martedì 31 dicembre 2019


COLPEVOLI!

"Giacché sappiate, cari, che ciascuno di noi è senza dubbio colpevole per tutti e per tutto ciò che accade sulla terra, non solo per la comune colpa del genere umano, ma ciascuno personalmente è colpevole per tutta l’umanità e per ogni altro singolo uomo sulla terra." (Fratelli Karamazov). Presunzione di colpevolezza. Prima di Davigo. È la presunzione di delitto il peso aprioristico che sopporta l’occidente. Eredità secondo me sciagurata dell'ideologia soprattutto della sinistra (terzomondismo d'accatto) europea. Ma anche certa area liberal Usa va pesante.
Noi europei siamo educati a crescere nell’odio di noi stessi. Siamo condannati a pensare che soffriamo di un male congenito che reclama vendetta senza speranza di perdono misericordioso. Le colpe sono il colonialismo e l’imperialismo di cui ci sentiamo raccontare. Viviamo schiacciati dal ricordo dei milioni di indiani eliminati dai conquistadores, i milioni di africani deportati o scomparsi nel traffico degli schiavi, infine i milioni di asiatici, di arabi, di africani uccisi durante le guerre coloniali e poi nelle guerre di liberazione. E in questi anni Irak, Siria, etc.
È a causa di questa infamia che consideriamo  la nostra civiltà come la peggiore. Utile leggere Pascal Bruckner “Il singhiozzo dell’uomo bianco”, pubblicato nel 1984 (Guanda).

IL SINGHIOZZO DELL'UOMO BIANCo
Pascal Bruckner
Guanda (1984)

NOTA INTRODUTTIVA (1998)
Venticinque anni mi separano da questo libro, scritto in uno 
stato di giubilo febbrile: i suoi temi non mi hanno più lascia￾to, continuano a lavorarmi dentro come una questione mai 
sopita. Al piacere di demolire una mitologia, si è aggiunto 
quello di esplorare universi illimitati. Nato da un'intuizione 
avuta in India, mentre scoprivo il sottocontinente e opponevo 
alla realtà intravista laggiù le retoriche imperanti presso di 
noi, il Singhiozzo dell'uomo bianco (devo questo titolo al mio 
amico François Samuelson), ebbe una genesi difficile: tutti co￾loro cui sottoposi il progetto, nel 1981, tentarono di dissua￾dermi dall'intraprenderlo. Il tale, grande intellettuale parigi￾no, temendo a torto di avere le mani legate a causa del pro￾prio impegno politico, mi scongiurava di non sprofondare in 
una cultura della denuncia; il talaltro, editore di fama, spaven￾tato da un testo che avrebbe potuto fare scalpore, e complica￾re i rapporti con i potenti del momento, insisteva affinché ri￾nunciassi e, per scoraggiarmi, evocava i provvidenziali Lévi￾Strauss e Sartre. Ci vollero tutta l'energia e il coraggio di 
Jean-Claude Guillebaud, presto seguito da Denis Roche e 
Jean-Marc Roberts, per far accettare l'opera all'editore Seuil. 
Desidero qui ringraziarli ancora una volta. Un giovane autore 
non dimentica chi gli ha teso una mano nelle situazioni diffici￾li, soprattutto se ha già avuto modo di rompersi la testa con￾tro il muro dei benpensanti. 
L'accoglienza riservata al saggio fu burrascosa: entusiasmo 
degli uni, furore degli altri, sale ostili, urlanti, silenzio imba￾razzato degli organi della sinistra ufficiale, pubblicazioni, rivi￾ste o giornali che pure, in seguito, avrebbero adottato il mio 
punto di vista senza mai ammetterlo. Per qualche tempo do￾vetti indossare l'abito del reprobo, accusato di aver tradito il 
proprio campo calpestando uno dei suoi più rigidi tabù, quello del buon selvaggio rivoluzionario, nuovo soggetto della sto￾ria dopo il proletario, la donna, il bambino. 
Tutto ciò sembra oggi sorpassato, dopo che i miei più 
grandi detrattori si sono tutti convertiti a un antiterzomondi￾smo accanito, per non dire oltranzista, confondendo una spe￾cifica ideologia con il ripiegamento nelle fortezze della vec￾chia Europa. Le polemiche vengono evitate e appartengono 
al passato. Questo libro non è certo privo di alcune ingenuità 
giovanili: a parte il fatto che lo svanire del conflitto tra Orien￾te e Occidente ha cambiato la situazione, a quei tempi avevo 
sottovalutato il carattere profondamente tragico dell'impegno 
politico che, anche quando è giusto, comporta in ogni mo￾mento una quota di sofferenza e di abominio difficilmente 
sopportabili. Insomma, avevo troppo attenuato la necessità 
della rivolta per certi popoli o minoranze oppressi, e tutta l'o￾pera è segnata dalla grande delusione seguita alla conquista 
delle indipendenze e ai successivi disastri della Cina, del Viet￾nam, della Cambogia, dell'Etiopia, dell'Angola, dell'Iran. 
Alla domanda: di chi è la colpa? nel senso metafisico del 
termine, il terzomondista risponderà spontaneamente: del￾l'Occidente, e soprattutto dell'America. Smettere di ragionare 
in questo modo vuole dire riconoscere che tutti i paesi condi￾vidono la stessa responsabilità e non possono annullare i pro￾pri errori servendosi di un capro espiatorio, per quanto co￾modo e adattabile, come gli Stati Uniti. Ognuno deve fare 
un'autocritica, anche a costo di ribadire le ingiustizie e le ine￾guaglianze reali del sistema internazionale. Il terzomondismo 
come struttura mentale, cioè la ragione data al nemico nel 
momento in cui si sottopone se stessi al giudizio, non è certo 
scomparso, anche perché è parte costitutiva dello spirito eu￾ropeo sin dal Rinascimento; almeno, però, esso è ormai pre￾sente sotto una forma più accademica che politica. Se ne tro￾vano tracce nel multiculturalismo nordamericano, con il suo 
odio per « l'uomo bianco, maschio, europeo, morto » e in cer￾ti eccessi dell'afrocentrismo che si limita a ricalcare fedelmen￾te l'eurocentrismo di un tempo, rovesciandolo. In Francia, 
nella riverenza tributata ai « giovani delle banlieu », esonerati 
da qualsiasi debito morale perché rappresentano la figura della vittima per eccellenza, due volte dannati sulla terra, per via 
della discendenza dai colonizzati e per lo stato di esclusione in 
cui sono mantenuti. L'idea chiave secondo la quale apparte￾niamo a una civiltà maledetta, destinata a scomparire, malata 
e infame a un tempo, continua a essere l'asse centrale di nu￾merose riflessioni e permea ancora di sé ogni tipo di discipli￾na, comprese la sociologia e l'etnologia. Si vedono così degli 
onorati dipendenti del ministero dell'Istruzione, ormai in riti￾ro e doverosamente pensionati, che godono di tutte le garan￾zie dello Stato di diritto, celebrare a gran voce, per loro con￾forto, la figura del terrorista e vantarsi delle proprie posizioni 
radicali. E che dire della marea di pentimenti che invade co￾me un'epidemia le nostre latitudini, se non che essa è la mi￾gliore delle cose, ma a patto di ammettere la reciprocità e di 
estenderla alla totalità della specie umana? Il giorno in cui 
gli Stati, le religioni, le culture riconosceranno i loro errori 
senza che ciò diminuisca in alcun modo gli orrori particolari 
di cui si sono macchiate l'Europa e l'America del Nord, sarà 
un giorno di grande progresso per l'umanità intera. La contri￾zione non verrà più riservata ad alcuni, e l'innocenza concessa 
agli altri. Che alcuni si flagellassero, mentre molti altri conti￾nuavano a indossare la candida veste dei perseguitati, fu parti￾colarmente evidente nel corso della conferenza contro il razzi￾smo di Durban, in Sudafrica, nell'autunno del 2001, termina￾ta al grido di « morte ai giudei » e con il totale occultamento 
della responsabilità degli arabi nella tratta dei neri. L'ingresso 
nella Storia è necessariamente una cosa sporca, e Israele ne è 
la prova. Non esistono popoli innocenti o eletti, vi sono solo 
regimi più o meno democratici, capaci di correggere le loro 
colpe e di accettare gli sconvolgimenti del passato. Bisogna 
però ancora riflettere su ciò che nel 1995, in un altro saggio, 
definii la gara del vittimismo, ossia la corsa al riconoscimento 
cui partecipano da oltre mezzo secolo i paria del pianeta, 
brandendo le loro disgrazie per vedersi attribuire il titolo di 
popolo maggiormente sfavorito. 
In un momento in cui quello che ieri chiamavamo Sud 
emerge come attore protagonista, vorrei infine ricordare i due 
principali approcci adottati nel libro: la discordanza e la meraviglia. Le diverse umanità che esistono sul globo si attirano 
quanto si respingono, e comunicano tra loro sotto le due spe￾cie dell'allergia e della fascinazione. Chiunque dimentichi uno 
dei due termini pecca di spiritualismo esagerato o di disprezzo: 
violenza degli Stati o delle nazioni, sempre tentati di imporsi 
gli uni sugli altri con la forza, e attrazione per costumi, lingue, 
credenze differenti, in un mondo che non smette mai di aggre￾garsi e diversificarsi. L'incontro con l'altro avviene sempre in 
un contesto di reticenza e meraviglia, e il peggio è guastare la 
meraviglia con la paura o la pigrizia, restando prigionieri di se 
stessi, nel provincialismo della propria identità. 


EMILY DICKINSON - La speranza

La speranza è un essere piumato
che si posa sull’anima,
canta melodie senza parole e non finisce mai.
La brezza ne diffonde l’armonia,
e solo una tempesta violentissima
potrebbe sconcertare l’uccellino
che ha consolato tanti.
L’ho ascoltato nella terra più fredda
e sui più strani mari.
Eppure neanche nella necessità
ha chiesto mai una briciola – a me.

L'Espérance, scultura di Jacques Du Brœucq. Nell'iconografia cristiana, la speranza è
simboleggiata dall'àncora.

lunedì 30 dicembre 2019



IL CANTORE DI NATALE  © Rosa Maria Corti

Il velato sole di dicembre era ormai scomparso da un pezzo e nell’aria fredda le ombre erano scese a fugare la pallida luce dell’ovest che aveva indugiato sui muri delle cascine.
Allora dal minuscolo campanile della chiesetta di Erbonne si propagò il suono dell’Angelus e i rintocchi salirono attraverso la Val Breggia fino all’Alpe e al passo di Orimento e si diffusero anche oltre il confine svizzero verso Scudellate e Muggio.
In quell’inverno del 1915 la neve era venuta presto e ce n’era talmente tanta che per andare alla fontana del lavatoio bisognava camminare dentro una bianca trincea orlata di lucenti merletti e cristalli che parevano capolavori di traforo. Così per andare di casa in casa, per raggiungere l’unica osteria.
 Ma, in quell’ora di attesa, di Vigilia, quei sentierini stretti scavati dentro un bianco candore s’erano di colpo svuotati: anziani, donne e, ultimi, i ragazzini con le guance arrossate dal gelo, si erano ritirati nelle loro abitazioni lasciando fuori degli usci i primi fiocchi di neve che vorticando scivolavano lentamente verso terra.
Nel silenzio greve di malinconia che era calato sul piccolo paese nemmeno la presenza amica del Monte Generoso sembrava di conforto a coloro che avevano figli o mariti al fronte. A tutta la comunità sarebbe mancata in particolare la presenza di Pietro che aveva il dono di saper consolare tutti e una bellissima voce; senza di lui il canto della mezzanotte sarebbe sembrato spento e l’armonium sarebbe rimasto muto.
                                        ♫

Sandro e Maria nella loro baita all’Alpe di Gotta, al centro di una grande conca prativa situata a circa 1200 metri di altitudine, sorridevano finalmente contenti per essere riusciti, invero dopo aver molto insistito, a convincere la loro mamma a lasciarli scendere a Erbonne dai nonni paterni. Fra questi ultimi, d’origine svizzera, e i nonni materni, d’origine italiana, c’erano stati in passato forti screzi per via di un campo di patate e di un bosco maldivisi.  Anche se non erano una novità queste storie in quel piccolo lembo di terra dove tutti erano imparentati fra loro, (pochissimi, infatti, erano i cognomi che si potevano leggere sulle lapidi del piccolo cimitero, per lo più Cereghetti e Puricelli), la giovane donna non riusciva a metterci una pietra sopra. Ma, si sa, anche in guerra vengono ordinate delle tregue e per la notte di Natale Teresa decise di accontentare i figli che volevano vedere il presepe fatto dal nonno e speravano in una licenza miracolosa per poter ascoltare le dolci melodie del cantore di Natale. Pietro, infatti, che sapeva suonare l’armonium, aveva una voce sonora che incantava tutti, grandi e piccini, ciascuno nel suo canto udiva le parole desiderate, il conforto sperato ed era come se, dimenticata ogni offesa ed affanno, tutta la comunità si allacciasse in un unico abbraccio.
      Nel primo pomeriggio dunque i bambini partirono contando di giungere dai nonni prima del tramonto del sole. La mamma sarebbe rimasta nella baita per accudire all’ultimo nato, mentre il padre avrebbe badato alle mucche, alle pecore, alle capre, che abbisognavano d’altrettanto amore e che producevano tante cose necessarie alla famigliola che era destinata ad ingrandirsi ancora.
Arrivati al valico detto “Barco dei Montoni” Sandro e Maria, che avevano percorso la ripida salita a passo sostenuto, si fermarono a prendere fiato ma, recuperate in breve le forze, incominciarono a giocare.
 Il sole faceva luccicare la distesa immacolata del pascolo e fu divertente osservare le evoluzioni di uno scoiattolo sui rami di un larice, leggere sulla neve, come fosse il sussidiario di scuola, le orme dei selvatici e seguire quelle di un capriolo forse alla ricerca della corteccia di maggiociondolo, per lui gustoso nutrimento dell’inverno, imitare il “crit crit” dello scricciolo, gettarsi l’urlo ed ascoltarne l’eco mentre si perdeva lontano.
Quando Sandro si accorse che s’era fatto tardi decise di prendere una scorciatoia che, dopo aver superato alcune radure dove nel mese di luglio egli andava con la sorellina a raccogliere mirtilli, s’inoltrava in ripida discesa nel bosco. 
                                              ♫

Al posto di vedetta sopra il Gavia, il giovane alpino Pietro in quella vigilia di Natale osservava la vallata sottostante bianca di neve e pensava ai suoi cari, alla sua casa, al suo villaggio, piccola frazione del comune di San Fedele Intelvi, in cui ci si conosceva tutti, dal bambino più piccolo al pastore più anziano. Com’era lontano ciò che amava di più e che gli apparteneva. In quei mesi in cui s’era assoggettato ad ogni sorta di fatica con la stessa umiltà con cui si avviava alle fatiche dei campi e dell’alpe, aveva però imparato a comprendere il senso tragico della vita e il pensiero della morte gli si affacciava alla mente senza procurargli angoscia.
Una cosa gli dispiaceva: di non poter occupare in quella notte santa il suo posto in chiesa, accanto all’armonium. Gli sembrava di vedere il banco dove sedevano le donne del coro, di sentire il fruscio delle loro vesti, i bisbigli dei bambini, ma era solo la voce del vento che annunciava l’arrivo della tormenta. Così, quando Pietro si sporse dal suo appostamento per controllare se stessero salendo i portatori con i muli carichi di rifornimenti e le lettere dei parenti lontani, confuse quella voce col sibilo della pallottola che lo colpì in fronte.
                                          ♫                                                             
Sandro e Maria scendevano velocemente sulla neve ghiacciata che scricchiolava appena sotto il peso leggero dei loro corpi quando ad un tratto una nebbia grigia prese a discendere dalla pineta del Monte Generoso che s’erano lasciati alle spalle e fu subito un mulinare di fiocchi, di grani di neve rabbiosi che picchiavano con forza sul viso. In breve le nuvole furono ai piedi dei due piccoli, li avvolsero e oscurarono tutto.
“Così ci perderemo” disse Maria con un accenno di pianto nella voce.
“Non avere paura” rispose Sandro aggiustando alla sorellina il passamontagna di lana grezza fatto dalla nonna, “presto arriveremo ad Erbonne”. In realtà non ne era così sicuro. Si sentiva colpevole per essersi attardato nel gioco e gli tornavano alla mente certi spaventosi racconti fatti dai pastori più anziani, senza contare che tutto quel buio lo aveva completamente disorientato.
Continuarono a camminare senza sapere se quella seguita fosse la direzione giusta. Intanto le ore passavano.
“Sandro”, piagnucolò Maria, “ho le mani e i piedi gelati”.
“Non preoccuparti, adesso ci ripariamo in quella grotta che ci ha mostrato papà dove un tempo si rifugiavano gli orsi con i loro piccoli e facciamo quel gioco che ti piace tanto”.
Sandro però sapeva che la grotta era molto più in alto, lontana da loro che si erano sicuramente persi nella bufera di neve.
All’improvviso, come ad una muta invocazione d’aiuto, davanti ai due bambini si materializzò un’ombra possente.
“Oh, ma è Pietro” esclamò Maria, “Siamo salvi!”.
Intanto, come se qualcuno avesse tirato un immaginario tendaggio, la nebbia scomparve e nella vallata tornata limpida e illuminata dal chiarore delle stelle i due bambini poterono scorgere il piccolo campanile di Erbonne.
Si precipitarono allora correndo verso la chiesa facendovi ingresso proprio mentre il parroco di San Fedele che quella sera aveva parlato molto di amore, invitando a pregare per chi era lontano, al fronte, intonava il Credo.
I bambini, raggiunto il banco dove stavano i nonni, unirono la loro voce al canto sul quale si levò altissima e piena di tono anche quella di Pietro, mentre il suono dell’armonium risuonava nella piccola navata fumigante d’incenso con note ora dolci, ora tristi, ora alte e solenni, ora basse e fievoli, proprio come fanno i fiocchi di neve che dopo aver sfarfallato nell’aria come risucchiati verso l’alto si posano dolcemente a terra. Quando canto e suono si spensero i due bambini corsero con lo sguardo all’armonium ma ciò che videro fu solamente un raggio di luna che illuminava la tastiera proprio là dove erano solite posarsi le mani di Pietro, il cantore di Natale.

RICORDI: L'OMBRA DI DIEGO
Marialuisa Righi

Non credo al destino, al karma e a tutto ciò che sfugge alle regole della fisica e della matematica. Sono una donna pragmatica, ordinata; lo sa bene il mio caporedattore, che mi affida tutti i casi di cronaca nera grazie alla mia scrittura coincisa. Scrivo della realtà dei fatti, senza fronzoli, con metodo e nessuna concessione al sentimentalismo. E lo sapeva bene mio marito, Alessandro, uno splendido quarantenne che tutte le mie colleghe vorrebbero tuttora (inutilmente) portarsi a letto. Ci ho messo anni per conquistarlo. La sua ritrosia nel manifestare i sentimenti, il suo pudore e lo scarso interesse per il sesso mi catturarono subito. Anche lui, come me, ha sempre ritenuto l’argomento concretamente sopravvalutato; le cose importanti della vita sono ben altre e, per una bella sudata, è meglio un’ora di palestra. 
Ero orgogliosa di lui, l’ho conosciuto che era un ragazzo inconsapevole della sua bellezza, alto, muscoloso, con morbidi ricci castani e occhi grandi, da bimbo; bello da girarsi a guardarlo. Ai tempi, viveva solo con un gatto nel centro storico, un bell’appartamento di proprietà della nonna Flora, ricca signora milanese con un debole per quel nipote che a lei, e solo a lei, riservava gesti affettuosi lasciando trapelare un autentico legame affettivo. 
La prima operazione che feci, quando passammo dall’amicizia alla relazione stabile, fu liberarmi del felino. Convinsi Alessandro di un’inesistente allergia al pelo e lui, riluttante, lo portò a casa dei suoi dove, mi risulta, abbia vissuto una lunga vita e amen. 
Il matrimonio arrivò dopo tre anni di convivenza. Mi ero trasferita da lui e le cose funzionavano bene: entrambi concentrati sul lavoro e sui risultati, io come giornalista e lui come fotografo nello stesso giornale. Tempi e orari diversi non avevano minimamente intaccato il piacere di condividere la casa e le cose. Sposarci fu naturale anche se snervante per via del tempo buttato nella preparazione e gestione dell’evento e, lasciatemelo dire, anche per i soldi spesi per una sola giornata. 
Quello dei soldi è sempre stato un tasto dolente. Molti pensano io sia tirchia ma in realtà sono solo attenta e parsimoniosa, prediligo la qualità alla quantità, un bell’abito firmato, la borsa che nessuna collega potrà permettersi di comprare, la seduta settimanale dall’estetista perché la bellezza va mantenuta. Insomma, spendo bene e godo del mio conto corrente in salita, mentre quello di Alessandro piange.  A lui è sempre piaciuto fare regali, comprare libri, viaggiare; ha investito i suoi risparmi per comprare una baita a S. Caterina, in Valtellina. L’ha fatto coinvolgendo anche economicamente Diego, il suo amico nonché caporedattore della pagina culturale. Ci sono rimasta male perché sa quanto detesto il freddo e la neve.
“Tu vai al mare con la tua amica Donatella ed io vado a sciare con Diego. Che problema c’è?” mi ha detto ricordandomi il patto di reciproca autonomia sottoscritto da entrambi. 
“Ok, però l’weekend a Berlino o a Londra preferirei lo facessi con me” risposi piccata ripensando ai suoi ultimi fine settimana a spasso per le capitali europee con il suo amico.
“Ma se tu non hai mai tempo! Lavori anche mentre dormi…e poi consideri disdicevole spendere i soldi per un viaggio di piacere. O no?” 
Inutile discutere Avevo ragione io.
Diego non mi è mai piaciuto: è il classico esemplare di maschio senza nerbo. A trentasette anni è già calvo, occhi verdi sognanti, mingherlino e flessuoso, c’è in lui qualcosa di sfuggente che m’irrita, tanto m’irrita la sua cultura a ventaglio: riesce a sostenere qualsiasi discorso con una proprietà di linguaggio e chiarezza di contenuti che mi lascia senza parole, un’intelligenza superiore alla media, penalizzata dall’assenza di ambizione e mortificata da un eccesso di sentimentalismo 
“La vita ha senso solo se attraversata dal vento della passione e dal calore degli affetti condivisi” afferma. Intanto viveva solo, se si esclude il suo cane, un bastardo con gli occhi da cocker e il corpo da bassotto che porta pure in redazione. L’ha chiamato “ombra” e quello come un’ombra si comporta, lo segue ovunque, anche al cesso! Solo l’idea che quell’ammasso di pelo, potesse dormire sul letto della casa di montagna mi faceva venire l’orticaria. 
“Non sognarti di venire a cena a casa mia con il cane” gli dissi per la festa di compleanno di Alessandro.
“Bene, allora non vengo” rispose sorridendo. Nel suo sguardo chiaro colsi un guizzo di allegria giocosa, quasi divertito. 
Non venne. Alessandro non disse nulla. La mattina dopo partì per la Valtellina con Diego e il cane. Ci rimasi male, ovviamente. Quella domenica sarei stata libera da ogni impegno e poteva organizzare qualcosa con me. Decisi di fargli una sorpresa e all’alba ero già in macchina, direzione S. Caterina. Arrivai che suonavano le campane per la Messa e pensai di convincere Alessandro a venire in chiesa con me. Intanto dovevo controllare la deambulazione che con i tacchi rischiavo di cadere ogni due passi; cercai le chiavi e aprii la porta lentamente. 
Nessun segno di vita. 
Andai in cucina e subito notai con disgusto la ciotola del cane e il cuscino del dondolo pieno di peli. Stavo giusto per lamentarmi, quando dalla camera arrivarono segnali di vita, risatine e sussurri incomprensibili. Salii le scale e spalancai la porta della camera degli ospiti: vuota. Come una furia entrai nella camera matrimoniale e li vidi, sdraiati sotto il piumino, con il cane sul tappeto persiano che ronfava beato. Lo sguardo di Alessandro era di una bellezza sconcertante: era felice! Mi pareva di essere dentro un film dei fratelli Vanzina. 
“Ma cosa fate a letto insieme?” chiesi, sentendo la rabbia sciogliersi nell’incredulità. 
“Fino a poco fa dormivamo” rispose Diego. “Se magari scendi in cucina ti raggiungiamo subito, grazie” gli fece eco mio marito.
Non li aspettai, salii in macchina e tornai a casa. Non riuscivo a elaborare pensieri logici e non avrei retto uno scontro dialettico con loro. Cos’era successo? Forse dormivano insieme perché faceva freddo? Forse c’era un guasto nella camera degli ospiti che non ho verificato? Del resto, quante volte avevo dormito con Donatella nelle nostre vacanze al mare! E poi, erano così rilassati, sereni…se fossero colpevoli di oscenità, avrebbero avuto ben altre reazioni. 
Nel tardo pomeriggio sprofondai in un sonno profondo sul divano. Era notte quando sentii una mano appoggiarsi delicatamente sulla spalla.
“Sei tornato, finalmente!” dissi scattando in piedi. Sorridevo senza motivo.
“Forse è meglio se ti siedi e mi ascolti.” 
La voce prometteva bene, si sarebbe scusato e tutto sarebbe tornato come prima. 
“Claudia, ho bisogno di un grande favore...” 
“Dimmi.” Mi ero seduta con le braccia conserte,
“Devi darmi almeno una settimana di tempo per trasferire tutte le mie cose da Diego. Nel frattempo dormirò da lui.”
“Cosa? cosa?” urlai sconvolta. “Mi stai lasciando. Ma perché, perché?” Non volevo, non potevo capire; Ma poi ci fu quella risposta, semplice, cristallina, drammaticamente facile da capire. 
"Perché lo amo." 

