lunedì 31 maggio 2021

CENT'ANNI DI SOLITUDINE Gabriel García Márquez





CENT'ANNI DI SOLITUDINE 

Gabriel García Márquez 



BARICCO: - Ho scoperto, leggendolo, che i sentimenti possono essere repentini, le passioni devastanti, le donne infinite; che gli odori non sono dei nemici, le illusioni non sono degli errori, e il tempo, se esiste, non è lineare: tutte cose che non mi avevano dato in dotazione quando mi hanno spedito a vivere. Gli sono grato per la risposta che, rigirandosi semiaddormentato nella sua amaca, il colonnello Buendía diede un giorno quando lo avvertirono che era arrivata una delegazione del partito per discutere con lui del bivio a cui era arrivata la guerra: «Portateli a puttane». . «Taciturno, silenzioso, insensibile al nuovo soffio di vitalità che faceva tremare la casa, il colonnello Aureliano Buendía comprese a malapena che il segreto di una buona vecchiaia non è altro che un patto onesto con la solitudine.»

Impossibile non amare questo libro. La storia della famiglia Buendia che coinvolge cinque generazioni è un universo di personaggi indimenticabili, situazioni estreme, vita vissuta che diventano da piccola storia familiare a grande Storia perché in qualche maniera ci rappresentano e comprendono tutti. Dalla fondazione della città di Macondo fino alla distruzione della stessa, in un viaggio che è storia ed immaginazione, realtà ed onirismo, Ogni personaggio è accuratamente descritto e vivisezionato in ogni suo aspetto, con i suoi sogni, passioni, difetti, pregi e virtù. Gioia e dolore si alternano in pagine che l’arte affabulatoria e la tecnica sopraffina di Garcia Marquez orchestrano con piena padronanza.


CENT'ANNI DI SOLITUDINE

 

Molti anni,  di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendìa si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito. Tutti gli anni, verso il mese di marzo, una famiglia di zingari cenciosi piantava la tenda vicino al villaggio, e con grande frastuono di zufoli e tamburi faceva conoscere le nuove invenzioni. Prima portarono la calamita. Uno zingaro corpulento, con barba arruffata e mani di passero, che si presentò col nome di Melquìades, diede una truculenta manifestazione pubblica di quella che egli stesso chiamava l’ottava meraviglia dei savi alchimisti della Macedonia. Andò di casa in casa trascinando due lingotti metallici, e tutti sbigottirono vedendo che i paioli, le padelle, le molle del focolare e i treppiedi cadevano dal loro posto, e i legni scricchiolavano per la disperazione dei chiodi e delle viti che cercavano di schiavarsi, e perfino gli oggetti perduti da molto tempo ricomparivano dove pur erano stati lungamente cercati, e si trascinavano in turbolenta sbrancata dietro ai ferri magici di Melquìades. “Le cose hanno vita propria,” proclamava lo zingaro con aspro accento, “si tratta soltanto di risvegliargli l’anima.” José Arcadio Buendìa, la cui smisurata immaginazione andava sempre più lontano dell’ingegno della natura, e ancora più in là del miracolo e della magia, pensò che era possibile servirsi di quella invenzione inutile per sviscerare l’oro della terra. Melquìades, che era un uomo onesto, lo prevenne: “Per quello non serve.” Ma a quel tempo José Arcadio Buendìa non credeva nell’onestà degli zingari, e così barattò il suo mulo e una partita di capri coi due lingotti calamitati.

Ursula Iguaran, sua moglie, che faceva conto su quegli animali per rimpinguare il deteriorato patrimonio domestico, non riuscì a dissuaderlo. “Molto presto ci avanzerà tanto oro da lastricarne la casa,” ribatté suo marito. Per parecchi mesi si ostinò a dimostrare la veracità delle sue congetture. Esplorò la regione a palmo a palmo, compreso il fondo del fiume, trascinando i due lingotti di ferro e recitando ad alta voce l’esorcismo di Melquìades. L’unica cosa che riuscì a dissotterrare fu una armatura del quindicesimo secolo con tutte le sue parti saldate da una crostaccia di ruggine, la cui cavità aveva la risonanza vacua di un’enorme zucca piena di sassi. Quando José Arcadio Buendìa e i quattro uomini della sua spedizione riuscirono a disarticolare l’armatura, vi trovarono dentro uno scheletro calcificato che portava appeso al collo un reliquiario di rame con un ricciolo di donna.

A marzo tornarono gli zingari. Questa volta traevano un cannocchiale e una lente grande come un tamburo, che esibirono come l’ultima scoperta degli ebrei di Amsterdam. Misero a sedere una zingara a un’estremità del villaggio e collocarono il cannocchiale sull’entrata della tenda. Per cinque reales, la gente poteva chinarsi sul cannocchiale e vedere la zingara a portata di mano. “La scienza ha eliminato le distanze,” proclamava Melquìades. “Tra poco, l’uomo potrà vedere quello che succede in qualsiasi luogo della terra, senza muoversi da casa sua.” In un mezzogiorno ardente fecero una mirabile dimostrazione con la lente gigantesca: misero un mucchio di erba secca in mezzo alla strada e le appiccarono il fuoco mediante la concentrazione dei raggi solari.

José Arcadia Buendìa, che ancora non era riuscito a consolarsi dell’insuccesso delle sue calamite, concepì l’idea di utilizzare quell’invenzione come arma di guerra. Melquìades, di nuovo, cercò di dissuaderlo. Ma finì per accettare i due lingotti calamitati e tre pezzi di denaro coloniale in cambio della lente. Ursula pianse di costernazione. Quel denaro faceva parte di un cofano di monete d’oro che suo padre aveva accumulato in tutta una vita di privazioni, e che lei aveva seppellito sotto il letto in attesa di una buona occasione per investirle.

José Arcadio Buendìa non cercò nemmeno di consolarla, completamente assorto nei suoi esperimenti tattici con l’abnegazione di uno scienziato e perfino a rischio della propria vita. Mentre cercava di dimostrare gli effetti della lente sulla truppa nemica, espose se stesso alla concentrazione dei raggi solari e patì scottature che si trasformarono in ulcere e guarirono solo dopo parecchio tempo. Nonostante le proteste di sua moglie, messa in apprensione da un’invenzione così pericolosa, poco mancò non incendiasse la casa.

Passava lunghe ore nella sua stanza, facendo calcoli sulle possibilità strategiche di quella sua arma inusitata, finché riuscì a comporre un manuale di una stupenda chiarezza didattica e di un irresistibile potere di convinzione. Lo spedì alle autorità, allegandovi numerose testimonianze sulle sue esperienze e vari fascicoli di disegni illustrativi, affidandolo a un messaggero che attraversò la sierra, si perse tra pantani smisurati, risali fiumi impetuosi e fu sul punto di perire sotto il flagello delle belve, del paludismo e della disperazione, prima di riuscire a raggiungere una, strada di allacciamento con le mule della posta. Nonostante il viaggio alla capitale fosse in quei tempi poco meno che impossibile, José Arcadio Buendìa si riprometteva di intraprenderlo non appena il governo glielo avesse ordinato, allo scopo di dare dimostrazioni pratiche della sua invenzione alle autorità militari, e addestrarle personalmente nelle arti complicate della guerra solare. Per molti anni attese una risposta.

Alla fine, stanco di aspettare, si lamentò con Melquìades del fallimento della sua iniziativa, e lo zingaro diede allora una prova convincente di onestà: gli restituì i dobloni in cambio della lente, e gli lasciò inoltre delle mappe portoghesi e diversi strumenti di navigazione. Scrisse di suo pugno una succinta sintesi degli studi del monaco Hermann, che lasciò a sua disposizione perché potesse servirsi dell’astrolabio, della bussola e del sestante. José Arcadio Buendìa trascorse i lunghi mesi di pioggia chiuso in uno stanzino che aveva costruito in fondo alla casa perché nessuno turbasse i suoi esperimenti. Tralasciò completamente i propri doveri domestici, rimase nel patio per notti intere a sorvegliare il corso degli astri, e fu sul punto di contrarre un’insolazione mentre cercava di stabilire un metodo esatto per trovare il mezzogiorno.

Quando fu esperto nell’uso e nel maneggio dei suoi strumenti, ebbe una nozione dello spazio che gli permise di navigare per mari incogniti, di visitare territori disabitati e di allacciare rapporti con esseri splendidi, senza bisogno di lasciare il suo laboratorio. Fu in quel periodo che prese l’abitudine di parlare da solo, vagando per la casa senza badare a nessuno, mentre Ursula e i bambini si rompevano la schiena nell’orto per coltivare il banano e la malanga, la manioca e l’igname, la ahuyama e la melanzana. Improvvisamente, senza alcun preavviso, la sua febbrile attività si interruppe e fu sostituita da una specie di allucinazione. Rimase come stregato per parecchi giorni, continuando a ripetere a se stesso a bassa voce una filza di sorprendenti congetture, incapace egli stesso di dar credito al proprio raziocinio. Alla fine, un martedì di dicembre, verso l’ora di pranzo, esplose in un colpo solo tutta la carica del suo tormento. I bambini avrebbero ricordato per il resto della loro vita l’augusta solennità con la quale il padre si sedette a capotavola, tremante di febbre, consunto dalla veglia prolungata e dal fermento della sua immaginazione, e rivelò la sua scoperta:

“La terra è rotonda come un’arancia.”

Ursula perse la pazienza. “Se devi diventare pazzo, diventalo per conto tuo,” gridò. “Ma non cercare di inculcare ai bambini le tue idee da zingaro.” José Arcadio Buendìa, impassibile, non si lasciò intimorire dalla disperazione di sua moglie, che in un accesso di collera gli spezzò l’astrolabio per terra. Ne costruì un altro, riunì nella stanzetta gli uomini del villaggio e dimostrò loro, con teorie che risultavano incomprensibili a tutti, la possibilità di tornare al punto di partenza navigando sempre verso oriente. Tutto il paese era convinto che José Arcadio Buendìa avesse perduto il senno, quando arrivò Melquìades a mettere le cose a posto. Esaltò pubblicamente l’intelligenza di quell’uomo che per pura speculazione astronomica aveva stabilito una teoria già provata in pratica, anche se sconosciuta fino a quel momento a Macondo, e come prova della sua ammirazione gli fece un regalo che avrebbe esercitato un influsso decisivo nel futuro del villaggio: un laboratorio di alchimia.

A quell’epoca, Melquìades era invecchiato con una rapidità sorprendente. Nei suoi primi viaggi sembrava avere pressappoco la stessa età di José Arcadio Buendìa. Ma mentre questi conservava la sua forza straordinaria, che gli permetteva di rovesciare un cavallo afferrandolo per le orecchie, lo zingaro sembrava corrotto da una malattia tenace. Era, in effetti, il risultato di molteplici e rare malattie contratte nei suoi innumerevoli viaggi intorno al mondo. Secondo quanto lui stesso raccontò a José Arcadio Buendìa mentre lo aiutava a montare il laboratorio, la morte lo seguiva dovunque, annusandogli i pantaloni, ma senza decidersi a dargli l’unghiata finale. Era uno scampato da quante piaghe e catastrofi avevano flagellato il genere umano. Era sopravvissuto alla pellagra in Persia, allo scorbuto nell’arcipelago della Malesia, alla lebbra ad Alessandria, al beriberi in Giappone, alla peste bubbonica nel Madagascar, al terremoto di Sicilia e a un naufragio di massa nello stretto di Magellano. Quell’essere prodigioso che diceva di possedere le chiavi di Nostradamus, era un uomo lugubre, permeato di un’aura triste, con uno sguardo asiatico che sembrava conoscere l’altro lato delle cose. Portava un cappello grande e nero, come le ali spiegate di un corvo, e un panciotto di velluto patinato dalla borraccina dei secoli. Ma nonostante la sua immensa sapienza e il suo ambito misterioso, aveva un peso umano, una condizione terrestre che lo mantener a imbrigliato ai minuscoli problemi della vita quotidiana. Si lamentava di malanni senili, soffriva per i più insignificanti contrattempi economici e aveva smesso di ridere da parecchio tempo, perché lo scorbuto gli aveva strappato i denti.

Quel soffocante mezzogiorno in cui rivelò i suoi segreti, José Arcadio Buendìa ebbe la certezza che fosse il principio di una grande amicizia. I suoi racconti fantastici sbalordirono i bambini. Aureliano, che allora non aveva più di cinque anni, lo avrebbe ricordato per il resto della sua vita come lo vide quel pomeriggio, seduto contro il chiarore metallico e riverberante della finestra, mentre illuminava con la sua profonda voce di organo i territori più oscuri della immaginazione, intanto che colava dalle sue tempie l’untume sciolto dal calore. José Arcadio, suo fratello maggiore, avrebbe poi trasmesso quella meravigliosa immagine, come un ricordo ereditario, a tutta la sua discendenza. Ursula, invece, aveva conservato un cattivo ricordo di quella visita, perché era entrata nella stanza nel momento in cui Melquìades per distrazione aveva rotto un flacone di bicloruro di mercurio.

“È l’odore del demonio,” disse la donna.

“Niente affatto,” corresse Melquìades. “È provato che il demonio ha proprietà solforiche, e questo non è altro che un po’ di solimato.”

Sempre didattico, fece una sapiente disquisizione sulle proprietà diaboliche del cinabro, ma Ursula non gli diede retta, e invece portò i bambini con sé a pregare. Quell’odore pungente sarebbe rimasto per sempre nella sua memoria, vincolato al ricordo di Melquìades.

Il rudimentale laboratorio - senza contare una profusione di crogiuoli, imbuti, storte, filtri e colatoi - era composto da un rudimentale atanor; una provetta di vetro col collo lungo e stretto, imitazione dell’uovo filosofico, e un distillatore fabbricato dagli stessi zingari secondo le descrizioni moderne dell’alambicco a tre bracci di Maria l’Ebrea. Oltre a queste cose, Melquìades lasciò dei campioni dei sette metalli corrispondenti ai sette pianeti, le formule di Mose e di Zosimo per la fabbricazione dell’oro, e una serie di appunti e disegni sui procedimenti del Gran Magistero, che consentivano a chi sapesse interpretarli di tentare la fabbricazione della pietra filosofale. Sedotto dalla semplicità delle formule per fabbricare l’oro, José Arcadio Buendìa fece la corte a Ursula per parecchie settimane, perché gli permettesse di disotterrare le sue monete coloniali e aumentarle di tante volte quante era possibile suddividere l’argento vivo. Ursula cedette, come faceva sempre, di fronte alla irriducibile caparbietà di suo marito. E così José Arcadio Buendìa gettò trenta dobloni in un tegame e li fece fondere insieme a limatura di rame, orpimento, zolfo e piombo. Mise a bollire il tutto a fuoco vivo in una caldaia piena di olio di ricino, finché ottenne uno sciroppo spesso e pestilenziale molto più simile al caramello volgare che all’oro magnifico. Nel corso di empirici e disperati processi di distillazione, fusa coi sette metalli planetari, lavorata col mercurio ermetico e il vetriolo di Cipro, e rimessa a cuocere in strutto di maiale, in mancanza di olio di rafano, la preziosa eredità di Ursula fu ridotta a un grumo carbonizzato che non poté essere staccato dal fondo della caldaia.

Quando tornarono gli zingari, Ursula aveva predisposto contro di loro tutta la popolazione. Ma la curiosità fu più forte del timore, perché quella volta gli zingari attraversarono il villaggio facendo un rumore assordante con ogni sorta di strumenti musicali, mentre l’imbonitore annunciava l’esibizione della più favolosa scoperta dei nazianzeni. E così tutti andarono nella tenda e per un centavo videro un Melquìades giovanile, rifiorito senza rughe, con una dentatura nuova e splendente. Coloro che ricordavano le suo gengive devastate dallo scorbuto, le gote flaccide e le labbra appassite, rabbrividirono di paura davanti a quella prova definitiva dei poteri soprannaturali dello zingaro. La paura si trasformò in panico quando Melquìades si tolse i denti, intatti, incastonati nelle gengive, e li mostrò ai pubblico per un istante - un istante fugace durante il quale tornò ad essere lo stesso uomo decrepito degli anni anteriori - e se li rimise e sorrise di nuovo con piena padronanza della sua restaurata giovinezza. Perfino José Arcadio Buendìa ritenne che le conoscenze di Melquìades fossero andate oltre ogni limite sopportabile, ma provò un salutare sollievo quando lo zingaro gli spiegò a quattr’occhi il meccanismo della sua dentiera posticcia.

La cosa gli sembrò così semplice e così prodigiosa nello stesso tempo, che dal giorno alla notte perse ogni interesse nelle ricerche di alchimia; ebbe una nuova crisi di malumore, rinunciò a mangiare in modo regolare e passava il giorno a bighellonare per la casa. “Nel mondo stanno accadendo cose incredibili,” diceva a Ursula. “A portata di mano, sull’altra riva del fiume, c’è ogni sorta di apparecchiatura magica, e noi continuiamo a vivere come gli asini.” Chi lo conosceva fin dai tempi della fondazione di Macondo, si stupiva di quanto fosse cambiato sotto l’influenza di Melquìades.

In principio, José Arcadio Buendìa era una specie di patriarca giovanile, che dava istruzioni per la semina e consigli per l’allevamento di bambini e animali, e collaborava con tutti, anche nel lavoro fisico, per il buon andamento della comunità. Dato che la sua casa era stata fin dal primo momento la migliore del villaggio, le altre furono sistemate a sua immagine e somiglianza. C’era un salotto ampio e ben illuminato, una sala da pranzo fatta a terrazza con una fioritura dai colori vivaci, due camere da letto, un patio con un gigantesco castagno, un orto ben coltivato e un cortiletto dove vivevano in pacifica comunità i capri, i porci e le galline. Gli unici animali proibiti non soltanto nella casa, ma anche in tutto il villaggio, erano i galli da combattimento.

La laboriosità di Ursula era pari a quella di suo marito. Attiva, precisa, seria, quella donna dai nervi saldissimi, che nessuno aveva mai sentito cantare in alcun momento della sua vita, sembrava essere onnipresente dall’alba fino a notte fatta, sempre inseguita dal lieve sussurro delle sue sottane di olanda. Grazie a lei, i pavimenti di terra battuta, i muri di argilla non intonacati, i rustici mobili di legno che essi stessi avevano costruito erano sempre puliti, e le vecchie cassapanche dove si conservava la roba esalavano un tiepido odore di basilico.

José Arcadia Buendìa, che era l’uomo più intraprendente che si fosse mai visto nel villaggio, aveva disposto in modo tale la posizione delle case, che da ognuna si poteva raggiungere il fiume e far rifornimento di acqua con uguale sforzo, e tracciate le strade con tanto buonsenso che nessuna casa riceveva più sole delle altre nell’ora della calura. In pochi anni, Macondo fu un villaggio più ordinato e laborioso di quanti ne avessero conosciuto fin lì i suoi trecento abitanti. Era veramente un paese felice, dove nessuno aveva più di trent’anni e dove non era morto nessuno.

Fin dai primi tempi della fondazione, José Arcadio Bucala aveva costruito trappole e gabbie. In breve riempì di trupiali, canarini, turchinetti e pettirossi non soltanto la sua ma anche tutte le case del villaggio. Il concerto di tanti uccelli diversi diventò così assordante che Ursula finì per tapparsi le orecchie con la cera per non perdere il senso della realtà. La prima volta che arrivò la tribù di Melquìades, venuta a vendere palle di vetro contro il mal di testa, tutti si meravigliarono che avesse potuto trovare quel villaggio perduto nel sopore della palude, e gli zingari confessarono di essersi guidati col canto degli uccelli.

Quello spirito di iniziativa sociale sparì in poco tempo, travolto dalla febbre della calamita, dai calcoli astronomici, dai sogni di trasmutazione e dalle ansie di conoscere le meraviglie del mondo. Da intraprendente e pulito, José Arcadio Buendìa si trasformò in un uomo dall’aspetto ciondolone, trascurato nel vestire, con una barba selvatica che Ursula riusciva a regolare solo a grande fatica con un coltello da cucina. Non mancò chi lo considerasse vittima di qualche strano sortilegio. Ma perfino i più convinti della sua pazzia abbandonarono lavoro e famiglia quando egli si buttò in spalla i suoi utensili per disboscare e chiese il concorso di tutti per aprire una via che mettesse Macondo in contatto con le grandi invenzioni.

José Arcadio Buendìa ignorava completamente la geografia della regione. Sapeva che verso oriente c’era la sierra impenetrabile e al di là della sierra l’antica città di Riohacha, dove in epoche remote - come gli aveva raccontato il primo Aureliano Buendìa, suo nonno - Sir Francis Drake si dava allo sport di cacciare i caimani a cannonate; poi li faceva rammendare e riempire di paglia per portarli alla regina Isabella. Nella sua gioventù, lui e i suoi uomini, con donne e bambini e animali ed ogni sorta di utensili domestici, avevano attraversato la sierra in cerca di uno sbocco sul mare, e dopo ventisei mesi avevano abbandonato l’impresa e fondato Macondo per non dover intraprendere il cammino di ritorno. Era, quindi, una via che non gli interessava, perché poteva condurlo soltanto al passato. Verso sud c’erano i pantani, coperti da una eterna crema vegetale, e il vasto universo della palude grande, che secondo la testimonianza degli zingari non aveva confini. La palude grande si confondeva a occidente con una distesa acquatica senza orizzonti, dove c’erano cetacei dalla pelle delicata con testa e busto di donna, che perdevano i naviganti con la malia delle loro teste madornali. Gli zingari navigavano per sei mesi su quella rotta prima di raggiungere il nastro di terraferma sul quale passavano le mule della posta. In base ai calcoli di José Arcadio Buendìa, l’unica possibilità di contatto con la civiltà era il cammino del nord. Perciò munì di utensili per disboscare e di armi da caccia gli stessi uomini che lo avevano accompagnato nella fondazione di Macondo: buttò in uno zaino i suoi strumenti di orientamento e le sue mappe, e intraprese la temeraria avventura.

Durante i primi giorni non incontrarono seri ostacoli. Scesero lungo la pietrosa sponda del fiume fino al luogo in cui anni prima avevano trovato l’armatura del guerriero, e lì penetrarono nel bosco per un sentiero di aranci silvestri. Alla fine della prima settimana, uccisero e arrostirono un cervo, ma si accontentarono di mangiarne la metà e di salare il resto per i prossimi giorni. Con questa precauzione cercavano di rimandare la necessità di continuare a nutrirsi di pappagalli, la cui carne bluastra aveva un aspro odore di muschio. Poi, per più di dieci giorni, non rividero il sole. La terra diventò molle e umida, come cenere vulcanica, e la vegetazione fu sempre più insidiosa e si fecero sempre più lontani i trilli degli uccelli e lo schiamazzo delle scimmie, e il mondo diventò triste per sempre. Gli uomini della spedizione si sentirono oppressi dai loro ricordi più antichi in quel paradiso di umidità e di silenzio, anteriore al peccato originale, dove gli stivali affondavano in pozze di oli fumanti e i machetes facevano a pezzi gigli sanguinosi e salamandre dorate. Per una settimana, quasi senza parlare, avanzarono come sonnambuli in un universo di afflizione, appena illuminati dal tenue riverbero di insetti luminosi e coi polmoni oppressi da un soffocante odore di sangue. Non potevano ritornare, perché il sentiero che andavano aprendo al loro passaggio tornava a chiudersi in poco tempo, con una vegetazione nuova che vedevano crescere quasi sotto i loro occhi. “Non importa,” diceva José Arcadio Buendìa. “L’essenziale è non perdere l’orientamento.” Affidandosi sempre alla bussola, continuò a guidare i suoi uomini verso il nord invisibile, finché pervennero ad uscire dalla regione incantata. Era una notte fonda, senza stelle, ma l’oscurità era impregnata di un’aria nuova e pulita. Sfiniti per la lunga traversata, appesero le amache e dormirono profondamente per la prima volta dopo due settimane. Quando si svegliarono, già col sole alto, rimasero stupefatti. Davanti a loro, circondato da felci e palme, bianco e polveroso nella silenziosa luce del mattino, c’era un enorme gale one spagnolo. Leggermente piegato a tribordo, dalla sua alberatura intatta pendevano i brandelli squallidi della velatura, tra sartie adorne di orchidee. Lo scafo, coperto da una nitida corazza di remora pietrificata e di musco tenero, era fermamente inchiavardato in un pavimento di pietre. Tutta la struttura sembrava occupare un ambito proprio, uno spazio di solitudine e di dimenticanza, vietato ai vizi del tempo e alle abitudini degli uccelli. Nell’interno, che la spedizione esplorò con un prudente fervore, non c’era altro che un fitto bosco di fiori.

Il ritrovamento del galeone, indizio della vicinanza del mare, frantumò l’impeto di José Arcadio Buendìa. Riteneva una burla del suo avverso destino l’aver cercato il mare senza trovarlo, a costo di sacrifici e patimenti incalcolabili, e trovarlo adesso che non l’aveva cercato, messo lì sulla loro strada come un ostacolo inevitabile. Molti anni dopo, il colonnello Aureliano Buendìa percorse di nuovo la regione, quando era ormai un regolare tragitto di posta, e l’unica cosa che trovò della nave fu l’ossatura carbonizzata in mezzo a un prato di papaveri. Finalmente convinto che quella storia non era stata un prodotto dell’immaginazione di suo padre, si chiese come mai quel galeone avesse potuto addentrarsi fino a quel punto in terraferma. Ma José Arcadio Buendìa non si prospettò quella preoccupazione quando trovò il mare, al termine di altri quattro giorni di viaggio, a dodici chilometri di distanza dal galeone. I suoi sogni terminarono davanti a quel mare color cenere, schiumoso e sudicio, che non meritava i rischi e i sacrifici della sua avventura.

“Diamine!” gridò. “Macondo è circondata dall’acqua da ogni parte.”

L’idea di una Macondo peninsulare prevalse per molto tempo, ispirata dalla mappa arbitraria che disegnò José Arcadio Buendìa al ritorno dalla sua spedizione. La schizzò con rabbia, esagerando di malafede le difficoltà di comunicazione, quasi per castigare se stesso per l’assoluta mancanza di buon senso con la quale aveva scelto il luogo. “Non arriveremo mai da nessuna parte,” si lamentava con Ursula. “Dovremo marcire qui per tutta la vita senza ricevere i benefici della scienza.” Quella certezza, ruminata per vari mesi nello stanzino del laboratorio, lo portò a concepire il progetto di trasferire Macondo in un luogo più propizio. Ma questa volta, Ursula prevenne i progetti febbrili del marito. Con un segreto e implacabile lavoro da formichina mise su le donne del paese contro la velleità dei loro uomini, che cominciavano già a prepararsi al trasloco. José Arcadio Buendìa non seppe in che momento, o in virtù di quali forze avverse, i suoi progetti si andarono irretendo in un intrico di pretesti, di contrattempi ed elusioni, fino a trasformarsi in illusione pura e semplice. Ursula lo osservò con innocente attenzione, e provò perfino un po’ di pietà per lui, il mattino in cui lo trovò nel suo stanzino appartato intento a parlottare a denti stretti dei suoi sogni di trasloco, mentre collocava i pezzi del laboratorio nelle loro casse originali, Lo lasciò finire. Lo lasciò inchiodare le casse e apporvi le sue iniziali con uno stecco inchiostrato, senza fargli alcun rimprovero, ma sapendo già che lui sapeva (perché glielo aveva sentito dire nei suoi sordi monologhi) che gli uomini del villaggio non lo avrebbero assecondato nella sua impresa. Solo quando cominciò a smontare la porta dello stanzino, Ursula si arrischiò a chiedergli perché lo faceva, e lui le rispose con una certa amarezza: “Dato che nessuno vuole andarsene, ce ne andremo noi soli.” Ursula non si turbò.

“Non ce ne andremo,” disse. “Restiamo qui, perché qui abbiamo avuto un figlio”.

“Non abbiamo ancora un morto,” disse lui. “Non si è di nessuna parte finché non si ha un morto sotto terra.”

Ursula ribatté, con dolce fermezza:

“Se è necessario che io muoia perché gli altri restino qui, io morirò.”

José Arcadio Buendìa non credette che la volontà di sua moglie fosse così rigida. Cercò di sedurla con il fascino della sua fantasia, con la promessa di un mondo prodigioso, dove bastava gettare qualche liquido magico sulla terra perché le piante dessero frutta secondo la volontà dell’uomo, e dove si vendevano a prezzi di stralcio ogni sorta di congegni contro il dolore. Ma Ursula fu insensibile alla sua chiaroveggenza.

“Invece di continuare a pensare alle tue strambe manie di novità, devi occuparti dei tuoi figli,” ribatté. “Guardali, abbandonati alla pietà di Dio, tali e quali agli asini.”

José Arcadio Buendìa prese alla lettera le parole di sua moglie. Guardò dalla finestra e vide i due bambini scalzi nell’orto assolato, e ebbe l’impressione che solo in quell’istante avessero cominciato a vivere, concepiti dallo scongiuro di Ursula. Qualcosa successe allora dentro di lui; qualcosa di misterioso e definitivo che lo sradicò dal suo tempo attuale e lo portò alla deriva in una regione inesplorata dei ricordi. Mentre Ursula continuava a scopare la casa che ora era certa di non abbandonare per il resto della sua vita, lui rimase a contemplare i bambini con uno sguardo assorto, finché gli occhi gli si inumidirono e se li asciugò col dorso della mano, ed emise un profondo sospiro di rassegnazione.

“Bene,” disse. “Digli che vengano ad aiutarmi a togliere le cose dalle casse.”

José Arcadio, il maggiore dei bambini, aveva compiuto quattordici anni. Aveva la testa quadra, i capelli ispidi e il carattere caparbio di suo padre. Anche se aveva lo stesso impulso di crescita e di forza fisica, già da allora era evidente la sua mancanza di immaginazione. Era stato concepito ed era venuto alla luce durante la penosa traversata della sierra, prima della fondazione di Macondo, e i suoi genitori avevano ringraziato il cielo dopo essersi assicurati che il bambino non aveva alcun organo di animale. Aureliano, il primo essere umano nato a Macondo, avrebbe compiuto sei anni in marzo. Era silenzioso e riservato. Aveva pianto nel ventre di sua madre ed era nato con gli occhi aperti. Mentre gli tagliavano l’ombelico girava la testa da una parte e dall’altra, osservando le cose della stanza, ed esaminava il viso della gente con curiosità priva di stupore. Poi, indifferente a chi gli si avvicinava per conoscerlo, mantenne l’attenzione concentrata nel tetto di palma, chi pareva prossimo a crollare sotto la tremenda pressione della pioggia. Ursula non pensò più all’intensità di quello sguardo fino al giorno in cui il piccolo Aureliano, all’età di tre anni, entrò in cucina proprio mentre lei toglieva dal focolare e collocava sul tavolo una pentola di brodo bollente. Il bambino, esitante sulla soglia, disse: “Ora cadrà.” La pentola era ben posata nel mezzo del tavolo, ma non appena il bambino diede l’avviso, iniziò un movimento irrevocabile verso il bordo, come spinta da un dinamismo interiore, e si frantumò per terra: Ursula, spaventata, raccontò l’episodio a suo marito, ma questi lo interpretò come un fenomeno naturale. Così fu sempre, alieno all’esistenza dei suoi figli, in parte perché considerava l’infanzia come un periodo di insufficienza mentale, e in parte perché era sempre troppo assorto nelle sue speculazioni chimeriche.

Ma dal pomeriggio in cui aveva chiamato i bambini perché lo aiutassero a spacchettare le cose del laboratorio, dedicò loro le sue ore migliori. Nello stanzino appartato, le cui pareti si vennero coprendo a poco a poco di mappe inverosimili e di grafici favolosi, gli insegnò a leggere e scrivere e a far di conto, e gli parlò delle meraviglie del mondo non solo fin dove arrivavano le sue nozioni, ma forzando fino all’incredibile i limiti della sua immaginazione. Fu così che i bambini finirono per imparare che all’estremità meridionale dell’Africa c’erano uomini così intelligenti e pacifici che la loro unica occupazione era quella di sedersi a pensare, e che era possibile attraversare a piedi il mar Egeo saltando da isola a isola fino al porto di Salonicco. Quelle allucinanti sedute rimasero impresse in modo tale nella mente dei bambini; che molti anni più tardi, un secondo prima che l’ufficiale degli eserciti regolari comandasse. Il fuoco al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendìa rivisse il tiepido pomeriggio di marzo in cui suo padre aveva interrotto la lezione di fisica, ed era rimasto incantato, con la mano in aria e gli occhi immobili, per aver udito in lontananza i pifferi e i tamburi e i sonagli degli zingari che ancora una volta arrivavano al villaggio, proclamando l’ultima e meravigliosa scoperta dei savi di Menfi.

Erano zingari nuovi. Uomini e donne giovani che conoscevano soltanto la loro propria lingua, begli esemplari con pelle lucida e mani intelligenti, i cui balli e musiche seminarono nelle strade un panico di eccitata allegria, con pappagalli di ogni colore che recitavano romanze italiane, e la gallina che faceva un centinaio di uova d’oro al suono del tamburello, e la scimmia ammaestrata che indovinava il pensiero, e la macchina molteplice che serviva allo stesso tempo per attaccare bottoni e per abbassare la febbre, e l’apparecchio per dimenticare i cattivi ricordi, e l’impiastro per perdere il tempo, e un migliaio di altre invenzioni, così ingegnose e insolite che José Arcadio Buendìa avrebbe voluto inventare la macchina della memoria per poterle ricordare tutte. In un istante trasformarono il villaggio. Gli abitanti di Macondo si trovarono improvvisamente perduti nelle loro stesse strade, storditi dalla gran folla della fiera.

Tenendo i bambini per mano per non perderli nella confusione, incrociando saltimbanchi con denti corazzati d’oro e equilibristi con sei braccia, soffocato dal confuso alito di sterco e di sandalo che esalava la folla, José Arcadio Buendìa girava disperatamente da ogni parte cercando Melquìades, per farsi rivelare gli infiniti segreti di quell’incubo favoloso. Si rivolse a diversi zingari che non capirono la sua lingua. Alla fine arrivò nel luogo dove Melquiades era solito piantare la sua tenda, e trovò un armeno taciturno che bandiva in spagnolo uno sciroppo per rendersi invisibile. Aveva ingurgitato d’un fiato un bicchiere della sostanza ambrata, quando José Arcadio Buendìa si aprì il passo a spintoni tra la gente assorta che assisteva allo spettacolo, e riuscì a fare la domanda. Lo zingaro lo avvolse nella atmosfera attonita del suo sguardo, prima di convertirsi in una pozzanghera di catrame pestilente e fumoso sulla quale aleggiò sospesa la sonorità della sua risposta: “Melquiades è morto.” Sbalordito dalla notizia, José Arcadio Buendìa rimase immobile, cercando di dominare il dolore, finché il gruppo si disperse richiamato da altri artifici e la pozza dell’armeno taciturno evaporò completamente. Più tardi, altri zingari gli confermarono che effettivamente Melquiades era stato stroncato dalle febbri nelle sirti di Singapore, e il suo corpo era stato gettato nel punto più profondo del mare di Giava. La notizia lasciò indifferenti i bambini. Volevano a tutti i costi che il padre li portasse a conoscere la portentosa novità dei savi di Menfi, annunciata all’entrata di un padiglione che, a quanto dicevano, era appartenuto al re Salomone. Tanto insistettero, che José Arcadio Buendìa pagò i trenta reales e li condusse fino al centro della tenda, dove c’era un gigante col torace peloso e la testa rapata, con un anello di rame nel naso e una pesante catena di ferro alla caviglia, che custodiva un cofano da pirata. Quando il gigante lo scoperchiò, il cofano lasciò sfuggire un alito glaciale. Dentro c’era soltanto un enorme blocco trasparente, con infiniti aghi interni nei quali si frantumava in stelle colorate il chiarore del crepuscolo. Sconcertato, sapendo che i bambini aspettavano una spiegazione immediata, José Arcadio Buendìa si azzardò a mormorare:

“È il diamante più grande del mondo.”

“No,” corresse lo zingaro. “È ghiaccio.”

José Arcadio Buendìa, senza capire, allungò la mane verso il blocco, ma il gigante gliela scostò: “Altri cinque reales per toccarlo,” disse. José Arcadio Buendìa li pagò, e allora mise la mano sul ghiaccio, e ve la tenne per diversi minuti, mentre il cuore gli si gonfiava di timore e di giubilo al contatto col mistero. Senza sapere cosa dire, pagò altri dieci reales perché i suoi figli vivessero la prodigiosa esperienza. Il piccolo José Arcadio si rifiutò di toccarlo. Invece, Aureliano fece un passo avanti, appoggiò la mano e la ritirò subito. “Sta bollendo,” esclamò spaventato. Ma suo padre non gli fece caso. Ubriacato dall’evidenza del prodigio, in quel momento si dimenticò della frustrazione delle sue imprese deliranti e del corpo di Melquìades abbandonato all’appetito dei calamari. Pagò altri cinque reales, e con la mano appoggiata al blocco di ghiaccio, come se stesse rendendo testimonianza sul testo sacro, esclamò:

“Questa è la grande invenzione del nostro tempo.”

 Quando il pirata Francis Drake prese d’assalto Riohacha, nel sedicesimo secolo, la bisnonna di Ursula Iguaràn si spaventò tanto per il suono della campana a martello e per il rimbombo dei cannoni, che perse il controllo dei nervi e si sedette su un focolare acceso. Le bruciature la lasciarono ridotta a una sposa inutile per tutta la vita. Non poteva sedersi se non di costa, sistemata su un mucchio di cuscini, e doveva esserle rimasto qualcosa di strano nel modo di muoversi, perché non si fece mai più vedere a camminare in pubblico. Rinunciò a ogni sorta di impegni sociali ossessionata dalla idea che il suo corpo emanasse un odore di bruciaticcio. L’alba la sorprendeva nel patio; non osava dormire perché sognava che gli inglesi coi loro feroci cani d’assalto entravano dalla finestra della stanza da letto e la sottoponevano a ingiuriose torture con ferri incandescenti. Suo marito, un commerciante aragonese dal quale aveva avuto due figli, spese mezzo negozio in medicine e divertimenti cercando il modo di alleviare i suoi terrori. Alla fine liquidò gli affari e portò la famiglia a vivere lontano dal mare, in un villaggio di indios pacifici situato sui contrafforti della sierra, dove fece costruire a sua moglie una stanza da letto senza finestre in modo che i pirati dei suoi incubi non avessero da dove entrare.

Nel villaggio sperduto viveva da molto tempo prima un creolo coltivatore di tabacco, don José Arcadio Buendìa, col qua le il bisnonno di Ursula stabilì una società così proficua che in pochi anni fecero una fortuna. Diversi secoli più tardi, il bisnipote del creolo si sposò con la bisnipote dell’aragonese. Per questo, ogni volta che Ursula perdeva le staffe per qualche pazzia di suo marito, sorvolando trecento anni di accidenti, malediceva l’ora in cui Francis Drake aveva preso d’assalto Riohacha. Era un semplice sfogo, perché in realtà erano legati fino alla morte da un vincolo più solido dell’amore: un comune rimorso di coscienza. Erano cugini tra loro. Avevano trascorsa l’infanzia insieme nell’antico villaggio che i loro reciproci antenati avevano trasformato col loro lavoro e le loro buone abitudini in uno dei migliori borghi della provincia. Anche se quel matrimonio era prevedibile fin dal giorno della loro nascita, quando essi espressero la volontà di sposarsi, i parenti cercarono di impedirlo. Avevano paura che quei sani boccioli di due razze secolarmente incrociate patissero l’onta di concepire delle iguane. Esisteva già un precedente terribile. Una zia di Ursula, che si era sposata con uno zio di José Arcadio Buendìa, aveva dato alla luce un figlio che aveva passato tutta la vita con dei pantaloni gonfi e flosci, e che era morto dissanguato dopo essere vissuto per quarantadue anni nel puro stato di verginità, perché era nato e cresciuto con una coda cartilaginosa a forma di cavaturacciolo e con un pennello di setole sulla punta. Una coda di maiale che non fece mai vedere a nessuna donna, e che gli costò la vita quando un macellaio amico suo gli fece il favore di mozzarla con un marrancio. José Arcadio Buendìa, con la leggerezza propria dei suoi diciannove anni, risolse il problema con una sola frase: “Non mi importa di mettere al mondo dei porcelli, purché possano parlare.” E così si sposarono con una festa di banda e petardi che durò tre giorni. Sarebbero stati felici subito se la madre di Ursula non l’avesse terrorizzata con ogni sorta di sinistri pronostici sulla sua discendenza, fino al punto di convincerla a non consumare il matrimonio. Temendo che il corpulento e voglioso marito la violasse nel sonno, Ursula si infilava prima di coricarsi un paio di calzoni rudimentali che sua madre le aveva fabbricato con tela per vele e rinforzato con un sistema di cinghie incrociate, che si chiudeva sul davanti con una grossa fibbia di ferro. Così rimasero per parecchi mesi. Di giorno, lui allevava i suoi galli da combattimento e lei ricamava a telaio con sua madre. Durante la notte, si dibattevano per diverse ore con una ansiosa violenza che sembrava già un surrogato dell’atto d’amore, finché l’intuizione popolare subodorò che stava succedendo qualcosa di irregolare, e fece correre la chiacchiera che Ursula fosse ancora vergine a un anno dalle nozze, perché suo marito era impotente. José Arcadia Buendìa fu l’ultimo ad essere informato della insinuazione.

“Vedi, Ursula, cosa va dicendo la gente,” disse a sua moglie con molta calma.

“Lascia che parlino,” disse lei. “Noi sappiamo che non è vero.”

Di modo che la situazione continuò senza cambiare per altri sei mesi, fino alla tragica domenica in cui José Arcadio Buendìa vinse un combattimento di galli contro Prudencio Aguilar. Furioso, eccitato dal sangue del suo animale, il perdente si scostò da José Arcadio Buendìa in modo che tutta l’arena potesse sentire quello che gli stava per dire.

“Complimenti,” gridò. “Vediamo un po’ se quel gallo glielo farà finalmente il favore a tua moglie.”

José Arcadio Buendìa, sereno, prese il suo gallo. “Torno subito,” disse a tutti. E poi, a Prudencio Aguilar:

“E tu, va’ a casa tua e armati, perché sto per ammazzarti.”

Dieci minuti dopo tornò con la lancia di suo nonno già esperta di sangue. Sulla soglia dell’arena, dove si era concentrato mezzo villaggio, Prudencio Aguilar lo aspettava. Non ebbe tempo di difendersi. La lancia di José Arcadio Buendìa, scagliata con la forza di un toro e con la stessa mira sicura con la quale il primo Aureliano Buendìa aveva sterminato le tigri della regione, gli trapassò la gola. Quella notte, mentre si vegliava il cadavere nell’arena dei galli, José Arcadio Buendìa entrò nella stanza da letto mentre sua moglie si stava infilando i calzoni di castità. Brandendo la lancia davanti a lei, le ordinò: “Togliti quella roba.” Ursula non mise in dubbio la fermezza di suo marito. “Sarai il responsabile di quello che succederà,” mormorò. José Arcadio Buendìa piantò la lancia nel pavimento di terra battuta.

“Se dovrai mettere al mondo delle iguane, alleveremo delle iguane,” disse. “Ma in questo paese non ci saranno più morti per colpa tua.”

Era una bella notte di giugno, fresca e con la luna, e rimasero svegli a sollazzarsi nel letto fino all’alba, indifferenti al vento che soffiava nella stanza, gonfio del pianto dei parenti di Prudencio Aguilar.

La faccenda fu considerata come un duello d’onore, ma ad ambedue rimase un turbamento nella coscienza. Una notte in cui non poteva dormire, Ursula uscì a bere acqua nel patio e vide Prudencio Aguilar vicino all’or to. Era livido, con una espressione assai triste, e cercava di chiudere con un tampone di sparto il buco della gola. Non le fece paura, ma compassione. Tornò nella stanza a raccontare a suo marito quello che aveva visto, ma lui non le fece caso. “I morti non tornano,” disse. “Il fatto è che non sopportiamo il peso della coscienza.” Due notti dopo, Ursula rivide Prudencio Aguilar nel bagno, intento a lavarsi col tampone di sparto il sangue cristallizzato del collo. Un’altra notte lo vide passeggiare sotto la pioggia. José Arcadio Buendìa, molestato dalle allucinazioni di sua moglie, uscì nel patio stringendo la lancia. Lì c’era il morto con la sua espressione triste.

“Vattene via,” gli gridò José Arcadio Buendìa. “Tante volte ritorni, tante ti riammazzo!”

Prudencio Aguilar non se ne andò, e José Arcadio Buendìa non osò scagliare la lancia. Da quel momento non riuscì a dormire bene. Lo tormentava l’immensa desolazione con la quale il morto lo aveva guardato dalla pioggia, la profonda nostalgia che provava per i vivi, l’ansietà con la quale rovistava la casa cercando l’acqua dove inzuppare il suo tampone di sparto. “Deve star soffrendo molto,” diceva a Ursula. “Si vede che è molto solo.” La donna era così impietosita che la prossima volta che sorprese il morto intento a scoperchiare le pentole del focolare capì che cosa cercava, e da allora gli mise delle scodelle d’acqua per tutta la casa. La notte in cui lo trovò a lavarsi le ferite nella sua stessa stanza, José Arcadio Buendìa non poté più resistere.

“Va bene, Prudencio,” gli disse. “Ce ne andremo da questo paese, il più lontano che potremo, e non torneremo mai più. Ora vattene in pace.”

Fu così che intrapresero la traversata della sierra. Diversi amici di José Arcadio Buendìa, giovani come lui, eccitati dall’avventura, smantellarono le loro case, presero su mogli e figli e andarono verso la terra che nessuno gli aveva promesso. Prima di partire José Arcadio Buendìa sotterrò la lancia nel patio e sgozzò l’uno dopo l’altro i suoi magnifici galli da combattimento, sperando che in quel modo avrebbe dato un po’ di pace a Prudencio Aguilar. Le uniche cose che Ursula portò con sé furono un baule col suo corredo nuziale, qualche utensile domestico e il cofanetto con le monete d’oro che aveva ereditato da suo padre. Non si fissarono un itinerario definito. Cercavano soltanto di procedere in direzione contraria a quella per Riohacha per non lasciare alcuna traccia né incontrare gente conosciuta. Fu un viaggio assurdo. Dopo quattordici mesi, con lo stomaco guasto dalla carne di micco e dal brodo di bisce, Ursula mise al mondo un figlio con tutte le sue parti umane. Aveva fatto la metà del viaggio in un’amaca appesa a un palo che due uomini reggevano a spalla, perché il gonfiore le aveva deformato le gambe, e le varici le scoppiavano come bolle d’aria. Anche se faceva pena vederli con la pancia vuota e gli occhi languidi, i bambini sopportarono il viaggio meglio dei loro genitori, e si divertirono per la maggior parte del tempo. Una mattina, dopo quasi due anni di viaggio, furono i primi mortali a vedere il versante occidentale della sierra. Dalla cima annuvolata contemplarono l’immensa pianura acquatica della palude grande estesa fino all’altro lato del mondo. Ma non incontrarono mai il mare. Una notte, dopo parecchi mesi di vagabondaggio tra i pantani, ormai lontani dagli ultimi indigeni in cui s’erano imbattuti cammin facendo, si accamparono sulla riva di un fiume sassoso le cui acque sembravano un torrente di vetro gelato. Parecchi anni dopo, durante la seconda guerra civile, il colonnello Aureliano Buendìa cercò di ripercorrere quella stessa strada per prendere Riohacha di sorpresa, e dopo sei giorni di viaggio capì che era una pazzia. Ciò nonostante, la notte in cui si accamparono vicino al fiume, le osti di suo padre avevano un aspetto di naufraghi senza scampo, ma il loro numero era aumentato durante la traversata e tutti erano disposti (e ci riuscirono) a morire di vecchiaia. Quella notte José Arcadio Buendìa sognò che in quel luogo sorgeva una città rumorosa piena di case con pareti di specchio. Chiese che città fosse quella, e gli risposero con un nome che non aveva mai sentito, che non aveva alcun significato, ma che nel sonno aveva avuto un’eco soprannaturale: Macondo. Il giorno dopo convinse i suoi uomini che non avrebbero mai trovato il mare. Ordinò di abbattere gli alberi per fare una radura vicino al fiume, nel luogo più fresco della sponda, e lì fondarono il villaggio.

José Arcadio Buendìa non riuscì a decifrare il sogno delle case con pareti di specchio fino al giorno in cui conobbe il ghiaccio. Allora credette di capire il suo profondo significato. Pensò che in un prossimo futuro si sarebbero potuti fabbricare blocchi di ghiaccio in grande scala, partendo da una materia prima tanto quotidiana quanto l’acqua e costruire con essi le nuove case del villaggio. Macondo non sarebbe più stata un luogo infuocato, dove i battacchi e le cerniere si torcevano dal caldo, e si sarebbe trasformata in una città invernale. Se non perseverò nei suoi tentativi di costruire una fabbrica di ghiaccio, fu perché allora era tutto preso dall’educazione dei suoi figli, specialmente di quella di Aureliano, che dal primo momento aveva dimostrato una rara intuizione alchemica. Il laboratorio era stato rispolverato. Riesaminando le note di Melquìades, serenamente, senza l’esaltazione della novità, in prolungate e pazienti sedute cercarono di separare l’oro di Ursula dal grumo che aderiva al fondo della caldaia. Il giovane José Arcadio partecipò appena al processo. Mentre suo padre aveva corpo e anima solo per l’atanor, il volonteroso primogenito che era sempre stato troppo grande per la sua età, si trasformò in un adolescente monumentale. Cambiò voce. Il labbro gli si coprì di una peluria incipiente. Una notte Ursula entrò nella stanza mentre lui si stava svestendo per dormire, e provò un confuso senso di vergogna e di pietà: era il primo uomo che vedeva nudo, dopo suo marito, e era così bene corredato per la vita, che gli sembrò anormale. Ursula, incinta per la terza volta, rivisse il suo sgomento di sposina.

In quel tempo andava per casa una donna allegra, sboccata, provocante, che dava una mano nelle faccende domestiche e sapeva leggere l’avvenire nelle carte. Ursula le parlò di suo figlio. Pensava che la sua sproporzione fosse qualcosa di snaturato come la coda di maiale del cugino. La donna scoppiò in una risata espansiva che si propagò per tutta la casa come uno scroscio di vetri. “Al contrario,” disse. “Sarà felice.” Per confermare il suo pronostico qualche giorno dopo portò le carte e si chiuse con José Arcadio in un granaio contiguo alla cucina. Dispose le carte con molta calma su un vecchio banco da falegname, parlando del più e del meno; mentre il ragazzo aspettava accanto a lei più annoiato che incuriosito. Improvvisamente allungò la mano e lo toccò. “Che affare,” disse, sinceramente spaventata, e fu tutto quello che riuscì a dire. José Arcadio sentì le ossa riempirglisi di schiuma, un timore languido e una terribile voglia di piangere. La donna non lo provocò. Ma José Arcadio continuò a cercarla per tutta la notte nell’odore di fumo che lei aveva nelle ascelle e che gli rimase sotto la pelle. Avrebbe voluto stare sempre con lei, avrebbe voluto che fosse sua madre, che non uscissero mai dal granaio e che gli dicesse che affare, e che tornasse a toccarlo e a dirgli che affare. Un giorno non poté più resistere e andò a cercarla a casa sua. Fece una visita formale, incomprensibile, seduto in salotto senza pronunciare una parola. In quel momento non la desiderò. La trovava diversa, del tutto estranea all’immagine che ispirava il suo odore, come se fosse un’altra. Bevve il caffè e lasciò la casa, depresso. Quella notte, nello stupore della veglia, tornò a desiderarla con un’ansia brutale, ma adesso non la voleva come era nel granaio, bensì come era stata in quel pomeriggio.

Qualche giorno dopo, inaspettatamente, la donna lo chiamò a casa sua, dove era sola con la madre, e lo fece entrare nella stanza da letto col pretesto di fargli vedere un gioco con le carte. Poi lo toccò con tanta libertà che egli provò una delusione dopo il brivido iniziale, e senti più paura che piacere. Lei gli chiese di venire a trovarla quella notte. Lui acconsentì, tanto per cavarsela, sapendo che non ne sarebbe stato capace. Ma quella notte, nel letto torrido, capì che doveva andare da lei anche se non era capace. Si vestì a tentoni, ascoltando nel buio la respirazione calma di suo fratello, la tosse secca di suo padre nella stanza vicina, l’asma delle galline nel patio, il ronzio delle zanzare, il suo batticuore e lo smisurato strepito del mondo di cui fino allora non si era accorto, e usci nella strada addormentata. Desiderava con tutto il cuore che la porta fosse sbarrata e non semplicemente accostata, come lei gli aveva promesso. Ma era aperta. La spinse con la punta delle dita e i cardini emisero un gemito lugubre e articolato che ebbe un’eco gelata nelle sue viscere. Dal momento in cui entrò, di lato e cercando di non far rumore, senti l’odore. Si trovava ancora nel salottino dove i tre fratelli della donna appendevano le amache in posizioni che egli ignorava e che non poteva stabilire nel buio, e così avrebbe dovuto attraversarlo a tentoni, spingere la porta della stanza da letto e lì orientarsi in modo tale da non capitare in un letto sbagliato. Ci riuscì. Inciampò nelle amache, che erano più basse di quello che egli aveva supposto, e un uomo che aveva russato fino a quel momento si agitò nel sonno e disse con una specie di delusione: “Era mercoledì.” Quando spinse la porta della stanza da letto, non poté impedire che raspasse sul pavimento irregolare. Improvvisamente, nel buio assoluto, capì con una irrimediabile nostalgia d’essere completamente disorientato. Nella stretta stanza dormivano la madre, un’altra figlia col marito e due bambini, e la donna che forse non lo aspettava. Avrebbe potuto lasciarsi guidare dall’odore se l’odore non fosse stato in tutta la casa, ingannevole e nello stesso tempo definito così come era sempre stato nella sua pelle. Rimase immobile per un lungo momento, chiedendosi meravigliato come aveva fatto ad arrivare in quell’abisso di abbandono, quando una mano con tutte le dita tese, che tastava nelle tenebre, gli sfiorò il viso. Non si sorprese, perché senza saperlo se lo aspettava. Allora si affidò a quella mano, e in un terribile stato di spossatezza si lasciò portare in un luogo senza forma dove lo svestirono e lo sballottarono come un sacco di patate e lo girarono per il diritto e per il rovescio, in una oscurità insondabile nella quale le braccia gli erano di troppo, dove non si sentiva più odore di donna, ma di ammoniaca, e dove cercava di ricordarsi il viso di lei e si trovava davanti il viso di Ursula, confusamente cosciente che stava facendo qualcosa che da molto tempo desiderava si potesse fare, ma che non si era mai immaginato che in realtà si potesse fare, senza sapere come lo stava facendo perché non sapeva dove erano i piedi e dove la testa, né i piedi di chi né la testa di chi, e sentendo di non potere sopportare oltre il fruscio glaciale delle sue reni e l’aria delle sue viscere, e la paura, e l’ansia stupefatta di fuggire e nello stesso tempo di rimanere per sempre in quel silenzio esasperato e in quella solitudine spaventosa.

Si chiamava Pilar Ternera. Aveva preso parte all’esodo culminato nella fondazione di Macondo, trascinata dalla sua famiglia per separarla dall’uomo che l’aveva violata a quattordici anni e aveva continuato ad amarla fino a ventidue, ma che non si era mai deciso a rendere pubblica la situazione perché non era un uomo libero. Le aveva promesso di seguirla in capo al mondo, ma più tardi, quando avesse sistemato i suoi affari, e lei si era stancata di aspettarlo identificandolo ogni volta negli uomini alti e bassi, biondi e bruni, che le carte le preannunciavano per le strade della terra e le rotte del mare, tra tre giorni, tra tre mesi o tre anni. Aveva però nell’attesa la forza delle cosce, la sodezza dei seni, l’abitudine alla dolcezza, ma manteneva intatta la follia del cuore. Sconvolto da quel balocco prodigioso, José Arcadia ne cercò le tracce ogni notte attraverso il labirinto della stanza. Una volta trovò la porta sprangata, e bussò e ribussò, sapendo che se aveva avuto l’ardire di bussare la prima volta doveva bussare fino all’ultima, e dopo un’attesa interminabile lei gli aprì la porta. Di giorno, crollando di sonno, godeva segretamente dei ricordi della notte anteriore. Ma quando lei entrava in casa, allegra, indifferente, chiacchierona, lui non doveva fare nessuno sforzo per dissimulare la sua tensione, perché quella donna, la cui risata esplosiva spaventava le colombe, non aveva nulla a che vedere col potere invisibile che gli insegnava a respirare in dentro e a controllare i battiti del cuore, e gli aveva permesso di capire perché gli uomini hanno paura della morte. Era così assorto che non comprese nemmeno la felicità di tutti quando suo padre e suo fratello misero in subbuglio la casa con la notizia che erano riusciti a vulnerare il grumo metallico e a separare l’oro di Ursula.

In effetti, dopo complicate e perseveranti manipolazioni, ci erano riusciti. Ursula era felice, e rese perfino grazie a Dio per l’invenzione dell’alchimia, mentre la gente del villaggio affollava il laboratorio, e venivano serviti dolci di guaiaba con biscottini per festeggiare il prodigio, e José Arcadio Buendìa mostrava il crogiuolo con l’oro ricuperato, come se lo avesse appena inventato. A furia di mostrarlo in giro, finì davanti al suo figlio maggiore, che negli ultimi tempi quasi non si faceva vedere nel laboratorio. Gli mise sotto gli occhi la poltiglia secca e giallastra, e gli chiese: “Cosa ti sembra?” José Arcadio, sinceramente, rispose:

“Merda di cane.”

Suo padre gli diede col rovescio della mano un violento colpo sulla bocca che gli fece schizzare il sangue e le lacrime. Quella notte Pilar Ternera gli mise delle compresse di arnica sul gonfiore, indovinando la bottiglia e il cotone nel buio, e gli fece tutto quello che volle senza che lui si disturbasse, per amarlo senza fargli male. Raggiunsero un tale stato di intimità che poco dopo, senza rendersene conto, stavano bisbigliando.

“Voglio stare solo con te,” diceva lui. “Un giorno o l’altro lo racconto a tutti e la smettiamo coi sotterfugi.”

Lei non cercò di acquietarlo.

“Sarebbe bellissimo,” disse. “Se siamo soli, lasciamo la lampada accesa per vederci bene, e io posso gridare tutto quello che voglio senza che nessuno ci metta il naso e tu mi dici nell’orecchio tutte le porcherie che ti vengono in mente.”

Questa conversazione, il rancore mordente che provava nei confronti di suo padre e l’imminente possibilità dell’amore senza freni gli ispirarono un sereno ardire. Spontaneamente, senza nessun preambolo, raccontò ogni cosa a suo fratello.

Sulle prime il piccolo Aureliano capiva soltanto il rischio, l’immensa possibilità di pericolo che implicavano le avventure di suo fratello, ma non riusciva a concepire il fascino dell’oggetto. A poco a poco fu contaminato dall’ansia. Si faceva raccontare le minuziose peripezie, si immedesimava con la sofferenza e il godimento del fratello, si sentiva spaventato e felice. Lo aspettava sveglio fino all’alba, nel letto solitario che sembrava un giaciglio di carboni ardenti, e continuavano a parlate insonni fino all’ora di alzarsi, di modo che ben presto soffrirono ambedue della stessa sonnolenza, provarono lo stesso disprezzo per l’alchimia e la sapienza del loro padre, e si rifugiarono nella solitudine. “Questi bambini sono come scimuniti,” diceva Ursula. “Avranno i vermi.” Preparò una ripugnante pozione di paico pestato, che ambedue bevvero con imprevisto stoicismo, e si sedettero contemporaneamente sui loro pitalini per undici volte in un solo giorno, e espulsero dei parassiti rosei che mostrarono a tutti con grande giubilo, perché permisero loro di disorientare Ursula sull’origine delle loro astrazioni e languori. Aureliano ormai poteva non soltanto capire, ma poteva anche vivere come cosa propria le esperienze di suo fratello, perché una volta in cui questi spiegava con molti dettagli il meccanismo dell’amore, lo interruppe pe r chiedergli; “Cosa si sente?” José Arcadio gli diede una risposta immediata:

“È come una scossa di terremoto.”

Un giovedì di gennaio, alle due del mattino, nacque Amaranta. Prima che qualcuno entrasse nella stanza, Ursula la esaminò minuziosamente. Era leggera e acquosa come una lucertolina, ma tutte le sue parti erano umane. Aureliano non si rese conto della novità fin quando sentì la casa piena di gente. Protetto dalla confusione uscì in cerca di suo fratello, che dalle undici non era a letto, e fu una decisione così impulsiva che non ebbe nemmeno il tempo di chiedersi come avrebbe fatto per toglierlo dalla stanza da letto di Pilar Ternera. Girò intorno alla casa per diverse ore, fischiettando segna li privati, finché l’avvicinarsi dell’alba lo costrinse a tornare. Nella stanza di sua madre, intento a giocare con la sorellina appena nata e con una faccia che grondava innocenza, trovò José Arcadio.

Ursula aveva appena compiuto i suoi quaranta giorni di riposo, quando tornarono gli zingari. Erano gli stessi saltimbanchi e equilibristi che avevano portato il ghiaccio. A differenza della tribù di Melquìades, avevano dimostrato in poco tempo di essere non araldi del progresso, ma spacciatori di svaghi. Perfino quando avevano portato il ghiaccio, non lo avevano annunciato in funzione della sua utilità nella vita degli uomini, ma come una semplice curiosità da baraccone. Questa volta, tra molti altri giochi di artificio, portavano una stuoia volante. Ma non la presentarono come un apporto fondamentale allo sviluppo dei trasporti, bensì come un oggetto di divertimento. La gente, era logico, dis sotterrò le sue ultime monetine d’oro per godersi un fuggevole volo sopra le case del villaggio. Protetti dalla deliziosa impunità della confusione collettiva, José Arcadio e Pilar vissero ore di completa libertà. Furono due amanti felici tra la folla, e giunsero perfino a sospettare che l’amore potesse essere un sentimento più calmo e profondo della felicità smisurata ma momentanea delle loro notti segrete. Pilar, tuttavia, ruppe l’incantesimo. Stimolata dall’entusiasmo col quale José Arcadio godeva della sua compagnia, sbagliò forma e occasione, e in un colpo solo gli fece cadere addosso il mondo. “Ora sì che sei un uomo,” gli disse. E dato che lui non comprese quello che lei voleva dirgli, glielo spiegò chiaro e tondo:

“Avrai un figlio.”

José Arcadio non osò uscir di casa per parecchi giorni. Gli bastava sentire la risata trepidante di Pilar in cucina per correre a rifugiarsi nel laboratorio, dove gli artefatti di alchimia erano rinati con la benedizione di Ursula. José Arcadio Buendìa accolse con gioia il figlio traviato e lo iniziò alla ricerca della pietra filosofale, che aveva finalmente intrapreso. Un pomeriggio i ragazzi si entusiasmarono vedendo la stuoia volante passare velocemente a livello della finestra del laboratorio con lo zingaro come conducente e sopra parecchi bambini del villaggio che facevano allegri saluti con la mano, e José Arcadio Buendìa non lo guardò nemmeno. “Lasciate che sognino,” disse. “Noi voleremo meglio di loro con risorse più scientifiche di quel miserabile giaciglio.” Nonostante il suo finto impegno, José Arcadio non capì mai i poteri dell’uovo filosofico, che gli sembrava semplicemente un fiasco mal fatto. Non riusciva a liberarsi dalla sua preoccupazione. Perse l’appetito e il sonno, fu preda del malumore, proprio come suo padre quando qualcuna delle sue imprese falliva, e fu tale il suo turbamento che lo stesso José Arcadio Buendìa lo esonerò dai suoi doveri in laboratorio credendo che avesse preso troppo di petto l’alchimia. Aureliano, naturalmente, capì che la tribolazione del fratello non aveva origine nella ricerca della pietra filosofale, ma non riuscì a strappargli una confidenza. Aveva perso la sua antica spontaneità. Da complice e comunicativo si fece ermetico e ostile. Ansioso di solitudine, morso da un astioso rancore contro il mondo, una notte disertò il letto come al solito; non andò da Pilar Ternera, ma a confondersi nel tumulto della fiera. Dopo aver vagato in mezzo a macchine d’artificio d’ogni specie, senza interessarsi a nessuno in particolare, fu colpito da qualcosa d’altro: una zingara giovanissima, quasi una bambina, stracarica di conterie, la donna più bella che José Arcadio avesse visto in tutta la sua vita. Stava tra la folla che assisteva al triste spettacolo dell’uomo trasformato in vipera per aver disubbidito ai genitori.

José Arcadio non prestò attenzione. Mentre si svolgeva il triste interrogatorio dell’uomovipera, si era fatto largo tra la folla fino alla prima fila dove si trovava la zingara, e si era fermato dietro a lei. Le si appoggiò addosso, spingendo. La ragazza cercò di staccarsi, ma José Arcadia premette con maggior forza contro la sua schiena. Allora lei lo sentì. Rimase immobile contro di lui, tremando di sorpresa e di paura, senza poter credere all’evidenza, e alla fine girò la testa e lo guardò con un sorriso tremulo. In quell’istante i due zingari misero l’uomo-vipera nella sua gabbia e lo portarono nell’interno della tenda. Lo zingaro che dirigeva lo spettacolo annunciò:

“E ora, signore e signori, mostreremo la terribile prova della donna che dovrà essere decapitata tutte le notti a quest’ora per centocinquanta anni, come castigo per aver visto quello che non doveva.”

José Arcadio e la ragazza non assistettero alla decapitazione. Andarono nella tenda di lei, e lì si baciarono con un’ansia disperata mentre si spogliavano a poco a poco. La zingara si sbarazzò dei suoi corpetti sovrapposti, dei suoi numerosi gonnellini di pizzo inamidato, del suo inutile bustino di fil di ferro, del suo carico di conterie, e si ridusse praticamente a un nulla. Era una ranina languida, coi seni incipienti e le gambe così magre che in diametro erano meno delle braccia di José Arcadio, ma aveva una fermezza e un calore che compensavano la sua fragilità. Ciò malgrado, José Arcadio non poteva ricambiarla perché si trovavano in una specie di tenda pubblica, dove gli zingari passavano con le loro cose da circo, e si facevano gli affari loro e magari si fermavano vicino al letto per una partita ai dadi. La lampada appesa all’asta centrale illuminava tutto l’ambito. In una pausa delle carezze, José Arcadio si stirò nudo nel letto, senza sapere che cosa fare, mentre la ragazza cercava di incoraggiarlo. Una zingara dalle splendide carni entrò poco dopo accompagnata da un uomo che non faceva parte della farandola, ma che non era nemmeno del villaggio, e ambedue cominciarono a svestirsi davanti al letto. Senza intenzione, la donna guardò José Arcadio e esaminò con una specie di fervore patetico il suo magnifico animale a riposo.

“Ragazzo,” esclamò, “che Dio te lo conservi.”

La compagna di José Arcadio li pregò di lasciarli in pace, e la coppia si stese per terra, assai vicino al letto. La passione altrui risvegliò la febbre di José Arcadio. Al primo contatto, le ossa della ragazza parvero disarticolarsi con uno scricchiolio disordinato come quello di un mucchietto di tessere da domino, e la sua pelle si sciolse in un sudore pallido e i suoi occhi si riempirono di lacrime e tutto il suo corpo esalò un lamento lugubre e un vago odore di fango. Ma sopportò la cozzata con una forza d’animo e un coraggio ammirevoli. José Arcadio si sentì allora elevato verso uno stato di ispirazione serafica, dove il suo cuore si disfece in una sorgente di dolci oscenità che entravano nella ragazza per le orecchie e le uscivano dalla bocca tradotte nella sua lingua. Era giovedì. La notte del sabato José Arcadio si legò uno straccio rosso in testa e se ne andò con gli zingari.

Quando Ursula scoprì la sua assenza lo cercò per tutto il villaggio. Nello smantellato accampamento degli zingari non era rimasto che un rigagnolo di rifiuti tra le ceneri ancora fumanti dei falò spenti. Qualcuno che andava da quelle parti cercando cianfrusaglie tra la spazzatura disse a Ursula che la notte precedente aveva visto suo figlio nel tumulto della farandola; spingeva un carrettino con la gabbia dell’uomo-vipera. “Si è fatto zingaro!” gridò a suo marito, che, alla notizia della scomparsa non aveva dimostrato la minima preoccupazione.

“Magari fosse vero,” disse José Arcadio Buendìa, pestando nel mortaio la materia mille volte pestata e riscaldata e ripestata. “Così imparerà a essere uomo.”

Ursula domandò da che parte se ne erano andati gli zingari. Continuò a domandare lungo la strada che le indicarono, e credendo che avrebbe fatto ancora in tempo a raggiungerli continuò ad allontanarsi dal villaggio, finché scoprì di essere così lontana che non pensò più di tornare. José Arcadio Buendìa non si accorse della scomparsa di sua moglie fino alle otto di sera, quando lasciò la materia in caldo in un letto di sterco, e andò a vedere che cosa succedeva alla piccola Amaranta arrochita a furia di piangere. In poche ore riunì un gruppo di uomini bene equipaggiati, lasciò Amaranta a una donna che si offrì di allattarla, e si perse per sentieri invisibili alla ricerca di Ursula. Aureliano li accompagnò. Dei pescatori indigeni, la cui lingua non conoscevano, fecero capire a gesti verso l’alba che non avevano visto passare nessuno. Dopo tre giorni di inutili ricerche, tornarono al villaggio.

Per parecchie settimane, Jose Arcadio Buendìa si lasciò vincere dalla costernazione. Si occupava come una madre della piccola Amaranta. Le faceva il bagno e la cambiava, la portava quattro volte al giorno dalla donna che l’allattava e di notte le cantava perfino le canzoni che Ursula non aveva mai saputo cantare. Una volta Pilar Ternera si offrì di occuparsi delle faccende di casa in attesa che Ursula tornasse. Aureliano, il cui misterioso intuito si era sensibilizzato nella disgrazia, ebbe un lampo di chiaroveggenza vedendola entrare. Allora seppe che in un certo modo inspiegabile lei aveva la colpa della fuga di suo fratello e della conseguente scomparsa di sua madre, e la incalzò in modo tale, con una silenziosa e implacabile ostilità, che la donna non tornò a mettere piede nella casa.

Il tempo mise le cose a posto. José Arcadia Buendìa e suo figlio non seppero come né quando si ritrovarono nel laboratorio, a spolverare, ad accendere il fuoco sotto l’atanor, dediti ancora una volta alla paziente manipolazione della materia addormentata da diversi mesi nel suo letto di sterco. Perfino Amaranta, coricata in un cestino di vimini, osservava con curiosità l’assorbente lavoro di suo padre e di suo fratello nello stanzino rarefatto dai vapori di mercurio. Qualche mese dopo la partenza di Ursula, cominciarono a succedere cose strane. Un flacone vuoto che per parecchio tempo era rimasto dimenticato in un armadio si fece così pesante che fu impossibile smuoverlo. Una casseruola piena di acqua collocata sul banco di lavoro bollì senza fuoco per mezz’ora finché evaporò completamente. José Arcadio Buendìa e suo figlio osservavano quei fenomeni con sbigottita contentezza, senza riuscire a spiegarseli, ma interpretandoli come annunci della materia. Un giorno il cestino di Amaranta cominciò a muoversi per impulso proprio e fece un giro completo nella stanza, con grande costernazione di Aureliano, che si affrettò a fermarlo. Ma suo padre non si turbò. Rimise il cestino al suo posto e lo legò alla gamba di un tavolo, convinto che l’avvenimento atteso era imminente. Fu in quella occasione che Aureliano lo sentì dire:

“Se non temi Dio, temi i metalli.”

Improvvisamente, quasi cinque mesi dopo la sua scomparsa, tornò Ursula. Arrivò eccitata, ringiovanita, con vestiti nuovi di foggia sconosciuta nel villaggio. José Arcadio Buendìa resistette a malapena al colpo. “Era questo!” gridava. “Sapevo che sarebbe successo.” E lo credeva veramente, perché durante i suoi prolungati ritiri, mentre manipolava la materia, pregava in fondo al cuore che il prodigio atteso non fosse la scoperta della pietra filosofale, e neppure la liberazione dell’alito che fa vivere i metalli, e neppure la facoltà di trasformare in oro le cerniere e le serrature della casa, ma ciò che in effetti era successo: il ritorno di Ursula. Ma la donna non condivideva la sua gioia. Gli diede un bacio convenzionale, come se non fosse stata assente più di un’ora, e gli disse:

“Affacciati alla porta.”

José Arcadio Buendìa ci mise parecchio a rimettersi dalla perplessità quando uscì in strada e vide la folla. Non erano zingari. Erano uomini e donne come loro, coi capelli sciolti e la pelle scura, che parlavano nella loro stessa lingua e si lamentavano degli stessi dolori. Avevano mule cariche di cose da mangiare, carrette da buoi con mobili e utensili domestici, puri e semplici accessori terrestri messi in vendita senza smancerie dagli imbonitori della realtà quotidiana. Venivano dall’altra parte della palude, a due soli giorni di viaggio, dove c’erano villaggi che ricevevano la posta tutti i mesi e conoscevano le macchine del benessere. Ursula non aveva raggiunto gli zingari, ma aveva trovato la strada che suo marito non aveva potuto scoprire nella sua vana ricerca delle grandi invenzioni.

 Il figlio di Pilar Ternera fu portato in casa dei suoi nonni dopo due settimane dalla nascita. Ursula lo accolse di malavoglia, sconfitta ancora una volta dalla ostinazione di suo marito che non poté tollerare l’idea che un rampollo del suo sangue rimanesse a navigate alla deriva, ma pretese la condizione che si nascondesse al bambino la sua vera identità. Anche se gli fu imposto il nome di José Arcadio, finirono per chiamarlo semplicemente Arcadio per evitare confusioni. In quel periodo c’era tanta alacrità nel villaggio e tante faccende in casa, che la cura dei bambini rimase in secondo piano. Li affidarono a Visitación, una india guajira che era arrivata nel villaggio con un fratello, per sfuggire a una peste di insonnia che flagellava la sua tribù ormai da parecchi anni. Erano tutt’e due così docili e servizievoli che Ursula li prese a suo carico perché la aiutassero nelle faccende domestiche. Fu così che Arcadio e Amaranta parlarono la lingua guajira prima ancora dello spagnolo, e impararono a bere brodo di lucertoline e a mangiare uova di ragni senza che Ursula se ne accorgesse, perché era troppo affaccendata in una promettente industria di animaletti di caramello. Macondo era trasformata. La gente che era arrivata con Ursula divulgò la buona qualità del terreno e la sua posizione privilegiata nei confronti della palude, di modo che lo spoglio paesetto di altri tempi si trasformò assai presto in un villaggio attivo, con negozi e botteghe artigiane, e una via di ininterrotti traffici commerciali: da lì, appunto arrivarono i primi arabi con babbucce e anelli alle orecchie, a barattare collane di vetro contro pappagalli. José Arcadio Buendìa non ebbe un istante di riposo. Affascinato da una realtà immediata che allora gli parve più fantastica del vasto universo della sua immaginazione, perse ogni interesse nel laboratorio di alchimia, mise a riposo la materia estenuata da lunghi mesi di manipolazione, e tornò a essere l’uomo intraprendente dei primi tempi che decideva il tracciato delle strade e la posizione delle nuove case, in modo che nessuno godesse di privilegi che non avessero tutti. Acquistò tanta autorità tra i nuovi arrivati che non si gettarono fondamenta né si alzarono steccati senza consultarlo in proposito, e si decise che sarebbe stato lui a dirigere la ripartizione della terra. Quando tornarono gli zingari saltimbanchi, ora con la loro fiera ambulante trasformata in un gigantesco traffico di giochi di sorte e azzardo, furono ricevuti con gioia perché si pensava che José Arcadia tornava con loro. Ma José Arcadio non tornò, né portarono l’uomo-vipera che avrebbe potuto informarli sulla sorte del loro figlio, e così non si permise agli zingari né di far sosta nel villaggio né di tornare a mettervi piede in futuro, perché vennero considerati come messaggeri della concupiscenza e della perversione. Tuttavia José Arcadio Buendìa fece sapere esplicitamente che l’antica tribù di Melquìades, che tanto aveva contribuito all’evoluzione del villaggio con la sua millenaria sapienza e le sue favolose invenzioni, avrebbe trovato sempre le porte aperte. Ma la tribù di Melquìades, secondo quello che raccontarono i giramondo, era stata cancellata dalla faccia della terra per aver oltrepassato i limiti dello scibile umano.

Emancipato almeno per il momento dalle torture della fantasia, José Arcadio Buendìa impose in poco tempo uno stato di ordine e di lavoro, dentro il quale si permise soltanto una licenza: la liberazione degli uccelli che dall’epoca della fondazione rallegravano il tempo coi loro flauti, e la loro sostituzione con orologi musicali in tutte le case. Erano dei bellissimi orologi di legno lavorato che gli arabi barattavano con pappagalli, e che José Arcadio Buendìa sincronizzò con tanta precisione, che ogni mezz’ora il villaggio si allietava dei progressivi accordi di uno stesso motivo, fino a culminare in un mezzogiorno esatto e unanime con il valzer completo. Fu sempre José Arcadio Buendìa a decidere in quegli anni che per le strade del villaggio si seminassero mandorli invece di acacie, e lui a scoprire senza rivelarli mai i metodi per renderli eterni. Molti anni dopo, quando Macondo diventò una borgata con case di legno e tetti di zinco, nelle strade più antiche c’erano ancora i mandorli spezzati e polverosi, anche se allora nessuno sapeva chi li aveva seminati. Mentre suo padre metteva in ordine il villaggio e sua madre consolidava il patrimonio domestico con la sua meravigliosa industria di galletti e di pesci caramellati che due volte al giorno uscivano dalla casa infilati su stecchi di legno, Aureliano viveva ore interminabili nel laboratorio abbandonato, imparando per puro amore di ricerca l’arte dell’orafo. Si era allungato tanto che in poco tempo non gli servi più la roba lasciata da suo fratello e cominciò a usare quella di suo padre, ma fu necessario che Visitación gli accorciasse le camicie e gli stringesse i pantaloni, perché Aureliano non aveva ereditato la corpulenza degli altri Buendìa. L’adolescenza gli aveva tolto la dolcezza dalla voce e lo aveva reso silenzioso e definitivamente solitario, ma in cambio gli aveva restituito l’espressione intensa che aveva nello sguardo quando era nato. Era così concentrato nei suoi esperimenti di oreficeria che lasciava a malincuore il laboratorio per mangiare. Preoccupato di quella sua introversione, José Arcadio Buendìa gli diede le chiavi di casa e un po’ di denaro, pensando che forse aveva bisogno di una donna. Ma Aureliano spese il denaro in acido muriatico per preparare acqua regia e abbellì le chiavi con un bagno di oro. Le sue esagerazioni erano appena paragonabili a quelle di Arcadio e di Amaranta, che avevano cominciato a mettere i denti nuovi ma ancora stavano attaccati tutto il giorno alla coperta degli indios, caparbi nella loro decisione di non parlare lo spagnolo, ma la lingua guajira. “Non hai di che lamentarti,” diceva Ursula a suo marito. “I figli ereditano le mattane dei loro genitori.” E mentre si lamentava della sua cattiva sorte, convinta che le stravaganze dei suoi figli fossero qualcosa di tanto spaventoso quanto una coda di maiale, Aureliano la fissò con un’occhiata che la avvolse in un alone di incertezza.

“Sta per venire qualcuno,” le disse.

Ursula, come ogni volta che suo figlio esprimeva un pronostico, cerco di scoraggiarlo con la sua logica casalinga. Era normale che arrivasse qualcuno. Decine di forestieri passavano quotidianamente da Macondo senza suscitare inquietudini né anticipare annunci segreti. Tuttavia, al di sopra di ogni logica, Aureliano era sicuro del suo presagio.

“Non so chi sarà,” insistette, “ma chiunque sia è già in cammino.”

La domenica, effettivamente, arrivò Rebeca. Non aveva più di undici anni. Aveva fatto il penoso viaggio da Manaure con dei commercianti di pellame che avevano avuto l’incarico di consegnarla insieme a una lettera nella casa di José Arcadio Buendìa, ma che non poterono spiegare con precisione chi era la persona che aveva chiesto loro il favore. Tutto il suo bagaglio era composto dal bauletto della roba, da una poltroncina a dondolo di legno con fiorellini colorati dipinti a mano e da un sacco di tela che faceva un continuo rumore di cloc cloc cloc, dove portava le ossa dei suoi genitori. La lettera indirizzata a José Arcadio Buendìa era scritta in termini molto affettuosi da qualcuno che continuava a volergli molto bene nonostante il tempo e la distanza e che si sentiva costretto da un elementare senso umanitario a fare la carità di riandargli quella povera orfanella senza protezione, che era cugina di Ursula in secondo grado e di conseguenza parente anche di José Arcadio Buendìa, pur in grado meno stretto, perché era figlia di quell’indimenticabile amico che era stato Nicanor Ulloa e della sua degnissima sposa Rebeca Montiel, che Dio li accogliesse nel suo santo regno, i cui resti allegava alla presente perché gli dessero cristiana sepoltura. Sia i nomi menzionati che la firma della lettera erano perfettamente leggibili, ma né José Arcadio Buendìa né Ursula si ricordavano di avere avuto dei parenti con quei nomi e non conoscevano nessuno che si chiamasse come il mittente e meno ancora nel remoto borgo di Manaure. Dalla bambina non fu possibile ottenere alcuna informazione complementare. Dal momento in cui arrivò si sedette a succhiarsi il dito nella poltroncina a dondolo e a osservare tutti coi grandi occhi spaventati, senza dar mostra alcuna di capire ciò che le chiedevano. Portava un vestito di diagonale tinto di nero, sciupato dall’uso, e un paio di stivaletti di vernice scrostati. I capelli erano raccolti dietro le orecchie con nodi di nastro nero. Aveva uno scapolare con le immagini cancellate dal sudore e al polso destro una zanna di animale carnivoro incastonato in rame come amuleto contro il malocchio. La pelle verde, il ventre rotondo e teso come un tamburo, rivelavano una cattiva salute e una fame più vecchia della bambina stessa, ma quando le diedero da mangiare rimase col piatto sulle gambe senza assaggiare nulla. Si giunse perfino a credere che fosse sordomuta, finché gli indios le chiesero nella loro lingua se voleva un po’ di acqua e lei mosse gli, occhi come se li avesse riconosciuti e disse di sì con la testa.

Se la tennero perché non c’era altro rimedio. Decisero di chiamarla Rebeca, che stando alla lettera era il nome di sua madre, perché Aureliano ebbe la pazienza di leggere davanti a lei tutti i santi del calendario e non riuscì a farla reagire a nessun nome. Dato che in quel tempo non c’era cimitero a Macondo, perché fino a quel momento non era morto nessuno, in attesa che ci fosse un luogo degno per seppellirle, conservarono il sacco con le ossa; per molto tempo diedero fastidio dappertutto e si intoppavano dove meno si supponeva, sempre col loro chiocciante chioccolare di gallina covaticcia. Passò molto tempo prima che Rebeca si integrasse alla vita della famiglia. Si sedeva sulla poltroncina a dondolo, nell’angolo più appartato della casa, e si succhiava il dito. Niente la interessava, tranne la musica degli orologi, che ogni mezz’ora cercava con occhi spaventati, come se si aspettasse di trovarla in qualche punto dell’aria. Per parecchi giorni non riuscirono a farla mangiare. Nessuno capiva come non era morta di fame, finché gli indigeni, che si rendevano conto di tutto perché giravano instancabilmente per la casa coi loro piedi furtivi, scoprirono che a Rebeca piaceva soltanto mangiare la terra umida del patio e i calcinacci che staccava dai muri con le unghie. Era evidente che i suoi genitori, o chiunque l’avesse allevata, l’avevano rimproverata per quella abitudine, perché lo faceva di nascosto e con coscienza di colpa, cercando di conservare le razioni per mangiarle quando nessuno la vedesse. Da allora la sottoposero a una sorveglianza implacabile. Innaffiavano il patio con fiele di vacca e ungevano le pareti di peperoncino piccante, credendo di poter vincere con quei metodi il suo vizio pernicioso, ma lei mise in atto tali trovate e sotterfugi per procurarsi la terra, che Ursula si vide costretta ad adottare risoluzioni più drastiche. Versava succo di arancia e rabarbaro in un pentolino e lo lasciava all’aria aperta per tutta la notte, e il giorno dopo le faceva bere la pozione a digiuno. Anche se nessuno le aveva detto che quello era il rimedio specifico contro il vizio di mangiare terra, pensava che qualsiasi sostanza amara nello stomaco vuoto dovesse far reagire il fegato. Rebeca era così ribelle e così forte malgrado il suo rachitismo, che erano costretti ad afferrarla per il mento e l’orecchio come un vitello per farle inghiottire la medicina, e riuscivano a malapena a domare i suoi sgambetti e a tollerare gli oscuri girigogoli che la bambina alternava ai morsi e agli sputacchi, e che secondo quanto dicevano gli scandalizzati indigeni erano le oscenità più grosse che si potevano concepire nel loro idioma. Quando Ursula lo seppe, completò il trattamento con le cinghiate. Non si stabilì mai se a ottenere l’effetto fu il rabarbaro o il bastone, o le due cose combinate, ma la verità è che dopo pochi settimane Rebeca cominciò a dar segno di ristabilimento. Partecipò ai giochi di Arcadio e di Amaranta, che la accolsero come una sorella maggiore, e mangiò con appetito servendosi regolarmente delle posate. Ben presto si scoprì che parlava lo spagnolo altrettanto bene quanto la lingua degli indios, che possedeva una notevole abilità per i lavori manuali e che cantava il valzer degli orologi con parole molto graziose inventate da le i stessa. Non tardarono a considerarla come un membro in più della famiglia. Con Ursula era più affettuosa di quanto non lo furono mai i suoi figli, e chiamava fratellini Amaranta e Arcadio, e zio Aureliano e nonnino José Arcadia Buendìa. Fini così per meritare quanto gli altri il nome di Rebeca Buendìa, l’unico che ebbe sempre e che portò con dignità fino alla morte.

Una notte, verso l’epoca in cui Rebeca guarì dal vizio di mangiare terra e fu portata a dormire nella stanza degli altri bambini, l’india che dormiva con loro si svegliò per caso e sentì uno strano rumore intermittente in un angolo. Si alzò a sedere spaventata, credendo che fosse entrato un animale nella stanza, e allora vide Rebeca nella poltroncina a dondolo, col dito in bocca e con gli occhi illuminati come quelli di un gatto nel buio. Paralizzata dal terrore, afflitta dalla fatalità de suo destino, Visitación riconobbe in quegli occhi i sintomi della malattia la cui minaccia li aveva costretti, lei e suo fratello, esuli per sempre da un regno millenario del quale essi erano i principi. Era la peste dell’insonnia.

Cataure, l’indio, non attese l’alba per andarsene. Suo sorella rimase, perché il suo cuore fatalista le suggeriva che la malattia letale l’avrebbe inseguita in ogni modo fin nell’ultimo angolo della terra. Nessuno capì la trepidazione di Visitación. “Se non dormiremo, tanto meglio,” diceva José Arcadio Buendìa, di buon umore. “Così, la vita ci renderà di più.” Ma l’india spiegò loro che la cosa più temibile della malattia dell’insonnia non era l’impossibilità di dormire, dato che il corpo non provava alcuna fatica, bensì la sua inesorabile evoluzione verso una manifestazione più critica: la perdita della memoria. Significava che quando il malato si abituava al suo stato di veglia, cominciavano a cancellarsi dalla sua memoria i ricordi dell’infanzia, poi il nome e la nozione delle cose, e infine l’identità delle persone e perfino la coscienza del proprio essere, fino a sommergersi in una specie di idiozia senza passato. José Arcadio Buendìa, sbellicandosi dalle risa, ritenne che doveva trattarsi di una delle tante malattie inventate dalla superstizione degli indigeni. Ma Ursula, in ogni modo, prese la precauzione di separare Rebeca dagli altri bambini.

Dopo parecchie settimane, quando il terrore di Visitación sembrava acquietato, José Arcadio Buendìa si sorprese una notte a rivoltarsi nel letto senza poter dormire. Ursula, che era anche lei sveglia, gli chiese che cosa avesse, e lui le rispose: “Sto ripensando a Prudencio Aguilar.” Non dormirono un minuto, ma il giorno dopo si sentivano così riposati che si dimenticarono della nottataccia. Aureliano commentò stupito all’ora di colazione che si sentiva benissimo nonostante avesse trascorso tutta la notte nel laboratorio a dorare un fermaglio che aveva intenzione di regalare a Ursula il giorno del suo compleanno. Non cominciarono ad allarmarsi se non il terzo giorno, quando all’ora di coricarsi si sentirono senza sonno e si resero conto che ormai non dormivano da oltre cinquanta ore.

“Anche i bambini sono svegli,” disse l’india con la sua convinzione fatalista. “Una volta che entra in casa, nessuno sfugge alla peste.”

Avevano contratto, in effetti, la malattia dell’insonnia. Ursula, che aveva imparato da sua madre il valore medicinale delle piante, preparò e fece bere a tutti un beverone di aconito, ma non riuscirono a dormire, e invece rimasero a sognare svegli per tutto il giorno. In quello stato di allucinata lucidità non soltanto vedevano le immagini dei loro stessi sogni, ma vedevano perfino gli uni le immagini sognate dagli altri. Era come se la casa si fosse riempita di visitatori. Seduta nella sua poltroncina a dondolo in un angolo della cucina, Rebeca sognò che un uomo molto simile a lei, vestito di lino bianco e col collo della camicia chiuso da un bottone d’oro, le portava un mazzo di rose. Lo accompagnava una donna dalle mani delicate che staccò una rosa e la infilò nei capelli della bambina. Ursula capi che l’uomo e la donna erano i genitori di Rebeca, ma per quanto si sforzasse di riconoscerli, si confermò nella certezza di non averli mai visti. Nel frattempo, per una negligenza che José Arcadio Buendìa non si perdonò mai, si continuavano a vendere nel villaggio gli animaletti di caramello fabbricati in casa. Bambini e adulti succhiavano beatamente i deliziosi galletti verdi dell’insonnia, gli squisiti pesci rosa dell’insonnia e i teneri cavallini gialli dell’insonnia, di modo che l’alba del lunedì sorprese sveglio tutto il villaggio. Sulle prime nessuno si mise in apprensione. Al contrario, erano contenti di non dormire, perché allora c’era tanto da fare a Macondo che il tempo bastava appena. Lavorarono tanto, che ben presto non ebbero più nulla da fare, e si trovarono alle tre del mattino con le braccia incrociate, a contare il numero delle note del valzer degli orologi. Quelli che volevano dormire, non per stanchezza bensì per nostalgia dei sogni, ricorsero a ogni tipo di metodi spossanti. Si riunivano a chiacchierare senza tregua, a ripetersi per ore e ore le stesse storielle, complicando fino ai limiti della esasperazione la storia del gallo cappone, che era un gioco infinito nel quale il narratore chiedeva se volevano sentire la storia del gallo cappone, e se gli rispondevano di si, il narratore diceva che non aveva chiesto che gli dicessero di si, ma se volevano sentire la storia del gallo cappone, e se gli rispondevano di no, il narratore diceva che non aveva chiesto che gli dicessero di no, ma se volevano sentire la storia del gallo cappone, e quando non gli rispondevano nulla il narratore diceva che non aveva chiesto che non gli rispondessero nulla, ma se volevano sentire la storia del gallo cappone, e nessuno poteva andarsene, perché il narratore diceva che non aveva chiesto che se ne andassero, ma se volevano sentire la storia del gallo cappone, e così via, in un cerchio vizioso che si prolungava per notti intere.

Quando José Arcadio Buendìa si accorse che la peste aveva invaso il villaggio, riunì i capi famiglia per spiegar loro quello che sapeva sulla malattia dell’insonnia, e fu deciso di adottare delle misure per impedire che il flagello si propagasse ad altre popolazioni della palude. Fu così che si tolsero ai capri le campanelle che gli arabi barattavano coi pappagalli, e furono messe all’entrata del villaggio a disposizione di coloro che trascuravano i consigli e le suppliche delle sentinelle e insistevano nel voler visitare il villaggio. Ogni forestiero che in quell’epoca percorreva le strade di Macondo doveva far suonare la sua campa nella perché i malati sapessero che era sano. Non gli si permetteva né di mangiare né di bere nulla durante il soggiorno, perché non c’era dubbio che la malattia si trasmetteva soltanto per bocca, e tutte le cose da bere e da mangiare erano contaminate di insonnia. In quel modo si mantenne la peste circoscritta al perimetro dell’abitato. La quarantena fu così efficace, che giunse il giorno in cui lo stato di emergenza venne considerato come cosa naturale, e si organizzò la vita in modo tale che il lavoro riacquistò il suo ritmo e nessuno si preoccupò più dell’inutile abitudine di dormire.

Fu Aureliano che concepì la formula che li avrebbe difesi per parecchi mesi dalle evasioni della memoria. La scoprì per caso. Insonne esperto, per esserlo stato tra i primi, aveva imparato a perfezionare l’arte dell’oreficeria. Un giorno stava cercando la piccola incudine di cui si serviva per laminare i metalli, e non si ricordò del suo nome. Suo padre gliela disse: “tasso.” Aureliano scrisse il nome su un pezzo di carta che appiccicò con la colla sul piede dell’incudine: tasso. Così fu sicuro di non dimenticarlo in futuro. Non gli venne in mente che quella poteva essere la prima manifestazione della perdita della memoria, perché l’oggetto aveva un nome difficile da ricordare. Ma pochi giorni dopo scoprì che faceva fatica a ricordarsi di quasi tutte le cose del laboratorio. Allora le segnò col nome rispettivo, di modo che gli bastava leggere l’iscrizione per riconoscerle. Quando suo padre gli rivelò la sua preoccupazione per essersi dimenticato perfino dei fatti più impressionanti della sua infanzia, Aureliano gli spiegò il suo metodo, e José Arcadio Buendìa lo mise in pratica in tutta la casa e tardi lo impose a tutto il paese. Con uno stecco inchiostrato segnò ogni cosa col suo nome: tavolo, sedia, orologio, porta, muro, letto, casseruola. Andò in cortile e segnò gli animali e le piante: vacca, capro, porco, gallina, manioca, malanga, banano. A poco a poco, studiando le infinite possibilità del dimenticare, si accorse che poteva arrivare un giorno in cui si sarebbero individuate le cose dalle loro iscrizioni, ma non se ne sarebbe ricordata l’utilità. Allora fu più esplicito. Il cartello che appese alla nuca della vacca era un modello esemplare del modo in cui gli abitanti di Macondo erano disposti a lottare contro la perdita della memoria: Questa è la vacca, bisogna mungerla tutte le mattine in modo che produca latte e il latte bisogna farlo bollire per aggiungerlo al caffè e fare il caffellatte. Così continuarono a vivere in una realtà sdrucciolosa, momentaneamente catturata dalle parole, ma che sarebbe fuggita senza rimedio quando avessero dimenticato i valori delle lettere scritte.

Sull’entrata della strada della palude avevano messo un cartello su cui era scritto Macondo e un altro più grande nella strada centrale che diceva Dio esiste. In tutte le case erano stati scritti segni convenzionali per ricordare gli oggetti e i sentimenti. Ma il sistema esigeva tanta sollecitudine e tanta forza morale che molti cedettero all’incanto di una realtà immaginaria, inventata da loro stessi, che risultava loro meno pratica ma più riconfortante. Fu Pilar Terriera che contribuì in massimo grado a popolarizzare questa mistificazione, ideando l’artificio di leggere il passato nelle carte come prima aveva letto il futuro. Mediante questo trucco, gli insonni cominciarono a vivere in un mondo costruito dalle alternative incerte delle carte, dove il padre non era ricordato che come l’uomo bruno arrivato verso i primi di aprile e la madre era ricordata soltanto come la donna abbronzata che aveva un anello d’oro sulla mano sinistra, e dove una data di nascita veniva ridotta all’ultimo martedì in cui aveva cantato l’allodola sul lauro. Sconfitto da quelle pratiche consolatorie, José Arcadia Buendìa decise allora di costruire la macchina della memoria che una volta aveva desiderato per ricordarsi delle meravigliose invenzioni degli zingari. Il marchingegno si basava sulla possibilità di ripassare tutte le mattine, e dal principio alla fine, la totalità celle nozioni acquisite nel corso della vita. La immaginava come un dizionario girevole che un individuo situato al centro potesse manovrare mediante una manovella, in modo che in poche ore passassero davanti ai suoi occhi le nozioni più necessarie per vivere. Era riuscito a scrivere circa quattordicimila schede, quando apparve sulla strada della palude un vecchio bizzarro con la triste campanella dei dormienti, che trascinava una valigia rigonfia legata con funi e un carrettino coperto di stracci neri. Andò direttamente nella casa di José Arcadio Buendìa.

Visitación non lo riconobbe quando aprì la porta, e pensò che avesse l’intenzione di vendere qualcosa, ignorando che nulla si poteva vendere in un paese che stava affondando senza rimedia nell’aggallato della dimenticanza. Era un uomo decrepito. Anche se perfino la sua voce era rotta dall’incertezza e le sue mani sembravano dubitare dell’esistenza delle cose, era evidente che veniva dal mondo dove gli uomini potevano ancora dormire e ricordare. José Arcadio Buendìa lo trovò seduto nel salotto, intento a farsi vento con un cappello nero rattoppato e a leggere con compassionevole attenzione i cartelli appesi alle pareti. Lo salutò con ampie mostre di affetto, temendo di averlo conosciuto in altri tempi e di non riconoscerlo ora. Ma il visitatore si rese conto della sua falsità. Si sentì dimenticato, non con la dimenticanza rimediabile del cuore, ma con un’altra dimenticanza più crudele e irrevocabile che egli conosceva assai bene, perché era la dimenticanza della morte. Allora comprese. Aprì la valigia zeppa di oggetti indecifrabili, e tra quelli prese una valigetta con parecchi flaconi. Diede da bere a José Arcadio Buendìa una sostanza di colore gradevole, e la luce si fece nella sua memoria. Gli occhi gli si inumidirono di pianto, prima di vedere se stesso in un salotto assurdo dove gli oggetti erano etichettai, e prima di vergognarsi delle solenni baggianate scritte sulle pareti, e prima di riconoscere il nuovo venuto in un abbagliante fulgore di gioia. Era Melquìades.

Mentre Macondo celebrava la riconquista dei ricordi, José Arcadio Buendìa e Melquìades scossero la polvere dalla loro vecchia amicizia. Lo zingaro veniva deciso a restare nel villaggio. Era stato nella morte, effettivamente, ma era tornato perché non aveva potuto sopportare la solitudine. Ripudiato dalla sua tribù, privato di ogni facoltà soprannaturale come castigo per la sua fedeltà alla vita, decise di rifugiarsi in quell’angolo del mondo non ancora scoperto dalla morte, e di dedicarsi alla gestione di un laboratorio di dagherrotipia. José Arcadio Buendìa non aveva mai sentito parlare di quella invenzione. Ma quando vide se stesso e tutta la propria famiglia effigiati in una età eterna su una lastra di metallo laccamuffa, ammutolì dallo stupore. Da quella epoca datava l’ossidato dagherrotipo su cui appariva José Arcadio Buendìa coi capelli irti e brizzolati, col colletto duro della camicia allacciato con un bottone di rame, e una espressione di solennità sbigottita, e che Ursula descriveva scoppiando a ridere come “un generale spaventato.” In effetti, in quella diafana mattinata di dicembre in cui gli fecero il dagherrotipo José Arcadio Buendìa era spaventato, perché pensava che la gente si andava sciupando a poco a poco intanto che la sua immagine passava sulle lamine metalliche. Per una curiosa inversione dell’abitudine, fu Ursula che gli tirò fuori quella idea dalla testa, e fu sempre lei a dimenticare i suoi vecchi crucci e a decidere che Melquìades sarebbe rimasto a vivere in casa, anche se non permise mai che le facessero un dagherrotipo perché (secondo le sue stesse testuali parole) non voleva servire da burla ai suoi nipoti. Quella mattina vesti i bambini coi loro migliori vestiti, li incipriò e diede una cucchiaiata di sciroppo di midollo a ognuno di loro perché potessero rimanere assolutamente immobili per quasi due minuti davanti alla pomposa macchina di Melquiades. Nel dagherrotipo familiare, l’unico che ci fu mai, Aureliano apparve vestito di velluto nero, tra Amaranta e Rebeca. Aveva lo stesso languore e lo stesso sguardo chiaroveggente che avrebbe avuto diversi anni dopo davanti al plotone di esecuzione. Ma ancora non aveva sentito la premonizione del suo destino. Era un orefice esperto, stimato anche nei dintorni della palude per il preziosismo del suo lavoro. Nell’officina che divideva con l’assurdo laboratorio di Melquiades, lo si sentiva a malapena respirare. Sembrava rifugiato in altri tempi, mentre suo padre e lo zingaro interpretavano urlando le predizioni di Nostradamus, tra uno strepito di boccette e pilette, e il disastro degli acidi rovesciati e il bromuro d’argento distrutto a causa delle gomitate e degli inciampi che avvenivano in continuazione. Quella dedizione al lavoro, il senno col quale amministrava i suoi interessi, avevano permesso a Aureliano di guadagnare in poco tempo più denaro di Ursula con la sua deliziosa fauna di caramello, ma tutti si meravigliavano che fosse già un uomo bello e fatto e, almeno a quanto si sapeva, non avesse ancora conosciuto donna. In realtà non l’aveva avuta.

Qualche mese dopo tornò Francisco el Hombre, un vecchio giramondo di quasi 200 anni che passava frequentemente da Macondo divulgando le canzoni che lui stesso componeva. In quelle canzoni, Francisco el Hombre riferiva con particolari minuziosi le notizie occorse nei paesi del suo itinerario, da Manaure fino ai confini della palude, di modo che se qualcuno aveva un messaggio da mandare o un avvenimento da divulgare, gli pagava due centavos per farglielo includere nel repertorio. Fu in questo modo che Ursula fu informata della morte di sua madre, per puro caso, una sera in cui ascoltava le canzoni con la speranza che dicessero qualcosa di suo figlio José Arcadio. Francisco el Hombre, così chiamato perché aveva battuto il diavolo in una gara di improvvisazione di canzoni, e il cui vero nome nessuno seppe mai, sparì da Macondo durante la peste dell’insonnia e riapparve una sera senza nessun preavviso nella bottega di Catarino. Tutto il villaggio andò a sentirlo per sapere che cosa era successo nel mondo. In quella occasione arrivarono con lui una donna così grassa che quattro indios dovevano trasportarla in una poltrona a dondolo, e una derelitta mulatta adolescente che la proteggeva dal sole con un ombrello. Aureliano andò quella sera nella bottega di Catarino. Trovò Francisco el Hombre, come un camaleonte monolitico, seduto in mezzo a un circolo di curiosi. Cantava le notizie con la sua vecchia voce scordata, accompagnandosi con la stessa fisarmonica arcaica che gli aveva regalato Sir Walter Raleigh nella Guayana, e scandendo il ritmo coi suoi grandi piedi camminatori screpolati dal salnitro. Davanti a una porta in fondo al locale, da dove entrava e usciva qualche uomo, era seduta e si sventagliava in silenzio la matrona della poltrona a dondolo. Catarino, con una rosa di feltro sull’orecchio, vendeva ai clienti scodelle di succo di canna da zucchero fermentato, e approfittava dell’occasione per avvicinarsi agli uomini e mettergli la mano dove non doveva. Verso mezzanotte il calore era insopportabile. Aureliano ascoltò le notizie fino alla fine senza trovarne alcuna che potesse interessare la sua famiglia. Si stava preparando a tornare a casa quando la matrona gli fece un cenno con la mano.

“Entra anche tu,” gli disse. “Costa soltanto venti centavos.”

