LANDINI E LA RIVOLUZIONE DEL NULLA
Luigi Giliberti
Ci sono uomini che lavorano, e uomini che parlano del lavoro.
Maurizio Landini appartiene alla seconda categoria - quella dei profeti del salario, devoti al verbo dello sciopero, ma distanti anni luce dal rumore reale delle fabbriche.
Da vent’anni la CGIL urla, marcia, firma appelli e organizza piazze. Ma mentre i megafoni si accendono, gli stipendi si spengono.
La verità è brutale: la più grande centrale sindacale italiana è diventata un palcoscenico ideologico, un museo della lotta novecentesca. E Landini ne è il custode impeccabile, con la barba da profeta e la voce da comizio, ma senza un solo risultato tangibile da esibire.
Dal lavoro al talk show
Negli anni Duemila, la CGIL era ancora una potenza sociale.
Difendeva i contratti, le pensioni, i diritti sindacali veri - quelli che si giocavano ai tavoli, non sui social. Poi è arrivata l’era delle sconfitte:
la riforma Fornero, il Jobs Act, i voucher. Ogni battaglia combattuta a colpi di bandiere si è conclusa con un nulla di fatto.
Quando Landini è salito al comando nel 2019, molti credevano che avrebbe riportato il sindacato tra gli operai. Invece lo ha trascinato in politica.
Scioperi “per la pace”, manifestazioni “contro il neoliberismo”, dichiarazioni contro la guerra a Gaza, proposte di patrimoniale e conferenze sulla “giustizia sociale globale”.
Risultato: i lavoratori italiani non hanno un euro in più, ma il sindacato ha guadagnato un posto fisso nei talk show.
Il Robin Hood dei permessi retribuiti
Landini parla di “redistribuzione della ricchezza” come se stesse leggendo un manuale d’utopia marxista trovato sotto una pressa industriale.
La sua idea di giustizia è sempre generica, planetaria, simbolica.
Nel frattempo, l’inflazione divora gli stipendi, i rinnovi contrattuali si arenano, i precari aumentano e i giovani emigrano.
Ma per la CGIL la priorità è “un mondo più giusto”.
È l’arte di spostare il bersaglio: quando non riesci a migliorare il lavoro, parli del pianeta.
Così la battaglia sociale diventa morale, e la sconfitta si trasforma in virtù.
I numeri che non parlano
Eccoli i risultati della rivoluzione di Landini:
- salari reali in calo del 9% in dieci anni;
- contratti nazionali rinnovati con ritardi medi di 18 mesi;
- oltre 3 milioni di working poor;
- iscritti CGIL scesi da 5,5 milioni nel 2010 a meno di 4,8 milioni oggi.
In compenso, la CGIL è tornata in prima pagina.
Non per le buste paga, ma per gli slogan.
Landini ha trasformato il sindacato in un partito fantasma, un laboratorio di indignazione permanente.
Il paradosso del capo-popolo
C’è un paradosso che grida da solo:
il sindacato che difende i lavoratori si regge sui contributi di chi lavora davvero.
Più si sciopera, più soldi perde chi lavora, non chi guida il corteo.
Landini questo lo sa, ma non lo dice.
Si muove in quell’area grigia tra populismo morale e conservazione di potere.
Non rappresenta più l’operaio della Fiat, ma l’impiegato pubblico del venerdì sindacale.
È il Robin Hood dei permessi retribuiti: ruba ore di produzione per distribuirle in assemblee che non cambiano niente.
Dalla fabbrica alla geopolitica
Negli ultimi anni la CGIL ha assunto il tono di una ONG impegnata nel commentare ogni guerra e ogni crisi del mondo.
Si parla di Gaza, di diritti umani, di pace universale, di “lotta alle disuguaglianze globali”.
Ma non di orari, straordinari o turni spezzati.
Landini sembra più interessato alla politica estera che ai contratti dei metalmeccanici.
È diventato il sindacalista del sentimento: parla di pace e dignità, ma non di produttività o crescita.
Un linguaggio nobile, perfetto per un comizio a piazza San Giovanni, inutile per chi deve arrivare a fine mese.
L’illusione del consenso morale
Eppure, c’è chi lo applaude.
Chi lo vede come l’ultimo baluardo della sinistra “pura”, quella che non governa ma protesta.
Un santuario laico dove la parola “capitale” fa ancora paura e la “classe operaia” è un ricordo imbalsamato.
Landini è riuscito nell’impresa di trasformare la debolezza in identità.
Ha costruito un culto intorno alla sconfitta, un’estetica del perdente che resiste.
Ogni riforma mancata diventa “resistenza”, ogni tavolo saltato diventa “coerenza”.
E così la CGIL non vince, ma sopravvive.
Senza risultati, ma con una morale intatta.
Il sindacato come scenografia
L’Italia del 2025 è un Paese dove il lavoro cambia pelle: digitalizzazione, gig economy, freelance, intelligenza artificiale.
E mentre tutto questo accade, la CGIL parla come se fossimo ancora nel 1973.
Non ha mai saputo intercettare i nuovi lavoratori, quelli senza busta paga, senza ferie, senza garanzie.
Per loro, Landini è un linguaggio antico.
Il sindacato non li difende: li osserva da lontano, come fossero una mutazione genetica indesiderata.
Così il lavoro vero scappa, e resta solo il palco.
Epilogo: la rivoluzione che non c’è
Dopo vent’anni di cortei, la CGIL è riuscita nell’impresa più assurda: parlare di lavoro senza incidere sul lavoro.
Landini, l’uomo che voleva unire gli operai e finisce a discutere di Gaza, è il simbolo di un sindacato che ha smesso di produrre risultati e ha iniziato a produrre opinioni.
La sua è una rivoluzione di parole, una ribellione rituale che non sposta nulla.
E mentre lui invoca la giustizia globale, milioni di italiani si arrangiano tra part-time e contratti a tre mesi.
In fondo, Landini è l’immagine perfetta di un Paese che si sente rivoluzionario mentre resta fermo:
il capo di un popolo che non lavora più, ma protesta come se bastasse a campare.