domenica 26 maggio 2019


LA RAGAZZA DAL CUORE D'ACCIAIO
(Leather Maiden, 2007)
Joe R. Lansdale
Per Keith, reporter dal naso fino.

La vita è un colabrodo. Il segreto sta nel cercare
di vivere tra un buco e l'altro.
Jerzy Fitzgerald

Gli antefatti

1

Quando cresci in un posto, soprattutto se la tua è una bella infanzia, non ti accorgi di un sacco di brutte cose che si trascinano sotto la superficie e che si contorcono come vermi su un pezzo di carne marcia. Però ci sono. A volte, devi scavare in profondità per scoprirle, oppure devi girare la testa dalla parte giusta per vederle. Ma ci sono, puoi starne certo, e ti sfilano accanto, strisciando. E quello che striscia può includere ricatti, mutilazioni e omicidi. E posso garantirvi che è vero.
Ma il giorno in cui feci ritorno in paese, non notai alcuna traccia di niente che si agitasse sotto la superficie o di qualunque altra cosa che, a eccezione della mia testa, desse la sensazione di essere fortemente agitata. Ero reduce da una sbornia terribile ed era come se qualcuno avesse preso la mia testa in prestito per giocarci a bowling. Mentre attraversavo Camp Rapture, dopo aver superato i binari della ferrovia e la fabbrica di cibo per cani, mi dissi che non avrei mai più toccato una goccia di alcol. Mi ripetevo la stessa cosa ogni volta che mangiavo troppo e mi faceva male lo stomaco. Mai più.
Era una bellissima giornata. La luce del sole si riversava sul marciapiede e sui giardini come un tuorlo d'uovo rotto, soffocando l'erba con il suo tripudio di calore: tutto era caldo e rigoglioso, persino le case dei quartieri più poveri del paese, dalle quali si stavano scrostando i vetusti rivestimenti di vernice bianca come cute ustionata dal sole.
Procedetti strabuzzando gli occhi per proteggermi parzialmente dalla luce estiva, e oltrepassai lentamente l'ambulatorio veterinario di Gabby, cercando di non voltarmi troppo a guardare. Finalmente giunsi di fronte al Camp Rapture Report, scesi, mi fermai accanto alla mia vecchia macchina e diedi un'occhiata intorno, nella speranza che magari stavolta le cose potessero migliorare. Ero uno di quei tipi sempre pieni di speranze.
La sera prima mi ero messo in viaggio in macchina da Houston, dopo aver lasciato Hootie Hoot, Oklahoma, e il mio amico pazzo della guerra in Iraq, Booger, ma ero approdato solo a un bar e, di lì, a un motel di periferia, dove bevvi fino al torpore davanti alla televisione, guardando non so bene cosa. Per quel che me ne fregava, si sarebbe potuto tranquillamente trattare di un programma sul modo di riparare un trattore o su come farsi una lobotomia.
A ogni buon conto, l'indomani mattina, giovedì, mi svegliai con la sensazione che mi fosse morto qualcosa in bocca e qualcos'altro mi si fosse arrampicato su per il culo. Mi feci una doccia e mi lavai i denti per liberarmi di quella sensazione e mi avviai verso l'ultimo colloquio di lavoro in programma, in vista di una possibile assunzione al Camp Rapture Report.
Fermo accanto alla macchina, dopo essermi infilato la giacca sportiva, tutto sudato, a causa della calura estiva, come uno scimmione con un maglione di lana, inspirai una bella boccata d'aria. Era satura della fragranza dei pini situati sull'altra parte della strada statale, e dell'aroma degli hamburger del McDonald's adiacente. Verificai che la cerniera dei pantaloni fosse chiusa, dopodiché controllai le suole, nel caso avessi pestato qualche cacca di cane, poi mi avviai lungo il marciapiede e procedetti oltre le aiuole fiorite, infestate dalle api: il forte odore mi irritò lo stomaco. Entrai.
La sede del Report era sostanzialmente uno stanzone pieno di scrivanie, in buona parte vuote. Solo tre erano occupate. Su un lato, si aprivano porte a vetro che immettevano in alcune stanze dalle grandi vetrate, attraverso le quali si vedevano le persone al lavoro, poi c'erano diverse cataste di casse, e dio solo sa cosa potessero contenere.
Il Report era alquanto demodé. Sembrava uno di quei posti in cui i giornalisti devono indossare dei cappelli di feltro e le giornaliste masticare chewing-gum e chiacchierare vivacemente, muovendo le labbra su cui si sono date del rossetto vermiglio.
All'accettazione, venni accolto da una giovane signora bionda che sarebbe apparsa bella se solo avesse aggiornato l'acconciatura al ventesimo secolo, anche se sarebbe stato sufficiente persino la prima metà del secolo. Mi diede un'occhiata e mi sorrise, mostrandomi un bell'apparecchio. Doveva avere intorno ai venticinque anni, magari qualcuno in più, avvicinandosi forse alla mia età, ma l'apparecchio e i capelli, troppo corti e dal taglio scalato, oltre a una bella quantità di lentiggini sulle gote arrossate, le davano un'aria da studentessa sexy degli anni Cinquanta.
«Signor Statler» disse. «Come sta?»
«Si ricorda di me?»
«Andavamo a scuola insieme.»
«Davvero?»
«Io ero un anno indietro. Però mi ricordo di lei. Faceva parte del club di giornalismo e scriveva per il periodico delle scuole superiori. Se non sbaglio, si occupava di scacchi.»
«A dir la verità, ho scritto solo un articolo.»
«Allora deve essere stato quello che ho letto io... Lei non si ricorda di me, vero?»
«Già, non mi ricordo. Ma, se è per quello, non ricordo un sacco di gente...»
«In effetti, mi ha vista anche quando è venuto a sostenere il primo colloquio.»
«Ora sì che mi sento un idiota.»
«Non si preoccupi, lavoravo nel retro. Ero un fattorino. Lei mi ha visto solo di sfuggita. L'ho salutata con la mano perché mi sono ricordata di lei. I miei capelli avevano sfumature rosse.»
«Capisco. Spero di aver risposto al saluto.»
«Lo ha fatto. Ora non lavoro più nel retro. Ma questo l'aveva intuito, vero?»
«Già, quello lo avevo capito.»
«Ho ottenuto una promozione all'accettazione. Non è come fare la giornalista, ma è sempre meglio di preparare caffè, svuotare pattumiere e stasare cessi. Una volta ho dato la caccia a un bacherozzo che si era infilato nell'ufficio pubblicità. È stato un giorno memorabile. Credo di aver avuto realmente paura.»
«Se non ho capito male, vuole fare la reporter...»
«Esatto. Se ci fosse più giustizia al mondo, già dovrei esserlo. L'hanno assunta per tenere una rubrica, giusto?»
«Non mi hanno ancora assunto.»
«Be', mi sento di essere ottimista in proposito. La signora Timpson la sta aspettando» disse.
«Sono leggermente in anticipo.»
«Non c'è certo la coda per andare da lei, signor Statler.»
«Chiamami Cason.»
«E io sono Belinda. Belinda Hickman.»
Mi tese la mano e gliela strinsi. In effetti era proprio una bella ragazza, con uno stile tutto suo.
«Da che parte?» chiesi.
Mi indicò delle cataste di casse e mi diresse da quella parte, dicendomi che avrebbe avvertito la signora Timpson del mio arrivo.
«Consigli?» domandai.
«Tieni mani e piedi dalla parte della scrivania riservata agli ospiti, non fare movimenti bruschi e non cercare di stabilire un contatto oculare diretto.»

2

Girai intorno a una catasta di scatoloni e a un paio di sedie e mi infilai nella zona buia dell'accettazione, illuminata da una luce posta dietro il vetro smerigliato di una porta che esibiva l'intestazione SIGNORA TIMPSON, DIRETTORE, stampigliata a caratteri neri.
Bussai delicatamente, e una voce praticamente simile a un urlo mi disse di entrare.
La signora Timpson era seduta alla scrivania, dalla quale si era allontanata senza alzarsi dalla poltrona, e mi stava studiando attentamente. Il suo sguardo mi fece capire che i suoi occhi avrebbero potuto fulminarmi come dei raggi laser. I capelli erano eccessivamente rossi sui lati ed eccessivamente rosa nei punti in cui erano radi; le labbra sembravano bietole secche e la faccia era solcata da profonde rughe incrostate di una cipria dozzinale, un po' come la sabbia sul volto della Sfinge. I seni le poggiavano comodamente sulle gambe: era come se fossero passati a miglior vita di recente e lei non avesse avuto il tempo di dar loro sepoltura. Sembrava avere un'età compresa tra gli ottanta anni e qualcosa di vicino all'epoca della scoperta del fuoco.
«Si sieda» mi intimò, con un bel movimento di denti finti, come se stessero cercando di trovare una via di fuga.
Presi l'unica sedia disponibile e mi ci sedetti composto, sobbarcandomi tutta la trafila del buon portamento, poi sorrisi e cercai di sembrare il più intelligente possibile, cercando scrollarmi di dosso i postumi di una sbronza a base di Jim Beam e di un quantitativo decisamente eccessivo di birre ghiacciate.
«Si direbbe che lei abbia bevuto» osservò.
«Ieri sera. A una festa.»
«Mi hanno detto che lei ha problemi di alcol.»
«E chi le avrebbe detto una cosa del genere?»
«Il padrone del Fat Billy's Saloon. È mio marito. Sa, quella stamberga ai margini del paese...»
«Ah! Già... Voglio dire... no, non è un problema. Ho bevuto, però non sono un ubriacone.»
«Mi era parso di capire che fosse una festa.»
«Già, una festa per una sola persona. Non si tratta di un'abitudine, mi sono solo sbronzato un po'.»
«Direi più di un po'.»
«Lei ha un bar e dunque sa bene come vanno le cose. Di quando in quando, si finisce per bere più del dovuto.»
«Il bar è di mio marito» replicò, bloccando i denti con il labbro superiore, visto che si erano spostati un po' troppo avanti. «Siamo separati da vent'anni. Semplicemente, non ci siamo mai decisi a divorziare. Andiamo molto d'accordo, fintanto che non viviamo insieme o ci vediamo troppo spesso o comunichiamo in qualche modo. Però, mi ha telefonato e mi ha parlato di lei. Naturalmente, la conosceva e sapeva del suo interesse per un lavoro al giornale. Mi ha detto che, tra un bicchiere e l'altro, lei glielo aveva lasciato intendere diverse volte.»
«Forse ero un po' nervoso.»
«E mi ha riferito che un tempo lei giocava a football.»
«Sì, signora, ero il quarter back dei Bull Dogs.»
«Ho dato una controllata: ha perso buona parte delle partite, giusto?»
«È vero. Ma ho fatto anche qualche bel lancio. Credo di detenere il record della scuola.»
«No. Il figlio dei Johnson lo ha battuto due anni fa. Com'è che si chiama? Cazzo. Non mi viene in mente. Però l'ha battuto. E per giunta è un ragazzo di colore.»
Pensai tra me: Di colore? Un'espressione che non usavo da un bel po' di tempo.
«Glielo assicuro, non sono un ubriacone.»
«Uno che beve fino a sbronzarsi è un ubriacone. Uno che viene al lavoro con i postumi di una sbronza è un ubriacone.»
Annuii. «Non si ripeterà.»
Ruotò sulla poltrona e mi scrutò da un'altra angolatura. «Il primo colloquio l'ha sostenuto con Sofia, la mia assistente, ed è andato bene.»
«Grazie.»
«Tanto perché lo sappia, l'ho licenziata la settimana scorsa. Si prendeva troppe pause per occuparsi del figlio. A me i bambini non piacciono e non mi piacciono le pause in eccesso. Le ho detto che, se non le stava bene, poteva farmi causa. Non deve starsene sempre seduto dietro una scrivania, signor Statler, però mi piace pensare che stia lavorando e che il suo tempo sia il mio tempo e che il mio tempo sia solo mio. Lo sa che questo lavoro non è molto remunerativo?»
«È un inizio. Posso puntare in alto.»
«Dannazione, ragazzo mio, è già quasi sul tetto. Purtroppo lei viene da un posto altissimo, un grattacielo. Aveva un lavoro a Houston e ha ricevuto una nomination per il Pulitzer. Cosa riguardava? Un omicidio?»
«Esatto. Quella nomination è stata una bella fortuna.»
«Era quello che stavo pensando anch'io. Tuttavia, lei a Houston non è durato. Qualche problema, immagino.»
«Sono tornato qui per un po', e dopo mi sono arruolato.»
«Già, ma è il motivo per cui lei è tornato che mi interessa.»
«Qui ci abitano i miei genitori.»
«E allora? Che mi dice della ragazza con cui usciva qui. Una certa Gabby... E non faccia il sorpreso. Tengo il naso attaccato al terreno e gli occhi bene aperti - il che, potrei aggiungere, funziona solo a una certa distanza - e le orecchie dritte. In questo paesino non succede granché a mia insaputa.»
«Se per lei è così importante, non ho nessun problema a tirare nuovamente in ballo certe cose.»
«Non lo è. Sono curiosa, ecco tutto. Dunque, è andato a Houston, ha lavorato per un quotidiano importante, si è guadagnato una nomination al Pulitzer e, d'un tratto, ha mollato tutto, è venuto qui per viversi una bella storia d'amore con una ragazza, poi l'ha piantata e se n'è andato in Afghanistan. Che cosa può averla spinta a mollare improvvisamente quel lavoro a Houston? Che problema ha avuto?»
«Non andavo d'accordo con il mio capo.»
«Perché lei beveva?»
«No, signora.»
«Sa bene che posso telefonargli e chiederglielo.»
«Sì, signora, ma si tratta di una faccenda strettamente personale. Lo chiami pure. Non credo che abbia molto da dire sul bere, però, qualunque cosa dica, dubito che pronunci una sola parola buona, nonostante siano passati diversi anni. Non gli sto simpatico. Non ci sono dubbi in proposito. Di nuovo... si tratta di una faccenda personale.»
«Personale quanto?»
«Strettamente personale.»
«Con me può parlare chiaro.»
«Davvero?»
«Ci può scommettere. Niente che lei possa dire mi imbarazzerà o turberà.»
«D'accordo. Mi scopavo sua moglie.»
«E pure la sua figliastra.» Espirò e arricciò le labbra color bietola. «Non sono sicura di quanto sia personale. Immagino che per la moglie fosse molto personale.»
«Era così che lei la vedeva. Quanto alla figlia, be'... aveva trent'anni. La moglie quarantotto.»
«Niente adolescenti coinvolte?»
«No, signora.»
«E immagino che i suoi distinguo non valgano per il cane di casa...»
«No, signora. Bisogna stabilire un confine...»
«Non me ne può fregare di meno dove infila il pisellino fintanto che fa il suo lavoro. E non le venga in mente di abbassarsi la cerniera lampo e di calarsi le brache in pubblico. Quanto al bere, quello non lo tollererò. Neanche i fumatori mi piacciono. Il fumo, il bisogno costante di una sigaretta, condiziona il lavoro.»
«Non fumo.»
«Bene.» Serrò i denti finti, mi studiò come se stesse decidendo se lasciarmi in vita oppure farmi scomparire da una botola nel pavimento. In effetti, a pensarci bene, mi fece venire in mente uno dei cattivi della serie di James Bond.
«Vorrei inoltre aggiungere che mi sento più saggio, adesso» proclamai. «E che ho bisogno di questo lavoro.»
Una cosa idiota da dire, ma mi venne fuori senza accorgermene.
«Niente suppliche. Sono un segno di debolezza. Ne ha bisogno o lo vuole?»
«Prego?»
«Il lavoro. Ne ha bisogno o lo vuole?»
«Entrambe le cose.»
«Quelle due donne, quella di trenta e quella di quarantotto... Lei che età aveva allora?»
«Ero giovane. Poco più che ventenne.»
«E ora ha grosso modo trent'anni, giusto?»
«Sì, signora.»
«E pensa di essere un gran playboy, vero, ragazzo mio?»
«Lo pensavo allora. Adesso mi sento un idiota.»
Rimasi seduto dov'ero e feci il possibile per sembrare un uomo che avesse appreso la lezione, in attesa solo della sua grande occasione. E, in effetti, le cose stavano sostanzialmente così.
La signora Timpson arricciò nuovamente le labbra color bietola. Sembrava un vulcano furente pronto a eruttare. «Mi chiamo Margot Timpson.»
«Lo so, signora.»
«Lo so che lo sa. Stia zitto e mi ascolti. Lei mi chiamerà signora Timpson. Vada lì fuori da Beverly, la ragazza dell'accettazione, e si faccia...»
«Ci siamo conosciuti. Credo si chiami Belinda.»
«Si faccia indicare la sua scrivania. Lavorare in un giornale è un po' come andare in bicicletta o fare sesso, immagino. Fatto una volta, non dovrebbe avere problemi a rifarlo. Ma le può sempre capitare di cadere da una dannatissima bicicletta e di non riuscire a venire fuori in tempo, sul più bello. Pertanto, l'esperienza non è tutto. Usi anche un po' di buonsenso.»
«Lo farò.»
«Lo spero. Qui di roba per assicurarsi il Pulitzer non ce n'è molta da scrivere. L'ultima cosa che abbiamo avuto sul giornale il mese scorso, a parte le notizie internazionali, l'ultima cosa che fosse anche vagamente stimolante è stata la storia di un procione con la rabbia trovato la scorsa settimana al centro di giardinaggio del Wal-Mart. Si è messo a correre dietro a un magazziniere e l'hanno dovuto abbattere.»
«Il magazziniere o il procione?»
«Il solito senso dell'umorismo, vero?»
«Proprio così, signora. Le prometto che non avrà seguito.»
«Felice di sentirglielo dire.» Strinse gli occhi e restò immobile per un po'. Per un istante pensai che fosse passata a miglior vita. Poi i suoi occhi furono percorsi da un lampo. «Le affido la responsabilità di una rubrica. Era quello che voleva, giusto?»
«Sì, signora.»
«Forse era una puzzola...»
«Prego?»
«L'animale del Wal-Mart. Ora che ci penso, era una puzzola, non un procione.»
«Capisco.»
«Si pettina sempre in quel modo oppure le è morto il barbiere?»
Caspita, questa non l'avevo mai sentita.
«Da quando non sono più militare, li lascio crescere. Credo che me li taglierò.»
«Bene. Ci rifletta. Sulla sua rubrica. Una rubrica che va sull'edizione domenicale. Sarà quasi sempre in giro, però avrà una scrivania. Tuttavia, si presenterà a rapporto da me regolarmente. Come le ho detto, mi va di pensare che lei stia lavorando anche quando non è così. Intesi?»
«Sì, signora.»
Restammo seduti per un po' a studiarci. Io con il mio sguardo appannato da ubriaco e lei con i suoi occhi umidi e grigi. Tuttavia, lei era l'aquila e io il topolino, e avvertii il desiderio di cercare un buco in cui rintanarmi immediatamente.
«Bene,» disse «sa qual è la nostra paga, sa anche battere a macchina e sa come funziona un giornale, anche se questo magari funziona in maniera leggermente diversa, dato che è vecchio come me. L'ho fondato io, sa?»
«Non lo sapevo.»
«Ora lo sa. Prenda contatto con l'ambiente, oggi. Vada a casa quando le pare. Domattina, alle nove in punto, la getteremo nel fuoco.»
Mi alzai, sorrisi e protesi la mia mano per stringere la sua. Lei mi salutò con un cenno di scarsa considerazione.
Mi avviai verso la porta.
«Varnell Johnson» disse.
Mi girai. «Prego?»
«Si chiamava così quel ragazzo di colore.»
«Non capisco...»
«Quello che ha battuto il suo record. Lanciava come una catapulta e correva come un dannato cerbiatto.»
3

Quando uscii dall'ufficio della Timpson, uno dei giornalisti seduto a una delle poche scrivanie occupate, un nero sulla ventina che indossava una camicia giallo canarino con le maniche rimboccate, mi fece cenno di avvicinarmi. Un po' come il presidente che convoca un lacchè; mi avviai comunque verso di lui, avvicinandomi alla sua scrivania mentre lui si alzava in piedi e spostava la sedia. Era piccolo e largo di spalle, i capelli corti con una riga netta nel mezzo. Gli tesi la mano e lui me la strinse. Aveva, una di quelle strette di mano risolute, non tanto intense, ma forti, come se fosse più una competizione che un saluto. Mi mostrò un po' di denti.
«Cason Statler» dissi.
«Lo so. Io sono Oswald, come il tizio che ha sparato a Kennedy.»
«Nessuna parentela?»
«Non che io sappia, a meno che qualcuno abbia saltato la staccionata razziale.»
«È un nome o un cognome?»
«Tutti e due.»
«Conosco un tipo che ha un nome solo. Lo chiamano tutti Booger.»
«Booger, come caccola. Perché? Se le mangia?»
«No. Piuttosto, come Wooly Booger, la tipica larva usata come esca. Sai, roba che fa paura...»
«Ah!»
«È così che ti firmi? Solo Oswald?»
«Niente Solo. Oswald e basta.»
«Felice di conoscerti, Oswald.»
«Scopriremo più tardi quanto sia felice il nostro incontro.»
Non ero tanto sicuro di cosa volesse dire, così decisi che non c'era nulla nel nostro storico incontro da richiedere altre parole, e dunque lasciai perdere.
«Com'è andata là dentro?» chiese.
«Faccio parte della squadra.»
«Oh, ma qui non ci sono giocatori di squadra. In buona sostanza, ciascuno pensa a sé stesso. Prendimi sulla parola. Chinati in avanti e percepirai subito un corpo estraneo. Stammi a sentire, so che la Timpson sembra vecchia e scontrosa e fuori dal mondo, ma voglio che tu lo sappia, quella non è solo l'immagine che trasmette - lei è proprio fatta così.»
«Abbiamo avuto una conversazione particolarmente succosa a proposito della gente di colore.»
Mi sorrise e stavolta parve sincero. «Benvenuto nel 1959.»
«A dir la verità, io sono di queste parti e questo posto lo collocherei piuttosto intorno alla fine degli anni Settanta. Pertanto, smettila di infangarlo.»
Oswald si produsse in un risolino. Eccomi qua. Il signor Cordialone. Avrei potuto ammorbidire praticamente chiunque. Con Booger non c'ero riuscito, però almeno non mi aveva ammazzato.
«Ti prenderò in parola» disse Oswald. «Mi sono trasferito qui solo un anno fa.»
«Perché?»
«Me lo domando tutti i giorni. Ma la gente non fa altro che dirmi quant'era bello ai vecchi tempi. Probabilmente non tanto bello per i neri, però.»
«Non saprei. Non ti piacerebbe tornartene a casa in una baracca sul retro della piantagione di un uomo bianco e cantare spiritual dopo una dura giornata trascorsa a raccogliere cotone? Rilassarti, facendoti passare il dolore per le frustate prese?»
Quest'ultima frase gli strappò un sorrisino. «L'unica cosa che abbia mai raccolto sono le caccole del mio naso. Mi hanno detto che sei stato nell'esercito...»
«È passato un bel po' di tempo. Ho avuto un incidente e mi hanno dovuto congedare.»
«Mi sembri a posto, adesso.»
«Sono guarito del tutto.»
«Mi hanno detto che ti sei guadagnato delle medaglie.»
«Sai un bel po' di cose sul mio conto.»
«Abbiamo letto tutti il tuo curriculum.»
«Non dovrebbe essere privato?»
«È quello che pensi tu. Ma qualche medaglia te l'hanno data, giusto?»
«Quel giorno le regalavano a tutti.»
Mi mostrò qualche dente. «Laggiù c'ero anch'io. In Iraq. Però mi hanno rimandato a casa e non mi hanno richiamato. Pensavo che prima o poi sarebbe successo, e invece così non è stato. Ho ancora paura di ricevere la chiamata. Adesso prendono chiunque, purché respiri. A ogni buon conto, di medaglie non me ne hanno date.»
«Non è quella gran cosa...»
«Proprio come la penso io.»
«Ci si vede, Oswald.»
«Ci si vede» disse.
Osservai Belinda mettere giù il telefono, e nel preciso istante in cui mi allontanai dalla scrivania, si alzò dalla sua e mi intercettò.
«Era la signora Timpson. Mi ha detto di farti vedere la tua scrivania.»
«Grazie.»
Mi fece strada e io fui sufficientemente sfacciato da osservare il suo incedere e decidere che era davvero una gran bella donna, un po' fuori moda per acconciatura e trucco, ma ben vestita. E comunque, mi piaceva come portava la camicetta: attillata al punto da far sembrare il mondo un posto felice, quanto meno per qualche istante.
«Eccoci» disse.
«Be', è decisamente una scrivania.»
«Esatto.»
Somigliava alla scrivania di chiunque altro. C'era sopra un computer e una serie di cassetti. Li aprii. Quelli sui lati erano vuoti. In quello centrale c'erano matite e penne e graffette e un pacchetto aperto di chewing-gum. Presi un confetto, lo scartai e me lo infilai in bocca. Fu come cercare di masticare un cerotto.
Belinda mi mostrò l'apparecchio per i denti. «Buono, eh?»
Tirai fuori il chewing-gum dalla bocca, lo avvolsi nell'incarto e lo lasciai cadere nel cestino. «Non tanto.»
«È lì dal giorno in cui sono state inventate le gomme da masticare.»
«Non ho dubbi.»
«Allora, come ti pare la nostra intrepida direttrice?» chiese Belinda.
«Molto pittoresca.»
Belinda mi rivolse il suo smagliante sorriso metallico. «Non la definiscono in questo modo quelli che lavorano qui.»
«Davvero?»
«Già.» Si guardò alle spalle, in direzione di Oswald, già seduto sulla poltrona dietro la scrivania. «Che mi dici dell'assassino di John F. Kennedy?»
«Non riesco a stabilire se è solo stizzoso oppure se è uno stronzo.»
Sorrise. «A dir la verità, Cason, è uno stronzo stizzoso.»

