Fare tutto  ciò che non abbiamo potuto fare finora. Il momento è vicino, ne  sono sicuro, ma serve ancora un piccolo sforzo. Boris, spero che  tu riesca a capire quello che ti sto dicendo.   
  Boris rimase a lungo in silenzio. Poi all'improvviso raddrizzò  le spalle e disse seccamente: - Levatevi dai piedi, tutti. E guai  al primo che parla -. Poi si allontanò di corsa e ricominciò con  le sue mosse di karatè.   
  Rimasi qualche minuto appoggiato al parapetto, contemplando il  panorama e ascoltando i furiosi borbottii di Boris. Poi, quando  mi voltai di nuovo a guardarlo, capii che il bambino stava  recitando l'ultima versione di una fantasia con la quale si  trastullava da qualche settimana. Senza dubbio, il fatto di  essere così vicini al teatro di questa fantasia aveva reso  irresistibile la prospettiva di riviverla daccapo. Infatti, il  canovaccio prevedeva che Boris e suo nonno lottassero contro una  folta banda di teppisti proprio in quel passaggio coperto,  davanti al vecchio appartamento.   
  Continuai a osservarlo mentre gesticolava imperterrito, ormai a  parecchi metri da me. Immaginai che fosse giunto a quella parte  in cui lui e il nonno, spalla contro spalla, si preparavano a  sostenere un altro attacco. Intorno a loro il terreno era già  coperto di corpi privi di sensi, ma alcuni dei teppisti più  tenaci stavano rinserrando le file per un nuovo assalto. Boris e  il nonno aspettavano tranquilli a fianco a fianco, mentre i  teppisti bisbigliavano strategie nell'oscurità. Anche in questa  fantasia, come sempre, Boris era vagamente più vecchio. Non  proprio adulto - cosa che avrebbe reso la storia troppo remota e  avrebbe creato complicazioni con l'età del nonno - ma quel tanto  più grande da rendere credibile l'indispensabile prestanza fisica.   
  Boris e Gustav lasciavano ai teppisti tutto il tempo che  volevano per prendere posizione. Poi, quando arrivava l'ondata  degli assalitori, nonno e nipote, che ormai formavano una squadra  ben affiatata, li liquidavano con efficienza, quasi con  tristezza, avventandosi su di loro da ogni lato. Presto l'attacco  si esauriva... ma no, un ultimo teppista sbucava dall'oscurità  brandendo un coltellaccio. Gustav, che era il più vicino, gli  vibrava un rapido colpo al collo, e con questo la battaglia si  poteva considerare conclusa.  
  Per qualche istante Boris e il nonno osservavano silenziosi,  quasi con solennità, i corpi sparsi intorno a sé. Poi Gustav,  gettando un'ultima occhiata da veterano al campo di battaglia,  faceva un cenno, e i due se ne andavano con l'espressione di chi  ha, compiuto il suo dovere, per quanto sgradevole. Poi salivano i  pochi gradini che portavano al vecchio alloggio, si giravano a  guardare ancora una volta la banda sconfitta - qualche teppista  cominciava già a gemere o a trascinarsi via - ed entravano.   
  - Tutto a posto, - annunciava Gustav sulla soglia. - Se ne sono  andati.   
  A queste parole, Sophie e io comparivamo timorosi  nell'ingresso. Boris, che veniva dietro al nonno, aggiungeva: -  Ma non è finita. Attaccheranno ancora una volta, forse prima  dell'alba.   
  Questa valutazione, così ovvia per nonno e nipote che fra di  loro non avevano nemmeno avuto bisogno di parlarne, ci strappava  un grido angosciato.   
  - No, non ce la faccio più! - gemeva Sophie, mettendosi a  singhiozzare. Io la stringevo fra le braccia cercando di  confortarla, ma anche il mio volto si contraeva in una smorfia.  Di fronte a questa scena patetica, Boris e Gustav non mostravano  il minimo segno di disprezzo. Gustav mi posava una mano sulla  spalla per rassicurarmi e diceva: - Non temere. Boris e io non vi  lasciamo. Vedrai che dopo quest'ultimo attacco se ne andranno per  sempre.   
  - Esatto, - confermava Boris. - Un'altra battaglia sarà più che  sufficiente -. Poi, rivolgendosi a Gustav, aggiungeva: - Nonno,  magari la prossima volta provo di nuovo a farli ragionare. Per  dargli la possibilità di ritirarsi.   
  - Non ti staranno a sentire, - diceva Gustav, scuotendo la  testa con gravità. - Ma hai ragione. Dobbiamo dargli un'ultima  possibilità.   
  Sophie e io, sopraffatti dalla paura, abbracciati e piangenti,  correvamo a nasconderci in casa. Boris e Gustav si guardavano in  faccia, sospiravano stancamente, poi aprivano la porta d'ingresso  e tornavano fuori.   
  Il passaggio coperto era buio, silenzioso e deserto.   
  - Tanto vale riposarci un po', - diceva Gustav. - Dormi tu per  primo, Boris. Se li sento arrivare, ti chiamo.   
  Boris annuiva, si sedeva sull'ultimo gradino, con la schiena  contro la porta, e si addormentava subito.   
  Dopo un po' si sentiva sfiorare il braccio, e in un baleno era  in piedi, completamente sveglio. Il nonno guardava già con faccia  torva i teppisti che stavano riunendosi nel passaggio coperto.  Erano più numerosi che mai; per la battaglia finale avevano  reclutato fino all'ultimo dei loro dagli angoli più bui della  città. Adesso erano tutti lì, con logori calzoni di pelle,  giacche militari, cinture belluine; brandivano spranghe o catene  di bicicletta... ma il senso dell'onore vietava loro di portare  pistole. Boris e Gustav scendevano lentamente le scale verso di  loro e si fermavano sul secondo gradino, o forse sul terzo. Poi  Boris, al segnale del nonno, cominciava a parlare, alzando la voce perché si sentisse oltre le colonne di cemento:   
  - Vi abbiamo legnati un sacco di volte. Adesso vedo che siete  venuti ancora più numerosi. Ma in cuor vostro sapete che non  potete batterci. E questa volta non possiamo garantirvi che  qualcuno non si faccia male sul serio. Questa lotta non ha senso.  Probabilmente un tempo anche voi avevate una casa. Una mamma e un  papà. Magari fratelli e sorelle. Voglio che sappiate come stanno  le cose. I vostri attacchi, i continui atti di vandalismo contro  il nostro alloggio, fanno piangere mia madre. $è sempre tesa e  irritabile, e per colpa vostra mi sgrida spesso senza ragione. E  come se non bastasse papà se ne va per lunghi periodi, a volte  anche all'estero, e la mamma non è affatto contenta. E tutto  questo per colpa dei vostri attacchi terroristici al nostro  alloggio. Magari fate così solo perché siete su di giri, o perché  venite da una famiglia distrutta e non sapete che cosa fare di  voi stessi. Per questo cerco di spiegarvi come stanno le cose,  quali sono le conseguenze del vostro sconsiderato comportamento.  Prima o poi potrebbe succedere che papà si stufi e non torni più  a casa. Potremmo persino essere costretti a traslocare. Per  questo ho dovuto far venire il nonno, anche se ha un posto di  responsabilità in un grande albergo. Non possiamo permettervi di  continuare così. Non per altro vi riempiamo di botte. E adesso  che vi ho spiegato tutto per bene, siete ancora in tempo per  ripensarci e andarvene. In caso contrario non avremo scelta,  saremo di nuovo costretti a picchiarvi. Faremo del nostro meglio  per mettervi fuori combattimento senza provocarvi danni duraturi,  ma in una grande mischia, anche con tutta la nostra perizia, non  possiamo garantire che non ci scappi qualche brutto livido, o  persino qualche osso rotto. Quindi approfittate dell'occasione  che vi diamo e andatevene.   
  Gustav approvava il discorso con un lieve sorriso, poi nonno e  nipote passavano in rassegna le facce bestiali riunite davanti a  loro. Parecchi teppisti si guardavano l'un l'altro esitanti,  indotti a riflettere più dalla paura che dalla ragione. Ma i capi  - tipacci torvi e raccapriccianti - cominciavano a ringhiare  bellicosamente, presto imitati dai loro accoliti. Poi la teppa si  lanciava all'attacco. Boris e il nonno prendevano rapidamente  posizione; schiena contro schiena, avanzavano ordinatamente,  servendosi di un'attenta miscela di karatè e altre tecniche di  combattimento. I teppisti piombavano su di loro da ogni parte, ma  finivano regolarmente a gambe all'aria: piroettavano,  incespicavano, volavano fra grugniti di terrore e meraviglia,  finché per l'ennesima volta il terreno era coperto di corpi privi  di sensi. Per parecchi secondi Boris e Gustav rimanevano vicini,  osservando il campo di battaglia, poi i teppisti cominciavano a  muoversi; alcuni gemevano, altri scuotevano la testa per capire  dov'erano. A questo punto, Gustav faceva un passo avanti e  diceva:   
  - E adesso andatevene, facciamola finita. Lasciate in pace casa  nostra. Questa era una famiglia molto felice prima che  cominciaste a terrorizzarla. Se tornerete, mio nipote e io saremo  costretti a rompervi le ossa.   
  Il discorso non era quasi necessario. I teppisti sapevano di  essere stati sbaragliati e di essersela cavata ancora a buon  mercato. Lentamente, si alzavano in piedi e si allontanavano  zoppicando, a gruppetti di due o tre, sorreggendosi a vicenda e  gemendo dal dolore.   
  Quando anche l'ultimo claudicante teppista se ne era andato,  Boris e Gustav si scambiavano un'occhiata soddisfatta e  tranquilla, si giravano e risalivano le scale. Quando entravano,  Sophie e io - che avevamo assistito a tutta la scena dalla  finestra - li accoglievamo giubilanti. - Grazie a Dio è finita, - dicevo io tutto eccitato. - Grazie a Dio.   
  - Sto già cucinando qualcosa per festeggiare, - annunciava  Sophie, raggiante e felice, improvvisamente con il volto disteso.  - Boris, non sappiamo come ringraziare te e il nonno. Perché  questa sera non facciamo tutti insieme un gioco di società?   
  - Io devo andare, - diceva Gustav. - C'è un sacco di lavoro che  mi aspetta in albergo. Se avete altri problemi, avvertitemi. Ma  sono sicuro che non si faranno rivedere.   
  Gustav si avviava giù per le scale. Boris, Sophie e io lo  salutavamo dalla soglia, poi chiudevamo la porta e ci accingevamo  a passare la serata insieme. Sophie entrava e usciva dalla  cucina, preparando la cena, canticchiando spensierata, mentre  Boris e io ce ne stavamo distesi sul pavimento del soggiorno,  tutti presi dal gioco di società. Poi, dopo circa un'ora che  giocavamo, in un momento in cui Sophie non era nella stanza, io  alzavo gli occhi e serio serio dicevo a Boris:   
  - Grazie per quello che hai fatto, Boris. Adesso le cose  possono tornare come prima.   
  - Guarda! - urlò Boris; era di nuovo accanto a me e mi indicava  qualcosa oltre il parapetto. - Guarda! C'è zia Kim!   
  Sotto di noi, in effetti, c'era una donna che gesticolava  freneticamente per attirare la nostra attenzione. Indossava un  golf verde, che si teneva ben stretto al corpo, e aveva i capelli  scarmigliati. Vedendo che l'avevamo finalmente notata, ci gridò  qualcosa, ma la sua voce si perse nel vento.   
  - Zia Kim! - chiamò Boris.   
  Ancora una volta la donna gesticolò e ci gridò qualcosa.   
  - Andiamo giù, - disse Boris, e partì di corsa, sprizzando di  nuovo eccitazione da tutti i pori.   
  Gli tenni dietro giù per le numerose rampe di scale di cemento.  Quando arrivammo sotto, fummo investiti da una violenta raffica  di vento, ma Boris riuscì lo stesso a esibirsi a beneficio di zia  Kim in un saltello come se stesse atterrando con il paracadute.   
  «Zia Kim» era una signora corpulenta di circa quarant'anni, con  una faccia un po' severa che non mi era affatto nuova.   
  - Dovete essere tutti e due sordi, - ci disse quando la  raggiungemmo. - Vi abbiamo visti scendere dall'autobus e ci siamo  sgolate, ma voi niente. Poi sono venuta a cercarvi, ed eravate  spariti.   
  - Mi spiace, - dissi. - Non abbiamo sentito, vero, Boris?  Dev'essere colpa di questo vento -. Mi guardai intorno. - Ci  stavate guardando da casa?   
  La grassona fece un gesto in direzione di una delle  innumerevoli finestre sopra la nostra testa. - Ci siamo sgolate  -. Poi, rivolgendosi a Boris, aggiunse: - Su da me c'è tua madre,  ragazzo mio. Muore dalla voglia di vederti.   
  - La mamma?   
  - Faresti meglio a correre su, muore davvero dalla voglia di  vederti. E la sai una cosa? Ha cucinato tutto il pomeriggio,  preparandoti un banchetto fantastico per quando tornerete a casa  questa sera. Non crederai ai tuoi occhi; ha detto che ha  preparato tutte le cose che ti piacciono di più, tutto quello che  ti può venire in mente. Stava giusto raccontandomi, quando  abbiamo guardato fuori della finestra e vi abbiamo visti scendere  dall'autobus. Scusate, ma è da mezz'ora che vi cerco e sono  gelata. Dobbiamo proprio restare qui?   
  Parlando, aveva teso la mano. Boris gliela prese, e tutti  insieme ci dirigemmo verso il settore dell'edificio che aveva  indicato poc'anzi. Quando fummo più vicini, Boris corse avanti,  spinse una porta antincendio e scomparve all'interno. Quando  arrivammo noi, la porta si stava richiudendo. La grassona me la  tenne aperta, e intanto mi disse: - Ryder, lei non dovrebbe essere da tutt'altra parte? Sophie mi stava raccontando che  questo pomeriggio il suo telefono non ha smesso di suonare un  istante. Pare che tutti la cerchino.   
  - Davvero? Be', io, come vede, sono qui -. Mi scappò una  risata. - Sono venuto a portare Boris.   
  La donna alzò le spalle. - Saprà lei che cosa deve fare.   
  Eravamo in un vano malamente illuminato ai piedi della tromba  delle scale. Di fianco a me, sulla parete, vidi una fila di  cassette della posta e qualche attrezzo antincendio. Quando  cominciammo a salire la prima rampa di gradini - sopra di noi ce  n'erano almeno altre cinque - sentii da qualche parte su in alto  lo scalpiccio dei piedi di Boris, poi la sua voce che gridava: -  Mamma! - Vi fu qualche esclamazione di gioia, altro rumore di  piedi, poi Sophie disse: - Oh, tesoro, il mio tesoro! - Dal suono  soffocato della sua voce dedussi che si stavano abbracciando.  Quando la grassona e io arrivammo sul pianerottolo, madre e  figlio erano già spariti dentro l'appartamento.   
  - Scusi il disordine, - mi disse la donna, facendomi entrare.   
  Attraversai l'ingressino e mi trovai in un soggiorno a pianta  aperta, arredato con mobili semplici e moderni. La stanza era  dominata da una grande finestra panoramica, davanti alla quale  vidi Sophie e Boris che si stagliavano quasi in controluce sullo  sfondo del cielo grigio. Sophie mi rivolse un rapido sorriso, poi  riprese a parlare con Boris. Sembravano eccitati, e Sophie  continuava ad abbracciare il bambino. Dal modo in cui indicava  fuori della finestra, pensai che stesse raccontando come lei e la  grassona ci avessero visti poco prima. Ma quando mi avvicinai  sentii che stava dicendo:   
  - Sì, te l'assicuro. $è praticamente tutto pronto. C'è solo da  riscaldare qualche manicaretto, per esempio il pasticcio di  carne.   
  Boris disse qualcosa che non riuscii a sentire, e Sophie  ribatté:   
  - Ma certo che possiamo. Giocheremo a quello che vuoi. Lo  deciderai tu quando avremo finito di mangiare.   
  Boris rivolse a sua madre uno sguardo dubbioso; notai nel suo  atteggiamento una certa circospezione, che gli impediva di  manifestare entusiasmo come forse Sophie avrebbe desiderato. Poi  il bambino si mise a esplorare la stanza; Sophie mi venne vicino  e scosse il capo sconsolata.   
  - Mi spiace, - disse sottovoce. - Ma è stato un fiasco. La casa  era peggio di quella del mese scorso. Ha una vista magnifica,  perché l'hanno costruita proprio sul ciglio di un burrone, ma non  è abbastanza solida. Alla fine anche il signor Mayer ne ha  convenuto. Ha detto che se c'è una tempesta di vento il tetto  potrebbe crollare anche di qui a poco. Sono andata via subito,  alle undici ero già a casa. Mi spiace. Vedo che sei deluso -. Poi  lanciò un'occhiata a Boris, che stava esaminando un registratore  portatile abbandonato su uno scaffale.   
  - Non scoraggiarti, - dissi, sospirando. - Sono sicuro che  troveremo presto qualcosa.   
  - Però ci ho pensato su, - disse Sophie. - Sul pullman,  tornando, ho pensato che non c'è nessun motivo per rimandare.  Possiamo cominciare subito a fare delle cose insieme, casa o non  casa. Così, appena entrata, mi sono messa a cucinare. Ho pensato  che questa sera potevamo farci una bella scorpacciata, solo noi  tre. Mi è tornata in mente mia madre, quand'ero piccola, prima  che si ammalasse. Cucinava un'infinità di piattini diversi, poi  metteva tutto in tavola, e ciascuno spilluzzicava quello che  preferiva. Erano delle serate bellissime, e mi sono detta, be',  non c'è nessun motivo perché questa sera non facciamo lo stesso  anche noi tre. Finora non mi era mai passato per la testa, sai, con la cucina in quello stato, ma mi sono data uno sguardo  intorno e ho capito ch'ero una sciocca. Certo, non si può dire  che sia una cucina ideale, ma per funzionare funziona. Così ho  cominciato a cucinare, e ho cucinato buona parte del pomeriggio.  Sono riuscita a fare quasi tutto. Tutti i piatti preferiti di  Boris. Sono là che ci aspettano, basta scaldarli. Questa sera ci  faremo una bella scorpacciata.   
  - Mi sembra una bella idea. Non vedo l'ora.   
  - In fondo chi ce lo vieta, anche se l'appartamento è quello  che è? E poi, ti sei dimostrato così comprensivo... Ci ho pensato  su, sai. Sul pullman, mentre tornavo a casa. Dobbiamo dimenticare  il passato. Ricominciare da capo a fare delle cose insieme. Cose  belle.   
  - Sì. Hai ragione.   
  Sophie guardò fuori della finestra per qualche secondo. Poi  disse: - Oh, quasi me ne dimenticavo. C'era una donna che  telefonava in continuazione, mentre cucinavo. Una certa signorina  Stratmann. Chiedendo se sapevo dov'eri. $è riuscita a trovarti?   
  - La signorina Stratmann? No. Che cosa voleva?   
  - Aveva l'aria di pensare che ci fosse stato qualche malinteso  sui tuoi appuntamenti di oggi. Era molto gentile, continuava a  scusarsi per il disturbo. Ha detto che era sicura che tu avessi  tutto ben chiaro, che telefonava solo per precauzione,  nient'altro, e che non era minimamente preoccupata. Ma dopo un  quarto d'ora squillava il telefono ed era di nuovo lei.   
  - Bah, non c'è bisogno che ti preoccupi. Ehm... la signorina  Stratmann ti ha detto che dovevo essere da un'altra parte?   
  - Non so bene che cosa volesse. Era molto gentile, ma  continuava a telefonare. Ho anche bruciato un tortino di pollo  per colpa sua. Poi, l'ultima volta che ha telefonato mi ha  chiesto se ero contenta di andare al ricevimento di questa sera  alla Galleria Karwinsky. Tu non me ne avevi nemmeno parlato, ma  da come l'ha detto sembrava che fossi invitata anch'io. Così le  ho risposto di sì, che ero molto contenta. Poi mi ha chiesto se  anche Boris era contento, e io ho detto di sì, che anche lui era  contento, e naturalmente anche tu. Mi è sembrato che questo la  rassicurasse un po'. Ha ripetuto che non era preoccupata, che  voleva solo ricordarcelo, nient'altro. Quando ho riattaccato, ero  un po' delusa. Ho pensato che il ricevimento avrebbe rovinato la  nostra festa. Poi però ho calcolato che ce l'avrei fatta a  preparare tutto prima, che potevamo andare e tornare, e che se  non ci fossimo fermati troppo a lungo avremmo potuto passare lo  stesso la serata insieme. E mi sono detta, be', in fondo è una  bella cosa. Per me e per Boris, andare a un ricevimento così è  una bella cosa -. Improvvisamente, Sophie tese le braccia verso  Boris, che si era riavvicinato a noi, e lo strinse a sé con  malagrazia. - Il mio Boris spopolerà. Non devi spaventarti se c'è  tanta gente. Basta che tu faccia finta di niente e vedrai che ti  diverti. Sarai il beniamino di tutti. Prima che te ne renda conto  sarà già ora di tornare a casa, così passeremo una bella serata  insieme, solo noi tre. Ho già tutto pronto, tutti i tuoi piatti  preferiti.   
  Boris, infastidito, si liberò dell'abbraccio della madre e si  allontanò di nuovo. Sophie lo seguì con gli occhi sorridendo, poi  si girò verso di me:   
  - Non è meglio partire subito? Credo che ci voglia un po' per  andare alla Galleria Karwinsky.   
  - Sì, - dissi, guardando l'orologio. - Sì, hai ragione -. Poi  mi rivolsi alla grassona, che era tornata nella stanza: - Forse  può consigliarci lei. Non sono del tutto sicuro di che autobus si  debba prendere per andare alla galleria. Sa se ne passa uno fra  poco?  
  - Per andare alla Galleria Karwinsky? - La grassona mi lanciò  un'occhiata sprezzante, e mi parve che solo la presenza di Boris  le impedisse di aggiungere un commento sarcastico. Poi disse: -  Di qui non c'è nessun autobus che va alla Galleria Karwinsky.  Dovete tornare in centro. Poi aspettare il tram davanti alla  biblioteca. Ma non arriverete mai in tempo.   
  - Oh, che peccato. Contavo sul fatto che ci fosse un autobus.   
  La grassona mi lanciò un'altra occhiata sdegnosa, poi disse: -  Prendete la mia auto. Questa sera non ne ho bisogno.   
  - Non so come ringraziarla, - dissi. - $è sicura che non...   
  - Oh, la pianti con le stronzate, Ryder. Avete bisogno  dell'auto. Non c'è altro modo per arrivare in tempo alla Galleria  Karwinsky. E anche con l'auto dovete partire subito.   
  - Sì, - dissi, - pensavo anch'io la stessa cosa. Ma vede, non  vorremmo crearle disturbo.   
  - Prendete solo qualche scatola di libri. Se domani devo andare  in città in autobus, non potrò portare niente.   
  - Ma certamente. Tutto ciò che vuole.   
  - Basta che le consegniate al negozio di Hermann Roth domattina  prima delle dieci.   
  - Non preoccuparti, Kim, - disse Sophie, prima che potessi  aprire bocca. - Ci penso io. Grazie ancora.   
  - Va bene, e adesso vi conviene muovervi. Ehi, giovanotto, - la  grassona fece un cenno a Boris, - perché non mi aiuti a caricare  i libri?   
  Per qualche minuto rimasi solo davanti alla finestra, a  rimirare il panorama. Gli altri erano spariti in una camera da  letto, e li sentivo ridere e chiacchierare. Forse avrei dovuto  dare anch'io una mano, ma pensai che fosse più importante  approfittare di quell'occasione per riordinare le idee in vista  della serata, così continuai a contemplare il lago artificiale.  C'erano dei bambini che stavano giocando a palla contro la  recinzione sul lato opposto dello specchio d'acqua, ma il resto  del perimetro era deserto.   
  Dopo un po' udii la grassona che mi chiamava, e mi accorsi che  gli altri mi stavano aspettando per uscire. Quando fui  nell'ingressino, vidi che Sophie e Boris, ciascuno con una  scatola di cartone in mano, erano già sul pianerottolo. Mentre si  avviavano giù per le scale, si misero a discutere di non so che  cosa.   
  La grassona mi stava tenendo aperta la porta d'ingresso. -  Sophie vuole che questa sera le cose vadano bene a tutti i costi,  - mi disse, abbassando la voce. - Veda di non farle di nuovo  qualche brutto tiro, Ryder.   
  - Non si preoccupi, - dissi. - Le garantisco che andrà tutto  per il verso giusto.   
  Zia Kim mi guardò con durezza, poi si girò e cominciò a  scendere le scale facendo tintinnare le chiavi.   
  La seguii. Mentre scendevamo la seconda rampa, vidi venirci  incontro con passo affaticato una donna, che strisciò fra la  grassona e il muro mormorando una scusa. Mi aveva già  oltrepassato quando riconobbi Fiona Roberts, ancora in uniforme  da controllore. Anche lei parve accorgersi di me solo all'ultimo  momento - c'era così poca luce sulle scale. Si girò stancamente,  con una mano sulla ringhiera di metallo, e disse:   
  - Oh, eccoti. Bravo, sei puntuale! Scusami se ci ho messo un  po' più del previsto. Hanno dirottato un tram sulla linea  orientale, e il mio turno è andato per le lunghe. Spero che tu  non abbia dovuto aspettare molto.   
  - No, no -. Risalii di un paio di gradini. - Per niente. Solo  che adesso ho pochissimo tempo...   
  - Non preoccuparti, non ti tratterrò più del necessario. Anzi, meglio che te lo dica subito. Ho fatto un giro di telefonate alle  ragazze, come eravamo rimasti d'accordo. Le ho chiamate dalla  mensa del deposito, durante l'intervallo. Le ho avvisate che  sarei andata da loro con un amico, ma non ho detto che l'amico  eri £tu. Inizialmente volevo farlo, ma ho cominciato da Trude, e  quando ho sentito la sua voce, il modo in cui mi ha detto: «Ah,  sì, sei £tu, cara», non ci ho più visto. Era così piena di bile e  condiscendenza! Si capiva che era rimasta tutto il giorno  attaccata al telefono per parlare di me con Inge e le altre,  discutendo di ieri sera, fingendo di commiserarmi, dicendo che  bisognava trattarmi con compassione, che in fondo ero una persona  malata, ed era loro dovere essere gentili. Ma naturalmente  avrebbero dovuto mandarmi via, come si poteva tenere nella  Fondazione qualcuno come me? Oh, chissà come se la sono spassata,  oggi! L'ho capito subito, solo dal modo in cui Trude ha risposto  al telefono. «Ah, sì, sei £tu, cara». Allora ho pensato: te la  sei voluta, io non ti avverto. Vediamo dove ti porta la tua  incredulità. Ecco che cosa ho pensato. Voglio proprio vedere che  faccia fai quando apri la porta e vedi chi c'è con me. Mi auguro  che tu sia vestita malissimo, magari in £tuta £da £ginnastica, e  senza trucco, in modo che quella bozza accanto al naso sia ben  visibile, e con i capelli tirati indietro e fermati con una  forcina, come fai qualche volta, che sembri almeno quindici anni  più vecchia. Spero che il tuo appartamento sia in disordine, con  quelle stupide riviste che leggi tu, i giornali scandalistici e i  romanzetti rosa, sparsi da per tutto. Sarai così sbalordita che  resterai senza parole, così imbarazzata che non saprai più da che  parte girarti, e peggiorerai le cose infilando una scemenza dopo  l'altra. Ci chiederai se vogliamo qualcosa da bere e scoprirai di  non avere niente in casa, e finalmente capirai quanto sei stata 
    sciocca a non credermi. Questa sì che è un'idea, mi sono detta. E  non ho avvertito né lei né le altre. Mi sono limitata a dire che  sarei passata con un amico -. Fiona si interruppe un momento e si  calmò un po'. Poi aggiunse: - Scusami. Non volevo sembrarti  vendicativa. Ma è tutto il giorno che aspetto questo momento. Mi  ha dato la forza per tirare avanti, per continuare a bucare  biglietti. Probabilmente i passeggeri si sono chiesti che cosa  avessi, perché mi luccicassero gli occhi. Be', se hai poco tempo,  è meglio che ci muoviamo. Cominciamo da Trude. Credo che Inge sia  da lei, di solito a quest'ora si vedono, così prendiamo due  piccioni con una fava. Delle altre mi importa meno. Ah, voglio  proprio vedere la faccia di quelle due. Su, andiamo.   
  Fiona riprese a salire le scale come se tutta la sua stanchezza  fosse sparita. I gradini non finivano mai, rampa dopo rampa,  tanto che dopo un po' cominciai ad ansimare. Fiona, invece, non  sembrava fare nessuna fatica. Mentre salivamo, continuò a  parlare, abbassando la voce come se qualcuno potesse sentirci.   
  - Non c'è bisogno che tu parli molto, - la sentii dire a un  certo punto. - Mi basta che striscino ai tuoi piedi per qualche  minuto. Sempre, naturalmente, che tu non voglia parlare con loro  dei tuoi genitori.   
  Quando finalmente abbandonammo le scale, ero così a corto di  fiato - il mio petto sibilava addirittura - che non badai molto a  dove mi trovavo. Mi accorsi solo che stavamo percorrendo un lungo  corridoio mal illuminato, con file e file di porte, e che Fiona  mi precedeva, incurante delle mie difficoltà. Poi,  all'improvviso, la vidi fermarsi e bussare a una porta. Non  appena la raggiunsi, fui costretto ad appoggiarmi con una mano al  montante e a chinare la testa per riprendere fiato. Quando la  porta si aprì, dovevo offrire un ben misero spettacolo accanto  alla mia trionfante accompagnatrice.   
  - Trude, - disse Fiona. - Ho portato con me un amico.  
  Con uno sforzo, mi raddrizzai e sorrisi cordialmente.  
16.  
  La donna che ci aveva aperto la porta era sulla cinquantina,  grassoccia, con corti capelli bianchi. Indossava un largo  maglione rosa e pantaloni a righe tutti sformati. Mi diede una  rapida occhiata, poi, non notando nulla di strano, si rivolse a  Fiona e disse: - Ah, sì. Be', immagino che vogliate entrare.   
  Il tono era condiscendente, ma questo parve solo aumentare le  attese di Fiona, che mi lanciò un sorriso da cospiratrice mentre  seguivamo Trude in casa.   
  - C'è anche Inge? - domandò, quando fummo nel minuscolo  vestibolo.   
  - Sì, siamo appena tornate, - disse Trude. - E guarda un po',  abbiamo un sacco di novità. E visto che sei passata di qui, sarai  la prima a saperle. Sei davvero fortunata.   
  Apparentemente, quest'ultima osservazione fu fatta senza la  minima ironia. Trude sparì dietro una porta, lasciandoci in piedi  nell'ingressino. Dall'interno sentimmo la sua voce che diceva: -  Inge, c'è Fiona. Accompagnata da un amico. Forse dovremmo  raccontarle che cosa ci è successo questo pomeriggio, non credi?   
  - Fiona? - La voce di Inge era leggermente indignata. Poi, come  sforzandosi, la donna aggiunse: - Be', falla entrare.   
  Ascoltando questo dialogo, Fiona mi sorrise di nuovo tutta  eccitata. Poi Trude mise la testa fuori della porta e ci accolse  nel suo salotto.   
  Quanto a forma e dimensioni, la stanza era simile a quella  della grassona, ma l'arredamento, dominato da motivi floreali,  era più meticoloso. Forse l'alloggio aveva un'esposizione  diversa, forse il cielo era meno coperto. Fatto sta che dalla  grande finestra entrava un bel sole. Dunque, quando feci il mio  ingresso e fui investito dalla luce, ero assolutamente sicuro che  le due donne mi avrebbero riconosciuto con un sussulto.  Probabilmente, anche Fiona pensò la stessa cosa, perché notai che  si faceva da parte per evitare che la sua presenza diminuisse  l'effetto. Ma né Trude né Inge parvero accorgersi di nulla. Si  limitarono a darmi un'occhiata distratta, poi Trude ci invitò un  po' freddamente a prendere posto. Ci sedemmo tutti e due su uno  stretto divano. Fiona, che sulle prime era rimasta molto male,  parve concludere che questa inattesa piega degli eventi avrebbe  solo reso più intenso il momento dell'agnizione, e mi rivolse un  altro sorrisetto giulivo.   
  - Glielo dico io, o vuoi dirglielo tu? - esordì Inge.   
  Trude, che chiaramente pendeva dalle labbra dell'amica più  giovane, disse: - No, fallo tu, Inge. Lo meriti. Ma tu, Fiona, -  aggiunse rivolgendosi a noi, - guai se vai in giro a raccontarlo.  Vogliamo che sia una sorpresa per la riunione di questa sera,  com'è giusto che sia. Oh, non ti avevamo detto della riunione di  questa sera? Be', adesso lo sai. Mi raccomando, cerca di fare un  salto, se hai tempo. Comunque, visto che hai questo amico per  casa, - e accennò con il capo verso di me, - se non riesci a  venire sarai giustificata. Su, Inge, diglielo tu, lo meriti,  veramente.   
  - Be', Fiona, sono sicura che la cosa ti interesserà. Abbiamo  avuto una giornata emozionante. Come sai, il signor von Braun ci  aveva invitate oggi nel suo ufficio per discutere di persona il  programma dei genitori del signor Ryder. Ah, non lo sapevi?  Pensavo che lo sapeste £tutte. Be', questa sera vi racconteremo  l'incontro nei minimi particolari, per ora ti basti sapere che è  andato molto bene, anche se è stato più breve del previsto. Oh,  il signor von Braun era proprio contrito, non si può usare altra  parola, vero Trude? Non la finiva più di scusarsi, ma quando abbiamo saputo perché doveva scappare via, be', abbiamo capito  perfettamente. Vedi, era stata organizzata una visita  importantissima allo zoo. Ah, tu ridi, Fiona cara, ma non si  trattava di una visita come le altre. Un comitato ufficiale, di  cui naturalmente faceva parte anche il signor von Braun, doveva  accompagnare il signor Brodsky allo zoo. Lo sapevi che il signor  Brodsky non ci era mai stato? Ma non basta: erano riusciti a  convincere la signorina Collins a farsi trovare là. Sì, allo zoo!  Te lo immagini? Dopo tutti questi anni! Ci siamo affrettate a  dire che il signor Brodsky non meritava certo di meno. Sì, la  signorina Collins sarebbe stata là al loro arrivo, li avrebbe  aspettati nel luogo convenuto, sarebbe andata incontro al gruppo  e avrebbe scambiato qualche parola con il signor Brodsky. Tutto  combinato. Te lo immagini? Vedersi e parlarsi dopo tutto questo  tempo! Abbiamo assicurato al signor von Braun che capivamo  £perfettamente le ragioni che lo obbligavano a interrompere la  nostra riunione, ma lui è stato gentilissimo, evidentemente si  sentiva un po' in colpa, e ci ha detto: «Perché non venite anche  voi allo zoo? Non posso invitarvi a fare parte della nostra  comitiva, ma nulla vi impedisce di osservare la scena da qualche  passo di distanza». Gli abbiamo subito risposto che la sola idea  ci elettrizzava. Ed è stato allora che lui ha aggiunto:  «Naturalmente, se fate come vi dico, non solo assisterete al  primo incontro tra il signor Brodsky e sua moglie dopo tutti  questi anni, ma...» E qui ha fatto una pausa, vero Trude? Ha  fatto una pausa, poi, come se nulla fosse, ha continuato: «Ma  potrete vedere da vicino il signor Ryder, che molto gentilmente  ha accettato di unirsi a noi. E se dovesse capitare l'occasione,  anche se questo non posso garantirvelo, vi farò segno e vi  presenterò tutte e due a lui». Siamo rimaste a bocca aperta! Ma  quando ci abbiamo ripensato più tardi, tornando a casa... poco fa  stavamo appunto parlando di questo... ci siamo dette che, a ben  vedere, l'invito non era poi così sorprendente. In fondo ne  abbiamo fatta di strada in questi ultimi anni, basti pensare alle  bandierine per quelli di Pechino, e a tutta la fatica che ci sono  costati i panini per il pranzo con Henri Ledoux...  
  - La vera svolta è stata il Balletto di Pechino, - s'intromise  Trude.   
  - Sì, quella è stata la svolta. Ma si vede che non ci eravamo  mai fermate a riflettere; abbiamo semplicemente continuato a  darci da fare, a impegnarci, senza renderci conto che nel  frattempo stavamo crescendo nella stima di tutti. La verità è che  ormai abbiamo una posizione di spicco nella vita di questa città.  $è giunto il momento di rendersene conto. Inutile negarlo; se non  fosse così, perché il signor von Braun ci inviterebbe  £personalmente nel suo ufficio? Perché si lancerebbe in proposte  come quella che ci ha fatto oggi? «E se dovesse capitare  l'occasione giusta, vi presenterò a lui». Ha detto così, vero,  Trude? «Sono sicuro che il signor Ryder sarebbe felice di  conoscervi, visto e considerato che vi occuperete dei suoi  genitori, che gli stanno infinitamente a cuore». In fondo ci  siamo sempre dette, vero?, che grazie a questo incarico avremmo  avuto buone probabilità di conoscere il signor Ryder. Ma che  potesse succedere così presto proprio non ce l'aspettavamo,  quindi puoi immaginare la nostra eccitazione. Fiona, c'è qualcosa  che non va, cara?  
  Fiona si agitava impaziente al mio fianco, cercando di  interrompere il flusso di parole di Inge. Approfittando della  pausa, mi diede una gomitata e mi lanciò un'occhiata come per  dire: «Adesso! Questo è il momento!» Purtroppo ero ancora un po'  a corto di fiato per colpa di tutti quei piani di scale, e forse  per questo esitai. Vi fu un momento d'imbarazzo in cui le tre donne mi fissarono. Poi, vedendo che non dicevo nulla, Inge  proseguì:   
  - Be', se non ti spiace, Fiona, finisco quello che stavo  dicendo. Sono sicura che hai tante cose interessanti da  raccontarci, cara, e le ascolteremo molto volentieri. Senza  dubbio hai passato un'altra interessantissima giornata sui tuoi  tram, mentre noi, in città, facevamo quello che ti sto  raccontando, ma se sei così gentile da pazientare un minutino,  sentirai qualcosa che, di sfuggita, potrebbe interessare anche a  te. In fondo, - e qui mi parve che il suo tono sarcastico  oltrepassasse i limiti della buona educazione, - c'è di mezzo il  tuo £vecchio £amico, sì proprio il signor Ryder...   
  - Inge, insomma! - intervenne Trude, ma sulle sue labbra  indugiava un sorrisetto. Le due amiche si scambiarono un'occhiata  compiaciuta.   
  Fiona mi diede un'altra gomitata. Voltandomi verso di lei, mi  accorsi che aveva esaurito la pazienza e voleva che le sue  tormentatrici ricevessero immediatamente il giusto castigo.  Chinandomi in avanti, mi schiarii la gola, ma prima che potessi  aprire bocca, Inge aveva ricominciato a parlare.   
  - Be', come stavo dicendoti, a ben pensarci ce lo siamo  meritate. Questa evidentemente è l'opinione del signor von Braun,  se non altro. $è stato di una gentilezza e di una cortesia  squisite, non ti sembra? Si è profuso in scuse quando ha dovuto  scappare dal municipio per raggiungere il comitato ufficiale.  «Saremo allo zoo fra circa mezz'ora, - continuava a ripetere. -  Spero proprio che ci sarete anche voi, mie care signore». Ha  detto che potevamo avvicinarci senza problemi fino a cinque o sei  metri dal gruppo. In fondo, non eravamo persone qualsiasi in  visita allo zoo! Oh, scusami, Fiona, guarda che non ce ne siamo  dimenticate. £Avevamo intenzione di accennare al signor von Braun  che una del nostro gruppo, cioè £tu, cara, era molto amica del  signor Ryder, anzi, un'amica di lunga data. Avevamo proprio  intenzione di accennarglielo, ma sai com'è, non si è mai  presentata l'opportunità, vero, Trude?  
  Di nuovo, le due donne si scambiarono un'occhiatina  compiaciuta. Fiona le fissò con gelido furore. Capii che la  situazione stava degenerando e decisi di intervenire. Tuttavia,  mi si presentarono due possibili strade da seguire. La prima era  di attirare l'attenzione sulla mia identità inserendomi  elegantemente nel filo del discorso di Inge. Per esempio,  intromettendomi con voce pacata per dire: «Be', non abbiamo avuto  il piacere di conoscerci allo zoo, ma poco male, visto che  possiamo farlo comodamente qui, a 
  casa vostra», o qualcosa del  genere. L'alternativa era quella di alzarmi di scatto, magari  allargando le braccia, e di dire seccamente: «Ryder sono io!»  Naturalmente, fra le due, volevo scegliere la strada che avrebbe  provocato il massimo scalpore, ma l'attimo di esitazione fu  fatale, perché Inge aveva già ripreso a parlare.   
  - Siamo andate allo zoo e abbiamo aspettato, mah, sarà stato  una ventina di minuti, vero, Trude? Abbiamo aspettato vicino al  piccolo bar dove puoi prenderti una tazza di caffè in piedi, e  dopo una ventina di minuti abbiamo visto le macchine entrare dai  cancelli. Ne sono scesi dieci o undici signori, tutti molto  eleganti. C'erano il signor von Winterstein, il signor Fischer e  il signor Hoffman. E il signor von Braun, naturalmente. E in  mezzo al gruppo il signor Brodsky, con un'aria proprio distinta,  vero, Trude? Se pensi com'era una volta, è proprio cambiato.  Trude e io abbiamo subito cercato il signor Ryder, ma non  l'abbiamo visto. Abbiamo guardato tutti in faccia, ma c'erano  solo i soliti consiglieri comunali. Per un attimo, mentre il  signor Reitmayer scendeva dall'automobile, l'abbiamo scambiato per il signor Ryder. Ma alla fine abbiamo capito che lui non  c'era; allora ci siamo dette: probabilmente verrà un po' più  tardi, con tutto quello che ha da fare. Poi il gruppetto si è  incamminato per il sentiero; erano tutti in cappotto scuro,  tranne il signor Brodsky, che indossava un cappotto grigio, molto  distinto, con un cappello dello stesso colore. Senza fretta,  hanno oltrepassato gli aceri e si sono diretti verso la prima  gabbia. Il signor von Winterstein faceva gli onori di casa,  mostrando le cose al signor Brodsky, indicandogli gli animali  dentro le varie gabbie. Ma si vedeva che tutti pensavano solo  all'incontro del signor Brodsky con la signorina Collins, e che  nessuno faceva molta attenzione agli animali. Noi non abbiamo  saputo resistere alla curiosità, vero, Trude? Ci siamo spinte  avanti, abbiamo girato l'angolo, e lì, nello slargo principale,  chi ti abbiamo visto? La signorina Collins, tutta sola, che  guardava le giraffe. In giro c'erano anche altre persone, ma  naturalmente nessuna di loro poteva sapere, e solo quando hanno  visto il comitato ufficiale hanno capito che qualcosa bolliva in  pentola e si sono allontanate rispettosamente. La signorina  Collins, invece, è rimasta davanti alle giraffe, e ci è parsa  ancora più sola. Di tanto in tanto lanciava un'occhiata al  comitato ufficiale, che si stava avvicinando. Sembrava  calmissima, e se era emozionata non lo dava a vedere nel modo più  assoluto. Poi abbiamo visto la faccia del signor Brodsky, tutto  compito, che la cercava con gli occhi sebbene fossero ancora  piuttosto lontani, con le gabbie delle scimmie e dei procioni di  mezzo. Sembrava che il signor von Winterstein volesse presentare  tutti gli animali al signor Brodsky, come se fossero stati gli  invitati di un banchetto ufficiale, vero, Trude? Non capivamo  proprio perché quei signori non potessero andare dritti dalle  giraffe e dalla signorina Collins, ma evidentemente avevano  deciso di fare così. E ti assicuro che la scena era così  emozionante, così £commovente, che per un momento ci siamo  persino dimenticate della possibilità che arrivasse il signor  Ryder. Nell'aria fredda si vedeva il fiato del signor Brodsky e  degli altri signori, come una nebbiolina, poi, quando sono stati  a poche gabbie di distanza, il signor Brodsky ha perso ogni  interesse per gli animali e si è tolto il cappello. Ah, Fiona,  avessi visto che gesto all'antica, pieno di riguardo. E noi  abbiamo avuto il privilegio di assistervi.   
  - Un gesto così rivelatore, - s'intromise Trude. - Il modo in  cui si è tolto il cappello e lo ha portato al petto. $è stata una  dichiarazione d'amore e allo stesso tempo una richiesta di  perdono. Davvero commovente.  
  - Grazie, Trude, ma stavo raccontando io. La signorina Collins  è proprio elegante, da lontano non la diresti tanto vecchia. Ha  ancora una figura giovanile. Si è girata verso di lui con gran  disinvoltura, quando ormai li separava una sola gabbia. Gli altri  visitatori si erano ritirati in buon ordine, ma Trude e io ci  siamo ricordate delle parole del signor von Braun, sai, a  proposito dei cinque metri, così ci siamo avvicinate di  soppiatto, ma non troppo, perché il momento ci è sembrato così  intimo che non abbiamo osato. Dapprima la signorina Collins e il  signor Brodsky si sono salutati molto banalmente con un cenno di  capo, poi, di punto in bianco, il signor Brodsky ha fatto qualche  passo avanti tendendo le mani, con un gesto così repentino che  secondo Trude non poteva non essere premeditato...   
  - Oh sì, si sarebbe detto che l'avesse provato di nascosto per  giorni e giorni...   
  - Sì, sono d'accordo con te. L'impressione era quella. Il  signor Brodsky ha sollevato la mano della signorina Collins, l'ha  sfiorata educatamente con le labbra e l'ha lasciata andare. Lei si è limitata a fargli un lieve inchino, poi si è girata subito  verso gli altri, salutando e sorridendo, ma eravamo troppo  lontane per sentire che cosa si sono detti. Poi per un istante è  sembrato che nessuno sapesse più che cosa fare. Finché il signor  von Winterstein ha preso l'iniziativa e ha cominciato a spiegare  qualcosa sulle giraffe al signor Brodsky e alla signorina  Collins, come se si stesse rivolgendo a una coppia, vero, Trude?  Sì, a una bella coppia di vecchietti rimasti insieme dal primo  giorno. Ti immagini la scena? Il signor Brodsky e la signorina  Collins a fianco a fianco... senza toccarsi, solo a fianco a  fianco... tutti e due che guardano le giraffe e ascoltano il  signor von Winterstein. La cosa è andata avanti per un po', e  intanto vedevamo che gli altri consiglieri bisbigliavano fra di  loro per decidere che cosa fare dopo. Poi, gradualmente, senza  dare nell'occhio, tutti sono indietreggiati di qualche passo,  cercando di dileguarsi. Ti dico che l'hanno fatto benissimo, con  grande £stile. A poco a poco, fingendo di chiacchierare fra di  loro, si sono allontanati, e alla fine davanti alle giraffe sono  rimasti solo il signor Brodsky e la signorina Collins. Noi,  naturalmente, abbiamo seguito tutta la scena con grande  attenzione, e credo che gli altri abbiano fatto lo stesso, anche  se ovviamente fingevano di guardare dall'altra. Così abbiamo  visto il signor Brodsky girarsi con eleganza verso la signorina  Collins, indicare con la mano la gabbia delle giraffe e  pronunciare qualche parola. Deve avere detto qualcosa di molto  sentito, perché la signorina Collins ha chinato leggermente il  capo; nemmeno lei riusciva a trattenere la commozione. Il signor  Brodsky ha continuato a parlare. Di tanto in tanto lo vedevamo  sollevare di nuovo la mano, a questo modo, con garbo, verso le  giraffe. Non possiamo dire se parlasse di giraffe o di altro, ma  continuava a indicare la gabbia. La signorina Collins sembrava  sopraffatta dall'emozione, ma è una donna così elegante! Si è  data un contegno, ha sorriso, poi è tornata con il signor Brodsky  verso il gruppetto dei consiglieri. L'abbiamo vista scambiare  qualche parola con loro, molto cordiale e garbata; in particolare  ha avuto un lungo scambio con il signor Fischer, poi ha  cominciato a salutare tutti, a uno a uno. Al signor Brodsky ha  rivolto un piccolo inchino, e si vedeva che lui non stava più  nella pelle dalla gioia. $è rimasto lì imbambolato, come in una  specie di sogno, con il cappello premuto contro il petto. Poi la  signorina Collins si è incamminata per il viottolo, ha superato  il baracchino delle bibite e la fontana ed è sparita dietro il  recinto degli orsi polari. E in quel preciso istante, i  consiglieri hanno smesso di recitare e si sono stretti intorno al  signor Brodsky; si vedeva che erano felici ed eccitati, e  sembrava che si congratulassero con lui. Oh, che cosa non daremmo  per sapere che cosa si sono detti il signor Brodsky e la  signorina Collins! Forse, se fossimo state più audaci e ci  fossimo avvicinate di più, avremmo sentito qualche parola. Ma  capisci anche tu che adesso, con la posizione che abbiamo,  dobbiamo essere prudenti. Comunque, è stato fantastico. E poi, in  questa stagione gli alberi dello zoo sono bellissimi. Chissà che  cosa si sono detti? Trude è convinta che torneranno presto  insieme. Lo sapevi che non hanno mai divorziato? Interessante,  no? $è passato un sacco di tempo, ma sebbene lei insista a farsi  chiamare signorina Collins, non hanno mai divorziato. Il signor  Brodsky merita di riconquistarla. Oh, ma scusami, mi sono  lasciata trasportare dall'entusiasmo e non ti ho ancora  raccontato la cosa più importante! A proposito del signor Ryder!  Vedi, visto che il signor Ryder non faceva parte della comitiva,  non eravamo affatto sicure di poterci avvicinare, anche se la  signorina Collins se ne era andata. Se ben ricordi, il signor von Braun ci aveva detto di farci avanti solo per conoscere il signor  Ryder. Comunque, anche se siamo rimaste nei paraggi e non  l'abbiamo perso di vista un istante, il signor von Braun non ha  mai guardato verso di noi. Probabilmente era troppo occupato con  il signor Brodsky. Così ci siamo tenute in disparte. Poi, mentre  i consiglieri uscivano dallo zoo, li abbiamo visti fermarsi  proprio sul cancello, e lì si è unita a loro una persona, un  uomo. Ormai eravamo lontane, e non si vedeva bene, ma Trude è  sicura che fosse il signor Ryder; lei è meno miope di me, e io  non avevo neppure le lenti. Sei sicura, vero, Trude? Secondo lei,  il signor Ryder, dimostrando molto tatto, era rimasto in disparte  per non rendere le cose più difficili di quello che già erano al  signor Brodsky e alla signorina Collins, e si stava aggregando al  gruppo all'uscita dallo zoo. Sulle prime, quell'uomo mi è  sembrato solo il signor Braunthal, ma come ti dico non avevo le  lenti, e Trude giura che era il signor Ryder. Ripensandoci,  anch'io mi sono convinta che potesse essere lui. E così abbiamo  perso l'occasione di farci presentare! Vedi, ormai erano molto  lontani, praticamente al cancello, e gli autisti avevano già  aperto le portiere delle auto. Anche se ci fossimo messe a  correre non saremmo arrivate in tempo. In senso £stretto, quindi,  non possiamo dire di avere incontrato il signor Ryder. Ma poco fa  ne stavamo discutendo, e ci sembra che in tutti gli altri sensi,  cioè in quelli che contano, sia lecito dire che oggi lo abbiamo  incontrato. In fondo, se avesse fatto parte della comitiva, sono  sicura che davanti alla gabbia delle giraffe, subito dopo la  partenza della signorina Collins, il signor von Braun ci avrebbe  presentate. Non è colpa nostra se non abbiamo pensato che il  signor Ryder sarebbe stato così delicato da aspettare vicino al  cancello. E poi, e qui sta il punto, è indiscutibile che la  nostra presentazione £sarebbe £stata £opportuna. Ed è questo ciò  che conta. Il primo a esserne convinto, date la posizione che  occupiamo adesso, era il signor von Braun. E sai una cosa, Trude,  - aggiunse Inge girandosi verso l'amica, - più ci penso e più  sono d'accordo con te. Alla riunione di questa sera possiamo  benissimo annunciare che abbiamo incontrato il signor Ryder. Ci  scosteremmo dalla verità meno che se dicessimo il contrario. E  poi, questa sera ci sono tante cose da discutere, e non abbiamo  assolutamente tempo di spiegare tutto daccapo. In fondo, se non  ci hanno presentate formalmente, è stato solo per un capriccio  del destino. A tutti gli effetti, lo £abbiamo conosciuto.  Sicuramente il signor Ryder verrà a sapere ogni cosa di noi, se  già non la sa; come potrebbe trascurare di informarsi su chi si  occuperà dei suoi genitori? Quindi è come se l'avessimo già  conosciuto, e come dici tu, sarebbe ingiusto lasciar credere il  contrario. Oh, ma ti prego di scusarmi, - continuò Inge,  voltandosi improvvisamente verso Fiona, - dimenticavo che sto  parlando a una £vecchia £amica del signor Ryder. Alla quale  sembrerà che stiamo facendo tanto chiasso per nulla...   
  - Inge, - disse Trude, - la povera Fiona è tutta confusa. Non  prenderla in giro -. Poi, sorridendo a Fiona, aggiunse: - Va  tutto bene, cara, non preoccuparti.  
  Mentre Trude diceva queste parole, mi tornò in mente la calda  amicizia che mi aveva legato a Fiona da bambino. Ricordai la  casetta bianca, poco lontano dalla nostra lungo quel viottolo  fangoso del Worcestershire; le ore passate a giocare insieme  sotto il tavolo da pranzo dei suoi. Ricordai le volte che ero  andato a trovarla spaventato e confuso, e come era brava a  consolarmi, facendomi dimenticare in fretta le scenate che mi ero  appena lasciato alle spalle. Quando mi accorsi che Inge stava  sbeffeggiando sotto i miei occhi quella preziosa amicizia, non ci  vidi più dalla rabbia; anche se aveva già ricominciato a parlare, mi dissi che non potevo permettere che quella situazione si  protraesse un solo secondo di più. Risoluto a non ripetere  l'errore di prima, quando avevo tergiversato, mi chinai in avanti  con l'intenzione di interrompere Inge e di annunciare  spavaldamente chi ero, per poi abbandonarmi di nuovo sul divano e  godermi l'effetto delle mie parole. Purtroppo, anche se ci misi  tutto il mio impegno, dalle mie labbra uscì solo un grugnito  leggermente strozzato, che bastò tuttavia a bloccare Inge e ad  attirarmi gli sguardi delle tre donne. Vi fu un momento di  silenzio, poi Fiona, senza dubbio per togliermi dall'imbarazzo,  forse per un momentaneo ridestarsi del suo istinto di protezione  nei miei confronti, urlò:  
  - Voi due non avete idea della figura da stupide che state  facendo! E lo sapete perché? No, non lo immaginate nemmeno, voi  due, non potete immaginare quanto siete stupide e incredibilmente  ridicole in questo momento. Come potreste? Il vostro  atteggiamento è tipico, tipico di entrambe! Ho sempre sognato di  dirvelo, da quando ci siamo conosciute, ebbene, adesso lo vedrete  da sole, giudicherete voi stesse se siete delle stupide o cosa.  Guardate!   
  Fiona si voltò di scatto verso di me. Inge e Trude mi fissarono  sbalordite. E io feci un secondo, deliberato tentativo di  presentarmi, ma con mia grande costernazione emisi un altro  grugnito, più energico del precedente ma non per questo meno  incomprensibile. Mentre il panico cominciava a impossessarsi di  me, respirai a fondo e riprovai, ma anche questa volta dalle mie  labbra uscì solo un lungo suono inarticolato.  
  - Che cosa diavolo vuole questa troietta, Trude? - disse Inge.  - Perché ci parla così? Come osa? Che cosa le è preso?  
  - Tutta colpa mia, - disse Trude. - Ho sbagliato. Sono io che  ho proposto di invitarla a fare parte del nostro gruppo. Meno  male che si sta rivelando per quello che è prima dell'arrivo dei  genitori del signor Ryder. $è gelosa, tutto lì. $è gelosa perché  oggi abbiamo incontrato il signor Ryder. Mentre lei deve  accontentarsi delle sue patetiche storielle...  
  - Come sarebbe a dire che lo avete incontrato? - esplose Fiona.  - Se avete appena detto il contrario...   
  - Sai benissimo che è come se l'avessimo incontrato! Vero,  Trude? Siamo perfettamente autorizzate a dire che lo abbiamo  conosciuto. Mi spiace per te, Fiona, ma devi prenderla con  filosofia...   
  - Ah, sì? - Fiona ormai stava quasi strillando. - Vediamo  allora come prendete voi £questo! - E così dicendo, tese le  braccia verso di me come per annunciare una teatrale e drammatica  entrata in scena. Di nuovo feci del mio meglio per non deluderla.  Questa volta il suono inarticolato che mi uscì dalle labbra,  sostenuto da una rabbia e da una frustrazione ancora più intense,  fu più violento che mai, tanto che sentii il divano tremare.   
  - Che cos'ha il tuo amico? - domandò Inge, come accorgendosi  solo allora della mia presenza. Ma Trude non mi badò nemmeno.   
  - Non avrei mai dovuto darti retta, - stava dicendo in tono  acido a Fiona. - Avrei dovuto capire subito con che razza di  bugiarda avevo che fare. E come se non bastasse abbiamo lasciato  che i nostri figli giocassero con i tuoi mocciosi! Probabilmente  sono dei piccoli bugiardi anche loro, e adesso avranno insegnato  a dire bugie anche ai nostri figli. Che ridicolaggine il tuo  ricevimento di ieri sera. E come avevi agghindato il tuo  appartamento! Davvero comico! Abbiamo riso tutta la mattina...  
  - Perché non mi aiuti! - disse Fiona all'improvviso,  rivolgendosi direttamente a me per la prima volta. - Che cosa ti  prende, perché non fai qualcosa?  
  In realtà, per tutto questo tempo mi ero sforzato di parlare. Ma quando Fiona si girò verso di me, mi vidi di sfuggita nello  specchio appeso alla parete di fronte. La mia faccia era  diventata paonazza e deforme, con un che di maialesco, mentre i  pugni, stretti all'altezza del petto, mi tremavano insieme con  tutto il busto. Il vedermi ridotto in quello stato mi tolse ogni  energia; avvilito, mi lasciai andare sul divano ansimando  affannosamente.  
  - Cara Fiona, - disse Inge, - penso che sia ora che tu e  questo... questo tuo amico leviate il disturbo. Non credo che sia  necessario che tu venga questa sera.  
  - Ci mancherebbe altro, - urlò Trude. - Abbiamo delle  responsabilità, adesso. Non possiamo permetterci di stare dietro  agli uccellini con le ali rotte. Non siamo più un semplice gruppo  di volontarie. Abbiamo un compito molto importante da svolgere, e  chi non ne è degno deve essere abbandonato per strada.  
  Vidi che gli occhi della mia amica d'infanzia si stavano  riempiendo di lacrime. Fiona mi guardò di nuovo, questa volta con  amarezza; avrei voluto fare ancora un tentativo per dire chi ero,  ma il ricordo del volto che avevo scorto nello specchio mi fece  cambiare idea. Invece, mi alzai in piedi barcollando e mi diressi  verso l'uscita. Ero ancora senza fiato per lo sforzo di parlare,  e quando raggiunsi la porta dovetti appoggiarmi un momento allo  stipite. Alle mie spalle sentii le due donne che continuavano ad  accalorarsi. A un certo punto Inge disse: - E che persona  disgustosa ci hai portato in casa! - Con un ultimo sforzo,  attraversai quasi di corsa l'entrata, armeggiai per qualche  frenetico istante con la serratura della porta d'ingresso e uscii  nel corridoio. Subito mi sentii meglio e potei avviarmi verso le  scale in maniera più composta. 
17.  
  Mentre scendevo la lunga serie di rampe di scale, diedi  un'occhiata all'orologio e vidi che non potevamo assolutamente  rimandare oltre la partenza per la Galleria Karwinsky.  Naturalmente mi spiaceva molto dovermi lasciare alle spalle una  situazione del genere, ma era ovvio che il mio primo compito,  adesso, era cercare di arrivare puntuale all'impegno più  importante della serata. Decisi però che mi sarei occupato dei  problemi di Fiona in un futuro non troppo lontano.   
  Quando finalmente arrivai al pianterreno, fui accolto da un  cartello sul muro che diceva «Posteggio» e da una freccia che mi  indicava la strada. Oltrepassata una fila di armadietti, uscii  all'aperto.  
  Sbucai sul retro dell'edificio, sul lato opposto al lago  artificiale. Il sole era ormai basso sull'orizzonte. Davanti a me  una vasta distesa verde digradava dolcemente perdendosi in  lontananza. Il posteggio, quasi attaccato alla casa, era un  semplice rettangolo d'erba cintato, e mi ricordò i recinti per il  bestiame dei £ranch americani. Lo spiazzo non era stato ricoperto  di cemento, ma l'andirivieni dei veicoli aveva quasi messo a nudo  la terra. C'era posto per una cinquantina di automobili, anche se  in quel momento non ce n'erano più di sette o otto, tutte  piuttosto lontane le une dalle altre. I colori del tramonto si  riflettevano sulle carrozzerie. In fondo al posteggio la grassona  e Boris stavano caricando il bagagliaio di una giardinetta.  Avvicinandomi, vidi che Sophie si era seduta al posto del  passeggero e fissava con sguardo assente il tramonto attraverso  il parabrezza.  
  Quando arrivai, la grassona stava chiudendo il bagagliaio.   
  - Mi spiace, - le dissi. - Non mi ero reso conto che aveste  così tanta roba da caricare. Vi avrei dato volentieri una mano,  ma...  
  - Non si preoccupi. Con l'aiuto di questo giovanotto me la sono  cavata -. La grassona arruffò i capelli di Boris, poi gli disse:  
  - Su con la vita, d'accordo? Passerete una magnifica serata  insieme. Vedrai. Tua madre ti ha cucinato tutti i tuoi piatti  preferiti.   
  La donna si chinò e se lo strinse al petto in maniera  rassicurante, ma il bambino continuò a fissare il vuoto con aria  sognante. Poi la grassona mi porse le chiavi della macchina.   
  - Benzina dovrebbe essercene abbastanza. Guidi con prudenza.   
  La ringraziai e la seguii con gli occhi mentre si allontanava  verso i condomini. Quando mi girai, vidi che Boris fissava  imbambolato il tramonto. Gli toccai una spalla e lo accompagnai  dall'altra parte della macchina. Senza parlare, il bambino si  sistemò sul sedile posteriore.   
  Evidentemente il tramonto doveva avere un effetto ipnotico,  perché quando mi misi al volante notai che anche Sophie aveva gli  occhi persi nel vuoto. Pensai che non si fosse nemmeno accorta  del mio arrivo, ma mentre mi stavo familiarizzando con i comandi  la sentii dire sottovoce:   
  - Non possiamo lasciare che questa storia della casa ci  trascini a fondo. Guai. Non sappiamo nemmeno quando tornerai qui  la prossima volta. Con la casa o senza la casa, dobbiamo  cominciare a fare qualcosa insieme, qualcosa di £bello. Me ne  sono resa conto questa mattina, mentre tornavo indietro in  autobus. Anche in quell'appartamento, anche con la cucina in  quello stato.   
  - Sì, sì, - dissi, inserendo la chiave nell'accensione. -  Senti, la sai la strada per andare alla galleria?   
  La mia domanda la strappò da quella specie di trance. - Oh, -  disse Sophie, portandosi le mani alla bocca come se si fosse  appena ricordata di qualcosa. Poi aggiunse: - Probabilmente dal  centro della città ci saprei arrivare. Ma di qui non sono sicura.   
  Sbuffai un po' seccato. Intuivo che la situazione rischiava di  sfuggirmi nuovamente di mano e, come già quella mattina, provai  un profondo fastidio nei confronti di Sophie, per il caos che  aveva portato nella mia vita. Ma un attimo dopo sentii accanto a  me la sua voce che diceva allegramente:  
  - Perché non chiediamo al custode? Forse lui lo sa.  
  Stava indicandomi l'entrata del posteggio, dove, per l'appunto,  c'era un gabbiotto di legno con un uomo in uniforme, visibile  dalla cintola in su.   
  - Buona idea, - dissi. - Vado a chiederglielo.   
  Scesi e mi incamminai da quella parte. Una macchina che stava  uscendo dal recinto si era fermata accanto al gabbiotto;  avvicinandomi, vidi il custode - un tizio calvo e grasso -  sporgersi dallo sportello, fare un gran sorriso e gesticolare al  guidatore. La conversazione andò per le lunghe; stavo per  intromettermi tra i due, quando la macchina finalmente ripartì.  Il custode la seguì con gli occhi lungo l'ampia curva che girava  intorno al complesso residenziale. Anche lui sembrava ipnotizzato  dal tramonto; sebbene tossicchiassi proprio sotto il suo  sportello, continuava a fissare la macchina con aria sognante.  Alla fine latrai un buonasera.   
  Il pingue individuo sobbalzò, poi, girandosi verso di me, mi  restituì il saluto: - Oh, buona sera, signore.   
  - Mi scusi se la disturbo, - dissi. - Siamo un po' di fretta.  Dobbiamo andare alla Galleria Karwinsky, ma non essendo di queste  parti, non so qual è la strada più corta.   
  - La Galleria Karwinsky -. L'uomo rifletté un momento, poi  disse: - Veramente, è piuttosto complicato. Credo che vi convenga  seguire il signore che è uscito poco fa. Quello con la macchina  rossa -. E il custode alzò la mano indicando un punto lontano. - Quel signore, per combinazione, abita vicinissimo alla Galleria  Karwinsky. Volendo, potrei provare a darvi qualche indicazione,  ma ci sono così tanti bivi, soprattutto verso la fine, che prima  dovrei pensarci su un momento. Il problema è quando si lascia la  statale e bisogna districarsi in quel labirinto di stradine tra  le fattorie. Sì, è molto meglio che seguiate il signore della  macchina rossa. Se non sbaglio, abita due o tre curve dopo il  bivio della Galleria Karwinsky. $è una zona amena, e lui e sua  moglie sono contenti di vivere lì. Sono quasi in aperta campagna.  Il signore mi ha raccontato che hanno un bel villino, con le  galline e un melo nel cortile dietro casa. Una zona simpatica per  una galleria d'arte, anche se un po' fuori mano. Vale la pena di  andarci. Il signore della macchina rossa dice che non ha nessuna  intenzione di trasferirsi, anche se ogni giorno deve fare un bel  po' di strada per venire qui da noi. Eh, sì, lavora qui,  nell'amministrazione -. L'uomo si sporse improvvisamente dal suo  sportello e mi indicò alcune finestre alle sue spalle. - Laggiù,  vede. Sembrano appartamenti, ma non lo sono. Per amministrare un  complesso di queste dimensioni, oh, non sa quante scartoffie ci  vogliono. Il signore della macchina rossa ci lavora dal giorno in  cui la società dell'acqua ha cominciato a costruirlo. E adesso è  incaricato di tutta la manutenzione. Un lavoro importante, sa, e  ogni giorno deve fare un bel po' di strada, ma lui dice che non  ci pensa nemmeno a trasferirsi più vicino. E non posso dargli  torto, dove sta adesso è magnifico. Ma io sono qui che  chiacchiero, mentre lei chissà che fretta che ha. Mi scusi. Come  le dico, segua la macchina rossa, è la cosa più semplice. Sono  sicuro che la Galleria Karwinsky le piacerà. La campagna intorno  è proprio piacevole, e anche nella galleria mi hanno detto che ci  sono degli oggetti molto belli.   
  Lo ringraziai concisamente e tornai alla macchina. Quando  salii, vidi che Sophie e Boris stavano di nuovo fissando il  tramonto. Accesi il motore senza dire nulla. Solo dopo essere  transitati sobbalzando davanti al gabbiotto di legno - di  passaggio salutai il custode con un cenno della mano - Sophie mi  domandò: - Allora, hai scoperto dove dobbiamo andare?   
  - Sì, sì. Basta seguire la macchina rossa che è partita poco  fa.   
  Mentre dicevo queste parole, mi accorsi che ero ancora  furibondo con lei. Ma non aggiunsi altro e mi immisi sulla strada  che girava intorno al complesso.   
  Passammo davanti alla sfilata di condomini, le cui innumerevoli  finestre riflettevano il tramonto. Poi il complesso residenziale  svanì alle nostre spalle e la strada divenne più larga,  delimitata a destra e a sinistra da una foresta di abeti. Poiché  era quasi vuota, la visibilità era ottima, e presto scorsi  davanti a noi la macchina rossa, un puntino lontano che viaggiava  senza fretta. Dato che non c'era quasi nessuno, non vidi la  necessità di starle addosso, così rallentai, sebbene ci separasse  ancora una notevole distanza. Nel frattempo Sophie e Boris erano  rimasti assorti nel loro silenzio sognante, e anch'io, osservando  il sole che tramontava sulla strada deserta, mi sentii  avviluppare da una gran calma.   
  Dopo un po' mi accorsi che stavo rivivendo nella mia testa il  secondo gol che l'Olanda aveva segnato all'Italia in una  semifinale dei Mondiali di calcio di qualche anno prima. Quello  stupendo tiro da fuori area era uno dei miei ricordi sportivi  preferiti, ma in quel momento mi accorsi, un po' scocciato, di  non rammentare il nome del marcatore. Continuava a venirmi in  mente Rensenbrink, che certamente aveva giocato in quella  partita, ma ero quasi sicuro che non fosse stato lui a segnare.  Rividi la palla sfrecciare nel sole, scavalcare i difensori italiani stranamente imbambolati, avvicinarsi alla rete, superare  le mani protese del portiere. Mi faceva rabbia avere dimenticato  un particolare così importante e stavo ripassando  sistematicamente tutti i nomi dei giocatori olandesi di quel  periodo, quando alle mie spalle Boris disse all'improvviso:   
  - Siamo in mezzo alla strada. Bocceremo.   
  - Macché, - dissi. - Va benissimo così.   
  - Non è vero! - Sentii che Boris prendeva a pugni il mio  schienale. - Siamo in mezzo. Se viene qualcuno dall'altra,  bocciamo!   
  Non dissi nulla, ma mi spostai un po' di più verso il ciglio  della strada. Apparentemente rassicurato, Boris tacque di nuovo.  Poi fu la volta di Sophie, che disse:   
  - Sai, lo ammetto, non ero affatto contenta quando ho saputo  del ricevimento. Temevo che ci rovinasse la serata. Poi però,  ripensandoci, e soprattutto quando ho capito che non ci avrebbe  impedito di cenare insieme, mi sono detta, be', non tutto il male  viene per nuocere. In un certo senso, è proprio quello di cui  abbiamo bisogno. Sono sicura che saprò comportarmi bene, e anche  Boris. Ci comporteremo bene tutti e due, così avremo qualcosa da  festeggiare quando torniamo a casa. Una serata così potrebbe  davvero segnare una svolta nei nostri rapporti.   
  Prima che potessi rispondere, Boris gridò di nuovo:   
  - Viaggi in mezzo alla strada!   
  - Non mi sposterò di un centimetro, - dissi. - Va benissimo  così.  
  - Forse è spaventato, - mi disse Sophie, pacatamente.   
  - E perché dovrebbe essere spaventato?   
  - Ho paura! Ci ammazzeremo tutti!   
  - Boris, smettila, per piacere. Sto guidando in maniera  prudentissima.   
  Avevo parlato piuttosto seccamente, e Boris non ribatté.  Tuttavia, mentre continuavo a guidare, mi accorsi che Sophie mi  guardava un po' preoccupata. Di tanto in tanto si voltava a dare  un'occhiata a Boris, poi i suoi occhi tornavano a posarsi su di  me. Alla fine disse in tono calmo:   
  - Perché non ci fermiamo un momento?   
  - Fermarci? E perché mai?   
  - Arriveremo lo stesso puntuali alla galleria. Non sarà qualche  minuto a fare differenza.   
  - Non sarebbe meglio trovare un posto, prima?   
  Sophie rimase zitta per un po'. Poi si girò di nuovo verso di  me e disse: - Perché non ci fermiamo? Così beviamo qualcosa e  facciamo merenda. Servirà a calmarti.   
  - Perché dovrei calmarmi?   
  - Voglio fermarmi! - strillò Boris da dietro.   
  - Perché dovrei calmarmi?   
  - Non voglio assolutamente che questa sera voi due litighiate  di nuovo, - disse Sophie. - State ricominciando da capo. Ma  questa sera, no. Non lo permetterò. Dobbiamo distendere i nervi.  Diventare dell'umore giusto.  
  - Come sarebbe a dire, dell'umore giusto? Qui non c'è nessuno  di cattivo umore.   
  - Voglio fermarmi! Ho paura! Ho la nausea!   
  - Guarda, - disse Sophie, mentre passavamo davanti a un  cartello, - fra poco c'è una stazione di servizio. Per piacere,  fermiamoci lì.   
  - Ma che bisogno c'è...   
  - Lo vedi che ti stai arrabbiando? Ma questa sera è troppo  importante. Ti prego, non questa sera.   
  - Voglio fermarmi! Devo andare al gabinetto!   
  - Ecco la stazione. Per piacere, fermati. Cerchiamo di aggiustare le cose prima che degenerino.   
  - Secondo te che cosa c'è da aggiustare?   
  Sophie non rispose e continuò a guardare ansiosamente oltre il  parabrezza. Stavamo attraversando una zona montuosa. I boschi di  abeti erano spariti, lasciando il posto a pendii scoscesi che  s'innalzavano ai due lati della strada. All'orizzonte si vedeva  la stazione di servizio, una struttura che ricordava un'astronave  costruita sulla sommità di una parete di roccia. Provai di nuovo  una gran rabbia nei confronti di Sophie, ciò nonostante - quasi  mio malgrado - rallentai e mi spostai sulla corsia esterna.   
  - Vedi, stiamo fermandoci, - disse Sophie a Boris. - Non devi  preoccuparti.   
  - Non era affatto preoccupato, - dissi gelidamente, ma Sophie  fece finta di non sentire e continuò a parlare al figlio.   
  - Faremo uno spuntino, e dopo ci sentiremo tutti molto meglio.   
  Seguendo le indicazioni, lasciai la statale e mi inerpicai su  per una ripida stradina. Dopo numerosi zig-zag, l'inclinazione  diminuì e ci trovammo in un posteggio all'aperto. C'erano  parecchi autocarri allineati l'uno accanto all'altro, e almeno  una dozzina di automobili.   
  Scesi e mi stirai le braccia. Poi mi girai e vidi che Sophie  stava aiutando Boris a uscire dalla macchina. Il bambino mosse  qualche passo sull'asfalto con aria intontita. Poi, come  risvegliandosi, sollevò la faccia al cielo e lanciò un urlo da  Tarzan, battendosi il petto con i pugni.   
  - Piantala, Boris! - gridai.   
  - Ma non dà noia a nessuno, - disse Sophie. - Chi vuoi che lo  senta?   
  Effettivamente, eravamo in cima a una montagna e ancora  piuttosto lontani dalla struttura di vetro della stazione di  servizio. Il tramonto, di un rosso profondo, si rifletteva sulle  superfici dell'edificio. Senza parlare, passai accanto a madre e  figlio e mi diressi verso l'entrata.   
  - Non do noia a nessuno! - mi gridò dietro Boris. Poi ci fu un  secondo urlo di Tarzan, che finì, questa volta, in uno yodel.  Proseguii senza voltarmi. Solo quando giunsi all'ingresso mi  fermai ad aspettare, tenendo aperta la pesante porta di vetro.   
  Attraversammo un atrio con una fila di telefoni pubblici, poi  una seconda porta a vetri, ed entrammo nel bar ristorante. Fummo  accolti da un profumo di carne alla griglia. La sala era enorme,  con lunghe file di tavoli ovali Su ogni lato c'erano grandi  vetrate, attraverso le quali si vedevano ampie distese di cielo.  In lontananza si udivano i rumori della strada, che passava molto  più in basso.   
  Boris corse al banco del self-service e prese un vassoio. Dissi  a Sophie di comprarmi una bottiglia d'acqua minerale e partii in  cerca di un tavolo. Non c'era molta gente - solo quattro o cinque  tavoli erano occupati - ma io andai in fondo a una delle file e  mi sedetti con la schiena alle nuvole.   
  Dopo qualche minuto Boris e Sophie mi raggiunsero con i loro  vassoi. Si sedettero di fronte a me e cominciarono a sparpagliare  le loro cose sul tavolo con uno strano mutismo. Solo allora notai  che Sophie lanciava continue occhiate a Boris; immaginai che  mentre erano al banco avesse insistito con il bambino perché mi  dicesse qualcosa - qualcosa per rimediare ai danni del nostro  recente alterco. Fino a quel momento non mi era nemmeno passato  per la testa che fosse necessaria una qualche riconciliazione tra  me e Boris, e mi infastidì che Sophie s'intromettesse in maniera  così maldestra. Per alleviare la tensione, feci qualche battuta  sull'arredamento futuristico del locale, ma Sophie mi rispose  distrattamente e di nuovo lanciò un'occhiata a Boris. Lo fece con tale mancanza di discrezione che avrebbe potuto ottenere lo  stesso effetto con una gomitata. Comprensibilmente, Boris era  piuttosto restio ad assecondarla; aveva messo il broncio e  continuava a rigirare tra le dita un pacchetto di noccioline  appena comprato. Alla fine, senza alzare gli occhi, bofonchiò:  
  - Ho letto un libro in francese.   
  Feci spallucce e mi girai a guardare il tramonto. Mi accorsi  che Sophie incitava Boris a dire qualcos'altro. Dopo un po' il  bambino ripeté in tono scontroso:  
  - Ho letto un intero libro in francese.   
  Mi voltai verso Sophie e dissi: - Io con il francese non mi  sono mai trovato. Continuo ad avere più problemi con il francese  che con il giapponese. Sul serio. A Tokyo me la cavo meglio che a  Parigi.   
  Sophie, evidentemente scontenta della mia risposta, mi fulminò  con un'occhiataccia. Irritato dal suo tentativo di coercizione,  mi girai di nuovo a guardare il tramonto. Dopo un po' la udii  dire:   
  - Boris è migliorato moltissimo nelle lingue.   
  Poi, visto che né io né Boris le davamo retta, si chinò verso  il figlio aggiungendo:   
  - Boris, fai ancora un piccolo sforzo. Fra poco arriveremo alla  galleria. Ci sarà tanta gente. Certe persone ti sembreranno molto  importanti, ma tu non avere paura, d'accordo? La mamma non si  lascerà intimorire, e nemmeno tu. Mostreremo a tutti che sappiamo  comportarci bene. Faremo un figurone, vero?   
  Per un po' Boris continuò a rigirare tra le dita il suo  pacchetto. Poi alzò gli occhi e sospirò.   
  - Non preoccuparti, - disse. - So come si deve fare -. Poi  raddrizzò la schiena e continuò: - Metti la mano in tasca. Così.  E con l'altra tieni il bicchiere. Così.   
  Il bambino rimase in quella posizione per qualche secondo,  assumendo un espressione altezzosa. Sophie scoppiò a ridere, e  nemmeno io riuscii a trattenere un sorriso.   
  - E quando la gente ti viene vicino, - prosegui Boris, - ti  limiti a ripetere: «Davvero straordinario! Davvero  straordinario!» O se preferisci: «Impagabile! Impagabile!» E  quando un cameriere ti porge un vassoio, gli fai così -. E Boris  mostrò una faccia schifata e scosse il dito da una parte  all'altra.  
  Sophie continuava a ridere. - Boris, questa sera spopolerai.   
  Boris sorrise beato, chiaramente soddisfatto della propria  esibizione. Poi di colpo si alzò e disse: - Adesso devo andare al  gabinetto. Me n'ero dimenticato. Vado e torno.   
  Ripeté un'ultima volta a nostro beneficio lo sdegnoso rifiuto  con il dito e scappò via.   
  - Sa essere molto divertente, - dissi.   
  Sophie si era girata a guardare Boris che si allontanava fra i  tavoli. - Cresce in fretta, - disse. Poi sospirò e assunse  un'espressione pensierosa. - Presto sarà grande. Non abbiamo  molto tempo.   
  Non dissi nulla, aspettando che proseguisse. Per qualche  secondo Sophie continuò a guardare dietro di sé, poi si girò e  aggiunse in tono sommesso: - La sua infanzia scivola via. Presto  sarà grande e non avrà conosciuto altro che questo.   
  - Parli come se facesse una vita d'inferno. Invece conduce  un'esistenza normalissima.  
  - Sì, lo so, la sua vita non è così brutta. Ma questa è la sua  infanzia, e io ho un'idea molto chiara di come dovrebbe essere.  Perché ricordo la mia, capisci, quando ero piccolina, prima che  la mamma si ammalasse. Era bello, allora -. Parlava rivolta verso  di me, ma i suoi occhi sembravano guardare le nuvole alle mie spalle. - Vorrei che fosse così anche per lui.   
  - Be', non preoccuparti. Risolveremo presto i nostri problemi.  Nel frattempo Boris se la sta cavando benissimo. Non c'è nessun  bisogno di preoccuparsi.   
  - Sei come tutti gli altri -. Adesso c'era una punta di rabbia  nella sua voce. - Ti comporti come se avessimo tutto il tempo di  questo mondo. Non capisci proprio, vero? Papà ha ancora un bel  po' di anni davanti a sé, ma non sta certo ringiovanendo. Un  giorno non ci sarà più, e allora resteremo solo noi. Tu, io e  Boris. Ecco perché dobbiamo sbrigarci a costruire qualcosa -.  Sophie respirò a fondo e scosse la testa, poi abbassò gli occhi  sulla sua tazza di caffè. - Tu non hai idea. Non hai idea di come  può diventare triste la vita quando tutto va storto.   
  Mi parve inutile ribattere. - Be', allora è deciso, - dissi.  Troveremo presto una soluzione.   
  - Tu non ti rendi conto che il tempo stringe. Guardaci. Non  abbiamo nemmeno cominciato.   
  Il tono d'accusa era sempre più aspro. Sembrava che Sophie  avesse completamente dimenticato che il suo comportamento aveva  avuto una parte non indifferente nell'impedirci di raddrizzare  ciò che «andava storto». Ebbi improvvisamente la tentazione di  rinfacciarle tutto, ma alla fine preferii tacere. Restammo  qualche istante in silenzio, poi mi alzai e dissi:   
  - Scusa. Penso che mangerò qualcosa anch'io.   
  Sophie stava di nuovo fissando il cielo; ebbi l'impressione che  non si fosse nemmeno accorta che l'avevo lasciata sola. Mi  diressi verso il banco del self-service e presi un vassoio. Stavo  esaminando le paste, quando mi ricordai di colpo che non sapevo  la strada per la Galleria Karwinsky e che dipendevamo  completamente dalla macchina rossa. Pensai all'automobile, che  anche in quel momento stava viaggiando sulla statale,  allontanandosi sempre di più da noi, e mi dissi che non potevamo  assolutamente perdere altro tempo a bighellonare in quella  stazione di servizio. Anzi, decisi che dovevamo ripartire subito.  Tuttavia, mentre stavo per restituire il vassoio e per tornare di  corsa al nostro tavolo, mi accorsi che lì accanto c'era qualcuno  che parlava di me.   
  Guardandomi intorno, vidi due eleganti signore di mezza età  sedute a un tavolo. Avevano avvicinato le teste e confabulavano  sottovoce; a quanto capii, non sospettavano minimamente che in  quel preciso istante mi trovassi a due passi da loro. Sulle  prime, visto che non facevano quasi mai il mio nome, non fui del  tutto sicuro di essere l'argomento della loro conversazione. Ma  presto divenne impossibile supporre che stessero parlando di  qualcun altro.  
  - Oh, sì, - diceva una delle signore. - Non so quante volte si  sono messi in contatto con la signorina Stratmann. Lei continua a  giurare che l'ispezione ci sarà, ma per il momento lui non si è  fatto vedere. Dieter dice che per loro è lo stesso, intanto il  lavoro non manca, ma sono tutti tesi come corde di violino  all'idea che possa arrivare da un minuto all'altro. E  naturalmente il signor Schmidt piomba lì in continuazione,  sbraitando di fare ordine, perché che cosa succederebbe se lui  arrivasse in quel momento e trovasse la sala dei concerti in  quello stato? Dieter dice che tutti hanno i nervi a fior di  pelle, persino quell'Edmundo. E poi, questi genii, non sai mai  che cosa vanno a scovare pur di criticare. Nessuno ha dimenticato  quando Igor Kobyliansky è venuto a ispezionare la sala e ha  esaminato ogni cosa con incredibile pignoleria. Si è messo a  quattro zampe sul palcoscenico, mentre gli altri facevano cerchio  intorno a lui, e sotto gli occhi di tutti ha cominciato a  strisciare di qui e di là, picchiando su ogni tavola del pavimento e posandovi sopra l'orecchio. Sono due giorni che  Dieter non è più lui; è così irascibile quando deve andare a  lavorare. Per loro è terribile. Ogni volta che lui non si fa  vedere all'ora fissata, aspettano un'ora, poi telefonano di nuovo  a questa Stratmann. E lei si profonde in scuse, trova mille  giustificazioni, e combina un altro appuntamento.   
  Mentre ascoltavo questa tirata, mi tornò in mente una cosa cui  avevo pensato più volte nelle ultime ore: e cioè che sarei stato  saggio a contattare la signorina Stratmann più spesso di quanto  avessi fatto finora. Anzi, mi dissi che avrei potuto telefonarle  da una delle cabine pubbliche che avevo visto nell'ingresso. Ma  prima che potessi soffermarmi a valutare quest'idea, la donna  riprese a parlare.   
  - E questo dopo che la signorina Stratmann ha sostenuto per  settimane che lui vuole assolutamente esaminare la sala. A  sentire lei, è preoccupato non tanto per l'acustica e le solite  cose, quanto per i suoi genitori, e vuole vedere dove li  sistemeranno durante la serata. Pare che siano tutti e due  piuttosto malconci, e abbiano bisogno di sedili e attrezzature  particolari, oltre che di personale specializzato nel caso che a  uno dei due venga un colpo o che so io. Un'organizzazione  tutt'altro che semplice, e lui, secondo la Stratmann, è ansioso  di riesaminare ogni singolo particolare con i responsabili. Be',  è commovente che dimostri tanta premura per i vecchi genitori. Ma  poi, chissà perché, non si fa vedere! Ovviamente, la colpa  potrebbe essere della Stratmann più che sua. Dieter, almeno, la  pensa così. Pare che £lui abbia un'ottima reputazione; non sembra  il tipo che si diverte a creare fastidi al prossimo.   
  Stavo cominciando a irritarmi con le due signore, e  naturalmente tirai un sospiro di sollievo quando udii  quest'ultimo commento. Ma ciò che avevano detto a proposito dei  miei genitori - a proposito della necessità di provvedere alle  loro particolari esigenze - mi convinse a telefonare subito alla  signorina Stratmann. Non potevo rimandare neanche di un secondo.  Abbandonando il vassoio sul banco, mi affrettai verso l'ingresso.   
  Entrai in una cabina e mi frugai in tasca cercando il biglietto  da visita della signorina Stratmann. Dopo un momento lo trovai e  feci il numero. La donna rispose immediatamente.   
  - Signor Ryder, grazie per avere chiamato. Sono contenta che  tutto proceda per il meglio.   
  - Ah. Lei è di questo parere?   
  - Ma certo! Ha riscosso da per tutto un grande successo. La  gente non sta più nella pelle dall'eccitazione. Per non parlare  del suo discorso dopo la cena di ieri sera. Tutti dicono che è  stato spiritosissimo. Sa, è davvero piacevole lavorare con una  persona come lei.   
  - Be', la ringrazio, signorina. Le sue parole sono davvero  gentili. $è anche piacevole sentirsi così bene accuditi. Le  telefono perché... ehm... volevo verificare alcuni punti del mio  programma. Purtroppo oggi ho avuto un paio di contrattempi, con  qualche spiacevole quanto inevitabile conseguenza.   
  Feci una pausa, aspettandomi che la signorina Stratmann dicesse  qualcosa, ma dall'altro capo del filo tutto tacque. Ridacchiai e  proseguii: - Adesso, ovviamente, stiamo andando alla Galleria  Karwinsky. Anzi, siamo già per strada. $è chiaro che vogliamo  arrivare là per tempo. Ci tengo a dirle che siamo molto contenti.  Da quanto ho capito, la campagna intorno alla Galleria Karwinsky  è bellissima. Sì, siamo molto contenti di andarci.   
  - Mi fa piacere, signor Ryder -. C'era una strana incertezza  nella voce della signorina Stratmann. - Spero che al ricevimento  si diverta -. Poi, all'improvviso, la donna aggiunse: - Signor Ryder, spero che non si sia offeso.   
  - Offeso io?   
  - Quando le abbiamo proposto di andare dalla Contessa questa  mattina non intendevamo insinuare nulla. Non dubitavamo affatto  che lei conoscesse alla perfezione i lavori del signor Brodsky,  nessuno si sarebbe mai sognato di pensare il contrario. Solo che  alcune di quelle registrazioni sono molto rare, e sia la Contessa  sia il signor von Winterstein credevano che... Oh, cielo, spero  che non si sia offeso, signor Ryder! Le assicuro che non  intendevamo insinuare nulla.   
  - Non sono minimamente offeso, signorina Stratmann. Anzi, avevo  paura del contrario, cioè che la Contessa e il signor von  Winterstein, non vedendomi arrivare...   
  - Oh, di questo non deve preoccuparsi, signor Ryder.   
  - Avevo molta voglia di conoscerli e di parlare con loro, ma  quando mi sono accorto che le circostanze mi impedivano di fare  tutto ciò che avevamo sperato inizialmente, ho pensato che  avrebbero capito, visto soprattutto, come dice anche lei, che non  era assolutamente indispensabile che ascoltassi i dischi del  signor Brodsky...   
  - Signor Ryder, sono sicura che la Contessa e il signor von  Winterstein capiscono perfettamente la situazione. D'altronde, me  ne rendo conto adesso, era davvero presuntuoso voler organizzare  una cosa simile con tempi così stretti. Spero £veramente che non  si sia offeso.   
  - Le assicuro che non sono assolutamente offeso. Ma se  permette, le ho telefonato per discutere alcuni aspetti, o  meglio, alcuni £altri aspetti del mio programma.   
  - E cioè, signor Ryder?  
  - Per esempio, la mia visita al palazzo dei concerti.   
  - Ah, sì.   
  Aspettai a vedere se avrebbe aggiunto qualcosa, ma dato che  taceva, proseguii: - Volevo solo accertarmi che tutto fosse in  ordine per il mio arrivo.   
  Finalmente la signorina Stratmann parve accorgersi  dell'inquietudine della mia voce. - Ah, capisco che cosa intende,  - disse. - Non ho previsto molto tempo per l'ispezione. Ma come  può vedere... - La donna fece una pausa, durante la quale sentii  il fruscio di un foglio di carta. - Come può vedere, prima e dopo  la visita al palazzo dei concerti, ci sono due appuntamenti molto  importanti. Così ho pensato che se si fosse trovato a corto di  tempo, avremmo dovuto comprimere la visita al palazzo dei  concerti. D'altronde, se lo riterrà necessario, potrà tornarci in  un altro momento. Invece, capisce anche lei che non si possono  accorciare i tempi degli altri due impegni. Per esempio,  l'incontro con il Gruppo di Mutuo Soccorso dei Cittadini. So che  reputa essenziale conoscere la gente comune che ha patito...   
  - Certo, certo, ha perfettamente ragione. Sono d'accordo con  lei. Posso sempre infilare una seconda visita al palazzo dei  concerti più tardi. Sì, sì. Ero solo un po' preoccupato per i  preparativi. Sa, per i miei genitori.   
  Dall'altro capo del filo ci fu di nuovo silenzio. Mi schiarii  la gola e continuai:  
  - Come lei sa, mia madre e mio padre sono avanti negli anni, ed  è necessario che la sala sia attrezzata per accoglierli.   
  - Sì, sì, naturalmente -. La signorina Stratmann sembrava un  po' perplessa. - E che ci sia assistenza medica per qualsiasi  eventualità. Sì, abbiamo provveduto a tutto; lo vedrà con i suoi  occhi durante l'ispezione.   
  Riflettei qualche istante sulle sue parole. Poi dissi: - Stiamo  parlando dei miei genitori. Mi auguro che non ci sia nessuna  confusione in proposito.  
  - No, assolutamente, signor Ryder. La prego di non  preoccuparsi.   
  La ringraziai e uscii dalla cabina. Tornato nel bar, mi fermai  un momento davanti alla porta a vetri. Il tramonto gettava lunghe  ombre sul pavimento. Le due signore di mezza età discutevano  animatamente, ma non riuscii a capire se parlassero ancora di me.  In fondo alla sala, Boris stava spiegando qualcosa a Sophie;  all'improvviso, tutti e due scoppiarono a ridere allegramente.  Rimasi dov'ero ancora qualche istante, ripensando alla  conversazione con la signorina Stratmann. Effettivamente, £c'£era  qualcosa di presuntuoso nell'idea che potesse servirmi ascoltare  i vecchi dischi di Brodsky. Senza dubbio la Contessa e von  Winterstein avevano sperato di potermi accompagnare per mano  attraverso la musica. Questo pensiero mi irritò, e ringraziai il  cielo di essere stato costretto a saltare l'appuntamento.  
  Poi guardai l'orologio e mi accorsi che, nonostante tutte le  assicurazioni che avevo dato alla signorina Stratmann,  rischiavamo di arrivare in ritardo alla Galleria Karwinsky. Mi  avvicinai al nostro tavolo e, senza sedermi, dissi:   
  - Dobbiamo muoverci. Siamo qui già da un bel po'.   
  Avevo parlato con una certa premura, ma Sophie si limitò a  guardarmi, dicendo:   
  - Boris sostiene che non ha mai mangiato delle ciambelle buone  come in questo posto. Hai detto così, vero, Boris?   
  Lanciai un'occhiata al bambino e vidi che mi stava ignorando.  Ricordai allora il nostro recente litigio - che mi era  completamente passato di mente - e ritenni opportuno dire  qualcosa di conciliante.     - Sono davvero così buone? - gli domandai. - Me ne fai  assaggiare un pezzetto?   
  Boris continuò a guardare dall'altra. Aspettai qualche secondo,  poi feci spallucce.   
  - Come vuoi, - dissi. - Se non ti va di parlare, per me fa lo  stesso.   
  Sophie toccò Boris sulla spalla. Vedendo che stava per  supplicarlo, guardai dall'altra e dissi: - Su, dobbiamo andare.   
  Sophie scrollò di nuovo Boris. Poi, con un filo di disperazione  nella voce, mi implorò: - Restiamo ancora un pochino. Non ti sei  quasi seduto con noi. E a Boris piace così tanto questo posto.  Vero, Boris?   
  Di nuovo Boris fece finta di non avere sentito.  
  - Adesso dobbiamo proprio andare, - dissi. - Altrimenti faremo  tardi.   
  Sophie, sempre più furente, ci fulminò tutti e due con lo  sguardo. Poi cominciò ad alzarsi. Allora mi girai e mi diressi  verso l'uscita senza guardarmi indietro. 
18.  
  Quando mi immisi sulla statale dopo avere disceso la ripida  stradina a zigzag, il sole era ormai molto basso. Il traffico,  come al solito, era scarso, e per un bel po' potei procedere a  velocità sostenuta, scrutando l'orizzonte in cerca  dell'automobile rossa. Dopo parecchi minuti lasciammo le montagne  e ci trovammo in una vasta pianura coltivata. Ai nostri lati, i  campi si stendevano a perdita d'occhio. Mentre la strada faceva  una lunga curva appena accennata in un tratto pianeggiante, vidi  di nuovo la macchina rossa. Era ancora piuttosto lontana, ma mi  accorsi che il guidatore continuava a viaggiare senza fretta.  Rallentai anch'io, e presto cominciai a godermi il paesaggio che  si dispiegava davanti ai miei occhi: i prati al tramonto, il sole  bassissimo che baluginava dietro una macchia d'alberi lontana, i  rari cascinali... e anche la macchina rossa, che spariva e riappariva davanti a noi secondo i capricci della strada. Poi,  accanto a me, sentii la voce di Sophie che diceva:   
  - Quanta gente pensi che ci sarà?   