Marialuisa Righi
CANTO D’AMORE
Come potrei trattenerla in me,
la mia anima, che la tua non sfiori;
come levarla, oltre te, ad altre cose?
Ah, potessi nasconderla in un angolo
perduto della tenebra, un estraneo
rifugio silenzioso che non seguiti
a vibrare se vibri il tuo profondo.
Ma tutto quello che ci tocca, te
e me, insieme ci prende come un arco
che da due corde un suono solo rende.
Su qual strumento siamo tesi, e quale
violinista ci tiene la mano?
O dolce canto.
RAINER MARIA RILKE, Poesie 1907-1926

domenica 29 dicembre 2019


BUCHE-PROFONDE
 Estratto da "Troppa felicità"
Alice Munro
[...] La scritta abbozzata a vernice su un’insegna di legno sarebbe stata da ritoccare. Pericolo: buche-profonde.[...]

BUCHE PROFONDE
Sally preparò delle uova ripiene, anche se detestava portarle ai picnic perché sporcavano ovunque. Tramezzini al prosciutto, insalata di granchio, tartine al limone, anche queste difficili da impacchettare. Kool-Aid per i bambini, una bottiglia da mezzo litro di Mumm per sé e per Alex. Lei ne avrebbe giusto assaggiato un sorso, perché stava ancora allattando. Per l’occasione, aveva comprato bicchieri di plastica da champagne, ma quando Alex glieli vide in mano andò alla cristalliera a prendere quelli veri, un regalo di nozze. Sally protestò, ma lui insistette, e si assunse personalmente l’incarico di incartarli bene e metterli nel cestino. 
– Papà è un autentico «bourgeois gentilhomme», – le avrebbe detto qualche anno dopo Kent, ormai adolescente ed eterno primo della classe. Talmente certo del proprio futuro da scienziato da potersi permettere di girare per casa a sputare sentenze in francese. 
– Non prendere in giro tuo padre, – replicava Sally automaticamente. 
– Non lo prendo in giro. È che i geologi hanno quasi sempre un’aria cosí scarruffata. 
Il picnic doveva festeggiare la pubblicazione del primo articolo a firma unica di Alex sulla «Zeitschrift für Geomorphologie». Sarebbero andati a Osler Bluff: primo, perché la località veniva nominata piú volte nel testo e, secondo, perché Sally e i bambini non c’erano mai stati. 
Percorsero un paio di miglia accidentate di pista campestre, dopo essersi lasciati alle spalle una decorosa carrozzabile non asfaltata, e si trovarono in uno spiazzo adibito a parcheggio, in quel momento deserto. La scritta abbozzata a vernice su un’insegna di legno sarebbe stata da ritoccare. pericolo: buche-profonde. 
Perché poi il trattino?, pensò Sally. Ma sí, cosa importa? 
L’ingresso al bosco aveva un’aria consueta e nient’affatto minacciosa. Ovviamente Sally sapeva che boschi come questo crescevano in cima a un alto scoscendimento, e aveva messo in conto un punto di osservazione da brivido prima o poi. Ma non si aspettava certo quel che si trovarono quasi subito a dover costeggiare. 
Profonde cavità, in effetti, alcune delle dimensioni di una bara, altre anche molto piú spaziose, come stanze scavate nella roccia. Separate da tortuosi corridoi e ricoperte di muschio e di felci sui lati. Una vegetazione comunque insufficiente a ovattare il pietrisco che si intravedeva sul fondo. Il sentiero serpeggiava in mezzo a tutto questo, alternando terra compatta a sporgenze di roccia ineguale. – Fiiuu, – esclamarono correndo avanti i bambini, Kent e Peter, rispettivamente di nove e sei anni. 
– Non si corre, qui, – gridò Alex. – Sentito? Niente spacconate. Intesi? Voglio una risposta. Dissero di sí, e Alex proseguí con il cestino del picnic, apparentemente convinto che non occorressero ulteriori raccomandazioni paterne. Sally arrancava piú svelta del proprio passo, con la borsa del cambio e la piccola Savanna in braccio. Non poté rallentare prima di aver avvistato i figli che intanto trottavano l’uno a fianco dell’altro scrutando nelle cavità buie e continuando a prodursi in esclamazioni di orrore appena piú contenute. Avrebbe quasi pianto per la stanchezza, l’ansia e per una specie di ben nota rabbia che le si andava depositando dentro. 
Il punto panoramico non comparve se non quando ebbero percorso piste di terra e roccia per una distanza che a lei parve di mezzo miglio, anche se probabilmente era la metà. A quel punto ci fu una schiarita, un’irruzione di cielo, e l’alt del marito, piú avanti. Alex diede in un grido che significava, ci siamo e guardate!, e i bambini risposero con espressioni di autentica meraviglia. Emergendo dal bosco, Sally se li trovò allineati su un masso sovrastante le cime degli alberi, diversi piani di cime d’alberi, anzi, con le coltivazioni estive a distesa giú in basso, in un tremolio di verde e di giallo. Appena adagiata sulla coperta, Savanna cominciò a piangere. 
– Ha fame, – disse Sally. 
E Alex: – Credevo che avesse mangiato in macchina. 
– Infatti. Ma ha di nuovo fame. 
Si agganciò Savanna su un fianco e, con la mano libera, slegò le cinghie del cestino da picnic. Naturalmente non era cosí che Alex aveva programmato la cosa, ma si limitò a emettere un sospiro indulgente e a recuperare dalle tasche i bicchieri da champagne incartati, che appoggiò rovesciati su un piccolo spiazzo erboso. 
– Glu-glu, ho sete anch’io, – disse Kent, immediatamente imitato da Peter. 
– Glu-glu, sí, anch’io, glu-glu. 
– Zitti, – disse Alex. 
E Kent: – Sta’ zitto, Peter. 
Alex domandò a Sally: – Per loro cosa hai portato da bere? 
– C’è il Kool-Aid nella caraffa azzurra. E sotto, i bicchieri di plastica avvolti in una salvietta di carta. 
Naturalmente era opinione di Alex che Kent si fosse messo a fare lo stupido non perché avesse davvero sete, ma solo perché si era eccitato alla vista del seno di Sally. A suo parere era piú che ora di passare al biberon: Savanna aveva ormai quasi sei mesi. Inoltre, pensava che Sally fosse decisamente troppo disinvolta riguardo a quella prassi: certe volte se ne andava in giro per la cucina a sbrigare faccende con una mano sola, mentre la bambina si ingozzava al seno. Intanto, Kent sbirciava di nascosto, e Peter faceva commenti sulla latteria della mamma. Il responsabile era sempre Kent, per Alex. Kent era subdolo, piantagrane, e aveva la testa piena di porcherie. 
– Be’, devo pur farle lo stesso, le cose, – diceva Sally. 
– Non allattare, però. Potresti passarla al biberon anche domani. 
– Tra poco, sí. Non domani, magari, ma tra poco. 
E invece, macché. Perciò Savanna e la latteria continuarono a essere al centro dell’attenzione anche durante il picnic. 
Viene versato prima il Kool-Aid, poi lo champagne. Sally e Alex si toccano i bicchieri, con Savanna di mezzo. Sally beve il suo sorso, ma vorrebbe concedersene di piú. Sorride ad Alex per comunicargli quel desiderio, e forse anche come sarebbe bello se fossero soli. Lui beve e, come se la sorsata e il sorriso di Sally bastassero a pacificarlo, dà inizio al picnic. Riceve istruzioni riguardo a quali tramezzini abbiano la mostarda che piace a lui, quali quella preferita da lei e Peter, e quali siano per Kent che invece non la vuole affatto. 
Mentre avviene tutto ciò, Kent riesce a intrufolarsi alle spalle di Sally e a scolarsi il suo avanzo di champagne. Peter deve averlo visto, ma per qualche ignota ragione decide di non denunciarlo. Sally se ne accorgerà di lí a poco, mentre Alex non verrà mai a saperlo, perché si è già scordato che era rimasto del vino nel bicchiere e lo ritira con cura, insieme al suo, mentre spiega ai bambini che cos’è una dolomia. I figli lo ascoltano, si presume, divorando panini e ignorando le uova ripiene e l’insalata di granchio, per avventarsi sulle tartine. 
Dolomia, dice Alex. Si chiama cosí la spessa roccia di copertura che hanno di fronte. Sotto, si trova lo scisto, vale a dire l’argilla trasformata in roccia, a grana finissima. L’acqua penetra lo strato della dolomia e quando raggiunge lo scisto si deposita, non riuscendo a infiltrarsi nelle falde sottili, a grana fine. Perciò l’erosione, cioè il lento consumarsi della dolomia, si scava lentamente una via di ritorno, incide dei solchi, e nella roccia di copertura si formano delle faglie verticali; sanno che cosa vuol dire verticale? 
– Da su a giú, – replica Kent distrattamente. 
– Delicate faglie verticali che tendono a raggiungere la superficie e si lasciano dei crepacci alle spalle, per cui, nel giro di qualche milione di anni, si sgretolano e ruzzolano giú dal pendio. 
– Devo andare, – fa Kent. 
– Andare dove? 
– A fare pipí. 
– Oh, santo cielo, va’, allora. 
– Anch’io, – dice Peter. 
Sally serra le labbra per bloccare una raccomandazione automatica. Alex la guarda e approva l’autocensura. Si scambiano un mezzo sorriso. 
Savanna si è addormentata con le labbra socchiuse intorno al capezzolo. Senza i bambini intorno, staccarla è piú agevole. Sally può farle fare il ruttino e stenderla sulla coperta senza preoccuparsi del seno nudo. Se Alex non trova lo spettacolo di suo gusto – sa che è cosí; non sopporta l’associazione sesso-nutrimento, il seno della moglie trasformato in mammella – può sempre girarsi dall’altra parte, come sta facendo, in effetti. 
Mentre Sally si riabbottona, sentono un grido, non forte, anzi, lontano, evanescente, e Alex scatta in piedi prima di lei e prende a correre sul sentiero. Poi, ecco un secondo grido che si avvicina. È Peter. 
– Kent ha volato giú. Kent ha volato giú. 
Il padre gli urla: – Arrivo. 
Sally resterà per sempre convinta di averlo saputo subito cos’era successo, ancor prima di aver sentito la voce di Peter. Se doveva capitare un incidente non sarebbe toccato al figlio di sei anni, che era impavido ma poco ingegnoso e non esibizionista. Sarebbe successo a Kent. E sapeva anche esattamente come. Pisciando nella buca, sporgendosi oltre il bordo, sfidando Peter, sfidando se stesso. Era vivo. Stava sdraiato laggiú, sul pietrisco in fondo al crepaccio, ma agitava le braccia, nello sforzo di rimettersi in piedi. Uno sforzo debolissimo. Aveva una gamba sotto il peso del corpo e l’altra piegata a un’angolatura strana. 
– Ce la fai a portare la bambina? – domandò a Peter. – Torna dove abbiamo mangiato, la metti giú e rimani a guardarla. Sei il mio bravo bambino. Bravo e forte. 
Alex intanto si calava strisciando nella buca e diceva a Kent di non muoversi. Ce la si faceva appena ad arrivar giú tutti interi. Il difficile sarebbe stato tirar fuori Kent. 
Che fare? Correre fino alla macchina per vedere se c’era una corda? Legare la corda al tronco di un albero? Magari legarla intorno al corpo di Kent e provare a tirarlo su, mentre Alex lo sollevava verso di lei? 
Figuriamoci se c’era una corda. Perché avrebbe dovuto esserci? 
Alex lo aveva raggiunto. Si chinò a sollevarlo. Kent emise un grido straziante. Alex se lo caricò sulle spalle, con la testa ciondoloni da un lato e le gambe – una delle quali piegata in modo cosí grottesco – inerti dall’altro. Si alzò, arrancò di un paio di passi e, senza mollare Kent, cadde in ginocchio. Aveva deciso di avanzare carponi e si dirigeva – ora Sally capiva le sue intenzioni – verso la pietraia che in parte riempiva l’estremità opposta del crepaccio. Le urlò un ordine senza alzare la testa e Sally capí, sebbene non riuscisse a distinguere una sola parola. Si alzò – come mai era finita in ginocchio? – e si fece largo tra gli arbusti fino al punto del bordo dove il pietrisco saliva a meno di un metro dalla superficie. Alex si avvicinava strisciando, con Kent appeso al collo come un cerbiatto appena cacciato. 
Sally gridò: – Sono qui. Sono qui. 
Kent doveva essere issato dal padre e trascinato sulla sporgenza di roccia solida dalla madre. Era un bambino magrissimo che non aveva ancora avuto la prima impennata di crescita, eppure sembrava pesare come un sacco di cemento. Le braccia di Sally non ce la fecero, al primo tentativo. Allora cambiò posizione, si mise accucciata anziché distesa a pancia in giú e, con tutta la forza di spalle e petto e con Alex che sosteneva e spingeva il corpo di Kent da sotto, lo tirarono fuori. Sally ricadde all’indietro con il bambino tra le braccia e lo vide aprire gli occhi, prima di rovesciarli nelle orbite e svenire di nuovo. 
Appena Alex si fu arrampicato fuori a sua volta, radunarono gli altri figli e si precipitarono al Collingwood Hospital. Lesioni interne sembrava non ce ne fossero. Le gambe erano tutte e due rotte. 
Una frattura era netta, disse il dottore; ma l’altra gamba era in briciole. 
– I bambini vanno tenuti d’occhio costantemente da quelle parti, – disse a Sally, che era entrata in ambulatorio con Kent mentre Alex si occupava degli altri. – Non ci sono dei cartelli di pericolo? Con Alex, pensò Sally, si sarebbe espresso in modo diverso. I bambini sono fatti cosí. Basta voltare lo sguardo un secondo e se ne vanno in giro dove non dovrebbero. – I bambini fanno i bambini. Ma la sua gratitudine – per Dio in cui non credeva, e per Alex in cui invece credeva – era talmente incommensurabile, che non se la prese affatto. 
Kent non poté tornare a scuola per la metà seguente dell’anno, e per il primo periodo fu costretto in trazione in un letto d’ospedale a noleggio. Sally andava a prendere e portare i compiti a scuola, e Kent li svolgeva a casa alla velocità del fulmine. Lo incoraggiarono quindi a procedere con qualche Progetto extracurricolare. Uno di questi si intitolava Viaggi ed esplorazioni – Studia un paese a tua scelta. 
– Ne voglio uno che nessuno sceglierebbe mai, – disse. 
E allora Sally gli confidò una cosa che non aveva mai detto ad anima viva. E cioè della sua passione per le isole sperdute. Non come le Hawaii, le Canarie, le Ebridi o le isole greche dove tutti volevano andare, bensí quelle isole sconosciute di cui non si parlava mai e che ben di rado qualcuno visitava. Ascension, Tristan da Cunha, le Chatham, l’isola del Natale, Desolation, le Faerøer. Lei e Kent cominciarono a collezionare qualsiasi frammento di informazione su quei posti, senza concedersi di inventare niente. E senza mai dire ad Alex che cosa facevano. 
– Penserebbe che siamo fuori di testa, – disse Sally. 
Il principale vanto dell’isola Desolation era un ortaggio antichissimo, un cavolo assolutamente speciale. Immaginarono riti di culto, costumi, processioni sacre in tributo al cavolo. 
E prima che lui nascesse, raccontò Sally al figlio, aveva visto in tv gli abitanti di Tristan da Cunha sbarcare all’aeroporto di Heathrow, dopo essere stati evacuati a causa di un terremoto che aveva sconvolto la loro isola. Che strani le erano sembrati, mansueti e dignitosi come esseri umani di un altro secolo. Dovevano essersi piú o meno adeguati alla vita di Londra, ma appena il vulcano si era placato, avevano voluto tornarsene a casa. 
Quando Kent poté rientrare a scuola naturalmente le cose cambiarono, ma continuò a sembrare un bambino piú grande della sua età, paziente con Savanna che si era fatta testarda e spericolata, e con Peter, sempre pronto a irrompere in casa come un uragano. E, soprattutto, estremamente sussiegoso con il padre, al quale portava il giornale strappato alle grinfie di Savanna e ripiegato con cura, e per il quale spostava indietro la seggiola all’ora di cena. 
«Sia reso onore a colui che mi ha salvato la vita», diceva a volte, oppure: «Il nostro eroe è tornato a casa». 
Pronunciava queste frasi in modo piuttosto solenne, ma senza il minimo sarcasmo. Alex, tuttavia, si innervosiva. Era proprio Kent a innervosirlo, da ben prima del grave incidente nella buca-profonda. 
«Piantala», gli diceva, e si lamentava in privato con Sally. 
– Sta solo dicendo che dovevi volergli bene, visto che lo hai salvato. 
– Cristo, avrei salvato chiunque. 
– Non fartelo scappare di fronte a lui. Ti prego. 
Quando Kent iniziò il liceo, le cose con suo padre migliorarono. Scelse studi scientifici. Optò per le scienze ostiche, non quelle piú accessibili, come scienze della terra, ma anche questo non suscitò alcuna obiezione in Alex. Piú difficili erano, meglio era. 
Dopo sei mesi di college, però, scomparve. Chi lo conosceva un poco – sembrava che non ci fosse nessuno disposto a definirsi davvero suo amico – riferí di avergli sentito dire che voleva andare sulla West Coast. Poi arrivò una lettera, proprio quando i genitori stavano decidendo di rivolgersi alla polizia. Kent lavorava in un negozio Canadian Tire, alla periferia nord di Toronto. Alex andò a trovarlo per ordinargli di riprendere gli studi. Kent tuttavia rifiutò, disse che era contentissimo del lavoro che si era trovato e che guadagnava bene, o che comunque avrebbe guadagnato bene, appena lo avessero promosso. Poi andò Sally a trovarlo, senza dire niente ad Alex, e lo trovò ben pasciuto, con addosso cinque chili piú di quando era partito. Lui disse che era la birra. Si era fatto degli amici, ormai. – Attraversa una fase, – spiegò Sally ad Alex quando gli confessò la visita. – Vuole avere un assaggio di indipendenza. 
– Può anche fare indigestione, per quanto mi riguarda. 
Kent non le aveva detto dove abitava, ma non aveva importanza dal momento che, alla visita successiva, Sally scoprí che si era licenziato. La notizia la imbarazzò – le parve di cogliere un sorrisetto sarcastico sulla faccia dell’impiegato che la informò dell’accaduto –, perciò non gli chiese dove fosse Kent. Era convinta che si sarebbe messo in contatto, in ogni caso, non appena si fosse trovato una nuova sistemazione. 
Lo fece tre anni dopo. La lettera risultava spedita da Needles, in California, ma vi si diceva di non darsi pena a cercare di rintracciarlo da quelle parti, perché era solo di passaggio. Come Blanche, aggiungeva, e Alex commentò, E chi diavolo è Blanche? – È una battuta, – rispose Sally. – Non ha importanza. 
Kent non diceva che lavoro facesse né dove fosse stato e nemmeno se si fosse legato a qualcuno. Non si scusava di averli lasciati cosí a lungo senza notizie e non si informava della loro salute, né di quella di fratello e sorella. In compenso, si dilungava per pagine e pagine sulla sua vita. Non sugli aspetti pratici, bensí su quanto riteneva opportuno fare della propria esistenza e su quanto in effetti stava realizzando. 
«Mi sembra talmente ridicola – diceva – la prospettiva di rinchiudersi nei panni di qualcuno. Voglio dire, nei panni di un ingegnere, di un medico o di un geologo; va a finire che è la pelle a crescere intorno ai vestiti, e non viceversa, e cosí non ce li si può piú levare di dosso. Quando invece abbiamo la possibilità di esplorare il mondo della realtà interiore oltre che esteriore, e di vivere secondo principî che contemplino il piano fisico e quello spirituale e l’intera gamma della bellezza come del terrore destinati al genere umano, vale a dire della sofferenza, ma anche della gioia e del turbamento. Immagino che questo modo di esprimersi vi sembri presuntuoso, ma se c’è una cosa alla quale ho imparato a rinunciare è la superbia intellettuale…» 
– Si droga, – disse Alex. – Si sente lontano un miglio. Gli è marcito il cervello a furia di droga. 
E a metà della notte se ne uscí con: – È il sesso. 
Sally, sdraiata al suo fianco, era sveglissima. 
– Che c’entra il sesso? 
– È il sesso che ti porta a parlare cosí. Che ti fa voler essere una cosa qualunque pur di guadagnarti da vivere. Cosí puoi permetterti sesso regolare e tutto ciò che ne consegue. Non è farina del suo sacco. 
Sally commentò. – Be’, alla faccia del romanticismo. 
– I bisogni primari non sono mai tanto romantici. Kent non è normale, è questo che sto cercando di dire. 
Piú avanti nella lettera – o anzi nell’invettiva, come la chiamò Alex – Kent dichiarava di essere stato piú fortunato di tanti altri, perché a lui era toccata quella che definí un’esperienza di pre-morte che gli aveva garantito una consapevolezza maggiore. Sarebbe quindi rimasto per sempre in debito di riconoscenza con suo padre, per averlo rimesso nel mondo, e con sua madre, per avercelo amorevolmente accolto. 
«Forse in quegli attimi sono nato per la seconda volta». 
A quel punto, Alex aveva emesso un grugnito. 
– No. Non lo voglio dire. 
– Ecco, non dirlo, – ribatté Sally. – Tanto non lo pensi. 
– Non lo so neanch’io, se lo penso o no. 
La lettera si concludeva «con affetto» e la firma: fu l’ultima volta che ebbero sue notizie. 
Peter si iscrisse a Medicina, Savanna a Giurisprudenza. 
Sally si scoprí un inatteso interesse per la geologia. Una volta, in uno slancio fiducioso dopo aver fatto sesso, raccontò ad Alex la storia delle isole, seppure omettendo la fantasticheria che ora Kent abitasse in uno qualsiasi di quei posti. Disse di aver dimenticato molti dettagli che un tempo conosceva e si ripromise di consultare di nuovo l’enciclopedia sulla quale aveva scovato le informazioni. Alex disse che ormai probabilmente avrebbe trovato tutto quel che cercava su internet. Non certo località cosí oscure e remote, disse lei, perciò Alex la tirò giú dal letto e la portò al piano di sotto dove, in un lampo, le comparve davanti agli occhi Tristan da Cunha, un verde pianoro in pieno oceano Atlantico meridionale, piú una ridda di informazioni. Sally ne fu sconvolta e si ritrasse, mentre Alex, prevedibilmente deluso di lei, le chiese perché. 
– Non so. Mi sembra di averla persa, adesso. 
Lui disse che cosí non andava bene, che le occorreva qualcosa di vero da fare. Al tempo, era appena andato in pensione dall’insegnamento e progettava di scrivere un libro. Aveva bisogno di un’assistente, ma non poteva piú avvalersi dell’aiuto dei laureandi, come faceva quando stava ancora in facoltà. (Sally non era sicura che le cose stessero proprio in quei termini). Gli fece notare che lei di rocce non sapeva niente e lui disse che non aveva importanza, che l’avrebbe usata nelle fotografie, per avere il senso delle proporzioni. 
E cosí Sally diventò la figuretta vestita di nero o a colori sgargianti fotografata in contrasto con le strisce di roccia del Siluriano o del Devoniano. O con lo gneiss formatosi per intensa compressione, piegato e deformato dalle collisioni delle placche Atlantica e Pacifica da cui aveva avuto origine l’attuale continente. A poco a poco Sally imparò a usare gli occhi e ad applicare le conoscenze acquisite, finché fu in grado di calpestare una strada deserta di periferia con la consapevolezza che, a grande distanza, sotto i suoi piedi, si trovava un cratere colmo di detrito che nessuno aveva né avrebbe mai visto, perché non c’erano stati occhi a constatarne la creazione, né a seguire l’interminabile storia del suo costruirsi e riempirsi di rocce e seppellirsi e andare perduto. Alex rendeva onore a cose del genere conoscendole, fin dove era possibile conoscerle, e lei lo ammirava per questo, sebbene fosse abbastanza saggia da non dirlo esplicitamente. Furono buoni amici in quei loro ultimi anni, che Sally non immaginava fossero tali, ma lui forse sí. Entrò in ospedale per un intervento, portandosi appresso carte e fotografie e, il giorno in cui doveva tornare a casa, morí. 
Questo succedeva d’estate; nell’autunno a Toronto scoppiò un terribile incendio. Sally sedette per un po’ davanti alla televisione a guardare le fiamme. Il fuoco era divampato in un quartiere che lei conosceva, almeno una volta, al tempo in cui lo popolavano hippy armati di mazzi di tarocchi e collanine di semi e fiori di carta grandi come zucche. E anche dopo, per un po’, quando i ristoranti vegetariani vennero trasformati uno dopo l’altro in costosi bistrò e boutique. Ora un intero isolato di quegli edifici ottocenteschi stava per essere cancellato, con grande rammarico del cronista il quale raccontava di quegli occupanti dei vecchi alloggi sopra le botteghe che avrebbero perso la casa per essere messi in salvo in mezzo a una strada. 
Ma nessuno faceva parola dei proprietari degli stessi appartamenti, pensò Sally, che molto probabilmente l’avevano sempre fatta franca, a dispetto di impianti elettrici fuori norma e invasioni di scarafaggi e cimici, mentre i poveri inquilini ingannati e timorosi non si potevano neanche lamentare. Negli ultimi tempi, capitava che Sally sentisse Alex parlarle nella testa, come di sicuro stava accadendo ora. Spense la tv. 
Non piú di dieci minuti dopo, squillò il telefono. Era Savanna. 
– Mamma. Hai la tv accesa? Hai visto? 
– L’incendio, vuoi dire? Sí, ma l’ho spenta. 
No. Se hai visto… Io lo sto cercando, l’ho visto meno di cinque minuti fa. Mamma, è Kent. 
Adesso non lo trovo piú. Ma l’ho visto. 
– È ferito? Accendo subito. Era ferito? 
– No, è un soccorritore. Reggeva una barella con qualcuno sopra, non so se un morto o un ferito. Però era Kent. Era lui. Si vedeva perfino che zoppicava. Hai acceso? 
– Sí. 
– Bene, ora mi calmo. Deve essere tornato dentro l’edificio. 
– Ma non permetteranno che… 
– Potrebbe essere un medico, per quel che ne sappiamo. Oh merda, stanno rimandando in onda l’intervista allo stesso vecchio di prima, quello con la famiglia che aveva un negozio lí da cent’anni. Senti, attacchiamo e restiamo con gli occhi incollati allo schermo. Lo devono inquadrare di nuovo, prima o poi. 
E invece no. I filmati si fecero ripetitivi. 
Savanna richiamò. 
– Voglio andare in fondo a questa storia. Conosco un tizio che lavora al telegiornale. Posso chiedergli di rivedere il servizio, dobbiamo trovarlo. 
Savanna non aveva mai conosciuto bene suo fratello: perché agitarsi tanto? Che la morte del padre le avesse fatto sentire il bisogno di una famiglia? Meglio che si sposasse presto, che mettesse al mondo dei figli. Certo che quando si cacciava in testa una cosa saltava fuori la sua vena testarda… e se fosse riuscita a rintracciare Kent? Quando aveva una decina d’anni, suo padre le aveva detto che doveva fare l’avvocato, perché era capace di spolpare un’idea fino all’osso. E da quel momento Savanna aveva detto: farò l’avvocato. 
Sally fu sopraffatta da un tremore, una smania, uno sfinimento. 
Era proprio Kent e, nel giro di una settimana, Savanna aveva scoperto tutto sul suo conto. Anzi, no. Diciamo che aveva scoperto tutto quello che lui aveva deciso di farle sapere. Abitava a Toronto da anni. Gli era capitato spesso di passare davanti al palazzo dove lavorava Savanna e un paio di volte l’aveva vista per strada. In una occasione si erano ritrovati quasi faccia a faccia, a un incrocio. Non stupiva che non l’avesse riconosciuto, perché indossava una tunica. 
– Un Hare Krishna? – domandò Sally. 
– Oh, mamma, non è che tutti i monaci siano Hare Krishna. Comunque non lo è piú. 
– E cos’è? 
– Dice che vive nel presente. E allora io gli ho detto, perché, non lo facciamo tutti, al giorno d’oggi, ma lui mi ha detto, no, che intendeva nel presente vero. 
Proprio quello in cui si trovavano, aveva specificato, e Savanna aveva chiesto: – Vuoi dire in questo buco? – Perché in effetti era cosí: il caffè nel quale le aveva chiesto di incontrarsi era davvero un buco. 
– Io la vedo diversamente, – aveva ribattuto lui, ma aveva poi aggiunto che non intendeva criticare la sua visione delle cose, né quella di chiunque altro. 
– Be’, come sei magnanimo, – aveva risposto Savanna, ma in tono ironico e lui aveva quasi riso. 
Disse di aver visto il necrologio di Alex sul giornale e di averlo trovato ben scritto. Era convinto che Alex avrebbe gradito i riferimenti geologici. Si era chiesto se sarebbe comparso anche il proprio tra i nomi dei famigliari, e poi si era sorpreso di trovarlo. Si era domandato se fosse stato il padre a fornire loro l’elenco dei nomi che voleva, prima di morire. 
Savanna disse di no, che non si aspettava affatto di morire cosí presto. C’era stata una riunione di famiglia e si era deciso che dovesse esserci anche Kent. 
– Ah, non papà, – disse Kent. – Certo che no. 
Poi chiese di Sally. 
Sally si sentí nel petto una specie di pallone gonfio d’aria. 
– E tu cosa gli hai detto? 
– Che te la cavi, a volte un po’ smarrita, magari, dato quanto eravate uniti tu e papà e il poco tempo che hai avuto per abituarti a stare da sola. Poi mi ha detto, falle sapere che può venire a trovarmi, se vuole, e io gli ho detto che te l’avrei chiesto. 
Sally non rispose. 
– Mamma? Ci sei? 
– Ha detto quando? dove? 

