domenica 2 giugno 2019


IL FALÒ DELLE VANITÀ
Tom Wolfe

Perché leggerlo? Perché Tom Wolfe, grande giornalista e grande scrittore, racconta tutto ciò che si nasconde dietro ai meccanismi dell’informazione spettacolo, di cui ci cibiamo, ahimé, tutti i giorni. Racconta come questa si combini con la politica, con i personaggi al centro della mondanità, con i loro interessi, con i personaggi che hanno il potere, e al tempo stesso con la gente comune.
Racconta come nascono le notizie, evidenziando il cinismo con cui vengono aggregate e usate per generare emozioni ed odio nei fruitori, nel totale disinteresse della ragione e della giustizia....come la giustizia venga manipolata nei tribunali, e travisata sulla stampa e nelle strade....e molto altro ancora. Grande Tom Wolfe.

IL FALÒ DELLE VANITÀ

Prologo
Fuoco al bastardo

 «E poi cosa dici? Dici: “Scordati che hai fame, scordati che un poliziotto razzista ti ha sparato nella schiena. Chuck è stato qua? Chuck è venuto a Harlem…”.» «No, ora vi dico io…» «“Chuck è venuto a Harlem…”» «Vi dico che…» «Dici: “Chuck è venuto qui a Harlem, per occuparsi degli affari della comunità nera”.» Questo li scatenò. Heh-heggggggggghhhhhhhhhhhhhh! Uno di quegli empi schiamazzi da contralto che si levano tra il pubblico in un punto indeterminato. Un suono che viene dal profondo, da innumerevoli, cospicui strati di grasso, per cui lui sa esattamente che aspetto deve avere. Novanta chili, non un grammo di meno! Fatta come un bruciatore di benzina! Lo schiamazzo inumano scatena gli uomini. Erompono in quei suoni viscerali che odia tanto. Arrivano: «Hehhehhen…unnnnhhhh-hunhhh…Giusto…Digliela, fratello…Tu…». Chuck! L’insolente è proprio lì, proprio lì davanti: lo ha appena chiamato un Charlie! Chuck, diminutivo di Charlie, e Charlie è il vecchio nomignolo per indicare un bianco reazionario. Che insolenza! Che impudenza! Il calore e la luce accecante sono tremendi. Costringono il sindaco a socchiudere gli occhi. Sono le luci della tivù. Lui è in una caligine accecante. Riesce a malapena a isolare la faccia del disturbatore. Vede una sagoma alta e gli straordinari angoli ossuti che fanno i gomiti dell’uomo quando lancia le mani in alto. E un orecchino. L’uomo ha un grosso orecchino d’oro a un orecchio. Il sindaco si china sul microfono e dice: «No, adesso ve lo dico io. D’accordo? Vi do le cifre autentiche. Okay?». «Non vogliamo le tue cifre, uomo!» Uomo, dice! Che insolenza! «Te lo sei voluto, amico mio. Così adesso ti prendi le cifre autentiche. Okay?» «Non ci fai su con le tue cifre!» Un’altra esplosione tra la folla, questa volta più forte: «Unnnnnhunnnnh-unnnnnh…Diglielo, fratello…Sei nei guai…Ehi, Gober!». «In questa amministrazione, ed è cosa di pubblico dominio, la percentuale del bilancio totale della città di New York…» «Ehi, uomoooo» urla il disturbatore, «non star lì a raccontarci storie di cifre e a farci su con la solita retorica burocratica!» Alla folla piace molto. Che insolenza! E l’insolenza provoca un’altra esplosione. Cerca di vedere attraverso il chiarore rovente delle luci della televisione, con gli occhi sempre socchiusi. Sa di avere di fronte una moltitudine di sagome scure. La folla sembra gonfiarsi. Il soffitto si abbassa. È ricoperto di piastrelle color nocciola. Le piastrelle hanno decorazioni a forma di riccioli. Si stanno consumando ai bordi. Amianto! Lo riconosce sempre, lui! Che facce! Sono in attesa della baraonda, della battaglia finale. Nasi che sanguinano…questo è ciò che vogliono. L’istante seguente è significativo. Ce la può fare! Ce la può fare a controllare i disturbatori! Alto soltanto uno e settanta, scarso, ma più in gamba perfino di Koch! È il sindaco della più grande città del mondo…New York! Lui! «E va bene! Vi siete divertiti, eh! Ma adesso ve ne starete zitti per un minuto!» Il disturbatore è sorpreso. Si blocca. È quello di cui ha bisogno il sindaco. Sa come fare. «Tuuu hai chiesto a meee una cosa, vero, e hai ottenuto una graaande risata dalla tua claque. E così adesso tuuuu te ne starai tranquiiillo a sentiiire la risposta. Okay?» «Claque, dici?» L’uomo era rimasto senza fiato, ma stava ancora in piedi. «Okay? Ecco le statistiche che riguardano la vooostra comunità, proprio qui, Harlem.» «Claque, dici?» Quel bastardo si è attaccato alla parola claque come a un osso. «Nessuno mangia statistiche, uomo!» «Diglielo, fratello…Tu…Tu, Gober!» «Fatemi finire. Tuuuuu pensi che…» «Niente percentuali, niente bilancio annuale, a noi, uomo! Noi vogliamo posti di lavoro!» La folla salta di nuovo per aria. Peggio di prima. Molte cose non riesce neppure a capirle: interiezioni che vengono dalla strada. Ma ci sono un sacco di Tuu. C’è un tale molto lontano tra la gente con un vocione che spacca le pietre. «Tu, Gober! Tu, Gober! Tu, Gober!» Ma non dice Gober. Dice Goldberg. «Tu, Goldberg! Tu, Goldberg! Tu, Goldberg!» Lo sconcerta. Proprio qui, in questo posto: Harlem! Goldberg, a Harlem, è il cognome dato all’ebreo. È offensivo! Oltraggioso! Che uno qualunque butti questa bassezza in faccia al sindaco della città di New York! Buu, fischi, pernacchie, risatacce, urla. Vogliono proprio veder volare qualche dente. Sono incontrollabili. «Forse voi…» Inutile. Non riesce a farsi sentire neppure con il microfono. L’odio è su quelle facce! Puro veleno! Li galvanizza. «Tu, Goldberg! Tu, Goldberg! Tu, Hymie!» Hymie! Addirittura! Uno di loro urla Goldberg e un altro Hymie. Finalmente ci vede chiaro. Il reverendo Bacon! È gente di Bacon. Ne è sicuro. Le persone disciplinate e rispettose che vengono di solito alle riunioni pubbliche di Harlem –quelle che Sheldon avrebbe dovuto assicurarsi per riempire la sala –quelle non avrebbero urlato simili e tanto oltraggiosi insulti. L’ha fatto Bacon! Sheldon è stato fottuto! Bacon ha fatto entrare la sua gente! Un’onda di pura autocommiserazione si abbatte sul sindaco. Con la coda dell’occhio vede le troupe televisive che si affannano nel chiarore accecante delle luci. Le telecamere spuntano oltre le teste degli uomini come corna. Girano di qua e di là, impazzite. Si bevono tutto, con gusto! Sono qui per la rissa! Non muoverebbero un dito. Vigliacchi! Parassiti! I pidocchi della vita pubblica! Pochi attimi dopo ha una tremenda rivelazione: “È finita. Non riesco a crederci. Ho perso”. «Basta con i tuoi…fuori di qui…Buuu…Non vogliamo…Tu, Goldberg!» Guliaggi, il capo degli agenti in borghese addetti alla protezione del sindaco, gli si avvicina da un lato del palcoscenico. Il sindaco lo respinge con un gesto della mano, senza nemmeno guardarlo. Che cosa potrebbe fare, del resto? Ha portato con sé soltanto quattro agenti. Lui non aveva voluto venire lì con un esercito. Lo scopo principale era di mostrare che era in grado di andare a Harlem e di tenere un comizio, esattamente come se si fosse trattato di Riverdale o Park Slope. In prima fila, attraverso la foschia, coglie lo sguardo della Langhorn, la donna con capelli corti e frangetta, capo del consiglio della comunità, la donna che lo aveva presentato solo…be’…pochi minuti prima. Lei stringe le labbra, piega la testa all’indietro e la scuote più volte. È un gesto che intende dire: “Vorrei poterti aiutare, ma cosa posso fare? Guarda l’odio del popolo!”. Oh, ha paura, certo, come tutti gli altri! Sa che dovrebbe alzarsi e affrontare la situazione! La prossima volta toccherà ai neri come lei! E gli altri saranno felici di farlo! Lei lo sa. Ma la gente perbene è spaventata! Terrorizzata! Non osa fiatare! Si torni al sangue! Loro e noi! «Va’a casa!…Buuuuu…Yaggggghh…Tu!» Ritenta con il microfono. «È questo che…è questo che…» Inutile. Come urlare al vento. Vorrebbe sputar loro negli occhi. Vorrebbe dire che non ha paura. Non fate fare brutta figura a me! Avete fatto venire un pugno di energumeni qui dentro e la brutta figura la fa tutta Harlem! Lasciate che un paio di spacconi mi chiamino Goldberg e Hymie, e non fate star zitti loro…fate star zitto me! È incredibile! Credete davvero…voi, lavoratori seri, rispettabili, timorati di Dio, brava gente di Harlem; voi, signore Langhorn, voi credete davvero che quelli siano vostri fratelli? Chi sono stati i vostri fratelli in tutti questi anni? Gli ebrei! E lasciate che quegli energumeni mi chiamino Charlie! Mi lanciano tutti questi insulti, e voi non dite niente? L’intera sala sembra ondeggiare. Agitano i pugni. Le bocche sono spalancate. Gridano. Se saltassero appena un po’più in alto, sfonderebbero il soffitto. E andrà in televisione. Tutta la città lo vedrà. Ne saranno felici. Harlem si ribella! Che spettacolo! A ribellarsi non sono gli attaccabrighe, o gli operatori, o gli attori; ma è Harlem! Tutta la New York nera si ribella! Lui è il sindaco soltanto di alcuni cittadini! È il sindaco della New York bianca! Fuoco al bastardo! Gli italiani lo vedranno in tivù, e saranno entusiasti. Anche gli irlandesi. Perfino gli Wasp! Non crederanno a quel che stanno guardando. Se ne staranno seduti nei loro condomini di Park Avenue, della Quinta e della Settantaduesima Strada Est o di Sutton Place, rabbrividiranno per la violenza della scena, ma apprezzeranno lo spettacolo. Bestie! Cervelli da uccellini! Bambocci! Goyim! Non capite niente, vero? Credete veramente che questa sia ancora la vostra città? Aprite gli occhi! La più grande città del XX secolo! Credete che il denaro ve la conserverà? Scendete dai vostri condomini di classe, grandi azionisti e avvocati delle multinazionali! Qui siamo nel Terzo Mondo! Portoricani, giamaicani, haitiani, dominicani, cubani, colombiani, honduregni, coreani, cinesi, tailandesi, vietnamiti, ecuadoriani, panamensi, filippini, albanesi, senegalesi e afroamericani! Visitate le frontiere, smidollati signorini! Morningside Heights, St. Nicholas Park, Washington Heights, Fort Tryon…por que pagar más! Il Bronx…il Bronx per voi è finito! Riverdale è soltanto un piccolo porto franco lassù! Pelham Parkway –tenete aperto il passaggio per Westchester! Brooklyn –la vostra Brooklyn non c’è più! Brooklyn Heights, Park Slope…piccole Hong Kong, è tutto! E Queens! Jackson Heights, Elmhurst, Hollis, Jamaica, Ozone Park…di chi sono? Lo sapete? E che ne è di Ridgewood, di Bayside e di Forest Hills? Ci avete mai pensato?! E Staten Island! Vi capita mai a voialtri bricoleur del sabato di pensare di essere in salvo nelle vostre quattro mura? Siete proprio sicuri che in futuro certi ponti non verranno superati? E voi, voi Wasp, voi mondani benefattori seduti sulle montagne di denaro ereditato, là nei vostri palazzi dai soffitti alti quattro metri e dalle due ali ben distinte, una per voi e l’altra per la servitù, credete davvero di essere irraggiungibili? E voi finanzieri ebreo-tedeschi che ce l’avete finalmente fatta e vi siete rinchiusi in quegli stessi palazzi, quanto di meglio per isolarvi dalle orde shtetl; ritenete davvero di esservi isolati dal Terzo Mondo? Poveri ciccioni! Mollaccioni! Gallinacci! Vacche! Vedrete quando vi toccherà un reverendo Bacon come sindaco, e un consiglio comunale, oltre a un consiglio amministrativo, con un mucchio di reverendi Bacon in ogni angolo delle sale comunali! Allora finirete per conoscerli, non c’è dubbio! E loro finiranno per conoscere voi. Verranno a conoscervi al 60 di Wall Street e al numero 1 di Chase Manhattan Plaza! Si siederanno alle vostre scrivanie, tamburellandovi sopra con le dita! Faranno fuori le vostre cassette di sicurezza senza aggravio di spese…Davvero pazzeschi i pensieri che gli ronzano in testa! Paranoici addirittura! Nessuno eleggerà Bacon a un posto qualsiasi. Nessuno marcerà sul centro cittadino. Lui lo sa. Ma si sente così solo! E abbandonato! E incompreso! Io! Vedrete quando non avrete più me! Vedrete come sarete contenti, allora! E mi lasciate qui da solo, in piedi, davanti a questo leggio con un maledetto soffitto di amianto che mi sta crollando sulla testa…«Buuuu!…Yegggghhh!…Yaaaaaggghhh!…Tu!…Goldberg!» C’è un tremendo movimento in una zona del proscenio. Le luci delle tivù gli vengono piazzate proprio in faccia. Ci si spinge e ci si urta senza risparmio. Vede un cameraman cadere. Alcuni facinorosi si dirigono verso la scaletta che porta al palco: le troupe televisive stanno nel mezzo, bloccano la via. Allora passeranno loro addosso. A spinte, anche buttando giù dalle scale qualcuno, i suoi uomini, i poliziotti in borghese, quello più grande e grosso, Norrejo…Norrejo sta buttando uno giù dalle scale. Qualcosa colpisce il sindaco alla spalla. Fa un male tremendo! Ecco, per terra, un vasetto di maionese, un vasetto di maionese Hellman da due etti e mezzo. Mezzo pieno! Mezzo consumato! Un tale ha lanciato contro di lui un vasetto mezzo consumato di maionese Hellman! In quell’istante il pensiero più ozioso s’impadronisce del suo cervello. Chi mai porterebbe un vasetto di due etti e mezzo di maionese Hellman a una riunione pubblica, Dio santo? Maledette luci! Adesso c’è gente sul palco! Urti e spintoni: una rissa vera e propria. Norrejo afferra un pezzo di marcantonio alla vita, gli piazza una gamba sul sedere e lo butta per terra. Gli altri due poliziotti, Holt e Danforth, stanno con la schiena rivolta al sindaco. Sono disposti come se stessero proteggendo i passanti. Guliaggi gli si è messo al fianco. «Mi segua» dice perentorio Guliaggi. «Usciamo da quella porta.» Sta sorridendo? Guliaggi sembra avere un sorrisetto sulla faccia. Accenna con la testa verso una porta sul retro del palco. È di statura modesta, testa piccola, fronte bassa, occhi piccoli e ravvicinati, naso piatto, bocca larga e crudele con baffetti sottili. Il sindaco continua a fissargli la bocca. È un sorriso? Possibile? Forse sì! La strana smorfia maligna sulle labbra pare dire: “Fino ad ora lo spettacolo era tuo, ma adesso è mio!”