venerdì 21 marzo 2014

"Ode alla stupidità" di Hans Magnus Enzenberger

Potenza celeste che ti nascondi nelle pieghe dell'encefalo,

dote senza fondo elargita al genere umano in saecula saeculorum,

tu sei innumere come la via latteae molteplice come l'erba.

Potente gemella dell'intelligenza,mano nella mano

celebri con essa una triste tiritera.

Si, è forte, come tu ci ispiri in sempre nuove guise,

come scemenza femminile e come idiozia maschile,

come sprizzi dagli occhi iniettati di sangue del picchiatore

e muovi passetti con aristocratica boria tossicchiante,

come ci fiati addosso con l'alito cattivo di una musa sbronza

e come polisillabo delirare nel seminano filosofico.

Cosa sarebbe l'uomo d'azione senza di te, stupidità granitica, totale e idiota,

che corri ardente per le sue vene come una overdose di amfetamina,

e cosa il ricercatore senza l'idea fissa che insegue

per i bianchi corridoi del suo istituto come la pantegana nel labirinto?

Senza contare la storia universale: di chi mai si ricorderebbe,

se non dei vincitori, nella sua ottusità napoleonica?

Sicché a noi sarà trasmesso lo stolido orgoglio del vincitore

e il rancore sordo del perdente, solo di quando in quando addolcito

dallo sproloquio ispirato dei sacerdoti delle sette,

dei comici e dei bevitori coatti. Stupidità,

tu spesso diffamata, che nella tua scaltrezza

ti fingi più stupida di quello che sei, protettrice di tutti i menomati,

solo agli eletti concedi il tuo dono più raro,

la benedetta semplicioneria dei sempliciotti.

Essi sono le pagine bianche nel tuo grande libro

che a nessuno di noi tu dissigilli.



giovedì 20 marzo 2014

SENZA ETA'

E poi in questo periodo mi sento "senza eta' ho cercato un romanzo che avevo letto tempo fa....“La signora avrà avuto sessanta, sessantacinque anni. La guardavo, steso su una sdraio di fronte alla piscina di un circolo sportivo all'ultimo piano di un moderno edificio da dove, attraverso grandi finestre, si vede tutta Parigi. [...] Era sola nella piscina, immersa nell'acqua fino alla vita, lo sguardo rivolto in su verso il giovane maestro di nuoto in tuta che le stava insegnando a nuotare. Ora lei ascoltava le sue istruzioni: doveva aggrapparsi con le mani al bordo della piscina e inspirare ed espirare profondamente.[...]  La guardavo affascinato. Ero attratto dalla sua comicità commovente (anche il maestro l'aveva notata, perché ad ogni istante gli si contraeva un angolo della bocca)[...]  “Poco dopo, quando volevo tornare a guardarla, l'allenamento era finito. La donna si allontanava in costume da bagno facendo il giro della piscina. Superò il maestro di nuoto e quando si trovò a quattro o cinque passi di distanza, girò la testa verso di lui, sorrise e lo salutò con la mano. E in quel momento mi si strinse il cuore! Quel sorriso e quel gesto appartenevano a una donna di vent'anni! La sua mano si era sollevata con una leggerezza incantevole. Era come se avesse lanciato in aria una palla colorata per giocare con il suo amante. Quel sorriso e quel gesto avevano fascino ed eleganza, mentre il volto e il corpo di fascino non ne avevano più. Era il fascino di un gesto annegato nel non fascino del corpo. Ma la donna, anche se doveva sapere di non essere più bella, in quel momento l'aveva dimenticato. Con una certa parte del nostro essere viviamo tutti fuori dal tempo. Forse è solo in momenti eccezionali che ci rendiamo conto dei nostri anni, mentre per la maggior parte del tempo siamo dei senza-età. Milan Kundera. “L'Immortalità.”

venerdì 14 marzo 2014

Entgotterung: il mondo "sdivinizzato" 

A proposito del "mi piace" universale verso Papa Francesco. Vogliono un Papa che non sia un Papa e che vada incontro ai loro "desideri" senza Dio e senza chiesa.
Heidegger: [..]  il fondamento del mondo è posto come infinito, incondizionato, assoluto; e dall’altra parte, il cristianesimo trasforma il suo ideale di vita in una visione del mondo (la visione cristiana del mondo), così accomodandosi ai tempi nuovi [..]