Aureliano gettò una moneta nel bossolo che la ma trona aveva tra le gambe ed entrò nella stanza senza sapere perché. La mulatta adolescente, con le sue tettine da cagna, era nuda nel letto. Prima di Aureliano, quella notte, sessantatré uomini erano passati nella stanza. A furia di essere usata, e legata con sudori e sospiri, l’aria della camera cominciava a trasformarsi in melma. La ragazza tolse il lenzuolo inzuppato e pregò Aureliano di tenerlo da un capo. Pesava come un telone. Lo strizzarono, torcendolo dalle estremità, finché ricuperò il suo peso naturale. Voltarono la stuoia, e il sudore usciva dall’altra parte. Aureliano era ansioso che quella operazione non terminasse mai. Conosceva la meccanica teorica dell’amore, ma non poteva reggersi in piedi a causa della fiacchezza delle ginocchia, e anche se aveva la pelle accapponata e ardente non poteva res istere all’urgenza di espellere il peso del ventre. Quando la ragazza terminò di sistemare il letto, e gli ordinò di svestirsi, Aureliano diede una spiegazione stolida: “Mi hanno fatto entrare. Mi hanno detto di mettere venti centavos nel bossolo e di fare in fretta. La ragazza capì il suo imbarazzo. “Se quando esci paghi altri venti centavos, puoi fermarti un po’di più” disse dolcemente. Aureliano si svestì, tormentato dal pudore, senza potersi liberare dall’idea che la sua nudità non resisteva al confronto con suo fratello. Nonostante gli sforzi della ragazza, Aureliano si sentì sempre più indifferente, e terribilmente solo. “Pagherò altri venti centavos,” disse con voce desolata. La ragazza gli fu riconoscente in silenzio. Aveva la schiena ridotta una piaga, la carcassa incollata alle costole e la respirazione alterata da uno sfinimento incalcolabile. Due anni prima, assai lontano da lì era assopita senza spegnere la candela e si era svegliata circondata dal fuoco. La casa dove viveva con la nonna che l’aveva allevata s’era ridotta in cenere. Da allora la nonna la portava di villaggio in villaggio, mandandola a letto con tutti per venti centavos, in modo da ripagarsi il valore della casa incendiata. Secondo i calcoli della ragazza, le mancava ancora circa una decina di anni a settanta uomini per notte, perché inoltre doveva pagare le spese di viaggio e di sostentamento per ambedue e il compenso per gli indios che trasportavano la poltrona a dondolo. Quando la matrona bussò per la seconda volta, Aureliano uscì dalla stanza senza aver fatto nulla, stordito dalla voglia di piangere. Quella notte non poté dormire pensando alla ragazza, con un misto di desiderio e di pietà. Provava una necessità irresistibile di amarla e di proteggerla. All’alba, estenuato dall’insonnia e dalla febbre, prese la serena decisione di sposarla per liberarla dal dispotismo della nonna e per godere tutte le notti della soddisfazione che la ragazza dava a settanta uomini. Ma alle dieci della mattina, quando arrivò nella bottega di Catarino, la ragazza se ne era andata dal villaggio.

Il tempo placò la sua intenzione sventata, ma peggiorò il suo senso di frustrazione. Si rifugiò nel lavoro. Si rassegnò a essere un uomo senza donna per tutta la vita per occultare la vergogna della sua inutilità. Nel frattempo, Melquìades terminò di effigiare nelle sue lastre tutto quello che era effigiabile a Macondo, e abbandonò il laboratorio di dagherrotipia ai deliri di José Arcadio Buendìa, che aveva deciso di utilizzarlo per ottenere la prova scientifica dell’esistenza di Dio. Mediante un complicato processo di esposizioni sovra-esposte prese in diversi luoghi della casa, era sicuro di fare prima o poi il dagherrotipo di Dio, se esisteva, o di porre fine una volta per sempre all’ipotesi della sua esistenza. Melquìades si approfondì nelle interpretazioni di Nostradamus. Rimaneva fino a molto tardi, asfissiando nel suo scolorito panciotto di velluto, a scarabocchiare carte con le sue minuscole mani di passero, su cui gli anelli avevano perduto il luccichio di un tempo. Una notte credette di aver trovato una predizione sul futuro di Macondo. Sarebbe diventata una città luminosa, con grandi case di vetro, dove non restava traccia alcuna della stirpe dei Buendìa. “È uno sbaglio,” tuonò José Arcadio Buendìa. “Non saranno case di vetro ma di ghiaccio, come ho sognato io, e ci sarà sempre un Buendìa, per i secoli dei secoli.” In quella casa stravagante, Ursula lottava per preservare il senso comune, e aveva ampliato l’industria di animaletti di caramello, aggiungendo un forno che produceva per tutta la notte canestri e canestri di pane e una prodigiosa varietà di budini, meringhe e biscottini, che si dileguavano in poche ore per le plaghe della palude. Era giunta a una età in cui aveva diritto di riposare, ma ciò malgrado era sempre più attiva. Era così occupata nelle sue prospere iniziative, che un pomeriggio guardò distrattamente in direzione del patio, mentre l’india la aiutava ad addolcire la pasta, e vide due adolescenti sconosciute e graziose che ricamavano a telaio nella luce del crepuscolo. Erano Rebeca e Amaranta. Appena uscite dal lutto della nonna, che avevano conservato con inflessibile rigore per tre anni, gli abiti vivaci sembravano aver dato loro un nuovo posto nel mondo. Rebeca, al contrario di quello che ci si poteva aspettare, era la più bella. Aveva la pelle diafana, occhi grandi e tranquilli, e mani magiche che sembravano elaborare con fili invisibili la trama del ricamo. Amaranta, la minore, era scarsa di grazia, ma possedeva il garbo naturale, la rigidità interiore della nonna morta. Vicino a loro, anche se già rivelava l’impulso fisico di suo padre, Arcadio sembrava un bambino. Si era dedicato a imparare l’arte dell’oreficeria con Aureliano, il quale inoltre gli aveva insegnato a leggere e a scrivere. Ursula si rese improvvisamente conto che la casa si era riempita di gente, che i suoi figli erano sul punto di sposarsi e di avere figli, e che sarebbero stati costretti a disperdersi per mancanza di spazio. Allora prese il denaro accumulato durante lunghi anni di duro lavoro, contrasse debiti coi suoi clienti, e intraprese l’ampliamento della casa. Ordinò che si costruisse un salotto buono per le visite, un altro salotto più comodo e fresco per l’uso quotidiano, una sala da pranzo con un tavolo da dodici dove la famiglia potesse sedersi con tutti i suoi invitati; nove camere da letto con finestre verso il patio e un lungo porticato protetto dalla luminosità del mezzogiorno da un giardino di rose, con una balaustra per mettervi vasi di felci e testi di begonie. Ordinò di ampliare la cucina per potervi costruire due forni, di abbattere il vecchio granaio dove Pilar Ternera aveva letto l’avvenire a José Arcadio e di costruirne un altro due volte più grande in modo che in casa non mancasse mai il cibo. Ordinò la costruzione nel patio, all’ombra del castagno, di un bagno per le donne e di un altro per gli uomini, e in fondo una scuderia grande, un pollaio cintato, una stalla da mungitura e una uccelliera aperta ai quattro venti perché potessero sostarvi a loro piacimento gli uccelli senza meta. Seguita da dozzine di muratori e di carpentieri, come se avesse contratto il delirio febbrile di suo marito, Ursula stabiliva la posizione della luce e il comportamento del calore, e distribuiva lo spazio senza il minimo senso dei suoi limiti. La primitiva costruzione dei fondatori si riempì di utensili e di materiale, di operai affranti di sudore, che chiedevano a tutti il favore di non intralciare, senza pensare che erano loro quelli che intralciavano, esasperati dal sacco di ossa umane che li perseguitava dappertutto col suo sordo sonagliere. In mezzo a quei disagi, respirando calce viva e melassa di catrame, nessuno capì molto bene come fece a sorgere dalle viscere della terra non soltanto la casa più grande che ci sarebbe mai stata nel villaggio, ma anche la più ospitale e fresca che ci fu mai nel giro della palude. José Arcadio Buendìa, che continuava a cercare di sorprendere la Divina Provvidenza in mezzo al cataclisma, fu quello che lo capì meno di tutti. La nuova casa era quasi terminata quando Ursula lo strappò dal suo mondo chimerico per informarlo che c’era l’ordine di dipingere la facciata di azzurro, e non di bianco come volevano loro. Gli fece vedere la disposizione ufficiale scritta su una carta. José Arcadio Buendìa, senza capire quello che diceva sua moglie, decifrò la firma.

“Chi è questo tipo?” chiese

“Il correggitore,” disse Ursula desolata. “Dicono che è un’autorità che ha mandato il governo.”

Don Apolinar Moscate, il correggitore, era arrivato a Macondo senza far fracasso. Era sceso nell’Hotel di Jacob - aperto da uno dei primi arabi che erano arrivati per barattare gingilli con pappagalli - e il giorno dopo aveva affittato una stanzetta con porta su strada, a due isolati dalla casa dei Buendìa. Vi mise una sedia e un tavolo che aveva comprato da Jacob, inchiodò al muro uno stemma della repubblica, che aveva portato con sé, e pitturò sulla porta l’insegna: Correggitore. La sua prima disposizione fu quella di ordinare che tutte le case venissero dipinte di azzurro per commemorare l’anniversario della indipendenza nazionale. José Arcadio Buendìa, con la copia dell’ordinanza in mano, lo sorprese mentre faceva la siesta in un’amaca che aveva appeso nello squallido ufficio. “Ha scritto lei questo foglio?” gli chiese. Don Apolinar Moscote, un uomo maturo, timido, di complessione sanguigna, rispose di sì. “Con che diritto?” tornò a chiedere José Arcadio Buendìa. Don Apolinar Moscote cercò una carta nel cassetto del tavolo e gliela mostrò: “Sono stato nominato correggitore di questo villaggio.” José Arcadio Buendìa non degnò nemmeno di un’occhiata l’atto di nomina.

“In questo villaggio non comandiamo con le scartoffie,” disse senza perdere la calma. “E perché lei lo sappia una volta per sempre, noi non abbiamo bisogno di nessun correggitore perché qui non c’è niente da correggere”.

Di fronte alla imperturbabilità di don Apolinar Moscote, sempre senza alzare la voce, fece un particolareggiato resoconto di come avevano fondato il paese, di come si erano divisi la terra, aperte le strade e introdotto le migliorie che a mano a mano aveva richiesto loro il bisogno, senza aver dato fastidio ad alcun governo e senza che alcuno desse loro fastidio. “Siamo così pacifici che non siamo nemmeno morti di morte naturale,” disse. “Vede bene che non abbiamo ancora il cimitero.” Non si lamentò che il governo non li avesse aiutati. Al contrario, si rallegrava che fino a quel momento li avesse lasciati crescere in pace, e sperava che continuasse a lasciarli così: non avevano fondato un villaggio perché il primo capitato venisse a insegnare quello che dovevano fare: Don Apolinar Moscote si era infilato una giacca di drill, bianca come i suoi pantaloni, senza perdere mai la purezza dei suoi modi.

“E così, se lei vuole rimanere qui, come qualsiasi altro cittadino comune e corrente; che sia il benvenuto,” concluse José Arcadio Buendìa. “Ma se viene a istituire il disordine obbligando la gente a pitturare la sua casa di azzurro, può prendere le sue carabattole e tornarsene da dove e venuto. Perché la mia casa deve essere bianca come una colomba.”

Don Apolinar Moscote diventò pallido. Fece un passo indietro e strinse le mascelle per dire con una certa pena:

“Desidero avvertirla che sono armato.”

José Arcadia Buendìa non seppe come gli tornò nelle mani la forza di quand’era giovane e con la quale rovesciava un cavallo. Afferrò don Apolinar Moscote per il bavero e se lo alzò all’altezza degli occhi.

“Faccio questo,” disse, “perché preferisco che lei mi sia peso da vivo anziché continui a pesarmi da morto per il resto della mia vita.”

Lo portò così in mezzo alla strada, sospeso per i baveri, e lo rimise sui suoi piedi solo quando fu sulla strada della palude. Una settimana dopo era di ritorno con sei soldati scalzi e cenciosi, armati di schioppi, e con una carretta da buoi che trasportava sua moglie e le sue sette figlie. Più tardi arrivarono altre due carrette coi mobili, i bauli e gli utensili domestici. Sistemo la famiglia nell’Hotel di Jacob, mentre cercava una casa, e riaprì l’ufficio con la protezione dei soldati. I fondatori di Macondo, decisi a scacciare gli invasori, andarono coi loro figli maggiori a mettersi a disposizione di José Arcadio Buendìa. Ma lui si oppose, spiegò, perché don Apolinar Moscote era tornato con moglie e figlie, e non era cosa da uomini svergognare la gente davanti alla loro famiglia. Perciò decise di regolare la situazione con le buone.

Aureliano lo accompagnò. In quell’epoca aveva già cominciato a lasciarsi crescere un paio di baffetti neri con le punte impeciate, e aveva la voce un po’ stentorea che lo avrebbe caratterizzato in guerra. Disarmati, senza far caso alle guardie, entrarono nell’ufficio del correggitore. Don Apolinar Moscote non perse la calma. Presentò due delle sue figlie che si trovavano lì per caso: Amparo, di sedici anni, bruna come sua madre, e Remedios, di appena nove anni, una bellissima bambina con pelle di giglio e occhi verdi. Erano graziose e bene educate. Non appena i due uomini entrarono, prima ancora di essere presentate, portarono sedie perché si sedessero. Ma ambedue rimasero in piedi.

“Benissimo, amico,” disse José Arcadio Buendìa, “lei resta qui, non perché si è portato dietro quei bandolieri da trombone, ma per rispetto della sua signora moglie e delle sue figlie.”

Don Apolinar Moscote si confuse, ma José Arcadio Buendìa non gli lasciò tempo di ribattere. “Ma le imponiamo due condizioni,” aggiunse. “La prima: che ciascuno pittura la sua casa del colore che più gli piace. La seconda: che i soldati se ne vanno subito. Noi le garantiamo l’ordine.” Il correggitore alzò la mano destra con tutte le dita tese.

“Parola d’onore?”

“Parola di nemico,” disse José Arcadio Buendìa. E aggiunse con un tono amaro: “Perché una cosa le voglio dire: lei e io continuiamo a essere nemici.”

Quello stesso pomeriggio se ne andarono i soldati. Pochi giorni dopo José Arcadio Buendìa trovò una casa alla famiglia del correggitore. La pace tornò per tutti, tranne per Aureliano. L’immagine di Remedios, la figlia minore del correggitore, che per la sua età avrebbe potuto essere benissimo figlia sua, gli rimase ficcata in qualche parte del corpo a fargli male. Era una sensazione fisica che quasi gli dava fastidio nel camminare, come una pietruzza nella scarpa.

 La casa nuova, bianca come una colomba, fu inaugurata con un ballo. Ursula aveva concepito quella idea fin dal pomeriggio in cui aveva visto Rebeca e Amaranta trasformate in adolescenti, e si può quasi dire che il principale motivo della costruzione fosse il desiderio di fornire alle ragazze un luogo degno dove potessero ricevere le visite. Desiderosa che nulla togliesse lustro a quel proposito, lavorò come un galeotto mentre si realizzavano le riforme, di modo che prima che fossero terminate aveva ordinato costosi accessori per la decorazione e il servizio, e l’invenzione meravigliosa che avrebbe suscitato lo stupore del villaggio e la gioia dei giovani: la pianola. La portarono smontata, imballata in parecchie casse che furono scaricate insieme ai mobili viennesi, alla cristalleria di Boemia, al vasellame della Compagnia delle Indie, alle tovaglie d’Olanda e a un ricco assortimento di lampade e bugie, e vasi da fiori, ornamenti e arazzi. La casa importatrice mandò a sue spese un esperto italiano, Pietro Crespi, con l’incarico di montare e di accordare la pianola, di far imparare ai suoi compratori a manovrarla e di insegnare loro a ballare la musica di moda perforata su sei rulli di carta.

Pietro Crespi era giovane e biondo, l’uomo più bello e più educato che si era mai visto a Macondo, così scrupoloso nel vestire che nonostante il caldo soffocante lavorava col panciotto di broccato e la grossa giacca di panno scuro. Inzuppato di sudore, badando sempre a mantenere una distanza riverente coi padroni di casa, rimase per parecchie settimane chiuso nel salotto, con una dedizione simile a quella di Aureliano nel suo laboratorio di oreficeria. Un mattino, senza aprire la por ta, senza convocare alcun testimone del miracolo, fece funzionare il primo rullo nella pianola, e il martellare assordante e lo strepito continuo dei listoni di legname cessarono in un silenzio di stupore, al cospetto dell’ordine e del nitore della musica. Tutti si precipitarono nel salotto. José Arcadio Buendìa parve fulminato non dalla bellezza della melodia, ma dal tasteggio autonomo della pianola, e collocò nel salotto la macchina fotografica di Melquìades con la speranza di ottenere il dagherrotipo dell’esecutore invisibile. Quel giorno l’italiano pranzò con loro. Rebeca e Amaranta, servendo a tavola, furono intimidite per la fluidità con la quale adoperava le posate quell’uomo angelico dalle mani pallide e senza anelli. Nel soggiorno, attiguo al salotto delle visite, Pietro Crespi diede loro lezioni di ballo. Insegnava i passi senza toccarle, scandendo il ritmo con un metronomo, sotto la cortese sorveglianza di Ursula, che non lasciò il salotto nemmeno per un istante mentre le sue figlie ricevevano le lezioni. In quei giorni Pietro Crespi portava dei pantaloni speciali, molto flessibili e aderenti, e un paio di scarpini di ballo. “Non hai motivo di preoccuparti tanto,” diceva José Arcadio Buendìa a sua moglie. “Quell’uomo è un finocchio.” Ma lei non tralasciò la sorveglianza finché non terminò il corso e l’italiano non se ne andò da Macondo. Allora cominciarono i preparativi per la festa. Ursula compose una lista severa degli invitati, nella quale furono compresi soltanto i discendenti dei fondatori, tranne la famiglia di Pilar Ternera, che aveva già avuto altri due figli da padri sconosciuti. Era in realtà una scelta di classe, ma determinata soltanto da sentimenti di amicizia, dato che i favoriti non solo erano i più antichi congiunti della casa di José Arcadio Buendìa da prima ancora di intraprendere l’esodo che era culminato con la fondazione di Macondo, ma inoltre i loro figli e nipoti erano i compagni abituali di Aureliano e di Arcadio fin dall’infanzia, e le loro figlie erano le uniche che frequentavano la casa per ricamare con Rebeca e Amaranta. Don Apolinar Moscote, il governante benevolo le cui funzioni si riducevano a mantenere con le sue scarse risorse due poliziotti armati di bastoni di legno, era una autorità ornamentale. Per poter sopportare le spese domestiche, le sue figlie aprirono un laboratorio di cucito, nel quale si preparavano sia fiori di panno che pasticcini di guayaba e letterine d’amore su ordinazione. Ma nonostante fossero riservate e servizievoli, le più belle del villaggio e le più abili nei nuovi balli, non riuscirono a farsi prendere in considerazione per la festa.

Mentre Ursula e le ragazze sballavano i mobili, lucidavano il vasellame e appendevano quadri di donzelle su barche cariche di rose, infondendo un soffio di nuova vita agli spazi spogli che avevano costruito i muratori, José Arcadio Buendìa rinunciò alla persecuzione della immagine di Dio, convinto della sua inesistenza, e sventrò la pianola per decifrarne la magia segreta. Due giorni prima della festa, impantanato in un rivolo di chiavi e di martelletti che crescevano, acciarpando in un garbuglio di corde che svolgeva da un lato e tornavano ad avvolgersi dall’altro, riuscì a malricomporre lo strumento. Non ci furono mai tanti soprassalti e andirivieni come in quei giorni, ma le nuove lampade a catrame si accesero alla data e all’ora prevista. La casa si aprì, ancora odorosa di resine e di calce umida, e i figli e i nipoti dei fondatori conobbero il porticato delle felci e delle begonie, le stanze silenziose, il giardino saturo della fragranza delle rose, e si riunirono nella sala delle visite davanti all’invenzione sconosciuta che era stata coperta con un lenzuolo bianco. Coloro che conoscevano il pianoforte, popolare in altri villaggi della palude, si sentirono un po’ smontati, ma più amara fu la delusione di Ursula quando infilò il primo rullo per permettere ad Amaranta e a Rebeca di aprire le danze, e il meccanismo non funzionò. Melquìades, già quasi cieco, sfranto di decrepitezza, fece ricorso alle arti della sua antichissima sapienza per cercare di rimetterlo a posto. Alla fine José Arcadio Buendìa riuscì a muovere per sbaglio un dispositivo inceppato, e la musica uscì prima a scatti, e poi in una cascata di note ingarbugliate. Battendo contro le corde messe senza né ordine né accordo e temperate temerariamente, i martelletti si scardinarono. Ma i caparbi discendenti dei ventun intrepidi che avevano sviscerato la sierra in cerca del mare verso occidente, elusero gli ostacoli dello sconvolgimento melodico, e il ballo si protrasse fino all’alba.

Pietro Crespi tornò ad aggiustare la pianola. Rebeca e Amaranta lo aiutarono a mettere in ordine le corde e lo affiancarono nelle risate per l’ingarbugliamento dei valzer. Era estremamente affettuoso, e di indole così proba, che Ursula rinunciò alla sorveglianza. La vigilia della sua partenza si improvvisò con la pianola restaurata un ballo per dargli l’addio, e l’italiano diede con Rebeca una virtuosa dimostrazione delle danze moderne. Arcadio e Amaranta lo uguagliarono in grazia e destrezza. Ma l’esibizione fu interrotta perché Pilar Ternera, che era rimasta sulla porta coi curiosi, litigò a morsi e a strappacapelli con una comare che aveva osato commentare che il giovane Arcadio aveva natiche da donna. Verso mezzanotte, Pietro Crespi si accomiatò con un discorsetto sentimentale e promise di tornare molto presto. Rebeca lo accompagnò fino alla porta, e dopo aver chiuso la casa e spento le lampade, andò nella sua stanza a piangere. Fu un pianto inconsolabile che si protrasse per diversi giorni, e la cui causa non conobbe neppure Amaranta. Non era strano il suo ermetismo. Anche se sembrava espansiva e cordiale, aveva un carattere solitario e un cuore impenetrabile. Era una splendida adolescente, con ossa lunghe e sode, ma si ostinava a voler usare la poltroncina a dondolo di legno con la quale era arrivata in quella casa, più volte rinforzata e ormai priva dei braccioli. Nessuno aveva scoperto che, nonostante la sua età, conservava l’abitudine di succhiarsi il dito. Perciò non perdeva l’occasione di chiudersi nel bagno, e aveva preso l’abitudine di dormire con la faccia rivolta contro il muro. Nei pomeriggi di pioggia, ricamando con un gruppo di amiche nel porticato delle begonie, perdeva il filo della conversazione e una lacrima di nostalgia le salava il palato quando vedeva i filoni di terra umida e i monticelli di fango costruiti dai lombrichi nel giardino. Quei gusti segreti, sconfitti in altri tempi dalle arance col rabarbaro, esplosero in una bramosia irreprimibile quando cominciò a piangere. Riprese a mangiare terra. La prima volta lo fece quasi per curiosità, certa che il cattivo sapore sarebbe stato il rimedio migliore contro la tentazione. E in effetti non poté sopportare la terra in bocca. Ma insistette, vinta dall’ansia crescente, e a poco a poco cominciò a ricuperare l’appetito ancestrale, il gusto dei minerali primari, la soddisfazione senza strascichi dell’alimentazione originale. Si metteva manciate di terra nelle tasche, e la mangiava a granelli senza essere vista, con un confuso sentimento di felicità e di rabbia, mentre insegnava alle sue amiche i punti più difficili e parlava di altri uomini che non meritavano il sacrificio che si mangiasse per loro i calcinacci dei muri. Le manciate di terra rendevano meno remoto e più reale l’unico uomo che meritava quella degradazione, come se il suolo che egli calpestava coi suoi fini stivaletti di vernice in un altro luogo del mondo trasmettesse a lei il peso e la temperatura del suo sangue in un sapore minerale che lasciava un bruciore aspro in bocca e un sedimento di pace nel cuore. Un pomeriggio, senza alcun motivo, Amparo Moscote chiese il permesso di vedere la casa. Amaranta e Rebeca, sconcertate dalla visita imprevista, la accolsero con rigida cerimoniosità. Le mostrarono la dimora modificata, le fecero sentire i rulli della pianola e le offrirono aranciata con biscotti. Amparo diede una lezione di dignità, di fascino personale, di buone maniere, che impressionò Ursula nei brevi attimi durante i quali fu presente alla visita. Dopo due ore, quando la conversazione cominciava a languire, Amparo approfittò di una distrazione di Amaranta e consegnò una lettera a Rebeca. Lei riuscì a vedere il nome della distintissima signorina donna Rebeca Buendìa, scritto con la stessa calligrafia metodica, con lo stesso inchiostro verde e con lo stesso ordine preziosista delle parole con cui erano scritte le istruzioni per il funzionamento della pianola, e piegò la lettera con la punta delle dita e se la nascose nel seno guardando Amparo Moscote con una espressione di gratitudine senza limiti né condizioni e con una tacita promessa di complicità fino alla morte.

L’improvvisa amicizia di Amparo Moscote e di Rebeca Buendìa risvegliò le speranze di Aureliano. Il ricordo della piccola Remedios non aveva smesso di torturarlo, ma non trovava l’occasione di vederla. Quando passeggiava per il villaggio coi suoi amici più prossimi, Magnifico Visbal e Gerineldo Màrquez - figli dei fondatori con gli stessi nomi - la cercava con sguardo ansioso nel laboratorio di cucito e vedeva soltanto le sorelle maggiori. La presenza di Amparo Moscote nella casa fu come una premonizione. “Deve venire con lei,” si diceva Aureliano sottovoce. “Deve venire.” Lo ripe tè così tante volte, e con tanta convinzione, che un pomeriggio, mentre stava montando in laboratorio un pesciolino d’oro, ebbe la certezza che lei aveva risposto al suo richiamo. Poco dopo, infatti, sentì la vocina infantile, e alzando lo sguardo, col cuore gelato di sgomento, vide la bambina sulla soglia, con un vestito di organdi rosa e stivaletti bianchi.

“Non entrare lì, Remedios,” disse Amparo Moscote dal portico. “Stanno lavorando.”

Ma Aureliano non le lasciò il tempo di ubbidire. Alzò il pesciolino dorato, appeso a una catenina che gli usciva dalla bocca, e le disse:

“Entra.”

Remedios si avvicinò e fece qualche domanda sul pesciolino, ma Aureliano non riuscì a rispondere perché glielo impediva un’asma improvvisa. Avrebbe voluto restare per sempre vicino a quella pelle di giglio, vicino a quegli occhi di smeraldo, molto vicino a quella voce che a ogni domanda gli dava del signore con lo stesso rispetto col quale lo dava a suo padre, Melquiades era nel suo cantuccio, seduto allo scrittoio, e scarabocchiava segni indecifrabili. Aureliano lo odiò. Non poté far nulla, tranne dire a Remedios che le avrebbe regalato il pesciolino, e la bambina si spaventò tanto a quell’offerta che se ne andò in tutta fretta dal laboratorio. In quel pomeriggio Aureliano perse la recondita pazienza con la quale aveva atteso l’occasione di vederla. Trascurò il lavoro. La chiamò molte volte, in disperati sforzi di concentrazione, ma Remedios non rispose. La cercò nel laboratorio delle sue sorelle, dietro le tende della sua casa, nell’ufficio di suo padre, ma la trovò soltanto nella immagine che saturava la sua stessa e terribile solitudine. Passava ore e ore con Rebeca nel salotto buono, ad ascoltare i valzer della pianola. Lei li ascoltava perché era la musica con la quale Pietro Crespi le aveva insegnato a ballare. Aureliano li ascoltava semplicemente perché ogni cosa, perfino la musica, gli ricordava Remedios.

La casa si riempì di amore. Aureliano lo espresse in versi senza principio e senza fine. Li scriveva sulle ruvide pergamene che gli regalava Melquiades, sui muri del bagno, sulla pelle delle braccia, e in tutti i versi Remedios appariva trasfigurata: Remedios nell’atmosfera soporifera delle due del pomeriggio, Remedios nella taciturna respirazione delle rose, Remedios nella clessidra segreta dei tarli, Remedios nel vapore del pane all’alba, Remedios dappertutto e Remedios per sempre. Rebeca aspettava l’amore alle quattro del pomeriggio ricamando vicino alla finestra. Sapeva che la mula della posta arrivava soltanto ogni quindici giorni, ma lei l’aspettava sempre, convinta che sarebbe arrivata un giorno qualunque per sbaglio. Successe tutto il contrario: una volta la mula non arrivò alla data prevista. Pazza di disperazione, Rebeca si alzò a mezzanotte e mangiò manciate di terra nel giardino, con un’avidità suicida, piangendo di dolore e di furia, masticando lombrichi teneri e scheggiandosi i denti su gusci di lumache. Vomitò fino all’alba. Si sprofondò in uno stato di prostrazione febbrile, perse la conoscenza, e il suo cuore si aprì in un delirio senza pudore. Ursula, scandalizzata, forzò la serratura del baule, e trovò in fondo, legate con nastri color rosa, le sedici lettere profumate e gli scheletri di foglie e di petali conservati in libri antichi e le farfalle disseccate che al toccarle si ridussero in polvere.

Aureliano fu l’unico in grado di comprendere tanta desolazione. Quel pomeriggio, mentre Ursula cercava di riscattare Rebeca dai meandri del delirio, andò con Magnifico Visbal e con Gerineldo Màrquez nella bottega di Catarino. Il locale era stato ampliato con un’ala di camerette di legno in cui abitavano donne sole odorose di fiori morti. Un complesso di fisarmoniche e di tamburi suonava le canzoni di Francisco el Hombre, che da parecchi anni era scomparso da Macondo. I tre amici bevvero succo di canna fermentato. Magnifico e Gerineldo, coetanei di Aureliano, ma più esperti nelle cose del mondo, bevevano metodicamente, con le donne sedute tra le gambe. Una di loro, appassita e con la dentiera impiombata, fece a Aureliano una carezza rabbrividente. Lui la respinse. Aveva scoperto che quanto più beveva tanto più si ricordava di Remedios, ma sopportava meglio la tortura del ricordo. Non seppe come, a un certo momento si sentì galleggiare. Vide i suoi amici e le donne navigare in un riverbero raggiante, senza né peso né volume, dicendo parole che non uscivano dalle sue labbra e facendo segni misteriosi che non corrispondevano ai suoi gesti. Catarino gli mise una mano sulla schiena e gli disse: “Sono quasi le undici.” Aureliano girò la testa, vide l’enorme viso deformato con un fiore di feltro all’orecchio, e allora perse la memoria, come nei tempi della dimenticanza, e tornò a ricuperarla in un’alba diversa e in una stanza che gli era completamente sconosciuta, dove c’era Pilar Ternera in sottoveste, scalza, scarmigliata, con una lampada in mano e paralizzata dall’incredulità.

“Aureliano!”

Aureliano si raffermò sui piedi e alzò la testa. Ignorava come aveva fatto ad arrivare fin lì, ma sapeva quale era l’intenzione, perché la portava nascosta fin dall’infanzia in un compartimento inviolabile del cuore.

“Vengo a dormire con lei,” disse.

Aveva gli abiti imbrattati di fango e di vomito. Pilar Ternera, che allora abitava sola coi suoi due figli minori, non gli fece alcuna domanda. Lo portò sul letto. Gli pulì la faccia con uno straccio umido, lo svestì, e poi si denudò completamente e abbassò la zanzariera perché non la vedessero i suoi figli se si svegliavano. Si era stancata di aspettare l’uomo che non era venuto, gli uomini che se ne erano andati, gli innumerevoli uomini che avevano perso la strada della sua casa, disorientati dall’incertezza delle carte. Nell’attesa le si era raggrinzita la pelle, le si erano svuotati i seni, le si era spenta la brace del cuore. Cercò Aureliano nel buio, gli mise la mano sul ventre e lo baciò sul collo con una tenerezza materna. “Mio povero bambinello,” mormorò. Aureliano rabbrividì. Con una abilità pacata, senza il minimo intoppo, lasciò alle spalle le scogliere del dolore e trovò Remedios trasformata in un pantano senza orizzonti, odorosa di bestia cruda e di roba appena stirata. Quando tornò a galla stava piangendo. Dapprima furono dei singhiozzi involontari e intermittenti. Poi si svuotò in una sorgente sfrenata, sentendo che qualcosa di tumefatto e doloroso era scoppiato nel suo interno. Lei aspettò, grattandogli la testa coi polpastrelli delle dita, finché il suo corpo si sbarazzò della materia oscura che non lo lasciava vivere. Allora Pilar Ternera gli chiese: “Chi è?” E Aureliano glielo disse. Lei scoppiò in quella risata che in altri tempi spaventava le colombe e che ora non svegliava nemmeno i bambini. “Dovrai finire di allevarla,” scherzò. Ma dietro lo scherno Aureliano trovò una gora di comprensione. Quando uscì dalla stanza, lasciando lì non solo l’incertezza della sua virilità ma anche il peso amaro che per tanti mesi aveva sopportato nel cuore, Pilar Terriera gli aveva fatto una promessa spontanea.

“Parlerò con la bambina,” gli disse, “e vedrai che te la servo su un vassoio.”

Mantenne. Ma in un brutto momento, perché la casa aveva perso la pace di altri giorni. Quando scoprì la passione di Rebeca, che non fu possibile tenere segreta a causa delle sue urla, Amaranta fu colta da un accesso di febbri. Anche lei soffriva della spina di un amore solitario. Chiusa nel bagno si sfogava del tormento di una passione senza speranza scrivendo lettere febbrili che si rassegnava a nascondere in fondo al baule. Ursula ce la faceva a malapena a provvedere alle due malate. Non riuscì in prolungati e insidiosi interrogatori a scoprire le cause della prostrazione di Amaranta. Alla fine, in un altro attimo di ispirazione, forzò la serratura del baule e trovò le lettere legate con nastri color rosa, imbottite tuberose fresche e ancora umide di lacrime, indirizzate e mai spedite a Pietro Crespi. Piangendo di furore maledisse l’ora in cui le era venuto in mente di comprare la pianola, proibì le lezioni di ricamo e decretò una specie di lutto senza morto che si sarebbe protratto finché le figlie avessero desistita dalle loro speranze. Fu inutile l’intervento di José Arcadio Buendìa, che aveva rettificato la sua prima impressione nei confronti di Pietro Crespi, e ammirava la sua abilità nella meccanica musicale. Di modo che quando Pilar Ternera disse a Aureliano che Remedios era decisa a sposarsi, lui comprese che la notizia avrebbe aumentato le tribolazioni dei suoi genitori. Ma affrontò la situazione. Convocati nel salotto buono per un colloquio formale, José Arcadio Buendìa e Ursula ascoltarono senza battere ciglio la dichiarazione del loro figlio. Quando seppe il nome della fidanzata, tuttavia, José Arcadio Buendìa arrossì di indignazione. “L’amore è una peste,” tuonò. “Con tante ragazze belle e decenti, l’unica cosa che ti salta in testa è sposarti con la figlia del nemico.” Ma Ursula approvò la scelta. Confessò il suo affetto nei confronti delle sette sorelle Moscote, per la loro grazia, la loro laboriosità, la loro verecondia e buona educazione, e lodò l’assennatezza di suo figlio. Vinto dall’entusiasmo di sua moglie, José Arcadio Buendìa pose allora una condizione: Rebeca, che era quella corrisposta, si sarebbe sposata con Pietro Crespi. Ursula avrebbe accompagnato Amaranta in un viaggio nella capitale della provincia, quando avesse avuto tempo, in modo che il contatto con gente diversa le alleviasse la delusione. Rebeca ricuperò la salute non appena seppe della decisione, e scrisse al suo fidanzato una lettera giubilante che sottopose alla approvazione dei suoi genitori e impostò senza servirsi di intermediari. Amaranta finse di accettare la decisione e a poco a poco si ristabilì dalle febbri, ma promise a se stessa che Rebeca si sarebbe sposata solo passando sul suo cadavere.

Il sabato seguente, José Arcadio Buendìa si mise il vestito di panno nero, il colletto di celluloide e gli stivali di pelle scamosciata che aveva inaugurato la notte della festa, e andò a chiedere la mano di Remedios Mosente. Il correggitore e sua moglie lo ricevettero compiaciuti e conturbati allo stesso tempo, perché ignoravano lo scopo della visita imprevista, e poi credettero che egli avesse confuso il nome della prescelta. Per dissipare l’errore, la madre svegliò Remedios e la portò in braccio nel salotto, ancora insonnolita. Le chiesero se era veramente decisa a sposarsi, e lei rispose piagnucolando che voleva soltanto che la lasciassero dormire. José Arcadio Buendìa, comprendendo il turbamento dei Moscote, andò a mettere in chiaro la cosa con Aureliano. Quando tornò, i coniugi Moscote si erano vestiti con abiti da cerimonia, avevano cambiato la disposizione dei mobili e collocato fiori freschi nei vasi, e lo aspettavano in compagnia delle loro figlie maggiori. Oppresso dalla spiacevolezza dell’occasione e dal fastidio del colletto duro, José Arcadia Buendìa confermò che, effettivamente, si trattava di Remedios. “È una cosa assurda,” disse costernato don Apolinar Moscote. “Abbiamo altre sei figlie, tutte nubili e in età da marito che sarebbero felici di essere degnissime mogli di giovani seri e lavoratori come suo figlio, e Aurelito mette gli occhi proprio sull’unica che fa ancora pipì a letto.” Sua moglie, una donna ben conservata, con palpebre e atteggiamento dolenti, gli rimproverò quella scorrettezza. Quando finirono di bere il frullato di frutta, avevano accettato con soddisfazione la decisione di Aureliano. Solo che la signora Moscote supplicava il favore di parlare a quattr’occhi con Ursula. Inquieta, protestando perché la coinvolgevano in faccende da uomini, ma in realtà intimidita dall’emozione, Ursula andò a trovarla il giorno seguente. Mezz’ora dopo tornò con la notizia che Remedios era impubere. Aureliano non lo considerò un grave ostacolo. Aveva aspettato tanto e poteva aspettare ancora quanto fosse necessario, finché la fidanzata fosse in età di concepire.

L’armonia ricuperata fu interrotta soltanto dalla morte di Melquìades. Anche se era un avvenimento prevedibile, non lo furono le circostanze. Pochi mesi dopo il suo ritorno si era verificato in lui un processo di invecchiamento così affrettato e critico, che ben presto lo si considerò come uno di quei bisavoli inutili che vagano come ombre per le stanze da letto, strascicando i piedi, rammentando tempi migliori ad alta voce, e dei quali nessuno si occupa né si ricorda in effetti finché un giorno li si trova morti nel letto. Nei primi tempi, José Arcalo Buendìa lo assecondava nelle sue occupazioni, entusiasta della novità della dagherrotipia e delle predizioni di Nostradamus. Ma a poco a poco andò abbandonandolo alla sua solitudine, perché era sempre più difficile comunicare con lui. Stava perdendo la vista e l’udito, pareva confondere gli interlocutori con persone che aveva conosciuto in epoche remote dell’umanità, e rispondeva alle domande con un intricato guazzabuglio di idiomi. Camminava tastando l’aria, pur muovendosi tra le cose con una fluidità inspiegabile, come se fosse dotato di un istinto di orientamento basato su presentimenti immediati. Un giorno dimenticò di mettersi la dentiera, che di notte lasciava in un bicchiere d’acqua vicino al letto, e non la rimise più. Quando Ursula decise di ampliare la casa, gli fece costruire una stanza speciale attigua al laboratorio di Aureliano, lontano dai rumori e dal traffico domestico, con una finestra inondata di luce e uno scaffale dove lei stessa collocò i libri quasi distrutti dalla polvere e dalle tarme, le fragili carte fitte di segni indecifrabili e il bicchiere con la dentiera posticcia dove erano nate delle pianticine acquatiche con minuscoli fiori gialli. Sembrò che Melquìades gradisse il nuovo luogo, perché nessuno lo vide più nemmeno nella sala da pranzo. Andava soltanto nel laboratorio di Aureliano, dove passava ore e ore a scarabocchiare la sua letteratura enigmatica sulle pergamene che aveva portato con sé e che parevano fatte di un materiale arido che si sgretolava come una sfogliata. Lì mangiava i cibi che Visitación gli portava due volte al giorno, anche se negli ultimi tempi aveva perso l’appetito e si alimentava solo di legumi. Ben presto assunse l’aspetto di abbandono tipico dei vegetariani. La pelle gli si coprì di una soffice muffa, simile a quella che prosperava sul panciotto anacronistico che non si tolse mai, e il suo respiro esalò un tanfo di animale addormentato. Aureliano finì per dimenticarsi di lui, assorto nella compilazione dei suoi versi, ma in qualche occasione credette di capire qualcosa di quello che diceva nei suoi monologhi vaneggianti, e gli prestò orecchio. In realtà, l’unica cosa che riuscì a isolare nei borbottii catarrosi fu l’insistente martellamento della parola equinozio, equinozio, equinozio, e il nome di Alexander van Humboldt. Arcadio si avvicinò un po’ di più a lui quando cominciò ad aiutare Aureliano nell’oreficeria. Melquìades corrispose a quello sforzo di comunicazione snocciolando a volte parole in spagnolo che avevano ben poco da vedere con la realtà. Un pomeriggio, tuttavia, parve illuminato da una improvvisa emozione. Anni dopo, davanti al plotone di esecuzione, Arcadio si sarebbe ricordato della trepidazione con la quale Melquìades gli fece ascoltare diverse pagine della sua scrittura impenetrabile, che naturalmente non capì, ma che lette ad alta voce sembravano encicliche cantate. Poi sorrise per la prima volta dopo parecchio tempo e disse in spagnolo: “Quando sarò morto, bruciate mercurio per tre giorni nella mia stanza.” Arcadio lo disse a José Arcadio Buendìa, e questi cercò di ottenere una informazione più esplicita, ma riuscì ad avere soltanto una risposta: “Ho raggiunto l’immortalità.” Quando il respiro di Melquìades cominciò a puzzare, Arcadio lo portò a fare il bagno nel fiume tutti i giovedì, di mattina. Sembrò migliorare. Si spogliava e scendeva in acqua con i ragazzi, e il suo misterioso senso di orientamento gli permetteva di evitare i punti più profondi e pericolosi. “Siamo dell’acqua,” disse una volta. Così passò parecchio tempo senza che nessuno lo vedesse per casa, tranne nella sera in cui fece un commovente sforzo per aggiustare la pianola, e quando andava al fiume con Arcadio portando sotto il braccio la zucca e la palla di sapone di palma avvolti in un asciugamano. Un giovedì, prima che lo chiamassero per andare al fiume, Aureliano lo sentì dire: “Sono morto di febbre nelle sirti di Singapore.” Quel giorno entrò in acqua da una parte rischiosa e non lo trovarono fino al mattino dopo, parecchi chilometri a valle, incagliato, in un’ansa luminosa e con un avvoltoio solitario fermo sul ventre. Nonostante le proteste scandalizzate di Ursula, che lo pianse con maggior dolore del suo stesso padre, José Arcadio Buendìa si rifiutò che lo seppellissero. “È immortale,” disse, “e lui stesso ha rivelato la formula della risurrezione.” Ravvivò l’atanor dimenticato e mise a bollire una caldaia di mercurio vicino al cadavere che a poco a poco si andava riempiendo di bolle blu. Don Apolinar Moscote osò ricordargli che un annegato insepolto era un pericolo per la salute pubblica. “Niente affatto, dato che è vivo,” fu la risposta di José Arcadio Buendìa, che completò le settantadue ore di suffumigi mercuriali, quando dal cadavere cominciava già a erompere una efflorescenza livida, i cui lievi sibili impregnarono la casa di un vapore pestilenziale. Solo allora permise che lo seppellissero, ma non in un modo qualunque, bensì con gli onori riservati al più grande benefattore di Macondo. Fu il primo funerale e con il più grande concorso di persone che si vide nel villaggio, superato appena un secolo dopo dal carnevale funerario della Mamà Grande. Lo seppellirono in una tomba eretta in mezzo al terreno che destinarono al cimitero, con una lapide dove rimase scritta l’unica cosa che si seppe di lui: MELQUIADES. Gli fecero le sue nove notti di veglia. Nella baraonda di gente che si riuniva nel patio per bere caffè, raccontare storielle e giocare a carte, Amaranta trovò l’occasione per confessare il suo amore a Pietro Crespi, che poche settimane prima aveva reso ufficiale il suo fidanzamento con Rebeca e stava preparando un magazzino di strumenti musicali e di giocattoli a molla, nello stesso rione dove vegetavano gli arabi che in altri tempi barattavano cianfrusaglie con pappagalli, e che la gente conosceva come la Strada dei Turchi. L’italiano, la cui testa coperta di riccioli lucidi suscitava nelle donne una irreprimibile necessità di sospirare, trattò Amaranta come una ragazzetta capricciosa che non valeva la pena di prendere troppo in considerazione.

“Ho un fratello minore,” le disse. “Verrà a darmi una mano nel negozio.”

Amaranta si sentì umiliata e disse a Pietro Crespi, con un astio virulento, che era decisa a impedire il matrimonio di sua sorella anche se fosse stata costretta a sbarrare la porta col proprio cadavere. L’italiano fu così impressionato dalla drammaticità della minaccia, che non resistette alla tentazione di commentarla con Rebeca. Fu così che il viaggio di Amaranta, sempre rimandato a causa delle occupazioni di Ursula, fu predisposto in meno di una settimana. Amaranta non oppose resistenza, ma quando diede a Rebeca il bacio d’addio, le sussurrò all’orecchio:

“Non farti illusioni. Anche se mi porteranno in capo al mondo troverò il modo di impedire che ti sposi, dovessi ucciderti.”

Con l’assenza di Ursula, con la invisibile presenza di Melquìades che continuava il suo deambulare segreto nelle stanze, la casa sembrò enorme e vuota. L’ordine domestico era stato affidato alle cure di Rebeca, mentre l’india si occupava del forno. Verso sera, quando arrivava Pietro Crespi preceduto da un fresco alito di spigo e sempre con un giocattolo in regalo, la sua fidanzata riceveva la visita nel salotto buono con porte e finestre aperte per salvaguardarsi da eventuali sospetti. Era una precauzione non necessaria, perché l’italiano aveva dimostrato di essere così rispettoso che non si permetteva nemmeno di toccare la mano della donna che sarebbe stata sua moglie prima di un anno. Quelle visite riempirono a poco a poco la casa di giocattoli prodigiosi. Le ballerine a molla, le scatole musicali, le scimmie acrobate, i cavalli trottatori, i pagliacci tamburini, la magnifica e meravigliosa fauna meccanica che portava Pietro Crespi, dissiparono il dolore di José Arcadio Buendìa per la morte di Melquìades, e lo trasportarono di nuovo ai suoi antichi tempi di alchimista. Viveva allora in un paradiso di animali sventrati, di meccanismi scomposti nell’intento di perfezionarli con un sistema di moto continuo basato sui principi del pendolo. Aureliano, da parte sua, aveva trascurato il laboratorio per insegnare a leggere e a scrivere alla piccola Remedios. Sulle prime la bambina preferiva le sue bambole all’uomo che arrivava tutti i pomeriggi, e per cui era costretta a separarsi dai suoi giochi per essere lavata e vestita e fatta sedere in salotto a ricevere la visita. Ma la pazienza e la dedizione di Aureliano finirono per sedurla, finché cominciò a trascorrere parecchie ore con lui studiando il significato delle lettere dell’alfabeto e disegnando in un quaderno con matite colorate casette con mucche nei recinti e soli rotondi con raggi gialli che si nascondevano dietro le colline.

Soltanto Rebeca era infelice per la minaccia di Amaranta. Conosceva il carattere di sua sorella, l’alterigia del suo spirito, e la spaventava la virulenza del suo rancore. Passava ore intere a succhiarsi il dito nel bagno, aggrappandosi a uno spossante sforzo di volontà per non mangiare terra. Cercando un sollievo all’angoscia chiamò Pilar Ternera per farsi leggere l’avvenire. Dopo una filza di imprecisioni convenzionali, Pilar Ternera pronosticò:

“Non sarai felice finché i tuoi genitori rimarranno insepolti.”

Rebeca rabbrividì. Come nel ricordo di un sogno vide se stessa entrare in casa, piccola piccola, col baule e la poltroncina a dondolo di legno e un sacco il cui contenuto non aveva mai visto. Si ricordò di un signore calvo, vestito di lino e col colletto chiuso con un bottone d’oro, che non aveva nulla da vedere col re di coppe. Si ricordò di una donna molto giovane e molto bella, con le mani tiepide e profumate, che non avevano nulla da vedere con le mani reumatiche della regina di denari, e che le metteva fiori nei capelli per portarla a passeggiare nel pomeriggio in un paese con le strade verdi.

“Non capisco,” disse.

Pilar Ternera parve sconcertata:

“Nemmeno io, ma le carte dicono proprio così.”

Rebeca fu così preoccupata per quell’enigma, che lo raccontò a José Arcadio Buendìa e questi la sgridò perché credeva ai pronostici delle carte, ma si dedicò al silenzioso compito di rovistare armadi e bauli, di spostare mobili e di ribaltare letti e impiantiti, cercando il sacco delle ossa. Si ricordava di non averlo più visto dal tempo della ricostruzione. Chiamò in segreto i muratori e uno di loro rivelò di aver murato il sacco in qualche stanza da letto perché gli dava fastidio nel lavoro.

Dopo parecchi giorni di auscultazioni, con l’orecchio incollato al muro, percepirono il cloccloc profondo. Perforarono il muro e le ossa erano lì, nel sacco intatto. Quello stesso giorno lo seppellirono in una tomba senza lapide, improvvisata vicino a quella di Melquìades, e José Arcadio Buendìa tornò a casa liberato da un onere, che per un momento aveva pesato sulla sua coscienza quanto il ricordo di Prudencio Aguilar. Passando dalla cucina diede un bacio sulla fronte a Rebeca.

“Levati le cattive idee dalla testa,” le disse. “Sarai felice.”

L’amicizia di Rebeca aprì a Pilar Ternera le porte della casa, chiuse da Ursula fin dalla nascita di Arcadio. Arrivava a qualsiasi ora del giorno, come una mandria di capre, e scaricava la sua energia febbrile nelle faccende più pesanti. Certe volte entrava nel laboratorio e aiutava Arcadio a sensibilizzare le lastre del dagherrotipo con una efficienza e una tenerezza che finirono per confonderlo. Quella donna lo sbalordiva. Il riverbero della sua pelle, il suo odore di fumo, il disordine del suo riso nella camera oscura, turbavano la sua attenzione e lo facevano inciampare nelle cose.

Una volta, Aureliano era lì, a lavorare in oreficeria, e Pilar Ternera si appoggiò al tavolo per ammirare la sua paziente laboriosità. Improvvisamente successe. Aureliano seppe che Arcadio era nella camera oscura, prima di alzare lo sguardo e incrociare gli occhi di Pilar Ternera, il cui pensiero era perfettamente evidente, come esposto alla luce di mezzogiorno.

“Bene,” disse Aureliano. “Mi dica cosa è.”

Pilar Ternera si morse le labbra con un sorriso triste. “Che sei buono per la guerra,” disse. “Dove metti l’occhio metti il piombo.”

La prova, del presagio rilassò Aureliano. Tornò a concentrarsi nel lavoro, come se non fosse successo nulla, e la sua voce acquistò una calma fermezza.

“Lo riconosco,” disse. “Gli darò il mio nome.”

José Arcadio Buendìa ottenne finalmente quello che cercava: applicò a una ballerina a molla il meccanismo dell’orologio, e il giocattolo ballò senza interruzione al ritmo della sua stessa musica per tre giorni. Quella invenzione lo eccitò assai di più di qualsiasi altra delle sue imprese strampalate. Non mangiò più. Non dormì più. Senza la sorveglianza e le cure di Ursula si lasciò trascinare dalla sua immaginazione verso uno stato di delirio perpetuo dal quale non si sarebbe più riavuto. Passava le notti girando nella stanza, pensando ad alta voce, cercando il modo di applicare i principi del pendolo alle carrette da buoi, al vomere dell’aratro, a tutto quello che potesse essere utile se messo in moto. La febbre dell’insonnia lo prostrò così tanto, che una mattina verso l’alba non poté riconoscere il vecchio con la testa bianca e modi incerti che entrò nella sua stanza da letto. Era Prudencio Aguilar. Quando alla fine lo ravvisò, meravigliato che anche i morti invecchiassero, José Arcadio Buendìa si senti scosso dalla nostalgia. “Prudencio,” esclamò, “come sei venuto a finire lontano!” Dopo molti anni di morte, era così intensa la nostalgia dei vivi, così incalzante il bisogno di compagnia, così terrificante la prossimità dell’altra morte che esisteva dentro la morte, che Prudencio Aguilar aveva finito per voler bene al peggiore dei suoi nemici. Lo stava cercando da molto tempo. Chiedeva di lui ai morti di Riohacha, ai morti che arrivavano dalla Valle di Upar, a quelli che arrivavano dalla palude, e nessuno lo informava, perché Macondo fu un villaggio sconosciuto ai morti finché arrivò Melquìades e lo indicò con un puntino nero sulle variopinte mappe della morte. José Arcadio Buendìa chiacchierò con Prudencio Aguilar fino al sorgere del giorno. Poche ore dopo, distrutto dalla veglia, entrò nel laboratorio di Aureliano e gli chiese: “Che giorno è oggi?” Aureliano gli rispose che era martedì. “Proprio quello che pensavo, disse José Arcadio Buendìa. “Ma improvvisamente mi sono reso conto che continua a essere lunedì, come ieri. Guarda il cielo, guarda i muri, guarda le begonie. Anche oggi è lunedì.” Abituato alle sue manie, Aureliano “non gli fece caso. Il giorno dopo, mercoledì José Arcadia Buendìa tornò nel laboratorio. “È un disastro,” disse. “Guarda l’aria, senti come picchia il sole, proprio come ieri e l’altroieri. Anche oggi è lunedì.” Quella sera, Pietro Crespi lo trovò nella galleria, a piangere col piagnucolio senza grazia dei vecchi, a piangere per Prudencio Aguilar, per Melquìades, per i genitori di Rebeca, per il suo papà e la sua mamma, per tutti quelli che poteva ricordare e che allora erano soli nella morte. Gli regalò un orso a molla che camminava a due zampe su un filo di ferro, ma non riuscì a distrarlo dalla sua ossessione. Gli chiese che ne era del progetto che gli aveva esposto qualche giorno prima, sulla possibilità di costruire una macchina a pendolo che servisse all’uomo per volare, e lui rispose che era impossibile perché il pendolo poteva sollevare qualsiasi cosa in aria ma non poteva sollevare se stesso. Il giovedì tornò a comparire nel laboratorio con un doloroso aspetto di terra rastrellata. “La macchina del tempo si è sconnessa,” singhiozzò quasi, “e Ursula e Amaranta così lontane!” Aureliano lo rimproverò come un bambino e lui adottò un fare sottomesso. Passò sei ore a esaminare le cose, cercando di trovare una differenza con l’aspetto che avevano avuto il giorno precedente, affannandosi a scoprire qualche cambiamento che rivelasse il trascorrere del tempo. Rimase per tutta la notte in letto con gli occhi aperti, a chiamare Prudencio Aguilar, Melquìades, tutti i morti, perché venissero a condividere la sua inquietudine. Ma nessuno accorse. Il venerdì, prima ancora che si alzasse qualcuno, tornò a sorvegliare l’aspetto della natura, finché non ebbe il minimo dubbio che continuava a essere lunedì. Allora afferrò la sbarra di una porta e con la violenza selvaggia della sua forza straordinaria frantumò fino a convertirli in polvere gli apparecchi di alchimia, il gabinetto di dagherrotipia, il laboratorio di oreficeria, gridando come un indemoniato in un idioma altisonante e fluido ma del tutto incomprensibile. Si accingeva a farla finita col resto della casa quando Aureliano chiese aiuto ai vicini. Ci vollero dieci uomini per rovesciarlo, quattordici per immobilizzarlo, venti per trascinarlo fino al castagno del patio, dove lo lasciarono legato, a latrare in una lingua straniera e a vomitare bava verdastra. Quando arrivarono Ursula e Amaranta era ancora legato piedi e mani al tronco del castagno, inzuppato di pioggia e in uno stato di alienazione totale. Gli parlarono, e lui le guardò senza riconoscerle e disse loro qualcosa di incomprensibile. Ursula gli slegò i polsi e le caviglie ulcerate dalla pressione delle funi, e lo lasciò legato soltanto per la vita. Più tardi gli costruirono una tettoia di palma per proteggerlo dal sole e dalla pioggia.

 Aureliano Buendìa e Remedios Moscote si sposarono una domenica di marzo davanti d’altare che padre Nicanor Reyna fece costruire nel salotto. Fu la culminazione di quattro settimane di soprassalti in casa dei Moscote, perché la piccola Remedios arrivò alla pubertà prima ancora di superare i vizi dell’infanzia. Malgrado la madre l’avesse istruita sui cambiamenti dell’adolescenza, un pomeriggio di febbraio irruppe con urli di spavento nel salotto dove le sue sorelle stavano chiacchierando con Aureliano, e mostrò loro le mutandine imbrattate di una pasta simile a cioccolata. Si fissarono le nozze entro un mese. Ci fu appena il tempo di insegnarle a lavarsi, a vestirsi da sola, a capire le faccende fondamentali di una casa. La misero a orinare su mattoni caldi per farle passare il vizio di bagnare il letto. Costò fatica convincerla della inviolabilità del segreto coniugale, perché Remedios era così sgomenta e nello stesso tempo così meravigliata per la rivelazione, che voleva raccontare a tutti i particolari della notte di nozze. Fu uno sforzo estenuante, ma alla data prevista per la cerimonia la bambina era esperta nelle cose del mondo quanto ognuna delle sue sorelle. Don Apolinar Moscote le diede il braccio lungo la strada adornata di fiori e ghirlande, tra lo scoppio dei petardi e la musica di diverse bande, e lei salutava con la mano e ringraziava con un sorriso chi le augurava buona fortuna dalle finestre. Aureliano, vestito di panno nero, con gli stessi stivaletti di vernice che avrebbe portato pochi anni dopo davanti al plotone di esecuzione, aveva un pallore intenso e un groppo duro in gola quando ricevette la sua fidanzata sulla porta di casa e la portò all’altare. Remedios si comportò con tanta naturalezza, con tanto giudizio, che non perse le staffe nemmeno quando Aureliano lasciò cadere l’anello che cercava di infilarle. In mezzo al mormorio e al principio di confusione degli invitati, lei continuò a tenere in alto il braccio col mezzo guanto di pizzo e rimase con l’anulare pronto finché il suo fidanzato riuscì a fermare l’anello con lo stivaletto, perché non continuasse a rotolare fino alla porta, e tornò tutto rosso all’altare. Sua madre e le sue sorelle patirono tanto per il timore che la bambina commettesse una scorrettezza durante la cerimonia, che alla fine furono loro a commettere la sconvenienza di prenderla in braccio per darle un bacio. Da quel giorno si rivelò il senso della sua responsabilità, la grazia naturale, il tranquillo dominio che Remedios avrebbe sempre avuto di fronte alle circostanze avverse. Fu lei che di sua iniziativa mise da parte la migliore fetta che tagliò dalla torta di nozze per portarla in un piatto con una forchetta a José Arcadio Buendìa. Legato al tronco del castagno, rannicchiato su un panchettino di legno sotto la tettoia di palme, l’enorme vecchio scolorito dal sole e dalla pioggia fece un vago sorriso di gratitudine e si mangiò il dolce con le dita masticando un salmo inintelligibile. L’unica persona infelice in quella cerimonia strepitosa che si prolungò fino all’alba del lunedì fu Rebeca Buendìa. Era la sua festa mancata. Per decisione di Ursula, il suo matrimonio doveva essere celebrato nella medesima data, ma il venerdì Pietro Crespi aveva ricevuto una lettera con la notizia della morte imminente di sua madre. Il matrimonio fu rimandato. Pietro Crespi partì per il capoluogo della provincia un’ora dopo aver ricevuto la lettera, e sulla strada si incrociò con sua madre che arrivò puntualmente la sera del sabato e cantò al matrimonio di Aureliano l’aria malinconica che aveva preparato per il matrimonio di suo figlio. Pietro Crespi tornò a mezzanotte della domenica per raccogliere le briciole del festino, dopo aver sfiancato cinque cavalli cammin facendo, nel tentativo di arrivare in tempo per il suo matrimonio. Non si seppe mai chi aveva scritto quella lettera. Tormentata da Ursula, Amaranta pianse di indignazione e giurò la sua innocenza davanti all’altare che i falegnami non avevano finito di smontare.

Padre Nicanor Reyna - che don Apolinar Moscote aveva portato dalla palude per fargli celebrare il matrimonio - era un vecchio indurito dalla ingratitudine del suo ministero. Aveva la pelle triste, quasi sulle sole ossa, e il ventre pronunciato e rotondo e una espressione di angelo vecchio che era più di innocenza che di bontà. Aveva l’intenzione di tornare nella tua parrocchia dopo il matrimonio, ma si stupì dell’aridità degli abitanti di Macondo, che prosperavano nello scandalo, soggetti alla legge naturale, senza battezzare i figli né santificare le feste. Pensando che nessun luogo avesse tanta necessità della semente di Dio, decise di fermarsi ancora una settimana per cristianizzare circoncisi e gentili, legalizzare concubinari e sacramentare moribondi. Ma nessuno gli fece caso. Gli rispondevano che erano rimasti senza prete per molti anni, che sistemavano le faccende dell’anima direttamente con Dio, e che avevano perso la malizia del peccato mortale. Stanco di predicare al deserto, padre Nicanor si accinse a intraprendere la costruzione di un tempio, il più grande del mondo, con santi a grandezza naturale e vetri colorati alle pareti, perché venisse gente da Roma a onorare Dio nel centro dell’empietà. Girava dappertutto chiedendo elemosine con un piattino di rame. Gli davano molto, ma lui voleva di più perché il tempio doveva avere una campana i cui rintocchi riportassero a galla gli annegati. Supplicò tanto, che perse la voce. Le sue ossa cominciarono a riempirsi di rumori. Un sabato, non avendo raccolto nemmeno il costo delle porte, si lasciò turbare dalla disperazione. Improvvisò un altare in piazza e la domenica percorse il villaggio con una campanella, come nei tempi dell’insonnia, convocando alla messa da campo. Molti andarono per curiosità. Altri per nostalgia. Altri perché a Dio non venisse in mente di prendere per offesa personale l’indifferenza nei confronti del suo intermediario. E così alle otto della mattina mezzo villaggio si era riunito nella piazza, dove padre Nicanor cantò gli evangeli con voce lacerata dalla supplica. Alla fine, quando gli astanti cominciarono a sbandarsi, alzò le braccia per richiamare l’attenzione.

“Un momento,” disse. “Ora assisteremo a una prova irrefutabile dell’infinito potere di Dio.”

Il ragazzo che aveva servito messa gli portò una tazza di cioccolato spesso e fumante che egli bevve d’un fiato. Poi si pulì le labbra con un fazzoletto che tolse dalla manica, stese le braccia e chiuse gli occhi. Allora padre Nicanor si alzò di dodici centimetri dal livello del suolo. Fu uno stratagemma convincente. Andò per parecchi giorni di casa in casa, ripetendo l’esperimento della lievitazione mediante lo stimolo della cioccolata, mentre il chierichetto raccoglieva tanto denaro in un sacco, che in meno di un mese si iniziò la costruzione del tempio. Nessuno mise in dubbio l’origine divina della dimostrazione, tranne José Arcadio Buendìa, che osservò senza alterarsi il capannello di gente che una mattina si riunì intorno al castagno per assistere ancora una volta alla rivelazione. Si stirò appena sul panchettino e scrollò le spalle quando padre Nicanor cominciò ad alzarsi dal suolo insieme alla sedia sulla quale si era seduto:

“Hoc est simplicissimum,” disse José Arcadio Buendìa: “homo iste statum quartum materiae invenit”

Padre Nicanor alzò la mano e le quattro gambe della sedia si posarono a terra allo stesso tempo.

“Nego,” disse. “Factum hoc existentiam Dei probat sine dubio.”

Fu così che si seppe che era latino il diabolico gergo di José Arcadio Buendìa. Padre Nicanor approfittò del fatto di essere l’unica persona che aveva potuto comunicare con lui, per cercare di infondere la fede nel suo cervello scombussolato. Tutti i pomeriggi si sedeva vicino al castagno a predicare in latino, ma José Arcadio Buendìa si ostinò a non ammettere né tortuosità retoriche né trasmutazioni di cioccolata, e pretese come unica prova il dagherrotipo di Dio. Allora padre Nicanor gli portò medaglie e immagini e perfino una riproduzione del panno della Veronica, ma José Arcadio Buendìa li rifiutò come oggetti artigianali senza alcun fondamento scientifico. Era così caparbio, che padre Nicanor rinunciò alle sue intenzioni di evangelizzazione e continuò a fargli visita con intenzioni umanitarie. Ma allora fu José Arcadio Buendìa a prendere l’iniziativa e a cercare di infrangere la fede del prete con martingale razionaliste. Una volta padre Nicanor portò al castagno una scacchiera e una scatola di gettoni per invitarlo a giocare a dama, ma José Arcadio Buendìa non accettò, affermando che non aveva mai potuto capire il significato di una contesa tra due avversari che erano d’accordo sui principi. Padre Nicanor, che non aveva mai considerato il gioco della dama da quel punto di vista, non riuscì più a giocarlo. Sempre più meravigliato della lucidità di José Arcadio Buendìa, gli chiese come era possibile che lo tenessero legato a un albero.

“Hoc est simplicissimum,” rispose lui: “perché sono pazzo.”

Da quel momento, preoccupato per la sua stessa fede, il prete non tornò a fargli visita, e si dedicò completamente ad affrettare la costruzione del tempio. Rebeca sentì rinascere la speranza. Il suo destino era condizionato alla conclusione dei lavori, da quella domenica in cui padre Nicanor era venuto a pranzo e tutta la famiglia a tavola aveva parlato della solennità e dello splendore che avrebbero avuto le cerimonie religiose quando si fosse costruito il tempio. “La più fortunata sarà Rebeca,” disse Amaranta. E dato che Rebeca non capiva quello che le voleva dire, glielo spiegò con un sorriso innocente;

“Toccherà a te inaugurare la chiesa con le tue nozze.”

Rebeca cercò di precorrere qualsiasi commento. Considerato il ritmo dei lavori, il tempio non sarebbe stato pronto prima di dieci anni. Padre Nicanor non fu d’accordo: la crescente generosità dei fedeli consentiva di fare calcoli più ottimistici. Con grande indignazione di Rebeca, che non riuscì a finire di pranzare, Ursula approvò l’idea di Amaranta e contribuì con un considerevole apporto alla sollecitazione dei lavori. Padre Nicanor ritenne che con un altro aiuto come quello il tempio sarebbe stato pronto entro tre anni. A partire da quel momento Rebeca non rivolse più la parola ad Amaranta, convinta che la sua iniziativa non avesse avuto l’innocenza che sua sorella aveva simulato. “Era la cosa meno grave che potessi fare,” le ribatte Amaranta durante la virulenta discussione che ebbero quella notte. “Così non dovrò ucciderti nei prossimi tre anni.” Rebeca accettò la sfida.

Quando Pietro Crespi venne a sapere della nuova dilazione, ebbe una crisi di scoramento, ma Rebeca gli diede una prova definitiva di lealtà. “Scapperemo quando tu vorrai,” gli disse. Pietro Crespi, tuttavia, non era un uomo avventuroso. Mancava del carattere impulsivo della sua fidanzata, e considerava il rispetto della parola data come un capitale che non si può dilapidare. Allora Rebeca ricorse a metodi più audaci. Un vento misterioso spegneva le lampade del salotto buono e Ursula sorprendeva i fidanzati a baciarsi nel buio. Pietro Crespi le dava spiegazioni confuse sulla cattiva qualità delle moderne lampade ad acetilene e aiutava perfino a impiantare nella sala dei sistemi di illuminazione più sicuri. Ma di nuovo veniva a mancare il combustibile o si ostruivano i lucignoli, e Ursula trovava Rebeca seduta sulle ginocchia del fidanzato. Finì per non accettare più nessuna scusa. Affidò all’india la responsabilità del forno e si sedette su una sedia a dondolo per sorvegliare i colloqui dei fidanzati, disposta a non lasciarsi sconfiggere da artifizi che erano già vecchi quando lei era giovane. “Povera mamma,” diceva Rebeca con scherzosa indignazione, vedendo sbadigliare Ursula nel sopore delle visite. “Quando morirà si porterà al purgatorio quella sedia a dondolo.” Dopo tre mesi di amori sorvegliati, stanco della lentezza della costruzione che andava a ispezionare ogni giorno, Pietro Crespi decise di dare a padre Nicanor il denaro che gli mancava per finire il tempio. Amaranta non perse la pazienza. Mentre chiacchierava con le amiche che tutti i pomeriggi andavano a ricamare o a tessere sotto il portico, cercava di concepire nuovi sotterfugi. Un errore di calcolo fece fallire quello che considerava il più efficace: togliere le palline di naftalina che Rebeca aveva messo nel suo vestito di sposa prima di riporlo nel cassettone della stanza da letto. Lo fece quando mancavano meno di due mesi alla conclusione del tempio. Ma Rebeca era così impaziente per l’approssimarsi del matrimonio, che decise di preparare il vestito con un anticipo maggiore di quello previsto da Amaranta. Quando aprì il cassettone e sollevò prima i fogli di carta e poi il lenzuolo protettore, trovò il raso del vestito e il ricamo del velo e perfino la coroncina di fiori d’arancio polverizzati dalle tarme. Pur essendo sicura di aver messo nell’involto due manciate di palline di naftalina, il disastro sembrava così accidentale che non osò incolpare Amaranta. Mancava meno di un mese al matrimonio, ma Amparo Moscote si impegnò a cucire un nuovo vestito in una settimana. Amaranta si senti venir meno il pomeriggio piovoso in cui Amparo entrò in casa avvolta in una effervescenza di tulle per fare a Rebeca l’ultima prova del vestito. Perse la voce e un filo di sudore gelato le scese lungo il cavo della spina dorsale. Per lunghi mesi aveva tremato di paura pensando a quell’ora, perché se non riusciva a concepire l’ostacolo definitivo per il matrimonio di Rebeca, era sicura che all’ultimo momento, quando fossero venute meno tutte le risorse della sua fantasia, avrebbe trovato il coraggio di avvelenarla. Quel pomeriggio, mentre Rebeca soffocava per il caldo dentro la corazza di raso che Amparo Moscote armava a poco a poco sul suo corpo con un migliaio di spilli e una infinita pazienza, Amaranta perse parecchie volte i punti del crochet e si punse il dito con l’ago, ma decise con spaventosa freddezza che la data sarebbe stata l’ultimo venerdì prima del matrimonio, e il mezzo sarebbe stato uno schizzo di laudano nel caffè.

Un ostacolo maggiore, tanto irrimediabile quanto imprevisto, costrinse a un nuovo e indefinito differimento. Una settimana prima della data fissata per le nozze, la piccola Remedios si svegliò nel mezzo della notte inzuppata di un brodo caldo che sgorgò dalle sue viscere con una specie di eruzione lacerante, e morì tre giorni dopo avvelenata dal suo stesso sangue con un paio di gemelli incrociati nel ventre. Amaranta fu colta da una crisi di coscienza. Aveva pregato Dio con tanto fervore che succedesse qualcosa di spaventoso per non essere costretta ad avvelenare Rebeca, che si sentì colpevole della morte di Remedios. Non era quello l’ostacolo per il quale lei aveva così tanto pregato. Remedios aveva portato in quella casa un soffio di allegria. Si era sistemata con suo marito in una stanza vicino al laboratorio, che aveva decorato con le bambole e i giocattoli della sua infanzia recente, e la sua allegra vitalità traboccava dalle quattro pareti della stanza e passava come una folata di buona salute per il porticato delle begonie. Cantava fin dall’alba. Fu lei l’unica persona che osò interporsi nelle dispute di Rebeca e Amaranta. Si addossò il faticoso compito di badare a José Arcadio Buendìa. Gli portava i cibi, lo assisteva nei suoi bisogni quotidiani, Io lavava con sapone e strofinaccio, gli puliva i capelli e la barba dai pidocchi e dalle lendini, conservava in buono stato la tettoia di palma e la rinforzava con tele impermeabili nei periodi di tempesta. Durante i suoi ultimi mesi era riuscita a farsi capire da lui con frasi di latino rudimentale. Quando nacque il figlio di Aureliano Buendìa e di Pilar Ternera e fu portato in casa e battezzato con una cerimonia intima col nome di Aureliano José, Remedios decise che fosse considerato come suo figlio maggiore. Il suo istinto materno meravigliò Ursula. Aureliano, da parte sua, trovò in lei la giustificazione che gli mancava per vivere. Lavorava tutto il giorno nel laboratorio e Remedios gli portava a mezza mattina una scodella di caffè senza zucchero. I due sposi andavano a far visita tutte le sere ai Moscote. Aureliano giocava col suocero interminabili partite di domino, mentre Remedios chiacchierava con le sue sorelle o discuteva con sua madre argomenti da gente seria. Il vincolo coi Buendìa consolidò nel villaggio l’autorità di don Apolinar Moscote. Dopo vari viaggi al capoluogo della provincia ottenne che il governo costruisse una scuola da mettere sotto la direzione di Arcadio, che aveva ereditato l’entusiasmo didattico del nonno. Riuscì per mezzo della persuasione a far pitturare la maggioranza delle case in azzurro per la festa dell’indipendenza nazionale. Su richiesta di padre Nicanor ordinò il trasferimento della bottega di Catarino in una strada appartata, e fece chiudere vari luoghi di scandalo che prosperavano nel centro del paese. Una volta tornò con sei poliziotti armati di fucili, ai quali affidò il mantenimento dell’ordine, senza che nessuno si ricordasse della promessa originale di non tenere gente armata nel paese. Aureliano si rallegrava della efficienza di suo suocero. “Diventerai grasso come lui,” gli dicevano i suoi amici. Ma la vita sedentaria che aveva accentuato i suoi pomelli e concentrato lo splendore dei suoi occhi, non aumentò il suo peso né alterò la parsimonia del suo carattere, e al contrario indurì nelle sue labbra la linea diritta della meditazione solitaria e della decisione implacabile. Così profondo era l’affetto che lui e sua moglie erano riusciti a risvegliare nella famiglia, che quando Remedios annunciò di essere incinta perfino Rebeca e Amaranta fecero una tregua per sferruzzare in lana azzurra, nel caso che fosse maschio, e in lana rosa, nel caso che fosse femmina. Fu lei l’ultima persona alla quale pensò Arcadio, pochi anni dopo, davanti al plotone di esecuzione.

Ursula ordinò un lutto a porte e finestre sbarrate, senza né entrata né uscita per nessuno tranne che per faccende indispensabili; proibì di parlare ad alta voce per un anno, e mise il dagherrotipo di Remedios nel luogo dove si era vegliato il cadavere, con un nastro nero di traverso e una lampada ad olio accesa perennemente. Le generazioni future, che non lasciarono mai estinguere la lampada, sarebbero rimaste sconcertate davanti a quella bimba con sottane arricciate, stivaletti bianchi e nastro di organdi tra i capelli, non riuscendo a farla coincidere con l’immagine accademica di una bisnonna. Amaranta s’assunse la responsabilità di Aureliano José. Lo adottò come un figlio che avrebbe dovuto dividere la sua solitudine, e alleviarla dal laudano involontario che le sue suppliche stordite avevano versato nel caffè di Remedios. Pietro Crespi entrava in punta di piedi verso sera, con un nastro nero sul cappello, e faceva una visita silenziosa a una Rebeca che sembrava dissanguarsi nel vestito nero con maniche fino ai polsi. Sarebbe stata così irriverente la sola idea di pensare a una nuova data per il matrimonio, che il fidanzamento si trasformò in una relazione eterna, in un amore di spossatezza che nessuno sorvegliò come se gli innamorati, che in altri giorni avevano guastato le lampade per baciarsi, fossero stati abbandonati all’arbitrio della morte. Senza più meta, completamente demoralizzata, Rebeca ricominciò a mangiare terra.

Improvvisamente quando il lutto era durato così a lungo che già si erano ripresi i convegni di punto a croce qualcuno spinse la porta della strada alle due del pomeriggio, nel silenzio mortale della calura, e i pilastri tremarono così violentemente nelle fondamenta, che Amaranta e le sue amiche che ricamavano sotto il portico, Rebeca che succhiava il dito nella stanza da letto, Ursula in cucina, Aureliano nel laboratorio e perfino José Arcadio Buendìa sotto il castagno solitario, ebbero l’impressione che un terremoto stava squassando la casa. Arrivava un uomo enorme. Le sue spalle quadrate riuscivano a malapena a essere contenute nelle porte. Aveva una medaglietta della Vergine de los Remedios appesa al collo da bisonte, le braccia e il petto completamente cesellati con tatuaggi esoterici, e sul polso destro lo stretto bracciale di rame dei niños-en-cruz!. Aveva la pelle screpolata dal sale delle intemperie, i capelli corti e ritti come i crini di un mulo, le mascelle ferree e lo sguardo triste. Aveva un cinturone due volte più grosso del sottopancia di un cavallo, stivali con ghette e speroni e coi tacchi ferrati, e la sua presenza dava l’impressione trepidatoria di una scossa sismica. Attraversò il salotto e il soggiorno, tenendo in mano delle bisacce mezzo sfondate, e comparve come un tuono nel porticato delle begonie, dove Amaranta e le sue amiche erano paralizzate con gli aghi a mezz’aria. “‘giorno,” disse con voce stanca, e buttò le bisacce sul tavolo da lavoro e passò alla larga verso il fondo della casa. ‘“giorno,” disse alla sbigottita Rebeca che lo vide passare davanti alla porta della sua stanza. “ ‘giorno,” disse a Aureliano, che si trovava con tutti i sensi all’erta al banco dell’oreficeria. Non si intrattenne con nessuno. Andò direttamente nella cucina, e lì si fermò per la prima volta alla fine di un viaggio che aveva cominciato dall’altra parte del mondo. “ ‘giorno,” disse. Ursula rimase per una frazione di secondo con la bocca aperta, lo guardò negli occhi, lanciò un grido e gli saltò al collo gridando e piangendo di gioia. Era José Arcadio. Veniva povero come se n’era andato, tanto che Ursula dovette dargli due pesos per pagare il noleggio del cavallo. Parlava uno spagnolo mescolato a gergo [Nella leggenda popolare esistono certe persone che nascono con una croce sotto la pelle del polso. Tali persone, dotate di forza straordinaria e di eccezionali poteri erotici, portano un bracciale di rame saldato al polso a protezione della croce. (N.d.T.)] di marinai. Gli chiesero dove era stato, e rispose: “Qui e là.” Appese l’amaca nella stanza che gli assegnarono e dormì per tre giorni. Quando si svegliò, e dopo aver bevuto sedici uova crude, se ne andò direttamente nella bottega di Catarino, dove la sua monumentale corpulenza provocò un panico di curiosità tra le donne. Ordinò musica e acquavite per tutti a carico suo. Fece scommesse a braccio di ferro con cinque uomini nello stesso tempo. “È impossibile,” dicevano rendendosi conto che non riuscivano a muovergli il braccio. “Ha i niños-en-cruz” Catarino, che non credeva a trucchi di forza, scommise dodici pesos che non avrebbe smosso il banco. José Arcadio lo strappò dalla sua sede, lo alzò di peso sulla testa e lo mise in strada. Ci vollero undici uomini per rimetterlo a posto. Nell’ardore della festa esibì sul banco la sua inverosimile mascolinità, interamente tatuata con un intrico azzurro e rosso di scritte in vari idiomi. Alle donne che lo assediavano con la loro cupidigia chiese chi pagava di più. Quella che aveva di più offrì venti pesos. Allora José Arcadio propose di rifarsi tra tutte a dieci pesos il numero. Era un prezzo esorbitante, perché la donna più richiesta guadagnava otto pesos per notte, ma tutte accettarono. Scrissero i loro nomi su quattordici bigliettini che misero in un cappello, e ogni donna ne estrasse uno. Quando rimasero ancora due bigliettini, si stabili a chi corrispondevano.

“Ancora cinque pesos ciascuna,” propose José Arcadio, “e mi divido tra voi due.”

Viveva di quello. Aveva fatto sessantacinque volte il giro del mondo, ingaggiato in una ciurma di marinai apolidi. Le donne che se lo portarono a letto quella notte nella bottega di Catarino lo ricondussero nudo nella sala da ballo perché tutti vedessero che non aveva un millimetro dì corpo senza tatuaggio, davanti e di dietro, e dal collo alle dita dei piedi. Non riusciva a integrarsi alla famiglia. Dormiva tutto il giorno e passava la notte nel rione di tolleranza a fare giochi di forza. Le rare volte che Ursula riuscì a farlo sedere a tavola, fece sfoggio di una simpatia radiante, soprattutto quando racconta va le sue avventure in paesi remoti. Aveva fatto naufragio ed era rimasto per due settimane alla deriva nel mare del Giappone, nutrendosi del corpo di un compagno che era stato ucciso dall’insolazione, la cui carne salata e risalata e cotta al sole aveva un sapore granuloso e dolce. In un mezzogiorno luminoso del golfo del Bengala la sua nave aveva sconfitto un drago di mare nel cui ventre avevano trovato l’elmo, le fibbie e le armi di un crociato. Nei Caraibi aveva visto il fantasma della nave corsara di Victor Hugues, con le vele stracciate dai venti della morte, l’alberatura rosa da scarafaggi di mare, e persa per sempre la rotta della Guadalupa. Ursula a tavola piangeva come se le leggesse davvero quelle lettere che invece non erano mai arrivate e in cui José Arcadio riferiva le sue imprese e disavventure. “E con questo po’ po’ di casa qui, figlio mio,” singhiozzava. “E con questo po’ po’ di cibo buttato ai porci!” Ma in fondo non potava concepire che il ragazzo che si erano portati via gli zingari fosse lo stesso macistaccio che si mangiava mezzo maialetto a colazione e le cui scoregge facevano appassire i fiori. Qualcosa di simile succedeva al resto della famiglia. Amaranta non poteva dissimulare la ripugnanza che le producevano a tavola i suoi rutti bestiali. Arcadio, che non conobbe mai il segreto della sua filiazione, rispondeva appena alle domande che egli gli rivolgeva con l’intenzione evidente di conquistare il suo affetto. Aureliano cercò di far rivivere i tempi in cui dormivano nella stessa stanza, cercò di restaurare la complicità dell’infanzia, ma José Arcadio li aveva dimenticati perché la vita del mare gli aveva saturato la memoria con troppe cose da ricordare. Soltanto Rebeca soccombette al primo scontro. Il pomeriggio in cui lo vide passare davanti alla sua stanza pensò che Pietro Crespi era un pupazzetto di marzapane a confronto di quel protomaschio il cui respiro vulcanico si avvertiva in tutta la casa. Cercava la sua prossimità con qualsiasi pretesto. Una volta José Arcadio le guardò il corpo con una sfacciata curiosità, e le disse: “Sei molto donna, sorellina.” Rebeca perse il controllo di se stessa. Riprese a mangiare terra e calcinacci dei muri con l’avidità di altri tempi, e si succhiò il dito con tanta ansietà che le si formò un callo nel pollice. Vomitò un liquido verde con sanguisughe morte. Passò notti in bianco, rabbrividendo di febbre, lottando contro il delirio; aspettando, finché la casa trepidava per il ritorno di José Arcadio all’alba. Un pomeriggio, quando tutti dormivano la siesta, non resistette più e andò nella sua stanza. Lo trovò in mutande, sveglio, sdraiato nell’amaca che aveva appeso alle travi con funi da ormeggio. Le fece tenta impressione quella sua enorme nudità stratostata che provò l’impulso di indietreggiare. “Mi perdoni,” si scusò. “Non sapevo che lei fosse qui.” Ma abbassò la voce per non svegliare nessuno. “Vieni qui,” disse lui. Rebeca ubbidì. Si fermò vicino all’amaca, sudando freddo, sentendo che le si formavano groppi nelle viscere, mentre José Arcadio le accarezzava le caviglie coi polpastrelli, poi i polpacci e poi le cosce, mormorando: “Ahi, sorellina; ahi, sorellina.” Lei dovette fare uno sforzo sovrannaturale per non morire quando una potenza ciclonica meravigliosamente regolata la alzò per la vita e la spogliò della sua intimità con tre zampate, e la squartò come un uccellino. Riuscì a rendere grazie a Dio di essere nata, prima di perdere la conoscenza nel terribile piacere di quel dolore insopportabile, diguazzando nel pantano fumigante dell’amaca che assorbì come una carta asciugante l’esplosione del suo sangue.

Tre giorni dopo si sposarono alla messa delle cinque. Il giorno prima José Arcadio era andato nel negozio di Pietro Crespi. Lo trovò che stava dando lezione di citara; non lo prese in disparte per parlargli. “Mi sposo con Rebeca,” gli disse. Pietro Crespi impallidì, affidò la citara a uno dei suoi discepoli, e diede la lezione per terminata. Quando rimasero soli nella sala zeppa di strumenti musicali e di giocattoli a molla, Pietro Crespi disse:

“È sua sorella.”

“Non mi importa,” ribatté José Arcadio.

Pietro Crespi si asciugò la fronte col fazzoletto impregnato di spigo,

“È contro natura,” spiegò, “e, inoltre, la legge lo proibisce.”

José Arcadia perse la pazienza non tanto per il ragionamento quanto per il pallore di Pietro Crespi.

“Della natura me ne frego non una ma due volte,” disse, “E vengo a dirglielo perché non si prenda il disturbo di andare a chiedere niente a Rebeca.”

Ma il suo comportamento brutale si infranse quando vide che gli occhi di Pietro Crespi si inumidivano.

“Certo,” disse con un altro tono, “che se quello che le piace è la famiglia, le rimane Amaranta.”

Padre Nicanor rivelò nel sermone della domenica che José Arcadio e Rebeca non erano fratelli. Ursula non perdonò mai ciò che considerò una inconcepibile mancanza di rispetto, e quando tornarono dalla chiesa proibì agli sposini di rimettere piede in casa. Per lei era come se fossero morti. E così affittarono una casetta davanti al cimitero e vi si arrangiarono senza altri mobili che l’amaca di José Arcadio. Durante la notte di nozze Rebeca fu punta al piede da uno scorpione che si era infilato nella sua pantofola. Le si addormentò la lingua, ma questo non impedì che passassero una luna di miele scandalosa. I vicini si spaventavano per gli urli che svegliavano tutto il rione fino a otto volte per notte, e fino a tre volte nella siesta, e pregavano che una passione così smisurata non avesse a turbare la pace dei morti.

Aureliano fu l’unico a preoccuparsi di loro. Comprò qualche mobile e fornì un po’ di denaro, finché José Arcadio ricuperò il senso della realtà e cominciò a lavorare le terre di nessuno che confinavano col patio della casa. Amaranta, invece, non riuscì mai a superare il suo rancore nei confronti di Rebeca, anche se la vita le aveva offerto una soddisfazione che non aveva sognato: per iniziativa di Ursula, che non sapeva come riparare la vergogna, Pietro Crespi continuò a venire a pranzo tutti i martedì, opponendo alla frustrazione una serena dignità. Mantenne il nastro nero sul cappello come un segno di considerazione per la famiglia, e si compiaceva di dimostrare il suo affetto nei confronti di Ursula portandole regali esotici: sardine portoghesi, marmellata di rose turche e, una volta, un. grazioso scialle di Manila. Amaranta lo riceveva con affettuosa sollecitudine. Indovinava i suoi gusti, gli strappava i fili scuciti dai polsini della camicia, e ricamò una dozzina di fazzoletti con le sue iniziali per il giorno del suo compleanno. I martedì, dopo pranzo, mentre lei ricamava nel portico lui le faceva allegra compagnia. Per Pietro Crespi, quella donna che egli aveva sempre considerato e trattato come una bambina, fu una rivelazione. Anche se il suo carattere mancava di grazia, aveva una rara sensibilità per apprezzare le cose del mondo, e una dolcezza segreta. Un martedì, quando nessuno dubitava che prima o poi dovesse succedere, Pietro Crespi le chiese la mano. Lei non interruppe il suo ricamo. Aspettò che passasse il caldo rossore delle sue orecchie e impresse alla sua voce una serena enfasi di maturità.

“Naturalmente, Crespi,” disse, “ma quando ci si conoscerà meglio. Non è mai bene precipitare le cose.”

Ursula si turbò. Nonostante la stima che aveva per Pietro Crespi, non riusciva a stabilire se la sua decisione fosse buona o cattiva dal punto di vista morale, dopo il prolungato e clamoroso fidanzamento con Rebeca. Ma fini per accettarlo come un fatto senza qualifica, perché nessuno condivise i suoi dubbi. Aureliano, che era l’uomo di casa, la confuse maggiormente con la sua enigmatica e definitiva opinione:

“Questi non sono tempi di andar pensando a matrimoni.”

Quella opinione che Ursula comprese soltanto qualche mese dopo era l’unico sincero parere che poteva esprimere Aureliano in quel momento, non solo rispetto al matrimonio, ma anche a qualsiasi faccenda che non fosse la guerra. Lui stesso, di fronte al plotone di esecuzione, non avrebbe capito molto bene come si era incatenata la serie di sottili ma irrevocabili casi che lo portarono fino a quel punto. La morte di Remedios non gli causò la commozione che temeva. Fu piuttosto un sordo sentimento di rabbia che a poco a poco si dissolse in una delusione solitaria e passiva, simile a quella che aveva provato nei tempi in cui era rassegnato a vivere senza donna. Tornò ad assorbirsi nel lavoro ma mantenne l’abitudine di giocare a domino con suo suocero. In una casa imbavagliata dal lutto, le conversazioni notturne consolidarono l’amicizia dei due uomini. “Risposati, Aurelito,” gli diceva il suocero. “Ho sei figlie da farti scegliere.” Una volta, alla vigilia delle elezioni, don Apolinar Moscote tornò da uno dei suoi frequenti viaggi, preoccupato per la situazione politica del paese. I liberali erano decisi a ricorrere alle armi. Dato che Aureliano in quell’epoca aveva nozioni assai confuse sulle differenze tra conservatori e liberali, suo suocero gli dava lezioni schematiche. I liberali, gli diceva, erano massoni; gente di cattiva indole, favorevole all’impiccagione dei preti, alla instaurazione del matrimonio civile e del divorzio, al riconoscimento di uguali diritti sia ai figli legittimi che a quelli naturali, e allo spezzettamento del paese in un sistema federale che avrebbe spogliato del potere l’autorità suprema. I conservatori, invece, che avevano ricevuto il potere direttamente da Dio, si battevano per la stabilità dell’ordine pubblico e della morale della famiglia; erano i difensori della fede di Cristo, del principio dell’autorità, e non erano disposti a permettere che il paese venisse squartato in entità autonome. Lo spirito umanitario di Aureliano simpatizzava per l’atteggiamento liberale riguardo ai diritti dei figli naturali, ma in ogni modo egli non capiva come si potesse arrivare all’estremo di fare una guerra per cose che non si potevano toccare con mano. Gli parve una esagerazione che suo suocero si facesse mandare per le elezioni sei soldati armati di fucile, al comando di un sergente, in un paese senza passioni politiche. Non soltanto arrivarono, ma andarono di casa in casa requisendo armi da caccia, machetes e perfino coltelli da cucina, prima di distribuire agli uomini maggiori di ventun anni le schede azzurre coi nomi dei candidati conservatori, e le schede rosse coi nomi dei candidati liberali. Alla vigilia delle elezioni lo stesso don Apolinar Moscote lesse un bando che proibiva a partire dalla mezzanotte del sabato, e per quarantotto ore, la vendita di bevande alcooliche e la riunione di più di tre persone che non fossero della stessa famiglia. Le elezioni si svolsero senza incidenti. A partire dalle otto della mattina della domenica si collocò nella piazza l’urna di legno sorvegliata dai sei soldati. Si votò con la massima libertà, come poté controllare lo stesso Aureliano, che restò per quasi tutto il giorno a badare che nessuno votasse più di una volta. Alle quattro del pomeriggio una stamburata nella piazza annunciò la fine della giornata, e don Apolinar Moscote sigillò l’urna con una etichetta attraversata dalla sua firma. Quella sera, mentre giocava a domino con Aureliano, ordinò al sergente di rompere l’etichetta per contare i voti. C’erano quasi tante schede rosse quante azzurre, ma il sergente ne lasciò soltanto dieci rosse e completò la differenza con le azzurre. Poi tornarono a sigillare l’urna con una nuova etichetta e il giorno dopo nelle prime ore se la portarono nel capoluogo di provincia. “I liberali faranno guerra,” disse Aureliano. Don Apolinar Moscote non si distrasse dalle sue tessere del domino. “Se lo dici per la sostituzione delle schede, non la faranno,” disse. “Ne lasciamo qualcuna rossa perché non ci siano reclami.” Aureliano comprese gli svantaggi dell’opposizione. “Se io fossi liberale,” disse, “per questa faccenda delle schede, la guerra la farei.” Suo suocero lo guardò al di sopra della montatura degli occhiali.

“Ah, Aurelito,” disse, “se tu fossi liberale, neanche essendo mio genero avresti visto la sostituzione delle schede.”

Ciò che in effetti suscitò indignazione nel villaggio non fu il risultato delle elezioni, ma il fatto che i soldati non avessero restituito le armi. Un gruppo di donne parlò con Aureliano perché riuscisse ad ottenere da suo suocero la restituzione dei coltelli da cucina. Don Apolinar Moscote gli spiegò, con stretto riserbo, che i soldati avevano portato con loro le armi requisite come prova che i liberali si stavano preparando per la guerra. Lo spaventò il cinismo della dichiarazione. Non fece alcun commento, però una certa sera in cui Gerineldo Màrquez e Magnifico Visbal parlavano con altri amici dell’incidente dei coltelli, gli chiesero se era liberale o conservatore. Aureliano non indugiò:

“Se bisogna essere qualcosa, sarei liberale,” disse, “perché i conservatori sono degli imbroglioni.”

Il giorno, dopo, sollecitato dai suoi amici, andò a visitare il dottor Alirio Noguera, perché gli curasse un ipotetico dolore al fegato. Non sapeva nemmeno quale fosse il significato della panzana. Il dottor Alirio Noguera era arrivato a Macondo pochi anni prima con una cassetta farmaceutica di globuletti insipidi e una divisa medica che non convinse nessuna: Chiodo scaccia chiodo. In realtà era un simulatore. Dietro la sua innocente facciata di medico senza prestigio si celava un terrorista che nascondeva con delle calighe a mezza gamba le cicatrici che avevano lasciato sulle sue caviglie cinque anni di ceppi. Catturato nella prima avventura federalista, era riuscito a scappare a Curaçao, travestito con l’abito che più detestava in questo mondo: una sottana da prete. Dopo un esilio prolungato, incitato dalle notizie esaltate che recavano a Curacao gli esiliati di tutti i Caraibi, si imbarcò su una goletta di contrabbandieri e comparve a Riohacha con le boccette di globuli che altro non erano che zucchero raffinato, e un diploma dell’Università di Lipsia falsificato da lui stesso. Pianse di delusione. Il fervore federalista, che gli esiliati descrivevano come una polveriera sul punto di esplodere, era svanito in una vaga illusione elettorale. Amareggiato dal fallimento, desideroso di un luogo sicuro dove poter aspettare la vecchiaia, il falso omeopatico si rifugiò a Macondo. Nello stretto stanzino zeppo di boccette vuote che aveva affittato su un lato della piazza, visse per parecchi anni dei malati senza speranza che dopo aver provato ogni cosa si consolavano con globuli di zucchero. I suoi istinti di agitatore rimasero a riposo fintanto che don Apolinar Moscote fu un’autorità decorativa. Passava il tempo a ricordare e a lottare contro l’asma. La vicinanza delle elezioni fu il filo che gli permise di trovare di nuovo la matassa della sovversione. Si mise in contatto con la gioventù del villaggio, che mancava di formazione politica, e si ingaggiò in una cauta campagna di istigazione. I numerosi foglietti rossi che comparvero nell’urna, e che furono attribuiti da don Apolinar Moscote alla smania di novità propria dei giovani, facevano parte del suo piano: obbligò i suoi discepoli a votare per convincerli che le elezioni erano una farsa. “L’unica cosa efficace,” diceva, “è la violenza.” La maggior parte degli amici di Aureliano erano entusiasti dell’idea di liquidare l’ordine conservatore, ma nessuno aveva osato farlo partecipe dei piani, non soltanto a causa dei suoi vincoli col correggitore, ma anche per il suo carattere solitario e evasivo. Si sapeva, inoltre, che aveva votato azzurro su istigazione di suo suocero. Fu semplicemente per un caso che rivelò i suoi sentimenti politici, e fu soltanto la curiosità che gli fece saltare il ticchio di visitare il medico per farsi curare un dolore che non aveva. Nella stamberga puzzolente di ragnatela canforata si incontrò con una specie di iguana polverosa i cui polmoni fischiavano quando respirava. Ancor prima di fargli domande il dottore lo portò vicino alla finestra e gli esaminò l’interno della palpebra inferiore. “Non è i,” disse Aureliano, come gli avevano insegnato. Si premette il fegato con la punta delle dita, e aggiunse: “È qui dove sento il dolore che non mi lascia dormire.” Allora il dottor Noguera chiuse la finestra col pretesto che c’era troppo sole, e gli spiegò in termini semplici perché era un dovere patriottico assassinare i conservatori. Per parecchi giorni Aureliano portò una boccetta nel taschino della camicia. La tirava fuori ogni due ore, metteva tre globuletti sulla palma della mano e se li gettava di colpo in bocca per scioglierli lentamente sulla lingua. Don Apolinar Moscote si burlò della sua fiducia nella omeopatia, ma chi faceva parte del complotto riconosceva in lui un compagno di più. Quasi tutti i figli dei fondatori erano coinvolti, anche se nessuno sapeva concretamente in che consistesse l’azione che essi stessi tramavano. Tuttavia, il giorno in cui il medico svelò il segreto a Aureliano, questi si rifiutò di partecipare alla cospirazione. Benché allora fosse convinto dell’urgenza di liquidare il regime conservatore, il piano lo inorridì. Il dottor Noguera era un mistico dell’attentato personale. Il suo sistema si riduceva a coordinare una serie di azioni individuali che in un colpo maestro di portata nazionale liquidasse i funzionari del regime con le loro rispettive famiglie, soprattutto i bambini, per sterminare il conservatorismo nel germe. Don Apolinar Moscate, sua moglie e le sue sei figlie erano naturalmente nella lista.

“Lei non è né liberale né niente,” gli disse Aureliano senza scaldarsi. “Lei non è altro che un beccaio.”

“In questo caso,” ribatté il dottore con uguale calma, “restituiscimi la boccetta. Ormai non ti serve più.”

Solo sei mesi più tardi Aureliano seppe che il dottore lo aveva rinnegato come uomo d’azione, definendolo un sentimentale senza avvenire, con un carattere passivo e una definita vocazione solitaria. Cercarono di stargli appresso temendo che denunciasse la cospirazione. Aureliano li tranquillizzò: non avrebbe detto una sola parola, ma la notte in cui fossero andati ad assassinare la famiglia Moscote avrebbero trovato lui a difendere la porta. Fece mostra di una forza di decisione così convincente, che il piano fu rimandato a data indefinita. Fu in quei giorni che Ursula chiese la sua opinione sul matrimonio di Pietro Crespi e Amaranta, e lui rispose che quelli non erano tempi per pensare a cose simili. Da una settimana portava sotto la camicia una pistola arcaica. Sorvegliava i suoi amici. Andava verso sera a prendere il caffè da José Arcadio e Rebeca, che cominciavano a mettere a posto la loro casa, e a partire dalle sette giocava a domino con suo suocero. All’ora di pranzo conversava con Arcadio, che era ormai un adolescente monumentale, e lo trovava sempre più esaltato per l’imminenza della guerra. Nella scuola, dove Arcadio aveva alunni maggiori di lui insieme a bambini che cominciavano appena a parlare, aveva attecchito la febbre liberale. Si parlava di fucilare padre Nicanor, di trasformare il tempio in scuola, di instaurare l’amore libero. Aureliano cercò di mitigare il suo impeto. Gli raccomandò discrezione e prudenza. Sordo al suo ragionamento sereno, al suo senso della realtà, Arcadio gli rimproverò in pubblico la sua debolezza di carattere. Aureliano aspettò. Alla fine, ai primi di dicembre, Ursula corse sconvolta nel laboratorio.

“È scoppiata la guerra!”

In realtà, era scoppiata da tre mesi. La legge marziale imperava in tutto il paese. L’unico che lo aveva saputo per tempo era don Apolinar Moscote, ma non diede la notizia nemmeno a sua moglie, in attesa che arrivasse il plotone dell’esercito che doveva occupare il villaggio di sorpresa. Entrarono senza far rumore prima dell’alba, con due pezzi di artiglieria leggera trainati da mule, e stabilirono il quartier generale nella scuola. Si impose il coprifuoco alle sei del pomeriggio. Si fece una perquisizione più drastica della precedente, casa per casa, e questa volta si portarono via perfino gli attrezzi agricoli. Trascinarono in piazza il dottor Noguera, lo legarono a un albero e lo fucilarono senza processo. Padre Nicanor cercò di impressionare le autorità col miracolo della lievitazione, e un soldato gli scortecciò la testa col calcio del fucile. L’esaltazione liberale si spense in un terrore silenzioso. Aureliano, pallido, ermetico, continuò a giocare a domino col suocero. Comprese che nonostante il suo titolo attuale di capo civile e militare della piazza, don Apolinar Moscote era di nuovo un’autorità decorativa. Le decisioni le prendeva un capitano dell’esercito che tutte le mattine riscuoteva un’imposta straordinaria per la difesa dell’ordine pubblico. Quattro soldati al suo comando strapparono alla sua famiglia una donna che era stata morsicata da un cane rabbioso e la massacrarono coi calci dei fucili in piena strada. Una domenica, due settimane dopo l’occupazione, Aureliano entrò nella casa di Gerineldo Màrquez e con la sua parsimonia usuale chiese una scodella di caffè senza zucchero. Quando i due restarono soli nella cucina, Aureliano infuse nella sua voce un’autorità che non gli si era mai conosciuta. “Prepara i ragazzi,” disse. “Andiamo in guerra.” Gerineldo Màrquez non volle credergli.

“Con quali armi?” chiese.

“Con le loro,” rispose Aureliano.

Il martedì a mezzanotte, con un’azione scervellata, ventun uomini non ancora trentenni, al comando di Aureliano Buendìa, armati di coltelli da tavola e ferri affilati, presero di sorpresa la guarnigione, si impadronirono delle armi e fucilarono nel patio il capitano e i quattro soldati che avevano assassinato la donna.

Quella stessa notte, mentre si udivano le scariche del plotone di esecuzione, Arcadio fu nominato capo civile e militare della piazza. I ribelli sposati ebbero appena il tempo di salutare le loro spose, che abbandonarono alle proprie risorse. Se ne andarono all’alba, acclamati dal popolo liberato dal terrore, per unirsi alle forze del generale rivoluzionario Victorio Medina, che secondo le ultime notizie si trovava dalle parti di Manaure. Prima di andarsene, Aureliano estrasse don Apolinar Moscote da un armadio. “Lei può rimanere tranquillo, suocero,” gli disse. “Il nuovo governo garantisce, sulla parola d’onore, la sua sicurezza personale e quella della sua famiglia.” Don Apolinar Moscote fece un po’ fatica a riconoscere quel cospiratore in stivaloni e fucile a bandoliera, col quale aveva giocato a domino fino alle nove di sera.

“Questo è uno sproposito, Aurelito,” esclamò.

“Sproposito un corno,” disse Aureliano. “È la guerra. E non mi chiami più Aurelito, perché ormai sono il colonnello Aureliano Buendìa.”

