mercoledì 12 giugno 2019


BICICLETTE, MUSCOLI, SIGARETTE
Estratto da  "Da dove sto chiamando"
Raymond Carver

Erano due giorni che Evan Hamilton aveva smesso di fumare e gli sembrava che tutto quello che aveva detto e pensato in quei due giorni avesse qualcosa a che fare con le sigarette. Si esaminò le mani sotto la luce in cucina. Si annusò le nocche e le dita. – Ne sento ancora l’odore, – disse. – Lo so. È come se trasudasse dalla pelle, – disse Ann Hamilton. – Quando ho smesso io, me lo sono sentito addosso per tre giorni. Anche appena uscita dalla vasca. Era disgustoso –. Stava apparecchiando la tavola per cena. – Mi dispiace, caro. So benissimo quello che stai passando. Se ti può consolare, sappi che il secondo giorno è il peggiore. Certo, anche il terzo è duro, ma dopo, se sei riuscito a resistere tanto, il peggio è passato. Non sai quanto mi fa piacere che ci stai provando sul serio a smettere –. Gli toccò il braccio. – Allora, se adesso chiami Roger, possiamo metterci a tavola. Hamilton aprí la porta di casa. Era già buio. All’inizio di novembre le giornate si erano fatte corte e fredde. Un ragazzino piú grande di Roger che lui non aveva mai visto prima era in sella a una bici piccola, ma bene attrezzata, nel bel mezzo del vialetto. Il ragazzino si sporse in avanti scendendo dal sellino, poggiando a terra le punte dei piedi per tenersi in equilibrio. – È lei il signor Hamilton? – Sí. Che c’è? – disse Hamilton. – È successo qualcosa a Roger? – Be’, veramente Roger è a casa mia a parlare con mia madre. C’è anche Kip e un ragazzo che si chiama Gary Berman. Si tratta della bici di mio fratello. Non so bene perché, – disse il ragazzino, tormentando le manopole del manubrio, – ma mia madre mi ha detto di venirla a chiamare. Vuole uno dei genitori di Roger. – Ma lui sta bene? – chiese Hamilton. – Sí, certo, vengo subito –. Rientrò in casa a infilarsi un paio di scarpe. – L’hai trovato? – chiese Ann Hamilton. – S’è cacciato in qualche pasticcio, – rispose Hamilton. – Non so, una bici. C’è un ragazzino, non so come si chiama, qui fuori. Vuole che uno di noi vada giú a casa sua. – Ma lui sta bene? – disse Ann Hamilton, togliendosi il grembiule. – Ma certo che sta bene –. Hamilton la guardò e scosse la testa. – Vedrai, sarà qualche baruffa tra bambini e la madre del ragazzino si è messa di mezzo. – Vuoi che vada io? – chiese Ann Hamilton. Ci pensò su un attimo. – Sí, preferirei ci andassi tu, ma ci vado io. Tieni la cena in caldo finché non torniamo. Non dovremmo metterci tanto. – Non mi piace che rimanga fuori dopo che fa buio, – disse Ann Hamilton. – Non mi piace per niente. Il ragazzino era ancora lí sulla bici e ora tormentava i freni. – È lontano? – chiese Hamilton avviandosi con lui per strada. – Abitiamo giú ad Arbuckle Court, – rispose il ragazzino e quando vide che Hamilton lo guardava perplesso, aggiunse: – Non è lontano. Da qui sono solo un paio di isolati. – Qual è il problema? – chiese Hamilton. – Non ne sono tanto sicuro. Non ho capito bene. Lui, Kip e questo Gary Berman dovevano usare la bici di mio fratello mentre eravamo in vacanza e a quanto pare l’hanno scassata. L’hanno fatto apposta. Però, non so. Comunque, di questo stavano parlando. Mio fratello non ritrova la sua bici e gli ultimi che l’hanno avuta sono Kip e Roger. Mia madre sta cercando di scoprire che fine ha fatto. – Kip lo conosco, – disse Hamilton. – L’altro ragazzo chi è? – Gary Berman. Mi sa che è appena arrivato da queste parti. Suo padre verrà appena torna dal lavoro. Svoltarono in un’altra strada. Il ragazzino pedalava di buona lena, tenendosi appena piú avanti di Hamilton. Oltrepassarono un frutteto e poi svoltarono di nuovo in una strada senza uscita. Hamilton non sapeva neanche che questa strada esistesse ed era sicuro che non avrebbe riconosciuto nessuna delle persone che ci abitavano. Diede un’occhiata alle case lí intorno, nessuna delle quali aveva un aspetto familiare, e si stupí che la vita privata del figlio si fosse spinta fin lí. Il ragazzino girò nel vialetto d’ingresso di una delle case, smontò dalla bicicletta e l’appoggiò contro il muro. Appena aprí la porta, Hamilton lo seguí oltre il soggiorno fino in cucina, dove vide Roger seduto al tavolo accanto a Kip Hollister e a un altro ragazzino. Hamilton osservò attentamente suo figlio e poi si voltò verso il donnone dai capelli neri che si trovava a capotavola. – Lei è il papà di Roger? – gli chiese la donna. – Sí, mi chiamo Evan Hamilton. Buonasera. – Io sono la signora Miller, la mamma di Gilbert. Mi dispiace averla trascinata qui, ma c’è da risolvere un problema. Hamilton si sedette all’altro capo del tavolo e si guardò attorno. Accanto alla