  - Al ricevimento? - Alzai le spalle. - Come faccio a saperlo?  Ho l'impressione che tu ti stia agitando in maniera esagerata. $è  solo un ricevimento.   
  Sophie continuò a tenere gli occhi fissi sul paesaggio. Poi  disse: - Molte delle persone di questa sera saranno le stesse che  c'erano al banchetto in onore di Rusconi. $è per questo che sono  nervosa. Pensavo l'avessi capito.   
  Cercai di ricordare quel banchetto, ma il nome non mi diceva  niente.   
  - Cominciavo a cavarmela molto meglio nelle occasioni mondane,  - continuò Sophie. - Ma quella gente è stata perfida. Non mi sono  ancora ripresa. E sicuramente questa sera gran parte degli  invitati saranno gli stessi.   
   Stavo ancora sforzandomi inutilmente di ricordare  quell'episodio. - Sono stati maleducati con te? - domandai.  
  - Maleducati? Be', immagino che si possa dire così. Una cosa è  certa: mi hanno fatta sentire misera e patetica. Spero proprio  che questa sera non siano di nuovo tutti lì.   
  - Se qualcuno si azzarda a trattarti male, vieni subito a  dirmelo. Per quanto mi riguarda, rispondigli pure per le rime.   
  Sophie si girò a guardare Boris. Dopo un momento mi accorsi che  il bambino si era addormentato. La madre rimase a osservarlo per  un po', poi si voltò di nuovo verso di me.   
  - Perché ricominci daccapo? - mi domandò in tono molto diverso.  - Sai bene quanto ne soffra Boris. Stai ricominciando tutto  daccapo. Per quanto tempo pensi di continuare, questa volta?   
  - Continuare che cosa? - domandai stancamente. - Si può sapere  di che cosa stai parlando?   
  Sophie mi fissò ancora per un istante, poi distolse gli occhi.  - Proprio non lo capisci, - disse quasi a se stessa. - Non c'è  più tempo per queste cose. Non lo capisci, vero?   
  Sentii che stavo per esaurire la pazienza. Ripensai al caos di  quella giornata e non potei trattenermi dal dire ad alta voce:   
  - Insomma, chi ti dà il diritto di criticarmi in continuazione  a questo modo? Porse non te ne sei accorta, ma in questo momento  ho fior di preoccupazioni per la testa. E invece di aiutarmi, tu  non fai che criticare, criticare, criticare. E adesso ti prepari  a rovinarmi il ricevimento. Sì, da come ti comporti dài proprio  questa impressione...   
  - Ah, sì? Allora Boris e io non veniamo! Ti aspetteremo in  macchina. Vattene da solo al tuo ricevimento!   
  - Non occorre. Sto solo dicendo che...   
  - Parlo sul serio! Va' da solo. Così non ti rovineremo un bel  niente.   
  Dopo questo alterco viaggiammo per parecchi minuti senza più  parlarci. Alla fine dissi:   
  - Senti, mi spiace. Vedrai che molto probabilmente a questo  ricevimento ti troverai bene. Anzi, ne sono sicuro.   
  Sophie non rispose. Continuammo a viaggiare in silenzio; ogni  volta che mi giravo verso di lei la vedevo fissare con aria  assente il puntino rosso della macchina. Mi sentii invadere da  una strana sensazione di panico, tanto che a un certo punto  dissi.  
  - Senti, anche se questa sera dovesse andare tutto storto, non  farebbe nessuna differenza. Le cose che contano sono ben altre.  Che bisogno abbiamo di comportarci come due sciocchi?   
  Sophie continuò a fissare la macchina rossa. Poi disse: - Ti  sembro ingrassata? Dimmi la verità.   
  - Nient'affatto. Stai benissimo.  
  - Però è così. Ho messo su qualche chilo.   
  - Non importa. Qualunque cosa succeda questa sera, non cambierà  nulla. Non devi preoccuparti. Presto sistemeremo tutto. La casa,  e anche il resto. Vedi anche tu che non devi preoccuparti.   
  Mentre pronunciavo queste parole, cominciai a ricordare  qualcosa del banchetto cui Sophie aveva accennato poco prima. In  particolare, rividi un'immagine di Sophie in abito da sera rosso  scuro, sola e imbarazzata in mezzo a una stanza piena di gente  che rideva e conversava in gruppetti. Pensai a come doveva essere  stato umiliante per lei, e le accarezzai un braccio. Con mio  sollievo, Sophie reagì posandomi la testa sulla spalla.   
  - Vedrai, - disse, quasi in un sussurro. - Sarai fiero di me. E  anche di Boris. Non importa chi ci sarà questa sera, sarai fiero  di noi.   
  - Sì, sì. Ne sono sicuro. Vi troverete tutti e due bene.   
  Passarono parecchi minuti, poi notai che la macchina rossa  aveva messo la freccia per lasciare la statale e ridussi la  distanza che ci separava. Un attimo dopo stavamo seguendo la  nostra guida su per una tranquilla stradina circondata di prati.  Mentre salivamo, il rumore della statale svanì alle nostre  spalle. Presto ci trovammo su piste di terra battuta poco idonee  ai mezzi di trasporto moderni. A un certo punto sfregammo con  tutta la fiancata contro una folta siepe, poi attraversammo  sobbalzando un'aia fangosa piena di macchine agricole scassate.  Infine sbucammo su una bella strada di campagna che serpeggiava  tra i campi. Il fondo era buono e potemmo accelerare di nuovo.  Dopo un po' sentii Sophie gridare: - Oh, eccoci! - e su un albero  vidi un cartello di legno con la scritta «Galleria Karwinsky».   
  Davanti all'ingresso rallentai fin quasi a fermarmi. C'erano  ancora due pali arrugginiti, ma il cancello era scomparso. Mentre  la macchina rossa continuava per la sua strada scomparendo  definitivamente dalla nostra vista, passai in mezzo ai pali e mi  inoltrai in un vasto prato di erba alta.   
  Il campo era attraversato da un viottolo di terra battuta, e  per un po' salimmo lentamente su per la collina. Giunti sul  colmo, davanti ai nostri occhi si aprì un magnifico paesaggio. I  prati digradavano verso una valletta, in fondo alla quale sorgeva  una costruzione imponente, simile a un £château francese. Il sole  stava tramontando dietro i boschi alle sue spalle. Sebbene  fossimo ancora lontani, ebbi l'impressione che l'edificio  emanasse un fascino alquanto sbiadito, che evocava il lento  declino di una famiglia di proprietari terrieri un po' visionari.   
  Misi una marcia bassa e scesi con prudenza il pendio. Nello  specchietto vedevo Boris, di nuovo perfettamente sveglio, che si  guardava a destra e a sinistra. Ma l'erba era così alta che  ostruiva completamente la vista dai finestrini laterali.   
  Quando fummo più vicini, mi accorsi che una vasta zona del  prato davanti alla casa era invasa dalle automobili. Giunto in  fondo alla discesa, mi diressi da quella parte; calcolai che ci  fossero quasi cento macchine, alcune lustrate come specchi per  l'occasione. Girai per un po' cercando un posto adatto per  parcheggiare, poi mi fermai non lontano dal muro semidiroccato  del cortile.   
  Uscii dall'auto e mi sgranchii le braccia e le gambe. Quando mi  voltai, vidi che anche Sophie e Boris erano scesi. Sophie stava  rassettando il figlio.   
  - Ricordatelo bene, - sentii che gli diceva. - Nessuno là  dentro è più importante di te. Ripetitelo in continuazione. In  ogni caso, non ci fermeremo molto.   
  Stavo per avviarmi verso la casa, quando notai con la coda  dell'occhio qualcosa che attirò la mia attenzione. Girandomi, vidi una vecchia macchina sgangherata abbandonata nell'erba a  pochi metri da me. Tutti gli invitati avevano posteggiato a  rispettosa distanza, come se la ruggine e lo sfacelo di quella  carcassa potessero contagiare le loro automobili.   
  Mi avvicinai di qualche passo al rottame, che era affondato nel  terreno e circondato dall'erba alta. Se non fosse stato per il  riflesso del tramonto sul cofano, non l'avrei sicuramente notato.  Le ruote erano sparite, la porta del guidatore era stata  scardinata. La carrozzeria mostrava i segni di parecchie  riverniciature, l'ultima delle quali, in cui sembrava fosse stata  usata pittura da imbianchino, era stata lasciata a metà. Entrambi  i parafanghi posteriori erano stati sostituiti con pezzi  scompagnati di altre macchine. Ciò nonostante, e prima ancora di  esaminarli più attentamente, capii subito di avere sotto gli  occhi i resti della vecchia automobile di famiglia che mio padre  aveva guidato per tanti anni.   
  Naturalmente, era passato molto tempo dall'ultima volta che  l'avevo avuta sotto gli occhi. Il ritrovarla in quel triste stato  mi fece ripensare ai suoi ultimi giorni in casa nostra, quando  ormai era così vecchia che mi vergognavo a morte perché i miei  genitori continuavano a usarla. Ricordai che verso la fine avevo  cominciato a inventarmi scuse complicatissime per evitare di  salirci, tanta era la paura di essere visto da un compagno di  scuola o da un insegnante. Ma questo solo alla fine. Per molti  anni ero rimasto aggrappato alla convinzione che la nostra  macchina - in realtà piuttosto modesta - fosse in qualche modo  superiore a tutte le altre in circolazione, e che mio padre  avesse deciso di non cambiarla per questo motivo. La rividi  posteggiata nel vialetto della nostra casetta nel Worcestershire,  con la vernice e le cromature luccicanti. Ero capace di ammirarla  per minuti e minuti di fila, sentendomi immensamente orgoglioso.  E spesso il pomeriggio, soprattutto di domenica, passavo ore e  ore a giocarci dentro o intorno. Di tanto in tanto portavo fuori  qualche gioco - magari persino la mia collezione di soldatini di  plastica - che disponevo sul sedile posteriore. Ma il più delle  volte mi limitavo a creare paesaggi immaginari intorno alla  macchina, sparando con la pistola dai finestrini, oppure  mettendomi al volante per inseguimenti a tavoletta. Ogni tanto  mia madre metteva fuori la testa per dirmi di piantarla di  sbattere le portiere, che quel rumore la faceva impazzire, e che  se l'avessi fatto ancora una volta mi avrebbe «spellato vivo». La  vidi come se fosse adesso, in piedi davanti all'ingresso  posteriore della casetta, mentre urlava in direzione della  macchina. La casa era piccola, ma trovandosi in aperta campagna  aveva mezzo acro di prato. Davanti al nostro cancello passava un  viottolo che conduceva a una cascina. Due volte al giorno vi  transitava una fila di vacche, accompagnate da ragazzini armati  di bastoni infangati. Mio padre lasciava sempre l'automobile nel  vialetto di casa con la coda rivolta verso il viottolo, e spesso  io interrompevo quello che stavo facendo per osservare la  processione delle vacche dal lunotto posteriore.  
  Il «vialetto», in realtà, non era che uno spiazzo erboso di  fianco alla casa. Nessuno aveva mai pensato di rivestirlo di  cemento, e quando pioveva molto la macchina finiva a bagno in una  profonda pozzanghera. Questo sicuramente non aveva giovato ai  suoi problemi di ruggine, e forse ne aveva affrettato il declino.  Ma per me, da bambino, i giorni di pioggia erano una festa. Oltre  a rendere particolarmente accogliente l'interno della macchina,  la pioggia creava canali di fango che io ero costretto a saltare  ogni volta che entravo o uscivo. All'inizio i miei mi sgridavano,  dicendo che macchiavo le fodere dei sedili, ma quando la macchina  era diventata vecchia avevano smesso di preoccuparsi di queste cose. Le portiere sbattute, invece, avevano continuato a  infastidire mia madre. Questo era un vero peccato, perché il  gesto di sbattere la porta era un elemento fondamentale delle mie  fantasie e ne sottolineava invariabilmente i momenti più  drammatici. Le cose erano complicate dal fatto che mia madre, a  volte, passava settimane, persino mesi, senza lamentarsi, finché  io mi dimenticavo che le portiere potevano essere fonte di  conflitto. Poi sul più bello, mentre ero completamente assorto in  qualche drammatica vicenda, mi compariva davanti con la faccia  stravolta, urlando che, se l'avessi fatto ancora una volta, mi  avrebbe «spellato vivo». Talvolta la minaccia veniva pronunciata  mentre una delle portiere era aperta, lasciandomi in un grave  dubbio. Non sapevo infatti se lasciarla aperta anche dopo avere  finito di giocare - con il rischio che restasse così per tutta la  notte - oppure se azzardarmi a chiuderla il più silenziosamente  possibile. Il dilemma mi tormentava per il resto del gioco,  avvelenandomi tutto il divertimento.   
  - Ma che cosa fai? - disse la voce di Sophie alle mie spalle. -  Dobbiamo entrare.   
  Capii che stava parlando a me, ma ero così commosso dalla  scoperta della nostra vecchia automobile che le risposi  mormorando qualcosa a vanvera. Un attimo dopo la sentii dire:   
  - Che cosa ti prende? Ti sei innamorato di quel rottame?   
  Solo allora mi accorsi che stavo praticamente abbracciando la  macchina; avevo posato la guancia sul tetto e ne accarezzavo la  superficie scrostata con lenti movimenti circolari delle mani. Mi  raddrizzai scoppiando in una breve risata, poi mi voltai e vidi  che Sophie e Boris mi stavano fissando.   
  - Innamorato? Vorrai scherzare -. Risi di nuovo. - Chi lascia  in giro simili rottami sarebbe da denunciare.   
  Poi, visto che madre e figlio continuavano a guardarmi, urlai:  - Carcassa disgustosa! - e tirai un paio di calci alla macchina.  Questo parve soddisfare Sophie e Boris, che finalmente si  girarono dall'altra. Poi notai che Sophie, sebbene mi avesse  appena fatto fretta, stava ancora curando l'aspetto di Boris e  aveva ricominciato a ravviargli i capelli.   
  Tornai allora a occuparmi dell'automobile, improvvisamente  angosciato dall'idea di averla ammaccata. Un attento esame  dimostrò che i miei calci avevano solo staccato qualche scaglia  rugginosa, ma ormai sentivo un profondo rimorso per avere  dimostrato tanta insensibilità. Camminando nell'erba alta, girai  intorno al veicolo e vi sbirciai dentro da dietro. Un sasso aveva  colpito il lunotto, ma il vetro si era solo incrinato. Attraverso  una ragnatela di crepe potei osservare il sedile su cui avevo  passato tante ore felici. In gran parte era coperto di funghi. La  pioggia aveva formato una piccola pozza in un angolo, dove il  cuscino del sedile si saldava al bracciolo. Diedi uno strattone  alla porta, che si aprì docilmente per poi bloccarsi a metà  nell'erba alta. C'era giusto lo spazio per infilarmi dentro, e  divincolandomi un po' riuscii a sedermi.   
  Quando fui nella macchina, mi sentii innaturalmente basso, e mi  accorsi che dalla mia parte il sedile aveva sfondato il  pavimento. Dal finestrino accanto alla mia testa vedevo steli  d'erba e un tratto di cielo rosato dal tramonto. Cambiai  posizione, poi tirai la porta verso di me fino ad accostarla -  anche se qualcosa le impedì di chiudersi del tutto - e dopo  qualche istante mi parve di essere discretamente comodo.   
  Presto mi sentii avvolgere da una grande pace e socchiusi le  palpebre. In quell'istante mi tornò alla mente una delle gite  familiari più felici che avessimo fatto con quella macchina.  Avevamo girato tutta la campagna in cerca di una bicicletta di  seconda mano per me. Era una domenica pomeriggio piena di sole, e noi eravamo andati di paese in paese, esaminando biciclette. I  miei parlottavano animatamente, mentre io, seduto dietro di loro  su quel medesimo sedile, osservavo il paesaggio del  Worcestershire scorrere dinanzi a noi. A quei tempi i telefoni  non erano ancora molto diffusi in Inghilterra, e mia madre teneva  in grembo una copia del giornale locale, dove chi metteva un  annuncio economico per vendere qualcosa stampava l'indirizzo per  esteso. Gli appuntamenti erano inutili; una famiglia come la  nostra poteva semplicemente presentarsi alla porta e dire:  «Veniamo per la bicicletta», e i padroni ci accompagnavano nella  rimessa dietro casa per farcela vedere. I più cordiali ci  offrivano una tazza di tè, che ogni volta mio padre rifiutava con  la stessa identica spiritosaggine. Ma un'anziana signora - che in  realtà non stava affatto vendendo una «bicicletta da bambini» ma  quella del marito morto da poco - aveva insistito perché  entrassimo. - Fa sempre così piacere, - ci aveva detto, -  ricevere persone come voi -. Poi, mentre eravamo seduti nel suo  salottino per bere il tè, ci aveva di nuovo definiti «persone  come voi», e di punto in bianco, ascoltando mio padre che  concionava sul tipo di bicicletta più adatto per i bambini della  mia età, avevo capito che per l'anziana signora i miei genitori e  io rappresentavamo un ideale di felicità familiare. Questa  rivelazione mi aveva messo addosso un'ansia terribile, che era  andata crescendo per tutta la mezz'ora che eravamo rimasti lì.  Non avevo certo paura che i miei smettessero di colpo di fingere:  non si sarebbero mai sognati di cominciare neppure il più blando  dei loro litigi. Ma mi ero convinto che da un istante all'altro  un segno, magari persino un odore, avrebbe fatto scoprire alla  signora l'enormità del suo sbaglio, e aspettavo con terrore il  momento in cui, all'improvviso, ci avrebbe guardati agghiacciata.   
  Seduto sul sedile posteriore della vecchia macchina, cercai di  ricordare come fosse finito quel pomeriggio, ma la mia mente  divagò e mi ritrovai a pensare a un pomeriggio completamente  diverso, in cui pioveva a dirotto e io mi ero rintanato in  macchina per sfuggire ai litigi che infuriavano in casa. Quel  pomeriggio mi ero sdraiato a pancia in su sul sedile posteriore,  con la testa schiacciata sotto il bracciolo. Di lì, tutto quello  che vedevo erano le gocce di pioggia che scorrevano sul vetro dei  finestrini. In quel momento avevo desiderato solo di poter  restare lì indisturbato per ore e ore. Ma sapevo per esperienza  che a un certo punto mio padre sarebbe emerso dalla casa, sarebbe  passato accanto alla macchina e si sarebbe diretto verso il  cancello per uscire in strada. Così ero rimasto a lungo con le  orecchie tese, aspettando il rumore del chiavistello della porta.  Quando finalmente l'avevo sentito, ero scattato su e mi ero messo  a giocare. Avevo mimato un'emozionante zuffa per impossessarmi di  una pistola caduta per terra, in modo da far credere di essere  troppo impegnato per accorgermi di qualcosa. Solo quando i passi  bagnati erano giunti in fondo al vialetto avevo osato fermarmi.  Inginocchiandomi in fretta sul sedile, avevo sbirciato cautamente  dal lunotto posteriore, appena in tempo per vedere mio padre con  l'impermeabile addosso, fermo accanto al cancello, leggermente  ingobbito mentre apriva il paracqua. Un attimo dopo mio padre era  uscito risolutamente in strada, sparendo dalla mia vista.   
  Probabilmente mi ero assopito, perché mi svegliai di  soprassalto e mi accorsi di essere ancora seduto sul sedile  posteriore del rottame, nella più completa oscurità. Un po'  spaventato, spinsi la portiera più vicina. Sulle prime non si  mosse, poi cominciò a cedere un po' per volta, finché potei  sgusciare fuori.  
  Stirandomi le pieghe del vestito, mi guardai intorno. La casa  era tutta illuminata - si vedevano i lampadari scintillare dietro le alte finestre - e accanto alla nostra macchina Sophie stava  ancora trafficando con i capelli di Boris. Io ero fuori  dell'alone di luce della casa, ma Sophie e Boris sembravano sotto  un riflettore. Mentre li osservavo, vidi Sophie chinarsi verso lo  specchietti laterale per ritoccarsi il trucco.  
  Quando emersi dalle tenebre, Boris si girò verso di me. - Non  arrivavi più, - disse.   
  - Hai ragione, mi spiace. $è meglio che entriamo, adesso.  
  - Solo un secondo, - mormorò Sophie ansiosamente, ancora china  sullo specchietto.   
  - Comincio ad avere fame, - mi disse Boris. - Quando torniamo a  casa?   
  - Non preoccuparti. Non ci fermeremo molto. C'è un sacco di  gente che ci sta aspettando, quindi dobbiamo almeno entrare a  salutarla. Ma ce ne andremo quasi subito. Poi torniamo a casa e  passiamo una bella serata insieme. Solo noi tre.   
  - Possiamo giocare a Warlord?   
  - Ma certo, - dissi, contento che il bambino, almeno in  apparenza, avesse dimenticato il nostro precedente litigio. - Al  gioco che preferisci. E anche se dopo averne cominciato uno vuoi  cambiare perché ti sei stufato o stai perdendo, nessun problema.  Questa sera si gioca a quello che vuoi tu. E se a un certo punto  vuoi piantare lì tutto per chiacchierare un po', magari di  pallone, non hai che da dirlo. Sarà una serata magnifica, solo  noi tre. Ma prima leviamoci questo fastidio. Vedrai, sarà meno  peggio di quel che pensi.   
  - Sono pronta, - annunciò Sophie, anche se subito dopo si chinò  un'ultima volta a guardarsi nello specchietto.   
  Passammo sotto un arco di pietra ed entrammo nel cortile.  Mentre ci dirigevamo verso la porta d'ingresso, Sophie disse: -  Non mi spiace più, sai? Ci vengo volentieri.   
  - Magnifico, - le dissi. - Adesso rilassati e comportati  normalmente. Andrà tutto bene.  
19.  
  La porta ci fu aperta da una pingue cameriera. Mentre, un po'  spaesati, entravamo nell'ampio vestibolo, la donna bofonchiò:   
  - Mi fa piacere rivederla, signore.   
  Solo quando udii queste parole mi accorsi di essere già stato  in quella casa: era la stessa in cui mi aveva portato Hoffman la  sera prima.   
  - Ah, sì, - dissi, guardando le pareti rivestite di pannelli di  quercia, - sono contento di essere di nuovo qui. Come vede,  questa volta ho portato la famiglia.   
  La cameriera non rispose. Poteva essere deferenza, ma quando la  vidi imbronciata accanto alla porta, non potei fare a meno di  percepire una certa ostilità. Solo allora, sul tavolino rotondo  di legno accanto al portaombrelli, notai la mia faccia che mi  sbirciava da un coacervo di riviste e giornali. Andai verso il  tavolino e tirai fuori l'edizione del pomeriggio della gazzetta  locale: l'intera prima pagina era occupata da una mia fotografia.  Sembrava scattata in un campo spazzato dal vento. Poi scorsi  l'edificio bianco sullo sfondo e ricordai la spedizione  fotografica di quella mattina in cima alla collina. Mi avvicinai  con il giornale a una lampada e tenni l'immagine sotto la luce  gialla.   
  La forza del vento mi gettava indietro i capelli. La cravatta  era sospesa a mezz'aria dietro un orecchio. Anche la giacca  svolazzava alle mie spalle, dando l'impressione che indossassi  una cappa. Ma la cosa più stupefacente era l'espressione di furia  scatenata del mio volto. Agitavo un pugno al vento, e sembrava  che stessi lanciando un grido di guerra. Non riuscivo nel modo più assoluto a capire come potessi avere assunto una posa simile.  Il titolo - non c'erano altri testi in tutta la prima pagina -  proclamava: «L'appello di Ryder».  
  Con un certo nervosismo aprii il giornale e mi trovai davanti  sei o sette fotografie più piccole, semplici variazioni sul tema  della prima pagina. Il mio atteggiamento bellicoso era palese in  tutte tranne due. In queste ultime, presentavo con fierezza  l'edificio bianco alle mie spalle, sfoggiando uno strano sorriso  che rivelava ampiamente i miei denti inferiori ma nessuno dei  superiori. Scorrendo le colonne sotto le immagini, vidi che vi  ricorreva spesso il nome di un certo Max Sattler.   
  - Avrei continuato volentieri a esaminare il giornale, ma mi  venne il sospetto che l'ostilità della cameriera fosse in qualche  modo legata a quelle fotografie e cominciai a sentirmi a disagio.  Posai il giornale sul tavolino e mi allontanai, ripromettendomi  di studiare con cura il servizio più tardi.   
  - Su, è ora di andare, - dissi a Sophie e a Boris, che stavano  indugiando in mezzo al vestibolo. Avevo parlato forte, e mi  aspettavo che la cameriera sentisse e ci accompagnasse al  ricevimento. Invece la donna non si mosse. Dopo qualche istante  di imbarazzo, le sorrisi e aggiunsi: - Ma certo, ricordo la  strada da ieri sera -. Detto questo, mi avviai verso la parte  interna della casa facendo strada agli altri.   
  In realtà, l'edificio era un po' diverso da come me lo  ricordavo, e presto ci trovammo in un lungo corridoio rivestito  di legno che mi era del tutto nuovo. Ma la cosa si rivelò di  scarsa importanza, perché dopo pochi passi cominciammo a sentire  un notevole brusio, e un attimo dopo ci affacciammo sulla soglia  di una stretta sala stipata di persone in abito da sera con un  bicchiere da cocktail in mano.   
  L'ambiente mi parve subito molto più piccolo del vasto salone  da ballo in cui gli ospiti si erano riuniti la sera prima.  Esaminandola meglio, vidi che in origine non doveva nemmeno  essere una stanza, ma un semplice corridoio, o al massimo un  lungo vestibolo arcuato. La curvatura delle pareti lasciava  pensare che descrivessero addirittura un semicerchio, anche se  dalla porta era impossibile dirlo con certezza. Sul lato esterno  le alte finestre, adesso protette dalle tende, sparivano dietro  la curva; sulla parete interna, invece, c'era una fila di porte.  Il pavimento era di marmo, dal soffitto pendevano lampadari, e  qui e là per la sala erano sparse le opere d'arte, su piedistalli  o dentro eleganti mobiletti di vetro.   
  Ci fermammo sulla soglia a contemplare la scena, e io mi  guardai intorno in cerca di qualcuno che ci accompagnasse dentro,  magari annunciasse addirittura il nostro arrivo. Restammo lì ad  aspettare per un bel po', ma nessuno si fece avanti. Di tanto in  tanto qualcuno si dirigeva frettolosamente verso di noi, ma  all'ultimo momento scoprivamo che stava puntando verso un altro  invitato.  
  Diedi un'occhiata a Sophie. Teneva un braccio sulle spalle di  Boris, e tutti e due fissavano la folla con aria tesa.  
  - Su, entriamo, - dissi disinvoltamente. Muovemmo qualche passo  dentro la sala, ma quasi subito ci fermammo di nuovo.   
  Mi guardai intorno cercando Hoffman, o la signorina Stratmann,  o qualcuno di conosciuto, ma non vidi nessuno. Poi, mentre  continuavo a passare con gli occhi da una faccia all'altra, mi  venne in mente che molte di quelle persone, forse, avevano  partecipato al banchetto in cui Sophie era stata così  spaventosamente maltrattata. All'improvviso vidi con grande  chiarezza ciò che Sophie aveva dovuto sopportare, e mi sentii  pericolosamente gonfio di rabbia. Anzi, mentre continuavo a  guardarmi intorno, scorsi almeno un gruppetto di invitati - dove la sala curvava sparendo dalla nostra vista - che sicuramente  erano da considerarsi tra i principali colpevoli. Li studiai  attraverso la folla: gli uomini con i loro sorrisetti  compiaciuti, con quel modo di infilare e togliere la mano dalla  tasca dei pantaloni con aria tronfia, come per far vedere al  mondo intero quanto si sentissero a loro agio in queste occasioni  mondane; le donne con i loro comici vestiti, con quel modo di  ridere scuotendo la testa come se non potessero farci niente. Era  incredibile - assolutamente ridicolo - che persone simili  avessero il coraggio di schernire o di guardare dall'alto in  basso il loro prossimo, per non parlare di Sophie. Anzi, non  vedevo per quale motivo non avrei dovuto andare immediatamente da  loro per strigliarli a dovere sotto gli occhi dei loro pari. Dopo  avere mormorato qualcosa all'orecchio di Sophie per  tranquillizzarla, partii risoluto.  
  Mentre mi aprivo un varco nella folla, vidi che la sala girava  veramente fino a formare un ampio semicerchio. Adesso vedevo  anche i camerieri allineati come sentinelle lungo la parete  interna, con i loro vassoi di bicchieri e salatini. Di tanto in  tanto qualche invitato mi spingeva e si scusava con garbo, oppure  mi ritrovavo a scambiare un sorriso con qualcuno che cercava di  avanzare nella direzione opposta, ma stranamente nessuno sembrava  riconoscermi. A un certo punto passai accanto a tre signori di  mezza età che per qualche ragione scuotevano il capo avviliti e  notai che uno di loro teneva sotto il braccio una copia  dell'edizione pomeridiana del giornale. Vidi la mia faccia  battuta dal vento fare capolino dietro il suo gomito, e per un  attimo mi domandai se la pubblicazione delle fotografie fosse in  qualche modo da collegare allo strano modo in cui, fino a quel  momento, eravamo stati ignorati. Ma ormai ero vicino alle persone  che avevo preso di mira e non ci pensai più.   
  Vedendomi arrivare, due del gruppo si fecero da parte come per  accogliermi nel cerchio. Non appena mi trovai in mezzo, capii che  era in corso una discussione sulle opere d'arte esposte intorno a  noi; tutti stavano annuendo alle parole dell'ultimo che aveva  parlato. Poi una delle donne disse:   
  - Sì, è evidente che si potrebbe tracciare una linea a metà  della sala, subito dopo questo Van Thillo -. E indicò una  statuetta bianca su un piedistallo non lontano da noi. - Il  giovane Oskar non ha mai avuto occhio. A suo merito va detto che  lo sapeva, ma purtroppo sentiva un obbligo, un obbligo morale nei  confronti della famiglia.   
  - Mi spiace, ma devo dare ragione ad Andreas, - disse uno degli  uomini. - Oskar era troppo orgoglioso. Avrebbe dovuto delegare.  Rivolgersi a persone con maggiore esperienza.   
  Poi uno degli altri, sorridendomi affabilmente, mi domandò: - E  lei che cosa ne pensa del contributo di Oskar alla collezione?  
  Per un attimo la domanda mi colse alla sprovvista, ma non avevo  nessuna intenzione di lasciarmi sviare.   
  - Non ho nulla in contrario che ve ne stiate qui a discutere  dell'inettitudine di Oskar, - cominciai. - Ma mi sembra più  importante e pertinente...   
  - Mi pare esagerato,- mi interruppe una donna, - definire  inetto il giovane Oskar. $è vero che i suoi gusti erano molto  diversi da quelli di suo fratello, ed è anche vero che ha fatto  qualche errore, ma tutto sommato credo che abbia dato un'impronta  piacevole alla collezione. Ha spezzato l'austerità. Senza il suo  contributo, la collezione sarebbe rimasta come una buona cena  senza il dolce. Quel vaso laggiù, a forma di bruco, - e così  dicendo indicò un punto in mezzo alla folla, - è veramente  delizioso.   
  - Tutto questo mi sta bene... - riattaccai, accalorandomi, ma prima che potessi proseguire un uomo disse in tono risoluto:   
  - Il vaso a forma di bruco è l'£unica, dico l'unica delle sue  scelte che meriti un posto qui dentro. Il guaio di Oskar era che  non aveva il senso della globalità della collezione, del suo  equilibrio intrinseco.   
  Mi accorsi che stavo per esaurire la pazienza.   
  - Piantatela! - urlai. - Interrompete per un secondo queste  ciance! Chiudete la bocca e lasciate parlare anche gli altri,  ascoltate qualcuno che viene da fuori, che non appartiene al  mondo meschino e ristretto in cui sguazzate tanto felicemente!  
  Feci una pausa e li guardai con occhio torvo. La mia veemenza  aveva dato i suoi frutti, perché tutti - quattro uomini e tre  donne - mi guardavano sbalorditi. Ottenuta finalmente la loro  attenzione, riuscii di nuovo a dominare la mia rabbia, una  sensazione molto gradevole, come se disponessi di un'arma che  potevo usare a mio piacimento. Abbassai la voce, che avevo alzato  un po' più di quanto fosse nelle mie intenzioni, e continuai:   
  - C'è forse da stupirsi? C'è forse da stupirsi se in questa  cittaduccia avete tanti problemi? Se, come a qualcuno di voi  piace dire, siete in £crisi? Se così tanti di voi sono infelici e  delusi? C'è forse qualcuno, qualcuno da fuori, che possa  meravigliarsene? Che ne sia sorpreso? Ci grattiamo forse la testa  sbalorditi, noi osservatori che veniamo da un mondo più grande e  più vasto? Ci chiediamo forse come sia possibile che una città  come questa... - Sentii che qualcuno mi toccava un braccio, ma  ormai ero deciso a dire la mia. - Che una città, una comunità  come £questa sia preda di una crisi del genere? Siamo  meravigliati? Costernati? No! Neanche per sogno! Uno arriva qui,  e che cosa vede immediatamente? Esemplificato, miei cari signori,  dalla gente come voi? Sì, proprio da voi! Perché voi  £impersonate... e vi chiedo scusa se sono ingiusto, se sotto le  pietre e l'asfalto di questa città ci sono esempi ancora più  grossolani e mostruosi di voi... ma ai miei occhi lei, signore, e  anche lei, signora, sì, per quanto mi spiaccia darvi questa  notizia, sì, voi £esemplificate tutto ciò che in questa città non  funziona! - Mi accorsi che la mano che mi tirava la manica  apparteneva a una delle donne del gruppo, che per qualche ragione  aveva allungato un braccio dietro la schiena dell'uomo che mi  stava accanto. Le diedi un'occhiata di sfuggita, poi continuai: -  Tanto per cominciare, vi mancano le buone maniere. Guardate come  vi comportate fra voi. Guardate come trattate la mia famiglia. E  persino me, un personaggio illustre, un vostro ospite. Ma  guardatevi, tutti presi dai gusti artistici di Oskar. In altre  parole, così ossessionati dai minuscoli mali interni di questa  vostra presunta comunità da non dimostrare nemmeno un minimo di  buona educazione nei nostri confronti.   
  La donna che mi tirava per il braccio si era spostata ed era  venuta a mettersi alle mie spalle. Sentii che mi diceva qualcosa  per cercare di strapparmi via di lì. La ignorai e continuai:   
  - E come è crudele la sorte! Con tutti i posti che ci sono al  mondo, proprio qui dovevano venire i miei genitori. Proprio qui,  a ricevere la vostra bella ospitalità. Ironia di un destino  crudele! Dopo tutti questi anni, con tutti i posti che ci sono,  proprio qui, da gente come voi, dovevano venire! E dire che i  miei poveri genitori affrontano questo viaggio per sentirmi  suonare per la prima volta in vita loro! Pensate che mi rallegri  l'idea di essere obbligato a lasciarli nelle mani di persone come  lei, e lei, e lei?   
  - Signor Ryder, signor Ryder... - La donna accanto a me mi  stava tirando il braccio ormai da un pezzo; solo allora mi  accorsi che altri non era se non la signorina Collins. Questa  scoperta smorzò il mio impeto, e prima che me ne accorgessi la donna era già riuscita a trascinarmi via dal gruppo.   
  - Ah, signorina Collins, - le dissi un po' confuso. - Buona  sera.  
  - Sa, signor Ryder, - cominciò l'anziana signorina, continuando  a tirarmi. - Sono sinceramente meravigliata, bisogna che glielo  dica. Parlo del modo in cui la gente si lascia incantare.  Un'amica mi ha appena detto che tutta la città ne parla. Oh, mi  ha assicurato che si tratta di pettegolezzi estremamente  affettuosi! Ma proprio non capisco la ragione di tanto scalpore.  Solo perché oggi sono andata allo zoo! Proprio non lo capisco. Io  ho acconsentito perché mi hanno convinta che era nell'interesse  di tutti che Leo, domani sera, non facesse fiasco. Per questo ho  acconsentito a farmi trovare lì, solo per questo. E poi, ammetto  che non mi spiaceva l'idea di dire due parole di incoraggiamento  a Leo, adesso che è un po' che non beve più. Mi sembrava giusto  dargliene atto. Le assicuro, signor Ryder, che se Leo, in un  momento qualsiasi di questi ultimi vent'anni, avesse smesso di  bere per un periodo così lungo, avrei fatto esattamente lo  stesso. Ma finora, purtroppo, non era mai capitato. Davvero,  nella mia visita di oggi allo zoo non c'era niente di speciale.   
  Aveva smesso di tirarmi, ma continuava a tenere il suo braccio  infilato nel mio. Cominciammo a passeggiare lentamente nella  calca.   
  - Ne sono sicuro anch'io, signorina Collins, - dissi. - E mi  creda, poco fa, quando mi sono avvicinato, non avevo alcuna  intenzione di sollevare l'argomento dei rapporti fra lei e il  signor Brodsky. A differenza della stragrande maggioranza di  questa città, io preferisco non ficcare il naso nelle sue  faccende private.   
  - Lei è una persona molto ammodo, signor Ryder. Ma come le  dico, l'incontro di questo pomeriggio non ha avuto alcun  significato particolare. La gente sarebbe così delusa se lo  sapesse. Tutto quel che è successo è che Leo è venuto verso di me  e mi ha detto: «Sei incantevole, oggi». Che altro ci si poteva  aspettare da Leo dopo vent'anni in stato di ubriachezza? E in  pratica la storia finisce qui Naturalmente, l'ho ringraziato, e  gli ho detto che era un pezzo che non lo vedevo così bene. Allora  lui si è guardato la punta delle scarpe, una cosa che non ricordo  di avergli mai visto fare quando era più giovane. A quei tempi  non avrebbe tenuto un atteggiamento così timido. Sì, il suo fuoco  si è spento, me ne sono accorta. Ma è stato sostituito da  qualcosa di più ponderato. Be', eccolo lì che si fissa la punta  delle scarpe, mentre il signor von Winterstein e gli altri  consiglieri temporeggiavano a qualche passo di distanza,  guardando dall'altra, fingendo di essersi dimenticati di noi.  Allora ho fatto un commento sul tempo, e Leo ha alzato gli occhi  e ha detto che sì, gli alberi erano magnifici. Poi ha cominciato  a parlarmi degli animali che gli erano piaciuti di più. Era  chiaro che non aveva prestato assolutamente attenzione, perché ha  detto: «Mi piacciono proprio questi animali. Gli elefanti, i  coccodrilli, gli scimpanzè». Be', la gabbia delle scimmie era  vicina, e senza dubbio vi era passato davanti, ma ero sicura che  non avesse ancora visto né gli elefanti né i coccodrilli, e  gliel'ho fatto notare. Ma Leo ha sollevato la mano come per dirmi  che la cosa non aveva nessuna importanza. Poi di colpo gli ho  visto un'ombra di panico negli occhi. Forse perché in quel  momento il signor von Winterstein aveva mosso qualche passo verso  di noi. Vede, eravamo rimasti intesi che avrei scambiato due  parole con Leo, ma proprio due di numero. Il signor von  Winterstein mi aveva assicurato che dopo circa un minuto si  sarebbe intromesso. Avevo posto io questa condizione, ma non  appena abbiamo cominciato a chiacchierare quel minuto mi è parso disperatamente corto. Anch'io ho cominciato a paventare la  vicinanza del signor von Winterstein. Leo, comunque, deve avere  intuito che il tempo stringeva, perché è andato subito al sodo.  Ha detto: «Perché non proviamo a vivere di nuovo insieme? Siamo  ancora in tempo». Deve ammettere, signor Ryder, che dopo tutti  questi anni era una proposta un po' brusca, anche tenuto conto  del limitato tempo a nostra disposizione. Ho semplicemente  risposto: «Ma che cosa faremmo insieme? Non abbiamo quasi nulla  in comune, ormai». E per un paio di secondi l'ho visto perplesso,  come se avessi fatto un'obiezione cui non aveva mai pensato. Poi  ha indicato la gabbia davanti a noi e ha detto: «Potremmo tenere  un animale. Potremmo volergli bene e occuparci di lui insieme.  Forse è proprio questo che ci è mancato l'altra volta». Io non  sapevo bene che cosa rispondere, così siamo rimasti in silenzio.  Ho visto che il signor von Winterstein veniva verso di noi, poi,  però, deve avere notato qualcosa nel nostro atteggiamento, perché  ha cambiato idea e si è allontanato di nuovo, mettendosi a  chiacchierare con il signor von Braun. A questo punto Leo ha  alzato un dito, un gesto che ha sempre fatto, ha alzato un dito e  ha detto: «Io avevo un cane, come sai, ma è morto ieri. I cani  non vanno bene. Sceglieremo un animale che viva di più. Venti,  venticinque anni. In questo modo, se lo tratteremo bene, moriremo  prima noi, e non dovremo piangerlo. Visto che non abbiamo mai  avuto dei figli, prendiamo un animale». A questo ho risposto:  «Nel tuo ragionamento c'è una pecca. Anche se il nostro adorato  animale dovesse vivere più a lungo di noi, è assai improbabile  che tu e io moriamo lo stesso giorno. Magari non dovrai piangere  l'animale, ma se io, per esempio, morissi prima di te, ti  toccherebbe piangere me». E lui ha ribattuto in fretta: «Be',  sempre meglio che non avere nessuno che ti pianga dopo che te ne  sei andata». «Oh, non ho di questi problemi», gli ho detto, e gli  ho fatto notare che in questi anni ho aiutato parecchia gente qui  in città, e che quando morirò non mancheranno certo le persone  disposte a piangermi. E lui: «Non si sa mai. Di qui in avanti le  cose potrebbero mettersi bene per me. Anch'io potrei avere molta  gente disposta a piangermi quando morirò. Magari centinaia di  persone». Poi ha aggiunto: «Ma in realtà non saprei che cosa  farmene, se poi nessuna di loro mi volesse veramente bene. Sarei  pronto a scambiarle tutte per una donna che mi abbia amato e che  io abbia amata». Devo ammettere, signor Ryder, che questa  conversazione mi stava rattristando un po', e non mi è venuto in  mente nient'altro da dire. Poi Leo ha aggiunto: «Se avessimo  avuto dei figli, che età avrebbero adesso? Ormai sarebbero  bellissimi». Come se ci volessero anni per diventare belli! Poi  ha ripetuto: «Ma visto che non abbiamo avuto figli, prendiamo un  animale». E quando ha ripetuto queste parole, be', probabilmente  mi sono sentita un po' confusa e ho lanciato un'occhiata al  signor von Winterstein, che si trovava alle spalle di Leo, e lui  è subito venuto verso di noi dicendo qualcosa di scherzoso. E  questo è tutto. Fine della nostra conversazione.   
  Stavamo ancora vagando lentamente per la sala a braccetto. Mi  occorse qualche istante per assimilare il racconto, poi dissi:   
  - Se la memoria non mi tradisce, signorina Collins, l'ultima  volta che ci siamo visti ha avuto la cortesia di invitarmi a casa  sua per discutere dei miei problemi. Per una strana ironia della  sorte, però, mi sembra che ci sia molto più da discutere sulle  decisioni che attendono £lei. Mi chiedo proprio che cosa deciderà  di fare. Se mi permette, lei si trova a una specie di bivio.   
  La signorina Collins rise. - Oh, cielo, signor Ryder, sono  troppo vecchia per trovarmi a un bivio. Ed è davvero troppo tardi  perché Leo venga a dirmi certe cose. Se tutto ciò fosse successo  sette o otto anni fa... - La donna sospirò, e per lo spazio di un secondo il suo volto fu attraversato da una profonda tristezza.  Ma subito ricomparve il suo sorriso garbato. - Non è il momento  di abbandonarsi a una nuova serie di speranze, di paure e di  sogni. Sì, sì, lei si affretterà a dire che non sono ancora così  vecchia, che la mia vita è tutt'altro che finita. La ringrazio.  Ma di fatto è troppo tardi, e poi... be', diciamo che verrebbe  fuori un £pasticcio se andassimo a complicarci le cose adesso.  Ah, il Mazursky! Non cessa di affascinarmi! - Mi indicò un gatto  di argilla rossa montato su un sostegno. - No, Leo ha già  provocato abbastanza scompiglio nella mia esistenza. Da molto  tempo ormai mi sono costruita una vita diversa. Lo chieda pure in  giro; molti, così almeno spero, le diranno che ho assolto  piuttosto bene i miei doveri. Che mi sono prodigata per aiutare  il prossimo in un periodo di crescenti difficoltà. Naturalmente,  nulla che vedere con ciò che ha fatto lei, signor Ryder. Ma ciò  non significa che non provi una certa soddisfazione quando mi  guardo alle spalle e vedo ciò che sono riuscita a fare. Sì, nel  complesso sono più che soddisfatta della vita che ho condotto  dopo avere lasciato Leo, e preferisco che le cose rimangano come  stanno.   
  - Ma signorina Collins. Non pensa di dover valutare  attentamente la situazione? Non capisco perché, dopo tante opere  buone, non le sembri una bella ricompensa poter trascorrere la  sera della vita con l'uomo che... mi scusi... con l'uomo che, in  qualche modo, lei deve amare ancora. Altrimenti non si  spiegherebbe perché abbia continuato a vivere qui per tutti  questi anni. E perché non abbia mai preso in considerazione la  possibilità di risposarsi.   
  - Oh, £l'£ho presa in considerazione, signor Ryder. Ho  conosciuto almeno tre uomini con i quali mi sarei potuta  sistemare. Ma non erano... non erano gli uomini che facevano per  me. Forse in quello che dice c'è una punta di vero. La presenza  di Leo nei paraggi mi impediva di provare sufficiente affetto per  altri. Be', in ogni caso sto parlando di molto tempo fa. Lei mi  chiede, e posso anche capirlo, perché non dovrei finire i miei  giorni con Leo. Be', ragioniamoci su un momento. Adesso Leo è  sobrio e calmo. Rimarrà così a lungo? Forse. Una probabilità c'è,  lo ammetto. Soprattutto se adesso otterrà qualche riconoscimento,  se diventerà di nuovo un personaggio celebre con grandi  responsabilità. Ma se io accettassi di tornare a vivere con lui,  be', le cose cambierebbero. Ben presto Leo deciderebbe di  distruggere tutto ciò che ha costruito, esattamente come ha fatto  la volta scorsa. Con quali conseguenze per tutti? Con quali  conseguenze per questa città? In realtà, signor Ryder, penso che  sia mio dovere di cittadina non accettare le sue proposte.  
  - Mi perdoni, signorina Collins, ma non posso fare a meno di  pensare che lei sia la prima a essere poco convinta di questi  ragionamenti. Che nell'intimo lei abbia sempre aspettato e  aspettato di poter riprendere la sua vecchia vita con il signor  Brodsky. Che tutte le sue opere buone, per le quali non dubito  che gli abitanti di questa città le conserveranno eterna  gratitudine, siano state un semplice passatempo per tirare avanti  nell'attesa.   
  La signorina Collins inclinò il capo e rifletté sulle mie  parole con un sorrisetto divertito.   
  - Forse non ha tutti i torti, signor Ryder, - disse alla fine.  - Forse non mi rendevo conto di come passasse in fretta il tempo.  Me ne sono accorta solo recentemente; l'anno scorso, per  l'esattezza. Ho capito che stavamo invecchiando tutti e due, e  che probabilmente era troppo tardi per illuderci di poter tornare  sui nostri passi. Sì, forse ha ragione lei. Quando ho lasciato  Leo, non pensavo a una cosa definitiva. Ma ho davvero £aspettato, come sostiene lei? Questo non lo so. Sono sempre vissuta alla  giornata. E adesso scopro che il tempo è fuggito. Ma se mi volto  indietro a guardare la mia vita, se ripenso al modo in cui l'ho  spesa, non ne sono insoddisfatta. E mi piacerebbe concluderla  così, senza cambiamenti. Perché dovrei cacciarmi nei guai con Leo  e il suo animale? No, verrebbe fuori un pasticcio.   
  Stavo per ribadire, nel più gentile dei modi, che ero assai  scettico sul fatto che fosse davvero convinta di ciò che diceva,  quando mi accorsi che al mio fianco c'era Boris.   
  - Dobbiamo andare subito a casa, - disse il bambino. - La mamma  sta crollando.   
  Guardai nella direzione che mi stava indicando. Sophie era più  o meno dove l'avevo lasciata io, completamente sola, senza un  cane con cui parlare. Sulla faccia conservava un flebile sorriso,  sebbene non avesse nessuno cui rivolgerlo. Teneva le spalle  curve, e i suoi occhi sembravano fissi sulle scarpe del gruppo di  invitati più vicino.   
  La situazione era chiaramente disperata. Trattenendo la rabbia  nei confronti dell'intera sala, dissi a Boris: - Sì, hai ragione.  Meglio andare. Va' a prendere tua madre. Cercheremo di battercela  senza che ci vedano. Al ricevimento siamo venuti, quindi nessuno  potrà lamentarsi.   
  Ricordavo, dalla sera prima, che la casa confinava con  l'albergo. Quando Boris scomparve nella folla, mi girai a  guardare la fila di porte lungo il muro, cercando di rammentare  quale avessi preso con Stephan Hoffman per ritrovarmi nel  corridoio dell'albergo. Ma in quel momento la signorina Collins,  che mi teneva ancora per il braccio, riprese a camminare,  dicendo:   
  - Se devo essere sincera, ma proprio sincera, allora mi tocca  riconoscerlo. Sì, nei momenti meno razionali, l'ho anche sognato.   
  - Sognato che cosa, signorina Collins?   
  - Be', tutto. Tutto quello che sta succedendo adesso. Che Leo  si redimesse, che ottenesse in questa città una posizione degna  di lui. Che le cose tornassero come prima, che gli anni terribili  venissero relegati per sempre nel passato. Sì, devo riconoscerlo,  signor Ryder. $è facile, alla luce del giorno, essere saggi e  ragionevoli. Ma di notte è tutt'altra cosa. Molto spesso, in  questi anni, mi svegliavo nel cuore della notte e restavo lì,  sdraiata nell'oscurità, a sognare che potesse succedere qualcosa  di questo genere. E adesso che comincia a succedere per davvero,  mi sento confusa. Ma vede, in realtà non sta cominciando un bel  niente. Oh, forse Leo riuscirà a combinare qualcosa; una volta  era molto dotato, e il suo talento non può essere sparito nel  nulla. E bisogna anche dire che prima di oggi non aveva mai avuto  un'opportunità, una vera opportunità. Ma per quanto riguarda noi  due è troppo tardi. Checché ne dica lei, è sicuramente troppo  tardi.   
  - Signorina Collins, mi piacerebbe molto poter approfondire  meglio l'argomento con lei. Ma ora, purtroppo, temo di dover  andare.   
  Mentre dicevo queste parole, vidi Sophie e Boris venire verso  di me attraverso la sala. Liberai il braccio dalla signorina  Collins ed esaminai di nuovo le porte, facendo qualche passo  indietro per abbracciare con lo sguardo anche quelle nascoste  dietro la curva. Le studiai a una a una; mi parevano tutte  vagamente familiari, ma di nessuna avrei potuto giurare che fosse  quella giusta. Pensai di chiedere a qualcuno, poi cambiai idea  per timore di attirare l'attenzione sulla nostra partenza  anticipata.   
  Ancora dubbioso, condussi Sophie e Boris verso le porte. Non so  perché, mi vennero in mente le numerose scene cinematografiche in cui un personaggio, desiderando fare un'uscita in grande stile,  spalanca la porta sbagliata ed entra in un armadio. Anche se per  il motivo opposto - io volevo andarmene di soppiatto, in modo che  più tardi nessuno sapesse dire con certezza quando ciò era  avvenuto - era altrettanto importante evitare una simile  calamità.   
  Alla fine scelsi la porta di mezzo, semplicemente perché era la  più imponente. I pannelli profondamente incassati erano abbelliti  da intarsi di madreperla; a destra e a sinistra c'erano due  colonne di pietra. E in quel momento, davanti a ciascuna colonna,  c'era un cameriere in uniforme, rigido come una sentinella. Una  porta così maestosa, pensai, anche se non direttamente  nell'albergo, ci avrebbe sicuramente condotti in un posto di un  certo rilievo, da cui avremmo potuto cercarci la strada lontano  dagli occhi della gente.   
  Facendo segno a Sophie e a Boris di seguirmi, scivolai verso la  porta, poi, rivolto un brusco cenno del capo ai camerieri, come  per dire: «Non occorre che vi scomodiate, so dove sto andando»,  la aprii di scatto. Con mio grande orrore, si avverò ciò che più  avevo temuto: dietro la porta c'era l'armadio delle scope, pieno,  tra l'altro, da scoppiare. Parecchie ramazze rotolarono fuori e  caddero sul pavimento di marmo con gran fracasso, spargendo  dappertutto una sostanza ovattata e scura. Guardando  nell'armadio, vidi un ammasso disordinato di secchi, stracci unti  e bombolette di prodotti per la pulizia.   
  - Mi scusi, - mormorai al più vicino dei camerieri, che si era  precipitato a raccogliere le scope, e mentre la gente cominciava  a guardarci con riprovazione mi diressi in tutta fretta verso la  porta accanto.   
  Non volendo commettere due volte lo stesso errore, cominciai ad  aprirla lentamente, con grande cautela. Anche se mi sentivo molti  occhi puntati sulla schiena, anche se il brusio stava aumentando  e se una voce accanto a me aveva detto: «Santo cielo, ma quello  non è il signor Ryder?», non mi lasciai prendere dal panico;  tirai la porta verso di me un centimetro per volta, sbirciando  dentro lo spiraglio per assicurarmi che non ci fosse nulla sul  punto di cadermi addosso. Quando, con gran sollievo, vidi che la  porta dava su un corridoio, mi infilai dentro in fretta e furia e  feci un cenno imperioso a Sophie e a Boris.  
20.  
  Richiusi la porta alle loro spalle, poi tutti e tre ci  guardammo intorno. Con una sensazione di trionfo, vidi che al  secondo tentativo avevo fatto la scelta giusta. Eravamo proprio  nel lungo corridoio buio che passava davanti al soggiorno  dell'albergo e sbucava nell'atrio. Sulle prime restammo immobili,  un po' storditi dall'improvviso silenzio dopo il chiasso della  galleria. Poi Boris sbadigliò e disse: - Che festa noiosa.   
  - Atroce, - dissi, di nuovo furioso con tutti gli invitati del  ricevimento, dal primo all'ultimo. - Che gentaglia patetica. Non  hanno la minima idea di come ci si comporti -. Poi aggiunsi: - La  mamma era la donna più bella, là dentro. Vero, Boris?   
  Sophie ridacchiò nell'oscurità.   
  - Sul serio, - ribadii. - Era di gran lunga la più bella.   
  Boris sembrava sul punto di dire qualcosa, ma in quel momento  udimmo un rumore strisciante. Non appena i miei occhi  cominciarono ad abituarsi all'oscurità che ci avvolgeva, scorsi  in fondo al corridoio la sagoma di una grande bestia che ci  veniva incontro lentamente, emettendo un fruscio a ogni passo.  Anche Sophie e Boris si erano accorti della sua presenza, e per  un momento rimanemmo tutti e tre paralizzati. Poi Boris esclamò  in un sussurro:  
  - $è il nonno!   
  Vidi allora che la bestia era davvero Gustav: piegato in due,  teneva una valigia sotto il braccio, un'altra per il manico, e ne  tirava una terza - la fonte del rumore strisciante - dietro di  sé. Per un momento ebbi l'impressione che non avanzasse affatto e  si dondolasse piano piano sul posto.   
  Boris corse verso di lui, mentre Sophie e io seguivamo un po'  esitanti. Quando fummo più vicini, Gustav sì accorse finalmente  della nostra presenza, si fermò e raddrizzò un po' la schiena.  Nell'oscurità non riuscivo a distinguere l'espressione del suo  volto, ma quando parlò la sua voce mi parve allegra.  
  - Boris. Che bella sorpresa.   
  - $è il nonno! - esclamò Boris di nuovo. Poi disse: - Sei  occupato?   
  - Oh, sì, il lavoro non manca.   
  - Devi essere molto occupato -. C'era una strana tensione nella  voce di Boris. - Molto, £molto occupato.   
  - Sì, - disse Gustav, riprendendo fiato. - Abbiamo parecchio da  fare.   
  Mi avvicinai di un passo e dissi a Gustav: - Ci spiace averla  interrotta durante il lavoro. Veniamo da un ricevimento, ma  adesso stiamo andando a casa. Per una cena con i fiocchi.   
  - Ah, - disse il facchino guardandoci. - Ah, sì. $è una bella  idea. Mi fa proprio piacere vedervi tutti e tre insieme -. Poi,  rivolto a Boris, aggiunse: - Come stai, Boris? E tua madre come  sta?   
  - La mamma è un po' stanca, - disse il bambino. - Non vediamo  l'ora di metterci a tavola. E dopo giocheremo a Warlord.   
  - Magnifico. Sono sicuro che vi divertirete. Be'... - Gustav  fece una breve pausa, poi aggiunse: - Meglio che mi rimetta al  lavoro. In questo momento siamo oberati dalle cose da fare.   
  - Sì, - disse Boris sottovoce.   
  Gustav scompigliò i capelli del bambino. Poi si curvò di nuovo  e ricominciò a tirare. Allungando una mano verso Boris, lo  scostai dal suo percorso. Forse perché lo stavamo osservando,  forse perché la sosta gli aveva ridato le forze, il facchino ci  passò accanto con andatura più risoluta. Mi avviai verso l'atrio,  ma Boris sembrava restio a seguirmi e continuava a girarsi per  guardare in fondo al corridoio, dove nell'oscurità si intravedeva  ancora la sagoma ingobbita del nonno.  
  - Su, sbrighiamoci, - dissi, mettendogli un braccio sulle  spalle. - Non cominciate anche voi ad avere fame?   
  Ripresi a camminare, ma dietro di me sentii Sophie che diceva:  - No, da questa parte -. Mi girai e la vidi piegata accanto a una  porticina che fino a quel momento mi era sfuggita. In realtà,  anche se l'avessi notata prima, l'avrei presa per un semplice  armadio, visto che mi arrivava non più in alto della spalla. Ma  ora Sophie la stava tenendo aperta, e Boris, con l'aria di chi  l'aveva già fatto spesso, si infilò dentro. Sophie continuò a  tenere la porta, e dopo una breve esitazione mi chinai anch'io e  seguii il bambino.  
  Avevo quasi temuto di finire in un cunicolo e di dover  strisciare sulle mani e sulle ginocchia, invece mi trovai in un  altro corridoio, se possibile ancora più spazioso di quello che  avevamo appena lasciato, anche se chiaramente di servizio. Il  pavimento era nudo, e lungo il muro c'erano tubature scoperte.  Eravamo di nuovo nella semioscurità, ma poco più avanti si vedeva  sul pavimento la striscia di luce di una lampadina elettrica.  Facemmo qualche passo in quella direzione, poi Sophie si fermò di  nuovo e spinse la sbarra di una porta antincendio. Un attimo dopo  eravamo fuori, in una tranquilla stradina laterale.   
  Era una bella notte stellata. Guardandomi intorno, vidi che la strada era deserta e che tutti i negozi erano chiusi. Mentre ci  incamminavamo, Sophie disse allegramente:   
  - $è stata una sorpresa incontrare il nonno. Vero, Boris?   
  Il bambino non rispose. Ci precedeva a grandi passi,  borbottando sottovoce fra sé e sé.   
  - Chissà come sarai affamato? - mi disse Sophie. - Spero solo  che ci sia abbastanza da mangiare. Mi sono lasciata prendere la  mano mentre preparavo tutti quegli stuzzichini, e mi sono  dimenticata di fare un bel piatto sostanzioso. Questo pomeriggio  mi sembrava che ci fosse roba in abbondanza, ma adesso,  ripensandoci...   
  - Non essere sciocca, basterà, - dissi. - E poi è proprio  quello di cui ho voglia. Tante cosette da piluccare. Capisco  perché a Boris piaccia mangiare così.   
  - Lo faceva anche mia madre, quando ero piccola. Per le serate  speciali. Non per i compleanni o per Natale. In quelle occasioni  mangiavamo come tutti gli altri. Ma nelle serate che volevamo  rendere speciali, in cui c'eravamo solo noi tre, mia madre  preparava tanti piattini deliziosi da piluccare. Poi, quando ci  siamo trasferiti, la mamma non stava più bene, così l'abitudine  si è un po' persa. Spero di avervi fatto abbastanza da mangiare.  Dovete avere tutti e due una fame da lupi -. Poi improvvisamente  Sophie aggiunse: - Mi spiace. Questa sera non sono stata gran  che, vero?   
  La rividi sola e inerme in mezzo alla calca della galleria, e  le misi un braccio intorno alle spalle. Sophie reagì stringendosi  a me, e per qualche minuto camminammo così, in silenzio,  attraversando una serie di vie deserte. A un certo punto Boris  venne a mettersi al nostro fianco per chiedere:   
  - Posso mangiare sul divano, questa sera?   
  Sophie rifletté un istante, poi disse: - Va bene. Ma solo per  questa sera.   
  Boris ci camminò accanto per un pezzo, poi domandò: - Posso  mangiare sdraiato sul pavimento?   
  Sophie rise. - Solo per questa sera, Boris. Domani mattina, a  colazione, dovrai sederti di nuovo a tavola.   
  La concessione parve rendere felice il bambino, che corse  avanti pieno di entusiasmo.   
  Dopo un po' ci fermammo davanti a una porta schiacciata tra la  bottega di un barbiere e una panetteria. La via, già stretta, era  resa ancora più angusta dalle numerose automobili posteggiate sui  marciapiedi. Mentre Sophie cercava la chiave, alzai gli occhi e  vidi che sopra i negozi c'erano altri quattro piani. Qualche  finestra era illuminata, e si udiva un debole suono di  televisione.   
  Seguii madre e figlio su per due rampe di scale. Mentre Sophie  apriva la porta d'ingresso, mi colpì un pensiero. Si aspettavano  che mi comportassi come uno di casa o - cosa altrettanto  probabile - come un ospite? Entrando, mi ripromisi di osservare  attentamente il comportamento di Sophie e di regolarmi di  conseguenza. Non appena ebbe richiuso la porta alle nostre  spalle, Sophie annunciò che doveva accendere il forno e sparì.  Boris, invece, si tolse la giacca, la scagliò per terra e partì  di corsa ululando come una sirena della polizia.   
  Rimasto solo nell'ingresso, ne approfittai per darmi  un'occhiata intorno. Evidentemente, sia Sophie sia Boris davano  per scontato che sapessi orientarmi; e in effetti, mentre  osservavo le molte porte semiaperte che avevo davanti a me, o la  sudicia tappezzeria gialla con il suo sbiadito disegno floreale,  o le tubature esterne che andavano dal pavimento al soffitto  dietro l'appendiabiti, quell'entrata cominciò a diventarmi  vagamente familiare.  
  Dopo qualche minuto passai in soggiorno. Sebbene molti  particolari mi fossero nuovi - la coppia di vecchie poltrone  sfondate ai due lati del camino in disuso erano sicuramente un  acquisto recente - ebbi l'impressione di ricordare questa stanza  più chiaramente dell'ingresso. Il grande tavolo da pranzo ovale  spinto contro la parete, la seconda porta che dava in cucina,  l'informe divano scuro e lo stracco tappeto arancione mi erano  sicuramente noti. La luce appesa al soffitto - una lampadina  coperta da un paralume di chintz - proiettava intorno un ricamo  di ombre che mi impediva di capire se sulla tappezzeria vi  fossero macchie di umidità. Boris era sdraiato a pancia in giù in  mezzo alla stanza; non appena mi avvicinai, si rotolò sulla  schiena.   
  - Ho deciso di tentare un esperimento, - dichiarò, non capii  bene se rivolto al soffitto o a me. - Terrò il collo così.   
  Abbassai lo sguardo e vidi che aveva incassato il collo tra le  spalle e premeva il mento contro le clavicole.  
  - Vedo. E per quanto tempo hai intenzione di restare in quella  posizione?   
  - Almeno ventiquattro ore.   
  - Molto bene, Boris.   
  Lo scavalcai e proseguii per la cucina. Anche quella stanza  lunga e stretta era innegabilmente familiare. Le pareti sporche,  le tracce di ragnatele sulla cornice, la lavatrice sgangherata  andavano tutte a solleticare fastidiosamente la mia memoria.  Sophie aveva indossato un grembiule e si era inginocchiata per  mettere qualcosa dentro il forno. Quando entrai, alzò gli occhi,  fece un commento a proposito della cena, mi indicò il forno e  rise allegramente. Risi anch'io, poi, dando un'ultima occhiata  alla cucina, mi girai e tornai in salotto.   
  Boris era ancora sdraiato per terra; sentendomi entrare,  s'affrettò ad accorciare di nuovo il collo. Non gli prestai  attenzione e andai a sedermi sul divano. Sul tappeto c'era un  giornale; lo raccolsi, pensando che potesse trattarsi  dell'edizione con le mie fotografie. In realtà il giornale era di  parecchi giorni prima, ma decisi lo stesso di sfogliarlo. Mentre  leggevo l'articolo in prima pagina - un'intervista a von  Winterstein sui progetti per la conservazione della città vecchia  - Boris restò sdraiato sul tappeto, senza parlare, emettendo di  tanto in tanto qualche piccolo suono da robot. Ogni volta che gli  lanciavo un'occhiata, vedevo che aveva ancora il collo incassato;  decisi di non rivolgergli la parola fino a quando non avesse  smesso quel ridicolo gioco. Non avrei saputo dire se accorciasse  il collo ogni volta che intuiva che stavo per guardarlo o se lo  tenesse contratto in continuazione, ma presto smisi di  occuparmene. «Che se ne stia lì», pensai, e andai avanti a  leggere.  
  Dopo una ventina di minuti Sophie entrò con un vassoio pieno di  roba da mangiare. Vidi dei vol-au-vent, degli involtini piccanti,  delle tortine, tutti di piccole dimensioni e in gran parte molto  raffinati. Sophie posò il vassoio sulla tavola.   
  - Come siete silenziosi, - disse, guardandosi intorno. - Su,  adesso godiamocela. Guarda, Boris! E di là c'è un altro vassoio  così. Con tutte le cose che preferisci! Senti, perché non scegli  un gioco mentre io vado a prendere il resto?   
  Non appena Sophie sparì in cucina, Boris scattò in piedi, si  avvicinò al tavolo e si cacciò in bocca una tortina. Ebbi la  tentazione di fargli notare che il suo collo era tornato alla  normalità, ma alla fine decisi di continuare a leggere il  giornale senza parlare. Boris ricominciò a fare la sirena,  attraversò di corsa il salotto e si fermò nell'angolo opposto,  davanti a un alto armadio. Ricordai che lì dentro teneva tutti i suoi giochi di società; le larghe scatole piatte erano  precariamente impilate sopra altri giochi e oggetti di casa.  Boris rimase per un po' a guardare l'armadio, poi di colpo ne  spalancò la porta.  
  - A che cosa giochiamo? - domandò.  
  Feci finta di non sentire e continuai a leggere. Vedevo Boris,  con la coda dell'occhio. Dapprima il bambino si girò verso di me,  poi, quando capì che non gli avrei risposto, tornò a esaminare  l'armadio. Per qualche istante rimase lì a contemplare la pila  dei giochi, allungando di tanto in tanto un dito per toccare lo  spigolo di una delle scatole.   
  Sophie tornò con un secondo vassoio. Mentre sistemava le cose  in tavola, Boris le si avvicinò. Sentii che madre e figlio  litigavano sottovoce.   
  - Hai detto che potevo mangiare per terra, - sosteneva Boris.   
  Dopo un po' venne di nuovo a stravaccarsi sul tappeto davanti  ai miei piedi, portando con sé un piatto traboccante.   
  Mi alzai e mi avvicinai alla tavola. Mentre prendevo un piatto  ed esaminavo i manicaretti, Sophie mi girellò intorno con aria  inquieta.   
  - Hanno un aspetto magnifico, - dissi, servendomi.   
  Tornato sul divano, scoprii che mettendo il piatto sul cuscino  accanto a me potevo mangiare e leggere allo stesso tempo. Avevo  deciso di esaminare molto attentamente il giornale, studiandone  persino gli annunci economici. Tenni fede al mio progetto,  allungando la mano verso il piatto senza nemmeno staccare gli  occhi dalla carta stampata.   
  Nel frattempo Sophie era andata a sedersi per terra vicino a  Boris; di tanto in tanto gli chiedeva se gli piacesse una  particolare tortina di carne, oppure come stesse un suo compagno  di scuola. Ma ogni volta che cercava di avviare una conversazione  in questo modo, Boris aveva la bocca piena e rispondeva solo a  grugniti. Alla fine Sophie disse: - Allora, Boris, hai scelto il  gioco?   
  Sentii gli occhi di Boris posarsi su di me. Poi il bambino  disse sottovoce:   
  - Per me è lo stesso.   
  - Per te è lo stesso? - Sophie sembrava incredula. Dopo una  lunga pausa aggiunse: - Va bene. Se davvero non te ne importa  niente, lo scelgo io -. Sentii che si alzava dal pavimento. - E  lo scelgo subito.  
  Questa strategia parve ottenere lo scopo. Scattando in piedi,  Boris seguì la madre fino all'armadio. Li sentii confabulare di  fronte alla pila di scatole. Parlavano sottovoce, come se  temessero di disturbarmi mentre leggevo. Alla fine tornarono a  sedersi sul pavimento.   
  - Dài, prepariamolo subito, - disse Sophie. - Possiamo  cominciare a giocare mentre mangiamo.   
  Quando li guardai di nuovo, vidi che avevano aperto il  tabellone e che Boris stava preparando le carte e le fiches di  plastica con un certo entusiasmo. Fui dunque stupito, qualche  minuto più tardi, di sentire Sophie che diceva:   
  - Che cosa c'è? L'hai voluto tu questo gioco.   
  - $è vero.   
  - E allora che cosa c'è, Boris?   
  Ci fu una pausa, poi Boris rispose: - Sono troppo stanco. Come  papà.   
  Sophie sospirò. Ma all'improvviso disse in tono più vivace:   
  - Boris, papà ti ha comprato un regalo.   
  Non potei fare a meno di dare una sbirciatina da dietro il  giornale; vidi che Sophie mi stava sorridendo con aria complice.   
  - Posso darglielo adesso? - mi domandò.  
  Non avevo la minima idea di che cosa stesse parlando; la  guardai senza capire, ma Sophie si alzò e uscì dalla stanza. Un  attimo dopo tornò con il logoro manuale del tuttofare che avevo  comprato al cinema la sera prima. Boris, dimenticando la sua  presunta stanchezza, balzò in piedi, ma Sophie tenne il libro  fuori della sua portata, stuzzicandolo.   
  - Ieri papà e io siamo usciti insieme, - disse. - Abbiamo  passato una magnifica serata, e sul più bello lui si è ricordato  di te e ti ha comprato questo. Non avevi mai posseduto una cosa  del genere prima di oggi, vero, Boris?   
  - Non montargli la testa, - dissi da dietro il giornale. - $è  solo un vecchio manuale.   
  - Papà è stato proprio bravo, vero?   
  Senza farmi vedere, diedi un'altra occhiata. Sophie aveva  lasciato che Boris prendesse il libro, e il bambino si era  inginocchiato sul pavimento per esaminarlo.   
  - Fantastico, - mormorò, sfogliandolo. - Questo libro è davvero  fantastico -. Poi si soffermò a guardare una pagina. - Ti insegna  a fare tutto.   
  Mentre Boris riprendeva a girare le pagine, il libro gemette e  si spaccò in due. Boris continuò a sfogliarlo come se non fosse  successo nulla. Vedendo la reazione del figlio, Sophie, che aveva  accennato a chinarsi, si fermò e raddrizzò il busto.   
  - Ti insegna tutto, - disse Boris. - $è proprio un bel libro.   
  Ebbi la netta impressione che stesse cercando di parlare con  me. Continuai a leggere, e qualche secondo più tardi sentii  Sophie che diceva sottovoce: - Vado a prendere lo scotch. Vedrai  che sarà sufficiente.   
  Sophie uscì dalla stanza. Senza interrompere la lettura, vidi  con la coda dell'occhio che Boris stava ancora girando le pagine.  Dopo un po' il bambino alzò gli occhi verso di me e disse:   
  - Esiste una spazzola speciale per mettere la tappezzeria.   
  Continuai a leggere. Dopo un po' Sophie tornò in salotto.   
  - Strano, non riesco a trovare lo scotch da nessuna parte, -  borbottò.   
  - Questo libro è fantastico, - le disse Boris. - Ti insegna a  fare tutto.   
  - Strano. Forse l'abbiamo finito -. Sophie sparì di nuovo in  cucina.   
  Ricordavo vagamente che dovevano esserci diversi rotoli di  nastro adesivo nello stesso armadio dei giochi di società, in uno  dei cassettini in basso a destra. Ebbi la tentazione di posare il  giornale e di andare a frugare, ma proprio in quel momento Sophie  tornò nella stanza.   
  - Poco male, - disse. - Domani mattina compro il nastro adesivo  e aggiustiamo il libro. Adesso vieni, Boris, cominciamo questa  partita, altrimenti non riusciamo a finirla prima di andare a  letto.   
  Boris non rispose. Sentivo che stava ancora sfogliando il libro  sul tappeto.   
  - Be', se non hai intenzione di giocare, - disse Sophie, -  comincio da sola.   
  Mi giunse il suono di un dado scosso in un bicchierino e,  mentre continuavo a leggere il mio giornale, non potei fare a  meno di provare un po' di pena per Sophie al pensiero di come si  era messa la serata. D'altronde, non poteva illudersi di creare  un simile scompiglio senza che poi dovessimo pagarne lo scotto.  Tra l'altro, non si era nemmeno sprecata a cucinare. Per esempio,  non aveva pensato di fare i triangolini di pane tostato con le  sardine, né gli spiedini di formaggio e salsiccia. Non aveva  preparato frittatine di alcun genere, né le patate ripiene di  formaggio, né il tortino di pesce. E mancavano anche i peperoni ripieni. Per non parlare dei cubetti di pane con la pasta  d'acciughe, o delle fettine di cetriolo tagliate per lungo, o dei  dischi di uovo sodo con i margini dentellati. E come dolce non  aveva fatto né il £plum-£cake, né i biscottini di pastafrolla, e  neppure una rolata svizzera alla fragola.   
  A poco a poco mi resi conto che Sophie stava scuotendo il dado  da un'eternità. In realtà, da quando aveva cominciato, il rumore  era cambiato. Adesso Sophie sembrava scuotere il dado in maniera  lenta e fiacca, come al ritmo di una melodia che le stava  passando per la testa. Abbassai il giornale vagamente allarmato.   
  Sophie era per terra, appoggiata a un braccio teso, in una  posizione tale per cui i capelli le spiovevano davanti alle  spalle nascondendole il volto. Era completamente assorta nel  gioco, e a causa del busto stranamente sbilanciato in avanti,  sembrava protesa sul tabellone. L'intero suo corpo si dondolava  piano piano. Boris la guardava imbronciato, passando la mano  sulla spaccatura del libro.   
  Sophie continuò a scuotere il dado per altri trenta o quaranta  secondi, poi lo fece finalmente rotolare davanti a sé. Dopo  averlo studiato con aria sognante, mosse alcuni pezzi sul  tabellone, poi ricominciò a scuotere il bicchierino. Sentii il  pericolo nell'aria e decisi che era giunto il momento di prendere  in pugno la situazione. Gettando via il giornale, battei le mani  con uno schiocco e mi alzai in piedi.   
  - Io devo tornare in albergo, - annunciai. - E a voi due  consiglio caldamente di andare a letto. La giornata è stata lunga  per tutti.   
  Mentre mi dirigevo verso l'ingresso, notai di sfuggita  l'espressione meravigliata di Sophie, che un attimo dopo mi corse  dietro.   
  - Te ne vai già? Sei sicuro di avere mangiato abbastanza?   
  - Scusami, so che hai lavorato come una matta per preparare la  cena. Ma si è fatto tardi, e domani mi attende una mattina piena  di impegni.   
  Sophie sospirò avvilita. - Mi spiace, - disse alla fine. - Non  è stata gran che come serata. Mi spiace.   
  - Non crucciarti. Non è colpa tua. Siamo tutti molto stanchi.  Adesso devo proprio andare.   
  Sophie, scura in volto, mi aprì la porta, dicendo che mi  avrebbe chiamato in mattinata.   
  Vagai parecchi minuti per le vie deserte, cercando di  ricordarmi come si facesse a tornare in albergo. Finalmente  sbucai in una strada che mi era familiare e cominciai a trovare  piacevole la pace della notte e la possibilità di restare solo  con i miei pensieri e con il suono dei miei passi. Presto, però,  provai di nuovo un certo rimpianto per il modo in cui si era  conclusa la serata. D'altronde, non potevo dimenticare che  Sophie, oltre a tutto il resto, era riuscita a buttarmi all'aria  un programma studiato con ogni cura. Tanto che alla fine del  secondo giorno in questa città avevo ancora una conoscenza  estremamente superficiale della crisi su cui avrei dovuto dare il  mio parere. Ricordai che quella mattina mi era stato persino  impedito di presentarmi all'appuntamento con la Contessa e il  sindaco, durante il quale avrei avuto finalmente modo di  ascoltare un po' di musica di Brodsky. Certo, c'era tutto il  tempo per rimediare; mi aspettavano ancora parecchi importanti  impegni - come l'incontro con il Gruppo di Mutuo Soccorso dei  Cittadini - che mi avrebbero sicuramente fornito un quadro molto  più completo della situazione. Non si poteva però negare che ero  stato sottoposto a notevoli pressioni, e Sophie non poteva  lamentarsi se avevo finito la giornata con i nervi non del tutto distesi.   
  Immerso in questi pensieri, attraversai un ponte di pietra.  Quando mi fermai a guardare l'acqua e la fila di lampioni lungo  il canale, mi venne in mente che avevo ancora la possibilità di  accettare l'invito della signorina Collins, che mi aveva lasciato  intendere di essere nella posizione ideale per aiutarmi. Visto  che il tempo stringeva, pensai che una bella chiacchierata con  lei avrebbe potuto sveltire le cose, fornendomi quasi tutte le  informazioni che per colpa di Sophie non ero ancora riuscito a  raccogliere. Ripensai al salotto della signorina Collins, alle  tende di velluto e ai mobili sgangherati, e mi venne  improvvisamente voglia di essere là in quel momento. Ripresi a  camminare, oltrepassai il ponte e mi infilai in una strada buia,  deciso a farle visita la mattina dopo alla prima occasione. 
 
Parte terza 
21.  
  Quando mi svegliai, un bel sole filtrava attraverso i listelli  verticali degli scuri. Al pensiero di essermi lasciato sfuggire  buona parte della mattina, fui preso dal panico. Poi mi ricordai  che la sera prima avevo deciso di fare visita alla signorina  Collins, e scesi dal letto sentendomi molto più calmo.   
  La camera era più piccola e assai più soffocante della  precedente. Provai un nuovo impeto di rabbia nei confronti di  Hoffman, che mi aveva costretto a cambiarla. Ma la questione  delle stanze mi parve meno essenziale della mattina precedente;  mentre mi lavavo e mi vestivo, non ebbi difficoltà a concentrarmi  totalmente sull'incontro con la signorina Collins, dal quale  ormai dipendeva tutto. Quando uscii dalla camera, avevo smesso di  preoccuparmi per essere rimasto addormentato; sapevo che alla  lunga il sonno si sarebbe rivelato preziosissimo. In compenso,  non vedevo l'ora di sedermi davanti a una bella colazione per  riordinare le idee su ciò che avrei dovuto domandare alla  signorina Collins.   
  Fui dunque meravigliato, arrivando davanti alla sala da pranzo,  di essere accolto dal rumore di un aspirapolvere. Le porte erano  chiuse, e quando le spinsi aprendole di qualche centimetro vidi  due donne in tuta da lavoro che pulivano la moquette dopo avere  ammucchiato i tavoli e le sedie contro le pareti. La prospettiva  di affrontare un incontro così importante senza colazione non era  delle più allegre, quindi tornai nell'atrio di pessimo umore.  Scansando un gruppo di turisti americani mi avvicinai al banco  della reception. Il portiere stava leggendo una rivista, ma non  appena mi vide scattò in piedi.   
  - Buon giorno, signor Ryder.   
  - Buon giorno. Sono molto contrariato che non servano più la  colazione.   
  Per un attimo il portiere parve sconcertato. Poi disse: - In  condizioni normali, signore, ci sarebbe qualcuno in grado di  servirle la colazione anche a quest'ora. Ma lei capisce. Visto  che giorno è oggi, è abbastanza naturale che buona parte del  personale sia al palazzo dei concerti per dare una mano coi  preparativi. Persino il signor Hoffman è là dalle prime ore del  mattino. Temo proprio che l'albergo sia a mezzo servizio.  Purtroppo abbiamo dovuto chiudere anche il patio fino all'ora di  pranzo. Naturalmente, se è solo questione di una tazza di caffè e  di un paio di paste...   
  - Va bene così, - dissi freddamente. - Non ho tempo di  aspettare che me le trovi. Si vede che questa mattina è destino  che resti senza colazione.  
  Il portiere cominciò di nuovo a scusarsi, ma io tagliai corto  con un cenno della mano e me ne andai.   
  Uscii nella luce del sole, ma solo dopo un po' che camminavo  per la strada intasata dal traffico mi resi conto di non sapere  dove fosse la casa della signorina Collins. La sera che ci  eravamo andati con Stephan non avevo fatto attenzione, e ora le  strade erano così affollate di pedoni e automobili da essere  irriconoscibili. Mi arrestai un momento sul marciapiede e pensai  di chiedere indicazioni a un passante. Probabilmente la signorina  Collins era abbastanza conosciuta. Stavo per fermare un signore  in giacca e cravatta che mi veniva incontro a grandi passi,  quando mi sentii sfiorare una spalla da dietro.   
  - Buon giorno, signor Ryder.   
  Mi girai e vidi Gustav, con un'enorme scatola di cartone che  quasi gli nascondeva la metà superiore del corpo. Stava  ansimando, ma non riuscii a capire se ciò fosse dovuto solo al  carico o anche al fatto di essermi corso dietro. In ogni caso,  quando lo salutai e gli domandai dove stesse andando, ci volle un  momento prima che potesse rispondere.   
  - Oh, stavo solo portando questa scatola al palazzo dei  concerti, signor Ryder, - disse finalmente il facchino. - Gli  oggetti più ingombranti sono stati trasportati con un furgone  ieri sera, ma c'è ancora bisogno di un'infinità di cose. $è da  questa mattina presto che devo fare la spola tra l'albergo e il  palazzo dei concerti. Le posso assicurare che laggiù regna già  una grande eccitazione. C'è il clima delle grandi occasioni.   
  - Mi fa piacere sentirlo, - dissi. - Anch'io non vedo l'ora che  si cominci. Ma chissà se può aiutarmi. Vede, questa mattina ho un  appuntamento dalla signorina Collins, ma in questo momento temo  di essermi un po' smarrito.   
  - La signorina Collins? Be', non siamo affatto lontani. $è da  quella parte, signor Ryder. Se vuole, l'accompagno. Oh, no, non  si preoccupi, è proprio sulla mia strada.   
  Forse la scatola era meno pesante di quel che sembrava, perché  Gustav si mise a camminare al mio fianco di buon passo.   
  - Sono contento della coincidenza, signor Ryder, - proseguì il  facchino, - perché, se devo essere sincero, volevo parlarle di  una cosa. In realtà, è da quando ci siamo conosciuti che voglio  parlargliene, ma per una ragione o per l'altra non l'ho mai  fatto. E adesso manca poco all'inizio della serata, e io non le  ho ancora chiesto niente. $è un'idea che ci è venuta qualche  settimana fa al Caffè Ungherese, durante una delle nostre  riunioni domenicali. Avevamo saputo da poco che avrebbe visitato  la nostra città, e naturalmente, come tutti d'altronde, stavamo  commentando la notizia. Qualcuno, credo Gianni, ha detto di avere  letto che lei è una persona per bene, l'opposto di quei tipi che  amano fare la prima donna, e che ha fama di essere molto attento  ai bisogni della gente comune. Questo ci diceva Gianni. Eravamo  seduti intorno il tavolo, in otto o nove, perché quella sera  Josef non c'era; guardavamo il sole tramontare dietro la piazza e  sono sicuro che tutti pensavamo alla stessa cosa. Sulle prime  siamo rimasti zitti; non osavamo aprire bocca. Ma alla fine il  solito Karl ha detto quello che tutti avevamo in mente. «Perché  non glielo chiediamo? Che cosa abbiamo da perdere? Chiederglielo  non costa niente. All'apparenza è completamente diverso da  quell'altro. Non si sa mai, potrebbe persino accettare. Perché  non chiederglielo? Potrebbe essere la nostra ultima possibilità».  E di colpo ci siamo messi tutti a parlarne, e non la finivamo  più. Le posso assicurare che da quel giorno, signor Ryder, non  siamo mai rimasti a lungo seduti a quel tavolo senza sollevare  l'argomento. Magari stavamo chiacchierando d'altro, o ridendo allegramente, quando di colpo scendeva il silenzio e tutti ci  accorgevamo di pensare di nuovo alla stessa cosa. Per questo  cominciavo a sentirmi un po' in colpa, signor Ryder. Se ci penso!  L'ho già vista parecchie volte, ho avuto persino l'onore di  parlare con lei e non ho mai trovato il coraggio di farle la  nostra richiesta. E adesso mancano poche ore al concerto e io non  le ho ancora accennato alla cosa. Come avrei fatto a spiegarlo ai  ragazzi domenica prossima? Così questa mattina, quando mi sono  alzato, mi sono detto: devi trovarlo, devi almeno provare a  chiederglielo, lo sai che i ragazzi ci contano. Ma poi non ho  avuto un attimo di respiro, e lei chissà quanti impegni ha, così  ho pensato, be', mi sa che ho perso il treno. Quindi capisce che  sono proprio contento della coincidenza, e spero che non me ne  voglia se le faccio la nostra richiesta. Naturalmente, se ritiene  che la cosa sia impossibile, non insisterò un istante di più; oh  sì, i ragazzi sapranno mettersi il cuore in pace.   
  Avevamo svoltato in un viale gremito. Mentre lo attraversavamo  a un semaforo, Gustav tacque, e solo quando fummo dall'altra  parte, davanti a una fila di caffè italiani, disse:   
  - Sono sicuro che ha già indovinato che cosa ho intenzione di  chiederle, signor Ryder. Vorremmo solo una menzioncina. Tutto lì.   
  - Una menzioncina?   
  - Solo una menzioncina, signor Ryder. Come lei sa, molti di noi  lavorano da anni e anni per cercare di modificare l'atteggiamento  di questa città nei confronti del nostro mestiere. Qualcosetta  abbiamo ottenuto, ma nel complesso non siamo riusciti a ribaltare  la situazione. Com'è comprensibile, la delusione serpeggia tra le  nostre file. Gli anni passano anche per noi, e c'è la diffusa  sensazione che di questo passo le cose non cambieranno mai. Ma  una sua parolina questa sera, signor Ryder, potrebbe mutare il  corso degli eventi. Potrebbe costituire una svolta storica per il  nostro mestiere. Così, almeno, pensano i ragazzi. Anzi, alcuni  sono convinti che questa sia l'ultima possibilità, se non altro  per la nostra generazione. «Quando si ripresenterà un'occasione  simile?» continuano a domandarsi. Per questo ho voluto  accennargliene, signor Ryder. Naturalmente, se ritiene  sconveniente la richiesta, posso anche capirlo, visto che è  venuto qui per affrontare temi molto importanti e questo invece è  un'inezia. Grande per noi, ma un'inezia, me ne rendo conto, in un  contesto più generale. Se ritiene che la cosa sia impossibile,  signor Ryder, la prego di dirlo e non se ne parla più.   
  Riflettei un momento, consapevole dello sguardo penetrante del  facchino che mi sbirciava da dietro la scatola.   
  - Mi sta proponendo, - dissi dopo un po', - di nominarvi  durante... durante il mio discorso alla cittadinanza?   
  - Solo poche parole, signor Ryder.   
  Sicuramente, l'idea di aiutare in quel modo il vecchio facchino  e i suoi colleghi aveva il suo fascino. Ci pensai su un momento,  poi dissi: - Va bene. Dirò volentieri qualcosa in vostro favore.  
  Sentii che Gustav inalava a fondo mentre il significato della  mia risposta si faceva strada nella sua mente. Poi, con voce più  calma del previsto, disse:   
  - Le saremo per sempre debitori, signor Ryder.   
  Stava per continuare, ma per qualche ragione mi venne voglia di  ostacolare almeno per un po' i suoi tentativi di manifestarmi la  sua gratitudine.   
  - Sì, bisogna pensarci bene. Come possiamo fare? - mi affrettai  ad aggiungere, assumendo un'aria preoccupata. - Sì, non appena  salgo sul podio potrei dire qualcosa come: «Prima di cominciare,  vorrei fare una piccola ma importante precisazione». Una cosa  così. Sì, non dovrebbe essere difficile.  
  All'improvviso vidi con grande vividezza il gruppetto di vecchi dalle spalle robuste riuniti intorno al tavolo di un bar; vidi  l'espressione del loro volto - incredulità, incommensurabile  gioia - mentre Gustav dava loro la notizia. Poi vidi me stesso  farmi avanti in mezzo a loro con atteggiamento pacato e modesto,  vidi le loro facce che si giravano a guardarmi. Nel frattempo ero  consapevole che Gustav camminava al mio fianco e senza dubbio  scoppiava dal desiderio di finire di ringraziarmi. Ciò nonostante  continuai a chiacchierare.  
  - Sì, sì. «Una piccola ma importante precisazione». Potrei  cominciare così. «Io ho girato il mondo e conosco molte altre  città, ma in questa c'è qualcosa che mi sembra davvero  singolare...» Forse «singolare» è troppo forte. Magari è meglio  usare «originale».   
  - Oh, sì, - mi interruppe Gustav. - «Originale» è la parola  giusta. Nessuno di noi vuole scatenare antagonismi. Ed è proprio  per questo che lei rappresenta per noi un'opportunità  irripetibile. Vede, anche se fra qualche anno un'altra celebrità  accettasse di venire in questa città, anche se riuscissimo a  convincerla a parlare di noi, che probabilità ci sarebbero che  dimostri un simile tatto? «Originale» è perfetto, signor Ryder.   
  - Sì, sì, - continuai. - Poi magari faccio una breve pausa,  lanciando sul pubblico uno sguardo lievemente accusatorio, in  modo che in sala tutti tacciano e si crei un po' di attesa. E  alla fine potrei dire qualcosa come... vediamo un po'... sì,  potrei dire: «Signore e signori, voi che vivete qui da tanti anni  considerate normali certe cose che invece vsaltano agli occhiv di un osservatore esterno...»  
  Gustav si fermò all'improvviso. Sulle prime pensai che non  resistesse più al bisogno di manifestare la sua riconoscenza. Ma  quando mi voltai, capii che il motivo non era quello. Il facchino  si era paralizzato sul marciapiede, con la testa tutta inclinata  da una parte e la guancia schiacciata contro la scatola. Aveva  gli occhi chiusi e un'espressione leggermente accigliata, come se  stesse cercando di eseguire mentalmente un calcolo difficile.  Mentre lo osservavo, il pomo d'Adamo gli andò su e giù  lentamente, una, due, tre volte.   
  - Si sente bene? - domandai, mettendogli un braccio dietro la  schiena. - Santo cielo, è meglio che si sieda da qualche parte.   
  Feci per prendergli la scatola, ma le mani di Gustav non  mollarono la presa.   
  - No, no, signor Ryder, - mi disse il facchino senza aprire gli  occhi. - Sto benissimo.   
  - Ne è sicuro?   
  - Sì, sì, sto benissimo.   
  Per qualche secondo ancora Gustav rimase immobile. Poi riaprì  gli occhi e si guardò intorno, proruppe in una flebile risata e  riprese a camminare.   
  - Non ha idea di che cosa significhi per noi, signor Ryder, -  disse dopo avere percorso un tratto al mio fianco. - Dopo tutti  questi anni -. Scosse la testa sorridendo. - Darò la notizia ai  ragazzi alla prima occasione. Questa mattina sono oberato di  lavoro, ma una telefonata a Josef sarà sufficiente. Lo dirà lui  agli altri. Riesce a immaginare che cosa proveranno? Ah, ecco il  suo incrocio. Io proseguo ancora per un pezzo. Oh, non si  preoccupi, signor Ryder, sto benissimo. La casa della signorina  Collins, come sa, è quella laggiù, sulla destra. Bene, non ho  parole per ringraziarla, signor Ryder. I ragazzi aspetteranno  questa sera come non hanno mai aspettato nulla in vita loro. Ne  sono sicuro.   
  Augurandogli una buona giornata, imboccai la via che mi aveva  indicato. Quando, dopo qualche passo, mi girai, Gustav era ancora  fermo sull'angolo e mi guardava da dietro la sua scatola. Vedendo che mi ero voltato, mi fece un energico cenno con il capo - lo  scatolone gli impediva di agitare una mano - poi andò per la sua  strada.   
  La via in cui mi trovavo era prevalentemente residenziale, e  dopo qualche isolato divenne molto tranquilla. Presto vidi sopra  la mia testa i condomini con i balconi spagnoleschi che avevo  notato due sere prima dalla macchina di Stephan. Ce n'era una  lunga serie, e mentre camminavo cominciai a temere di non  riuscire a riconoscere quello davanti al quale avevo aspettato  con Boris. Ma poco dopo mi fermai di fronte a un ingresso  dall'aspetto familiare, salii i gradini e andai a sbirciare nei  pannelli di vetro ai due lati del portone.   
  L'atrio era ordinato e asettico, e non mi diede alcun indizio.  Poi ricordai che quella sera ero rimasto per un pezzo a osservare  Stephan e la signorina Collins che conversavano dietro al portone  prima di entrare in casa. A rischio di essere preso per un  ficcanaso, scavalcai con una gamba il basso muretto e mi sporsi  per guardare nella finestra più vicina. Il riflesso del sole mi  impediva di vedere con chiarezza, ma riuscii a distinguere un  ometto tarchiato in camicia bianca e cravatta seduto solo soletto  in una poltrona rivolta più o meno verso la finestra. I suoi  occhi sembravano puntati su di me, ma lo sguardo era assente; non  avrei saputo dire se si fosse accorto della mia presenza, o se  stesse semplicemente guardando fuori della finestra immerso nei  suoi pensieri. Neppure questo mi disse molto, ma quando ritirai  la gamba dal muretto e osservai di nuovo il portone, mi convinsi  di avere trovato quello giusto e schiacciai il campanello  dell'appartamento al pianterreno.   
  Dopo una breve attesa ebbi la soddisfazione di vedere  attraverso i vetri smerigliati la figura della signorina Collins  che veniva verso di me.   
  - Oh, signor Ryder, - disse la donna aprendo la porta. - Mi  chiedevo proprio se questa mattina l'avrei vista.   
  - Come va, signorina Collins. Ci ho riflettuto e ho deciso di  approfittare del suo cortese invito. Ma ho visto che questa  mattina ha già un ospite -. Feci un gesto in direzione del  salottino affacciato sulla strada. - Forse preferisce che torni  in un altro momento.   
