Mia mamma diceva, quando il chiasso vociante era al massimo in casa: "ma basta insoma" in dialetto mantovano.
martedì 31 luglio 2018
CAT'S DREAM
Pablo Neruda
How neatly a cat sleeps,
sleeps with its paws and its posture,
sleeps with its wicked claws,
and with its unfeeling blood,
sleeps with all the rings—
a series of burnt circles—
which have formed the odd geology
of its sand-colored tail.
I should like to sleep like a cat,
with all the fur of time,
with a tongue rough as flint,
with the dry sex of fire;
and after speaking to no one,
stretch myself over the world,
over roofs and landscapes,
with a passionate desire
to hunt the rats in my dreams.
I have seen how the cat asleep
would undulate, how the night
flowed through it like dark water;
and at times, it was going to fall
or possibly plunge into
the bare deserted snowdrifts.
Sometimes it grew so much in sleep
like a tiger's great-grandfather,
and would leap in the darkness over
rooftops, clouds and volcanoes.
Sleep, sleep cat of the night,
with episcopal ceremony
and your stone-carved moustache.
Take care of all our dreams;
control the obscurity
of our slumbering prowess
with your relentless heart
and the great ruff of your tail.
Pablo Neruda
sabato 28 luglio 2018
TENERCELI
Tenerceli anche se asini e incapaci perchè dicono di "moralizzare" la politica??? Preferisco la definizione di onestà politica di Benedetto Croce, il quale – dopo aver premesso che si tratta dell’ideale che canta nell’animo di tutti gli imbecilli – spiegava che essa “non è altro che la capacità politica”.
domenica 15 luglio 2018
STAGIONI FURIOSE
Raymond Carver
I racconti giovanili come questo - riprodotto integral-mente di seguito - hanno già i caratteri che renderanno Carver celebre e amato: la passione nel raccontare storie di persone comuni, inserendo ogni vicenda nell'ambiente dove si muovono i suoi personaggi, con descrizioni nitide, essenziali, senza indulgere in dettagli maniacali.
STAGIONI FURIOSE
Quella durata che rende le Piramidi pilastri
di neve, e tutto il passato un attimo.
SIR THOMAS BROWN
Minaccia pioggia. Già le cime delle colline oltre la valle sono oscurate da una pesante foschia grigia. Nuvoloni neri cinti da bioccoli e creste bianchi si spostano rapidamente dai pendii giú nella valle, passando sopra i campi e i lotti vuoti davanti al condominio. Se Farrell dà briglia sciolta alla fantasia, nei nuvoloni vede cavalli neri con le criniere bianche al vento e dietro, lente, inesorabili, bighe nere che corrono sormontate qui e là da un auriga dal bianco pennacchio. Ma adesso chiude la zanzariera della porta e osserva la moglie che scende lentamente le scale. Arrivata in fondo si volta e gli sorride e lui riapre la zanzariera e la saluta con la mano. Dopo un attimo lei parte in macchina. Lui torna nella stanza e si siede nella grossa poltrona in pelle sotto la lampada di ottone, lasciando penzolare le braccia lungo i fianchi della poltrona.
Si è fatto leggermente piú buio nella stanza quando Iris esce dal bagno avvolta in un’ampia vestaglia bianca. Tira fuori lo sgabello da sotto la toeletta e si siede davanti allo specchio. Con la destra prende una spazzola di plastica bianca con un inserto di finta madreperla sul manico e comincia a pettinarsi con movimenti ritmici lunghi e generosi; la spazzola percorre tutta la lunghezza della sua chioma emettendo una sorta di debole cigolio. Con la sinistra si porta i capelli sopra una spalla e i movimenti ritmici lunghi e generosi li compie con la destra.
Si ferma una sola volta per accendere la lampada sopra lo specchio. Farrell raccoglie una rivista patinata dal tavolinetto accanto alla poltrona e allunga una mano per accendere la lampada, tastando il paralume in finta pergamena in cerca dell’interruttore a catenella. La lampada è a mezzo metro sopra la sua spalla destra e il paralume scuro scricchiola appena lo tocca.
Fuori è ormai buio e l’aria sa di pioggia. Iris gli chiede di chiudere la finestra. Lui alza lo sguardo verso la finestra che ora è uno specchio e vede se stesso con Iris alle spalle che lo guarda dalla toeletta e un altro se stesso, piú scuro, che fissa un’altra finestra accanto a lei. Deve ancora chiamare Frank per confermare l’uscita di caccia del giorno dopo. Sfoglia la rivista. Iris si toglie la spazzola dai capelli e la batte sul bordo della toeletta.
– Lew, – dice, – lo sai che sono incinta?
Nel cerchio di luce della lampada le pagine patinate sono ora aperte su una grande foto a mezzatinta di un disastro naturale, un terremoto, da qualche parte nel Medio Oriente. Si vedono cinque uomini rotondi con addosso dei pantaloni bianchi a sacco in piedi davanti a una casa crollata. Uno degli uomini, forse il capo, porta un cappello bianco e sporco che gli cade di sbieco su un occhio dandogli un’aria misteriosa e malevola. Fissa in tralice l’obiettivo, indicando un fiume o un braccio di mare dall’altra parte dei cumuli di macerie, dietro le rovine. Farrell chiude la rivista e se la lascia scivolare giú dalle ginocchia mentre si alza. Spegne la lampada e poi, prima di dirigersi verso il bagno, chiede: – Cos’hai intenzione di fare? – Sono parole secche, precipitose come foglie morte spazzate verso gli angoli bui della stanza e, nel momento stesso in cui gli escono di bocca, Farrell ha la sensazione che la domanda sia stata già fatta da qualcun altro, parecchio tempo prima. Si volta ed entra nel bagno.
L’odore di Iris è ancora nell’aria; un odore caldo, umido, leggermente appiccicoso; talco New Spring e acqua di colonia King’s Idyll. Sopra il sedile del water c’è il suo asciugamano. Ha sparso il talco su tutto il lavabo. Ormai con l’acqua s’è impastato in un cerchio giallastro sulle pareti bianche. Lui lo gratta e sciacqua via tutto.
Si rade. Se gira la testa vede l’interno del soggiorno. Iris siede di profilo sullo sgabello davanti alla vecchia toeletta. Farrell mette giú il rasoio e si sciacqua la faccia, poi riprende in mano il rasoio. In quel preciso istante sente le prime gocce di pioggia cadere sul tetto...
Dopo un po’ spegne la luce sopra la toeletta e si siede di nuovo sulla poltrona di pelle, ad ascoltare la pioggia che cade. Batte in brevi folate tremolanti contro i vetri della finestra. Il tremolio lieve delle ali di un uccello bianco.
L’ha preso sua sorella. Lo tiene in una scatola in cui lascia cadere fiori per lui, ogni tanto la scuote cosí possono sentire il frullo tremolante delle ali contro le pareti, finché una mattina mostra la scatola a Farrell per fargli vedere che non si sente piú alcun frullo. Solo un rumore sor do e strascinato che l’uccello fa quando lei inclina la scatola da una parte e poi dall’altra. Quando gliela dà perché se ne sbarazzi, lui getta scatola e tutto nel fiume, senza volerla aprire perché ha cominciato a emanare uno strano odore. La scatola di cartone è lunga quarantacinque centimetri, larga quindici e profonda dieci, e lui è certo che si tratta di una scatola di cracker Snowflake perché è quella che lei ha usato per i primi uccellini.
