LA MORTE DI AUGUSTE
Georges Simenon
Recensione
"Fino a un attimo prima, erano ancora un padre e un figlio che, l’uno accanto all’altro guardavano il viavai della strada, ma dal momento in cui Antoine aveva dato la sua risposta, i rapporti fra i due uomini erano cambiati. Nel modo più naturale erano diventati soci, in un certo senso complici, e la differenza d’età non esisteva più."
Personaggi, votati al materialismo e svuotati nelle coscienze. Ingenuità (assimilabile per certi versi all’idiota di stampo dostoevskjiano) sullo sfondo del quartiere delle Halles.
“Penso che il romanziere debba mostrare l’uomo per quello che è, e non come quello della propaganda”, diceva Simenon alla Paris Review. “E non mi riferisco solo alla propaganda politica; mi riferisco al tipo di uomo che ti insegnano al terzo anno di scuola, un uomo che non ha niente a che vedere con l’uomo reale”.
LA MORTE DI AUGUSTE
1
Da dov’era seduta, dietro la cassa, serena, con un vago sorriso sulle labbra, Fernande aveva visto arrivare la coppia e aveva capito subito che era la prima volta che entravano lì. Entrambi giovanissimi, vestiti di nuovo dalla testa ai piedi come novelli sposi, quali sicuramente erano, appena varcata la soglia avevano cercato di nascondere la loro sorpresa e la loro perplessità.
Anche Antoine li aveva visti, dalla seconda sala, ma non si era scomodato, ed era stato François, il cameriere dai capelli rossi, a farsi avanti per accoglierli.
«Prego, signori, per di qua...».
Stava dando loro un tavolo dalla posizione infelice, al centro del bistrot, mentre i due giovani lanciavano un’occhiata a un tavolo d’angolo senza osare aprir bocca. Del resto, se avessero chiesto quel tavolo, François avrebbe risposto che era prenotato.
Liselotte, sporgendo i grossi seni, andò a farsi dare i loro cappotti e, passando davanti alla cassa, strizzò l’occhio alla padrona.
In quel momento l’ambasciatore e i suoi ospiti non erano ancora arrivati, ma tenevano libero il solito tavolo di otto coperti nella seconda sala, che il personale chiamava il Senato perché era riservata ai clienti migliori e alle personalità.
Probabilmente la coppia, calata dalla provincia, viveva a Parigi da poco e passeggiando per le Halles aveva adocchiato quel bistrot in apparenza uguale agli altri, un po’ più invitante degli altri per via dei prosciutti e dei salami appesi in vetrina.
Anche l’insegna, Chez l’Auvergnat, era modesta, e i due giovani non si aspettavano certo il menu stampato su carta di lusso, grande come un in-folio, che François aveva presentato loro.
E tuttavia i tavoli della prima sala erano vecchi tavoli di marmo con i piedi di ghisa, il banco un classico bancone di stagno, e sul verde sbiadito delle pareti, montata in una cornice nera, era affissa l’immancabile legge sull’ubriachezza pubblica.
«Per cominciare, vi consiglio il bollito della casa o il carrello degli insaccati...».
Come sempre, a Fernande, dalla sua postazione tra le due sale, di fronte al guardaroba, non sfuggiva niente. Vedeva il marito, nel suo completo blu scuro, chinarsi verso due giornalisti in compagnia di giovani donne la cui foto era apparsa di recente su giornali e riviste.
Al di là della vetrata, poteva vedere anche lo chef che si dava da fare ai fornelli.
L’ambasciata d’Inghilterra aveva prenotato, per telefono, un tavolo per otto, e questo aveva provocato nel locale una certa agitazione. Antoine aveva mandato a prendere dei fiori e, benché si fosse fatto la barba alle undici del mattino, verso le sette era salito a darsi una passata alle guance con il rasoio elettrico.
I tavoli erano quasi tutti occupati. I due giovani avevano deciso di cominciare con gli insaccati ed erano sbalorditi alla vista della grande varietà di salumi esposti sul carrello che veniva accostato al loro tavolo. La donna era particolarmente affascinata dal panetto di burro che troneggiava al centro.
Dov’era Auguste in quel momento? Probabilmente, come al solito, a uno dei tavoli di quello che chiamavano il bistrot. Il suo bistrot, che aveva rilevato con i suoi risparmi e un po’ di soldi che il fratello gli aveva prestato nel 1913, senza immaginare che l’anno dopo lo avrebbero spedito al fronte.
A quell’epoca, al posto dell’attuale Senato c’era la cucina, e la cucina di oggi, impeccabile dietro la parete di vetro, era la camera da letto di Auguste e sua moglie.
Due Rolls si fermarono accanto al marciapiede. Antoine si precipitò alla porta. Né l’ambasciatore né i suoi invitati si erano messi in smoking, e si avviarono al loro tavolo senza ostentazione, seguiti tuttavia dagli sguardi degli altri commensali.
Non era la prima volta che entravano lì personaggi importanti. L’invitata di riguardo, seduta alla destra dell’ambasciatore, era una donna di una certa età che doveva essersi sottoposta a un’operazione di chirurgia estetica, perché i suoi lineamenti restavano assolutamente immobili, e solo lo sguardo si posava svogliato, e con una sorta di condiscendenza, sulle specialità che il diplomatico le stava indicando sul menu.
Fernande lo riconosceva, era venuto a mangiare lì due o tre volte, in incognito. Adesso mostrava, con l’orgoglio di chi ha scoperto qualcosa di straordinario, la parete di vetro che permetteva di seguire la preparazione dei piatti, poi i quadri appesi alle pareti, tra i quali spiccavano tre Utrillo.
Il vecchio Auguste li aveva avuti per pochi spiccioli. Un collega di Riom, che era stato suo compagno di scuola, gestiva all’epoca un bistrot nella parte alta di rue du Mont-Cenis. Auguste gli aveva prestato una piccola somma, e poiché l’altro non riusciva a rimborsarlo aveva accettato i quadri a mo’ di pagamento.
Antoine prendeva le ordinazioni, consigliava con discrezione i suoi ospiti. Per cominciare, galantina di maialino da latte, qualche fetta di salame dell’Alvernia e sfoglia ripiena di Saint-Flour. A seguire, un cosciotto di agnello alla Brayaude accompagnato da uno Chanturgue rosso dal leggero retrogusto di viola.
Tutto andava bene. Tutto filava liscio. Erano le nove e mezzo e a qualche tavolo avevano già chiesto il conto.
Auguste aveva preso, staccandola dalla parete, una fotografia ingiallita del bistrot com’era nel 1920, con lui stesso al bancone, in maniche di camicia, e sua moglie un po’ defilata. La mostrava a due clienti della provincia che avevano fatto molto onore alla cena e ai quali aveva appena offerto, personalmente, un cicchetto, nella fattispecie un’acquavite di Borgogna invecchiata.
Ne aveva bevuto un bicchierino anche lui, ovviamente, dopo un’occhiata furtiva in direzione della cassa e di suo figlio, perché gli era proibito. Ma quando tutti erano molto occupati lui ne approfittava per andarsi a sedere a un tavolo e bere un bicchiere di vino o di acquavite. Se incontrava lo sguardo di sua nuora, le sorrideva con aria complice.
Antoine era severo. Fernande no. Perché negare a un uomo di settantotto anni i suoi ultimi piccoli piaceri?
Si udiva, come sempre, il brusio delle conversazioni nelle due sale, l’acciottolio di piatti e bicchieri. Nessuno se ne accorgeva più, così come non ci si accorgeva più dell’odore di cibo e di vino.
Fuori, nel vasto spazio delle Halles, si cominciavano a disporre gli ortaggi e i padiglioni erano già illuminati.
Fernande seguiva con lo sguardo il marito, i camerieri, alcuni clienti che si infilavano il cappotto e si avviavano verso la porta. Nessuno, in casa, dormiva abbastanza, e a metà serata una deliziosa sonnolenza prendeva un po’ tutti quanti.
To’! I due provinciali se n’erano andati e adesso Auguste stava in piedi accanto ai novelli sposi e mostrava loro la fotografia.
Fernande non sentiva quello che il suocero andava dicendo. Raccontava sempre la stessa cosa: come lui, da Riom, fosse arrivato a Parigi appena quindicenne; come, all’epoca, la gente si scannasse ancora in quel dedalo di viuzze buie intorno alle Halles; come lui facesse arrivare dal paese le specialità dell’Alvernia, per esempio quelle grandi pagnotte grigiastre che erano esposte in vetrina.
Probabilmente distolse lo sguardo dal suocero per qualche secondo. Suo marito, dirigendosi verso la cucina, le aveva fatto un cenno per comunicarle che andava tutto bene e che gli inglesi erano soddisfatti.
Quando tornò a girarsi verso il bistrot, Fernande vide Auguste vacillare, tenersi per un attimo a una sedia che si rovesciò con lui e, aggrappandosi alla tovaglia a quadri rossi, trascinare nella caduta i piatti della giovane coppia.
Ci fu un gran fracasso, ma non un vero e proprio trambusto. François, il cameriere dai capelli rossi, si chinò per primo sul vecchio, e stava per prenderlo per le spalle quando Antoine lo scostò e sollevò suo padre mentre François lo afferrava per i piedi.
Fu tutto così rapido da far pensare che quella scena era stata provata più volte. Joseph, che lavorava lì da trent’anni, stava già raccogliendo i cocci e scusandosi. I giovani sposi, sbalorditi, turbati, guardavano il vecchio che veniva fatto passare per una porta, vicino alla cassa, che dava sull’ingresso dell’edificio.
Fernande aveva fatto in tempo a vedere che il suocero aveva un colorito violaceo, che un occhio era chiuso e l’altro aveva lo sguardo fisso nel vuoto.
Rimase al suo posto, tendendo l’orecchio al rumore dei passi sulla scala stretta e male illuminata.
Antoine e François arrivarono senza fiato al primo piano, entrarono nell’appartamento dal soffitto basso dell’anziana coppia.
Come ogni sera, Eugénie era stata messa a letto fin dalle otto. Aveva settantanove anni, uno più del marito, ed era ormai parecchio fuori di testa.
Durante il giorno la piazzavano in una poltrona accanto alla finestra, e la domestica, la signora Ledru, le dava da mangiare imboccandola come un bambino.
Semiaddormentata com’era, non si rese conto di quello che succedeva intorno a lei, forse si meravigliò soltanto di vedere le luci accese.
«Va’ a chiamare la signora Ledru...».
La donna occupava una stanzetta che dava sul cortile, e arrivò con indosso una vestaglia viola.
«Mi aiuti a spogliarlo e a metterlo a letto... Tu, François, puoi tornare giù... Di’ a mia moglie che scendo subito...».
Il ristorante non doveva restare sguarnito, bisognava che il ritmo non venisse né interrotto né alterato.
Auguste respirava ancora, un respiro sibilante che gli deformava la bocca, come se non riuscisse più a governare il movimento delle labbra.
La cosa più impressionante era quell’occhio aperto dallo sguardo vitreo.
«Telefoni al dottor Patin... Gli dica che è urgente, e mi chiami appena arriva...».
Si allontanò a malincuore dal letto in cui sua madre e suo padre giacevano fianco a fianco. Sulla porta ebbe un attimo di esitazione. Ma che cosa poteva fare? Non sapeva che pesci pigliare e del resto il dottore, che abitava a duecento metri, in rue Pierre-Lescot, sarebbe arrivato di lì a pochi minuti.
Giù, era un po’ come passare dalle quinte alla ribalta. Attraversavi il lungo ingresso buio di un vecchio stabile, poi, aprendo la porticina di fianco alla cassa di Fernande, scoprivi le luci e l’intensa vita delle due sale, la cucina in piena attività, i fiori sul tavolo dell’ambasciatore.
I due sposini, che non erano andati via, mangiavano, pallidi e di malavoglia, la trippa di vitello che avevano servito loro. Altri clienti seguivano Antoine con lo sguardo.
«Respira...» mormorò questi alla moglie, che si limitò a un battito di ciglia.
Sul pavimento, solo minuscoli frammenti di vetro rivelavano il punto in cui era caduto il vecchio Auguste. Su una delle pareti verdastre, un rettangolo più chiaro indicava il posto in cui mancava la fotografia del padre e della madre nel 1920. Joseph l’aveva raccolta, con la cornice rotta, e consegnata religiosamente a Fernande, che l’aveva fatta sparire sotto la cassa.
Continuava la sfilata delle portate, ora era la volta di formaggi, frutta e dolci, e agli odori di cucina si mescolava già il profumo dei sigari.
Antoine continuava ad avere tutto sotto controllo, specie dalla parte del Senato. Svolgeva al tempo stesso il ruolo di padrone e di maître ma, piegandosi allo stile del locale, aveva sostituito lo smoking tradizionale con un completo blu scuro.
«Mio padre... un malore...» stava dicendo all’ambasciatore.
Chi era la donna che lo guardava con quegli occhi chiari e impassibili? Gli altri commensali le si rivolgevano con grande deferenza. Che fosse in qualche modo legata alla famiglia reale?
Una sera era andato a cena da loro, con un’allegra brigata, un piccolo sovrano mediorientale, tenuto d’occhio da due guardie del corpo, e non era stato facile soddisfarlo perché non mangiava carne di maiale, e quella era proprio la specialità della casa.
Chissà se Patin era arrivato... Da quasi quarant’anni era il medico di tutta la famiglia: aveva curato la scarlattina di Antoine e degli altri due fratelli quando, da piccoli, si erano ammalati tutti e tre contemporaneamente. La famiglia non disponeva ancora dell’appartamento del primo piano e i bambini dormivano in letti di ferro nel sottotetto, in una stanza della servitù con il soffitto spiovente e la finestra a mansarda.
Nello sguardo di Fernande si leggeva una domanda. Antoine gettò un’occhiata intorno per assicurarsi che andava tutto bene e si eclissò di nuovo, facendo i gradini tre alla volta.
Non appena ci si allontanava dai buoni odori di cucina, si entrava in un mondo che sapeva di miseria, perché lo stabile era occupato perlopiù da gente povera.
La signora Ledru aveva spento il lampadario centrale e lasciato accesa solo una lampada da comodino. Seduta alla testa del letto, teneva il polso del vecchio controllando al contempo la lancetta del proprio orologio.
La respirazione si era fatta più debole. Di quando in quando il corpo di Auguste era attraversato da due o tre movimenti convulsi, come se protestasse contro quello che gli stava capitando.
«Quanto?».
«Le pulsazioni sono molto irregolari... Un momento fa erano a centoquaranta... Adesso quasi non le sento...».
«Il dottore?».
«È in giro per visite... Un pollivendolo ha avuto un incidente... La moglie cerca di avvertirlo, e comunque mi ha dato il nome di un altro medico che sta in rue Étienne-Marcel... Gli ho telefonato e mi ha assicurato che verrà subito...».
La madre dormiva, del tutto inconsapevole di quanto le succedeva intorno.
Antoine tornò giù. Era il momento dei liquori e lui doveva assolutamente farsi vedere, almeno da quelli del tavolo più importante. Quanto a Fernande, non poteva certo salire, dato che a quell’ora sempre più clienti chiedevano il conto.
Antoine riusciva a sorridere. Erano anni che aveva adottato quel sorriso, ed erano anni che accorreva sollecito non appena uno sconosciuto alzava la mano di qualche centimetro.
Gli inglesi sembravano contenti, tranne la principessa o duchessa che fosse, sempre rigida e impenetrabile. Rifiutò l’acquavite, ma accettò l’armagnac invecchiato in un bicchiere da degustazione, che vuotò in tre minuti.
Si era fermata un’auto. Antoine lasciò passare ancora qualche minuto. Quando salì trovò un uomo che non conosceva, di mezza età, stempiato.
Era il medico di rue Étienne-Marcel. Stava per aprire bocca quando entrò, tutto trafelato, il vecchio dottor Patin. I due medici si scambiarono una stretta di mano e un’occhiata interrogativa.
Non c’era bisogno di auscultare Auguste: la faccia era sempre più congestionata e, se si passava la mano davanti all’unico occhio rimasto aperto, la pupilla non reagiva allo stimolo.
«Inutile portarlo all’ospedale» mormorò Patin stringendo la mano di Antoine.
«Non c’è proprio più niente da fare?».
«La fine può sopravvenire da un momento all’altro... Ma potrebbero volerci anche delle ore...».
I due dottori si ritirarono in un angolo a parlare sottovoce mentre Antoine, che si sentiva impacciato e inutile, restava in piedi accanto al letto.
Decise di tornare giù, non riusciva a sopportare la vista di quell’occhio fisso, di quella bocca storta. Non riconosceva suo padre. Quello che giaceva nel letto non era un uomo, ma una cosa incosciente, di lì a poco immobile per sempre.
Mentre cominciava ad avviarsi, gli sembrò di cogliere nell’unico occhio una specie di lieve barlume, qualcosa come un senso di stupore e, nello stesso istante, cessò il sibilo della respirazione.
«Dottore...» chiamò.
Patin si precipitò, toccò le palpebre, si chinò sul petto incollandovi la guancia.
Quando si rialzò, mormorò:
«È tutto finito, mio povero Antoine... Hai avvertito i tuoi fratelli?...».
«Non ancora...».
«Che ne è del giudice?».
«Sta bene. Si sta occupando del caso Mauvis...».
«E Bernard?».
Antoine si oscurò in volto.
«Non ne so niente da diversi mesi...».
Patin non stentava a capire. Li aveva visti bambini, poi adolescenti; aveva assistito al matrimonio di Antoine e di Ferdinand. Conosceva per filo e per segno la storia della famiglia.
«Porgi le mie condoglianze a tua moglie...».
I due medici scesero insieme giù per la scala ripida e stretta.
«Posso far venire la vecchia Marinette per vestirlo?» domandò la signora Ledru.
Antoine fece un cenno di assenso, scese anche lui, aprì la porticina e, passando, sussurrò di sfuggita alla moglie:
«È finita...».
Il lavoro tornava ad assorbirlo, la routine di tutte le sere, fino a che, uscito l’ultimo cliente, non si chiudevano finalmente le imposte di ferro.
Anche a Joseph, che aveva sessantotto anni e camminava con i piedi a papera, e poi a Jules, che dietro al bancone si occupava dei vini, Antoine ripeté, con voce via via più naturale:
«È finita...».
Quindi a Julien Bernu, lo chef:
«È finita...».
Liselotte, rotondetta e stuzzicante nell’uniforme di seta nera, non doveva sforzarsi per sorridere ai clienti aiutandoli a infilare il cappotto. Troppo giovane, troppo piena di vita.
Gli ultimi clienti se n’erano andati poco dopo le undici e adesso Antoine si apprestava a chiudere le imposte. Le altre sere suo padre aspettava con lui, e per loro due era una specie di rito.
Fernande, chiusi i conti, usciva dalla porticina e saliva al secondo piano, dove lei e il marito occupavano un appartamento sopra quello dei due vecchi, portando con sé il cofanetto di metallo dipinto di verde che conteneva l’incasso.
Jules, che si vestiva più in fretta degli altri, se ne andava con le mani in tasca e il bavero del cappotto rialzato, perché quella sera marzolina era piuttosto fresca.
Dietro il banco, una botola dava su una scala che portava in cantina, e, come al solito, Antoine andò ad assicurare la sbarra che la chiudeva e a mettervi il lucchetto.
Quanto alle due sguattere, uscivano dalla porta dello stabile. Le conoscevano appena, perché cambiavano di continuo; a volte, per lavare i piatti si dovevano addirittura raccattare degli uomini per strada.
Julien Bernu, lo chef, che indossava un elegante cappotto di cammello, si avviava verso la sua spider parcheggiata all’angolo.
«A domani, capo...».
Esitò un attimo, chiedendosi se non fosse il caso di aggiungere qualcosa, e alla fine si limitò a stringere la mano di Antoine un po’ più a lungo.
Gli altri fecero lo stesso. Si allontanarono in fila indiana, riassorbiti dai loro problemi personali.
Dentro, restavano accese solo due lampade circondate da un alone di fumo, come una sorta di caligine, e l’odore del cibo non era più così invitante.
Le imposte si chiudevano dall’esterno mediante una manovella che si riponeva poi dietro il bancone. L’animazione delle Halles era al culmine e i camion avevano invaso tutte le strade adiacenti.
Cinquant’anni prima, e fin dopo la guerra del ’14, il bar restava aperto fino all’alba, preso d’assalto da gente di ogni risma, compresi barboni e prostitute che sonnecchiavano appoggiati al muro.
Antoine uscì. Ancora la sera prima, suo padre era andato con lui. Restavano tutti e due in silenzio, tendendo l’orecchio al rumore della saracinesca che scendeva a scatti, poi a quello della serranda più stretta che sbarrava la porta.
Bisognava rientrare passando per l’ingresso dello stabile, rimettere a posto la manovella. Antoine restò un attimo in piedi dietro al bar osservando le bottiglie allineate sui ripiani. Alla fine prese quella dell’acquavite e se ne versò un bicchiere, il che era contrario alle sue abitudini, perché si concedeva soltanto un po’ di vino ai pasti.
Spegnere le lampade. Raggiungere l’ingresso dello stabile. Chiudere la porta. Dopo essersi assicurato che in cucina e ai lavelli tutto era in ordine, salì, sentendosi un gran peso sulle spalle, e fu sorpreso di trovare nella camera dei genitori un’anziana donna che non conosceva.
«Ho fatto del mio meglio, caro signore. Ho pensato che le faceva piacere se portavo quattro ceri e un po’ d’acqua benedetta... Mi dia quello che vuole...».
Era l’anziana zitella di cui aveva sentito parlare, quella che preparava per la sepoltura tutti i morti del quartiere. Aveva una faccia rotonda, dall’espressione beata, grandi occhi azzurri colmi d’innocenza, e indossava abiti neri vecchi di almeno vent’anni.
Antoine cercò nel portafoglio, allungò alla donna alcune banconote, mentre lei indicava la madre sempre addormentata nel letto di noce.
«Come sta? Quando abbiamo portato via il corpo non ha fatto una piega...».
Antoine non sapeva dove era stato messo suo padre. Attraversò l’antiquato salotto dove un tempo aveva fatto i compiti e giocato con i due fratelli. La cucina non era mai servita a niente, dato che mangiavano prima dei clienti nella sala del ristorante, ed era stata trasformata in ripostiglio.
Auguste giaceva supino sul letto della signora Ledru, nella stanza della domestica. Un asciugamano legato intorno alla testa tratteneva la mascella; tutti e due gli occhi erano chiusi e dal volto era sparita la contrazione spasmodica di prima.
Gli avevano giunto le mani su un rosario che non apparteneva alla famiglia.
Fernande, in piedi, guardava il marito e aspettava le sue reazioni. Poiché Antoine restava immobile e in silenzio, mormorò:
«È stata Marinette, a quanto pare...».
Due dei quattro ceri erano accesi e un ramoscello di bosso stava a bagno in una piccola ciotola lavadita che conteneva l’acqua benedetta.
Antoine non pregava, non glielo avevano insegnato. Si sentiva stanchissimo e pensava che doveva ancora avvertire i fratelli.
La signora Ledru propose:
«È meglio che sia io a vegliarlo, non mi pesa stare una notte senza dormire... E posso sempre stendermi un momento sul divano del salotto...».
Come tutto appariva improvvisamente vecchio, decrepito! Auguste si era sempre opposto a cambiare alcunché nell’appartamento, e perfino sua moglie era diventata come un oggetto che veniva spostato a seconda delle ore della giornata.
«Vieni su...».
Salirono al secondo piano. La disposizione dei locali era la stessa, ma qui i colori erano vivaci, i mobili moderni, le stanze piene di luce.
Antoine si tolse la giacca mentre sua moglie si sfilava il vestito nero e scuoteva la massa scura dei capelli.
«Chiami prima Ferdinand?».
Lui annuì, staccò il ricevitore, compose il numero. Mentre aspettava che qualcuno rispondesse, si allentò il nodo della cravatta.
Ferdinand abitava con la moglie e il figlio in un palazzo moderno al Parc-de-Sceaux, e sembrava che lo squillo del telefono echeggiasse nel vuoto.
«Non hai per caso sbagliato numero?».
Antoine continuava ad aspettare con aria più seccata che triste.
«Pronto!... Sei tu, Véronique?...».
La cognata parlava con voce sommessa.
«C’è Ferdinand?».
«Dorme, pover’uomo... Ho dovuto dargli un sonnifero perché il caso Mauvis non gli dà pace... Che cosa c’è, Antoine?... Come mai telefoni a quest’ora?... È successo qualcosa a tua madre?...».
«No, a mio padre...».
«Sta male?».
«È morto...».
«Di cosa?».
«Il dottore non me l’ha detto... Non ho neanche pensato a chiederlo... Di un’embolia, credo... Era cianotico...».
«È all’ospedale?».