donna c’era un ragazzino di nove, dieci anni, probabilmente quello della bici sparita, pensò Hamilton. Un altro ragazzo, sui quattordici anni, se ne stava seduto sul piano del lavello con le gambe penzoloni e osservava un altro ragazzo che parlava al telefono. Dovevano avergli appena detto qualcosa di buffo all’altro capo del filo perché in faccia gli si stampò un sorriso furbesco e si allungò verso il lavello con una sigaretta in mano. Hamilton udí lo sfrigolio della cicca immersa in un bicchier d’acqua. Il ragazzino che l’aveva accompagnato fin lí si era intanto appoggiato al frigorifero a braccia conserte. – Hai avvertito uno dei genitori di Kip? – gli chiese la donna. – La sorella ha detto che stavano facendo la spesa. Sono andato a casa di Gary Berman e suo padre sarà qui fra poco. Gli ho lasciato l’indirizzo. – Signor Hamilton, – disse la donna, – ora le racconto i fatti. Il mese scorso siamo andati in vacanza e Kip ha voluto prendere in prestito la bici di Gilbert in modo che Roger potesse aiutarlo a distribuire i giornali. Mi pare che la bici di Roger avesse una gomma a terra o qualcosa del genere. Be’, adesso si scopre che... – Papà, Gary ha cercato di strozzarmi, – disse Roger. – Che cosa? – disse Hamilton, osservando attentamente suo figlio. – Ha cercato di strozzarmi. Guarda, ho ancora i segni –. Roger si tirò giú il collo della maglietta per farglieli vedere. – Erano dentro il garage, – riprese la donna. – Non sapevo cosa stessero combinando finché Curt, mio figlio maggiore, non è andato a controllare. – Ha cominciato lui! – disse Gary Berman, rivolto a Hamilton. – Mi ha chiamato stronzo –. Gary Berman spostò lo sguardo sulla porta d’ingresso. – Io dico che la mia bici valeva sessanta dollari, ragazzi, – disse il ragazzino di nome Gilbert. – Adesso me li rimborsate. – Gilbert, tu resta fuori da questa storia, – gli disse la madre. Hamilton tirò un respiro profondo. – Continui pure, – disse. – Be’, come dicevo, adesso si scopre che Kip e Roger hanno sí usato la bici di Gilbert per distribuire i giornali, ma poi, insieme a Gary, a quanto dicono, a turno l’hanno fatta rotolare. – Come sarebbe a dire «l’hanno fatta rotolare»? – chiese Hamilton. – L’hanno fatta rotolare, – ripeté la donna, – cioè l’hanno spinta giú per la strada da sola fino a che non cadeva. Poi (e badi bene, questo l’hanno ammesso solo poco fa) Kip e Roger l’hanno portata su fino alla scuola e l’hanno sbattuta contro un palo della porta del campo sportivo. – È vero quello che dice la signora, Roger? – chiese Hamilton, fissando di nuovo suo figlio. – Sí, papà, in parte è vero, – ammise Roger, tenendo gli occhi bassi e sfregando un dito sulla superficie del tavolo. – Però l’abbiamo fatta rotolare solo una volta. Prima Kip, poi Gary e poi io. – Una volta è già troppo, – disse Hamilton. – Una volta è già una volta di troppo. Roger, sono sorpreso e deluso dal tuo comportamento. E anche dal tuo, Kip. – Però vede, – disse la donna, – stasera qualcuno mente o non dice tutto quello che sa, perché il fatto è che la bici non si trova piú. I ragazzi piú grandi, intanto, scherzavano e ridevano con quello che stava ancora parlando al telefono. – Noi non lo sappiamo dov’è la bici, signora Miller, – disse il ragazzino di nome Kip. – Glielo abbiamo detto e ripetuto. L’ultima volta che l’abbiamo vista è stata quando io e Roger l’abbiamo riportata a casa mia da scuola. Cioè, quella è stata la penultima volta. L’ultimissima è stata quando l’ho riportata qui la mattina dopo e l’ho appoggiata dietro casa –. Kip scosse la testa. – Non lo sappiamo che fine ha fatto poi. – Sessanta dollari, – il ragazzino di nome Gilbert disse a quello di nome Kip. – Me li potete ridare un po’ alla volta, tipo cinque dollari a settimana. – Gilbert, te lo dico per l’ultima volta, – disse la donna. – Vede, secondo loro, – riprese la donna, accigliata, – la bici è sparita da qui, da dietro la casa. Ma come si fa a credergli quando non è che siano stati cosí sinceri finora? – Abbiamo detto la verità, – disse Roger. – Tutta la verità. Gilbert si appoggiò allo schienale della sedia e scosse la testa in direzione del figlio di Hamilton. Suonò il campanello e il ragazzo seduto sul ripiano del lavello saltò giú e andò in soggiorno ad aprire. Un uomo con i capelli a spazzola, le spalle rigide e occhi grigi e taglienti entrò in cucina senza dire una parola. Lanciò uno sguardo alla donna e prese posizione alle spalle di Gary Berman. – Lei dev’essere il signor Berman, – disse la donna. – Felice di conoscerla. Io sono la madre di Gilbert e questo è il signor Hamilton, il padre di Roger. L’uomo piegò leggermente la testa verso Hamilton, ma non gli tese la mano. – Che