Oggi, scrive Heidegger, assistiamo a un fenomeno senza precedenti: la “sdivinizzazione” degli dèi (Entgotterung), che non è il semplice metter da parte gli dèi, il semplice ateismo nel suo aspetto più grossolano. «La sdivinizzazione degli dèi è un duplice processo, per il quale, da una parte, l’immagine del mondo si cristianizza, nella misura in cui il fondamento del mondo è posto come infinito, incondizionato, assoluto; e dall’altra parte, il cristianesimo trasforma il suo ideale di vita in una visione del mondo (la visione cristiana del mondo), così accomodandosi ai tempi nuovi » (1) . «La teologia tende verso un orientamento più originario, delineato in base al senso della fede stessa ed all’inter- no della sua costante interpretazione dell’essere dell’uomo in rap- porto a Dio. Essa, a poco a poco, incomincia nuovamente a com- prendere l’intuizione di Lutero che la sua sistematica dogmatica riposa su un “fondamento” che non deriva da una ricerca guidata originariamente dalla fede e la cui struttura concettuale non solo non è sufficiente alla problematica teologica, ma la copre e la mi- stifica» (2) . «Le cose che stanno ai bordi del sentiero, in ampiezza e pienezza, danno il mondo. Come dice il vecchio maestro Eckhart – da lui noi impariamo a leggere e a vivere –, è solo in ciò che il loro linguaggio non dice, che Dio è veramente Dio»(3).
1. Nietzsches Wort «Gott ist tot», in Holzwege; tr. franc., Chemins qui ne mènent nulle part, Paris 1962, p. 70
2. Sein und Zeit; tr. it., Essere e Tempo, Milano 1953 p. 21.
 3. Ueber den Humanismus – tr. franc. in Questions III, Paris 1966 , p. 12.

martedì 11 marzo 2014


LA STORIA PER LA CONOSCENZA DI NOI STESSI

La storia non è racconto di eventi o un diario di cio' che si e' modificato nel tempo, perché lo storico deve interessarsi degli eventi in quanto espressione di pensieri. La storia è una scienza che conosce gli eventi interpretando documenti per raggiungere una maggior conoscenza di sé: la storia ci insegna,  attraverso  quello che l’uomo ha fatto, quello che l’uomo è. Collingwood ci dice che il  legame tra lo storico e gli uomini del passato non è memoria o dalla temporalità, ma comune partecipazione ad un unico «spirito» che è in quanto si autorealizza nella storia: "[..]Il processo storico è un processo in cui l’uomo crea per sé questo o quel genere di natura umana col ricreare nel proprio pensiero il passato del quale è erede [...]. Il processo storico è esso stesso un processo di pensiero [...]. Col pensare storico, lo spirito la cui autoconoscenza è storia, non solo scopre in sé quelle forze di cui il pensiero storico rivela il possesso, ma effettivamente sviluppa quelle forze da uno stato latente ad uno effettivo, le porta a reale esistenza [...].  R.G. COLLINGWOOD, The Idea of History, Oxford: Clarendon Press, 1946,cap.V, 1,3. 
Anche se  sono d'accordo con Momigliano quando lo critica per l'insistenza di Collingwood " [..]  sul principio che si trova solo quel che si cerca, e perciò ogni scavo deve partire dalla chiara formulazione del problema che si vuole risolvere con lo scavo stesso. Questo principio "[...] portò spesso il Collingwood a trovare nei suoi scavi esattamente quello che desiderava di trovare, cioè a cadere in grossolani errori. Di fatto così si trascura l’ovvia verità che si scava nel passato, o con la penna del filologo o con la zappa dell’archeologo, non solo per risolvere problemi già formulati, ma per aprire le porte all’infinito della realtà,[...] A. MOMIGLIANO, La storia antica in Inghilterra, cit., pp. 764-5).

domenica 9 marzo 2014


Levin prese la falce e cominciò a provare...

