giovedì 2 maggio 2024

IL CENTENARIO CHE SALTÒ DALLA FINESTRA E SCOMPARVE di Jonas Jonasson



 

IL CENTENARIO CHE SALTÒ  DALLA FINESTRA E SCOMPARVE 

di Jonas Jonasson


Recensione 
Quando me lo regalarono tanti anni fa non mi decidevo a leggerlo...la copertina mi disturbava...il vecchietto in pigiama rosa da maialino. Pensavo fosse un libro di bassa categoria, tipo quelli suggeriti da Novella 2000..lnvece il racconto surreale ci insegna che la vita val la pena viverla con leggerezza. Agli scandinavi riescono bene gialli e i libri stralunati. Sarà che la poca luce ed il freddo conciliano lettura e scrittura e la bevuta corroborante fa correre la fantasia? Un racconto di grande fantasia che ci fa ripercorrere cento anni di storia insieme a un centenario in fuga che quella storia non solo l'ha vissuta di persona ma l'ha addirittura "forgiata". 
Insomma, se volete sapere cosa si provi a cenare con Stalin, come si faccia a scappare da un gulag con il fratello di Einstein o cosa significhi avere amico Truman, non dovete far altro che dare una possibilità al vecchietto con il costume rosa e leggere le sue esilaranti avventure

IL CENTENARIO CHE SALTÒ DALLA FINESTRA E SCOMPARVE
Nessuno ci sapeva stregare meglio di mio nonno materno quando, seduto sulla panchina di legno e chino sul bastone, raccontava le sue storie masticando tabacco.
“Ma… è vero, nonno?” chiedevamo stupiti noi nipoti.
“Quelli che dicono soltanto la verità non sono degni di essere ascoltati,” rispondeva il nonno.
Questo libro è dedicato a lui.

 CAPITOLO 1

Lunedì 2 maggio 2005

Di certo Allan Karlsson avrebbe potuto pensarci prima e, magari, comunicare agli interessati la sua decisione. In effetti non aveva mai riflettuto troppo sulle cose. Ecco perché quell’idea non ebbe neanche il tempo di fissarsi nella sua testa che già aveva aperto la finestra della stanza al pianterreno della casa di riposo di Malmköping, nel Sörmland, per poi sgusciare fuori e atterrare nell’aiuola sottostante. La manovra richiedeva un certo fegato, dal momento che Allan compiva cent’anni proprio quel giorno. Solo un’ora dopo nella sala comune della casa di riposo avrebbero avuto inizio i festeggiamenti. Sarebbe stato presente persino il segretario comunale. E l’inviata del giornale locale. E tutti gli ospiti dell’ospizio. E tutto il personale, capitanato dalla ringhiosa e arcigna infermiera Alice. Soltanto il festeggiato non aveva la benché minima intenzione di partecipare.

CAPITOLO 2

Lunedì 2 maggio 2005

Ancora incerto sul da farsi, Allan Karlsson se ne stava seduto nell’aiuola di viole del pensiero che correva lungo uno dei lati della casa di riposo. Indossava una giacca marrone e pantaloni dello stesso colore, ai piedi un paio di pantofole sempre marroni. Non si poteva dire che seguisse la moda, ma a quell’età si trattava senz’altro di un fatto perdonabile. Stava fuggendo dalla sua festa di compleanno – evento di per sé straordinario, dato che non capita a tutti di arrivare a cent’anni.

Allan stava meditando se tornare o meno a scavalcare la finestra per prendere scarpe e cappello, ma quando si accorse che il portafoglio era al suo posto, nella tasca interna della giacca, desistette. In più occasioni l’infermiera Alice aveva mostrato di possedere un certo fiuto (indipendentemente da dove Allan nascondesse l’acquavite, per esempio, lei la trovava sempre). E magari proprio in quel momento si stava aggirando per l’edificio già piena di sospetti…

Meglio sparire finché era in tempo, pensò Allan prima di abbandonare l’aiuola sulle ginocchia malferme. Nel portafoglio, per quanto riuscisse a ricordare, aveva alcune banconote da cento corone, i suoi risparmi. Bene! Sparire avrebbe comportato qualche spesa.

Guardandosi alle spalle, lanciò un’occhiata in direzione dello stabile che fino a un attimo prima aveva considerato la sua ultima dimora, dopodiché si disse che sarebbe morto da qualche altra parte.

Con ai piedi le sue pantofole pisciose (quando urinano, gli uomini d’età avanzata raramente riescono a raggiungere un punto che vada più in là delle proprie scarpe), il vecchio si incamminò per la sua strada. Oltrepassò un parco e uno spiazzo all’interno del piccolo centro abitato, normalmente silenzioso e tranquillo, dove a giorni alterni si teneva il mercato. Dopo qualche centinaio di metri entrò nell’area che circondava la chiesetta medievale, orgoglio della cittadina, per poi raggiungere una panchina posta nel bel mezzo delle lapidi e riposarsi le ginocchia. La sacralità del luogo non era tale da impedire ad Allan di starsene in pace sulla panchina. Ironia della sorte, scoprì di essere nato lo stesso giorno di un certo Henning Algotsson, sepolto sotto la pietra tombale lì di fronte. La differenza consisteva nel fatto che il povero Henning era spirato sessantun anni prima.

Se fosse stato il tipo, Allan si sarebbe chiesto il perché di una morte così prematura, a soli trentanove anni, ma in realtà era uno che non si impicciava degli affari altrui, non quando poteva farne a meno, cosa che accadeva quasi sempre.

Si mise invece a riflettere su un’altra questione: aveva sbagliato a pensare che l’unica alternativa fosse finire i suoi giorni in quella casa di riposo. Benché avesse qualche acciacco, sarebbe stato molto più istruttivo sfuggire alle grinfie dell’infermiera Alice che stare lì in attesa di giacere lungo stecchito sotto due metri di terra.

A questo punto il festeggiato si alzò, e sfidando le ginocchia doloranti si congedò da Henning Algotsson per riprendere la sua fuga improvvisata.

Attraversò il cimitero finché non si ritrovò davanti un muretto in pietra che gli sbarrava la strada. Non era più alto di un metro, ma Allan aveva cent’anni e non era un campione di salto. Al di là del muretto c’era la stazione dei pullman di Malmköping, e in quell’istante Allan realizzò che le sue gambe lo stavano conducendo proprio lì. Una volta, molti anni prima, aveva attraversato l’Himalaya. Quella sì che era stata un’impresa! Immaginò di trovarsi di fronte all’ultimo ostacolo e si concentrò a tal punto che il muretto rimpicciolì davanti ai suoi occhi, fin quasi a scomparire. Individuato il punto più basso, a dispetto dell’età e delle ginocchia, lo scavalcò. Raramente c’era ressa a Malmköping e quella giornata di primavera non faceva eccezione. Non aveva ancora incontrato anima viva dal momento in cui aveva preso la sua decisione. Anche la sala d’attesa della stazione era mezzo deserta quando ci arrivò strascicando le pantofole. Al centro della stanza, l’una contro l’altra, c’erano due file di panchine dotate di schienale. Tutti i sedili erano vuoti. Sul lato destro della stanza c’erano due sportelli: uno era chiuso, mentre dietro l’altro sedeva un tipo piccolo e magro con un paio di occhialetti tondi, capelli radi con la riga di lato e l’uniforme. Quando Allan fece la sua apparizione, l’omino alzò lo sguardo dallo schermo del computer con espressione afflitta. Forse gli pesava il caos pomeridiano, pensò Allan, rendendosi conto di non essere l’unico viaggiatore nella sala. In un angolo c’era un giovane dalla corporatura esile, i capelli lunghi, biondi e unti, la barba incolta e un giubbotto di jeans con la scritta “Never Again” sulla schiena. Magari non sapeva leggere, visto che continuava a scuotere la porta del gabinetto per disabili come se il termine “Chiuso”, a caratteri neri su sfondo giallo fosforescente, non avesse per lui alcun significato.

Finalmente il giovane si dedicò alla porta accanto, anche se il problema adesso era un altro: non voleva separarsi da una grossa valigia grigia con le rotelle, ma purtroppo il gabinetto non era grande abbastanza per entrambi. Allan arguì che il giovane avrebbe dovuto lasciare il bagaglio all’esterno se intendeva dare sfogo ai suoi bisogni corporali, oppure spingere dentro la valigia e rimanere fuori lui.

Tuttavia, concentrato com’era a muovere le sue povere gambe, non era poi così interessato alle questioni del giovane. A piccoli passi si diresse verso l’omino dietro lo sportello, per chiedere se ci fosse un mezzo di qualsiasi tipo in partenza per una qualunque destinazione nei minuti successivi, e se c’era quanto costava.

L’omino aveva un’aria stanca. E doveva anche aver perso il filo del discorso, perché dopo qualche secondo di riflessione chiese:

“E verso quale meta è diretto il signore?”

Con rinnovato slancio, Allan gli ricordò che la scelta della destinazione era subordinata a: 1) orario di partenza; 2) costo del biglietto.

L’omino rimase in silenzio qualche altro secondo, mentre studiava la tabella degli orari e lasciava sedimentare le parole di Allan.

“Il pullman numero 202 parte per Strängnäs fra tre minuti. Le va bene?”8

Sì, ad Allan andava bene. Così, fu informato che il veicolo sarebbe partito dalla piazzola lì di fronte e che la cosa migliore sarebbe stata acquistare il biglietto dal conducente.

Allan si domandò cosa ci stesse a fare l’omino allo sportello se non per vendere biglietti, ma non disse niente. Magari se lo domandava anche lui. Invece lo ringraziò, facendo il gesto di sollevare il cappello che nella fretta aveva lasciato in stanza.

Si accomodò quindi su una panchina, sprofondando nei suoi pensieri: la dannata festa di compleanno sarebbe iniziata alle tre e mancavano solo dodici minuti. In qualsiasi momento avrebbero potuto bussare alla sua porta e da lì in poi sarebbe scoppiato il finimondo.

Il festeggiato rideva tra sé quando con la coda dell’occhio si accorse che qualcuno si stava avvicinando. Era il giovane dalla corporatura esile, i capelli lunghi, biondi e unti, la barba incolta e un giubbotto di jeans con la scritta “Never Again” sulla schiena. Si stava dirigendo proprio verso di lui, trascinando la grossa valigia con le rotelle. Allan concluse che il rischio di dover conversare con il capellone era notevole, tuttavia la cosa avrebbe anche potuto risultare interessante: si sarebbe fatto un’idea del modo di ragionare dei ragazzi d’oggi.

In effetti un dialogo ebbe luogo, e nemmeno così complesso. Il giovane, dopo essersi fermato a qualche metro di distanza da Allan, sembrò studiarlo prima di dire:

“Senti un po’.”

Allan rispose educatamente con un buongiorno e chiese in che modo potesse essergli d’aiuto. Ecco. Il giovane voleva che gli tenesse d’occhio la valigia mentre andava al gabinetto. O, stando alle sue parole:

“Devo andare a cagare.”

Allan rispose educatamente che, nonostante fosse vecchio e malandato, la vista gli funzionava bene, pertanto non reputava troppo impegnativo dare un’occhiata alla valigia. Detto questo, lo esortò a espletare i propri bisogni con una certa celerità dal momento che lui era in attesa del pullman.

Evidentemente il giovane non recepì le ultime parole, visto che si mosse a passi svelti verso il gabinetto mentre Allan stava ancora parlando.

Il vecchio non era uno che si irritava con facilità, che ce ne fosse o meno motivo, dunque non si irritò neanche davanti al rozzo comportamento del giovane. Perse però la buona disposizione, cosa che avrebbe avuto parecchia importanza in vista di ciò che doveva accadere di lì a poco.

Ciò che accadde fu che il pullman numero 202 fece la sua comparsa pochi secondi dopo che il giovane si era richiuso alle spalle la porta del gabinetto. Allan diede un’occhiata prima al pullman, poi alla valigia, poi di nuovo al pullman e poi ancora una volta alla valigia.

“A quanto pare ha le rotelle,” constatò. “E anche una cinghia per tirarla.”

Così Allan si sorprese a prendere – e qui lo si può ben dire – una decisione di capitale importanza.

Il conducente del pullman, premuroso e gentile, aiutò l’anziano signore a caricare la sua grossa valigia.

Dopo averlo ringraziato, Allan estrasse il portafoglio dalla tasca interna della giacca. Il conducente gli chiese se intendeva andare fino a Strängnäs, mentre Allan passava in rassegna le proprie sostanze: seicentocinquanta corone svedesi in banconote, più qualche moneta. Pensando che fosse il caso di tenere da conto i suoi pochi averi, mostrò al conducente un biglietto da cinquanta corone e chiese:

“Con questi fino a dove posso arrivare?”

Divertito, il conducente rispose che di solito le persone sapevano dove volevano andare, non dove sarebbero potute arrivare con i soldi che avevano in tasca. In ogni modo, dopo aver consultato la sua tabella, gli comunicò che con quarantotto corone poteva arrivare fino alla stazione di Byringe.

Al vecchio la proposta parve buona. Ebbe il suo biglietto, nonché due corone di resto. Il conducente sistemò la valigia appena rubata nel vano bagagli dietro la postazione di guida. Allan andò a sedersi in prima fila sul lato destro. Da lì riusciva a vedere la sala d’attesa. La porta del gabinetto era ancora chiusa quando il conducente del pullman, ingranata la marcia, partì. Allan si augurò che il giovane avesse trascorso nel gabinetto un momento felice, vista la sorpresa che lo attendeva.

Quel pomeriggio il pullman diretto a Strängnäs era tutt’altro che affollato. Sul fondo sedeva una donna di mezz’età salita a Flen, al centro c’era una giovane madre che a Solberga aveva sudato sette camicie per introdursi nel veicolo con i due figli, uno dei quali ancora in carrozzina, mentre davanti c’era un uomo molto vecchio partito da Malmköping, che si stava giusto chiedendo la ragione per cui aveva appena rubato una grossa valigia grigia dotata di quattro rotelle. Forse perché non gli era costato niente? O forse perché il proprietario era uno zotico e un villano? O, ancora, perché la valigia poteva contenere un paio di scarpe e, chissà mai, anche un cappello? O forse perché non aveva niente da perdere? No, Allan non era in grado di darsi una spiegazione. Di tanto in tanto bisognava prendersi qualche libertà – ecco quello che pensò prima di mettersi comodo.

Alle tre il pullman superò Björndammen. Allan si disse che fino a quel momento poteva ritenersi decisamente soddisfatto della giornata. Chiuse gli occhi per schiacciare un pisolino.

Nello stesso istante l’infermiera Alice bussò alla porta della camera numero 1 della casa di riposo di Malmköping. Più e più volte.

“Adesso basta, Allan. Il segretario comunale e tutti gli altri sono già arrivati. Mi senti? Ti sei attaccato di nuovo alla bottiglia per caso? Ora vedi di uscire, Allan! Allan?”

Più o meno contemporaneamente, alla stazione di Malm­köping si apriva la porta di quello che si sperava fosse un gabinetto funzionante, da cui il giovane uscì più leggero in tutti i sensi. Aggiustandosi la cintura con una mano e lisciandosi i capelli con l’altra, fece qualche passo verso il centro della sala d’attesa. Poi si fermò di colpo e, realizzato che tutti i sedili erano vuoti, tornò a passarli in rassegna prima a destra e poi a sinistra. A quel punto esclamò ad alta voce:

“Ma che cazzo, brutto stronzo bastardo fottuto…”

Quindi proseguì:

“Ti ammazzo, vecchiaccio di merda. Aspetta solo che ti metta le mani addosso.”

CAPITOLO 3

Lunedì 2 maggio 2005


Il 2 maggio, passate da poco le tre del pomeriggio, a Malm­köping svanì la quiete: situazione che si sarebbe protratta per parecchi giorni. L’infermiera Alice, sfumata la rabbia e assalita dall’inquietudine, tirò fuori il passepartout. Dal momento che Allan non aveva fatto nulla per nascondere la sua fuga, fu immediatamente chiaro che il festeggiato se l’era svignata dalla finestra. A giudicare dalle impronte, prima di dileguarsi era rimasto fermo per un po’ in un punto dell’aiuola.


In virtù del suo ruolo, il segretario comunale si sentì in dovere di assumere il comando delle operazioni. Ordinò ai presenti di dividersi in coppie e dare il via alle ricerche. Allan non poteva essersi allontanato molto, indi per cui le squadre dovevano concentrarsi sui dintorni. Una squadra fu inviata al parco, una al Monopolio di Stato per la vendita di alcolici (l’infermiera Alice sapeva che ogni tanto Allan si smarriva là dentro), un’altra nei restanti negozi di Storgatan e un’altra ancora al podere sulla collina. Il segretario comunale sarebbe rimasto alla casa di riposo per badare agli altri vecchi e meditare sulle mosse successive. Chiese a tutti coloro che avevano preso parte alle ricerche di essere discreti: non era necessario pubblicizzare inutilmente l’accaduto. In tutto quel trambusto, il segretario comunale non si rese però conto che una delle squadre appena costituite era formata da un’inviata del giornale locale e dal suo fotografo.




La stazione dei pullman non rientrava nelle aree indicate dal segretario comunale. Eppure una squadra investigativa si trovava anche lì: era composta da un solo elemento, nella fattispecie un giovane dalla corporatura esile, i capelli lunghi, biondi e unti, la barba incolta e un giubbotto di jeans con la scritta “Never Again” sulla schiena, che aveva passato al setaccio ogni angolo della stazione. Visto che era risultato impossibile scovare sia il vecchio sia la valigia, il giovane si diresse deciso verso l’omino dietro lo sportello ancora aperto con l’intento di estorcergli informazioni sui piani di viaggio dell’anziano.


L’omino, palesemente stanco ma intenzionato a tenere alto l’orgoglio della categoria, spiegò al giovane sbraitante che la privacy dei viaggiatori di quella stazione non era cosa su cui scherzare. Aggiunse deciso che non aveva alcuna intenzione di fornire all’interessato le informazioni che lui richiedeva con tanta insistenza.


Il giovane rimase in silenzio per un attimo, con l’aria di stare valutando le parole appena sentite. Quindi si spostò sulla sinistra, piazzandosi davanti alla porta non troppo robusta dell’ufficio. Senza curarsi di verificare se fosse chiusa a chiave o meno, prese lo slancio per abbatterla con un calcio. L’impatto fu tale che schegge di legno si sparsero per ogni dove. L’omino non ebbe neanche il tempo di alzare la cornetta del telefono che si ritrovò a dimenare le gambe ad alcuni centimetri dal suolo, mentre il giovane lo teneva sollevato di peso per le orecchie.


“Forse non saprò cosa è la privacy, ma so far parlare la gente,” disse il giovane mollando di colpo la presa e facendo ricadere il malcapitato sulla sua sedia girevole.


Vedendo di non tralasciare alcun dettaglio, si mise dunque a spiegare ciò che intendeva fare con i suoi attributi in caso di disobbedienza. La descrizione risultò così vivida che l’omino decise su due piedi di spifferare tutto quello che sapeva, e cioè che probabilmente il vecchio era salito sul pullman diretto a Strängnäs. Se poi avesse con sé una valigia, lui non era in grado di dirlo, dal momento che non era tipo da spiare i viaggiatori.


Detto questo, l’omino rimase in silenzio in attesa di una qualche reazione da parte del giovane, e subito arrivò alla conclusione che sarebbe stato meglio fornire ulteriori dettagli. Comunicò quindi che lungo il tragitto tra Malmköping e Strängnäs c’erano dodici fermate e il vecchio sarebbe potuto scendere a una qualsiasi di queste. L’unico in grado di saperlo era il conducente del pullman, che secondo la tabella degli orari sarebbe rientrato a Malmköping alle 19,10 della sera stessa per la corsa di ritorno per Flen.


Il giovane si sedette accanto al malcapitato con le orecchie doloranti.


“Devo riflettere,” disse.


E così fece. L’omino avrebbe di certo scucito anche il numero di cellulare del conducente, e l’avrebbe chiamato seduta stante per dirgli che la valigia che il vecchio si portava appresso era rubata. Il rischio, però, era che il conducente si mettesse in contatto con la polizia, cosa che il giovane non voleva nella maniera più assoluta. E poi, a ben pensarci, non c’era alcuna fretta: il vecchio sembrava davvero in là con gli anni, e con quel bagaglio sarebbe stato costretto a spostarsi in treno, autobus o taxi se intendeva proseguire il viaggio oltre la stazione di Strängnäs. Di conseguenza, avrebbe lasciato parecchie tracce del suo passaggio: insomma, il giovane avrebbe senz’altro trovato qualcuno che, sollevato di peso per le orecchie, gli indicasse dove si era diretto il vecchio. Il giovane riponeva grande fiducia nella propria capacità di persuadere la gente a raccontargli ciò che sapeva.


Finito di riflettere, stabilì di aspettare il pullman e affrontare il conducente senza eccessiva condiscendenza.


Presa questa decisione, si rialzò informando l’omino di cosa sarebbe successo a lui, a sua moglie, ai suoi figli e alla sua casa se avesse fatto menzione dell’accaduto alla polizia o a qualsiasi altra persona.


L’omino non aveva né moglie né figli, ma desiderava ardentemente conservare in buone condizioni sia le orecchie sia gli attributi. Quindi giurò sull’onore delle Ferrovie che non avrebbe rivelato nulla a nessuno.


Mantenne la promessa fino al giorno dopo.




Le squadre mandate in perlustrazione rientrarono alla casa di riposo per riferire quanto avevano scoperto. Cioè niente. Il segretario comunale, che fosse stato per lui non avrebbe mai chiamato la polizia, stava ancora rimuginando sul da farsi quando l’inviata del giornale locale gli chiese:


“Adesso cosa pensa di fare, segretario comunale?”


Questi rimase muto per qualche secondo, poi disse:


“Interpellare la polizia, chiaro.”


Dio, come odiava la libertà di stampa.




Allan fu svegliato dal conducente che, scuotendolo con garbo, lo avvisò che erano arrivati alla stazione di Byringe. Un attimo dopo stava scaricando la valigia dalla porta anteriore, con Allan alle calcagna.


Il conducente chiese se il signore se la sarebbe cavata da solo, domanda a cui l’interessato rispose che non doveva preoccuparsi. Dopo averlo ringraziato, Allan lo salutò con un gesto della mano e il pullman riprese la statale 55 verso Strängnäs.


Il sole del pomeriggio trapelava attraverso gli alti abeti. Allan cominciava a sentire freddo, con addosso soltanto la giacchetta leggera e le pantofole. E di Byringe nessuna traccia, a parte la stazione. C’erano boschi, boschi e nient’altro che boschi. E, sulla destra, una stradina sterrata.


Allan pensò che nella valigia della quale, in preda alla fretta e alla smania di combinarne una delle sue, si era appropriato potevano esserci dei vestiti più pesanti. Ma era chiusa con un lucchetto, e senza un cacciavite o qualsiasi altro attrezzo era impossibile forzarlo. Doveva muoversi o sarebbe morto di freddo lungo la strada. L’esperienza gli diceva che tanto non ci sarebbe riuscito.


Tirandola per la cinghia posizionata su uno dei due lati corti, la valigia con le rotelle si mise in movimento. Quindi, con passi strascicati, Allan imboccò la stradina sterrata che si addentrava nel bosco. Dietro di lui, la valigia avanzava sobbalzando a destra e a sinistra sul pietriccio.


Dopo qualche centinaio di metri Allan giunse a quella che, come poté intuire, era la stazione di Byringe: un edificio fatiscente e abbandonato davanti a dei binari ancora più fatiscenti e abbandonati.


Per quanto Allan fosse uno splendido centenario, erano avvenute troppe cose in troppo poco tempo. Si sedette sulla valigia intenzionato a raccogliere forze e pensieri: alla sua sinistra si ergeva l’edificio a due piani della stazione, cadente e malmesso. Le finestre al pianterreno erano sbarrate da tavole di legno fissate con dei chiodi. Sulla destra, i binari in disuso si allontanavano a perdita d’occhio, rigidi e dritti come fusi, sprofondando nel bosco. La natura non era ancora riuscita a inghiottirli del tutto, ma era solo questione di tempo.


Il marciapiede in legno era ancora più malmesso. Lungo l’asse più esterna si intravedeva ancora la scritta: “Non attraversare i binari”. Non c’era nessun pericolo a farlo adesso, pensò Allan. Ma quale persona sana di mente si sarebbe mai avventurata su quel marciapiede?


La risposta non tardò ad arrivare, dato che proprio in quel momento si aprì la porta della stazione e un uomo sui settant’anni con berretto, camicia a quadri e gilet di pelle nera, occhi castani e barbetta grigia, uscì dall’edificio sui suoi robusti stivali. Prima di concentrarsi sul vecchio che gli stava davanti, verificò che le assi non gli cedessero sotto i piedi.


Fermo al centro del marciapiede, l’uomo dal berretto esibiva un atteggiamento vagamente ostile che però abbandonò immediatamente, forse constatando la scarsa o nulla pericolosità del poveretto che aveva osato invadere il suo territorio.


Allan, seduto sulla valigia appena rubata, non sapeva cosa dire e non aveva neanche voglia di parlare, ma prese a sbirciare insistentemente l’uomo dal berretto in attesa della sua prima mossa. Che giunse quasi subito, benché molto meno minacciosa di quanto si era annunciata.


“Chi sei e cosa ci fai sul mio marciapiede?” domandò l’uomo dal berretto.


Allan non rispose: non riusciva a stabilire se aveva davanti un amico o un nemico. Pensò che comunque sarebbe stato saggio non entrare in rotta di collisione con l’unica persona in grado di ricoverarlo al caldo prima del gelo della sera. Per questo decise di raccontare le cose esattamente come stavano.


Dichiarò dunque di chiamarsi Allan, di avere compiuto cent’anni proprio quel giorno, di non passarsela male per la sua età – tanto da essere fuggito dalla casa di riposo e aver rubato una valigia a un giovane di certo non entusiasta della cosa –, di avere le ginocchia indolenzite e di desiderare vivamente un po’ di riposo.


Finita l’esposizione dei fatti rimase in silenzio e, sempre seduto sulla valigia, aspettò il responso.


“Accidenti,” disse l’uomo dal berretto scoppiando a ridere. “Un ladro!”


“Un vecchio ladro,” replicò Allan serio.


Tenendo lo sguardo fisso sul marciapiede, l’uomo dal berretto si diresse verso Allan per osservarlo più da vicino.


“Hai davvero cent’anni?” domandò. “Allora avrai fame.”


Allan non capì la logica del ragionamento, però di fame ne aveva. Chiese allora cosa proponesse il menù e se fosse possibile includere un bicchierino.


L’uomo dal berretto si presentò come Julius Jonsson e lo aiutò ad alzarsi annunciando che alla valigia ci avrebbe pensato lui, che per cena era previsto arrosto d’alce, sempre che fosse di suo gradimento, e che per nulla al mondo sarebbe mancato un goccetto.


Allan arrancò sul marciapiede. Fu il dolore a confermargli che era vivo.


Julius Jonsson non parlava con nessuno da molti anni, pertanto lo sconosciuto munito di valigia fu il benvenuto. Un cicchetto per un ginocchio e uno per l’altro, seguiti da un paio per la schiena e la nuca e da un altro ancora per stuzzicare l’appetito, resero l’atmosfera inizialmente fredda assai calorosa. Alla domanda di Allan su come campasse per vivere, Julius rispose con una lunga storia.


Era nato più a nord, a Strombacka, non lontano da Hudiksvall, unico figlio della coppia di contadini Anders ed Elvina Jonsson. Aveva lavorato come garzone nel podere di famiglia, ricevendo una quotidiana dose di botte dal padre che lo considerava un fannullone. L’anno in cui compì venticinque anni, la madre morì di cancro. Julius ne soffrì molto. Poco dopo il padre finì inghiottito da una palude nel tentativo di salvare una mucca. Anche in questo caso Julius soffrì molto, essendo parecchio legato all’animale.


Il giovane Julius non era tagliato per fare il contadino (il padre aveva dunque ragione al riguardo), così vendette tutto a eccezione di alcuni ettari di bosco che a suo avviso gli sarebbero tornati utili da vecchio.


Si trasferì a Stoccolma, dove in due anni riuscì a sperperare l’intero patrimonio prima di tornare a vivere al paesello.


Con un certo zelo partecipò a una gara d’appalto per la consegna di cinquemila pali della luce per la Hudiksvallstraktens Elektriska. Dato che non nutriva grande interesse per dettagli quali il pagamento dei contributi ai dipendenti e delle imposte in genere, Julius vinse la gara. Con l’aiuto di una decina di rifugiati ungheresi riuscì a consegnare in tempo i pali della luce, in cambio di più soldi di quanti non riuscisse a immaginare.


Le cose erano andate lisce, ma Julius era stato costretto a una piccola truffa poiché gli alberi, al momento dell’utilizzo, non erano cresciuti a sufficienza. Fu per questo che i pali risultarono più corti di circa un metro, ma nessuno se ne sarebbe accorto se non fosse stato che tutti i contadini della zona si erano appena procurati una trebbiatrice nuova.


In men che non si dica la Hudiksvallstraktens Elektriska piantò i pali a destra e a manca lungo i campi e i prati del paese, e quando arrivò il giorno della trebbiatura in un’unica mattinata furono tranciati i fili della luce in ventisei punti diversi da ventidue trebbiatrici diverse, tutte nuove di zecca. Una parte del villaggio di Hälsingland rimase per settimane senza corrente elettrica, la trebbiatura si bloccò e le mungitrici smisero di funzionare. Non molto tempo dopo si scatenò la collera dei contadini, prima contro la Hudiksvallstraktens Elektriska, quindi contro il giovane Julius.


“Non si può certo dire che si siano dimostrati tolleranti. Mi sono dovuto nascondere per sette mesi all’albergo di Sundsvall, senza più il becco di un quattrino. Un altro goccetto?” chiese Julius.


Allan accettò. L’arrosto d’alce era stato accompagnato dalla giusta quantità di birra, e adesso si sentiva tanto bene da aver quasi paura di morire.


Julius proseguì con il suo racconto. Dopo che un giorno era stato sul punto di essere investito da un trattore (guidato da un contadino dallo sguardo omicida) nel centro di Sundsvall, capì che il paese non avrebbe dimenticato a breve il suo piccolo errore, così decise di trasferirsi a Mariefred, dove visse di furtarelli fino a quando, stanco della vita cittadina, non scovò la stazione abbandonata di Byringe, che acquistò con le venticinquemila corone svedesi trovate nella cassaforte della locanda di Gripsholm. E adesso viveva lì, principalmente di assistenza sociale, caccia illegale nelle abetaie e produzione e distribuzione di acquavite clandestina; in più, rivendeva oggetti di proprietà altrui. Nel circondario non godeva di grande popolarità, riferì Julius. Allan rispose che era abbastanza comprensibile.


Quando Julius propose un ultimo bicchierino “come des­sert”, Allan disse di aver sempre avuto un debole per quel tipo di dessert, ma prima doveva assolutamente fare visita a un certo posticino, qualora una tale comodità fosse stata disponibile in quella dimora. Dopo essersi alzato e aver acceso il lampadario – stava cominciando a fare buio – Julius gli indicò un punto dicendo che c’era un gabinetto sulla destra, promettendo inoltre dell’acquavite appena decantata allorché Allan avesse concluso.


Allan trovò il bagno laddove gli era stato indicato. Si mise in posizione per urinare e come sempre le gocce non arrivarono tutte a destinazione: alcune gli atterrarono morbidamente sulle pantofole.


A un certo punto, a metà dell’operazione, Allan sentì un rumore. Il suo primo pensiero, bisogna ammetterlo, fu che Julius stesse trafficando con la valigia rubata. Ma poi il rumore svanì. Qualcuno stava salendo le scale.


Allan realizzò che esisteva il serio pericolo che i passi appartenessero a un giovane dalla corporatura esile, i capelli lunghi, biondi e unti, la barba incolta e un giubbotto di jeans con la scritta “Never Again” sulla schiena. E se davvero fosse stato lui, non c’era da scherzare.




Il pullman proveniente da Strängnäs arrivò alla stazione di Malmköping tre minuti prima dell’orario previsto. Il veicolo era vuoto, e dopo l’ultima fermata il conducente aveva schiacciato l’acceleratore più del solito per concedersi una sigaretta prima di riprendere la corsa per Flen.


Non aveva neanche tirato la prima boccata che gli apparve davanti un giovane dalla corporatura esile, i capelli lunghi, biondi e unti, la barba incolta e un giubbotto di jeans con la scritta “Never Again” sulla schiena. O meglio: il conducente non aveva ancora letto quelle parole, però c’erano.


“Deve andare in direzione di Flen?”


Pose la domanda con fare incerto, perché in quel giovane c’era qualcosa che non lo convinceva.


“Non vado a Flen. E neanche tu,” fu la risposta.


Aspettare quattro ore il ritorno del pullman era stato decisamente troppo per la sua pazienza. Dopo due ore era arrivato alla conclusione che, se si fosse impadronito di un’auto, avrebbe potuto raggiungere il pullman molto prima di Strängnäs. E come se non bastasse la cittadina era stata invasa dalle volanti della polizia. Da un momento all’altro sarebbero arrivate alla stazione, e gli agenti avrebbero interrogato l’omino allo sportello chiedendogli perché appariva così terrorizzato e come mai la porta dell’ufficio era stata sfondata.


Comunque, il giovane non capiva il motivo di tutta quella polizia. Il capo della Never Again aveva scelto Malmköping come luogo della transazione per tre motivi: primo, la vicinanza a Stoccolma; secondo, i collegamenti relativamente buoni; terzo – e più importante –, il braccio della legge non era abbastanza lungo da arrivare fin lì. In altre parole, a Malmköping non c’erano sbirri.


O, più precisamente, non avrebbero dovuti esserci, mentre in realtà pullulavano! Il giovane aveva già avvistato due volanti e quattro piedipiatti – per quanto lo riguardava, un tipico assembramento di rappresentanti della legge.


In un primo momento aveva creduto che lo stessero cercando, il che avrebbe dovuto significare che l’omino aveva spifferato tutto, cosa che il giovane era però in grado di confutare decisamente. Nell’attesa non aveva fatto altro che tenerlo d’occhio, ridurgli in pezzi il telefono e cercare di rimettere insieme la porta dell’ufficio.


Resosi conto che nel pullman appena arrivato non c’erano passeggeri, il giovane decise di rapire il conducente e appropriarsi del veicolo.


Gli bastarono venti secondi per convincere il conducente a fare inversione e dirigersi di nuovo verso nord. Quasi un record personale, pensò il giovane accomodandosi sul sedile che aveva da poco ospitato il vecchio.


Il conducente tremava dalla paura, ma riuscì a superare il peggio fumando una sigaretta dall’effetto calmante. Era vietato fumare a bordo, ma l’unica persona a cui doveva rendere conto sedeva di traverso dietro di lui ed era un giovane dalla corporatura esile, i capelli lunghi, biondi e unti, la barba incolta e un giubbotto di jeans con la scritta “Never Again” sulla schiena.


Durante il tragitto il giovane si informò sulla strada presa dal vecchio ladro di valigie. Il conducente rispose che il tipo era sceso alla fermata della stazione di Byringe, ma che si era trattato di un puro caso. Gli raccontò dello scambio di battute e del biglietto acquistato con quarantotto corone.