Mi feci un giro e conobbi qualcuno dei giornalisti e i tizi dell'ufficio pubblicità; venni a sapere che molti altri erano fuori per lavoro e che li avrei incontrati più tardi. Promisi ad alcuni che sarei uscito a pranzo con loro, poi andai alla mia scrivania e mi ci sedetti per un po' a rigirarmi la penna tra le dita.
Non era bella come quella che mi avevano dato a Houston. Se per quello, nemmeno il giornale era all'altezza di quello di Houston. Per giunta, la penna era di qualità scadente. Ma ero lì. Ero stato io a mandare tutto a puttane e ridurmi in quello stato. Persino dopo essermene andato da Houston avevo avuto la mia grande occasione. Ero tornato a casa e avevo incontrato Gabby. Ma anche in quel caso avevo rovinato tutto e mi ero fatto spedire in Iraq. Avevo perso il lavoro. La mia candidatura al Pulitzer era ormai acqua passata e la mia ragazza faceva la veterinaria, cosa che aveva sempre desiderato.
Quanto a me, ero un ubriacone, e in quello ci sapevo fare, se mi ci mettevo di impegno.
Me l'ero andata a cercare.
Ero pronto a organizzare una bella festicciola privata di autocommiserazione, quando Oswald, lo stronzo stizzoso, venne da me. E dire che avevo sperato di non dover più avere a che fare con lui per quel giorno. Non ero stato tanto fortunato.
«Mi ha appena chiamato la Timpson» disse. «Vuole che ti aiuti ad ambientarti.»
«Sono tutto tuo.»
«Bene. Francine, la precedente editorialista, aveva alcune idee nel cassetto e la Timpson ha pensato che forse ti andrebbe di darci un'occhiata, magari scovandoci uno spunto per metterti subito al lavoro, fintanto che non ti venga in mente qualcosa di tuo. Non sei tenuto a utilizzarle, ma lei ha detto di vedere se per caso c'era qualcosa in grado di destare la tua attenzione... E dire che speravo di ottenerlo io quel lavoro.»
«Iniziavo a sospettarlo.»
«E invece no! La signora Timpson voleva qualcun altro. Qualcuno esterno alla redazione, come se io fossi nato sotto la scrivania di questo ufficio e non stessi in una stalla a spalare merda da quasi un anno con il badile del mio padrone.»
«Caspita!» esclamai. «Un vero poeta...»
«E invece no, lei voleva qualcuno con un valore aggiunto. Qualcuno che in passato, un passato molto lontano, avesse ricevuto una candidatura al Pulitzer...»
«Che poi sarei io...»
«Che poi saresti tu. Secondo lei, sarebbe stato carino avere un candidato al Pulitzer.»
«Se può essere una consolazione, una candidatura è una bella seccatura.»
«No. Non è una consolazione. Sono abituato a prenderlo nel culo.»
«Non devi pensare che questa faccenda sia collegata a questioni razziali, perché, se la pensi così, voglio che tu sappia, e te lo dico in maniera cortese e dal profondo dell'anima, che sei un grandissimo stronzo.»
Oswald si mise a sedere sul bordo della mia scrivania. «Non lo penso. Sono solo una di quelle persone nate per prenderlo nel culo e per esserne risentiti. Naturalmente, con un timido e simpatico senso dell'umorismo.»
«Non ci credi sul serio, vero?»
«Che sono risentito oppure che ho un simpatico senso dell'umorismo?»
«Mi riferivo al fatto di essere nato per prenderlo nel culo.»
Oswald annuì. «Non si può fare niente per cambiare il mio destino. C'è chi nasce con un bersaglio appiccicato al culo. Nel mezzo del bersaglio, disegnata proprio nel centro, c'è una fessura con la scritta: inserire uccello.»
«Quando attraversi la strada, controlli da tutte e due le parti?»
«Cosa vorresti dire?»
«Hai detto che credi nel destino.»
«Eccolo che arriva...» disse Oswald.
«Lo puoi dire se guardi da entrambe le parti... Sì o no?»
«Certo.»
«Allora credi anche che il tuo destino dipenda, almeno in parte, da te, altrimenti non avresti paura di finire appiccicato al cofano di una macchina, a farle da ornamento. Vorrebbe dire che tutto è stabilito in principio. Pertanto, ti consiglio di staccarti il bersaglio che hai appiccicato al culo.»
Dargli quel consiglio mi parve un paradosso visto che, come Oswald, anch'io avevo la sensazione di portarmi appresso uno di quei bersagli. Era quello il mio guaio. Ero in grado di ragionare quando si parlava del prossimo, ma quando veniva il mio turno, non occupavo una posizione particolarmente alta nella scala della saggezza.
«Hai ragione» disse Oswald. «Sono un grandissimo stronzo.»
«Stavolta non l'ho detto.»
«Però l'hai pensato. Ho visto quell'idea balenarti nei tuoi azzurri occhi ariani.»
«Ho anche una parte di sangue cherokee.»
«Non è quella la parte che sto scrutando.»
«Cambiamo argomento. Cos'è successo a Francine?»
«È stata licenziata, oppure è morta. Non ricordo esattamente. Voglio dire, è morta, ma non sono sicuro se prima è stata licenziata oppure se è stata licenziata perché è morta. La Timpson è molto severa. Non tollera praticamente nulla. Vedi di mandare tutto a puttane e io mi getterò sul tuo lavoro come le mosche sulla merda. Attenderò nell'ombra, pronto a scattare al momento opportuno, puoi esserne certo.»
Nonostante tutto, ero convinto che Oswald si sentisse più che ambizioso quasi predestinato. Pensava di essere più furbo e più capace di chiunque altro e, in quanto tale, di meritarsi il posto. Sotto sotto, l'aspirazione più grande era istruire il suo cane a leccargli le palle.
Tuttavia, non gli regalai quella perla di saggezza. Al contrario. «E dove li trovo questi spunti di Francine?»
Oswald diede un colpetto al mio computer. «In questa vecchia macchina del cazzo.»
«Santo Cielo! Non sapevo che avessi fatto studi classici...»
«Questo era latino.»
«Sono davvero impressionato.»
«Aspetta di sentirmi recitare Little Brown Jug. Roba da far venire giù il tetto.»
«Non avevo dubbi.»
«I codici e le informazioni sono su un taccuino nel cassetto della scrivania. Bene. Ho assolto il mio compito, ora mi rimetto al lavoro.»
Lo stronzo stizzoso se ne tornò alla sua scrivania.
Controllai nel cassetto e trovai il taccuino con le informazioni che mi servivano, poi mi misi all'opera. Buona parte della roba trovata negli appunti del computer di Francine era entusiasmante come contarsi i peli delle ascelle. C'erano forbite indagini sugli ingredienti della torta a base di barrette Snicker. Ingredienti principali: le barrette Snicker e burro a volontà. Fu una bella sorpresa scoprire che la ricetta non includesse un defibrillatore e i preparativi per un bel funerale. C'era qualcosa riguardo a decorazioni floreali e a smacchiatori in grado di eliminare sostanzialmente ogni cosa, persino da biancheria intima e fazzoletti di carta pieni di moccio. Nulla che mi rapisse realmente. Però perseverai.
Non avevo altro da fare in quel momento, e comunque volevo dare la sensazione di essere dannatamente grato per il lavoro ottenuto, non ero semplicemente pronto ad andarmene a casa e a cominciare a lavorare l'indomani.
Ovviamente, sarebbe stato difficile capire se la Timpson si sarebbe accorta del mio impegno, visto che il suo ufficio era dietro quelle casse e tutto il resto. Tuttavia, ebbi la sensazione che mi stesse osservando, magari attraverso qualche sistema di monitoraggio. Con ogni probabilità, quel sistema si chiamava Oswald.
E fu proprio in quel momento che mi capitò per le mani.
Mi investì immediatamente. Fu come se una mano appiccicaticcia mi avesse stretto la base del collo. Era il vecchio istinto da reporter che saltava fuori come un coniglio.
Un giallo vecchio di sei mesi.
Caroline Allison. Studentessa universitaria. Specializzanda in storia. Ventitré anni. Sparita dopo essere stata fino a tarda notte in un fast food della catena Taco Bell. Una settimana più tardi, la sua macchina era stata ritrovata ai margini del paese, nei pressi della vecchia stazione ferroviaria, non molto lontano dalla casa delle Siegel, sul fianco della collina. Un posto sinistro in cui scomparire.
La casa delle Siegel era stata un luogo leggendario per anni. Era appartenuta a due sorelle. Si narrava che negli anni Venti avessero fatto parte dell'alta società. Al tempo erano adolescenti. Poi era arrivata la Grande Depressione e la loro famiglia, alla caduta del mercato azionario, aveva perso tutti i soldi. Quando le due ragazze avevano raggiunto la cinquantina, i genitori erano morti e le due donne si erano ritrovate a corto di idee su cosa fare per sopravvivere. Ben presto, la gente iniziò a vederle frugare nei bidoni della spazzatura, e siccome non avrebbero accettato la carità, qualcuno prese a buttare cibo nei bidoni, in maniera che loro potessero trovarlo. Alla fine, le due donne vendettero la proprietà di famiglia e si trasferirono in un'altra casa, dove occuparono il piano superiore. Quando la casa prese fuoco e i pompieri accostarono una scala alla finestra, le due donne, ormai sulla sessantina, erano in vestaglia e non ne vollero sapere di uscire dalla finestra vestite in quel modo. Una vera signora non si comportava in quel modo. Una vera signora bruciava come uno stoppino di cotone. Morte per ustioni e pudicizia.
La vecchia casa, quella in cui erano vissute originariamente le due sorelle, era stata acquistata, ma nessuno vi aveva apportato modifiche. Rimase abbandonata a sé stessa, sulla sommità di una collina punteggiata di alberi, il cortile diventato un ammasso di erbacce probabilmente alte un metro. La casa era stata quasi del tutto inghiottita dai rampicanti, e nel complesso sembrava una macchia folta di vegetazione con un paio di occhi rettangolari di vetro. Mi ricordavo che durante il giorno, per come la casa era sistemata sulla sommità della collina, quelle finestre accoglievano i raggi del sole e riflettevano un gioco di luce su tutta la collina, come se fossero dei laser. Con mio fratello Jimmy ci andavamo a giocare da bambini e ci parcheggiavamo la macchina quando avevamo delle ragazze, molti anni prima. Girava voce che quel posto fosse infestato dagli spiriti. Di fantasmi lassù non ne vidi mai, però una volta, mentre cercavo di sfilare le mutandine di Mary Jane William, vidi tra le sue gambe, attraverso il finestrino della mia macchina, un topo di campagna, grosso più o meno come un opossum, sfrecciare tra la vegetazione intorno alla casa e sparire.
Caroline era stata lì, nei pressi di quella vecchia casa, insieme a qualcuno?
Ci era andata in camporella?
Le cose le erano sfuggite di mano?
Era stato qualcun altro a portare la macchina e a lasciarcela, per poi allontanarsi a piedi? Quel qualcuno aveva un complice? Il mio naso di reporter si agitò come un ratto che avesse fiutato del formaggio.
Feci scorrere le note di Francine sullo schermo del computer. Quello che Caroline aveva ordinato al fast food era stato ritrovato all'interno dell'automobile. Non era stato nemmeno toccato. Anche le scarpe erano state trovate lì. Avevano svolto delle ricerche nella vecchia stazione ferroviaria e nella vecchia casa. Avevano tagliato i rampicanti per verificare che il corpo non fosse stato nascosto lì sotto. Nulla di fatto.
Feci scorrere altri appunti.
C'erano delle informazioni su Caroline, sul suo passato. Era stata data in affidamento alla sua famiglia adottiva. Secondo le informazioni raccolte da Francine, aveva un'intelligenza vivida come un'esplosione di luce nucleare. In effetti, Francine aveva raccolto molte informazioni meticolose. Chissà che non avesse finito anche lei per annoiarsi a forza di torte a base di barrette Snicker e vasi di fiori, chissà che non si fosse accorta di avere per le mani qualcosa di interessante.
Nessuno era riuscito a farsi venire in mente un solo motivo per cui qualcuno potesse volerle fare del male. L'unica schermaglia con la legge l'aveva avuta quando si era rifiutata di pagare una multa della biblioteca, per via di un ritardo. Il libro in questione era E la luce riflessa dalle zanne dell'orso è scintillante di Jersey Fitzgerald.
Francine aveva scovato una ragazza che la conosceva bene, una certa Ronnie Fisher. Riferì che Caroline restituiva con un certo ritardo i film ai punti vendita Hastings e Blockbuster, e doveva ancora pagare un paio di multe alla polizia dell'università. Ronnie dichiarò di aver conosciuto Caroline al loro paese natale: erano state date in affidamento allo stesso genitore adottivo e si erano trasferite a Camp Rapture più o meno nello stesso periodo.
Mi misi comodo sulla poltrona e aspettai di capire se il reporter che era in me mi avrebbe detto di lasciar perdere, tanto non sarei approdato da nessuna parte.
Il reporter che era in me non si fece sentire e non mi disse di lasciar perdere. Non mollò la presa. Ero ancora convinto di avere una storia per le mani. Una studentessa universitaria scomparsa da sei mesi senza lasciare traccia. Un passato senza famiglia. O, quanto meno, un passato in una famiglia adottiva. Era andata all'università per avere una vita migliore, e poi era sparita senza lasciare una sola traccia.
C'era qualcosa di sinistro in quella vicenda, roba buona per un giornale. Forse ottima. E magari non solo per quel giornale scalcinato. E se avessi scritto una serie intera di articoli per il giornale sulla scomparsa, sull'illusione della sicurezza di una cittadina, per poi realizzare un articolo più ambizioso su quanto scritto nella mia rubrica, mettendoci dentro delle cose lasciate volutamente fuori dal giornale locale? Avrei potuto fare delle interviste interessanti a persone che la conoscevano, avrei potuto trovare qualche foto della macchina e del sacchetto della Taco Bell negli archivi, una fotografia della ragazza, e poi avrei potuto mandare il pezzo a qualche testata, come il Texas Monthly. Lì avevo dei contatti. La candidatura al Pulitzer continuava ad avere un certo peso. Come uno che avesse partecipato a un Super Bowl e non avesse agganciato la palla giusta, ma comunque aveva preso parte alla partita; allo stesso modo, continuavo a vantare qualche credito.
Se avessi lavorato bene, se avessi fatto in modo da farlo vedere alle persone giuste, forse sarebbe stato proprio quello che mi avrebbe consentito di fare il salto di qualità, proiettandomi in alto. C'ero già riuscito una volta, prima di lasciare che fosse il glande a ragionare al posto della testa. Avrei potuto farlo di nuovo, giusto?
Mi era stata offerta una nuova opportunità. Decisi di approfittarne.
Un'opportunità che per poco non mi uccise.

Quando uscii, le api erano ancora al lavoro, i fiori emanavano un aroma forte e la mia macchina continuava a essere vecchia e gli hamburger che friggevano al McDonald's mi misero lo stomaco in subbuglio. Ma ora avevo un lavoro, ed ero sicurissimo che le mie scarpe non fossero sporche di merda di cane e che la storia di Caroline Allison potesse essere uno scoop.
Pensai a Caroline Allison, poi tirai fuori il cellulare, chiamai mamma e papà, gli dissi che avevo ottenuto il lavoro, cosa di cui parvero doverosamente entusiasti. Avrei voluto chiamare qualcun altro, ma in realtà non conoscevo nessuno. Mio fratello e sua moglie, forse, però Jimmy era al lavoro, non lo vedevo da un po' e mi stavo preparando psicologicamente per quel momento.
E poi c'era Booger. Non so bene perché, ma pensai a lui. Stavo cercando di togliermelo di torno, di sbarazzarmi di tutte le vecchie amicizie della guerra. Ma sapevo che gli avrebbe fatto piacere sentire come era andata, anche se pensava che scrivere per un giornale fosse un tipo di lavoro strano per un adulto. Booger era convinto che l'uomo fosse stato piazzato sulla terra per stabilire se era un dominatore oppure uno schiavo e per mangiare carne, specialmente pollo fritto. Gli piacevano anche le donne, ma le donne venivano al terzo posto nel suo progetto commerciale e, comunque, in quello non c'era assolutamente niente di romantico. Una mera questione di servizi.
Non c'era nulla di paragonabile alla guerra per il suo potere di confonderti, di farti domandare da che parte stavi realmente e quanto eri umano. Ma per Booger la guerra era come scavare un fosso, solo che era decisamente più divertente. Tutti gli orrori che le giornate avevano in serbo per noi che ci trovavamo laggiù, non erano niente per Booger. Dormiva ogni notte come se il mondo non esistesse nemmeno, con le mani infilate tra le gambe a stringersi le palle. Aveva la coscienza di un bambolotto marziale in plastica. In un certo senso mi mancava, eppure era trascorso poco tempo dall'ultima volta in cui l'avevo visto e mi ero accomiatato da luì con l'intenzione di non rivederlo e di non parlarci mai più. Stavo iniziando a pensare che lui rappresentasse l'ennesima mia cattiva abitudine. Qualcosa di cui avrei dovuto sbarazzarmi, anche se non riuscivo a farne a meno.
In realtà, però, era Gabby che volevo chiamare. E non per parlare del mio lavoro. Volevo soltanto sentire la sua voce. Passai con l'auto accanto al suo ambulatorio. La sua macchina c'era, la stessa che aveva quando me n'ero andato in Afghanistan. Era tenuta bene, come tutte le sue cose. C'erano altre due macchine e un pick-up. Un bastandone nero era sistemato in una gabbia piazzata sul retro del pick-up e una donna, che dall'aspetto si sarebbe tranquillamente potuta guadagnare da vivere lottando con gli alligatori e insegnandogli a trainare un carro mentre recitava sonetti di Shakespeare, stava mettendo il guinzaglio al cane per farlo scendere.
Senza fermarmi, guardai attraverso lo specchietto laterale. La porta dell'ambulatorio si aprì e la lottatrice e il cane entrarono. Pensai di aver colto una vaga immagine di Gabby, ma la visione fu così fugace che non potei essere certo. Poteva trattarsi di un orso danzante oppure di un uomo nudo con un trombone in mano. Poteva trattarsi di chiunque.

4

Guidai fino a casa di mamma e papà, parcheggiai accanto al marciapiede e rimasi in macchina a osservare per un po'. Tra la loro casa e quella del vicino c'era una staccionata bianca. Era verniciata di fresco e così capii che doveva essere stato mio padre a sistemargliela. Riconobbi come opera di mia madre i rampicanti abbarbicati alla staccionata in un groviglio di spire. L'erba ingiallita dal sole, che arrivava all'altezza delle caviglie nel giardino del vicino, era opera esclusiva della natura. Un tempo quella staccionata non c'era. Anzi, quando io ero bambino, accanto a casa nostra, da quel lato, non c'era nessun'altra casa, solo un terreno con un paio di grossi olmi: uno cresceva accanto alla staccionata e invadeva il cortile di mamma e papà, inondando d'ombra il tetto.
La casa dei Wilson, sull'altro lato, era ancora lì, per quanto conciata male. Sembrava che, nel periodo in cui ero stato lontano dal paese, una termite gigante si fosse messa di buona lena a mangiarne gli angoli e a succhiare via tutta la forza portante del legno. La veranda pendeva da una parte e si era ingrigita come Matusalemme. Non ci abitava più nessuno. Sembrava il cadavere di un dinosauro di legno. L'intero quartiere era cambiato. La novità principale consisteva nel fatto che si era esteso. Un tempo, quella terra si trovava ai margini del paese, ma poi si era espanso e il nostro era diventato un terreno costoso, nonostante la casa restasse un'abitazione comune. Papà diceva sempre: «Un giorno, figliolo, dopo che noi ce ne saremo andati da molto tempo, tornerai qui e dove stanno queste case sorgerà un parcheggio oppure un Wal-Mart.»
Scesi dalla macchina con la mia valigia, e mi incamminai nel giardino. Una vocina proveniente da oltre la staccionata, dai grossi rami dell'olmo, si rivolse a me.
«Tu non abiti qui.»
Mi voltai e guardai in alto. Sull'olmo c'era una casetta costruita su una piattaforma, nascosta da una cortina di rametti e un bel po' di foglie. Sulla piattaforma, c'era una ragazzina di nove o dieci anni, con i codini biondi, una maglietta sudicia, pantaloncini di jeans, e senza scarpe. Era molto carina, per quanto ossuta, e probabilmente, crescendo, avrebbe rimpinguato i suoi lineamenti e si sarebbe fatta decisamente bella. Si sedette sul margine della piattaforma, con i piedi penzoloni. Aveva un bel po' di lividi da maschiaccio e di graffi sulle gambe, persino un paio di croste.
Le rivolsi un sorriso. «Una volta abitavo qui. Molto tempo fa, quando avevo la tua età.»
«Sei il figlio piccolo del signor Statler?»
«Una volta. Voglio dire, sono sempre suo figlio, ma non più tanto piccolo.»
«Sei grosso. Sei più di un metro e ottanta?»
«Quasi uno e novanta, con un bel paio di scarpe e la schiena eretta.»
«Perché hai i capelli così lunghi?»
«Perché per un certo periodo sono stato costretto a portarli cortissimi.»
«Ah! Lo sapevi che tuo papà ha picchiato mio papà?»
Impiegai un po' per raccogliere le idee. «E perché mai ha fatto una cosa del genere?»
«Non era esattamente il mio papi, ma io dovevo chiamarlo così. Beveva. Ha picchiato la mamma e le è corso dietro nel giardino con la gamba di una sedia, e tuo papà gli ha fatto il culo nero.»
«Non dovresti parlare in quel modo.»
«Ma è proprio quello che gli ha fatto il tuo papi. A Papi Greg, così chiamo il mio papi che il tuo papi ha picchiato. Papi Greg si è cagato sotto e io e la mamma ne sentivamo l'odore fin da casa. Gli scendeva lungo i pantaloni. Secondo mamma era una scena divertente. Avresti dovuta sentirla ridere.»
«Be', non dire più quella parola. Intesi?»
«Quale parola?»
«Quello che gli ha fatto nero.»
«Ah... Intesi.»
«E che ne è stato di tuo papà?»
«È scappato di casa per un po'. Di quando in quando, lo rivedo, ma non abita più qui. È scappato di casa e si è unito al circo, ma a volte ritorna.»
Per poco non mi scappò da ridere. Sembrava una storiella che le aveva ammannito sua madre a mo' di battuta triste, però la bimba l'aveva presa sul serio.
«Ora mamma ha un papi nuovo. Papi Bill. Non è che Papi Bill ci sia tanto spesso a casa e, quando c'è, lui e mamma se ne stanno quasi sempre a letto. Però litigano decisamente meno di quando lei stava con Papi Greg. Papi Bill è proprio buffo da vedere.»
«Be', io mi chiamo Cason. È stato un piacere conoscerti... Come ti chiami?»
«Jasmine. Ma mi chiamano tutti Jazzy.»
«Piacere, Jazzy.»
«Piacere mio. Lo sapevi che non c'è la scala? Per venire quassù, mi arrampico sull'albero. Come uno scoiattolo, dice mamma. Come una stramaledetta scimmia, diceva Papi Greg. A me Papi Greg piaceva di più di Papi Bill, anche se era cattivello, però non dirlo a nessuno.»
«Sono sicuro che tu sei molto brava ad arrampicarti.»
Jazzy saltò a un altro argomento.
«Prima di abitare qui, abitavo da mia nonna.»
«Da tua nonna?»
«Non era mia nonna. Però lasciava che la chiamassi in quel modo. Abita a Houston. Vuoi andare a giocare ai morti?»
«Ai morti?»
«Sul retro della casa c'è un cimitero e io e mamma a volte andiamo a sdraiarci sulle tombe. Fingiamo di starci dentro e di essere morte.»
«Un gioco dove non c'è molta azione...»
«A volte lo facciamo di notte e guardiamo le stelle.»
Fantastico!, pensai. Una madre gotica.
«Fa' attenzione lassù» dissi.
«D'accordo» mi rassicurò.

Entrato in casa, mia madre mi abbracciò e mi disse tutte le belle cose che dicono le mamme quando trovi un lavoro e pensano che magari le cose si sono rimesse sul binario giusto una volta per tutte, e forse non finirai per vivere in uno scatolone di cartone e frugare tra i cassonetti della spazzatura, parlando da solo e reggendo in mano un cartello che invita il prossimo a farti la carità e a suonare il clacson 'se vuoi bene a Gesù'.
Mia madre sembrava in ottima forma. Era in salute e leggermente ingrassata e si era senza dubbio tinta i capelli, ma i suoi movimenti erano quelli di sempre, veloci. Posai la valigia e l'abbracciai meglio e stavolta le diedi un bacio sulla guancia. Mi disse che mi avrebbe preparato un panino.
«D'accordo. Buona idea.»
«Tacchino e pane di segale, il tuo preferito.»
«Bene.»
«Con la maionese.»
«Immancabilmente.»
Mi diede una pacca su una spalla. «Ti daremo la stanza dove stavi con Jimmy.»
«Fantastico.»
«Stai bene?»
«Sto bene, mamma.»
«Mi sembri un po' magro.»
«No. Sto bene.»
«Hai i capelli troppo lunghi.»
«Non sono poi tanto lunghi.»
«Per lo standard locale lo sono... Ma a me piacciono.»
Mi scrutò per bene e mi resi conto che non le piaceva doverlo dire, però non riuscì a trattenersi: «Non bere tanto, Cason.»
«È la stessa cosa che mi ha detto la signora Timpson.»
«È una donna sveglia, per quanto sia anche una gran stronza.»
«È così evidente?»
«Che è una stronza?»
Mamma e io avevamo lo stesso senso dell'umorismo.
«Quello è evidente, d'accordo, ma io mi riferivo ad altro. Ovvero, si vede che ho bevuto?»
«Non ti serve altro che un'insegna al neon sulla testa su cui lampeggi la scritta MI SONO SBRONZATO per rendere la cosa ancor più certa. Faresti bene anche ad abbottonarti la camicia. Non è necessariamente la prova che hai bevuto, ma direi che i tuoi occhi e la faccia rossa che ti ritrovi sono la ciliegina sulla torta.»
Abbassai lo sguardo e mi scrutai la camicia. «Dannazione» sbottai.
«Sei andato al colloquio di lavoro conciato così?»
«Temo di sì» dissi, abbottonandomi la camicia nel modo corretto. «Ma il lavoro l'ho avuto. Meno male che non cercavano un indossatore...»
«Non puoi bere così tanto, tesoro. Tutto qui. Se versassi tutto quell'alcol su una bistecca, la dissolveresti. Sul serio.»
«Lo so.»
«Pensaci bene. Sei convinto che possa farti bene alla salute?»
«Direi di no.»
«E allora non puoi bere così tanto.»
«A quanto sembra, invece posso.»
Mia madre fece una smorfia. «Però non dovresti.»
«E non lo farò, mamma. Ieri sera mi sono sostanzialmente lasciato andare, ecco tutto.»
Sorrise e cambiò argomento. «Sono felice che tu abbia deciso di fermarti un po' di tempo da noi.»
«Non per molto. Finché non trovo una casa. Sai, finché non mi sistemo bene sul posto di lavoro...»
«Andrà tutto bene, vero?»
«Certo. Le casse che ho spedito sono arrivate?»
«Sì, sono nella rimessa.»
«Bene, altrimenti avrei dovuto indossare per un bel po' gli stessi tre paia di pantaloni e le stesse camicie. E mettermi a rotazione due paia di mutande e un paio di calze. In macchina ho alcune cose ritirate da un deposito di Houston. Le prenderò più tardi.»
«D'accordo.» Mi abbracciò nuovamente. «Impiega tutto il tempo necessario per trovare casa. È bello riaverti qui.»
«Papà dov'è?»
«Nel garage, ovviamente.»
«Mi fai un fischio quando il panino è pronto?»
«Certo.»

Uscii sul retro, attraversai il giardino posteriore, con la fragranza dell'erba appena tagliata nelle narici. Papà aveva un piccolo garage che si era costruito quand'era andato in pensione. In tal modo, che si fosse ufficialmente ritirato o meno, avrebbe continuato a fare dei lavoretti a qualche macchina, di amici e vicini.
Lui lo chiamava rabberciare. Così, nelle casse di famiglia entrava qualche dollaro in più. Lui e mamma erano stati accorti. Avevano risparmiato e investito in titoli azionari proficui, potevano contare sulla previdenza sociale e, in più, lei aveva la pensione da insegnante.
Nel garage c'era un'automobile azzurra col cofano aperto. La testa di mio padre era infilata sotto il cofano e lui stava trafficando. Era un vecchio modello, dei tempi in cui le parti si riparavano e non si sostituivano, a differenza di quanto succede adesso. Nonostante fossi il figlio di un meccanico, le automobili non mi avevano mai interessato, per me erano tutte uguali. Non sarei stato in grado di aggiustare una carriola, però sono andato sempre fiero di mio padre. Lo avresti potuto abbandonare in mezzo al Sahara con un cacciavite e un laccio per i capelli e sarebbe riuscito a riparare praticamente qualsiasi tipo di macchina e a farla ripartire.
Papà alzò la testa da sotto il cofano, prese in mano uno straccio e si ripulì le mani dal grasso. «L'hanno trattata bene. È una Plymouth Fury del '69. Il sedile anteriore è praticamente un salotto e la macchina viaggia come un maiale ustionato.»
«Interessante.»
Si avvicinò e mi strinse la mano. Era una mano grossa, callosa e scurita da anni e anni passati a trafficare nella morchia, nella benzina e nel petrolio. Aveva lo stesso fisico vigoroso di sempre, ma aveva messo su una bella pancetta rispetto all'ultima volta. I suoi capelli, un tempo neri come il fondo di una caverna, adesso erano bianchi come il cotone.
«Congratulazioni per il lavoro» disse.
«Grazie. Penso che andrà tutto bene.»
«Certo. Bisogna pensare positivo, ragazzo mio. Quand'eri giovane, pensavi sempre positivo. Non puoi permettere che quegli spiritelli maligni abbiano la meglio su di te. Rimani positivo.»
«Certo.»
«Dannazione, ragazzo mio. Hai un aspetto orribile.»
«Prova a metterti nei miei panni...»
«Lascia perdere il bere per un po', ragazzo mio. Quella roba ti metterà nei guai.»
«Mamma mi ha detto la stessa cosa. E me l'ha detta anche la signora Timpson.»
«I buoni consigli corrono.»
«Sissignore. La bimba della casa qui accanto...»
«Jazzy?»
Annuii. «Mi ha detto che hai menato il suo Papi Greg.»
«Abbiamo avuto uno scambio di vedute.»
«Uno scambio di vedute non ti colpisce con tanta forza da farti colare la merda lungo una gamba.»
«Dalle parole siamo passati alle botte. E le botte le ha prese lui.»
«Proprio quello che ha detto lei. Quante volte lo hai colpito?»
«Colpisci uno sufficientemente forte da farlo cagare addosso e non ti servirà colpirlo una seconda volta.»
Risi.
«Il mondo è cambiato» constatò mio padre, gettando lo straccio in direzione della Fury. «Sembra che oggi una ragazza su due ha avuto un figlio a quindici o sedici anni, il suo fidanzato se n'è andato di casa e la ragazza lo cresce da sola. Non ho certo vedute conservatrici, però bisognerebbe dire a quelle ragazze che i figli sono una conseguenza del trombare. Diamine, avevo più di quarant'anni e tua madre ne aveva grosso modo trentacinque quando sei nato tu. E trenta quand'è nato tuo fratello. Che fretta c'è? Possibile che nessuno abbia ancora sentito parlare del dannato preservativo? Non ci vuole un fisico nucleare per capire come si fa ad aprire la confezione e a infilarlo...»
«Be', dalla chiacchierata fatta con Jazzy, direi che la madre non è una bomba.»
«Ottima deduzione, in tema di capacità parentali, ma, sotto un altro punto di vista, è esplosiva come un petardo. Ovviamente, l'ho vista solo due volte ed è stato in una di quelle due occasioni che Papi Greg l'ha presa a botte con la gamba di una sedia. Ma è una bella ragazza, dalla chioma scura. Gli Stramaledetti Servizi per la Tutela dell'Infanzia. Li abbiamo chiamati mezza dozzina di volte, ma niente da fare. Dicono che è tutto a posto. Ci sono stati tre o quattro scandali, hanno perso i bambini, insomma, cose così. Pertanto, inutile cercare aiuto da loro. Non ancora.»
«Jazzy mi ha detto che lei e sua madre si sdraiano sulle tombe e guardano le stelle.»
Mio padre annuì. «Da quando te ne sei andato, dopo aver sgombrato un po' di terra là dietro, qualcuno ha trovato un vecchio cimitero. C'è ancora qualche pianta e le tombe sono proprio sotto di loro.»
«Io e Jimmy ci abbiamo giocato per anni. Di tombe non ne abbiamo mai viste.»
«È un vecchio cimitero, del 1880 circa. Le lapidi sono state abbattute e bruciate. La gente della comunità ha pagato perché quel posto venisse risistemato e le lapidi rimesse al loro posto. Ci vanno i boy scout a togliere le erbacce e a tenerlo pulito. Immagino che il cimitero si sia perso, ecco tutto. Ma penso che, se fossi una madre, escogiterei qualche altro sistema per far divertire mia figlia, invece di andare a sdraiarmi sulle tombe per guardare le stelle... Ehi, hai fame?»
«La mamma mi sta preparando un panino.»
«Bene. Ne voglio uno anch'io. Ovviamente,» indicò la pancetta «non mi farebbe male saltarne uno di tanto in tanto.»
«Ha detto che mi avrebbe fatto un fischio appena fosse stato pronto.»
«Perché attendere?»
Mi mise una mano intorno al collo e mi condusse fuori dal garage, attraversando il giardino finché non giungemmo in casa.