«No. A casa, nella camera della domestica...».
«Devo svegliare Ferdinand, secondo te?... Ma cosa potrebbe fare?...».
«Ho paura che se non lo avvertiamo possa arrabbiarsi...».
«Non so... Forse hai ragione... Resta al telefono...».
Passarono alcuni minuti finché, dopo una serie di scatti sulle linee, non si udì una voce soffocata che ripeteva, insistente:
«Arthur... Arthur... Ci sei?... Mi senti?...».
Era una voce di donna che si perse in lontananza, sostituita da quella di Ferdinand.
«Pronto!... Sei tu, Antoine?».
«Sì... Scusa se ti ho svegliato...».
«Hai fatto bene... Mia moglie m’imbottisce di pasticche... Da tre giorni ho mal di gola e un po’ di febbre, ma al punto in cui si trova l’istruttoria la mia presenza alle udienze è indispensabile... I giornalisti mi danno la caccia dalla mattina alla sera... È tanto se non me li trovo sulla porta di casa... Dunque, papà è morto?... A che ora è successo?».
«Non ci ho badato... Intorno alle dieci...».
«Adesso che ora è?».
«Mezzanotte e dieci...».
«Perché non mi hai chiamato prima?».
«Avevo le due sale strapiene e un tavolo di otto persone con l’ambasciatore d’Inghilterra...».
«Congestione?».
«Patin non me l’ha detto...».
E ripeté:
«Era cianotico...».
«Ha capito che stava morendo?».
«Non credo...».
«Dov’è successo?».
«Nel bistrot... Stava chiacchierando con dei clienti... Improvvisamente è caduto, trascinando con sé la tovaglia e tutto quello che c’era sul tavolo...».
«Ha detto qualcosa?».
«No, niente».
«A Bernard hai telefonato?».
«Non ancora...».
«Lo hai visto di recente?».
«No. E tu?».
«L’ho intravisto di sfuggita, circa un mese fa, in un taxi... Per fortuna lui non mi ha visto... Credo sia il caso che io venga... Cosa ne pensi?».
«Per papà non c’è più niente da fare».
«Lo so. Ma se arriva Bernard ci saranno sicuramente delle discussioni, ed è meglio che io ci sia...».
«Come vuoi...».
Fernande domandò:
«Che fa, viene?».
Lui annuì e andò a cercare in un taccuino il numero di Bernard che, stando alle ultime notizie, abitava in boulevard Rochechouart. All’orizzonte si profilavano le complicazioni.
Il telefono squillava in un appartamento che Antoine non conosceva e la voce di un uomo, ugualmente ignoto, rispondeva:
«Chi parla?».
C’era un sottofondo di musica, di voci, un tintinnio di bicchieri.
«Devo aver sbagliato numero...».
«Con chi vuole parlare?».
«Con Bernard Mature...».
«Bernard, eh?... Il nostro buon Bernard... Embè, vecchio mio, Bernard non c’è...».
L’uomo era brillo e qualcuno gli prendeva di mano il ricevitore, e una voce, questa volta di donna, diceva:
«Pronto!... Sono Nicole...».
«Sono io, Nicole...».
«Antoine?... Cosa succede? Come mai mi telefoni a quest’ora?».
«C’è Bernard?».
Anche se aveva bevuto, era lucida.
«Al momento non c’è» rispose prudente, sulla difensiva.
«Non è a Parigi?».
«Perché me lo chiedi?».
«Perché devo dargli una brutta notizia...».
«E sarebbe?».
«Papà è morto...».
Solo lui la trattava da cognata, anche se Nicole viveva con suo fratello soltanto da cinque anni e a nessuno dei due era sembrato il caso di sposarsi.
«Bella seccatura...» mormorò lei.
Poi, con tono diverso:
«Fate silenzio, voialtri! C’è un morto in famiglia...».
E riprese:
«Scusami... Sono degli amici di Bernard... pensavano di trovarlo a casa e sono piombati qui portando da bere... Non so come liberarmene... Fanno i loro comodi... Ascolta, Antoine, è una vera seccatura... Oggi è venerdì, vero?... Anzi, sabato, perché è passata mezzanotte... Bernard è partito in macchina giovedì con un amico per il Midi, dove hanno in vista un grosso affare immobiliare...».
Bernard aveva sempre grandi progetti, immobiliari o altro, sulla Costa Azzurra o in altri posti prestigiosi.
«So che stasera avevano un appuntamento al bar del Carlton, ma ignoro in quale albergo siano scesi...».
«Quando deve tornare?».
«Non me l’ha detto, dipende da come si mette l’affare. Comunque bisogna informarlo, no? Ma com’è successo?».
«È crollato improvvisamente, nel ristorante...».
«Il cuore?».
«Non so... Mezz’ora dopo era morto...».
«Ferdinand è lì con te?».
«Lo sto aspettando...».
«Farò il possibile per trovarlo... Se telefono a tutti gli alberghi, forse capiterò su quello giusto...».
Fernande chiese di nuovo:
«Dov’è?».
«A Cannes, pare... Ma va’ a sapere!... Da Nicole c’è parecchia gente, bevono, cantano e ballano...».
«Credi che lei verrà?».
«Lei? E perché dovrebbe?».
«Non so... Non ti spogli?...».
«Dopo che avrò visto Ferdinand...».
«Verrà con Véronique...».
Era inevitabile, perché da quando avevano un’automobile, essendo Ferdinand troppo miope per guidarla, sua moglie gli faceva da autista. Lo portava ogni mattina in tribunale e andava a riprenderlo alla sera. A mezzogiorno lui mangiava qualcosa alla buvette o in un ristorantino della Cité.
«Cosa succederà, secondo te?».
«Non ne ho la minima idea. Dipenderà da Bernard...».
«E da Véronique...».
«Pensi che Véronique renderà le cose più difficili?».
«Forse più di Bernard... Se facessi il caffè?...».
«Ottima idea...».
Non era un gran fumatore, poiché nel ristorante non poteva permettersi di fumare. Si accontentava ogni tanto di una sigaretta, che quasi mai aveva il tempo di finire.
Di lì a cinque ore sarebbe stato già in piedi, come ogni mattina, per occuparsi dell’approvvigionamento. Vero è che non aveva molta strada da fare.
Al mattino era Jules a occuparsi del bar e a servire i clienti del quartiere.
A mezzogiorno Antoine si metteva il completo blu mentre, a poco a poco, le due sale si riempivano per svuotarsi poi verso le tre. Questo gli permetteva di dormire di nuovo fino alle sei e mezza, farsi una doccia e rivestirsi.
Qualcuno bussava alla porta del piano di sotto. L’impiantito era così tarlato che si sentiva quello che succedeva in tutto lo stabile. La signora Ledru aveva probabilmente risposto che Antoine e sua moglie stavano al secondo piano, e Fernande andò ad aprire nel momento in cui Ferdinand e Véronique arrivavano sul pianerottolo.
I due fratelli non si scambiarono un bacio. Non l’avevano mai fatto in vita loro. Si strinsero la mano con aria grave. Véronique, invece, baciò i cognati.
«Che disgrazia...».
Ma suo marito, con l’abituale buonsenso, ribatté:
«Alla sua età, c’era da aspettarselo... L’importante è che non abbia sofferto... La cosa stupefacente è che non se ne sia andata prima la mamma... A proposito, come sta?».
«Non si è accorta di niente. Dormiva...».
«Credi che si renda conto di quello che le succede intorno?».
«Chi può dirlo?... A volte si ha l’impressione che abbia uno sprazzo di lucidità, che cerchi di dire qualcosa... Come se lottasse contro una sorta di nebbia... ma dura poco, e ricade nel solito torpore...».
«Come mai papà è stato messo nella stanza della domestica?...».
«Per non spostare la mamma... Domani bisognerà allestire una camera ardente in salotto, suppongo... Verrà molta gente, tutti i suoi amici di Riom e molti alverniati di Parigi...».
Perché, dieci anni prima, Auguste era stato presidente dell’Associazione degli Alverniati di Parigi.
Ferdinand aveva cinquantatré anni. Era quasi calvo e portava occhiali dalle lenti spesse. Véronique, invece, pur essendosi un po’ appesantita, non dimostrava la sua età.
«Il tuo lavoro non risentirà di tutto questo?».
«Forse dovrei tenere chiuso fino alla sepoltura, ma nel commercio non si usa; si chiude solo il giorno del funerale...».
«A proposito, è venuto il prete?».
«No. Non ci ho pensato».
«Da ragazzino, papà ha fatto il chierichetto. Certo non era più praticante, ma dovresti comunque avvisare la parrocchia. La gente troverebbe strano che non lo si faccia passare per la chiesa...».
Fernande arrivò con il caffè e le tazze. Poltrone e divano erano in pelle blu e una moquette rossa nascondeva le pecche del pavimento.
«Qualcuno ha suonato al primo piano...».
«Chi può essere?».
Stavano tutti e quattro con le orecchie tese, in silenzio. La signora Ledru andava di nuovo ad aprire, parlava sottovoce, richiudeva la porta, e qualcuno saliva la scala con passi leggeri.
«Scommetto che è Nicole» disse Fernande alzandosi.
E quando aprì fu proprio Nicole che apparve nel vano della porta.
Li guardò l’uno dopo l’altro come se la sua presenza lì fosse stata del tutto naturale, e togliendosi la pelliccia di leopardo fece qualche passo verso di loro dicendo:
«Ho pensato fosse meglio venire...».
Fernande, in vestaglia, si allontanò per andare a prendere un’altra tazza.
«Dove è stato messo?».
«Nella camera della signora Ledru, al primo piano».
«Perché non nel suo letto?».
E, con una certa irritazione, Antoine rispose:
«Perché ci stava già mia madre».
2
Calò un silenzio imbarazzante. Nessuno sapeva dove guardare. Tra Ferdinand e Antoine c’erano solo tre anni di differenza, ma sembrava che col tempo quella differenza, invece di scomparire, fosse aumentata. Forse a causa della professione di Ferdinand? Per tutti loro, lui era il giudice, una persona importante, che sapeva cose che gli altri ignoravano.
C’era stato un periodo, quando erano adolescenti, in cui i due fratelli erano veramente amici. A quell’epoca, Ferdinand aveva, nei confronti di Antoine, un atteggiamento quasi protettivo, mentre nessuno dei due si occupava di Bernard, che consideravano poco più di un bambino.
Poi, ognuno di loro aveva fatto la sua vita. Ognuno di loro si era sposato.
In un primo tempo Ferdinand aveva vissuto a La Rochelle, poi era stato designato a Poitiers, e ci era rimasto otto anni prima di ottenere la nomina a Parigi. Era invecchiato più in fretta degli altri, tanto che adesso veniva da chiedersi se fosse mai stato giovane.
Si capiva che prendeva la vita sul serio, che affrontava tutte le questioni con la stessa puntigliosa scrupolosità, che si trattasse del suo lavoro, della sua famiglia o di se stesso.
Antoine, che lo superava di una testa e i cui capelli scuri non accennavano ancora a ingrigire, sembrava appartenere a un’altra razza.
A che cosa pensavano entrambi mentre Nicole andava con lo sguardo dall’uno all’altro? Non si aspettavano forse da tempo questo confronto, che pure li coglieva impreparati, in piena notte, con Ferdinand che combatteva contro il mal di gola e Antoine che cascava dal sonno?
«Mi dica, Ferdinand...».
Al giudice Nicole non dava del tu, e neppure a sua moglie, mentre lo dava con naturalezza ad Antoine. Aveva solo ventotto anni. Graziosa, elegante e vivace, veniva da un altro mondo.
Lui la guardava con i suoi occhi miopi mentre lei continuava senza il minimo impaccio:
«So che la cosa non mi riguarda, ma dal momento che Bernard non c’è mi sento autorizzata a parlare al suo posto... Lei che se ne intende, Ferdinand, non crede che sarebbe stato il caso di apporre i sigilli?».
«A che cosa?».
«Mah, non so... All’appartamento del defunto... Alla cassaforte...».
«Quale cassaforte?».
«Deve pur esserci un posto in cui teneva il denaro e i documenti...».
Dei due fratelli, Antoine era quello più a disagio, perché sapeva di essere preso di mira e si aspettava che Ferdinand si schierasse con decisione dalla sua parte.
«Non credo» scandì il giudice «che mio padre abbia mai posseduto una cassaforte... È così, Antoine?».
«In casa non ce n’è mai stata una».
Nicole tuttavia non si dava per vinta:
«Deve pur aver messo da qualche parte il suo testamento...».
Seguì un silenzio pesante. Fernande portò una tazza e ci versò del caffè, poi cercò un posto dove sedersi. Dalla cucina aveva sentito ogni parola. Gli sguardi di tutti erano puntati su Antoine.
«Papà non mi ha mai parlato di un testamento...».
«Si serviva di un notaio?».
«Non era tipo da confidarsi con un notaio...».
«Avrà avuto un conto in banca...».
«Se ne aveva uno, non ne ha mai fatto cenno con nessuno...».
Il vecchio Auguste era nato a Saint-Hippolyte, un borgo di trecento abitanti a una ventina di chilometri da Riom. Suo padre, che faceva il bracciante, non sapeva né leggere né scrivere.
A dodici anni Auguste lavorava già da un commerciante di frutta e verdura nei pressi del tribunale; dormiva completamente vestito nel retrobottega, e a quindici anni prendeva, da solo, il treno per Parigi.
«Ferdinand sa sicuramente meglio di me cosa si deve fare in un caso simile...».
Ferdinand, imbarazzato, guardava sua moglie come per chiedere consiglio.
«Dipende... A suo tempo, papà e Antoine hanno firmato un accordo...».
La cosa risaliva all’immediato dopoguerra, nel 1945. Antoine era tornato a casa dopo più di quattro anni di prigionia in Germania, ed era in dubbio se riprendere o no il suo posto di cuoco alla Brasserie de Strasbourg, dove lavorava nel 1939.
Aveva ventisette anni. Non era sposato. Allora c’era soltanto un bistrot che si apriva a livello della strada, con prosciutti e salsicce appesi in vetrina e grosse pagnotte di pane nero che arrivavano dall’Alvernia tre volte alla settimana.
In cucina c’era la madre e un solo cameriere aiutava a servire.
Auguste non era ancora vecchio. Durante gli anni di guerra aveva guadagnato parecchio grazie ai prodotti che s’ingegnava a far arrivare dal paese.
Si era formata una nuova clientela. Giornalisti, gente dello spettacolo avevano scoperto la cucina di Mamma Mature, come si diceva allora.
«Perché, figliolo, invece di andare a lavorare per gli altri, non resti con me? Potremmo aprire una seconda sala, ingrandire la cucina...».
Ferdinand, a La Rochelle, aveva già un figlio. Bernard, che non aveva completato gli studi, si occupava vagamente di cinema e andava a trovare il padre solo per batter cassa.
Alla fine Antoine si era lasciato convincere, poi, a mano a mano che il progetto di ampliamento si precisava, se n’era entusiasmato. A lui si doveva l’idea di una cucina tutta a vetri che permetteva ai clienti di seguire la preparazione delle pietanze.
La madre si limitava, da venticinque anni, a quattro o cinque piatti puntualmente presenti nel menu a giorni fissi.
Anche lei, figlia di piccoli agricoltori, veniva da Saint-Hippolyte. Era stata compagna di scuola di Auguste, che l’aveva poi ritrovata ventenne una volta che era andato a trovare il fratello rimasto al paese.
Da allora la loro storia era stata quella della maggior parte dei commercianti del quartiere. Risparmi messi pian piano da parte per l’acquisto di un’attività commerciale che avevano impiegato molto tempo a pagare del tutto, poi lunghi anni di lavoro indefesso senza un giorno di riposo, senza che passasse loro per la testa l’idea di una vacanza.
Erano tutti e due giù dabbasso, Auguste con a lato due ceri accesi, sua moglie da quasi un anno inconsapevole di quanto le avveniva intorno.
Erano stati giovani. La sera, prima di andare a dormire nel letto in noce comprato d’occasione l’antivigilia del matrimonio, contavano insieme l’incasso, rallegrandosi del denaro che affluiva, delle cambiali che riuscivano a pagare via via, l’una dopo l’altra.
«Quando non avremo più debiti...».
Per un bel po’ era stato il loro unico obiettivo. Poi c’era stato Ferdinand, che gattonava nella segatura del bistrot o sulle piastrelle della cucina.
Di Parigi conoscevano soltanto il quartiere delle Halles e le poche strade lì attorno.
Auguste aveva folti baffi di un nero bluastro, e quando stava dietro al banco, con le maniche rimboccate, si compiaceva di mettere in mostra i bicipiti.
Poi era nato Antoine. I due bambini dormivano nella camera dei genitori e Antoine si ricordava di certe sere in cui sua madre pelava le verdure in cucina mentre suo padre metteva in ordine le bottiglie.
Tra Ferdinand e Bernard c’erano sei anni di differenza. La camera era diventata troppo piccola per tutti loro e, in mancanza di meglio, si era presa in affitto, al sesto piano, una mansarda per i due grandi.
Nei primi tempi avevano avuto paura. Si sentivano soli lassù, in cima a quella casa così grande e brulicante di uomini e di donne ignoti.
Per farsi coraggio dormivano nello stesso letto. D’inverno c’era un gran freddo e loro portavano lunghe camicie da notte di flanella.
Ferdinand era andato a scuola, poi era venuto il turno di Antoine, e i due fratelli giocavano in strada con i compagni.
A quell’epoca pensavano che non si sarebbero mai lasciati.
Adesso si guardavano, imbarazzati. Un’estranea veniva a mettere il dito nella piaga quando il corpo del padre era ancora caldo.
«Avete cercato nei suoi cassetti?».
I due fratelli erano indignati, ma non respingevano nettamente il suggerimento implicito in quella frase.
«Nessuno ha rovistato nell’appartamento» disse Antoine, che si sentiva sotto tiro. «Quando papà è caduto l’ho trasportato al primo piano e sono dovuto tornar giù mentre la signora Ledru telefonava al dottore. Il ristorante era pieno e non potevo allontanarmi...».
Nessun sentimento si poteva leggere nello sguardo di Ferdinand, che appariva soprattutto a disagio.
«Non sa dove si trovi Bernard?» domandò girandosi verso Nicole.
«Mi telefonerà sicuramente domattina, e quando gli darò la notizia prenderà il primo aereo...».
«Che cosa consiglierebbe di fare nel frattempo?».
«Non so... Spetterebbe a voi prendere le disposizioni necessarie...».
«Quali disposizioni?».
«Vostro padre era ricco... C’è prima di tutto l’attività commerciale, il bistrot, che vale molto...».
Antoine arrossì. Benché fosse preso di mira personalmente, non voleva rispondere.
«Il bistrot appartiene per metà ad Antoine, che è socio di nostro padre da vent’anni» intervenne Ferdinand.
«Ci sono dei documenti firmati alla presenza di un notaio?».
«Non c’è stato nessun notaio... Si sono messi d’accordo tra loro...».
«E vostro padre riscuoteva ogni anno la metà dei profitti?».
Questa volta non fu il giudice a rispondere per conto del fratello.
«Gli versavo regolarmente la sua parte...».
«E cioè una grossa somma?».
«Una discreta somma, sì...».
«Quanto, per esempio?».
«Bisognerebbe guardare nei libri contabili...».
«E dove sono questi libri?».
Antoine indicò una moderna credenza a tre porte.
«Sono qui...».
Ma non si offrì di mostrarglieli.
«Che cosa faceva di quel denaro?».
«Era affar suo. Non ne parlava con nessuno».
«Non lo avrà comunque tenuto in casa...».
«Penso di no».
«Non se n’è accertato?».
«No...».
Antoine guardò Fernande che bolliva dalla rabbia e si mangiava le unghie per non esplodere.
Perché Ferdinand non interveniva, non prendeva le difese del fratello? Lui e la moglie erano ammutoliti. Il padre era morto intorno alle dieci, e all’una del mattino stavano là, sopra la sua testa, a discutere dei suoi soldi.
Antoine si alzò e, controllandosi, disse con la voce che gli tremava:
«Preferisco che veniate a vedere...».
Ferdinand, senza convinzione, fece un gesto di protesta. Sua moglie fu la prima ad alzarsi. Nicole finì il suo caffè, quindi si avviò verso la porta.
«Tu non vieni?» domandò Antoine a Fernande.
«Non me la sento...».
Eppure, Fernande era una ragazza di strada, che Antoine aveva letteralmente raccolto sul marciapiede, dove lei vagabondava, di notte, passando da un bar all’altro.
C’erano voluti tre anni prima che osasse presentarla a suo padre. E dopo il matrimonio, quando avevano preso in affitto l’appartamento del secondo piano, sua madre non le aveva rivolto la parola per altri due anni e le aveva proibito di farsi vedere al pianterreno.
Scesero in fila indiana la scala male illuminata dai gradini consunti che scricchiolavano sotto i loro passi. La porta non era chiusa. Nel salotto, la signora Ledru, che nessuno aveva mai chiamato per nome perché, vedova di un geometra, teneva alla propria rispettabilità, si alzò in fretta e furia dal divano sul quale sonnecchiava.
La porta della camera da letto era aperta e si vedeva baluginare la fiamma dei ceri. Entrarono meccanicamente. Véronique si fece il segno della croce. Nicole si limitò a guardare in silenzio il volto del morto.
Antoine disse a mezza voce:
«Non so se volete cercare in questa stanza...».
Per tutta risposta, Nicole, e dietro a lei Ferdinand e sua moglie, si spostarono in salotto. E fu come esser tornati indietro di quarant’anni. In una cornice dorata, sopra il divano con le frange, Hector Mature, il bracciante di Saint-Hippolyte, li guardava con occhi vacui da una fotografia ingrandita. Da un portavaso in ottone spuntava una pianta, la stessa, c’era da scommettere, di quando i fratelli erano bambini.
«Suppongo che vorrà guardare nei cassetti...».
«Io non voglio niente» precisò Nicole. «Penso semplicemente che sia meglio per tutti che le cose si svolgano nel modo più corretto...».
Nella sala da pranzo c’era una vecchia credenza le cui ante superiori erano fornite di vetri. Antoine aprì i due cassetti, che si rivelarono pieni di piccoli oggetti disparati accumulatisi nel corso degli anni.
In una scatola di cartone c’erano fotografie dei tre fratelli in età diverse, un ditale d’argento e una ciocca di capelli di cui nessuno ricordava la provenienza. Forse apparteneva a uno dei bambini, e la madre l’aveva avvolta in un foglietto di carta velina... O era una ciocca di capelli suoi, che Auguste le aveva tagliato quando erano fidanzati, o appena sposati...
Due biglietti, biglie di agata, un fischietto. Articoli di giornali che vantavano la qualità del ristorante dell’Alverniate. Lettere. Ferdinand riconosceva la propria scrittura e quella di Bernard. C’erano anche delle lettere che Véronique aveva spedito da La Rochelle, poi da Poitiers, quando suo marito era troppo occupato, e in alcune aveva messo delle fotografie dei loro due figli, Marie-Laure e Jean-Loup.
Adesso Marie-Laure viveva con un’amica in avenue Victor-Hugo e gestiva con lei un negozio di accessori alla moda, e Jean-Loup era interno alla Salpêtrière.
Vecchie fatture relative a mobili e oggetti che non esistevano più da tempo, e la prima pagella di Ferdinand al liceo Voltaire.
«Come vedete... Qui, niente testamento... e neppure denaro...».
Aprì il cassetto di sinistra pieno zeppo più del primo, traboccante di fotografie e di lettere. Le fotografie raffiguravano lontane conoscenze, cugine della madre, amiche d’infanzia, una classe nel cortile di una scuola, e per finire sacchettini che contenevano dei capelli, con il nome di ciascuno dei fratelli scritto a matita.
Nella parte bassa del mobile, qualche libro, gomitoli di lana e, nel ripiano inferiore, scampoli di tessuto di ogni colore che Eugénie Mature aveva custodito gelosamente.
Nella parte superiore della credenza, dei bicchieri e alcune bottiglie di liquore.
Nell’appartamento non c’era uno studio.
«Resta la camera dei miei genitori...».
Dopo una certa esitazione, si decisero a seguirlo, e Antoine aprì il grande armadio guardaroba, i suoi cassetti, e infine un cassettone che conteneva solo biancheria.
Adesso non restava loro che uscire. Accalcati sul pianerottolo, non sapevano se dovevano salire o scendere.
«Ho lasciato su la pelliccia...» osservò Nicole.
Salirono in silenzio, quindi si vestirono per uscire. Ferdinand avrebbe voluto restare per esprimere il suo disaccordo nei confronti della compagna di Bernard, ma nessuno lo invitò a farlo.
«Spero che domani Bernard sarà qui... Mi scuso per la mia presenza... Ma mi sentivo tenuta a venire...».