– No. Devo rivederlo tra una settimana nello stesso posto e fargli sapere. Ho la sensazione che gli piaccia decidere per gli altri. Pensavo che avresti subito detto di sí. 

– Certo, infatti. 

– Non ti fa paura andarci da sola? 

– Non dire stupidaggini. Era proprio lui quello che avevi visto nell’incendio? 

– Non ha detto né sí né no. Ma a me risulta di sí. A quanto pare è piuttosto noto in certe zone della città e tra certa gente. 

Sally riceve un biglietto. Il che era già un fatto particolare, dato che quasi tutta la gente che conosceva ormai usava il telefono o la posta elettronica. Fu contenta di evitare il telefono. Non era ancora in grado di valutare la propria reazione di fronte alla sua voce. Nel biglietto le diceva di lasciare la macchina in un parcheggio sotterraneo a un capolinea del metrò, e di proseguire fino a una determinata stazione, dove lui sarebbe andato a prenderla. 

Pensava di vederlo sul lato opposto del tornello, ma non c’era. Forse intendeva che l’avrebbe aspettata fuori. Salí le scale e si ritrovò nel sole, dove si fermò, mentre persone di tutti i tipi le passavano accanto, di fretta. Si sentí sgomenta e a disagio. Sgomenta per l’apparente assenza di Kent, e a disagio perché provava esattamente quello che spesso sembravano provare gli abitanti della sua zona di mondo, anche se non avrebbe mai usato le loro parole per dirlo. Pareva di stare in Congo o in India, o in Vietnam, avrebbero detto. Dovunque, tranne che in Ontario. Turbanti, sari e dashiki davano molto nell’occhio, e a Sally piacevano tutti quei colori sgargianti e quei fruscii. Ma lí non venivano portati come costumi stranieri. La gente che li indossava non era appena arrivata; aveva da un pezzo attraversato la fase dell’adattamento. Era lei l’intrusa. 

Sui gradini di una vecchia banca, poco oltre l’ingresso del metrò, c’erano degli uomini, chi seduto chi disteso, qualcuno addormentato. La banca non c’era piú, naturalmente, sebbene il nome restasse inciso nella pietra. Sally pose lo sguardo su quel nome piú che sugli uomini le cui posture stracche, reclinate e dormienti stridevano con il precedente impiego dell’edificio e con la fretta di chi usciva dalla metropolitana. 

– Mamma. 

Uno degli uomini sugli scalini le venne incontro con calma, trascinando un po’ un piede, e lei si rese conto che era Kent e lo aspettò. 

Lí per lí avrebbe voluto scappar via. Poi però vide che non tutti gli sconosciuti erano sporchi o derelitti e che qualcuno non la guardava con aria di sfida o di disprezzo, ma quasi con bonaria indulgenza adesso che era stata identificata come madre di Kent. 

Kent non aveva la tunica. Indossava dei pantaloni grigi fuori taglia, stretti in vita da una cintura, una maglietta senza scritte e una giacca logora. Portava i capelli talmente corti che non si vedevano nemmeno i ricci. Era grigio, con il viso segnato, qualche dente in meno e un corpo magrissimo che gli dava piú anni di quelli che aveva. 

Non l’abbracciò – del resto non si era aspettata che lo facesse –, però le posò una mano leggera sulla schiena per pilotarla nella direzione giusta. 

– Fumi sempre la pipa? – chiese lei, annusando l’aria e ricordando che al liceo Kent si era messo a fumarla. 

La pipa? Ah. No. L’odore che senti è il fumo dell’incendio. Noi non ce ne accorgiamo piú. 



Temo che aumenterà, man mano che procediamo. 

– Dobbiamo attraversare il posto dov’è scoppiato? 

– No, no. Anche volendo, non potremmo. È tutto transennato. Troppo pericoloso. Certi palazzi devono essere demoliti. Sta’ tranquilla, dove siamo noi è sicuro. Quasi due isolati dal casino. 

– Il vostro condominio? – disse, messa in guardia da quel «noi». 

– Piú o meno. Sí. Adesso vedrai. 

Si mostrava disponibile e gentile, ma parlava con una certa fatica, come chi si esprima, per educazione, in una lingua straniera. E le stava un po’ addosso, per essere sicuro che sentisse. Quello sforzo particolare, il leggero affaticamento che gli costava parlarle, quello di un traduttore meticoloso, sembrava non doverle passare inosservato. 

Il prezzo. 

Scendendo dal marciapiede, le sfiorò il braccio – forse stava per inciampare – e disse: – Pardon –. E a Sally parve di registrare un debolissimo tremito. 

Aids. Come aveva potuto non pensarci prima? 

– No, – disse lui, benché Sally non avesse certo parlato ad alta voce. – Attualmente sto abbastanza bene. Non sono sieropositivo, né niente di simile. Anni fa mi sono preso la malaria, ma ora è sotto controllo. Magari sono un po’ stanco, niente di preoccupante. Ecco, qui dobbiamo girare, stiamo in questo isolato. 

Di nuovo il plurale. 

– Non sono un sensitivo, – disse. – Ho solo immaginato dove voleva andare a parare Savanna e ho pensato di tranquillizzarti. Eccoci arrivati. 

Era uno di quegli edifici con la porta d’ingresso a pochi passi dal marciapiede. 

– Sono casto, in effetti, – disse, tenendo aperta la porta, alla quale mancava un pannello di vetro. Al suo posto era stato fissato un pezzo di cartone con le puntine da disegno. 

Le assi del pavimento erano nuove e scricchiolavano. L’odore era un misto molto penetrante. Si era insinuato in casa il fumo della via, naturalmente, ma era mescolato al lezzo stantio di cucina, caffè bruciato, gabinetto, malattia, marciume. 

– Forse «casto» non è il termine giusto. Dà l’idea che ci sia di mezzo un atto di volontà. Credo che avrei dovuto dire sessualmente «inattivo». Non lo considero un traguardo. Non lo è. 

Intanto la conduceva in cucina, facendo il giro intorno alla scala. Qui, un donnone gigantesco dava loro la schiena, rimestando qualcosa sul fornello. 

Kent disse: – Ciao, Marnie. Ti presento mia madre. Ti va di salutarla? 

Sally notò un cambiamento nella voce. Una pacificazione, una sincerità, forse un rispetto, diversi dai toni forzatamente leggeri che riservava a lei. 

Disse: – Salve, Marnie, – e la donna si girò appena senza riuscire a mettere a fuoco lo sguardo e mostrando una faccia da bambola schiacciata dentro una massa di carne. 

– Marnie è la nostra cuoca questa settimana, – disse Kent. – L’odore è buono, Marnie. Poi, a sua madre, disse: – Andiamo a sederci nel mio sancta sanctorum, ti va? – e la condusse giú da un paio di gradini, lungo il corridoio posteriore. Non era facile muoversi, per via delle pile di giornali, volantini e riviste, tutti legati assieme. 

– Bisogna sgomberare questa roba da qui, – disse Kent. – L’ho detto a Steve stamattina. C’è rischio di incendio. Cristo, quante volte l’ho ripetuto. E adesso l’ho toccato con mano. 

Cristo. Sally si era domandata se Kent fosse membro di un ordine religioso che non imponeva l’abito talare, ma in tal caso non si sarebbe di certo espresso in quel modo, no? D’altra parte, poteva sempre trattarsi di una setta non cristiana. 

La sua stanza era in fondo a un’ulteriore rampa di scale, in una cantina, in effetti. C’erano una branda, una vecchia scrivania a scomparti assai malridotta, e un paio di sedie rigide senza poggiapiedi. 

Le sedie reggono, sta’ tranquilla, – le disse. – Quasi tutto quello che abbiamo è rimediato in 

discarica, ma sulle sedie esigo che ci si possa sedere. 

Con un senso di sfinimento, Sally sedette. 

– Che cosa sei? – chiese. – Che cos’è quello che fai? È una specie di casa di accoglienza per detenuti o malati di mente, questa? 

– Ma no. Qui accogliamo proprio chiunque arrivi. 

– Compresa me. 

– Compresa te, – disse lui, senza sorridere. – Non abbiamo nessuno che ci finanzi, tranne noi stessi. Ci arrangiamo con un po’ di riciclaggio dei rifiuti che raccogliamo in giro. Quei giornali. Bottiglie. Tiriamo su qualcosa qui e là. E, a turno, sollecitiamo gesti di solidarietà. 

– Cioè, chiedete l’elemosina? 

– Mendichiamo, – fece lui. 

– Per strada? 

– Quale posto migliore? Sí, per strada. Ma entriamo pure in qualche locale con cui abbiamo un accordo, anche se non sarebbe legale. 

– Lo fai anche tu? 

– Non potrei chiederlo agli altri, se non lo facessi personalmente. Ho dovuto vincermi. Quasi tutti abbiamo dovuto vincere qualcosa. Poteva essere la vergogna. O magari il concetto di «mio». Se qualcuno ti scuce un biglietto da dieci o anche solo un dollaro, ecco che spunta fuori il concetto di proprietà privata. Di chi sono quei soldi, eh? Sono miei, oppure – aiuto, aiuto – sono nostri? Se la risposta che ci si dà è sono miei, di solito la persona se li spende subito e poi torna col fiato che puzza di alcol e dice, non so come mai, ma oggi non ho rimediato un centesimo. Poi capita che si senta in colpa e finisca per confessare. Oppure no, non importa. Li vediamo sparire per giorni di seguito – settimane – e poi ricompaiono quando si mette male. Qualche volta invece li vedi battere le strade per conto loro, facendo sempre finta di non riconoscerti. E non tornano piú. Il che va benissimo. Sono i nostri ex allievi, diciamo cosí. Se si crede nel sistema, ovvio. 

– Kent… 

– Da queste parti mi chiamo Giona. 

– Giona? 

– L’ho scelto io. Avevo pensato a Lazzaro, ma mi pareva troppo compiaciuto. Puoi chiamarmi Kent, se preferisci. 

– Vorrei sapere che cosa è successo alla tua vita. Non tanto cosa ci fai con queste persone… – Queste persone sono la mia vita. 

– Sapevo che l’avresti detto. 

– D’accordo, era un po’ scontata. Però è questo che faccio da… quanto? sette anni? Nove. Nove anni. 

Sally insistette. – E prima? 

– E che ne so? Prima? Prima. I giorni dell’uomo sono come l’erba, no? Che oggi c’è e domani si getta nel forno. Ma sentimi. Ti ho appena incontrata e già ricomincio a darmi delle arie. Oggi c’è e domani si getta nel forno… non mi interessano piú queste cose. Io vivo alla giornata. Davvero. Non puoi capire. Non faccio parte del tuo mondo, e tu non fai parte del mio – lo sai perché ho voluto vederti qui, oggi? 

– No. Non ci ho neanche pensato. Cioè, mi pareva che potesse essere arrivato il momento, naturalmente. 

– Naturalmente. Be’, quando ho letto della morte di mio padre sul giornale, naturalmente mi sono detto, E i soldi, dove saranno finiti? E poi ho pensato, Be’, lei me lo può dire. 

– Ce li ho io, – disse Sally, sopraffatta dalla delusione, ma ostentando grande autocontrollo. – Per il momento. Anche la casa, se ti interessa. 

Immaginavo che fosse cosí. Va bene. 

– E alla mia morte, andranno a Peter e ai suoi figli, e a Savanna. 

– Benissimo. 

– Non sapeva nemmeno se eri vivo o morto… 

– Credi che lo chieda per me? Mi consideri idiota al punto da volere i soldi per me? Comunque, l’errore di pensare come avrei potuto usarli, l’ho fatto. Con l’idea che erano soldi di famiglia, e che potevo disporne. Ecco la tentazione. Adesso sono contento, però, contento di non poterli avere. 

– Potrei… 

– Il fatto è che questa casa ha i giorni contati… – Potrei farti un prestito. 

– Un prestito? Qui non funziona cosí. Non utilizziamo il sistema dei prestiti da queste parti. Scusa, bisogna che ritrovi la calma. Hai fame? Ti va un po’ di zuppa? 

– No, grazie. 

Appena Kent se ne andò, Sally pensò di scappare. Se solo fosse riuscita a individuare una porta sul retro, un percorso che non prevedesse il passaggio in cucina. Ma non poteva, perché avrebbe significato non rivederlo mai piú. Senza contare che il cortile di una casa del genere, costruita prima dell’era automobilistica, non doveva avere accessi alla strada. 

Passò piú o meno mezz’ora prima che ritornasse. Sally non si era messa l’orologio. Pensava che potesse risultare fuori luogo nella vita attuale di Kent e, a quanto pare, aveva colto nel segno. Se non altro su questo. 

Lui parve un po’ sorpreso e disorientato di trovarla ancora lí. 

– Scusami, ho dovuto sistemare una faccenda. E poi ho parlato un po’ con Marnie: mi tranquillizza sempre. 

– Ci avevi scritto una lettera, – disse Sally. – È stata l’ultima volta che abbiamo avuto tue notizie. 

– Oh, non me la ricordare. 

– No, era una bella lettera, invece. Un buon tentativo di spiegarci che cosa pensavi. 

– Ti prego. Non ricordarmela. 

– Stavi cercando di impostare la tua vita… 

– La mia vita, la mia vita, il mio percorso, e tutto quel che potevo scoprire del mio schifoso io. Obiettivo me stesso. Le mie stronzate. La mia spiritualità. Il mio cammino intellettuale. Non esistono tutte queste fesserie interiori, Sally. Ti dispiace se ti chiamo Sally? Mi riesce piú naturale. Esiste soltanto l’esterno, quello che uno fa, in ogni istante della vita. Da quando l’ho capito sono felice. 

– Lo sei davvero? Sei felice? 

– Certo. Ho abbandonato tutte quelle fesserie su me stesso. Penso, Cosa posso fare per dare una mano? È tutto il pensare che mi concedo. 

