martedì 24 giugno 2025

IL WANNAMARCHISMO E LA NUOVA ARTE DELL'EQUIDISTANZA Alessandra Libutti

 

IL WANNAMARCHISMO E LA NUOVA ARTE DELL'EQUIDISTANZA

Alessandra Libutti

Dai bambini che vivono bene anche sotto dittatura agli Ayatollah pazienti, il wannamarkismo degli influencer di grido dell’informazione italica si va sempre più consolidando. Ma in fondo è colpa nostra se siamo duri di comprendonio. Se dopo 3 anni e mezzo ancora non abbiamo capito che anche i dittatori hanno un’anima, che non sono poi così malvagi, che in fondo vogliono la pace anche se spianano città, anche se costruiscono la bomba atomica, anche se scaraventano personaggi scomodi dalle finestre o fanno passare le ragazze che non indossano l’hijab per matte.

Se ancora ci ostiniamo a pensare che l’oppressione sia oppressione, che la repressione sia violenza e non “difesa dei valori tradizionali”, allora sì, è colpa nostra. Se dopo decine di editoriali, servizi e tweet continuiamo a non capire che i razzi sono solo fuochi d’artificio fraintesi e che le prigioni politiche servono solo a “educare”, che il 7 ottobre “non veniva da nulla”, che la Nato abbaiava e che forse anche Pol Pot aveva fatto cose buone. Forse meritiamo la nostra ignoranza.

Il problema non è chi trucca la realtà, la traveste la riscrive, la reinventa in nome di una fantomatica “libertà di espressione” con cui si sono sdoganate le più plateali distorsioni. No, il problema siamo noi che nell’universo della post-realtà, insistiamo a volerla vedere per com’è. Gli influencer ci provano a spiegarcelo, tra un reel sulla skincare e uno sul “conflitto geopolitico”, ce l’hanno spiegato in tutte le salse: la verità è divisiva, la neutralità è eleganza, e l’equidistanza paga più dei fatti. Dicono che la colpa non è mai da una parte sola, nemmeno quando una delle due parti impicca, mutila, silenzia, o lancia razzi e scatena droni perché anche gli altri… Siamo noi a non cogliere la “complessità”.

E poi, giù a paragoni ad cacchium dove una base militare distrutta da un lato, assume la stessa valenza di una Mariopul spianata al suolo dall’altro. Dove il dittatore di turno è giustificato a priori perché “tanto è un dittatore e si sa che fa cose cattive” mentre noi siamo i buoni e dobbiamo stare lì, zitti e mosca. Tutta colpa di Zelensky e Netanyahu che si ostinano a non morire in silenzio, a non scomparire con eleganza. Che invece di arrendersi al diktat dell’equidistanza, pretendono ancora di difendersi. Anacronistici, fastidiosi, dissonanti. 

Non capiscono che la guerra si fa ormai nei salotti, tra un panel in TV e un post indignato su Instagram. Che non si combatte il terrore col fango addosso, ma pontificando sul “diritto internazionale” a senso unico – ma che ti aspetti che gli altri lo rispettino, si sa che sono dittatori, no? 

Per ogni spiegazione, c’è sempre un “sì ma…” costruito ad arte, secondo l’etica del benealtrismo. L’arte di spostare il focus, relativizzare tutto, deviare la responsabilità. “Sì, hanno raso al suolo una città… ma anche l’altro ha sparato un razzo”. “Sì, impiccano 3 persone al giorno… ma a Teheran ci sono più rave che a Roma”. “Sì, il 7 ottobre è stato brutale… ma…”. È sempre il turno di qualcun altro. Sempre colpa di un contesto, mai di chi preme il grilletto.

Ed è qui che il wannamarchismo diventa arte. Il dittatore si fa liquido, fluido, quasi romantico: non è cattivo per davvero, è complesso. Va capito, giustificato, messo in prospettiva. Lo sdoganamento delle autocrazie si fa così, con delicatezza: un tocco di Houdini, un po’ di poesia, e via: spariti i crimini, restano solo “complessità geopolitiche”. Le vittime diventano sospette, i carnefici interlocutori. 


E guai a uscire dalla narrazione dominante: lì scatta subito la gogna. Se non dici che Zelensky è un attore fallito o che Netanyauh è la reincarnazione del male, allora sei “non allineato”. Sei un nazifascista servo degli americani (quelli che costruivano i laboratori sotto l’Azovstal – come ben ci spiegavano gli esperti sui tabelloni di un gioco da tavolo). E naturalmente anche complice di un genocidio.

E se osi dire che forse, solo forse, chi si difende da una pioggia di missili non è equiparabile a chi li lancia, allora sei diventato parte del problema.

E se poi dai fastidio, con una narrazione non confacente, ai wannamarchisti basta un colpo di telefono per organizzare una trasmissione ad hoc per bullizzarti in prima serata (sempre nel segno dell post-realtà dove si inventa di tutto che tanto poi chi va a controllare? e poi basta che lo hai detto nel talkshow e diventa vero, no?).

Nel mondo del wannamarchismo non è permesso uscire dal copione. Guai a dire che non tutto è grigio, che a volte il male ha un volto preciso e agisce con metodi ripetuti, sistemici, brutali. Perché nel teatrino dell’opinione pubblica, chi distingue diventa subito “fazioso”, “polarizzante”, o, peggio, “non sufficientemente informato”.

E allora avanti con il teatrino: l’autocrate che “dialoga”, il carnefice che “reagisce”, l’oppressore che “protegge la sua cultura”. Intanto, chi urla per le libertà calpestate viene tacciato di estremismo, chi prova a raccontare cosa accade davvero viene messo al bando per “mancanza di equilibrio”.

Le critiche argomentate non sono ammesse. Non importa quanto siano fondate, documentate, espresse con misura. Appena stonano rispetto alla melodia dominante, diventano “bullismo”, “odio”, “fanatismo”. È un trucco semplice, ma geniale: bollare ogni dissenso come aggressione per poter poi aggredire chi dissente, ma con il bollino dell’etica.

Serve a questo: a giustificare il bullismo vero, quello sistemico, organizzato, che colpisce chi non si allinea. Funziona così: chi osa parlare chiaro viene delegittimato. Lo si insulta e lo si ridicolizza. Il tutto con il sorriso smaltato dei wannamarchisti che combattono la disinformazione a colpi di menzogne.

È il paradosso perfetto in fondo, no? quello che nel nome della tolleranza manganella la divergenza. Quello dell’abuso travestito da tutela, e della censura mascherata da moderazione.