 Il colonnello Aureliano Buendìa promosse trentadue sollevazioni armate e le perse tutte. Ebbe diciassette figli maschi da diciassette donne diverse, che furono sterminati l’uno dopo l’altro in una sola notte, prima che il maggiore compisse trentacinque anni. Sfuggì a quattordici attentati, a settantatré imboscate e a un plotone di esecuzione. Sopravvisse a una dose di stricnina nel caffè che sarebbe bastata ad ammazzare un cavallo. Respinse l’Ordine del Merito che gli conferì il presidente della repubblica. Giunse a essere comandante generale delle forze rivoluzionarie, con giurisdizione e comando da una frontiera all’altra, e fu l’uomo più temuto dal governo, ma non permise mai che lo fotografassero. Declinò il vitalizio che gli offrirono dopo la guerra e visse fino alla vecchiaia dei pesciolini d’oro che fabbricava nel suo laboratorio di Macondo. Malgrado avesse sempre combattuto alla testa dei suoi uomini, l’unica ferita se la produsse lui stesso dopo aver firmato la capitolazione di Neerlandia che mise fine a quasi venti anni di guerre civili. Si sparò un colpo di pistola nel petto e il proiettile gli uscì dalla schiena senza ledere alcun centro vitale. L’unica cosa che rimase fu una strada di Macondo intitolata al suo nome. Ciò nonostante, secondo quanto dichiarò pochi anni prima di morire di vecchiaia, nemmeno questo si aspettava il mattino in cui se ne andò coi suoi ventun uomini a riunirsi alle forze del generale Victorio Medina.

“Eccoti Macondo,” fu tutto quanto disse ad Arcadio prima di andarsene. “Te lo lasciamo bene, procura di farcelo trovare meglio.”

Arcadio diede una interpretazione molto personale alla raccomandazione. Si inventò una uniforme con galloni e spalline da maresciallo, ispirata alle illustrazioni di un libro di Melquìades, e si appese alla fascia la sciabola con le nappe dorate del capitano fucilato. Collocò i due pezzi di artiglieria all’entrata del villaggio, mise in uniforme i suoi antichi alunni, esacerbati dai suoi proclami incendiari, e li lasciò vagabondare armati nelle strade per dare ai forestieri una impressione di invulnerabilità. Fu un trucco a doppio taglio, perché il governo non osò attaccare la posizione per dieci mesi, ma quando lo fece vi scaricò contro una forza così sproporzionata che liquidò la resistenza in mezz’ora. Fin dal primo giorno del suo mandato Arcadio rivelò la sua passione per i bandi. Ne lesse perfino quattro al giorno per ordinare e disporre quello che gli passava per la testa. Istituì il servizio militare obbligatorio a partire dai diciotto anni, dichiarò di pubblica utilità gli animali che si trovavano nelle strade dopo le sei del pomeriggio e impose agli uomini maggiorenni l’uso di un bracciale rosso. Recluse padre Nicanor nella casa parrocchiale, sotto minaccia di fucilazione, e gli proibì di dir messa e di suonare le campane a meno che non fosse per festeggiare le vittorie liberali. Affinché nessuno mettesse in dubbio il rigore delle sue intenzioni, ordinò che un plotone di esecuzione si esercitasse nella pubblica piazza sparando contro uno spaventapasseri. Sulle prime nessuno lo prese sul serio. Erano, in fin dei conti, i ragazzi della scuola che giocavano ai grandi. Ma una sera, mentre Arcadio entrava nella bottega di Catarino, il trombettista della banda lo salutò con uno squillo fanfarone che provocò le risate della clientela, e Arcadio lo fece fucilare per mancanza di rispetto all’autorità. Chi protestò fu messo a pane e acqua con le caviglie nei ceppi e messo in una stanza della scuola. “Sei un assassino!” gli gridava Ursula ogni volta che veniva messa al corrente di qualche nuova arbitrarietà. “Quando Aureliano lo saprà farà fucilare te e io sarò la prima a rallegrarmi.” Ma tutto fu inutile. Arcadio continuò a stringere il torchio di un rigore inopportuno, fino a diventare il più crudele dei governanti che ci fu mai a Macondo. “Ora provate la differenza,” disse una volta don Apolinar Moscate. “Questo è il paradiso liberale.” Arcadio venne a saperlo. Guidò una pattuglia a prendere d’assalto la casa, schiantò i mobili, scudisciò le figlie e trascinò con sé don Apolinar Moscote. Quando Ursula irruppe nel patio della caserma, dopo aver attraversato il villaggio vociando di vergogna e brandendo di rabbia uno staffile incatramato, Arcadio in persona si preparava a dare l’ordine di fuoco al plotone di esecuzione.

“Provaci un po’, bastardo!” gridò Ursula.

Prima che Arcadio avesse tempo di reagire, gli scaricò la prima staffilata. “Provaci un po’, assassino,” gridava. “E ammazza anche me, figlio di mala madre. Così non avrò occhi per piangere la vergogna di aver allevato un mostro.” Sferzandolo senza misericordia, lo incalzò fino in fondo al patio, dove Arcadio si raggomitolò come una lumaca. Don Apolinar Moscote era tramortito, legato al palo dove prima c’era lo spaventapasseri fatto a pezzi dagli spari di esercitazione. I ragazzi del plotone si dispersero, timorosi che Ursula finisse di sfogarsi con loro. Ma non li degnò di uno sguardo. Lasciò Arcadio con l’uniforme stracciata, fremente di dolore e di rabbia, e slegò don Apolinar per portarlo a casa sua. Prima di uscire dalla caserma, liberò i prigionieri dai ceppi.

A partire da quel momento fu lei a comandare nel villaggio. Ripristinò la messa domenicale, sospese l’uso dei bracciali rossi e screditò i bandi atrabiliari. Ma a dispetto della sua gagliardia, continuò a piangere la disdetta del suo destino. Si sentì così sola, che cercò la inutile compagnia del marito dimenticato sotto il castagno. “Guarda a cosa ci siamo ridotti,” gli diceva, mentre le piogge di giugno minacciavano di demolire la tettoia di palma. “Guarda la casa vuota, i nostri figli dispersi per il mondo, e noi due di nuovo soli come al principio.” José Arcadio Buendìa, immerso in un abisso di incoscienza, era sordo ai suoi lamenti. All’inizio della sua pazzia annunciava con urgenti slatinate le sue impellenze quotidiane. In fugaci schiarite di lucidità, quando Amaranta gli portava da mangiare, lui le comunicava le sue sofferenze più moleste e si sottoponeva docilmente alle sue ventose e senapismi. Ma nell’epoca in cui Ursula andò a lamentarsi al suo fianco aveva perso ogni contatto con la realtà. Lei gli lavava una parte dopo l’altra lasciandolo seduto sulla panchetta, e intanto gli forniva le notizie della famiglia. “Aureliano è andato in guerra, ormai da più di quattro mesi, e non abbiamo più saputo nulla di lui,” gli diceva, fregandogli la schiena con uno strofinaccio insaponato. José Arcadio è tornato; è un omaccione fatto, più grande di te e tutto ricamato a punto in croce, ma è venuto solo a portare la vergogna nella nostra casa.” Credette di notare, però, che le cattive notizie intristivano suo marito. Allora decise di mentirgli. “Non credere a quello che ti dico,” diceva, mentre buttava cenere sui suoi escrementi per raccoglierli col badile. “Dio ha voluto che José Arcadio e Rebeca si sposassero, e adesso sono molto felici.” Giunse a essere così sincera nell’inganno che lei stessa finì per consolarsi con le sue medesime bugie. “Arcadio è ormai un uomo serio,” diceva, “e molto coraggioso, e sta molto bene con l’uniforme e la sciabola.” Era come parlare a un morto, perché José Arcadio Buendìa era già fuori dalla portata di ogni preoccupazione. Ma lei insistette. Lo vedeva così mansueto, così indifferente a ogni cosa, che decise di slegarlo. Lui non si mosse nemmeno dalla panchetta. Continuò così, esposto al sole e alla pioggia, come se le funi fossero vane, perché una potenza superiore a qualsiasi vincolo visibile lo manteneva legato al tronco del castagno. Verso il mese di agosto, quando l’inverno cominciava a eternarsi, Ursula poté finalmente dargli una notizia che sembrava verità.

“Figurati che la fortuna continua a perseguitarci,” gli disse. “Amaranta e l’italiano della pianola si sposeranno.”

Amaranta e Pietro Crespi, in effetti, avevano approfondito l’amicizia, protetti dalla fiducia di Ursula, che questa volta non credette necessario sorvegliare le visite. Era un fidanzamento crepuscolare. L’italiano arrivava verso sera, con una gardenia all’occhiello, e traduceva ad Amaranta sonetti del Petrarca. Restavano nel portico soffocato dall’origano e dalle rose, lui a leggere e lei a tessere pizzo al tombolo, indifferenti ai sussulti e alle cattive notizie della guerra, finché le zanzare li costringevano a rifugiarsi nel salotto. La sensibilità di Amaranta, la sua discreta ma avvolgente dolcezza avevano ordito a poco a poco intorno al fidanzato una ragnatela invisibile, che egli doveva scostare materialmente con le sue dita pallide e senza anelli per lasciare la casa alle otto. Avevano fatto un grazioso album con le cartoline postali che Pietro Crespi riceveva dall’Italia. Erano immagini di innamorati in parchi solitari, con illustrazioni di cuori trafitti e nastri d’oro sorretti da colombe. “Io ho visto questo parco a Firenze,” diceva Pietro Crespi sfogliando le cartoline. “Stendi la mano e gli uccelli scendono a mangiare.” Certe volte, davanti a un acquarello di Venezia, la nostalgia trasformava in tiepidi aromi di fiori l’odore di fango e peoci marci dei canali. Amaranta sospirava, rideva, sognava una seconda patria di uomini e donne belli che parlavano una lingua da bambini, con città antiche della cui passata grandezza restavano soltanto i gatti tra i ruderi. Dopo aver varcato l’oceano alla sua ricerca, dopo averlo confuso con la passione nei brancicamenti pieni di veemenza di Rebeca, Pietro Crespi aveva trovato l’amore. La ventura portò con se la prosperità. Il suo magazzino occupava allora quasi un isolato, ed era un semenzaio di fantasia; con riproduzioni del campanile di Firenze che davano l’ora con un concerto di carillon, e scatole musicali di Sorrento, e portacipria di Cina che se aperte cantavano temi di cinque note, e tutti gli strumenti musicali che si potevano immaginare e tutti gli artifici a molla che si potevano concepire. Bruno Crespi, il suo fratello minore, dirigeva il magazzino, perché lui non aveva tempo che per badare alla scuola di musica. Grazie a lui, la Strada dei Turchi, con la sua abbagliante esibizione di cianfrusaglie, si trasformò in una gora melodica per dimenticare gli arbitri di Arcadio e l’incubo remoto della guerra. Quando Ursula de liberò la ripresa della messa domenicale, Pietro Crespi regalò al tempio un armonium tedesco, organizzò un coro infantile e preparò un repertorio gregoriano che introdusse una nota fastosa nel rituale taciturno di padre Nicanor. Nessuno metteva in dubbio che avrebbe fatto di Amaranta una sposa felice. Senza pungolare i sentimenti, lasciandosi trascinare dalla fluidità naturale del cuore, arrivarono a un punto in cui non mancava altro che fissare la data esatta delle nozze. Non avrebbero incontrato ostacoli. Ursula si accusava tra sé e sé di aver deviato con differimenti reiterati il destino di Rebeca, e non era disposta ad accumulare rimorsi. Il rigore del lutto per la morte di Remedios era stato messo in secondo piano a causa della mortificazione della guerra, dell’assenza di Aureliano, della brutalità di Arcadio e dell’espulsione di José Arcadio e di Rebeca. Nell’imminenza del matrimonio, lo stesso Pietro Crespi aveva suggerito che Aureliano José, nel quale aveva fomentato un affetto quasi paterno, fosse considerato come suo figlio maggiore. Tutto faceva pensare che Amaranta si orientava verso una felicità senza inciampi. Ma, al contrario di Rebeca, lei non manifestava la benché minima ansietà. Con la stessa pazienza con la quale imbarocchiva tovaglie e tesseva gioielli di passamaneria e ricamava pavoni a punto in croce, attese che Pietro Crespi non sopportasse più le sollecitazioni del cuore. La sua ora giunse con le piogge nefaste di ottobre. Pietro Crespi le tolse dal grembo il cestino da lavoro e le strinse la mano tra le sue. “Non sopporto più questa attesa,” le disse. “Ci sposiamo il mese prossimo.” Amaranta non tremò al contatto delle sue mani di ghiaccio. Ritiro la sua, come un animaletto scivoloso, e tornò al suo lavoro.

“Non essere ingenuo, Crespi,” sorrise, “neanche morta mi sposerò con te.”

Pietro Crespi perse il controllo di se stesso. Pianse senza pudore, rompendosi quasi le dita dalla disperazione, ma non riuscì a intenerirla. “Non perdere il tuo tempo,” fu tutto quanto disse Amaranta. “Se davvero mi ami così tanto, non mettere più piede in questa casa.” Ursula credette di impazzire per la vergogna. Pietro Crespi esaurì le risorse della preghiera. Arrivò a incredibili estremi di umiliazione. Pianse per tutto un pomeriggio nel grembo di Ursula, che avrebbe venduto l’anima per consolarlo. In notti di pioggia lo si vide vagare intorno alla casa con un ombrello di seta, cercando di sorprendere una luce nella stanza da letto di Amaranta. Non fu mai vestito così bene come in quel periodo. La sua augusta testa di imperatore tormentato acquistò una strana aria di grandezza. Infastidì le amiche di Amaranta, quelle che andavano a ricamare sotto il portico, perché cercassero di persuaderla. Non curò più gli affari. Passava la giornata nel retrobottega, a scrivere letterine scombinate, che faceva arrivare ad Amaranta con membrane di petali e farfalle disseccate, e che lei restituiva senza aprirle. Si chiudeva per ore e ore a suonare la citara. Una notte cantò. Macondo si svegliò in una specie di stupore, angelizzata da una citara che non meritava di essere di questo mondo e da una voce tale da non potersene concepire un’altra sulla terra con tanto amore. Pietro Crespi vide allora la luce in tutte le finestre del villaggio, meno che in quella di Amaranta. Il due di novembre, giorno di tutti i morti, suo fratello aprì il magazzino e trovò tutte le lampade accese e tutte le scatole musicali aperte e tutti gli orologi impastoiati in un’ora interminabile, e in mezzo a quel concerto stravagante trovò Pietro Crespi seduto allo scrittoio del retrobottega, con i polsi tagliati col rasoio e le due mani tuffate in una catinella di benzoino.

Ursula dispose che lo si vegliasse in casa. Padre Nicanor si opponeva agli uffici religiosi e alla sepoltura in terra benedetta. Ursula gli fece fronte. “In qualche modo che né lei né io possiamo capire, quell’uomo era un santo,” disse. “E perciò lo seppellirò, contro la sua volontà, vicino alla tomba di Melquìades.” Lo fece, spalleggiata da tutto il villaggio, con funerali magnifici. Amaranta non uscì dalla sua stanza. Sentì dal suo letto il pianto di Ursula, i passi e il mormorio della folla che invase la casa, gli ululati delle prefiche, e poi un profondo silenzio odoroso di fiori calpestati. Per parecchio tempo continuò a sentire l’alito di lavanda di Pietro Crespi verso sera, ma ebbe la forza di non soccombere al delirio. Ursula la abbandonò. Non alzò nemmeno gli occhi per impietosirsi di lei, la sera in cui Amaranta entrò nella cucina e mise la mano nelle braci del focolare, finché le fece così male che non senti più il dolore, ma la pestilenza della sua stessa carne bruciacchiata. Fu una cura da cavalli contro il rimorso. Per parecchi giorni girò per casa con la mano immersa in una scodella di chiare d’uovo, e quando guarirono le scottature fu come se le chiare d’uovo avessero cicatrizzato anche le ulcere del suo cuore. L’unica traccia esterna che le lasciò la tragedia fu la benda di garza nera che si mise sulla mano bruciata, e che avrebbe portato fino alla morte.

Arcadio diede una rara mostra di generosità decretando con un bando il lutto ufficiale per la morte di Pietro Crespi. Ursula lo interpretò come il ritorno della pecorella smarrita. Ma si sbagliò. Aveva perso Arcadio non da quando aveva indossato l’uniforme militare, ma da sempre. Credeva di averlo allevato come un figlio, come aveva allevato Rebeca, senza né privilegi né discriminazioni. Ciò malgrado, Arcadio era un bambino solitario e spaventato durante la peste dell’insonnia, in mezzo alla febbre utilitaristica di Ursula, ai deliri di José Arcadia Buendìa, all’ermetismo di Aureliano, alla rivalità mortale tra Amaranta e Rebeca. Aureliano gli aveva insegnato a leggere e a scrivere, pensando ad altre cose, come avrebbe fatto un estraneo. Gli regalava la sua roba, quando era ormai da buttar via, facendogliela accomodare da Visitación. Arcadio soffriva per quelle scarpe troppo grandi, per quei pantaloni rammendati, per quelle sue natiche da donna. Non riuscì mai a comunicare con nessuno meglio che con Visitación e con Cataure nella loro lingua. Melquìades fu l’unico che in realtà si occupò di lui, che gli faceva ascoltare i suoi testi incomprensibili e lo istruiva nell’arte della dagherrotipia. Nessuno si immaginava quanto avesse pianto la sua morte in segreto, e con che disperazione avesse cercato di farlo rivivere, inutilmente studiando le sue carte. La scuola, dove era ascoltato e rispettata, e poi il potere, coi suoi bandi perentori e la sua uniforme di gloria, lo liberarono dal peso di una antica amarezza. Una notte, nella bottega di Catarino, qualcuno osò dirgli: “Non meriti il cognome che porti.” Ma contrariamente a ciò che tutti si aspettavano, Arcadio non lo fece fucilare.

“Ne sono molto onorato,” disse, “non sono un Buendìa.”

Coloro che conoscevano il segreto della sua filiazione pensarono da quella risposta che ne fosse al corrente anche lui, ma in realtà non lo fu mai. Pilar Ternera, sua madre, che gli aveva fatto ribollire il sangue nel gabinetto di dagherrotipia, fu per lui un’ossessione tanto irresistibile quanto lo fu prima per José Arcadio e poi per Aureliano. Nonostante avesse perduto le sue attrattive e lo splendore della sua risata, lui la cercava e la trovava nella scia del suo odore di fumo. Poco prima della guerra, un mezzogiorno in cui lei andò più tardi del solito a prendere suo figlio minore a scuola, Arcadio la stava aspettando nella stanza dove usava fare la siesta, e che più tardi diventò prigione. Mentre il bambino giocava nel cortile, lui attese nell’amaca, tremando di ansietà, sapendo che Pilar Ternera doveva passare di li. Arrivò. Arcadio la afferrò per il polso e cercò di tirarla nell’amaca. “Non posso, non posso,” disse Pilar Ternera inorridita. “Non ti immagini come vorrei accontentarti, ma Dio è testimone che non posso.” Arcadio la afferrò per la vita con la sua tremenda forza ereditaria, e sentì che il mondo svaniva al contatto della sua pelle. “Non fare la santarellina,” diceva. “In fondo, tutti sanno che sei una puttana.” Pilar dominò il ribrezzo che le ispirava il suo miserevole destino.

“I bambini si accorgeranno,” mormorò. “È meglio che questa notte tu non sbarri la porta.”

Arcadio l’aspettò quella notte rabbrividendo di febbre nell’amaca. Aspettò senza dormire, ascoltando i grilli confusionari dell’alba interminabile e le ore scandite implacabilmente dagli aironi, sempre più convinto di essere stato abbindolato. Improvvisamente, quando l’ansia si era corrotta in rabbia, la porta si apri. Pochi mesi dopo, davanti al plotone di esecuzione, Arcadio avrebbe rivissuto i passi perduti nell’aula, le inciampate negli sgabelli, e alla fine la densità di un corpo nelle tenebre della stanza e i battiti dell’aria pulsata da un cuore che non era il suo. Stese la mano e trovò un’altra mano che aveva due anelli su uno stesso dito e quasi naufragava nel buio. Sentì la nervatura delle sue vene, il suo polso di sventura, e senti il palmo umido con la linea della vita troncata alla base del pollice dall’unghiata della morte. Allora capì che non era quella la donna che aspettava, perché non odorava di fumo ma di brillantina di fior di campo, e aveva i seni gonfi e ciechi con capezzoli di uomo, e il sesso petroso e rotondo come una noce, e la tenerezza caotica della inesperienza esaltata. Era vergine e aveva il nome inverosimile di Santa Sofia de la Piedad. Pilar Ternera le aveva pagato cinquanta pesos, la metà delle sue economie di tutta la vita, perché facesse quello che stava facendo. Arcadio l’aveva vista molte volte, dietro il banco della botteguccia di viveri dei suoi genitori, e non si era mai accorto di lei, perché aveva la rara virtù di non esistere completamente se non nel momento opportuno. Ma da quel giorno si raggomitolò come un gatto al calore della sua ascella. Lei andava alla scuola nell’ora della siesta, col consenso dei suoi genitori, a cui Pilar Ternera aveva pagato l’altra metà dei suoi risparmi. Più tardi, quando le truppe del governo li sloggiarono dal locale, si amavano tra le latte di strutto e i sacchi di mais del retrobottega. Verso l’epoca in cui Arcadio fu nominato capo civile e militare, ebbero una figlia.

Gli unici parenti che lo seppero furono José Arcadio e Rebeca, coi quali Arcadio manteneva allora rapporti di intimità, basati non tanto sulla parentela quanto sulla complicità. José Arcadio aveva piegato la cervice al giogo matrimoniale. Il carattere forte di Rebeca, la voracità del suo ventre, la sua tenace ambizione, assorbirono la straordinaria energia di suo marito, che da fannullone e donnaiolo si trasformò in un’enorme bestia da lavoro. Avevano una casa pulita e ordinata. Rebeca spalancava porte e finestre allo spuntare del giorno, e il vento delle tombe entrava dalle finestre e usciva dalle porte del patio, e lasciava i muri calcinati e i mobili conciati dal salnitro dei morti. La fame di terra, il cloc-cloc delle ossa dei suoi genitori, l’impazienza del suo sangue di fronte alla passività di Pietro Crespi, erano relegati nelle soffitte della memoria. Tutto il giorno ricamava vicino alla finestra, estranea all’apprensione della guerra, finché il vasellame di ceramica cominciava a vibrare nella credenza e lei si alzava per scaldare il basto molto prima che comparissero i macilenti cani da fiuto e poi il colosso in gambali e speroni e con lo schioppo a due canne, che certe volte portava un cervo in spalla e quasi sempre una filza di conigli o di anatre selvatiche. Una sera, all’inizio del suo governo, Arcadio andò a visitarli, inaspettatamente. Non lo vedevano da quando avevano lasciato la casa, ma si dimostrò così affettuoso e familiare che lo invitarono a dividere la fricassea.

Solo al momento del caffè Arcadio rivelò il motivo della sua visita: aveva ricevuto una denuncia contro José Arcadio. Si diceva che aveva cominciato ad arare il suo patio e poi aveva continuato diritto per le terre attigue, rovesciando steccati e con i buoi che radevano al suolo capanne di contadini, finché s’era impadronito con la forza dei migliori terreni dei dintorni. Ai contadini che non aveva espropriato, perché le loro terre non gli interessavano, aveva imposto un tributo che percepiva ogni sabato con i cani da presa e con lo schioppo a due canne. Non lo negò. Basava il suo diritto sul fatto che le terre usurpate erano state distribuite da José Arcadio Buendìa ai tempi della fondazione, e credeva possibile dimostrare che suo padre era pazzo fin da allora, dato che aveva disposto di un patrimonio che in realtà apparteneva alla famiglia. Era una precisazione non necessaria, perché Arcadio non era andato a rendere giustizia. Propose semplicemente di creare un ufficio del registro della proprietà in modo che José Arcadio legalizzasse i titoli della terra usurpata, alla condizione che delegasse al governo locale il diritto di percepire i tributi. Si misero d’accordo. Qualche anno dopo, quando il colonnello Aureliano Buendìa esaminò i titoli di proprietà, trovò che erano registrate al nome di suo fratello tutte le terre che si scorgevano dalla collina del suo patio fino all’orizzonte, incluso il cimitero, e che negli undici mesi del suo mandato Arcadio aveva intascato non soltanto il denaro dei tributi, ma anche quello che faceva pagare al popolo per il diritto di seppellire i morti nelle terre di José Arcadio.

Ursula venne a sapere solo dopo diversi mesi ciò che era già di dominio pubblico, e che la gente le nascondeva per non aumentarle le pene. Cominciò col sospettarlo. “Arcadio sta costruendo una casa,” confidò con finto orgoglio a suo marito, mentre cercava di infilargli in bocca una cucchiaiata di sciroppo di maracas. Ciò malgrado, sospirò involontariamente: “Non so perché, ma la cosa mi puzza.” Più tardi, quando seppe che Arcadio non soltanto aveva terminato la casa ma aveva anche ordinato dei mobili viennesi, vide confermati i suoi sospetti che stesse disponendo dei fondi pubblici. “Sei la vergogna del nostro cognome,” gli gridò una domenica dopo la messa, quando lo vide nella casa nuova intento a giocare a carte coi suoi ufficiali. Arcadio non le diede retta. Solo allora Ursula seppe che aveva una figlia di sei mesi, e che Santa Sofia de la Piedad, con la quale viveva senza essere sposati, era di nuovo incinta. Decise di scrivere al colonnello Aureliano Buendìa, in qualunque luogo si trovasse, per metterlo al corrente della situazione. Ma i fatti che precipitarono in quei giorni non solo impedirono i suoi propositi, ma la fecero pentire di averli concepiti. La guerra, che fino a quel momento non era stata altro che una parola per designare una circostanza vaga e remota, si concretizzò in una realtà drammatica. Alla fine di febbraio arrivò a Macondo una vecchia d’aspetto cinerognolo, in groppa a un asino carico di scope. Sembrava così inoffensiva, che le pattuglie di sorveglianza la lasciarono passare senza fare domande, come uno dei tanti venditori che spesso arrivavano dai villaggi della palude. Andò direttamente nella caserma. Arcadio la ricevette nel locale che prima era l’aula della scuola, e che in quel tempo era trasformato in una specie di accampamento di retroguardia, con amache arrotolate e appese agli anelli e stuoie ammucchiate negli angoli, e fucili e carabine e perfino schioppi da caccia sparsi per terra. La vecchia si irrigidì nel saluto militare prima di farsi riconoscere:

“Sono il colonnello Gregorio Stevenson.”

Portava cattive notizie. Gli ultimi focolai della resistenza liberale, disse, stavano per essere sterminati. Il colonnello Aureliano Buendìa, che, quando lo aveva lasciato, batteva in ritirata dalle parti di Riohacha, gli aveva affidato la missione di parlare con Arcadio. Doveva arrendersi senza far resistenza, ponendo come condizione che si rispettassero sulla parola d’onore la vita e le proprietà dei liberali. Arcadio scrutò con un’occhiata di commiserazione quello strano messaggero che chiunque avrebbe potuto scambiare per una nonnetta profuga.

“Lei, naturalmente, ha qualche documento scritto,” disse.

“Naturalmente, rispose l’emissario, “non l’ho. È facile comprendere che nelle circostanze attuali non si porta addosso niente di compromettente”

Mentre parlava, si tolse dal corpetto e mise sul tavolo un pesciolino d’oro. “Credo che questo sia sufficiente, disse. Arcadio dovette ammettere che effettivamente era uno dei pesciolini fatti dal colonnello Aureliano Buendìa. Ma qualcuno poteva averlo comprato prima della guerra, o averlo rubato, e perciò non aveva alcun valore di salvacondotto. Il messaggero giunse fino all’estremo di violare un segreto di guerra per autenticare la propria identità. Rivelò che stava andando in missione a Curacao, dove sperava di poter reclutare esuli di tutti i Caraibi e acquistare armi e munizioni in quantità sufficiente per tentare uno sbarco alla fine dell’anno. Confidando in questo progetto, il colonnello Aureliano Buendìa non era favorevole ai sacrifici inutili proprio in quel momento. Ma Arcadio fu inflessibile. Fece imprigionare il messaggero, in attesa di verificare la sua identità, e decise di difendere le posizioni fino alla morte.

Non dovette aspettare a lungo. Le notizie della disfatta liberale furono sempre più concrete. A fine marzo, in un’alba di piogge premature, la calma tesa delle settimane anteriori si risolse all’improvviso in un disperato squillo di cornetta, seguito da una cannonata che fece rovinare il campanile del tempio. In realtà, la volontà di resistenza di Arcadio era una pazzia. Non disponeva di più che cinquanta uomini male armati, con una dotazione massima di venti cartucce a testa. Ma tra quei cinquanta, i suoi antichi alunni, eccitati da proclami altisonanti, erano decisi a sacrificare la pelle per una causa persa. In mezzo al frastuono di stivali, di ordini contraddittori, di cannonate che facevano tremare la terra, di spari dispersi e di squilli di cornetta senza senso, il presunto colonnello Stevenson ottenne di poter parlare con Arcadio. “Mi eviti il disonore di morire in ceppi con questi cenci da donna,” gli disse. “Se devo morire, che sia combattendo.” Riuscì a convincerlo. Arcadio ordinò che gli consegnassero un’arma con venti cartucce e lo lasciarono con cinque uomini a difendere la caserma, mentre lui andava col suo stato maggiore a mettersi alla testa della resistenza. Non riuscì ad arrivare alla strada della palude. Le barricate erano state fatte a pezzi e i difensori si battevano allo scoperto nelle strade, coi fucili finché durava la dotazione di pallottole, e poi con pistole contro fucili e alla fine a corpo a corpo. Di fronte all’imminenza della sconfitta, alcune donne si lanciarono in strada armate di bastoni e di coltelli da cucina. In quella confusione, Arcadio trovò Amaranta che andava cercandolo come una pazza, in camicia da notte, con due vecchie pistole di José Arcadio Buendìa. Diede il suo fucile a un ufficiale che era stato disarmato nella mischia, e scampò con Amaranta lungo una strada laterale per riportarla a casa. Ursula era sulla porta, ad aspettare, indifferente alle scariche che avevano aperto una troniera nella facciata della casa vicina. La pioggia cedeva, ma le strade erano sdrucciolevoli e molli come sapone liquefatto, e bisognava indovinare le distanze nel buio. Arcadio lasciò Amaranta con Ursula e cercò di affrontare due soldati che scaricarono una bordata alla cieca dalla cantonata.

Le vecchie pistole, conservate da molti anni in un armadio, fecero cilecca. Proteggendo Arcadio col suo corpo, Ursula cercò di trascinarlo fino alla casa.

“Vieni, per Dio,” gli gridava. “Adesso falla finita con le mattane!”

I soldati li presero di mira.

“Lasci quell’uomo, signora,” gridò uno di loro, “o non rispondiamo!”

Arcadio spinse Ursula verso la casa e si arrese. Poco dopo cessarono gli spari e cominciarono a rintoccare le campane. La resistenza era stata annichilata in meno di mezz’ora. Nemmeno uno degli uomini di Arcadio sopravvisse all’assalto, ma prima di morire si fecero precedere da trecento soldati. L’ultimo baluardo fu la caserma. Prima di essere attaccato, il presunto colonnello Gregorio Stevenson mise in libertà i prigionieri e ordinò ai suoi uomini di andar fuori a battersi in strada. La straordinaria mobilità e la mira precisa con la quale sparò le sue venti cartucce dalle diverse finestre diedero l’impressione che la caserma fosse ben protetta, e gli attaccanti la sgretolarono a cannonate. Il capitano che diresse l’operazione si meravigliò di trovare le macerie deserte, e un solo uomo, in mutande, morto, col fucile scarico ancora stretto da un braccio che gli era stato troncato di netto. Aveva una frondosa capigliatura femminile fermata sulla nuca da un pettine alto, e al collo uno scapolare con un pesciolino d’oro. Quando lo rovesciò con la punta dello stivale per scoprirgli la faccia, il capitano rimase perplesso. “Merda,” esclamò. Altri ufficiali si avvicinarono.

“Guardate dove è saltato fuori quest’uomo,” disse il capitano. “È Gregorio Stevenson.”

All’alba, dopo un consiglio di guerra sommario, Arcadio fu fucilato contro il muro del cimitero. Nelle due ultime ore della sua esistenza non riuscì a capire perché era scomparsa la paura che lo aveva tormentato fin dall’infanzia. Impassibile, senza nemmeno preoccuparsi di far mostra del suo recente coraggio, ascoltò gli intermirabili capi d’accusa. Pensava a Ursula, che a quell’ora doveva essere sotto il castagno a prendere il caffè con José Arcadio Buendìa. Pensava a sua figlia di otto mesi, che non aveva ancora nome, e a quello che sarebbe nato in agosto. Pensava a Santa Sofia de la Piedad, che la sera prima aveva lasciato mentre salava un cervo per il pranzo del sabato, e gli mancarono i suoi capelli sciolti sulle spalle e le sue ciglia che sembravano artificiali. Pensava alla sua gente senza sentimentalismi, in un severo rendiconto con la vita, cominciando a capire quanto amava in realtà le persone che più aveva odiato. Il presidente del tribunale di guerra iniziò il suo discorso finale, prima che Arcadio si rendesse conto che erano trascorse due ore. “Anche se i capi d’accusa comprovati non fossero sufficienti,” diceva il presidente, “la temerarietà irresponsabile e criminale con la quale l’accusato ha spinto i suoi subordinati a una morte inutile basterebbe per fargli meritare la pena capitale.” Nella scuola semidistrutta dove aveva provato per la prima volta la sicurezza del potere, a pochi metri dalla stanza dove aveva conosciuto l’incertezza dell’amore, Arcadio trovò ridicolo il formalismo della morte. In realtà non gli importava la morte ma la vita, e per questo la sensazione che provò quando pronunciarono la sentenza non fu una sensazione di paura ma di nostalgia. Non parlò finché non gli chiesero quale fosse la sua ultima volontà.

“Dite a mia moglie,” rispose con voce alta e chiara, “che dia alla bambina il nome di Ursula.” Fece una pausa e confermò: “Ursula, come la nonna. E ditele anche che se quello che deve nascere nasce maschio, lo dovranno chiamare José Arcadio, non per lo zio, ma per il nonno.”

Prima che lo portassero al muro, padre Nicanor cercò di assisterlo. “Non ho niente di cui pentirmi;” disse Arcadio, e si mise agli ordini del plotone dopo aver bevuto una tazza di caffè nero. Il capo del plotone, specialista in esecuzioni sommarie, aveva un nome che era assai più di una fatalità: capitano Roque Carnicero (macellaio[N.d.T.]). Cammin facendo verso il cimitero, sotto la pioggerella persistente, Arcadio osservò che, all’orizzonte spuntava un mercoledì radioso. La nostalgia svaniva con la nebbia e lasciava posto a una immensa curiosità. Solo quando gli ordinarono di mettersi con le spalle al muro, Arcadio vide Rebeca coi capelli bagnati e un vestito a fiori rosa, che apriva finestre e porte in tutta la casa. Fece uno sforzo perché si accorgesse di lui. In effetti, Rebeca guardò per caso verso il muro e restò paralizzata dallo stupore, e riuscì appena a reagire per rivolgere ad Arcadio un cenno di addio con la mano. Arcadio le rispose nello stesso modo. In quell’istante gli puntarono contro le bocche affumicate dei fucili, e udì distintamente le encicliche cantate di Melquìades, e sentì i passi perduti di Santa Sofia de la Piedad, vergine, nell’aula, e provò nel naso la stessa durezza di ghiaccio che aveva notato nelle narici del cadavere di Remedios. “Ah, cazzo!” riuscì ancora a pensare, “mi sono dimenticato di dire che se nasceva femmina la chiamassero Remedios.” Allora, come accumulato in una zampata lacerante, tornò a sentire tutto il terrore che lo aveva tormentato durante la vita. Il capitano diede l’ordine di fuoco. Arcadio ebbe appena il tempo di gonfiare il petto e sollevare il capo, senza capire da dove sgorgava il liquido ardente che gli bruciava le cosce.

“Cornuti! gridò. “Viva il partito liberale!”

 In maggio finì la guerra. Due settimane prima che il governo ne desse l’annuncio ufficiale, in un proclama altisonante che prometteva uno spietato castigo per i promotori della ribellione, il colonnello Aureliano Buendìa cadde prigioniero quando stava già per raggiungere la frontiera occidentale camuffato da stregone indigeno. Dei ventun uomini che lo seguirono nella guerra, quattordici morirono in combattimento, sei erano feriti, e uno solo lo accompagnava nel momento della sconfitta finale: il colonnello Gerineldo Màrquez. La notizia della cattura fu data a Macondo con un bando straordinario. “È vivo,” comunicò Ursula a suo marito. “Preghiamo Dio perché i suoi nemici abbiano clemenza.” Dopo tre giorni di pianto, un pomeriggio in cui stava sbattendo un dolce di latte nella cucina, sentì chiaramente la voce di suo figlio molto vicino all’orecchio. “Era Aureliano,” gridò, correndo verso il castagno per dare la notizia al marito. “Non so come è stato il miracolo, ma è vivo e lo vedremo molto presto.” Lo diede per certo. Fece lavare i pavimenti della casa e cambiare la posizione dei mobili. Una settimana dopo, una notizia, di cui s’ignorava l’origine e che il bando non doveva avvalorare, ribadì drammaticamente il presagio. Il colonnello Aureliano Buendìa era stato condannato a morte, e la sentenza sarebbe stata eseguita a Macondo, ad ammaestramento del popolo. Un lunedì, alle dieci e venti del mattino, Amaranta stava vestendo Aureliano José, quando udì un trambusto remoto e uno squillo di cornetta, un secondo prima che Ursula si precipitasse nella stanza con un grido: “Lo stanno portando.” La truppa lottava per trattenere a colpi di calcio di fucile la folla straripante. Ursula Amaranta corsero fino alla cantonata, aprendosi il passaggio a spintoni, e allora lo videro. Sembrava un barbone; Aveva i vestiti stracciati, i capelli e la barba arruffati, ed era scalzo. Camminava senza sentire la polvere infocata, con le mani legate dietro la schiena con una fune assicurata al pomo della sella di un ufficiale di cavalleria. Vicino a lui, pure cencioso e sfinito, trascinavano il colonnello Gerineldo Màrquez. Non erano tristi. Sembravano invece turbati dalla folla che gridava alla truppa ogni sorta di improperi.

“Figlio mio!” gridò Ursula in mezzo alla gazzarra, e diede una manata al soldato che cercò di trattenerla. Il cavallo dell’ufficiale si impennò. Allora il colonnello Aureliano Buendìa si fermò, fremente, schivò le braccia di sua madre e puntò nei suoi occhi uno sguardo duro. “Se ne vada a casa, mamma,” disse. “Chieda il permesso alle autorità e venga a vedermi in prigione.”

Guardò Amaranta, che rimaneva indecisa a due passi dietro Ursula, e le sorrise domandandole: “Cosa hai fatto alla mano?” Amaranta alzò la mano con la benda nera. “Una scottatura,” disse, e scostò Ursula perché i cavalli non la rovesciassero. La truppa sparò. Un picchetto speciale circondò i prigionieri e li portò al trotto nella caserma.

Verso sera, Ursula andò a trovare in prigione il colonnello Aureliano Buendìa. Aveva cercato di ottenere il permesso tramite don Apolinar Mos cote, ma questi aveva perso ogni autorità di fronte all’onnipotenza dei militari. Padre Nicanor era a letto per una febbre epatica. I genitori del colonnello Gerineldo Màrquez, che non era condannato a morte, avevano cercato di vederlo ed erano stati respinti col calcio del fucile. Vista l’impossibilità di trovare intermediari, convinta che suo figlio sarebbe stato fucilato allo spuntare del giorno, Ursula fece un fagotto delle cose che voleva portargli e andò da sola nella caserma.

“Sono la madre del colonnello Aureliano Buendìa, si annunciò.

Le sentinelle le sbarrarono il passo. “Entrerò in ogni modo,” li avvertì Ursula. “E quindi se avete ordine di sparare, cominciate pure subito.” Ne spinse da parte uno con un urtone e entrò nella vecchia aula, dove un gruppo di soldati nudi stava ingrassando le armi. Un ufficiale in uniforme da campagna, rosso in volto, con occhiali a lenti spesse e con modi cerimoniosi, fece cenno alle sentinelle di ritirarsi.

“Sono la madre del colonnello Aureliano Buendìa,” ripeté Ursula.

“Lei vorrà dire,” corresse l’ufficiale con un sorriso gentile, “che è la signora madre del signor Aureliano Buendìa.”

Ursula riconobbe nel suo modo di parlare ricercato la cadenza languida della gente dell’altipiano, degli spocchiosi.

“Come desidera, signore,”ammise, “basta che mi permetta di vederlo.”

C’erano ordini superiori di non permettere visite ai condannati a morte, ma l’ufficiale assunse la responsabilità di concederle un colloquio di quindici minuti. Ursula gli fece vedere cosa portava nel fagotto: un cambio di roba pulita, gli stivaletti che si era messo suo figlio per le nozze, e il dolce di latte che aveva conservato per lui dal giorno in cui aveva presentito il suo ritorno. Trovò il colonnello Aureliano Buendìa nella stanza-cella, sdraiato su una branda e con le braccia spalancate, perché aveva le ascelle tempestate di favi. Gli avevano permesso di radersi. I baffi densi di punte ritorte accentuavano l’angolosità dei suoi zigomi. A Ursula parve che fosse più pallido di quando se ne era andato, un po’ più alto e più solitario che mai. Era al corrente dei particolari della casa: il suicidio di Pietro Crespi, le arbitrarietà e la fucilazione di Arcadio, l’impavidità di José Arcadio Buendìa sotto il castagno. Sapeva che Amaranta aveva consacrata la sua vedovanza di vergine all’allevamento di Aureliano José, e che il ragazzo cominciava a dar mostra di senno e leggeva e scriveva nel tempo stesso che imparava a parlare. Fin dal momento in cui entrò nella stanza, Ursula si sentì sopraffatta dalla maturità di suo figlio, dalla sua aura di padronanza, dal bagliore di autorità che irradiava la sua pelle. Si meravigliò che fosse così bene informato. “Lei sa bene che sono indovino,” scherzò lui. E aggiunse seriamente: “Questa mattina, quando mi stavano portando qui, ho avuto l’impressione di essere già passato per tutte queste cose.” In realtà, mentre la folla tumultuava al suo passaggio, lui era assorto nei suoi pensieri, stupito di quanto era invecchiato in un anno il villaggio. I mandorli avevano le foglie rotte. Le case pitturate di azzurro, ripitturate di rosso e poi tornate a pitturare di azzurro, avevano finito per assumere una tinta indefinibile.

“Cosa ti aspettavi?” sospirò Ursula. “Il tempo passa.”

“Così è,” ammise Aureliano, “ma non tanto.”

In questo modo, la visita da tanto tempo attesa, per la quale ambedue avevano preparato le domande e perfino previsto le risposte, fu di nuovo la conversazione quotidiana di sempre. Quando la sentinella annunciò la fine del colloquio, Aureliano prese da sotto la stuoia della branda un rotolo di carte sudate. Erano i suoi versi. Quelli ispirati da Remedios, che aveva portato con sé quando se n’era andato, e quelli scritti dopo, nelle burrascose pause della guerra. “Mi prometta che nessuno li leggerà,” disse. “Questa sera li adopri per accendere il forno.” Ursula lo promise e si alzò per dargli un bacio di addio.

“Ti ho portato un revolver,” mormorò.

Il colonnello Aureliano Buendìa si accertò che la sentinella non fosse in vista. “Non mi serve a nulla,” ribatté a voce bassa. “Ma me lo dia, nel caso la perquisissero all’uscita.” Ursula tirò fuori il revolver dal corpetto e lui lo infilò sotto la stuoia della branda. “E adesso non mi dica addio,” concluse con un’enfasi stanca. “Non supplichi nessuno, non si abbassi davanti a nessuno. Faccia conto che mi abbiano fucilato da molto tempo.” Ursula si morsicò le labbra per non piangere.

“Mettiti dei sassi caldi sui favi,” disse.

Si voltò e usci dalla stanza. Il colonnello Aureliano Buendìa rimase in piedi, pensieroso, finché non si chiuse la porta. Allora tornò a sdraiarsi, con le braccia aperte. Fin dalla prima adolescenza, quando aveva cominciato ad aver coscienza dei suoi presentimenti, aveva pensato che la morte si sarebbe annunciata con un segno definito, inequivocabile e irrevocabile, ma gli mancavano poche ore a morire, e il segno non arrivava. Una volta una donna bellissima era entrata nel suo accampa mento di Tucurinca e aveva chiesto alle sentinelle che le permettessero di vederlo. La lasciarono passare, perché conoscevano il fanatismo di certe madri che mandavano le loro figlie nell’alcova dei guerrieri più famosi, per migliorare, come dicevano loro, la razza. Il colonnello Aureliano Buendìa stava quella notte terminando la poesia dell’uomo che si era perduto nella pioggia, quando la ragazza entrò nella stanza. Lui le girò le spalle per mettere il foglio nel cassetto con serratura dove conservava i suoi versi. E fu allora che avvertì il segno. Afferrò la pistola nel cassetto senza voltare la faccia.

“Non spari, per favore,” disse.

Quando si voltò con la pistola spianata, la ragazza aveva abbassato la sua e non sapeva cosa fare. Così era riuscito a sfuggire a quattro imboscate su undici. Invece, un tale, che non fu mai catturato, era entrato una notte nella caserma dei rivoluzionari di Manaure e aveva assassinato a pugnalate il suo intimo amico, il colonnello Magnifico Visbal, febbricitante, al quale egli aveva ceduto la branda per farci una bella sudata. E lui, nella stessa stanza, a pochi metri, addormentato in un’amaca, non si era reso conto di nulla. I suoi sforzi per sistematizzare i presagi erano tutti inutili. Si presentavano all’improvviso, in una folata di lucidità soprannaturale, come una certezza assoluta e momentanea, ma inafferrabile. Certe volte erano così naturali che non li riconosceva come presagi se non quando si realizzavano. Altre volte erano perentori e non si realizzavano. Spesso non erano altro che volgari attacchi di superstizione. Ma quando lo condannarono a morte e gli chiesero di esprimere la sua ultima volontà, non gli fu difficile identificare il presagio che gli aveva ispirato quella risposta:

“Chiedo che la sentenza venga eseguita a Macondo,” disse.

Il presidente del tribunale si era irritato.

“Non faccia il furbo, Buendìa,” gli disse. “È uno stratagemma per guadagnare tempo.”

“Se non volete, padroni voi,” disse il colonnello, “ma questa è la mia ultima volontà.”

Da allora i presagi lo avevano abbandonato. Il giorno in cui Ursula venne a trovarlo in prigione, dopo aver pensato molto, giunse alla conclusione che quella volta forse, la morte non si sarebbe annunziata, perché non dipendeva dal caso ma dalla volontà dei suoi carnefici. Trascorse la notte in bianco tormentato dal dolore dei favi. Poco prima dell’alba senti dei passi nel corridoio. “Eccoli,” si disse, e pensò senza alcun motivo a José Arcadio Buendìa, che in quel momento stava pensando a lui, in quella lugubre aurora del castagno. Non provò né paura, né nostalgia, ma una rabbia viscerale al pensiero che quella morte artificiosa non gli avrebbe permesso di conoscere la fine di tante cose che lasciava incompiute. La porta si aprì ed entrò la sentinella con una scodella di caffè. Il giorno dopo alla stessa ora era ancora nello stesso stato, col dolore delle ascelle che lo faceva smaniare, e successero esattamente le medesime cose. Il giovedì spartì il dolce di latte con le sentinelle e si mise l’abito pulito, che gli stava stretto, e gli stivaletti di vernice. Il venerdì non lo avevano ancora fucilato.

In realtà, non osavano eseguire la sentenza. I militari sapevano di avere il popolo contro e la fucilazione del colonnello Aureliano Buendìa avrebbe portato gravi conseguenze politiche non soltanto a Macondo ma anche in tutta la palude, e perciò si consultarono con le autorità del capoluogo. La notte del sabato, mentre aspettavano la risposta, il capitano Roque Carnicero andò con altri ufficiali nella bottega di Catarino. Solo una donna, quasi costretta con la forza, osò portarselo in camera. “Non vogliono andare a letto con un uomo che si sa che sta per morire,” gli confessò la donna. “Nessuno sa come succederà, ma lo dicono tutti: l’ufficiale che fucilerà il colonnello Aureliano Buendìa, e tutti i soldati del plotone, ad uno ad uno, saranno assassinati senza rimedio, prima o poi, anche se si vanno a nascondere in capo al mondo.”

Il capitano Roque Carnicero commentò la cosa con altri ufficiali, e questi la commentarono coi loro superiori. La domenica, anche se nessuno lo aveva rivelato chiaramente, anche se nessuna azione militare aveva turbato la calma tesa di quei giorni, tutti sapevano che gli ufficiali erano decisi a sottrarsi con ogni sorta di pretesti alla responsabilità dell’esecuzione. Con la posta dei lunedì arrivò l’ordine ufficiale: l’esecuzione doveva essere effettuata nello spazio di ventiquattro ore. Quella sera, gli ufficiali misero in un berretto sette bigliettini coi loro nomi, e l’inclemente destino del capitano Roque Carnicero lo indicò vincente. “La cattiva sorte non ha scappatoie,” disse, con profonda amarezza. “Sono nato figlio di puttana e muoio figlio di puttana.” Alle cinque della mattina scelse il plotone a sorte, lo radunò nel patio e svegliò il condannato con una frase premonitrice:

“Andiamo, Buendìa,” gli disse. “È arrivata la nostra ora.”

“Ecco cos’era,” ribatté il colonnello. “Stavo sognando che mi erano scoppiati i favi.”

Rebeca Buendìa si alzava tutte le mattine alle tre da quando aveva saputo che Aureliano sarebbe stato fucilato. Restava nella sua stanza al buio, spiando dalla finestra socchiusa il muro del cimitero, mentre il letto su cui era seduta tremava per i tonfi di José Arcadio. Attese per tutta la settimana con la stessa ostinazione recondita con la quale in altra epoca aspettava le lettere di Pietro Crespi. “Non lo fucileranno qui,” le diceva José Arcadio. “Lo fucileranno a mezzanotte nella caserma perché nessuno sappia chi faceva parte del plotone, e lo seppelliranno lì.” Rebeca continuò ad aspettare. “Sono così bestie che lo fucileranno qui,” diceva. Era così sicura, che aveva previsto il modo in cui avrebbe aperto la porta per dirgli addio con la mano. “Non lo faranno passare per strada,” insisteva José Arcadio, “con solo sei soldati spaventati, sapendo che la gente è disposta a tutto.” Indifferente alla logica di suo marito, Rebeca non si staccava dalla finestra.

“Vedrai che saranno bestie come dico io,” si ostinava.

Il martedì alle cinque della mattina José Arcadio aveva bevuto il caffè e slegato i cani, quando Rebeca chiuse la finestra e si afferrò al capezzale del letto per non cadere. “Lo stanno portando,” sospirò. “Come è bello.” José Arcadio si affacciò alla finestra, e lo vide, fremente nel chiarore dell’alba, con dei pantaloni che erano stati suoi in gioventù. Era già con le spalle al muro e teneva le mani appoggiate alla vita perché le nodosità ardenti delle ascelle gli impedivano di abbassare le braccia. “Tanto scoglionarsi,” mormorava il colonnello Aureliano Buendìa. “Tanto scoglionarsi per farsi ammazzare da sei mezzeseghe senza poter far nulla.” Lo ripeteva con tanta rabbia, che quasi sembrava fervore, e il capitano Roque Carnicero si commosse perché credette che stava pregando. Quando il plotone puntò i fucili, la rabbia si era materializzata in una sostanza viscosa e amara che gli addormentò la lingua e lo costrinse a chiudere gli occhi. Allora scomparve il chiarore di alluminio della prima luce, e tornò a vedere se stesso, bambinetto, coi calzoncini corti e un fiocco al collo, e vide suo padre, in un pomeriggio splendido, che lo conduceva nell’interno del padiglione, e vide il ghiaccio. Quando sentì il grido, credette fosse l’ordine finale al plotone. Apri gli occhi con una curiosità rabbrividente, aspettandosi di cogliere la traiettoria incandescente dei proiettili, ma vide soltanto il capitano Roque Carnicero con le braccia alzate, e José Arcadio che attraversava la strada col suo spaventoso schioppo pronto a sparare.

“Non faccia fuoco,” disse il capitano a José Arcadio. “Lei è mandato dalla Divina Provvidenza.”

E cominciò un’altra guerra. Il capitano Roque Carnicero e i suoi sei uomini andarono col colonnello Aureliano Buendìa a liberare il generale rivoluzionario Victorio Medina, condannato a morte a Riohacha. Pensarono di guadagnare tempo attraversando la sierra per il cammino seguito da José Arcadio Buendìa per fondare Macondo, ma gli bastò una settimana per convincersi che era un’impresa impossibile. Di modo che dovettero prendere per la strada pericolosa dei contrafforti, senza altre munizioni che quelle del plotone di esecuzione. Si accampavano vicino ai villaggi, e uno di loro, con un pe sciolino d’oro in mano, entrava in pieno giorno, camuffato, e si metteva in contatto coi liberali a riposo, che il mattino dopo uscivano a caccia e non tornavano mai più. Quando scorsero Riohacha da un gomito della sierra, il generale Victorio Medina era stato fucilato. Gli uomini del colonnello Aureliano Buendìa lo proclamarono capo delle forze rivoluzionarie della costa dei Caraibi, col grado di generale. Egli assunse l’incarico, ma rifiutò la promozione, e impose a se stesso la condizione di non accettarla finché il regime conservatore non fosse stato rovesciato. In capo a tre mesi erano riusciti ad armare più di mille uomini, ma furono sterminati. I superstiti raggiunsero la frontiera orientale. Le ulteriori notizie sul loro conto informavano che erano sbarcati nel Capo de la Vela, provenienti dall’arcipelago delle Antille, e un bollettino del governo, diramato per telegrafo e pubblicato in bandi esultanti in tutto il paese, annunciò la morte del colonnello Aureliano Buendìa. Ma due giorni dopo, un telegramma che arrivò quasi contemporaneamente al precedente annunciava una nuova sollevazione nelle pianure del sud. Così cominciò la leggenda dell’ubiquità del colonnello Aureliano Buendìa. Informazioni simultanee e contraddittorie lo dichiaravano vittorioso a Villanueva, sconfitto a Guacamayal, divorato dagli indios Motiloni, morto in un villaggetto della palude e di nuovo insorto a Urumita. I dirigenti liberali, che in quel momento stavano negoziando il loro ingresso nel parlamento, lo dipinsero come un avventuriero che non rappresentava il partito. Il governo nazionale lo incluse nella categoria dei briganti e pose sulla sua testa una taglia di cinquemila pesos. Dopo esser stato sconfitto sedici volte, il colonnello Aureliano Buendìa usci dalla Guajira con duemila indigeni bene armati, e la guarnigione sorpresa nel sonno abbandonò Riohacha. Lì stabili il suo quartier generale, e proclamò una guerra totale contro il regime. La prima comunicazione che ricevette dal governo fu la minaccia di far fucilare il colonnello Gerineldo Màrquez entro quarantotto ore, se non avesse ripiegato con le sue forze fino alla frontiera orientale. Il colonnello Roque Carnicero, che allora era capo del suo stato maggiore, gli consegnò il telegramma con un gesto di costernazione, ma lui lo lesse con imprevista allegria.

“Guarda un po’!” esclamò. “Anche a Macondo abbiamo il telegrafo.”

La sua risposta fu perentoria. Entro tre mesi sperava di ristabilire il suo quartier generale a Macondo. Se per allora non avesse trovata vivo il colonnello Gerineldo Màrquez, avrebbe fucilato sommariamente tutti gli ufficiali fatti prigionieri in quel momento, cominciando dai generali, e avrebbe dato ordine ai suoi subalterni di procedere nello stesso modo fino al termine della guerra. Tre mesi dopo, quando entrò vittorioso a Macondo, il primo abbraccio che ricevette sulla strada della palude fu quello del colonnello Gerineldo Màrquez.

La casa era piena di bambini. Ursula aveva accolto Santa Sofia de la Piedad, con la figlia maggiore e con un paio di gemelli che erano nati cinque mesi dopo la fucilazione di Arcadio. Contro l’ultima volontà del fucilato, fece battezzare la bambina col nome di Remedios. “Sono sicura che Arcadio intendeva dir questo,” si giustificò. “Non la chiameremo Ursula, perché si soffre molto con quel nome.” Ai gemelli diede il nome di José Arcadio Secondo e Aureliano Secondo. Amaranta se li prese tutti a carico. Sistemò delle seggioline di legno nel salotto, e con bambini delle famiglie vicine mise su un nido d’infanzia. Quando tornò il colonnello Aureliano Buendìa, tra scoppi di petardi e rintocchi di campane, un coro infantile gli diede il benvenuto a casa. Aureliano José, lungo come suo nonno, vestito da ufficiale rivoluzionario, gli rese gli onori militari.

Non tutte le notizie erano buone. Un anno dopo la fuga del colonnello Aureliano Buendìa, José Arcadio e Rebeca se ne erano andati a vivere nella casa costruita da Arcadio. Nessuno seppe del suo intervento per impedire la fucilazione. Della casa nuova, situata nell’angolo migliore della piazza, all’ombra di un mandorlo privilegiato con tre nidi di pettirossi, con una porta grande per le visite e quattro finestre per la luce, fecero un luogo ospitale. Le vecchie amiche di Rebeca, tra le altre quattro sorelle Moscote ancora nubili, ripresero le riunioni di ricamo interrotte anni prima nel porticato delle begonie. José Arcadia continuò a usufruire delle terre usurpate, i cui titoli furono riconosciuti dal governo conservatore. Tutte le sere lo si vedeva tornare a cavallo, coi suoi cani da caccia e il suo schioppo a due canne, e una filza di conigli appesi alla sella. Un pomeriggio di settembre, che minacciava un temporale, tornò a casa più presto del solito. Salutò Rebeca nella sala da pranzo, legò i cani nel patio, appese i conigli in cucina per salarli più tardi e andò in camera a cambiarsi. Rebeca dichiarò poi che quando suo marito era entrato in camera lei si era chiusa nel bagno senza rendersi conto di niente. Una versione difficile da credere, ma non ce n’era altra più verosimile, e nessuno riuscì a concepire un motivo per il quale Rebeca potesse aver assassinato l’uomo che l’aveva resa felice. Quello fu forse l’unico mistero che non si mise mai in chiaro a Macondo. Non appena José Arcadio chiuse la porta della camera, lo scoppio di una pistolettata rimbombò nella casa. Un filo di sangue uscì da sotto la porta, attraversò la sala, uscì in strada, continuò in un percorso diretto lungo i marciapiedi disuguali, scese scalinate e scalò parapetti, si lascio dietro la Strada dei Turchi, giro a destra in una cantonata e a sinistra in un’altra, piegò ad angolo retto davanti alla casa dei Buendìa, passo sotto la porta chiusa, attraversò il salotto buono strisciando lungo le pareti per non macchiare i tappeti, continuò per l’altro salotto, schivò con un’ampia curva il tavolo della sala da pranzo, avanzò per il porticato delle begonie, passò non visto sotto la sedia di Ama; tanta che stava dando una lezione di aritmetica a Aureliano José, si infilò nel granaio e fini nella cucina dove Ursula stava per rompere trentasei uova per fare il pane.

“Ave Maria Purissima!” gridò Ursula.

Segui il filo di sangue in senso contrario, e cercando la sua origine attraversò il granaio, passò per il porticato delle begonie dove Aureliano José cantava che tre e tre fanno sei e sei e tre fanno nove, e attraversò la sala da pranzo e i salotti e continuò in linea retta per la strada, e poi piegò a destra e poi a sinistra fino alla Strada dei Turchi, senza accorgersi che non si era tolta né il grembiule da cucina né le babbucce da casa, e uscì nella piazza e entrò nella porta di una casa dove non era mai stata, e spinse la porta della camera e quasi soffocò per l’odore di polvere da sparo bruciata, e trovò José Arcadio bocconi per terra sulle cose che si era appena tolto, e vide l’origine del filo di sangue che aveva già smesso di sgorgare dall’orecchio destro del cadavere. Non trovarono alcuna ferita sul suo corpo e non riuscirono a trovare l’arma. Non fu nemmeno possibile togliere il penetrante odore di polvere da sparo dal morto. Prima lo lavarono per tre volte con sapone e strofinaccio, poi lo stropicciarono con sale e aceto, poi con cenere e limone, e alla fine lo misero in un tino di lisciva e ve lo lasciarono a macerare per sei ore. Lo sfregarono tanto che gli arabeschi del tatuaggio cominciavano a scolorire. Quando concepirono l’espediente disperato di metterlo a bollire a fuoco lento per un giorno intero dopo averlo steccato con pepe e comino e foglie di lauro, aveva già cominciato a decomporsi e dovettero seppellirla in fretta e furia. Lo chiusero ermeticamente in una bara speciale lunga due metri e trenta centimetri e larga un metro e dieci centimetri, rinforzata nell’interno con piastre di ferro e avvitata con perni d’acciaio, ma anche così si percepiva l’odore di polvere da sparo nelle strade dove passe il funerale. Padre Nicanor col fegato gonfio e teso come un tamburo, gli mandò la benedizione dal letto. Benché nei mesi seguenti rinforzassero la tomba con muri sovrapposti e gettassero negli interstizi cenere compressa, segatura e calce viva, il cimitero continuò a puzzare di polvere da sparo anche per molti anni dopo, quando gli ingegneri della compagnia bananiera ricoprirono la tomba con una corazza di calcestruzzo. Non appena portarono via il cadavere, Rebeca sbarrò le porte della sua casa e si seppellì viva, chiusa in una grossa crosta di sdegno che nessuna tentazione terrena riuscì a infrangere. Uscì in strada una volta sola, già assai vecchia, con delle scarpe color argento antico e un cappello a fiorellini, all’epoca in cui passò per il villaggio l’Ebreo Errante che provocò un calore così intenso che gli uccelli sfondavano le reticelle delle finestre e venivano a morire nelle stanze. L’ultima volta che qualcuno la vide viva fu quando ammazzò con un colpo preciso un ladro che cercava di forzare la porta della sua casa. Tranne Argénida, sua serva e confidente, nessuno ebbe più rapporti con lei da quel momento. In una certa epoca si seppe che scriveva lettere al Vescovo, che considerava suo cugino primo, ma non è detto che avesse mai ricevuto risposta. Il villaggio la dimenticò.

Nonostante il suo ritorno trionfale, il colonnello Aureliano Buendìa non si esaltava alle apparenze. Le truppe del governo abbandonavano le posizioni senza fare resistenza, e ciò suscitava nella popolazione liberale una illusione di vittoria che non conveniva defraudare, ma i rivoluzionari conoscevano la verità, e più di tutti il colonnello Aureliano Buendìa. Benché in quel momento avesse pin di cinquemila uomini ai suoi ordini e dominasse due stati della costa, era cosciente di essere accerchiato contro il mare, e coinvolto in una situazione politica così confusa che quando ordinò di restaurare il campanile della chiesa diroccato da una cannonata dell’esercito, padre Nicanor commentò dal suo letto di infermo: “Questo è uno sproposito: i difensori della fede di Cristo distruggono il tempio e i massoni lo fanno riparare.” Cercando uno spiraglio di salvezza passava ore e ore nell’ufficio del telegrafo a conferire coi capi degli altri settori, e ogni volta ne usciva con l’impressione sempre più precisa che la guerra ristagnava. Quando arrivavano notizie di nuovi trionfi liberali si proclamavano bandi di giubilo, ma lui misurava sulle mappe la loro effettiva portata, e capiva che le sue osti stavano penetrando nella selva, lottando contro le zanzare e la malaria, avanzando in senso opposto a quello della realtà. “Stiamo perdendo tempo,” si lamentava coi suoi ufficiali. “Perderemo tempo finché quei cornuti del partito continueranno a mendicare uno scanno in parlamento.” Nelle notti di veglia, disteso supino nell’amaca che appendeva nella stessa stanza dove era stato condannato a morte, evocava l’immagine degli avvocati vestiti di nero che lasciavano il palazzo presidenziale nel gelo dell’alba col bavero dei cappotti alzato fino alle orecchie, fregandosi le mani, bisbigliando, rifugiandosi nei caffeucci lugubri delle prime ore del giorno, per speculare su cosa aveva voluto dire il presidente quando aveva detto di sì, o cosa aveva voluto dire quando aveva detto di no, e per congetturare perfino cosa aveva pensato il presidente quando aveva detto una cosa completamente diversa, mentre lui scacciava le zanzare a trentacinque gradi di temperatura, sentendo avvicinarsi l’alba spaventosa nella quale avrebbe dovuto dare ai suoi uomini l’ordine di buttarsi a mare.

In una notte d’incertezza, mentre Pilar Tenera cantava nel patio con la truppa, le chiese di leggergli l’avvenire nelle carte. “Fa attenzione alla bocca,” fu tutto quello che mise in chiaro Pilar Ternera dopo aver disposto e raccolto le carte per tre volte. “Non so che cosa vuol dire, ma il segno è chiarissimo: fa attenzione alla bocca.” Due giorni dopo qualcuno diede all’ordinanza una scodella di caffè senza zucchero, e l’ordinanza la passò a un altro, e questi a un altro ancora, finché di mano in mano arrivò nell’ufficio del colonnello Aureliano Buendìa. Non aveva chiesto caffè, ma già che era lì, il colonnello se lo bevve. Conteneva una dose di noce vomica sufficiente ad ammazzare un cavallo. Quando lo portarono a casa era rigido e inarcato e aveva la lingua spaccata tra i denti. Ursula lo disputò alla morte. Dopo avergli pulito lo stomaco con vomitivi, lo avvolse in coperte calde e gli diede chiare d’uovo per due giorni, finché il corpo corrotto ricuperò la temperatura normale. Al quarto giorno era fuori pericolo. Suo malgrado, costretto da Ursula e dagli ufficiali, rimase a letto ancora per una settimana. Solo allora seppe che non avevano bruciato i suoi versi. “Non ho voluto precipitare le cose,” spiegò Ursula. “Quella notte, quando stavo per accendere il forno, mi sono detta che era meglio aspettare che portassero il cadavere.” Nella nebbia della convalescenza, circondato dalle polverose bambole di Remedios, il colonnello Aureliano Buendìa evocò, rileggendo i propri versi, i momenti decisivi della sua esistenza. Riprese a scrivere. Per molte ore, in margine ai sussulti di una guerra senza futuro, sciolse in versi rimati le sue esperienze ai confini della morte. Allora i suoi pensieri si fecero così chiari, che poté esaminarli per il diritto e per il rovescio. Una notte chiese al colonnello Gerineldo Màrquez:

“Dimmi una cosa, compare: per cosa combatti?”

“Per cosa vuoi che sia, compare,” rispose il colonnello Gerineldo Màrquez, “per il grande partito liberale.”

“Fortunato tu che lo sai,” rispose lui. Io, da parte mia, soltanto ora mi rendo conto che sto combattendo per orgoglio.”

“Questo è male,” disse il colonnello Gerineldo Màrquez.

Il suo sgomento divertì il colonnello Aureliano Buendìa. “Naturalmente,” disse. “Ma in ogni modo, è meglio così, che non sapere perché si combatte.” Lo guardò negli occhi, e aggiunse sorridendo:

“O che combattere come te per qualcosa che non significa nulla per nessuno.”

Il suo orgoglio gli aveva impedito di mettersi in contatto coi gruppi armati dell’interno del paese, almeno fintanto che i dirigenti del partito non avessero fatto pubblica ammenda di averlo definito un brigante. Sapeva, ciò malgrado, che non appena avesse messo da parte quegli scrupoli avrebbe rotto il circolo vizioso della guerra. La convalescenza gli permise di riflettere. Allora riuscì a farsi consegnare da Ursula il resto della eredità sotterrata e i suoi abbondanti risparmi; nominò il colonnello Gerineldo Màrquez capo civile e militare di Macondo, e se ne andò a stabilire i contatti coi gruppi ribelli dell’interno.

Il colonnello Gerineldo Màrquez non era soltanto l’uomo di maggior fiducia del colonnello Aureliano Buendìa, ma Ursula lo considerava altresì un membro della famiglia. Fragile, timido, di buona educazione naturale, era però più adatto alla guerra che al governo. I suoi consiglieri politici lo irretivano facilmente in labirinti teorici. Ma riuscì a imporre a Macondo lo stato di pace agreste sognato dal colonnello Aureliano Buendìa per morirvi di vecchiaia fabbricando pesciolini d’oro. Pur vivendo nella casa dei suoi genitori pranzava da Ursula due o tre volte alla settimana. Iniziò Aureliano José all’uso delle armi da fuoco, gli diede una precoce istruzione militare e per parecchi mesi lo portò a vivere in caserma, col consenso di Ursula, perché si facesse uomo. Molti anni prima, quando era poco più di un bambino, Gerineldo Màrquez aveva dichiarato il suo amore ad Amaranta. Lei era allora così persa nella sua passione solitaria per Pietro Crespi, che aveva riso di lui. Gerineldo Màrquez aspettò. Una volta mandò ad Amaranta un bigliettino dal carcere, chiedendole il favore di ricamargli una dozzina di fazzoletti di batista con le iniziali di suo padre. Le mandò il denaro. Dopo una settimana, Amaranta gli portò in carcere la dozzina di fazzoletti ricamati insieme al denaro, e rimasero per parecchie ore a parlare del passato. “Quando uscirò di qui, ti sposerò,” le disse Gerineldo Màrquez accomiatandosi. Amaranta rise, ma continuò a pensare a lui mentre insegnava a leggere ai bambini, e desiderò rivivere per lui la sua giovanile passione per Pietro Crespi. Il sabato, giorno di visita ai prigionieri, passava da casa dei genitori di Gerineldo Màrquez e li accompagnava alla prigione. In uno di quei giorni, Ursula si meravigliò vedendola aspettare in cucina che uscissero dal forno i biscotti per scegliere i migliori e avvolgerli in un tovagliolo ricamato per l’occasione.

“Sposalo,” le disse. “Difficilmente ne troverai un altro come lui.”

Amaranta finse una reazione di disgusto.

“Non ho bisogno di andare a caccia di uomini,” ribatté. “Porto questi biscotti a Gerineldo perché mi fa pena sapere che prima o poi lo fucileranno.”

Lo disse senza pensarci, ma in quell’epoca il governo rese pubblica la minaccia di fucilare il colonnello Gerineldo Màrquez se le forze ribelli non consegnavano Riohacha. Le visite si interruppero. Amaranta si chiuse a piangere, oppressa da un senso di colpa simile a quello che l’aveva tormentata quando era morta Remedios, come se di nuovo le sue parole irriflessive fossero state responsabili di una morte. Sua madre la consolò. Le assicurò che il colonnello Aureliano Buendìa avrebbe fatto qualcosa per impedire la fucilazione, e promise che lei stessa si sarebbe incaricata del riavvicinamento con Gerineldo Màrquez, quando fosse finita la guerra. Mantenne la promessa prima della scadenza prevista. Quando Gerineldo Màrquez tornò nella casa investito della sua nuova dignità di capo civile e militare, lo ricevette come un figlio, concepì squisite blandizie per trattenerlo, e pregò con tutta l’energia del suo cuore che si ricordasse della sua intenzione di sposarsi con Amaranta. Le sue suppliche sembravano aver successo. I giorni in cui veniva a pranzo in casa, il colonnello Gerineldo Màrquez si tratteneva nel pomeriggio a giocare a dama cinese con Amaranta nel portico delle begonie. Ursula serviva loro caffellatte e biscotti e badava che i bambini non li infastidissero. Amaranta, in realtà, si sforzava di ravvivare nel suo cuore le ceneri dimenticate della sua passione giovanile. Con un’ansia che giunse a essere intollerabile attese i giorni di visita, i pomeriggi di dama cinese, e il tempo volava via in compagnia di quel guerriero dal nome nostalgico le cui dita tremavano impercettibilmente quando spostavano le pedine. Ma il giorno in cui Gerineldo Màrquez le reiterò il desiderio di sposarla, lei lo respinse.

“Non mi sposerò con nessuno,” gli disse, “ma meno ancora con te. Vuoi tanto bene a Aureliano da sposare me perché non puoi sposare lui.”

Il colonnello Gerineldo Márquez era un uomo paziente. “Tornerò a insistere,” disse. “Prima o poi ti convincerò.” Continuò le sue visite. Chiusa nella sua camera, ingoiando lacrime segrete, Amaranta si ficcava le dita nelle orecchie per non ascoltare la voce del pretendente che raccontava a Ursula le ultime notizie della guerra, e nonostante morisse dalla voglia di vederlo aveva la forza di non andare a riceverlo.

Il colonnello Aureliano Buendìa poteva disporre allora del tempo per mandare ogni due settimane un rapporto particolareggiato a Macondo. Ma una volta sola, quasi otto mesi dopo essersene andato, scrisse a Ursula. Un messaggero speciale portò una busta sigillata, nella quale c’era un foglio vergato con la calligrafia manierata del colonnello: Abbiate molta cura di papà perché sta per morire. Ursula si allarmò. “Se Aureliano lo dice, Aureliano lo sa,” disse. E chiese aiuto per portare José Arcadio Buendìa nella sua stanza da letto. Non solo era pesante come sempre, ma durante la sua prolungata permanenza sotto il castagno aveva sviluppato la facoltà di aumentare di peso come e quando voleva, al punto che sette uomini non ce la fecero a sollevarlo e furono costretti a portarlo a strasciconi verso il letto. Un tanfo di funghi molli, di muffa, di antiche e rapprese intemperie impregnò l’aria della stanza, appena cominciò a respirarla quel vecchio colosso macerato dal sole e dalla pioggia. La mattina dopo non lo ritrovarono nel suo letto. Dopo averlo cercato in tutte le stanze, Ursula lo trovò di nuovo sotto il castagno. Allora lo legarono al letto. Nonostante la sua forza intatta, José Arcadio Buendìa non era in condizioni di lottare. Tutto gli era indifferente. Se era tornato al castagno non lo aveva fatto di sua volontà bensì per un’abitudine del corpo. Ursula lo curava, gli dava da mangiare, gli portava notizie di Aureliano. Ma in realtà, l’unica persona con la quale egli poteva aver rapporto da ormai molto tempo, era Prudencio Aguilar. Già quasi polverizzato dalla profonda decrepitezza della morte, Prudencio Aguilar andava due volte al giorno a conversare con lui. Parlavano di galli. Si ripromettevano di formare un allevamento di animali magnifici, non tanto per godere di qualche vittoria che ormai non gli sarebbe più servita, ma per avere qualcosa con cui distrarsi nelle tediose domeniche della morte. Era Prudencio Aguilar che lo puliva, che gli dava da mangiare e gli portava affascinanti notizie di uno sconosciuto che si chiamava Aureliano e che era colonnello in guerra. Quando era solo, José Arcadio Buendìa si consolava col sogno delle stanze infinite. Sognava di alzarsi dal letto, di aprire la porta e di passare in un’altra stanza uguale, con lo stesso letto dal capezzale di ferro battuto, la stessa poltrona di vimini e lo stesso quadretto della Vergine de los Remedios sulla parete in fondo. Da quella stanza passava in un’altra stanza esattamente uguale, poi apriva una porta ed entrava ancora in un’altra stanza esattamente uguale, e poi in un’altra esattamente uguale, fino all’infinito. Gli piaceva andarsene di stanza in stanza, come in una galleria a specchi paralleli, finché Prudencio Aguilar gli toccava la spalla. Allora tornava di stanza in stanza, svegliandosi a ritroso, percorrendo la strada inversa; e trovava Prudencio Aguilar nella stanza della realtà. Ma una notte, due settimane dopo averlo riportato a letto, Prudencio Aguilar gli toccò la spalla in una stanza intermedia, e lui rimase lì per sempre, convinto di trovarsi nella stanza vera. Il mattino dopo Ursula gli stava portando la colazione quando vide un uomo venirle incontro nel portico. Era piccolo e massiccio, vestito di panno nero e con un cappello pure nero, enorme, calcato fin sugli occhi taciturni. “Dio mio,” pensò Ursula.

“Avrei giurato che era Melquìades.” Era Cataure, invece, il fratello di Visitación, che aveva abbandonato la casa fuggendo la peste dell’insonnia, e del quale non si era saputo più nulla. Visitación gli chiese perché fosse tornato, e lui le rispose nel suo linguaggio solenne:

“Sono venuto al funerale del re.”

Allora entrarono nella stanza di José Arcadio Buendìa, lo scossero con tutte le loro forze, gli gridarono nell’orecchio, gli misero uno specchio davanti alle narici, ma non riuscirono a svegliarlo. Poco dopo, quando il falegname gli prendeva le misure per la bara, videro attraverso la finestra che stava cadendo una pioggerella di minuscoli fiori gialli. Caddero per tutta la notte sul villaggio in una tormenta silenziosa, e coprirono i tetti e ostruirono le porte, e soffocarono gli animali che dormivano all’aperto. Tanti fiori caddero dal cielo, che al mattino le strade erano tappezzate di una coltre compatta, e dovettero sgombrarle con pale e rastrelli perché potesse passare il funerale.

 Seduta nella poltrona a dondolo di vimini, col ricamo interrotto posato sul grembo, Amaranta contemplava Aureliano José, col mento imbrattato di schiuma, che affilava il rasoio su una foglia di cactus per la sua prima rasatura. Si fece sanguinare i foruncoletti, si tagliò il labbro superiore cercando di modellarsi un paio di baffi nella peluria bionda, e, dopo, tutto rimase uguale come prima, ma il laborioso processo lasciò in Amaranta l’impressione d’aver cominciato da quell’istante a invecchiare.

“Sei identico a Aureliano quando aveva la tua età,” disse. “Sei già un uomo.”

Lo era ormai da molto tempo, dal giorno già lontano in cui Amaranta credeva che fosse ancora un bambino e aveva continuato a denudarsi nel bagno davanti a lui, come aveva sempre fatto, come si era abituata a fare da quando Pilar Ternera glielo aveva affidato perché finisse di allevarlo. La prima volta che lui la vide, l’unica cosa che gli fece impressione fu il profondo solco tra i seni. Era allora così innocente che chiese cosa le fosse successo, e Amaranta finse di scavarsi il petto con la punta delle dita e rispose: “Mi hanno tolto fette e fette e fette.” Un po’ di tempo dopo, quando lei si rimise dal suicidio di Pietro Crespi e tornò a fare il bagno con Aureliano José, questi non badò più alla depressione ma provò un brivido sconosciuto alla vista dei seni splendidi coi capezzoli viola. Continuò ad esaminarla, scoprendo a palmo a palmo il miracolo della sua intimità, e si senti accapponare la pelle in quella contemplazione, come si accapponava la pelle di lei al contatto dell’acqua. Fin da quando era molto piccolo aveva l’abitudine di lasciare la sua amaca e di andare a fare l’ultimo sonno nel letto di Amaranta, il cui contatto aveva la virtù di dissipare la paura del buio. Ma dal giorno in cui aveva avuto coscienza della sua nudità, non era la paura del buio che lo spingeva a infilarsi sotto la zanzariera di lei, bensì l’ansia di sentire il respiro tiepido di Amaranta al risveglio. Un mattino, press’a poco all’epoca in cui lei respinse il colonnello Gerineldo Màrquez, Aureliano José si svegliò con la sensazione che gli mancasse l’aria. Sentì le dita di Amaranta come lombrichi caldi e ansiosi che cercavano il suo ventre. Fingendo di dormire cambiò posizione per eliminare ogni difficoltà, e allora sentì la mano senza la benda nera tuffarsi come un mollusco cieco fra le alghe della sua ansia. Anche se fingevano di ignorare ciò che entrambi sapevano, e quello che ognuno sapeva che l’altro sapeva, da quella notte rimasero vincolati da una complicità inviolabile. Aureliano José non poteva conciliare il sonno finché non sentiva il valzer delle dodici all’orologio del salotto, e la matura pulzella la cui pelle cominciava a intristire non aveva un istante di pace finché non sentiva scivolare sotto la zanzariera quel sonnambulo che lei aveva allevato non immaginando che sarebbe diventato un palliativo alla sua solitudine. E non soltanto dormirono insieme, nudi, scambiandosi estenuanti carezze, ma si inseguivano negli angoli della casa e si chiudevano nelle camere a qualsiasi ora, in un permanente stato di esaltazione senza sollievo. Furono sul punto di essere sorpresi da Ursula, un pomeriggio in cui lei entrò nel granaio proprio mentre cominciavano a baciarsi. “Vuoi molto bene a tua zia?” chiese a Aureliano José in tono innocente. Lui rispose di sì. “Fai bene,” concluse Ursula, e finì di misurare la farina del pane e tornò in cucina. Quell’episodio strappò Amaranta al suo delirio. Si rese conto d’essersi spinta troppo lontano, di non stare ormai più giocando ai bacetti con un bambino, ma diguazzando in una passione autunnale, pericolosa e senza futuro, e la troncò di netto. Aureliano José, che a quei tempi terminava la sua istruzione militare, finì per ammettere la realtà e se ne andò a dormire in caserma. Il sabato andava coi soldati nella bottega di Catarino. Si consolava della sua ispida solitudine, della sua adolescenza prematura, con donne odorose di fiori morti che lui idealizzava nella penombra e che trasformava in Amaranta con affannosi sforzi dell’immaginazione.

Poco dopo cominciarono ad arrivare notizie contraddittorie della guerra. Mentre lo stesso governo ammetteva i progressi della ribellione, gli ufficiali di Macondo ricevevano rapporti confidenziali sull’imminenza di una pace negoziata. Verso i primi di aprile, un emissario speciale si presentò al colonnello Gerineldo Màrquez Gli confermò che, effettivamente, i dirigenti del partito avevano stabilito dei contatti coi capi ribelli dell’interno, e erano alla vigilia di concordare l’armistizio in cambio di tre ministeri per i liberali, di una rappresentanza minoritaria in parlamento e della amnistia generale per i ribelli che avessero deposto le armi. L’emissario era latore di un ordine strettamente confidenziale del colonnello Aureliano Buendìa, che era in disaccordo coi termini dell’armistizio. Il colonnello Gerineldo Màrquez doveva scegliere cinque dei suoi migliori uomini e prepararsi ad abbandonare con loro il paese. L’ordine fu eseguito nel più stretto riserbo. Una settimana prima che si annunciasse l’accordo, e in mezzo a una tempesta di voci contraddittorie, il colonnello Aureliano Buendìa e dieci ufficiali di fiducia, tra i quali il colonnello Roque Carnicero, arrivarono furtivamente a Macondo dopo mezzanotte, dispersero la guarnigione, sotterrarono le armi e distrussero gli archivi. Allo spuntare del giorno avevano abbandonato il villaggio col colonnello Gerineldo Màrquez e i suoi cinque ufficiali. Fu un’operazione così rapida e segreta, che Ursula non ne venne a conoscenza che all’ultimo momento, quando qualcuno batté dei colpetti alla finestra della sua camera e mormorò: “Se vuoi vedere il colonnello Aureliano Buendìa, si affacci subito alla porta.” Ursula saltò dal letto e uscì sulla porta in camicia da notte, e riuscì appena a percepire il galoppo dei cavalli che lasciavano il villaggio in mezzo a un silenzioso polverone. Solo il giorno seguente si accorse che Aureliano José se n’era andato con suo padre.

Dieci giorni dopo l’annuncio della fine della guerra dato da un comunicato congiunto del governo e dell’opposizione, si ebbe la notizia della prima sollevazione armata del colonnello Aureliano Buendìa sulla frontiera occidentale. Le sue forze scarse e male armate furono disperse in meno di una settimana. Ma durante l’anno, mentre liberali e conservatori cercavano di fare in modo che il paese credesse alla riconciliazione, Aureliano Buendìa promosse altre sette sollevazioni. Una notte cannoneggiò Riohacha da una goletta, e la guarnigione strappò dai loro letti e fucilò per rappresaglia i quattordici liberali più noti della popolazione. Occupò per più di quindici giorni una dogana di frontiera, e da lì diresse alla nazione un appello alla guerra generale. Un’altra delle sue spedizioni si perse per tre mesi nella selva, in un insensato tentativo di attraversare più di millecinquecento chilometri di territori vergini per proclamare la guerra nei suburbi della capitale. Una volta arrivò a meno di venti chilometri da Macondo, e fu obbligato dalle pattuglie del governo ad addentrarsi nelle montagne assai vicino alla regione incantata dove suo padre aveva trovato molti anni prima il fossile di un galeone spagnolo.

In quell’epoca mori Visitación. Si prese il gusto di morire di morte naturale, dopo aver rinunciato a un trono per timore dell’insonnia, e la sua ultima volontà fu che dissotterrassero da sotto il suo letto la paga risparmiata in più di venti anni, e la mandassero al colonnello Aureliano Buendìa perché continuasse la guerra. Ma Ursula non si prese la briga di disseppellire quel denaro, perché in quei giorni correva voce che il colonnello Aureliano Buendìa fosse stato ucciso nel corso di uno sbarco vicino al capoluogo della provincia. L’annuncio ufficiale - il quarto in meno di due anni - fu tenuto per certo per quasi sei mesi, perché non si era più saputo nulla di lui. Improvvisamente, quando Ursula e Amaranta avevano già sovrapposto un nuovo lutto a quelli precedenti, arrivò una strana notizia. Il colonnello Aureliano Buendìa era vivo, ma, a quanto pareva, aveva smesso di osteggiare il governo del suo paese, e aveva aderito al federalismo trionfante in altre repubbliche dei Caraibi. Riappariva con nomi diversi sempre più lontano dalla sua terra. Più tardi, si sarebbe saputo che l’idea che allora lo animava era l’unificazione delle forze federaliste dell’America Centrale, per sbaragliare i regimi conservatori dall’Alaska fino alla Patagonia. La prima notizia diretta che Ursula ricevette da lui, diversi anni dopo che se n’era andato, fu una lettera spiegazzata e sbiadita arrivatale di mano in mano da Santiago di Cuba.

“Lo abbiamo perduto per sempre,” esclamò Ursula leggendola. “Di questo passo farà il Natale in capo al mondo.”

La persona a cui lo disse, che fu la prima a cui mostrò la lettera, era il generale conservatore José Raquel Moncada, sindaco di Macondo da quando era finita la guerra. “Quell’Aureliano,” commentò il generale Moncada, “peccato che non sia conservatore.” Lo ammirava veramente. Come parecchi civili conservatori, José Raquel Moncada aveva fatto la guerra a difesa del suo partito e aveva ottenuto il titolo di generale sul campo di battaglia, benché mancasse di vocazione militare. Al contrario, come pure molti dei suoi compagni di partito, era antimilitarista. Considerava gli uomini d’arme dei fannulloni senza principi, intriganti e ambiziosi, abili solo ad affrontare i civili per farsi strada nel disordine. Intelligente, simpatico, sanguigno, uomo di buona tavola e fanatico dei combattimenti di galli, era stato in un certo momento l’avversario più temibile del colonnello Aureliano Buendia. Riuscì a imporre la sua autorità ai militari di carriera su un ampio tratto della costa. Una volta che si vide costretto per convenienza strategica ad abbandonare una posizione alle forze del colonnello Aureliano Buendìa, gli lasciò due lettere. In una di queste, lunghissima, lo invitava a una campagna congiunta per umanizzare la guerra. L’altra lettera era per sua moglie, che viveva in territorio liberale, e la lasciò con la preghiera di farla arrivare a destinazione. Da allora, anche nei periodi più accaniti della guerra, i due comandanti concertarono tregue per scambiarsi i prigionieri. Erano pause con una certa atmosfera festiva che il generale Moncada sfruttava per insegnare il gioco degli scacchi al colonnello Aureliano Buendìa. Divennero grandi amici. Giunsero perfino a pensare alla possibilità di coordinare gli elementi popolari dei due partiti per liquidare l’influenza dei militari e dei politici di professione, e instaurare un regime umanitario che utilizzasse quanto vi era di meglio nelle due rispettive dottrine. Quando finì la guerra, mentre il colonnello Aureliano Buendìa svicolava tra le strette della sovversione permanente, il generale Moncada fu nominato correggitore di Macondo. Si mise in abiti borghesi, sostituì i militari con poliziotti disarmati, fece rispettare la legge di amnistia, e aiutò qualche famiglia di liberali morti sul campo. Ottenne che Macondo fosse eretta a municipio, e ne fu perciò il primo alcalde, e creò un’atmosfera di fiducia che fece pensare alla guerra come a un assurdo incubo del passato. Padre Nicanor, consunto dalle febbri epatiche, fu sostituito dal padre Coronel, che tutti chiamavano il Cucciolo, veterano della prima guerra federalista. Bruno Crespi, che si era sposato con Amparo Moscate, e il cui negozio di giocattoli e di strumenti musicali non smetteva di prosperare, costruì un teatro, che le compagnie spagnole inclusero nelle loro tournée. Era una vasta sala all’aperto, con sgabelli di legno, un sipario di velluto con maschere greche, e tre botteghini a forma di testa di leone dalle cui fauci spalancate si vendevano i biglietti. Fu pure in quell’epoca che si restaurò l’edificio della scuola. Ne fu incaricato don Melchior Escalona, un maestro vecchio, venuto dalla palude, che faceva camminare in ginocchio sulla ghiaia del cortile gli alunni svogliati e dava da mangiare peperoncino piccante ai chiacchieroni, col beneplacito dei genitori. Aureliano Secondo e José Arcadio Secondo, i volonterosi gemelli di Santa Sofia de la Piedad, furono i primi a sedersi in quell’aula, con le loro lavagne e i loro gessetti e i loro bicchierini di alluminio con su il nome. Remedios, erede della bellezza pura di sua madre, cominciava a essere conosciuta come Remedios la bella. Nonostante il tempo, i lutti sovrapposti e le pene accumulate, Ursula si rifiutava di invecchiare. Aiutata da Santa Sofia de la Piedad aveva dato un nuovo impulso alla sua industria di pasticceria, e non soltanto ricuperò in pochi anni la fortuna che suo figlio aveva consumato nella guerra, ma tornò altresì a inzeppare di oro puro le zucche sotterrate nella stanza da letto. “Fintanto che Dio mi dà vita,” soleva dire, “non mancheranno soldi in questa casa di pazzi.” Così stavano le cose quando Aureliano José disertò dalle truppe federaliste del Nicaragua, si arruolò nella ciurma di un bastimento tedesco, e comparve nella cuc ina della casa, massiccio come un cavallo, nero e peloso come un indio, e con la segreta determinazione di sposare Amaranta.

Quando Amaranta lo vide entrare, seppe immediatamente, senza che lui dicesse nulla, perché era tornato. A tavola non osavano guardarsi in faccia. Ma due settimane dopo il ritorno, in presenza di Ursula, Aureliano José fissò i suoi occhi in quelli di Amaranta e le disse: “Ho pensato molto a te, sempre.” Ma Amaranta lo sfuggiva. Badava ad evitare gli incontri casuali. Cercava di non separarsi da Remedios la bella. La indigno il rossore che le indorò le gote il giorno in cui il nipote le chiese fino a quando pensava di portare la benda nera sulla mano, perché interpretò quella domanda come una allusione alla sua verginità. Quando lui arrivò, lei serrò a chiavaccio l’uscio della sua stanza da letto, ma lo sentì ronfare pacificamente per così tante notti nella stanza attigua, che finì per trascurare la precauzione. Un mattino, quasi due mesi dopo il suo ritorno, lo sentì entrare nella stanza. Allora, invece di fuggire, invece di mettersi a gridare come s’era prefissa, si lasciò invadere da una dolce sensazione di abbandono. Lo sentì scivolare sotto la zanzariera, come faceva da bambino, come faceva da sempre, e non poté reprimere il sudore gelato e lo scricchiolio dei denti quando si rese conto che era completamente nudo. “Vattene,” mormorò, soffocata dalla curiosità. “Vattene o mi metto a gridare.” Ma ormai Aureliano José sapeva cosa fare, perché non era più un bambino impaurito dal buio ma un animale da accampamento. Da quella notte ricominciarono le sorde battaglie senza risultato che si prolungavano fino allo spuntare del giorno. “Sono tua zia,” mormorava Amaranta, sfinita. “È quasi come se fossi tua madre, non soltanto per l’età, ma perché mi è mancato soltanto di allattarti.” Aureliano José se la svignava all’alba e la notte dopo tornava prima che spuntasse il giorno, sempre più eccitato dalla conferma che lei non tirava il chiavaccio. Non aveva smesso di desiderarla per un solo istante. La ritrovava negli oscuri letti dei villaggi conquistati, soprattutto nei più sordidi, e la materializzava nel tanfo del sangue secco sulle bende dei feriti, nel timore istantaneo del pericolo di morte, in ogni ora e in ogni luogo. Era fuggito da lei cercando di annichilare il suo ricordo non soltanto con la distanza, ma anche con un accanimento sconsiderato che i suoi compagni di lotta definivano temerarietà, ma con più rivoltolava la sua immagine nel letamaio della guerra, con più la guerra somigliava ad Amaranta. Così soffrì l’esilio, cercando il modo di ucciderla con la sua stessa morte, finché sentì raccontare da qualcuno la vecchia storiella dell’uomo che si era sposato con una zia che era per di più anche sua cugina, e il cui figlio aveva finito per essere nonno di se stesso.

“Ma uno si può sposare con una zia?” chiese Aureliano José, sbigottito.

“Non solo può,” gli rispose un soldato, “ma noi stiamo facendo questa guerra contro i preti perché uno si possa sposare perfino con sua madre.”

Quindici giorni dopo disertò. Trovò Amaranta più appassita che nel suo ricordo, più melanconica e pudibonda, e prossima in effetti a doppiare l’ultimo capo della maturità, ma più febbrile che mai nell’oscurità della stanza e più provocante che mai nella aggressività della sua resistenza. “Sei un bruto,” gli diceva. Amaranta, incalzata dai suoi cani da presa. “Non è vero che si possa far questo a una povera zia, a meno di avere la dispensa speciale del Papa.” Aureliano José prometteva di andare a Roma, prometteva di percorrere l’Europa in ginocchio, e baciare le pantofole del Sommo Pontefice, purché lei abbassasse i ponti levatoi.

“Non è soltanto questo,” ribatteva Amaranta. “E perché nascono figli con coda di maiale.”

Aureliano José era sordo a ogni argomento.

“Anche se dovessero nascere armadilli,” supplicava.

Un mattino, vinto dal dolore insopportabile della virilità repressa, andò nella bottega di Catarino. Trovò una donna coi seni flaccidi, compiacente e di poca spesa, che gli quietò il ventre per qualche tempo. Cercò di usare con Amaranta il sistema dell’indifferenza. La vedeva nel portico, intenta a cucire su una macchina a manovella che aveva imparato ad adoperare con abilità ammirevole, e non le rivolgeva nemmeno la parola. Amaranta si sentì liberata da una zavorra, e lei stessa non capì perché mai era tornata a pensare al colonnello Gerineldo Márquez, perché evocava con tanta nostalgia i pomeriggi di dama cinese, e perché arrivò perfino a desiderarlo come uomo da letto. Aureliano José non si immaginava quanto terreno avesse perso, la notte in cui non poté più esistere alla farsa dell’indifferenza, e tornò nella stanza di Amaranta. Lei lo respinse con una risolutezza inflessibile, inequivocabile, e serrò per sempre il chiavaccio dell’uscio.

Pochi mesi dopo il ritorno di Aureliano José, si presentò in casa una donna esuberante, profumata di gelsomino, con un bambino di circa cinque anni. Affermò che era figlio del colonnello Aureliano Buendìa e lo portava perché Ursula lo battezzasse. Nessuno mise in dubbio l’origine di quel bambino senza nome : era uguale al colonnello ai tempi in cui lo avevano portato a conoscere il ghiaccio. La donna raccontò che era nato con gli occhi aperti e guardando la gente col criterio d’una persona grande; la spaventava quel suo modo di fissare lo sguardo sulle cose senza batter ciglio. “È identico,” disse Ursula. “Manca soltanto che faccia girare le sedie al solo guardarle.” Lo battezzarono col nome di Aureliano, e col cognome di sua madre, perché la legge non gli permetteva di portare il cognome del padre fintanto che questi non lo avesse riconosciuto. Il generale Moncada fece da padrino. Benché Amaranta insistesse che glielo lasciassero per finire di allevarlo, la madre si oppose.

Ursula ignorava in quei tempi l’abitudine di mandar donzelle nel letto dei guerrieri, come si mettono le galline sotto i galli di razza, ma nel corso di quell’anno l’apprese: altri nove figli del colonnello Aureliano Buendìa furono portati in casa per essere battezzati. Il maggiore aveva passato i dieci anni ed era uno strano moretto con gli occhi verdi che non aveva nulla della famiglia paterna. Portarono bambini di ogni età, di ogni colore, ma tutti maschi, e tutti con un’aria di solitudine che non permetteva di mettere in dubbio la parentela. Solo due si distinsero dal mucchio. Uno, troppo grande per la sua età, che fece a pezzi i vasi da fiori e vari pezzi di vasellame, perché le sue mani sembravano avere la proprietà di fracassare tutto quello che toccavano. L’altro era un biondo con gli stessi occhi azzurri di sua madre: gli avevano lasciato i capelli lunghi e i buccolotti come una donna. Entrò nella casa con molta familiarità, come se vi fosse stato allevato, andò dritto verso una cassapanca della stanza da letto di Ursula, e pretese: “Voglio la ballerina a molla.” Ursula si spaventò. Aprì la cassapanca, frugò tra gli antiquati e polverosi oggetti dei tempi di Melquìades e trovò avvolta in un paio di calze la ballerina a molla che una volta Pietro Crespi aveva portato in casa, e della quale ormai nessuno si ricordava più. In meno di dodici anni battezzarono col nome di Aureliano, e col cognome della madre, tutti figli che il colonnello aveva disseminato in lungo e in largo nei suoi territori di guerra: diciassette. Sulle prime, Ursula riempiva loro le tasche di soldi e Amaranta tentava di farseli lasciare. Ma più tardi si limitarono a far loro un regalo e a servire da madrine. “Abbiamo fatto il nostro dovere battezzandoli, diceva Ursula, annotando su un libretto il nome e l’indirizzo delle madri e il luogo e la data di nascita dei bambini. “Aureliano avrà ben fatto i suoi conti, e così sarà lui a prendere le decisioni quando tornerà.” Durante un pranzo, commentando col generale Moncada quella sconcertante prolificazione, espresse il desiderio che il colonnello Aureliano Buendìa potesse tornare un giorno per nutrire tutti i suoi figli nella casa.

“Non si preoccupi, comare,” disse enigmaticamente il generale Moncada. “Verrà più presto di quello che lei si immagina.”

Quello che il generale Moncada sapeva, e che non volle rivelare durante il pranzo, era che il colonnello Aureliano Buendìa era già in procinto di mettersi alla testa della rivolta più prolungata, radicale e sanguinosa di quante ne erano state provocate fino a quel momento.

La situazione tornò a essere tesa come nei mesi che avevano preceduto la prima guerra. I combattimenti dei galli, promossi dallo stesso sindaco, furono sospesi. Il capitano Aquiles Ricardo, comandante della guarnigione, assunse in pratica il potere municipale. I liberali lo considerarono come un provocatore. “Succederà qualcosa di terribile,” diceva Ursula a Aureliano José. “Non uscire in strada dopo le sei di sera.” Tutte suppliche inutili. Aureliano José, proprio come Arcadio in altri tempi, non le apparteneva più. Era come se il ritorno a casa, la possibilità di esistere senza preoccuparsi delle necessità quotidiane, avessero destato in lui la vocazione concupiscente e accidiosa di suo zio José Arcadio. La sua passione per Amaranta si estinse senza lasciare cicatrici. Andava un po’ alla deriva, giocando a biliardo, alleviando la sua solitudine con donne occasionali, saccheggiando gli angoli dove Ursula dimenticava il denaro. Finì per non tornare a casa altro che per cambiarsi. “Sono tutti uguali,” si lagnava Ursula. “Sulle prime crescono bene, sono ubbidienti ed educati, e sembrano incapaci di ammazzare una mosca, e appena gli cresce la barba si buttano alla perdizione.” Al contrario di Arcadio, che non aveva mai saputo la sua vera origine, lui venne a sapere di essere figlio di Pilar Ternera, che gli aveva appeso un’amaca perché facesse la siesta nella sua casa. Erano, più che madre e figlio, complici nella solitudine. Pilar Ternera aveva perduto la traccia di ogni speranza. La sua risata aveva acquistato tonalità di organo, i suoi seni avevano ceduto al tedio delle carezze occasionali, il suo ventre e le sue cosce erano state vittime del suo irrevocabile destino di donna spartita, ma il suo cuore invecchiava senza amarezza. Grassa, linguacciuta, con arie da matrona in disgrazia, rinunciò all’illusione sterile delle carte e trovò una gora di consolazione negli amori altrui. Nella casa dove Aureliano José faceva la siesta, le ragazze dei dintorni ricevevano i loro amanti casuali. “Mi presti la stanza, Pilar,” le dicevano semplicemente, quando si trovavano già dentro. “Naturalmente,” diceva Pilar. E se qualcuno era presente, gli spiegava:

“Sono felice sapendo che la gente è felice a letto.” Non si faceva mai pagare il servizio. Non rifiutava mai il favore, come non lo rifiutò agli incalcolabili uomini che la cercavano perfino nel crepuscolo della sua maturità, senza darle né denaro né amore, e solo qualche volta piacere. Le sue cinque figlie, eredi di un seme ardente, si persero per i meandri della vita fin dall’adolescenza. Dei due maschi che riuscì ad allevare, uno morì combattendo con le truppe del colonnello Aureliana Buendìa e l’altro fu ferito e catturato quando aveva quattordici anni, mentre tentava di rubare una gabbia di galline in un villaggio della palude. In un certo modo, Aureliano José fu l’uomo alto e bruno che per mezzo secolo le aveva annunciato il re di coppe, e che come tutti gli inviati delle carte arrivò al suo cuore quando era già marcato dal segno della morte. Lei lo lesse nelle carte.

“Non uscire questa notte,” gli disse. “Rimani a dormire qui, Carmelita Montiel mi ha pregato e ripregato di mettertela nel letto.”

Aureliano José non captò il profondo significato di supplica che aveva quella offerta.

“Dille che mi aspetti a mezzanotte,” rispose.

Andò a teatro: una compagnia spagnola rappresentava II pugnale di Zorro, che in realtà era Il pugnale del Goto di Zorrilla col titolo cambiato per ordine del capitano Aquiles Ricardo, perché i liberali chiamavano goti i conservatori. Solo nel momento di consegnare il biglietto alla porta, Aureliano si rese conto che il capitano Aquiles Ricardo, con due soldati armati di fucile, stava perquisendo il pubblico. “Attento, capitano,” lo avvertì Aureliano José. “Non è ancora nato l’uomo che mi metterà le mani addosso.” Il capitano cercò di perquisirlo con la forza e Aureliano José, che era disarmato, si buttò a correre. I soldati non ubbidirono all’ordine di sparare. “È un Buendìa, spiegò uno di loro. Accecato dall’ira, il capitano gli strappò il fucile, si mise a gambe larghe in mezzo alla strada, e prese la mira.

“Cornuti!” riuscì a gridare. “Magari fosse il colonnello Aureliano Buendìa.”

Carmelita Montiel, vergine ventenne, aveva appena finito di profumarsi d’acqua di zagara e stava spargendo foglie di ramerino nel letto di Pilar Ternera, quando si udì lo sparo. Il destino di Aureliano José era di conoscere con lei la felicità che gli aveva rifiutato Amaranta, di avere sette figli e di morire di vecchiaia tra le sue braccia, ma la pallottola di fucile che gli entrò nella schiena e gli schiantò il petto era stata diretta da una errata interpretazione delle carte. Il predestinato a morire quella notte era in realtà il capitano Aquiles Ricardo - e morì effettivamente quattro ore prima di Aureliano José. Non appena rimbombò lo sparo fu abbattuto da due scariche simultanee, di cui non si stabilì mai l’origine, e il grido d’una folla immensa fece tremare la notte.

“Viva il partito liberale! Viva il colonnello Aureliano Buendìa!”

Alle dodici, quando Aureliano José fini di dissanguarsi e Carmelita Montiel trovò in bianco le carte del suo avvenire, più di quattrocento uomini erano sfilati davanti al teatro e avevano scaricato le loro pistole contro il cadavere abbandonato del capitano Aquiles Ricardo. Fu necessario l’intervento di una pattuglia per mettere su un carretto il corpo imbottito di piombo, che si disfaceva come pane inzuppato.