Non le chiesero perché vi fosse tenuta e lei si avviò verso il pianerottolo.
«A domani, Antoine» mormorò Ferdinand. «Non so a che ora potrò passare. Se hai bisogno di me, telefonami in tribunale, ci sarò quasi tutto il giorno...».
Véronique fece uno sforzo per abbracciare Fernande. Era capitato loro soltanto in tre occasioni.
«Ho paura per Ferdinand. Lavora troppo. Prende talmente a cuore la sua professione...».
Quando finalmente la porta fu chiusa e sulla scala i passi si allontanarono, Antoine e Fernande si ritrovarono l’uno di fronte all’altra, e rimasero a lungo in silenzio. Antoine entrò in camera da letto per spogliarsi, lei raccolse le tazze e le posò nell’acquaio della cucina.
Ritrovò il marito in bagno che si lavava i denti, in pigiama, e si limitò a sospirare:
«Cominciamo bene!...».
Lui le domandò soltanto:
«Hai caricato la sveglia?».
Ci pensava lei, ogni giorno. La sveglia suonava alle cinque del mattino. Lui bloccava subito la suoneria con un gesto ormai automatico, e scivolava fuori dal letto senza far rumore, perché Fernande poteva concedersi ancora due ore di sonno.
«Quello che mi delude è Ferdinand... Non mi aspettavo che si mettesse dalla sua parte...».
Antoine non rispose. Suo fratello non si era messo decisamente dalla parte di Nicole; era rimasto neutro, semmai. Per via di sua moglie. E Véronique non aveva detto niente perché conosceva la posizione che avrebbe preso il marito.
«Buonanotte» sospirò.
«Buonanotte, Antoine...».
Restava un vuoto, nel letto, tra loro. Oggi, c’erano dei vuoti ovunque.
«Secondo te, Antoine lo sa dove tuo padre ha messo i soldi?».
Ferdinand non rispose subito. Rannicchiato sul sedile, accanto alla moglie che guidava l’auto verso la Porte d’Orléans, aveva un’aria scontenta, si sentiva a disagio. Le cose erano andate in un modo che lo amareggiava e gli faceva prevedere altre difficoltà in futuro.
«Mio padre non ha mai parlato di queste cose...» mormorò alla fine.
Véronique era sua moglie, d’accordo, ma non era una Mature, non era nata e cresciuta nella vecchia casa di rue de la Grande-Truanderie.
Auguste era sempre stato un uomo gioviale, dalla voce tonante, che amava scherzare, ma al tempo stesso era un contadino scaltro e pudico, che si teneva certe cose per sé.
Forse neppure sua moglie, quando mandavano avanti insieme il loro bistrot, sapeva quanto guadagnavano...
Lui era l’uomo, il capofamiglia. Una specie di capotribù circondato da figli, nuore, nipoti.
Non aveva neppure tentato di trattenere in casa Ferdinand perché aveva capito che non ci sarebbe rimasto. Fin dal primo anno di scuola, il ragazzino si era vergognato del bistrot, e quando gli domandavano che mestiere faceva suo padre, rispondeva:
«Commerciante».
Anche dopo, al liceo. Ferdinand non aveva nemmeno la corporatura dei Mature; era il più gracile dei tre fratelli, un sognatore, ripiegato su se stesso.
Non aveva mai partecipato veramente alla vita della famiglia e da giovane aveva avuto solo fretta di andarsene di casa.
Non si sentiva chiamato a una particolare professione. Aveva deciso di iscriversi alla facoltà di giurisprudenza seguendo l’esempio di due suoi compagni che avevano fatto quella scelta, e si era ben presto reso conto che la sua timidezza gli avrebbe impedito di diventare un principe del foro.
Ma non si trattava propriamente di timidezza. Lui si guardava intorno, sforzandosi di capire, come cercando il suo posto nel mondo e in mezzo agli uomini.
«Deve pure aver messo i soldi da qualche parte...».
«Già...».
«Trovo comunque strano che nessuno di voi tre glielo abbia mai chiesto... Siete i suoi figli...».
Ma certo! Antoine, forse, avrebbe potuto. Ferdinand aveva un attaccamento particolare verso Antoine, che pure gli assomigliava così poco. Con lui, gli era andata bene, al vecchio Auguste. Invece di studiare, Antoine aveva seguito un tirocinio, mentre Bernard, già a diciott’anni, approfittava in qualche modo della guerra per arruolarsi volontario nell’esercito.
Ci era rimasto soltanto sei mesi, il tempo impiegato dai tedeschi per arrivare a Parigi, dopodiché non aveva mai più dormito nella casa delle Halles.
«Pensi che abbia messo da parte molti soldi?».
«Deve aver accumulato una grossa somma, e non spendeva quasi niente...».
«Antoine era il suo preferito, vero?».
«È quello che è rimasto con lui...».
Gli altri insistevano perché vendesse l’attività, ad Antoine o a chicchessia, e se ne andasse con la moglie a finire i suoi giorni al paese natale. Il vecchio non voleva saperne. Aveva bisogno del suo bancone di stagno, dei tavoli di marmo, del continuo viavai fin dal primo mattino, del caffè e dei croissant, dei bicchieri di vino, dell’odore dei cibi che venivano cucinati.
«Che abbia lasciato tutto il gruzzolo ad Antoine senza dir niente a nessuno?».
«Non credo».
«Che cosa possiamo fare se non si trova niente?».
«Ancora non lo so...».
Ferdinand non era ricco. Viveva del suo stipendio. Cinque anni prima avevano fatto una pazzia, sua moglie e lui. Era stata lei la principale responsabile? L’idea era stata sua, è vero, ma lui non si era opposto, non abbastanza, in ogni caso.
Dopo sposati erano sempre vissuti in case vecchie, a La Rochelle, a Poitiers, poi a Parigi, dove abitavano in un appartamento al terzo piano, senza ascensore, in rue Saint-Louis-en-l’Île.
I due figli vivevano ancora con loro. Marie-Laure seguiva un corso di storia dell’arte e Jean-Loup si era iscritto a medicina.
L’appartamento era diventato troppo piccolo per quattro persone adulte e c’era un solo bagno per tutti, con uno scaldabagno antidiluviano.
Nei dintorni di Parigi si cominciava a costruire nel verde, palazzi moderni battezzati «residenze», e quasi ogni settimana Véronique mostrava al marito, sui giornali, le fotografie dei nuovi appartamenti.
«C’è anche una piscina!» esultava Jean-Loup.
Non erano appartamenti in affitto, ma in vendita.
«Dopo il primo versamento e le dieci rate annuali, non c’è più un canone da pagare...».
Ne avevano visitati parecchi, la domenica. Non corrispondevano sempre ai dépliant, ma Véronique si dimostrò entusiasta della residenza del Parc-de-Sceaux.
C’erano voluti sei mesi perché finissero i lavori, e finalmente ciascuno ebbe la sua camera e il suo bagno. Una terrazza dava su uno spazio verde e una piscina era a diposizione degli abitanti dei cinque edifici.
Ferdinand ci aveva fatto il bagno solo due volte perché era consapevole del suo corpo sgraziato, della sua goffaggine. Non sapeva nuotare bene e se ne vergognava. Neanche Véronique faceva il bagno, perché pensava di essere troppo grassa per mettersi in costume.
«Potremo fare a meno di una domestica» aveva dichiarato. «Tutto funziona a elettricità...».
Per sette o otto mesi avevano effettivamente fatto a meno di una domestica, ma alla fine, dato che Véronique doveva fare da autista al marito, ne avevano presa una.
Marie-Laure era stata la prima ad andarsene, a ventidue anni, con la scusa di volersi guadagnare da vivere. Stravedeva per un’amica, e insieme a lei aveva aperto un negozio. A casa si faceva vedere pochissimo; viveva in un altro ambiente e non aveva più nulla in comune con i genitori.
Così, una prima camera era rimasta libera, anche se avevano lasciato al loro posto i mobili di Marie-Laure, per una sorta di superstizione, come se lei dovesse tornare.
Ma le poche volte in cui metteva piede nell’appartamento era quasi sempre per venire a prendere qualche oggetto che le apparteneva. Così a poco a poco vuotò la camera e Ferdinand si rassegnò a farne uno studio.
Adesso era vuota anche una seconda stanza, perché Jean-Loup, che era interno alla Salpêtrière, viveva praticamente lì.
Era uno strano ragazzo, scialbo, timido come suo padre, forse un po’ malinconico, e aveva scelto di specializzarsi in psichiatria infantile. Anche lui portava gli occhiali, e tra i compagni passava per essere un ambizioso, interessato soltanto ai suoi studi.
Studi che costavano caro. Anche a Marie-Laure era occorso parecchio denaro quando aveva aperto il negozio.
Restavano delle cambiali da pagare per l’appartamento e gli interessi si accumulavano.
Niente di tragico, comunque. Molte altre coppie dovevano vedersela con simili difficoltà. Ferdinand non era davvero in cattiva salute: non era mai veramente malato, si trattava piuttosto di piccoli disturbi, faringiti, dolori articolari, mal di stomaco, che non lo preoccupavano ma lo mettevano in ansia, e Véronique, in piena menopausa, non lo aiutava granché.
I soldi del padre sarebbero stati una manna. Con la loro parte avrebbero potuto finire di pagare le cambiali e persino versare in anticipo quanto ancora dovevano per l’appartamento.
Avrebbero potuto cambiare macchina, visto che la loro aveva fatto più di centomila chilometri, e durante le vacanze, invece di passare due o tre settimane in Bretagna in un albergo di seconda categoria, fare un bel viaggio.
«Non so se la pensi come me... Antoine mi è sembrato impacciato... Pareva a disagio, come se ci nascondesse qualcosa...».
Quando l’uno aveva quindici anni e l’altro dodici, i due più grandi erano molto affiatati e Antoine, che ammirava Ferdinand, si confidava spesso con lui.
«Non fai fatica come me, a scuola! Hai la fortuna di essere intelligente...».
Ferdinand lo rassicurava.
«Anche tu sei intelligente. Di un altro tipo di intelligenza, forse...».
Sembrava impensabile, adesso, che tra loro ci fosse stata una vera intimità e che per anni avessero dormito nello stesso letto.
A malapena, quella sera, si erano guardati in faccia.
«Neanche di Fernande mi fido troppo... Tanto per cominciare, perché hanno aspettato due ore prima di telefonarci?... È tuo padre, no?... Sei il primogenito... Spettava a te prendere in mano la situazione...».
Erano arrivati. Nel garage del palazzo erano parcheggiate automobili più potenti e più lussuose della loro.
Presero l’ascensore. Anche qui abitavano al terzo piano, come all’Île Saint-Louis. Véronique prese la chiave dalla borsa, aprì la porta e accese la luce.
La casa di prima, alle Halles, aveva un odore familiare, riconoscibile anche dopo mesi di assenza. Questa, no. Tutto asettico, tutto in ordine. Avevano dovuto comprare mobili nuovi, moderni, perché quelli vecchi, che li avevano accompagnati nei diversi traslochi, facevano a pugni con il nuovo ambiente.
«Ti fa ancora male la gola?».
«Un po’...».
Entrarono direttamente in camera da letto dove, una volta di più, si sarebbero spogliati l’uno davanti all’altra.
Un tempo, anche i due fratelli si spogliavano l’uno davanti all’altro, eppure adesso si sentivano come due estranei.
E Véronique, non gli era estranea, forse? I loro ricordi comuni risalivano soltanto alla prima volta che si erano incontrati, in casa di un compagno di università. Lei era figlia di un importante avvocato d’affari, e la famiglia abitava in boulevard Haussmann quando quel quartiere era ancora uno dei più ricchi di Parigi.
Non avevano lo stesso passato, lui e Véronique, e le parole evocavano in loro immagini diverse.
Si erano amati. Lo avevano creduto. Dovevano certamente essersi amati, dal momento che si erano sposati e da allora vivevano insieme.
A Ferdinand non era mai passato per la testa di tradire sua moglie, e meno che mai di lasciarla.
Avevano avuto due figli e vissuto momenti felici, soprattutto quando erano nati Jean-Loup e poi Marie-Laure. Battesimi e prime comunioni erano stati occasione di gioiose feste familiari.
Appena installati nel nuovo appartamento, avevano fatto il giro delle stanze, tutti e quattro insieme, estasiati, poi avevano brindato con lo champagne, certi di essersi lasciati alle spalle le tribolazioni e lo sconforto.
Ferdinand lavorava molto. Era un tipo meticoloso, un perfezionista, e dovevano quasi strappargli di mano il fascicolo di un’istruttoria, che per lui non era mai sufficientemente completo.
Soltanto nel suo ufficio provava un sentimento di superiorità. Gli sfilavano davanti uomini, donne, che perlopiù erano tutti dei «casi».
Lui li osservava con i suoi occhi miopi, li interrogava cercando di capire. Non li considerava come certi suoi colleghi, nemici della società, e in alcuni trovava una forza di carattere che lo metteva in soggezione e che a se stesso non riconosceva.
Di lì a poco, spossato dopo una notte quasi insonne, si sarebbe trovato davanti René Mauvis, i polsi stretti nelle manette. E come ogni giorno da due settimane, nel corridoio si sarebbe accalcata una folla di giornalisti e di fotografi.
La sera non poteva neanche rimandare Mauvis alla Santé, c’era il rischio che la folla gli facesse fare una brutta fine, e così lo teneva in una cella nei sotterranei del Palazzo di Giustizia.
Che cosa sapeva, lui, di Mauvis? Fino all’età di trentadue anni era stato un impiegato modello, un individuo sbiadito, in una banca dei Grands Boulevards, e abitava da solo in un appartamento di tre stanze in rue de Turenne, vicino a place des Vosges.
Mauvis era scapolo. La portinaia non lo aveva mai visto rientrare con una donna e i colleghi avrebbero giurato che non aveva un’amichetta.
Sembrava nutrire una sola passione: il biliardo. Giocava due o tre sere alla settimana in un caffè di boulevard Beaumarchais.
Era accusato di aver strangolato due ragazzini, a sei mesi di distanza l’uno dall’altro, nella foresta di Saint-Germain, dove lui sosteneva di non aver mai messo piede.
«Perché non prendi un giorno di ferie e non ti riposi? Al sabato ci sei quasi solo tu in tribunale».
Proprio così. Era autorizzato a condurre l’istruttoria come gli pareva, di fissare il giorno e l’ora degli interrogatori. Era tentato di prenderselo, quel giorno di riposo. L’indomani, anzi quel giorno stesso, doveva avere un colloquio con Antoine, forse anche con Bernard, se fosse tornato dal Midi.
«Hai fame?».
«No».
«Vuoi una pastiglia?».
Erano quelle che prendeva per dormire.
«Non credo di averne bisogno... Buonanotte...».
Si scambiarono un bacio. Un gesto rituale, prima di mettersi a dormire ognuno dalla sua parte. Erano abituati l’uno all’odore dell’altro, all’odore della loro coppia, ed erano persino arrivati a respirare allo stesso ritmo.
Il padre era morto. Ferdinand lo vedeva sì e no una volta al mese, quando faceva una capatina al bistrot per bere un caffè al banco.
«Pranzi con noi?».
Qualche volta cedeva alla tentazione di ritrovare il sapore della cucina di un tempo, ma perlopiù rifiutava perché non lo lasciavano pagare.
Il padre era morto e improvvisamente c’era un grande vuoto.
3
Antoine si vestiva nella semioscurità, badando a non far rumore. Sapeva che Fernande lo sentiva ugualmente, ma evitava di parlarle per non scuoterla del tutto dal sonno.
Di lì a un mese, quando lui si sarebbe avviato verso le Halles, avrebbe cominciato a fare giorno. In piena Parigi, Antoine seguiva il succedersi delle stagioni come in campagna, in base al sorgere del sole.
Si era infilato un maglione a collo alto e una vecchia giacca di pelle nera. Al primo piano aprì di uno spiraglio la porta dell’appartamento dei genitori: la signora Ledru dormiva sul divano del salotto. La fiamma dei ceri baluginava nella camera in cui Auguste era solo di fronte all’eternità.
Non c’era stata una veglia funebre. Nessuno aveva fatto compagnia al morto e Antoine si sentiva un po’ colpevole.
In rue Pierre-Lescot l’odore degli ortaggi impregnava già l’aria e una luce particolare illuminava la massa di omini neri che brulicava nei padiglioni di ferro intorno a cataste di cibarie.
Quasi tutti erano lì dalla sera prima. L’alba era fredda e alcune donne sbattevano le braccia per scaldarsi. Nei bar era un continuo servire caffè, vino bianco e alcolici, come una volta all’Auvergnat.
«Salve...» mormorava passando.
I nomi non li sapeva tutti, ma le facce gli erano familiari.
«Salve, Antoine...».
Gli rispondevano così soprattutto i vecchi che lo avevano conosciuto bambino, quando accompagnava suo padre. Ce n’erano anche alcuni, del quartiere, con i quali aveva giocato per strada.
Gli altri dicevano più rispettosamente:
«Salve, signor Antoine...».
Una fruttivendola sdentata, che indossava una giacca da uomo su due o tre maglioni, gli chiese:
«Allora, è vero?».
«È vero, sì, mia povera Berthe».
«Me l’aveva sempre detto che doveva morire davanti al suo bancone...».
Vide le prime fragole in graziosi cestini di paglia intrecciata, e dopo averne trattato il prezzo ne comprò una ventina.
«Glieli farò mandare fra poco da Nestor. Ho anche delle pesche, ma certo non sono nostrane...».
Continuò per la sua strada, prima tra le piramidi di frutta e verdura che s’innalzavano nelle vie, poi lungo i viali dei padiglioni.
Aveva i suoi fornitori. Gli occorrevano dei fiori per i tavoli e scelse degli anemoni, poi tornò sui propri passi e comprò diversi mazzi di crisantemi per la camera ardente.
Adesso il buio era meno fitto e le grosse lampade cominciavano a impallidire sopra le teste. A mano a mano che procedeva, combinava mentalmente i menu, in modo quasi meccanico.
«Ho saputo del suo povero papà...».
Oppure:
«Chi l’avrebbe mai detto che il vecchio Auguste se ne andava all’improvviso! Ma forse è meglio così... Orgoglioso com’era del suo fisico, si sarebbe vergognato di essere malato...».
La voce si era sparsa in tutto il piccolo universo delle Halles e anche quelli che non gli dicevano niente gli rivolgevano uno sguardo più insistente del solito.
Di lì a poco avrebbe dovuto occuparsi del funerale. Non voleva prendere decisioni prima di consultare i due fratelli. In passato avevano trovato comodo che Antoine fosse rimasto con i genitori, perché questo li alleggeriva di una bella responsabilità.
Adesso che Auguste era morto, non avrebbero visto di buon occhio che il fratello agisse come da una posizione privilegiata.
Già all’inizio della notte precedente aveva intuito che aria tirava. Persino Nicole, che non era propriamente una della famiglia, era accorsa a difendere i diritti di Bernard.
Quanto a Ferdinand, il suo atteggiamento non era stato chiaro e probabilmente al momento giusto non si sarebbe schierato dalla parte di Antoine.
Eppure, dei tre fratelli, Antoine era stato il più sfortunato, visto che aveva perso ben quattro anni in un campo di prigionia in Pomerania.
Per via della miopia Ferdinand non aveva fatto il servizio militare e aveva trascorso gli anni della guerra a La Rochelle, dove era appena stato nominato giudice.
Quanto a Bernard, si era ritrovato libero dopo aver passato sei mesi in divisa lontano dal fronte.
Non era stato Antoine a proporre al padre di restare con lui. Avrebbe potuto lavorare ancora qualche anno alla Brasserie de Strasbourg o da qualche altra parte, a mettere da parte il denaro sufficiente a stabilirsi in un qualsiasi quartiere. Era un gran lavoratore e conosceva il mestiere.
Forse aveva accettato di restare affinché in rue de la Grande-Truanderie ci fosse sempre un Mature. Gli altri due, già da adolescenti, avevano una gran voglia di andarsene. Lui no. E non era, come si sarebbe potuto credere, per paura del futuro.
Si sentiva bene nel piccolo ristorante impregnato di buoni odori, a cui aveva pensato tanto quando, in Germania, si chiedeva se avrebbe visto la fine della guerra.
Suo padre gli mandava pacchi, sua madre cartoline piene di errori, alle quali rispondeva senza mai confessare il suo sconforto, né soprattutto gli attacchi periodici di dissenteria.
«Allora, resti?».
«Resto» aveva risposto sorridendo.
Quel giorno era accaduto qualcosa di imprevisto. Stavano tutti e due, verso le sette del mattino, sulla soglia del locale. Era maggio. La primavera era particolarmente bella.
Fino a un attimo prima, erano ancora un padre e un figlio che, l’uno accanto all’altro, guardavano il viavai della strada, ma dal momento in cui Antoine aveva dato la sua risposta, i rapporti fra i due uomini erano cambiati. Nel modo più naturale erano diventati soci, in un certo senso complici, e la differenza di età non esisteva più.
«Credi anche tu che è il momento giusto per ingrandire?».
«Bisogna approfittare al più presto della nuova clientela...».
«Tra poco si libera l’appartamento del primo piano: i Meyer tornano in Alsazia...».
Per loro, i Meyer, gli Chave, la piccola signora Brossier, i Maniage, i Gagneaux, gli Allard, Justine e Bertha, e cento altri ancora non erano soltanto nomi, erano volti, persone vive che a un certo momento erano entrate a far parte della loro esistenza.
Alcuni ne erano usciti quasi senza lasciare traccia; altri erano ancora vivi, e quella mattina salutavano il figlio del vecchio Auguste con aria grave.
Per loro, lui ne era l’erede. Per loro, ma non per i suoi fratelli, né per sua cognata, né per Nicole.
Non potevano neanche capire com’erano andate le cose. Dapprima, mentre discutevano i vari progetti di ampliamento, Antoine aveva sostituito la madre ai fornelli e cercato di aggiungere nuove pietanze alle specialità della casa.
I clienti si abituavano alla sua presenza. Con in testa la toque bianca da cuoco, andava a stringere loro la mano quando il padre glielo chiedeva.
«Vieni un momento, il signor Bicard vuole conoscerti...».
Si puliva le mani nel grembiule e Auguste, indicando la sua figura prestante, diceva fiero:
«Mio figlio Antoine, che adesso è mio socio».
In realtà, non si poteva ancora parlare di una vera e propria società. Suo padre gli dava il denaro che gli serviva, come quando era ragazzo.
«Quanto prendevi alla Brasserie de Strasbourg? Ti offro il doppio...».
Era accaduto diversi mesi dopo che aveva cominciato a lavorare lì dentro, e i suoi fratelli, a quell’epoca, non vedevano la cosa di mal occhio.
La vetrata fra la seconda sala e la cucina era stata un’idea sua, dopo che un amico gli aveva parlato di un’installazione simile in un ristorante di Milano.
Joseph, che lavorava già nel locale prima della guerra, aveva esclamato, beffardo:
«I clienti avranno l’impressione di essere al teatro del Grand Guignol...».
E così, da allora chiamavano Guignol o Senato la seconda sala. La prima, con il suo bancone e i vecchi tavolini di marmo, era stata battezzata, in ragione del suo passato: le Pulci.
«Tu occupati delle Pulci, io servo al Guignol...».
Naturalmente, i clienti erano all’oscuro di tutto questo, così come non conoscevano i nomignoli che il vecchio Joseph aveva affibbiato ad alcuni di loro.
Un ministro, che veniva a mangiare almeno una volta alla settimana, sarebbe stato sorpreso di scoprire che lì lui diventava La Capoccia, e a una delle donne più glamour del Tout-Paris sarebbe venuto un colpo se avesse saputo che in rue de la Grande-Truanderie la chiamavano volgarmente La Galoche.
Quando aveva incontrato Fernande, Antoine viveva ancora dai genitori, come un dipendente. La madre, al primo piano, si occupava della casa, e lui dormiva nella camera riservata poi alla signora Ledru.
Fernande era giovanissima, e sembrava fragile, smarrita in un mondo che le era del tutto incomprensibile. Sbarcata da pochi mesi dal suo paesino bretone, dopo qualche serata in sala da ballo di rue de Lappe si era ritrovata sul marciapiede di boulevard de Sébastopol.
Antoine ci mise un po’ a capire che l’amava, e solo a quel punto le fece cambiar vita e le prese una camera in un albergo della rue Étienne-Marcel, dove la raggiungeva tutte le notti.
Poiché era il solo rimasto con i genitori, sua madre non si rendeva conto che era diventato un uomo e vedendolo dormire fuori si preoccupava.
«Dovresti sposarti, Antoine... Nel quartiere ci sono tante brave ragazze... Non ti mancherebbero le occasioni... Sono sicura che Marie Chaussard...».