Konstantin Levin, personaggio autobiografico, è uno dei più interessanti nel romanzo Anna Karenina, uno dei più approfonditi nella storia al quale Tolstòj dedica molti capitoli. Ci viene presentato come un uomo fragile e idealista, tormentato dalla necessità di conoscere la sua vera natura e i tanti “perché” della vita, che crede nell’amore e nel lavoro. Quando riceve la visita a casa sua in campagna da parte del fratello scrittore, Levin non riesce ad avere una conversazione piacevole con lui, e manifesta tutto il suo disfattismo su ogni argomento toccato dal fratello. 
“Konstantin taceva. Sentiva d’essere sconfitto da ogni lato, ma nello stesso tempo sentiva che quello che egli intendeva dire non era stato capito dal fratello, non sapeva bene perché: perché non aveva saputo esporlo lui chiaramente o perché il fratello non aveva voluto o non aveva potuto capirlo? Ma non stette a riflettere e, senza replicare, cominciò a pensare a una faccenda del tutto diversa, tutta sua personale.”(Lev Nikolaevic Tolstoj. “Anna Karenina Ita.” SANSONI 1967)
E' allora che decide di estraniarsi da quella conversazione, che lo mette a disagio, per far esperienza del suo amore per il lavoro e vita all'aperto, andando nei campi per falciare insieme ai suoi contadini.
“Levin prese la falce e cominciò a provare. I falciatori che avevano finito la loro fila, uscivano sudati e allegri, uno dopo l’altro, sulla strada e salutavano, sorridendo, il padrone. Tutti lo guardavano, ma nessuno aprì bocca finché un vecchio, uscendo sulla strada, alto, col viso rugoso e glabro, con un giubbotto di montone, si rivolse a lui.
— Attento a te, padrone. Se hai preso l’avvio, non restare addietro! — disse, e Levin udì un riso contenuto fra i falciatori.
— Cercherò di non restare addietro — disse, mettendosi accanto a Tit e aspettando il momento per cominciare.
— Bada a te — ripeté il vecchio.
Tit fece posto a Levin che gli tenne dietro. L’erba era bassa, vicino alla strada, e Levin, che da tempo non falciava e si sentiva confuso sotto gli sguardi di tutti, falciò male al primo momento, pur agitando con forza la falce. Dietro di lui si sentirono delle voci.
— È impostata male, il manico è troppo alto; guarda come deve abbassarsi — disse uno.
— Pòggiati di più col tallone — disse un altro.
— Non fa niente, va bene, taglia lo stesso — continuò il vecchio. — Guarda... è andata.... Stai prendendo la falciata troppo larga, ti stancherai.... Il padrone, non c’è che dire, si sforza per sé. Ma guarda che sgorbio! Per una cosa simile a noi ce la danno sul groppone. L’erba diventò più morbida, e Levin, ascoltando senza rispondere, cercando di falciare come meglio poteva, teneva dietro a Tit. Erano andati avanti di cento passi. Tit procedeva senza fermarsi: ma Levin aveva già il terrore di non resistere, tanto era stanco. Sentiva che ormai falciava con le sue ultime riserve, e decise di pregare Tit di fermarsi. Ma proprio in quel momento Tit si fermò per conto suo e, chinatosi, prese dell’erba, asciugò la falce e si mise ad affilarla. Levin si raddrizzò e, dopo aver respirato, si guardò in giro. Dietro di lui procedeva un contadino che, evidentemente, era stanco anche lui, perché subito, senza raggiungere Levin, si fermò e prese ad affilare. Tit finì di affilare la falce sua e quella di Levin, e insieme proseguirono. Alla seconda ripresa fu lo stesso. Tit procedeva, un colpo dietro l’altro, senza fermarsi e senza stancarsi. Levin lo seguiva, sforzandosi di non restare indietro, ma gli era sempre più difficile: veniva il momento in cui sentiva di non avere più forze, ma proprio in quel momento Tit si fermava e “si metteva ad affilare. Così passarono la prima falciata. E questa lunga falciata parve particolarmente difficile a Levin; in compenso quando fu terminata e Tit, gettandosi la falce sulla spalla, si mise a passo lento a percorrere, sulle orme lasciate dai tacchi, la falciata, anche Levin s’incamminò sulla propria. E sebbene il sudore gli scendes-se a rivoli per il viso e gocciolasse giù dal naso e tutta la schiena fosse bagnata, come immersa nell’acqua, egli si sentiva bene. Lo rallegrava in modo particolare la sicurezza di poter resistere. La sua soddisfazione era amareggiata solo dal fatto che la falciata non gli riusciva bene. «Moverò meno la mano e più il torso» pensava, confrontando la falciata di Tit come tesa su di un filo, con la sua sparpagliata e disposta in modo ineguale. Nel passare la prima falciata, Tit, come aveva notato Levin, era andato particolarmente in fretta, forse per mettere alla prova il padrone e la falciata era capitata lunga. Le altre erano già più facili; Levin tuttavia doveva tendere tutte le sue forze per non restare indietro ai contadini. Egli non pensava a nulla, non desiderava nulla, altro che non restare indietro ai contadini e terminare nel modo migliore. Sentiva solo lo stridere delle falci e vedeva dinanzi a sé la figura diritta di Tit che si allontanava, il semicerchio curvo del terreno falciato, le erbe e le corolle dei fiori che si chinavano lente, a onda, intorno alla lama della falce e dinanzi a sé il termine della falciata, là dove sarebbe giunto il riposo. Nel mezzo del lavoro, senza capir che fosse e donde venisse, provò improvvisamente una piacevole sensazione di fresco giù per le spalle accaldate e sudate. Guardò il cielo mentre affilava la falce. Una nuvola bianca e greve s’era addensata e ne veniva giù una pioggia pesante. Alcuni contadini corsero ai gabbani e se li infilarono; altri, come Levin, si strinsero nelle spalle con gioia sotto la piacevole rinfrescata. Passarono ancora una falciata e poi ancora un’altra. Passavano falciate lunghe e corte, con l’erba buona e con l’erba cattiva. Levin aveva perso ogni nozione del tempo e proprio non sapeva se fosse tardi o presto. Nel suo lavoro si era verificato un cambiamento che gli fece grande piacere. Mentre lavorava, aveva dei momenti nei quali dimenticava quello che faceva, si sentiva leggero, e proprio in quei momenti la falciata gli veniva fuori uguale e bella quasi come quella di Tit. Ma appena si ricordava di quello che faceva, e si sforzava di far meglio, provava subito tutta la pesantezza del lavoro e la falciata gli riusciva male. Passata un’altra falciata, egli voleva di nuovo riprendere a camminare, ma Tit si fermò, e accostandosi al vecchio, gli disse qualcosa sottovoce. Guardarono insieme il sole. «Di che stanno a parlare, e perché non continua a falciare?» pensò Levin, senza rendersi conto che i contadini avevano falciato ininterrottamente non meno di quattro ore e che per loro era tempo di far colazione.