Corre lungo la riva fangosa per seguirla. È una barca funebre e il fiume limaccioso è il Nilo e ben presto sfocerà nel mare, ma prima di arrivarci la barca brucerà e l’uccellino bianco volerà via e andrà da qualche parte nei campi di suo padre, dove lui gli darà la caccia in qualche denso ciuffo d’erba, nido, uova e tutto il resto. Corre lungo la riva, con l’erba che gli frusta le gambe dei pantaloni e a un certo punto un rametto lo colpisce su un orecchio, ma la barca non è ancora bruciata. Stacca qualche sasso dalla riva e comincia a tirarlo alla barca. E poi si mette a piovere: raffiche di goccioloni enormi che sferzano l’acqua, spazzando il fiume da una riva all’altra.
Farrell era a letto da parecchie ore, ormai, quante non lo sapeva neanche lui con precisione. Ogni tanto si era sollevato su una spalla, badando bene a non disturbare la moglie, e aveva sbirciato verso il suo comodino cercando di leggere il quadrante della sveglia. Era messa un po’ troppo di sbieco e, sollevandosi su una spalla, attento com’era a far piano, era riuscito soltanto a vedere che le lancette gialle indicavano le 3.15 oppure le 2.45. Fuori, la pioggia sbatteva contro la finestra. Si è sdraiato sulla schiena, a gambe larghe sotto il lenzuolo, sfiorando appena il piede sinistro della moglie, intento ad ascoltare il ticchettio della sveglia sul comodino. Poi si è rificcato sotto la trapunta, ma, sentendo troppo caldo, tanto che gli sudavano le mani, ha tirato via le coperte, attorcigliandosi il lenzuolo tra le dita, stropicciandolo e aggrovigliandoselo contro le palme finché non se le è sentite asciutte.
Fuori la pioggia veniva giú a nuvole, sollevandosi a ondate contro la fievole luce gialla esterna come miriadi di minuscoli insetti gialli che attaccavano furiosi la finestra, tra schizzi e gorgoglii. Farrell si è voltato e ha cominciato a spostarsi lentamente verso Lorraine fino a toccare con il petto la schiena levigata di lei. Per un momento l’ha abbracciata delicatamente, con cautela, appoggiandole piano la mano sulla pancia, le dita che s’insinuavano sotto l’elastico delle mutandine con i polpastrelli che sfioravano appena i peli setolosi e densi lí sotto. Una sensazione strana, come immergersi in un bagno caldo e ridiventare bambino, con i ricordi che tornavano ad assalirlo. Ha spostato la mano e si è tirato indietro, poi è sceso pian piano dal letto e si è avvicinato alla finestra che grondava acqua.
Fuori la notte era un enorme sogno estraneo. Il lampione, un obelisco emaciato e ferito, si ergeva nella pioggia con una fioca luce gialla attaccata alla punta. Alla sua base la strada era nera e lucida. L’oscurità mulinava ai bordi della luce, intaccandoli. Non riusciva a vedere gli altri appartamenti e per un istante è sembrato che fossero stati distrutti, come le case della foto che aveva guardato qualche ora prima. La pioggia appariva e scompariva sullo sfondo della finestra come un velo scuro che si apriva e chiudeva. Piú sotto allagava la strada premendo contro i bordi dei marciapiedi. Sporgendosi di piú fino a sentire sulla fronte gli spifferi di aria fredda provenienti da sotto la finestra, Lew ha osservato il vetro appannarsi col suo respiro. Una volta da qualche parte aveva letto e gli pareva di ricordare d’aver visto anche delle foto, forse sul «National Geographic», in cui gruppi di gente dalla pelle scura in piedi intorno alle proprie capanne osservavano il sorgere di un sole avvolto dalla nebbia. La didascalia diceva che credevano che l’anima fosse visibile nel respiro, che si sputavano e soffiavano nelle mani per offrire le loro anime a Dio. L’alone del suo respiro è svanito mentre l’osservava, finché ne è rimasto soltanto un minuscolo cerchietto, un puntino e poi niente. Allora si è allontanato dalla finestra per prendere le sue cose.
Ha cercato a tentoni nel guardaroba gli stivali col carrarmato, le sue mani hanno tastato le maniche a tutti gli abiti appesi fino a trovare l’impermeabile di gomma lucida. Dal cassetto ha tirato fuori calze e biancheria di lana, poi ha preso la camicia e i pantaloni e ha portato quella pila di vestiti in cucina, passando per il corridoio, e solo allora ha acceso la luce. Si è vestito e si è infilato gli stivali prima di mettere su il caffè. Gli sarebbe piaciuto accendere la luce della veranda per Frank, ma in un certo senso non gli pareva giusto, con Iris stesa lí accanto sulla brandina. Mentre il caffè bolliva si è preparato i panini e quando ha visto che era pronto ci ha riempito il thermos, poi ha preso una tazza dalla credenza, l’ha riempita e si è seduto accanto alla finestra, da dove poteva tener d’occhio la strada. Ha fumato e bevuto il caffè, ascoltando il rumore dell’orologio del forno. Un po’ di caffè è uscito dalla tazza e colando lentamente lungo i bordi ha formato una macchia marrone sul tavolo. Allora lui ha passato la punta delle dita su quel cerchio liquido e l’ha sparso sulla superficie ruvida del piano.
È seduto alla scrivania in camera di sua sorella. Se ne sta appollaiato su un grosso dizionario sistemato sulla sedia dallo schienale dritto e tiene i piedi ripiegati sotto il fondo della sedia, coi tacchi delle scarpe agganciati ai pioli. Quando si curva troppo sulla scrivania una delle gambe si alza dal pavimento e perciò ha dovuto metterci sotto una rivista. Sta facendo un disegno della valle in cui abita. All’inizio voleva solo ricalcare una figura da qualche libro di scuola della sorella, ma, dopo aver sprecato due o tre fogli di carta insoddisfatto, ha deciso di disegnare la sua valle e la sua casa. Ogni tanto smette di disegnare e passa la punta delle dita sulla superficie sgranata del piano.