– Vivi nel presente, insomma. 

– Non m’importa se pensi che sono banale. Se mi trovi ridicolo. 

– Io non… 

– Non importa. Senti. Se credi che voglia i tuoi soldi, d’accordo. Voglio i tuoi soldi. E voglio anche te. Non ti interessa una vita diversa? Non sto dicendo che ti voglio bene, non uso parole idiote, io. O che ti voglio salvare. Sai bene che solo tu puoi salvare te stessa. E allora il punto qual è? Di solito non cerco di arrivare da nessuna parte, quando parlo con qualcuno. Di solito evito i rapporti personali. 

Dico sul serio. Li evito. 

Rapporti. 

– Perché ti sforzi di non ridere? – disse. – Perché ho usato la parola «rapporti»? Ti suona fasulla? Non bado troppo alle parole, io. 

Sally disse: – Pensavo a Gesú. «Che c’è tra me e te, donna?» Lo sguardo che gli balenò negli occhi era quasi furioso. 



– Ma non ti stanchi mai, Sally? Non ti stanchi mai di essere intelligente? Scusa, non posso star qui a parlare con te. Ho da fare. 
– Anch’io, – disse Sally. Era del tutto falso. – Allora ci… – Non lo dire. Non dire: «Allora ci sentiamo». 
– Magari, ci sentiamo. Va meglio cosí? 
Sally si perde, poi ritrova la strada. Di nuovo la banca, lo stesso esercito di perdigiorno, o forse tutto un altro. Il tragitto in metropolitana, il parcheggio, le chiavi, l’autostrada, il traffico. Poi la statale, il tramonto che arriva presto, ancora niente neve, gli alberi spogli e il buio sui campi. Le piace quel tratto di campagna, le piace questo periodo dell’anno. Deve cominciare a considerarsi indegna? 
La gatta è contenta di vederla. Ci sono due o tre messaggi di amici, in segreteria. Si mette a scaldare una porzione singola di lasagne. Ormai si compra queste vaschette precotte e surgelate. Sono abbastanza buone e non costano care, se si considera che non c’è spreco. Nei sette minuti di attesa, sorseggia un bicchiere di vino. 

Giona. 
Sta fremendo di rabbia. Che cosa ci si aspetta da lei, che torni in quella casa per condannati e si metta a sfregare il linoleum marcio e a cuocere avanzi di pollo che qualcuno ha buttato via perché erano scaduti? Per farsi ricordare ogni giorno quanto lei sia da meno di Marnie e di qualunque altra creatura afflitta? Il tutto, per il privilegio di essere utile alla vita che un altro – Kent – si è scelto? È malato. Si sta logorando, forse sta morendo. Non le direbbe certo grazie per un paio di lenzuola pulite e un buon piatto di cibo. Oh no. Preferirebbe morire su quella branda sotto la coperta col buco della bruciatura di sigaretta. 
Un assegno, però, può staccarlo. Non una cifra pazzesca. Né troppo, né troppo poco. Tanto lui non lo userà per sé, figuriamoci. E continuerà a disprezzarla, ovviamente. 
Disprezzarla. Macché. Non è quello il punto. Niente di personale. 
C’era comunque qualcosa che salvava quella giornata dal disastro assoluto. No? Lei aveva detto magari. Lui non l’aveva corretta. 

RITA HAYWORTH E LA REDENZIONE DI SHAWSHANK
(Racconto integrale)
L'eterna primavera della speranza 
ESTRATTO da Stagioni diverse
Stephen King

Uno come me, sono sicuro, c'è in ogni prigione d'America, statale o federale — io sono quello che vi procura la roba. Sigarette confezionate o spinelli — se è quello il vostro debole — una bottiglia di brandy per festeggiare il diploma del figlio, o della figlia, praticamente qualsiasi cosa... nei limiti del ragionevole, cioè. E non sempre è stato così.
Sono arrivato a Shawshank che avevo appena vent'anni, e sono uno dei pochi della nostra felice famigliola disposto a riconoscere che ha fatto quello che ha fatto. Omicidio. Ho intestato una bella polizza di assicurazione a mia moglie, che aveva tre anni più di me, e poi ho sistemato i freni del coupé Chevrolet che ci aveva regalato suo padre come dono di nozze. Andò esattamente come avevo previsto, tranne che non avevo previsto che si fermasse a prendere su moglie e figlio del vicino, che scendevano da Castle Hill verso la città. I freni mollarono e la macchina si infilò tra i cespugli davanti ai giardinetti del paese, a tutta velocità. Chi l'ha visto ha detto che doveva andare a sessantacinque e più quando si schiantò contro la base del monumento alla Guerra Civile e prese fuoco.
Né avevo previsto che mi prendessero, ma mi hanno preso. Il Maine non ha la pena di morte, ma il procuratore distrettuale si è preso cura di farmi processare per tutte e tre le morti e di farmi dare tre condanne a vita, da scontare una dopo l'altra. Con questo ogni possibilità di libertà condizionata è sistemata per molto, molto tempo. Il giudice disse che quello che avevo fatto era un «crimine atroce, orrendo», e lo era, ma ormai è storia vecchia. Potete trovarlo negli archivi ingialliti del Call di Castle Rock, dove i titoloni della mia condanna sembrano un po' ridicoli e antiquati accanto alle notizie su Hitler e Mussolini e sulle iniziative di Roosevelt.
Se mi sono riabilitato, dite? Non so nemmeno che vuol dire, almeno per come vanno prigioni e istituti correzionali. Secondo me riabilitazione è una parola che usano i politici. Può anche darsi che abbia qualche altro significato, e può anche darsi che avrò l'occasione di scoprirlo, ma questo è futuro... e il futuro è una cosa a cui in galera si impara a non pensare. Ero giovane, bello, e nato dalla parte povera della città. Misi nei pasticci una ragazza: era carina, scontrosa, cocciuta, e viveva in una di quelle belle case di Carbine Street. Suo padre acconsentiva al matrimonio se fossi entrato nella sua ditta, una fabbrica di apparecchi ottici, e mi fossi «fatto strada».
Ma presto mi accorsi che quello che voleva in realtà era tenermi in casa sotto il suo pugno, come un cucciolo malfatto che non si è ancora abituato alla casa e che potrebbe mordere. Si accumulò tanto odio dentro di me da farmi fare quello che feci. Se ne avessi ancora l'occasione non lo rifarei, ma non sono certo che questo voglia dire che mi sono riabilitato.
A ogni modo, non è di me che voglio parlare; voglio raccontarvi di uno che si chiama Andy Dufresne. Ma prima di parlare di Andy, devo spiegare ancora qualcosa di me. Non ci metto molto.
Come ho detto, io sono quello che vi procura la roba, qui a Shawshank, da quasi quaranta dannati anni ormai. E non dico soltanto roba di contrabbando, tipo sigarette extra o alcol, anche se questi sono sempre gli articoli in cima alla lista. Ho fornito migliaia di altri articoli per gli uomini che stanno qui dentro, qualcuno perfettamente legale ma difficile da trovare in un posto dove in teoria vi hanno messo per punizione. C'era uno che stava dentro perché aveva violentato una bambina e aveva mostrato il suo affare a decine di altre; gli ho procurato tre pezzi di marmo rosa del Vermont e lui ne ha fatto tre belle sculture — un bambino, un ragazzo di una dozzina d'anni e un giovane con la barba. Le ha intitolate Le tre età di Gesù, e ora stanno nel salotto di un uomo che una volta era governatore di questo stato.
Oppure qui c'è un nome che dovreste ricordare se siete cresciuti nel Massachusetts settentrionale — Robert Alan Cote. Nel 1951 tentò una rapina alla First Mercantile Bank di Mechanic Falls, rapina che finì in un bagno di sangue — sei morti in tutto: due membri della banda, tre ostaggi e un giovane poliziotto dello stato che tirò fuori la testa al momento sbagliato e si prese una pallottola nell'occhio. Cote aveva una collezione di monete da un penny. Naturalmente non gliela lasciarono portare qui, ma con l'aiuto di sua madre e di un tale che guidava il camioncino della lavanderia, io riuscii a fargliela avere. Gli dissi: Bobby, devi essere matto a voler tenere una collezione di monete in un albergo pieno di ladri come questo. Lui mi guardò, mi sorrise e disse: So dove tenerle. Saranno abbastanza al sicuro. Non ti preoccupare. E aveva ragione. Bobby Cote morì nel 1967, con un tumore al cervello, ma quella collezione di monete non è mai venuta fuori.
Ho procurato cioccolatini il giorno di san Valentino; ho procurato tre di quei frappe verdi che servono al McDonald verso il giorno di san Paddy per un irlandese pazzo chiamato O'Malley; ho perfino organizzato una proiezione notturna di Gola profonda e di Il diavolo in Miss Jones per un pubblico di venti uomini che avevano dato fondo alle loro risorse per noleggiare i due film... pazienza che questa piccola faccenda mi costò una settimana in cella di isolamento. È il rischio che si corre a essere quello che procura la roba.
Ho fatto avere libri di consultazione e libri da seghe, scherzi come polvere per grattarsi e mani con la scossa, e in più di un'occasione ho fatto in modo che un ergastolano avesse un paio di mutande della moglie o della ragazza... e immagino che sappiate che uso ne fanno qui dentro di questi articoli, durante le lunghe notti quando il tempo si allunga come una lama. Non le procuro gratis, queste cose, e per qualche articolo il prezzo è alto. Ma non lo faccio solo per i soldi; a che servono i soldi, a me? Non mi capiterà mai di comprarmi una Cadillac o di fare una vacanza in Giamaica a febbraio per due settimane. Lo faccio per lo stesso motivo per cui un buon macellaio vi venderà solo carne fresca: ho una reputazione e voglio conservarla. Le due sole cose che mi rifiuto di passare sono le armi e la droga pesante. Non mi va l'idea di aiutare qualcuno a uccidersi o a uccidere. Ho già in mente un numero sufficiente di omicidi da bastarmi per una vita.
Già, le mie risorse sono illimitate. E così quando Andy Dufresne venne da me, nel 1949, e mi chiese se potevo fargli arrivare in prigione Rita Hayworth, gli dissi che non ci sarebbe stato nessun problema. E non ce ne furono.

Quando Andy arrivò a Shawshank, nel 1948, aveva trent'anni. Era un ometto esile, con i capelli biondo-rossicci e un paio di mani pìccole e abili. Portava occhiali con la montatura dorata. Le unghie erano sempre corte, sempre pulite. È strano che uno vada a ricordarsi una cosa del genere di un uomo, direi, ma per me questo rappresenta la sintesi di tutto Andy. Aveva sempre l'aria di uno che ha la cravatta. Fuori, era vicepresidente del reparto fidi di una grande banca di Portland. Bel posto per uno giovane come lui, soprattutto considerando quanto sono conservatrici le banche in genere... e quel conservatorismo va moltiplicato per dieci quando si parla del New England, dove la gente non si fida ad affidare a nessuno i suoi soldi, a meno che non sia uno pelato, zoppo e sempre a trafficare nei calzoni per sistemarsi il cinto erniario. Andy era dentro per l'omicidio della moglie e del suo amante.
Come forse ho già detto, in prigione sono tutti innocenti. Oh, ti raccontano la loro storia allo stesso modo che quei santoni in TV leggono il libro dell'Apocalisse. Sono stati vittime di giudici con cuori di pietra e palle non meno dure, di avvocati incompetenti, di montature della polizia, della sfortuna. Recitano le scritture, ma si vede benissimo una scrittura diversa sulle loro facce. La maggior parte dei galeotti sono gentaglia, incapaci di far bene a se stessi né a nessun altro, e la loro peggiore disgrazia è che le loro madri non abbiano abortito prima di metterli al mondo.
In tutti i miei anni a Shawshank sono stati meno di dieci gli uomini a cui ho creduto quando si dicevano innocenti. Andy Dufresne era uno di loro, anche se mi convinsi della sua innocenza solo nel corso degli anni. Mi fossi trovato tra i giurati che seguirono il suo processo alla Corte Superiore di Portland per sei tempestose settimane nel 1947-48, anch'io avrei votato colpevole.
Era un diavolo di caso, altroché; uno di quei bei casi succosi con tutti gli elementi giusti. C'era una splendida ragazza con connessioni in società (morta), una personalità sportiva locale (morto anche lui), e un illustre giovane uomo d'affari sul banco degli imputati. C'era questo, più tutto il rumore che i giornali sapevano suscitare. L'accusa si trovava di fronte a un caso aperto e già chiuso. Il processo durò quanto durò solo perché il procuratore distrettuale contava di presentarsi per la Camera federale e voleva che il signor Pubblico desse una bella occhiata alla sua faccia. Fu un circo equestre del diritto, con gli spettatori che facevano la coda dalle quattro di mattina, nonostante la temperatura sotto lo zero, per assicurarsi un posto a sedere.
I fatti presentati dall'accusa, che Andy non contestò mai, furono i seguenti: che aveva una moglie, Linda Collins Dufresne; che nel giugno del 1947 gli aveva espresso il desiderio di imparare a giocare a golf presso il Falmouth Hills Country Club; che prese effettivamente lezioni per quattro mesi; che l'istruttore era il campione di golf di Falmouth Hills, Glenn Quentin; che alla fine di agosto del 1947 Andy venne a sapere che Quentin e sua moglie erano diventati amanti; che Andy e Linda Dufresne litigarono violentemente il pomeriggio del 10 settembre 1947; che l'argomento del litigio era l'infedeltà della donna.
Testimoniò che Linda si dichiarò felice che lui l'avesse saputo; continuare a nascondersi, disse lei, era stremante. Gli comunicò l'intenzione di chiedere il divorzio, a Reno. Andy le rispose che l'avrebbe vista all'inferno prima di incontrarla a Reno. Lei se ne andò per passare la notte con Quentin nel bungalow che l'uomo aveva in affitto non lontano dal campo da golf. La mattina dopo la donna delle pulizie li trovò tutti e due morti nel letto. Erano stati colpiti ognuno con quattro proiettili.
Più di ogni altro, fu quest'ultimo fatto a deporre a sfavore di Andy. Il procuratore distrettuale con aspirazioni politiche gli diede un gran peso nell'allocuzione di apertura e nell'arringa finale. Andrew Dufresne, disse, non era solo un marito ingannato in cerca di una vendetta sanguinosa contro la moglie fedifraga; questo, disse il procuratore, si poteva capire, se non perdonare. Ma questa vendetta era stata qualcosa di molto più freddo. Considerate! tuonò il procuratore distrettuale alla giuria. Quattro e quattro! Non sei colpi, ma otto! Ha vuotato completamente la pistola... e poi si è fermato a riempire il caricatore per poter sparare ancora a tutti e due! QUATTRO PER LUI E QUATTRO PER LEI, strillò il Sun di Portland. Il Register di Boston lo soprannominò il Killer Ordinato.
Un commesso del banco di pegni Wise di Lewiston testimoniò di aver venduto una Police Special calibro 38 a sei colpi ad Andrew Dufresne solo due giorni prima del duplice omicidio. Un barista del locale del country club depose che Andy era arrivato verso le sette di mattina del 10 settembre e si era scolato tre whisky lisci in venticinque minuti — quando poi si era alzato dallo sgabello del bar aveva detto al cameriere che stava andando a casa di Glenn Quentin e che lui, il barista, poteva «leggere il resto sui giornali». Un altro commesso, questo del negozio Handy-Pik a un paio di chilometri dalla casa di Quentin, disse alla corte che Dufresne era arrivato verso le nove meno un quarto della stessa sera. Aveva comprato delle sigarette, tre bottiglie di birra e degli strofinacci da cucina. Il medico legale testimoniò che Quentin e la Dufresne erano stati uccisi tra le undici e le due della notte tra il 10 e l'11 settembre. L'investigatore dell'ufficio della procura distrettuale incaricato del caso testimoniò che c'era una piazzuola a meno di settecento metri dal bungalow, e che nel pomeriggio dell'11 settembre tre reperti erano stati raccolti in quella piazzuola: numero uno, due bottiglie vuote di birra Narragansett da un quarto (con le impronte digitali dell'imputato); numero due, dodici mozziconi di sigaretta (tutte Kool, la marca dell'imputato); numero tre, un calco di gesso di un set di copertoni (perfettamente corrispondenti al disegno dei copertoni della Plymouth del 1947 dell'imputato).
Nel soggiorno del bungalow di Quentin, sul divano, erano stati trovati quattro strofinacci da cucina. Su di essi erano stati riscontrati fori di proiettili e bruciature. Il detective riteneva (con la vivace opposizione del legale di Andy) che l'omicida avesse avvolto gli strofinacci attorno alla canna dell'arma del delitto per attutire il rumore degli spari.
Andy Dufresne prese la parola in sua difesa e raccontò con calma la sua versione, con freddezza e distacco. Disse che aveva cominciato a sentire delle voci preoccupanti su Quentin e sua moglie già dall'ultima settimana di luglio. In agosto era ormai tanto preoccupato che fece qualche indagine. Una sera che Linda sarebbe dovuta andare a far spese a Portland dopo la lezione di golf, Andy aveva seguito lei e Quentin fino alla casa di quest'ultimo (inevitabilmente diventata «il nido d'amore» per i giornali). Aveva parcheggiato nella piazzuola finché Quentin, circa tre ore dopo, non aveva riaccompagnato la donna al country club, dove era parcheggiata la macchina di lei.
«Intende dire alla corte che lei ha seguito sua moglie con la sua berlina Plymouth nuova fiammante?» chiese il procuratore nel controinterrogatorio.
«Scambiai la macchina per la serata con un amico», rispose Andy, e la fredda ammissione di come era stata ben preordinata questa indagine non gli fu per niente di aiuto agli occhi della giuria.
Restituita la macchina dell'amico e ripresa la sua, era tornato a casa. Linda era a letto, e leggeva. Le chiese com'era andata la gita a Portland. Lei rispose che era stata divertente ma che non aveva trovato da comprare niente che le piacesse abbastanza. «Fu allora che ebbi la certezza», disse Andy agli spettatori col fiato sospeso. Parlava con la stessa voce calma, lontana, con cui fece praticamente tutta la sua testimonianza.
«Qual era il suo stato d'animo nei diciassette giorni che passarono tra quel momento e la notte in cui sua moglie fu uccisa?» gli chiese l'avvocato difensore.
«Ero molto avvilito», rispose Andy pacatamente, freddamente. Come se recitasse la lista della spesa aggiunse che aveva pensato di suicidarsi, ed era arrivato al punto di comprarsi una pistola, a Lewiston, l'8 settembre.
La difesa lo invitò quindi a raccontare alla giuria cosa era successo dopo che sua moglie lo aveva lasciato per incontrarsi con Glenn Quentin la sera degli omicidi. Andy lo raccontò... e l'effetto che fece fu il peggiore possibile.
L'ho avuto vicino per quasi trent'anni, e posso dirvi che era l'uomo più controllato che abbia mai incontrato. Quello che c'era di buono in lui ve lo dava solo un po' alla volta. Quello che c'era di brutto se lo teneva chiuso dentro. Se mai avesse avuto una notte nera nell'anima, come disse uno scrittore, non lo avreste mai saputo. Era il tipo d'uomo che se avesse deciso di suicidarsi lo avrebbe fatto senza lasciare una lettera, ma non prima di mettere in ordine tutti i suoi affari. Se avesse pianto sul banco dei testimoni, se la sua voce si fosse fatta esitante, se anche si fosse messo a urlare contro quel procuratore destinato a Washington, non credo che avrebbe avuto la condanna a vita che ha avuto. E anche se l'avesse avuta, sarebbe stato fuori sulla parola entro il 1954. Ma lui raccontò la sua storia come un registratore, con l'aria di dire alla giuria: Questo è. Prendere o lasciare. Loro lasciarono.
Disse che quella notte era sbronzo, che lo era, più o meno, fin dal 24 agosto, e che era uno che non reggeva troppo bene l'alcol. Chiaramente questo di per sé sarebbe stato duro da mandar giù, per qualsiasi giuria. Non riuscivano proprio a vederlo, questo freddo e controllato giovanotto nel suo impeccabile doppiopetto di lana, che finisce ubriaco per la squallida tresca della moglie con un giocatore di golf di provincia. Io ci ho creduto, perché io ho avuto la possibilità di osservare Andy, possibilità che quei sei uomini e quelle sei donne non ebbero.
Per tutto il tempo che l'ho conosciuto, Andy Dufresne beveva solo quattro volte all'anno. Ci incontravamo in cortile ogni anno una settimana prima del suo compleanno e poi di nuovo un paio di settimane prima di Natale. In ciascuna occasione ordinava una bottiglia di Jack Daniel's. La comprava come tanti detenuti riescono a comprare la loro roba — il salario da schiavi che pagano qua dentro, più un po' del suo. Fino al 1965 quello che vi davano per il vostro tempo era un decino all'ora. Nel '65 aumentarono fino a un quarto di dollaro. La mia percentuale sugli alcolici era ed è del dieci per cento, e se aggiungete questo sovrapprezzo a un whisky di qualità come il Black Jack, vi fate un'idea di quante ore del sudore di Andy Dufresne nella lavanderia del carcere andavano a pagare le sue quattro bevute.
La mattina del suo compleanno, il 20 settembre, si faceva una bella sorsata, e poi un'altra la sera, dopo che le luci erano spente. Il giorno dopo mi restituiva il resto della bottiglia, e io la facevo girare. Con l'altra bottiglia, si concedeva una bevuta a Natale e un'altra a Capodanno. Poi anche questa mi arrivava con l'incarico di passarla in giro. Quattro bevute all'anno — e questo è un comportamento di uno che dalla bottiglia è stato morsicato forte. A sangue.
Disse alla giuria che la sera del 10 era così ubriaco che poteva ricordare quello che era successo solo in brevi squarci isolati. Si era ubriacato quel pomeriggio. «Mi presi una doppia dose di coraggio olandese», fu così che si espresse, «prima di affrontare Linda.»
Dopo che lei se ne fu andata per incontrarsi con Quentin, ricordò, aveva deciso di affrontarli. Sulla strada per il bungalow si fermò al country club a bere in fretta qualcosa. Non ricordava, disse, di aver detto al barista che avrebbe «letto il resto sul giornale» o di avergli detto altro. Ricordava di aver comprato la birra all'Handy-Pik, ma non gli strofinacci. «Perché avrei avuto bisogno di strofinacci?» chiese, e uno dei giornali riportò che tre delle giurate avevano rabbrividito.
Più tardi, molto più tardi, fece delle ipotesi con me sul commesso che aveva testimoniato su quegli strofinacci, e credo che valga la pena di metter giù quello che disse. «Supponiamo che durante l'esame delle testimonianze», mi disse Andy un giorno nel cortile, «si imbatterono in questo tizio che quella sera mi vendette le birre. Ormai erano passati tre giorni. I particolari del caso erano stati diffusi da tutti i giornali. Forse si sono attaccati al tizio, cinque o sei poliziotti, più quello della procura generale, più l'assistente del procuratore distrettuale. La memoria è una faccenda molto soggettiva, Red. Può darsi che abbiano cominciato con 'Non sarebbe possibile che abbia comprato quattro o cinque strofinacci?' e poi abbiano manovrato fino ad
arrivarci. Il fatto che ci sia abbastanza gente che vuole
che tu ricordi qualcosa, può essere un persuasore potentissimo.» Dissi che ero d'accordo.
«Ma c'è una cosa ancora più potente», continuò Andy con quel suo modo riflessivo. «Credo che sia almeno possibile che si fosse convinto lui stesso. Le luci della ribalta. I giornalisti che gli fanno domande, la fotografia sui giornali... e soprattutto, è chiaro, la sua apparizione da primo attore in tribunale. Non dico che falsificò deliberatamente la storia, o che giurò il falso. Sono convinto che avrebbe passato l'esame della macchina della verità, che avrebbe giurato sul sacro nome di sua madre che io avevo comprato quegli strofinacci. Eppure... la memoria è una cosa così dannatamente soggettiva.
«Lo so bene; anche se il mio stesso legale era convinto che mentissi sulla metà della storia, lui la faccenda degli strofinacci non se la bevve mai. È una cosa assurda. Ero sbronzo marcio, troppo ubriaco per pensare ad attutire il rumore degli spari. Se pure l'avessi fatto, poi avrei semplicemente distrutto gli stracci.»
Arrivò alla piazzuola e parcheggiò lì. Bevve la birra e fumò le sigarette. Guardò le luci del piano di sotto di casa di Quentin spegnersi. Vide una luce che si accendeva di sopra... e un quarto d'ora dopo vide anche quella spegnersi. Disse che il resto poté immaginarlo.
«Mr. Dufresne, a questo punto lei andò in casa di Glenn Quentin e uccise i due?» tuonò il suo avvocato.
«No», rispose Andy. A mezzanotte, disse, cominciava a snebbiarsi. Cominciava anche a sentire i primi segni del dopo-sbronza. Decise di andare a casa a dormire per smaltire l'ubriacatura e ripensare a tutta la faccenda l'indomani, in una maniera più adulta. «In quel momento, mentre guidavo verso casa, cominciai a pensare che la cosa più saggia sarebbe stata
semplicemente lasciarla andare a Reno e divorziare.»
«Grazie, Mr. Dufresne.»
Il procuratore distrettuale attaccò.
«E ha divorziato da lei nel modo più rapido che le è venuto in mente, vero? Ha divorziato da lei con un revolver calibro 38 avvolto negli strofinacci, vero?»
«No, signore», rispose Andy con calma.
«E poi ha ucciso il suo amante.»
«No, signore.»
«Intende dire che ha ucciso prima Quentin?»
«Intendo dire che non ho ucciso nessuno dei due. Ho bevuto due birre e ho fumato tutte le sigarette che la polizia ha trovato accanto alla piazzuola.
Poi sono tornato a casa e sono andato a letto.»
«Lei ha dichiarato alla giuria che tra il 24 agosto e il 10 settembre ha avuto idee suicide.»
«Sì, signore.»
«Al punto da comprare un revolver.»
«Sì.»
«Le seccherebbe troppo, Mr. Dufresne, se le dicessi che non mi pare il tipo da suicidio?»
«No», disse Andy, «ma lei non mi pare particolarmente sensibile, e dubito molto che se avessi voglia di suicidarmi porterei a lei il mio problema.»
Ci fu un leggero ridacchiare nervoso nell'aula, ma non gli portò nessun punto a favore presso la giuria.
«Portò con sé la sua 38 la sera del 10 settembre?»
«No; come ho già testimoniato...»
«Ah, già!» Il procuratore sorrise sarcastico. «La gettò nel fiume, vero? Il
Royal. Il pomeriggio del 9 settembre.»
«Sì, signore.»
«Un giorno prima degli omicidi.»
«Sì, signore.»
«Comodo, no?»
«Né comodo né scomodo. Solo la verità.»
«Avrà sentito, immagino, la deposizione del tenente Mincher.» Mincher era a capo della pattuglia che aveva dragato il tratto del Royal attorno al Pond Road Bridge, da cui Andy aveva dichiarato di aver gettato la pistola.
La polizia non l'aveva trovata.
«Sì, signore. Lo sa che l'ho sentita.»
«Allora avrà sentito che ha testimoniato che non hanno trovato nessuna pistola, pur dragando per tre giorni. Questo è stato piuttosto comodo, no?»
«A parte la comodità, che non abbiano trovato la pistola è un dato di fatto», rispose Andy con calma. «Ma vorrei ricordare a lei e alla giuria che il Pond Road Bridge è vicinissimo al punto in cui il Royal si immette nella baia di Yarmouth. La corrente è forte. La pistola potrebbe essere stata trasportata fin nella baia.»
«E così non è possibile fare nessun confronto tra le pallottole estratte dai corpi sanguinanti di sua moglie e di Mr. Glenn Quentin e le rigature della canna della sua pistola. È esatto, vero, Mr. Dufresne?»
«Sì.»
«E anche questo è piuttosto comodo, no?»
A questo, stando ai giornali, Andy mostrò una delle poche lievi reazioni emotive che si concesse durante tutte le sei settimane del processo. Un leggero sorriso amaro gli attraversò il viso.
«Dato che sono innocente di questo delitto, signore, e dato che sto dicendo la verità sul fatto di aver gettato la pistola nel fiume il giorno prima che avvenisse il delitto, allora a me pare decisamente scomodo che la pistola non sia mai stata trovata.»
Il procuratore distrettuale lo martellò per due giorni. Rilesse la testimonianza del commesso dell'Handy-Pik sugli strofinacci venduti ad Andy. Lui ripeté che non era in grado di ricordare di averli comprati, ma ammise che non ricordava neppure di non averli comprati.
Era vero che all'inizio del 1947 Andy e Linda Dufresne avevano stipulato una polizza di assicurazione congiunta? Sì, era vero. E se assolto, non era forse vero che Andy avrebbe incassato quindicimila dollari? Vero. E non era vero che era andato a casa di Glenn Quentin con l'omicidio nel cuore, e non era anche vero che aveva effettivamente commesso un omicidio, un duplice omicidio? No, non era vero. E allora secondo lui cosa era successo, visto che non c'era segno di furto?
«Questo non ho modo di saperlo, signore», rispose con calma Andy.
Il caso fu messo nelle mani della giuria all'una di un nevoso pomeriggio di mercoledì. I dodici giurati rientrarono alle tre e mezzo. Il portavoce dei giurati disse che sarebbero tornati prima, ma si erano trattenuti per godersi un bel pranzo a base di pollo preparato dal ristorante Bentley's a spese del comune. Lo trovavano colpevole, e, amico, se nel Maine ci fosse la pena di morte, lo avrebbero mandato sulla sedia prima che i crochi di primavera tirassero fuori la testa dal fango.