. In qualche modo il sorriso decide il caso. Il sindaco abbandona il leggio, il suo posto di comando, come un generale Custer. Si arrende a quella piccola roccia. Ora anche gli altri si sono stretti attorno a lui: Norrejo, Holt, Danforth. Gli stanno attorno come i quattro angoli di un recinto. C’è gente dappertutto sul palco. Guliaggi e Norrejo si aprono la strada a forza di muscoli tra la folla. Il sindaco sta loro alle calcagna. Volti ringhiosi lo circondano. C’è un tipo esagitato, a mezzo metro sì e no, che continua a saltare gridando: «Ehi, fichetta dal pelo bianco! Ehi, fichetta dal pelo bianco!». Ogni volta che il bastardo salta, il sindaco riesce a vedere gli occhi neri che strabuzzano e l’enorme pomo d’Adamo che ha la dimensione di una patata dolce. «Ehi, fichetta dal pelo bianco!» seguita a ripetere. «Ehi, fichetta dal pelo bianco!» Proprio lì davanti…l’altissimo disturbatore in persona! Quello dai gomiti straordinari e dall’orecchino d’oro! Guliaggi è tra il sindaco e il disturbatore, ma questi torreggia su Guliaggi! Dev’essere alto quasi due metri. Urla in faccia al sindaco: «Non scappare…uuf!» All’improvviso il gran figlio di puttana s’affloscia, la bocca aperta, gli occhi fuori della testa. Guliaggi ha piazzato gomito e avambraccio nel plesso solare dell’uomo. Guliaggi arriva alla porta e l’apre. Il sindaco lo segue. Gli altri poliziotti lo spingono verso l’uscita. Finisce appiattito contro la schiena di Guliaggi. Quel tipo è fatto di pietra! Scendono lungo una scala. Stanno passando su listelli metallici. Lui è ancora tutto intero. La folla non gli è nemmeno alle spalle. È salvo, ma gli manca il cuore. Non cercano neppure di seguirlo. Per la verità, mai hanno cercato davvero di toccarlo. E in quell’attimo…lui sa. Lo sa perfino prima che il cervello metta insieme compiutamente il concetto. “Ho fatto uno sbaglio. Mi sono arreso a quel sorrisetto. Mi sono fatto prendere dal panico. Ho perso.”1 Il Padrone dell’Universo Proprio in quel momento, in uno di quei condomini di Park Avenue che tanto ossessionavano il sindaco –soffitti alti tre metri e più, due ali, una per i proprietari bianchi, protestanti e anglosassoni, e l’altra per la servitù –Sherman McCoy stava inginocchiato nell’ingresso e tentava di mettere il guinzaglio a un bassotto. Il pavimento di marmo verde scuro si perdeva quasi a vista d’occhio fino a una scala di noce larga un metro e mezzo che, con un’ampia curva, portava al piano di sopra. Era uno di quegli appartamenti al cui solo pensiero fiamme di invidia e cupidigia si accendevano nel cuore della gente di New York e, per la verità, di tutto il mondo. Ma Sherman in quel momento bruciava solo per la gran voglia di uscire dal suo favoloso abitacolo per una mezz’ora. E così se ne stava a terra, su tutt’e due le ginocchia, e lottava con un cane. Il bassotto, pensava, sarebbe stato il suo permesso di uscita. Guardando Sherman McCoy tutto curvo e vestito com’era, camicia a scacchi, pantaloni kaki e mocassini in cuoio da barca, non avreste potuto immaginare quale importante personaggio fosse in realtà. Ancora giovane, trentotto anni, alto quasi un metro e ottantacinque, portamento eccezionale, eccezionale fino al limite dell’imponenza: come suo padre, il Leone di Dunning Sponget; una gran testa di capelli bruno-rossicci, naso lungo, mento prominente…Era fiero del suo mento. Il mento McCoy: lo aveva anche il Leone. Era un mento virile, un gran mento rotondo come l’avevano di solito i laureati di Yale, nei disegni di Gibson e Leyendecker: un mento aristocratico, se vi interessa sapere quel che pensava Sherman. Anche lui era un laureato di Yale. Ma in quel momento tutto il suo essere stava dicendo: “Sto uscendo soltanto per far fare una passeggiata al cane”. Il bassotto pareva sapere quel che lo aspettava. Continuava a sottrarsi al guinzaglio. Le zampe rachitiche dell’animale erano sfuggenti e ingannevoli. Se si cercava di mettergli le mani addosso, quello si trasformava in un tubo tutto muscoli lungo sessanta centimetri. Per cercare di infilargli il guinzaglio, Sherman dovette allungarsi in un affondo. E fu così che il ginocchio andò a picchiare contro il pavimento di marmo. Il dolore lo fece infuriare. «Su, Marshall» borbottò. «Sta’fermo, maledizione.» L’animale riuscì di nuovo a sfuggirgli e lui picchiò ancora la rotula, e se la prese di nuovo non solo con l’animale ma anche con la moglie. Erano state le frustrazioni della moglie nella sua professione di arredatrice a condurre a un simile spreco di marmo, tanto per cominciare. Un minuscolo puntale in gros-grain nero sopra l’alluce di una scarpa da donna. Lei era lì, in piedi. «Hai tempo da perdere, Sherman. Cosa diavolo stai facendo?» Senza sollevare lo sguardo: «Porto Marshall a fare una passegg-iaaaa-ta». L’ultima parola era stata come un lungo lamento: il bassotto si dibatteva per liberarsi e Sherman dovette abbrancarlo per la pancia. «Lo sai che sta piovendo?» Sempre senza alzare lo sguardo: «Sì, lo so». Alla fine riuscì in qualche modo a fissare il guinzaglio al collare dell’animale. «Come sei diventato gentile con Marshall, così di colpo!» Un momento, un momento. Era ironia? Sospettava forse qualcosa? Alzò lo sguardo. Ma il sorriso sul suo volto era ovviamente genuino, molto gradevole…un sorriso attraente, per la verità…È ancora una donna molto carina, mia moglie…con i suoi bei lineamenti fini, i suoi grandi occhi azzurri, i suoi folti capelli scuri…Ma ha quarant’anni!…Inutile tergiversare…Oggi carina…Domani magari bella donna o donna ancora piacente…Non è colpa sua…Ma nemmeno mia! «Ho un’idea» disse lei. «Perché non lasci che io porti a passeggio Marshall? Posso anche dire a Eddie di farlo. Tu va’di sopra a leggere una fiaba a Campbell prima che si addormenti. Sarebbe così contenta. Non ti capita spesso di tornare a casa così presto. Perché non lo fai, eh?» La fissò. Non era un trucco! Era sincera! Eppure zip zip zip zip zip zip zip con qualche rapido tocco, qualche frasetta ben costruita lei lo aveva…impacchettato con i nastri della colpa e della logica! Senza neppure farlo apposta! Il fatto che Campbell potesse starsene nel suo lettino –la mia unica figlia! –l’assoluta innocenza di una bimba di sei anni –sperando che lui le leggesse una favola prima di dormire mentre lui stava facendo…quel che stava facendo…La colpa! Il fatto che venisse a casa troppo tardi perfino per vederla un attimo! Una colpa sull’altra!…Lui stravedeva per Campbell. L’amava più di ogni altra cosa al mondo! E a peggiorare le cose…che logica implacabile c’era in questo! Con quel suo dolce viso, la moglie che lui stava guardando in quel momento, aveva appena lanciato un suggerimento di notevole acume, di logica ineccepibile: tale da lasciarlo senza parole! Non c’erano bugie e artifici verbali che potessero aggirare una logica simile! E pensare che lei stava solo cercando di essere gentile! «Va’di sopra» ripeté lei. «Campbell sarà felice. Ci penso io a Marshall.» Il mondo era alla rovescia. Che cosa stava facendo lui, un Padrone dell’Universo, lì, per terra, sul pavimento, costretto a spremersi il cervello alla ricerca di una squallida bugia allo scopo di raggirare la dolce logica di sua moglie? I Padroni dell’Universo erano alcuni bambolotti di plastica lividi e rapaci con i quali sua figlia, altrimenti perfetta, amava giocare. Avevano l’aspetto di divinità nordiche che sollevano pesi, e si chiamavano Dracon, Ahor, Mangelred e Blutong. Erano insolitamente volgari, nonostante fossero giocattoli di plastica. E tuttavia un bel giorno, in un’esplosione di euforia, dopo aver sollevato il telefono e preso un ordine di obbligazioni senza cedole che gli aveva fruttato cinquantamila dollari di commissione, proprio così, sull’unghia, quella definizione gli era germogliata nel cervello. A Wall Street lui e alcuni altri…quanti?…trecento, quattrocento, cinquecento?…erano diventati esattamente questo: Padroni dell’Universo. Non c’era…un limite! Naturalmente non aveva neppure sussurrato questa definizione ad anima viva. Non era uno sciocco. Eppure non riusciva a levarsela di testa. Ed ecco il Padrone dell’Universo sul pavimento, insieme a un cane, avvolto dai lacci della dolcezza, della colpa e della logica. Perché non poteva lui (uno dei Padroni dell’Universo) spiegarlo con estrema semplicità alla moglie? Senti, Judy, io ti amo ancora e amo nostra figlia, amo la nostra casa e amo la nostra vita, e non voglio cambiare assolutamente niente. Solo che io, uno dei Padroni dell’Universo, un uomo ancora giovane e in ascesa, io merito qualcosa di più, di quando in quando, se mi sento ispirato…Ma sapeva che non avrebbe mai potuto tradurre in parole un pensiero simile. E così il risentimento gli invase la mente. In un certo senso era lei ad averne la responsabilità, come no? Quelle donne di cui, ora, pareva apprezzare la compagnia…quei…quei…La frase gli fiorì in testa in quell’esatto momento: raggi X della società! Si mantengono così magre da sembrare riproduzioni di raggi X: la luce della lampada traspare attraverso le loro ossa mentre chiacchierano di interni e di giardini integrati nel paesaggio, o insaccano le loro gambe scarne in calzemaglie tubolari di lycra lucente e seguono corsi di ginnastica e di aerobica…Di certo, non è che faccia loro un gran bene! Guardate come sono tesi faccia e collo. Si concentrò sulla faccia e sul collo…tesi…Nessun dubbio…ginnastica, sport…sta diventando una di quelle! Cercava di fabbricare risentimento in dosi sufficienti a infiammare il famoso temperamento McCoy. Riuscì a sentire la sua faccia accaldata. Abbassò la testa e disse: «Juuuuudy…». Era un grido smorzato dai denti. Unì con forza il pollice e le due prime dita della mano sinistra, li portò davanti alle mascelle strette e agli occhi fiammeggianti, e disse: «Senti…Io sono –vestito –apposta –per –portare –a –passeggio –il –cane…E così, –io –porterò –a –passeggio –il –cane…Okay?» A metà della frase, capì che la cosa era del tutto sproporzionata a…a…ma non riuscì a trattenersi. Questo, dopotutto, era il segreto del temperamento McCoy, a Wall Street, o in qualsiasi altro posto. L’eccesso d’impeto. Le labbra di Judy si strinsero. Scosse la testa. «Fa’pure quel che vuoi» disse con voce priva di espressione. Poi si girò, attraversò l’atrio di marmo e salì le sontuose scale. Sempre in ginocchio, la guardò, ma lei non si voltò. Fa’pure quel che vuoi. L’aveva schiacciata, travolta. Nessun dubbio. Ma era una vittoria priva di senso. Altro spasmo di colpa. Il Padrone dell’Universo si alzò in piedi e riuscì a reggere il guinzaglio e a infilarsi l’impermeabile. Un impermeabile logoro ma formidabile, inglese naturalmente, gommato, pieno di cinghie, spalline e fibbie. Lo aveva comperato da Knoud in Madison Avenue. Un tempo aveva considerato che quella sua aria vecchiotta fosse il tocco essenziale, dopo la moda lanciata dalla “scarpa rotta”di Boston. Ora ne dubitava. Trascinò con forza il bassotto al guinzaglio, lasciò l’ingresso, passò nell’andito dell’ascensore, premette il pulsante. Piuttosto che continuare a pagare duecentomila dollari l’anno per un servizio, ventiquattr’ore su ventiquattro, con turni prestati da irlandesi di Queens e portoricani del Bronx, i condomini avevano deciso due anni prima di convertire l’ascensore e renderlo automatico. Quella sera la cosa andava benissimo a Sherman. In quella tenuta, con un cane ringhioso e riottoso, non se la sarebbe sentita di stare in ascensore insieme a un addetto abbigliato come un colonnello dell’esercito austriaco del 1870. L’ascensore scese e si fermò due si fermò due piani più sotto. Browning. Si aprì la porta ed entrò l’enorme mole di Pollard Browning dalle guance lisce e levigate. Browning guardò più volte Sherman, il suo abbigliamento e il cane; disse senza traccia di sorriso: «Salve, Sherman». Il “Salve, Sherman”proveniva dall’estremità di un palo lungo tre metri e in sole quattro sillabe recava il messaggio: “Tu, i tuoi vestiti e il tuo animale state declassando il nostro nuovo ascensore dai pannelli di mogano”. Sherman era furioso, tuttavia si chinò a raccogliere il cane da terra. Browning era il presidente dell’assemblea dei condomini. Era un figlio di New York emerso dai lombi materni già cinquantenne, socio di Davis Polk e a capo dell’Associazione del centro cittadino. In realtà aveva soltanto quarant’anni, ma da venti ne dimostrava cinquanta. Portava i capelli pettinati con cura all’indietro sopra un cranio rotondo. Indossava un abito blu immacolato, una camicia bianca, una cravatta a quadretti bianchi