Contrariato per le angherie dell’esercito regolare, il generale José Raquel Moncada mobilitò le sue influenze, politiche, tornò a indossare l’uniforme e assunse il comando civile e militare di Macondo. Non si aspettava, comunque, che il suo atteggiamento conciliante potesse impedire l’inevitabile. Le notizie di settembre furono contraddittorie. Mentre il governo assicurava di aver in mano il controllo del paese, i liberali ricevevano informazioni segrete di sommosse armate nell’interno. Il regime non ammise lo stato di guerra finché non si proclamò in un bando che era stato convocato il consiglio di guerra e che aveva condannato a morte in contumacia il colonnello Aureliano Buendìa. Si ordinava di eseguire la sentenza alla prima guarnigione che lo avesse catturato vivo. “Questo vuol dire che è tornato,” si rallegrò Ursula col generale Moncada. Ma neanche lui lo sapeva .

In realtà, il colonnello Aureliano Buendìa era nel paese da più di un mese. Preceduto da voci contraddittorie, segnalato nello stesso momento in luoghi lontanissimi tra loro, neanche il generale Moncada credette al suo ritorno finché non venne l’annuncio ufficiale che Buendìa si era impossessato di due stati della costa. “Mi rallegro con lei, comare,” disse a Ursula, mostrandole il telegramma. “Fra poco lo avrà qui.” Allora Ursula per la prima volta si preoccupò. “E lei cosa farà, compare?” chiese. Il generale Moncada si era posta parecchie volte la stessa domanda.

“La stessa cosa che farà lui, comare,” rispose: “compirò il mio dovere:”

Il primo ottobre, allo spuntare del giorno, il colonnello Aureliano Buendìa con mille uomini bene armati attaccò Macondo e la guarnigione ricevette l’ordine di resistere fino alla fine. A mezzogiorno, mentre il generale Moncada pranzava con Ursula, una cannonata ribelle, che rimbombò in tutto il borgo, polverizzò la facciata della tesoreria municipale. “Sono bene armati quanto noi,” sospirò il generale Moncada, “ma combattono con maggiore lena.” Alle due del pomeriggio, mentre la terra tremava per le cannonate di ambedue le parti, si accomiatò da Ursula con la certezza di star combattendo una battaglia perduta.

“Prego Dio che lei non abbia Aureliano in casa, questa notte, disse. “Se così fosse, gli dia un abbraccio da parte mia, perché credo che io non lo vedrò mai più.”

Fu catturato quella notte mentre cercava di fuggire da Macondo, dopo aver scritto una lunga lettera al colonnello Buendìa, nella quale gli ricordava i comuni propositi di umanizzare la guerra, e gli augurava una vittoria definitiva contro la corruzione dei militari e le ambizioni dei politici di ambedue i partiti. Il giorno dopo il colonnello Aureliano Buendìa pranzò con lui in casa di Ursula, e ivi fu recluso fintanto che un consiglio di guerra rivoluzionario non avesse deciso il suo destino. Fu una riunione familiare. Ma mentre gli avversari dimenticavano la guerra per evocare ricordi del passato, Ursula ebbe l’oscura impressione che suo figlio, lì, fosse un intruso. L’aveva avuta da quando lo vide entrare protetto da un rumoroso apparato militare che buttò sossopra tutte le stanze finché non si convinsero che non c’era nessun pericolo. Il colonnello Aureliano Buendìa non solo lasciò fare, ma impartì per di più ordini di drastica severità, e non permise a nessuno, nemmeno ad Ursula, di avvicinarglisi a meno di tre metri finché la sua scorta non avesse finito di stendere intorno alla casa un cordone di sentinelle. Portava un’uniforme di drill ordinario, senza gradi né niente, e stivali alti con speroni incrostati di fango e di sangue secco. Portava alla cintura una pistola con la fondina slacciata e la mano sempre appoggiata al calcio rivelava la stessa tensione vigile e decisa dello sguardo. La testa, ora scavata e rinsecchita, sembrava cotta in un forno a fuoco lento. La pelle del volto conciata dal sale dei Caraibi aveva acquistato una durezza metallica. Era preservato contro la vecchiaia imminente da una vitalità che era certo in relazione con la freddezza delle sue viscere. Era più alto di quando se n’era andato, più pallido e ossuto, e manifestava i primi sintomi di resistenza alla nostalgia. “Dio mio,” disse tra sé Ursula, spaventata. “Ora sembra un uomo capace di tutto.” Lo era. Lo scialle azteco che aveva portato ad Amaranta, le cose che rie vocò durante il pranzo, gli aneddoti divertenti che raccontò, non erano altro che ceneri spente del suo spirito d’altra epoca. Non appena eseguito l’ordine di seppellire i morti nella fossa comune, assegnò al colonnello Roque Carnicero la missione di affrettare i processi di guerra, e lui si assunse l’estenuante compito di imporre le riforme radicali destinate a non lasciar traccia della logora struttura del regime conservatore. “Dobbiamo precedere i politicanti del partito,” diceva ai suoi aiutanti. “Quando apriranno gli occhi sulla realtà si troveranno davanti al fatto compiuto.” Fu allora che decise di rivedere i titoli di proprietà della terra, risalendo a cento anni prima, e scoprì i soprusi legalizzati di suo fratello José Arcadio. Annullò le registrazioni con un colpo di penna. In un ultimo gesto di cortesia, trascurò le sue faccende per un’ora e andò a trovare Rebeca per metterla al corrente della sua decisione.

Nella penombra della casa, la vedova solitaria che un tempo era stata la confidente dei suoi amori repressi, e la cui ostinazione gli aveva salvato la vita, era uno spettro del passato. Corazzata di nero fino ai polsi, col cuore ridotto in cenere, non aveva avuto che qualche vaga notizia della guerra. Il colonnello Aureliano Buendìa ebbe l’impressione che la fosforescenza delle ossa trapassasse la sua pelle, e che la donna si movesse attraverso un’atmosfera di fuochi fatui; in un’aria stagnante dove, si percepiva ancora un recondito odore di polvere da sparo. Cominciò col consigliarle di moderare il rigore del suo lutto, di ventilare la casa, di perdonare al mondo la morte di José Arcadio. Ma Rebeca era ormai al sicuro da qualsiasi vanità. Dopo averla cercata inutilmente nel sapore della terra, nelle lettere profumate di Pietro Crespi, nel letto tempestoso di suo marito, aveva trovato la pace in quella casa dove i ricordi si materializzavano con la forza dell’evocazione implacabile, e vagavano come esseri umani per le stanze accecate. Rigida nella sua sedia a dondolo di vimini, fissando il colonnello Aureliano Buendìa come se fosse anche lui uno spettro del passato, Rebeca non si turbò nemmeno alla notizia che le terre usurpate da José Arcadio sarebbero state restituite ai loro proprietari legittimi.

“Si farà quello che tu disponi, Aureliano,” sospirò. “Ho sempre creduto, e ne ho ora la conferma, che tu sei un senza casta.”

La revisione dei titoli di proprietà venne realizzata contemporaneamente ai processi sommari, presieduti dal colonnello Gerineldo Màrquez, che si conclusero con la fucilazione di tutti gli ufficiali dell’esercito regolare prigionieri dei rivoluzionari. L’ultimo consiglio di guerra si riunì per il generale José Raquel Moncada. Ursula intervenne. “È il miglior governante che abbiamo avuto a Macondo,” disse al colonnello Aureliano Buendìa. “Non ho nemmeno bisogno di parlarti del suo buon cuore, dell’affetto che ci porta, perché tu lo conosci meglio di chiunque altro.” Il colonnello Aureliano Buendìa le rivolse uno sguardo di biasimo:

“Non posso arrogarmi la facoltà di amministrare la giustizia,” ribatté. “Se lei ha qualcosa da dire, lo dica davanti al consiglio di guerra.”

Ursula non solo lo fece, ma portò con sé tutte le madri degli ufficiali rivoluzionari che vivevano a Macondo. Ad una ad una, le vecchie fondatrici del villaggio, parecchie delle quali avevano partecipato alla temeraria traversata della sierra, esaltarono le virtù del generale Moncada. Ursula fu l’ultima della sfilata. La dignità del suo lutto, il peso del suo nome, la convincente veemenza della sua dichiarazione fecero vacillare per un attimo la bilancia della giustizia. “Voi avete preso molto sul serio questo gioco spaventoso, e avete fatto bene, perché state facendo il vostro dovere,” disse ai membri del tribunale. “Ma non dimenticate che finché Dio ci dà vita, noi continueremo a essere madri, e che, rivoluzionari o no, abbiamo il diritto di tirarvi giù i pantaloni e prendervi a sculacciate alla prima mancanza di rispetto.” La giuria si ritirò per deliberare mentre ancora echeggiavano queste parole nella scuola trasformata in caserma. A mezzanotte, il generale José Raquel Moncada fu condannato a morte. Il colonnello Aureliano Buendìa, nonostante le violente recriminazioni di Ursula, si rifiutò di commutargli la pena. Poco prima dello spuntar del giorno, andò a far visita al condannato in cella.

“Ricordati, compare,” gli disse, “che non ti fucilo io. Ti fucila la rivoluzione.”

Il generale Moncada non si alzò nemmeno dalla branda quando lo vide entrare.

“Va’ a cagare, compare,” ribatté.

Fino a quel momento, dal suo ritorno, il colonnello Aureliano Buendìa non si era mai concesso l’agio di guardarlo per bene. Si stupì di trovarlo così invecchiato, del tremito delle sue mani, della rassegnazione un po’ abitudinaria con la quale aspettava la morte, e allora provò per se stesso un profondo disprezzo, che scambiò per un principio di misericordia.

“Sai meglio di me,” disse, “che tutti i tribunali di guerra sono una farsa, e che in realtà tu paghi per i delitti degli altri, perché questa volta vinceremo la guerra a qualunque costo. Tu, al mio posto, non avresti fatto lo stesso?”

Il generale Moncada si alzò a sedere sul letto per pulire i grossi occhiali di tartaruga con la falda della camicia. “Probabilmente,” disse. “Ma quello che mi preoccupa non è che mi fai fucilare, perché in fondo, per la gente come noi, questa è la morte naturale.” Posò gli occhiali sui letto e si tolse l’orologio a cipolla. “Quello che mi preoccupa,” aggiunse, “è che a furia di odiare i militari, a furia di combatterli, a furia di pensare a loro, hai finito per essere uguale a loro. E nella vita non esiste un ideale che meriti tanta abiezione.” Si sfilò l’anello matrimoniale e la medaglia della Vergine de los Remedios e li mise vicino agli occhiali e all’orologio.

“Di questo passo,” concluse, “non soltanto sarai il dittatore più dispotico e sanguinario della nostra storia, ma farai anche fucilare Ursula per metterti in pace la coscienza.”

Il colonnello Aureliano Buendìa rimase impassibile. Allora il generale Moncada gli consegnò gli occhiali, la medaglia, l’orologio e l’anello, e cambiò tono.

“Ma non ti ho fatto venire per rimproverarti,” disse. “Vorrei pregarti di farmi il favore di mandare queste cose a mia moglie.”

Il colonnello Aureliano Buendìa mise gli oggetti in tasca.

“È sempre a Manaure?”

“È sempre a Manaure,” confermò il generale Moncada, “nella stessa casa dietro la chiesa dove hai mandato quella lettera.”

“Lo farò con molto piacere, José Raquel,” disse. il colonnello Aureliano Buendìa.

Quando uscì nell’aria cilestrina di nebbia, il viso gli si inumidì come in un’altra alba del passato, e soltanto allora comprese perché aveva ordinato che la sentenza si eseguisse nel patio, e non contro il muro del cimitero. Il plotone, schierato davanti alla porta, gli rese gli onori di capo di stato.

“Andate pure a prenderlo,” ordinò.

 Il colonnello Gerineldo Màrquez fu il primo ad accorgersi del vuoto in cui era caduta la guerra. Nella sua qualità di capo civile e militare di Macondo aveva due volte alla settimana delle conversazioni telegrafiche col colonnello Aureliano Buendìa. Al principio, quei colloqui determinavano il corso di una guerra in carne e ossa i cui contorni perfettamente definiti permettevano di stabilire in qualsiasi momento il punto esatto dove si trovava, e prevedere le sue mete future. Benché non si lasciasse mai trascinare sul terreno delle confidenze, nemmeno dai suoi amici più prossimi, il colonnello Aureliano Buendìa conservava allora il tono familiare che consentiva di riconoscerlo all’altra estremità della linea. Molte volte prolungava le conversazioni al di là del termine previsto e le lasciava derivare verso commenti di carattere domestico. A poco a poco, però, e a misura che la guerra si andava intensificando ed estendendo, la sua immagine si andò offuscando in un universo di irrealtà. I punti e le linee della sua voce erano sempre più remoti e incerti, e si univano e combinavano a formare parole che a poco a poco persero ogni significato. Il colonnello Gerineldo Màrquez si limitava allora ad ascoltare, turbato dalla sensazione di essere in contatto telegrafico con uno sconosciuto di un altro mondo.

“Capito, Aureliano,” concludeva picchiando sul tasto del telegrafo. “Viva il partito liberale!”

Finì per perdere ogni contatto con la guerra. Quella che in altri tempi era stata una attività reale, una passione irresistibile della sua gioventù, si trasformò per lui in una relazione remota: un vuoto. Il suo unico rifugio era la stanza da lavoro di Amaranta. Le andava a far visita tutti i pomeriggi. Gli piaceva contemplare le sue mani intente ad arricciare nubi di merletti sulla macchina a manovella che faceva girare Remedios la bella. Trascorrevano molte ore senza parlare, accontentandosi della compagnia reciproca, ma mentre Amaranta si compiaceva intimamente di mantener vivo il fuoco della sua devozione, lui ignorava quali fossero i segreti disegni di quel cuore indecifrabile. Quando si conobbe la notizia del suo ritorno, Amaranta s’era sentita soffocare dall’ansia. Ma quando se lo vide entrare in casa confuso tra la rumorosa scorta del colonnello Aureliano Buendìa, e lo vide travagliato dal rigore dell’esilio, invecchiato dall’età e dall’oblio, sudicio di sudore e di polvere, con addosso un odore di gregge, brutto, col braccio sinistro al collo, si sentì svenire per la delusione. “Dio mia,” pensò, “non era quest’uomo che aspettavo.” Il giorno dopo, però, le ricomparve in casa sbarbato e pulito, coi baffi profumati d’acqua di lavanda e senza la fascia insanguinata. Le portava un breviario rilegato di madreperla.

“Che strani sono gli uomini,” disse lei, perché non trovò altro da dire. “Passano la vita a combattere contro i preti e regalano libri di preghiere.”

Da allora, anche nei giorni più critici della guerra, venne a farle visita tutti i pomeriggi. Molte volte, quando non era presente Remedios la bella, era lui che girava la ruota della macchina per cucire. Amaranta si sentiva turbata dalla perseveranza, dalla lealtà, dalla sottomissione di quell’uomo investito di tanta autorità, che tuttavia si spogliava delle armi in salotto per entrare indifeso nella stanza da lavoro. Ma per quattro anni lui le reiterò il suo amore, e lei trovò sempre il modo di respingerlo senza offenderlo, perché malgrado non riuscisse ad amarlo ormai non poteva vivere senza di lui. Remedios la bella che sembrava indifferente a tutto, e che si pensava fosse ritardata mentale, non restò insensibile a tanta devozione, e intervenne in favore del colonnello Gerineldo Màrquez. Amaranta scoprì improvvisamente che quella bambina allevata da lei e che appena si affacciava all’adolescenza, era già la creatura più bella che si fosse mai vista a Macondo. Sentì rinascere nel suo cuore il rancore che in altri tempi aveva provato contro Rebeca, e pregando Dio che non la costringesse ad augurarle la morte, la bandì dalla stanza da lavoro. Fu in quel periodo che il colonnello Gerineldo Màrquez cominciò a sentire la noia e il disgusto della guerra. Fece appello alle sue riserve di persuasione, alla sua immensa e repressa dolcezza, disposto a rinunciare per Amaranta a una gloria che gli era costata il sacrificio dei suoi anni migliori, Ma non riuscì a convincerla. Un pomeriggio di agosto, oppressa dal peso insopportabile della sua stessa ostinazione, Amaranta si chiuse in camera a piangere la sua solitudine fino alla morte, dopo aver dato la risposta definitiva al suo tenace pretendente:

“Dimentichiamoci per sempre,” gli disse, “ormai siamo troppo vecchi per queste cose.”

Il colonnello Gerineldo Màrquez rispose quel pomeriggio a una chiamata telegrafica del colonnello Aureliano Buendìa. Fu una conversazione di routine, destinata a non aprire nessun nuovo spiraglio nella guerra. Alla fine, il colonnello Gerineldo Màrquez guardò le strade desolate, l’acqua cristallizzata sui mandorli, e si trovò perduto nella solitudine.

“Aureliano,” disse tristemente nel tasto trasmettitore, “a Macondo sta piovendo.”

Ci fu un lungo silenzio sulla linea. Improvvisamente, saltarono le apparecchiature sotto i segni spietati del colonnello Aureliano Buendìa.

“Non fare lo stronzo, Gerineldo,” dissero i segni. “È naturale che in agosto piova.”

Non si vedevano da così tanto tempo, che il colonnello Gerineldo Màrquez fu sconcertato dall’aggressività di quella reazione. Tuttavia, due mesi dopo, quando il colonnello Aureliano Buendìa tornò a Macondo, il turbamento si trasformò in stupore. Perfino Ursula si meravigliò di quanto era cambiato. Arrivò senza fracasso, senza scorta, avvolto in un mantello nonostante il caldo, e con tre amanti che sistemò in una stessa casa, dove passava la maggior parte del tempo disteso in un’amaca. Leggeva a malapena i dispacci telegrafici che parlavano di operazioni senza importanza. Una volta il colonnello Gerineldo Màrquez gli chiese istruzioni per l’evacuazione di una località di frontiera, che minacciava di trasformarsi in un incidente internazionale.

“Non seccarmi per delle sciocchezze,” gli ordinò lui. “Consultati con la Divina Provvidenza.”

Era forse il momento critico della guerra. I latifondisti liberali, che sulle prime appoggiavano la rivoluzione, avevano firmato alleanze segrete coi latifondisti conservatori per impedire la revisione dei titoli di proprietà. I politici che capitalizzavano la guerra dall’esilio avevano ripudiato pubblicamente le risoluzioni drastiche del colonnello Aureliano Buendìa, ma perfino quell’esautoramento sembrava non preoccuparlo. Non aveva più ripreso la lettura dei suoi versi, che comprendevano più di cinque tomi, e che rimanevano dimenticati in fondo al baule. Di notte, o nell’ora della siesta, chiamava nell’amaca una delle sue donne e otteneva da lei una soddisfazione rudimentale, e poi si addormentava di un sonno di sasso che non era turbato dal minimo indizio di preoccupazione. Soltanto lui sapeva allora che il suo cuore stordito era condannato per sempre all’incertezza. Sulle prime, ubriacato dalla gloria del ritorno, dalle vittorie inverosimili, si era affacciato all’abisso della grandezza. Si compiaceva di tenere alla sua destra il duca di Marlborough, suo grande maestro nelle arti della guerra, la cui bardatura di pelli e unghie di tigre suscitava il rispetto degli adulti e l’ammirazione dei bambini. Fu in quell’epoca che decise che nessun essere umano, nemmeno Ursula, gli si avvicinasse a meno di tre metri. Nel centro del cerchio di gesso che i suoi aiutanti di campo tracciavano dovunque egli arrivasse, e nel quale soltanto lui poteva entrare, decideva con ordini brevi e inappellabili il destino del mondo. La prima volta che andò a Manaure dopo la fucilazione del generale Moncada si affrettò a compiere le ultime volontà della sua vittima, e la vedova ricevette gli occhiali, la medaglia, l’orologio e l’anello, ma non gli permise di oltrepassare la soglia.

“Non entri, colonnello,” gli disse. “Nella sua guerra comanderà lei, ma nella mia casa comando io.”

Il colonnello Aureliano Buendìa non dimostrò nessun segno di rancore, ma il suo spirito trovò pace soltanto quando la sua guardia personale saccheggiò e ridusse in cenere la casa della vedova. “Fa attenzione al cuore, Aureliano,” gli diceva allora il colonnello Gerineldo Màrquez. “Stai marcendo vivo.” In quell’epoca convocò una seconda assemblea dei principali comandanti ribelli. Trovò di tutto: idealisti, ambiziosi, avventurieri, risentiti sociali e perfino delinquenti comuni. C’era, tra gli altri, un vecchio funzionario conservatore che aveva trovato nella ribellione scampo a un processo per malversazione di fondi. Molti non sapevano nemmeno perché combattevano. In mezzo a quella folla eterogenea, le cui diversità di criterio furono lì lì per provocare un’esplosione interna, spiccava un’autorità tenebrosa: il generale Teòfilo Vargas. Era un indio puro, selvatico, analfabeta, dotato di una malizia taciturna e di una vocazione messianica che suscitava nei suoi uomini un fanatismo demente. Il colonnello Aureliano Buendìa promosse la riunione col proposito di unificare il comando ribelle contro le manovre dei politici. Il generale Teòfilo Vargas prevenne i suoi piani: in poche ore sgominò la coalizione dei comandanti più qualificati e si impadronì del comando centrale. “È una belva da tener d’occhio,” disse il colonnello Aureliano Buendìa ai suoi ufficiali. “Per noi, quell’uomo è più pericoloso del Ministro della Guerra.” Allora un capitano assai giovane che si era sempre distinto per la sua timidezza alzò cautamente un indice:

“È molto semplice, colonnello,” propose, “non c’è che da ammazzarlo.”

Il colonnello Aureliano Buendìa non si turbò per la freddezza della proposta, ma per il modo in cui aveva anticipato per una frazione di secondo il suo stesso pensiero.

“Non vi aspettate che io dia quell’ordine,” disse.

Non lo diede, in effetti. Ma quindici giorni dopo il generale Teòfilo Vargas fu fatto a pezzi a colpi di machete in un’imboscata, e il colonnello Aureliano Buendìa assunse il comando centrale. La stessa notte in cui la sua autorità fu riconosciuta da tutti i comandi ribelli, si destò di soprassalto, urlando che voleva una coperta. Un gelo interno che gli incrinava le ossa e lo mortificava perfino in pieno sole gli impedì di dormire bene per parecchi mesi, finché se ne fece un’abitudine. L’ebbrezza del potere cominciò a decomporsi in raffiche di disagio. Cercando un rimedio contro il freddo, fece fucilare il giovane ufficiale che aveva proposto l’assassinio del generale Teòfilo Vargas. I suoi ordini si realizzavano prima di essere impartiti, prima ancora che lui li concepisse, e giungevano sempre molto lontano della meta a cui egli avrebbe osato farli arrivare. Smarrito nella solitudine del suo immenso potere, cominciò a perdere la rotta. Gli dava fastidio la gente che lo acclamava nei villaggi conquistati, gli sembrava la stessa gente che aveva prima acclamato il nemico. Dovunque trovava adolescenti che lo guardavano coi suoi stessi occhi, che parlavano con la sua stessa voce, che lo salutavano con la stessa diffidenza con la quale lui salutava loro, e che dicevano di essere suoi figli. Si sentì disperso, ripetuto, e più solitario che mai. Ebbe la convinzione che i suoi stessi ufficiali gli mentissero. Litigò col duca di Marlborough. “Il migliore amico,” soleva dire allora, “è quello che è appena morto.” Si stancò dell’incertezza, del circolo vizioso di quella guerra eterna che lo ritrovava sempre nello stesso luogo, ma ogni volta più vecchio, più sfinito, più ignaro del perché, del come, del fino a quando. C’era sempre qualcuno fuori dal cerchio di gesso. Qualcuno che aveva bisogno di soldi, che aveva un figlio con la tosse asinina o che voleva andarsene a dormire per sempre perché non poteva più sopportare nella bocca il sapore di merda della guerra e che, ciò nonostante, si metteva sull’attenti con le sue ultime riserve di energia per informare: “Tutto normale, signor colonnello.” E la normalità era proprio la cosa più spaventosa di quella guerra infinita: che non succedeva nulla. Solo, abbandonato dai presagi, cercando di sfuggire al freddo che lo avrebbe accompagnato fino alla morte, cercò un ultimo rifugio a Macondo, al calore dei suoi ricordi più antichi. Era così grave la sua accidia che quando gli annunciarono l’arrivo di una commissione del suo partito autorizzata a discutere sul bivio a cui era arrivata la guerra, lui si rigirò nell’amaca senza svegliarsi del tutto.

“Portateli a puttane,” disse.

Erano sei avvocati in finanziera e cilindro che sopportavano con duro stoicismo il crudo sole di novembre. Ursula li ospitò nella casa. Passavano la maggior parte della giornata chiusi in camera, in conciliaboli ermetici, e verso sera chiedevano una scorta e un complesso di fisarmoniche e si insediavano nella bottega di Catarino. “Non molestateli,” ordinava il colonnello Aureliano Buendìa. “In fondo in fondo, io so cosa vogliono.” Verso i primi di dicembre, il colloquio lungamente atteso, che molti prevedevano sarebbe stata una discussione interminabile, si risolse in meno di un’ora.

Nel soffocante salotto buono, vicino allo spettro della pianola insudariata con un lenzuolo bianco, il colonnello Aureliano Buendìa non si mise quella volta dentro il circolo di gesso che avevano tracciato i suoi aiutanti di campo. Si sedette tra i suoi consiglieri politici, e avvolto nella coperta di lana ascoltò in silenzio le succinte proposte de gli emissari. Chiedevano, per prima cosa, di rinunciare alla revisione dei titoli di proprietà della terra per ricuperare l’appoggio dei latifondisti liberali. Chiedevano, poi, di rinunciare alla lotta anticlericale per ottenere l’appoggio del popolo cattolico. Chiedevano, per ultimo, di rinunciare alle aspirazioni all’uguaglianza di diritti tra figli naturali e legittimi per preservare l’integrità delle famiglie.

“Vuoi dire,” sorrise il colonnello Aureliano Buendìa, “che stiamo lottando soltanto per il potere.”

“Sono riforme tattiche,” ribatté uno dei delegati. “Per ora, la cosa essenziale è allargare la base popolare della guerra. Poi vedremo.”

Uno dei consiglieri politici del colonnello Aureliano Buendìa si affrettò a intervenire.

“È un controsenso,” disse. “Se queste riforme sono buone, vuol dire che è buono il regime conservatore. Se adottandole riusciremo ad allargare la base popolare della guerra, come dite voi, vuoi dire che il regime ha un’ampia base popolare. Vuol dire, in sintesi, che per quasi vent’anni abbiamo continuato a combattere contro i sentimenti della nazione.”

Stava per continuare, ma il colonnello Aureliano Buendìa lo interruppe con un cenno. “Non perda tempo, dottore,” disse. “La cosa importante è che da questo momento lottiamo soltanto per il potere.” Senza smettere di sorridere, prese i documenti che gli consegnarono i delegati e si preparò a firmare.

“Dato che le cose stanno così,” concluse, “non abbiamo alcun inconveniente ad accettare.”

I suoi uomini si guardarono costernati.

“Mi perdoni, colonnello,” disse lentamente il colonnello Gerineldo Màrquez, “ma questo è un tradimento.”

Il colonnello Aureliano Buendìa trattenne in aria la penna intinta, e scaricò su di lui tutto il peso della sua autorità.

“Mi consegni le sue armi,” ordinò.

Il colonnello Gerineldo Màrquez si alzò e mise le armi sul tavolo.

“Si presenti in caserma,” gli ordinò il colonnello Aureliano Buendìa. “Lei rimane a disposizione dei tribunali rivoluzionari.”

Poi firmò la dichiarazione e consegnò i documenti agli emissari, dicendo loro:

“Signori, ecco le vostre carte. E adesso fatevene l’uso migliore.”

Due giorni dopo, il colonnello Gerineldo Màrquez, accusato di alto tradimento, fu condannato a morte. Sprofondato nella sua amaca, il colonnello Aureliano Buendìa fu insensibile alle suppliche di clemenza. Alla vigilia dell’esecuzione, contravvenendo all’ordine di non disturbarlo, Ursula andò a trovarlo nella stanza. Chiusa nel suo lutto, investita di una strana solennità, rimase in piedi durante i tre minuti del colloquio. “So che fucilerai Gerineldo,” disse serenamente, “e non posso far nulla per impedirlo. Ma ti avverto di una cosa: non appena avrò visto il cadavere, te lo giuro sulle ossa di mio padre e di mia madre, sulla memoria di José Arcadia Buendìa, te lo giuro davanti a Dio, che ti verrò a prendere fin dove ti sarai cacciato e ti ammazzerò con le mie stesse mani. Prima di lasciare la stanza, senza attendere risposta, concluse:

“Avrei fatto la stessa cosa se tu fossi nato con la coda di maiale.”

In quella notte interminabile, mentre il colonnello Gerineldo Màrquez evocava i suoi pomeriggi morti nella stanza da lavoro di Amaranta, il colonnello Aureliano Buendìa grattò per parecchie ore, cercando di romperla, la dura crosta della sua solitudine. I suoi unici attimi di felicità, dal pomeriggio remoto in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio, erano trascorsi nel laboratorio di oreficeria, dove passava il tempo montando pesciolini d’oro. Aveva dovuto promuovere 32 guerre, e aveva dovuto violare tutti i suoi patti con la morte e rivoltolarsi come un maiale nel letamaio della gloria, per scoprire con quasi quarant’anni di ritardo i privilegi della semplicità.

Verso l’alba, distrutto dalla veglia tormentosa, comparve nella cella un’ora prima dell’esecuzione. “È finita la farsa, compare,” disse al colonnello Gerineldo Màrquez. “Andiamocene di qui, prima che finiscano di fucilarti le zanzare. Il colonnello Gerineldo Màrquez non poté reprimere il disprezzo che gli ispirava quel contegno.

“No, Aureliano,” ribatté. “È meglio essere morto che vederti trasformato in un ras.”

“Non mi vedrai,” disse il colonnello Aureliano Buendìa. “Mettiti le scarpe e aiutami a farla finita con questa guerra di merda.”

Quando lo disse, non immaginava che era più facile cominciare una guerra che finirla. Ci volle quasi un anno di rigore sanguinario per forzare il governo a proporre condizioni di pace favorevoli ai ribelli, e un altro anno per persuadere i suoi compagni di partito della convenienza di accettarle. Arrivò a inconcepibili estremi di crudeltà per soffocare le ribellioni dei suoi stessi ufficiali, che si ostinavano a non voler mercanteggiare la vittoria, e finì per ricorrere a forze nemiche per terminare di sottometterli.

Non fu mai miglior guerriero di allora. La certezza che finalmente lottava per la sua stessa liberazione, e non per ideali astratti, per slogan che i politici potevano rigirare al diritto e al rovescio. secondo le circostanze, gli infuse fervore ed entusiasmo. Il colonnello Gerineldo Màrquez, che lottava per la sconfitta con la stessa convinzione e la stessa lealtà con le quali prima aveva lottato per il trionfo, gli rimproverava la sua inutile temerità. “Non preoccuparti,” sorrideva lui. “Morire è molto più difficile di quello che si può credere.” Nel suo caso era vero. La certezza che il suo giorno era segnato lo investì di una immunità misteriosa, di una immortalità a scadenza fissa che lo rese invulnerabile ai rischi della guerra, e gli permise finalmente di conquistare una sconfitta che era molto più difficile, molto più sanguinosa e costosa della vittoria.

In quasi venti anni di guerra, il colonnello Aureliano Buendìa era stato molte volte a casa, ma lo stato d’urgenza col quale arrivava sempre, l’apparato militare che lo accompagnava dovunque, l’aura di leggenda che dorava la sua presenza e alla quale non era stata insensibile nemmeno la stessa Ursula, finirono per trasformarlo in un estraneo. L’ultima volta che era stato a Macondo, e aveva preso una casa per le sue tre concubine, non lo si vide nella sua se non quel paio di volte che ebbe il tempo di accettare inviti a pranzo. Remedios la bella, e i gemelli nati in piena guerra, lo conoscevano appena. Amaranta non riusciva a conciliare l’immagine del fratello che aveva trascorso l’adolescenza fabbricando pe sciolini d’oro con quella del guerriero mitico che frapponeva tra sé e il resto della umanità una distanza di tre metri. Ma quando si seppe che era prossimo l’armistizio e si pensò che egli tornava ritrasformato in essere umano, redento finalmente al cuore dei suoi, gli affetti familiari assopiti da tanto tempo rinacquero con più forza che mai.

“Finalmente, disse Ursula, “avremo di nuovo un uomo in casa.”

Amaranta fu la prima ad avere il sospetto invece che per la famiglia fosse perduto per sempre. Una settimana prima dell’armistizio, quando lui entrò in casa senza scorta, preceduto da due ordinanze scalze che posarono sotto il porticato la bardatura della mula e il baule dei versi, unica rimanenza del suo antico bagaglio imperiale, lei lo vide passare davanti alla stanza da lavoro e lo chiamò. Il colonnello Aureliano Buendìa sembrò riconoscerla con difficoltà.

“Sono Amaranta,” disse lei di buon umore, felice del suo ritorno, e gli mostrò la mano con la benda nera. “Guarda.”

Il colonnello Aureliano Buendìa le rivolse lo stesso sorriso della prima volta in cui la vide con la benda, quella remota mattina quando era tornato a Macondo condannato a morte.

“Che orrore,” disse, “come passa il tempo!”

L’esercito regolare dovette proteggere la casa. Il colonnello arrivava vessato, sputacchiato, accusato di aver rincrudito la guerra solo per venderla più cara. Tremava di febbre e di freddo e aveva di nuovo le ascelle tempestate di favi. Sei mesi prima, quando aveva sentito parlare dell’armistizio, Ursula aveva aperto e scopato la stanza nuziale, e aveva bruciato mirra negli angoli, pensando che egli sarebbe tornato per invecchiare lentamente tra le bambole ammuffite di Remedios. Ma, in realtà, negli ultimi anni egli aveva pagato le sue rate finali alla vita, inclusa quella dell’invecchiamento. Passando davanti al laboratorio di oreficeria, che Ursula aveva preparato con speciale diligenza, non si accorse nemmeno che le chiavi erano infilate nella serratura. Non avvertì i minuscoli e laceranti danni che il tempo aveva fatto nella casa, e che dopo un’assenza così prolungata sarebbero sembrati un disastro a qualsiasi uomo che avesse conservato vivi i propri ricordi. Non gli dolsero né le scrostature della calce dei muri, né i sudici bioccoli di ragnatele negli angoli, né la polvere delle begonie, né le nervature del tarlo nelle travi, né la muffa dei serramenti, e nessuna delle trappole insidiose che gli tendeva la nostalgia. Si sedette sotto il portico, avvolto nella coperta e senza togliersi gli stivali, come se non aspettasse altro che spiovesse, e rimase per tutto il pomeriggio a veder piovere sulle begonie. Ursula capì allora che non lo avrebbe trattenuto in casa per molto tempo. “Se non è la guerra,” pensò, “può essere solo la morte.” Fu una supposizione così nitida, così convincente, che la interpretò come un presagio.

Quella sera, a cena, il presunto Aureliano Secondo sbriciolò il pane con la mano destra e mangiò la minestra con la sinistra. Il suo fratello gemello, il presunto José Arcadio Secondo, sbriciolò il pane con la mano sinistra e mangiò la minestra con la destra. Era così preciso il coordinamento dei loro movimenti che non sembravano due fratelli seduti l’uno davanti all’altro, ma piuttosto un trucco di specchi. Lo spettacolo che i due gemelli avevano architettato da quando si erano resi conto di essere uguali fu ripetuto in onore del nuovo ospite. Ma il colonnello Aureliano Buendìa non se ne accorse. Sembrava così estraneo a tutto che non badò nemmeno a Remedios la bella, che nuda passò diretta verso la stanza da letto. Ursula fu l’unica che osò turbare la sua astrazione.

“Se devi andartene di nuovo,” gli disse a meta della cena, “per lo meno cerca di ricordarti come eravamo questa notte.”

Allora il colonnello Aureliano Buendìa si rese conto, senza sorpresa, che Ursula era l’unico essere umano che fosse riuscito a sviscerare la sua miseria, e per la prima volta in molti anni si arrischiò a guardarla in faccia. Aveva la pelle cotta, i denti cariati, i capelli appassiti e senza colore, e lo sguardo attonito. La confrontò al ricordo più antico che aveva di lei, quel pomeriggio in cui lui aveva avuto il presagio che una pentola di brodo bollente stesse per cadere dal tavolo, e infatti la trovò in pezzi. In un attimo scoprì i graffi, le lividure, i guidaleschi, le ulcere e le cicatrici che aveva lasciato in lei più di mezzo secolo di vita quotidiana, e sentì che quelle stragi non suscitavano in lui nemmeno un sentimento di pietà. Fece allora un ultimo sforzo per cercare nel suo cuore il luogo dove gli si erano putrefatti gli affetti, e non poté trovarlo. In altra epoca, almeno, provava un confuso senso di vergogna quando sorprendeva sulla sua stessa pelle l’odore di Ursula, e in più di un’occasione senti i suoi pensieri interferiti dal pensiero di lei. Ma tutto ciò era stato diroccato dalla guerra. La stessa Remedios, sua moglie, era in quel momento l’immagine offuscata di qualcuno che poteva essere stata sua figlia. Le innumerevoli donne che aveva conosciuto nel deserto dell’amore, e che avevano disperso il suo seme per tutta la costa, non avevano lasciato alcuna traccia nei suoi sentimenti. La maggior parte di loro entravano nella stanza al buio e se ne andavano prima dell’alba, e il giorno dopo erano appena un po’ di tedio nella memoria corporale. L’unico affetto che prevaleva contro il tempo e la guerra era stato quello che aveva sentito per suo fratello José Arcadio quando ambedue erano bambini, e non era basato sull’amore, ma sulla complicità.

“Mi perdoni,” si scusò rispondendo alla richiesta di Ursula, “ma questa guerra ha distrutto tutto.”

Nei giorni che seguirono si dedicò a distruggere ogni traccia del suo passaggio nel mondo. Semplificò il laboratorio di oreficeria fino a lasciare soltanto gli aggetti impersonali, regalò i suoi vestiti alle ordinanze e seppellì le sue armi nel patio con lo stesso senso di penitenza col quale suo padre aveva seppellito la lancia che aveva dato morte a Prudencio Aguilar. Conservò soltanto una pistola, e con un solo proiettile. Ursula non intervenne. L’unica volta che lo dissuase fu quando suo figlio stava per distruggere il dagherrotipo di Remedios che si conservava nella sala, illuminato da una lampada perenne. “Questo ritratto non ti appartiene più già da parecchio tempo,” gli disse. “È una reliquia di famiglia.” Alla vigilia dell’armistizio, quando ormai nella casa non rimaneva un solo oggetto che permettesse di ricordarlo, portò nella stanza del forno il baule coi versi nel momento in cui Santa Sofia de la Piedad si preparava ad accendere il fuoco.

“Lo accenda con queste,” le disse, consegnandole il primo rotolo di carte ingiallite. “Ardono meglio, perché sono cose molto vecchie.”

Santa Sofia de la Piedad, la silenziosa, la condiscendente, la donna che non aveva mai contrariato nemmeno i suoi stessi figli, ebbe l’impressione che quella fosse un’azione proibita.

“Sono carte importanti,” disse.

“Niente affatto,” disse il colonnello. “Sono cose che uno si scrive per sé.”

“Allora,” disse lei, “le bruci lei stesso, colonnello.”

Non solo lo fece, ma schiantò anche il baule con una accetta e gettò le schegge nel fuoco. Qualche ora prima, Pilar Ternera era andata a visitarlo. Dopo tanti anni che non la vedeva, il colonnello Aureliano Buendìa si meravigliò di quanto fosse diventata vecchia e quanto fosse ingrassata, e quanto aveva perduto splendore la sua risata, ma si meravigliò anche della profondità che aveva raggiunto nella lettura delle carte. “Fa attenzione alla bocca,” gli disse la donna, e lui si chiese se l’altra volta che glielo aveva detto, all’apogeo della sua gloria, non era stata una visione sorprendentemente anticipata del suo destino. Poco dopo, quando il suo medico personale finì di curargli i favi, il colonnello gli chiese, senza dimostrare un particolare interesse, quale fosse il luogo esatto del cuore. Il medico auscultò e poi gli tracciò un circolo sul petto con un batuffolo di cotone sporco di iodio.

Il martedì dell’armistizio spuntò tiepido e piovoso. Il colonnello Aureliano Buendìa comparve nella cucina prima delle cinque e bevve il suo solito caffè senza zucchero. “In un giorno come questo sei venuto al mondo,” gli disse Ursula. “Tutti si spaventavano per i tuoi occhi aperti.” Lui non le badò perché stava ascoltando i preparativi della truppa, gli squilli della tromba e le voci di comando che straziavano l’alba. Benché dopo tanti anni di guerra dovessero sembrargli familiari, quella volta provò lo stesso avvilimento ai ginocchi, e lo stesso accapponamento della pelle che aveva provato da giovane alla presenza di una donna nuda. Pensò confusamente, intrappolato alla fine nel morso della nostalgia, che forse se l’avesse sposata sarebbe stato un uomo senza guerra e senza gloria, un artigiano senza nome, un animale felice. Quel turbamento tardivo, che non figurava nelle sue previsioni, gli amareggiò la colazione. Alle sette della mattina, quando il colonnello Gerineldo Màrquez venne a cercarlo in compagnia di un gruppo di ufficiali ribelli, lo trovò più taciturno che mai, più pensieroso e solitario. Ursula cercò di buttargli sulle spalle una coperta nuova. “Cosa penserà il governo,” gli disse. “Si immagineranno che ti sei arreso perché non avevi di che comprarti nemmeno una coperta.” Ma lui non l’accettò. Già sulla porta, vedendo che non aveva ancora smesso di piovere, si lasciò mettere un vecchio cappello di feltro di José Arcadio Buendìa.

“Aureliano,” gli disse allora Ursula, “promettimi che se ti incontri da quelle parti con l’ora fatale penserai a tua madre.”

Lui le rivolse un sorriso distante, alzò la mano con tutte le dita distese, e senza dire una parola lasciò la casa e affrontò le grida, i vituperi e le bestemmie che io avrebbero inseguito fino all’uscita del villaggio. Ursula fece scorrere la sbarra nella porta, decisa a non toglierla per il resto della sua vita. “Marciremo qui dentro: pensò. “Diventeremo cenere in questa casa senza uomini, ma non daremo a questo paese miserabile il piacere di vederci piangere.” Passò tutta la mattinata a cercare un ricordo di suo figlio negli angoli più nascosti, non riuscì a trovarlo.

La cerimonia ebbe luogo a venti chilometri da Macondo, all’ombra di una ceiba gigantesca attorno alla quale si sarebbe fondato più tardi il villaggio di Neerlandia. I delegati del governo e del partito, e la commissione ribelle che aveva consegnato le armi, furono ricevuti da un turbolento gruppo di novizie in abito bianco, che sembrava uno stormo di colombe spaventate dalla pioggia. Il colonnello Aureliano Buendìa arrivò in sella a una mula coperta di fango. Aveva la barba lunga, ed era afflitto più dal dolore dei favi che dall’immenso fallimento dei suoi sogni, poiché era arrivato alla fine di ogni speranza, più in là della gloria e della nostalgia della gloria. Come lui stesso aveva stabilito, non ci furono né musica, né petardi, né campane di giubilo, né evviva, né altre manifestazioni che potessero alterare il carattere luttuoso dell’armistizio. Il fotografo ambulante che gli fece l’unico ritratto che si sarebbe potuto conservare, fu costretto a distruggere le lastre senza svilupparle.

La cerimonia durò appena il tempo indispensabile per l’apposizione delle firme. Attorno al rustico tavolo collocato in mezzo a una rattoppata tenda da circo, c’erano gli ultimi ufficiali rimasti fedeli al colonnello Aureliano Buendìa. Prima della firma, il delegato personale del presidente della repubblica cercò di leggere a voce alta il documento della resa, ma il colonnello Aureliano Buendìa si oppose. “Non perdiamo tempo in formalità,” disse, e si dispose a firmare i documenti senza leggerli. Uno dei suoi ufficiali ruppe allora il silenzio soporifero della tenda.

“Colonnello,” disse, “ci faccia il favore di non firmare per primo.”

Il colonnello Aureliano Buendìa acconsentì. Quando il documento fece il giro completo del tavolo, in mezzo a un silenzio così nitido che si sarebbero potute decifrare le firme dallo scricchiolio della penna sulla carta, il primo spazio era ancora in bianco. Il colonnello Aureliano Buendìa si accinse a riempirlo.

“Colonnello,” disse allora un altro dei suoi ufficiali, “fa ancora in tempo a non sfigurare.”

Senza alterarsi, il colonnello Aureliano Buendìa firmò la prima copia. Non aveva terminato di firmare l’ultima quando comparve all’entrata della tenda un colonnello ribelle che tirava per la cavezza una mula carica di due bauli. Nonostante la sua estrema giovinezza, aveva un aspetto arido e un’espressione paziente. Era stato tesoriere della rivoluzione nella circoscrizione di Macondo. Aveva fatto un penoso viaggio di sei giorni, trascinando la mula morta di fame, per arrivare in tempo all’armistizio. Con una parsimonia esasperante scaricò i bauli, li aprì e collocò sul tavolo, uno dopo l’altro, settantadue mattoni d’oro. Nessuno si ricordava dell’esistenza di quella fortuna. Nel caos dell’ultimo anno, quando il comando centrale era andato a pezzi e la rivoluzione era degenerata in una sanguinosa rivalità di caporioni, era impossibile stabilire responsabilità. L’oro della ribellione, fuso in lingotti che poi erano stati ricoperti di argilla cotta, restò fuori da ogni controllo. Il colonnello Aureliano Buendìa fece includere i settantadue mattoni nell’inventario della resa, e conchiuse la cerimonia senza permettere discorsi. Lo squallido adolescente rimase davanti a lui, guardandolo negli occhi coi suoi sereni occhi color miele.

“Cosa c’è ancora?” gli chiese il colonnello Aureliano Buendìa.

Il giovane colonnello strinse i denti.

“La ricevuta,” disse.

Il colonnello Aureliano Buendìa gliela compilò di suo pugno. Poi bevve un bicchiere di limonata e mangiò un pezzo del biscotto che distribuirono le novizie, e si ritirò in una tenda da campo che gli avevano preparato nel caso volesse riposare. Lì si tolse la camicia, si sedette sull’orlo della branda, e alle tre e un quarto del pomeriggio si sparò un colpo di pistola nel cerchio di iodio che il suo medico personale gli aveva tracciato sui petto. In quella stessa ora, a Macondo, Ursula scoperchio la pentola del latte sul focolare, chiedendosi perché mai tardasse tanto a bollire, e la trovò piena di vermi.

“Hanno ucciso Aureliano!” esclamò.

Guardò verso il patio, ubbidendo a un costume della sua solitudine, e allora vide José Arcadio Buendìa, fradicio, triste di pioggia e molto più vecchio di quando era morto. “Lo hanno ucciso a tradimento,” precisò Ursula, “e nessuno gli ha fatto la carità di chiudergli gli occhi.” Verso sera vide attraverso le lacrime gli impetuosi e luminosi dischi arancione che solcarono il cielo come un’esalazione, e pensò che era un segno di morte. Era ancora sotto il castagno, a singhiozzare sulle ginocchia di suo marito, quando portarono il colonnello Aureliano Buendìa avvolto in una coperta indurita di sangue secco e con gli occhi aperti di rabbia.

Era fuori pericolo. Il proiettile aveva seguito una traiettoria così netta che il medico gli aveva infilato nel petto e sfilato dalla schiena un cordone imbevuto di iodio. “Questo e il mio capolavoro,” gli disse soddisfatto. “Era l’unico punto da dove poteva passare una palla senza offendere alcun centro vitale.” Il colonnello Aureliano Buendìa si vide circondato da novizie misericordiose che intonavano salmi disperati per l’eterno riposo della sua anima, e allora si pentì di non essersi, solo per beffare il pronostico di Pilar Ternera, puntato la pistola al palato come aveva pensato di fare.

“Se mi restasse ancora un po’ d’autorità,” disse al dottore, “lei sarebbe fucilato seduta stante. Non per avermi salvato la vita, ma per avermi messo in ridicolo.”

Il fallimento della morte gli restituì in poche ore il prestigio perduto. Quegli stessi che avevano messo in giro la panzana che il colonnello avesse venduto la guerra per una stanza con le pareti fatte di mattoni d’oro, definirono il tentativo di suicidio come un’azione d’onore, e lo proclamarono martire. Poi, quando rifiutò l’Ordine del Merito che gli conferì il presidente della repubblica, perfino i suoi più accaniti rivali sfilarono nella sua stanza chiedendogli di disconoscere i termini dell’armistizio e promuovere una nuova guerra. La casa si riempì di regali di riparazione. Tardivamente impressionato dall’appoggio massiccio dei suoi antichi compagni d’arme, il colonnello Aureliano Buendìa non scartò la possibilità di compiacerli. Al contrario, in un certo momento parve così entusiasmato dell’idea di una nuova guerra che il colonnello Gerineldo Màrquez pensò che attendesse soltanto un pretesto per proclamarla. Il pretesto gli si offrì, in effetti, quando il presidente della repubblica si rifiutò di assegnare le pensioni di guerra agli antichi combattenti, liberali o conservatori, fintanto che ogni incartamento non fosse stato esaminato da una commissione speciale, e la relativa legge approvata dal congresso. “Questo è un sopruso,” tuonò il colonnello Aureliano Buendìa. “Moriranno di vecchiaia aspettando la posta.” Lasciò per la prima volta la sedia a dondolo che Ursula gli aveva comprato per la convalescenza, e rigirandosi per la camera dettò un messaggio perentorio al presidente della repubblica. In quel telegramma, che non fu mai pubblicato, denunciava la prima violazione del trattato di Neerlandia e minacciava di proclamare la guerra a morte se l’assegnazione delle pensioni non si fosse risolta nello spazio di quindici giorni. Era così legittima la sua pretesa, che consentiva di sperare, oltre a tutto, anche nell’adesione degli antichi combattenti conservatori. Ma l’unica risposta del governo fu il rinforzo della guardia militare collocata alla porta della casa col pretesto di proteggerla, e la proibizione di tutte le visite. Misure simili vennero adottate in tutto il paese per altri caporioni di riguardo. Fu un’operazione così opportuna, drastica e efficace che due mesi dopo l’armistizio, quando il colonnello Aureliano Buendìa fu dichiarato completamente guarito, i suoi istigatori più decisi erano già morti o espatriati, o erano stati assimilati per sempre dall’amministrazione pubblica.

Il colonnello Aureliano Buendìa lasciò la sua stanza in dicembre, e gli bastò dare un’occhiata al portico per non tornare più a pensare alla guerra. Con una vitalità che sembrava impossibile con tutti i suoi anni, Ursula aveva ancora una volta fatto ringiovanire la casa. “Ora vedrete chi sono io,” disse quando seppe che suo figlio sarebbe vissuto. “Non ci sarà una casa migliore e più aperta a tutti di questa casa di pazzi.” La fece lavare e ridipingere, cambiò i mobili, restaurò il giardino e seminò fiori nuovi, e aprì porte e finestre perché entrasse fin nelle stanze l’abbagliante chiarore dell’estate. Decretò la fine dei numerosi lutti sovrapposti, e lei stessa cambiò le vecchie vesti arcigne con abiti giovanili. La musica della pianola tornò a rallegrare la casa. Ascoltandola, Amaranta si ricordò di Pietro Crespi, della sua gardenia crepuscolare e del suo odore di lavanda, e in fondo al suo cuore appassito fiorì un rancore pulito, purificato dal tempo. Un pomeriggio in cui cercava di riordinare la sala, Ursula chiese aiuto ai soldati che custodivano la casa. Il giovane comandante della guardia diede il permesso. A poco a poco, Ursula affidò loro altri compiti. Li invitava a mangiare, regalava loro vestiti e scarpe, e insegnava a leggere e a scrivere. Quando il governo sospese la sorveglianza, uno di loro rimase a vivere in casa, e fu al suo servizio per molti anni. Il giorno di capo d’anno, reso folle dall’indifferenza di Remedios la bella, il giovane comandante della guardia fu trovato all’alba morto d’amore vicino alla sua finestra.

 Anni dopo, nel suo letto di agonia, Aureliano Secondo si sarebbe ricordato del piovigginoso pomeriggio di giugno in cui entrò nella stanza da letto per conoscere il suo primo figlio. Benché fosse languido e piagnucolone, senza niente di un Buendìa, lui non ci penso su due volte a dargli il nome.

“Si chiamerà José Arcadio,” disse.

Fernanda del Carpio, la bella donna con la quale si era sposato l’anno prima, fu d’accordo. Invece Ursula non poté celare un vago senso di inquietudine. Nella lunga storia della famiglia, la tenace ripetizione dei nomi le aveva permesso di trarre conclusioni che le sembravano decisive. Mentre gli Aureliani erano riservati, ma con discernimento lucido, i José Arcadio erano impulsivi e intraprendenti, ma erano marcati da un segno tragico. Gli unici casi di impossibile classificazione erano quelli di José Arcadio Secondo e Aureliano Secondo. Erano così somiglianti e turbolenti durante la loro infanzia che nemmeno la stessa Santa Sofia de la Piedad poteva distinguerli. Il giorno del battesimo, Amaranta mise loro dei bracciali coi rispettivi nomi e li vestì con roba di colori diversi marcata con le iniziali di ognuno, ma quando cominciarono a frequentare la scuola decisero di cambiarsi la roba e i bracciali e di chiamarsi loro stessi l’uno col nome dell’altro. Il maestro Melchior Escalona, abituato a riconoscere José Arcadio Secondo dalla camicia verde, perse le staffe quando scoprì che questi aveva il bracciale di Aureliano Secondo, e che l’altro diceva di chiamarsi, comunque, Aureliano Secondo, nonostante avesse la camicia bianca e il bracciale col nome di José Arcadio Secondo. Da allora non si seppe più chi fossero con certezza. Anche quando crebbero e la vita li rese differenti, Ursula continuava a chiedersi se loro stessi non avessero per caso commesso un errore in un momento qualsiasi del loro intricato gioco di confusioni, e non fossero rimasti scambiati per sempre. Fin dall’inizio dell’adolescenza erano stati due meccanismi sincroni. Si svegliavano alla stessa ora, sentivano il bisogno di andare al gabinetto nello stesso momento, soffrivano degli stessi disturbi, e sognavano perfino le stesse cose. In casa, dove si credeva che coordinassero le loro azioni per il semplice desiderio di confondere, nessuno si rese conto della realtà finché un giorno Santa Sofia de la Piedad diede a uno un bicchiere di limonata e questo fece meno in fretta ad assaggiarla che l’altro a dire che non c’era zucchero. Santa Sofia de la Piedad, che in realtà si era dimenticata di mettere lo zucchero nella limonata, raccontò la cosa a Ursula. “Sono tutti così, disse lei, senza meravigliarsi. “Pazzi dalla nascita.” Il tempo finì per scompigliare le cose. Quello che nei giochi di confusione rimase col nome di Aureliano Secondo si fece monumentale come il nonno, e quello che rimase col nome di José Arcadio Secondo si fece ossuto come il colonnello, e l’unica cosa che conservarono in comune fu l’aspetto solitario della famiglia. Forse fu quell’incrocio di stature, di nomi e di caratteri a far sospettare a Ursula che fossero stati scambiati fin dall’infanzia.

La differenza decisiva si rivelò in piena guerra quando José Arcadio Secondo chiese al colonnello Gerineldo Màrquez di portarlo a vedere le fucilazioni. Contro il parere di Ursula, i suoi desideri furono soddisfatti. Aureliano Secondo, invece, tremava al solo pensiero di assistere a una esecuzione. Preferiva la casa. A dodici anni chiese a Ursula cosa c’era nella stanza chiusa. “Carte,” gli rispose lei. “Sono i libri di Melquìades e le cose strane che scriveva nei suoi ultimi anni.” La risposta, invece di tranquillizzarlo, aumentò la sua curiosità. Insistette tanto, promise con tanto calore di non sciupare le cose, che Ursula gli diede le chiavi. Nessuno era più entrato nella stanza da quando avevano portato fuori il cadavere di Melquìades e messo il lucchetto le cui parti si erano saldate con la ruggine. Ma quando Aureliano Secondo aprì le finestre entrò una luce familiare che sembrava avvezza a illuminare la stanza tutti i giorni, e non c’era la minima traccia di polvere o di ragnatele, ma al contrario tutto era scopato e pulito, più scopato e più pulito del giorno dei funerali, e l’inchiostro non si era seccato nel calamaio ne l’ossido aveva alterato la lucidità dei metalli, né si era estinta la brace dell’atanor dove José Arcadio Buendìa aveva vaporizzato il mercurio. Negli scaffali c’erano i libri rilegati in una materia incartapecorita e pallida come la pelle umana conciata, e c’erano i manoscritti intatti. Nonostante il chiuso di molti anni, l’aria sembrava più pura che nel resto della casa. Tutto era così fresco, che parecchie settimane dopo, quando Ursula entrò nella stanza con un secchio d’acqua e una scopa per lavare il pavimento, non ebbe niente da fare. Aureliano Secondo era assorto nella lettura di un libro. Benché fosse privo di copertina e non si scorgesse il titolo da nessuna parte, il bambino si godeva la storia di una donna che si sedeva a tavola e mangiava soltanto grani di riso che infilava con aghi, e la storia del pescatore che chiese in prestito al suo vicino un pezzo di piombo per la sua rete e il pesce col quale lo ricompensò più tardi aveva un diamante nello stomaco, e della lampada che soddisfaceva i desideri, e delle stuoie che volavano. Meravigliato, chiese a Ursula se era tutto vero, e lei gli rispose di sì, che molti anni prima gli zingari portavano a Macondo le lampade meravigliose e le stuoie volanti.

“Il fatto è,” sospirò, “che il mondo sta finendo a poco a poco e ormai quelle cose non vengono più.” Quando finì il libro, molte storie del quale erano incompiute perché mancavano le pagine, Aureliano Secondo si dedicò al compito di decifrare i manoscritti. Fu impossibile. Le lettere sembravano roba messa ad asciugare su un filo di ferro, e somigliavano più alla scrittura musicale che a quella letteraria. In un pomeriggio ardente, mentre scrutava i manoscritti, sentì di non essere solo nella stanza. Contro il riverbero della finestra, seduto con le mani sulle ginocchia, c’era Melquìades. Non aveva più di quarant’anni. Portava lo stesso panciotto anacronistico è il cappello ad ali di corvo, e dalle sue tempie pallide gocciolava l’unto dei capelli sciolto dal caldo, come lo avevano visto Aureliano e José Arcadio quando erano bambini. Aureliano Secondo lo riconobbe subito, perché quel ricordo ereditario si era trasmesso di generazione in generazione, e era arrivato a lui dalla memoria di suo nonno.

“Salve,” disse Aureliano Secondo.

“Salve, giovane,” disse Melquìades.

Da quel momento, per diversi anni, si videro quasi tutti i pomeriggi. Melquìades gli parlava del mondo, cercava di infondergli la sua vecchia saggezza, ma si rifiutò di tradurre i manoscritti. “Nessuno deve conoscere il loro significato finché non saran passati cento anni,” spiegò. Aureliano Secondo conservò per sempre il segreto di quei colloqui. Una volta sentì crollare il suo mondo privato, perché Ursula entrò nel momento in cui Melquìades era nella stanza. Ma lei non lo vide.

“Con chi stai parlando?” gli chiese.

“Con nessuno,” disse Aureliano Secondo.

“Così era il tuo bisnonno,” disse Ursula. “Anche lui parlava da solo.,,

Nel frattempo, José Arcadio Secondo aveva soddisfatto la voglia di assistere a una fucilazione. Per il resto della sua vita si sarebbe ricordato della fiammata livida dei sei spari simultanei e l’eco dello scoppio che si era frantumato nei boschi e il sorriso triste e lo sguardo perplesso del fucilato, che era rimasto eretto mentre la camicia gli si inzuppava di sangue e continuava a sorridere anche quando lo slegarono dal palo e lo misero in una cassa piena di calce. “È vivo,” pensò il ragazzo. “Lo seppelliscono vivo.” Si impressionò tanto, che da quel momento detestò le pratiche militari e la guerra, non tanto per le esecuzioni quanto per la spaventosa abitudine di sotterrare vivi i fucilati. Nessuno seppe allora quando avesse cominciato a sonare le campane in chiesa, e ad aiutare padre Antonio Isabel, successore del Cucciolo, a dir messa, e ad allevare galli da combattimento nel patio della casa parrocchiale. Quando il colonnello Gerineldo Màrquez lo venne a sapere, lo rimproverò duramente perché stava imparando mestieri ripudiati dai liberali. “La questione,” rispose lui, “è che a me sembra d’esser sortito conservatore.” Lo credeva come se fosse una decisione del fato. Il colonnello Gerineldo Màrquez, scandalizzato, lo disse a Ursula.

“Tanto meglio,” approvò lei. “Magari diventasse prete, perché Dio entri finalmente in questa casa.”

Ben presto si seppe che il padre Antonio Isabel lo stava preparando per la prima comunione. Gli insegnava il catechismo mentre rasava il collo dei galli. Gli spiegava con semplici esempi, mentre mettevano nei loro nidi le galline da cova, come era venuto in mente a Dio nel secondo giorno della creazione che i pulcini si formassero dentro l’uovo. Fin da allora manifestava il parroco i primi sintomi del delirio senile che gli fece dire, qualche anno più tardi, che, nella ribellione contro Dio, probabilmente aveva vinto il diavolo, e che era il diavolo che stava seduto sul trono celeste, anche se per intrappolare gli incauti non rivelava la sua vera identità. Ingagliardito dalla intrepidità del suo precettore, José Arcadio Secondo riuscì in pochi mesi a essere altrettanto dotto in marchingegni teologici per confondere il demonio, quanto abile nei trucchi dell’allevamento dei galli. Amaranta gli fece un vestito di lino con colletto e cravatta, gli comprò un paio di scarpe bianche e ricamò il suo nome in lettere dorate sul nastro del cero. Due notti prima della comunione, padre Antonio Isabel si chiuse con lui nella sacrestia per confessarlo, con l’aiuto di un dizionario di peccati. Fu un elenco così lungo, che il vecchio parroco, abituato ad andare a letto, alle sei, si addormentò nella poltrona prima di finire. L’interrogatorio fu per José Arcadio Secondo una rivelazione. Non lo sorprese che il padre gli chiedesse se aveva fatto cose brutte con donne, e rispose onestamente di no, ma si sconcertò quando gli chiese se, le aveva fatte con animali. Il primo venerdì di maggio si comunicò, torturato dalla curiosità. Più tardi rivolse la comanda a Petronio, il sagrestano malaticcio che viveva nel campanile e che a quanto dicevano si alimentava di pipistrelli, e Petronio gli rispose: “Ci sono dei cristiani corrotti che fanno le loro cose con le asine.” José Arcadio Secondo continuò a dimostrare tanta curiosità, chiese tante spiegazioni, che Petronio perse la pazienza.

“Io vado tutti i martedì notte,” confessò. “Se prometti di non dirlo a nessuno, il prossimo martedì ti ci porto.”

Il martedì seguente, in effetti, Petronio scese dal campanile con uno sgabello di legno che fino a quel momento nessuno aveva saputo a cosa servisse, e portò José Arcadio Secondo in un orto vicino. Il ragazzo si appassionò tanto a quelle incursioni notturne, che trascorse parecchio tempo prima che lo si vedesse nella bottega di Catarino. Si fece uomo di galli. “Portati quegli animali da un’altra parte,” gli ordinò Ursula la prima volta che lo vide entrare con i suoi eleganti animali da combattimento. “I galli hanno già portato abbastanza amarezze in questa casa senza che venga tu a portarne delle altre.” José Arcadio Secondo se li portò via senza discutere, ma continuò ad allevarli da Pilar Ternera, sua nonna, che mise a sua disposizione quanto aveva bisogno, pur di tenerselo in casa. Ben presto dimostrò nell’arena dei galli la sapienza che gli aveva infuso padre Antonio Isabel, e dispose di denaro a sufficienza non solo per arricchire il suo allevamento, ma per procurarsi soddisfazioni da uomo. Ursula lo paragonava in quel tempo a suo fratello e non poteva capire come i due gemelli che sembravano una sola persona durante l’infanzia avevano finito per essere così diversi. La perplessità non le durò a lungo, perché assai presto Aureliano Secondo cominciò a dare mostra di poltroneria e di dissipatezza. Fin quando rimase rinchiuso nella stanza di Melquìades fu un uomo introverso, come lo era stato il colonnello Aureliano Buendìa da giovane. Ma poco prima del trattato di Neerlandia un caso lo tolse dal suo raccoglimento e lo mise di fronte alla realtà del mondo. Una donna giovane, che andava vendendo numeri per la riffa di una fisarmonica, lo salutò con molta familiarità. Aureliano Secondo non si meravigliò perché capitava frequentemente che lo scambiassero per suo fratello. Ma non chiarì l’equivoco, nemmeno quando la ragazza cercò di intenerirgli il cuore con piagnucolii, e finì per portarlo nella sua stanza. Gli prese a voler così bene fin da quel primo incontro, che imbrogliò la riffa per fargli vincere la fisarmonica. In capo a due settimane, Aureliano Secondo si rese conto che la donna era andata a letto alternativamente con lui e con suo fratello, credendo che fossero lo stesso uomo, e invece di mettere in chiaro la situazione fece in modo di prolungarla. Non tornò nella stanza di Melquìades. Passava tutti i pomeriggi nel patio, imparando a suonare a orecchio la fisarmonica, malgrado le proteste di Ursula, che in quel tempo aveva proibito la musica in casa per via dei lutti, e che inoltre disprezzava la fisarmonica ritenendolo uno strumento adatto ai vagabondi eredi di Francisco el Hombre. Ciò nonostante, Aureliano Secondo riuscì a diventare un virtuoso di fisarmonica e continuò a esserlo dopo sposato, dopo aver avuto figli ed essere diventato uno degli uomini più rispettati di Macondo.

Per quasi due mesi divise la donna con suo fratello. Lo sorvegliava, gli mandava all’aria i progetti, e quando era sicuro che José Arcadio Secondo non sarebbe andato quella notte dall’amante comune, scappava a dormire con lei. Una mattina scoprì di avere una malattia. Due giorni dopo trovò suo fratello aggrappato a una trave del bagno, inzuppato di sudore e grondante lacrime cocenti, e allora comprese. Suo fratello gli confessò che la donna lo aveva ripudiato accusandolo di averla contagiata con quella che lei chiamava una malattia della malavita. Gli raccontò anche come cercava di curarlo Pilar Ternera. Aureliano Secondo si sottopose di nascosto ai brucianti lavacri di permanganato e alle acque diuretiche, e ambedue guarirono separatamente dopo tre mesi di sofferenze segrete. José Arcadio Secondo non tornò mai più dalla donna. Aureliano Secondo impetrò il suo perdono e se la tenne fino alla morte.

Si chiamava Petra Cotes. Era arrivata a Macondo in piena guerra, con un marito occasionale che viveva delle riffe, e quando l’uomo morì, lei continuò il mestiere. Era una mulatta pulita e giovane, con occhi gialli e a mandorla che davano al suo volto la ferocia di una pantera, ma aveva un cuore generoso e una magnifica vocazione per l’amore. Quando Ursula si rese conto che José Arcadio Secondo era allevatore di galli e che Aureliano Secondo suonava la fisarmonica nelle feste chiassose della sua concubina, credette di impazzire di sgomento. Era come se nei due giovani si fossero concentrati i difetti della famiglia e nessuna delle sue virtù. Allora decise che nessun altro si sarebbe chiamato Aureliano e José Arcadio. Ciò malgrado, quando Aureliano Secondo ebbe il suo primo figlio, non osò contrariarlo.

“D’accordo,” disse Ursula, “ma a una condizione: mi incarico io di allevarlo.”

Benché fosse già centenaria e sul punto di diventare cieca per le cataratte, conservava intatto il dinamismo fisico, l’integrità del carattere e l’equilibrio mentale. Nessuno meglio di lei per allevare l’uomo virtuoso che avrebbe restaurato il prestigio della famiglia, un uomo che non avesse mai sentito parlare né di guerra, né di galli da combattimento, né di donne di malaffare, né di imprese deliranti, quattro calamità che, secondo quanto pensava Ursula, avevano determinato la decadenza della sua stirpe. “Questo sarà prete,” promise solennemente. “E se Dio mi dà vita, deve arrivare a essere Papa.” Tutti risero, a sentirla, non solo nella stanza, ma in tutta la casa, dove stavano riuniti i turbolenti amiconi di Aureliano Secondo. La guerra, relegata nella soffitta dei brutti ricordi, fu momentaneamente evocata dai botti dello champagne.

“Alla salute del Papa,” brindò Aureliano Secondo.

Gli invitati brindarono in coro. Poi il padrone di casa suonò la fisarmonica, scoppiarono i petardi e si ordinarono tamburi di giubilo nel villaggio. Quando spuntò il giorno, gli invitati inzuppati nello champagne sacrificarono sei vacche e le misero in strada a disposizione della folla. Nessuno si scandalizzò. Da quando Aureliano Secondo si era preso a carico la casa, quei festeggiamenti erano all’ordine del giorno, benché non esistesse motivo più giusto di quello della nascita di un Papa. In pochi anni, senza sforzi, solo a furia di colpi di fortuna, aveva accumulato una delle più grandi ricchezze della palude, grazie alla prolificazione soprannaturale delle sue bestie. Le sue giumente partorivano trigemini, le galline facevano le uova due volte al giorno, e i maiali ingrassavano con tale sfrenatezza, che nessuno poteva spiegarsi tanta disordinata fecondità, se non per l’uso di arti magiche. “Economizza ora,” diceva Ursula al suo sventato bisnipote. “Questa fortuna non ti durerà per tutta la vita.” Ma Aureliano Secondo non le dava retta. Quanto più champagne stappava per inzupparvi i suoi amici, tanto più pazzescamente partorivano le sue bestie, e tanto più si convinceva che la sua buona stella non era questione della sua condotta ma influsso di Petra Cotes, la sua concubina, il cui amore aveva la virtù di esacerbare la natura. Era così persuaso che quella fosse l’origine della sua fortuna, che non tenne mai Petra Cotes lontana dai suoi allevamenti, e anche quando si sposò ed ebbe figli continuò a vivere con lei col consenso di Fernanda. Solido, monumentale come i suoi nonni, ma con una gioia di vivere e una simpatia irresistibile che loro non avevano avuto, Aureliano Secondo non riusciva quasi a badare a tutte le sue mandrie. Gli era sufficiente portare Petra Cotes nei suoi allevamenti, e farla passeggiare a cavallo per le sue terre, perché ogni animale marcato col suo ferro soccombesse alla peste irrimediabile della prolificazione.

Come tutte le cose buone che gli capitarono nella sua lunga vita, quella fortuna esorbitante ebbe origine dal caso. Fino al termine delle guerre, Petra Cotes continuò a sostentarsi col prodotto delle sue riffe, e Aureliano Secondo si arrangiava saccheggiando di tanto in tanto i salvadanai di Ursula. Formavano una coppia frivola, senza altre preoccupazioni che quella di fare all’amore tutte le notti, anche nelle date proibite, e sollazzarsi nel letto fino allo spuntare del giorno. “Quella donna è stata la tua perdizione,” gridava Ursula al bisnipote quando lo vedeva entrare in casa come un sonnambulo. “Ti ha così istupidito, che un giorno di questi ti vedrò torcerti dalle coliche, con un rospo dentro la pancia.” Jose Arcadio Secondo, che ci mise parecchio tempo per scoprire il soppiantamento, non riusciva a capire la passione di suo fratello. Ricordava Petra Cotes come una donna qualunque, piuttosto pigra a letto, e del tutto sprovvista di risorse per l’amore. Sordo ai rimbrotti di Ursula e agli scherni di suo fratello, allora Aureliano Secondo pensava soltanto a trovare un’occupazione che gli permettesse di sobbarcarsi una casa per Petra Cotes e morire con lei, sopra di lei e sotto di lei, in una notte di impetuosità febbrili. Quando il colonnello Aureliano Buendìa riaprì il laboratorio, sedotto finalmente dai pacifici incanti della vecchiaia, Aureliano Secondo pensò che sarebbe stato un buon affare dedicarsi alla fabbricazione di pesciolini d’oro. Trascorse molte ore nella stanzetta soffocante osservando come le dure lamine di metallo, lavorate dal colonnello con la pazienza inconcepibile del disinganno, si trasformavano a poco a poco in squame dorate. L’occupazione gli sembrò così laboriosa, ed era così insistente e incalzante il ricordo di Petra Cotes, che in capo a tre settimane scomparve dal laboratorio. Fu in quell’epoca che a Petra Cotes venne l’idea di fare la riffa coi conigli. Si riproducevano e ingrossavano con tanta rapidità, che lasciavano appena il tempo di vendere i numeri della riffa. Sulle prime, Aureliano Secondo non badò alle allarmanti proporzioni della proliferazione. Ma una notte, quando ormai nessuno nel villaggio voleva sentir parlare delle riffe di conigli, sentì uno strepito nel patio. “Non spaventarti,” disse Petra Cotes. “Sono i conigli.” Non poterono più dormire, tormentati dal trafficare degli animali. Quando spuntò il giorno, Aureliano Secondo aprì la porta e vide il patio pavimentato di conigli, azzurri nello splendore dell’alba. Petra Cotes, ridendo a crepapelle, non resistette alla tentazione di fargli uno scherzo.

“Questi sono nati stanotte,” disse.

“Che spavento!” disse lui. “Perché non provi con le vacche?”

Pochi giorni dopo, cercando di sgomberare il patio, Petra Cotes cambiò i conigli con una vacca, che due mesi più tardi partorì dei trigemini. Così cominciarono le cose. Dal giorno alla notte, Aureliano Secondo fu padrone di terre e di mandrie, e non gli rimaneva tempo che per allargare scuderie e porcili straripanti. Era una prosperità delirante di cui lui stesso era il primo a ridere, e non poteva fare a me no di assumere atteggiamenti stravaganti per scaricare il suo buon umore. “Scostatevi, vacche, che la vita è breve,” gridava. Ursula si chiedeva in che trappolerie si era cacciato, se non stava forse rubando, se non aveva finito per diventare ladro di bestiame, e ogni volta che lo vedeva stappare champagne per il puro piacere di bagnarsi di spuma la testa, gli rimproverava urlando lo spreco. Lo infastidì tanto, che un giorno in cui si era svegliato di umore smargiasso, Aureliano Secondo comparve con una cassa di denaro, un secchio di colla e un pennello, e, cantando a squarciagola le vecchie canzoni di Francisco el Hombre, tappezzò la casa di dentro e di fuori, e da sotto in su, con biglietti da un peso. L’antica magione, dipinta di bianco fin dai tempi in cui portarono la pianola, acquistò l’aspetto ambiguo di una moschea. In mezzo allo scompiglio della famiglia, allo scandalo di Ursula, al giubilo del popolo che invase la strada per assistere alla glorificazione dello scialo, Aureliano Secondo finì per tappezzare la casa dalla facciata alla cucina, compresi cessi e stanze da letto, e getto nel patio i biglietti che avanzavano. “Ora,” disse alla fine, “spero che nessuno in questa casa mi parli più di soldi.”

Così fu. Ursula fece togliere i biglietti appiccicati ai grandi strati di calce, e ridipinse la casa di bianco. “Dio mio,” pregava. “Facci poveri come eravamo quando abbiamo fondato questo villaggio, che non ti venga in mente nell’altra vita di rifarti su di noi di questo sperpero. Le sue preghiere furono esaudite in senso contrario. In effetti, uno degli operai che staccava i biglietti urtò per disattenzione in un enorme San Giuseppe di gesso che qualcuno aveva lasciato nella casa negli ultimi anni della guerra, e la statua vuota cadde a terra e si frantumò. Era imbottita di monete d’oro. Nessuno si ricordava chi avesse portato quel santo a grandezza naturale. “Lo hanno portato tre uomini,” spiegò Amaranta. “Mi hanno chiesto di conservarlo finché smetteva di piovere, e io gli ho detto che lo mettessero li, nell’angolo, perché nessuno ci andasse addosso, e lì lo hanno messo, con tutti i riguardi, e li è rimasto da allora, perché non sono mai più tornati a prenderselo.” Negli ultimi tempi, Ursula gli aveva acceso delle candele e gli si era inginocchiata davanti, senza sospettare che invece di un santo stava adorando quasi duecento chilogrammi d’oro. La tardiva prova della sua involontaria idolatria aggravò la sua afflizione. Sputò sullo spettacolare mucchio di monete, lo mise in tre sacchi di tela, e lo sotterrò in un luogo segreto, in attesa che prima o poi i tre sconosciuti venissero a reclamarlo. Molto tempo dopo, nei difficili anni della sua decrepitezza, Ursula usava intervenire nelle conversazioni dei numerosi viaggiatori che allora passavano per casa, e chiedeva loro se durante la guerra non avessero lasciato lì un San Giuseppe per quando avesse smesso di piovere.

Queste cose, che tanto costernavano Ursula, erano abituali in quei tempi. Macondo naufragava in una prosperità da miracolo. Le case di argilla e di canna selvatica dei fondatori erano state sostituite con costruzioni di mattoni, con persiane di legno e pavimenti di cemento, che rendevano più sopportabile il caldo soffocante delle due del pomeriggio. Dell’antico villaggio di José Arcadio Buendìa rimanevano a quei tempi soltanto i mandorli polverosi, destinati a resistere alle circostanze più ardue, e il fiume dalle acque diafane le cui pietre preistoriche furono polverizzate dalle mazze impazzite di José Arcadio Secondo, quando si ostinò a voler spianare il letto per creare un servizio di navigazione. Fu un sogno delirante, paragonabile appena a quelli del suo bisnonno, perché il letto pietroso e i numerosi ostacoli della corrente impedivano il transito da Macondo fino al mare. Ma José Arcadio Secondo, in un imprevisto accesso di temerità, si incaparbì nel progetto. Fino a quel momento non aveva dato alcuna mostra di fantasia. Tranne la sua precaria avventura con Petra Cotes, non lo si era mai visto con donne. Ursula lo considerava l’esemplare più smorto che avesse prodotto la famiglia in tutta la sua storia, incapace di farsi valere nemmeno come attaccabrighe di arene di galli, quando il colonnello Aureliano Buendìa gli raccontò la storia del galeone spagnolo incagliato a dodici chilometri dal mare, il cui scafo carbonizzato aveva visto lui stesso durante la guerra. Il racconto, che a tanta gente per tanto tempo era sembrato fantastico, fu una rivelazione per José Arcadio Secondo. Vendette i suoi galli al miglior offerente, reclutò uomini e comprò utensili, e si impuntò nella iperbolica impresa di rompere pietre, scavare cavali, sbarazzare scogli e perfino livellare cataratte. “Questo lo so ormai a memoria,” gridava Ursula. “È come se il tempo continuasse a girarci in giro e fossimo tornati al principio.” Quando ritenne che il fiume fosse navigabile, José Arcadio Secondo fece a suo fratello un rapporto dettagliato dei suoi piani, e questi gli diede il denaro di cui aveva bisogno per la sua impresa. Sparì per parecchio tempo. Correva già voce che il suo progetto di comprare un battello non fosse altro che un pretesto per darsela a gambe coi soldi di suo fratello, quando si sparse la notizia che una strana nave si stava avvicinando al villaggio. Gli abitanti di Macondo, che ormai non ricordavano più le imprese colossali di José Arcadio Buendìa, si precipitarono sulla riva e assistettero con occhi esterrefatti di incredulità all’arrivo del primo e ultimo battello che mai attraccò nel villaggio. Non era altro che una zattera di tronchi, trascinata con grosse funi da venti uomini che camminavano sulla riva. Sulla prua, con una luce di soddisfazione nello sguardo, José Arcadio Secondo dirigeva la dispendiosa manovra. Assieme a lui arrivava un gruppo di splendide matrone che si proteggevano dal sole ardente con vistosi ombrellini e tenevano sulle spalle bellissimi fazzolettoni di seta, e unguenti colorati sulla faccia, e fiori naturali tra i capelli, e serpenti d’oro sulle braccia e diamanti nei denti. La zattera di tronchi fu l’unico veicolo che José Arcadio Secondo riuscì a far rimontare fino a Macondo, e solo per una volta, ma non riconobbe mai il fallimento della sua impresa bensì proclamò la sua prodezza come una vittoria della volontà. Rese conti scrupolosi a suo fratello, e ben presto tornò a immergersi nel tran-tran dei galli. L’unica cosa che rimase di quella sventurata iniziativa fu il soffio di rinnovamento che portarono le matrone francesi, le cui arti magnifiche cambiarono i metodi tradizionali dell’amore, e il cui senso del benessere sociale sgominò l’antiquata bottega di Catarino e trasformò la strada in un bazar di lanterne giapponesi e organetti nostalgici. Furono loro le promotrici del carnevale sanguinoso che per tre giorni precipitò Macondo nel delirio, e la cui unica conseguenza durevole fu di aver dato a Aureliano Secondo la possibilità di conoscere Fernanda del Carpio.

Remedios la bella fu proclamata regina. Ursula, che tremava di fronte alla bellezza inquietante della bisnipote, non poté impedire l’elezione. Fino allora era riuscita a non farla uscire in strada, tranne che per andare a messa con Amaranta, ma la costringeva a coprirsi la faccia con uno scialle nero. Gli uomini meno devoti, quelli che si travestivano da preti per celebrare messe sacrileghe nella bottega di Catarino, frequentavano la chiesa con l’unico proposito di vedere anche solo per un attimo il viso di Remedios la bella, della cui avvenenza leggendaria si parlava con un fervore rimescolante in tutta la palude. Passò molto tempo prima che ci riuscissero, e meglio sarebbe stato per loro che l’occasione non fosse mai giunta perché la maggior parte degli indiscreti non poté mai più ricuperare la tranquillità del sonno. L’uomo che la rese possibile, un forestiero, perse per sempre la pace, si intricò nelle sabbie mobili dell’abiezione e della miseria, e anni dopo fu fatto a pezzi da un treno notturno quando si addormentò sui binari. Dal momento in cui lo si vide in chiesa, con un vestito di, velluto verde e un panciotto ricamato, nessuno mise in dubbio che veniva da molto lontano, forse da una remota città dell’estero, richiamato dal fascino magico di Remedios la bella. Era così bello, così gagliardo e sicuro di sé, con una prestanza così ben esibita, che Pietro Crespi al suo lato sarebbe sembrato un settimino, e molte donne mormoravano tra sorrisi di dispetto che lo scialle sarebbe stato meglio a lui. Non bazzicò con nessuno a Macondo. Compariva allo spuntare della domenica, come un principe di fiaba, su un cavallo con staffe d’argento e gualdrappe di velluto, e lasciava il villaggio dopo la messa.

Era tale il potere della sua presenza, che dalla prima volta che lo si vide nella chiesa tutti diedero per scontato che tra lui e Remedios la bella si fosse stabilito un duello tacito e stretto, un patto segreto, una sfida irrevocabile il cui apogeo non poteva essere soltanto l’amore ma anche la. morte. La sesta domenica, il cavaliere apparve con una rosa gialla in mano. Ascoltò la messa in piedi, come faceva sempre, e alla fine intralciò il passo a Remedios la bella e le offrì la rosa solitaria. Lei la ricevette con un gesto naturale, come se fosse stata preparata a ricevere quell’omaggio, e allora scoprì il volto per un istante e lo ringraziò con un sorriso. Non fece altro. Ma non soltanto per il cavaliere, bensì per tutti gli uomini che ebbero lo sfortunato privilegio di viverlo, quello fu un istante eterno.

Il cavaliere faceva venire da allora la banda di musica vicino alla finestra di Remedios la bella, e spesso fino allo spuntare del giorno. Aureliano Secondo fu l’unico che provò per lui una compassione cordiale, e cercò di piegare la sua perseveranza. “Non perda più il tempo,” gli disse una notte. “Le donne di questa casa sono peggio delle mule.” Gli offrì la sua amicizia, lo invitò a fare il bagno nello champagne, cercò di fargli capire che le femmine della sua famiglia avevano viscere di selce, ma non riuscì a vulnerare la sua ostinazione. Esasperato dalle interminabili notti musicali, il colonnello Aureliano Buendìa lo minacciò di curargli l’afflizione a pistolettate. Nessuno lo fece des istere, tranne il suo stesso e lamentevole stato di demoralizzazione. Da prestante e impeccabile che era si trasformò in abietto e straccione. Si sussurrava che avesse abbandonato potere e fortuna nella sua lontana nazione, ma in realtà non si seppe mai la sua provenienza. Si fece uomo litigioso, attaccabrighe da osteria, e il giorno lo sorprese a rivoltolarsi nelle sue stesse secrezioni nella bottega di Catarino. La cosa più triste del suo dramma era che Remedios la bella non gli badava nemmeno quando si presentava in chiesa vestito da principe. Accettò la rosa gialla senza la minima malizia, ma divertita piuttosto per la stravaganza del gesto, e si alzò lo scialle non per mostrarsi, ma per guardarlo meglio in faccia.

In realtà, Remedios la bella non era un essere di questo mondo. Pur molto avanti nella pubertà, Santa Sofia de la Piedad doveva ancora farle il bagno e vestirla. Anche quando seppe badare a se stessa bisognava sorvegliarla perché non disegnasse pupazzetti sui muri con un bastoncino intinto nella sua stessa cacca. Compì i vent’anni senza sapere né leggere né scrivere, né servirsi delle posate a tavola, e girava nuda per la casa, perché la sua natura si opponeva a qualsiasi tipo di convenzionalismo. Quando il giovane comandante della guardia le dichiarò il suo amore, lo respinse semplicemente perché fu sorpresa dalla sua frivolezza. “Pensa un po’ come è stupido,” disse ad Amaranta. “Dice che sta morendo per me, come se io fossi una colica del miserere.” Quando in effetti lo trovarono morto vicino alla sua finestra, Remedios la bella confermò la sua impressione iniziale.

“Vedete,” commentò. “Era proprio un sempliciotto.”

Sembrava che una lucidità penetrante le permettesse di vedere la realtà delle cose più in là di qualsiasi apparenza. Quella almeno era l’opinione del colonnello Aureliano Buendìa, per il quale Remedios la bella non era affatto una ritardata mentale, come si credeva, bensì tutto il contrario. “È come se facesse ritorno da venti anni di guerra,” soleva dire. Ursula, da parte sua, ringraziava Dio per aver premiato la famiglia con una creatura di una purezza eccezionale, ma allo stesso tempo la turbava la sua bellezza, perché le sembrava una virtù contraddittoria, una trappola diabolica nel bel mezzo del candore. Fu per questo che decise di segregarla dal mondo, di preservarla da ogni tentazione terrena, senza sapere che Remedios la bella, già fin dal ventre di sua madre, era in salvo da qualsiasi contagio. Non le venne mai in mente l’idea che potessero eleggerla regina di bellezza nel pandemonio di un carnevale. Ma Aureliano Secondo, elettrizzato dal ghiribizzo di travestirsi da tigre, portò padre Antonio Isabel nella casa perché convincesse Ursula che il carnevale non era una festa pagana, come diceva lei, bensì una tradizione cattolica. Finalmente convinta, anche se a malincuore, diede il consenso per l’incoronazione.

La notizia che Remedios Buendìa sarebbe stata la sovrana della festa varcò in poche ore i confini della palude, giunse fino a lontani territori dove si ignorava l’immenso prestigio della sua bellezza, e suscitò l’inquietudine di coloro che consideravano ancora il suo cognome come un simbolo della sovversione. Era una inquietudine infondata. Se qualcuno si doveva ritenere inoffensivo in quell’epoca, era l’invecchiato e disilluso colonnello Aureliano Buendìa, che a poco a poco aveva perduto ogni contatto con la realtà della nazione. Rinchiuso nel suo laboratorio, il suo unico rapporto col resto del mondo era il commercio dei pesciolini d’oro. Uno dei vecchi soldati che avevano sorvegliato la sua casa nei primi giorni della pace; andava a venderli nei villaggi della palude, e tornava carico di monete e di notizie. Che il governo conservatore, diceva, con l’appoggio dei liberali, stava riformando il calendario in modo che ogni presidente rimanesse cento anni al potere. Che finalmente si era firmato il concordato con la Santa Sede, e che era venuto da Roma un cardinale con una corona di diamanti e su un trono d’oro massiccio, e che i ministri liberali si erano fatti ritrarre in ginocchio in atto di baciargli l’anello. Che la soubrette di una compagnia spagnola, di passaggio dalla capitale, era stata sequestrata nel suo camerino da un gruppo di uomini mascherati, e la domenica dopo aveva ballato nuda nella residenza estiva del presidente della repubblica. “Non parlarmi di politica,” gli diceva il colonnello. “Noi ci occupiamo di vendere pesciolini.” Le dicerie del pubblico, che il colonnello non volesse sapere nulla della situazione politica del paese perché stava arricchendosi col suo laboratorio, provocarono le risate di Ursula quando giunsero al suo orecchio. Col suo terribile senso pratico, lei non poteva capire quale fosse il guadagno del colonnello, che cambiava i pesciolini con monete d’oro, e poi trasformava le monete d’oro in pesciolini, e così via, di modo che era costretto a lavorare sempre di più a mano a mano che aumentavano le vendite, per soddisfare un esasperante circolo vizioso. In verità, ciò che gli interessava non era il guadagno ma il lavoro. Aveva bisogno di tanta concentrazione per incastrare squame, incastonare minuscoli rubini negli occhi, laminare branchie e montare pinne, che non gli restava un solo vuoto da riempire con la delusione della guerra. Così assorbente era l’attenzione che gli richiedeva la raffinatezza del suo artigianato, che in poco tempo invecchiò più che in tutti gli anni di guerra, e la posizione gli piegò la spina dorsale e la millimetria gli sciupò la vista, ma la concentrazione implacabile lo premiò con la pace dello spirito. L’ultima volta che lo si vide badare a qualche faccenda collegata alla guerra fu quando un gruppo di veterani di entrambi i partiti sollecitò il suo appoggio per l’approvazione delle pensioni vitalizie, sempre promesse e sempre al punto di partenza. “Dimenticatevene,” disse loro il colonnello. “Vedete bene che io ho rifiutato la mia pensione per levarmi il tormento di stare ad aspettarla fino alla morte. Sulle prime, il colonnello Gerineldo Màrquez lo veniva a trovare verso sera, e i due vecchi si sedevano sulla porta di strada a rievocare il passato. Ma Amaranta non poté sopportare i ricordi che le suscitava quell’uomo stanco che la calvizie precipitava nell’abisso di una vecchiaia prematura, e lo tormentò con scortesie ingiuste, finché non tornò più tranne che in occasioni speciali, e finalmente sparì annullato dalla paralisi. Taciturno, silenzioso, insensibile al nuovo soffio di vitalità che faceva tremare la casa, il colonnello Aureliano Buendìa comprese a malapena che il segreto di una buona vecchiaia non è altro che un patto onesto con la solitudine. Si alzava alle cinque dopo un sonno superficiale, beveva nella cucina la sua eterna scodella di caffè amaro, si chiudeva per tutto il giorno “nel laboratorio, e alle quattro del pomeriggio passava per il porticato trascinando uno sgabello, senza badare neppure all’incendio dei rosai, o allo splendore dell’ora, o alla impavidità di Amaranta, la cui malinconia faceva; un rumore di marmitta perfettamente percepibile verso sera, e si sedeva sulla porta di strada finché glielo consentivano le zanzare. Qualcuno si azzardò una volta a turbare la sua solitudine.

“Come sta, colonnello?” gli disse passando.

“Così,” rispose. “Aspetto che passi il mio funerale.”

Di modo che l’inquietudine causata dalla riapparizione pubblica del suo cognome, a proposito del regno di Remedios la bella, mancava di fondamento reale. Molti, ciò malgrado, non lo credettero. Ignara della tragedia che la minacciava, la folla invase la piazza pubblica, in una turbolenta manifestazione di allegria. Il carnevale aveva raggiunto il suo più alto grado di pazzia, Aureliano Secondo aveva realizzato finalmente il suo sogno di travestirsi da tigre e girava felice tra la ressa smisurata, roco dal tanto roncare, quando apparve lungo la strada della palude una numerosa mascherata che portava su una lettiga dorata la donna più affascinante che avrebbe potuto concepire la fantasia. Per un momento, i pacifici abitanti di Macondo si tolsero le maschere per vedere meglio l’abbagliante creatura con corona di smeraldi e cappa di ermellino, che sembrava investita di un’autorità legittima, e non di una sovranità di lustrini e di carta crespata. Non mancò chi avesse sufficiente chiaroveggenza da sospettare che si trattava di una provocazione. Ma Aureliano Secondo superò immediatamente la perplessità, dichiarò ospiti d’onore gli ultimi arrivati e collocò salomonicamente Remedios la bella e la regina intrusa sullo stesso piedistallo. Fino a mezzanotte, i forestieri travestiti da beduini parteciparono al delirio e lo arricchirono inoltre con una pirotecnica sontuosa e con abilità acrobatiche che fecero pensare alle arti degli zingari. Improvvisamente, nel parossismo della festa, qualcuno ruppe il delicato equilibrio.

“Viva il partito liberale!” gridò. “Viva il colonnello Aureliano Buendìa?”

Le scariche di fucileria soffocarono i bagliori dei fuochi artificiali, e gli urli di terrore soffocarono la musica, e il giubilo fu annichilito dal panico. Molti anni dopo si sarebbe continuato ad affermare che la guardia reale della sovrana intrusa era uno squadrone dell’esercito regolare che sotto i suoi ricchi baracani nascondeva fucili d’ordinanza. Il governo respinse l’accusa con un bando straordinario e promise una indagine rigorosa del cruento episodio. Ma la verità non venne mai a galla, e prevalse per sempre la versione che la guardia reale, senza provocazione di nessuna indole, aveva preso posizione di combattimento a un segnale del suo comandante e aveva sparato senza pietà sulla folla. Quando si ristabilì la calma, i falsi beduini erano spariti dal villaggio e lunghi distesi sulla piazza erano rimasti, tra morti e feriti, nove pagliacci, quattro colombine, diciassette re di coppe, un diavolo, tre musicanti, due Pari di Francia e tre imperatrici giapponesi. Nella confusione del panico, José Arcadio Secondo riuscì a mettere in salvo Remedios la bella, e Aureliano Secondo portò in braccio, in casa, la sovrana intrusa, col vestito stracciato e la cappa di ermellino inzaccherata di sangue. Si chiamava Fernanda del Carpio. L’avevano scelta come la più bella tra le cinquemila donne più belle del paese, e l’avevano portata a Macondo promettendole di nominarla regina del Madagascar. Ursula si occupò di lei come se fosse una figlia. Il villaggio, invece di mettere in dubbio la sua innocenza, compatì il suo candore. Sei mesi dopo il massacro, quando guarirono i feriti e si appassirono gli ultimi fiori sulla fossa comune, Aureliano Secondo andò a cercarla nella lontana città dove viveva con suo padre, e la sposò a Macondo, in una baldoria fragorosa che durò venti giorni.

 Il matrimonio fu sul punto di fallire dopo due mesi perché Aureliano Secondo, nel tentativo di rabbonire Petra Cotes, le fece fare un ritratto vestita da regina del Madagascar. Quando Fernanda lo seppe rifece i suoi bauli di sposa novella e se ne andò da Macondo senza salutare nessuno. Aureliano Secondo la raggiunse sulla strada della palude. Dopo molte suppliche e promesse di emendarsi riuscì a riportarla a casa, e abbandono la concubina.

Petra Cotes, cosciente della propria forza, non diede segni di preoccupazione. Lei lo aveva fatto uomo. Quando era ancora un bambino lo aveva tolto dalla stanza di Melquìades, con la testa piena di idee fantastiche e senza alcun contatto con la realtà, e gli aveva dato un posto nel mondo. La natura lo aveva fatto riservato e schivo, con tendenze alla meditazione solitaria, e lei gli aveva forgiato un carattere opposto, vitale, espansivo, sbottonato, e gli aveva infuso l’allegrezza di vivere e il piacere della baldoria e dello sperpero, fino a trasformarlo, dentro e fuori, nell’uomo che aveva sognato per sé fin dall’adolescenza. Si era sposato, d’accordo, come prima o poi si sposano i figli. Lui non aveva osato anticiparle la notizia. Aveva assunto un atteggiamento così infantile di fronte alla situazione, che fingeva falsi rancori e risentimenti immaginari, facendo in modo che fosse Petra Cotes a provocare la rottura. Un giorno in cui Aureliano Secondo le rivolse un rimprovero ingiusto, lei schivò la trappola e mise le cose al loro posto.

“La realtà,” disse, “è che vuoi sposarti con la regina.”

Aureliano Secondo, rosso di vergogna, finse un accesso di collera, si dichiarò incompreso e oltraggiato, e non tornò più a trovarla. Petra Cotes, senza perdere per un solo istante il suo magnifico dominio di belva in riposo, sentì la musica e i petardi delle nozze, e il pazzesco frastuono della baraonda pubblica, come se tutto quello non fosse altro che una nuova birbonata di Aureliano Secondo. Tranquillizzò con un sorriso coloro che si rammaricavano della sua sorte. “Non preoccupatevi,” disse. “A me le regine mi lavano i piatti.” A una vicina che le portò candele benedette perché le accendesse davanti al ritratto dell’amante perduto, disse con sicurezza enigmatica:

“L’unica candela che lo farà venire è sempre accesa.”

Proprio come lei aveva previsto, Aureliano Secondo tornò nella sua casa non appena passata la luna di miele. Portò i suoi amiconi di sempre, un fotografo ambulante e il vestito e la cappa di ermellino inzaccherata di sangue che Fernanda aveva indossato durante il carnevale. Nella foga della baldoria che divampò quel pomeriggio, fece vestire da regina Petra Cotes, la incoronò sovrana assoluta e a vita del Madagascar, e distribuì copie del ritratto ai suoi amici. Lei non soltanto si prestò al gioco, ma provò anche un’intima compassione per lui, pensando che doveva essere molto spaventato quando aveva concepito quella stravagante trovata per la riconciliazione. Alle sette di sera, ancora vestita da regina, lo accolse nel suo letto. Era sposato da due mesi appena, ma lei si rese subito conto che le cose non andavano bene nel letto nuziale, e provò il delizioso piacere della vendetta consumata. Due giorni dopo, però, quando lui non ebbe il coraggio di tornare, ma mandò un intermediario per fissare i termini della separazione, lei capì che avrebbe avuto bisogno di una pazienza maggiore di quanto prevedeva, perché lui sembrava disposto a sacrificarsi per le apparenze. Nemmeno allora si turbò. Tornò a facilitare le cose con una sottomissione che confermò la convinzione popolare che Petra Cotes era una povera donna, e l’unico ricordo che conservò di Aureliano Secondo fu un paio di stivaletti di vernice che, a quanto lui stesso aveva detto, erano quelli che voleva portarsi nella bara. Li ripose avvolti in stracci in fondo a un baule, e si preparò ad alimentare una attesa senza disperazione.

“Prima o poi deve venire,” si disse, “fosse anche soltanto per mettersi questi stivaletti.”

Non dovette aspettare tanto come supponeva. In realtà, Aureliano Secondo comprese fin dalla prima notte di nozze che sarebbe tornato da Petra Cotes molto prima di avere bisogno di infilarsi gli stivaletti di vernice: Fernanda era una donna persa per il mondo. Era nata e cresciuta a mille chilometri dal mare, in una città lugubre per le cui viuzze di pietra traballavano ancora, in notti di incubo, le carrozze dei viceré. Trentadue campanili suonavano a morto alle sei di sera. Nella casa gentilizia lastricata di pietre sepolcrali non si era mai visto il sole. L’aria era morta nei cipressi del patio, nei pallidi cortinaggi delle stanze da letto, nelle arcate trasudanti del giardino delle tuberose. Fernanda non ebbe fino alla pubertà altra notizia del mondo che quella dei malinconici esercizi di piano eseguiti in qualche casa vicina da qualcuno che per anni e anni si permise l’arbitrio di non fare la siesta. Nella stanza di sua madre malata, verde e gialla sotto la polverosa luce delle vetrate, ascoltava le scale, metodiche, tenaci, scorate, e pensava che quella musica si trovava nel mondo, mentre lei si consumava intrecciando corone di palme funebri. Sua madre, sudando la febbre delle cinque, le parlava dello splendore del passato. Quando era ancora molto bambina, in una notte di luna, Fernanda aveva visto una bella donna vestita di bianco attraversare il giardino in direzione dell’oratorio. La sensazione che la turbò di più scorgendo quella visione fugace, fu che la sentì esattamente uguale a sé, come se si fosse vista con venti anni di anticipo. “È la tua bisnonna, la regina,” le disse sua madre nelle pause della tosse. “È morta di un colpo d’aria mentre stava tagliando un gambo di tuberosa.” Molti anni dopo, quando cominciò a sentirsi uguale alla sua bisnonna, Fernanda mise in dubbio la visione dell’infanzia, ma la madre la rimproverò per la sua incredulità.

“Siamo immensamente ricchi e potenti,” le disse. “Un giorno sarai regina.”

Lei lo credette, benché apparecchiassero il lungo tavolo con tovaglie di lino e servizi d’argento solo per consumare una tazza di cioccolata con acqua e un panino dolce. Fino al giorno delle nozze sognò regni di leggenda, nonostante suo padre, don Fernando, fosse costretto a ipotecare la casa per comprarle il corredo. Non era né ingenuità né delirio di grandezza. L’avevano educata così. Da quando aveva avuto l’uso della ragione si ricordava di aver fatto i suoi bisogni in un pitale d’oro con lo stemma di famiglia. Uscì dalla casa per la prima volta a dodici anni, in una carrozza a cavalli che dovette percorrere soltanto due isolati per condurla nel convento. Le sue compagne di scuola si meravigliavano che la tenessero appartata, su una sedia con lo schienale altissimo, e che non si unisse a loro nemmeno durante la ricreazione. “Lei è diversa,” spiegavano le monache. “Sarà regina.” Le sue compagne lo credettero, perché già allora era la ragazza più bella, più distinta e più discreta che avessero mai visto. In capo a otto anni, dopo aver imparato a versificare in latino, a suonare il clavicembalo, a conversare di falconeria coi signori e di apologetica con gli arcivescovi, a delucidare questioni di stato coi governanti stranieri e questioni di Dio col Papa, tornò nella casa dei suoi genitori a intrecciare palme funebri. La trovò saccheggiata. Restavano appena i mobili indispensabili, i candelabri e il servizio d’argento, perché gli utensili domestici erano stati venduti, a uno a uno, per pagare le spese della sua educazione. Sua madre aveva ceduto alla febbre delle cinque. Suo padre, don Fernando, vestito di nero, col colletto inamidato e una catenella d’oro attraverso il petto, le dava il lunedì una moneta d’argento per le spese domestiche, e portava via le corone funebri terminate la settimana precedente. Passava la maggior parte del tempo chiuso nello studio, e le rare volte che usciva di casa tornava prima delle sei, per accompagnarla nella recita del rosario. Fernanda non fece mai intima amicizia con nessuno. Non sentì mai parlare delle guerre che dissanguavano il paese. Non tralasciò mai di ascoltare gli esercizi di piano alle tre del pomeriggio. Cominciava perfino a perdere l’illusione di poter essere regina, quando risonarono due forti picchi perentori al portone, e andò ad aprire a un militare ben portante, con modi cerimoniosi, che aveva una cicatrice sulla guancia e una medaglia d’oro sul petto. Si chiuse nello studio con suo padre, che due ore dopo andò a cercarla nella stanza del cucito. “Prepara le tue cose,” le disse. “Dovrai fare un lungo viaggio.” Fu così che la portarono a Macondo. In un solo giorno, con una zampata brutale, la vita le gettò addosso tutto il peso di una realtà che per anni le avevano sottratto i suoi genitori. Quando tornò a casa si chiuse nella stanza a piangere, indifferente alle suppliche e alle spiegazioni di don Fernando, che cercava di cancellare la scottatura di quella burla inaudita. Si era ripromessa di non uscire più dalla stanza fino alla morte, quando Aureliano Secondo venne a cercarla. Fu un colpo di fortuna inconcepibile, perché nello stordimento della indignazione, nella furia della vergogna, lei gli aveva mentito perché mai conoscesse la sua vera identità. Le uniche reali piste di cui disponeva Aureliano Secondo quando partì per cercarla erano il suo inconfondibile accento degli altipiani e il suo mestiere di intrecciatrice di palme funebri. La cercò accanitamente. Con la temerità atroce con la quale José Arcadio Buendìa aveva attraversato la sierra per fondare Macondo, con l’orgoglio cieco col quale il colonnello Aureliano Buendìa aveva scatenato le sue guerre inutili, con la tenacia insensata con la quale Ursula aveva assicurato la sopravvivenza della stirpe, così Aureliano Secondo cercò Fernanda, senza un solo attimo di scoramento. Quando chiese dove vendevano palme funebri, lo portarono di casa in casa perché scegliesse le migliori. Quando chiese dove abitava la donna più bella che si era mai vista sulla terra, tutte le madri gli portarono le loro figlie. Si perse per anfratti di nebbia, per tempi riservati all’oblio, per labirinti di delusione. Attraversò un deserto giallo dove l’eco ripeteva i pensieri e l’ansietà provocava miraggi premonitori. In capo a settimane sterili, arrivò in una città sconosciuta dove tutte le campane suonavano a morto. Benché non li avesse mai visti, né nessuno glieli avesse descritti, riconobbe immediatamente i muri cariati dal sale delle ossa, i decrepiti balconi di legno sventrati dai funghi, e inchiodato sul portone e quasi cancellato dalla pioggia il cartoncino più triste del mondo: Si vendono palme funebri. Da quel momento fino alla mattina gelata in cui Fernanda affidò la casa alle cure della Madre Superiora, ci fu appena il tempo per permettere alle suore di cucire il corredo, e di collocare in sei bauli i candelabri, il servizio d’argento e il pitale d’oro e gli innumerevoli e inservibili rottami di una catastrofe familiare che aveva impiegato due secoli a consumarsi. Don Fernando declinò l’invito ad accompagnarli. Promise di andare più tardi, quando avesse finito di liquidare i suoi impegni, e dal momento in cui diede la benedizione a sua figlia tornò a rinchiudersi nello studio, a scriverle le letterine con vignette luttuose e lo stemma di famiglia che avrebbero rappresentato il primo contatto umano di Fernanda e di suo padre in tutta la loro vita. Per lei, quella fu la sua vera data di nascita. Per Aureliano Secondo fu, quasi contemporaneamente, il principio e la fine della felicità.

