È CONSIGLIATA PRUDENZA.
LA PACE DI TRUMP HA TUTTI I DIFETTI DEL SUO AUTORE
Carmelo Palma
12/10/2025
Al di là dell'enorme bolla di parole usate per magnificarla, la tregua di Gaza appare come una mossa opportunistica di Trump, più tattica che ispirata da reali progetti di pace. Israele e Hamas vi aderiscono rispettivamente per convenienza e debolezza, mentre Trump cambia linea, rispetto al progetto "Gaza resort", per ragioni di consenso interno e di prestigio internazionale. L’accordo, fragile e ambiguo, sospende il conflitto senza risolverlo e riflette l’imprevedibilità e il calcolo politico che caratterizzano il trumpismo.
Quella monumentale psicopatologia politica dell’America e dell’Occidente che è il trumpismo e quell’inestricabile gnommero di narcisismo, affarismo e fanatismo che è Donald Trump hanno precipitato da quasi un anno il destino del mondo in un gorgo di minacciosa imprevedibilità. Anche la tregua imposta con la forza alla guerra di Gaza non fa eccezione a questa regola.
Si può ragionevolmente comprendere come Trump sia riuscito a far cambiare idea sia a Netanyahu che ad Hamas.
Il primo è e rimarrà dipendente dal sostegno americano, come del resto ogni premier israeliano; a ciò si aggiunge che le sue sperticate professioni di trumpismo lo rendono ancora più vulnerabile ai desiderata della Casa Bianca. Hamas, rispetto a quando lo stesso piano di pace riesumato da Trump venne proposto da Biden, è infinitamente più debole e isolata dal punto di vista politico ed avrebbe avuto come sola prospettiva alternativa quella di far pagare il più caro possibile ad Israele il prezzo della propria inevitabile sconfitta militare.
È invece molto più complicato capire perché Trump stesso abbia cambiato idea rispetto a pochi mesi fa, quando sembrava seriamente proporre, tra gli applausi della destra suprematista israeliana e dello stesso Netanyahu, il protettorato americano sulla Striscia e la deportazione della popolazione di Gaza come chiave di volta degli equilibri dell’area e soluzione definitiva della questione israelo-palestinese.
Posto che le idee in Trump o sono formule retoriche di appropriazione o consolidamento del consenso o pure fotografie dei rapporti di forza nei quali imporre (quello che lui ritiene essere) l’interesse americano, c’è da credere che la soluzione negoziata nelle scorse settimane – e chissà se e come attuata nei prossimi mesi e anni – gli sia apparsa più conveniente della precedente o, cosa ancora più probabile, che la precedente gli sia sembrata a questo punto irrealizzabile.
Si può ipotizzare che nell’ultradestra americana, naturaliter antisemita, e nell’opinione pubblica isolazionista e “pacifista” la montante insofferenza sui costi per l’America del sostegno a Israele iniziasse a farsi problematica.
Si può inoltre pensare che, dopo essere stato ridicolizzato da Putin sulla pace per l’Ucraina, Trump avesse bisogno di un’altra pace da rivendicare, non solo in prospettiva Nobel, per evitare che tutte le sue prove di forza iniziassero ad apparire dimostrazioni di inettitudine.
Si può infine supporre – supposizione molto realistica – che i paesi arabi e la Turchia non avrebbero accettato la costituzione di una Grande Israele sulle spoglie della vecchia idea dei due popoli e due stati (non per generosità e amore dei palestinesi, ovviamente), non avrebbero mai inglobato sette milioni di profughi arabi per far piacere a Trump e per liberare Gaza e West Bank alle mire di Smotrich e Ben-Gvir e soprattutto non avrebbero accettato quel piano di peace for business che il Presidente americano aveva ingenuamente e protervamente immaginato nella forma della de-palestinizzazione del problema mediorientale.
Quindi Trump ha fatto una inversione a 180 gradi immaginando che dopo lo scambio degli ostaggi (se avverrà regolarmente e senza intoppi) si aprirà un altro tempo di sorprese e rovesciamenti imprevisti, di accordi rinegoziati e di promesse rimangiate, di spazio per nuove scorribande, transazioni e minacce.
Non penso sia molto diverso da quello che pensa Hamas, il cui disarmo formale, a fronte della permanenza dei suoi quadri nella Striscia e dei suoi dirigenti nel soggiorno dorato dei paesi arabi amici, non garantisce affatto la sua uscita di scena promessa dai venti punti dell’accordo per Gaza.
Le ragioni per guardare con qualche diffidenza e timore a quel che succederà sono molto diverse da quelle per cui la sinistra italiana ha liquidato questi accordi come un modo per decretare la vittoria di Israele e archiviare la prospettiva di un futuro statuale per la Palestina. Per il momento non ha vinto e neppure perso nessuno e tutta la grandezza di questa magnificata pace è nell’enorme bolla delle parole usate per magnificarla.
La sospensione del conflitto, la liberazione degli ostaggi, una gestione più efficiente dell’emergenza umanitaria sono obiettivi tutt’altro che disprezzabili e non possono essere svalutati per il solo fatto di essere stati raggiunti con un accordo che non offre particolari garanzie nel prossimo futuro su niente e a nessuno. Meno che mai a Israele, il cui sistema politico non è in grado, a sua volta, di offrire garanzie di evoluzione coerente con uno scenario diverso da quello di guerra.
In ogni caso non è prudente trarre da questa svolta la conclusione che Trump o Hamas siano cambiati, che gli stati arabi coinvolti negli accordi siano mossi da una volontà di diritto e di libertà e che da una terra coltivata da ottant’anni di odi e di incomprensioni il raccolto della prossima stagione sarà solo di pace e concordia.
Questi accordi, nelle loro smisurate ambizioni e ambiguità, hanno tutti i difetti del suo autore, che continuerà a tirare i fili di questa e di altre storie e rimarrà capace di tutto.