Gli Chaussard erano i loro vicini. Macellai. Il padre era arrivato a Parigi nello stesso periodo di Auguste e i due si erano messi in proprio a un anno di distanza l’uno dall’altro.
Marie era fresca, grassottella, come la maggior parte delle donne che vivono in una macelleria, cosa che Antoine aveva notato spesso ma non se ne spiegava il perché.
Aveva qualche anno meno di lui. Il fratello, Léon, lavorava con il padre e fin dalle sei del mattino, quando il negozio era ancora chiuso, sezionava gli animali macellati.
Tre anni dopo Antoine non aveva sposato Marie Chaussard ma Fernande, causando in sua madre grandi crisi di pianto. Poi aveva aspettato che si liberasse l’appartamento del secondo piano e vi si era trasferito.
I suoi fratelli avevano visto quella vita solo dal di fuori e non ne sapevano quasi niente. Per loro, Antoine aveva sposato una donnaccia da cui si era lasciato abbindolare.
Col tempo, erano stati costretti a riconoscere che la donnaccia non era poi una cattiva moglie.
Antoine, da parte sua, rimpiangeva una cosa soltanto: non poter avere figli per via di una malattia venerea che Fernande si era presa poche settimane dopo il suo arrivo a Parigi e che aveva comportato un drastico intervento chirurgico.
Non perdonava ai medici di averla letteralmente massacrata; quanto a lei, continuava a soffrirne e dopo tanti anni si vergognava ancora di fargli vedere il ventre.
«Così è la vita...» come diceva François, il cameriere dai capelli rossi che aveva trentacinque anni, cinque figli e un sesto in arrivo.
Lui si sarebbe accontentato di averne un paio, tre al massimo.
Per far posto a quella banda di marmocchi era andato ad abitare a Romainville, vicino alle cave.
«Così è la vita...».
Adesso, la donnaccia di un tempo saliva diverse volte al giorno a prendersi cura della suocera che neppure se ne rendeva conto. Raggomitolata nella poltrona o nel letto, l’anziana donna viveva come in sogno e chissà quali forme assumeva ai suoi occhi il mondo circostante.
A volte sorrideva vagamente, come i neonati, o si aggrappava al braccio della signora Ledru quando l’assaliva una misteriosa paura.
Sembrava immateriale tanto era diventata magra. Viveva in un mondo tutto suo e non riconosceva nessuna delle persone che le stavano intorno.
Di lì a poco, Jojo, lo scemo delle Halles dalle mani gigantesche, avrebbe consegnato al ristorante le cassette e i sacchetti di Antoine. Lui, intanto, arrivava in rue de la Grande-Truanderie e, passando per la porticina, entrava da Léon Chaussard.
Léon aveva due anni più di lui ed era proprietario di quattro macellerie in città. Anche lui aveva tenuto il padre con sé, e a ottantatré anni il vecchio faceva ancora ogni mattina il suo giro tra i padiglioni delle Halles.
Al pomeriggio, quando un raggio di sole illuminava il marciapiede davanti alla macelleria, si sistemava su una sedia e se ne stava lì un paio d’ore a fumare lentamente la pipa osservando i passanti.
«Che cosa mi consigli, oggi?».
«Ho le animelle di vitello, belle e a un ottimo prezzo...».
«Mettimene da parte quindici porzioni... Costolette di agnello ne hai?».
«Non come piacciono a te...».
Antoine tastava le carni, sceglieva e modificava via via i menu.
«È successo davvero in pieno ristorante?».
«Sì...».
«Ha capito che stava morendo?».
«Non lo so... È caduto, e subito dopo sembrava aver perso conoscenza... Un occhio era chiuso e faceva fatica a respirare... Chissà se in quei casi si ragiona ancora... Il dottor Patin dice di no...».
«Tua madre lo sa?».
Antoine si strinse nelle spalle.
«Conosci il suo stato...».
«In fondo, per lei è meglio così...».
Forse anche per Auguste, che non sarebbe stato costretto a seppellire sua moglie. Da quando erano sposati non l’aveva lasciata neanche una notte, e persino negli ultimi tempi, quando lo guardava come un estraneo o un animale domestico, andava spesso a sedersi di fronte a lei nella speranza di poter riprendere il filo di chissà quale colloquio.
«I tuoi fratelli sono venuti?».
«Solo Ferdinand... Bernard è in giro e non siamo riusciti ad avvertirlo...».
Léon aveva due sorelle, una era quella Marie che avrebbero voluto fargli sposare. Si erano poi sposate entrambe, Marie con un impiegato delle imposte, e quando aveva preso in mano l’azienda del padre Léon aveva dovuto vedersela con i due cognati.
«Cosa ha detto Ferdinand?».
Non avevano bisogno di tante parole, si capivano immediatamente.
«Ha parlato soprattutto Nicole...».
«Alla fine si sono sposati?».
«No, ma è come se lo fossero... La notte scorsa lei mi chiedeva di vedere i conti e parlava come una della famiglia...».
«Ma tu hai tutto in regola...».
«Ho solo una lettera di mio padre, nella quale dichiara che sono suo socio...».
«Firmata davanti a un notaio?».
«No, neanche... Mio padre si è consigliato con quello che chiamava il suo legale, una specie di consulente giuridico che aveva un piccolo studio in rue Coquillière...».
«Lo conosci?».
«L’ho visto un paio di volte, quando è venuto a mangiare al ristorante... Parecchio tempo fa... Un tipo sporco e male in arnese sempre con una grossa cartella di pelle nera... Jason, credo... Sì, Ernest Jason...».
«È avvocato?».
«No... Per quel che ne so, è un ex ufficiale giudiziario che ha avuto delle noie... Mio padre si fidava ciecamente di lui perché la sua famiglia era di Riom...».
«Credi che i tuoi fratelli ti obbligheranno a vendere o a ricomprare la loro parte?».
«Da loro mi aspetto di tutto... Specie dalle due donne... Stanotte mia cognata, che si è sempre rifiutata di avere rapporti con Nicole, si è schierata dalla sua parte...».
«Ti consiglio di non fare niente senza sentire un buon avvocato, uno serio, che s’intenda di proprietà commerciali...».
Non si strinsero la mano; si conoscevano da troppo tempo.
«Ciao, Léon...».
«Buona fortuna...».
Erano le sette passate. All’Auvergnat le imposte erano aperte e Jules, col grembiule da lavoro e le maniche rimboccate, aveva messo in funzione la macchina del caffè.
Sul bancone, un cestino di croissant caldi accanto a una piramide di uova sode in una gabbietta di fil di ferro.
«Salve, capo...».
Antoine girò intorno al bancone per farsi un caffè, mangiò tre croissant e, dopo una certa esitazione, un uovo sodo. A un tavolo, due venditori di ortaggi avevano tirato fuori di tasca grosse fette di pane imburrato e ci bevevano sopra del vino bianco.
«Mia moglie è scesa?».
«Non ancora».
«Telefonate?».
Era l’ora in cui Antoine saliva a farsi una doccia e a cambiarsi. Poi, quando sarebbe arrivato lo chef, avrebbero deciso insieme il menu di mezzogiorno e quello della sera.
Cambiavano soltanto due o tre piatti, che venivano scritti in rosso sulla lista. Gli altri piatti, dagli insaccati a quella sorta di sformato freddo chiamato flangarde, restavano invariati.
«Hanno consegnato il pane?».
Aveva appena visto che in vetrina erano rimaste solo tre pagnotte.
«Se arriva mio fratello, avvertimi».
«Il giudice?».
Per tutti, anche per la famiglia, Ferdinand era «il giudice».
«Mio figlio, il giudice...» diceva il vecchio Auguste ancora il giorno prima.
Ne andava orgoglioso. Anche se non avevano per così dire niente in comune, quello era pur sempre il figlio diventato magistrato.
Antoine invece era come lui. Si capivano. Avevano lo stesso genere di vita, lo stesso modo di pensare, vivevano in mezzo allo stesso tipo di persone.
A volte, quando Auguste si concedeva un bicchiere al tavolo di qualche vecchio cliente, suo figlio sussurrava:
«Ricordati di cosa ti ha detto il dottore...».
«Ci ho giusto bagnato il becco... Non posso certo rifiutarmi di brindare con un amico...».
Di Antoine aveva soggezione. Quando lo guardava, da lontano, mentre aveva in mano un bicchiere, Auguste si sentiva a disagio. E qualche volta barava, andava a versarsi un po’ di vino al bancone, approfittando di una breve assenza di Jules e pensando di non venir scoperto.
Non era stata Fernande a spingere Antoine a parlare con chiarezza a suo padre. L’idea era stata dello stesso Antoine, che aveva dovuto farsi coraggio come se stesse commettendo una cattiva azione.
«Dobbiamo fare un discorso serio, papà...».
Parole già di per sé quasi inconcepibili in una casa dove la vita si svolgeva in modo naturale, senza complicazioni, senza problemi seri.
«Di che si tratta, figliolo?».
Erano circa le undici del mattino, un’ora morta, ed erano seduti a un tavolo del Guignol. Al di là della vetrata si vedevano Julien Bernu e l’aiuto cuoco che si davano da fare. Ancora non c’era Arthur, che aveva solo diciassette anni, né era stata ancora assunta la grossa Louise per pelare le verdure.
«Ho trent’anni compiuti... Sono sposato... Potrei essere padre di famiglia...».
«Tua moglie è incinta?».
«No... Il dottore dice che non può avere figli...».
«È di questo che vuoi parlarmi?».
«Voglio parlarti della mia posizione nella nostra azienda...».
«Capisco» aveva detto Auguste, oscurandosi in volto. Aveva interrotto il figlio con un gesto della mano:
«Se fossi al tuo posto, agirei anch’io così... È normale che tu pensi al futuro...».
«Sono felice di lavorare con te...» mormorava Antoine chinando la testa. «Ma supponi...».
«Sì, supponiamo che io passi a miglior vita... I tuoi fratelli pretenderebbero la loro parte del ristorante del quale non si sono mai minimamente occupati...».
Auguste si era quindi acceso uno di quei piccoli sigari neri che fumava ogni tanto.
«Hai ragione... Dobbiamo sistemare questa faccenda... Dovrò chiedere informazioni al mio legale...».
Non aveva proposto di parlarne con Ferdinand, e sì che, nella sua mente, il termine «legale» comprendeva tanto gli avvocati, i giudici, i notai, quanto gli uscieri e i procuratori.
Di quella conversazione, che si era svolta diciassette anni prima, Antoine misurava per la prima volta le conseguenze.
Padre e figlio erano rimasti settimane senza tornare sull’argomento. Poi, un pomeriggio, quando Antoine era sceso dopo la siesta, Auguste gli aveva allungato una busta.
«Leggi questo foglio, poi mi dirai se basta così...». Antoine era risalito in camera sua per leggerlo quasi furtivamente.
«Che cos’è?» aveva chiesto Fernande.
«Un documento... roba d’affari...».
«Qualche grana?».
«Il sottoscritto Auguste-Victor-André Mature, nato a Saint-Hippolyte, Puy-de-Dôme, il 25 luglio 1887...».
Antoine rilesse la data due volte. Come gli sembrava lontano!
«... proprietario di un locale denominato Chez l’Auvergnat, sito in rue de la Grande-Truanderie...».
Suo padre aveva ricopiato diligentemente un testo che era stato scritto per lui e nel quale dichiarava che in cambio dei fondi investiti nell’affare da suo figlio Antoine e del lavoro da lui svolto, il ristorante apparteneva ormai in parti uguali a loro due, e anche gli utili, calcolati in base all’accertamento annuale, dovevano essere divisi in parti uguali.
Qualche giorno dopo Antoine aveva fatto vedere quel documento a Ferdinand.
«Che cosa ne pensi?».
«Chi lo ha redatto?».
«Un tale che papà conosce e del quale si fida. Perché mi fai questa domanda? C’è qualcosa di non corretto?».
«Non è un granché, ma in fondo ci si può accontentare... Hai messo davvero dei soldi nell’affare?».
«Tutti i miei risparmi...».
Ferdinand lo aveva guardato con un’espressione ironica.
«Beato te, che hai potuto mettere qualcosa da parte... Si vede che non hai figli...».
«Devo parlarne con Bernard».
«Così verrà più spesso a spillarti quattrini...».
Com’era volato il tempo! Sembrava che quelle conversazioni avessero avuto luogo il giorno prima, eppure nel frattempo il ristorante aveva ottenuto due stelle Michelin; Marie-Laure, che avrebbe potuto essere sposata e madre di famiglia, si era emancipata e gestiva una piccola azienda, Auguste era morto e la loro madre non faceva più parte, praticamente, del mondo dei vivi.
Chissà se Antoine aveva fatto bene a controfirmare quel foglio che un pomeriggio suo padre gli aveva teso, serio in volto, forse a malincuore...
Un’ora dopo, quando Antoine tornò giù, mezza dozzina di clienti stavano in piedi davanti al bancone e altri sedevano a diversi tavoli. Era la clientela del mattino, quella delle Halles e del vicinato. Naturalmente tutti parlavano di quello che era successo la sera prima, e all’ingresso di Antoine calò di colpo il silenzio.
«Mio fratello non è ancora arrivato?» domandò stupito a Jules, che stava sciacquando dei bicchieri.
«È salito al primo piano...».
Antoine, rasato di fresco, con indosso il completo scuro che era solito portare, salì al primo piano e aprì la porta che non veniva mai chiusa a chiave affinché la signora Ledru non fosse inutilmente disturbata. Del resto, a che sarebbe servito chiudere?
Sua madre era già stata sistemata nella poltrona accanto alla finestra, e le tendine di mussola erano tirate affinché potesse avere una vista della strada.
La signora Ledru aveva trovato il tempo di lavarsi e vestirsi e le dava la colazione inzuppando pezzettini di pane imburrato in un uovo alla coque e avvicinando poi l’orlo del cucchiaio alle labbra dell’anziana donna.
«Se sta cercando il signor Ferdinand, è là in fondo...».
Antoine lo trovò dritto in piedi alla base del letto in cui giaceva suo padre e ai lati del quale erano stati accesi due nuovi ceri.
Ferdinand stava immobile, fissava il volto del morto, al quale era stata tolta la benda intorno alla testa, e sembrava pregare. Pregava davvero? Véronique, che non mancava mai alla messa della domenica e il venerdì mangiava di magro, lo aveva convertito?
I due fratelli restarono un bel po’ in piedi, in silenzio, guardando nella stessa direzione, e forse, in quel breve lasso di tempo, ritrovarono qualcosa di ciò che li aveva legati da bambini.
Ferdinand si diresse per primo verso la porta. Antoine lo seguì. Nessuno dei due indugiò nel salotto buio, dove si sentivano a disagio. Scesero, e sedettero a un tavolo della seconda sala, che era vuota.
«Véronique non ti ha accompagnato?».
«Mi ha lasciato davanti alla porta. Visto che si trova nel quartiere, ne approfitta per fare un po’ di spesa alle Halles...».
Evidentemente aveva voluto lasciare soli i due fratelli, a meno che non fosse stato lo stesso Ferdinand a chiederglielo.
«Notizie di Bernard?».
«Non ancora...».
«Credi davvero che Nicole non sappia dov’è?».
«Con lei è difficile dirlo...».
Per Ferdinand, Bernard era una grossa preoccupazione, data la sua brutta abitudine di impegolarsi in affari poco puliti, e più di una volta gli era capitato di firmare assegni scoperti. Il padre o uno dei fratelli lo avevano sempre tirato fuori dai guai, ma il giorno in cui questo non fosse stato possibile Ferdinand, in quanto magistrato, si sarebbe trovato in una situazione molto delicata.
«Com’era, l’ultima volta che lo hai visto?».
«Vestito all’ultima moda, aria allegra e trionfante. Stava mettendo su una società per la vendita all’estero di programmi televisivi...».
Bernard passava per periodi di euforia durante i quali era in gran forma, si atteggiava a importante uomo d’affari e sosteneva di essere in società con personaggi noti dei quali, a sentir lui, era intimo.
«Ieri, a cena, il ministro mi diceva...».
Il bello è che qualche volta era vero. Lo si vedeva da Fouquet’s, da Maxim’s, al Berkeley e, la sera, nei nightclub alla moda.
La domenica riusciva a farsi invitare in certe tenute di Seine-et-Oise o dell’Eure, e perlopiù girava in automobile. Era sua o se l’era fatta prestare da un amico?
«Ci credi, tu, a quel progetto?» chiedeva Antoine, che considerava sempre con un certo rispetto le opinioni del fratello maggiore.
«Come agli altri...».
Qualche settimana dopo, il grande affare era sfumato e vedevano arrivare un Bernard profondamente abbacchiato, la faccia tirata, lo sguardo sfuggente.
«Senti, Ferdinand, devi tirarmi fuori dai guai, per l’ultima volta... Con cinque bigliettoni, posso recuperare una forte somma di denaro e ti rimborserò... Comunque, hai sempre in garanzia la mia parte di eredità...».
Forse non era del tutto colpa sua... Quando era stato smobilitato, subito dopo l’invasione, aveva scoperto come far soldi grazie al nascente mercato nero.
Procurava un barile di chiodi a un ferramenta di provincia ricevendone in cambio dei prosciutti che rivendeva a caro prezzo. Mancava tutto. Tutto era oggetto di speculazioni. Si trattava solo di sapere dove procurarsi una qualsiasi merce, che diventava così moneta di scambio.
Nei bar che frequentava stava con le orecchie tese, approfittando di ciò che riusciva a intercettare per fare da intermediario in grossi traffici.
«E allora?» diceva. «Cosa faccio di male? Forse che mio padre non traffica anche lui? Se non ci fosse chi si dedica al mercato nero, a Parigi sarebbero tutti morti di fame da un pezzo...».
Ed era proprio di Bernard che Ferdinand voleva parlare.
«Troverei strano che non lo vedessimo arrivare oggi stesso. Nicole gli avrà certo già parlato della successione...».
«Che ci posso fare se papà non ha lasciato un testamento...».
«Bernard non lo crederà...».
«E tu?».
«Forse non abbiamo cercato bene... Può averlo lasciato da un notaio o messo in una cassetta di sicurezza in banca... Tu che vivevi con lui devi sapere se qualche volta andava in banca, nel qual caso dev’essere una banca del quartiere...».
Antoine taceva, non sapeva che cosa rispondere, assumeva un’aria colpevole pur sentendosi innocente.
«Quando gli versavi la sua quota dei profitti?».
«Verso la fine di gennaio, dopo l’inventario...».
«Era una grossa cifra?».
«Abbastanza grossa, sì...».
«Gli facevi un assegno?».
«No. Gli davo contanti. Qui, alle Halles, si tratta solo con denaro contante. I rappresentanti, i grossisti, i rivenditori hanno sempre le tasche piene zeppe di banconote...».
«Ha avuto la sua parte a fine gennaio?».
«Ai primi di febbraio... Esattamente il 3 febbraio...».
«Che cosa ne ha fatto?».
«E chi lo sa... È salito in casa...».
«Lassù non abbiamo trovato denaro...».
«Forse perché non si è cercato abbastanza, come dici tu... Siamo in marzo... Ha avuto tutto il tempo di portare i soldi da un’altra parte...».
«Ti ha mai detto se comprava case?».
«Non mi diceva niente, e io non potevo certo fargli domande del genere... Avresti osato chiedergli conto di qualcosa, tu?...».
Ferdinand dovette riconoscere che no, non avrebbe osato. Anche se Auguste invecchiava, se a volte era di un’ingenuità disarmante, restava pur sempre il capofamiglia, e a quel ruolo teneva più di ogni altra cosa.
«Mi è venuta un’idea, poco fa, parlando con Léon...».
«Il macellaio?».
«Sì... Gli dicevo del foglio che papà mi ha firmato in passato... Non era farina del suo sacco... Lui ha semplicemente ricopiato un testo che era opera di qualcun altro... Credo di sapere chi è... È un certo Jason, Ernest Jason, che all’epoca aveva un ufficio in rue Coquillière... È venuto a mangiare qui un paio di volte... Era già allora un uomo di mezza età, dal colorito giallastro... Non so che fine ha fatto, ma vedrò di informarmi...».
«Sarebbe meglio rintracciarlo prima che arrivi Bernard...».
Strano, quel timore che avevano tutti e due, soprattutto Ferdinand, del fratello minore, quello un po’ scapestrato.
«Quando sarà il funerale?».
«Non ci ho ancora pensato... Diciamo martedì?...».
«In questo caso, che sia di buon’ora, perché ho una giornata strapiena in tribunale...».
«Comunque, non si può cominciare prima delle nove...».
«Ci sarà una messa, suppongo...».
«Me ne occuperò questa mattina. Prima devo vedere quelli delle pompe funebri...».
«Manderai delle partecipazioni?».
Ferdinand scaricava tranquillamente sul fratello tutte quelle piccole incombenze.
«Per forza...».
«Non potrai metterci il nome di Nicole...».
«S’intende...».
«Un’altra domanda... Non te la faccio per interesse personale... Quanto può valere, in nuovi franchi, il ristorante?».
«Dipende... La decisione d’installare i mercati generali a Rungis è definitiva... Butteranno giù la maggior parte delle vecchie case... È il destino di questa e, probabilmente, di tutta la strada... Le cose andranno per le lunghe: burocrazia, formalità... ma possiamo prevedere che entro tre anni del quartiere non ci sarà più traccia...
«Perciò, in tre anni al massimo il nuovo proprietario dovrebbe recuperare il suo denaro... In tali condizioni, non ne caveremmo più di centomila nuovi franchi...».
Ad Antoine, che maneggiava fior di banconote dalla mattina alla sera, quella cifra sembrava molto bassa. Davanti alla reazione involontaria di Ferdinand si rese conto che per suo fratello non era così.
«A giudicare da quello che mi dici, immagino che negli ultimi anni tu abbia versato a nostro padre più di cinquecentomila franchi...».
«Probabilmente possedeva quasi un milione...».
«Bernard vorrà vedere i libri...».
«E io glieli mostrerò».
«Davanti a quelle cifre andrà su tutte le furie...».
«Che cosa ci posso fare?».
Ferdinand diede un’occhiata al suo orologio, si alzò.
«Mia moglie dev’esser giù che mi aspetta in macchina... Ti lascio, devi occuparti del funerale...».
E, indicando il soffitto:
«Spero di venire a vederlo domani, che è domenica, con i ragazzi...».
Quando stava per uscire, non poté trattenersi dal lanciare ad Antoine un’occhiata di ammirazione, sussurrando con fare scherzoso:
«Di’ un po’, sei ricco, tu!».
«Lavoro...».
«Anch’io lavoro...».
La vecchia Renault era parcheggiata un po’ più in là nella strada, con Véronique al volante.
«L’ha trovato, il testamento?».
«No, ma credo che non l’abbia cercato bene. Mi ha parlato di un tizio con cui mio padre aveva rapporti d’affari in passato... Sa soltanto che abita in rue Coquillière...».
Impregnata dell’odore delle verdure e dei fiori che Véronique aveva comprato, la macchina s’infilava tra i camion.
Ferdinand si rendeva conto che non era il caso di parlare di cifre a sua moglie, ma non poté trattenersi:
«Prova a indovinare quanto Antoine ha versato a nostro padre da quando si sono messi in società».
«Non ne ho la minima idea... Molto?...».
«Circa un milione...».
«Di vecchi franchi?».
«Di nuovi!...».
«Di conseguenza anche Antoine sarebbe in possesso di un milione?».
«Così sembrerebbe...».
«Dovremmo quindi ereditare più di trecentomila franchi?... Senza contare la quota del ristorante che ci spetta...».
Si guardavano increduli, divisi tra gioia e sgomento. Per loro, abituati a lesinare il centesimo, quelle erano cifre vertiginose.
Si sarebbero vergognati di abitare in rue de la Grande-Truanderie, che al mattino era impregnata degli odori delle Halles e dove, nel pomeriggio, stagnava un’aria di miseria. Né si sarebbero rassegnati a salire diverse volte al giorno la scala buia e tarlata, a vivere in locali che, per quanto rimodernati, facevano tanto piccolo bottegaio. La macelleria da una parte, un’angusta merceria dall’altra, e chiasso tutta la notte.
Ma Antoine aveva messo insieme un milione!
«Credi che li troveremo, questi soldi?».
«Da qualche parte devono pur essere...».
«Tu che lo conosci, dovresti avere un’idea di cosa tuo padre ha potuto farne...».
«Durante la guerra mi ha confidato che comprava oro. So che lo teneva in casa, ma non mi ha mai detto dove... Non ho idea se abbia continuato a comprarne... È possibile... Ed è anche possibile che abbia comprato case... Sono gli investimenti preferiti da quelli come lui...».
Erano arrivati al Palazzo di Giustizia e Ferdinand, di nuovo in veste di giudice, si precipitò, preoccupato, verso la grande scalinata tenendo stretta la sua cartella. All’usciere, stupito di vederlo in ritardo, buttò là:
«È morto mio padre...».