e neri e non aveva l’impermeabile. Stava con la faccia rivolta verso la porta dell’ascensore, poi si voltò, diede un’altra occhiata a Sherman, non disse niente e si girò di nuovo verso la porta. Sherman lo conosceva fin da quando erano stati compagni di scuola alla Buckley. Browning era stato un bambino grasso, esuberante e prepotente che all’età di nove anni era capace di propalare la notizia che McCoy era un nome da contadino (da famiglia di contadini), mentre lui, Browning, era un autentico knickerbocker, un vero aristocratico di New York. Chiamava spesso Sherman “Sherman McCoy, il montanaro”. Quando giunsero al pianterreno, Browning disse: «Lo sai che sta piovendo, vero?». «Sì.» Browning guardò il bassotto e scosse la testa. «Sherman McCoy, amico del miglior amico dell’uomo.» Sherman sentì che la sua faccia stava avvampando di nuovo. Disse: «Ah, sì?». «Ah, sì, che cosa?» «Hai avuto tempo dall’ottavo piano fin quaggiù per mettere insieme una facezia, e ce l’hai fatta, eh?» In teoria doveva risuonare come un sarcasmo amichevole, ma sapeva che la rabbia debordante lo aveva tradito. «Non so di che cosa stai parlando» disse Browning, e prese a marciare impettito. Il portiere gli sorrise, s’inchinò e tenne la porta aperta appositamente per lui. Browning uscì e camminò sotto la tenda fino alla sua automobile. L’autista gli aprì la porta. Neppure una goccia di pioggia sfiorò la sua figura immacolata, e presto fu lontano, scivolando agevolmente, intatto, nello sciame di lucine rosse posteriori lungo Park Avenue. Il morbido sedere grasso di Pollard Browning non era intralciato da un vecchio impermeabile ingombrante. Per la verità la pioggia era leggera e non c’era vento, ma il bassotto non era contento lo stesso. Cominciò a divincolarsi tra le braccia di Sherman. Com’era forte il piccolo cane figlio di cane! Depose l’animale sulla passerella sotto la tenda e poi uscì nella pioggia tenendolo a guinzaglio. Nell’oscurità i palazzi dall’altra parte del viale erano come un nero muro tranquillo, barriera contro il cielo della città, che era d’un porpora fumoso, ardente, come infiammato dalla febbre. Diavolo, non era poi così male, fuori. Sherman tirò, ma il cane s’impuntò con le unghie nella passerella. «Avanti, Marshall.» Il portiere stava fuori della porta e osservava. «Non mi sembra tanto contento, signor McCoy.» «Neanch’io lo sono, Eddie.» E lascia perdere i commenti, pensò Sherman. «Su, su, su, Marshall.» Ormai Sherman era sotto la pioggia e dava discreti strattoni al guinzaglio, ma il bassotto non si muoveva. E così lo prese in braccio, lo portò fuori dalla passerella di gomma e lo posò sul marciapiede. Il cane tentò di riguadagnare la porta. Sherman non poteva fare altre concessioni con il guinzaglio, per non tornare al punto di partenza. Per cui ora lui ora il cane pendevano dall’uno o dall’altro lato, il guinzaglio teso tra loro. Il tiro alla fune tra un uomo e un cane…in Park Avenue. Perché cavolo il portiere non se ne tornava dentro il palazzo, al suo posto? Sherman diede un bello strattone al guinzaglio. Il bassotto scivolò per qualche centimetro sul marciapiede. Si sentirono le unghie raschiare l’asfalto. Be’, forse, se avesse tirato con forza, prima o poi si sarebbe arreso e avrebbe cominciato a camminare, se non altro per evitare di venir trascinato. «Su, su, Marshall! Andiamo solo fino all’angolo!» Diede un altro strattone al guinzaglio e poi prese a tirare con tutta la forza possibile. Il cane scivolò mezzo metro in avanti. Scivola! Non vuole camminare. Non si arrende. Il centro di gravità dell’animale pareva essere al centro della terra. Era come cercare di trascinare una slitta carica di mattoni. Cristo, se solo fosse riuscito a girare l’angolo. Era tutto quel che desiderava. Perché mai le cose più semplici…diede un altro strattone al guinzaglio e poi lo mantenne teso. Era chino come un marinaio nel vento. Cominciava a sentir caldo nel voluminoso impermeabile gommato. La pioggia gli scendeva lungo la faccia. Il bassotto aveva le zampe allargate sulla pavimentazione. I muscoli delle spalle parevano scoppiare. Si dibatteva disperatamente. Il collo era teso al massimo. Grazie a Dio, almeno non abbaiava. Scivolava! Cristo, se ne sentiva il rumore! Le unghie raschiavano il marciapiede. Non intendeva cedere nemmeno un centimetro. Sherman teneva la testa bassa, le spalle curve e tese, mentre trascinava l’animale in mezzo all’oscurità e alla pioggia di Park Avenue. Percepiva la pioggia che gocciolava nel collo. Si accovacciò per raccogliere il bassotto, e colse al volo un’occhiata di Eddie, il portiere. Lo stava ancora osservando! Il cane prese a divincolarsi. Sherman inciampò. Abbassò lo sguardo. Il guinzaglio gli si era avvolto attorno alle gambe. Cominciò a procedere zoppicando lungo il marciapiede. Finalmente riuscì a girare l’angolo e arrivò alla cabina telefonica. Depose il bassotto sul marciapiede. Dio! Quasi quasi scappava! Afferrò appena in tempo il guinzaglio. Sta sudando. La testa era bagnata. Il cuore gli batteva forte. Il cane continuava a dibattersi. Il guinzaglio gli si era di nuovo avvolto attorno alle gambe. Sollevò il telefono e lo infilò tra spalla e orecchio mentre cercò disperatamente in tasca una moneta da un quarto di dollaro che poi lasciò cadere nella fessura e compose il numero. Tre squilli e una voce di donna: «Pronto?». Non era la voce di Maria. Immaginò che fosse quella della sua amica Germaine che le subaffittava l’appartamento. Chiese: «Posso parlare con Maria, per favore?». La voce femminile disse: «Sherman? Sei tu?». Cristo! Judy! Ha fatto il numero di casa sua! Rimane inorridito, paralizzato! «Sherman?» Appende. Oh, Gesù. Che fare? Dovrò far finta di niente. Quando lei glielo chiederà, risponderà di non sapere di cosa sta parlando. Dopotutto aveva detto soltanto cinque o sei parole. Come poteva essere tanto sicura? Sapeva che sarebbe stato inutile. Lei sarebbe stata più che sicura. Lui, inoltre, non era capace di bluffare. Judy gli avrebbe letto dentro come e quando voleva. Eppure, che altro poteva fare? Stava lì in piedi nella pioggia, accanto alla cabina del telefono. L’acqua era riuscita a penetrare dentro il colletto della camicia. Respirava a fatica. Cercava d’intuire tutto il male che poteva venirne fuori. Che cosa avrebbe fatto lei? Che cosa avrebbe detto? Quanto si sarebbe arrabbiata? Questa volta avrebbe avuto qualcosa di concreto su cui ricamare. Se lo voleva, questa volta, aveva diritto a una bella scenata. Era stato così stupido. Ma come aveva potuto fare una cosa simile? Ora se la prendeva con se stesso. Non era più arrabbiato con Judy. Sarebbe riuscito a rimediare o questa volta l’aveva fatta proprio grossa? L’aveva davvero ferita? D’un tratto Sherman si rese conto che una sagoma gli si stava avvicinando lungo il marciapiede, tra le umide ombre nere delle case e degli alberi. Anche da una distanza di una ventina di metri, sapeva. Era la profonda inquietudine che alberga alla base del cranio di ogni residente di Park Avenue a sud della Novantaseiesima. Un giovane nero, alto, slanciato, con scarpe bianche da tennis. Ora era a quindici metri, dieci. Sherman lo fissò. Be’, che venga pure. Io non mi muovo! È territorio mio! Non lascio il passo a un furfante di strada! Il giovane nero, improvvisamente, con un angolo di novanta gradi, tagliò la strada fino al marciapiede opposto. Il fievole giallo di un lampione al vapore di sodio si rifletté per un attimo sulla sua faccia, mentre si stava allontanando da Sherman. Si fece il segno della croce! Che colpo di fortuna! Neppure per un attimo Sherman McCoy immaginò ciò che il ragazzo aveva visto: un bianco di trentotto anni, fradicio di pioggia, con addosso un impermeabile pieno di fibbie e spalline dall’aria vagamente militaresca, che teneva in braccio un animale violentemente riottoso, con uno sguardo stravolto, gli occhi fuori della testa, e che borbottava tra sé. Sherman era vicino al telefono: respirava rapidamente, quasi ansimando. Che cosa doveva fare adesso? Si sentiva avvilito, tanto valeva tornarsene a casa. Ma se fosse tornato immediatamente, la cosa sarebbe risultata abbastanza ovvia, no? Era uscito non per portare a spasso il cane, ma per fare una telefonata. Inoltre, qualsiasi cosa avesse detto Judy, lui non era preparato. Aveva bisogno di pensare. Aveva bisogno di un consiglio. E aveva bisogno di portare quell’intrattabile animale al riparo dalla pioggia. Così scovò un altro quarto di dollaro e rintraccio nella mente il numero di Maria. Si concentrò. Lo isolò. Poi lo formò con grande determinazione, come se stesse usando per la prima volta quella strana invenzione: il telefono. «Pronto?» «Maria?» «Sì?» Non si sbilanciò: «Sono io». «Sherman?» Suonò Shahhh-man. Sherman si sentì rassicurato. Era proprio Maria. Aveva quel tipo di accento del Sud in cui metà delle vocali si pronunciano come a e l’altra metà come i brevi. «Stammi a sentire» disse lui. «Arrivo subito da te. Sono in una cabina telefonica. A un paio di isolati.» Ci fu una pausa, che secondo lui significava una certa irritazione da parte di lei. Alla fine: «Dove diavolo sei stato?». Sherman rise in tono cupo. «Stammi a sentire, arrivo subito.» La scala del caseggiato si fletteva e gemeva mentre Sherman saliva. A ogni piano un unico tubo fluorescente circolare da 22 watt, noto come l’Alone del Padrone, irradiava un debole chiarore sulle pareti, che erano di un verde casa in affitto. Sherman passò davanti a porte con innumerevoli serrature una sopra l’altra in ordine sparso. C’erano protezioni antipinza sopra le serrature, ferri anti-piede di porco sopra gli stipiti e schermi antieffrazione sopra i riquadri delle porte. Nei momenti gaudiosi, quando regnava re Priapo, senza crisi nel suo reame, Sherman compiva l’ascensione fino a Maria con slancio romantico. Com’era bohémien! Com’era…autentico questo posto! Quant’era giusto nei momenti in cui il Padrone dell’Universo si spogliava dei palud amenti seriosi di Park Avenue e di Wall Street e liberava i suoi ormoni estrosi e vagabondi per giocare! Ilmonolocale di Maria con una cucina minima e un bagno minimo, questo cosiddetto appartamento, al quarto piano sul retro, subaffittatole dall’amica Germaine…be’, era proprio perfetto. Germaine era a suo modo una “cosa”straordinaria. Sherman l’aveva incontrata due volte. Era una specie di idrante antincendio. Aveva un notevole cespuglio di peli sopra il labbro superiore, in pratica dei baffi. Sherman era convinto che fosse una lesbica. Ma allora? Eh, be’? Era tutto autentico! Sordido! New York! Un torrente di fuoco tra i lombi! Ma stasera Priapo non regnava. Stasera lo squallore della vecchia casa in pietra opprimeva il Padrone dell’Universo. Soltanto il bassotto era felice. Trascinava baldanzoso la pancia su per le scale. Lì era caldo e asciutto e familiare e consueto. Arrivato alla porta di Maria, Sherman si ritrovò senza fiato. Sudava. Il corpo era madido sotto l’impermeabile, la camicia a scacchi e la maglietta. Prima ancora di bussare, la porta si aprì di una trentina di centimetri: lei era lì. Non l’aprì di più. Stava lì, squadrando Sherman dall’alto in basso, come se fosse irritata. Gli occhi scintillavano sopra i suoi considerevoli zigomi. I capelli corti formavano una specie di cappuccio nero. Le labbra erano disposte a O. Improvvisamente si lasciò andare a un sorriso e prese a emettere una serie di chiocciolii dal naso, come tante piccole fiutate. «Be’, insomma» disse Sherman, «lasciami entrare! Poi ti racconto quel che è successo.» Maria aprì completamente la porta, ma, invece di farlo entrare, si appoggiò allo stipite, incrociò le gambe, intrecciò le braccia sotto il petto e continuò a fissarlo sempre chiocciolando. Portava scarpe di vernice a tacchi alti con una piccola scacchiera bianca e nera lavorata nel cuoio. Sherman sapeva poco di modelli di scarpe, ma aveva l’impressione che quelle di Maria fossero di moda. Indossava una gonna di gabardine confezionata su misura, molto corta, una quindicina di centimetri sopra il ginocchio, che rivelava le gambe, agli occhi di Sherman da ballerina, e che metteva in evidenza la vita minuscola. Aveva una camicetta di seta bianca aperta fino all’attaccatura del seno. La luce nel piccolo ingresso riusciva a mettere in grande risalto l’insieme della sua persona: i capelli scuri, gli zigomi, i bei lineamenti del volto, la curva delle labbra tumide, la camicetta leggera, i morbidi seni, le gambe sfavillanti, incrociate così disinvoltamente. «Sherman…» Shahhh-man. «Sai una cosa? Sei carino da morire. Proprio come il mio fratellino.» Il Padrone dell’Universo era vagamente seccato, ma entrò passandole davanti e dicendo: «Oh, Dio. Aspetta che ti racconti quel che è successo». Senza cambiare posizione sulla soglia, Maria abbassò lo sguardo sul cane intento a fiutare il tappeto. «Salve, Marshall! Sei proprio un bel salamino bagnato, Marshall.» «Aspetta che ti racconti…» Maria cominciò a ridere e poi chiuse la porta. «Sherman, sembra che qualcuno ti abbia…appallottolato…» fece un’immaginaria palla con un immaginario pezzo di carta «e poi ti abbia lanciato per terra.» «E