Fuori l’aria di aprile è ancora fresca e umida, quella freschezza che arriva dopo una pioggia pomeridiana. Il terreno e gli alberi sui monti sono verdi e c’è vapore dappertutto: si leva dai truogoli del recinto, dallo stagno scavato da suo padre e dal prato in lente colonne che, a forma di matita, dal fiume sale oltre le montagne come fumo. Sente il padre gridare qualcosa a uno degli uomini e poi quello rispondere imprecando. Allora posa la matita e scivola giú dalla sedia. Di sotto, davanti all’affumicatoio, vede suo padre armeggiare con il verricello. Ai suoi piedi c’è un rotolo di corda scura e il padre colpisce e tira il verricello cercando di staccarlo dalla parete della stalla. In testa porta un berretto militare di lana marrone e il colletto del suo giaccone di pelle logoro è tirato su e mostra la sudicia fodera bianca sottostante. Dopo aver dato un ultimo colpo al verricello, si volta verso gli uomini. Due di loro, canadesi massicci e dalle facce rubizze, con in testa berretti di flanella bisunta, trascinano la pecora verso suo padre. Affondano i pugni nella lana e uno di loro circonda con il braccio le zampe anteriori dell’animale. Avanzano in direzione della stalla mezzo trascinando e mezzo facendo camminare la pecora sulle zampe di dietro come in una sorta di danza selvaggia. Suo padre grida ancora qualcosa e loro bloccano la pecora contro la parete della stalla, uno dei due le sale a cavalcioni e le solleva la testa in alto, verso la finestra dove sta lui. Le narici dell’animale sono sottili fessure da cui fuoriesce un filo di muco che le cola in bocca. Gli occhi antichi e lucidi lo fissano sbarrati per un attimo prima che tenti di belare, ma il verso viene fuori come un cigolio acuto e strozzato che suo padre interrompe con un rapido e ampio affondo del coltello. Il sangue zampilla sulle mani dell’uomo prima che faccia in tempo a ritrarle. In pochi istanti hanno issato l’animale sul verricello. Sente il sordo gracchiare della carrucola mentre il padre tira su la carcassa. Ora gli uomini stanno sudando, ma tengono i giacconi ben abbottonati.
Cominciando subito sotto lo squarcio alla gola, il padre apre la punta del petto e il ventre, mentre gli altri prendono coltelli piú piccoli e cominciano a scuoiarla dalle zampe. Le viscere grigie scivolano via dal ventre fumante e cadono a terra in una spessa spirale. Suo padre grugnisce e le raccoglie in una scatola, dicendo qualcosa a proposito del parto. Gli uomini dalla faccia rubizza scoppiano a ridere. Sente sbatacchiare la catena del bagno e poi l’acqua che gorgoglia nella tazza. Un attimo dopo si volta verso la porta al suono dei passi che s’avvicinano. Sua sorella entra nella stanza, con il corpo esala un leggero vapore. Per un istante rimane ferma sulla soglia con l’asciugamano avvolto attorno alla testa, con una mano ne regge i capi mentre l’altra è appoggiata sulla maniglia. Ha i seni rotondi e lisci, i capezzoli come i gambi della frutta di porcellana a tinte calde sul tavolo del salotto. Lascia cadere l’asciugamano che le scivola addosso, le si impiglia per un attimo al collo, poi sfiora i seni e infine si raccoglie ai suoi piedi. Sorride, lentamente si porta una mano alla bocca e richiude la porta. Lui si volta di nuovo verso la finestra, con le dita dei piedi che gli s’arricciano dentro le scarpe.
Farrell era ancora seduto al tavolo, sorseggiava il caffè e fumava a stomaco vuoto. A un certo punto ha sentito una macchina giú in strada e si è alzato rapidamente dalla sedia per andare a controllare alla finestra della veranda. L’auto arrivava dal fondo della strada in seconda, poi ha rallentato davanti a casa sua, svoltando con cautela, con l’acqua che mulinava all’altezza dei mozzi delle ruote, ma ha proseguito. Si è seduto di nuovo e si è messo ad ascoltare il ronzio che proveniva dall’orologio elettrico della cucina. Le dita gli si sono strette attorno alla tazza. Poi ha visto i fari. Scendevano lungo la strada dal buio balzellando su e giú; due luci di posizione ravvicinate su un muso stretto, la pioggia bianca che cadeva pesante contro la luce dei fari, sferzando la strada davanti alla macchina che, dopo aver sguazzato lungo tutta la strada, ha rallentato e si è fermata sotto la sua finestra.
Lui ha raccolto le sue cose ed è uscito in veranda. Iris era ancora lí, distesa sotto un mucchio contorto di pesanti trapunte. Pur cercando di trovare un motivo valido per quel gesto, come se agisse con distacco, accovacciato dall’altra parte del letto a guardare se stesso compierlo, e insieme sapesse che era tutto finito, Farrell si è avvicinato al letto. Spinto da una forza irresistibile, si è chinato su di lei, come fosse lí sospeso, con tutti i sensi sbrigliati tranne l’olfatto, e ha inspirato con forza il vago sentore del suo corpo; piegandosi fin quasi a toccare con il volto le coperte, è riuscito a sentirlo ancora, ma solo per un istante, prima che svanisse. Allora ha fatto un passo indietro, si è ricordato del fucile, poi si è chiuso la porta alle spalle. La pioggia gli ha sferzato la faccia. Un lieve senso di capogiro gli ha fatto stringere il fucile e si è aggrappato alla ringhiera, per recuperare l’equilibrio. Per un attimo, guardando giú dalla veranda verso il marciapiede scuro e increspato, gli è parso di stare da solo su un ponte chissà dove e gli è tornata la stessa sensazione della sera prima, cioè che tutto quello fosse già successo, e poi la consapevolezza che sarebbe successo di nuovo, proprio come gli stava capitando ora. – Cristo santo! – La pioggia gli tagliava la faccia, gli scorreva giú per il naso e sulle labbra. Frank ha dato due colpetti di clacson e Farrell è sceso con molta cautela giú per i gradini bagnati e scivolosi fino alla macchina.
– Un vero diluvio, perdio! – ha detto Frank. Un omone, con una giacca imbottita chiusa fino almento e un berretto a becco d’anatra marrone che lo faceva sembrare un tetro arbitro di baseball. Si sbracciava per far posto sul sedile posteriore in modo che Farrell potesse sistemarvi le sue cose.
L’acqua era arrivata al livello dei marciapiedi, con i tombini agli angoli delle strade ormai intasati, e ogni tanto vedevano dove aveva superato il bordo e allagato il prato di qualche casa. Hanno seguito la strada fino in fondo e poi hanno svoltato a destra per una via che portava alla statale.
– Magari a noi questa pioggia ci farà arrivare un po’ tardi, ma, Cristo santo, pensa che effetto avrà su quelle oche!
Ancora una volta Farrell si lascia andare e le rivede, recuperandole da quell’unico momento in cui perfino la nebbia si era gelata addosso alle rocce ed era cosí buio che avrebbe potuto benissimo essere mezzanotte invece che tardo pomeriggio quando si erano mosse. Arrivano da dietro la rupe, volando basse, selvatiche e mute, spuntando all’improvviso dalla foschia come spettri in un fruscio d’ali proprio sopra la sua testa, e di soprassalto cerca di individuare quella piú vicina mentre allo stesso tempo toglie la sicura, che però s’è incastrata, cosí che il dito rigido e inguantato gli rimane agganciato dentro la guardia del grilletto, premendo contro il meccanismo bloccato. Gli passano sopra tutte, volando nella foschia, attraversando la rupe sopra la sua testa. Lunghe teorie di oche selvatiche che gli fanno il verso dall’alto. Ecco come era andata tre anni prima.
Ha osservato i campi fradici che comparivano sotto la luce dei fari e poi passavano rapidamente accanto e dietro la macchina. I tergicristalli facevano avanti e indietro cigolando.
Iris si liscia i capelli sulla spalla con la sinistra mentre l’altra mano maneggia la spazzola, che con generosi movimenti ritmici attraversa la chioma per tutta la sua lunghezza con un debole cigolio. La spazzola risale rapidamente sulla cima della testa e ripete il movimento e il rumore. Gli ha appena rivelato d’essere incinta.