NOI CONOSCIAMO LA VERITA' NON SOLTANTO CON LA RAGIONE


144. Noi conosciamo la Verità non soltanto con la ragione, ma anche con il cuore. In quest'ultimo modo conosciamo i princípi primi; e invano il ragionamento, che non vi ha parte, cerca d'impugnare la certezza. I pirroniani, che non mirano ad altro, vi si adoperano inutilmente. Noi, pur essendo incapaci di darne giustificazione razionale, sappiamo di non sognare; e quell'incapacità serve solo a dimostrare la debolezza della nostra ragione, e non come essi pretendono, l'incertezza di tutte le nostre conoscenze. Infatti, la cognizione dei primi princípi - come l'esistenza dello spazio, del tempo, del movimento, dei numeri -, è altrettanto salda di qualsiasi di quelle procurateci dal ragionamento. E su queste conoscenze del cuore e dell'istinto deve appoggiarsi la ragione, e fondarvi tutta la sua attività discorsiva. (Il cuore sente che lo spazio ha tre dimensioni e che i numeri sono infiniti; e la ragione poi dimostra che non ci sono due numeri quadrati l'uno dei quali sia doppio dell'altro. I princípi si sentono, le proposizioni si dimostrano, e il tutto con certezza, sebbene per differenti vie). Ed è altrettanto inutile e ridicolo che la ragione domandi al cuore prove dei suoi primi princípi, per darvi il proprio consenso, quanto sarebbe ridicolo che il cuore chiedesse alla ragione un sentimento di tutte le proposizioni che essa dimostra, per indursi ad accettarle.
Questa impotenza deve, dunque, servire solamente a umiliare la ragione, che vorrebbe tutto giudicare, e non a impugnare la nostra certezza, come se solo la ragione fosse capace d'istruirci. Piacesse a Dio, che, all'opposto, non ne avessimo mai bisogno e conoscessimo ogni cosa per istinto e per sentimento! Ma la natura ci ha ricusato un tal dono; essa, per contro, ci ha dato solo pochissime cognizioni di questa specie; tutte le altre si possono acquistare solo per mezzo del ragionamento.
Ecco perché coloro ai quali Dio ha dato la religione per sentimento del cuore sono ben fortunati e ben legittimamente persuasi. Ma a coloro che non l'hanno, noi possiamo darla solo per mezzo del ragionamento, in attesa che Dio la doni loro per sentimento del cuore: senza di che la fede è puramente umana, e inutile per la salvezza.
146. Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce: lo si osserva in mille cose. Io sostengo che il cuore ama naturalmente l'Essere universale, e naturalmente se medesimo, secondo che si volge verso di lui o verso di sé; e che s'indurisce contro l'uno o contro l'altro per propria elezione. Voi avete respinto l'uno e conservato l'altro: amate forse voi stessi per ragione?