io mi sento proprio così. Fammi raccontare quel che è successo.» «Proprio come il mio fratellino. Tutti i giorni veniva a casa dalla scuola con l’ombelico scoperto.» Sherman abbassò lo sguardo. Era vero. La sua camicia a scacchi era fuoriuscita dai pantaloni e l’ombelico era in mostra. Si rimise la camicia a posto, ma non si tolse l’impermeabile. Non poteva star lì. Non poteva, comunque, trattenersi a lungo. Non sapeva come farlo capire a Maria, del resto. «Il mio fratellino faceva a pugni tutti i giorni a scuola…» Sherman smise di ascoltare. Era stufo del fratellino di Maria, non tanto perché con questo si voleva alludere al fatto che lui, Sherman, era infantile, ma proprio perché lei continuava a insisterci. A prima vista, Maria non aveva fatto a Sherman l’impressione di una tipica ragazza del Sud. Sembrava piuttosto italiana o greca. Parlava però come una ragazza del Sud. Il cinguettio continuava a fluire. Stava ancora parlando, quando Sherman disse: «Senti, ti ho appena chiamata da una cabina telefonica. Vuoi sapere cos’è successo?» Maria girò le spalle e si portò al centro dell’appartamento, poi si voltò di nuovo e assunse un’altra posizione, con la testa inclinata di lato, le mani sui fianchi, un tacco alto deliberatamente storto in modo disinvolto, le spalle tese all’indietro e la schiena lievemente arcuata che spingeva i seni in avanti. Disse: «Non vedi niente di nuovo?» Di cosa diavolo stava parlando? Sherman non era dell’umore giusto per apprezzare novità. Ma la guardò, disciplinatamente. Aveva una nuova acconciatura? Un nuovo gioiello? Cristo, suo marito la riempiva di gioielli: come fare a tenersi aggiornato? No, doveva trattarsi di qualcosa nella stanza. Girò rapidamente gli occhi. Probabilmente era stata costruita come camera da letto per bambini, cent’anni prima. C’era un piccolo bovindo con tre finestre a battenti e un sofà semicircolare. Fece un rapido inventario del mobilio: le solite tre vecchie sedie in legno ricurvo, il solito tavolo a piede centrale, sgraziato, il solito divano-letto con una coperta di velluto e tre o quattro cuscini a piccoli disegni astratti sparpagliati, nel tentativo di farlo sembrare un divano. Tutto il posto sembrava raffazzonato. In ogni caso, niente era cambiato. Sherman scosse il capo. «Davvero?» Maria fece un cenno con la testa in direzione del letto. Sherman allora notò, sopra il letto, un piccolo quadro con una semplice cornice di legno rosso. Si avvicinò un poco. Era il ritratto di un uomo nudo, visto da dietro, ricavato con pennellate sommarie di nero, alla maniera di un bimbo di otto anni, ammesso che un bimbo di otto anni sappia come dipingere un uomo nudo. Pareva che l’uomo stesse facendo una doccia, o almeno si vedeva un oggetto simile a un bulbo forato sopra la sua testa, e da esso fuoriuscivano alcune strisce nere abborracciate alla meglio. Sembrava che l’uomo stesse facendo una doccia di benzina. La sua pelle sembrava abbronzata per effetto di macchie d’unto di color rosa lavanda; era disgustoso. Immondizia pura: era nauseabondo. Ma emanava l’odore consacrato dell’arte seria, e perciò Sherman esitò prima di esprimersi con franchezza. «Dove l’hai trovato?» «Ti piace? Conosci i suoi lavori?» «I lavori di chi?» «Di Filippo Chirazi.» «No, non li conosco.» Lei sorrideva. «Hanno pubblicato un lungo articolo su di lui, sul “Times”.» Non desiderando far la parte del filisteo di Wall Street, Sherman riprese a studiare il capolavoro. «Be’, ha un certo, come dire?…rigore.» Lottava contro l’impulso di fare dell’ironia. «Dove l’hai trovato?» «Me lo ha dato Filippo.» Molto gioiosa. «Molto generoso da parte sua.» «Arthur gli ha comperato quattro quadri, di quelli molto grandi.» «Ma non l’ha regalato ad Arthur, l’ha regalato a te.» «Ne volevo uno per me. Quelli grandi sono di Arthur. E poi, Arthur non distinguerebbe un quadro di Filippo da…da non so che cosa, se non glielo avessi detto io.» «Ah!» «Non ti piace, vero?» «Mi piace. Per dirti la verità, sono disorientato. Ho appena fatto una cosa maledettamente stupida.» Maria abbandonò la sua posizione e si sedette sul bordo del letto, o divano, come per dire: “Okay, sono pronta a starti a sentire”. Accavallò le gambe. Ora la gonna era a mezza coscia. Anche se quelle gambe, quelle stupende caviglie e quei fianchi squisiti in quel momento non erano pertinenti, Sherman non riuscì a distogliere lo sguardo. Le calze le rendevano lucenti. Luccicavano. Ogni volta che si muoveva, le parti recondite brillavano. Sherman continuava a stare in piedi. Non aveva molto tempo, come stava per spiegare. «Ho portato a passeggio Marshall.» Marshall stava ora sdraiato sul tappeto. «Piove. E mi ha dato un sacco di problemi.» Quando arrivò a raccontare della telefonata, si agitò moltissimo, perfino nel descriverla. Notava che Maria riusciva benissimo a trattenere la sua preoccupazione, ma lui non ce la faceva a tranquillizzarsi. Si cacciò nel cuore palpitante della cosa, in quel che aveva provato subito dopo aver appeso il ricevitore…Maria lo fermò alzando appena le spalle e facendo un vago movimento con la mano nell’aria. «Oh, non è niente, Sherman.» La fissò. «Hai fatto soltanto una telefonata. Non so neppure perché non hai detto: “Oh, mi spiace. Volevo chiamare la mia amica Maria Ruskin”. Io avrei fatto così. Io non ci penso neanche a dire bugie ad Arthur. Sì, non gli dico proprio tutto tutto, ma bugie non gliene dico.» Possibile che lui avesse messo in opera una strategia così cretina? Fece un rapido esame di coscienza. «Hmmmmmmmmmmmmm.» Finì in un gemito. «Non so come sarebbe possibile uscire di casa alle nove e mezzo di sera, dire che porto a spasso il cane e poi telefonare dicendo: “Oh, mi spiace, per la verità sono qui fuori per telefonare a Maria Ruskin”.» «Sai che differenza c’è tra te e me, Sherman? A te dispiace per tua moglie, mentre a me non dispiace per Arthur. Arthur compirà settantadue anni in agosto. Sapeva che avevo i miei amici quando mi ha sposata, e sapeva anche che non gli piacevano per niente: lui aveva i suoi amici, e sapeva che non piacevano a me. Io non li posso soffrire. Quella massa di yid…Non guardarmi come se avessi detto una cosa orribile! È così che parla Arthur. “Gli yiddim.”E i goyim. E io sono una shiksa. Mai sentito cose simili prima di conoscere Arthur. Sono io che ho sposato un ebreo, non tu, e ho dovuto ingoiare un sacco di questo parlare da ebreo negli ultimi cinque anni per essere in grado di usarlo un po’, anch’io, se ne ho voglia.» «Gli hai detto che hai quest’appartamento?» «No, certo. Te l’ho detto. Non gli dico bugie, ma non gli racconto tutti i particolari.» «Questo è un particolare?» «Non è una faccenda così grossa come credi tu. È una seccatura. Il padrone di casa ha di nuovo dato fuori di matto.» Maria si alzò in piedi e si diresse al tavolo dove prese un foglio di carta e lo porse a Sherman, poi tornò a sedersi sul bordo del letto. Era una lettera dell’ufficio legale Golan, Shander, Morgan e Greenbaum indirizzata alla signora Germaine Boll e concernente la sua posizione di locataria di un appartamento ad affitto bloccato di proprietà della Winter Real Properties Inc. Sherman non riuscì a concentrarsi sulla lettera. E neppure lo voleva. Si stava facendo tardi. Maria continuava a divagare. E si stava facendo tardi. «Non saprei, Maria. È Germaine che deve pensarci e rispondere.» «Sherman?» Sorrideva con le labbra socchiuse. Si alzò in piedi. «Sherman, vieni qui.» Lui si avvicinò di mezzo metro, ma non volle avanzare oltre. Il viso della ragazza diceva quel che aveva in mente. «Tu pensi di essere nei guai con tua moglie, e tutto sommato hai fatto soltanto una telefonata.» «Non penso di essere nei guai. So di essere nei guai.» «Be’, se sei già nei guai, e ancora non hai fatto niente, meglio che tu faccia qualcosa, visto che non c’è differenza.» Poi lo toccò. Re Priapo, prima spaventato a morte, ora risorse. Steso sul letto, Sherman colse con lo sguardo il bassotto. L’animale si era sollevato dal tappeto e aveva marciato fino al letto: ora li stava osservando e agitava la coda. Cristo! C’era una possibilità, per caso, che un cane potesse indicare…I cani potevano fare qualcosa che confermasse come loro avessero visto…Judy conosceva gli animali. Si affannava a scoprire gli umori di Marshall fino a farlo arrabbiare. Forse i bassotti facevano qualcosa dopo aver osservato…In quell’attimo il sistema nervoso cominciò a rarefarsi, e Sherman non si preoccupò più. Sua Maestà, il re più antico, Priapo, Padrone dell’Universo, non ha coscienza. Sherman s’introdusse nell’appartamento e si affannò per ingigantire i soliti opportuni rumori. «Bravo Marshall, bravo, bravo!» Si tolse l’impermeabile con gran fruscio della stoffa gommata, tintinnio di fibbie e qualche fiuu. Nessun segno di Judy. La sala da pranzo, il soggiorno e una piccola biblioteca si snodavano dall’ingresso marmoreo. Ogni locale aveva i familiari bagliori e splendori di legno intagliato, vetro lavorato, avvolgibili in seta grezza, smalti laccati e ogni altro tocco mozzafiato e costoso di sua moglie, l’ambiziosa arredatrice. Poi notò un palla porta nella biblioteca, era girata in senso inverso. Riuscì appena a scorgere la sommità della testa di Judy. Vicino alla poltrona c’era una lampada. Pareva che lei stesse leggendo un libro. Sherman si fermò sulla soglia. «Be’! Siamo qua!» Nessuna reazione. «Avevi ragione. Sono bagnato fradicio, e Marshall non era per niente contento.» Lei non alzò lo sguardo. Solo la voce si levò dalla poltrona. «Sherman, se vuoi parlare con una certa Maria, perché telefoni a me?» Sherman fece un passo all’interno della stanza. «Cosa dici? Se voglio parlare con chi?» La voce: «Oh, per l’amor di Dio. Ti prego di non prenderti la briga di mentire». «Mentire…e su che cosa?» Allora Judy fece sbucare lentamente la testa da un lato della poltrona. Che sguardo terribile! Con il cuore angosciato Sherman si avvicinò alla poltrona. Il volto di sua moglie incorniciato dai capelli scuri era disperato. «Ma di cosa stai parlando, Judy?» Lei era così sconvolta da non trovare subito le parole. «Oh, come vorrei che potessi vedere la tua faccia in questo momento!» «Non capisco di che cosa stai parlando!» Il tono acuto della sua voce la fece ridere. «E va bene, Sherman, adesso tu te ne stai lì in piedi e mi dici che non hai telefonato qui per parlare con una certa Maria, eh?» «Con chi?» «Con una puttanella, direi, che si chiama Maria.» «Judy, giuro davanti a Dio che non so di che cosa stai parlando. Io sono uscito per portare a passeggio Marshall! Non conosco nessuna Maria! Qualcuno ha telefonato qui chiedendo di una certa Maria?» «Ahhh!» Un breve, scettico lamento. Lei si alzò e lo guardò dritto negli occhi. «Basta così! Ma pensi davvero che non riconosca la tua voce al telefono?» «Forse, ma stasera non puoi averla sentita. Lo giuro davanti a Dio.» «Tu menti!» Gli rivolse un sorriso terribile. «E sei anche un pessimo bugiardo. Oltre che una persona spregevole. Pensi di essere un uomo magnifico, e invece sei così mediocre. Menti spudoratamente, eh?» «No, non mento. Lo giuro davanti a Dio. Ho portato Marshall a passeggio, poi sono ritornato a casa e pam…insomma, non so neppure cosa dire, perché sinceramente non so di cosa stai parlando. Mi chiedi di provare un’asserzione negativa.» «Asserzione negativa.» La frase lambiccata le produsse un intenso disgusto. «Sei stato via un bel po’di tempo. Le hai dato il bacino della buona notte o le hai anche rimboccato le lenzuola?» «Judy…» «Sì o no?» Sherman sottrasse la faccia al suo sguardo fiammeggiante, alzò le mani al cielo e sospirò. «Stammi a sentire, Judy, tu sei completamente…completamente…insomma, hai torto. Lo giuro davanti a Dio.» Lei lo fissò. Gli occhi le si riempirono immediatamente di lacrime. «Ah, tu giuri davanti a Dio. Oh, Sherman!» Tentava di ricacciare indietro le lacrime. «Io non farò…io me ne vado di sopra. Qui c’è il telefono. Perché non la chiami?» Forzava le parole attraverso le lacrime. «Non me ne importa niente. Davvero!» Poi uscì dalla stanza. Lui udì il ticchettio delle scarpe sul marmo del pavimento. Sherman andò alla scrivania e si sedette sulla poltrona girevole Hepplewhite. Si lasciò cadere pesantemente all’indietro. Gli occhi si posarono sul fregio che correva attorno al soffitto della piccola stanza. Era un altorilievo in legno di sequoia indiana con figure umane che si affrettavano lungo un marciapiede metropolitano. Judy l’aveva ordinato a Hong Kong per una somma vertiginosa…del mio denaro. Poi si chinò in avanti. Maledetta! Tentava disperatamente di riaccendere il fuoco di un’equa indignazione. I suoi genitori avevano ragione, no? Lui poteva pretendere qualcosa di meglio. Lei aveva due anni più di lui: la mamma aveva detto che certe cose potrebbero contare…e, da come l’aveva detto, intendeva che avrebbero certamente contato; lui le aveva dato retta? Ohhh, no! Suo padre, verosimilmente con riferimento a Cowles Wilton che ebbe un breve e disastroso matrimonio con un’oscura ragazza ebrea, aveva detto: «Ma non è altrettanto facile innamorarsi di una ragazza ricca e di buona famiglia?». Gli aveva dato retta? Ohhh, no! E per tutti quegli anni, Judy, figlia di un professore di storia del Midwest –un professore di storia del Midwest! –si era comportata da aristocratica e da intellettuale, senza farsi alcuno scrupolo di usare il denaro di lui e della famiglia di lui per introdursi nel suo nuovo ambiente mondano e iniziare la professione di arredatrice, scovando nomi e residenze nelle pagine di certe banali pubblicazioni, come «AD» e altre riviste simili, vero? Oh, nooooooo di certo, neppure per un istante! E a lui cos’era rimasto? Una quarantenne maniaca di ginnastica e di aerobica…All’improvviso la vede come l’aveva vista quella sera quattordici anni prima al Village nell’appartamento di Hal Thorndike dalle pareti color cioccolato e l’enorme tavolo pieno di piccoli obelischi, e una folla molto al di là del pittoresco e del bohémien, almeno a suo parere…e la ragazza dai capelli castani, i lineamenti così fini e il vestito corto corto che rivelava gran parte del suo corpicino perfetto. E d’un tratto egli sentì di nuovo l’irripetibile sensazione di quando essi si rinchiusero in un bozzolo unico, perfetto, nel suo appartamentino di Charles Street e nell’appartamentino di lei nella Diciannovesima Ovest, insensibile a tutto quello che i genitori, Buckley, St. Paul e Yale gli avevano inculcato…e ricordò come le aveva detto…praticamente con queste parole!