  - Non se ne parla nemmeno, signor Ryder. In realtà, anche se le  sembro molto occupata, questa è una mattina più tranquilla del  solito. Come vede ho una sola persona in sala d'aspetto. In  questo momento sono con una giovane coppia. $è già da un'ora che  parliamo, ma hanno dei problemi così radicati e un tale bisogno  di sfogarsi, cosa che finora non erano riusciti a fare, che non  me la sento di mettergli fretta. Comunque, se non le dispiace  aspettare nel salottino, credo che non ci vorrà più molto -. Poi,  abbassando improvvisamente la voce, aggiunse: - Il poveretto che  aspetta di là ha solo bisogno di qualcuno che lo stia ad  ascoltare qualche minuto per potergli raccontare che si sente  tanto triste e solo. Nient'altro. Con lui me la sbrigo in quattro  e quattr'otto. Viene quasi tutte le mattine, e non se la prende  se di tanto in tanto gli faccio premura. D'altronde gli dedico un  sacco di tempo -. Poi la sua voce riprese il tono normale. - Be',  entri, per piacere, non stia lì sulla porta, anche se oggi c'è  una temperatura davvero piacevole. Più tardi, se ne ha voglia e  se non c'è nessun altro che aspetta, possiamo andare a spasso nel  Giardino Sternberg. $è qui vicino, e noi abbiamo parecchie cose  da dirci, ne sono sicura. Ho già analizzato a fondo la sua  posizione.   
  - La ringrazio, signorina Collins. In realtà, immaginavo che  questa mattina avrebbe avuto da fare, e non sarei piombato così a casa sua se non avessi un po' di fretta. Vede, il guaio... -  Sospirai rumorosamente e scossi la testa. - Il guaio è che per  una ragione o per l'altra non sono riuscito a fare le cose come  mi ero proposto, e adesso eccomi qui, con il tempo che stringe  e... Be', tanto per cominciare, come saprà, questa sera devo  rivolgere un discorso alla cittadinanza, e se devo essere  sincero, signorina Collins... - Fui sul punto di rinunciare, poi  vidi che l'anziana signorina mi guardava con aria benevola e feci  uno sforzo per continuare. - Onestamente, ci sono alcuni temi...  temi di carattere locale... sui quali desidererei il suo parere  prima... prima di dare la veste definitiva... - Feci una pausa  nel tentativo di eliminare il tremito dalla mia voce. - Prima di  dare la veste definitiva al mio discorso. In fondo, tutta questa  gente si fida di me...   
  - Signor Ryder, signor Ryder, - disse la signorina Collins  posandomi una mano sulla spalla. - La prego, si calmi. E  soprattutto entri, per piacere. Così va meglio, venga dentro. E  adesso la smetta di preoccuparsi. $è comprensibile che si senta  un po' agitato, è più che naturale. Anzi, il fatto di darsi tanto  pensiero le rende onore. Discuteremo di tutto ciò che vuole, temi  locali compresi, fra pochissimo, niente paura. Ma lasci che le  dica subito una cosa, signor Ryder. Secondo me, si sta  preoccupando inutilmente. $è vero, questa sera sulle sue spalle  ricadrà una grande responsabilità, ma non è la prima volta che si  trova in una situazione del genere, e a detta di tutti ha sempre  assolto onorevolmente il suo compito. Perché non dovrebbe andare  così anche questa sera?  
  La interruppi: - Ma quello che le sto dicendo, signorina  Collins, è proprio che questa volta la situazione è diversa.  Questa volta non ho avuto modo di vesaminare i fattiv... - Sospirai di nuovo. - Il guaio è che non ho avuto la possibilità  di prepararmi come al solito...   
  - Ne riparleremo fra un momento. Ma sono sicura che sta  perdendo il senso delle proporzioni, signor Ryder. Perché si  preoccupa tanto? Ha un'esperienza inuguagliabile, il suo genio è  universalmente riconosciuto, davvero, di che cosa ha paura? Se  vuole sapere la verità, - aggiunse la signorina Collins  abbassando la voce, - la gente, in una città come questa, le sarà  riconoscente £qualunque cosa dica. Si limiti a riferire le sue  impressioni generali, non se lo sognano nemmeno di lamentarsi.  Non ha proprio nulla da temere.   
  Annuii, rendendomi conto che la signorina Collins aveva  ragione. E quasi subito mi sentii sollevato.   
  - Ma ne discuteremo a fondo fra poco -. Senza togliermi la mano  dalla spalla, la signorina Collins mi stava guidando verso il  salottino che dava sulla strada. - Le prometto che torno subito.  Intanto si sieda e si metta comodo, per piacere.   
  Entrai in una piccola stanza quadrata, piena di sole e di fiori  freschi. L'assortimento poco omogeneo delle poltrone e le riviste  sul tavolino da caffè mi ricordarono la sala d'aspetto di un  dentista o di un dottore. Alla vista della signorina Collins,  l'ometto tarchiato balzò subito in piedi, non saprei dire se per  educazione o perché sperava di essere invitato a passare in  soggiorno. Mi aspettavo di venire presentato, ma evidentemente le  regole erano simili a quelle delle sale d'aspetto, perché la  signorina Collins si limitò a sorridere all'ometto, poi uscì  dalla stanza mormorando in tono di scusa: - Torno subito, -  apparentemente rivolta a entrambi.   
  L'ometto tarchiato si risedette e si mise a fissare il  pavimento. Per un momento pensai che avrebbe detto qualcosa, ma  vedendo che restava zitto mi girai e andai verso il divano di  vimini che occupava la nicchia soleggiata della finestra da cui avevo sbirciato poc'anzi. Mentre mi sedevo, l'intreccio di vimini  cigolò in maniera rassicurante. Un'ampia striscia di sole mi  cadeva in grembo; accanto al mio volto c'era un grosso vaso di  tulipani. Mi sentii subito a mio agio e cominciai a considerare  ciò che mi aspettava con animo ben diverso rispetto a pochi  minuti prima, quando avevo suonato il campanello. La signorina  Collins aveva perfettamente ragione. Una città come quella mi  sarebbe stata riconoscente qualunque cosa avessi detto. Era quasi  inconcepibile che i suoi abitanti potessero muovermi appunti o  assumere un atteggiamento critico. E come mi aveva fatto notare  la signorina Collins, mi ero già trovato in situazioni analoghe  un'infinità di volte. Anche se non avevo potuto prepararmi come  avrei voluto, ero sicuramente in grado di pronunciare un discorso  autorevole. Mentre me ne stavo lì seduto al sole, mi sentii  invadere da una crescente tranquillità, e soprattutto mi  meravigliai di aver potuto cedere in quel modo all'ansia.  
  - Mi stavo chiedendo, - mi disse all'improvviso l'ometto  tarchiato, - se hai ancora visto qualcuno della vecchia banda?  Per esempio Tom Edwards? O Chris Farleigh? O quelle due ragazze  che vivevano alla Fattoria Allagata?   
  Solo allora mi accorsi di avere davanti Jonathan Parkhurst, un  tizio che conoscevo abbastanza bene quand'ero studente in  Inghilterra.   
  - No, - gli risposi, - purtroppo ho perso ogni contatto con gli  amici di allora. Dovendo girare da un paese all'altro come faccio  io, diventa impossibile.   
  Parkhurst annuì senza sorridere. - Sì, immagino che sia  difficile, - disse. - Be', £loro, invece, si ricordano tutti di  te. Quando sono tornato in Inghilterra l'anno scorso, ne ho  rivisti parecchi. Credo che si riuniscano più o meno una volta  all'anno. Ogni tanto li invidio, ma sono ben contento di non  essere rimasto invischiato in quel giro. Mica per niente mi piace  vivere qui, dove posso essere chi voglio e nessuno si aspetta che  faccia il pagliaccio in continuazione. Perché sai, quando sono  tornato in Inghilterra e ci siamo trovati in quel pub, hanno  subito ricominciato. «Ehi, ma è il vecchio Parkers!» si sono  messi a gridare tutti insieme. Mi chiamano ancora così, come se  il tempo si fosse fermato. «Parkers! Il vecchio Parkers!» Ti  assicuro che quando sono entrato mi hanno accolto così, ragliando  come asini; oh, Dio, non ti dico che pena. E nell'istante stesso  in cui si sono messi a ragliare, io mi sono sentito di nuovo il  patetico pagliaccio di un tempo. E dire che sono venuto via  proprio per fuggire da quella dannazione. Non credere, era un bel  pub, un tipico vecchio pub delle campagne inglesi, con un fuoco  vero, una spada antica sopra la mensola del caminetto e un  padrone cordiale che diceva spiritosaggini. Da farti venire la  nostalgia. Vivendo qui tutte queste cose mi mancano. Ma per il  resto, Dio mio, mi vengono i brividi solo a pensarci. Si sono  messi a ragliare come asini aspettandosi che io saltellassi verso  il tavolo facendo il pagliaccio. E hanno passato la sera a  ricordare i nomi dei compagni, l'uno dopo l'altro. Mica per  parlarne; si limitavano a fare dei versacci, oppure dicevano un  nome e subito scoppiavano a ridere. Sai cosa intendo, per esempio  nominavano Samantha, e cominciavano a ridere, applaudire e  schiamazzare. Poi tiravano fuori un altro nome, che so, Roger  Peacock, e attaccavano tutti insieme una specie di coro  calcistico. Spaventoso, te l'assicuro. Ma la cosa peggiore è che  si aspettavano di rivedere il vecchio pagliaccio, e io non ho  potuto farci niente. Il pensiero che potessi essere diventato una  persona diversa non li ha nemmeno sfiorati, e così ho  ricominciato da capo, con le vocine buffe, le smorfie, oh sì, ho  scoperto che me la cavo ancora bene. D'altronde, perché avrebbero dovuto supporre che qui avessi smesso di fare queste cose? Uno di  loro l'ha persino detto. Credo sia stato Tom Edwards. A un certo  punto, quando tutti erano ubriachi, mi ha dato una gran pacca  sulla schiena e ha detto: «Parkers! Dove stai adesso devono  essere pazzi di te! Parkers!» Probabilmente avevo appena fatto  uno dei miei numeri; che ne so, magari avevo raccontato qualche  aspetto della vita di quaggiù facendo un po' il buffone, ma  Edwards ha detto proprio così, mentre gli altri si sbellicavano  dalle risate. Oh, sì, ho fatto furore. Continuavano a ripetermi  che avevano sentito la mia mancanza, che nessuno li faceva ridere  come me. Oh, quanto tempo che nessuno mi diceva una cosa del  genere, quanto tempo che non ricevevo un'accoglienza così, piena  di calore e di amicizia. Eppure mi sono chiesto perché ci fossi  ricascato. Mi ero ripromesso di non farlo più, per questo ero  venuto a vivere qui. Quella sera, per strada... faceva freddo e  c'era la nebbia quella sera... ad ogni modo, per strada, mentre  andavo al pub, continuavo a dirmi: sono passati tanti anni, non  sei più quello di una volta, fagli vedere chi sei diventato, e me  lo ripetevo per farmi forza, ma nell'istante in i cui sono  entrato, in cui ho visto quel bel fuoco e li ho sentiti ragliare  a quel modo per accogliermi... oh, non sai com'è triste la vita  in questa città. Certo, qui non devo fare smorfie e voci buffe,  ma almeno queste cose funzionavano. Non le sopportavo, ma  funzionavano, e tutti mi volevano bene. E i miei vecchi compagni  di università, poveri stronzi, devono essere convinti che io sia  ancora così. Non indovinerebbero mai che i miei vicini di casa mi  considerano un inglese molto serio e noioso. Educato, ma molto  noioso. Molto solo e molto noioso. Be', sempre meglio che tornare  a essere Parkers. Oh, quei versacci erano proprio patetici; un  gruppo di signori di mezza età che si mette a ragliare, e io che  faccio le smorfie e parlo come uno scemo. Oh, Dio, che  spettacolo' nauseante. Ma non ho potuto farci niente, era da così  tanto tempo che non mi trovavo in mezzo ad amici. E tu, Ryder,  non provi un po' di nostalgia per quei giorni? Anche se ormai sei  un uomo di successo? Ah, sì, ecco che cosa volevo dirti. Magari  tu non te li ricordi più, ma ti assicuro che loro si ricordano  benissimo di te. Da quello che ho capito, tutte le volte che si  ritrovano, ti dedicano un angolino della serata. Proprio così, ho  assistito anch'io. Prima passano in rassegna una sfilza di altri  nomi, sai, per non arrivare subito a te; come se volessero  scaldarsi un po'. Poi fanno una pausa, fingendo di non ricordare  nessun altro compagno dei tempi dell'università, finché uno salta  su e dice: «E Ryder? Ne sapete qualcosa?» Allora scoppia il  finimondo, e tutti si mettono a faro dei rumoracci disgustosi, a  metà fra il dileggio e il conato di vomito. Li fanno tutti  insieme, ripetutamente; anzi, per almeno un minuto dopo che è  stato pronunciato il tuo nome non fanno altro. Poi cominciano a  ridere e a mimare qualcuno che suona il pianoforte, sai cosa  intendo, così... - Parkhurst assunse un'espressione altezzosa e  strimpellò su un'invisibile tastiera con raffinata eleganza. -  Proprio così, poi fingono altri sforzi di vomito. Solo a questo  punto cominciano con le storielle, con le piccole cose che  ricordano di te, e ti accorgi subito che se le sono già  raccontate un'infinità di volte, perché tutti sanno benissimo  quand'è il momento di fare di nuovo i versacci, o di dire: «Come?  Vorrai scherzare!» e così via. Oh, si divertono un mondo. La  volta che c'ero io, qualcuno ha ricordato la sera in cui sono  finiti gli esami. Pare che tutti si stessero preparando per  uscire a fare baldoria quando ti hanno visto arrivare serio  serio. Allora ti hanno detto: «Su, Ryder, vieni a prenderti una  bella sbornia con noi!» E pare che tu abbia risposto... - e qui  Parkhurst si trasformò di nuovo in un individuo altezzoso e la sua voce assunse un tono ridicolmente pomposo, - sì, pare che tu  abbia risposto: «Ho da fare. Questa sera non posso permettermi di  non esercitarmi. Ho già perso due giorni per colpa di questi  orrendi esami!» Poi tutti hanno finto di nuovo di vomitare e di  suonare il pianoforte a mezz'aria, ed è stato allora che hanno  cominciato a... ma non starò a raccontarti le altre cose che  hanno tirato fuori, sono davvero spaventose. Un branco di  bastardi, quasi tutti così infelici, così frustrati e pieni di  rancore.  
  Mentre Parkhurst parlava, mi era tornato in mente un ricordo  dei tempi dell'università; per un attimo quel frammento di  memoria mi diede una grande tranquillità, tanto che per un po'  non badai più a ciò che Parkhurst stava dicendo. Mi ero ricordato  di un'altra bella mattina - non dissimile da questa - in cui me  ne stavo pacifico su un divano accanto a una finestra inondata di  sole. Mi trovavo nella mia stanzetta, nella vecchia fattoria in  cui abitavo con altri quattro studenti. In grembo avevo la  partitura di un concerto che avevo studiato svogliatamente per  almeno un'ora, e stavo pensando di abbandonarla per uno dei  romanzi dell'Ottocento impilati accanto ai miei piedi sul  pavimento di legno. Dalla finestra aperta entrava una brezza  leggera, che mi portava le voci di un gruppetto di studenti  seduti nell'erba alta e intenti a discutere di filosofia, poesia  o argomenti simili. Oltre al divano, nella mia stanzetta c'era  ben poco: un materasso sul pavimento e, in un angolo, un piccolo  scrittoio con una sedia. Ma le ero molto affezionato. Spesso il  pavimento si ricopriva interamente di libri e riviste che io  leggiucchiavo in quei lunghi pomeriggi; avevo preso anche  l'abitudine di lasciare la porta spalancata, in modo che chi  passava potesse entrare a fare quattro chiacchiere. Chiusi gli  occhi, e per un momento mi venne una gran voglia di essere di  nuovo in quella piccola fattoria, circondato dai campi e dai  compagni che oziavano nell'erba alta. Ci volle quindi un po' di  tempo perché il significato delle parole di Parkhurst si facesse  strada nel mio cervello. Solo allora mi accorsi che le persone di  cui stava parlando, i cui volti ormai si confondevano nella mia  memoria, erano le stesse che una volta si affacciavano alla porta  di camera mia, le stesse che accoglievo pigramente e con le quali  discutevo per un'ora o due di qualche romanziere o di un  chitarrista spagnolo. Ciò nonostante, era così piacevole  crogiolarsi al sole sul divano di vimini della signorina Collins  che le parole di Parkhurst mi lasciarono solo una vaga e remota  sensazione di disagio.  
  L'ometto continuò a parlare. Avevo smesso da un pezzo di  prestargli attenzione, quando fui riscosso da qualcuno che  picchiava sul vetro alle mie spalle. Parkhurst parve non  curarsene, e anch'io cercai di ignorare il rumore, un po' come  facciamo con la sveglia quando ci disturba nel bel mezzo di un  sonno voluttuoso. Ma i colpi alla finestra continuarono, e alla  fine Parkhurst si interruppe, dicendo: - Oh cielo, ci mancava  Brodsky.   
  Riaprii gli occhi e mi guardai alle spalle. Brodsky stava  proprio sbirciando dalla finestra. Forse per l'intensa luminosità  esterna, forse per qualche difetto della vista, sembrava avere  difficoltà a vedere dentro. Teneva il volto premuto contro il  vetro e si schermava gli occhi con entrambe le mani, ma ebbi  l'impressione che non ci avesse ancora notati e che picchiasse  sul vetro convinto che nella stanza ci fosse la signorina  Collins.   
  Alla fine Parkhurst si alzò in piedi e disse: - Meglio che vada  a vedere che cosa vuole.  
 22.  
  Sentii Parkhurst che apriva la porta, poi delle voci che  discutevano nell'ingresso. Dopo un momento Parkhurst tornò nel  salottino, alzò gli occhi al cielo e sospirò.   
  Dietro di lui entrò Brodsky. Sembrava più alto dell'ultima  volta che l'avevo visto, in un salone affollato; mi colpì di  nuovo lo strano atteggiamento del suo corpo, leggermente  inclinato in avanti come se dovesse ribaltarsi da un momento  all'altro. Notai però che era perfettamente sobrio. Portava un  farfallino scarlatto e un vestito nero da damerino, chiaramente  nuovo di zecca. Il caletto della camicia bianca aveva le punte in  fuori, se di proposito o per eccessiva inamidatura non avrei  saputo dire. Brodsky aveva in mano un mazzo di fiori, e i suoi  occhi erano stanchi e tristi. Si fermò sulla soglia e si guardò  intorno con cautela, forse aspettandosi di trovare la signorina  Collins.   
  - $è occupata, gliel'ho detto, - disse Parkhurst. - Senta, io  sono in confidenza con la signorina Collins, e posso dirle a  colpo sicuro che non avrà nessuna voglia di vederla -. Parkhurst  mi lanciò un'occhiata, aspettandosi una conferma da parte mia, ma  io avevo deciso di non immischiarmi e mi limitai a rivolgere a  Brodsky un sorrisetto. Solo allora Brodsky mi riconobbe.   
  - Signor Ryder, - disse, inchinando solennemente la testa Poi  si rivolse di nuovo a Parkhurst. - Se la signorina è in casa, la  prego di chiamarla -. Così dicendo accennò al mazzo di fiori,  come se quest'ultimo fosse sufficiente a spiegare l'urgenza. - La  prego.  
  - Gliel'ho già detto, non posso aiutarla. La signorina Collins  non ha nessuna intenzione di vederla. E poi in questo momento sta  parlando con due persone.   
  - Ho capito, - mormorò Brodsky. - Ho capito. Non vuole  aiutarmi. Ho capito.   
  Detto questo, si avviò verso la porta attraverso la quale un  istante prima era sparita la signorina Collins. Parkhurst fu  lesto a bloccargli la strada, e per un attimo la figura alta e  allampanata di Brodsky si scontrò con la mole bassa e tarchiata  dell'altro. Per arrestare Brodsky, Parkhurst gli mise le palme  delle mani contro il petto. Brodsky, invece, aveva posato una  mano sulla spalla di Parkhurst e teneva gli occhi fissi sulla  porta interna, come se si trovasse in mezzo alla folla e stesse  educatamente sbirciando oltre la persona che gli stava davanti.  Nel frattempo, strisciava i piedi sul pavimento con insistenza e  borbottava: - La prego.   
  - D'accordo! - urlò Parkhurst alla fine. - D'accordo. Vado a  parlarle. So già che cosa dirà, ma ci vado lo stesso. D'accordo!   
  I due si separarono. Poi Parkhurst sollevò un dito e disse:   
  - Ma lei aspetti qui! Badi a non muoversi!   
  Dopo avere lanciato un'ultima occhiata di fuoco a Brodsky,  Parkhurst si girò e varcò la porta, richiudendola con decisione  alle sue spalle.   
  Sulle prime Brodsky rimase a fissare la maniglia, tanto che  pensai che volesse seguire Parkhurst, ma dopo un attimo lasciò  perdere e venne a sedersi.   
  Per qualche minuto ebbi l'impressione che stesse provando  mentalmente un discorso. Dalle labbra gli sfuggivano parole  isolate, e mi parve inopportuno interromperlo. Di tanto in tanto  esaminava i fiori che aveva in mano, come se da quel mazzo  dipendesse tutto, e la minima pecca potesse provocare un  disastro. Poi, dopo un bel po' che ce ne stavamo zitti, mi guardò  e disse:   
  - Signor Ryder. Sono felice di fare finalmente la sua  conoscenza.  
  - Il piacere è mio, signor Brodsky, - dissi. - Come sta?   
  - Oh... - Brodsky fece un gesto un po' vago con la mano. - Non  posso dire di stare bene. Sa, ho un dolore.   
  - Davvero? Un dolore? - Poi, vedendo che non aggiungeva altro,  gli domandai: - Intende dire un dolore spirituale?   
  - No, no. Una ferita. Sono passati molti anni, ma continua a  darmi problemi. Forti dolori. Forse è per questo che bevevo  tanto. Quando bevo, non la sento.   
  Aspettai altre spiegazioni, ma Brodsky ricadde nel suo mutismo.  Dopo un po' dissi:   
  - Sta parlando di una ferita del cuore, signor Brodsky?   
  - Del cuore? Il mio cuore sta benissimo. No, no... -  Improvvisamente Brodsky scoppiò a ridere. - Adesso capisco,  signor Ryder. Crede che stia facendo il poetico. No, no, sto  parlando di un taglio bell'e buono. Mi sono ferito molti anni fa,  in Russia. I dottori non valevano gran che e hanno fatto un  pessimo lavoro. Il dolore non mi è mai passato perché la ferita  non si è rimarginata a dovere. Sono passati tanti anni, ma mi fa  ancora male.  
  - Mi spiace. Deve essere una bella scocciatura.   
  - Scocciatura? - Brodsky ci pensò su, poi rise di nuovo. - Può  dirlo forte, amico mio. Una bella scocciatura. Una scocciatura  d'inferno -. Di punto in bianco parve ricordarsi dei fiori che  aveva in mano. Li annusò e respirò a fondo. - Ma non parliamo di  queste cose. Mi ha chiesto come sto e io gliel'ho detto, ma non  avevo intenzione di tirare fuori questo argomento. Faccio del mio  meglio per sopportarla, quella ferita. Per anni non ne ho parlato  con nessuno, ma adesso che sono vecchio e non bevo più mi fa  molto male. Non è assolutamente guarita.   
  - Ci sarà pur qualcosa da fare. $è andato da un dottore? Magari  da uno specialista?   
  Brodsky guardò di nuovo i suoi fiori e sorrise. - Voglio fare  di nuovo l'amore con la signorina Collins, - disse, quasi a se  stesso. - Prima che la ferita peggiori. Voglio fare di nuovo  l'amore con lei.   
  Vi fu un silenzio imbarazzato. Poi dissi:   
  - Se la ferita è così vecchia, signor Brodsky, mi sembra  improbabile che possa peggiorare.   
  - Eh, le vecchie ferite -. Brodsky fece spallucce. - Restano  uguali per anni. Ti illudi di conoscerle bene. Poi invecchi e  loro ricominciano a crescere. Ma per il momento non sono ancora  così mal ridotto. Forse posso ancora fare l'amore. So che sono  vecchio, ma a volte... - Si sporse in avanti confidenzialmente. -  Ho provato, sa. Per conto mio. Ce la faccio ancora. Riesco  persino a dimenticare il dolore. Quando ero ubriaco, il mio  uccello era come se non esistesse. Non ci pensavo più. Buono per  fare la pipì, nient'altro. Ma adesso ce la faccio di nuovo,  nonostante il male. Ho provato, l'altroieri notte. Non è detto  che ci riesca sempre, sa, non sino in fondo. Il mio uccello è  vecchio, e per troppi anni l'ho usato solo, sì, insomma, solo per  fare la pipì. Ah! - Brodsky si appoggiò allo schienale della  poltrona e guardò il sole che entrava dalla finestra alle mie  spalle. Gli venne un'aria malinconica. - Ho proprio voglia di  fare di nuovo l'amore con lei. Ma non vivremo qui. Non in questo  posto. L'ho sempre odiato. Venivo spesso a passeggiare da queste  parti, sì, lo confesso, venivo a notte fonda, quando nessuno  poteva vedermi. La signorina Collins non l'ha mai saputo, ma io  mi piazzavo spesso là fuori e tenevo d'occhio la casa. Odiavo  questa strada, odiavo questo alloggio. No, non potremmo vivere  qui. Sa, è la prima volta, la prima in assoluto che entro in  questo luogo spaventoso. Ma perché ha scelto un posto così? Sono  sicuro che non piace nemmeno a lei. Vivremo fuori città. E se non vuole tornare alla fattoria, poco male. Troveremo un'altra  sistemazione, magari una casetta. Un posto circondato dall'erba e  dagli alberi, dove il nostro animale possa vivere bene. Al nostro  animale non piacerebbe stare qui -. Brodsky esaminò con cura le  pareti e il soffitto, forse riconsiderando per un attimo i pregi  dell'alloggio. Poi concluse: - No, il nostro animale non starebbe  bene qui. Andremo a vivere dove ci siano erba, alberi, campi. Sa,  fra un anno, forse sei mesi se il dolore peggiora, il mio uccello  non ce la farà più, non potremo più fare l'amore, ma non  m'importa. Purché possa farlo ancora una volta. No, una volta non  basta, perché sa, dovremo tornare indietro, ritrovarci. Sei  volte, ecco, sei volte saranno sufficienti per ricordare tutto,  non voglio altro. E dopo, pace. Se qualcuno, che so, un dottore,  o Dio, mi dicesse: puoi fare l'amore con lei ancora sei volte,  poi basta, sarai troppo vecchio, la ferita ti farà troppo male,  ancora sei volte poi chiuso l'argomento, lo userai solo per fare  la pipì, be', non ci farei una malattia. Direi, d'accordo, a me  sta bene. Purché possa di nuovo stringerla fra le mie braccia,  sei volte saranno sufficienti; mi basta tornare come eravamo  allora, poi me n'infischio, può succedere quello che vuole. Ci  sarà il nostro animale. Non avremo bisogno di fare l'amore. Fare  l'amore serve ai giovani, che non si conoscono bene, che non si  sono mai odiati e riamati. Sa, mi funziona ancora. Ho fatto la  prova per conto mio, l'altroieri notte. Non sono arrivato fino in  fondo, ma mi è venuto duro.   
  Brodsky fece una pausa e annuì con espressione grave.   
  - Accipicchia, - dissi sorridendo. - Ma è magnifico.   
  Brodsky si appoggiò allo schienale della poltrona e guardò di  nuovo fuori della finestra. Dopo un po' riprese a parlare. - $è  stato diverso, non come quando si è giovani. Quando si è giovani  si pensa alle puttane, sa, alle puttane che fanno le porcherie, o  cose del genere. Ma adesso tutto ciò mi lascia indifferente; c'è  una sola cosa che chiedo ancora al mio uccello, di fare l'amore  con lei nella vecchia maniera, come prima di lasciarci, tutto lì.  Se dopo vuole andare a riposo, mi sta bene, non gli chiedo altro.  Ma voglio farlo di nuovo come un tempo, sei volte saranno  sufficienti. Da giovani non eravamo grandi amanti. Non facevamo  l'amore dappertutto come pare che facciano i giovani d'oggi. Però  ci intendevamo bene. Sì, è vero, a volte, quando ero giovane mi  stufavo di farlo sempre nello stesso modo. Ma lei era così,  era... non voleva provare in nessun altro modo. Io mi arrabbiavo,  e lei non capiva perché. Ma adesso voglio ritrovare le vecchie  abitudini, passo dopo passo, esattamente come un tempo.  L'altroieri notte, sa, mentre provavo, pensavo a puttane, puttane  immaginarie, puttane fantastiche che facevano cose fantastiche, e  non succedeva niente, niente di niente. E mi sono detto, be', è  logico. Povero vecchio uccello, lo attende solo un'ultima  missione, perché tormentarlo con tutte queste puttane? Cosa  c'entrano ormai le puttane con il mio vecchio uccello? Se lo  attende solo un'ultima missione, allora dovresti pensare a  quella. E così ho fatto. Sdraiato al buio, ho ricordato,  ricordato, ricordato. Come lo facevamo una volta, passo dopo  passo. Ed è così che lo rifaremo. Certo, i nostri corpi sono  invecchiati, ma ho già previsto tutto. Lo faremo esattamente come  un tempo. E anche lei ricorderà, non può avere dimenticato, passo  dopo passo dopo passo. Quando saremo al buio, sotto le coperte...  sa, non siamo mai stati molto audaci. Colpa sua, era così pudica,  insisteva per farlo così. Allora la cosa mi scocciava, avrei  sempre voluto dirle: «Perché non puoi comportarti come una  puttana? Farti vedere alla luce?» Ma adesso non mi importa più,  voglio farlo esattamente come una volta, fingere di  addormentarci, stare zitti dieci, quindici minuti. Poi all'improvviso, nell'oscurità, dirò qualcosa di audace e sconcio.  «Voglio che ti vedano nuda, - dirò. - I marinai ubriachi di una  taverna del porto, uomini sudici e ubriachi, voglio che ti vedano  nuda sul pavimento». Sì, signor Ryder, le dicevo cose del genere  all'improvviso, dopo avere finto per un po' di dormire; sì, è  importante rompere il silenzio all'improvviso. Naturalmente, a  quei tempi era giovane, bellissima; adesso è un po' strano  pensare a una vecchia nuda sul pavimento di una taverna, ma lo  dirò lo stesso, perché era così che cominciavamo. Lei non  risponderà, e io continuerò. «Voglio che ti guardino tutti.  Mentre te ne stai a quattro zampe sul pavimento». Se la immagina?  Una fragile vecchietta che fa una cosa simile? Che cosa direbbero  i nostri marinai ubriachi? Ma forse sono invecchiati anche loro,  in quella taverna del porto; forse nella loro immaginazione  continuerebbero a vederla come era un tempo e non ci farebbero  caso. «Sì, ti guarderanno! Tutti!» Poi la toccherò, le sfiorerò  appena l'anca; me lo ricordo bene, le piaceva che le toccassi i  fianchi. La toccherò come facevo allora, poi mi avvicinerò e le  sussurrerò: «Ti farò lavorare in un bordello. Giorno e notte». Se  la immagina? Ma dirò così, perché è così che dicevo. Poi butterò  via le coperte e mi curverò su di lei; le scosterò le cosce, che  forse scricchioleranno. Sì, può darsi che la giuntura del femore  crepiti un po', qualcuno mi ha detto che si è fatta male proprio  all'anca. Magari adesso non riesce nemmeno a divaricare le gambe.  Però faremo del nostro meglio, perché questo era il passo  successivo. Poi mi chinerò a baciarle la passera. Probabilmente  non avrà più l'odore di un tempo; no, ho già previsto tutto, e so  che potrebbe puzzare di pesce vecchio. Forse avrà un cattivo  odore anche il resto del suo corpo. D'altronde, mi guardi: non è  che il mio stia meglio. Vede la pelle come desquama? Non so come  mai. L'anno scorso, quand'è cominciato, mi ha preso solo il cuoio  capelluto. Mi pettinavo e si staccavano delle grosse scaglie  trasparenti, come squame di pesce. All'inizio mi ha preso solo il  cuoio capelluto, ma adesso mi succede dappertutto, sui gomiti,  sulle ginocchia, persino sul petto. Anche le mie squame puzzano  di pesce. Be', continuerò a desquamare, non posso farci niente, e  visto che lei dovrà sopportarmi così, io non mi lamenterò se la  sua passera avrà cattivo odore, o se le sue cosce non si  apriranno più come si deve e senza scricchiolare. Non mi  arrabbierò, non cercherò di divaricargliele a forza come un  giocattolo rotto, no, no. Faremo tutto come una volta. E al  momento giusto lei afferrerà il mio vecchio uccello, che magari  sarà duro solo a metà, e mi bisbiglierà: «Sì, li lascerò fare!  Lascerò che tutti i marinai mi guardino! Li ecciterò sino a farli  scoppiare!» Se la immagina? Ridotta com'è adesso? Ma noi non ci  baderemo. E poi, come le dicevo, può darsi che anche i marinai  siano invecchiati. Sì, afferrerà il mio vecchio uccello... allora  sarebbe stato duro come la pietra, nulla al mondo avrebbe potuto  farlo afflosciare, tranne... be', può darsi che questa volta si  rizzi solo a metà, l'altra notte non sono riuscito a fare di  meglio, ma chi può dire, forse sarà bello dritto, e cercheremo di  metterlo dentro. Può darsi che lei sia sigillata come un guscio,  ma noi proveremo lo stesso. E al momento giusto... lo  riconosceremo anche se là sotto non succederà niente... sapremo  come finire, perché ormai avremo riscoperto tutte le nostre  abitudini, e niente potrà più fermarci, anche se là sotto non  succederà niente, anche se non faremo altro che tenerci stretti  l'uno all'altra, non importa, al momento giusto lo diremo. «Ti  scoperanno! Ti scoperanno, li hai provocati troppo!» E lei  risponderà: «Sì, che mi prendano, tutti i marinai, che mi  prendano pure!» E anche se là sotto non succederà nulla, nessuno  ci impedirà di tenerci stretti e di dire così, come facevamo una volta. Chi se n'infischia. Forse il dolore sarà troppo forte per  il mio vecchio uccello, sa, per colpa della ferita, ma non  importa, sono sicuro che lei saprà fare l'amore come un tempo.  Sono passati tanti anni, ma si ricorderà ogni singolo passo.  Signor Ryder, lei ce l'ha una ferita?  
  Brodsky si era improvvisamente girato verso di me.   
  - Una ferita?  
  - Io ho la mia vecchia ferita. Forse è per questo che bevo. Mi  dà dei dolori tremendi.  
  - Mi dispiace -. Poi, dopo un breve silenzio, aggiunsi: - Una  volta mi sono fatto male al dito di un piede giocando a pallone.  Avevo diciannove anni. Ma non è stato nulla di grave.   
  - Già quando facevo il direttore d'orchestra in Polonia, signor  Ryder, già allora ero convinto che la mia ferita non sarebbe mai  guarita. Dirigevo l'orchestra e intanto mi toccavo la ferita, la  accarezzavo. Certi giorni ne pizzicavo i margini, o li tenevo  stretti tra le dita. Si capisce presto se una ferita è destinata  a non rimarginarsi. La musica, persino quando facevo il direttore  d'orchestra, non era che una consolazione, lo sapevo benissimo.  Per un po' mi ha aiutato. In realtà la sensazione di premere la  ferita tra le dita non mi dispiaceva; la trovavo affascinante.  Sì, può succedere che una bella ferita sia affascinante. Ti  sembra un po' diversa ogni giorno. $è cambiata? ti chiedi. Starà  finalmente guarendo? La guardi allo specchio, ti sembra diversa.  Poi però la tocchi e ti accorgi che è ancora la stessa, la tua  vecchia amica di sempre. Fai così anno dopo anno, finché capisci  che non guarirai mai, e alla fine ti stufi. Ti stufi davvero -.  Brodsky tacque ed esaminò di nuovo il suo mazzo di fiori. Poi  aggiunse: - Sì, ti stufi davvero. Lei non si è ancora stufato,  signor Ryder? Secondo me ci si stufa proprio.   
  - Chissà, - risposi esitante, - forse la signorina Collins ha  il potere di guarire la sua ferita.   
  - Lei? - Brodsky scoppiò a ridere, poi tacque di nuovo. Dopo un  po' disse sottovoce: - Sarà come la musica. Una consolazione. Una  magnifica consolazione. Ormai non chiedo altro. Un po' di  consolazione. Ma guarire la ferita? - Scosse il capo. - Se gliela  facessi vedere, amico mio, e se vuole posso fargliela vedere  subito, capirebbe che la cosa è impossibile. Impossibile dal  punto di vista medico. Ormai non voglio altro, non chiedo altro  che un po' di consolazione. Anche se il mio uccello, come le ho  detto, dovesse rizzarsi solo a metà, anche se per sei volte non  faremo altro che un po' di ginnastica, per me sarà sufficiente.  Dopo, la ferita può fare quello che vuole. A quel punto avremo il  nostro animale, l'erba, i campi. Chissà perché si è scelta un  posto come questo?   
  Brodsky si guardò di nuovo intorno scuotendo la testa. Questa  volta tacque a lungo, forse addirittura due o tre minuti. Stavo  per dire qualcosa, quando all'improvviso si sporse in avanti  sulla poltrona.   
  - Io avevo un cane, signor Ryder. Si chiamava Bruno ed è morto.  Non l'ho... non l'ho ancora sepolto. L'ho messo in una scatola,  una specie di bara. Era un buon amico. Un semplice cane, ma un  buon amico. Ho organizzato una piccola cerimonia di addio. Niente  di speciale. Bruno appartiene al passato, ormai, ma che c'è di  male in una piccola cerimonia per dirgli addio? Signor Ryder,  volevo chiederle un piccolo favore. Per me e per Bruno.   
  La porta si aprì all'improvviso, e la signorina Collins entrò  nella stanza. Poi, mentre Brodsky e io ci alzavamo in piedi,  arrivò alle sue spalle anche Parkhurst, che richiuse la porta.   
  - Mi spiace moltissimo, signorina Collins, - disse Parkhurst,  lanciando un'occhiata furiosa a Brodsky. - Non ha voluto saperne  di rispettare la sua vita privata.  
  Brodsky rimase impalato in mezzo alla stanza. Quando la  signorina Collins gli si avvicinò, le fece un inchino, in cui  vidi l'ombra della notevole eleganza che doveva avere posseduto  un tempo. Poi le porse il mazzo di fiori, dicendo: - Solo un  pensierino. Li ho raccolti con le mie mani.   
  La signorina Collins prese i fiori, ma non li degnò di uno  sguardo. - Avrei dovuto immaginarlo che saresti piombato a casa mia, - disse. - Solo perché ieri sono venuta allo zoo, adesso  pensi di poterti prendere qualsiasi libertà.   
  Brodsky abbassò gli occhi. - Ma abbiamo così poco tempo, -  disse. - Non possiamo permetterci di sprecarlo.   
  - Sprecare tempo per che cosa? $è ridicolo che piombi qui a  questo modo. Dovresti saperlo che la mattina sono occupata.   
  - Per piacere -. Brodsky sollevò la palma della mano. - Per  piacere. Siamo vecchi, ormai. Non c'è bisogno che litighiamo come  una volta. Sono venuto solo a portare i fiori. E a farti una  piccola proposta. Ecco tutto.   
  - Una proposta? Che razza di proposta?   
  - Semplicemente di trovarci questo pomeriggio al Cimitero di  St' Peter. Mezz'ora, niente di più. Per discutere in santa pace  di un paio di cosette.   
  - Non abbiamo niente da dirci. Evidentemente ho fatto male a  venire ieri allo zoo. E poi hai detto al £cimitero? Perché mai  proponi un posto simile per un appuntamento? Ti ha dato di volta  il cervello? Un ristorante, un caffè, magari un giardino pubblico  o un lago. Ma un cimitero!   
  - Mi spiace -. Brodsky sembrava sinceramente avvilito. - L'ho  detto senza pensarci. Me n'ero dimenticato. Voglio dire, che il  Cimitero di St' Peter è un cimitero.  
  - Non essere sciocco.   
  - $è che ci sono stato così tante volte. Bruno e io ci  sentivamo sereni in quel posto. Anche nei momenti peggiori mi  bastava andare lì per stare un po' meglio. $è un luogo così  tranquillo, così bello. Ci piaceva molto. Per questo l'ho  proposto. Davvero, me n'ero dimenticato, che c'è sepolta della  gente.  
  - E che cosa pensi di fare una volta là? Sederti su una tomba e  abbandonarti ai ricordi? Dovresti studiarle meglio le tue  proposte.   
  - Ma a me e a Bruno quel posto piaceva. Ho pensato che sarebbe  piaciuto anche a te.   
  - Oh, capisco. Adesso che il cane è morto, vuoi che prenda il  suo posto.   
  - Non intendevo questo -. Brodsky abbandonò improvvisamente  l'atteggiamento dimesso, e un lampo di impazienza gli attraversò  il volto. - Non intendevo affatto questo, e lo sai. Sei sempre  stata così. Io mi spremo le meningi per trovare qualcosa di bello  da fare con te, poi arrivi tu e lo respingi sdegnosamente, ci  ridi sopra, sostieni che le mie idee sono ridicole. Con chiunque  altro le troveresti bellissime. Sei sempre stata così. Come la  volta che avevo trovato due posti in prima fila al concerto di  Kobyliansky...   
  - $è successo più di trent'anni fa. Come fai a parlare ancora  di quelle cose?   
  - Ma è così da sempre, da sempre. Io mi spremo le meningi e  trovo qualcosa di bello da fare con te, perché ti conosco bene e  so che ti piacciono le cose un po' insolite. E tu ti limiti a  riderci su. Forse perché nell'intimo le mie idee, come quella del  cimitero, ti affascinano. Perché ti accorgi che ti leggo nel  cuore, e allora fingi di...   
  - Quante assurdità. Non vedo proprio il motivo di parlare  ancora di queste cose. Ormai è tardi. Non abbiamo più nulla da dirci. Al di là del fatto che mi affascini o no, non posso  accettare l'appuntamento al cimitero perché non ho nulla da  discutere con te...   
  - Volevo solo spiegarti perché è successo quello che sai,  perché mi comportavo così...   
  - $è tardi per tornare indietro. Almeno vent'anni troppo tardi.  E poi, non sopporto l'idea di ascoltare da capo tutte le tue  giustificazioni. Sono sicura che ancora oggi non riuscirei a  sentir pronunciare una scusa dalle tue labbra senza rabbrividire.  Per troppi, troppi anni le tue scuse non sono state la fine ma  l'inizio. L'inizio di un nuovo periodo di sofferenza e  umiliazione. Oh, perché non mi lasci in pace? $è tardi, non lo  capisci? E poi, da quando non bevi più hai cominciato a vestirti  in maniera ridicola. Ma dove li hai presi questi vestiti?   
  Brodsky esitò, poi disse: - Mi hanno consigliato di vestirmi  così. Le persone che mi stanno aiutando. Devo ritornare a essere  un direttore d'orchestra. E bisogna che mi vesta in modo da dare  questa impressione alla gente.   
  - Ieri allo zoo stavo per dirtelo. Quel cappotto grigio era  assurdo. Chi ti ha detto di metterlo? Il signor Hoffman? Davvero,  ti manca proprio il senso del ridicolo. Quella gente ti agghinda  come un burattino, e tu li lasci fare. E guardati adesso! Con  questo vestito. Pensi di avere l'aspetto di un artista, conciato  così?   
  Brodsky diede un'occhiata ai propri indumenti, un po' offeso.  Poi alzò lo sguardo e disse: - Sei vecchia. Non sai nulla della  moda moderna.   
  - $è tipico dei vecchi criticare il modo di vestire dei  giovani. Ma è ridicolo che sia £tu a vestirti così. Non lo  capisci che è inutile, che non è nel tuo stile? Sinceramente,  penso che la città preferirebbe vederti con i vestiti che  indossavi qualche mese fa. Erano stracci, ma avevano una parvenza  di eleganza.  
  - Non ridere di me. Non sono più quello di una volta. Presto  potrei essere di nuovo un direttore d'orchestra. Adesso mi vesto  così. Quando mi sono guardato allo specchio, mi sono detto che  stavo bene. Ti dimentichi che a Varsavia avevo dei vestiti molto  simili a questi. Anche il farfallino. Te ne sei dimenticata?   
  Per un attimo gli occhi della signorina Collins furono  appannati da un velo di tristezza.   
  - Certo che me ne sono dimenticata. Perché dovrei ricordarmene?  Da allora mi sono rimaste impresse nella memoria ben altre cose.   
  - Il tuo vestito, - disse Brodsky all'improvviso, - è molto  bello. Molto elegante. Ma le scarpe non vanno, sono il solito  disastro. Non hai mai voluto ammettere di avere le caviglie  spesse. Magra come sei, hai sempre avuto le caviglie spesse.  Guardati, ancora adesso -. E Brodsky indicò i piedi della  signorina Collins.   
  - Non essere infantile. Pensi di essere ancora a Varsavia,  quando riuscivi a farmi cambiare dalla testa ai piedi pochi  minuti prima di uscire con un semplice commento di questo genere?  Quando la smetterai di vivere nel passato? Credi che m'importi  qualcosa della tua opinione sulle mie scarpe? E credi che non  abbia capito che lo facevi apposta di aspettare fino all'ultimo  istante per criticare il mio abbigliamento? E naturalmente io mi  cambiavo, mi mettevo qualcosa in fretta e furia. Poi, quando  eravamo in macchina, oppure al palazzo dei concerti, mi ricordavo  all'improvviso che l'ombretto era del colore sbagliato per il  vestito, o che la collana stonava terribilmente con le scarpe.  Allora ci tenevo moltissimo a queste cose. Ero la moglie del  direttore d'orchestra! Ci tenevo moltissimo e tu lo sapevi. Credi  che non abbia capito il tuo trucchetto? Mi dicevi: «Bene, bene, sei bellissima» fino a pochi minuti prima di uscire. Poi tiravi  fuori un commento come quello di poco fa. «Le tue scarpe sono un  disastro!» Come se tu ne capissi qualcosa! E che cosa vuoi capire  di moda adesso, dopo avere passato gli ultimi vent'anni in stato  di ubriachezza?   
  - Ciò non toglie, - disse Brodsky, in tono leggermente  imperioso, - ciò non toglie che io abbia ragione. Quelle scarpe  ti rendono ridicola dalla cintola in giù. Ti dico che è così.   
  - Ma pensa al tuo vestito! Senza dubbio l'assurda creazione di  qualche sarto italiano. Il genere di roba che potrebbe mettere un  ballerino. E credi che possa farti acquistare credibilità agli  occhi della gente?   
  - Che scarpe assurde. Sembri un soldatino di plastica, con la  base larga per non cadere.   
  - $è ora che te ne vada! Come osi piombare qui a questo modo,  disturbando la mia mattinata! La giovane coppia che è di là vive  nell'angoscia; questa mattina ha più che mai bisogno dei miei  consigli, e tu vieni a disturbarci. Questa è la nostra ultima  conversazione. Ho fatto male ad accettare di vederti ieri allo  zoo.   
  - Al cimitero -. La voce di Brodsky si era fatta  improvvisamente disperata. - Devi assolutamente venire, questo  pomeriggio. $è vero, non ho pensato che c'erano i morti, non ci  ho proprio pensato. Ma ti ho spiegato perché. Dobbiamo parlarci  prima... prima di questa sera. Altrimenti come faccio? Come  faccio a salire sul podio? Non capisci l'importanza di questa  sera? Dobbiamo parlarci, devi assolutamente venire...   
  - Mi ascolti bene -. Parkhurst fece un passo avanti e guardò  Brodsky torvamente. - Non ha sentito la signorina Collins? Le ha  chiesto di andarsene. Di sparire, di uscire dalla sua vita. La  signorina è troppo educata, quindi glielo dico io al posto suo.  Dopo tutto quello che ha combinato, signor Brodsky, lei non ha il  diritto, non ha uno straccio di diritto, di fare simili  richieste. Come si permette di pretendere un incontro, come se  tutte quelle cose non fossero mai successe? Vuol forse farci  credere che era così ubriaco da non ricordarsene più? Bene,  allora le rinfrescherò la memoria. Non molto tempo fa lei è  venuto qui davanti a urinare contro il muro della casa, urlando  oscenità in direzione di questa precisa finestra. Alla fine è  intervenuta la polizia, che l'ha trascinata via mentre urlava le  cose più ignobili sul conto della signorina Collins. E questo  risale a non più di un anno fa. Senza dubbio, si illude che la  signorina Collins se ne sia dimenticata. Ma le posso assicurare  che questo non è che uno di tanti episodi analoghi. E quanto alle  sue affermazioni nel campo della moda, mi risulta che meno di tre  anni fa lei sia stato trovato privo di sensi nel Volksgarten, con  gli indumenti sporchi di vomito; e dopo averla portata nella  Chiesa della Santa Trinità, si è scoperto che aveva anche i  pidocchi. Pensa che alla signorina Collins possa importare  qualcosa dell'opinione di una simile persona sul suo modo di  vestire? Siamo sinceri, signor Brodsky, quando un uomo cade in un  simile stato di abiezione, non può più redimersi. Lei non  riconquisterà mai, £mai, l'amore di una donna, glielo posso dire  quasi a colpo sicuro. Non riconquisterà mai nemmeno il suo  rispetto. La sua compassione, forse, ma nient'altro. Direttore  d'orchestra! Non si illuderà che questa città possa vedere in lei  altro che un disgustoso mentecatto? Mi permetta di ricordarle,  signor Brodsky, che quattro anni fa, forse cinque, lei ha  aggredito la signorina Collins nei paraggi di Bahnhofplatz; e se  non fosse stato per due studenti che passavano di lì, sicuramente  l'avrebbe mandata all'ospedale. E mentre cercava di colpirla, le  urlava le più ignobili...  
  - No, no, no! - gridò Brodsky all'improvviso, scuotendo la  testa e tappandosi le orecchie.   
  - Le urlava le più ignobili oscenità. Sconcezze da pervertito.  Si è anche parlato di sbatterla in prigione per questo incidente.  Poi naturalmente c'è stato l'episodio della cabina telefonica di  Tillgasse...   
  - No, no!   
  Brodsky afferrò Parkhurst per il bavero. L'ometto si ritrasse  spaventato, ma Brodsky non spinse oltre la sua aggressione,  limitandosi ad aggrapparsi alla sua giacca come a un'ancora di  salvezza. Per qualche secondo Parkhurst lottò per liberarsi dalle  dita di Brodsky. Quando finalmente ci riuscì, il vecchio  musicista parve afflosciarsi. Chiuse gli occhi, sospirò, poi si  girò e uscì dalla stanza senza dire una parola.   
  Restammo tutti e tre in silenzio, incerti su che cosa fare o  dire. Poi il rumore della porta d'ingresso che veniva sbattuta da  Brodsky ci riscosse; Parkhurst e io andammo alla finestra.   
  - Eccolo che se ne va, - disse Parkhurst, premendo la fronte  contro il vetro. - Non si preoccupi, signorina Collins, non si  farà rivedere.   
  La signorina Collins parve non udire. Si diresse verso la  porta, poi tornò indietro.   
  - Vi prego di scusarmi, ma io devo... devo... - Si avvicinò con  aria sognante alla finestra e guardò fuori. - Scusatemi, ma io  devo... Spero che capirete...   
  Non si rivolgeva a nessuno dei due in particolare. Poi, come se  la nebbia che le offuscava la mente si fosse dileguata, disse: -  Signor Parkhurst, lei non aveva alcun diritto di parlare in quel  modo a Leo. Da un anno a questa parte ha dimostrato un enorme  coraggio -. E fulminando Parkhurst con gli occhi uscì di corsa  dalla stanza. Un attimo dopo sentimmo di nuovo sbattere la porta.   
  Poiché ero rimasto accanto alla finestra, vidi la figuretta  della signorina Collins avviarsi per la strada. La donna aveva  scorto Brodsky un bel po' più avanti; dopo qualche secondo si  mise a trotterellare, sperando forse di evitarsi l'umiliazione di  doverlo chiamare. Ma Brodsky, con quella sua strana andatura  sbilenca, teneva un passo sorprendentemente veloce. Si vedeva che  era sconvolto, e non doveva essergli nemmeno passato per la testa  che lei potesse corrergli dietro.   
  La signorina Collins lo inseguì ansimando oltre la fila di  condomini, poi oltre i negozi in fondo alla strada, senza  riuscire a ridurre in modo apprezzabile il distacco. Brodsky  continuava a camminare di buon passo. Svoltò all'angolo dove mi  ero separato da Gustav e passò davanti ai caffè italiani del  grande viale. Il marciapiede era ancora più affollato di quando  l'avevo percorso quella mattina in compagnia del facchino;  Brodsky camminava a testa bassa, rischiando spesso di urtare le  persone che si trovavano sulla sua strada.   
  Poi, quando Brodsky giunse all'attraversamento pedonale, la  signorina Collins si accorse di non avere più alcuna possibilità  di raggiungerlo. Fermandosi, accostò le mani alla bocca a mo'  d'imbuto, poi parve presa da un ultimo dubbio; forse si chiese se  chiamare «Leo» oppure «Signor Brodsky». Ma sicuramente l'istinto  l'avvertì dell'estrema gravità della situazione, perché gridò: -  Leo! Leo! Leo! Per piacere, aspettami!   
  Brodsky si girò con un'espressione stupefatta, e la signorina  Collins si affrettò a raggiungerlo. Aveva ancora in mano il mazzo  di fiori, e Brodsky, un po' confuso, tese le braccia come per  offrirsi di portarglielo. Ma la signorina Collins si tenne i  fiori e ripeté: - Per piacere, aspettami -. E la sua voce,  nonostante il fiato corto, era di nuovo calmissima.   
  Rimasero un momento l'uno accanto all'altra, imbarazzati, poi si accorsero di colpo di essere in mezzo alla strada; i passanti  cominciavano a guardare dalla loro parte, nascondendo a stento la  curiosità. Allora la signorina Collins accennò con la mano in  direzione di casa sua, dicendo sottovoce: - Il Giardino Sternberg  è bellissimo in questa stagione. Perché non andiamo lì a parlare?   
  S'incamminarono, attirando gli sguardi di un numero sempre  maggiore di persone, la signorina Collins un paio di passi  davanti a Brodsky, entrambi grati di avere un buon motivo per  rimandare la conversazione a quando fossero giunti alla meta.  Svoltarono nella strada della signorina Collins, e poco dopo  passarono di nuovo sotto i condomini. Poi, a un paio di isolati  da casa sua, la signorina Collins si fermò davanti a un  cancelletto di ferro poco appariscente, un po' arretrato rispetto  al marciapiede.   
  Mise una mano sul chiavistello, ma prima di aprirlo si fermò un  attimo. Mi resi conto allora che per la signorina Collins quella  banale passeggiata, il semplice fatto di trovarsi accanto a  Brodsky davanti all'ingresso del Giardino Sternberg, erano molto  più importanti di quanto lui potesse sospettare in quel momento.  Perché la verità era che, nella sua fantasia, la signorina  Collins aveva compiuto con lui quel breve tragitto - dal  trambusto del viale fino al cancelletto di ferro - innumerevoli  volte nel corso degli anni, sin da quel pomeriggio di mezza  estate in cui si erano incontrati per caso nel viale davanti alla  gioielleria. E in tutti quegli anni la signorina Collins non  aveva mai dimenticato lo sguardo di studiata indifferenza con cui  Brodsky quel giorno si era girato dall'altra, fingendo di  esaminare qualcosa nella vetrina del negozio.   
  In quel periodo - un anno buono prima che cominciassero  l'ubriachezza e gli insulti - queste ostentazioni di indifferenza  erano ancora la nota dominante di ogni contatto fra loro. E  sebbene la signorina Collins avesse già deciso più volte di  tentare qualche forma di riconciliazione, quel pomeriggio anche  lei aveva guardato dall'altra e tirato dritto per la sua strada.  Solo dopo un po', oltre i caffè italiani, aveva ceduto alla  curiosità e si era voltata, scoprendo così che Brodsky l'aveva  seguita. Stava di nuovo sbirciando nella vetrina di un negozio,  ma era lì, a pochi metri da lei.  
  La signorina Collins aveva rallentato il passo, pensando che  prima o poi lui l'avrebbe raggiunta. Ma all'angolo della sua  strada, visto che Brodsky non compariva, si era voltata di nuovo.  Anche quel giorno, come oggi, l'ampio marciapiede soleggiato  brulicava di passanti, ma la signorina Collins aveva avuto la  soddisfazione di scorgere Brodsky che si bloccava a metà di un  passo e si girava dall'altra fingendo di guardare un banchetto di  fiori. Un'immagine nitidissima. Si era lasciata sfuggire un  sorrisetto, e mentre svoltava nella sua strada si era accorta con  piacere, e un po' di stupore, di essere allegra. Aveva rallentato  ancora, cominciando anche lei a guardare le vetrine. Si era  fermata davanti alla pasticceria francese, al negozio di  giocattoli, a quello di stoffe - allora la libreria non c'era  ancora. E intanto si era studiata mentalmente le parole con cui  accogliere Brodsky quando l'avesse raggiunta. «Leo, ci stiamo  comportando come due bambini», aveva pensato di dire. Ma la frase  le era sembrata troppo assennata, e aveva cercato qualcosa di più  ironico: «A quanto pare facciamo la stessa strada», o una battuta  del genere. Poco dopo Brodsky era comparso all'angolo, e la  signorina Collins gli aveva visto in mano un vivace mazzo di  fiori. Girandosi di scatto, aveva ripreso a camminare a passo  quasi normale. Poi, quando ormai era nelle vicinanze di casa,  aveva provato - per la prima volta quel giorno - un senso di  fastidio. Si era già programmata tutto il pomeriggio. Perché Brodsky aveva scelto proprio quel momento per cercare di  parlarle? Arrivata davanti al portone, si era voltata  furtivamente a guardare, scoprendo che Brodsky era ancora ad  almeno venti metri.   
  Allora aveva richiuso la porta alle sue spalle e, resistendo  alla tentazione di guardare dalla finestra, era corsa in camera  sua, sul retro dell'edificio. Lì si era guardata allo specchio e  aveva cercato di calmarsi. Poi, uscendo dalla camera da letto, si  era fermata con un tuffo al cuore. La porta in fondo al corridoio  era spalancata, e attraverso il bovindo del salottino pieno di  sole che dava sulla strada si vedeva il marciapiede. E lì, con la  schiena alla casa, c'era Brodsky, che indugiava come se avesse  dato appuntamento a qualcuno in quel posto. Per un attimo la  signorina Collins era rimasta immobile, per il timore che lui si  girasse e la vedesse attraverso i vetri. Poi Brodsky si era  spostato, uscendo dal suo campo visivo, e la signorina Collins si  era ritrovata a fissare la facciata della casa di fronte, con le  orecchie tese per sentire il campanello.   
  Ma dopo un minuto Brodsky non aveva ancora suonato, e la  signorina Collins aveva provato un altro impeto di rabbia nei  suoi confronti. Evidentemente, si era detta, stava aspettando che  lei lo invitasse a entrare. Allora si era nuovamente sforzata di  calmarsi e, dopo avere analizzato attentamente la situazione,  aveva deciso di non fare nulla finché lui non avesse suonato il  campanello.   
  Aveva aspettato per parecchi minuti. A un certo punto era  persino rientrata in camera da letto senza una precisa ragione,  per poi tornare subito in corridoio. Alla fine, colta dal dubbio  che Brodsky se ne fosse andato, era uscita nell'atrio.   
  Con suo gran stupore, aprendo la porta e guardando a destra e a  sinistra, non aveva più trovato traccia di lui. Si era aspettata  di vederlo in agguato qualche porta più in là, o almeno di  trovare i fiori sui gradini. Ma in quel momento non aveva provato  il minimo rammarico. Un briciolo di sollievo, questo sì, e un po'  di eccitazione, nient'affatto sgradevole, all'idea che il  processo di riconciliazione fosse finalmente avviato, ma non  rammarico. Anzi, tornata nel suo salottino, aveva assaporato un  attimo di trionfo per aver saputo resistere. Queste piccole  vittorie, si era detta, erano importantissime, e li avrebbero  aiutati a evitare di ripetere gli errori del passato.  
  Solo parecchi mesi più tardi le era venuto il dubbio di avere  compiuto, quel giorno, un errore. Sulle prime non aveva dato  molto peso a questa impressione e non l'aveva neppure analizzata  a fondo. Ma con il passare dei mesi quel pomeriggio d'estate  aveva finito con il dominare i suoi pensieri. Il suo grande  sbaglio, aveva concluso la signorina Collins, era stato entrare  in casa. Così facendo, aveva chiesto a Brodsky un po' troppo.  Dopo averlo guidato per tutto quel tragitto, dopo avergli fatto  girare l'angolo e oltrepassare i negozi, avrebbe dovuto fermarsi  davanti al cancelletto di ferro, assicurarsi che lui la vedesse,  ed entrare nel Giardino Sternberg. Lì, senza dubbio, Brodsky  l'avrebbe seguita. E anche se avessero vagato per un po' tra gli  arbusti in silenzio, prima o poi si sarebbero messi a parlare. E  prima o poi lui le avrebbe dato i fiori. Da quel giorno erano  passati più di vent'anni, e da allora, quando le capitava di  posare lo sguardo su quel cancello di ferro, la signorina Collins  provava quasi sempre una piccola fitta al cuore. Questo spiega  come mai, quella mattina, mentre finalmente entrava con Brodsky  nel giardino, vi fosse nel suo contegno una punta di  cerimoniosità.   
  Sebbene avesse finito con l'occupare un posto preminente nelle  fantasie della signorina Collins, il Giardino Sternberg non era un luogo particolarmente piacevole. Quel quadrato di cemento, non  più grande del posteggio di un supermercato, sembrava rispondere  più agli interessi dei floricultori che alle esigenze di bellezza  o comodità della gente del quartiere. Non c'erano alberi, non  c'era erba, solo file di aiuole fiorite; a quell'ora del giorno  il giardino era uno spiazzo assolato senza traccia d'ombra. Ma la  signorina Collins, rimirando i fiori e le felci, batté le mani  felice. Brodsky, dopo avere richiuso con cura il cancelletto, si  guardò intorno senza entusiasmo. Tuttavia, quando vide che  l'intimità, se si escludevano le finestre dei condomini  circostanti, era assoluta, parve soddisfatto.   
  - A volte, le persone che vengono a parlarmi le porto qui, -  disse la signorina Collins. - $è un posto così affascinante.  Vedrai esemplari che non si trovano da nessun'altra parte in  Europa.   
  Continuava a passeggiare lentamente, guardandosi intorno piena  di ammirazione, mentre Brodsky la seguiva rispettosamente a  qualche passo di distanza. L'imbarazzo che avevano dimostrato  l'uno in presenza dell'altra pochi minuti prima era completamente  svanito, tanto che se qualcuno li avesse scorti dal cancello  avrebbe potuto facilmente scambiarli per una vecchia coppia con  un lungo matrimonio alle spalle che faceva la sua abituale  passeggiatina al sole.   
  - Ma tu, naturalmente, - disse la signorina Collins, fermandosi  accanto a un arbusto, - non hai mai amato i giardini come questo,  vero? Tu disprezzi tutti i tentativi di imbrigliare la natura.  Preferisci i luoghi selvaggi. Ma vedi, alcune di queste specie  possono resistere solo se sono ben curate e piantate al momento  giusto.   
  Brodsky osservò solennemente la foglia che la signorina Collins  stava toccando. Poi disse: - Ti ricordi? La domenica mattina,  dopo aver preso il caffè insieme al Praga, andavamo in quella  libreria. Ovunque ci girassimo c'erano solo mucchi di vecchi  libri polverosi. Ti ricordi? Tu ti spazientivi subito. Ma ci  andavamo lo stesso, ogni domenica, dopo il caffè al Praga.   
  La signorina Collins tacque per qualche secondo. Poi rise  sommessamente e riprese a camminare piano piano. - L'uomo girino,  - disse.   
  Brodsky sorrise. - L'uomo girino, - ripeté, annuendo. - Proprio  così. Chissà, forse se tornassimo adesso lo troveremmo ancora lì,  dietro il suo tavolo. L'uomo girino. Gli abbiamo mai chiesto il  suo vero nome? Era sempre gentilissimo. Anche se non compravamo  mai i suoi libri.   
  - Tranne quella mattina che si è messo a inveire contro di noi.   
  - A inveire contro di noi? Non me ne ricordo. L'uomo girino era  sempre gentilissimo. E dire che non gli abbiamo mai comprato un  libro.   
  - Ma sì. Una volta siamo entrati che stava piovendo e abbiamo  fatto molta attenzione a non gocciolare sui suoi libri. Abbiamo  persino scosso i soprabiti sulla porta, ma lui quella mattina era  di cattivo umore e si è messo a inveire contro di noi. Non ti  ricordi? Ce l'aveva con il fatto che ero inglese. Oh, sì, è stato  davvero maleducato, ma solo quella mattina. La domenica dopo  sembrava avere dimenticato tutto.   
  - Strano, - disse Brodsky. - Non ricordo. L'uomo girino. Era  sempre così timido ed educato. Non ricordo proprio l'episodio di  cui parli.   
  - Forse sono io che ricordo male, - disse la signorina Collins.  - Forse mi confondo con qualcun altro.   
  - Lo penso anch'io. L'uomo girino era sempre così rispettoso.  Non avrebbe mai fatto una cosa simile. Perché eri inglese? -  Brodsky scosse il capo. - No, era sempre così rispettoso.  
  La signorina Collins si fermò di nuovo, in assorta  contemplazione di una felce.   
  - Allora ce n'erano tanti fatti così, - disse dopo un momento.  - Sembravano educati, pazienti. Si facevano in quattro per  aiutarti, erano pronti a sacrificare qualsiasi cosa, finché un  giorno, senza alcun motivo, che so, magari per colpa del tempo,  esplodevano. Poi tornavano di nuovo normali. Ce n'erano tanti.  Per esempio Andrzej. Anche lui era fatto così.   
  - Andrzej era matto. Sai, ho letto da qualche parte che è  rimasto ucciso in un incidente d'auto. Sì, l'ho letto su un  giornale polacco, cinque o sei anni fa. Ucciso in un incidente  d'auto.   
  - Che tristezza. Chissà quante delle persone che conoscevamo  allora se ne sono già andate.   
  - Andrzej mi era simpatico, - disse Brodsky. - L'ho letto su un  giornale polacco. C'era solo un accenno. Dicevano che era rimasto  ucciso. In un incidente d'auto. La cosa mi ha rattristato. Ho  ripensato a quelle sere nel vecchio alloggio, quando ci  avviluppavamo nelle coperte e spartivamo il caffè, circondati da  libri e giornali, chiacchierando di musica e di letteratura per  ore e ore, fissando il soffitto. Non la smettevamo più.  
  - Io non vedevo l'ora di andare a letto, ma Andrzej non voleva  mai tornarsene a casa. A volte restava fino all'alba.   
  - Già. Se si trovava a mal partito in una discussione, non se  ne andava più. Si alzava solo se aveva l'impressione di averla  spuntata. Per questo a volte restava fino all'alba.   
  La signorina Collins sorrise, poi sospirò. - Che tristezza che  sia morto, - disse.   
  - Non era l'uomo girino, - disse Brodsky. - Ma quello della  galleria d'arte. $è lui che si è messo a urlare. Un tipo strano.  Ha sempre finto di non sapere chi fossimo. Ti ricordi? Persino  dopo quell'esecuzione di £Lafcadio. I camerieri, i tassisti,  tutti volevano stringermi la mano, ma quando siamo entrati nella  sua galleria, niente. Ci ha guardati come sempre, con quella sua  faccia di pietra. Poi verso la fine, quando le cose cominciavano  a mettersi male, siamo entrati un giorno che pioveva, e lui ha  inveito contro di noi. Gli bagnavamo il pavimento, diceva. E non  era la prima volta, erano anni che quando pioveva gli bagnavamo  il pavimento, anni, e lui ne aveva abbastanza. Sì, è l'uomo della  galleria che si è messo a urlare, che se l'è presa perché eri  inglese, lui, non il girino. Il girino è sempre stato rispettoso,  fino all'ultimo. Il girino mi ha stretto la mano, me lo ricordo  benissimo, poco prima che partissimo. Ti ricordi? Siamo andati  nella sua libreria, e lui sapeva che quella sarebbe stata  l'ultima volta; ha fatto il giro del tavolo e mi è venuto a dare  la mano. Quasi tutti ormai evitavano di stringermi la mano, ma  lui l'ha fatto. Era rispettoso, il girino, lo è sempre stato.   
  La signorina Collins si riparò gli occhi e guardò in direzione  dell'angolo opposto del giardino. Poi riprese lentamente a  camminare, dicendo: - $è bello rammentare alcune di queste cose.  Ma non possiamo vivere nel passato.   
  - Ma ti ricordi, vero? - domandò Brodsky. - Ti ricordi del  girino, della sua libreria. E di quel guardaroba? Della porta che  si è staccata? Sono sicuro che ti ricordi di tutto, come me.   
  - Certe cose le ricordo. Altre, inevitabilmente, le ho  dimenticate -. Il tono della signorina Collins si era fatto  guardingo. - D'altronde, anche di quel periodo ci sono cose che è  meglio dimenticare.   
  Brodsky parve riflettere su questa affermazione. Poi disse: -  Forse hai ragione. Nel passato c'è di tutto. Io me ne vergogno,  lo sai che me ne vergogno, quindi lasciamo perdere. Lasciamo  perdere il passato. Scegliamo invece un animale.  
  La signorina Collins continuò a camminare, precedendo Brodsky  di parecchi passi. Poi si fermò di nuovo e si girò verso di lui.  - Verrò questo pomeriggio al cimitero, se è questo che desideri.  Ma non devi attribuire alcun significato a questo mio gesto. Non  vuol dire che sono d'accordo sull'animale o su altro.  Semplicemente, capisco che tu possa essere preoccupato per questa  sera e voglia sfogare le tue ansie con qualcuno.   
  - In questi ultimi mesi vedevo dappertutto insetti che  strisciavano, ma non ho mollato, ho tenuto duro, mi sono  preparato. Ma sarà tutto inutile se tu non torni.   
  - Ho solo accettato di vederti un momento questo pomeriggio.  Magari una mezz'oretta.   
  - Ma ci penserai, vero? All'animale e a tutto il resto.  Promettimi che ci penserai prima che ci vediamo.   
  La signorina Collins si girò e per un lungo momento studiò un  altro arbusto. Alla fine disse: - Va bene, ci penserò.   
  - Tu lo sai che cosa ho passato. Come è stata dura. A volte  stavo così male che avrei voluto morire, solo per mettere fine a  questa tortura; ma non ho mollato, perché questa volta vedevo una  possibilità. Di nuovo direttore d'orchestra. E tu saresti  tornata. Vedrai, sarà tutto come prima, forse meglio. A volte era  terribile, con tutti quegli insetti striscianti. Non posso fare  altro per dare prova di me. Non abbiamo mai avuto figli.  Prendiamo un animale.   
  La signorina Collins ricominciò a camminare, e questa volta  Brodsky rimase al suo fianco, fissandola gravemente in volto. La  donna parve sul punto di dire qualcosa, ma proprio in quel  momento Parkhurst si mise improvvisamente a parlare alle mie  spalle.  
  - Sai, io non partecipo. Mi riferisco a quando cominciano a  sbeffeggiarti a quel modo. Non rido nemmeno, neppure un sorriso.  Non partecipo e basta. Probabilmente penserai che le mie sono  solo parole, ma ti assicuro che è vero. Quel loro modo di fare mi  ripugna. E quando cominciano con quei versacci! Appena sono  entrato, si sono messi a ragliare! Non mi hanno dato neppure un  minuto, nemmeno sessanta secondi per fargli vedere che ero  cambiato. «Parkers! Parkers!» Ah, che schifo...   
  - Senti, - dissi, perdendo improvvisamente la pazienza, - se ti  danno tanto fastidio, perché non glielo dici apertamente? Perché  la prossima volta non li prendi di petto? Di' che la piantino di  ragliare. E chiedi per quale strana ragione mi odino tanto. E  perché mai si sentano così oltraggiati dal mio successo. Sì,  chiediglielo un po'! Anzi, per fare più colpo, perché non glielo  chiedi mentre fai il pagliaccio? Sì, nel bel mezzo di una delle  tue storielle, mentre fai le vocine buffe e le smorfie. Aspetta  che ridano, che ti battano sulla schiena felici che tu non sia  cambiato neanche un po', poi chiedi all'improvviso: «Ma perché?  Perché il successo di Ryder vi brucia tanto?» Ecco come devi  fare. Non mi renderesti solo un servizio; sarebbe un modo  elegante per dimostrare a quegli idioti che dietro le tue  pagliacciate c'è, e c'è sempre stata, una persona molto più  profonda. Una persona che non si lascia manipolare facilmente e  non scende a compromessi. Io ti consiglio di fare così.   
  - Ma bravo! - gridò Parkhurst furente. - Per te è facile dirlo!  Non hai niente da perdere, visto che intanto ti odiano! Ma quelli  sono i miei amici di gioventù. Quando sono qui, in mezzo a tutti  questi continentali, le cose non vanno troppo male. Ma di tanto  in tanto succede qualcosa, qualcosa di sgradevole, e allora mi  dico: «Ma che te ne importa? Questi sono stranieri. A casa sei  pieno di amici. Non hai che da tornare, sono tutti là che ti  aspettano». Per te è facile dare di questi bei consigli. Anche se  probabilmente, ora che ci penso, non conviene neanche a te. Non capisco perché sei così compiaciuto. Nemmeno tu puoi permetterti  di dimenticare i vecchi amici. Sai, alcune delle cose che dicono  di te sono vere. Sei maledettamente compiaciuto, e un giorno la  sconterai. Solo perché sei diventato celebre! Oh sì, hanno  ragione. «Perché non li prendi di petto?» Che arroganza!   
  Parkhurst continuò su questo tono ancora per un po', ma io  smisi di ascoltarlo. Infatti, l'accenno al mio «compiacimento»  era andato a smuovere qualcosa, facendomi improvvisamente  ricordare che i miei genitori stavano per arrivare in città. E  lì, nel salottino della signorina Collins, mi piombò addosso -  gettandomi tra le gelide dita del panico - la consapevolezza di  non avere nemmeno cominciato a preparare il pezzo che avrei  dovuto suonare davanti a loro quella sera. Anzi, erano parecchi  giorni, forse addirittura settimane, che non toccavo più un  pianoforte. Ed eccomi lì, a poche ore da uno dei concerti più  importanti della mia vita, senza avere nemmeno fissato le prove.  Più ci pensavo, più la situazione mi sembrava allarmante. Mi ero  lasciato distrarre in maniera esagerata dal discorso che avrei  dovuto tenere quella sera, e inspiegabilmente avevo trascurato il  concerto, di gran lunga più importante. In quel momento non  riuscivo nemmeno a ricordare che cosa avessi deciso di suonare.  vStrutture globulari: numero Iiv di Yamanaka? Oppure vAmianto e fibrav di Mullery? Quando provai a ripassarli mentalmente, mi accorsi di avere un ricordo assai nebuloso di entrambi i pezzi.  La cosa era inquietante. Sapevo che sia Yamanaka sia Mullery  presentano parti di grande complessità, ma quando cercai di  concentrarmi su quei punti, scoprii di non ricordare quasi nulla.  E nel frattempo, per quel che ne sapevo, i miei genitori erano  già in città. Capii che non c'era un minuto da perdere. Al  diavolo tutti gli altri impegni; per prima cosa dovevo  assicurarmi almeno due ore di tranquillità e isolamento con un  buon pianoforte.   
  Parkhurst stava ancora parlando tutto infervorato.   
  - Senti, mi spiace, - dissi, dirigendomi verso la porta, - ma  devo andare via immediatamente.   
  Parkhurst scattò in piedi, e la sua voce assunse di colpo un  tono di supplica.   
  - Io non partecipo, lo sai. Oh no, non partecipo mai -. Mi  venne dietro come se volesse afferrarmi per un braccio. - Non  sorrido nemmeno. Quel loro modo di sbeffeggiarti è disgustoso...   
  - Va bene, va bene, ti ringrazio, - dissi, allontanandomi da  lui. - Ma adesso devo proprio andare.   
  Uscito dalla casa della signorina Collins, mi incamminai per la  strada a passo veloce, incapace di pensare ad altro se non  all'assoluta necessità di tornare in albergo e al pianoforte del  soggiorno. Ero così assorto nei miei pensieri che non solo  ignorai il cancelletto di ferro quando gli passai davanti, ma non  vidi neppure Brodsky fermo sul marciapiede fin quando non gli fui  praticamente addosso. Brodsky fece un inchino e mi salutò in modo  pacato, come se fosse lì da un pezzo e mi avesse visto  avvicinare.   
  - Signor Ryder. Ci si rivede.   
  - Ah, signor Brodsky, - risposi, senza fermarmi. - La prego di  scusarmi, ma ho una fretta terribile.   
  Brodsky mi venne dietro, e per un tratto camminammo l'uno  accanto all'altro in silenzio. La cosa mi parve un po' strana, ma  ero così preoccupato che non provai nemmeno a conversare.   
  All'angolo svoltammo insieme nell'ampio viale. Il marciapiede  era più affollato che mai - gli impiegati stavano uscendo per  l'intervallo del pranzo - e fummo costretti a rallentare. Fu  allora che Brodsky, sempre al mio fianco, disse:   
  - Quante chiacchiere l'altra sera. Prima una grande cerimonia, poi una statua. No, no, alla larga. Bruno la odiava quella gente.  Lo seppellirò da solo, senza fanfare. Che cosa c'è di male?  Questa mattina ho trovato un posto adatto, un posticino per  seppellirlo, solo io, Bruno non avrebbe voluto nessun altro,  odiava tutti. Ma vorrei della musica, signor Ryder, della musica  sublime. $è un posticino tranquillo, l'ho trovato questa mattina,  sono sicuro che a Bruno piacerebbe. Scaverò io. Non occorrerà  scavare molto profondo. Poi mi siederò accanto alla tomba e  penserò a lui, a tutte le cose che abbiamo fatto insieme, gli  dirò addio, nient'altro. Ma mentre penso a lui vorrei della  musica, della musica sublime. Lo farebbe per me, signor Ryder?  Per me e per Bruno? Glielo chiedo come un favore, signor Ryder.   
  - Signor Brodsky, - dissi, accelerando di nuovo il passo, - non  mi è ben chiaro che cosa voglia da me. Ma sappia che non sono in  condizione di prendere nessun impegno.   
  - Signor Ryder...   
  - Signor Brodsky, mi spiace molto per il suo cane. Ma purtroppo  sono stato costretto a soddisfare troppe richieste, con il  risultato che adesso mi resta pochissimo tempo per le cose più  importanti, quelle per cui sono qui... - All'improvviso persi la  pazienza e mi fermai di botto. - Sinceramente, signor Brodsky, -  dissi, quasi urlando, - devo pregare lei e tutti gli altri di  piantarla di chiedermi favori. $è venuto il momento di piantarla!  Dovete piantarla!   
  Per un attimo Brodsky mi guardò con aria un po' stupita. Poi  abbassò gli occhi avvilito. Mi pentii subito del mio sfogo, anche  perché mi accorsi che non aveva senso incolpare Brodsky delle  numerose distrazioni che mi avevano tenuto occupato da quando ero  arrivato in città. Sospirai e, in tono più gentile, dissi:   
  - Senta, facciamo così. In questo momento sto tornando in  albergo per provare il mio pezzo. Avrò bisogno di almeno due ore  senza che nessuno mi disturbi. Ma dopo, secondo come vanno le  cose, può darsi che sia in grado di approfondire con lei il  discorso sul suo cane. Sia chiaro che non posso prometterle  niente, ma...     - Era solo un cane, - disse Brodsky di punto in bianco. - Ma  voglio dirgli addio. E vorrei della musica sublime.   
  - Certo, signor Brodsky, ma adesso devo scappare. Ho davvero  pochissimo tempo.   
  Ripresi a camminare. Ero convinto che Brodsky si sarebbe  incollato al mio fianco come prima, invece non si mosse. Ebbi un  attimo di esitazione, mi spiaceva un po' abbandonarlo lì sul  marciapiede, ma subito mi ricordai che non potevo più concedermi  la minima distrazione. Oltrepassai velocemente i caffè italiani e  mi guardai indietro solo quando giunsi al passaggio pedonale e  dovetti aspettare il verde. Per un momento la calca dei passanti  rimase impenetrabile, poi scorsi la sagoma di Brodsky esattamente  dove lo avevo lasciato. Era leggermente chino in avanti e fissava  il traffico che arrivava dalla sua parte. Mi venne il dubbio che  il posto dove mi ero arrestato poco prima fosse in realtà una  fermata, e che Brodsky fosse rimasto lì per il semplice motivo  che doveva prendere il tram. Poi il semaforo divenne verde, e  mentre attraversavo il viale i miei pensieri tornarono alla  questione assai più urgente del mio concerto di quella sera.  
23.  
  Arrivando in albergo, ebbi l'impressione che l'atrio fosse  molto affollato, ma ormai ero così ansioso di provare il mio  pezzo che non mi guardai nemmeno intorno. Anzi, probabilmente,  mentre mi appoggiavo al banco della reception per parlare al  portiere, scavalcai addirittura qualche altro cliente.   
  - Mi scusi, c'è qualcuno nel soggiorno, in questo momento?  
  - Nel soggiorno? Be', sì, signor Ryder. I clienti ci vanno  volentieri dopo pranzo, quindi penso...   
  - Devo parlare immediatamente con il signor Hoffman. Si tratta  di una questione della massima urgenza.   
  - Certamente, signor Ryder.   
  Il portiere prese un telefono e scambiò qualche parola. Poi,  riattaccando, mi disse: - Il signor Hoffman sarà qui fra un  istante, signor Ryder.   
  - Bene. Ma si tratta di una questione della massima urgenza.   
  In quel momento mi sentii toccare una spalla e, girandomi, vidi  Sophie accanto a me.   
  - Oh, ciao, - le dissi. - Che cosa ci fai qui?   
  - Volevo solo consegnare una cosa. Sai, per papà -. Sophie  ridacchiò imbarazzata. - Ma è occupato, l'hanno mandato al  palazzo dei concerti.   
  - Ah, il cappotto, - dissi, notando il pacco ripiegato sul suo  braccio.   
  - Sta venendo freddo, così ho pensato di portarglielo, ma  l'hanno mandato al palazzo dei concerti e non è ancora tornato.  Lo stiamo aspettando da quasi mezz'ora. Se non arriva nei  prossimi minuti, per oggi dovremo rinunciare.   
  Notai Boris su un divano dall'altra parte dell'atrio. Era quasi  nascosto dietro un gruppo di turisti piantati in mezzo alla sala,  ma vidi che era tutto preso dalla lettura del logoro manuale che  gli avevo comprato al cinema. Sophie seguì il mio sguardo e rise  di nuovo.   
  - Non lo ha mollato un istante, - disse. - Ieri sera, quando  sei uscito, ha continuato a sfogliarlo fino all'ora di andare a  letto. E questa mattina ha ricominciato appena sveglio -. Poi  rise ancora e guardò di nuovo il figlio. - Hai avuto proprio una  bella idea, quando gliel'hai comprato.   
  - Sono contento che gli piaccia, - dissi, girandomi di nuovo  verso il banco della reception. Alzai una mano per chiedere al  portiere che cosa ne fosse di Hoffman, ma proprio in quel momento  Sophie mi si avvicinò di un passo e disse in tono molto diverso:   
  - Per quanto tempo hai intenzione di andare avanti così? Non  vedi che Boris ci soffre?   
  La guardai stupefatto, ma Sophie continuò a fissarmi con  durezza.   
  - So che stai attraversando un momento difficile, - proseguì. -  E mi rendo conto di non esserti molto di aiuto. Ma Boris ci  soffre ed è preoccupato. Per quanto tempo andrà ancora avanti  questa storia?   
  - Temo di non capire a che cosa ti riferisci.   
  - Senti, ho già ammesso che in parte è anche colpa mia. Che  senso ha negare la realtà?   
  - Negare che cosa? Immagino che sia un consiglio di Kim, vero?  Quello di piombare qui con tutte queste accuse.   
  - $è vero, Kim dice sempre che dovrei essere più schietta con  te. Ma questa volta lei non c'entra. Ho affrontato l'argomento  perché... perché non sopporto di vedere Boris così in pena.   
  Un po' scombussolato, mi girai di nuovo verso il portiere. Ma  prima che riuscissi ad attirare la sua attenzione, Sophie disse:   
  - Senti, non ti sto accusando di niente. Anzi, riconosco che  sei stato molto comprensivo. Non avrei potuto chiederti di essere  più ragionevole. Non hai neppure urlato una volta. Ma ho sempre  saputo che mi serbavi rancore, e adesso lo fai venire fuori così.   
  Scoppiai a ridere. - Immagino che questi siano i discorsi di  psicologia spicciola che fai con Kim, vero?   
  - L'ho sempre saputo, - continuò Sophie, ignorando il mio  commento. - Sei stato molto comprensivo, più di quanto ci si  potesse aspettare, persino Kim lo ha ammesso. Ma il tuo comportamento non era realistico. Non potevamo continuare così,  come se non fosse successo nulla. Tu sei pieno di rancore. Chi  potrebbe darti torto? E io ho sempre saputo che prima o poi il  rancore sarebbe venuto fuori. Ma non avrei mai pensato in questo  modo. Povero Boris. Non riesce a capire che cosa ha fatto.  
  Guardai di nuovo in direzione del divano su cui era seduto il  bambino. Boris sembrava ancora immerso nella lettura del suo  manuale.   
  - Senti, - dissi, - non ho ancora capito bene di che cosa stai  parlando. Forse ti riferisci al fatto che Boris e io, negli  ultimi tempi, abbiamo modificato un po' il nostro comportamento  reciproco. Ma la cosa mi sembra solo opportuna, viste le  circostanze. Se sono un po' più freddo con lui, è solo perché non  voglio illuderlo sulle reali possibilità di vivere insieme d'ora  in avanti. Dobbiamo essere estremamente cauti. Dopo quello che è  successo, chi può sapere che cosa ci riserverà il futuro? Boris  deve imparare a essere più elastico, più indipendente. E sono  sicuro che a modo suo lo capisce anche lui.   
  Sophie abbassò gli occhi e per un momento parve riflettere.  Poi, quando stavo per provare di nuovo ad attirare l'attenzione  del portiere, disse improvvisamente:   
  - Per piacere. Vai da lui. Digli qualcosa.   
  - Andare da lui? Be', il problema è che ho una cosa piuttosto  urgente da fare, e appena arriva Hoffman...   
  - Ti prego, solo due parole. Non sai quanto sarebbe importante  per lui. Ti prego.   
  Mi guardò intensamente e, quando feci spallucce, si girò e mi  guidò attraverso l'atrio dell'albergo.   
  Mentre ci avvicinavamo a lui, Boris alzò brevemente il capo,  poi ricominciò a fissare il libro con espressione seria. Mi ero  aspettato che Sophie dicesse qualcosa; invece, con mio grande  fastidio, si limitò a rivolgermi un'occhiata molto eloquente e  oltrepassò il divano di Boris, dirigendosi verso uno scaffale di  riviste accanto alle finestre. Mi trovai così solo accanto al  bambino, che intanto continuava a leggere. Alla fine avvicinai  una poltrona e mi sedetti di fronte a lui.   
  Boris non interruppe la lettura né diede segno di avere notato  la mia presenza. Poi, senza alzare lo sguardo, mormorò tra sé e  sé:   
  - Questo libro è fantastico. Ti insegna a fare di tutto.   
  Mi stavo chiedendo che cosa dire, quando gli occhi mi caddero  su Sophie. Ci dava la schiena, fingendo di esaminare una rivista  che aveva appena preso dallo scaffale. Provai un improvviso  impeto di rabbia, e mi pentii amaramente di averla seguita  attraverso l'atrio. Capii che era riuscita a manovrarmi in modo  che a questo punto, qualunque cosa avessi detto a Boris, lei  avrebbe potuto cantare vittoria e accampare scuse. Diedi un'altra  occhiata alla sua schiena, a quelle spalle leggermente curve per  dimostrare tutto il suo falso interesse per la rivista, e sentii  la rabbia crescere.  
  Boris girò pagina e continuò a leggere. Dopo un po' ricominciò  a borbottare senza alzare gli occhi: - Adesso non avrò più  problemi a piastrellare il bagno.   
  Lì accanto c'era un tavolino da caffè con un'ampia scelta di  giornali. Non vedendo perché non avrei dovuto leggere anch'io, ne  presi uno e lo tenni aperto davanti a me. Vi fu qualche istante  di silenzio. Poi, mentre scorrevo un articolo sull'industria  automobilistica tedesca, Boris disse all'improvviso:   
  - Scusa.   
  Aveva pronunciato la parola con una certa aggressività, e per  un attimo mi venne il dubbio che sua madre fosse riuscita a  spronarlo o a fargli un segnale mentre leggevo. Ma quando alzai gli occhi, Sophie ci dava ancora la schiena e non sembrava  essersi mossa di un centimetro. Poi Boris disse:  
  - Scusa se sono stato egoista. Non lo farò più. Non parlerò mai  più di Numero Nove. Ormai sono grande. Con questo libro sarà  facile. $è fantastico. Presto sarò capace di fare tutto.  Ripiastrellerò il bagno. Prima non me ne rendevo conto. Ma qui ti  fa vedere, ti fa vedere tutto. Non parlerò mai più di Numero  Nove.   
  Sembrava che stesse recitando frasi imparate a memoria e  provate più volte. Ciò nonostante, nella sua voce c'era qualcosa  di commovente, e sentii l'impulso di abbracciarlo e consolarlo.  Ma in quell'istante vidi Sophie sollevare e riabbassare le  spalle, e ricordai che ero irritato con lei. Inoltre, sapevo che  alla lunga, se le avessi lasciato manipolare le cose come stava  cercando di fare, sarei andato contro gli interessi di tutti noi.   
  Chiudendo il giornale, mi alzai in piedi e diedi un'occhiata  alle mie spalle per vedere se Hoffman fosse comparso. Subito  Boris riprese a parlare, e dal tono capii che era in preda al  panico.   
  - Lo prometto. Prometto che imparerò a fare tutto. Adesso sarà  facile.   
  La sua voce era un po' tremula, ma quando lo guardai, vidi che  continuava cocciutamente a fissare la pagina. Il suo volto,  notai, era stranamente paonazzo. Poi la mia attenzione fu  attratta da un movimento dall'altra parte dell'atrio. Alzando gli  occhi, vidi Hoffman che mi faceva segno dal banco della  reception.   
  - Adesso devo andare, - dissi ad alta voce a Sophie. - Ho una  cosa molto importante da fare. Ci vediamo un'altra volta.   
  Boris girò pagina, ma non sollevò lo sguardo.   
  - Presto, - dissi a Sophie, che si era finalmente voltata. - Ne  riparleremo molto presto. Ma adesso devo andare.   
  Hoffman si era portato in centro all'atrio e mi stava  aspettando con aria ansiosa.   
  - Scusi se l'ho fatta attendere, signor Ryder, - disse. - Avrei  dovuto prevederlo che per un incontro di questo genere sarebbe  arrivato in anticipo. Vengo per l'appunto dalla sala riunioni, e  le posso assicurare che quelle brave persone, tutta gente senza  pretese, le sono estremamente riconoscenti per avere accettato di  incontrarle di persona e per avere capito l'importanza di  ascoltare dalla loro viva voce quello che hanno passato.   
  Lo guardai severamente. - Signor Hoffman, temo che ci sia un  malinteso. Io, adesso, ho assolutamente bisogno di due ore per  esercitarmi. Due ore di completo isolamento. Le devo chiedere di  far sgombrare il soggiorno il più in fretta possibile.   
  - Ah, sì, il soggiorno -. Poi Hoffman si lasciò sfuggire una  risatina. - Mi scusi, signor Ryder, ma non capisco. Come lei sa,  in questo preciso istante il comitato del Gruppo di Mutuo  Soccorso dei Cittadini la sta aspettando in sala riunioni...   
  - Signor Hoffman, lei sembra non rendersi conto della gravità  della situazione. Per una serie di imprevedibili contrattempi,  sono parecchi giorni che non tocco un pianoforte. Esigo che me ne  venga messo a disposizione uno al più presto.   
  - Ma certamente, signor Ryder. La cosa è più che comprensibile.  Farò tutto il possibile per aiutarla. Per quanto riguarda il  soggiorno, però, la sua richiesta mi sembra poco pratica. Vede, è  pieno di ospiti dell'albergo...   
  - Per il signor Brodsky non esitate a sgombrarlo.   
  - $è vero. Be', se con tutti i pianoforti che ci sono  nell'albergo, lei insistesse nel volere usare assolutamente  quello del soggiorno, allora asseconderei volentieri la sua  richiesta. Andrei personalmente a chiedere ai clienti di uscire, anche a costo di interromperli mentre prendono il caffè o  quant'altro. Sì, se sarò costretto, lo farò. Ma forse, prima di  obbligarmi a ricorrere a provvedimenti così drastici, avrà la  compiacenza di prendere in considerazione le altre possibili  soluzioni. Vede, signor Ryder, si dà il caso che il pianoforte  del soggiorno non sia affatto il migliore dell'albergo. Anzi,  alcune note basse mi lasciano molto dubbioso.   
  - Signor Hoffman, se non posso usare il pianoforte del  soggiorno, allora la prego di dirmi che cos'altro può mettermi a  disposizione. Non ho particolari preferenze per il soggiorno. Ho  solo bisogno di un buon pianoforte e di essere lasciato in pace.  
  - La stanza delle esercitazioni. $è sicuramente quella che  risponde meglio alle sue esigenze.   
  - D'accordo. Vada per la stanza delle esercitazioni, allora.   
  - Benissimo.   
  Hoffman cominciò a farmi strada, ma dopo qualche passo si fermò  di nuovo e si chinò verso di me confidenzialmente.   
  - Se ho ben capito, signor Ryder, la stanza le serve subito  dopo la riunione?   
  - Signor Hoffman, non mi costringa a ribadirle la gravità della  situazione...   
  - D'accordo, d'accordo, signor Ryder. Ma naturalmente. Capisco  benissimo. Dunque... vuole esercitarsi £prima della riunione. Sì,  sì, capisco perfettamente. Non ci sono problemi, sono sicuro che  le persone del comitato aspetteranno volentieri. Be', poco male.  Da questa parte, per piacere.   
  Lasciammo l'atrio da una porta che non avevo ancora notato,  sulla sinistra dell'ascensore, e un attimo dopo stavamo  camminando in un corridoio che non poteva essere che di servizio.  Le pareti non erano nemmeno imbiancate, e i tubi fluorescenti  appesi al soffitto davano a ogni cosa un aspetto duro e immobile.  Oltrepassammo una serie di larghe porte scorrevoli, dalle quali  provenivano vari rumori di cucina. Una delle porte era aperta, e  con la coda dell'occhio vidi una stanza crudamente illuminata,  con un banco di legno su cui erano state impilate alte colonne di  scatole di latta.   
  - Gran parte del banchetto di questa sera dobbiamo prepararlo  qui in albergo, - disse Hoffman. - Le cucine del palazzo dei  concerti, come può immaginare, non sono gran che.   
  Dopo una svolta, il corridoio passò davanti alle lavanderie,  così almeno credo. A un certo punto udii delle grida che  provenivano da una porta chiusa: due donne stavano litigando con  allarmante velenosità. Hoffman parve non accorgersene e passò  oltre in silenzio. Dopo un po' lo sentii borbottare:   
  - No, no, i cittadini saranno comunque riconoscenti. Un piccolo  ritardo non li disturberà affatto.   
  Alla fine si fermò davanti a una porta priva di indicazioni. Mi  aspettavo che me la aprisse; invece, abbassò gli occhi e si girò  dall'altra.   
  - Lì dentro, signor Ryder, - bofonchiò, indicandomi con un  gesto rapido e furtivo la porta alle sue spalle.   
  - Grazie, signor Hoffman -. Spinsi la porta e la aprii.   
  Il direttore rimase impalato, continuando a guardare  dall'altra. - La aspetterò qui, - borbottò.   