5

Mangiammo i nostri panini e anche una fetta di torta di mele, chiacchierammo fino al tramonto e poi guardammo la televisione. Trovammo un canale che trasmetteva incontri di pugilato. Mamma stabilì che aveva delle cose da fare in cucina, ovvero leggere il giornale. Lo faceva tutti i giorni, con fervore religioso. Lo Houston Chronicle e il Camp Rapture Report. Avresti detto che fossero i Dieci Comandamenti, e lei doveva passarli in rassegna, dal primo all'ultimo, per assicurarsi che nessuno fosse cambiato, oppure che non ne fosse stato aggiunto qualcun altro. Del tipo: Non indossare pantaloni elasticizzati se non sei in grado di piegarti in avanti e di vederti le scarpe.
Considerata la sua passione per la lettura dei giornali, credo che fosse particolarmente entusiasta del fatto che io stessi per diventare un editorialista del Report.
Papà mi parlò della nuova baita acquistata sul lago dei Pini insieme a mio fratello e a sua moglie, e della gran voglia che avevano di andarci quell'estate, e del fatto che anch'io ero il benvenuto, e via discorrendo. Gli spiegai che il mio lavoro probabilmente mi avrebbe tenuto dov'ero per un po'.
La box finì, ci guardammo un pezzo di telegiornale finché papà si accorse che le notizie sulle guerra mi stavano mettendo a disagio. Andammo sul retro della casa e ci sedemmo sui gradini di accesso alla veranda con una lattina di Diet Coke a testa e seguitammo a parlare.
Inizialmente, si parlò del più e del meno, ma poi papà si schiarì la gola, come un gatto in procinto di sputare una pallina di peli, distolse lo sguardo, puntandolo verso la staccionata che delimitava il giardino posteriore e verso il tetto del vicino, come se ci fosse qualcosa in quella direzione che lo distraeva. Poi fece: «Tu e quel tizio - come si chiama? Snot - siete ancora amici?»
Risi. «Booger vuoi dire?»
«Già, lui.»
Avevo parlato a papà di Booger in una lettera che gli avevo spedito dall'Iraq. Ero stato onesto su di lui. Pensai che papà sperasse che io e Booger ci fossimo persi di vista.
«Suppongo che siamo ancora amici. Ma non ho gran voglia di vederlo. In realtà, ho la sensazione di averlo salutato per l'ultima volta. In guerra è formidabile, ma qui a casa non sono tanto certo che sia un tizio che mi faccia bene vedere. Se n'è tornato in Oklahoma. Gestisce un poligono di tiro e un bar.»
«Be', è bello restare in contatto con persone dalla storia simile alla nostra. Può essere d'aiuto.»
«A lui queste cose non fanno né caldo né freddo, e anche se abbiamo fatto le stesse cose, non abbiamo la stessa storia. La storia è negli occhi di chi osserva, e gli occhi di Booger sono decisamente più bui e inespressivi dei miei.»
«Interessante come l'hai messa giù.»
«Quando ho affermato che era bravo in guerra, dicevo sul serio. Non gli importava il motivo della guerra e nemmeno che ce ne fosse uno. Voleva solo un'arma in mano e un nemico. È davvero un tizio che fa paura.»
«La prossima domanda è: perché siete amici?»
Scossi la testa. «Non saprei risponderti. Sul serio. Da queste parti, è una specie di pesce fuor d'acqua. Laggiù, mi piaceva averlo accanto o alle mie spalle. Se gli vai a genio, per te ci sarà sempre. E non gli vanno a genio in molti. Non è neppure un uomo di rimpianti. Una volta mi disse che la vita per lui era una pallottola andata a bersaglio e una donnaccia dalle mutandine lerce. È ben più che cinico.»
Mio padre decise di cambiare argomento, e a me non dispiacque affatto.
«Il lavoro ti piacerà?»
«Troppo presto per dirlo. Ho trovato qualcosa di interessante.» Gli riferii di Caroline.
Papà annuì. «Me lo ricordo. Un caso irrisolto, per lo meno fino a questo momento.»
«Però, dopo Houston, da queste parti mi sembra che la vita scorra piatta. Questa faccenda di Caroline Allison potrebbe essere l'unica cosa interessante di cui possa mai occuparmi. Persino la Timpson mi è parsa eccitatissima alla notizia di una puzzola al Wal-Mart.»
«Non sbagliarti, figliolo. Non siamo a Houston, però anche questo posto ha le sue storiacce. Te ne accorgerai presto, appena inizierai a lavorare per il giornale. Fidati di me, succede un sacco di roba, e la Timpson lo sa.»
«Per esempio?»
Papà corrugò la fronte. «Il clima è teso.»
«In che senso?» chiesi,
«Tra bianchi e neri.»
«Pensavo fosse un problema superato.»
«Ci sono zone di questa cittadina in cui i neri sono stati confinati in un angolo, costretti all'ignoranza senza possibilità di riscatto, e ora questo posto è talmente infestato dalla criminalità che la polizia non ci si avventura quasi.»
«Ci ho vissuto, papà. Ci sono cresciuto in questo posto. Ci sono molti neri che se la passano bene. Credo che la tua mentalità sia un po' troppo da anni Sessanta, se mi passi l'espressione.»
«Sono quelli che non se la passano bene a preoccuparmi. C'è anche un bel po' di razzismo alla rovescia, alcuni neri vorrebbero che i bianchi - pur non avendo nulla a che fare con lo schiavismo o con faccende simili - ne patissero le conseguenze, come se fosse successo tutto ieri. Questi neri ignoranti e quei bianchi ignoranti non sono solo ignoranti, ma sono addirittura fieri di esserli. In un certo senso, hanno sposato l'ignoranza e la mancanza di istruzione come una sorta di eredità culturale. Se di eredità si tratta, credo proprio che la restituirei. I neri danno la colpa ai bianchi e queste merdacce bianche danno la colpa ai neri e tutti danno la colpa al governo che, per la verità, si meriterebbe qualche sculacciata.
«I bianchi mi fanno incazzare di più perché di opportunità ne hanno avute più dei neri, persino nel Sud. Ma i loro genitori gli hanno trasmesso quell'attitudine da deficienti come se fosse un'eredità di famiglia. La settimana scorsa c'è stata una sparatoria in una baraccopoli bianca per via di un panino.»
«Deve essere stato un gran panino!»
«Non si è trattato solo di un dannatissimo panino. Qualcuno era geloso di qualcun altro oppure la moglie di qualcuno andava a letto con qualcun altro o, ancora, qualcuno si è messo a guardare la ragazza di un altro o a fregargli il beveraggio o i soldi. È l'unica forma di orgoglio a cui molta di quella gente può aggrapparsi: tenersi le proprie donne e il proprio whisky e qualche spicciolo in saccoccia. Una sorta di orgoglio interessato che non vale una cicca, ma quando hai solo quella, sei disposto a batterti per conservarla.»
«Mi permetti di dirti che mi sembri un po' acido, papà? Come se qualcuno avesse cagato nel tuo soufflé ripieno d'amore e di speranza. Non sei stato tu a dirmi, poc'anzi, che dovevo essere più positivo?»
«Immagino di sì, ma la situazione è davvero incasinata. Adesso abbiamo pure questo predicatore e politicante nero, Gerry Judence.»
«So chi è. Un elegantone dalla battuta pronta. Un vero stronzo. È una vita che lo vedo in televisione.»
«Un tempo, era un bravo e serio esponente di punta del movimento per i diritti civili. Ha marciato insieme a Martin Luther King e a un sacco d'altra gente. Ha fatto cose buone. Man mano che la natura della lotta per i diritti civili è cambiata, ha dovuto però cercare un modo nuovo per restare sotto i riflettori. Insomma, ha tenuto desta l'attenzione per non finire nell'oblio. Di recente, i membri della comunità nera hanno deciso che bisognava costruire una scuola in quella zona non tanto bella della cittadina in cui vive buona parte dei neri poveri. L'idea era che una parte dei neri ricchi, come pure una parte dei bianchi ricchi, cercasse di innalzare il livello dei ragazzini della zona mediante la costruzione di una scuola. Buona parte dei neri del paese e tutta la comunità bianca si sono dichiarati favorevoli. Ma nel quartiere in cui si sarebbe dovuta costruire la scuola, là dove più ce n'era bisogno, be'... Judence ha sollevato un polverone. Ha il radar per quelle cose. Alcune teste di cazzo della comunità nera hanno iniziato a parlare di un complotto da parte di un bianco interessato a trasformare i neri in bianchi, e così Judence ne ha approfittato, ritornando alla ribalta.
«Alcuni dei ragazzini che ci vivono non dispongono neppure di un certificato di nascita. L'illegalità è alle stelle. Le droghe sono la quotidianità. E molti di quei ragazzi in una scuola non ci sono mai entrati. Hanno bisogno di un'opportunità e non credo proprio sia da razzisti saper parlare un inglese comprensibile e non insegnare lo slang afroamericano come se fosse una stramaledetta lingua, lasciata dai bianchi ai neri incolti al posto dell'istruzione. Parlare quella schifezza è un po' come accogliere l'eredità dello schiavismo. L'istruzione non è bianca. Appartiene a chiunque sia pronto ad accoglierla.»
«Non ne sapevo niente. Di questi tempi non guardo molto il telegiornale.»
«È sempre sul giornale per cui lavori.»
«Non leggo un giornale da parecchio tempo. Qualsiasi giornale.»
«Ne sentirai parlare sempre di più, te lo garantisco. La tensione cresce all'approssimarsi della data prevista per la costruzione della scuola. Judence tiene un sacco di discorsi a New York, perché è da lassù che proviene. Ne sta facendo una questione di rilevanza nazionale. Così finisce spesso in televisione. Tornerà quaggiù una settimana o due prima che inizino gli scavi delle fondamenta della scuola e terrà un bel discorso, infiammando gli animi. E a peggiorare le cose, finendo per farlo sembrare un eroe più grande di quanto non sia, ci sono state delle minacce di morte da parte di gruppi razzisti che tacciano Judence di essere un agitatore venuto da fuori, cosa in effetti vera. Ma definire un nero 'un agitatore venuto da fuori' è la vecchia espressione razzista indicante un 'negro che ha alzato la cresta'.»
«Il che infiamma ulteriormente gli animi.»
«Esatto. E la proposta è di erigere la scuola proprio sul terreno su cui sorge la vecchia chiesa battista dei neri, in parte distrutta da un incendio. Qualcuno vi ha appiccato il fuoco un anno fa o giù di lì, e girava voce che fossero stati dei razzisti nel tentativo di emulare quello che veniva fatto in passato, ai tempi della Guerra Civile, quando si bruciavano le chiese dei neri per protesta. Quelli a favore della scuola vogliono costruirla dove ora sorge la chiesa, come se si trattasse di un'opera dello Spirito Santo. E poi ci sono quelli secondo cui costruire la scuola significa sposare abitudini bianche, proprio come Judence. Lui dice alla sua comunità che i bianchi stanno cercando di segregare i neri un'altra volta.»
«A me sembra proprio una segregazione, papà.»
«In un certo senso hai ragione. Io la segregazione non la voglio e quella scuola non sarebbe etnica, almeno non in senso stretto, ma costruirla in quella comunità permetterebbe agli studenti che vi abitano di avere l'opportunità di ricevere un'istruzione, per giunta con l'afflusso di bravi insegnanti, soprattutto neri, in grado di migliorare la qualità dell'istruzione scolastica. Si tratterebbe di una scuola speciale, finanziata con fondi privati, una scuola con ogni probabilità migliore delle nostre scuole pubbliche, ormai depositi di corpi caldi. L'obiettivo è lo stesso per tutti: una buona istruzione.»
«E un bel po' di attenzione per quelli che donano i soldi. È possibile che qualcuno di loro speri di candidarsi a qualche carica?»
«D'accordo» disse mio padre. «È possibile. Ma, guarda caso, i bianchi che non vogliono la scuola stanno dalla parte dei neri che non la vogliono. L'idea che nella comunità nera possa esserci una scuola forse migliore delle scuole presso cui mandano i loro figli li infastidisce. Dicono, be', i neri non la vogliono, dunque, non dategliela. C'è del vero anche in quello, suppongo. Ma molti leader neri locali, molti genitori che vivono in quel quartiere invece la vogliono. La stragrande maggioranza, direi. Sono pochi fanfaroni, neri e bianchi, a sollevare il vespaio.»
«In assenza di un programma, è difficile stabilire quali siano i concorrenti» commentai.
Mio padre annuì. «E non è tutto. C'è un gruppo di persone riunito nella Lega per l'Avanzamento del Pensiero Cristiano. Hanno un aspetto elegante e una parlata forbita, ma in realtà sono bigotti reazionari che si incattiviscono di brutto non appena vedono un nero e una donna bianca stringersi la mano. Qualunque cosa che vada al di là di quello, fosse magari un semplice appuntamento, li fa cagare sotto. Pensano che gli omosessuali siano una specie di abominio contro Dio, e non desiderano altro che costringere uomini bianchi ed eterosessuali nei cessi pubblici per poi succhiargli l'uccello. Non è che vadano pazzi nemmeno per gli ebrei - visto che sono convinti che abbiano ammazzato Gesù e non riescono proprio a mettersi in testa che anche Gesù era ebreo - e per gli immigrati clandestini, categorie che gli fanno digrignare i denti. Nemmeno Liberali, Democratici e Moderati li mandano al settimo cielo.
«Il grande mullah di quella roba, l'agitatore locale, il bastardo bianco e razzista che rimesta la sua parte del pentolone, è un predicatore battista che abita proprio qui, a Camp Rapture. Il reverendo Dinkins. È a capo di quella Lega per l'Avanzamento del Pensiero Cristiano. Sputa tutta quella merda razzista in televisione come se stesse parlando di faccende davvero cristiane. Lui e la sua banda sanno come parlare in maniera chiara, senza peraltro pronunciare le ovvie parolone, ma esprimendosi in un codice che tutti capiscono. Non formulano mai minacce aperte. Strumentalizzano quei ragazzini bianchi poveri e deficienti, che sono soltanto dei rednecks incazzati senza neppure una tazza in cui pisciare. Gli dicono in codice che, se non fosse per tutta quella gente nera, quegli immigrati, quella gente lì, la vita sarebbe un sogno e loro sarebbero tutti felici, cacherebbero lingotti d'oro e piscerebbero Kool Aid. Questi ragazzini sono barilotti di polvere da sparo pronti a esplodere. Gli serve solo sentire un predicatore come Dinkins affermare che Dio sta dalla loro parte, dopodiché basta uno come il reverendo Judence, dall'altra parte, che va giù pesante nei suoi commenti sui bianchi e bum!, salta tutto per aria.»
Papà fece una pausa e si rigirò più e più volte la lattina della bibita in mano. Stava davvero facendo fare esercizio a quel contenitore dall'alluminio. «Judence verrà qui a tenere un discorso e a presenziare a un raduno all'università e si spenderanno cifre enormi per la sua sicurezza, in maniera che possa sproloquiare e poi tornarsene a casa con qualche DVD delle sue apparizioni, e così potrà cantare vittoria per aver impedito che la scuola venga costruita nel quartiere nero. Dinkins e la Lega potranno vantarsi di essere riusciti a mantenere lo status quo, e quei bianchi idioti potranno dire di avergliela fatta vedere ai negri. I neri che non ne volevano sapere di cambiare, possono sprofondare nuovamente nell'oblio, con la sensazione di aver salvato il mondo dal dominio dei bianchi, e i neri che invece volevano cambiare alzeranno le mani in un gesto di frustrazione e lasceranno perdere. Il tasso di criminalità continuerà a crescere, e l'ignoranza continuerà a crescere e, come spesso accade, sarà una sconfitta per tutti all'infuori dei ratti e dei bacherozzi, e l'umanità procederà nella sua lenta marcia verso l'oblio, per quanto in presenza di una ampia gamma di gusti di gelato e di canali televisivi tra cui scegliere.»
«Bene. Proprio bello essere di nuovo a casa.»
Papà scoppiò a ridere. «Mi spiace, figliolo. Quella faccenda l'ho in testa. E, credimi, stanno succedendo un sacco di cose da queste parti.»
«Stai cercando di convincermi di quanto sia bello questo posto?»
«Non sono sicuro che la roba che ti ho raccontato sia tanto allettante.»
«Da giornalista, fornisce decisamente spunti interessanti su cui scrivere. E tu lo sai bene, furbacchione.»
«Suppongo che faremmo meglio a non trarre tanto piacere dalle disgrazie, anche se fanno notizia.»
Annuii.
Papà trafficò un istante con la sua fidata lattina, e poi tornò a quello che gli stava realmente a cuore e che probabilmente lo preoccupava di più, facendolo riflettere solo sulle cose brutte.
«Vai ancora dal dottore?» mi chiese, senza peraltro guardarmi in faccia.
Scossi la testa. «Stress post-traumatico. Conosco il mio problema. Il medico mi ha dato una mano, ma la verità è che in Iraq con il sottoscritto lui non c'era. Non ha vissuto quelle esperienze. Non ho mai avuto la sensazione che gliene fregasse una mazza, a eccezione dell'ora trascorsa da lui. Ora devo escogitare un sistema per conviverci. Lui mi ha dato degli esercizi mentali e respiratori per affrontarlo: non sono male.»
«Ti sono di conforto?»
«Più degli incontri con lui. Diamine, papà, sei stato in Vietnam, un'idea di cosa si passi te la sei fatta. In Iraq non ci sarei nemmeno dovuto andare. Nessuno di noi ci sarebbe dovuto andare.»
Papà bevve un sorso della sua Diet Coke, io un sorso della mia.
Papà proseguì: «L'uomo è un animale strano. Viene al mondo ed è tutto entusiasta della vita, e poi scopre che la vita non è tanto entusiasta di lui. Ogni volta che prova a individuare un sistema per essere felice, salta fuori qualcuno che non ha nessun collegamento con lui e che si intromette nella sua vita. Il gran figlio di puttana in questione che fa una cosa del genere prende il nome di politico o di predicatore. Uno sventola la bandiera e l'altro la Bibbia e, in entrambi i casi, non significa assolutamente nulla, perché vogliono solo il potere e obbligarti a fare quello che loro vogliono facendoti pensare che sia farina del tuo sacco e che si tratti di una buona idea patriottica o religiosa capace di salvare il mondo. Ma solo una bella pestilenza rafforzerebbe davvero il genere umano.»
«Immagino che risistemerebbe un po' di cose.»
«Quanto a Dio, credo che quel bastardo malefico abbia fatto le valige da un pezzo.»
«Sono sicuro che tu abbia ragione.»
«A ogni buon conto, sei passato in macchina accanto al posto in cui lavora Gabby? Me lo stavo chiedendo perché mi ha chiamato per dirmi di aver visto una macchina molto simile al tuo vecchio catorcio passarle accanto un paio di volte ad andatura lentissima e per giunta con un tizio al volante che, a suo dire, ti somigliava un sacco.»
«La strada passa proprio lì accanto, papà.»
«Ma il limite di velocità è di quarantacinque miglia l'ora, non l'andatura di una lumaca. Non sto cercando di farti sentire in colpa o di metterti a disagio. Hai sempre avuto una personalità ossessiva. E ti ha già dato dei guai. Ricordi quando contavi i passi che facevi?»
«Non lo faccio più.»
«Ma ti ricordi di averlo fatto?»
«Certo. Contavo anche le piastrelle del soffitto. Contavo e riordinavo incessantemente gli albi dei fumetti. Facevo un sacco di cose.»
«Hai trasferito quelle ossessioni su Gabby. Mettici pure la guerra, le cose che hai visto e l'impatto che hanno avuto su di te...»
«Sto bene, adesso.»
«Ottimo. Sono felice che tu sia a casa. Sei il benvenuto per tutto il tempo in cui vorrai fermarti.»
«Non appena riscuoto la prima busta paga, mi cerco una sistemazione.»
«Ho detto che sei il benvenuto.»
«Lo so e lo apprezzo. Ma una volta uscito di casa, ti abitui al modo in cui ti va di fare le cose e non a come le facevi prima. Quanto a te e alla mamma, avete tirato su me e Jimmy, e dunque credo meritiate di starvene un po' per conto vostro.»
«Tuo fratello l'hai visto?»
«Non ancora.»
Jimmy era professore universitario. Sua moglie insegnava alle scuole primarie. Si avvicinavano molto al concetto di coppia perfetta. Quanto a me, ero sostanzialmente il buono a nulla della famiglia.
Mio padre accartocciò la lattina e disse: «Vado a letto.» Si alzò e si soffermò sui gradini, e poi mi mise una mano sulla spalla. «Sono contento che tu sia tornato.»
«Buonanotte, papà.»
«Buonanotte, figliolo.»
Rimasi seduto sui gradini della veranda posteriore per un po' e finii di bere. L'aria della notte era gradevole e fresca e delicata come il velluto. Sentii il piagnucolio di una rana. L'odore dell'erba appena tagliata era una sorta di profumo.
Appoggiai la schiena e guardai le stelle. Erano luminose e chiare, e qualcosa in quel cielo mi mise in corpo una gran voglia di vivere in eterno. Una sensazione già sperimentata altre volte. Una sensazione che non durava mai.

6

Quella sera non mi venne neanche in mente di bere e questo perché, sotto sotto, quella roba non mi piaceva. Mi piacevano gli effetti che mi dava. Non ero un alcolista. Non ancora, per lo meno. I bagordi avevano in qualche modo a che fare con il periodo trascorso in Iraq, ma soprattutto con Gabby e ancor più con il tipo di persona che ero. Avrei potuto smettere con l'alcol - è quello che dicono tutti gli ubriaconi del mondo - anche se nel mio caso era vero. Bevevo perché era quella la mia ultima ossessione. Se mi ci fossi messo col piglio giusto, sarei forse riuscito a trasformarmi in un alcolista, ma con ogni probabilità avrei semplicemente sostituito l'alcol con un'altra mania. Con un po' di fortuna, si sarebbe trattato del jogging. In quel momento, però, si trattava dell'alcol e avrei dovuto smettere quanto prima, altrimenti non sarebbe stata una semplice ossessione. Non sarei riuscito a farne a meno e mi sarei messo a cercare il gruppo degli Alcolisti Anonimi di Camp Rapture.
E forse ero già in quella condizione e semplicemente non volevo ammetterlo.
Mi svegliavo tutte le mattine con la rinnovata convinzione che le cose sarebbero cambiate e che lei e io ci saremmo rimessi insieme. Avrei potuto rifletterci sopra e dirmi quant'era stupida quell'idea, e invece quel pensiero non se ne andava, e io mi ci aggrappavo come una star del cinema ormai passata di moda convinta che un nuovo film le avrebbe fatto rivivere i fasti passati.
Mi spogliai e andai a letto in mutande. Era la vecchia stanza che avevo condiviso Jimmy. C'erano ancora tutte le cose che avevo amato da ragazzino. C'era anche tutto quello che Jimmy aveva amato. Fu come fare un passo indietro nel tempo, come rimettere piede nel passato. L'unica vera differenza in quella stanza tra il presente e il passato stava nel fatto che le brandine erano sparite e al loro posto c'era un unico letto per gli ospiti.
Dopo essere rimasto per un po' sdraiato al buio a occhi aperti, iniziai a vedere la stanza in maniera più chiara, a scorgere i contorni delle cose. Alzai lo sguardo in direzione degli aeroplanini di Jimmy appesi al soffitto con il fil di ferro, guardai in direzione del suo scrittoio dove le rane e i topolini che aveva imbalsamato avevano iniziato ad accartocciarsi gli uni sugli altri. I sostegni su cui poggiavano, pezzi di legno incollati, avevano iniziato a sfasciarsi e quelle creature erano cadute le une sulle altre, formando una orripilante piramide di decomposizione interrotta. Riuscivo a vedere il contorno della sua sciarpa di Caposquadriglia appesa alla parete. C'erano due lunghi scaffali di libri e ne decifrai i titoli facendo ricorso più alla memoria che alla vista. Edizioni rilegate degli Hardy Boys. Un sacco di edizioni economiche di Edgar Rice Burroughs e di Robert E. Howard.
Alla fine mi stancai e capii che non sarei riuscito ad addormentarmi, così mi alzai, accessi la luce e mi sedetti al mio vecchio scrittoio. Era più piccolo di quanto ricordassi e la sedia era scomoda. Mi ci sedetti comunque e aprii uno dei cassetti. I miei fumetti c'erano ancora tutti. Per lo meno, i miei preferiti. Avevo venduto buona parte degli altri, tutta roba della Marvel. Mi ero tenuti stretti i fumetti della D.C. Comics. Erano quelli che mi piacevano di più. Tirai fuori un fumetto di Batman, il mio preferito: lo lessi, poi lo rimisi a posto. Mi alzai e mi aggirai per la stanza e finalmente spensi la luce; mi avvicinai alla finestra e tirai la tenda per poter guardare fuori, in direzione della strada. Stava iniziando a piovere. Niente di violento, solo una pioggerellina estiva, indolente, delicata. Il fondo stradale luccicava sotto i lampioni e fu in quel momento che apparve Jazzy, con addosso solo una maglietta e la biancheria intima. Si incamminò lungo la strada a piedi nudi, con la pioggia che la colpiva.
Rimasi a osservarla per qualche istante. Procedette fino alla fine della strada, dove incrociava la statale, dopodiché si voltò e tornò indietro. Trascinai la sedia vicino alla finestra e mi ci sedetti accanto per osservarla dall'apertura della tenda. Pensai di chiamare i servizi per la tutela dell'infanzia, ma poi mi venne in mente che l'aveva già fatto mio padre.
Pensai di chiamarli comunque. La osservai risalire la strada, sollevare la testa verso il cielo, allargare le braccia, godersi la pioggia come se fosse una sorta di ninfa. Mise piede nel nostro giardino e lo attraversò per arrivare al suo.
Dopodiché la persi di vista, ma qualcosa mi diceva che forse si stava arrampicando sull'olmo per raggiungere la piattaforma sui rami, mentre la madre e il suo nuovo paparino, il tipaccio, facevano qualche cosa in camera da letto. Siccome sono spietato, avrei scommesso che fossero collassati dopo una sbornia. Mi preparai a uscire, per parlare con Jazzy, per dirle di andare a letto, per dirle che gli alberi attiravano i lampi. Oppure, forse, volevo solo che mi tenesse compagnia. Ma non lo feci. Non feci nulla.
Restai seduto lì per un po' a guardare la pioggia, che smise di cadere a partire dal centro della strada, come se un sipario fosse calato a metà, e il resto dell'acqua si spostasse rapidamente lungo i lati della via, fino a dileguarsi. Una scena molto strana.
Alla fine, mi alzai per avvicinarmi alle sagome indistinte delle rane e dei ratti che mio fratello aveva imbalsamato, le studiai e mi ricordai del fetore emanato mentre lui le preparava nel garage. Persino allora, avevo pensato che fosse un hobby di merda. Allungai un dito e diedi un colpetto a quell'ammasso di oggetti senza vita. La catasta crollò e uno dei ratti cadde, finendo dietro la scrivania. Non mi preoccupai di raccoglierlo. Con tutte le sostanze chimiche con cui era stato imbottito e per come era stata trattata la pelle, sarebbe potuto restarci per un secolo senza puzzare.
Tornai a osservare la sua sciarpa. Io ero arrivato al grado di Vicecaposquadriglia, non di Caposquadriglia. Mi ero azzuffato con il figlio del capo degli scout e gli avevo dato un calcio sui denti, facendogliene cadere un paio, divenendo persona non gradita. La mia abilità coi piedi non ebbe alcun impatto sulla carriera di Jimmy negli scout. Era il tipo di persona che avrebbe potuto cagare nel bel mezzo della loro sede degli Scout, dar fuoco alla sua merda e incenerire l'edificio e, prima che qualcuno dicesse qualcosa di negativo sul suo conto, lasciare che la colpa finisse su un gruppo di roditori piromani. Ci sapeva fare. Jimmy ci sapeva proprio fare.
Andai a letto e pensai ad alcune delle cose di cui avevamo parlato io e mio padre, poi chiusi gli occhi, mi addormentai e feci subito dei sogni.
Sogni forse originati dagli esperimenti tassidermici putridi e raggrinziti di Jimmy, da tutti i morti che avevo visto in guerra. Quelli che avevo contribuito ad ammazzare, quelli che erano morti per errore e quelli che erano morti a causa della guerra civile - cittadini uccisi da concittadini. E poi c'erano i corpi dei nostri soldati, di tutti i bravi uomini e le brave donne che erano morti. Giacevano tutti lì, in mezzo alla strada, americani o iracheni che fossero.
Mentre osservavo la scena, i morti si assieparono in un mucchio sanguinolento e straziato e si trasformarono in una sorta di piramide subumana di corpi contorti, in molti casi mutilati e stillanti un sangue color petrolio. I loro movimenti erano accompagnati da una colonna sonora di grida e, in certi casi, li vidi circonfusi dalla luce accecante del sole e, in altri, come se li stessi osservando attraverso un visore notturno verde e nero. Il mio sogno oscillava fra giorno e notte.
Quei morti avevano intrecciato braccia e gambe con quelle degli altri fino a formare un tutt'uno, una massa in movimento, larga alla base e stretta alla sommità, con un bambino senza testa al vertice di quella piramide di carne sanguinolenta e marcia che operava come una sola entità, strisciandomi incontro. E io ero lì, vestito da militare, in attesa. Senza un'arma con cui difendermi. E con il rimpianto di non averne una. Detestavo la mia arma quand'ero sveglio, ma nel sonno e in sogno l'avrei voluta stringere come un pesante orsacchiotto di peluche. Ed eccomi lì, disarmato e senza la minima possibilità di spostarmi, congelato nella mia immobilità, come se qualcuno mi avesse iniettato del ghiaccio nelle vene. Non avevo più le braccia, solo dei moncherini all'altezza delle spalle. Non potevo afferrare nulla. Non potevo scappare. Avevo i piedi impantanati in una melma che sembrava fatta di sangue e benzina. Non c'era Booger ad aiutarmi. Continuavo a essere convinto che l'avrei visto: lui, la testa rasata scintillante e ramata, la sua felice esibizione di denti, lui che sollevava l'arma, scaricando mezzo chilo di piombo, trenta pallottole per ogni caricatore che penetravano e squarciavano. E invece non venne e così non vidi altro che il colore delle lenti del visore notturno. La luce era sparita del tutto, lasciandosi dietro soltanto verde e nero.
La piramide di morti viventi crollò su di me, e vi giuro, nel sogno ne sentii l'odore, un odore di carne putrefatta, il fetore vivo del sangue rappreso, una zaffata di fumo da polvere da sparo, un retrogusto di rame in bocca. Le loro mani cercarono di afferrarmi, di infilarsi dentro di me come se fossero coltelli, di strappare qualcosa dal mio corpo. Mi lacerarono lo stomaco e mi strapparono le budella, ottenendone delle stringhe lunghe, umidicce e fumanti, liberando il mio cuore pulsante con un colpo secco. La piramide si dissolse cadendomi addosso. I morti cercarono di ghermirmi, di strapparmi dei brandelli di carne come se fosse carta da giornale bagnata, di strapparmi le ossa dallo scheletro con facilità, come se fossero pezzi di legno marcio, gettando me e i miei abiti militari alla mercé dei venti caldi del deserto. Restarono solo i miei occhi, mentre rimanevo distaccato da tutto, come uno spettro, con la facoltà di osservarli dall'alto attraverso il visore verde e nero. Li guardai fluttuare in un'enorme pozza di sangue oleoso. Gli occhi erano simili a due biglie di vetro colorato, strane e luminose nel mio visore notturno. Ben presto, sprofondarono in quella pozza coagulata, scomparendo alla vista. Il fantasma che ero diventato finì per essere assorbito dal vento come una fusciacca sottilissima, e venne portato via, fino a mischiarsi con la sabbia del deserto.
E poi mi ritrovai in macchina, con un sacchetto Taco Bell sul sedile del passeggero e, per un istante, mi sentii al sicuro, di nuovo pieno di energia; poi fu come se una serpe viscida mi stesse strisciando lungo la schiena e così mi voltai: seduto accanto a me che guidavo, vidi uno scheletro. Indossava un abito nero a brandelli e un paio di scarpe coi tacchi e, intorno alle ossa all'altezza del collo, aveva una collana di perle. Il cranio era girato dalla mia parte, la faccia d'avorio imbiancata dal chiaro di luna. Aprì la bocca e disse: «Mi chiamo Caroline. Noi due ci vedremo spesso.»
Ebbi la sensazione di perdere il controllo della macchina, che sbandò; fu allora che mi svegliai, in un bagno di sudore.
Dannazione. La ragazza scomparsa si era aggiunta ai miei sogni di guerra. Come se non fossero stati sufficientemente brutti. Perfetto. Proprio quello che mi serviva.
Mi sedetti sul letto e poggiai la schiena contro la testata, cercando di pensare a qualcos'altro, di essere felice per il mio nuovo impiego. Mi agitai non poco e alla fine mi alzai e disattivai la sveglia, andai in bagno portando la valigia, feci una doccia e la barba e mi lavai i denti.
Indossai un'ampia camicia blu e dei jeans nuovi da cui dovetti staccare i cartellini. Tornai in camera mia, mi infilai le calze e le scarpe e controllai continuamente l'orologio, guardando fuori dalla finestra il giorno che avanzava.

Era piovuto ancora nel corso della notte ed era proprio per quello che la mattinata si era presentata fresca. Uscii e mi godetti il fresco mentre il sole si alzava e iniziava a dare colore a ogni cosa. Poi, il sole salì sempre più in alto e iniziò a fare caldo e l'umidità della strada davanti alla casa cominciò a evaporare, facendo alzare una cortina di foschia calda e gocciolante. Arrivò anche un vento mite e letargico che, nel volgere di poco tempo, allontanò la foschia, lasciando al suo posto solo la canicola, una sorta di afa indolente che rendeva ogni cosa appiccicaticcia come la fessura del culo di un grassone.
Con la macchina raggiunsi la caffetteria, sull'arteria principale, mi accostai allo sportello take-away e presi un doppio espresso e un muffin. Ero tutto orgoglioso del condizionatore d'aria della mia macchina. Era il mio amico. Gli volevo davvero bene. In Iraq faceva molto più caldo e di aria condizionata ce n'era molto meno. Eppure, di uomini e di donne ce n'erano laggiù, mentre io in quel momento mi trovavo all'interno della mia automobile, con tanto di aria condizionata, con il mio caffè e un muffin e nessuno che mi sparasse addosso, ed ero preoccupato per il caldo, persino un po' arrabbiato. Non ero sicuro se mi sentivo più ingrato o più comodo, ma certo era una sensazione che non mi piaceva. Cercai di non preoccuparmi più del caldo, di provare solo a godermi l'aria condizionata, il caffè e il muffin e di smetterla di pensare al tempo trascorso laggiù o a quelli che erano rimasti. Comunque tu ragioni, che pensi a te stesso o a loro, sono riflessioni che ti angustiano nel profondo.
Decisi di entrare nel parcheggio della caffetteria. Rimasi seduto in macchina a mangiare il muffin, a bermi mezza tazza di caffè e a farmi domande sul conto di Gabby.
Ripartii e, mentre guidavo, finii di bermi il caffè. Passai accanto all'ambulatorio veterinario di Gabby. La sua macchina c'era. Penso che aprisse alle otto del mattino. Forse alle sette. Magari stava operando un animale che aveva urgente bisogno di cure. Magari gli stava praticando un'iniezione. Forse, era semplicemente seduta alla scrivania, si stava facendo una tazza di caffè e stava mangiandosi un muffin. Le piacevano i muffin. Io stesso avevo preso il tipo di muffin che le era sempre piaciuto. Quello al mirtillo palustre.
Stavolta, cercai di non rallentare eccessivamente, cercai di non girarmi a guardare. Proseguii fino alla sede del giornale e ne varcai la soglia alle nove meno un quarto.

7

Belinda si era fatta qualcosa ai capelli. Stavolta il taglio era preciso e corto e, inoltre, si era fatta bionda, un biondo quasi platino. Benvenuta nel ventunesimo secolo. C'era qualcosa in quei capelli biondo platino e in quelle lentiggini che mi faceva venire in mente la panna con le fragole.
Ci scambiammo dei convenevoli e io mi avvicinai alla scrivania.
Accesi subito il computer e mi immersi nel file su Caroline Allison. Ovviamente, non c'era nulla di nuovo e, comunque, non era granché, ma mi stuzzicò nuovamente l'appetito. Con ogni probabilità, Francine si era messa in testa di scrivere un pezzo spigliato sulla ragazza scomparsa, su quanto fosse terribile quella vicenda, per poi passare alla ricetta del pasticcio di tonno e olive, in vista della settimana successiva. Sul piano giornalistico, avevo in mente qualcosa di simile - per quanto leggermente più profondo - anche se non era mia intenzione passare al pasticcio di tonno.
Detestavo farlo, ma mi alzai e mi avvicinai alla scrivania di Oswald.
Quando gli dissi cosa volevo, puntò il dito e disse: «L'obitorio.»