Della stazione di Byringe il conducente non sapeva molto, se non che capitava di rado che qualcuno scendesse o salisse a quella fermata. Che secondo lui nel bosco c’era una stazione ferroviaria in disuso, e che la cittadina di Byringe si trovava nelle vicinanze. Più lontano di così il vecchio non sarebbe riuscito ad arrivare, immaginava il conducente. Era vecchio, appunto, e la valigia pesante nonostante le rotelle.


Il giovane si tranquillizzò. Aveva evitato di telefonare al Capo a Stoccolma, essendo una delle poche persone capaci di terrorizzare la gente più di lui, anche soltanto a parole. Il giovane sussultò al pensiero di quello che avrebbe detto il Capo se avesse saputo che la valigia era scomparsa. Gliel’avrebbe riferito a problema risolto. Ora che sapeva che il vecchio non si era spinto fino a Strängnäs, la valigia sarebbe tornata in suo possesso più in fretta del previsto.


“È laggiù,” disse il conducente. “Ecco la fermata della stazione di Byringe.”


Rallentò l’andatura e accostò. Era giunto il suo momento?


No, come si chiarì in seguito. Tuttavia il suo cellulare andò incontro a una morte precoce sotto il tacco dello stivale del rapitore. Per non parlare della raffica di promesse di morte dirette ai membri della sua famiglia che il giovane gli rivolse, qualora gli fosse venuto in mente di contattare la polizia anziché fare di nuovo inversione e proseguire il viaggio verso Flen.


Una volta sceso, il giovane lasciò che pullman e conducente riprendessero il tragitto. Il poveretto era così sconvolto che non osò fare inversione di marcia prima di arrivare a Strängnäs, parcheggiare in mezzo alla strada, entrare in stato di choc nel bar dell’Albergo Delia e trangugiare in rapida sequenza quattro bicchieri di whisky. Quindi scoppiò in lacrime davanti al barista sgomento, che dopo altri due whisky gli consentì l’uso del telefono. A quel punto il pianto riprese con maggiore intensità e il conducente chiamò la sua compagna.




Nella ghiaia, il giovane individuò delle tracce che indicavano il passaggio della valigia con le rotelle. La situazione si sarebbe chiarita nel giro di poco tempo. Meglio così, visto che stava cominciando a fare buio.


A volte gli sarebbe piaciuto poter pianificare meglio le cose: aveva appena realizzato di trovarsi in mezzo a boschi avvolti dalle tenebre, e che di lì a poco l’oscurità sarebbe stata totale. E allora cosa avrebbe fatto?


Le sue speculazioni si interruppero all’improvviso alla vista di un edificio fatiscente, in parte sbarrato con delle tavole di legno, posto alla sommità della salita che aveva appena superato. Quando qualcuno accese una luce al piano superiore, mormorò:


“Ti ho trovato, vecchiaccio.”




Allan concluse in anticipo quello che stava facendo, quindi aprì la porta del gabinetto con l’intenzione di capire ciò che stava succedendo in cucina. Ebbe immediatamente la temuta conferma: riconobbe la voce del giovane, che inveiva contro Julius nel tentativo di indurlo a rivelargli dove fosse “l’altro vecchiaccio di merda”.


Si avvicinò furtivamente alla porta della cucina, silenzioso nelle sue soffici pantofole. Il giovane aveva afferrato le orecchie di Julius con la stessa brutalità usata con l’omino di Malmköping. Mentre strapazzava il poveraccio, continuava a interrogarlo su dove diavolo fosse finito Allan. Il giovane avrebbe potuto accontentarsi di aver ritrovato la valigia, per terra al centro della stanza. Il volto di Julius era un’unica smorfia di dolore, ma non dava segni di voler rispondere. Allan pensò che da qualche parte ci dovesse essere del materiale adatto a tramortirlo, così ispezionò i dintorni. Tra il ciarpame trovò una quantità di strumenti papabili: un piede di porco, un’asse, una bomboletta di insetticida spray e una confezione di veleno per topi. Inizialmente fu sedotto dall’idea del veleno, ma non gli venne in mente nessun modo per somministrarne al giovane un cucchiaio o due. D’altro canto il piede di porco era troppo pesante per lui, e l’insetticida… No, meglio l’asse.


Afferrata per bene l’arma e con passo incredibilmente veloce date le sue condizioni, si piazzò alle spalle della vittima.


Il giovane doveva aver intuito la sua presenza, perché proprio in quel momento lasciò la presa su Julius e si voltò.


L’asse lo centrò in piena fronte. Rimase fermo con lo sguardo fisso per un secondo, prima di cadere all’indietro battendo la testa proprio sullo spigolo del tavolo.


Niente sangue, nessun gemito, niente. Era lungo disteso per terra, con gli occhi chiusi.


“Bel colpo,” disse Julius.


“Grazie,” replicò Allan. “Che fine ha fatto il dessert che mi avevi promesso?”


Allan e Julius si sedettero a tavola, con il capellone che dormiva ai loro piedi. Versata l’acquavite, Julius sollevò il bicchiere per un brindisi.


“Sììì!” esclamò Julius dopo averne ingollato il contenuto. “Immagino che quello sia il proprietario della valigia?”


La domanda era più che altro una constatazione. Allan capì che era arrivato il momento di fornire a Julius qualche altro particolare.


Non che ci fosse più di tanto da spiegare. La maggior parte delle cose avvenute nel corso della giornata erano difficilmente comprensibili. Comunque ripeté il racconto della fuga dalla casa di riposo, e proseguì con il furto casuale della valigia alla stazione di Malmköping e la segreta paura al pensiero che il giovane, che ora giaceva svenuto a terra, avrebbe potuto raggiungerlo. Poi espresse le scuse più sincere a Julius per le sue orecchie rosse e doloranti. Lui quasi si indignò, replicando che Allan non doveva affatto scusarsi: finalmente nella sua vita c’era un po’ di movimento.


Ora Julius era di nuovo in forma, tanto che suggerì di dare un’occhiata al contenuto della valigia. Quando Allan sottolineò che era chiusa con un lucchetto, Julius scoppiò in una risata.


“Da quando un lucchetto costituisce un impedimento per Julius Jonsson?” commentò.


Ma ogni cosa a suo tempo, aggiunse. Prima bisognava eliminare il problema che giaceva sul pavimento. Se il giovane si fosse svegliato con l’intenzione di portare a termine quanto stava facendo prima di crollare, non sarebbe stato piacevole.


Allan propose di legarlo a un albero vicino alla stazione, ma Julius ribatté che se al risveglio il giovane si fosse messo a urlare lo avrebbero sentito fino in paese, dove abitavano una manciata di famiglie che avevano buoni motivi per prendersela con lui.

L’idea di Julius era migliore: all’interno della cucina c’era una cella frigorifera dove conservava la refurtiva e i pezzi d’alce. Al momento la stanza era vuota e non refrigerata. Julius non raffreddava la stanza inutilmente, dato che l’impianto consumava quantità enormi di elettricità (a dire il vero Julius si era allacciato illegalmente alla rete elettrica: non era certo lui a pagare la bolletta, ma bisognava rubare la corrente con intelligenza se si voleva continuare a godere del servizio).

Dopo aver ispezionato il locale Allan lo reputò una prigione perfetta, senza comodità eccessive. La stanza, di due metri per tre, era anche troppo rispetto a ciò che si sarebbe meritato il giovane, ma non sempre è il caso di tormentare la gente più del dovuto.

I due vecchi trascinarono il giovane dentro la cella. Il tipo emise un gemito quando lo misero a sedere sulla cassa rovesciata posta in un angolo, con le spalle appoggiate alla parete. A quanto pareva stava per riprendere i sensi. Meglio uscire e chiudere la porta a chiave.

Detto fatto. A quel punto Julius sollevò la valigia sul tavolo della cucina, e dopo aver dato un’occhiata al lucchetto pulì per bene la forchetta con la quale aveva appena mangiato l’arrosto d’alce con patate e si mise ad armeggiarci intorno. Poi invitò Allan ad aprire la valigia, visto che era stato lui a rubarla.

“Tutto ciò che è mio è tuo,” replicò Allan. “Dividiamo il bottino in parti uguali, ma se dentro ci sono un paio di scarpe della mia misura le prendo io.”

Quindi l’aprì.

“Cazzo,” disse Allan.

“Cazzo,” disse Julius.

“Fatemi uscire!” si sentì urlare dalla cella frigorifera.

CAPITOLO 4

1905-1929


Allan Emmanuel Karlsson era nato il 2 maggio 1905. Il giorno precedente sua madre aveva partecipato al primo corteo del 1° maggio di Flen, a sostegno del diritto di voto alle donne, delle otto ore lavorative e di altri obiettivi irraggiungibili. Il lato positivo della faccenda fu che lì le cominciarono le doglie, e passata da poco la mezzanotte la donna partorì il suo primo e unico figlio. Il parto ebbe luogo nella fattoria di Yxhult con l’aiuto della vicina, che pur non possedendo un particolare talento come levatrice godeva di una certa reputazione avendo, all’età di nove anni, fatto la riverenza a Carlo XIV che a suo tempo era stato amico di Napoleone Bonaparte. A difesa della vicina bisogna altresì dire che il bambino che aveva aiutato a mettere al mondo aveva poi raggiunto l’età adulta, superandola con un discreto margine.


Il padre di Allan Karlsson era di carattere premuroso e collerico. Premuroso con la famiglia, collerico nei confronti dell’ordine costituito in generale e di coloro che potevano a suo avviso rappresentarlo. Non era ben visto dalla buona società locale, soprattutto dopo la volta in cui, sulla piazza di Flen, si era messo a sostenere l’utilità dei contraccettivi. Ciò che ne guadagnò furono dieci corone di multa e l’impossibilità di preoccuparsi di nuovo dell’argomento, dato che, per la vergogna, da lì in poi la madre di Allan gli vietò l’accesso al talamo. Allan, che all’epoca aveva sette anni, chiese alla madre una spiegazione più precisa del perché il letto del padre fosse stato trasferito nella legnaia vicino alla cucina, ma l’unica risposta che ricevette fu di non fare troppe domande se non voleva un bel ceffone. E dal momento che, come tutti i bambini di tutte le epoche ed età, Allan cercava di scansare le botte, lasciò cadere la questione.


Da quel giorno il padre apparve sempre più raramente. Di giorno lavorava alla ferrovia, la sera discuteva di socialismo un po’ dappertutto, e come poi passasse la notte per il figlio rimase sempre un mistero.


Comunque, non venne mai meno alle sue responsabilità. La maggior parte dello stipendio veniva consegnata settimanalmente alla moglie, perlomeno fino al giorno in cui non fu licenziato in tronco: si era scagliato contro un passeggero che aveva fatto in tempo a dirgli di essere diretto a Stoccolma, per presentare i propri omaggi al re a Palazzo Reale insieme a migliaia d’altre persone, e a mostrargli quindi di essere pronto a combattere per lui.


“Combatta con me, per cominciare,” aveva replicato il padre di Allan sferrandogli un destro così forte che l’uomo era finito a terra.


In seguito al congedo immediato che seguì, il padre di Allan non fu più in grado di mantenere la famiglia. La fama che si era fatto, di persona violenta e promotore dell’uso dei contraccettivi, gli rese impossibile trovare un altro lavoro. Non restava che attendere la rivoluzione, o meglio cercare di affrettarla visto che le cose andavano così dannatamente a rilento. Il padre di Allan era interessato soltanto a raggiungere il suo scopo: il socialismo svedese necessitava di un modello di riferimento internazionale. Solamente in questo modo il processo avrebbe subito un’accelerazione e il grossista Gustavsson e i suoi pari avrebbero cominciato a sudare freddo.


Così, fatte le valigie, se ne andò in Russia a rovesciare lo zar. La madre di Allan, già privata dello stipendio delle Ferrovie, si trovò in condizione di grande bisogno dopo che il marito non solo ebbe lasciato la zona, ma anche il paese.


Poiché il capofamiglia era sparito, la madre di Allan e Allan stesso, appena decenne, capirono che andava escogitato qualcosa per sostenere l’economia familiare. La madre fece abbattere quattordici file di betulle alla fattoria, che poi ridusse in legna da ardere, mentre Allan riuscì a ottenere un lavoro miseramente retribuito come fattorino alla filiale di Flen della Nitroglycerin AB.


Dalle lettere che regolarmente giungevano da San Pietroburgo (che presto si sarebbe chiamata Pietrogrado), la madre di Allan poté constatare con crescente stupore che in suo marito la convinzione che il socialismo fosse una benedizione cominciava a vacillare.


Nelle missive, il marito parlava spesso di amici e conoscenti che facevano parte dell’establishment politico di Pietrogrado. Colui che veniva citato con più frequenza era un certo Carl. Un nome non esattamente russo, pareva ad Allan, tanto più che suo padre lo chiamava Fabbe, perlomeno nelle lettere.


Secondo il padre, la tesi di Fabbe si basava sul presupposto che la gente non sapeva cosa fosse meglio per lei, pertanto necessitava di qualcuno che le indicasse la direzione. Ecco perché l’autocrazia era preferibile alla democrazia, almeno finché l’assetto della società garantito dal livello culturale e dal senso di responsabilità della nazione avesse consentito a tale autocrazia di agire. Pensa, per esempio, che sette bolscevichi su dieci non sono in grado di leggere, aveva detto Fabbe sogghignando. Possiamo forse lasciare il potere nelle mani di una massa di analfabeti?


Nelle lettere spedite alla famiglia, il padre di Allan difendeva tuttavia i bolscevichi al riguardo, dal momento che Allan e la madre non potevano avere idea di cosa fosse l’alfabeto russo. Conoscendolo, scriveva, non c’era davvero da stupirsi che la gente fosse analfabeta!


Peggio, invece, era il modo in cui si comportavano: erano sporchi e bevevano vodka, come in Svezia gli operai che costruivano binari ferroviari lungo tutto il Sörmland. Il padre di Allan si era sempre chiesto come i binari potessero essere così dritti vista la quantità di alcol ingurgitata dagli operai, allarmandosi ogni volta che cambiavano direzione.


Con i bolscevichi era lo stesso. Fabbe sosteneva che avrebbero finito per uccidersi a vicenda, finché non ne fosse rimasto uno soltanto a decidere. A quel punto meglio appoggiarsi allo zar Nicola, un brav’uomo con la testa sulle spalle.


Fabbe sapeva di cosa stava parlando, avendo incontrato lo zar più di una volta. Riteneva che Nicola II fosse davvero un uomo di buon cuore. Certo, era stato sfortunato, ma la iella non sarebbe durata in eterno. La causa della sua malasorte erano stati i cattivi raccolti e la rivolta dei bolscevichi. E ora, solo perché stava cominciando a mobilitarsi, ci si erano messi anche i tedeschi. Eppure lo zar lo faceva unicamente a scopo di pace. Di sicuro non era stato lui a liquidare l’arciduca e sua moglie a Sarajevo. O no?


Ecco come la pensava Fabbe, chiunque egli fosse. Non si sa come, era riuscito a coinvolgere nei suoi ragionamenti il padre di Allan, che provava una simpatia istintiva per la sfortuna dello zar. Prima o poi la ruota doveva girare, sia per gli zar russi sia per i comuni mortali della zona di Flen.


Denaro dalla Russia il padre non ne mandò mai, ma una volta, dopo un paio d’anni dalla sua partenza, arrivò un pacchetto con un uovo di Pasqua ricoperto di smalto vinto al gioco a questo suo amico russo, che oltre a bere, discutere e giocare a carte pareva non facesse altro che fabbricare uova di quel tipo.


Il padre aveva inviato l’uovo di Fabbe in dono alla sua “cara moglie”, la quale si infuriò commentando che quel maledetto mascalzone avrebbe potuto inviarne uno vero, di uovo, così da sfamare la famiglia. Fu sul punto di buttare il regalo fuori dalla finestra, ma alla fine cambiò idea. Magari il grossista Gustavsson era disposto a scucire qualche soldo: cercava sempre di risultare stravagante, e stravagante quell’uovo lo era davvero, a detta della madre di Allan.


Rimase quindi sorpresa quando, due giorni dopo, Gustavsson le offrì diciotto corone per averlo. Sotto forma di cambiali, ma era meglio di niente.


Da quel momento in poi la madre di Allan sperò che giungessero altre uova, ma nelle missive che seguirono venne a sapere che i generali dello zar avevano rinunciato all’autocrazia e quest’ultimo era stato costretto ad abdicare. Il marito era furibondo con il suo amico produttore di uova che, a causa degli ultimi avvenimenti, si era trasferito in Svizzera. Lui, invece, sarebbe rimasto lì per combattere il parvenu che aveva preso il potere, un tale Lenin.


Il tutto assunse per il padre di Allan un risvolto personale, allorché Lenin proibì qualsiasi forma di proprietà privata il giorno dopo che lui si era procacciato dodici metri quadri per la coltivazione di fragole svedesi. “Il terreno non è costato più di quattro rubli, ma il mio posto delle fragole non lo si espropria così, come se nulla fosse,” scrisse il padre di Allan nella sua ultima lettera alla famiglia. Dopodiché concluse: “Adesso è guerra!”


E in effetti guerra fu. Praticamente in tutto il mondo e per molti anni a venire. Quando scoppiò, il piccolo Allan si era appena messo a lavorare come fattorino alla Nitroglycerin AB. Caricando i cartoni di dinamite, ascoltava i commenti degli operai sulla guerra in corso. Si domandava come facessero a sapere tante cose, stupito del fatto che gli adulti potessero ridursi in quel modo. L’Austria aveva dichiarato guerra alla Serbia. La Germania alla Russia. A quel punto la Germania, che aveva occupato il Lussemburgo nel giro di un pomeriggio, dichiarò guerra alla Francia. A sua volta la Gran Bretagna fece lo stesso con la Germania e i tedeschi risposero dichiarando guerra al Belgio. Allora l’Austria dichiarò guerra alla Russia e la Serbia alla Germania.


E così via. Si aggiunsero anche i giapponesi e gli americani. Gli inglesi per qualche motivo presero prima Baghdad e poi Gerusalemme. I greci e i bulgari cominciarono a darsi battaglia, e infine giunse il giorno in cui lo zar di Russia abdicò mentre gli arabi conquistavano Damasco…


“Adesso è guerra!” aveva proclamato il padre di Allan. Subito dopo qualcuno degli scagnozzi di Lenin aveva ucciso lo zar Nicola e tutta la sua famiglia. Allan poté quindi constatare che la malasorte dello zar non era finita.


Dopo qualche settimana la rappresentanza diplomatica svedese in missione a Pietrogrado inviò un telegramma a Yxhult, con la notizia che il padre di Allan era morto. A dire il vero non sarebbe spettato al funzionario di turno approfondire la questione, ma probabilmente non riuscì a esimersi dal farlo.


Stando alle sue parole, il padre di Allan aveva recintato con una staccionata un lembo di terra di dieci, quindici metri quadri coltivato a fragole, proclamando il terreno repubblica indipendente. Aveva chiamato il suo staterello “La Vera Russia” ed era morto nel tumulto scoppiato all’arrivo di due soldati intenzionati ad abbattere il recinto. Il padre di Allan era ricorso subito ai pugni, impedendo ai due militari di trattare. Alla fine non avevano trovato altra soluzione che ficcargli una pallottola tra gli occhi.


“Non potevi morire un po’ meno da cretino?” era stato il commento della madre di Allan alla notizia.


Non aveva mai creduto che il marito sarebbe tornato a casa, anche se ultimamente aveva persino cominciato a sperarlo visto che si era ammalata ai polmoni e faceva sempre più fatica a tagliare la legna. La donna emise un profondo sospiro e con questo il suo lutto terminò. Comunicò ad Allan che si tornava alla situazione di partenza, che così era e sarebbe stato per sempre. Poi, dopo avergli passato con dolcezza una mano tra i capelli, uscì per andare a tagliare altra legna.


Allan non aveva afferrato esattamente il significato delle parole materne, ma capì che il padre era morto, che la madre sputava sangue quando tossiva e che la guerra era finita. Lui aveva tredici anni ed era bravo a fabbricare esplosivi mescolando nitroglicerina, nitrato di cellulosa, nitrato di ammonio, nitrato di sodio, farina di legno, dinitrotoluene e qualcos’altro. Un giorno mi potrà essere utile, pensò uscendo ad aiutare la madre.




Due anni dopo la madre di Allan finì di tossire per sempre e partì per il fantomatico paradiso dove il padre già si trovava. Sulla soglia della fattoria comparve il grossista Gustavsson, che esigeva l’estinzione di un debito di 8,40 corone che la madre avrebbe dovuto saldare prima di lasciare inaspettatamente il mondo. Ma Allan non aveva nessuna intenzione di rimpinguare le tasche di Gustavsson.


“Questa faccenda dovrà discuterla con mia madre. Vuole che le presti una pala?”


Il grossista sarà stato pure un grossista, ma era anche molto minuto, a differenza del quindicenne Allan. Il ragazzo stava diventando un uomo, e se fosse stato pazzo anche solo la metà di suo padre avrebbe potuto inventarsi qualsiasi cosa, ragionò Gustavsson. Da quel momento in poi l’argomento “debito” non fu mai più toccato.


Come la madre fosse invece riuscita a risparmiare parecchie centinaia di corone, risultò assolutamente incomprensibile al giovane Allan. I soldi erano sparsi ovunque e furono sufficienti sia per il funerale sia per dare inizio alla ditta Dynamit-Karlsson. Il ragazzo aveva soltanto quindici anni, ma alla Nitroglycerin AB aveva appreso il necessario.


Allan si mise a sperimentare allegramente in una buca dietro casa: così allegramente che la mucca della vicina ebbe un aborto spontaneo a due chilometri di distanza. Ma questo Allan non lo seppe mai, poiché la vicina, come il grossista Gustavsson, era convinta che il figlio dei Karlsson fosse matto quanto i genitori.


Allan conservò l’interesse per ciò che accadeva in Svezia e nel mondo. Almeno una volta alla settimana si recava in bicicletta alla biblioteca di Flen per aggiornarsi. Accadeva che lì incontrasse giovani infervorati in dibattiti rivolti tutti allo stesso scopo: attirarlo in qualche movimento politico. Ma l’interesse di Allan a sapere era tanto grande quanto profondo era il suo disinteresse a farsi coinvolgere.


La giovinezza di Allan fu piuttosto ballerina dal punto di vista politico: da un lato apparteneva alla classe operaia, avendo smesso di andare a scuola a nove anni per lavorare in fabbrica. Dall’altro rispettava la memoria del padre, e il padre, nella sua pur breve esistenza, era riuscito a credere alle idee più disparate: aveva esordito a sinistra, per poi esaltare lo zar Nicola II e porre fine alla propria vita per via di un contenzioso con Vladimir Il’ič Lenin.


Dal canto suo la madre aveva maledetto, fra un attacco di tosse e l’altro, tutto e tutti, dal re ai bolscevichi, non disdegnando nemmeno il primo ministro svedese Hjalmar Branting, il grossista Gustavsson e – non ultimo – il padre di Allan.


Allan non era affatto uno stupido. Aveva frequentato la scuola solo tre anni, ma gli era bastato per imparare a leggere, scrivere e fare di conto. E i colleghi di lavoro alla Nitroglycerin AB, tutti coinvolti politicamente, avevano acceso la sua curiosità nei confronti del mondo.


Ciò che plasmò definitivamente la sua filosofia di vita fu comunque una frase detta dalla madre nel momento in cui avevano appreso della morte del padre. Ci volle del tempo prima che penetrasse nell’animo del giovane, ma poi non se ne andò.

Così è e sarà per sempre.

Il che implicava tra l’altro il fatto di non farsi notare. Soprattutto in presenza di un motivo valido. Come, per esempio, quando il telegramma con la notizia della morte del padre giunse a Yxhult. In sintonia con lo stile di famiglia Allan reagì mettendosi a tagliare la legna, a lungo e in silenzio. O quando la madre, seguendo la stessa strada, venne caricata sul carro funebre che attendeva fuori casa. Allan rimase in cucina e osservò la scena dalla finestra. Poi disse piano:

“Ciao, mamma.”

Con questo si chiuse un capitolo della sua vita.

Allan convogliò tutte le sue energie nella fabbrica di dinamite, e agli inizi degli anni Venti si era creato una bella cerchia di clienti nel Sörmland. Il sabato sera, quando i suoi coetanei si lanciavano nei balli di società, Allan sedeva da solo in casa intento a elaborare nuove formule per migliorare la qualità della sua dinamite. E la domenica raggiungeva la solita buca per sperimentare le esplosioni. Mai tra le undici e l’una, però, lo aveva promesso al parroco di Yxhult affinché non si lamentasse troppo dell’assenza di Allan in chiesa.

Ad Allan piaceva starsene solo. Meno male, dal momento che la sua vita era caratterizzata dalla solitudine. Rifiutandosi di prender parte al movimento operaio veniva disprezzato dai socialisti, ma al contempo era troppo lavoratore e figlio di suo padre per poter ambire a un posto nei salotti borghesi, dove oltretutto troneggiava il grossista Gustavsson, che in nessun modo intendeva avere a che fare con il moccioso dei Karlsson. Voleva assolutamente evitare che il ragazzo sapesse quanto aveva guadagnato rivendendo a un diplomatico di Stoccolma l’uovo comprato per due soldi dalla madre. Grazie a quell’affare il grossista Gustavsson era diventato l’orgoglioso proprietario di un’automobile di terza mano.

L’affare era stato ottimo, ma in seguito il grossista Gustavsson non fu più così felice. Una domenica d’agosto del 1925, dopo la funzione religiosa, si mise al volante per fare un giro, ma soprattutto per farsi vedere. Stranamente, scelse la strada che passava vicino alla fattoria dei Karlsson a Yxhult. Nella curva davanti alla casa, probabilmente preso da un certo nervosismo, Gustavsson ebbe problemi con il cambio, e così sia lui sia l’auto finirono nella famosa buca anziché seguire la strada che svoltava leggermente a destra. Sarebbe stato già poco piacevole per il grossista invadere il terreno di Allan e dovergli delle spiegazioni, ma le cose andarono ancora peggio, dato che nel momento stesso in cui Gustavsson riuscì a fermare l’auto impazzita Allan diede il via alla sua prima esplosione domenicale.

Che qualcosa fosse andato storto lo capì soltanto quando si recò alla buca per valutare i risultati. Vi trovò sparsi i resti dell’auto del grossista, nonché quelli del grossista medesimo.

La testa, finita nei pressi della casa, era atterrata morbidamente su una zolla erbosa da dove fissava con espressione vuota la propria rovina.

“Cosa ci facevi nella mia buca?” domandò Allan.

Il grossista non rispose.

Nei quattro anni che seguirono, Allan ebbe parecchio tempo a disposizione per leggere e migliorare le proprie conoscenze. Venne subito rinchiuso in una casa di cura, anche se non gli fu facile capire il perché. Fu tirato in ballo il padre di Allan, il vecchio agitatore. Ciò accadde perché un giovane e ambizioso allievo del biologo della razza professor Bernhard Lundborg di Uppsala, decise di far carriera servendosi del caso. Dopo diversi viavai Allan finì tra le grinfie di Lundborg e venne immediatamente sterilizzato per “ragioni eugenetiche e sociali”. In altre parole fu deciso che Allan era leggermente ritardato e comunque risentiva troppo dell’eredità paterna, e lo Stato svedese non poteva permettere un’ulteriore riproduzione della stirpe dei Karlsson.

La sterilizzazione non disturbò Allan, il quale riteneva di aver ricevuto una meravigliosa accoglienza nella clinica del professor Lundborg. Fu persino in grado di rispondere a ogni sua domanda, tra cui che bisogno aveva di far saltare in aria oggetti e persone, e se nelle sue vene scorreva sangue negroide. Allan rispose dicendo che era in grado di distinguere abbastanza bene tra oggetti e persone in relazione a una carica di dinamite. Spaccare un masso che ostruiva la strada poteva produrre una piacevole sensazione. Se invece di un masso si trattava di un essere umano era sufficiente chiedere alla persona in questione di spostarsi. Non la pensava così anche il professor Lundborg?

Ma il professor Lundborg non era certo tipo da lasciarsi trascinare in discussioni filosofiche senza riproporre la domanda sul sangue negroide. Allan rispose che non era facile saperlo, ma entrambi i suoi genitori erano di pelle bianca; poteva il professore accontentarsi di quella risposta? Allan aggiunse che gli sarebbe piaciuto terribilmente vedere un negro. Per caso il professore ne teneva uno da qualche parte?

Il professor Lundborg e i suoi assistenti non rispondevano mai alle domande di Allan limitandosi a prendere appunti, talvolta per parecchi giorni di fila. In quel periodo Allan lesse di tutto. Ovviamente i giornali, ma anche i volumi a disposizione nella biblioteca della clinica. A questo si aggiungevano tre pasti al giorno e una camera singola con bagno. Allan era felice della sua condizione di paziente coatto. Soltanto una volta l’atmosfera si era leggermente alterata; fu quando Allan chiese con curiosità al professor Lundborg se fosse tanto pericoloso essere negri o ebrei. Una volta tanto il professore non rimase in silenzio, sbraitando che il signor Karlsson doveva pensare agli affari propri e non impicciarsi di quelli altrui. La situazione ricordò ad Allan quella in cui molti anni prima sua madre lo aveva minacciato con un ceffone.


Passarono gli anni e gli interrogatori si diluirono sempre di più. Poi il parlamento svedese aprì un’inchiesta sulla sterilizzazione degli “esseri inferiori da un punto di vista biologico”, e quando il rapporto venne pubblicato il professor Lundborg si affrettò ad annunciare che il letto di Allan doveva essere liberato. All’inizio dell’estate del 1929 Allan fu dichiarato guarito e pronto a riprendere il suo posto in società, quindi sbattuto fuori con due soldi in tasca che non bastavano neanche per il treno fino a Flen. Dovette farsi a piedi gli ultimi dieci chilometri che lo separavano da Yxhult, ma non gli importava. Dopo quattro anni passati dietro una grata sentiva il bisogno di sgranchirsi le gambe.

CAPITOLO 5

Lunedì 2 maggio 2005


Il giornale locale non aspettò un minuto prima di pubblicare sul proprio sito la notizia del vecchio scomparso il giorno del suo centesimo compleanno. L’inviata era alla ricerca di fatti succulenti, e grazie ad alcune testimonianze si era fatta l’idea che non fosse da escludere l’ipotesi del rapimento: a quanto pareva il vegliardo era assolutamente lucido ed era impossibile che si fosse perso.


Sparire proprio quel giorno era singolare. La radio locale si mise subito in contatto con il giornale, seguita a ruota dalle radio nazionali, dall’agenzia di stampa TT, da Televideo, dalle pagine web delle testate più prestigiose e dai telegiornali delle edizioni pomeridiane e serali.


La polizia di Flen non fece altro che lasciare l’onore del caso alla polizia criminale della contea, che inviò due volanti al commissario Aronsson, quest’ultimo in borghese. Gli agenti si trovarono presto in compagnia di diverse squadre di reporter che diedero loro una mano a setacciare la zona. Naturalmente era il capo della polizia della contea a dare disposizioni, coltivando dentro di sé la speranza di farsi immortalare da qualche macchina fotografica.


Tanto per cominciare gli agenti perlustrarono tutti gli angoli dell’abitato, mentre il personale e gli ospiti della casa di riposo venivano interrogati. Il segretario comunale era invece rientrato a casa, a Flen, staccando i telefoni. Non c’era niente da guadagnare dalla sparizione di un vecchio ingrato, ecco quale fu il suo ragionamento.


Erano giunte anche varie soffiate: chi aveva visto Allan girare in bicicletta per Katrineholm, chi sosteneva che fosse stato in coda alla farmacia di Nyköping e si fosse comportato in modo poco garbato. Le segnalazioni furono però scartate per motivi diversi. Per esempio, era impossibile che fosse stato visto a Katrineholm, dato che aveva pranzato nella sua camera a Malmköping.


Con l’aiuto di un centinaio di volontari locali, il capo della polizia della contea decise di improvvisare alcune squadre di soccorso per ispezionare la zona e rimase di stucco quando non approdarono ad alcun risultato. Era convinto che si trattasse della banale scomparsa di un anziano affetto da demenza senile, anche se le testimonianze raccolte indicavano che il vecchio era ancora molto in gamba.


Dalle ricerche non emerse nulla, finché verso le sette e mezzo di sera non arrivò il cane poliziotto preso in prestito a Eskilstuna. L’animale, dopo aver annusato la poltrona di Allan e le orme lasciate nell’aiuola di viole del pensiero, puntò sicuro verso il parco, attraversò la strada fino all’area che circondava la chiesetta medievale, continuò oltre il muretto in pietra e non si fermò fino a quando non si trovò davanti alla sala d’attesa della stazione di Malmköping.


La porta era chiusa a chiave. Da un impiegato della Sörm­landstrafiken di Flen la polizia venne a sapere che nei giorni feriali la stazione chiudeva alle sette e mezzo, quando il collega di Malmköping finiva il turno, ma aggiunse che se non potevano aspettare il giorno dopo avrebbero potuto cercarlo a casa. Si chiamava Ronny Hulth e di certo il suo nome era sull’elenco telefonico.


Mentre il capo della polizia della contea si pavoneggiava davanti ai fotografi e alle telecamere fuori dalla casa di riposo, annunciando che era necessario proseguire le ricerche tutta la notte dal momento che il vecchio indossava abiti leggeri ed era probabilmente in stato confusionale, il commissario Göran Aronsson suonò al campanello di Ronny Hulth. Il cane aveva fatto chiaramente capire che il vecchio era stato nella sala d’attesa della stazione, e Hulth avrebbe potuto dirgli se aveva lasciato Malmköping a bordo di un pullman.


Ma Ronny Hulth non aprì. Sedeva in camera da letto, stretto al suo gatto, con le tapparelle abbassate.


“Andate via,” mormorò rivolto alla porta d’ingresso. “Via. Via!”


E così fece il commissario. Un po’ perché riteneva che il suo capo sapesse che il vecchio non se n’era andato a zonzo senza meta, un po’ perché pensava che se Allan era riuscito a salire su un pullman allora era in buone condizioni. In quanto a Ronny Hulth, doveva trovarsi con la sua compagna. Il mattino dopo sarebbe passato a fargli visita al lavoro. Sempre che prima non fossero arrivate notizie del vecchio.




Alle 21,02 la centrale di Eskilstuna ricevette la seguente telefonata:


Sì, mi chiamo Bertil Karlgren e telefono… telefono a nome della mia signora, ecco. Sì… Be’, mia moglie, Gerda Karlgren, è stata qualche giorno a Flen da nostra figlia e da suo marito. Aspettano un bambino e così… c’è sempre parecchio da fare, ecco. Ma oggi doveva tornare e ha preso, ecco, Gerda ha preso il pullman nel primo pomeriggio, ed era oggi, e il pullman passa da Malmköping, noi abitiamo qui a Strängnäs… Forse non è niente, secondo mia moglie, ma abbiamo appena sentito alla radio di un vecchio scomparso. Magari l’avete già trovato? No? Mia moglie dice che a Malmköping è salito sul pullman un uomo molto vecchio che aveva con sé una valigia molto grande, come se dovesse andare lontano. La mia signora era seduta in fondo e il vecchio davanti, quindi non ha potuto vederlo bene né sentire quello che si dicevano lui e l’autista. Cosa hai detto, Gerda? Sì, Gerda dice che lei non è il tipo che si mette ad ascoltare di nascosto… Comunque è strano… sì, strano… ecco… che il vecchio sia sceso in un punto a metà strada per Strängnäs. Ha percorso soltanto poche decine di chilometri con quel valigione. E poi sembrava davvero vecchio. Gerda non sa come si chiami la fermata, ma era come in mezzo ai boschi… in un punto a metà strada. Tra Malmköping e Strängnäs.