E l’usciere si domandò se doveva porgergli la mano per fargli le condoglianze.
«Mandi qualcuno a prendere Mauvis...».
Doveva smetterla di pensare a quel milione che gli aveva fatto l’effetto di un pugno nello stomaco. Non aveva mai invidiato nessuno, men che meno suo fratello, benché fosse più alto, più giovane, più prestante di lui.
Ed ecco che una semplice cifra, pronunciata con la massima naturalezza, faceva improvvisamente di Antoine una persona diversa.
Fino a quella mattina Ferdinand, in quanto primogenito, si era considerato un po’ come il capofamiglia. Era il più intelligente, il più istruito, e gli sembrava di aver avuto più successo degli altri.
Certo, Antoine aveva una macchina più lussuosa della sua e in agosto, quando chiudeva il ristorante, andava con Fernande a Venezia, in Grecia, in Spagna, o in altri bei posti.
Aveva pronto davanti a sé un corposo fascicolo. Tra qualche minuto al suo cospetto ci sarebbe stato un ometto scialbo che lavorava in una banca per mille franchi al mese.
Improvvisamente, Ferdinand si sentiva sminuito. Antoine aveva evocato quei fasci di banconote che passano di mano in mano come una comunissima merce. Ricordava gli sguardi incantati che gettava, da bambino, ai venditori delle Halles che tiravano fuori di tasca malloppi simili quando bevevano il caffè corretto al bancone.
Non immaginava che Antoine fosse diventato come loro.
«Il commissario Brabant ha telefonato?».
«È sulle tracce di un altro testimone, ma oggi ha paura di non poterlo contattare per via del weekend...».
Se avessero trovato il milione del padre, lui avrebbe dato le dimissioni? Ci pensava seriamente, suo malgrado, mentre temperava la matita.
No! Prima di tutto, la somma eventualmente percepita non sarebbe bastata per vivere. Meglio aspettare il pensionamento e riscuotere la pensione completa.
E poi, che cosa avrebbe fatto tutto il giorno in casa? Non aveva hobby. Non lo appassionava il bricolage. Non aveva mai fatto collezione di qualcosa. Non andava né a pesca né a caccia.
Quasi ogni sera si portava a casa qualche pratica da esaminare mentre Véronique leggeva o guardava la televisione nella stanza accanto.
E a pensarci bene, come avrebbe passato il tempo, una volta in pensione? Avrebbero venduto l’appartamento, che era già diventato troppo grande e che gli costava tanto?
Per andar dove? In campagna? A nessuno dei due piaceva la campagna. Bastava una vespa a mandare in panico sua moglie, che non aveva mai voluto organizzare un picnic con i bambini tanto le faceva orrore sedersi nell’erba.
Avrebbe letto, d’accordo. Avrebbe fatto delle passeggiate.
Di colpo si sentiva come nudo, vulnerabile. Credeva di essersi organizzato una vita normale, appagante, addirittura invidiabile, e si accorgeva che quella vita non portava a niente.
Ameno che, forse, non si trovasse il famoso milione, un milione che lui non aveva guadagnato, che veniva in primo luogo dall’indefesso lavoro di suo padre e di sua madre in quel bistrot di cui lui si vergognava, e poi dal lavoro del vecchio e di Antoine.
Allora anche lui e Véronique avrebbero viaggiato. Avrebbero passato parte dell’inverno nel Midi, che non conoscevano bene perché vi avevano fatto solo qualche breve puntata, senza abbastanza denaro per viverci come si deve vivere in posti di quel genere.
Non accusava Antoine di imbrogliarli, ma era pur sempre vero che suo fratello aveva tratto vantaggio dall’impresa familiare. E si era preoccupato di far firmare al padre un documento.
A dire il vero, non era dimostrato che quel documento bastava a sancire i suoi diritti. Ferdinand non si era mai occupato del Codice civile, meno ancora delle leggi che regolano le operazioni commerciali.
Guardava distrattamente il primo foglio dattiloscritto del fascicolo quando sentì qualcuno tossire davanti a lui. Era uno dei due gendarmi che gli avevano portato René Mauvis.
Costui, spalle strette, faccia qualunque, stava in piedi tra i due uomini in divisa senza dar segni d’impazienza.
«Si sieda».
Mauvis si mise a sedere su una sedia mentre i gendarmi prendevano posto su una panca contro il muro.
Ferdinand diede un’occhiata all’orologio da polso come aveva fatto prima da suo fratello.
«Il suo legale non è ancora qui... È sicuro, Dubois, di averlo convocato?».
Il cancelliere annuì. Era un pover’uomo anche lui. E pure i gendarmi. Aspettavano. Mezz’ora dopo aspettavano ancora, con l’espressione vaga di quelli che fanno la coda davanti a un cinema, o di quelli che durante la guerra facevano la coda davanti a un negozio.
Il loro padre, indirettamente, aveva approfittato della guerra: grazie ai viveri che riusciva a procurarsi, la sua clientela era cambiata in meglio. Sicché anche Antoine aveva approfittato della guerra.
Bernard non aveva mai vissuto così bene come in quegli anni, il che gli aveva fatto prendere delle cattive abitudini. Non era infelice. Quando aveva soldi, li spendeva senza pensarci troppo, e quando non ne aveva batteva cassa, con grande faccia tosta, dal padre o dai fratelli.
«Telefoni all’avvocato Gerbois, allo studio...».
Il cancelliere eseguiva, e subito la sua voce esprimeva una certa sorpresa.
«È sicura, signorina?... Non ha lasciato un messaggio?...».
Il pover’uomo, esterrefatto, quasi non osava ripetere al giudice ciò che si era appena sentito dire.
«L’avvocato Gerbois e la moglie sono partiti ieri sera in macchina per la loro tenuta nei dintorni di Dreux».
Erano tutti lì per niente.
«Riportatelo giù...».
Mauvis si alzò senza protestare, i polsi sempre stretti nelle manette, e seguì il primo gendarme mentre il secondo chiudeva la fila.
«Può andare anche lei, Dubois».
«Lei rimane, signor giudice?».
«Non so... Adesso vedo...».
Non aveva lavoro da sbrigare, né troppa voglia di tornare a casa, perché anche lì non aveva niente da fare.
Rimase per ultimo, alla fine prese cappello e cappotto, poi, nel corridoio deserto, si girò per chiudere la porta a chiave.
4
Mezzogiorno e mezzo. Un sole obliquo illuminava la sala in cui si trovava il vecchio bancone che adesso, più che a un vero bar, faceva pensare a un accessorio. Erano le Pulci, come il vecchio Joseph aveva battezzato quella sala, benché la clientela fosse diventata pressappoco la stessa di quella del Guignol.
Fernande, col suo vestito nero, si era appena sistemata sull’alta sedia dietro la cassa, mentre Liselotte, al guardaroba, si aggiustava le giarrettiere con la gonna alzata fino a metà coscia.
Ancora pochi clienti, solo una decina. Julien Bernu e i suoi assistenti stavano già al loro posto. Tutto era in posizione, come a teatro, gli attori principali e i comprimari. Era un po’ come una commedia che si recitava due volte al giorno, in cui ciascuno sapeva a memoria la sua parte.
Antoine, camicia smagliante, si diresse verso una coppia tenendo in mano il menu stampato su un’elegante carta giallina che Joseph, sempre lui, chiamava il programma.
Da quando le persone importanti avevano preso l’abitudine di cominciare il weekend già dal venerdì, il sabato era un giorno fiacco. Perfino le strade, a Parigi, cambiavano aspetto.
Quando si aprì la porta a vetri, a entrare non fu un cliente, ma Bernard Mature, che indossava un cappotto di cammello e un cappello beige.
Avanzò di qualche passo e si piazzò in mezzo alla prima sala. Senza degnare di uno sguardo la cognata, gli occhi fissi sul fratello, aspettava che questi lo scorgesse.
Antoine si diresse dapprima verso la parete a vetri per trasmettere allo chef, attraverso il passavivande, l’ordinazione che aveva appena preso; poi, voltandosi, vide il fratello, aggrottò le sopracciglia, andò verso di lui.
«Salve, Bernard... Nicole è riuscita finalmente a trovarti?...».
«Scendo adesso dall’aereo... Lei mi aspettava a Orly e ha avuto il tempo di raccontarmi quello che è successo...».
L’alito sapeva di alcol. Non si poteva dargli dell’ubriacone, certo è che si scolava un bel po’ di whisky al giorno, come la maggior parte di quelli che fanno un certo tipo di vita e che frequentano i bar alla moda.
Quando le cose gli andavano bene, nei periodi fasti, si tratteneva, ma non appena cominciavano i problemi, aumentava la dose.
Allora i lineamenti del viso diventavano come sfocati, le carni flosce, gli occhi umidi. Era il suo modo di farsi coraggio, di ritrovare fiducia in se stesso. In fondo era un debole. Troppo facile attribuire alla guerra la sua inettitudine. Antoine lo guardava, a disagio. Era decisamente il momento sbagliato. Stava entrando un bel gruppo di clienti, che esitava tra i tavoli liberi. Con un’occhiata, Antoine fece capire a Joseph che gli passava la direzione delle operazioni.
«Vieni con me...».
Si avviò con Bernard verso la porticina che dava sull’entrata e sulla scala. Passando davanti a Fernande, Bernard non la salutò. Cattivo segno.
In famiglia era l’unico grasso. Già da bambino, cicciottello com’era, veniva preso in giro per il suo grosso sedere. Sotto la bocca carnosa, quasi femminile, non aveva quasi mento, e intorno ai vent’anni per un certo periodo aveva scelto di lasciarsi crescere la barba per nascondere quel difetto.
«Vuoi vederlo?».
Bernard non rispose. Non poteva rifiutare di vedere suo padre, ma si capiva che non era venuto per questo. Sempre con indosso il cappotto, restò per un momento immobile, accigliato, ai piedi del letto.
«La mamma non si è accorta di niente?».
«No. Lei è sempre uguale».
«Devo parlarti».
Antoine preferiva che il loro colloquio non avesse luogo nel salotto del primo piano, tra la camera in cui giaceva il padre e quella in cui sonnecchiava la madre.
«Andiamo su...».
Appena ebbe messo piede al secondo piano, Bernard diventò aggressivo. Ci si era preparato, non solo da Orly, ma sin dalla telefonata che aveva ricevuto in Costa Azzurra da Nicole.
«Si è trovato il denaro?».
«Togliti il cappotto. Siediti...».
«Ti ho fatto una domanda...».
«Non abbiamo ancora trovato niente, ma non abbiamo avuto il tempo di cercare bene... Converrai anche tu che non è il momento giusto per mettersi a rovistare nell’appartamento dei nostri genitori...».
«Troppo facile, come risposta!» osservò Bernard con una smorfia di sarcasmo, togliendosi comunque il cappotto.
«Che vuoi dire?».
«Da quando sei tornato a sistemarti in questa casa, vent’anni fa, io e Ferdinand non la conosciamo praticamente più... Tu, invece, ci vivevi con nostro padre... Stavate insieme dalla mattina alla sera... Eri al corrente delle sue abitudini... Trovo strano, permetti, che tu non sappia che cosa faceva dei suoi soldi...».
«Lo conosci...».
«Un momento! Lo conoscevo come un bambino conosce i genitori... Ho telefonato a Ferdinand... Era appena tornato a casa... Ho l’impressione che anche lui abbia parecchi dubbi...».
Si accese una sigaretta, cercò un portacenere e anche, sembrava, qualcosa da bere. Gli tremavano le mani.
«Troppo comodo, devi ammettere... Papà muore tutto a un tratto, mentre in casa ci siete solo tu e Fernande...».
Antoine rettificò pacatamente:
«È successo davanti a più di trenta persone... E da quel momento la signora Ledru è sempre rimasta nell’appartamento...».
«Chi l’ha assunta?».
«Io».
«Lo vedi! Aspetti due ore per telefonare a Ferdinand e per cercare di raggiungermi».
«Non potevo allontanarmi dal ristorante...».
«Joseph non poteva sostituirti?».
«Non quella sera... C’erano clienti importanti...».
«Fatto sta che quando Ferdinand è arrivato, nostro padre era già bell’e sistemato, con due ceri ai lati del letto...».
Si cominciavano a cogliere gli effetti dell’alcol che aveva bevuto, e appariva incerto, anche se si sforzava, nonostante tutto, di non lasciarsi smontare. Senza dire una parola, Antoine andò a prendere una bottiglia di whisky da un mobiletto ben fornito, posò su un tavolino un bicchiere e dell’acqua.
«Tu non ne prendi?».
«Mai quando lavoro, lo sai».
Bernard era arrivato a diffidare di tutto. Ciononostante, si versò un bicchiere di whisky, liscio, e ne bevve una gran sorsata.
«Stanotte non ho quasi chiuso occhio... Quelli con cui sono in affari mi hanno fatto fare le ore piccole al Casinò... Stamattina hai cercato di nuovo?».
«Non ne ho avuto il tempo... Dovevo occuparmi del ristorante, poi del funerale... Fernande ha pensato alle partecipazioni...».
«È martedì?».
«Ho chiesto un parere a Ferdinand, era urgente fissare una data. Lui preferisce che sia alle nove del mattino...».
«Chi si occupa della successione?».
«Cosa vuoi dire?».
«A quanto sembra c’è in gioco un milione, senza contare il ristorante... Noi siamo tre... Queste faccende non si trattano alla leggera... Di solito, c’è un notaio che ha cura degli interessi di ciascuno e bada a che tutto si svolga nella debita forma...».
«Non so se nostro padre aveva un notaio...».
«Lo trovi normale, tu, che non abbia fatto testamento?».
«Non si aspettava una morte fulminea, un’embolia... E poi, quelli come lui in genere non fanno testamento... Probabilmente pensava che i suoi tre figli...».
Si morse la lingua.
«Continua» lo sfidò Bernard.
«Mi aspettavo anch’io che vi fidaste di me...».
«Ma pensa!... Papà muore, e non c’è traccia del milione che ha guadagnato negli ultimi vent’anni... Il tuo, di milione, te lo sei messo al sicuro... Il suo è sparito come per incanto...».
Schiacciò la sigaretta fumata a metà sulla moquette, benché avesse un portacenere a portata di mano.
Antoine spiegò pazientemente:
«Nostro padre è morto da meno di ventiquattr’ore... Stamattina ho comunque trovato il tempo di andare in rue Coquillière per rintracciare un certo Jason, un uomo d’affari con il quale papà era in contatto... Ho trovato un vecchio palazzo con tanti uffici più o meno equivoci, con targhe di smalto su tutte le porte...
«Jason non abita più là da tre anni. Se n’è andato senza lasciare un recapito, ma confidando alla portinaia che si ritirava dalle parti di Villeneuve-Saint-Georges, dove possedeva una villetta...».
Antoine non riusciva ad avercela col fratello, e guardandolo, irrigidito in quel suo atteggiamento quanto mai espressivo, gli sembrò di scoprire una cosa: Bernard non aveva età, o meglio, aveva tutte le età insieme. Sul suo volto dai contorni incerti si ritrovava il bambino di un tempo, il giovane che non si sentiva a suo agio da nessuna parte, l’uomo ormai maturo che non riusciva a trovare il suo posto nel mondo.
Sarebbe mai diventato vecchio? Aveva abbastanza salute per arrivarci? In tal caso, sarebbe stato uno di quei vecchi che non hanno imparato niente e continuano a raccontare i loro sogni come cose realmente accadute.
Ma non aveva forse avuto fino all’ultimo giorno un lato infantile anche il loro padre? Nel momento in cui era crollato stava mostrando a una giovane coppia una fotografia dell’uomo che era stato, giovane e spavaldo, con i bicipiti in mostra e lunghi e folti baffi arruffati, ritto sulla soglia del suo bistrot.
«Quando torna Ferdinand?».
«Cosa vuoi dire?».
«Penso che ci riuniremo tutti... Noi non sappiamo neppure quando lo mettono nella bara, come se solo tu fossi suo figlio...».
Quello che si percepiva nel suo atteggiamento, nella voce, nello sguardo, non era un rancore momentaneo, ma un odio di vecchia data, covato per anni.
Per un certo tempo Ferdinand e Antoine erano stati veramente fratelli. Tra loro c’erano soltanto quattro anni di differenza. Bernard, invece, non aveva mai giocato con gli altri due, non si era mai confidato con loro.
Al minimo pretesto correva dalla madre a lamentarsi dei fratelli, e lei lo difendeva.
«Lasciate in pace il vostro fratellino, voi due... Non vi vergognate di prendervela con lui?...».
Il fratellino! Lo era sempre stato, e tale era rimasto. Anche adesso avrebbe potuto abbandonarsi a un accesso d’ira e battere i piedi in terra piangendo come quando era piccolo.
«Ti avverto, Antoine, che non mi lascerò fregare... Ho amici avvocati, e già nel pomeriggio mi farò consigliare da loro... Quanto a Nicole, vorrei che quando rimetterà piede in questa casa non sia ricevuta come un’estranea non gradita, ma come un membro della famiglia... Se vuoi proprio saperlo, ho deciso di sposarla...».
«Hai altro da dirmi?».
«Ti consiglio di trovare il testamento e il denaro, sarà meglio per te... Sai di cosa potresti essere accusato?... Il termine legale è “usurpazione di eredità”... Posso avere l’aria di un bamboccio, ma ho una certa esperienza in fatto di leggi...».
Guardò la bottiglia, esitò, e alla fine si versò un altro bicchiere di whisky, che buttò giù d’un fiato.
«Non pensare che sono ubriaco... So perfettamente quello che dico e quello che faccio, e posso già assicurarti che Ferdinand sarà dalla mia parte...».
Ebbe qualche difficoltà a infilare le maniche del cappotto, quindi si avviò verso la scala mettendosi in testa il cappello.
«A buon intenditor, poche parole!».
Era grottesco, teatrale. Antoine ne restò comunque molto avvilito e prima di scendere fu lì lì per tirarsi su, anche lui, con un bicchiere di whisky.
Non lo fece, lasciò che Bernard uscisse dall’edificio, poi raggiunse lentamente la sala del Senato. Fernande gli lanciò uno sguardo preoccupato. La rassicurò limitandosi a fare spallucce prima di andare a stringere la mano a un cliente di vecchia data.
Strano mestiere, il loro! Erano come attori sul palcoscenico. Per ore e ore, ogni giorno, lui e sua moglie potevano soltanto scambiarsi qualche occhiata, a volte qualche parola a mezza bocca. Bisognava sorridere, ascoltare le battute o le confidenze dei clienti.
A quarantanove anni Antoine cominciava a camminare come il vecchio Joseph. La maggior parte dei maître e dei camerieri, nonché dei padroni di ristorante, alla fine si ritrovano con i piedi piatti.
Il mondo intorno a loro non è più quello che vedono gli altri, ma è fatto di tavoli contrassegnati da un numero, di volti familiari o no, di menu, di portate, di conti.
Erano vent’anni che vedeva sullo stesso carrello, disposti nello stesso ordine, gli stessi salumi che erano stati battezzati cochonnades, che faceva più ricco, più da buongustai.
Il gesto con cui porgeva la carta era sempre uguale, come quello con cui versava, non senza una certa solennità, le prime gocce di un Gamay d’Auvergne, di uno Chanturgue, di un bianco rosé di Corent o di Sauvagnat.
Il cliente guardava attentamente il vino con l’aria di uno che se ne intende, faceva schioccare la lingua, gli lanciava un’occhiata complice...
Auguste aveva un fratello, maggiore di tre anni, che viveva ancora a Saint-Hippolyte. Fernande aveva tentato invano di contattarlo, ma il vecchio si era sempre rifiutato di farsi installare il telefono.
Quanto ai suoi figli, due o tre, in ogni caso una ragazza di cui Antoine si ricordava vagamente, non sapevano che fine avessero fatto.
Fernande aveva mandato un telegramma. Il fratello si chiamava Hector. L’ultima volta che lo aveva visto, prima della guerra, Antoine era piccolo, ed era stato colpito dalla grande somiglianza con suo padre, solo che i lineamenti dello zio erano più marcati e la pelle aveva il colore della terracotta.
C’era anche una Bourdin, una sorella della madre, che era stato impossibile avvertire. Aveva sposato un droghiere di Riom, che probabilmente era morto perché il suo nome non figurava più sull’elenco telefonico.
Pur rimuginando quei brandelli di pensiero dei quali non riusciva a liberarsi, Antoine andava avanti e indietro dai tavoli al passavivande, entrando a volte anche in cucina per comunicare allo chef le richieste di un cliente.
«Niente aglio, assolutamente... E neanche cipolla...».
Gli capitava di gettare uno sguardo nella prima sala, come aspettandosi di vedere suo padre che brindava con un cliente.
Allora lo rivedeva lassù, immobile, con le mani giunte, e non si capacitava che fosse proprio morto, definitivamente, che dietro la sua fronte fredda non ci fosse più alcun pensiero.
Poco prima, quando era entrato nella camera insieme a Bernard, gli era venuto spontaneo scusarsi, sussurrare:
«Scusa, papà...».
Li rivedeva, l’uno accanto all’altro, Ferdinand, Véronique, Nicole, Bernard, che procedevano verso i piedi del letto e restavano un momento fermi, irrigiditi come in chiesa. Quel morto appariva loro come un oggetto e non sembravano sorpresi di vedere il padre improvvisamente così immobile.
Antoine, invece, quasi si aspettava che si mettesse a parlare. Poco mancava che andasse a dirgli:
«Lo vedi in che situazione mi mettono... Non ce l’ho con loro, ma vorrei tanto evitare queste beghe...».
Anche lui era sorpreso. Sapeva che, in fatto di soldi, suo padre era sempre stato un po’ misterioso, che amava fare le cose in segreto, come i contadini. Non aveva mai tollerato, per esempio, che il governo si attribuisse il diritto di chiedergli quanto guadagnava.
Era il frutto del suo lavoro, solo suo, di Auguste, che aveva cominciato a guadagnarsi da vivere all’età in cui gli altri giocano ancora con le biglie. Non gli era mai passata per la testa l’idea di prendersi una vacanza. Era tanto se, di quando in quando, faceva una capatina al paese, e da parecchi anni non era più tornato.
L’ultima volta al rientro era scuro in volto. Scuotendo la testa aveva detto:
«Sono quasi tutti morti, o gli manca poco... Adesso, a Riom e a Saint-Hippolyte è pieno di stranieri...».
Uno straniero, per lui, era qualcuno che non era del suo paese, della sua strada.
«A Riom ci sono negozi grandi come a Parigi e le donne escono per strada con vestiti che lasciano scoperte le ginocchia...».
Con Chaussard, il vecchio macellaio della bottega a fianco, potevano parlare per ore e ore di gente che esisteva ormai solo nei loro ricordi o negli album di famiglia. A volte sembrava di vederli ancora sui banchi di scuola.
«Ti ricordi, Alfred, quando l’ho mandato...».
«Un momento, Auguste, non sei tu che l’hai mandato a quel paese... È stato il piccolo Arthur, il figlio del fabbro... Aspetta che cerco di ricordarmi il nome... Una vera peste, quel ragazzino...».
A pensarci bene, forse i due uomini si confidavano anche su argomenti di altro tipo... Entrambi avevano fatto i soldi, ciascuno nel proprio campo. Chaussard, con le sue quattro macellerie in città, era il più ricco dei due.
Chissà se qualche volta non avevano la tentazione di mettere a confronto il rispettivo successo... Antoine si riprometteva di interrogare il vecchio Alfred, che non si sarebbe fidato troppo di lui perché, come Auguste, accordava scarsa fiducia alle giovani generazioni.
Per loro, Antoine era un ragazzo, lo vedevano ancora con i pantaloni corti.
Era impaziente di parlare con Fernande. In tutta la mattina, si erano appena scambiati un’occhiata, ed erano stati insieme solo durante la visita dell’impiegato delle pompe funebri.
Dopodiché, lei gli aveva mostrato l’elenco delle persone alle quali avrebbe mandato la partecipazione.
«Che cosa faccio con gli Alverniati di Parigi?».
«Saranno migliaia... Non possiamo avvertirli tutti... Telefona e chiedi una lista dei membri del comitato...».
«Vedrai che arriveranno con le insegne e la banda... Tuo padre è stato il loro presidente... E mi ricordo di un funerale dove ce n’era persino qualcuno col costume regionale...».
Nel frattempo Auguste era immobile, lassù, con le mani incrociate sul ventre e un rosario tra le dita come quando serviva messa.
«Non so se a Riom esiste un giornale... A Clermont-Ferrand devono avercene uno... Dovresti comunicargli per telefono il testo di un necrologio...».
Avrebbero dimenticato sicuramente alcuni cugini di primo e di secondo grado, che si sarebbero offesi.