Lorraine è andata a una festa. Lui deve ancora chiamare Frank per confermare l’uscita di caccia. La rivista patinata che tiene in grembo è aperta sulla scena di un disastro. Uno degli uomini nella foto, evidentemente il capo, indica in lontananza uno specchio d’acqua dall’altra parte dei cumuli di macerie.
– Che cos’hai intenzione di fare? – Si volta ed entra in bagno. L’asciugamano di lei è buttato sopra il sedile del water e la stanza odora di talco New Spring e acqua di colonia King’s Idyll. C’è un cerchio giallastro di talco impastato tutt’intorno al lavabo che deve grattare e sciacquar via prima di radersi. Da lí riesce a vedere l’interno del soggiorno, dove lei è seduta a pettinarsi. Dopo che si è lavato e asciugato la faccia, proprio quando riprende in mano il rasoio, le prime gocce di pioggia si abbattono sul tetto.
Ha lanciato un’occhiata all’orologio sul cruscotto, ma ha visto che era fermo.
– Che ore sono?
– Non far caso a quell’orologio lí, – ha detto Frank, sollevando il pollice dal volante per indicare il grosso quadrante giallo che sporgeva dal cruscotto. – È fermo. Sono le sei e mezzo. Cos’è, tua moglie t’ha detto che devi essere di ritorno a una certa ora? – Ha sorriso.
Farrell ha scosso la testa, ma Frank non poteva vederlo. – No. Mi chiedevo solo che ora era –. Si è acceso una sigaretta e si è rilassato sul sedile, osservando la pioggia sferzare contro i fari e infrangersi sul finestrino.
Stanno scendendo da Yakima per andare a prendere Iris. Ha iniziato a piovere appena si sono immessi sulla statale del fiume Columbia e, quando hanno superato Arlington, la pioggia ormai veniva giú come un torrente.
È come se attraversassero un lungo tunnel inclinato e scendono a tutta velocità sulla strada nera con gli alberi dalle chiome dense e aggrovigliate che si chiudono su di loro e l’acqua che scende a cascata davanti alla macchina. Lorraine tiene il braccio disteso sopra lo schienale del sedile e la mano appoggiata sulla spalla sinistra di Farrell. È seduta cosí vicina che lui sente il seno sinistro di lei alzarsi e abbassarsi al ritmo del respiro. Lorraine ha appena provato a sintonizzare la radio, ma c’è troppo crepitio.
– Si può sistemare sulla veranda per dormire e tenere le sue cose, – dice Farrell, senza distogliere lo sguardo dalla strada. – Non sarà per molto.
Lorraine si volta verso di lui un attimo, sporgendosi un po’ dal sedile e appoggiandogli l’altra mano sulla coscia. Con la sinistra gli preme le dita sui muscoli della spalla, poi posa il capo su di lui. Dopo un po’ dice: – Sei tutto mio, Lew. Non sopporto di dividerti con nessuno neanche per un po’. Nemmeno con tua sorella.
La pioggia pian piano rallenta e capita che non ci siano alberi sopra le loro teste. A un certo punto Farrell vede la luna, un corno che si staglia nitido e giallo, superando la foschia delle nubi grigie. Escono dai boschi, la strada piega e seguendola entrano in una vallata che si apre lungo le anse di un fiume. Non piove piú e il cielo è un tappeto nero su cui sono sparse manciate di stelle lucenti.
– Quanto si ferma? – chiede Lorraine.
– Un paio di mesi. Tre, al massimo. Quel lavoro a Seattle dovrebbe cominciare prima di Natale –. Ha un po’ di nausea per via del viaggio in macchina. Si accende una sigaretta. Il fumo grigio gliesce a fiotti dal naso e viene subito risucchiato fuori dal deflettore.
La sigaretta aveva iniziato a pizzicargli la punta della lingua e allora lui ha aperto appena il finestrino e l’ha buttata fuori. Frank è uscito dalla statale e ha imboccato una lucida strada asfaltata che li avrebbe portati giú al fiume. Ora erano in mezzo alla zona del grano: i grandi appezzamenti dove il frumento era stato mietuto si estendevano verso i colli vagamente delineati laggiú, interrotti ogni tanto da campi fangosi e come macinati, luccicanti di piccole pozze d’acqua. L’anno seguente sarebbero stati loro quelli coltivati e in estate il frumento sarebbe arrivato alla cintola d’un uomo, frusciando e curvandosi quando soffiava il vento.
– Che peccato, – ha detto Frank, – tutta questa terra senza grano per metà dell’anno con mezzo mondo che muore di fame –. Ha scosso la testa. – Se il governo non mettesse lo zampino nelle campagne, staremmo tutti molto meglio.
La strada asfaltata finiva in un intrico di crepe e buche e la macchina ha preso a sobbalzare sul fondo gommoso della strada piena di crateri che si estendeva come un lungo viale nero verso le colline.
– Hai mai visto quando mietono il grano, Lew?
– No.
Arrivava la prima luce grigia del mattino. Farrell ha visto i campi di stoppie trasformarsi in giallo intenso sotto i propri occhi. Fuori dal finestrino vedeva il cielo dove nuvole grigie rotolavano e si sfilacciavano in cumuli goffi e massicci. – Smetterà di piovere.
Sono arrivati ai piedi delle colline dove finivano le coltivazioni, poi hanno svoltato e hanno costeggiato il bordo dei campi tracciando il perimetro dei colli fino ad arrivare all’inizio del canalone. Giú in basso, in fondo ai costoni di pietra della forra, c’era il fiume, con la riva piú lontana coperta da un banco di foschia.
– Ha smesso di piovere, – ha detto Farrell.
Frank è entrato a marcia indietro in un anfratto roccioso e ha detto che il posto non era male per fermarsi. Farrell ha tirato fuori il fucile e l’ha appoggiato al parafango posteriore prima di prendere la borsa delle cartucce e un altro giaccone. Poi ha preso il sacchetto di carta con i panini e ha stretto forte le dita intorno al thermos caldo e duro. Si sono allontanati dalla macchina senza parlare seguendo il crinale prima di cominciare a scendere in una delle vallette che si aprivano nel canalone. Il terreno era costellato qua e là di sassi aguzzi o di arbusti scuri e gocciolanti di pioggia.
La terra cedeva sotto i piedi e cercava di strappargli gli stivali a ogni passo, con un rumore di risucchio quando lui riusciva a liberarli. Portava la borsa delle cartucce nella destra e la faceva oscillare come una fionda, tenendola per la cinghia. Dal fiume veniva una brezza umida che gli soffiava in faccia. Nelle pareti delle rupi basse che lo sovrastavano si aprivano profonde scanalature scavate nella roccia, lasciando piccole cenge sporgenti che segnavano i livelli d’acqua del fiume da migliaia di anni a questa parte. Mucchi di tronchi nudi sbiancati e innumerevoli pezzi di legno erano incastrati contro la cengia come tumuli d’ossa trascinati su per le rocce da qualche gigantesco uccello. Farrell ha cercato di ricordare da quale parte erano arrivate le oche tre anni prima. Si è fermato sul fianco di una collina, nel punto in cui cominciava a scendere piú ripida nel canalone, e ha appoggiato il fucile a una roccia. Ha strappato arbusti e raccolto pietre da lí intorno e poi è sceso giú verso il fiume per prendere dei pezzi di legno con cui costruirsi un capanno.