L'obitorio del giornale era situato dietro un angolo, in una specie di scantinato raggiungibile dopo aver sceso qualche gradino. L'illuminazione sarebbe potuta andare bene per una notte senza stelle della glaciazione, ma per l'epoca moderna era un po' fioca. Come per l'ufficio della Timpson, se qualcuno non ti avesse indicato dove cercarlo, forse non avresti mai scoperto che quel posto esisteva.
Era uno stanzino dal soffitto basso. C'erano schedari a cassetto, computer, piccole scatole di plastica trasparente piene di dischetti, macchine superate che ti consentivano di consultare del vecchio materiale giornalistico. L'aria era satura di polvere e di un vago odore di carta da giornale ammuffita. Nel preciso momento in cui vi misi piede, immaginai una processione di acari che mi entravano nelle narici.
Quella stanza era un gran casino. C'erano schiere di tavoli e scrivanie coperte da detriti di giornali, vari bidoni stracolmi di rifiuti, soprattutto confezioni di pasti di qualche fast food. La salsa misteriosa che imbrattava quelle confezioni aveva iniziato a inacidirsi e il fetore si stava imponendo nell'aria.
Vidi subito il mio uomo e così facemmo le presentazioni. Si chiamava Jack Mercury.
Mercury poteva avere dai trentacinque ai trentotto anni, un aspetto sano e la carnagione pallida. Sembrava in grado di piegare un attizzatoio da camino col ginocchio e, in una giornata particolarmente buona, strapparne l'estremità a morsi, ma certo non doveva piacergli particolarmente la luce del sole. Aveva i capelli biondi e occhi azzurri pungenti che, su quel volto pallido, sembravano ancora più azzurri. I suoi abiti erano tutti sgualciti, come se, vestito in quel modo, avesse resistito per tre riprese in un combattimento contro un orso. Era in piedi e sembrava che mi stesse aspettando. Forse Oswald l'aveva chiamato per avvisarlo.
«Benvenuto all'inferno. Sto trasferendo tutte le nostre vecchie informazioni dai file e dalle microschede ai computer e ai dischetti. Un lavoro barboso, orribile. Quanto a lei, be', all'inferno è solo di passaggio. Non è un brutto posto da visitare, però non credo le piacerebbe lavorarci.»
«Posso acquistare un souvenir?»
«Spiacente. Non ci sono bancarelle all'inferno. Però può portarsi a casa i nostri peggiori auguri. Questo posto a certa gente gioca dei brutti scherzi. Mancanza d'aria. Faccia una scoreggia e scatenerà una tempesta di carta. Si volti di scatto, e lo spigolo di un tavolo la castrerà.»
Feci un sorrisino. «Sto conducendo una piccola inchiesta e mi è stato detto che lei era l'uomo giusto... Mercury. Un nome insolito.»
«Credo che il mio nome fosse originariamente un altro, ma poi mio padre decise di cambiare cognome e di prendere ufficialmente quello di Mercury. Credo che a quel vecchio hippy piacessero i Queen. Il cantante si chiamava Freddie Mercury. E ora sono un Mercury. Nessuna parentela con Freddie, però.»
«È solo un azzardo, ma scommetto che neanche il cognome originario di Freddie era Mercury. Per lo meno, non alla nascita.»
«Probabile che lei ci abbia preso. Cosa posso fare per lei, Cason?»
«Caroline Allison.»
I suoi occhi si strinsero. «Ah, sì... Lei è originario di Camp Rapture, vero?»
«Interessante, tutti sanno chi sono.»
«La faccenda del Pulitzer... Un ragazzino del paese. Lo sanno tutti. Ha giocato a football per un po', giusto?»
«Giusto.»
«A me il football non è mai piaciuto. È un gioco senza senso.»
«Il senso è far giungere la palla dall'altra parte del campo.»
«E allora? Che senso ha?»
«Temo che il senso sia quello. Be', se giocavi bene, magari ce la facevi a combinare qualcosa con una ragazza pon-pon, dopo la partita.»
«Ora sì che inizio a capire il football. Benvenuto nella mia tana.»
Mi guidò in mezzo a un intrico di schedari e di tavoli pieni di giornali, vecchi libri e carpette. Giungemmo a un tavolo su cui stavano soltanto un computer, una penna e un blocchetto. Lo schermo del computer faceva più luce delle lampade a soffitto. C'erano due sedie. Ci sistemammo.
«Come mai le interessa il caso Allison?» chiese.
«Francine intendeva scriverci sopra un articolo e io ho trovato i suoi appunti.»
«Francine che scriveva di un omicidio? Sarebbe stata un bella novità. Una volta realizzò un'intera serie sugli insetti che si trovano in giardino. Un articolo la settimana per l'edizione della domenica per... diciamo, una ventina d'anni. Mi pare...»
«Dunque, per lei l'universo degli insetti non era tanto misterioso?»
«Non per come ne scriveva Francine. Uno stile sicuro e generico... si fidi di me, un insetto alla settimana non era tanto interessante. Senza dimenticare, ovviamente, il famoso articolo sui peli del gatto e sulla loro funzione termica. Non vedevo l'ora di svegliarmi la domenica mattina e di aprire il giornale per arrivare al suo pezzo.»
«Aveva in programma di scrivere un articolo su quella sparizione e dunque sul probabile omicidio.»
«Davvero? Non pensavo potesse esserne capace.»
«Nessuno sa esattamene come sono andate le cose, vero? Non si è mai trovato il corpo...»
«Esatto! Lei che ne pensa?» domandò Mercury.
«Quella ragazza è morta e il suo corpo se ne è rimasto a marcire per tutto il tempo in un fosso, con tanto di formiche e vermi a infestarlo. La semplice verità è che nessuno lo ha ancora trovato e il colpevole è una persona che lei conosceva.»
«Messa giù in questo modo, non è una storia molto più misteriosa di quella degli insetti o dei peli del gatto.»
«Se crede tanto nel mistero e nell'avventura, che ci fa quaggiù?» chiesi.
Ebbi la sensazione di averlo leggermente offeso con quella domanda. «Forse, si può dire che sto solo cercando di sfidare il mio stesso codice esistenziale. Ma resta una mia teoria. Vivi la vita fino in fondo, e se non hai nulla di bello davanti, inventatelo tu stesso.»
«Sensazionalismo, credo che lo chiamino» dissi.
«Immagino di essere solo un romanziere fallito.»
«E allora scriva un romanzo.»
«Temo che non guadagnerei un soldo.»
Condividemmo un sorriso.
«Francine ha lasciato parecchia roba su Caroline nel suo archivio,» dissi «ma mi domandavo se per caso non c'era altro materiale, se per caso non c'era stato un seguito. Se c'erano dei sospetti... insomma, cose così.»
«Posso dare un'occhiata, ma non credo ci fosse granché. Di informazioni ce n'erano davvero poche. La ragazza è andata in quel negozio...»
«Un fast food.»
«Esatto. E non è più tornata. Hanno trovato la sua macchina dalla parte opposta del paese, nei pressi dei binari, vicino alla vecchia stazione. La polizia ci si è buttata anima e corpo, ha cercato dappertutto. Sono stati distribuiti dei volantini. Sono stati utilizzati i cani. Sono venute delle persone da fuori dal paese per contribuire alle ricerche. Per settimane intere, la stampa non ha parlato d'altro. Uno di quegli stupidi esperti del cervello ha espresso una teoria. L'ennesima teoria su come il sequestro sarebbe avvenuto nei pressi di uno specchio d'acqua. A meno che noi non ci troviamo nel bel mezzo del deserto, direi che non è particolarmente difficile trovarci d'accordo con quella teoria. Trova un ragazzino nei pressi di un lago e hanno ragione loro, trovalo nei pressi di un dannato rubinetto dell'acqua e hanno sempre ragione. A ogni modo, non ne venne fuori nulla e l'intera faccenda si congelò come il culo di un orso polare.»
Annuii e mostrai un'espressione convenientemente solenne.
«Nient'altro?» domandai.
«Che abbia a che fare con Caroline?»
«È di lei che mi interessa sapere...»
«Pensavo che potesse essere interessato a qualche altra stronzata adatta alla rubrica. Tanto vale raccoglierle tutte. Questo paese non ci crederebbe mai, ma sta succedendo un bel campionario di cose.»
«Ne è convinto anche mio padre.»
«E ha ragione. Un gatto impalato sul pennone della bandiera. Qualcuno che ha piazzato una bomba sotto le chiappe della statua della Vergine Maria nella chiesa cattolica e le ha fatto saltare per aria la passerina benedetta. Ci sono poi tutte queste ciance tra i neri e i bianchi per colpa di una scuola che certa gente vuole costruire.»
«Ne ho sentito parlare.»
«È successo tutto negli ultimi sei mesi» puntualizzò Mercury. «Una specie di pestilenza del cazzo.»
«Mio padre mi ha detto che una bella pestilenza farebbe bene al pianeta.»
«Forse è già cominciata.»
«Non può trattarsi di una coincidenza, vero?»
«E invece sì. Sono uno di quelli che credono nel caso. Non si fa altro che vedere dei telefilm polizieschi in cui qualcuno dice di non credere alle coincidenze e, lasci che glielo dica, si tratta di un branco di idioti. Le coincidenze abbondano, amico mio. Sta forse cercando di mettere tutte queste cose in relazione tra loro per poterci scrivere su un articolo? Molto difficile. A quanto sembra, di legami non ce ne sono.»
Scossi la testa. «Non so davvero se proverò a collegare qualcosa. Ho solo pensato che, tenendo conto della sparizione di Caroline ormai da tanto tempo e del suo caso tuttora aperto, un articolo su di lei sarebbe stato appropriato. Per far vedere che non ce ne siamo dimenticati. Quanto all'altra roba, potrei farne una pesca miracolosa per la mia rubrica, menzionare che, negli ultimi sei mesi, in paese ci sono state delle situazioni davvero strane. Come se su Camp Rapture stesse per sorgere una luna fosca di presagi.»
«In tutta onestà,» disse Mercury «e a rischio di beccarmi un cazzotto sul naso, non penso che a lei interessi tanto ricordare Caroline. Forse ha fiutato una buona pista giornalistica. Lei è convinto che gli zoticoni del paese non sono voluti andare fino in fondo. Ho ragione? E lei ci riuscirà perché, un tempo, era un reporter come si deve. Senza alcuna enfasi sull'espressione 'un tempo', sia ben chiaro.»
«Touché.»
«Ovvio che lo sia.»
Mercury si voltò dalla parte del suo computer e digitò qualcosa, facendo comparire delle informazioni su Caroline Allison. Ce n'erano molte di più di quelle in mio possesso. «Mi può stampare tutta questa roba?»
«Certo.»
Ne fece scorrere un altro po', finché giunse alla fotografia. Un primo piano. Quella ragazza aveva i capelli biondi come i raggi del sole e gli occhi di un azzurro così intenso da spezzarti il cuore. La sua pelle era soffice e calda come un giorno di primavera. E la sua bocca... Gli uomini si farebbero fatti delle idee strane sulla bocca. Stesso discorso per un sacco di donne.
«Cristo» dissi.
«Sembra una stella del cinema o una modella, vero?»
«È stupenda.»
«Ci crede se le dico che stava per specializzarsi in storia?»
«C'era scritto negli appunti di Francine.»
«Non mi verrebbe mai in mente che una ragazza come lei potesse passare le ore in biblioteca, dietro montagne di libri. Con la faccia che si ritrovava, in fondo doveva essere una che se la spassava di brutto. C'è qualcosa di maligno in quegli occhi, non trova anche lei?»
«Immagino di sì.»
Ovviamente, dal momento in cui avevo scoperto che stava per specializzarsi in storia, mi era venuto in mente mio fratello Jimmy. Quella ragazza aveva fatto parte del suo dipartimento e, con ogni probabilità, lui era stato un suo insegnante o, comunque, l'aveva conosciuta. E, ovviamente, doveva essere stato al corrente della sua sparizione, del fatto che non si erano mai più avute notizie di lei. Era un'altra pista, un altro punto di vista. Me lo appuntai in un recesso del cervello.
Mercury si infilò una mano in tasca, ne estrasse un paio di occhiali bisunti e li inforcò, digitò qualcos'altro sulla tastiera del computer e fece scorrere degli altri file.
«Una ragazza come quella alla scuola superiore... ti verrebbe spontaneo pensare che sia molto popolare e invece, provi a indovinare... non c'è neanche una riga su di lei nell'annuario della scuola.»
«Lei ce l'ha?»
«L'ho scansionato. L'ho studiato attentamente. Credo che facesse parte del circolo di storia, nient'altro. Niente Ragazza Più Bella. Niente Ragazza con Maggiori Prospettive di Successo. Niente Ragazza Più Popolare. E, tranne che per il circolo di storia, dove c'è una sola fotografia che la ritrae insieme ad altri studenti, su di lei non c'è praticamente nulla. Non era particolarmente popolare. Strano, considerato quanto fosse bella.»
«Strano ma non incredibile» dissi. «A volte le persone hanno paura di avvicinarsi alle belle ragazze, e magari ce l'hanno pure con loro perché sono gelose. Me lo stampi, se non le dispiace. Me lo stampi tutto.»
«In questo momento sono impegnato a fare una cosa noiosetta e devo rimettermi all'opera. Può aspettare un attimo? Diciamo, un paio di giorni?»
Una prospettiva che non mi sorrideva. Quella storia mi aveva infiammato. Mi immaginavo già come avrei scritto il mio articolo, da quale prospettiva l'avrei affrontato. Non c'era nulla di altrettanto intrigante quanto un giallo di paese. C'era ancora un assassino il circolazione? E, in tal caso, aveva colpito ancora? E se aveva colpito ancora, ne eravamo al corrente?
Era una storia con i controcoglioni.
«D'accordo» dissi.
«Se le servono altre informazioni, venga a trovarmi. Qui mi trova fino a tarda sera, a volte fino a mezzanotte, alle due del mattino. Non dormo granché bene e così lavoro.»
«Va bene. E... piacere di averla conosciuta, Mercury.»

Venerdì pomeriggio, poco prima della fine dell'orario di lavoro, andai in bagno e quando tornai, mi ritrovai sulla scrivania la cartella che Mercury mi aveva preparato. La presi in mano e la sfogliai.
Che pensiero dolce.

8
Buffo come funziona il cervello. Sa quello che vuoi e stai per fare prima ancora di lasciartelo sapere. I meandri della mente e il subconscio ti forniscono qualche indizio, schegge di memoria alla deriva affiorano di quando in quando e, se fai attenzione, ce la fai a riconoscere i frammenti dei pensieri da cui si sono staccati. Ma la mente senziente, la mente cosciente... be', quella babbea ti racconterà delle balle e di dirà di ignorare quanto il subconscio sta dicendo, ti dirà che sono soltanto cariche elettriche nel cervello, scoregge che non significano assolutamente nulla. Ehi, guarda là. Lascia perdere quelle schegge alla deriva. Non hanno importanza. Passa oltre. Non c'è niente di interessante lì.
Ma qualcosa di interessante c'è. I tuoi aneliti vivono nel buio, nel pozzo che contiene anche le speranze, i sogni, gli stupidi ormoni e i tuoi fallimenti. E furono proprio i meandri del cervello a parlarmi, a dirmi per tutto il santo giorno, mentre ero al lavoro, persino mentre mi occupavo della faccenda di Caroline Allison, che al termine della giornata sarei passato nuovamente accanto all'ambulatorio di Gabby Martinez, e stavolta mi sarei fermato, sarei entrato e l'avrei salutata, nella speranza di qualcosa di più.
Partii alle tre. Dalle inserzioni di Gabby sull'elenco telefonico, sapevo che avrebbe lavorato fino alle cinque. Ci andai in macchina e vidi alcune automobili parcheggiate davanti, così avanzai fino alla caffetteria, entrai e mi feci un decaffeinato; ci passai un bel po' di tempo, controllando costantemente l'orologio. Mi concessi persino di dare un'occhiata ad alcune studentesse che entrarono e mi parvero davvero carine, ma in realtà non riuscii a distogliere il pensiero da Gabby.
Attesi più o meno un'ora, dopo mi diressi nuovamente là. C'erano ancora altre macchine, oltre alla sua, parcheggiate davanti, così proseguii fino al negozio di libri e CD. Vi entrai e per prima cosa diedi un'occhiata ai libri, ma non trovai nulla. Presi un paio di riviste e controllai le pagine della musica: acquistai un CD di Dwight Yoakam e me lo ascoltai mentre tornavo all'ambulatorio di Gabby.
Stavolta, c'era solo la sua automobile. Diedi un'occhiata all'orologio del pick-up. Erano le cinque meno un quarto. Parcheggiai accanto alla sua macchina, scesi velocemente, prima che la mia mente cosciente cercasse di dissuadermi, ed entrai.
Una volta dentro, percepii l'odore di un disinfettante forte e un fetore pungente di cane bagnato che provenivano da un punto non meglio identificato del retro. E poi comparve lei, attraverso la porta sul retro, impegnata a rimboccarsi le maniche, pronta ad andarsene a casa. Era alta e magra e i capelli castano scuri continuava a portarli lunghi. Il tempo non l'aveva cambiata affatto, forse l'aveva addirittura resa più bella. Mi sentii stringere lo stomaco e mi venne un groppo alla gola. Mi fermai accanto alla porta e restai immobile. Subito dopo, il suo corpo ebbe uno spasmo quando mi vide, e poi si rilassò leggermente.
«Cason, non dovresti trovarti qui.»
«Volevo solo salutarti.»
«E io voglio che tu te ne vada.»
«Gabby... Non capisco.»
Lei scosse la testa e posò gli occhi sul pavimento. Dal retro dell'ambulatorio, un cane iniziò ad abbaiare. Alla fine, Gabby alzò la testa e mi guardò in faccia. I suoi occhi si strinsero come quelli di un cecchino pronto a inquadrare il bersaglio.
«Come faccio a essere più chiara di così?»
Mi studiai le scarpe, poi tornai a guardare Gabby. «Quella lettera. In Iraq. È stata un fulmine a ciel sereno.»
Il respiro di Gabby si fece affannoso. Girò intorno al bancone e si bloccò, dopo averci posato le mani, come se fosse ai blocchi di partenza. «Forse non è stata la modalità giusta» concordò.
«La leggo ancora.»
«L'hai tenuta?»
«Sì.» In effetti, mentre parlavamo, era nel portafoglio, piegata con cura. «Lettera o non lettera, i miei sentimenti non sono cambiati.»
Diversi cani si misero ad abbaiare. Forse sapevano che l'orario di chiusura era arrivato. Magari, Gabby gli dava dei dolcetti prima di chiudere. In qualche maniera, gli stavo incasinando le abitudini.
«Cason, non so come spiegartelo meglio. Ti ho scritto quella lettera. Quando sei tornato, ti ho telefonato. Ho letto tutti i messaggi che mi hai mandato. Non hanno certo cambiato le cose. Li ho gettati via. Non mi sono trovata un altro. Queste cose non c'entrano. Ma non ti amo. Forse non t'ho mai amato.»
«Non dire così.»
«Un vecchio proverbio dice: quando il cane soffre ed è agonizzante, sparagli un colpo in testa. A volte, l'amore soffre ed è agonizzante.»
«È un detto veterinario alla buona?»
Feci un passo avanti.
«Resta dove sei» mi intimò Gabby, alzando una mano, come se fosse un agente addetto al traffico.
«Cristo santo, non penserai che voglia farti del male, vero?»
E allora capii come mai si era ritirata dietro il bancone, mettendo qualcosa tra me e lei. Pensava realmente che potessi farle del male.
Mi tremavano le mani. Me le infilai nelle tasche dei pantaloni. «Non sono pazzo, piccola. Sono solo innamorato. In Afghanistan e Iraq non ho pensato ad altro che a te. Ai progetti di cui avevamo parlato. All'idea di sposarci. So bene che sono stato un po' scriteriato ad arruolarmi nell'esercito in quel modo, a partire proprio nel bel mezzo dei nostri progetti. È stato un gesto sconsiderato. Mi dispiace. Ma ora sono tornato. Possiamo riprendere il discorso da dove l'avevamo interrotto. Ora ho un lavoro nuovo. Ho dei progetti...»
«È finita, Cason.»
Scossi la testa.
Gabby assunse il tono di voce di chi cerca di essere molto ragionevole e cauto di fronte a un folle che brandisce un'ascia.
«Ti sei ritrovato laggiù solo e spaventato, ne sono certa. Attraverso me, ti sei aggrappato a qualcosa. Per te, rappresentavo l'idea di casa, una via di fuga dal terrore. E hai gonfiato ogni cosa nella tua testa, i nostri sentimenti reciproci e tutto il resto. Non è mai stata quella gran cosa...»
Mi sentivo come se qualcuno mi avesse squarciato la pancia e mi stesse tirando fuori le budella per farne un mucchietto.
«Un tempo, quando stavamo insieme, ti esprimevi diversamente, non parlavi in quel modo. Mi stai dicendo che mi hai mentito per tutto il tempo?»
Non avrei voluto che succedesse, ma le parole mi erano uscite di bocca con un tono di voce un po' troppo forte.
«Ti sto solo dicendo, Cason, che sono rimasta coinvolta dalle circostanze. Ero innamorata dell'idea di essere innamorata, non di te. L'ho capito quando sei partito. Perché in quel momento, Cason, non... non mi sei mancato. Ero dispiaciuta e pure preoccupata per te, come lo sarei stata per qualsiasi soldato che fosse stato laggiù alla mercé del pericolo.»
«Qualsiasi soldato?»
Stavo iniziando ad avvertire la necessità di sedermi. Ora sì che i cani abbaiavano sul serio. «Non riesco a spiegarti quanto mi dispiace» disse.
Rimasi lì per un istante. Non riuscii a dire una parola. Tirai fuori le mani dalle tasche, poi le rimisi dentro.
«Adesso devi proprio andartene, Cason. D'ora in poi, mi devi lasciar perdere. Se ti vedo ancora, mi procurerò un'ordinanza restrittiva. Avrei già dovuto farlo. Sei ossessionato e ho detto a tuo padre e a tuo fratello che devi starmi alla larga. Niente più messaggi. Niente più telefonate. E, se proprio devi passare accanto al mio ambulatorio con la macchina, non farlo in folle girando la testa. Capito?»
«Ti ascolto.»
«Però mi hai capito? Devi uscire dalla mia vita. Fra sei mesi, se ci incontriamo per strada e ti vedo, possiamo farci un cenno, salutarci, come vecchie conoscenze, e la faccenda finisce lì. Da qualche parte, c'è sicuramente la persona giusta per te. Non sono io quella persona. Se ti trattieni un minuto di più, sarò costretta a chiamare la polizia. Voglio che te ne vada. So che puoi diventare violento.»
«Che cosa?»
«Finivi sempre coinvolto in un sacco di risse.»
«Non con te. E poi... quello succedeva ai tempi della scuola superiore, dannazione. Con dei ragazzi.»
«Mi stai spaventando, Cason. Ora chiamo la polizia.»
«Non c'è bisogno di chiamare la polizia.»
«Basta così. Qui dietro tengo una pistola e, se ti avvicini di un centimetro, la prendo.»
«Stai scherzando, vero?»
Infilò una mano sotto il bancone e scosse la testa. «No. Per niente. Mi stai spaventando.»
Non riuscii nemmeno a parlare. Mi ci volle un attimo per trovare le parole.
«Non era mia intenzione.»
«Eppure ci sei riuscito ugualmente. Inoltre, Cason, il nostro non è amore. Non ci si avvicina nemmeno. Ti prego, vattene. Per lo meno, finché non mi metto a odiarti.»
La fissai a lungo. Aveva gli occhi dilatati e un'espressione sul volto che non le avevo mai visto assumere, ma che avevo notato su altre facce nel corso della guerra. L'espressione di una persona spaventata. Girai sui tacchi e uscii, montai in macchina e mi allontanai, senza neanche riflettere sulla direzione in cui stavo andando, senza alcuna destinazione in mente.
Il CD di Dwight Yoakam partì automaticamente. La canzone era A Thousand Miles From Nowhere. Una canzone che ti lasciava sulla sommità di un declivio ventoso. Che ti faceva avvertire la solitudine del buio profondo di una tomba. In quella canzone c'erano fantasmi che mi si insinuarono lentamente nell'anima. Mi venne la nausea. C'era qualcosa di umidiccio sulle mie guance.

9

C'erano stati tutti quei mesi trascorsi in Iraq, la terra del colore di una tortilla disidratata, il cielo una vampata accecante di eternità azzurra e i costanti rumori delle esplosioni e i fetori della morte e io che facevo il conto alla rovescia degli attimi, con chiara in testa l'ora, addirittura il minuto in cui la mia permanenza si sarebbe conclusa, immaginando che la mia ferma venisse prolungata, essendone quasi certo, temendo che non si concludesse mai. Era come se fossi stato scaricato su un altro pianeta dove la gente e il mondo non avevano nessuna relazione con me.
C'era quella stramaledetta calura che faceva del Texas una specie di doccia calda e c'erano la perdita dei miei compagni e la vista di cittadini iracheni innocenti e di altri non altrettanto innocenti che giacevano al suolo senza vita, gonfi e carichi del puzzo del sangue rappreso.
Tutti quei mesi, quei giorni, quelle ore, quei minuti passati a bordo di veicoli goffi e dalla blindatura improbabile, roba che ci preparavamo noi stessi, ottenendola da qualsiasi cosa trovassimo, e che poi appiccicavamo ai nostri automezzi. Ed ecco che ce ne andavamo in giro aspettandoci che una bella esplosione ci facesse finire dei pezzi di granata su per il culo. E poi, a peggiorare la situazione, giunse la lettera di Gabby, e da quel momento niente ebbe più senso, se non, magari, morire, e poi scoppiò il finimondo per le strade di Baghdad e io ebbi il mio bel daffare, come pure alcuni dei miei compagni, due dei quali restarono uccisi. Io rimasi ferito, però mi salvai.
Booger, invece, venne semplicemente proiettato nell'aria, come in una specie di dannatissimo spettacolo circense, fece un paio di capriole e si rialzò con gli abiti affumicati, ma con l'arma stretta in pugno e, Cristo santo, suonò una bella sinfonia. Una sinfonia rock sulla strada. Non so se abbia colpito qualcuno che avesse collegamenti con qualcosa, ma la fece cantare quell'arma, altroché, e le pallottole presero a fischiare a destra e a manca, e quando tutto ebbe termine, quel posto era un carnaio, c'erano brandelli di tela e anime di iracheni separate dai rispettivi corpi che si scontravano tra loro dentro una cortina di fumo spesso e scuro che saliva verso l'alto.
Già. Ero salvo. Grazie a Booger. Salvo per cosa, se non per tornare a casa da Gabby, per farmi una vita insieme a lei? Mi venne in mente la prima volta in cui l'avevo vista mentre faceva la fila alla pizzeria, mentre cercava di far capire al ragazzino alla cassa che non voleva assolutamente la salsiccia, e che gli aveva messo sulla pizza del prosciutto sicuramente non canadese.
Quando trovò un tavolo a cui accomodarsi con il suo vassoio, non ce la feci a trattenermi. Mi avvicinai e dissi che anche a me piaceva il prosciutto canadese. Ecco tutto. Eravamo una rarità. E poi la situazione andò di bene in meglio e, da lì, finì che io partii e poi, mentre mi trovavo in Iraq, mi ritrovai colpito da una bella bomba piena di merda sotto forma di una bella lettera in cui lei mi informava che la nostra storia d'amore era finita.
Me la immaginavo con i suoi lunghi capelli castani così splendenti da luccicare come cioccolato liquido, e la vedevo in uno degli abiti che indossava, una giacca blu a righine bianche dagli ampi baveri e una camicia in stile, e ricordavo come i suoi tacchi alti le slanciavano le gambe e gliele facevano sembrare più muscolose nelle sue calze a rete scure, il luccichio dei suoi occhi e il suo sorriso, la sua dentatura perfetta. Nelle mie fantasie, ci stringevamo e ci baciavamo. Io ero l'eroe conquistatore. Andavamo da lei e io le sfilavo lentamente l'abito e le toglievo gli stivali, facendole scivolare delicatamente le calze dalle gambe, e poi facevamo l'amore, lentamente e felicemente, come lo avevamo sempre fatto, ma stavolta sarebbe stato ancora più meraviglioso, perché sarebbe stato un nuovo inizio e ben presto ci saremmo sposati, e la luce del sole sarebbe stata sempre romantica e i nostri giorni sarebbero stati prodighi di bei momenti, persino la pioggia sarebbe stata delicata e dolce per i nostri nasi e ritmica per le nostre orecchie, mentre sciaguattava al suolo.
I sogni sono così.
Fu difficile mandare giù quella pillola, e lo è tuttora, e per mandarla giù meglio, mi diressi verso un piccolo bar che non era di proprietà del marito della mia capa. Era fresco e buio come se fosse molto più tardi. Quel posto aveva l'odore inconfondibile dei bar, un misto di alcol irrancidito e fumo di sigarette, sudore e sogni irreali.
Su uno sgabello presso il bancone c'era una bella donna con una camicetta scura e una minigonna di jeans, oltre a un paio di scarpe bianche di taglia esagerata. Da come era seduta, a fumare, a gambe incrociate, con un piede che faceva ciondolare una di quelle scarpe esagerate, con il bicchiere semivuoto davanti sul bancone, capii che in quel posto ci andava con la stessa regolarità della nascita e del tramonto del sole.
Mi sedetti sullo sgabello accanto al suo e la guardai, sfoderando un sorriso che mia madre aveva sempre definito elettrico. «Posso offrirle da bere?»
«A dir la verità,» rispose «preferirei i soldi.»
«Buffo» replicai, ma dal modo in cui mi guardò, ebbi la sensazione che il mio sorriso elettrico quel giorno fosse un po' a corto di watt.
Mi infilai una mano in tasca e estrassi cinque dollari che misi sul bancone. «D'accordo. Ecco i suoi soldi.»
Lei girò la testa senza muovere il corpo. «Francis, questo stronzo mi sta infastidendo.»
Dal retro, spuntò un uomo della dimensione di tre uomini: il barista, il buttafuori, il padrone.
«Stai cercando guai?»
«Non credo proprio» risposi. «Ho solo cercato di offrire un drink alla signora.»
«E io non lo voglio» fece lei.
«Non lo vuole» disse lui.
«D'accordo.» Raccolsi i miei cinque dollari e uscii. Andai a una rivendita di alcolici e acquistai un bel po' di birra e Wild Turkey, girai in macchina per un po' pensando a tantissime cose e, guarda caso, non ce n'era una sola positiva. Nel vano portaoggetti tenevo una pistola e mi venne in mente quando, in Iraq, un amico soldato mi aveva detto che pensava sempre alla sua arma: aveva letto di quando Hemingway aveva definito la morte un dono, o qualcosa del genere, e si era chiesto se fosse vero. Gli avevo detto che nessuno di noi avrebbe avuto il tempo di aprire quel dono, visto che avveniva tutto con rapidità. Ma ora ero lì, a bighellonare in macchina, con in testa la pistola posta nel vano portaoggetti e quanto quel soldato mi aveva detto non tanto tempo prima a proposito del dono di Hemingway.
Mi tolsi quel pensiero dalla testa e proseguii fin oltre le vecchie segherie. Ce n'era ancora un paio là dove un tempo si trovava il centro di Camp Rapture, nei giorni in cui era ancora un posto dominato dall'industria del legname, nei giorni in cui la mia bisnonna, Sunset Jones, era stata la prima donna poliziotto nella storia del Texas Orientale e, fino a poco tempo prima, una delle uniche due.
L'economia di Camp Rapture era tuttora basata sull'industria del legname, ma le vecchie segherie di quella zona erano obsolete, progettate per uomini muscolosi e traino animale, non certo per i metodi moderni in uso ai giorni nostri e in grado di distruggere e fare a pezzi più foreste di quanto si sarebbe potuto immaginare a Camp Rapture quando era sorta, alla fine degli anni Venti.
Il vecchio campo di taglialegna era a ridosso della strada, ma la vegetazione era cresciuta tutt'intorno e non si vedevano cartelli con su scritto PROPRIETÀ PRIVATA O PERICOLO lungo la rete di recinzione in filo spinato accanto alla strada. I suoi venticinque acri erano completamente circondati da quella rete in filo spinato. Si potevano scorgere le rovine della segheria attraverso le piante, e adesso restavano solo una serie di edifici afflosciati, dei fogli di lamiera che un tempo erano serviti da tetto e delle montagne di segatura scurita. Il terreno sgombro su cui gli uomini avevano lavorato, e su cui cavalli e muli e buoi avevano trascinato il legname verso la segheria, era coperto di erba e sopra vi pascolava del bestiame pasciuto.
C'era persino un vecchio parco giochi nel punto in cui stavano le rovine della segheria. In teoria, avrebbe dovuto portare lavoro e prosperità a Camp Rapture. Ma non era andato particolarmente bene. A un anno dalla sua apertura, aveva chiuso, la ruota panoramica aveva fatto un ultimo giro al suono di una musichetta registrata e poi le luci si erano spente e le macchine per lo zucchero filato si erano riempite di formiche e quel posto era stato abbandonato con la stessa velocità del morso di un serpente. Ciò che ne restava, la ruota panoramica e i binari delle montagne russe, si stagliavano nel paesaggio tra stridenti pini dalla crescita rapida, come scheletri di dinosauri o draghi spolpati alla perfezione dagli animali saprofaghi.
Quando mi aggiravo in macchina per quel posto, avvertivo una certa solitudine e un senso di disagio. Volevo essere in compagnia di qualcuno, ma quando lo ero, mi sentivo ancora più solo. A volte, avvertivo la mancanza del mio armamento individuale di soldato e dei miei commilitoni e della minaccia incombente della morte, che saturava l'aria come sabbia portata dal vento. Una cosa strana di cui sentire la mancanza. In genere, ero felice di essere tornato a casa, ma ogni tanto mi capitava di pensare agli uomini con cui avevo combattuto: loro erano là e io qui. Che onore c'era in tutto ciò? Qual era il mio posto nel mondo? Una sensazione di vuoto, come quando senti il fischio di un treno in lontananza, il richiamo di un uccello al calare della notte oppure quando vedi un volto triste su un autobus che ti passa accanto.
Forse avevo solo bisogno di una bella sbronza.

Feci inversione di marcia e attraversai il paese. Passai dal vecchio quartiere dei neri, che molti continuavano a chiamare la sezione della gente di colore e altri il Rione dei Negri. Ci passai in mezzo e vidi un ragazzino che non poteva avere più di quindici anni fermo sotto un lampione, contro cui si era appoggiato a oziare. Quando gli passai accanto, mi mostrò il dito medio, senza una buona ragione. Dalla smorfia che fece, immaginai che si stesse gonfiando il petto di una forza irreale: in quell'istante, era King Kong. Gliel'ho fatta vedere, stava forse pensando. Probabilmente me lo meritavo.
Seguitai, attraversando tutta la zona fino ai margini del paese, da dove vidi la torre dell'orologio nel campus, alta e splendente di una luce color oro. Erano luminosissime le luci poste dietro l'enorme vetrata che mostrava non solo il quadrante ma anche gli ingranaggi stilizzati, intimamente gotici e in una tinta oro, frutto delle luci interne. E di luci ce n'erano altre, finestrelle a spicchio di luna cariche di un chiarore che scorreva dall'alto al basso lungo tutta la facciata della torre. Fu a quel punto che feci inversione di marcia e inquadrai la torre dell'orologio nello specchietto retrovisore.
Guidai fino alla parte opposta del paese, oltre la baraccopoli in cui vivevano i bianchi più poveri. Procedetti, in direzione dei motel più esterni, come sparpagliati dalla furia di un tornado simili a scatole da quattro soldi. Parcheggiai davanti a un motel che aveva una rana saltellante sull'insegna al neon. Mentre la osservavo, la rana saltellò avanti e indietro. Entrai e presi una camera, sostanzialmente un loculo. Faceva caldo nonostante il condizionatore d'aria facesse più rumore di un vecchio catorcio di automobile nello sforzo di raffreddarla. La stanza era infestata da mosche e zanzare insinuatesi da una fessura nella finestra provocata da una verniciatura fatta coi piedi che ne impediva la chiusura. Mi sedetti in mutande su una sedia e mi misi a guardare la televisione e a bere, poi mi misi a letto e bevvi ancora un po'. Quando mi svegliai, la televisione era ancora accesa e io giacevo sopra le coperte. Mi ero pisciato addosso e la stanza puzzava di urina e di alcol, era come se mi fossi versato addosso una bottiglia di Wild Turkey, o meglio, come se ci avessi fatto il bagno. Faceva un caldo infernale e stavo cuocendo nei miei umori, e mosche e zanzare avevano fatto di me la loro adorata piattaforma d'atterraggio.
Meno male che non era un giorno lavorativo. Impiegai mezza giornata a scendere dal letto. Le mosche mi seguirono fin dentro la doccia. Feci scendere l'acqua calda per un bel po' di tempo, lasciandomela cadere in testa mentre me ne stavo seduto nella vasca. Ci sarei rimasto più a lungo, ma l'acqua calda finì. Lasciai che l'acqua fredda mi sferzasse per qualche secondo, uscii e mi asciugai con mani tremanti.
Gettai nel cestino la biancheria impregnata di urina, mi vestii e uscii. Nella calura di quel sabato pomeriggio, mi diressi in macchina verso casa dei miei genitori, non sapendo bene cosa raccontargli, sapendo che erano in pensiero e che forse erano andati in giro a cercarmi. Ci andai comunque, senza orgoglio e col cuore vuoto come un tacchino nel Giorno del Ringraziamento, cercando di trovare una posizione adatta in cui la testa non mi facesse male, senza peraltro dover togliere i miei occhi pulsanti dalla strada.

Parcheggiai accanto al cordolo. Dietro la P.T. Cruiser di mamma e papà c'era un'altra macchina. Una bella macchina. A dir la verità, sembrava un piccolo veicolo corazzato. Un Hummer nero. Non nuovo, ma dannatamente bello. Non poteva che essere la macchina di mio fratello. Fantastico! Mr. Successo e il sottoscritto, Mr. Sbronza, ben presto sarebbero stati sotto lo stesso tetto.
Per un istante, pensai di andarmene, ma in realtà non avrei saputo dove. Avevo delle mentine nel vano portaoggetti. Le tirai fuori e me ne misi qualcuna in bocca, le masticai e le inghiottii, dopodiché me ne infilai in bocca un'altra e cominciai a succhiarla.
Poco prima di uscire dalla macchina, mi resi conto che sul sedile, esattamente dove l'avevo lasciato venerdì pomeriggio, c'era l'abbondante materiale che Mercury aveva messo insieme per me, infilato in una sorta di contenitore a fisarmonica. Feci un respiro profondo, presi in mano la carpetta e scesi.
«Ciao.»
Alzai lo sguardo in direzione dell'albero e la vidi. Stavolta, indossava blue jeans e maglietta, ma era sempre scalza. Aveva i capelli tutti arruffati. «Non ti avevo notata lassù» dissi.
«Ti frego tutte le volte.»
«Fidati di me, non sei l'unica.»
«Sono ingannevole. Mia mamma dice che non è una brutta cosa essere ingannevoli, che la vita in parte è ingannevole.»
Certo che a Jazzy veniva impartita un'educazione particolare.
«Non hai una gran bella cera» constatò Jazzy.
«Non sono in gran forma.»
«Ti hanno picchiato?»
«Niente del genere. A meno che tu non consideri la vita un teppista.»
«Che cosa?»
«Sono stato aggredito da un tacchino selvatico e da una bella fetta di Milwaukee.»
«Cosa?»
«Sto scherzando. Sono solo stanco.»
«Non sei divertente.»
«Anche quello me lo sento dire spesso.»
«Se ti hanno picchiato, a me lo puoi dire. Anch'io sono stata picchiata.»
Non avevo bisogno di sentire altro, di un pensiero con cui occupare il fine settimana, per coronare una giornata perfetta: sapere che la ragazzina della casa accanto alla nostra era stata picchiata. Sospettai che lei non si riferisse a delle sculacciate, bensì esattamente a ciò che aveva detto. Era stata picchiata.
«Chi ti ha picchiata?» chiesi.
«Non posso dirlo.»
Capii esattamente perché mai mio padre avesse menato Papi Gregg, perché l'avesse menato di brutto.
«Hai la faccia tutta gonfia. Hai i brufoli?»
«Sono punture di zanzare... Hai mangiato, Jazzy?»
«Stamattina ho mangiato una banana.»
«Devi avere fame.»
«In casa ci sono solo fiocchi di cereali e birra. E non c'è latte da mettere sui fiocchi di cereali. La mamma i suoi li innaffia con la birra, però dice che io sono troppo piccola per farlo.»
Poteva andare anche peggio, santo cielo!
«A scuola ci vai?»
«Siamo in estate, sciocco.»
«Prima dell'estate ci andavi?»
«A volte. Mamma dormiva fino a tardi e non sempre trovavo un passaggio. Aveva quasi sempre da fare. Non ero quasi mai qui. Ci andavo sempre quando abitavo a Houston con mia nonna.»
«Perché non vieni dentro con me, così vediamo se mia madre ti può preparare qualcosa?» Controllai l'orologio. Erano le cinque passate. I miei cenavano presto. Era l'orario perfetto.
«Tua mamma è simpatica. Anche tuo papà.»
«È vero. Andiamo. Non devi preoccuparti, visto che sei stata invitata.»

10
Jazzy scese dalla pianta, allungò un braccio e mi prese per mano. Sperai che non lo facesse con tutti gli sconosciuti. Mi sorrise e io le restituii il sorriso. Jazzy aveva addosso l'odore dell'olmo, l'odore gradevole delle foglie spezzate. Pensai a lei come a una sorta di folletto.
La guidai oltre il garage aperto, fino alla porta di servizio che immetteva nella cucina. Volevo a tutti i costi che mangiasse qualcosa e, fintanto che era con me, mio padre e mia madre sarebbero stati meno inclini a domandarmi dove avevo trascorso la notte precedente. Così, almeno, mi sarei risparmiato un'indagine approfondita, con tanto di impronte digitali, esame delle urine, perquisizione degli orifizi e tampone del DNA.
In casa faceva caldo. La cucina era pervasa dall'odore di qualcosa che stava cuocendo, un buon odore che mi sconquassò lo stomaco, un po' per il troppo alcol ingurgitato e un po' perché era da parecchio che non mangiavo. Mamma stava trafficando vicino alla stufa con un lungo cucchiaio di legno e rimestava qualcosa in una pentola. Mi guardò e, nonostante il sorriso, i suoi occhi mi dissero che era stata in pensiero per me. Ovviamente, sapeva che avevo bevuto.
«Jazzy è venuta a trovarci» dissi.
«Bene» fece mia madre, come se fosse la migliore iniziativa del mondo. «Entra pure, Jazzy. Perché non vai in bagno a lavarti le mani e la faccia? La cena sarà in tavola fra poco.»
Jazzy corse in bagno. Mi avvicinai a mia madre e le diedi un bacio sulla guancia.
«Ciao, tesoro» mi salutò. «Quando Jazzy viene fuori, va a lavarti i denti. Si direbbe che tu abbia una fabbrica di birra in bocca, magari un nido di tacchini selvatici, non so se mi sono spiegata. E le mentine non hanno fatto altro che rendere il tuo alito più puzzolente.»
«Il solito olfatto fine, vero?»
«Già. E magari, già che ci sei, su quelle punture mettici un po' d'alcol - di quello usato per fare i massaggi. Hai dormito sotto una pianta?»
«Solo in un posto con le finestre aperte.»
Mia madre mi studiò un istante e poi mi diede un colpetto sul braccio. «Vai dentro a salutare tuo fratello e Trixie. Il pollo è nel forno e sarà pronto tra poco.»
In soggiorno, papà era seduto sul divano accanto a Jimmy e stava ridendo per qualcosa che gli stava dicendo. Jimmy aveva un aspetto giovanile. Era magro, si sarebbe detto che facesse palestra, però ora aveva qualche capello bianco sulle tempie, somigliando vagamente a Mister Fantastic dei Fantastici Quattro.
Trixie, attraente in blue jeans e canotta verde, con una collana di argento a far da contrasto con la sua pelle bruna, sedeva a gambe incrociate, con un paio di ciabatte ai piedi. Quando entrai, sorrise. La sua chioma era una specie di elmetto dorato, e sembrava avesse più denti di quanti dovrebbe averne un essere umano, ma quei denti erano sani, splendenti e dritti. Era una vista così meravigliosa che, se la fissavi troppo a lungo, rischiavi di doverti fare un giretto al pronto soccorso per un collasso.
Mi avviai verso di lei mentre si alzava in piedi e la abbracciai con forza, cercando di tenere il mio alito da birreria dietro le sue spalle.
Strinsi la mano di mio fratello, sorrisi a mio padre, mi sedetti sull'estremità del divano, posando la mia carpetta sul tavolino da caffè.
«Ti hanno rapito gli extraterrestri, ieri sera?» chiese mio padre.
«Già, però mi hanno rilasciato.»
«Sarà stata la sonda rettale» ironizzò Jimmy. «Non gli è piaciuto quanto rilevato.»
Papà indicò con un cenno la carpetta sul tavolino. «Compiti per casa?»
«Più o meno.»
«Dal tuo aspetto, sembra ti sia introdotto in un nido di formiche rosse» disse Trixie, con quella sua voce unica. Non avresti potuto sentirne una più sudista. Sembrava prodotta da una gola che avesse appena deglutito dei frammenti di vetro innaffiandoli con un bel whisky da cinquanta gradi.
«Zanzare» feci. Poi, rivolgendomi a Jimmy: «Un bel macchinone quello che hai parcheggiato qui davanti, fratello.»
«Un divoratore di benzina» brontolò papà. «Non fa altro che sostenere le dannatissime compagnie petrolifere. Non ne guadagnano già abbastanza di soldi senza che voi le aiutiate?»
«Ora ne guadagnano ancora di più» replicò Jimmy, «e sono io a contribuire. Non l'abbiamo praticamente mai usata. Trixie ha un macchina più piccola ed è quella che usiamo principalmente. Ti senti meglio ora, papà?»
«Un poco.»
A quel punto, la conversazione cambiò. Parlammo del più e del meno. Jimmy e io ridemmo di alcune cose successe nel passato. Trixie, dopo essersi accertata che Jazzy fosse con mia madre, raccontò una barzelletta sporchissima che mi piacque un sacco. Tutto questo, mentre i rumori e gli odori provenienti dalla cucina saturavano l'ambiente.
Alla fine, andai a lavarmi i denti, ma me li sporcai subito dopo perché mangiammo pollo con la salsa, purè e intingolo, ci bevemmo litri su litri di tè freddo e terminammo la cena con crostata di mele e di pere.
Finito di cenare e dopo aver trascorso un po' di tempo a lodare adeguatamente la qualità del cibo consumato, Jimmy e io ci allontanammo alla chetichella e andammo nella nostra vecchia camera. Osservò gli aeroplanini appesi al soffitto. «Mi sdraiavo sulla parte superiore del letto a castello a guardare questi aerei, a fingere di esserci sopra e di volarmene lontano.»
«E dove andavi?» chiesi.
«Da tutte le parti. Dovunque. A volte, mi infilavo in un buco del Polo Sud, diretto al centro della terra dove c'era un universo di dinosauri, cavernicoli e belle donne che non ce l'avrebbero fatta a vivere senza il mio intenso amore virile.»
«Edgar Rice Burroughs. At The Earth's Core.»
«Abbiamo letto gli stessi libri.»
«Eccoli lì» e indicai i libri sullo scaffale.
«Vederli lì per me è un conforto.»
«Lottavo con i mostri del pianeta Marte e traevo in salvo delle principesse» ricordai. «Erano quelli i miei libri preferiti. Mi piacerebbe poterli rileggere e provare le stesse sensazioni.»
«Giocavamo a Tarzan. Te lo ricordi? Io dovevo immancabilmente fare Cita e tu Tarzan. Non so come mai, però andava sempre a finire così. Ti ricordi?»
«Certo. Una volta, mi sono arrampicato in mutande su quell'olmo su cui sta sempre Jazzy e mi sono preso una scottatura terribile.»
«Ti eri messo a fare il richiamo dello scimmione, chiedendo a tutte le scimmie di venire in tuo aiuto. Però, niente da fare.»
«Bastarde.»
«Ma non hai mai smesso di gridare. Hai gridato per tutto il giorno e la mamma non ce l'ha fatta a convincerti a scendere e ha chiamato il papà al lavoro, e lui le ha detto che sarebbe venuto giù subito dalla collina, anche se non avevamo la sensazione che tu fossi pronto a scendere. Hai seguitato a gridare finché hai cominciato a perdere la voce e a sembrare più un cervo agonizzante che uno scimmione da monta. E avevi addosso quei mutandoni larghi da cui ti spuntavano le palle, ed è proprio lì che ti sei ustionato. Te lo ricordi?»
«E come potrei scordarmene? Nel punto in cui la pelle ha iniziato a staccarsi ho ancora una cicatrice. La vuoi vedere?»
«No, grazie. Ti prendo in parola.»
Chiacchieravamo, passeggiando per la stanza, come se stessimo viaggiando nel tempo. Jimmy si ritrovò accanto alle sue rane e ai suoi ratti e un senso di colpa si insinuò dentro di me. La notte precedente li avevo fatti cadere di proposito e, se si crede a ciò che dice Freud, immagino che si possa riscontrare una spiegazione davvero inquietante.
«Dovrei sbarazzarmi di questa merda» fece. «Ha un aspetto davvero orribile.»
Aprì i cassetti del suo scrittoio e ne studiò il contenuto. Chiuse il cassetto. «È bello averti di nuovo in paese, Cason.»
«Grazie.»
«Il lavoro al giornale potrebbe essere ideale...»
«A dirti la verità, ho sensazioni contrastanti sul fatto di essere di nuovo a casa.»
«Gabby?»
«In parte.»
«Sai che mi ha chiamato per parlarmi di te? Mi ha detto che non facevi altro che scriverle biglietti e telefonarle. Era turbata.»
«Il guaio è che faccio fatica a crederci.»
Jimmy si voltò e mi guardò, come se si fosse appena accorto che avevo due teste. «Ti ricordi quando, da piccoli, hai scoperto che Babbo Natale non esisteva?»
«Già.»
«Non riuscivi ad accettarlo. Sei andato avanti per mesi a credere ugualmente alla sua esistenza. Ti sei menato con altri ragazzini della scuola che ti dicevano che non esisteva nessun Babbo Natale. Alla fine, papà si è seduto al tavolo con te e ti ha parlato. E sai cosa hai fatto?»
«Lo so, ma tanto me lo dirai lo stesso.»
«Eri convinto che papà ti volesse mettere alla prova. Che Babbo Natale avesse detto a papà di mettere alla prova la tua fede.»
«Me lo ricordo bene. E spero che sia qualcosa che non vai a raccontare al corpo insegnanti dell'università...»
«Ci credevi con tanta convinzione da non voler accettare che non esisteva nessun Babbo Natale. Era diventata una vera fissazione. Da gennaio a dicembre, non avevi altro in mente che Babbo Natale, che lui esisteva e che lo avresti dimostrato, che avevi gli strumenti per raccogliere la sfida. Per quanto ti venisse detto più e più volte che non era vero, che un personaggio del genere era pure invenzione, tu non ti piegavi. Restavi testardamente ancorato alle tue convinzioni, certo che, alla fine, ti saresti guadagnato un premio speciale per aver avuto sempre fede. E la sai una cosa? Un giorno di giugno inoltrato, sei venuto qui dentro, portandoti appresso tutta questa roba su Babbo Natale, libri, fumetti e non ricordo cos'altro. Un sacco di roba diversa. E l'hai messa tutta in una scatola a cui mamma ha poi trovato un posto in solaio. Te lo ricordi?»
«Me lo ricordo. Non sono durato fino a dicembre.»
«Tra gennaio e dicembre, eri giunto alla conclusione che ti eri sbagliato. Eri stato cocciuto, ossessionato dall'idea che la verità fosse in pericolo, che Satana ti stesse mettendo alla prova. Ti eri aggrappato a quel passato per tutto il tempo in cui vi si sarebbe potuta aggrappare qualunque persona ragionevole. E poi, un bel giorno, l'hai capito. Sei venuto a conoscenza della verità. Non perché tu l'avessi sentita e neanche perché tu l'avessi capita, ma perché ora ci credevi anche tu.»
«Capisco.»
«Guardami, Cason. Lei non ti ama. Mi dispiace. È triste. Voglio bene a Gabby e voglio bene a te, ma lei non ti ama. È giunto il momento che tu prenda tutto quello che riguarda Gabby, tutti i ricordi, li chiuda in una scatola da riporre in solaio, per così dire. Te la devi togliere dalla testa.»
«La fai semplice.»
«So che non lo è. Il dottore cos'ha detto?»
«Che sono ossessionato. Che mi porto appresso i traumi della guerra. Con tutta quella roba e un dollaro e cinquanta, potrei tranquillamente farmi un giretto sul cavallino che sta di fronte al Wal-Mart.»
«Il problema lo puoi risolvere solo con la consapevolezza e la convinzione.»
«Mi sembra uno di quegli slogan che appiccicano ai paraurti.»
«Immagino che lo sia.»
Jimmy si alzò e si avvicinò alla finestra e io mi sedetti al mio scrittoio. Restammo in quel modo per parecchio tempo. Alla fine, dissi: «La faccenda in cui sto mettendo il naso al lavoro, in un certo senso si incrocia con la tua vita.»
Si voltò dalla mia parte e appoggiò la schiena alla parete. «E in che modo?»
«Una storia di una persona scomparsa. Probabilmente assassinata.»
«Oh!»
«Caroline Allison. Una specializzanda in storia.»
Jimmy si staccò dalla parete e si avvicinò al suo vecchio scrittoio, si sedette sulla sua sedia, prese in mano una matita e la usò per dare dei colpetti alle rane e ai topi imbalsamati.
«Che cosa ti ha fatto venire in mente quella storia?»
«Il lavoro» dissi. «Stavo cercando uno spunto per cominciare. Curo una rubrica, sai. L'argomento l'aveva scelto la donna che occupava quel posto prima di me. Ci ho dato un'occhiata e mi è piaciuta l'idea. Lei aveva solo raccolto degli appunti. Così ho controllato un po' di cose. Devi averla conosciuta anche tu, giusto?»
«Al dipartimento, la conoscevano tutti bene. Era molto bella.»
«Ho visto le sue fotografie. Era più che semplicemente bella. Ha, o forse dovrei dire aveva, un aspetto quasi ultraterreno.»
«Già. È vero.» Spinse la rana con la matita finché non cadde. Non mi sentii più tanto in colpa per aver trafficato con i suoi ricordi.
«Forse sai qualcosa che potrei mettere nell'articolo. Qualcosa su di lei.»
«Posso solo dirti che era uno spettacolo. Al dipartimento, le volevano tutti bene. Per lo meno, i maschietti. Voglio dire, sai com'è, una bella ragazza e via discorrendo... Era sveglia e sarebbe diventata una formidabile studiosa di storia.»
«Hai detto che al dipartimento le volevano tutti bene, per lo meno i maschietti. E fuori dal dipartimento?»
«Ti riferisci alla sua vita privata?»
«A quello che sai in proposito.»
«In realtà, non ne so niente. Non parlava molto della sua vita privata.»
«Visto che piaceva ai maschietti, come si sentivano le donne?»
«Erano gelose. Però, sapevano che era una forza della natura. Se stai alludendo al fatto che qualcuno al dipartimento di storia la odiasse a sufficienza per sequestrarla e ammazzarla solo perché era una bella sventola, credo che tu sia fuori strada.»
«Una donna così bella avrebbe potuto far uscire di senno qualcuno. Magari avrebbe potuto spingerlo a fare cose che di norma non farebbe.»
«Insomma, è colpa di Caroline?» chiese Jimmy.
«Non intendevo in quel senso. Chiunque le ha abbia fatto del male, è sua la responsabilità. Sto solo dicendo che se c'era qualcuno con una rotella fuori posto... una donna del genere poteva essere il pretesto per farlo partire di testa... Questa vicenda ti turba, Jimmy?»
Annuì. «Era una brava ragazza. La sua scomparsa è stata dolorosa per me. Aveva seguito un paio di miei corsi. Aveva un futuro luminoso davanti. È stato un vero shock per me.»
«Mi dispiace.»
«Non c'è problema. È la realtà. Non ha senso rimpiangere che le cose non sia andate diversamente. Lei non c'è più.... La sai una cosa? Credo proprio di aver voglia di una tazza di caffè. E tu?»
Non fu un cambio di argomento brillante, ma ebbe discreto successo. Jimmy era già in piedi e stava avviandosi verso la cucina quando io dissi: «Muoio dalla voglia di farmene una.»
Mentre passavamo per il soggiorno, diretti in cucina, notammo che Jazzy si era assopita sul divano. Qualcuno, con ogni probabilità nostra madre, le aveva messo addosso una coperta.
Entrando in cucina, Jimmy fece: «Jazzy è fuori combattimento.»
Mamma, papà e Trixie erano seduti e si stavano già godendo il loro caffè. Mamma si raccomandò: «Parlate piano. È stremata. Scommetto che ha dormito sull'albero la notte scorsa. A volte, la chiudono fuori casa.»
«Perché nessuno fa niente?» chiese Jimmy.
«È quello che piacerebbe sapere anche a noi» disse papà. «Da un paio di giorni non vediamo uscire di casa sua madre o quella testa di cazzo della sua ultima fiamma.»
«Pete, non parlare in quel modo» lo rimproverò mia madre.
Papà, al solito, fece finta di niente. «Sua madre se ne sta in casa per buona parte del tempo, come se avesse paura della luce. Non credo che lavori, a meno che non lo faccia al telefono. Il suo nuovo paparino ha un furgone con una scritta sul fianco: dice grosso modo che fa il tappezziere e ogni tanto lui esce, quindi è possibile che il tappezziere lo faccia in casa sua. Anche se ho il sospetto che non sia un gran lavoratore. E poi c'è il suo ex, Papi Greg, che immagino ora sia semplicemente Greg. Ogni tanto, passa di qui. Chi può sapere quello a cui assiste Jazzy? Quella ragazza ha bisogno di una vita familiare migliore.»
«Che Dio la benedica» disse mia madre. «Jazzy è una ragazzina sveglia. Impara tutto.»
«Rischia di finire male» fece mio padre.
Mamma diede un colpetto alla mano di papà. «Lo so, ma non possiamo fare altro che affidarci ai servizi sociali.»
Jimmy e io ci avvicinammo al mobiletto per prenderci delle tazze, ci versammo del caffè dalla cuccuma e ci sedemmo al tavolo.
«Trascorrerà la notte qui da noi» ci informò mia madre. «E scommetto che sua madre e il suo ultimo paparino non ne sentiranno neppure la mancanza.»
«Bastardi ubriaconi» sbottò papà. «O magari è altra la roba di cui sono sciroccati. Oppure, magari, non sono neppure sciroccati e quello è semplicemente il loro comportamento naturale. Difficile dirlo.»
«Sciroccati?» ripeté Jimmy. «La gente usa ancora quella espressione?»
«Io sì» rispose papà.
«Che ne dici di 'svignarsela'?» disse Jimmy.
«Oppure di 'bamboccio'» dissi io.
«O, ancora, 'sopraffino'» disse Trixie.
Papà ci rivolse un sorrisino. «Ve la state cercando, bei tomi. E anche tu, signorina.»

Quella sera, dopo la partenza di mio fratello e di sua moglie e dopo che tutti se ne furono andati a letto, mi sedetti alla mia vecchia scrivania per dare un'occhiata al dossier che Mercury aveva raccolto per me. Mi ritrovai a guardare più e più volte la fotografia di Caroline. Passai in rassegna tutti gli appunti e mi riempii la testa di tutti i fatti elencati. Fu come piantare dei semi nella mia materia grigia, nella speranza che mettessero le radici, germogliassero e fiorissero.
Cercai degli indizi, come se in tal modo mi fosse possibile trovarli: Mr. Mustard1 nel suo studio con la chiave inglese. Insomma, una cosa del genere. Che terribile sorpresa doveva essere stata per lei essere aggredita da una persona di cui con ogni probabilità si fidava: questo è quello che solitamente accade.
Non fu un pensiero gradevole su cui riflettere poco prima di andare a dormire, ma mi concentrai su quegli appunti per qualche minuto e cercai di scoprire un po' di questo e un po' di quello. Senza genitori con cui parlare e senza parenti legati a lei da un rapporto di un certo rilievo, rimaneva solo la ragazza che diceva che non aveva pagato il prezzo del noleggio dei suoi film e la multa fatta dalla biblioteca. La ragazza si chiamava Ronnie Fisher e il suo indirizzo era annotato in quegli appunti, ma non ritenni che fosse un elemento particolarmente rilevante. Tuttavia, mi segnai che dovevo contattarla. Finalmente, me ne andai a letto. Stavolta, non sognai. O, se lo feci, il sogno non mi svegliò e io non mi ricordai fortunatamente nulla.

1 Personaggio principale del film di Jonathan Lynn Signori, il delitto è servito, trasposizione cinematografica del gioco Cluedo (N.d.T.).

11

Al mattino, mi preparai per andare a lavorare presto, mi sedetti al tavolo della cucina con ancora i postumi della pesante sbronza. Papà era già nel garage a trafficare accanto a un'automobile. Mamma sbatteva rumorosamente del pentolame e versava caffè nella macchina, dosando l'acqua. Il mio stomaco non era in grande forma, ma riuscii a mangiare delle striscioline di pancetta ben cotta, una punta di uova strapazzate e un paio di bocconi di un toast imburrato. Però, il caffè fece il suo effetto, finii la mia tazza e mamma me ne versò un'altra.
Mi rivolse il classico sguardo che detesto vedere, quello che mi fa sentire come se fossi di vetro: lei riesce a vedere quanto ho dentro, da ciò che ho mangiato a ciò che sono. «Pensavo che non avresti bevuto.»
«Ci sto provando, mamma.»
«Sei lento di apprendimento, Cason.»
Alzai gli occhi e la guardai. Si versò del caffè e si sedette di fronte a me. «Non che tu sia stupido.»
«Grazie.»
«Ma impieghi parecchio a imparare la lezione. Non vuoi credere a niente, non dal principio. Sei fatto così.»
«Be'... È stato sempre Jimmy l'intelligentone...»
«No. Jimmy vuole solo risultare simpatico. Vuole apparire capace e felice. Tu, invece, sei come tuo padre.»
«Davvero?»
«Quasi identico.»
«In tal caso, non sono un disastro totale...»
«No. Per molti versi, mi ricordi molto me stessa. Mi somigli di più. Hai alcune delle mie stesse pose, ma in realtà, sotto sotto, sei come tuo padre. Hai un blocco di cemento al posto della testa. Quando lui si fissa su qualcosa, non molla più l'osso e non accetta che si tratti di qualcosa di impossibile da realizzare e che lui non sia in grado di fare ciò che intende fare, finché non c'è altro modo di vedere le cose tranne quello in cui le cose stanno. Non è andato in pensione, Cason. Semplicemente, non è più riuscito a lavorare. Non per una giornata intera. È forte come un toro. Ma solo per un periodo limitato. La sua battuta preferita è che è capace come sempre, ma solo di tanto in tanto. Però non molla la presa facilmente. Sai com'è fatto...»
Le dissi che lo sapevo.
«Non è sempre un fatto positivo» notò mia madre.
«No?»
«Dipende da ciò su cui ti ostini. A volte, ci sono cose che non puoi fare e, peggio ancora, ci sono cose che non dovresti fare. Se anche tu, come lui, sei determinato a far funzionare quella vecchia macchina altrettanto bene quanto il giorno degli anni Sessanta in cui è venuta fuori dall'autosalone, ce la puoi fare. Adora quella macchina, anche se non è la sua. Ma la sai una cosa?»
«Cosa?»
«Il suo amore per quella macchina non è corrisposto.»
«Ah, capisco. Gabby non è una macchina, mamma.»
«In questo caso, tu sei la testa dura e lei è la macchina. Non sei neanche in grado di registrarla, figurarsi riuscire a farti amare.»
«E invece sono in grado di registrarla...»
«Magari l'hai registrata qualche volta, riuscendo a far rombare il motore...»
«Mamma, così mi metti in imbarazzo.»
«...ma non puoi far sì che ti ami, e d'ora innanzi non riuscirai neppure più a registrarla. È finita. Ostinati su qualcos'altro.»
Annuii.
Sorrise e mi diede un colpetto sulla mano. «Ci vuoi un po' di marmellata sul toast?»

12

Passò un mese e, per qualche ragione, nonostante la cosa mi interessasse, non riuscii a prendere un abbrivio sufficiente a scrivere qualcosa su Caroline Allison. Sapevo cosa volevo scrivere su di lei, ma, per qualche strano motivo, non avevo abbastanza carburante nel serbatoio. Forse a mandare in fumo la mia benzina era stata la faccenda di Gabby.
C'erano delle persone da intervistare per poter mettere insieme un ritratto più ampio della ragazza e di ciò che poteva esserle successo, ma non mi sentivo all'altezza del compito. Stavo facendo già abbastanza fatica a essere nuovamente me stesso, senza dovermi svegliare con la sensazione di essere ancora in Iraq e di dover subito dopo scendere in strada con il fucile in mano e le chiappe strette, nella speranza che quello non fosse il giorno in cui qualcuno mi avrebbe fatto saltare la testa.
Nel frattempo, scrissi editoriali sulla ricerca sulle cellule staminali e feci delle domande sul perché la gente prendesse la Bibbia alla lettera, e ne scrissi persino uno sul giardinaggio, basandomi sui vecchi spunti di Franchie. Fu un gioco da ragazzi utilizzarli e io ne approfittai per completare rapidamente la mia rubrica quella settimana stessa. Ebbi così più tempo da dedicare allo studio delle informazioni raccolte su Caroline, benché avessi già letto una mezza dozzina di volte il materiale a mia disposizione.
Poi, una mattina, tutti i miei appunti, tutti i miei pensieri si misero insieme e scrissi una sorta di rubrica 'per non dimenticare', con la sua foto più bella e un'immagine delle sue scarpe e di quel triste sacchetto di cibo sul sedile della macchina. Lo scrissi ricordando alla gente del paese che era vissuta lì, che era molto conosciuta all'università, che era considerata una formidabile promessa, che era scomparsa; a sei mesi di distanza, non si era scoperto nulla di più di quanto si sapeva il giorno in cui era scomparsa. Scrissi anche dell'assoluta mancanza di informazioni sulla sua scomparsa, e che, a pensarci bene, non si sapeva molto sul suo conto persino prima che si perdessero le sue tracce.
Non fu un articolo-inchiesta, semplicemente un editoriale generico, dal tono vagamente sentimentale. Ma, a differenza di un normale pezzo di informazione, in un editoriale puoi giocare e presentare le notizie in modo diverso. Non dissi nulla sulla polizia e sul modo in cui aveva svolto le indagini, perché non avevo motivo per pensare che le avesse svolte sommariamente. Inoltre, per un articolo come quello, chiamai gli sbirri per chiedere loro se per caso c'erano delle novità sul caso, sentendomi rispondere negativamente. Scrissi tutto. Pensai che avrei potuto ottenerne un pezzo in due o tre parti e che le successive sarebbero state più sul versante inchiesta. Dipendeva tutto dalle reazioni che avrei ottenuto.
A ogni buon conto, l'editoriale uscì e martedì mattina, a due giorni dalla data di pubblicazione, mi ritrovai alla mia scrivania, senza essermi sbronzato e avendo pensato a Gabby solo qualche centinaio di volte dal momento in cui mi ero alzato, mi ero fatto la doccia e la barba e mi ero bevuto il caffè. Mi portai in ufficio dell'altro caffè acquistato alla caffetteria; me lo stavo sorseggiando quando la signora Timpson uscì dall'ufficio, si fermò accanto alla mia scrivania e vi piazzò sopra il suo grosso culo, per poi fare una smorfia con i bei denti finti.
«Cason, credo che lei abbia agitato le acque...»
«L'editoriale su Caroline Allison?»
«No. Quello che ha fatto sull'arca di Noè.»
«Oh...»
«I cristiani sono tutti stizziti.»
«Non lo sono sempre, forse? Che cosa ho fatto? Ho sbagliato a scrivere il nome di Noè?»
«Ha lasciato intendere che non sia realmente accaduto.»
«E lei pensa che lo sia, invece?»
«Certo che no. Le sembro una zotica ignorante? Nessuno con le rotelle a posto pensa che qualcuno abbia infilato - com'è che l'ha messa giù? - 'migliaia di specie, due a due', su una dannatissima barca e che se ne sia andato per mare per quaranta giorni e quaranta notti. Ma, per alcuni cristiani, non c'è migliore sensazione orgasmica al mondo. Non possono certo passarci sopra. Gli piace farsi inchiappettare con la storia di Noè.»
«In effetti, lo capisco. Personalmente, che Babbo Natale non esista continua a farmi incazzare.»
La Timpson si sistemò la dentiera con la lingua. «Tra gli inserzionisti del giornale ci sono delle importanti persone di chiesa. Dobbiamo baciargli un po' il culo, proprio intorno al buco.»
«Mi sta dicendo di non scrivere più niente del genere?»
«Non intendo dirle una cosa simile. Ma lei subito dopo ha scritto un pezzo a proposito della ricerca sulle cellule staminali, sull'importanza che hanno per noi. Non spari due calci in culo uno dietro l'altro. Ci lasci un po' di spazio in mezzo. Farli incazzare un po' va bene, ma evitiamo che siano sempre stizziti. Gesù lo prenda a calci nelle palle una settimana, e quella successiva scriva un pezzo inconsistente oppure un profilo o qualcos'altro ancora e poi torni a sparargli un altro calcio. Gli lasci il tempo di riprendersi. Se si stizziscono troppo, finisce che ci danno addosso di brutto. Lascerò che il reverendo Dinkins risponda all'articolo nella sua rubrica della domenica. Esprimerà le opinioni della frangia fondamentalista. Si tratterà di sciocchezze che, però, renderanno felici le persone di chiesa.»
«Non è quel tizio che sta cercando di impedire che venga costruita la scuola giù nel vecchio quartiere nero del paese?»
«Esatto, come anche il reverendo Judence. La cosa buffa è che vogliono entrambi la stessa cosa, anche se per ragioni diverse, e dunque si odiano.»
«Me ne ha parlato mio padre.»
«Conosco suo padre. Non è un brutto uomo, considerata l'età.»
«Gli farà piacere saperlo. Ne sono certo.»
«Judence e Dinkins... Due bei tipi, ma hanno fornito dell'ottimo materiale per il giornale, e quando Judence terrà il suo discorso, sarà un giorno caldo per questo paesino, almeno per quel che riguarda la cronaca.»
«Non sarebbe meglio se al mio pezzo replicasse qualche altro reverendo? Qualcuno con le rotelle un po' più a posto.»
«Dinkins è un personaggio, ragazzo mio. Ci serviremo di lui. Aumenteremo le vendite e la gente penserà che non siamo dei barbari senza Dio, fatta eccezione per lei...»
«D'accordo. Lasci pure che la replica la scriva lui.»
«Mai avuto dubbi. A proposito, quel pezzo sulla ragazza scomparsa... Niente male.»
«Grazie.»
«C'è parecchio materiale inutile dentro, dunque immagino che lei si stia tenendo per sé la roba buona in vista di un pezzo successivo, o per poi scrivere un articolo più ampio per qualcun altro.»
Non dissi nulla che potesse contraddire la sua affermazione. Forse era una testa di cazzo, però era dannatamente furba.
«Be', tenga le sue polveri all'asciutto» si raccomandò.
La signora Timpson si alzò dalla mia scrivania e si avvicinò a quella di Oswald, con ogni probabilità per discutere di quanto aveva scritto sullo sport, o magari per offrirgli le sue profonde nozioni sulle capacità di corsa e di lancio dei giocatori di colore nel football.
Belinda venne da me con un faldone di posta. Sapevo che ci sarebbero state delle lettere sulla mia rubrica. Magari, qualcuna sarebbe persino stata di segno positivo. In mezzo alle lettere, c'era una busta della FedEx che non indicava nessun indirizzo, né quello del giornale né quello del mittente. C'era solo scritto il mio nome.
Chiesi: «Questa come l'hai avuta?»
«Stamattina, quando ho aperto, era davanti alla porta.»
«Non è stata affrancata» e le mostrai la busta.
«Immagino che sia una lettera di un fan portata a mano.»
«Non è stata consegnata nelle mie mani o in quelle di altri. Dunque, considerato che è stata lasciata lì, suppongo non sia niente di buono.»
«Magari la persona che l'ha scritta è timida...»
«Spero che tu abbia ragione. Una lettera di un fan non mi dispiacerebbe.»
Diede un colpetto alle lettere e al plico che mi aveva messo sulla scrivania. «Questa roba è tutta per te. Quanto a me, sono fortunata se mi arriva qualcosa che non sia la bolletta dell'acqua. Ovviamente, la spiegazione potrebbe risiedere nel fatto che non sono una giornalista.»
«Verrà il tuo momento...»
«Lo dicono tutti.»
Belinda si girò dall'altra parte e fece per andarsene.
«Belinda?»
Si fermò e si voltò di nuovo dalla mia parte. «Forse, uno di questi giorni potremmo andarci a bere un caffè dopo l'orario di lavoro. Se proprio vogliamo esagerare, una Diet Coke?»
Mi rivolse un sorriso lento, luccicante di apparecchio. «Ci penserò.»
«Solo una chiacchieratina. Niente di impegnativo.»
«Suppongo che si possa fare.»
«Presto, allora?»
Mi sorrise di nuovo. Quel suo sorriso, griglia compresa, iniziava davvero a piacermi. «D'accordo.» disse.
«Ottimo. Allora ci penseremo quand'è il momento.»
«Certo. A ogni buon conto, mi piacciono i tuoi capelli. Sono un po' lunghini, però mi piacciono.»
Una volta tornata al suo posto, provai una discreta soddisfazione per come mi ero comportato. E bravo il vecchio Cason, pensai. Stai facendo dei progressi. O, quanto meno, ci stai provando.
Mi accinsi ad aprire la posta, cominciando con il plico della FedEx. Al suo interno, c'era un DVD in una confezione di plastica. C'era anche un biglietto scritto con un pennarello nero su un cartoncino. Diceva: GODITI LO SPETTACOLO.
Studiai nuovamente il plico, ma non mi venne in mente nulla. Chiunque si sarebbe potuto procurare una busta della FedEx. Non bisognava far altro che passare accanto a uno di quei contenitori che le distribuiscono. Rilessi il messaggio, ma non mi diceva niente di diverso.
Mi sedetti e cercai di lavorare per un po', ma quel DVD sulla scrivania mi preoccupava, invocando il mio nome come una sirena. Pensai che dovesse essere propaganda cristiana speditami a causa del mio pezzo sull'arca di Noè o sulla ricerca sulle cellule staminali. Alla fine, lo presi e me ne andai.

13

Mi ero da poco procurato uno scanner della polizia da installare sulla mia macchina e avevo preso in affitto un appartamento a poca distanza da mamma e papà. Vivevo nell'abbondanza, anche se l'abbondanza per me è molto meno di quel che è per molte altre persone. Ci andavo in macchina senza dover passare accanto all'ambulatorio di Gabby. Il fatto che non dovessi passarci mi infastidì solo per quindici minuti.
Abitavo al piano terra di una bifamiliare. Niente di particolarmente carino o elegante. Solo economico. Spinsi la porta panciuta ed entrai. Puzzava come se un ratto fosse morto dentro le pareti; quell'odore lo aveva trattenuto per tutta la prima settimana in cui ci avevo vissuto. Il mattino era il momento in cui era meno forte, ma man mano che il giorno avanzava, facendosi più caldo, il signor Ratto Morto - per lo meno era quello che io ero convinto che fosse - si scaldava nelle pareti, emanando un fetore in grado di prenderti per il bavero e di sbatterti contro la porta. Mi venne in mente una storia di Mark Twain a proposito di una forma di formaggio così puzzolente da farle ottenere una promozione militare. Stessa cosa con il mio ratto morto. La mattina era un soldato semplice, ma nel pomeriggio l'avevo promosso al grado di generale. In quel momento, l'odore era quasi arrivato a quel livello, più o meno al grado di capitano.
Misi il DVD nel lettore e accesi il piccolo televisore, poi mi accomodai su una comoda poltrona da cui spuntava solo una piccola porzione dell'imbottitura. Inizialmente, pensai che il DVD fosse vuoto, ma poi, d'un tratto, prese vita, crepitando. E a quel punto, mi ritrovai il cuore in gola. Apparvero due persone. Nude. Una di loro, la donna, la riconobbi immediatamente. Era Caroline Allison. Su un letto. Sembrava una star dei film. Una pornostar. Le sue gambe brune e slanciate si muovevano voluttuosamente sulla schiena dell'uomo, con i talloni che gli massaggiavano i glutei. Il volto dell'uomo era girato dall'altra parte. Si sollevò, sorreggendosi con le mani sopra di lei in maniera da poter dimenare il bacino, e fu solo allora che riuscii a scorgerlo in faccia. Non avevo bisogno di vedere altro.
Mi alzai dalla poltrona senza nemmeno accorgermene. L'odore di ratto morto mi riempì le narici. Mi girava la testa. Il mio stomaco si strinse come un pugno. Girai intorno alla poltrona, diedi un'occhiata alla televisione, osservai quell'uomo che si muoveva delicatamente e sistemava la donna in una posizione diversa.
A quel punto lo vidi meglio in viso. Molto più di quanto avrei voluto vedere. Non potevano esserci dubbi.
Mi sembrava di non riuscire a deglutire. Di non poter respirare.
L'uomo che stava facendo l'amore con Caroline Allison era mio fratello Jimmy.

Feci per spegnere il DVD, ma non ci riuscii. Girai intorno alla poltrona e rivolsi delle rapide occhiate al televisore. Quando il DVD finì e lo schermo si fece nero, restai fermo dov'ero, con le mani sullo schienale della poltrona, proteso in avanti, lo sguardo fisso sullo schermo scuro, come in attesa di una rivelazione.
Mi andai a sedere in poltrona per qualche istante. Alla fine, raccolsi le forze sufficienti per alzarmi, spegnere il televisore e tirare fuori il DVD. Lo rimisi meccanicamente nell'astuccio, lo presi e lo infilai tra due libri, Tutti gli uomini del presidente e Le verità negate. Andai in cucina, tirai fuori una bottiglia di caffè dal frigorifero e la bevvi. Poteva essere l'ambrosia degli dei o lisciva: e non mi sarei accorto della differenza.
Presi il plico della FedEx e lo gettai nella spazzatura. Rilessi il biglietto e poi lo misi tra i due libri, insieme al DVD.
Mi sfilai il cellulare dalla tasca e chiamai Jimmy. Non rispose. Probabilmente stava tenendo una lezione o era impegnato a ricevere degli studenti. Feci un respiro profondo e uscii, salii in macchina e mi aggirai per il paese, prima di approdare al punto dove praticamente finiva. Mi diressi verso la collina in cui sorgeva la vecchia casa delle Siegel. La collina era punteggiato da pini malfermi e tutt'intorno l'erba era del colore della carta vetrata, anche se davanti alla casa e ai lati c'era una fitta coltre di kudzu rampicante che serpeggiava verso l'alto in volute e spire culminanti in un enorme ciuffo verde smeraldo.
Guidai fino alla vecchia strada sterrata che conduceva dietro la casa. Era più stretta di quanto ricordassi. Forse, l'erba era cresciuta abbondantemente su entrambi i lati della strada. Forse era il solito problema che incontri quando te ne stai lontano da casa a lungo e, nei tuoi ricordi, tutto è più grande e più ampio e più profondo e più bello. Come un amore finito.
Mi inerpicai su per la strada e la macchina finì dentro qualche bel buco creato dalle piogge, scorrazzai fino alla sommità della collina e parcheggiai dietro la casa rivestita di rampicanti, su un'altura ricoperta di ghiaia in cui il kudzu non era riuscito a trovare un appiglio. Ma sul retro della casa i rampicanti c'erano, eccome. Crescevano sui muri esterni, coprendo parte dell'ingresso posteriore e tutte le finestre a eccezione di qualche raro barlume di vetro.
Restai seduto lì a lungo e pensai a Jimmy e a Trixie. Avevo sempre pensato che fossero una coppia perfetta. Mi domandai cosa diavolo avesse avuto in mente Jimmy. Be', quello che aveva avuto in mente lo sapevo benissimo. Ma perché mai aveva lasciato che avesse la meglio su di lui? Lasciare che avesse la meglio era più congeniale a me. Ero io quello che faceva le sciocchezze, non Jimmy. Ecco perché era così nervoso la sera in cui gli avevo parlato di Caroline. Ecco perché aveva voluto cambiare argomento.
Dio mio, pensai. Impossibile che lui avesse a che fare con la sua sparizione. Impossibile, ecco tutto. Jimmy non era quel tipo di persona. Non era nelle sue corde. Ma da dove era arrivato il DVD? Perché mi era stato recapitato? E da chi? E Jimmy aveva saputo che qualcuno li stava riprendendo?
Una montagna di domande mi si riversò addosso, ma non mi venne fornito uno straccio di risposta.
Rimasi seduto sulla sommità della collina con il finestrino abbassato e l'aria calda immobile. Avviai il motore, tirai su il finestrino, accesi il condizionatore al massimo e poi restai seduto un altro po'. Dopodiché, innestai la marcia e mi lasciai trasportare giù dalla collina finché non raggiunsi la strada. Passai lentamente accanto alla vecchia stazione ferroviaria, come se la macchina di Caroline potesse essere ancora parcheggiata lì e le forze dell'ordine non avessero tenuto conto che era uscita solo a farsi una passeggiata, che ben presto sarebbe ricomparsa, si sarebbe mangiata la sua cena acquistata al fast-food, si sarebbe rimessa le scarpe, per poi allontanarsi in macchina.

Scorrazzai nuovamente per il paese, andai alla stazione di polizia e mi feci dare un permesso per posteggiare nella zona del campus, dopodiché procedetti fino a un parcheggio situato dietro il dipartimento di storia. Chiusi la macchina e mi incamminai fino all'edificio in cui era ospitato il dipartimento, e osservai la grande torre nuova dell'orologio. Si vedeva ciò che stava dietro il grande quadrante tondo dell'orologio. Si vedevano gli ingranaggi tondi, frastagliati e dentellati, ora in tinta argento e non più oro, poiché era cambiata la luce. Le lancette scure dell'orologio erano sulla parte esterna della vetrata. Segnavano l'ora sbagliata.
Entrai nell'edificio e salii in ascensore al terzo piano. Una volta uscito, i corridoi erano avvolti nel silenzio, eccezion fatta per un bidello che spingeva un carrello della spazzatura. Le lezioni estive non sono affollate quanto quelle primaverili o autunnali, e così in quel periodo dell'anno non c'è movimento. Il carrello stridette nel corridoio, dirigendosi verso di me. Il bidello alzò gli occhi: era bianco, indossava una tutta da lavoro grigia, aveva i capelli corti e l'espressione di uno a cui fosse stato appena schiaffato qualcosa di duro nel culo. Gli rivolsi un cenno. Il cenno di un duro che ti vuol dire: ciao, ti ho visto. Lui non mi restituì il cenno. Procedette col suo rumore stridente.
Non sapevo se Jimmy stesse facendo lezione oppure se fosse nel suo ufficio. Forse si era chiuso lì dentro con un'altra studentessa e stava facendo con lei ciò che aveva fatto con Caroline. Chissà, magari stava filmando il tutto...
C'erano due corridoi con una serie di uffici su entrambi i lati: avanzai guardando le targhe coi nomi accanto alle porte, cercando di trovare quello di Jimmy.
Un uomo con un naso simile a un cetriolo rosa, la barba e quattro capelli in croce appiccicati sul cocuzzolo della testa era seduto in un ufficio con la porta aperta. Dietro di lui, fuori dalla finestra, vidi la piazza dell'università e, più avanti, il garage che fungeva da parcheggio.
Mi presentai e Naso a Cetriolo mi disse di chiamarsi Thomas Burke. Gli chiesi di Jimmy e lui mi disse dove trovarlo. Ci andai. L'ufficio era due porte dopo quello di Burke. Era chiuso a chiave. Sulla parete, accanto alla porta, c'era un orario, ma ero così agitato che non ci capii un'acca. Poteva tranquillamente essere scritto in sanscrito, per come funzionava la mia testa.
«Cason» mi sentii chiamare.
Mi voltai. Era Jimmy. Aveva una pila di libri sotto il braccio e mi stava venendo incontro, tutto sorridente. Quando vide l'espressione del mio viso, smise di sorridere e domandò: «Mamma e papà stanno bene?»
Annuii.
«Trixie...»
Annuii di nuovo. «Fratello. Dobbiamo parlare.»
Jimmy aprì la porta del suo ufficio ed entrammo. Posò la pila di libri sulla scrivania, si voltò dalla mia parte e mi guardò.
«Dalla faccia, si direbbe che il tuo cane si sia suicidato.»
«A dir la verità, credo solo che mio fratello si sia inchiappettato da solo.»
Mi rivolse uno sguardo perplesso. Non riuscii a sostenerlo. Girai la testa, in direzione della finestra, e diedi un'occhiata alla piazza, al garage e all'orologio che segnava l'ora sbagliata da una nuova angolatura. Mi ci avvicinai, per vedere meglio. Era una finestra antiquata che si apriva a scatto. Faceva parte dell'edificio originale, costruito negli anni Trenta, quando quell'università era ancora esclusivamente riservata alla formazione di insegnanti donne. Avevo voglia di aprirla e di inalare un po' di quell'aria calda esterna. Qualunque cosa, pur di schiarirmi la mente.
«L'orologio...» mi fece Jimmy. «Lo regoleranno domani.»
Lo aveva detto tanto per dire qualcosa, tanto per invitarmi a parlare. «Credo che esistano posti migliori di questo per discutere.»
«Non capisco.»
«Fidati. Non appena avremo fatto due chiacchiere, impiegherai dannatamente poco a schiarirti le idee.»

14

Per quel giorno, Jimmy non aveva altre lezioni, dunque ci avviammo alla mia automobile. Ci dirigemmo verso la statale sette e, subito dopo, ci immettemmo su una strada lunga e tortuosa che un tempo, molte lune prima, era stata un'arteria principale. Il sole stava sprofondando tra le piante e somigliava a un prugna rossa spellata che stesse sgretolandosi. Uno stormo di merli si spostò da un albero all'altro, spaventato dal rumore della mia macchina. Si mossero in formazione, secondo uno schema così compatto ed elegante da farli sembrare una nube di greggio sospinta dal vento. Alla fine ne ebbero abbastanza e si separarono sulle piante, volteggiando verso la sfera del sole morente, lentiggini nere su una faccia rosso fuoco. Jimmy rimase seduto in silenzio, con la testa leggermente inclinata dalla mia parte. Si capiva che era nervoso. Avrei voluto tranquillizzarlo, ma non avevo ancora trovato un modo per dirgli quello che volevo, e una parte di me, quella incazzata, desiderava vederlo sulle spine. Alla fine, mi decisi: «Jimmy, parlami di Caroline Allison.»
«Che cosa?»
«Mi hai sentito.»
«Ti ho sentito, ma non so dove vuoi andare a parare.»
«Altroché se lo sai. L'espressione del tuo viso mi dice che sai perfettamente dove intendo andare a parare.»
«No... no, non lo so. Cos'è che non va, Cason?»
«Piantala con le stronzate.»
«Non so cosa tu intenda.»
Senza quasi accorgermene, pigiai un po' sull'acceleratore. Mollai una scoreggia.
«Oggi ho ricevuto una cosa con la posta» dissi. «Una cosa curiosa. Un DVD.»
«Oh!»
Gli rivolsi un'occhiata. Lo sconforto si era dipinto sulla sua faccia, che era sbiancata e in quell'istante si sarebbe detto che avesse sessant'anni invece di trenta.
«Hai capito, vero?»
Ebbe una lieve esitazione. «Ne ho ricevuto uno ieri anch'io.»
«E l'hai guardato?»
Jimmy annuì.
Giunsi in prossimità di un'area di sosta e, senza nemmeno pensarci, mi ci infilai dentro e parcheggiai la macchina all'ombra di alcune piante, tirai giù i finestrini con i comandi elettrici e spensi il motore.
«La vogliamo finire con le stronzate?»
Jimmy annuì. «Okay.»
«Perché?» chiesi.
«Perché cosa?»
«Perché voi due?»
Inspirò una boccata d'aria e poi la fece uscire pesantemente. «L'hai vista anche tu. Era una dea.»
«È vero. Era di bell'aspetto? E tu saresti stato disposto a gettare via tutto quanto ti eri conquistato, il tuo matrimonio, tua moglie, per una che era di bell'aspetto? Trixie non è un rospo... E poi, da qualche parte, c'è sempre qualcuno di più bell'aspetto. Voglio dire, Cristo santo, è così che ragioni? Trixie è una ragazza molto sveglia e leale ed è tutto ciò che una donna dovrebbe essere.»
«Lo pensi davvero?»
«Vaffanculo, Jimmy. Sai bene che è vero.»
«Non fare l'ipocrita. Anche tu hai avuto una storia con una donna sposata. Per non parlare di sua figlia. Una cosa dannatamente stramba, non trovi?»
«Sono io l'idiota della famiglia. Non tu. Sono io quello che manda tutto a puttane, tu invece fai sempre le cose per bene, ed è sempre stato così ed è così che dovrebbe continuare a essere. Stai incasinando il mio concetto di universo e la cosa non piace per niente, porca puttana!»
Jimmy annuì. «Sembra proprio che ora sia io a competere per il titolo di buono a nulla.»
«Be', certo che la cintura di campione ora la porti tu, fratello. Non ci sono dubbi in proposito.»
Jimmy rimase seduto per un po', espirando con forza, scuotendo la testa, cercando di riorganizzare le idee.
«Trixie lo sa?» chiesi.
«Certo che no. Se lo sapesse, ora tu staresti conversando con un mucchietto di terra e una pietra tombale.»
«Qualcun altro lo sa?»
«È ovvio, ma non so chi sia.»
«C'è qualcuno di tua conoscenza che abbia anche la minima idea della relazione fra te e Caroline?»
«Non penso. Ovviamente, chiunque abbia spedito quel DVD potrebbe averlo detto ad altri. Sei stato tu a rimestare questa storia, sai. Tu e quel tuo pezzo. Se non avessi tirato in ballo quella storia...»
«Jimmy! Sei impazzito del tutto? Qualcuno lo sapeva da molto tempo. È possibile che il mio pezzo abbia irritato questo qualcuno, ma ho come l'impressione che questo qualcuno non aspettasse altro.»
«Da sei mesi?»
«Già. Forse non hanno dovuto attendere. Forse quel DVD gli è capitato fra le mani. Non lo so. Forse a irritarli è stato il mio pezzo. Ma, prima o poi, qualcosa li avrebbe comunque indirizzati dalla parte giusta. Una cosa come quella ha vita lunga, Jimmy. Cazzo, per quel che ne sappiamo, potrebbe essere su internet.»
«Cristo» sbottò Jimmy.
«Sapevi che vi stavano filmando?»
«No.»
«E come può essere successo?»
«Con una telecamera nascosta, immagino. Abbiamo fatto l'amore diverse volte in quel posto e dunque non mi era mai neanche passato per la mente che lei stesse filmando tutto. O, magari, è stato qualcun altro a sistemare la telecamera. Non lo so. Allora mi era sembrata una cosa innocente. Me la stavo solo... spassando. Quando stavo con Caroline mi sentivo speciale. Stavo bene. In un certo senso, mi dominava.»
«Basta con le cazzate. Mi vieni a parlare di dominio? Ti dominava? Che razza di stronzata è?»
«È vero. Facevo tutto ciò che voleva lei. Le piaceva sperimentare, e anche a me piaceva.»
«Non venirmi a dire che faceva delle cose che Trixie non avrebbe potuto fare.»
Jimmy arrossì. «Era il modo in cui le faceva... Credo proprio di aver perso la testa.»
«Credo proprio che tu ci abbia messo del tuo, fratello...»
«Sì, hai ragione. In quei giorni, poche settimane prima della scomparsa di Caroline, stavo meditando di lasciare Trixie. Fra noi c'era qualche problema. Niente di trascendentale. Stavamo solo attraversando quella fase in cui una relazione passa da un idillio a qualcosa di più solido. Ma l'idillio a me mancava. Non ero abbastanza maturo per capire cosa stava succedendo.»
«E nel giro di pochi mesi sei maturato?»
«Non lo so. Forse mi ero solo preso una sbandata per Caroline. Tutto qui. Con lei, ho ritrovato l'idillio.»
«Quello che hai trovato è stato solo un po' di passera. Non insultare Trixie, facendo finta che quello che avevi trovato era un idillio. Cristo, Jimmy!»
«Quando me ne stavo a casa con Trixie, be', non era poi tanto male, però non era... eccitante. Tuttavia, non riuscivo a immaginare di stare senza di lei.»
«Però non riuscivi nemmeno a lasciar perdere Caroline.»
«Già. E la sai una cosa? Devo rimangiarmi la parola. Non mi ero solo preso una sbandata. Non era solo una questione di sesso. Ero innamorato di due donne diverse, due donne che mi davano cose diverse.»
«Mi deludi, Jimmy. Sono le solite cazzate ritrite sulla botte piena e la moglie ubriaca.»
«Lo so. Però è vero.»
«Dov'è stato filmato il DVD?»
«Nel suo appartamento.»
Mi piegai in avanti e appoggiai gli avambracci sul volante. Sembrava un sogno.
«Cristo, Jimmy!»
«Lo so. Non avevo intenzione che succedesse. Tutti i ragazzi e probabilmente metà delle donne del dipartimento, persino le donne che erano gelose di lei, si erano presi una cotta per Caroline. Frequentava un paio dei miei corsi. Si fermava nel mio ufficio, chiacchieravamo di storia, poi le chiacchiere si spostavano su altre cose e poi ci bevevamo un caffè. Non passò molto che... non riuscii più a trattenermi. La sua pelle... bastava solo sfiorarla. Cason, aveva la pelle più morbida, più calda e più liscia che avessi mai toccato. Quando Caroline mi ebbe fatto capire che le interessavo, mi sentii un po' come un treno impegnato ad affrontare una discesa ripida. Mi rendevo conto che i binari stavano finendo e che il ponte non c'era più, però seguitavo a buttare altro carbone sul fuoco.»
«Non credo che i treni usino ancora il carbone. Anzi, lo so con certezza.»
«Non sono in vena di battute, Cason.»
«Sto solo cercando di alleggerire un po' il tono.»
«Non farlo.»
«Hai ricevuto un biglietto insieme al DVD?»
«Sì.»
«C'era scritto qualcosa come: 'goditi lo spettacolo'?»
«No. C'era scritto: 'se non vuoi che qualcun altro lo guardi, attendi istruzioni.'»
«Proprio quello che temevo.»
«Un ricatto?»
«Ovvio.»
«E perché mandarne una copia anche a te?»
«Suppongo volessero farti sapere che di copie ce n'erano altre in giro e che erano pronti a far trapelare la faccenda. Devono aver pensato che, con ogni probabilità, tuo fratello ti avrebbe dato una mano, che ti avrebbe aiutato a trovare i soldi. Cazzo, non devono far altro che metterlo nel computer e spedirlo per posta elettronica, metterlo su internet. Basta schiacciare un tasto.»
«Devi aiutarmi, Cason.»
«Non so bene cosa fare. Non sei tu quello intelligente tra noi due?»
«Hai delle conoscenze. Sei un giornalista. Puoi parlare con gente con la quale io non ho a che fare. Se mi metto a parlare, nel volgere di poco salterà fuori che ho avuto una relazione con Caroline. Se succede, perdo il posto di lavoro e il mio matrimonio va a monte. Non voglio che succeda, Cason. Forse me lo merito, ma non voglio che succeda.»
Tolsi le mani dal volante e mi spostai sul sedile. Dal parabrezza, vidi un uccello rosso che saltellava da un ramo all'altro di una pianta. Dall'inclinazione della luce del sole che lo irradiava, si sarebbe detto che quell'uccello stesse assumendo una colorazione scura, trasformandosi in tutt'altro uccello.
«Ho una domanda da farti, Jimmy, e dovrai essere sincero con me. Niente cazzate. Neanche l'ombra.»
«Spara.»
«Non vorrei chiedertelo, ma devo farlo. Non sei stato tu a... Non sai cos'è successo a Caroline, vero?»
«Vuoi dire se l'ho ammazzata? Cristo santo. Mi conosci sufficientemente bene per escludere una cosa del genere. No, certo che no. Sei pazzo?»
«È una faccenda davvero strana, Jimmy. Una faccenda atipica. Ho dovuto chiedertelo. In questo mondo ci sono stato abbastanza a lungo da sapere che di cose brutte ne succedono.»
«No. Cento volte no. Come puoi farmi una domanda del genere?»
«D'accordo. Te l'ho fatta e basta. Fine della storia. Hai idea di cosa possa esserle successo?»
Scosse la testa. «Quella sera ci saremmo dovuti vedere. Vicino alla casa delle Siegel, presso la vecchia stazione abbandonata dei treni. Stava preparando un elaborato sulla storia di quella casa. Sulle sorelle, sai? Era convinta di poterne trarre qualche spunto interessante, magari qualcosa da modificare in seguito e vendere a qualche testata. Era il tipo di persona che giocava d'anticipo. Un cervello molto metodico. Quando le davi qualcosa da leggere per compito, ti sapeva ripetere parola per parola ciò che l'autore del libro aveva detto. Era un po' meno brava a esporre le sue opinioni.»
«Però voi due non dovevate incontrarvi là per discutere del suo articolo, giusto?»
«No. Per lo meno, non penso. Andai là e trovai la sua automobile, ma lei non c'era. Aveva comprato qualcosa da mangiare per tutti e due. In un Taco Bell o in qualche altro posto da hamburger. Non ricordo.»
«A me non sembra un gran posto per un incontro di sesso.»
«Dovevamo parlare. Speravo che, come sempre, dopo un po' entrasse in gioco il sesso. Ma mi disse che voleva parlarmi di alcune cose. Quando fui lì, lei era sparita. La cercai dappertutto, addirittura salii in macchina fin sul retro della casa delle Siegel, scesi e diedi un'occhiata in giro. Non la trovai. Se avessi chiamato qualcuno con il cellulare, temevo avrebbero capito che noi due eravamo più che una semplice studentessa e il suo professore. Se effettivamente avessi fatto quella chiamata e lei fosse saltata fuori, noi due ci saremmo potuti inventare una storia: lei doveva preparare un elaborato su quella casa e mi aveva chiesto di venire fin lì a vederla, da insegnante, ovviamente. Ma mi parve una versione troppo rischiosa e poco convincente. Così, me ne andai. Inizialmente, non avevo neanche pensato che le fosse successo qualcosa. Era un fatto strano e io ero piuttosto preoccupato. Ma è difficile pensare che qualcosa del genere possa realmente accadere a una persona che conosci. Mi feci prendere dal panico. Vagai in macchina per un po'. Tornai indietro, ma la situazione non era cambiata: lei non c'era. Fu allora che cominciai ad avere paura. Continuavo a non voler usare il cellulare, ma decisi che dovevo fare qualcosa, per cui mi fermai a una cabina telefonica, chiamai la polizia, dissi che c'era una macchina parcheggiata in un posto in cui non doveva stare e che, per giunta, era lì da diverso tempo. Nient'altro. Tornai a casa. Gli sbirri andarono a controllare e il giorno successivo scoprii che era realmente scomparsa.»
«E non hai mai detto niente?»
Jimmy scosse la testa. «No. Mi sono comportato da vero codardo. Speravo che ricomparisse, ovviamente. Ma, a quel punto, avevo capito di essermi comportato da vero idiota. Se fosse ricomparsa, ne sarei stato felice, ma avrei messo la parola fine a quella storia. Non intendevo rovinarmi la vita. Man mano che passava il tempo, pensai di essere al sicuro. Mi convinsi che a Caroline doveva essere successo qualcosa di orribile, ma che non sarebbe stato di nessun aiuto far sapere della nostra relazione. Avrebbe finito solo per nuocermi. Per nuocere al mio matrimonio, che stava ricominciando ad andare bene, e alla mia carriera, che stava procedendo ottimamente. E, oltre tutto, non avevo la minima idea di cosa potesse esserle successo.»
«E ora ce l'hai un'idea, qualsiasi idea, di cosa possa esserle successo?»
«Me l'hai già chiesto.»
«E te lo sto chiedendo di nuovo. Pensaci.»
Jimmy scosse la testa. «No. Il giorno seguente, mi recai al suo appartamento. Avevo le chiavi. Usai i guanti, per non lasciare impronte digitali. Ci andai per controllare che non fosse lì. Questo prima di apprendere, quello stesso giorno, che era stata dichiarata ufficialmente scomparsa. Ovviamente, non c'era. L'appartamento era sottosopra. Qualcuno l'aveva perquisito. Pensai fosse stata la polizia. Ma non lo so con certezza. Sul giornale, non è stato scritto nulla su un'eventuale perquisizione dell'appartamento.»
«Potrebbe semplicemente trattarsi di cattivo giornalismo,» replicai «oppure la polizia non ne ha fatto menzione. Magari, di proposito. Qualcuno ti ha visto?»
«Ho fatto attenzione. Non penso.»
«Sapresti dire se mancava qualcosa?»
«No. Ma potrebbero essere sparite parecchie cose e io non me ne sarei comunque accorto. C'era roba sparpagliata da tutte le parti.»
«Presumo che, a questo punto, sia stato portato via tutto quello che c'era.»
«Già. L'appartamento è stato affittato. Non pensare che non ci sia passato accanto, magari nella speranza che si ripresentasse. Non so...»
«Che ne è stato della sua roba?»
«Non lo so. Davvero.»
«Aveva un'amica, una certa Ronnie. Lo sapevi?»
«Sapevo solo che avevano vissuto insieme per un po' ma poi Caroline aveva deciso di avere un appartamento tutto suo.»
«D'accordo. E poi?»
«Tornai a casa. Mi sbarazzai del suo numero. Di qualunque appunto avesse a che fare con lei. Ero ancora convinto che potesse ricomparire. Ma i giorni lasciarono il posto alle settimane, ai mesi. Ero dispiaciuto per lei. Ma iniziai a pensare di averla scampata bella. E poi, me ne hai parlato tu l'altra sera. E poi hai scritto l'articolo. Adesso arriva il DVD. Hai fatto incazzare il suo sequestratore. Il suo assassino, con ogni probabilità. E ora lui vuole che io paghi il suo silenzio. Il mio pensiero fisso non è solo perché qualcuno mi sta ricattando: chiunque sia stato a mandarci il DVD, deve essere anche l'assassino, oppure deve sapere chi è stato.»
«Ma per tutto questo tempo, dov'è stato il DVD?»
«Non ne ho idea.»
Restai seduto per un istante, stringendo la presa sul volante, tanto per potermi aggrappare a qualcosa. «Per ora, non dire niente sulla tua relazione con Caroline. Però, Jimmy, potrebbe venire il giorno in cui dovrai raccontare la verità e lasciare che succeda l'inevitabile. Tutto il tempo trascorso e quel DVD ti mettono sotto una cattiva luce.»
«Diamine, lo so.»
«Ce l'hai ancora quel DVD?»
«L'ho nascosto.»
«Voglio che tu faccia di meglio: distruggilo. Una copia ce l'ho io e il ricattatore ne ha un'altra. Non sappiamo se ce ne sono ancora in giro, ma non facilitiamogli le cose lasciandone un'altra a casa tua. Trixie potrebbe trovarla.»
«Se gli sbirri scoprono che l'avevo io, non sarà come aver cancellato una prova?»
«Speriamo che non lo scoprano. Quanto a me, mi terrò stretta la mia per un po', nel caso salti fuori.»
«D'accordo. Me ne sbarazzerò.»
«Vai a casa e rifletti un po' sulle risposte che mi hai dato. Pensa se per caso c'è qualcosa che ti è venuta in mente quando quella roba ti si è piantata sullo stomaco, qualcosa che magari avevi accantonato, non ritenendola importante. Se spunta fuori qualcosa, fammelo sapere. Nel frattempo, resta in attesa del ricattatore. Il DVD ti è stato recapitato per posta?»
«No. Era in un pacchetto infilato nella mia cassetta della posta all'università.»
«Niente timbri, dunque?»
«Esatto. Riceviamo la posta con un timbro postale, ma non ce n'era nessuno su quel pacchetto.»
«E sul mio nemmeno. Mi attendeva alla sede del giornale. Può entrarci chiunque al dipartimento di storia?»
«Sì. Voglio dire, è facile. L'hai fatto anche tu oggi stesso. Devi solo prendere l'ascensore e salire. In quel posto sono talmente tante le persone che entrano ed escono che deve essere stato facile lasciarlo. È possibile che l'abbiano fatto entrare insieme alla posta e poi a consegnarlo sia stato qualcuno dell'ufficio. In genere, è la segretaria dell'ufficio a occuparsene.»
«Conosceva Caroline?»
«È nuova. Ha una cinquantina d'anni, tre figli e un marito e ci fa sempre vedere le fotografie della sua famiglia e di un cagnolino marrone. Non ha niente a che fare con questa scomparsa.»
«Mi sto aggrappando a qualunque cosa.»
Avviai la macchina e uscii dall'area di sosta, dirigendomi nuovamente verso il paese. Quando giunsi nei pressi dell'università, Jimmy disse, «Grazie, Cason.»
«Farò tutto il possibile, Jimmy. Però, tu continua a dirmi le cose come stanno. Aggiungerò solo questo. Ti ho detto di distruggere il DVD. Però, puoi anche andare dalla polizia a raccontare tutto e a consegnarglielo. Ci sono buone possibilità che salti fuori comunque. Se questo tizio si mette a ricattarti, non ci sono garanzie che smetta di farlo persino dopo averlo pagato.»
«Sono un insegnante di storia. Non ho molti soldi.»
«Forse la pensano diversamente, in considerazione dell'Hummer...»
«È usato.»
«Ma loro non lo sanno e dubito che alla persona che sta facendo tutto questo gliene freghi molto. Quella persona vuole tutto quello che riuscirà a ottenere. E una volta che ti avranno dissanguato per bene, potrebbero decidere comunque di tirar fuori il DVD. Se è anche l'assassino, potrebbe decidere di addossare la colpa su di te. In tal modo, otterrà i soldi e la farà pure franca. Un gioco da ragazzi. In tal senso, mi sembri davvero maturo, pronto a essere colto...»
Jimmy rimase seduto con la mano sulla maniglia della portiera. «Non posso farlo, Cason. Non posso deludere Trixie. Le cose stanno andando bene. Non ho nessuna intenzione di perderla. Sai cosa provo. Pensa a Gabby. A come ti senti ad averla persa.»
«Non farlo, Jimmy.»
«Non voglio che succeda anche a me e a Trixie.»
«Questo è un colpo basso, amico.»
«Non intendo far leva sul tuo senso di solidarietà.»
«Un cazzo!»
«Sono disperato.»
«D'accordo» lo rassicurai. «Stammi a sentire. Distruggi il DVD: partiremo da lì.»
Jimmy aprì la portiera e scese, ma prima di richiuderla, infilò la testa dentro e mi chiese: «Sei con me, fratello? Voglio dire, siamo d'accordo?»
Lo guardai. Sembrava realmente spaventato.
«Certo. Sei una testa di cazzo, ma sono con te.»

15

La mattina seguente, tornai al giornale e mi sedetti alla scrivania, cercando di concentrarmi sul da farsi. Ci avevo pensato tutta la notte, ma nulla di ciò che mi era venuto in mente era parso una buona idea e, adesso che faceva giorno, non ne sapevo più di prima. Il sole non splende ogni giorno sulle palle dello stesso cane, ma certo avevo la sensazione che la luce del sole, per quanto mi riguardava, si fosse fatta attendere fin troppo.
Riuscivo solo a pensare che, per una volta, questa situazione non me l'ero andata a cercare io. Arrivai addirittura a pensare che fosse un problema di Jimmy, non mio, e che avrei fatto bene a non curarmi di nulla e a lasciarlo alle prese con quell'inghippo. Ma non ce la feci. Mi aveva deluso, ma restava pur sempre mio fratello e io gli volevo bene. Se fosse saltato fuori che si era portato a letto una studentessa scomparsa da mesi, non sarebbero stati solo Jimmy e Trixie a subirne le conseguenze, ma ci sarebbero andati di mezzo anche mamma e papà. Scoprire che il loro figlio prediletto era coinvolto in un casino così sordido li avrebbe ammazzati.
Ma che fare?
Pensai a quello che Jimmy aveva detto. Aveva ragione. Potevo contattare persone a cui lui non si sarebbe potuto rivolgere. In qualità di giornalista, per quanto di provincia, avevo accesso a persone e posti inaccessibili ad altri.
Un altro articolo. Ecco cos'avrei fatto. Avrei scritto un altro articolo su Caroline Allison e, per poterlo fare, avrei dovuto condurre delle ricerche e parlare con alcune persone. Avevo la cartella del caso Allison sulla scrivania e le relative informazioni nel computer, dunque era tutto a portata di mano. Nessuno aveva motivo di sospettare che stessi facendo qualcosa di più del mio lavoro.
Tirai fuori dal cassetto la carpetta a fisarmonica e la consultai approfonditamente, appuntandomi una lista di nomi e idee su un blocco giallo, poi passai in rassegna il file sul computer e feci la stessa cosa.
Una lista breve.
Comprendeva il capo della polizia e quella ragazza, Ronnie Fisher. Pensai che la stazione di polizia rappresentasse il posto giusto da cui cominciare.
Chiamai e mi dissero che il comandante c'era, così ci andai.

Si chiamava Lanagan e mi accompagnarono da lui. Era un omone dai capelli bianchi, il volto giovanile e dalla carnagione che si sarebbe detto fosse stata gonfiata a forza di Kool-Aid alla fragola. Mi presentai e lui disse una cosa ovvia: «Dunque, lei è un cronista del giornale?»
Confermai. Lui si passò una mano tra i fitti capelli bianchi e mi indicò una sedia, controllò l'orologio per farmi capire quant'era occupato e poi si sedette dietro la scrivania.
«Mi stia a sentire. Non posso concederle molto tempo. Oggi devo tenere un discorso al Rotary Club...»
«D'accordo. Sto preparando l'aggiornamento di un pezzo che ho scritto sul caso di Caroline Allison.»
«L'ha scritto lei? L'ho letto. Un bell'articolo.»
«Grazie. Ho già chiesto se c'erano delle novità sul caso, dunque la risposta la conosco già, ma mi stavo chiedendo se non fosse subentrato qualcosa di speciale sull'indagine di cui lei poteva parlarmi. Qualcosa che mi consentisse di approfondire il mio articolo, in modo da poterne scrivere un secondo. Che ne so, un test del DNA o qualcosa del genere...»
Mi stavo attaccando a quel poco che avevo, ma lo stavo facendo nel tentativo di stabilire un legame, qualsiasi legame che potesse portarmi da qualche parte, qualsiasi cosa che mi potesse dire se esistevano delle connessioni con Jimmy, e persino se la polizia ne fosse a conoscenza.
Lanagan si appoggiò allo schienale della poltrona e mise le mani dietro la testa, puntando leggermente lo sguardo verso l'alto, con un'espressione pensierosa. Non aveva fretta di rispondere. Gli piaceva la posa che aveva assunto e gli piaceva essere osservato da me in quella posa.
«Sa... al tempo io non ero qui. C'era un altro comandante.»
«Me ne rendo conto.»
«Ho avuto questo incarico cinque mesi fa. Mi sono trasferito fin qui dal Michigan. Lassù, ho fatto un po' di gavetta. Ero un semplice agente. Ho chiesto che mi fosse assegnato questo lavoro e l'ho ottenuto. Al tempo, il comandante era James Kramer. È morto. Di cancro. Ho preso il suo posto. Per quanto attiene al DNA, sarò davvero onesto con lei... Mi ripeta il suo nome...»
Glielo ripetei.
«Il fatto è, Jason...»
«Cason.»
«Cason. Il fatto è che, a giudicare da quanto si vede in televisione, uno penserebbe che tutti facciano i test del DNA risolvendo i casi con un vasto campionario di attrezzature all'avanguardia e, per giunta, in un tempo inferiore all'ora di durata del telefilm. Come se tutti avessero a disposizione un esperto calligrafo in grado di dirti se qualcuno ha scritto un biglietto per chiedere un riscatto con la mano sinistra oppure con le dita dei piedi. Macchinari in grado di scomporre il suono, e separare il ritorno di fiamma di una marmitta dalla scoreggia di un cane. Non è così, amico. Il nostro budget per i materiali speciali, che comprendono i test del DNA e quell'elegante nastro giallo con cui cordoniamo le scene del crimine, ammonta a duemila dollari l'anno. Anche se avessi il suo sangue, il suo sperma e la sua materia grigia, non troverei i fondi sufficienti per sottoporli a un test volto a dimostrare che è stato lei, anche se fossi stato io stesso a raccogliere quei campioni, subito dopo averla ammazzata a suon di legnate e averla fatta a pezzi con un taglierino. E per quanto i cronisti non mi stiano particolarmente simpatici, voglio che lei sappia che non stavo esprimendo un desiderio.»
«Grazie.»
«I giornalisti di provincia non sono un problema. Però, sa, quegli stronzi delle grandi testate... Be', per loro non ho niente.»
Certo, fu una bella soddisfazione sentirmi ricordare che non facevo parte di quella seconda schiera.
«Qui a Camp Rapture,» seguitò «abbiamo dei bravi poliziotti che lavorano sodo, un cane antidroga così vecchio che gli serve un'infermiera 24 ore al giorno, e una perdita nel bagno del dipartimento che lustra il pavimento, rendendo ogni occasione in cui vai al cesso una minaccia di morte.»
«Se ho capito bene, posso togliere il test del DNA dalla lista...»
«Può togliere il DNA, gli esami balistici e persino il test olfattivo per vedere se hai delle macchie di merda nelle mutandine. Non me lo potrei permettere neppure se fossi io stesso ad annusare.»
Avrebbe potuto farlo anche gratis, intendo dire annusare, ma non avevo nessuna intenzione di mettere in discussione il suo numero da cabaret della serie 'sono un indigeno pittoresco' soprattutto visto che era forestiero. Inoltre, se aveva delle prove, poteva pur sempre metterle in un refrigeratore e portarle ad Austin a farle esaminare direttamente dalle autorità dello stato per molto meno di quanto gli sarebbe costato farle analizzare da un esperto. Era un particolare che avrebbe dovuto conoscere ma, date le circostanze, decisi di non dirglielo.
«Per quanto attiene ai soldi, siamo veramente in bolletta o, comunque, non ne abbiamo abbastanza per fare qualcosa che non sia strettamente necessario. E alla fine dell'anno, se continuiamo ad avere quei duemila dollari, non ce ne daranno altri duemila. Il budget resta quello, amico mio. Se lo sfrutti tutto, non avrai più un centesimo fino all'anno successivo. E quello che resta dell'anno prima non si assomma al nuovo budget. La cifra resta la stessa: duemila dollari. Se mi muore il cane antidroga, con tutti i soldi che costa, me ne andrò in giro io ad annusare pneumatici e buchi di culo al suo posto.»
Era decisamente ossessionato dall'idea di annusare. Commentai: «Capisco.»
«Ecco perché ogni mattina mi sveglio arrabbiato» disse il comandante.
«Perché rischia di dover annusare buchi di culo e pneumatici?»
«Vedo che ha un bel senso dell'umorismo. Mi piace.»
Stava sorridendo, ma ebbi la netta impressione che dentro non sorridesse affatto. Il mio senso dell'umorismo aveva effetti diversi sulla gente, e la sua reazione non fu tanto diversa da quella della Timpson.
«Questa ragazza, Caroline Allison... Non pensi che non abbia letto il dossier del suo caso e che non mi sia fatto delle domande. Ho guardato la sua fotografia dozzine di volte. Era davvero bella. Una faccia come la sua potrebbe convincere un prete a smetterla di fottersi i chierichetti. Se fosse viva e da qualche parte, qualcuno l'avrebbe vista. Se c'è qualche tipo di legame... noi non l'abbiamo individuato. Il dossier dice che non sono state ritrovate tracce di sangue nell'automobile. Nessun elemento di quel tipo. Per cui, anche se potessimo effettuare un'analisi del DNA, cosa ci sarebbe da analizzare? Immagino che ci possa essere sfuggito qualcosa. Una cellula che si è staccata dal culo di qualcuno o qualcosa del genere, il sentore di una scoreggia infilato nell'imbottitura dei sedili, ma ancora una volta torniamo al budget. Lo stesso problema che ho incontrato prima di venire qui. Quando sarò morto e sepolto, sarà il futuro comandante a preoccuparsi dello stramaledetto budget. Dannazione, è possibile che me ne vada di qui prima della pensione. Non è che mi svegli tutte le mattine lodando Dio per avermi messo a capo della stazione di polizia di Camp Rapture. Mi piacerebbe fare l'insegnante. Lo sapeva?»
Come avrei potuto immaginarlo? Però, mi limitai a rispondere: «No, non lo sapevo.»
«E invece è così. Questione di genetica. Mia madre era un'insegnante. Avrei voluto esserlo anch'io, ma mi sono ribellato. Sa come vanno le cose...»
«Già. Dunque, sulla scena del crimine non è stato trovato niente?»
«Sono rimasti soltanto un sacchetto con del cibo rancido della Taco Bell e un paio di scarpe. La ragazza è scomparsa come la rugiada in un pomeriggio inoltrato. Se dovesse citare testualmente le mie parole, be', questa potrebbe essere una buona citazione.»
Mi annotai qualcosa sul blocco. «Come la rugiada in un pomeriggio inoltrato. La userò. Insomma, se lei avesse i soldi per effettuare l'analisi del DNA, la farebbe, però non ha nulla da analizzare e dunque non fa nessuna differenza il fatto che lei possa o non possa permettersi quel test.»
«Centro! Scaricherò la responsabilità della mancanza di prove sul mio povero predecessore. Elementi per il DNA non ne sono stati raccolti. Ovviamente, ciò non significa che non ve ne fossero. Voglio sia chiaro che eventuali incompetenze non hanno niente a che fare con il sottoscritto. Lo sapeva che le multe per eccesso di velocità sono raddoppiate su North Street grazie a una massiccia presenza di agenti di polizia?»
«No. Non lo sapevo. Proprio come lei, anch'io sono mancato da queste parti fino a poco tempo fa. Qui ci sono nato, però sono stato via.»
«Be', sono raddoppiate. Questo sì che lo si deve al sottoscritto. Anche le multe per i cani senza guinzaglio sono in aumento.»
«Ci sono multe anche per i gatti?» chiesi.
Il capo aggrottò la fronte. «Sa, non credo proprio. Ma potremmo anche approntarle. È un'idea e potrei soffiargliela.»
«Gliela cedo. Che ne è stato dell'automobile di Caroline? Ne ha idea?»
«Da quel che mi ricordo, sul dossier c'è scritto che nessuno l'ha reclamata. Nessun parente. Alla fine, è stata venduta all'asta. Avrei potuto scegliere diversamente, però...»
Allargò le mani in quello che mi parve il classico gesto del 'cosa vuoi farci?'
«Impronte digitali?»
«La macchina è stata passata al vaglio, ma non se ne sono trovate.»
«Qualcuno l'ha ripulita bene, giusto?»
«Significa solo che non sono state trovate impronte digitali. Nient'altro. Sul volante c'erano impronte, insomma, cose del genere, e noi pensiamo che fossero quelle di Caroline, però nessuno l'aveva mai schedata e dunque sarebbero tranquillamente potute essere quelle dell'assassino o dello zio Harry o del Sasquatch o di Kermit, la Rana del Cazzo. Ma le impronte erano tutte uguali e non sono saltate fuori da nessun archivio informatico, quindi abbiamo pensato che fossero le sue.»
«Dunque... nulla» constatai.
Il comandante annuì e controllò l'orologio. «È quello che le sto dicendo... Be', ora ho quella faccenda del Rotary da sbrigare...»
«Che mi dice dell'appartamento?»
«A quanto ricordo, è stato perquisito.»
«E che ne è stato delle sue cose?»
«Immagino siano finite all'asta o al Goodwill. Ora devo proprio andare.»
«Grazie. A titolo informativo, cosa pensa le sia successo?»
«Be', certo non è andata a vivere in Argentina con Hitler. Secondo me, ciò che resta di lei è in una palude, in un luogo non meglio identificato, e il tipo che le ha fatto questo si è laureato o se n'è andato, e ora ammazza della gente da un'altra parte, e questo ci rende la vita dannatamente più facile.»
«Pensa che sia stata vittima di un serial killer?»
«Non lo so. Può darsi. Forse, semplicemente, è uscita con il tipo sbagliato. Un tipo geloso. Un pervertito. Può essersi trattato di qualunque cosa. Immagino che sia stato lui a telefonare per dirci della macchina. Per come la vedo io.»
Doveva riferirsi a Jimmy. Finsi. «Davvero?»
«Già, abbiamo ricevuto la telefonata di un tizio che ci ha detto che lassù c'era la macchina di Caroline e che se ne stava lì da un po'; secondo lui era una cosa strana, ma credo solo che l'assassino in quel modo abbia cercato di tenere vivo l'interesse, che volesse vedere l'arrivo del circo in paese. Probabilmente, la ragazza era nel baule della sua macchina e lui aveva già in mente di farla a pezzi e magari di usare i suoi resti per fertilizzare le paludi. Chiamare in causa la polizia lo ha eccitato. Oppure, forse, ha provato un sincero rimorso e ha voluto dirlo a qualcuno prima di sbarazzarsi di lei. Chi può saperlo?»
«Magari era solo un cittadino premuroso.»
«È un'ipotesi» replicò.

16
Ci stringemmo le mani e me ne andai. La cosa positiva era che nulla collegava Jimmy alla sparizione. Non erano mai state raccolte tracce di DNA da sottoporre a un test, ammesso che se lo potessero permettere. Jimmy poteva essersi appoggiato alla macchina, lasciando delle impronte, ma se gli sbirri erano incapaci quanto pensavo fossero, per giunta con la macchina non più a loro disposizione e per di più in assenza di altre impronte digitali da confrontare, probabilmente non avrebbe fatto alcuna differenza, non avrebbe fatto alcuna differenza che lui avesse sparso sangue in abbondanza sul sedile, che avesse cagato nel vano portaoggetti e che avesse eiaculato sul pianale. Pensai che, sul fronte DNA, fosse a cavallo.
La persona da trovare subito dopo era Ronnie Fisher. Ma, per prima cosa, dovevo tornarmene al giornale e svolgere del lavoro.
Sulla via del ritorno, mi squillò il cellulare. Lo aprii con un colpetto mentre ero al volante e vidi il numero. Un prefisso dell'Oklahoma. Booger. Decisi di non rispondere. Non ne avevo voglia. Ma non ci riuscii.
«Eccoti» mi salutò Booger.
«Ciao, Booger. Come va?»
«Sono andato al poligono molto presto e mi sono fatto una bella cagata salutare per la quale mi sono dovuto sforzare tanto da finire in un'altra dimensione, mi sono bevuto sei birre e in questo momento sono a letto con una mano che stringe il cellulare e l'altra che riposa tra le gambe di Conchita.»
«Un eccesso di informazioni, compare.»
«Mi piace essere esauriente. Quella ragazza, quella Gabby... Te la trombi ancora?»
«No. Tra me e Gabby è finita.»
«Bene. E allora vieni di nuovo in Oklahoma. Te l'ho detto che ti avrei dato un lavoro.»
«Ce l'ho un lavoro.»
«Il giornale?»
«Già.»
«Cason, la sai una cosa, vecchio mio?»
«Cosa?»
«Dal tuo tono di voce si direbbe che non te la stia passando tanto bene.»
«Che vorresti dire?»
«La tua voce. C'è dentro uno spiritello maligno.»
Cercai di stare calmo. Booger era fatto così. Certa gente era convinta che fosse stupido, solo perché era grezzo. Tutto fuorché vero. Aveva una sorta di sesto senso per le cose e sapeva cogliere anche la minima anomalia. In genere non gliene fregava niente dei sentimenti del prossimo, però aveva un radar finissimo. E, almeno nel mio caso, probabilmente gliene fregava pure.
«Sono solo stanco, Booger.»
«Devo venire lì?»
«Non riesco a immaginare a fare cosa.»
Booger scoppiò a ridere. «So bene di renderti nervoso, fratello, però non devi preoccuparti. In questa storia, non sei solo. Noi due siamo passati dal buco del culo dell'inferno, prima di riaffiorare dall'altra parte. Insieme, siamo due demoni.»
«Già.»
«Lo siamo e come. Ora, stammi a sentire. Se per caso dovessi aver bisogno del vecchio Booger, prendi il telefonino e digita il mio numero. Lo farai, vero?»
«Certo.»
«D'accordo, allora. Non voglio che la mia piccina prenda freddo, per cui ora metto giù e monto su.»
«Goditi la cavalcata e non darci troppo dentro con gli speroni.»
«E che diamine, giovane. Sono un professionista.»
Strano, ma quando riattaccò mi sentii solo.
Prima di tornare a Camp Rapture, avevo fatto una deviazione per andare a prelevare le mie poche cose in un deposito di Houston e poi un'altra per andare a trovare Booger.
Considero Booger un amico, però non sono tanto convinto che sia così. Forse si tratta piuttosto di un attaccamento, di una specie di cancro. Era proprio come avevo detto a papà. Sento la necessità di sbarazzarmi di lui, tagliare i ponti, ma ci sono complicazioni e affetti.
Booger mi rende nervoso. Rende nervoso chiunque.
Booger ha un nome e un cognome, però non si fa mai chiamare in quel modo e non gli va proprio che se ne faccia menzione in nessun ambiente, che sia raffinato o meno. Non è il tipo di persona con cui andare a prendere il tè in un salotto elegante. Se gli dicevi di non giocherellare con i panini, di non aprirli per andare a vedere cosa c'era dentro, andava a finire che ti schiaffava la testa nella caraffa del cocktail analcolico e ce la teneva finché non affogavi, per poi pisciare sul tappeto prima di uscire. Non era uno molto paziente.
Non è alto, ma è corpulento e atletico e la sua testa rasata e luccicante è del colore di una moneta da un centesimo. Aveva qualche traccia di sangue scuro, era una mezza via tra un nero e un bianco, e i suoi occhi avevano un taglio vagamente orientale. In Iraq, quei pochi a cui stava simpatico lo chiamavano il Rosso.
È il classico tipo che non ha nessun problema a grattarsi le parti basse in pubblico o a ridurre in fin di vita uno stronzo a forza di menargli delle botte con l'antenna di un'automobile, cosa che in effetti una volta per poco non fece. L'origine del diverbio che portò al pestaggio non se la ricorda nessuno, neppure Booger, che peraltro ha il vago ricordo di un diverbio sorto in merito a una di quelle partite in cui si lanciano i ferri di cavallo. E per quanto due testimoni l'avessero visto all'opera, ebbero un'improvvisa perdita della vista e della memoria quando venne il momento di vuotare il sacco davanti alle autorità.
E così si sono guadagnati un vitalizio di bevute a sbafo a spese di Booger o, quanto meno, l'offerta gli è stata fatta. Stando a Booger, non si fanno vedere tanto in circolazione, non dopo quanto hanno visto nel parcheggio. Il tizio con cui se l'era presa Booger lo avevano trovato nei pressi della discarica comunale con i pantaloni abbassati e l'antenna che gli scandagliava il buco del culo a una discreta profondità, senza vaselina, delirante e in preda alle allucinazioni. Sopravvisse, ma fu a sua volta vittima di una perdita di memoria, raccontò una storia pazzesca, dicendo di essere stato aggredito da una banda itinerante di belligeranti e omosessuali venditori di Bibbie. Ora se ne va in giro su una macchina in cui la radio non funziona: manca l'antenna.
Nei dintorni di questo paesino dell'Oklahoma, Hootie Hoot, gli sbirri si fanno un dovere di lasciar stare Booger. Per loro è un po' l'uomo nero che vive sulla collina, sul retro del suo bar.
Prima di tornare a Camp Rapture, mi ero fermato un po' insieme a Booger nel poligono di tiro e poi nel bar. E, nonostante siamo in buoni rapporti, la situazione è sempre precaria quando i rapporti stanno per stringersi ulteriormente. Basta una modifica minima della luce, una scoreggia lasciata andare dalla sua parte, per farlo sbiellare più rapidamente di un pastore battista a Las Vegas con una confezione di preservativi rigati e le offerte della chiesa in tasca.
Booger non era mai sbiellato con me, però l'avevo visto strabuzzare gli occhi e fare una smorfia, e mi ero abituato a stare in guardia per individuare eventuali segnali eloquenti quando mi trovavo in sua compagnia, e così cercavo di comportarmi bene e mi domandavo perché diavolo stessi a preoccuparmi. Una preoccupazione che torna sempre a farsi viva in me: mi pongo quesiti e non arrivo da nessuna parte.
Immagino che tutto dipenda dalla faccenda dell'Iraq. Aver fatto la guerra insieme è quello che ci tiene uniti. A volte, almeno per me, quel legame è una specie di palla al piede. Booger, per molti versi, non ha ancora smesso di essere in guerra. Inizialmente, aveva trasferito il suo odio atavico dall'Oklahoma all'Iraq e, adesso che era di nuovo a casa, sparare agli scoiattoli e ai cervi non gli bastava più. Sperava ardentemente che lo richiamassero in Iraq. L'odore del sangue e il puzzo di affumicato dei cadaveri che bruciano gli piaceva. Gli piaceva sentirsi sparare contro. Me l'aveva pure detto. Era lui il soldato che aveva procurato al resto di noi una cattiva reputazione.
È possibile che in Iraq ci torni. In questo momento prendono chiunque, purché respiri. Però, l'ultima frase pronunciata dalle autorità militari era che detestavano vederlo tornare a casa ma, in buona sostanza, erano stati costretti a lasciarlo partire, e questo può darvi una vaga idea della posizione occupata da Booger nella graduatoria del nuovo arruolamento. Stavano iniziando a sospettare che avesse ucciso alcuni dei nostri stessi soldati, quelli che secondo lui erano dei deboli, checche incapaci di togliere la vita a un numero sufficiente di nemici, godendosene il divertimento. Lo chiamarono fuoco amico e i sospetti si concentrarono su di lui, ma se davvero era stato Booger, vi posso assicurare una cosa: non era per niente amico quel fuoco. Speravo che fosse solo una diceria. Me lo dovetti imporre.
Per qualche ragione, mi perdonava di non ammazzare con tutto quell'entusiasmo. Io facevo quello che c'era da fare. Quando ammazzavo qualcuno, era come se avessi raccolto le anime di quei morti, un pesante fardello che non avevo nessuna voglia di sobbarcarmi. Booger sapeva come mi sentivo, ma nel mio caso non considerava tutto ciò una debolezza. In un certo senso, la mia attitudine rappresentava per lui una stranezza, una fonte di curiosità che lo intrigava, un po' come la scena di un cane che salta in un anello di fuoco al circo. In altri casi, analoghi sentimenti compassionevoli nei riguardi del nemico, simili mancanze di risolutezza e sensi di colpa sarebbero stati sospettosi e comuni. Forse ero il cocco di Booger, il suo tallone d'Achille. Mi aveva salvato la vita più di una volta in Iraq. Forse mi considerava il suo animale da compagnia.
L'ultima volta in cui ci eravamo visti, eravamo andati al poligono di tiro. Le armi da fuoco sono la sua passione. Sparare con pistole enormi e vedere gli oggetti a cui aveva mirato esplodere, sparargli fino a renderli sempre più piccoli e, alla fine, a farne un tutt'uno con l'universo, è una bella fetta della sua vita. Ha messo persino delle vecchie macchine in quel poligono. Ci tiene delle armi di grosso calibro con le relative pallottole e, come mi ha detto lui stesso, si diverte a riempire le macchine con quei proiettili, per vederle sussultare e disintegrarsi. Lo scintillare fulmineo di quelle armi nella luce del sole è una sorta di esperienza religiosa per Booger. È come se, in quell'esplosione rapida e luminosa, lui veda il volto e senta la voce del dio della guerra.
Subito dopo il poligono di tiro, la fettina di paradiso di Booger era rappresentata dal bar. Distava non più di un miglio dal poligono. Quando ci mettemmo piede, la prima cosa che vidi fu una bella donna ispanica con un paio di pantaloncini così corti e attillati che inizialmente, anche in virtù della posa assunta sullo sgabello di fronte al bancone, pensai non indossasse le mutandine, bensì una camicetta bianca attillata e un paio di ciabatte. Fu un momento eccitante, finché non si mosse, consentendomi di vedere i pantaloncini di jeans, così stretti e infilati in mezzo alle chiappe che la tela non poteva non farle solletico all'attaccatura della lingua.
«Come va?» chiese Booger alla donna. Le fece un sorrisino e le diede una pacca sul sedere. «La dai sempre via per soldi?»
«La lotteria per ora non l'ho vinta. Vuoi che ti dia una ripulita allo stantuffo, Booger?»
«Forse più tardi. O, magari, se non ne ho voglia io, potrebbe avercela il mio amico Cason.»
«No, grazie» feci io.
«È un po' timido, vero?» chiese la donna.
«No, è solo un ragazzo educato, Conchita.»
Booger scelse un tavolo per noi, e portò birra fredda per entrambi al tavolo. Si sedette, sorrise e mi domandò: «Sei sicuro di volertene tornare in Texas?»
«Perché non dovrei?»
«Che ne dici di quel bel bocconcino caliente messicano che sta là in fondo? Non ti alletta proprio? Potresti fermarti qui, sistemarti insieme a lei per qualche giorno. Offro io. Saprebbe rivoltarti come un calzino. Te lo posso assicurare. Una volta che ha finito di lavorarti per bene, ti chiederai in quale estremità del tuo corpo ti è finito il buco del culo.»
«Booger, non so come fare a rifiutare un'offerta così allettante e adeguatamente formulata, ma mi vedo costretto a soprassedere.»
Conchita aveva un udito finissimo. «Cosa? Non ti piace la passera?»
«A dir la verità mi piace un sacco,» risposi «ne vado davvero matto, ma mi vedo costretto a soprassedere. Grazie.»
«È per via della razza?» domandò lei.
«No» risposi.
«Ehi,» si intromise Booger «al mio amico non si manca di rispetto, Siamo insieme, giusto? Non c'è anima viva che sappia chi io sia realmente, nemmeno io. La passera ha un solo colore, dolcezza: il rosa.»
«Hai sentito?» feci, rivolto a Conchita.
Booger mi squadrò, con un'espressione perplessa in viso. «Per caso ora ti piacciono gli uomini? In Iraq è successo qualcosa nelle docce di cui non sono al corrente?»
«No, però preferisco tornarmene a casa.»
«Cristo! Chiunque abbia voglia di farsi un bel viaggio in macchina fino in Texas invece che fermarsi a scopare in Oklahoma, ha certamente le idee poco chiare, camerata.»
«Io direi che c'è qualcosa di gay» suggerì Conchita.
«No, non è gay» sentenziò Booger, sentendosi in dovere di venire subito in mio soccorso. Dopodiché, si voltò nuovamente dalla mia parte e scosse la testa. «Texas. Cristo santo, perché? A me sembra identico al posto in cui ti trovi in questo istante. Il Texas è il buco del culo dell'Oklahoma.»
«Texas orientale. Un sacco di grosse piante e un bel po' d'acqua. A me piace di più.»
«Dunque, sarebbe come qui, con in più alberi e un lago del cazzo. Resta qui con me.»
«Ho un colloquio di lavoro.»
«Quella merda del giornale?»
«Esatto.»
«In realtà, c'è di mezzo quella ragazza, Gabby, giusto?»
«Penso sia finita.»
«Non ci credo. E stammi a sentire, Bubba: quella ragazza dovresti mollarla come una pietra incandescente. Voglio dire, dannazione, ti ha scaricato. Andiamo, amico. Fermati.»
«Devo soprassedere, socio.»
Booger si passò la mano umidiccia sul cranio. «Perché non ti metti società con me nel poligono di tiro?» mi chiese Booger. «Potresti essere tu a gestirlo quando non ci sono.»
«Ci sei sempre. Non sei lì in questo momento solo perché è buio. Se ci fosse la luna piena, ci saresti.»
«Ci sarei anche se ce ne fosse solo un bello spicchio.»
Sapevo che era vero. Booger era il tipo di persona che girava sempre con un'arma. In macchina teneva una sacca da viaggio contenente delle armi, compreso un fucile che si poteva montare con una monetina e molta determinazione. Aveva persino un silenziatore e, naturalmente, munizioni in abbondanza. Non so bene a cosa gli servisse tutta quella roba o per cosa la usasse, e non avevo nessuna voglia di scoprirlo.
«Allora, qual è la tua risposta? Ti fermi?»
«No. Però, grazie lo stesso, Booger.»
«Potresti occuparti del bar.»
«C'è già Runt che si occupa del bar.»
«Runt lo potrei licenziare.»
Runt era alto quasi due metri e aveva una chioma bianca che sembrava il risultato di una scossa elettrica, un torace simile a un barile da cinquanta galloni e due denti e mezzo - quest'ultimo spezzato da una sberla in bocca che qualcuno gli aveva dato con un cric. I dettagli non li conoscevo, ma il tizio che l'aveva colpito era un venditore ambulante di aspirapolveri industriali dell'Arkansas. Booger mi aveva detto che Runt si era limitato a rivolgergli un sorrisino sdentato: gli aveva detto che avrebbe fatto meglio a portarsi dietro un pacchetto di Tootsie Roll invece del cric, perché si faceva meno fatica a mangiarle.
Ero felice di non essere stato presente. Non mi sarebbe piaciuto assistere alla scena o anche semplicemente sentirne parlare, per lo meno non di prima mano. Era successo tutto nel parcheggio del bar, lo stesso posto in cui Booger aveva inchiappettato quel tizio con l'antenna. La morale è una: in un posto non meglio identificato dell'Arkansas, un'azienda di aspirapolveri ha un venditore in meno.
«Non mi sorride particolarmente l'idea di comunicare a Runt che sto per prendere il suo posto.»
«Diamine, in tal caso glielo dico io» disse Booger.
«No. Non importa.»
«Ti va un'altra birra?»
«Questa mi basta. Sto per mettermi al volante.»
«Diamine, potresti berne tre o quattro prima di dovertene preoccupare.»
«No, grazie.»
Booger mi rivolse un'occhiata che mi fece sperare di non aver offeso la sua ospitalità. Fu quel lampo nei suoi occhi a farmi decidere, di punto in bianco, di averne abbastanza di Booger.
Mi alzai, feci un sorriso e gli tesi la mano.
Booger si alzò in piedi. Me la strinse come se stesse pompando acqua da un pozzo e poi mi diede una pacca sulla schiena.
«Dannazione, ragazzo. Ce la siamo proprio spassata laggiù, non è vero?»
«Già» risposi, anche se i miei ricordi erano decisamente meno gradevoli.
«Mi manca proprio dovermi svegliare ogni mattina e non vedere l'ora di far saltare le chiappe a un cazzo di iracheno in tunica.»
«Be', ora devo andare.»
«Ti stai lasciando sfuggire una bella occasione» si intromise Conchita. «Ci so fare davvero, piccolo. Sono in grado di sparare palline da ping-pong con la passerina. Se ne avessi qualcuna per le mani, te lo farei vedere.»
«Nonostante l'idea mi alletti, ora devo proprio andare.» Mi rivolsi a Booger. «Bene, amico. Ora vado.»
Booger mi afferrò e mi strinse in un abbraccio, sconquassandomi leggermente una costola. «Chiamami, se ti serve qualcosa.»
«Ti ho detto che lo farò.»
«Okay.»
Mentre mi allontanavo, sentii Runt gridare: «Ci si vede, Cason.»
«Addio, Runt.»
«Ehi» disse Conchita.
Mi voltai. «Sì?»
«Non mi saluti?»
«Ciao.»
Si mosse leggermente sullo sgabello e mi sorrise. «Se ti venisse mai voglia di inzuppare il biscottino, sai dove andare. Magari, già che ci sei, portati appresso qualche pallina da ping-pong. Così ti faccio vedere quel giochino.»
«Ci penserò senz'altro su.»
E, così dicendo, me ne andai, sperando e pregando di non dover mai più vedere nessuno di loro.
Be', nessuno tranne Conchita, magari.
Ma adesso, dopo aver sentito la voce di Booger al telefono, provai la strana voglia di vedere quel bastardo mezzo matto. Una voglia che mi turbò.

Tornato al giornale, mi sforzai di scrivere un articolo che non avesse nulla a che vedere con Caroline Allison. Scrissi un pezzo moderatamente umoristico sulla mia passione giovanile per Tarzan. Me lo aveva messo in testa Jimmy. Scrissi di quando ero salito su un albero in mutande e mi ero preso una scottatura, tralasciando la parte relativa ai miei testicoli. La sola menzione di una cosa del genere avrebbe immediatamente fatto radunare davanti al giornale una folla di battisti che, armati di forconi, avrebbero blaterato dei versi della Bibbia.
Finito di battere l'ultima frase, alzai gli occhi e mi ritrovai davanti Belinda. Aveva un bell'aspetto ed ebbi la chiara impressione che avesse appena finito di darsi una ritoccata al trucco. Un trucco leggero che non le nascondeva le lentiggini e che mi andava a genio. Mi piacevano le sue lentiggini.
«L'offerta del caffè dopo il lavoro è ancora valida?» chiese.
«Certamente» risposi.
«E se, invece del caffè, ci bevessimo qualcos'altro?»
«Certo.»

17


Andai a trovare mamma e papà, sorseggiai un caffè insieme a loro in cucina e gli parlai del mio nuovo lavoro, cercando di infiorare la mia vita il più possibile, senza peraltro far sembrare tutto una enorme, ovvia, dannatissima panzana. Raccontai che uscivo con una donna o, quanto meno, stavo per farlo, cosa che gli fece piacere, almeno credo. Nessuno pronunciò il nome di Gabby e io cercai di far capir loro, senza dirlo apertamente, che avevo fatto un passo avanti: Gabby ormai apparteneva al passato.
Ovviamente, di passi avanti non ne avevo fatti, ma volevo che loro lo pensassero e, mentre la sparavo grossa, avrei voluto crederci io stesso.
Finii il caffè, e mi misi a parlare un po' di baseball con papà. Dopodiché, mamma e io discutemmo di Belinda. Gliene parlai a sufficienza perché lei fosse soddisfatta senza però metterle in testa che stessimo per fuggire insieme e per sfornarle dei nipotini; poi me ne andai.
Stavo per mettere la mano sulla maniglia della portiera quando, d'istinto, alzai lo sguardo verso l'olmo. Jazzy era là, sulla sua piccola piattaforma.
«Ciao, Jazzy.»
Dondolando su un ramo, si mise appesa a testa in giù, come un bradipo, fissandomi dall'alto.
«Ciao, bimbo del signor Statler. Mi stavo nascondendo da te.»
Le rivolsi un sorriso. «Intendi rimanere su quella pianta?»
«Mi piace stare quassù. Non abiti più qui?»
«Mi sono trasferito.»
«Anche a me piacerebbe trasferirmi.»
«Davvero?»
«Posso venire ad abitare con te?» chiese Jazzy, oscillando all'indietro e compiendo un'evoluzione che le consentì di stendersi sul ramo come una lucertola.
Scossi lentamente la testa. «Mi dispiace, Jazzy. Non è possibile.»
«Perché no?»
«Prima di tutto per la legge. Non te lo consentirebbero. È una faccenda complicata, ragazzina.»
«Capisco.» Ovviamente, non capiva. «Tornerai?»
«Presto. Ora, però, devo andare.»
«Cosa devi fare?»
«Ho un appuntamento.»
«Con una ragazza?»
«Già. Con una ragazza.»
«Ci sono dei ragazzi che escono con degli altri ragazzi. L'ho visto in televisione. Però, è sbagliato...»
«A dir la verità, la cosa non mi preoccupa tanto.»
«Allora, ci vediamo quando torni...»
«Sicuro. Stammi a sentire, ragazzina. Se ti serve qualcosa, vai a trovare mia madre e mio padre. Ti daranno una mano.»
«Sei il mio miglior amico, Cason.»
Fu come essere colpiti da un ariete da assedio. Non avrei dovuto essere io il migliore amico di una ragazzina. Avrebbe dovuto avere gli amici della scuola, andare a feste di compleanno, progettare di fare l'astronauta, la scienziata, l'artista, qualunque cosa tranne l'adescatrice o la predicatrice evangelica. «D'accordo. Saremo ottimi amici.»
«Mi stai simpatico.»
«Amicizia e simpatia vanno a braccetto. Niente giochi pericolosi. Intesi?»
Annuì e io salii in macchina.

Cercai di non farlo, ma alla fine passai accanto all'ambulatorio di Gabby. La sua macchina non c'era ed era tutto chiuso, però passarci accanto mi diede una sorta di eccitazione e poi, qualche minuto più tardi, l'eccitazione sparì e sentii una certa acidità di stomaco, come se avessi mangiato qualcosa di avariato.
Andai a casa e bevvi un'altra tazza di caffè. Stavo iniziando a esagerare con la caffeina. Fu come se i capelli mi si stessero staccando dalla testa, intrecciandosi fino a formare una presina per le pentole. Decisi, dopo averne bevuto una tazza e mezzo, che avrei dovuto smettere. Versai l'ultimo goccio del caffè nell'acquaio, risciacquai la tazza e la misi nella lavastoviglie.
Mi feci una doccia e mi lavai i denti, mi vestii e mi preparai ad andare all'appuntamento con Belinda. Lei mi telefonò per dirmi di essere tornata al giornale a fare qualcosa di non meglio identificato, chiedendomi se potevo passare di lì e seguirla fino a casa con la mia macchina.
Mi recai al giornale e la seguii fino a casa. Parcheggiò la macchina e poi andammo con la mia fino al bar di un albergo che lei stessa aveva caldeggiato. Lei prese un beverone alla frutta, io una birra, che mi aiutò ad ammorbidire l'urto della caffeina.
«Mi piacciono i tuoi capelli, mi piacciono lunghi così» disse.
«Anche a me piacciono i tuoi, ora che sono più lunghi.»
«Non sono più lunghi...»
«Mi piacciono lo stesso. Gli hai fatto qualcosa di diverso.»
«Un taglio nuovo. Hanno aggiunto qualche estensione. L'ultima volta, il mio parrucchiere ha sperimentato qualcosa che non ha funzionato e io ho cercato di risistemarmeli da sola, finendo per combinare un bel disastro. Sembrava me li fossi tagliati con un tosaerba. Stavolta sono andata da un altro, che è stato più bravo.»
«Hai aggiunto delle estensioni eppure hai i capelli più corti?»
«Non provare nemmeno a capire i misteri delle acconciature delle donne. Ne ricaveresti soltanto un bel mal di testa. Per sistemarli, sono stata costretta a tagliarmeli corti e ad aggiungere delle estensioni per farli sembrare più belli.»
«A me piacciono. Non aggiungo altro.»
«Così non rischi nulla. Posso solo dirti che mi è costato parecchio. Troppo, per le mie tasche. Mi è costato un braccio e una gamba e una volta al giorno devo andare dal parrucchiere a pulirgli il culo.»
Le sorrisi. «Be', comunque sono belli.»
Con un gesto automatico, si scostò leggermente i capelli con una mano. «Non mi sembri un uomo felice, Cason.»
«Cerco solo di assumere quell'espressione per sembrare misterioso.»
«Una parte che ti riesce benissimo. Sei misterioso, non ci sono dubbi. Quello che mi domando è... quando sei tornato dall'Iraq, perché non hai ripreso a lavorare a Houston? Cosa diavolo poteva avere di interessante per te uno straccio di giornale come il Report?»
«Tanto per cominciare, la signora Timpson. Un fiore di ragazza. E Oswald... Credo di stargli simpatico. Quindi, l'amicizia è il sentimento più gratificante. Ovviamente, Oswald mi ammazzerebbe per avergli soffiato il posto che era convinto di essersi meritato.»
«Quel posto l'hai avuto perché tutto quanto Oswald scrive suona più o meno come i libretti per l'infanzia.»
«Percepisco una punta di acidità, o sbaglio?»
«Solo una punta. Ha ottenuto il lavoro di cronista che spettava a me. Mi sono laureata in psicologia. La psicologia mi piaceva e mi sono messa in testa che mi sarebbe piaciuto fare la psichiatra, ma poi avrei dovuto studiare un sacco di matematica e un sacco di materie scientifiche e ci sarebbe voluto un bel po' di tempo. Ho frequentato un corso di giornalismo come materia facoltativa, mentre riflettevo sui progetti futuri, e mi sono accorta che mi piaceva più della psicologia. Caspita, lavorando per un giornale, di psicologia te ne ritrovi parecchia e soprattutto ne scrivi e ne leggi, e inoltre non devi avere a che fare con gente con problemi psicologici.»
«Allora non sei solo una ragazza simpatica, carina e premurosa.»
«Ci puoi giurare. Non avevo certo i modi per gestire un lettino da psichiatra o le conoscenze matematiche per poter fare la psichiatra, però il giornalismo lo conosco bene e mi ci sono laureata con il massimo dei voti. Quel lavoro l'avrei dovuto ottenere io. Lui è intelligente e astuto, ma il massimo che possa fare con la scrittura è il test di teoria all'esame per la patente. I suoi pezzi sono aridi come la passera della signora Timpson. Alla Timpson non piacciono le donne. Ha licenziato Sofia solo perché era incinta.»
«Me lo ha detto, non di avere la passera arida... ma di aver licenziato quella donna.»
Belinda annuì. «Esatto. Francine era una dura tanto quanto lo è la signora Timpson ed è per questo che è sopravvissuta. Nonostante scrivesse di insetti, uccelli e giardinaggio, nel profondo era dura come un lottatore di circo. Speravo che lei e la signora Timpson finissero per venire alle mani. Insomma, una bella rissa tra un paio di arpie che si catapultano una sull'altra, rotolandosi sul pavimento. Peccato che quel momento di estasi non sia mai venuto.»
«Ci sono ancora i lottatori al circo?»
Belinda arrossì. «Non lo so. È una vecchia espressione usata da mio padre ed ereditata dal suo, che era stato un lottatore di circo negli anni Trenta.»
«Ho afferrato il concetto. Anch'io utilizzo dei modi di dire un po' antiquati. Li ho imparati da mio padre e lui li ha imparati dal suo che, a sua volta, li aveva imparati dal nonno, il quale, probabilmente, se li era inventati di sana pianta.»
«Sai una cosa? Sei riuscito a cambiare argomento.»
«Rispetto a cosa?»
«Al motivo per cui sei venuto a lavorare qui e non in un giornale più grande. Mi hai fatto parlare di me e del giornale. Ora torniamo a te. Perché? Avevi tutte le carte in regola per qualcosa di più importante.»
«E se fosse per il clima? Mi piace il clima di questo posto. Potrebbe essere quello il motivo.»
«A Houston c'è grosso modo lo stesso clima. Tanta pioggia e tanto caldo.»
«I bagni termali.»
Belinda arricciò il naso. «Non ci sono bagni termali da queste parti.»
«Come dice Bogart in Casablanca, ero male informato.»
«Direi che non mi basta.»
«D'accordo. Che ne dici di questa? A Houston c'è un odore tremendo, c'è un sacco di illegalità e ci sono troppe macchine.»
«Mi pare un motivo sensato. Ma non il vero motivo. A guardar bene, di illegalità ce n'è parecchia anche qui. È solo più sotterranea. Pensa a quella povera ragazza su cui hai scritto il tuo articolo.»
«Hai ragione. Forse c'è dell'altro. Qui ci vivono i miei genitori. Mio fratello e sua moglie. Ha influito molto sulla mia scelta.»
«Ma non in maniera determinante...»
«In tutta onestà, non lo so.»
«Se non hai voglia di parlarne, non c'è problema. Non intendevo dare la sensazione di voler esercitare delle pressioni su di te, anche se, in realtà, lo stavo facendo.»
«No. Non c'è problema.»
«Sei sicuro?»
«Puoi scommetterci.»
Ci fu un momento di silenzio. «Allora?» chiese Belinda.
«Okay. La verità. Se vogliamo essere amici, dobbiamo parlare schiettamente. Giusto?»
«È così che la vedo. Dobbiamo sempre parlare in maniera franca.»
«E di cosa parliamo?»
«Dipende da chi dei due inizia. Comunque, stai di nuovo cambiando argomento.»
«Sono stato licenziato dal giornale di Houston.»
«Ahi! Avevo sentito dire che per poco non ti aggiudicavi il Pulitzer. Era una bella raccomandazione per convincerli a tenerti...»
«Non so dire se potevo vincerlo, ma una nomination l'ho ricevuta. Il licenziamento non aveva a che fare con la mia scrittura, con il mio rendimento al giornale.» Ebbi una breve esitazione e poi ammisi tutto. «Il fatto è che il mio editore... Be', ho avuto una storia con sua moglie.»
«Un motivo sufficiente.»
«Esatto. Se poi hai una storia anche con la sua figliastra, c'è un motivo in più. Me la sono proprio cercata. Da sua moglie e da lui. Nessuno era contento di me. Nemmeno io. Però, voglio anche aggiungere che né la moglie né la figlia erano esenti da responsabilità. E sua figlia era sufficientemente matura.»
Tirò fuori una ciliegina dal suo bicchiere e se la mangiò, facendo attenzione a non farla finire in mezzo all'apparecchio. «Hai imparato la lezione?»
«Non lo so.»
«Intendi scoparmi?»
«Penso che per me sia giunto il momento di togliere il disturbo.»
«È per quello che mi hai portata fuori?»
«Una bella donna, un ragazzo solo, una conversazione piacevole, una birra e una luce fioca. Tutte cose che mettono delle idee scabrose in testa a un uomo.»
«Non è solo per via della luce, vero? È la birra?»
«No. Non intendevo quello. Tu sei bella tanto nell'ombra quanto sotto i riflettori. Però non ti racconterò balle. Un pensierino ce l'avevo fatto.»
Detestavo pensare che non era passato molto tempo dall'ultima volta in cui avevo cercato di rimorchiare una strana donna in un bar e avevo finito per sbronzarmi e per pisciarmi addosso. Belinda meritava qualcosa di meglio, ma non ero tanto sicuro che le avrei consentito di andarselo a cercare. Non perché non lo volessi, ma perché ero quello che ero.
«Se non ce l'avessi fatto, ci sarei rimasta male. Avevo persino pensato di concedertelo. Ma, naturalmente, si tratta di una mera ipotesi.»
«Naturalmente.»
«Pensi che sarebbe stupido da parte mia chiederti di portarmi fuori a cena?»
«Mi piacciono le donne che sanno cosa vogliono.»

Andammo in un posto che era una specie di incrocio tra un club e un honky-tonk. C'erano un'orchestrina di country alternativo con una cantante carina e un po' di gente in pista a ballare. Non era tanto grande, ma facevano delle buone bistecche.
Mangiammo e bevemmo e subito dopo ballammo. Eravamo entrambi bravi. Suonavano un pezzo veloce, non particolarmente country. Ma il bello venne quando la donna cantò delle canzoni d'amore malinconiche. In quel momento, fu come se intorno a noi ci fosse un'aura dolce. Ballammo a occhi chiusi, stringendoci uno all'altra. Al termine, restammo in pista, tenendoci stretti, e poi l'orchestra riprese a suonare e stavolta la donna cantò At Last e quella situazione mi mise addosso una certa solitudine, nonostante avessi tra le braccia una bella donna. Pensai a Gabby e iniziai a sentirmi poco bene, e questo mi fece venire in testa pensieri più brutti, Jimmy, Caroline e il ricattatore. Mi trovavo lì, in dolce compagnia, mentre Jimmy era a casa preoccupato. Mi strinsi ancor più a Belinda e ci mettemmo a ondeggiare al ritmo della musica. Sentii il su di me, un fiato dolce e caldo, e da quell'istante la tristezza si allontanò, lasciandomi semplicemente in preda a una vaga sensazione di solitudine che non era poi tanto male. Quando la canzone finì, senza dire una parola ci prendemmo per mano e ci avviammo verso l'uscita.

Fu una cosa strana, però non andammo a casa sua e non andammo da me. Fu una buona idea. Dubito che l'odore di ratto marcio dei miei muri sarebbe stato un buon viatico per l'amore.
Tornammo all'albergo in cui eravamo andati a bere e, senza nemmeno cercare di salvare le apparenze, presi una camera e salimmo con l'ascensore. Appena entrati, ci eravamo già messi le mani addosso e praticamente ci stavamo strappando gli abiti. Capii che era diverso tempo che non le succedeva, perché la stessa cosa valeva per me e ne conoscevo i segnali. Tutti quei mesi in Iraq con il pensiero di tornare a casa da Gabby e poi quel biglietto e tutto lo struggimento che ne era seguito. Quella lettera mi aveva fatto sentire meno maschio, come se fosse stata uno strumento di castrazione. Per un istante, mi sentii nuovamente integro.
Cademmo sul letto. Venimmo insieme velocemente e con veemenza e solo allora continuammo più lentamente, senza fretta, godendo l'uno dell'altra fino a essere stremati. Belinda dovette chiedermi di baciarla più delicatamente perché l'apparecchio le tagliava le gengive e mi disse che io sanguinavo dal labbro superiore. La baciai più delicatamente, ma, quando entrai in lei per l'ultima volta, lo feci con impeto e nemmeno io avrei saputo dire se era stata la passione oppure una sorta di rabbia o di paura ad alimentare le mie parti basse. Poi, tutto finì e mi sentii come se fossi giunto su un litorale lontano, sotto la luce fresca della luna e nel rumore dell'oceano, mentre in realtà la luce era quella che penetrava dalla finestra, proiettata dal patio sottostante dove stava delicatamente suonando un'orchestra jazz. La risacca era lo sbuffo tranquillizzante del condizionatore d'aria. Restammo sdraiati uno nelle braccia dell'altra, scambiandoci qualche bacetto finché, a un certo punto, chiudemmo gli occhi e ci addormentammo.

La mattina seguente ci svegliammo tardi. Benché non fossi tenuto a farlo, chiamai l'ufficio con il cellulare per avvertirli che non sarei andato al lavoro, perché non mi sentivo in gran forma. Poi fu Belinda a chiamare col cellulare e a dire che non stava bene. «Faranno due più due» si preoccupò.
«Che importa! Non lo possono sapere con certezza e non possono certo licenziarci per ciò che non sanno. Diamine, non ci si può neanche ammalare?»
«Sei ammalato?»
«Malato d'amore.»
«Sul serio?»
«Be', i sintomi non mancano. Non intendo esagerare, farti sentire in gabbia. Sto solo dicendo che è stata una notte fantastica. Quando ieri hai detto che non avevi le capacità per gestire un lettino da psichiatra, ti sbagliavi. Sei bravissima su entrambi i lati del letto, e pure in mezzo.»
«Per te è stata una notte fantastica oppure una notte necessaria?» chiese.
«Entrambe le cose. E per te?»
«Ora che mi vedi nuda alla luce del sole, temo tu possa pensarla come quei tizi che si svegliano e si rendono conto che era l'ora tarda a far sembrare bella una donna, e scoprono di essersi portati a casa la mascotte dell'università, una capra.»
«Sei più bella alla luce del mattino. E, comunque, non ero sbronzo. Ma sai che cosa sarebbe bello?»
«Cosa?»
«Che tu sapessi fare il verso della capra.»
Belinda rise, allungò una mano e mi sfiorò la bocca con un dito. «A furia di baciarmi, ti si è gonfiato un po' il labbro.»
«Ne è valsa la pena.»
«In un paio di settimane, forse tre, mi faccio tirare via questi fili di ferro. A quel punto, dovrò solo portare una gabbia di sera. A dir la verità, dovrei portarlo un po' più spesso. Questi ferri ce li ho in bocca da così tanto, e non riesco a immaginare come sarà senza.»
«Non capterai più le stazioni radio.»
Mi rivolse un sorriso che era quasi una smorfia. «Sai quante volte l'ho sentita questa?»
«Tante?»
«Tante ma tante ma tante...»

Ordinammo la colazione. Belinda rimase a letto e io mi infilai i pantaloni per andare a prendere il vassoio sulla soglia, lo sistemai in equilibrio sul letto e mangiammo. Una volta finito, ci ritrovammo ancora una volta l'uno tra le braccia dell'altra. Non perdemmo tempo e lo facemmo diverse volte, fermandoci solo per rifiatare, pronti per un altro giro, finché fu quasi ora di lasciare la stanza dell'albergo.
«Ancora mezza giornata e poi dovrò tornare al lavoro» disse Belinda. «A differenza di quel che succede con te, il grande editorialista, a me di giorni di malattia non ne concedono. Non pagati, comunque. E devo presentarmi a un'ora stabilita.»
«Dannazione. Non ci avevo pensato. Spiacente di averti fatto saltare il lavoro.»
«Non esserlo. Quello che ho avuto la notte scorsa e oggi mi sta benissimo. Ma voglio che tu sappia - e devi credermi - che non salto nel letto del prossimo come se niente fosse, non al primo appuntamento e a volte neppure dopo diversi appuntamenti. Non sono contraria al sesso, come hai potuto constatare, ma non devi pensare che io vada a letto con chiunque, purché respiri. Tu sei speciale. Non solo avvenente, ma pure speciale.»
«Avvenente?»
«Sai di esserlo.»
«Non al tuo cospetto.»
Mi rivolse un sorrisino senza mostrarmi i denti, ma sporgendo le labbra come se fossero gonfie. Lasciò che il sorriso si spegnesse e per poco non scoppiò a ridere quando disse: «Sei così dolce. E sei un gran bugiardo e, ciononostante, continuo a volere che tu sappia che non faccio la svampita con tutti gli uomini che sono in fregola.»
«Non mi era neanche passato per la mente.»
«Ripeto, sei così dolce e sei un gran bugiardo.»
«Non sono dolce e non sono un bugiardo. E comunque in questo momento non sto mentendo. Sei sicura che devi andare a lavorare?»
«Sì.»
«Sei una pupa e una vera soldatessa. Io, invece, oggi a lavorare non ci vado. Io i giorni di malattia pagati li ho ed è una gran cosa.»
Mi diede una cuscinata. «Diavoletto malefico» e proruppe in una risata infantile.
La tirai verso di me e ci baciammo, delicatamente. Con tutto quel filo di ferro, le nostre bocche avevano dovuto fare gli straordinari. Mentre la lasciavo andare, dissi: «Salutami Oswald.»
«No» e rotolò giù dal letto agguantando i suoi abiti. «Non gli dico niente. Potrebbe insospettirsi. Dubito che la signora Timpson avrebbe piacere se sapesse che ti fai la ragazza dell'accettazione.»
La osservai mentre si infilava le mutandine e iniziava a vestirsi. «A dir la verità, la Timpson mi ha detto che potevo farmi chi volevo, a patto che non mi presentassi in ufficio senza i pantaloni.»
«Già» fece Belinda, infilandosi la gonna a fatica. «Solo che non lo pensava veramente. Sicuramente vuole che tu abbia addosso i pantaloni, ma gliene frega con chi ti trombi... le interessa eccome. È una gran ficcanaso. Ecco perché dirige un giornale.»

Tornato a casa, pensai che forse avrei fatto meglio ad andare a lavorare. Mentre me ne stavo seduto lì, infatti, ripresi a pensare a Jimmy e ai ricattatori, chiedendomi quando avrebbero telefonato e quale sarebbe stata la loro richiesta. Si trattava della stessa gente che aveva fatto sparire Caroline e che magari l'aveva ammazzata? Si erano imbattuti nel DVD per puro caso e vi avevano colto un'opportunità? O forse Caroline si era messa nei guai da sola ed era morta in maniera accidentale, e tra le due cose non c'era alcun nesso?
Improbabile, ma era possibile che fosse andata proprio così. Forse si era recata in quel posto per incontrarsi con Jimmy e nella zona c'era qualcun altro, un vagabondo, uno che aveva individuato un'occasione e l'aveva colta, per poi nascondere o seppellire il suo corpo. Forse il DVD lo aveva nella macchina, con l'intenzione di regalarlo a Jimmy, e l'assassino se n'era impossessato e forse se l'era guardato. Una versione un po' stiracchiata, ma comunque possibile.
E forse l'avevano rapita degli extraterrestri che prima o poi l'avrebbero riportata indietro, scaricandola sul prato della Casa Bianca.
Posai lo sguardo sulla libreria dove avevo nascosto il DVD e avvertii lo strano desiderio di infilarlo nel lettore e di riguardarmelo, ma non lo feci. L'idea di vedere Caroline mi stava bene, ma guardare mio fratello che la montava era un fatto tutto sommato imbarazzante. Forse, in un certo senso, ero geloso, come lo ero sempre stato nei confronti di Jimmy, persino adesso che era nella merda fino al collo.
A lungo andare, ci sarebbe stato ben poco di cui essere gelosi. Jimmy rischiava di essere preso a botte in testa con un cric da Trixie per colpa delle sue birbonate, e la povera Caroline rischiava di regalargli una condanna per omicidio. Niente di tutto ciò sarebbe dovuto essere fonte di invidia.
Alla fine, tutta l'attività della notte prima iniziò a farsi sentire, mi sdraiai sulla mia poltrona, tirai su il poggiapiedi e chiusi gli occhi. Decisi che, indipendentemente da come sarebbe andata a finire la storia tra me e Belinda, per lo meno il sole aveva finalmente iniziato a splendere sulle palle di questo vecchio cane e io mi sarei goduto il tepore finché una nube non avesse fatto ripiombare tutto in un freddo buio. Ripassai a mente tutto quanto Belinda e io avevamo fatto, per filo e per segno. Mi accorsi che stava iniziando davvero a piacermi, proprio come era successo con Gabby. Una sensazione che mi trasmetteva incertezza e spavento. Ero convinto di non potermi più fidare di nessuno o di nulla. Soprattutto di me stesso. Mi assopii, ma poi il cellulare squillò.
Non riuscii prontamente ad alzarmi dalla poltrona. Per un po' pensai di essere in Iraq, ma poi mi accorsi che qualcosa non quadrava. Forse ero nel mio appartamento di Houston, ma qualcosa non quadrava anche lì. Non mi ero forse trasferito? Poi mi venne in mente Belinda e pensai che forse eravamo ancora a letto, nella camera dell'albergo. Allora aprii gli occhi e mi resi conto di essere nella mia topaia. Mi alzai e mi guardai intorno. Quando trovai il cellulare, aveva già smesso di squillare.
Controllai il numero per vedere chi mi avesse cercato. Era Jimmy. Lo richiamai. Rispose dopo uno squillo. Non disse neanche ciao.
«Ho appena ricevuto le istruzioni. Vogliono diecimila dollari.»
«Diecimila dollari. E basta?»
«Già. E basta. E, credimi, è abbastanza.»
«Quando?»
«Stanotte. Senti. Sono nel mio ufficio. Preferirei parlare più tardi, a quattr'occhi. Oggi finisco di lavorare alle tre. Posso venire da te?»
«Non ci sei mai stato.»
«Però so dov'è.»
«D'accordo. Porta il biglietto, intesi?»
Riattaccammo.
Diecimila dollari. Non esattamente una fortuna. Una bella somma per uno come Jimmy. Significava che chi lo stava ricattando, chiunque fosse, sapeva quanti soldi valeva, quanti soldi gli avrebbe potuto spillare.
La faccenda si stava facendo sempre più incasinata.

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