…che il loro amore avrebbe trasceso…ogni cosa……e adesso lei, quarantenne, affamata e in pieno allenamento ginnico-sportivo, se n’era andata a letto piangendo. Si abbandonò di nuovo sulla poltrona girevole. Come tanti uomini prima di lui, era indifeso davanti alle lacrime di una donna. Il nobile mento gli pesava sul volto. Distrattamente premette un pulsante sulla scrivania. Lo sportello a tamburo di uno stipo faux Sheraton si mosse rivelando lo schermo di un apparecchio televisivo. Altro tocco della sua amata arredatrice piangente. Aprì il cassetto della scrivania e ne estrasse un telecomando che portò subito in vita l’apparecchio. Il notiziario. Il sindaco di New York. Una sala. Una folla esagitata di gente di colore. Harlem. Atti di violenza. Una vera sommossa. Il sindaco si rifugia al sicuro. Urla…caos…una vera scazzottata. Del tutto senza senso. Per Sherman non aveva più importanza e significato di un refolo di vento. Non riuscì a concentrarsi. Spense il televisore. Lei aveva ragione. Il Padrone dell’Universo era mediocre, marcio. E anche bugiardo.articolare. La grande poltrona di cuoio, che di solito stava davanti alla porta nella biblioteca, era girata in senso inverso. Riuscì appena a scorgere la sommità della testa di Judy. Vicino alla poltrona c’era una lampada. Pareva che lei stesse leggendo un libro. Sherman si fermò sulla soglia. «Be’! Siamo qua!» Nessuna reazione. «Avevi ragione. Sono bagnato fradicio, e Marshall non era per niente contento.» Lei non alzò lo sguardo. Solo la voce si levò dalla poltrona. «Sherman, se vuoi parlare con una certa Maria, perché telefoni a me?» Sherman fece un passo all’interno della stanza. «Cosa dici? Se voglio parlare con chi?» La voce: «Oh, per l’amor di Dio. Ti prego di non prenderti la briga di mentire». «Mentire…e su che cosa?» Allora Judy fece sbucare lentamente la testa da un lato della poltrona. Che sguardo terribile! Con il cuore angosciato Sherman si avvicinò alla poltrona. Il volto di sua moglie incorniciato dai capelli scuri era disperato. «Ma di cosa stai parlando, Judy?» Lei era così sconvolta da non trovare subito le parole. «Oh, come vorrei che potessi vedere la tua faccia in questo momento!» «Non capisco di che cosa stai parlando!» Il tono acuto della sua voce la fece ridere. «E va bene, Sherman, adesso tu te ne stai lì in piedi e mi dici che non hai telefonato qui per parlare con una certa Maria, eh?» «Con chi?» «Con una puttanella, direi, che si chiama Maria.» «Judy, giuro davanti a Dio che non so di che cosa stai parlando. Io sono uscito per portare a passeggio Marshall! Non conosco nessuna Maria! Qualcuno ha telefonato qui chiedendo di una certa Maria?» «Ahhh!» Un breve, scettico lamento. Lei si alzò e lo guardò dritto negli occhi. «Basta così! Ma pensi davvero che non riconosca la tua voce al telefono?» «Forse, ma stasera non puoi averla sentita. Lo giuro davanti a Dio.» «Tu menti!» Gli rivolse un sorriso terribile. «E sei anche un pessimo bugiardo. Oltre che una persona spregevole. Pensi di essere un uomo magnifico, e invece sei così mediocre. Menti spudoratamente, eh?» «No, non mento. Lo giuro davanti a Dio. Ho portato Marshall a passeggio, poi sono ritornato a casa e pam…insomma, non so neppure cosa dire, perché sinceramente non so di cosa stai parlando. Mi chiedi di provare un’asserzione negativa.» «Asserzione negativa.» La frase lambiccata le produsse un intenso disgusto. «Sei stato via un bel po’di tempo. Le hai dato il bacino della buona notte o le hai anche rimboccato le lenzuola?» «Judy…» «Sì o no?» Sherman sottrasse la faccia al suo sguardo fiammeggiante, alzò le mani al cielo e sospirò. «Stammi a sentire, Judy, tu sei completamente…completamente…insomma, hai torto. Lo giuro davanti a Dio.» Lei lo fissò. Gli occhi le si riempirono immediatamente di lacrime. «Ah, tu giuri davanti a Dio. Oh, Sherman!» Tentava di ricacciare indietro le lacrime. «Io non farò…io me ne vado di sopra. Qui c’è il telefono. Perché non la chiami?» Forzava le parole attraverso le lacrime. «Non me ne importa niente. Davvero!» Poi uscì dalla stanza. Lui udì il ticchettio delle scarpe sul marmo del pavimento. Sherman andò alla scrivania e si sedette sulla poltrona girevole Hepplewhite. Si lasciò cadere pesantemente all’indietro. Gli occhi si posarono sul fregio che correva attorno al soffitto della piccola stanza. Era un altorilievo in legno di sequoia indiana con figure umane che si affrettavano lungo un marciapiede metropolitano. Judy l’aveva ordinato a Hong Kong per una somma vertiginosa…del mio denaro. Poi si chinò in avanti. Maledetta! Tentava disperatamente di riaccendere il fuoco di un’equa indignazione. I suoi genitori avevano ragione, no? Lui poteva pretendere qualcosa di meglio. Lei aveva due anni più di lui: la mamma aveva detto che certe cose potrebbero contare…e, da come l’aveva detto, intendeva che avrebbero certamente contato; lui le aveva dato retta? Ohhh, no! Suo padre, verosimilmente con riferimento a Cowles Wilton che ebbe un breve e disastroso matrimonio con un’oscura ragazza ebrea, aveva detto: «Ma non è altrettanto facile innamorarsi di una ragazza ricca e di buona famiglia?». Gli aveva dato retta? Ohhh, no! E per tutti quegli anni, Judy, figlia di un professore di storia del Midwest –un professore di storia del Midwest! –si era comportata da aristocratica e da intellettuale, senza farsi alcuno scrupolo di usare il denaro di lui e della famiglia di lui per introdursi nel suo nuovo ambiente mondano e iniziare la professione di arredatrice, scovando nomi e residenze nelle pagine di certe banali pubblicazioni, come «AD» e altre riviste simili, vero? Oh, nooooooo di certo, neppure per un istante! E a lui cos’era rimasto? Una quarantenne maniaca di ginnastica e di aerobica…All’improvviso la vede come l’aveva vista quella sera quattordici anni prima al Village nell’appartamento di Hal Thorndike dalle pareti color cioccolato e l’enorme tavolo pieno di piccoli obelischi, e una folla molto al di là del pittoresco e del bohémien, almeno a suo parere…e la ragazza dai capelli castani, i lineamenti così fini e il vestito corto corto che rivelava gran parte del suo corpicino perfetto. E d’un tratto egli sentì di nuovo l’irripetibile sensazione di quando essi si rinchiusero in un bozzolo unico, perfetto, nel suo appartamentino di Charles Street e nell’appartamentino di lei nella Diciannovesima Ovest, insensibile a tutto quello che i genitori, Buckley, St. Paul e Yale gli avevano inculcato…e ricordò come le aveva detto…praticamente con queste parole!…che il loro amore avrebbe trasceso…ogni cosa……e adesso lei, quarantenne, affamata e in pieno allenamento ginnico-sportivo, se n’era andata a letto piangendo. Si abbandonò di nuovo sulla poltrona girevole. Come tanti uomini prima di lui, era indifeso davanti alle lacrime di una donna. Il nobile mento gli pesava sul volto. Distrattamente premette un pulsante sulla scrivania. Lo sportello a tamburo di uno stipo faux Sheraton si mosse rivelando lo schermo di un apparecchio televisivo. Altro tocco della sua amata arredatrice piangente. Aprì il cassetto della scrivania e ne estrasse un telecomando che portò subito in vita l’apparecchio. Il notiziario. Il sindaco di New York. Una sala. Una folla esagitata di gente di colore. Harlem. Atti di violenza. Una vera sommossa. Il sindaco si rifugia al sicuro. Urla…caos…una vera scazzottata. Del tutto senza senso. Per Sherman non aveva più importanza e significato di un refolo di vento. Non riuscì a concentrarsi. Spense il televisore. Lei aveva ragione. Il Padrone dell’Universo era mediocre, marcio. E anche bugiardo.2 Gibraltar Il mattino dopo, a Lawrence Kramer, appare lei, la ragazza dal rossetto marrone, come se uscisse da un’alba grigia e fioca. Gli sta vicino. Lui non riesce a vederne bene la faccia, ma sa che si tratta della ragazza dal rossetto marrone. Non afferra neppure una delle parole che sgorgano come perle minuscole da quelle labbra dal rossetto marrone, eppure sa cosa sta dicendo lei, Resta con me, Larry. Sdraiati con me, Larry. Lo vuole! Oh, come lo vuole! Non c’è niente al mondo che desideri di più. Allora perché non lo fa? Che cosa lo trattiene dal premere le sue labbra sopra quelle labbra dal rossetto marrone? Sua moglie, è evidente! Sua moglie, sua moglie, sua moglie, sua moglie, sua moglie…Si svegliò al rollare e beccheggiare di sua moglie che, a quattro zampe, si avviava sino ai piedi del letto. Che spettacolo squallido, penoso! Il letto, molto grande, queen-size, che poggiava su una piattaforma di compensato, era largo quasi quanto la stanza, perciò bisognava scendere con cautela a quattro zampe oppure attraversare tutto il materasso per raggiungere il pavimento. Adesso lei era in piedi, sul pavimento, china sopra una sedia a prendere il suo accappatoio. Da come la camicia da notte di flanella le scendeva lungo i fianchi, si sarebbe detta larga un chilometro. Lui si pentì subito di avere pensieri simili. Fece vibrare la corda del sentimento. Oh, la mia Rhoda! Dopotutto aveva partorito soltanto tre settimane prima. Osservò i lombi che avevano dato alla luce il suo primo figlio. Un maschio! Lei non aveva ancora riacquistato la linea di un tempo. Bisognava darle atto che era troppo presto. E tuttavia questo non migliorava per niente la visione. La guardò mentre si contorceva nell’infilarsi la vestaglia. Si girò verso la porta. Dal soggiorno proveniva una luce. Senza dubbio la bambinaia, che era inglese, Miss Efficienza, era già in piedi e in stato di crescente efficienza. Per effetto della luce riuscì a vedere, di profilo, il viso pallido, gonfio, non truccato di sua moglie. Aveva solo ventinove anni e già era uguale alla madre. Era la stessa persona, che tornava! Era sua madre. Non c’erano alternative! Era solo questione di tempo! Gli stessi capelli rossicci, le stesse lentiggini, lo stesso naso ciccioso e campagnolo, le stesse guance rotonde, perfino un incipiente doppio mento materno. Una yenta in embrione! La piccola Gretel dello shtetl! Ridusse le palpebre a una fessura, perché lei non potesse capire che era sveglio. Poi lei uscì dalla camera. La sentì dire qualcosa alla bambinaia e al piccolo. Aveva un suo modo particolare di dire “Jo-shu-a”con cadenza infantile. Era un nome di cui lui stava cominciando a pentirsi. Se proprio si vuole un nome ebraico, cosa c’è di sbagliato in Daniel, David o Jonathan? Si rimise le coperte sulle spalle. Intendeva tornare alla sublime narcosi del sonno per altri cinque o dieci minuti. Intendeva tornare alla ragazza dal rossetto marrone. Chiuse gli occhi. Inutile. Non riusciva a riaverla. Riusciva solo a pensare che, se non si fosse alzato subito, avrebbe trovato una folla enorme nella metropolitana. E così si alzò. Camminò sul materasso. Era come camminare su di una barca a remi rovesciata, ma non intendeva mettersi a quattro zampe. Era così squallido e penoso…Aveva addosso maglietta e short. Si rese conto di essere afflitto da un accadimento comune agli uomini giovani: un’erezione mattutina. Si avviò alla sedia e indossò il vecchio accappatoio scozzese. Sia lui sia la moglie avevano cominciato a portare accappatoi e vestaglie da quando la nurse inglese era entrata nella loro vita. Uno dei molti tragici difetti dell’appartamento consisteva nel fatto che non c’era possibilità di andare dalla stanza da letto al bagno senza attraversare il soggiorno, dove la bambinaia dormiva sul divano-letto e il bimbo in una culla sotto una scatola musicale mobile da cui pendevano minuscoli pagliacci imbottiti. La sentì in azione. La scatola suonava il ritornello di Send in the Clowns. E lo ripeteva di continuo. Plink plink plinkplink, plink plink plinkplink, PLINK plink plinkplink. Abbassò lo sguardo. L’accappatoio non svolgeva appieno la sua