Si è seduto sull’impermeabile, la schiena appoggiata a un solido arbusto, con le ginocchia sotto il mento, a osservare il cielo impallidire e poi diventare un po’ azzurro e le nuvole correre nel vento. Le oche starnazzavano da qualche parte nella nebbia dall’altro lato del fiume. Riposava fumando e osservava il fumo che gli usciva a fiotti dalla bocca. Aspettava il sole.
Sono le quattro di pomeriggio. Il sole è appena sparito dietro le nuvole grigie del tardo pomeriggio lasciandosi dietro una mezza ombra nana che cade di traverso sulla macchina e lo segue quando ci gira intorno per andare ad aprire la portiera alla moglie. Si scambiano un bacio.
Lui e Iris torneranno a prenderla tra un’ora e quarantacinque minuti esatti. Devono passare in ferramenta e poi all’alimentari. Torneranno a prenderla alle cinque e quarantacinque. Farrell scivola di nuovo dietro al volante e dopo un attimo, appena vede che ha via libera, s’inserisce nel traffico. Per uscire dalla città deve fermarsi e ripartire a ogni semaforo rosso, ma quando alla fine svolta a sinistra sulla strada secondaria, dà tanto gas che entrambi vengono gettati indietro contro il sedile. Sono le quattro e venti. Al bivio svoltano sulla strada asfaltata, con i frutteti su entrambi i lati. Oltre la cima degli alberi s’intravedono le colline basse e brune e, piú avanti, i monti nero bluastri con la cima innevata. Dalle file serrate degli alberi, le ombre, piú scure sulle spallette, strisciano sull’asfalto davan ti alla macchina. Cassette per la frutta nuove sono ammassate in mucchi bianchi alla fine di ogni fila d’alberi; appoggiate ai tronchi o alle chiome, infilate fra i rami ci sono le scale. Farrell rallenta e si ferma, accostando alla spalletta abbastanza vicino a uno degli alberi in modo che Iris non debba far altro che aprire la portiera e allungare la mano verso il ramo. Quando lei lo lascia andare, il legno raschia lo sportello. Le mele sono gialle e pesanti e il succo dolce gli sprizza contro i denti appena li affonda nella polpa.
La strada finisce lí e loro proseguono su un polveroso sentiero in terra battuta sino alle falde delle colline dove terminano i frutteti. Però Farrell può andare ancora avanti immettendosi su una stradina che costeggia il canale d’irrigazione. Il canale è vuoto adesso e le scoscese sponde di terra sono asciutte e sgretolate. Ha dovuto scalare in seconda. La strada si fa piú ripida e l’andatura piú lenta e faticosa. Ferma la macchina sotto un pino, accanto a una chiusa dove il canale esce dalle colline per immettersi in un bacino circolare di cemento. Iris gli appoggia una mano in grembo. Ormai è quasi buio. Il vento soffia nella macchina e a un certo punto lui sente frusciare le chiome degli alberi.
Esce dalla macchina per accendersi una sigaretta e cammina fino all’orlo del pendio che sovrasta la valle. Il vento s’è fatto piú forte; l’aria, piú fredda. Sotto i suoi piedi l’erba è rada e c’è qualche fiore. La cicca traccia un breve arco contorto e incandescente quando lui la getta giú nella valle. Si sono fatte le sei.
Il freddo era intenso. I piedi intirizziti, il gelo che lentamente gli saliva lungo i polpacci e gli si piazzava dietro le ginocchia. Anche le dita erano rigide e intirizzite, per quanto tenesse i pugni stretti nelle tasche. Farrell aspettava il sole. Le enormi nubi sopra il fiume viravano, dividendosi, formandosi e riformandosi sotto i suoi occhi. All’inizio quasi non si è accorto della riga nera apparsa almargi ne piú basso delle nubi. Quando è entrata nel suo campo visivo, ha pensato fossero zanzare ammassate intorno al capanno e poi è diventato un lontano squarcio scuro tra nuvole e orizzonte che si avvicinava sotto i suoi occhi. Ma poi la riga ha virato verso di lui e si è allargata sopra i colli lí intorno. Si sentiva emozionato, ma calmo: il cuore gli pulsava nelle orecchie incitandolo a correre, eppure i suoi movimenti sono rimasti lenti e ponderosi come se avesse delle pietre pesanti attaccate alle gambe. Si è sollevato sulle ginocchia fino a premere il viso contro le frasche del capanno e si è messo a scrutare il paesaggio. Gli tremavano le gambe perciò ha affondato le ginocchia nella terra soffice. D’un tratto gli si sono addormentate le gambe, allora ha spostato una mano e l’ha spinta nel terriccio, sorpreso dal calore che avvertiva sulle dita. Poi è arrivato il fievole starnazzare delle oche sopra la sua testa e il pesante sibilo d’ali spiegate. Le dita gli si sono contratte sul grilletto. Richiami rapidi e rauchi; l’improvvisa impennata di oltre tre metri appena lo hanno individuato. Farrell s’era ormai alzato in piedi, mirando a un’oca prima di puntarne un’altra, poi subito un’altra piú vicina, seguendola fino a quando non si fermava e virava verso il fiume proprio sopra di lui. Ha lasciato partire uno, due colpi e le oche hanno continuato a volare vociando, separandosi e portandosi fuori tiro, le sagome basse confuse ormai con i profili ondulati dei colli. Ha sparato un altro colpo prima di lasciarsi cadere di nuovo sulle ginocchia dentro il capanno. Ha sentito Frank che apriva il fuoco su un’altura alle sue spalle, leggermente sulla sinistra, gli echi degli spari che rotolavano giú per il canalone come secchi schiocchi di frusta. È rimasto un po’ confuso nel vedere altre oche levarsi dal fiume, defilandosi contro il profilo dei colli e venire su per il canalone, volando in formazione a V verso la cima della gola e i campi retrostanti. Ha ricaricato il fucile con cura, spingendo le cartucce verdi e rigate del 2 nella culatta, mettendone una in canna con un secco scatto sordo. Però sei cartucce sarebbero state meglio di tre. Rapidamente ha tolto il riduttore dal serbatoio sottocanna e si è ficcato in tasca la molla e il tappo di legno. Ha sentito altri spari di Frank e d’un tratto ha visto passare uno stormo di cui non s’era accorto. Mentre lo guardava allontanarsi ne ha scorte altre tre avvicinarsi basse da una parte. Ha aspettato che fossero alla sua altezza, passando contro il fianco della collina a una trentina di metri di distanza, con le teste che giravano lentamente, ritmicamente, da sinistra a destra, gli occhi neri e lucidi. Si è sollevato su un ginocchio proprio quando gli sono arrivate a tiro, ha mirato un po’ avanti a loro e ha premuto il grilletto appena prima che si separassero. Quella piú vicina si è raggomitolata ed è venuta giú a capofitto. Ha sparato ancora appena hanno virato e ha visto un’oca bloccarsi come se avesse sbattuto contro un muro, agitarsi scompostamente come per scavalcarlo prima di rovesciarsi a testa in giú, con le ali spalancate, e cadere lentamente a spirale. Ha scaricato il fucile contro la terza oca anche se ormai era forse fuori portata, l’ha vista arrestarsi al quinto colpo, la coda ha avuto scatti ripetuti e poi si è fermata, ma le ali hanno continuato a battere. Per un pezzo l’ha osservata volare sempre piú bassa finché non è scomparsa in una delle forre.