La conversazione venne registrata, trascritta e inviata via fax all’albergo di Malmköping dove alloggiava il commissario incaricato di seguire le indagini.

CAPITOLO 6

Lunedì 2 maggio-Martedì 3 maggio 2005


La valigia era piena fino all’orlo di banconote da cinquecento corone. Julius fece un rapido conteggio: dieci file in larghezza, cinque in profondità, quindici mazzi per ogni pila, sicuramente cinquantamila corone ogni mazzo…


“Trentasette milioni e mezzo, se non ho calcolato male,” disse Julius.


“Sono soldi, non c’è che dire,” commentò Allan.


“Fatemi uscire, brutti bastardi,” sbraitò il giovane dalla cella frigorifera.


Faceva sempre più baccano: urlava, scalciava, urlava di nuovo. Allan e Julius avevano bisogno di riprendersi dopo gli ultimi sorprendenti sviluppi, ma con tutto quel rumore non era possibile. Ad Allan parve giunto il momento di raffreddare un po’ i bollenti spiriti del giovane, così accese la ventola del congelatore.


Nel giro di pochi secondi il giovane se ne rese conto. Rimase in silenzio nel tentativo di riordinare i pensieri. Cosa non facile già in condizioni normali, e adesso aveva anche quello spaventoso mal di testa.


Dopo essersi fermato qualche minuto a rimuginare, capì che né minacce né calci l’avrebbero salvato. Doveva chiamare rinforzi dall’esterno. Doveva chiamare il Capo. La sola idea lo atterriva, ma la vicenda sembrava prendere una piega sempre peggiore.


Esitò qualche altro minuto mentre il freddo aumentava. Alla fine estrasse il cellulare.


Non c’era campo.




La sera si fece notte e la notte mattino. Aperti gli occhi, Allan non riusciva a capire dove fosse. Era finalmente morto durante il sonno?


Una baldanzosa voce maschile prima gli augurò il buongiorno, poi lo informò che aveva due notizie da comunicargli, una buona e una cattiva. Quale desiderava sentire per cominciare?


Innanzitutto Allan voleva capire dove si trovasse, e perché. Gli facevano male le ginocchia, quindi nonostante tutto era ancora vivo. Ma non aveva… e poi non aveva preso… e… non si chiamava Julius?


I tasselli tornarono al loro posto: Allan era sveglio. Era sdraiato a terra su un materasso, nella camera da letto di Julius, che ora gli stava ripetendo la domanda. Voleva sapere prima la notizia buona o quella cattiva?


“Quella buona,” rispose Allan. “La cattiva puoi tralasciarla.”


Ok, assentì Julius, e lo informò che la buona notizia era che la colazione era pronta. Caffè, tartine con arrosto d’alce e uova del vicino.


Assaporare ancora una volta una colazione che non fosse zuppa d’avena prima di morire: questa sì che era una buona notizia! Seduto al tavolo della cucina, Allan si dichiarò pronto ad ascoltare quella cattiva.


“La cattiva notizia…” disse Julius abbassando leggermente il tono. “La cattiva notizia è che con la sbornia ci siamo dimenticati di spegnere la ventola della cella frigorifera.”


“E?”


“E… il tipo là dentro è morto stecchito.”


Allan si grattò preoccupato la nuca prima di decidere che in nessun modo quella penosa notizia gli avrebbe rovinato la giornata.


“Brutta storia,” commentò. “Però devo dire che l’uovo è cotto in modo perfetto, né troppo né troppo poco.”




Il commissario Aronsson si svegliò verso le otto di cattivo umore. Sia che il vecchio fosse scomparso di sua volontà sia che fosse stato rapito, ritrovarlo non era un compito degno di un poliziotto del suo calibro.


Dopo essersi fatto una doccia e vestito, Aronsson scese al pianterreno dell’Albergo Plevnagården per fare colazione. Lungo il tragitto incontrò un impiegato che gli porse un fax arrivato in albergo la sera precedente.


Un’ora dopo il commissario Aronsson aveva una nuova visione del caso. Il fax proveniente dalla centrale di Eskilstuna gli era sembrato all’inizio di dubbio valore, ma quando Aronsson incontrò un pallido Ronny Hulth allo sportello della stazione dei pullman, non ci volle molto prima che quest’ultimo cedesse e si mettesse a raccontare quanto era successo.


Subito dopo chiamarono da Eskilstuna per riferire che la Sörmlandstrafiken di Flen aveva appena scoperto che dalla sera prima mancava un pullman, e che Aronsson doveva telefonare a una certa Jessica Björkman, compagna del conducente del pullman che evidentemente era stato prima rapito e poi rilasciato.


Il commissario Aronsson tornò al Plevnagården per bere una tazza di caffè e metabolizzare le informazioni appena acquisite. Meditando, si mise ad annotare le proprie osservazioni:


Un anziano, Allan Karlsson, fugge da una casa di riposo prima che nella sala comune comincino i festeggiamenti per il suo centesimo compleanno. Karlsson è, o era, incredibilmente in forma per la sua età, quantomeno a livello fisico – di questo abbiamo le prove –, tanto da riuscire a scavalcare una finestra presumibilmente senza aiuti. Ulteriori accertamenti fanno pensare che agisca da solo. L’infermiera, nonché direttrice dell’istituto, Alice Englund afferma che “Allan è senza dubbio vecchio, ma è anche un maledetto farabutto che sa esattamente quello che fa”.


Stando alle tracce seguite dal cane poliziotto, Karlsson, dopo essere rimasto per un po’ fermo in un’aiuola, ha attraversato a piedi parte dell’abitato di Malmköping prima di dirigersi verso la sala d’attesa della stazione dei pullman dove, secondo il testimone Ronny Hulth, è andato, o meglio si è trascinato, fino allo sportello dello stesso Hulth, che ha notato l’incedere lento e affaticato di Karlsson, il quale indossava pantofole al posto delle scarpe.


La testimonianza di Hulth sta inoltre a indicare che Karlsson era in fuga e non aveva una meta. Voleva allontanarsi il più velocemente possibile da Malmköping, la direzione e la destinazione erano di secondaria importanza.


Ciò viene peraltro confermato da una tale Jessica Björkman, compagna del conducente Lennart Ramnér. Non è stato ancora possibile interrogarlo direttamente, in quanto ha ingerito troppi sonniferi. Ma la testimonianza della Björkman pare attendibile. Karlsson ha comprato da Ramnér un biglietto in base alla sua disponibilità di denaro. Casualmente, la meta è risultata la fermata della stazione di Byringe. Casualmente. Non ci sono motivi per credere che qualcosa o qualcuno stesse aspettando Karlsson proprio lì.


Un altro particolare: a quanto pare Hulth non ha notato il modo in cui Karlsson si è procurato la valigia prima di salire sul pullman in direzione di Byringe, ma la questione è risultata subito chiara in seguito alle azioni violente di un presunto membro dell’organizzazione criminale Never Again.


Jessica Björkman non è riuscita a ottenere alcuna notizia riguardante la valigia dal suo convivente intontito dai sonniferi, ma il fax inviato dalla centrale conferma come con tutta probabilità Karlsson – per quanto incredibile – abbia rubato la valigia a un membro della Never Again.


Il racconto della Björkman, unito al contenuto del fax proveniente da Eskilstuna, porta a credere che prima Karlsson, verso le 15,20 minuto più minuto meno, poi il membro della Never Again, circa quattro ore dopo, siano scesi alla stazione di Byringe per poi proseguire verso destinazione ignota. Il primo, centenario, si trascinava dietro una valigia, mentre il secondo era molto più giovane.


Il commissario Aronsson, chiuso il taccuino, bevve l’ultimo goccio di caffè. Erano le 10,25.


“Prossima meta, la stazione di Byringe.”




Facendo colazione, Julius passò in rassegna insieme ad Allan tutto quello che aveva fatto e pensato nelle prime ore del mattino mentre lui stava ancora dormendo.


Per prima cosa, l’incidente della cella frigorifera. Quando Julius si era reso conto che la temperatura era rimasta sotto lo zero per almeno dieci ore di fila, aveva afferrato il piede di porco come eventuale arma di difesa, quindi aveva aperto la porta della cella. Se il giovane fosse stato in vita, non sarebbe certo stato abbastanza lucido da avere la meglio su Julius e il suo piede di porco.


Tuttavia la precauzione si era rivelata inutile. Il giovane era accasciato sulla cassa, il corpo ricoperto di cristalli di ghiaccio e gli occhi persi nel vuoto. In breve, morto come un alce tagliato a pezzi.


A detta di Julius la cosa era spiacevole, ma anche molto vantaggiosa: infatti, non sarebbe stato possibile liberare impunemente quel pazzo scatenato. Dopo aver spento la ventola del congelatore Julius aveva lasciato la porta aperta. Il giovane era morto, ma non per questo meritava di restare surgelato.


Dopo avere acceso la stufa a legna della cucina per mantenere calda la stanza, Julius aveva ricontato i soldi. Non erano trentasette milioni e mezzo come gli era sembrato la sera prima, ma cinquanta.


Allan ascoltò con interesse la relazione di Julius mentre faceva colazione con un appetito che non ricordava da tempo. Rimase in silenzio fino a quando Julius non giunse ad affrontare il lato economico della storia.


“Sì, è più facile dividere in due cinquanta milioni. Semplice e chiaro. Scusa, ti spiacerebbe passarmi il sale?”


Julius fece quello che Allan gli aveva chiesto, spiegandogli che sarebbe stato in grado di dividere in due anche trentasette milioni e mezzo, se necessario, ma conveniva con lui che con cinquanta era più facile. Poi si fece serio. Sedendosi a tavola di fronte ad Allan, disse che era venuto il momento di lasciare per sempre la stazione abbandonata. Sì, il giovane nella cella frigorifera non avrebbe più creato problemi, ma chi poteva dire cosa aveva combinato prima di arrivare lì? Da un minuto all’altro sarebbero potuti piombare in cucina dieci nuovi giovani arrabbiati e urlanti, benché lui avesse smesso di farlo.


Allan era d’accordo, ma ricordò a Julius che lui era parecchio avanti con gli anni, non più agile come un tempo. Julius promise che avrebbe ridotto i tratti a piedi al minimo indispensabile. Comunque sia, dovevano andarsene. La cosa migliore era portarsi via il cadavere. Non sarebbe stato bello per nessuno dei due se qualcuno sulle loro tracce avesse trovato un morto.


La colazione era finita, era tempo di darsi da fare. Julius e Allan si disposero a trasportare il cadavere dalla cella frigorifera in cucina, piazzarono il corpo su una sedia e raccolsero le forze in vista della prossima mossa.


Squadrando il giovane dall’alto in basso, Allan disse:


“Per essere così grosso ha piedi incredibilmente piccoli. Delle scarpe non ha più bisogno, no?”


Julius rispose che molto probabilmente fuori faceva freddo, essendo mattino presto, e il rischio che Allan si congelasse le dita dei piedi era ben maggiore di quello che correva il giovane. Se secondo Allan le sue scarpe potevano andargli bene, non doveva fare altro che infilarsele. Chi tace acconsente.


Ad Allan andavano un po’ grandi, ma erano di buona qualità e di certo sembravano più adatte alla fuga di un paio di pantofole consunte.


La mossa successiva consisté nello spostare il giovane in salotto e nel farlo rotolare giù per le scale. Si ritrovarono tutti e tre sul marciapiede, due in piedi e uno a terra, e Allan si chiese quale sarebbe stata la prossima azione di Julius.


“Non muoverti,” disse questi ad Allan. “E neanche tu,” aggiunse rivolto al giovane prima di scendere dal marciapiede ed entrare in una rimessa accanto ai binari.


Poco dopo ricomparve a bordo di un carrello ferroviario.


“Modello 1954,” commentò. “Benvenuti a bordo.”


Julius, in testa, guidava, Allan, dietro, accompagnava il moto del carrello con le gambe, mentre il morto, sul sedile alla destra del conducente, aveva la testa appoggiata al manico di una scopa e gli occhi vitrei nascosti da un paio di occhiali da sole.


Erano le 11,05 quando il gruppo si mise in viaggio. Tre minuti dopo una Volvo blu scuro giunse alla stazione abbandonata di Byringe. Dall’auto scese il commissario Göran Aronsson.


L’edificio sembrava disabitato, ma un’occhiata più scrupolosa non avrebbe guastato, prima di proseguire per Byringe e andare a bussare a tutte le porte.


Con cautela Aronsson salì sul marciapiede pericolante. Aprendo la porta d’ingresso esclamò: “C’è qualcuno?” Non avendo ricevuto risposta, imboccò le scale. Nonostante tutto, la stazione pareva abitata. Nella stufa a legna della cucina c’erano ancora dei tizzoni accesi, e sul tavolo i resti di una colazione per due.


Sul pavimento, un paio di pantofole consunte.




La Never Again si definiva ufficialmente un club di motociclisti, ma non era altro che uno sparuto drappello di giovani delinquenti capitanati da un uomo di mezza età dai trascorsi ancora peggiori; tutti erano comunque assai decisi a proseguire sulla via del crimine.


Il responsabile della banda si chiamava Per-Gunnar Gerdin, ma nessuno osava chiamarlo altro che “Capo”, dal momento che lo aveva deciso lui in persona: era alto quasi due metri, pesava circa centotrenta chili e soleva estrarre il coltello se qualcosa o qualcuno non gli andava a genio o provava a contraddirlo.


Inizialmente il Capo aveva intrapreso la sua carriera criminale con una certa prudenza. Insieme a un amico della sua età importava in Svezia frutta e verdura, barando sul paese di provenienza della merce per fregare lo Stato sulle tasse ed estorcere un prezzo più alto ai consumatori.


Non c’era niente che non andasse nell’amico del Capo, a parte il fatto che non era di vedute sufficientemente ampie. Il Capo avrebbe voluto apportare delle innovazioni, per esempio usando la formalina. Aveva sentito dire che in Asia lo facevano e la sua idea era di importare polpettine di carne svedesi dalle Filippine, a buon mercato e via nave, che con un adeguato quantitativo di formalina si sarebbero conservate per tre mesi, se necessario, persino a una temperatura di trenta gradi.


Il costo sarebbe risultato così basso da non rendere neanche necessario chiamare svedesi quelle polpettine per venderle. Bastava chiamarle danesi, a detta del Capo, ma il suo amico non ne voleva sapere. Secondo lui la formalina serviva a conservare i cadaveri, non a dare alle polpettine la vita eterna.


Così le loro strade si divisero, e da quel momento per il Capo le polpettine alla formalina rimasero un sogno. Invece, gli venne in mente che bastava calarsi un berretto sulla testa per rapinare la ditta concorrente, decisamente troppo corretta, e cioè la Stockholms Fruktimport AB, portandosi via il ricavato della giornata.


Con l’aiuto di un machete e un ruggito feroce, sbraitando “Fuori il malloppo, se no…”, in un colpo solo e con sua grande sorpresa il Capo era diventato più ricco di quarantunomila corone. Perché correre delle grane con le importazioni quando si potevano guadagnare dei bei soldi senza quasi lavorare?


E così il Capo procedette su quella strada. Per la maggior parte le cose gli andarono bene, a eccezione di un paio di brevi ferie involontarie nell’arco dei quasi vent’anni trascorsi da libero professionista nel settore rapine.


Ma dopo un paio di decenni al Capo parve giunto il momento di cominciare a pensare in grande. Si procurò un paio di scagnozzi molto più giovani di lui a cui diede degli stupidi soprannomi (uno fu ribattezzato Bullone, l’altro Secchio), con i quali condusse a buon fine due rapine a dei furgoni portavalori.


Una terza rapina analoga si concluse per tutti e tre con un soggiorno di sei mesi nel penitenziario di Hall. Fu allora che al Capo venne in mente di fondare la Never Again. I suoi piani erano ambiziosi: inizialmente la banda sarebbe stata composta da cinquanta membri suddivisi in tre rami, “rapina”, “droga” ed “estorsione”. Il nome Never Again nacque dall’intenzione del Capo di creare una struttura così micidiale e a prova di bomba da non finire mai più, never again, a Hall o in qualsiasi altro penitenziario. La Never Again sarebbe diventata il Real Madrid del crimine (al Capo piaceva il calcio).


Sulle prime la fase di reclutamento andò molto bene, ma una lettera indirizzata al Capo da parte della mamma finì nelle mani sbagliate. Nella missiva la madre scriveva tra l’altro che in carcere il suo piccolo Per-Gunnar doveva stare attento a non frequentare brutte compagnie, che doveva fare attenzione alle sue tonsille delicate e che non vedeva l’ora di giocare nuovamente con lui a caccia al tesoro quando fosse tornato a casa.


Dopodiché non servì a nulla che il Capo quasi squartasse con il coltello due iugoslavi in coda alla mensa e si comportasse in pubblico in modo ancora più violento. La sua autorità aveva subito un colpo mortale. Dei trenta che erano stati reclutati fino a quel momento, ventisette se ne andarono. Oltre a Bullone e a Secchio rimase un venezuelano, José María Rodríguez, segretamente innamorato del Capo, cosa che non ebbe mai il coraggio di rivelare a nessuno tranne a se stesso.


Al venezuelano fu affibbiato il nome di Caracas. Per quanto il Capo minacciasse e tuonasse, in prigione non riuscì ad arruolare nessun altro membro per la sua banda. E un bel giorno lui e i suoi tre sottoposti vennero scarcerati.


A un certo punto il Capo pensò di abbandonare l’idea di costituire la Never Again, ma poi venne a sapere che Caracas aveva un conoscente colombiano di larghissime vedute e amici piuttosto interessanti. Fu così, visto che una cosa tira l’altra, che grazie alla Never Again la Svezia divenne il paese di transito per eccellenza verso l’Europa dell’Est del cartello colombiano di sostanze stupefacenti. Il giro d’affari si fece sempre più intenso e non ci fu più né l’occasione né il personale sufficiente per attivare i rami della “rapina” e dell’“estorsione”.




A Stoccolma il Capo convocò il consiglio di guerra, composto da Secchio e Caracas. Era successo qualcosa a Bullone, l’imbranato che avrebbe dovuto portare a termine il miglior colpo della banda. In mattinata il Capo si era messo in contatto con i russi, che avevano confermato di aver ricevuto la merce – e di aver effettuato il pagamento. Se poi il corriere della Never Again se l’era svignata con la valigia, questo non era un problema loro. Se poi la Never Again voleva dare inizio alle danze per colpa di quella faccenda, i russi non si sarebbero tirati indietro. Se necessario, sapevano ballare. Sia il valzer sia la mazurca.


Il Capo partì dal presupposto che i russi dicessero la verità (tra l’altro, era sicuro che sapessero ballare meglio di lui) ed escluse che Bullone fosse sparito volontariamente con il malloppo, dal momento che era troppo stupido. O troppo intelligente, dipendeva dai punti di vista.


L’alternativa era che qualcuno a conoscenza della transazione avesse aspettato il momento giusto a Malmköping, o mentre Bullone era di ritorno a Stoccolma, e lo avesse liquidato per impossessarsi della valigia.


Ma chi? Il Capo pose la domanda al consiglio di guerra senza ricevere alcuna risposta, cosa che non lo stupì affatto: da tempo era arrivato alla conclusione che i suoi scagnozzi erano tutti e tre dei deficienti.


Ordinò immediatamente a Secchio di andare in esplorazione, dato che pensava che quell’idiota di Secchio fosse meno idiota di quell’idiota di Caracas. Quell’idiota di Secchio partiva da premesse leggermente migliori per trovare quell’idiota di Bullone e forse recuperare la valigia con i soldi.


“Vai a Malmköping a dare un’occhiata, Secchio, ma vestiti in borghese perché lì è pieno di piedipiatti. A quanto pare è scomparso un vecchio bacucco.”




Julius, Allan e il morto procedevano sui binari attraverso i boschi del Sörmland. A Vidkärr ebbero la sfortuna di imbattersi in un contadino di cui Julius non ricordava il nome. Stava esaminando il raccolto quando il trio sopraggiunse a bordo del carrello ferroviario.


“Buongiorno,” esclamò Julius.


“Bella giornata,” aggiunse Allan.


Il morto e il contadino non dissero nulla, ma quest’ultimo li osservò a lungo mentre si allontanavano.


Più si avvicinavano alla fonderia di Åkers Styckebruk, più Julius era preoccupato. Aveva previsto di incrociare un corso d’acqua dove liberarsi del cadavere, ma non ne aveva ancora avvistato nessuno. Inoltre stavano per finire su un binario della zona industriale della fonderia. Tirato il freno, Julius riuscì a fermare in tempo il carrello. Il morto cadde in avanti andando a sbattere la fronte su una sbarra di ferro.


“Chissà che male in altre circostanze,” commentò Allan.


“Qualche volta essere morti presenta dei vantaggi,” commentò Julius.


Sceso dal carrello, Julius si nascose dietro un albero per sbirciare la zona industriale. Le porte della fabbrica erano aperte. Guardò l’orologio: erano le 12,10. Ora di pranzo, concluse, dopodiché gli cadde l’occhio su un grosso container. Informò Allan che si sarebbe allontanato qualche minuto allo scopo di perlustrare il territorio. L’altro gli augurò buona fortuna e lo pregò di non perdersi.


Il rischio non c’era, dal momento che Julius doveva percorrere soltanto la trentina di metri che lo separava dal container. Ci si infilò dentro scomparendo alla vista di Allan. Poi riapparve. Tornato senza problemi al carrello ferroviario, Julius annunciò che aveva capito cosa fare del cadavere.


Il container era quasi pieno di cilindri di un metro di diametro e lunghi almeno tre, tutti confezionati singolarmente in casse di legno dotate di sportello su uno dei lati corti. Allan era sfinito quando il pesante cadavere del giovane risultò finalmente al suo posto dentro uno dei cilindri più interni al container, ma si ringalluzzì quando, chiusa la cassa, gli saltò all’occhio la scritta con l’indirizzo di destinazione.


Addis Abeba.


“Se non avesse gli occhi chiusi potrebbe vedere il mondo,” disse Allan riferendosi al morto.


“Dai, vecchio,” replicò Julius. “Dobbiamo muoverci.”


L’operazione si concluse felicemente e i due scomparvero fra le betulle molto prima che la pausa pranzo degli operai fosse terminata. Sostarono sul carrello ferroviario per riprendere fiato. Poco dopo la zona industriale cominciò ad animarsi. Un operaio caricò altri cilindri nel container, fino a riempirlo completamente, e una volta finito riprese il suo lavoro.


Allan si chiese cosa producessero in quel posto. Julius sapeva che si trattava di un’antica fabbrica, che già nel 1600 fondeva cannoni per coloro che durante la Guerra dei trent’anni aspiravano a uccidere in maniera efficiente.


Ad Allan sembrava assurdo che fin dal 1600 gli uomini si odiassero al punto di ammazzarsi. Se soltanto si fossero calmati un po’ sarebbero morti lo stesso ma senza scannarsi a vicenda. Julius rispose che la cosa riguardava tutte le epoche, poi proseguì dicendo che la sosta era finita ed era venuto il momento di squagliarsela. Secondo i suoi piani i due amici si sarebbero diretti a piedi verso il centro di Åker e lì avrebbero escogitato qualcosa.




Il commissario Aronsson ispezionò la vecchia stazione ferroviaria di Byringe senza trovare niente di interessante oltre alle pantofole che forse appartenevano al vecchio scomparso. Le avrebbe raccolte per mostrarle al personale della casa di riposo.


Sul pavimento della cucina c’erano delle macchie d’acqua che terminavano davanti a una cella frigorifera non in funzione e con la porta aperta. Difficile trovare un filo conduttore.


Aronsson proseguì verso Byringe. In tutt’e tre le case a cui bussò gli venne detto che un tale Julius Jonsson abitava al primo piano della stazione, che era un ladro e un truffatore con cui nessuno voleva avere niente da spartire, e che non avevano sentito nulla di strano la sera prima e nemmeno dopo. Ma che Julius Jonsson fosse implicato in qualcosa di poco chiaro era senz’altro possibile.


“Sbattetelo in galera,” pretese il vicino più arrabbiato.


“Per cosa?” chiese stancamente il commissario.


“Perché la notte mi ruba le uova nel pollaio, perché quest’inverno mi ha fregato una slitta appena comprata e dopo averla riverniciata ha sostenuto che era sua, perché ordina i libri a mio nome, ficca il naso nella mia cassetta delle lettere per ritirarli e mi lascia il conto da pagare, perché cerca di vendere acquavite distillata illegalmente a mio figlio di quattordici anni, perché…”


“Sì, sì, va bene. Lo sbatterò in galera,” lo rassicurò il commissario. “Però prima devo trovarlo.”


Aronsson stava rientrando a Malmköping quando, più o meno a metà strada, gli suonò il cellulare. Era la centrale. Un contadino di Vidkärr, tale Tengroth, aveva chiamato per fornire un’informazione interessante. Qualche ora prima un noto mascalzone della zona aveva attraversato i suoi campi a bordo di un carrello ferroviario, lungo i binari abbandonati che congiungevano Byringe alla fonderia di Åker. Sopra c’erano anche un vecchio, una valigia piuttosto grande e un giovane con un paio di occhiali da sole che secondo il contadino Tengroth sembrava avere il comando. Anche se ai piedi portava soltanto i calzini…


“Non ci sto capendo più niente,” sbottò il commissario Aronsson prima di fare inversione a una velocità tale che le pantofole appoggiate sul sedile del passeggero volarono a terra.




Dopo qualche centinaio di metri l’andatura già lenta di Allan rallentò ulteriormente. Non si lamentava, ma Julius vide che le ginocchia iniziavano a cedergli sul serio. Un po’ più avanti, sulla destra, c’era un chiosco. Julius promise ad Allan che se fosse riuscito a raggiungerlo gli avrebbe offerto un panino con la salsiccia, e in qualche modo si sarebbe procurato un mezzo di trasporto migliore. Allan disse che mai nella vita si era lagnato per un po’ di stanchezza e non aveva certo intenzione di cominciare ora, ma d’altro canto un panino con la salsiccia lo avrebbe gradito.


Julius accelerò il passo, Allan arrancava. Quando lo raggiunse, Julius aveva già mangiato metà del suo panino. Oltre ad avere sbrigato alcune faccende.


“Allan,” esordì, “vieni a salutare Benny. È il nostro nuovo autista privato.”


Benny era il proprietario del chiosco, sulla cinquantina, con ancora tutti i capelli che finivano in una coda di cavallo. Nel giro di circa due minuti Julius era riuscito a comprare un panino con la salsiccia, una Fanta e la Mercedes color argento del 1988 di Benny, incluso Benny, per centomila corone.


Allan diede un’occhiata al proprietario del chiosco, che continuava a rimanere dietro il bancone.


“Abbiamo comprato anche te o ti abbiamo soltanto ingaggiato?” chiese alla fine.


“Comprato la macchina, ingaggiato l’autista,” rispose Benny. “Inizialmente per dieci giorni, poi vedremo. A proposito, la salsiccia è inclusa nel prezzo. Vuoi una di queste, più sottili?”


No, e perché mai? Allan ne voleva una normale, se possibile. Poi aggiunse che centomila corone per una macchina così vecchia erano uno sproposito, con o senza autista, quindi gli sembrava giusto includere anche una bibita al cioccolato.


Benny accettò. Tanto stava per lasciare il chiosco, e una bibita al cioccolato più o meno se la poteva ancora permettere. Gli affari andavano male: acquistare un chiosco dalle parti di Åkers Styckebruk si era dimostrato un pessimo affare, proprio come aveva sospettato.


Il fatto era, spiegò Benny, che già prima che i signori comparissero in modo così tempestivo lui aveva cominciato a pensare di trovarsi qualcos’altro da fare nella vita. A diventare un autista privato però non ci aveva pensato.


Sulla base di quello che il proprietario del chiosco aveva appena detto, Allan gli suggerì di infilare nel bagagliaio un cartone di bibite al cioccolato. Da parte sua Julius promise a Benny che gli avrebbero procurato un berretto da autista non appena si fosse tolto quello del chiosco e si fosse dato una mossa, perché era venuto il momento di andare.


Benny aveva la convinzione che il compito di un autista non fosse esattamente quello di mettersi a discutere con il capo, quindi fece come gli dissero. Il berretto finì nella spazzatura e le bibite al cioccolato nel bagagliaio insieme a qualche Fanta. Ma Julius volle che la valigia restasse sul sedile posteriore accanto a lui. Allan prese posto davanti in modo da poter allungare per bene le gambe.


A quel punto, messa fine alla propria attività commerciale, il proprietario del chiosco si sedette al volante di quella che pochi minuti prima era stata la sua Mercedes, acquistata per una bella somma dai due gentiluomini a cui Benny avrebbe prestato i propri servigi.


“Dove vogliono recarsi i signori?” domandò Benny.


“Verso nord, che ne dici?” chiese Julius.


“Sì, va bene,” rispose Allan. “O verso sud.”


“Allora diciamo a sud,” disse Julius.


“A sud,” confermò Benny inserendo la prima.




Dieci minuti dopo il commissario Aronsson arrivò ad Åker. Gli bastò far correre lo sguardo lungo i binari per scoprire la presenza di un vecchio carrello ferroviario abbandonato vicino alla fonderia.


Purtroppo sul carrello non c’erano tracce visibili. Sul retro della fabbrica gli operai erano intenti a caricare dei cilindri nei container. Nessuno di loro aveva notato l’arrivo del carrello, ma avevano visto due vecchi allontanarsi a piedi subito dopo pranzo: uno trascinava una valigia piuttosto grande, l’altro lo seguiva a qualche metro di distanza. Sicuramente erano diretti verso il chiosco della stazione di servizio, ma che strada avessero preso non lo sapeva nessuno.


Aronsson chiese se erano certi che si trattasse di due uomini e non tre, ma gli operai ribadirono di aver visto soltanto i due vecchi, nessuna terza persona.


Mentre guidava verso la stazione di servizio Aronsson meditò sulle informazioni raccolte, delle quali tuttavia gli sfuggiva il nesso.


Per prima cosa si fermò al chiosco. Gli stava venendo fame, quindi cadeva a puntino, ma a quanto pareva era chiuso. Di certo non era un affare gestirne uno in quel posto dimenticato da Dio, pensò Aronsson dirigendosi alla stazione di servizio, dove nessuno aveva visto né sentito niente. Quantomeno furono in grado di fornire ad Aronsson un panino con la salsiccia, malgrado sapesse di benzina.


Dopo il suo rapido pranzo il commissario visitò il supermercato, il fiorista e l’agenzia immobiliare dell’abitato. Si fermò a interrogare anche i pochi operai a spasso con il cane, la carrozzina o la loro dolce metà. Nessuno poteva testimoniare di aver visto due o tre uomini con una valigia. La pista si concluse definitivamente in un punto indefinito tra la fonderia e la stazione di servizio. Il commissario Aronsson decise di rientrare a Malmköping. Aveva con sé un paio di pantofole che dovevano essere identificate.




Il commissario Göran Aronsson telefonò al suo superiore per informarlo dello stato delle indagini. Il capo gliene fu grato, dal momento che alle due del pomeriggio doveva tenere una conferenza stampa al Plevnagården e finora non aveva trovato nulla da dire.


Il capo della polizia della contea aveva una certa propensione per il melodramma, che quando poteva sfruttava appieno. Il commissario Aronsson gli aveva giusto fornito l’occorrente per l’esibizione del giorno.


Durante la conferenza stampa decise di non porsi alcun freno, a meno che Aronsson non fosse rientrato in tempo per bloccarlo (cosa del resto poco probabile), e annunciò che ora come ora la sparizione di Allan Karlsson lasciava pensare a un rapimento, in linea con ciò che la stampa locale aveva paventato il giorno prima. Per il momento la polizia era in possesso di informazioni che facevano supporre che Karlsson fosse ancora vivo, anche se in mano a dei poco di buono.


Le domande dei giornalisti iniziarono a fioccare, ma il capo della polizia della contea seppe destreggiarsi con abilità: poteva soltanto aggiungere che Karlsson e i suoi presunti rapitori erano stati visti quello stesso giorno intorno all’ora di pranzo nel piccolo centro abitato di Åkers Styckebruk, ed esortava i migliori amici della polizia, alias il pubblico, a prendere contatto con la polizia medesima qualora avessero notato qualcosa.


Con suo gran disappunto, però, l’équipe televisiva se n’era già andata. Questo non sarebbe accaduto se quell’imbranato di Aronsson gli avesse fornito prima l’informazione relativa a un possibile rapimento. Comunque, l’“Expressen” e l’“Aftonbladet” erano presenti, così come il giornale e la radio locali. In fondo alla sala da pranzo del Plevnagården c’era anche un uomo che il capo della polizia della contea aveva visto il giorno prima. Era forse dell’agenzia di stampa TT?


Ma Secchio non era della TT, era stato mandato dal Capo da Stoccolma e cominciava a credere che Bullone si fosse volatilizzato con la grana. In tal caso si poteva considerare un uomo morto.




Quando il commissario Aronsson giunse al Plevnagården i rappresentanti della stampa si erano dileguati. Lungo la strada si era fermato alla casa di riposo, dove aveva avuto conferma che le pantofole ritrovate appartenevano ad Allan Karlsson (annusandole, l’infermiera Alice aveva annuito con una smorfia).


Nella hall dell’albergo Aronsson ebbe la sfortuna di imbattersi nel suo capo, il quale gli riferì com’era andata la conferenza stampa e gli diede l’incarico di risolvere il caso, preferibilmente in modo da non creare alcun tipo di conflitto tra la realtà e quello che lui aveva appena affermato.


Poi il capo se ne andò: aveva un mucchio di cose di cui occuparsi. Per esempio, era ora di far intervenire il procuratore.


Aronsson si sedette davanti a una tazza di caffè per riflettere sul risultato dei suoi ultimi spostamenti. Quello che gli dava più da pensare era il legame fra i tre a bordo del carrello ferroviario. Se Tengroth aveva sbagliato affermando che Karlsson e Jonsson non subivano pressioni da parte del terzo passeggero, allora si poteva parlare di ostaggi, che era quanto il capo aveva appena dichiarato in conferenza stampa. Tuttavia molto raramente il capo aveva ragione. Inoltre c’erano testimoni che avevano visto Karlsson e Jonsson camminare per Åker – con la valigia. In questo caso, era possibile che i due vecchi fossero riusciti ad avere la meglio su un membro giovane e forte della Never Again buttandolo in un fosso…


Incredibile ma non impossibile. Aronsson decise di richiedere nuovamente l’intervento del cane poliziotto di Eskilstuna. Per l’animale e il suo addestratore si sarebbe trattato di una passeggiata dai campi di proprietà del contadino Tengroth fino alla fonderia di Åker. In qualche punto lungo quel tracciato il membro della Never Again doveva pur essere scomparso.