Fernanda aveva un elegante calendarietto con borchie dorate sul quale il suo direttore spirituale aveva segnato in inchiostro violetto le date di astinenza venerea. Scontando la Settimana Santa, le domeniche, le feste comandate, i primi venerdì, i ritiri, i sacrifici e gli impedimenti ciclici, il suo annuario utile rimaneva ridotto a quarantadue giorni dispersi in un intrico di croci violette. Aureliano Secondo, convinto che il tempo avrebbe rimosso quell’ostile reticolato, prolungò la festa delle nozze più in là del termine previsto. Stanca di buttare nella spazzatura bottiglie vuote di brandy e di champagne, perché non ingombrassero la casa, e allo stesso tempo impensierita dal fatto che gli sposi novelli dormissero in ore diverse e in stanze separate mentre continuavano i petardi e la musica e il sacrificio dei capi di bestiame, Ursula rammentò la propria esperienza e si chiese se Fernanda non avesse anche lei una cintura di castità che prima o poi avrebbe provocato gli scherni della gente e dato origine a una tragedia. Ma Fernanda le confessò che stava semplicemente lasciando passare due settimane prima di accedere al primo contatto col suo sposo. Trascorso il termine, in effetti, aprì la porta della sua stanza con la stessa rassegnazione al sacrificio di una vittima espiatoria, e Aureliano Secondo vide la donna più bella della terra, coi suoi gloriosi occhi di animale spaventato e i lunghi capelli color rame sparsi sul guanciale. Era così affascinato da quella visione che tardò un attimo a rendersi conto che Fernanda si era infilata un camicione bianco, lungo fino alle caviglie, con maniche fino ai polsi e con un’asola grande e rotonda deliziosamente bordata all’altezza del ventre. Aureliano Secondo non riuscì a reprimere uno scoppio di ilarità.

“Questa è la cosa più oscena che ho visto in vita mia,” gridò, con una sghignazzata che risuonò per tutta la casa. “Mi sono sposato con una suorina di carità.”

Un mese dopo, non essendo riuscito a far sì che sua moglie si togliesse il camicione, se ne andò a fare il ritratto a Petra Cotes vestita da regina. Più tardi, quando convinse Fernanda a tornare a casa, la moglie cedette alle sue pressioni nella febbre della riconciliazione, ma non seppe fornirgli la tranquillità che egli aveva sognato quando era andato a cercarla nella città dei trentadue campanili. Aureliano Secondo trovò i lei soltanto un profondo sentimento di desolazione. Una notte, poco prima che nascesse il primo figlio, Fernand si accorse che suo marito era tornato di nascosto nel letto di Petra Cotes.

“È vero,” ammise lui. E spiegò con un tono di avvilita rassegnazione: “Ho dovuto farlo, perché gli animali continuassero a partorire.

Gli ci volle un po’ di tempo per convincerla di quell’espediente peregrino, ma quando alla fine ci riuscì mediante prove che sembravano irrefutabili, l’unica promessa che gli impose Fernanda fu quella di non lasciarsi sorprendere dalla morte nel letto della sua concubina. Così continuarono a vivere in tre, senza darsi fastidio: Aureliano Secondo era puntuale e affettuose con entrambe, Petra Cotes si pavoneggiava per il trionfo, e Fernanda fingeva di ignorare la verità.

Il patto non fece sì, comunque, che Fernanda riuscisse a integrarsi alla famiglia. Invano Ursula insistette perché buttasse via la gorgeretta di lana con la quale si alzava dal letto quando aveva fatto l’amore e che provocava le chiacchiere dei vicini. Non riuscì a convincerla a servirsi del gabinetto, o del vaso da notte, e a vendere il pitale d’oro al colonnello Aureliano Buendìa perché lo trasformasse in pesciolini. Amaranta si sentiva così imbarazzata dalla sua pronunzia leziosa e dalla sua abitudine di indicare ogni cosa con un eufemismo che davanti a lei parlava sempre in lingua furbesca.

“Efè difi quelfelefe,” diceva, “afa cufuifi fafa schififofo lafa loforofo stefessafa meferdafa.

Un giorno, seccata per lo scherzo, Fernanda volle sapere che cosa stava dicendo Amaranta, e lei non usò eufemismi per risponderle.

“Sto dicendo,” disse, “che sei di quelle che confondono il cazzo con l’equinozio.”

Da quel giorno non si rivolsero più la parola. Quando le circostanze le obbligavano, si mandavano messaggi, o si parlavano per interposta persona. Nonostante la visibile ostilità della famiglia, Fernanda non rinunciò alla volontà di imporre gli usi dei suoi maggiori. Fece smettere l’abitudine di mangiare in cucina e all’ora che uno aveva fame, e impose l’obbligo di farlo a ore esatte sul tavolo grande della sala da pranzo apparecchiato con tovaglie di lino, e coi candelabri e il servizio d’argento. La solennità di un atto che Ursula aveva sempre considerato come il più semplice della vita quotidiana creò una situazione di stecchita compunzione contro la quale il primo a ribellarsi fu il sottomesso José Arcadio Secondo. Ma l’abitudine si impose, così come quella di recitare il rosario prima di cena, e richiamò talmente l’attenzione dei vicini, che ben presto circolò la voce che i Buendìa non si mettevano a tavola come gli altri mortali, ma che avevano convertito l’atto di mangiare in una messa cantata. Perfino le superstizioni di Ursula, nate piuttosto dall’ispirazione dei momento che dalla tradizione, entrarono in conflitto con quelle che Fernanda aveva ereditato dai suoi genitori, e che erano perfettamente definite e catalogate per ogni occasione. Fintanto che Ursula usufruì del pieno dominio delle sue facoltà, si conservarono alcune delle antiche abitudini e la vita della famiglia continuò a subire l’influsso dei suoi colpi di testa, ma quando perse la vista e il peso degli anni la confinò in un angolo, il cerchio di rigidezza iniziato da Fernanda dal momento in cui era arrivata finì per chiudersi completamente, e nessuno più di lei determinò il destino della famiglia. L’industria di pasticceria e di animaletti di caramello, che Santa Sofia de la Piedad continuava per volontà di Ursula, era considerata da Fernanda come un’attività indegna, e non tardò a liquidarla. Le porte della casa, spalancate dallo spuntare del giorno fino all’ora di andare a dormire, furono chiuse durante la siesta, col pretesto che il sole riscaldava le stanze da letto, e alla fine si chiusero per sempre. Il fascio di aloe e il pane appesi sull’architrave fin dai tempi della fondazione furono sostituiti da un’immagine del Cuore di Gesù. Il colonnello Aureliano Buendìa riuscì a rendersi conto di quei cambiamenti e previde le loro conseguenze. “Stiamo diventando gente fina,” protestava. “Di questo passo, finiremo per combattere di nuovo contro il regime conservatore, ma questa volta per mettere un re al suo posto.” Fernanda, con grande tatto, fece attenzione a non urtarsi con lui. Era infastidita intimamente dalla sua indipendenza di spirito, dalla sua resistenza a ogni forma di rigidità sociale. Era esasperata dalle sue scodelle di caffè alle cinque, dal disordine del suo laboratorio, dalla sua coperta sfilacciata e dall’abitudine di sedersi sulla porta di casa a sera. Ma fu costretta ad ammettere quella rotella sciolta del meccanismo familiare, perché aveva la certezza che il vecchio colonnello era un animale abbonacciato dagli anni e dalla delusione, che in un impeto di ribellione senile avrebbe potuto svellere le fondamenta della casa. Quando suo marito decise di dare al primo figlio il nome del bisnonno, lei non osò opporsi, perché era arrivata da appena un anno. Ma quando nacque la prima figlia espresse senza riserve la sua risoluzione di battezzarla Renata, come sua madre. Ursula invece aveva deciso di chiamarla Remedios. Dopo una tesa controversia, nella quale Aureliano Secondo si divertì a fare da mediatore, la battezzarono col nome di Renata Remedios, ma Fernanda continuò a chiamarla Renata e basta, mentre la famiglia di suo marito e tutto il villaggio la chiamavano Meme, diminutivo di Remedios.

Sulle prime, Fernanda non parlava della sua famiglia, ma col tempo cominciò a idealizzare suo padre. Parlava di lui a tavola come di un essere eccezionale che aveva rinunciato a ogni forma di vanità, e si stava convertendo in santo. Aureliano Secondo, stupito della intempestiva magnificazione del suocero, non resisteva alla tentazione di fare piccole burle alle spalle della moglie. Il resto della famiglia seguì il suo esempio. La stessa Ursula, che era estremamente gelosa dell’armonia familiare e che soffriva in segreto degli screzi domestici, si permise di dire qualche volta che il piccolo bisnipote aveva assicurato il suo avvenire pontificale, perché era “nipote di santo e figlio di regina e di ladro di bestiame.” Nonostante quella sorridente cospirazione, i bambini si abituarono a pensare al nonno come a un essere leggendario, che trascriveva per loro versi devoti nelle lettere e mandava, ogni Natale, una cassa di regali che riusciva appena a passare dalla porta di strada. Erano, in realtà, gli ultimi resti del patrimonio avito. Con essi si costruì nella stanza da letto dei bambini un altare con santi a grandezza naturale, ai quali gli occhi di vetro imprimevano una inquietante parvenza di vita e le cui vesti di panno artisticamente ricamate erano migliori di quelle mai usate da nessun abitante di Macondo. A poco a poco, lo splendore funerario dell’antica e gelata magione si andò trasferendo nella luminosa casa dei Buendìa. “Ormai ce l’hanno mandato tutto, il cimitero di famiglia,” commentò una volta Aureliano Secondo. “Mancano soltanto i salici e le pietre sepolcrali.” Benché negli scatoloni non arrivasse mai nulla per i giochi dei bambini, questi passavano l’anno aspettando dicembre, perché gli antiquati e sempre imprevedibili regali costituivano comunque una novità in casa. Nel decimo Natale, quando ormai il piccolo José Arcadio si stava preparando ad andare in seminario, arrivò con maggiore anticipo degli anni precedenti l’enorme cassa del nonno, accuratamente inchiodata e impermeabilizzata con catrame, e indirizzata con la solita scrittura a caratteri gotici alla distintissima signora donna Fernanda del Carpio in Buendìa. Mentre lei leggeva la lettera nella stanza da letto, i bambini si affrettarono ad aprire la cassa. Aiutati come sempre da Aureliano Secondo, raschiarono i sigilli di catrame, schiodarono il coperchio, tolsero la segatura di protezione, e dentro trovarono un lungo cofano di piombo chiuso con viti di rame. Aureliano Secondo levò le otto viti, sollecitato dall’impazienza dei bambini, ed ebbe appena il tempo di lanciare un urlo e di scostarli, quando alzò la piattaforma di piombo e vide don Fernando vestito di nero e con un crocifisso sul petto, con la pelle crepata in eruzioni pestilenziali e che cuoceva a fuoco lento in uno schiumoso e borbottante brodo di perle vive.

Poco dopo la nascita della bambina, si annunciò inaspettato il giubileo del colonnello Aureliano Buendìa, ordinato dal governo per celebrare un nuovo anniversario del trattato di Neerlandia. Fu una risoluzione così incoerente con la politica ufficiale, che il colonnello se ne dichiarò violentemente contrario e respinse l’omaggio. “È la prima volta che sento la parola giubileo,” diceva. “Ma qualsiasi cosa voglia dire, non può essere che una beffa.” L’angusto laboratorio di oreficeria si riempi di emissari. Tornarono, molto più vecchi e molto più solenni, gli avvocati vestiti di scuro che in altra epoca avevano roteato come corvi intorno al colonnello. Quando questi li vide arrivare, come in altra epoca erano arrivati a impantanare la guerra, non poté sopportare il cinismo dei loro panegirici. Ordinò loro che lo lasciassero in pace, insistette che lui non era un padre della patria come loro dicevano, bensì un artigiano senza ricordi, il cui unico sogno era quello di morire di stanchezza nella dimenticanza e nella miseria dei suoi pesciolini d’oro. La cosa che più lo indignò fu la notizia che lo stesso presidente della repubblica pensava di presenziare alle cerimonie di Macondo per decorarlo dell’Ordine del Merito. Il colonnello Aureliano Buendìa gli mandò a dire, chiaro e tondo, che attendeva con vera ansia quella tardiva ma meritata occasione per tirargli una pistolettata, non tanto per fargli pagare gli arbitri e gli anacronismi del suo regime, quanto per aver mancato di rispetto a un vecchio che non faceva male a nessuno. Fu tale la veemenza con la quale pronunciò la minaccia, che il presidente della repubblica disdisse il viaggio all’ultima ora e mandò la decorazione tramite un rappresentante personale. Il colonnello Gerineldo Màrquez, assediato da pressioni di ogni specie, lasciò il suo letto di paralitico per persuadere il suo vecchio compagno d’armi. Quando questi vide comparire la poltrona sorretta da quattro uomini e vide seduto, tra grandi cuscini, l’amico che aveva diviso le sue vittorie e infortuni fin dalla gioventù, non dubitò nemmeno per un attimo che compiva quello sforzo per esprimergli la sua solidarietà. Ma quando seppe il vero proposito della sua visita, lo fece cacciare dal laboratorio.

“Troppo tardi mi convinco,” gli disse, “che ti avrei reso un grande favore se ti avessi lasciato fucilare.”

Di modo che il giubileo si celebrò senza la presenza di nessuno dei membri della famiglia. Fu un caso che coincidesse con la settimana di carnevale, ma nessuno riuscì a togliere dalla testa al colonnello Aureliano Buendìa l’idea caparbia che anche quella coincidenza era stata prevista dal governo per calcare la crudeltà della burla. Dal laboratorio solitario sentì le musiche marziali, l’artiglieria a salve, le campane del Te Deum, e qualche frase dei discorsi pronunciati davanti alla casa quando battezzarono la strada col suo nome. Gli occhi gli si inumidirono di indignazione, di rabbiosa impotenza, e per la prima volta dalla sconfitta si dolse di non avere l’audacia della gioventù per promuovere una guerra sanguinosa che cancellasse fin l’ultimo vestigio del governo conservatore. Non si erano estinti gli echi dell’omaggio, quando Ursula bussò alla porta del laboratorio.

“Non seccatemi,” disse lui. “Sono occupato.”

“Apri,” insistette Ursula con voce quotidiana. “Questo non c’entra affatto con la festa.”

Allora il colonnello Aureliano Buendìa levò la sbarra, e vide sulla porta diciassette uomini dei più diversi aspetti, di tutti i tipi e colori, ma tutti con un fare solitario che sarebbe stato sufficiente per individuarli in qualsiasi angolo della terra. Erano suoi figli. Senza mettersi d’accordo, senza conoscersi tra loro, erano arrivati dai più nascosti angoli della costa, attirati dagli echi del giubileo. Tutti portavano orgogliosamente il nome di Aureliano, e il cognome della loro madre. Durante i tre giorni che rimasero in casa, con grande soddisfazione di Ursula e scandalo di Fernanda, causarono trambusti di guerra. Amaranta cercò tra antiche carte il libretto dove Ursula aveva annotato i nomi e le date di nascita e di battesimo di tutti e aggiunse nello spazio che corrispondeva a cadauno il domicilio attuale. Quella lista avrebbe permesso di fare una ricapitolazione di vent’anni di guerra. Vi si sarebbero potuti ricostruire gli itinerari notturni del colonnello, dal giorno in cui se n’era andato da Macondo alla testa di ventun uomini verso una ribellione chimerica, finché non era tornato per l’ultima volta nella coperta indurita di sangue. Aureliano Secondo non si lasciò sfuggire l’occasione di far festa ai cugini con una strepitosa gozzoviglia di champagne e fisarmonica, che si interpretò come una ritardata sistemazione di conti col carnevale sciupato dal giubileo. Fecero a pezzi mezzo vasellame, distrussero i rosai inseguendo un toro per dargli di cappa, uccisero le galline a schioppettate, obbligarono Amaranta a ballare i valzer tristi di Pietro Crespi, riuscirono a fare infilare un paio di pantaloni da uomo a Remedios la bella per farla salire sulla cuccagna, e fecero entrare in sala da pranzo un maiale spalmato di sugna che buttò per terra Fernanda, ma nessuno si lamentò dei danni, perché la casa fu scossa da un terremoto di buona salute. Il colonnello Aureliano Buendìa, che sulle prime li aveva ricevuti con diffidenza e aveva messo perfino in dubbio la filiazione di qualcuno di loro, si diverti alle loro mattane, e prima che se ne andassero regalò a ognuno un pesciolino d’oro. Perfino il ritroso José Arcadio Secondo offrì in loro onore un pomeriggio di galli, che fu lì lì per terminare in tragedia, perché diversi degli Aureliani la sapevano così lunga in fatto di intrallazzi nelle arene che scoprirono al primo colpo d’occhio le cabale di padre Antonio Isabel. Aureliano Secondo, che vide le illimitate prospettive di crapula che offriva quella fenomenale parentela, decise che tutti si fermassero a lavorare con lui. L’unico che accettò fu Aureliano Triste, un mulatto grande con gli slanci e lo spirito esploratore del nonno, che aveva già tentato la fortuna in mezzo mondo e a cui non importava fermarsi in un posto o nell’altro. Gli altri, benché fossero ancora scapoli, non avevano dubbi sul loro destino. Erano tutti abili artigiani, uomini di casa, gente pacifica. Il mercoledì delle ceneri, prima che tornassero a disperdersi per la costa, Amaranta ottenne che indossassero gli abiti della festa e che l’accompagnassero in chiesa. Più divertiti che devoti, si lasciarono condurre fino alla balaustra, dove padre Antonio Isabel li segnò in fronte con la croce di cenere. Di ritorno a casa, quando il minore volle pulirsi la fronte, scoprì che il segno era indelebile, e che lo era pure quello dei suoi fratelli. Provarono con acqua e sapone, con terra e strofinaccio, e per ultimo con pietra pomice e lisciva, e non riuscirono a cancellarsi la croce. Invece Amaranta e gli altri che erano andati a messa, se la tolsero senza difficoltà. “Così va meglio,” li congedò Ursula. “D’ora in poi nessuno potrà confondervi.” Se ne andarono in frotta, preceduti dalla banda e tra spari di petardi, e lasciarono nel villaggio l’impressione che la stirpe dei Buendìa aveva semente per molti secoli. Aureliano Triste, con la sua croce di cenere sulla fronte, fece sorgere alla periferia del villaggio la fabbrica di ghiaccio che José Arcadio Buendìa aveva sognato nei suoi deliri di inventore.

Qualche mese dopo il suo arrivo, quando già era noto ed apprezzato, Aureliano Triste stava cercando una casa per far venire sua madre e una sorella nubile (che non era figlia del colonnello) e mise gli occhi sul casone decrepito che sembrava abbandonato in un angolo della piazza. Chiese chi ne fosse il padrone. Qualcuno gli disse che era una casa di nessuno, dove in altri tempi era vissuta una vedova solitaria che si alimentava di terra e di calcinacci dei muri, e che nei suoi ultimi anni era stata vista solo due volte in strada con un cappello di fiorellini artificiali e con un paio di scarpe color argento antico, mentre attraversava la piazza diretta verso l’ufficio postale per spedire lettere al Vescovo. Gli dissero che la sua unica compagna era stata una serva perversa che ammazzava cani e gatti e quanti animali entravano nella casa, e buttava i cadaveri in mezzo alla strada per rompere i coglioni al villaggio col fetore della putrefazione. Era passato tanto tempo da quando il sole aveva mummificato la carcassa vuota dell’ultimo animale, che tutti davano per scontato che la padrona di casa e la serva erano morte molto prima della fine delle guerre, e se la casa era ancora in piedi era perché negli ultimi anni non c’era stato un inverno rigido o un vento demolitore. I cardini sbriciolati dalla ruggine, le porte sostenute appena da cumuli di ragnatele, le finestre saldate dall’umidità e il selciato rotto dall’erba e dai fiori selvatici, nelle cui fessure si annidavano lucertole e ogni sorta di bestiacce, parevano confermare la versione che lì non c’era stato un essere umano da almeno mezzo secolo. All’impulsivo Aureliano Triste non occorrevano così tante prove per procedere. Diede una spallata alla porta principale, e la cariata intelaiatura di legno crollò senza strepito, in un silenzioso cataclisma di polvere e segatura di tarli. Aureliano Triste rimase sulla soglia, aspettando che svanisse la nebbia, e allora vide in mezzo alla sala la squallida donna vestita ancora con abiti del secolo anteriore, con pochi filamenti giallastri sul cranio nudo, e con occhi grandi, ancora belli, nei quali si erano spente le ultime stelle della speranza, e la pelle del viso screpolata dall’aridità della solitudine. Sbigottito per quella visione d’altro mondo, Aureliano Triste si rese appena conto che la donna gli puntava contro un’antiquata pistola da militare.

“Mi scusi,” mormorò.

Lei rimase immobile nel mezzo della sala zeppa di cianfrusaglie, e continuò a scrutare a palmo a palmo il gigante dalle spalle quadre con un tatuaggio di cenere sulla fronte, e attraverso la nebbia della polvere lo vide nella nebbia di altri tempi, con uno schioppo a due canne a tracolla e una filza di conigli in mano.

“Per l’amor di Dio,” esclamò sottovoce, “non è giusto che adesso mi si venga fuori con questo ricordo!”

“Voglio affittare la casa,” disse Aureliano Triste.

Allora la donna alzò la pistola, mirando con mano ferma alla croce di cenere, e alzò il grilletto con una determinazione inappellabile.

“Se ne vada,” ordinò.

Quella notte, durante la cena, Aureliano Triste raccontò l’episodio alla famiglia, e Ursula pianse di costernazione. “Dio santo,” esclamò stringendosi la testa tra le mani. “È ancora viva!” Il tempo, le guerre, gli innumerevoli disastri quotidiani le avevano fatto dimenticare Rebeca. L’unica che non aveva cessato per un solo istante di sapere che era viva, a imputridirsi nella sua zuppa di larve, era l’implacabile e invecchiata Amaranta. Pensava a lei allo spuntare del giorno, quando il gelo del cuore la svegliava nel letto solitario, e pensava a lei quando si insaponava i seni appassiti e il ventre macilento, e quando si metteva le bianche sottane e i corpetti di olanda, e quando si cambiava la benda nera della terribile espiazione. Sempre, in ogni ora, addormentata o sveglia, negli istanti più sublimi e in quelli più abietti, Amaranta pensava a Rebeca, perché la solitudine le aveva selezionato i ricordi, e aveva incenerito gli intorpidenti mucchi di mondezza nostalgica che la vita aveva accumulato nel suo cuore, e aveva purificato, magnificato e eternizzato gli altri, i più amari. Grazie a lei sapeva Remedios la bella dell’esistenza di Rebeca. Ogni volta che passavano davanti alla casa decrepita le raccontava un incidente ingrato, una mormorazione obbrobriosa, cercando in quel modo di far sì che il suo estenuante rancore fosse compartito dalla nipote, e di conseguenza prolungato oltre la morte, ma non riuscì nei suoi propositi perché Remedios era immune da ogni sorta di sentimenti passionali, e assai più da quelli altrui. Ursula, invece, che aveva sofferto un processo contrario a quello di Amaranta, rievocò Rebeca con un ricordo mondo da impurità, perché l’immagine della creatura compassionevole che le avevano portato in casa con il sacco delle ossa dei suoi genitori era prevalsa sull’offesa che l’aveva resa indegna di mantenersi ancora vincolata al tronco familiare. Aureliano Secondo decise che bisognava portarla da loro e proteggerla, ma la sua buona intenzione fu frustrata dall’inflessibile intransigenza di Rebeca, alla quale erano stati necessari molti anni di sofferenza e di miseria per conquistare i privilegi della solitudine, e non era disposta a rinunciarvi in cambio di una vecchiaia turbata dai falsi incanti della misericordia.

In febbraio, quando tornarono i sedici figli del colonnello Aureliano Buendìa, ancora segnati con la croce di cenere, Aureliano Triste parlò loro di Rebeca nello strepito della baldoria, e in mezza giornata restaurarono l’esterno della casa, cambiarono porte e finestre, dipinsero la facciata con colori vivaci, puntellarono le pareti e rovesciarono cemento nuovo sul pavimento, ma non ottennero l’autorizzazione di continuare le modifiche nell’interno. Rebeca non si affacciò nemmeno alla porta. Lasciò che terminassero l’alacre restauro, e poi fece un calcolo dei costi e mandò loro tramite Argénida, la vecchia serva che era sempre con lei, una manciata di monete andate fuori corso fin dall’ultima guerra, e che Rebeca continuava a credere buone. Fu allora che si seppe fino a che punto inconcepibile era giunta la sua affrancazione dal mondo, e si comprese che sarebbe stato impossibile riscattarla dalla sua caparbia clausura finché le fosse rimasto un soffio di vita.

Nella seconda visita che fecero a Macondo i figli del colonnello Aureliano Buendìa, un altro di loro, Aureliano Centeno, rimase a lavorare con Aureliano Triste. Era uno dei primi portati in casa per il battesimo, e Ursula e Amaranta se lo ricordavano benissimo perché aveva fatto a pezzi in poche ore tutti gli oggetti rompibili che erano passati per le sue mani. Il tempo aveva moderato il suo primitivo impulso di crescita, ed era un uomo di statura media con la pelle butterata, ma il suo spaventoso potere di distruzione manuale era rimasto intatto. Ruppe tanti piatti, perfino senza toccarli, che Fernanda decise di comprargli un servizio di peltro prima che liquidasse gli ultimi elementi del suo costoso vasellame, e anche i resistenti piatti metallici erano dopo poco tempo ammaccati e contorti. Però, in cambio di quel potere irrimediabile; esasperante perfino per lui stesso, possedeva una cordialità che suscitava la fiducia immediata, e una stupenda capacità di lavoro. In poco tempo incrementò in modo tale la produzione di ghiaccio, che saturò il mercato locale, e Aureliano Triste dovette pensare alla possibilità di estendere gli affari ad altri centri della palude. Fu allora che concepì il passo decisivo non soltanto per la modernizzazione della sua industria, ma per vincolare il villaggio al resto del mondo.

“Bisogna far venire la ferrovia,” disse.

Fu la prima volta che si udì quella parola a Macondo. Davanti al disegno schizzato da Aureliano Triste sul tavolo, e che era diretto discendente degli schemi coi quali José Arcadio Buendìa aveva illustrato il progetto della guerra solare, Ursula ebbe la conferma della sua impressione che il tempo stava girando in tondo. Ma al contrario di suo nonno, Aureliano Triste non perdeva né il sonno né l’appetito, né infastidiva nessuno con crisi di malumore, bensì concepiva i progetti più spropositati come possibilità immediate, elaborava calcoli razionali su costi e tempi, e li portava a termine senza intermezzi di esasperazione. Aureliano Secondo, che aveva qualcosa del bisnonno e qualcosa in meno del colonnello Aureliano Buendìa nell’assoluta impermeabilità alle batoste, snocciolò il denaro per far venire la ferrovia con la stessa leggerezza con la quale lo aveva scucito per l’assurda compagnia di navigazione del fratello. Aureliano Triste consultò il calendario e se ne andò il mercoledì dopo deciso a far ritorno soltanto quando fossero cessate le piogge. Non se ne ebbe più notizia. Aureliano Centeno, preoccupato per la strabocchevole sovrapproduzione della fabbrica, aveva già cominciato a sperimentare l’elaborazione di ghiaccio a base di succhi di frutta invece che di acqua, e senza saperlo né proporselo concepì le basi essenziali del l’invenzione dei gelati, pensando in quel modo di diversificare un’azienda che presumeva sua, dato che il fratello non accennava a tornare benché fossero finite le piogge e trascorsa tutta un’estate senza notizie. All’inizio dell’inverno, però, una donna che era andata a lavare i panni al fiume nell’ora della calura fece di corsa la via principale urlando in un allarmante stato di agitazione.

“Arriva,” trovò il fiato di spiegare, “un affare spaventoso come una cucina che si trascina dietro un paese.”

E contemporaneamente il villaggio fu scosso da un fischio dalle risonanze spaventose e da un immane ansito. Durante le settimane precedenti si erano viste squadre di operai sistemare traversine e rotaie, ma nessuno vi aveva badato perché si pensava che fosse un’ennesima trovata degli zingari tornati un’altra volta con la loro secolare e ormai screditata fiera di zufoli e bubbole per vantare chissà quale stronzo intruglio di giulebbatici geni gerosolimitani. Ma quando si ripresero dal turbamento causato dai sibili e sbuffi, tutti gli abitanti scesero in strada e riconobbero Aureliano Triste che salutava con la mano dalla locomotiva, e incantati videro arrivare con otto mesi di ritardo il primo treno inghirlandato di fiori. L’innocente treno giallo che tante incertezze e verità, e tante lusinghe e sventure, e tanti cambiamenti, calamità e nostalgie avrebbe in seguito portato a Macondo.

 Abbagliata da tali e tante meravigliose invenzioni, la gente di Macondo non sapeva da dove cominciare a sbalordirsi. Facevano le ore piccole in contemplazione delle pallide lampadine elettriche alimentate da un impianto che aveva portato Aureliano Triste col secondo viaggio del treno, e al cui ossessionante tum-tum costò tempo e fatica abituarsi. Si indignò per le figure viventi che il prospero commerciante don Bruno Crespi proiettava nel teatro dai botteghini a fauci di leone, perché un personaggio morto e sepolto in una pellicola, e per la malasorte del quale si erano sparse lacrime di afflizione, riappariva vivo e trasformato in arabo nella pellicola successiva. Il pubblico che pagava due centavos per compartire le vicissitudini dei personaggi, non poteva sopportare quella burla inaudita, e fece a pezzi tutta la panchetteria. L’alcalde, su istanza di don Bruno Crespi, spiegò, mediante un bando, che il cinema era soltanto una macchina d’illusioni e perciò non meritava le intemperanze passionali del pubblico. Di fronte a quella deludente spiegazione, molti ritennero di essere stati vittime di una nuova e macchinosa cosa da zingari, di modo che decisero di non tornare più nel cinema, stimando di aver già abbastanza guai propri senza bisogno di piangere per soprammercato a causa delle simulate sventure di esseri immaginari. Qualcosa di simile successe coi grammofoni a cilindro che avevano portato le allegre matrone francesi in sostituzione degli antiquati organini, e che tanto profondamente danneggiarono per qualche tempo gli interessi della banda musicale. Sulle prime, la curiosità moltiplicò la clientela della strada proibita, e si venne a sapere anche di signore rispettabili che si travestirono da burini per poter osservare da vicino la novità del grammofono, ma tanto e da tanto vicino lo osservarono, che ben presto giunsero alla conclusione non esser quello un macinino da sortilegio, come tutti pensavano e come le matrone affermavano, bensì un trucco meccanico che non poteva reggere il confronto con qualcosa di cosa commovente, di così umano e di così pieno di verità quotidiana come una banda di musicanti. Fu una delusione tanto dura, che quando i grammofoni si popolarizzarono fino al punto che ce n’era uno in ogni casa, non li si considerò affatto passatempi per adulti, ma aggeggi buoni solo da lasciar sventrare ai bambini. Invece, quando qualcuno del villaggio ebbe occasione di verificare la cruda realtà del telefono installato nella stazione della ferrovia, e che a causa della manovella era considerato una rudimentale versione del grammofono, perfino i più increduli dovettero arrendersi. Era come se Dio avesse deciso di mettere alla prova ogni loro capacità di stupore, e tenesse gli abitanti di Macondo in un perenne andirivieni tra l’entusiasmo e la delusione, tra il dubbio e la rivelazione, al punto che ormai nessuno poteva sapere con cognizione di causa dove erano i limiti della realtà. Era un intricato guazzabuglio di verità e di miraggi, che convulsioni di impazienza lo spettro di José Arcadio Buendìa sotto il castagno e lo costrinse a girare per tutta la casa anche in pieno giorno. Da quando la ferrovia era stata inaugurata ufficialmente e il treno cominciò ad arrivare con regolarità tutti i mercoledì alle undici, e si costruì la primitiva stazione di legno, con una scrivania, il telefono, e uno sportello per vendere i biglietti, si videro per le strade di Macondo uomini e donne che fingevano un contegno normale e corrente, ma che in realtà sembravano gente di circo. In un villaggio già scottato dalle lezioni di legioni di zingari non c’erano buone possibilità di avvenire per quegli equilibristi del commercio ambulante che offrivano con uguale spigliatezza vuoi una pentola a fischio vuoi un regime di vita per salvar l’anima al settimo giorno; ma, tra quelli che si lasciavano convincere per inerzia e gli incauti di sempre, costoro facevano ottimi affari. Tra queste creature da fiera, con pantaloni da cavallerizzo e uose, caschi da esploratore, occhiali cerchiati di acciaio, occhi di topazio e pelle d’aragosta, uno dei tanti mercoledì arrivò a Macondo e venne a pranzo in casa il grassoccio e sorridente Mr. Herbert.

Nessuno si accorse di lui a tavola finché non si mangiò il primo casco di banane. Aureliano Secondo lo aveva incontrato per caso, mentre protestava in uno stentato spagnolo perché non c’era nemmeno una stanza libera nell’Hotel di Jacob, e come usava fare frequentemente con molti forestieri, se l’era portato a casa. Lavorava in palloni frenati, che aveva portato per mezzo mondo facendo eccellenti affari, ma non era riuscito a innalzarne nessuno a Macondo perché tutti consideravano quell’invenzione come un regresso, dopo aver visto e provato le stuoie volanti degli zingari. E così aveva intenzione di andarsene col prossimo treno. Quando portarono in tavola il casco di banane tigrate che usavano appendere nella sala da pranzo durante il pasto, staccò il primo frutto senza molto entusiasmo. Ma continuò a mangiare mentre parlava, assaporando, masticando più con introversione di savio che con godimento di buongustaio, e quando finì il primo casco pregò che gliene portassero un altro. Allora tolse dalla cassetta di utensili che portava sempre con sé un piccolo astuccio di strumenti ottici. Con l’incredula oculatezza di un compratore di diamanti esaminò meticolosamente una banana, sezionando le sue parti con uno stiletto speciale, pesandole in un bilancino da farmacista e calcolandone il diametro con un calibro da armaiolo. Poi tolse dalla cassetta una serie di strumenti coi quali misurò la temperatura, il grado di umidità dell’atmosfera e l’intensità della luce. Fu una cerimonia così ingombrante che nessuno riuscì a mangiare tranquillamente, nell’attesa che Mr. Herbert emettesse finalmente un giudizio rivelatore, ma lui non disse nulla che permettesse di prevedere le sue intenzioni.

Nei giorni seguenti lo si vide con un retino e un panierino occupato a cacciare farfalle nei dintorni del villaggio. II mercoledì arrivò un gruppo di ingegneri, agronomi, idrologi, topografi e agrimensori che per parecchie settimane esplorarono gli stessi luoghi dove Mr. Herbert cacciava farfalle. Più tardi arrivò il signor Jack Brown in un vagone supplementare che agganciarono in coda al treno giallo, e che era tutto laminato d’argento, con poltrone di velluto episcopale e tetto di vetro azzurrato. Nel vagone speciale arrivarono anche, roteanti intorno al signor Brown, i solenni avvocati vestiti di nero che in altri tempi avevano seguito dovunque il colonnello Aureliano Buendìa, e ciò fece pensare alla gente che gli agronomi, gli idrologi, i topografi e gli agrimensori, così come Mr. Herbert coi suoi palloni frenati e le sue farfalle colorate, e il signor Brown col suo mausoleo viaggiante e i suoi feroci cani tedeschi, avessero qualcosa a che vedere con la guerra. Non ci fu, tuttavia, molto tempo per pensarci, perché i sospettosi abitanti di Macondo cominciavano appena a domandarsi che accidente stava succedendo, che già il villaggio si era trasformato in un agglomerato di case di legno con tettoie di zinco, popolato da forestieri che arrivavano da mezzo mondo con il treno, non solo nelle vetture e sulle piattaforme, ma perfino sul tetto dei vagoni. I gringos, che più tardi fecero venire le loro mogli languide in abiti di mussolina e grandi cappelli di tulle, costruirono un villaggio a parte dall’altro lato della ferrovia, con strade bordate di palme, case con finestre protette da reticelle metalliche, tavolini bianchi sulle terrazze e ventilatori a pale appesi al soffitto, e vasti prati azzurri con pavoni e coturnici. Il settore era limitato da una rete metallica, come una gigantesca capponaia elettrificata che allo spuntare del giorno nei freschi mesi estivi s’anneriva di rondini bruciacchiate. Nessuno sapeva ancora che cosa cercassero, o se in realtà non erano altro che filantropi, e già avevano provocato uno scompiglio colossale, molto più perturbatore di quello degli antichi zingari, ma meno transitorio e comprensibile. Dotati di risorse che in altri tempi erano state appannaggio della Divina Provvidenza, modificarono il regime delle piogge, affrettarono il ciclo dei raccolti, e tolsero il fiume da dove era sempre stato e lo misero con le sue pietre bianche e le sue correnti gelate all’altra estremità del paese, dietro il camposanto. Fu in quella occasione che costruirono una fortezza di calcestruzzo sulla sbiadita tomba di José Arcadio per far sì che l’odore di polvere da sparo del cadavere non contaminasse le acque. Per i forestieri che arrivavano senza amore, trasformarono la strada delle accoglienti matrone di Francia in un più vasto agglomerato, e in un mercoledì di gloria fecero venire un treno carico di puttane inverosimili, femmine babiloniche addestrate a trucchi immemorabili, e provviste di ogni sorta di unguenti e dispositivi per stimolare gli inermi, aizzare i timidi, saziare i voraci, esaltare i modesti, temperare i multipli e correggere i solitari. La Strada dei Turchi, arricchitasi di sfarzose drogherie che sfrattarono i vecchi bazar variopinti, era battuta la notte del sabato dalla folla degli avventurieri che si pigiavano tra i tavoli della fortuna e dell’azzardo, le baracche del tiro a segno, il vicolo dove si prediceva il futuro e si interpretavano i sogni, e i banchi di frittelle e di bibite, che le prime luci del mattino trovavano sconciate per terra, tra corpi che a volte erano di ubriachi felici e quasi sempre di curiosi abbattuti da spari, da pugni, da sbuzzate e bottigliate nel parapiglia. Fu una invasione così tumultuosa e imprevista, che nei primi tempi era impossibile camminare per la strada a causa dell’intralcio dei mobili e dei bauli, e del trambusto di carpenteria di coloro che mettevano su casa dovunque trovassero un terreno sgombro e senza dover chiedere il permesso a nessuno, e dello scandalo delle coppie che appendevano le loro amache tra i mandorli e facevano all’amore sotto i tendoni, in pieno giorno e sotto gli occhi di tutti. L’unico angolo di serenità fu creato dai pacifici negri delle Antille che costruirono una strada marginale, con case di legno su palafitte, e verso sera si sedevano sulla veranda a cantare inni malinconici nel loro farraginoso farfuglio. Tanti cambiamenti si verificarono in così poco tempo, che otto mesi dopo la visita di Mr. Herbert i vecchi abitanti di Macondo si levavano di buon’ora per esplorare il loro stesso villaggio.

“Guardate un po’ in che fottitura ci siamo cacciati,” usava dire allora il colonnello Aureliano Buendìa, “solo per aver invitato un gringo a mangiare banane.”

Aureliano Secondo, invece, non stava nella pelle per la contentezza che gli procurava la valanga di forestieri. La casa si riempì improvvisamente di ospiti sconosciuti, di imbattibili sgavazzatori mondiali, e fu necessario aggiungere stanze da letto nel patio, allargare la sala da pranzo e sostituire il vecchio tavolo con un altro da sedici, con nuovo vasellame e servizi, e anche così si dovettero stabilire turni per mangiare. Fernanda dovette trangugiarsi i suoi scrupoli e servire come altrettanti re certi invitati della perversa condizione, che infangavano cogli stivali il porticato, orinavano in giardino, e dovunque stendevano le loro stuoie per fare la siesta, e parlavano senza far caso né a suscettibilità di dame né a smancerie di cavalieri. Amaranta si scandalizzò così tanto per l’invasione della plebe, che tornò a mangiare in cucina come ai vecchi tempi. Il colonnello Aureliano Buendìa, persuaso che la maggior parte di coloro che entravano nel laboratorio per salutarlo non lo facessero per simpatia o per stima, ma solo per la curiosità di conoscere una reliquia storica, un fossile da museo, decise di sbarrarsi nella stanza e non lo si rivide più, tranne in rarissime occasioni, seduto sulla porta di strada. Ursula, invece, anche nell’epoca in cui già strascicava i piedi e camminava tastando i muri, provava un’eccitazione puerile ad ogni avvicinarsi dell’arrivo del treno. “Bisogna fare carne e pesce,” ordinava alle quattro cuoche, che si affannavano per arrivare in tempo sotto la imperturbabile guida di Santa Sofia de la Piedad. “Bisogna fare di tutto,” insisteva, “perché non si sa mai cosa vogliono mangiare i forestieri.” Il treno arrivava nell’ora del calore più intenso. Durante il pranzo la casa trepidava in una confusione da mercato, e i sudati commensali, che non sapevano neppure chi fossero i loro anfitrioni, irrompevano a frotte per occupare i migliori posti attorno al tavolo, mentre le cuoche si intralciavano a vicenda con le enormi pentole di zuppa, i calderoni di carne, i catini di legumi, i vassoi di riso, e distribuivano con mestoli inesauribili le tinozze di limonata. Era tale il disordine che Fernanda era esasperata all’idea che molti mangiassero due volte, e in più di una occasione ebbe la tentazione di sfogarsi con improperi da pescivendola perché qualche commensale confuso le chiedeva il conto. Era trascorso più di un anno dalla visita di Mr. Herbert, e l’unica cosa che si sapeva era che i gringos pensavano di seminare banani nella regione incantata che José Arcadio Buendìa e i suoi uomini avevano attraversato cercando la strada delle grandi invenzioni. Altri due figli del colonnello Aureliano Buendìa, con la loro croce di cenere in fronte, arrivarono trascinati da quell’eruzione vulcanica, giustificando la loro decisione con una frase che forse spiegava i motivi di tutti.

“Noi siamo venuti,” dissero, “perché vengono tutti.”

Remedios la bella fu l’unica che rimase immune dalla peste del banano. Si cristallizzò in una adolescenza magnifica, sempre più impermeabile alle formalità, sempre più indifferente alla malizia e alla diffidenza, felice in un suo mondo di realtà semplici. Non capiva perché le donne si complicassero la vita con corpetti e sottane, e perciò si cucì una palandrana di canapa che si infilava semplicemente dalla testa e risolveva senza tante storie il problema del vestire, e tuttavia non le veniva meno la sensazione di essere nuda, il che, secondo lei, era l’unica forma decente di stare in casa. La infastidirono tanto perché si tagliasse i capelli che ormai le arrivavano alle caviglie, e si facesse la crocchia coi pettini e le trecce con nastri colorati, che lei non ci stette a pensar su; si rase la testa e dei capelli fece parrucche per i santi. La cosa sorprendente del suo istinto semplificatore era che, quanto più si sbarazzava della moda alla ricerca della comodità, e quanto più passava sopra ai convenzionalismi in ubbidienza alla spontaneità, tanto più conturbante ne risultava la sua incredibile bellezza e tanto più provocante il suo comportamento con gli uomini. Quando i figli dei colonnello Aureliano Buendìa vennero per la prima volta a Macondo, Ursula si ricordò che nelle loro vene scorreva lo stesso sangue della bisnipote, e rabbrividì per un terrore dimenticato. “Apri bene gli occhi,” la prevenne. “Con uno qualsiasi di loro, i figli ti nasceranno con la coda di maiale.” Lei fece così poco caso all’avvertimento, che si vestì da uomo e si avvoltolò nella sabbia per arrampicarsi sulla cuccagna, e fu sul punto di suscitare una tragedia tra i diciassette cugini scombussolati dall’intollerabile spettacolo. Era per quella ragione che nessuno di loro dormiva in casa quando venivano in paese, e i quattro che erano rimasti vivevano per ordine di Ursula in stanze d’affitto. Ciò nonostante, Remedios la bella sarebbe morta dal ridere se avesse saputo di quelle precauzioni. Fino all’ultimo istante in cui rimase sulla terra ignorò che il suo irreparabile destino di femmina conturbante era una sciagura quotidiana. Ogni volta che entrava in sala da pranzo, contravvenendo agli ordini di Ursula, suscitava un panico di esasperazione tra i forestieri. Era fin troppo evidente che non aveva alcun indumento sotto quel rozzo camicione, e nessuno voleva capire che il suo cranio raso e perfetto non era una sfida, e che non era una criminale provocazione la sfacciataggine con la quale si scopriva le cosce per sopportare meglio il caldo, e il gusto col quale si succhiava le dita dopo aver mangiato con le mani. Quello che nessun membro della famiglia seppe mai, fu che i forestieri non tardarono a rendersi conto che Remedios la bella emanava un alito di conturbamento, una raffica di angoscia, che continuava ad essere percepibile varie ore dopo il suo passaggio. Uomini esperti in turbamenti d’amore provati nel mondo intero, affermavano di non aver mai sofferto un’ansietà simile a quella che produceva l’odore naturale di Remedios la bella. Nel portico delle begonie, nel salotto buono, in qualsiasi luogo della casa, era possibile indicare esattamente per dove era passata e il tempo trascorso da quando se n’era andata. Era una scia precisa, inconfondibile, che solo quelli di casa non potevano distinguere perché era incorporata fin da molto tempo agli odori quotidiani, ma che i forestieri individuavano immediatamente. Erano quindi loro gli unici a comprendere come il giovane comandante della guardia potesse essere morto d’amore, e come un cavaliere venuto da altre terre potesse essersi ridotto alla disperazione. Ignara dell’atmosfera inquietante in cui si moveva, dell’insopportabile stato di intima calamita che provocava al suo passaggio, Remedios la bella trattava gli uomini senza la minima malizia e finiva per scombussolarli con le sue innocenti compiacenze. Quando Ursula riuscì a imporre l’ordine che mangiasse con Amaranta in cucina perché i forestieri non la vedessero, lei si senti più a suo agio perché in fin dei conti era esentata da ogni etichetta. In realtà, per lei era lo stesso mangiare in un luogo qualsiasi, e non a ore fisse ma in conformità alle alternative del suo appetito. Certe volte si alzava a pranzare alle tre del mattino, dormiva per tutta la giornata, e passava parecchi mesi con gli orari scombinati, finché qualche incidente casuale la rimetteva in carreggiata. Quando le cose andavano bene, si alzava alle undici del mattino, e si chiudeva anche due ore in bagno completamente nuda, uccidendo scorpioni mentre si illimpidiva dal denso e prolungato sonno. Poi si bagnava con l’acqua della cisterna versandosela addosso con una zucca. Era un’operazione così prolungata, così meticolosa, così ricca di situazioni cerimoniali, che chi non l’avesse conosciuta bene avrebbe potuto pensare che si abbandonasse ad una meditata adorazione del proprio corpo. Per lei, tuttavia, quel rito solitario era completamente sprovvisto di sensualità, e costituiva semplicemente un modo di passare il tempo finché non le veniva fame. Un giorno, quando cominciava a lavarsi un forestiero sollevò una tegola del tetto e rimase senza fiato davanti al tremendo spettacolo della sua nudità. Lei vide lo sguardo desolato attraverso le tegole rotte e non ebbe una reazione di vergogna, bensì di allarme.

“Attento,” esclamò. “Potrebbe cadere giù.”

“Voglio soltanto vederla,” mormorò il forestiero. “Ah, va bene,” disse lei. “Ma faccia attenzione, perché quelle tegole sono marce.”

Il viso del forestiero aveva una dolorosa espressioni, di stupore, e sembrava combattere sordamente contro, i suoi impulsi primitivi per non dissipare il miraggio Remedios la bella credette che stesse soffrendo per il timore che si rompessero le tegole, e si lavò più in fretta del solito per far sì che l’uomo non continuasse a stare in pericolo. Mentre si versava addosso acqua della cisterna, gli disse che era un guaio che il tetto fosse in quelle condizioni, perché lei era convinta che il bagno era pieno di scorpioni proprio a causa di quello strato”, di foglie marcite dalla pioggia. Il forestiero prese quelle chiacchiere per un modo di dissimulare la sua compiacenza, sicché quando Remedios cominciò a insaponarsi egli cedette alla tentazione di fare un passo avanti.

“Lasci che la insaponi io,” mormorò.

“La ringrazio per la buona intenzione,” disse lei, “ma ce la faccio anche con le mie due mani.”

“Soltanto la schiena,” supplicò il forestiero.

“Sarebbe una sciocchezza,” disse lei. “Non si è mai visto che la gente si insaponi la schiena.”

Poi, mentre si asciugava, il forestiero la supplicò con gli occhi pieni di lacrime di sposarlo. Lei gli rispose sinceramente che non si sarebbe mai sposata con un uomo così sciocco da perdere quasi un’ora, e da restare perfino senza mangiare, solo per vedere una donna che faceva il bagno. Alla fine, quando lei si infilò la palandrana, l’uomo dovette suo malgrado constatare che era proprio vero che Remedios non portava niente sotto, come tutti sospettavano, e si sentì marchiato per sempre dal ferro incandescente di quel segreto. Allora sollevò altre due tegole per potersi calare nell’interno del bagno.

“È molto alto,” lo avverti lei, spaventata. “Si ammazzerà!”

Le tegole marce si schiantarono in uno strepito di sciagura, e l’uomo riuscì appena a lanciare un urlo di terrore, si ruppe il cranio e restò morto sul colpo sull’impiantito di cemento. I forestieri che udirono il fracasso dalla sala da pranzo, e che si affrettarono a portar via il cadavere, percepirono sulla sua pelle lo stordente odore di Remedios la bella, un profumo così compenetrato nel corpo, che le crepe del cranio non trasudavano sangue ma un olio d’ambra impregnato di quel sentore segreto, e allora compresero che l’odore di Remedios la bella continuava a torturare gli uomini oltre la morte, fino all’impolverimento delle loro ossa. Eppure non collegarono quell’orrendo incidente con gli altri due uomini che erano morti per Remedios la bella. Ci voleva un’altra vittima per indurre i forestieri, e molti degli antichi abitanti di Macondo, a dar credito alla leggenda che Remedios Buendìa non esalava un alito di amore, ma un fluido mortale. L’occasione si presentò qualche mese dopo, un pomeriggio in cui Remedios la bella andò con un gruppo di amiche a vedere le nuove piantagioni. Per la gente di Macondo era una distrazione recente percorrere gli umidi e interminabili viali fiancheggiati da banani, dove il silenzio sembrava portato lì da via, ancora nuovo, e perciò troppo rozzo per poter trasmettere la voce umana. Certe volte quello che non si capiva bene a mezzo metro di distanza era tuttavia perfettamente comprensibile all’altro estremo della piantagione. Per le ragazze di Macondo quel gioco pieno di novità era motivo di risate e di sussulti, di spaventi e di burle, e di sera si parlava della passeggiata come di un’esperienza di sogno. Era tale il prestigio di quel silenzio, che Ursula non ebbe il coraggio di privare Remedios la bella di quello svago, e le permise di andarci un pomeriggio, a patto che mettesse un cappello e un vestito decente. Dal momento in cui il gruppo delle ragazze entrò nella piantagione, l’aria si impregnò di una fragranza mortale. Gli uomini che lavoravano nei fossati si sentirono posseduti da una strana malia, minacciati da un pericolo invisibile, e molti cedettero a una terribile voglia di piangere. Remedios la bella e le sue spaventate amiche riuscirono a rifugiarsi in una casa vicina mentre erano sul punto di essere assaltate da un gruppo di maschi inferociti. Poco dopo furono liberate dai quattro Aureliani, le cui croci di cenere infondevano un rispetto sacro, come se fossero il marchio di una casta, un sigillo di invulnerabilità. Remedios la bella non raccontò a nessuno che uno degli uomini, approfittando del tumulto, era riuscito ad aggredirle il ventre con una mano che sembrava piuttosto l’artiglio d’un’aquila che s’aggrappasse all’orlo d’un precipizio. Lei aveva affrontato l’aggressore in una specie di momentaneo abbacinamento, ne aveva visto gli occhi sconsolati impressi nel cuore come un tizzone di pietà. Quella notte, l’uomo si vantò della propria audacia e si vanagloriò della sua fortuna nella Strada dei Turchi, qualche minuto prima che lo zoccolo di un cavallo gli sfondasse il petto, e che una folla di forestieri lo vedesse agonizzare in mezzo alla strada, strozzato da vomiti di sangue.

La supposizione che Remedios la bella avesse poteri di morte era dunque sorretta da quattro fatti irrefutabili. Benché certi uomini dalla parola facile si compiacessero di affermare che valeva ben la pena sacrificare la vita per una notte d’amore con una donna così conturbante, la verità era che nessuno mosse un dito per cimentarvisi. Forse, non solo per farla capitolare ma altresì per scongiurarne i pericoli, sarebbe bastato un sentimento tanto primitivo e semplice come l’amore, ma quella fu l’unica cosa che non venne in mente a nessuno. Ursula non si occupò più di lei. In altri tempi, quando non aveva ancora rinunciato al proposito di offrirle una salvazione mondana, aveva cercato di interessarla alle minute faccende domestiche. “Gli uomini chiedono più di quello che tu credi,” le diceva enigmaticamente. “C’è molto da cucinare, molto da spazzare, molto da soffrire per stupidaggini, e non solo quello che pensi tu.” In fondo ingannava se stessa cercando di addestrarla alla felicità domestica, perché era convinta che una volta soddisfatta la passione, non c’era uomo sulla terra capace di sopportare anche solo per un giorno una negligenza che sfuggiva ad ogni comprensione. La nascita dell’ultimo José Arcadio, e la sua inflessibile volontà di educarlo per farne un Papa, finirono per obbligarla a desistere dalle sue preoccupazioni per la bisnipote. L’abbandonò al suo destino, confidando che prima o poi succedesse un miracolo, e che in questo mondo dove c’era di tutto ci fosse anche un uomo con sufficiente menefreghismo da poterla sopportare. Già da molto prima, Amaranta aveva rinunciato a ogni tentativo di trasformarla in una donna utile. Fin dai pomeriggi dimenticati della stanza da lavoro, quando la nipote badava appena a girare la manovella della macchina per cucire, era giunta semplicemente alla conclusione che doveva essere scema. “Saremo costrette a metterti all’asta,” le diceva, perplessa da quella sua impermeabilità al discorso degli uomini. Più tardi, quando Ursula si ostinò a mandare Remedios la bella a messa con la faccia coperta con uno scialle, Amaranta pensò che quel trucco misterioso avrebbe avuto un effetto così provocante, che ben presto ci sarebbe pur stato un uomo abbastanza incuriosito da voler cercare con pazienza il punto debole del suo cuore. Ma quando vide il modo insensato con cui aveva spregiato un pretendente che per parecchi motivi era più desiderabile di un principe, rinunciò ad ogni speranza. Fernanda non fece neppure il tentativo di capirla. Quando vide Remedios la bella vestita da regina nel carnevale sanguinoso, aveva pensato che fosse una creatura straordinaria. Ma quando la vide mangiare con le mani, incapace di dare una risposta che non fosse un prodigio di scempiaggine, l’unica cosa che le dispiacque fu che gli scemi di famiglia avessero una vita così lunga. Malgrado il colonnello Aureliano Buendìa continuasse a credere e a ripetere che Remedios la bella era in realtà l’essere più lucido che avesse mai conosciuto, e che lo dimostrava in ogni momento con la sua sorprendente abilità di farsi beffe di tutti, la abbandonarono alla mercé di Dio. Remedios la bella rimase a vagare per il deserto della solitudine, senza croci da sopportare, a maturare nei suoi sogni senza incubi, nei suoi bagni interminabili, nei suoi pasti senza orario, nei suoi profondi e prolungati silenzi senza ricordi, fino a un pomeriggio di marzo in cui Fernanda volle piegare in giardino le sue lenzuola di fiandra, e chiese aiuto alle donne di casa. Avevano appena cominciato, quando Amaranta si accorse che Remedios la bella era indiafanata da un pallore intenso.

“Ti senti male?” le chiese.

Remedios la bella, che teneva stretto il lenzuolo all’altro capo, fece un sorriso di compatimento.

“Macché,” disse, “non mi sono mai sentita così bene.”

Aveva appena finito di dirlo, quando Fernanda sentì che un delicato vento di luce le strappava le lenzuola dalle mani e le spiegava in tutta la loro ampiezza. Amaranta senti un tremito misterioso nei pizzi delle sue sottane e cercò di aggrapparsi al lenzuolo per non cadere, nell’istante in cui Remedios la bella cominciava a sollevarsi. Ursula, già quasi cieca, fu l’unica che ebbe tanta serenità da riconoscere la natura di quel vento ineluttabile, e lasciò le lenzuola alla mercé della luce, e vide Remedios la bella che la salutava con la mano, tra l’abbagliante palpitare delle lenzuola che salivano con lei, che uscivano con lei dall’aria degli scarabei e delle dalie, e con lei attraversavano l’aria in cui si spegnevano le quattro del pomeriggio, e con lei si perdevano per sempre nelle alte arie dove non potevano raggiungerla nemmeno i più alti uccelli della memoria.

I forestieri, naturalmente, pensarono che Remedios la bella aveva finalmente ceduto al suo ineluttabile destino di ape regina, e che la sua famiglia cercava di salvare l’onore con la balla della lievitazione. Fernanda, rosa dall’invidia, finì per ammettere il prodigio, e per molto tempo continuò a pregare Dio di restituirle le lenzuola. Quasi tutti credettero al miracolo, e si accesero perfino candele e si fecero novene. Forse non si sarebbe parlato d’altro per parecchio tempo, se il barbaro sterminio degli Aureliani non avesse sostituito lo stupore con lo sgomento. Benché non lo avesse mai interpretato come un presagio, il colonnello Aureliano Buendìa aveva in un certo modo previsto la tragica fine dei suoi figli. Quando Aureliano Serrador e Aureliano Arcaya, i due che erano arrivati con la baraonda, manifestarono la volontà di rimanere a Macondo, il loro padre cercò di dissuaderli. Non capiva che cosa avrebbero fatto in un villaggio che dal giorno alla notte si era trasformato in un luogo di pericolo. Ma Aureliano Centeno e Aureliano Triste, appoggiati da Aureliano Secondo, trovarono ai due lavoro nelle loro industrie. Il colonnello Aureliano Buendìa aveva motivi ancora molto confusi per non patrocinare quella decisione. Da quando aveva visto il signor Brown sulla prima automobile che era arrivata a Macondo una decappottabile arancione con una tromba che spaventava i cani coi suoi latrati -, il vecchio guerriero si indignò per le smanie servili della gente, e si rese conto che qualcosa era cambiato nell’indole degli uomini dal tempo in cui abbandonavano moglie e figli e se ne andavano con lo schioppo in spalla per correre alla guerra. Le autorità locali, dopo l’armistizio di Neerlandia, erano sindaci privi d’iniziativa, giudici decorativi, scelti tra i pacifici e stanchi conservatori di Macondo. “Questo è un regime di poveri diavoli,” commentava il colonnello Aureliano Buendìa quando vedeva passare le guardie di polizia scalze e armate solo di randelli. “Abbiamo fatto tante guerre, e tutto perché non ci pitturassero la casa di azzurro”. Quando arrivò la compagnia bananiera, però, i funzionari locali furono sostituiti da forestieri autoritari, che il signor Brown portò a vivere con sé nella capponata elettrificata, perché potessero godere, come lui stesso spiegò, della dignità che corrispondeva alla loro investitura, e non soffrissero né il caldo né le zanzare né le innumerevoli scomodità e privazioni del villaggio. Le antiche guardie di polizia furono sostituite da sicari col machete. Chiuso nel laboratorio, il colonnello Aureliano Buendìa pensava a quei cambiamenti, e per la prima volta nei suoi silenziosi anni di solitudine fu tormentato dalla precisa certezza che era stato un errore non proseguire la guerra fino alle sue ultime conseguenze. In quei giorni, un fratello del dimenticato colonnello Magnifico Visbal portò il suo nipotino di sette anni a prendere un rinfresco ai carrettini della piazza, e solo perché il bambino aveva urtato accidentalmente un caporale della polizia e gli aveva versato la bibita sull’uniforme, il barbaro lo fece a pezzetti a colpi di machete e decapitò di netto il nonno che aveva cercato di trattenerlo. Tutto il villaggio vide passare il decapitato che un gruppo di uomini trasportavano a casa, e la testa spiccata che una donna teneva per i capelli, e il sacco insanguinato dove avevano messo i pezzi del bambino.

Per il colonnello Aureliano Buendìa quello fu il limite dell’espiazione. Si trovò improvvisamente a soffrire la stessa indignazione che aveva provato da giovane, davanti al cadavere della donna uccisa a bastonate perché era stata morsicata da un cane rabbioso. Guardò i gruppi di curiosi che erano davanti alla casa e con la sua vecchia voce stentorea, restaurata da un profondo disprezzo contro se stesso, vomitò loro addosso l’odio che non poteva più sopportare nel cuore.

“Un giorno di questi,” gridò, “armerò i miei ragazzi perché la facciano finita con questi gringos di merda!”

Nel corso di quella settimana, in diversi luoghi della costa, i suoi diciassette figli furono cacciati come conigli da criminali invisibili che mirarono nel centro delle croci di cenere. Aureliano Triste usciva dalla casa di sua madre, alle sette di sera, quando una fucilata partita dal buio gli perforò la fronte. Aureliano Centeno fu trovato nell’amaca che usava appendere in fabbrica, con un punteruolo per spezzare il ghiaccio affondato fino all’impugnatura tra le sopracciglia. Aureliano Serrador aveva riaccompagnato la sua fidanzata in casa dei genitori dopo averla portata al cinema, e tornava lungo la Strada dei Turchi splendente di luci, quando qualcuno che non fu mai identificato sparò di tra la folla una pistolettata che lo rovesciò dentro un calderone di strutto bollente. Pochi minuti dopo, qualcuno bussò alla porta della stanza dove Aureliano Arcaya era chiuso con una donna, e gli gridò: “Fa presto, che stanno ammazzando i tuoi fratelli.” La donna che era con lui raccontò più tardi che Aureliano Arcaya era saltato fuori dal letto e aveva aperto la porta, e lì lo attendeva una scarica di mauser che gli aveva schiantato il cranio. In quella notte di morte, mentre la casa si accingeva a vegliare i quattro cadaveri, Fernanda girò per il paese come una pazza cercando Aureliano Secondo, che Petra Cotes aveva chiuso in un armadio credendo che la consegna dello sterminio includesse tutti coloro che portavano il nome del colonnello. Non lo lasciò uscire prima del quarto giorno, quando i telegrammi ricevuti da diversi luoghi della costa permisero di comprendere che l’accanimento del nemico invisibile era diretto soltanto contro i fratelli marcati con croci di cenere. Amaranta cercò il libretto dove aveva annotato i dati dei nipoti, e a mano a mano che arrivavano i telegrammi andava cancellando nomi, finché rimase soltanto quello del maggiore. Se lo ricordavano molto bene per via del contrasto della pelle scura coi grandi occhi verdi. Si chiamava Aureliano Amador, era falegname, e viveva in un villaggio sperduto nei contrafforti della sierra. Dopo aver atteso per due settimane il telegramma della sua morte, Aureliano Secondo gli mandò un messaggero per avvertirlo, pensando che ignorasse la minaccia che pesava sul suo capo. Il messaggero tornò con la notizia che Aureliano Amador era salvo. La notte dello sterminio due uomini erano andati a cercarlo nella sua casa, e avevano scaricato le loro pistole contro di lui, ma non avevano centrato la croce di cenere. Aureliano Amador era riuscito a saltare lo steccato del patio e a perdersi nei labirinti della sierra che conosceva a palmo a palmo grazie all’amicizia degli indios coi quali commerciava in legname. Non si era saputo più nulla di lui.

Furono giorni neri per il colonnello Aureliano Buendìa. Il presidente della repubblica gli indirizzò un telegramma di condoglianze, nel quale prometteva un’indagine approfondita, e rendeva omaggio ai morti. Per suo ordine, l’alcalde si presentò ai funerali con quattro corone funebri che pretendeva di collocare sulle bare, ma il colonnello lo buttò fuori. Dopo il funerale, compilò e portò personalmente un telegramma violento per il presidente della repubblica, che il telegrafista si rifiutò di trasmettere. Allora lo arricchì con termini di singolare aggressività, lo chiuse in una busta e lo imbucò. Come gli era successo per la morte di sua moglie, come tante volte gli era successo durante la guerra per la morte dei suoi migliori amici, non provava un senso di dolore, ma una rabbia cieca e senza oggetto, un’estenuante impotenza. Arrivò perfino a denunciare la complicità di padre Antonio Isabel, per aver marcato i suoi figli con cenere indelebile in modo che i suoi nemici potessero riconoscerli. Il decrepito sacerdote, che ormai non riusciva più a connettere le idee e cominciava a spaventare i fedeli con le balorde interpretazioni che azzardava dal pulpito, comparve un pomeriggio nella casa con la scodella dove preparava le ceneri del mercoledì, e cercò di ungerne tutta la famiglia per dimostrare che si toglievano con l’acqua. Ma lo sgomento della disgrazia aveva colpito così a fondo, che nemmeno la stessa Fernanda si prestò all’esperimento, e non si vide mai più un Buendìa inginocchiato alla balaustra dell’altare nel mercoledì delle ceneri.

Per parecchio tempo il colonnello Aureliano Buendìa non riuscì a ricuperare la serenità. Tralasciò la fabbricazione dei pesciolini, mangiava a stento, e vagava come un sonnambulo per tutta la casa, trascinando la coperta e masticando una collera sorda. In capo a tre mesi aveva i capelli grigiastri, i vecchi baffi con le punte impeciate spioventi sulle labbra pallide, ma in cambio i suoi occhi erano di nuovo le due braci che spaventarono chi lo aveva visto nascere e che in altri tempi facevano roteare le sedie al solo guardarle. Nella furia del suo tormento cercava inutilmente di provocare i presagi che avevano guidato la sua gioventù lungo sentieri di pericolo fino al desolato ermo della gloria. Era perduto, smarrito in una casa estranea dove ormai nulla e nessuno gli suscitava la minima ombra di affetto. Una volta aprì la stanza di Melquìades, cercando le orme di un passato anteriore alla guerra, e trovò soltanto le macerie, la mondezza, i mucchi di porcheria accumulati in tanti anni di abbandono. Sulle copertine dei libri che nessuno aveva più riletto, sulle vecchie pergamene macerate dall’umidità era prosperata una flora livida, e nell’aria che era stata la più pura e luminosa della casa fluttuava un insopportabile odore di ricordi imputriditi. Un mattino trovò Ursula che piangeva sotto il castagno, appoggiata alle ginocchia di suo marito morto. Il colonnello Aureliano Buendìa era l’unico abitante della casa che continuava a non vedere il potente vecchio incurvato da mezzo secolo di intemperie. “Saluta tuo padre,” gli disse Ursula. Lui si fermò per un attimo davanti al castagno, e ancora una volta si accorse che nemmeno quello spazio vuoto suscitava in lui una parvenza di affetto.

“Cosa dice? chiese.

“È molto triste,” rispose Ursula, “perché crede che morirai.”

“Gli dica,” sorrise il colonnello, “che non si muore quando si deve, ma quando si può.”

Il presagio del padre morto ravvivò le ultime braci di superbia che gli rimanevano nel cuore, ma lui lo confuse con un repentino soffio di forza. Fu per questo che assediò Ursula perché gli rivelasse in che luogo del patio erano sotterrate le monete d’oro che avevano trovato nel San Giuseppe di gesso. “Non lo saprai mai,” gli disse lei, con una fermezza ispirata da un’antica esperienza. “Un giorno,” aggiunse, “comparirà il padrone di quella fortuna, e soltanto lui potrà dissotterrarla.” Nessuno sapeva perché mai un uomo che era sempre stato così disinteressato avesse cominciato a bramare il denaro con tale ansietà, e non le modeste quantità che gli sarebbero bastate per risolvere un caso d’emergenza, bensì una fortuna di proporzioni dissennate la cui sola menzione lasciò Aureliano Secondo in un mare di sgomento. I vecchi compagni di partito, ai quali si rivolse chiedendo aiuto, si nascosero per non riceverlo. Fu in quell’epoca che lo si sentì dire: “L’unica differenza attuale tra liberali e conservatori, e che i liberali vanno alla messa delle cinque e i conservatori alla messa delle otto.” Tuttavia, insistette con tanta ostinazione, supplicò così a lungo, infranse a tal punto i suoi principi di dignità, che un poco di qui e un altro poco di là, scivolando da ogni parte con una sollecitudine misteriosa e una perseveranza spietata, riuscì a raccogliere in otto mesi più denaro di quanto Ursula avesse sotterrato. Allora andò a far visita all’infermo colonnello Gerineldo Màrquez per chiedergli di aiutarlo a promuovere la guerra totale.

C’era stato un momento in cui, in realtà, il colonnello Gerineldo Màrquez era l’unica persona che avrebbe potuto muovere, anche dalla sua poltrona di paralitico, gli allentati fili della ribellione. Dopo l’armistizio di Neerlandia, mentre il colonnello Aureliano Buendìa si rifugiava nell’es ilio dei suoi pesciolini d’oro, lui si era mantenuto in contatto con gli ufficiali che gli erano rimasti fedeli fino alla sconfitta. Combatté con loro la guerra triste dell’umiliazione quotidiana, delle suppliche e dei memoriali, del torni domani, del ci siamo quasi, dello stiamo studiando il suo caso con la debita attenzione; la guerra perduta senza rimedio contro i devotissimi e deferentissimi servitor vostro c he dovevano assegnare e non assegnarono mai le pensioni vitalizie. L’altra guerra, la sanguinosa di vent’anni, non causò loro tanti danni quanti ne provocò la guerra corrosiva dell’eterno ferimento. Lo stesso colonnello Gerineldo Màrquez, che era sfuggito a tre attentati, sopravvissuto a cinque ferite e uscito illeso da innumerevoli battaglie, cedette all’assedio atroce dell’attesa e si sommerse nella sconfitta miserabile della vecchiaia, pensando ad Amaranta fra le losanghe di luci di una casa prestata. Gli ultimi veterani di cui si ebbe notizia comparvero in fotografia su un giornale, a testa indegnamente alta, a fianco di un anonimo presidente della repubblica che aveva regalato loro dei distintivi con la sua effige perché se li portassero all’occhiello, e restituita una bandiera sporca di sangue e di polvere perché se la mettessero sulla bara. Gli altri, i più degni, aspettavano ancora una lettera nella penombra della carità pubblica, morendo di fame, sopravvivendo di rabbia, imputridendosi di vecchiaia nella squisita merda della gloria. Di modo che quando il colonnello Aureliano Buendìa lo invitò a promuovere una conflagrazione mortale che diroccasse ogni vestigio di un regime di corruzione e di scandalo appoggiato dall’invasore straniero, il colonnello Gerineldo Màrquez non poté reprimere un brivido di compassione.

“Ah, Aureliano,” sospirò, “già lo sapevo che eri vecchio, ma ora mi rendo conto che sei molto più vecchio di quello che sembri.”

 Nella baraonda degli ultimi anni, Ursula aveva avuto a disposizione scarsissime pause per dedicarsi all’educazione papale di José Arcadio, finché giunse il momento che questi dovette essere preparato in fretta e furia pe r andare in seminario. Meme, sua sorella, divisa tra la rigidità di Fernanda e le amarezze di Amaranta, arrivò quasi contemporaneamente all’età prevista per il suo ingresso nel collegio di suore dove avrebbero fatto di lei una virtuosa del clavicembalo. Ursula si sentiva tormentata da gravi dubbi circa l’efficacia dei metodi coi quali aveva forgiato lo spirito del languido apprendista a Sommo Pontefice, ma non dava la colpa né alla sua tentennante vecchiaia né alle ombre che le permettevano appena di distinguere il contorno delle cose, bensì a qualcosa che lei stessa non riusciva a definire ma che concepiva confusamente come un progressivo logorio del tempo. “Gli anni adesso non vengono più come quelli di prima,” usava dire, sentendo che la realtà quotidiana le sfuggiva dalle mani. Prima, pensava, i bambini ci mettevano molto a crescere. Bastava ricordare tutto il tempo che c’era voluto perché José Arcadia, il maggiore, se ne andasse con gli zingari, e il tempo che era occorso prima che tornasse variegato come un serpente e con quel suo gergo da astronomo, e le cose che erano successe nella casa prima che Amaranta e Arcadio dimenticassero la lingua degli indios e imparassero lo spagnolo. E tutto il brutto e il bel tempo che aveva sopportato il povero José Arcadia Buendìa sotto il castagno, e quanto si era dovuta piangere la sua morte prima che riportassero moribondo un colonnello

Aureliano Buendia che, dopo tutte quelle guerre e dopo tutte quelle sofferenze sopportate per lui, non aveva ancora cinquant’anni. In altri tempi, dopo aver passato tutto il giorno a fabbricare animaletti di caramello, le avanzava ancora il tempo per occuparsi dei bambini, per vedere dal bianco dei loro occhi quando avevano bisogno di una pozione di olio di ricino. Invece ora, che non aveva niente da fare e che girava da mattina a sera con José Arcadio a cavalluccio, la scadente qualità dei tempi l’aveva costretta a lasciare le cose a metà. La verità era che Ursula si ostinava a non invecchiare anche quando aveva ormai perduto il conto dei suoi anni, ed era sempre tra i piedi, e cercava di immischiarsi in ogni cosa, e molestava i forestieri col solito ritornello se per caso non le avessero lasciato in casa, durante la guerra, un San Giuseppe di gesso perché glielo conservasse finché smetteva di piovere. Nessuno seppe con precisione quando cominciò a perdere la vista. Perfino nei suoi ultimi anni, quando ormai non poteva alzarsi dal letto, sembrava semplicemente vinta dalla decrepitezza, ma nessuno poté immaginarsi che fosse cieca. Lei se ne era accorta fin da prima della nascita di José Arcadio. Sulle prime aveva creduto trattarsi di una debolezza transitoria, e di nascosto beveva sciroppo di midollo e si metteva miele d’api negli occhi, ma ben presto si andò convincendo che si inabissava senza rimedio nelle tenebre, fino al punto che non riuscì mai a farsi un concetto ben chiaro dell’invenzione della luce elettrica, perché quando installarono le prime lampadine riusciva solo a distinguere un barlume. Non lo disse a nessuno, perché sarebbe stato un riconoscimento pubblico della sua inutilità. Si ostinò ad imparare in silenzio la distanza delle cose e delle voci della gente, per continuare a vedere con la memoria quando non glielo avessero più permesso le ombre della cataratta. Più tardi avrebbe scoperto l’aiuto imprevisto degli odori, che si definivano nel buio con una forza molto più convincente che non i volumi e il colore, e la salvarono definitivamente dalla vergogna di una rinuncia. Nel buio della stanza poteva infilare un ago e cucire un’asola, e sapeva quando il latte era sul punto di bollire. Imparò con tanta sicurezza il luogo dove si trovava ogni cosa, che lei stessa si dimenticava certe volte di essere cieca. Una volta, Fernanda mise a soqquadro tutta la casa perché aveva perduto la sua fede matrimoniale, e Ursula la trovò su uno scaffale della stanza dei bambini. Semplicemente perché, mentre gli altri giravano dappertutto senza preoccuparsi, lei li sorvegliava coi suoi quattro sensi in modo da non farsi cogliere di sorpresa, e dopo un certo tempo scoprì che ogni membro della famiglia ripeteva tutti i giorni, senza rendersene conto, gli stessi percorsi, le stesse azioni, e che ripeteva quasi le stesse parole alla stessa ora. Solo quando si scostavano da quelle meticolose abitudini correvano il rischio di perdere qualcosa. Di modo che quando sentì la costernazione di Fernanda per aver perduto l’anello, Ursula si ricordò che l’unica cosa diversa fatta in quel a giorno era stata quella di dare aria alle stuoie dei bambini perché Meme aveva scoperto una cimice la notte prima. Dato che i bambini avevano assistito all’operazione, Ursula pensò che Fernanda doveva aver messo l’anello nell’unico luogo dove i suoi figli non avrebbero potuto raggiungerlo: lo scaffale. Fernanda, invece, lo aveva cercato unicamente lungo il suo itinerario quotidiano, senza sapere che la ricerca delle cose perdute e intorpidita dai gesti consuetudinari, ed è per questo che costa tanta fatica trovarle.

L’allevamento di José Arcadio aiutò Ursula nella spossante missione di mantenersi al corrente dei minimi cambiamenti della casa. Quando si rendeva conto che Amaranta stava vestendo i santi nella stanza da letto, fingeva di insegnare al bambino le differenze dei colori.

“Vediamo un po’,” gli diceva, “dimmi di che colore è vestito San Raffaele Arcangelo.”

In quel modo, il bambino le dava l’informazione che le negavano i suoi occhi, e molto prima che partisse per il seminario Ursula poteva già distinguere dalla grana del tessuto i vari colori dei vestiti dei santi. Certe volte accadevano degli incidenti imprevisti. Un pomeriggio Amaranta stava ricamando sotto il portico delle begonie, e Ursula la intoppò.

“Per l’amor di Dio,” protestò Amaranta, “stia attenta dove va.”

“Sei tu,” disse Ursula, “che sei seduta dove non dovresti stare.

Per lei era vero. Ma da quel giorno cominciò ad accorgersi di qualcosa che nessuno aveva scoperto, e cioè che col trascorrere dell’anno il sole andava impercettibilmente cambiando di posizione, e coloro che sedevano sotto il portico erano costretti istintivamente a cambiar di posto a poco a poco. Da quel momento, Ursula non doveva far altro che ricordarsi della data per sapere il luogo esatto dove era seduta Amaranta. Benché il tremito delle mani fosse sempre più percepibile e non potesse sopportare i piedi pesanti, non si vide mai come allora la sua minuscola figurina in tanti posti nel medesimo tempo. Era attiva quasi quanto al tempo in cui sopportava l’intero peso della casa. Tuttavia, nella impenetrabile solitudine della decrepitezza dispose di una tale chiaroveggenza per esaminare perfino i più insignificanti avvenimenti della famiglia, che per la prima volta vide con chiarezza le verità che le sue occupazioni di altri tempi le avevano impedito di vedere. Verso l’epoca nella quale preparavano l’entrata in seminario di José Arcadio, era già riuscita a fare una ricapitolazione infinitesimale della vita domestica a partire dalla fondazione di Macondo, e cambiare radicalmente l’opinione che aveva sempre avuto dei suoi discendenti. Si rese conto che il colonnello Aureliano Buendìa non aveva perso il suo affetto per la famiglia a causa della durezza della guerra, come lei credeva, ma che in realtà egli non aveva mai voluto bene a nessuno, nemmeno a sua moglie Remedios o alle innumerevoli donne di una notte che erano passate per la sua vita, e tanto meno ai suoi figli. Intuì che egli non aveva fatto tante guerre per idealismo, come tutti credevano, né aveva rinunciato per stanchezza alla vittoria imminente, come tutti credevano, ma che aveva vinto e perso per lo stesso motivo, per pura e peccaminosa superbia. Arrivò alla conclusione che quel figlio, per il quale lei avrebbe dato la vita, era semplicemente un uomo interdetto all’amore. Una notte, quando lo portava nel ventre, lo aveva sentito piangere. Era un lamento così palese, che José Arcadio Buendìa, che le dormiva accanto, si svegliò e si rallegrò all’idea che il figlio sarebbe stato ventriloquo. Lei, invece, rabbrividì per la certezza che quel bramito profondo era un primo indizio della temibile coda di maiale, e pregò Dio che le facesse morire la creatura nel ventre. Ma la lucidità della decrepitezza le permise di sapere, e poi lo ripeté parecchie volte, che il pianto dei bambini nel ventre della madre non è né un annuncio di ventriloquia né di facoltà divinatoria, bensì un segno inequivocabile di interdizione all’amore. Quella svalorizzazione dell’immagine del figlio le suscitò di colpo tutta la compassione di cui gli era debitrice. Amaranta, invece, la cui durezza di cuore la spaventava, la cui concentrata amarezza la amareggiava, le si rivelò in ultima analisi come la donna più tenera che fosse mai esistita, e comprese con una compassionevole chiaroveggenza che gli ingiusti tormenti ai quali aveva sottoposto Pietro Crespi non erano dettati da una volontà di vendetta, come tutti credevano, né il lento martirio col quale aveva frustrato la vita del colonnello Gerineldo Màrquez era stato determinato dal fiele della sua amarezza, come tutti credevano, ma che l’una e l’altra azione erano state una lotta a morte tra un amore smisurato e una codardia invincibile e finalmente aveva trionfato il timore irrazionale che Amaranta aveva avuto sempre per il proprio tormentato cuore. Fu in quell’epoca che Ursula cominciò a parlare di Rebeca, a rievocarla con un vecchio affetto esaltato dal pentimento tardivo e dall’ammirazione repentina, perché aveva capito che soltanto lei, Rebeca, quella che mai si era alimentata del suo latte, ma della terra della terra e della calce dei muri, quella che non portava nelle vene sangue delle sue vene, ma il sangue sconosciuto degli sconosciuti le cui ossa continuavano a chioccare nella tomba, Rebeca, quella dal cuore impaziente, quella dal ventre insaziabile, era l’unica che aveva avuto il coraggio senza inibizioni che Ursula aveva desiderato per la sua stirpe.

“Rebeca,” diceva, tastando le pareti, “che ingiusti siamo stati con te!”

Nella casa, credevano semplicemente che farneticasse, soprattutto da quando le era venuto il ghiribizzo di girare col braccio destro alzato, come l’arcangelo Gabriele. Fernanda si rese conto, tuttavia, che c’era un sole di chiaroveggenza nelle ombre di quel farnetico, perché Ursula poteva dire senza esitazione quanto denaro si era speso in casa nell’ultimo anno. Amaranta ebbe un sospetto simile un certo giorno in cui sua madre mescolava nella cucina una pentola di minestra, e disse improvvisamente, senza sapere che la stavano sentendo, che il macinino per il granturco comprato dai primi zingari, e scomparso fin da prima che José Arcadio gli facesse fare sessantacinque volte il giro del mondo, stava sempre in casa di Pilar Ternera. Quasi centenaria anche lei, ma sana e agile nonostante l’inconcepibile grassezza che spaventava i bambini come in altri tempi la sua risata spaventava le colombe, Pilar Terriera non si meravigliò dell’azzecco di Ursula, perché la sua stessa esperienza cominciava a farle capire che una vecchiaia vigile può essere più divinatoria della lettura delle carte.

Tuttavia, quando Ursula si rese conto che non le era bastato il tempo per consolidare la vocazione di José Arcadio, si lasciò stordire dalla costernazione. Cominciò a commettere errori, cecando di vedere con gli occhi le cose che l’intuizione le permetteva di vedere con maggior chiarezza. Una mattina rovesciò sulla testa del bambino il contenuto di un calamaio credendo che fosse acqua di lavanda. Provocò così tanti inciampi per l’ostinazione di intervenire in ogni cosa, che si sentì scombussolata da raffiche di malumore, e cercava di liberarsi dalle tenebre che implacabilmente la stavano irretendo come in un camice di ragnatele. Fu allora che le venne in mente che la sua goffaggine non era la prima vittoria della decrepitezza e del buio, ma un errore del tempo. Pensava che prima, quando Dio non faceva coi mesi e con gli anni gli stessi imbrogli che facevano i turchi misurando un metro di percalle, le cose erano diverse. Ora non soltanto i bambini crescevano molto più in fretta, ma anche gli stessi sentimenti avevano un’evoluzione diversa. Remedios la bella era appena salita in cielo in corpo e anima, e già la sconsiderata Fernanda andava borbottando negli angoli perché si era portata via le lenzuola. Non si erano ancora raffreddati i corpi degli Aureliani nelle loro tombe, e già Aureliano Secondo aveva di nuovo la casa piena di luci e di ubriachi che suonavano la fisarmonica e facevano il bagno nello champagne, come se non fossero morti cristiani ma cani, e come se quella casa di pazzi che così tanti dolori di capo e tanti animaletti di caramello era costata, fosse predestinata a trasformarsi in un mondezzaio di perdizione. Ricordando queste cose mentre preparavano il baule di José Arcadio, Ursula si chiedeva se non era forse meglio sdraiarsi una buona volta nella tomba e che le gettassero sopra la terra, e chiedeva a Dio, senza timore, se credeva davvero che la gente fosse fatta di ferro per poter sopportare tante pene e mortificazioni; e chiedendo e chiedendo andava attizzando la sua stessa esacerbazione, e sentiva un’irreprimibile voglia di lasciarsi andare a imprecare come un forestiero, e di concedersi finalmente un istante di ribellione, l’istante tante volte anelato e tante volte rimandato di mettersi la rassegnazione nei fondelli, e mandare una buona volta tutto in merda, e togliersi dal cuore le infinite montagne di parolacce che aveva dovuto trangugiare in tutto un secolo di sopportazione.

“Accidenti!” gridò.

Amaranta, che cominciava a mettere la roba nel baule, credette che l’avesse punta uno scorpione.

“Dov’è?” chiese spaventata.

“Cosa?”

“La bestia!” spiegò Amaranta.

Ursula si mise un dito sul cuore.

“Qui!” disse.

Un giovedì alle due del pomeriggio, José Arcadio partì per il seminario. Ursula lo avrebbe ricordato sempre come lo immaginò nel momento dell’addio, languido e serio e con gli occhi asciutti, come lei gli aveva insegnato, boccheggiante per il caldo nel vestito di velluto verde coi bottoni di rame e con un fiocco inamidato al collo. Lasciò la stanza da pranzo impregnata dalla penetrante fragranza di acqua di lavanda che lei gli versava in testa per poter seguire le sue tracce per casa. Per tutta la durata del pranzo d’addio, la famiglia dissimulò il nervosismo con espressioni di giubilo, e accolse con esagerato entusiasmo le sortite di padre Antonio Isabel. Ma quando tolsero il baule foderato di velluto con gli spigoli d’argento, fu come se avessero portato via dalla casa una bara. L’unico che si rifiutò di partecipare al commiato fu il colonnello Aureliano Buendìa.

“Questa era l’unica baggianata che ci mancava,” borbottò: “un Papa!”

Tre mesi dopo, Aureliano Secondo e Fernanda portarono Meme in collegio, e tornarono con un clavicembalo che occupò il posto della pianola. Fu in quell’epoca che Amaranta cominciò a tessere il proprio sudario. La febbre del banano si era placata. Gli antichi abitanti di Macondo che si trovavano messi da parte dai forestieri, si afferravano penosamente alle loro precarie risorse di un tempo, ma erano riconfortati in ogni modo dall’impressione di essere sopravvissuti a un naufragio. Nella casa continuarono gli inviti a pranzo e a cena, e in realtà non si ristabilirono le antiche abitudini finché non se ne andò, qualche anno dopo, la compagnia bananiera. Tuttavia, ci furono cambiamenti radicali nel tradizionale senso di ospitalità, perché allora era Fernanda ad imporre le sue leggi. Con Ursula relegata nelle tenebre, e con Amaranta assorta nella composizione del sudario, l’antica apprendista regina ebbe mano libera per selezionare i commensali e imporre loro le rigide norme che le avevano inculcato i suoi genitori. La sua severità fece della casa un ridotto di usanze del passato, in un villaggio sconvolto dalla volgarità con la quale i forestieri scialacquavano le loro facili fortune. Per lei, senza tante storie, la gente per bene era quella che non aveva niente a che vedere con la compagnia bananiera. Perfino José Arcadio Secondo, suo cognato, fu vittima del suo zelo discriminatorio, perché nell’entusiasmo della prima ora tornò a vendere al maggior offerente i suoi stupendi galli da combattimento e si impiegò come caposquadra nella compagnia bananiera.

“Che non torni a mettere piede in questa. casa,” disse Fernanda, “finché avrà la rogna dei forestieri.”

Fu tale il rigore imposto in casa, che Aureliano Secondo si sentì definitivamente più a suo agio da Petra Cotes. Dapprima, col pretesto di alleviare il peso a sua moglie, trasferì le baldorie: Poi, col pretesto che gli animali stavano perdendo fecondità, trasferì le stalle e le scuderie. E per ultimo, col pretesto che nella casa della concubina faceva meno caldo, trasferì il piccolo studio dove badava ai suoi affari. Quando Fernanda si rese conto di essere una vedova alla quale non era ancora morto il marito, era ormai troppo tardi perché le cose tornassero al loro stato anteriore. Aureliano Secondo mangiava a malapena in casa, e le uniche apparenze che continuava a mantenere, come quella di dormire con sua moglie, non servivano a convincere nessuno. Una notte, per sbadataggine, rimase nel letto di Petra Cotes fino al mattino. Fernanda, al contrario di quello che lui si aspettava, non gli fece il benché minimo rimprovero né esalò il benché lieve sospiro di risentimento, ma in quello stesso giorno gli mandò nella casa della concubina i suoi due bauli di roba. Li mandò in pieno giorno e con l’incarico di lasciarli in mezzo alla strada, in modo che tutti li vedessero, convinta che il marito traviato non avrebbe potuto sopportare la vergogna e sarebbe tornato all’ovile a testa bassa. Ma quel gesto eroico fu appena una prova ulteriore di quanto poco Fernanda conoscesse non soltanto il carattere di suo marito ma anche l’indole di una comunità che non aveva nulla a che vedere con quella dei suoi genitori, perché tutti coloro che videro passare i bauli si dissero che finalmente quello era il culmine naturale di una storia le cui intimità non ignorava nessuno, e Aureliano Secondo festeggiò la libertà regalata con una baldoria di tre giorni. Per maggior svantaggio della moglie, mentre lei iniziava una brutta maturità coi suoi lugubri abbigliamenti talari, i suoi medaglioni anacronistici e il suo orgoglio fuori luogo, la concubina sembrava essere sbocciata a una seconda giovinezza, infagottata in vistosi abiti di seta naturale e con gli occhi intigriti dal fuoco della rivendicazione. Aureliano Secondo tornò ad abbandonarsi a lei con l’impeto dell’adolescenza, come prima, quando Petra Cotes non lo amava perché era lui ma perché lo scambiava col suo fratello gemello, e andando a letto con ambedue al tempo stesso pensava che Dio le aveva dato la fortuna di avere un uomo che faceva l’amore come se fossero due. Era così incalzante la passione restaurata, che in più di un’occasione nel mettersi a tavola s’erano guardati negli occhi e senza dirsi nulla avevano coperto i piatti e se ne erano andati a morire di fame e di amore in camera da letto. Ispirato dalle cose che aveva visto nelle sue furtive visite alle matrone francesi, Aureliano Secondo comprò a Petra Cotes un letto con baldacchino arcivescovile, e mise tende di velluto alle finestre e coprì il soffitto e le pareti della stanza con grandi specchi di cristallo di rocca. Lo si vide allora più festaiolo e scialacquatore che mai. Col treno, che arrivava ogni giorno alle undici, riceveva casse e casse di champagne e di brandy. Tornando dalla stazione trascinava con sé alla sarabanda improvvisata quanti esseri umani trovava sul suo cammino, nativi o forestieri, conoscenti o da conoscere, senza alcuna distinzione di classe. Perfino lo scivoloso signor Brown, che praticava soltanto in lingua straniera, si lasciò sedurre dai cenni tentatori che gli faceva Aureliano Secondo, e parecchie volte si ubriacò a morte in casa di Petra Cotes e arrivò al punto da far ballare persino ai feroci cani tedeschi che lo accompagnavano dappertutto le canzoni texane che lui stesso masticava alla meno peggio al ritmo della fisarmonica.

“Scostatevi, vacche,” gridava Aureliano Secondo nel parossismo della festa. “Scostatevi che la vita breve.”

Non ebbe mai migliore cera, né lo amarono di più né furono più smisurate le partoritanze dei suoi animali. Si sacrificavano tanti vitelli, tanti maiali e tante galline nelle interminabili baldorie, che la terra del patio divenne nera e fangosa da tanto sangue. Quello era un eterno gettar via ossi e interiora, un mondezzaio di avanzi, un continuo accendere candelotti di dinamite perché gli avvoltoi non beccassero gli occhi agli invitati Aureliano Secondo si fece grasso, violaceo, intartarughito, a causa di un appetito appena paragonabile a quello di José Arcadio quando era tornato dal giro del mondo. Il prestigio della sua sfrenata voracità, della sua immensa capacità di scialo, della sua ospitalità senza precedenti, superò i confini della palude e richiamò i ghiottoni più qualificati della costa. Da ogni dove arrivavano ingurgitatori favolosi per prendere parte agli irrazionali tornei di capacità e di resistenza che si organizzavano nella casa di Petra Cotes. Aureliano Secondo fu il mangiatore invitto, fino al sabato disgraziato in cui comparve Camila Sagastume, una femmina totemica nota nell’intero paese col nome di La Elefantessa. Il duello si prolungò fino allo spuntare del giorno del martedì. Nelle prime ventiquattro ore, dopo aver liquidato un vitello con contorno di tuberi e banane cotte, e inoltre una cassa e mezzo di champagne, Aureliano Secondo era sicuro di vincere. Si considerava più entusiasta, più vitale della imperturbabile avversaria, che sfoggiava uno stile evidentemente più professionale, ma anche meno emozionante per l’eterogeneo pubblico che traboccò nella casa. Mentre Aureliano Secondo mangiava a quattro palmenti, smanioso di vincere, l’Elefantessa sezionava la carne con l’arte di un chirurgo, e la mangiava senza fretta e perfino con un certo piacere. Era gigantesca e massiccia, ma contro la corpulenza colossale prevaleva la dolcezza della femminilità, e aveva un viso così grazioso, delle mani così fini e ben curate e un fascino personale così irresistibile, che quando Aureliano Secondo la vide entrare in casa commentò a bassa voce che avrebbe preferito non fare il torneo a tavola bensì a letto. Più tardi, quando la vide consumare la culatta del vitello, senza violare una sola regola della migliore urbanità, commentò seriamente che quella delicata, affascinante e insaziabile proboscidata era in un certo modo la donna ideale. Non si sbagliava. La fama di rompiossa che aveva preceduto l’Elefantessa mancava di fondamento. Non era trituratrice di buoi, né donna barbuta di un circo greco, come si diceva, ma direttrice di un’accademia di canto. Aveva imparato a mangiare quando era già una rispettabile madre di famiglia, cercando un metodo per far sì che i suoi figli si alimentassero meglio e non mediante stimoli artificiali dell’appetito bensì mediante l’assoluta tranquillità dello spirito. La sua teoria, dimostrata nella pratica, si basava sul principio che una persona che avesse perfettamente sistemato tutte le pendenze della sua coscienza, poteva mangiare senza sosta finché non fosse stata vinta dalla stanchezza. Di modo che fu per ragioni morali, e non per interesse sportivo, che tralasciò le cure dell’accademia e del focolare domestico per competere con un uomo la cui fama di grande mangiatore senza principi aveva fatto il giro del paese. Fin dalla prima volta in cui lo vide, si rese conto che Aureliano Secondo sarebbe stato vinto non dallo stomaco ma dal carattere. Alla fine della prima notte, mentre l’Elefantessa continuava impavida, Aureliano Secondo si stava esaurendo dal gran parlare e ridere. Dormirono quattro ore. Quando si svegliarono, ognuno di loro bevve il succo di cinquanta arance, otto litri di caffè e trenta uova crude. All’inizio del secondo giorno, dopo molte ore insonni e dopo aver liquidato due maiali, un casco di banane e quattro casse di champagne, l’Elefantessa sospettò che Aureliano Secondo, senza saperlo, doveva aver scoperto il metodo da lei creato, ma per la strada assurda della irresponsabilità totale. Era, quindi, più pericoloso di quanto lei aveva pensato. Tuttavia, quando Petra Cotes portò in tavola due tacchini arrosto, Aureliano Secondo era a un passo dalla congestione.

“Se non può, non mangi più,” disse l’Elefantessa. “Restiamo pari.”

Lo disse col cuore, comprendendo che il rimorso di star propiziando la morte dell’avversario le avrebbe impedito di mangiare anche un solo boccone in più. Ma Aureliano Secondo lo interpretò come una nuova sfida, e si rimpinzò di tacchino al di là della sua incredibile capacità. Perse conoscenza. Cadde bocconi nel piatto degli ossi, vomitando schiumate di cane dalla bocca, e soffocando in rantoli di agonia. Sentì, in mezzo alle tenebre, che lo gettavano dal più alto di una torre verso un precipizio senza fondo, e in un ultimo sprazzo di lucidità si rese conto che alla fine di quella interminabile caduta lo stava aspettando la morte.

“Portatemi da Fernanda,” riuscì a dire.

Gli amici che lo deposero in casa credettero che avesse mantenuto la promessa fatta alla moglie di non morire nel letto della concubina. Petra Cotes aveva incerato gli stivaletti di vernice che lui voleva portare con sé nella bara, e stava già cercando qualcuno che glieli recapitasse, quando vennero a dirle che Aureliano Secondo era fuori pericolo. Si ristabilì, in effetti, in meno di una settimana, e quindici giorni dopo stava celebrando con una baldoria senza precedenti l’avvenimento della sopravvivenza. Continuò a vivere in casa di Petra Cotes, ma andava a trovare Fernanda tutti i giorni e certe volte si fermava a mangiare in famiglia, come se il destino avesse invertito la situazione, e lo avesse trasformato in marito dalla concubina e amante dalla moglie.

Fu un sollievo per Fernanda. Nel tedio dell’abbandono, le sue uniche distrazioni erano gli esercizi di clavicembalo nell’ora della siesta, e le lettere dei suoi figli. Nelle dettagliate missive che spediva ogni quindici giorni, non c’era una sola linea di verità. Nascondeva loro le sue pene. Celava la tristezza di una casa che nonostante la luce sulle begonie, nonostante l’afa delle due dei pomeriggio, nonostante le frequenti raffiche di festa che arrivavano dalla strada, somigliava sempre di riti alla magione coloniale dei suoi padri. Fernanda vagava sola tra tre fantasmi vivi e il fantasma morto di José Arcadio Buendia, che a volte veniva a sedersi con un’applicazione inquisitiva nella penombra del salotto, mentre lei sonava il clavicembalo. Il colonnello Aureliano Buendìa era un’ombra. Dall’ultima volta che era uscito in strada per proporre una guerra senza avvenire al colonnello Gerineldo Màrquez, lasciava il laboratorio soltanto per andare a orinare sotto il castagno. Non riceveva altre visite che quelle del barbiere ogni tre settimane. Si alimentava di qualsiasi cosa gli portava Ursula una volta al giorno, e benché continuasse a fabbricare pesciolini d’oro con la stessa passione di un tempo, smise di venderli quando venne a sapere che la gente non li comprava come gioielli ma come reliquie storiche. Aveva fatto nel patio un falò delle bambole di Remedios, che decoravano la stanza da letto fin dal giorno del suo matrimonio. La vigile Ursula si accorse di quello che stava facendo suo figlio, ma non poté impedirlo.

“Hai un cuore di pietra,” gli disse.

“Questa non è una questione di cuore,” disse lui. “La stanza si sta riempiendo di tarme.”

Amaranta tesseva il suo sudario. Fernanda non capiva perché mai di tanto in tanto scriveva lettere occasionali a Meme, e le mandava perfino dei regali, e invece non voleva sentire nemmeno parlare di José Arcadio. “Morirete senza sapere perché,” rispose Amaranta quando lei glielo chiese tramite Ursula, e quella risposta seminò nel suo cuore un enigma che non riuscì mai a chiarire. Alta, eretta, altera, sempre vestita con abbondanti sottane di pizzo e con un’aria di distinzione che resisteva agli anni e ai cattivi ricordi, Amaranta sembrava portare sulla fronte la croce di cenere della verginità. In realtà la portava sulla mano, nella benda nera che non si toglieva mai nemmeno quando dormiva, e che lei stessa lavava e stirava. La vita le si esauriva nel ricamo del sudario. Si sarebbe detto che ricamava durante il giorno per disfare il lavoro di notte, e non con la speranza di sconfiggere in quel modo la solitudine, ma tutto al contrario, per sostenerla.

La maggiore preoccupazione di Fernanda nei suoi anni di abbandono era che Meme venisse a passare le prime vacanze in casa e non vi trovasse Aureliano Secondo. La congestione mise fine a quel timore. Quando Meme tornò, i suoi genitori si erano messi d’accordo non soltanto per far sì che la bambina continuasse a credere Aureliano Secondo un marito domestico, ma anche perché non si notasse la tristezza della casa. Tutti gli anni, per due mesi, Aureliano Secondo recitava la sua parte di marito esemplare, e organizzava feste con gelati e biscottini, che la lieta e vivace studentessa rallegrava col clavicembalo. Era evidente fin da allora che aveva ereditato assai poco del carattere della madre. Sembrava piuttosto una seconda versione di Amaranta, quando questa non conosceva l’amarezza e andava mettendo sossopra la casa coi suoi passi di ballo, a dodici, a quattordici anni, prima che la passione segreta per Pietro Crespi facesse definitivamente cambiar strada al suo cuore. Ma al contrario di Amaranta, al contrario di tutti, Meme non dimostrava ancora il fato solitario della famiglia, e sembrava del tutto d’accordo col mondo, anche quando si chiudeva nel salotto alle due del pomeriggio a esercitarsi sul clavicembalo con una disciplina inflessibile. Era evidente che le piaceva la casa, che trascorreva tutto l’anno a sognare lo scompiglio di adolescenti che provocava il suo arrivo, e che non era molto lontana dalla vocazione festaiola e dalle esuberanze ospitaliere di suo padre. Il primo segno di quella eredità calamitosa si rivelò nella terza vacanza, quando Meme comparve in casa con quattro monache e sessantotto compagne di classe, che aveva invitato a passare una settimana in famiglia, di propria iniziativa e senza alcun preavviso.

“Che disgrazia!” si lamentò Fernanda. “È una creatura incivile proprio come suo padre!”