  - Non occorre, signor Hoffman. Riuscirò a trovare la strada per  tornare di là.   
  - Resterò qui, signor Ryder. Non si preoccupi.   
  Non avevo nessuna voglia di discutere e mi affrettai a entrare.   
  Mi trovai in una stanza lunga e stretta, con il pavimento di  pietra grigia. Le pareti erano rivestite fino al soffitto di  piastrelle bianche. Mi parve che alla mia sinistra vi fosse una  fila di lavandini, ma ormai ero così ansioso di trovare il pianoforte che non prestai molta attenzione ai particolari. Il  mio sguardo, tra l'altro, era stato immediatamente attratto dai  cubicoli di legno alla mia destra. Ce n'erano tre, l'uno di  fianco all'altro, dipinti di uno sgradevole verde rana. Le porte  del primo e dell'ultimo erano chiuse, ma quella del cubicolo  centrale - che sembrava leggermente più largo - era socchiusa, e  dentro vidi un pianoforte, con il coperchio aperto per lasciare  in bella vista la tastiera. Senza perdere tempo, cercai di  infilarmi dentro, scoprendo con un certo fastidio che la cosa non  era affatto facile. La porta si apriva verso l'interno del  cubicolo, ma era bloccata dal pianoforte; per entrare e  richiuderla, dovetti schiacciarmi nell'angolo e farmi passare  piano piano il taglio della porta sul petto. Riuscii a  riaccostarla e a chiuderla; poi, sempre con una certa difficoltà  visto il poco spazio, tirai fuori lo sgabello da sotto il  pianoforte. Tuttavia, quando finalmente mi sedetti, mi sentii  abbastanza a mio agio, e quando feci scorrere le dita avanti e  indietro sulla tastiera scoprii che lo strumento, nonostante i  tasti sbiaditi e la vernice tutta graffiata, aveva un suono caldo  e delicato ed era perfettamente accordato. Persino l'acustica del  cubicolo era meno opprimente di quanto mi aspettassi.   
  Fui invaso da un grande senso di sollievo, e improvvisamente mi  resi conto di quanto fossi stato teso nell'ultima ora. Respirai a  fondo, lentamente, preparandomi all'importantissima  esercitazione. Solo allora mi ricordai che non avevo ancora  deciso quale pezzo suonare quella sera. Sapevo che mia madre  avrebbe trovato particolarmente commovente il movimento centrale  delle vStrutture globulari: numero Iiv di Yamanaka. Ma mio padre avrebbe sicuramente preferito vAmianto e fibrav di Mullery. Anzi, era addirittura possibile che buona parte del  brano di Yamanaka non gli piacesse. Rimasi a fissare i tasti  ancora per qualche istante, poi non ebbi più dubbi e scelsi  Mullery.   
  La decisione mi fece sentire meglio; stavo per attaccare gli  esplosivi accordi iniziali, quando sentii qualcosa di duro  battermi sulla spalla. Costernato, mi girai e vidi che la porta  del cubicolo, chissà come, si era aperta.   
  Strisciando, mi alzai in piedi e la richiusi con uno spintone.  Così facendo, notai che il fermo del chiavistello dondolava  capovolto sul montante della porta. Esaminandolo meglio e  ingegnandomi un po', riuscii a rimetterlo a posto. Mentre  richiudevo la porta, però, mi accorsi che la mia riparazione era  estremamente precaria. Nessuno poteva assicurarmi che il  chiavistello non scivolasse di nuovo giù da un momento all'altro.  Magari, proprio mentre suonavo vAmianto e fibrav - per esempio, nel bel mezzo di uno di quegli intensissimi passaggi del terzo  movimento - la porta si sarebbe riaperta, esponendomi agli  sguardi di chiunque si fosse trovato in quel momento fuori del  cubicolo. E sicuramente, se qualche persona un po' ottusa, non  sapendo che ero dentro, avesse cercato di entrare, il  chiavistello non avrebbe opposto la minima resistenza.   
  Tutti questi pensieri mi attraversarono la testa mentre mi  risedevo sullo sgabello. Dopo un po', però, giunsi alla  conclusione che, se non avessi approfittato di questa opportunità  per esercitarmi, forse non se ne sarebbe presentata un'altra.  D'altronde, anche se le condizioni non si potevano definire  ideali, il pianoforte era più che adeguato. Con notevole  determinazione, mi imposi di non preoccuparmi più della porta  difettosa alle mie spalle e mi preparai di nuovo a suonare le  battute d'apertura di Mullery.  
  Poi, quando già le mie dita si erano posate sulla tastiera,  udii un rumore - un lieve fruscio, come quello che potrebbe produrre una scarpa o un pezzo di stoffa. La vicinanza del suono  era allarmante. Mi girai di scatto sullo sgabello. Solo allora  notai che la porta, sebbene fosse rimasta chiusa, era priva  dell'intera parte superiore, al punto da somigliare più o meno a  quella di una stalla. Ero così impensierito dal chiavistello  difettoso che, non so come, non mi ero nemmeno accorto di questo  madornale difetto. Adesso vidi che la porta terminava con un  margine irregolare poco sopra la vita. Non si capiva se fosse  stata spaccata per un gratuito atto di vandalismo o perché era in  corso una ristrutturazione. In ogni caso, anche da seduto, mi  bastava allungare un po' il collo per vedere senza difficoltà le  piastrelle bianche e i lavandini.   
  Non riuscivo a credere che Hoffman avesse avuto l'impudenza di  offrirmi un posto del genere. $è vero che fino a quel momento  nessuno era entrato nella stanza, ma chi poteva garantirmi che da  un momento all'altro non piombasse lì un gruppo di sei o sette  dipendenti dell'albergo per lavarsi le mani nei lavandini? La  situazione mi parve insostenibile; furente, stavo per abbandonare  il cubicolo quando scorsi uno straccio appeso a un chiodo  piantato nel montante della porta all'altezza del cardine  superiore.   
  Lo fissai per un momento, poi vidi un secondo chiodo sull'altro  montante, esattamente alla stessa altezza. Indovinando subito lo  scopo dello straccio e dei chiodi, mi alzai in piedi e li  esaminai meglio. Lo straccio si rivelò un vecchio asciugamano da  bagno. Quando lo aprii e lo tesi fra i due chiodi, vidi che  funzionava ottimamente da tenda, coprendo la parte mancante della  porta.   
  Mi risedetti sentendomi molto meglio e mi accinsi di nuovo a  suonare le prime battute di Mullery. Poi, proprio mentre stavo  per attaccare, fui di nuovo bloccato da un fruscio. Quando lo  udii per la terza volta, capii che veniva dal cubicolo alla mia  sinistra. Mi resi improvvisamente conto che per tutto questo  tempo nel cubicolo accanto c'era stato qualcuno; ma non solo,  l'isolamento acustico tra i cubicoli era praticamente  inesistente, e se fino a quel momento non mi ero accorto della  presenza dell'estraneo, ciò era dovuto unicamente al fatto che  costui, per chissà quale motivo, era rimasto immobile.  
  Furioso, mi alzai di nuovo e aprii la porta, strappando il  chiavistello e facendo cadere per terra l'asciugamano. Mentre  strisciavo fuori, l'uomo del cubicolo accanto, forse pensando che  non c'era più motivo di trattenersi, si schiarì la gola  rumorosamente. Uscii di corsa dalla stanza in preda al disgusto  più totale.   
  Fui un po' sorpreso di trovare Hoffman nel corridoio, poi  ricordai che aveva promesso di aspettarmi. Si era appoggiato con  la schiena al muro, ma appena mi vide si raddrizzò e si mise  sull'attenti.   
  - Bene, signor Ryder, - mi disse sorridendo, - se vuole  seguirmi, sono tutti ansiosi di conoscerla.   
  Lo guardai freddamente. - Tutti chi, signor Hoffman?   
  - Ma come, i membri del comitato, signor Ryder. Il comitato del  Gruppo di Mutuo Soccorso dei Cittadini...   
  - Mi stia a sentire, signor Hoffman... - Ero fuori di me, ma la  delicatezza di ciò che dovevo spiegare mi indusse a fare una  pausa. Hoffman, notando finalmente che ero irritato, si fermò in  mezzo al corridoio e rimase a fissarmi con aria premurosa.   
  - Mi stia a sentire, signor Hoffman. Mi spiace molto per la sua  riunione. Ma è indispensabile che io provi il mio pezzo. Non farò  nient'altro se prima non mi verrà consentito di esercitarmi.   
  Hoffman parve sinceramente stupito. - Mi scusi, signor Ryder, -  disse, abbassando con discrezione la voce. - Ma non si è esercitato fino adesso?   
  - No. Non ho potuto.   
  - Non ha potuto? C'è qualcosa che non va, signor Ryder? Voglio  dire, non è che si senta male?   
  - Io sto benissimo -. Sospirai. - Se proprio vuole saperlo, non  ho potuto esercitarmi perché... be', perché là dentro non ci sono  le necessarie condizioni di isolamento. No, signor Hoffman, mi  lasci finire. L'isolamento è insufficiente. Andrà bene per  qualcun altro, ma non per me... Be', glielo dirò, signor Hoffman,  glielo dirò in tutta sincerità. $è così da quand'ero bambino. Non  sono mai riuscito a esercitarmi se non nel più completo e totale  isolamento.   
  - Davvero, signor Ryder? - Hoffman stava annuendo gravemente. -  Capisco, capisco.   
  - Me lo auguro. Le condizioni là dentro non erano nemmeno  lontanamente adeguate -. Scossi il capo. - Ma adesso ho bisogno,  ripeto, ho bisogno di un posto soddisfacente per esercitarmi...   
  - Sì, sì, naturalmente -. Hoffman annuì comprensivo. - Credo di  avere la soluzione, signor Ryder. La stanza per le esercitazioni  dell'annesso le offrirà un perfetto isolamento. Il pianoforte è  eccellente, e quanto all'isolamento, be', glielo posso garantire.  $è una stanza molto, molto isolata.   
  - Benissimo. Sembra il posto che fa per me. Nell'annesso, ha  detto?   
  - Sissignore. La accompagnerò io stesso al termine della  riunione con il Gruppo di Mutuo Soccorso dei...   
  - Signor Hoffman! - urlai improvvisamente, trattenendomi a  stento dal prenderlo per il bavero. - Mi stia bene a sentire! Non  me ne frega niente di questo gruppo di cittadini! Non me ne frega  niente se aspettano! Voglio solo esercitarmi, altrimenti faccio  immediatamente i bagagli e me ne vado via da questa città,  subito! Sono stato chiaro, signor Hoffman? Niente conferenza,  niente concerto, niente di niente! Ci siamo capiti? Mi dica, ci  siamo capiti?   
  Hoffman sbiancò in volto e mi guardò con gli occhi sbarrati. -  Sì, sì, - mormorò. - Certamente, signor Ryder.   
  - Quindi glielo chiedo per piacere, - dissi, riuscendo a  dominare un po' la voce. - Sia così gentile da accompagnarmi in  questo annesso senza perdere altro tempo.   
  - Va bene, signor Ryder -. Hoffman scoppiò in una strana  risata. - Capisco perfettamente. In fondo, non sono che dei  comuni cittadini. Che bisogno c'è che uno come lei... - Poi si  diede un contegno e disse risoluto: - Da questa parte, signor  Ryder, se vuole seguirmi...  
24.  
  Percorremmo ancora un breve tratto di corridoio, poi  attraversammo una grande lavanderia in cui brontolavano parecchie  macchine. Hoffman mi indicò una stretta porticina; uscendo, mi  trovai davanti ai due battenti del soggiorno.   
  - Se passiamo di qui facciamo prima, - disse Hoffman.   
  Appena entrammo nel soggiorno, capii meglio perché in  precedenza si fosse dimostrato così restio a far sgombrare la  sala per me. Il soggiorno traboccava di persone che ridevano e  parlavano; alcune indossavano vestiti molto appariscenti, e per  un attimo pensai di essere capitato nel bel mezzo di un  ricevimento privato. Tuttavia, mentre ci aprivamo lentamente un  varco attraverso la calca, cominciai a distinguere diversi  gruppi. Parte della sala era occupata da gente del posto assai  chiassosa. Un altro gruppo sembrava composto di giovani americani  danarosi, molti dei quali, in quel momento, stavano cantando in  coro un inno universitario; in un'altra zona ancora, un gruppo di giapponesi aveva unito parecchi tavoli e faceva una gran cagnara.  Fatto curioso, sebbene i gruppi fossero palesemente distinti,  sembrava che fra l'uno e l'altro avvenissero intensi scambi.  Tutto intorno a me, vedevo gente che si aggirava fra i tavoli, si  dava grandi pacche sulla schiena, si scattava fotografie a turno,  si passava avanti e indietro vassoi di panini. Un cameriere in  uniforme bianca vagava per la sala con la faccia angustiata e una  caffettiera per mano. Mi venne in mente di cercare il pianoforte,  ma scoprii che avevo già il mio da fare a intrufolarmi fra la  gente per stare dietro a Hoffman. Finalmente giunsi sul lato  opposto del soggiorno, dove il direttore dell'albergo mi stava  tenendo aperta un'altra porta.   
  Mi trovai in un corridoio che conduceva all'aperto, e un attimo  dopo sbucai in un piccolo piazzale soleggiato, nel quale  riconobbi subito il posteggio in cui mi aveva portato Hoffman la  sera del banchetto in onore di Brodsky. Il direttore mi  accompagnò verso un macchinone nero, e qualche minuto più tardi  stavamo avanzando lentamente nell'ingorgo dell'ora di pranzo.   
  - Il traffico di questa città, - sospirò Hoffman. - Signor  Ryder, vuole che metta l'aria condizionata? Sicuro? Santo cielo,  guardi che traffico. Per fortuna ci toglieremo presto di qui.  Prenderemo la strada che porta a sud.   
  Detto fatto, al semaforo successivo Hoffman svoltò in una  strada in cui il traffico era molto più scorrevole. Un attimo  dopo stavamo viaggiando a forte velocità in aperta campagna.   
  - Eh, sì, questo è il bello della nostra città, - disse  Hoffman. - Non occorre fare molta strada per trovarsi in luoghi  ameni. Lo sente che l'aria è già migliore?   
  Bofonchiai una risposta affermativa, poi tacqui. In quel  momento non avevo nessuna voglia di fare conversazione. Tanto per  cominciare, non ero più così sicuro della mia precedente  decisione di suonare vAmianto e fibra.v A furia di pensarci, mi era sembrato di ricordare che mia madre, una volta, aveva  manifestato un certo fastidio nei confronti di questa  composizione. Per un momento esaminai la possibilità di suonare  qualcosa di completamente diverso, come vGallerie del ventov di Kazan, ma subito mi venne in mente che il pezzo avrebbe richiesto  due ore e un quarto. Non c'era dubbio che vAmianto e fibra,v per la sua brevità e intensità, fosse la scelta giusta. Nessun  altro brano di quella lunghezza mi avrebbe offerto la stessa  opportunità di esprimere stati d'animo così diversi. Inoltre,  almeno all'apparenza, vAmianto e fibrav era un pezzo che a mia madre sarebbe dovuto piacere moltissimo. Eppure c'era qualcosa -  lo ammetto, nient'altro che l'ombra di un ricordo - che mi  impediva di sentirmi a mio agio con questa scelta.   
  Se si esclude un autocarro in lontananza, molto più avanti di  noi, la strada era deserta. Osservai la campagna che scorreva ai  nostri lati e mi sforzai di nuovo di far tornare a galla quello  sfuggente frammento di memoria.   
  - Non ci metteremo molto, signor Ryder, - disse Hoffman al mio  fianco. - Sono sicuro che troverà la stanza dell'annesso di suo  gradimento. $è molto tranquilla, il luogo ideale per esercitarsi  un paio di ore. Presto sarà perso nel mondo della sua musica.  Come la invidio! Potrà piluccare questa o quell'altra idea  musicale. Come se si trovasse in una magnifica galleria d'arte e  per una sorta di miracolo le avessero detto di prendere un  cestino della spesa e di portarsi a casa quello che vuole. Mi  perdoni, - Hoffman scoppiò a ridere, - mi sono sempre crogiolato  in fantasie del genere. Mia moglie e io che percorriamo insieme  una splendida galleria piena di bellissimi oggetti. Oltre a noi  due non c'è nessuno. Nemmeno un guardiano. Al braccio ho un  cestino della spesa; ci hanno detto che possiamo prendere quello che vogliamo. Bisogna rispettare qualche regola, naturalmente.  Per esempio, non possiamo prendere più di quanto stia nel  cestino. E ovviamente non ci sarà consentito di vendere nulla di  ciò che prenderemo, anche se non ci sogneremmo mai di abusare a  quel modo di una simile opportunità. Eccoci dunque lì, mia moglie  e io, insieme in questa sala celestiale. La galleria si trova in  una grande villa di campagna che domina vaste distese di terra.  Il balcone ha una vista spettacolare. E grandi statue di leoni a  ogni angolo. Mia moglie e io contempliamo il panorama discutendo  quali oggetti prendere. In questa fantasia, non so perché, sta  sempre per scoppiare un temporale. Il cielo è grigio ardesia,  eppure le ombre sono nitide come se su di noi brillasse il più  luminoso dei soli estivi. La terrazza è invasa di edera e altre  piante rampicanti. E mia moglie e io siamo lì, soli, con il  nostro cestino da supermercato ancora vuoto, e discutiamo che  cosa scegliere -. Hoffman proruppe in un'altra risata. - Mi  perdoni, signor Ryder, mi sono lasciato andare. Ma è questo che  immagino debba succedere alle persone geniali come lei quando  vengono lasciate un paio d'ore al pianoforte in un luogo  tranquillo. $è questo che deve succedere a chi è ispirato.  Vagherà tra le sue sublimi idee musicali. Ne esaminerà una,  scuoterà la testa, la rimetterà al suo posto. Per quanto  splendida, non è esattamente quella che sta cercando. Ah! Come  deve essere bello trovarsi dentro la sua testa, signor Ryder!  Come vorrei poterla accompagnare nel viaggio che intraprenderà  nell'istante in cui le sue dita si poseranno sulla tastiera. Ma  lei, naturalmente, partirà per lidi che mi sono preclusi. Come la  invidio, signor Ryder!   
  Borbottai qualcosa di vago, poi viaggiammo in silenzio. Dopo un  po' Hoffman disse:   
  - Prima che ci sposassimo, credo che mia moglie se la figurasse  così la nostra vita. Che si aspettasse qualcosa del genere,  signor Ryder. Come se dovessimo entrare a braccetto in un bel  museo deserto con il nostro cestino della spesa. Anche se lei,  naturalmente, non avrebbe mai usato termini così fantasiosi.  Vede, mia moglie discende da una lunga stirpe di grandi geni. Sua  madre era una bravissima pittrice. Suo nonno uno dei massimi  poeti di lingua fiamminga del suo tempo. Per qualche inspiegabile  ragione è stato trascurato, ma questo non cambia nulla. E poi ce  ne sono altri, in famiglia, tutti grandi artisti. Essendo  cresciuta in un ambiente simile, ha sempre considerato la  bellezza e l'ingegno come qualcosa di scontato. Come poteva  essere altrimenti? Le confesso che questo ha generato  incomprensioni, e agli inizi della nostra relazione addirittura  un gravissimo malinteso.   
  Hoffman tacque e fissò la strada che si snodava davanti a noi.   
  - $è stata la musica ad avvicinarci, - disse dopo un po'. - Ci  siedevamo nei caffè di Herrengasse e parlavamo di musica. O  meglio, ero io che parlavo. Non stavo mai zitto. Ricordo che una  volta, mentre passeggiavo con lei nel Volksgarten, le ho  descritto nei minimi particolari, forse per un'ora intera, ciò  che sentivo ascoltando £Ventilazioni di Mullery. Che vuole,  eravamo giovani e avevamo tempo per queste cose. Già allora  Christine non parlava molto, ma ascoltava quello che avevo da  dire io, e mi accorgevo che ne era profondamente commossa. Oh,  sì. Tra l'altro, signor Ryder, dico che eravamo giovani, ma in  realtà non eravamo più dei ragazzi. Avevamo tutti e due un'età  per cui avremmo già potuto essere sposati da un pezzo. Che ne so,  forse Christine sentiva che il tempo stringeva. Fatto sta che  abbiamo cominciato a parlare di matrimonio. Ero innamoratissimo  di lei, signor Ryder, sin dal principio sono stato  innamoratissimo. Era così bella. Ancora oggi, se la vedesse, si renderebbe conto di quanto doveva essere bella da giovane. Ma  bella in una maniera un po' speciale. Si capiva subito che aveva  una grande sensibilità per le cose più raffinate. Non mi vergogno  di ammetterlo, signor Ryder, ero innamoratissimo di lei. Non sa  che cosa ho provato quando ha acconsentito a sposarmi. Ho pensato  che la mia vita sarebbe stata felice, una felicità continua e  ininterrotta. Ma pochi giorni dopo è successo qualcosa. Christine  è venuta per la prima volta a farmi visita nella mia stanza.  Allora lavoravo all'Hotel Burgenhof e affittavo una camera non  lontano dall'albergo, in Glockenstrasse, sul canale. Non era gran  che, ma rispondeva ai miei bisogni. C'erano dei robusti scaffali  per i libri su una parete e uno scrittoio di quercia sotto la  finestra. E come le ho detto, la camera dava sul canale. Era  inverno, una magnifica mattina d'inverno piena di sole, e dalla  finestra entrava una bellissima luce. Naturalmente avevo fatto  ordine, sistemato tutto per bene. Christine è entrata e si è  guardata intorno. Ha guardato dappertutto. Poi mi ha chiesto con  voce pacata: «Ma dove la componi la tua musica?» Ricordo il  preciso istante in cui l'ha detto, signor Ryder. Me ne ricordo  come se fosse adesso. Quelle parole hanno segnato una svolta  nella mia vita. Non esagero. A posteriori, mi accorgo che la mia  vita attuale, per molti versi, è cominciata in quel momento.  Rivedo la luce di quella mattina di gennaio, Christine in piedi  accanto alla finestra con una mano sul tavolo, solo la punta  delle dita, come per tenersi in equilibrio. Era così bella. E dal  tono con cui mi ha fatto quella domanda era ovvio che era davvero  meravigliata. Vede, non capiva. «Ma dove la componi la tua  musica? Non hai un pianoforte». Non sapevo che cosa rispondere.  Mi sono reso conto all'istante che c'era stato un malinteso, un  malinteso crudele, di proporzioni catastrofiche. Può biasimarmi  se ho avuto la tentazione di salvarmi? Non avrei mai detto una  bugia smaccata. Oh, no, neppure per salvarmi. Ma in quel  frangente! Ancora adesso, a ripensarci, mentre glielo racconto,  mi vengono i brividi. «Ma dove la componi la tua musica?» «No,  non c'è un pianoforte, - ho detto allegramente. - Non c'è niente.  Né partiture scritte a mano, né altro. Ho deciso di non comporre  più per due anni». Ecco che cosa le ho risposto. Sono stato  prontissimo, l'ho detto senza la minima ansia o esitazione. Ho  persino stabilito la data in cui progettavo di ricominciare a  comporre. Ma per il momento, no, non volevo più saperne. Che  cos'altro avrei dovuto dirle, signor Ryder? Potevo forse guardare  negli occhi quella donna, quella donna che amavo disperatamente,  quella donna che solo pochi giorni prima aveva acconsentito a  sposarmi, e aspettare che il destino si compisse? Potevo forse  dirle: «Oh, cielo, che malinteso. Ritienti libera da ogni obbligo  nei miei confronti. Ti prego, separiamoci subito...»? Certo che  no! Forse lei mi considera disonesto, ma è un giudizio troppo  severo. E poi, ciò che avevo detto non era completamente falso.  In quel periodo avevo tutte le intenzioni di mettermi a studiare  uno strumento, e non mi sarebbe spiaciuto nemmeno cimentarmi con  la composizione. Vede dunque che la mia non era una bugia  smaccata. Sono stato insincero, questo sì, lo ammetto. Ma che  altro avrei dovuto fare? Non potevo lasciarmi sfuggire Christine.  Così le ho detto che avevo preso la decisione di non comporre più  per due anni solari. Perché avevo bisogno di sgombrare la testa e  acquisire maggiore distacco; qualcosa del genere, ricordo di  avere parlato per un bel po'. E Christine mi ascoltava  comprensiva, accettava tutto, annuiva con la sua bella testa  intelligente, mentre io le rifilavo queste stupidaggini. Ma che  altro avrei potuto fare? E la sa una cosa? Da quella mattina  Christine non ha più accennato alla mia attività di compositore,  mai una volta in tutti questi anni. Tra parentesi, signor Ryder, visto che le leggo la domanda in faccia, glielo dico subito.  Glielo assicuro: prima di quella mattina, per tutto il tempo del  corteggiamento, durante le nostre passeggiate lungo il canale, o  quando ci trovavamo nei caffè di Herrengasse, io non ho mai, dico  mai, fatto nulla per indurla a credere che componessi musica. Che  io fossi perennemente innamorato della musica, che la musica  fosse l'alimento quotidiano del mio spirito, che ogni mattino al  risveglio me la sentissi nel sangue, questo sì, questo glielo  avevo lasciato intendere ed era vero. Ma non l'ho mai ingannata  intenzionalmente, signor Ryder. Oh, no, mai. $è stato solo un  terribile malinteso. Forse Christine, venendo da una famiglia  come la sua, non aveva potuto fare a meno di £presumere...  Chissà? Ma le assicuro che prima di quella mattina non avevo mai  pronunciato nemmeno una parola che potesse farle credere una cosa  simile. Be', come le dicevo, signor Ryder, Christine non ha più  accennato alla cosa, non una sola volta. Poco dopo ci siamo  sposati e abbiamo comprato un alloggetto in Piazza Friedrich. Io  ho trovato un buon posto all'Ambassadors. Abbiamo cominciato a  vivere insieme e per un po' siamo stati abbastanza felici.  Naturalmente, non ho mai dimenticato il... sì, insomma, il  malinteso. Ma ero meno preoccupato di quanto forse si immagina  lei. Vede, come le ho già detto, avevo tutte le intenzioni, al  momento buono, quando si fosse presentata l'opportunità, di  studiare uno strumento. Magari il violino. Facevo molti progetti  allora, come tutti noi quando siamo giovani, quando non ci  rendiamo ancora conto di come sia limitato il tempo a nostra  disposizione, quando non abbiamo ancora scoperto che intorno a  noi c'è un guscio, un guscio così duro che è... £impossibile...  £uscire! - Improvvisamente, Hoffman staccò le mani dal volante e  le spinse verso l'alto, contro l'invisibile cupola che lo  attorniava. Nel gesto c'era più stanchezza che rabbia, e un  attimo dopo il direttore dell'albergo lasciò ricadere le mani sul  volante. Poi riprese a parlare con un sospiro: - No, allora non  le sapevo queste cose. Speravo ancora di poter diventare un  giorno la persona che Christine credeva che fossi. Anzi, ero  convinto che ci sarei riuscito proprio grazie alla sua presenza,  al suo influsso. E come le dico, signor Ryder, il primo anno del  nostro matrimonio è stato abbastanza felice. Avevamo comprato  quell'appartamento, che sembrava fatto per noi, e in certi giorni  pensavo che Christine si fosse accorta del malinteso e che non ne  facesse una malattia. Non so, in quel periodo mi attraversavano  la testa pensieri di ogni genere. Poi, naturalmente, la data che  avevo stabilito, la scadenza dei due anni, quando avrei dovuto  ricominciare a comporre, è arrivata ed è passata. Osservavo  Christine attentamente, ma lei non diceva nulla. Era taciturna,  questo è vero, ma lo era sempre stata. Non diceva né faceva nulla  di insolito. Ma credo che sia stato allora, verso la fine dei due  anni, che la tensione è entrata nella nostra vita. Era una  tensione strisciante, onnipresente. Anche quando passavamo  insieme una serata piacevole, era sempre lì. Organizzavo piccole  cenette a sorpresa nel suo ristorante preferito. Oppure arrivavo  a casa con un mazzo di fiori o un boccetto di profumo. Sì, mi  sforzavo diligentemente di rallegrarla. Ma la tensione era sempre  lì. Per molto tempo sono riuscito a non badarvi. Mi dicevo che  era frutto della mia immaginazione. Probabilmente non volevo  ammettere che ci fosse e che aumentasse di giorno in giorno. Mi  sono convinto della sua esistenza solo il giorno in cui è  svanita. Sì, a un certo punto è svanita, e allora ho capito che  c'era stata. $è successo un pomeriggio. Eravamo sposati ormai da  tre anni. Sono tornato a casa dal lavoro con un regalino per lei,  un libro di poesie. Sapevo che lo desiderava. Non me l'aveva  detto esplicitamente, ma lo avevo intuito. Sono entrato in casa e l'ho trovata alla finestra, intenta a guardare la piazza. A  quell'ora del pomeriggio si vedeva la gente che usciva dal  lavoro. L'alloggio era un po' rumoroso, ma non era male per una  coppia relativamente giovane come noi. Le ho porto il volume. «$è  solo un regalino», ho detto. Christine ha continuato a guardare  dalla finestra. Era inginocchiata sul sofà, con i gomiti  appoggiati sullo schienale in modo da cullarsi la testa mentre  scrutava fuori. Poi, stancamente, ha tolto il libro dalle mie  mani, e senza dire una parola ha ripreso a osservare la piazza.  Sono rimasto in piedi in mezzo alla stanza, aspettando che  dicesse qualcosa, che ringraziasse per il regalo. Forse non si  sentiva bene. Ho aspettato, un po' impensierito, finché Christine  si è girata e mi ha guardato. Non in malo modo, oh no, ma mi ha  guardato, ed è stato uno sguardo particolare. Lo sguardo di chi  cerca con gli occhi £conferma di ciò che sta pensando. Proprio 
 così. In quel momento ho capito che Christine aveva finalmente  visto dentro di me. E mi sono reso conto della tensione che c'era  stata fra noi. L'avevo aspettato quel momento, l'avevo aspettato  sin dal principio. E le sembrerà strano, ma ho provato un immenso  sollievo. Finalmente, finalmente, aveva visto dentro di me. Oh,  che sollievo! Ho provato un tale senso di liberazione che ho  addirittura esclamato: «Ah!» e ho sorriso. Christine mi ha  guardato storto, e io mi sono dato subito un contegno. Ho capito  immediatamente... oh sì, il senso di liberazione è stato di breve  durata... ho capito immediatamente con quali draghi avrei dovuto  combattere da quel momento, e mi sono fatto cautissimo. Mi sono  reso conto che avrei dovuto raddoppiare, triplicare il mio  impegno per non perdere Christine. Ma ero ancora convinto che se  mi fossi messo d'impegno, veramente d'impegno, sarei riuscito a  conquistarla, anche se ormai aveva £capito. Povero idiota! Ma lo  sa che per parecchi anni ho continuato a sperarlo, anzi, ho  persino creduto di riuscirci? Oh, stavo molto attento. Facevo  tutto ciò che era in mio potere per assecondarla. Non abbassavo  mai la guardia. Sapevo che con il tempo i suoi gusti, le sue  preferenze, si sarebbero sicuramente modificati, quindi osservavo  ogni sfumatura, pronto ad anticipare qualsiasi cambiamento. Oh  sì, signor Ryder, anche se sono io a dirlo, le assicuro che in  quegli anni sono stato un marito fantastico. Se un compositore  che le era piaciuto per anni cominciava a non garbarle, me ne  accorgevo subito, prima ancora che lei stessa diventasse  consapevole del cambiamento. $è la prima volta che si parlava di  lui, mentre Christine ancora esitava a esprimere i suoi dubbi, io  mi affrettavo a dire: «Eh, sì, non è più quello di una volta.  Senti, non vale la pena andare a concerto questa sera. Ti  annoieresti». E venivo ricompensato dall'innegabile espressione  di sollievo che compariva sul suo volto. Oh, sì, ero  attentissimo, e come le dico, ero convinto di farcela. Mi sono  illuso. Ero così innamorato che mi sono illuso di riconquistarla  a poco a poco. Per qualche anno ho sperato davvero. Poi è  cambiato tutto, è cambiato tutto nel giro di una sera. Ho capito  che non c'era niente da fare, che i miei sforzi non avrebbero  dato alcun risultato. E l'ho capito nello spazio di una sera,  signor Ryder. Eravamo stati invitati a casa del signor Fisher,  che dopo il concerto di Jan Piotrowski aveva organizzato un  piccolo ricevimento in suo onore. Erano le prime volte che  venivamo invitati a questo genere di cose; stavo cominciando a  guadagnarmi un certo rispetto grazie alla mia irrefrenabile  passione per l'arte. Be', come le dicevo, ci trovavamo a casa  signor Fisher, nel suo bel salotto. Non eravamo in molti, una  quarantina al massimo, una serata tranquilla, insomma. Non so se  conosce Piotrowski. Quella sera si è dimostrato una persona molto  gradevole, estremamente abile nel mettere gli altri a loro agio. La conversazione scorreva senza intoppi e tutti sembravano felici  e contenti. Poi a un certo punto mi sono avvicinato al buffet; mi  stavo servendo, quando mi sono accorto che il signor Piotrowski  era proprio accanto a me. Ero ancora piuttosto giovane, allora;  non avevo molta esperienza di celebrità, e sì, le confesso che  ero un po' emozionato. Ma il signor Piotrowski mi ha sorriso  amabilmente, mi ha chiesto che cosa ne pensavo della serata,  insomma mi ha messo subito a mio agio. Poi ha detto: «Poco fa  stavo parlando con sua moglie. Che donna affascinante! Mi ha  raccontato del suo grande amore per Baudelaire. Ho dovuto  confessarle di avere solo una conoscenza superficiale delle opere  del poeta. E molto giustamente lei mi ha rimproverato questa  deplorevole mancanza. Oh, mi sono sentito sprofondare dalla  vergogna, e ho intenzione di rimediare al più presto. L'amore di  sua moglie per Baudelaire è assolutamente contagioso!» Al che io  ho annuito e gli ho risposto: «Sì, certo. Christine ha sempre  amato Baudelaire». «E con quanta passione, - ha aggiunto  Piotrowski. - Mi ha fatto sprofondare dalla vergogna». Tutto lì,  non ci siamo detti altro. Ma vede, signor Ryder, il punto è  questo: vio non sapevo affatto che Christine amasse Baudelaire!v Non l'avevo mai neppure sospettato! Capisce dove voglio arrivare? vChristine non mi aveva mai rivelato la sua passione per quel poeta!v E quando Piotrowski mi ha detto questo, si è come accesa una lampadina. All'improvviso ho visto  chiaramente qualcosa che per anni avevo cercato di non vedere. E  cioè che Christine mi aveva sempre nascosto una parte di sé.  Preservandola, come se il contatto con la mia grossolanità  potesse danneggiarla. Come le dico, signor Ryder, probabilmente  lo sospettavo già. Che Christine mi nascondesse un'intera parte  di se stessa. E chi avrebbe potuto darle torto? Una donna della  sua sensibilità, cresciuta in una famiglia come la sua. Non aveva  esitato a parlare a Piotrowski del suo amore per Baudelaire, ma  non una volta, in tutti quegli anni, ne aveva accennato a me. Per  parecchi minuti ho vagolato per il salotto senza quasi sapere che  cosa dicevo alla gente, limitandomi ai soliti convenevoli, con il  cuore in tumulto. Poi, forse mezz'ora dopo la conversazione con  Piotrowski, mi sono guardato intorno. E dall'altra parte della  sala ho visto mia moglie che rideva felice su un sofà, accanto a  Piotrowski. Nel suo modo di fare non c'era nulla di civettuolo,  badi bene. Oh, no. Mia moglie ha sempre rispettato  meticolosamente le convenienze. Ma mi sono accorto che rideva con  una disinvoltura che non vedevo più dai tempi delle nostre  passeggiate lungo il canale, prima di sposarci. Prima, cioè, che  lei £capisse. Sul divano, che era molto largo, c'erano altre due  persone, e alcuni invitati si erano seduti per terra per stare  vicini a Piotrowski. Lui aveva appena detto qualcosa a mia  moglie, e Christine rideva felice. Ma non è stata solo quella  risata ad aprirmi gli occhi, signor Ryder. Adesso le racconto che  cosa è successo dopo, mentre li osservavo dal lato opposto del  salotto. Piotrowski era seduto in punta al divano, con le mani  intorno alle ginocchia, così! Ebbene, mentre rideva e diceva  qualcos'altro a mia moglie, ha cominciato a raddrizzare il busto,  come se volesse appoggiarsi allo schienale. E mentre si inclinava  all'indietro, mia moglie, velocissima, con incredibile destrezza,  ha spostato un cuscino dal proprio schienale a quello di  Piotrowski, in modo che quando la sua testa ha toccato il divano,  il cuscino era già lì. Un gesto rapidissimo, elegante, fatto  quasi senza pensarci, signor Ryder. E quando l'ho visto, mi si è  spezzato il cuore. Quel gesto era così pieno di rispetto  spontaneo, di sollecitudine, di desiderio di rendere un piccolo  favore. Un'azione da nulla, che mi ha rivelato l'esistenza nel  cuore di Christine di un intero mondo che mi era rigidamente precluso. E in quel preciso istante mi sono reso conto che mi ero  ingannato. Ho capito una cosa di cui, da allora, non ho mai più  dubitato. E cioè, signor Ryder, che Christine, prima o poi, mi  avrebbe lasciato. Era solo questione di tempo. Quella sera ne ho  avuto la certezza.   
  Hoffman tacque e parve sprofondare di nuovo nei suoi pensieri.  Adesso la campagna ai due lati della strada era coltivata; in  lontananza si vedevano dei trattori muoversi lentamente in mezzo  ai campi. Dopo un momento dissi:   
  - Mi scusi, ma la sera di cui mi sta parlando, quando è stata?  
  - Quando è stata? - Hoffman pareva un po' offeso dalla mia  domanda. - Oh... credo che... be', il concerto di Piotrowski deve  risalire a ventidue anni fa.   
  - Ventidue anni? - dissi. - Mi risulta che per tutto questo  tempo sua moglie sia rimasta con lei.   
  Hoffman si girò verso di me furente. - Che cosa vuole  insinuare, signor Ryder? Che non so come stanno le cose in casa  mia? Che non capisco mia moglie? Io mi confido con lei, le  racconto i miei pensieri più intimi, e lei monta in cattedra come  se conoscesse la situazione meglio di me...   
  - Le chiedo scusa, signor Hoffman, non volevo darle questa  impressione. Desideravo solo farle notare...   
  - Notare un corno! Lei non sa niente! Di fatto, la mia  situazione è disperata. E lo è da un pezzo. L'ho visto quella  sera a casa del signor Fisher, chiaro come il sole, chiaro come  in questo momento vedo la strada davanti ai miei occhi. Ebbene  sì, non è ancora successo, ma solo... solo grazie ai miei  £sforzi. Sissignore, e lei non ha idea degli sforzi che ho fatto!  Forse riderà di me. Se so che la causa è persa, perché mi torturo  a questo modo? Perché mi ostino ad aggrapparmi a Christine? Per  lei è facile fare queste domande. Ma io l'amo profondamente,  signor Ryder, e oggi più che mai. Per me sarebbe impensabile, non  potrei mai sopportare che se ne andasse; ogni cosa perderebbe  senso. Sì, lo so che è inutile, che prima o poi mi lascerà per  qualcuno come Piotrowski, qualcuno di quella levatura, qualcuno  come la persona che pensava che fossi prima di capire. Ma non si  può schernire un uomo per la sua ostinazione. Ho fatto del mio  meglio, signor Ryder, e l'ho fatto nell'unico modo possibile per  uno come me. Ho lavorato sodo, ho organizzato manifestazioni, ho  fatto parte di comitati, e con il passare degli anni sono  riuscito a conquistarmi una certa considerazione nei circoli  artistici e musicali di questa città. E poi, naturalmente, c'era  quell'unica speranza. La sola cosa che forse può spiegare come  sia riuscito a trattenere Christine così a lungo. Adesso quella  speranza è morta; è morta parecchi anni fa, ma vede, per un bel  po' quell'unica, singola speranza c'è stata! Come avrà capito,  sto parlando di nostro figlio. Ah, se Stephan fosse diverso, se  avesse ricevuto almeno in parte le doti che la famiglia di sua  madre possedeva in tale abbondanza! Per qualche anno abbiamo  sperato tutti e due. Anche se con occhi diversi, osservavamo  Stephan e speravamo. L'abbiamo mandato a lezione di pianoforte,  l'abbiamo seguito attentamente, abbiamo sperato l'impossibile.  Tendevamo le orecchie per cogliere una scintilla che non c'era  mai, oh, non sa con quanta attenzione ascoltavamo, ciascuno per i  suoi motivi; desideravamo con ogni forza udire qualcosa che  invece non c'era mai...   
  - Mi scusi, signor Hoffman. Lei sta dicendo questo di Stephan,  ma le posso assicurare...   
  - Per anni mi sono illuso! Mi dicevo, be', forse maturerà  tardi. Qualcosa c'è di sicuro, anche solo un semino. Oh, mi sono  illuso, e credo che si sia illusa anche mia moglie. Abbiamo  aspettato, aspettato, fino a quando, negli ultimi anni, abbiamo capito che era inutile fingere ancora. Ormai Stephan ha ventitré  anni. Non posso più dirmi che sboccerà all'improvviso domani, o  magari fra qualche giorno. Ho dovuto arrendermi alla realtà.  Stephan ha preso da me. E ormai so che anche Christine l'ha  capito. Naturalmente, essendo sua madre, lo ama con tutto il  cuore. Ma Stephan, invece di diventare il mezzo della mia  salvezza, si è trasformato nell'opposto. Ogni volta che posa gli  occhi su di lui, Christine vede l'errore madornale che ha fatto  sposandomi...  
  - Signor Hoffman, gliel'assicuro, ho avuto il piacere di  sentire Stephan suonare, e devo dirle che...   
  - L'incarnazione, signor Ryder! Stephan è diventato  l'incarnazione del più grave errore della sua vita. Oh, se avesse  conosciuto la famiglia di mia moglie! Credo che da giovane  Christine abbia sempre £presunto. Probabilmente, pensava che un  giorno avrebbe avuto dei figli bellissimi e dotati. Sensibili  alla bellezza, come lei. Poi ha fatto quell'errore! Come madre,  ama Stephan incondizionatamente, questo è ovvio. Ma ciò non  significa che non veda il suo errore ogni volta che posa gli  occhi su di lui. Stephan è così simile a me, signor Ryder. Ormai  non posso più negarlo. $è quasi un uomo...   
  - Signor Hoffman, Stephan è un giovane molto dotato...   
  - Non occorre che dica queste cose, signor Ryder! La prego di  non offendere la sincerità con cui le apro il mio cuore con le  sue banali espressioni di cortesia! Non sono uno stupido, lo vedo  anch'io di che pasta è fatto Stephan. Per un po' ha rappresentato  la mia unica speranza, è vero, ma da quando ho capito che non  c'era niente da fare, e sinceramente credo di averlo capito  almeno sei o sette anni fa, ebbene, da allora ho cercato di  aggrapparmi a Christine praticamente giorno per giorno. Mi si può  forse biasimare? Le dicevo, senti, aspetta almeno la prossima  manifestazione che sto organizzando. Aspetta che sia conclusa,  forse dopo mi vedrai sotto una luce diversa. E, passata quella  manifestazione, subito le dicevo, no, aspetta, sto organizzando  qualcos'altro, una manifestazione magnifica, ci sto già  lavorando. Ti prego aspetta ancora quella. $è così che me la sono  cavata negli ultimi sei o sette anni, signor Ryder. E so che  questa sera è la mia ultima opportunità. Su questo concerto ho  puntato tutto. Quando ne ho parlato a Christine l'anno scorso,  quando le ho esposto per la prima volta il progetto della serata,  descrivendo a grandi linee tutti i particolari, la disposizione  dei tavoli, il programma, accennando persino, se mi permette, al  fatto che lei, o qualcun altro di comparabile fama, avrebbe  accettato l'invito e sarebbe stato al centro della serata, sì,  quando per la prima volta le ho spiegato tutto ciò, quando le ho  spiegato che grazie a £me, a quella mediocrità cui era incatenata  da così tanto tempo, sì, proprio grazie a me, il signor Brodsky  avrebbe conquistato i cuori e la fiducia dei nostri concittadini  e, sull'onda di questa grandiosa serata, avrebbe capovolto la  situazione della città, eh, eh! le assicuro, signor Ryder, che  Christine mi ha guardato come per dire: «Ci risiamo». Ma nei suoi  occhi ho visto anche un lampo. Un lampo che significava: «Forse  ce la farai davvero. Sarebbe già qualcosa». Sì, solo un lampo, ma  sono questi lampi che mi hanno dato la forza di continuare per  così tanto tempo. Oh, eccoci arrivati, signor Ryder.   
  Ci eravamo fermati in una piazzola di fianco a un campo di erba  alta.   
  - Signor Ryder, - disse Hoffman. - Sono un po' in ritardo. Se  non sono troppo scortese, le chiederei di salire da solo fino  all'annesso.  
  Seguendo il suo sguardo, vidi che il campo si inerpicava su per  il fianco di una collina, sulla cui sommità c'era una piccola capanna di legno. Hoffman frugò nel vano portaoggetti e tirò  fuori una chiave.   
  - Troverà un lucchetto sulla porta della capanna. L'edificio  non è lussuoso, ma l'isolamento è garantito, proprio come mi ha  chiesto. Il pianoforte è un ottimo strumento, simile ai Bechstein  prodotti negli anni Venti.   
  Guardai di nuovo la cima della collina, poi dissi: - Quella  capanna lassù?   
  - Tornerò a prenderla fra due ore, signor Ryder. Sempre che non  desideri una macchina prima.   
  - Due ore vanno bene.   
  - Allora mi auguro che trovi tutto di suo gradimento -. Hoffman  accennò con la mano in direzione della capanna, come per  indicarmi gentilmente la strada, ma nel suo gesto notai una  traccia di impazienza. Lo ringraziai e scesi dall'automobile.  
25.  
  Aprii un cancello sprangato e seguii un sentiero che saliva  fino alla piccola capanna di legno. In principio il prato era  stranamente fangoso, ma più in alto il terreno si rassodò. A metà  cammino, mi voltai indietro e vidi che la strada faceva una lunga  curva attraverso i campi coltivati. Scorsi anche il tetto di una  macchina, molto probabilmente quella di Hoffman, che si perdeva  in lontananza.   
  Quando giunsi alla capanna e girai la chiave nel lucchetto  arrugginito della porta ero un po' senza fiato. Da fuori la  capanna era identica a una baracca per gli attrezzi da  giardinaggio, ma fui sorpreso di scoprire che anche all'interno  era completamente spoglia. Le pareti e il pavimento erano di assi  grezze, alcune delle quali si erano incurvate. Nelle fessure tra  l'una e l'altra vidi strisciare qualche insetto; dalle travi del  soffitto pendevano i resti di vecchie ragnatele. Gran parte dello  spazio era occupato da un pianoforte verticale dall'aspetto un  po' sudicio; quando tirai fuori lo sgabello e mi sedetti, mi  accorsi che la mia schiena toccava quasi la parete alle mie  spalle.   
  Quella parete era anche la sola ad avere una finestra;  girandomi sullo sgabello e allungando il collo, vidi che dava sul  ripido prato che scendeva giù fino in strada. Il pavimento della  capanna era un po' inclinato, e quando mi voltai di nuovo verso  il pianoforte ebbi la sgradevole sensazione di essere sul punto  di scivolare all'indietro lungo il pendio. Tuttavia, quando aprii  il coperchio e provai qualche accordo, scoprii che il pianoforte  aveva un ottimo suono. Soprattutto le note basse erano  piacevolmente piene. La meccanica non era troppo leggera, e lo  strumento era accordato alla perfezione. Pensai persino che il  legname grezzo della capanna fosse stato accuratamente scelto per  offrire il giusto equilibrio fra assorbimento e riflessione. Se  si esclude un lieve cigolio ogni volta che schiacciavo il pedale  di risonanza, non potevo proprio lamentarmi.   
  Dopo essermi concentrato un breve istante per raccogliere le  idee, attaccai il vertiginoso inizio di vAmianto e fibra.v Poi, mentre il primo movimento si placava entrando nella sua fase più  riflessiva, cominciai a distendermi, tanto che alla fine mi  accorsi di averlo suonato quasi tutto a occhi chiusi.   
  Al principio del secondo movimento riaprii gli occhi e vidi che  il sole del pomeriggio inondava la finestra alle mie spalle,  proiettando nitidamente la mia ombra sulla tastiera. Neppure le  difficoltà del secondo movimento, però, riuscirono a infrangere  la mia calma. Anzi, mi accorsi di dominare perfettamente ogni  singola dimensione del componimento. Ricordai come mi ero  lasciato prendere dall'ansia nel corso della giornata e mi sentii uno sciocco. Inoltre, ora che mi trovavo nella parte centrale del  pezzo, mi parve inconcepibile che mia madre potesse restare  insensibile a quella musica. Di fatto, non c'era ragione al mondo  perché non dovessi guardare con la massima fiducia al concerto di  quella sera.   
  Fu mentre affrontavo la sublime malinconia del terzo movimento  che mi accorsi di un rumore di sottofondo. Sulle prime pensai che  fosse legato al pedale di sordina, poi che dipendesse dal  pavimento. Era un rumore debole, ritmico, che andava e veniva, e  per un po' cercai di non farvi caso. Ma il rumore continuava a  ripresentarsi, finché, durante i passaggi in pianissimo a metà  del movimento, mi resi conto che qualcuno stava scavando non  lontano dalla capanna.   
  La scoperta che il rumore non dipendeva da me mi permise di  ignorarlo più facilmente; continuai così a suonare il terzo  movimento, godendomi la naturalezza con cui i nodi di sentimento  salivano languidamente a sciogliersi in superficie. Richiusi gli  occhi, e dopo un attimo cominciai a immaginare il volto dei miei  genitori, seduti l'uno accanto all'altro, intenti ad ascoltare  con solenne concentrazione. Stranamente non me li figurai in una  sala da concerto, come sapevo che li avrei visti quella sera, ma  nel salotto di una nostra vicina di casa del Worcestershire, una  certa signora Clarkson, una vedova con la quale mia madre aveva  intrattenuto per un certo periodo rapporti di amicizia. Forse era  stata l'erba alta fuori della capanna che mi aveva fatto  ripensare a lei. La sua casetta, come la nostra, era circondata  da un campicello, e naturalmente, essendo sola, la signora  Clarkson non riusciva in alcun modo a tenere a bada l'erba.  Dentro casa sua, invece, regnava un ordine impeccabile. In un  angolo del soggiorno c'era un pianoforte, che non ricordavo di  avere mai visto con il coperchio sollevato. Per quel che ne  sapevo, lo strumento poteva essere scordato o rotto. Mi tornò  però alla mente una volta in cui, seduto in quella stanza con la  tazza del tè sulle ginocchia, avevo ascoltato in silenzio i miei  genitori e la signora Clarkson che chiacchieravano di musica.  Forse mio padre le aveva semplicemente chiesto se non suonasse  mai il suo pianoforte, perché sicuramente la musica non era un  argomento di conversazione abituale con la signora Clarkson. In  ogni caso, senza una spiegazione logica, mentre lì, in quella  capanna di legno, entravo nel cuore del terzo movimento di  vAmianto e fibra,v mi tolsi questa soddisfazione: finsi di essere di nuovo dalla signora Clarkson, e che mio padre, mia  madre e la padrona di casa, con volto serio, mi ascoltassero  suonare il pianoforte nell'angolo del soggiorno, mentre la  tendina di pizzo minacciava di sbattere sulla mia faccia nella  brezzolina estiva.  
  Mentre mi avvicinavo alle battute finali del terzo movimento,  il rumore della pala fuori della capanna si fece di nuovo strada  nella mia coscienza. Non avrei saputo dire se fosse cessato per  un po' e ricominciato allora oppure se fosse andato avanti per  tutto il tempo, ma ora mi sembrava molto più intenso di prima.  All'improvviso capii che a produrre quel rumore non poteva essere  che Brodsky, intento a seppellire il suo cane. Mi ricordai che  quella mattina il musicista aveva manifestato più di una volta la  sua intenzione di seppellire l'animale proprio quel giorno; avevo  persino la vaga sensazione di avere acconsentito a suonare il  piano durante la cerimonia funebre.   
  Cominciai a immaginare almeno in parte ciò che doveva essere  successo prima del mio arrivo alla capanna. Presumibilmente,  Brodsky era giunto un po' in anticipo e si era appostato subito  dietro la cima della collina, a un tiro di sasso dalla baracca di  legno, dove c'era una macchia d'alberi e il terreno faceva un avvallamento. Era rimasto lì in silenzio, dopo avere appoggiato  la pala al tronco di un albero; accanto a lui, quasi interamente  nascosto dall'erba, c'era il cadavere del cane avviluppato in un  lenzuolo. Come mi aveva detto quella mattina, aveva in mente una  cerimonia semplice, che doveva essere abbellita solo dal mio  accompagnamento al pianoforte; era dunque comprensibile che non  avesse voluto dare il via alle esequie prima del mio arrivo. Così  aveva aspettato, forse un'ora, contemplando il cielo e il  panorama.   
  Sulle prime, com'era naturale, Brodsky aveva rivisitato i  ricordi del suo defunto compagno. Ma con il passare dei minuti,  visto che non comparivo ancora, i suoi pensieri erano andati alla  signorina Collins e al loro prossimo appuntamento al cimitero.  Presto alla sua memoria si era riaffacciato il ricordo di una  mattina di primavera di molti anni prima, in cui lui aveva preso  due poltroncine di vimini e le aveva portate fuori nel prato  dietro casa. L'episodio era successo non più di quindici giorni  dopo il loro arrivo in città. Nonostante fossero al verde, la  signorina Collins si era data da fare con notevole energia per  arredare la loro nuova abitazione. Quella mattina era scesa a  colazione e aveva espresso il desiderio di fare un riposino al  sole e all'aria fresca.   
  Ripensando a quel giorno, Brodsky si era accorto di ricordare  vividamente come l'erba fosse gialla e bagnata e il sole alto nel  cielo mentre sistemava le poltroncine l'una accanto all'altra. La  signorina Collins era uscita di casa un momento dopo. Si erano  seduti ed erano rimasti insieme per un po', scambiandosi qualche  tranquilla osservazione. Per un attimo, quella mattina, dopo mesi  e mesi, Brodsky aveva avuto la sensazione che il futuro, in  fondo, potesse ancora riservare loro qualcosa. Era stato sul  punto di esprimere questo pensiero, ma subito dopo, temendo di  risollevare il delicato argomento dei suoi recenti fiaschi, aveva  cambiato idea.   
  Poi la signorina Collins aveva detto quella cosa a proposito  della cucina: visto che lui, sebbene avesse promesso di farlo da  giorni, si ostinava a non portare via i pannelli di truciolato,  non c'era nessuna speranza che la cucina facesse progressi. Dopo  qualche istante di silenzio Brodsky aveva risposto pacatamente  che nella rimessa aveva una montagna di cose da fare. Dal momento  che non riuscivano a stare insieme due minuti senza diventare  sgradevoli, tanto valeva che si mettesse subito al lavoro. Poi si  era alzato e aveva attraversato il pianterreno per andare nella  piccola rimessa davanti a casa. Nessuno dei due aveva alzato la  voce, e l'intero litigio era durato non più di qualche secondo.  Sulle prime Brodsky aveva dato poca importanza all'episodio e si  era concentrato quasi subito sui suoi progetti di falegnameria.  Un paio di volte, nel corso della mattina, aveva sollevato gli  occhi e, attraverso la polverosa finestra della rimessa, aveva  visto la moglie vagolare sfaccendata per il cortile. Aveva  continuato a lavorare, quasi sicuro di vederla comparire sulla  soglia, ma ogni volta la signorina Collins tornava in casa.  Brodsky era rientrato per il pranzo - un po' tardi,  effettivamente - e aveva scoperto che la moglie aveva già  mangiato ed era sparita al piano di sopra. Aveva aspettato per un  po', poi, tornato nella rimessa, aveva continuato a lavorare per  tutto il pomeriggio. Al calar delle tenebre aveva visto  accendersi le finestre, e verso mezzanotte era finalmente  rincasato.   
  L'intero pianterreno era immerso nell'oscurità. Brodsky era  andato in soggiorno e si era seduto su una sedia di legno.  Contemplando alla luce della luna i loro mobili sgangherati,  aveva pensato alla strana piega presa dalla giornata. Non ricordava che avessero mai passato un giorno intero trattandosi  in quel modo e, risoluto a chiudere la giornata su una nota  migliore, si era alzato in piedi ed era salito su per le scale.   
  Giunto sul pianerottolo, aveva visto che in camera loro la luce  era ancora accesa. Mentre si avvicinava, il pavimento di legno  aveva scricchiolato rumorosamente sotto i suoi piedi, annunciando  il suo arrivo non meno chiaramente che se avesse chiamato la  moglie ad alta voce. Davanti alla stanza si era fermato e,  fissando la striscia di luce sotto la porta, aveva cercato di  farsi coraggio. Poi, proprio mentre allungava la mano verso la  maniglia, dall'altra parte della porta era giunto un colpo di  tosse. Nient'altro che un colpetto, quasi sicuramente  involontario, eppure in quella tossetta c'era qualcosa che lo  aveva bloccato e gli aveva fatto ritrarre la mano. Qualcosa che  gli aveva ricordato un lato della moglie che ultimamente era  riuscito a scacciare di mente; un lato del suo carattere che in  tempi più felici aveva molto ammirato, ma che dopo la £débâcle da  cui erano appena fuggiti - se ne accorgeva solo ora - aveva  cercato di ignorare con crescente determinazione. In qualche  modo, quel colpetto di tosse era l'epitome del suo perfezionismo,  della sua magnanimità, di quella parte di lei che si chiedeva in  continuazione se stesse impiegando le proprie energie nel modo  più utile. All'improvviso Brodsky aveva provato un'immensa  irritazione nei confronti della moglie, per quel colpetto di  tosse, per la piega presa da quella giornata; aveva fatto  dietrofront e se ne era andato, incurante che il pavimento di  legno scricchiolasse sotto i suoi piedi. Poi, tornato  nell'oscurità screziata del soggiorno, si era sdraiato sul  vecchio divano coprendosi con un soprabito e si era addormentato.   
  La mattina dopo si era svegliato presto e aveva preparato  colazione per tutti e due. La moglie era scesa alla solita ora, e  lo scambio di saluti era avvenuto in maniera non sgarbata.  Brodsky aveva cominciato a esprimere il suo rincrescimento per  quel che era successo, ma lei gli aveva impedito di continuare,  dicendo che si erano comportati tutti e due in modo  incredibilmente infantile. Avevano fatto colazione, chiaramente  soddisfatti di essersi messi il litigi spalle. Ma per il resto  della giornata, anzi, per parecchi dei giorni seguenti, era  rimasta un'ombra di gelo. E mesi più tardi, quando i periodi di  silenzio tra loro erano diventati sempre più lunghi e frequenti,  Brodsky aveva incominciato a chiedersi quale fosse la loro  origine, e ogni volta i suoi pensieri tornavano a quel giorno di  primavera, a quella mattina nata sotto i migliori auspici, quando  si erano seduti a fianco a fianco sull'erba bagnata.   
  Mentre Brodsky era perso in questi ricordi, io ero finalmente  arrivato nella capanna e mi ero messo a suonare. Per parecchie  battute, Brodsky aveva continuato a fissare il vuoto con aria  assente. Poi, con un sospiro, aveva rivolto di nuovo la mente al  compito che lo attendeva e aveva preso la pala. Ma dopo avere  saggiato il terreno con il ferro, si era subito fermato, forse  perché lo spirito della musica non gli sembrava ancora quello  giusto. Aveva cominciato a scavare solo quando ero giunto alla  lenta malinconia del terzo movimento. Il terreno era soffice e  non gli aveva dato problemi. Poi, senza tante storie, Brodsky  aveva trascinato il cadavere del cane attraverso l'erba alta e  l'aveva deposto nella fossa; non aveva nemmeno avuto la  tentazione di sollevare il lenzuolo per dargli m'ultima occhiata.  Aveva già cominciato a coprirlo di terra con la pala quando  qualcosa, forse la tristezza di quella musica che aleggiava  nell'aria giungendo fino a lui, lo aveva costretto a  interrompersi. Raddrizzando la schiena, Brodsky si era concesso  qualche tranquillo momento di contemplazione davanti alla tomba riempita a metà. Solo verso la fine aveva ripreso a spalare.   
  Giunto al termine del terzo movimento, sentii che Brodsky stava  ancora lavorando e decisi di tralasciare il movimento finale, che  mi sembrava poco adatto per l'occasione, e di ricominciare da  capo il terzo. Era il minimo che potessi fare, dopo averlo  costretto ad aspettare così a lungo. Il rumore della pala  continuò ancora per un po', poi cessò di colpo quando mi restava  da suonare quasi la metà del movimento. Non era un male, mi  dissi, perché Brodsky avrebbe avuto modo di restare ancora per  qualche istante solo con i suoi pensieri davanti alla tomba. Mi  accorsi addirittura che, rispetto alla precedente esecuzione,  stavo dando maggior enfasi alle sfumature elegiache del pezzo.   
  Giunto di nuovo in fondo al movimento, rimasi immobile al  pianoforte per parecchi minuti; poi mi alzai e mi stirai le  membra nel poco spazio a disposizione. Il sole pomeridiano  inondava la capanna, e dal prato vicino mi giungeva il rumore dei  grilli. Dopo un po' mi venne in mente che forse avrei fatto bene  a uscire per dire qualche parola a Brodsky.   
  Quando spinsi la porta e guardai fuori, rimasi sorpreso vedendo  come il sole si fosse già abbassato sulla strada che correva in  pianura. Qualche passo nell'erba alta mi riportò sul sentiero, e  in breve giunsi sulla sommità della collina. Vidi che dall'altra  parte il terreno digradava dolcemente in una valle deliziosa.  Brodsky era poco più giù, accanto alla tomba, sotto una macchia  di alberi dal tronco sottile.   
  Mentre scendevo verso di lui, non si girò, ma in tono  tranquillo, senza staccare gli occhi dalla tomba, disse: -  Grazie, signor Ryder. $è stato magnifico. Le sono riconoscente,  molto riconoscente.   
  Mormorai qualcosa e mi fermai nell'erba a rispettosa distanza  dal sepolcro. Brodsky tenne ancora per un po' gli occhi bassi,  poi disse:   
  - Era solo un vecchio animale. Ma volevo della musica sublime.  Le sono molto riconoscente.   
  - Si figuri, signor Brodsky. Per me è stato un piacere.   
  Brodsky sospirò e finalmente si voltò verso di me. - Sa, non  riesco a piangere per Bruno. Ci ho provato, ma non ci riesco. La  mia mente è tesa al futuro. E a volte sguazza nel passato. Mi  riferisco, come può immaginare, alla mia vita coniugale. Ma  adesso andiamo, signor Ryder. Lasciamo Bruno nella sua tomba -.  Brodsky si girò e si avviò lentamente giù per il pendio. - $è  giunto il momento di andare. Addio, Bruno, addio. Sei stato un  buon amico, ma eri solo un cane. Lasciamolo, signor Ryder. Venga  con me. Lasciamolo nella sua tomba. $è stato gentile a suonare  per lui. Una musica sublime. Ma adesso non riesco a piangere. La  signorina Collins sta per arrivare. Sarà lì a momenti. La prego,  venga con me.   
  Guardai di nuovo la valle che si stendeva sotto di noi e solo  allora notai che era interamente coperta di lapidi. Capii che  eravamo diretti al cimitero dove Brodsky aveva dato appuntamento  alla signorina Collins. E a conferma di ciò, mentre lo  raggiungevo e mi mettevo al suo fianco, lo sentii dire:   
  - La tomba di Per Gustavsson. $è lì che dobbiamo trovarci. Non  c'è una ragione precisa. Ma mi ha detto che la conosce anche lei.  La aspetterò lì, non m'importa se dovrò aspettare.   
  Per un po' avevamo camminato nell'erba alta, ma ora avevamo  trovato un viottolo, e mentre scendevamo lungo il fianco della  collina cominciai a distinguere meglio il cimitero. Era un luogo  tranquillo e appartato. Le lapidi erano disposte in file ordinate  sul fondo della valle; alcune risalivano i pendii erbosi ai due  lati. Notai che proprio in quel momento era in corso un funerale;  sulla nostra sinistra, illuminate dal sole, vedevo le figurine nere dei familiari del defunto, una trentina di persone in tutto.   
  - Spero proprio che le vada bene, - dissi. - Mi riferisco al  suo appuntamento con la signorina Collins, naturalmente.   
  Brodsky scosse il capo. - Questa mattina ero su di morale.  Pensavo che sarebbe bastato parlarci per sistemare le cose. Ma  adesso non ne sono più così sicuro. Forse quel tizio che c'era  questa mattina, sa, quel suo amico, ha ragione. Forse la  signorina Collins non potrà mai più perdonarmi. Forse ho  esagerato e non mi perdonerà mai più.   
  - Sono sicuro che non è il caso di essere così pessimisti, -  dissi. - Qualunque cosa sia successa, ormai appartiene al  passato. Se solo riusciste...   
  - Per tutti questi anni, signor Ryder, - continuò Brodsky, -  non ho mai veramente accettato quello che avevano detto di me.  Nel mio intimo non ho mai creduto di essere una... una nullità.  Forse razionalmente, sì, accettavo il loro giudizio. Ma nel mio  cuore, no, non ci ho mai creduto. Nemmeno un istante, in tutti  questi anni. Perché io sentivo la musica, continuavo a sentirla.  Quindi sapevo di valere di più di quanto dicessero gli altri. E  per un po', dopo che ci siamo trasferiti qui, ne era convinta  anche lei, ne sono sicuro. Poi però ha cominciato a dubitare. E  chi può darle torto? Non ce l'ho con lei perché se ne è andata.  No, nel modo più assoluto. Ma non le perdono, questo no, di non  averne approfittato. Sì, avrebbe dovuto sfruttare meglio  l'occasione! Io ho fatto in modo che mi odiasse; riesce a  immaginare che cosa mi è costato? Le ho reso la sua libertà, e  lei? Niente. Non se ne è nemmeno andata da questa città, ha  sprecato il suo tempo e basta. Con questa £gente, queste persone  smidollate e inutili con cui parla tutto il giorno. Ah, se avessi  saputo che si sarebbe limitata a questo! $è doloroso, signor  Ryder, allontanare da sé qualcuno che si ama. Crede forse che  l'avrei fatto? Crede che mi sarei trasformato in una simile  bestia se avessi saputo che nella sua vita non avrebbe fatto  altro? Ah, la gente smidollata e infelice con cui parla! Una  volta era una donna che si prefiggeva le mete più alte. Ambiva a  grandi cose. Proprio così. E guardi come ha sprecato tutto. Non  ha nemmeno lasciato la città. C'è da stupirsi se di tanto in  tanto inveivo contro di lei? Se non aveva intenzione di fare  altro, perché non me l'ha detto allora? Crede che sia uno  scherzo, uno scherzo da niente, trasformarsi in un accattone  ubriaco? La gente pensa: è sempre sbronzo, che cosa vuoi che  gliene importi. Ma non è così. A volte tutto diventa chiaro,  chiarissimo, e allora... e allora è spaventoso, signor Ryder, se  ne rende conto? Quella donna non ha mai approfittato  dell'occasione che le ho dato. Non ha nemmeno lasciato la città.  Non ha fatto altro che parlare e parlare con questa gente  smidollata. Le urlavo dietro. Mi può forse dare torto? Se lo  meritava. Si meritava ogni cosa che le dicevo, fino all'ultimo  lurido insulto, tutto...   
  - Signor Brodsky, la prego. Le sembra il modo di prepararsi a  un incontro così importante?   
  - Pensava forse che ci provassi gusto, quella là? Che lo  facessi per divertimento? Nessuno mi costringeva. Lo vede anche  lei, signor Ryder, che quando voglio smettere di bere ci riesco.  E quella là pensa che lo facessi per scherzo?   
  - Signor Brodsky, non voglio intromettermi. Ma credo che sia  venuto il momento di seppellire questi pensieri per sempre.  Dovete dimenticare ogni dissapore, ogni malinteso. Sforzarvi di  sfruttare al massimo ciò che resta della vostra vita. La prego,  cerchi di calmarsi. Non le conviene incontrare la signorina  Collins in questo stato d'animo; sono sicuro che più tardi se ne  pentirebbe. Anzi, lasci che le dica che ha fatto benissimo, finora, a parlarle soprattutto del futuro. La sua idea di  prendere un animale mi sembra ottima. Sono convinto che deve  battere su questo tasto, o su cose analoghe. Non serve a niente  rivangare il passato. E poi il futuro si preannuncia sotto i  migliori auspici. Per quel che mi riguarda, questa sera intendo  fare il possibile perché lei venga accettato dalla gente di  questa città...   
  - Oh, sì, signor Ryder! - L'umore di Brodsky sembrava  improvvisamente cambiato. - Sì, sì, sì. Questa sera... sì, questa  sera farò... farò faville!   
  - Questo è lo spirito giusto, signor Brodsky.   
  - Questa sera non scenderò a compromessi, nel modo più  assoluto. Sì, è vero, mi hanno braccato, mi sono arreso, siamo  scappati via per venire qui. Ma in cuor mio non ho mai veramente  capitolato. Sapevo che non mi era stata data una vera  opportunità. E finalmente questa sera... Ho aspettato per anni  questo momento, e non scenderò a compromessi. L'orchestra non ha  nemmeno idea di come la strapazzerò. Signor Ryder, non so come  ringraziarla. Lei mi ha dato l'ispirazione. Fino a questa mattina  avevo paura. Paura di questa sera, paura di quello che sarebbe  potuto succedere. Ti conviene essere cauto, pensavo. Hoffman e  tutti gli altri mi dicevano: sii prudente, non strafare. Vacci  piano soprattutto all'inizio. Così mi dicevano. Conquistali poco  per volta. Ma questa mattina ho visto la sua fotografia sul  giornale, con il monumento di Sattler. E mi sono detto: è così  che si fa! $è così che si fa! Vai, vai sino in fondo! Non tenerti  dentro nulla! Quegli orchestrali strabilieranno! Strabilieranno  anche gli abitanti di questa città. Sì, vai sino in fondo! Così  anche lei aprirà gli occhi. E finalmente vedrà chi sei, chi sei  sempre stato! Il monumento di Sattler, ecco quello che ci voleva!   
  Il terreno, ormai, si era fatto pianeggiante, e noi stavamo  camminando lungo il viottolo erboso che tagliava a metà il  cimitero. Sentendo muovere alle mie spalle, voltai la testa e  vidi che uno dei partecipanti al funerale correva verso di noi  facendoci grandi gesti. Quando fu più vicino, notai che era un  uomo di circa cinquant'anni, scuro di capelli e piuttosto  robusto.   
  - Signor Ryder, che onore, - mi disse ansimando quando mi girai  verso di lui. - Sono il fratello della vedova. Mia sorella  sarebbe felicissima se lei si unisse a noi.   
  Guardando nella direzione che mi stava indicando, vidi che  eravamo molto vicini al funerale; la brezza mi portava  addirittura un suono di singhiozzi disperati.   
  - Da questa parte, la prego, - disse l'uomo.   
  - Ma non crede che in un momento come questo...   
  - No, no, la prego. Mia sorella, tutti, ne saremmo  onoratissimi. La prego, da questa parte.   
  Un po' riluttante, lo seguii. Mentre avanzavamo tra le lapidi,  il terreno divenne acquitrinoso. Inizialmente non riuscii a  individuare la vedova in mezzo alle schiene curve e scure, ma  quando raggiungemmo il gruppo la vidi in prima fila, china sulla  fossa ancora aperta. Il suo dolore sembrava così immenso che non  mi sarei stupito se si fosse buttata sulla bara. Forse proprio  per scongiurare questa eventualità, un vecchio signore con i  capelli bianchi la teneva saldamente per un braccio e una spalla.  Dietro di loro, la maggior parte dei presenti singhiozzava con  afflizione apparentemente sincera; ciò nonostante, i gemiti  angosciati della vedova si udivano in maniera chiara e distinta -  grida lente e spossate, eppure di una sconvolgente potenza, quali  avrebbe potuto lanciare la vittima di una tortura prolungata.  Quel suono mi mise voglia di scappare, ma il mio accompagnatore  stava ormai facendomi segno di avvicinarmi alla prima fila. Vedendo che non mi muovevo, mi bisbigliò con voce tutt'altro che  sommessa:   
  - Signor Ryder, la prego.   
  Queste parole ci attirarono qualche occhiata.   
  - Da questa parte, signor Ryder.   
  L'uomo robusto mi prese per il braccio e cominciò a trascinarmi  attraverso la piccola folla. Al nostro passaggio, parecchie facce  si girarono verso di me; udii almeno due voci mormorare: - $è il  signor Ryder -. Quando finalmente sbucammo in prima fila, i  singhiozzi si erano in gran parte placati. Sentivo molti occhi  puntati sulla mia schiena. Assunsi un atteggiamento compito e  silenzioso, pur con la fastidiosa consapevolezza di indossare una  giacca sportiva verde chiaro e di non avere nemmeno la cravatta.  Come se non bastasse, portavo una camicia con un vivace disegno  giallo e arancio. Mi abbottonai in tutta fretta la giacca, mentre  l'uomo robusto cercava di attirare l'attenzione della vedova.   
  - Eva, - stava dicendo in tono gentile. - Eva.   
  Il signore dai capelli bianchi si girò a guardarci, ma la  vedova non diede segno di avere udito. Rimase sprofondata nella  sua angoscia, lanciando ritmicamente i suoi gemiti sulla tomba.  Il fratello si voltò verso di me con evidente imbarazzo.   
  - La prego, - sussurrai, cominciando a indietreggiare, - le  farò le mie condoglianze un po' più tardi.   
  - No, no, signor Ryder. Un momento solo -. L'uomo posò una mano  sulla spalla della sorella e ripeté, questa volta in tono  spazientito: - Eva. Eva.   
  La vedova si raddrizzò e finalmente, dominando i singhiozzi, si  girò verso di noi.   
  - Eva, - disse il fratello. - C'è il signor Ryder.   
  - Il signor Ryder?   
  - Le mie più sentite condoglianze, signora, - dissi, chinando  il capo solennemente.   
  La vedova continuava a fissarmi.   
  - Eva! - sibilò il fratello.   
  La donna sussultò, si girò verso il fratello, poi di nuovo  verso di me.   
  - Signor Ryder, - disse, con voce sorprendentemente composta, -  quale onore. Hermann - fece un gesto verso la tomba - è un suo  grande ammiratore -. Ma all'improvviso fu sopraffatta dai  singhiozzi.   
  - Eva!   
  - Signora, - mi affrettai a dire, - sono qui solo per porgerle  le mie più sentite condoglianze. Mi spiace moltissimo. Ma ora la  prego, e anche voi, permettetemi di lasciarvi al vostro dolore...   
  - Signor Ryder, - disse la vedova, e mi accorsi che aveva  riacquistato la padronanza di sé. - Questo è un vero onore. Sono  sicura che tutti i presenti sono d'accordo con me nell'affermare  che ci sentiamo immensamente, profondamente lusingati.   
  Alle mie spalle si levò un mormorio d'assenso.   
  - Signor Ryder, - continuò la donna, - come procede il suo  soggiorno nella nostra città? Qualcosa di bello l'avrà trovato  anche qui, spero.   
  - Oh, meglio di così non potrebbe andare. Sono tutti  gentilissimi con me. Una comunità incantevole. Mi spiace molto  per... per la dipartita.   
  - Le farebbe piacere un po' di merenda? Magari una tazza di tè  o di caffè?   
  - No, no, davvero, la ringrazio...   
  - Si fermi almeno a bere qualcosa con noi. Oh, cielo, non c'è  nessuno che abbia portato del tè, o del caffè? Niente? - La  vedova scrutò attentamente la piccola folla.   
  - Grazie, gliel'assicuro, non avevo intenzione di interrompervi. Vi prego, continuate quello... quello che stavate  facendo.   
  Ma dobbiamo assolutamente offrirle qualcosa. Non c'è proprio  nessuno che abbia un thermos di caffè?  
  Sentii alle mie spalle molte voci che si consultavano a  vicenda; quando mi voltai, parecchie persone stavano rovistando  nelle borse o frugandosi in tasca. L'uomo robusto fece segno a  qualcuno in fondo al gruppo, e un attimo dopo gli venne passato  un involto. Mentre lo esaminava, vidi che si trattava di una  fetta di torta avviluppata nel cellofan.   
  - Non c'è niente di meglio? - gridò il mio accompagnatore. -  Che cos'è questa roba?   
  Dietro di me c'era gran fermento. In particolare, una voce  arrabbiata stava domandando: - Otto, dove hai messo quel  formaggio? - Alla fine qualcuno porse un pacchetto di mentini  all'uomo robusto. Quest'ultimo lanciò uno sguardo furente alla  piccola folla, poi si girò e porse la torta e i mentini alla  sorella.   
  - Grazie, siete molto gentili, - dissi, - ma sono qui solo  per...   
  - Signor Ryder, - esordì la vedova, con voce commossa, - a  quanto pare non abbiamo altro da offrirle. Non oso pensare a che  cosa avrebbe detto Hermann. Una simile vergogna proprio il giorno  del suo funerale. Ma non c'è niente da fare, posso solo chiederle  scusa. Guardi, questo è tutto, tutto ciò che abbiamo da offrirle  in segno di ospitalità.   
  Le voci alle mie spalle, che avevano taciuto non appena la  vedova aveva cominciato a parlare, esplosero in una babele di  litigi. Udii qualcuno gridare: - Non è vero! Non ho detto niente  del genere!   
  Poi il signore dai capelli bianchi che in precedenza aveva  sorretto la vedova sull'orlo della tomba fece un passo avanti e  mi rivolse un inchino.   
  - Signor Ryder, - disse, - ci perdoni per la misera accoglienza  con cui ricambiamo questo grande onore. Come vede ci trova  deprecabilmente impreparati. Le posso però assicurare che tutti,  qui, le siamo profondamente grati. La prego, accetti lo spuntino,  per quanto inadeguato.   
  - Signor Ryder, venga qui, si sieda per piacere -. La vedova  stava passando un fazzoletto sulla liscia superficie di una tomba  di marmo accanto a quella del marito. - La prego.   
  Capii che ormai una ritirata era fuori discussione. Mi  avvicinai con aria contrita alla tomba che la vedova aveva pulito  per me e dissi: - Siete tutti così gentili.   
  Non appena mi fui seduto sulla pallida lastra di marmo, ebbi  l'impressione che tutti i conoscenti del defunto avanzassero di  un passo facendo cerchio intorno a me.   
  - La prego, - disse di nuovo la vedova. Era in piedi accanto a  me e stava strappando il cellofan che avviluppava la torta.  Quando finalmente riuscì ad aprire l'involto, me lo porse. La  ringraziai e cominciai a mangiare. La torta era alla frutta, e  dovetti mettere ogni cura per evitare che mi si sbriciolasse fra  le mani. Inoltre, la fetta era assai generosa, non una cosetta da  divorare in due bocconi. Mentre mangiavo, ebbi la sensazione che  il cerchio di persone intorno a me continuasse a stringersi, ma  quando alzai gli occhi vidi tutti immobili, con gli occhi  rispettosamente bassi. Per un po' regnò il silenzio, poi l'uomo  robusto tossì e disse:   
  - Bella giornata.   
  - Sì, molto bella, - risposi, anche se avevo la bocca piena. -  Davvero molto bella.   
  Il vecchio signore dai capelli bianchi fece un passo avanti e disse: - Nei dintorni della nostra città ci sono delle magnifiche  passeggiate, signor Ryder. Splendide passeggiate agresti a pochi  minuti dal centro. Se le avanza un'ora, sarei felicissimo di  fargliene conoscere una.   
  - Signor Ryder, gradisce un mentino?   
  La vedova mi teneva il pacchetto aperto sotto il naso. La  ringraziai e mi misi in bocca una caramella alla menta, pur  sapendo che il suo sapore avrebbe fatto a pugni con la torta.   
  - Quanto alla città, - stava dicendo il signore dai capelli  bianchi, - per poco che le interessi l'architettura medievale, ci  sono case che troverebbe immensamente affascinanti. Soprattutto  nella città vecchia. Sarò felicissimo di farle da guida.   
  - Grazie, - dissi, - davvero gentile.   
  Continuai a mangiare, ansioso di finire la torta il più in  fretta possibile. Vi fu un altro silenzio, poi la vedova sospirò  e disse:   
  - $è venuto bello.   
  - Sì, - dissi, - da quando sono qui il tempo è splendido.   
  La mia affermazione fu accolta da un mormorio di approvazione;  qualcuno rise persino educatamente, come se avessi fatto una  battuta. Mi ficcai ciò che restava della torta in bocca e mi  spazzolai le mani per togliere le briciole.   
  - Sentite, - dissi, - siete molto gentili. Ma ora, vi prego,  continuate la cerimonia.   
  - Un altro mentino, signor Ryder. Non abbiamo altro da offrirle  -. La vedova mi cacciò di nuovo il pacchetto sotto il naso.   
  In quel preciso istante mi accorsi che la vedova provava nei  miei confronti un odio viscerale. Anzi, mi resi conto che, per  quanto si comportassero con educazione, quasi tutti i presenti -  compreso l'uomo robusto - erano profondamente infastiditi dalla  mia presenza. Fatto curioso, proprio mentre questo pensiero mi  attraversava la testa, una voce dal fondo, non molto forte ma  chiarissima, disse:   
  - Che cos'ha quel tizio di tanto speciale? Siamo qui per  Hermann.   
  Vi fu un brusio imbarazzato, e almeno due persone bisbigliarono  in tono incredulo: - Chi ha parlato? - Il signore dai capelli  bianchi tossì, poi disse:   
  - Ci sono delle passeggiate molto belle anche lungo i canali.   
  - Me lo dite che cos'ha di così speciale? Come si permette di  interromperci!   
  - Chiudi il becco, idiota! - ribatté qualcuno. - Vuoi  disonorarci tutti? Ti sembra questo il momento?   
  Parecchi dei presenti ringhiarono a sostegno di quest'ultimo  intervento, ma già una seconda voce aveva cominciato a inveire in  maniera aggressiva.   
  - Signor Ryder, la prego -. La vedova mi stava di nuovo  porgendo i mentini.   
  - No, grazie...   
  - La prego. Ne prenda un altro.   
  In fondo alla piccola folla scoppiò un furioso litigio, che  coinvolse quattro o cinque persone. Una voce stava gridando: - Ci  porterà alla rovina. Con il monumento di Sattler ha superato  tutti i limiti!   
  Poi un numero crescente di persone si mise a strepitare, e  intuii che stava per esplodere una baruffa generale.   
  - Signor Ryder, - disse l'uomo robusto chinandosi verso di me,  - la prego di ignorarli. Hanno sempre disonorato la famiglia.  Sempre. Ci vergogniamo di loro. Oh, sì, ci vergogniamo. La prego  di non accrescere la nostra vergogna ascoltandoli.   
  - Ma forse... - Feci per alzarmi, ma mi sentii ricacciare giù.  Vidi allora che la vedova mi aveva afferrato per una spalla. - Si rilassi, signor Ryder, - mi disse recisamente. - E finisca il suo  spuntino, per piacere.   
  Gli alterchi, ormai, infuriavano ovunque, ed ebbi l'impressione  che verso il fondo qualcuno fosse già passato agli spintoni. La  vedova continuava a trattenermi per la spalla, fissando la folla  con aria di sfida.   
  - Me ne infischio, me ne infischio, - stava strillando una  voce. - Stiamo meglio così come siamo!   
  Vi furono altri spintoni, poi un giovane corpulento si fece  largo a gomitate e sbucò dalla calca. Aveva la faccia tonda ed  era chiaramente accalorato. Mi guardò torvamente, poi gridò:   
  - Per lei è facile venire qui. Piantarsi davanti al monumento  di Sattler! Sorridere a quel modo! Intanto poi se ne va. Ma per  chi deve continuare a vivere qui non è così semplice. Il  monumento di Sattler!   
  Il giovanotto dalla faccia tonda non sembrava il tipo di  persona abituata a fare simili sparate; non c'era dubbio che i  suoi sentimenti fossero sinceri. Fui preso un po' alla  sprovvista, e per un momento non seppi che cosa rispondere. Poi,  mentre il giovane dalla faccia tonda attaccava con un'altra  raffica di accuse, sentii qualcosa spezzarsi dentro di me. Mi  venne il dubbio che il giorno prima, quando avevo deciso di farmi  fotografare davanti al monumento di Sattler, avessi, per qualche  inesplicabile ragione, compiuto un errore di calcolo. Sul  momento, questo è certo, mi era sembrato il modo più efficace per  inviare un segnale adeguato agli abitanti della città.  Naturalmente, ero più che consapevole dei pro e dei contro -  ricordavo che la mattina, a colazione, li avevo soppesati con  cura - ma ora vedevo che la faccenda del monumento di Sattler  rischiava di essere più complessa di quanto avessi immaginato.   
  Incoraggiati dal giovane dalla faccia tonda, anche altri  avevano cominciato a urlare alla mia volta. I vicini cercavano di  trattenerli, ma non con la sollecitudine che sarebbe stato lecito  aspettarsi. Poi, in mezzo a tutte quelle grida, udii una nuova  voce, che mi parlava gentilmente da un punto alle mie spalle. Era  una voce maschile, colta e calma, che mi parve vagamente  familiare.   
  - Signor Ryder, - diceva. - Signor Ryder. Il palazzo dei  concerti. Che cosa fa ancora qui? La stanno aspettando. Davvero,  deve concedersi tutto il tempo per ispezionare i servizi e le  condizioni...  
  La voce fu sommersa dal nuovo, chiassoso battibecco che era  esploso davanti a me. Il giovane dalla faccia tonda mi puntò  addosso un dito e cominciò a ripetere qualcosa più e più volte.   
  Poi, quasi all'improvviso, sulla piccola folla scese il  silenzio.  
  Sulle prime pensai che familiari e conoscenti del defunto si  fossero finalmente calmati e aspettassero che prendessi la  parola. Poi però notai che il giovane dalla faccia tonda - anzi,  tutti - stavano fissando un punto sopra la mia testa. Passò  qualche secondo prima che mi venisse in mente di girarmi, e  quando lo feci vidi che Brodsky era salito in piedi sulla tomba e  mi sovrastava.  
  Sarà stato perché lo guardavo da sotto in su - Brodsky era  leggermente chino in avanti, per cui vedevo gran parte della sua  gola stagliarsi contro il vasto sfondo del cielo - ma il suo  aspetto aveva qualcosa di straordinariamente imperioso. Sembrava  incombere su di noi come una statua immensa, con le mani aperte  sospese nell'aria. Scrutava la piccola folla più o meno come  immaginavo che avrebbe fatto con un'orchestra negli ultimi  secondi prima di cominciare a dirigerla. Il suo atteggiamento  lasciava supporre una strana autorità sui sentimenti che un attimo prima si erano scatenati di fronte a lui, come se avesse  il potere di accenderli e spegnerli a suo piacimento. Il silenzio  continuò ancora per qualche istante. Poi una voce isolata urlò:   
  - E tu che cosa vuoi? Vecchio ubriacone!   
  Forse la persona sperava che il suo grido provocasse un'altra  esplosione di invettive. Invece nessuno parve udirlo.   
  - Vecchio ubriacone! - riprovò la stessa persona, ma già la  convinzione stava svaporando dalla sua voce.   
  Poi tornò il silenzio, e tutti puntarono gli occhi su Brodsky.  Dopo un istante che parve un'eternità, Brodsky disse:   
  - Se è così che volete chiamarmi, fate pure. Vedremo. Vedremo  chi sono davvero. Nei giorni, nelle settimane, nei mesi che  verranno. Vedremo davvero se sono solo un vecchio ubriacone.   
  Aveva parlato senza fretta, con una tranquillità che aveva  lasciato intatta l'impressione iniziale. La piccola folla  continuò a fissarlo, apparentemente stregata. Poi Brodsky disse  in tono affettuoso:  
  - Qualcuno che amavate è morto. Questo è un momento prezioso.   
  Sentii i lembi del suo impermeabile sfiorarmi la nuca e mi  accorsi che si era chinato per tendere una mano verso la vedova.   
  - Questi istanti sono preziosi. Venga. Accarezzi ora la sua  ferita. Se la porterà dentro per il resto dei suoi giorni. Ma la  accarezzi ora, mentre è aperta e sanguinante. Venga.   
  Brodsky scese dalla tomba, con la mano ancora protesa verso la  vedova, che gliela prese con aria sognante. Poi Brodsky le mise  l'altra mano sulla schiena e cominciò a sospingerla gentilmente  verso l'orlo della fossa.   
  - Venga, - lo sentivo dire sottovoce. - Adesso venga.   
  Avanzarono lentamente sul tappeto di foglie secche, finché la  vedova fu di nuovo accanto alla tomba. Poi, mentre la donna,  abbassati gli occhi sulla bara, ricominciava a singhiozzare,  Brodsky si ritirò con discrezione, indietreggiando di un passo.  Ormai anche molti dei presenti stavano di nuovo piangendo, e  capii che presto ogni cosa sarebbe tornata come prima del mio  arrivo. Ad ogni modo, visto che in quel momento nessuno più  badava a me, ne approfittai per tagliare la corda.   
  Mi alzai piano piano, ed ero già riuscito ad allontanarmi di  parecchie tombe quando sentii che qualcuno mi stava seguendo da  vicino. Una voce disse:   
  - Davvero, signor Ryder, è ora che si rechi al palazzo dei  concerti. Non si sa mai. Potrebbe essere necessaria qualche  modifica.   
  Girandomi, riconobbi Pedersen, l'anziano consigliere che avevo  incontrato al cinema la prima sera. Capii che la voce sommessa  che avevo udito poc'anzi alle mie spalle era la sua.   
  - Oh, signor Pedersen, - dissi, mentre il consigliere mi  raggiungeva. - Grazie per avermi ricordato il palazzo dei  concerti. Le confesso che quando laggiù gli animi si sono  riscaldati ho perso la nozione del tempo.  
  - Sì, è successo anche a me, - disse Pedersen lasciandosi  sfuggire una risatina. - Anch'io ho una riunione. Non certo così  importante, ma pur sempre legata alla manifestazione di questa  sera.   
  Raggiungemmo il viottolo erboso che correva in mezzo al  cimitero e ci fermammo.   
  - Forse può aiutarmi, signor Pedersen, - dissi, guardandomi  intorno. - Ho chiesto una macchina per farmi portare al palazzo  dei concerti. Dovrebbe essere già arrivata, ma non so come  tornare sulla strada.   
  - Sarò lieto di mostrarglielo, signor Ryder. La prego di  seguirmi.   
  Riprendemmo a camminare, allontanandoci dalla collina da cui ero sceso in compagnia di Brodsky. Il sole stava tramontando sul  lato opposto della valle, e le ombre delle lapidi si erano  notevolmente allungate. Almeno due volte, mentre camminavamo,  ebbi l'impressione che Pedersen fosse sul punto di parlare e poi  cambiasse idea. Alla fine, in modo molto schietto, gli dissi:   
  - Poco fa c'erano delle persone che sembravano davvero molto  turbate per le fotografie che sono comparse sul giornale.   
  - Vede, signor Ryder, - disse Pedersen con un sospiro, - quello  è il monumento di Sattler. E Max Sattler continua a suscitare  intense emozioni nella gente.   
  - Immagino che anche lei abbia una sua opinione. Mi riferisco  alle foto davanti al monumento di Sattler.   
  Pedersen sorrise imbarazzato e schivò il mio sguardo. - Come  spiegarle? - disse alla fine. - Per chi viene da fuori è così  difficile capire. Anche per un esperto del suo calibro. Non è  affatto chiaro perché Max Sattler... o meglio, quell'episodio  della nostra storia cittadina... abbia assunto una tale  importanza per noi. Sulla carta, tutto si riduce a ben poco. E  per di più è successo quasi un secolo fa. Ma vede, signor Ryder,  come senza dubbio si sarà accorto, Sattler ha un'enorme presa  sull'£immaginazione degli abitanti di questa città. Il suo  personaggio, se vuole, è diventato mitico. Qualche volta è  temuto, qualche volta aborrito. E in altri momenti la sua memoria  è venerata. Come posso spiegarglielo? Proverò con un esempio. C'è  un tale che conosco, un buon amico. $è avanti negli anni, ormai,  ma non si può dire che abbia avuto una brutta vita. Gode di molto  rispetto e svolge ancora una funzione attiva negli affari civici.  No, tutt'altro che una brutta vita. Ma questo tale, di tanto in  tanto, si volta a guardarla e si chiede se per caso non si sia  lasciato sfuggire certe opportunità. Si chiede come sarebbero  andate le cose se fosse stato... be', un po' meno timoroso. Un  po' meno £timoroso e un po' più appassionato.   
  Pedersen proruppe in una breve risata. Il viottolo aveva fatto  una lunga curva, e davanti a noi vidi il cancello di ferro nero  del cimitero.   
  - Sa com'è, magari comincia a rimuginare, - proseguì Pedersen.  - Rivive certi momenti cruciali della sua giovinezza, quando  ancora non si era cementato nelle sue abitudini. Per esempio, può  capitargli di ricordare quella volta in cui una donna aveva  cercato di sedurlo. Naturalmente lui non gliel'aveva permesso;  era una persona troppo per bene. O forse un codardo. O forse  troppo giovane. Chi può sapere? E lui si chiede che cosa sarebbe  successo se si fosse comportato diversamente, se avesse avuto un  po' più di fiducia nel... nell'amore e nella passione. Sa com'è,  signor Ryder. I vecchi talvolta si mettono a sognare, chiedendosi  che cosa sarebbe successo se in certi momenti chiave della loro  vita avessero imboccato un'altra strada. Ebbene, lo stesso può  capitare a una città, a una comunità. Di tanto in tanto la gente  si volta indietro a guardare la propria storia e si chiede: «Cosa  sarebbe successo se...? Come saremmo oggi se avessimo...?» Ah,  signor Ryder, se avessimo che cosa? Permesso a Max Sattler di  portarci dove voleva lui? Saremmo forse diversi, oggi? Una città  come Anversa? Come Stoccarda? Sinceramente credo di no, signor  Ryder. Vede, certe caratteristiche di questa città sono  profondamente radicate. Non cambieranno né in cinque, né in sei,  né in sette generazioni. Sattler, dal punto di vista pratico, è  stato irrilevante. Nient'altro che un uomo che coltivava sogni  folli. Non sarebbe mai riuscito a cambiare nulla in maniera  sostanziale. Esattamente come questo mio amico. $è fatto così  com'è. Nessuna esperienza, per quanto cruciale, avrebbe potuto  cambiarlo. Eccoci, signor Ryder. Scendendo quegli scalini,  arriverà sulla strada.  
  Eravamo passati attraverso gli alti cancelli di ferro del  cimitero e ci trovavamo in un grande giardino all'inglese molto  ben tenuto. Pedersen stava indicando una siepe alla mia sinistra,  dietro la quale vedevo alcuni gradini di pietra che sparivano  verso il basso compiendo una curva. Esitai un momento, poi dissi:   
  - Signor Pedersen, lei è troppo educato. Le assicuro che,  quando mi viene il sospetto di avere compiuto un errore di  valutazione, non sono il tipo che scappa a nascondersi. Tra  l'altro, una persona nella mia posizione deve imparare ad  accettare queste cose. Vede, nel corso delle mie giornate sono  costretto a prendere molte decisioni importanti, e la verità è  che non posso fare altro che soppesare come meglio posso le  informazioni di cui dispongo in quel momento e tirare dritto per  la mia strada. E inevitabilmente a volte, sì, mi rendo colpevole  di un errore di calcolo. Come potrebbe essere altrimenti? $è una  cosa che ho imparato ad accettare da molto tempo. E come vede,  quando succede, la mia unica preoccupazione è di trovare il modo  di rimediare quanto prima allo sbaglio. La prego quindi di  sentirsi libero di parlare con franchezza. Se a suo avviso ho  sbagliato a posare davanti al monumento di Sattler, allora la  prego di dirmelo.  