Del resto gli stessi Karlsson e Jonsson si erano dissolti fra il retro della fabbrica e la stazione di servizio – un tragitto di duecento metri. Inghiottiti dalla terra senza che anima viva avesse notato nulla. L’unica cosa esistente in quel tratto di strada era un chiosco chiuso.


Ad Aronsson suonò il cellulare. Era la centrale, che aveva ricevuto una nuova soffiata: questa volta il vecchio scomparso era stato visto alla stazione di servizio Mjölby sul sedile anteriore di una Mercedes, probabilmente rapito dall’uomo di mezza età con la coda di cavallo seduto al volante.


“Controlliamo?” chiese il collega.


“No,” sospirò Aronsson.


Una lunga vita da commissario gli aveva insegnato a isolare le informazioni giuste dalla fuffa: un pensiero consolante, visto che quasi tutto era avvolto nella nebbia.




Benny si fermò a Mjölby per fare il pieno. Julius aprì con circospezione la valigia, da cui estrasse una banconota da cinquecento corone per pagare.


Poi disse che sarebbe sceso per sgranchirsi le gambe, ma chiese ad Allan di rimanere in macchina a fare la guardia al bagaglio. Questi, stanco dopo gli strapazzi della giornata, promise che non si sarebbe mosso.


Benny tornò per primo e si accomodò al volante. Subito dopo arrivò Julius, che ordinò di ripartire immediatamente. La Mer­ce­des riprese il suo cammino verso sud.


Dopo un po’ Julius si mise ad armeggiare con qualcosa sul sedile posteriore. Porse un sacchetto di cioccolatini ad Allan e a Benny.


“Guardate che cosa ho sgraffignato,” disse.


Allan inarcò le sopracciglia.


“Hai rubato un sacchetto di cioccolatini quando abbiamo cinquanta milioni nella valigia?”


“Avete cinquanta milioni nella valigia?” chiese Benny.


“Accidenti,” commentò Allan.


“Non esattamente,” intervenne Julius. “Hai avuto centomila corone.”


“Più cinquecento per la benzina,” precisò Allan.


“Allora avete quarantanovemilioniottocentonovantanovemilacinquecento corone nella valigia?”


“Sei veloce a contare,” la lodò Allan.


Per un po’ calò il silenzio. A quel punto Allan decise che era meglio raccontare all’autista tutta la storia. Se poi Benny avesse voluto rompere l’accordo, non ci sarebbero stati problemi.




La parte che Benny ebbe maggiore difficoltà a digerire era che una persona fosse stata uccisa e spedita all’estero. Si era trattato di un incidente, questo sì, anche se c’era di mezzo una sbornia. L’alcol a Benny non interessava.


L’autista neoassunto rifletté ancora prima di arrivare alla conclusione che all’inizio i cinquanta milioni erano finiti nelle mani sbagliate, e forse ora sarebbero stati meglio utilizzati. Inoltre licenziarsi il primo giorno di lavoro non era una bella cosa.


Per questo, promettendo di restare in servizio, chiese ai signori quali fossero i loro piani per il futuro. Finora non aveva osato domandarlo: la curiosità non gli sembrava la dote migliore per un autista, ma adesso era diventato complice anche lui.


Allan e Julius ammisero di non averne affatto, ma che sarebbe stato meglio continuare su quella strada finché non avesse fatto buio, e trovare un posto dove discutere della faccenda. E così fu.


“Cinquanta milioni,” disse Benny ridendo mentre metteva in moto la Mercedes.


“Qua­ran­ta­no­ve­mi­lio­ni­ot­to­cen­to­no­van­ta­no­ve­mi­la­cin­que­cen­to,” lo corresse Allan.


Julius fu indotto a promettere che avrebbe smesso di rubare solo per il gusto di farlo. Confessò che non sarebbe stato facile perché ce l’aveva nel sangue, tuttavia acconsentì aggiungendo che raramente faceva delle promesse ma quando accadeva manteneva sempre la parola data.


Il viaggio proseguì in silenzio. Allan si addormentò subito. Julius mangiò un altro cioccolatino mentre Benny canticchiava una canzone di cui non ricordava il titolo.




Non è facile fermare un giornalista di un’edizione serale che ha fiutato una storia. Non passarono molte ore prima che i reporter dell’“Expressen” e dell’“Aftonbladet” riuscissero a farsi un’idea dell’accaduto molto più chiara di quella propinata loro dal capo della polizia della contea nella conferenza stampa del pomeriggio. Questa volta fu il giornalista dell’“Expressen” a spuntarla su quello dell’“Aftonbladet”, perché fu il primo a contattare Ronny Hulth, a recarsi a casa sua e, in cambio della promessa di procurargli un maschio per la sua gattina, a riuscire a convincerlo a trascorrere la notte in un albergo di Eskilstuna, fuori dalla portata dell’“Aftonbladet”. Inizialmente Hulth aveva paura di parlare, ricordava bene le minacce del giovane, ma il giornalista gli promise che sarebbe rimasto anonimo, oltre al fatto che non gli sarebbe successo nulla se il club dei motociclisti fosse venuto a sapere che c’era di mezzo la polizia.


Ma l’“Expressen” non si accontentò di Hulth. Persino il conducente del pullman finì nella rete, così come gli abitanti di Byringe, il contadino di Vidkärr e altra gente di Åker. Il che portò alla produzione di numerosi articoli dai toni drammatici. Sicuramente pieni di supposizioni errate, ma date le circostanze si poteva dire che il giornalista avesse svolto un buon lavoro.




La Mercedes color argento proseguiva il suo viaggio. A poco a poco anche Julius si era assopito. Allan russava sul sedile anteriore, Julius su quello posteriore con la valigia a mo’ di scomodo guanciale. Mentre Benny sceglieva la direzione in base al suo intuito.


A Mjölby aveva deciso di lasciare la E4 per imboccare la statale 32 in direzione di Tranås, dove però non si era fermato, continuando verso sud. Entrato nella contea di Kronoberg cambiò di nuovo strada, ritrovandosi tra i boschi dello Småland. Lì sperava di trovare un posto per la notte.


Allan si destò chiedendo se non fosse arrivato il momento di andare a letto. Julius fu svegliato dalla conversazione che stava avendo luogo nella parte anteriore della macchina. Si guardò intorno: boschi ovunque. Domandò dove fossero.


Benny riferì che si trovavano poche decine di chilometri a nord di Växjö e che mentre i signori dormivano aveva riflettuto un po’.


Era arrivato alla conclusione che per motivi di sicurezza sarebbe stato meglio cercare un posticino defilato dove passare la notte. Non sapevano chi avessero alle calcagna, ma se uno si appropria di una valigia con dentro cinquanta milioni di denaro sporco non può pensare di essere lasciato in pace. Per questo aveva abbandonato la strada che li avrebbe condotti a Växjö, mentre ora si stavano avvicinando all’anonimo centro abitato di Rottne. L’idea di Benny era di pernottare lì.


“Ben detto,” lo elogiò Julius, “ma non del tutto.”


Si spiegò. Nella migliore delle ipotesi a Rottne avrebbero trovato un alberghetto da quattro soldi poco frequentato. Se una sera fossero comparsi tre signori senza preavviso, di sicuro avrebbero attirato l’attenzione. Meglio cercare una fattoria o qualcosa di simile in mezzo ai boschi, dove chiedere un letto e un boccone.


Benny ammise la bontà del ragionamento, quindi imboccò la prima strada sterrata che vide.


Cominciava a fare buio quando, dopo soli quattro tortuosi chilometri, sul ciglio della strada scorsero una cassetta delle lettere su cui era scritto “Fattoria del lago”, con accanto una deviazione che probabilmente li avrebbe condotti lì. Così fu. Dopo cento metri lungo una stradina tutta curve apparve una casa. Era un edificio rosso dai contorni bianchi, di due piani, con un fienile e, in prossimità di un laghetto, qualcosa che un tempo doveva essere stata una rimessa per gli attrezzi.


La casa pareva abitata e Benny parcheggiò la Mercedes proprio là di fronte. Subito ne uscì una donna sotto i quaranta dai capelli rossi e crespi, con indosso una tuta da lavoro ancora più rossa e accompagnata da un pastore tedesco.


I tre scesero dall’auto per andarle incontro. Julius lanciò un’occhiata al cane, ma l’animale non dava segno di voler attaccare. Al contrario, osservava gli ospiti incuriosito.


Julius distolse lo sguardo dalla bestia per rivolgersi alla donna. Dopo averla salutata educatamente, espose la sua richiesta di pernottare lì e magari mangiare un boccone.


La donna osservò la variopinta compagnia che le stava davanti: un vecchio, un vecchio un po’ meno vecchio e… un gran bel tipo, dovette riconoscere. E anche dell’età giusta. E con la coda di cavallo! Rise tra sé e Julius pensò che volesse dare loro il suo assenso, invece esclamò:


“Questo non è un fottuto albergo.”


Accidenti, pensò Allan. Non vedeva l’ora di mangiare qualcosa e mettersi a letto. La vita gli stava succhiando ogni forza proprio adesso che aveva deciso di ricominciare a viverla. Si poteva dire quello che si voleva della casa di riposo, ma finché era rimasto là non aveva mai accusato alcun dolore in tutto il corpo.


Anche Julius sembrava abbacchiato. Disse che lui e i suoi amici si erano persi ed erano piuttosto stanchi, ma soprattutto erano pronti a pagare se fosse stato concesso loro di fermarsi per la notte. Potevano anche saltare la cena.

“Siamo disposti a pagare mille corone a persona per pernottare qui,” incalzò.

“Mille corone?” chiese la donna. “State scappando?”

Julius sviò la domanda perfettamente centrata tornando a spiegarle che avevano alle spalle un lungo viaggio, e che se fosse stato per lui ce l’avrebbe anche fatta, ma Allan era in là con gli anni.

“Ne ho compiuti cento ieri,” disse Allan con voce debole.

“Cent’anni?” esclamò la donna quasi spaventata. “Ma che cazzo dici? Terribile.”

Rimase in silenzio per un attimo, sembrava stesse riflettendo.

“Ma sì, cazzo. Sì che potete fermarvi, ma di qualche migliaio di corone non se ne parla proprio. Come vi ho già detto, io non conduco nessun fottuto albergo.”

Benny la guardò ammirato. Non aveva mai sentito una donna dire così tanto in così breve tempo. Gli sembrava terribilmente affascinante.

“Mia bella,” intervenne, “è possibile accarezzare il cane?”

“Mia bella?” commentò la donna. “Non ci vedi? Ma accarezza pure, cazzo. Buster è buono. Potete occupare ognuno una stanza diversa al primo piano, qui ce n’è di posto. Le lenzuola sono pulite, ma fate attenzione al veleno per topi sul pavimento. La cena sarà pronta fra un’ora.”

La donna superò i tre ospiti per dirigersi verso il fienile, con il fedele Buster al suo fianco. Benny la chiamò per domandarle se avesse un nome. L’interessata rispose senza girarsi che si chiamava Gunilla, ma secondo lei “bella” suonava bene, quindi “continua pure a chiamarmi così, cazzo”. Benny promise di farlo.

“Credo di essere innamorato,” disse Benny.

“Io sono stanco,” disse Allan.

In quel momento si sentì uscire dal fienile un muggito terrificante, che fece spalancare gli occhi anche allo stremato Allan. Doveva provenire da un animale molto grosso e probabilmente sofferente.

“Sta’ zitta, Sonya,” disse Bella. “Sto arrivando, cazzo.”

CAPITOLO 7

1929-1939


La fattoria di Yxhult non era un bello spettacolo. Negli anni passati da Allan sotto le cure del professor Lundborg era andata in rovina. Le tegole, divelte dalle intemperie, giacevano sparse sul terreno, per qualche ragione il WC era stato sradicato e una finestra della cucina rimasta aperta continuava a sbattere.


Allan fece pipì davanti all’ingresso, non disponendo più di un cesso funzionante. Poi entrò in casa e si sedette nella cucina polverosa. Lasciò la finestra com’era. Aveva fame, ma si trattenne dall’impulso di guardare cosa ci fosse in dispensa. Era certo che la vista sarebbe stata desolante.


Era nato e cresciuto in quel posto, e mai aveva sentito la casa tanto estranea. Era forse arrivato il momento di darci un taglio e mettersi in marcia nella direzione opposta? As­so­lu­ta­men­te sì.


Rintracciò i vecchi candelotti di dinamite, ed eseguite le manovre necessarie riempì il carrello della bicicletta con le poche cose di valore che possedeva. All’imbrunire del 3 giugno 1929 Allan se ne andò via da Yxhult, via da Flen. La carica di dinamite detonò come previsto esattamente trenta minuti dopo. La fattoria di Yxhult saltò in aria e la mucca del vicino abortì per l’ennesima volta.


Un’ora dopo Allan si trovava alla stazione di polizia di Flen in stato d’arresto. Mentre consumava la sua cena venne aggredito verbalmente dal capo della polizia Krook. La polizia di Flen era appena stata dotata di un’auto di servizio, pertanto non c’era voluto molto a catturare l’uomo che aveva appena ridotto in briciole la sua casa.


Questa volta il capo d’imputazione era chiaro.


“Atti di vandalismo ai danni della salute pubblica,” sentenziò il capo della polizia Krook con voce autoritaria.


“Potrei avere del pane?” chiese Allan.


No, non poteva. Il capo della polizia Krook se la prese con il suo povero assistente, reo di aver assecondato le richieste di quel delinquente affamato. Intanto Allan finì di cenare prima di essere condotto in cella.


“Non avete per caso il giornale di oggi?” domandò. “Per una lettura serale, ecco.”


Il capo della polizia Krook rispose spegnendo la luce e sbattendo la porta. Il mattino dopo la prima cosa che fece fu chiamare “quel manicomio” a Uppsala per dire loro di venirsi a prendere Allan Karlsson.


Gli assistenti del professor Lundborg fecero orecchie da mercante: Karlsson aveva concluso la sua terapia e adesso ce n’erano di nuovi da analizzare. Se solo il capo della polizia avesse saputo quante erano le persone da rinchiudere: ebrei e zingari, negri e mezzi negri, malati di mente e altri ancora. Il fatto che il signor Karlsson avesse fatto saltare in aria la propria abitazione non implicava necessariamente un nuovo soggiorno a Uppsala. Ognuno può fare quello che vuole in casa propria. O no? Non viviamo forse in un paese libero?


Alla fine il capo della polizia Krook riagganciò. Non se ne cavava un ragno dal buco con quella gente. Si pentì di non aver permesso a Karlsson di allontanarsi la sera prima abbandonando la zona, com’era sua intenzione fare.


In conclusione, dopo numerose trattative intavolate nel corso della mattinata, Allan Karlsson montò nuovamente in sella alla sua bicicletta con tanto di carrello al traino. Questa volta con scorte di cibo per tre giorni e doppia coperta in cui avvolgersi in caso di freddo. Fece un cenno d’addio al capo della polizia Krook, che non ricambiò, e si mise a pedalare verso nord, tanto una direzione valeva l’altra.


Ormai era pomeriggio inoltrato e la strada prescelta lo aveva condotto a Hälleforsnäs: per quel giorno poteva bastare. Allan si fermò su un prato, e dopo aver steso la coperta aprì il pacchetto con il cibo. Mentre masticava una fetta di pane di segale con salsiccia affumicata, prese a studiare il capannone industriale che si stagliava davanti ai suoi occhi. All’esterno della fabbrica c’erano un mucchio di cannoni appena fusi. Allan pensò che chi produceva cannoni poteva magari aver bisogno di qualcuno che al momento opportuno ne assicurasse il corretto funzionamento. Meditò anche sul fatto che il suo obiettivo non doveva per forza consistere nell’allontanarsi il più possibile da Yxhult. Hälleforsnäs poteva bastare. Sempre che ci fosse stato lavoro.


Mettere in relazione i fusti dei cannoni con le sue competenze specifiche era forse un po’ ingenuo da parte di Allan, eppure il ragionamento filava. Dopo un breve colloquio con il padrone della fonderia, nel quale tralasciò di raccontare alcuni episodi della sua vita, Allan venne assunto come esperto di esplosivi.


Si sarebbe trovato bene, pensò.




Alla fonderia di Hälleforsnäs la produzione di cannoni era ridotta all’osso e non pareva che le ordinazioni avessero intenzione di crescere di lì a poco, anzi. Dopo la guerra il ministro della Difesa Per Albin Hansson aveva tagliato i finanziamenti a scopi militari, mentre Gustavo V se ne stava nel suo palazzo a rognare. Per Albin, da uomo analitico qual era, ragionava così: in effetti la Svezia avrebbe dovuto presentarsi meglio equipaggiata alla guerra, indipendentemente dall’esito finale, ma adesso, dieci anni dopo, armarsi non serviva più a niente. Oltre al fatto che era nata la Società delle Nazioni.


La conseguenza, per la fonderia del Sörmland, fu che parte della produzione venne convertita a uso pacifico e parecchi operai persero il lavoro.


Ma non Allan, essendo gli esperti di esplosivi una rarità. Il padrone della fabbrica non poteva credere ai suoi occhi e alle sue orecchie il giorno in cui Allan apparve mostrandogli la propria perizia in materia di esplosivi di ogni genere. Finora il padrone della fabbrica aveva dovuto affidarsi al pirotecnico assunto, ma a dire il vero non si era trattato di un buon investimento, dato che il tecnico era straniero, sapeva due parole di svedese e aveva i capelli e tutti i peli del corpo neri. Il padrone non era sicuro di potersi fidare di lui, ma vista la situazione era stato costretto a farlo.


Allan non giudicava mai le persone in base ai colori e aveva sempre pensato che le affermazioni del professor Lundborg fossero piuttosto bizzarre. Inoltre, era curioso di incontrare il primo uomo o la prima donna di colore della sua vita. Leggeva con avidità gli articoli in cui si parlava dello spettacolo che Josephine Baker avrebbe tenuto a Stoccolma. Per ora, tuttavia, doveva accontentarsi di Estéban, il suo collega spagnolo, di razza bianca ma molto scuro.


Allan ed Estéban andavano d’accordo. Condividevano una camera ammobiliata in una delle casette plurifamiliari per gli operai accanto alla fonderia. Estéban gli raccontò la sua terribile storia. A Madrid, durante una festa, aveva conosciuto una ragazza e in segreto ne era nata una relazione relativamente innocente. Estéban non sapeva però che la ragazza era figlia del primo ministro Miguel Primo de Rivera, uno con cui non si scherzava: Primo de Rivera governava il paese a suo piacimento e il re che non ci metteva becco. Secondo Estéban “primo ministro” era una simpatica perifrasi per dire dittatore. Ma sua figlia era incredibilmente bella.


I trascorsi di Estéban come operaio non piacevano affatto al potenziale suocero. Nel suo primo e unico incontro con lui, Estéban seppe di avere due alternative: allontanarsi il più lontano possibile dal suolo spagnolo, o prendersi una pallottola nella nuca in quel preciso istante.


Mentre Primo de Rivera toglieva la sicura alla pistola Estéban rispose che aveva appena scelto l’alternativa numero uno, e camminando a ritroso abbandonò in tutta fretta la stanza, facendo attenzione a non offrire le spalle all’uomo con la pistola e senza lanciare mezza occhiata alla giovane che si struggeva in un angolo.


Il più lontano possibile, pensava Estéban, quindi si diresse a nord, e poi ancora più a nord, e alla fine talmente a nord che i mari diventarono di ghiaccio. A quel punto gli sembrò che potesse bastare. E lì era rimasto. Aveva trovato lavoro alla fonderia tre anni prima con l’aiuto di un prete cattolico che gli aveva fatto da interprete e, che Dio ci perdoni, grazie alla storia inventata che lo vedeva esperto di esplosivi, quando invece in Spagna aveva perlopiù raccolto pomodori.


Poco alla volta aveva imparato a esprimersi in uno svedese comprensibile ed era diventato un pirotecnico abbastanza bravo. Adesso, con Allan al suo fianco, stava diventando un vero professionista.




Allan si trovava bene nella casetta plurifamiliare accanto alla fonderia. Dopo un anno masticava lo spagnolo. Dopo due lo parlava quasi fluentemente. Ce ne vollero tre, però, prima che Estéban rinunciasse all’idea di inculcargli il concetto di socialismo internazionale nella sua variante spagnola. Le aveva provate tutte, ma niente da fare. Estéban non riusciva a capire quel lato del carattere del suo migliore amico. Non che Allan proponesse un altro ordine delle cose: semplicemente non se ne interessava. O forse gli andava bene così. Alla fine a Estéban non era rimasto che accettare la realtà. Allan aveva a che fare con lo stesso problema, anche se al contrario: Estéban era un buon amico, benché avvelenato da quella dannata politica. E non era l’unico.


Le stagioni si alternarono senza sosta, fino al giorno in cui la vita di Allan non subì una svolta. Tutto cominciò quando Estéban ricevette la notizia che Primo de Rivera si era dimesso e aveva lasciato il paese. Finalmente la democrazia, se non addirittura il socialismo, era arrivata davvero, ed Estéban non si sarebbe perso lo spettacolo per nulla al mondo.


Meditava quindi di tornare al più presto in Spagna. La fonderia andava sempre peggio, dal momento che il senõr Per Albin aveva deciso che non ci sarebbero più state guerre. Estéban era convinto che anche i tecnici sarebbero stati licenziati senza preavviso. Cosa pensava di fare l’amico Allan? Gli piaceva l’idea di andarsene via con lui?


Allan rifletté: da un lato non era attratto da nessuna rivoluzione, spagnola o di altro genere, tanto tutto sarebbe sempre rimasto uguale a prima. Dall’altro la Spagna era all’estero, come tutti i paesi tranne la Svezia, ed essendosi sempre interessato ai paesi stranieri non era poi così strano che Allan decidesse di andarci a vivere. Magari si sarebbe imbattuto in un uomo di colore, o anche in due.


Quando Estéban gli promise che ne avrebbero incontrato almeno uno durante il viaggio verso la Spagna, Allan non poté fare altro che dire di sì. I due amici passarono quindi ai dettagli pratici. Giunsero alla conclusione che il padrone della fabbrica era “un gran bastardo” (si espressero proprio così) e non meritava alcun riguardo. Decisero allora di ritirare la paga settimanale e andarsene senza una parola.


Fu così che, alle cinque del mattino della domenica successiva, Allan ed Estéban si alzarono per puntare verso sud, direzione Spagna, a bordo della bicicletta col carrello. Prima di partire Estéban avrebbe voluto fermarsi davanti all’abitazione del padrone, per depositare un campione di bisogni mattutini nella brocca del latte lasciata tutte le mattine accanto al cancello. La questione gli stava molto a cuore, dato che in tutti quegli anni era stato definito “scimmia” non solo dal padrone della fabbrica ma anche dai suoi figli adolescenti.


“La vendetta non è una bella cosa,” predicò Allan. “La vendetta è come la politica: si accanisce fino a quando il brutto diventa peggio e il peggio diventa ancora peggio.”


Ma Estéban insistette. Soltanto perché uno aveva le braccia un po’ pelose e non parlava la lingua del padrone diventava una scimmia?


Allan acconsentì e i due amici raggiunsero un compromesso: Estéban poteva fare la pipì nella brocca del latte, ma non la cacca.


Così andarono le cose, e la fonderia di Hälleforsnäs si trovò di colpo senza esperti di esplosivi. In men che non si dica, alcuni testimoni spifferarono al padrone della fabbrica che Allan ed Estéban si stavano recando verso Katrineholm o forse ancora più a sud a bordo della bicicletta col carrello, quindi l’interessato apprese dell’improvvisa mancanza di personale per le settimane a venire mentre, seduto in terrazza, sorseggiava il latte che Sigrid gli aveva servito come sempre insieme a un biscotto alle mandorle. S’incupì ulteriormente perché gli parve che ci fosse qualcosa di strano. Il dolcetto sapeva di ammoniaca.


Decise di aspettare la fine della funzione religiosa per dare una tirata d’orecchie a Sigrid. Per il momento si sarebbe accontentato di bere un altro bicchiere di latte allo scopo di togliersi, se possibile, quel saporaccio dalla bocca.




Fu così che Allan Karlsson arrivò in Spagna. Passò tre mesi in giro per l’Europa, e lungo il viaggio ebbe modo di conoscere molti più uomini di colore di quanto si fosse mai immaginato. Dopo la prima volta, però, perse subito interesse, perché a quanto pareva non esisteva alcuna differenza fra loro e i bianchi a parte il colore della pelle; e parlavano tutti una lingua strana, come del resto i bianchi dello Småland. Da bambino quel Lundborg doveva aver preso uno spavento a causa di un negro, di questo Allan era convinto.


I due amici trovarono il paese nel caos. Il re si era rifugiato a Roma ed era stato rimpiazzato dalla repubblica. Da sinistra si acclamava la revolución, mentre la destra era terrorizzata all’idea di quanto stava succedendo nella Russia di Stalin. Sarebbe accaduto lo stesso anche in Spagna?


Dimenticando per un attimo che l’amico era un inguaribile apolitico, Estéban cercò di infondere in Allan lo spirito rivoluzionario, ma questi, come d’abitudine, si mostrò refrattario. Riconosceva gli stessi toni sentiti in Svezia e non riusciva a capire perché ci si dovesse arrabattare tanto per cambiare le cose.


Seguì un tentativo di golpe militare da parte della destra, a cui tenne dietro uno sciopero generale proclamato dalla sinistra. Dopodiché furono indette le elezioni. Vinse la sinistra e la destra se la prese a male. O forse il contrario. Allan non poteva dirlo con precisione. Fatto sta che scoppiò la guerra.


Allan si trovava in un paese straniero e l’idea migliore che gli venne fu di tenersi a un mezzo passo dall’amico, che nel frattempo si era arruolato ed era stato promosso sergente quando il comandante del plotone aveva capito che era in grado di far esplodere in aria le cose.


L’amico Estéban portava l’uniforme con orgoglio e non vedeva l’ora di compiere la sua prima missione di guerra. Il plotone ricevette l’incarico di far saltare un paio di ponti in una valle dell’Aragona. Alla squadra di Estéban fu assegnato il primo ponte. Era così eccitato dalla fiducia concessagli che si issò su una roccia e, afferrato il fucile, lo alzò al cielo urlando:


“Morte al fascismo, morte a tutti i fascist…”


Estéban non riuscì a concludere la frase, perché la testa e la spalla vennero dilaniate da quella che probabilmente fu la prima granata scagliata dal nemico. Quando ciò accadde Allan si trovava a una ventina di metri da lui, e fu per questo che non venne investito dai resti dell’amico che si sparsero intorno alla roccia su cui Estéban era salito da totale incosciente. Uno dei soldati della squadra di Estéban scoppiò a piangere. Dopo aver esaminato da vicino quel che rimaneva dell’amico, Allan decise che non valeva la pena reclamarne la salma.


“Era meglio restare a Hälleforsnäs,” mormorò Allan, preso da un attacco di nostalgia e dal desiderio di mettersi a tagliare la legna davanti a casa sua.




La granata che aveva ucciso Estéban fu probabilmente la prima di tutta la guerra, e di certo non l’ultima. Allan valutò l’ipotesi di tornarsene a casa, ma di colpo la guerra era ovunque. Inoltre si trattava di un viaggio molto, molto lungo, e in Svezia non c’era nessuno ad aspettarlo.


Così si presentò al comandante del plotone come il più abile pirotecnico del continente, affermando di essere disposto a far saltare in aria ponti e ogni genere di infrastrutture in cambio di tre pasti al giorno e vino in abbondanza quando le circostanze lo avessero permesso.


Il comandante fu quasi sul punto di far fucilare Allan, quando questi si rifiutò caparbiamente di rendere omaggio al socialismo e alla repubblica pretendendo di lavorare in borghese. O, stando alle parole di Allan:


“Un’altra cosa… se devo far saltare i ponti per te lo faccio con indosso il mio maglione, se no fallo da solo.”


Non era ancora nato un comandante disposto a farsi trattare in quel modo da un civile. Il fatto però, era che i resti del suo migliore esperto di esplosivi giacevano sparsi in cima a un’altura non molto distante da lì.


Mentre il comandante sedeva nella sua poltroncina girevole chiedendosi se il futuro immediato di Allan prevedesse il reclutamento o la fucilazione, uno dei soldati del plotone si permise di sussurrargli all’orecchio che il sergente finito disgraziatamente in pezzi aveva presentato quello strano svedese come un maestro nell’arte delle esplosioni.


Il suggerimento risultò decisivo. Al senõr Karlsson furono assicurati: 1) la permanenza in vita; 2) tre pasti al giorno; 3) il diritto di lavorare in borghese; 4) il diritto – come per gli altri – di assaggiare il vino di tanto in tanto, nei limiti della decenza. In cambio avrebbe fatto esplodere tutto quello che gli veniva indicato. Due soldati furono incaricati di tenere sott’occhio lo svedese, perché per il momento non si poteva escludere che fosse una spia.

Passarono mesi che divennero anni. Allan faceva saltare tutti i ponti che doveva ed eseguiva gli ordini con perizia e precisione. Era un lavoro pericoloso. Spesso ci si portava all’obiettivo strisciando furtivamente, si montava una carica a tempo e si ritornava su terreni più sicuri. Tre mesi dopo il suo reclutamento uno dei due soldati che facevano la guardia ad Allan morì (per errore finì in una postazione nemica). Sei mesi dopo toccò all’altro (si era alzato per stiracchiarsi e fu colpito in pieno petto). Il comandante del plotone non si curò di sostituirli: fino ad allora il senõr Karlsson si era comportato benissimo.

Allan non amava uccidere inutilmente la gente, perciò quando poteva si premurava di appurare che il ponte in questione fosse deserto prima di farlo esplodere. Accadde anche in occasione del suo ultimo incarico, poco prima che la guerra finisse. Ma non andò come pensato: piazzata la carica, stava strisciando per nascondersi tra i cespugli vicino a uno dei piloni di sostegno del ponte, quando apparve una pattuglia nemica capitanata da un signore di bassa statura carico di medaglie. Giungevano dall’altra estremità del ponte e sembravano ignorare che nelle vicinanze ci fossero dei repubblicani, e ancora di più che stavano per andare a fare compagnia eterna a Estéban e ad altre decine di migliaia di spagnoli.

Allan si levò in piedi e si mise ad agitare le braccia.

“Andate via di lì!” urlò rivolto al piccoletto con le medaglie e al suo seguito. “Sparite o salterete in aria!”

Il piccoletto con le medaglie arretrò, ma gli altri gli fecero cerchio intorno spingendolo al di là del ponte. Non si fermarono prima di aver raggiunto Allan. Puntarono contro lo svedese otto fucili e almeno uno di loro avrebbe fatto fuoco se in quel momento il ponte alle loro spalle non fosse esploso. Lo spostamento d’aria spinse il piccoletto con le medaglie nel cespuglio di Allan. Nel tumulto che ne seguì, nessuno osò sparare per paura di sbagliare bersaglio. E poi il tizio sembrava un civile. Quando il fumo si diradò non si parlava più di liquidarlo. Il piccoletto con le medaglie gli strinse la mano, spiegando che un vero generale sapeva mostrare la propria riconoscenza ma adesso era meglio che il gruppo ritornasse sull’altro lato, con o senza ponte. Se il suo salvatore voleva seguirli sarebbe stato il benvenuto: il generale lo avrebbe invitato a cena.

“Paella andaluza,” disse il generale. “Il mio cuoco viene dal sud della Spagna. ¿Comprende?”

Sì, Allan capiva. Comprese anche che aveva salvato la vita al generalisímo in persona, che era stato un bene indossare il suo vecchio maglione piuttosto che la divisa del nemico, che i suoi amici piazzati su un’altura a qualche centinaio di metri di distanza stavano seguendo l’evolversi della situazione con i binocoli, e che per la sua incolumità sarebbe stato meglio cambiare fronte in quella guerra di cui non aveva ancora capito il motivo.

E poi aveva fame.

“Sí, por favor, mi general,” rispose Allan. “La paella va benissimo. Magari accompagnata da un bicchiere di vino rosso?”

Quando, dieci anni prima, Allan aveva cercato lavoro come esperto di esplosivi alla fonderia di Hälleforsnäs, aveva scelto di cancellare dal suo curriculum alcuni dettagli, come ad esempio che era stato in una specie di manicomio per quattro anni e aveva fatto saltare in aria la propria casa. Forse grazie a questo il colloquio era andato così bene.

Ci ripensò mentre parlava con il generale Franco. Da un lato non bisognava mentire, dall’altro non poteva certo essere vantaggioso svelare al generale che era stato lui stesso a piazzare la carica e che per tre anni aveva lavorato come civile nell’armata repubblicana. Non che Allan avesse paura di raccontarlo, ma nel caso specifico c’erano in gioco una cena e un’abbondante libagione di vino. Quando si tratta di cibo e di alcol la verità può anche essere taciuta, decise Allan, e mentì senza pudore.

Dunque Allan era finito in quel cespuglio fuggendo dai repubblicani, aveva visto dove era stato piazzato l’esplosivo ed era felice di aver potuto avvisare il generale.

A portarlo in Spagna e in guerra era stato un amico, uno in stretto contatto con lo scomparso Primo de Rivera. Mentre l’amico era stato ucciso da una granata nemica, lui era arrivato fin lì. Era caduto nelle grinfie dei repubblicani, ma alla fine era riuscito a scappare.

A quel punto Allan cambiò rapidamente argomento, raccontando che suo padre era stato uno degli uomini più fidati dello zar Nicola II ed era morto da martire in una diatriba senza speranza con il capo dei bolscevichi Lenin.

La cena fu servita nella tenda del generale. Più Allan ingollava vino rosso, più gli aneddoti sul coraggio del padre diventavano pittoreschi. Il generale Franco non avrebbe potuto essere più stupito: prima gli veniva salvata la vita, poi scopriva che il suo salvatore era quasi imparentato con lo zar Nicola II.

Il cibo era eccellente. Il vino scorreva a fiumi nel flusso di brindisi in onore di Allan, di suo padre, dello zar e della sua famiglia. Alla fine il generale, consegnata ad Allan una grande patacca a suggello del fatto che fra i due non esistevano più titoli, si addormentò.

Quando si risvegliarono la guerra era finita. Il generale Franco prese il controllo della nuova Spagna e offrì ad Allan di assumere il comando delle sue guardie del corpo. Allan ringraziò dicendo che purtroppo era arrivato il momento di tornare a casa, se Francisco lo avesse scusato, cosa che l’interessato fece. Anzi, scrisse una lettera nella quale assicurava ad Allan la protezione totale del generalísimo (“Mostrala quando hai bisogno d’aiuto”), quindi gli destinò una scorta degna di un principe fino a Lisbona, da dove a detta del generale partivano le navi dirette a nord.

Da Lisbona salpavano imbarcazioni per ogni dove. In piedi sul molo, Allan si mise a pensare. Poi, sventolando la lettera del generale davanti agli occhi del capitano di una nave battente bandiera spagnola, ottenne subito il passaggio gratis. Che Allan dovesse lavorare nel corso della traversata non fu neanche messo in discussione.