Fu necessario chiedere letti e amache ai vicini, stabilire nove turni a tavola, fissare orari per il bagno e farsi prestare quaranta sgabelli perché le bambine in uniforme azzurra e stivaletti da uomo non se ne andassero tutto il giorno a gironzolare di qui e di là. L’invito fu un disastro, perché le rumorose collegiali avevano appena finito di far colazione che già ricominciavano i turni per il pranzo, e poi per la cena, e in tutta la settimana riuscirono solo a fare una passeggiata nelle piantagioni. Verso sera le suore erano sfinite, incapaci di muoversi, di impartire altri ordini, e la mandria di adolescenti infaticabili era ancora nel patio a cantare scipiti inni scolastici. Un giorno furono sul punto di travolgere Ursula, che si ostinava a essere utile proprio dove maggiormente intralciava. Un altro giorno, le suore suscitarono un pandemonio perché il colonnello Aureliano Buendia era andato a orinare sotto il castagno senza preoccuparsi delle collegiali che si trovavano nel patio. Amaranta fu sul punto di seminare il panico, perché una delle suore entrò nella cucina mentre lei stava salando la minestra, e l’unica cosa che le venne in mente fu di chiedere cosa fossero quelle manciate di polvere bianca.

“Arsenico,” disse Amaranta.

La sera del loro arrivo, le scolarette crearono un tale scompiglio cercando di andare al gabinetto prima di coricarsi, che alla una del mattino stavano ancora entrando le ultime. Fernanda comprò allora settantadue pitali, ma riuscì soltanto a trasformare in un problema mattutino il problema notturno, perché fin dalle prime luci del giorno c’era davanti al gabinetto una lunga fila di ragazze, ognuna col suo pitale in mano, ad aspettare il turno per lavarlo. A qualcuna venne la febbre, qualche altra fu infettata dalle punture delle zanzare, ma in generale tutte dimostrarono una resistenza incrollabile di fronte alle più penose difficoltà, e perfino nell’ora di maggior calore scorrazzavano nel giardino. Quando alla fine se ne andarono, le aiuole erano distrutte, i mobili a pezzi e le pareti coperte di disegni e di iscrizioni, ma Fernanda perdonò loro tutti i danni, nel sollievo della partenza. Restituì i letti e gli sgabelli prestati e ripose i settantadue pitali nella stanza di Melquiades. Da allora quel locale sbarrato, intorno al quale si era svolta in altri tempi la vita spirituale della casa, fu chiamato la stanza dei pitali. Per il colonnello Aureliano Buendìa quello era il nome più adatto, perché mentre il resto della famiglia continuava a stupirsi che la camera di Melquiades fosse immune dalla polvere e dalla distruzione, lui la vedeva trasformata in un mondezzaio. In ogni modo, non sembrava importargli chi avesse ragione, e se venne a conoscenza del destino della stanza fu perché Fernanda passò avanti e indietro e disturbò il suo lavoro per un intero pomeriggio per riporre i pitali.

In quei giorni ricomparve in casa José Arcadio Secondo. Passava sotto il porticato senza salutare nessuno, e si chiudeva nel laboratorio a parlare col colonnello.

Benché non potesse vederlo, Ursula analizzava il tonfo dei suoi stivali da caposquadra, e si meravigliava per la distanza incolmabile che lo separava dalla famiglia, anche dal fratello gemello con cui aveva giocato nell’infanzia ingegnosi giochi di confusione, e col quale ormai non aveva più alcun tratto in comune. Era lineare, solenne, e aveva un fare pensieroso, e una tristezza da saraceno, e un bagliore lugubre sul volto color autunno. Era quello che più somigliava a sua madre, Santa Sofia de la Piedad. Ursula si rimproverava la tendenza a dimenticarsi di lui quando parlava della famiglia, ma non appena lo sentì di nuovo in casa, e si accorse che il colonnello lo riceveva nel laboratorio durante le ore di lavoro, si rimise a esaminare i suoi vecchi ricordi, e confermò la convinzione che in qualche momento dell’infanzia si era cambiato col suo fratello gemello, perché era lui e non l’altro che doveva chiamarsi Aureliano. Nessuno conosceva i particolari della sua vita. Un tempo si era saputo che non aveva una residenza fissa, che allevava galli in casa di Pilar Ternera, e che certe volte rimaneva a dormire lì, ma che quasi sempre passava la notte nelle stanze delle matrone francesi. Andava alla ventura, senza affetti, senza ambizioni, come una stella errante nel sistema planetario di Ursula.

In realtà, José Arcadio Secondo non era membro della famiglia, né lo sarebbe mai stato di altra, fin dal mattino lontano in cui il colonnello Gerineldo Màrquez lo aveva portato in caserma, non perché vedesse una fucilazione, ma perché non dimenticasse per il resto della sua vita il sorriso triste e un po’ beffardo del fucilato. Quello non era il suo ricordo più antico, ma l’unico della sua fanciullezza. L’altro, quello di un vecchio con un panciotto anacronistico e un cappello ad ali di corvo che raccontava meraviglie davanti a una finestra abbagliante, non riusciva a situarlo in nessuna epoca. Era un ricordo incerto, del tutto sprovvisto di insegnamenti o di nostalgia, al contrario del ricordo del fucilato, che in realtà aveva tracciato la direzione della sua vita, e che tornava nella sua memoria sempre più nitido a mano a mano che invecchiava, come se il trascorrere del tempo lo andasse approssimando. Ursula cercò di approfittare di José Arcadio Secondo per far sì che il colonnello Aureliano Buendia abbandonasse la clausura. “Convincilo ad andare al cinema,” gli diceva. “Anche se non gli piacciono le pellicole avrà per lo meno un’opportunità di respirare aria pura.” Ma non tardò a rendersi conto che José Arcadio Secondo era insensibile alle sue suppliche come sarebbe potuto esserlo il colonnello, e che erano corazzati con la stessa impermeabilità agli affetti. Anche se non seppe mai, e nessuno lo seppe, di che cosa parlavano durante i lunghi colloqui nel laboratorio, capì che erano loro gli unici membri della famiglia che sembravano vincolati da affinità.

La verità era che nemmeno José Arcadia Secondo avrebbe potuto togliere il colonnello dalla sua clausura. L’invasione della scolaresca aveva fatto traboccare la sua pazienza. Col pretesto che la stanza nuziale era alla mercé delle tarme nonostante la distruzione delle appetitose bambole di Remedios, appese un’amaca nel laboratorio, e da allora ne usciva soltanto per andare nel patio a soddisfare i suoi bisogni. Ursula non riusciva a imbastire con lui una conversazione banale. Sapeva bene che lui non degnava il mangiare che lei gli posava sul banco, ma lo metteva da parte finché non aveva finito il pesciolino, e non gli importava se nella minestra il grasso veniva a galla e se la carne si freddava. Si era irrigidito sempre di più da quando il colonnello Gerineldo Màrquez aveva rifiutato di secondarlo in una guerra senile. Si era chiuso ermeticamente in se stesso e la famiglia finì per pensare a lui come se fosse morto. Non si rivide in lui reazione umana, fino a quell’undici di ottobre in cui uscì sulla porta di strada a veder passare un circo. Quella era stata per il colonnello Aureliano Buendia una giornata uguale a tutte quelle dei suoi ultimi anni. Alle cinque del mattino lo aveva svegliato lo schiamazzo dei rospi e dei grilli di là del muro. La pioggerella persisteva dal sabato, e lui non avrebbe avuto bisogno di sentire il suo minuzioso picchiettio sulle foglie del giardino, perché in ogni modo lo avrebbe sentito nel freddo delle ossa. Era, come sempre, avvolto nella coperta di lana, e con le lunghe mutande di cotone grezzo che continuava a portare per comodità, anche se a causa del loro polveroso anacronismo lui stesso le chiamava “mutande da conservatore.” Si infilò i pantaloni stretti, ma non chiuse le fibbie né mise al colletto della camicia il bottone d’oro che usava sempre, perché aveva intenzione di fare un bagno. Poi si mise la coperta sulla testa, come un cappuccio, si pettinò con le dita i baffi spioventi, e andò a orinare nel patio. Mancava così tanto al sorgere del sole che José Arcadio Buendia sonnecchiava ancora lì sotto la tettoia di palme macerate dalla pioggerella. Lui non lo vide, come non lo aveva mai visto, né sentì la frase incomprensibile che gli rivolse lo spettro di suo padre quando si svegliò di soprassalto per il getto di orina calda che gli spruzzava le scarpe. Rimandò il bagno a più tardi, non a causa del freddo e dell’umidità, ma per la nebbia opprimente di ottobre. Tornando nel laboratorio sentì l’odore di lucignolo del focolare che stava accendendo Santa Sofia de la Piedad, e aspettò in cucina che bollisse il caffè per prendersi la sua scodella senza zucchero. Santa Sofia de la Piedad gli chiese, come tutte le mattine, che giorno della settimana era, e lui rispose che era martedì, undici ottobre. Osservando la impavida donna illuminata dal riverbero del fuoco, che né in quel momento né in nessun altro istante della sua vita sembrava esistere completamente, si ricordò d’un tratto che in un undici di ottobre, in piena guerra, lo aveva risvegliato la certezza brutale che la donna con la quale aveva dormito era morta. Lo era, in realtà, e non aveva dimenticato la data perché anche lei gli aveva chiesto un’ora prima che giorno era. Nonostante la rievocazione, nemmeno stavolta si accorse fino a che punto lo avevano abbandonato i presagi, e mentre il caffè bolliva continuò a pensare per pura curiosità, ma senza il più insignificante rischio di nostalgia, alla donna il cui nome non aveva mai saputo, e il cui volto non aveva mai visto in vita perché era arrivata nella sua amaca inciampando nel buio. Tuttavia, nel vuoto di tante donne che erano entrate nella sua vita allo stesso modo, non si ricordò che era stata lei, nel delirio del primo incontro, a trovarsi sul punto di naufragare nelle sue stesse lacrime, e appena un’ora prima di morire aveva giurato di amarlo fino alla morte. Non tornò a pensare né a lei né a nessun’altra, dopo essersi ritrovato nel laboratorio con la tazza fumante, e accese la luce per contare i pesciolini d’oro che conservava in un recipiente di latta. Ce n’erano diciassette. Da quando aveva deciso di non venderli, aveva continuato a fabbricare due pesciolini al giorno, e quando ne aveva terminati venticinque tornava a fonderli nel crogiuolo per ricominciare a farli. Lavorò per tutta la mattina, assorto, senza pensare a nulla, senza accorgersi che alle dieci la pioggia si era infittita e che qualcuno era passato davanti al laboratorio gridando che chiudessero le porte se non volevano che la casa si inondasse, e senza accorgersi nemmeno di se stesso finché Ursula entrò col pranzo e spense la luce.

“Che pioggia!” disse Ursula.

“Ottobre,” disse lui.

Quando lo disse, non alzò lo sguardo dal primo pesciolino del giorno, perché stava incastonando i rubini degli occhi. Solo quando finì il pesce e lo mise con gli altri nel recipiente, comincio a sorbire la zuppa. Poi mangiò, molto lentamente, il pezzo di carne arrosto con cipolla, il riso bianco e le fette di banana cotta, tutto insieme nello stesso piatto. Il suo appetito non si alterava né nelle migliori né nelle più dure circostanze. Alla fine del pasto provò l’apprensione della oziosità. Per una specie di superstizione scientifica, non lavorava mai, né leggeva, né faceva il bagno, né faceva l’amore prima che fossero trascorse due ore di digestione, ed era una convinzione così radicata che parecchie volte rimandò operazioni di guerra per non sottoporre la truppa ai rischi di una congestione. Di modo che si coricò nell’amaca, si tolse il cerume dalle orecchie con un temperino, e dopo pochi minuti si addormentò. Sognò di entrare in una casa vuota, con le pareti bianche, e di sentirsi turbato d’essere la prima persona umana che vi metteva piede. Nel sogno si ricordò di aver sognato la stessa cosa la notte prima e molte altre notti degli ultimi anni, e seppe che l’immagine gli si era cancellata dalla memoria quando si era svegliato, perché quel sogno ricorrente aveva la virtù di non poter esser ricordato se non dentro il sogno stesso. Un momento dopo, in effetti, quando il barbiere bussò alta porta del laboratorio, il colonnello Aureliano Buendìa si svegliò con l’impressione di essersi involontariamente addormentato per qualche secondo, e di non aver avuto il tempo di sognare nulla.

“Oggi no,” disse al barbiere. “Ci vediamo venerdì.”

Aveva una barba di tre giorni, spruzzata di lanugine bianca, ma non riteneva necessario radersi ora, visto che venerdì si sarebbe tagliati i capelli e poteva far tutto in una sola volta. Il sudore appiccicoso della siesta non prevista gli fece rivivere sotto le ascelle le cicatrici dei favi. Non pioveva ma il sole non era ancora rispuntato. Il colonnello Aureliano Buendìa emise un rutto sonoro che gli riportò nel palato l’acidità della zuppa, e che fu come un ordine dell’organismo perché si buttasse la coperta sulle spalle e se ne andasse nel gabinetto. Lì rimase più del tempo necessario, accovacciato sulla densa fermentazione che saliva dal cassone di legno, finché l’abitudine lo avvisò che era ora di riprendere il lavoro. Durante il tempo che durò l’attesa tornò a ricordarsi che era martedì, e che José Arcadio Secondo non era venuto in laboratorio perché era giorno di paga nei campi della compagnia bananiera. Quel ricordo, come tutti i ricordi degli ultimi anni, lo indusse, senza una particolare ragione, a pensare alla guerra. Ricordò che il colonnello Gerineldo Màrquez gli aveva promesso una volta un cavallo con una stella bianca sulla fronte, e poi non se n’era più parlato. E deviò verso dispersi episodi, ma li evocò senza definirli, perché a forza di non poter pensare ad altro aveva imparato a pensare a freddo, per non consentire ai ricordi ineluttabili di ledergli qualche sentimento. Tornato nel laboratorio, e accorgendosi che l’aria cominciava a seccare, decise che era il momento adatto per fare il bagno, ma Amaranta lo aveva preceduto. E così cominciò il secondo pesciolino della giornata. Stava arricciando la coda quando il sole brillò con tanta forza che il chiarore diede un gemito come di barca vecchia. L’aria lavata da tre giorni di pioggia si riempì di formiche volanti. Allora si accorse di aver voglia di orinare, e di aver trattenuto il bisogno perché prima voleva finire il pesciolino. Si dirigeva verso il patio, alle quattro e dieci, quando udi i fiati lontani, il rimbombo del tamburo e la gazzarra dei bambini, e per la prima volta dalla sua gioventù mise coscientemente il piede in una trappola della nostalgia, e rivisse il prodigioso pomeriggio di zingari in cui suo padre lo aveva portato a conoscere il ghiaccio. Santa Sofia de la Piedad lasciò quello che stava facendo in cucina e corse verso la porta.

“È il circo,” gridò.

Invece di andare verso il castagno, il colonnello Aureliano Buendìa si affacciò anche lui alla porta di strada e si mescolò ai curiosi che assistevano alla sfilata. Vide una donna vestita d’oro in groppa a un elefante. Vide un dromedario triste. Vide un orso vestito da olandesina che segnava il ritmo della musica con un cucchiaione e una casseruola. Vide i pagliacci che facevano sberleffi in coda al corteo, e vide di nuovo la faccia della sua solitudine miserabile quando tutto finì di passare, e non rimase altro che il luminoso spazio nella strada, e l’aria piena di formiche volanti, e alcuni curiosi affacciati sul precipizio dell’incertezza. Allora andò verso il castagno, pensando al circo, e mentre orinava cercò di continuare a pensare al circo, ma ormai non trovò il ricordo. Affondò la testa nelle spalle, come un pulcino, e rimase immobile con la fronte appoggiata al tronco del castagno. La famiglia non se ne accorse fino al giorno dopo, alle undici del mattino, quando Santa Sofia de la Piedad andò a buttar via la spazzatura in fondo ai patio e si meravigliò che gli avvoltoi stessero calando.

 Le ultime vacanze di Meme coincisero col lutto per la morte del colonnello Aureliano Buendìa. Nella casa sbarrata non c’era posto per le feste. Si parlava sottovoce, si mangiava in silenzio, si recitava il rosario tre volte al giorno, e perfino gli esercizi di clavicembalo nei calore della siesta avevano una risonanza funebre. Nonostante la sua segreta ostilità nei confronti del colonnello, fu Fernanda ad imporre il rigore di quel lutto, impressionata dalla solennità con la quale il governo aveva esaltato la memoria del nemico morto. Aureliano Secondo tornò come d’abitudine a dormire nella casa mentre sua figlia vi passava le vacanze, e Fernanda fece indubbiamente qualcosa per ricuperare i suoi privilegi di moglie legittima, perché l’anno dopo Meme trovò una sorellina appena nata, che battezzarono contro la volontà della madre col nome di Amaranta Ursula.

Meme aveva terminato i suoi studi. Il diploma che la accreditava concertista di clavicembalo, fu ratificato dal virtuosismo col quale eseguì temi popolari del XVII secolo nella festa organizzata per celebrare la fine dei suoi studi, festa che mise termine al lutto. Più che la sua arte, gli invitati ammirarono il suo strano dualismo. Il carattere frivolo e perfino un po’ infantile non sembrava adeguato a nessuna attività seria, ma quando si sedeva al clavicembalo si trasformava in una ragazza diversa, la cui maturità imprevista le dava un’aria da persona adulta. Fu sempre così. In realtà non aveva una vocazione definita, ma aveva ottenuto i voti più alti grazie a una disciplina inflessibile, per non contrariare sua madre. Avrebbero potuto imporle lo studio di qualsiasi altra cosa e i risultati sarebbero stati uguali. Fin dall’infanzia la infastidiva il rigore di Fernanda, la sua abitudine di decidere per gli altri, e sarebbe stata disposta ad affrontare un sacrificio molto più duro delle lezioni di clavicembalo, solo per non urtare nella sua intransigenza. Durante la cerimonia di fine corso, ebbe l’impressione che la pergamena a lettere gotiche e maiuscole istoriate la liberasse da un impegno che aveva accettato non tanto per ubbidienza quanto per comodità, e fu convinta che a partire da quel momento nemmeno la pervicace Fernanda si sarebbe più preoccupata di uno strumento che perfino le suore consideravano come un fossile da museo. Nei primi anni credette che i suoi calcoli fossero sbagliati, perché dopo aver fatto addormentare mezza città non soltanto nel salotto buono, ma in quanti veglioni benefici, feste scolastiche e commemorazioni patriottiche si celebravano a Macondo, sua madre continuò a invitare ogni nuovo arrivato che, a suo giudizio, fosse in grado di apprezzare le doti di sua figlia. Solo dopo la morte di Amaranta, quando la famiglia riprese il lutto per qualche tempo, Meme poté chiudere il clavicembalo e dimenticarne la chiave in chissà quale armadio, senza che Fernanda si preoccupasse di indagare in che momento e per colpa di chi si era persa. Meme sopportò le esibizioni con lo stesso stoicismo con cui si era consacrata allo studio. Era il prezzo della sua libertà. Fernanda era così soddisfatta della sua docilità e così orgogliosa dell’ammirazione che suscitava la sua arte, che le permise sempre di avere la casa piena di amiche, e di passare i pomeriggi nelle piantagioni e di andare al cinema con Aureliano Secondo o con signore fidate, sempre che la pellicola avesse avuto dal pulpito l’autorizzazione di padre Antonio Isabel. In quei momenti di svago si rivelavano i veri gusti di Meme. La sua felicità era all’altro estremo della disciplina, nelle feste chiassose, nei pettegolezzi da innamorati, nelle prolungate combriccole con le amiche, dove imparavano a fumare e chiacchieravano di cose da uomini, e dove una volta persero la testa con tre bottiglie di rum di canna e finirono nude a misurarsi e a confrontarsi le parti del corpo. Meme non avrebbe mai dimenticato la sera in cui entrò in casa masticando rizomi di liquerizia e senza che nessuno si accorgesse del suo turbamento si sedette a tavola dove Fernanda e Amaranta stavano cenando senza rivolgersi la parola. Aveva passato due ore tremende nella stanza da letto di un’amica, piangendo dal ridere e dalla paura, e al fondo della crisi aveva trovato la rara dote di coraggio che le era venuta meno per poter scappare dal collegio e per poter dire a sua madre con quelle o con altre parole che poteva cacciarsi il clavicembalo in quel dato posto. Seduta a capotavola, e mentre beveva un brodo di pollo che le scendeva nello stomaco come un elisir di resurrezione, Meme vide allora Fernanda e Amaranta avvolte nell’alone accusatore della realtà. Dovette fare un grande sforzo per non rinfacciare alle due donne le loro smancerie, la loro povertà di spirito, i loro deliri di grandezza. Fin dal tempo delle sue seconde vacanze aveva saputo che suo padre viveva in casa solo per salvare le apparenze, e conoscendo Fernanda come la conosceva e avendo fatto in modo più tardi di conoscere Petra Cotes, diede ragione a suo padre. Anche lei avrebbe preferito essere la figlia della concubina. Nei fumi dell’alcool, Meme pensava con piacere allo scandalo che avrebbe scatenato se in quel momento avesse espresso i suoi pensieri, e fu così intensa l’intima soddisfazione della malizia, che Fernanda se ne accorse.

“Cosa ti succede?” chiese.

“Niente,” rispose Meme. “Adesso soltanto scopro quanto vi voglio bene.”

Amaranta restò sgomenta per l’evidente carica di odio contenuta nella dichiarazione. Ma Fernanda si sentì così commossa che credette di impazzire quando Meme si svegliò a mezzanotte con la testa a pezzi per il dolore, e vomitando fiotti di bile. Le diede una bottiglia di olio di castoro, le mise cataplasmi sul ventre e borse di ghiaccio sulla testa, e la costrinse a seguire la dieta e il ritiro di cinque giorni ordinati dal nuovo e stravagante medico francese che, dopo averla auscultata per più di due ore, era giunto alla nebulosa conclusione che si trattava di un disturbo tipico delle donne. Perso ogni coraggio, in un miserevole stato di demoralizzazione, a Meme non rimase altro che sopportare. Ursula, già completamente cieca, ma ancora attiva e lucida, fu l’unica che intuì la diagnosi esatta. “Per me,” pensò, “queste sono le cose che capitano soltanto agli ubriachi.” Ma non solo respinse l’idea, bensì si rimproverò la leggerezza di pensiero. Aureliano Secondo si sentì rimordere la coscienza quando vide lo stato di prostrazione dr Meme, e si ripromise di occuparsi maggiormente di lei in futuro. Fu così che nacque l’allegro cameratismo tra padre e figlia, che liberò lui per un po’ di tempo dell’amara solitudine delle baldorie, e affrancò lei dalla tutela di Fernanda senza dover provocare una crisi domestica che ormai sembrava inevitabile. Aureliano Secondo rimandava allora qualsiasi impegno per poter rimanere con Meme, per portarla al cinema o al circo, e le dedicava la maggior parte del suo ozio. Negli ultimi tempi l’imbarazzo dell’assurda obesità che ormai non gli consentiva di allacciare da sé i lacci delle scarpe, e lo sfrenato soddisfacimento di ogni sorta di appetiti, avevano cominciato ad inacidirgli il carattere. Riscoprire la figlia gli restituì la vecchia giovialità, e il piacere di stare con lei lo andava scostando a poco a poco dalla dissipazione. Meme sbocciava in un’età fruttifera. Non era bella, come non lo fu mai Amaranta, ma in cambio era simpatica, semplice, e aveva la virtù di piacere fin dal primo momento. Aveva uno spirito moderno che offendeva l’antiquata sobrietà e la mal dissimulata spilorceria viscerale di Fernanda, e che in cambio Aureliano Secondo godeva un mondo a favorire. Fu lui che decise di levarla dalla stanza dove dormiva fin da bambina, e dove i pavidi occhi dei santi continuavano ad alimentare i suoi terrori di adolescente, e le fece arredare una stanza con un letto regale, una grande specchiera e tende di velluto, senza rendersi conto che stava allestendo una replica della stanza di Petra Cotes. Era così prodigo con Meme che non sapeva nemmeno quanto denaro le dava, dato che era lei stessa a prelevarglielo dalle tasche, e la teneva sempre aggiornata su tutte le novità in fatto di prodotti di bellezza che arrivavano nei magazzini della compagnia bananiera. La stanza di Meme si riempì di tamponi di pietra pomice per pulirsi le unghie, di arricciacapelli, di paste per lucidare i denti, di colliri per illanguidire lo sguardo, e di tanti e così nuovi cosmetici e artifici di bellezza che ogni volta che Fernanda entrava nella stanza si scandalizzava all’idea che la toletta di sua figlia dovesse essere uguale a quella delle matrone francesi. Comunque, in quell’epoca il tempo di Fernanda era diviso tra la piccola Amaranta Ursula, che era capricciosa e malaticcia, e una emozionante corrispondenza coi medici invisibili. Di modo che quando si accorse della complicità del padre con la figlia, l’unica promessa che riuscì a strappare a Aureliano Secondo fu quella di non portare mai Meme in casa di Petra Cotes. Era un ammonimento senza senso, perché la concubina era così infastidita dal cameratismo del suo amante con la figlia che non voleva neanche sentirne parlare. La tormentava un timore sconosciuto, come se l’istinto l’ammonisse che Meme, solo che lo avesse desiderato, avrebbe potuto ottenere quello a cui non era riuscita Fernanda: privarla di un amore che ormai considerava assicurato fino alla morte. Per la prima volta Aureliano Secondo dovette sopportare le facce scure e le virulente scenate della concubina, e temette perfino che i suoi bauli portati e riportati tante volte avanti e indietro prendessero la strada del ritorno verso la casa di sua moglie. Ma ciò non accadde. Nessuno conosceva un uomo meglio di quanto Petra Cotes conoscesse il suo amante, e lei sapeva che i bauli sarebbero rimasti dove li avevano mandati, perché se qualcosa Aureliano Secondo detestava era di complicarsi la vita con cambiamenti e traslochi. Di modo che i bauli rimasero dove erano, e Petra Cotes si impegnò a conquistare il suo uomo affilando le uniche armi con le quali non poteva disputarglielo la figlia. Fu anche quello uno sforzo inutile, perché Meme non ebbe mai l’intenzione di intervenire nelle faccende di suo padre, e se anche lo avesse fatto sarebbe stato in favore della concubina. Non le avanzava il tempo per infastidire nessuno. Da sé si scopava la stanza e si rifaceva il letto, come le avevano insegnato le suore. Nella mattinata si occupava della sua roba, ricamando sotto il portico o cucendo sulla vecchia macchina a manovella di Amaranta. Mentre gli altri facevano la siesta si esercitava per due ore al clavicembalo, conscia che il sacrificio quotidiano avrebbe mantenuto calma Fernanda. Per lo stesso motivo continuava a dare concerti durante le feste di beneficenza ecclesiastiche e i veglioni scolastici, anche se era richiesta con sempre minor frequenza. Verso sera si metteva in ordine, indossava i suoi abiti semplici e infilava i suoi duri borzacchini, e se non aveva alcun programma con suo padre, andava in casa di amiche, dove rimaneva fino all’ora di cena. Era molto raro che a quell’ora Aureliano Secondo non venisse a cercarla per portarla al cinema.

Tra le amiche di Meme c’erano tre giovani nordamericane che avevano rotto il blocco della capponaia elettrificata e fatto amicizia con ragazze di Macondo. Una di loro era Patricia Brown. Per ricambiare l’ospitalità di Aureliano Secondo, il signor Brown aprì a Meme le porte della sua casa e la invitò ai balli del sabato, gli unici ai quali i gringos invitavano i nativi. Quando Fernanda lo seppe, dimenticò per un momento Amaranta Ursula e i medici invisibili, e ne fece un dramma. “Immaginati,” disse a Meme, “cosa penserà il colonnello nella sua tomba.” Stava, naturalmente, cercando l’appoggio di Ursula. Ma la vecchia cieca, al contrario di quello che tutti si aspettavano, trovò che non c’era nulla di male che Meme partecipasse ai balli e coltivasse amicizie con le nordamericane della sua età, sempre che tenesse la testa a posto e non si lasciasse convertire alla religione protestante. Meme captò assai bene il pensiero della trisnonna, e il giorno dopo i balli si alzava più presto del solito per andare a messa. L’opposizione di Fernanda resistette fino al giorno in cui Meme la disarmò cor la notizia che i nordamericani volevano sentirla suonare il clavicembalo. Lo strumento uscì ancora una volta dalla casa e fu trasportato in quella del signor Brown dove in realtà la giovane concertista ricevette gli applausi più sinceri e i rallegramenti più entusiasti. D allora non soltanto la invitarono ai balli, ma anche a bagni domenicali in piscina e a pranzo una volta alla settimana. Meme imparò a nuotare come una professionista, a giocare al tennis e a mangiare prosciutto della Virginia con fette di ananas. Tra balli, piscina e tennis, si trovò improvvisamente a sbrogliarsi in inglese. Aureliano Secondo fu così entusiasta dei progressi d sua figlia che comprò da un commesso viaggiatore un’enciclopedia inglese in sei volumi e con numerose illustrazioni a colori, che Meme leggeva nelle ore libere La lettura monopolizzò l’attenzione che prima essa dedicava ai pettegolezzi di innamorati o ai conciliaboli sperimentali con le sue amiche, non perché se lo fosse imposto come disciplina, ma perché ormai aveva perso ogni interesse nel commentare misteri che erano di dominio pubblico. Si ricordava della ubriacatura come di un’avventura infantile, e le sembrava così divertente che la raccontò a Aureliano Secondo, e a questi parve molto più divertente ancora. “Se tua madre lo sapesse.” le disse soffocando di risa, come le diceva tutte le volte che Meme gli faceva una confidenza. Le avevi fatto promettere che, con la stessa fiducia, lo avrebbe messo al corrente del suo primo innamoramento, e Meme gli aveva raccontato che provava qualche simpatia per un giovane nordamericano rosso di pelo venuto a passare le vacanze coi genitori. “Fantastico,” rise Aureliano Secondo. “Se tua madre lo sapesse.” Ma Meme gli raccontò anche che quel ragazzo era tornato nel suo paese e non aveva dato più segni di vita. La sua maturità di giudizio rafforzò la pace domestica. Aureliano Secondo dedicava a quei tempi molte più ore a Petra Cotes, e anche se il corpo e lo spirito non erano più così disposti a baldorie come una volta, non perdeva l’occasione di far feste e di sfoderare la fisarmonica, che già aveva qualche tasto tenuto insieme con lacci da scarpe. In casa, Amaranta ricamava il suo interminabile sudario, e Ursula si lasciava trascinare dalla decrepitezza verso il fondo delle tenebre, dove l’unica cosa che continuava a essere visibile era lo spettro di José Arcadio Buendìa sotto il castagno. Fernanda consolidò la sua autorità. Le lettere mensili a suo figlio José Arcadio non contenevano allora una sola linea di menzogna, e gli nascondeva soltanto la sua corrispondenza coi medici invisibili, che le avevano diagnosticato un tumore benigno nell’intestino crasso e stavano preparandola per praticarle un intervento telepatico.

Si sarebbe detto che nella spossata magione dei Buendìa ci fosse un trantran di pace e felicità monocorde per molto tempo se l’improvvisa morte di Amaranta non avesse provocato un nuovo scandalo. Fu un avvenimento inaspettato. Benché fosse vecchia e in disparte da tutti, la si vedeva ancora vegeta e diritta, e con la salute di ferro che aveva sempre avuto. Nessuno conobbe più il suo pensiero dal pomeriggio in cui aveva respinto definitivamente il colonnello Gerineldo Márquez e si era chiusa a piangere. Quando uscì, aveva esaurito tutte le sue lacrime. Non la si vide piangere per la salita al cielo di Remedios la bella, né per lo sterminio degli Aureliani, né per la morte del colonnello Aureliano Buendìa, che era la persona alla quale aveva voluto più bene al mondo, anche se lo aveva mostrato soltanto quando trovarono il suo cadavere sotto il castagno. Lei aiutò a sollevare il corpo. Lo rivestì delle sue insegne di guerriero, lo rasò, lo pettinò, e gli incerò i baffi molto meglio di quanto lui stesso non faceva nei suoi anni di gloria. Nessuno pensò che ci fosse amore in quell’azione, perché tutti erano abituati alla familiarità di Amaranta coi riti della morte. Fernanda si scandalizzava che non capisse i rapporti del cattolicesimo con la vita, bensì soltanto i suoi rapporti con la morte, come se non fosse una religione, ma un dépliant di pompe funebri. Amaranta era troppo irretita nel ginepraio dei suoi ricordi per poter capire quelle sottigliezze apologetiche. Era giunta alla vecchiaia con tutte le sue nostalgie ben deste. Quando ascoltava i valzer di Pietro Crespi sentiva la stessa voglia di piangere che aveva provato nell’adolescenza, come se il tempo e le esperienze non fossero servite a nulla. I rulli di musica che lei stessa aveva buttato nel mondezzaio col pretesto che l’umidità li aveva fatti marcire, continuavano a girare e a battere i martelletti nella sua memoria. Aveva cercato di sommergerli nella passione pantanosa che si era permessa con suo nipote Aureliano José, e cercato di rifugiarsi nella protezione serena e virile del colonnello Gerineldo Màrquez, ma non era riuscita a diroccarli nemmeno con l’azione più disperata della sua vecchiaia, quando faceva il bagno al piccolo José Arcadio tre anni prima che lo mandassero in seminario, e lo accarezzava non come poteva fare una nonna con un nipote, ma come avrebbe fatto una donna con un uomo, come si raccontava facessero le matrone francesi, e come lei avrebbe voluto fare con Pietro Crespi, a dodici, a quattordici anni, quando lo aveva visto coi suoi calzoni da ballo e con la bacchettina magica che segnava il tempo del metronomo. Certe volte le spiaceva di aver lasciato lungo il suo cammino quella scia di miseria, e spesso ne aveva tanta rabbia che si pungeva le dita con gli aghi, ma quanto più le faceva male tanta più rabbia ne aveva e tanto più la amareggiava il fragrante e bacato pometo d’amore che andava trascinando verso la morte. Come il colonnello Aureliano Buendìa pensava d’istinto alla guerra, così Amaranta pensava a Rebeca. Ma mentre suo fratello era riuscito a sterilizzare i ricordi, lei era arrivata soltanto ad arroventarli. L’unica cosa che per anni aveva chiesto a Dio era che non le mandasse il castigo di morire prima di Rebeca. Ogni volta che passava davanti alla sua casa e notava i progressi della distruzione si compiaceva pensando che Dio la stava ascoltando. Un pomeriggio, mentre cuciva sotto il porticato, fu assalita dalla certezza che si sarebbe trovata seduta in quel luogo, in quella stessa posizione e sotto quella medesima luce, quando le avrebbero comunicato la notizia della morte di Rebeca. Si sedette ad aspettarla, come chi aspetta una lettera, ed è vero che in un certo periodo si strappava i bottoni per tornare ad attaccarli, di modo che l’ozio non rendesse più lunga ed angosciosa l’attesa. Nessuno si rese conto in casa che Amaranta stava tessendo allora uno stupendo sudario per Rebeca. Più tardi, quando Aureliano Triste raccontò d’averla vista trasformata in una figura da apparizione, con la pelle screpolata e pochi filamenti gialli sul cranio, Amaranta non se ne meravigliò, perché lo spettro descritto era uguale a quello che lei immaginava da molto tempo. Aveva deciso di restaurare il cadavere di Rebeca, di dissimulare con paraffina le devastazioni del volto e di farle una parrucca coi capelli dei santi. Avrebbe fabbricato un bel cadavere, col sudario di lino e una bara foderata di felpa con fasce di porpora, e lo avrebbe messo a disposizione dei vermi, con tanto di funerali splendidi. Elaborò il piano con tanto odio che rabbrividì all’idea che non ci avrebbe messo meno cura se lo avesse fatto per amore, ma non si lasciò stordire dalla confusione, e invece continuò a perfezionare i particolari così minuziosamente che giunse ad essere più che una specialista, una virtuosa nei riti della morte. L’unica cosa di cui non tenne conto, nel suo piano, fu che nonostante le suppliche a Dio, sarebbe potuta morire lei prima di Rebeca. Così avvenne, in effetti; tuttavia, nell’istante finale Amaranta non si sentì delusa, ma al contrario liberata da ogni amarezza, perché la morte le concesse il privilegio di annunciarsi a lei con diversi anni di anticipo. La vide in un mezzogiorno infocato, intenta a cucire con lei sul porticato, poco dopo che Meme era partita per il collegio. La riconobbe subito, e non c’era nulla di temibile nella morte, perché era una donna vestita di azzurro coi capelli lunghi, con un aspetto un po’ antiquato e con una certa somiglianza con la Pilar Ternera dell’epoca in cui lei l’aiutava nelle faccende di cucina. Parecchie volte Fernanda fu presente e non la vide, nonostante fosse così reale, così umana, che certe volte chiedeva ad Amaranta il favore di infilarle un ago. La morte non le disse quando doveva morire né se la sua ora era segnata prima di quella di Rebeca, ma invece le ordinò di cominciare a tessere il suo stesso sudario il prossimo sei di aprile. La autorizzò a farlo complicato e pignolo quanto voleva, ma onestamente, così come aveva fatto quello di Rebeca, e la avvertì che sarebbe morta senza né dolore, né paura, né amarezza, la sera del giorno in cui l’avrebbe finito. Cercando di perdere la maggior quantità di tempo possibile, Amaranta si fece venire le filacce di bisso e lei stessa tessé il lenzuolo. Lo fece con tanta cura che solo per quel lavoro ci mise quattro anni. Poi iniziò il ricamo. A mano a mano che si avvicinava al termine inevitabile, le risultava chiaro che soltanto un miracolo le avrebbe permesso di prolungare il lavoro oltre la morte di Rebeca, ma la stessa concentrazione le procurò la calma di cui aveva bisogno per ammettere l’idea di una sconfitta. Fu allora che capì il circolo vizioso dei pesciolini d’oro del colonnello Aureliano Buendìa. Il mondo si ridusse alla superficie della sua pelle, e il suo intimo fu esente da ogni amarezza. Le spiacque di non aver avuto quella rivelazione molti anni prima, quando sarebbe stato ancora possibile purificare i ricordi e ricostruire l’universo sotto una luce nuova, e rievocare senza rabbrividire l’odore di spigo di Pietro Crespi verso sera, e riscattare Rebeca dalla sua melma di miseria, non per odio né per amore, bensì per la comprensione senza limite della solitudine. L’astio che notò una sera nelle parole di Meme non la turbò perché la riguardava, ma perché si sentì ripetuta in un’altra adolescenza che sembrava limpida come doveva essere sembrata la sua e che, tuttavia, era già corrotta dal rancore. Ma allora era così profonda l’accettazione del proprio destino che non la inquietò nemmeno la certezza d’avere precluse tutte le possibilità di emendamento. Il suo unico scopo fu quello di terminare il sudario. Invece di ritardarlo con inutili preziosismi, come aveva fatto all’inizio, affrettò il lavoro. Una settimana prima calcolò che avrebbe dato l’ultimo punto la sera del quattro febbraio, e senza rivelarle la ragione suggerì a Meme di anticipare un concerto di clavicembalo che aveva fissato per il giorno dopo, ma lei non le diede retta. Amaranta cercò allora il modo di rimandare di quarantotto ore il termine della sua opera, e pensò perfino che la morte la stava accontentando, perché la sera del quattro febbraio un temporale danneggiò la centrale elettrica. Ma il giorno dopo, alle otto del mattino, diede l’ultimo punto dell’opera più accurata che nessuna donna avesse mai compiuto, e annuncio senza la minima drammaticità che sarebbe morta verso sera. Non soltanto prevenne la famiglia, ma anche tutto il villaggio, perché Amaranta era convinta che si poteva riparare una vita di meschinità con un ultimo favore al mondo, e pensò che non c’era niente di meglio che portare lettere ai morti.

La notizia che Amaranta Buendìa salpava al crepuscolo portando la posta della morte si sparse in tutta Macondo prima di mezzogiorno, e alle tre del pomeriggio c’era in salotto una cassa piena di lettere. Chi non volle scrivere diede ad Amaranta dei messaggi verbali che lei annotò in un libretto col nome e la data della morte del destinatario. “Non si preoccupi,” tranquillizzava i mittenti. “La prima cosa che farò arrivando là sarà di chiedere di lui, e gli farò la sua commissione.” Sembrava una farsa. Amaranta non rivelava sgomento alcuno, nemmeno il più piccolo segno di dolore, e sembrava perfino un po’ ringiovanita a causa del dovere compiuto. Era diritta e svelta come sempre. Se non fosse stato per gli zigomi puntuti e per la mancanza di alcuni denti sarebbe sembrata molto meno vecchia di quello che era in effetti. Lei stessa dispose che si mettessero le lettere in una cassa incatramata, e indicò il modo di collocarla nella tomba per preservarla meglio dall’umidità. In mattinata aveva chiamato un falegname che le prese le misure della bara, in piedi, in salotto, come se fossero per un vestito. Si risvegliò in lei un tale dinamismo, nelle ultime ore, che Fernanda credette che in realtà si stesse burlando di tutti. Ursula, con l’esperienza che i Buendia non morivano di malattia, non mise in dubbio che Amaranta aveva avuto il presagio della morte, ma in ogni modo la tormentò il timore che nella confusione di tutte quelle lettere e nell’ansia che arrivassero presto a destinazione gli allucinati mittenti non aspettassero che fosse morta prima di seppellirla. E così si ostinò a sgombrare la casa, disputando e urlando con gli intrusi, e per le quattro del pomeriggio era riuscita nel suo intento. Per quell’ora, Amaranta aveva finito di dividere le sue cose tra i poveri, e aveva lasciato sulla severa bara di tavole grezze soltanto la roba e le semplici babbucce di velluto che avrebbe indossato per attendere la morte. Non prese alla leggera quella precauzione, ricordando che quando era morto il colonnello Aureliano Buendìa era stato necessario comprargli un paio di scarpe nuove, perché non aveva altro che le pantofole che portava nel laboratorio. Poco prima delle cinque, Aureliano Secondo venne a prendere Meme per il concerto, e si meravigliò che la casa fosse preparata per il funerale. Se qualcuno sembrava vivo in quell’ora era la serena Amaranta, che aveva avuto perfino il tempo di tagliarsi i calli. Aureliano Secondo e Meme si accomiatarono da lei con addii da burla, e le promisero che il sabato seguente avrebbero fatto la baldoria della resurrezione.

Sollecitato dalle chiacchiere della gente che Amaranta Buendia stava ricevendo lettere destinate ai morti, padre Antonio Isabel arrivò alle cinque col viatico, e dovette aspettare più di quindici minuti che la moribonda uscisse dal bagno. Quando la vide apparire con un camicione di mussola e coi capelli sciolti sulle spalle, il decrepito parroco pensò che si doveva trattare di una burla, e mandò via il chierichetto. Tuttavia, cercò di approfittare dell’occasione per confessare Amaranta dopo quasi venti anni di reticenza. Amaranta ribatté, semplicemente, che non aveva bisogno di alcuna assistenza spirituale perché si sentiva la coscienza a posto. Fernanda si scandalizzò. Senza curarsi di non farsi sentire, si chiese ad alta voce che spaventoso peccato poteva aver commesso Amaranta se preferiva una morte sacrilega alla vergogna di una confessione. Allora Amaranta si sdraiò sul letto, e obbligò Ursula a dare pubblica testimonianza della sua verginità.

“Che nessuno si faccia delle illusioni,” gridò per farsi sentire da Fernanda. “Amaranta Buendia se ne va da questo mondo così come vi è arrivata.”

Non si alzò più. Adagiata sui cuscini, come se fosse davvero ammalata, annodò le sue lunghe trecce e le arrotolò sulle orecchie, come la morte le aveva detto che doveva stare nella bara. Poi chiese a Ursula uno specchio, e per la prima volta in più di quarant’anni vide il suo volto devastato dall’età e dal martirio, e si meravigliò di quanto fosse simile alla immagine mentale che s’era fatta di se stessa. Ursula comprese dal silenzio della stanza che era cominciato a farsi buio.

“Saluta Fernanda,” la supplicò. “Un minuto di riconciliazione ha maggior merito di tutta una vita di amicizia.”

“Ormai non vale la pena,” ribatté Amaranta.

Meme non poté fare a meno di pensare a lei quando accesero le luci del palco improvvisato e cominciò la seconda parte del programma. A metà del brano qualcuno le sussurrò all’orecchio la notizia, e lo spettacolo fu sospeso. Quando arrivò nella casa, Aureliano Secondo dovette aprirsi la strada a spintoni, per vedere il cadavere della anziana donzella, brutta e giallastra, con la benda nera sulla mano e avvolta nel sovraccarico sudario. Era esposto nel salotto vicino alla cassa delle lettere.

Ursula non si alzò più dopo le nove notti di Amaranta. Santa Sofia de la Piedad si prese cura di lei. Le portava in stanza da mangiare, e l’acqua di bissa perché si lavasse, e la teneva al corrente di tutto quanto succedeva a Macondo. Aureliano Secondo andava a trovarla spesso, e le portava indumenti che lei posava accanto al letto, insieme alle cose più indispensabili per la vita quotidiana, di modo che in poco tempo si era costruito un mondo a portata di mano. Riuscì a suscitare un grande affetto nella piccola Amaranta Ursula, che era identica a lei, e alla quale insegnò a leggere. La sua lucidità, la sua abilità di bastare a se stessa, facevano pensare che fosse naturalmente vinta dal peso del suo secolo di vita, ma anche se era evidente che la sua vista non era buona nessuno sospettò mai che fosse completamente cieca. Disponeva in quei giorni di tanto tempo e di tanto silenzio interiore per poter sorvegliare la vita della casa, che fu lei la prima a rendersi conto della taciturna tribolazione di Mente.

“Vieni qui,” le disse. “Ora che siamo sole, confessa a questa povera vecchia che cosa ti succede.”

Meme eluse la conversazione con una risata stenta. Ursula non insistette, ma ebbe la definitiva conferma dei suoi sospetti quando si accorse che Meme non veniva più a trovarla. Sapeva che si preparava più presto del solito, che non aveva un attimo di pace mentre aspettava l’ora di uscire, che passava notti intere rigirandosi nel letto della stanza attigua, e che la infastidiva anche lo svolazzare di una farfalla. Una volta la sentì dire che andava a trovare Aureliano Secondo, e Ursula si meravigliò che Fernanda avesse la fantasia così limitata da non sospettare di nulla quando suo marito venne in casa a chiedere della figlia. Era fin troppo evidente che Meme era coinvolta in faccende misteriose, in convegni urgenti, in ansietà represse, fin da molto prima della sera in cui Fernanda aveva suscitato un parapiglia per averla sorpresa a baciarsi con un uomo nel cinema.

La stessa Meme era in quei giorni così svagata che accusò Ursula di averle fatto la spia. In realtà aveva fatto la spia a se stessa. Da diverso tempo si lasciava dietro una scia di indizi che avrebbero insospettito persino la persona più ottusa, e se Fernanda ci mise tanto a scoprirli fu perché lei stessa era ottenebrata dai suoi rapporti segreti coi medici invisibili. Ma anche in quelle condizioni finì per notare i profondi silenzi, i sussulti intempestivi, i cambiamenti di umore e le contraddizioni della figlia. Intraprese una sorveglianza dissimulata ma implacabile. La lasciò uscire con le sue amiche di sempre, la aiutò a vestirsi per le feste del sabato, e non le rivolse mai una domanda impertinente che potesse metterla sull’avviso. Aveva ormai molte prove che Meme faceva cose diverse da quelle che annunciava, ma preferì non far trapelare ancora i suoi sospetti, in attesa dell’occasione decisiva. Una sera, Meme le disse che sarebbe andata al cinema con suo padre. Poco dopo, Fernanda udì i razzi della baldoria e l’inconfondibile fisarmonica di Aureliano Secondo dalle parti di Petra Cotes. Allora si vestì, entrò nel cinema, e nell’oscurità della platea riconobbe sua figlia. La sconcertante emozione dell’azzecco le impedì di vedere l’uomo col quale si stava baciando, ma riuscì a percepire la sua voce tremula in mezzo ai fischi e alle risate assordanti del pubblico. “Mi spiace, amore,” gli sentì dire. Fece uscire Meme dalla sala senza dirle una parola, la sottomise alla vergogna di farla passare per la chiassosa Strada dei Turchi, e infine la chiuse a chiave nella stanza.

Il giorno dopo, alle sei del pomeriggio, Fernanda riconobbe dalla voce l’uomo che la andò a trovare. Era giovane, citrino, con occhi scuri e malinconici che non l’avrebbero meravigliata tanto se avesse conosciuto gli zingari, e un’aria sognante che a qualsiasi donna con un cuore meno severo del suo sarebbe stata sufficiente per capire i motivi di sua figlia. Vestiva di lino molto liso, con scarpe disperatamente difese con strati sovrapposti di biacca, e portava in mano una paglietta comprata il sabato prima. Mai in vita sua, né prima né dopo, doveva esser stato tanto sgomento come in quell’istante, ma aveva una dignità e un dominio di sé che lo mettevano in salvo dall’umiliazione, e una prestanza autentica che aveva i suoi punti di cedimento soltanto nelle mani sciupate e nelle unghie scheggiate dal lavoro rude. A Fernanda, tuttavia, bastò appena un’occhiata per intuire la sua condizione di manovale. Si rese conto che indossava i suoi unici vestiti della domenica, e che sotto la camicia aveva la pelle rosa dalla rogna della compagnia bananiera. Non gli permise di parlare. Non gli permise nemmeno di varcare la porta che un attimo dopo fu costretta a chiudere perché la casa si era riempita di farfalle gialle.

“Se ne vada,” gli disse. “Lei non ha nulla da cercare tra la gente per bene.”

Si chiamava Mauricio Babilonia. Era nato e cresciuto a Macondo, ed era apprendista meccanico nelle officine della compagnia bananiera. Meme lo aveva conosciuto per caso un pomeriggio in cui era andata con Patricia Brown a cercare l’automobile per fare una passeggiata nelle piantagioni. L’autista era ammalato e fu incaricato lui di guidare la macchina; Meme poté finalmente soddisfare il suo desiderio di sedersi accanto al volante per osservare da vicino la guida. Al contrario dell’autista titolare, Mauricio Babilonia le diede una dimostrazione pratica. Questo accadde all’epoca in cui Meme aveva cominciato a frequentare la casa del signor Brown, e si riteneva ancora non decente che una signora guidasse l’automobile. Lei dunque si era accontentata delle nozioni teoriche e per parecchi mesi Mauricio Babilonia non l’aveva più rivista. Più tardi si sarebbe ricordata che durante il tragitto era stata affascinata dalla sua bellezza maschile, tranne la brutalità delle mani, ma di aver, poi, anche commentato con Patricia Brown l’irritazione che le aveva causato la sua sicurezza un po’ arrogante. Il primo sabato che andò al cinema con suo padre, rivide Mauricio Babilonia col suo abito di lino, seduto a poca distanza da loro, e notò che il ragazzo non badava alla pellicola ma si voltava a guardarla, non tanto per vederla quanto per far si che lei s’accorgesse che la stava guardando. Meme fu infastidita dalla volgarità di quel sistema. Alla fine, Mauricio Babilonia si avvicinò per salutare Aureliano Secondo, e soltanto allora Meme apprese che i due si conoscevano, perché il ragazzo aveva lavorato nella prima centrale elettrica di Aureliano Triste, e trattava suo padre con un atteggiamento da subalterno. Quella dimostrazione le alleviò il fastidio che le provocava l’alterigia di lui. Non si erano mai visti da soli, né si erano scambiati una parola diversa da quella del saluto, prima della notte in cui sognò che lui la salvava da un naufragio e lei non provava un senso di gratitudine, ma di rabbia. Era come avergli dato l’opportunità che lui aspettava, mentre Meme non desiderava che il contrario, e non soltanto con Mauricio Babilonia, ma con qualsiasi altro uomo che si interessasse di lei. Per questo era così indignata constatando che dopo il sogno, invece di detestarlo, provava un’ansia irresistibile di rivederlo. L’ansia si fece più intensa nel corso della settimana, e il sabato fu così incalzante che lei dovette fare un grande sforzo perché Mauricio Babilonia non notasse, quando la salutò nel cinema, che le stava uscendo il cuore dalla bocca. Offuscata da una confusa sensazione di piacere e di rabbia, lei gli porse la mano per la prima volta, e soltanto allora Mauricio Babilonia si permise di stringergliela. Meme riuscì in una frazione di secondo a pentirsi del suo impulso, ma il pentimento si trasformò di colpo in una soddisfazione crudele, quando si accorse che anche la mano del ragazzo era sudata e fredda. Quella sera capì che non avrebbe avuto un solo istante di pace finché non avesse dimostrato a Mauricio Babilonia la vanità della sua aspirazione, e trascorse la settimana mulinando intorno a quella ansietà. Fece ricorso a ogni sorta di artifizi inutili per ottenere che Patricia Brown la portasse a prendere l’automobile. Alla fine, si servì del nordamericano rosso di pelo che in quell’epoca era venuto a trascorrere le vacanze a Macondo, e col pretesto di conoscere i nuovi modelli di automobili si fece portare in garage. Dal momento in cui lo vide, Meme smise di ingannare se stessa, e capì come stavano le cose in realtà: non poteva resistere al desiderio di trovarsi da sola con Mauricio Babilonia, ma al tempo stesso la indignava la certezza che questi l’avesse capito benissimo, vedendola arrivare.

“Sono venuta a vedere i nuovi modelli,” disse Meme.

“È un buon pretesto,” disse lui.

Meme si rese conto che stava bruciandosi le ali al lume della sua alterigia, e cercò disperatamente un modo di umiliarlo. Ma lui non gliene diede il tempo. “Non si spaventi,” le disse sottovoce. “Non è la prima volta che una donna fa pazzie per un uomo.” Si sentì così indifesa che uscì dall’officina senza aver visto i nuovi modelli, e passò la notte ad agitarsi e rigirarsi nel letto e a piangere di indignazione. Il nordamericano rosso di pelo, che in realtà cominciava a piacerle, gli sembrò un bambino in fasce. Fu allora che si accorse delle farfalle gialle che precedevano le apparizioni di Mauricio Babilonia. Le aveva viste già prima, soprattutto nell’officina meccanica, e aveva pensato che fossero attirate dall’odore della vernice. Certe volte le aveva sentite svolazzare sulla sua testa nella penombra del cinema. Ma quando Mauricio Babilonia cominciò a incalzarla, come uno spettro che soltanto lei riconosceva nella folla, capì che le farfalle gialle avevano qualcosa a che vedere con lui. Mauricio Babilonia faceva sempre parte del pubblico dei concerti, del cinema, della messa cantata, e lei non aveva bisogno di vederlo per individuarlo, perché glielo segnalavano le farfalle. Una volta Aureliano Secondo si infastidì tanto per quello svolazzare insistente, che lei si sentì spinta a confessargli il suo segreto, come gli aveva promesso, ma l’istinto l’avvisò che quella volta lui non si sarebbe messo a ridere come al solito: “Cosa direbbe tua madre se lo sapesse.” Una mattina, mentre potavano le rose, Fernanda lanciò un grido di spavento e fece scostare Meme dal luogo dove si trovava, e che era il punto del giardino da dove era salita ai cieli Remedios la bella. Aveva avuto per un attimo l’impressione chi il miracolo stesse pe r ripetersi in sua figlia, perché era stata sorpresa da una repentina palpitazione d’ali. Erano le farfalle. Meme le vide, come se fossero nate all’improvviso nella luce, e il cuore le diede un balzo. In quel momento, entrava Mauricio Babilonia con un pacco che, a quanto disse, era un regalo di Patricia Brown. Meme represse il rossore, assimilò il turbamento, e riuscì perfino a sorridere con naturalezza nel chiedergli il favore di posarlo sul parapetto perché aveva le dita sporche di terra. L’unica cosa che notò Fernanda nell’uomo che pochi mesi dopo avrebbe cacciato dalla casa senza ricordarsi di averlo mai visto prima, fu il pallore bilioso della pelle.

“È un uomo molto strano,” disse Fernanda. “Gli si vede in faccia che sta per morire.”

Meme pensò che sua madre fosse rimasta impressionata dalle farfalle. Quando finirono di potare il rosaio, si lavò le mani e portò il pacco nella sua stanza per aprirlo. Era una specie di giocattolo cinese, composto da cinque scatole concentriche, e nell’ultima c’era un biglietto laboriosamente tracciato da qualcuno che sapeva appena scrivere: Ci vediamo sabato al cinema. Meme provò il turbamento tardivo che la scatola fosse rimasta per tanto tempo sul parapetto alla portata della curiosità di Fernanda, e benché fosse lusingata dall’audacia e dall’ingegno di Mauricio Babilonia, si commosse per la sua ingenuità di sperare che lei andasse all’appuntamento.

Meme sapeva già allora che il sabato sera Aureliano Secondo aveva un impegno. Tuttavia, il fuoco dell’ansia la arroventò in modo tale nel corso della settimana, che il sabato convinse suo padre a lasciarla andare da sola al cinema e a tornarla a prendere al termine dello spettacolo. Una farfalla notturna svolazzò sulla sua testa fintanto che le luci rimasero accese. E allora successe. Quando le luci si spensero, Mauricio Babilonia venne a sedersi accanto a lei. Meme sentì di star sguazzando in una fangaia di irrequietudine, dalla quale poteva toglierla, come era avvenuto nel sogno, soltanto quell’uomo odoroso di olio di motore che lei appena riusciva a distinguere nella penombra.

“Se non fosse venuta,” disse lui, “non mi avrebbe visto mai più.”

Meme sentì il peso della sua mano sul ginocchio, e seppe che tutti e due stavano arrivando in quell’istante al fondo dell’abbandono.

“Quello che mi urta di te, sorrise, “è che dici sempre proprio quello che non si deve dire.”

Divenne pazza di lui. Perse il sonno e l’appetito, e affondò così profondamente nella solitudine, che perfino suo padre le divenne d’impaccio. Elaborò un complicato intrico di impegni falsi per disorientare Fernanda, perse di vista le sue amiche, voltò le spalle alle buone creanze per potersi vedere con Mauricio Babilonia a qualsiasi ora e in qualsiasi luogo. Sulle prime la infastidiva la sua rudezza. La prima volta che si videro da soli, nei prati deserti dietro l’officina meccanica, lui la trascinò senza misericordia a uno stato animale che la lasciò estenuata. Ci mise un po’ di tempo ad accorgersi che anche quella era una forma di dolcezza, e fu allora che perse la pace, e non viveva altro che per lui, sconvolta dall’ansia di affondare nel suo intorpidente alone di olio strofinato con lisciva. Poco prima della morte di Amaranta attraversò improvvisamente uno spazio di lucidità dentro la follia, e rabbrividì di fronte all’incertezza del domani. Allora sentì parlare di una donna che faceva pronostici con le carte, e andò a visitarla in segreto. Era Pilar Ternera. Non appena questa la vide entrare, capì i reconditi motivi di Meme. “Siediti,” disse. “Non ho bisogno di carte per indovinare l’avvenire di un Buendìa. Meme ignorava, e lo ignorò sempre, che quella pitonessa centenaria era la sua bisnonna, e tanto meno lo avrebbe creduto dopo l’aggressivo realismo col quale lei le rivelò che l’ansia dell’innamoramento non trovava requie se non nel letto. Era la stessa opinione di Mauricio Babilonia, ma Meme si ostinava a non dargli retta, perché in fondo supponeva che fosse ispirato da un malsano criterio da operaio. Lei pensava allora che l’amore fatto in un modo sconfiggeva l’amore fatto in un altro modo, perché era tipico della natura degli uomini ripudiare la fame una volta soddisfatto l’appetito. Pilar Ternera non soltanto dissipò l’errore, ma le offrì anche il vecchio letto di tela dove aveva concepito Arcadio, il nonno di Meme, e dove, poi, aveva concepito Aureliano José. Le insegnò inoltre come prevenire il concepimento indesiderato mediante la vaporizzazione di cataplasmi di senape, e le diede ricette di beveroni che in caso di incidente facevano espellere “perfino i rimorsi di coscienza.” Quel colloquio infuse a Meme lo stesso senso di coraggio che aveva provato nel pomeriggio della sbornia. Tuttavia, la morte di Amaranta la costrinse a rimandare la decisione. Fintanto che durarono le nove notti, lei non si scostò un attimo solo da Mauricio Babilonia, che si era mescolato alla folla che aveva invaso la casa. Poi vennero il lutto prolungato e la clausura obbligatoria, ed essi si separarono per un certo tempo. Furono giorni di tanta agitazione interiore, di tanta ansietà irreprimibile e di tante bramosie represse, che il primo pomeriggio in cui Meme riuscì a uscire se ne andò direttamente nella casa di Pilar Ternera. Si diede a Mauricio Babilonia senza resistenza, senza pudore, senza formalismi, e con una vocazione così fluida e una intuizione così sapiente, che un uomo più sospettoso del suo avrebbe potuto confonderla con una raffinata esperienza. Si amarono due volte alla settimana per più di tre mesi protetti dalla complicità innocente di Aureliano Secondo, che accreditava senza malizia le coartazioni di sua figlia, solo per vederla libera dalla rigidità di sua madre.

La sera in cui Fernanda li sorprese nel cinema, Aureliano Secondo si sentì oppresso dal peso della coscienza e andò a trovare Meme nella stanza dove l’aveva rinchiusa Fernanda, sperando che la ragazza si sarebbe sfogata con lui delle confidenze di cui gli era debitrice. Ma Meme negò ogni cosa. Era così sicura di se stessa, così aggrappata alla sua solitudine, che Aureliano Secondo ebbe l’impressione che ormai non esisteva più alcun vincolo tra loro, che il cameratismo e la complicità non erano più che una illusione del passato. Pensò di andare a parlare con Mauricio Babilonia, credendo che la sua autorità di antico padrone lo avrebbe fatto desistere dai suoi propositi, ma Petra Cotes lo convinse che quelle erano faccende di donne, di modo che rimase sospeso in un limbo di indecisione, e sostenuto appena dalla speranza che la reclusione avrebbe posto fine alle tribolazioni di sua figlia.

Meme non diede alcuna mostra di afflizione. Al contrario, dalla stanza attigua Ursula percepì il ritmo tranquillo del suo sonno, la serenità delle sue faccende, l’ordine dei suoi pasti e la buona salute della sua digestione. L’unica cosa che stupì Ursula dopo quasi due mesi di punizione, fu che Meme non facesse il bagno di mattina, come lo facevano tutti, ma alle sette di sera. Certe volte pensò di metterla in guardia contro gli scorpioni, ma Meme era così fredda, convinta com’era che lei le avesse fatto la spia, che preferì non turbarla con spropositi da trisnonna. Verso il crepuscolo, le farfalle gialle invadevano la casa. Tutte le sere, tornando dal bagno, Meme trovava Fernanda disperata, intenta ad uccidere farfalle gialle con lo spruzzatore di insetticida. “Questa è una disgrazia,” diceva. “Mi hanno sempre detto che le farfalle notturne portano sfortuna.” Una sera, mentre Meme si trovava nel bagno, Fernanda entrò nella sua stanza per caso, e c’erano tante farfalle che si poteva appena respirare. Afferrò uno straccio qualsiasi per scacciarle, e il cuore le si gelò di terrore quando mise in relazione i bagni notturni di sua figlia coi cataplasmi di senape che erano caduti per terra. Non attese il momento opportuno, come aveva fatto la prima volta. Il giorno dopo invitò a pranzo il nuovo alcalde, che come lei veniva dagli altipiani, e lo pregò di far mettere una guardia notturna in fondo al patio, perché aveva l’impressione che le rubassero le galline. Quella sera, la guardia abbatté Mauricio Babilonia mentre stava togliendo le tegole per entrare nel bagno dove Meme lo aspettava, nuda e tremante di amore tra gli scorpioni e le farfalle, come aveva fatto per quasi tutte le notti degli ultimi mesi. Un proiettile incrostato nella colonna vertebrale lo costrinse in un letto per il resto della vita. Morì vecchio nella solitudine, senza un lamento, senza una protesta, senza un solo tentativo di risentimento, tormentato dai ricordi e dalle farfalle gialle che non gli concedettero un istante di pace, e ripudiato da tutti come ladro di galline.

 Gli avvenimenti che avrebbero dato il colpo mortale a Macondo cominciarono a intravedersi quando portarono nella casa il figlio di Meme Buendia. La situazione pubblica era in quei tempi così incerta, che nessuno aveva l’animo disposto ad occuparsi di scandali privati, sicché Fernanda poté approfittare di un ambiente propizio per mantenere il bambino nascosto come se non fosse mai esistito. Dovette accettarlo, perché le circostanze in cui glielo portarono non resero possibile un rifiuto. Dovette sopportarlo contro la sua volontà per il resto della sua vita, perché nell’ora della verità le era mancato il coraggio di compiere l’intima determinazione di affogarlo nella cisterna del bagno. Lo chiuse nell’antico laboratorio del colonnello Aureliano Buendia. Riuscì a convincere Santa Sofia de la Piedad di averlo trovato che galleggiava in un cestino. Ursula sarebbe morta senza conoscere la sua origine. La piccola Amaranta Ursula, che una volta era entrata in laboratorio mentre Fernanda stava alimentando il bambino, credette anche lei alla versione del cestino galleggiante. Aureliano Secondo, definitivamente staccato da sua moglie per il modo irrazionale col quale questa aveva trattato la tragedia di Meme, non seppe dell’esistenza del nipote fino a tre anni dopo che glielo avevano portato in casa, quando il bambino scappò dalla sua prigione per una disattenzione di Fernanda, e si affacciò sul portico per una frazione di secondo, nudo e coi capelli arruffati e con un impressionante sesso da barbiglio di tacchino, come se non fosse una creatura umana bensì la definizione enciclopedica di un antropofago.

Fernanda non aveva fatto i calcoli su quel tiro birbone del suo incorreggibile destino. Il bambino fu come il ritorno di una vergogna che lei credeva di aver esiliato per sempre dalla casa. Si erano appena portati via Mauricio Babilonia con la spina dorsale spezzata, e già Fernanda aveva stabilito fino al particolare più insignificante il piano destinato ad eliminare ogni vestigio dell’obbrobrio. Senza consultare suo marito, fece il giorno dopo i suoi bagagli, mise in una valigetta i tre ricambi di cui sua figlia poteva aver bisogno, e andò a cercarla nella stanza mezz’ora prima dell’arrivo del treno.

“Andiamo, Renata,” le disse.

Non le diede alcuna spiegazione. Meme, da parte sua, non se l’aspettava né la voleva. Non soltanto ignorava dove erano dirette, ma a lei non sarebbe importato nemmeno se l’avessero condotta al macello. Non aveva più parlato, né lo avrebbe più fatto per il resto della vita, da quando aveva sentito lo sparo in fondo al patio e il simultaneo urlo di dolore di Mauricio Babilonia. Quando sua madre le ordinò di uscire dalla stanza, non si lavò né si pettinò, e salì sul treno come una sonnambula senza nemmeno notare le farfalle gialle che continuavano ad accompagnarla. Fernanda non seppe mai, né si prese il disturbo di indagare, se il suo silenzio ermetico era una decisione della sua volontà, o se fosse rimasta muta per il colpo della tragedia. Meme si rese appena conto del viaggio attraverso la regione incantata. Non vide le ombrose e interminabili piantagioni di banano ai due lati del percorso. Non vide le case bianche dei gringos, né i loro giardini inariditi dalla polvere e dal caldo, né le donne in pantaloncini e camicie a righe azzurre che giocavano a carte sotto i portici. Non vide i carri di buoi carichi di caschi sui sentieri polverosi. Non vide le ragazze che saltavano come pesci nei fiumi trasparenti per lasciare nei passeggeri del treno l’amarezza dei loro seni splendidi, né le baracche multicolori e miserevoli dei lavoratori dove svolazzavano le farfalle gialle di Mauricio Babilonia, e sulle cui soglie c’erano bambini verdi e squallidi seduti sui loro pitalini, e donne gravide che lanciavano improperi al passaggio del treno. Quella visione fugace che per lei era una festa quando tornava dal collegio, passò nel cuore di Meme senza farlo fremere. Non guardò dal finestrino nemmeno quando terminò l’umidità ardente delle piantagioni, e il treno passò per la pianura di papaveri dove c’era ancora il corbame carbonizzato del galeone spagnolo, e uscì poi verso la stessa aria diafana e lo stesso mare spumoso e sudicio dove quasi un secolo prima si erano arenate le illusioni di José Arcadio Buendia.

Alle cinque del pomeriggio, quando arrivarono nella stazione finale della palude, scese dal treno perché Fernanda era scesa. Salirono su una carrozzella che sembrava un pipistrello enorme, tirata da un cavallo asmatico, e attraversarono la città desolata nelle cui strade interminabili e conciate dal salnitro risonava un esercizio di piano uguale a quello che sentiva Fernanda nelle sieste della sua adolescenza. Si imbarcarono su un battello fluviale, la cui ruota di legno faceva un rumore da conflagrazione, e le cui lastre di ferro rose dalla ruggine riverberavano come la bocca di un forno. Meme si chiuse nella cabina. Due volte al giorno Fernanda lasciava un piatto di cibo vicino al suo letto, e due volte al giorno se lo riportava via intatto, non perché Meme avesse deciso di morire di fame, ma perché le ripugnava il solo odore dei cibi e il suo stomaco rigettava anche l’acqua. Nemmeno lei sapeva allora che la sua fertilità si era presa gioco dei vapori di senape, così come Fernanda non lo seppe fin quasi un anno dopo, quando le portarono il bambino. Nella cabina soffocante, scombussolata dalle vibrazioni delle pareti di ferro e dal tanfo insopportabile del limo rimosso dalla ruota del battello, Meme perse il conto dei giorni. Era passato molto tempo da quando aveva visto l’ultima farfalla triturata dalle pale del ventilatore e ammise come una verità irrimediabile che Mauricio Babilonia era morto. Tuttavia, non si lasciò vincere dalla rassegnazione. Continuava a pensare a lui durante la penosa traversata in groppa alla mula verso l’altipiano allucinante dove si era perso Aureliano Secondo quando cercava la donna più bella che fosse mai esistita sulla terra, e quando risalirono la cordigliera lungo i sentieri degli indios, e entrarono nella città lugubre nei cui labirinti di pietra risonavano i bronzi funebri di trentadue chiese. Quella notte dormirono nell’abbandonata magione coloniale, sulle tavole che Fernanda mise sul pavimento di una sala invasa dalle erbacce, e avvolte in brandelli di tende che strapparono dalle finestre e che si sbriciolavano a ogni mossa del corpo. Meme seppe dove si trovavano, perché nello stupore dell’insonnia vide passare il cavaliere vestito di nero che in una lontana vigilia di Natale avevano portato in casa in un cofano di piombo. Il giorno seguente, dopo la messa, Fernanda la condusse in un edificio oscuro che Meme riconobbe subito grazie alle rievocazioni che sua madre soleva fare del convento dove l’avevano educata per essere regina, e allora capì di essere giunta al termine del viaggio. Mentre Fernanda parlava con qualcuno nell’ufficio attiguo, lei rimase in un salone scaccheggiato con grandi ritratti di arcivescovi coloniali, tremando di freddo, perché portava ancora un vestito di cotonina con fiorellini neri e i duri borzacchini gonfiati dal gelo degli altipiani. Stava in piedi in mezzo al salone, e pensava a Mauricio Babilonia sotto il fiotto giallo delle vetrate, quando usci dall’ufficio una novizia molto bella che portava la sua valigetta con i tre ricambi. Passando vicino a Meme le tese la mano senza fermarsi.

“Andiamo, Renata,” le disse.

Meme le prese la mano e si lasciò condurre via. L’ultima volta che Fernanda la vide, nell’atto di regolare il proprio passo con quello della novizia, finiva di chiudersi alle sue spalle il cancello di ferro della clausura. Pensava ancora a Mauricio Babilonia, al suo odore di olio e ai suo alone di farfalle, e avrebbe continuato a pensare a lui in tutti i giorni della sua vita, fino al remoto mattino d’autunno in cui sarebbe morta di vecchiaia, sotto falso nome, e senza aver mai detto una parola, in un tenebroso ospedale di Cracovia.

Fernanda tornò a Macondo su un treno protetto di poliziotti armati. Durante il viaggio notò la tensioni dei passeggeri, i preparativi militari nei villaggi della linea e l’aria rarefatta dalla certezza che qualcosa di grave sarebbe successo, ma non ebbe alcuna informazione fin ché non arrivò a Macondo e le raccontarono che José Arcadio Secondo stava incitando allo sciopero i lavoratori della compagnia bananiera. “Ci mancava solo questo,” si disse Fernanda. “Un anarchico in famiglia.” Lo sciopero scoppiò due settimane dopo e non ebbe le conseguenze drammatiche che si temevano. Gli operai chiedevano di non essere costretti a tagliare e imbarcare le banane nei giorni di domenica, e la richiesta sembrò così giusta che lo stesso padre Antonio Isabel intercedette in loro favore perché la trovò concorde alle legge di Dio. Il successo dell’azione, così come di altre che si promossero nei mesi seguenti, tolse dall’anonimato lo scolorito José Arcadio Secondo, di cui si usava dire che era servito soltanto a riempire il villaggio di puttane francesi. Con la stessa risoluzione impulsiva con la quale aveva ceduto al maggior offerente i suoi galli di combattimento per iniziare un’impresa di navigazione scombinata, ora rinunciò all’incarico di caposquadra della compagnia bananiera e assunse le difese dei lavoratori. Ben presto fu segnalato come agente di una cospirazione internazionale contro l’ordine pubblico Una notte, nel corso di una settimana offuscata da oscure voci, sfuggì miracolosamente a quattro colpi di revolver sparatigli da uno sconosciuto mentre stava uscendo da una riunione segreta. Fu così tesa l’atmosfera dei mesi seguenti, che perfino Ursula la percepì nel sue angolo di tenebre, e ebbe l’impressione di star rivivendo i giorni rischiosi in cui suo figlio Aureliana teneva in tasca i globuli omeopatici della sovversione. Cercò di parlare con José Arcadio Secondo per avvisarlo di quel precedente, ma Aureliano Secondo la informò che dalla notte dell’attentato si ignorava il suo rifugio.

“Proprio come Aureliano,” esclamò Ursula. “È come se il mondo continuasse a girare in tondo.” Fernanda rimase immune dalla incertezza di quei giorni. Mancava di contatti col mondo esterno, fin dall’epoca della violenta lite avuta col marito per aver deciso della sorte di Meme senza il suo consenso. Aureliano Secondo era disposto a riscattare sua figlia, con l’aiuto della polizia se fosse stato necessario, ma Fernanda gli mostrò delle carte nelle quali si dimostrava che era entrata in clausura di sua volontà. Effettivamente, Meme le aveva firmate quando si trovava già dall’altra parte del cancello di ferro, e lo aveva fatto con la stessa indifferenza con la quale si era lasciata condurre. In fondo, Aureliano Secondo non credette alla legittimità delle prove, come non credette mai che Mauricio Babilonia si fosse calato nel patio per rubare galline, ma i due espedienti gli servirono per tranquillizzare la coscienza, e poté allora tornare senza rimorsi all’ombra di Petra Cotes, dove riprese le baldorie chiassose e le sfrenate sgavazzate. Estranea all’inquietudine del villaggio, sorda ai tremendi pronostici di Ursula, Fernanda diede l’ultimo giro alle viti del suo piano consumato. Scrisse una lunga lettera a suo figlio José Arcadio, che stava già per ricevere gli ordini minori, e gli comunicò che sua sorella Renata era spirata nella pace del Signore a causa del vomito nero. Poi affidò Amaranta Ursula alle cure di Santa Sofia de la Piedad, e si dedicò all’organizzazione della sua corrispondenza coi medici invisibili, interrotta dall’incidente di Meme. Per prima cosa fissò la data definitiva per la rimandata operazione telepatica. Ma i medici invisibili le risposero che non era prudente eseguirla fintanto che fosse durato lo stato di agitazione sociale a Macondo. Fernanda era così impaziente e così mal informata, che spiegò loro con un’altra lettera che non c’era affatto uno stato di agitazione, e che tutto si riduceva ai frutti delle pazzie di un suo cognato, a cui in quei giorni era venuto il ghiribizzo sindacale, come gli era successo anche altre volte coi galli e con la navigazione. Non si erano ancora messi d’accordo quel soffocante mercoledì in cui bussò alla porta della casa una vecchia suora che portava un cestino appeso al braccio. Quando le aprì, Santa Sofia de la Piedad pensò che fosse un regalo e cercò di toglierle il cestino ricoperto con una bellissima copertina di pizzo. Ma la suora glielo impedì, perché aveva l’ordine di consegnarlo personalmente, e sotto il più stretto riserbo, alla signora Fernanda del Carpio in Buendia. Era il figlio di Meme. L’antico direttore spirituale di Fernanda le spiegava in una lettera che era nato due mesi prima, e che si erano permessi di battezzarlo col nome di Aureliano, come suo nonno, perché la madre non aveva schiuso le labbra per esprimere la sua volontà. Fernanda si ribellò dentro di sé a quella beffa del destino, ma davanti alla suora ebbe la forza di dissimulare.

“Diremo di averlo trovato che galleggiava in un cestino,” sorrise.

“Non ci crederà nessuno,” disse la suora.

“Se hanno creduto alle Sacre Scritture, ribatté Fernanda, “non vedo perché non dovrebbero credere a me.”

La suora pranzò in casa, mentre aspettava il treno di ritorno, e in conformità alla discrezione che le avevano imposto non parlò più del bambino, ma Fernanda la considerò una testimone indesiderabile della sua vergogna, e deplorò che non fosse più in uso la costumanza medievale di impiccare il messaggero di cattive nuove. Fu allora che decise di affogare il neonato nella cisterna non appena la suora se ne fosse andata, ma non ebbe tanto coraggio e preferì aspettare con pazienza che la infinita bontà di Dio la liberasse dell’intralcio.

Il nuovo Aureliano aveva compiuto un anno quando la tensione pubblica esplose senza alcun preavviso. José Arcadio Secondo e gli altri dirigenti sindacali che erano rimasti fino allora nella clandestinità, apparvero improvvisamente in un fine settimana e promossero manifestazioni nei villaggi della zona bananiera. La polizia si accontentò di mantenere l’ordine. Ma nella notte del lunedì i dirigenti furono prelevati dalle loro case e mandati, con ceppi da cinque chili ai piedi, nel carcere del capoluogo di provincia. Tra gli altri portarono via José Arcadio Secondo e Lorenzo Gavilan, un colonnello della rivoluzione messicana, esiliato a Macondo, che diceva di essere stato testimone dell’eroismo del suo compare Artemio Cruz. Comunque, prima che trascorressero tre mesi erano di nuovo liberi, perché il governo e la compagnia bananiera non si erano potuti mettere d’accordo su chi doveva provvedere alla loro alimentazione in carcere. Le lamentele dei lavoratori si basavano questa volta sulla insalubrità delle abitazioni, sulle truffe del servizio medico e sulla iniquità delle condizioni di lavoro. Affermavano inoltre di non venire pagati con denaro effettivo ma con buoni che servivano soltanto per comprare prosciutto della Virginia nei magazzini della compagnia. José Arcadio Secondo fu messo in carcere perché rivelò che il sistema dei buoni era un trucco della compagnia per finanziare le sue navi da frutta, che se non fosse stato per la merce destinata ai magazzini avrebbero dovuto far ritorno vuote da New Orleans ai porti d’imbarco delle banane. Le altre accuse erano di dominio pubblico. I medici della compagnia non visitavano gli ammalati, ma non facevano altro che allinearli in fila indiana davanti ai dispensari, e una infermiera gli metteva sulla lingua una pillola color verderame, che avessero il paludismo, la blenorragia o la stitichezza. Era una terapeutica così diffusa, che i bambini si mettevano in fila più volte e invece di inghiottire le pillole se le portavano a casa per segnare i numeri cantati del gioco della tombola. Gli operai della compagnia erano ammassati in spelonche miserabili. Gli ingegneri, invece di costruire latrine, portavano negli accampamenti, per Natale, un cesso portatile per ogni cinquanta persone, e si facevano dimostrazioni pubbliche sul come usarlo perché durasse di più. I decrepiti avvocati vestiti di nero che in altra epoca avevano assediato il colonnello Aureliano Buendia, e che ora erano procuratori della compagnia bananiera; scalzavano queste accuse con arbitri che sembravano opera di magia. Quando i lavoratori redassero un documento collettivo di richieste, passò parecchio tempo prima che potessero notificarlo ufficialmente alla compagnia bananiera. Non appena venne a sapere dell’accordo, il signor Brown agganciò al treno il suo sontuoso vagone di vetro, e sparì da Macondo insieme ai pii noti rappresentanti della sua impresa. Tuttavia, parecchi operai ne trovarono uno il sabato dopo in un bordello, e gli fecero firmare una copia del documento di petizione mentre ancora stava nudo con la donna che si era prestata a far scattare la trappola. I luttuosi avvocati dimostrarono in tribunale che quell’uomo non aveva nulla a che vedere con la compagnia, e affinché nessuno mettesse in dubbio i loro argomenti lo fecero imprigionare come usurpatore. Più tardi, il signor Brown fu sorpreso mentre viaggiava in incognito in un vagone di terza classe, e gli fecero firmare un’altra copia del documento di petizione. Il giorno dopo comparve davanti ai giudici coi capelli tinti di nero e rispose alle domande in uno spagnolo perfetto. Gli avvocati dimostrarono che non era il signor Jack Brown sovrintendente della compagnia bananiera e nato a Prattville, Alabama, bensì un inoffensivo venditore di erbe medicinali, nato a Macondo e lì battezzato col nome di Dagoberto Fonseca. Poco dopo, di fronte a un nuovo tentativo da parte dei lavoratori, gli avvocati esibirono in luoghi pubblici il certificato di morte del signor Brown, autenticato da consoli e cancellieri, nel quale si dava fede che il nove del giugno scorso egli era stato investito a Chicago da un camion di pompieri. Stanchi di quel delirio ermeneutico, i lavoratori ripudiarono le autorità di Macondo e accedettero con le loro proteste ai tribunali supremi. Fu allora che gli illusionisti del diritto dimostrarono che i reclami mancavano di ogni validità, semplicemente perché la compagnia bananiera non aveva, né aveva mai avuto né avrebbe mai avuto dei lavoratori al suo servizio, perché li reclutava occasionalmente e con carattere temporaneo. Di modo che si annullarono le panzane del prosciutto della Virginia, delle pillole miracolose e dei cessi natalizi, e si stabilì per verdetto del tribunale e si proclamò con bandi solenni l’inesistenza dei lavoratori.

Il grande sciopero esplose. I coltivi rimasero a mezzo, la frutta maturò sugli alberi e i treni di centoventi vagoni si fermarono sui binari morti. Gli operai oziosi fecero traboccare i villaggi. La Strada dei Turchi splendette in un sabato di molti giorni, e nella sala dei biliardi dell’Hotel di Jacob fu necessario stabilire turni di ventiquattro ore. Li si trovava José Arcadia Secondo il giorno in cui si annunciò che l’esercito era stato incaricato di ristabilire l’ordine pubblico. Benché non fosse uomo di presagi, la notizia fu per lui come un annuncio della morte, che aveva aspettato fin dal lontano mattino in cui il colonnello Gerineldo Màrquez gli aveva permesso di assistere a una fucilazione. Tuttavia, il malaugurio non alterò la sua solennità. Tirò il colpo che aveva previsto e non sbagliò la carambola. Poco dopo i rulli del tamburino, i latrati della tromba, le grida e la confusione della gente, gli indicarono che non soltanto la partita a biliardo ma anche la taciturna e solitaria partita che giocava con se stesso dal mattino dell’esecuzione erano finalmente terminate. Allora si affacciò in strada, e li vide. Erano tre reggimenti la cui marcia ritmata da tamburi di galeotti faceva trepidare la terra. Il loro alito di drago multicefalo impregnò di un vapore pestilenziale il chiarore del mezzogiorno. Erano piccoli, massicci, bruti. Sudavano con sudore di cavallo, e avevano un odore di carnaccia macerata dal sole, e l’impavidità taciturna e impenetrabile degli uomini dell’altipiano. Benché ci mettessero più di un’ora a passare, si sarebbe potuto pensare che fossero soltanto poche squadre intente a girare in giro, perché tutti erano identici figli della stessa madre, e tutti sopportavano con ugual stolidità il peso dei tascapane e delle borracce, e la vergogna dei fucili con le baionette innestate, e la scoglionatura dell’obbedienza cieca e del senso dell’onore. Ursula li sentì passare dal suo letto di tenebre e alzò la mano con le dita in croce. Santa Sofia de la Piedad ebbe un attimo di esistenza, curva sulla tovaglia ricamata che aveva appena stirato, e pensò a suo figlio, José Arcadie Secondo, che vide passare senza scomporsi gli ultimi soldati dalla porta dell’Hotel di Jacob.

La legge marziale dava facoltà all’esercito di assume re funzioni di arbitro nella controversia, ma non fu fatto nessun tentativo di conciliazione. Non appena eseguita la loro esibizione a Macondo, i soldati misero da parte: i fucili, tagliarono e caricarono le banane e fecero muovere i treni. I lavoratori, che fino a quel momento si erano accontentati di aspettare, si buttarono nella selva senza altre armi che i loro machetes da lavoro, e cominciarono a sabotare il sabotaggio. Incendiarono poderi e magazzini, distrussero i binari per impedire il passaggio dei treni che cominciavano ad aprirsi la strada col fuoco delle mitragliatrici, e tagliarono i fili del telegrafo e del telefono. I canali di irrigazione si tinsero di sangue. Il signor Brown, che era vivo nella capponaia elettrificata, fu fatto uscire da Macondo con la sua famiglia e quelle di altri suoi compatrioti, e tutti furono condotti in territorio sicuro sotto la protezione dell’esercito. La situazione minacciava di degenerare in una guerra civile impari e sanguinosa, quando le autorità diramarono un comunicato ai lavoratori perché si concentrassero a Macondo. Il comunicato annunciava che il Capo Civile e Militare della provincia sarebbe arrivato il venerdì seguente, disposto a intercedere nel conflitto.

José Arcadio Secondo si trovava tra la folla che si era concentrata nella stazione fin dal mattino del venerdì. Aveva partecipato a una riunione dei dirigenti sindacali ed era stato incaricato insieme al colonnello Gavilan di mescolarsi alla folla e di orientarla secondo le circostanze. Non si sentiva bene, e ruminava una pasta salnitrosa sul palato, da quando aveva notato che l’esercito aveva piazzato nidi di mitragliatrici intorno alla piazzetta, e che la città recintata della compagnia bananiera era protetta da pezzi di artiglieria. Verso le dodici, in attesa di un treno che non arrivava, più di tremila persone, tra lavoratori, donne e bambini, traboccavano nello spazio scoperto davanti alla stazione e si ammassavano nelle strade adiacenti che l’esercito chiuse con file di mitragliatrici. Sembrava in quei momenti, più che un’accoglienza, una fiera allegra. Avevano fatto venire i banchi di frittelle e le baracche di bibite dalla Strada dei Turchi, e la gente sopportava di buon animo il fastidio dell’attesa e il sole rovente. Poco prima delle tre corse voce che il treno ufficiale non sarebbe arrivato fino al giorno dopo. La folla stanca esalò un sospiro di avvilimento. Un tenente dell’esercito salì allora sul tetto della stazione, dove erano piazzati quattro nidi di mitragliatrici puntate sulla folla, e ci fu lo squillo del silenzio. Di fianco a José Arcadio Secondo c’era una donna scalza, molto grassa, con due bambini di quattro e sette anni circa. Prese in braccio il minore, e chiese a José Arcadio Secondo, senza conoscerlo, di alzare l’altro perché potesse sentire meglio quello che avrebbero detto. José Arcadio Secondo prese il bambino sulle spalle. Molti anni dopo, quel bambino avrebbe continuato a raccontare, anche se nessuno gli credeva, di aver visto il tenente leggere dentro una tromba da grammofono il Decreto Numero 4 del Capo Civile e Militare della provincia. Era firmato dal generale Carlos Cortes Vargas, e dal segretario, il maggiore Enrique Garcìa Isaza, e in tre articoli di ottanta parole dichiarava gli scioperanti un branco di malfattori e dava facoltà all’esercito di ucciderli a fucilate.

Letto il decreto, in mezzo a un’assordante fischiata di protesta, un capitano sostituì il tenente sul tetto del la stazione, e con la tromba da grammofono fece segno che voleva parlare. La folla tornò a fare silenzio.

“Signore e signori,” disse il capitano con voce bassa, lenta, un po’ stanca, “concedo cinque minuti perché tutti si ritirino.”

I fischi e gli urli raddoppiati soffocarono lo squillo di tromba che annunciò l’inizio del tempo concesso. Nessuno si mosse.

“Sono passati cinque minuti,” disse il capitano con lo stesso tono. “Un minuto ancora e poi si farà fuoco”

José Arcadio Secondo, sudando ghiaccio, fece scendere il bambino dalle spalle e lo consegnò a sua madre; “Questi cornuti sono capaci di sparare,” mormorò la donna. José Arcadio Secondo non ebbe il tempo di parlare, perché in quello stesso momento riconobbe la voce: rauca del colonnello Gavilan che faceva eco con un grido alle parole della donna. Ubriacato dalla tensione, dalla meravigliosa profondità del silenzio e, inoltre, convinto che nulla avrebbe smosso quella folla ammaliata da fascino della morte, José Arcadio Secondo si alzò sulla punta dei piedi al di sopra delle teste che aveva davanti a lui, e per la prima volta in vita sua alzò la voce.

“Cornuti!” gridò. “Vi regaliamo il minuto che manca.’’

Al termine del suo grido accadde qualcosa che non gli causò spavento ma una specie di allucinazione. Il capitano diede l’ordine di fuoco e quattordici nidi mitragliatrici gli risposero all’istante. Ma tutto sembrava una farsa. Era come se le mitragliatrici fossero state caricate con fuochi pirotecnici, perché si udiva il loro affannoso crepitio, e si vedevano gli schizzi incandescenti, ma non si percepiva la benché minima reazione, né una voce, nemmeno un sospiro, tra la folla compatta che sembrava pietrificata da una invulnerabilità istantanea. Improvvisamente, da un lato della stazione, un grido di morte lacerò l’incanto: “Aaaahi, madre mia.” Una forza sismica, un alito vulcanico, un ruggito da cataclisma, scoppiarono nel centro della folla con una straordinaria potenza espansiva. José Arcadio Secondo ebbe appena il tempo di sollevare il bambino, mentre la madre con l’altro era assorbita dalla folla centrifugata dal panico.

Molti anni dopo, il bambino avrebbe raccontato ancora, nonostante i vicini continuassero a crederlo un vecchio svitato, che José Arcadio Secondo lo aveva alzato sopra la sua testa, e si era lasciato trascinare, quasi in aria, come fluttuando nel terrore della folla, verso una strada adiacente. La posizione privilegiata del bambino gli consentì di vedere che in quel momento la massa traboccante cominciava ad arrivare all’angolo e la fila delle mitragliatrici aprì il fuoco. Parecchie voci gridarono contemporaneamente:

“Buttatevi a terra! Buttatevi a terra!”

Quelli delle prime file lo avevano già fatto, falciati dalle raffiche di mitragliatrice. I sopravvissuti, invece di gettarsi a terra, cercarono di tornare nella piazzetta, e il panico diede allora una codata da drago, e li mandò in un’ondata compatta contro l’altra ondata compatta che si moveva in senso contrario, lanciata dall’altra codata da drago della strada opposta, poiché anche lì le mitragliatrici sparavano senza sosta. Erano accerchiati, giravano in un vortice gigantesco che a poco a poco si riduceva al suo epicentro perché i suoi bordi venivano sistematicamente ritagliati in tondo, come una cipolla, quando viene pelata, dalle forbici insaziabili e metodiche della mitraglia. Il bambino vide una donna inginocchiata, con le braccia in croce, in uno spazio vuoto, misteriosamente vietato agli scoppi. Lì lo mise José Arcadio Secondo, nell’attimo di stramazzare con la faccia bagnata di sangue, prima che il branco colossale travolgesse lo spazio vuoto, la donna inginocchiata, la luce dell’alto cielo di secca, e il mondo troia dove Ursula Iguaràn aveva venduto tanti animaletti di caramello.

Quando José Arcadio Secondo si svegliò era disteso supino nel buio. Si accorse che stava viaggiando su un treno interminabile e silenzioso, e che aveva i capelli appiccicati dal sangue secco e che gli dolevano tutte le ossa. Provò una tremenda stanchezza. Con una voglia di dormire per ore e ore, al sicuro dal terrore e dall’orrore, si accomodò sul lato che gli faceva meno male, e soltanto allora scoprì d’esser sdraiato sui morti. Non c’era uno spazio libero nel vagone, tranne il corridoio centrale. Dovevano essere trascorse parecchie ore dal massacro, perché i cadaveri avevano la temperatura del gesso in autunno, e la sua stessa consistenza di schiuma pietrificata, e coloro che li avevano messi nel vagone avevano avuto il tempo di stivarli nell’ordine e nel senso con cui si trasportano i caschi di banane. Cercando di sfuggire all’incubo, José Arcadio Secondo si trascinò di vagone in vagone, nella direzione verso la quale avanzava il treno, e nei lampi di luce che divampavano tra le assi di legno quando passavano per i villaggi addormentati vedeva i morti uomini, i morti donne, i morti bambini, destinati ad essere gettati in mare come le banane di scarto. Riconobbe soltanto una donna che vendeva rinfreschi in piazza e il colonnello Gavilàn, che teneva ancora stretto nella mano il cinturone con la fibbia d’argento col quale aveva cercato di aprirsi la strada attraverso il panico. Quando arrivò nel primo vagone fece un salto nel buio, e rimase disteso nella cunetta finché il treno non fu passato del tutto. Era il treno più lungo che aveva mai visto, con quasi duecento carri merci, e una locomotive ad ogni estremo e una terza nel centro. Non aveva nessuna luce, nemmeno i fanali verdi e rossi di posizione, e scivolava a una velocità notturna e furtiva. Sopra il tetto dei carri si vedevano le masse scure dei soldati con le mitragliatrici piazzate.

Dopo mezzanotte scrosciò un acquazzone torrenziale José Arcadio Secondo ignorava dove era saltato, ma sapeva che camminando in senso contrario a quello del treno sarebbe arrivato a Macondo. Dopo più di tre ore di marcia, inzuppato fino alle ossa, con un terribile mal di testa, scorse le prime case alla luce dell’alba. Attratto dall’odore del caffè, entrò in una cucina dove una donna con un bambino in braccio era curva sul focolare.

“‘giorno,” disse esausto. “Sono José Arcadio Secondo Buendìa.”

Pronunciò il nome completo, spiaccicando ogni sillaba, per convincersi di essere vivo. Fece bene, perché la donna aveva pensato che fosse un fantasma vedendo sulla porta la figura squallida, oscura, con la testa e i vestiti sporchi di sangue, e toccata dalla solennità della morte. Lo conosceva. Portò una coperta perché vi si avvolgesse mentre gli asciugava la roba vicino al focolare, gli scaldò l’acqua perché si lavasse la ferita, che era solo una lacerazione della pelle, e gli diede una fascia pulita perché si bendasse la testa. Poi gli offrì una ciotola di caffè, senza zucchero, come le avevano detto che lo bevevano i Buendìa, e sciorinò la roba vicino al fuoco.

José Arcadia Secondo non parlò finché non ebbe bevuto il caffè.

“Dovevano essere un tremila,” mormorò.

“Cosa?”

“I morti,” spiegò lui. “Dovevano essere tutti quelli che erano nella stazione.”

La donna lo guardò con un’occhiata di compassione. “Qui non ci sono stati morti,” disse. “Dai tempi di tuo zio, il colonnello, non è successo nulla a Macondo.” In tre cucine dove si fermò José Arcadio Secondo prima di arrivare a casa gli dissero la stessa cosa: “Non ci sono stati morti.” Attraversò la piazzetta della stazione, e vide i banchi di frittelle ammucchiati l’uno sull’altro, e nemmeno lì trovò traccia alcuna del massacro. Le strade erano deserte sotto la pioggia tenace e le case sbarrate, senza vestigia di vita interna. L’unica nota umana era il primo rintocco della messa. Bussò alla porta del colonnello Gavilàn. Una donna incinta, che aveva visto parecchie volte, gli chiuse la porta in faccia. “Se n’è andato,” disse spaventata. “È tornato alla sua terra. L’entrata principale della capponata elettrificata era custodita, come sempre, da due poliziotti locali che sembravano di pietra sotto la pioggia, con impermeabili e caschi di tela cerata. Nella loro viuzza secondaria, i negri antigliani cantavano in coro i salmi del sabato. José Arcadio Secondo scavalcò il muro del patio ed entrò in casa per la cucina. Santa Sofia de la Piedad alzò appena la voce. “Che non ti veda Fernanda,” disse. “Poco fa si stava alzando.” Come se compiesse un fatto implicito, portò suo figlio nella stanza dei pitali, gli preparò la sgangherata branda di Melquiades, e alle due del pomeriggio, mentre Fernanda faceva la siesta, gli passò dalla finestra un piatto di cibo.

Aureliano Secondo aveva dormito nella casa perché lì lo aveva sorpreso la pioggia, e alle tre del pomeriggio stava ancora aspettando che spiovesse. Informato segretamente da Santa Sofia de la Piedad, a quell’ora andò a trovare suo fratello nella stanza di Melquiades. Nemmeno lui credette alla versione del massacro e all’incubo del treno carico di morti diretto verso il mare. La notte precedente avevano letto un proclama nazionale straordinario, che informava che gli operai avevano ubbidito all’ordine di evacuare la stazione, e si dirigevano verso le loro case in carovane pacifiche. Il proclama informava altresì che i dirigenti sindacali, con un elevato spirito patriottico, avevano ridotto le loro petizioni a due punti: riforma dei servizi medici e costruzione di latrine negli accampamenti. Si comunicò più tardi che quando le autorità avevano avuto il benestare dei lavoratori, si erano affrettate a comunicarlo al signor Brown, e che questi non solo aveva accettato le nuove condizioni, ma aveva inoltre offerto di pagare tre giorni di festeggiamenti pubblici per celebrare la fine del conflitto. Solo che quando i militari gli chiesero per che data si poteva annunciare la firma dell’accordo, il nordamericano guardò attraverso la finestra il cielo solcato di fulmini, e fece un profondo gesto di incertezza.

“Sarà per quando spiova,” disse. “Fino a che durerà la pioggia, sospenderemo ogni sorta di attività.”

Non pioveva da circa tre mesi ed era tempo di secca. Ma quando il signor Brown annunciò la sua decisione scrosciò in tutta la zona bananiera l’acquazzone torrenziale che aveva colto José Arcadio Secondo sulla strada per Macondo. Una settimana dopo pioveva ancora. La versione ufficiale, mille volte ripetuta e ribattuta in tutto il paese con quanti mezzi di divulgazione fossero alla portata del governo, finì per imporsi: non c’erano stati morti, i lavoratori soddisfatti erano tornati alle loro famiglie, e la compagnia bananiera avrebbe sospeso le sue attività finché fosse durata la pioggia. La legge marziale continuava, in previsione che fosse necessario applicare misure di emergenza a causa della calamità pubblica dell’acquazzone interminabile, ma la truppa era accasermata. Durante il giorno i militari diguazzavano per i torrenti delle strade, coi pantaloni arrotolati a mezza gamba, giocando ai naufragi coi bambini. Di notte, dopo il coprifuoco, sfondavano le porte col calcio del fucile, gettavano fuori dal letto le persone sospette e se le portavano via per un viaggio senza ritorno. Era ancora la ricerca e lo sterminio dei malfattori, assassini, incendiari e rivoltosi del Decreto Numero 4, ma i militari lo negavano agli stessi parenti delle loro vittime, che affollavano l’ufficio dei comandanti in cerca di notizie. Sarà stato solo un sogno,” insistevano gli ufficiali. “A Macondo non è successo nulla, né sta succedendo né succederà mai nulla. Questo è un villaggio felice.” Così consumarono lo sterminio dei capi sindacali.

L’unico sopravvissuto era José Arcadio Secondo. In una notte di febbraio si udirono alla porta i colpi inconfondibili dei calci dei fucili. Aureliano Secondo, che continuava ad aspettare che spiovesse per uscire, fece entrare sei soldati al comando di un ufficiale. Inzuppati di pioggia, senza pronunciare una parola, perquisirono la casa stanza dopo stanza, armadio dopo armadio, dai salotti al granaio. Ursula si svegliò quando accesero la luce nella stanza, e non esalò un solo sospiro fintanto che durò la perquisizione, ma mantenne le dita in croce: dirigendole verso i luoghi dove i soldati si movevano Santa Sofia de la Piedad riuscì ad avvertire José Arcadio Secondo che dormiva nella stanza di Melquiades, ma lui comprese che era troppo tardi per tentare la fuga Di modo che Santa Sofia de la Piedad tornò a chiudere la porta, e lui si infilò la camicia e le scarpe, e si sedette sulla branda ad aspettare che arrivassero. In quel momento stavano perquisendo il laboratorio di oreficeria. L’ufficiale aveva fatto aprire il lucchetto e con una rapida sventagliata della lanterna aveva visto il banco di lavoro e la vetrina con le bottiglie degli acidi e gli strumenti che si trovavano ancora nello stesso posto in cui li aveva lasciati il loro padrone, e parve capire che in quella stanza non viveva nessuno. Tuttavia, chiese astutamente a Aureliano Secondo se si occupasse di oreficeria, e lui gli spiegò che quello era stato il laboratorio di Aureliano Buendia. “Ah,” fece l’ufficiale, e accese la luce e ordinò una perquisizione così minuziosa, che non gli sfuggirono i diciotto pesciolini d’oro non ancora fusi e che erano stati nascosti dietro le bottiglie nel barattolo di latta. L’ufficiale li esaminò ad uno ad uno sul banco di lavoro e allora si umanizzò completamente. “Vorrei portarmene via uno, se lei lo permette,” disse. “Un tempo erano la parola d’ordine di una sommossa, ma ora sono solo una reliquia.” Era giovane, quasi un adolescente, senza alcuna traccia di timidezza, e dotato di una simpatia naturale che non gli si era notata fino allora. Aureliano Secondo gli regalò il pesciolino. L’ufficiale lo ripose nel taschino della camicia, con un lampo infantile nello sguardo, e mise gli altri nel barattolo che ricollocò al suo posto.

“È un ricordo di un valore incalcolabile,” disse. “Il colonnello Aureliano Buendìa è stato uno dei nostri più grandi uomini,”

Tuttavia, l’impeto di umanità non modificò la sua condotta professionale. Davanti alla stanza di Melquiades, anche questa chiusa col lucchetto, Santa Sofia de la Piedad ricorse ad un’ultima speranza. “E quasi un secolo che in quella stanza non vive nessuno,” disse. L’ufficiale la fece aprire, vi scrutò dentro con l’alone della lanterna, e Aureliano Secondo e Santa Sofia de la Piedad videro gli occhi arabi di José Arcadio Secondo nel momento in cui passò sul suo viso il lampo di luce, e compresero che quella era la fine di un’ansia e il principio di un’altra che avrebbe trovato pace, soltanto nella rassegnazione. Ma l’ufficiale continuò ad esaminare la stanza con la lanterna, e non diede alcuna mostra di interesse finché non scoprì i settantadue pitali ammucchiati negli armadi. Allora accese la luce. José Arcadio Secondo era seduto sull’orlo della branda, pronto per uscire, più solenne e pensieroso che mai. In fondo c’erano gli scaffali coi libri scuciti, i rotoli di pergamena, e il tavolo da lavoro pulito e ordinato, e ancora fresco l’inchiostro nei calamai. C’era la stessa purezza nell’aria, la stessa diafanità, lo stesso privilegio contro la polvere e la distruzione che aveva conosciuto Aureliano Secondo nell’infanzia, e che soltanto il colonnello Aureliano Buendìa non aveva potuto percepire. Ma l’ufficiale si incuriosì soltanto dei pitali.

“Quante persone vivono in questa casa?” chiese.

“Cinque.”.

L’ufficiale evidentemente non capì. Si soffermò con lo sguardo nello spazio dove Aureliano Secondo e Santa Sofia de la Piedad continuavano a vedere José Arcadio Secondo, e anche questi si rese conto che il militare lo stava guardando senza vederlo. Poi spense la luce e tirò a sé la porta. Sentendolo parlare coi soldati, Aureliano Secondo capì che il giovane militare aveva visto la stanza con gli stessi occhi coi quali l’aveva vista il colonnello Aureliano Buendia,

“È vero che nessuno deve essere entrato in quella stanza per lo meno da un secolo,” disse l’ufficiale ai soldati. “Ci devono essere perfino i serpenti.”