cos’è questa storia? – chiese Berman al figlio. I ragazzini intorno al tavolo cominciarono a parlare tutti insieme. – Silenzio! – disse Berman. – Sto parlando con Gary. Arriverà anche il vostro turno. Gary cominciò a raccontare la sua versione della storia. Il padre lo ascoltava attentamente, stringendo ogni tanto gli occhi per osservare meglio gli altri due ragazzini. Appena Gary Berman ebbe finito, la donna disse: – Vorrei arrivare in fondo a questa faccenda. Sia ben chiaro, signor Berman, signor Hamilton, non è che io accusi uno di loro in particolare... Voglio solo chiarire questa storia fino in fondo –. Intanto non staccava lo sguardo da Roger e da Kip che continuavano a scuotere la testa verso Gary Berman. – Non è vero, Gary, – disse Roger. – Papà, posso parlarti un momento da solo? – chiese Gary Berman. – Andiamo di là, – rispose il padre e andarono in soggiorno. Hamilton li guardò uscire dalla cucina. Aveva la sensazione che avrebbe dovuto fermarli, impedire tutta quella segretezza. Si sentiva le mani sudate e se ne portò una al taschino come per prendersi una sigaretta. Poi, tirando un profondo respiro, si passò il dorso della mano sotto il naso e disse: – Roger, ne sai qualcosa di piú di questa storia, oltre a quello che hai già detto? Sai dov’è la bicicletta di Gilbert? – No, non lo so, – disse il figlio. – Lo giuro. – Quando è stata l’ultima volta che hai visto la bicicletta? – Quando l’abbiamo riportata dalla scuola e l’abbiamo lasciata a casa di Kip. – Kip, – disse Hamilton, – lo sai che fine ha fatto la bicicletta di Gilbert? – Giuro che non lo so nemmeno io, – rispose il ragazzo. – La mattina dopo l’ho riportata qui e l’ho parcheggiata dietro al garage. – Mi pareva che prima avessi detto d’averla lasciata dietro casa, – s’affrettò a dire la donna. – Sí, voglio dire la casa! La casa, volevo dire, – disse il ragazzo. – E non sei tornato qui per farci un altro giretto? – disse lei, sporgendosi in avanti. – No, – rispose Kip. – Kip? – disse la donna. – Ho detto di no! Non lo so dov’è! – urlò il ragazzo. La donna si strinse nelle spalle. – Come si fa a decidere a chi o a che cosa credere? – disse a Hamilton. – L’unica cosa certa è che Gilbert è rimasto senza bicicletta. Gary Berman e il padre tornarono in cucina. – L’idea di farla rotolare è stata di Roger, – disse Gary. – No, è stata tua! – disse Roger, scendendo dalla sedia. – Sei tu che volevi farlo! E poi la volevi anche portare giú al frutteto e smontarla tutta! – Zitto tu! – Berman disse a Roger. – Parla solo quando ti viene richiesto, giovanotto, non prima. Gary, adesso ci penso io... Essere trascinato qui di sera per colpa di un paio di teppistelli! Allora, se uno di voi due, – disse Berman, guardando prima Kip e poi Roger, – sa dov’è la bicicletta di questo ragazzino, farebbe bene a cominciare a dirlo. – Mi pare che lei stia uscendo dal seminato, – disse Hamilton. – Che cosa? – disse Berman, aggrottando la fronte. – E a me pare che lei farebbe bene a farsi gli affari suoi! – Roger, andiamocene, – disse Hamilton, alzandosi. – Kip, o vieni con me o rimani qua –. Si rivolse quindi alla donna. – Non so che cos’altro potremmo fare stasera. Ho intenzione di discutere ancora di questa faccenda con Roger, ma se è questione di risarcire il danno, secondo me, siccome Roger ha contribuito a rovinare la bici, può pagare un terzo della somma, se è il caso. – Non so cosa dire, – rispose la donna, seguendo Hamilton nel soggiorno. – Ne parlerò con il padre di Gilbert, in questo momento è fuori città. Vedremo. Probabilmente, alla fine non si verrà a capo di niente, comunque ne parlerò con suo padre. Sulla soglia, Hamilton si spostò di lato in modo che i ragazzi potessero uscire sulla veranda prima di lui e alle sue spalle sentí che Gary Berman stava dicendo: – Papà, Roger mi ha chiamato stronzo. – Ah sí, davvero? – Hamilton sentí dire da Berman. – Be’, lo stronzo è lui. Ha anche la faccia dello stronzo. Hamilton si voltò e disse: – Mi pare proprio che lei stasera non stia solo uscendo dal seminato, signor Berman. Cerchi di darsi una controllata. – E io le ripeto che lei non dovrebbe impicciarsi tanto! – rispose Berman. – Torna a casa, Roger, – disse Hamilton, bagnandosi le labbra. – Dico sul serio. Muoversi! – Roger e Kip uscirono sul marciapiedi. Hamilton rimase sulla soglia a guardare Berman che stava attraversando il soggiorno con il figlio. – Signor Hamilton, – cominciò a dire la donna in tono un po’ nervoso, ma poi non finí la frase. – Che cosa vuole? – gli disse Berman. – Stia attento e veda di togliersi dai piedi –. Berman urtò la spalla di Hamilton che fu spinto giú dalla veranda e andò a finire in un cespuglio secco e spinoso. Non