La nave non era diretta in Svezia, ma sul molo Allan si era chiesto cosa ci sarebbe tornato a fare in patria: non aveva trovato nessuna risposta valida.

CAPITOLO 8

Martedì 3 maggio-Mercoledì 4 maggio 2005


Dopo la conferenza stampa del pomeriggio Secchio si era seduto davanti a una birra a pensare, eppure più rifletteva sulla situazione e meno riusciva a capire cosa fosse successo. Bullone si era messo a rapire vecchietti? O le due cose non avevano niente a che vedere l’una con l’altra? A furia di lambiccarsi il cervello gli venne mal di testa. Decise quindi di smettere e chiamò il Capo per riferirgli che non aveva nulla da riferirgli. Ebbe l’ordine di rimanere a Malmköping e attendere nuove istruzioni.


Conclusa la conversazione, Secchio fu di nuovo solo con la sua birra. La situazione stava diventando troppo confusa, lui continuava a non capire e gli stava tornando il mal di testa. Ripensò ai tempi passati: gli sovvennero gli anni della giovinezza trascorsi nei dintorni di casa.


Secchio aveva intrapreso la sua carriera criminale a Braås, a una ventina di chilometri da dove si trovavano in quel momento Allan e i suoi nuovi amici. Insieme ad altri benpensanti come lui, aveva fondato il club di motociclisti The Violence. Era lui il capo, era lui che decideva in quale chiosco sarebbero entrati a rubare depredandolo di sigarette. Era lui che aveva scelto il nome The Violence, La Violenza. Ed era sempre lui che, sfortunatamente, aveva affidato alla sua ragazza il compito di cucire il nome della banda su dieci giubbotti di pelle appena rubati. Si chiamava Isabella e non aveva mai imparato a scrivere correttamente, né in svedese né tantomeno in inglese.


Fu così che riuscì a ricamare sui giubbotti The Violins. Dal momento che anche i membri della banda avevano maturato gli stessi gloriosi risultati scolastici senza che nessuna autorità competente fosse intervenuta, non ce ne fu uno che notò l’errore.


Immaginatevi quindi il loro stupore quando un giorno arrivò una lettera indirizzata a The Violins di Braås da parte dei responsabili di una sala concerti di Växjö. Chiedevano se il gruppo fosse appassionato di musica classica, e in quel caso se fosse disposto a comparire in occasione di un concerto tenuto dalla meravigliosa orchestra da camera cittadina Musica Vitae.


La cosa irritò Secchio, che pensò che qualcuno si stesse prendendo gioco di lui, così una notte, lasciando perdere il furto con scasso programmato, puntò su Växjö per scagliare un cubetto di porfido nella hall della sala concerti. Con lo scopo di insegnare ai responsabili un po’ di educazione.


Tutto andò secondo i piani, a eccezione del fatto che il suo guanto di pelle accompagnò il lancio, atterrando insieme al cubetto di porfido nella hall. L’allarme scattò immediatamente, impedendogli di recuperare l’effetto personale.


Rimanere con un guanto solo non fu per niente piacevole. Era in moto, era notte, e gli si congelò una mano rientrando a Braås. Ma il peggio fu che la sfortunata Isabella aveva scritto dentro al guanto nome e indirizzo di Secchio, casomai l’avesse perso. Il mattino dopo la polizia lo prelevò per interrogarlo.


Secchio spiegò di essere stato provocato dai responsabili della sala concerti. Per via di quest’episodio l’ascesa di The Violence, che il giornale locale citò come The Violino, si arenò e Secchio divenne lo zimbello di tutta Braås. In preda alla collera decise di incendiare un chiosco anziché accontentarsi di farne saltare la serratura. Il proprietario di origine turco-bulgara, che si era fermato a dormire in magazzino per fare la guardia, riuscì a salvarsi per un pelo. Secchio, che questa volta perse l’altro guanto sul luogo del crimine (completo di nome e indirizzo come il primo), finì poco dopo in galera per la prima volta. Fu lì che incontrò il Capo, e scontata la pena decise di abbandonare per sempre Braås, oltre che la sua ragazza. A quanto pareva entrambi gli portavano iella.


The Violence continuò la sua esistenza, così come i giubbotti di pelle con la scritta sbagliata. Ma la banda cambiò campo d’attività: adesso si dedicava al furto d’auto e alla manomissione dei contachilometri. Soprattutto l’ultima operazione si era rivelata assai lucrativa. Come diceva il nuovo capo, il fratellino di Secchio: “Non c’è niente di più hot di una macchina che dimostra la metà dei suoi chilometri.”


Secchio aveva mantenuto contatti sporadici con il fratello e la sua vita precedente, ma senza sentirne la mancanza.


“Cazzo,” disse a mo’ di commento alla sua storia.


Era faticoso pensare cose nuove e lo era anche ricordare il passato. Meglio bersi un’altra birra e poi, seguendo gli ordini del Capo, prendere una stanza in albergo.




Era quasi buio quando il commissario Aronsson, insieme all’addestratore e al cane Kicki, giunse alla fonderia di Åker dopo una bella camminata iniziata a Vidkärr e proseguita lungo i binari del treno.


L’animale non aveva dato segni di alcun genere durante il tragitto. Aronsson si chiese se la bestia aveva capito di essere al lavoro e che quella non era una passeggiatina serale, ma quando il terzetto raggiunse il carrello ferroviario abbandonato il cane cominciò a puntare. Alzando una zampa, si mise ad abbaiare. In Aronsson si accese una speranza.


“Significa qualcosa?” domandò.


“Sì, certo che sì,” rispose l’addestratore, il quale spiegò che Kicki utilizzava espressioni diverse a seconda di ciò che intendeva comunicare.


“E allora dimmi cosa intende comunicare!” esclamò il commissario Aronsson sempre più impaziente, indicando il cane che continuava a stare fermo su tre zampe e ad abbaiare.


“Significa che sul carrello c’era un morto.”


“Un morto? Un cadavere?”


“Un cadavere.”


Per un attimo il commissario Aronsson visualizzò la scena del membro della Never Again che uccideva il povero vecchio Allan Karlsson, poi quest’informazione andò a integrare quelle già acquisite.


“Deve trattarsi del contrario,” borbottò sentendosi improvvisamente sollevato.




Bella servì polpette di carne con patate e mirtilli rossi, e da bere birra e acquavite. I suoi ospiti avevano fame, ma per prima cosa volevano sapere che animale fosse quello che avevano sentito.


“Era Sonya,” spiegò Bella. “Il mio elefante.”


“Elefante?” chiese Julius.


“Elefante?” chiese Allan.


“Mi sembrava di aver riconosciuto il verso,” commentò Benny.


Il proprietario del chiosco si era innamorato a prima vista. E adesso, alla seconda, il sentimento si ripresentava immutato. Quella donna che non smetteva di dire parolacce, rossa di capelli e dal seno florido sembrava uscita da un romanzo di Paasilinna! Probabilmente il finlandese non aveva mai parlato di un elefante, ma secondo Benny era solo questione di tempo.


L’anno prima, una mattina d’agosto, l’elefante era apparso nel giardino di Bella e si era messo a mangiare mele. Se avesse avuto il dono della parola avrebbe raccontato che la sera precedente era fuggito da un circo a Växjö per cercare qualcosa da bere, dal momento che i suoi guardiani avevano fatto lo stesso dileguandosi in città invece di pensare al lavoro.


Al calare del sole era arrivato fino al laghetto di Helgasjön, dove aveva deciso di fare qualcosa di più che spegnere semplicemente la sua sete. Un bagno rinfrescante sarebbe stato perfetto, aveva pensato l’elefante prima di immergersi nelle acque lacustri piatte come l’olio.


Di colpo si erano alzate le onde e il pachiderma era ricorso alla sua innata capacità di nuotare. In generale questi animali non impiegano la stessa logica degli esseri umani, infatti l’elefante aveva preferito attraversare due chilometri e mezzo a nuoto, fino a raggiungere la sponda opposta e ritornare sulla terraferma, anziché fare dietrofront percorrendo quattro metri.


Questa logica elefantina sortì due conseguenze. La prima fu che venne dichiarato morto sia dal personale del circo sia dalla polizia, che aveva seguito le sue tracce fino a Helgasjön e scandagliato i quindici metri di profondità del lago. L’altra fu che il pachiderma, perfettamente in salute e protetto dal buio, era riuscì ad arrivare fino al giardino di Bella senza che nessuno lo notasse.


Come questo fosse stato possibile Bella non l’aveva ancora capito, ma leggendo il giornale locale aveva saputo dell’elefante scomparso e dichiarato morto. Aveva concluso che, vista la scarsa probabilità che ci fossero molti pachidermi in fuga proprio in quella zona e in quel momento, l’elefante deceduto e quello vivo e vegeto che si trovava nel suo giardino erano lo stesso esemplare.


Aveva cominciato col dargli un nome: Sonya, in onore del suo idolo Sonya Hedenbratt. C’era voluto qualche giorno di mediazione tra Sonya e il pastore tedesco Buster prima che i due riuscissero a sopportarsi.


Per la povera Sonya, che giustamente mangiava come un elefante, era seguito un inverno alla costante ricerca di cibo. In modo decisamente tempestivo l’anziano padre di Bella era passato a miglior vita lasciando in eredità alla sua unica figlia un milione di corone (quando era andato in pensione, vent’anni prima, aveva venduto la sua ditta di scope gestendo brillantemente il ricavato). Così Bella aveva smesso di lavorare alla reception del centro medico di Rottne per fare la mamma a tempo pieno del cane e dell’elefante.


Tornata nuovamente la primavera, Sonya aveva potuto riprendere a nutrirsi di erba e foglie ed era stato allora che aveva fatto la sua comparsa la Mercedes, la prima visita da quando il papà serenamente spirato aveva salutato la figlia l’ultima volta, due anni prima. Bella aggiunse che non aveva alcuna intenzione di nascondere Sonya ai nuovi arrivati.


Seduti in silenzio, Allan e Julius ascoltavano il racconto di Bella, quando Benny disse:


“C’è qualcosa che non va nel barrito di Sonya. Sono convinto che abbia male da qualche parte.”


Bella spalancò gli occhi stupita:


“Come cazzo l’hai capito?”


Benny non rispose subito, prese un boccone per avere il tempo di riflettere. Poi disse:


“Sono quasi veterinario. Volete la versione lunga o quella breve?”


Tutti optarono per quella lunga, ma Bella insistette perché prima lei e Benny si recassero nel fienile, dove il quasi veterinario avrebbe potuto dare un’occhiata alla zampa anteriore sinistra di Sonya.


Sia Allan sia Julius si chiesero come fosse possibile che un veterinario con la coda di cavallo avesse finito col diventare lo sfortunato gestore di un chiosco in un terrificante paesino del Sörmland. A proposito, un veterinario con la coda di cavallo, ma quando mai? I tempi erano davvero impazziti. All’epoca di Gun­nar Sträng, invece, sì che si capiva che lavoro faceva la gente.


“Il ministro delle Finanze con la coda,” chiocciò Julius. “Questo sì che è tutto dire.”


Benny visitò la povera Sonya con fare competente, forte dell’esperienza acquisita durante il tirocinio allo zoo di Kolmården. Un rametto le si era incastrato sotto un’unghia provocando un’infiammazione alla zampa. Bella aveva già tentato di toglierlo, ma senza abbastanza vigore. A Benny l’operazione riuscì in un paio di minuti, parlando dolcemente all’animale e con l’aiuto di una tenaglia. La zampa comunque era infiammata.


“Ci servono degli antibiotici,” dichiarò Benny. “Un chilo almeno.”


“Se è questo che serve, so dove trovarlo,” replicò Bella.


Procurarsi le medicine implicava una capatina notturna a Rottne, e in attesa del momento buono ritornarono dai propri commensali.


Mangiarono tutti con grande appetito, innaffiando il cibo con birra e acquavite, a eccezione di Benny che bevve del succo di frutta. Finito l’ultimo boccone si trasferirono in soggiorno sulle poltrone vicino al camino, dove Benny fu sollecitato ad approfondire il tema del quasi veterinario.


La storia era cominciata all’epoca in cui Benny e Bosse, il fratello maggiore di un anno, cresciuti entrambi a Enskede, a sud di Stoccolma, avevano trascorso un certo numero di estati dallo zio paterno Frank nella contea di Dalarna. Questo zio, chiamato sempre e soltanto Frasse, era un imprenditore di successo, che possedeva e dirigeva alcune ditte locali di vario genere. Zio Frasse vendeva qualsiasi cosa: dalle roulotte alla ghiaia, oltre a tutto quello che ci stava in mezzo. Eccetto mangiare e dormire, aveva dedicato la sua vita al lavoro. Alle spalle aveva qualche relazione naufragata, dato che le sue donne non sopportavano che non facesse altro che sgobbare, mangiare e dormire (la domenica si faceva anche una doccia).


In estate, negli anni Sessanta, Benny e Bosse venivano spediti lì dal padre, il fratello maggiore di zio Frasse, con la scusa che i ragazzi avevano bisogno di aria pura. Fu così che impararono a usare l’enorme schiacciasassi della cava di ghiaia dello zio Frasse. Si divertivano, per quanto il lavoro fosse duro e per due mesi di fila respirassero polvere piuttosto che aria pura. La sera lo zio Frasse serviva la cena infarcita di prediche. Uno dei suoi cavalli di battaglia era:


“Vedete di farvi una cultura, ragazzi, altrimenti finirete co­me me.”


A dire il vero ai due nipoti non sembrava poi così male finire come lo zio, perlomeno finché non finì sotto lo schiacciasassi, ma il grande rammarico dello zio Frasse era di aver frequentato la scuola per troppo poco tempo. Sapeva a malapena scrivere, non capiva un’acca di inglese e solo in caso di necessità sarebbe riuscito a dire che la capitale della Norvegia era Oslo, se mai a qualcuno fosse venuto in mente di chiederglielo. Ciò per cui zio Frasse aveva un talento speciale erano gli affari. Infatti era ricco sfondato.


A quanto ammontasse esattamente il suo patrimonio al momento dell’inatteso decesso era difficile a dirsi. Bosse aveva diciannove anni e Benny stava per compierne diciotto. Un giorno furono contattati da un avvocato che comunicò loro che erano stati nominati nel testamento dello zio Frasse, ma la questione era complicata perciò era necessario un incontro.


Benny e Bosse si recarono nel suo studio, dove vennero a sapere che un capitale, il cui ammontare sarebbe rimasto loro sconosciuto ma che in effetti era consistente, attendeva i due fratelli il giorno in cui avessero ultimato gli studi.


Non solo: per tutto il periodo i fratelli avrebbero ricevuto tramite l’avvocato una discreta somma di denaro ogni mese, che sarebbe stata adeguata all’aumento del costo della vita. Questo a condizione che non abbandonassero gli studi, nel qual caso avrebbero perso il mensile. Lo stesso valeva anche nel caso in cui uno dei due fratelli, finito di studiare, fosse stato in grado di mantenersi da solo. Il testamento conteneva altri dettagli più o meno intricati, ma il punto fondamentale era che sarebbero diventati ricchi solo dopo aver ultimato gli studi.


Benny e Bosse si iscrissero subito a un corso di sette settimane per saldatori, con la conferma da parte dell’avvocato che secondo il testamento era sufficiente, “anche se suppongo che lo zio Frank avesse in mente qualcosa di meglio”.


A metà del corso avvennero due cose. La prima fu che Benny si stancò definitivamente di essere il bersaglio costante del fratello maggiore. Era sempre stato così, ma adesso bene o male erano tutti e due adulti e Bosse avrebbe dovuto cercarsi qualcun altro da strapazzare.


La seconda fu che Benny era arrivato alla conclusione che il suo destino non fosse diventare saldatore: il suo talento in materia era così scarso che non intendeva neppure portare a termine il corso.


Per questo un giorno i due fratelli litigarono, finché Benny non si iscrisse a un corso di botanica all’Università di Stoccolma. Secondo l’avvocato il patrimonio era salvo: il cambio di indirizzo era accettabile, a patto che non sopraggiungessero interruzioni.


Bosse finì il suo corso da saldatore, ma non ricevette un centesimo dei soldi dello zio Frasse dal momento che suo fratello Benny stava ancora studiando. L’avvocato, stando alle volontà espresse nel testamento, smise immediatamente di versargli il mensile.


Fu la volta che i ragazzi si odiarono davvero. Quando una notte Bosse, ubriaco, fece a pezzi la 125 di Benny (moto nuova di zecca, comprata con il denaro ricevuto), finì per sempre anche l’amore fraterno.


Bosse si diede agli affari seguendo le orme dello zio, ma senza il suo talento. Poco dopo si trasferì nel Västergötland, un po’ per dare nuovo impulso alla sua attività, un po’ per evitare di incontrare quel maledetto del fratello. Intanto Benny continuava a rimanere parcheggiato nel mondo dell’università, anno dopo anno. Il mensile era consistente. Benny si ritirava da ogni corso prima dell’esame finale e viveva bene, mentre quel delinquente di suo fratello rimaneva in attesa dei soldi.


Andò avanti così per trent’anni, fino a quando l’avvocato, ormai in età avanzata, non comunicò che il denaro era finito e non ci sarebbero più stati altri versamenti mensili. In breve i fratelli potevano dimenticarsi l’eredità, disse l’avvocato, che aveva compiuto novant’anni e forse era rimasto in vita solo per via del testamento, tanto che un paio di settimane dopo spirò nella sua poltrona davanti alla TV.


Il fatto risaliva a pochi mesi prima e di colpo Benny era stato costretto a trovarsi un’occupazione. Per quanto fosse una delle persone più istruite di Svezia ai datori di lavoro non interessava il suo record, ma un pezzo di carta che certificasse la conclusione degli studi con relativa votazione. Benny aveva ultimato almeno dieci corsi di studio a livello accademico, ma alla fine era stato costretto a investire in un chiosco. Benny e Bosse erano rimasti in contatto solo tramite l’avvocato, fino alla comunicazione dell’esaurimento dell’eredità. Le recriminazioni e le accuse di Bosse erano state così pesanti che Benny non aveva alcuna intenzione di incontrarlo nel prossimo futuro.


A quel punto del racconto Julius aveva cominciato a inquietarsi a causa delle domande un po’ insistenti di Bella, che per esempio voleva sapere come mai Benny si fosse unito a Julius e Allan. Per fortuna la birra e l’acquavite la distrassero dai dettagli. Le girava un po’ la testa, come ammise lei stessa, e intanto si stava innamorando.


“Cosa sei riuscito a quasi diventare, oltre che veterinario?” chiese con gli occhi che le brillavano.


Benny, come Julius, riteneva che gli avvenimenti degli ultimi giorni non potessero essere spiegati scendendo troppo nei particolari, pertanto fu lieto della piega presa dalla conversazione. Non era in grado di ripercorrere tutto per filo e per segno, disse, si apprendono parecchie cose quando per trent’anni di fila si sta seduti a un banco di scuola, a condizione che si studi anche. Tuttavia Benny poteva affermare di essere quasi veterinario, quasi medico generico, quasi architetto, quasi ingegnere, quasi botanico, quasi insegnante di lingue, quasi pedagogo dello sport, quasi storico, oltre a una manciata di altre cose grazie a un certo numero di corsi brevi in altre materie di specializzazione. Lo si poteva definire quasi un secchione, dato che in alcuni semestri era riuscito a seguire più corsi.


A Benny venne in mente un’altra cosa che aveva quasi dimenticato. Balzando in piedi e rivolto a Bella si mise a declamare:


Dalla mia vita misera e cupa,


dalla lunga notte della mia solitudine


elevo il mio canto su di te, mia sposa,


mio unico e scintillante tesoro.


Scese il silenzio, interrotto soltanto da Bella che borbottava qualche parolaccia tra i denti mentre le si imporporavano le guance.


“Erik Axel Karlfeldt,” chiarì Benny. “Con le sue parole vorrei ringraziare per il cibo e l’accoglienza. Non ho detto che sono anche un quasi uomo di lettere?”


Ma quando invitò Bella a danzare davanti al camino, lei si rifiutò mormorando che c’era un limite alle stronzate. A ogni modo Julius notò che era lusingata, tanto che dopo essersi tirata su la cerniera del giacchino prese a lisciarlo lungo le cuciture a uso e consumo di Benny.


Allan comunicò la sua decisione di ritirarsi mentre gli altri tre passarono al caffè, con cognac per chi lo voleva. Julius disse subito di sì al trattamento completo, Benny invece si accontentò della prima parte.


Julius prese a bombardare Bella di domande riguardanti lei e la sua piccola fattoria, un po’ perché era curioso, un po’ perché voleva evitare a ogni costo quesiti su chi fossero loro tre, dove stessero andando e per quale motivo. Riuscì nell’intento, poiché Bella partì in quinta e si mise a parlare della sua infanzia, dell’uomo con cui si era sposata a diciott’anni e che aveva buttato fuori casa dieci anni dopo (quella parte del racconto fu infarcita di molteplici imprecazioni), del fatto che non aveva figli, che Sjötorp era la casa dove i genitori avevano trascorso l’estate finché la madre non era morta sette anni prima, che il padre aveva lasciato che Bella vi si trasferisse in pianta stabile, del lavoro assolutamente insulso come responsabile della reception al centro medico di Rottne, dei soldi dell’eredità che cominciavano a diminuire e del fatto che probabilmente era arrivato il momento di mollare tutto e cercare altro.


“Ho già quarantatré anni,” concluse Bella. “Cazzo, sono a metà strada dalla tomba.”


“Di questo non devi essere così sicura,” commentò Julius.




L’addestratore impartì a Kicki nuovi ordini e il cane riprese a fiutare allontanandosi dal carrello ferroviario. Il commissario Aronsson sperava che da qualche parte saltasse fuori il cadavere, ma dopo aver annusato nel raggio di trenta metri l’area della zona industriale Kicki si mise a girare in tondo, dando l’idea di procedere quasi a casaccio finché non lanciò un’occhiata implorante al suo padrone.


“Kicki si scusa, ma non sa dove sia finito il cadavere,” tradusse l’addestratore.


Il commissario Aronsson interpretò l’affermazione come se le tracce del morto si fossero perse vicino al carrello. In realtà, se Kicki avesse potuto parlare avrebbe detto che il corpo era stato trascinato per qualche metro all’interno della zona industriale prima di sparire. In quel caso il commissario Aronsson si sarebbe chiesto quali mezzi di trasporto si fossero allontanati dall’area in questione nelle ultime ore. E la risposta sarebbe stata: un camion con container diretto al porto di Göteborg. Se così fosse andata, sarebbe stato possibile allertare la volante della polizia lungo la E20, e al camion sarebbe stato chiesto di fermarsi in qualche punto alla periferia di Trollhättan. Invece il cadavere stava lasciando la Svezia.


Tre settimane dopo, su una chiatta che aveva appena attraversato il canale di Suez un giovane marinaio egiziano a guardia del carico stava soffocando per via del fetore proveniente dal container.


Alla fine non riuscì più a resistere. Inumidito uno straccio, se lo assicurò davanti al naso e alla bocca. Trovò la risposta in uno dei cilindri all’interno del container: c’era un cadavere in decomposizione.


Il marinaio ci pensò su. Lasciare il corpo dov’era e rovinarsi il resto del viaggio era un’idea che non lo allettava. D’altra parte, se avesse parlato sarebbe stato costretto a subire lunghi interrogatori da parte della polizia di Gibuti e la faccenda non si prospettava piacevole.


Neanche la possibilità di liberarsi del cadavere era esaltante, ma infine si decise: prima ripulì il morto di tutto quello che aveva – doveva pur guadagnarsi qualcosa con tutta quella fatica –, poi lo gettò in mare.


Fu così che quello che un tempo era un giovane dalla corporatura esile, i capelli lunghi, biondi e unti, la barba incolta e un giubbotto di jeans con la scritta “Never Again” sulla schiena, con un tonfo si trasformò in mangime per i pesci del mar Rosso.




A Sjötorp l’allegra combriccola si sciolse prima di mezzanotte. Julius salì al primo piano per andare a dormire, mentre Benny e Bella partirono con la Mercedes per far visita al centro medico di Rottne, a quell’ora sicuramente chiuso. A metà strada scoprirono che Allan si era rintanato sotto una coperta sul sedile posteriore. Svegliandosi, spiegò loro che era uscito per prendere una boccata d’aria ma poi aveva deciso di trasformare la macchina in un’alcova: salire le scale fino al primo piano era troppo per le sue povere ginocchia e la giornata era stata lunga.


“Non ho più novant’anni,” commentò.


Il duo era diventato un trio, ma non era un problema. Bella illustrò il suo piano nel dettaglio: sarebbero penetrati nel centro medico grazie alla chiave che Bella aveva scordato di consegnare quando si era licenziata. Poi si sarebbero introdotti nel computer del dottor Erlandsson, di cui avrebbero usato il nome per compilare la ricetta degli antibiotici e stamparla. Era necessario conoscere i codici d’accesso del medico, ma anche questo non era un problema perché, come precisò Bella, il dottor Erlandsson non era soltanto un pallone gonfiato ma anche un deficiente. Quando un paio d’anni prima era stato installato il nuovo sistema informatico era toccato a lei insegnare al signorino come si faceva a scrivere e stampare le ricette con il computer, quindi aveva scelto anche la password.


La Mercedes arrivò sul luogo del crimine. Scesi dalla macchina, Benny, Allan e Bella si misero a studiare la situazione prima di sferzare l’attacco. Come da copione in quel momento passò un’auto, e il conducente sbirciò il terzetto che a sua volta ricambiò lo sguardo. Che un essere umano fosse sveglio dopo la mezzanotte a Rottne era un evento, e ora erano addirittura in quattro.


La macchina sparì e ogni cosa venne di nuovo inghiottita dal silenzio e dalle tenebre. Bella condusse Benny e Allan fino alla porta sul retro riservata al personale, e di lì nello studio del dottor Erlandsson, dove Bella accese il computer.


Tutto procedeva secondo i piani quando di colpo Bella se ne uscì con una sequela ininterrotta di parolacce. Si era appena resa conto dell’impossibilità di scrivere una ricetta per “un chilo di antibiotici”.


“Digita eritromicina, rifaximina, gentamicina e rifampicina, da duecentocinquanta grammi l’uno,” disse Benny. “Così attacchiamo l’infezione da punti diversi.”


Bella lo guardò con ammirazione, chiedendogli di scrivere lui stesso quanto aveva appena detto. Benny lo fece e aggiunse una serie di prodotti farmaceutici di base che era meglio avere a disposizione. Uscire illegalmente dal centro medico fu facile come entrarci illegalmente e il viaggio di ritorno si concluse senza incidenti. Benny e Bella aiutarono Allan a portarsi fino al primo piano, e all’una e mezzo di notte a Sjötorp si spense l’ultima luce.


A quell’ora non erano in tanti a essere svegli, ma a Braås, a una ventina di chilometri da Sjötorp, un giovanotto continuava a rigirarsi nel letto in preda a una crisi d’astinenza da fumo. Era il fratello minore di Secchio, il nuovo capo di The Violence. Aveva spento l’ultima sigaretta da tre ore, provando immediatamente il bisogno di fumarne un’altra. Si stava maledicendo per essersi dimenticato di comprarne un pacchetto prima che in paese fosse tutto chiuso, cosa che accadeva molto presto.


Aveva pensato di resistere fino al giorno dopo, ma non era ancora scoccata la mezzanotte che già non ce la faceva più. Fu in quel momento che al fratello di Secchio venne in mente di rivivere i vecchi tempi e usare il piede di porco per forzare la porta di un chiosco. Ovviamente non a Braås, lì aveva una certa fama da salvaguardare, inoltre avrebbero subito sospettato di lui.


La cosa migliore era fare il colpo qualche paesino più in là. La voglia di fumare divenne insostenibile, così decise di scendere a un compromesso e scelse Rottne, a un quarto d’ora di strada. Lasciò a casa la moto e il giubbotto, e passata la mezzanotte si allontanò lentamente a bordo della vecchia Volvo 240. Si stupì nel vedere tre persone che se ne stavano in piedi senza fare nulla sul marciapiede all’altezza del centro medico: una donna dai capelli rossi, un tizio con la coda di cavallo e, dietro, un uomo molto vecchio.


Il fratellino non approfondì ulteriormente la situazione (in genere lo faceva di rado). Proseguì per un chilometro e si fermò sotto un albero a una certa distanza dal chiosco. Dopo un tentativo fallito di forzare la porta antiscasso, se ne tornò a casa ancora in preda alla crisi d’astinenza da fumo.




Alle undici del mattino dopo, appena sveglio, Allan si sentiva in gran forma. Diede un’occhiata fuori dalla finestra, dove le foreste di abeti tipiche dello Småland si estendevano intorno a un laghetto anch’esso tipico dello Småland. Gli pareva che la geografia del luogo ricordasse quella del Sörmland. Si preannunciava una bella giornata.


Vestendosi, pensò che forse era arrivato il momento di rimpinguare il proprio guardaroba. Sia lui sia Benny sia Julius non si erano portati dietro neanche uno spazzolino da denti.


Quando Allan fece il suo ingresso in soggiorno, Julius e Benny erano seduti al tavolo della colazione. Julius si era fatto una bella passeggiata, mentre Benny aveva dormito a lungo e profondamente. Bella aveva preparato la tavola, lasciando un foglio con le istruzioni su come servirsi in cucina. Era andata a Rottne. La lettera terminava con un ordine: i signori erano pregati di lasciare una certa quantità di cibo nei piatti, gli avanzi sarebbero andati a Buster.


Allan augurò il buongiorno ai presenti, che ricambiarono il saluto. A quel punto Julius si permise di esternare il suo pensiero, proponendo di fermarsi un’altra notte a Sjötorp dal momento che l’accoglienza era stata così meravigliosa. Allan domandò se l’idea fosse stata suggerita dall’autista, visto che gli era sembrato di cogliere una certa atmosfera la sera prima. Julius rispose che nel corso della mattinata, oltre a rimpinzarsi di pane tostato e uova, aveva anche ascoltato i ragionamenti di Benny, il quale in effetti aveva suggerito di trascorrere l’intera estate a Sjötorp. A ogni modo la conclusione a cui era arrivato era unicamente sua: in quale avventura si stavano per buttare, ammesso che non l’avessero già fatto? Non era forse meglio meditare un giorno in più sul da farsi? Certo, per poter rimanere a Sjötorp dovevano imbastire una storia plausibile, che giustificasse chi erano e cosa li univa. E ovviamente era necessario l’assenso di Bella.


Benny seguì con interesse la conversazione tra Allan e Julius, sperando che decidessero di trascorrere un’altra notte alla fattoria. Ciò che aveva provato per Bella il giorno prima non era mutato; anzi, ci era rimasto male quando a colazione non l’aveva trovata. Tuttavia aveva lasciato un biglietto: “Grazie per ieri.” Si riferiva forse alla poesia declamata da Benny? Non vedeva l’ora che tornasse.


Passò invece quasi un’ora prima che Bella parcheggiasse l’auto in cortile. Quando scese dalla macchina Benny la vide ancora più bella dell’ultima volta. Non indossava più la tuta da lavoro, e si chiese se per caso non fosse anche andata dal par­rucchiere. Mosse alcuni passi verso di lei esclamando:


“Mia bella! Bentornata a casa!”


Dietro di lui c’erano Allan e Julius, divertiti da tutte le smancerie amorose che avvenivano sotto i loro occhi. Ma i sorrisi si spensero nel momento stesso in cui Bella aprì bocca. Infatti, dopo aver superato velocemente Benny e gli altri due, si fermò sulle scale della veranda e girandosi disse:


“Brutti bastardi! So tutto! E adesso voglio sapere il resto. In soggiorno, ADESSO!”


Poi scomparve dentro casa.


“Se sa già tutto cos’altro le dobbiamo dire?” domandò Benny.


“Sta’ zitto, Benny,” replicò Julius.


“Come volevasi dimostrare,” commentò Allan.


Entrarono in casa docili, pronti ad affrontare il loro destino.




Prima di vestirsi di tutto punto, Bella aveva cominciato la giornata dando da mangiare a Sonya dell’erba appena tagliata. Aveva dovuto ammettere che desiderava farsi bella per quel Benny, ecco perché aveva sostituito la tuta da lavoro rossa con un vestitino giallo chiaro e aveva raccolto i capelli in due trecce. Si era anche truccata un po’, e per rendere il tutto ancora più seducente si era persino messa qualche goccia di profumo prima di salire sulla Passat rossa per andare a Rottne a fare la spesa.


Appollaiato come sempre sul sedile accanto al suo, Buster digrignò i denti quando Bella fermò la macchina davanti al supermercato. Bella si chiese se la cosa fosse dovuta al fatto che all’entrata aveva visto la prima pagina dell’“Expressen”, su cui erano riprodotte due foto: quella sotto raffigurava il vecchio Julius, quella in alto l’ancor più vecchio Allan. Il testo diceva:


La polizia sospetta:


CENTENARIO RAPITO


dalla criminalità organizzata.


Ricercato


noto ladro professionista.


Bella arrossì violentemente, i pensieri le schizzavano in tutte le direzioni. In preda a una rabbia improvvisa abbandonò l’idea di fare la spesa: i tre lestofanti dovevano sparire prima di pranzo! Si recò in farmacia per ritirare le medicine elencate sulle ricette che Benny aveva compilato la notte precedente, quindi acquistò una copia del giornale per approfondire la notizia.


Più leggeva e più s’infuriava. Eppure i conti non tornavano. Era Benny il membro della Never Again? Il ladro professionista era Julius? E chi aveva rapito chi? Sembravano andare così d’accordo…


La rabbia alla fine ebbe il sopravvento sulla curiosità, dal momento che, comunque stessero le cose, lei era stata raggirata. E Gunilla Björklund non la si faceva fessa rimanendo impuniti! “Mia bella!” Come no!


Seduta in macchina, si mise a rileggere l’articolo: “Lunedì, giorno del suo compleanno, Allan Karlsson è scomparso dalla casa di riposo di Malmköping. La polizia sospetta che l’anziano sia stato rapito dalla banda di criminali Never Again. Infine, dalle notizie in possesso dell’‘Expressen’ risulta che nella faccenda sia coinvolto anche Julius Jonsson, noto ladro professionista.”


Seguiva un guazzabuglio di informazioni e testimonianze. Allan Karlsson era stato visto alla stazione dei pullman di Malmköping, dopodiché era salito sull’autobus diretto a Strängnäs, decisione non gradita a un membro della Never Again. Ma un momento… “… uomo biondo sulla trentina…” Non corrispondeva alla descrizione di Benny. Bella si sentì sollevata.


Il mistero però si infittiva, dato che il giorno prima Allan Karlsson era stato avvistato su un carrello ferroviario nei boschi del Sörmland, insieme al noto ladro professionista Julius Jonsson e all’infuriatissimo membro della Never Again. L’“Expressen” non era in grado di descrivere con esattezza che tipo di relazione ci fosse fra i tre, ma secondo la teoria più accreditata Allan Karlsson era in balia degli altri due. Questo era perlomeno quanto riteneva il contadino Tengroth di Vidkärr messo sotto torchio dal giornalista dell’“Expressen”.