Quando la porta si chiuse, José Arcadio Secondo ebbe la certezza che la sua guerra era terminata. Qualche anno prima, il colonnello Aureliano Buendìa gli aveva parlato del fascino della guerra e aveva cercato di dimostrare con innumerevoli esempi tirati dalla sua stessa esperienza. Lui gli aveva creduto. Ma la notte in cui i militari lo avevano guardato senza vederlo, mentre pensava alla tensione degli ultimi mesi, alla miseria del carcere, al panico della stazione e al treno carico di morti, José Arcadio Secondo giunse alla conclusione che il colonnello Aureliano Buendìa non era stato altro che un commediante o un imbecille. Non capiva perché fossero state necessarie tante parole per spiegare quello che provava in guerra, quando ne bastava una sola: paura. Nella stanza di Melquiades, invece, protetto dalla luce sovrannaturale, dal rumore della pioggia, dalla sensazione di essere invisibile, trovò la quiete che non aveva avuto per un solo istante nella sua vita anteriore, e l’unica paura che rimaneva in lui era quella che lo seppellissero vivo. Lo disse a Santa Sofia de la Piedad, lei gli promise di lottare per rimanere viva al di là delle proprie forze, in modo da essere certa che lo seppellissero morto. Al sicuro di ogni timore, José Arcadio Secondo si dedicò allora a ripassare parecchie volte le pergamene di Melquiades, e con tanto più gusto quanto meno le capiva. Abituato al rumore della pioggia, che dopo un paio di mesi si trasformò in una forma nuova di silenzio, le uniche cose che turbavano la sua solitudine erano le entrate e le uscite di Santa Sofia de la Piedad. Alla fine la supplicò di lasciargli il piatto col cibo sul davanzale della finestra, e di richiudere la porta col lucchetto. Il resto della famiglia lo dimenticò, inclusa Fernanda, che non vide alcun inconveniente nel lasciarlo lì, una volta saputo che i militari lo avevano visto senza conoscerlo. Dopo sei mesi di clausura, e dato che i militari se ne erano andati da Macondo, Aureliano Secondo tolse il lucchetto in cerca di qualcuno col quale poter scambiare quattro chiacchiere fintanto che non fosse cessata la pioggia. Non appena aprì la porta si sentì aggredito dalla pestilenza dei pitali che erano collocati per terra, e tutti usati parecchie volte: José Arcadio Secondo divorato dal tannino, indifferente all’aria rarefatta dai vapori nauseabondi, continuava a leggere e a rileggere le pergamene inintelligibili. Era illuminato da un chiarore serafico. Alzò appena gli occhi quando sentì aprirsi la porta, ma a suo fratello bastò quello sguardo per vedervi ripetuto il destino irreparabile del bisnonno.

“Erano più di tremila,” fu tutto quanto disse José Arcadio Secondo. “Ora sono sicuro: erano tutti quelli che si trovavano nella stazione.”

 Piovve per quattro anni, undici mesi e due giorni. Ci furono epoche di pioviscolo durante le quali tutti si imposero i loro vestiti di pontificale e si composero una faccia di convalescente per festeggiare la spiovuta, ma ben presto si abituarono a interpretare le pause come annunci di rincrudimento. Si disselciava il cielo con tempeste di strepito, e il nord mandava uragani che sguarnirono tetti e sfondarono pareti, e sradicarono le ultime ceppate delle piantagioni. Come era successo durante la peste dell’insonnia, che Ursula si trovò a ricordare proprio in quei giorni, la calamità stessa andava ispirando difese contro il tedio. Aureliano Secondo fu uno di quelli che più si diede da fare per non lasciarsi vincere dall’ozio. Era tornato nella casa pe r non si sa quale faccenda la sera in cui il signor Brown, aveva evocato la tormenta, e Fernanda aveva cercato di soccorrerlo con un parapioggia mezzo sbacchettato rinvenuto in un armadio. “Non occorre,” disse lui, “Rimango qui finché spioverà.” Non era, naturalmente, un impegno ineluttabile, ma fu sul punto di mantenerlo alla lettera. Dato che la sua roba era casa di Petra Cotes, si toglieva ogni tre giorni quella che portava addosso, e aspettava in mutande che gliela lavassero. Per non annoiarsi, si dedicò al compito di sistemare le numerose magagne della casa. Aggiustò cerniere, lubrificò serrature, avvitò battenti e livellò porte. Per parecchi mesi lo si vide vagare con una scatola di utensili che dovevano aver dimenticato gli zingari a tempi di José Arcadio Buendia, e nessuno seppe se fu per la ginnastica involontaria, per il tedio invernale o per l’astinenza obbligata, che la pancia gli si andò sgonfiando a poco a poco come un otre, e la faccia di tartaruga beatifica gli si fece meno sanguigna e meno protuberante la pappagorgia, e in complesso finì per essere meno pachidermico e riuscì di nuovo ad annodarsi i lacci delle scarpe. Vedendolo montare saliscendi e smontare orologi, Fernanda si chiese se non stesse forse incappando anche lui nel vizio di fare per disfare, come il colonnello Aureliano Buendìa coi pesciolini d’oro, Amaranta coi bottoni e il sudario, José Arcadio Secondo con le pergamene e Ursula coi ricordi. Ma non fu così. Il male era che la pioggia scombinava ogni cosa, e nelle macchine più aride spuntavano fiori tra gli ingranaggi se non venivano lubrificati ogni tre giorni, e si ossidavano i fili dei broccati e nascevano filetti di zafferano sulla roba bagnata. L’atmosfera era così umida che i pesci sarebbero potuti entrare dalle porte ed uscire dalle finestre, nuotando nell’aria delle stanze. Una mattina Ursula si svegliò sentendo che stava esaurendosi in un deliquio di placidezza, e aveva già chiesto che le facessero venire padre Antonio Isabel, magari in lettiga, quando Santa Sofia de la Piedad scoprì che aveva la schiena piastrellata di sanguisughe. Gliele staccarono ad una ad una, bruciacchiandole con tizzoni, prima che finissero di dissanguarla. Fu necessario scavare canali per prosciugare la casa, e sbarazzarla dai rospi e dalle lumache, di modo che si potessero asciugare i pavimenti, e togliere i mattoni da sotto le gambe dei letti e camminare di nuovo con le scarpe. Assorto nelle molteplici minuzie che richiedevano la sua attenzione, Aureliano Secondo non si rese conto che stava diventando vecchio, fino a un pomeriggio in cui si ritrovò a contemplare il crepuscolo prematuro da una sedia a dondolo, e a pensare a Petra Cotes senza fremere. Non avrebbe avuto alcun inconveniente a ritornare all’amore insipido di Fernanda, la cui bellezza si era decantata con la maturità, ma la pioggia lo aveva messo al sicuro da ogni emergenza passionale, e gli aveva infuso la serenità spugnosa della inappetenza. Si divertì a pensare alle cose che avrebbe potuto fare in altri tempi con quella pioggia che durava già da quasi un anno. Era stato uno dei primi a portare tettoie di zinco a Macondo, molto prima che la compagnia bananiera le rendesse di moda, solo per lastricarne il tetto della stanza di Petra Cotes e sollazzarsi con l’impressione di intimità profonda che in quell’epoca gli causava il crepitio della pioggia. Ma perfino quei ricordi folli della sua gioventù stravagante lo lasciavano impavido, come se nell’ultima baldoria avesse esaurito le sue quote di salacità, e gli fosse rimasto soltanto il premio meraviglioso di poterle ricordare senza ne amarezza né pentimenti. Si sarebbe potuto pensare che il diluvio gli aveva dato l’opportunità di sostare per riflettere, e che l’affaccendarsi con pinze e oliatori gli avesse risvegliato la nostalgia tardiva delle tante faccende utili che avrebbe potuto fare e che noi aveva fatto nella sua vita, ma ne l’una ne l’altra cose erano vere, perché la tentazione di sedentarismo e di domesticità che lo stava aggirando non era frutto della ricapacitazione né rinsavimento. Gli giungeva da molta più lontano, disseppellita dal forcone della pioggia, dai tempi in cui leggeva nella stanza di Melquiades le prodigiose favole delle stuoie volanti e delle balene che si alimentavano di navi con equipaggio e tutto. Fu in quei giorni che per una sbadataggine di Fernanda comparve sotto il porticato il piccolo Aureliano, e suo nonno conobbe il segreto della sua identità. Gli tagliò i capelli, lo vestì, gli insegnò a perdere la paura della gente, e ben presto si vide che era un legittimo Aureliano Buendìa, coi suoi zigomi alti, il suo sguardo di stupore e la sua aria di solitudine. Per Fernanda fu un sollievo. Da tempo aveva misurato la grandezza della sua superbia, ma non trovava il modo di rimediarvi, perché più pensava alle soluzioni, e meno razionali le sembravano. Se avesse saputo che Aureliano Secondo avrebbe preso le cose come le prese, con una buona compiacenza di nonno, non ci sarebbero stati tanti rigiri e tanti differimenti, ma fin dall’anno prima lei si sarebbe liberata dalla mortificazione. Per Amaranta Ursula, che aveva già cambiato i denti, il nipote fu come un giocattolo irrequieto che la consolò dal tedio della pioggia. Aureliano Secondo si ricordò allora della enciclopedia inglese che nessuno aveva più toccato nell’antica stanza di Meme. Cominciò a mostrare le figure ai bambini, specialmente quelle degli animali, e più tardi le mappe e le fotografie di paesi remoti e di personaggi celebri. Dato che non sapeva l’inglese, e che riusciva appena a riconoscere le città più note e i personaggi più comuni, cominciò a inventare nomi e leggende per soddisfare la curiosità insaziabile dei bambini.

Fernanda credeva davvero che suo marito aspettasse la fine della pioggia per tornare con la concubina. Durante i primi mesi temette che prima o poi tentasse di introdursile nella stanza, costringendola alla vergogna di dovergli confessare la sua incapacità alla riconciliazione fin dall’epoca della nascita di Amaranta Ursula. Quella era la causa della sua ansiosa corrispondenza coi medici invisibili, interrotta dalle frequenti lacune della posta. Durante i primi mesi, quando si venne a sapere che i treni deragliavano nella tempesta, una lettera dei medici invisibili la informò che le sue lettere cominciavano a non arrivare puntualmente. Più tardi, quando si interruppero i contatti coi suoi corrispondenti ignoti, aveva pensato seriamente di mettersi la maschera di tigre che aveva usato suo marito nel carnevale sanguinoso, per andare a farsi visitare con un nome fittizio dai medici della compagnia bananiera. Ma una delle tante persone che passavano spesso dalla casa portando le notizie ingrate del diluvio le aveva detto che la compagnia stava smantellando i suoi dispensari per traslocarli in terre asciutte. Allora perse la speranza. Si rassegnò ad aspettare che finisse la pioggia e che si normalizzasse la posta e, nel frattempo, calmava le sue sofferenze segrete con espedienti di ispirazione, perché avrebbe preferito morire che mettersi nelle mani dell’unico medico che era rimasto a Macondo, il francese stravagante che si alimentava con erba per gli asini. Si ero riavvicinata a Ursula, sperando che la vecchia conoscesse qualche palliativo per le sue sofferenze. Ma la tortuosa abitudine di non dare alle cose il loro nome la indusse a fare dell’anteriore il posteriore, e a sostituire il partorito con l’espulso, e a cambiare flussi con ardori in modo che tutto fosse meno vergognoso, e perciò Ursula concluse ragionevolmente che i disturbi non erano uterini, ma intestinali, e le consigliò di prendere a digiuno una cartina di calomelano. Se non fosse stato per quella sofferenza che non avrebbe avuto nulla di pudibondo per chi non fosse stata ammalata anche di pudibondia, e se non fosse stato per la perdita delle lettere, a Fernanda non sarebbe importata la pioggia, perché in fin dei conti tutta la vita era stata per lei come se stesse piovendo. Non modificò gli orari né rilassò i rituali. Quando ancora il tavolo era sollevato sui mattoni e le sedie collocate sulle assi perché i commensali non si bagnassero i piedi, lei continuava ad apparecchiare con tovaglie di lino e vasellame cinese, e ad accende re i candelabri durante la cena, perché riteneva che le calamità non potevano essere prese come pretesto per il rilassamento dei costumi. Nessuno era tornato ad affacciarsi in strada. Se fosse dipeso da Fernanda non sarebbero tornati a farlo mai non solo da quando era cominciato a piovere, ma fin da molto tempo prima, dato che lei era convinta che le porte erano state inventate per chiuderle, e che la curiosità per quello che succedeva nella strada era cosa da donnacce. Tuttavia, fu lei la prima ad affacciarsi quando avvisarono che stava passando il funerale del colonnello Gerineldo Màrquez, benché quello che vide allora dalla finestra socchiusa la lasciasse in un tale stato di afflizione che per parecchio tempo continuò a pentirsi di quella sua debolezza.

Sarebbe stato impossibile concepire un corteo più desolante. La bara era stata messa su una carretta da buoi sulla quale avevano costruito una tettoia di foglie di banano, ma la pressione della pioggia era così intensa e le strade erano così impantanate che ad ogni passo le ruote affondavano nel fango e la tettoia era sul punto di disfarsi. I rivoli di acqua triste che cadevano sulla bara inzuppavano a poco a poco la bandiera che vi avevano messo sopra, e che era in realtà la bandiera sporca di sangue e di polvere da sparo, ripudiata dai veterani più degni. Sulla bara avevano messo anche la sciabola con le nappine di rame e di seta, la stessa che il colonnello Gerineldo Màrquez lasciava sull’appendiabiti del salotto per entrare inerme nella stanza da lavoro di Amaranta. Dietro la carretta, alcuni scalzi e tutti coi pantaloni a mezza gamba, diguazzavano nel fango gli ultimi sopravvissuti della capitolazione di Neerlandia, col bastone di carrubo in una mano e una corona di fiori di carta scoloriti dalla pioggia nell’altra. Comparvero come una visione irreale nella strada che portava ancora il nome del colonnello Aureliano Buendìa, e passando tutti guardarono la casa, e piegarono verso l’angolo della piazza, dove furono costretti a chiedere aiuto per liberare la carretta impantanata. Ursula si era fatta portare sulla porta da Santa Sofia de la Piedad. Seguì con tanta attenzione le peripezie del funerale che nessuno dubitò che lo stava vedendo, soprattutto perché la sua protesa mano di arcangelo annunciatore si move va col beccheggio della carretta.

“Addio, Gerineldo, figlio mio,” gridò. “Salutami la mia gente e dille che ci vedremo quando spioverà.”

Aureliano Secondo la aiutò a rimettersi a letto, e con la sgarbatezza con cui la trattava sempre le chiese che senso aveva quell’addio.

“È vero,” disse Ursula. “Non sto aspettando altro che la pioggia smetta per morire.”

Lo stato delle strade allarmò Aureliano Secondo. Tardivamente preoccupato per la sorte delle sue bestie, si buttò addosso una tela cerata e andò da Petra Cotes. La trovò nel patio, con l’acqua alla vita, intenta a disincagliare la carogna di un cavallo. Aureliano Secondo la aiutò con un palo, e l’enorme corpo tumefatto roteò su se stesso e fu trascinato via dal torrente di fango liquido. Da quando era cominciata la pioggia, Petra Cotes non aveva fatto altro che sgomberare il patio da animali morti. Nelle prime settimane aveva mandato dei messaggi a Aureliano Secondo invitandolo a prendere dei provvedimenti urgenti, e lui aveva risposto che non c’era fretta, che la situazione non era allarmante, che avrebbero pensato a qualcosa quando fosse spiovuto. Gli mandò a dire che i pascoli si stavano allagando, che le mandrie fuggivano verso le terre alte dove non c’era da mangiare, e che erano alla mercé della tigre e della peste. “Non c’è niente da fare,” le risposi., Aureliano Secondo. “Ne nasceranno altri quando spioverà.” Petra Cotes li aveva visti morire a grappoli, e trovava appena il tempo per fare a pezzi quelli che rimanevano impantanati. Vide con un’impotenza sorda come il diluvio andò sterminando senza misericordia una fortuna che un tempo era ritenuta la più grande e solida di Macondo, e della quale non restava che la pestilenza. Quando Aureliano Secondo decise di andare a vedere che cosa stava succedendo, trovò soltanto il cadavere del cavallo, e una mula squallida tra le macerie della scuderia. Petra Cotes lo vide arrivare senza sorpresa, senza né gioia né risentimento, e si permise appena un sorriso ironico.

“Alla buon’ora!” disse.

Era invecchiata, tutta ossa, e i suoi lanceolati occhi di animale carnivoro si erano fatti tristi e docili a furia di guardare la pioggia. Aureliano Secondo rimase per più di tre mesi nella sua casa, non perché allora si sentisse meglio li che in quella della sua famiglia, ma perché gli ci volle tutto quel tempo per prendere la decisione di buttarsi di nuovo addosso il pezzo di tela cerata. “Non c’è fretta,” disse, come aveva detto nell’altra casa. “Speriamo che spiova nelle prossime ore.” Nel corso della prima settimana si andò abituando allo scempio provocato dal tempo e dalla pioggia nella salute della sua concubina, e a poco a poco ricominciò a vederla come era prima, a ricordarsi delle sue intemperanze giubilanti e della fecondità delirante che il suo amore provocava negli animali, e in parte per amore e in parte per interesse, una notte della seconda settimana la svegliò con carezze incalzanti. Petra Cotes non reagì. “Dormi tranquillo,” mormorò. “Non sono più i tempi adatti per fare queste cose.” Aureliano Secondo vide se stesso negli specchi del soffitto, vide la spina dorsale di Petra Cotes come una filza di rocchetti infilati in un fascio di nervi appassiti, e capì che la donna aveva ragione, non tanto per i tempi quanto perché loro stessi non erano più adatti per fare quelle cose.

Aureliano Secondo tornò nella casa coi suoi bauli, convinto che non soltanto Ursula, ma anche tutti gli abitanti di Macondo stavano aspettando che spiovesse per morire. Li aveva visti, passando, seduti nei salotti con lo sguardo assorto e le braccia incrociate, intenti a sentir trascorrere un tempo intero, un tempo non domato, perché era inutile dividerlo in mesi e in anni, e i giorni in ore, se non si poteva far altro che contemplare la pioggia. I bambini accolsero con grande gioia Aureliano Secondo, che tornò a suonare per loro la fisarmonica asmatica. Ma il concerto non li divertì tanto quanto le riunioni enciclopediche, di modo che ripresero le sedute nella stanza di Meme, dove la fantasia di Aureliano Secondo trasformò il dirigibile in un elefante volante che cercava un posto per dormire tra le nubi. Una volta vide la fotografia di un uomo a cavallo che nonostante la sua bardatura esotica conservava un aspetto familiare, e dopo averlo esaminato a lungo giunse alla conclusione che era il ritratto del colonnello Aureliano Buendia. Lo fece vedere a Fernanda, e anche lei ammise la rassomiglianza del cavaliere non soltanto col colonnello, ma con tutti i membri della famiglia, anche se in realtà si trattava di un guerriero tartaro. Così fece passare il tempo, tra il colosso di Rodi e gli incantatori di serpenti, finché sua moglie gli annunciò che restavano soltanto sei chili carne salata e un sacco di riso nel granaio.

“E allora che cosa vuoi che, faccia?” chiese lui.

“Io non lo so,” rispose Fernanda. “Questa è una faccenda di uomini.”

“Bene,” disse Aureliano Secondo, “faremo qualcosa, quando spioverà.”

Andò avanti in quel modo, più assorto nell’enciclopedia che nel problema domestico, anche quando dovette accontentarsi di uno straccio di carne e di un pugno di riso per il pranzo. “Ora non si può far nulla,” diceva. “Non può piovere per tutta la vita.” E quanto più indifferente era alle necessità del granaio, tanto più appassionata si andava facendo l’indignazione di Fernanda finché le sue proteste occasionali, i suoi sfoghi poco frequenti, traboccarono in un torrente incontenibile, sfrenato, che cominciò un mattino come il monotono bordone di una chitarra, e che a mano a mano che si svolgeva la giornata andò salendo di tono, sempre più ricco, più grandioso. Aureliano Secondo non si accorse della cantilena fino al giorno seguente, dopo colazione, quando si sentì stordito da un ronzare allora più fluido e alto del rumore della pioggia, ed era Fernanda che girava per tutta la casa lamentandosi che l’avevano educata come una regina per finire da serva in una casa di pazzi, con un marito fannullone, idolatra, libertino, che stava a pancia all’aria ad aspettare che gli piovesse la manna dal cielo, mentre lei si stroncava le reni cercando di tenere a galla una casa tenuta su con gli spilli, dove c’era tanto da fare, tanto da sopportare e da rabberciare, da quando spuntava Dio fino all’ora di mettersi a letto, che finiva per coricarsi con gli occhi pieni di polvere di vetro e, tuttavia, mai nessuno che le dicesse buon giorno, Fernanda, come hai dormito, Fernanda, né le chiedevano mai anche solo per cortesia perché, era così pallida e perché si svegliava con quegli occhi pesti, anche se lei non sperava, naturalmente, che qualcosa di simile saltasse fuori dal resto di una famiglia che in fondo l’aveva sempre considerata come un impiccio, come lo straccetto per sollevare la pentola, come un pupazzo scarabocchiato sul muro, e che andavano sempre spettegolando contro di lei negli angoli, chiamandola bigottona, chiamandola farisea, chiamandola volpe, e perfino Amaranta, requiescat in pace, aveva detto chiaro e tondo che era di quelle che scambiavano il sesso maschile con l’equinozio, benedetto Dio, che parole, e lei aveva sopportato tutto con rassegnazione per le intenzioni del Santo Padre, ma non aveva potuto più resistere quando quel malvagio di José Arcadio Secondo aveva detto che la rovina della famiglia era stata quella di aprire la porta a una spocchiosa, immaginarsi un po’, a una spocchiosa prepotente, Dio mi aiuti, una spocchiosa figlia di mala saliva, della stessa indole degli spocchiosi che aveva mandato il governo a uccidere i lavoratori, ditemi un po’, e si riferiva niente di meno che a lei, la figlioccia del Duca di Alba, una dama di tale prosapia da far rivoltare il fegato alle mogli dei presidenti, una idalga di sangue come lei che aveva il diritto di firmare con dodici spagnolissimi cognomi, e che era l’unica mortale in quel villaggio di bastardi che non si sentiva impacciata davanti a sedici posate, perché poi quell’adultero di suo marito saltasse fuori a dire sghignazzando che tanti cucchiai e forchette, e tanti coltelli e cucchiai non erano roba da cristiani, ma da centopiedi, e l’unica che poteva stabilire a occhi chiusi quando si serviva il vino bianco, e da che parte e in quale bicchiere, e quando si serviva il vino rosso, e da che parte e in quale bicchiere, e non come quella selvatica di Amaranta, requiescat in pace, che credeva che il vino bianco si servisse di giorno e il vino rosso di sera, e l’unica in tutta la costa che poteva vantarsi di non essere mai andata di corpo se non in pitali d’oro, perché poi il colonnello Aureliano Buendia, requiescat in pace, avesse la sfacciataggine di chiedere con il suo fiele di massone perché mai si era meritata quel privilegio, se era forse perché lei non cagava merda, ma fiordalisi, immaginarsi, che parole, e perché poi Renata, la sua stessa figlia, che indiscretamente aveva visto le sue deiezioni nella stanza da letto, rispondesse che in realtà il pitale era d’oro puro e di pura araldica, ma quello che c’era dentro era pura merda, merda fisica, e ancor peggio delle altre perché era merda di spocchiosa, immaginarsi, la sua stessa figlia, di modo che non si era mai fatte illusioni sul resto della famiglia, ma in ogni modo aveva il diritto di aspettarsi un po’ più di considerazione almeno da parte di suo marito, dato che bene o male era suo coniuge sacramentale, il suo autore, il suo legittimo pregiudicatore, che si era addossato per volontà libera e sovrana la grave responsabilità di toglierla dal focolare paterno, dove non si era mai privata né lamentata di nulla, dove intrecciava palme funebri per puro piacere di passatempo, dato che il suo padrino le aveva mandato una lettera e il sigillo del suo anello impresso nella ceralacca, solo per dirle che le mani della sua figlioccia non erano fatte per faccende di questo mondo, tranne che per suonare il clavicembalo e, tuttavia, quell’insensato di suo marito l’aveva tolta dalla sua casa con tutti gli ammonimenti e le raccomanda zioni e l’aveva portata in quella bolgia infernale dove non si poteva respirare dal caldo, e prima ancora che lei avesse finito di osservare le sue diete di Pentecoste se n’era già andato, coi suoi bauli transumanti e la sua fisarmonica da giramondo, in un luogo di adulterio, con una disgraziata alla quale bastava guardare le chiappe, be’, ormai le era scappata, alla quale bastava vedere come dimenava le chiappe da giumenta per capire subito che era una, che era una, tutto il contrario di lei, che era signora sia nel palazzo sia nello stabbiolo, sia a tavola sia a letto, signora di nascita, timorosa di Dio, ubbidiente alle sue leggi e sottomessa ai suoi disegni, e con la quale non poteva fare, naturalmente, le smorfie e i salti mortali che faceva con l’altra, che naturalmente si prestava a tutto, come le matrone francesi, e ancora peggio, a pensarci bene, perché quelle almeno avevano l’onestà di mettere una lanterna rossa sulla porta, porcherie simili, immaginarsi, non mancava altro, con la figlia unica e bene amata di donna Renata Argote e di don Fernando del Carpio, e soprattutto di questo, naturalmente, un sant’uomo, un cristiano di grandi meriti, Cavaliere dell’Ordine del Santo Sepolcro, di quelli che ricevono direttamente da Dio il privilegio di mantenersi intatti nella tomba, con la pelle tesa come raso di sposa e con gli occhi vivi e diafani come smeraldi.

“Questo sì che non è vero,” la interruppe Aureliano Secondo, “quando lo hanno portato qui già puzzava.”

Aveva avuto la pazienza di starla a sentire per un giorno intero, finché l’aveva colta in fallo. Fernanda non gli diede retta, ma abbassò la voce. Quella sera, durante la cena, l’esasperante ronzio della cantilena aveva sconfitto la pioggia. Aureliano mangiò pochissimo, a testa bassa, e si ritirò presto nella sua stanza. Il giorno dopo, a colazione, Fernanda era tremante, aveva l’aspetto di una che ha dormito male, e sembrava aver completamente esaurito i suoi rancori. Tuttavia, quando suo marito chiese se non sarebbe stato possibile mangiare un uovo bollito, lei non rispose semplicemente che dalla settimana prima le uova erano terminate, ma elaborò una virulenta diatriba contro gli uomini che passavano il tempo ad adorarsi l’ombelico e poi avevano il menefreghismo di chiedere fegati di allodole a tavola. Aureliano Secondo portò i bambini a vedere l’enciclopedia, come sempre, e Fernanda finse di mettere in ordine la stanza di Meme, solo perché lui la sentisse mormorare che, naturalmente, bisognava proprio avere una faccia di bronzo per far credere ai poveri innocenti che sull’enciclopedia c’era il ritratto del colonnello Aureliano Buendìa. Nel pomeriggio, mentre i bambini facevano la siesta, Aureliano Secondo si sedette sotto il porticato e fin li lo incalzò Fernanda, provocandolo, tormentandolo, girando intorno a lui col suo implacabile ronzio di moscone, dicendo che, naturalmente, dato che ormai da mangiare non rimanevano altro che i sassi, suo marito si metteva lì come un sultano di Persia a contemplare la pioggia, perché non era altro che quello, un fannullone, un mantenuto, un buono a nulla, più molle del cotone in fiocco, abituato a vivere alle spalle delle donne, e convinto di aver sposato la moglie di Giona, che si era bevuta tutta tranquilla la storia della balena. Aureliano Secondo la ascoltò per più di due ore, impassibile come se fosse sordo. Non la interruppe che quando stava ormai calando la sera, non potendo più resistere al rimbombo che gli rintronava in testa.

“Ora taci, per favore,” supplicò.

Fernanda, al contrario, alzò il tono. “Non vedo perché dovrei tacere,” disse. “Chi non vuole sentirmi, se ne vada.” Allora Aureliano Secondo perse il controllo. Si alzò senza fretta, come se pensasse soltanto di stirare le membra, e con una furia perfettamente regolata e metodica afferrò l’uno dopo l’altro i testi delle begonie, i vasi delle felci, i recipienti dell’origano, e l’uno dopo l’altro li fece a pezzi contro il pavimento. Fernanda si spaventò, dato che in effetti non aveva avuto fino a quel momento una idea chiara della tremenda forza interiore della sua blaterata, ma ormai era tardi per qualsiasi tentativo di rettifica. Inebriato dal torrente incontenibile dello sfogo, Aureliano Secondo ruppe il vetro della credenza, e ad uno ad uno, senza affrettarsi, andò togliendo tutti i pezzi del vasellame e ne fece polvere contro il piancito. Sistematico, sereno, con la stessa parsimonia con la quale aveva tappezzato la casa di banconote, andò rompendo poi contro i muri la cristalleria di Boemia, i vasi da fiori dipinti a mano, i quadri delle donzelle in barche cariche di rose, gli specchi nelle cornici dorate, e tutto quanto era frantumabile dai salotti fino al granaio, e finì con la giara della cucina che scoppiò in mezzo al patio con una esplosione profonda. Poi si lavò le mani, si buttò addosso la tela cerata, e prima di mezzanotte tornò con dei pezzi di carne secca salata, qualche sacco di riso e di mais col germoglio, e alcuni striminziti caschi di banane. Da allora nella casa non mancò più la roba da mangiare.

Amaranta Ursula e il piccolo Aureliano si sarebbero ricordati del diluvio come di un’epoca felice. Nonostante la severità di Fernanda, diguazzavano nei pantani del patio, cacciavano lucertole per squartarle e giocavano ad avvelenare la minestra buttandovi dentro polvere di ali di farfalle negli attimi di disattenzione di Santa Sofia de la Piedad. Ursula era il loro giocattolo più divertente. La considerarono come una grande bambola decrepita che trasportavano e mettevano negli angoli, vestendola con stracci colorati e pitturandole la faccia con nerofumo e annatto, e una volta furono sul punto di sbuzzarle gli occhi, come facevano coi rospi, con le forbici per potare. Niente li rendeva più felici del suo farneticare. In effetti, qualcosa dovette succedere nel suo cervello verso il terzo anno della pioggia, perché a poco a poco andò perdendo il senso della realtà, e confondeva il tempo attuale con epoche remote della sua vita, fino al punto che una volta passò tre giorni a piangere sconsolatamente per la morte di Petronila Iguaràn, la sua bisnonna, seppellita più di un secolo prima. Sprofondò in uno stato di confusione così strambo, che credeva che il piccolo Aureliano fosse il suo figlio colonnello dei tempi in cui l’avevano condotto a conoscere il ghiaccio e che José Arcadio che si trovava allora in seminario fosse il primogenito che se n’era andato con gli zingari. Parlò così a lungo della famiglia, che i bambini impararono a organizzarle visite immaginarie con esseri che non soltanto erano morti da parecchio tempo, ma che erano esistiti in epoche diverse. Seduta sul letto coi capelli coperti di cenere e la faccia nascosta da un fazzoletto rosso, Ursula era felice in mezzo alla parentela irreale che i bambini descrivevano senza omissione di particolari, come se l’avessero veramente conosciuta. Ursula chiacchierava coi suoi antenati su fatti anteriori alla sua stessa esistenza, godeva delle notizie che le davano e piangeva con loro per morti molto più recenti degli stessi interlocutori. I bambini non tardarono ad accorgersi che nel corso di. quelle visite spettrali Ursula impostava sempre una domanda destinata a stabilire chi era colui che aveva portato nella casa durante la guerra un San Giuseppe di gesso di grandezza naturale perché lo tenessero lì finché non fosse passata la pioggia. Fu così che Aureliano Secondo si ricordò della fortuna seppellita in qualche luogo che soltanto Ursula conosceva, ma furono inutili le domande e le manovre astute che gli vennero in mente, perché nei labirinti del suo farneticare Ursula sembrava conservare un margine di lucidità per difendere quel segreto, che avrebbe rivelato soltanto a chi dimostrasse di essere il vero padrone dell’oro sepolto. Era così abile e così rigorosa, che quando Aureliano Secondo istruì uno dei suoi compagni di baldoria perché si facesse passare per il proprietario della fortuna, la vecchia lo irretì in un interrogatorio minuzioso e disseminato di trappole imprevedibili.

Convinto che Ursula si sarebbe portato il segreto nella tomba, Aureliano Secondo contrattò una squadra di scavatori col pretesto di far costruire canali di scolo nel patio e in fondo al patio, e lui stesso sondò il terreno con bacchette di ferro e con ogni sorta di detettori di metalli, senza trovare nulla che sembrasse oro in tre mesi di esplorazioni spossanti. Allora fece ricorso a Pilar Ternera con la speranza che le carte vedessero meglio degli scavatori, ma la donna gli spiegò subito che ogni tentativo sarebbe stato inutile a meno che non fosse la stessa Ursula ad alzare il mazzo. Confermò invece l’esistenza del tesoro, precisando che era costituito da settemiladuecentoquattordici monete seppellite in tre sacchi di tela chiusi con filo di rame, in un cerchio con un raggio di centoventidue metri, prendendo come centro il letto di Ursula, ma avvertì che non lo si sarebbe trovato prima che cessasse di piovere e che il sole di tre giugni consecutivi avesse ridotto in polvere le fangaie. La profusione e la meticolosa imprecisione dei dati sembrarono ad Aureliano Secondo così simili alle favole spiritistiche, che insistette nella sua impresa nonostante ci si trovasse in agosto e sarebbe stato necessario aspettare almeno tre anni per soddisfare le condizioni del pronostico. La prima cosa che lo meravigliò, anche se nello stesso tempo aumentò la sua confusione, fu il fatto che c’erano esattamente centoventidue metri dal letto di Ursula al muro di cinta del fondo patio. Fernanda temette che fosse pazzo anche lui come il fratello gemello quando lo vide prendere le misure, e, peggio ancora, ordinare alle squadre degli scavatori di approfondire di un altro metro i vari fossati. Colto da un delirio da esploratore paragonabile appena a quello del suo bisnonno quando cercava la strada delle invenzioni, Aureliano Secondo perse gli ultimi depositi di grasso che gli restavano, e l’antica somiglianza col fratello gemello si andò di nuovo accentuando, non soltanto a causa della magrezza ma anche grazie all’aria distante e al fare assorto. Non badò più ai bambini. Mangiava quando gli capitava, infangato dalla testa ai piedi, e lo faceva in un angolo della cuc ina, rispondendo appena alle domande occasionali di Santa Sofia de la Piedad. Vedendolo lavorare in quel modo, come non aveva mai sognato che potesse farlo, Fernanda credette che la sua temerità fosse diligenza, e che la sua avidità fosse abnegazione, e che la sua caparbietà fosse perseveranza, e si sentì rimordere il cuore per la virulenza con la quale aveva vagellato contro la sua indolenza. Ma Aureliano Secondo non era disposto allora a riconciliazioni misericordiose. Sprofondato fino al collo in una fangaia di ramaglie morte e di fiori marci, rivoltò da cima a fondo il terreno del giardino dopo aver finito col patio e col fondo patio, e trivellò così profondamente le fondamenta dell’ala orientale della casa, che una notte si svegliarono terrorizzati per quello che sembrava un cataclisma, sia per le trepidazioni sia per lo spaventoso scricchiolio sotterraneo, e il fatto era che tre stanze stavano crollando e che si andava aprendo una crepa da far rabbrividire, a partire dal corridoio fino alla stanza di Fernanda. Ma Aureliano Secondo non rinunciò per questo alle esplorazioni. Anche quando si erano estinte le ultime speranze, e l’unica cosa che sembrava avere qualche senso era la predizione delle carte, rinforzò le fondamenta intaccate, risanò la crepa con malta, e continuò a scavare nell’ala occidentale. Si trovava ancora lì nella seconda settimana del giugno seguente, quando la pioggia cominciò a calmarsi e le nubi si andarono alzando, e si vide che da un momento all’altro sarebbe spiovuto. Così fu. Un venerdì, alle due del pomeriggio si illuminò il mondo a causa di un sole abbondante, rosso e aspro come polvere di mattone, e quasi fresco come l’acqua, e non tornò più a piovere per dieci anni.

Macondo era in rovina. Nei pantani delle strade erano rimasti mobili schiantati, scheletri di animali coperti di gigli rossi, ultimi ricordi delle orde di avventizi che erano fuggiti da Macondo con lo stesso stupore col quale erano arrivati. Le case nate come funghi durante la febbre del banano erano state abbandonate. La compagnia bananiera aveva smantellato i suoi impianti. Della antica città recintata non rimanevano che le macerie. Le case di legno, le fresche terrazze dove trascorrevano i sereni pomeriggi di carte, sembravano rase al suolo da una anticipazione del vento profetico che anni dopo avrebbe cancellato Macondo dalla faccia della terra. L’unica traccia umana che aveva lasciato quell’alito vorace era un guanto di Patricia Brown nell’automobile soffocata dai rampicanti. La regione incantata che aveva esplorato José Arcadio Buendia ai tempi della fondazione era una marcita di ceppaie putrefatte, sul cui orizzonte remoto si riuscì a scorgere per diversi anni la spuma silenziosa del mare. Aureliano Secondo ebbe una crisi di disperazione la prima domenica che indossò vestiti asciutti e uscì per riconoscere il villaggio. I sopravvissuti alla catastrofe, gli stessi che abitavano già a Macondo prima che fosse scossa dall’uragano della compagnia bananiera, erano seduti in mezzo alla strada a godersi il primo sole. Conservavano ancora sulla pelle il verde di alga e l’odore di cantuccio che gli aveva impresso la pioggia, ma nel fondo dei loro cuori sembravano soddisfatti di aver ritrovato il villaggio in cui erano nati. La Strada dei Turchi era di nuovo quella di prima, quella dei tempi in cui gli arabi in pantofole e con gli anelli alle orecchie, che percorrevano il mondo barattando pappagalli con cianfrusaglie, avevano trovato a Macondo una buona gora per riposare dalla loro millenaria condizione di gente transumante. Al di là della pioggia, la merce dei bazar stava cadendo a pezzi, i generi esposti sulle soglie erano venati di musco, i banchi trivellati dai tarli e i muri rosi dall’umidità, ma gli arabi della terza generazione erano seduti nello stesso luogo e nello stesso atteggiamento dei loro padri e dei loro nonni, taciturni, impavidi, invulnerabili al tempo e al disastro, né più vivi né più morti di come lo erano stati dopo la peste dell’insonnia e dopo le trentadue guerre del colonnello Aureliano Buendìa. Era così sorprendente la loro forza d’animo davanti alle macerie dei tavoli da gioco, delle bancarelle delle fritture, delle baracche del tiro a segno e della viuzza dove si indovinava il futuro e si interpretavano i sogni, che Aureliano Secondo chiese con la sua solita sgarberia di che trucco misterioso si erano valsi per non naufragare nella tormenta, come diavolo avessero fatto per non affogare, e uno dopo l’altro, di porta in porta, gli ricambiarono un sorriso astuto e uno sguardo trasognato, e tutti gli diedero senza mettersi d’accordo la stessa risposta:

“Nuotando.”

Petra Cotes era forse l’unica del luogo ad avere spirito di arabo. Aveva visto le ultime macerie delle sue stalle e delle sue scuderie trascinate via dalla tormenta, ma era riuscita a mantenere in piedi la casa. Nell’ultimo anno aveva mandato dei messaggi incalzanti a Aureliano Secondo, e questi le aveva risposto che ignorava quando sarebbe tornato in casa sua, ma che in ogni modo avrebbe portato con sé una cassa di monete d’oro per lastricare la stanza da letto. Allora lei aveva rovistato nel suo cuore, cercando la forza che le permettesse di sopravvivere alla disgrazia, e vi aveva trovato una rabbia riflessiva e giusta, con la quale aveva giurato di restaurare la fortuna scialacquata dall’amante e che il diluvio aveva finito di sterminare. Fu una decisione così inflessibile, che Aureliano Secondo tornò nella stia casa otto mesi dopo l’ultimo messaggio, e la trovò verde, scarmigliata, con le palpebre infossate e la pelle squamata dalla scabbia, ma stava scrivendo dei numeri su pezzetti di carta, per fare una riffa. Aureliano Secondo rimase attonito, ed era così squallido e così solenne, che Petra Cotes non credette che colui che era tornato a cercarla fosse l’amante di tutta la vita, ma piuttosto un suo fratello gemello.

“Sei pazza,” disse lui. “A meno che tu voglia rifare le ossa.”

Allora lei gli disse di affacciarsi nella stanza e Aureliano Secondo vide la mula. Era tutta pelle e ossa, come la padrona, ma viva e vegeta come lei. Petra Cotes l’aveva alimentata con la sua rabbia, e quando non aveva più trovato né erba, né mais, né radici, l’aveva ricoverata nella sua stessa stanza e le aveva dato da mangiare le lenzuola di percalle, i tappeti persiani, i copriletti di broccatello, le tende di velluto e il palio ricamato con fili d’oro e le nappe di seta del letto episcopale.

 Ursula dovette fare un grande sforzo per mantenere la sua promessa di morire quando fosse spiovuto. I lampi di lucidità, che erano così scarsi durante la pioggia, si fecero più frequenti a partire da agosto, quando cominciò a soffiare il vento arido che soffocava i rosai e pietrificava i pantani, e che finì per spargere su Macondo la polvere incandescente che coprì per sempre gli arrugginiti tetti di zinco e i mandorli centenari. Ursula pianse di dispiacere quando scoprì che per più di tre anni era servita da giocattolo ai bambini. Si lavò la faccia impiastricciata, si levò di dosso i nastri di carta colorata, le lucertoline e i rospi rinsecchiti e le collane di semi e gli antichi collari arabi che le avevano appeso su tutto il corpo, e per la prima volta dalla morte di Amaranta si alzò dal letto senza l’aiuto di nessuno per reintegrarsi alla vita della famiglia. Lo spirito del suo cuore invincibile la orientava nelle tenebre. Chi la urtò nei suoi vacillamenti e si scontrò col suo braccio arcangelico sempre alzato all’altezza della testa, poteva pensare che il suo corpo ce la faceva a malapena, ma ancora non riuscì a credere che fosse cieca. Ursula non aveva bisogno di vedere per rendersi conto che le aiuole di fiori, coltivate con tanta cura fin dalla prima ricostruzione, erano state distrutte dalla pioggia e sconvolte dagli scavi di Aureliano Secondo, e che le pareti e il cemento dei pavimenti erano screpolati, i mobili sconnessi e scoloriti, le porte sgangherate, e la famiglia minacciata da uno spirito di rassegnazione e di tristezza che non sarebbe stato concepibile ai suoi tempi. Movendosi a tentoni per le stanze vuote percepiva il picchiettio continuo del tarlo che rosicchiava i legni, e il ticchettio delle tarme negli armadi, e lo strepito devastatore delle enormi formiche rosse che avevano prosperato durante il diluvio e stavano perforando le fondamenta della casa. Un giorno aprì il baule dei santi, e dovette chiedere aiuto a Santa Sofia de la Piedad per liberarsi dagli scarafaggi che erano sbucati dall’interno, e che ormai avevano polverizzato la roba. “Non è possibile vivere in questo abbandono,” diceva. “Di questo passo finiremo divorati dalle bestie.” Da allora non ebbe un istante di, requie. Si alzava prima ancora dello spuntare del giorno e si faceva aiutare da chi era disponibile, compresi i bambini. Sciorinò al sole le poche robe che erano ancora in condizione di essere usate, sconfisse gli scarafaggi con assalti di sorpresa a base di insetticida, raspò le vene del tarlo nelle porte e nelle finestre e asfissiò con calce viva le formiche nelle loro tane. La febbre del restauro finì per condurla nelle stanze dimenticate. Fece ripulire dai rifiuti e dalle ragnatele la stanza dove José Arcadio Buendìa si era seccato il comprendonio cercando la pietra filosofale, mise in ordine il laboratorio di oreficeria che era stato messo sossopra dai soldati, e per ultimo chiese le chiavi della stanza di Melquiades per vedere in che stato si trovava. Fedele alla volontà di José Arcadio Secondo, che aveva vietato qualsiasi intromissione fintanto che non ci fosse stato un indizio reale della sua morte, Santa Sofia de la Piedad fece ricorso a ogni sorta di sotterfugi per sviare Ursula. Ma era così inflessibile la sua decisione di non abbandonare agli insetti nemmeno il più recondito e inservibile angolo della casa, che superò quanti ostacoli le si presentarono, e dopo tre giorni di insistenze riuscì a farsi aprire la stanza.

Dovette afferrarsi allo stipite per non essere travolta dall’odore pestilenziale, ma le bastarono soltanto due secondi per ricordarsi che in quel luogo erano conservati i settantadue pitali delle collegiali, e che in una delle prime notti della pioggia una pattuglia di soldati aveva perquisito la casa cercando José Arcadio Secondo e non era riuscita a trovarlo.

“Sia benedetto Dio!” esclamò come se avesse visto tutto. “Tanta fatica per inculcarti le buone abitudini, perché tu finissi a vivere come un porco.”

José Arcadio Secondo continuava a leggere le pergamene. L’unica cosa visibile nell’intricata selva di peli, erano i denti venati di verdume e gli occhi immobili. Quando riconobbe la voce della bisnonna, girò la testa verso la porta, cercò di sorridere, e senza saperlo ripeté una antica frase di Ursula.

“Cosa vuole,” mormorò, “il tempo passa.”

“Così è,” disse Ursula, “ma non tanto.”

Dicendolo, si rese conto che stava dando la stessa risposta avuta dal colonnello Aureliano Buendìa nella sua cella di condannato, e ancora una volta rabbrividì constatando che il tempo non passava, come lei aveva appena finito di ammettere, ma che continuava a girare in giro. Ma nemmeno allora cedette alla rassegnazione. Rimproverò José Arcadio Secondo come se fosse un bambino, e si ostinò perché facesse il bagno e si radesse e le prestasse la sua forza per finire di restaurare la casa. La sola idea di lasciare la stanza che gli aveva procurato la pace terrorizzò José Arcadio Secondo. Gridò che non c’era potere umano capace di farlo uscire, perché non voleva vedere il treno di duecento vagoni carichi di morti che ogni sera partiva da Macondo verso il mare. “Sono tutti quelli che erano nella stazione,” gridava. “Tremilaquattrocentootto.” Soltanto allora Ursula capì che José Arcadio Secondo era in un mondo di tenebre più impenetrabile del suo, tanto insormontabile e solitario quanto quello del bisnonno. Lo lasciò nella stanza ma ottenne che non rimettessero il lucchetto, che facessero ogni giorno le pulizie, che buttassero i pitali nella spazzatura e ne lasciassero soltanto uno, e che mantenessero José Arcadio Secondo pulito e presentabile come lo era stato il bisnonno durante la sua lunga prigionia sotto il castagno. Sulle pr ime, Fernanda interpretava tutto quell’affannarsi come un accesso di pazzia senile, e a malapena reprimeva l’esasperazione. Ma José Arcadio le scrisse in quell’epoca da Roma che pensava di recarsi a Macondo prima dei voti perpetui, e la buona notizia le infuse tale entusiasmo, che dalla sera alla mattina si trovò a innaffiare i fiori quattro volte al giorno in modo che suo figlio non avesse a formarsi una cattiva impressione della casa. Fu questo stesso incentivo che la indusse a accelerare la sua corrispondenza coi medici invisibili, e a ricollocare nel portico i vasi di felci e di origano, e i testi di begonie, molto prima che Ursula s’accorgesse che erano stati distrutti dalla furia sterminatrice di Aureliano Secondo. Più tardi vendette il servizio d’argento, e comprò vasellame di ceramica, zuppiere e cucchiaioni di peltro e posate di alpacca, e ne impoverì le credenze use al vasellame della Compagnia delle Indie e alla cristalleria di Boemia. Ursula cercava di spingersi sempre più in là. “Che si aprano porte e finestre,” gridava. “Che si faccia carne e pesce, che si comprino le tartarughe più grandi, che vengano i forestieri a stendere le loro stuoie negli angoli e a orinare sui rosai, che si siedano a tavola a mangiare quante volte vogliono, e che ruttino e bestemmino, e che infanghino tutto coi loro stivali, e che facciano di noi quello che vogliono, perché questo è l’unico modo per scacciare la rovina.” Ma era una vana illusione. Era ormai troppo vecchia e aveva vissuto d’avanzo per ripetere il miracolo degli animaletti di caramello, e nessuno dei suoi discendenti aveva ereditato il suo vigore. La casa continuò a rimanere sbarrata per ordine di Fernanda.

Aureliano Secondo, che era tornato coi suoi bauli nella casa di Petra Cotes, disponeva appena dei mezzi perché la famiglia non morisse di fame. Con la riffa della mula, Petra Cotes e lui avevano comprato altri animali, coi quali riuscirono ad avviare una rudimentale impresa di riffe. Aureliano Secondo andava di casa in casa, offrendo i bigliettini che lui stesso dipingeva con inchiostri colorati per renderli più attraenti e convincenti, e forse non si rendeva conto che molti glieli compravano per gratitudine, e la maggior parte per compassione. Tuttavia, anche i più pietosi compratori acquistavano l’opportunità di vincersi un maiale per venti centavos o una vitellina per trentadue, e la speranza li entusiasmava a tal punto che la sera del martedì traboccavano nel patio di Petra Cotes aspettando il momento in cui un bambino scelto a caso toglieva dalla borsa il numero premiato. La cosa non tardò a trasformarsi in una fiera settimanale, e infatti fin dal crepuscolo si montavano nel patio banchi di frittelle e chioschi di bibite, e molto spesso i favoriti dalla sorte sacrificavano sul posto l’animale vinto alla condizione che gli altri offrissero la musica e l’acquavite, di modo che senza averlo voluto Aureliano Secondo si trovò improvvisamente a suonare di nuovo la fisarmonica e a partecipare a modesti tornei di voracità. Queste umili repliche delle baldorie di altri tempi servirono a far sì che lo stesso Aureliano Secondo scoprisse quanto era de caduto il suo spirito e fino a che punto si era inaridito il suo ingegno di sgavazzatore magistrale. Era un uomo cambiato. I centoventi chili che aveva raggiunto nell’epoca in cui l’Elefantessa lo aveva sfidato si erano ridotti a settantotto; e la lucida e gonfia faccia di tartaruga gli si era fatta di iguana, ed era sempre prossimo alla noia e alla stanchezza. Per Petra Cotes, tuttavia, non fu mai uomo migliore di allora, forse perché scambiava per amore la compassione che lui le ispirava, e il sentimento di solidarietà che in entrambi aveva risvegliato la miseria. Il letto smantellato smise di essere un luogo di sfrenatezza e si convertì in rifugio di confidenze. Liberati dagli specchi ripetitori svenduti per comperare animali per la riffa, e dai lussuriosi damaschi e velluti che si era mangiata la mula, rimanevano svegli fino a notte inoltrata con l’innocenza di due avi insonni, impiegando a far conti e destinare centesimi il tempo che prima dissipavano dissipandosi. Certe volte i primi galli li sorprendevano intenti a fare e disfare mucchietti di monete, levando un poco di qui per metterlo là, di modo che questo bastasse per accontentare Fernanda, e quello per le scarpe di Amaranta Ursula, e quest’altro per Santa Sofia de la Piedad che non si comprava un vestito fin dai tempi del rumore, e questo per pagare la cassa se moriva Ursula, e questo per il caffè che aumentava di un centavo la libbra ogni tre mesi, e questo per lo zucchero che addolciva sempre meno, e questo per la legna che era, ancora umida per il diluvio, e quest’altro per la carta e l’inchiostro colorato per i biglietti, e quello che avanzava per ammortizzare a poco a poco il costo della vitella di aprile, della quale per miracolo avevano salvato la pelle, perché le era venuto il carbonchio sintomatico quando si erano già venduti quasi tutti i numeri della riffa. Erano così pure quelle esibizioni di povertà, che destinavano sempre la parte migliore a Fernanda, e non lo fecero mai per rimorso o per carità, ma perché il suo benessere era per ambedue più importante del loro. Quello che succedeva in realtà, anche se nessuno dei due se ne rendeva conto, era che essi pensavano a Fernanda come alla figlia che avrebbero voluto avere e che non avevano avuto, fino al punto che una volta si rassegnarono a mangiare granturco bollito per tre giorni per permetterle di comprare una tovaglia d’olanda. Tuttavia, per quanto si ammazzassero lavorando, per quanto denaro sottraessero e per quanti trucchi escogitassero, i loro angeli custodi si addormentavano per la stanchezza mentre i due aggiungevano e levavano monete cercando di farle bastare perfino per poter vivere. Nell’insonnia provocata dai conti che non tornavano mai, si chiedevano che cosa era successo nel mondo perché gli animali non partorivano con la stessa frenesia di prima, perché il denaro svaniva nelle mani, e perché la gente che fino a poco tempo prima bruciava fasci di banconote nelle sgavazzate, riteneva che era una vera e propria grassazione pretendere dodici centavos per la riffa di sei galline. Aureliano Secondo pensava senza dirlo che il male non stava nel mondo, ma in qualche luogo recondito del misterioso cuore di Petra Cotes, dove durante il diluvio qualcosa doveva essere successo, che aveva reso sterili gli animali e scivoloso il denaro. Turbato da questo enigma, scavò così profondamente nei sentimenti della donna, che cercando l’interesse trovò l’amore, perché per fare in modo che lei gli volesse bene finì per volerle bene. Petra Cotes, da parte sua, gli voleva sempre più bene a mano a mano che sentiva aumentare il suo affetto, e fu così che nella pienezza dell’autunno tornò a credere nella superstizione giovanile che la povertà fosse una schiavitù dell’amore. Entrambi rievocarono allora come un fastidio le baldorie insensate, la ricchezza fastosa e la fornicazione sfrenata, e si rammaricavano pensando quanta vita gli era costata ritrovare il paradiso della solitudine a due. Pazzamente innamorati in capo a tanti anni di complicità sterile, godevano del miracolo di volersi bene tanto a tavola quanto a letto, e giunsero a essere così felici, che quando erano ormai due vecchi sfiniti continua vano ancora a ruzzare come coniglietti e a litigare come cani.

Le riffe non resero mai di più. Sulle prime, Aureliano Secondo passava tre giorni della settimana, chiuso nel suo antico ufficio di allevatore di bestiame, a disegnare i biglietti, pitturandovi con una certa diligenza una mucchina rossa, un porcellino verde o un gruppo di gallinette blu, a seconda dell’animale riffato, e tracciava imitando abbastanza bene le lettere a stampa il nome che a Petra Cotes era sembrato buono per battezzare l’impresa: Riffe della Divina Provvidenza. Ma col tempo si sentì così stanco dopo aver disegnato fino a duemila biglietti alla settimana, che mandò a riprodurre animali, intestazioni e numeri in timbri di gomma, e allora il lavoro si ridusse a inchiostrarli su cuscinetti di diverso colore. Nei suoi ultimi anni gli venne in mente di sostituire i numeri con indovinelli, di modo che il premio potesse ripartirsi tra tutti coloro che avessero azzeccato, ma il sistema risultò in pratica così complicato e si prestava a tanti sospetti, che desistettero a secondo tentativo.

Aureliano Secondo era così indaffarato nei suoi sforzi per consolidare il prestigio delle riffe, che gli restava appena il tempo per vedere i bambini. Fernanda mise Amaranta Ursula in una scuoletta privata dove non si accettavano più di sei alunne, ma si rifiutò di permettere che Aureliano frequentasse la scuola pubblica. Riteneva di aver ceduto abbastanza permettendo che uscisse dalla clausura. E poi, nelle scuole di quell’epoca non si accettavano altro che figli legittimi di genitori cattolici, e nel certificato di nascita che avevano assicurato con una spilla da balia alla sottanina di Aureliano quando lo avevano mandato a casa, era registrato come esposto. Di modo che rimase rinchiuso, alla mercé della sorveglianza caritatevole di Santa Sofia de la Piedad e delle alternative mentali di Ursula, a scoprire il ristretto mondo della casa a seconda di come glielo spiega vano le nonne. Era sottile, allungato, dotato di una curiosità che faceva dar di volta il cervello agli adulti, ma invece dello sguardo inquisitivo e a volte chiaroveggente che aveva avuto il colonnello alla sua età, il suo era palpebrante e un po’ distratto. Mentre Amaranta Ursula era all’asilo, lui cacciava lombrichi e torturava insetti nel giardino. Ma una volta Fernanda lo sorprese a mettere degli scorpioni in una scatola per poi ficcarli nella stuoia di Ursula, e da quel giorno fu recluso nella vecchia stanza di Meme, dove trascorse le sue ore solitarie sfogliando le figure dell’enciclopedia. Lì lo trovò Ursula un pomeriggio in cui andava aspergendo la casa con acqua decantata e un fascio di ortiche, e nonostante fosse stata con lui parecchie volte, gli chiese chi era.

“Sono Aureliano Buendìa,” disse lui.

“È vero,” ribatté lei. “È già ora che cominci a imparare l’oreficeria.”

Lo tornò a scambiare con suo figlio, perché il vento caldo che seguì il diluvio e infuse nel cervello di Ursula raffiche occasionali di lucidità aveva smesso di soffiare.

Quando entrava nella stanza, trovava lì Petronila Iguaran, col voluminoso guardinfante e il giubbetto di lustrini che si metteva per le visite d’obbligo, e trovava Tranquilina Maria Miniata Alacoque Buendìa, sua nonna, che si faceva vento con una piuma di pavone sulla sua sedia a dondolo di paralitica, e suo bisnonno Aureliano Arcadio Buendìa col suo falso dolman delle guardie vicereali, e Aureliano Iguaràn, suo padre, che aveva inventato un’orazione per inaridire e far cadere i vermi dalle vacche, e quella timorata di sua madre, e il cugino con la coda di maiale, e José Arcadio Buendìa e i suoi figli morti, tutti seduti su sedie che erano state accostate alla parete come se partecipassero non a una visita, ma a una veglia funebre. Lei imbastiva una conversazione vivace, commentando fatti di luoghi lontani e di tempi senza coincidenza, di modo che quando Amaranta Ursula tornava dalla scuola e Aureliano si stancava dell’enciclopedia, la trovavano seduta sul letto, intenta a parlare da sola, e sperduta in un labirinto di morti. “Fuoco!” gridò una volta terrorizzata, e per un attimo seminò il panico nella casa, ma quello che stava prevenendo era l’incendio di una scuderia al quale aveva assistito all’età di quattro anni. Giunse a mescolare in modo tale il passato col presente, che nelle due o tre ventate di lucidità che ebbe prima di morire, nessuno seppe con sicurezza se parlava di quello che sentiva o di quello che ricordava. A poco a poco si andò rattrappendo, fetizzando, mummificando da viva, fino al punto che nei suoi ultimi mesi era una prugnetta secca sperduta dentro il camicione, e il braccio sempre levato finì per sembrare la zampa di una scimmia. Rimaneva immobile per parecchi giorni, e Santa Sofia de la Piedad doveva scuoterla per convincersi che fosse viva, e se la metteva in grembo per alimentarla con cucchiaiate di acqua e zucchero. Sembrava una vecchia appena nata. Amaranta Ursula e Aureliano la portavano avanti e indietro nella stanza, la posavano sull’altare per constatare che era appena più grande del Bambino Gesù, e un pomeriggio la nascosero in un armadio del granaio dove avrebbero potuto mangiarsela i topi. Una domenica delle palme entrarono, nella stanza, mentre Fernanda era a messa, sollevarono Ursula per la nuca e per i calcagni.

“Povera trisnonnina,” disse Amaranta Ursula, “ci è morta di vecchiaia.”

Ursula si spaventò.

“Sono viva!” disse.

“Vedi,” disse Amaranta Ursula, reprimendo il riso, “non respira nemmeno.”

“Sto parlando!” gridò Ursula.

“Non parla nemmeno,” disse Aureliano. “È morta come un grillino!’’

Allora Ursula si arrese all’evidenza. “Dio mio,” esclamò a voce bassa. “È così, la morte è dunque questa.” Iniziò un’orazione interminabile, sconnessa, profonda, che si prolungò per più di due giorni, e che il martedì era degenerata in una farragine di suppliche a Dio e di consigli pratici per far sì che le formiche rosse non abbattessero la casa, perché non lasciassero mai spegnere la lampada davanti al dagherrotipo di Remedios, e affinché badassero che nessun Buendìa finisse per sposarsi con qualcuno del suo stesso sangue, perché nascevano figli con la coda di maiale. Aureliano Secondo cercò di approfittare del delirio per farle confessare dove era l’oro seppellito, ma ancora una volta le sue suppliche furono inutili: “Quando verrà il padrone,” disse Ursula, “Dio lo illuminerà perché possa trovarlo.” Santa Sofia de la Piedad ebbe la certezza che l’avrebbe trovata morta da un momento all’altro, perché constatava in quei giorni un certo turbamento della natura: le rose odoravano di chenopodio, era caduta una zucca di ceci e le piccole sfere erano rimaste per terra in un ordine geometrico perfetto e in forma di stella di mare, e una notte aveva visto passare nel cielo una fila di luminosi dischi aranciati.

La trovarono morta il mattino del giovedì santo. L’ultima volta che l’avevano aiutata a calcolare la sua età, ai tempi della compagnia bananiera, era risultato che doveva avere tra i centoquindici e i centoventidue anni. La seppellirono in una cassettina che era poco più grande del cestino in cui avevano portato Aureliano, e pochissima gente assistette ai funerali, in parte perché non erano molti coloro che si ricordavano di lei, e in parte perché in quel giorno ci fu un caldo tale che gli uccelli disorientati si schiacciavano come goccioloni contro i muri, sfondavano le reti metalliche delle finestre e venivano a morire nelle stanze.

Sulle prime si pensò alla peste. Le donne di casa erano sfinite dal tanto scopare uccelli morti, soprattutto nell’ora della siesta, e gli uomini li buttavano nel fiume a carrettate. La domenica di resurrezione, il centenario padre Antonio Isabel affermò dal pulpito che la morte degli uccelli era la conseguenza del cattivo influsso dell’Ebreo Errante, visto da lui stesso la sera prima. Lo descrisse come un ibrido di maschio caprino incrociato con femmina eretica, una bestia infernale il cui alito calcinava l’aria e la cui visita avrebbe causato alle spose novelle il concepimento di mostri. Non furono molti coloro che badarono alla sua predica apocalittica, perché il villaggio era convinto che il parroco farneticava a causa dell’età. Ma una donna svegliò tutti allo spuntare del giorno di mercoledì, perché aveva trovato delle orme di bipede con l’unghia fessa. Erano così sicure e inconfondibili che chi andò a vederle non mise in dubbio l’esistenza di una creatura spaventosa simile a quella descritta dal parroco, e si unirono per preparare trappole nei loro cortili. Fu così che riuscirono a catturarlo. Due settimane dopo la morte di Ursula, Petra Cotes e Aureliano Secondo furono svegliati di soprassalto da un mostruoso pianto di vitello che giungeva dal vicinato. Quando si alzarono, un gruppo di uomini stava già sfilando il mostro dalle picche puntute che erano state preparate nel fondo di un fosso coperto di foglie secche, e aveva smesso di muggire. Pesava come un bue, nonostante la sua statura non fosse maggiore quella di un adolescente, e dalle sue ferite sgorgava un sangue verde e untuoso. Aveva il corpo ricoperto di un pelame ruvido, fitto di zecche minute, e la pelle pietrificata da una crosta di remora, ma al contrario della descrizione del parroco, le sue parti umane erano più di angelo infermiccio che di uomo, perché le mani erano lisce e agili, gli occhi grandi e crepuscolari, e aveva sulle scapole i monconi cicatrizzati e callosi di ali potenti, che dovevano essere state troncate con asce da contadino. Lo appesero per le caviglie a un mandorlo della piazza, affinché tutti potessero vederlo, e quando cominciò a imputridire lo incenerirono in un falò, perché non si poté determinare se la sua natura bastarda fosse di animale da gettare nel fiume o di cristiano da seppellire. Non si stabilì mai se in realtà era stato per causa sua che erano morti gli uccelli, ma le spose novelle non concepirono i mostri preannunciati, e non diminuì l’intensità del caldo.

Rebeca morì alla fine di quell’anno. Argénida, che le era stata serva tutta la vita, chiese aiuto alle autorità per abbattere la porta della stanza dove la sua padrona era chiusa da tre giorni, e la trovarono nel letto solitario, acciambellata come un gambero, con la testa pelata dalla tigna e il pollice ficcato in bocca. Aureliano Secondo si prese cura dei funerali, e cercò di restaurare la casa per venderla, ma la distruzione si era così accanita su di essa che le pareti si sgretolavano non appena si finiva di imbiancarle, e non ci fu malta abbastanza grossa da impedire che la zizzania sbriciolasse i pavimenti e l’edera imputridisse i puntelli.

Tutto procedeva così fin da dopo il diluvio. L’accidia della gente contrastava con la voracità della dimenticanza che a poco a poco andava cariando spietatamente i ricordi, fino al colmo che in quei tempi, in occasione di un nuovo anniversario del trattato di Neerlandia, arrivarono a Macondo degli emissari del presidente della repubblica per consegnare finalmente la decorazione varie volte rifiutata dal colonnello Aureliano Buendia, e persero tutto un pomeriggio a cercare qualcuno che potesse indicar loro dove potevano trovare qualche discendente. Aureliano Secondo fu tentato di accettarla, credendo che la medaglia fosse d’oro massiccio, ma Petra Cotes riuscì a persuaderlo della indegnità quando già gli emissari stavano preparando bandi e discorsi per la cerimonia. In quell’epoca ricomparvero anche gli zingari, gli ultimi eredi della scienza di Melquiades, e trovarono il villaggio così a terra e i suoi abitanti così appartati dal resto del mondo, che ripresero a infilarsi nelle case esibendo ferri calamitati come se realmente fossero l’ultima scoperta dei savi babilonesi, e tornarono a concentrare i raggi solari con la lente gigantesca, e non mancò chi rimanesse a bocca aperta vedendo cadere casseruole e rotolare caldaie, e chi pagò cinquanta centavos per sbalordirsi davanti a una zingara che si toglieva e si metteva la dentiera posticcia. Uno sgangherato treno giallo con cui non arrivava né partiva mai nessuno, e che si fermava appena nella stazione deserta, era l’unica cosa che rimaneva del treno affollato al quale il signor Brown agganciava il suo vagone col tetto di vetro e le poltrone da vescovo, e dei treni della frutta di centoventi vagoni che per passare ci mettevano tutto un pomeriggio. I delegati della curia, venuti a indagare in seguito al rapporto sulla strana moria degli uccelli e sul sacrificio dell’Ebreo Errante, trovarono padre Antonio Isabel che giocava coi bambini a mosca cieca, e credendo che il suo rapporto fosse causato da un’allucinazione senile se lo portarono in un ospizio. Poco dopo mandarono padre Augusto Angel, un crociato delle nuove leve, intransigente, audace, temerario, che suonava personalmente le campane parecchie volte al giorno affinché lo spirito non illanguidisse e passava di casa in casa a svegliare i dormiglioni perché andassero a messa, ma che prima di un anno era stato vinto anche lui dalla svogliataggine che si respirava nell’aria, dalla polvere bruciante che invecchiava e bloccava ogni cosa, e dal sopore che gli provocavano le polpette del pranzo nel calore insopportabile della siesta.

Alla risorte di Ursula, la casa ricadde nell’abbandono, dal quale non l’avrebbe potuta riscattare nemmeno una volontà tanto risoluta e vigorosa quanto quella di Amaranta Ursula, che molti anni dopo, quando ormai si era fatta donna senza pregiudizi, allegra e moderna, coi piedi ben posati sul mondo, aprì porte e finestre par scacciare la rovina, restaurò il giardino, sterminò le formiche rosse che ormai vagavano in pieno giorno per il corridoio, e cercò inutilmente di risvegliare il dimenticato spirito di ospitalità. La passione claustrale di Fernanda oppose una diga insormontabile ai cent’anni torrenziali di Ursula. Non soltanto si rifiutò di aprire le porte quando terminò il vento arido, ma fece chiudere le finestre con crociere di legno, ubbidendo alla consegna paterna di seppellirsi da viva. La dispendiosa corrispondenza coi medici invisibili finì in un fallimento. Dopo numerosi rinvii, si chiuse nella sua stanza nella data e nell’ora fissate, coperta soltanto con un lenzuolo bianco e con la testa rivolta a nord, e alla una della mattina sentì che le mettevano sulla faccia un fazzoletto imbevuto in un liquido glaciale. Quando si svegliò, il sole brillava alla finestra e lei aveva una cucitura tremenda in forma di arco che cominciava vicino all’inguine e finiva sullo sterno. Ma prima che si sottoponesse al riposo prescritto ricevette una lettera sconcertata dai medici invisibili, i quali dicevano di averla frugata per sei ore senza trovare nulla che corrispondesse ai sintomi tante volte e casi scrupolosamente descritti da lei. In realtà, la sua perniciosa abitudine di non chiamare le cose col loro nome aveva originato una nuova confusione, poiché l’unica cosa che trovarono i chirurghi telepatici fu un abbassamento dell’utero che poteva correggersi con l’uso di un pessario. La disillusa Fernanda cercò di ottenere una informazione più precisa, ma i corrispondenti ignoti non risposero mai più alle sue lettere. Si sentì così oppressa dal peso di una parola che non conosceva, che decise di mettere il bavaglio alla vergogna per chiedere cosa fosse un pessario, e soltanto allora seppe che il medico francese si era appeso a una trave tre mesi prima, ed era stato seppellito contro la volontà del villaggio da un antico compagno d’armi del colonnello Aureliano Buendìa. Allora si confidò con suo figlio José Arcadio e questi le mandò i pessari da Roma, con un foglietto di spiegazioni che lei gettò nel gabinetto dopo averle imparate a memoria, in modo che nessuno avesse a conoscere la natura delle sue afflizioni. Era una precauzione inutile perché le uniche persone che vivevano nella casa le badavano appena. Santa Sofia de la Piedad vagava in una vecchiaia solitaria, cucinando quel poco che mangiavano, e quasi completamente dedicata alla cura di José Arcadio Secondo. Amaranta Ursula, erede di certe grazie di Remedios la bella, occupava nei compiti di scuola il tempo che prima perdeva a tormentare Ursula, e cominciava a dimostrare una buona dose di senno e una passione per gli studi che fecero rinascere in Aureliano Secondo le speranze che gli aveva ispirato Meme. Le aveva promesso di mandarla a finire i suoi studi a Bruxelles, in conformità a un uso che si era stabilito nei tempi della compagnia bananiera, e quella illusione lo aveva indotto a cercare di far rivivere le terre devastate dal diluvio. Le rare volte che lo si vedeva in casa, era per Amaranta Ursula, poiché col tempo si era trasformato in un estraneo per Fernanda, e il piccolo Aureliano si andava facendo ritroso e assorto a mano a mano che si avvicinava alla pubertà. Aureliano Secondo sperava che la vecchiaia addolcisse il cuore di Fernanda, di modo che il ragazzo potesse integrarsi alla vita di un villaggio dove nessuno si sarebbe certamente preso il disturbo di fare speculazioni tendenziose sulla sua origine. Ma lo stesso Aureliano sembrava preferire la clausura e la solitudine e non dimostrava la benché minima malizia per conoscere il mondo che cominciava oltre la porta di strada. Quando Ursula fece aprire la stanza di Melquiades, lui cominciò prima a percorrerla in lungo e in largo, poi a curiosare dalla porta socchiusa, e nessuno seppe in che momento finì per legarsi a José Arcadio Secondo d’un affetto ricambiato. Aureliano Secondo scoprì questa amicizia parecchio tempo dopo che era iniziata, quando sentì il bambino che parlava della carneficina della stazione. Successe un giorno in cui qualcuno si lamentò a tavola della rovina nella quale era sprofondato il villaggio quando la compagnia bananiera lo aveva abbandonato, e Aureliano lo contraddisse con una maturità e una competenza da persona adulta. Il suo punto di vista, contrario all’interpretazione generale, era che Macondo era stata un luogo prospero e i ben avviato finché non lo aveva sconvolto e corrotto e spremuto la compagnia bananiera, i cui ingegneri avevano provocato il diluvio come pretesto per eludere gli impegni coi lavoratori. Parlando così assennatamente che a Fernanda parve una parodia sacrilega della disputa di Gesù con i dottori, il ragazzo descrisse con particolari precisi e convincenti l’azione dell’esercito che aveva mitragliato più di tremila lavoratori intrappolata nella stazione, e come i cadaveri erano stati caricati su un treno di duecento vagoni e poi gettati in mare. Convinta come la maggior parte della gente della verità ufficiale che non era successo nulla, Fernanda si scandalizzò all’idea che il ragazzo avesse ereditato gli istinti anarchici del colonnello Aureliano Buendia, e gli ordinò di tacere. Aureliano Secondo, invece, riconobbe la versione del suo fratello gemello. In realtà, malgrado tutti lo considerassero pazzo, José Arcadio Secondo era in quei tempi l’abitante più lucido della casa. Insegnò al piccolo Aureliano a leggere e a scrivere, lo iniziò nello studio delle pergamene, e gli inculcò una interpretazione così personale di quello che era stata per Macondo la compagnia bananiera che molti anni dopo, quando Aureliano fece il suo ingresso nel mondo, tutti avrebbero pensato che raccontava una storia delirante, perché la sua versione era radicalmente contraria a quella falsa che gli storici avevano accolto per buona e consacrata nei testi scolastici. Nella stanzetta appartata, dove non era mai arrivato il vento arido, né la polvere, né il caldo, entrambi si ricordavano della visione atavica di un vecchio col cappello ad ali di corvo che parlava del mondo dando di spalle alla finestra, molti anni prima che loro nascessero. Ambedue scoprirono che lì era sempre marzo e sempre lunedì, e allora capirono che José Arcadio Buendia non era così pazzo come raccontava la famiglia, ma che era invece l’unico provvisto di sufficiente saggezza da intravedere la verità che anche il tempo subiva inciampi e incidenti, e poteva pertanto scheggiarsi e lasciare in una stanza una frazione eternizzata. José Arcadio Secondo era riuscito inoltre a classificare le lettere criptiche delle pergamene. Era sicuro che corrispondevano a un alfabeto da quarantasette a cinquantatré caratteri, che separati sembravano ragnetti e sgorbi, e che nella accurata calligrafia di Melquiades parevano biancheria messa ad asciugare su un filo di ferro. Aureliano si ricordava di aver visto una tavola simile sull’enciclopedia inglese, e la portò nella stanza per confrontarla con quella di José Arcadio Secondo. Infatti erano uguali.

Nell’epoca in cui gli venne in mente di organizzare la lotteria con gli indovinelli, Aureliano Secondo si svegliava con un nodo alla gola, come se stesse reprimendo la voglia di piangere. Petra Cotes lo interpretò come uno dei tanti malanni provocati dalla cattiva situazione, e tutte le mattine, per più di un anno, gli spennellava il palato con uno stecco intinto in miele d’api e gli dava sciroppo di rafano. Quando il nodo alla gola gli si fece così opprimente che faticava a respirare, Aureliano Secondo andò a trovare Pilar Ternera per sapere se lei conoscesse qualche erba alleviante. La incrollabile nonna, che era arrivata ai cent’anni alla testa di un piccolo bordello clandestino non prese in considerazione le superstizioni terapeutiche, ma preferì consultare le carte. Vide il fante di denari con la gola ferita dal ferro del fante di spade, e ne dedusse che Fernanda stava cercando di far torna re il marito a casa mediante lo screditato sistema di conficcare spilli nel suo ritratto, ma che a causa di una maldestra applicazione delle sue arti malvage gli aveva provocato un tumore interno. Dato che Aureliano Secondo non aveva altri ritratti che quello delle sue nozze, e le copie erano tutte nell’album di famiglia, continuò a cercare per tutta la casa di nascosto da sua moglie, e alla fine trovò in fondo all’armadio mezza dozzina di pessari nelle loro scatoline originali. Credendo che i rossi anellini di gomma fossero oggetti di stregoneria, se ne mise uno in tasca per farlo vedere Pilar Ternera. Lei non poté determinarne la natura, ma le parve così sospetta, che in ogni modo si fece portar la mezza dozzina e la bruciò in un falò che accese nel patio. Per scongiurare il presunto maleficio di Fernanda, suggerì ad Aureliano Secondo di bagnare una gallinella chioccia e di sotterrarla viva sotto il castagno, e lui lo fece con tanta buonafede, che quando fini di dissimulare con foglie secche la terra rimossa, sentiva già di poter respirare meglio. Da parte sua, Fernanda interpretò la sparizione come una rappresaglia dei medici invisibili, e si cucì nella parte interna della sottana una tasca, nella quale conservò i pessari nuovi che le mandò suo figlio.

Sei mesi dopo il seppellimento della gallina, Aureliano Secondo si svegliò a mezzanotte con un accesso di tosse, e sentendo che lo strangolavano da dentro con pinze di granchio. Fu allora che capì che per quanti pessari magici distruggesse e per quante galline da scongiuro seppellisse, l’unica e triste verità era che stava per andarsene. Non lo disse a nessuno. Tormentate dal timore di morire senza poter mandare Amaranta Ursula a Bruxelles, lavorò come mai aveva fatto, e invece di una fece tre riffe alla settimana. Lo si vedeva percorrere il villaggio fin dalle prime ore del giorno, perfino nei rioni più lontani e miserevoli, cercando di vendere i bigliettini con un’ansietà che poteva essere concepibile soltanto in un moribondo. “Ecco la Divina Provvidenza,” annunciava. “Non ve la lasciate scappare, perché arriva una sola volta ogni cent’anni.” Faceva sforzi commoventi per sembrare allegro, simpatico, loquace, ma bastava vedergli il sudore e il pallore per sapere che teneva l’anima coi denti. Certe volte deviava per terreni incolti, dove nessuno lo potesse vedere, e si sedeva un momento a riposare dalle fitte che lo straziavano dentro A mezzanotte era ancora nel rione di tolleranza, cercando di consolare con pronostici di buona fortuna le donne solitarie che singhiozzavano vicino ai fonografi. “Questo numero non esce da quattro mesi,” diceva loro, mostrando i bigliettini. “Non lasciartelo scappare, ché la vita è più breve di quello che si crede.” Finirono per perdergli il rispetto, per burlarsi di lui, e nei suoi ultimi mesi non gli davano ormai più del don Aureliano, come avevano sempre fatto, ma lo chiamavano sfacciatamente don Divina Provvidenza. La voce gli si andava riempiendo di note false, gli si offuscò a poco a poco e finì per spegnersi in un ronfio da cane, ma ebbe ancora la forza di far sì che non decadesse l’attesa per i premi nel patio di Petra Cotes. Tuttavia, a mano a mano che la voce gli si affievoliva e si accorgeva che avrebbe potuto sopportare il dolore ancora per poco, cominciava a capire che non era con maiali e capri riffati che sua figlia sarebbe arrivata a Bruxelles, di modo che concepì l’idea di fare la favolosa riffa delle terre distrutte dal diluvio, che potevano essere egregiamente restaurate da chi fosse fornito di capitale. Fu una iniziativa così spettacolare, che lo stesso alcalde si prestò ad annunciarla con un bando, e si formarono società per comperare biglietti a cento pesos l’uno, che si esaurirono in meno di una settimana. La sera della riffa, i vincitori fecero una festa straordinaria, paragonabile appena a quelle dei bei tempi della compagnia bananiera, e Aureliano Secondo suonò con la fisarmonica per l’ultima volta le canzoni dimenticate di Francisco el Hombre, ma ormai non ce la faceva più a cantarle. Due mesi dopo, Amaranta Ursula se ne andò a Bruxelles. Aureliano Secondo le consegnò non solo il denaro della riffa straordinaria, ma anche quello che era riuscito ad economizzare nei mesi precedenti, e i pochi soldi che aveva ottenuto dalla vendita della pianola, del clavicembalo e delle altre cianciafruscole cadute in disgrazia. Fernanda si oppose al viaggio fino all’ultimo momento, scandalizzata dall’idea che Bruxelles fosse così vicina alla perdizione di Parigi, ma poi si calmò con una lettera che le diede padre Angel per una pensione di giovani cattoliche diretta da religiose, dove Amaranta Ursula promise di vivere fino al termine dei suoi studi. Inoltre, il parroco riuscì a far sì che viaggiasse sotto la tutela di un gruppo di francescane dirette a Toledo, dove speravano di trovare gente di fiducia per mandarla in Belgio. Mentre si intrecciava la sollecita corrispondenza che rese possibile questo coordinamento, Aureliano Secondo, aiutato da Petra Cotes, si occupò del bagaglio di Amaranta Ursula. La sera in cui prepararono uno dei bauli nuziali di Fernanda, le cose erano così ben sistemate che la studentessa sapeva a memoria quali erano i vestiti e le babbucce di velluto coi quali doveva fare la traversata dell’Atlantico, e il cappotto di panno blu con bottoni di rame, e le scarpe di marocchino coi quali doveva sbarcare. Sapeva anche come doveva camminare per non cadere nell’acqua quando fosse salita a bordo lungo la passerella, che non doveva separarsi per nessuna ragione dalle monache né uscire di cabina se non per andare a mangiare, e che per nessun motivo doveva rispondere alle domande che gli sconosciuti di qualsiasi sesso le dovessero fare in alto mare. Aveva con sé una boccettina con gocce per il mal di mare e un quaderno con sei orazioni composte personalmente da padre Angel e scritte di suo pugno per scongiurare la burrasca. Fernanda le confezionò una fascia di tela dove poter nascondere il denaro, e le insegnò il modo di portarla intorno al corpo, di modo che non avesse bisogno di levarsela nemmeno per dormire. Cercò di regalarle il pitale di oro lavato con lisciva e disinfettato con alcool, ma Amaranta Ursula lo rifiutò per paura che le sue compagne di collegio si burlassero di lei. Pochi mesi dopo, nell’ora della morte, Aureliano Secondo l’avrebbe ricordata come la vide per l’ultima volta, mentre cercava di abbassare senza riuscirvi il finestrino polveroso del vagone di seconda classe, per ascoltare le ultime raccomandazioni di Fernanda. Portava un vestito di seta rosa con un mazzolino di viole del pensiero artificiali sull’allacciatura della spalla sinistra; le scarpe di marocchino con fibbia e tacco basso, e le calze satinate con gli elastici ai polpacci. Il corpo minuto, i capelli sciolti e lunghi e gli occhi vivaci erano quelli di Ursula alla sua età, e il modo con cui si accomiatava senza piangere ma senza sorridere, rivelava la stessa forza d’animo. Camminando accanto al vagone mentre il treno si metteva in moto, e tenendo Fernanda per il braccio perché non inciampasse, Aureliano Secondo riuscì appena a rispondere con un saluto della mano, quando la figlia gli mandò un bacio con la punta delle dita. La coppia rimase immobile sotto il sole incandescente, guardando il treno che si confondeva a poco a poco col punto nero dell’orizzonte, e sottobraccio per la prima volta dal giorno delle nozze.

Il nove di agosto, quando ancora non era arrivata la prima lettera da Bruxelles, José Arcadio Secondo chiacchierava con Aureliano nella stanza di Melquiades, e senza che c’entrasse per niente, disse:

“Ricordati sempre che erano più di tremila e che li hanno gettati in mare.”

Poi stramazzò sulle pergamene, e morì ad occhi aperti. In quello stesso istante, nel letto di Fernanda, il suo fratello gemello giunse alla fine del prolungato e terribile martirio dei granchi di ferro che gli avevano roso la gola. Una settimana prima era tornato a casa, senza voce, senza fiato e ridotto quasi alle sole ossa, coi suoi bauli da transumante e la sua fisarmonica da vagabondo, per mantenere la promessa di morire a canto a sua moglie. Petra Cotes lo aiutò a raccogliere la sua roba e gli disse addio senza spargere una lacrima ma si dimenticò di dargli le scarpe di vernice che lui voleva portare nella bara. Di modo che quando seppe che era morto, si vestì di nero, avvolse gli stivaletti in un giornale, e chiese a Fernanda il permesso di vedere il cadavere. Fernanda non la lasciò passare dalla porta.

“Si metta nei miei panni,” supplicò Petra Cotes, “Immagini quanto gli devo aver voluto bene per sopportare questa umiliazione.”

“Non c’è umiliazione che valga per una concubina,” ribatté Fernanda. “Aspetti quindi che muoia un altro dei tanti per mettergli quegli stivaletti.”

Per mantenere la sua promessa, Santa Sofia de la Piedad sgozzò con un coltello da cucina il cadavere di José Arcadio Secondo per essere certa che non lo seppellissero vivo. I corpi furono messi in due bare uguali e allora si vide che tornavano ad essere identici nella morte, come lo erano stati fino all’adolescenza. I vecchi compagni di baldoria di Aureliano Secondo misero sulla sua cassa una corona con un nastro viola su cui era scritto: Scostatevi, vacche, che la vita è breve. Fernanda fu così irritata da quella insolenza, che fece buttare la corona nella spazzatura. Nella confusione dell’ultima ora, gli avvinazzati tristi che li portarono via dalla casa confusero le bare e li seppellirono in tombe scambiate.

Aureliano non lasciò per parecchio tempo la stanza di Melquiades. Imparò a memoria le leggende fantastiche del libro squinternato, la sintesi degli studi di Hermann il paralitico; gli appunti sulla scienza demonologica, le chiavi della pietra filosofale, le centurie di Nostradamus e le sue indagini sulla peste, di modo che giunse all’adolescenza senza saper nulla della sua epoca, ma con le nozioni fondamentali dell’uomo medievale. A qualsiasi ora entrasse nella stanza, Santa Sofia de la Piedad lo trovava assorto nella lettura. Gli portava allo spuntare del giorno una scodella di caffè senza zucchero, e a mezzogiorno un piatto di riso con fette di banana fritta, che era l’unica cosa che si mangiasse in casa dopo la morte di Aureliano Secondo. Si preoccupava di tagliargli i capelli, di toglierli le lendini, di adattargli la roba vecchia che trovava in bauli dimenticati, e quando cominciarono a spuntargli i baffi gli portò il rasoio a mano libera e la tazza per il ranno del colonnello Aureliano Buendìa. Nessuno dei figli del colonnello gli somigliò tanto quanto quel bastardo, nemmeno Aureliano José, soprattutto per via degli zigomi pronunciati, e per la linea risoluta e un poco sprezzante delle labbra. Come era successo a Ursula con Aureliano Secondo quando questi studiava nella stanza, Santa Sofia de la Piedad credeva che Aureliano parlasse da solo. In realtà, chiacchierava con Melquiades. In un mezzogiorno infocato, poco dopo la morte dei gemelli, vide contro il riverbero della finestra il vecchio lugubre col cappello ad ali di corvo, come la materializzazione di un ricordo che era nella sua memoria fin da molto tempo prima di nascere. Aureliano aveva terminato di classificare l’alfabeto delle pergamene. E così, quando Melquiades gli chiese se aveva scoperto in che lingua erano scritte, lui non esitò a rispondere;

“In sanscrito.”

Melquiades gli rivelò che le sue possibilità di tornare nella stanza erano contate. Ma se ne andava tranquillo nelle praterie della morte ultima, perché Aureliano aveva il tempo di imparare il sanscrito ne gli anni che mancavano prima che le pergamene compissero un secolo e potessero essere decifrate. Fu lui che lo informò che nella viuzza che finiva sul fiume, e dove all’epoca della compagnia bananiera si indovinava futuro e si interpretavano i sogni, un savio catalano aveva un negozio di libri dove c’era un Sanskrit Primer che sarebbe stato divorato dalle tarme sei anni dopo se lui non si fosse affrettato a comprarlo. Per la prima volta nella sua lunga vita Santa Sofia de la Piedad lasciò trapelare un sentimento, e era un sentimento di stupore, quando Aureliano le chiese di portargli il libro che avrebbe trovato tra la Gerusalemme Liberata e i poemi di Milton, nell’estremità destra del secondo piano degli scaffali. Dato che non sapeva leggere, imparò a memoria la chiacchierata, e si procurò i soldi vendendo uno dei diciassette pesciolini d’oro che restavano nel laboratorio. Soltanto lei e Aureliano sapevano dove erano andati a finire la notte in cui soldati avevano perquisito la casa.

Aureliano progrediva negli studi del sanscrito, mentre Melquiades andava facendosi sempre meno assiduo e sempre più lontano, sfumandosi nel chiarore radiante del mezzogiorno. L’ultima volta che Aureliano lo sentì era appena una presenza invisibile che mormorava: “Sono morto di febbre nelle sirti di Singapore.” La stanza divenne allora vulnerabile alla polvere, al caldo, al tarlo, alle for miche rosse, alle tarme che avrebbero trasformato in segatura la saggezza dei libri e delle pergamene.

Nella casa non mancava da mangiare. Il giorno dopo la morte di Aureliano Secondo, uno degli amici che avevano portato la corona con la scritta irriverente si offrì di pagare a Fernanda una somma che doveva da tempo a suo marito. A partire da quel momento, un fattorino portava ogni mercoledì un canestro di roba da mangiare, che era più che sufficiente per una settimana. Nessuno seppe mai che quelle vettovaglie le mandava Petra Cotes, con l’idea che la carità continuata fosse un modo di umiliare colei che l’aveva umiliata. Tuttavia molto prima di quanto lei stessa sperava le svani il rancore e allora continuò a mandare il cibo per orgoglio e alla fine per compassione. Parecchie volte, quando le mancavano le forze per vendere i bigliettini e la gente non si interessava più alle riffe, rimase lei senza mangiare per dar da mangiare a Fernanda, e non smise di mantenere quell’impegno finché non vide passare il suo funerale.

Per Santa Sofia de la Piedad la riduzione degli abitanti della casa avrebbe dovuto rappresentare il riposo al quale aveva diritto dopo più di mezzo secolo di lavoro. Non si era mai sentito un lamento da quella donna riservata, impenetrabile, che aveva seminato nella famiglia i germi angelici di Remedios la bella, e la misteriosa solennità di José Arcadio Secondo, che aveva consacrato tutta una vita di solitudine e di silenzio all’allevamento di qualche bambino che neanche più si ricordava di esserle figlio o nipote, e che si era occupata di Aureliano come se fosse uscito dalle sue viscere, senza nemmeno sapere di essergli bisnonna. Solo in una casa come quella era concepibile che avesse dormito sempre su una stuoia che stendeva sul pavimento del granaio, tra lo strepito notturno dei topi, e senza aver raccontato a nessuno che una notte si era svegliata con la paurosa sensazione di qualcuno che la stava guardando nel buio, ed era una vipera che le scivolava sul ventre. Lei sapeva che se l’avesse raccontato a Ursula questa l’avrebbe messa a dormire nel suo stesso letto, ma erano i tempi in cui nessuno si accorgeva di nulla a meno di non urlarlo nel portico, perché col daffare che dava il forno, i sussulti della guerra, l’allevamento dei bambini, non restava tempo per pensare alla felicità altrui. Petra Cotes, che non aveva mai visto, era l’unica che si ricordava di lei. Badava che avesse un buon paio di scarpe per uscire, che non le mancasse mai un vestito, anche nei tempi in cui facevano salti mortali coi soldi delle riffe. Quando Fernanda arrivò nella casa ebbe motivo di credere che fosse una serva eternata, e benché avesse sentito dire parecchie volte che era la madre di suo marito, la cosa le sembrava cosa incredibile che faceva più fatica a saperlo che a dimenticarlo. Santa Sofia de la Piedad non parve prendersela mai per quella condizione di subalterna. Al contrario, si aveva l’impressione che le piacesse darsi da fare, senza un minuto di requie, senza una rimostranza, mantenendo ordinata e pulita l’immensa casa dove aveva vissuto fin dall’adolescenza e che soprattutto nei tempi della compagnia bananiera sembrava più una caserma che una dimora. Ma quando morì Ursula, la diligenza inumana di Santa Sofia de la Piedad, la sua tremenda capacità di lavoro, cominciarono a incrinarsi. Non tanto perché era vecchia e sfinita, ma perché la casa crollò dalla sera alla mattina in una crisi di senilità. Un musco soffice si arrampicò sui muri. Quando non ci fu più una zona libera nel patio, le erbacce spezzarono dal di sotto il pavimento del portico, lo scheggiarono come un vetro, e sbucarono dalle crepe gli stessi fiorellini gialli che quasi un secolo prima aveva trovato Ursula nel bicchiere dove era la dentiera posticcia di Melquiades. Senza né tempo né mezzi per impedire la prepotenza della natura, Santa Sofia de la Piedad passava le giornate nelle stanze a scacciare le lucertole che sarebbero ritornate di notte. Una mattina vide che le formiche rosse uscivano dalle fondamenti scalzate, attraversavano il giardino, salivano sul parapetto dove le begonie avevano preso un colore terroso, ed entravano fino in fondo alla casa. Cercò dapprima di ucciderle con una scopa, poi con l’insetticida, e per ultimo con la calce, ma il giorno dopo erano ancora nello stesso luogo, sempre in moto, tenaci e invincibili. Fernanda, nello scrivere lettere ai suoi figli, non si rendeva conto dell’aggressione inarrestabile della distruzione. Santa Sofia de la Piedad continuò a lottare da sola, combattendo contro l’erbaccia perché non invadesse la cuc ina, strappando dai muri bioccoli di ragnatele che si riproducevano in poche ore, raspando il tarlo. Ma quando vide che anche la stanza di Melquiades era ragnatelata e polverosa, anche se la scopava e spolverava tre volte al giorno, e che nonostante la sua furia sbrattatrice era minacciata dalla rovina e dall’aspetto di miseria che soltanto il colonnello Aureliano Buendìa e il giovane militare avevano previsto, capì d’essere sconfitta. Allora indossò il consueto abito della domenica, si mise un pa io di vecchie scarpe di Ursula e un paio di calze di cotone che le aveva regalato Amaranta Ursula, e fece un fagottello con i due o tre ricambi che le restavano.

“Mi arrendo,” disse a Aureliano. “Questa casa è troppo per le mie povere ossa.”

Aureliano le chiese dove sarebbe andata, e lei fece un gesto vago, come se non avesse la minima idea della sua meta. Cercò di precisare, tuttavia, che sarebbe andata a passare i suoi ultimi anni da una cugina prima che viveva a Riohacha. Non era una spiegazione verosimile. Dalla morte dei suoi genitori, non aveva avuto rapporti con nessuno, nel villaggio, né aveva ricevuto lettere o messaggi, né aveva mai parlato di parenti. Aureliano le diede quattordici pesciolini d’oro, perché lei era disposta ad andarsene con tutto quello che aveva: un peso e venticinque centavos. Dalla finestra della stanza, lui la vide attraversare il patio col suo fagottello di roba, strascicando i piedi e inarcata dagli anni, e la vide infilare la mano in un foro del portone per assicurare il saliscendi dopo essere uscita. Non si seppe più nulla di lei.

Quando venne a sapere della fuga, Fernanda vaneggiò per una giornata intera, mentre controllava bauli, cassettoni e armadi, ogni cosa, per convincersi che Santa Sofia de la Piedad non se l’era data a gambe con qualcosa. Si bruciò le dita cercando di accendere i fuoco per la prima volta in vita sua, e dovette chiedere a Aureliano il favore di insegnarle a preparare il caffè. Col tempo, fu lui ad occuparsi delle faccende di cucina. Quando si alzava, Fernanda trovava la colazione. servita, e tornava ad uscire dalla stanza solo per prendere il cibo che Aureliano le lasciava coperto sul focolare, e che lei portava a tavola per mangiarlo su tovaglie di lino e tra candelabri, seduta a un posto d’onore solitario all’estremità di quindici sedie vuote. Anche in quelle circostanze, Aureliano e Fernanda non divisero la solitudine, ma continuarono a vivere ciascuno nella sua, badando alle pulizie delle loro rispettive stanze mentre le ragnatele infioccavano i rosai, tappezzavano le travi, imbottivano le pareti. Fu in quell’epoca Fernanda ebbe l’impressione che la casa si stesse riempiendo di spiriti. Era come se gli oggetti, soprattutto quelli di uso quotidiano, avessero sviluppato la facoltà di cambiare di posto coi loro stessi mezzi. Fernanda perdeva un mucchio di tempo a cercare le forbici che era sicura di aver messo sul letto e, dopo aver buttato per aria ogni cosa, le trovava su uno scaffale della cucina, dove credeva di non essere stata da quattro giorni. Improvvisamente non c’era più nemmeno una forchetta nel cassetto delle posate, e ne trovava sei sull’altare e tre nel lavandino. Quel girovagare delle cose era ancor più esasperante quando si sedeva a scrivere. Il calamaio che metteva a destra riappariva a sinistra, il foglio di carta asciugante spariva, e lo trovava due giorni dopo sotto il cuscino, e le pagine scritte a José Arcadio si confondevano con quelle di Amaranta Ursula, e la affliggeva sempre la mortificazione di aver messo le lettere in buste scambiate, come in effetti le successe parecchie volte. Una volta perse la penna. Quindici giorni dopo gliela restituì il postino che se l’era trovata nella borsa, e ne andava cercando il padrone di casa in casa. Sulle prime, Fernanda credette che fosse colpa dei medici invisibili come la sparizione dei pessari, e cominciò perfino a scriver loro una lettera per supplicarli che la lasciassero in pace, ma, costretta a interromperla per fare qualcosa; quando tornò nella stanza non soltanto non trovò più la lettera cominciata, ma si dimenticò perfino dell’intenzione di scriverla. Per qualche tempo pensò che fosse Aureliano. Si mise a sorvegliarlo, a mettere oggetti sul suo passaggio cercando di sorprenderlo nel momento in cui li cambiava di posto, ma ben presto si convinse che Aureliano non usciva dalla stanza di Melquìades se non per andare in cucina o al gabinetto, e che non era uomo da burle. Di modo che finì per credere che fossero birbonate di spiriti, e decise di assicurare ogni cosa al luogo dove doveva usarla. Legò le forbici con una lunga funicella alla testiera del letto. Assicurò la penna e il foglio di carta asciugante alla gamba del letto, e appiccicò con la colla il calamaio ai tavolo, alla destra del luogo dove usava scrivere. I problemi non si risolsero da un giorno all’altro, poiché già dopo poche ore di cucitura la funicella delle forbici non le consentiva di tagliare, come se gli spiriti la andassero accorciando a poco a poco. Le succedeva lo stesso con la funicella della penna e perfino col suo stesso braccio, che dopo poco tempo dall’inizio della lettera non riusciva più a raggiungere il calamaio. Né Amaranta Ursula a Bruxelles, ne José Arcadio a Roma, furono mai messi a conoscenza di questi insignificanti infortuni. Fernanda scriveva loro che era felice, e in effetti lo era, proprio perché si sentiva sollevata da qualsiasi impegno, come se la vita l’avesse trascinata di nuovo verso il mondo dei suoi genitori, dove non si soffrivano problemi quotidiani perché erano risolti anticipatamente nella fantasia. Quella corrispondenza interminabile le fece perdere il senso del tempo, soprattutto dopo che se ne andò Santa Sofia de la Piedad. Si era abituata a contare i giorni, i mesi e gli anni, prendendo come punto di riferimento le date previste per il ritorno dei figli. Ma quando questi spostarono i termini di volta in volta, le date le si confusero, le scadenze le si mescolarono, le giornate somigliarono tanto l’una all’altra, che le avvertiva trascorrere. Invece di spazientirsi, provava un profondo compiacimento per la dilazione. Non la quietava il fatto che parecchi anni dopo averle annunciato di essere in procinto di prendere i voti perpetui, José Arcadio continuasse a dirle che sperava di terminare i suoi studi di alta teologia per intraprendere quelli di diplomazia, perché lei capiva che era assai lunga disseminata di ostacoli la scala a chiocciola che portava alla sedia di San Pietro. In cambio, lo spirito le si esaltava per notizie che per altri sarebbero state insignificanti, come quella che suo figlio aveva visto il Papa. Provò una gioia simile quando Amaranta Ursula le mandò a dire che i suoi studi si prolungavano più del tempo previsto, perché i suoi eccellenti voti le avevano fato meritare dei privilegi che suo padre non aveva preso in considerazione al momento di fare i conti.

Erano trascorsi più di tre anni da che Santa Sofia de la Piedad gli aveva portato la grammatica, quando Aureliano riuscì a tradurre il primo foglio. Non fu un lavoro inutile ma era appena un primo passo su una strada la cui lunghezza era impossibile prevedere, perché il testo in spagnolo non significava nulla: erano versi cifrati. Ad Aureliano mancavano gli elementi per scoprire, le chiavi che gli avrebbero permesso di sviscerarli, ma, dato che Melquiades gli aveva detto che nel negozio del savio catalano c’erano i libri di cui avrebbe avuto bisogno per comprendere le pergamene, decise di parlare, con Fernanda per farsi dare il permesso di andare a cercarli. Nella stanza divorata dai rottami, la cui proliferazione incontenibile ave va finito per sconfiggerlo, pensava al modo più opportuno di formulare la richiesta, si anticipava alle circostanze, calcolava l’occasione più propizia, ma quando si imbatteva in Fernanda che ritirava il suo pranzo dalle braci, che era l’unica opportunità per poterle parlare, l’istanza laboriosamente premeditata non gli usciva dalle labbra, e perdeva la voce. Fu quella l’unica volta che la spiò. Curava i suoi passi nella stanza da letto. La sentiva andare fino alla porta per ricevere le lettere dei suoi figli e per consegnare le sue al postino, e ascoltava fino a notte tarda il raschio duro e appassionato della penna sulla carta, prima di sentire il rumore dell’interruttore e il mormorio delle orazioni nel buio. Soltanto allora prendeva sonno, fiducioso che il giorno seguente gli avrebbe presentato l’occasione sperata. Si illuse tanto che il permesso non gli sarebbe stato negato che una mattina si tagliò i capelli che gli scendevano sulle spalle, si rase la barba arruffata, si infilò dei pantaloni stretti e una camicia col colletto posticcio che non sapeva da chi aveva ereditato, e aspettò in cucina che Fernanda venisse a far colazione. Non arrivò la donna di tutti i giorni, la donna col capo eretto e il portamento rigido, ma una vecchia di una bellezza soprannaturale, con una cappa di ermellino ingiallito, una corona di cartone dorato, e il fare languido di chi ha pianto in segreto. In realtà, da quando lo aveva trovato nei bauli di Aureliano Secondo, Fernanda aveva indossato parecchie volte il tarlato vestito da regina. Chiunque l’avesse vista davanti allo specchio, a estasiarsi dei propri atteggiamenti monarchici, avrebbe potuto pensare che fosse pazza. Ma non lo era. Non aveva fatto altro che trasformare le insegne regali in una macchina per ricordare. La prima volta che le indossò non riuscì a evitare che le si formasse un nodo nel cuore e che gli occhi le si riempissero di lacrime, perché in quell’attimo tornò a percepire l’odore di lucido degli stivali dei militare che era venuto a cercarla nella sua casa per farla regina, e lo spirito le si cristallizzò nella nostalgia dei sogni perduti. Si sentì così vecchia, così sfinita, così distante dalle ore migliori della sua vita, che dimenticò perfino quelle che ricordava come le peggiori, e soltanto allora scoprì quanto le mancavano le folate di origano nel porticato, e il vapore dei rosai al crepuscolo, e perfino la natura bestiale degli avventizi. Il suo cuore di cenere compressa, che aveva resistito senza vacillare ai colpi più pungenti della realtà quotidiana, crollò ai primi assalti della nostalgia. La necessità di sentirsi triste si andava trasformando in lei in un vizio a mano a mano che la devastavano gli anni. Si umanizzò nella solitudine. Tuttavia, il mattino in cui entrò nella cucina e si trovò davanti a una tazza di caffè che le offriva un adolescente ossuto e pallido, con un bagliore allucinato nello sguardo, la lacerò la zampata del ridicolo. Non soltanto gli rifiutò il permesso, ma da allora conservò le chiavi di casa nella borsa dove conservava i pessari non ancora usati. Era una precauzioni inutile, perché, se lo avesse voluto, Aureliano sarebbe potuto scappare e perfino tornare a casa senza essere visto. Ma la prolungata clausura, l’incertezza del mondo, l’abitudine di ubbidire, avevano inaridito nel suo cuore i semi della ribellione. Di modo che tornò nella su clausura, a sfogliare e risfogliare le pergamene, e a ascoltare fino a notte fonda i singhiozzi di Fernanda nella sua stanza da letto. Una mattina andò come al solito ad accendere il fuoco, e trovò sulle ceneri spente il cibo che aveva lasciato per lei il giorno prima. Allora si affacciò nella camera, e la vide distesa sul letto, coperte con la cappa di ermellino, più bella che mai, e con la pelle trasformata in una maschera d’avorio. Quattro mesi dopo, quando arrivò José Arcadio, la trovò intatta.