(B. Pascal, Pensieri, a cura di P. Serini, Einaudi, Torino, 1967, pagg. 58-59)

giovedì 6 marzo 2014

The time disease

“Twenty-twenty, and the time disease is epidemic. In my credit group, anyway. And yours too, friend, unless I miss my guess. Nobody thinks about anything else anymore. Nobody even pretends to think about anything else anymore. Oh yeah, except the sky, of course. The poor sky. . . . It's a thing. It's a situation. We all think about time, catching time, coming down with time. I'm still okay, I think, for the time being.”  Amis, Martin. “Einstein's Monsters.” Random House, 

domenica 2 marzo 2014

 Fëdor Dostoevskij, “Il sogno di un uomo ridicolo."

[…] Sono sempre stato ridicolo, e lo so, forse, fin da quando sono nato. Forse sapevo di essere ridicolo già fin da quando avevo sette anni. Poi ho studiato, prima a scuola, poi all'università, e quanto più studiavo, tanto più imparavo che ero ridicolo. Così che per me tutta la mia scienza universitaria, in fin dei conti, pareva esistere soltanto per dimostrarmi e spiegarmi, mano a mano che mi addentravo in essa, che ero ridicolo. Come nella scienza, così mi accadeva nella vita. Anno dopo anno cresceva e si rafforzava in me quella medesima consapevolezza del mio essere ridicolo sotto tutti gli aspetti. Di me ridevano tutti e sempre. Ma nessuno di loro sapeva né sospettava che se c'era al mondo una persona che meglio di tutti gli altri era consapevole di essere ridicola, quella ero io, e proprio questa era la cosa che mi faceva più rabbia, il fatto che essi non lo sapessero, benché di ciò fossi io il colpevole, infatti io sono sempre stato così orgoglioso che mai e per nulla al mondo ho voluto confessarlo a nessuno. Questo orgoglio è cresciuto in me con gli anni e se fosse avvenuto che davanti a chicchessia mi fossi “lasciato andare a riconoscere che ero ridicolo, quella sera stessa, sui due piedi, mi sarei fracassato il cranio con una rivoltella. Oh, come mi faceva soffrire durante la mia adolescenza il pensiero che a un tratto non mi sarei trattenuto e avrei confessato questa cosa ai compagni! Ma da quando sono entrato nella giovinezza, benché ogni anno di più mi convincessi della mia orribile qualità, tuttavia, chissà perché, mi sono fatto più tranquillo. Proprio «chissà perché», perché fino a oggi non sono ancora riuscito a scoprire il perché. […]

CRISI ECONOMICA: SUPERARE IL PIAGNISTEO (1)