Il procuratore distrettuale gli aveva chiesto cosa dunque secondo lui era successo, e Andy aveva lasciato cadere la domanda — ma un'idea ce l'aveva, e io me la feci dire una tarda sera del 1955. Ci avevamo messo tutti quei sette anni per passare dallo scambio di un cenno di saluto quando ci incontravamo a un'amicizia abbastanza intima — ma non mi sono mai sentito veramente vicino ad Andy fino al 1960, circa, e credo di essere l'unico che sia mai riuscito a entrare in intimità con lui. Avendo tutti e due una condanna a vita da scontare, fummo nello stesso braccio dall'inizio alla fine, in due celle a distanza di mezzo corridoio.
«Che ne penso?» rise — ma non era una risata allegra. «Penso che c'era un bel po' di sfortuna in giro quella notte. Più di quanto se ne possa normalmente mettere insieme in così breve tempo. Credo che dev'essere stato uno straniero, uno di passaggio. Magari uno rimasto con una gomma a terra sulla strada dopo che io me n'ero andato a casa. Magari un ladro. O uno psicopatico. Li uccise, ecco tutto. E io sono qui.»
Semplicemente così. E fu condannato a passare il resto della sua vita a Shawshank — o la parte più importante. Cinque anni dopo cominciò a presentare domande di libertà condizionale, respinte con la puntualità di un orologio, nonostante fosse un detenuto modello. Ottenere un permesso di uscita da Shawshank quando hai stampato sul foglio di ammissione omicidio è una roba lunga, lunga come un fiume che erode una roccia. Sette uomini siedono attorno al tavolo del consiglio, due di più che nella gran parte degli altri penitenziari di stato; e ognuno di quei sette ha un culo duro come l'acqua tirata da un pozzo di acqua minerale. Non puoi comprarteli, non puoi usare le parole dolci, non puoi piangere per loro. Per quanto riguarda il consiglio di qui, i soldi non parlano, e nessuno esce. Nel caso di Andy c'erano anche altre ragioni... ma questo entra nella mia storia un po' più in là.
C'era un affidabile, un certo Kendricks, che mi doveva un bel po' di soldi già dagli anni cinquanta, e ci volevano altri quattro anni perché restituisse tutto. Il grosso degli interessi che mi pagava era in informazioni — col lavoro che faccio io se non trovi il modo di tenere l'orecchio a terra sei morto. Questo Kendricks, per esempio, aveva accesso a documenti che io non avrei mai visto, perché lavorava su una stampatrice giù nella fabbrica di targhe.
Kendricks mi disse che il voto del consiglio sulla richiesta di libertà era stato di sette a zero contro Andy Dufresne nel 1957, di sei a uno nel '58, di nuovo di sette a zero nel '59 e di cinque a due nel '60. Dopo non lo so, ma so che sedici anni dopo era ancora nella cella 14 del braccio numero cinque. Allora, nel 1975, aveva cinquantasette anni. Probabilmente si sarebbero inteneriti e lo avrebbero mandato fuori verso il 1983. Loro ti danno la vita, e la vita si prendono — almeno, quello che conta nella vita. Magari ti lasciano libero prima o poi, ma... be', state a sentire: conoscevo questo tizio, Sherwood Bolton, si chiamava, e aveva questo piccione in cella. Dal 1945 al 1953, quando lo scarcerarono, aveva avuto quel piccione. Non che fosse l'Uomo di Alcatraz; semplicemente aveva questo piccione. Jake, lo chiamava. Lasciò Jake libero il giorno prima di andar via lui, Sherwood cioè, e Jake se ne volò via a razzo. Ma una settimana dopo che Sherwood Bolton aveva lasciato la nostra felice famigliola, un amico mi chiamò verso l'angolo ovest del cortile, dove si metteva sempre Sherwood. Lì c'era un uccello steso come un mucchietto di biancheria. Sembrava morto di fame. «Non è Jake, Red?» disse il mio amico. Era lui. Il piccione era morto stecchito come un sasso.

Mi ricordo la prima volta che Andy Dufresne si mise in contatto con me per avere qualcosa; me lo ricordo come fosse ieri. Non fu quella volta che volle Rita Hayworth, però. Quella venne dopo. In quell'estate del 1948 si presentò per qualcos'altro.
La maggior parte dei miei traffici avvengono proprio qui, nel cortile, e fu qui che avvenne anche quello. Il nostro cortile è grande, molto più grande di tanti altri. È un quadrato perfetto, ottanta metri per lato. Il lato nord è il muro esterno, con una torre di guardia alle due estremità. Le guardie lassù sono armate di binocolo e fucile. La porta principale è su questo lato nord. Le porte carraie per i camion sono sul lato sud del cortile. Ce ne sono cinque. Shawshank è un posto di traffico durante la settimana — carichi, scarichi. Abbiamo la fabbrica di targhe automobilistiche, e una grossa lavanderia industriale che fa tutto il lavoro del carcere, più quello del Kittery Receiving Hospital e dell'Eliot Nursing Home. C'è anche una grossa officina di autoriparazioni dove i compagni meccanici riparano i mezzi della prigione, del municipio e dello stato — per non dire delle macchine private delle guardie, dei funzionari amministrativi... e, in più di un'occasione, quelle dei componenti del consiglio di libertà sulla parola.
Il lato est è uno spesso muro di pietra pieno di finestrelle. Il braccio cinque è dall'altra parte di questo muro. Sul lato ovest c'è l'amministrazione e l'infermeria. Shawshank non è mai stata affollata come tanti altri
penitenziari, e nel '48 era piena solo per qualcosa come due terzi delle sue capacità, ma in ogni momento potevano esserci da ottanta a centoventi detenuti nel cortile — a giocare a football o a baseball, ai dadi, ad abbaiarsi addosso, a fare traffici. La domenica il posto era ancora più affollato: di domenica poteva sembrare una festa di paese... se ci fosse stata qualche donna.  Fu una domenica che Andy venne da me per la prima volta. Avevo appena finito di parlare di una radio con Elmore Armitage, un tale che spesso mi tornava utile, quando comparve Andy. Sapevo chi era, s'intende; aveva una fama di snob e di pesce freddo. La gente diceva che era già destinato a trovare grane. Uno di quelli che diceva così era Bogs Diamond, uno che era meglio perderlo che trovarlo. Andy non aveva compagno di cella, e avevo sentito dire che era lui che preferiva così, anche se le celle singole nel braccio cinque erano poco più grandi di una cassa da morto. Ma non ho bisogno di dare ascolto alle voci che girano su un uomo quando posso giudicarlo da me.
«Salve», disse. «Mi chiamo Andy Dufresne.» Mi porse la mano e io gliela strinsi. Non era uomo da perdere tempo in cerimonie; andò diretto al punto.
«Ho saputo che sei uno che sa come procurare roba.»
Ammisi che ero in grado di tanto in tanto di localizzare alcuni articoli.  «Come fai?» chiese Andy.
«A volte», dissi, «sembra che siano le cose a venirmi tra le mani. Non so spiegarlo. A meno che non sia perché sono irlandese.»
Sorrise leggermente alla battuta. «Chi sa se riesci a procurarmi un martello da minerali.»
«Che cosa sarebbe, e perché lo vuoi?»
Andy parve sorpreso. «Fa parte del tuo lavoro chiedere giustificazioni?» Con parole del genere capii bene come gli fosse venuta la fama dello snob, del tipo che mette su arie — ma avvertii un'ombra di humour nella sua domanda.
«Stammi a sentire», dissi. «Se volevi uno spazzolino da denti, non ti avrei fatto domande. Ti avrei solo detto il prezzo. Perché uno spazzolino da denti, vedi, è un tipo di arma non mortale.» «Hai obiezioni contro le armi mortali?»  «Sì.»
Una vecchia palla da baseball volò verso di noi e lui si girò, rapido come un gatto, e la prese al volo. Fu una mossa di cui Frank Malzone sarebbe stato orgoglioso. Andy rilanciò la palla là da dove era venuta — soltanto un rapido e apparentemente agevole scatto del polso, ma quel tiro aveva del pepe, ve lo dico io. Vidi che un sacco di gente ci guardava di sottecchi mentre tornava alle sue faccende. Probabilmente anche le guardie nelle torrette stavano guardando. Non faccio per dire, ma in ogni prigione c'è qualcuno che ha un certo peso, magari quattro o cinque in una piccola, due o tre dozzine in una grande. A Shawshank io ero uno di quelli con un certo peso, e quello che pensavo di Andy Dufresne poteva influire molto su come gli sarebbero andate le cose. Lui probabilmente lo sapeva, ma non stava a inchinarsi davanti a me o a leccarmi i piedi, e lo ammirai per questo.
«Abbastanza giusto. Ti dirò che cosa è e perché lo voglio. Un martello da minerali è fatto come un piccone in miniatura — grande più o meno così.» Allargò le mani di una trentina di centimetri, e fu allora che mi accorsi di com'erano curate le sue unghie. «Ha una punta acuta da una parte e una testa piatta dall'altra. Lo voglio perché mi piacciono ì minerali.» «I minerali», ripetei.
«Abbassati un momento», disse lui.
Io lo assecondai. Ci accoccolammo come due indiani.
Andy prese una manciata di terriccio del cortile e prese a strofinarlo tra le sue mani pulite, facendolo uscire tra le dita in una nube sottile. Rimasero dei sassolini, uno o due luccicanti, gli altri opachi e regolari. Uno di quelli opachi era quarzo, e rimane opaco solo finché non lo strofini per pulirlo. Allora emette un bell'alone latteo. Fatta la pulizia, Andy me lo lanciò. Io lo presi e ne dissi il nome.
«Esatto, quarzo», disse lui. «E guarda. Mica. Schisto. Silbite. Questo è un posto calcareo, il materiale lo hanno tirato fuori dal fianco della collina.» Buttò via le pietrine e si scosse la polvere dalle mani. «Io sono un cercatore di minerali. Cioè... ero un cercatore di minerali. Nella mia vecchia vita. Mi piacerebbe tornare a esserlo, su scala ridotta.»
«Gite domenicali nel cortile?» gli chiesi rialzandomi. Era un'idea scema, eppure... vedere quel pezzetto di quarzo mi aveva fatto fare un piccolo balzo al cuore. Non so bene perché; solo un'associazione col mondo esterno, probabilmente. Non si pensa a cose simili in termini di cortile. Il quarzo è una cosa che uno tira su da un piccolo torrente impetuoso.
«Meglio fare gite domenicali qui che non farne affatto», commentò lui.
«Un arnese come un martello da minerali potresti piantarlo nel cranio di qualcuno», notai io.
«Qui non ho nemici», rispose lui pacatamente.
«No?» Sorrisi. «Aspetta un po'.»
«Se ci sono problemi so sbrigarli senza usare un martello da minerali.»
«Magari vuoi tentare la fuga? Scavare sotto il muro? Perché se è così...»
Rise educatamente. Quando tre settimane dopo vidi il martello capii perché.
«Lo sai», dissi, «se qualcuno te lo vede, te lo tolgono. Se ti vedono con un cucchiaio, te lo tolgono. Che intenzioni hai, di metterti qua seduto a martellare?»
«Oh, penso di poter fare molto più di questo.»
Annuii. Questi effettivamente non erano affari miei. Uno richiede i miei servizi perché gli procuri qualcosa. Che lo possa poi conservare, sono faccende sue.
«Quanto costerebbe un articolo del genere?» chiesi. Cominciava a piacermi quel suo stile tranquillo, sottotono. Quando uno ha passato dieci anni dentro — e tanti ne avevo passati io — si stufa a morte di tutti gli spacconi e le voci grosse. Sì, credo che sia giusto dire che Andy mi piacque dal primo momento.
«Otto dollari in un negozio di minerali e pietre dure», disse lui, «ma mi rendo conto che in un'attività come la tua si lavora sulla base di un sovrapprezzo...»
«Il prezzo più il dieci per cento è la mia tariffa, ma devo alzare un po' per gli articoli pericolosi. Per una cosa come l'aggeggio di cui stai parlando, ci vuole un po' più di grasso per ungere le ruote. Diciamo dieci dollari.»
«Sta bene dieci.»
Lo guardai, sorridendo un po'. «Ce li hai dieci dollari?» «Sì», rispose tranquillo lui.
Molto tempo dopo scoprii che ne aveva più di cinquecento. Se lì era portati appresso. Quando ti registrano a questo hotel, uno dei portieri è obbligato a farti chinare e a darti un'occhiata alle tubature — ma di tubature ce n'è un sacco, e, con rispetto parlando, un uomo veramente deciso può metterci un oggetto abbastanza grande su per un bel pezzo — abbastanza in fondo da essere fuori vista, a meno che il portiere in mano a cui capiti non sia in vena di infilarsi un bel guanto di gomma e andare a fare ricerche.
«Sta bene», dissi. «Ora devi sapere che cosa mi aspetto da te se ti beccano con quello che ti do io.»
«Penso anch'io che dovrei saperlo», disse lui, e vidi benissimo dal leggero cambiamento nei suoi occhi grigi che sapeva esattamente quello che stavo per dirgli. Era un lieve lampo, un bagliore della sua speciale ironia.
«Se ti beccano dici che l'hai trovato. Questo è tutto. Ti metteranno in isolamento per tre o quattro settimane... in più, naturalmente, perderai il tuo giocattolo e ti troverai una macchia nera sulle carte. Se fai il mio nome io e te non faremo mai più affari insieme. Neppure per un paio di lacci da scarpe o un pacchetto di Bugler. E manderò in giro un paio di conoscenti a farti un bel lavoro. Non mi piace la violenza, ma tu capisci la mia posizione. Non posso permettere che si dica in giro che non so vedermela. Sarei finito.»  «Sì, lo credo anch'io. Lo capisco, e non occorre che ti faccia degli scrupoli.»
«Non me ne faccio», dissi io. «In un posto come questo non è proprio il caso.»
Lui annuì e si allontanò. Tre giorni dopo mi si avvicinò nel cortile durante l'intervallo del mattino della lavanderia. Non parlò, e neppure guardò dalla mia parte, ma mise un ritratto dell'On. Alexander Hamilton nella mia mano con tale destrezza che pareva un prestigiatore che faceva un suo gioco. Era uno che si adattava in fretta. Gli feci avere il suo martelletto. Lo tenni nella mia cella per una notte, ed era proprio come l'aveva descritto lui. Non era uno strumento buono per evadere (uno ci avrebbe impiegato buoni seicento anni, calcolai, per scavare un tunnel sotto il muro usando quel martello), eppure avevo un presentimento. Se piantavi quel piccone nella testa di un uomo, quello sicuramente non avrebbe mai più sentito alla radio Fibber McGee and Molly. E Andy già aveva cominciato ad avere dei fastidi con le sorelle. Sperai che non fosse per loro che voleva il martello.
Alla fine, mi affidai al mio giudizio. La mattina dopo, presto, venti minuti prima che scattasse la sirena della sveglia, feci scivolare il martello da minerali e un pacchetto di Camel a Ernie, il vecchio affidabile che ha scopato i corridoi del braccio cinque finché non è stato rilasciato, nel 1956. Lui se lo infilò nel giubbotto senza una parola e io non vidi più quel martello per diciannove anni, quando era così consumato che non ne era rimasto quasi niente.
La domenica dopo Andy mi si avvicinò di nuovo nel cortile. Non era un bello spettacolo quel giorno, ve lo dico io. Il labbro inferiore era gonfio come una salsiccia, l'occhio destro tumefatto e mezzo chiuso, e c'era un brutto taglio ondulato lungo una guancia. Erano proprio guai con le sorelle quelli che stava avendo, ma non ne fece mai cenno. «Grazie per l'attrezzo», disse, e si allontanò.
Lo guardai incuriosito. Fece qualche passo, vide qualcosa nel terriccio, si chinò e lo raccolse. Era un piccolo sasso. Le tute del carcere, tranne quelle che portano i meccanici quando sono al lavoro, non hanno tasche. Ma ci sono sistemi per ovviare alla mancanza. Il sassolino scomparve su per la manica di Andy e non tornò giù. Lo ammirai... e ammirai lui. Nonostante i problemi che gli stavano capitando, lui andava avanti con la sua vita. Ce ne sono a migliaia che non lo fanno, o non vogliono, o non possono, e tanti di loro non sono neppure in prigione. E notai che anche se la faccia pareva passata sotto una pressa, le mani erano ancora pulite e curate e le unghie a posto.
Non lo vidi molto per i sei mesi successivi; Andy passò gran parte di quel tempo in isolamento.