funzione. Era come se sotto ci fosse un palo da tenda. Ma, se stava un po’chino, non si notava. Perciò poteva o attraversare il soggiorno impettito e far vedere alla bambinaia il palo da tenda, o camminare ingobbito come se avesse un dolore alla schiena. E così se ne rimase dov’era, in quello squallore. Squallore era il termine esatto. La presenza della bambinaia aveva reso lui e Rhoda pesantemente coscienti della fogna in cui vivevano. L’intero appartamento, definito un tre locali e mezzo nel gergo immobiliare di New York, era ricavato da quella che un tempo era stata una gradevole ma niente affatto smisurata camera da letto al terzo piano di un palazzotto, con tre finestre sulla strada. La stanza –se così la si poteva definire –in cui lui si trovava in quel momento era soltanto un buco ottenuto inserendo una parete a pannelli. Il buco era dotato di una finestra. Il resto di quella che era stata la stanza originale ora veniva chiamato soggiorno e aveva le altre due finestre. Sul retro, vicino alla porta d’uscita, c’erano altri due buchi, uno usato come cucina in cui due persone non potevano entrare affiancate, e l’altro come bagno. Non c’erano finestre in nessuno dei due buchi. L’appartamento era simile a uno dei tanti piccoli formicai: si poteva anche comprare, ma a loro costava 888 dollari al mese, ad affitto semibloccato. Se non fosse stato per la legge che calmierava certe locazioni, probabilmente sarebbe costato millecinquecento dollari e sarebbe quindi stato fuori portata. Avevano avuto una bella fortuna a trovarlo! C’erano laureati della sua età, sui trentadue anni, Dio santo, in tutta New York che morivano dalla voglia di trovare un appartamento come quello, un tre locali e mezzo, con una buona vista, in un vecchio palazzotto dignitoso, soffitti alti, affitto semibloccato, nella zona intorno alla Settantesima Ovest! Davvero patetico, no? Loro ce la facevano a malapena lavorando tutti e due con stipendi che insieme arrivavano a cinquantaseimila dollari l’anno, quarantunomila dopo le detrazioni. Si era concordato che la madre di lei avrebbe fornito il denaro, più o meno un regalo per la nascita del bambino, necessario a pagare una bambinaia di professione per quattro settimane, finché Rhoda fosse stata in grado di rimettersi in piedi e tornare al lavoro. Intanto avrebbero trovato una ragazza au pair che abitasse con loro e si occupasse del bimbo. La madre di Rhoda aveva rispettato la sua parte dell’accordo, ma era ormai evidente che la ragazza au pair disposta a dormire su un divano convertibile nel soggiorno di un formicaio del West Side non esisteva. A Rhoda sarebbe stato impossibile tornare al lavoro. Dovevano tirare avanti con i suoi venticinquemila dollari al netto delle tasse; l’affitto annuale lì, in quella fogna, anche con l’aiuto del semiblocco, era di 10.656 dollari. Be’, perlomeno, queste amare considerazioni avevano riportato l’accappatoio a un aspetto decente. Emerse dalla camera da letto. «Buongiorno, Glenda» disse. «Oh, buongiorno, signor Kramer» disse la bambinaia. Una voce molto fredda e britannica, la sua. Kramer era convinto d’infischiarsene assolutamente degli accenti britannici, o anche dei britannici come tali. In realtà lo intimidivano, i britannici e i loro accenti. Nell’oh della donna, un semplice oh, avvertì un condensato di “Si alza finalmente, eh?”. Massiccia, sulla cinquantina, la donna era già all’opera nella sua uniforme bianca. Aveva i capelli raccolti in una crocchia perfetta. Il letto provvisorio era già sparito e, sistemati i cuscini, il divano aveva assunto di nuovo la sua funzione diurna, da pezzo di mobilio anonimo ricoperto da un panno giallo sporco di materiale sintetico. Lei stava seduta sul bordo di quella cosa, la schiena perfettamente dritta, e beveva una tazza di tè. Il bambino era sdraiato supino nella culla, perfettamente a suo agio. Perfettamente doveva essere il secondo nome della donna. L’avevano trovata tramite l’Agenzia Gough: segnalata su un articolo del «Times», rubrica Casa, una delle migliori e più di moda. E così pagavano il prezzo molto di moda di cinquecentoventicinque dollari la settimana per una bambinaia inglese. Ogni tanto lei nominava altri posti dove aveva lavorato. Si trattava sempre di Park Avenue, Quinta Avenue, Sutton Place. Be’, peggio per te! Adesso puoi bearti della vista in un alloggio messo su in qualche modo in una casa senza ascensore del West Side! Loro la chiamavano Glenda. Lei li chiamava signore e signora Kramer, invece che Larry e Rhoda. Era tutto sottosopra. Glenda era il ritratto della nobiltà, mentre prendeva il suo tè, mentre il signor Kramer, signore del formicaio, si affannava verso il bagno a piedi nudi, a gambe nude, scarruffato, con un accappatoio scozzese logoro addosso. In un angolo, sotto una Dracaena fragrans estremamente impolverata, il televisore era acceso. Uno spot commerciale stava finendo e subito alcune facce sorridenti presero a parlare nel “Today Show”. Ma non c’era l’audio. La donna non poteva essere tanto poco perfetta da tenere la tivù a tutto volume. Cosa diavolo stava davvero pensando tra sé e sé, quell’arbitro britannico seduto in giudizio (su un raccapricciante sofà-letto) a proposito dello squallore di chez Kramer? In quanto alla padrona di casa, la signora Kramer, ecco che stava emergendo dal bagno, sempre in accappatoio e pantofole. «Larry» disse, «guarda la mia fronte. C’è qualcosa qui, come una bolla. L’ho vista nello specchio.» Ancora intontito, Kramer cercò di guardarle la fronte. «Non è niente, Rhoda. È un foruncolo che sta uscendo, direi.» C’era qualcos’altro. Da quando era arrivata la bambinaia, Kramer si era accorto che la moglie parlava con un pesante accento newyorchese. Prima non ci aveva quasi mai fatto caso. Si era laureata alla New York University. Da quattro anni era redattrice alla Waverly Place Books. Era un’intellettuale, quanto meno diceva di leggere un sacco di poesie di John Ashbery e Gary Snyder ai tempi del loro incontro, e aveva da dire un sacco di cose sul Sudafrica e il Nicaragua. Eppure la sua pronuncia era molto discutibile. Come quella della madre, del resto. Rhoda gli scivolò silenziosamente di fianco e Kramer entrò nel buco detto stanza da bagno. Il bagno si presentava simile a quello di una casa popolare. Biancheria appesa all’anello che sosteneva la tenda della doccia. Altra biancheria appesa a un filo che correva diagonalmente per tutta la stanza: una tutina con lampo, due bavaglini, qualche slip, parecchie mutande, e Dio sa quant’altro ancora, ma niente appartenente alla bambinaia, ovviamente. A Kramer toccò curvarsi per arrivare alla tazza. Un paio di mutandine bagnate gli sfiorarono l’orecchio. Disgustoso. Sopra il sedile del water c’era un asciugamano bagnato. Si guardò attorno alla ricerca di un posto dove appenderlo. Non c’era. Lo gettò sul pavimento. Dopo aver urinato, si spostò di una trentina di centimetri fino al lavandino, si tolse accappatoio e maglietta e li posò sul sedile del water. A Kramer non spiaceva contemplarsi faccia e corporatura la mattina. Con un viso largo e piatto, un naso corto e schiacciato, il collo grosso, be’…nessuno lo aveva mai preso per ebreo, a prima vista. Avrebbe potuto essere greco, slavo, italiano, perfino irlandese…in ogni caso, un tipo abbastanza duro. Non che gli facesse molto piacere perdere i capelli, soprattutto sulla nuca, ma in un certo senso anche questo particolare contribuiva a dargli l’aspetto di un duro. Insomma, stava diventando calvo come molti giocatori professionisti di football. E la corporatura, il fisico…Ma quella mattina si scoraggiò. Quei possenti deltoidi, quei trapezoidi flessi e compatti, quei pettorali strettamente raggruppati, quella carne soda, i bicipiti…parevano sgonfi. Si stava atrofizzando, maledizione! Non aveva potuto fare esercizio fisico da quando erano arrivati bambino e bambinaia. Teneva i suoi pesi in una scatola vicino al vaso della Dracaena, e si allenava nello spazio libero tra la pianta e il divano-letto. Francamente, ora, non c’era più alcuna possibilità di esercitarsi, gemere, grugnire, fare sforzi violenti, ossigenarsi e dare occhiate d’apprezzamento nello specchio, davanti alla bambinaia inglese…o alla mitica ragazza au pair del futuro…Siamo sinceri! È tempo di
  rinunciare ai sogni infantili! Ora tu sei un padre di famiglia che lavora. Nient’altro. Uscito dal bagno, trovò Rhoda seduta sul sofà accanto alla bambinaia inglese: tutt’e due avevano gli occhi incollati alla tivù, e questa volta il volume era alto. Era in onda il notiziario del “Today Show”. Rhoda sollevò lo sguardo e disse in tono concitato: «Guarda, Larry! È il sindaco! Ieri sera ci sono stati disordini a Harlem! Un tale gli ha tirato una bottiglia!». Sullo schermo si svolgevano fatti stupefacenti. Un palcoscenico…una mischia feroce…caos…gente esagitata…poi una mano enorme riempì lo schermo e cancellò tutto quanto per un attimo. Ancora urla, smorfie e confusione, e poi il caos. A Kramer, Rhoda e bambinaia parve quasi che i rivoltosi si lanciassero attraverso lo schermo e planassero sul pavimento proprio vicino alla culla del piccolo Joshua. E questo era il “Today”, non il notiziario locale. Quello che tutta l’America riceveva per colazione quel giorno, una visione stordente della gente di Harlem che si sollevava in una giusta ira e cacciava dal palcoscenico il sindaco bianco in una sala pubblica. Ecco adesso la sua nuca che passa in fretta sullo schermo alla ricerca di un riparo. Un tempo quell’uomo era il sindaco della città di New York. Adesso era il sindaco della New York bianca. Alla fine del notiziario, i tre si guardarono in faccia, e Glenda, la bambinaia inglese, parlò, molto agitata. «Be’, mi sembra davvero disgustoso. La gente di colore ignora tutti i vantaggi che ha avuto in questo paese. Ve lo assicuro. In Inghilterra non ci sono molti uomini di colore in uniforme di poliziotto, e molti meno diventano importanti funzionari dello stato, come qui. Insomma, ho letto un articolo l’altro giorno. Ci sono più di duecento sindaci di colore in questo paese. E quelli lì maltrattano il sindaco di New York. Certa gente non sa quanto sta bene, ve lo dico io.» Scosse la testa con rabbia. Kramer e sua moglie si guardarono. Lui era certo che Rhoda stesse pensando la stessa cosa. Grazie a Dio! Che sollievo! Ora potevano respirare liberamente. Miss Efficienza era faziosa, intollerante. Di questi tempi la faziosità era assai disprezzata. Era segno di un’origine modesta, di casa popolare, di classe sociale inferiore, o di cattivo gusto. Perciò essi erano superiori alla loro bambinaia inglese, dopotutto. Che grandissimo sollievo! Era appena finito di piovere quando Kramer si avviò verso la metropolitana. Indossava un vecchio impermeabile sopra il solito abito grigio, con camicia e cravatta. Aveva un paio di scarpe da corsa Nike, con strisce sui lati. Le scarpe di cuoio marrone le portava in una borsa di plastica da supermercato. La fermata della sotterranea in coincidenza con il treno D per il Bronx era tra l’Ottantaduesima e Central Park West. Gli piaceva attraversare il Central Park West dalla Settantasettesima fino all’Ottantunesima, poiché così poteva sfilare davanti al Museo di Storia Naturale. Era un isolato molto bello, il migliore del West Side, secondo Kramer, molto vicino a uno spaccato di strada parigina, anche se non era mai stato a Parigi, per la verità. In quel punto la Settantasettesima Strada era molto larga. Il museo stava da un lato, splendido esempio di neoromanico in vecchia pietra rossa, un po’arretrato rispetto al fronte stradale, tra gli alberi di un piccolo parco. Anche in un giorno nuvoloso come quello le fresche foglie verdi primaverili parevano brillare. Verdeggianti era la parola che gli lampeggiò nel cervello. Dall’altra parte della strada, dove camminava lui, si ergeva una barriera di palazzi residenziali con portieri gallonati, sovrastante il museo. Colse con lo sguardo atri marmorei. E poi pensò alla ragazza dal rossetto marrone. Ora la vedeva distintamente, molto meglio che nel sogno. Strinse il pugno. Maledizione! Lo avrebbe fatto, sì! Le avrebbe telefonato! Sicuro! Avrebbe aspettato la fine del processo, chiaro. Ma lo avrebbe fatto. Era stufo di guardare altra gente vivere…la Vita. La ragazza dal rossetto marrone! Loro due, che si guardavano negli occhi al tavolo di uno di quei ristoranti con rivestimenti di legno e mattoni rossi, piante ornamentali, ottone alle pareti, incisioni su vetro e menu con aragoste Natchez, vitello e banane fritte, pane di granturco al pepe di Cajenna! Kramer era immerso in quella straordinaria visione quando proprio davanti a lui, dall’elegante portone del numero 44 della Settantasettesima Ovest, emerse una figura che lo fece sobbalzare. Era un uomo giovane, all’apparenza quasi infantile, con una faccia rotonda e capelli scuri, pettinati accuratamente all’indietro. Indossava un soprabito leggero Chesterfield con bavero di velluto nocciola e portava una borsa di cuoio di Mädler o T. Anthony di Park Avenue, straordinariamente liscia e levigata che urlava: “Io costo cinquecento dollari”. Si intravedeva