  Pedersen sembrava a disagio. Si voltò a guardare un mausoleo in  lontananza, poi disse: - Be', signor Ryder, è solo la mia  opinione.   
  - Sono ansioso di ascoltarla, signor Pedersen.   
  - Visto che me lo chiede, sì, signor Ryder. Se devo essere  sincero, questa mattina sono rimasto molto deluso quando ho visto  il giornale. Come le ho appena spiegato, credo che non sia  nell'indole di questa città abbracciare le idee estreme di  Sattler. Se certa gente ne è ancora affascinata, è £proprio  £perché Sattler è un personaggio così remoto, un pezzo di  mitologia locale. Lo riproponga come qualcosa di serio, signor  Ryder, e la gente cadrà in preda al panico. Farà un balzo  indietro. Si aggrapperà di colpo alle cose note, a costo di  dimenticare l'infelicità che queste ultime le hanno già causato.  Ha chiesto la mia opinione, signor Ryder. Io penso che l'avere  tirato in ballo Max Sattler abbia gravemente compromesso le  possibilità di un miglioramento. Ma naturalmente, c'è ancora il  concerto. In fin dei conti, tutto dipenderà da ciò che succede  questa sera. Da quello che dirà lei. E da quello che ci farà  vedere il signor Brodsky. E come mi ha fatto notare, nessuno più  di lei è in grado di ricuperare il terreno perduto -. Per un  attimo Pedersen parve riflettere su qualcosa in silenzio. Poi  scosse la testa gravemente. - Signor Ryder, adesso la cosa  migliore che può fare è andare al palazzo dei concerti. Guai se  questa sera le cose non vanno secondo i piani.   
  - Sì, sì, ha perfettamente ragione, - dissi. - Sono sicuro che  la macchina mi starà già aspettando per portarmi là. Signor  Pedersen, grazie per la sua franchezza.  
26.  
  I gradini scendevano ripidi tra alte siepi e arbusti. Presto mi  ritrovai sul ciglio della strada, e il mio sguardo fu attratto  dal sole che tramontava oltre i campi del lato opposto. La  scalinata mi aveva portato in un punto in cui la strada curvava  bruscamente, ma mi bastò seguirla per un breve tratto perché il  panorama si aprisse. Più avanti vidi la collina su cui ero salito  quel pomeriggio - il contorno della capanna si stagliava contro  il cielo - e ai suoi piedi l'automobile di Hoffman, che aspettava  nella piazzola dove il direttore dell'albergo mi aveva fatto  scendere.   
  Mi incamminai verso la macchina, ripensando al dialogo con Pedersen. Ricordai che quando lo avevo conosciuto al cinema la  stima nei miei confronti era evidente in ogni suo gesto e parola.  Ora, nonostante le buone maniere, era chiaro che Pedersen era  molto deluso. Questo pensiero, stranamente, mi disturbò; mentre  percorrevo il ciglio della strada contemplando il tramonto,  cominciai a sentirmi sempre più contrariato per non avere usato  maggiore prudenza nella questione del monumento di Sattler.  Certo, come avevo fatto notare a Pedersen, avevo preso la  decisione che in quel momento mi era sembrata più saggia.  Tuttavia, non riuscivo a scacciare la fastidiosa sensazione che a  quel punto, pur tenendo conto delle limitazioni di tempo e delle  enormi pressioni che interferivano con il mio lavoro, avrei  dovuto disporre di informazioni migliori. Ancora adesso, alle  soglie della serata, certi aspetti dei problemi locali mi erano  tutt'altro che chiari. Giunsi alla conclusione che avevo fatto un  grave errore, quel pomeriggio, a non andare alla riunione del  Gruppo di Mutuo Soccorso dei Cittadini... e per di più per  un'esercitazione al pianoforte che si era rivelata del tutto  inutile.   
  Arrivai alla macchina di Hoffman stanco e scoraggiato. Il  direttore dell'albergo, seduto al volante, scriveva con impegno  su un taccuino; non si accorse di me finché non aprii la porta  sul lato del passeggero.   
  - Oh, signor Ryder, - esclamò allora, riponendo in fretta e  furia il libricino. - Spero che la sua prova sia andata bene.   
  - Oh, sì.   
  - E la sistemazione? - Hoffman accese subito il motore. - Era  di suo gradimento?   
  - Ottima, signor Hoffman, grazie. Ma ora devo recarmi al più  presto al palazzo dei concerti. Non si sa mai. Potrebbe essere  necessaria qualche modifica.   
  - Naturalmente. Guarda caso anch'io devo correre al palazzo dei  concerti -. Hoffman diede un'occhiata all'orologio. - Devo  controllare i preparativi per il banchetto. Sono lieto di dirle  che un'ora fa, quando sono passato di lì, tutto procedeva per il  meglio. Anche se so che basta un niente per mandare tutto a carte  quarantotto.   
  Hoffman riportò la macchina sulla carreggiata, e per qualche  minuto viaggiammo in silenzio. La strada, anche se il traffico  era un po' più intenso che all'andata, era tutt'altro che  ingombra, e presto il direttore dell'albergo si mise ad andare  forte. Io guardai la campagna che scorreva fuori del finestrino e  cercai di rilassarmi, ma la mia mente continuava a tornare alla  serata ormai imminente. Poi sentii Hoffman dire:   
  - Signor Ryder, spero che non le spiaccia se gliene parlo. $è  una cosa da niente. Senza dubbio se ne è dimenticato -. Il  direttore dell'albergo proruppe in una breve risata e scosse la  testa.   
  - Di che si tratta, signor Hoffman?   
  - Mi riferivo agli album di mia moglie. Forse si ricorda che  gliene ho parlato quando ci siamo incontrati la prima volta. Mia  moglie è una sua devota ammiratrice da così tanti anni...   
  - Sì, naturalmente, me ne ricordo benissimo. Sua moglie ha  preparato degli album di ritagli di giornale sulla mia carriera.  Sì, sì, non me ne sono dimenticato. Anzi, nonostante  l'accavallarsi degli impegni, avevo una gran voglia di vederli.   
  - Mia moglie se ne è occupata con enorme devozione, signor  Ryder. Per anni e anni. Ha mosso mari e monti per procurarsi  certi numeri arretrati di riviste o giornali che contenevano  importanti articoli su di lei. Le assicuro che per me è stato  meraviglioso essere testimone di tanta dedizione. Non sa come  sarebbe importante per lei...  
  - Signor Hoffman, ho tutte le intenzioni di esaminare al più  presto quegli album. Come le ho detto, ne ho proprio voglia. Ma  in questo momento gradirei approfittare dell'occasione per  discutere... be', diciamo alcuni aspetti di questa sera.  
  - Come desidera, signor Ryder. Ma le garantisco che tutto è  sotto controllo. Non ha motivo di preoccuparsi.   
  - Sì, sì, ne sono sicuro. Ma visto che ormai manca poco al  concerto, mi sembra più che ragionevole fare un attimo mente  locale. Per esempio, signor Hoffman, c'è il problema dei miei  genitori. Anche se ho fiducia nella gente di questa città e so  che verranno trattati bene, resta il fatto che tutti e due sono  cagionevoli di salute, dunque le sarei molto grato se...   
  - Ma certamente, capisco benissimo. Anzi, se mi permette, trovo  commovente che dimostri tanta premura nei confronti dei suoi  genitori. Sono lieto di dirle che sono state prese tutte le  misure necessarie per farli sentire a loro agio in ogni istante.  Un gruppo di simpatiche e capaci signore è stato incaricato di  badare a loro per l'intera durata del soggiorno. E per il  concerto di questa sera abbiamo preparato per i suoi genitori una  cosa un po' speciale, un piccolo ghiribizzo che mi auguro possa  essere di suo gradimento. Come senza dubbio saprà, qui da noi  c'era una ditta di carrozzai, i F'lli Seeler, che per due secoli  ha goduto di grande rinomanza. Un tempo riforniva numerosi  illustri clienti, persino in luoghi lontani come la Francia e  l'Inghilterra. In città ci sono ancora alcune splendide  testimonianze dell'arte dei F'lli Seeler, e ho pensato che ai  suoi genitori non sarebbe spiaciuto arrivare al palazzo dei  concerti su una carrozza di grande distinzione, per la quale  abbiamo già pronta una coppia di purosangue magnificamente  bardati. Riesce a immaginarsi la scena, signor Ryder? A quell'ora  della sera la radura di fronte al palazzo dei concerti sarà  inondata di luci, e tutti i cittadini più in vista staranno  radunandosi proprio lì, ridendo e salutandosi a vicenda,  elegantissimi. Ci sarà grande eccitazione. Le macchine,  naturalmente, non possono arrivare nella radura, e la gente  sbucherà a piedi dal bosco. E quando davanti al palazzo si sarà  raccolta una bella folla... si figura lo spettacolo, signor  Ryder?... dall'oscurità del bosco giungerà lo scalpitare dei  cavalli che si avvicinano. Dame e cavalieri smetteranno di  parlare e gireranno la testa. Il rumore di zoccoli crescerà  d'intensità, risuonando sempre più vicino all'alone di luce.  Finché l'equipaggio comparirà all'improvviso: una coppia di  magnifici cavalli, il cocchiere in marsina e cilindro, la  luccicante carrozza dei F'lli Seeler, e dentro i suoi incantevoli  genitori! Si immagina l'eccitazione, la trepidazione della folla  in quel momento? Naturalmente, ai suoi genitori non verrà chiesto  di compiere un lungo tragitto in carrozza. Solo il viale che  attraversa il bosco. E le posso assicurare che la vettura è un  capolavoro di sontuosità. La troveranno accogliente e comoda come  una qualsiasi limousine. Naturalmente, sarà inevitabile un lieve  dondolio, che tuttavia, in una carrozza di prim'ordine, diventa  sicuramente una caratteristica gradevole. Spero che riesca a  figurarsi lo spettacolo, signor Ryder. Confesso che in origine  avevo concepito l'intera messa in scena per il suo arrivo; poi mi  sono reso conto che a quel punto della serata lei avrebbe  preferito starsene ben acquattato dietro le quinte. Tra l'altro,  non avrei mai voluto diluire l'efficacia della sua apparizione  sul palcoscenico. Ma quando abbiamo ricevuto la bella notizia che  anche i suoi genitori avrebbero onorato la nostra città, ho  subito pensato: «Ah, questa è la soluzione ideale!» Sissignore,  l'arrivo dei suoi genitori predisporrà gli animi nel modo  migliore. Naturalmente, non pretendiamo che dopo essere scesi dalla carrozza i suoi genitori restino lì fuori. Verranno  immediatamente accompagnati in sala, dove li attendono le loro  poltrone speciali, e questo sarà per tutti il segnale che è  giunto il momento di cominciare a prendere posto. Poco dopo, avrà  inizio la parte ufficiale della serata. Attaccheremo con una  breve esecuzione al pianoforte di mio figlio Stephan. Ah ah!  Ammetto che questa è stata una piccola debolezza da parte mia. Ma  Stephan ardeva dal desiderio di fare un'apparizione in pubblico,  e in quel momento, forse scioccamente, credevo che... Be', ormai  è inutile tornare su questo punto. Stephan suonerà un pezzo  leggero al pianoforte, solo per creare una certa atmosfera.  Durante questa parte le luci resteranno accese, per dar modo alla  gente di trovare il suo posto, di salutarsi, di chiacchierare nei  corridoi e così via. Poi, quando tutti saranno seduti, le luci si  abbasseranno. Seguirà qualche parola ufficiale di benvenuto. Poi,  a poco a poco, gli orchestrali entreranno, prenderanno posto,  accorderanno gli strumenti. E dopo una pausa comparirà il signor  Brodsky, che... che dirigerà il concerto. Quando avrà finito e ci  sarà stato... così spero, anzi £presumo... un fragoroso applauso,  e il signor Brodsky avrà ringraziato con una serie di inchini,  faremo una breve interruzione. Non un vero e proprio intervallo;  il pubblico non potrà alzarsi. Solo cinque minutini, in cui le  luci verranno riaccese e la gente avrà modo di raccogliere le  idee. Poi, mentre tutti staranno ancora scambiandosi le loro  opinioni, il signor von Winterstein comparirà davanti al sipario.  Farà una presentazione semplice semplice. Non più di qualche  minuto... d'altronde, che bisogno c'è di una presentazione? Poi  si ritirerà dietro le quinte. L'intera sala precipiterà  nell'oscurità. Ed ecco finalmente il gran momento, signor Ryder.  Il momento della sua apparizione. In realtà, questa è una cosa  che avevo intenzione di discutere con lei, visto che per certi  aspetti la sua collaborazione è indispensabile. Vede, il nostro  palazzo dei concerti è un bellissimo edificio, ma naturalmente,  essendo antico, è privo di molte attrezzature che ormai si danno  per scontate nelle costruzioni più moderne. Il servizio di  ristorazione, come credo di averle già accennato, è tutt'altro  che adeguato, e ci obbliga a ricorrere a quello dell'albergo. Ma  quello che volevo dirle è questo, signor Ryder. Ho preso in  prestito dal nostro centro sportivo, questo sì, moderno e ben  attrezzato, il tabellone elettronico del campo coperto. In questo  momento, il palazzetto ha un aspetto tristissimo, con quei brutti  fili neri che pendono dove prima c'era il tabellone. Be', signor  Ryder, per tornare a quanto le dicevo, dopo la breve  presentazione, il signor von Winterstein si ritirerà dietro le  quinte. L'intero auditorium, per un istante, precipiterà  nell'oscurità, e in quel momento si alzerà il sipario. Poi si  accenderà un unico riflettore, che rivelerà la sua persona al  centro del palcoscenico, dietro un leggio. Ovviamente, il  pubblico esploderà in un applauso eccitato. Poi, quando i  battimani si saranno spenti, prima che lei pronunci una sola  parola... sempre che sia d'accordo, naturalmente... si udrà  tuonare una voce, che pronuncerà la prima domanda. La voce sarà  quella di Horst Jannings, l'attore più anziano della città. Horst  sarà nella cabina di regia e parlerà attraverso gli altoparlanti  che servono per gli annunci al pubblico. Ha una voce bella e  profonda da baritono, e leggerà ogni domanda lentamente. E mentre  lui legge... questa è la mia piccola trovata, signor Ryder!... le  parole compariranno simultaneamente sul tabellone elettronico  appeso proprio sopra la sua testa. Vede, fino a quel momento,  data l'oscurità, nessuno si sarà accorto del tabellone. Sembrerà  che le parole compaiano nell'aria sopra di lei. Ah ah! Mi scusi,  ma ho pensato che l'effetto avrebbe contribuito ad accentuare la drammaticità delle circostanze e allo stesso tempo a chiarirle.  Mi azzardo a dire che le parole sul tabellone aiuteranno i  presenti a ricordare l'importanza e la gravità degli argomenti di  cui lei parlerà. In fondo, potrebbe facilmente succedere che per  l'eccitazione qualcuno si distragga. Be', vede signor Ryder, con  la mia piccola trovata la cosa sarà quasi impossibile. Ogni  domanda sarà lì davanti agli occhi di tutti, scritta a lettere  giganti. Quindi, se lei è d'accordo, procederemo in questo modo.  Dopo che la prima domanda sarà stata annunciata dagli  altoparlanti e sillabata sul tabellone, lei darà la sua risposta  dal leggio, poi, quando avrà finito, Horst leggerà la domanda  successiva e così via. L'unica cosa che le chiedo, signor Ryder,  è che alla fine di ogni risposta lei abbandoni il leggio e venga  sul proscenio a fare un inchino. La ragione della mia richiesta è  duplice. In primo luogo, dato che l'installazione del tabellone  elettronico è provvisoria, è inevitabile che vi siano alcune  difficoltà tecniche. L'elettricista impiegherà parecchi secondi a  caricare ogni domanda sul tabellone, e ce ne vorranno almeno  altri quindici o venti prima che le parole comincino ad apparire.  Quindi capisce anche lei che, venendo sul proscenio e facendo un  inchino che sicuramente provocherà un applauso, eviteremo di  inframmezzare la serata con una serie di pause imbarazzanti. Poi,  ogni volta che lo scroscio di applausi si smorzerà, la voce di  Horst e il tabellone annunceranno la domanda successiva, dandole  tutto il tempo di tornare al leggio. Ma c'è anche una seconda  ragione che rende raccomandabile questa strategia. Il fatto che  lei venga sul proscenio e si inchini indicherà senza possibilità  di equivoci all'elettricista che la sua risposta è finita. In  fondo, dobbiamo evitare a tutti i costi che sul tabellone, per  esempio, cominci a comparire la domanda successiva mentre lei sta  ancora parlando. Perché vede, a causa dei problemi cui le  accennavo, un simile inconveniente potrebbe capitare facilmente.  Basterebbe che lei desse l'impressione di avere finito, o che  facesse una semplice pausa, e poi le venisse in mente un'ultima  cosa da dire. E quando ricomincia a parlare, l'elettricista  potrebbe avere già... Ah! Che disastro! Non voglio nemmeno  pensarci! Mi permetta quindi di suggerirle il semplice ma  efficace espediente di venire sul proscenio alla fine di ogni  risposta. Anzi, per dare all'elettricista qualche secondo in più  per caricare la domanda successiva, sarebbe utilissimo se in  aggiunta, avvicinandosi al termine della risposta, lei gli  lanciasse un segnale che non dia troppo nell'occhio. Che so,  magari una lieve spallucciata. Naturalmente, signor Ryder, tutte  queste disposizioni sono soggette alla sua approvazione.
 Se  qualcuna delle mie idee non le piace, la prego di dirlo  apertamente.  
  Mentre Hoffman parlava, nella mia mente cominciò a prendere  forma un'immagine incredibilmente vivida della serata ormai  prossima. Sentii gli applausi, il ronzio del tabellone  elettronico sopra la mia testa. Mi vidi fare spallucce, poi  avanzare verso il proscenio nella luce accecante dei riflettori.  E quando mi resi conto di essere assolutamente impreparato, fui  invaso da uno strano, sognante senso di irrealtà. Vidi che  Hoffman aspettava la mia risposta e mormorai stancamente:  
  - Mi sembra fantastico, signor Hoffman. Ha pensato davvero a  tutto.  
  - Ah. Quindi ho la sua approvazione. I particolari le  sembrano...   
  - Sì, sì, - dissi, con un cenno impaziente della mano. - Il  tabellone elettronico, la passeggiatina fin sul proscenio, le  spallucciate, sì, sì, sì. Tutto ben congegnato.   
  - Ah -. Per un attimo Hoffman parve ancora perplesso, poi dovette concludere che avevo parlato sinceramente. - Fantastico,  fantastico. Allora è deciso -. Annuì e per un po' rimase in  silenzio, ma un attimo dopo, senza staccare gli occhi dalla  strada, borbottò di nuovo: - Sì, sì. $è deciso.   
  Per parecchi minuti Hoffman non mi disse altro, pur continuando  a mormorare sottovoce tra sé e sé. Gran parte del cielo aveva  assunto una tinta rosata, e dato che la strada serpeggiava  attraverso la campagna, il sole compariva di tanto in tanto  davanti al parabrezza, riempiendo la macchina con il suo bagliore  e obbligandoci a strizzare gli occhi. Poi, all'improvviso, mentre  guardavo fuori del finestrino, sentii Hoffman esclamare:   
  - Un bue! Un bue, un bue, un bue!   
  Anche queste parole erano state pronunciate sottovoce, ma ne  fui così sorpreso che mi girai. Vidi allora che Hoffman fissava  la strada annuendo per conto proprio, ancora perso nel suo mondo.  Guardai i campi intorno a noi; in molti c'erano delle pecore, ma  non vidi traccia di buoi. Ricordavo vagamente che Hoffman aveva  già detto qualcosa del genere durante un altro viaggio in  macchina, ma quasi subito mi disinteressai della cosa.   
  Presto ci ritrovammo nelle vie cittadine, dove il traffico  rallentò moltissimo. I marciapiedi erano affollati di gente che  tornava a casa dal lavoro, e molte vetrine erano già state accese  per la notte. Adesso che ero di nuovo in città, ritrovai un po'  della mia sicurezza. Pensai che non appena fossi arrivato al  palazzo dei concerti, non appena avessi avuto la possibilità di  salire sul palcoscenico e guardarmi intorno, molte cose si  sarebbero sistemate.   
  - Davvero, signor Ryder, - disse Hoffman di punto in bianco. -  Tutto va secondo i piani. Non deve preoccuparsi di nulla. Vedrà  che sarà fiero di questa città. E per quel che riguarda il signor  Brodsky, io continuo a riporre in lui la massima fiducia.   
  Pensai di dovermi almeno fingere ottimista. - Sì, - dissi  allegramente, - sono sicuro che questa sera il signor Brodsky  farà faville. Quando l'ho visto poco fa mi è sembrato veramente  in gran forma.   
  - Come? - Hoffman mi lanciò un'occhiata sbalordita. - Lei l'ha  visto recentemente?   
  - Poco fa, al cimitero. Come le dico, aveva l'aria molto  sicura...   
  Hoffman mi scrutò con occhi indagatori, e per un attimo pensai  di raccontargli tutto del funerale e del solenne intervento di  Brodsky. Alla fine però non trovai la forza per farlo e mi  limitai a dire:  
  - Credo che sia lì perché ha un appuntamento. Con la signorina  Collins.   
  - Con la signorina Collins? Santo cielo. Che cosa significa  questa storia?   
  Lo guardai, un po' sorpreso dalla sua reazione. - Sembra che la  possibilità di una riconciliazione non sia più tanto remota, -  dissi. - E in caso di lieto fine, signor Hoffman, ci sarebbe  qualcos'altro di cui potrebbe legittimamente attribuirsi gran  parte del merito.   
  - Sì, sì -. Hoffman stava riflettendo con il volto accigliato.  - Il signor Brodsky è ancora al cimitero? E sta aspettando la  signorina Collins? Curioso. Davvero curioso.   
  Man mano che ci avvicinavamo al centro della città, il traffico  diventava più intenso, finché a un certo punto, in una stradina  laterale, restammo bloccati. Hoffman, che dava segni di crescente  nervosismo, si girò di nuovo verso di me.   
  - Signor Ryder, devo sbrigare subito una cosa. Ciò non toglie  che più tardi la raggiungerò al palazzo dei concerti, ma in  questo momento... - Il direttore, ormai in preda al panico, guardò l'orologio. - Vede, devo proprio... - Poi strinse le mani  sul volante e rimase a fissarmi imbambolato. - Non voglio dire,  ma con questi maledetti sensi unici e questo diabolico traffico  serale, ci vorrà un bel po' di tempo per andare in macchina al  palazzo dei concerti. Mentre a piedi... - Improvvisamente Hoffman  mi indicò qualcosa fuori del finestrino passandomi con la mano  davanti alla faccia. - Eccolo là. Sotto i suoi occhi. Non più di  due minuti a piedi. Sissignore, quel tetto laggiù.   
  Non molto lontano vidi spuntare sopra le case una grande  cupola. Effettivamente, non sembrava a più di tre o quattro  isolati di distanza.   
  - Signor Hoffman, - dissi, - se ha da fare qualcosa di urgente,  non si preoccupi per me, posso fare a piedi il resto del  tragitto.   
  - Davvero? Riuscirà a perdonarmi?   
  La colonna di automobili avanzò di qualche centimetro, poi si  bloccò di nuovo.  
  - Anzi, ho proprio bisogno di sgranchirmi le gambe, - aggiunsi.  - Sembra una serata piacevole. E come dice lei, a piedi ci vuole  poco.   
  - Questi infernali sensi unici! Rischieremmo di restare in  macchina per un'altra ora! Signor Ryder, le sarò immensamente  grato se non mi serberà rancore. Ma vede, c'è una cosa che... che  non posso assolutamente rimandare...   
  - Sì, sì, naturalmente. Scendo qui. In realtà è stato  gentilissimo a scarrozzarmi a questo modo, con tutte le cose che  ha da fare. Non so come ringraziarla.   
  - Arriverà al palazzo dei concerti da dietro. Basta che cammini  in direzione del tetto. Non può sbagliarsi se non lo perde di  vista.   
  - Non si preoccupi. Me la caverò benissimo -. Troncando le sue  scuse, lo ringraziai di nuovo e scesi sul marciapiede.   
  Imboccai quasi subito una stretta viuzza, che prima passò  davanti a una fila di librerie specializzate, poi ad alcuni  alberghi per turisti dall'aspetto piacevole. Non era affatto  difficile non perdere di vista la cupola, e per un po' fui grato  di poter passeggiare all'aria fresca.   
  Non avevo fatto più di due o tre isolati, però, quando fui  assalito da pensieri quanto mai fastidiosi e mi accorsi di non  riuscire più a scacciarli. Tanto per cominciare, mi resi conto  che esistevano forti probabilità che l'intermezzo con le domande  e le risposte non andasse affatto liscio. Infatti, a giudicare  dall'intensità dei sentimenti che si erano manifestati al  cimitero, l'eventualità di sgradevoli scenate non si poteva  escludere. Inoltre, se l'intermezzo fosse andato male, era  immaginabile che i miei genitori, dopo avere assistito allo  spettacolo con crescente orrore e imbarazzo, chiedessero di  essere accompagnati fuori della sala. In altre parole se ne  sarebbero andati prima di darmi l'opportunità di avvicinarmi al  pianoforte, e chissà quando sarebbero venuti di nuovo a sentirmi  suonare. Ancora peggio, se le cose si fossero messe veramente  male, non era affatto impossibile che a uno dei due venisse un  colpo. Ero sicurissimo che mia madre e mio padre sarebbero  rimasti entrambi a bocca aperta non appena avessi cominciato a  suonare, ma per il momento l'intermezzo con le domande e le  risposte mi sembrava un ostacolo oltremodo ingombrante.   
  Ero così assorto in questi pensieri, che lasciai che la cupola  sparisse dietro qualche edificio. Sulle prime, quando me ne  accorsi, non ci badai, supponendo che presto sarebbe ricomparsa.  Più avanti, però, la strada divenne ancora più stretta, e mi  trovai circondato da case che sembravano tutte alte sei o sette piani, tanto che ormai vedevo a stento un pezzetto di cielo;  altro che la mia cupola! Decisi di cercare una strada parallela,  ma dopo avere imboccato la prima traversa mi ritrovai a vagare da  una viuzza all'altra, forse addirittura a girare in tondo, senza  più riuscire a scorgere il palazzo dei concerti.   
  Dopo parecchi minuti mi sentii invadere da un senso di paura  pensai di fermare qualcuno per chiedere indicazioni. Subito,  però, mi parve una cosa poco saggia da fare. Mentre andavo a  spasso, infatti, la gente si girava a guardarmi, talvolta persino  arrestandosi di botto sul marciapiede. Ne ero stato vagamente  consapevole, anche se l'ansia di ritrovare la strada mi aveva  impedito di farci caso. Adesso però mi rendevo conto che con il  concerto ormai alle soglie e con una posta in gioco così alta non  era affatto opportuno che la gente mi vedesse vagare per le  strade con aria palesemente smarrita e insicura. Facendomi forza,  raddrizzai la schiena e assunsi l'atteggiamento di qualcuno che,  perfettamente padrone della situazione, si concede una rilassante  passeggiatina per la città. Mi costrinsi anche a rallentare il  passo e a sorridere amabilmente a chiunque mi guardasse.  
  Finalmente, all'ennesima svolta, scorsi il palazzo dei concerti  dritto davanti a me, più vicino che mai. La strada che avevo  imboccata era più ampia, con caffè e negozi pieni di luci su  entrambi i lati. La cupola era a un paio di isolati, poco oltre  il punto in cui la strada curvava nascondendosi alla mia vista.   
  Provai sollievo, ma non solo; l'intera serata mi apparve  improvvisamente sotto una luce molto migliore. La sensazione di  poc'anzi - cioè che molte cose si sarebbero sistemate non appena  fossi giunto sul posto e salito sul palcoscenico - mi tornò,  tanto che proseguii per la mia strada con qualcosa di molto  simile all'entusiasmo.   
  Ma dopo la curva mi si presentò uno strano spettacolo. Poco più  avanti il cammino era sbarrato da un muro di mattoni che  attraversava la strada in tutta la sua larghezza. Per prima cosa  pensai che dietro il muro passasse una ferrovia, poi notai che su  entrambi i lati della strada i piani alti delle case passavano  senza interruzione sopra l'ostacolo, perdendosi in lontananza. Il  muro mi incuriosì, ma sulle prime non lo considerai un problema;  pensai che quando fossi stato più vicino avrei trovato un arco o  un sottopassaggio che mi avrebbe portato dall'altra parte. In  ogni caso, la cupola era ormai vicinissima, illuminata dai  riflettori sullo sfondo del cielo che imbruniva.   
  Solo quando fui quasi sotto il muro mi accorsi che non c'era  modo di passare. Su entrambi i lati della strada, il marciapiede  finiva bruscamente contro la parete di mattoni. Mi guardai  intorno sbalordito, poi percorsi il muro per tutta la sua  lunghezza fino al marciapiede opposto, incapace di accettare  l'idea che non vi fosse nemmeno una porta, nemmeno un piccolo  varco per strisciare dall'altra. Non trovai nulla, e alla fine,  dopo essere rimasto per un pezzo davanti al muro senza sapere che  pesci prendere, feci cenno a una passante, una signora di mezza  età che stava uscendo da un negozio di regali, dicendole:   
  - Mi scusi, voglio andare al palazzo dei concerti. Come si fa a  passare questo muro?   
  La donna parve stupita dalla mia domanda. - Oh, no, - disse. -  Il muro non si può passare. $è ovvio che non si può. Sbarra  completamente la strada.   
  - Bella seccatura, - dissi. - Io devo andare al palazzo dei  concerti.   
  - Già, immagino che sia una bella seccatura, - disse la donna,  come se non ci avesse mai pensato prima di allora. - Poco fa,  quando l'ho vista fissare il muro, ho creduto che fosse un  turista. Come può vedere il muro è una vera e propria attrazione turistica.   
  Mi indicò un espositore girevole di cartoline davanti al  negozio di regali. Ed effettivamente, alla luce che usciva dalla  porta, vidi una sfilza di cartoline che riproducevano  orgogliosamente il muro.   
  - Ma qual è l'utilità di un muro in un posto come questo? -  domandai, alzando la voce mio malgrado. - $è una mostruosità. Si  può sapere a che cosa diavolo serve?   
  - Sono d'accordo con lei. Per gli estranei, soprattutto per chi  va di fretta, il muro rappresenta una bella seccatura. Immagino  che si possa definire una follia. $è stato costruito da un  eccentrico personaggio della fine del secolo scorso. $è una  stranezza, non c'è dubbio, ma da allora è diventato famoso.  D'estate questo tratto di strada si riempie di turisti.  Americani, giapponesi, tutti che scattano foto.  
  - $è un'assurdità, - dissi, furente. - Per piacere, mi indichi  la strada più breve per andare al palazzo dei concerti.   
  - Il palazzo dei concerti? Be', è lontanuccio se ha intenzione  di andarci a piedi. Naturalmente, siamo vicinissimi, - e la donna  alzò lo sguardo in direzione del tetto, - ma dal punto di vista  pratico ciò non significa molto a causa del muro.   
  - Ma è ridicolo! - Avevo perso la pazienza. - Mi cercherò la  strada da solo. Evidentemente, l'idea che qualcuno possa essere  oberato di impegni e avere il tempo contato, e non possa  permettersi di bighellonare ore e ore per la città, non le sfiora  nemmeno il cervello. E le dirò di più: il muro è un esempio  tipico di come vanno le cose in questa città. Ostacoli  completamente assurdi da per tutto. E voi che cosa fate? Vi  arrabbiate, forse? Chiedete che il muro venga immediatamente  abbattuto in modo che la gente possa andarsene per le sue  faccende? No, lo sopportate per quasi un secolo. Ci fate le  cartoline e credete che sia una meraviglia. Una meraviglia questo  muro di mattoni? $è una mostruosità! Nel mio discorso di questa  sera potrei usare questo muro come un simbolo, ne avrei proprio  voglia! Vi va bene che abbia già in mente gran parte di quello  che dirò e che quindi sia riluttante ad apportare cambiamenti  all'ultimo momento. Buona sera!   
  Piantai in asso la donna e tornai rapidamente sui miei passi,  risoluto a non permettere che questo assurdo contrattempo  distruggesse la ritrovata fiducia in me stesso. Tuttavia, mentre  camminavo - consapevole, a ogni passo, di allontanarmi sempre più  dal palazzo dei concerti - ripiombai nello sconforto. La strada  mi parve molto più lunga di quanto ricordassi, e quando  finalmente giunsi in fondo, mi persi di nuovo in un labirinto di  angusti vicoletti.  
  Dopo parecchi minuti di sterili vagabondaggi, mi sentii  improvvisamente incapace di proseguire e mi fermai. Vedendo che  mi trovavo davanti a un caffè all'aperto, mi lasciai cadere su  una delle sedie del tavolo più vicino; immediatamente, mi sentii  svuotato di ogni residua energia. Ero vagamente consapevole che  intorno a me si stava facendo buio, che da qualche parte sopra la  mia testa c'era una lampadina accesa, e che questa luce, molto  probabilmente, mi esponeva agli sguardi dei passanti e degli  altri avventori; ciò nonostante non trovai le forze né di  drizzare la schiena, né di tentare di mascherare il mio  abbattimento. Dopo un po' comparve un cameriere. Gli ordinai un  caffè, poi ripresi a fissare l'ombra della mia testa sulla  superficie metallica del tavolo. Tutte le precedenti  preoccupazioni riguardo al concerto di quella sera tornarono ad  accavallarsi nella mia mente. In particolare, continuava ad  assillarmi l'avvilente pensiero che la decisione di farmi  fotografare davanti al monumento di Sattler avesse irrimediabilmente danneggiato la mia immagine in questa città, e  che risalire la china sarebbe stato durissimo. Solo un'esibizione  a dir poco autorevole durante l'intermezzo con le domande e le  risposte avrebbe potuto evitare conseguenze catastrofiche su  tutti i fronti. Per un attimo mi sentii così oppresso da questi  pensieri che fui sul punto di piangere. Poi mi accorsi che  qualcuno mi aveva posato una mano sulla spalla e stava ripetendo  in tono gentile sopra la mia testa: - Signor Ryder. Signor Ryder.   
  Pensai che il cameriere fosse tornato con il mio caffè e gli  feci cenno di posarlo sul tavolo. Ma la voce continuava a  pronunciare il mio nome. Alzai gli occhi e vidi Gustav, che mi  stava osservando con la faccia preoccupata.   
  - Oh, salve, - dissi.   
  - Buona sera, signor Ryder. Come sta? Mi sembrava che fosse  lei, ma non ne ero sicuro, così sono venuto a controllare. C'è  qualcosa che non va? Noi siamo laggiù, ci siamo tutti, perché non  viene anche lei? I ragazzi ne sarebbero elettrizzati.   
  Mi guardai intorno e vidi che ero seduto ai margini di una  piazza. Sebbene nel mezzo ci fosse un solitario lampione, lo  slargo era in gran parte buio, e le sagome delle persone che lo  attraversavano erano poco più che ombre. Gustav mi stava  indicando il lato opposto, dove c'era un altro caffè, leggermente  più grande di quello in cui mi trovavo adesso. Dalla porta aperta  e dalle finestre usciva una luce accogliente. Anche da quella  distanza, vidi all'interno una notevole animazione; sprazzi di  musica di violino e di risate giungevano fino a noi attraversando  la quiete della sera. Solo allora mi resi conto di essere seduto  nella piazza della città vecchia, e di avere di fronte a me il  Caffè Ungherese. Mentre continuavo a guardarmi intorno, sentii  Gustav dire:   
  - Sa, i ragazzi me l'hanno fatto raccontare un'infinità di  volte. Volevano sapere che cosa mi aveva detto, in che modo aveva  £accettato. E anche se gliel'avevo già raccontato cinque o sei  volte, volevano sentirselo ripetere. Non avevano ancora finito di  ridere e di darsi pacche sulla schiena, che già ricominciavano:  «Su, Gustav, lo sappiamo che non ci hai ancora raccontato tutto.  Che cosa ti ha detto £esattamente il signor £Ryder?» E io: «Ve  l'ho già raccontato. Lo sapete benissimo». Ma loro volevano  sentire tutta la storia da capo, e temo che vorranno sentirla  parecchie altre volte prima di domani mattina. Naturalmente,  anche se quando mi chiedono di raccontare adotto un tono  spazientito, lo faccio solo per aumentare l'effetto. In realtà,  sono emozionato esattamente come loro, e potrei beatamente  ripetere la nostra conversazione di questa mattina all'infinito.  $è così bello vedere di nuovo quelle espressioni allegre. La sua  promessa, signor Ryder, ha ridato speranza, una nuova  £giovinezza, a quei volti. Persino Igor sorrideva a certe  battute! Non ricordo più quand'è stata l'ultima volta che li ho  visti così. Oh, sì, signor Ryder, gliela racconterei volentieri  all'infinito, questa storia. Ogni volta che arrivo al punto in  cui lei dice: «Va bene, dirò volentieri qualcosa in vostro  favore», ogni volta che arrivo lì, dovrebbe vederli! Applausi,  risate, grandi pacche sulla schiena; era davvero molto tempo che  non li vedevo fare così. E sul più bello, mentre bevevamo le  nostre birre e parlavamo della sua grande generosità, e del fatto  che finalmente questa sera, dopo tutti questi anni, il mestiere  dei facchini sarebbe cambiato per sempre, sì, mentre eravamo lì  che ci dicevamo queste cose, ho alzato gli occhi per caso e l'ho  vista, signor Ryder. Il padrone, come vede, ha lasciato la porta  aperta. L'atmosfera del caffè ne acquista, se al calar della  notte si può guardare fuori. Be', mentre scrutavo la piazza mi  sono detto: «Chissà chi sarà quel poveretto che se ne sta seduto laggiù tutto solo». Ma la mia vista non è molto buona, e non mi  sono accorto che era lei. Poi Karl mi ha bisbigliato... deve  avere intuito che era meglio non dirlo forte... mi ha  bisbigliato: «Mi sbaglierò, ma quel tizio laggiù non è il signor  Ryder?» Allora ho guardato di nuovo e mi sono detto sì, è  possibile. Ma che cosa diavolo ci fa là fuori al freddo con  un'aria così triste? Meglio che vada a vedere se è proprio lui.  Le assicuro che Karl è stato molto discreto. Gli altri non hanno  sentito quello che diceva, quindi, tolto lui, nessuno sa perché  me la sono squagliata, anche se suppongo che adesso staranno  guardando in parecchi da questa parte e si domanderanno che cosa  sto combinando. Ma è sicuro di sentirsi bene, signor Ryder? Si  direbbe che ci sia qualcosa che la tormenta.   
  - Oh... - sospirai e mi passai una mano sulla faccia. - Non è  nulla. $è solo che tutti questi viaggi, tutte queste  responsabilità. Di tanto in tanto si ha l'impressione... - non  terminai la frase e proruppi in una breve risata.   
  - Ma perché se ne sta qui tutto solo? Fa freddo, e lei non ha  che la giacca. Come se non le avessi mai detto che poteva venire  a trovarci al Caffè Ungherese in qualsiasi momento e che ci  avrebbe fatto molto piacere. Pensava forse che non l'avremmo  accolto con il dovuto entusiasmo? Starsene qui solo come un cane!  Ma che idea, signor Ryder! Su, venga subito da noi. Così potrà  rilassarsi e distrarsi per qualche istante. Metta da parte tutte  le sue preoccupazioni. I ragazzi non staranno nella pelle dalla  gioia. Venga, la prego.   
  Dall'altro lato della piazza la calda luce della porta, la  musica e le risate erano sicuramente molto invitanti. Mi alzai e  mi passai di nuovo una mano sulla faccia.   
  - Così va bene, signor Ryder. Fra un attimo si sentirà meglio.   
  - Grazie. Grazie. Grazie davvero -. Dovetti fare uno sforzo per  dominare l'emozione. - Vi sono molto riconoscente. Davvero. Spero  solo di non disturbare.   
  Gustav rise. - Se ne accorgerà subito, se disturba o no, signor  Ryder.   
  Mentre attraversavamo la piazza, pensai che dovevo essere  pronto a presentarmi ai facchini, i quali sicuramente, vedendomi  comparire, sarebbero stati sopraffatti dalla gratitudine e  dall'eccitazione. A ogni passo mi sentivo più baldanzoso, e stavo  per fare un commento spiritoso, quando Gustav si fermò di botto.  Quando ci eravamo incamminati attraverso la piazza, il facchino,  con garbo, mi aveva posato una mano sulla schiena; adesso, per un  attimo sentii le sue dita stringere la stoffa della giacca. Mi  voltai, e nella penombra vidi Gustav perfettamente immobile, con  gli occhi fissi al suolo e una mano sulla fronte come se si fosse  improvvisamente ricordato di qualcosa di importante. Poi, prima  che potessi aprire bocca, cominciò a scuotere la testa e a  sorridere imbarazzato.   
  - Mi scusi, signor Ryder. Stavo solo... ecco... - Proruppe in  una breve risata e riprese a camminare.   
  - C'è qualcosa che non va?   
  - Oh, no, no. Sa, i ragazzi saranno davvero elettrizzati quando  la vedranno comparire da quella porta.   
  Precedendomi di qualche passo, Gustav attraversò risoluto  l'ultimo tratto di piazza. 
27.  
  Solo quando entrai e sentii il tepore del fuoco di ciocchi che  ardeva in fondo alla sala mi resi conto di quanto fosse diventata  fredda la sera. L'interno del caffè era stato risistemato  dall'ultima volta che vi avevo messo piede. La maggior parte dei  tavolini era stata spinta contro le pareti per fare spazio a un grande tavolo circolare che troneggiava al centro del pavimento,  e intorno al quale erano seduti una dozzina di uomini, che  bevevano birra e facevano chiasso. Sembravano un po' meno vecchi  di Gustav, sebbene quasi tutti fossero alle soglie della terza  età. Poco distante da loro, accanto al banco, due tizi magri  vestiti da zingari suonavano un valzer vivace sui loro violini.  C'erano anche altri avventori, che tuttavia sembravano contenti  di starsene in disparte, spesso negli angoli più bui della sala,  come consapevoli di assistere alla festa di qualcun altro.   
  Quando Gustav e io entrammo, i facchini si girarono a  guardarci, incerti se credere ai propri occhi. Poi Gustav disse:  - Sì, ragazzi miei, è proprio lui. $è venuto di persona a farci  gli auguri.   
  Nel caffè scese il silenzio, mentre tutti - facchini,  camerieri, musicanti, altri avventori - mi fissavano. Poi la sala  proruppe in un caloroso applauso. Per qualche ragione, questa  accoglienza mi colse alla sprovvista e rischiò di farmi tornare  le lacrime agli occhi. Sorrisi, dicendo: - Grazie, grazie, -  mentre l'applauso continuava così scrosciante che stentavo a  sentire la mia voce. I facchini si erano alzati in piedi, e  persino i musicanti zigani si erano messi il violino sotto il  braccio per partecipare all'applauso. Gustav mi spinse verso il  tavolo centrale e, mentre prendevo posto, i battimani finalmente  si spensero e i musicanti ricominciarono a suonare. Mi trovai  circondato da un cerchio di volti eccitati. Gustav, che si era  seduto accanto a me, esordì:   
  - Ragazzi, il signor Ryder è stato così gentile da...   
  Prima che potesse finire, un robusto facchino con il naso  paonazzo si sporse verso di me sollevando il suo boccale di  birra. - Signor Ryder, lei ci ha salvati, - dichiarò l'uomo. -  D'ora in poi la nostra vita cambierà. I miei nipoti avranno un  ricordo ben diverso di me. Questa, per noi, è una grande serata.   
  Stavo ancora ricambiandolo con un sorriso, quando mi sentii  afferrare per un braccio e mi trovai davanti una faccia macilenta  e ansiosa.   
  - La prego, signor Ryder, - disse l'uomo, fissandomi in volto.  - La prego, lo farà sul serio, vero? Non è che al momento buono,  con tante altre cose importanti per la testa, davanti a tutta  quella gente, non è che ci ripenserà e...   
  - Non essere insolente, - disse un'altra voce, e l'uomo dalla  faccia ansiosa svanì come se qualcuno lo avesse tirato indietro.  Poi sentii dire alle mie spalle: - Puoi giurarci che non ci  ripenserà. Con chi credi di avere che fare?   
  Mi girai sulla sedia per cercare di rassicurare il mio  precedente interlocutore, ma qualcun altro mi strinse la mano  dicendo:   
  - Grazie, signor Ryder, grazie.   
  - Siete molto cari, - dissi sorridendo un po' a tutti. - Anche  se... ecco, bisogna che vi avverta che...   
  In quel momento qualcuno mi urtò, rischiando di buttarmi  addosso alla persona seduta accanto a me. Sentii una voce  chiedere scusa e un'altra dire: - Non spingere a quel modo! - Poi  una terza voce, più vicina, disse: - Mi sembrava che fosse lei,  là fuori. Sono io che ho richiamato l'attenzione di Gustav su di  lei. $è stato davvero gentile a venire a trovarci. Questa sarà  una sera che ricorderemo per sempre. Una svolta nell'esistenza di  ogni facchino della città.   
  - Sentite, bisogna che lo sappiate, - dissi ad alta voce. -  Farò tutto ciò che posso per voi, ma bisogna che lo sappiate, può  darsi che io non abbia più l'autorità di un tempo. Vedete...   
  Ma le mie parole furono coperte da alcuni facchini che avevano  cominciato a gridare «urrà» in mio onore. Al secondo urrà, l'intera compagnia si unì al coro, finché anche la musica cessò  un istante e tutti i presenti parteciparono all'ultima,  assordante acclamazione. Subito scoppiarono altri applausi.   
  - Grazie, grazie, - dissi, sinceramente commosso. Poi, mentre  l'applauso si affievoliva, il facchino dal naso paonazzo seduto  dall'altra parte del tavolo disse:   
  - Sia il benvenuto fra noi, signor Ryder. Lei è famoso e  conosciuto, ma voglio che sappia che noi, qui, siamo capaci di  riconoscere una brava persona a prima vista. Già, mica per niente  facciamo questo mestiere da tanti anni. Abbiamo imparato a  fiutare la gente per bene. Lei è un tipo come si deve, al cento  per cento, lo vedono tutti. Come si deve e gentile. Magari  penserà che le abbiamo riservato questa accoglienza solo perché  ha intenzione di aiutarci. $è ovvio che le siamo riconoscenti per  questo. Ma i miei amici li conosco: l'hanno preso in simpatia, e  questo non sarebbe successo se non fosse una brava persona. Se  fosse pieno di spocchia, o in qualche modo insincero, l'avrebbero  indovinato subito. Oh, certo. Le sarebbero stati riconoscenti lo  stesso e l'avrebbero trattato bene, ma non l'avrebbero mai preso  in simpatia a questo modo. Quello che voglio dire, signor Ryder,  è che anche se non fosse famoso, anche se fosse un semplice  straniero capitato qui dentro per caso, noi ci saremmo accorti  che è una persona per bene; e se ci avesse raccontato che aveva  nostalgia di casa e cercava un po' di compagnia, be', noi  l'avremmo accolto a braccia aperte. Vedendo che avevamo che fare  con una brava persona, l'avremmo ricevuto né più né meno come  abbiamo fatto adesso. Oh, sì, non siamo affatto freddi come  dicono. Da questo momento, signor Ryder, può considerare di avere  un amico in ciascuno di noi.   
  - Proprio così, - disse qualcuno alla mia destra. - Adesso  siamo suoi amici. Se mai dovesse trovarsi in difficoltà in questa  città, sappia che può contare su di noi.   
  - Vi ringrazio, - dissi. - Vi ringrazio moltissimo. Questa sera  farò tutto ciò che posso per aiutarvi. Ma veramente, bisogna che  vi avverta che...   
  - Signor Ryder, la prego -. Era Gustav che mi parlava  gentilmente all'orecchio. - La smetta di preoccuparsi. Andrà  tutto bene. Perché non si prende qualche minuto di svago?   
  - Ma io volevo solo avvertire i suoi amici che...   
  - Dico sul serio, signor Ryder, - continuò Gustav  tranquillamente. - La sua dedizione è ammirevole. Ma lei vive  nell'ansia. La prego, si rilassi e si prenda un po' di svago.  Solo per qualche minuto. Ci guardi. Tutti noi abbiamo le nostre  preoccupazioni. Io stesso devo tornare fra poco al palazzo dei  concerti, dove mi aspetta una montagna di lavoro. Quando ci  ritroviamo qui, siamo felici di essere tra amici e dimentichiamo  il resto. Distendiamo i nervi e ci divertiamo -. Poi Gustav alzò  la voce per farsi sentire nel baccano generale. - Su, facciamo  vedere al signor Ryder che siamo £davvero capaci di divertirci!  Facciamoglielo vedere!   
  Questo invito fu accolto da un'acclamazione e da un altro  scroscio d'applausi, che a poco a poco si trasformò in un ritmico  batter di mani tutto intorno al tavolo. Gli zingari suonarono più  in fretta per tenere il ritmo, e presto anche parte degli altri  avventori cominciò a battere il tempo. Notai che nella sala molti  interrompevano la conversazione e giravano la sedia come  preparandosi ad assistere a uno spettacolo molto atteso. Un tizio  che supposi fosse il padrone - scuro e allampanato - si affacciò  dal retrobottega e si appoggiò allo stipite della porta,  evidentemente non meno ansioso degli altri di godersi il seguito.   
  Nel frattempo i facchini continuavano a battere la mani, sempre  più allegri; alcuni pestavano anche i piedi sul pavimento per marcare il ritmo. Poi arrivarono due camerieri che in tutta  fretta cominciarono a sgombrare la superficie del tavolo. Boccali  da birra, tazzine da caffè, zuccheriere e portacenere sparirono  in un battibaleno, poi uno dei facchini, un omone barbuto, salì  sul tavolo. Sotto la barba cespugliosa la sua faccia era  paonazza, ma non avrei saputo dire se per l'imbarazzo o per  l'alcool. Comunque sia, non appena fu sul tavolo parve perdere  ogni inibizione e cominciò a ballare con un ghigno sulle labbra.   
  Una danza curiosa, statica, in cui i piedi non si staccavano  quasi dalla superficie del tavolo; una danza che metteva in  risalto la statuarietà del corpo umano più che la sua agilità o  la sua mobile grazia. Il facchino barbuto assunse la posa di un  dio greco, sollevando le braccia come se portasse un invisibile  peso; poi, mentre i compagni continuavano a battere le mani e a  lanciargli grida di incoraggiamento, si limitò a modificare  leggermente l'inclinazione dell'anca o a ruotare piano piano su  se stesso. Per un istante mi chiesi se la messa in scena volesse  essere comica, ma, anche se intorno al tavolo tutti si  sbellicavano dalle risa, mi fu subito chiaro che la danza non  aveva alcun intento satirico. Mentre osservavo il facchino  barbuto, qualcuno mi diede una gomitata e disse:   
  - Ecco la nostra danza, signor Ryder. La Danza del Facchino.  Sono sicuro che ne ha sentito parlare.   
  - Sì, - risposi. - Oh, sì. Sicché questa sarebbe la Danza del  Facchino?   
  - Proprio così. Ma non ha ancora visto il meglio -. Il tizio  che mi aveva parlato sogghignò e mi diede un'altra gomitata.   
  Mi accorsi che i facchini si stavano passando una grossa  scatola di cartone marrone. La scatola aveva più o meno le  dimensioni di una valigia, ma a giudicare da come veniva  sballottata doveva essere leggera e vuota. Girò intorno al tavolo  per qualche minuto, poi, a un certo punto della danza, fu  lanciata al facchino barbuto. L'intera successione di movimenti  rivelava una lunga consuetudine. Nel preciso istante in cui il  facchino barbuto cambiò posizione e sollevò di nuovo le braccia,  la scatola di cartone solcò l'aria e gli atterrò elegantemente  tra le mani.   
  Il danzatore reagì come se avesse afferrato una lastra di  pietra; per un attimo parve crollare sotto il peso, e dal  pubblico si levò un gemito d'apprensione. Poi, con incredibile  forza di volontà, l'uomo cominciò a tirarsi su, finché fu di  nuovo perfettamente dritto, con la scatola stretta al petto.  Mentre la sua impresa veniva salutata da grandi acclamazioni, il  facchino barbuto cominciò a sollevare lentamente la scatola sopra  la testa, fino a tenerla in alto, con le braccia tesissime. Anche  se in realtà non aveva fatto nulla di speciale, i suoi gesti  erano stati così dignitosi e drammatici che anch'io mi unii alle  acclamazioni, come se davvero avesse sollevato un peso enorme.  Poi, con una certa abilità, il facchino barbuto finse che la  scatola diventasse sempre più leggera. Presto cominciò a tenerla  su con una mano sola, eseguendo al contempo piccole piroette;  oppure la lasciava cadere dietro le spalle riacchiappandola al  volo. Quanto più la scatola si alleggeriva, tanto più i colleghi  del facchino si eccitavano. Poi, mentre le imprese del danzatore  si facevano sempre più insolenti, i suoi amici cominciarono a  guardarsi in faccia, a sogghignare, a incitarsi a vicenda, finché  un altro di loro, un ometto tutto nervi con un paio di baffi  sottili, cercò di arrampicarsi sul piano del tavolo.   
  Il tavolo traballò e si inclinò; i facchini risero, come se  anche questo facesse parte del gioco, poi lo tennero fermo mentre  il collega tutto nervi vi saliva sopra. Sulle prime l'uomo con la  barba non si accorse di nulla e continuò a pavoneggiarsi con la scatola di cartone, mentre il compagno se ne stava imbronciato  dietro di lui, come un cavaliere che aspetta il suo turno per  poter ballare con una dama molto corteggiata. Finalmente il  facchino barbuto lo vide e gli tirò la scatola. Afferrandola,  l'ometto tutto nervi indietreggiò barcollando e sembrò sul punto  di cadere dal tavolo. Ma si riprese in tempo e, con uno sforzo  sovrumano, ritrovò l'equilibrio e si mise la scatola sul dorso.  Intanto, il compagno barbuto era sceso dal tavolo aiutato da una  selva di mani e si era messo a battere il tempo insieme con gli  altri, sorridendo beato.   
  Il facchino tutto nervi ripeté gran parte delle scene del suo  predecessore, anche se spesso con un tocco di comicità in più.  Facendo smorfie e fingendo di inciampare nella migliore  tradizione delle farse, provocava grandi risate. Mentre lo  osservavo, ebbi l'impressione che il ritmico battimani, i violini  zigani, le risa, le grida di finto stupore mi colmassero non solo  le orecchie ma tutti i sensi. Poi, mentre un terzo facchino  saliva sul tavolo al posto dell'ometto tutto nervi, mi sentii  risucchiare dal calore di quella gente. All'improvviso le parole  di Gustav mi sembrarono profondamente sagge. Che senso aveva  vivere nell'ansia? Di tanto in tanto era indispensabile scaricare  i nervi e prendersi un po' di svago.   
  Chiusi gli occhi e mi lasciai lambire dalla piacevole  atmosfera, solo vagamente consapevole che stavo ancora  applaudendo e che il mio piede batteva il tempo sul pavimento di  legno. Nella mia mente comparve un'immagine dei miei genitori; li  vidi arrivare sulla loro carrozza a cavalli nella radura davanti  al palazzo dei concerti. La gente del posto - i signori in giacca  nera, le signore con cappotti, scialli e gioielli -  interrompevano la conversazione e si giravano verso il rumore di  zoccoli che proveniva dall'oscurità degli alberi. Poi la carrozza  luccicante entrava all'improvviso nell'alone di luce, e i bei  cavalli arrestavano di colpo il loro trotto, lanciando sbuffi di  vapore nell'aria notturna. Mia madre e mio padre sbirciavano dal  finestrino; i loro volti mostravano i primi segni di trepidante  attesa, ma anche cautela e riservatezza, una certa riluttanza ad  abbandonarsi completamente alla speranza che la serata potesse  rivelarsi uno straordinario trionfo. Poi, mentre il cocchiere in  livrea si precipitava ad aiutarli a scendere e i dignitari si  disponevano in fila per accoglierli, i miei genitori assumevano  quel sorrisetto ostinatamente calmo che ricordavo dai tempi della  mia infanzia, nelle rare occasioni in cui invitavamo qualcuno a  pranzo o a cena.   
  Riaprii gli occhi e vidi che sul tavolo c'erano adesso due  facchini, che mimavano una scenetta divertente. Quello che aveva  la scatola barcollava come se dovesse afflosciarsi sotto il suo  peso e cadere di sotto, ma all'ultimo istante riusciva a passarla  all'altro. Mi accorsi che Boris - il quale probabilmente si  trovava nel caffè sin dall'inizio - si era avvicinato al tavolo e  osservava i due facchini con evidente divertimento. Dal modo in  cui batteva le mani e rideva al momento giusto, era chiaro che  conosceva molto bene tutte le scenette. Era seduto tra due  imponenti facchini dalla carnagione scura, che si assomigliavano  abbastanza da essere fratelli. Mentre lo osservavo, il bambino  disse qualcosa a uno di loro; l'uomo rise e gli diede un  affettuoso pizzicotto sulla guancia.   
  Lo spettacolo continuava ad attirare gente dalla piazza, e il  caffè stava diventando molto affollato. Al mio arrivo, i  suonatori zigani erano solo due, ma adesso notai che se ne erano  aggiunti altri tre, e che la musica dei loro violini, più  energica che mai, veniva da ogni direzione. Poi qualcuno in fondo  alla sala - non mi parve uno dei facchini - urlò: - Gustav! -, e in men che non si dica il grido passò di bocca in bocca fino al  nostro tavolo. - Gustav! Gustav! - gridarono i facchini,  trasformando il richiamo in una cantilena. Presto anche l'uomo  dal volto ansioso che mi aveva parlato poco prima e ora era di  turno sul tavolo - un'esibizione vivace ma non particolarmente  abile - si unì al coro, e mentre faceva volteggiare la scatola  giù per la schiena e intorno ai fianchi, cantilenò: - Gustav!  Gustav!   
  Mi guardai intorno cercando il vecchio facchino, che non era  più accanto a me; vidi che si era avvicinato a Boris e gli stava  dicendo qualcosa nell'orecchio. Uno dei due fratelli dalla  carnagione scura gli posò una mano sulla spalla e lo implorò di  salire anche lui sul tavolo. Gustav sorrise e scosse il capo  modestamente, con l'unico effetto di dare nuovo vigore alla  cantilena. Ormai quasi tutti nel caffè gridavano il suo nome; mi  parve che persino chi si trovava in piazza si unisse al coro.  Alla fine, sorridendo stancamente a Boris, Gustav si alzò in  piedi.  
  Avendo parecchi anni in più degli altri facchini, Gustav si  arrampicò con qualche difficoltà sul tavolo, ma molte mani si  protesero per aiutarlo. Quando fu sul tavolo, Gustav si raddrizzò  e sorrise al pubblico. Il facchino dal volto ansioso gli passò la  scatola, poi si affrettò a scendere.   
  Sin dall'inizio Gustav si distinse dai danzatori che l'avevano  preceduto. Non appena ebbe ricevuto la scatola, invece di fingere  che fosse pesantissima, se la mise in groppa senza sforzo e fece  spallucce. Il gesto provocò una gran risata; sentii qualcuno  gridare «Ah, il vecchio Gustav!» e «Di lui sì che ci si può  fidare!» Poi, mentre Gustav continuava a trastullarsi con la  scatola, un cameriere si fece largo tra la folla e buttò sul  tavolo una valigia vera. Dal modo in cui la fece dondolare prima  di sollevarla e dal gran tonfo, si capì che non era vuota. La  valigia finì accanto ai piedi del facchino, e dalla folla si levò  un mormorio. Poi la cantilena riprese a un ritmo ancora più  veloce: - Gustav! Gustav! Gustav! - Vidi che Boris seguiva con  attenzione ogni mossa del nonno, battendo energicamente le mani e  gridando a gran voce con gli altri; il bambino sprizzava orgoglio  da tutti i pori. Scorgendo il nipote, Gustav gli sorrise di  nuovo, poi si chinò e afferrò il manico della valigia.   
  Mentre l'anziano facchino, ancora curvo in avanti, sollevava la  valigia all'altezza dell'anca, ebbi l'impressione che il suo  sforzo non fosse affatto simulato. Poi, mentre raddrizzava la  schiena, con la scatola sempre in spalla e la valigia in mano,  Gustav chiuse gli occhi, e il suo volto si rannuvolò. Ma nessuno  parve allarmarsi - forse la smorfia non era che un vezzo di  Gustav prima di dare un saggio della sua forza. Tanto la  cantilena quanto il battimani continuarono assordanti, coprendo  lo strepito dei violini. Ed ecco che Gustav riaprì gli occhi e  rivolse a tutti un largo sorriso. Poi, sollevando ancora un po'  la valigia, riuscì a mettersela sotto il braccio, e in questa  posizione - con la valigia da una parte e la scatola dall'altra -  cominciò a ballare, strisciando lentamente i piedi. Vi furono  acclamazioni e grida di entusiasmo, e sentii che qualcuno accanto  alla porta chiedeva: - Che cosa sta facendo? Non riesco a vedere.  Che cosa sta facendo?   
  Poi Gustav sollevò ancora la valigia e danzò con la valigia su  una spalla e la scatola sull'altra. Poiché la prima era molto più  pesante della seconda, era costretto a stare inclinato da una  parte, ma per il resto sembrava a suo agio, e i suoi passetti non  avevano perso il brio iniziale. Boris, raggiante, gridò al nonno  qualcosa che non riuscii a udire, e Gustav gli rispose storcendo  la testa in un modo beffardo che suscitò nuove urla e risate.  
  Poi, mentre Gustav continuava a ballare, mi accorsi che alle  mie spalle stava succedendo qualcosa. Era da un pezzo che  qualcuno mi piantava un gomito nella schiena con fastidiosa  regolarità, ma fino a quel momento avevo pensato che ciò  dipendesse semplicemente dal desiderio della folla di vedere  meglio lo spettacolo. Quando mi girai, invece, scoprii che  proprio dietro di me, incuranti della gente che li spingeva da  ogni lato, due camerieri si erano inginocchiati sul pavimento e  armeggiavano con una valigia. L'avevano già riempita in gran  parte con taglieri di legno provenienti dalla cucina, o così  almeno mi parve. Uno dei due sistemava le assicelle in modo che  ce ne stessero di più, mentre l'altro gesticolava incollerito in  direzione del retrobottega, indicando gli spazi vuoti che ancora  restavano nella valigia. Poi vidi arrivare altri taglieri, due o  tre alla volta, passati di mano in mano attraverso la calca. I  camerieri lavorarono speditamente, stipando le assicelle fino a  quando la valigia fu piena da scoppiare. Ma i taglieri - a volte  anche rotti - continuavano ad arrivare, e i camerieri, con  l'abilità che veniva loro dall'esperienza, trovavano il modo di  infilarli dentro. Forse sarebbero andati avanti ancora per un  pezzo, ma a un certo punto si stufarono di essere urtati dalla  folla; allora chiusero il coperchio, strinsero le cinghie e,  spingendomi da parte, issarono la valigia sul tavolo.   
  Boris guardò fissamente la nuova valigia, poi, un po'  titubante, alzò gli occhi verso il nonno. Gustav danzava  strisciando lentamente i piedi come un torero. Sembrava che per  il momento lo sforzo necessario per tenere la scatola e la  valigia in equilibrio sulle spalle gli impedisse di notare la  nuova sfida che era stata posta ai suoi piedi. Boris osservava la  scena attentamente, aspettando il momento in cui il nonno avrebbe  visto la seconda valigia. In realtà, lo stavano aspettando tutti,  ma Gustav continuava a ballare fingendo di non essersi accorto di  nulla. Boris era pronto a scommettere che fosse un trucco! Quasi  sicuramente il nonno stava prendendosi gioco del pubblico, e da  un momento all'altro avrebbe sollevato la pesante valigia, forse  gettando via la scatola vuota per liberare una mano. Ma per chi  sa quale ragione, Gustav si ostinava a non vedere, tanto che la  gente cominciò a urlare e a gesticolare. Poi finalmente il  vecchio facchino abbassò gli occhi, e sul suo volto - schiacciato  tra la scatola e la prima valigia - si dipinse un'espressione di  sgomento. Intorno a Boris tutti risero e batterono le mani ancora  più forte. Gustav continuò a girare lentamente su se stesso senza  staccare gli occhi dalla nuova valigia; aveva ancora la faccia  preoccupata, e per un attimo Boris temette che non stesse del  tutto fingendo. Ma intorno a lui la gente rideva, gente che aveva  visto suo nonno recitare quella scena molte altre volte, e un  attimo dopo anche Boris si mise a ridere e a incitare Gustav. La  voce del bambino attirò l'attenzione dell'anziano facchino, e di  nuovo nonno e nipote si scambiarono un sorriso.   
  Poi Gustav fece scivolare la scatola vuota lungo il braccio e,  con un gesto sprezzante ma aggraziato, la scagliò sulla folla. Vi  fu un nuovo boato di risa e acclamazioni, e la scatola, passando  di mano in mano sopra la testa degli spettatori, svanì nei  recessi della sala. Gustav diede un'altra occhiata alla seconda  valigia e si issò la prima ancora più in alto sulla spalla. Poi  assunse di nuovo un'espressione sgomenta; questa volta la  simulazione era evidente, e Boris rise insieme con tutti gli  altri. Il vecchio facchino cominciò a piegare le ginocchia. Lo  fece con incredibile lentezza, non si capiva bene se per  debolezza o per istrionismo, finché fu quasi accovacciato, con la  prima valigia in spalla e la mano libera sul manico della  seconda. Poi piano piano, senza strappi, mentre tutti continuavano a battere il ritmo con le mani, si raddrizzò, e la  pesante valigia venne su con lui.   
  Ora Gustav stava mimando uno sforzo enorme - un po' come aveva  fatto il facchino barbuto quando gli avevano lanciato la scatola  di cartone. Boris lo osservava, gonfio d'orgoglio, staccando di  tanto in tanto gli occhi dal nonno per guardare le facce piene di  ammirazione degli spettatori pigiati intorno a lui. Persino i  violinisti zigani cercavano di farsi largo per vedere meglio e  sfruttavano l'energico movimento dell'archetto per sgomitare di  nascosto. Con questo sistema, uno di loro era già riuscito ad  arrivare in prima fila; ormai suonava con la pancia contro il  tavolo, tutto proteso in avanti.   
  Poi Gustav ricominciò a strisciare i piedi. Il peso delle due  valigie, soprattutto di quella piena di taglieri di legno, che il  facchino non aveva nemmeno tentato di mettersi in spalla - cosa  che sicuramente non era nelle sue possibilità - aveva ridotto a  una mera parvenza l'elasticità dei suoi passi; ciò nonostante, lo  spettacolo era di grande effetto, e la folla andò in estasi. -  Ah, il vecchio Gustav! - si sentì di nuovo gridare, e anche  Boris, per quanto non abituato a rivolgersi in questo modo al  nonno, urlò a squarciagola: - Ah, il vecchio Gustav! Il vecchio  Gustav!   
  Di nuovo il vecchio facchino parve udire la voce di Boris in  mezzo a quel baccano, e anche se questa volta non si girò verso  di lui - stava fingendo troppo impegno con le sue valigie per  poter fare una cosa simile - i suoi movimenti acquistarono una  nuova baldanza. Ricominciò a ruotare lentamente su se stesso, e  dalla sua schiena scomparve qualsiasi accenno di scompostezza.  Per un attimo Gustav fu splendido, in equilibrio sul tavolo come  una statua, con una valigia sulla spalla e l'altra all'altezza  dell'anca, volteggiando al ritmo dei battimani e della musica.  Poi finse di inciampare, riprendendosi quasi subito, e questa  piccola variazione strappò alla folla un «ooh!» e altre risate.   
  A questo punto Boris notò un certo trambusto alle sue spalle e  vide che i due camerieri erano tornati e stavano di nuovo  trafficando sul pavimento, spingendo via la gente per farsi un  po' di spazio. Erano tutti e due in ginocchio e armeggiavano con  qualcosa che sembrava una grossa sacca da golf. I loro gesti  erano bruschi e insofferenti, forse perché le persone che si  accalcavano intorno a loro li urtavano in continuazione con le  ginocchia e questo li infastidiva. Boris distolse un attimo gli  occhi per guardare il nonno, e quando si girò di nuovo vide che  uno dei camerieri teneva l'apertura della sacca spalancata, come  se bisognasse introdurvi un oggetto voluminoso. In quell'istante  dalla folla emerse l'altro cameriere; camminava a ritroso,  trascinando qualcosa sul pavimento e distribuendo a tutti  violenti spintoni. Intrufolandosi nella folla, Boris vide che  l'oggetto era un pezzo meccanico. Era difficile capire - c'erano  troppe gambe di mezzo - ma doveva trattarsi di un vecchio motore  di motocicletta, o forse di motoscafo. I due camerieri si  sforzarono di ficcarlo nella sacca da golf, tirando la stoffa già  tesa, dando strattoni alla cerniera lampo. Alzando gli occhi,  Boris vide che il nonno maneggiava ancora con sicurezza le due  valigie, e gli sembrò che non avesse bisogno di una pausa.  D'altronde, la folla non era intenzionata a concedergliela. Poi  Boris notò un'improvvisa animazione intorno a sé e vide che i due  camerieri avevano issato la sacca da golf sul tavolo.   
  Per un attimo, mentre la notizia dell'arrivo della borsa  passava dalla prima linea alle retrovie, il baccano aumentò di  intensità. Gustav non si accorse subito della sacca da golf,  perché in quel momento teneva le palpebre ben chiuse per  concentrarsi meglio; presto, però, gli incitamenti della folla lo obbligarono a guardarsi intorno. I suoi occhi si posarono sulla  sacca da golf, e per un secondo Gustav divenne molto serio. Poi  sorrise e riprese a girare lentamente su se stesso. Come prima,  anche se in maniera molto meno disinvolta, si scrollò dalla  spalla la più leggera delle due valigie e la fece scivolare lungo  il braccio e, mentre la valigia cadeva, riuscì, con uno sforzo  sovrumano, a sollevare la mano in modo da scagliarla verso la  folla. Poiché era molto più pesante della scatola vuota, la  valigia non descrisse una bella parabola, ma rimbalzò sul piano  del tavolo prima di finire fra le braccia dei facchini in prima  fila. Anche la valigia, come la scatola, fu inghiottita dalla  calca; poi tutti puntarono di nuovo gli occhi su Gustav e  ripresero a cantilenare il suo nome. Il vecchio facchino guardò  attentamente la sacca da golf ai suoi piedi. Il momentaneo  sollievo di avere una sola valigia - anche se era quella piena di  taglieri di legno - parve ridargli forza. Gustav fece una smorfia  di disapprovazione e scosse la testa con fare dubbioso, con  l'effetto di aumentare gli incitamenti da parte della folla.  Boris sentì il facchino al suo fianco gridare: - Forza, Gustav,  facci vedere!   
  Gustav, allora, cominciò a sollevare la valigia pesante verso  la spalla su cui prima aveva quella leggera. Lo fece con gesti  calcolati, a occhi chiusi, mettendo giù un ginocchio per poi  tirarsi su lentamente. Barcollò un paio di volte, poi si piantò  sulle gambe con la valigia saldamente in spalla e il braccio  libero proteso verso la sacca da golf. Boris fu colto da  un'improvvisa paura e urlò: «No!», ma il suo grido fu soffocato  dalla cantilena e dalle risate, dagli «ooh» e dai gemiti della  folla.   
  - Forza, Gustav! - stava urlando il facchino accanto a lui. -  Facci vedere di che cosa sei capace! Faccelo vedere!   
  - No! No! Nonno! Nonno!  
  - Ah, il vecchio Gustav! - gridavano parecchie voci. - Forza!  Facci vedere di che cosa sei capace!   
  - Nonno! Nonno! - Boris allungò le braccia sul tavolo per  richiamare l'attenzione del nonno, ma il volto di Gustav era una  maschera di feroce determinazione; i suoi occhi fissavano con  straordinaria intensità la cinghia della sacca da golf adagiata  sul piano del tavolo. Poi il vecchio facchino cominciò di nuovo a  piegarsi, tremando in tutto il corpo per il peso della valigia  che aveva in spalla, annaspando troppo presto con la mano per  afferrare la cinghia ancora lontana. Nell'aria si percepiva una  nuova tensione, forse per la sensazione che Gustav stesse  finalmente tentando un'impresa superiore persino alle sue  capacità. L'atmosfera, però, rimase festosa, la cantilena  incensatoria.   
  Boris scrutò con aria supplice le facce degli adulti che gli  stavano intorno, poi scosse il braccio del facchino più vicino.   
  - No! No! Basta così. Il nonno ha fatto fin troppo!   
  Il facchino barbuto - perché di lui si trattava - guardò  stupito il bambino, poi disse ridendo: - Non preoccuparti, non  preoccuparti. Tuo nonno è fantastico. Può fare questo e molto di  più. Molto di più. $è fantastico!   
  - No! Il nonno ha già fatto fin troppo!   
  Ma nessuno, nemmeno il facchino barbuto - che per rassicurarlo  gli aveva messo un braccio intorno alle spalle - lo stava ad  ascoltare. Perché ormai Gustav era quasi accucciato sul tavolo,  con la mano a pochi centimetri dalla cinghia della sacca da golf.  Finalmente riuscì ad afferrarla e, con il corpo ancora  rannicchiato, se la passò sulla spalla libera. Poi si strinse la  cinghia al corpo e ricominciò a drizzarsi in piedi. Boris gridò e  picchiò il pugno sul tavolo, e questa volta Gustav lo notò. Aveva già cominciato a distendere le gambe, ma si fermò, e per un paio  di secondi nonno e nipote si fissarono negli occhi.   
  - No! - Boris scosse il capo. - No. Hai fatto abbastanza.   
  Forse, in tutto quel baccano, Gustav non sentì, ma parve capire  i timori del nipote. Gli fece un rapido cenno con il capo, mentre  sul suo volto balenava un sorriso rassicurante. Poi richiuse gli  occhi per concentrarsi.   
  - No! No! Nonno! - Boris scosse di nuovo il braccio del  facchino barbuto.   
  - Che cosa c'è? - gli domandò l'uomo, con le lacrime agli occhi  dal gran ridere. Poi, senza attendere una risposta, si girò di  nuovo verso Gustav e riprese a cantilenare il suo nome più forte  che ma.   
  Gustav continuò lentamente a raddrizzarsi. Una volta, due  volte, il suo corpo si mise a tremare come se stesse per  crollare. Il volto gli divenne stranamente paonazzo. Le mascelle  si serrarono convulsamente, le guance si deformarono, i muscoli  del collo si gonfiarono. Nonostante il chiasso, avevo  l'impressione di udire il suo respiro. Eppure nessun altro  all'infuori di Boris sembrava accorgersi di tutto ciò.   
  - Non preoccuparti, tuo nonno è fantastico! - gli disse il  facchino barbuto. - Questo è niente! Lo fa ogni settimana!   
  Gustav continuò a distendere le gambe, con la sacca da golf  appesa a una spalla e la valigia issata sull'altra, finché fu di  nuovo perfettamente dritto, con il volto tremulo ma trionfante.  Per la prima volta dopo parecchi minuti il ritmico battimani si  spezzò in un boato di applausi e acclamazioni. Anche i violini  attaccarono una melodia più lenta e più solenne, adatta al gran  finale. Gustav ruotò lentamente, con gli occhi socchiusi, la  faccia trasformata in una maschera di dignitosa sofferenza.  
  - Basta! Nonno! Fermati! Fermati!   
  Gustav continuò a girare su se stesso, risoluto a mostrare la  sua prodezza a ogni occhio presente nel caffè. Poi di colpo  qualcosa dentro di lui parve spezzarsi. Il vecchio facchino si  arrestò bruscamente, e per un istante oscillò piano piano, come  un albero nella brezza. Ma subito si riprese e ricominciò a  ruotare. Solo quando tornò esattamente nel punto in cui si  trovava quando si era drizzato in piedi, solo allora si calò la  valigia dalla spalla. La lasciò cadere sul tavolo con un gran  tonfo, avendola giudicata troppo pesante per gettarla sulla folla  senza il rischio di ferire uno spettatore, poi la spinse con il  piede finché scivolò giù fra le braccia dei suoi colleghi in  attesa.   
  La folla lo acclamò e applaudì, poi un gruppo cominciò a  cantare una canzone - un'ondeggiante ballata ungherese - al ritmo  della musica suonata dagli zingari. Un numero sempre maggiore di  persone si unì al coro, e presto l'intera sala si mise a cantare.  Sul tavolo, Gustav si liberò della sacca da golf, che cadde ai  suoi piedi con un colpo metallico. Questa volta non tentò di  spingerla verso la folla; si limitò ad alzare brevemente le  braccia sopra la testa - un gesto che parve costargli un'immensa  fatica - poi si affrettò a scendere dal tavolo. Molte mani si  protesero per aiutarlo, e Boris vide il nonno calarsi sano e  salvo sul pavimento.  
  Ormai tutti sembravano impegnati solo a cantare. La ballata  aveva un che di dolce e nostalgico, e qui e là la gente cominciò  a prendersi sottobraccio e a ondeggiare. Uno dei violinisti  zigani si arrampicò sul tavolo, subito imitato da un secondo, e  un attimo dopo i due dirigevano l'intera sala, dondolando il  corpo a tempo con la musica mentre suonavano i loro strumenti.  
  Boris si fece largo tra la folla per raggiungere il nonno, che  stava prendendo fiato. Stranamente, anche se fino a pochi secondi prima Gustav era stato al centro degli sguardi di tutti, nessuno  parve prestare molta attenzione quando nonno e nipote si  abbracciarono affettuosamente, con gli occhi chiusi, senza  neppure tentare di nascondere l'uno all'altro il proprio immenso  sollievo. Dopo un lungo momento, Gustav chinò la testa e sorrise  a Boris, ma il bambino continuò a tenerlo stretto stretto, senza  aprire gli occhi.     - Boris, - disse Gustav. - Boris. Devi promettermi una cosa.   
  Come unica risposta il bambino continuò a stringere il nonno.   
  - Boris, ascoltami. Tu sei un bravo bambino. Se mai dovesse  capitarmi qualcosa... se mai dovesse... bisogna che tu prenda il  mio posto. Vedi, tua madre e tuo padre sono delle ottime persone.  Ma a volte si lasciano sopraffare dalle difficoltà. Non sono  forti come te o me. Quindi, se mi capita qualcosa e non ci sono  più, l'uomo forte devi essere tu. Devi badare a tua madre e tuo  padre, dare forza alla famiglia, tenerla unita -. Gustav si  sciolse dall'abbraccio di Boris e gli sorrise. - Me lo prometti,  vero, Boris?   
  Il bambino parve riflettere, poi annuì gravemente. Un attimo  dopo nonno e nipote furono inghiottiti dalla folla e non riuscii  più a vederli. Qualcuno mi stava tirando per la manica,  implorandomi di prenderlo a braccetto e di unirmi al coro.  
  Alzando gli occhi, vidi che gli altri violinisti avevano  raggiunto i primi due sul tavolo e che l'intera sala sembrava  ruotare intorno a loro, unita nella canzone. Nel caffè era  entrata molta altra gente, e la sala era diventata una massa  compatta di corpi. La porta che dava sulla piazza era ancora  aperta, e notai che anche là fuori la gente ondeggiava e cantava  al buio. Presi a braccetto un omone - all'apparenza un facchino -  e una grassa signora che probabilmente era riuscita a infilarsi  dentro dalla piazza e cominciai a girare in tondo per il caffè  con quei due al mio fianco. Non conoscevo la canzone, ma presto  mi accorsi che gran parte dei presenti erano nelle mie stesse  condizioni, anzi non avevano alcuna familiarità con la lingua  ungherese. Si limitavano a cantare vaghe approssimazioni di  quelle che immaginavano fossero le parole del testo. L'uomo e la  donna che avevo accanto a me, per esempio, cantavano cose  completamente diverse, senza alcun imbarazzo o incertezza. Anzi,  prestando un attimo d'attenzione, scoprii che tutti e due  cantavano parole senza senso; nessuno sembrava darvi importanza,  e presto anch'io mi lasciai trascinare dall'atmosfera e cominciai  a cantare, inventandomi parole dal vago suono ungherese. Con mia  gran meraviglia, il trucco funzionò - scoprii che le parole mi  uscivano di bocca sempre più numerose con gratificante facilità -  e un attimo dopo stavo cantando anch'io con grande sentimento.   
  Poi, dopo forse venti minuti, vidi che la folla cominciava  finalmente a diradarsi. I camerieri si misero a spazzare per  terra e a rimettere a posto i tavoli del caffè. Ma il gruppo di  cui facevo parte, che continuava a girare per la sala tenendosi a  braccetto e cantando appassionatamente, era ancora piuttosto  numeroso. Anche gli zingari erano rimasti sul tavolo, e non  sembravano intenzionati a smettere di suonare. Mentre giravo in  tondo trascinato dai miei compagni, che con garbo mi tiravano da  una parte e mi spingevano dall'altra, mi sentii battere sulla  schiena. Girandomi, vidi l'uomo allampanato che avevo preso per  il padrone del caffè. Mi stava sorridendo, e mentre proseguivo il  mio girotondo ondeggiante mi venne cortesemente dietro,  strascicando i piedi con la schiena un po' curva in una posizione  che mi ricordò Groucho Marx.   
  - Signor Ryder, ha la faccia stanca, - mi urlò nell'orecchio,  ma il canto era così assordante che lo udii a stento. - E  l'aspetta una serata molto lunga e importante. Non vuole riposarsi qualche minuto? Sul retro abbiamo una stanza  accogliente; mia moglie le ha preparato il divano con coperte e  guanciali e ha acceso la stufetta a gas. Vedrà che starà  comodissimo. Potrebbe raggomitolarsi e dormire qualche minuto. La  stanza è piccola, è vero, ma dà sul retro ed è molto silenziosa.  Nessuno verrà a disturbarla, ci penseremo noi. Vedrà che starà  comodissimo. Davvero, signor Ryder, credo che dovrebbe  approfittare del poco tempo che le resta prima dell'inizio della  serata. La prego, venga da questa parte. Ha una faccia così  stanca.   
  Sebbene mi stessi godendo il canto e la compagnia, mi resi  conto di essere davvero stremato. Il consiglio non era privo di  buon senso. Anzi, quanto più ci pensavo, tanto più l'idea di un  riposino mi allettava. Il padrone del caffè continuava a venirmi  dietro strascicando i piedi; cominciai a provare una profonda  gratitudine nei suoi confronti, non solo per la sua gentile  offerta, ma per averci messo a disposizione quel magnifico caffè  e per la sua generosità verso i facchini - una categoria di  persone ovviamente sottovalutata dalla comunità. Liberai le  braccia e sorrisi in segno di saluto alle persone che mi stavano  a fianco. Poi il padrone mi mise una mano sulla spalla e mi guidò  verso una porta in fondo al caffè.   
  Attraversata una stanza buia, dove scorsi pile di cassette  ammonticchiate contro le pareti, aprì un'altra porta, dalla quale  filtrava una luce tenue e calda.   
  - Ecco qua, - disse il padrone, facendomi segno di entrare. -  Si distenda sul divano e si rilassi. Tenga chiusa questa porta, e  se ha caldo abbassi la stufetta a gas mettendola sul minimo. Non  si preoccupi, è assolutamente sicura.   
  La fiamma della stufa era l'unica fonte di luce nella stanza.  Nel bagliore aranciato scorsi il divano, che aveva un non  sgradevole odore di muffa, e prima che me ne accorgessi la porta  si richiuse e io rimasi solo. Mi distesi sul divano, che era  lungo a sufficienza solo a patto di rannicchiare le gambe, poi mi  tirai sulle spalle la coperta che la moglie del padrone mi aveva  preparato. 
 
Parte quarta 
28.  
  Mi svegliai con la spaventosa sensazione di avere dormito troppo a lungo. Il mio primo pensiero fu che fosse già mattina, e temetti di essermi perso l'intera serata. Ma quando mi misi a sedere sul divano vidi che intorno a me, tolto il bagliore della  stufa a gas, tutto era ancora immerso nell'oscurità.   
  Andai alla finestra e scostai la tenda. Vidi un angusto  cortiletto ingombro di bidoni della spazzatura. Una luce lasciata  accesa da qualche parte lo illuminava fiocamente, ma ebbi  l'impressione che il cielo non fosse più completamente buio. Di  nuovo temetti che l'alba fosse vicina. Lasciando ricadere la  tenda, mi diressi verso la porta, rimpiangendo amaramente di  avere dato ascolto al padrone del caffè quando mi aveva offerto  un posto per riposare.   
  Entrai nella piccola stanza di comunicazione, dove in  precedenza avevo visto pile di mercanzie contro i muri. Faceva  buio pesto, e per due volte, mentre cercavo a tentoni la porta,  urtai contro qualcosa di duro. Finalmente sbucai nella sala  principale del caffè, dove non molto tempo prima avevamo ballato  e cantato così piacevolmente. Dalle finestre che davano sulla  piazza filtrava un po' di luce, che permetteva di distinguere le  forme caotiche delle sedie impilate sui tavoli. Destreggiandomi fra gli ostacoli, andai alla porta e guardai attraverso i vetri.   
  Fuori tutto era immobile. La tenue luce che entrava nel caffè  proveniva dal solitario lampione in mezzo alla piazza vuota, ma  di nuovo mi parve di scorgere in cielo i primi indizi dell'alba.  Mentre contemplavo la piazza, mi sentii invadere dalla rabbia. Mi  resi conto di avere lasciato che troppe cose mi distraessero dai  miei obiettivi principali, al punto che avevo dormito per buona  parte di una delle serate più importanti della mia vita. Poi la  rabbia si mescolò alla disperazione, e fui sul punto di mettermi  a piangere.   
  Tuttavia, mentre scrutavo il cielo notturno, cominciai a  domandarmi se i presagi dell'alba non fossero frutto della mia  fantasia. Infatti, ora che lo stavo studiando più attentamente,  mi accorsi che il cielo era ancora nerissimo; mi venne il dubbio  che non fosse poi così tardi. Era inutile lasciarsi prendere dal  panico. Per quel che ne sapevo, potevo ancora arrivare al palazzo  dei concerti in tempo per assistere a gran parte della serata, e  sicuramente per dare il mio contributo.   
  Nel frattempo mi ero messo a scuotere la porta distrattamente.  Solo allora notai la sfilza di chiavistelli; li feci scorrere a  uno a uno e uscii nella piazza.   
  L'aria mi parve magnificamente rinfrescante dopo l'odore di  chiuso del caffè, e se avessi avuto meno fretta sarei rimasto  volentieri a passeggiare nella piazza per schiarirmi le idee.  Invece, partii risoluto in cerca del palazzo dei concerti.   
  Per parecchi minuti camminai come una furia per le strade  deserte, passando davanti a caffè e negozi chiusi, senza mai  scorgere la cupola. Alla luce dei lampioni la città vecchia era  senza dubbio affascinante, ma quanto più procedevo, tanto più  stentavo a reprimere il panico. Mi ero aspettato, non del tutto  irragionevolmente, di incontrare un tassì a caccia di clienti  notturni; o almeno qualche passante uscito da un locale notturno  cui chiedere indicazioni. Ma tolti i gatti randagi, sembravo  l'unica creatura sveglia nel raggio di chilometri.   
  Attraversai le rotaie di una tranvia, poi m'incamminai lungo  l'argine di un canale. Sull'acqua soffiava un vento gelido, e  dopo un po', dato che il palazzo dei concerti sembrava sparito  nel nulla, non riuscii più a scacciare la sensazione di essermi  perso. Avevo deciso di tentare una traversa poco più avanti - una  viuzza che si diramava ad angolo acuto - quando udii un rumore di  passi e vidi una donna sbucare proprio di lì.   
  Ero ormai così abituato all'idea che le strade fossero deserte  che a quella vista mi fermai di botto. Lo stupore era accentuato  dal fatto che la donna indossava un ondeggiante vestito da sera.  Anche lei esitò, poi parve riconoscermi e mi venne incontro con  un sorriso. Quando arrivò sotto la luce dei lampioni, vidi che  era prossima alla cinquantina; forse l'aveva addirittura  superata. Sebbene fosse grassottella, si muoveva con notevole  grazia.   
  - Buona sera, signora, - dissi. - Chissà se può aiutarmi. Cerco  il palazzo dei concerti. Sto andando nella direzione giusta?   
  La donna mi era ormai giunta accanto. Sorridendo di nuovo,  disse:   
  - No, veramente il palazzo si trova da quella parte. Vengo  giusto di lì. Stavo prendendo un po' d'aria, ma l'accompagnerò  volentieri, signor Ryder. Sempre che non abbia nulla in  contrario, naturalmente.   
  - Mi farebbe un enorme piacere, signora. Ma non voglio  interrompere la sua passeggiata.   
  - No, no. $è quasi un'ora che cammino. Devo tornare anch'io.  Avrei fatto meglio a prendermela con calma e ad arrivare con  tutti gli altri invitati. Ma scioccamente mi ero messa in testa di dover assistere ai preparativi, caso mai ci fosse stato  bisogno di me. Naturalmente, non c'era niente che potessi fare.  Ma la prego di scusarmi, signor Ryder, non mi sono presentata.  Sono Christine Hoffman. Mio marito è il direttore del suo  albergo.   
  - Lieto di conoscerla, signora Hoffman. Suo marito mi ha  parlato molto di lei.   
  Mi pentii di questa osservazione non appena mi uscì di bocca.  Lanciai un'occhiata alla signora Hoffman, ma il suo volto era di  nuovo nella penombra.   
  - Da questa parte, signor Ryder, - disse la donna. - Non siamo  lontani.   
  Mentre ci incamminavamo, le maniche del suo vestito da sera si  gonfiarono. Tossii e domandai:   
  - Devo dedurre, da ciò che ha detto, che al palazzo dei  concerti la serata non è ancora in pieno svolgimento, signora  Hoffman? E che gli invitati non sono ancora arrivati?   
  - Gli invitati? Oh, no. Non credo che nessuno arriverà prima di  un'altra ora.   
  - Ah. Bene.   
  Continuammo senza fretta lungo il canale, girandoci di tanto in  tanto a contemplare il riflesso dei lampioni sull'acqua.   
  - Mi chiedevo, signor Ryder, - disse finalmente la signora  Hoffman, - se mio marito, quando le ha parlato di me, le ha dato  l'impressione che io fossi... ecco, una persona un po' fredda. Mi  chiedevo se le ha dato questa impressione.   
  Proruppi in una breve risata. - Suo marito, signora Hoffman, mi  ha dato soprattutto l'impressione di essere una persona  estremamente devota a lei.   
  La donna continuò a camminare in silenzio, e mi venne il dubbio  che non avesse udito la mia risposta. Dopo un po' disse:   
  - Quand'ero giovane, signor Ryder, nessuno si sarebbe mai  sognato di descrivermi come una persona fredda. Le assicuro che  da bambina ero tutt'altro che fredda. E nemmeno oggi riesco a  vedermi così.   
  Borbottai qualcosa di vagamente diplomatico. Poi, mentre  lasciavamo il canale per imboccare una stretta via laterale, vidi  finalmente la cupola del palazzo dei concerti, illuminata sullo  sfondo nero del cielo.   
  - Ancora adesso, la mattina presto, - disse accanto a me la  signora Hoffman, - faccio strani sogni. Solo la mattina presto.  Sono sempre sogni sulla... sulla tenerezza. Non vi succede quasi  nulla, di solito si tratta di semplici frammenti. Magari osservo  mio figlio Stephan. Lo osservo mentre gioca in giardino. Un  tempo, quando lui era piccolo, eravamo molto vicini, signor  Ryder. Lo consolavo, partecipavo ai suoi piccoli trionfi. Ah,  com'eravamo vicini quando lui era piccolo. Talvolta il sogno  riguarda mio marito. L'altra mattina ho sognato che stavamo  disfacendo una valigia insieme. Eravamo in una stanza e mettevamo  le cose sul letto. Forse eravamo in un albergo all'estero, forse  a casa nostra. Ma la cosa importante era che stavamo disfacendo i  bagagli insieme, e che ci sentivamo... ci sentivamo bene...  lavoravamo gomito a gomito. Tirava fuori qualcosa lui, poi tiravo  fuori qualcosa io. E intanto chiacchieravamo, di nulla in  particolare, una banale conversazione mentre svuotavamo la  valigia. Questo sogno l'ho fatto non più tardi dell'altra  mattina. Poi mi sono svegliata e sono rimasta a letto a guardare  la luce dell'alba che filtrava attraverso le tende, con una gran  felicità in cuore. Mi sono detta che presto le cose sarebbero  andate £davvero così. Che forse quel giorno stesso avremmo  vissuto un istante simile. Non c'era bisogno che disfacessimo una  valigia, naturalmente. Ma qualcosa, avremmo fatto qualcosa proprio quel giorno; la possibilità £c'£era. Mi sono  riaddormentata con questo pensiero e con una gran felicità in  cuore. Poi è arrivata la mattina. $è strano, signor Ryder, tutte  le volte è la stessa storia. Non appena la giornata comincia,  interviene quest'altra cosa, questa £forza, che arriva e prende  il sopravvento. E per quanto m'impegni, i nostri rapporti  imboccano una strada diversa da quella che vorrei. Io lotto  contro questa dannazione, signor Ryder, ma in tutti questi anni  non ho fatto che perdere terreno. E... è più forte di me. Mio  marito ce la mette tutta, cerca di aiutarmi, ma è inutile. Quando  scendo a colazione, tutto ciò che ho provato in sogno è già  sparito da un pezzo.   
  Alcune automobili posteggiate sul marciapiede ci costrinsero a  camminare in fila indiana, e la signora Hoffman mi precedette di  qualche passo. Quando fui di nuovo al suo fianco, le domandai:   
  - Che cosa pensa che sia questa forza?   
  La donna si mise improvvisamente a ridere. - Non avevo  intenzione di fargliela sembrare una cosa così soprannaturale,  signor Ryder. Ovviamente, la risposta più semplice sarebbe che  all'origine di tutto c'è il signor Christoff. Io stessa, per un  po', l'ho pensato, e certamente mio marito ne è ancora convinto.  Come molti altri in questa città credevo che sarebbe bastato  sostituire nei nostri affetti il signor Christoff con qualcuno di  meno fatuo. Ma ultimamente non ne sono più così sicura. Comincio  a pensare che possa dipendere da me. Che sia come una specie di  malattia. O che faccia parte del processo di invecchiamento. In  fondo, tutti invecchiamo, e certe parti di noi cominciano a  morire. Forse cominciamo a morire anche spiritualmente. Pensa che  sia possibile, signor Ryder? Ho una grande paura, sa, una grande  paura che la verità sia questa. Che dopo avere dato il benservito  al signor Christoff scopriremo, nel mio caso particolare almeno,  che non è cambiato nulla.  
  Svoltammo in un'altra via. Dato che i marciapiedi erano molo  stretti, ci spostammo in mezzo alla carreggiata. Ebbi  l'impressione che la signora Hoffman si aspettasse una risposta,  e dopo un po' dissi:   
  - Secondo me, di là dagli effetti dell'invecchiamento, è  fondamentale che lei non si abbatta, che non si arrenda a  questa... la chiami come vuole.   
  La signora Hoffman alzò lo sguardo verso il cielo notturno e  per un po' camminò senza ribattere. Poi disse: - Sa, a proposito  di questi sogni incantevoli che faccio la mattina presto...  Spesso, quando vedo che la giornata comincia e i sogni non si  realizzano, mi amareggio e do la colpa a me stessa. Ma le  assicuro che non mi sono ancora arresa, signor Ryder. Se  capitolassi, resterebbe ben poco nella mia vita. Per il momento  mi rifiuto di abbandonare i miei sogni. Non ho ancora rinunciato  ad avere una famiglia unita e affettuosa. Ma non è solo per  questo. Vede, signor Ryder, forse sono una sciocca a farmi di  queste illusioni, e la prego di dirmi che cosa ne pensa. Ma un  giorno spero di smascherarla questa... questa £cosa. Sì, spero di  smascherarla, e allora non mi importerà più di nulla; tutti  questi anni di lento logorio saranno spazzati via. Ho la  sensazione che basterebbe un istante, anche £minuscolo, purché  sia quello giusto. Come se una corda si spezzasse all'improvviso,  e uno spesso sipario cadesse a terra rivelando un mondo  interamente nuovo, un mondo pieno di luce e di calore. Signor  Ryder, perché fa quella faccia incredula? Sono davvero matta a  sperare in una cosa simile? A sperare che, anche se sono passati  tanti anni, un solo istante, l'istante giusto, possa cambiare  tutto?   
  Ciò che la donna aveva preso per incredulità era tutt'altra cosa. Mentre parlava, mi ero ricordato dell'imminente esibizione  al pianoforte di Stephan, e senza dubbio non avevo saputo  nascondere la mia eccitazione. Forse un po' troppo  precipitosamente le dissi:  
  - Signora Hoffman, non voglio darle false speranze. Ma è  possibile, solo possibile, che molto presto le capiti qualcosa,  un'esperienza che potrebbe essere proprio l'istante di cui mi  stava parlando. $è possibile che questo istante si presenti  nell'immediato futuro. Che le capiti qualcosa di stupefacente,  che la costringerà a riesaminare tutto sotto una luce nuova e  migliore. Qualcosa che sicuramente spazzerà via questi anni di  patimenti. Non voglio darle false speranze; dico solo che la  possibilità esiste. Il fatidico istante potrebbe presentarsi  addirittura questa sera, quindi è essenziale che lei non si  abbatta.   
  Mi fermai, improvvisamente consapevole che stavo tentando il  destino. In fondo, anche se quel poco che avevo sentito di  Stephan mi aveva colpito, c'era sempre il rischio che il ragazzo  crollasse per effetto della tensione. Anzi, ripensandoci, mi  pentii di essermi lasciato andare a simili dichiarazioni.  Tuttavia, quando guardai la signora Hoffman, mi accorsi che le  mie parole non l'avevano né meravigliata né eccitata. Dopo  qualche istante, la donna disse:   
  - Poco fa, signor Ryder, quando mi ha trovata a passeggio per  queste strade, non stavo semplicemente prendendo una boccata  d'aria, come le ho fatto credere. Cercavo di prepararmi. Perché  naturalmente anch'io ho pensato alla possibilità cui mi ha  accennato lei. Sì, in una notte come questa sono possibili molte  cose. Dunque mi stavo preparando. E non ho ritegno a confessarle  che in questo momento sono un po' spaventata. Perché vede, in  passato, anche se raramente, questi attimi si sono già  presentati, e io non sono stata abbastanza forte per afferrarli.  Chi può dire quante occasioni avrò ancora? Per questo, signor  Ryder, stavo facendo del mio meglio per prepararmi. Oh, eccoci  arrivati. Questo è il retro dell'edificio. Di qui si va nelle  cucine. L'accompagno all'ingresso degli artisti, ma io non  entrerò con lei. Credo di avere ancora bisogno di prendere un po'  d'aria.  
  - Sono felice di averla conosciuta, signora Hoffman. $è stata  molto gentile ad accompagnarmi in un momento per lei così  delicato. Spero che questa sera tutto vada per il meglio.   
  - Grazie, signor Ryder. Sono sicura che anche lei ha da pensare  a tante cose. $è stato un vero piacere conoscerla.  
29.  
  Mentre la signora Hoffman spariva nella notte, mi girai e mi  affrettai verso la porta che mi aveva indicato. Lo feci dicendomi  che il falso allarme di poc'anzi doveva servirmi da lezione; era  assolutamente indispensabile evitare qualunque cosa potesse  distrarmi dagli importantissimi impegni che mi attendevano. In  realtà, in quel momento, mentre finalmente entravo nel palazzo  dei concerti, tutto mi parve all'improvviso molto semplice.  L'unica cosa che contava era che dopo tutti questi anni avrei  suonato di nuovo davanti ai miei genitori. Il primo obiettivo,  quindi, era i quello di suonare nella maniera più strabiliante e  irresistibile di cui fossi capace. Al confronto, persino  l'intermezzo con le domande e le risposte passava in  second'ordine. Tutti i contrattempi e i disguidi dei giorni  precedenti si sarebbero rivelati privi di importanza, purché  quella sera riuscissi a conseguire il mio scopo principale.   
  L'ampia porta bianca era debolmente illuminata dall'alto da  un'unica lampadina. Per aprirla dovetti spingere con tutto il mio peso, tanto che entrando incespicai leggermente.   
  Sebbene la signora Hoffman mi avesse assicurato che quella era  l'entrata degli artisti, la mia prima impressione fu di essere  finito lo stesso nelle cucine. Mi trovavo in un corridoio largo e  spoglio, crudamente illuminato da tubi fluorescenti applicati al  soffitto. Da ogni parte mi giungeva il suono di voci che  chiamavano e urlavano, il fragore di pesanti oggetti metallici,  il sibilo di acqua e vapore. Proprio davanti a me c'era un  carrello portavivande con due individui in uniforme che  litigavano selvaggiamente. Uno dei due teneva in mano una lunga  striscia di carta che arrivava quasi a terra e la colpiva  ripetutamente con la punta del dito. Pensai di interromperli per  chiedere dove fosse Hoffman - dato che innanzitutto volevo  esaminare l'auditorium e il pianoforte, prima che arrivasse il  pubblico - ma i due sembravano così presi dal loro litigio che  decisi di proseguire oltre.   
  Il corridoio curvava gradualmente. Incontrai parecchie persone,  ma mi sembrarono tutte indaffaratissime e di cattivo umore. La  maggior parte, vestita in uniforme bianca, andava di qui e di là  con la faccia preoccupata, portando pesanti sacchi o spingendo  carrelli. Sentendomi poco invogliato a fermarne una, continuai  lungo il corridoio, presumendo che prima o poi sarei arrivato in  un'altra parte dell'edificio, dove avrei trovato i camerini - e  con un po' di fortuna Hoffman o qualcuno che potesse farmi  visitare l'auditorium. Poi, però, sentii alle mie spalle una voce  che mi chiamava per nome; voltandomi, vidi un uomo correre verso  di me. Aveva un aspetto familiare, e un attimo dopo riconobbi il  facchino barbuto che quella sera aveva aperto le danze nel caffè.   
  - Signor Ryder, - mi disse ansimando, - grazie al cielo l'ho  trovata. Finalmente. $è la terza volta che faccio il giro  dell'edificio. Ha una fibra d'acciaio, ma abbiamo fretta di  portarlo in ospedale, e lui dice che non si muoverà se prima non  parla con lei. La prego, da questa parte. Per fortuna ha una  fibra d'acciaio, che Dio lo benedica.   
  - Chi ha una fibra d'acciaio? Che cosa è successo?   
  - Da questa parte, signor Ryder. Meglio spicciarci, se non le  dispiace. Mi scusi, non le ho spiegato. Gustav si è sentito male.  Io non c'ero quando è successo, ma ci hanno avvertiti due dei  ragazzi, Wilhelm e Hubert, che erano venuti a dare una mano per i  preparativi di questa sera e lavoravano con lui. Naturalmente,  appena l'ho saputo sono corso qui, e così hanno fatto tutti gli  altri. Pare che Gustav stesse lavorando di buona lena, ma a un  certo punto è andato al gabinetto e non è più uscito. Visto che  non è da lui comportarsi così, Wilhelm è entrato a dare  un'occhiata. E pare che abbia trovato Gustav chino su un lavabo.  Non stava ancora molto male; ha detto a Wilhelm che gli girava un  po' la testa, tutto lì, e che non era il caso di agitarsi.  Wilhelm, fatto com'è, non sapeva che pesci prendere, anche perché  Gustav gli aveva detto di stare calmo, così è andato a chiamare  Hubert. Hubert ha dato un'occhiata a Gustav e ha deciso che  bisognava sdraiarlo da qualche parte. Così si sono messi uno da  una parte e uno dall'altra per aiutarlo, e in quel momento si  sono accorti che Gustav era svenuto in piedi. Si era aggrappato  ai lati del lavabo, e li stringeva con tale forza che hanno  dovuto staccargli le dita a una a una, così almeno dice Wilhelm.  Poi Gustav si è un po' riavuto, e i ragazzi l'hanno portato fuori  di lì sostenendolo per le braccia. Gustav ha ricominciato a dire  che non c'era bisogno di agitarsi, che stava benone e poteva  riprendere a lavorare. Ma Hubert non gli ha dato retta e l'ha  sistemato in un camerino, uno di quelli vuoti.   
  Il facchino mi precedeva per il corridoio camminando di buon  passo; non aveva cessato un istante di parlarmi con la testa voltata verso di me, ma a un certo punto dovette interrompersi  per schivare un carrello.   
  - Questo è un bel guaio, - dissi. - Quando è successo,  esattamente?   
  - Credo un paio di ore fa. Sulle prime Gustav non sembrava così  grave; sosteneva di avere solo bisogno di qualche minuto per  riprendere fiato. Hubert però era preoccupato e ci ha avvertiti,  e un attimo dopo eravamo tutti qui, dal primo all'ultimo. Abbiamo  trovato un materasso su cui farlo sdraiare e una coperta, poi ci  è sembrato che peggiorasse; allora ne abbiamo discusso e ci siamo  detti che Gustav aveva bisogno di assistenza. Ma lui non ha  voluto saperne; sul più bello si è incaponito e ha detto che  doveva parlarle. Cocciuto come un mulo. Ha detto che in ospedale  ci andrà, se proprio vogliamo, ma non prima di avere parlato con  lei. Lo vedevamo peggiorare sotto i nostri occhi, ma non c'era  verso di farlo ragionare, signor Ryder, così abbiamo cominciato a  cercarla. Grazie a Dio, l'ho trovata. Gustav è lì, nell'ultimo  camerino in fondo al corridoio.   
  Avevo pensato che il corridoio facesse il giro completo, invece  vidi che finiva poco più avanti contro un muro color panna.  L'ultima porta prima del muro era socchiusa; fermandosi sulla  soglia, il facchino barbuto sbirciò cautamente dentro la stanza.  Poi mi fece cenno di seguirlo ed entrò.   
  Ammassate dietro la porta c'erano una dozzina di persone, che  si girarono verso di noi e si fecero subito da parte. Immaginai  che fossero gli altri facchini, ma non mi soffermai a  controllare, perché i miei occhi furono attratti dalla figura di  Gustav, sdraiata in fondo alla stanzetta.   
  Il vecchio facchino giaceva su un materasso steso sul pavimento  di piastrelle, con una coperta addosso. Uno dei suoi colleghi si  era accucciato accanto a lui e gli stava parlando sottovoce, ma  quando mi vide si alzò. In un attimo la stanza si svuotò, la  porta si chiuse e io rimasi solo con Gustav.   
  Il minuscolo camerino non aveva mobili, nemmeno una sedia di  legno. Era anche privo di finestre, e, sebbene dalla griglia di  aerazione vicino al soffitto provenisse un lieve ronzio, l'aria  sapeva di chiuso. Il pavimento era freddo e duro, e la lampada  sopra la nostra testa era stata spenta o non funzionava; l'unica  fonte di luce erano le lampadine disposte intorno allo specchio  per il trucco. Ci vedevo abbastanza, però, per accorgermi che la  faccia di Gustav aveva assunto una strana tonalità di grigio. Il  vecchio giaceva supino, perfettamente immobile; solo di tanto in  tanto s'inarcava all'indietro, affondando ancora di più la testa  nel materasso, come se il suo corpo fosse investito da un'onda.  Quando ero entrato mi aveva sorriso, ma non aveva aperto bocca,  senza dubbio risparmiandosi per il momento in cui saremmo rimasti  soli. Ora, con voce flebile ma per il resto incredibilmente  serena, mi disse:   
  - Mi spiace molto averla trascinata fin qui, signor Ryder. $è  la seccatura peggiore che potesse capitarmi, e per di più questa  sera, quando sta per renderci un grande favore.   
  - Sì, sì, - mi affrettai a interromperlo, - ma mi dica, come si  sente? - Mi accovacciai accanto a lui.   
  - Credo di essere piuttosto mal messo. E penso che dovrò andare  in ospedale per fare qualche controllo.   
  Gustav tacque, mentre un'altra onda lo investiva; per qualche  secondo sul materasso si svolse una lotta silenziosa, durante la  quale il vecchio facchino tenne gli occhi chiusi. Poi li riaprì e  continuò:   
  - Avevo bisogno di parlarle, signor Ryder. Devo dirle una cosa.   
  - Voglio subito assicurarle, - dissi, - che terrò fede  all'impegno preso. Anzi, sono ansioso di dimostrare a tutti coloro che si riuniranno qui questa sera le ingiustizie che voi  facchini avete dovuto sopportare in questi anni. Sono  intenzionatissimo a mettere in evidenza i numerosi malintesi...  
  Mi fermai, perché mi accorsi che Gustav stava cercando di  attirare la mia attenzione.   
  - Non ho mai dubitato un istante, signor Ryder, - disse il  facchino dopo una pausa, - che avrebbe mantenuto la sua parola.  Le sono molto riconoscente per avere preso le nostre parti. Ma è  di qualcos'altro che desidero parlarle -. Gustav fece di nuovo  una pausa, e sotto la coperta cominciò un'altra battaglia  silenziosa.   
  - Veramente, - dissi, - mi chiedo se non sarebbe saggio andare  di filato in ospedale...   
  - No, no. La prego. Se mi portano in ospedale, be', dopo  potrebbe essere troppo tardi. Vede, è giunto il momento che io  parli a Sophie. Sì devo assolutamente parlarle. So che questa  sera ha ben altro cui pensare, signor Ryder, ma vede, tolto lei,  nessuno sa niente della situazione fra me e Sophie, della nostra  £intesa. Mi rendo conto di chiederle molto, ma non potrebbe  cercarla e spiegarle come stanno le cose? Non c'è nessun altro  che possa farlo.   
  - Mi scusi, - dissi, sinceramente confuso. - Spiegarle che  cosa, di preciso?   
  - Spiegarle perché la nostra intesa... insomma, perché debba  finire proprio adesso. Non sarà facile convincerla dopo tutti  questi anni. Ma se lei ci provasse, se riuscisse a farle capire  perché dobbiamo cercare di mettere fine all'intesa... Mi rendo  conto di chiederle molto, ma ci vuole ancora un po' prima che la  chiamino in scena. E, come le dico, lei è l'unico che sappia...   
  La frase gli morì sulle labbra, mentre un'altra ondata di  dolore investiva il suo corpo. Mi accorsi che sotto la coperta i  suoi muscoli si tendevano allo spasimo per resistere; ma questa  volta Gustav continuò a fissarmi in volto, riuscendo a tenere gli  occhi aperti nonostante il violento tremito. Quando finalmente si  rilassò di nuovo, dissi:  
  - $è vero, ho ancora un po' di tempo. D'accordo, vedrò che cosa  posso fare. Cercherò di spiegarle. In ogni caso, gliela porterò  qui il più in fretta possibile. Ma spero proprio che lei si  riprenda presto, e che i suoi timori sulle sue condizioni di  salute si rivelino infondati...   
  - La prego, signor Ryder, me la porti qui, faccia in fretta.  Intanto io cercherò di tenere duro...   
  - Sì, sì, vado subito. Non si agiti, ci metterò pochissimo.   
  Mi alzai in piedi e mi diressi verso la porta. Ero quasi sulla  soglia, quando mi venne in mente una cosa. Mi girai e tornai  dalla figura distesa sul pavimento.   
  - Boris, - dissi, accovacciandomi di nuovo. - Che cosa devo  fare di Boris? Porto qui anche lui?   
  Gustav mi guardò, poi trasse un profondo respiro e chiuse gli  occhi. Dopo qualche istante, vedendo che si ostinava a non  parlare, aggiunsi:   
  - Forse è meglio che non la veda in queste... in queste  condizioni.   
  Gustav rimase zitto, con gli occhi chiusi, ma mi parve di  cogliere un lievissimo cenno affermativo.   
  - In fondo, - continuai, - si è creato una certa immagine di  lei, e forse è meglio che la ricordi così. Non crede?   
  Questa volta Gustav annuì più risolutamente.   
  - Ho pensato che fosse meglio chiederglielo, - dissi, alzandomi  di nuovo in piedi. - D'accordo, le porterò solo Sophie. Vado e  torno.   
  Andai verso la porta, e stavo già girando la maniglia quando Gustav urlò all'improvviso:   
  - Signor Ryder!   
  Non solo mi aveva chiamato in tono sorprendentemente alto, ma  nella sua voce c'era una tale veemenza che stentai a credere che  potesse venire da lui. Quando mi voltai, aveva di nuovo gli occhi  chiusi e sembrava immobile. Mi avvicinai con un po' di  apprensione, ma Gustav riaprì le palpebre e mi fissò.   
  - Porti anche Boris, - disse con un filo di voce. - Non è più  un bambino. Che mi veda pure in questo stato. Deve imparare a  conoscere la vita. Imparare ad affrontarla.   
  Gli occhi si richiusero, e vedendo che la sua faccia si  tendeva, pensai che Gustav fosse colpito da un altro accesso di  dolore. Ma questa volta c'era qualcosa di diverso; preoccupato,  guardai meglio e mi accorsi che il vecchio stava piangendo.  Rimasi un momento a osservarlo senza sapere che cosa fare, poi  gli sfiorai una spalla.   
  - Ci metterò pochissimo, - sussurrai.   
  Quando uscii dal camerino, gli altri facchini, radunati davanti  alla porta, si girarono verso di me con la faccia ansiosa. Mi  feci largo fra loro, dicendo con fermezza:   
  - Signori, vi prego di avere cura di lui. Bisogna che mi occupi  di un'urgente richiesta di Gustav, quindi vi prego di scusarmi.   
  Qualcuno cercò di rivolgermi una domanda, ma io passai oltre  senza fermarmi.   
  Avevo intenzione di trovare Hoffman e di chiedergli di  accompagnarmi immediatamente a casa di Sophie in macchina. Ma un  attimo dopo, mentre avanzavo a grandi passi per il corridoio, mi  resi conto che non avevo la minima idea di dove fosse il  direttore dell'albergo. Inoltre, il corridoio aveva un aspetto  molto diverso da quando l'avevo percorso in compagnia del  facchino barbuto. In giro si vedeva ancora qualche carrello, ma  adesso il corridoio era invaso soprattutto da persone che potevo  solo supporre facessero parte dell'orchestra ospite. Ai miei lati  erano comparse due lunghe file di camerini, molti dei quali con  la porta aperta; i musicisti conversavano e ridevano a gruppetti  di due o tre, chiamandosi a gran voce da una parte all'altra del  corridoio. Di tanto in tanto passavo davanti a una porta chiusa  da cui veniva il suono di uno strumento, ma nell'insieme  l'atmosfera mi parve stranamente frivola. Stavo per fermarmi a  chiedere a uno dei musicisti dove potessi trovare Hoffman, quando  scorsi il direttore dell'albergo attraverso lo spiraglio di una  porta semiaperta. Mi avvicinai e la aprii un po' di più.   
  Hoffman si stava esaminando attentamente davanti a uno specchio  a muro. Indossava un abito da cerimonia, e notai che si era  truccato in maniera esagerata, tanto che un po' di cipria gli era  finita sulle spalle e sui risvolti della marsina. Borbottava  qualcosa sottovoce, senza staccare gli occhi dalla propria  immagine riflessa. Poi, mentre lo osservavo dalla soglia, fece  una cosa curiosa. Piegandosi improvvisamente in avanti ad angolo  retto, sollevò un braccio con il gomito in fuori e si batté la  fronte con il pugno - una, due, tre volte. E questo senza  distogliere gli occhi dallo specchio, né interrompere il  borbottio. Poi raddrizzò il busto e rimase a guardarsi in  silenzio. Temendo che stesse per ricominciare da capo, mi  schiarii la gola e dissi:  
  - Signor Hoffman.   
  Il direttore sussultò e mi fissò con gli occhi sbarrati.   
  - L'ho disturbata, - dissi. - Mi scusi.   
  Hoffman si guardò intorno disorientato, poi parve ritrovare il  suo contegno.   
  - Signor Ryder, - disse con un sorriso. - Come sta? Spero che  stia trovando tutto di suo gradimento.  
  - Signor Hoffman, c'è un'emergenza. Devo fare una scappata in  città e ho bisogno di un'automobile. La prego di provvedere  immediatamente.  
  - Un'automobile, signor Ryder? Adesso?  
  - Si tratta di una questione della massima urgenza. Ovviamente  non starò via molto e tornerò in tempo per i vari impegni che mi  attendono.   
  - Sì, sì, naturalmente -. Hoffman sembrava un po' perplesso. -  Non credo che sia un problema procurarle un'automobile, signor  Ryder. E in circostanze normali avrei potuto trovarle anche un  autista, o l'avrei accompagnata io stesso molto volentieri. Ma  purtroppo in questo momento tutto il personale è occupatissimo. E  io devo pensare a un'infinità di cose, oltre a provare il mio  modesto discorsino. Ah ah! Come sa, questa sera dirò qualche  parola anch'io. E anche se il mio contributo apparirà  indubbiamente trascurabile in confronto al suo, e persino.a  quello del signor Brodsky, che tra parentesi è un po' in ritardo,  sento il dovere di prepararmi con la massima cura. Sì, sì, il  signor Brodsky è un po' in ritardo, è vero, ma non c'è motivo di  preoccuparsi. Questo, tra l'altro, è il suo camerino; stavo  controllando che tutto fosse in ordine. Un ottimo camerino. Sono  sicurissimo che il signor Brodsky sarà qui a momenti. Come lei  sa, ho seguito personalmente il... ehm... il suo recupero, ed è  stata un'esperienza davvero esaltante. Vedesse che impegno, che  dignità! Quindi questa sera, anche se è una sera così importante,  sono estremamente fiducioso. Oh, sì. Estremamente fiducioso! A  questo punto, una ricaduta sarebbe inconcepibile. Una catastrofe  per l'intera città! E naturalmente una catastrofe personale per  il sottoscritto. Questa dovrebbe essere l'ultima delle mie  preoccupazioni, ma mi perdonerà se le dico che una ricaduta  adesso, proprio questa sera, be', segnerebbe la mia fine. Proprio  alle soglie del trionfo, mi darebbe il colpo di grazia. E che  fine umiliante! Non potrei più guardare in faccia nessuno, in  questa città. Dovrei nascondermi. Ah! Ma che mi prende? Perché  parlo di eventualità così remote? Ho la massima fiducia nel  signor Brodsky. Arriverà.   
  - Sì, ne sono sicuro, signor Hoffman, - dissi. - Anzi, sono  sicuro che la serata sarà un grande successo...   
  - Sì, sì, lo so! - urlò il direttore spazientito. - Non ho  bisogno delle sue rassicurazioni! Non gliene avrei nemmeno  parlato... In fondo, manca ancora parecchio all'inizio, e non  gliene avrei nemmeno parlato se non fosse per... per ciò che è  successo questo pomeriggio.   
  - Che cosa è successo?   
  - Sì, sì. Ah, non lo sa ancora. E come potrebbe saperlo? Ma non  è il caso di darvi troppo peso, signor Ryder. Questo pomeriggio  sono successe un po' di cose, e una delle conseguenze è che il  signor Brodsky, quando l'ho lasciato un paio di ore fa, stava  sorseggiando un dito di whisky. No, no, signor Ryder! So già che  cosa sta pensando! No, no! Prima ha chiesto il mio parere. E dopo  attenta riflessione ho ceduto, convinto che in quelle  specialissime circostanze un bicchierino non gli avrebbe fatto  male. Ho agito a fin di bene, signor Ryder. Se ho avuto torto, lo  vedremo. Personalmente, credo di no. Perché, se davvero ho preso  la decisione sbagliata, l'intera serata... uh!... sarà un  disastro dal principio alla fine! E io sarò costretto a  nascondermi per il resto dei miei giorni. Ma vede, signor Ryder,  le cose si sono complicate più del previsto, e mi sono trovato  costretto a prendere una decisione. Sia come sia, il risultato è  che ho lasciato il signor Brodsky a casa sua con un bicchierino  di whisky. Ho piena fiducia che non ne berrà altro. Il mio unico  cruccio, adesso, è che forse avrei dovuto fare qualcosa a proposito dell'armadio. Ma, di nuovo, sono sicuro che mi  preoccupo per niente. In fondo, il signor Brodsky ha fatto enormi  progressi, e senza dubbio ci si può fidare di lui nel modo più  assoluto, più assoluto -. Mentre parlava, Hoffman aveva  giocherellato con il farfallino; adesso si girò verso lo specchio  per rimetterlo in ordine.  
  - Signor Hoffman, - dissi, - si può sapere che cos'è questa  storia? Se è successo qualcosa al signor Brodsky, o se è capitato  qualcosa che possa in qualche modo modificare il quadro generale,  credo che dovrei esserne informato immediatamente. Sono sicuro  che ne converrà anche lei.   
  Il direttore dell'albergo rise. - Signor Ryder, si è fatto  un'idea completamente sbagliata. Non c'è nessunissimo bisogno che  si preoccupi. Mi guardi, le sembro preoccupato? No. Tutta la mia  reputazione dipende da questa serata, eppure non sono forse calmo  e fiducioso? Le assicuro che non ha il benché minimo motivo di  stare in pensiero.  
  - Signor Hoffman, a che cosa si riferiva poco fa, quando ha  parlato di un armadio?   
  - Un armadio? Oh, mi riferivo all'armadio che ho scoperto  questa sera a casa del signor Brodsky. Come forse saprà, il  signor Brodsky vive da molti anni in una vecchia fattoria dalle  parti dell'uscita nord. Ci ero già stato parecchie volte,  naturalmente, ma dato il disordine... perché senza dubbio il  signor Brodsky ha un modo tutto suo di riporre le cose... non  avevo mai esaminato attentamente la sua abitazione. Vale a dire  che solo questa sera ho scoperto che, nonostante tutto, il signor  Brodsky aveva una riserva di alcolici. Mi ha giurato che se ne  era completamente dimenticato. $è stato solo quando siamo venuti  sull'argomento, quando gli ho detto che, be', date le  circostanze, date le specialissime circostanze create dallo  sconvolgente rifiuto della signorina Collins... Perché vede, in  nessun altro caso mi sarei lasciato convincere che, a conti  fatti, anche a costo di correre un minuscolo rischio, era  opportuno che prendesse un bicchierino di whisky, uno solo, per  calmarsi. In fondo, signor Ryder, il poveretto era angosciato dal  rifiuto della signorina Collins. Ed è stato allora, quando mi  sono offerto di andare a prendere la fiaschetta da tasca in  macchina, che il signor Brodsky si è ricordato che c'era ancora  un armadio in cui non aveva fatto pulizia. Così siamo andati  nella sua... ehm... cucina, così almeno credo che si possa  definire. Negli ultimi mesi il signor Brodsky ha lavorato con  impegno per aggiustarla. Ha fatto notevoli progressi, e adesso è  quasi al riparo dalle intemperie, anche se naturalmente non ci  sono ancora delle vere finestre. Comunque sia, ha aperto  l'armadio, che in realtà era coricato su un fianco, e dentro,  be', dentro c'erano una dozzina di vecchie bottiglie di liquore.  Soprattutto whisky. Il signor Brodsky era meravigliato quanto me.  Lì per lì, lo ammetto, ho pensato che avrei dovuto fare qualcosa.  Magari portare via le bottiglie, o vuotarle per terra. Ma capisce  anche lei che sarebbe stato un insulto. Un grave affronto al  coraggio e alla determinazione che il signor Brodsky ha saputo  dimostrare. E visto che per colpa della signorina Collins il suo  io aveva già ricevuto una bella batosta...   
  - Mi scusi, signor Hoffman, ma perché continua a tirare  in.ballo la signorina Collins?   
  - Ah, sì, la signorina Collins. Be', questa è un'altra storia.  Ed è anche il motivo per cui mi trovavo lì, nella fattoria del  signor Brodsky. Vede, signor Ryder, questa sera mi è toccato  farmi latore di un tristissimo messaggio. Nessuno mi avrebbe  invidiato questo compito. Per dirgliela tutta, era da un pezzo  che mi sentivo inquieto, già da prima dell'incontro di ieri allo zoo. O meglio, ero preoccupato per la signorina Collins. Chi  avrebbe mai immaginato che quei due facessero le cose così in  fretta dopo tutti questi anni? Sì, sì, ero preoccupato. La  signorina Collins è una cara signora per la quale nutro la  massima considerazione. Non sopportavo l'idea che la sua vita  venisse distrutta proprio adesso. Vede, signor Ryder, la  signorina Collins è una donna molto saggia, l'intera città può  testimoniarlo, ciò nonostante... e se lei vivesse qui, sono  sicuro che mi darebbe ragione... ha sempre avuto un lato  vulnerabile. Tutti, qui, la rispettiamo moltissimo, e parecchie  persone hanno scoperto quanto siano preziosi i suoi consigli, ma  allo stesso tempo... come dire?... siamo sempre stati £protettivi  nei suoi confronti. Negli ultimi mesi, man mano che il signor  Brodsky diventava... sempre più se stesso, si sono presentati  molti problemi che io per primo avevo fin qui trascurato; e, come  le dico, ho cominciato a preoccuparmi. Può quindi immaginare che  cosa ho provato questo pomeriggio, signor Ryder, quando la stavo  riaccompagnando in città dopo le prove e lei, innocentemente, mi  ha accennato al fatto che la signorina Collins aveva acconsentito  a incontrarsi con il signor Brodsky, anzi, che in quel momento il  signor Brodsky la stava aspettando al Cimitero di St' Peter...  Santo cielo, quanta fretta! In gioventù il nostro signor Brodsky  doveva essere una specie di Rodolfo Valentino! Mi sono reso conto  che dovevo intervenire, signor Ryder. Non potevo permettere che  la vita della signorina Collins riprecipitasse nell'infelicità,  soprattutto a causa di qualcosa che, anche se indirettamente,  avevo fatto io. E quando lei, così gentilmente, mi ha autorizzato  a lasciarla per strada, ne ho approfittato per andare a trovare  la signorina Collins a casa sua. Naturalmente era stupita di  vedermi. Stupita che avessi scelto proprio questa sera per  recarmi da lei di persona. In altre parole, la mia semplice  presenza la diceva lunga. La signorina Collins mi ha fatto  entrare subito, e io le ho chiesto scusa di essere piombato lì a  quel modo e di non poter affrontare il difficile argomento che  desideravo discutere con lei con la cautela e il tatto che avrei  impiegato in altre circostanze. Com'è naturale, la signorina  Collins ha capito perfettamente. «So anch'io che questa sera deve  avere un diavolo per capello, signor Hoffman», ha detto. Ci siamo  seduti nel salottino che dà sulla strada e sono venuto subito al  dunque. Le ho detto che avevo saputo dell'appuntamento con il  signor Brodsky, e la signorina Collins ha abbassato gli occhi  come una scolaretta. Poi, imbarazzatissima, ha ammesso: «Sì,  signor Hoffman. Un momento fa, quando ha suonato alla porta, mi  stavo preparando. $è più di un'ora che provo diversi  abbigliamenti. Diversi modi di puntare i capelli. Non le sembra  buffo, alla mia età? Sì, signor Hoffman, è vero. Leo è venuto qui  questa mattina e mi ha convinta. Ho accettato di incontrarlo». Ha  detto più o meno così, ma in maniera confusa, non certo con  l'eleganza che le è solita. Allora sono passato all'azione.  Naturalmente con molto tatto. Le ho fatto notare con garbo le  possibili trappole; ho usato frasi come: «Tutto ciò è molto  bello, signorina Collins»; mi sono mosso con la massima cautela  possibile tenuto conto dei limiti di tempo. Naturalmente, se la  sera fosse stata un'altra, se avessimo avuto modo di farci i  convenevoli, di chiacchierare del più e del meno, sono sicuro che  me la sarei cavata meglio. Ma forse non ci sarebbe stata molta  differenza. Per lei, la verità sarebbe stata difficile da  accettare in ogni caso. Comunque sia, anche se ho cercato di  affrontare il discorso meglio che potevo, quando finalmente è  giunto il momento della verità, quando le ho detto: «Signorina  Collins, le vecchie ferite si riapriranno. Le faranno male, la  getteranno nell'angoscia. Questa storia la spezzerà, signorina Collins. Questione di settimane, di giorni. Come può avere  dimenticato? Come può esporsi da capo a queste sofferenze? Tutto  ciò che ha subito in passato, l'umiliazione, il cuore infranto,  tutto, si ripeterà in maniera ancora più atroce. Pensi agli  sforzi di questi anni per costruirsi una nuova vita!» Insomma,  quando le ho esposto le cose in questi termini... e le assicuro,  signor Ryder, che non è stato facile... l'ho vista sgretolarsi,  anche se esteriormente ha cercato di mantenere la calma. Ho visto  che i ricordi la riassalivano, che le vecchie piaghe  ricominciavano a dolere. Non è stato facile, signor Ryder, glielo  assicuro, ma mi sono sentito in dovere di insistere. Finché, con  un filo di voce, la signorina Collins ha detto: «Ma signor  Hoffman, gliel'ho promesso. Gli ho promesso che ci saremmo visti  questo pomeriggio. E lui ci conterà. Ha sempre avuto bisogno di  me prima dei grandi concerti». E io le ho risposto: «Signorina  Collins, so anch'io che ci resterà male. Ma farò del mio meglio  per spiegargli le cose. E poi, sono sicuro che nell'intimo il  signor Brodsky sa già, così come lo sa lei, che questo  appuntamento è sconsiderato. Che è meglio non dissotterrare il  passato». La signorina Collins ha guardato fuori della finestra  come in sogno e ha detto: «Ma sarà già là. Sarà là che mi  aspetta». Al che ho ribattuto: «Ci andrò di persona, signorina  Collins. $è vero che questa sera sono occupatissimo, ma considero  la cosa così importante che non potrei fidarmi di nessun altro.  Andrò subito al cimitero, immediatamente, e informerò il signor  Brodsky della situazione. Può essere sicura, signorina Collins,  che farò tutto il possibile per confortarlo. Lo inciterò a  guardare avanti, a pensare all'immensa sfida di questa sera». Sì,  signor Ryder, le ho detto più o meno così. E anche se le confesso  che li per lì mi è sembrata completamente affranta, la signorina  Collins ha dimostrato di essere una persona di buon senso. Una  parte di lei doveva sapere che avevo ragione, infatti,  sfiorandomi un braccio con garbo, mi ha detto: «Vada da lui.  Corra. Faccia ciò che può». Mi sono alzato per andarmene, ma un  attimo dopo mi sono ricordato che mi attendeva ancora un ultimo  compito doloroso. «A proposito, signorina Collins, - ho detto. -  Riguardo al concerto di questa sera, date le circostanze,  riterrei più opportuno che lei restasse a casa». La signorina  Collins ha annuito, e ho visto che aveva le lacrime agli occhi.  «In fondo, - ho proseguito, - bisogna avere riguardo per i  sentimenti del signor Brodsky. Date le circostanze, la sua  presenza in sala potrebbe ripercuotersi negativamente su di lui  in un momento così delicato». La signorina Collins ha annuito di  nuovo e mi ha detto che capiva perfettamente. Allora mi sono  scusato e sono filato via. Poi, anche se avevo un'infinità di  cose urgenti cui badare... la consegna della pancetta affumicata,  la consegna del pane... mi sono reso conto che il signor Brodsky  aveva precedenza assoluta. Bisognava fargli superare indenne  anche quest'ultimo, inaspettato ostacolo. Cosi sono andato in  macchina al cimitero. Quando sono arrivato faceva già buio, e ho  dovuto girare per un pezzo tra le lapidi prima di trovarlo. Era  seduto su una tomba con aria abbacchiata; quando mi ha visto  arrivare, ha alzato stancamente la testa e mi ha detto: «$è  venuto a darmi la bella notizia. Lo sapevo. Lo sapevo che sarebbe  finita così». Lei penserà che questo abbia reso più facile il mio  compito, ma le posso assicurare, signor Ryder, che non è stato  facile affatto. Dover dare una simile notizia! Ho annuito  gravemente e gli ho detto che sì, aveva colto nel segno, la  signorina Collins non sarebbe venuta. Dopo attenta riflessione  aveva cambiato idea. Inoltre, aveva deciso che quella sera non  sarebbe andata nemmeno al palazzo dei concerti. Mi è sembrato  inutile scendere nei particolari. Il signor Brodsky era sconvolto, così mi sono girato dall'altra e per qualche istante  ho finto di esaminare la tomba accanto a quella su cui era seduto  lui. «Oh, il vecchio signor Kaltz, - ho detto rivolto agli  alberi, perché sapevo che il signor Brodsky stava piangendo  silenziosamente. - Ah, il signor Kaltz. Quanti anni fa l'abbiamo  seppellito? Mi sembra ieri, ma vedo che sono già passati  quattordici anni. Com'era solo prima di morire». Parlavo a  vanvera, per dare modo al signor Brodsky di piangere. Quando mi è  parso che riuscisse a dominare le lacrime, mi sono girato verso  di lui e gli ho proposto di tornare con me al palazzo dei  concerti per prepararsi. Ma lui ha detto di no. Era ancora troppo  presto; se avesse dovuto aspettare sul posto così a lungo, la  tensione sarebbe diventata intollerabile. Ho pensato che non  avesse tutti i torti e gli ho proposto di accompagnarlo a casa.  Questa volta ha accettato, così siamo usciti dal cimitero e siamo  scesi fino alla macchina. Per tutto il tragitto, mentre  percorrevamo la statale nord della città, il signor Brodsky ha  fissato il finestrino senza dire nulla; di tanto in tanto gli  occhi gli si gonfiavano di lacrime. Allora ho capito che non  eravamo ancora salvi. Che la situazione era molto più incerta di  quanto sembrasse fino a poche ore prima. Ma ero ancora fiducioso,  signor Ryder, così come lo sono adesso. Poi siamo arrivati alla  fattoria. Il signor Brodsky l'ha restaurata bene, adesso molte  stanze sono perfettamente agibili. Siamo andati in soggiorno e  abbiamo acceso la luce; poi mi sono messo a chiacchierare del più  e del meno guardandomi intorno. Mi sono offerto di
 mandargli  qualcuno per risolvere il problema della muffa sui muri. Ma lui  sembrava non sentire; se ne stava sulla sua poltrona con gli  occhi persi nel vuoto. Poi ha detto che voleva bere qualcosa.  Solo un bicchierino. Ho ribattuto che non era possibile. Allora  lui, molto calmo, ha detto che non aveva nessuna intenzione di  bere come ai vecchi tempi. Oh, no. Quel modo di bere apparteneva  ormai al passato. Ma aveva appena patito una terribile delusione.  Il suo cuore era a pezzi. Sì, ha usato queste parole. Il suo  cuore era a pezzi, ha detto, ma sapeva quante cose dipendessero  da lui quella sera. Sapeva di non poter fallire. Non mi stava  chiedendo da bere come ai vecchi tempi. Possibile che non lo  capissi? Allora l'ho fissato negli occhi e ho visto che diceva la  verità. Ho visto un uomo afflitto, deluso, ma responsabile. Un  uomo perfettamente padrone delle sue azioni, che aveva imparato a  conoscersi meglio di quanto possa sperare di fare la maggior  parte di noi. E quest'uomo mi stava dicendo che, in quel  frangente, gli serviva un bicchierino. Per aiutarlo a superare il  trauma della batosta sentimentale. Per dargli la fermezza di cui  aveva bisogno per non sfigurare quella sera. Signor Ryder, l'ho  sentito chiedere da bere molte volte, nei primi tempi, ma questa  era una richiesta completamente diversa. Me ne rendevo conto.  L'ho guardato dritto in faccia e gli ho detto: «Signor Brodsky,  posso fidarmi di lei? In macchina ho una fiaschetta con un po' di  whisky. Se gliene do un bicchierino, ho la sua parola che la cosa  finisce lì? Un bicchierino e basta?» E lui, reggendo il mio  sguardo senza battere ciglio, ha risposto: «Non è più come una  volta. Glielo giuro». Così sono uscito; era buio pesto, e gli  alberi rumoreggiavano furiosamente nel vento. Ho preso la  fiaschetta in macchina e sono tornato dentro, ma lui non c'era  più. La sua poltrona era vuota. Allora sono andato di là e l'ho  trovato in cucina. In realtà non è che una rimessa collegata  all'edificio principale, ma il signor Brodsky sta trasformandola  con notevole abilità. Sì, è stato allora che l'ho trovato alle  prese con l'armadio, quello coricato su un fianco. Quando mi ha  visto entrare, ha detto che se ne era completamente dimenticato.  E dentro c'era il whisky. Intere bottiglie. Lui ne ha presa una, l'ha aperta e si è versato un dito di liquore in un bicchiere.  Poi, guardandomi negli occhi, ha rovesciato il resto sul  pavimento. Il pavimento della cucina, deve sapere, è in gran  parte di terra battuta, quindi non è che abbia fatto un disastro.  Ebbene, ha rovesciato la bottiglia per terra, poi siamo tornati  in soggiorno, e lui si è seduto in poltrona e ha cominciato a  sorseggiare il whisky. L'ho osservato attentamente, e ho visto  che non beveva alla maniera di un tempo. Il solo fatto che  riuscisse a sorseggiare il liquore a quel modo... Insomma, ho  capito che avevo preso la decisione giusta. Gli ho detto che  dovevo tornare in città. Che mi ero già assentato fin troppo a  lungo. Dovevo ancora occuparmi della pancetta affumicata e del  pane. Mi sono alzato, e in quel momento tutti e due, senza  bisogno di parlare, ci siamo capiti. Il signor Brodsky sapeva che  stavo pensando all'armadio. Mi ha guardato dritto in faccia e ha  detto: «Non è più come una volta». A me è bastato. Se mi fossi  trattenuto oltre, avrei rischiato di minare il suo morale.  Sarebbe stato un insulto. E poi, come le ho detto, quando l'ho  guardato in faccia mi sono sentito assolutamente tranquillo. Me  ne sono andato senza ripensamenti. Ed è solo in questi ultimi  minuti, signor Ryder, che sono stato sfiorato dai dubbi. Ma  razionalmente so che i miei timori sono da addebitare alla  tensione che precede i grandi eventi. Il signor Brodsky sarà qui  da un momento all'altro, ne sono sicuro. E ho piena fiducia che  l'intera serata sarà un successo, un grande successo...   
  - Signor Hoffman, - dissi, esaurendo la pazienza, - se è  contento di aver lasciato il signor Brodsky con un bicchiere di  whisky, be', quelli sono fatti suoi. Nei suoi panni non sarei  così sicuro di avere agito bene, ma lei senz'altro conosce la  situazione molto meglio di me. In ogni caso, vorrei ricordarle  che in questo momento ho bisogno io stesso di assistenza. Come le  ho spiegato, mi serve subito un'automobile. Si tratta di una  questione piuttosto urgente, signor Hoffman.   
  - Ah, sì, un'automobile -. Hoffman si guardò intorno pensoso. -  La cosa più semplice, signor Ryder, è che le impresti la mia. $è  posteggiata qui fuori, davanti a quell'uscita di sicurezza -.  Così dicendo mi indicò un punto del corridoio poco più avanti. -  E adesso, dove sono le chiavi? Ah, eccole. Lo sterzo tira  leggermente a sinistra. Avevo intenzione di farlo sistemare, ma  non ho avuto un attimo di tempo. La prego, tenga la macchina  quanto vuole. Non ne avrò più bisogno fino a domani mattina.  
30.  
  Portai il macchinone nero di Hoffman fuori del posteggio e  imboccai una stradina tortuosa, fiancheggiata su entrambi i lati  da abeti. Chiaramente non era quella la via solita per uscire dal  parco. La strada era piena di buche, priva di illuminazione e  così stretta che due veicoli avrebbero dovuto rallentare per  incrociarsi. Guidai con prudenza, scrutando le tenebre,  aspettandomi da un momento all'altro un ostacolo o una curva a  gomito. Poi la strada divenne dritta, e alla luce dei fari vidi  che stavo attraversando una foresta. Accelerai e per qualche  minuto viaggiai immerso nell'oscurità. Poi notai una luce tra gli  alberi alla mia sinistra e, rallentando di nuovo, mi accorsi che  stavo passando davanti al palazzo dei concerti, fastosamente  illuminato sullo sfondo della notte.   
  L'edificio era ormai piuttosto distante, e io lo osservavo da  una posizione angolata, ma riuscii lo stesso a distinguere gran  parte della grandiosa facciata. C'erano due file di austere  colonne di pietra ai lati di un arco centrale, e alte finestre  che si protendevano verso il grande tetto a cupola. Mi chiesi se  gli invitati stessero già arrivando e, fermata la macchina, abbassai il finestrino per guardare meglio. Ma la parte bassa  dell'edificio era nascosta dagli alberi, e non riuscii a vederla  nemmeno sollevandomi sul sedile.   
  Poi, mentre continuavo a contemplare il palazzo dei concerti,  fui colpito dal pensiero che i miei genitori potessero arrivare  proprio in quel momento. Improvvisamente ricordai con grande  vividezza la descrizione di Hoffman: la carrozza a cavalli che  emergeva dall'oscurità sotto gli occhi ammirati della folla. E in  quell'istante, mentre mi sporgevo dal finestrino, ebbi la netta  impressione di udire il rumore della carrozza che transitava non  molto lontano da me. Spensi il motore e mi rimisi in ascolto,  sporgendomi il più possibile. Poi scesi dall'auto e rimasi lì al  buio con le orecchie tese.   
  Il vento soffiava tra gli alberi, ma dopo un attimo sentii di  nuovo i deboli rumori di poc'anzi: il pulsare degli zoccoli, un  ritmico scampanellio, il cigolio di un veicolo di legno. Poi i  suoni svanirono nel fruscio delle foglie. Restai in ascolto  ancora per un po', ma non udii più nulla. Allora mi girai e  risalii in macchina.   
  Mi ero sentito calmo - quasi serafico - fuori, sulla strada, ma  non appena riaccesi il motore fui sopraffatto da un incontenibile  miscuglio di frustrazione, paura e rabbia. I miei genitori  stavano arrivando, e io ero ancora lì, tutt'altro che pronto,  anzi, addirittura in procinto di allontanarmi dal palazzo dei  concerti per occuparmi di qualcosa di completamente estraneo alla  serata. Non riuscivo a capire come mi fossi potuto cacciare in  una situazione simile. Sempre più furioso, proseguii la mia corsa  attraverso la foresta, risoluto a sbrigare in quattro e  quattr'otto l'impegno che mi ero preso per tornare al palazzo dei  concerti il più in fretta possibile. Poi, però, mi venne in mente  che non sapevo andare a casa di Sophie, e nemmeno se la strada  della foresta mi portasse nella direzione giusta. Mi sentii  invadere da una sensazione di impotenza, ma continuai a pestare  sull'acceleratore, scrutando la foresta che si apriva davanti  alla luce dei miei fari.   
  All'improvviso scorsi poco più avanti due figure che  gesticolavano sbarrandomi il cammino. Quando fui più vicino, si  scostarono, ma continuarono a farmi segnali concitati.  Rallentando, vidi che a lato della strada c'era un gruppetto di  cinque o sei persone che si erano accampate intorno a un fornello  portatile. Sulle prime pensai che fossero vagabondi, poi vidi una  signora di mezza età vestita elegantemente e un signore con i  capelli grigi in giacca e cravatta chinarsi per guardare dentro  il finestrino. Alle loro spalle, gli altri - seduti intorno al  fornello su quelle che sembravano delle cassette capovolte - si  stavano alzando per avvicinarsi alla macchina. Notai che tutti  avevano in mano un tazzone di latta da campeggio.   
  Quando abbassai il finestrino, la donna sbirciò dentro, poi  disse:   
  - Oh, meno male che è arrivato lei. Vede, la discussione è  arrivata a un punto morto, e non riusciamo a trovare un  compromesso. $è il guaio di sempre, vero? Quando viene il momento  di agire, non si riesce mai a trovare un accordo.   
  - Ma non c'è dubbio, - disse solennemente l'uomo dai capelli  grigi che indossava giacca e cravatta, - che dobbiamo arrivare  presto a una definizione.  
  Prima che potessero aggiungere altro, mi accorsi che la faccia  che si era avvicinata alle loro spalle e si era chinata a  guardarmi apparteneva a Geoffrey Saunders. Riconoscendomi, il mio  vecchio compagno di scuola spinse via gli altri e batté la mano  sulla portiera della macchina.   
  - Oh, mi chiedevo proprio quando ti avrei rivisto, - esordì. - A dire il vero, stavo cominciando ad arrabbiarmi un po'. Ti rendi  conto che non sei nemmeno venuto a prendere una tazza di tè a  casa mia. Dopo tutto quello che avevi detto. Forse non è il  momento più adatto per parlarne, ma lascia che ti dica che sei un  gran maleducato, vecchio mio. Pace. Adesso scendi di lì -. E così  dicendo, aprì la portiera e si fece da parte. Stavo per  protestare, ma Saunders continuò: - Vieni a prendere una tazza di  caffè. Poi potrai partecipare alla discussione.   
  - Francamente, Saunders, - dissi, - non mi prendi nel momento  migliore.   
  - Oh, non fare storie, vecchio mio -. Il tono della voce era  leggermente infastidito. - Sai, ho pensato parecchio a te dopo  che ci siamo incontrati l'altra sera. Ho ricordato i tempi della  scuola e tutto il resto. Questa mattina, per esempio, mi sono  svegliato pensando a quella volta... tu probabilmente non te ne  ricordi... a quella volta che ci hanno mandati a segnalare il  tracciato di una corsa campestre per i ragazzi più piccoli di  noi. Eravamo in sesta, credo. Tu probabilmente non te ne ricordi,  ma questa mattina, a letto, ho ripensato proprio a quella volta.  Aspettavamo in piedi davanti a un pub, e di fronte a noi c'era un  grande campo. Tu eri sconvolto, non so più per che cosa. Su,  vecchio mio, esci di lì, come faccio a parlarti? - Saunders  continuava con impazienza a farmi cenno di scendere. - Oh, così  va meglio -. E mentre, un po' riluttante, uscivo dall'auto, mi  afferrò per il gomito con una mano. Nell'altra aveva il tazzone  di latta. - Sì, ho ripensato a quel giorno. Una di quelle  nebbiose mattine d'ottobre inglesi. Ce ne stavamo lì a girarci i  pollici, aspettando che i bambini di terza sbucassero con il  fiato corto dalla nebbia, e ricordo che continuavi a ripetere con  una faccia da funerale: «Oh, tu sei fortunato, tu sì che sei  fortunato». Tanto che alla fine ti ho detto: «Senti, ragazzo mio,  non sei l'unico. Non sei la sola persona al mondo che ha dei  guai». E ho cominciato a raccontarti un episodio di quando avevo  sette o otto anni. Eravamo partiti tutti insieme per una delle  nostre vacanze familiari, i miei, il mio fratellino e io. Eravamo  andati in una tipica stazione balneare inglese, un posto come  Bournemouth. Forse l'isola di Wight. Il tempo era bello, il posto  anche, ma sai com'è, c'era qualcosa che non andava, bisticciavamo  in continuazione. Cosa più che normale nelle vacanze familiari,  naturalmente; ma allora non lo sapevo, avevo solo sette o otto  anni. Comunque sia, le cose non funzionavano, e un pomeriggio  papà ci ha piantati in asso. Così, di punto in bianco. Stavamo  guardando qualcosa sul lungomare, e mia madre ci stava indicando  non so più che cosa, quando all'improvviso mio padre se ne è  andato. Senza scenate né altro, si è semplicemente messo a  camminare. Non sapendo che pesci prendere, la mamma, il piccolo  Christopher e io gli siamo andati dietro, abbiamo cominciato a  seguirlo. Non da vicino, sempre a una trentina di metri, quel  tanto che bastava a non perderlo di vista. E papà ha continuato a  camminare. Per tutto il lungomare, su per il sentiero della  scogliera, oltre le cabine e i bagnanti che prendevano il sole.  Poi si è diretto verso la città, ha oltrepassato i campi da  tennis e attraversato i centri commerciali. L'abbiamo seguito per  più di un'ora. E dopo un po' abbiamo cominciato a prenderlo per  un gioco. Dicevamo: «Guardate, non è più arrabbiato. Sta solo  scherzando!» Oppure: «Lo fa apposta. Guardatelo!» e ci  sbellicavamo dalle risa. Osservandolo attentamente sembrava  proprio che camminasse in modo buffo. A Christopher, che era  piccolino, ho detto così, gli ho detto che papà camminava in quel  modo per divertirci, e Christopher rideva e rideva, come se tutto  fosse un grande gioco. Persino la mamma rideva, dicendo: «Ah,  bambini, vostro padre!» e giù a ridere. Abbiamo continuato a seguirlo, e io ero l'unico, capisci, l'unico, anche se avevo solo  sette o otto anni, che si accorgesse che papà non stava  scherzando. Che non gli era affatto passata, anzi, che forse  stava arrabbiandosi sempre di più perché gli andavamo dietro.  Magari aveva voglia di sedersi su una panchina, o di entrare in  un caffè, ma non poteva farlo per colpa nostra. Ti ricordi? Ti ho  raccontato tutto quel giorno. Fatto sta che a un certo punto mi  sono girato verso mia madre per farla finita con questa storia, e  in quel momento ho capito. Ho capito che si era convinta,  completamente convinta, che mio padre facesse tutto per ridere. E  intanto il piccolo Christopher voleva corrergli dietro. Capisci,  correre dietro a papà e raggiungerlo. E io dovevo trovare in  continuazione delle scuse; senza smettere di ridere gli dicevo:  «No, non si può. Non è nelle regole del gioco. Dobbiamo restare  indietro, altrimenti non vale». Ma mia madre, invece, gli diceva:  «Oh, sì! Perché non vai a tirargli la camicia, così vedi se  riesci a tornare qui prima che ti acchiappi!» E io dovevo  ripetergli... perché ero l'unico, capisci, l'unico... dovevo  ripetergli: «No, no, non ancora. Stai indietro, stai indietro».  Era davvero buffo, mio padre. A guardarlo così, da lontano, aveva  una strana andatura. Senti, vecchio mio, perché non ti siedi? Hai  l'aria esausta, oltre che molto preoccupata. Siediti e aiutaci a  prendere una decisione.  
  Geoffrey Saunders mi indicò una cassetta per le arance  capovolta, accanto al fornello da campeggio. Era vero, mi sentivo  stanchissimo; mi dissi che in ogni caso, qualunque cosa avessi  dovuto fare, l' avrei fatta meglio dopo un riposino e un goccio  di caffè. Mentre piegavo le gambe per sedermi sulla cassetta, mi  accorsi di avere le ginocchia che mi tremavano e di vacillare  pericolosamente. Gli altri mi si fecero intorno premurosi  Qualcuno mi porse una tazza di caffè, qualcun altro mi mise una  mano sulla schiena dicendo: - Si rilassi. Se la prenda comoda.   
  - Grazie, grazie, - dissi, e afferrando la tazza trangugiai  avidamente il caffè sebbene fosse bollente.   
  L'uomo dai capelli grigi che indossava giacca e cravatta si  accovacciò davanti a me e, fissandomi in volto, disse in tono  estremamente cortese: - Dobbiamo prendere una decisione. E lei  dovrà aiutarci.   
  - Una decisione?   
  - Sì. A proposito del signor Brodsky.   
  - Ah, certo -. Bevvi un altro sorso dalla tazza di latta. - Sì,  capisco. So che ormai tutto dipende da me.   
  - Non esageriamo, - ribatté l'uomo dai capelli grigi.   
  Lo guardai di nuovo. Era una persona rassicurante, con un modo  di fare calmo e gentile. Ma vidi che in quel momento era  serissimo.   
  - Mi sembra esagerato sostenere che £tutto dipende da lei. Ma,  date le circostanze, ognuno di noi deve assumersi le sue  responsabilità. La mia opinione, come ho già detto chiaramente, è  che bisogna amputare.   
  - Amputare?   
  L'uomo dai capelli grigi annuì gravemente. Solo allora gli vidi  lo stetoscopio intorno al collo e capii che doveva essere un  dottore.   
  - Oh, certamente, - dissi. - Bisogna amputare. Sì.   
  In quel momento mi guardai intorno e sussultai. Per terra, non  lontano dall'automobile, c'era un grosso groviglio di metallo. Mi  venne il dubbio di essere la causa del disastro; forse avevo  provocato un incidente senza nemmeno accorgermene. Alzandomi in  piedi - subito parecchie mani si protesero per sorreggermi -  andai verso i rottami e scoprii i resti di una bicicletta. Il  telaio era irrimediabilmente contorto, e lì in mezzo, con mio grande orrore, vidi Brodsky. Giaceva supino sulla nuda terra, e  mentre mi avvicinavo i suoi occhi mi fissarono calmi.   
  - Signor Brodsky, - mormorai, guardandolo stupefatto.   
  - Ah. Ryder, - disse Brodsky, e mi meravigliò che la sua voce  fosse così poco sofferente.   
  Mi girai verso l'uomo dai capelli grigi, che mi era venuto  dietro, e gli dissi: - Le giuro che io non c'entro. Non ricordo  di avere avuto alcun incidente. Stavo semplicemente guidando...   
  L'uomo dai capelli grigi annuì con fare comprensivo e mi fece  segno di tacere. Poi, tirandomi un po' in disparte, mi disse  sottovoce: - Si tratta quasi certamente di un tentativo di  suicidio. $è ubriaco. Molto ubriaco.   
  - Ah, capisco.   
  - Sono sicuro che volesse uccidersi. Ma è riuscito solo a  intrappolarsi le gambe. La destra è praticamente illesa. $è solo  incastrata. Anche la sinistra è incastrata. Ma mi preoccupa. $è  piuttosto malconcia.   
  - Già, - dissi, e mi girai a dare un'altra occhiata a Brodsky.  Lui parve accorgersene e disse a voce alta nell'oscurità:   
  - Salve, Ryder.   
  - Ne abbiamo discusso a lungo prima del suo arrivo, - proseguì  l'uomo dai capelli grigi. - La mia opinione è che bisogna  amputare. In questo modo forse riusciremo a salvargli la vita.  Dopo un acceso dibattito, la maggioranza dei presenti si è detta  d'accordo con me. Ma le due signore laggiù sono contrarie.  Sostengono che bisogna aspettare l'ambulanza ancora per un po'.  Ma così facendo correremmo un grave rischio. Questa è la mia  opinione professionale.   
  - Ah, certo. Sì, capisco quel che vuol dire.   
  - Secondo me, la gamba sinistra va amputata immediatamente.  Sono un chirurgo, ma purtroppo non ho con me né ferri, né  analgesici, né niente. Neppure un'aspirina. Vede, avevo finito il  mio turno, e anch'io sono venuto qui per prendere una boccata  d'aria. Come tutta questa brava gente. Per caso avevo ancora in  tasca lo stetoscopio, ma nient'altro. Ora che è arrivato lei,  però, le cose potrebbero cambiare. $è attrezzata la sua macchina?   
  - La macchina? Be', veramente non lo so. Vede, è una macchina  imprestata.   
  - Vuole dire noleggiata.   
  - Non proprio. Imprestata. Da un conoscente.   
  - Capisco -. L'uomo abbassò gli occhi con aria grave,  riflettendo. Alle sue spalle vedevo gli altri che ci osservavano  ansiosi. Poi il chirurgo disse:   
  - Le spiacerebbe guardare nel baule? Magari c'è qualcosa che  può servirci. Che so, uno strumento affilato con il quale potrei  eseguire l'operazione.   
  Ci pensai un attimo, poi dissi: - Lo farò volentieri. Ma forse  è meglio che prima vada a scambiare due parole con il signor  Brodsky. Sa, lo conosco abbastanza bene, e credo proprio che  dovrei parlargli prima... prima che venga preso un provvedimento  così drastico.   
  - Come vuole, - disse il chirurgo. - Ma la mia impressione, o  meglio, la mia opinione professionale, è che si sia già perso fin  troppo tempo. La prego di sbrigarsi.   
  Mi avvicinai di nuovo a Brodsky e mi chinai a guardarlo in  faccia.   
  - Signor Brodsky... - cominciai, ma lui non mi lasciò  proseguire.   
  - Ryder, mi aiuti. Devo andare da lei.   
  - Dalla signorina Collins? Credo che ci sia ben altro cui  pensare, in questo momento.   
  - No, no. Devo parlarle. Adesso ho capito. Finalmente ho visto chiaro. Sono lucidissimo. Da quando mi è capitato l'incidente...  non so come sia successo, ero in bicicletta, e qualcosa, che so,  un veicolo, un'automobile, mi ha urtato... probabilmente ero  ubriaco, questo non lo ricordo, ma il resto lo ricordo benissimo.  Adesso ho capito, ho capito tutto. $è stato lui. Ha sempre voluto  che la cosa finisse male. $è stato lui, è lui il colpevole.   
  - Chi? Hoffman?   
  - $è un verme. Un verme. Prima non me ne rendevo conto, ma ora  vedo tutto chiaro. Da quando quel veicolo, va a sapere che  cos'era, una macchina, un camion, mi ha preso sotto, da quel  preciso istante, ho capito tutto. Quel verme è venuto a cercarmi,  tutto premuroso. Io stavo aspettando al cimitero. Aspettavo e  aspettavo. Con il cuore in tumulto. Ho aspettato per tutti questi  anni. Non lo sapeva, Ryder? Ho aspettato per un'eternità.  Aspettavo anche quando mi ubriacavo. La settimana prossima, mi  dicevo. La settimana prossima smetterò di bere e andrò da lei. Le  chiederò di incontrarci al Cimitero di St' Peter. Anno dopo anno  mi dicevo così. Ed eccomi finalmente lì, sulla tomba di Per  Gustavsson, dove a volte andavo a sedermi con Bruno. E ho  aspettato. Un quarto d'ora, poi mezz'ora, poi un'ora. Ed ecco che  arriva £lui. Mi tocca, qui, sulla spalla. La signorina Collins ha  cambiato idea, mi dice. Non verrà. Non verrà neppure a concerto  questa sera. $è gentile, come al solito. Lo ascolto. Beva un po'  di whisky, mi dice. La calmerà. Questa è una circostanza  particolare. Ma io non posso bere whisky, rispondo. Come faccio a  bere whisky? $è impazzito? No, lo beva, dice lui. Solo un dito.  Le farà bene. Sembrava gentile. Ma adesso vedo chiaro. Quel verme  non ha mai creduto, neppure per un momento, che la cosa potesse  funzionare. Era convinto che non ce l'avrei mai fatta. Che non ce  l'avrei mai fatta perché sono un... un vpezzo di merda.v Ecco quel che pensava di me. Adesso sono sobrio. Ho bevuto abbastanza  da uccidere un cavallo, ma da quando mi hanno preso sotto, sono  sobrio. Finalmente vedo tutto in maniera chiarissima. $è stato  lui. Quell'individuo è ben più ignobile di me. Ma non gliela darò  vinta. Ce la farò. Mi aiuti, Ryder. Non voglio dargli questa  soddisfazione. Andrò subito al palazzo dei concerti. Mostrerò a  tutti quel che valgo. Sono pronto, la musica è qui, nella mia  testa. Mostrerò a tutti quel che valgo. Ma bisogna che ci sia  anche lei. Devo assolutamente parlarle. Mi aiuti, Ryder. Mi porti  da lei. Bisogna che venga, che si sieda in sala. Allora  ricorderà. Quell'individuo è un verme, ma finalmente me ne sono  accorto. Mi aiuti, Ryder.   
  - Signor Brodsky, - lo interruppi. - C'è qui un chirurgo. Dovrà  farle un intervento. Può darsi che sia un po' doloroso.   
  - Mi aiuti, Ryder. Mi aiuti solo ad andare da lei. Ha una  macchina? Ha una macchina? Mi porti. Mi porti da lei. Sarà in  casa. Odio quell'appartamento. Ah, come lo odio, come lo odio.  Andavo sempre ad appostarmi lì davanti. Mi porti da lei, Ryder.  Mi porti subito.   
  - Signor Brodsky, a quanto pare non si rende conto delle sue  condizioni. Non c'è tempo da perdere. Anzi, ho promesso al  chirurgo che avrei guardato nel baule. Torno subito.   
  - Quella donna è piena di paure. Ma non è ancora troppo tardi.  Potremmo tenere un animale. Ma adesso non ha importanza, al  diavolo l'animale. Voglio solo che venga al palazzo dei concerti.  Nient'altro. Al palazzo dei concerti. Solo quello.   
  Lasciai Brodsky e tornai alla macchina. Aprendo il baule, vidi  che Hoffman vi aveva cacciato dentro oggetti di ogni genere.  C'era una sedia rotta, un paio di stivali di gomma, una  collezione di scatole di plastica. Poi mi capitò tra le mani una  torcia e, quando la accesi per esplorare il bagagliaio, scoprii  un seghetto in un angolo. Era un po' sporco di grasso, ma quando passai un dito sulla lama mi parve che i denti fossero belli  aguzzi. Richiusi il baule e mi diressi verso il gruppetto degli  altri, che stavano chiacchierando intorno al fornello.  Avvicinandomi, sentii il chirurgo che diceva:  
  - L'ostetricia è una disciplina noiosa, ormai. Non è più come  quand'ero studente.   
  - Mi scusi, - dissi. - Ho trovato questo.   
  - Ah, - disse il chirurgo, voltandosi verso di me. - Grazie. Ha  parlato con il signor Brodsky? Bene.   
  Improvvisamente, il fatto di essermi lasciato coinvolgere a  quel modo in questa storia mi irritò, e, forse con una punta di  stizza, guardando il cerchio di facce intorno a me, dissi:   
  - Possibile che in città non ci siano mezzi idonei per  affrontare queste evenienze? Non avete chiamato un'ambulanza?   
  - L'abbiamo chiamata circa un'ora fa, - disse a voce alta  Geoffrey Saunders. - Da quella cabina laggiù. Purtroppo, questa  sera le ambulanze scarseggiano a causa della grande  manifestazione al palazzo dei concerti.   
  Guardai verso il punto che mi stava indicando e vidi davvero,  un po' discosto dalla strada, più o meno dove cominciavano le  tenebre della foresta, un telefono pubblico. Quella vista mi  ricordò all'improvviso l'urgente incombenza dalla quale ero stato  distolto; pensai che, telefonando subito a Sophie, avrei potuto  non solo avvertirla in anticipo, ma anche chiederle come fare per  arrivare a casa sua.   
  - Scusatemi, - dissi, avviandomi. - Devo fare una telefonata  importante.   
  Mi diressi verso gli alberi ed entrai nella cabina telefonica.  Mentre mi frugavo in tasca in cerca di qualche moneta, vidi  attraverso la parete di vetro il chirurgo che si avvicinava  lentamente alla figura distesa di Brodsky, con il seghetto dietro  la schiena per riguardo. Geoffrey Saunders e gli altri vagolavano  a disagio, fissando il fondo delle tazze di latta o guardandosi i  piedi. Poi il chirurgo si girò e disse qualcosa, e due uomini,  Geoffrey Saunders e un giovane con una giacca di pelle marrone,  lo raggiunsero di malavoglia. Per qualche istante, tutti e tre  fissarono Brodsky con aria truce.   
  Mi girai e feci il numero. Il telefono suonò a lungo, poi  Sophie, con voce assonnata e leggermente impaurita, rispose.  Respirai a fondo.   
  - Senti, - dissi, - evidentemente non ti rendi conto di come  sia faticoso per me. Credi che mi diverta? Resta pochissimo  tempo, e non ho ancora avuto un secondo per ispezionare il  palazzo dei concerti. E intanto la gente pretende da me i  miracoli. Credi che questa sera sia uno scherzo? Ti rendi conto  di che cosa significa per me questo concerto? Questa sera vengono  i miei genitori. Proprio così! Questa sera, finalmente, vengono!  Può darsi addirittura che siano già là! E gli altri sai cosa  fanno? Credi forse che mi lascino in pace perché possa  prepararmi? No, mi subissano di cose da fare. Questo maledetto  intermezzo con le domande e le risposte, per esempio. Hanno  persino portato in sala un tabellone elettronico. Ci crederesti?  E io che cosa dovrei fare? Danno tutto per scontato. Ma che cosa  vogliono da me, e per di più proprio questa sera? $è sempre la  stessa storia, da per tutto. Pretendono mari e monti.  Probabilmente questa sera si scaglieranno contro di me. La cosa  non mi sorprenderebbe. Se le mie risposte non saranno di loro  gradimento, si arrabbieranno, e allora in che situazione mi  troverò? Magari non mi lasceranno nemmeno arrivare al pianoforte.  Oppure i miei genitori potrebbero decidere di andarsene  nell'istante stesso in cui il pubblico comincerà a prendersela  con me...  
  - Senti, calmati, - disse Sophie. - Andrà tutto bene. Il  pubblico non se la prenderà con te. Dici così ogni volta, e in  tutti questi anni nessuno, non una sola persona, l'ha mai  fatto...   
  - Ma non capisci quello che ti sto dicendo? Questa non è una  serata come le altre. Vengono i miei genitori. Se questa sera il  pubblico si scagliasse contro di me, sarebbe... sarebbe...  
  - Nessuno si scaglierà contro di te, - mi interruppe di nuovo  Sophie. - Lo dici sempre. Telefoni da tutto il mondo per dire la  stessa cosa. Ogni volta che stai per salire sul palcoscenico. Si  scaglieranno contro di me, mi coglieranno in fallo. E poi che  cosa succede? Qualche ora dopo richiami, e sei tutto calmo e  soddisfatto. Ti chiedo come è andata e tu ti fingi un po' stupito  della mia domanda. «Oh, bene», dici. Una frasetta del genere,  sempre, poi cambi argomento, come se non valesse nemmeno la pena  discuterne...   
  - Aspetta un momento. A che cosa ti riferisci? Di che  telefonate parli? Non lo sai che fatica mi costano quelle  telefonate. A volte ho da fare fin sopra i capelli, ma cerco di  rubare qualche minuto per telefonarti, solo per assicurarmi che  tu stia bene. E il più delle volte tu, proprio tu, mi riversi  addosso tutti i tuoi problemi. Che cosa vuoi insinuare quando  sostieni che cambio argomento...   
  - Lascia perdere, intanto è inutile. Dico solo che anche questa  sera andrà tutto bene...   
  - Per te è facile. Sei come tutti gli altri. Dài per scontata  ogni cosa. Sei convinta che mi basti mostrare la faccia e che il  resto venga da sé... - All'improvviso mi ricordai di Gustav  sdraiato sul materasso nel camerino senza mobili e mi interruppi  bruscamente.   
  - Che cosa ti prende? - domandò Sophie.   
  Per qualche istante ancora cercai di dominarmi, poi dissi:   
  - Senti. Devo darti una cattiva notizia. Mi spiace.   
  Dall'altro capo del filo Sophie tacque.  
  - Si tratta di tuo padre, - dissi. - Si è sentito male. $è al  palazzo dei concerti. Devi venire immediatamente.   
  Feci un'altra pausa, ma Sophie continuò a tacere.   
  - Ha una fibra d'acciaio, - proseguii dopo un istante. - Ma  devi venire subito. Porta anche Boris. In realtà è per questo che  ti telefonavo. Ho una macchina. Vi sto venendo a prendere tutti e  due.   
  Per un tempo che mi parve lunghissimo il telefono rimase muto.  Poi Sophie disse:   
  - Mi spiace per ieri sera, alla Galleria Karwinsky -. Poi fece  una pausa, e temetti che ripiombasse nel suo silenzio. Invece  continuò: - Ero patetica. Non occorre che tu finga. So che ero  patetica. Non capisco perché, ma in quelle situazioni non so  cavarmela. Bisogna che mi arrenda alla realtà. Non sarò mai in  grado di viaggiare con te di città in città, accompagnandoti ai  ricevimenti. Semplicemente non ci riesco. Mi spiace.   
  - Ma che cosa vuoi che m'importi? - dissi gentilmente. - Avevo  già dimenticato tutto, e di ieri e della galleria. Me n'infischio  di ciò che pensa di te quella gente. Sono persone disgustose,  dalla prima all'ultima. E tu eri di gran lunga la donna più bella  là dentro.  
  - Non ci credo, - disse Sophie, scoppiando a ridere. - Ormai  sono una vecchia cornacchia.   
  - Ma stai invecchiando benissimo.   
  - Ti sembra una cosa da dire? - Sophie rise di nuovo. - Come ti  permetti!   
  - Scusa, - mi corressi, ridendo anch'io. - Volevo dire che non  sei affatto invecchiata. Non all'apparenza, almeno.  
  - Non all'apparenza?   
  - Che ne so... - Confuso, proruppi in un'altra risata. - Forse  eri brutta e sciupata. Adesso non ricordo più bene.   
  Sophie rise ancora, poi tacque. Quando riprese a parlare, la  sua voce era di nuovo seria. - Però ero patetica. Non potrò mai  viaggiare con te finché sono così.   
  - Senti, ti prometto che smetterò presto di viaggiare. Questa  sera, se andasse bene... Non si sa mai, potrebbe essere la volta  buona.   
  - E mi spiace di non avere ancora trovato una sistemazione. Ti  prometto che troverò presto qualcosa che faccia al caso nostro.  Qualcosa di veramente accogliente.   
  Lì sui due piedi non mi venne in mente nulla da rispondere, e  per qualche secondo restammo tutti e due zitti. Poi la sentii  dire:   
  - Veramente non te ne importa? Della figura che ho fatto ieri?  Della figura che faccio sempre?   
  - Non me ne importa niente. Ai ricevimenti come quello puoi  comportarti come vuoi. Agire come ti pare e piace. Non fa nessuna  differenza. Tu vali più di tutta quella gente messa insieme.   
  Sophie non disse nulla. Dopo un momento proseguii:   
  - In parte è anche colpa mia. Mi riferisco alla casa. Non è  giusto che lasci a te il compito di trovarla. Chissà, d'ora in  poi, se questa notte le cose vanno bene, potremmo fare in maniera  diversa. Magari cercarla insieme.   
  Il telefono rimase muto, e per un attimo temetti che Sophie  avesse riattaccato. Poi, però, mi giunse la sua voce, distaccata  e sognante:   
  - Troveremo qualcosa molto presto, vero?  
  - Certamente. Cercheremo insieme. Con Boris. Troveremo  qualcosa.   
  - Adesso stai venendo qui, vero? Per portarci da papà?  
  - Sì, sì. Sarò lì fra un attimo. Quindi fatevi trovare tutti e  due pronti.   
  - Va bene -. La voce di Sophie aveva ancora un che di  distaccato e di serafico. - Sveglio subito Boris.   
  Quando uscii dalla cabina telefonica, ebbi la netta impressione  che in cielo vi fossero i primi segni dell'alba. Vidi il  gruppetto di persone intorno a Brodsky e, avvicinandomi, scorsi  il chirurgo; si era inginocchiato e segava con foga. Brodsky  sembrava accettare la terribile prova in silenzio, ma quando  giunsi accanto alla macchina lanciò un grido straziante che  riecheggiò tra gli alberi.   
  - Io devo andare, - dissi, rivolto a nessuno in particolare, ed  effettivamente nessuno parve sentirmi. Ma quando chiusi la  portiera e accesi il motore, tutti si girarono verso di me con  un'espressione inorridita. Prima che potessi tirare su il  finestrino, Geoffrey Saunders si avvicinò di corsa.   
  - Ehi, - disse furente. - Ehi, non puoi andartene così. Non  appena l'avremo liberato, dovremo portarlo da qualche parte. Ci  servirà la tua macchina. Non ci vuole molto a capirlo, non ti  pare?  
  - Sentimi bene, Saunders, - dissi con fermezza. - Lo vedo  anch'io che siete nei guai. E vorrei aiutarvi ancora, ma ho già  fatto tutto quello che potevo. Adesso devo pensare alle mie cose.   
  - Sei sempre il solito, vecchio mio, - disse Saunders. - Non  sei cambiato.   
  - Sentimi bene, tu non hai idea. Davvero, Saunders, non hai la  minima idea. Non ti immagini nemmeno le responsabilità che ho.  Cosa credi? Non faccio mica la vita che fai tu!   
  Quest'ultima frase la urlai. Il chirurgo aveva smesso di  lavorare e mi stava guardando. Ebbi la sensazione che persino Brodsky avesse dimenticato il dolore e mi stesse fissando. Un po'  imbarazzato, dissi in tono più conciliante:   
  - Scusatemi, ma ho da fare una commissione urgentissima. Sono  sicuro che quando avrete finito, cioè quando il signor Brodsky  sarà in condizioni di essere trasportato, l'ambulanza sarà qui.  Scusatemi proprio, ma non posso fermarmi un minuto di più.  
  Detto questo, mi affrettai a tirare su il finestrino e ripartii  con la macchina.  
31.  
  La strada continuò nella foresta ancora per un pezzo. Quando  finalmente gli alberi cominciarono a diradarsi, scorsi in  lontananza i primi tenui bagliori dell'alba. Poi gli alberi  sparirono, e io mi ritrovai nelle strade deserte della città.   
  Un semaforo rosso mi costrinse a fermarmi a un incrocio; mentre  aspettavo immerso nel silenzio - non c'erano altre macchine in  vista - mi guardai intorno e a poco a poco cominciai a  riconoscere il quartiere in cui ero entrato. Con sollievo, mi  accorsi di essere molto vicino alla casa di Sophie; anzi, la  strada che avevo di fronte, ne ero sicuro, mi avrebbe portato  dritto da lei. Ricordavo anche che il suo alloggio era sopra la  bottega di un barbiere, e quando il semaforo cambiò colore  attraversai l'incrocio e imboccai la via silenziosa, esaminando  attentamente le case che mi sfilavano accanto. Poi davanti a me,  in lontananza, vidi due figure che aspettavano sul marciapiede e  pigiai sull'acceleratore.   
  Sophie e Boris indossavano solo una giacchetta e sembravano  infreddoliti dall'aria del mattino. Vennero di corsa verso la  macchina, e Sophie, chinandosi, urlò adirata:   
  - Non arrivavi più! Perché ci hai messo tutto questo tempo?   
  Prima che potessi rispondere, Boris posò una mano sul braccio  di Sophie e disse:   
  - Non importa. Arriveremo lo stesso in tempo. Non importa.   
  Guardai il bambino. Portava una grossa cartella, che somigliava  a una borsa da dottore e gli dava una solennità un po' comica. Ma  il suo modo di fare era stranamente rassicurante, e, almeno  all'apparenza, il bambino riuscì a calmare la madre.   
  Pensavo che Sophie si sarebbe seduta di fianco a me, invece sia  lei sia Boris salirono dietro.   
  - Mi spiace, - dissi, mentre giravo la macchina, - ma non sono  ancora pratico del posto.   
  - Chi c'è con lui, adesso? - domandò Sophie, e la sua voce era  di nuovo molto tesa. - C'è qualcuno che si occupa di lui, in  questo momento?   
  - $è in compagnia dei suoi colleghi. Sono tutti lì. Dal primo  all'ultimo.   
  - Vedi? - disse gentilmente la voce di Boris alle mie spalle. -  Te l'ho detto. Non devi preoccuparti. Andrà tutto bene.   
  Sophie emise un profondo sospiro, ma ebbi l'impressione che  Boris fosse riuscito anche questa volta a calmarla. Qualche  istante più tardi il bambino disse:   
  - Si stanno prendendo cura di lui. Quindi non preoccuparti.  Vero che si stanno prendendo cura di lui?   
  La domanda, evidentemente, era rivolta a me. Tuttavia, mi aveva  dato un po' fastidio che Boris si fosse arrogato quella parte, e  mi seccava anche che lui e sua madre si fossero seduti tutti e  due dietro, come se fossi un taxista, così decisi di non  rispondere.   
  Per qualche minuto viaggiammo in silenzio. Tornammo  all'incrocio, poi mi sforzai di ricordare il percorso per  ritrovare la strada della foresta. Stavamo ancora attraversando  le vie vuote della città, quando Sophie, con un filo di voce appena udibile sopra il rombo del motore, disse:  
  - Questo è un campanello d'allarme.   
  Non ero sicuro che si fosse rivolta a me. Stavo per girarmi,  quando lei riprese a parlare con la stessa voce sommessa:   
  - Boris, mi stai a sentire? Dobbiamo affrontare la realtà,  questo è un campanello d'allarme. Tuo nonno sta invecchiando.  Bisogna che lavori meno. $è inutile negarlo. Bisogna che lavori  meno.   
  Boris rispose qualcosa che non riuscii a capire.   
  - Ormai è un po' che ci penso, - continuò Sophie. - Non ti ho  mai detto niente perché so che... che pensi meraviglie di tuo  nonno. Ma è un po' che ci penso. C'erano già stati altri  avvertimenti, molto prima di questo. Ma adesso non possiamo più  fare finta di niente. Il nonno sta invecchiando e deve lavorare  meno. Ho in mente un piano, non te l'ho mai detto, ma è parecchio  tempo che ci penso. Andrò a parlare al signor Hoffman. Una bella  chiacchierata sul futuro del nonno. Ho già raccolto informazioni.  Ho parlato al signor Sedelmayer dell'Hotel Imperiale e anche al  signor Weissberg dell'Ambasciatori. Non te l'ho mai detto prima,  ma io lo vedevo che il nonno non era più forte come una volta.  Così ho indagato un po'. Quando qualcuno ha lavorato in un  albergo per molti anni come tuo nonno, non è affatto insolito che  a un certo punto gli venga affidato un incarico leggermente  diverso. In modo che possa risparmiarsi un poco. All'Hotel  Imperiale c'è un signore molto più vecchio del nonno; lo vedi  subito quando entri. Una volta faceva il cuoco, ma quando è  diventato troppo vecchio per quel lavoro, hanno trovato una  soluzione. Gli hanno dato una magnifica uniforme e l'hanno messo  in un angolo dell'atrio dietro una grande scrivania di mogano,  con portapenne e calamaio. Il signor Sedelmayer dice che la cosa  funziona a meraviglia, e che quei soldi sono tutt'altro che  sprecati. I clienti, soprattutto quelli abituali,  s'indignerebbero se entrando nell'atrio non vedessero più quel  vecchio seduto dietro la sua scrivania; pare che la cosa dia  molta distinzione all'albergo. Ebbene, pensavo di parlarne con il  signor Hoffman. Anche il nonno potrebbe fare qualcosa del genere.  Naturalmente lo pagherebbero meno, ma potrebbe conservare la sua  stanzetta, alla quale è così affezionato, e mangiare gratis.  Forse potrebbero sistemarlo con una scrivania come all'Imperiale.  Ma non è escluso che il nonno voglia stare in piedi. Con  un'uniforme speciale, da qualche parte nell'atrio. Non dico che  si debba fare subito. Ma non possiamo aspettare molto. Non è più  un giovincello, e questo è un avvertimento. $è inutile  nascondercelo. Non c'è niente da guadagnare fingendo che non sia  successo niente.   
  Sophie fece una pausa. Nel frattempo avevo riportato la  macchina ai margini della foresta. Albeggiava, e il cielo era  diventato color porpora.   
  - Non preoccuparti, - disse Boris. - Il nonno si rimetterà.   
  Sophie emise un profondo sospiro, poi disse:   
  - Così, tra l'altro, avrà più tempo. Sarà molto meno occupato,  e il pomeriggio potrete andare più spesso nella città vecchia. O  dove più ti piacerà. Ma gli seme un buon cappotto. Per questo gli  porto il pacco. $è ora che glielo dia. $è un pezzo che me lo tiro  dietro.   
  Udii un fruscio di carta e, guardando nello specchietto, vidi  che Sophie aveva accanto a sé il soffice involto marrone che  conteneva il cappotto del padre. A questo punto fui costretto a  richiamare la sua attenzione per chiederle qualcosa a proposito  della strada. Sophie parve accorgersi della mia presenza per la  prima volta da quando eravamo partiti; si chinò in avanti e mi  disse all'orecchio:  
  - Sapevo che sarebbe successo. Andrò subito a parlare con il  signor Hoffman.   
  Mormorai qualcosa in segno di assenso, poi misi i fari  abbaglianti perché stavamo entrando nell'oscurità della foresta.  
  - Certa gente, - disse Sophie, - si comporta come se avesse  sempre tutto il tempo di questo mondo. Io non ne sono mai stata  capace.   
  Per qualche minuto proseguimmo in silenzio, ma io sentivo  vicinissima la sua presenza, e non so perché mi aspettavo di  sentire da un momento all'altro il tocco delle sue dita sulla mia  faccia. Poi Sophie disse in tono pacato:   
  - Ricordo quando è morta la mamma. Come mi sono sentita   
  sola.   
  La osservai di nuovo nello specchietto. Era ancora china in  avanti, protesa verso di me, ma i suoi occhi erano fissi sulla  foresta che ci correva incontro.   
  - Non preoccuparti, - aggiunse sottovoce, facendo frusciare di  nuovo il pacco del cappotto. - Farò in modo che stiamo bene.  Tutti e tre. Ci penserò io.   
  Fermai l'automobile in un piccolo posteggio dietro il palazzo  dei concerti. Davanti a noi c'era una porta su cui brillava  ancora una luce accesa; sebbene non fosse la stessa di cui mi ero  servito la prima volta, scesi e mi diressi da quella parte.  Quando mi voltai indietro, vidi che Boris stava aiutando la madre  a uscire dall'auto. Con fare protettivo, il bambino le tenne una  mano dietro la schiena anche mentre la accompagnava verso il  palazzo, e la borsa da dottore che stringeva nell'altra gli  sbatacchiò sulle gambe intralciandolo.   
  Varcata la soglia ci trovammo nel lungo corridoio circolare, e  quasi subito fummo costretti a farci da parte per lasciar passare  un carrello spinto da due uomini. Mi sembrò che la temperatura  fosse molto più alta di prima - l'aria adesso era soffocante -  ma, quando vidi due musicisti in frac che chiacchieravano  amabilmente davanti a una porta, capii con sollievo che non  eravamo lontani dal camerino dove avevo lasciato Gustav.   
  Mentre facevo strada lungo il corridoio, gli orchestrali  divennero sempre più numerosi. In gran parte si erano già  cambiati per il concerto, ma l'atmosfera era ancora estremamente  frivola. Tutti urlavano e ridevano a più non posso da un capo  all'altro del corridoio, e a un certo punto rischiammo  addirittura di scontrarci con un musicista che usciva da un  camerino imbracciando un violoncello come se fosse una chitarra.  Poi qualcuno disse:   
  - Oh, il signor Ryder, vero? Ci siamo già incontrati si ricorda  di me?  
  Un gruppetto di quattro o cinque signori che veniva dalla  direzione opposta si era fermato e ci stava guardando.  Indossavano tutti abiti da cerimonia, e mi accorsi subito che  erano ubriachi. L'uomo che mi aveva rivolto la parola brandiva un  mazzo di rose; mi venne incontro sventolandolo con noncuranza.   
  - Al cinema, l'altra sera, - proseguì. - Ci ha presentati il  signor Pedersen. Come sta, signor Ryder? I miei amici dicono che  l'altra sera mi sono comportato in maniera vergognosa e che le  devo delle scuse.   
  - Ah, sì, - dissi, riconoscendolo. - Come sta? Sono molto  contento di rivederla. Ma in questo momento ho una fretta  terribile...   
  - Mi auguro di non essere stato maleducato, - disse l'ubriaco,  avvicinandosi finché la sua faccia fu quasi contro la mia. - Non  lo sono mai di proposito.   
  A queste parole i suoi compagni gorgogliarono, come soffocando una risata.   
  - Maleducato? Niente affatto, - dissi. - Ma adesso deve  scusarmi...   
  - Stavamo cercando il maestro, - disse l'ubriaco. - No, no, non  lei, signor Ryder. Quello £tutto £nostro. Gli abbiamo portato dei  fiori, vede? In segno del grande rispetto che gli portiamo. Sa  dove possiamo trovarlo?   
  - Purtroppo non ne ho la minima idea. Credo che per il momento  non troverete il signor Brodsky da... da queste parti.   
  - No? Non è ancora arrivato? - L'ubriaco si girò verso i suoi  compagni. - Il nostro maestro non c'è ancora. Che cosa vi viene  da pensare? - Poi verso di me: - Abbiamo dei fiori per lui -.  Sventolò di nuovo il mazzo di rose, e qualche petalo cadde  volteggiando per terra. - Un segno d'affetto e di riguardo da  parte del consiglio municipale. $è un modo per chiedere scusa,  naturalmente. Per avere tardato così tanto a capirlo -. Di nuovo  i suoi compagni repressero una risata. - Non è ancora arrivato?  Il nostro diletto maestro? Be', in questo caso possiamo ammazzare  il tempo in compagnia degli orchestrali. Oppure tornare al bar.  Voi che ne dite, amici miei?   
  Vidi che Sophie e Boris davano crescenti segni di impazienza.   
  Bofonchiai una scusa e ripresi a camminare. Alle mie spalle il  gruppetto di signori si mise di nuovo a ridacchiare, ma questa  volta preferii non voltarmi.   
  Finalmente l'ambiente divenne più tranquillo; di fronte a noi  scorgemmo il muro di fondo del corridoio e i facchini ammassati  davanti all'ultimo camerino. Sophie accelerò il passo, ma poco  dopo, quand'eravamo ancora a una certa distanza, si fermò.  Vedendoci arrivare, i facchini lasciarono libero il passaggio, e  uno di loro - un uomo con i baffi, tutto nervi, che ricordavo di  avere visto al Caffè Ungherese - ci venne incontro. Sembrava  titubante, e in principio si rivolse solo a me.  
  - Gustav sta tenendo duro, signor Ryder. Ha una fibra d'acciaio  -. Poi si girò verso Sophie, abbassò lo sguardo e mormorò: - Sì,  ha una fibra d'acciaio, signorina Sophie.   
  Sulle prime Sophie non rispose e si limitò a fissare la porta  appena socchiusa del camerino, alle spalle dei facchini. Poi,  come per giustificare la sua presenza, disse all'improvviso:   
  - Ho portato una cosa a papà. Ecco, - sollevò il pacco, - gli  ho portato questo.   
  Qualcuno mise la testa dentro il camerino, e un attimo dopo  sulla soglia comparvero altri due facchini che si trovavano  all'interno. Sophie non si mosse, e per un istante nessuno seppe  che cosa dire o fare. Poi Boris ci passò davanti, tenendo  sollevata la sua cartella nera.   
  - Vi prego, signori, - disse. - Spostatevi. Toglietevi di lì,  per piacere.   
  Fece segno ai facchini di allontanarsi dalla porta. I due  uomini sulla soglia rimasero dov'erano, guardandolo stupefatti, e  Boris rivolse loro un gesto impaziente. - Signori! Toglietevi di  lì, per piacere!   
  Dopo avere fatto un po' di spazio davanti al camerino, Boris,  si voltò a guardare la madre. Sophie venne avanti di qualche  passo, poi si fermò di nuovo. I suoi occhi fissavano la porta -  che il due facchini avevano lasciata aperta a metà - con un po'  di apprensione. Ancora una volta tutti sembrarono incerti sul da  farsi, e fu di nuovo Boris a rompere il silenzio.  
  - Aspettami qui, mamma -. Detto questo, si girò e sparì dentro  il camerino.  
  Sophie mostrò un evidente sollievo. Si avvicinò ancora di  qualche passo e, quasi con disinvoltura, si sporse in avanti per  sbirciare dentro la stanza. Poi, vedendo che Boris aveva praticamente richiuso la porta, drizzò la schiena e rimase ad  aspettare come in coda alla fermata dell'autobus, con il pacco  ripiegato sulle braccia incrociate.   
  Boris riemerse dopo qualche minuto. Aveva ancora la sua borsa  da dottore in mano, e si chiuse la porta alle spalle con cura.  
  - Il nonno è molto contento che siamo venuti, - disse in tono  tranquillo, guardando Sophie. - Molto contento.   
  Poi rimase a fissare la madre, e sulle prime il suo  atteggiamento mi sconcertò. Impiegai qualche secondo a capire che  stava aspettando un messaggio da riferire a Gustav. Di fatti,  dopo un attimo di riflessione, Sophie aprì finalmente bocca.  
  - Digli che ho una cosa per lui. Un regalo. Glielo porto dentro  fra un momento. Mi sto... mi sto solo preparando.   
  Quando Boris scomparve di nuovo nel camerino, Sophie si mise il  cappotto su un braccio e cominciò a lisciare le pieghe della  soffice carta marrone. In quell'istante, forse per la manifesta  inutilità di quel gesto, mi ricordai improvvisamente dei numerosi  altri impegni che mi attendevano. Mi venne in mente, per esempio,  che non avevo ancora esaminato l'auditorium, e che le possibilità  di farlo - se volevo che l'ispezione avesse un senso -  diminuivano di minuto in minuto.   
  - Torno subito, - dissi a Sophie. - Devo controllare una cosa.   
  Sophie continuò a gingillarsi con il pacco e non mi rispose.  Stavo per ripetere la frase a voce più alta, quando pensai che  era meglio non attirare troppo l'attenzione su di me. Zitto  zitto, partii in cerca di Hoffman.  32.  
  Dopo avere percorso un breve tratto di corridoio, vidi davanti  a me un certo trambusto. Una dozzina di persone si spingevano a  vicenda, urlando e gesticolando. Il mio primo pensiero fu che, a  causa della crescente tensione, fosse scoppiato un litigio tra il  personale delle cucine. Poi notai che la piccola folla veniva  lentamente verso di me ed era composta di una curiosa mescolanza  di persone. Alcune erano in abito da sera, altre invece  indossavano giacche a vento, impermeabili e jeans, e sembravano  arrivare direttamente dalla strada. Al gruppo si era unito anche  qualche orchestrale.   
  Uno degli uomini che urlavano di più aveva un aspetto  familiare. Stavo cercando di ricordare dove l'avessi già visto,  quando lo udii strillare:   
  - Signor Brodsky, devo assolutamente insistere!   
  Riconobbi allora il chirurgo dai capelli grigi che avevo  incontrato nella foresta, e mi accorsi che al centro della  piccola folla c'era niente meno che Brodsky, che avanzava  lentamente con cocciuta determinazione. Aveva un aspetto da far  paura. La pelle della faccia e del collo era bianca e  orrendamente grinzosa.   
  - Dice di sentirsi bene! Perché non lascia decidere a lui? -  urlò di rimando un signore di mezza età in smoking. Parecchie  voci appoggiarono immediatamente questa affermazione, suscitando  a loro volta un coro di proteste.   
  Nel frattempo Brodsky continuava la sua lenta avanzata,  ignorando completamente il trambusto che lo attorniava. Sulle  prime ebbi l'impressione che fosse sorretto dalla folla, ma  quando fu più vicino, vidi che camminava da solo con l'aiuto di  una gruccia. Quest'ultima aveva qualcosa di strano, che mi  indusse a osservarla più attentamente; mi accorsi allora che si  trattava di un'asse da stiro, che Brodsky teneva chiusa e in  posizione verticale sotto l'ascella.   
  Mentre osservavo la scena, gli accompagnatori di Brodsky  cominciarono a notare la mia presenza, e a uno a uno ammutolirono  rispettosamente, per cui la piccola folla si fece sempre più silenziosa man mano che si avvicinava. Il chirurgo, invece,  continuava a strepitare:   
  - Signor Brodsky! Il suo organismo ha subito un trauma  gravissimo. Insisto perché si sieda e si riposi!   
  Brodsky teneva gli occhi bassi, concentrandosi su ogni passo, e  per un po' non mi vide. Poi, notando il cambiamento nelle persone  che gli stavano intorno, alzò finalmente lo sguardo.   
  - Ah, Ryder, - disse. - Eccola.   
  - Signor Brodsky. Come si sente?   
  - Bene, bene, - disse Brodsky in tono calmo.   
  La folla si scostò un po', e lui poté percorrere più  agevolmente l'ultimo tratto di corridoio. Quando gli feci i miei  complimenti per come aveva imparato in fretta l'arte di camminare  con la gruccia, Brodsky abbassò gli occhi sulla sua asse da stiro  come se l'avesse ormai dimenticata da un pezzo.   
  - Il tizio che mi ha portato qui, - disse, - aveva questa  trappola nel suo furgone. Non funziona male. $è robusta, e mi  permette di camminare abbastanza bene. L'unico guaio è che tende  ad aprirsi. Così.   
  Brodsky scosse l'asse da stiro, che effettivamente cominciò a  schiudersi. Un fermo ne bloccò quasi subito l'apertura, ma era  chiaro che il continuo ripetersi di questo movimento, per quanto  lieve, poteva essere oltremodo irritante.   
  - Avrei bisogno di un cordino per legarla, - disse Brodsky con  aria triste. - Un cordino come questo. Ma adesso non c'è tempo.   
  Seguii con lo sguardo il suo dito e non potei fare a meno di  sgranare gli occhi dal raccapriccio alla vista della gamba  sinistra dei suoi pantaloni, annodata poco sotto la coscia.   
  - Signor Brodsky, - dissi, costringendomi a guardarlo di nuovo  in faccia, - non è possibile che si senta bene. Pensa di avere la  forza di dirigere l'orchestra questa sera?   
  - Sì, sì. Sto bene. Dirigerò l'orchestra e sarà... sarà un  concerto stupendo. Come ho sempre saputo che sarebbe stato. E  allora lei vedrà con i suoi occhi, udirà con le sue orecchie. Per  tutti questi anni ho solo finto di essere un idiota. Per tutti  questi anni mi sono tenuto dentro ogni cosa, aspettando. E questa  notte lei vedrà finalmente chi sono. Sarà un concerto stupendo,  signor Ryder.  
  - Parla della signorina Collins? Ma non aveva detto che non  sarebbe venuta?   
  - Verrà, verrà. Oh, sì, sì. Hoffman ha fatto di tutto per  impedirglielo, per spaventarla, ma lei verrà, oh, sì. Ormai ho  smascherato il suo gioco. Sono andato a trovarla, Ryder, ho fatto  un lunghissimo pezzo a piedi, è stato faticoso, ma alla fine è  arrivato quest'uomo, questo brav'uomo... - Brodsky si girò a  guardare la piccola folla e mi indicò vagamente qualcuno. - $è  arrivato, aveva un furgone. Siamo andati da lei, e io ho bussato  alla porta, ho bussato, bussato. Un vicino ha creduto che avessi  ricominciato come un tempo. Sa, a volte lo facevo, di bussare e  bussare alla sua porta di notte, finché qualcuno chiamava la  polizia. Ma io gli ho detto, no, pezzo d'idiota, non sono più  ubriaco. Ho avuto un incidente e adesso sono sobrio, vedo tutto  con chiarezza. Gliel'ho urlato in faccia, a quel vecchio lardoso.  Vedo tutto con chiarezza, adesso, vedo tutto ciò che quel verme  mi ha fatto in questi mesi, sì, gli ho urlato così. Poi l'ho  vista avvicinarsi alla porta, proprio lei, veniva avanti e mi  sentiva parlare con il suo vicino, e io la vedevo attraverso il  vetro, titubante, allora ho lasciato perdere il vicino e ho  cominciato a rivolgermi a lei. Mi ha ascoltato, ma sulle prime  non ha aperto la porta, poi però le ho detto, senti, ho avuto un  incidente, allora lei mi ha aperto. Dov'è il sarto? Dove si è  cacciato? Non doveva tenermi pronta la giacca? - Brodsky si guardò intorno, e una voce in fondo alla piccola folla disse:   
  - Arriva subito, signor Brodsky. Anzi, eccolo qui.   
  Comparve un ometto che cominciò a prendere le misure a Brodsky  con un metro a nastro.   
  - Ma che cosa fa? Ma che cosa fa? - borbottò Brodsky  impaziente. Poi, rivolto a me, aggiunse: - Sono senza vestito. Ne  avevano uno pronto. Dicono di avermelo consegnato a casa. Chi lo  sa? Ho avuto un incidente, non so dove sia finito. Dovranno  procurarmene un altro. Un vestito e una camicia da sera. Voglio  il meglio per questa notte. Le mostrerò quali sono state le mie  vere intenzioni per tutti questi anni.   
  - Signor Brodsky, - dissi, - mi stava appunto parlando della  signorina Collins. Se ho ben capito, alla fin fine è riuscito a  convincerla a venire qui questa sera?   
  - Oh, verrà. Me l'ha promesso. Non mancherà alla sua promessa  per la seconda volta. Al cimitero non è venuta. Io ho aspettato,  aspettato, e lei non è venuta. Ma non era colpa sua. $è stato  lui, il direttore dell'albergo, a spaventarla. Ma io le ho detto  che il tempo della paura è finito. Che abbiamo avuto paura per  tutta la nostra vita, e adesso dobbiamo essere coraggiosi. In  principio non mi stava nemmeno a sentire. Ma che cosa ti sei  fatto? continuava a chiedermi. Era molto diversa dal solito.  Aveva gli occhi pieni di lacrime, si portava le mani al volto  come se fosse sul punto di mettersi a piangere. Non si  preoccupava nemmeno che i vicini potessero sentirci. Era notte  fonda, e lei mi diceva, Leo, Leo... sì, mi chiama di nuovo  così... Leo che cosa ti sei fatto alla gamba? C'è del sangue. E  io, non è niente, non ha importanza. Un incidente, per fortuna  c'era un dottore che passava di lì, ma non è di questo che devi  preoccuparti adesso, è molto più importante che tu venga al  concerto. Non stare ad ascoltare quello sciagurato, quel... quel  £fattorino. Le ho detto che ci restava pochissimo tempo. Che  questa sera avrebbe visto quali erano sempre state le mie vere  intenzioni. Avrebbe capito che non ero l'idiota che aveva creduto  per tutti questi anni. E lei mi ha risposto che non poteva  venire, che non era pronta; e poi, ha detto, tutte le ferite si  sarebbero riaperte. E io le ho ripetuto, non stare ad ascoltare  quel fattorino, quel portiere d'albergo, è troppo tardi per  queste cose. E lei mi indicava la gamba, ma che cosa ti sei  fatto, diceva, sta sanguinando, e io mi sono messo a urlare. Non  importa, le ho urlato. Non capisci che ho bisogno che tu venga!  Devi venire! Devi vedere con i tuoi occhi, devi venire! E  finalmente lei ha capito che stavo facendo sul serio. Gliel'ho  letto negli occhi, ho visto il cambiamento dietro il suo sguardo,  la paura dileguarsi, qualcosa di nuovo germogliare dentro di lei,  e ho capito che avevo vinto, e che quel lavatore di cessi  d'albergo aveva perso. E le ho detto, con voce pacata, questa  volta, le ho detto: «Allora verrai?» Lei ha annuito con calma, e  io ho avuto la certezza che potevo fidarmi di lei. Sì, Ryder, la  certezza assoluta, così mi sono girato e me ne sono andato. Sono  venuto qui, mi ha portato questo brav'uomo con il suo furgone...  dove si è cacciato? Ma sarei venuto anche a piedi; non sono mica  così malconcio.  
  - Ma signor Brodsky, - dissi, - è sicuro di essere in grado di  salire sul podio? In fondo, ha avuto un terribile incidente...   
  Sebbene non fosse nelle mie intenzioni, l'accenno a questo  argomento ebbe l'effetto di scatenare un'altra raffica di grida.  Il chirurgo si fece largo a gomitate e, quando fu in prima fila,  alzò la voce più degli altri, picchiando il pugno contro la palma  della mano per dare maggior enfasi alle sue parole.   
  - Signor Brodsky, insisto! Anche se solo per qualche minuto,  lei £deve riposarsi!  
  - Sto bene, sto bene, lasciatemi in pace! - urlò Brodsky  riprendendo a camminare. Poi, vedendo che non mi ero mosso, si  girò verso di me e gridò: - Ryder, se vede quel fattorino, gli  dica che sono qui -. Sì, glielo dica. Pensava che non ce l'avrei  mai fatta, perché è convinto che sia una cacca di cane. Gli dica  che sono qui. Vediamo che faccia fa -. Detto questo si allontanò  per il corridoio, seguito dalla piccola folla altercante.  
  Io continuai nella direzione opposta, sulle tracce di Hoffman.  Il numero degli orchestrali che ciondolavano nel corridoio era  diminuito, e molti dei camerini avevano la porta chiusa. Ero sul  punto di tornare indietro per guardare meglio dentro a quelli  aperti, quando scorsi la figura di Hoffman poco più avanti di me.   
  Mi dava la schiena e camminava lentamente a testa china.  Sebbene fossi troppo lontano per sentire ciò che diceva, era  chiaro che stava ripetendo il suo discorsetto. Poi, quando fui a  pochi passi da lui, lo vidi barcollare improvvisamente in avanti.  Temetti che cadesse, ma un attimo dopo capii che stava  semplicemente provando il curioso gesto che gli avevo già visto  fare davanti allo specchio del camerino di Brodsky. Piegando in  due il busto, Hoffman sollevò un braccio con il gomito in fuori e  cominciò a battersi la fronte con il pugno. Era ancora in questa  posizione quando lo raggiunsi e diedi un colpetto di tosse.  Hoffman si raddrizzò di scatto e si girò verso di me.   
  - Ah, signor Ryder. Non si preoccupi. Sono sicuro che il signor  Brodsky sarà qui a momenti.   
  - Certamente, signor Hoffman. Anzi, se per caso stava provando  il discorsetto con cui intendeva chiedere scusa al pubblico per  il mancato arrivo del signor Brodsky, sappia che non ce ne sarà  bisogno. Sono lieto di informarla che il signor Brodsky è già qui  -. Indicai il corridoio. - $è appena arrivato.   
  Hoffman fece una smorfia stupefatta e per un secondo rimase  impietrito. Poi si diede un contegno e disse:   
  - Oh, bene. Che sollievo. D'altronde, sono sempre stato... sì,  insomma, estremamente fiducioso -. Rise e si guardò intorno, come  se sperasse di vedere Brodsky. Poi rise di nuovo e disse: - Be',  forse è meglio che vada a occuparmi di lui.   
  - Signor Hoffman, prima di andarsene, sarebbe così gentile da  darmi notizie aggiornate sui miei genitori? Confido che siano al  sicuro dentro l'edificio. E mi auguro che la sua idea del cavallo  e della carrozza abbia avuto l'effetto sperato. Tra l'altro credo  di avere sentito la carrozza quando sono passato in macchina  davanti al palazzo.   
  - I suoi genitori? - Hoffman parve di nuovo disorientato. Poi  mi mise una mano sulla spalla e disse: - Ah, sì. I suoi genitori.  Vediamo un po'.   
  - Signor Hoffman, contavo che lei e i suoi colleghi si  prendessero cura dei miei genitori. Le loro condizioni di salute  sono tutt'altro che buone...   
  - Certo, certo. Non occorre che si preoccupi. Solo che con  tutte le cose che ho per la testa, con il signor Brodsky che per  giunta era leggermente in ritardo, anche se ora a quanto pare è  arrivato... ah, ah... - Hoffman smise di parlare e guardò di  nuovo in fondo al corridoio. Un po' freddamente gli domandai:   
  - Signor Hoffman, dove sono i miei genitori in questo momento?  Ne ha una vaga idea?   
   - Ah. In questo istante, a dire il vero, io... ecco... Ma le  assicuro che sono in mani fidatissime. Naturalmente, sarebbe il  massimo delle mie aspirazioni poter seguire personalmente ogni  aspetto della serata, ma deve capire che... Ah, ah. La signorina  Stratmann. Sì, lei sa di sicuro dove sono i suoi genitori. Le è  stato ordinato di sorvegliare attentamente tutto ciò che li riguarda. Anche se, finché sono qui da noi, non c'è alcun  pericolo che vengano trascurati. Anzi, ho dovuto chiedere alla  signorina Stratmann di fare molta attenzione che non si stanchino  troppo. Sa, è inevitabile che siano sommersi di inviti da ogni  parte...  
  - Signor Hoffman, se ho ben capito, non ha la minima idea di  dove siano i miei in questo momento? E la signorina Stratmann  dov'è?   
  - Oh, è certamente qui da qualche parte. Su, muoviamoci e  andiamo a vedere come sta il signor Brodsky. Sono sicuro che per  strada incontreremo la signorina Stratmann. Magari è in ufficio.  In ogni caso, signor Ryder, - e improvvisamente Hoffman assunse  un tono più autoritario, - non otterremo gran che restando qui.   
  Ci avviammo lungo il corridoio. Mentre camminavamo, Hoffman  parve ritrovare tutta la sua compostezza; con un sorriso, mi  disse:   
  - Adesso possiamo essere sicuri che tutto andrà per il meglio.  Lei, signor Ryder, mi sembra una persona che sa molto bene il  fatto suo. E ora che anche il signor Brodsky è arrivato, non ci  sono più problemi. Tutto si svolgerà secondo i piani. Ci attende  una splendida serata.   
  Poi notai un cambiamento nel suo passo e mi accorsi che stava  fissando qualcosa davanti a noi. Seguendo il suo sguardo, vidi  Stephan in mezzo al corridoio. Il giovane aveva la faccia  preoccupata e, non appena ci scorse, ci venne rapidamente  incontro.  
  - Buona sera, signor Ryder, - disse. Poi, abbassando la voce,  si rivolse a Hoffman: - Papà, possiamo parlarci un momento?   
  - Non ho tempo, Stephan. Il signor Brodsky è appena arrivato.   
  - Sì, l'ho saputo. Ma vedi, papà, si tratta della mamma.   
  - Ah. La mamma.   
  - $è ancora nel foyer, e io devo cominciare fra quindici  minuti. L'ho vista poco fa, era lì che vagava. Le ho detto che  presto sarebbe toccato a me, e lei mi ha risposto: «Be', caro,  adesso proprio non posso. Cercherò di sentire almeno l'ultima  parte del tuo pezzo, ma prima devo occuparmi di un paio di cose».  Ha detto così, ma a me è sembrato che non avesse niente di  particolare da fare. Sul serio, è ora che tu e la mamma veniate a  sedervi. Fra meno di quindici minuti tocca a me.   
  - Sì, sì, arrivo subito. Quanto a tua madre, sono sicuro che  sbrigherà in fretta quel che deve fare. Perché ti preoccupi  tanto? Torna nel tuo camerino e pensa a prepararti.   
  - Ma che cosa ci fa nel foyer? Se ne sta lì a chiacchierare con  tutti quelli che passano. Fra poco resterà solo lei. La gente  ormai sta prendendo posto.   
  - Immagino che voglia semplicemente sgranchirsi le gambe, visto  che dovrà stare seduta per il resto della serata. Adesso calmati,  Stephan. Devi far decollare bene la serata. Contiamo tutti su di  te.   
  Il giovane rifletté su queste parole, poi parve ricordarsi  improvvisamente di me.   
  - $è stato davvero gentile, signor Ryder, - disse con un  sorriso. - Non so che cosa avrei fatto senza il suo  incoraggiamento.   
  - Il suo incoraggiamento? - Hoffman mi guardò stupefatto.   
  - Oh, sì, - disse Stephan. - Il signor Ryder è stato  estremamente generoso, sia con il suo tempo, sia con i suoi  elogi. Mi ha ascoltato mentre provavo il pezzo, e mi ha dato il  più grande incoraggiamento che abbia ricevuto da anni.   
  Hoffman guardava ora me ora il figlio, con un sorrisetto  incredulo sulle labbra. Poi mi disse:   
  - Lei ha trovato il tempo di ascoltare Stephan? Di ascoltare lui?   
  - Proprio così. Ho già tentato di dirglielo una volta, signor  Hoffman. Suo figlio è molto dotato, e sono sicuro che la sua  esecuzione sbalordirà tutti, comunque vada il resto della serata.   
  - Caspita, lo crede davvero? Resta però il fatto che Stephan,  che lui... insomma... - Hoffman parve confondersi, poi diede una  pacca sulla schiena al figlio, prorompendo una breve risata. -  Bene, Stephan, a quanto pare hai in serbo una sorpresa per noi.   
  - Lo spero, papà. Ma la mamma è ancora nel foyer. Forse sta  aspettando £te. Voglio dire, fa sempre una brutta impressione che  una signora se ne stia seduta per conto suo in un'occasione come  questa. Forse il motivo è solo quello. Se vai in sala e prendi  posto, può darsi che lei ti raggiunga. Mica per altro, ma fra  pochissimo tocca a me.   
  - D'accordo, Stephan, ci penso io. Non preoccuparti. Adesso  torna nel tuo camerino e preparati. Prima devo solo sistemare un  paio di cose con il signor Ryder.   
  Sebbene Stephan avesse ancora l'aria infelice, lo lasciammo e  continuammo per la nostra strada.   
  - Devo avvertirla di una cosa, signor Hoffman, - dissi, dopo  avere percorso un altro tratto di corridoio. - Forse noterà che  il signor Brodsky ha assunto un atteggiamento un po' ostile  verso... be', verso di lei.   
  - Verso di me? - Hoffman pareva stupito.   
  - Quando l'ho visto poco fa, era piuttosto irritato con lei. Si  direbbe che nutra un certo risentimento nei suoi confronti. Ho  pensato che fosse meglio dirglielo.   
  Hoffman borbottò qualcosa che non capii. Poi, mentre il  corridoio continuava lentamente a girare, davanti a noi comparve  il camerino di Brodsky, riconoscibile dalla piccola folla  raccolta fuori della porta. Il direttore dell'albergo rallentò,  poi si fermò del tutto.   
  - Signor Ryder, ho ripensato a quello che mi ha appena detto  Stephan, e credo che farei meglio ad andare da mia moglie. Per  accertarmi che stia bene. In fondo, in una serata come questa,  capisce anche lei, i nervi...   
  - Certamente.   
  - La prego quindi di scusarmi. Tra l'altro, posso chiederle di  dare un'occhiata nel camerino del signor Brodsky, per controllare  che tutto proceda bene? Perché io, davvero, - Hoffman guardò  l'orologio, - bisogna proprio che vada a prendere posto. Stephan  ha ragione.   
  Hoffman si lasciò sfuggire una risatina, poi scappò via nella  direzione da cui eravamo venuti.  
  Aspettai che se ne fosse andato, poi mi incamminai verso il  gruppetto riunito davanti alla porta di Brodsky. Alcuni dei  presenti erano li per semplice curiosità; altri invece  discutevano concitatamente sottovoce. Il chirurgo dai capelli  grigi indugiava accanto alla soglia; stava parlando animatamente  a un orchestrale e gesticolava esasperato in direzione del  camerino. Con mio grande stupore, la porta era spalancata; mentre  mi avvicinavo, il piccolo sarto che avevo visto poco prima mise  fuori la testa e urlò: - Il signor Brodsky vuole un paio di  forbici. Ma grandi! - Qualcuno partì di corsa, e il sarto sparì  di nuovo nel camerino. Mi feci largo tra la folla e guardai  dentro la stanza.   
  Brodsky era seduto con la schiena alla porta e si guardava  nello specchio a muro. Indossava uno smoking, e il sarto gli  stava pizzicando e tirando la stoffa sulle spalle. Aveva anche  una camicia da sera, ma non ancora il farfallino.   
  - Ah, Ryder, - disse, vedendomi nello specchio. - Entri, entri.  Sa, era un pezzo che non indossavo più un vestito così.  
  Sembrava molto più calmo di prima, e mi tornò in mente  l'atteggiamento imperioso che aveva assunto al cimitero, quando  era comparso davanti ai familiari del defunto.   
  - Come le sembra, signor Brodsky, - disse il sarto,  raddrizzandosi. Per qualche istante tutti e due esaminarono la  giacca allo specchio. Poi Brodsky scosse il capo.   
  - No, no. La voglio più aderente, - disse. - Qui e qui. $è  troppo larga.   
  - Non ci vuole niente, signor Brodsky -. Il sarto gli sfilò in  fretta e furia la giacca, mi passò davanti facendo un rapido  inchino e sparì dalla porta.   
  Brodsky continuò a guardarsi allo specchio, giocherellando  pensieroso con le punte ripiegate del colletto. Poi prese un  pettine e si diede qualche tocco ai capelli, che, notai, erano  stati impomatati e luccicavano.   
  - Come si sente adesso? - domandai, avvicinandomi.   
  - Bene, - disse lui lentamente, continuando ad aggiustarsi i  capelli. - Adesso mi sento bene.   
  - E la gamba? Non può certo dirigere un'orchestra con una  ferita così grave!   
  - La mia gamba non ha niente -. Brodsky posò il pettine e  osservò il risultato. - La ferita era meno grave di quanto  sembrasse. Adesso sto bene.   
  Mentre Brodsky diceva queste parole, vidi nello specchio il  chirurgo - che per tutto questo tempo era rimasto vicino alla  porta - fare un passo dentro la stanza, con l'aria di chi non  riesce più a trattenersi. Ma prima che l'uomo potesse dire  qualcosa, Brodsky urlò in tono quasi feroce alla sua immagine  riflessa:   
  - Sto bene, adesso! La ferita è una cosa da niente!   
  Il chirurgo batté in ritirata, ma si fermò sulla soglia e di lì  continuò a fissare rabbiosamente la schiena di Brodsky.   
  - Ma signor Brodsky, - dissi in tono pacato, - ha perso una  gamba. Non può essere una cosa tanto trascurabile.   
  - Ho perso una gamba, è vero -. Brodsky stava di nuovo  ravviandosi i capelli. - Ma è successo anni fa, Ryder. Molti anni  fa. Forse quando ero bambino. $è passato così tanto tempo che non  me lo ricordo nemmeno. Quell'idiota di un dottore non se ne è  accorto. Ero tutto attorcigliato alla bicicletta, ma la gamba  intrappolata era quella artificiale. Quell'idiota non se ne è  nemmeno accorto. E ha il coraggio di definirsi chirurgo! A me,  Ryder, sembra di non averla mai avuta quella gamba. Quanto tempo  fa è successo? Alla mia età si comincia a dimenticare. E si  smette persino di angustiarsi. Una ferita così diventa come una  vecchia amica. Certo, di tanto in tanto mi dà fastidio, ma ci ho  vissuto insieme per così tanto tempo! Deve essere successo quando  ero bambino. Forse in un incidente ferroviario. Da qualche parte  in Ucraina. Mi pare che ci fosse la neve. Ma chi può dire? Ormai  non ha nessuna importanza. A me sembra di essere stato così per  tutta la mia vita. Con una gamba sola. Non è una tragedia. Si fa  il callo. Quell'idiota di un dottore. Mi ha segato la gamba di  legno. Sì, c'era sangue, sanguina ancora, e mi servono delle  forbici, Ryder. Ho mandato a prendere delle forbici. No, no, non  per la ferita. Per la gamba dei pantaloni, questa qui. Non posso  mica dirigere l'orchestra con una gamba dei pantaloni vuota, che  sbatacchia a questo modo. Quell'idiota di un dottore, quel  tirocinante, mi ha segato la gamba di legno, e mi ha messo in un  bel guaio. Non mi resta che... - Brodsky mimò con le dita un paio  di forbici che tagliavano la stoffa poco sopra il ginocchio. -  Devo rimediare in qualche modo. Renderla il più possibile  elegante. Quell'idiota, non solo mi rovina la gamba di legno, mi  graffia anche il moncone. Erano anni che la ferita non sanguinava più così. Che razza di idiota, con quella faccia tutta seria. Si  crede chissà chi e va ad amputarmi una gamba di legno. Mi incide  persino il moncone. Non c'è da stupirsi se continua a sanguinare.  C'era sangue da per tutto. Ma la gamba l'ho persa da anni. Da  un'eternità. Ho avuto tutta la vita per farci l'abitudine. Poi  arriva quell'idiota con la sua sega e la ferita ricomincia a  sanguinare -. Brodsky abbassò gli occhi sul pavimento e sfregò  qualcosa con la scarpa. - Ho mandato a prendere delle forbici.  Voglio fare bella figura, Ryder. Non sono vanitoso. Non lo faccio  per vanità. Ma in certi momenti ci vuole decoro. C'è una persona  che mi verrà a vedere, questa sera, e che si ricorderà di questa  serata per tutti gli anni che ci restano da vivere. L'orchestra è  una buona orchestra. Ecco, guardi qui -. Brodsky allungò una mano  e prese una bacchetta, mettendola sotto la luce. - $è una buona  bacchetta. Basta prenderla in mano per capirlo. Fa differenza,  sa. Per me la punta è importante. La punta deve essere fatta in  un certo modo e solo in quello -. Brodsky fissò la bacchetta. -  $è passato tanto tempo, ma non ho paura. Questa sera farò vedere  a tutti quel che valgo. E non scenderò a compromessi. Andrò sino  in fondo. Come dice lei, Ryder. Max Sattler. Ma che idiota  quell'uomo! Quell'imbecille! Quel barelliere!   
  Queste ultime parole Brodsky le urlò allo specchio con un certo  gusto; il chirurgo - che era rimasto a guardare dalla porta con  la faccia stupefatta - si ritirò imbarazzato.   
  Quando se ne fu andato, Brodsky lasciò trasparire per la prima  volta i segni della tensione. Chiuse gli occhi e si inclinò sulla  sedia, respirando pesantemente. Ma un attimo dopo nella stanza  piombò un uomo con un paio di forbici.   
  - Oh, finalmente, - disse Brodsky, prendendole. Poi, non appena  l'uomo fu uscito, posò le forbici sulla mensola dello specchio e  cominciò ad alzarsi in piedi. Per sollevare il corpo si servì  dello schienale della sedia, poi allungò una mano verso l'asse da  stiro, appoggiata al muro di fianco allo specchio. Mi feci avanti  per aiutarlo, ma prima che potessi intervenire Brodsky afferrò  l'asse e se la mise sotto il braccio con sorprendente agilità.   
  - Vede, - disse, guardandosi tristemente la gamba dei pantaloni  che penzolava vuota. - Devo rimediare.   
  - Vuole che le chiami il sarto?   
  - No, no. Quell'uomo non saprebbe che cosa fare. Me la caverò  da solo.   
  Brodsky continuava a guardarsi il pantalone penzolante. Mentre  lo osservavo, mi ricordai che avevo lasciato parecchie altre  questioni urgenti in sospeso. In particolare, dovevo tornare da  Sophie e Boris e informarmi sulle condizioni di Gustav. Poteva  persino darsi che qualche vitale decisione riguardante il vecchio  facchino fosse stata rinviata in attesa del mio ritorno. Diedi un  colpetto di tosse e dissi:   
  - Se non le spiace, signor Brodsky, devo andare.   
  Brodsky continuava a guardarsi la gamba dei pantaloni. - Sarà  un magnifico concerto, Ryder, - disse quasi sottovoce. - E lei  sarà lì a vedermi. Finalmente.  
33.  
  La scena davanti al camerino di Gustav non era cambiata gran  che durante la mia assenza. I facchini si erano forse allontanati  un po' dalla porta, e ora, accalcati sul lato opposto del  corridoio, discutevano fra loro sottovoce. Sophie, invece, era  ancora dove l'avevo lasciata, con il pacco ripiegato sulle  braccia e gli occhi fissi sulla porta socchiusa. Vedendomi  arrivare, uno dei facchini mi venne incontro e disse a voce  bassa:   
  - Gustav sta tenendo duro, signor Ryder. Ma Josef è andato a chiamare un dottore. Non si poteva più rimandare.   
  Annuii, poi, accennando con gli occhi a Sophie, domandai  sottovoce: - Non è ancora entrata?   
  - No, signor Ryder. Ma sono sicuro che la signorina Sophie lo  farà molto presto.   
  Restammo tutti e due a guardarla per un momento.   
  - E Boris? - domandai.   
  - Oh, lui è entrato un paio di volte.   
  - Un paio di volte?   
  - Oh, sì. Adesso è dentro.   
  Annuii di nuovo, poi mi avvicinai a Sophie. Non si era ancora  accorta che ero tornato e, quando le sfiorai gentilmente una  spalla, sussultò. Poi rise e disse.   
  - Papà è lì dentro.   
  - Sì  
  Sophie cambiò lievemente posizione, sporgendosi da una parte  come per vedere meglio attraverso la porta.   
  - Non volevi dargli il cappotto? - domandai.   
  Sophie abbassò gli occhi sul pacco, poi disse: - Oh, sì. Sì,  sì. Stavo proprio per... - Non terminò la frase e si sporse di  nuovo. Poi chiamò:   
  - Boris? Boris! Vieni fuori un momento.   
  Dopo qualche secondo il bambino, calmissimo, uscì dalla stanza  e richiuse con cura la porta.   
  - Allora? - domandò Sophie.   
  Boris mi guardò brevemente. Poi si rivolse alla madre:   
  - Il nonno dice che gli dispiace. Ha detto di dirti che gli  dispiace.   
  - Tutto lì? Non ha detto altro?   
  Il bambino ebbe un attimo di incertezza, poi aggiunse in tono  rassicurante: - Tornerò dentro. Vedrai che mi dirà di più.   
  - Ma finora non ti ha detto altro? Solo che gli dispiace?   
  - Non preoccuparti. Tornerò dentro.   
  - Aspetta un momento -. Sophie cominciò a strappare la carta  che avvolgeva il cappotto. - Porta questo al nonno. Daglielo.  Vedi se gli va bene. Digli che se occorre posso accomodarglielo.   
  Sophie lasciò cadere per terra la carta strappata e tenne  sollevato il cappotto di colore marrone scuro. Boris lo prese senza fare storie e tornò nel camerino. Forse a causa del  voluminoso indumento che gli ingombrava le braccia, il bambino  lasciò la porta aperta a metà; un attimo dopo in corridoio si udì  un mormorio proveniente dalla stanza. Sophie restò dov'era, ma  vidi che si sforzava di cogliere qualche parola. Alle nostre  spalle, i facchini si mantenevano a rispettosa distanza, ma anche  loro fissavano con ansia la porta.   
  Passò un lungo momento, poi Boris uscì di nuovo.   
  - Il nonno ringrazia, - disse a Sophie. - Adesso è molto  contento. Dice che è molto contento.   
  - Non ha detto altro?   
  - Ha detto che è contento. Prima era preoccupato, ma ora che è  arrivato il cappotto, dice che per lui è molto importante -.  Boris diede un'occhiata alle sue spalle, poi si girò di nuovo  verso la madre. - Dice che è molto contento del cappotto.   
  - Non ti ha detto altro? Non ti ha detto se... se gli va bene?  Se il colore gli piace?   
  Stavo guardando Sophie, per cui non vidi con precisione ciò che  Boris fece a questo punto. A me non parve nulla di speciale, una  semplice pausa mentre pensava come rispondere alla domanda della  madre. Ma Sophie si mise improvvisamente a urlare:   
  - Perché fai così?   
  Il bambino sgranò gli occhi.   
  - Perché fai così? Sai benissimo cosa voglio dire. Così! Così! - Sophie afferrò Boris per la spalla e cominciò a scuoterlo  violentemente. - Come suo nonno! - disse, rivolta a me. - L'ha  copiato da lui! - Poi, girandosi verso i facchini, che  osservavano la scena allarmati, aggiunse: - Dal nonno! Ecco da  chi l'ha preso. L'avete vista quella mossa della spalla? Così  compiaciuta, così tronfia. L'avete vista? Esattamente come suo  nonno! - Poi fissò Boris con faccia torva e riprese a scuoterlo.  - Oh, credi di essere un grand'uomo, vero? Vero?   
  Boris si liberò dalla stretta e indietreggiò barcollando di  qualche passo.   
  - L'hai visto? - mi domandò Sophie. - Quel modo di alzare la  spalla. Come suo nonno.   
  Boris si allontanò ancora di qualche passo. Poi raccattò dal  pavimento la borsa nera da dottore e se la mise davanti al petto  come per difendersi. Pensai che stesse per scoppiare in lacrime,  ma all'ultimo momento riuscì a dominarsi.   
  - Non preoccuparti... - disse, poi si fermò. Vidi che sollevava  ancora un po' più in alto la borsa nera. - Non preoccuparti.  Io... io... - Boris rinunciò a parlare e si guardò intorno. La  stanza adiacente al camerino di Gustav era a pochi passi da lui.  Il bambino girò sui tacchi, si infilò dentro e sbatté la porta.   
  - Sei impazzita? - domandai a Sophie. - Non ti sembra che sia  già abbastanza sconvolto?   
  Sophie non disse nulla. Poi sospirò e si diresse verso la  stanza in cui era sparito Boris. Bussò ed entrò.   
  Sentii che Boris diceva qualcosa, ma non riuscii a cogliere le  sue parole, sebbene Sophie avesse lasciato la porta aperta.   
  - Mi dispiace, - gli rispose la madre. - Non volevo.   
  Boris aggiunse qualcos'altro che non capii.   
  - No, no, va tutto bene, - disse Sophie in tono gentile. - Sei  stato magnifico -. Poi, dopo una pausa: - Adesso devo andare a  parlare a tuo nonno. Bisogna che lo faccia.   
  Boris disse ancora qualcosa.   
  - Sì, va bene, - disse Sophie. - Gli chiederò di venire qui e  di farti compagnia.   
  Il bambino attaccò un discorso piuttosto lungo.     - No, sta' tranquillo, - lo interruppe Sophie dopo un momento.  - Ti tratterà bene. Te lo prometto. Vedrai. Gli chiederò di  venire qui. Ma adesso devo andare a parlare al nonno. Prima che  arrivi il dottore.   
  Sophie uscì dalla stanza e chiuse la porta. Poi, venendomi  vicino, disse in un sussurro:   
  - Ti prego, va' dentro e fagli compagnia. $è sconvolto. Io devo  andare a parlare a papà -. Poi, prima che potessi reagire, mi  mise una mano sul braccio e aggiunse: - Per piacere, sii di nuovo  affettuoso con lui. Come lo eri una volta. Gli manca così tanto  il tuo affetto.   
  - Scusa, sai, ma non so di che cosa parli. Se Boris è  sconvolto, è solo perché tu...   
  - Ti prego, - disse Sophie. - Forse è colpa mia, ma adesso, ti  prego, cerchiamo di rimediare. Per piacere, vai dentro e stai con  lui.   
  - Certo che starò con lui, - dissi freddamente. - Perché non  dovrei? E tu faresti meglio ad andare da tuo padre, che  probabilmente ha sentito tutto.   
  Entrai nella stanza in cui si era rifugiato Boris e scoprii, un  po' meravigliato, che non somigliava agli altri camerini che  avevo visto lungo il corridoio. In realtà, con le sue file  ordinate di banchi e la grande lavagna sulla parete di fronte,  ricordava piuttosto un'aula. Era spaziosa e mal illuminata, con  fitte ombre da per tutto. Boris era seduto in uno degli ultimi  banchi e, quando entrai, alzò brevemente gli occhi. Non gli dissi nulla e cominciai a guardarmi intorno.   
  Sulla lavagna c'era un violento scarabocchio, e mi chiesi  distrattamente se l'avesse fatto Boris. Mentre vagavo tra i  banchi vuoti, esaminando le carte nautiche e geografiche appese  alle pareti, il bambino emise un profondo sospiro. Gli lanciai  un'occhiata e vidi che si era messo la borsa nera in grembo e  stava cercando di estrarne qualcosa. Alla fine tirò fuori un  grosso tomo e lo posò sul banco.   
  Mi girai dall'altra e continuai a gironzolare per la stanza.  Quando lo guardai di nuovo, Boris stava sfogliando il libro con  un'espressione ammirata sul volto; mi accorsi che era di nuovo  alle prese con il manuale di bricolage. Piuttosto irritato, mi  voltai a esaminare un manifesto che metteva in guardia sui  pericoli causati dall'uso sconsiderato dei solventi. Alle mie  spalle, Boris disse:   
  - Questo libro mi piace proprio. Spiega tutto.   
  Aveva cercato di pronunciare la frase come se stesse parlando a  se stesso, ma io mi ero allontanato dal suo banco, sicché era  stato costretto ad alzare la voce in maniera un po' innaturale.  Decisi di non rispondergli e continuai a vagare per la stanza.   
  Dopo un po' Boris emise un altro sospiro.   
  - Certe volte la mamma perde la testa, - disse.   
  Ebbi di nuovo la sensazione che non mi avesse rivolto la parola  in modo appropriato, così non gli risposi. Per di più, quando  finalmente mi girai verso di lui, Boris finse di essere  sprofondato nella lettura del suo libro. Andai nell'angolo  opposto della stanza e vidi sul muro un grande foglio con la  scritta «Oggetti smarriti». C'era una lunga lista scritta a mano  nelle grafie più diverse, con una colonna per la data, una per  l'oggetto smarrito e una per il nome del proprietario. Non so  perché, il tabellone mi parve divertente e rimasi a studiarlo per  un po'. Le prime voci a partire dall'alto - una penna, un pezzo  degli scacchi, un portafoglio - sembravano scritte seriamente.  Poi, dalla metà circa in giù, le denunce diventavano scherzose.  Qualcuno sosteneva di avere perso «tre milioni di dollari».  Un'altra persona, che si firmava «Gengis Khan», diceva di avere  perso «il continente asiatico».   
  - Questo libro mi piace proprio, - disse Boris alle mie spalle.  - Spiega tutto.   
  Improvvisamente persi la pazienza, mi avvicinai come una furia  e picchiai la mano sul suo banco.   
  - Si può sapere perché leggi questa roba? - domandai. - Che  cosa ti ha detto tua madre? Che ti ho fatto un magnifico regalo,  scommetto. Ebbene, non è vero. Ti ha detto così? Che ti ho fatto  un magnifico regalo? Che l'ho scelto apposta per te? Ma guardalo!  Guardalo! - Cercai di strappargli il libro dalle mani, ma Boris  lo tenne stretto e ci mise sopra le braccia. - Non è che un  vecchio, inutile manuale che qualcuno stava per buttare via. Non  penserai che un libro come questo, una robaccia di questo genere,  possa insegnarti qualcosa?  
  Cercavo di tirargli via il libro da sotto le braccia, ma Boris  si era piegato sul banco e lo stava proteggendo con il corpo. Il  suo silenzio era esasperante. Tirai di nuovo, risoluto a far  sparire quel libro una volta per tutte.   
  - Ascoltami bene, è un regalo inutile. Assolutamente inutile.  Non ci ho messo niente di mio, né un pensiero, né un briciolo  d'affetto. $è una cosa riciclata, ce l'ha scritto su ogni pagina.  E invece sei convinto che ti abbia fatto un regalo meraviglioso!  Dammelo, dammelo!   
  Forse per il timore che il manuale potesse strapparsi, Boris  sollevò di scatto le braccia, e io mi ritrovai il libro in mano,  appeso alla copertina. Il bambino non aveva ancora emesso un suono, e mi sentii un po' sciocco per questa esplosione di  rabbia. Guardai il libro che mi penzolava dalla mano e lo  scagliai in fondo alla stanza. Il manuale colpì un banco, poi  cadde per terra nell'ombra. Subito mi sentii più calmo e inspirai  a fondo. Quando mi girai, Boris era seduto con la schiena rigida  e lo sguardo fisso sull'angolo in cui era atterrato il manuale.  Poi si alzò in piedi e corse a recuperarlo. Non era ancora a metà  strada, però, che la voce di Sophie lo chiamò con urgenza dal  corridoio:  
  - Boris, vieni qui un momento. Solo un momento.   
  Il bambino esitò e guardò ancora una volta l'angolo in cui era  atterrato il manuale, poi uscì dalla stanza.   
  - Boris, - sentii che diceva Sophie nel corridoio, - va' a  chiedere al nonno come si sente. E chiedigli se vuole che gli  aggiusti il cappotto. Forse bisogna abbassare gli ultimi bottoni.  Altrimenti, quando si fermerà sul ponte, c'è il rischio che il  vento sollevi i lembi. Va' a chiederglielo, ma non fermarti a  chiacchierare. Chiediglielo e torna subito fuori.  
  Quando uscii in corridoio, Boris era già sparito nel camerino  di Gustav. La scena che si offrì ai miei occhi mi era ormai  familiare: Sophie immobile e tesa, con lo sguardo fisso sulla  porta; i facchini un po' più indietro, con la faccia preoccupata.  Sul volto di Sophie, però, c'era un'espressione sconsolata che  prima non avevo notato. Provai un improvviso impeto di tenerezza  nei suoi confronti. Mi avvicinai e le misi un braccio intorno  alle spalle.   
  - Questo è un momento difficile per tutti, - le dissi  gentilmente. - Un momento molto difficile.   
  Cominciai a tirarla verso di me, ma lei si liberò bruscamente e  continuò a fissare la porta. Sbigottito dal rifiuto, le dissi in  tono rabbioso:   
  - Ascolta, in questi frangenti abbiamo tutti il dovere di  aiutarci a vicenda.   
  Sophie non rispose; un attimo dopo Boris uscì di nuovo dal  camerino.   
  - Il nonno dice che il cappotto è esattamente come lo voleva  lui, e che il fatto che glielo abbia dato la mamma lo rende  ancora più bello.   
  Sophie emise un suono esasperato. - Ma ha bisogno che glielo  aggiusti o no? Perché non me lo dice? Il dottore sarà qui a  momenti.   
  - Dice... dice che il cappotto gli piace. Che gli piace  moltissimo,   
  - Chiedigli se devo abbassare i bottoni. Se ha intenzione di  stare sul ponte quando soffia vento, bisogna che il cappotto  chiuda bene.   
  Boris meditò per un istante sulla richiesta della madre, poi  annuì e tornò dentro il camerino.   
  - Ascolta, - dissi a Sophie, - sembra che tu non ti renda conto  della situazione in cui mi trovo. Lo capisci che fra pochissimo  devo salire sul palcoscenico? Dovrò rispondere a domande  tutt'altro che facili sul futuro di questa comunità. Ci sarà  anche un tabellone elettrico. Lo capisci che cosa significa tutto  questo? Per te è facile preoccuparti di bottoni e stupidaggini  del genere. Non ti rendi conto della situazione in cui mi trovo?   
  Sophie mi rivolse uno sguardo angosciato e parve sul punto di  dire qualcosa, ma proprio in quel momento ricomparve Boris.  Questa volta il bambino fissò la madre con espressione serissima,  ma non aprì bocca.   
  - Allora, che cosa ha detto? - gli domandò Sophie.   
  - Dice che il cappotto gli piace moltissimo. Gli ricorda un  cappotto che avevi tu da piccola. Per il colore. C'era anche il disegno di un orso. Sul tuo cappotto, naturalmente.   
  - Ha bisogno che glielo aggiusti? Perché non risponde a tono?  Il dottore sarà qui a momenti!   
  - Allora non vuoi proprio capire, - la interruppi. - Là fuori  c'è gente che pende dalle mie labbra. Ci sarà un tabellone  elettronico, e chissà che altro. Vogliono che dopo ogni risposta  vada a fare un inchino sul proscenio. Una cosa dell'altro mondo.  Non vuoi proprio...   
  Mi arrestai, perché mi accorsi che Gustav stava chiamando.  Boris si girò immediatamente e rientrò nel camerino. Per un tempo  che mi parve lunghissimo Sophie e io restammo dove eravamo,  aspettando che tornasse. Quando finalmente ricomparve, il bambino  non ci degnò di uno sguardo; passò oltre e andò a fermarsi  davanti ai facchini.   
  - Prego, signori -. Boris fece un gesto come per invitarli a  entrare. - Il nonno vi vuole tutti dentro. Desidera avervi  intorno a sé in questo momento.   
  Poi si girò per fare loro strada, e dopo una lieve esitazione i  facchini gli andarono dietro. Ci sfilarono davanti mormorando  qualche parola imbarazzata a Sophie.   
  Quando anche l'ultimo fu entrato, sbirciai nella stanza, ma non  riuscii a vedere Gustav perché i suoi colleghi facevano ressa  dietro la porta. Udii tre o quattro voci che parlavano insieme;  stavo per avvicinarmi ancora, quando improvvisamente Sophie mi  passò accanto sfiorandomi ed entrò nel camerino. Ci fu un po' di  trambusto, poi le voci tacquero.   
  In due passi mi affacciai alla porta. Poiché i facchini si  erano fatti da parte per lasciar passare Sophie, potei vedere  Gustav sdraiato sul suo materasso. Il cappotto marrone era  drappeggiato sulla parte alta del corpo, sopra la coperta grigia  che ricordavo dalla volta precedente. Gustav era senza guanciale,  ed era chiaro che non aveva la forza di sollevare la testa, ma  guardava sua figlia con occhi affettuosi e sorridenti.   
  Sophie si era fermata a due o tre passi dal padre. Mi dava la  schiena, quindi non riuscivo a vederla in faccia, ma ebbi  l'impressione che lo stesse fissando. Dopo un lungo silenzio  disse:   
  - Ti ricordi della volta che sei venuto a scuola? Quando mi hai  portato la roba per il nuoto? L'avevo dimenticata a casa e non mi  ero data pace per tutta la mattina. Mi chiedevo che cosa avrei  fatto, poi sei arrivato tu con la sacca azzurra, quella con la  tracolla di corda, sei entrato addirittura in classe. Te lo  ricordi, papà?   
  - Questo cappotto mi terrà caldo, - disse Gustav. - Ne avevo  proprio bisogno.   
  - Avevi solo mezz'ora d'intervallo, così sei venuto di corsa  dall'albergo. Sei entrato in classe tenendo in mano la sacca  azzurra.   
  - Sono sempre stato molto fiero di te.   
  - Non mi ero data pace per tutta la mattina. Mi chiedevo che  cosa avrei fatto.   
  - $è un ottimo cappotto. Guarda che bel colletto. E qui è tutto  di vera pelle.   
  - Mi scusi, - disse una voce accanto a me. Girandomi, vidi un  giovanotto con gli occhiali e una borsa da dottore che cercava di  sgusciare fra me e gli altri. Dietro di lui veniva un facchino  che avevo già visto al Caffè Ungherese. I due entrarono nella  stanza, e il giovane dottore, inginocchiatosi accanto a Gustav,  cominciò a esaminarlo.   
  Sophie li osservò in silenzio. Poi, come arrendendosi al fatto  che adesso toccava a un altro ricevere l'attenzione del padre,  indietreggiò di qualche passo. Boris le andò vicino, e per un istante madre e figlio rimasero a fianco a fianco, quasi  toccandosi. Ma Sophie parve non accorgersi del bambino e continuò  a fissare la schiena curva del dottore.   
  A questo punto, mi ricordai improvvisamente di tutte le cose  che dovevo ancora fare prima di comparire in pubblico, e mi dissi  che, essendo arrivato il dottore, tanto valeva che ne  approfittassi per sgusciare via. Mi girai e uscii silenziosamente  in corridoio; stavo per partire in cerca di Hoffman, quando udii  muovere alle mie spalle e mi sentii afferrare rudemente un  braccio.   
  - Dove credi di andare? - mi bisbigliò Sophie irosamente.   
  - Mi spiace, ma è evidente che non vuoi capire. Non posso più  perdere un minuto. Ci sarà un tabellone elettrico, per non  parlare del resto. Ho una responsabilità enorme -. Mentre dicevo  così, cercai di liberare il braccio dalla sua stretta.  
  - Ma Boris ha bisogno di te. Abbiamo tutti e due bisogno di te.   
  - Senti, è ovvio che non ti rendi conto! I miei genitori, non  capisci? I miei genitori arriveranno da un momento all'altro! Ho  mille cose da fare! Tu non ti rendi conto, è ovvio che non ti  rendi minimamente conto! - Riuscii finalmente a liberarmi con uno  strattone. - Senti, ti prometto che tornerò, - gridai in tono  conciliante mentre scappavo via. - Tornerò appena posso.  
34.  
  Stavo ancora percorrendo a passo rapido il corridoio quando mi  accorsi che lungo il muro c'era una fila di parecchie persone. Di  sfuggita, notai che tutte indossavano grembiuli da cucina;  apparentemente, aspettavano il loro turno per arrampicarsi dentro  un piccolo guardaroba nero. Incuriosito, rallentai il passo, poi  feci dietrofront e tornai verso di loro.   
  Vidi che il guardaroba, oltre a essere alto e stretto come un  armadio delle scope, era fissato al muro a circa mezzo metro da  terra. Vi si arrivava salendo una breve successione di gradini.  Dall'atteggiamento delle persone in coda, mi feci l'idea che  l'armadio contenesse un urinatoio o forse una fontanella d'acqua  potabile. Ma quando fui più vicino, vidi che l'uomo che in quel  momento si trovava in cima agli scalini aveva il busto piegato in  avanti e il sedere in fuori, e dava l'impressione di rovistare  nell'armadio. Gli altri, intanto, gesticolavano e gridavano  spazientiti perché si sbrigasse. Poi, mentre l'uomo usciva  dall'armadio a ritroso cercando cautamente il primo gradino,  qualcuno lanciò un'esclamazione e indicò nella mia direzione.  Tutti si girarono verso di me, affrettandosi a farmi largo, e in  un attimo la coda si dissolse. L'uomo che si trovava nell'armadio  scese i gradini il più in fretta possibile, poi si inchinò e fece  un ampio gesto come per invitarmi a salire.   
  - Grazie, - dissi, - ma credo che ci fossero altri prima di me.   
  Vi fu una raffica di proteste, e parecchie mani mi spinsero  quasi a forza su per la breve scaletta.   
  La porticina dell'armadio si era richiusa, e quando la aprii -  tirandola verso di me con un delicato equilibrismo sull'ultimo  gradino - mi ritrovai affacciato sull'auditorium da grandissima  altezza. Con mia grande sorpresa constatai che l'armadio era  privo di fondo, e, se fossi stato più temerario, mi sarebbe  bastato sporgermi e allungarmi un po' per toccare il soffitto  della sala dei concerti. La vista era senza dubbio grandiosa, ma  nell'insieme quel pertugio mi parve stupidamente pericoloso.  L'armadio, per giunta, era inclinato in avanti e invitava lo  spettatore disattento a sbilanciarsi verso il baratro. Per  evitargli di precipitare in testa al pubblico c'era solo una  sottile corda tesa all'altezza della vita. Non riuscii a trovare  una ragione logica che giustificasse quell'armadio; forse serviva per appendere bandiere e cose simili da un capo all'altro della  sala.  
  Muovendomi con cautela, misi entrambi i piedi dentro l'armadio,  poi, afferrandomi saldamente alla cornice della porta, guardai di  sotto.   
  Sebbene circa tre quarti delle poltrone fossero già occupate,  le luci erano ancora accese, e da per tutto c'era gente che  chiacchierava e si salutava. Alcuni invitati gesticolavano in  direzione di file lontane, altri affollavano i corridoi  conversando e ridendo. Nel frattempo dalle due porte principali  continuavano ad affluire nuovi spettatori. Il luccicante  schieramento di leggii nella fossa dell'orchestra rifletteva le  luci della sala, mentre sul palcoscenico - il sipario era aperto  - c'era un solitario pianoforte a coda con il coperchio  sollevato. Guardando dall'alto lo strumento sul quale di lì a  poco avrei dato uno dei concerti più importanti della mia vita,  capii che ormai sarebbe stato ben difficile che mi si presentasse  un'occasione migliore di questa per esaminare la sala, e provai  di nuovo una profonda irritazione per il modo in cui avevo  organizzato il mio tempo da quando ero arrivato in città.   
  Poi, proprio sotto i miei occhi, Stephan Hoffman uscì dalle  quinte e si presentò sul palcoscenico. Nessuno lo aveva  annunciato, e le luci non furono nemmeno abbassate. Le sue  maniere, tra l'altro, erano prive di cerimoniosità. Il giovane  aveva l'aria pensierosa e si avvicinò a passo rapido al  pianoforte, senza degnare di uno sguardo la sala. Non c'è dunque  da stupirsi se la maggior parte del pubblico manifestò solo una  blanda curiosità e riprese subito a chiacchierare e a scambiarsi  saluti. Indubbiamente, quando Stephan attaccò l'esplosivo inizio  di vPassioni di vetro,v vi fu un attimo di stupore, ma dopo qualche secondo la stragrande maggioranza degli spettatori  concluse che il giovane stava semplicemente provando il  pianoforte o il sistema di amplificazione. Poi, dopo poche  battute, qualcosa attrasse lo sguardo di Stephan, e la sua  esecuzione si svuotò di ogni intensità, come se qualcuno avesse  improvvisamente tolto un tappo. Il giovane seguì con gli occhi un  movimento attraverso la folla, finché si ritrovò a suonare con la  testa completamente girata dall'altra. Solo allora mi accorsi che  stava osservando una coppia diretta verso l'uscita; sporgendomi  un po' di più, feci appena in tempo a riconoscere Hoffman e la  moglie prima che sparissero sotto di me, fuori del mio campo  visivo.   
  Stephan smise di suonare e, ruotando sullo sgabello, rimase lì  a fissare imbambolato i genitori. Questo parve togliere ogni  dubbio residuo sul fatto che fosse incaricato di controllare  l'acustica. Anzi, per un istante sembrò addirittura che stesse  aspettando un segnale dai tecnici appostati sul lato opposto  della sala, e nessuno gli prestò attenzione quando finalmente si  alzò e abbandonò a grandi passi il palcoscenico.   
  Solo quando fu dietro le quinte Stephan permise  all'indignazione che lo stava invadendo di rompere gli argini.  D'altronde, la consapevolezza di avere abbandonato la scena dopo  poche battute era per il momento avvolta da una sensazione di  totale irrealtà, e Stephan quasi non vi si soffermò mentre  scendeva a precipizio i gradini di legno e attraversava di corsa  le porte del retropalco.   
  Quando sbucò nel corridoio, lo trovò pieno di macchinisti  teatrali e di camerieri che correvano avanti e indietro. Si  diresse allora verso il foyer, sperando di raggiungere i suoi  genitori, ma quasi subito vide venirgli incontro il padre, solo e  pensieroso. Da parte sua, il direttore dell'albergo non si  accorse di Stephan se non quando gli fu quasi addosso. Allora si fermò e guardò il figlio con stupore.   
  - Ma come? Non stai suonando?   
  - Papà, perché tu e la mamma ve ne siete andati a quel modo?  Dov'è la mamma, adesso? Non si sente bene?   
  - Tua madre -. Hoffman sospirò gravemente. - Tua madre ha  ritenuto giusto andarsene. Naturalmente, io l'ho accompagnata  e... Be', voglio essere sincero, Stephan. Lascia che te lo dica.  In linea di massima, sono d'accordo con lei. Non ho potuto farne  a meno. Non guardarmi così, Stephan. Sì, mi rendo conto di averti  deluso. Ti avevo promesso questa opportunità, questa tribuna per  suonare davanti all'intera città, davanti a tutti i tuoi amici e  colleghi. Sì, sì, te l'avevo promessa. Forse sei stato tu che me  l'hai chiesta, forse mi hai preso sovrappensiero, non so come sia  successo. Ma non ha importanza. Ciò che conta è che ho detto di  sì, che ti ho fatto una promessa. Non ho voluto rimangiarmela, e  questo è stato il mio errore. Ma tu, Stephan, devi cercare di  capire come è difficile per noi che siamo i tuoi genitori. Come è  difficile dover assistere...   
  - Andrò a parlare alla mamma, - disse Stephan e cominciò ad  allontanarsi. Hoffman fece una smorfia inorridita, poi afferrò  bruscamente il figlio per un braccio e lo trattenne, ridendo  impacciato.   
  - Non puoi, Stephan. Cioè, insomma... voglio dire che tua madre  è nella toilette delle signore. Ah, ah. In ogni caso, penso sia  meglio lasciare che la situazione sedimenti un pochino, per così  dire. Ma Stephan, che cosa ci fai qui? Non dovresti essere al  pianoforte? Ah, ma forse è meglio così. Ci sarà qualche domanda  imbarazzante, ma niente di più.   
  - Papà, io torno a suonare, ma tu per piacere va' a sederti, e  convinci anche la mamma a rientrare in sala.   
  - Stephan, Stephan -. Hoffman scosse la testa e mise una mano  sulla spalla del figlio. - Voglio che tu sappia che abbiamo tutti  e due molta stima di te. Siamo tutti e due fierissimi. Ma questa  tua fissazione, quest'idea che hai covato per tutta la vita. Mi  riferisco alla... alla tua musica. Be', tua madre e io non  abbiamo mai avuto il coraggio di dirtelo. Naturalmente, volevamo  che anche tu avessi i tuoi sogni. Ma questo. Tutto questo... - e  così dicendo fece un gesto verso l'auditorium, -... è stato un  terribile errore. Non avremmo mai dovuto lasciare che le cose  giungessero a questo punto. Vedi, Stephan, il fatto è questo. Il  tuo modo di suonare è incantevole. In un certo senso persino  molto raffinato. Ci è sempre piaciuto sentirti suonare in casa.  Ma la musica, la musica seria, la musica che ci vuole in una  serata come questa... be', quella, vedi, è tutt'altra cosa. No,  no, non interrompermi, sto cercando di dirti qualcosa, qualcosa  che avrei dovuto dirti molto tempo fa. Vedi, questo è  l'auditorium della città. Il pubblico, il pubblico che viene ai  concerti, non ha niente che vedere con gli amici e i parenti che  ti ascoltano con simpatia in salotto. Il vero pubblico dei  concerti è abituato a certi standard, standard professionistici.  Stephan, come posso spiegartelo?   
  - Papà, - lo interruppe Stephan, - tu non capisci. Ho lavorato  sodo. E anche se il pezzo che sto per suonare l'ho scelto  all'ultimo momento, ti assicuro che l'ho provato e riprovato. Ti  prego, torna in sala e ti accorgerai...   
  - Stephan, Stephan... - Hoffman scosse di nuovo il capo. Se  fosse solo questione di esercitarsi con impegno. Se tutto si  limitasse solo a questo. Ma vedi, alcuni di noi nascono senza  talento. Non hanno la musica dentro di sé, e non possono fare  altro che accettare la realtà. $è terribile che debba dirti  queste cose proprio adesso, per di più dopo averti incoraggiato  così a lungo. Spero che tu possa perdonarci; tua madre e io siamo stati due deboli. Ma vedi, ci accorgevamo del piacere che ti dava  la musica, e non ce la siamo sentita. Anche se questo non ci  giustifica, lo so. Che cosa spaventosa! Il mio cuore sanguina per  te in questo momento, te l'assicuro. Spero che un giorno tu  riesca a perdonarci. $è stato un terribile errore lasciarti  arrivare fino a questo punto. Lasciarti salire sul palcoscenico  davanti all'intera città. Tua madre e io ti amiamo troppo per  poter assistere a una cosa simile. Sarebbe semplicemente  intollerabile vedere... vedere il nostro carissimo figlio  trasformato in zimbello. Ecco, l'ho detto, ho vuotato il sacco.  Sono parole crudeli, ma finalmente te le ho dette. Ero convinto  di potercela fare. Di riuscire a restare seduto tra i sorrisetti  e le risatine soffocate. Ma quando è venuto il momento, sia tua  madre sia io ci siamo accorti che era più forte di noi. Che cosa  ti prende? Perché non mi ascolti? Non capisci che tutto questo mi  addolora moltissimo? Non è facile parlare così apertamente,  nemmeno al proprio figlio...  
  - Papà, ti prego, ti supplico. Vieni a sentirmi suonare, solo  per pochi minuti, poi giudicherai da te. E anche la mamma. Ti  prego, ti prego, convincila. Vi ricrederete, ne sono sicuro...   
  - Stephan, devi tornare sul palcoscenico. Il tuo nome è  stampato sul programma. Sei già comparso una volta. Adesso, come  minimo, devi tentare. Che tutti vedano almeno che hai fatto del  tuo meglio. Ascolta il mio consiglio. Non badare al pubblico, non  badare alle risatine soffocate. Anche se la gente dovesse ridere  apertamente, come se si trattasse di una farsa e non di un brano  musicale solenne e profondo, anche in quel caso, ricordati che  tua madre e tuo padre sono fieri che tu abbia avuto il coraggio  di andare sino in fondo. Sì, adesso devi andare sino in fondo,  Stephan. Ma perdonaci, ti amiamo troppo per assistere allo  scempio. Ti dirò di più, temo che a tua madre si spezzerebbe il  cuore. Adesso vai, ti resta pochissimo tempo. Va', va', va'.   
  Hoffman si girò portandosi una mano alla fronte, come  sopraffatto dall'emicrania, e in questo atteggiamento si  allontanò di qualche passo da Stephan. Poi raddrizzò di scatto la  schiena e si voltò a guardare il figlio.   
  - Stephan, - disse severamente. - Devi tornare sul  palcoscenico.   
  Stephan fissò ancora per un istante il padre, poi, resosi  finalmente conto di combattere per una causa persa, gli diede le  spalle e tornò indietro lungo il corridoio.   
  Mentre riattraversava le porte del retropalco, Stephan fu  assalito da pensieri e sentimenti diversi. Naturalmente, era  deluso di non essere riuscito a convincere i suoi genitori a  tornare ai loro posti. Inoltre, sentiva risvegliarsi dentro di  sé, in profondità, una fastidiosa paura che non provava più da  anni; gli venne il timore che le parole di suo padre fossero  vere, e di essere dunque vittima di una colossale illusione. Poi,  però, mentre si avvicinava al palcoscenico, ritrovò rapidamente  la fiducia in se stesso, e con la fiducia venne il bisogno  imperioso di scoprire da sé ciò di cui era capace.   
  Quando Stephan si presentò di nuovo sul palcoscenico, le luci  erano state abbassate. L'auditorium, però, era tutt'altro che al  buio, e molti invitati erano ancora in piedi. Qui e là si  vedevano onde di persone che si alzavano per consentire a qualche  ritardatario di strisciare lungo una fila. Quando Stephan si  sedette al pianoforte, il brusio calò in maniera impercettibile,  poi continuò inalterato mentre il giovane aspettava che il suo  animo in subbuglio si placasse. Finalmente, le sue mani calarono  sulla tastiera con la stessa aspra precisione della volta  precedente, evocando un mondo sospeso tra sgomento e ilarità, essenziale per le prime battute di vPassioni di vetro.v  
  Quando Stephan giunse a metà del breve prologo, l'auditorium si  era fatto notevolmente più silenzioso; quando completò il primo  movimento, in sala si sarebbe sentita volare una mosca. Gli  spettatori che fino a un attimo prima chiacchieravano nei  corridoi della platea erano rimasti in piedi, ma fissavano il  palcoscenico immobili come statue. Il pubblico seduto osservava e  ascoltava attentissimo. Davanti a uno degli ingressi, dove i  ritardatari si erano irrigiditi sul posto, si era formata una  piccola folla. Quando Stephan cominciò il secondo movimento, i  tecnici spensero del tutto le luci, e da quel momento non riuscii  più a distinguere bene il pubblico. Ma lo stupore generale che  continuava ad avvincere la sala era evidente. Senza dubbio,  questa reazione era dovuta in parte alla sorpresa degli invitati  quando avevano scoperto che un giovane della loro città era  capace di simili virtuosismi tecnici. Ma al di là e più ancora  della perizia, nel modo di suonare di Stephan c'era una strana  intensità che difficilmente si lasciava ignorare. Ebbi anche  l'impressione che buona parte del pubblico vedesse in questo  inizio inaspettato una specie di auspicio. Se questo non era che  il preludio, che altro aveva in serbo la serata? Il concerto  avrebbe davvero segnato una svolta nella vita della comunità?  Queste, almeno, sembravano le domande inespresse che si celavano  dietro molti volti stupefatti nella folla sotto di me.  
  Stephan concluse con una lettura pensosa e lievemente ironica  della coda del brano musicale, e dopo un paio di secondi di  silenzio la sala esplose in un applauso entusiastico. Il giovane  balzò in piedi per ringraziare. Era palesemente al settimo cielo;  non so se gli dolesse che i suoi genitori non avessero assistito  al suo trionfo, ma in ogni caso non lo dava a vedere. Mentre il  pubblico applaudiva, si chinò ripetutamente, poi forse  ricordandosi all'improvviso che la sua esibizione era solo una  parte modesta dell'intero programma, si ritirò frettolosamente  dietro le quinte.   
  Gli applausi continuarono per un po', poi si spensero lasciando  il posto a un concitato mormorio. Tuttavia, prima che la gente  avesse modo di scambiarsi le proprie opinioni, dalle quinte uscì  un uomo con la faccia severa e i capelli argentati. Mentre  avanzava lentamente e impettito verso il leggio del proscenio,  riconobbi in lui il signore che aveva presieduto il banchetto in  onore di Brodsky la sera del mio arrivo.   
  In sala si fece rapidamente il silenzio, ma per almeno trenta  secondi l'uomo dalla faccia severa non disse nulla, limitandosi a  fissare il pubblico con lieve disgusto. Alla fine sospirò  stancamente e disse:   
  - Anche se è mio desiderio che la serata sia di vostro  gradimento, vi ricordo che non siamo venuti qui per assistere a  uno spettacolo di cabaret. Deve essere ben chiaro che all'origine  del concerto di questa sera vi sono questioni gravi e importanti.  Questioni che riguardano il nostro futuro, l'identità stessa  della nostra comunità.   
  Per parecchi minuti, l'uomo dalla faccia severa ripeté  pedantemente questo concetto, facendo di tanto in tanto una lunga  pausa per scrutare la sala con sguardo corrucciato. Cominciai a  perdere interesse in ciò che diceva e, ricordando che alle mie  spalle c'era una lunga fila di persone in attesa di usare  l'armadio, pensai di cedere il posto a qualcun altro. Tuttavia,  proprio mentre strisciavo fuori dell'armadio, mi accorsi che  l'uomo dalla faccia severa aveva cambiato argomento, o meglio,  stava presentando qualcuno.   
  Il personaggio, a quanto pareva, non solo era «la pietra  angolare dell'intero mondo letterario della città», ma possedeva anche la capacità di «catturare l'incurvarsi della goccia di  rugiada sulla punta di una foglia autunnale». L'uomo dalla faccia  severa lanciò un'ultima occhiata sprezzante al pubblico, poi  bofonchiò un nome e se ne andò tutto impettito. La sala applaudì  fragorosamente, e l'applauso mi parve diretto più a lui che alla  persona di cui aveva parlato. Quest'ultima, tra l'altro, si fece  attendere per almeno un minuto, e quando finalmente comparve  ricevette un'accoglienza assai tiepida.   
  Si trattava di un uomo piccolo ed elegante, con la testa calva  e i baffi. Arrivò con una cartellina in mano e andò a posarla sul  leggio. Poi tolse il fermaglio ad alcuni fogli e cominciò a  rimescolarli, senza degnare il pubblico di uno sguardo. In sala  cominciò a serpeggiare un certo nervosismo. Incuriosito dalla  scena, mi convinsi che le persone in coda sarebbero state felici  di aspettare ancora un po' e tornai cautamente verso il fondo  dell'armadio.   
  Quando finalmente si decise a parlare, l'omino calvo mise la  bocca troppo vicino al microfono, e la sua voce vibrò e rimbombò.   
  - Questa sera desidero presentarvi una scelta di poesie di  ciascuno dei miei tre periodi. Molte le conoscerete già per  averle sentite durante le mie letture pubbliche al Caffè Adele,  ma spero che non vi dispiaccia riascoltarle in questa solenne  occasione. E vi dico già sin d'ora che alla fine ci sarà una  piccola sorpresa. Qualcosa che mi auguro possa procurarvi un  moderato piacere.   
  Mentre il poeta ricominciava ad armeggiare con i suoi fogli,  qui e là nella folla si accese qualche conversazione bisbigliata.  Poi l'omino calvo smise finalmente di tergiversare e tossì forte  nel microfono, ottenendo di nuovo il silenzio.   
  Molte delle poesie erano rimate e relativamente brevi. Ce  n'erano sui pesci del parco municipale, sulle tempeste di neve,  sulle finestre rotte dell'infanzia - tutte recitate con voce  stranamente acuta come fossero incantesimi. Per qualche minuto mi  distrassi, poi mi accorsi che una parte del pubblico, proprio  sotto di me, si era messa a chiacchierare.   
  Sulle prime le voci mantennero una certa discrezione, ma presto  si fecero più sfacciate. Dopo un po' - mentre l'omino calvo  recitava una lunga poesia sui numerosi gatti posseduti da sua  madre nel corso degli anni - mi parve che il rumore proveniente  dal basso fosse quello di un considerevole gruppo di persone che  conversavano in tono più o meno normale. Abbandonando ogni  cautela, mi sporsi dall'armadio e sbirciai di sotto tenendomi con  le mani al telaio di legno.   
  Il parlottio, in effetti, veniva da un gruppo seduto proprio  sotto di me, ma il numero delle persone che partecipavano alla  conversazione era minore di quanto avessi supposto. C'erano sette  o otto individui che evidentemente avevano deciso di non prestare  più attenzione al poeta e stavano chiacchierando piacevolmente  fra loro; per maggiore comodità, alcuni si erano girati  completamente sulla loro poltrona. Stavo per esaminare più  attentamente il gruppetto, quando, parecchie file più indietro,  scorsi la signorina Collins.   
  Indossava l'elegante abito da sera nero che le avevo visto al  banchetto della prima notte, con lo stesso scialle. Osservava  l'omino calvo affettuosamente, con la testa inclinata da una  parte e il mento appoggiato a un dito. Rimasi a fissarla per un  po', ma nel suo aspetto non c'era nulla che facesse intuire un  animo non perfettamente calmo e sereno.   
  Tornai con lo sguardo al turbolento gruppetto di persone sedute  sotto di me e vidi che si stavano passando delle carte da gioco.  Solo allora mi resi conto che il nucleo di questo gruppo era  composto dei signori ubriachi che avevo incontrato al cinema la prima notte e poco prima nel corridoio.   
  La partita a carte divenne ancora più chiassosa, finché  l'intera masnada scoppiò in schiamazzi e risate. Molti guardavano  i giocatori con disapprovazione, ma gradualmente un numero sempre  più grande di persone si mise a chiacchierare, anche se con voce  più controllata.   
  L'omino calvo non mostrò di accorgersene e tutto serio continuò  a recitare una poesia dopo l'altra. Poi, una ventina di minuti  dopo essere comparso in scena, fece una pausa e, ricomponendo  qualche foglio, disse:   
  - Adesso entriamo nel secondo periodo. Come alcuni di voi già  sapranno, il secondo periodo ha preso avvio da un episodio  fondamentale. Un episodio che mi ha tolto la possibilità di  continuare a creare con gli strumenti che avevo impiegato fino a  quel momento. In altre parole, la scoperta che mia moglie mi  aveva tradito.   
  Il poeta chinò il capo come se questo ricordo lo affliggesse  ancora. Fu allora che uno spettatore del gruppo seduto sotto di  me urlò:  
  - Quindi ammette anche lui che stava usando gli strumenti  sbagliati!   
  I suoi compagni si misero a ridere, poi qualcun altro disse  forte:   
  - Il cattivo operaio dà sempre la colpa agli strumenti.   
  - Anche sua moglie, a quanto pare, - aggiunse la prima voce.   
  Questo dialogo, chiaramente destinato a essere udito dal  maggior numero possibile di persone, suscitò parecchie risatine  soffocate. Non si capì quanto ne fosse giunto sul palcoscenico;  fatto sta che l'omino calvo si fermò e, senza guardare i  disturbatori, rimescolò di nuovo i suoi papiri. Poi, sempre che  ne avesse avuto l'intenzione, rinunciò a dire ancora qualcosa a  mo' di presentazione del secondo periodo e riprese a recitare.   
  Il secondo periodo dell'omino calvo non era gran che differente  dal primo, e questo non fece che aumentare l'irrequietezza del  pubblico, tanto che un paio di minuti dopo, quando uno dei  signori ubriachi urlò qualcosa che non riuscii a capire, gran  parte della sala rise apertamente. Per la prima volta l'omino  calvo parve accorgersi che il pubblico gli stava sfuggendo di  mano; alzando gli occhi a metà di una frase, rimase a sbattere le  palpebre sotto i riflettori come paralizzato dallo stupore.  Un'ovvia scappatoia sarebbe stata quella di abbandonare la scena,  oppure, più dignitosamente, di leggere ancora tre o quattro  poesie prima di tagliare la corda. L'omino calvo, invece, scelse  una terza soluzione. In preda al panico, ricominciò a leggere a  precipizio, probabilmente con l'intenzione di completare il  programma originale il più in fretta possibile, con il risultato  non solo di apparire un po' sconclusionato, ma anche di  incoraggiare i suoi nemici, che si accorsero di essere quasi  riusciti a metterlo in fuga. I motteggi - non più gridati solo  dal gruppo seduto sotto di me - si moltiplicarono, accolti ogni  volta da risate generali.   
  Alla fine l'omino calvo fece un tentativo per riprendere in  pugno la situazione. Mise da parte la sua cartellina e, senza  dire una parola, lanciò uno sguardo implorante dal leggio. La  folla, che in gran parte stava sghignazzando, si zittì - forse  più per curiosità che per rimorso. E quando l'omino calvo riprese  a parlare, la sua voce aveva riacquistato una certa autorità.   
  - Vi ho promesso una piccola sorpresa, - disse. - Ebbene,  eccola. Una nuova poesia. L'ho finita non più tardi di una  settimana fa, e l'ho composta proprio per questa grande  occasione. $è intitolata, semplicemente, vBrodsky il Conquistatore.v Se mi permettete.  
  Il poeta armeggiò di nuovo con i suoi fogli, ma questa volta il  pubblico tacque. Poi si chinò in avanti e cominciò a recitare.  Dopo i primi versi alzò un attimo gli occhi, come meravigliato  che la sala fosse rimasta silenziosa. Continuò a leggere, sempre  più sicuro di sé, tanto che poco dopo stava già gesticolando  altezzosamente per sottolineare le frasi più significative.   
  Mi aspettavo che la poesia fosse una specie di ritratto di  Brodsky, ma mi accorsi presto che riguardava solo le sue  battaglie con l'alcool. Le prime strofe paragonavano Brodsky a  vari eroi mitologici. C'erano immagini in cui Brodsky scagliava  giavellotti dalla cima di una collina per respingere un esercito  di invasori, oppure lottava con un serpente di mare, oppure era  incatenato a una rupe. Il pubblico ascoltava in modo rispettoso,  persino solenne. Guardai di sfuggita la signorina Collins, ma non  mi parve che il suo atteggiamento fosse cambiato. Come prima,  osservava il poeta con interesse e allo stesso tempo distacco,  con un dito premuto contro il mento.   
  Poi la poesia cambiò tema. Abbandonò lo sfondo mitologico e si  occupò invece di una serie di episodi recenti di cui era stato  protagonista Brodsky, episodi che ormai - così almeno mi parve di  capire - erano entrati nella leggenda. Naturalmente, su di me la  maggior parte delle allusioni andò sprecata, ma non mi sfuggì il  tentativo di rivalutare e nobilitare la figura di Brodsky in  ciascun episodio. Sul piano letterario, questa parte mi parve di  gran lunga migliore della precedente, ma l'inserimento di  elementi così concreti e familiari ebbe la conseguenza di  sgretolare quel po' di rispetto che l'omino calvo era riuscito a  ottenere dal pubblico. Il riferimento alla «tragedia della  pensilina dell'autobus» provocò di nuovo qualche risatina  soffocata, e le sghignazzate dilagarono quando si udì che Brodsky  «in inferiorità numerica e spossato dalla battaglia» era stato  «infine costretto a capitolare dietro la cabina del telefono». Ma  fu quando l'omino calvo parlò della «sfavillante prova di  coraggio durante la gita scolastica» che l'intera sala, come un  sol uomo, esplose in una risata.   
  Da quel momento fu chiaro che nulla avrebbe potuto salvare  l'omino calvo. Quasi ogni verso delle ultime strofe, dedicate a  elogiare la recente sobrietà di Brodsky, fu accolto da scrosci di  risa. Quando guardai di nuovo la signorina Collins, notai che si  stava sfregando il mento con il solito dito, ma per il resto mi  parve composta come sempre. L'omino calvo, la cui voce, ormai, si  udiva a stento tra le risate e gli schiamazzi, concluse  finalmente la recita, raccolse sdegnato i suoi papiri e tutto  impettito abbandonò il palcoscenico. Una parte del pubblico,  forse pensando di avere esagerato, lo applaudì generosamente.   
  Per qualche minuto il palcoscenico rimase vuoto, e presto tutti  si misero a parlare ad alta voce. Osservando i volti sotto di me,  rimasi colpito da una cosa: sebbene molte persone si scambiassero  occhiate ridanciane, un numero non indifferente di spettatori  sembrava adirato e gesticolava severamente all'indirizzo di altre  persone. Poi sul palcoscenico si accese un riflettore e comparve  Hoffman.  
  Il direttore dell'albergo era furibondo e si precipitò verso il  leggio senza tante cerimonie.   
  - Signore e signori, per piacere! - gridò, anche se il clamore  stava cominciando a scemare. - Per piacere! Vi prego di ricordare  l'importanza di questa serata. Per usare le parole del signor von  Winterstein, non siamo a uno spettacolo di cabaret!   
  A una parte del pubblico la veemenza del rimprovero non andò  giù, e dal gruppo seduto sotto di me si levò un ironico «ooh». Ma  Hoffman proseguì:  
  - In particolare, sono indignato che così tanti di voi si ostinino stupidamente a pensare del signor Brodsky cose ormai  superate. Senza entrare nel merito degli altri grandi pregi della  poesia del signor Ziegler, nessuno può metterne in dubbio la  premessa centrale, e cioè che il signor Brodsky ha vinto una  volta per tutte i dèmoni che lo tormentavano. Quelli di voi che  un attimo fa hanno scelto di ridere dell'eloquente esposizione di  questo concetto offertaci dal signor Ziegler, ebbene, sono sicuro  che fra pochissimo... sì, nei prossimi istanti!... proveranno  vergogna. Sì, vergogna! Come poco fa ho provato io per l'intera  città!   
  Mentre pronunciava queste parole, Hoffman batté il pugno sul  leggio, e una parte sorprendentemente grande del pubblico scoppiò  in un applauso ipocrita. Il direttore dell'albergo, visibilmente  sollevato, ma anche incerto su come interpretare questa reazione,  fece un paio di inchini impacciati. Poi, prima che l'applauso si  spegnesse completamente, si ricompose e dichiarò ad alta voce nel  microfono:   
  - Il signor Brodsky merita come minimo di diventare un  personaggio eminente della nostra comunità! Una fonte spirituale  e culturale per i nostri giovani! Un faro per quelli di noi più  avanti negli anni, forse, ma che ugualmente hanno smarrito la  strada e sono precipitati nella disperazione durante questi bui  capitoli della storia della nostra città! Questo è il minimo che  meriti il signor Brodsky! Sì, guardatemi bene in faccia! Mi gioco  la mia reputazione, la mia £credibilità su ciò che vi sto dicendo  ora! Ma che bisogno c'è di usare tante parole? Fra un attimo lo  verificherete voi stessi con i vostri occhi e le vostre orecchie.  Non era questa la presentazione che avevo in mente di fare, e mi  spiace essere stato costretto a parlarvi in questo modo. Ma non  perdiamo altro tempo. Permettetemi di chiamare i nostri esimi  ospiti, l'Orchestra della Fondazione Nagel di Stoccarda, diretta  questa sera dal nostro, nostrissimo... signor Leo Brodsky!   
  Mentre Hoffman spariva dietro le quinte, vi fu un forte  scroscio di applausi. Per qualche minuto non successe nulla, poi  la fossa dell'orchestra si illuminò e i musicisti vennero fuori.  Vi fu un altro scroscio di applausi, seguito da un silenzio  carico di tensione mentre gli orchestrali si agitavano sulle  sedie, accordavano gli strumenti e armeggiavano con i leggii.  Persino il turbolento gruppetto seduto sotto di me sembrava  essersi reso conto della gravità del momento; i giocatori avevano  messo via le carte e sedevano attenti, con lo sguardo dritto  davanti a sé.   
  Quando l'orchestra ebbe terminato i preparativi, un riflettore  illuminò un punto in fondo al palcoscenico. Per un altro minuto  non successe niente, poi da dietro le quinte giunsero dei tonfi.  Il rumore crebbe di intensità, finché Brodsky uscì nel cerchio di  luce e si fermò, come per dare agio al pubblico di notare la sua  comparsa.   
  Sicuramente molti dei presenti avrebbero stentato a  riconoscerlo. In abito da sera, con una camicia di un bianco  abbagliante e i capelli ben pettinati, Brodsky faceva colpo.  Inutile negare, però, che la malconcia asse da stiro che ancora  gli faceva da gruccia sminuiva un poco l'effetto. Inoltre, quando  Brodsky si avviò verso il podio - con l'asse da stiro che batteva  sul pavimento a ogni passo - notai il modo in cui aveva risolto  il problema della gamba vuota dei pantaloni. Il desiderio che non  sventolasse era perfettamente comprensibile. Ma invece di  annodarla all'altezza del moncone, Brodsky l'aveva tagliata un  paio di centimetri sotto il ginocchio, lasciando un orlo  ondulato. Una soluzione del tutto elegante - me ne rendevo conto  - non era possibile; ma molto probabilmente quell'orlo così  appariscente sarebbe servito solo ad attirare maggiormente l'attenzione sulla sua ferita.   
  Tuttavia, mentre Brodsky attraversava il palcoscenico, capii  che su questo punto mi sbagliavo. Mi aspettavo infatti che da un  momento all'altro gli spettatori scoprissero le condizioni di  Brodsky e restassero a bocca aperta, ma ciò non avvenne. Anzi, da  quel che potevo vedere, il pubblico non si era minimamente  accorto della gamba amputata e aspettava silenzioso e trepidante  che Brodsky raggiungesse il podio.   
  Forse per la stanchezza, forse per la tensione, Brodsky non  riusciva più a manovrare l'asse da stiro con la scioltezza di  prima, quando l'avevo incontrato nel corridoio. Ondeggiava  pericolosamente, e mi resi conto che quell'andatura, finché il  pubblico non si fosse accorto della menomazione, avrebbe  inevitabilmente destato il sospetto di ubriachezza. Brodsky era  ancora a parecchi metri dal podio quando si fermò e lanciò  un'occhiata furente all'asse da stiro; vidi allora che l'arnese  stava ricominciando ad aprirsi. Brodsky lo scosse, poi riprese a  camminare. Riuscì a fare ancora un paio di passi, poi qualcosa  cedette e l'asse da stiro si aprì sotto di lui proprio mentre vi  caricava sopra tutto il suo peso. Brodsky e asse da stiro  finirono per terra in un unico groviglio.   
  La reazione del pubblico fu strana. Sulle prime, invece di  lanciare grida allarmate, come uno si sarebbe potuto aspettare,  gli spettatori ostentarono un silenzio di disapprovazione. Poi  l'auditorium fu percorso da un mormorio, una specie di «hmm»  collettivo, come se ognuno si riservasse di trarre le debite  conclusioni da certi indizi scoraggianti. Anche i tre inservienti  che si avvicinarono a Brodsky per aiutarlo lo fecero senza alcuna  premura, persino con un briciolo di disgusto. In ogni caso, prima  che potessero fare qualcosa, Brodsky, che intanto stava lottando  con l'asse da stiro, urlò rabbiosamente che si levassero di  torno. I tre uomini si fermarono immediatamente e rimasero a  osservarlo con una certa affascinata morbosità.   
  Brodsky continuò per un po' a dibattersi sul pavimento,  tentando ora di rialzarsi, ora invece di districare un lembo di  stoffa intrappolato nel meccanismo dell'asse da stiro. A un certo  punto esplose in una serie di bestemmie - presumibilmente  indirizzate all'arnese - che il sistema di amplificazione  ritrasmise fin troppo chiaramente. Lanciai un'altra occhiata alla  signorina Collins e vidi che aveva il busto proteso in avanti.  Poi però, mentre Brodsky continuava a dimenarsi, la donna si  riappoggiò lentamente allo schienale, sollevando di nuovo il dito  per sorreggere il mento.   
  Finalmente Brodsky vinse la sua battaglia. Riuscì a rimettere  in piedi l'asse da stiro aperta e a tirarsi su. Poi, fiero  dell'impresa, rimase lì sulla gamba buona, afferrandosi all'asse  con entrambe le mani, i gomiti in fuori come se si preparasse a  montare a cavallo. Subito lanciò un'occhiataccia ai tre  inservienti, poi, quando questi cominciarono a indietreggiare  verso le quinte, si girò a guardare il pubblico.   
  - Lo so, lo so, - disse, e sebbene non parlasse forte i  microfoni disposti lungo la ribalta amplificarono la sua voce  rendendola udibile. - Lo so a che cosa state pensando. Ma vi  sbagliate.   
  Brodsky abbassò gli occhi e parve considerare la sua non facile  situazione. Poi raddrizzò la schiena e cominciò a passare la mano  sulla superficie imbottita dell'asse da stiro, come se si fosse  accorto solo in quel momento della sua funzione originale. Infine  guardò di nuovo il pubblico e disse:   
  - Non fatevi venire strane idee. Quello di poco fa, - e accennò  con il capo al pavimento, - è stato solo uno spiacevole  incidente. Nient'altro.  
  L'auditorium fu percorso da un altro mormorio, poi tornò il  silenzio.   
  Brodsky rimase chino sull'asse da stiro, immobile, con gli  occhi fissi sul podio del direttore d'orchestra. Capii che stava  valutando la distanza che lo separava dalla meta. Un attimo dopo,  infatti, si mise in marcia. Per avanzare, sollevava l'intera  intelaiatura dell'asse da stiro, la sbatteva sul pavimento come  un deambulatore, poi le andava dietro trascinando l'unica gamba.  Sulle prime il pubblico parve perplesso, ma dato che Brodsky  procedeva senza incertezze, qualche spettatore, pensando di  assistere a una specie di numero da circo, cominciò a battere le  mani. Il suggerimento fu subito raccolto da tutta la sala, e  Brodsky compì il resto del tragitto accompagnato da vigorosi  applausi.  
  Giunto alla meta, Brodsky lasciò andare l'asse da stiro, si  aggrappò alla ringhiera semicircolare del podio e vi salì  cautamente. Poi, appoggiandosi alla ringhiera per non perdere  l'equilibrio, prese la bacchetta.   
  L'applauso per l'esibizione con l'asse da stiro si era ormai  spento, e in sala regnava di nuovo un silenzio carico di attesa.  Anche i musicisti fissavano Brodsky con un certo nervosismo. Ma  Brodsky sembrava assaporare la sensazione di ritrovarsi al timone  di un'orchestra dopo così tanti anni, e per un po' continuò a  sorridere e a guardarsi intorno. Finalmente sollevò la bacchetta.  Gli orchestrali si tennero pronti, ma Brodsky cambiò di nuovo  idea, abbassò la bacchetta e si rivolse al pubblico. Sorridendo  affabilmente, disse:   
  - Voi siete convinti che io non sia altro che un sudicio  ubriacone. Adesso vedremo se è vero.   
  Il microfono più vicino era a una certa distanza, ed ebbi  l'impressione che solo una parte del pubblico udisse le sue  parole. Comunque sia, un attimo dopo Brodsky sollevò la bacchetta  e lanciò l'orchestra nelle aspre semibrevi iniziali di  £Verticalità di Mullery.   
  A me non parve un modo particolarmente insolito di attaccare il  pezzo, ma chiaramente il pubblico si aspettava qualcosa di  diverso. Molti spettatori sussultarono visibilmente sulle loro  poltrone, e mentre le prolungate dissonanze si ripetevano nella  sesta e settima battuta, notai su alcune facce un'espressione  prossima al panico. Persino alcuni orchestrali guardavano  preoccupati ora il direttore ora la loro partitura. Ma Brodsky  continuò imperterrito ad aumentare l'intensità e a mantenere un  tempo esageratamente lento. Quando giunse alla dodicesima  battuta, in cui le note esplodono e ricadono ondeggiando, il  pubblico emise una specie di gemito. Ma quasi subito la musica  ricominciò a gonfiarsi.   
  Di tanto in tanto Brodsky si sorreggeva con la mano libera, ma  ormai attingeva a una parte più profonda di se stesso e sembrava  in grado di conservare l'equilibrio quasi senza sostegno.  Ondeggiava con il busto. Roteava entrambe le braccia nell'aria  con abbandono. Durante i passaggi iniziali del primo movimento,  vidi qualche orchestrale lanciare sguardi contriti al pubblico,  come per dire: «Ve lo giuro, ci ha detto lui di fare così!»  Presto, però, i musicisti si lasciarono prendere dalla visione di  Brodsky. I primi a esserne avvinti furono i violini, poi notai  che un numero sempre maggiore di musicisti si concentrava  nell'esecuzione. Quando Brodsky affrontò la malinconia del  secondo movimento, l'orchestra aveva ormai accettato  completamente la sua autorità. A questo punto anche il pubblico  aveva dimenticato la precedente irrequietezza e sedeva  pietrificato.   
  Brodsky approfittò della costruzione meno rigida del secondo movimento per avventurarsi in territori ancora più inconsueti, e  persino io - per quanto abituato a vedere Mullery interpretato  nei modi più diversi - ne fui affascinato. Brodsky, quasi  perversamente, ignorava la struttura esteriore della musica - le  concessioni alla tonalità e alla melodia con cui il compositore  decorava la superficie dell'opera - per concentrarsi invece sulle  singolari forme viventi che si nascondevano appena sotto il  guscio. In tutto ciò c'era qualcosa di leggermente sordido, di  prossimo all'esibizionismo, che induceva a pensare che lo stesso  Brodsky fosse profondamente imbarazzato dalla natura di ciò che  stava svelando, ma non riuscisse a resistere al bisogno di  spingersi ancora più a fondo. L'effetto era snervante ma  irresistibile.   
  Studiai di nuovo la folla sotto di me. Senza dubbio l'animo di  quel pubblico provinciale era stato conquistato da Brodsky, e  questo mi fece intravedere la possibilità che l'intermezzo con le  domande e le risposte si rivelasse meno scabroso di quanto avessi  temuto. Ovviamente, se Brodsky fosse riuscito a convincere gli  spettatori con la sua arte, il modo in cui avrei risposto alle  domande sarebbe stato molto meno determinante. In sostanza, non  avrei dovuto fare altro che confermare qualcosa che il pubblico  aveva già accettato, nel qual caso, anche se le mie ricerche  erano state inadeguate, non c'era motivo perché non potessi  cavarmela benissimo con qualche commento diplomatico e un paio di  battute. Se invece Brodsky avesse lasciato il pubblico in tumulto  e in preda all'indecisione, nonostante tutta la mia esperienza e  la mia fama, mi sarei ritrovato con una bella gatta da pelare.  L'atmosfera in sala era ancora tesa, e ricordando la rabbia  tormentosa del terzo movimento mi domandai che cosa sarebbe  successo quando Brodsky l'avesse attaccato.   
  - In quel preciso istante mi venne in mente che non avevo  ancora cercato i miei genitori in mezzo al pubblico. E quasi  simultaneamente mi balenò il pensiero che ben difficilmente ne  avrei scoperto i volti sotto di me, visto che nelle numerose  occasioni in cui avevo studiato la folla non li avevo mai notati.  Ciò nonostante mi sporsi in maniera quasi temeraria e scandagliai  l'auditorium con lo sguardo. Per quanto allungassi il collo,  certe parti della sala rimanevano nascoste. Mi resi conto che  prima o poi sarei dovuto scendere sotto anch'io. Lì, almeno, se  non fossi riuscito a trovare i miei genitori, avrei potuto  stanare Hoffman o la signorina Stratmann per chiedere loro  notizie. Nell'uno come nell'altro caso, non potevo permettermi di  restare un secondo di più a osservare il concerto dall'alto,  così, girandomi con cautela, uscii dall'armadio.   
  Quando mi riaffacciai in cima alla scaletta, vidi che la coda  si era allungata di parecchio. Adesso c'erano almeno venti  persone in attesa, e mi sentii in colpa per essere rimasto dentro  così a lungo. Tutti discutevano animatamente, ma quando mi videro  ammutolirono. Scesi i gradini e bofonchiai qualcosa a mo' di  scusa, poi, mentre la persona successiva si arrampicava  affannosamente nell'armadio, mi allontanai in tutta fretta.   
  Il corridoio era molto più tranquillo di prima, soprattutto per  il rallentamento dell'attività del personale addetto alla  ristorazione. A intervalli di parecchi metri l'uno dall'altro  incontrai numerosi carrelli carichi, ai quali talvolta erano  appoggiati uomini in grembiule che fumavano e bevevano da tazzine  di plastica. Dopo un po' mi fermai e domandai a uno di loro quale  fosse la via più corta per scendere nell'auditorium.  L'inserviente si limitò a indicarmi una porta alle mie spalle.  Ringraziandolo, la aprii e mi affacciai su una tromba delle scale  mal illuminata.  
  Scesi almeno cinque rampe di gradini, poi spinsi due pesanti  porte oscillanti e mi trovai in una specie di antro dietro le  quinte. Nella semioscurità scorsi, appoggiati al muro, i pannelli  rettangolari di un fondale dipinto: la stanza di un castello, un  cielo illuminato dalla luna, una foresta. Sopra la mia testa  c'era un intreccio di cavi d'acciaio. Sentivo chiaramente  l'orchestra, e mi diressi verso la musica facendo del mio meglio  per non inciampare nelle casse e negli scatoloni che ingombravano  il pavimento. Salita una breve scaletta di legno, mi accorsi di  essere finito tra le quinte. Stavo per tornare indietro - avevo  sperato di sbucare con discrezione accanto alle prime file della  platea - quando qualcosa nella musica che mi giungeva in quel  momento alle orecchie - qualcosa di inquietante che fino a un  attimo prima non c'era - mi costrinse a fermarmi.   
  Rimasi ad ascoltare per circa un minuto, poi avanzai di un  passo e sbirciai oltre i pesanti tendaggi che avevo davanti a me.  Naturalmente, lo feci con grande cautela - volevo evitare a tutti  i costi che la folla scorgesse la mia faccia e si mettesse ad  applaudire freneticamente - ma scoprii che stavo guardando  Brodsky e l'orchestra da una posizione molto angolata, e che ben  difficilmente il pubblico avrebbe potuto vedermi.   
  Mi accorsi che mentre mi aggiravo per l'edificio le cose erano  molto cambiate. Brodsky, così supposi, si era spinto troppo  lontano, perché nell'esecuzione dell'orchestra si notava ora  quella titubanza che spesso segnala una mancanza di affinità tra  il direttore e i musicisti. Sul volto degli orchestrali - adesso  potevo vederli da vicino - notai espressioni di incredulità,  angoscia, persino disgusto. Poi, quando i miei occhi si furono  abituati alla violenta luce dei riflettori, guardai oltre  l'orchestra, in direzione del pubblico. Riuscii a distinguere  solo le prime file, ma vidi subito che la gente si scambiava  occhiate preoccupate, tossiva imbarazzata, scuoteva il capo.  Proprio sotto i miei occhi, una signora si alzò per andarsene. Ma  Brodsky continuava a dirigere in maniera appassionata, anzi  sembrava desideroso di spingersi ancora più in là. Poi vidi due  violoncellisti scambiarsi un'occhiata e scuotere la testa. Era un  chiaro segno di ammutinamento, e senza dubbio Brodsky lo notò. Il  suo modo di dirigere assunse un che di maniacale, e la musica  sbandò pericolosamente verso i regni della perversità.   
  Fino a quel momento non ero riuscito a vedere bene  l'espressione di Brodsky - per lo più mi dava le spalle - ma  quando i suoi contorcimenti divennero più pronunciati, ebbi  occasione di guardarlo meglio in faccia. Solo allora mi balenò il  pensiero che il suo comportamento fosse influenzato da qualche  altro fattore. Di nuovo lo osservai attentamente - osservai il  modo in cui il suo corpo si torceva e si aggrappava a un ritmo  interiore che si era impadronito di lui - e capii che Brodsky,  probabilmente da un pezzo, stava soffrendo le pene dell'inferno.  Non appena me ne accorsi, i segni divennero inequivocabili.  Brodsky stava a stento in piedi, e il suo volto era deformato da  qualcosa di più della semplice passione.   