Qualche parola sulle sorelle.
In tanti penitenziari le chiamano checche toro o finocchi da cella — recentemente il termine di moda era «regine omicide». Ma a Shawshank sono sempre state le sorelle. Non so perché, ma immagino che a parte il nome non c'è differenza.
Per tanti non è una sorpresa che al giorno d'oggi dietro le sbarre c'è un sacco di sodomia — tranne forse per qualche pesciolino nuovo, che ha la sfortuna di essere giovane, snello, piacente e incauto — ma l'omosessualità, come il sesso normale, si presenta in centinaia di forme e figure diverse. Ci sono uomini che non sopportano di stare senza sesso, di qualsiasi genere, e si rivolgono a un altro uomo per evitare di impazzire. Solitamente quello che ne segue è un arrangiamento tra due uomini fondamentalmente eterosessuali, ma a volte mi sono chiesto se sono proprio eterosessuali come pensano, quando tornano alle loro mogli o ragazze.
Ci sono anche uomini che «fanno la svolta» in prigione. Secondo l'espressione attuale «diventano gay» o «vengono fuori dal chiuso». Molte volte (ma non sempre) fanno la donna, e per i loro favori c'è un'accesa competizione.
E poi ci sono le sorelle.
Sono per la società della prigione quello che gli stupratori sono per la società che sta fuori dalle mura. Solitamente hanno condanne lunghe, per crimini brutali. Le loro prede sono i giovani, i deboli, gli inesperti... o, come nel caso di Andy Dufresne, gli apparentemente deboli. I loro campi di caccia sono le docce, il corridoio ingombro dietro le vasche industriali della lavanderia, a volte l'infermeria. In più di un'occasione lo stupro è avvenuto nella cabina di proiezione, grande come un cesso, dietro l'auditorium. Il più delle volte quello che le sorelle prendono con la forza potrebbero averlo spontaneamente, se lo volessero; quelli che fanno il passo hanno sempre avuto, sembra, una cotta per questa o quella sorella, come ragazzine con i loro Sinatra, Presley o Redford. Ma per le sorelle il divertimento è sempre stato nel prenderli con la forza... e penso proprio che sarà sempre così.
A causa del suo aspetto minuto e piuttosto piacevole (e forse anche per quella qualità di autocontrollo che io stesso ammiravo), le sorelle si erano messe a caccia di Andy dal giorno che aveva messo piede nel penitenziario. Se questa fosse una specie di favola, vi direi che Andy si batté finché quelli non lo lasciarono in pace. Mi piacerebbe poterlo dire, ma non posso. La prigione non è un mondo di favole.
La prima volta per lui fu nella doccia, meno di tre giorni dopo che si era unito alla nostra felice famiglia a Shawshank. Solo tanti spintoni e mani addosso quella volta, da quello che ho capito. A loro piace valutarvi prima di fare la mossa vera e propria, come sciacalli che devono scoprire se la preda è debole e sfinita come sembra.
Andy reagì e ruppe a sangue il labbro di una sorella grossa, massiccia, chiamata Bogs Diamond — ormai, dopo tutti questi anni, finito chi sa dove. Una guardia intervenne prima che si potesse andare oltre, ma Bogs gli promise che se lo sarebbe fatto — e se lo fece.
La seconda volta fu dietro le vasche della lavanderia. Molte cose sono successe in quel lungo stretto e polveroso spazio nel corso degli anni; le guardie lo sanno e lasciano correre. C'è buio, ed è pieno di sacchi di detersivi e saponi, di bidoni di polvere di Hexlite, innocua se hai le mani asciutte, mortale come acido da batterie se sono bagnate. Le guardie non amano andare là dietro. Non c'è spazio per muoversi, e una delle prime cose che vi insegnano quando entrate a lavorare in un posto come questo è di non lasciare mai che i detenuti vi portino in un posto dove non potete indietreggiare.
Bogs non c'era quel giorno, ma Henley Backus, che era caposquadra alla lavanderia laggiù fin dal 1922, mi disse che quattro dei suoi amici c'erano. Andy li tenne a bada per un po' con una palettata di Hexlite, minacciando di buttargliela negli occhi se si fossero avvicinati, ma inciampò cercando di aggirare una delle grandi vasche. Bastò questo. Gli furono addosso.
Immagino che l'espressione «stupro di gruppo» sia una di quelle che non cambia molto di significato da una generazione all'altra. Questo fu quello che gli fecero, quelle quattro sorelle. Lo chinarono sopra una cassa e uno di loro gli teneva un cacciavite alla tempia mentre gli altri gli facevano il servizio. Vi rompe un po', ma non fa troppo danno — se parlo per esperienza personale, dite? vorrei proprio poter dire di no. Sanguinate per un po'. Se non volete che qualche spiritoso vi chieda se vi sono venute le vostre cose, fate un tampone di carta igienica e tenetelo in fondo alle mutande finché non smette. Il sangue che esce è proprio come un flusso mestruale; continua per due, tre giorni al massimo, lentamente. Poi si ferma. Non vi succede niente, a meno che non vi abbiano fatto qualcosa di anche più innaturale. Non vi succede niente fisicamente — ma uno stupro è uno stupro, e prima o poi bisognerà che riprendiate a guardarvi allo specchio e decidiate cosa fare di voi.
Andy superò questa cosa da solo, come in quei giorni superava da solo ogni cosa. Dovette arrivare alla conclusione a cui erano arrivati gli altri prima di lui, e cioè che ci sono solo due modi per vedersela con le sorelle: lottare con loro e farsi prendere, o semplicemente farsi prendere.
Decise di lottare. Quando Bogs e due dei suoi andarono da lui, una settimana dopo l'incidente della lavanderia («ho sentito dire che ti hanno sistemato», disse Bogs secondo Ernie, che era nei paraggi), Andy scattò. Spaccò il naso a uno che si chiamava Rooster MacBride, un contadino con la pelle dura che era dentro perché aveva ucciso di botte la figliastra. Rooster è morto qua dentro, sono felice di aggiungere.
Se lo fecero tutti e tre. Quando ebbero finito, Rooster e l'altro — forse Pete Verness, ma non ne sono del tutto certo — spinsero Andy in ginocchio. Bogs Diamond gli si mise davanti. Aveva un rasoio col manico di madreperla, a quel tempo, con inciso da tutt'e due le parti le parole Diamond Pearl. Lo aprì e disse, «Adesso mi sbottono la patta, mio signore, e tu ti ingoi quello che io ti do da ingoiare. E quando hai ingoiato il mio, ti ingoi quello di Rooster. Gli hai rotto il naso, e direi che dovresti ripagarlo in qualche modo.»
Andy disse: «Qualunque cosa mi infili in bocca, sicuramente la perdi.» Bogs guardò Andy come se fosse pazzo, disse Ernie.
«No», gli disse, parlandogli lentamente come se fosse un bambino ritardato. «Non hai capito quello che ho detto. Tu fai una cosa del genere e io ti infilo tutti e dieci i centimetri di questo ferro nell'orecchio. Afferrato?»
«Io ho capito quello che hai detto. Credo che tu non hai capito quello che ho detto io. Ti stacco con un morso qualunque cosa mi metti in bocca. Puoi ficcarmi quel rasoio nel cervello, ma dovresti sapere che con una lesione improvvisa al cervello la vittima si mette contemporaneamente a defecare, orinare... e mordere più forte.»
Alzò lo sguardo su Bogs, con quel suo sorrisetto, disse Ernie, come se quei tre avessero discusso di titoli di borsa con lui e non invece glielo avessero ficcato dentro con tutta la forza. Come se lui fosse in completo da banca, e non stesse invece in ginocchio sul pavimento lercio con i calzoni alle caviglie e il sangue che gli scorreva lungo l'interno delle cosce.
«Anzi», continuò, «ho sentito dire che il riflesso di morso a volte è così forte che per aprire le mandibole della vittima ci vuole un piede di porco o una chiave inglese.»
Bogs non mise niente in bocca ad Andy, quella notte del tardo febbraio del 1948, né Rooster MacBride, e per quello che ne so nessuno altro. Quello che fecero i tre fu ridurre Andy a un pelo dal lasciarci la pelle, e tutti e quattro finirono in isolamento. Andy e Rooster MacBride ci arrivarono attraverso l'infermeria.
Quante altre volte quel gruppo lo attaccò? Non lo so. Credo che Rooster perse interesse abbastanza presto — un naso fasciato per un mese può fare cose del genere — e Bogs Diamond la smise quell'estate, improvvisamente.
Fu una strana cosa. Bogs fu trovato nella sua cella, malconcio dalle botte, una mattina all'inizio di giugno, quando non si era presentato all'appello per la colazione. Non avrebbe detto chi era stato, o gliel'avrebbero fatta pagare ma, facendo il lavoro che faccio, io lo so che un secondino lo puoi pagare per fargli fare praticamente tutto tranne che per procurare una pistola. Allora non avevano grosse paghe, e nemmeno adesso. E a quei tempi non c'erano sistemi di chiusura elettronici, né televisione a circuito chiuso, niente centraline che controllavano intere aree della prigione. Nel 1948 ogni braccio aveva la sua serratura. Una guardia si poteva pagare facilmente per lasciar entrare qualcuno — magari due o tre — nel braccio e, sì, anche nella cella di Diamond.
Chiaramente un lavoro del genere doveva essere costato un sacco di soldi. Non secondo i canoni di fuori, no. L'economia delle prigioni è su una scala ridotta. Quando siete stati per un po' qua dentro, un biglietto da un dollaro in mano sembra uno da venti di fuori. Secondo me suonare Bogs dovette costare a qualcuno una bella somma — diciamo quìndici carte per aprire la porta, e due o tre ciascuno per quelli che fecero il lavoro.
Non sto dicendo che fu Andy Dufresne, ma so che quando entrò aveva cinquecento dollari, e nel mondo regolare era banchiere — uno che capisce meglio di tutti noialtri in che modo il denaro può diventare potere.
E so questo: dopo il pestaggio — le tre costole spezzate, l'emorragia dall'occhio, la distorsione alla schiena e l'anca slogata — Bogs Diamond lasciò in pace Andy. Anzi, dopo di questo lasciò in pace praticamente tutti. Diventò come un vento alto d'estate, tutto fumo e niente arrosto. Si potrebbe dire, anzi, che divenne una «sorellina».

Questa fu la fine di Bogs Diamond, un uomo che avrebbe finito per uccidere Andy se Andy non avesse fatto dei passi per anticiparlo (se fu lui a fare quei passi). Ma non fu la fine dei guai di Andy con le sorelle. Ci fu un piccolo intervallo, e poi riprese, anche se non così forte e non così spesso. Gli sciacalli amano le prede facili, e ce n'erano in giro di più facili di Andy Dufresne.
Le combatté sempre, questo è quello che ricordo. Sapeva, immagino, che se lasci che ti prendano anche una sola volta senza reagire, gli fai la cosa ancora più facile la volta prossima. E così Andy si sarebbe presentato ogni tanto con la faccia ammaccata, e ci fu la faccenda delle due dita fratturate sei o otto mesi dopo il pestaggio di Diamond. Ah, sì — e una volta alla fine del 1949 finì in infermeria con uno zigomo spaccato, probabilmente grazie a qualcuno che faceva oscillare un bel pezzo di tubo con l'estremità avvolta nella flanella. Ogni volta reagì, e come risultato si fece i suoi periodi di isolamento. Ma non credo che per Andy l'isolamento fosse una cosa dura come poteva essere per altri. Stava bene con se stesso.
La faccenda delle sorelle fu una cosa a cui si adattò — e poi, nel 1950, finì completamente. Questa è una parte della storia che vi racconterò a suo tempo.

Nell'autunno del 1948, Andy mi avvicinò una mattina nel cortile e mi chiese se potevo procurargli una mezza dozzina di panni da roccia.  «E che diavolo sono?» chiesi.
Lui mi spiegò che era così che li chiamavano i cercatori di minerali; erano panni per lucidare grandi più o meno come strofinacci da cucina. Erano imbottiti, con un lato più liscio e uno ruvido — quello liscio era come carta vetrata sottile, quello ruvido abrasivo quasi come la lana d'acciaio industriale (di questa Andy ne aveva una scatola in cella, ma non gliel'avevo procurata io — probabilmente l'aveva trafugata dalla lavanderia della prigione).
Gli dissi che pensavo che si potesse fare, e li feci arrivare dallo stesso negozio di minerali e pietre dure dove avevo trovato il martello. Stavolta caricai il prezzo del mio solito dieci per cento e non un penny di più.
Pareva che non ci fosse niente di letale, e neppure di pericoloso, in una dozzina di strofinacci imbottiti venti per venti. Panni da roccia, appunto.

Fu circa cinque mesi dopo che Andy chiese se potevo fargli avere Rita Hayworth. La conversazione ebbe luogo nella sala del cinema durante un film. Oggi abbiamo il film una o due volte la settimana, ma allora era un avvenimento mensile. Di solito i film che ci facevano vedere avevano un elevato messaggio morale, e questo, Giorni perduti, non era diverso. La morale era che bere è dannoso. Era una morale da cui potevamo trarre qualche conforto.
Andy manovrò in modo da mettersi vicino a me, e a metà film si chinò un po' più vicino e mi chiese se potevo procurargli Rita Hayworth. Vi dirò la verità, un po' mi divertì. Di solito era freddo, calmo, controllato, ma quella sera era eccitatissimo, quasi imbarazzato, come se mi stesse chiedendo di procurargli un carico di trojans o uno di quegli aggeggi ornati di pelo di capra che dovrebbero «migliorare i vostri piaceri solitari», come dicono i giornali. Sembrava sovraccarico, sull'orlo di far saltare il radiatore.
«Posso averla», dissi. «Non ti agitare, mettiti calmo. Vuoi la grande o la piccola?» A quel tempo Rita era la mia ragazza migliore (qualche anno prima era stata Betty Grable) e c'era in due formati. Per un dollaro potevi avere la Rita piccola. Per due e cinquanta ti arrivava la grande, alta un metro e venti e tutta donna.
«La grande», disse lui, senza guardarmi. Ve lo dico io. quella sera scottava. Arrossiva come un ragazzino che cerca di entrare in un locale porno con la cartolina precetto del fratello maggiore. «Puoi farlo?»
«Stai tranquillo, sicuro che posso farlo. Forse un orso non può cacare nella foresta?» Il pubblico applaudiva e miagolava mentre gli insetti uscivano dalle pareti per avventarsi su Ray Milland, che stava passando un brutto momento di delirium tremens.
«Quando?»
«Una settimana. Forse meno.»
«D'accordo.» Ma pareva deluso, come se avesse sperato che ce l'avessi infilata nei pantaloni sul momento. «Quanto?»
Gli dissi il prezzo all'ingrosso. Potevo permettermi di dargliela a prezzo di costo; era un buon cliente, con il suo martello da minerali e le sue pezze da roccia. E poi, era un bravo ragazzo — più di una sera, quando era nei pasticci con Bogs, Rooster e gli altri, mi ero chiesto quanto tempo sarebbe passato prima che si fosse deciso a usare il martello per aprire la testa a qualcuno.
I manifesti sono una parte importante della mia attività, subito dopo l'alcol e le sigarette, solitamente un mezzo passo avanti alle sigarette di marijuana. Negli anni sessanta il settore è esploso in ogni direzione, con un sacco di gente che voleva poster strani come Jimi Hendrix, Bob Dylan o quello di Easy Rider. Ma per lo più si tratta di ragazze: una regina delle pin-up dopo l'altra.
Qualche giorno dopo che Andy mi aveva parlato, un autista dei furgoni della lavanderia con cui facevo affari mi portò più di sessanta manifesti, soprattutto di Rita Hayworth. Forse vi ricordate la figura; io certamente sì. Rita è vestita — diciamo così — in costume da bagno, una mano dietro la testa, gli occhi socchiusi, quelle labbra rosse, piene e morbide, semiaperte. La chiamavano Rita Hayworth, ma avrebbero potuto chiamarla benissimo la Donna in Calore.
Sì, la direzione del carcere è al corrente del mercato nero, se per caso ve lo state chiedendo. Certo che è al corrente. Probabilmente ne sa più di me, del mio commercio. Lo permettono perché sanno che una prigione è come una grande pentola a pressione, e da qualche parte ci dev'essere una valvola per scaricare il vapore. Di tanto in tanto fanno una perquisizione e io finisco in isolamento, due o tre volte all'anno, ma quando si tratta di cose come i poster chiudono un occhio. Vivi e lascia vivere. E quando compariva una Rita Hayworth grande in qualche cella si fingeva di credere che era arrivata per posta da un amico o un parente. Ovviamente tutti i pacchi degli amici e parenti vengono aperti e controllati, ma chi sta a tornare indietro a ricontrollare i moduli di inventario per qualcosa di inoffensivo come un poster di Rita Hayworth o di Ava Gardner? Quando ti trovi in una pentola a pressione impari a vivere e lasciar vivere, altrimenti qualcuno ti scava una bocca nuova nuova giusto sopra il pomo d'Adamo. Impari a fare concessioni.  Fu di nuovo Ernie a portare il manifesto di Rita Hayworth nella cella di Andy, la 14, dalla mia, la 6. E fu Ernie a portarmi il biglietto, scritto con la calligrafia precisa di Andy, con una sola parola: «Grazie».
Un po' più tardi, mentre ci mettevano in fila per il mangiare del mattino, lanciai un'occhiata nella sua cella e vidi Rita sopra la cuccetta in tutto il suo splendore balneare, una mano dietro la testa, gli occhi socchiusi, quelle morbide labbra di seta semiaperte. Era messa sopra la cuccetta, dove lui potesse vederla di notte, dopo il buio in cella, al chiarore della luce proveniente dal cortile.
Ma nella viva luce del mattino, c'erano dei segni scuri sulla sua faccia — l'ombra delle sbarre della finestra.

Adesso vi racconto che cosa successe a metà maggio del 1950, quello che finalmente mise fine alla serie di tre anni di schermaglie tra Andy e le sorelle. Fu anche l'incidente che finì per portarlo dalla lavanderia in biblioteca, dove ha passato tutto il suo tempo di lavoro da allora all'inizio di quest'anno, quando ha lasciato la nostra felice famigliola.
Forse avrete notato che tanto di quello che vi ho detto era già per me un sentito dire — qualcuno ha visto qualcosa e me lo ha riferito e io l'ho riferito a voi. Be', in qualche caso dire così è semplificare ancora di più la realtà: in verità a volte ho riportato (o riporterò) informazioni di quarta o di quinta mano. È così che funziona qui. Il telegrafo senza fili è una realtà, e devi usarlo se vuoi andare avanti. Devi anche sapere, è chiaro, come separare i grani di verità dalla pula delle bugie, dei si dice e delle interpretazioni tendenziose.
Forse penserete anche che sto descrivendo qualcuno che è più una leggenda che un uomo, e devo ammettere che c'è un che di vero in questo. Per noi ergastolani che abbiamo conosciuto Andy per anni, c'era in lui un elemento di fantasia, un senso, quasi, di magia mitica, se afferrate quello che intendo. La storia che vi ho passato, di Andy che rifiuta di fare il pompino a Bogs Diamond, fa parte di quel mito, e anche come continuò a lottare con le sorelle, e anche come riuscì ad avere l'incarico in biblioteca... ma qui con una grossa differenza: io c'ero e vidi quello che successe, e giuro sul nome di mia madre che è tutto vero. Il giuramento di un detenuto per omicidio può non valer molto, ma a questo credeteci: io non mento.
Andy e io eravamo ormai in buoni rapporti. Quel tipo mi affascinava. Riguardo all'episodio del poster, mi accorgo che c'è una cosa che ho trascurato di dirvi, e forse dovrei. Cinque settimane dopo che aveva appeso Rita (a quel punto io avevo dimenticato tutto di quella faccenda ed ero passato ad altri affari), Ernie mi passò una scatoletta bianca attraverso le sbarre.
«Da parte di Dufresne», disse, a bassa voce, senza perdere neppure un colpo della sua scopa.
«Grazie, Ernie», dissi e gli porsi mezzo pacchetto di Camel.
Che diavolo sarà, mi stavo chiedendo mentre toglievo il coperchio dalla scatoletta. C'era una quantità di ovatta bianca dentro, e sotto...
Rimasi a fissare a lungo. Per qualche minuto fu come se non avessi neppure il coraggio di toccarli, tanto erano belli. C'è una mancanza da far piangere di cose belle, in galera, e il vero peccato è che tanti degli uomini sembrano non sentirne neppure la mancanza.
C'erano due pezzi di quarzo in quella scatola, tutti e due accuratamente lucidati. Erano stati tagliati in modo da parere due legni lasciati dal mare. C'erano piccoli granelli di pirite di ferro sopra, come pepite d'oro. Se non fossero stati così pesanti, si sarebbero potuti usare come un bel paio di gemelli da uomo — erano così simili da parere proprio una coppia fatta apposta.
Quanto lavoro c'era voluto per creare quei due pezzi? Ore e ore dopo il buio in cella, questo era chiaro. Prima tagliarli e dargli forma, poi l'interminabile lucidatura e rifinitura con quei panni da roccia. Guardandoli, sentii il calore che qualsiasi uomo o donna sente quando guarda qualcosa di bello, qualcosa che è stato lavorato e fatto — questo è quello che divide veramente noi dagli animali, secondo me — e sentii anche qualcos'altro. Un senso di reverenza verso la pura perseveranza dell'uomo. Ma solo molto più tardi avrei saputo davvero quanto poteva essere perseverante Andy Dufresne.