una porzione del braccio gallonato che gli teneva aperta la porta. Camminava a passettini rapidi e rigidi sotto la tenda, sul marciapiede, fino a una berlina Audi. Davanti c’era un autista. Sul finestrino posteriore un numero –271–, quindi si trattava di un’auto a nolo. E ora il portiere corse fuori e il giovanotto si fermò perché l‘altro potesse arrivare prima di lui ad aprirgli la porta posteriore della berlina. Quel giovane era Andy Heller! Nessuna possibilità di errore. Era stato con Kramer, nello stesso corso, alla Columbia Law School. Kramer si era sentito immensamente superiore allora, quando Andy, il piccolo Andy vivace e paffuto, aveva fatto la solita cosa, e cioè era andato a lavorare in centro, da Angstrom & Molner. Andy e altri cento come lui avrebbero sprecato i cinque o dieci anni a venire curvi sulla scrivania a controllare virgole e terminologia, citazioni e ingiunzioni, per comporre e sorreggere l’avidità dei creditori ipotecari, dei fabbricanti di prodotti di bellezza, degli arbitri di fusioni e acquisizioni, dei riassicuratori eccetera…mentre lui, Kramer, sarebbe entrato nel cuore della vita autentica, avrebbe abbracciato la causa dei miserabili e dei dannati della terra e, ergendosi nelle aule dei tribunali, avrebbe lottato per loro, davanti alle massime autorità forensi. E, per la verità, era successo proprio così. Perché, dunque, Kramer adesso si tirava indietro? Perché non avanzava fieramente e non se ne usciva a gran voce con un “Salve, Andy”? In fondo era a pochi metri dal suo vecchio compagno di corso. Invece si fermò, girò la testa verso la facciata del palazzo e si mise una mano sul viso, come se gli fosse entrato qualcosa nell’occhio. Non se la sentiva assolutamente di parlare con Andy Heller –mentre il portiere gli teneva aperta la portiera e l’autista attendeva solo un suo segno per partire –, non se la sentiva assolutamente di affrontare Andy Heller che lo guardava in faccia e gli diceva: «Larry Kramer, come te la passi?». E lui avrebbe dovuto dirgli: «Be’, sono sostituto procuratore distrettuale nel Bronx». Non avrebbe nemmeno dovuto aggiungere: «Guadagno trentaseimila dollari l’anno». Questo lo sapevano tutti. In ogni caso, Andy Heller avrebbe scrutato attentamente il suo impermeabile sporco, il vecchio abito grigio dai pantaloni troppo corti, le scarpe Nike, la borsa di plastica…Col cavolo! Kramer rimase fermo con la testa girata, fingendo di avere un granello di polvere in un occhio, finché non sentì sbattere la portiera dell’Audi. Il suono era quello di una cassaforte che si chiude. Si girò proprio in tempo per prendere in faccia una vaporosa nuvoletta di gas di scarico della lussuosa macchina tedesca, mentre Andy Heller salpava verso l’ufficio. Kramer si rifiutò perfino di pensare al probabile aspetto di quel postomaledetto. In metropolitana, nel treno D, diretto al Bronx, Kramer restò in piedi nel passaggio, aggrappato a un palo di acciaio inossidabile mentre la vettura sobbalzava, sbandava e strideva. Sul sedile di plastica di fronte a lui stava seduto un vecchio ossuto che pareva emergere come un fungo da uno sfondo di graffiti. Stava leggendo un giornale. Il titolo a caratteri cubitali diceva LA FOLLA INSEGUE IL SINDACO A HARLEM. Le parole erano così grandi da occupare quasi tutta la pagina. In alto, a lettere più piccole, si diceva: “Torna in Centro!”. Il vecchio aveva un paio di scarpe da ginnastica a strisce rosse e bianche. Facevano una strana impressione su di un uomo così vecchio, ma in realtà nulla era davvero strano, almeno sul treno D. Kramer scrutò il pavimento. Metà dei passeggeri portava scarpe di quel tipo, sporche di fango e terriccio, che parevano salsiere. Le portavano i ragazzi, le portavano i vecchi, le portavano madri con i figli in grembo e, quanto a questo, le portavano anche i figli. Ma non per le stesse ragioni di Forma Fisica & Chic, per cui si vedevano in centro un sacco di giovanotti bianchi e ben vestiti che le avevano ai piedi andando al lavoro la mattina. Oh, no: sul treno D la ragione stava nel fatto che costavano poco. Sul treno D quelle scarpe erano come un piccolo cartello appeso al collo con la scritta GHETTO DI EL BARRIO. Kramer non volle ammetterlo tra sé perché anche lui le portava. Lasciò scivolare qua e là lo sguardo. Non c’era molta gente che leggeva i giornali popolari con i titoloni sui disordini, ma il treno D diretto al Bronx non era un convoglio di gente che legge. No. Qualsiasi cosa accadesse a Harlem non faceva alcun effetto nel Bronx. Tutti quelli che erano nella vettura guardavano al mondo con il solito sguardo assente, evitando i contatti. Proprio in quell’attimo si verificò una di quelle cadute di rumore, uno di quei buchi nel fragore che si hanno quando si apre una portiera di comunicazione tra le vetture di un convoglio sotterraneo. Entrarono tre ragazzi, neri, sui quindici o sedici anni, con grandi scarpe da tennis e stringhe enormi non ben allacciate, ma disposte in volute parallele, con cura, e giacconi seri. Kramer si raddrizzò e decise di assumere un’aria dura e annoiata. Tese i suoi muscoli sternocleidomastoidei per gonfiare il collo come quello di un lottatore; uno alla volta, poteva farli fuori tutti e tre. Ma non succedeva mai così: uno alla volta…Vedeva ragazzi di quel tipo ogni giorno, in tribunale. I tre procedevano lungo il passaggio. Camminavano caracollando con l’andatura nota come il Rollio del Pappone. Anche il Rollio del Pappone lo vedeva tutti i giorni in tribunale. Nei giorni caldi, nel Bronx, c’erano innumerevoli ragazzi che si aggiravano con il Rollio del Pappone, strade intere ne parevano invase. Si avvicinarono con l’immutabile sguardo freddo e vuoto. Be’, cosa potrebbero fare, in fondo? Lo superarono su entrambi i fianchi: non avvenne niente. Be’, naturalmente…Un toro, un tipo tosto come lui: l’ultima persona al mondo con cui attaccare briga! Lui, comunque, era sempre felice, quando il treno si fermava alla stazione della Centosessantunesima Strada. Kramer salì le scale e uscì sulla Centosessantunesima Strada. Il cielo si stava schiarendo. Proprio di fronte, si ergeva la grande boccia dello Yankee Stadium. Oltre lo stadio, stavano gli spettrali palazzoni del Bronx in via di disfacimento. Dieci o quindici anni prima lo stadio era stato rinnovato. Ci si erano spesi cento milioni di dollari. Si era ipotizzato che ciò avrebbe condotto a “rivitalizzare il cuore del Bronx”. Uno scherzo di pessimo gusto! Da allora, quel distretto di polizia, il Quarantaquattresimo, proprio in quelle strade, era diventato il peggiore del Bronx per la criminalità. Anche questo notava Kramer, tutti i giorni. Cominciò a risalire la Centosessantunesima verso la collina, sempre portando ai piedi le scarpe da ginnastica e tenendo in mano la borsa di plastica con le altre. La gente di quelle tristi strade stava davanti ai negozi e alle rivendite di cibi cotti. Alzò lo sguardo e, per un istante, poté vedere il vecchio Bronx in tutto il suo splendore. In cima alla collina, dove la Centosessantunesima Strada incrociava il Grand Concourse, il sole aveva squarciato le nuvole e illuminato la facciata in calcare del Concourse Plaza Hotel. Da quella distanza poteva ancora passare per un albergo stile anni Venti di una città di villeggiatura in Europa. I giocatori degli Yankees un tempo ci abitavano durante la stagione, almeno quelli che potevano, le stelle. Se li immaginava sempre in vaste suite. Joe DiMaggio, Babe Ruth, Lou Gehrig: i soli nomi che ricordava, suo padre ne parlava tanto. Oh, colline dorate d’un tempo! Lassù in cima, tra la Centosessantunesima Strada e il Grand Concourse, il sogno ebraico aveva raggiunto il culmine della nuova Canaan, del nuovo comune ebraico di New York: il Bronx! Il padre di Kramer era cresciuto a diciannove isolati di distanza, nella Centosettantottesima Strada, e il suo grande sogno era stato quello di possedere un appartamento, un giorno o l’altro, in uno dei grandi palazzi in cima, sul Grand Concourse. Il Grand Concourse era stato creato come una specie di Park Avenue del Bronx, ma la nuova terra di Canaan era sicura di poter fare meglio. Il Concourse era più largo di Park Avenue e fornito di uno scenario naturale più rigoglioso: e qui saltava fuori un altro scherzo di pessimo gusto. Vuoi un appartamento sul Concourse? Oggi te lo puoi permettere. Il Grand Hotel del sogno ebraico, oggi, è un ostello dell’assistenza sociale e il Bronx, la Terra Promessa, è per il settanta per cento nero e portoricano. Oh, il povero e triste Bronx ebraico! A ventidue anni, quando stava cominciando la scuola di specializzazione in giurisprudenza, Kramer aveva cominciato a pensare a suo padre come al piccolo ebreo che nel corso della sua vita aveva, alla fine, compiuto la grande migrazione della Diaspora dal Bronx a Oceanside, Long Island, lontana trenta chilometri, e che continuava a fare il pendolare ogni giorno tra la sua abitazione e un deposito di scatole di cartone a Manhattan, dov’era “controllore”. Lui, Kramer, sarebbe diventato l’avvocato, il cosmopolita…E ora, dieci anni più tardi, che cos’era avvenuto? Lui abitava in un formicaio e la casetta stile coloniale, con tre stanze da letto, del padre a Oceanside gli pareva San Simeon; lui prendeva il treno D –il treno D!–per andare a lavorare tutti i giorni nel…nel Bronx! Proprio davanti agli occhi di Kramer il sole cominciava a illuminare il palazzo in cima alla collina, il palazzo in cui lavorava, il palazzo della contea del Bronx. Era una specie di prodigioso Partenone, costruito nei primi anni Trenta in stile civico moderno. Era alto nove piani e si estendeva per tre isolati dalla Centosessantunesima alla Centocinquantottesima Strada. Quale straordinario ottimismo doveva aver animato chiunque avesse pensato e sognato di erigere quell’edificio, a quei tempi! Malgrado tutto, il tribunale gli toccava l’anima. Le quattro grandi facciate erano un’assoluta esaltazione della scultura e del bassorilievo. A ogni angolo c’erano gruppi di figure classiche. L’Agricoltura, il Commercio, l’Industria, la Religione; e le Arti, la Giustizia, il Governo, la Legge e l’Ordine, e ancora i Diritti dell’Uomo: nobili romani con indosso la toga, nel Bronx! Il sogno dorato di un futuro apollineo, armonioso! Oggi, se uno di quegli attraenti signori dei tempi classici scendesse per caso da lassù, non sopravviverebbe abbastanza a lungo per bersi una cioccolata calda. Lo farebbero fuori solo per arraffargli la toga. Non era uno scherzo il Quarantaquattresimo Distretto. Sul lato della Centocinquantottesima Strada, il tribunale dava sul Franz Sigel Park, che da una finestra del sesto piano era un bello spaccato di paesaggio all’inglese, un’incantevole visione di alberi, cespugli, erba e rocce affioranti, che si estendeva sul lato meridionale della collina. Nessuno, in pratica, tranne lui, conosceva il nome del Franz Sigel Park ormai, poiché nessuno, con un briciolo di senno, si sarebbe inoltrato nel parco fino ad arrivare alla targa su cui era inciso quel nome. Soltanto la settimana prima, un poveraccio era stato pugnalato a morte alle dieci del mattino sopra una di quelle panchine di cemento messe nel parco nel 1971, durante la campagna per “fornire di arredi urbani il Franz Sigel Park, per ridargli vita e restituirlo alla comunità”. La panchina era a tre metri dall’ingresso del parco. Qualcuno aveva ucciso l’uomo per la sua radio portatile, una di quelle grandi, note alla Procura distrettuale come le valigette diplomatiche del Bronx. Nessun funzionario o impiegato della Procura se ne andava a far colazione nel parco in un giorno di sole, in maggio, neppure uno in grado di piazzare cento chili di muscoli su di una panchina. Nemmeno un agente giudiziario, che portava un’uniforme e una calibro 38, legittimamente, si azzardava a commettere una simile imprudenza. Rimanevano nel palazzo, l’isola-fortezza del potere, degli uomini bianchi come lui: in questa Gibilterra del misero Mar dei Sargassi, nel Bronx. In Walton Avenue, la strada che stava per attraversare, c’erano uno dietro l’altro tre cellulari color arancione e blu in attesa di entrare nel cortile del palazzo. I furgoni recavano prigionieri dalle case circondariali del Bronx e di Rikers Island, e dalla Corte criminale del Bronx, un isolato più in là, destinati a comparire davanti alla Suprema corte di contea, il tribunale che trattava reati gravi. Le aule giudiziarie erano ai piani superiori, e i prigionieri venivano portati all’interno, e poi trasportati con gli ascensori nelle celle sui piani delle aule. Non si poteva vedere dentro i furgoni, poiché i finestrini erano bloccati da grate metalliche fittissime. Kramer, però, non aveva bisogno di guardare. Nei furgoni c’era certamente la solita massa di neri e portoricani, oltre a qualche italiano della zona di Arthur Avenue e, raramente, un giovane irlandese di Woodlawn, o magari un barbone che aveva avuto la sfortuna di scegliere il Bronx per mettersi nei guai. “Il cibo”disse Kramer a se stesso. Se qualcuno lo avesse osservato, avrebbe visto che le sue labbra si muovevano. Di lì a quarantacinque secondi circa avrebbe appreso