Farrell ha steso a terra le due oche nel capanno e ne ha carezzato i soffici petti bianchi. Erano due oche del Canada, due starnazzone. Dopo quel colpo non aveva piú molta importanza che altre oche gli volassero sopra troppo alte o scendessero da qualche altra parte giú al fiume. Si è seduto contro l’arbusto a fumare, guardando il cielo che vorticava sopra la sua testa. Un po’ dopo, forse nel primo pomeriggio, s’è addormentato.
Quando si è svegliato si sentiva irrigidito, infreddolito, sudato e il sole ormai non c’era piú: il cielo era un sudario grigio sempre piú denso. Da qualche parte sentiva i richiami delle oche che s’allontanavano, lasciandosi dietro nelle valli quegli strani echi acuti, ma non riusciva a vedere altro che le colline scure e bagnate e alla base foschia dove avrebbe dovuto esserci il fiume. Si è passato una mano sulla faccia e ha cominciato a rabbrividire. Si è alzato. Vedeva la foschia rotolare su per il canalone e tracimare sui colli, isolando e rinchiudendo la terra, e sentiva il soffio freddo e umido dell’aria sfiorargli la fronte, le guance e le labbra. È uscito dal capanno sfasciandolo e ha preso a risalire il pendio di corsa.
In piedi fuori dalla macchina, si è attaccato al clacson finché Frank non è arrivato in gran fretta e gli ha tolto con forza il braccio dal finestrino.
– Che ti prende? Sei fuori di testa o che?
– Devo tornare subito a casa, te lo giuro!
– Cristo santo! Dico io, Cristo santo! Sali in macchina allora, sali!
Poi sono rimasti in silenzio, a parte quando Farrell ha chiesto un paio di volte che ore erano prima di uscire dalla zona del grano. Frank stringeva un sigaro tra i denti e non staccava mai lo sguardo dalla strada. Quando si sono imbattuti nelle prime frange vaganti dei banchi di nebbia, ha acceso i fari. Dopo che si sono immessi sulla statale, la nebbia si è diradata ed è rimasta sospesa a strati nel buio che sovrastava la macchina e le prime gocce di pioggia hanno cominciato a colpire il parabrezza. A un certo punto, tre anatre hanno attraversato il fascio di luce dei fari e si sono tuffate in una pozzanghera al lato della strada. Farrell ha sbattuto le palpebre.
– Hai visto che roba? – gli ha chiesto Frank. Farrell ha annuito.
– Come ti senti ora?
– A posto.
– Ne hai beccata nessuna di oca?
Farrell si è sfregato le mani e ha intrecciato le dita, poi alla fine se le è ripiegate in grembo. – No, mi sa di no.
– Peccato. T’ho sentito sparare –. Si è passato il sigaro dall’altra parte della bocca e ha tentato di fare un tiro, ma ormai s’era spento. Lo ha masticato per un po’, poi lo ha appoggiato sul posacenere e ha lanciato un’occhiata a Farrell.
– Certo non sono affari miei, ma se c’è qualcosa che ti preoccupa a casa... Il consiglio che posso darti è non prenderla troppo sul serio. Vivrai di piú e senza i capelli grigi che sono venuti a me –. Ha tossito ridacchiando. – Ne so qualcosa, io. Ero come te. Ricordo una volta...
Farrell è seduto nella grossa poltrona in pelle sotto la lampada di ottone e osserva Iris spazzolarsi i capelli. Tiene in grembo una rivista le cui pagine patinate sono aperte sull’immagine di un disastro naturale, un terremoto, da qualche parte nel Medio Oriente. A parte la fioca luce sopra la toeletta, la stanza è immersa nel buio. La spazzola percorre rapidamente tutta la lunghezza della sua chioma con movimenti ritmici lunghi e generosi, diffondendo una sorta di debole cigolio soffocato nella stanza. Lui deve ancora chiamare Frank per confermare l’uscita di caccia del giorno dopo. Dalla finestra arriva uno spiffero di aria fredda e umida. Lei batte nervosamente la spazzola contro il bordo della toeletta.– Lew, – dice, – lo sai che sono incinta?
Il suo odore nel bagno gli dà la nausea. L’asciugamano l’ha lasciato sopra il sedile del water. Ha sparso il talco su tutto il lavabo. Ormai con l’acqua s’è impastato in un cerchio giallastro sulle pareti bianche. Lui lo gratta e sciacqua via il tutto.
Si rade. Se gira la testa vede l’interno del soggiorno. Iris siede di profilo sullo sgabello davanti alla vecchia toeletta. Continua a spazzolarsi i capelli. Farrell mette giú il rasoio e si sciacqua la faccia, poi riprende in mano il rasoio. In quel preciso istante sente le prime gocce di pioggia cadere sul tetto...
La prende in braccio e la porta fuori sulla veranda, le volta la faccia verso la parete e la copre per bene. Torna nel bagno, si lava le mani e spinge l’asciugamano pesante e impregnato di sangue nel cesto del bucato. Dopo un po’ spegne la luce sopra la toeletta e si siede di nuovo sulla poltrona accanto alla finestra ad ascoltare la pioggia.
Frank è scoppiato a ridere. – Insomma non era niente, assolutamente niente. Dopo siamo andati d’amore e d’accordo. Be’, certo qualche litigata di tanto in tanto, ma da quando ha capito chi comandava in casa tutto è filato liscio –. Ha assestato una pacca amichevole sul ginocchio di Farrell.
Sono entrati nella periferia della città, passando davanti alla lunga sfilza di motel con le insegne al neon lampeggianti rosse, ai bar con le vetrine appannate e le macchine parcheggiate a grappoli davanti, e ai negozietti ormai chiusi e bui fino al giorno dopo. Frank ha svoltato a destra al semaforo successivo, poi a sinistra ed eccoli arrivati nella via di Farrell. Frank ha fermato la macchina dietro un veicolo bianco e nero con la scritta SHERIFF’S OFFICE dipinta in piccole lettere bianche sul bagagliaio. Alla luce dei fari hanno visto un altro vetro all’interno del veicolo con una rete metallica che rendeva il sedile posteriore simile a una gabbia. Dal cofano della loro macchina si alzava vapore misto a pioggia.
– Sta’ a vedere che sta cercando proprio te, Lew –. Ha fatto per aprire la portiera, poi si è messo a ridacchiare. – Magari hanno scoperto che sei andato a caccia senza licenza. Coraggio, ci penso io a consegnarti alla legge.
– No. Tu va pure, Frank. Non c’è problema. Me la caverò. Aspetta solo un attimo, fammi scendere!
– Cristo santo, sembra davvero che ce l’abbiano con te! Aspetta un attimo, non ti scordare il fucile –. Ha tirato giú il finestrino e ha passato l’automatico a Farrell. – Pare proprio che non smetterà piú di piovere. Ci vediamo.
– Già.