Nel maggio del 1950, i poteri decisero che il tetto della fabbrica di targhe andava riasfaltato con catrame da terrazza. Volevano che fosse fatto prima che cominciasse a fare troppo caldo lassù, e chiesero dei volontari per il lavoro, che secondo i programmi avrebbe preso una settimana circa. Risposero in più di settanta, perché era un lavoro all'aperto e maggio è un mese maledettamente bello per il lavoro all'aperto. Nove o dieci nomi furono tirati fuori da un cappello e avvenne che due di quelli erano il mio e quello di Andy.
Per tutta la settimana seguente ci avrebbero portato fuori in cortile dopo la colazione, con due guardie davanti e due dietro... più, per buona misura, tutte le guardie sulle torrette che tenevano d'occhio con i binocoli il progredire dei lavori.
Quattro di noi dovevano portare una grande scala allungabile in quelle marce mattutine — mi ha sempre fatto morire dal ridere Dickie Betts, anche lui della squadra, che chiamava quella specie di scaletta «l'estensibile» — e dovevamo appoggiarla al lato di quel basso e piatto edificio. Poi si cominciava a fare il passamano con i secchi di catrame bollente su fino al tetto. Se ti versavi quella merda addosso, schizzavi diritto all'infermeria.
C'erano sei guardie al lavoro, tutte scelte in base all'anzianità. Era bello quasi come una settimana di vacanza, perché invece di sorvegliare un mucchio di detenuti sudando nella lavanderia o nella fabbrica di targhe, si stavano facendo una vera e propria vacanza di maggio al sole, standosene seduti a chiacchierare con la schiena appoggiata al basso parapetto.
Non dovevano neppure darci più di un'occhiata di tanto in tanto, dato che la postazione della sentinella del muro sud era così vicina che quelli lassù avrebbero potuto sputarci in testa, se volevano. Se qualcuno della squadra di lavoro sul tetto avesse fatto una qualche strana mossa, ci sarebbero voluti quattro secondi per farlo a metà con le 45 automatiche. E così quelle guardie se ne stavano sedute lì a passare il tempo. Tutto quello che gli serviva era un paio di confezioni da sei birre sepolte nel ghiaccio tritato, ed erano i signori di tutto il creato.
Uno di loro era un tale che si chiamava Byron Hadley, e in quell'anno del 1950 era a Shawshank da più tempo di me. Da più tempo degli ultimi due guardiani messi insieme, anzi. Quello che dirigeva lo spettacolo nel 1950 era una mezza sega di yankee che si chiamava George Dunahy. Era laureato in amministrazione penale. Non piaceva a nessuno, per quanto posso dire io, tranne a quelli che gli avevano fatto avere l'incarico. Si diceva che gli interessavano solo tre cose: compilare statistiche per un libro (che poi fu pubblicato da una piccola casa del New England, la Light Side Press, e probabilmente dovette pagare lui le spese di pubblicazione), sapere quale squadra aveva vinto il campionato di baseball intramurale ogni settembre, e far passare una legge sulla pena di morte nel Maine. Fu sbattuto fuori dal suo posto nel 1953, quando venne fuori che aveva organizzato un servizio di autoriparazioni giù nel garage del penitenziario e divideva gli utili con Byron Hadley e Greg Stammas. Hadley e Stammas ne uscirono puliti — erano vecchi del mestiere e sapevano come si fa per salvare il culo — mentre Dunahy fu mandato a spasso. Nessuno pianse a vederlo andar via, ma neppure nessuno fu proprio felice a vedere Greg Stammas prendere il suo posto. Era un uomo piccolo con tanto così di pelo sullo stomaco, e aveva i più freddi occhi marroni che potreste mai vedere. Aveva sempre una piccola smorfia di dolore sulla faccia, come se dovesse andare in bagno e non ci riuscisse. Durante il periodo di Stammas come direttore a Shawshank ci fu un'ondata di brutalità e, anche se non ne ho le prove, sono convinto che ci fu una mezza dozzina di sepolture notturne nella foresta che si estende a est della prigione. Dunahy era cattivo, ma Greg Stammas era un uomo malvagio, miserabile, dal cuore gelido.
Lui e Byron Hadley erano buoni amici. Come direttore, George Dunahy era solo un uomo di paglia; era Stammas, e tramite lui Hadley, ad amministrare veramente il penitenziario.
Hadley era un uomo alto e dinoccolato con radi capelli rossi. Si scottava facilmente al sole e parlava forte e se non ti muovevi in fretta come voleva lui, ti prendeva col manganello. Quel giorno, il terzo che eravamo sul tetto, stava parlando con un'altra guardia, Mert Entwhistle.
Hadley aveva avuto una bellissima notizia, e se ne stava lagnando. Questo era il suo stile — era un uomo ingrato, senza una parola buona per nessuno, convinto che tutto il mondo era contro di lui. Il mondo gli aveva truffato i migliori anni della sua vita, il mondo sarebbe stato più che felice di truffargli anche il resto. Ho conosciuto guardie che mi sono sembrate quasi dei santi, e credo di sapere perché succede questo — è gente capace di vedere la differenza tra la loro vita, povera e faticata che possa essere, e le vite degli uomini che sono pagati per sorvergliare. Queste guardie sono in grado di formulare un paragone fondato sulla pena. Altri non possono, o non vogliono.
Per Byron Hadley non c'era base di paragone. Poteva sedere lì, fresco e comodo sotto il caldo sole di giugno, e trovare il coraggio di lamentarsi della sua fortuna mentre a meno di tre metri un branco di uomini lavorava e sudava e si bruciava le mani sui grandi secchi pieni di quel catrame ribollente, uomini che nei giorni normali dovevano lavorare così sodo che questo pareva un riposo. Forse vi ricordate quel vecchio quesito, quello che dovrebbe servire a definire il vostro atteggiamento sulla vita a seconda di come rispondete. Per Byron Hadley la risposta sarebbe stata sempre mezzo vuoto, il bicchiere è mezzo vuoto. Nei secoli dei secoli, amen. Se gli davate una bibita fresca di sidro di mele, lui pensava all'aceto. Se gli dicevate che la moglie gli era sempre stata fedele, lui vi rispondeva che era perché era così dannatamente brutta.
Insomma, sedeva lì a parlare con Mert Entwhistle così forte che tutti lo sentivano, con quella fronte alta e bianca già mezza arrossata dal sole. Una mano era appoggiata al basso parapetto che circondava il tetto. L'altra sul calcio della sua 38.
Sentimmo tutti il racconto insieme a Mert. A quanto pareva il fratello maggiore di Hadley se n'era andato nel Texas un quattordici anni prima e il resto della famiglia non aveva avuto più notizie di quel figlio di puttana.  Lo avevano dato tutti per morto, e tanti saluti. Poi, una settimana e mezzo prima, un avvocato aveva chiamato da Austin. Il fratello di Hadley, pareva, era morto quattro mesi prima, ricco («È incredibile quanta fortuna possono avere certi stronzi», disse quel campione di gratitudine sul tetto della fabbrica di targhe). I soldi venivano da certe attività petrolifere, ed erano sul milione di dollari.
No, Hadley non era diventato milionario — questo avrebbe reso felice perfino lui, almeno per un po' — ma il fratello aveva lasciato la quota maledettamente decente di trentacinquemila dollari a ciascuno dei membri viventi della sua famiglia nel Maine, se fossero stati rintracciati. Niente male.
Come vincere alla lotteria.
Ma per Byron Hadley il bicchiere era sempre mezzo vuoto. Passò gran parte della mattinata a piangere con Mert sulla fetta che il governo schifoso si sarebbe mangiato di quella torta. «Mi lasceranno sì e no da comprarmi una macchina nuova», concesse, «e poi che succede? Devi pagare quelle maledette tasse sulla macchina, e le riparazioni, e la manutenzione, e ti ritrovi con i figli che ti rompono i coglioni per farsi portare a fare un giro con la capote completamente abbassata...»
«E per guidarla loro, se sono abbastanza grandi», disse Mert. Il vecchio Mert Entwhistle sapeva su che lato il suo pane era imburrato, e non disse quello che doveva essere stato ovvio per lui come per il resto di noi: se questi soldi ti rompono tanto, Byron vecchio mio, perché non li dai a me?
Se no a che servono gli amici?
«Esatto, vogliono guidarla, vogliono imparare a guidarci su, Cristo santo», disse Byron con un brivido. «E poi che succede alla fine dell'anno? Se hai calcolato male le tasse e non ti resta abbastanza per pagare la sovrattassa, ti tocca pagare di tasca tua, o magari addirittura andare a prestito da una di quelle agenzie. E quelli ti convocano lo stesso, che ti credi. Non importa. E quando ti convoca il governo, si prende sempre di più. Chi può fregare lo Zio Sam? Lui ti infila le mani sotto la camicia e ti strizza le tette finché si fanno scarlatte, e finisci che ti ritrovi con un pugno di mosche. Cristo.»
Piombò in un silenzio accigliato, riflettendo sulla terribile sfortuna che gli era capitata a ereditare quei trentacinquemila dollari. Andy Dufresne, che era stato fino allora a spargere catrame con un grosso pennello, a meno di cinque metri di distanza, lo buttò nel secchio e si avvicinò al punto dov'erano seduti Mert e Hadley.
Ci irrigidimmo tutti, e io vidi una delle altre guardie, Tim Youngblood, portare la mano alla fondina. Uno dei tizi sulla torre di guardia batté sulla spalla del suo compagno e si girarono tutti e due. Per un momento pensai che Andy sarebbe finito sparato, o manganellato, o tutt'e due.  Allora disse, molto pacatamente, a Hadley: «Lei si fida di sua moglie?»
Hadley lo fissò soltanto. Cominciò a farsi rosso in faccia, e io sapevo che era un brutto segno. Entro tre secondi avrebbe preso il suo bastone e lo avrebbe piantato nel plesso solare di Andy, dove c'è quel grosso incrocio di nervi. Un colpo abbastanza forte lì può ucciderti, ma loro mirano sempre a quel punto. Se non ti uccide ti paralizza per tanto tempo che ti scordi qualsiasi scherzo avevi in mente di fare.
«Ragazzo», disse Hadley, «ti do solo l'opportunità di raccogliere quel pennello. E poi te ne vai giù da questo tetto a testa in giù.»
Andy lo guardò, perfettamente calmo e immobile. I suoi occhi erano come il ghiaccio. Era come se non avesse sentito. E mi trovai a desiderare di dirgli come stavano le cose, di fargli il corso accelerato. Il corso accelerato sul fatto che mai devi far capire che hai ascoltato le guardie che parlano tra loro, mai devi cercare di entrare nella loro conversazione a meno che non te lo chiedano (e in questo caso gli dici sempre solo quello che vogliono sentire e poi chiudi il becco). Che tu sia nero, bianco, rosso, giallo, in prigione non ha importanza perché abbiamo tutti il nostro marchio di uguaglianza. In prigione ogni detenuto è un negro ed è meglio che ti abitui all'idea se hai intenzione di sopravvivere a uomini come Hadley e Greg Stammas, che davvero vorrebbero ucciderti solo guardandoti. Quando sei dentro appartieni allo stato, e se te ne dimentichi, fatti tuoi. Ho conosciuto uomini che hanno perso gli occhi, uomini che hanno perso dita delle mani e dei piedi; ho conosciuto uno che aveva perso la punta del pene e si considerava fortunato di aver perso solo quello. Avrei voluto dire ad Andy che era già troppo tardi. Poteva tornare indietro e raccogliere il suo pennello e lo stesso ci sarebbe stato qualcuno ad aspettarlo nella doccia quella sera, pronto a spezzargli tutt'e due le gambe e lasciarlo lì a dimenarsi sul cemento. Uno così lo puoi comprare con un pacchetto di sigarette o tre Baby Ruth. Soprattutto, avrei voluto dirgli di non rendere le cose peggiori di come erano già.
Quello che feci fu continuare a lisciare il catrame sul tetto come se non stesse succedendo niente. Come tutti, la prima cosa a cui avevo da badare era il mio culo. Dovevo farlo. Incrinato già lo era, e a Shawshank c'è sempre un Hadley pronto a finire di rompertelo.
Andy disse: «Forse mi sono espresso male. Che lei si fidi o meno non ha rilevanza. Il problema è se crede che possa venirle alle spalle cercando di sgarrettarla».  Hadley si alzò. Mert si alzò. Tim Youngblood si alzò. La faccia di Hadley era rossa come la fiancata del camion dei pompieri. «Il tuo solo problema», disse, «è sapere quante ossa ti rimarranno intere. Potrai contartele all'infermerà. Andiamo, Mert, buttiamo giù questo stronzo.»
Tim Youngblood tirò fuori la pistola. Noi continuammo a dare l'asfalto come matti. Il sole picchiava. Stavano per farlo; Hadley e Mert stavano semplicemente andando a buttarlo giù dal tetto. Terribile incidente. Dufresne, detenuto numero 81433-SHNK, stava portando giù un paio di secchi vuoti ed è scivolato sulla scala. Pazienza.
Lo afferrarono, Mert il braccio destro, Hadley il sinistro. Andy non fece resistenza. I suoi occhi non si staccavano dalla faccia rossa, cavallina, di Hadley.
«Se però la tiene sotto il pugno, Mr. Hadley», disse con quella sua solita voce calma, composta, «non c'è motivo per cui non dovrebbe avere fino all'ultimo centesimo di quei soldi. Risultato finale, Mr. Byron Hadley trentacinquemila, Zio Sam zero.»
Mert cominciò a trascinarlo verso il bordo. Hadley si bloccò. Per un momento Andy fu come una corda tra loro in un tiro alla fune. Poi Hadley disse: «Aspetta un momento, Mert. Che intendi dire, ragazzo?»
«Voglio dire, se tiene sotto il pugno sua moglie, può darli a lei.»
«Farai meglio a spiegarti, ragazzo, o vai di sotto.»
«Il governo ammette una donazione una tantum al coniuge», fece Andy.
«Fino a sessantamila dollari.»
Hadley ora fissava Andy come fulminato. «Andiamo, com'è possibile?» disse. «Esentasse?»
«Esentasse», disse Andy. «L'ufficio delle imposte non può toccare un centesimo che è uno.»
«Come la sai una cosa del genere?»
Tim Youngblood intervenne: «Era un bancario, Byron. Forse potrebbe...»
«Chiudi il becco, Trota», gli fece Hadley senza guardarlo. Tim Youngblood arrossì e tacque. Qualcuna delle guardie lo chiamava Trota per le labbra grosse e gli occhi sporgenti che aveva. Hadley continuava a fissare Andy. «Tu saresti quel dritto di banchiere che ha fatto fuori la moglie. Perché dovrei credere a un dritto di banchiere come te? Così poi mi ritrovo a spaccare pietre qui dentro insieme a te? Ti piacerebbe, vero?»
«Se dovesse finire in prigione per evasione fiscale», rispose con calma Andy, «andrebbe in un penitenziario federale, non a Shawshank. Ma non ci andrà. La donazione esentasse al coniuge è una cosa perfettamente legale. È destinata soprattutto a gente che ha una piccola attività da passare, o per gente che si ritrova all'improvviso un gruzzolo. Come lei.»
«Io dico che stai mentendo», disse Hadley, ma non lo pensava — si vedeva benissimo che non lo pensava. Cominciava a spuntargli un'emozione sulla faccia, qualcosa che andava a sovrapporsi in maniera grottesca a quella antica espressione dura, a quella fronte stempiata, bruciata dal sole. Un'emozione quasi oscena vista sui lineamenti di Byron Hadley. Era speranza.
«No, non sto mentendo. Non c'è motivo per cui dovrebbe prendere per buona la mia parola, comunque. Assuma un avvocato...»
«Bastardi a caccia di ambulanze! Banditi da strada!» gridò Hadley.
Andy si strinse nelle spalle. «E allora vada all'ufficio delle imposte. Le diranno la stessa cosa gratis. Anzi, non c'è bisogno che io le dica niente.
Avrebbe dovuto indagare sulla faccenda lei stesso.»
«Grandissimo fottuto. Non mi serve un dritto di banchiere ammazzamogli che mi spiega che devo fare.»
«Le servirà un fiscalista o un uomo di banca per organizzare la donazione e questo le costerà qualcosa», disse Andy. «Oppure... se è interessato, sarò felice di occuparmene io praticamente gratis. Il prezzo sarebbe di tre birre per uno per i miei colleghi di lavoro...»
«Colleghi...» disse Mert, e scoppiò in una risata roca. Si batté il ginocchio con la mano. Gran brava persona il vecchio Mert, spero che sia morto di cancro intestinale in un punto del mondo dove la morfina non è stata ancora scoperta. «Colleghi di lavoro, non è carina? Colleghi di lavoro! Tu non avrai un bel...»
«Chiudi quella trappola fottuta», ringhiò Hadley, e Mert la chiuse. Hadley guardò di nuovo Andy. «Che stavi dicendo?»
«Stavo dicendo che chiederei solo tre birre a testa per i miei colleghi di lavoro, se le sembra giusto», rispose Andy. «Credo che un uomo si sente più uomo se quando sta lavorando all'aperto in primavera può farsi una bottiglia. È solo la mia opinione. Andrebbe giù liscia, e sono sicuro che a lei andrebbe la loro riconoscenza.»
Ho parlato con qualcuno degli altri uomini che erano lassù quel giorno — Rennie Martin, Logan St. Pierre e Paul Bonsaint erano tre di loro — e tutti allora vedemmo la stessa cosa... sentimmo la stessa cosa. Improvvisamente era Andy ad avere il gioco. Era Hadley che aveva la pistola sul fianco e il manganello in mano, Hadley che aveva il suo amico Greg Stammas dietro di sé e tutta l'amministrazione della prigione dietro Stammas, tutto il potere dello stato dietro quello, ma tutto d'un tratto nella luce dorata del sole questo non contava più, e sentii il cuore balzarmi nel petto come non aveva mai fatto da quando nel 1938 il furgone mi aveva fatto entrare, me e altri quattro, dal cancello posteriore e io avevo messo piede nel cortile.
Andy fissava Hadley con quegli occhi freddi, chiari, calmi, e in quel momento non c'erano più soltanto quei trentacinquemila, su questo eravamo tutti d'accordo. L'ho rivisto tante e tante volte nella mente, e lo so. C'era un uomo contro un uomo, e Andy semplicemente lo PIEGÒ, al modo che un uomo forte può piegare il polso di uno più debole al braccio di ferro. Non c'era nessun motivo, vedete, per cui Hadley non potesse dare a Mert il segnale in quello stesso momento, buttare Andy di sotto e poi seguire lo stesso il suo consiglio.
Nessun motivo. Ma non lo fece.
«Potrei darvi un paio di birre se volessi», disse Hadley. «Una birra è buona mentri lavori.» Quella colossale testa di cazzo riusciva perfino a parere magnanimo.
«Ho solo un consiglio da darle, che l'ufficio delle imposte non le darebbe di certo», disse Andy senza distogliere per un attimo lo sguardo da Hadley. «Faccia la donazione a sua moglie solo se è sicuro. Se pensa che c'è anche una sola possibilità che possa fare il doppio gioco o pugnalarla alle spalle, potremmo escogitare qualche altra cosa...»
«Doppio gioco con me?» fece Hadley aspro. «Doppio gioco con me? Mia moglie, signor Banchiere Sputafuoco, se in viaggio si mangia tutta una scatola di Ex-Lax, non si permette nemmeno di scoreggiare finché io non le do il permesso.»
Mert, Youngblood e le altre guardie sghignazzarono doverosamente.
Andy non accennò neppure a un sorriso.
«Le compilerò i moduli che le occorrono», disse. «Può farseli dare all'ufficio postale, e io glieli preparo da firmare.»
Era una cosa che suonava sufficientemente importante, e il petto di Hadley si gonfiò. Poi fece scorrere lo sguardo su noialtri e urlò: «Che state a guardare voi? Muovete il culo, maledizione!» Fissò di nuovo Andy. «Tu vieni con me, sputafuoco. E sentimi bene; se mi stai fregando in qualche modo, ti troverai a inseguire la tua testa per la doccia C prima della fine della settimana.»
«Sì, questo lo capisco», disse Andy piano.
E lo capiva davvero. Per come andarono le cose, capiva molto più di me — molto più di ognuno di noi.

Fu così che il penultimo giorno del lavoro, la squadra di detenuti che nel 1950 asfaltava il tetto della fabbrica di targhe finì seduta in fila alle dieci di un mattino di primavera, a bere birra Black Label fornita dalla guardia più tosta che si sia mai vista girare per la Prigione di Stato di Shawshank. Quella birra era calda come piscio, ma fu lo stesso la più buona che abbia mai bevuto in vita mia. Sedevamo e bevevamo e io sentivo il sole sulle spalle, e neppure l'espressione mezzo divertita e mezzo sprezzante sulla faccia di Hadley — come se stesse guardando delle scimmie bere birra e non degli uomini — riusciva a rovinarcelo. Durò venti minuti, quell'intervallo di birra, e per quei venti minuti ci sentimmo uomini liberi. Era come bere birra e asfaltare la terrazza della casa di uno di noi.
Solo Andy non bevve. Vi ho già detto delle sue abitudini sul bere. Sedeva accovacciato all'ombra, con le mani penzolanti tra le ginocchia, osservandoci e sorridendo un po'. È sorprendente quanti uomini lo ricordino in quell'atteggiamento, ed è sorprendente quanti uomini erano in quella squadra di lavoro quando Andy Dufresne affrontò e vinse Byron Hadley. Pensavo che fossimo nove o dieci, ma entro il 1955 dovevamo essere diventati un paio di centinaia, forse più... se si crede a quello che si sente dire. Insomma — se mi chiedete di rispondere chiaro e netto se sto cercando di raccontarvi di un uomo o di una leggenda che si è costruita attorno all'uomo, come una perla attorno a un granello di polvere — devo dire che la risposta è a metà strada. Quello che so per certo è che Andy Dufresne non era come me o come nessun altro io abbia mai conosciuto da quando sono entrato qui. Portò dentro cinquecento dollari infilati nel bagagliaio posteriore, ma in qualche modo questo figlio di puttana portò dentro anche qualche altra cosa. Un senso del suo valore, forse, o la sensazione che alla fine avrebbe vinto lui... o forse solo un senso di libertà, perfino dentro queste dannate mura grigie. Era come una specie di luce interiore quella che si portava in giro. Quella luce so che l'ha persa solo una volta, e anche questo fa parte della storia.