Infine il giornale rivelava un altro dettaglio, e cioè che il proprietario di un chiosco, Benny Ljungberg, era sparito senza lasciare tracce il giorno precedente, proprio nei dintorni della fabbrica di Åker, dove erano stati visti l’ultima volta il vecchio scomparso e il noto ladro professionista. Particolare riferito dal personale della stazione di servizio di Åker.


Infilato il giornale in bocca a Buster, Bella si precipitò verso la fattoria, dove sapeva di avere ospiti un centenario, un noto ladro professionista e il proprietario di un chiosco. Oltretutto quest’ultimo era carino, dotato di grande charme e con evidenti conoscenze mediche, ma bando al romanticismo. Per un attimo Bella si scoprì più triste che arrabbiata, anche se prima di arrivare a casa riuscì a montare nuovamente su tutte le furie.




Strappato l’“Expressen” dalla bocca di Buster, Bella mostrò la prima pagina con le foto di Allan e Julius, quindi, dopo parecchie imprecazioni e ingiurie, si mise a leggere l’articolo ad alta voce. Quando ebbe finito pretese una spiegazione su quanto stava accadendo in casa sua, ed estorse ai tre la promessa che se ne sarebbero andati per la loro strada entro cinque minuti, indipendentemente da dove questa li portasse. Ripiegò il giornale, lo rimise in bocca a Buster, e incrociate le braccia concluse con un gelido e deciso:


“Alloraaa?”


Benny lanciò un’occhiata ad Allan, che lanciò un’occhiata a Julius, che stranamente scoppiò in una risata.


“Noto ladro professionista,” disse. “Ma guarda, niente male.”


Bella non si lasciò impressionare. Era già paonazza e lo divenne ancora di più quando comunicò a Julius che tra non molto sarebbe diventato un noto ladro professionista a brandelli, se non le avessero rivelato subito qual era la posta in gioco. Rincarò la dose sottolineando, come già aveva detto a se stessa, che nessuno poteva fregare impunemente Gunilla Björklund di Sjötorp. Per rafforzare quanto stava dicendo inforcò un vecchio fucile da caccia appeso alla parete. Era vero che quell’arma non sparava, spiegò Bella, ma poteva rompere la testa, se necessario, a un noto ladro professionista, al proprietario di un chiosco e a un vecchio svitato. E ci stava.


La risata di Julius si spense subito. Benny era in piedi, con le braccia che gli penzolavano lungo il corpo: riusciva soltanto a pensare che la sua fortuna in amore stava per abbandonarlo. Allora intervenne Allan, che propose a Bella una pausa di riflessione. Con il suo permesso, desiderava avere un colloquio privato con Julius nella stanza accanto. Borbottando, Bella accettò, ma ammonì Allan di non fare sciocchezze. Quest’ultimo, dopo averla rassicurata, prese Julius sottobraccio e lo condusse in cucina. Chiuse la porta.


Allan esordì domandando all’amico se avesse in mente qualche nuova idea per placare la rabbia di Bella. La risposta fu che l’unica possibilità di uscire da quell’impiccio era offrirle una parte del contenuto della valigia. Allan era d’accordo, ma fece notare che non era una mossa brillante raccontare ogni giorno a una persona diversa che avevano rubato una valigia facendo fuori il legittimo proprietario nel momento in cui questo aveva cercato di recuperarla, per poi impacchettarne il cadavere e spedirlo all’estero.


Secondo Julius Allan esagerava. Finora soltanto uno ci aveva rimesso la pelle, e se l’era meritato. Se adesso fossero riusciti a fare in modo che la situazione prendesse una piega chiara, non ce ne sarebbero stati altri.


Allan gli espose in tutta fretta i suoi pensieri. La cosa migliore era dividere il contenuto della valigia in quattro: Allan, Julius, Benny e Bella. Così non avrebbero corso il rischio che gli ultimi due parlassero con le persone sbagliate. In cambio loro tre si sarebbero fermati a Sjötorp fino alla fine dell’estate, quando presumibilmente quella banda di criminali avesse smesso di cercarli, ammesso e non concesso che lo stessero ancora facendo.


“Venticinque milioni per un tetto qualche settimana,” sospirò Julius con un’espressione che tuttavia rivelava il suo assenso.


La riunione in cucina era conclusa. I due tornarono in soggiorno. Allan chiese a Bella e Benny ancora trenta secondi di pazienza, mentre Julius salì in camera per tornare subito dopo con la valigia. Dopo averla appoggiata sul tavolo al centro della stanza, la aprì.


“Allan e io abbiamo deciso di dividere il malloppo in quattro parti uguali.”


“Brutti bastardi!” esclamò Bella.


“Dividere in parti uguali?” chiese Benny.


“Sì, ma vedi di restituire le tue centomila corone,” rispose Allan. “E il resto dei soldi della benzina.”


“Brutti bastardi del cazzo!” aggiunse Bella.


“Sedetevi che adesso vi racconto,” esordì Julius.


Proprio come Benny, Bella ebbe qualche difficoltà a digerire la parte del cadavere sparito in un cilindro, mentre era favorevolmente impressionata da Allan che, scappando dalla finestra, aveva detto addio alla sua vecchia vita.


“Avrei dovuto farlo anch’io dopo quattordici giorni con lo stronzo che avevo sposato.”


A Sjötorp ritornò la calma. Bella e Benny ripartirono in macchina per fare la spesa: cibo, bevande, vestiti, articoli per l’igiene personale e tante altre cose. Bella pagò tutto in contanti, con biglietti da cinquecento presi da un mazzo di banconote.




Il commissario Aronsson interrogò la testimone della stazione di servizio di Mjölby, una donna sulla cinquantina responsabile della sorveglianza. Sia la sua professione sia le sue osservazioni la rendevano credibile. Fu anche in grado di riconoscere Allan nelle foto scattate alla festa di compleanno di un ottantenne presso la casa di riposo qualche settimana prima, foto che l’infermiera Alice aveva avuto la cortesia di distribuire non solo alla polizia, ma anche alla stampa.


Il commissario Aronsson fu costretto a riconoscere di aver preso sottogamba quell’informazione, ma non aveva più senso piangere sul latte versato. Si concentrò invece sull’analisi dei fatti. Se si prendeva in considerazione l’ipotesi della fuga, esistevano due alternative: o i vecchi e il proprietario del chiosco sapevano dove erano diretti, o si muovevano alla cieca. Aronsson avrebbe preferito la prima alternativa, essendo più facile rintracciare una persona che sa dov’è diretta che non una che si muove alla cieca. Anche se con dei tipi del genere non si poteva mai sapere. Non esisteva alcun legame evidente tra Allan Karlsson e Julius Jonsson da un lato, e Benny Ljungberg dall’altro. Jonsson e Ljungberg potevano conoscersi da prima, abitando a una ventina di chilometri di distanza, ma era anche possibile che Ljungberg fosse stato rapito e obbligato a guidare. E il vecchio stesso poteva aver preso parte al viaggio perché costretto con la forza, nonostante ben due elementi sembrassero smentire questa versione: 1) il fatto che Allan Karlsson fosse sceso dal pullman proprio alla stazione di Byringe, e apparentemente avesse cercato di sua iniziativa Julius Jonsson; 2) le testimonianze raccolte, unanimi nel sostenere che Julius Jonsson e Allan Karlsson, sia sul carrello ferroviario mentre attraversavano i boschi sia mentre si allontanavano dalla fonderia, parevano essere in ottimi rapporti.


Stando alla testimone, la Mercedes color argento aveva lasciato la E4 per proseguire sulla statale 32 in direzione di Tranås. Anche se la cosa aveva avuto luogo il giorno prima il particolare era interessante, poiché chi percorreva la E4 per imboccare la statale 32 a Mjölby disponeva di una scelta limitata di destinazioni. La zona intorno a Västervik/Vimmerby/Kalmar era da escludersi, perché in quel caso l’auto sarebbe dovuta uscire a Norrköping, o eventualmente a Linköping, a patto che avessero preso la E4 a nord.


Anche Jönköping/Värnamo e le destinazioni più a sud erano da scartare, dato che in quel tratto non c’era alcuna possibilità di lasciare la E4. Forse l’auto avrebbe potuto dirigersi a Oskarshamn e di lì a Gotland, ma le liste dei passeggeri dellaGotlandsline smentivano tale eventualità. A questo punto rimaneva soltanto la parte settentrionale dello Småland: Tranås, Eksjö, forse Nässjö, Åseda, Vetlanda e dintorni. Includendo anche la zona più a sud, fino a Växjö, se la Mercedes non aveva scelto la via più veloce – ipotesi pienamente plausibile dal momento che, se i tre si sentivano braccati, ripiegare su strade meno battute sarebbe stata una decisione ragionevole.


Il motivo per cui era molto più probabile che si trovassero in quella zona era, innanzitutto, che l’auto aveva a bordo due persone prive di passaporto, quindi difficilmente dirette all’estero. Inoltre, i collaboratori del commissario Aronsson avevano chiamato tutte le stazioni di servizio in direzione sud, sudest e sudovest in un raggio fra i trenta e i cinquanta chilometri da Mjölby. Nessuno aveva notato una Mercedes color argento con tre passeggeri dall’aspetto singolare. Certo, non era da escludere che avessero fatto benzina a un selfservice, ma di solito durante un lungo viaggio la gente sceglie stazioni di servizio dotate di personale, per poter comprare qualcosa di dolce, una bibita o un panino. E infatti una stazione di servizio dotata di personale i tre l’avevano già scelta una volta: quella di Mjölby.


“Tranås, Eksjö, Nässjö, Vetlanda, Åseda… e dintorni,” concluse il commissario Aronsson tra sé, prima di borbottare:


“E poi?”




La mattina, il capo di The Violence di Braås si svegliò dopo aver trascorso una nottata infernale. Si diresse immediatamente alla stazione di servizio per rimediare alla crisi d’astinenza da fumo. All’entrata fu accolto dalla prima pagina dell’“Expressen”. Nella foto grande riconobbe… senza dubbio lo stesso vecchio che aveva visto a Rottne la sera prima.


Dimenticandosi di comprare le sigarette per la fretta, acquistò invece il giornale. Rimase sbalordito da quanto stava leggendo. Telefonò subito a suo fratello Secchio.




Il mistero del vecchio scomparso e probabilmente rapito sconvolse la Svezia. Quella sera stessa TV4 mandò in onda un’inchiesta, “Speciale solo fatti”, dove si parlò suppergiù degli stessi argomenti già trattati dall’“Expressen” e in parte dall’“Aftonbladet”. Il programma fu visto da un milione e mezzo di telespettatori, tra cui il centenario in persona e i suoi tre nuovi amici riuniti a Sjötorp nello Småland.


“Se non sapessi come stanno le cose proverei una gran compassione per quel poveretto,” commentò Allan.


Bella vedeva tutta la situazione in modo meno sereno: secondo lei Allan, Julius e Benny avrebbero fatto meglio a starsene nascosti almeno per un po’. Inoltre, da quel momento in poi la Mercedes sarebbe rimasta parcheggiata dietro il fienile. Bella pensò anche che il mattino dopo sarebbe andata a comprare il pullman su cui aveva messo gli occhi da tempo. C’era l’eventualità di doversi allontanare in fretta e furia nei giorni a venire, e in quel caso si sarebbe mossa tutta la famiglia, Sonya inclusa.

CAPITOLO 9

1939-1945


Il 1° settembre 1939 la nave battente bandiera spagnola su cui si era imbarcato Allan raggiunse il porto di New York. Allan aveva pensato di dare una rapida occhiata in giro prima di intraprendere il viaggio di ritorno, ma quello stesso giorno uno degli amici del generalísimo era impegnato in una passeggiata in Polonia, con il risultato che in Europa si riaccese immediatamente la guerra. Posta sotto sequestro, la nave fu requisita per servire la marina americana fino alla pace del 1945.


Gli uomini a bordo furono condotti in blocco all’ufficio immigrazione di Ellis Island, dove vennero sottoposti al seguente interrogatorio: 1) nome?; 2) nazionalità?; 3) professione?; 4) motivo del soggiorno negli Stati Uniti?


I compagni di Allan dichiararono di essere marinai spagnoli senza nessuna possibilità di rimpatriare, dato che la nave era sotto sequestro. Fu loro concesso il visto per entrare nel paese, dove avrebbero dovuto arrangiarsi come potevano.


Allan si distinse subito. Innanzitutto per via del nome, che l’interprete non fu in grado di pronunciare, poi per il fatto che veniva dalla Suecia. Il momento clou fu quando raccontò di essere un esperto di esplosivi e di aver maturato esperienza in materia prima nella ditta di sua proprietà, poi in una fonderia di cannoni e ultimamente nel corso della guerra civile scoppiata in Spagna.


A quel punto estrasse la lettera scritta dal generale Franco. L’interprete la tradusse con orrore al funzionario dell’ufficio immigrazione, che subito chiamò il suo capo che immediatamente riferì al suo.


Per prima cosa fu deciso di rimpatriare all’istante quel fascista svedese.


“Se mi trovate una nave parto anche adesso,” disse l’interessato.


Ma nacquero altre complicazioni. L’interrogatorio proseguì, e più il funzionario di grado superiore indagava e torchiava lo svedese meno costui gli pareva fascista. E neppure comunista o nazionalsocialista. Non era nient’altro, all’apparenza, che un esperto di esplosivi. Il fatto che fosse intimo del generale Franco risultava poi tanto assurdo da sembrare un’invenzione bella e buona.


Il capo dell’ufficio immigrazione aveva un fratello a Los Alamos, New Mexico, che per quanto ne sapeva si occupava di bombe e della difesa della nazione. In mancanza di idee migliori misero Allan in gattabuia e il capo parlò del caso al fratello in occasione della festa del Ringraziamento nel ranch di famiglia nel Connecticut. Questi rispose che il pensiero di accollarsi un potenziale accolito di Franco non gli garbava più di tanto, ma un piacere al fratello l’avrebbe fatto volentieri: laggiù avevano bisogno di persone competenti in materia e avrebbero potuto affidare allo svedese degli incarichi elementari classificati come non troppo segreti.


Detto questo, entrambi soddisfatti, si dedicarono al tacchino arrosto.


Qualche tempo dopo Allan prese per la prima volta in vita sua un aereo, e nell’autunno inoltrato del 1939 fu assegnato alla base militare americana di Los Alamos, dove scoprì di non spiccicare una parola d’inglese. Un tenente che parlava spagnolo ebbe il compito di esaminare le competenze dello svedese. Chiese ad Allan di esporre ciò che sapeva. Al tenente sembrò che lo svedese mostrasse prova di ricchezza d’ingegno, ma non poté fare a meno di concludere, con un gran sospiro, che le sue formule esplosive sarebbero riuscite a malapena a far saltare in aria un’automobile.


“Oh sì,” replicò Allan, “la macchina e anche il grossista. L’ho sperimentato.”


A ogni modo lo tennero. Inizialmente Allan alloggiò in una delle baracche più defilate, ma con il passare dei mesi e degli anni, avendo cominciato a parlare inglese, le restrizioni che regolavano la sua presenza alla base divennero sempre meno rigide. Era un collaboratore molto attento: durante il giorno imparava a preparare esplosivi di tutt’altra potenza rispetto a quelli testati in gioventù, la domenica, nella buca dietro la casa. La sera, poi, quando la maggior parte dei giovani militari stanziati a Los Alamos si recavano in città a caccia di donne, Allan se ne restava nella biblioteca della base, con il proposito di approfondire la conoscenza delle tecniche più avanzate nell’uso degli esplosivi.




Mentre Allan approfondiva le sue conoscenze, la guerra scoppiata in Europa (e gradualmente nel mondo) si allargava a macchia d’olio. In attesa di mettere in pratica le nozioni acquisite, Allan continuava a fungere da collaboratore (anche se assai stimato) e a incamerare nuove competenze. Oltre che con la nitroglicerina e il nitrato di sodio – quelle ormai erano bazzecole – cominciava a prendere confidenza anche con l’uranio e altre sostanze molto più toste e complicate.


A partire dal 1942, a Los Alamos furono introdotte norme di si­cu­rez­za più severe delle precedenti. Gli scienziati avevano ricevu­to dal presidente Roosevelt l’incarico segreto di mettere a pun­­to una bomba che, in un’unica esplosione, fosse in grado di far saltare in aria, se necessario, dieci o venti ponti spagnoli, se­con­do i calcoli di Allan. C’era bisogno di collaboratori anche nel­le stanze più inaccessibili, e allo svedese fu consentito l’ingresso.


Allan doveva ammettere che gli americani erano davvero scaltri. Anziché accontentarsi degli elementi a disposizione, stavano valutando l’ipotesi di trattare l’atomo in modo da provocare un’esplosione senza precedenti.


Nell’aprile del 1945 la sperimentazione era già ben avviata. I ricercatori – e di conseguenza anche Allan – sapevano come innescare una reazione nucleare, ma non come tenerla sotto controllo. Il problema lo affascinava, e nelle sere trascorse in biblioteca Allan si mise a rimuginare su qualcosa su cui nessuno gli aveva chiesto di rimuginare. Non mollò, e una sera… voilà! Una sera… trovò la soluzione!


Le più alte cariche militari passarono la primavera a discutere della questione con i più prestigiosi scienziati al mondo, capitanati dal capo e coordinatore Oppenheimer, mentre il compito di Allan era di servire loro caffè e dolcetti.


Strappandosi i capelli, gli scienziati chiedevano di continuo caffè, i militari si grattavano il mento e chiedevano altro caffè, ed entrambi borbottavano finendo col chiedere ancora caffè. E così settimana dopo settimana. Allan aveva trovato la soluzione da tempo, ma pensava che non fosse compito del cameriere suggerire al cuoco come cucinare, quindi si teneva la sua scoperta per sé.


Finché un giorno con suo grande stupore non si udì dire:


“Scusate, ma perché non dividete l’uranio in due parti uguali?”


Gli uscì mentre stava porgendo una tazza di caffè allo stesso Oppenheimer.


“Cosa?” chiese quest’ultimo, che più che ascoltare le parole di Allan era rimasto scioccato dal fatto che il cameriere si fosse permesso di aprire bocca.


Allan non ebbe altra possibilità che continuare:


“Sì, se dividete l’uranio in due parti uguali e fate in modo di farle esplodere l’una contro l’altra sarete in grado di avere il controllo dell’esplosione.”


“Parti uguali?” chiese Oppenheimer mentre nella sua testa ronzavano mille altre considerazioni, che tuttavia si ridussero a quelle due parole.


“Mah, in effetti il signor professore ha ragione. Non è necessario che le parti siano grandi uguali, l’importante è che lo siano abbastanza quando si riuniscono.”


Il tenente Lewis, che aveva garantito per Allan nel ruolo di cameriere, aveva l’aria di volerlo uccidere all’istante, ma uno degli scienziati riflettendo ad alta voce replicò:


“Cosa intende dire con farle esplodere l’una contro l’altra? E quando? In aria?”


“Esattamente, signor fisico. O forse lei è chimico? Sì? Non c’è nessun problema nel farle esplodere. Il punto è che si dovrebbe controllare il momento dell’esplosione. Ma una massa critica divisa in due diventa due masse subcritiche, no? E viceversa due masse subcritiche diventano una massa cri­tica.”


“E come verrebbero fatte esplodere l’una contro l’altra, signor… Mi scusi, ma lei chi è?” chiese il capo degli scienziati Oppenheimer.


“Io sono Allan.”


“Eh… signor Allan, come aveva pensato di procedere?” continuò Oppenheimer.


“Con una normale, tradizionale carica esplosiva,” spiegò Allan. “Io me ne intendo, ma sono sicuro che ve la caverete anche da soli.”


Gli scienziati in generale e il loro capo in particolare non erano stupidi. In pochi secondi Oppenheimer risolse una lunghissima equazione, arrivando alla conclusione che il cameriere probabilmente aveva ragione. Incredibile che qualcosa di così complicato avesse una soluzione così semplice! Una normale, tradizionale carica esplosiva posta sulla parte terminale della bomba poteva essere attivata a distanza per lanciare una massa subcritica di uranio 235 contro una seconda massa subcritica, trasformandole di conseguenza in un’unica massa critica. I neutroni si sarebbero messi in movimento e gli atomi di uranio avrebbero dato vita alla fissione. La reazione nucleare si sarebbe avviata e…


“Bum,” disse Oppenheimer tra sé.


“Esattamente,” confermò Allan. “Vedo che il signor professore ha già calcolato tutto. Qualcuno desidera altro caffè?”


In quel momento si aprì la porta della stanza segreta e il vicepresidente Truman, le cui visite erano rare ma ricorrenti e mai preannunciate, fece la sua apparizione.


“Sedetevi pure,” disse il vicepresidente agli scenziati, che erano scattati tutti in piedi.


Pur di non disobbedire anche Allan prese posto in una delle poltroncine intorno al tavolo: se il vicepresidente diceva che bisognava sedersi era meglio farlo, così funzionavano le cose in America.


Il vicepresidente chiese una relazione sullo stato dei lavori a Oppenheimer che, balzato di nuovo in piedi, non riuscì a dire altro se non che Mr Allan – e qui lo indicò – aveva appena capito come tenere sotto controllo l’esplosione. La soluzione di Mr Allan non era ancora stata verificata, ma secondo Oppenheimer e a nome di tutti i presenti il problema poteva considerarsi storia passata e nel giro di tre mesi si sarebbe potuta effettuare un’esplosione di prova.


Il vicepresidente fece un giro di sguardi, ricevendo segni di assenso a mo’ di conferma. Il tenente Lewis recuperò il suo naturale ritmo respiratorio. Alla fine gli occhi del vicepresidente si posarono su Allan.


“Credo di poter affermare che lei, Mr Allan, è l’eroe del momento. Avrei bisogno di mangiare un boccone prima di tornare a Washington. Ha voglia di tenermi compagnia?”


Allan pensò che fosse una caratteristica comune a tutti i capi di Stato invitare qualcuno a pranzo quando si sentivano soddisfatti di qualcosa, ma non lo disse. Accettò invece l’invito del vicepresidente e lasciarono insieme la stanza. A uno dei lati lunghi del tavolo sedeva Oppenheimer: a vederlo così, sembrava sia sollevato sia infelice.




Il vicepresidente Truman aveva requisito uno dei suoi ristoranti messicani preferiti a Los Alamos, così lui e Allan lo ebbero tutto per sé, a parte una decina di guardie del corpo sparse qua e là.


Il capo della sicurezza fece notare che Mr Allan non era americano ed era impossibile controllarlo mentre sedeva a tu per tu con il vicepresidente, ma Truman dichiarò che quel giorno Mr Allan aveva compiuto il gesto più patriottico che ci si potesse immaginare.


Era di ottimo umore. Subito dopo cena, anziché recarsi a Washington si sarebbe diretto in Georgia a bordo dell’Air Force 2, in visita al presidente Roosevelt presso una clinica per la cura della poliomielite. Harry Truman era sicuro che il presidente sarebbe stato contento di apprendere quella notizia direttamente da lui.

“Io scelgo il cibo, lei da bere,” disse Truman porgendo la lista dei vini ad Allan.

Poi si rivolse al capocameriere a cui ordinò tacos, enchiladas, tortilla al mais e una serie di salsine.

“E da bere, sir, cosa desidera?”

“Due bottiglie di tequila,” rispose Allan.

Ridacchiando, Truman domandò a Mr Allan se avesse intenzione di spedirlo sotto il tavolo. Questi replicò che lì aveva imparato che i messicani distillavano superalcolici con la stessa gradazione di quelli svedesi, ma naturalmente il vicepresidente avrebbe potuto bere del latte se preferiva.

“No, quello che ho detto ho detto,” ribatté il vicepresidente Truman, che per completare l’ordinazione chiese anche del limone e del sale.

Tre ore dopo si chiamavano “Harry” e “Allan”: ecco cosa possono fare per la fratellanza tra i popoli un paio di bottiglie di tequila. Comunque ci volle un po’ prima che il vicepresidente, sempre più ubriaco, realizzasse che Allan era il nome di battesimo e basta. Dal canto suo questi era riuscito a raccontare la propria storia fino al momento del grossista saltato in aria e all’episodio in cui aveva salvato la vita al generale Franco. Il vicepresidente, invece, si esibì in un’imitazione di Roosevelt che cercava di alzarsi dalla sedia a rotelle.

Quando la serata era al culmine, accanto al vicepresidente si materializzò il capo della sicurezza.

“Le posso parlare un attimo, sir?”

“Parla,” sbottò lui.

“Preferibilmente a quattr’occhi, sir.”

“Cazzo, sei identico a Humphrey Bogart! Sei d’accordo, Allan?”

“Sir…” insistette un po’ a disagio il capo della sicurezza.

“Che cazzo c’è?” sibilò il vicepresidente.

“Sir, si tratta del presidente Roosevelt.”

“Che problema ha adesso quel vecchio caprone?” gracchiò.

“È morto, sir.”

CAPITOLO 10

Lunedì 9 maggio 2005


Secchio rimase piantato per quattro giorni davanti al supermercato di Rottne nel tentativo di beccare innanzitutto Bullone, e in secondo luogo un vecchio, una donna di modello un po’ più recente dai capelli rossi, un tipo con la coda di cavallo la cui fisionomia era per il resto sconosciuta, e una Mercedes color argento. Starsene lì non era stata una sua idea, ma del Capo. Dopo il colloquio con il fratellino, alias il boss di The Violence di Braås, che gli aveva detto di aver avvistato il vecchio davanti a un centro medico dello Småland nel cuore della notte, Secchio aveva riferito immediatamente la notizia alle alte sfere. Il Capo gli aveva allora intimato di sorvegliare il negozio di alimentari più frequentato del luogo. Il Capo aveva dedotto che chi circolava per Rottne in piena notte doveva abitare nei paraggi, che prima o poi doveva venirgli fame, ergo avrebbe avuto bisogno di mangiare, quindi, in mancanza di cibo, avrebbe dovuto andare a fare la spesa. La logica era ineccepibile. Non per niente era il Capo. Tuttavia questo era successo quattro giorni prima e adesso Secchio cominciava ad avere i suoi dubbi.


La concentrazione andava diminuendo: ecco perché all’inizio non fece caso alla donna dai capelli rossi che parcheggiò una Passat rossa anziché la Mercedes color argento che lui si aspettava di vedere. Comunque, visto che la tipa ebbe la magnanimità di passare sotto il suo naso mentre si dirigeva al supermercato, Secchio ebbe la fortuna di non farsela scappare. Non era sicurissimo che fosse lei, ma in base a quanto aveva sentito l’età e i capelli rossi dovevano essere quelli.


Secchio telefonò al Capo a Stoccolma, che non fu altrettanto entusiasta: aveva sperato di beccare Bullone o perlomeno quel maledetto vecchio.


A ogni modo… Secchio avrebbe dovuto annotarsi il numero di targa dell’auto e poi, discretamente, pedinare la rossa. Fatto questo lo avrebbe richiamato.




Il commissario Aronsson aveva trascorso gli ultimi quattro giorni all’albergo di Åseda, dato che a suo avviso era importante trovarsi sul posto qualora fosse emersa qualche nuova testimonianza.


Dal momento che ciò non era accaduto era sul punto di rientrare, quando i colleghi di Eskilstuna si fecero vivi. Le intercettazioni telefoniche del capo della Never Again Per-Gunnar Gerdin avevano dato risultati.


Gerdin o “il Capo” – come veniva chiamato – era diventato celebre qualche anno prima, quando lo “Svenska Dagbladet” aveva riportato che al penitenziario di Hall era in corso un reclutamento volto a dar vita a una nuova organizzazione criminale detta Never Again. Altri rappresentanti dei media avevano seguito la pista e il telegiornale aveva reso pubblico sia il volto sia il nome del personaggio chiave, Gerdin. Che il progetto fosse naufragato per via di alcune frasi contenute nella lettera della madre rimase un segreto.


Un paio di giorni prima il commissario Aronsson aveva ordinato di pedinarlo e intercettarne le telefonate, e la cosa aveva dato i suoi frutti. La conversazione era stata registrata, trascritta e spedita via fax ad Aronsson:


– Pronto?


– Sì, sono io.


– C’è qualcosa di nuovo?


– Sì, forse. Sono davanti al supermercato e proprio in questo momento è entrata una befana dai capelli rossi.


– Da sola? Niente Bullone? Nessun vecchio?


– No, solo la tipa. Non so se…


– Ha una Mercedes?


– Mah, non ne ho viste… nel parcheggio non ce ne sono, quindi dev’essere con un’altra macchina.


(silenzio per cinque secondi)


– Pronto?


– Sì, ci sono. Sto pensando, cazzo, qualcuno deve pur farlo.


– Sì, io…


– Ci sarà più di una donna dai capelli rossi nello Småland…


– Sì, ma ha l’età giusta rispetto a quanto…


– Seguila, prendi il numero di targa, non muoverti ma vedi che strada prende. E, cazzo, fa’ attenzione a non essere scoperto. Poi mi riferisci.


(silenzio per cinque secondi)


– Hai capito o te lo devo ripetere?


– No, no, ho capito. Mi faccio sentire appena si muove qualcosa.


– E la prossima volta chiamami sull’altro cellulare, quello ricaricabile, te l’ho già detto che le telefonate di servizio devono passare di lì! O no?


– Sì, ma non è soltanto quando abbiamo qualche affare in ballo con i russi? Non pensavo che l’avessi acceso adesso che…


– Idiota!


(poi mugugni e fine della conversazione)


Letto il rapporto, il commissario cercò di mettere in ordine i nuovi elementi.


“Bullone”, che Gerdin aveva nominato, doveva essere Bengt Bylund, uno dei più noti membri della Never Again, ora presumibilmente morto. Quello che aveva chiamato doveva invece essere Henrik “Secchio” Hultén, alla ricerca di Bullone in qualche punto dello Småland.


Aronsson ebbe la conferma di averci visto giusto. Trasse le sue conclusioni:


Allan Karlsson si trovava in qualche punto dello Småland in compagnia di Julius Jonsson, Benny Ljungberg e della sua Mercedes. E di una donna dai capelli rossi, di età sconosciuta ma non troppo giovane visto che l’avevano chiamata befana. D’altro canto per gente come Secchio befane lo si diventava presto.


Alla Never Again di Stoccolma erano convinti che Bullone fosse in giro col gruppetto. In quel caso: era in fuga dai suoi compagni? Perché non aveva dato notizie? Certo, perché è morto! Ma il Capo non lo sapeva, perciò credeva che si fosse nascosto nello Småland insieme a… ma cosa c’entrava la donna dai capelli rossi?


Aronsson diede ordine di verificare i legami di parentela di Allan, Benny e Julius. Forse avevano una sorella o una cugina dai capelli rossi che abitava nello Småland…


“Ha l’età giusta rispetto a quanto…” aveva detto Secchio. Rispetto a cosa? Rispetto a quello che aveva detto qualcuno? Qualcuno che aveva visto il gruppetto nello Småland e aveva chiamato per informarli? Era un peccato che le intercettazioni telefoniche fossero iniziate solo da un paio di giorni.


Secchio aveva seguito la rossa che usciva dal supermercato. I casi erano due: o era la donna sbagliata o… lo avrebbe portato dove si trovavano Allan Karlsson e i suoi amici. In quel caso il Capo si sarebbe messo in viaggio per estorcere ad Allan e al suo seguito la verità su quanto era successo a Bullone e soprattutto alla sua valigia.


Aronsson chiamò il giudice per le indagini preliminari di Eskilstuna. All’inizio Conny Ranelid non aveva mostrato grande interesse per il caso, interesse che tuttavia aumentava ogni volta che il commissario gli sottoponeva una nuova questione.


“Non bruciarti Gerdin e il suo scagnozzo,” disse Ranelid.




Dopo aver piazzato due scatoloni pieni di vettovaglie nel bagagliaio della Passat, Bella partì per Sjötorp.


Secchio la seguiva a distanza di sicurezza. Per prima cosa telefonò al Capo (sul cellulare ricaricabile, ovviamente; possedeva un certo istinto di conservazione) per comunicargli il modello della macchina e il numero di targa. Promise che si sarebbe fatto risentire quando fosse arrivato alla meta.


La direzione era quella di Rottne, ma la rossa svoltò in una strada sterrata. Secchio riconobbe la zona perché una volta aveva partecipato a una gara di orientamento per auto in cui era arrivato ultimo. La sua ragazza era il navigatore: a metà gara si era accorta di tenere la cartina al contrario.


La strada sterrata era asciutta e la macchina della rossa sollevava un sacco di polvere. Così, Secchio poteva seguirla senza per forza starle a distanza ravvicinata. Ma il polverone scomparve dopo qualche chilometro. Maledizione! Secchio diede una botta all’acceleratore, ma la nuvoletta era svanita nel nulla.


All’inizio fu preso dal panico, ma si calmò presto: la donna doveva aver girato da qualche parte lungo la strada. Bastava fare inversione e trovare il punto esatto.


Ripercorsi un paio di chilometri, pensò di essere vicino alla soluzione: vide una cassetta delle lettere. Proprio in quel punto cominciava una stradina: la rossa aveva svoltato lì!


A causa del rapido evolversi della situazione, Secchio si fece prendere la mano. Girato troppo velocemente il volante, lui e la macchina schizzarono sulla stradina che portava chissà dove. Oltrepassata la cassetta delle lettere, Secchio mise totalmente da parte la prudenza.


Prima ancora che se ne rendesse conto, si ritrovò nel cortile di una piccola fattoria. Un altro po’ e non avrebbe neppure avuto il tempo di frenare, falciando il vecchio che stava dando da mangiare a un… elefante?




In Sonya Allan aveva trovato una nuova amica. Del resto i due avevano parecchie cose in comune: uno era scappato saltando dalla finestra per dare una svolta alla propria vita, l’altra si era buttata nel lago per la stessa ragione. Inoltre entrambi avevano visto il mondo. Per giunta il muso di Sonya era pieno di rughe, proprio come quello di un centenario molto saggio, si era detta Allan.


Sonya non eseguiva numeri circensi per chiunque, ma quel vecchio le piaceva. Le portava la frutta, le grattava la proboscide e le parlava con gentilezza. Era proprio una persona gradevole. Così quando le chiedeva di sedersi lei lo faceva, e quando le domandava di ruotare su se stessa lei eseguiva. Gli aveva addirittura mostrato di sapersi drizzare sulle zampe posteriori senza che lui le impartisse alcun comando. Ricevere una mela o due per compensare la fatica e ulteriori grattatine sulla proboscide era una semplice formalità. Sonya non si lasciava comprare da nessuno.


Bella se ne stava seduta sulle scale della veranda insieme a Benny e Buster, con del caffè destinato ai bipedi e dei dolcetti per cani al quadrupede. Assistevano all’amicizia che stava sbocciando nel cortile mentre Julius, giù al lago, pescava senza sosta pesce persico.


Il tepore primaverile non mollava. Il sole splendeva da una settimana e secondo le previsioni l’alta pressione sarebbe durata anche nei giorni a venire.


Benny, che oltre a tutto il resto era anche quasi architetto, aveva fatto uno schizzo per mostrare a Bella le modifiche da apportare al pullman perché piacesse anche a Sonya. Quando era venuta a sapere che Julius non era soltanto un ladro ma anche un vecchio commerciante di legname piuttosto abile con chiodi e martello, Bella aveva confidato a Buster che si erano fatti un fior fiore di amici ed era stata una fortuna che non fossero ripartiti la sera del loro arrivo. A Julius era bastato un pomeriggio per fabbricare l’arredo del pullman seguendo le istruzioni di Benny. Sonya se la spassava a entrare e uscire dal veicolo insieme ad Allan per provare ogni cosa. Il pachiderma sembrava approvare, benché non capisse la necessità di possedere due ricoveri piuttosto che uno. Il pullman era un po’ strettino ma offriva una duplice scelta di radici da masticare, a sinistra e davanti, mentre l’acqua si trovava sulla destra. Il pavimento era rialzato e leggermente inclinato all’indietro, così che per gli escrementi di Sonya ci fosse una canalina di spurgo. Il tubo era stato riempito di fieno, in modo da assorbire quanto espulso nel corso del viaggio.


Era stato messo a punto anche un sistema di aerazione sotto forma di fori lungo le fiancate, oltre a un pannello di vetro scorrevole che permetteva a Sonya di non perdere di vista la sua padrona durante il viaggio. In altre parole il pullman era diventato un mezzo di trasporto di lusso per elefanti, e tutto questo in un paio di giorni.


Più il gruppetto si preparava a partire, meno i suoi componenti sembravano pronti a farlo. La vita a Sjötorp era veramente piacevole. Soprattutto per Benny e Bella, che già la seconda notte erano arrivati alla conclusione che sarebbe stato un peccato usare camere e letti separati potendo stare insieme. Le sere trascorrevano davanti al camino ed erano rallegrate dal buon vino, dal buon cibo e dagli eccentrici racconti autobiografici di Allan.


Lunedì mattina il frigorifero era quasi vuoto e per Bella giunse il momento di recarsi nuovamente a Rottne per le provviste. Il viaggio avvenne a bordo della sua vecchia Passat. La Mercedes rimase al suo posto, nascosta dietro il fienile.


Il risultato fu uno scatolone pieno di cose per lei e i ragazzi e una cassa di mele argentine appena arrivate per Sonya. Rientrata a casa la consegnò ad Allan, sistemò il resto nel frigo e nei pensili della cucina e si sedette nella veranda con Benny e Buster, munita di fragole appena arrivate dal Belgio. Insieme a loro, durante una delle sue rarissime pause dalla pesca, c’era anche Julius.


Fu in quel momento che una Ford Mustang fece la sua apparizione in cortile, rischiando di falciare sia Allan sia Sonya.


Chi sembrò prendersela con più calma fu Sonya, così concentrata sulla mela che stava per ricevere da Allan da non sentire né vedere niente di quanto stava succedendo. In realtà si rese conto di tutto, visto che si bloccò con il sedere puntato su Allan e il nuovo arrivato nel bel mezzo di una giravolta.


Il secondo a non scomporsi fu Allan, che nella vita si era trovato così spesso vicino alla morte che una Ford Mustang piombata lì a rotta di collo non lo sconvolgeva certo. A patto che si fermasse in tempo, come in effetti fece.


Il terzo fu Buster, addestrato a non saltare su né ad abbaiare in presenza di sconosciuti. Teneva comunque le orecchie alte e aveva gli occhi fissi come due biglie di vetro: si trattava di seguire lo sviluppo della situazione.


Bella, Benny e Julius invece sussultarono. Balzati in piedi, aspettavano di vedere cosa sarebbe accaduto.


Quello che accadde fu che Secchio, superato un momento d’imbarazzo, uscì barcollando dalla Ford Mustang dopo aver rovistato nella borsa abbandonata dietro a uno dei sedili anteriori alla ricerca di una pistola. Trovata l’arma, prima la puntò contro il deretano dell’elefante, poi, ripensandoci, la spostò su Allan e quindi sugli amici in veranda. Poi esclamò (senza troppa fantasia):


“Mani in alto!”


“Mani in alto?”


Era la cosa più stupida che Allan avesse sentito in vita sua, e subito si mise ad argomentare in merito. Cosa pensava che sarebbe successo, il signore? Che lui, un vecchio di cent’anni, gli avrebbe scagliato contro una mela? O che la pazza là in fondo lo avrebbe ingozzato di fragole belghe? O che…


“Va bene, tenete le mani dove diavolo volete ma non provate a fare scherzi.”


“Scherzi?”


“Adesso vedi di piantarla, vecchiaccio, e sputa fuori dov’è finita quella maledetta valigia. E da chi l’hai avuta.”


Ecco, pensò Bella, qui finisce la pacchia. Dovevano fare i conti con la realtà. Nessuno fiatò, tutti riflettevano fino a farsi fumare il cervello, a eccezione dell’elefante che non sentendosi coinvolto direttamente pensò bene che fosse giunto il momento di fare la cacca, e quando un pachiderma decide di defecare raramente la cosa passa inosservata a chi si trova nelle vicinanze.


“Merda,” commentò Secchio, che arretrò repentinamente di qualche passo davanti al liquame che sgorgava dall’animale. “Che cazzo ci fate con un elefante?”


Anche questa volta nessuna risposta, ma Buster non seppe più trattenersi. Aveva capito che c’era qualcosa che non andava. Avrebbe voluto abbaiare contro il nuovo arrivato, ma conoscendo le regole emise un leggero ringhio che permise a Secchio di accorgersi della presenza del pastore tedesco sulla veranda. Sollevando la pistola arretrò di due passi, pronto a sparare se necessario.


Proprio in quel momento nella mente di Allan balenò un’idea. Era un’idea ardita e correva il rischio di rimanerci secco, ma chi aveva detto che fosse immortale? Inspirando profondamente, si mosse. Con un sorrisetto sulle labbra avanzò verso il tipo con la pistola, e ricorrendo alla sua voce più tremolante disse:


“Che bellissima arma! Funziona? Posso vederla?”


Benny, Julius e Bella pensarono che gli avesse dato di volta il cervello.


“Fermati, Allan!” esclamò Benny.


“Sì, fermati, vecchiaccio, se no ti faccio secco,” gridò Secchio.


Allan continuò a camminare con la sua andatura incerta. Secchio arretrò ancora, tese il braccio puntandogli la pistola contro e… fece esattamente quello che Allan aveva sperato: eseguì un ulteriore passo indietro…


Chi si è trovato a mettere un piede nella massa appiccicosa e viscida degli escrementi freschi di un elefante sa che è impossibile mantenere l’equilibrio. Secchio non lo sapeva, ma lo imparò immediatamente. Il piede sinistro gli scivolò all’indietro, riuscì a mantenersi in equilibrio aiutandosi con le braccia, portò indietro anche il piede destro e magicamente si trovò dentro la melma. Poi cadde, atterrando morbidamente sulla schiena.


“Siediti, Sonya, siediti,” disse con dolcezza Allan, attuando così la seconda parte del suo piano.


“No, cazzo, Sonya, no,” urlò Bella, che aveva capito.


“Porca merda,” fu il commento di Secchio, sdraiato per l’appunto nella medesima.


Sonya, che dava la schiena a tutti loro, aveva udito chiaramente il comando di Allan, e dal momento che il vecchio era sempre così gentile fece quello che le era stato chiesto. Inoltre pensò che anche la sua padrona fosse d’accordo, poiché nel suo vocabolario la parola “no” non esisteva.


Quindi eseguì. Atterrò di sedere su un ammasso morbido e caldo e subito si sentì il rumore di qualcosa che scricchiolava seguito da un breve gemito, dopodiché cadde il silenzio. Adesso che era seduta avrebbe finalmente avuto la sua mela?


“Così se n’è andato anche il numero due,” commentò Julius.


“Cazzo, merda,” commentò Bella.


“Accidenti,” commentò Benny.


“Eccoti una mela, Sonya,” disse Allan.


Henrik “Secchio” Hultén non proferì verbo.




Per tre ore il Capo aspettò di ricevere notizie da Secchio, poi giunse alla conclusione che a quell’imbranato fosse successo qualcosa. Non riusciva a capire perché la gente non si limitasse a eseguire gli ordini, semplicemente.


Doveva intervenire di persona, era evidente. Si mise a cercare il numero di targa fornitogli da Secchio. Non ci volle molto prima che, con l’aiuto del registro della motorizzazione, venisse a sapere che si trattava di una VW Passat rossa di proprietà di una certa Gunilla Björklund, Sjötorp, Rottne, Småland.

CAPITOLO 11

1945-1947


Non è facile tornare sobri in quattro e quattr’otto se ci si è scolati una bottiglia di tequila, eppure fu proprio quello che successe al vicepresidente Harry S. Truman.


Il decesso inaspettato del presidente Roosevelt costrinse Truman a dare un taglio alla piacevole cenetta con Allan e a ordinare che lo portassero immediatamente alla Casa Bianca, a Washington. Rimasto solo al ristorante Allan dovette affrontare una lunga discussione con il capocameriere, non avendo alcuna intenzione di pagare il conto di tasca propria. Alla fine quest’ultimo accolse l’argomentazione di Allan, che gli spiegò come il futuro presidente degli Stati Uniti andasse considerato persona assolutamente degna di credito, oltre che facilmente reperibile.


Dopo una passeggiata rigeneratrice Allan rientrò alla base militare, dove riprese il suo posto di collaboratore dei migliori fisici, matematici e chimici d’America – anche se adesso tutti lo guardavano con un certo imbarazzo. Ma l’atmosfera si era fatta così pesante che dopo qualche settimana gli parve arrivato il momento di rimettersi in circolazione. Una telefonata da Washington per il signor Karlsson lo trasse d’impaccio:


“Ciao Allan, sono Harry.”


“Harry chi?”


“Truman, Allan. Harry S. Truman. Il presidente, che diavolo!”


“No, ma che piacere! Che bello risentirti, signor presidente. Non hai dovuto prendere i comandi anche durante il viaggio di ritorno, spero.”


No, per fortuna. Infatti, nonostante la gravità del momento, il presidente si era addormentato di colpo su uno dei divanetti dell’Air Force 2 e non si era svegliato fino all’atterraggio, cinque ore dopo.


Adesso però Harry Truman aveva un bel po’ di faccende da sbrigare ricevute in eredità dal suo predecessore, e proprio a questo proposito avrebbe avuto bisogno dell’aiuto di Allan, sempre che lui fosse d’accordo.


Confermata la propria disponibilità, il mattino seguente Allan lasciò per sempre la base di Los Alamos.




La stanza ovale era in effetti ovale come se l’era immaginata. Adesso Allan si trovava lì, seduto davanti al suo compagno di bevute di Los Alamos, ad ascoltare ciò che aveva da dire.


La faccenda era la seguente: il presidente era costantemente tampinato da una donna che per motivi di carattere politico non poteva ignorare. La tipa in questione si chiamava Song Meiling. Allan ne aveva sentito parlare? No?


Comunque sia, era la bellissima moglie del capo del Kuo­min­tang cinese, Chiang Kai-shek. Aveva studiato in America, era un’ottima amica della signora Roosevelt, attirava migliaia di persone ovunque apparisse e aveva tenuto un numero infinito di discorsi al Congresso. Ora, la signora stava perseguitando il presidente Truman affinché questi mantenesse le promesse fatte dal presidente Roosevelt circa la lotta al comunismo.


“Lo sapevo che si ricadeva di nuovo in politica,” commentò Allan.


“È piuttosto difficile evitare l’argomento se sei il presidente degli Stati Uniti,” ribatté Truman.


Per il momento tirava vento di bonaccia tra il Kuomintang e i comunisti, visto che entrambe le fazioni erano impegnate in un fronte comune in Manciuria, ma subito dopo la capitolazione dei giapponesi le lotte intestine tra i cinesi sarebbero sicuramente riprese.


“Come fai a essere sicuro che i giapponesi capitoleranno?” chiese Allan.


“Sei tu che dovresti saperlo,” rispose il presidente prima di cambiare argomento.


Quindi riprese la sua disquisizione – incredibilmente noiosa – sull’evolversi della situazione in Cina. Secondo i rapporti pervenuti dai servizi segreti americani i comunisti godevano del vento a favore, mentre gli stessi servizi segreti erano fortemente in disaccordo con la tattica militare portata avanti da Chiang Kai-shek. Quest’ultimo puntava a mantenere il controllo sulle città, lasciando campo libero alla diffusione del comunismo nel resto del paese. Gli agenti americani avrebbero potuto liquidare senza alcun problema il capo dei comunisti, Mao Tse-tung, ma in quel caso c’era il rischio che le sue idee attecchissero ancora di più tra la popolazione. Persino la moglie di Chiang Kai-shek, l’irritante Song Meiling, aveva capito che bisognava fare qualcosa di più, e per questo motivo aveva ordito un piano militare alternativo da mettere in atto parallelamente a quello del consorte.


Il presidente si dilungò su questo piano alternativo, ma Allan aveva smesso di ascoltare concentrando invece l’attenzione sulla stanza ovale. Si chiedeva se le finestre fossero munite di vetri antiproiettile, dove conducesse la porta a sinistra, e rimuginava sul fatto che non doveva essere facile portare in tintoria quel gigantesco tappeto… Infine fu costretto a interrompere il presidente, prima che a questi venisse in mente di fargli delle domande sull’argomento.


“Scusa, Harry, ma cosa vuoi che faccia?”


“Si tratta, come ti dicevo, di fermare l’avanzata dei comunisti nel paese…”


“E cosa vuoi che faccia?”


“Song Meiling esige da parte degli americani un supporto militare più consistente, il che significa che pretende ulteriori integrazioni agli armamenti già messi a disposizione finora.”


“E cosa vuoi che faccia?”


La terza volta che Allan tornò a porre la domanda il presidente tacque per prendere fiato. Poi disse:


“Voglio che tu vada in Cina a fare saltare in aria i ponti.”


“Perché non l’hai detto subito?” esclamò Allan radioso.


“Il maggior numero di ponti possibile. Voglio che tu distrugga tante strade controllate dai comunisti quante…”


“Che bellezza vedere un paese nuovo,” disse Allan.


“Voglio che tu istruisca gli uomini di Song Meiling sull’arte di far esplodere i ponti e che…”


“Quando devo partire?”




Allan, che era un esperto di esplosivi a tutti gli effetti e che, travolto dall’euforia dell’alcol, aveva fatto amicizia con il nuovo presidente americano, era e rimaneva comunque uno svedese. Se si fosse minimamente interessato al gioco della politica, forse avrebbe chiesto al presidente perché fosse stato scelto proprio lui per quella missione. Il presidente sarebbe stato pronto a soddisfare la sua curiosità, e quasi sicuramente gli avrebbe spiegato che agli Stati Uniti non conveniva condurre due progetti di supporto militare paralleli e potenzialmente contrastanti in Cina. Ufficialmente gli Stati Uniti sostenevano in grande stile Chiang Kai-shek e il suo partito, il Kuomintang, ma adesso quest’appoggio veniva segretamente potenziato con un ulteriore carico di esplosivi reclamato e ottenuto dalla moglie di Chiang Kai-shek, la bellissima, americanizzata e vipera (secondo il presidente) Song Meiling. Il peggio era che Truman non poteva escludere l’ipotesi che il tutto fosse stato deciso da Song Meiling e dalla signora Eleanor Roosevelt davanti a una tazza di tè. Uffa, che rottura. Comunque, l’unica faccenda che gli rimaneva da sbrigare consisteva nel fare incontrare Allan Karlsson e Song Meiling. Da quel momento in poi per lui la questione era chiusa.


Il passo successivo era di carattere più formale, visto che la decisione era già stata presa. Ciononostante gli veniva richiesto di, per così dire, premere il bottone. Su un’isola a est delle Filippine l’equipaggio di un B52 aspettava il segnale da parte del presidente. Erano stati eseguiti tutti i test. Niente poteva andare storto.


Il giorno seguente era il 6 agosto 1945.




La gioia che Allan Karlsson aveva provato all’idea dei nuovi orizzonti che gli si dischiudevano davanti subì un brutto colpo durante il primo incontro con Song Meiling. Ad Allan era stato comunicato di recarsi da lei nella suite di un albergo a Wash­ing­ton. Dopo essersi aperto un varco tra due file di guardie del corpo ed essersi trovato di fronte a Madame, le porse la mano dicendo:


“Buongiorno, signora, mi chiamo Allan Karlsson.”


Song Meiling ignorò la mano. Indicò invece una poltrona accanto a lei.


“Seduto!” ordinò.


Nel corso degli anni Allan era stato accusato di essere qualsiasi cosa – un pazzo, un fascista – ma mai un cane. Valutò l’ipotesi di lamentarsi del tono poco gentile della signora, ma decise di lasciar correre per sapere quanto prima cosa sarebbe successo dopo. Oltretutto la poltrona sembrava molto comoda.


Non appena si fu seduto, Song Meiling si buttò in quello che agli occhi di Allan era il peggio che gli potesse capitare, e cioè una disquisizione politica. La donna tirò in ballo il presidente Roosevelt, che aveva dato ordine di portare avanti quella missione. Ad Allan parve decisamente strano, dato che nessuno poteva condurre delle operazioni militari dall’aldilà.


Song Meiling parlò dell’importanza di fermare i comunisti, di impedire a quel bellimbusto di Mao Tse-tung di diffondere il suo veleno politico in provincia, e – particolare assai significativo, secondo Allan – del fatto che Chiang Kai-shek non dovesse saperne nulla.


“Come ve la passate voi due in quanto a sesso?” chiese Allan.


Song Meiling rispose che la questione non riguardava certo un miserabile come lui. Karlsson era stato inviato lì dal presidente Roosevelt per ricevere ordini da lei nel corso della missione, pertanto l’unica cosa che doveva fare era rispondere alle sue domande. E basta.


Allan, che in genere non si arrabbiava ritenendo di non essere dotato del talento necessario, decise questa volta di risponderle a tono:


“L’ultima notizia che ho sentito su Roosevelt è che ci ha lasciati. Se nel frattempo fossero intervenute delle variazioni la cosa sarebbe apparsa sui giornali. Per quanto mi riguarda, sono qui perché me lo ha chiesto il presidente Truman. Se però la signora intende continuare a fare la scontrosa, tolgo il disturbo e me ne lavo le mani. La Cina la posso visitare un’altra volta e di ponti ne ho fatti saltare tanti che per me bastano e avanzano.”


Song Meiling non si era più trovata di fronte a qualcuno che la contraddicesse dalla volta in cui la madre aveva tentato di impedire il suo matrimonio con un buddista. L’episodio risaliva a molti anni prima e a ogni modo sua madre aveva avuto modo di scusarsi, visto che proprio grazie a quelle nozze la figlia era diventata una stella del firmamento.


Song Meiling si vide costretta a riflettere. Evidentemente aveva sbagliato a giudicare la situazione. Fino a quel momento gli americani avevano tremato ogni volta che era apparsa al fianco dei suoi cari amici, il signore e la signora Roosevelt. Dunque, come avrebbe potuto trattare quell’essere seduto al suo fianco se non come tutti gli altri? Chi era quell’imbranato che Truman le aveva sbolognato?


Di sicuro Song Meiling non era tipo da fraternizzare con chiunque, ma la sua determinazione era più forte dei suoi principi. Per questo cambiò tattica.


“A quanto pare ci siamo dimenticati di salutarci come si deve,” disse porgendo la mano ad Allan all’occidentale. “Meglio tardi che mai!”


Allan non serbava rancore a lungo. Dopo averle stretto la mano sorrise come se non fosse successo nulla. Mentre non era poi così d’accordo sull’affermazione “Meglio tardi che mai”. Suo padre, per esempio, era diventato fedele suddito dello zar Nicola II il giorno prima della rivoluzione bolscevica.




Due giorni dopo, insieme a Song Meiling e a venti uomini scelti tra le sue guardie del corpo, Allan era già in volo per Los Angeles, dove li attendeva la nave che li avrebbe portati a Shanghai insieme a un carico di dinamite.


Allan sapeva che gli sarebbe stato impossibile evitare Song Meiling durante la traversata dell’Oceano Pacifico. La nave non era abbastanza grande. Così, decise di fare buon viso a cattivo gioco e accettò di essere ospite fisso al tavolo del capitano. Il vantaggio era che si mangiava bene, lo svantaggio che Allan e il capitano dovevano sciropparsi la compagnia di Song Meiling, purtroppo incapace di parlare d’altro che di politica.


A essere sinceri c’era anche un altro aspetto negativo: invece dell’acquavite veniva servito un liquore verdastro alla banana. Allan, che accettava sempre tutto ciò che gli veniva offerto, realizzò che quella era la prima volta che gli capitava di bere qualcosa di imbevibile. Le bevande alcoliche dovevano scendere nella gola e nello stomaco il più velocemente possibile senza rimanere appiccicate al palato.


Song Meiling invece sembrava gradire, e più bicchieri mandava giù più le sue interminabili conferenze politiche si facevano personali.


Ciò che Allan imparò controvoglia durante quelle cene nell’Oceano Pacifico fu, tra l’altro, che quel bellimbusto di Mao Tse-tung e i suoi comunisti avrebbero potuto vincere la guerra civile, e in quel caso la responsabilità sarebbe totalmente ricaduta su Chiang Kai-shek, il marito di Song Meiling, che come comandante supremo era perfettamente incapace. Oltretutto ora era impegnato in trattative di pace con Mao Tse-tung a Chongqing, nel sud della Cina. Si era mai sentito niente di più stupido? Trattare con un comunista! Tempo sprecato!


Song Meiling era certa che le trattative non sarebbero andate a buon fine. I rapporti dei servizi segreti in suo possesso dicevano che una parte consistente dell’armata comunista era in attesa del suo capo nelle zone montuose della provincia di Sichuan, non lontano da Chongqing. Gli agenti superselezionati di Song Mei­ling ritenevano, proprio come lei, che il bellimbusto e le sue truppe si sarebbero diretti a nordest, verso Shaanxi e Henan, nel corso della loro nefasta marcia di propaganda attraverso la nazione.


Allan stava sempre molto attento a non aprire bocca per evitare il protrarsi dei sermoni, mentre il capitano, inguaribilmente gentile, versando nei bicchieri l’intruglio verde e stucchevole continuava a porre domande.


Il capitano si chiedeva come Mao Tse-tung potesse costituire una vera minaccia. Il Kuomintang aveva alle spalle gli Stati Uniti e, da quanto aveva capito, era militarmente superiore.


Quella sera la domanda prolungò il tormento di quasi un’ora. Song Meiling spiegò che quella mezzacalzetta di suo marito aveva l’intelligenza, il carisma e le qualità di una vacca da latte. Chiang Kai-shek, infatti, si era erroneamente convinto che la partita si dovesse giocare tutta sul controllo delle città.


Grazie al suo piccolo piano alternativo, in cui erano coinvolti Allan e alcuni uomini scelti tra le sue guardie del corpo, Song Meiling non escludeva l’ipotesi di sconfiggere Mao, ma con quante probabilità? Venti uomini scarsamente armati, ventuno con il signor Karlsson, contro un’orda di nemici altamente preparati nella zona montuosa di Sichuan… No, la situazione non poteva essere peggiore.


Il suo piano si articolava in due mosse: impedire al bellimbusto di muoversi liberamente, intralciando gli spostamenti dell’armata comunista, e far capire a quel brocco del marito che era giunto il momento di condurre le proprie truppe nei villaggi, per convincere il popolo cinese che il Kuomintang gli era necessario per proteggersi dal comunismo, e non il contrario. Come il bellimbusto, Song Meiling aveva capito quello che Chiang Kai-shek stentava a farsi entrare in zucca, e cioè che era decisamente più semplice diventare il capo di un popolo se si aveva il popolo dalla propria parte.


Poteva anche essere che, andando allo sbaraglio, si riuscisse comunque a ottenere qualcosa: in fondo era un bene che Chiang Kai-shek avesse convocato il nemico proprio a Chongqing, nella parte sudoccidentale del paese. In questo modo, dopo l’inevitabile rottura dei negoziati, il bellimbusto e i suoi compagni si sarebbero trovati a sud del fiume Yangzijiang. Il che avrebbe permesso alle guardie di Song Meiling di raggiungerli, e a Karlsson di far saltare in aria tutti i ponti della zona intrappolando il bellimbusto tra le montagne del Tibet.


“Se invece dovesse trovarsi sul lato sbagliato del fiume, a noi basterà cambiare tattica. In Cina ci sono cinquantamila corsi d’acqua, quindi ovunque andrà quel parassita si troverà con i piedi a mollo.”


Un bellimbusto e parassita, pensò Allan, in lotta contro un brocco, mezzacalzetta, incapace e con il quoziente d’intelligenza di una vacca da latte. E tra i due una vipera ubriaca di liquore verde alla banana.


“Sarà interessante vedere come andrà a finire,” fu il commento spassionato di Allan. “A proposito, e giusto così per dire, non è che il signor capitano ha da qualche parte un goccetto di acquavite? Sa, per mandar giù il liquore.”


No, il capitano non ne aveva. Però c’erano tante altre cose da bere se il signor Karlsson desiderava variare: liquore al limone, liquore alla panna, liquore alla menta…


“Sempre così per dire,” disse allora Allan, “quand’è che arriviamo a Shanghai?”




Lo Yangzijiang non era un fiume qualunque: si estendeva per centinaia di miglia ed era largo un chilometro. Inoltre, era abbastanza profondo da permettere il passaggio di imbarcazioni della stazza di migliaia di tonnellate.


Era anche molto bello, laddove scorreva in mezzo ai paesaggi cinesi, alle città, ai villaggi, ai campi arati e alle ripide scogliere.


A bordo di un battello fluviale, Allan Karlsson e la guarnigione composta da venti delle guardie del corpo di Song Meiling si stavano dirigendo verso la provincia di Sichuan, allo scopo di dare del filo da torcere a quel miserabile di Mao Tse-tung. Il viaggio aveva avuto inizio il 12 ottobre 1945, due giorni dopo che, come previsto, i negoziati di pace si erano arenati.


Il viaggio procedeva a rilento, visto che le venti guardie solevano spassarsela per un giorno, o anche tre, non appena il battello attraccava in porto (i topi ballavano da quando la gatta si era messa al sicuro nella sua residenza estiva vicino a Taipei). Le fermate furono numerose. Prima Nanjing, poi Wuhu, Anqing, Jiujiang, Huangshi, Wuhan, Yueyang, Yidu, Fengjie, Wanxian, Chongqing e Luzhou. E in ogni posto vai con alcol, prostitute e ogni sorta di ordinaria libido.


Dal momento che quel tenore di vita costava un capitale, le venti guardie si inventarono una tassa. I contadini che intendevano scaricare le merci in porto dovevano pagare un balzello di cinque yuan, altrimenti erano costretti ad andarsene senza aver concluso niente. E chi aveva da ridire si beccava una pallottola in pancia.


I proventi della tassa venivano subito ridistribuiti nelle zone più squallide e malfamate delle varie città che, come si conviene, si trovavano sempre nelle vicinanze del porto. Allan pensava che, se per Song Meiling era importante avere il popolo dalla propria parte, forse avrebbe dovuto farlo presente anche ai suoi diretti sottoposti. Ma questo era un problema suo.


Ci vollero due mesi prima che il battello con a bordo Allan e i venti uomini raggiungesse la provincia di Sichuan, che le truppe di Mao Tse-tung avevano lasciato ormai da tempo per dirigersi verso nord. Prima di inerpicarsi per le stradine di montagna si erano scontrati a valle con le truppe del Kuomintang poste a difesa della città di Yibin, che per un pelo non era caduta nelle mani dei comunisti. Durante i combattimenti erano morti tremila soldati del Kuomintang, di cui almeno duemilacinquecento troppo ubriachi per difendersi, contro i trecento caduti, presumibilmente sobri, dell’armata comunista.


La battaglia per il controllo di Yibin era però finita con il successo del Kuomintang, dal momento che tra i cinquanta comunisti imprigionati c’era una punta di diamante. Per gli altri quarantanove prigionieri era bastato un colpo d’arma da fuoco e via dentro la fossa, ma il cinquantesimo! Mmm! Il cinquantesimo era nientedimeno che la bellissima Jiang Qing, l’attrice conquistata dal marxismo-leninismo nonché – udite udite! – terza moglie di Mao Tse-tung.




Tra gli alti ufficiali del Kuomintang di Yibin e le guardie di Song Meiling si scatenarono una serie di battibecchi. La disputa verteva su chi fosse responsabile della superprigioniera Jiang Qing. I capi del Kuomintang si erano limitati a tenerla sottochiave in attesa che giungesse l’imbarcazione con a bordo gli uomini di Song Meiling. Non avevano osato fare altro, dato che sul battello poteva esserci Song Meiling in persona. E con lei non si scherzava.


Quando si seppe che Madame si trovava a Taipei, per gli ufficiali la situazione divenne immediatamente più semplice: Jiang Qing sarebbe stata violentata a oltranza dopodiché, se fosse sopravvissuta, le avrebbero sparato.


Le guardie di Song Meiling non avevano nulla da dire contro lo stupro, anzi erano disposte a dare una mano, ma Jiang Qing non sarebbe assolutamente dovuta morire in quel modo. Andava condotta da Song Meiling, o perlomeno da Chiang Kai-shek, che ne avrebbero deciso la sorte. Si trattava di politica ad alto livello, spiegarono con superiorità al comandante di quei provinciali di Yibin.


Quest’ultimo non fece altro che accettare, promettendo che quello stesso pomeriggio avrebbe consegnato loro il suo gioiello. Dopo l’incontro, le guardie decisero di festeggiare il successo con una scorribanda coi fiocchi in città. E pensare che, una volta ripresa la traversata, avrebbero avuto a loro disposizione quello splendore di prigioniera!


Gli accordi finali si tennero sul ponte del battello su cui Allan e le guardie si trovavano da quando si erano lasciati il mare alle spalle. Allan sperava di aver capito la maggior parte dei loro discorsi: mentre le guardie se la spassavano, infatti, se n’era sempre stato sul ponte di coperta insieme al simpatico sguattero Ah Ming, che si era dimostrato un ottimo maestro. Nel giro di due mesi Ah Ming aveva insegnato ad Allan abbastanza cinese da renderlo quasi autosufficiente (soprattutto se si trattava di imprecazioni o epiteti a sfondo sessuale).




Fin da bambino Allan aveva imparato a sospettare di coloro che non si concedevano un goccetto quando si presentava l’occasione. Non aveva più di sei anni allorché suo padre, mettendogli una mano sulla spalla, gli aveva detto:


“Guardati dai preti, figlio mio. E da quelli che non bevono acquavite. La categoria peggiore, poi, sono i preti che non bevono acquavite.”


Tuttavia Allan era venuto a sapere che il padre non era affatto sobrio quando, un giorno, aveva dato uno sganassone a un povero viaggiatore, gesto per cui era stato immediatamente licenziato dalle Ferrovie svedesi. L’episodio aveva a sua volta spinto la madre di Allan a elargire al figlio alcune parole imbevute di saggezza:


“Guardati dagli ubriaconi. Avrei dovuto farlo anch’io.”


Crescendo, il ragazzo aveva elaborato una sua idea al riguardo. Secondo lui preti e politici erano della stessa pasta, indipendentemente dal fatto che fossero comunisti, fascisti, capitalisti o chissà cosa. Condivideva pienamente l’opinione paterna per cui la gente come si deve non beveva succo di frutta, e quella materna per cui non bisognava perdere la testa anche se si era alzato un po’ il gomito.


In pratica, questo significò che durante la traversata Allan perse la voglia di aiutare Song Meiling e le sue venti guardie (per la precisione diciannove, visto che una era caduta al di là del parapetto ed era annegata). Inoltre, si rifiutava di condividere anche solo il pensiero che potessero usare violenza alla prigioniera rinchiusa sottocoperta, non importava se comunista o moglie di chissà chi.


Così, Allan decise di andarsene portando con sé la prigioniera. Informò lo sguattero nonché amico Ah Ming del suo proposito, chiedendogli umilmente di preparare qualche provvista per il viaggio dei fuggiaschi. Ah Ming promise di farlo, ma a una condizione: potersi aggregare a loro.


Diciotto delle diciannove guardie di Song Meiling, insieme al cuoco di bordo e al capitano del battello, erano andate a divertirsi nel quartiere a luci rosse di Yibin. La diciannovesima sedeva imbronciata davanti alla scala che conduceva alla cella di Jiang Qing sottocoperta.


Allan si accomodò vicino alla sentinella per chiacchierare un po’, proponendole infine di farsi un bicchierino insieme. Questi rispose che era responsabile del prigioniero forse più importante della nazione, pertanto non poteva starsene lì a sbevazzare sakè.


“Sono perfettamente d’accordo,” assentì Allan. “Ma un bicchierino non fa male a nessuno.”


“No,” ribatté pensierosa la sentinella. “Un bicchierino non fa male a nessuno.”


Due ore dopo Allan e la sentinella avevano appena finito di scolarsi la seconda bottiglia, mentre lo sguattero Ah Ming correva avanti e indietro servendo loro leccornie sgraffignate dalla dispensa. Dopo tutto quel viavai Allan era alticcio, e la sentinella, che secondo le previsioni sarebbe dovuta finire stesa sotto il tavolo, in mancanza di un tavolo disponibile si era addormentata sul ponte.


“Così, bravo,” commentò Allan sbirciando il soldato cinese steso ai suoi piedi privo di coscienza. “Bada di non metterti mai con uno svedese quando si tratta di bere, a meno che tu non sia finlandese o perlomeno russo.”


Lasciato il battello e protetti dalle tenebre, l’esperto di esplosivi Allan Karlsson, lo sguattero Ah Ming e Jiang Qing, l’infinitamente grata moglie del leader comunista, raggiunsero le montagne dove la donna aveva trascorso parecchio tempo insieme alle truppe del marito. Era conosciuta tra i nomadi tibetani della zona, per cui non ebbero nessun problema a sfamarsi dopo che le scorte di cibo preparate da Ah Ming finirono. Che i tibetani fossero tanto ospitali nei confronti di un’alta rappresentante dell’armata di liberazione popolare era comprensibile. Era universalmente noto che quando i comunisti avessero vinto la loro lotta in Cina, il Tibet avrebbe ottenuto formalmente l’indipendenza.


L’idea di Jiang Qing era che loro tre si dirigessero velocemente verso nord, evitando la zona controllata dal Kuomintang. Dopo mesi di cammino tra le montagne si sarebbero infine avvicinati a Xi’an, nella provincia di Shaanxi, dove Jiang Qing sapeva di trovare suo marito, sempre che fossero arrivati in tempo.


Lo sguattero Ah Ming era estasiato dalla promessa fatta dalla donna che d’ora in avanti avrebbe servito Mao in persona. In cuor suo il giovane era diventato comunista proprio osservando il pessimo comportamento delle guardie di Song Meiling, pertanto l’idea di cambiare partito e padrone gli andava a genio.


A questo punto, invece, Allan si era convinto che la lotta comunista ce l’avrebbe fatta benissimo anche senza di lui, così decise che era arrivato il momento di rientrare in patria. Non era d’accordo anche Jiang Qing?


Sì, lo era, ma la patria non era la Svezia? E non era terribilmente lontana? Come pensava di risolvere il problema, il signor Karlsson?


La soluzione più pratica sarebbe stata prendere una nave o un aereo. Purtroppo però il mare si trovava da tutt’altra parte e tra quelle montagne non c’era l’ombra di un aeroporto. Oltretutto Allan non aveva il becco di un quattrino.