Al piano di sopra le luci dell’appartamento erano tutte accese e sagome sfocate stavano davanti alle finestre come un fregio e guardavano in strada attraverso la pioggia. Farrell è rimasto in piedi dietro alla macchina dello sceriffo sorreggendosi all’alettone liscio e bagnato. La pioggia gli cadeva sul capo scoperto e gli si insinuava giú per il colletto. Frank s’è allontanato pochi metri lungo la strada, poi si è fermato e ha guardato indietro. Ecco Farrell aggrappato all’alettone posteriore, ondeggiando leggermente, con la pioggia sottile e impenetrabile che gli cadeva tutt’intorno. L’acqua della cunetta gli scorreva sopra i piedi, vorticando spumeggiante in un mulinello sul tombino all’angolo per poi precipitarsi verso il centro della terra.
giovedì 12 luglio 2018
SICUREZZA
Estratto da "Il mondo di ieri"
di Stefan Zweig
"Oggi, per noi che abbiamo da un pezzo cancellato dal nostro vocabolario la parola «sicurezza», è facile deridere l'illusione ottimistica di quella generazione accecata dal suo idealismo illusione che il pro-gresso tecnico dovesse imman-cabilmente avere per effetto un non meno rapido miglioramento morale. Noi che nel nuovo secolo abbiamo imparato a non lasciarci più sorprendere da alcuno scoppio di bestialità collettiva, noi che dal domani aspettiamo ancor più atroci eventi che dall'ieri, siamo ben più scettici circa la perfettibilità morale degli uomini. Noi fummo costretti a dar ragione a Freud, allorché egli riconobbe nella nostra cultura e nella nostra civiltà solamente un sottile diaframma, che ad ogni momento può essere sfondato dagli impulsi distruttivi del mondo sotterraneo, e noi abbiamo dovuto a poco a poco abituarci a vivere senza un saldo terreno sotto i piedi, senza diritti, senza libertà, senza sicurezza. Da un pezzo abbiamo rinnegato per la nostra esistenza la religione dei nostri padri, la loro fede in una ascesa rapida e perenne dell'umanità."
sabato 7 luglio 2018
C'È SOLO LA STRADA
Giorgio Gaber, "C'è solo la strada", 1974-75
Maria ti amo. Maria ho bisogno di te. Poi la stringo e la bacio, infagottato d'amore e di vestiti. E anche lei si muove, felice della sua apparenza e del nostro amore. E la cosa continua bellissima per giorni e giorni. Una nave, con una rotta precisa che ci porta dritti verso una casa, una casa con noi due soli, una gran tenerezza e una porta che si chiude.
Nelle case
non c'è niente di buono
appena una porta si chiude
dietro un uomo.
Succede qualcosa di strano
non c'è niente da fare
è fatale quell'uomo
incomincia a ammuffire
Ma basta una chiave
che chiuda la porta d'ingresso
che non sei già più come prima
e ti senti depresso.
La chiave è tremenda
appena si gira la chiave
siamo dentro una stanza
si mangia si dorme si beve.
Ne ho conosciute tante di famiglie, la famiglia è più economica e protegge di più. Ci si organizza bene, una minestra per tutti, tranquillanti aspirine per tutti, gli assorbenti il cotone i confetti Falqui, soltanto quattrocento lire per purgare tutta la famiglia, un affare. Si caga, in famiglia, si caga bene, lo si fa tutti insieme.
Nelle case
non c'è niente di buono
appena una porta si chiude
dietro un uomo.
Quell'uomo è pesante
e passa di moda sul posto
incomincia a marcire
a puzzare molto presto.
Nelle case
non c’è niente di buono
c'è tutto che puzza di chiuso e di cesso
si fa il bagno ci si lava i denti
ma puzziamo lo stesso.
Amore ti lascio ti lascio.
C'è solo la strada
su cui puoi contare
la strada è l'unica salvezza
c'è solo la voglia e il bisogno di uscire
di esporsi nella strada e nella piazza.
Perché il giudizio universale
non passa per le case
le case dove noi ci nascondiamo
bisogna ritornare nella strada
nella strada per conoscere chi siamo.
C'è solo la strada su cui puoi contare
la strada è l'unica salvezza
c'è solo la voglia e il bisogno di uscire
di esporsi nella strada e nella piazza.
Perché il giudizio universale
non passa per le case
e gli angeli non danno appuntamenti
e anche nelle case più spaziose
non c’è spazio per verifiche e confronti.
Laura, ti amo. Laura, ho bisogno di te. Con te io ritrovo la strada, le piazze i giovani, gli studenti. Li avevo lasciati qualche anno fa con la cravatta. Sono molto cambiati, sono molto più belli. Le idee sì, le idee sono cambiate, e i loro discorsi e il modo di vestire. Gli esseri meno, gli esseri non sono molto cambiati. Vanno ancora nelle aule di scuola a brucare un po' di medicina, fettine di chimica, pezzetti di urbanistica con inserti di ecologia, a ore pressappoco regolari, ed esiste ancora il bar, tra un intervallo e l'altro. E poi l'amore, per fabbricarsi una felicità. Come noi ora, una coppia e ancora tante coppie. Unica diversità un viaggio in India su una Due Cavalli. Due, come noi.
E poi ancora una porta
e ancora una casa
ma siamo convinti
che sia un'altra cosa.
Perché abbiamo esperienze diverse
non può finir male
perché abbiamo una chiave moderna
abbiamo una Yale.
Perché è tutto un rapporto diverso
che è molto più avanti
ma c’è sempre una casa
con altre aspirine e calmanti.
E di nuovo mi trovo a marcire
in un altra famiglia la nostra la mia
abbracciarla guardando la porta
è la mia poesia.
Amore ti lascio vado via.
C'è solo la strada
su cui puoi contare
la strada è l'unica salvezza.
C'è solo la voglia e il bisogno di uscire
di esporsi nella strada nella piazza.
Perché il giudizio universale
non passa per le case
in casa non si sentono le trombe
in casa ti allontani dalla vita
dalla lotta dal dolore e dalle bombe.
Lidia, ti amo. Lidia, ho bisogno di te. Ma per favore, in un hotel meublè.
Perché il giudizio universale
non passa per le case
le case dove noi ci nascondiamo
bisogna ritornare nella strada
nella strada per conoscere chi siamo.
C'è solo la strada su cui puoi contare
la strada è l'unica salvezza.
C'è solo la voglia e il bisogno di uscire
di esporsi nella strada nella piazza.
Perché il giudizio universale
non passa per le case
in casa non si sentono le trombe
in casa ti allontani dalla vita
dalla lotta dal dolore e dalle bombe.
Perché il giudizio universale
non passa per le case
in casa non si sentono le trombe
in casa ti allontani dalla vita
dalla lotta dal dolore e dalle bombe.