che qualcuno in effetti lo stava guardando. Ma per il momento tutto era come al solito: i cellulari blu e arancione, e lui che mormorava: «Il nostro panequotidiano». Kramer era giunto al punto nella vita di un sostituto procuratore distrettuale del Bronx in cui si viene assaliti dal Dubbio. Ogni anno quarantamila persone, quarantamila inetti, imbecilli, ubriaconi, psicopatici, vagabondi, poveri diavoli usciti improvvisamente dai gangheri, e gente classificabile soltanto come totalmente malvagia, venivano arrestati nel Bronx. Settemila di questi venivano rinviati a giudizio e quindi entravano nelle fauci del sistema giudiziario penale –proprio qui –attraverso i cancelli di Gibraltar, dove sostavano in fila i cellulari. Il che significava centocinquanta nuovi casi, centocinquanta nuovi batticuori e sguardi torvi ogni settimana, quando si aprivano tribunali e uffici della Procura. E a che fine? Gli stessi stupidi, deprimenti, patetici, orrendi delitti commessi ogni giorno o quasi: sempre gli stessi. Qual era il risultato dell’incessante lavoro di ognuno, di tutti i sostituti procuratori? Il Bronx continuava a sgretolarsi un po’alla volta, e sempre più si verificavano fatti di sangue. Il Dubbio! Un risultato, comunque, era assicurato. Il sistema riceveva la sua giusta mercé, e i cellulari portavano il nutrimento. Cinquanta giudici, trentacinque cancellieri, duecentoquarantacinque sostituti procuratori distrettuali, un procuratore distrettuale: il solo pensiero fece arricciare le labbra di Kramer in un sorrisetto, poiché senza dubbio Weiss in quel momento era lassù al sesto piano a strillare con Canale 4 o 7 o 2 o 5 per la mancata presenza televisiva di ieri, e che esigeva oggi…e Dio solo sapeva quanti avvocati penalisti, difensori d’ufficio, cronisti giudiziari, agenti di scorta, agenti addetti alla libertà provvisoria, assistenti sociali, addetti alle cauzioni, investigatori speciali, periti, psichiatri…accidenti, quanta gente da nutrire! E ogni mattino arrivava il cibo, il cibo e il Dubbio. Kramer aveva appena messo piede sulla strada che una grande Pontiac Bonneville bianca si avvicinò beccheggiando; un’autentica nave, con straordinarie sporgenze davanti e dietro, il tipo di fregata lunga sei metri che avevano smesso di costruire intorno al 1980. Si andò a fermare sull’angolo lontano con stridori di gomme, e quasi in picchiata. La portiera della Bonneville, una gigantesca distesa di lamiera metallica stampata, larga più di un metro e mezzo, si aprì con un rumore preoccupante, e un giudice, Myron Kovitsky, ne uscì a fatica. Era sulla sessantina, piccolo, magro, rigido, calvo, naso pronunciato, occhi infossati e una smorfia fissa sulla bocca. Attraverso il finestrino posteriore della Bonneville Kramer vide una persona scivolare al posto di guida lasciato libero dal giudice. Doveva essere la moglie. Il rumore causato dall’apertura dell’enorme portiera della vecchia automobile, e la vista della piccola sagoma che ne usciva, erano deprimenti. Il giudice, Mike Kovitsky, veniva al lavoro in un barcone vecchio di almeno dieci anni. Come giudice della Corte suprema, guadagnava 65.100 dollari l’anno. Kramer sapeva a memoria le cifre. Dedotte le tasse, gli restavano forse 45.000 dollari. Per un uomo di sessant’anni al vertice, o quasi, della carriera giudiziaria…be’, era patetico. In centro, nel mondo di Andy Heller, pagavano più o meno quello stipendio ai giovani appena usciti dalle università. E quest’uomo, con una macchina che pareva disintegrarsi ogni volta che se ne apriva la portiera, era al vertice della gerarchia dell’isola-fortezza. Lui, Kramer, occupava una posizione intermedia non ben definita. Se avesse giocato bene le sue carte e fosse riuscito a ingraziarsi le organizzazioni democratiche del Bronx, questo…vertice era il massimo a cui avrebbe potuto aspirare di lì a trent’anni. Kramer era ancora in mezzo alla strada quando la faccenda ebbe inizio: «Ehi, tu! Kramer!» Un vocione tonante. Kramer non riuscì a capire da che parte venisse. «Ehi, pompinaro!» Eeeh? Si fermò di colpo. Una sensazione, un rumore, come uno sbuffo di vapore, gli riempì la testa. «Ehi, Kramer, pezzo di merda!» La voce era diversa. Veniva…accidenti! Da dove venivano quelle voci? «Ehi! Figlio di puttana!» Le voci venivano dal furgone, il cellulare blu e arancione, quello più vicino, a una decina di metri. Non li vedeva. Non riusciva a riconoscerli attraverso la grata dei finestrini. «Ehi, Kramer! Culo di Hymie!» Hymie! Come facevano a sapere che lui era ebreo? Non ne aveva l’aspetto! Kramer non era un…perché quelli…Era sconvolto! «Kramer! Finocchio! Baciami il culo!» «Eeeeehiiiii, fiiiiglio! Fiiiccaaaatel inn cuulo! Fiiccateeel in cuuulo!» Una voce latina, portoricana: la pronuncia ignobile fece entrare un altro po’il coltello nel petto. «Ehi! Faccia di merda!» «Eeeeeehi! Baaciam il cuuulo! Baciam il cuuulo!» «Ehi, tu! Kramer! Poooorco!» «Eeeeehiiii, fiiiigliiiio! Foottuuto! Foottuuto!» Era un coro! Una pioggia fitta di porcherie! Un Rigoletto delle fogne, dalle budella maleodoranti del Bronx! Kramer stava ancora in mezzo alla strada. Che fare? Fissò il cellulare. Non si decideva. Quali? Quali tra quelli…nell’infinita teoria di neri e latini minacciosi…Ma no! Non guardare! Distolse lo sguardo. Chi lo stava osservando? Che fare? Tollerare un trattamento simile e riprendere a camminare verso l’entrata di Walton Avenue, mentre quelli gli rovesciavano addosso altra spazzatura, o affrontarli a viso aperto? Ma come? Come? No! Meglio fingere che non stessero insultando lui. Chi poteva capire la differenza? Meglio camminare per la Centosessantunesima Strada e svoltare poi per raggiungere l’entrata principale! Nessuno doveva sapere che era lui l’oggetto degli insulti! Studiò il marciapiede vicino all’entrata di Walton Avenue, vicino ai cellulari. Soltanto i soliti cittadini tristi, anch’essi fermi, bloccati quasi. Guardavano in direzione del cellulare. La guardia! L’uomo di guardia all’entrata di Walton Avenue lo conosceva! L’uomo di guardia avrebbe capito che tentava di battersela, svicolando! Ma la guardia non c’era. Probabilmente si era infilata nel portone per evitare a sua volta di dover magari intervenire. Poi Kramer vide Kovitsky. Il giudice era a pochi metri dall’entrata. Era fermo, e fissava il cellulare. Poi guardò in faccia Kramer. Merda! Mi conosce! Lui sa che stanno urlando contro di me! Quella piccola sagoma, appena emersa dalla sua scassatissima Bonneville, stava tra Kramer e la sua possibilità d’una ordinata ritirata. «Ehi! Kramer! Faccia di culo!» «Ehi! Verme schifoso e pelato!» «Eeeeeehiiii! Infilaaaaatell in cuulooo! Infilaaaatell in cuulooo! Peeelato!» Pelato? Perché? Lui non era calvo. Sì, perdeva qualche capello, brutti bastardi, ma da lì a essere calvo ce n’era di strada! Un momento! Lui non c’entrava: avevano individuato il giudice, Kovitsky. Ora avevano due bersagli. «Ehi, tu! Kramer! Cosa ci hai nella borsa, piccolo?» «Ehi, vecchio scoreggione pelato!» «Vecchio pelato di merda!» «Ci hai le palle nella borsa, Kramer?» Erano nella stessa barca tutti e due, lui e Kovitsky. Ora gli era impedita la fuga fino all’entrata della Centosessantunesima. E così riprese ad attraversare la strada. Gli pareva di muoversi sott’acqua. Lanciò un’occhiata a Kovitsky. Questi non lo stava più guardando. Camminava a capo chino verso il cellulare. Era furibondo. Lo si poteva vedere dal luccichio nel bianco degli occhi. Le pupille erano incendiate da due raggi di morte che filtravano sotto le sopracciglia. Kramer l’aveva visto così in tribunale: testa bassa e occhi fiammeggianti. Le voci all’interno del furgone tentarono di respingerlo. «Cosa guardi, vecchio uccellaccio raggrinzito?» «Ma sììììì, vieni, vieni, cazzo a verme!» Ma il coro stava perdendo il ritmo. Non sapevano come affrontare la tremenda piccola furia in arrivo. Kovitsky arrivò al furgone e tentò di guardare attraverso la grata. Mise le mani sui fianchi. «Ah, sì? Ma cosa credi di guardare?» «Cooome no! Adesso ti faccio vedere io una cosa, fratello!» Ma le voci stavano perdendo baldanza. Kovitsky si portò davanti al cellulare. Pose gli occhi di fuoco sull’autista. «Ma lei…non li sente?» disse il piccolo giudice additando la parte posteriore del furgone. «Eeeh?» fece l’autista. «Che cosa?» Non sapeva che rispondere. «È sordo come una campana?» disse Kovitsky. «I prigionieri…i suoi prigionieri! Lei è un agente…» Prese ad agitare l’indice davanti all’uomo. «I suoi prigionieri…Lei ha permesso ai suoi prigionieri di rovesciare tutte queste immondizie sui cittadini di questa comunità e sui funzionari di questo tribunale, eh?» L’autista era un uomo grasso e scuro, sui cinquant’anni o giù di lì, piccolo e tozzo, da una vita nell’amministrazione pubblica: all’improvviso spalancò occhi e bocca, senza che ne uscisse un sol suono; poi sollevò le spalle, rovesciò le palme verso l’alto mentre gli angoli della bocca assumevano una piega amara. Era la primordiale scrollata di spalle delle strade di New York e lo sguardo diceva: “Ehi, ma cosa vuoi? Ma cosa vuoi da me?”. E nel caso specifico: “Ma cosa vuoi che faccia, che m’infili in quella gabbia insieme a quella gentaglia?”. Era l’antica invocazione di pietà di New York, innegabile e incontestabile. Kovitsky fissò l’uomo e scosse la testa come si fa quando si è appena visto un caso disperato. Poi si voltò e si diresse verso il retro del furgone. «Arriva Hymie!» «Ahaa! ahaa! ahaaa!» «Succhiamelo, Vostro Onore!» Kovitsky fissò il finestrino, sempre nel tentativo di individuare il suo nemico attraverso la fitta grata. Poi aspirò profondamente, e si udì il terribile rumore di un naso che tirava su e un rimbombo nel petto e in gola. Pareva incredibile che un rumore tanto fragoroso potesse uscire da un corpo così minuto. E poi sputò, lanciando una prodigiosa quantità di catarro verso il finestrino del furgone. Colpì la grata e rimase sospeso, un’enorme ostrica liquida, gialla, parte della quale prese a cedere e afflosciarsi, come certi spaventosi pezzi di gomma o caramella molle masticati, con una massa grumosa all’estremità inferiore. E lì rimase, scintillante nel sole, perché quelli dentro, chiunque fossero, potessero contemplarlo a piacimento. Li tramortì. Il coro si fermò di schianto. Per un insolito, febbrile momento non ci fu altro al mondo, nel sistema solare, nell’universo, nell’intero creato, se non la gabbia e quell’unico lucente, colante, pendulo blocco di sputo illuminato dal sole. Poi, tenendo la mano destra vicino al petto perché dal marciapiede nessuno lo vedesse, il giudice mostrò un dito ammonitorio e girò sui tacchi marciando verso l’entrata dell’edificio. Era a mezza via quando quelli ripresero fiato. «Sììììì, e vaffanculo anche tu!» «Se ti va…tieeeeni…prendi questo…» Ma non ci stavano più con il cuore. Il sinistro spirito di rivolta del cellulare si era afflosciato di fronte al furibondo piccolo uomo d’acciaio. Kramer corse dietro a Kovitsky e lo raggiunse mentre entrava nella porta di Walton Avenue. Aveva dovuto raggiungerlo. Per dimostrargli che era sempre con lui, al suo fianco. Erano stati loro due a subire gli insulti, là fuori. L’uomo di guardia era riapparso sul portone. «Buongiorno, giudice» disse, come se fosse un giorno come un altro all’isola-fortezza di Gibraltar. Kovitsky lo sfiorò appena con lo sguardo. Era preoccupato. Teneva la testa bassa. Kramer gli toccò la spalla. «Ehilà, giudice, lei è stato eccezionale, davvero!» Kramer era raggiante, come se loro due avessero appena vinto una grande battaglia, fianco a fianco. «Sono ammutoliti! Incredibile! Sono ammutoliti!» Kovitsky si arrestò e squadrò Kramer da capo a piedi, come se guardasse una persona mai vista prima. «Maledetto incapace» disse il giudice. Ce l’ha con me perché non mi sono mosso, non l’ho aiutato…ma subito dopo Kramer si rese conto che Kovitsky stava parlando dell’autista del cellulare. «Quel povero figlio di puttana» disse Kovitsky «è paralizzato dal terrore. Io mi vergognerei di fare un lavoro simile se fossi un tale fottuto vigliacco!» Pareva parlare più a se stesso che a Kramer. Continuò a parlare di questo fottuto e di quel fottuto. Il turpiloquio non faceva alcuna impressione a Kramer. Il tribunale era come l’esercito. Dai giudici fino agli agenti di custodia: c’era un unico aggettivo, o participio, o qualsiasi altra cosa venisse nominata, onnicomprensivo, e dopo qualche tempo diventava naturale come respirare. No, il cervello di Kramer correva più avanti. Aveva paura che le successive parole pronunciate dalla bocca di Kovitsky potessero essere: “Perché se ne stava lì, senza fare un cazzo di niente?”. Stava già inventando qualche scusa. “Non riuscivo a capire da dove veniva…Non sapevo se veniva dal furgone oppure…”L’illuminazione fluorescente dava all’atrio quel lucore squallido e tossico di un ambulatorio radiologico. «…questa storia di Hymie» stava dicendo Kovitsky. Poi rivolse a Kramer un’occhiata che esigeva chiaramente una risposta. Kramer non aveva alcuna idea di che cosa stesse parlando. «Hymie?» «Sì, “Arriva Hymie”» disse Kovitsky. «E poi “Cazzo a verme”. Poco male, “Cazzo a verme”.»