Alla cassa suonò il telefono. Fernande rispose.
«Un momento...».
Cercò con lo sguardo il marito, che si avvicinò.
«Ferdinand» sussurrò lei.
La voce del fratello era brusca.
«Ho appena telefonato a Bernard... Pronto!... Mi senti?».
«Sì...».
«Sei al ristorante?».
«E dove se no, a quest’ora?».
«Abbiamo deciso di vederci tutti domani... Di domenica chiudi sempre, vero?...».
«Sì, come al solito...».
«Che cosa preferisci?... Mattina o pomeriggio?...».
«È lo stesso».
«Al mattino non potrei arrivare prima delle undici per via della messa, e dato che abbiamo molte cose da discutere è meglio fissare l’appuntamento nel primo pomeriggio...».
«A che ora?».
«Le due?».
«D’accordo».
«Hai trovato qualcosa?».
«No».
«Ho cercato di dare una calmata a Bernard...».
«Ti ringrazio...».
«Probabilmente porterò con me Jean-Loup e sua sorella... In fin dei conti la cosa riguarda anche loro...».
«A domani...».
Aveva tenuto per tutto il tempo lo sguardo fisso su sua moglie, e prima di portare il conto a un tavolo le sussurrò:
«Domani alle due... Gran consiglio di famiglia...».
Aveva aspettato quasi un’ora sulle panche del municipio, rimbalzato da un ufficio all’altro, prima di ottenere l’indirizzo di Ernest Jason. Appena terminato il pranzo, e senza aspettare che fossero usciti tutti i clienti, era andato a prendere la macchina nel garage di rue des Halles e si era diretto alla volta di Villeneuve-Saint-Georges.
Doveva ancora trovare rue des Ajoncs. Interrogò, invano, parecchie persone. Alla fine qualcuno gli indicò un quartiere fuorimano, vicino a un terreno dove andavano a morire diversi binari ferroviari, e a furia di girare a vuoto in strade che erano tutto un susseguirsi di villini e di officine, scoprì su una targa il nome che cercava.
Non era una strada lunga. In passato, probabilmente, costeggiava la campagna, e nei giardinetti si scorgeva ancora qualche albero. All’angolo c’era un piccolo caffè deserto dove lui entrò per chiedere informazioni e bere una birra.
«Jason?... No, mai sentito da queste parti... È sicuro che abita in rue des Murets?... Sa, noi sono solo due anni che siamo qui...».
La donna aveva delle pantofole rosse e un vestito lavorato a maglia che le cadeva tutto sbilenco. Su una sedia impagliata, accanto alla stufa cilindrica il cui tubo saliva a perdersi nel soffitto, era sdraiato un gatto.
Non sembrava un vero caffè e ci si chiedeva a chi potesse venir voglia di sedercisi.
Dal giardino rientrò un uomo ingobbito con in mano un tronchese.
«Joseph, lo conosci, tu, un certo Jason?».
«È in alto, a sinistra... Ma non ci sta più... Credo addirittura che sia morto, ma in casa c’è ancora la figlia... La casa si chiama Les Linottes...».
La strada sembrava essere stata dimenticata dall’avanzare della città, e tra le lastre di pietra della carreggiata cresceva l’erba. I villini erano tutti pressoché uguali, con balconi di legno e tetti sbilenchi. Cambiava soltanto il colore delle imposte: quelle delle Linottes erano gialle e nessuno le ridipingeva da anni.
Spinse un cancelletto, anch’esso giallo, tra due siepi di bosso, attraversò quattro metri di giardino incolto e suonò alla porta.
Nella strada tutto era immobile. Tutto immobile anche nella casa. Si sentivano solo i treni andare avanti e indietro e i vagoni cozzare l’uno contro l’altro nella stazione di smistamento, poi un grosso aeroplano eseguì una virata nel cielo azzurro e scese in picchiata verso una pista di Orly.
Alain suonò di nuovo, bussò alla porta. Indietreggiando un po’, gettò un’occhiata alle finestre, e a quella di sinistra scorse un volto dietro la tendina di tulle.
Allora bussò alla finestra e la donna si decise a socchiudere la porta.
«Che cosa vuole?».
Di lei non vedeva quasi niente, solo mezza faccia, un occhio, capelli spettinati e un grembiule sporco.
«Abita qui il signor Ernest Jason, vero?».
«Lo conosce?».
«No».
«Allora che cosa le importa se abita qui o no?».
Era arcigna. Arcigna e stupida. Inutilmente aggressiva. Lo sguardo dell’unico occhio che lui scorgeva era sospettoso.
«Gli devo chiedere un’informazione importante».
«Quale informazione?».
«È una cosa personale. Mi dica almeno a che ora posso trovarlo».
«Non può trovarlo. È morto».
«Da molto tempo?».
«Le interessa proprio?».
«Visto che glielo chiedo...».
«Saranno sei mesi la settimana prossima».
«Lo conosceva bene? È da lui che ha preso in affitto il villino?».
«Non ho avuto bisogno di prenderlo in affitto. Era mio padre».
Alain aveva tenuto il piede nella porta affinché lei non potesse chiudergliela in faccia e la apriva lentamente.
«Potrei parlarle un momento?».
Finalmente la vedeva tutta intera. Era grassa, in cattiva salute, con le gambe gonfie e una faccia da luna piena di un rosa malsano in cui gli occhi azzurri esprimevano una paura istintiva.
Si rassegnò a farlo entrare. Il corridoio aveva piccole piastrelle quadrate multicolori. Il locale di sinistra serviva da salotto e insieme da stanza da pranzo, ma una stanza da pranzo in cui non si pranzava e dove un canarino saltellava in una gabbia.
Tutto era pietrificato, senza tempo, come la pendola ferma probabilmente da anni.
«Vengono continuamente a rompermi le scatole» disse lei con voce stanca. «Ma io non ho niente da dire perché non ero al corrente».
«Suo padre abitava qui?».
«Allora non sa...?».
C’era qualcosa di imbarazzante in quel colloquio, nell’atmosfera del villino, nell’atteggiamento e negli occhi della donna.
«Che cosa non so?».
«È morto a Fresnes».
«Nella prigione?».
«Sì. Gli hanno dato due anni, ma è morto nell’infermeria tre mesi dopo. Lo aveva pur detto, al processo. Aveva giurato che era innocente e che commettevano un omicidio...».
Diventava sempre più difficile far domande.
«Per che cosa è stato condannato?».
«Truffa, hanno detto».
«Qual era esattamente la sua professione? Aveva un ufficio in centro, vero?».
«Sì. Era un uomo istruito, intelligente. È stato ufficiale giudiziario. Non verrà qui anche lei a chiedermi dei soldi, vero?».
«No».
«Molti ne approfittano perché hanno letto sui giornali che mio padre è stato condannato... Allora vengono qui a suonare alla porta, e a me che non so niente dicono che gli avevano affidato tutti i loro risparmi...».
«E non è vero?».
«Non lo so... Aiutava la gente... Quando era ufficiale giudiziario, gli toccava pignorare i mobili di un debitore o dargli lo sfratto... E non gli andava più di farlo... Era troppo buono, per questo lo hanno messo in prigione...».
Alla fine si era seduta sull’orlo di una sedia dov’era posato un lavoro a maglia e un gomitolo di lana con due ferri infilzati. Dopo un attimo di esitazione, si era seduto anche lui.
«Sa quando è stato condannato?».
«L’11 settembre».
«A Parigi? Lei era presente?».
«Non ha voluto. Quando mi sono sposata aveva ancora la sua camera qui, ma perlopiù dormiva in una stanzetta dietro l’ufficio... Era vedovo da dieci anni... Mia madre ha sofferto per un sacco di tempo, e io finirò come lei, lo so... Mio marito è ferroviere...».
Parlava tanto per parlare, rassicurata dall’atteggiamento del visitatore.
«Due anni fa mi ha annunciato...».
«Parla di suo padre?».
«E di chi se no? Mi ha annunciato che aveva deciso di andare in pensione ed è venuto a stare con noi... Ho capito subito che c’erano guai in vista...».
«Le ha detto di che genere?».
«Gente che ce l’aveva con lui... Perché, da quando non era più ufficiale giudiziario...».
Perdeva il filo del discorso e le si leggeva negli occhi lo sforzo di ritrovarlo.
«Aspetti... Sì... Voleva aiutare le persone... Conosceva le leggi, capisce?... I piccoli commercianti, tutti quelli che lavorano nel quartiere delle Halles, dove mio padre aveva lo studio, non le conoscono, le leggi... Per loro era una specie di guaritore...».
Bisognava entrare nel suo mondo, che in definitiva si rivelava abbastanza coerente.
«A me, per esempio, mi cura un guaritore... I medici non ci capiscono niente... Allora, quando mia cognata me ne ha segnalato uno a Lagny...».
Aggrottava la fronte. Aveva la testa pesante e dolente. Tutto questo era troppo complicato per lei.
«Stava dicendo che li aiutava...».
«Sì... per tutte quelle carte che siamo costretti a riempire al giorno d’oggi... La gente non capisce nemmeno che cosa vanno cercando... Guardi per esempio la Previdenza sociale... Ci sono domande scritte in caratteri piccolissimi e bisogna mettere la risposta in una casella o su una linea punteggiata... E se ti sbagli son dolori e ti vengono ad arrestare...».
«Capisco...».
«E guardi le banche: ti prendono i soldi, ti fanno firmare dei fogli e ti consegnano un libretto... E magari anche loro ti fanno pignorare... Con la scusa che non hai più niente sul conto... Ma chi può giurare che non si sbagliano loro, con le migliaia e migliaia di clienti che hanno?...».
Il vecchio Auguste avrebbe parlato quasi allo stesso modo. Apparteneva a un’epoca in cui non c’era una banca a ogni angolo di strada, in cui non esistevano né carte d’identità né passaporti, e bastavano due buste a dimostrare chi si era.
«Chi gli ha fatto causa?».
«Non so... Erano tanti... Ce n’è stato prima uno, poi altri, poi altri ancora... Ho sentito parlare soprattutto di un fabbro, un certo Bougerol, che è venuto qui più di una volta, e ci andava giù duro... Io non l’ho mai visto perché mio padre mi chiudeva in cucina, ma sentivo la sua voce e i suoi insulti... Una volta ha minacciato mio padre di fargli la pelle...».
«Suo padre le ha mai parlato di Auguste?».
«Auguste chi?».
«Mature... Un suo amico...».
«Verso la fine non ce n’erano più di amici... Lo sapevano che non ne aveva più per molto, ma si sono messi tutti contro di lui... Lei chi è?».
«Il figlio di Auguste».
«Perché non è venuto lui?».
«Perché è morto».
«Che cosa vuole, esattamente?».
«Cerco di capire».
«Capire che cosa?».
«Non abbiamo trovato il testamento di mio padre...».
«Lei è sicuro che ne ha scritto uno? Perché mio padre, per esempio, non ha lasciato nessun testamento. È vero che non ha lasciato neanche quattrini, solo questo villino, che ha intestato a me e a mio marito...».
«Se un testamento esisteva, lo ha affidato probabilmente a suo padre».
«Perché?».
«Perché si fidava di lui... E a lui faceva redigere tutti i suoi documenti...».
«Anche lei è venuto qui a pretendere soldi?».
«No. Ma suo padre teneva dei registri, suppongo, e nel suo studio aveva dei documenti che ha portato con sé quando è venuto a stare qui con voi...».
«Aveva un baule pieno di carte, che ha messo in solaio dicendo che non era roba interessante...».
«E quelle carte sono ancora lì?».
«La polizia è venuta a prenderle per consegnarle al giudice...».
«Suo padre non aveva anche un taccuino con nomi e indirizzi?».
«Sì».
«Ce l’ha lei adesso?».
«Chi? Cosa?».
«È lei che ce l’ha?».
«Ce l’hanno i giudici...».
Antoine, con la fronte imperlata di sudore, non trovò altre domande da farle. Si sentiva goffo. Aveva cercato meglio che poteva di non spaventare la povera donna che, vedendolo alzarsi, aveva avuto un istintivo riflesso di paura.
«Secondo lei, c’è un testamento?».
Si era alzata anche lei. Parlava tanto per parlare. Guardò il canarino con uno sguardo intenerito.
«La ringrazio... Mi scusi se l’ho disturbata...».
«Fossero educati così anche gli altri... E ci si mettono di mezzo pure le donne...».
Fuori, Antoine trasse un sospiro di sollievo e raggiunse l’angolo dove aveva lasciato la macchina davanti al piccolo caffè. L’uomo che gli aveva dato le informazioni stava fissando del fil di ferro a dei paletti.
«Ha trovato?».
«Sì, grazie...».
L’auto era una Mercedes grigio chiaro e il motore si avviò silenziosamente. Anche per questo i suoi fratelli ce l’avevano con lui. Come aveva potuto vivere tanti anni senza rendersene conto?
Per lui, fino al giorno prima, i suoi fratelli erano i suoi fratelli. Se non li vedeva spesso era perché ciascuno aveva preso una strada diversa.
Soltanto lui era rimasto nella casa dov’era nato, e probabilmente per questo non aveva mai intuito i loro problemi.
Quando Bernard si faceva vedere in rue de la Grande-Truanderie, era quasi sempre per batter cassa. Raramente si rivolgeva al padre. Dopo essere stato per un po’ con i due vecchi, giusto perché non poteva sottrarsi, tirava Antoine in un angolo o lo portava fuori, sul marciapiede, dove camminavano per un po’ in silenzio.
«Avrei potuto rivolgermi a Ferdinand, ma come sai fanno fatica a sbarcare il lunario, specie col nuovo appartamento... Il 15 dovevo riscuotere una forte somma e ieri ho saputo che il versamento è rimandato al mese prossimo...».
«Quanto?».
«Cinquemila... È troppo?».
Sbrigativo, non si perdeva in ringraziamenti. Per lui, il ristorante dove era nato e dove i suoi genitori vivevano ancora era un bene comune, qualcosa che apparteneva più o meno a tutta la famiglia.
Preferiva non chiedere soldi a suo padre, perché agli occhi di Auguste tutte le cifre sembravano enormi.
Nella mente di Bernard, a suo fratello bastava aprire la cassa e prendere i soldi. Era furbo, Antoine. Aveva scelto la parte migliore. Mica si imponeva privazioni, lui! Fernande non aveva forse una pelliccia di visone?
Ferdinand era un’altra storia. Non era più in tutto e per tutto un Mature. Già gli studi e l’università lo avevano portato a guardare in altro modo la casa delle Halles e a sentirsi sempre più estraneo ai rituali che vi si svolgevano.
Inoltre, Véronique aveva esercitato sul marito un’influenza molto maggiore di quella che lui aveva esercitato su di lei. Quando erano ancora vivi suo padre e sua madre, era a loro che la coppia scriveva regolarmente, e sua madre si recava spesso a La Rochelle, e in seguito a Poitiers.
I nipotini appartenevano alla famiglia della moglie e in rue de la Grande-Truanderie li si era visti di rado.
Capitava, ogni tanto, che venissero a pranzo o a cena, non quando mangiava la famiglia, a un tavolo di marmo vicino al banco, ma all’ora dei clienti.
«Che cosa ci consigli, Antoine?».
Lui prendeva nota dell’ordinazione e la trasmetteva allo chef prima di sedersi con loro.
«Come sta la mamma?».
Era stata meglio, poi peggio, poi di nuovo un po’ meglio, fino a che smisero di chiedere sue notizie.
«Non beve troppo, papà?».
«Un bicchiere qua e là... Lo tengo d’occhio, senza che se ne accorga... Non si può togliergli l’ultimo piacere che gli è rimasto...».
Il vecchio Auguste aveva sempre fatto fatica a chiamare la nuora con il suo nome di battesimo.
«Lei è molto carina, Véronique...».
E le offriva goffamente un fiore, come per ammansirla, sapendo che in realtà non ci sarebbe riuscito mai. Non le dava del tu come faceva con Fernande.
«Come stanno i bambini?».
I loro nomi non gli venivano e del resto, per lui, erano nomi assurdi.
Quanto ad Antoine, lui tornava sempre alla piccola cerchia di un tempo, quando ciascuno di loro tre, a turno, aveva gattonato sul pavimento coperto di segatura.
Trovò Fernande preoccupata. Stava al primo piano, nella camera della madre, perché aveva mandato la signora Ledru dal figlio a riposare fino al giorno dopo.
«L’hai trovato?».
«Forse... Devo parlarne con Ferdinand...».
Sentì il desiderio di passare a salutare suo padre. L’idea dei ceri non era stata sua, ma di Marinette. Ci soffiò sopra, aprì le tende della finestra che dava sul cortile. Però non osò togliere il rosario, né il rametto di bosso a bagno nell’acqua benedetta.
6
Dal bagno, dove aveva appena finito di mettersi i bigodini, Véronique, in vestaglia, domandò:
«Non ti spogli?».
Erano le dieci di sera. In salotto, Ferdinand, con indosso il completo grigio che rappresentava per lui una sorta di uniforme, leggeva distrattamente un articolo su una rivista.
Uscendo da casa di Antoine – dicevano e pensavano già «di Antoine» e non «di nostro padre» –, Jean-Loup si era precipitato alla volta dell’ospedale, mentre Marie-Laure aveva chiesto ai genitori:
«Potreste darmi uno strappo fino a Louveciennes?».
In macchina erano rimasti in silenzio quasi per l’intero tragitto, pensierosi, come se avessero qualcosa sulla coscienza. Davanti alla villa che era la meta di Marie-Laure erano parcheggiate una ventina di macchine, due Rolls e alcune auto Gran Turismo.
«Da chi vai?».
«Da un tizio che è a capo di una grossa impresa di pubblicità...».
Ferdinand e la moglie avevano cenato a Versailles, in un piccolo ristorante, prima di rientrare a casa, dove non sapevano cosa fare e dove la televisione non offriva niente che li interessasse.
Véronique si era messa a limarsi le unghie. Lui aveva letto qualcosa. La domenica, senza una ragione precisa, avevano preso ad andare a letto prima degli altri giorni. Ferdinand, d’altronde, andava a dormire sempre più presto, forse perché lui e la moglie non avevano niente da dirsi.
Sentendo suonare il campanello della porta, trasalirono entrambi.
«Non vai ad aprire?».
Lui si alzò, perplesso, vagamente preoccupato. A quell’ora nessuno suonava da loro. Si trovò davanti Bernard, molto su di giri, seguito da una Nicole vigile e rassegnata.
«Scusami, Ferdinand... So quello che penserai e ti dico subito che sì, è proprio così: sono sbronzo...».
Intanto si dirigeva verso il salotto con passo incerto, lasciando cadere il cappotto sulla moquette senza curarsi di raccoglierlo.
«Non c’è tua moglie?... Donna in gamba, Véronique, lo penso davvero, e vorrei che lo sapesse...».
Da quando erano usciti da rue de la Grande-Truanderie, Nicole, al volante, dirigeva la situazione. Sapeva che non sarebbe servito a niente tornare a casa, in boulevard Rochechouart. Era troppo tardi, Bernard era ormai inarrestabile, e lei poteva soltanto limitare i danni.
«Un altro, Nicole, uno solo... Devo assolutamente trovare quel tizio... Non mi ricordo il nome... Non è perché sono sbronzo... C’è gente così, che non riesco a ricordarmi come si chiama...».
«Che cosa fa?».
«Fa l’avvocato... È sempre sui giornali... Abbiamo bevuto un bicchiere insieme otto giorni fa... No, era due settimane fa... Poco importa... Devo assolutamente parlare con lui, capisci, perché sono il solo che, senza parere, ha fiutato l’imbroglio...
«Ferdinand è un giudice, no?... Embè, o Ferdinand è un idiota che non ha capito niente, o c’è dentro anche lui e, in questo caso, è una sporca carogna...».
Si erano trascinati da un bar all’altro. Lei faceva segno via via ai diversi baristi, che la conoscevano, di andarci piano con il whisky. Bernard non aveva voluto cenare, si era limitato a sgranocchiare delle noccioline.
Alla fine Bernard l’aveva trovato, il suo uomo, un avvocato in effetti, non molto più sobrio di lui, e adesso aveva convinto Nicole a portarlo da suo fratello.
«La cosa mi riguarda, no? Sono un Mature, io!».
Véronique, allarmata, uscì dal bagno con un asciugamano annodato intorno alla testa per nascondere i bigodini.
«Non preoccuparti, Véronique... So che sei scandalizzata perché io e Nicole viviamo in concu... concubinaggio... Ti giuro che, tempo un mese, saremo marito e moglie e che, se ci tieni, ci sposeremo in chiesa...
«Dicevo a mio fratello che sei una donna in gamba... lo pensa anche Nicole... È furibonda perché ho bevuto un bicchiere di troppo e sono venuto a disturbarvi, ma era in-di-spen-sa-bi-le...».
Non gli capitava spesso di ridursi in quello stato e, stranamente, era in quei casi che appariva più giovane che mai. Come indifeso. Dava l’impressione di voler passare a ogni costo per un uomo fatto.
«Tanto per cominciare,» esordì con un gesto plateale «tutto quello che ci siamo raccontati questo pomeriggio sono solo fesserie...».
Rivolse a Ferdinand uno sguardo sospettoso.
«Ho ragione, sì o no?».
«Non so di cosa parli...».
«La chiave, per esempio, era una gran fesseria, no?».
«Siediti...».
Bernard piombò in una poltrona che non aveva creduto così bassa e per un attimo rimase interdetto.
«Né tu né io né Antoine né altri possiamo a buon diritto aprire la cassaforte, anche con la chiave... È così?...».
«Ci sono in effetti alcune formalità...».
«Formalità un corno!...».
Era molto compiaciuto di sé. Era stato lui, il più giovane, quello che consideravano un fallito bello e buono, a scoprire gli altarini.
Ferdinand, con tutto che era un giudice, si era fatto abbindolare, a meno che non li avesse raggirati lui.
«Cosa dice l’articolo, Nicole?... L’articolo numero...».
«Quale?».
«Il primo che ti ho chiesto di segnare...».
Lei tirò fuori dalla borsetta un’agendina rossa in cui, per assecondarlo, aveva preso degli appunti.
«774...».
«Bene! Hai il Codice civile, Ferdinand?».
Esultava.
«Lo conosco, quell’articolo...».
«Va’ a prendere il Codice civile...».
Il fratello tornò con un esemplare del Codice civile, edizioni Dalloz.
«Una successione può essere accettata puramente e semplicemente o con beneficio d’inventario...».
«Perfetto! E chi ha il diritto di accettarla solo con beneficio d’inventario?... Ah! Ah! Uno qualunque degli eredi... Mi segui?... Véronique, se vuoi fare un’opera di misericordia, dammi qualcosa da bere...».
L’altra guardò Nicole, che si strinse nelle spalle.
«Non aver paura... So comportarmi come si deve, non sporcherò i tuoi tappeti...».
Rideva. Faceva il buffone.
«Sono lucido, capite? Sbronzo, ma lucido...».
Ripeté tre o quattro volte l’ultima parola con evidente soddisfazione.
«E proprio perché sono lucido ho capito... Il mio amico... Com’è che si chiama, Nicole?».
«Liotard...».
«Liotard... Un principe del foro... Tu lo conosci, Liotard, Ferdinand?».
«Ne ho sentito parlare...».
«Abbiamo bevuto un bicchiere insieme e gli ho detto quello che mi stava sullo stomaco, perché è un fratello... Oh, scusa!... Non un vero fratello come sei tu, insomma mi hai capito, no?... Adesso guarda quest’altro articolo che ti dirà Nicole...».
«Articolo 793...».
Docile, Ferdinand prese a leggere, per quieto vivere:
«La dichiarazione di un erede, che intende assumere tale qualifica solo con beneficio d’inventario, deve essere fatta alla cancelleria del tribunale di prima istanza nell’arrondissement di cui...».
«Basta così. Il tribunale di prima istanza... Intuisci dove voglio arrivare?... Nell’articolo che viene dopo, il Codice prevede che la dichiarazione venga seguita da un inventario fedele e preciso dei beni che costituiscono la successione...
«Allora, sono in grado di ragionare o no?... Grazie, Véronique... Salute a tutti... Alla salute di quella poverina di nostra madre...
«Hanno tre mesi per procedere all’inventario, ma può volerci anche di più... Con quale risultato?... Che Antoine la può tirare in lungo quanto vuole, e intanto falsificare i conti...».
Adesso partiva in un’altra direzione.
«Vedi, Ferdinand, non siamo pari, Antoine e noi due... Noi siamo dei poveracci... Non dire di no!... So quel che dico... Non devi mica vergognartene... I furfanti, quelli non sono mai dei poveracci... Tu, anche se sei giudice, guadagni appena di che vivere, e io sono sempre stato sfigato...
«E non sono meno intelligente di Antoine... Anzi, lo sono anche più di lui... Solo che, io...».
S’interruppe, buttò giù un altro sorso, con le sopracciglia aggrottate e il volto paonazzo, patetico. Guardava il fratello con i suoi occhi sporgenti e lacrimosi.
«Come si chiama il tipo, Nicole?».
«Liotard...».
«Bene... Tu lo conosci?».
«Te l’ho già detto...».
«Scusami... Mi ha dato il suo parere legale, da Francis, un bar dove sta quasi tutte le sere... Tu ci sei mai andato da Francis?».
«No...».
Pazienza! Lasciò perdere. Cercava di ricordare, impaziente di ritrovare il filo del discorso. Era molto difficile, tanto più che si rendeva conto dell’importanza delle sue parole.
«Voi stavate andando a letto... Ti chiedo scusa, Véronique... Solo che, domani... Tanto per cominciare...».
Tanto per cominciare, cosa? In macchina aveva messo ordine tra le sue idee. Davanti al bancone di mogano del bar di Francis, Liotard gli aveva fatto una lezione sulle leggi che regolano le successioni. Conosceva a memoria gli articoli del Codice civile, li citava con il numero giusto, come un giocoliere che fa il suo spettacolo.
«Ho bisogno di soldi, lo ammetto e non me ne vergogno... La gente onesta è continuamente assillata dalla mancanza di denaro... Anche tu, Ferdinand, hai bisogno di soldi, prova a negarlo...».
Meglio dargli ragione, per evitare che desse in escandescenze perché, se lo si contrariava, nello stato in cui era, Bernard poteva dare fuori di matto, pestare i piedi come un bambino e vomitare improperi contro tutti.
Nicole, che lo sapeva, fissava Ferdinand e Véronique supplicandoli con lo sguardo di portare pazienza.
«Basta! Cosa stavo dicendo?».
«Che abbiamo bisogno di soldi...».
«Supponi adesso che Antoine accetti la successione solo con... com’è che c’è scritto?».
«Con beneficio d’inventario...».
«Con questo marchingegno può tirarla per le lunghe, mesi, anni. E non è tutto... C’è un altro articolo riguardo l’in... l’in...».
«L’indivisibilità...».
«Se gli gira, Antoine ha diritto a trarre profitto dal ristorante senza metterlo in vendita e senza versarci niente... È così?».
«Non proprio... All’incirca...».
«E allora?... Cominci a capire?... Chi è messo meglio di tutti?... Nostro padre ha mai tenuto libri contabili?... Capiva qualcosa di contabilità?... Chi si occupava, da vent’anni, di questioni finanziarie?...
«Si è trovata una chiave, e va bene... Ma prima di avere il diritto di servircene dobbiamo trovarci tutti d’accordo nell’accettare puramente e semplicemente la successione... Senza beneficio d’inventario, mi segui?...».
No. Ferdinand non capiva dove suo fratello voleva andare a parare.
«O accettiamo, e otteniamo il denaro subito, o accettiamo con beneficio d’in... d’inventario, e allora potremmo aspettare anni, fino a che la casa non varrà più niente... Che cosa ha detto, Antoine?... Che probabilmente entro tre anni la demoliranno... Sai come Liotard...».
Sorrise, soddisfatto di aver ritrovato da solo il nome dell’avvocato.
«Sai come Liotard ha chiamato la nostra situazione? Un nido di vipere... Senza l’inventario, Antoine ci racconta quello che vuole e ci presenta le cifre che gli fanno comodo... Con l’inventario, ha a disposizione tutto il tempo che gli serve... Non è così?».
Sì, era così. E proprio perché ci aveva pensato anche lui, Ferdinand si era ben guardato, quel pomeriggio, dal sollevare la questione davanti ai fratelli.
Fino a due giorni prima non sperava in un qualche cambiamento della sua situazione patrimoniale. Da quando si era parlato di milioni, però, non era meno smanioso di Bernard e si sforzava di evitare complicazioni.
Era scontento di sé. Cercava di convincersi che agiva a quel modo per Véronique, per farle avere una vita migliore.
Anche lui invidiava Antoine, che adesso si rivelava il più ricco della famiglia.
Ed era quello dei tre che aveva studiato meno, con ogni probabilità anche il meno intelligente. Fernande era una che aveva battuto il marciapiede, eppure formavano una vera coppia: gli bastava uno sguardo per capirsi.
«Dammene ancora un goccio, Véronique... Giuro che è l’ultimo... Sta’ tranquilla, Nicole... Quando avrò detto quello che mi resta da dire, ce ne andremo... Domani starò male, d’accordo... Perdonami... Ti toccherà curarmi... Ma tu, Ferdinand, non ti ubriachi mai?».
«Raramente...».
«Sei fortunato... Io, quando bevo, rendo infelice Nicole e mi detesto... Voi non la conoscete, Nicole... È lei che non ha voluto che la sposassi, pensava di danneggiarmi... Anche se gliel’ho detto tante...».
Si alzò, evitò in extremis di cadere a capofitto sul tavolino dove c’era il suo bicchiere, si rimise in equilibrio e andò a baciare la mano della giovane donna.
«Tanto per cominciare, non siamo forse tutti e tre figli di nostro padre?... C’erano sì o no le nostre tre fotografie nel suo portafoglio?... È una prova, questa, e Antoine può raccontare quello che vuole... Se tu e io non ci mettiamo d’accordo, Antoine ci fregherà... E c’è un’altra cosa che l’avvocato... Liotard... mi ha detto...
«Come vedi mi ricordo tutto, sono perfettamente lucido... Si tratta di nostra madre... In che regime patrimoniale si sono sposati, loro due?...».
«In regime di comunione dei beni...».
«Di conseguenza lei ha diritto alla metà... Se andiamo dal giudice di pace, dovrà venirci anche lei, oppure dovrà firmare dei documenti...».
Véronique guardò il marito con stupore, perfino con disappunto. Perché non le aveva parlato di quelle possibili complicazioni?
«E ci riusciresti, tu, a portarcela, dal giudice di pace?».
«No...».
«E credi che sia ancora capace di scrivere il suo nome?... Si dovrebbe tenerle la mano... Il dottor Patin sa benissimo che non ci sta più con la testa... In questo caso, come dice Liotard, si deve nominare un tutore o un consiglio di famiglia...».
Sprofondato di nuovo nella poltrona, a testa bassa, Bernard si passava la mano sulla fronte.
«Saremo fritti, Ferdinand... Ecco perché sono venuto... Ecco perché vi ho disturbato... Dobbiamo evitare di essere imbrogliati... Io lo sono stato per tutta la vita... Tu mi conosci... Sono un bonaccione... Mi fido della gente... E proprio perché mi fido... Ho bevuto troppo... Quando tutto questo sarà finito, non berrò più... Se bevo, è perché... Nicole?...».
«Sì?».
«Ti ricordi che cosa ti ha detto alla fine?... Vi chiedo scusa... Comincio a impappinarmi... Ancora un sorso... Solo un goccio, Véronique...».
«No» intervenne Nicole. «Se gli si dà ancora da bere si addormenterà e non riuscirò a riportarlo a casa...».
«Ma sono lucido...».
«Lo so...».
«Allora, di’ quello che...».
Nicole, imbarazzata, andava con gli occhi dall’uno all’altro.
«La cosa non mi riguarda... Io, questo Liotard non lo conoscevo neanche... Era sbronzo e si parlava addosso... Magari i suoi consigli non valgono una cicca... Secondo lui, bisogna assolutamente evitare di portare la cosa in tribunale e cercare invece di ottenere da Antoine il malloppo più grosso possibile... È esattamente il termine che ha usato...
«Riguardo al giudice di pace e all’autorizzazione ad aprire la cassetta di sicurezza, sostiene che è una semplice formalità e che basterà una firma di vostra madre, anche se dovrete aiutarla a farla...».
Era a disagio, tutta rossa in faccia. Vedere Véronique, che l’aveva sempre trattata con freddezza e adesso la osservava con interesse e persino con un’ombra di simpatia, la metteva in imbarazzo.
«Tu che cosa ne pensi, Ferdinand?».
«Devo rifletterci, rileggere gli articoli del Codice... Non mi sono mai occupato di cause civili e bisogna che mi rinfreschi la memoria...».
«A scatola chiusa!» se ne uscì all’improvviso Bernard, che era rimasto in silenzio per un bel po’.
E poiché se ne restava là senza spiegarsi, sonnacchioso, con un sorriso di beatitudine stampato sulle labbra, fu Nicole, ancora una volta, a prendere la parola.
«Già. Liotard ha usato proprio quell’espressione, ha detto che in fin dei conti compravate un gatto a scatola chiusa. Per poter aprire la cassetta di sicurezza dovete prima accettare la successione... E nessuno sa che cosa contiene quella cassetta...».
«Potremmo anche ereditare dei debiti...» farfugliò Bernard sforzandosi di buttarla sul ridere e allungando la mano verso il bicchiere vuoto.
Véronique trasalì.
«Stavo scherzando, ovviamente... Credo che si divertisse a stuzzicare Bernard... Comunque, la storia di Jason lo preoccupava...».
«Me ne occuperò domattina... Anche se così dovrò rimandare l’interrogatorio di Mauvis a martedì... no, a mercoledì...».
Si era quasi dimenticato del funerale di suo padre.
«Vieni, Bernard... Tutto quello che dovevi dire l’hai detto... Adesso hai sonno... e anche Ferdinand e Véronique...».
«Siamo d’accordo, Ferdinand?».
«Ma sì...».
Su cosa fossero d’accordo nessuno dei due lo precisava, Bernard perché non era abbastanza lucido, Ferdinand perché aveva detto sì a mezza bocca, giusto per sbarazzarsi del fratello.
«Su, alzati...».
Lei lo aiutava, gli porgeva il paltò rimasto sul tappeto.
«Sai, Ferdinand, mi ha fatto un certo effetto vedere la tua fotografia da piccolo... In fondo siamo fratelli, no?... Dobbiamo fare squadra per difenderci, come fratelli, questo ho detto a Nicole, che non voleva che venissi...».
Ci vollero alcuni minuti per accompagnarlo fino all’ascensore e, sporgendosi sulla tromba delle scale, Ferdinand e sua moglie aspettarono di sentire il portone richiudersi, poi il rombo di un motore.
La sveglia suonò alle cinque, come ogni mattina, e Antoine, allungando il braccio nell’oscurità, riuscì a spegnerla prima che Fernande sbattesse le palpebre. Uscì a tentoni dalla camera, entrò in bagno e prese a radersi con l’espressione preoccupata di un uomo che sa di dover affrontare una giornata difficile.
Era ancora buio quando cominciò il suo giro in mezzo agli ortaggi che odoravano di terra bagnata, poi nel padiglione del pesce e dei crostacei.
Non si affrettava, procedeva con passo un po’ pesante, stringendo qua e là una mano, rispondendo grazie a chi gli sussurrava:
«Condoglianze, Antoine...».
Quando arrivò da Léon stette un po’ lì a guardarlo, senza parlare, mentre l’amico tagliava a pezzi e preparava la carne. Fu Léon a rompere il silenzio.
«Mio padre non vuole ammetterlo, ma per lui è stato un brutto colpo... Ieri l’ho visto passare quattro o cinque volte davanti a casa tua e guardare le finestre del primo piano... Andavano molto d’accordo, Auguste e lui... Erano gli ultimi due... Adesso il mio vecchio si aspetta che sia il suo turno...».
Poi, dopo che Antoine gli ebbe passato l’ordinazione per il ristorante:
«Si può andare a vederlo, oggi?».
«Ma certo!... A proposito, grazie per i fiori...».
«È il minimo...».
Nel frattempo Jules aveva tolto le imposte e acceso la macchina del caffè. La prima sala era più affollata del solito, gente delle Halles, come sempre a quell’ora. C’era odore di caffè corretto e di croissant caldi. Antoine aveva la sensazione che non lo guardassero allo stesso modo di prima. Non era più il figlio di Auguste. Aveva preso il suo posto ed era diventato il padrone.
«Dammi un caffè, Jules...».
Jules gli sussurrò all’orecchio:
«Molti chiedono se possono salire a vederlo...».
«Te lo dirò quando scendo...».
Fernande aveva pensato a tutto. Già vestita, con il semplice abito nero che indossava abitualmente alla cassa, stava aiutando la signora Ledru a riordinare l’appartamento e a sistemare la vecchia madre nella sua poltrona.
«Immagino che verranno a vederlo in molti, vero?...».
«Sì. Giù c’è già chi lo chiede...».
«Possono salire... Oggi, per il pranzo, Liselotte dovrà sostituirmi alla cassa...
«Ho appena ricevuto una telefonata da Riom... Era un Mature, Gabriel, se ho capito bene, un tuo cugino di secondo grado... È vice-capostazione, e dato che viaggia gratis mi ha detto che verrebbe volentieri al funerale, se gli troviamo una camera nel quartiere...».
«Che cosa gli hai risposto?».
«Che gliene troveremo una. Me ne occuperò tra un po’...».
Antoine scese, diede il via libera a Jules.
«Possono salire...».
Quindi passò in cucina a studiare le portate con Julien Bernu. Poiché Fernande, di sopra, era troppo occupata, fu lui a scrivere i piatti del giorno, in rosso, sui menu.
Quando uscì, stavano consegnando dei fiori, e altri ne sarebbero arrivati. A causa dei paramenti funebri non si poteva aprire la finestra della stanza in cui si trovava la bara, e l’odore si stava facendo nauseabondo. Aveva già cominciato a diffondersi in casa, denso e dolciastro.
Verso le nove e mezzo entrò al Crédit Lyonnais di rue Saint-Honoré, dove aveva un conto. Conosceva il vicedirettore, il signor Grangier, che all’occorrenza si occupava delle sue operazioni.
«Condoglianze, signor Mature... Ho saputo di suo padre... A proposito, quando ha luogo il trasporto funebre?».
«Domani, alle nove...».
«Naturalmente ci sarò... Posso fare qualcosa per lei?».
«Io e i miei fratelli siamo alquanto in difficoltà... Mio padre non ha lasciato niente di scritto, ma nel suo portafoglio abbiamo trovato una chiave...».
Tirò fuori di tasca il proprio mazzo, ne staccò la chiave della sua cassetta di sicurezza.
«È di due o tre millimetri più lunga di questa, e più brillante. L’anello non è ovale, ma rotondo, e porta inciso il numero 113...».
«L’ha con sé?».
Arrossendo, Antoine rispose:
«No... L’ho consegnata al mio fratello maggiore...».
«Se si tratta della chiave di una cassetta di sicurezza, come tutto mi fa pensare, deve provenire dal Comptoir d’Escompte, perché le chiavi delle loro cassette corrispondono alla sua descrizione... Penso che suo padre si sarà rivolto a una succursale del quartiere...».
«Non si allontanava mai di molto...».
«Se vuole, posso telefonare al mio collega... C’è una filiale del Comptoir d’Escompte in boulevard de Sébastopol... Solo un momento...».
Davanti a sé, sulla scrivania aveva diversi apparecchi telefonici: scelse quello che era in linea diretta e compose il numero.
«Mi passi il signor Favret, per favore... Sono Grangier... Si sieda, signor Mature... Pronto!... Favret?... Benissimo, grazie... Anche sua moglie, spero... Le porga i miei ossequi, la prego... Avrei bisogno di un’informazione...
«È morto il padre di un nostro buon cliente... Mature, sì... Come?... È appunto per questo che le telefono... Il figlio è qui nel mio ufficio... Hanno trovato una chiave con inciso il numero 113... Nessun documento, no... È effettivamente presso di voi?...
«Un momento che glielo chiedo.
«Siete in diversi a ereditare, vero? Tre fratelli, se non mi sbaglio... E la mamma, c’è ancora?...
«Favret?... La madre e tre figli... Tutti e tre maggiorenni, sì... Dal giudice di pace... La ringrazio... Glielo riferisco subito...».
Sembrava un po’ un prestigiatore che ha concluso con successo il suo numero.
«Ha visto che non era difficile... Suo padre aveva effettivamente una cassetta di sicurezza al Comptoir d’Escompte di boulevard de Sébastopol... Ma non vi ha mai aperto un conto, visto che, come suppongo, degli affari si occupava lei... Dovrà semplicemente presentarsi con i suoi fratelli dal giudice di pace del quartiere, rue du Louvre, o anche, credo, dal suo cancelliere...».
«E mia madre?».
«Non può accompagnarvi?».
«Non esce più dalla sua camera».
«Vi daranno un modulo da farle firmare... Sono felice di averle potuto rendere questo piccolo favore, tanto più che in questo momento sarà occupatissimo...».
Fuori, fu tanto se Antoine si rese conto che l’aria sapeva di primavera, che le donne portavano abiti chiari, che gli uomini e lui stesso uscivano per la prima volta senza cappotto.
Adesso in casa c’era un continuo viavai sulla vecchia scala e ogni quarto d’ora un fattorino saliva a consegnare dei fiori o una corona.
Antoine telefonò al Palazzo di Giustizia e dovette aspettare un bel po’ per riuscire a parlare con Ferdinand.
«Sono Antoine...».
«Pensavo giusto di passare da te fra un’ora... Ci sarai?...».
«Sì... Ho trovato la banca...».
«Come hai fatto?».
«Ho parlato con il vicedirettore della mia... Gli ho descritto la chiave e lui ha telefonato al Comptoir d’Escompte in boulevard de Sébastopol. Papà aveva lì una cassetta di sicurezza, ma nessun conto corrente...».
«Arrivo...».
Pazienza per René Mauvis. Avrebbe aspettato il mercoledì. Era soltanto un ometto qualunque, uno dei tanti che alle sei di sera s’infilano sgomitando nella metro piena zeppa, e nessuno avrebbe mai parlato di lui se non fosse stato sospettato di due omicidi. Quanto all’avvocato, Ferdinand gli aveva già telefonato.
«Mi dispiace intralciare i suoi molti impegni, avvocato. Questo interrogatorio avrebbe potuto svolgersi sabato e non è colpa mia se sono costretto a rimandarlo a mercoledì... No! Assolutamente impossibile... Domani sarà sepolto mio padre...».
In rue de la Grande-Truanderie, Antoine diede per un po’ il cambio a Fernande per permetterle di prendere una boccata d’aria. Nell’appartamento del primo piano non si respirava. C’erano fiori dappertutto. Straripavano dalla camera ardente e invadevano il salotto fino a ricoprire il divano.
Fernande aveva posato su un tavolino un vassoio del servizio d’argento che conteneva già una ventina di biglietti da visita, alcuni con l’angolo piegato, altri no.
Per Antoine tutto questo era una novità. Non c’era mai stato un morto in famiglia e lui si sentiva disorientato. Non riconobbe i due uomini delle pompe funebri che venivano a chiudere la bara.
Come probabilmente aveva fatto Fernande prima di lui, Antoine, senza sedersi, rimase nel salotto, in prossimità della porta aperta. I visitatori, dapprima esitanti, finivano poi per dirigersi verso di lui e stringergli la mano sussurrando parole più o meno intelligibili.
«Grazie...».
Non li conosceva tutti, né tutte, dato che non c’era solo gente delle Halles. Artigiani che avevano lavorato per loro apparivano completamente diversi perché si erano messi un vestito, mentre Antoine li aveva sempre visti in tenuta da lavoro.
Il vecchio Hector, padre di Léon, salì la scala così lentamente che, quando arrivò, la bara era chiusa. Restò a lungo là davanti, dritto come un fuso, a fissarla, senza preoccuparsi del viavai che aveva intorno.
Poi bagnò il ramoscello di bosso nell’acqua benedetta e tracciò solennemente una croce in corrispondenza del corpo dell’amico.
Sarebbe vissuto ancora un anno o due, forse soltanto fino al prossimo inverno, e allora sarebbe stato Antoine a dargli l’ultimo saluto nell’appartamento vicino.
Quando Fernande lo raggiunse gli sussurrò:
«Tuo fratello è di sopra. Ho pensato bene di farlo salire perché giù hanno cominciato ad apparecchiare e il personale pranzerà tra poco...».
Antoine cominciò a salire la scala e trovò Ferdinand in piedi al centro del salotto.
«Molto stanco?» domandò il giudice. «Non mi aspettavo tanta gente...».
«Neanch’io...».
«Purtroppo non possiamo aiutarvi... Ho lasciato questo quartiere da così tanto tempo che non conosco più nessuno... Véronique ancora meno, ovviamente...».
«Ovviamente...».
«Ho pensato che era meglio che noi due avessimo un colloquio a quattr’occhi... Ieri sera Bernard e Nicole sono venuti da noi...».
Antoine lo guardò, a malapena stupito. Quella mattina non riusciva a calarsi nella realtà, e di colpo si domandò che cosa faceva il fratello, la sera, nel suo appartamento.
Gente di sotto. Gente al primo piano. Ferdinand lì davanti a lui. E tra un’ora, non appena il personale avesse finito di mangiare, avrebbe dovuto prendere il suo posto nel Guignol e porgere il menu ai clienti.
«Bernard aveva bevuto, e naturalmente era piuttosto su di giri... Sai com’è fatto... Sempre a caccia di soldi... Adesso che intravede l’occasione buona, quel denaro lo vorrebbe subito e ha una fifa blu di lasciarselo scappare...».
«Che cos’ha in mente?».
«L’apertura della cassetta, ovvio... Ma prima devo farti una domanda... Suppongo, naturalmente, che tu dichiari di essere erede...».
«Che cosa vuoi dire? Non lo sono a buon diritto?».
«Certo!... Sono piccoli dettagli legali... Ascoltami bene... Ci ho riflettuto molto... Abbiamo due modi di regolare la successione... Ciascuno di noi può dichiararsi erede con beneficio d’inventario, e in tal caso se ne occuperà il tribunale di prima istanza che nominerà gli esperti...».
Antoine, che solo pochi minuti prima si trovava ancora nella camera del morto, corrugò la fronte.
«C’è qualcuno che pretende di vedere un inventario?».
«Io no... Neanche Bernard... Tutti e due ci fidiamo di te e, quanto alla mamma, poverina...».
Allora? Perché Ferdinand aveva quell’aria imbarazzata e insieme preoccupata? Si torceva le mani come quando, da bambino, doveva far firmare una pagella poco encomiabile.
«Non vedo cosa ci sia di complicato... I miei libri sono a vostra disposizione... Qualunque commercialista da voi designato potrà esaminarli... Quanto all’azienda, è facile conoscerne il valore approssimativo...».
«Hai ragione... O meglio, avresti ragione se non ci fosse quella cassetta di sicurezza... Non sappiamo niente del patrimonio che lascia nostro padre... E per ottenere l’apertura della cassetta è indispensabile un’autorizzazione del giudice...».
«Lo so...».
«Gli ho telefonato poco fa... Noi tre, figli maschi, dovremo firmare davanti a lui un’accettazione di eredità...».
«E la mamma?».
Ferdinand, con uno sguardo sfuggente, rispose:
«Se confessiamo che non ci sta più con la testa, ci saranno delle complicazioni... Ma ho portato un modulo da farle compilare e firmare...».
«La mamma non è in grado...».
«Ma se tua moglie le tiene la mano...».
Antoine fu sul punto di alzarsi, indignato.
«Che storia è questa?» esclamò, sforzandosi di non perdere il controllo.
Si sentiva salire il sangue alla testa e squadrava il fratello con uno sguardo ostile.
«Non c’è nessuna storia... Cerco di spiegarti le cose nel modo più semplice... Il Codice prevede che gli eredi diretti, se non ci sono minorenni, possono procedere alla spartizione senza formalità... Sono venuto a domandarti, da parte di Bernard e mia, se sei d’accordo...».
«Ma la mamma?...».
«Non credo che le si faccia un qualche torto aiutandola a firmare un documento al quale, se avesse ancora l’uso della ragione, darebbe senz’altro il suo benestare... Insomma, questa cassetta deve essere aperta, sì o no?».
«Sì, dev’essere aperta, ma...».
Antoine stava per dire:
«Ma forse si potrebbe aspettare che nostro padre sia sottoterra...».
Gli stavano addosso. Lo assillavano. Cominciava a domandarsi perché i suoi fratelli avessero tanta fretta, e se non ci fosse sotto qualcosa.
«In questo caso, la cassetta sarà aperta oggi pomeriggio, alle due e mezzo. Ho preso appuntamento con il giudice di pace per le due... Ciascuno di noi firmerà lo stesso documento della mamma... Tieni... Ecco quello della mamma... Chiedi a tua moglie di...».
Antoine glielo prese di mano e uscì. Non era più rosso in faccia, era pallido. Scostò quasi con violenza alcuni sconosciuti che gli sbarravano il passo sul pianerottolo e, giunto davanti a Fernande che riceveva le condoglianze, le fece segno di seguirlo un momento nella camera della madre.