E' ora di smetterla con la lagna sulla crisi che  è partita nel 2007 e , per l'Italia, non accenna ad essere superata, dando la colpa al fallimento dei mercati, al eccesso di potere della finanza globalizzata, responsabili della stagnazione e della crescita delle disuguaglianze.
I mercati finanziari hanno sicuramente agito come fattore determinante della crisi, soprattutto per la interdipendenza delle economie di tutto il mondo. Tuttavia non si sottolinea abbastanza la responsabilita' dei paesi ( soprattutto i quattro  Pigs mediterranei e l'Irlanda) nell'aver approfittato della finanza per drogare la crescita basata sul debito. Questo vale soprattutto per la crescita drogata del settore immobiliare, in Irlanda e Spagna, e per quella di Grecia, Portogallo e Italia che hanno approfittato dei tassi di interesse "tedeschi" per finanziare il debito pubblico attraverso i titoli di stato. Ma allora dovremmo criticare i mercati finanziari non tanto per aver bloccato la crescita , ma quanto di aver dato fiducia esagerata alla crescita basata  sul debito, che non poteva portare che alla successiva crisi.  
Negli ultimi decenni, con la internazionalizzazione dei mercati, non sono cambiate solo le economie, ma anche la cultura, la mentalità, i costumi. Nei paesi dell'occidente sviluppato  il benessere di base delle famiglie, dato non solo dai redditi ma anche dai patrimoni accumulati attraverso le passate generazioni, crea un atteggiamento diverso  verso lo studio, il lavoro e il guadagno. La riduzione del tempo di lavoro e' una tendenza incontrovertibile. Parliamo non solo di orario di lavoro, ma soprattutto di tempo nell'arco della vita. Occorre considerare che una quota sempre piu' alta di giovani iniziano a lavorare dopo i 30 anni, e che i sistemi  pensionistici consentivano, fino a pochi anni fa, un ritiro dal lavoro intorno ai 60 anni, a fronte di una speranza di vita cresciuta enormemente nell'ultimo secolo. Occorre allora vedere cosa significa come impatto sulla crescita,  e sullo stato sociale, questa modifica strutturale del tempo di lavoro, come aumento degli anni di "non lavoro", dovuto allo studio al pensionamento combinato con tempo di vita piu' lungo. 
Un altro fattore da considerare nella crisi riguarda la nuova divisione internazionale del lavoro, e la conseguente perdita di posti di lavoro nei paesi avanzati. Si produce sempre meno all'interno dei paesi ad alto benessere e si consuma sempre di piu'. Le societa' mature tendono ad avere una continua crescita dei consumi a fronte di un calo progressivo della produzione.  La produzione di merci assieme alla occupazione corrispondente si sposta verso i paesi emergenti. I beni acquistati nelle  economie avanzate sono principalmente importati, traendo vantaggio del costo piu' basso derivante dallo spostamento della produzione. Inoltre molti dei servizi, sopratutto del tempo libero, che fino a ieri si pagavano, e quindi avevano dietro di sé posti di lavoro retribuiti e produttori in carne e ossa, oggi circolano gratuitamente sulla rete e quindi hanno perso ogni capacità di sostenere l'occupazione e i redditi. Il consumo anche in questo caso non crea posti di lavoro.
Sulla disoccupazione giovanile non esiste solo il problema della scarsita' di lavoro, problema sicuramente importante. Parliamo innanzitutto che, molto piu' rispetto al passato esiste la possibilita'/liberta' di studiare, che  spesso diventa una combinazione di poco impegno  con tanto tempo libero dedicato a divertimento e relazioni. Si afferma anche una tendenza a prolungare  il periodo degli studi, con un ritardo, anche oltre i trent'anni,  di ingresso nel mercato del lavoro. Non cosi' in Cina, India, Singapore, ecc. Dove lo studio e' duro, per affermarsi nel lavoro e nella vita, e di vuol arrivare il prima possibile a iniziare a lavorare. Inoltre il tempo di attesa si prolunga se si vuole un lavoro che sia all'altezza delle aspirazioni, o delle competenze che ritengono di avere ottenuto con lo studio,  quando si possa sfruttare  il patrimonio delle famiglie e la disponibilità dei genitori ad accompagnarne l'ingresso nel mercato del lavoro. Dovremmo allora considerare quanta parte della disoccupazione giovanile si possa definire "volontaria", perché risulta dalla decisione di non cercare o non accettare  offerte di lavoro, non all'altezza delle aspirazioni. I lavori manuali sono spesso rifiutati e possono trovare spesso solo gli immigrati ad accettarli, spesso pagati in nero. Si sviluppa cosi' un proletariato di non garantiti, a salari piu' bassi, per attivita' comunque essenziali per il funzionamento della nostra societa': nell' edilizia, nel commercio, nel manifatturiero, nel turismo, nell'agricultura. Lavori di  manovali, camerieri, operai, lavapiatti, elettricisti, imbianchini, ecc. vanno agli immigrati, che non hanno la cittadinanza, e oltre ad essere sottopagati, non hanno alcuna protezione dallo stato sociale. Questi lavori alla maggior parte dei giovani non interessano. Questo e' possibile finche' questi "disoccupati volontari" possono essere stare a carico delle famiglie. 

PER CRESCERE SERVE LA PRODUTTIVITA' TOTALE DEI FATTORI

Rilanciare la crescita non vuol dire solo migliorare la produttività del lavoro o aumentare la quantità di capitale investito. E' necessario agire su quello che in Economia si chiama  "Produttività Totale dei Fattori" (TPF), cioè alla somma dei rendimenti di: burocrazia, sistema scolastico, funzionamento dei tribunali, tutela dei diritti di proprietà, tasso di concorrenza, innovazione tecnologica, stabilità di norme e politiche. La sfida e' far lievitare la produttività non riducendo i salari (anzi, facendoli aumentare), ma accrescendo efficienza ed efficacia totale del sistema istituzionale ed economico.