riusciva a credere che stesse succedendo davvero. Si districò dal cespuglio e s’avventò sull’uomo che ora era sulla veranda. Caddero pesantemente sul prato. Si rotolarono sull’erba, con Hamilton che, lottando, riuscí a mettere Berman con le spalle a terra e a buttarglisi sopra con forza fino a inchiodargli i bicipiti con le ginocchia. Poi lo prese per il bavero e cominciò a sbattergli la testa sull’erba mentre la donna gridava: – Dio santo, fermateli! Per l’amor di dio, qualcuno chiami la polizia! Hamilton si fermò. Berman lo guardò e disse: – Lasciami. – Vi siete fatti male? – chiese la donna ai due uomini che si stavano separando. – Per l’amor di Dio, – ripeté. Li guardò mentre, a qualche passo di distanza l’uno dall’altro e dandosi le spalle, cercavano di riprender fiato. I ragazzi piú grandi s’erano accalcati sulla veranda per osservare la scena; ora che era finita restavano in attesa e anche loro guardavano i due, poi cominciarono a scambiarsi pugni su braccia e fianchi e a schivarli, cosí, per gioco. – Voialtri rientrate subito in casa, – disse la donna. – Non avrei mai immaginato di dover assistere a una scena del genere, – aggiunse poi, mettendosi una mano sul petto. Hamilton era tutto sudato e sentí i polmoni bruciargli quando cercò di tirare un respiro profondo. Aveva un groppo in gola e per un po’ non riuscí a deglutire. Cominciò a camminare, con suo figlio da una parte e il ragazzino di nome Kip dall’altra. Sentí porte che sbattevano e una macchina messa in moto. I fari lo inondarono di luce mentre camminava. Roger ebbe una specie di singulto e Hamilton gli cinse la spalla col braccio. – Devo proprio andare a casa, – disse Kip, scoppiando a piangere. – Mio padre mi starà già cercando, – e corse via. – Mi dispiace, – disse Hamilton. – Mi dispiace che tu abbia dovuto assistere a una cosa del genere, – Hamilton disse al figlio. Continuarono a camminare e quando arrivarono vicino casa, gli tolse il braccio dalla spalla. – E se avesse tirato fuori un coltello, papà? o un bastone? – Non avrebbe mai fatto niente del genere, – disse Hamilton. – Ma se lo avesse fatto? – domandò il figlio. – È difficile dire che cosa può fare la gente quando s’arrabbia, – rispose Hamilton. Imboccarono il vialetto di casa. Il cuore di Hamilton ebbe un sobbalzo appena vide le finestre illuminate. – Mi fai sentire i muscoli? – gli disse il figlio. – Non è il momento, – disse Hamilton. – Tu vai dentro, cena e sbrigati ad andare a letto. Di’ a tua madre che sto bene e che me ne starò seduto qui sotto la veranda per qualche minuto. Il ragazzino esitò, spostando il peso da un piede all’altro e guardando il padre, poi entrò di corsa in casa chiamando «Mamma! Mamma!» Hamilton si sedette sul pavimento della veranda con la schiena appoggiata alla parete del garage e allungò le gambe. Il sudore gli si era asciugato sulla fronte. Sotto i vestiti si sentiva ancora la pelle appiccicosa. Una volta aveva visto suo padre – un uomo pallido, con le spalle curve, che parlava lentamente – in una situazione del genere. Era stata una brutta rissa ed entrambi gli uomini s’erano fatti male. Era successo in un bar. L’altro tizio era un bracciante. Hamilton aveva voluto molto bene a suo padre e si ricordava un sacco di cose sul suo conto. Ma adesso l’unica scazzottata del padre sembrava la sola cosa di lui degna d’essere ricordata. Era ancora seduto lí quando sua moglie venne fuori. – Dio santo, – disse lei prendendogli la testa tra le mani. – Vieni dentro, fatti una doccia e poi mangia un boccone e raccontami com’è andata. La cena è ancora in caldo. Roger è andato a letto. Ma proprio allora sentí la voce del figlio che lo chiamava. – È ancora sveglio, – disse lei. – Vado su e riscendo subito, – disse Hamilton. – Poi magari dovremmo bere qualcosa. Lei scosse la testa. – Ancora non riesco a crederci. Hamilton entrò nella stanza del ragazzo e si sedette ai piedi del letto. – È piuttosto tardi e sei ancora sveglio, perciò ti do solo la buonanotte, – disse Hamilton. – Buonanotte, – rispose il ragazzo, con le mani dietro la nuca e i gomiti all’infuori. S’era infilato il pigiama ed emanava un caldo odore di pulito che Hamilton inalò profondamente. Diede una carezza al figlio da sopra le coperte. – Cerca di darti una calmata d’ora in poi, capito? Sta’ alla larga da quella parte del quartiere e non mi far piú sentire storie di biciclette o qualsiasi altro oggetto personale rovinati. Chiaro? – disse Hamilton. Il ragazzo annuí. Tolse le mani da dietro la nuca e cominciò a stuzzicare la coperta con le dita. – Bene, allora, – disse Hamilton. – Ti do la buonanotte. Fece per baciare il figlio, ma Roger cominciò a parlare. – Papà? Anche nonno era forte come te? Cioè, quando aveva la tua età, sai, e tu... – E io avevo nove anni? È questo che vuoi dire? Sí, direi che era forte. – Certe volte non me lo ricordo quasi piú, – disse il ragazzo. – Non è che voglio dimenticarlo, davvero no, sai? Capisci che voglio dire, papà? Siccome Hamilton non rispose subito, il ragazzo continuò a parlare. – Quando eri giovane, era com’è tra noi due? Gli volevi piú bene di me? o come me? – chiese bruscamente il ragazzo. Mosse i piedi sotto le coperte e distolse lo sguardo dal padre. Siccome Hamilton ancora non rispondeva, il ragazzo disse: – Nonno fumava? Mi pare di ricordare una pipa o qualcosa del genere. – S’è messo a fumare la pipa prima di morire, è vero, – disse Hamilton. – Tanto tempo fa fumava sigarette, ma poi si deprimeva per qualcosa e smetteva. Poi cambiava marca e ricominciava. Adesso ti faccio sentire una cosa, – disse Hamilton. – Odorami un po’ il dorso della mano. Il ragazzo gli prese la mano tra le sue, l’annusò e disse: – Mi sa che non sento niente, papà. Che c’è? Hamilton si annusò la mano e le dita. – Adesso non sento piú niente neanch’io, – disse. – Prima c’era ma adesso non c’è piú. «Magari è stato lo spavento a cancellarlo dalla mia pelle», – pensò. – Niente, volevo solo farti sentire una cosa. Coraggio, adesso s’è fatto tardi. Faresti meglio a dormire, – disse Hamilton. Il ragazzo si girò su un fianco e guardò il padre allontanarsi e mettere la mano sull’interruttore. Poi disse: – Papà? Mi sa che pensi che sono matto, però a me piacerebbe averti conosciuto quando eri piccolo, cioè come me adesso piú o meno. Non so spiegartelo, ma mi manca tanto. È come se… come se sentissi già la tua mancanza quando ci penso adesso. È una cosa da matti eh? Tu comunque lasciala aperta la porta, per favore. Hamilton lasciò la porta aperta, ma poi ci ripensò e la chiuse a metà. La moglie dello studente Le aveva letto Rilke, un poeta che ammirava, e lei s’era addormentata con la testa sul suo cuscino. Gli piaceva leggere a voce alta, e leggeva bene, con voce forte e sicura, ora bassa e cupa nel tono, ora crescente, ora penetrante. Non staccava mai gli occhi dalla pagina che stava leggendo e faceva pause solo per allungare la mano verso il comodino e prendersi una sigaretta. La sua voce ricca l’aveva spinta in un sogno di carovane in partenza da città circondate da mura e uomini barbuti avvolti in ampie vesti. L’aveva ascoltato per qualche minuto, poi aveva chiuso gli occhi e si era lasciata andare. Lui aveva continuato a leggere a voce alta. I bambini dormivano ormai da ore e fuori di tanto in tanto una macchina sgommava sull’asfalto bagnato. Dopo un po’ mise giú il libro e si rigirò nel letto per spegnere la luce del comodino. Lei all’improvviso aprí gli occhi, come spaventata, e batté le palpebre due o tre volte. A lui parvero stranamente scure e carnose, quelle palpebre, a vederle aprirsi e chiudersi rapidamente su uno sguardo fisso, vitreo. Si mise a osservarla attentamente. – Stai sognando? – le chiese. Lei annuí, tirò su una mano e con le dita si toccò i bigodini di plastica che aveva su entrambi i lati della testa. Domani era venerdí, il suo turno di babysitteraggio di tutti i bambini dai quattro ai sette anni degli appartamenti Woodlawn. Lui continuò a osservarla, appoggiato su un gomito, cercando allo stesso tempo di spianare il copriletto con l’altra mano. Aveva la pelle del volto liscia e morbida sugli zigomi pronunciati; quegli zigomi, insisteva lei ogni tanto con gli amici, li aveva ereditati dal padre, che per un quarto era un Nez Perce. Poi: – Mike, preparami un tramezzino con qualcosa dentro. Magari, il pane imburrato e salato con una foglia di lattuga in mezzo. Lui non si mosse e non disse niente perché voleva dormire. Ma quando aprí gli occhi lei era ancora sveglia e lo guardava. – Non puoi metterti a dormire, Nan? – disse lui in tono solenne. – È tardi. – Prima vorrei mangiare qualcosa, – disse lei. – Non so perché ma mi fanno male le gambe e le braccia, e ho fame. Lui si rotolò sul letto per alzarsi, borbottando in modo esagerato. Le preparò il tramezzino e glielo portò su un piattino. Lei si era tirata su a sedere e, quando lui entrò in camera, gli sorrise, prendendo il piattino che le porgeva prima di sistemarle un cuscino dietro la schiena. Gli venne in mente che con quella camicia da notte bianca sembrava una paziente d’ospedale. – Che sogno buffo ho fatto. – Cos’hai sognato? – le chiese, rinfilandosi nel letto e girandosi dall’altra parte. Rimase in attesa, fissando il comodino. Poi, pian piano, chiuse gli occhi. – Davvero vuoi che te lo racconti? – disse lei. – Certo, – disse lui. Lei si sistemò piú comoda sul cuscino e si tolse una briciola dal labbro. – Be’, sembrava uno di quei sogni che non finiscono mai, sai, quelli con tante storie dentro, ma ora non ricordo bene tutto. Era ancora ben chiaro appena mi sono svegliata, ma adesso comincia a dissolversi un po’ tutto. Quanto tempo ho dormito, Mike? Be’, in realtà fa lo stesso. Comunque, penso che stessimo passando la notte da qualche parte. Non so che fine avessero fatto i bambini, ma eravamo solo noi due in un alberghetto o qualcosa del genere. Era su un lago che non conoscevamo. C’era anche un’altra coppia, piú anziana, volevano portarci a fare un giro sul loro motoscafo –. Rise, al ricordo, piegandosi un po’ in avanti. – Poi eravamo giú al molo dove era attraccato il motoscafo. Solo che poi si è scoperto che sulla barca c’era un solo sedile, una specie di panca sul davanti, e non ci stavano piú di tre persone. Allora noi due ci siamo messi a discutere su chi dovesse sacrificarsi e accovacciarsi sul fondo della barca. Tu dicevi che l’avresti fatto tu e invece io insistevo che toccava a me. Però alla fine mi ci sono infilata io in fondo alla barca. Era cosí stretto che mi facevano male le gambe e avevo anche paura che l’acqua sarebbe entrata da sopra i bordi. E poi mi sono svegliata. – Caspita, che sogno! – riuscí a dire lui mentre, assonnato, si rendeva vagamente conto che avrebbe dovuto aggiungere qualcosa. – Te la ricordi Bonnie Travis? La moglie di Fred Travis? Lei diceva sempre che sognava a colori. Lei guardò il tramezzino che aveva in mano e ne staccò un morso. Dopo che l’ebbe inghiottito, si passò la lingua sui denti tenendo le labbra serrate e si appoggiò il piattino sulle gambe per rigirarsi e sprimacciare il cuscino. Poi, con un sorriso, tornò ad appoggiarsi al cuscino. – Te la ricordi quella volta che ci siamo fermati una notte sul fiume Tilton, Mike? Quando la mattina dopo hai preso quel pesce enorme? – Gli poggiò una mano sulla spalla. – Te la ricordi, eh? – disse. Lei se la ricordava benissimo. Dopo che per tanti anni non ci aveva praticamente piú pensato, da un po’ di tempo quel ricordo era cominciato a riaffiorare con insistenza. Era stato un mese o due dopo che si erano sposati e avevano deciso di passare il fine settimana fuori. Quella sera si erano seduti accanto a un piccolo falò, con un cocomero in fresco nelle acque gelide del fiume, e lei aveva preparato carne in scatola, uova e fagioli per cena e poi frittelle, ancora carne in scatola e uova per la prima colazione il giorno dopo, nella stessa padella annerita. Era riuscita a bruciare la padella in entrambe le occasioni, mentre l’acqua per il caffè, invece, non bolliva mai, eppure era stato uno dei loro momenti piú belli. Si ricordava che anche quella notte lui le aveva letto poesie ad alta voce: Elizabeth Browning e alcuni passi del Rubáiyát. Si erano messi addosso tante di quelle coperte che quasi non riusciva a spostare i piedi sotto tutto quel peso. Il giorno dopo lui aveva preso all’amo una grossa trota e la gente si fermava con la macchina sulla strada dall’altra parte del fiume per guardarlo mentre lottava per tirarla fuori dall’acqua. – Be’, te la ricordi o no? – disse dandogli dei colpetti sulla spalla. – Mike? – Me la ricordo, – disse lui. Si spostò un po’ su un fianco e riaprí gli occhi. Però non se la ricordava mica tanto bene, pensò. Quello che si ricordava erano capelli pettinati con cura e un sacco di idee altisonanti e ancora immature sulla vita e sull’arte, e quelle non ci teneva a ricordarsele. – È passato tanto tempo, Nan, – disse. – Avevamo appena finito il liceo. Tu non avevi ancora cominciato l’università, – disse lei. Lui aspettò un po’, poi si sollevò su un gomito e si voltò per guardarla al di sopra della spalla. – L’hai finito o no quel tramezzino, Nan? – Lei era ancora seduta in mezzo al letto. Annuí e gli porse il piattino. – Adesso spengo la luce, – disse lui. – Se vuoi, – fece lei. Allora lui si rimise giú e stese un piede fino a toccare quelli di lei. Rimase fermo qualche secondo cercando di rilassarsi. – Mike, non starai mica dormendo, vero? – No, – rispose lui. – Figurati! – Be’, cerca di non addormentarti prima di me, – disse lei. – Non mi va di stare sveglia da sola. Lui non rispose, ma pur restando nella sua parte di letto, le si avvicinò un pochino. Quando allungò il braccio gli piantò la mano in mezzo al petto, lui le prese le dita e gliele strinse con delicatezza. Ma dopo qualche istante lasciò scivolare la mano sul letto e tirò un gran sospiro. – Mike? Tesoro? Vorrei tanto che mi massaggiassi un po’ le gambe. Mi fanno male, – disse lei. – Oddio, – sussurrò lui. – Ormai m’ero addormentato. – Be’, vorrei tanto che mi massaggiassi le gambe e mi parlassi un po’. Mi fanno male anche le spalle. Però le gambe di piú –. Lui si voltò e prese a massaggiarle le gambe, poi si riaddormentò con la mano ancora sull’anca della moglie. – Mike? – Che c’è, Nan? Dimmi, cos’è che hai? – Vorrei tanto che mi massaggiassi dappertutto, – rispose lei, voltandosi sulla schiena. – Stasera mi fanno male sia le gambe che le braccia –. Sollevò le ginocchia creando una torre con le coperte. Lui aprí per un attimo gli occhi al buio e poi li richiuse subito. – Dolori di crescita, eh? – Oddio, proprio cosí, – disse lei, agitando le dita dei piedi, felice di averlo riscosso dal torpore. – Quando avevo dieci o undici anni avevo la stessa statura che ho ora. Avresti dovuto vedermi! A quei tempi crescevo cosí in fretta che le braccia e le gambe mi facevano sempre male. Tu no? – Io no, cosa? – Tu non ti sentivi crescere? – Non che io ricordi, – disse lui. Alla fine si sollevò su un gomito, accese un fiammifero e guardò la sveglia. Girò il cuscino sul lato piú fresco e si ridistese. Lei disse: – Tu dormi già, Mike. Vorrei tanto che ti andasse di parlare. – E va bene, – disse lui, senza muoversi. – Ti prego, abbracciami e fammi addormentare. Non riesco ad addormentarmi, – disse lei. Lui si voltò, le mise un braccio sopra la spalla e lei si girò dall’altra parte, verso la parete. – Mike? Lui le diede un colpetto al piede con le dita. – Perché non mi dici tutte le cose che ti piacciono e quelle che non ti piacciono? – Non me ne viene in mente nessuna in questo momento, – disse lui. – Dimmele tu, se ti va, – disse lui. – Se poi tu prometti che mi dici le tue. Prometti? Di nuovo rispose con un colpetto al piede. – Be’... – disse lei, rigirandosi compiaciuta sulla schiena. – Mi piace mangiare roba buona, bistecche e patate rosolate, cose cosí. Mi piace leggere libri e riviste, viaggiare in treno di notte e quelle volte che ho viaggiato in aereo –. Fece una pausa. – Naturalmente non sto elencando le cose in ordine di preferenza. Dovrei pensarci meglio per elencarle in ordine di preferenza. Però mi piace, viaggiare in aereo. C’è un momento quando ci si stacca da terra in cui hai la sensazione che qualsiasi cosa succeda, andrà bene –. Gli passò una gamba sopra la caviglia. – Mi piace stare alzata fino a notte alta e poi restare a letto fino a tardi il giorno dopo. Vorrei tanto potessimo farlo sempre, invece che una volta ogni tanto. E poi mi piace il sesso. Mi piace essere toccata di tanto in tanto quando non me l’aspetto. Mi piace andare al cinema e farmi una birra con le amiche dopo. Mi piace avere amiche. Janice Hendricks mi piace un sacco. Mi piacerebbe andare a ballare almeno una volta a settimana. E avere sempre dei bei vestiti. Mi piacerebbe poter comprare bei vestiti anche per i bambini ogni volta che gli servono, senza dover aspettare. Per esempio Laurie ha bisogno di un vestito nuovo adesso per Pasqua. E mi piacerebbe comprare a Gary un completino o qualcosa del genere. Ormai è grandicello. Vorrei che anche tu avessi un completo nuovo. Anzi, tu ne hai veramente piú bisogno di Gary. E mi piacerebbe che avessimo una casa tutta nostra. Vorrei piantarla di traslocare ogni anno, due anni al massimo. Ma soprattutto vorrei tanto che io e te potessimo vivere una buona vita onesta, senza doverci sempre preoccupare dei conti, dei soldi e roba del genere. Ma tu dormi, – disse. – No che non dormo, – disse lui. – Non riesco a pensare ad altre cose. Ora tocca a te. Dimmi che cosa piacerebbe a te. – Non so. Un sacco di cose, – bofonchiò lui. – Be’, dimmele. Si fa tanto per parlare, no? – Vorrei tanto che mi lasciassi in pace, Nan –. Si rigirò dalla sua parte e lasciò penzolare il braccio oltre il bordo. Anche lei si girò e si strinse a lui. – Mike? – Gesú, – disse lui. Poi: – E va bene, fammi sgranchire un attimo le gambe, cosí mi sveglio un po’. Dopo qualche secondo lei disse: – Mike? Dormi? – Lo scosse delicatamente per la spalla, ma senza alcuna reazione. Rimase per un po’ raggomitolata contro il suo corpo, cercando di addormentarsi. All’inizio restò in silenzio, senza muoversi, schiacciata addosso a lui, respirando piano piano, a intervalli regolari. Ma non riuscí ad addormentarsi. Cercò di non ascoltare il respiro di lui, ma ben presto cominciò a procurarle disagio. Quando respirava, c’era come un rumore che proveniva dal naso di Mike. Lei tentò di regolare il proprio respiro in modo da espirare e inspirare allo stesso ritmo di lui. Ma era inutile. Quel rumorino nasale rendeva tutto inutile. E poi c’era come uno squittio impacciato che gli veniva dal petto. Si girò di nuovo e spinse il sedere contro quello del marito, allungò un braccio fino all’orlo del letto e con molta cautela sfiorò la parete fredda con la punta delle dita. Le coperte s’erano sfilate dal fondo del letto e avvertiva una specie di spiffero ogni volta che muoveva le gambe. Sentí due persone salire le scale fino all’appartamento accanto. Uno dei due scoppiò in una risata profonda, di gola, prima di aprire la porta. Poi sentí una sedia trascinata sul pavimento. Si girò di nuovo. Le arrivò il rumore dello sciacquone, prima una volta, poi un’altra. Tornò a rigirarsi, stavolta sulla schiena, e cercò di rilassarsi. Ricordava d’aver letto su una rivista che se le ossa, i muscoli e le giunture del corpo fossero riusciti a rilassarsi perfettamente e tutti insieme, il sonno sarebbe quasi certamente arrivato. Fece un respiro profondo, chiuse gli occhi e rimase perfettamente immobile, con le braccia distese lungo i fianchi. Cercò di rilassarsi. Tentò d’immaginare le proprie gambe sospese, immerse in una sostanza soffice, una specie di velo impalpabile. Si girò sulla pancia. Chiuse di nuovo gli occhi, poi li riaprí. Pensò alle sue dita chiuse sul lenzuolo poco distanti dalle labbra. Alzò un dito e poi lo riabbassò sul lenzuolo. Si toccò con il pollice la fede che portava all’anulare. Si girò ancora una volta, prima su un fianco e poi di nuovo sulla schiena. Tutto a un tratto cominciò a provare paura e in un momento di desiderio irrazionale si mise a pregare per addormentarsi. «O Signore, ti prego, fammi addormentare». Cercò di addormentarsi. – Mike, – sussurrò. Non ebbe risposta. Sentí che uno dei bambini, nella stanza accanto, si stava rigirando nel letto e lo sentí urtare contro la parete. Si mise in ascolto sempre piú intensamente ma non ci furono altri rumori. Si portò la mano sotto il seno sinistro e sentí il battito del cuore balzarle contro le dita. Si voltò sulla pancia e cominciò a piangere, con la testa leggermente staccata dal cuscino, la bocca premuta contro il lenzuolo. Pianse. E alla fine scese dal letto passando per il fondo. In bagno si lavò le mani e la faccia. Si lavò i denti. Lavandoseli, osservò il proprio volto allo specchio. Passò in soggiorno e alzò il riscaldamento. Quindi si sedette al tavolo della cucina, tirando su i piedi in modo che fossero coperti dalla camicia da notte. Pianse ancora una volta. Si accese una sigaretta dal pacchetto sul tavolo. Dopo un po’ tornò in camera da letto a prendersi la vestaglia. Andò a controllare i bambini. Rimboccò le coperte sopra le spalle del maschio. Tornò in soggiorno e si sedette nella poltrona grande. Sfogliò una rivista, cercando di leggere qualcosa. Diede un’occhiata alle foto e tentò di leggere ancora. Di tanto in tanto fuori passava una macchina e lei alzava gli occhi dalla rivista. A ogni passaggio, per tutto il tempo aspettava, restando in ascolto. Poi riabbassava lo sguardo sulla rivista. Il portariviste accanto alla poltrona era stracolmo. Le sfogliò tutte. Quando fuori cominciò a farsi chiaro, si alzò. Andò alla finestra. Il cielo limpido verso le colline si stava facendo sempre piú bianco. Gli alberi e la fila di case a due piani dall’altra parte della strada iniziarono a prendere forma sotto il suo sguardo. Il cielo si faceva sempre piú chiaro e la luce si espandeva rapidamente da dietro le colline. A parte le volte che era dovuta restare sveglia con uno o l’altro dei figli (che comunque non contavano perché non s’era mai messa a guardare fuori, ma s’era affrettata a tornare in camera da letto o in cucina) aveva osservato pochissime albe in vita sua, e solo quando era ancora piccola. Però era certa che nessuna era mai stata come questa. E neppure nei film che aveva visto o nei libri che aveva letto aveva mai saputo di albe terribili quanto questa. Rimase in attesa e poi andò alla porta, girò la maniglia e uscí sulla veranda. Si strinse la vestaglia alla gola. L’aria era umida e fredda. Gradualmente tutte le cose stavano diventando molto visibili. Lasciò che gli occhi assorbissero tutto finché si fissarono sulla luce intermittente rossa in punta all’antenna radio sulla cima della collina di fronte. Riattraversò l’appartamento in penombra e tornò in camera da letto. Lui se ne stava tutto aggrovigliato al centro del letto, con le coperte ammucchiate sulle spalle, la testa mezza sepolta sotto il cuscino. Aveva un’aria disperata, immerso com’era in quel sonno profondo, le braccia gettate dalla parte del letto dove avrebbe dovuto essere lei, le mascelle serrate. Mentre lo guardava, la stanza si fece sempre piú chiara e le lenzuola pallide sbiancarono in modo madornale sotto i suoi occhi. S’inumidí le labbra con uno schiocco e cadde in ginocchio. Appoggiò le mani sopra il letto. – O Dio, – disse. – Dio mio, per favore, aiutaci tu!