«A quanto pare, è indispensabile che lei firmi... Puoi tenerle la mano?».
Fernande lo guardò, sorpresa.
«È stato Ferdinand a...?».
Le rispose con un cenno di assenso.
«Non rischiamo di trovarci nei guai?».
«Lui è sicuro di no... Se non abbiamo la sua firma, dovremo dichiararla incapace di intendere e di volere, e allora ci si metterà di mezzo il tribunale...».
Lei era più sospettosa del marito.
«Ci hai pensato bene, Antoine?».
A quel punto, era tanto disgustato che avrebbe fatto qualsiasi cosa, 7
«Tua moglie ce l’ha fatta?».
Antoine gli allungò il foglio senza dire parola, senza averci dato neppure un’occhiata. Ferdinand lo mise nel portafoglio, ma non accennò ad andarsene.
«Devo parlarti di questo Jason... Preferisco che non ci sia Bernard perché andrebbe di nuovo su tutte le furie...».
Antoine lo guardò con aria indifferente.
«Come pensavo, a occuparsi del caso è stato il mio collega Mourine. L’ho sentito brevemente stamattina. Jason gestiva uno di quegli studi legali più o meno equivoci che prosperano intorno a Porte Saint-Martin, a Porte Saint-Denis e alle Halles.
«Certi sono specializzati in compravendita di esercizi commerciali. Altri in prestiti a breve scadenza. Altri ancora aiutano artigiani e negozianti a compilare la dichiarazione dei redditi e a tenere i libri contabili...
«Jason faceva un po’ di tutto questo... Un paio di volte, nel corso degli ultimi anni, la Procura è stata chiamata a ficcare il naso nei suoi affari, ma non vi ha mai trovato niente di reprensibile...
«Godeva della fiducia dei suoi clienti, faceva loro da contabile, da notaio, da avvocato, da banchiere... Capisci cosa voglio dire... Era quello che la gente semplice, specie nelle campagne e nelle piccole città, chiama un uomo di legge...
«Simili personaggi sono dei gran furbacchioni... Per quel che ho capito, perché la cosa non rientra nel mio campo, gli capitava di intestarsi una nuda proprietà... Si è messo perfino, poiché a volte era una tentazione anche per certi stimati notai, a trafficare con il denaro dei clienti...
«Un bel giorno si è trovato sull’orlo di un baratro... Non ha potuto onorare gli impegni... La notizia si è allargata a macchia d’olio nel quartiere e i suoi clienti, in preda al panico, gli si sono rivoltati contro...
«Per il mio collega Mourine si tratta di una storia banale... Una trentina di querelanti in tutto... La disamina dei libri e delle carte sequestrati a Villeneuve-Saint-Georges ha rivelato, come Mourine si aspettava, che la contabilità era truccata...
«Ho chiesto se tra quelli che hanno sporto denuncia c’era anche nostro padre... Pare di no...
«In via amichevole e del tutto eccezionale, Mourine mi ha dato questo taccuino sequestrato insieme agli altri documenti».
Ferdinand tirò fuori di tasca un taccuino nero, alquanto spesso, rivestito di tela cerata, chiuso da un elastico.
«Jason annotava nome e indirizzo dei suoi clienti cancellando via via i nomi con la matita rossa in base ai decessi, giacché lavorava soprattutto con persone anziane... C’è anche nostro padre... Ecco la pagina...
«Come puoi vedere, sotto il nome e l’indirizzo si trovano solo delle date e nessun altro cenno... La cosa ha inizio nel settembre 1947...».
«Quando nostro padre mi ha firmato un atto di associazione...».
«Da allora ci sono altre date scritte in colonna: marzo 1948, febbraio 1949, ancora marzo 1950, e così via, con a volte, ma raramente, riferimenti ad altri periodi dell’anno, agosto, novembre, in via eccezionale dicembre...».
Antoine restituì il taccuino al fratello.
«Temo proprio» sospirò Ferdinand «che andremo incontro a brutte sorprese... Quello che un po’ mi rassicura è che papà non figura tra i querelanti... Adesso devo andare... Devo ancora avvertire Bernard dell’appuntamento... Alle due, dal giudice di pace del Primo arrondissement, rue du Louvre...».
«Scendo con te...».
Antoine non gli diede la mano, non passò neppure da Fernande, andò direttamente verso le cucine, poi si piazzò nella seconda sala per accogliere e far accomodare i clienti che cominciavano ad arrivare.
Sul vetro della porta d’ingresso aveva attaccato un cartello: Martedì il ristorante resterà chiuso.
L’odore dei fiori era arrivato fino alle sale del pianterreno dove si mescolava agli effluvi di cucina. Antoine compiva i gesti di tutti i giorni, pronunciava le parole di tutti i giorni, ma lo faceva in modo meccanico. Liselotte badava nello stesso tempo al guardaroba e alla cassa.
Non aveva pranzato. Si accontentò, tra una puntata e l’altra in cucina, di una coscia di pollo freddo.
François, il cameriere dai capelli rossi, aveva portato su il pranzo di Fernande e quello della vecchia signora. Il sole invadeva la prima sala, si rifletteva sul bancone di stagno e sulle bottiglie. Anche quella mattina il sole inondava gli ortaggi, la frutta e i fiori delle Halles, ma lui non ci aveva fatto caso.
Di solito al mattino, quando usciva di casa, il suo primo pensiero era di guardare il cielo. Poteva quasi dire l’ora, come i contadini, in base all’altezza del sole, all’angolo dei raggi che entravano nel caffè o nell’appartamento.
Da sabato, non se ne curava più, e a malapena si era accorto, il giorno prima, che improvvisamente era esplosa la primavera.
Quando salì, sua madre era già stata messa a dormire e Fernande faceva ordine intorno al letto. Le bastò un’occhiata per capire che Antoine non era del solito umore.
«Sei preoccupato? Qualcosa non va? È stata la visita di Ferdinand?».
Lui rispose, con il gesto di scacciare qualcosa di impalpabile:
«Non solo quella...».
«Esci?».
«Vado con loro dal giudice di pace, e dopo, tutti e tre insieme, andremo alla banca...».
In rue du Louvre trovò Ferdinand, che lo aspettava sul marciapiede.
«Bernard non è ancora arrivato» disse suo fratello dando un’occhiata all’orologio. «È in ritardo...».
Nello stesso momento l’auto con Nicole al volante si fermò rasente al marciapiede. Bernard sembrava in buona forma, con tuttavia qualcosa di lontano, di assente nello sguardo.
«Salve!...» esclamò.
Intanto Nicole sussurrava molto in fretta a Ferdinand:
«Tranquilli... Non ho intenzione di venire con voi... Volevo solo essere sicura che non mancasse all’appuntamento... Stamattina non si sentiva bene e ho dovuto fargli un’iniezione...».
Dal giudice di pace le cose andarono alla svelta.
«Antoine Mature?... Vuole firmare qui?... E qui, per favore... La ringrazio... Suppongo che lei sia Bernard Mature e che sia al corrente...».
«Dove devo firmare?».
«Qui... E anche qui...».
Dopo neanche dieci minuti, ottenuta l’autorizzazione necessaria all’apertura della cassetta, i tre fratelli uscirono. La macchina non c’era più, e neanche Nicole.
Si diressero a piedi verso boulevard de Sébastopol. Non trovavano niente da dirsi. Ciascuno seguiva il filo dei propri pensieri.
Percorrevano le stesse strade in cui avevano giocato da bambini, e Antoine si ricordava in particolare di quando, muniti di pompe altrettanto potenti di quelle dei vigili del fuoco, gli uomini della nettezza urbana ripulivano la strada dalle foglie, dai gambi di ortaggi e da rifiuti vari.
Il massimo del divertimento, in estate, era passare di corsa attraverso quel getto potente. Lo aveva fatto anche Ferdinand, poi Bernard. Chissà se i suoi fratelli se lo ricordavano...
Il direttore del Comptoir d’Escompte, magro, brizzolato, molto elegante, li aspettava e strinse loro la mano.
«Prego, signori, da questa parte...».
Li accompagnò nel seminterrato, dove un sorvegliante in divisa aprì un primo cancello. Oltrepassarono quindi una monumentale porta blindata.
«Avete l’autorizzazione del giudice di pace?».
Ferdinand gliela porse.
«A posto. Chi ha la chiave?».
«Eccola...».
Ferdinand, a disagio, aprì la busta con i cinque sigilli, che il direttore osservò alquanto incuriosito.
Girò subito la chiave della banca in una prima serratura, poi, in un’altra serratura, girò la chiave che gli era stata appena consegnata.
Calò un silenzio quasi angoscioso. I tre fratelli tenevano gli occhi fissi, come in trance, aspettandosi magari di trovare la cassetta vuota.
«Se posso esservi utile, vi basterà farmi chiamare. Sono a vostra completa disposizione...».
E si allontanò con passo svelto facendo scricchiolare le scarpe nuove. Alle loro spalle c’erano alcuni tavoli e delle sedie, e in un angolo, accanto all’inferriata, il sorvegliante, imperturbabile, fingeva di guardare da un’altra parte.
Per un momento sembrò che Ferdinand volesse chiedere ai fratelli cosa doveva fare, poi si decise, allungò la mano e afferrò una pila di documenti accingendosi a trasferirli su un tavolo.
Erano titoli, perlopiù compilati in inglese, suddivisi in pacchetti, ciascuno dei quali era tenuto fermo da un elastico.
Nessuno di loro sapeva l’inglese. Alcuni titoli erano compilati anche in spagnolo, ma loro non conoscevano neanche lo spagnolo.
«Dobbiamo richiamarlo...» suggerì Bernard. «A meno che uno di voi due non ci capisca qualcosa...».
«Volete che avverta il direttore?» propose il guardiano.
«Sì, per favore...».
Si trovavano sottoterra, tra pareti di cemento armato che attutivano ogni rumore. A un tavolo, una donna sui quarant’anni staccava lentamente delle cedole da un mucchio di titoli che aveva davanti lanciando ogni tanto ai tre fratelli un’occhiata incuriosita.
Che aria avevano? Quasi non osavano guardarsi. L’illuminazione al neon li faceva sembrare più pallidi di quanto non fossero, quasi verdastri. Rimanevano lì, come sospesi nel tempo, nello spazio, girati verso il cancello, verso la scala, nell’attesa di quell’omino che stava per pronunciare il suo verdetto.
«Avete bisogno di me, signori?».
Poiché gli altri due stavano zitti, fu ancora Ferdinand a prendere la parola.
«Gradiremmo conoscere all’incirca il valore di queste azioni...».
Il direttore diede un’occhiata al primo pacchetto.
«Miniere d’oro canadesi...».
Poi al secondo:
«Miniere della Colombia...».
Un terzo pacchetto, un quarto. Quando arrivò all’ultimo, li guardò, sorpreso.
«Suppongo che sia stato vostro padre a comprare questi titoli... Se posso permettermi, vi aspettate che valgano una grossa cifra?».
«Nostro padre disponeva di quasi centomila franchi da investire ogni anno...».
«Sapete chi lo consigliava?».
«Probabilmente un uomo d’affari del quartiere...».
Bernard, al colmo dell’esasperazione, si mangiava le unghie come faceva da bambino.
«Avete la possibilità di rivalervi contro di lui?».
«È morto in prigione...».
«Ci avrei giurato... Sono spiacente, signori, di annunciarvi che da tutti questi titoli non ricaverete neanche diecimila franchi, sempre che troviate un compratore, cosa che ritengo improbabile...».
Nella cassetta di sicurezza c’era ancora una grossa busta in carta da pacchi chiusa da un elastico. Ferdinand l’aprì con dita che tremavano dalla tensione nervosa.
La busta conteneva quattro mazzette da diecimila franchi e duemilaottocentocinquanta franchi in banconote di piccolo taglio.
A differenza degli altri due, che non capivano, Antoine aveva riconosciuto la busta che lui stesso aveva consegnato al padre.
«È la parte di papà sui proventi dell’anno scorso» spiegò. «Gli ho versato questa somma l’8 febbraio, all’indomani dell’inventario...».
«Posso ancora esservi utile, signori?».
Intervenne Bernard:
«C’è qualche probabilità che queste azioni risalgano?».
«Non sono neanche quotate in Borsa. Alcune, poi, una quotazione non l’hanno mai avuta. Quanto ai titoli sudamericani, riguardano miniere che sono state nazionalizzate senza alcuna contropartita...».
«Che cosa ne facciamo?».
«Fatene quello che volete... Desiderate conservare la cassetta?...».
La fine del colloquio fu penosa. Antoine vedeva i fratelli affannarsi come fantasmi in un mondo irreale.
L’omino azzimato assumeva l’aspetto di una sorta di demiurgo che aveva pronunciato il suo verdetto e ci si sarebbe quasi aspettati che si facesse una risata.
Come avrebbe ricordato, lui, quell’incontro con i fratelli Mature?
«Adesso dove vai?».
Ferdinand richiamava Antoine.
«A casa...».
«Aspetta... Meglio che usciamo insieme...».
Si girò verso il direttore:
«Possiamo tenere la cassetta ancora per qualche giorno?».
«A nome di chi?».
«Di noi tre...».
«Basterà che diate in cassa un campione delle vostre firme... Faccio preparare subito le schede...».
Ferdinand rimise i titoli nella cassetta: non poteva portarseli via sotto braccio, dato che non aveva della carta per impacchettarli.
«Cosa faccio del denaro?».
«Non potremmo parlarne da un’altra parte?».
«Lo porto via?».
«Sì, portiamocelo via...» articolò Bernard, che sembrava sul punto di scoppiare a piangere.
Di sopra, alla cassa, firmarono l’uno dopo l’altro, senza rivedere il direttore, e si ritrovarono fuori, sul marciapiede, in pieno sole. Un grande magazzino aveva esposto dei saldi all’esterno e alcune donne palpeggiavano capi di biancheria intima.
«Andiamo a bere un bicchiere da qualche parte?».
Antoine preferiva non riportarli in rue de la Grande-Truanderie. Li accolse l’ombra fresca di una birreria e si diressero verso un angolo quasi deserto della sala.
Bernard ordinò un cognac, i suoi fratelli una birra.
«Mi chiedo se nostro padre non fosse impazzito...».
«È stato Jason a...» cominciò a dire Ferdinand.
Tacque, aspettando che il cameriere finisse di servirli. Bernard mandò giù il suo cognac in un sorso solo e ne ordinò un altro.
«Sta’ attento!... Ricordati che domani mattina c’è il funerale...».
«Me ne frego del funerale...».
Cercava di trattenersi dallo scoppiare a piangere.
«A voi due i soldi non mancano... Io, se non verso diecimila franchi prima della fine della settimana, Dio solo sa dove posso andare a finire...».
Si voltò verso Ferdinand con aria rabbiosa:
«Forse davanti a te, nel tuo ufficio!... E tutto questo perché nostro padre ha creduto di essere più furbo degli altri, quando era soltanto un vecchio idiota...».
«È stato Jason a...».
«Jason, cosa?».
«Ne abbiamo parlato ieri... Nostro padre si fidava di lui...».
«E Jason gli ha fatto comprare questi titoli?».
«Probabilmente... Papà ha pensato che così ci avrebbe lasciato un bel gruzzolo... Anche per questo non ci parlava mai di soldi... Voleva farci la sorpresa...».
«Perché non ha sporto denuncia, quando Jason è stato arrestato?».
Antoine ci stava giusto pensando, perduto in una sorta di fantasticheria. Quasi non sentiva quello che andavano dicendo gli altri due. Conosceva il padre meglio di loro, e immaginava il terribile colpo che il vecchio aveva ricevuto scoprendo che l’uomo di cui si fidava era in realtà un imbroglione.
Sporgere denuncia insieme agli altri significava rivelare la propria dabbenaggine. E anche ammettere, davanti ai figli, che non lasciava loro niente dell’eredità che si aspettavano.
Aveva lavorato tutta la vita, dall’età di dodici anni, per accumulare una fortuna, contando ogni centesimo, e non restava che il ristorante di cui ormai la vera anima era Antoine.
Doveva aver vissuto mesi, roso dalla vergogna, sapendo che quando se ne fosse andato avrebbe lasciato dietro di sé rancore anziché rimpianto.
Antoine aveva la sensazione di non aver mai conosciuto così bene suo padre, il suo atavismo contadino, la sua umiltà e il suo orgoglio.
«Che cosa ne facciamo di questi soldi?» si arrischiò finalmente a chiedere Bernard, che non riusciva a trattenere l’angoscia e l’insofferenza.
Era come quando andava a spillare quattrini a uno dei fratelli. Cominciava sempre col chiedere migliaia di franchi per un affare mirabolante, poi, a poco a poco, arrivava ad accontentarsi di una mancetta da due o trecento franchi.
Si era appena visto sfumare sotto gli occhi un patrimonio. In pochi minuti tutto era precipitato. Ma in tasca a Ferdinand restavano ancora delle banconote che lui avrebbe potuto palpeggiare, che gli avrebbero permesso di affrontare i problemi più urgenti, di illudersi per qualche settimana, di sentirsi sulla cresta dell’onda.
«Che cosa ne pensi, Antoine?».
«Potete dividerli fra voi come anticipo su quanto vi devo per il ristorante...».
«Vuoi che ti firmiamo una ricevuta?».
«Non ho bisogno di ricevute...».
E si alzò.
«Scusatemi... Fernande mi aspetta...».
Non gli andava di assistere alla spartizione in mezzo ai bicchieri di birra e di cognac, sotto gli occhi del cameriere impassibile.firmato tutti i documenti del mondo, pur di starsene in pace.
«Cerca di farlo... Giù ti sostituisco io...».
E andò a piantarsi al centro del salotto, con il volto privo di espressione, porgendo la mano a mani che si protendevano verso di lui e sussurra8
Si sarebbe detto che tutto il popolo delle Halles, tutti i commercianti del quartiere si fossero dati appuntamento in rue de la Grande-Truanderie. Il vecchio Chaussard, vestito di tutto punto, se ne stava impettito sul marciapiede di fronte, accanto al figlio che indossava un completo e una cravatta neri.
C’erano donne che erano venute così com’erano, infagottate nei vecchi abiti da lavoro, abbandonando per un momento la loro bancarella, e qualcuna si asciugava gli occhi con un lembo del grembiule.
Gabriel, il cugino di secondo grado di Riom, era arrivato con la moglie e i tre figli, ed erano rimasti nella camera ardente, dove già mancava lo spazio per quelli che sfilavano all’ultimo momento davanti alla bara.
Fernande, Véronique e Nicole erano restate a casa, mentre i tre fratelli camminavano fianco a fianco dietro al carro funebre che si avviava lentamente alla volta di Saint-Eustache.
L’aria era tiepida. Il sole splendente. Se ci si girava, si scopriva la massa scura di una folla che si snodava serpeggiando lungo più di trecento metri, e le campane suonavano a morto in un cielo terso.
I tre fratelli non si scambiavano né una parola né uno sguardo. Nella penombra della chiesa il cerimoniere, con tanto di feluca, li accompagnò al loro posto in prima fila, e loro rimasero in piedi, immobili, mentre alle loro spalle alcune sedie stridevano sulle pietre del pavimento.
La porta in fondo restava aperta, perché c’era gente fin sul sagrato, e una grande losanga di sole si disegnava nella semioscurità di Saint-Eustache.
Al momento della questua, ciascuno di loro cercò istintivamente una moneta in tasca.
«Pater noster...».
Il prete, che indossava la pianeta nera, girava intorno al catafalco facendo oscillare il turibolo, e un chierichetto poco più che bambino gli trotterellava dietro inginocchiandosi ogni volta che passava davanti al tabernacolo.
«Et ne nos inducas in tentationem...».
Levandosi dalla tribuna, la voce dei cantori dilagava come un’onda fin nei recessi dell’ampia navata.
«Amen...».
Antoine si sentiva il sangue alla testa e le orecchie in fiamme. Domani, come se non fosse successo niente, avrebbe ritrovato al loro posto, alle Halles, quegli uomini e quelle donne che affollavano la chiesa. Verso le sette, dopo aver fatto quattro chiacchiere con Léon dietro la griglia dipinta di rosso della macelleria, avrebbe chiesto a Jules il suo caffè del mattino.
Nel giro di pochi anni le Halles sarebbero sparite, i padiglioni smontati come giocattoli; sarebbero crollate per prime le facciate delle case, i pavimenti, le scale, rivelando su pezzi di muro la carta da parati con le tracce dei mobili.
L’uomo dalla feluca gli toccò la manica e lui lo seguì. O meglio, seguì Ferdinand che, essendo il maggiore dei tre, apriva la marcia.
Fuori regnava una discreta confusione. Non solo il carro funebre era letteralmente sommerso da fiori e corone, ma ci vollero due macchine per trasportarli tutti.
Si vedevano solo teste, centinaia di teste, sopra le quali, da qualche parte, spuntava rigido lo stendardo degli Alverniati di Parigi.
Qualcuno, non seppe mai chi, gli strinse furtivamente la mano, poi si ritrovò in una delle macchine con i due fratelli.
Ci vollero ancora quasi dieci minuti perché il convoglio funebre si mettesse in moto. Nell’auto che li precedeva si scorgevano la cotta bianca del prete e i capelli biondi del chierichetto.
Lentamente attraversarono le Halles tra due ali di spettatori silenziosi. Raggiunto il lungosenna, l’andatura si fece un po’ più sostenuta.
I tre fratelli, immobili, tacevano, come ignorando ciascuno la presenza degli altri due. Adesso il corteo sfilava in mezzo a una successione di case e si vedevano dei balconi, e biancheria stesa ad asciugare. Poi, la periferia, le case popolari, i terreni abbandonati.
Alcune macchine li superavano e i passeggeri si giravano a guardare il carro funebre, cercando poi di distinguere i volti nelle macchine del seguito.
I boccioli si erano schiusi, lasciando spuntare piccoli ciuffi vivi di un verde tenue. Due alberi, da qualche parte, erano in fiore. Potenti getti d’acqua bagnavano il terreno cinto da mura di un orticoltore e una donna piegata in due raccoglieva porri.
Di lì a poco si sarebbero ritrovati al ristorante, nel Guignol, dov’erano stati disposti piccoli tavoli l’uno accanto all’altro come per un matrimonio.
Avrebbero rivisto Gabriel, il capostazione aggiunto, con la famiglia, l’anziana donna che avevano appena intravisto e che abitava a Saint-Hippolyte, e altri ancora, parenti alla lontana, che avevano fatto parte per qualche tempo della vita di Auguste.
Era proprio lui quello dentro il carro funebre che si intravedeva ogni tanto a una curva?
Per Antoine, forse anche per altri, lui non era soltanto morto. Non esisteva più. Al suo posto non restava niente. Non lasciava niente dietro di sé.
C’era stata un tempo la ragazza di sedici anni dai biondi capelli arruffati, di cui lui aveva tenuto la fotografia nel portafoglio per tutta la vita.
C’era stato quel bistrot alle Halles, con le salsicce, i prosciutti, le enormi pagnotte, di cui il vecchio stava mostrando orgoglioso la fotografia a una coppia nel momento in cui era stramazzato trascinando con sé tovaglia, piatti e posate.
E c’erano stati dei figli, prima Ferdinand, Antoine e poi Bernard, che l’uno dopo l’altro avevano gattonato nella segatura davanti al bancone di stagno.
Avevano formato una famiglia. Auguste aveva avuto una moglie e tre figli.
Una moglie che oggi doveva essere imboccata e alla quale, il giorno prima, si era carpita la firma per trasformarla al più presto in denaro.
Tre figli che erano stati fratelli, che avevano dormito insieme, che avevano avuto la stessa paura del buio, che avevano scorrazzato con la stessa gioia nel sole della strada.
E adesso erano tutti e tre dentro quella macchina, muti, senza niente da dirsi, senza osare aprir bocca, perché il vecchio Auguste era morto e loro erano diventati degli estranei.
Alle Halles restavano soltanto il bancone di stagno e i salumi esposti in vetrina.
Quando anche la casa fosse sparita, probabilmente Antoine sarebbe andato con Fernande ad aprire un albergo da qualche parte, di preferenza in riva al mare, e sarebbero invecchiati insieme, lasciandosi dietro solo un po’ di soldi che si sarebbero disputati i figli di Jean-Loup, forse quelli di Marie-Laure se mai si fosse sposata, e un Bernard ormai vecchio e sempre in cerca di fortuna.
Antoine guardò i due volti che gli stavano di fronte.
Erano vuoti quanto il suo.
Épalinges (Vaud), 17 marzo 1966ndo meccanicamente:
«Molte grazie... Grazie... La ringrazio... Domani alle nove, sì... Grazie...».
Gli sembrò passasse un’eternità prima di vedere tornare Fernande, che gli infilò in mano il documento.
«Fatto?».
«Non è stata una passeggiata...».
Allora salì da suo fratello.