  Sentii il dovere morale di fare qualcosa e valutai rapidamente  la situazione. Brodsky aveva ancora davanti a sé un movimento e  mezzo di musica assai ardua, oltre al complesso epilogo.  L'impressione favorevole che era riuscito a creare in precedenza  si stava rapidamente sgretolando. C'era il rischio che da un  momento all'altro il pubblico ridiventasse indisciplinato. Più ci  pensavo, più mi sembrava evidente che bisognava interrompere il  concerto, tanto che cominciai a domandarmi se non dovessi uscire  subito sul palcoscenico e incaricarmene io. Probabilmente ero  l'unica persona che potesse farlo senza che il pubblico vi  vedesse l'annuncio di una grave calamità.  
  Per qualche minuto, però, non mi mossi e rimasi lì a domandarmi  come, esattamente, eseguire l'intervento. Dovevo venire avanti  facendo segno con le braccia di smettere? C'era il pericolo che  un simile gesto, oltre ad apparire presuntuoso, lasciasse  supporre una certa disapprovazione da parte mia, e sarebbe stato  un disastro. Forse era molto meglio aspettare l'inizio  dell'andante, poi farmi avanti con la massima modestia,  sorridendo cortesemente a Brodsky e all'orchestra, camminando al  ritmo della musica come se l'ingresso fosse stato studiato in  anticipo. Senza dubbio il pubblico avrebbe applaudito, e a questo  punto anch'io - senza mai smettere di sorridere - avrei potuto  battere le mani prima a Brodsky, poi agli orchestrali. Mi  auguravo che Brodsky avesse la prontezza di far cessare  gradualmente la musica e di ringraziare il pubblico. Con la mia  presenza sul palcoscenico, le probabilità che la folla insorgesse  contro di lui erano remote. Anzi, grazie al mio esempio - avrei  continuato ad applaudire e a sorridere con grande convinzione,  come se Brodsky fosse reduce da una prestazione di indiscutibile  bellezza - il ricordo della parte precedente del concerto si  sarebbe ripresentato con tale vigore da riconquistargli i favori  del pubblico. Brodsky avrebbe eseguito un dignitoso numero di  inchini, poi si sarebbe girato per andarsene, e a quel punto  tutti avrebbero visto con quanta cordialità lo aiutavo a scendere  dal podio, magari richiudendo l'asse da stiro e porgendogliela  perché potesse usarla di nuovo a mo' di gruccia. Poi avrei potuto  accompagnarlo verso le quinte, lanciando frequenti occhiate al  pubblico per incoraggiare gli applausi e così via. Mi parve che  la cosa potesse funzionare, a patto di valutare ogni mossa con la  massima precisione.   
  Ma in quell'istante successe qualcosa che probabilmente  era;ormai nell'aria da un pezzo. Brodsky descrisse un ampio arco  con la bacchetta e quasi simultaneamente trafisse l'aria con  l'altra mano. Così facendo, parve staccarsi da terra. Si sollevò  in aria di qualche centimetro, poi ricadde sul proscenio  trascinando con sé la ringhiera del podio, l'asse da stiro, la  partitura e il leggio.   
  Mi aspettai che tutti corressero in suo aiuto, ma il grido che  accompagnò la sua caduta si spense in un silenzio imbarazzato.  Poi, mentre Brodsky giaceva a faccia in giù sul pavimento, senza  più muoversi, nell'auditorium si levò un sommesso brusio.  Finalmente, uno dei violinisti posò il suo strumento e gli andò  vicino. Presto anche parecchie altre persone - macchinisti,  orchestrali - imitarono il suo esempio, ma nel modo in cui si  strinsero intorno alla figura prona di Brodsky notai ancora una  punta di esitazione, come se si aspettassero di scoprire qualcosa  di assolutamente disdicevole.   
  Più o meno a questo punto mi riscossi - avevo esitato a farmi  avanti, non sapendo bene che effetto avrebbe avuto la mia  apparizione - e corsi a unirmi ai soccorritori di Brodsky. Mentre  mi avvicinavo, il violinista lanciò un grido e, lasciandosi  cadere sulle ginocchia, cominciò a esaminare Brodsky con nuova  sollecitudine. Poi alzò gli occhi verso di noi e bisbigliò  esterrefatto: - Dio mio, ha perso una gamba! $è un miracolo che  non sia svenuto prima!   
  Vi fu qualche esclamazione di stupore, e la dozzina di persone  che si erano radunate intorno a Brodsky - fra le quali c'ero  anch'io - si scambiarono un'occhiata. Non saprei dire perché, ma  tutti avemmo la netta sensazione che la notizia della gamba  mancante non dovesse trapelare, sicché stringemmo il cerchio per  tenere lontani gli sguardi del pubblico. Quelli più vicini a  Brodsky stavano discutendo a bassa voce se portarlo via dal  palcoscenico. Poi qualcuno fece un segnale e il sipario cominciò a chiudersi. Ci accorgemmo subito che Brodsky era sdraiato  esattamente sulla traiettoria della tenda; parecchie braccia si  protesero e lo trascinarono via dalla ribalta proprio mentre il  sipario si chiudeva.   
  Gli scossoni ebbero l'effetto di rianimarlo un po'; quando il  violinista lo girò sul dorso, Brodsky aprì gli occhi e scrutò a  una a una le facce che gli stavano attorno. Poi, con una voce che  sembrava più assonnata che altro, disse:   
  - E lei dov'è? Perché non è qui a sorreggermi?   
  Vi fu un nuovo scambio di occhiate. Poi qualcuno bisbigliò:  
  - La signorina Collins. Credo che si riferisca alla signorina  Collins.   
  Non appena queste parole furono pronunciate, udimmo alle nostre  spalle un colpetto di tosse; girandoci, vedemmo la signorina  Collins in piedi, al di qua del sipario. Aveva ancora un  atteggiamento molto composto, il suo sguardo esprimeva una  cortese sollecitudine. Solo le mani strette davanti al petto, un  po' più in alto del dovuto, rivelavano il tumulto interiore.   
  - E lei dov'è? - domandò di nuovo Brodsky con voce assonnata.  Poi cominciò improvvisamente a canticchiare fra sé e sé.   
  Il violinista alzò gli occhi verso di noi. - Dite che è  ubriaco? Puzza parecchio d'alcool.   
  Brodsky smise di cantare, poi, richiudendo gli occhi, ripeté: -  E lei dov'è? Perché non viene?   
  Questa volta la signorina Collins, che era rimasta accanto al  sipario, gli rispose con voce sommessa ma chiarissima: - Sono  qui, Leo.   
  Il tono era prossimo alla tenerezza, ma quando le aprimmo un  varco per farla passare lei non si mosse. Tuttavia, alla vista  del corpo steso sul pavimento, sul suo volto comparvero  finalmente i segni dell'angoscia. Brodsky, sempre a occhi chiusi,  ricominciò a canticchiare.   
  Un attimo dopo aprì le palpebre e si guardò intorno  attentamente. Prima girò gli occhi verso il sipario - forse in  cerca del pubblico - poi, scoprendolo chiuso, esaminò di nuovo le  facce chine su di sé. Infine posò lo sguardo sulla signorina  Collins.  
  - Abbracciamoci, - disse Brodsky. - Che il mondo intero ci  veda. Il sipario... - Si sollevò a fatica sui gomiti e gridò: -  Preparatevi a riaprire il sipario! - Poi, rivolgendosi alla  signorina Collins, aggiunse sottovoce: - Vieni a sorreggermi.  Abbracciamoci. E poi che aprano il sipario. Voglio che il mondo  intero ci veda -. Lentamente, si lasciò andare di nuovo sulla  schiena. - Su, avvicinati, - mormorò.   
  La signorina Collins fu sul punto di dire qualcosa, poi cambiò  idea. Si voltò invece a dare un'occhiata al sipario, e nei suoi  occhi comparve uno sguardo spaventato.   
  - Che ci vedano tutti, - disse Brodsky. - Che vedano che siamo  stati insieme fino all'ultimo. Che ci siamo amati per tutta la  vita. Mostriamoglielo. Voglio che lo vedano con i loro occhi  quando si aprirà il sipario.   
  La signorina Collins rimase a fissarlo per qualche istante, poi  finalmente cominciò ad avvicinarsi. La gente si scostò con  discrezione; alcuni distolsero addirittura lo sguardo. Ma prima  di giungergli accanto, la donna si fermò e disse con voce un po'  tremula:   
  - Se vuoi possiamo tenerci per mano.   
  - No, no. Questo è l'ultimo atto. Abbracciamoci come si deve.  Voglio che ci vedano tutti.   
  La signorina Collins ebbe un attimo di esitazione, poi andò  risoluta a inginocchiarsi al suo fianco. Vidi che i suoi occhi  erano pieni di lacrime.  
  - Amore mio, - disse Brodsky sottovoce. - Stringimi di nuovo.  La ferita mi fa così male!   
  Improvvisamente, la signorina Collins ritrasse la mano che  aveva cominciato a tendere e si alzò in piedi. Poi lanciò  un'occhiata gelida a Brodsky e tornò a passo veloce verso il  sipario.   
  Brodsky parve non accorgersi della sua fuga. Fissava il  soffitto con le braccia protese e spalancate, come se si  aspettasse che la signorina Collins scendesse dall'alto.   
  - Dove sei? - disse. - Voglio che ci vedano tutti. Quando si  aprirà il sipario. Voglio che vedano che siamo stati insieme fino  alla fine. Dove sei?   
  - Io non vengo, Leo. Ovunque tu stia andando adesso, dovrai  andarci da solo.   
  Probabilmente Brodsky notò che il tono era cambiato, perché,  pur continuando a fissare il soffitto, lasciò ricadere le braccia  lungo i fianchi.   
  - La tua ferita, - disse la signorina Collins in tono pacato. -  Sempre la tua ferita -. Poi la sua faccia si contorse in una  smorfia orrenda. - Oh, come ti odio! Come ti odio per avermi  rovinato la vita! Non te lo perdonerò mai, mai! La tua ferita, la  tua piccola, stupida ferita! La ferita, ecco il tuo vero amore,  Leo, l'unico vero amore della tua vita! So già come andrebbe a  finire, anche se provassimo, anche se riuscissimo a ricostruire  qualcosa da capo. E con la musica succederebbe lo stesso. Anche  se questa sera tu venissi accettato, anche se diventassi famoso  in questa città, distruggeresti ogni cosa, ti faresti crollare  tutto addosso come in passato. E tutto per colpa di quella  ferita. Per te, io e la musica non siamo altro che amanti in cui  cerchi conforto. Per poi tornare ogni volta dal tuo unico vero  amore. La ferita! E lo sai che cosa mi fa imbestialire? Leo, mi  stai ascoltando? La tua ferita non è niente di speciale,  assolutamente niente di speciale. In questa città conosco molte  persone che ne hanno di ben peggiori. Eppure tutte, dalla prima  all'ultima, tirano avanti con molto più coraggio di te. Vivono la  loro vita. Diventano degne persone. Invece tu guardati, Leo.  Sempre lì a vezzeggiare la tua ferita. Mi ascolti? Apri bene le  orecchie, perché voglio che tu senta fino all'ultima parola!  Quella ferita è tutto ciò che ti resta. Un tempo ho tentato di  darmi a te anima e corpo, ma non te ne importava niente, e non mi  avrai una seconda volta. Mi hai rovinato la vita! E ora ti odio!  Mi senti, Leo? Guarda in che stato ti sei ridotto! Vuoi sapere  che cosa ne sarà di te adesso? Be', te lo dirò io. Andrai in un  luogo orribile. Un luogo buio e deserto, e io non verrò con te.  Vacci da solo! Vacci da solo con quella tua piccola, stupida  ferita!   
  Brodsky stava agitando lentamente una mano. Approfittando della  pausa, disse:   
  - Forse... forse tornerò a essere un direttore d'orchestra. La  musica, poco fa, prima che cadessi. Era bella. L'hai sentita?  Forse tornerò a essere un direttore d'orchestra...   
  - Leo, tu non mi stai a sentire. Non sarai mai un £vero  direttore d'orchestra. Non lo sei mai stato, neppure ai bei  tempi. Non sarai mai in grado di renderti utile agli abitanti di  questa città, nemmeno se fossero loro a volerlo. Perché non te ne  importa niente delle loro vite, ecco perché. La tua musica sarà  sempre e solo imperniata su quella piccola, stupida ferita; non  sarà mai altro che questo, non sarà mai qualcosa di profondo,  qualcosa che abbia valore anche per gli altri. Io, almeno, nel  mio piccolo, posso dire di avere fatto ciò che potevo. Di avere  fatto del mio meglio per aiutare gli infelici di questa città.  Tu, invece, guardati. Non ti sei mai curato di nulla all'infuori della tua ferita. Ecco perché non sei mai stato un £vero  musicista, nemmeno ai bei tempi. E non lo diventerai certo  adesso. Leo, mi ascolti? Voglio che tu senta bene le mie parole:  sarai sempre e solo un ciarlatano. Un impostore codardo e  irresponsabile...   
  Improvvisamente, un uomo robusto e paonazzo irruppe sul  palcoscenico passando attraverso le tende del sipario.   
  - La sua asse da stiro, signor Brodsky! - annunciò  allegramente, tenendo sollevato davanti a sé l'arnese. Poi,  accorgendosi che c'era qualcosa che non andava, si ritrasse.   
  La signorina Collins squadrò il nuovo arrivato, poi, lanciando  un'ultima occhiata in direzione di Brodsky, scappò via attraverso  l'apertura del sipario.   
  La faccia di Brodsky era ancora rivolta al soffitto, ma i suoi  occhi erano di nuovo chiusi. Mi feci largo e mi inginocchiai  accanto a lui per sentirgli il polso.   
  - I nostri marinai, - mormorò Brodsky. - I nostri marinai. I  nostri marinai ubriachi. Dove sono finiti? E tu dove sei? Dove  sei?   
  - Sono io, - dissi. - Ryder. Signor Brodsky, dobbiamo trovarle  subito un dottore.   
  - Ryder -. Brodsky aprì gli occhi e li girò verso di me. -  Ryder. Forse quello che ha detto è vero.   
  - Non si preoccupi, signor Brodsky. La sua musica era  magnifica. Soprattutto i primi due movimenti...   
  - No, no, Ryder. Non mi riferisco alla musica. Ormai quella non  ha più importanza. Mi riferisco alle altre cose che ha detto. A  proposito del posto buio e deserto dove dovrò andare da solo.  Forse è vero -. All'improvviso Brodsky sollevò la testa dal  pavimento e mi fissò negli occhi. - Non voglio andarci, Ryder, -  disse in un sussurro. - Non voglio andarci.   
  - Signor Brodsky, cercherò di riportare qui la signorina  Collins. Come le dico, i primi due movimenti erano  straordinariamente innovativi. Sono sicuro che riuscirò a farla  ragionare. Ma adesso mi lasci andare, torno subito.   
  Liberando il braccio dalla sua stretta, mi infilai anch'io tra  le tende del sipario.  
35.  
  Fui stupito di trovare l'auditorium completamente trasformato.  Le luci erano state riaccese, e il pubblico, agli effetti  pratici, non esisteva più. Almeno due terzi degli spettatori se  ne erano andati, e quelli rimasti chiacchieravano in piedi nei  corridoi. Non mi soffermai a lungo su questa scena, però, perché  nel corridoio centrale avevo scorto la signorina Collins che si  faceva largo verso l'uscita. Sceso dal palcoscenico, le corsi  dietro attraverso la folla e le arrivai a tiro di voce proprio  mentre stava per uscire.   
  - Signorina Collins! Aspetti un momento, per piacere!   
  La donna si voltò e, quando mi riconobbe, mi fissò con occhi  duri. Colto un po' alla sprovvista, mi fermai a metà del  corridoio. Improvvisamente, sentii svanire ogni proposito di  raggiungerla e di parlarle; chi sa perché, abbassai gli occhi  impacciato e mi guardai i piedi. Quando risollevai la testa, la  signorina Collins era sparita.   
  Restai dov'ero, chiedendomi se avessi fatto una sciocchezza  lasciandomela scappare a quel modo. Ma a poco a poco la mia  attenzione fu attratta dalle conversazioni che si svolgevano  intorno a me. In particolare, notai un gruppetto alla mia destra,  formato da sei o sette persone piuttosto anziane. Sentii che uno  degli uomini stava dicendo:   
  - Secondo la signora Schuster, quell'individuo non è rimasto sobrio un solo giorno da quando è cominciata questa storia. Come  si può pretendere che rispettiamo un uomo del genere, per quanto  dotato? Che esempio darebbe ai nostri figli? No, no, qui si è  superato ogni limite.   
  - Alla cena della Contessa, - disse una donna, - persino lì era  ubriaco, ne sono quasi sicura. Hanno dovuto fare i salti mortali  perché non ce ne accorgessimo.   
  - Scusatemi, - dissi, intromettendomi nella discussione, - ma  state parlando a vanvera. Vi posso assicurare che siete mal  informati.  
  Mi aspettavo che la mia sola presenza li facesse ammutolire  sbigottiti. Loro, invece, mi diedero un'occhiata cordiale - come  se avessi semplicemente chiesto il permesso di unirmi al gruppo -  e ripresero la conversazione.   
  - Nessuno vuole ricominciare a tessere gli elogi di Christoff,  - disse il primo uomo. - Ma, come giustamente dicevi,  l'interpretazione di poco fa sfiorava il cattivo gusto.   
  - Sfiorava l'immoralità. Te lo dico io. Sfiorava l'immoralità.   
  - Scusatemi, - m'intromisi, questa volta con maggior forza. -  Ma ho ascoltato con molta attenzione ciò che il signor Brodsky è  riuscito a fare prima della caduta, e la mia valutazione è  diversa dalla vostra. Penso che ci abbia offerto qualcosa di  stimolante, di nuovo, qualcosa di molto vicino all'intima essenza  di quel brano musicale.   
  Rivolsi a tutti una gelida occhiata. Gli spettatori mi  guardarono di nuovo con benevolenza; qualcuno rise educatamente,  come se avessi fatto una battuta. Poi il primo uomo disse:   
  - Nessuno difende Christoff. Ormai sappiamo di che pasta è  fatto. Ma quando ascolti un concerto come quello di poco fa,  finisci con il vedere le cose sotto una prospettiva diversa.   
  - Evidentemente, - disse un altro uomo, - Brodsky è convinto  che Max Sattler avesse ragione. $è persino andato in giro a dirlo  per buona parte della giornata. Senza dubbio parlava sotto gli  effetti dell'alcool, ma, visto che è sempre ubriaco, dobbiamo  ritenere che il suo pensiero sia quello. Max Sattler. Questo  spiega parecchio di ciò che abbiamo appena sentito.   
  - Christoff, almeno, aveva il senso della struttura. Un metodo  cui potevi afferrarti saldamente.   
  - Signori, - gridai, - mi date il voltastomaco!   
  Quando vidi che non mi degnavano nemmeno di uno sguardo, mi  allontanai furente.   
  Mentre tornavo indietro lungo il corridoio, mi accorsi che  tutti stavano discutendo del concerto. Notai che molti parlavano  per il semplice bisogno di sfogarsi dopo un'esperienza insolita,  come avrebbero fatto dopo avere assistito a un incendio o a un  incidente. Quando giunsi sotto il palcoscenico, vidi due donne  che piangevano e una terza che le confortava dicendo: - Va tutto  bene adesso, è finita. $è finita -. In questa parte della sala si  sentiva un buon profumo di caffè. Parecchie persone stringevano  convulsamente le tazze e i piattini, bevendo come per riprendersi  da un'emozione.   
  In quell'istante mi ricordai che dovevo tornare di sopra a  vedere come stava Gustav; facendomi largo attraverso la folla,  abbandonai l'auditorium da un'uscita di emergenza.   
  Mi ritrovai in un corridoio vuoto e silenzioso. Anche questo  curvava gradualmente, ma a differenza di quello del piano  superiore era senza dubbio destinato al pubblico. La moquette era  generosa, la luce soffusa e calda. Lungo la parete erano appesi  quadri con la cornice dorata. Non mi ero aspettato che il  corridoio fosse deserto, e per un attimo esitai non sapendo da  che parte andare. Poi, non appena mi incamminai, sentii alle mie  spalle una voce che mi chiamava:  
  - Signor Ryder!   
  Mi girai e, in fondo al corridoio, vidi Hoffman che si  sbracciava. Il direttore dell'albergo mi chiamò di nuovo, ma per  qualche strana ragione rimase incollato dov'era, tanto che alla  fine fui costretto a tornare sui miei passi.  
  - Signor Hoffman, - dissi, avvicinandomi. - Mi spiace molto per  ciò che è successo.   
  - Un disastro. Un disastro totale.   
  - Mi spiace davvero moltissimo, signor Hoffman. Ma non deve  lasciarsi abbattere. Lei ha fatto tutto ciò che poteva perché la  serata riuscisse bene. E poi, tenga presente che io devo ancora  comparire in scena. Le assicuro che mi prodigherò per riportare  la serata sui binari giusti. Anzi, mi stavo chiedendo se non  sarebbe meglio rinunciare all'intermezzo con le domande e le  risposte nella sua forma originale. Io suggerirei un semplice  discorso, qualcosa di adatto alle circostanze. Per esempio,  potrei dire qualche parola invitando tutti noi a serbare nel  nostro cuore il significato della straordinaria interpretazione  che il signor Brodsky ci stava offrendo prima di sentirsi male; a  sforzarci di essere fedeli allo spirito di tale interpretazione,  o qualcosa del genere. Naturalmente, non mi dilungherò. Poi,  magari, potrei dedicare il mio concerto al signor Brodsky, o alla  sua memoria, secondo le sue condizioni del momento...   
  - Signor Ryder, - disse Hoffman in tono grave, e mi accorsi che  non mi era stato a sentire. Era pensieroso, ed evidentemente mi  aveva guardato in faccia solo per potermi interrompere alla prima  opportunità. - Signor Ryder, c'è una cosa di cui vorrei parlarle.  Una cosa di poco conto.   
  - Oh, di che si tratta, signor Hoffman?   
  - Di poco conto per lei. Ma di una certa importanza per me e  per mia moglie -. All'improvviso la sua faccia si contorse in una  smorfia di rabbia. Hoffman tirò indietro il braccio di scatto;  per un attimo temetti che volesse colpirmi, poi mi accorsi che  stava indicandomi qualcosa in fondo al corridoio. Nella luce  soffusa vidi la sagoma di una donna che ci dava la schiena; era  davanti a una nicchia dalle pareti rivestite di specchi, con il  busto flesso in avanti. La sua testa toccava quasi il vetro,  tanto che l'immagine riflessa sembrava saldata al suo corpo.  Mentre fissavo la donna, Hoffman, forse pensando che il primo  gesto non fosse stato sufficientemente chiaro, tirò indietro il  braccio una seconda volta. Poi disse:   
  - Mi riferisco, signor Ryder, agli album di mia moglie.   
  - Gli album di sua moglie. Ah, sì. Sì, sua moglie, davvero  molto gentile... Ma non sembra anche a lei, signor Hoffman, che  questo non sia il momento più...   
  - Signor Ryder, non avrà dimenticato che mi ha promesso di  esaminarli? E che per riguardo alla sua persona, per evitare che  potessi disturbarla in un momento inopportuno, ci eravamo messi  d'accordo... se n'è forse dimenticato, signor Ryder?... ci  eravamo messi d'accordo su un segnale. Un segnale che lei mi  avrebbe fatto quando fosse stato pronto a esaminare gli album. Se  ne ricorda?   
  - Ma certo, signor Hoffman. E avevo tutte le intenzioni di...   
  - L'ho osservata con ansia, signor Ryder. Ogni volta che la  vedevo girare per l'albergo, attraversare l'atrio, prendere una  tazza di caffè, mi dicevo: «Ah, sembra libero. Forse è il momento  buono». E aspettavo un suo cenno, la osservavo con molta  attenzione, ma chi l'ha visto il segnale? Puh! E adesso eccoci  qui, la sua visita è agli sgoccioli, e fra poche ore sarà in volo  per Helsinki, dove l'attende il suo prossimo impegno! A volte mi  veniva il sospetto di non avere visto il segnale; pensavo magari  di essermi distratto per un secondo e poi, dopo essermi girato di nuovo a guardarla, di avere scambiato la fine del suo segnale per  un gesto qualsiasi. Naturalmente, se così fosse, se davvero mi  avesse lanciato ripetuti segnali e fossi io il tonto che non li  ha visti, allora mi profonderei in scuse, senza riserve, senza  ritegno, senza dignità, striscerei ai suoi piedi. Ma io credo,  signor Ryder, che lei non mi abbia mai fatto segnali. In altre  parole, che lei abbia trattato... trattato... - Hoffman si voltò  a guardare la figura in fondo al corridoio e abbassò la voce. -  Che lei abbia trattato mia moglie con disprezzo. Tenga, eccoli  qua!   
  Solo allora mi accorsi che aveva in mano due grossi volumi. Me  li porse.   
  - Ecco, signor Ryder. Il frutto dell'ammirazione di mia moglie  per la sua meravigliosa carriera. Il segno della sua devozione.  Guardi queste pagine! - Hoffman si contorse per mettersi sotto il  braccio uno degli album e aprire l'altro. - Guardi, signor Ryder.  Ci sono persino piccoli ritagli insignificanti di riviste che  nessuno ha mai sentito nominare. Frasi dette di sfuggita sul suo  conto. Lo vede come le è devota mia moglie? Guardi qui, signor  Ryder! E qui, e qui! E lei non trova nemmeno il tempo di dare  un'occhiata a questi album? Che cosa racconterò, adesso, a mia  moglie? - E di nuovo mi indicò la figura in fondo al corridoio.   
  - Mi spiace, - dissi. - Mi spiace moltissimo. Ma vede, mentre  ero qui le cose si sono complicate. Avevo tutte le intenzioni  di... - Improvvisamente capii che, nella crescente confusione  della serata, io almeno dovevo mantenere la calma. Feci una  pausa, poi dissi con una certa autorità: - Signor Hoffman, forse  sua moglie troverà più facile accettare le mie scuse sincere se  le sente direttamente dalle mie labbra. Ho avuto il grande  piacere di conoscerla questa sera. Forse, se sarà così gentile da  accompagnarmi subito da lei, riusciremo a risolvere la questione  in fretta. Poi bisogna assolutamente che mi presenti sul  palcoscenico, dica due parole sul signor Brodsky e suoni il mio  pezzo. I miei genitori, in particolare, cominceranno a  spazientirsi.   
  Hoffman parve leggermente sconcertato dalle mie parole. Poi,  cercando di riattizzare la propria collera, disse: - Guardi  queste pagine, signor Ryder! Le guardi! - Ma il fuoco si era  spento, e il direttore dell'albergo mi fissò un po' impacciato. -  Allora andiamo, - disse sommessamente, e nella sua voce c'era  tutto lo scoramento dello sconfitto. - Andiamo pure.   
  Ma per un po' non si mosse, ed ebbi l'impressione che stesse  rimuginando qualche lontano ricordo. Poi, fattosi coraggio, si  avviò verso la moglie, e io lo seguii a qualche passo di  distanza.   
  Mentre ci avvicinavamo, la signora Hoffman si girò. Per  riguardo, mi fermai un po' in disparte, ma la donna non degnò di  uno sguardo il marito e si rivolse a me:   
  - $è un piacere rivederla, signor Ryder. Purtroppo, sembra che  la serata non stia andando come speravamo.   
  - Già, - dissi, - sembra proprio di no -. Poi, facendo un passo  avanti, aggiunsi: - E come se non bastasse, signora, mi sono  accorto che per un motivo o per l'altro ho trascurato parecchie  cose che mi stavano molto a cuore.   
  Mi aspettavo che la donna cogliesse la mia allusione, invece si  limitò a guardarmi con interesse, aspettando che proseguissi. Poi  Hoffman si schiarì la gola e disse:   
  - Tesoro. Io... io sapevo che ti avrebbe fatto piacere.   
  Con un timido sorrisetto, il direttore dell'albergo sollevò gli  album, tenendoli uno per mano.   
  La signora Hoffman inorridì. - Dammi quegli album, - disse  aspramente. - Non avevi alcun diritto! Dammeli subito.  
  - Tesoro... - Hoffman ridacchiò e si guardò i piedi.   
  La signora Hoffman, con la faccia furibonda, continuava a  tendere la mano. Il direttore dell'albergo le porse prima un  volume, poi l'altro. La moglie diede a ciascuno una rapida  occhiata per verificare che fossero proprio i suoi, poi parve  sopraffatta dalla vergogna.   
  - Tesoro, - bofonchiò Hoffman, - pensavo che non ci fosse nulla  di male... - Di nuovo lasciò la frase in sospeso e rise.   
  La signora Hoffman lo gelò con lo sguardo. Poi, rivolgendosi a  me, disse: - Signor Ryder, sono davvero dispiaciuta che mio  marito abbia sentito il bisogno di importunarla con simili  sciocchezze. Buonasera a lei.   
  Si mise gli album sotto il braccio e si girò per andarsene. Non  aveva fatto tre passi, però, che Hoffman esclamò all'improvviso:   
  - Sciocchezze? No, no! Non sono affatto sciocchezze! E non è  una sciocchezza neppure l'album su Kosminsky. E neppure quello su  Stefan Haller. Altro che sciocchezze! Ah, se lo fossero. Se solo  riuscissi a convincermi che lo sono!   
  Sua moglie si fermò ma non si girò. Hoffman e io restammo a  fissare da dietro la sua sagoma, immobile nella fioca luce del  corridoio. Poi Hoffman si avvicinò di qualche passo.   
  - La serata è un macello. Perché fingere che non sia così?  Perché continui a tollerarmi? Anno dopo anno, cantonata dopo  cantonata. Sono sicuro che avevi già esaurito la pazienza dopo il  Festival della Gioventù. Ma no, hai continuato a sopportarmi. Poi  la Settimana delle Mostre. E hai continuato a sopportarmi. Mi hai  dato ancora una possibilità. Sì, lo so, te l'ho chiesta io. Ti ho  supplicato di darmi una prova d'appello. E tu non hai avuto il  coraggio di rifiutarmela. Per farla breve, mi hai concesso questa  serata. E con quale risultato? La serata è un macello. Nostro  figlio, il nostro unico figlio, si è reso ridicolo davanti ai  nostri concittadini più illustri. Sì, è stata colpa mia, lo so.  Sono io che l'ho incoraggiato. Sapevo che avrei dovuto fermarlo,  anche all'ultimo momento, ma non ne ho avuta la forza. Ho  lasciato che andasse sino in fondo. Credimi, tesoro, non era  questo che volevo. Sin dal principio mi sono detto, domani gliene  parlo, domani, quando ci sarà più tempo, ci faremo una bella  chiacchierata. Domani, domani, e continuavo a rimandare. Sì, sono  stato un debole, lo ammetto. Ancora questa sera mi dicevo,  qualche minuto e gliene parlo, invece no, no, non ce l'ho fatta,  e lui è salito sul palcoscenico. Sì, il nostro Stephan è salito  lassù di fronte al mondo intero e ha suonato il pianoforte! E ora  ridono di lui! Ah, ma questo è il meno! Tutti sanno chi è il  responsabile di questa serata. L'intera città sa chi si era preso  l'impegno di recuperare il signor Brodsky. Sta bene, sta bene,  non lo nego, ho fallito, non sono riuscito a farlo cambiare.  Quell'uomo è un ubriacone, avrei dovuto accorgermi subito che non  c'era niente da fare. Mentre noi siamo qui che parliamo, la  serata sta andando a rotoli. Ormai neppure il signor Ryder,  neppure lui, può salvarla. La sua presenza non fa che aumentare  il nostro imbarazzo. Il miglior pianista del mondo, e a che scopo  l'ho fatto venire qui? Perché partecipi a questa vergogna? Perché  non mi è stato impedito di avvicinare le mie goffe manacce a cose  così divine come la musica, l'arte, la cultura? Tu vieni da una  famiglia piena di talento, avresti potuto sposare chiunque. Che  errore hai fatto. Una tragedia. Ma tu sei in tempo. Sei ancora  bellissima. Che cosa aspetti? Di che prova hai ancora bisogno?  Lasciami. Lasciami. Trovati qualcuno degno di te. Un Kosminsky,  un Haller, un Ryder, un Leonhardt. Come hai potuto compiere un  simile errore? Lasciami, te ne supplico, lasciami. Non vedi come  mi è odioso il pensiero di essere il tuo secondino? Peggio, di  essere per te una palla al piede? Lasciami, lasciami... - Improvvisamente, Hoffman si piegò in avanti, si portò il pugno  alla fronte e rifece il gesto che lo avevo visto provare quella  sera nel camerino. - Amore mio, amore mio, lasciami. La mia  posizione è diventata insostenibile. Questa sera la mia finzione  è stata smascherata. Ormai lo sanno tutti, persino i neonati. Da  oggi, ogni volta che mi vedranno correre di qui e di là tutto  indaffarato, sapranno che non ho niente, né talento, né  sensibilità, né finezza. Lasciami, lasciami. Sono un vbue, un bue, un bue!v  
  Hoffman ripeté il gesto, tenendo il gomito bizzarramente in  fuori mentre si batteva la fronte. Poi cadde in ginocchio e si  mise a piangere.   
  - $è andato tutto a rotoli, - mormorò tra i singhiozzi. - A  rotoli.   
  La signora Hoffman si era girata e osservava il marito con  attenzione. Non sembrava affatto stupita dello sfogo, e i suoi  occhi avevano un'espressione tenera, quasi nostalgica. Un po'  esitante, fece un passo, poi un altro, verso la sagoma accasciata  di Hoffman e allungò plano piano un braccio, come per sfiorargli  la testa. La sua mano indugiò per un secondo sopra di lui, senza  toccarlo, poi si ritrasse. Un attimo dopo la donna si era girata  ed era sparita in fondo al corridoio.   
  Hoffman continuò a singhiozzare, evidentemente ignaro del gesto  della moglie. Rimasi un momento a guardarlo, senza sapere che  cosa fare. Poi mi resi improvvisamente conto che mi aspettavano  in scena, e che ero già molto in ritardo. In un impeto di  commozione, mi ricordai che non avevo ancora trovato un solo  segno della presenza dei miei genitori nell'edificio. I miei  sentimenti per Hoffman, che fino a quel momento erano stati  prossimi alla compassione, cambiarono di colpo. Avvicinandomi a  lui, gli urlai nell'orecchio:   
  - Signor Hoffman, può anche darsi che sia riuscito a mandare a  rotoli la sua serata. Ma io non mi lascerò trascinare a fondo con  lei. Voglio presentarmi al pubblico e suonare. Farò del mio  meglio per riportare un po' di ordine in questo caos. Ma prima,  signor Hoffman, esigo che mi dica una volta per tutte che ne è  dei miei genitori.   
  Hoffman sollevò gli occhi e parve leggermente stupito di non  vedere più sua moglie. Poi, fissandomi con una punta di  irritazione, si alzò in piedi.  
  - E lei che cosa vuole? - mi domandò in tono esausto.   
  - I miei genitori, signor Hoffman. Dove sono? Mi aveva  assicurato che vi sareste occupati di loro. Eppure poco fa,  quando ho guardato, non erano tra il pubblico. Fra un attimo mi  presenterò in scena, e desidero che i miei genitori siano  comodamente sistemati al loro posto. Quindi, signor Hoffman,  esigo una risposta. Dove sono?   
  - I suoi genitori, signor Ryder? - Hoffman inspirò a fondo e si  passò una mano tra i capelli con aria stanca. - Deve chiedere  alla signorina Stratmann. $è lei che ha l'incarico di occuparsi  di loro. Io ho curato solo l'organizzazione generale della  serata. E dato che, come può vedere, ho fallito su tutta la  linea, non capisco come possa sperare di ottenere da me una  risposta alla sua domanda...   
  - Sì, sì, sì, - dissi, spazientendomi. - Allora dov'è la  signorina Stratmann?   
  Hoffman sospirò e indicò alle mie spalle. Girandomi, vidi che  dietro di me c'era una porta.   
  - La signorina Stratmann è lì dentro? - domandai seccamente.   
  Hoffman annuì, poi, barcollando verso la nicchia dove prima  c'era sua moglie, si guardò allo specchio.   
  Bussai energicamente alla porta. Non ottenendo risposta, mi voltai verso Hoffman pronto ad accusarlo. Il direttore  dell'albergo era chino sulla mensola della nicchia. Stavo per  ricominciare a sfogare su di lui la mia rabbia, quando  dall'interno udii una voce che mi diceva di entrare. Diedi un  ultimo sguardo alla figura ingobbita di Hoffman, poi aprii la  porta.  
u36.  
  L'ufficio ampio e moderno in cui mi trovai si distaccava  completamente dal resto dell'edificio. Era una specie di annesso,  costruito - così mi sembrò - tutto di vetro. Nella stanza non  c'era illuminazione artificiale, ma vidi che il giorno era  finalmente spuntato. Le prime tenui chiazze di sole sfioravano le  traballanti pile di documenti, le guide del telefono, le  cartelline e gli schedari sparpagliati sui tavoli. Nell'ufficio  c'erano tre scrivanie, ma in quel momento la signorina Stratmann  era l'unica persona presente.   
  Stava lavorando, e mi parve strano che avesse spento la luce,  perché il debole chiarore della stanza era appena sufficiente per  leggere o scrivere. L'unica spiegazione era che l'avesse spenta  momentaneamente per godersi lo spettacolo del sole che sorgeva in  lontananza, dietro gli alberi. Infatti, quando entrai, la  signorina Stratmann era seduta alla sua scrivania, con il  telefono in mano e lo sguardo perso oltre gli enormi pannelli di  vetro.   
  - Buon giorno, signor Ryder, - disse, girandosi verso di me. -  Sarò da lei fra un secondo -. Poi riprese a parlare al telefono:  - Sì, fra circa cinque minuti. Anche le salsicce. Bisogna  cominciare a friggerle al più presto. E non dimenticate la  frutta. Ormai dovrebbe essere pronta.   
  - Signorina Stratmann, - dissi, avanzando verso la scrivania, -  non me ne importa niente di quando dovete friggere le vostre  salsicce. Ci sono cose più urgenti.   
  La donna alzò gli occhi e ripeté: - Sarò da lei fra un secondo,  signor Ryder -. Poi ricominciò a parlare al telefono prendendo  appunti.   
  - Signorina Stratmann, - dissi, indurendo la voce, - devo  chiederle di posare quel telefono e di starmi a sentire.   
  - Resta in linea, - disse la signorina Stratmann al telefono. -  Mi è arrivato uno tra i piedi e devo occuparmi di lui. Mi libero  in un secondo -. Poi posò il ricevitore e mi fulminò con lo  sguardo. - Che cosa c'è, signor Ryder?   
  - Signorina Stratmann, - dissi, - la prima volta che ci siamo  visti ha promesso di tenermi pienamente informato su tutti gli  aspetti della mia visita. Di spiegarmi il programma e la natura  dei miei numerosi impegni. Credevo di potermi fidare di lei. Mi  spiace dover dire che si è dimostrata ben al di sotto delle mie  aspettative.   
  - Signor Ryder, non so a che cosa devo questa tirata. C'è  qualcosa in particolare che non la soddisfa?   
  - Tutto, signorina Stratmann. Non mi avete dato informazioni  importanti quando ne avevo bisogno. Non mi avete avvertito che il  mio programma era stato cambiato all'ultimo momento. Non mi avete  aiutato né assistito nei momenti cruciali. Con la conseguenza che  non ho potuto prepararmi come avrei voluto per il compito che mi  era stato affidato. Ciò nonostante, fra poco mi presenterò sul  palcoscenico e tenterò di salvare qualcosa di questa serata, che  per tutti voi si sta rivelando una catastrofe. Prima, però, ho  una semplice domanda da farle. Dove sono i miei genitori? Devono  essere arrivati da un pezzo su una carrozza a cavalli. Ma poco  fa, quando li ho cercati nell'auditorium, non li ho visti. Non  erano nei palchi né nelle prime file, quelle riservate alle personalità. Quindi glielo chiedo di nuovo, signorina Stratmann:  dove sono? Perché non vi siete presi cura di loro come avevate  promesso?   
  La signorina Stratmann mi studiò attentamente alla luce  dell'alba, poi sospirò.   
  - Signor Ryder, era da un po' che volevo affrontare questo  discorso con lei. Qualche mese fa, quando ci ha informati che i  suoi genitori avevano intenzione di visitare la nostra città, la  cosa ci ha fatto molto piacere. Tutti si sono rallegrati. Ma le  ricordo, signor Ryder, che è stato da lei, e da lei solo, che  abbiamo saputo dei loro progetti. Ebbene, negli ultimi tre  giorni, e oggi in particolare, ho fatto il possibile per scoprire  dov'erano. Ho ripetutamente telefonato all'aeroporto, alla  stazione ferroviaria, alle società di pullman, a tutti gli  alberghi della città, e non ho trovato traccia dei suoi genitori.  Nessuno li ha sentiti, nessuno li ha visti. Dunque, signor Ryder,  sono £io che chiedo a £lei: è sicuro che vengano?   
  Mentre la signorina Stratmann parlava, ero stato assalito dai  dubbi. Improvvisamente, qualcosa dentro di me cominciò a franare;  per nascondere il mio disagio, mi voltai dall'altra e guardai lo  spuntare del giorno.   
  - Be', - dissi infine, - ero sicurissimo che questa volta  sarebbero venuti.  
  - Era sicurissimo -. La signorina Stratmann, ovviamente ferita  nell'orgoglio professionale dalla mia lavata di capo, mi stava  fissando con sguardo accusatore. - Si rende conto, signor Ryder,  che tutti si sono fatti in quattro per l'arrivo dei suoi  genitori? La predisposizione dell'assistenza medica,  l'accoglienza, il cavallo e la carrozza. Un gruppo di signore ha  dedicato parecchie settimane a preparare un programma per  intrattenere i suoi genitori durante il loro soggiorno. E lei  dice che era sicurissimo che sarebbero venuti.   
  - Naturalmente, - dissi accennando una risata. - Non avrei mai  creato tutto questo trambusto se non ne fossi stato più che  convinto. Il fatto è... - di nuovo mi venne da ridere, - il fatto  è che ero sicuro che questa volta, finalmente, sarebbero venuti.  Non mi dirà che la mia era una supposizione irragionevole? In  fondo, ora sono al culmine delle mie capacità. Per quanto tempo  sarò ancora costretto a viaggiare in questo modo? $è ovvio che mi  spiace se ho causato disturbo a qualcuno inutilmente, ma vedrà  che non è così. I miei devono essere qui da qualche parte. Li ho  anche sentiti. Quando ho fermato la macchina nel bosco, ho  sentito arrivare il cavallo e la carrozza. Li ho sentiti, devono  essere qui, gliel'assicuro, non è poi così irragionevole...   
  Mi accasciai su una sedia e mi accorsi che stavo singhiozzando.  Di colpo, ricordai che le probabilità che i miei visitassero  quella città erano sempre state molto tenui. Non riuscivo a  capire come mi fossi potuto sentire così sicuro da esigere una  spiegazione prima da Hoffman, poi dalla signorina Stratmann, e  per giunta con quel tono. Continuai a singhiozzare per un po',  finché mi accorsi che la signorina Stratmann si era alzata in  piedi ed era venuta accanto a me.   
  - Signor Ryder, signor Ryder, - ripeteva gentilmente la donna.  Poi, quando riuscii a dominare le lacrime, aggiunse in tono  cordiale: - Signor Ryder. Forse nessuno gliel'ha mai detto. Ma  una volta, parecchi anni fa, i suoi sono venuti qui per davvero.   
  Smisi di singhiozzare e sollevai la testa per guardarla in  faccia. La signorina Stratmann mi sorrise, poi si avvicinò  lentamente alla vetrata e di nuovo contemplò l'alba.   
  - Probabilmente si erano presi una vacanza, - disse, con gli  occhi ancora lontani. - Arrivarono in treno e si fermarono due o  tre giorni a visitare la città. Come le dico, è passato molto tempo. Lei non era ancora celebre come adesso, ma non era certo  uno sconosciuto, e qualcuno, forse il personale dell'albergo,  chiese loro se fossero suoi parenti. Sa, stesso cognome, stessa  nazionalità. E così scoprimmo che quei due simpatici vecchietti  inglesi erano i suoi genitori. La notizia suscitò meno scalpore  di quanto ne susciterebbe oggi, ma i suoi furono trattati con  ogni riguardo. Poi, con il passare degli anni, la sua fama è  cresciuta, e la gente si è ricordata di quell'episodio, della  volta che i suoi genitori erano venuti qui. Personalmente, mi è  rimasto impresso molto poco della loro visita, perché ero  piccola. Ma ricordo che la gente ne parlava.   
  Osservai attentamente la sua schiena. - Signorina Stratmann,  non lo sta dicendo solo per consolarmi, vero?   
  - No, no, è tutto vero. Chieda conferma a chi vuole. Come le  dico, io ero solo una bambina, ma molti, qui in città, sarebbero  in grado di raccontarle tutto per filo e per segno. E poi, esiste  una documentazione completa.   
  - Ma sembravano felici? Ridevano insieme? Avevano l'aria di  godersi la vacanza?   
  - Sono sicura di sì, signor Ryder. Stando ai racconti, si sono  divertiti moltissimo. Tutti li ricordano come una coppia  piacevole. Sempre gentili e premurosi l'uno con l'altra.   
  - Ma... ma quello che voglio sapere, signorina Stratmann, è se  vi siete presi cura di loro. $è questo che mi interessa...  
  - Ma certo che ci siamo presi cura di loro. E le assicuro che  si sono divertiti. Sono stati felici per tutta la durata del  soggiorno.  
  - Come fa a ricordarselo? Mi ha detto lei stessa che allora era  una bambina.  
  - Le riferisco quello che dicono tutti.   
  - Se la cosa è vera, come mai nessuno me ne ha parlato prima?   
  La signorina Stratmann esitò un istante e si girò di nuovo  verso gli alberi e il sole nascente. - Non lo so, - disse  sottovoce, scuotendo la testa. - Non so perché. Ma ha ragione. La  gente ne parla poco, meno di quanto sarebbe logico aspettarsi. Ma  è così, gliel'assicuro. Ricordo tutto distintamente da quand'ero  bambina.   
  Dall'esterno giunsero i primi cori di uccelli. La signorina  Stratmann continuò a fissare gli alberi in lontananza, forse  ripensando ad altri ricordi d'infanzia. La osservai per un po',  poi dissi:   
  - E mi assicura che li avete trattati bene?   
  - Oh, sì, - disse la signorina Stratmann quasi in un bisbiglio,  con lo sguardo ancora distante. - Li abbiamo trattati benissimo.  Doveva essere primavera, e qui la primavera è incantevole. La  città vecchia, l'ha visto anche lei, è affascinante.  Probabilmente la gente, la gente comune che incontravano per  strada, indicava loro le cose da vedere. Gli edifici più  interessanti, il museo dei mestieri, i ponti. E quando i suoi  genitori si fermavano da qualche parte per un caffè o uno  spuntino e non sapevano che cosa ordinare, magari a causa di un  problema di lingua, il cameriere o la cameriera si facevano in  quattro per aiutarli. Oh sì, sono stati benone, qui da noi.   
  - Ha detto che sono arrivati in treno. Qualcuno li avrà aiutati  a portare le valigie?   
  - Oh, i facchini della stazione saranno corsi ad aiutarli.  Avranno portato tutti i bagagli fino al tassì. Poi se ne sarà  occupato il tassista. Avrà accompagnato i suoi genitori in  albergo, e tutto sarà finito lì. Sono sicura che non hanno dovuto  nemmeno preoccuparsi delle loro valigie.   
  - In albergo? Quale albergo?   
  - Un albergo molto confortevole, signor Ryder. Uno dei migliori di allora. Sicuramente i suoi genitori si sono trovati benissimo,  sin dal primo momento.   
  - Spero che non fosse troppo vicino alle strade principali. Mia  madre ha sempre odiato il rumore del traffico.  
  - Be', allora il traffico non era ancora un problema. Ricordo  che da bambine, in certe zone residenziali, potevamo saltare la  corda e giocare alla palla in mezzo alla strada. Oggi una cosa  del genere non sarebbe nemmeno pensabile! Sì, giocavamo spesso  così, anche per ore e ore. Ma per tornare alla sua domanda,  signor Ryder, - e qui la signorina Stratmann si girò verso di me  con un sorriso malinconico, - l'albergo dei suoi genitori era  molto lontano dal traffico. Un posto idilliaco. Oggi non esiste  più, ma se vuole le mostro una fotografia. Le farebbe piacere  vedere l'albergo dove sono stati i suoi genitori?   
  - Moltissimo, signorina Stratmann.   
  La donna sorrise di nuovo e attraversò la stanza dirigendosi  verso la scrivania. Pensai che stesse per aprire un cassetto, ma  all'ultimo momento cambiò rotta e si avvicinò alla parete di  fondo. Alzando il braccio, afferrò una corda e cominciò a  srotolare qualcosa che sulle prime presi per una carta nautica.  Poi vidi che si trattava invece di una gigantesca fotografia a  colori. La signorina Stratmann la tirò giù, finché l'avvolgitore  fece uno scatto e si bloccò. Poi tornò alla scrivania, accese la  lampada da tavolo e la puntò sulla fotografia, che arrivava quasi  al pavimento.   
  Per qualche istante tutti e due studiammo l'immagine in  silenzio. L'albergo assomigliava in piccolo a quei castelli da  fiaba che i re matti facevano costruire nel secolo scorso.  Sorgeva sul ciglio di una valle scoscesa, coperta di felci e di  fiori primaverili. La fotografia era stata scattata in un giorno  di sole dal versante opposto della valle, e apparteneva a quel  genere di tranquille composizioni che si addicono alle cartoline  e ai calendari.   
  - Credo che i suoi genitori stessero in questa stanza, - sentii  che diceva la signorina Stratmann. Aveva tirato fuori una  bacchetta e mi stava indicando una finestra su una delle torrette  dell'albergo. - Dovevano avere una vista magnifica, non le  sembra?   
  - Sì, ha ragione.   
  La signorina Stratmann abbassò la bacchetta, ma io continuai a  fissare la finestra, cercando di immaginarne la vista. Mia madre,  soprattutto, doveva averla apprezzata. Ne avrebbe tratto grande  consolazione anche se le fosse capitata una di quelle giornate  storte che la costringevano a letto. Avrebbe osservato la brezza  soffiare sulla valle, disturbando le felci e il fogliame degli  alberi contorti che si arrampicavano sulle pendici opposte. Le  sarebbe piaciuta anche l'ampia distesa di cielo visibile dalla  stanza. Poi, proprio in primo piano - nell'angolino di destra -  notai un tratto della strada collinare da cui presumibilmente era  stata scattata la fotografia. Fui quasi sicuro che mia madre,  dalla sua camera, vedesse anche la strada. Era quindi probabile  che avesse avuto modo di osservare da lontano qualche scena di  vita locale. Il saltuario passaggio di una macchina o del furgone  del droghiere, forse persino un carro tirato da un cavallo; di  tanto in tanto un trattore, o qualche bambino in gita.  Sicuramente queste visioni l'avevano molto rallegrata.   
  Alla fine, mentre continuavo a guardare la finestra,  ricominciai a piangere, anche se non più come prima, in maniera  incontrollata. Le lacrime mi salivano agli occhi e mi rigavano il  volto con regolarità. La signorina Stratmann se ne accorse, ma  questa volta non reputò necessario consolarmi. Mi sorrise  gentilmente e si girò di nuovo verso la fotografia.  
  Un improvviso colpo alla porta mi fece sobbalzare. Anche la  signorina Stratmann sussultò. Poi disse: - Mi scusi, signor  Ryder, - e andò ad aprire.   
  Girandomi sulla sedia, vidi entrare un individuo in uniforme  bianca che si tirava dietro un carrello per le vivande. L'uomo  lasciò il carrello a cavallo della soglia, in modo da puntellare  la porta e tenerla aperta, poi guardò fuori della vetrata.   
  - Sarà una bella giornata, - disse, rivolgendoci a turno un  sorriso. - Le ho portato la colazione, signorina. Vuole che  gliela metta su quella scrivania?  
  - La colazione? - La signorina Stratmann pareva disorientata. -  Dovrebbe essere servita non prima di un'altra mezz'ora.   
  - Il signor von Winterstein ha ordinato di cominciare subito,  signorina. E secondo me ha ragione. A quest'ora la gente ha  bisogno di fare colazione.   
  - Ah -. La signorina Stratmann non sembrava ancora convinta e  mi guardò come in cerca di consiglio. Poi domandò al cameriere: -  Sta andando tutto bene là fuori?   
  - Oh, adesso sì, signorina. Naturalmente, dopo che il signor  Brodsky è svenuto, c'è stato un po' di panico, ma adesso la gente  è contenta e beata. Vede, poco fa il signor von Winterstein ha  tenuto un bel discorso nel foyer, parlando del magnifico retaggio  di questa città, di tutte le cose di cui dobbiamo essere  orgogliosi. Ha citato i risultati conseguiti nel corso degli  anni; ha sottolineato gli spaventosi problemi che assillano le  altre città e di cui noi non abbiamo mai dovuto preoccuparci. Era  quel che ci voleva, signorina. Mi è dispiaciuto che lei non ci  fosse. Quel discorso ci ha fatto sentire fieri di noi stessi e  della nostra città, e adesso tutti sono beati. Guardi, c'è già  qualcuno -. L'uomo indicò la vetrata, ed effettivamente, nella  debole luce esterna, intravidi parecchie figure che passeggiavano  sull'erba guardandosi intorno in cerca di un posto per sedersi,  ben attente a non rovesciare il piatto che avevano in mano.   
  - Scusatemi, - dissi, alzandomi in piedi. - Devo andare a  suonare, altrimenti farò tardi. Signorina Stratmann, le sono  molto riconoscente. Per le sue attenzioni e per tutto il resto.  Ma adesso la prego di scusarmi.   
  Senza aspettare una risposta, sgusciai tra il carrello della  colazione e lo stipite della porta e uscii in corridoio.  
37.  
  La pallida luce del mattino stava diffondendosi nella penombra  del corridoio. Diedi un'occhiata alla nicchia dove avevo lasciato  Hoffman, ma il direttore non c'era più. Mi affrettai in direzione  dell'auditorium e ripassai accanto ai quadri con la cornice  dorata. A un certo punto incontrai un altro cameriere munito di  carrello della colazione che si era chinato per bussare a una  porta, ma per il resto il corridoio era deserto.   
  Continuai a camminare a passo svelto, cercando l'uscita di  sicurezza che mi aveva portato in quel corridoio. Sentivo un  incontenibile bisogno di mettermi subito a suonare. Mi rendevo  conto che le delusioni di poc'anzi non diminuivano affatto le mie  responsabilità nei confronti di tutti coloro che aspettavano da  settimane il momento in cui mi sarei finalmente seduto al  pianoforte. In altre parole, era mio dovere suonare in maniera  degna di me. Altrimenti - ne ebbi improvvisamente la certezza -  si sarebbe aperta una strana porta oltre la quale sarei  precipitato in uno spazio buio e sconosciuto.   
  Dopo un po' non riconobbi più il corridoio. La tappezzeria era  diventata blu scuro, al posto dei quadri c'erano fotografie  firmate. Capii di avere oltrepassato la mia porta, ma, vedendo  che poco più avanti ce n'era un'altra assai più imponente con la scritta «Palcoscenico», decisi di entrare di lì.   
  Per qualche istante brancolai nel buio, poi mi trovai di nuovo  tra le quinte. Vidi il pianoforte in mezzo al palcoscenico vuoto,  fiocamente illuminato dall'alto da un paio di luci. Vidi anche  che il sipario era ancora chiuso e mi feci avanti  silenziosamente.   
  Diedi un'occhiata al punto in cui era caduto Brodsky, ma non  erano rimasti segni. Poi mi girai a guardare il pianoforte,  incerto sul da farsi. Forse, se mi fossi seduto sullo sgabello e  avessi semplicemente cominciato a suonare, i tecnici avrebbero  avuto il buon senso di aprire il sipario e di accendere i  riflettori. Ma c'era il rischio - nessuno poteva sapere che cosa  fosse successo - che i tecnici avessero abbandonato il loro  posto, nel qual caso il sipario non si sarebbe nemmeno aperto.  Inoltre, l'ultima volta che avevo visto la sala, gli spettatori  erano in piedi e chiacchieravano imperterriti. La soluzione  migliore, conclusi, era quella di sgusciare tra le tende del  sipario per annunciarmi, in modo da dare a tutti - tanto al  pubblico quanto ai tecnici - la possibilità di prepararsi. Mi  studiai rapidamente un discorsetto, poi, senza altro indugio, mi  avvicinai al sipario e scostai i pesanti tendoni.   
  Mi aspettavo di trovare un certo disordine in sala, ma ciò che  vidi mi colse completamente alla sprovvista. Non solo non c'era  più traccia del pubblico, ma erano sparite persino le poltrone.  Sulle prime pensai che ci fosse un qualche marchingegno, una  semplice leva da tirare, per far rientrare tutti i sedili nel  pavimento - in modo che l'auditorium potesse trasformarsi in  salone da ballo o che so io - poi ricordai l'età dell'edificio e  la cosa mi parve assai improbabile. L'unica spiegazione era che  le poltrone, del tipo impilabile, fossero state sgombrate per  prevenire gli incendi. Fatto sta che davanti a me, adesso, c'era  un immenso spazio buio e vuoto. Le luci erano spente, ma qui e là  nel soffitto c'erano delle grandi aperture rettangolari, dalle  quali la luce del giorno scendeva in pallide colonne sul  pavimento.   
  Scrutando nella penombra, mi parve di scorgere un gruppetto di  persone proprio in fondo alla sala. Sembravano impegnate in una  discussione - forse erano i macchinisti teatrali che stavano  finendo di mettere in ordine - poi udii l'eco dei passi di una di  loro che si allontanava.   
  Rimasi li sul proscenio a chiedermi che cosa dovessi fare.  Evidentemente, mi ero trattenuto nell'ufficio della signorina  Stratmann più a lungo di quanto avessi pensato - forse  addirittura un'ora - e il pubblico aveva abbandonato ogni  speranza di vedermi comparire. Tuttavia, se si fosse fatto un  annuncio, gli invitati sarebbero tornati in sala nel giro di  pochi minuti. E anche se non c'erano più le poltrone, non vedevo  per quale motivo non avrei potuto tenere un concerto più che  soddisfacente. Non era chiaro, però, dove fosse finita tutta la  gente, e mi resi conto che per prima cosa dovevo trovare Hoffman,  o il nuovo responsabile, per discutere con lui la prossima mossa.   
  Scesi dal palcoscenico e mi incamminai attraverso la sala, ma  non ero nemmeno a metà strada che già cominciai a sentirmi  disorientato dall'oscurità. Deviai leggermente, puntando verso la  colonna di luce più vicina, e in quel momento una sagoma mi passò  davanti sfiorandomi.   
  - Oh, mi scusi, - disse la persona.   
  Riconobbi la voce di Stephan e dissi: - Ciao. Almeno tu ci sei  ancora.   
  - Oh, signor Ryder. Mi spiace, non l'avevo vista -. Sembrava  stanco e demoralizzato.   
  - Dovresti essere più allegro, - gli dissi. - Hai suonato benissimo. Il pubblico era profondamente commosso.   
  - Sì. Sì, credo di avere ricevuto una buona accoglienza.   
  - Be', congratulazioni. Dopo tante fatiche, deve essere una  bella soddisfazione.   
  - Sì, immagino di sì.  
  Ci incamminammo nell'oscurità, l'uno di fianco all'altro. I  fasci di luce che scendevano dal soffitto rendevano, se  possibile, ancora più difficile vedere dove stavamo andando, ma  Stephan dava l'impressione di conoscere la strada.   
  - Sa, signor Ryder, - disse il giovane dopo un momento. - Le  sono davvero riconoscente. Ha saputo incoraggiarmi in maniera  meravigliosa. Ma la verità è che questa notte ho tradito le  attese. Le mie, se non altro. Certo, il pubblico mi ha dato una  mano, ma solo perché non si aspettava nulla di speciale. In  realtà, so che la strada è ancora lunga. I miei genitori hanno  ragione.   
  - I tuoi genitori? Santo cielo, smettila di preoccuparti di  loro.   
  - No, no, signor Ryder, lei non capisce. I miei genitori sono  estremamente esigenti. Le persone che erano qui questa notte,  be', sono state molto gentili, ma in realtà non sanno gran che di  queste cose. Hanno visto un ragazzo del posto che suonava  abbastanza bene e si sono entusiasmate. Ma io voglio essere  valutato in termini assoluti. E so che anche i miei genitori la  pensano così. Ho preso una decisione, signor Ryder. Me ne vado.  Ho bisogno di un ambiente meno soffocante, ho bisogno di studiare  sotto qualcuno come Lubetkin o Peruzzi. Ho capito che qui, in  questa città, non riuscirò mai ad arrivare dove voglio. Pensi  solo a come mi hanno applaudito dopo un'esecuzione di Passioni di vetro che, in fondo, era piuttosto ordinaria. Questo le dice tutto. Prima non me ne rendevo conto, ma credo di potermi  definire un pesce grosso in uno stagno troppo piccolo. Ho bisogno  di andare via per un po'. Per vedere di che cosa sono veramente  capace.   
  Stavamo ancora camminando, e i nostri passi riecheggiavano  nell'auditorium. Dopo un momento dissi:   
  - Potrebbe essere una decisione saggia. Anzi, hai sicuramente  ragione. Il fatto di trasferirti in una città più grande, di  porti traguardi più difficili, non potrà che giovarti. Ma devi  scegliere bene i tuoi maestri. Se vuoi, provo a pensarci e vedo  se posso organizzarti qualcosa.   
  - Signor Ryder, le sarei grato per l'eternità. Sì, ho bisogno  di sapere fin dove posso arrivare. Poi un giorno tornerò qui e  farò vedere a tutti qual è il £vero modo di suonare Passioni di vetro -. Stephan proruppe in una risata, ma si capiva che era ancora tutt'altro che allegro.   
  - Sei un ragazzo dotato. Hai la vita davanti a te. Non dovresti  abbatterti a questo modo.   
  - Ha ragione. Ma forse sono un po' spaventato. Prima di questa  notte non mi ero reso conto di quanto fosse ancora alta la  montagna che devo scalare. Lei lo troverà molto divertente, ma si  figuri che con il concerto di questa notte mi illudevo di essere  arrivato. Ecco che cosa succede a vivere in un posto come questo.  Si comincia a pensare in piccolo. Sì, pensavo che il concerto di  questa sera fosse lo scopo della mia vita! Lo vede com'erano  ridicole le mie convinzioni fino a oggi? I miei genitori hanno  perfettamente ragione. Ho ancora moltissimo da imparare.   
  - I tuoi genitori? Senti, se vuoi un consiglio, dimenticati di  loro per un po'. Non capisco proprio come possano...   
  - Oh, eccoci. Mi segua -. Eravamo arrivati davanti a un vano  nel muro, e Stephan stava scostando la tenda che lo chiudeva.   
  - Scusa, ma dove si va di qui?  
  - Al conservatorio. Oh, non gliene hanno mai parlato? $è molto  famoso. $è stato costruito un centinaio di anni dopo il palazzo  dei concerti, ma ormai è quasi altrettanto celebre. Sono tutti lì  a fare colazione.   
  Ci trovammo in un corridoio con una lunga fila di finestre su  uno dei lati. Attraverso la più vicina vidi il cielo azzurro  pallido del mattino.   
  - Tra l'altro, - dissi, mentre riprendevamo a camminare, - mi  chiedevo che fine ha fatto il signor Brodsky. $è... è passato a  miglior vita?   
  - Il signor Brodsky? Oh, no, sono sicuro che se la caverà.  L'hanno portato da qualche parte. Mi sembra alla Clinica St'  Nicholas.   
  - La Clinica St' Nicholas?  
  - $è un ospedale dove ricoverano la gente spiantata. Poco fa,  nel conservatorio, la gente ne parlava e diceva, be', è il posto  che fa per lui, lì almeno sanno come affrontare il suo problema.  Se vuole saperlo, sono proprio indignato. Anzi, in confidenza, le  dirò che questo è uno dei motivi per cui ho deciso di andarmene  di qui. Secondo me, il concerto del signor Brodsky è la cosa  migliore che si sia sentita in questo palazzo da molti molti anni  a questa parte. Sicuramente da quando sono in grado di apprezzare  la musica. E invece ha visto anche lei che cosa è successo. Non  hanno voluto saperne, si sono spaventati. Il signor Brodsky li ha  messi davanti a una musica molto più impegnativa di quella che si  aspettavano. E quando è crollato a terra svenuto tutti hanno  tirato un respiro di sollievo. E adesso si rendono conto di  volere qualcos'altro. Qualcosa di un po' meno estremo.   
  - Magari qualcosa di non molto diverso dal signor Christoff.   
  Stephan rifletté sulla mia osservazione. - Non molto, ma un po'  sì. Un nuovo nome, almeno. Ormai hanno capito che il signor  Christoff non è una cima. Vogliono qualcosa di £un po' meglio. Ma  non... non £questo.  
  Attraverso i vetri delle finestre vedevo un grande prato e il  sole che spuntava in lontananza dietro una fila di alberi.   
  - Che cosa pensi che ne sarà del signor Brodsky? - domandai.   
  - Il signor Brodsky? Oh, tornerà a essere quello di sempre.  Finirà i suoi giorni come l'ubriacone della città, immagino.  Sicuramente non gli daranno molta scelta, non dopo questa sera.  Come le dico, l'hanno portato alla Clinica St' Nicholas. Io sono  cresciuto qui, signor Ryder, e amo ancora la mia città. Ma in  questo momento non vedo l'ora di andarmene.   
  - Forse dovrei provare a dire qualcosa. Parlare al pubblico nel  conservatorio. Dire due parole sul signor Brodsky. Aprire gli  occhi alla gente.   
  Stephan rifletté per qualche passo, poi scosse la testa.   
  - Non ne vale la pena, signor Ryder.   
  - Ma questa storia mi disgusta non meno di quanto disgusti te.  E poi, non si sa mai. Forse se glielo dicessi io...   
  - Non credo proprio, signor Ryder. Ormai non ascolteranno  nemmeno lei. Non dopo ciò che ha fatto il signor Brodsky. Il suo  concerto ha riportato a galla tutte le loro paure. E poi, nel  conservatorio non c'è un microfono; non c'è niente, nemmeno un  palco su cui salire per parlare. Non riuscirebbe mai a farsi  sentire in quel bailamme. Vede, la sala è piuttosto grande,  grande quasi come l'auditorium. Da un angolo all'altro saranno...  be', anche se si attenesse rigidamente alla diagonale, abbattendo  i tavoli e gli invitati che le intralciano la strada, sarebbero  ancora almeno cinquanta metri. Vedrà con i suoi occhi quant'è  grande. Se fossi in lei, signor Ryder, mi rilasserei e mi godrei  la colazione. In fondo, deve cominciare a pensare a Helsinki.   
  Il conservatorio, effettivamente, era un salone gigantesco, inondato in quel momento dal sole del mattino. Dappertutto c'era  gente che chiacchierava allegramente, in parte seduta ai tavoli,  in parte in piedi, divisa in gruppetti. C'era chi beveva caffè o  succo di frutta, chi invece mangiava da piatti o scodelle. Mentre  avanzavamo attraverso la folla, il mio naso colse di volta in  volta profumo di pane fresco, di crocchette di pesce, di pancetta  affumicata. I camerieri sfrecciavano da una parte all'altra  portando piatti e caraffe di caffè. Intorno a me era tutto un  incrociarsi di saluti festosi, e notai che l'atmosfera della sala  ricordava molto quella di una rimpatriata. Eppure quelle persone  si vedevano tutti i santi giorni. Evidentemente gli avvenimenti  della notte avevano provocato un profondo rivolgimento nel loro  modo di giudicare se stessi e la loro comunità, e adesso, per  qualche ragione, tutti sentivano il bisogno di festeggiarsi a  vicenda.   
  Capii che Stephan aveva ragione. Era inutile tentare di parlare  a quella folla, e ancora più inutile sperare di convincerla a  tornare nell'auditorium per sentirmi suonare il pianoforte.  Improvvisamente stanco e affamato, decisi di sedermi e di fare  colazione anch'io. Quando mi guardai intorno, però, non vidi  sedie libere. Stephan, tra l'altro, non era più al mio fianco;  era stato fermato da un gruppo di persone di un tavolo che  avevamo appena passato. Vidi che veniva accolto con calore, e  pensai che probabilmente mi avrebbe presentato. Ma il giovane si  mise a chiacchierare dimentico di tutto, e presto anche lui fu  contagiato dall'allegria generale.   
  Decisi di lasciarlo dov'era e proseguii attraverso la folla.  Pensavo che prima o poi un cameriere mi avrebbe visto e sarebbe  accorso con un piatto e una tazza di caffè, o magari per  accompagnarmi a un tavolo. Ma i pochi camerieri che mi venivano  incontro mi scartavano all'ultimo momento, e ogni volta mi  toccava guardarli mentre servivano qualcun altro.   
  Dopo un po' mi accorsi di essere vicino all'ingresso principale  del conservatorio. Le porte erano state spalancate, e molti  ospiti si erano riversati sul prato. Feci qualche passo  all'aperto e fui stupito dalla temperatura gelida dell'aria.  Anche qui la gente chiacchierava a gruppetti, bevendo e mangiando  in piedi. C'era chi stava girato con la faccia al sole, chi  invece passeggiava per sgranchirsi le gambe. Un gruppetto si era  persino seduto sull'erba bagnata, sparpagliando tutto intorno  piatti e caffettiere come per un picnic.   
  Non lontano da me scorsi un cameriere chino su un carrello  portavivande. Sempre più affamato, mi diressi verso di lui. Stavo  per toccarlo sulla spalla, quando l'uomo si girò e scappò via con  le braccia cariche di piatti, lasciandomi con una fuggevole  visione di uova strapazzate, salsicce, funghi e pomodori. Lo  seguii con gli occhi mentre si allontanava di corsa, poi decisi  che non mi sarei mosso dal carrello fino a quando non fosse  tornato.   
  Mentre aspettavo e mi guardavo intorno, mi resi conto che mi  ero preoccupato inutilmente di non essere capace di soddisfare le  esigenze di questa città. Come sempre, la mia esperienza e il mio  intuito erano stati più che sufficienti a trarmi dagli impicci.  Certo, ero un po' deluso per l'andamento della serata; ma,  ripensandoci, capii che il mio era un sentimento ingiusto. In  fondo, se una comunità riusciva a trovare una forma di equilibrio  senza bisogno di farsi guidare da un estraneo, tanto di  guadagnato.   
  Visto che dopo parecchi minuti - durante i quali fui tormentato  dai profumini che si levavano dai vari scaldavivande del carrello  - il cameriere non era ancora tornato, pensai che potevo  benissimo servirmi da solo. Avevo già preso un piatto, e stavo per chinarmi a cercare le posate sul piano inferiore, quando mi  accorsi che alle mie spalle si era radunato un gruppetto di  persone. Girandomi, mi trovai davanti i facchini.   
  Così, di primo acchito, mi parve che ci fossero tutti quelli -  all'incirca una dozzina - che avevo visto al capezzale di Gustav.  Quando mi voltai, parecchi abbassarono gli occhi, altri invece  continuarono a fissarmi intensamente.   
  - Santo cielo, - dissi, cercando di non dare a vedere che avevo  intenzione di riempirmi il piatto. - Santo cielo, che cosa è  successo? Stavo proprio per venire a chiedervi notizie di Gustav.  Pensavo che ormai fosse in ospedale, cioè in buone mani. Vi  assicuro che sarei venuto non appena... - Mi fermai, vedendo  l'espressione addolorata del loro volto.   
  Il facchino barbuto fece un passo avanti e tossicchiò  impacciato. - Gustav è spirato mezz'ora fa, signor Ryder. Negli  ultimi anni aveva avuto qualche problema di salute, ma era molto  robusto, quindi non ce l'aspettavamo. No, non ce l'aspettavamo  proprio.   
  - Mi spiace moltissimo -. Scoprii che la notizia mi rattristava  per davvero. - Sì, mi spiace moltissimo. E grazie, grazie a tutti  voi, di essere venuti subito a dirmelo. Come sapete, conoscevo  Gustav solo da pochi giorni, ma era stato gentilissimo con me. Mi  aveva portato le valigie e via dicendo.  
  Vedevo che i facchini fissavano il loro collega barbuto come  per incitarlo a dire qualcosa. L'uomo respirò a fondo.   
  - Naturalmente, signor Ryder, - disse, - siamo corsi a cercarla  perché sapevamo che le avrebbe fatto piacere essere informato  subito. Ma anche... - Il facchino abbassò improvvisamente lo  sguardo. - Ma anche perché... ecco, vede, signor Ryder, prima di  spirare, Gustav continuava a chiederci. Voleva sapere se lei  aveva già fatto il suo discorso. Sa, il discorsetto in nostro  favore, signor Ryder. Fino all'ultimo istante ha insistito per  avere notizie.   
  Adesso tutti i facchini avevano abbassato gli occhi e  aspettavano in silenzio la mia risposta.   
  - Ah, - dissi. - Allora non sapete ancora che cosa è successo  nell'auditorium.   
  - Siamo stati con Gustav fino a un attimo fa, - disse il  facchino barbuto. - L'hanno appena portato via. Deve perdonarci,  signor Ryder. $è stato molto maleducato da parte nostra non  presenziare al suo discorso, soprattutto se ha avuto la bontà di  ricordarsi della piccola promessa che ci aveva fatto...   
  - Sentite, - lo interruppi gentilmente, - le cose sono andate  in maniera molto diversa dal previsto. Mi stupisce che non  l'abbiate saputo, anche se effettivamente, viste le  circostanze... - Feci una pausa, poi, inspirando a fondo,  aggiunsi con voce più ferma: - Mi spiace, ma purtroppo ci sono  state parecchie cose, e non solo il discorsetto che mi ero  preparato per voi, che non sono andate secondo i piani.   
  - Quindi, signor Ryder, ci sta dicendo... - Il facchino barbuto  non finì la frase e chinò il capo deluso. A uno a uno, anche i  suoi colleghi, che mi stavano fissando, abbassarono gli occhi.  Poi un facchino in fondo al gruppo gridò in tono quasi rabbioso:   
  - Gustav continuava a chiedercelo. Ce l'ha chiesto fino  all'ultimo istante. «Ancora nessuna notizia del signor Ryder?»  Così ci chiedeva.  
  I suoi colleghi si affrettarono a calmarlo, poi vi fu un lungo  momento di silenzio. Alla fine il facchino barbuto, senza alzare  lo sguardo dall'erba, disse:   
  - Non importa. Continueremo la nostra battaglia, come prima.  Anzi, cercheremo di superarci. Non tradiremo Gustav. Ci è sempre  stato di esempio, e anche se adesso non c'è più le cose non cambieranno. Sappiamo che la nostra strada è in salita, lo è  sempre stata, e da oggi non sarà certo più facile. Ma non  rinunceremo ai nostri principî, mai. Ci ricorderemo di Gustav e  stringeremo i denti. Certo, il suo discorsetto, signor Ryder,  avrebbe potuto... insomma, ci avrebbe aiutati, su questo non ci  sono dubbi. Ma se lei non ha ritenuto opportuno...   
  - Sentite, - dissi, cominciando a perdere la pazienza, - presto  scoprirete anche voi come sono andate le cose. Davvero, mi  stupisce che non vi siate presi la briga di informarvi dei  problemi ben più gravi della vostra comunità. E poi, si direbbe  che non vi rendiate minimamente conto del tipo di vita che  faccio. Delle enormi responsabilità che ricadono su di me. In  questo momento, invece di stare qui a parlare con voi, dovrei  pensare ai miei prossimi impegni di Helsinki. Se non tutto è  andato come speravate, mi spiace. Ma non avete alcun diritto di  venire a seccarmi con queste storie...   
  Le parole mi si spensero sulle labbra. In lontananza, alla mia  destra, c'era un viottolo che dal palazzo dei concerti portava  nel bosco circostante. Da un po' vedevo un rivolo di gente  emergere dall'edificio e sparire dietro gli alberi, e avevo  immaginato che gli invitati stessero tornando a casa per riposare  un paio d'ore prima di cominciare la giornata. Ma ora, in mezzo  alla folla, avevo scorto Sophie e Boris. Camminavano a passo  svelto lungo il viottolo. Il bambino teneva di nuovo un braccio  intorno alla madre, come per sorreggerla; per il resto, chi li  avesse guardati di sfuggita non avrebbe mai sospettato la loro  angoscia. Cercai di vedere l'espressione del loro volto, ma erano  troppo lontani; e un attimo dopo anche loro svanirono dietro gli  alberi.   
  - Mi spiace, - dissi un po' più gentilmente, girandomi verso i  facchini, - ma adesso devo andare.   
  - Non rinunceremo ai nostri principî, - ripeté sottovoce il  facchino barbuto. Guardava ancora per terra. - Un giorno  vinceremo la nostra battaglia. Vedrà.   
  - Scusatemi.   
  Mentre stavo per andarmene, il cameriere tornò di corsa e  spinse via i vecchi facchini per avvicinarsi al suo carrello.  Ricordandomi del piatto che tenevo ancora nascosto dietro la  schiena, glielo sbattei in mano.  
  - Questa mattina il servizio fa schifo, - dissi gelidamente,  poi scappai via. 
38.  
  Il viottolo tagliava il bosco in linea retta, per cui potevo  spaziare con lo sguardo fino all'alto cancello di ferro che  sorgeva all'altra estremità. Sophie e Boris avevano già fatto un  notevole tratto di strada, e dopo qualche minuto, sebbene  camminassi più in fretta che potevo, mi accorsi che la distanza  che ci separava era rimasta quasi immutata. Tra l'altro, ero  continuamente intralciato da un gruppo di ragazzi che camminavano  davanti a me; ogni volta che cercavo di superarli, acceleravano  il passo, oppure si allargavano bloccando il viottolo. Alla fine,  quando vidi che Sophie e Boris stavano per raggiungere il  cancello, mi misi a correre e li spinsi da parte, senza più  preoccuparmi delle apparenze.   
  Superato il gruppo di ragazzi, continuai a passo veloce, ma  quando Sophie e Boris varcarono il cancello io non ero ancora  nemmeno a tiro di voce. Arrivai al cancello senza fiato e fui  costretto a fermarmi.   
  Il viottolo sbucava su un viale vicino al cuore della città. Il  sole del mattino illuminava il marciapiede opposto. I negozi  erano ancora chiusi, ma in giro c'era già parecchia gente, probabilmente diretta al lavoro. Poi, alla mia sinistra, vidi una  fila di persone che salivano su un tram. In fondo alla coda  c'erano Sophie e Boris. Mi avviai da quella parte, ma il tram  doveva essere più lontano di quanto pensassi, perché, pur  camminando a passo svelto, lo raggiunsi solo quando tutti erano  già a bordo e la vettura stava per ripartire. Gesticolando  freneticamente, riuscii a fermare il conducente e a salire  anch'io.   
  Mentre il tram si rimetteva in moto con uno scossone, avanzai  barcollando lungo il corridoio. Ero così a corto di fiato che  quasi non mi accorsi che la vettura era semivuota, e solo quando  mi lasciai cadere su un sedile verso il fondo mi resi conto che  dovevo avere oltrepassato Sophie e Boris. Ancora ansimante, mi  sporsi di lato ed esaminai il corridoio.  
  La vettura era divisa in due parti, nettamente separate  dall'uscita centrale. In quella anteriore, i sedili erano  disposti in due lunghe file contrapposte. Scorsi Sophie e Boris  seduti l'uno accanto all'altra sul lato al sole, non lontano  dalla cabina del conducente. La mia visuale era ostacolata da  alcuni passeggeri che erano rimasti in piedi accanto all'uscita e  si tenevano alle cinghie. Mentre provavo a sporgermi di più,  l'uomo seduto davanti a me - nella nostra metà della carrozza i  sedili erano messi di traverso e si fronteggiavano a due a due -  si batté la mano sulla coscia e disse:   
  - A quanto pare avremo un'altra giornata di sole.   
  I suoi vestiti, anche se modesti, erano in ordine. Portava un  giubbotto con la cerniera lampo, e immaginai che fosse un operaio  specializzato, magari un elettricista. Abbozzai un sorriso, e lui  cominciò a raccontarmi qualcosa a proposito di una casa in cui  lui e i suoi colleghi lavoravano ormai da parecchi giorni. Lo  ascoltai distrattamente, ricordandomi di tanto in tanto di  sorridergli o di fare qualche verso d'assenso. Nel frattempo i  passeggeri si alzavano in piedi e si accalcavano davanti  all'uscita sempre più numerosi, nascondendomi Sophie e Boris.   
  Poi il tram si fermò, la gente scese, e la mia visuale  migliorò. Boris, composto come sempre, teneva una mano sulla  spalla di Sophie e guardava gli altri passeggeri sospettosamente,  come se rappresentassero una minaccia per sua madre. Il volto di  Sophie era ancora nascosto, ma a intervalli di pochi secondi la  vedevo fare un gesto irritato con la mano, come per scacciare un  insetto che le svolazzava intorno.   
  Stavo per cambiare di nuovo posizione per vedere meglio, quando  mi accorsi che l'elettricista, non so come, si era messo a  parlare dei suoi genitori. Mi stava dicendo che ormai avevano  superato tutti e due gli ottanta, e che lui cercava di andarli a  trovare ogni giorno, anche se gli impegni di lavoro rendevano la  cosa sempre più difficile. Di colpo mi balenò un pensiero e lo  interruppi:   
  - Mi scusi, a proposito di genitori, mi hanno detto che qualche  anno fa i miei sono venuti qui, in questa città. Sa, come  turisti. Deve essere passato molto tempo, ormai. La persona che  me l'ha raccontato era ancora una bambina, e purtroppo non se li  ricorda molto bene. Quindi, visto che si parlava di genitori e  che lei, be', non per essere maleducato, ma deve avere passato da  un pezzo la cinquantina, mi chiedevo se per caso non ricorda  qualcosa della loro visita.   
  - Può darsi, - disse l'elettricista. - Ma deve descrivermeli.   
  - Be', mia madre è una donna piuttosto alta. Capelli scuri  lunghi fino alle spalle. Naso un po' aquilino. Quest'ultimo le dà  un'aria arcigna anche quando non vorrebbe.   
  L'elettricista rifletté per un momento, guardando la città che  scorreva fuori del finestrino. - Sì, - disse, annuendo. - Sì, mi sembra di ricordare una signora fatta così. Si è fermata pochi  giorni. Andava in giro a visitare monumenti e cose del genere.   
  - Sì, sì. Allora se la ricorda?   
  - Sì, aveva l'aria simpatica. Ma sarà stato, oh, almeno tredici  o quattordici anni fa. Se non di più.   
  Annuii con entusiasmo. - Quadra con quello che mi ha raccontato  la signorina Stratmann. Sì, quella donna era mia madre. Mi dica,  le è sembrato che si trovasse bene?   
  L'elettricista si concentrò, poi disse: - Da quel che ricordo,  mi sembra che il posto le piacesse, sì. Anzi, - aggiunse, notando  il mio sguardo preoccupato, - anzi, ne sono £sicuro -. Poi si  sporse in avanti e mi batté gentilmente sul ginocchio. - Sono  sicurissimo che si è trovata bene. Non potrebbe essere  altrimenti, no? Ci pensi un momento.   
  - Forse ha ragione, - dissi, girandomi verso il finestrino. Il  sole stava spostandosi attraverso il tram. - Sì, forse ha  ragione. Solo che... - Emisi un profondo sospiro. - Solo che  vorrei averlo saputo allora. Vorrei che qualcuno si fosse dato la  briga di informarmi. E mio padre? Le è sembrato contento anche  lui?   
  - Suo padre? Hhm -. L'elettricista incrociò le braccia e  corrugò la fronte.   
  - Doveva essere già piuttosto magro, - dissi. - Capelli grigi.  Aveva una giacca che portava sempre. Di tweed verde chiaro, con  le toppe di pelle sui gomiti.   
  L'elettricista continuò a pensare. Alla fine scosse il capo. -  Mi spiace. Non posso dire di ricordare suo padre.   
  - Ma non è possibile. La signorina Stratmann mi ha assicurato  che i miei genitori sono venuti qui insieme.   
  - Sono sicuro che le ha detto la verità. Ma io personalmente  non ricordo suo padre. Sua madre, sì. Ma suo padre... - E di  nuovo scosse la testa.   
  - Ma è ridicolo! Che cosa ci sarebbe venuta a fare mia madre  qui da sola?   
  - Non sto dicendo che suo padre non c'era. Dico solo che non lo  ricordo. Senta, non si agiti così. Se l'avessi immaginato, non  sarei stato così sincero. Ho una pessima memoria, sa. Lo dicono  tutti. Non più tardi di ieri ho lasciato la cassetta degli  attrezzi a casa di mio cognato, dove ero andato a pranzare. Ho  perso quaranta minuti per tornare a prenderla. La mia cassetta  degli attrezzi! - L'elettricista scoppiò a ridere. - Lo vede? Ho  una pessima memoria. Sono l'ultima persona cui bisogna chiedere  una cosa così importante. Di sicuro, suo padre era qui con sua  madre. Soprattutto se anche altri le hanno detto così. Davvero,  sono l'ultima persona al mondo di cui bisogna fidarsi.   
  Ma io avevo smesso di ascoltarlo e guardavo di nuovo la metà  anteriore della carrozza, dove Boris aveva finalmente ceduto alla  commozione. Si era lasciato abbracciare dalla madre e aveva le  spalle scosse dai singhiozzi. Improvvisamente, tutto il resto mi  parve privo di importanza, e volli solo correre da lui.  Mormorando una scusa frettolosa all'elettricista, mi alzai e mi  avviai lungo il corridoio.   
  Avevo quasi raggiunto Sophie e Boris, quando il tram svoltò  bruscamente, e io fui costretto ad aggrapparmi a un palo per non  cadere. Quando li guardai di nuovo, mi resi conto che non si  erano accorti di me, sebbene ormai fossi vicinissimo a loro. Se  ne stavano avvinghiati l'uno all'altra, con gli occhi chiusi.  Sulle loro braccia e sulle loro spalle passavano fuggevoli  chiazze di sole. In quel modo di consolarsi a vicenda c'era  qualcosa di così intimo che sul momento mi parve impossibile  qualsiasi intromissione, persino da parte mia. Guardandoli,  cominciai a provare - nonostante la loro evidente angoscia - una strana sensazione d'invidia. Mi avvicinai ancora, finché mi parve  di palpare la consistenza del loro abbraccio.   
  Finalmente Sophie aprì gli occhi e, mentre il bambino  continuava a singhiozzarle contro il petto, mi guardò con volto  impassibile.   
  - Mi dispiace, - dissi. - Mi dispiace moltissimo per tutto. Ho  saputo di tuo padre solo un attimo fa. E naturalmente vi sono  subito corso dietro...   
  Nella sua espressione c'era qualcosa che mi costrinse a  fermarmi. Sophie mi fissò gelidamente ancora per qualche istante,  poi disse con voce stanca:   
  - Lasciaci in pace. Ti sei sempre tenuto al di fuori del nostro  amore. E guarda adesso. Sei al di fuori anche del nostro dolore.  Lasciaci in pace. Vattene.   
  Boris si staccò da Sophie e si girò a guardarmi. Poi disse a  sua madre: - No, no. Dobbiamo restare insieme.   
  Sophie scosse il capo. - No, lascialo perdere, Boris. Lascia  che se ne vada per il mondo a dispensare la sua competenza e la  sua saggezza. Ne ha bisogno. Lasciamoglielo fare.  
  Boris, smarrito, fissò prima me poi sua madre. Mi parve sul  punto di dire qualcosa, ma in quel momento Sophie scattò in  piedi.   
  - Muoviti, Boris. Dobbiamo scendere. Boris, muoviti.   
  Il tram rallentò, e parecchi passeggeri si alzarono. Un paio di  persone mi passarono davanti spingendomi, poi anche Sophie e  Boris s'infilarono nel corridoio. Ancora aggrappato al mio palo,  vidi Boris allontanarsi verso l'uscita. A un certo punto il  bambino si voltò a guardarmi e disse:   
  - Ma dobbiamo restare insieme. A tutti i costi.   
  Poi vidi dietro di lui la faccia di Sophie che mi fissava con  strano distacco, e udii la sua voce dire:   
  - Non sarà mai uno di noi. Devi cercare di capirlo, Boris. Non  ti amerà mai come un vero padre.   
  Altri passeggeri mi spinsero per passarmi davanti. Alzai una  mano nell'aria.   
  - Boris! - chiamai.   
  Il bambino, opponendosi al flusso della gente, si girò ancora  una volta verso di me.   
  - Boris! La gita in autobus, te la ricordi? La gita in autobus  al lago artificiale. Ti ricordi com'è stato bello? Tutti erano  gentili con noi. Ci facevano regalini, cantavano. Ti ricordi,  Boris?   
  I passeggeri avevano cominciato a scendere. Boris mi lanciò un  ultimo sguardo, poi sparì. Altre persone si fecero largo a  spintoni, poi il tram ripartì.   
  Dopo un momento mi girai e tornai al mio posto. Mentre mi  risedevo davanti a lui, l'elettricista mi sorrise allegramente.  Poi lo vidi chinarsi in avanti e battermi su una spalla, e solo  allora mi accorsi che stavo piangendo.   
  - Sa, - mi disse l'uomo, - sul momento ci si dispera. Ma poi  passa, il diavolo non è mai brutto come lo si dipinge. Su con il  morale -. L'elettricista continuò a blaterare per un po', mentre  io singhiozzavo. Poi lo udii dire: - Senta, perché non fa  colazione. Mangi qualcosa anche lei. Vedrà che si sentirà subito  meglio. Su. Vada a servirsi.   
  Alzai gli occhi e vidi che in grembo aveva un piatto con un  croissant mordicchiato e una piccola noce di burro. Le sue  ginocchia erano coperte di briciole.   
  - Oh, - dissi, drizzando la schiena e ritrovando la mia  compostezza. - Dove ha preso quella roba?   
  L'elettricista indicò un punto alle mie spalle. Girandomi, vidi  un gruppo di passeggeri che faceva ressa proprio in fondo al tram, dove era stato allestito un buffet. Notai che la metà  posteriore della carrozza si era molto affollata, e che intorno a  me tutti i passeggeri mangiavano e bevevano. La colazione  dell'elettricista era modesta in confronto a quella di altri.  Vidi parecchie persone che si facevano largo nella calca con  grandi piatti di uova, pancetta, pomodori e salsicce.   
  - Su, - ripeté l'elettricista. - Vada a prendersi anche lei  qualcosa da mangiare. Poi parleremo dei suoi guai. O se  preferisce, ci dimenticheremo di questa storia e parleremo di  quello che le farà più piacere, purché la tenga allegro. Che so,  di calcio, o di cinema. Quel che vuole. Ma prima deve fare  colazione. Ha l'aria di uno che non mangia da un pezzo.   
  - Ha ragione, - dissi. - Ora che ci penso, non metto niente  sotto i denti da un bel po'. Ma mi dica, per piacere. Dove va  questo tram? Io devo tornare in albergo a fare le valigie. Sa,  questa mattina ho un volo per Helsinki. Devo tornare subito in  albergo.   
  - Oh, il tram la porterà più o meno dove vuole. Questo è il  così detto circuito del mattino. Poi c'è anche il circuito  serale. Due volte al giorno il tram fa il giro dell'intera città.  Oh, sì, con questo tram può andare da per tutto. E lo stesso la  sera, anche se la sera c'è un'atmosfera molto diversa. Oh, sì.  Questo è un tram meraviglioso.   
  - Fantastico. Allora, mi scusi. Credo che seguirò il suo  consiglio e andrò a fare colazione. Ha proprio ragione. Al solo  pensiero mi sento meglio.   
  - Così mi piace, - disse l'elettricista, sollevando il  croissant in segno di saluto.   
  Mi alzai e mi diressi verso il fondo della carrozza, dove fui  accolto dagli effluvi del cibo. C'erano parecchie persone che si  stavano servendo, ma sbirciando sopra le loro spalle vidi un  grande tavolo semicircolare proprio contro il finestrino  posteriore del tram. Il buffet offriva praticamente tutto quel  che si poteva desiderare: uova strapazzate, uova fritte, carni  fredde e affettati, patate saltate in padella, funghi, pomodori  cotti. Vidi anche un largo vassoio di aringhe arrotolate e altri  bocconcini di pesce, due grandi cestini di croissant e diversi  tipi di pane, una ciotola di vetro piena di frutta fresca,  numerose caraffe di caffè e succhi di frutta. Tutti sembravano  ansiosi di servirsi, ma intorno al buffet l'atmosfera era  cordialissima; la gente si passava le cose chiacchierando  allegramente.   
  Mentre prendevo un piatto, alzai gli occhi. Attraverso il  finestrino posteriore vidi le strade della città che si  allontanavano, mi sentii risollevare lo spirito. Le cose, in  fondo, non erano andate così male. Nonostante le delusioni  riservatemi da questa città, non c'era dubbio che la mia presenza  fosse stata grandemente apprezzata - come in tutti gli altri  posti in cui ero stato fino a quel momento. E ora, mentre la mia  visita era agli sgoccioli, eccomi davanti a un buffet veramente  straordinario, che mi offriva tutto ciò che avrei potuto  desiderare per colazione. I croissant, in particolare, sembravano  invitanti. Anzi, dal modo in cui i passeggeri, un po' in tutta la  vettura, li divoravano, si capiva che erano freschissimi e di  ottima qualità. D'altronde, non c'era nulla di ciò che avevo  sotto gli occhi che non fosse a dir poco allettante.   
  Cominciai a prendere un po' di tutto. E, mentre mi servivo, mi  immaginai di nuovo seduto al mio posto, intento a chiacchierare  piacevolmente con l'elettricista. Tra un boccone e l'altro avrei  guardato fuori, rimirando le strade immerse nella luce del  mattino. Per molti aspetti l'elettricista era un interlocutore  ideale. Non c'era dubbio che fosse una persona di animo gentile, ma nello stesso tempo stava ben attento a non diventare  invadente. Lo guardai. Stava ancora mangiando il suo croissant,  ed evidentemente non aveva nessuna fretta di scendere dal tram.  Anzi, sembrava intenzionato a restare seduto dov'era ancora per  un bel po'. E sicuramente, se la conversazione fosse stata  piacevole - visto che il tram compiva un percorso circolare -  avrebbe rimandato il momento di scendere, aspettando di ripassare  davanti alla sua fermata. Anche il buffet era chiaramente  destinato a durare a lungo, e di tanto in tanto avremmo potuto  interrompere la conversazione per riempire di nuovo i piatti.  Immaginavo già che ci saremmo incitati a vicenda. «Su! Ancora una  salsiccia! Mi dia il suo piatto, gliela prendo io». Saremmo  rimasti seduti l'uno di fronte all'altro, mangiando e  scambiandoci opinioni sul calcio e su tutto ciò che ci sarebbe  passato per la testa, mentre fuori il sole sarebbe salito sempre  più in alto in cielo, illuminando le strade e il nostro lato  della carrozza. E solo alla fine, dopo avere riempito per bene la  pancia ed esaurito gli argomenti di conversazione, l'elettricista  avrebbe dato un'occhiata all'orologio e, con un sospiro, mi  avrebbe fatto notare che presto saremmo passati di nuovo davanti  alla fermata del mio albergo. Anch'io avrei sospirato, poi, un  po' riluttante, mi sarei alzato in piedi e mi sarei scosso le  briciole dal grembo. Ci saremmo stretti la mano e augurati una  buona giornata - anche lui, così mi avrebbe detto, doveva  scendere di lì a poco - poi mi sarei unito all'allegra brigata in  attesa davanti all'uscita. Forse, mentre il tram si fermava,  avrei fatto ancora un cenno di saluto all'elettricista; poi sarei  sceso, sicuro di poter guardare agli impegni di Helsinki con  orgoglio e ottimismo.  
  Riempii quasi fino all'orlo la tazza del caffè. Poi, tenendo la  tazza in una mano e il piatto stracolmo nell'altra, mi girai per  tornare al mio posto. 
 
Fine