Era impossibile concepire uomo più simile a sua madre. Indossava un abito di luttuoso taffettà, una camicia col colletto rotondo e duro, e un sottile nastro seta con un fiocco, invece della cravatta. Era livido, languido, con lo sguardo attonito e le labbra deboli. I capelli neri, lucidi e lisci, divisi nel mezzo del cranio da una linea retta ed esangue, avevano lo stesso aspetto posticcio dei capelli dei santi. L’ombra della barba accuratamente rasa sul viso di paraffina sembrava un affare di coscienza. Aveva le mani pallide, con nervature verdi e dita parassitarie, e un anello d’oro massiccio con un opale girasole, rotondo, sull’indice sinistro. Quando gli aprì la porta di strada, Aureliano non avrebbe avuto bisogno di supporre chi era per rendersi conto che arrivava da molto lontano. La casa si impregnò al suo passaggio della fragranza di acqua di lavanda che Ursula gli metteva in testa quando era bambino, per poterlo reperire nelle tenebre. In un certo modo impossibile da precisare, dopo tanti anni di assenza, José Arcadia era rimasto un bambino autunnale, terribilmente triste e solitario. Andò direttamente nella stanza di sua madre, dove Aureliano aveva vaporizzato mercurio per quattro mesi nell’atanor del nonno di suo nonno, per conservare il corpo secondo la formula di Melquiades. José Arcadio non fece alcuna domanda. Posò un bacio sulla fronte del cadavere, gli tolse da sotto la sottana la tasca dove c’erano ancora tre pessari non ancora usati, e la chiave dell’armadio. Faceva ogni cosa con gesti diretti e discreti, che contrastavano con la sua languidezza. Tolse dall’armadio un cofanetto damaschinato con lo scudo di famiglia, e trovò nell’interno profumato di sandalo la lettera voluminosa nella quale Fernanda aveva sfogato il suo cuore dalle innumerevoli verità che gli aveva nascosto. La lesse in piedi, con avidità ma senza ansia, e alla terza pagina si fermò, e esaminò Aureliano con uno sguardo da seconda indagine.

“Allora,” disse con una voce che aveva un che di tagliente, da rasoio, “tu sei il bastardo.”

“Sono Aureliano Buendìa.”

“Vattene nella tua stanza,” disse José Arcadia.

Aureliano se ne andò, e non ne uscì nemmeno per curiosità quando udi i rumori del funerale solitario. Certe volte, dalla cucina, vedeva José Arcadio che gironzolava per la casa strozzato nel suo ansimare affannoso, e continuava ad ascoltare i suoi passi per le stanze in rovina dopo mezzanotte. Non udì la sua voce per parecchi mesi, non solo perché José Arcadio non gli rivolgeva la parola, ma perché lui non desiderava che ciò succedesse, né aveva tempo di pensare ad altro che non fosse le pergamene. Alla morte di Fernanda, aveva preso il penultimo pesciolino ed era andato nella libreria del savio catalano, in cerca dei libri di cui aveva bisogno. Non gli interessò nulla di quello che vide sul percorso, forse perché mancava di ricordi per fare i confronto, e le strade deserte e le case desolate erano uguali a come le aveva immaginate in un tempo in cui avrebbe dato l’anima per conoscerle. Aveva concesso a se stesso il permesso che gli aveva rifiutato Fernanda; e solo per una volta, con un obiettivo unico e per il minimo tempo indispensabile, e così percorse senza soste gli undici isolati che separavano la casa dalla viuzza dove prima si interpretavano i sogni, ed entrò ansimando nel multicolore e oscuro locale dove c’era a malapena spazio per muoversi. Più che una libreria quella sembrava un mondezzaio di libri usati, collocati in dis ordine negli scaffali intaccati dal tarlo, negli angoli melassati di ragnatele, e anche negli spazi che dovevano essere destinati alle corsie. Su un lungo tavolo, pure oppresso da scartafacci, il proprietario scriveva una prosa instancabile, con una calligrafia violacea, un po’ delirante, e su fogli sciolti di quaderno scolastico. Aveva una bella capigliatura d’argento che gli sporgeva sulla fronte come il pennacchio di un cacatua, e i suoi occhi azzurri, vivaci e piccoli, rivelavano la mansuetudine dell’uomo che ha letto tutti i libri. Era in mutande, inzuppato di sudore, e non tralasciò la scrittura per vedere chi era arrivato. Aureliano non ebbe difficoltà a ricuperare in mezzo a quel disordine da favola i cinque libri che cercava, perché erano nel luogo esatto che gli aveva indicato Melquiades. Senza dire una parola, li consegnò insieme al pesciolino d’oro al savio catalano, e questi li esaminò, e le sue palpebre si contrassero come due arselle. “Devi essere pazzo,” disse nella sua lingua, alzando le spalle, e restituì a Aureliano i cinque libri e il pesciolino.

“Pòrtateli via, disse in spagnolo. “L’ultimo uomo che ha letto quei libri deve essere stato Isaac il Cieco, e dunque pensa bene a quello che fai.”

José Arcadio restaurò la stanza da letto di Meme, fece rammendare e pulire le tende di velluto e il damasco del baldacchino del letto vicereale, e mise di nuovo in funzione il bagno abbandonato, la cui cisterna di cemento era annerita da una scoria fibrosa e aspra. A questi due luoghi si ridusse il suo impero di paccottiglia, di consunti generi esotici, di profumi falsi e di pietreria a buon mercato. L’unica cosa che sembrò turbarlo nel resto della casa furono i santi dell’altare domestico, che un pomeriggio bruciò fino a ridurli in cenere, in un falò che accese nel patio. Dormiva fino a dopo le undici. Andava nel bagno con una sfilacciata tunica a draghi dorati e delle babbucce con nappine gialle, e lì ufficiava un rito che per la sua parsimonia e durata ricordava quello di Remedios la bella. Prima di fare il bagno, aromatizzava la cisterna con sali che portava con sé in tre bocce alabastrate. Non si faceva abluzioni con la zucca, ma si tuffava nelle acque fragranti, e rimaneva perfino due ore a galleggiare supino, assopito dal fresco e dal ricordo di Amaranta. Pochi giorni dopo il suo arrivo sostituì il vestito di taffettà, che oltre a essere troppo caldo per il villaggio era l’unico che aveva, per dei pantaloni attillati, molto simili a quelli che usava Pietro Crespi durante le lezioni di ballo, e una camicia di seta cruda con le sue iniziali ricamate sul cuore. Due volte alla settimana lavava tutto il suo abbigliamento nella cisterna, e restava con la tunica finché si asciugava, perché non aveva altro da indossare. Non mangiava mai in casa. Usciva in strada quando diminuiva il caldo della siesta, e non tornava fino a notte fonda. Allora continuava il suo girovagare angoscioso, respirando come un gatto, e pensando ad Amaranta. Lei e lo sguardo spaventoso dei santi nell’alone della lampada notturna erano i due ricordi che conservava della casa. Molte volte, nell’allucinante agosto romano, aveva aperto gli occhi a mezzo il sonno, e aveva visto Amaranta sorgere da un bacino di marmo broccatello, con le sue sottane di pizzo e la sua benda sulla mano, idealizzata dall’ansia dell’esilio. Al contrario di Aureliano José, che aveva cercato di soffocare quella immagine nel pantano sanguinoso della guerra, lui cercava di mantenerla viva in una fangaia di concupiscenza, mentre teneva a bada sua madre con. la panzana senza fine della vocazione pontificale. Né a lui né a Fernanda era mai venuto in mente che la loro corrispondenza fosse uno scambio di fantasie. José Arcadio, che aveva lasciato il seminario non appena era arrivato a Roma, continuò ad alimentare la leggenda della teologia e del diritto canonico per non compromettere l’eredità favolosa della quale gli parlavano le lettere deliranti di sua madre, e che l’avrebbe tolto dalla miseria e dalla sordidezza che divideva con due amici in un abbaino di Trastevere. Quando ricevette l’ultima lettera di Fernanda, dettata dal presentimento della morte imminente, mise in una valigia gli ultimi rimasugli del suo falso splendore, e attraversò l’oceano in una stiva dove gli emigranti si ammucchiavano come mandrie da macello, mangiando maccheroni freddi e formaggio verminoso. Prima di leggere il testamento di Fernanda, che non era altro che una minuziosa e tardiva ricapitolazione di infortuni, i mobili sgangherati e l’erbaccia del portico gli avevano dimostrato che era caduto in una trappola dalla quale non sarebbe più uscito, per sempre esiliato dalla luce di diamante e dall’aria immemorabile della primavera romana. Nelle insonnie spossanti dell’asma, misurava e tornava a misurare la profondità della sua sventura, mentre ripassava la casa tenebrosa dove le agitazioni senili di Ursula gli avevano infuso la paura del mondo. Per essere sicura di non perderlo nelle tenebre, lei gli aveva assegnato un angolo della stanza da letto, l’unico dove poteva essere al riparo dai morti che vagavano per la casa fin dal crepuscolo. “Qualunque cosa cattiva tu faccia,” gli diceva Ursula, “me la diranno i santi.” Le notti pavide della sua infanzia si ridussero a quell’angolo, dove rimaneva immobile fino all’ora di coricarsi, sudando di paura su uno sgabello, sotto lo sguardo vigile e glaciale dei santi spioni. Era una tortura inutile, perché già fin da quell’epoca aveva paura di tutto quello che lo circondava, ed era pronto a spaventarsi di tutto quello che avrebbe trovato nella vita: le donne di strada, che guastavano il sangue; le donne di casa, che partorivano figli con coda di maiale; i galli da combattimento, che provocavano morte di uomini e rimorsi di coscienza per il resto della vita; le armi da fuoco, che bastava toccare perché condannassero a venti anni di guerra; le imprese scombinate, che portavano solo alla delusione e alla pazzia, e tutto, alla fine, tutto quello che Dio aveva creato con la sua infinita bontà e che il diavolo aveva pervertito. Quando si svegliava, illividito dalla macina degli incubi, lo splendore della finestra e le carezze di Amaranta nella cisterna, e il godimento con cui lei lo incipriava tra le gambe con un batuffolo di seta, lo liberavano dal terrore. Perfino Ursula era diversa sotto la luce radiante del giardino, perché lì non gli parlava di cose spaventose, ma gli strofinava i denti con polvere di carbone perché avesse il sorriso splendente di un Papa, e gli tagliava e gli puliva le unghie affinché i pellegrini che fossero arrivati a Roma da tutto l’ambito della terra si meravigliassero della bellezza delle mani del Papa quando avesse impartito la benedizione, e lo pettinava come un Papa, e lo inzuppava di acqua di lavanda perché il suo corpo e i suoi vestiti avessero la fragranza di un Papa. Nel cortile di Castel Gandolfo aveva visto il Papa su un balcone, mentre pronunciava lo stesso discorso in sette lingue per una folla di pellegrini, e l’unica cosa che in effetti gli aveva richiamato l’attenzione era il candore delle sue mani, che sembravano macerate nella lisciva, il bagliore accecante delle sue vesti estive, e il suo recondito alito di acqua di lavanda.

Quasi un anno dopo il suo ritorno a casa, dopo aver venduto per mangiare i candelabri d’argento e il pitale araldico che nell’ora della verità aveva di oro soltanto le incrostazioni dello stemma, l’unica distrazione di José Arcadio era quella di raccogliere bambini nel villaggio per portarseli a giocare in casa. Compariva con loro nell’ora della siesta, e li faceva saltare alla corda nel giardino, cantare nel portico e ruzzare tra i mobili della sala, mentre lui girava tra i gruppi impartendo lezioni di buon comportamento. In quell’epoca aveva smesso i pantaloni attillati e la camicia di seta, e usava della roba ordinaria comprata nei magazzini degli arabi, ma continuava a conservare la sua dignità languida e i suoi atteggiamenti papali. I bambini si presero la casa come lo avevano fatto in passato le compagne di Meme. Fino a notte fonda si sentivano cicalare e cantare e ballare il zapateado, di modo che la casa sembrava un collegio senza disciplina. Aureliano non si preoccupò della invasione finché non vennero a infastidirlo nella stanza di Melquiades. Un mattino, due bambini spinsero la porta, e si spaventarono alla vista dell’uomo lurido e peloso che continuava a decifrare le pergamene sul tavolo di lavoro. Non osarono entrare, ma continuarono a girare intorno alla stanza. Si affacciavano bisbigliando alle fessure, gettavano bestie vive nei lucernari, e una volta inchiodarono dal di fuori la porta e la finestra, e Aureliano ci mise mezza giornata per forzarle. Entusiasmati dall’impunità delle loro monellerie, quattro bambini entrarono un’altra mattina nella stanza, mentre Aureliano era in cucina, disposti a distruggere le pergamene. Ma non appena si impossessarono delle carte giallognole, una forza angelica li sollevò da terra, e li mantenne sospesi in aria, finché tornò Aureliano e gli strappò di mano le pergamene. Da allora non lo infastidirono più.

I quattro bambini più grandi, che portavano pantaloni corti malgrado si affacciassero già all’adolescenza si occupavano dell’aspetto personale di José Arcadio. Arrivavano più presto degli altri, e dedicavano la mattinata a raderlo, a fargli massaggi con asciugamani caldi, a tagliargli e a pulirgli le unghie delle mani e dei piedi, a profumarlo con acqua di lavanda. Parecchie volte entrarono nella cisterna per insaponarlo dalla testa ai piedi, mentre lui galleggiava supino, pensando ad Amaranta. Poi lo asciugavano, gli incipriavano il corpo e lo vestivano. Uno dei bambini, che aveva i capelli biondi e crespi, e gli occhi di vetro rosa come i conigli, usava dormire in casa. Erano così solidi i vincoli che lo univano a José Arcadio che lo accompagnava nelle sue insonnie di asmatico, senza parlare, gironzolando con lui nella casa avvolta nelle tenebre. Una notte videro nella alcova dove dormiva Ursula un chiarore giallo attraverso il cemento cristallizzato, come se un sole sotterraneo avesse trasformato in vetrata il suolo della stanza da letto. Non ebbero bisogno di accendere la lampada. Bastò alzare le lastre rotte dell’angolo dove era sempre stato il letto di Ursula, e dove il bagliore era più intenso, per trovare la cripta segreta che Aureliano Secondo si era stancato di cercare nel delirio degli scavi. Li c’erano i tre sacchi di tela chiusi con fili di rame e, dentro, i settemiladuecentoquattordici dobloni da quattro doppie, che continuavano a balenare come brace nell’oscurità.

Il ritrovamento del tesoro fu come una deflagrazione. Invece di tornare a Roma con la intempestiva fortuna, che era il sogno maturato nella miseria, José Arcadia trasformò la casa in un paradiso decadente. Sostituì le tende con altre di velluto nuovo, fece cambiare il baldacchino del letto, e ricoprire di piastrelle il pavimento e le pareti del bagno. La credenza della sala da pranzo si riempì di frutta candita, di prosciutti e di sottaceti, e il granaio in disuso tornò ad aprirsi per immagazzinare vini e liquori che lo stesso José Arcadio ritirava nella stazione, in casse col suo nome. Una notte, lui e i quattro bambini più grandi fecero una festa che si prolungò fino allo spuntare del giorno. Alle sei del mattino uscirono nudi dalla stanza da letto, vuotarono la cisterna e la riempirono di champagne. Si tuffarono tutti insieme, e nuotarono come uccelli in volo in un cielo dorato di bollicine fragranti, mentre José Arcadio galleggiava supino, al margine della festa, rievocando Amaranta ad occhi aperti. Rimase così, assorto, rimuginando l’amarezza dei suoi piaceri equivoci, fin dopo che i bambini si erano stancati e se ne erano andati nella stanza da letto, dove strapparono le tende di velluto per asciugarsi, e fecero a pezzi nel disordine lo specchio di cristallo di rocca, e rovinarono il baldacchino del letto cercando di coricarsi in tumulto. Quando José Arcadio tornò dal bagno, li trovò che dormivano appallottolati, nudi in un’alcova di naufragio. Infiammato non tanto dalle stragi quanto dalla stomacatura e dalla compassione che provava nei suoi stessi confronti nel desolato vuoto del saturnale, afferrò una disciplina da scaccino ecclesiastico che conservava in fondo al baule, insieme a un cilicio e ad altri ferri di mortificazione e di penitenza, e scacciò i bambini dalla casa, urlando come un pazzo, e sferzandoli senza misericordia, come non lo avrebbe fatto per una muta di coyotes. Restò stremato, con una crisi di asma che si prolungò per diversi giorni, e che gli diede un aspetto di agonizzante. Nella terza notte di tortura, vinto dall’asfissia, andò nella stanza di Aureliano per chiedergli il favore di comprargli in una farmacia vicina delle polveri da inalare. Fu così che Aureliano uscì per la seconda volta in strada. Dovette percorrere soltanto due isolati per arrivare fino alla stretta farmacia dalle polverose vetrine con barattoli di ceramica etichettati in latino, dove una ragazza con la arcana bellezza di un serpente del Nilo gli forni il medicamento che José Arcadia gli aveva scritto su un pezzo di carta. La seconda visione del villaggio deserto, appena illuminato dalle lampadine giallastre delle strade, non risvegliò in Aureliano una curiosità maggiore della prima volta. José Arcadio era riuscito già a pensare che fosse scappato, quando lo vide riapparire, un po’ affannato a causa della fretta, trascinando le gambe che la clausura e la mancanza di moto gli avevano reso deboli e intorpidite. Era così sicura la sua indifferenza per il mondo che pochi giorni dopo José Arcadio violò la promessa che aveva fatto a sua madre, e lo lasciò in libertà perché uscisse quando ne avesse voglia.

“Non ho nulla da fare in strada,” gli rispose Aureliano.

Si chiuse di nuovo nella stanza, assorto nelle pergamene che a poco a poco andava sviscerando, e il cui senso, tuttavia, non riusciva a interpretare. José Arcadio gli portava nella stanza fette di prosciutto, fiori canditi che lasciavano nella bocca un ricordo di sapore primaverile, e in un paio di occasioni un bicchiere di buon vino. Non si interessò alle pergamene, che considerava piuttosto un passatempo esoterico, ma fu sorpreso dalla rara saggezza e dall’inesplicabile conoscenza del mondo che aveva quel parente desolato. Seppe allora che era capace di comprendere l’inglese scritto, e che tra pergamena e pergamena aveva letto dalla prima all’ultima pagina, come se fosse un romanzo, i sei volumi dell’enciclopedia. A questo attribuì la ragione per cui Aureliano potesse parlare di Roma come se vi avesse vissuto parecchi anni, ma ben presto si rese conto che possedeva nozioni che non erano enciclopediche, come i prezzi delle cose. “Tutto si sa,” fu l’unica risposta che ottenne da Aureliano, quando gli chiese come aveva avuto quelle informazioni. Aureliano, da parte sua, si meravigliò che José Arcadio, visto da vicino, fosse così diverso dalla immagine che si era formato di lui quando lo vedeva gironzolare per la casa. Era capace di ridere, di permettersi di tanto in tanto una nostalgia del passato di casa, e di preoccuparsi dell’ambiente di miseria nel quale si trovava la stanza di Melquiades. Quell’avvicinamento tra due solitari dello stesso sangue era assai lontano dall’amicizia, ma permise ad entrambi di sopportare meglio l’insondabile solitudine che al tempo stesso li separava e li univa. José Arcadio poté allora ricorrere ad Aureliano per risolvere certi problemi domestici che lo esasperavano. Aureliano, a sua volta, poteva sedersi a leggere sotto il portico, ricevere le lettere di Amaranta Ursula che continuavano ad arrivare con la puntualità di sempre, e servirsi del bagno da dove l’aveva bandito José Arcadio fin dal momento del suo arrivo.

Nelle prime ore di una soffocante mattinata si svegliarono allarmati da una serie di colpi incalzanti battuti alla porta di strada. Era un vecchio scuro, con occhi grandi e verdi che davano al suo volto una fosforescenza spettrale, e con una croce di cenere sulla fronte. I vestiti a brandelli, le scarpe rotte, la vecchia bisaccia che portava a tracolla come tutto bagaglio, gli davano l’aspetto di un mendicante, ma il suo contegno rivelava una dignità che era in decisa contraddizione con la sua apparenza. Bastava vederlo una volta, anche nella penombra della sala, per rendersi conto che la forza segreta che gli permetteva di vivere non era l’istinto di conservazione, ma l’abitudine alla paura. Era Aureliano Amador, l’unico sopravvissuto dei diciassette figli del colonnello Aureliano Buendìa che andava cercando una tregua nella sua lunga e rischiosa esistenza di fuggitivo. Si fece riconoscere, supplicò che gli dessero rifugio in quella casa che nelle sue notti di paria aveva evocato come l’ultimo ridotto di sicurezza che gli restava nella vita. Ma José Arcadio e Aureliano non se lo ricordava no. Credendo che fosse un vagabondo, lo ributtarono in strada a spintoni. I due videro allora dalla porta la conclusione di un dramma che era cominciato fin da prima che José Arcadio avesse uso di ragione. Due agenti della polizia, che avevano braccato Aureliano Amador per anni, che lo avevano inseguito come cani per mezzo mondo, sorsero dai mandorli del marciapiede opposto e gli spedirono due colpi di mauser che gli penetrarono nettamente nella croce di cenere.

In realtà, da quando aveva scacciato i bambini di casa, José Arcadio aspettava notizie di un transatlantico che partisse per Napoli prima di Natale. Lo aveva detto ad Aureliano, e aveva perfino fatto dei progetti per lasciargli avviato un traffichetto che gli consentisse di vivere, perché il cestino di viveri non comparve più dopo i funerali di Fernanda. Tuttavia, nemmeno quel sogno finale si sarebbe realizzato. Un mattino di settembre, dopo aver bevuto il caffè con Aureliano nella cucina, José Arcadio stava terminando il suo bagno quotidiano quando irruppero dal tetto i quattro bambini che aveva scacciato di casa. Senza permettergli di difendersi, saltarono vestiti nella cisterna, lo afferrarono per i capelli e gli tennero la testa affondata, finché cessò sulla superficie il bulicare dell’agonia, e il silenzioso e pallido corpo di delfino scivolò in fondo alle acque fragranti. Poi si portarono via i tre sacchi d’oro il cui nascondiglio conoscevano soltanto loro e la vittima. Fu un’azione così rapida, metodica e brutale, che parve un assalto di militari. Aureliano, chiuso nella sua stanza, non si accorse di nulla. Quel pomeriggio, avendone sentito la mancanza in cucina, cercò José Arcadio per tutta la casa, e lo trovò che galleggiava sugli specchi profumati della cisterna, enorme e tumefatto, e col pensiero ancora rivolto ad Amaranta. Soltanto allora comprese quanto aveva cominciato a volergli bene.

 Amaranta Ursula tornò coi primi angeli di dicembre, spinta da brezze di veliero, portandosi dietro il marito tenuto al collo con un cordoncino di seta. Comparve senza nessun avviso, con un vestito color avorio, un filo di perle che le arrivava quasi alle ginocchia, anelli di smeraldi e topazi, e i capelli a calotta e lisci riportati sulle orecchie con tirabaci. L’uomo col quale si era sposata sei mesi prima era un fiammingo maturo, agile, con fare da navigante. Non dovette far altro che spingere la porta del salotto per constatare che la sua assenza era stata più prolungata e demolitrice di quanto supponeva.

“Dio mio,” gridò, più allegra che in apprensione, “come si vede che non c’è una donna in questa casa!”

I bagagli non entravano tutti nel portico. Oltre all’antico baule di Fernanda col quale l’avevano mandata in collegio, aveva due bauli armadio, quattro grandi valigie, un sacco per i parasole, otto cappelliere, una gabbia gigantesca con una cinquantina di canarini, e il velocipede di suo marito, smontato dentro un astuccio speciale che permetteva di portarselo appresso come un violoncello. Non si concesse nemmeno un giorno di riposo dopo il lungo viaggio. Si mise un vecchio spolverino di cotone che aveva portato suo marito con altri capi da motorista, e intraprese una nuova restaurazione della casa. Disperse le formiche rosse che si erano già impadronite del portico, risuscitò i roseti, sradicò le erbacce, e tornò a seminare felci, origano e begonie nei testi del parapetto. Si mise alla testa di una squadra di falegnami, di fabbri e di muratori che risuonarono le crepe dei pavimenti, incardinarono porte e finestre, rinnovarono i mobili e intonacarono i muri dentro e fuori, di modo che, tre mesi dopo il suo arrivo si respirava di nuovo l’aria di gioventù e di festa che c’era ai tempi della pianola. Non si vide mai nella casa nessuno con maggiore allegria ad ogni ora e in qualsiasi circostanza, nessuno più disposto a cantare e a ballare, e a buttare nel mondezzaio le cose e le abitudini antiquate. Con un colpo di scopa mise termine ai ricordi funerari e ai mucchi di ciarpame inutile e di apparati di superstizione che si affastellavano negli angoli, e l’unica cosa che conservò, per gratitudine a Ursula, fu il dagherrotipo di Remedios nel salotto. “Guardate che lusso,” gridava scoppiando a ridere. “Una bisnonna di quattordici anni!” Quando uno dei muratori le raccontò che la casa era popolata di apparizioni, e che l’unico modo di scacciarle era quello di cercare i tesori che avevano lasciato sepolti, lei rispose continuando a ridere che non credeva a superstizioni di uomini. Era così spontanea, così emancipata, con uno spirito così moderno e libero, che Aureliano si sentì imbarazzatissimo quando la vide arrivare: “Che spavento!” gridò lei, felice, con le braccia spalancate. “Guardate come è cresciuto il mio adorato antropofago!” Prima che avesse tempo di reagire, lei aveva già messo un disco sul grammofono portatile che aveva con sé, e stava cercando di insegnargli i balli di moda. Lo costrinse a cambiare gli squallidi pantaloni che aveva ereditato dal colonnello Aureliano Buendia gli regalò camicie giovanili e scarpe di due colori, e lo spingeva in strada quando passava troppo tempo nella stanza di Melquiades.

Attiva, minuta, indomabile come Ursula, e quasi bella e provocante come Remedios la bella, era dotata di un raro istinto per prevenire la moda. Quando riceveva per posta i figurini più recenti, ad altro non le servivano che per constatare di non essersi sbagliata nei modelli che inventava, e che cuciva sulla rudimentale macchina a manovella di Amaranta. Era abbonata a tutte le riviste di moda, di informazione artistica e di musica popolare che si pubblicavano in Europa, e le bastava appena un’occhiata per rendersi conto che le cose andavano nel mondo come lei le immaginava. Non era comprensibile che una donna con quello spirito fosse tornata in un villaggio morto, depresso dalla polvere e dal caldo, e meno ancora con un marito che aveva denaro d’avanzo per vivere bene in qualsiasi parte del mondo, e che l’amava tanto da essersi adattato a farsi portare in giro da lei col laccio di seta. Tuttavia, a mano a mano che il tempo passava era poi evidente la sua intenzione di rimanere, poiché non concepiva progetti che non fossero a lungo termine, né prendeva decisioni che non fossero dirette a provvedere a una vita comoda e a una vecchiaia tranquilla a Macondo. La gabbia di canarini dimostrava che questi propositi non erano improvvisati. Ricordandosi che sua madre le aveva raccontato in una lettera dello sterminio degli uccelli, aveva rimandato il viaggio per diversi mesi fino a trovare una nave che facesse scalo alle isole Fortunate, e lì scelse le venticinque coppie di canarini più belli per ripopolare il cielo di Macondo. Questa fu la più spiacevole delle sue numerose iniziative frustrate. A mano a mano che gli uccelli si riproducevano, Amaranta Ursula li andava lasciando liberi per coppia, e ci mettevano più tempo a sentirsi liberi che a fuggire dal villaggio. Invano cercò di farli affezionare all’uccelliera che aveva costruito Ursula nella prima restaurazione. Invano falsificò nidi di stoppa sui mandorli, e sparse miglio sui tetti e mise in subbuglio i prigionieri perché i loro canti dissuadessero i disertori, perché questi si innalzavano al primo tentativo e facevano un giro nel cielo, appena il tempo indispensabile per trovare la rotta di ritorno alle isole Fortunate.

Un anno dopo il suo ritorno, anche se non era riuscita a intavolare un’amicizia o a promuovere una festa, Amaranta Ursula continuava a credere che fosse possibile redimere quella comunità eletta dall’infortunio. Gastòn, suo marito, badava a non contrariarla, anche se dal mezzogiorno mortale in cui era sceso dal treno aveva capito che la decisione di sua moglie era stata provocata da un miraggio della nostalgia. Sicuro che sarebbe stata sconfitta dalla realtà, non si curò nemmeno di montare il velocipede, ma si mise a caccia delle uova più lucide tra le ragnatele staccate dai muratori, e le apriva con le unghie e passava ore intere ad esaminare con una lente i ragnetti minuscoli che uscivano dal guscio. Più tardi, convinto che Amaranta Ursula continuasse le sue riforme perché non voleva rassegnarsi, si decise a montare il vistoso velocipede la cui ruota anteriore era molto più grande della posteriore, e si dedicò a catturare e a disseccare tutti gli insetti aborigeni che trovava nei dintorni, che spediva in vasi da marmellata al suo vecchio professore di storia naturale dell’università di Liegi, dove aveva fatto studi approfonditi di entomologia, anche se la sua vocazione dominante era l’aeronautica. Quando viaggiava sul velocipede portava pantaloni da acrobata, calze da zampognaro e berretto da detective, ma quando andava a piedi vestiva di lino grezzo, antimacchia, con scarpe bianche, cravattino di seta, cappello a paglietta e un bastoncino di giunco in mano. Aveva delle pupille pallide che accentuavano il suo aspetto da navigante, e dei baffetti di peli di scoiattoli. Anche se doveva avere almeno quindici anni più di sua moglie, i suoi gusti giovanili, il suo solerte impegno di farla felice, e le sue virtù di buon amante, compensavano la differenza. In realtà, chi vedeva quel quarantenne vestito accuratamente, col laccio di seta al collo e la bicicletta da circo, non avrebbe certo pensato che avesse con la sua giovane sposa un patto d’amore sfrenato, e che ambedue cedevano alla sollecitudine reciproca nei luoghi meno adatti e dove li sorprendeva l’ispirazione, come lo avevano fatto fin da quando avevano cominciato a vedersi, e con una passione che il trascorrere del tempo e le circostanze sempre più insolite andavano approfondendo e arricchendo. Gastòn non era soltanto un amante feroce, di una sapienza e di una fantasia inesauribili, ma era anche forse il primo uomo nella storia della specie che aveva compiuto un atterraggio di emergenza ed era stato sul punto di ammazzarsi con la sua fidanzata solo per fare l’amore in un campo di viole.

Si erano conosciuti tre anni prima di sposarsi, quando il biplano sportivo col quale lui faceva piroette sul collegio dove studiava Amaranta Ursula aveva tentato una manovra intrepida per schivare l’asta della bandiera, e la primitiva armatura di tela e di carta d’alluminio rimase appesa per la coda ai cavi dell’energia elettrica. Da allora, senza far caso alla sua gamba steccata, Gastón andava tutti i fine settimana a prendere Amaranta Ursula nella pensione di religiose dove visse sempre, e il cui regolamento non era così severo come desiderava Fernanda, e la portava nel suo club sportivo. Cominciarono ad amarsi a cinquecento metri di altezza, nell’aria domenicale delle lande, e si sentivano tanto più compenetrati quanto più minuscoli si andavano facendo gli esseri della terra. Lei gli parlava di Macondo come del borgo più luminoso e placido del mondo, e di una casa enorme, odorosa di origano, dove voleva vivere fino alla vecchiaia con un marito leale e due figli indomiti che si sarebbero chiamati Rodrigo e Gonzalo, e in nessun caso Aureliano e José Arcadio, e una figlia che si sarebbe chiamata Virginia, e in nessun caso Remedios. Aveva rievocato con una tenacità così anelante il villaggio idealizzato dalla nostalgia, che Gastòn capì che lei non si sarebbe sposata se non l’avesse portata a vivere a Macondo. Lui si trovò d’accordo; come lo fu più tardi per il laccio di seta, perché credeva che fosse un capriccio transitorio che era meglio defraudare in tempo. Ma quando trascorsero due anni a Macondo e Amaranta Ursula continuava a mostrarsi felice come il primo giorno, Gaston cominciò a dare i primi segni di allarme. Per quell’epoca aveva ormai disseccato quanti insetti erano disseccabili nella regione, parlava lo spagnolo come un nativo, e aveva risolto tutti i cruciverba delle riviste che ricevevano per posta. Non aveva il pretesto del clima per affrettare il ritorno, perché la natura lo aveva dotato di un fegato coloniale, che resisteva senza sussulti all’afa della siesta e all’acqua con larve. Gli piaceva tanto la cucina creola, che una volta si mangiò una teglia di ottantadue uova di iguana. Amaranta Ursula, invece, si faceva spedire per ferrovia pesci e molluschi in casse di ghiaccio, carne in scatola e frutta sciroppata, le uniche cose che poteva mangiare, e continuava a vestirsi alla moda europea e a ricevere figurini per posta, nonostante non avesse dove andare né chi ricevere in visita, e che suo marito in quell’epoca non avesse ormai la disposizione d’animo per poter apprezzare i suoi vestiti corti e i suoi feltri inclinati e le sue collane a sette giri. Il suo segreto sembrava cons istere nel trovare sempre il modo di essere occupata a risolvere problemi domestici che lei stessa creava e a fare certe cose che correggeva il giorno seguente, con una diligenza perniciosa che avrebbe fatto pensare a Fernanda al vizio ereditario di fare per disfare. Il suo spirito festaiolo era sempre così sveglio, che quando riceveva dischi nuovi invitava Gastòn a rimanere in salotto fino a molto tardi per provare i balli che le sue compagne di collegio le descrivevano con disegni, e finivano generalmente per fare all’amore nelle poltrone a dondolo viennesi o sul pavimento nudo. L’unica cosa che le mancava per sentirsi completamente felice era la nascita dei figli, ma rispettava il patto che aveva stabilito con suo marito di non averne prima che fossero trascorsi cinque anni di matrimonio.

Cercando qualcosa da fare per riempire le sue ore morte, Gastòn usava passare la mattinata nella stanza di Melquiades, col ritroso Aureliano. Si compiaceva di rievocare con lui gli angoli più intimi della sua terra, che Aureliano conosceva come se ci fosse stato per parecchio tempo. Quando Gastón gli chiese come aveva fatto per ottenere informazioni che non si trovavano nell’enciclopedia, ricevette la stessa risposta che aveva avuto José Arcadio: “Tutto si sa.” Oltre al sanscrito Aureliano aveva imparato l’inglese e il francese, e qualcosa di latino e di greco. Dato che allora usciva tutti pomeriggi, e che Amaranta Ursula gli aveva assegnate una somma settimanale per le sue spese, la sua stanza sembrava un settore della libreria del savio catalano Leggeva avidamente fino a profonde ore della notte; anche se per il modo in cui faceva riferimento alle sue letture, Gastòn era sicuro che non comprava i libri per imparare ma per verificare l’esattezza delle proprie nozioni, e che nulla lo interessava più delle pergamene alle quali dedicava le ore migliori della mattina. Tanto, a Gaston quanto a sua moglie sarebbe piaciuto incorporarlo alla vita familiare, ma Aureliano era uomo ermetico, con una nube di mistero che il tempo andava facendo più densa. Era una condizione così insormontabile, che gli sforzi di Gastón per renderselo amico fallirono, e il fiammingo dovette cercare un’altra occupazione per far passare le sue ore morte. Fu in quell’epoca che concepì l’idea di creare un servizio di posta aerea.

Non era un progetto nuovo. In realtà era già in stata di avanzamento quando conobbe Amaranta Ursula, solo che non era destinato a Macondo ma al Congo Belga, dove la sua famiglia aveva degli investimenti nell’olio di palma. Il matrimonio, la decisione di passare qualche mese a Macondo per compiacere sua moglie, lo avevano costretto a rimandarlo. Ma quando si accorse che Amaranta Ursula si ostinava a voler organizzare un comitato di migliorie pubbliche, e si metteva perfino a ridere di lui quando insinuava la possibilità del ritorno, comprese che le cose sarebbero andate per le lunghe, e riallacciò i contatti coi suoi dimenticati soci di Bruxelles pensando che per essere pioniere i Caraibi valevano quanto l’Africa. In attesa che le pratiche procedessero, preparò un campo di atterraggio nella antica regione incantata che in quei tempi sembrava una pianura pietrosa screpolata, e studiò la direzione dei venti, la geografia della costa e le rotte più adatte per la navigazione aerea, senza sapere che le sue ricerche, così simili a quelle di Mr. Herbert, stavano infondendo nel villaggio il pericoloso sospetto che le sue intenzioni non fossero quelle di stabilire itinerari ma di seminare banani. Entusiasmato dall’idea che dopo tutto poteva giustificare la sua permanenza definitiva a Facondo, fece diversi viaggi nel capoluogo della provincia, parlò con le autorità, e ottenne licenze e sottoscrisse contratti di esclusiva. Nel frattempo, manteneva coi soci di Bruxelles una corrispondenza simile a quella di Fernanda coi medici invisibili, e riuscì a convincerli di imbarcare il primo aeroplano insieme a un meccanico esperto, che lo potesse montare nel porto più vicino e che lo portasse in volo a Macondo. Un anno dopo le prime misurazioni e i primi calcoli meteorologici, fidando nelle promesse reiterate dei suoi soci, aveva preso l’abitudine di passeggiare per le strade, guardando il cielo, con l’orecchio teso ai rumori del vento, in attesa che apparisse l’aeroplano.

Benché lei non lo avesse notato, il ritorno di Amaranta Ursula determinò un cambiamento radicale nella vita di Aureliano. Dopo la morte di José Arcadio era diventato un cliente assiduo della libreria del savio catalano. Inoltre, la libertà della quale allora godeva, e il tempo di cui disponeva, gli risvegliarono una certa curiosità per il villaggio, che imparò a conoscere senza paura. Percorse le strade polverose e solitarie, esaminando con un interesse più scientifico che umano l’interno delle case in rovina, le reticelle metalliche delle finestre, rotte a causa della ruggine e degli uccelli moribondi, e gli abitanti abbattuti dai ricordi. Cercò di ricostruire con la fantasia il diroccato splendore dell’antica città della compagnia bananiera, la cui piscina secca era piena fino all’orlo di scarpe di uomo e di scarpette di donna imputridite, e nelle cui case sconvolte dalla zizzania trovò lo scheletro di un cane tedesco ancora legato a un anello con una catena di ferro, e un telefono che suonava, suonava, suonava, finché lui ne sollevò il ricevitore, sentì quello che una donna angosciata e remota domandava in inglese, e le rispose che sì, che lo sciopero era terminato, che i tremila morti erano stati gettati in mare, che la compagnia bananiera se n’era andata, e che Macondo era finalmente in pace da molti anni. Quelle scorribande lo condussero nel prostrato rione di tolleranza, dove in altri tempi si bruciavano fasci di banconote per animare la sarabanda e che ora era un labirinto di strade più travagliate e miserabili delle altre con qualche lampada rossa ancora accesa, e con deserte sale da ballo adornate con brandelli di ghirlande; dove le macilente e grasse vedove di nessuno, le bisnonne francesi e le matriarche babiloniche, continuavano ad aspettare vicino ai fonografi. Aureliano non trovò nessuno che si ricordasse della sua famiglia, nemmeno del colonnello Aureliano Buendia, tranne il più vecchio dei negri antigliani, un vegliardo la cui testa ovattata gli dava l’aspetto di un negativo di fotografia, che continuava a cantare sul portico della casa i salmi lugubri del crepuscolo. Aureliano chiacchierava con lui nell’intricato gergo che aveva imparato in poche settimane, e certe volte divideva con lui il brodo di teste di gallo che preparava la bisnipote, una negra grande, con ossa solide, natiche da giumenta e tette come meloni vivi, e una testa rotonda, perfetta, corazzata da un duro casco di capelli di filo di ferro, che sembrava la cuffia di ferro di un guerriero medievale. Si chiamava Nigromanta. In quell’epoca, Aureliano viveva vendendo posate, palmatorie e altre cianfrusaglie di casa. Quando si trovava senza un centesimo, ciò che succedeva quasi sempre, riusciva a farsi regalare nelle bettole del mercato le teste di gallo destinate alla spazzatura, e le portava a Nigromanta perché gli facesse le sue zuppe arricchite con portulaca e profumate di mentastro. Quando morì il bisnonno, Aureliano smise di frequentare la casa, ma si trovava con Nigromanta che attirava coi suoi fischi da animale selvatico gli scarsi nottambuli sotto gli oscuri mandorli della piazza. Molte volte le faceva compagnia, parlando, in quel suo strano idioma, delle minestre di teste di gallo e delle altre squisitezze della miseria, e avrebbe continuato a stare con lei se Nigromanta non gli avesse fatto capire che la sua presenza allontanava la clientela. Anche se certe volte ne provò la tentazione, e anche se alla stessa Nigromanta sarebbe sembrato apice naturale della loro comune nostalgia, non andava a letto con lei. Così Aureliano era ancora vergine quando Amaranta Ursula tornò a Macondo e gli diede un abbraccio fraterno che lo lasciò senza fiato. Ogni volta che la vedeva, e più ancora quando lei gli insegnava i balli di moda, lui sentiva nelle ossa la stessa debolezza spugnosa che aveva turbato il suo trisnonno quando Pilar Ternera nel granaio era ricorsa a quel pretesto delle carte. Cercando di soffocare il tormento, si immerse più profondamente nelle pergamene ed eluse le lusinghe innocenti di quella zia che corrompeva le sue notti con effluvi di tribolazione, ma con più la evitava con più aspettava la sua risata rauca, i suoi urli di gatta felice e i suoi canti di gratitudine, quando agonizzava d’amore in qualsiasi ora e nei luoghi più impensati della casa. Una notte, a dieci metri dal suo letto, sul banco di oreficeria, gli sposi dal ventre dissennato sfondarono la vetrina e finirono per amarsi in una pozza di acido muriatico. Aureliano non solo non riuscì a dormire un solo minuto, ma passò il giorno dopo stremato dalla febbre e singhiozzando di rabbia. Gli sembrò eterno l’arrivo della prima sera in cui aspettò Nigromanta nell’oscurità dei mandorli, trafitto dagli aghi di ghiaccio della incertezza, e stringendo nel pugno il peso e cinquanta che aveva chiesto ad Amaranta Ursula, non tanto perché ne avesse bisogno, quanto per renderla complice, svilita e prostituita in qualche modo grazie alla sua avventura. Nigromanta lo portò nella sua stanza illuminata con una finzione di paralume, nella sua branda dal lenzuolo incrostato di mali amori, e nel suo corpo di cagna selvatica, impietrita, disumanata, che si era preparata a sbrigarlo come se fosse un bambino spaventato, e si trovò improvvisamente con un uomo il cui tremendo potere richiese alle sue viscere un moto di riassestamento sismico.

Divennero amanti. Aureliano passava la mattinata a decifrare pergamene, e nell’ora della siesta se ne andava nella stanza soporifera dove Nigromanta lo aspettava per insegnargli a fare dapprima come i lombrichi, poi come le lumache e da ultimo come i granchi, finché era costretta a lasciarlo per tendere agguati ad amori sperduti. Trascorsero parecchie settimane prima che Aureliano scoprisse che Nigromanta aveva intorno alla vita un cordoncino che sembrava fatto con una corda di violoncello, ma che era duro come l’acciaio e non aveva estremità, perché era nato e cresciuto con lei. Quasi sempre, tra amore e amore, mangiavano nudi a letto, nel calore allucinante e sotto le stelle diurne che la ruggine andava facendo spuntare nel tetto di zinco. Era la prima volta che Nigromanta aveva un uomo fisso, un rocchettone, come lei stessa diceva scoppiando a ridere, e cominciava perfino a farsi delle illusioni di cuore quando Aureliano le confessò la sua passione repressa per Amaranta Ursula, che non era riuscito a rimediare con la sostituzione, ma che invece gli andava torcendo sempre di più le viscere a mano a mano che l’esperienza allargava l’orizzonte dell’amore. Allora Nigromanta continuò a riceverlo con lo stesso calore di sempre, ma si fece pagare i servizi con tanto rigore, che quando Aureliano non aveva soldi li aggiungeva al conto che non segnava con numeri ma con lineette che andava marcando con l’unghia del pollice dietro la porta. Verso sera, mentre lei restava a bordeggiare nelle ombre della piazza, Aureliano passava per il portico come un estraneo, salutando appena Amaranta Ursula e Gastón che di solito cenavano a quell’ora, e tornava a rinchiudersi nella stanza, senza potere né leggere né scrivere, né. pensare, nemmeno, per l’ansia che gli provocavano le risate, i sussurri, i trastulli preliminari, e poi le esplosioni di felicità agonica che colmavano le notti della casa. Quella era la sua vita due anni prima che Gastòn cominciasse ad aspettare l’aeroplano, e continuava ad essere uguale il pomeriggio in cui andò nella libreria del savio catalano e trovò quattro ragazzi ciarlieri, infervorati in una discussione sui metodi per uccidere gli scarafaggi nel Medio Evo. Il vecchio libraio, conoscendo la passione di Aureliano per libri che aveva letto solo Beda il Venerabile, lo sollecitò con una certa malignità paterna a far da arbitro nella controversia, e lui, senza neppur prender fiato, spiegò che lo scarafaggio, l’insetto alato più antico sulla terra, era già la vittima favorita delle pantofolate nell’Antico Testamento, ma che in quanto a specie era definitivamente refrattaria a qualsiasi metodo di sterminio, dalle fette di pomodoro con borace fino alla farina con lo zucchero, perché le sue milleseicentotrè varietà avevano resistito alla più remota, spietata e tenace persecuzione che l’uomo aveva scatenato fin dalle sue origini contro essere vivente alcuno, incluso lo stesso uomo, fino all’estremo che così come si attribuiva al genere umano un istinto di riproduzione, gliene si doveva attribuire un altro più definito e incalzante, che era l’istinto di uccidere scarafaggi, e che se questi erano riusciti a sfuggire alla ferocia umana, era perché si erano rifugiati nelle tenebre, dove si erano resi invulnerabili grazie al timore congenito dell’uomo per il buio, ma in cambio si erano fatti suscettibili allo splendore del mezzogiorno, di modo che già nel Medio Evo, nel presente e per i secoli dei secoli, l’unico modo efficace per uccidere scarafaggi era l’abbagliamento solare.

Quel fatalismo enciclopedico fu il principio di una grande amicizia. Aureliano continuò a trovarsi tutti i pomeriggi coi quattro cavillatori, che si chiamavano Alvaro, German, Alfonso e Gabriel, i primi e gli ultimi amici che ebbe nella vita. Per un uomo come lui, incastellato nella realtà scritta, quelle riunioni tormentose che cominciavano nella libreria alle sei di sera e finivano nei bordelli allo spuntare del giorno, furono una rivelazione. Non gli era mai venuto in mente fino allora di pensare alla letteratura come al miglior giocattolo che si fosse inventato per burlarsi della gente, come gli dimostrò Alvaro in una notte di bagordi. Doveva trascorrere ancora qualche tempo prima che Aureliano si rendesse conto che tanta arbitrarietà aveva origine nell’esempio del savio catalano, per il quale la saggezza non valeva la pena se non era possibile servirsene per inventare un nuovo modo di cuocere i ceci.

Il pomeriggio in cui Aureliano tenne cattedra sugli scarafaggi, la discussione terminò nella casa delle ragazzine che facevano all’amore per fame, un bordello da finzione nei sobborghi di Macondo. La proprietaria era una mammana sorridente, afflitta dalla mania di aprire e chiudere le porte. Il suo eterno sorriso sembrava provocato dalla credulità dei clienti, che ammettevano come qualcosa di vero una istituzione che non esisteva se non nella fantasia, perché lì perfino le cose tangibili erano irreali: i mobili che si schiantavano quando ci si sedeva, il fonografo sventrato nel cui interno c’era una gallina a covare, il giardino di fiori di carta, gli almanacchi di anni anteriori all’arrivo della compagnia bananiera, i quadri con litografie ritagliate da riviste che non si erano mai pubblicate. Perfino le puttanine timide che accorrevano dai dintorni quando la proprietaria le avvisava che c’erano clienti, erano pura invenzione. Comparivano senza salutare, coi vestitini a fiori di quando avevano cinque anni meno; e se li toglievano con la stessa innocenza con la quale se li erano messi, e nel parossismo dell’amore esclamavano spaventate che disastro, guarda come sta screpolandosi quel soffitto, e non appena ricevevano il loro peso e cinquanta centavos se lo spendevano in un pane e in un pezzo di formaggio che vendeva loro la proprietaria, più ridente che mai, perché soltanto lei sapeva che nemmeno quel cibo era vero. Aureliano, il cui mondo di allora cominciava nelle pergamene di Melquìades e terminava nel letto di Nigromanta, trovò nel bordellino immaginario una cura radicale per la timidezza. Sulle prime non riusciva a combinare nulla, in certe stanze dove la padrona entrava nei momenti migliori dell’amore e faceva ogni sorta di commenti sulle avvenenza intime dei protagonisti. Ma col tempo riuscì a familiarizzarsi così tanto con quei contrattempi del mondo, che in una sera più squilibrata delle altre si denudò nel salottino di attesa e percorse la casa portando in equilibrio una bottiglia di birra sulla sua mascolinità inconcepibile. Fu lui che mise di moda le stravaganze di cui la proprietaria si compiaceva col suo sorriso eterno, senza protestare, senza credervi, proprio come quando German cercò di incendiare la casa per dimostrare che non esisteva, o come quando Alfonso storse il collo al pappagallo e lo buttò nella pentola dove cominciava a bollire lo stufato di gallina.

Anche se Aureliano si sentiva vincolato ai quattro amici da uno stesso affetto e da una stessa solidarietà, fino al punto che pensava a loro come se fossero uno solo, era più vicino a Gabriel che agli altri. Il vincolo nacque nella sera in cui si mise a parlare casualmente del colonnello Aureliano Buendìa, e Gabriel fu l’unico a non credere che volesse burlarsi del prossimo. Perfino la padrona, che non usava intervenire nelle conversazioni, discusse con una rabbiosa passione di comare che il colonnello Aureliano Buendìa, del quale in effetti aveva sentito parlare qualche volta, era un personaggio inventato dal governo come un pretesto per uccidere liberali. Gabriel, invece, non metteva in dubbio la realtà del colonnello Aureliano Buendìa, che era stato compagno d’armi e amico inseparabile di suo bisnonno, il colonnello Gerineldo Màrquez Quelle velleità della memoria erano ancora più critiche quando si parlava della carneficina dei lavoratori. Ogni volta che Aureliano toccava quel punto, non soltanto la proprietaria ma anche certe persone più anziane di lei ripudiavano la panzana dei lavoratori assediati nella stazione, e del treno di duecento vagoni carichi di morti, e si ostinavano perfino a sostenere quello che dopo tutto era stato stabilito in rapporti giudiziari e sui testi della scuola elementare: che la compagnia bananiera non era mai esistita. Di modo che Aureliano e Gabriel erano vincolati da una specie di complicità, basata su fatti reali ai quali nessuno credeva, e che avevano influenzato la loro vita fino al punto che tutti e due si trovarono alla deriva nella risacca di un mondo finito, del quale restava soltanto la nostalgia. Gabriel dormiva dove gli capitava. Aureliano lo ospitò parecchie volte nel laboratorio di oreficeria, ma passava le notti in bianco, turbato dal traffico dei morti che andavano e venivano fino allo spuntare del giorno nelle stanze. Più tardi lo affidò a Nigromanta, che lo portava nella sua stanzetta bazzicata quando era libera, e gli segnava i conti con lineette verticali dietro la porta, nei pochi spazi disponibili lasciati dai debiti di Aureliano.

Nonostante la sua vita disordinata, tutto il gruppo cercava di fare qualcosa di durevole, su istanza del savio catalano. Era stato lui, con la sua esperienza di vecchio professore di lettere classiche e col suo deposito di libri rari, ad averli messi in condizione di trascorrere una intera notte alla ricerca della trentasettesima situazione drammatica, in un villaggio dove ormai nessuno aveva più né l’interesse né la possibilità di andare oltre le scuole elementari. Affascinato dalla scoperta dell’amicizia, stordito dagli incantesimi di un mondo che gli era stato vietato dalla meschinità di Fernanda, Aureliano abbandonò l’indagine delle pergamene, proprio quando cominciava a scoprire che si trattava di predizioni in versi cifrati. Ma la nuova scoperta che il tempo bastava per far tutto senza che fosse necessario rinunciare ai bordelli, gli diede la forza di tornare nella stanza di Melquiades, deciso a non venir meno alla sua intenzione di scoprire le ultime chiavi. Questo successe nei giorni in cui Gaston cominciava ad aspettare l’aeroplano, e Amaranta Ursula si sentiva così sola, che una mattina comparve nella stanza.

“Salve, antropofago,” gli disse. “Di nuovo nella tana.”

Era irresistibile, col suo vestito inventato, e una delle lunghe collane di vertebre di agone, che fabbricava lei stessa. Aveva rinunciato al guinzaglio di seta, convinta della fedeltà del marito, e per la prima volta dal suo ritorno sembrava disporre di un momento di ozio. Aureliano non avrebbe avuto bisogno di vederla per sapere che era arrivata. Lei si appoggiò coi gomiti al tavolo di lavoro, così inerme e vicina che Aureliano percepì il profondo rumore delle sue ossa, e si interessò celle pergamene. Cercando di vincere il turbamento, lui ricuperò la voce che gli sfuggiva; la vita che lo lasciava, la memoria che gli si trasformava in un polipo pietrificato, e le parlò del destino levitico del sanscrito, della possibilità scientifica di vedere il futuro diafanizzato nel tempo come si vede controluce lo scritto nel rovescio di un foglio, della necessità di cifrare le previsioni affinché non si autoannientassero, e delle Centurie di Nostradamus e della distruzione della Cantabria annunciata da Sant’Emiliano. Improvvisamente, senza interrompere il discorso, spinto da un impulso che dormiva in lui fin dalle sue origini, Aureliano mise una mano su quella di lei, credendo che quella decisione finale avrebbe posto fine all’angoscia. Tuttavia, lei gli afferrò l’indice con l’affettuosa innocenza con la quale lo aveva fatto tante volte durante l’infanzia, e lo tenne stretto mentre lui continuava a rispondere alle sue domande. Rimasero così, vincolati da un indice di ghiaccio che non trasmetteva nulla in nessun senso, finché lei si svegliò dal suo sogno momentaneo e si diede una manata sulla fronte. “Le formiche!” esclamò. E allora si dimenticò dei manoscritti, raggiunse la porta con un passo di ballo, e da lì mandò ad Aureliano con la punta delle dita lo stesso bacio col quale aveva dato l’addio a suo padre il pomeriggio in cui l’avevano mandata a Bruxelles.

“Dopo mi spieghi,” disse. “Mi ero dimenticata che oggi devo mettere la calce nei buchi delle formiche.”

Continuò ad andare occasionalmente nella stanza quando aveva qualcosa da fare da quelle parti, e restava li pochi minuti, mentre suo marito continuava a scrutare il cielo. Illuso da quel cambiamento, Aureliano rimaneva allora a mangiare in famiglia, come non lo faceva fin dai pr imi mesi del ritorno di Amaranta Ursula. A Gastón fece piacere. Nelle conversazioni di fine pasto, che di solito si prolungavano per più di un’ora, si lamentava che i suoi soci lo stessero ingannando. Gli avevano annunciato l’imbarco dell’aeroplano su una nave che non arrivava, e benché i suoi agenti marittimi insistessero che non sarebbe mai arrivata perché non figura va negli elenchi delle navi dei Caraibi, i suoi soci si ostinavano a riconfermare che la spedizione era regolare e insinuavano perfino che Gastón mentisse nelle sue lettere. La corrispondenza raggiunse un così alto livello di diffidenza reciproca, che Gastón decise di non scrivere più, e cominciò ad avanzare la possibilità di un rapido viaggio a Bruxelles per mettere le cose in chiaro, e tornare con l’aeroplano. Tuttavia, il progetto andò in fumo non appena Amaranta Ursula reiterò la sua decisione di non muoversi da Macondo anche se fosse rimasta senza marito. Nei primi tempi, Aureliano compartì la opinione generalizzata che Gastón fosse un baggiano in velocipede, e ciò gli suscitò un vago senso di pietà. Più tardi, quando ottenne nei bordelli una nozione più profonda sulla natura degli uomini, pensò che la mansuetudine di Gastón aveva origine nella passione scatenata. Ma quando lo conobbe meglio, e si rese conto che il suo vero carattere era in contraddizione con il suo modo d’agire sottomesso, concepì il malizioso sospetto che perfino l’attesa dell’aeroplano fosse una farsa. Allora pensò che Gastón non era così baggiano come dava ad intendere, ma al contrario, un uomo dotato di una costanza, di un’abilità e di una pazienza infinite, che si era proposto di vincere la moglie con la stanchezza della eterna compiacenza, del mai dirle di no, del simulare una concordia senza limiti, lasciando che si avviluppasse nella sua stessa ragnatela, fino al giorno in cui non avesse più sopportato il tedio delle illusioni a portata di mano, e lei stessa avrebbe fatto le valigie per tornare in Europa. La primitiva pietà di Aureliano si trasformò in un’animavversione virulenta. Gli sembrò così perverso il sistema di Gastón, ma nello stesso tempo così efficace, che ebbe l’ardire di mettere in guardia Amaranta Ursula. Lei si fece beffe dei suoi sospetti, senza intravedere tuttavia la lacerante carica di amore, di incertezza e di gelosia che vi era contenuta. Non le venne in mente di aver suscitato in Aureliano qualcosa di più di un affetto fraterno, finché si tagliò un dito mentre cercava di aprire una scatola di pesche e lui si affrettò a succhiarle il sangue con un’avidità e una devozione che le fecero accapponare la pelle.

“Aureliano!” si mise a ridere, inquieta. “Sei troppo malizioso per essere un buon vampiro.”

Allora Aureliano non si frenò più. Dandole bacetti orfani nel cavo della mano ferita, aprì gli anditi più occulti del suo cuore, e ne tolse un viscere interminabile e macerato, il terribile animale parassitario che aveva incubato nel martirio. Le svelò che si alzava a mezzanotte per piangere di desolazione e di rabbia negli indumenti intimi che lei lasciava ad asciugare nel bagno. Le raccontò con quanta ansia pregava Nigromanta di strillare come una gatta e di singhiozzargli nell’orecchio gastón gastón gastón e con quanta astuzia saccheggiava le sue boccette di profumo per ritrovarlo nel collo delle ragazzine che facevano all’amore per fame. Spaventata per la passione di quello sfogo, Amaranta Ursula chiuse a poco a poco le dita, contraendole come un mollusco, finché la sua mano ferita, libera da ogni dolore e da ogni vestigio di misericordia, si trasformò in un groppo di smeraldi e topazi, e ossa petrose e insensibili.

“Bruto!” scattò, come se stesse sputando. “Me ne torno in Belgio con la prima nave che partirà.”

Alvaro era arrivato in una di quelle sere nella libreria del savio catalano, annunziando con voce stentorea la sua ultima scoperta: un bordello zoologico. Si chiamava El Niño de Oro, e era un immenso salone all’aria aperta, dove gironzolavano a loro piacere non meno di duecento aironi che marcavano l’ora con un crocidio assordante. Nei recinti di filo di ferro che circondavano la pista da ballo, e tra grandi camelie amazzoniche, c’erano garze colorate, caimani grossi come maiali, serpenti con dodici sonagli, e una tartaruga dal guscio dorato che si tuffava in un minuscolo oceano artificiale. C’era un cagnaccio bianco, mansueto e pederasta, che però prestava anche servizi di stallone purché gli dessero da mangiare. L’aria aveva una densità ingenua, come se l’avessero appena inventata, e le belle mulatte che aspettavano senza speranza tra petali sanguinosi e dischi passati di moda conoscevano artifizi d’amore che l’uomo aveva lasciato in dimenticanza nel paradiso terrestre. La prima notte in cui il gruppo andò a visitare quel semenzaio di illusioni, la splendida e taciturna vecchia che sorvegliava: l’ingresso in una poltrona di giunco sentì che il tempo ritornava alle sue sorgenti primitive, quando tra i cinque che arrivavano scoprì un uomo ossuto, citrigno, con zigomi tartari, marcato per sempre e dal principio del mondo dal buttero della solitudine.

“Ahi!” sospirò, “Aureliano!”

Stava rivedendo il colonnello Aureliano Buendìa, come lo aveva visto alla luce di una lampada molto prima delle guerre, molto prima della desolazione della gloria e dell’esilio del disinganno, quel remoto mattino in cui era andato nella sua stanza per impartire il primo ordine della sua vita: l’ordine che gli dessero l’amore. Era Pilar Terriera. Anni prima, dopo aver compiuto i centoquarantacinque, aveva rinunciato alla perniciosa abitudine di fare il calcolo della propria età, e continuava a vivere nel tempo statico e marginale dei ricordi, in un futuro perfettamente rivelato e stabilito, al di là dei futuri turbati dalle imboscate e dalle supposizioni insidiose delle carte.

Da quella notte, Aureliano si era rifugiato nell’affetto e nella comprensione compassionevole della trisnonna ignorata. Seduta nella poltrona di giunco, lei evocava il passato, ricostruiva la grandezza e la decadenza della famiglia e lo scomparso splendore di Macondo, mentre Alvaro spaventava i caimani con le sue risate strepitose, e Alfonso inventava la storia truculenta degli aironi che ave vano sbuzzato gli occhi a furia di beccate a quattro clienti che si erano comportati male la settimana prima, e Gabriel era nella stanza di una mulatta pensierosa che non barattava l’amore con denaro, ma con lettere per un fidanzato contrabbandiere che era in prigione dall’altra parte dell’Orinoco, perché le guardie di frontiera lo avevano purgato e poi lo avevano fatto sedere su un pitale che si era riempito di merda con diamanti. Quel bordello vero, con quella padrona materna, era il mondo che Aureliano aveva sognato nella sua prolungata clausura. Si sentiva così bene, così prossimo al sodalizio perfetto, che non pensò ad altro rifugio il pomeriggio in cui Amaranta Ursula gli polverizzò le illusioni. Andò disposto a sfogarsi con parole, cercando qualcuno che gli sbrogliasse i nodi che gli opprimevano il petto, ma riuscì soltanto a sciogliersi in un pianto fluido e caldo e riparatore, nel grembo di Pilar Ternera. Lei lo lasciò finire, grattandogli la testa con i polpastrelli delle dita, e senza che lui le avesse rivelato che stava piangendo d’amore, lei riconobbe immediatamente il pianto più antico della storia dell’uomo.

“Bene, marmocchio,” lo consolò: “ora dimmi chi è.”

Quando Aureliano glielo disse, Pilar Ternera emise una risata profonda, l’antica risata espansiva che aveva finito per sembrare un grugare di colomba. Non c’erano misteri nel cuore di un Buendìa che le fossero impenetrabili, perché un secolo di cartomanzia e di esperienza le aveva insegnato che la storia della famiglia era un ingranaggio di ripetizioni irreparabili, una ruota giratoria che avrebbe continuato a ronzare fino all’eternità, se non fosse stato per il logorio progressivo e irrimediabile dell’asse.

“Non preoccuparti,” sorrise. “In qualsiasi luogo si trovi ora, lei ti sta aspettando.”

Amaranta Ursula uscì dal bagno alle quattro e mezzo del pomeriggio. Aureliano la vide passare davanti alla sua stanza, con una vestaglia a pieghe tenui e un asciugamano arrotolato in giro alla testa come un turbante. La seguì quasi in punta di piedi, barcollando per la sbornia, ed entrò nella stanza nuziale nel momento in cui lei apriva la vestaglia e tornava a chiuderla spaventata. Fece un cenno silenzioso verso la stanza attigua, che aveva la porta socchiusa, e dove Aureliano sapeva che Gastòn era in procinto di scrivere una lettera.

“Vattene,” disse senza voce.

Aureliano sorrise, la sollevò per la vita con le due mani, come un vaso di. begonie, e la gettò supina sul letto. Con uno strattone brutale, la spogliò della tunica da bagno prima che lei avesse tempo di impedirglielo, e si sporse sull’abisso di una nudità appena lavata che non aveva né una sfumatura della pelle, né una venatura di peli, né un neo recondito che lui non avesse già immaginato nelle tenebre di altre stanze. Amaranta Ursula si difendeva sinceramente, con astuzie di femmina saggia, donnolando il suo scivoloso e flessibile e fragrante corpo di donnola, mentre tentava di massacrargli le reni con le ginocchia e gli scorpionava la faccia con le unghie, ma senza che né lui né lei emettessero un sospiro che non potesse confondersi con la respirazione di qualcuno che fosse in contemplazione del parsimonioso crepuscolo di aprile dalla finestra aperta. Era una lotta feroce, una battaglia a morte, che tuttavia sembrava sprovvista di qualsiasi violenza, perché fatta di aggressioni distorte e di elusioni spettrali, lente, prudenti, solenni, di modo che tra l’una e l’altra c’era il tempo perché tornassero a fiorire le petunie e che Gastòn dimenticasse i suoi sogni di aeronauta nella stanza vicina, come se fossero due amanti nemici in cerca della riconciliazione nel fondo di un acquario diafano. Nell’affanno dell’accanito e cerimonioso divincolio, Amaranta Ursula comprese che la meticolosità del suo silenzio era così irrazionale, che avrebbe potuto destare i sospetti del marito attiguo, assai più degli strepiti di guerra che cercavano di evitare. Allora cominciò a ridere con le labbra strette, senza rinunciare alla lotta, ma difendendosi con morsi falsi e sdonnolando il suo corpo a poco a poco, finché tutti e due si accorsero di essere al tempo stesso avversari e complici, e la zuffa degenerò in un ruzzo convenzionale e le aggressioni si trasformarono in carezze. Improvvisamente, come per gioco, come per un’altra monelleria, Amaranta Ursula trascurò la difesa, e quando cercò di reagire, spaventata di ciò che ella stessa aveva reso possibile, era ormai troppo tardi. Una commozione immane la immobilizzò nel suo centro di gravità, la seminò nel suo luogo, e la sua volontà difensiva fu demolita dall’ansia irresistibile di scoprire cosa erano i sibili aranciati e i globi invisibili che l’aspettavano dall’altra parte della morte. Ebbe appena il tempo di allungare la mano e cercare a tentoni l’asciugamano, e mettersi una mordacchia tra i denti, per non far uscire gli strilli di gatta che già le stavano straziando le viscere.

 Pilar Ternera morì nella poltrona di giunco, in una notte di festa, mentre sorvegliava l’entrata del suo paradiso. D’accordo con la sua ultima volontà, la seppellirono senza bara, seduta nella poltrona che otto uomini calarono con funi in un buco enorme, scavato in mezzo alla pista da ballo. Le mulatte vestite di nero, pallide di pianto, improvvisavano uffici delle tenebre mentre si toglievano gli orecchini, le spille e gli anelli, e li andavano gettando nella fossa, prima che la sigillassero con una lapide senza né nome né date e le collocassero sopra un promontorio di camelie amazzoniche. Dopo aver avvelenato gli animali, sbarrarono porte e finestre con mattoni e malta, e si dispersero per il mondo coi loro bauli di legno, tappezzati nell’interno con stampe di santi, cromi di riviste, e ritratti di fidanzati effimeri, remoti e fantastici, che cagavano diamanti, o che si mangiavano i cannibali, o che erano incoronati re di coppe in altomare.

Era la fine. Nella tomba di Pilar Ternera, tra salmi e conterie di puttane, imputridivano i ruderi dei passato, i pochi che rimanevano dopo che il savio catalano aveva liquidato la libreria ed era tornato nel villaggio mediterraneo dove era nato, sconfitto dalla nostalgia di una primavera tenace. Nessuno avrebbe potuto presentire la sua decisione. Era arrivato a Macondo nello splendore della compagnia bananiera, fuggendo da una delle tante guerre, e non gli era venuto in mente nulla di più pratico dell’apertura di quella libreria di incunaboli e edizioni originali in varie lingue, che i clienti casuali sfogliavano con prudenza, come se fossero libri da mondezzaio, mentre aspettavano il turno per farsi interpretare i sogni nella casa di fronte. Passò metà della vita nel soffocante retrobottega, scarabocchiando con la sua scrittura preziosista in inchiostro viola e su fogli che strappava da quaderni scolastici, senza che nessuno sapesse con esattezza che cosa stava scrivendo. Quando Aureliano lo conobbe aveva due casse piene di quelle pagine fitte che in un certo modo facevano pensare alle pergamene di Melquìades, e da allora fino a quando se ne andò ne aveva riempito una terza, così che si poteva pensare ragionevolmente che non avesse fatto altro durante la sua permanenza a Macondo. Le uniche persone con le quali ebbe rapporti furono i quattro amici, ai quali sostituì coi libri le trottole e gli aquiloni, e li mise a leggere Seneca e Ovidio quando ancora andavano alle elementari. Trattava i classici con una familiarità casalinga, come se tutti fossero stati in qualche epoca suoi compagni di stanza, e sapeva molte cose che semplicemente non si dovevano sapere, come che Sant’Agostino portava sotto l’abito un giubbotto di lana che non si tolse per quattordici anni, e che Arnaldo de Vilanova, il negromante, era diventato impotente fin da bambino per il morso di uno scorpione. Il suo fervore per la parola scritta era una mescolanza di rispetto solenne e di irriverenza pettegola. Nemmeno i suoi stessi scritti erano esenti da quel dualismo. Avendo imparato il catalano per tradurli, Alfonso si mise un rotolo di fogli in tasca, che aveva sempre piene di ritagli di giornale e di manuali di mestieri strani, e una notte li perse nella casa delle ragazzine che facevano all’amore per fame. Quando il nonno savio lo venne a sapere, invece di fargli la sfuriata temuta commentò scoppiando a ridere che quello era il destino naturale della letteratura. In cambio, non ci fu potere umano capace di persuaderlo di non tirarsi dietro le tre casse quando fece ritorno al suo villaggio natale, e si lasciò andare ad improperi cartaginesi contro i funzionari della ferrovia che cercavano di spedirli come carico, finché riuscì a portarli con sé nel vagone passeggeri. “Il mondo avrà finito di scoglionarsi,” disse allora, “il giorno in cui gli uomini viaggeranno in prima classe e la letteratura nel carro merci.” Fu l’ultima cosa che gli si sentì dire. Aveva passato una settimana nera nei preparativi finali del viaggio, perché a mano a mano che si avvicinava l’ora gli si decomponeva la disposizione d’animo, gli si confondevano le intenzioni, e le cose che metteva in un posto ricomparivano in un altro, assediato dagli stessi spiriti che tormentavano Fernanda.

“Collons,” malediceva. “Me ne sbatto del canone 27 del sinodo di Londra.”

Germàn e Aureliano si presero cura di lui. Lo aiutarono come un bambino, gli assicurarono i biglietti e i documenti migratori nelle tasche con spille da balia, gli prepararono un elenco particolareggiato di quello che doveva fare da quando fosse uscito da Macondo a quando fosse sbarcato a Barcellona, ma in ogni modo buttò nella spazzatura senza accorgersene un paio di pantaloni con la metà del suo denaro. Alla vigilia del viaggio, dopo aver inchiodato le casse e aver messo la roba nella stessa valigia con la quale era arrivato, aggrottò le sue palpebre da arsella, segnò con una specie di benedizione procace i mucchi di libri coi quali aveva sopportato l’esilio, e disse ai suoi amici:

“Vi lascio lì quella merda!”

Tre mesi dopo ricevettero in una grande busta ventinove lettere e più di cinquanta fotografie, che aveva accumulato negli ozi dell’altomare. Anche se non c’erano date era evidente l’ordine col quale aveva scritto le lettere. Nelle prime raccontava col suo solito spirito le peripezie della traversata, la voglia che gli era venuta di buttare a mare il funzionario della nave che non gli aveva permesso di mettere le tre casse nella cabina, l’imbecillità lucida di una signora terrorizzata dal numero 13, non per superstizione ma perché le sembrava un numero rimasto sempre incompleto, e la scommessa che aveva vinto durante la prima cena perché aveva riconosciuto l’acqua di bordo dal sapore di barbabietole notturne delle sorgenti di Lérida. Col passare dei giorni, tuttavia la realtà di bordo gli importava sempre meno, e perfino gli avvenimenti più recenti e triviali gli sembravano degni di nostalgia, perché a mano a mano che la nave si allontanava, la memoria gli si andava intristendo. Quel processo di nostalgizzazione progressiva era evidente anche nelle fotografie. Nelle prime sembrava felice, con la sua camicia di invalido e il suo ciuffo di neve, nel rutilante ottobre dei Caraibi. Nelle ultime lo si vedeva con un cappotto scuro e una sciarpa di seta, pallido di se stesso e taciturnato dall’assenza, sul ponte di una nave di afflizione che cominciava a sonnambulare per oceani autunnali. Germàn e Aureliano rispondevano alle sue lettere. Ne scrisse così tante nei primi mesi, che si sentirono più vicini a lui allora di quando era a Macondo, e quasi gli passava la rabbia che se ne fosse andato. Sulle prime mandava a dire che tutto era uguale come una volta, che nella casa dove era nato c’era ancora la chiocciola rosa, che le aringhe affumicate avevano sempre lo stesso sapore nella corteccia di pane, che le cascate del villaggio continuavano a profumarsi verso sera. Erano di nuovo i fogli di quaderno trapuntati di scarabocchi viola, nei quali dedicava un paragrafo speciale ad ognuno. Tuttavia, e anche se lui stesso non ne pareva conscio, quelle lettere di ricupero e di stimolo si andavano trasformando a poco a poco in pastorali di delusione. Nelle notti d’inverno, mentre faceva cuocere la minestra nel camino, soffriva la nostalgia del caldo del suo retrobottega, il ronzio del sole nei mandorli polverosi, il fischio del treno nel sopore della siesta, proprio come a Macondo soffriva la nostalgia della minestra invernale nel camino, del richiamo del venditore di caffè e delle lodole fugaci della primavera. Stordito da due nostalgie opposte come due specchi, perse il suo meraviglioso senso della irrealtà, e alla fine raccomandò a tutti che se ne andassero da Macondo, che dimenticassero tutto quello che lui gli aveva insegnato del mondo e del cuore umano, che se ne fottessero di Orazio, e che in qualsiasi luogo si fossero trovati si ricordassero sempre che il passato era menzogna, che la memoria non aveva vie ritorno, che qualsiasi primavera antica è irrecuperabile, e che l’amore più sfrenato e tenace era in ogni modo una verità effimera.

Alvaro fu il primo a seguire il consiglio di lasciare Macondo. Vendette tutto, perfino la tigre prigioniera che si burlava dei passanti nei patio della sua casa, e comprò un biglietto eterno per un treno che non finì mai di viaggiare. Nelle cartoline postali che mandava dalle stazioni intermedie, descriveva a sprazzi le immagini istantanee che aveva visto dal finestrino del vagone, ed era come sminuzzare e gettate nell’oblio il lungo poema della fugacità: i negri chimerici nei campi di cotone della Louisiana, i cavalli alati nell’erba azzurra del Kentucky, gli amanti greci nel crepuscolo infernale dell’Arizona, la ragazza col golfino rosso che dipingeva acquerelli nei laghi del Michigan, e che gli aveva fatto coi pennelli un cenno di addio che non era di commiato ma di speranza, perché ignorava che stava vedendo passare un treno senza ritorno. Poi se ne andarono Alfonso e Germàn, un sabato, con l’idea di tornare il lunedì, e non si seppe più nulla di loro. Un anno dopo la partenza del savio catalano, l’unico che era rimasto a Macondo era Gabriel, sempre alla deriva, alla mercé della precaria carità di Nigromanta, e occupato a rispondere ai questionari del concorso di una rivista francese, il cui primo premio era un viaggio a Parigi. Aureliano, che era l’intestatario dell’abbonamento, lo aiutava a riempire i formulari, certe volte in casa sua, e quasi sempre tra i barattoli di ceramica e l’aria di valeriana dell’unica farmacia rimasta aperta a Macondo, dove viveva Mercedes, l’arcana fidanzata di Gabriel. Erano le ultime cose che rimanevano di un passato il cui annichilamento non si consumava, perché continuava ad annichilarsi indefinitamente, consumandosi dentro se stesso, terminandosi in ogni minuto ma senza terminare di terminarsi mai. Il villaggio era giunto a tali estremi di inattività, che quando Gabriel vinse il concorso e se ne andò a Parigi con due ricambi di roba, un paio di scarpe e le opere complete di Rabelais, dovette far dei segnali al macchinista perché il treno si fermasse a raccoglierlo. L’antica Strada dei Turchi era allora un angolo di abbandono, dove gli ultimi arabi si lasciavano portare verso la morte dall’abitudine millenaria di sedersi sulla porta, anche se ormai da molti anni avevano venduto l’ultimo metro di diagonale, e se nelle vetrine scure restavano soltanto i manichini decapitati. La città della compagnia bananiera, che forse Patricia Brown cercava di rievocare per i suoi nipoti nelle notti di intolleranza e cetrioli sottaceto di Prattville, Alabama, era una pianura di erba silvestre. Il vecchio pre te che aveva sostituito padre Angel, e il cui nome nessuno fece la fatica di chiedergli, aspettava la pietà di Dio rovesciato nell’amaca, afflitto dall’artrite e dall’insonnia del dubbio, mentre le lucertole e i topi si disputavano l’eredità del tempio vicino.

In quella Macondo dimenticata perfino dagli uccelli, dove la polvere e il caldo si erano fatti così tenaci che si faceva fatica a respirare, reclusi dalla solitudine e dall’amore e dalla solitudine dell’amore in una casa dove era quasi impossibile dormire per il baccano delle formiche rosse, Aureliano e Amaranta Ursula erano gli unici esseri felici, e i più felici sulla terra.

Gastòn era tornato a Bruxelles. Stanco di aspettare l’aeroplano, un giorno mise in una valigetta le cose indispensabili e il suo archivio di corrispondenza e se ne andò con l’intenzione di tornare per via aerea, prima che i suoi privilegi venissero ceduti a un gruppo di aviatori tedeschi che avevano presentato alle autorità provinciali un progetto pii ambizioso del suo. Dal pomeriggio del primo amore, Aureliano e Amaranta Ursula avevano continuato ad approfittare delle scarse assenze del marito, amandosi con ardori imbavagliati in incontri azzardati e quasi sempre interrotti da ritorni imprevisti. Ma quando si ritrovarono soli nella casa soccombettero al delirio degli amori arretrati. Era una passione insensata, scriteriata, che faceva tremare di vergogna nella sua tomba i resti di Fernanda, e li manteneva in uno stato di esaltazione perpetua. Gli strilli di Amaranta Ursula, le sue canzoni agoniche, esplodevano sia alle due del pomeriggio sul tavolo della sala da pranzo, che alle due del mattino nel granaio. “Quello che più mi spiace,” rideva, “è tutto il tempo che abbiamo perso.” Nello stordimento della passione, vide le formiche che devastavano il giardino, saziando la loro fame preistorica coi legni della casa, e vide il torrente di lava viva che si impadroniva di nuovo del portico, ma si preoccupò di combatterlo soltanto quando lo trovò nella sua stanza. Aureliano abbandonò le pergamene, non tornò più a uscire di casa, e rispondeva frettolosamente alle lettere del savio catalano. Persero il senso della realtà, la nozione del tempo, il ritmo delle abitudini quotidiane. Tornarono a sbarrare porte e finestre per non perdere il tempo in faccende di denudamenti, e giravano per la casa come avrebbe voluto stare sempre Remedios la bella, e si rotolavano nudi nella melma del patio, e un pomeriggio furono sul punto di affogare mentre si amavano nella cisterna. In poco tempo fecero più stragi delle formiche rosse: schiantarono i mobili del salo tto, lacerarono con le loro follie l’amaca che aveva resistito ai tristi amori di accampamento del colonnello Aureliano Buendìa, e sventrarono i materassi e li vuotarono per terra per soffocarsi in tempeste di cotone . Benché Aureliano fosse un amante feroce quanto il suo rivale, era Amaranta Ursula che dirigeva con la sua fantasia stravagante e la sua voracità lirica quel paradiso di disastri, come se avesse concentrato nell’amore l’indomita energia che la trisnonna aveva consacrato alla fabbricazione di animaletti di caramello. Inoltre, mentre lei cantava di piacere e moriva di risa per le sue stesse invenzioni, Aureliano si andava facendo più assorto e silenzioso, perché la sua passione era introversa e calcinante. Tuttavia, entrambi giunsero a tali estremi di virtuosismo, che quando si esaurivano nell’esaltazione sfruttavano in modo migliore la stanchezza. Si abbandonarono all’idolatria dei loro corpi, quando scoprirono che il tedio dell’amore aveva delle possibilità inesplorate, molto più ricche di quelle del desiderio. Mentre lui impastava con chiare d’uovo i seni erettili di Amaranta Ursula, o addolciva con burro di cocco le sue cosce elastiche e il suo ventre duracinato, lei giocava alle bambole con la portentosa creatura di Aureliano, e le pitturava occhi di pagliaccio col rossetto delle labbra e baffi di turco col rimmel delle ciglia, e le metteva cravattini di organdi e cappellini di carta stagnola. Una notte si spalmarono dalla testa ai piedi con pesche allo sciroppo, e si lambirono come cani e si amarono come pazzi sul pavimento del portico, e, furono svegliati da un torrente di formiche carnivore che si accingevano a divorarli vivi.

Nelle pause del delirio, Amaranta Ursula rispondeva alle lettere di Gastòn. Lo sentiva così distante e occupato, che il suo ritorno le sembrava impossibile. In una delle prime lettere le scrisse che in effetti i suoi soci avevano mandato l’aeroplano, ma che una agenzia marittima di Bruxelles lo aveva imbarcato per errore con destinazione Tanganica, dove era stato consegnato alla sperduta comunità dei Makondos. Quella confusione causava tanti contrattempi che solo per il recupero dell’aeroplano ci sarebbero forse voluti due anni. E così Amaranta Ursula scartò la possibilità di un ritorno inopportuno. Aureliano, da parte sua, non aveva altro contatto col mondo che le lettere del savio catalano, e le notizie che riceveva di Gabriel attraverso Mercedes, la farmacista silenziosa. Sulle prime erano contatti reali. Gabriel si era fatto rimborsare il viaggio di ritorno per restare a Parigi, a vendere giornali arretrati e bottiglie vuote che le cameriere toglievano da un albergo lugubre della rue Dauphine. Aureliano poteva figurarselo allora con un maglione a collo alto che si toglieva soltanto quando le terrazze di Montparnasse si affollavano di innamorati primaverili, e preoccupato di dormire di giorno e di scrivere di notte per ingannare la fame, nella stanza odorosa di spuma di cavolfiori bolliti dove sarebbe morto Rocamadour. Tuttavia, le sue notizie si vennero facendo a poco a poco così incerte, e così sporadiche e malinconiche le carte del savio, che Aureliano si abituò a pensare a loro come Amaranta Ursula pensava a suo marito, e rimasero tutti e due sospesi in un universo vuoto, dove l’unica realtà quotidiana ed eterna era l’amore.

Improvvisamente, come uno scoppio in quel mondo di incoscienza felice, giunse la notizia del ritorno di Gastòn. Aureliano e Amaranta Ursula aprirono gli occhi, sondarono le loro anime, si guardarono in faccia con la mano sul cuore, e compresero che erano così identificati da preferire la morte alla separazione. Allora lei scrisse al marito una lettera di verità contraddittorie, nella quale gli reiterava il suo amore e la sua impazienza di rivederlo, e nello stesso tempo ammetteva come un disegno del fato l’impossibilità di vivere senza Aureliano. Al contrario di ciò che entrambi si aspettavano, Gaston mandò loro una risposta tranquilla, quasi paterna, con due fogli interi consacrati a prevenirli contro le velleità della passione, e un paragrafo finale con auguri inequivocabili di tanta felicità quanta ne aveva avuta lui nella sua breve esperienza coniugale. Era un comportamento così imprevisto che Amaranta Ursula si sentì umiliata all’idea di aver offerto al marito il pretesto che lui desiderava per abbandonarla al suo destino. Il rancore le aumentò sei mesi dopo, quando Gastòn le scrisse di nuovo da Leopoldville, dove finalmente aveva ricevuto l’aeroplano, solo per pregarla che gli mandassero il velocipede, che di tutto ciò che aveva lasciato a Macondo era l’unica cosa che conservava per lui un valore sentimentale. Aureliano sopportò con pazienza il risentimento di Amaranta Ursula, si sforzò di dimostrarle che poteva essere un buon marito sia nella buona che nella cattiva sorte, e le necessità quotidiane che li assediavano quando finirono gli ultimi soldi di Gastòn crearono tra loro un vincolo di solidarietà che non era proprio abbagliante e inebriante come la passione, ma che gli servì per amarsi tanto ed essere tanto felici quanto lo erano stati nei primi tempi turbolenti della salacità. Quando morì Pilar Ternera stavano aspettando un figlio.

Nel sopore della gravidanza, Amaranta Ursula cercò di organizzare una industria di collane di vertebre di pesci. Ma ad eccezione di Mercedes, che gliene comprò una dozzina, non trovò a chi venderle. Aureliano fu consapevole per la prima volta che le sue doti di linguista, la sua sapienza enciclopedica, la sua rara facoltà di ricordare senza conoscerli i dettagli di fatti e luoghi remoti, erano inutili quanto lo scrigno di pietre preziose di sua moglie, che in quell’epoca doveva valere tanto quanto tutto il denaro di cui avrebbero potuto disporre, insieme, gli ultimi abitanti di Macondo. Sopravvivevano per miracolo. Benché Amaranta Ursula non perdesse il buonumore, né la sua ingegnosità per le mattane erotiche, prese l’abitudine di sedersi nel porticato dopo pranzo, in una specie di siesta insonne e pensierosa. Aureliano le faceva compagnia. Certe volte rimanevano in silenzio fino al calar della sera, l’uno davanti all’altra, guardandosi negli occhi, amandosi nella serenità con tanto amore quanto prima si erano amati nello scandalo. L’incertezza del futuro li portò a rivolgere il cuore verso il passato. Si videro nel paradiso perduto del diluvio, intenti a sguazzare nei pantani del patio, a uccidere lucertoline per appenderle ad Ursula, a giocare a seppellirla viva, e quelle rievocazioni rivelarono la verità che erano stati felici insieme fin da quando se ne potevano ricordare. Scandagliando nel passato, Amaranta Ursula si ricordò del pomeriggio in cui era entrata nel laboratorio di oreficeria e sua madre le aveva raccontato che il piccolo Aureliano non era figlio di nessuno perché era stato trovato in un cestino galleggiante sul fiume. Benché la versione sembrasse loro inverosimile, non avevano altre fonti di informazione per sostituirla con la verità. Erano sicuri di un’unica cosa, dopo aver esaminato tutte le possibilità, e cioè che Fernanda non era la madre di Aureliano. Amaranta Ursula era propensa a credere che fosse figlio di Petra Cotes, della quale ricordava soltanto storie infamanti, e quella supposizione le produsse nell’animo una stretta d’orrore.

Tormentato dalla certezza d’essere fratello di sua moglie, Aureliano fece una scappata nella casa parrocchiale per cercare negli archivi trasudanti e tarmati qualche traccia sicura della sua filiazione. L’atto di battesimo più antico che trovò era quello di Amaranta Buendìa, battezzata nell’adolescenza da padre Nicanor Reyna, nell’epoca in cui questi andava cercando di provare l’esistenza di Dio con artifici di cioccolata. Giunse a illudersi della possibilità di essere uno dei diciassette Aureliani, i cui atti di nascita rintracciò attraverso quattro torni, ma le date di battesimo erano troppo remote per la sua età. Vedendolo sperduto in labirinti di sangue, tremante di incertezza, il parroco artritico che lo osservava dall’amaca gli chiese compassionevolmente come si chiamasse.

“Aureliano Buendìa,” disse lui.

“Allora non affannarti a cercare,” esclamò il parroco con una convinzione risolutiva. “Molti anni fa c’era una strada che si chiamava così, e a quei tempi la gente aveva l’abitudine di dare ai bambini il nome delle strade.’’

Aureliano tremò di rabbia.

“Ah!” disse, “allora non ci crede nemmeno lei.”

“A che cosa?”

“Che il colonnello Aureliano Buendìa ha fatto trentadue guerre civili e le ha perse tutte,” rispose Aureliano. “Che l’esercito ha asserragliato e mitragliato tremila lavoratori, e che si sono portati via i cadaveri per gettarli in mare in un treno di duecento vagoni.”

Il parroco lo misurò con uno sguardo di compassione.

“Ahi, figlio mio,” sospirò. “A me basterebbe essere sicuro che tu e io esistiamo in questo momento.”

Di modo che Aureliano e Amaranta Ursula accettarono la versione del cestino, non perché vi credessero, ma perché ciò li metteva in salvo dai loro terrori. A mano a mano che avanzava la gravidanza si andavano convertendo in un essere unico, si integravano sempre di più nella solitudine di una casa a cui mancava soltanto un ultimo soffio per rovinare. Si erano ridotti a uno spazio essenziale, dalla stanza di Fernanda, dove intravidero i fascini dell’amore sedentario, all’inizio della galleria, dove Amaranta Ursula si sedeva a confezionare scarpette e cuffiette di neonato, e Aureliano a rispondere alle lettere occasionali del savio catalano. Il resto della casa si arrese all’assedio tenace della distruzione. Il laboratorio di oreficeria, la stanza di Melquiades, i regni primitivi e silenziosi di Santa Sofia de Piedad rimasero nel fondo di una selva domestica che nessuno avrebbe avuto la temerarietà di sviscerare. Attorniati dalla voracità della natura, Aureliano e Amaranta Ursula continuavano a coltivare l’origano e le begonie e difendevano il loro mondo con demarcazioni di calce, costruendo le ultime trincee della guerra immemorabile tra l’uomo e le formiche. I capelli lunghi e non curati, i lividi che le spuntavano sulla faccia, il gonfiore delle gambe, la deformazione dell’antico e amoroso corpo di donnola, avevano cambiato ad Amaranta Ursula l’aspetto giovanile di quando era entrata nella casa con la gabbia di canarini sfortunati e col marito tenuto al guinzaglio, ma non le alterarono la vivacità dello spirito. “Merda,” usava ridere. “Chi avrebbe pensato che davvero avremo finito per vivere come antropofaghi.” L’ultimo filo che li vincolava al mondo si ruppe nel sesto mese di gravidanza, quando ricevettero una lettera che evidentemente non era del savio catalano. Era stata imbucata a Barcellona, ma l’indirizzo era stato scritto con inchiostro azzurro convenzionale da una calligrafia amministrativa, e aveva l’aspetto innocente e impersonale dei messaggi ostili. Aureliano la strappò dalle mani di Amaranta Ursula mentre questa si accingeva ad aprirla.

“Questa no,” le disse. “Non voglio sapere cosa c’è scritto.”

Proprio come aveva previsto, il savio catalano non tornò a scrivere. La carta estranea, che nessuno lesse, restò alla mercé delle tarme sullo scaffale dove Fernanda aveva dimenticato una volta il suo anello matrimoniale, e lì rimase a consumarsi nel fuoco interiore della sua cattiva notizia, mentre gli amanti solitari navigavano nella corrente di quei tempi postremi, tempi impenitenti e infausti, che si logoravano nell’ostinazione inutile di farli deviare verso il deserto del disincanto e dell’oblio. Coscienti di quella minaccia, Aureliano e Amaranta Ursula passarono gli ultimi mesi con la mano nella mano, terminando con amori di lealtà il figlio iniziato con sfrenatezze di fornicazione. Di notte, abbracciati nel letto, non li spaventavano le esplosioni sublunari delle formiche, né il fragore delle tarme, né il sibilo costante e nitido della crescita dello sterpeto nelle stanze vicine. Molte volte furono svegliati dal traffico dei morti. Udirono Ursula che litigava con le leggi della creazione per preservare la stirpe, e José Arcadio Buendia che cercava la verità chimerica delle grandi invenzioni, e Fernanda che pregava, e il colonnello Aureliano Buendia che si abbrutiva con inganni di guerra e pesciolini d’oro, e Aureliano Secondo che agonizzava di solitudine nello stordimento dei bagordi, e allora impararono che le ossessioni dominanti prevalgono contro la morte, e tornarono a essere felici nella certezza che essi avrebbero continuato ad amarsi con le loro nature di apparizioni, molto tempo dopo che altre specie di animali futuri carpissero agli insetti il paradiso di miseria che gli insetti stavano finendo di carpire agli uomini.

Una domenica, alle sei del pomeriggio, Amaranta Ursula sentì i dolori del parto. La sorridente mammana delle ragazzine che facevano all’amore per fame la fece salire sul tavolo da pranzo, le si mise cavalcioni sul ventre, e la maltrattò con colpi bestiali finché le sue urla furono chetate dai vagiti di un maschio formidabile. Attraverso le lacrime, Amaranta Ursula vide che era un Buendia di quelli grandi, massiccio e caparbio come i José Arcadio, con gli occhi aperti e chiaroveggenti degli Aureliani, e predisposto a cominciare di nuovo la stirpe dal principio e a purificarla dai suoi vizi perniciosi e dalla sua vocazione solitaria, perché era l’unico in un secolo a essere stato generato con amore.

“È tutto un antropofago,” disse. “Si chiamerà Rodrigo.”

“No,” la contraddisse suo marito. “Si chiamerà Aureliano e vincerà trentadue guerre.”

Dopo avergli tagliato l’ombelico, la mammana comincio a togliergli con uno straccio l’unguento azzurro che gli copriva il corpo, illuminata da Aureliano con una lampada. Solo quando lo voltarono bocconi si accorsero che aveva qualcosa in più del resto degli uomini, e si curvarono per esaminarlo. Era una coda di maiale.

Non si spaventarono. Aureliano e Amaranta Ursula non conoscevano il precedente familiare, né si ricordavano delle paurose ammonizioni di Ursula, e la mammana li tranquillizzò definitivamente con la supposizione che quella coda inutile poteva essere tagliata quando il bambino avesse cambiato i denti. Poi non ebbero più occasione di pensare alla coda, perché Amaranta Ursula si stava dissanguando in una sorgente incontenibile. Cercarono di soccorrerla con applicazioni di ragnatele e compresse di cenere, ma era come soffocare una fontana con le mani. Nelle prime ore, lei si sforzava di conservare il buonumore. Afferrava la mano allo sconvolto Aureliano, e lo supplicava di non preoccuparsi, perché la gente come lei non era fatta per morire controvoglia, e scoppiava a ridere davanti ai mezzi truculenti della mammana. Ma a mano a mano che Aureliano perdeva la speranza, lei si faceva sempre meno visibile, come se la stessero cancellando dalla luce, finché si immerse nel sopore. Allo spuntare del lunedì, portarono una donna che pregò vicino al suo letto orazioni di cauterio, infallibili per uomini e animali, ma il sangue appassionato di Amaranta Ursula era insensibile ad ogni artificio diverso dall’amore. Nel pomeriggio, dopo ventiquattro ore di disperazione, seppero che era morta perché il flusso si esaurì senza aiuti, e le si affilò il profilo, e le lividure della faccia le si dissolsero in un’aurora di alabastro, e tornò a sorridere.

Aureliano non comprese fino a quel momento quanto voleva bene ai suoi amici, quanto gli mancavano e quanto avrebbe dato per essere con loro in quel momento. Mise il bimbo nel cestino che sua madre gli aveva preparato, coprì la faccia al cadavere con una coperta, vagò senza meta per il villaggio deserto, cercando uno spiraglio di ritorno al passato. Bussò alla porta della farmacia, dove non era stato negli ultimi tempi, e quello che rovo fu un laboratorio di falegnameria. La vecchia che gli aprì la porta con una lampada in mano ebbe compassione del suo delirio, e insistette che no, che lì non c’era mai stata una farmacia, e che non aveva mai conosciuto una donna col collo sottile e occhi sonnolenti che si chiamasse Mercedes. Pianse con la fronte appoggiata alla porta dell’antica libreria del savio catalano cosciente di star pagando i pianti ritardati di una morte che non aveva voluto piangere in tempo per non spezzare le malie dell’amore. Si scorticò i pugni contro le pareti di malta del Niño de Oro, chiamando Pilar Ternera, indifferente ai dischi aranciati che intersecavano il cielo, e che tante volte aveva contemplato con un’affascinazione puerile, nelle notti di festa, dal patio degli aironi. Nell’ultima sala aperta dello smantellato rione di tolleranza un complesso di fisarmoniche stava suonando le canzoni di Rafael Escalona, il nipote del vescovo, erede dei segreti di Francisco el Hombre. L’oste, che aveva un braccio secco e come bruciacchiato per averlo levato contro sua madre, offrì ad Aureliano una bottiglia di acquavite, e Aureliano gliene offrì un’altra. L’oste gli parlò della disgrazia del suo braccio. Aureliano gli parlò della disgrazia del suo cuore, secco e come bruciacchiato per averlo levato contro sua sorella. Finirono per piangere insieme e Aureliano sentì per un momento che il dolore era finito. Ma quando rimase di nuovo solo nell’ultima alba di Macondo, si mise a braccia aperte in mezzo alla piazza, disposto a svegliare il mondo intero, e gridò con tutta l’anima:

“Gli amici sono dei figli di puttana!”

Nigromanta lo ricuperò da una pozza di vomito e di lacrime. Lo portò nella sua stanza, gli fece bere una tazza di brodo. Credendo di poterlo consolare, cancellò con un colpo di tizzone gli innumerevoli amori che Aureliano le doveva ancora, e rievocò volontariamente le proprie tristezze più solitarie per non lasciarlo solo nel pianto. Quando spuntò il giorno, dopo un sonno torbido e breve, Aureliano riprese coscienza del suo mal di capo. Aprì gli occhi e si ricordò del bambino.

Non lo trovò nel cestino. Nel primo momento provò una deflagrazione di gioia, credendo che Amaranta Ursula si fosse svegliata dalla morte per occuparsi del bambino. Ma il cadavere era un promontorio di pietre sotto la coperta. Ricordandosi che quando era arrivato aveva trovato aperta la porta della stanza, Aureliano attraversò il corridoio saturato dai sospiri mattutini dell’origano, e si affacciò nel portico, dove c’erano ancora le mondiglie del parto: la pentola grande, le lenzuola insanguinate, i testi di cenere, e l’ombelico ritorto del bambino in un panno aperto sul tavolo, vicino alle forbici e al cordoncino di seta. L’idea che la mammana fosse tornata a prendere il bambino nel corso della notte gli procurò una pausa di calma per pensare. Si lasciò andare nella sedia a dondolo, nella stessa in cui si era seduta Rebeca nella prima epoca della casa per dare lezioni di ricamo, e nella quale Amaranta giocava a dama cinese col colonnello Gerineldo Màrquez, e nella quale Amaranta Ursula cuciva il corredino del bimbo, e in quel lampo di lucidità ebbe coscienza che era incapace di sopportare nell’animo il peso opprimente di tanto passato. Ferito dalle lance mortali delle nostalgie proprie e altrui, ammirò l’impavidità della ragnatela sui rosai morti, la perseveranza della zizzania, la pazienza dell’aria nella raggiante mattinata di febbraio. E allora vide il bambino. Era una carcassa gonfia e inaridita, che tutte le formiche del mondo stavano trascinando laboriosamente verso le loro tane lungo il sentiero di pietre dei giardino. Aureliano non poté muoversi. Non perché lo avesse paralizzato lo stupore, ma perché in quell’istante prodigioso gli si rivelarono le chiavi definitive di Melquìades, e vide l’epigrafe delle pergamene perfettamente ordinata nel tempo e nello spazio degli uomini: Il primo della stirpe è legato a un albero e l’ultimo se lo stanno mangiando le formiche.

Aureliano non era mai stato così lucido in nessun atto della sua vita come quando dimenticò i suoi morti e il dolore dei suoi morti, e tornò a sbarrare le porte e le finestre con le crociere di Fernanda per non lasciarsi turbare da alcuna tentazione del mondo, perché allora sapeva che nelle pergamene di Melquiades era scritto il suo destino. Le trovò intatte, tra le piante preistoriche e le pozze fumanti e gli insetti luminosi che avevano bandito dalla stanza ogni vestigio del passaggio degli uomini sulla terra, e non ebbe la serenità di portarle alla luce, ma in quel luogo stesso, in piedi, senza la minima difficoltà, come se fossero state scritte in spagnolo sotto lo splendore accecante del mezzogiorno, come a decifrarle a voce alta. Era la storia della famiglia, scritta da Melquiades perfino nei suoi particolari più triviali, con cent’anni di anticipo. L’aveva redatta in sanscrito, che era la sua lingua materna, e aveva cifrato i versi pari con la chiave privata dell’imperatore Augusto, e quelli dispari con chiavi militari lacedemoni. La protezione finale, che Aureliano cominciava a intravedere quando si era lasciato confondere dall’amore di Amaranta Ursula, si basava sul fatto che Melquiades non aveva ordinato i fatti nel tempo convenzionale degli uomini, ma che aveva concentrato un secolo di episodi quotidiani, di modo che tutti coesistessero in un istante. Affascinato dalla scoperta, Aureliano lesse ad alta voce, senza salti, le encicliche cantate che lo stesso Melquiades aveva fatto ascoltare ad Arcadio, e che erano in realtà le predizioni della sua esecuzione, e trovò annunziata la nascita della donna più bella del mondo che stava salendo al cielo in corpo e anima, e conobbe l’origine di due gemelli postumi che rinunciavano a decifrare le pergamene, non soltanto per incapacità e incostanza, ma perché i loro tentativi erano prematuri. A questo punto, impaziente di conoscere la propria origine, Aureliano passò oltre. Allora cominciò il vento, tiepido, incipiente, pieno di voci del passato, di mormorii di gerani antichi, di sospiri di delusioni anteriori alle nostalgie più tenaci. Non se ne accorse perché in quel momento stava scoprendo i primi indizi del suo essere, in un nonno concupiscente che si lasciava trascinare dalla frivolità attraverso un altipiano allucinato, in cerca di una donna bella che non lo avrebbe fatto felice. Aureliano lo riconobbe, incalzò i sentieri occulti della sua discendenza, e trovò l’istante del suo stesso concepimento tra gli scorpioni e le farfalle gialle di un bagno crepuscolare, dove un avventizio saziava la sua lussuria con una donna che gli si dava per ribellione. Era così assorto, che non sentì nemmeno il secondo assalto del vento, la cui potenza ciclonica strappò dai cardini le porte e le finestre, svelse il tetto dell’ala orientale e sradicò le fondamenta. Soltanto allora scoprì che Amaranta Ursula non era sua sorella, ma sua zia, e che Francis Drake aveva assaltato Riohacha soltanto perché loro potessero cercarsi per i labirinti più intricati del sangue, fino a generare l’animale mitologico che avrebbe posto termine alla stirpe. Macondo era già un pauroso vortice di polvere e macerie, centrifugato dalla collera dell’uragano biblico, quando Aureliano saltò undici pagine per non perder tempo con fatti fin troppo noti, e cominciò a decifrare l’istante che stava vivendo, e lo decifrava a mano a mano che lo viveva, profetizzando se stesso nell’atto di decifrare l’ultima pagina delle pergamene, come se si stesse vedendo in uno specchio parlante. Allora saltò oltre per precorrere le predizioni e appurare la data e le circostanze della sua morte. Tuttavia, prima di arrivare al verso finale, aveva già compreso che non sarebbe mai più uscito da quella stanza, perché era previsto che “la città degli specchi (o degli specchietti) sarebbe stata spianata dal vento e bandita dalla memoria degli uomini nell’istante in cui Aureliano Babilonia avesse terminato di decifrare le pergamene, e che tutto quello che vi era scritto era irripetibile da sempre e per sempre, perché le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra.