mercoledì 29 ottobre 2025

IL TRADIMENTO DEI CHIERICI ANTI-ISRAELIANI Michele Magno



IL TRADIMENTO DEI CHIERICI 

ANTI-ISRAELIANI

 Michele Magno 

 24/10/2025


Quindici anni fa Judith Butler, filosofa di Berkeley, icona dei movimenti femministi e queer, affermava che Hamas e Hezbollah erano movimenti progressisti, parte integrante della sinistra globale. È sempre rimasta di questa opinione, tant’è che ha definito il pogrom del 7 ottobre un esempio di “resistenza armata” più che un atto di terrorismo.

In questo clima, come ha scritto Raffaele Romanelli in un saggio fresco di stampa (Post-Occidente, Laterza), il boicottaggio dei centri di ricerca israeliani e di scrittori, registi e intellettuali ebrei segnala non solo la pavidità di molte istituzioni universitarie di fronte alle pressioni studentesche, ma anche l’adesione ideologica di generazioni di docenti e intellettuali occidentali a parole d’ordine anticapitalistiche, antimoderne e filoarabe.

Quando però queste convinzioni — e certe raffinate analisi postmarxiste che le sorreggono — vengono date in pasto a un pubblico privo di spirito critico e a una classe politica priva di cultura storica, gli effetti nefasti sono inevitabili. Beninteso, tutto ciò avrebbe scarsa rilevanza se non riflettesse movimenti sociali profondi, quelli che da decenni denunciano il declino della civiltà occidentale e la crisi della democrazia rappresentativa.

Niente di nuovo sotto il sole. Già nel 1927 Julien Benda denunciava il “tradimento dei chierici”, la “condensazione delle passioni politiche in un piccolo numero di odi molto semplici”. Da allora di tradimenti se ne sono visti molti, prima di arrivare all’elogio delle brigate al-Qassam. Ci sono stati i poeti entusiasti di Stalin, che i poeti li rinchiudeva in manicomio; i giovani intellettuali inneggianti a Mao, che gli intellettuali li rieducava nei campi di lavoro forzato; o a Fidel Castro, che incarcerava gli omosessuali (e che, se fosse stato a Gaza, probabilmente li avrebbe impiccati).

Rispetto a un secolo fa, il moltiplicatore degli effetti di quel tradimento sono oggi i social media e i talk show televisivi, che alimentano un’“acculturazione” fulminea, fatta di fiammate emotive digiune di conoscenza. È il caso dei cosiddetti “pro-Pal”: quelli che invocano fin dal primo giorno la libertà per i palestinesi “dal fiume al mare”, senza avere la minima idea di quale fiume e di quale mare si tratti.

Viene il sospetto che, senza che i videoconsumatori di TikTok lo sappiano, l’identità ebraica si presti a essere considerata un bersaglio ideale avulso dalla storia — proprio come nei classici dell’antisemitismo. Così lo Stato degli ebrei, in prima linea contro l’islam che vuole annientarlo, diventa la rappresentazione mitologica o l’avatar dell’imperialismo americano.

Nell’intellighenzia filopalestinese delle due sponde dell’Atlantico, in fondo, c’è l’ansia di espiare le colpe di un passato coloniale. E oggi i palestinesi vengono perlopiù descritti come vittime passive, anonime e tutte incolpevoli: puri stereotipi vaganti fra le macerie. È come se — per dirla con Romanelli — “la cultura occidentale […] non sapesse dismettere il vecchio mito del buon selvaggio”.