Giorgio Gaber, "C'è solo la strada", 1974-75
LE DUE CULTURE
Gianfranco Giudice
Cultura scientifica e umanistica, le cosiddette “due culture" come si diceva un tempo e ancora pensano molti (insegnanti) oggi; in realtà la cultura è una sola perché l’uomo è uno e non due, ed è tutto umanistico essendo solo l’uomo che lo fa. La grande sfida della scuola è questa, tenere unito quello che non è diviso, come le gambe e le braccia o la testa, pur differenti sono parte di un unico organismo vivente. È incoraggiante il fatto che, nonostante le rigidità disciplinari, tanti studenti quella unità organica la raggiungano autonomamente nel corso degli studi liceali; il liceo scientifico nacque anche per questo nel 1923 con la riforma Gentile. La sfida riguarda tuttavia ogni scuola, compresi gli istituti tecnici e professionali, dove italiano e storia non mancano. Che bello sentire un ragazzo che andrà a fare il medico o l’ingegnere, oppure il chimico e si è appassionato alla letteratura, alla storia, oppure alla filosofia o al latino. Ma anche un ragazzo che si iscriverà a lettere o filosofia e si è appassionato alla biologia, alla matematica o alla fisica. Certe passioni e curiosità anche se non saranno il tuo mestiere, ti accompagneranno per tutta la vita rendendoti più ricco come persona, qualunque cosa farai. Alla fine di un colloquio ad un ragazzo che vuole diventare ingegnere dico salutandolo:”Mi raccomando, non abbandonare la storia e la filosofia”, e lui a me:”Prof farò come lei, mi iscrivo ad ingegneria e poi cambio”. Sorrido e gli rispondo:”No,no, meglio di no!”.
LA DEMOCRAZIA DEBOLE
di Antonio Ferrari
Il mondo sta vivendo una fase apparentemente sconcertante della sua lunga storia. A volte mi chiedo se sono io - siamo noi - a non voler comprendere e accettare l’impatto di una svolta radicale, che non è l’unica e non sarà l’ultima nelle vicende del nostro pianeta.
Ero convinto che le stragi dell’11 settembre del 2001 rappresentassero il culmine della svolta, avendoci costretto a consegnare le nostre incertezze e le nostre paure alla stagione di un programmato e sistematico terrore mondiale. È stato vero almeno in parte. Da quel giorno abbiamo assistito ad un’accelerazione spasmodica di eventi, che probabilmente non abbiamo ancora gli strumenti necessari per capire, o quantomeno decifrare. Non solo. C’è anche dell’altro. S’è aperta infatti, quasi fulmineamente, l’era di nuove forme di guerra, senza morti ma con il pesante condizionamento informatico e incrociato, gestito da numerosi Paesi, o meglio realizzato da grandi e medie potenze. Mentre il terzo mondo, che calamita gran parte della produzione mondiale di armi, continua invece a morire con i sistemi tradizionali. Come sempre.
L’elezione di un personaggio decisamente poco gradevole come il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ci ha mostrato all’improvviso una moderna faccia del mondo che non volevamo conoscere, ma che esisteva, esisteva eccome. Anzi esiste ed è purtroppo potente. Non siamo alla fine della storia, come sosteneva Francis Fukuyama, ma al tramonto di regole che 70anni di pace europea ci avevano consentito di coltivare e di trarne vantaggio. Probabilmente ha ragione, tra gli altri, l’ambasciatore Antonio Badini, quando nei suoi saggi parla di indebolimento generalizzato della democrazia, almeno come l’abbiamo conosciuta, e dell’imposizione di modelli autocratici permeati di arroganza, incuranti del rispetto dei diritti umani, e socialmente, almeno dal punto di vista potenziale, pericolosi.
La Russia è guidata da un uomo, Vladimir Putin, che gestisce il potere con arrogante cinismo, soprattutto nei confronti della stampa libera, sottoposta alle più tremende angherie e a pratiche feroci, che prevedono anche l’eliminazione del giornalista scomodo. In Turchia, il leader che era stato ritenuto (ne ero fra i più convinti) un modello perfetto di islamismo democratico, Recep Tayyip Erdogan, si è rivelato uno spietato tiranno. Nell’Est europeo nazionalismi, populismi e sovranismi vari si sono imposti più meno dappertutto: in Polonia, nella Repubblica ceca, in Slovacchia e sopratutto nell’Ungheria di Viktor Orban. In qualità di ambasciatore di Gariwo sono andato recentemente a Praga e a Budapest per prendere parte ad altrettante conferenze. Alla televisione ceca mi hanno chiesto di parlare dell’incubo degli immigrati islamici. Quando mi hanno spiegato che da loro i musulmani erano meno di duemila, perfettamente integrati, mi è venuto da ridere. Ciascuno vede la realtà che vuol vedere.
L’onda nazionalista avanza in Gran Bretagna. Non è un mistero che Londra sia stata pesantemente indebolita dalla “Brexit”. Se ne è resa conto anche la premier Teresa May. Gli estremisti di destra avanzano in Germania, creando non pochi problemi alla cancelliera Angela Merkel. La xenofobia e il razzismo s’impongono nell’Austria che chiude le moschee e lancia una furibonda campagna contro l’Islam. In Francia il presidente Emanuel Macron sta contenendo con molti problemi la viscida onda lepenista. E ora le elezioni e il nuovo governo italiano, che ancora stiamo cercando di decifrare. La prima impressione e’ di grande incertezza. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e’ andato in Canada e si e’ subito schierato con Trump sull’improvvisa (e forse sospetta) apertura alla Russia; ma poi ha condiviso la linea del rigore sulle sanzioni, linea sostenuta vigorosamente dai partner europei. Il vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini crea subito una crisi diplomatica con la Tunisia, l’unico Paese della sponda sud con il quale abbiamo una buona cooperazione; poi scambia calorose telefonate con l’ungherese Orban, cioè il più duro nel respingere le richieste sulla ripartizione delle quote europee di profughi: ripartizione che invece l’Italia sostiene con forza.
Abbiamo, è inutile minimizzare, un governo bifronte, ed e’ possibile che i due alleati tra non molto entrino in rotta di collisione, a meno che l’attrazione fatale per le tanto vituperate (a parole) “poltrone”, li convinca a continui compromessi, tenendo l’Italia sulla corda di una continua campagna elettorale. Mi hanno molto colpito le dichiarazioni dell’ex presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, leader educato e persona gentile. Ha detto di aver l’impressione che gli italiani, alle elezioni, abbiano votato non per scelta ma per “dispetto”. La spiegazione mi convince (almeno in parte), perché è vero che si sta diffondendo un venefico clima di conflitto sociale. Si vuol sostenere insomma che quelli che c’erano prima vivevano di privilegi, mentre ora sono arrivati i castigamatti, magari ignorantelli e superficiali ma sedicenti “duri e puri”, che conducono l’assalto a Fort Apache.
Clima pesante, molto pesante. Dobbiamo essere grati di avere un condottiero roccioso e verticale, come il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che non esito a definire un vero GIUSTO. Rimbombano poi nelle mente le parole amare di Liliana Segre, sopravvissuta all’orrore di Auschwitz e oggi senatrice a vita.” La democrazia finisce piano piano... Ho visto le parole di odio trasformarsi in dittatura... e dopo in sterminio”.
Non sarà così, ma lo sforzo di ciascuno di noi è controllare giorno per giorno i custodi del potere, e convincerli con i fatti che è necessario, e per l’Italia fondamentale, abbassare i toni e contare fino a 10 prima di abbandonarsi alle sciocchezze infantili, agli insulti e a un linguaggio da curva sportiva inquinata da tifosi volgari e screanzati.
Analisi di Antonio Ferrari, editorialista Corriere della Sera
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