“Quindi mi toccherà camminare,” concluse.




Il capo del villaggio che aveva accolto con tanta generosità i tre fuggitivi aveva per fratello un grandissimo viaggiatore. Era arrivato fino a Ulan Bator a nord e a Kabul a ovest. Oltre a essersi bagnato i piedi nel golfo del Bengala durante un viaggio verso le Indie Orientali. Adesso però era a casa, e il capo del villaggio lo mandò a chiamare chiedendogli di disegnare una cartina geografica per il signor Karlsson, affinché questi potesse tornare in Svezia. Il fratello promise di farlo e il giorno seguente aveva già svolto il suo compito.


Pur essendo vestiti di tutto punto, si poteva definire perlomeno ardito il progetto di valicare l’Himalaya armati di una cartina fatta in casa e di una bussola. Allan si sarebbe dovuto spostare a nord della catena montuosa per poi costeggiare sul lato settentrionale sia il lago d’Aral che il mar Caspio, ma la realtà e la cartina non procedevano di pari passo. Allan si congedò da Jiang Qing e Ah Ming per lanciarsi nella piacevole passeggiata che lo avrebbe portato ad attraversare il Tibet, superare l’Himalaya, passare per le Indie Britanniche, l’Afghanistan, l’Iran, proseguire verso la Turchia per poi, da lì, risalire l’Europa.


Dopo due mesi a piedi, Allan capì tuttavia di aver scelto la cresta montuosa sbagliata e che la cosa migliore sarebbe stata fare dietrofront e riprendere da dove era partito. Quattro mesi dopo (sul versante giusto) gli parve che le cose andassero a rilento. Per questo, al mercato di un villaggio trattò alla bell’e meglio il prezzo di un cammello servendosi dei gesti e dei suoi rudimenti di cinese. Alla fine Allan e il venditore arrivarono a un accordo, ma soltanto dopo che Allan lo ebbe costretto ad accettare la clausola per cui sua figlia non rientrava nell’acquisto.


In effetti Allan aveva valutato l’offerta di portarsi via la figlia, e non per motivi di carattere sessuale, dal momento che in lui gran parte di quelle pulsioni erano ormai sopite. Ci aveva pensato il professor Lundborg in sala operatoria. Era il pensiero di avere qualcuno che gli tenesse compagnia ad allettarlo. Talvolta la vita sugli altopiani tibetani poteva essere molto solitaria.


Ma visto che la figlia del venditore non parlava altro che un monocorde dia­let­to tibeto-birmano di cui lui non capiva un’acca, Allan concluse che, considerando lo stimolo intellettuale che ne sarebbe derivato, tanto valeva conversare con il cammello. Inoltre, non era da escludere che la ragazza nutrisse nei suoi confronti qualche aspettativa di natura sessuale: Allan lo intuiva dal suo sguardo.


Fu così che Allan trascorse altri due mesi in solitudine sul dorso del cammello, finché non si imbatté in tre sconosciuti anche loro dotati di cammello. Li salutò in tutte le lingue che conosceva: cinese, spagnolo, inglese e svedese. Per fortuna una di queste, e cioè l’inglese, funzionò.


Uno degli sconosciuti gli chiese chi fosse e dove stesse andando. Allan rispose di chiamarsi Allan e che stava ritornando a casa, in Svezia. L’uomo lo guardò con espressione stupita. Pensava di raggiungere l’Europa settentrionale a cavallo di un cammello?


“Con una piccola interruzione in nave per arrivare a Öresund,” spiegò Allan.


Dove fosse Öresund i tre uomini non lo sapevano. Dopo essersi assicurati che non fosse fedele a quel lacchè angloamericano dello scià dell’Iran, invitarono Allan a unirsi a loro.


I tre si erano conosciuti quando studiavano inglese all’Università di Teheran. Ma a differenza degli altri non avevano scelto la lingua inglese per poi mettersi al servizio delle autorità britanniche. Finiti gli studi avevano trascorso due anni a contatto con Mao Tse-tung, ispiratore del comunismo, e adesso stavano tornando in Iran.


“Siamo marxisti,” disse uno di loro. “Combatteremo per il proletariato internazionale e in suo nome attueremo una rivoluzione popolare in Iran e in tutto il mondo, abrogheremo il sistema capitalista, costruiremo una società basata sull’eguaglianza economica e sociale e sulla realizzazione delle capacità dei singoli: da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo i propri bisogni.”


“Ma guarda,” commentò Allan. “Non è che avete un goccetto d’acquavite in più?”


Sì, ce l’avevano. La bottiglia passò per un po’ da un dorso di cammello all’altro e ad Allan parve subito che il viaggio cominciasse a farsi divertente.


Undici mesi dopo i quattro erano riusciti a salvarsi reciprocamente la vita almeno tre volte. Insieme erano sopravvissuti alle valanghe, ai briganti, al gelo e a ripetuti periodi senza cibo. Due dei cammelli avevano tirato le cuoia, il terzo lo avevano macellato e mangiato, mentre il quarto lo avevano consegnato a un doganiere afgano per poter entrare nel paese senza passare per le prigioni.


Allan non aveva mai pensato che attraversare l’Himalaya fosse facile. Era stata una bella fortuna potersi unire a quei simpatici comunisti iraniani, dato che non sarebbe stato semplice lottare da solo contro le tempeste di sabbia, i fiumi che straripavano e i quaranta gradi sottozero in montagna. Quarantadue, per la precisione. Nell’anno 1946-47 il gruppo si era accampato a duemila metri di altezza per svernare.


I tre comunisti avevano cercato di convertire Allan, soprattutto quando avevano appreso che se la cavava bene con la dinamite, ma lui aveva augurato loro buona fortuna dicendo che doveva tornare alla sua fattoria a Yxhult. Nella confusione del momento si era dimenticato di averla fatta saltare in aria diciotto anni prima.


Alla fine i tre rinunciarono a convincerlo accontentandosi del fatto che sarebbe rimasto loro amico, capace oltretutto di non lamentarsi per quattro fiocchi di neve. La considerazione che provavano per lui crebbe ulteriormente quando Allan, in attesa di tempi migliori e di cose più importanti di cui occuparsi, riuscì a distillare acquavite dal latte di capra. I comunisti non avevano idea di come avesse fatto, ma adesso il latte aveva una marcia in più e grazie a quell’acquavite la loro temperatura corporea aumentò e il futuro si prospettò a tutti più roseo.


Nella primavera del 1947 raggiunsero finalmente la parete meridionale della catena montuosa più alta del mondo. Più si avvicinavano al confine iraniano, più concitate si facevano le conversazioni dei tre comunisti sul futuro dell’Iran. Era giunta l’ora di cacciare dal paese tutti gli stranieri. Gli inglesi avevano sostenuto per tutti quegli anni quel corrotto dello scià e questo era già un fatto grave in sé. Ma quando alla fine lo scià si era stancato di starsene tranquillo e aveva cominciato a ribellarsi, gli inglesi lo avevano deposto mettendo sul trono suo figlio. Allan fece una rapida associazione con la parentela tra Song Meiling e Chiang Kai-shek e concluse che al mondo esistevano rapporti familiari davvero singolari.


A quanto pareva il figlio era più malleabile del padre, tanto che adesso gli inglesi e gli americani controllavano interamente il petrolio iraniano. I tre comunisti d’ispirazione maoista avrebbero posto fine a tutto questo. Il problema era che gli altri comunisti si erano ispirati al Soviet di Stalin, per non parlare poi di un mucchio di altri elementi rivoluzionari di contorno che mettevano in mezzo pure la religione.


“Interessante,” commentò Allan poco convinto.


In risposta, si sorbì una lunga disquisizione marxista in cui si sosteneva che l’argomento era molto più che interessante. In breve, i tre si dichiararono pronti alla vittoria o alla morte.


L’indomani apparve chiaro che proprio quest’ultima avrebbe avuto la meglio, poiché non appena i quattro amici misero piede in territorio iraniano vennero arrestati da una pattuglia di passaggio. Sfortunatamente i tre avevano in tasca ognuno il proprio esemplare del Manifesto del Partito comunista (per di più in persiano) e furono fucilati all’istante. Allan scampò alla morte perché era un illetterato; oltretutto sembrava straniero, per cui l’ordine della sua esecuzione doveva arrivare dall’alto.


Con una canna di fucile puntata nella schiena, Allan si tolse il copricapo in segno di rispetto per i tre comunisti appena fucilati che gli avevano tenuto compagnia durante la traversata dell’Himalaya. Pensò poi che non si sarebbe mai abituato a vedere i propri amici andare e venire tanto rapidamente davanti ai suoi occhi.


Non gli fu concesso altro tempo per il lutto. Allan fu scaraventato nel cassone di un autocarro. Con il naso premuto contro una coperta, domandò in inglese di essere portato all’ambasciata svedese di Teheran, o a quella americana nel caso la Svezia non avesse nessuna rappresentanza diplomatica in città.


“Khafesho!” gli fu risposto in tono minaccioso.


Non capì, tuttavia realizzò che forse era meglio tenere la bocca chiusa.




A mezzo globo di distanza, intanto, a Washington, il presidente Harry Truman aveva le sue belle gatte da pelare. Si avvicinavano le elezioni, pertanto era necessario agire in modo accorto. La questione strategicamente più importante era fino a che punto fosse pronto a soddisfare i desideri dei neri americani degli Stati del Sud. Da un lato bisognava adeguarsi ai tempi, dall’altro non allentare troppo la corda. Solo così il presidente si sarebbe garantito l’appoggio dell’opinione pubblica.


Sulla scena mondiale il problema aveva a che fare con Stalin. In quel caso il presidente non era disposto a scendere a nessun compromesso. Stalin era riuscito ad affascinare molti, ma non Harry S. Truman.


Alla luce di tutto questo la Cina era l’ago della bilancia. Stalin garantiva ogni aiuto possibile a favore di quel Mao Tse-tung, mentre Truman non poteva fare lo stesso con quel dilettante di Chiang Kai-shek. Finora Song Meiling aveva ottenuto tutto ciò che voleva, ma adesso era venuto il momento di darci un taglio. Chissà che fine aveva fatto Allan Karlsson? Un tipo davvero simpatico.




Gli oppositori militari di Chiang Kai-shek si fecero sempre più numerosi. Il piano di Song Meiling era fallito, dal momento che l’esperto di esplosivi era sparito portandosi via la moglie del bellimbusto.

Song Meiling aveva chiesto più volte di incontrare il presidente Truman; avrebbe voluto strangolarlo con le sue mani per averle appioppato quel traditore di Allan Karlsson, ma Truman non aveva mai avuto il tempo di riceverla. A quel punto gli Stati Uniti girarono le spalle al Kuomintang: corruzione, inflazione da record e fame – tutto questo giocava a favore di Mao Tse-tung. Chiang Kai-shek, Song Meiling e i loro adepti furono spediti in aereo a Taiwan. La terraferma cinese divenne comunista.

CAPITOLO 12

Lunedì 9 maggio 2005


A Sjötorp i nostri eroi capirono che era giunta l’ora di prendere posto sul pullman e sparire alla svelta e per sempre. Prima c’erano però una serie di cosette urgenti da sbrigare.


Armata di impermeabile, cappello e guanti di gomma, Bella afferrò la pompa dell’acqua per lavare i resti del farabutto che Sonya aveva schiacciato. Tanto per cominciare sfilò la pistola dalla mano destra del morto e l’appoggiò sulla veranda (dove poi l’avrebbe dimenticata), con la canna puntata verso un solido abete che si ergeva a quattro metri di distanza: capitava che quegli arnesi facessero fuoco a casaccio.


Dopo esser stato ripulito dagli escrementi di Sonya, Secchio fu spinto con forza da Julius e Benny sotto i sedili posteriori della sua Ford Mustang. In altri tempi non sarebbe entrato in uno spazio così angusto, ma adesso era ridotto a una grande frittella.


Julius si mise al volante dell’auto e partì insieme a Benny con la Passat di Bella al traino. L’idea era di trovare un posto isolato a distanza di sicurezza da Sjötorp, inzuppare l’auto di benzina e darle fuoco, proprio come avrebbero fatto dei veri gangster in quella situazione.


Ci volevano però una tanica e la benzina per riempirla. Ecco perché Julius e Benny si fermarono alla stazione di servizio lungo la Sjösåsvägen, a Braås. Benny entrò per sbrigare la faccenda e Julius lo seguì per procurarsi qualcosa di buono da mettere sotto i denti.


Una Ford Mustang nuova con un motore V8 di oltre trecento cavalli di potenza davanti alla stazione di servizio di Braås era un evento senza precedenti: era come se un Boeing 747 fosse atterrato nella centralissima Sveavägen a Stoccolma. Non ci volle nemmeno un secondo prima che il fratellino di Secchio e uno dei suoi colleghi di The Violence decidessero di dare una svolta alla giornata: il fratellino montò sulla Mustang mentre il collega teneva sotto controllo il presunto proprietario che stava facendo incetta di dolciumi dentro la stazione di servizio. Che colpo! E che idiota! Le chiavi erano nel cruscotto!


Quando Benny e Julius uscirono, uno con una tanica nuova fiammante da riempire, l’altro con un giornale sottobraccio e la bocca piena di caramelle, la Mustang non c’era più.


“Non l’avevo parcheggiata qui?” chiese Julius.


“Sì, l’hai parcheggiata qui,” rispose Benny.


“Quindi abbiamo un problema?” chiese Julius.


“Abbiamo un problema,” confermò Benny.


E così riportarono a Sjötorp la Passat rimasta lì. La tanica vuota restò vuota, ma ormai faceva lo stesso.




La Mustang era nera con due strisce gialle sulla capote. Un esemplare davvero superbo, da cui il fratellino di Secchio e il suo amico avrebbero ricavato una bella sommetta. Il furto era stato tanto casuale quanto privo di intoppi. Meno di cinque minuti dopo quel colpaccio imprevisto, l’auto era al sicuro nel garage di The Violence.


Il giorno seguente i due cambiarono le targhe, prima che il fratellino di Secchio pianificasse la consegna al loro partner di Riga, uno dei suoi scagnozzi, che poi sarebbe rientrato in Svezia in nave. Ciò che accadeva solitamente era che il lettone, con l’aiuto di targhe e documenti falsi, faceva passare le macchine rubate per auto d’importazione che finivano in mano a qualcuno di The Violence, e voilà un’automobile rubata diventava pulita.


Questa volta però le cose andarono diversamente allorché l’auto rubata, parcheggiata in un garage nel quartiere di Ziepniekkalns alla periferia meridionale di Riga, cominciò a emanare un fetore nauseabondo. Analizzando il fenomeno più da vicino, il proprietario del garage scoprì la presenza di un cadavere sotto i sedili posteriori del veicolo. Bestemmiando come un ossesso, strappò via le targhe e tutti i pezzi che avrebbe potuto riciclare. Poi l’ammaccò da ogni parte, trasformando quel bellissimo esemplare di Mustang in una carcassa. Per finire contattò un alcolizzato che in cambio di quattro bottiglie di vino avrebbe portato il rottame dallo sfasciacarrozze per la demolizione, cadavere incluso.




A Sjötorp i nostri amici erano pronti a partire. Che la Mustang con il furfante morto fosse stata rubata fu ovviamente motivo di preoccupazione, ma soltanto fino a quando Allan non sentenziò che, stando così le cose, non c’era niente da fare. Inoltre, sempre secondo lui, le chance che i ladri contattassero la polizia erano praticamente nulle: mantenere una certa distanza dai piedipiatti era insito nella loro natura.


Erano le cinque e mezzo di sera. Per fortuna si erano messi in moto prima che facesse buio, essendo il pullman ingombrante e le strade da percorrere strette e tortuose.


Sonya era stata sistemata nella sua nuova stalla a quattro ruote e tutte le tracce in grado di rivelare l’esistenza dell’elefante erano state cancellate con cura dal cortile e dal fienile. La Passat e la Mercedes erano rimaste là: non erano state coinvolte in niente d’illegale e poi cos’altro potevano farsene delle macchine?


Il pullman partì. Bella avrebbe voluto mettersi al volante, ma non sapeva come. Saltò fuori che Benny era quasi istruttore di scuola guida e nella sua patente c’erano tutte le lettere dell’alfabeto possibili e immaginabili, quindi era meglio che al volante ci stesse lui. Non era il caso che il gruppetto commettesse azioni fuorilegge più di quanto non avesse già fatto fino a quel momento.


Raggiunta la cassetta delle lettere Benny svoltò a sinistra, alla larga da Rottne e Braås. Secondo Bella, approfittando di alcune stradine sterrate, sarebbero sbucati prima ad Åby e poi sulla statale 30 a sud di Lammhult. Dato che per arrivarci ci voleva una mezz’ora scarsa, perché non ingannare il tempo discutendo la questione non priva d’importanza di dove erano diretti?




Quattro ore prima il Capo aveva iniziato ad aspettare con impazienza il rientro del suo scagnozzo, che per il momento non era ancora ricomparso. Non appena fosse tornato Caracas, che doveva sbrigare chissà quale commissione, lui e il Capo si sarebbero diretti a sud. Ma non in moto e non con i giubbotti della banda: era necessario comportarsi con prudenza.


Il Capo aveva infatti cominciato a mettere in discussione la sua precedente strategia circa l’uso dei giubbotti con la scritta “Never Again” sulla schiena. Inizialmente lo scopo era stato di sottolineare un’identità e l’appartenenza alla banda per ottenere l’ossequio altrui, ma visto che la banda si era ridotta rispetto al previsto, per tenere insieme un quartetto formato da Bullone, Secchio, Caracas e se stesso a suo avviso non era più necessario il ricorso a quell’indumento. Considerando anche l’attività principale della banda, giubbotti così riconoscibili erano controproducenti. L’incarico affidato a Bullone riguardo alla transazione a Malmköping aveva una duplice connotazione: da un lato era meglio recarsi sul luogo servendosi di un mezzo di trasporto pubblico per non dare nell’occhio, dall’altro indossare il giubbotto della banda con la scritta “Never Again” sulla schiena sarebbe servito a mostrare ai russi con chi avevano a che fare e che, se stavano cercando rogne, le avevano trovate.


E adesso Bullone era in fuga… o cosa diavolo era successo. E sulla schiena aveva una scritta che più o meno diceva: “Se hai qualche domanda, telefona al Capo.”


Merda! pensò il Capo. Quando tutto quel casino si fosse concluso avrebbe bruciato i giubbotti. Ma dove cazzo era finito Ca­ra­cas? Dovevano mettersi in viaggio subito!


Caracas fece la sua apparizione otto minuti dopo, scusandosi per essersi fermato al Seven-Eleven a comprare un’anguria.


“Rinfrescante e buona,” spiegò.


“Rinfrescante e buona? Metà dell’organizzazione è scomparsa con cinquanta milioni di corone e tu te ne vai in giro a comprare frutta?”


“Niente frutta, verdura. Famiglia delle cucurbitacee, per la precisione,” puntualizzò Caracas.


A quel punto il Capo esplose, e afferrata l’anguria la sbatté sulla testa del povero Caracas fino a spaccarla. Caracas scoppiò a piangere, dicendo che si sarebbe ritirato dalla banda. Non aveva ricevuto altro che insulti e maltrattamenti da parte del Capo da quando Bullone e Secchio erano scomparsi, neanche fosse stata colpa sua. No, d’ora in poi il Capo poteva fare quello che voleva: Caracas avrebbe chiamato un taxi, si sarebbe fatto portare all’aeroporto di Arlanda e avrebbe preso un volo per tornare a casa a… Caracas. Almeno laggiù l’avrebbero chiamato col suo vero nome.


“¡Vete a la mierda!” esclamò Caracas in lacrime precipitandosi fuori dalla porta.


Il Capo sospirò. Le cose si stavano incasinando sempre di più. Prima era scomparso Bullone, e doveva riconoscere di aver sfogato la sua frustrazione su Secchio e Caracas. Poi era scomparso Secchio, e doveva riconoscere di aver sfogato la sua frustrazione su Caracas. Poi era sparito Caracas – per comprarsi un’anguria. E il Capo doveva riconoscere che… non avrebbe dovuto spaccargliela sulla testa.


Ora era rimasto solo a dare la caccia a… A chi stava dando la caccia, in effetti? Bisognava scovare Bullone? Era stato così pazzo da filarsela con la valigia? E cos’era successo a Secchio?


Il Capo si mise in viaggio in pompa magna a bordo della sua BMW X5 ultimo modello, infischiandosene alla grande dei limiti di velocità. I poliziotti in borghese che lo tallonavano su un’auto di servizio si dedicarono alla compilazione dell’elenco di infrazioni stradali commesse dal Capo lungo il tragitto per lo Småland, e dopo trecento chilometri furono d’accordo nel ritenere che all’uomo al volante della BMW andava tolta la patente per i quattrocento anni successivi, stando ai dati raccolti finora – nel caso in cui fosse stato denunciato, cosa che non sarebbe comunque avvenuta.


Il viaggio procedette fino alle vicinanze di Åseda, dove il com­mis­sario Aronsson diede il cambio ai colleghi di Stoccolma, ringraziandoli per l’aiuto e dichiarando che da quel momento in poi se la sarebbe cavata da solo.


Con l’aiuto del navigatore installato sulla BMW il Capo non ebbe alcun problema a individuare la strada fino a Sjötorp, ma più si avvicinava alla meta più il suo nervosismo aumentava. La velocità già di per sé eccessiva stava diventando così sostenuta che il commissario Aronsson iniziava ad avere difficoltà a stargli dietro. Doveva necessariamente mantenere una certa distanza da Per-Gunnar “Capo” Gerdin, in modo che questi non si accorgesse di essere seguito, ma la verità era che stava per perderlo di vista. Soltanto sui rettilinei riusciva ancora a scorgere la sua BMW, fino a quando non… scomparve!


Che strada aveva preso Gerdin? Aveva girato da qualche parte? Aronsson rallentò con la fronte imperlata di sudore. Non voleva neanche pensare a quello che sarebbe potuto succedere.


A sinistra c’era una stradina sterrata; aveva imboccato quella? O aveva proseguito sulla strada principale fino a… Rottne, ecco come si chiamava quel posto. Dal momento che lì era pieno di dissuasori di velocità, Aronsson non avrebbe dovuto riagganciare Gerdin proprio in quel punto? A meno che non avesse girato prima.


Doveva essere così. Invertito il senso di marcia, Aronsson infilò la stradina che a suo avviso aveva imboccato anche Gerdin. Bisognava tenere gli occhi aperti, perché se Gerdin si era rimesso in quella stradina la destinazione finale non doveva essere lontana.




Il Capo quasi inchiodò quando passò dai centottanta ai venti per imboccare la stradina sterrata indicata dal navigatore. Mancavano solo 3,7 chilometri alla meta.


A duecento metri dalla cassetta delle lettere di Sjötorp la stradina formava un’ultima curva. Fu lì che scorse il retro di un pullman allontanarsi, proprio nel punto in cui avrebbe dovuto svoltare. Che fare? Chi c’era sul pullman? E chi si trovava a Sjötorp?


Il Capo decise di non curarsi del veicolo, proseguendo lungo una stradina molto stretta e tortuosa che sbucava in una specie di cortile dove vide un’abitazione, un fienile e una rimessa per gli attrezzi che doveva aver visto tempi migliori.


Ma niente Secchio. Niente Bullone. Niente vecchio. Niente rossa. E, definitivamente, niente valigia grigia con le rotelle.


Il Capo dedicò ancora qualche minuto allo studio del luogo. Era evidente che non c’era nessuno, ma dietro il fienile erano nascoste due auto: una VW Passat rossa e una Mercedes color argento.


“Il posto è quello giusto,” rifletté il Capo. Era forse arrivato tardi?


Così, decise di rincorrere il pullman. Non era impossibile: si trattava di tre, quattro minuti di vantaggio su una strada tutta curve e non asfaltata.


La BMW tornò rapidamente indietro. In prossimità della cassetta delle lettere il Capo girò a sinistra come aveva fatto il pullman, poi pigiò l’acceleratore e scomparve in una nuvola di polvere. Il fatto che una Volvo blu si avvicinasse dalla direzione opposta non lo interessò minimamente.


Il commissario Aronsson fu felice di rivedere Gerdin, ma al pensiero di doverlo inseguire ancora si perse d’animo. Non aveva alcuna chance di riuscire a stargli alle calcagna. A quel punto era meglio fermarsi a fare un sopralluogo… al luogo… Sjötorp, ecco come si chiamava… dove si era recato Gerdin e… guarda guarda… sulla cassetta delle lettere c’era il nome di Gunilla Björklund.


“Non mi stupirei se fossi tu la donna dai capelli rossi, Gunilla,” disse il commissario Aronsson.


La Volvo sbucò nello stesso cortile dove nove ore prima era sbucata la Ford Mustang di Henrik Secchio Hultén, e qualche minuto prima la BMW di Per-Gunnar Capo Gerdin.


Aronsson constatò subito, come già aveva fatto il Capo, che Sjötorp era deserta, ma si concesse un po’ di tempo per cercare di mettere insieme i tasselli del mosaico. Uno lo trovò in cucina, sotto forma dell’edizione serale di un quotidiano che riportava la data di quel giorno, e nel frigorifero, dove c’era della verdura freschissima. Dunque la partenza era avvenuta da poco. Un secondo tassello era rappresentato dalla Mercedes e dalla Passat abbandonate dietro il fienile. Una delle auto diceva molte cose al commissario, l’altra apparteneva probabilmente a Gunilla Björklund.


Gli restavano però da fare altre due scoperte estremamente importanti. La prima fu che s’imbatté in una pistola sulla veranda della casa. Cosa ci faceva lì? E a chi appartenevano le impronte di cui era sicuramente coperta? Mentre infilava con delicatezza l’arma in un sacchetto di plastica, Aronsson immaginò che fossero quelle di Secchio Hultén.


La seconda sorpresa si trovava nella cassetta delle lettere. Insieme alla posta del giorno, c’era un documento della motorizzazione che confermava il passaggio di proprietà di uno Scania K113 giallo immatricolato nel 1992.


“Stanno viaggiando su un pullman?” si domandò il commissario.




Il pullman giallo avanzava lentamente. Non ci volle molto prima che la BMW lo raggiungesse. Tuttavia, su quella strada angusta il Capo non aveva altra possibilità se non rimanere dov’era, cercando di intuire chi viaggiasse sul pullman e se per caso ci fosse anche la valigia rubata.


Ignari del pericolo che incombeva a soli cinque metri di distanza da loro, i nostri amici stavano discutendo sul da farsi: erano concordi nel ritenere che la cosa migliore fosse trovare un posto dove nascondersi qualche settimana. Era lo stesso motivo per cui si erano trattenuti a Sjötorp, ma all’improvviso la loro bella idea si era dimostrata pessima, dopo la comparsa inaspettata del visitatore e dopo che Sonya ci si era seduta sopra.


Adesso il problema era un altro: a quanto pareva Allan, Julius, Benny e Bella condividevano la sfortuna di disporre di una cerchia di parenti e amici molto esigua – nessuno in grado di dare accoglienza a un pullman giallo e a un certo animale.


Allan si scusò dicendo che, visto che aveva cent’anni, i suoi amici erano tutti morti da tempo. Era concesso a pochi sopravvivere così a lungo.


Julius disse che la sua specialità erano i nemici, non gli amici. Ora intendeva approfondire l’amicizia con Allan, Benny e Bella, ma la questione poteva essere rimandata.


Bella confessò di essere stata molto poco socievole dopo il divorzio e dopo aver sistemato un elefante nel fienile, pertanto le era stato impossibile mantenere rapporti normali con le persone. Neanche lei aveva nessuno a cui chiedere aiuto.


Rimaneva Benny. Lui aveva un fratello. Il fratello più furioso del mondo.


Julius chiese se non fosse possibile corromperlo con dei soldi e Benny si illuminò. In effetti avevano un mucchio di quattrini nella valigia! Corrompere no, Bosse era più orgoglioso che avido. Serviva diplomazia e Benny aveva la soluzione: dopo tutti quegli anni gli avrebbe chiesto il permesso di porre riparo a quanto aveva dovuto subire per mano sua.


Così Benny chiamò il fratello, ma gli bastò pronunciare il proprio nome per sentirsi rispondere che c’era un fucile carico e il fratellino poteva considerarsi il benvenuto se desiderava una pallottola nel culo.


Benny ribatté che ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma insieme ad alcuni amici sarebbe passato volentieri a trovarlo perché desiderava risolvere le sue pendenze economiche. In effetti esisteva, come dire, una certa discrepanza nella ricaduta finanziaria creatasi al momento dell’eredità lasciata loro dal defunto zio Frasse.


Bosse chiese perché il fratellino dovesse esprimersi in modo così dannatamente arzigogolato. Poi andò al punto:


“Quanto hai?”


“Che ne dici di tre milioni?” rispose Benny.


Bosse rimase in silenzio per un po’. Conosceva suo fratello, tanto da sapere che non gli avrebbe mai telefonato per prenderlo in giro su un argomento simile. Il fratellino aveva un mucchio di grana! Tre milioni! Fantastico! Ma… chi si aspetta molto vorrebbe di più.


“Che ne dici di quattro?” azzardò Bosse.


Benny aveva deciso da tempo che il fratellone non lo avrebbe mai più comandato a bacchetta, quindi rispose:


“Comunque, se siamo d’intralcio possiamo sempre cercare un albergo.”


Bosse parò il colpo dicendo che il fratellino d’intralcio non lo era mai stato. Benny e i suoi amici erano i benvenuti, e se nel frattempo intendeva appianare i loro vecchi rancori con tre milioni – o anche tre e mezzo – sarebbe stato soltanto un di più.


Benny ricevette istruzioni per arrivare alla casa del fratello, che pensava di raggiungere nel giro di poche ore.


Tutto sembrava essersi aggiustato nel migliore dei modi. Tanto più che adesso la strada era larga e scorrevole.


Era proprio quello di cui il Capo aveva bisogno: una strada un po’ più larga e scorrevole. Per quasi dieci minuti era rimasto incollato al sedere del pullman mentre la BMW gli segnalava che stava per finire la benzina. Il Capo non aveva più fatto il pieno da quando era partito da Stoccolma, e quando ne avrebbe avuto il tempo?


Il suo incubo era rimanere a piedi lì in mezzo ai boschi e veder scomparire il pullman, magari con a bordo Bullone, Secchio, la valigia e quello che conteneva senza poter fare nulla.


Per questo il Capo reagì con la fermezza e la presenza di spirito che a suo parere si addicevano a un boss di Stoccolma. Pigiato a tavoletta il pedale dell’acceleratore, in un secondo superò il pullman, per poi compiere un testacoda e mettersi di traverso bloccandogli la strada. A quel punto prese la pistola dal vano portaoggetti e si preparò ad accogliere il veicolo che si era appena lasciato alle spalle.


Il Capo era dotato di una mente più analitica di quella dei suoi assistenti morti o emigrati. L’idea di piazzarsi di traverso su una strada sterrata per costringere il pullman a fermarsi era nata principalmente dal fatto che la benzina era agli sgoccioli, ma oltre a questo aveva calcolato che l’autista avrebbe deciso di fermarsi. La gente di buonsenso non va a sbattere di proposito contro un altro veicolo mettendo a repentaglio la propria vita e il proprio benessere.


E così fu: Benny frenò. Il Capo ci aveva visto giusto.


Tuttavia non aveva esaminato abbastanza a lungo e a fondo la questione. Nei suoi calcoli, avrebbe dovuto tenere conto del rischio che il carico del pullman consistesse in un elefante di qualche tonnellata, e chiedersi, di conseguenza, quali sarebbero stati gli effetti in caso di frenata e quale distanza avrebbe percorso il veicolo, considerando che il fondo stradale era ricoperto di ghiaia.


Benny fece davvero del suo meglio per evitare l’impatto, ma la velocità era di quasi cinquanta chilometri orari quando il pullman del peso di quindici tonnellate con tanto di elefante e tutto il resto si abbatté sull’auto che si trovava sulla sua traiettoria e che, come una muffola, si librò in aria a tre metri d’altezza e ne percorse altri venti andando a schiantarsi contro un abete vecchio di ottant’anni.


“È così se n’è andato anche il numero tre,” concluse Julius.


Tutti i passeggeri bipedi del pullman balzarono giù (qualcuno più velocemente di altri) per correre verso la BMW distrutta.


Accasciato sul volante, presumibilmente morto, uno sconosciuto stringeva ancora una pistola simile a quella con cui, alcune ore prima, li aveva minacciati il farabutto numero due.


“Non c’è due senza tre,” commentò Julius. “Mi chiedo quando si decideranno a farla finita.”


Benny protestò debolmente per il tono scanzonato di Julius. Era più che sufficiente avere a che fare con un mascalzone al giorno, ma oggi erano già saliti a due e non erano neanche le sei di sera. C’era tempo anche per qualcun altro se le cose fossero ulteriormente peggiorate.


Allan suggerì di nascondere il numero tre da qualche parte, dal momento che rimanere troppo a lungo in compagnia di una persona appena morta non era conveniente, a meno che non si volesse ammettere la propria colpevolezza, e ad Allan non sembrava ci fosse motivo per farlo.


Bella cominciò a insultare il presunto morto accasciato sul volante, urlandogli contro come aveva potuto comportarsi così da stronzo e mettersi di traverso sulla strada.


Il presunto morto rispose con un leggero rantolo e sollevando una gamba.




Al commissario Aronsson non rimaneva altro che proseguire nella direzione che aveva preso il Capo Gerdin mezz’oretta prima. Non nutriva alcuna speranza di ritrovare il leader della Never Again, ma forse lungo la strada sarebbe successo qualcosa d’interessante. Oltretutto Växjö non doveva distare molto, e il commissario aveva bisogno di una stanza dove riflettere sulla situazione e concedersi qualche ora di sonno.


Dopo alcuni chilometri Aronsson s’imbatté nei rottami di una BMW nuova spiaccicata contro un abete. All’inizio pensò che non c’era niente di strano nel fatto che a Gerdin fosse accaduto di uscire di strada, vista la velocità con cui era partito da Sjötorp, ma un esame più accurato dei rottami gli fece cambiare idea.


Per prima cosa l’auto era vuota. Il sedile anteriore, coperto di sangue, era privo di conducente.


Secondo, la fiancata destra dell’auto era visibilmente ammaccata, con delle strisciate gialle bene in evidenza. Qualcosa di grosso e di quel colore sembrava aver cozzato contro la BMW a gran velocità.


“Per esempio uno Scania K113 immatricolato nel 1992,” borbottò.


Non si trattava certo di un’intuizione geniale, ma la congettura si fece ancora più concreta quando il commissario notò che la targa anteriore del pullman era rimasta impressa in una delle portiere posteriori della BMW. Ad Aronsson bastò paragonare le cifre e i numeri con il documento della motorizzazione che comprovava il passaggio di proprietà del pullman per essere certo del fatto suo.

Eppure continuava a non capire cosa diavolo stesse succedendo. Una cosa però gli appariva sempre più chiara, se non addirittura lampante: Allan Karlsson e il suo seguito parevano assai abili nell’ammazzare la gente e nel farne sparire come per magia i cadaveri.


Capitolo 12