Al tempo della World Series del 1950 Andy ormai non aveva più problemi con le sorelle. Stammas e Hadley avevano passato parola. Se Andy Dufresne si presentava da uno dei due, o da una qualsiasi delle guardie che formavano il loro entourage, e mostrava anche una sola goccia di sangue sulle mutande, ognuna delle sorelle di Shawshank quella sera se ne sarebbe andata a letto col mal di testa. E loro non protestarono. Come ho già detto, c'era sempre un diciottenne ladro di macchine o un incendiario o qualche tizio che gli era andata male maneggiando qualche bambino piccolo. Dopo il giorno del tetto della fabbrica di targhe, Andy andò per la sua strada e le sorelle per la loro.
Allora lavorava nella biblioteca, sotto un vecchio duro detenuto che si chiamava Brooks Hatlen. Hatlen aveva avuto quel posto fin dagli anni venti, perché aveva un'istruzione universitaria. La laurea di Brooksie era in riproduzione animale, è vero, ma le istruzioni universitarie in istituti di istruzione inferiore come lo Shank sono così rare che c'è poco da fare gli schizzinosi.
Nel 1952 Brooksie, che aveva ucciso moglie e figlia dopo aver perso tutto a poker ancora quando era presidente Coolidge, aveva avuto la libertà sulla parola. Come sempre, lo stato in tutta la sua saggezza lo aveva lasciato andare molto dopo che ogni possibilità di farlo tornare a essere parte utile della società se n'era andata. Aveva sessantotto anni e l'artrite quando se ne uscì, incerto sulle gambe, dal cancello principale col suo abito polacco e le sue scarpe francesi, i documenti di rilascio in una mano e il biglietto dell'autobus nell'altra. Piangeva quando andò via. Shawshank era il suo mondo. Quello che si distendeva al di là delle mura era per Brooks terribile quanto i mari occidentali per i superstiziosi marinai del quindicesimo secolo. In prigione, Brooksie era stato un personaggio di una certa importanza. Era il bibliotecario capo, un uomo istruito. Se fosse andato alla biblioteca di Kittery e avesse chiesto un posto, non gli avrebbero dato neppure la tessera del prestito. Ho sentito dire che è morto in un ospizio per vecchi indigenti su verso Freeport, nel 1953, e in effetti è durato un sei mesi più di quanto avevo previsto io. Già, penso proprio che lo stato abbia fatto un bel tiro a Brooksie. Gli ha insegnato ad amare quello che c'era dentro questo cesso e poi l'ha sbattuto fuori.
Andy successe al posto di Brooksie. e fu bibliotecario capo per ventitré anni. Usò la stessa forza di volontà che gli ho visto impiegare su Byron Hadley per ottenere quanto voleva per la biblioteca, e gli ho visto trasformare gradualmente una sola stanzetta (che puzzava ancora di trementina perché fino al 1922 era stata un ripostiglio per le vernici e non era mai stata arieggiata come si deve) — con gli scaffali pieni dei condensati del Reader's Digest e dei numeri del National Geographics — nella migliore biblioteca carceraria del New England.
Ci riuscì un passo per volta. Mise una cassetta per i suggerimenti accanto alla porta e pazientemente sarchiò i tentativi di umorismo quali Più librichiavata, prego o L'evasione in 10 lezioni. Si attenne alle cose su cui i detenuti parevano seri. Scrisse ai principali club del libro di New York e ottenne che due di loro, The Literary Guild e The Book-of-the-Month Club, ci mandassero una copia di tutte le loro principali scelte a prezzo particolarmente basso. Scoprì che c'era in giro una gran sete di informazioni su piccoli hobby quali la scultura su sapone, la lavorazione del legno, i giochi di prestigio e i solitari con le carte. Si procurò tutti i libri che poté su questi argomenti. E quei due classici delle prigioni che sono Erle Stanley Gardner e Louis l'Amour. I detenuti parevano non averne mai abbastanza di tribunali e di praterie. E, sì, teneva anche una cassetta di paperback piuttosto spinti sotto il banco, che prestava con grande parsimonia e accertandosi sempre che tornassero indietro. Anche così, ogni nuova acquisizione di questo tipo finiva ben presto in pezzi per l'uso.
Cominciò a scrivere al senato di stato ad Augusta nel 1954. A quel tempo il direttore era Stammas, e voleva far credere che Andy fosse una specie di mascotte. Era sempre in biblioteca, a spararle grosse con Andy, e qualche volta arrivò perfino a mettergli un braccio paterno sulle spalle o a dargli un buffetto affettuoso. Nessuno ci cadeva. Andy Dufresne non era la mascotte di nessuno.
Disse ad Andy che poteva anche essere stato un bancario, fuori, ma quella parte della sua vita stava allontanandosi rapidamente nel passato, e gli conveniva rendersi conto dei fatti della vita della prigione. Per quello che interessava a quel mucchio di repubblicani rotariani sballati di Augusta, c'erano solo tre modi utili per spendere il denaro del contribuente nelle prigioni e negli istituti di correzione. Numero uno più mura, numero due più sbarre, numero tre più guardie. Per quello che importava al senato di stato, spiegò Stammas, la gente di Thomastan e Shawshank e Pittsfield e South Portland erano la schiuma della terra. Erano lì a faticare e, per Dio e il Figliolo Gesù, fatica avrebbero trovato. E se c'era qualche insetto nel pane, che ci volevi fare?
Andy fece il suo sorrisetto composto e chiese a Stammas cosa succede a un blocco di cemento se ci cade sopra una goccia d'acqua ogni anno per un milione di anni. Stammas rise e gli batté la mano sulla spalla. «Tu non hai a disposizione un milione di anni, vecchio mio, ma se lo avessi, dubito che ti terresti lo stesso sorrisetto sulla faccia. Vai avanti a scrivere le tue lettere. Se paghi tu i francobolli io te le imbuco perfino.»
E Andy lo fece. E rise per ultimo, anche se Stammas e Hadley non erano più in giro per vederlo. Le richieste di Andy di fondi per la biblioteca furono respinte d'ufficio fino al 1960, quando gli arrivò un assegno di duecento dollari — il senato probabilmente glieli concesse nella speranza che la piantasse e si togliesse dai piedi. Vana speranza. Andy sentì che finalmente aveva messo un piede nella porta e non fece altro che raddoppiare gli sforzi; due lettere alla settimana invece di una. Nel 1962 ottenne quattrocento dollari, e per il resto del decennio la biblioteca ricevette settecento dollari l'anno puntuali come un orologio. Nel 1971 erano arrivati a mille tondi. Non un granché, immagino, rispetto a quello che riceve la vostra biblioteca media di provincia, ma mille carte possono comprare un sacco di storie di Perry Mason riciclate e di western di Jake Logan. Per quando Andy andò via, potevate entrare nella biblioteca (passata dall'originale stanzino delle vernici a tre sale) e trovare praticamente tutto quello che volevate. E se non lo trovavate, c'erano buone possibilità che Andy ve lo procurasse.

Ora vi starete chiedendo se tutto questo capitò solo perché Andy disse a Byron Hadley come fare per risparmiare le tasse sulla sua eredità. La risposta è sì... e no. Probabilmente riuscite a immaginare voi stessi che cosa successe.
Cominciò a circolare la voce che Shawshank aveva un suo mago della finanza. Alla fine della primavera e nell'estate del 1950, Andy organizzò due fondi di investimento per le guardie che volevano assicurare un'istruzione universitaria ai loro ragazzi, consigliò un altro paio che volevano investire qualcosa in azioni ordinarie (e gli andò maledettamente bene, risultò poi; a uno dei due così bene che riuscì a mettersi in pensione in anticipo, due anni dopo), e che io sia dannato se non diede qualche consiglio anche al direttore, il vecchio George Dunahy Labbra di Limone, su come organizzarsi un riparo fiscale. Questo successe subito prima che Dunahy fosse cacciato a calci nel sedere, e credo che dovesse star sognando su tutti i milioni che gli avrebbe fatto guadagnare il suo libro. Ad aprile del 1951 Andy faceva ormai la dichiarazione dei redditi per la metà delle guardie di Shawshank, ed entro il 1952 le faceva quasi tutte. Lo pagavano con quella che probabilmente è la moneta di maggior valore in una prigione: semplice benevolenza.
Più tardi, quando Greg Stammas prese il posto di direttore, Andy divenne ancora più importante — ma se cercassi di spiegarvi in particolare come, dovrei fare delle supposizioni. Ci sono cose che so e altre che posso solo immaginare. So che c'erano detenuti che ricevevano ogni sorta di considerazione speciale — radio nella cella, visite straordinarie, cose del genere — e c'era gente di fuori che pagava per fargli avere questi privilegi. Queste persone erano dette «angeli» dai detenuti. Improvvisamente uno era esentato dal lavoro nella fabbrica di targhe il sabato pomeriggio, e tu sapevi che quello aveva un angelo di fuori che aveva fatto il miracolo. La cosa di solito funziona in questo modo: l'angelo passa una bustarella a qualche guardia di medio livello, e quello dà l'olio agli ingranaggi su e giù per la scala amministrativa.
Poi ci fu la faccenda del servizio di autoriparazioni, che stese il direttore Dunahy. Sparì dalla circolazione per un po' e poi riemerse più forte che mai alla fine degli anni cinquanta. E tra gli appaltatori che lavoravano alla prigione qualcuno di tanto in tanto passava soldi sottobanco ai vertici della direzione, ne sono sicurissimo; e lo stesso vale quasi certamente per le compagnie da cui si compravano le attrezzature per la lavanderia e per la fabbrica di targhe e per la stamperia che fu costruita nel 1963.
Alla fine degli anni sessanta c'era anche un fiorente commercio di pillole, e lo stesso personale amministrativo fu coinvolto nella faccenda. Il tutto costituiva un flusso di guadagni illeciti di discrete dimensioni. Non come il mare di denaro clandestino che deve girare attorno a penitenziari veramente grossi come Attica o San Quentin, ma neppure noccioline. E dopo un po' il denaro in sé diventa un problema. Non puoi semplicemente ficcartelo nel portafoglio e poi tirar fuori una manciata di carte gualcite e piene di orecchie da venti o da dieci quando vuoi farti costruire una piscina nel giardino dietro casa o un ampliamento della casa. Oltre un certo punto devi spiegare da dove vengono quei soldi... e se le tue spiegazioni non sono convincenti, corri il rischio di trovarti anche tu con un numero sulle spalle.
Per cui c'era bisogno dei servigi di Andy. Lo tolsero dalla lavanderia e lo misero in biblioteca, ma se volete metterla in un altro modo, non lo tolsero mai dalla lavanderia. Lo misero solo a lavare denaro sporco invece che lenzuola sporche. Lui lo incanalava verso azioni, obbligazioni, titoli municipali esentasse, ogni genere di cose.
Una volta, una decina di anni dopo quel giorno sul tetto della fabbrica di targhe, mi disse che le idee che aveva su quello che stava facendo erano chiarissime, e che la sua coscienza era relativamente a posto. I racket sarebbero andati avanti con lui o senza di lui. Non aveva chiesto lui di essere mandato a Shawshank, continuò; lui era un uomo innocente vittima di una colossale sfortuna, non un missionario o un benefattore.
«E poi, Red», aggiunse col suo solito sorrisetto, «quello che sto facendo qui non è poi tanto diverso da quello che facevo fuori. Eccoti un assioma piuttosto cinico: la quantità di consulenza finanziaria di cui un individuo o una compagnia ha bisogno è direttamente proporzionale al numero di persone che quell'individuo o quella compagnia sta fottendo.
«Quelli che dirigono questo posto sono per la maggior parte delle bestie stupide e brutali. Quelli che dirigono il mondo regolare sono brutali e bestiali, ma capita che non siano altrettanto stupidi, perché lì gli standard di competenza sono un po' più alti. Non molto, ma un po' sì.»
«Ma le pillole», dissi io. «Non per ficcare il naso nei tuoi affari, ma mi preoccupano. Rosse, eccitanti, calmanti, Nembutal — adesso arrivano quelle cose che chiamano Fase quattro. Io non procurerò mai roba del genere. Non l'ho mai fatto.»
«No», disse Andy. «Neppure a me le pillole piacciono. Non mi sono mai piaciute. Ma non sono neanche per le sigarette e per l'alcol. Ma non smercio io le pillole. Non le faccio arrivare e non le vendo una volta dentro. Sono soprattutto le guardie a farlo.»
«Ma...»
«Sì, lo so. C'è una linea sottile qui. La faccenda, Red, è che certa gente rifiuta di sporcarsi comunque le mani. Questo è quello che si chiama santità, e i piccioni ti si posano sulle spalle e ti cacano sulla camicia. All'altro estremo sta chi ci fa il bagno, nel fango, e traffica in qualsiasi cosa gli procuri un dollaro — pistole, coltelli a serramanico, eroina, quello che ti pare. Ti è mai capitato un detenuto che venisse a offrirti un contratto?»
Annuii. Era capitato un sacco di volte, nel corso degli anni. Dopotutto sei l'uomo che procura la roba. E quelli si immaginano che se puoi procurare le pile per il transistor o una stecca di Lucky o un pacchetto di erba, potrai anche metterli in contatto con uno che sa usare il coltello.
«Ma sì che ti è capitato», andò avanti Andy. «Ma non l'hai fatto. Perché tipi come noi. Red, sanno che c'è una terza scelta. Un'alternativa tra rimanere immacolati e sguazzare nel lercio e nel fango. È l'alternativa che scelgono tutte le persone adulte del mondo. Fai il conto di quello che ti costa passare in mezzo al fango e di quello che ti rende. Scegli il minore dei mali e cerchi di tenere presenti le tue buone intenzioni. E direi che se ti stai comportando bene lo giudichi da come dormi la notte... e da quello che sogni.»
«Buone intenzioni». dissi io, e risi. «So tutto di questo, Andy. Uno può arrivare fino all'inferno su quella strada.»
«Non crederci», disse lui facendosi cupo. «L'inferno è proprio qui. Proprio qui allo Shank. Loro vendono le pillole e io gli dico cosa fare con i soldi. Ma ho avuto anche la biblioteca, e conosco più di due dozzine di tizi che hanno usato i libri qui dentro per prepararsi agli esami delle superiori. Forse quando escono di qui sono capaci di tirarsi fuori dalla merda. Quando nel 1957 avevamo bisogno della seconda sala, l'ho avuta. Perché ci tengono a farmi contento. Costo poco. Questo è lo scambio.»
«E hai il tuo appartamento privato.»
«Certo. È così che mi piace.»
La popolazione della prigione era lentamente cresciuta per tutti gli anni cinquanta, e nei sessanta era sul punto di scoppiare, con tutti i ragazzi d'America che volevano provare la droga e le pene incredibili per l'uso di uno spinello da niente. Ma in tutto quel tempo Andy non ebbe mai un compagno di stanza, tranne un grosso indiano silenzioso chiamato Normaden (come tutti gli indiani nello Shank, lo chiamavamo Capo), e anche Normaden non durò a lungo. Molti degli ergastolani pensavano che Andy fosse pazzo, ma lui si limitava a sorridere. Viveva da solo e gli piaceva così... e come diceva lui, ci tenevano a farlo contento. Costava poco.

Il tempo della prigione è un tempo lento, a volte giureresti che è un tempo fermo, ma passa. Passa. George Dunahy uscì di scena in un turbinio di titoli che strillavano SCANDALO e I SIMILI CON I SIMILI. Gli succedette Stammas, e per i sei anni successivi Shawshank fu una specie di inferno in terra. Durante il regno di Greg Stammas, i letti dell'infermeria e le celle dell'ala isolamento erano sempre pieni.
Un giorno del 1958 guardandomi nello specchietto da barba che tenevo in cella vidi un uomo di quarant'anni che mi restituiva lo sguardo. Un ragazzo era entrato lì dentro nel 1938, un ragazzo con una gran massa di capelli color carota, semi-impazzito dai rimorsi, pieno di pensieri suicidi. Quel ragazzo era scomparso. I capelli rossi si stavano facendo grigi e cominciavano a diradarsi. C'erano le rughe attorno agli occhi. Quel giorno riuscii a vedere il vecchio dentro, che aspettava il suo momento per uscire. Mi fece paura. Nessuno vorrebbe invecchiare in gabbia.
Stammas se ne andò all'inizio del 1959. C'erano stati diversi giornalisti investigativi ad annusare attorno, e uno di loro si fece addirittura quattro mesi sotto falso nome per un reato inventato di sana pianta. Si stavano preparando per sparare di nuovo i loro SCANDALO e I SIMILI CON I SIMILI, ma prima che il martello gli calasse sulla testa, Stammas scappò. Posso capirlo; ragazzi, posso capirlo perfino io. Se fosse stato processato e condannato, con ogni probabilità sarebbe finito qui. E qui non sarebbe durato più di cinque ore. Byron Hadley se n'era andato due anni prima. Il bastardo aveva avuto un attacco di cuore e si era messo definitivamente in pensione.
Andy non fu mai toccato dall'affare Stammas. All'inizio del 1959 fu nominato un nuovo direttore, e un nuovo assistente del direttore, e un nuovo capo delle guardie. Per i successivi otto mesi, più o meno, Andy tornò a essere un detenuto come tutti gli altri. Fu durante questo periodo che Normaden, il grosso mezzosangue Passamaquoddy, divise la cella con Andy. Poi ricominciò tutto da capo. Normaden fu trasferito, e Andy riprese a vivere nel suo splendido isolamento. I nomi al vertice cambiano, i racket mai.
Una volta parlai di Andy con Normaden. «Brava persona», disse Normaden. Non era facile capire quello che diceva, perché aveva il labbro leporino e il palato fesso; le parole gli venivano fuori in un farfuglio. «Mi piaceva lì. Lui mai mi prendeva in giro. Ma non mi voleva lì. Te lo dico io.» Grande scrollata di spalle. «Ero contento di andarmene, io. Brutti spifferi in quella cella. Sempre freddo. Lui non lasciava a nessuno toccare le sue cose. Sta bene. Brav'uomo, mai mi prendeva in giro. Ma brutti spifferi.»

Rita Hayworth rimase appesa nella cella di Andy fino al 1955, se ricordo bene. Poi venne Marilyn Monroe, quella figura da Quando la moglie è in vacanza dove lei sta sulla grata della metropolitana e l'aria calda le alza la gonna. Marilyn durò fino al 1960, ed era piuttosto maltrattata ai bordi quando Andy la sostituì con Jayne Mansfield. Jayne fu, perdonatemi l'espressione, un bidone. Dopo solo un anno fu rimpiazzata da un'attrice inglese — forse era Hazel Court, ma non ne sono sicuro. Nel 1966 anche quella fu staccata e arrivò Raquel Welch per una permanenza record di sei anni nella cella di Andy. L'ultimo poster appeso lì era quello di una cantante country-rock, molto carina, che si chiamava Linda Ronstadt.
Una volta gli chiesi che cosa significavano i poster per lui, e lui mi lanciò uno sguardo strano, come sorpreso. «Be', per me significano quello che significano per la maggior parte degli altri, immagino», disse. «Libertà.  Guardi quelle belle donne e ti senti come se quasi potessi... non proprio ma quasi fare un passo e trovarti accanto a loro. Essere libero. Probabilmente è per questo che Raquel Welch è quella che mi piaceva di più. Non era solo lei; era quella spiaggia su cui stava. Doveva essere giù in Messico da qualche parte. Un posto tranquillo, dove un uomo potrebbe riuscire a sentirsi pensare.
Non hai mai sentito una cosa del genere davanti a una figura.
Red? Che puoi quasi fare un passo e trovarti lì?» Dissi che non ci avevo mai pensato così.
«Forse un giorno vedrai quello che intendo dire». disse, e aveva ragione.
Anni dopo capii esattamente quello che intendeva... e quando lo capii, la prima cosa che mi venne in mente fu Normaden, e che aveva detto che nella cella di Andy faceva sempre freddo.

Tra la fine di marzo e l'inizio di aprile del 1963 ad Andy capitò una cosa terribile. Vi ho detto che aveva qualcosa che alla maggior parte degli altri detenuti, me compreso, pareva mancare. Chiamatelo senso di giustizia, un atteggiamento di pace interiore, fors'anche la fiducia incrollabile e costante che un giorno il lungo incubo sarebbe finito. Chiamatelo come volete, ma Andy Dufresne pareva sempre agire in maniera composta. Non c'era nulla in lui di quella tetra disperazione che sembra affliggere tanti ergastolani dopo un po'; non annusavi mai l'impotenza in lui. Fino alla fine dell'inverno del '63.
A quel tempo avevamo un altro direttore, un uomo che si chiamava Samuel Norton. Quelli dell'impresa di pompe funebri si sarebbero trovati a loro agio con Sam Norton. Per quello che ne so, nessuno gli ha mai visto neppure l'ombra di un sorriso. Aveva un distintivo di trent'anni di appartenenza alla Chiesa Battista dell'Avvento di Eliot. La sua maggiore innova/ione come capo della nostra allegra famiglia fu assicurarsi che ogni detenuto in arrivo avesse una Bibbia. Aveva una piccola targa sulla scrivania, lettere d'oro su legno di tek, che diceva CRISTO È IL MIO SALVATORE. Un ricamo appeso alla parete, fatto dalla moglie, diceva: IL SUO GIUDIZIO ARRIVA ED È VICINO. Quest'ultimo motto non trovava molta rispondenza in gran parte di noi. Ritenevamo che il giudizio era già arrivato, e avremmo volentieri testimoniato con il migliore di loro che la roccia non ci avrebbe nascosto né l'albero caduto ci avrebbe dato riparo. Aveva una citazione biblica per ogni occasione, Mr. Sam Norton, e ogni volta che incontrate un uomo del genere, il consiglio migliore che posso darvi è: fate un gran sorriso e copritevi le palle con tutt'e due le mani.
Ci furono meno ricoveri in infermeria che ai tempi di Greg Stammas, e per quello che ne so le sepolture al chiaro di luna cessarono completamente, ma questo non vuol dire che Norton non fosse un convinto assertore del castigo. L'isolamento era sempre ben popolato. Gli uomini perdevano i denti non per i pestaggi ma per la dieta a pane e acqua.
Quell'uomo era il più lurido ipocrita che io abbia mai visto in un'alta posizione. I racket di cui vi parlavo continuarono a prosperare, e Sam Norton ci aggiunse del suo. Andy era al corrente di tutti quei giri, e dato che a quel tempo eravamo diventati buoni amici, mi mise a parte di qualcuna di quelle storie. Quando Andy ne parlava, un'espressione di meraviglia divertita e disgustata si dipingeva sulla sua faccia, come se mi stesse parlando di qualche ripugnante specie predatoria di insetti che fosse, per la sua stessa ripugnanza e avidità, più ridicola che terribile.
Fu il direttore Norton a introdurre il programma «Dentro-fuori», di cui forse avete sentito parlare, sedici-diciassette anni fa; ne parlò anche il Newsweek. A leggerlo sul giornale pareva un vero progresso nelle pratiche di correzione e di riabilitazione. C'erano detenuti fuori a tagliare legna, detenuti a riparare ponti e strade, detenuti a costruire depositi per le patate. Norton lo chiamava «Dentro-fuori» e lo invitavano a illustrare l'idea in ogni dannato circolo del Rotary e dei Kiwanis del New England, soprattutto dopo che uscì la sua foto su Newsweek. I detenuti lo chiamavano in tutt'altro modo, ma per quello che ne so nessuno di loro fu mai invitato a esprimere il loro punto di vista ai Kiwaniani o al Leale Ordine dell'Alce.
Norton era sempre dentro in ogni operazione, distintivo trentennale e tutto; dalla macinatura della polpa di legno allo scavo dei canali, alla posa di nuovi condotti sulle autostrade, Norton c'era, a fare la cresta. C'erano cento modi di farla — uomini, materiali, qualsiasi cosa. Ma lo faceva anche in un altro modo. Le società di costruzione della zona avevano una paura tremenda del programma Dentro-fuori di Norton, perché il lavoro dei detenuti è lavoro di schiavi, e non ci si può competere. E così Sam Norton, quello delle Bibbie e del distintivo trentennale, si beccò un bel po' di bustarelle sottobanco durante i suoi sedici anni da direttore a Shawshank. E quando una busta passava, lui o faceva un'offerta troppo alta, o non la faceva affatto, o sosteneva che i suoi dentro-fuoristi erano impegnati altrove. Mi ha sempre meravigliato che Norton non sia mai stato trovato nel baule di una Thunderbird parcheggiata su un'autostrada da qualche parte del Massachusetts con le mani legate dietro la schiena e una mezza dozzina di pallottole nella testa.
Comunque, come dice la vecchia canzone, Dio mio, come giravano i soldi. Norton avrebbe sottoscritto il vecchio concetto puritano che il modo migliore per accertare chi è che Dio preferisce è controllare i conti in banca.
In tutto questo Andy Dufresne gli faceva da braccio destro, da socio silenzioso. La biblioteca del carcere era l'ostaggio per manovrare Andy. Norton lo sapeva, e lo usava. Andy mi disse che uno degli aforismi preferiti di Norton era Una mano lava l'altra. E così Andy dava buoni consigli e utili suggerimenti. Non posso dire con certezza che fu Andy a passare a Norton l'idea del programma Dentro-fuori, ma sono maledettamente sicuro che era lui a lavare i soldi per quel gesucristante figlio di troia. Lui dava buoni consigli, utili suggerimenti, i soldi giravano e... figlio di puttana! La biblioteca otteneva una nuova serie di manuali di autoriparazioni, una nuova copia dell'Enciclopedia Grolier, libri per la preparazione agli esami. E, è chiaro, altri Erle Stanley Gardner e altri Louis l'Amour.
E sono convinto che quello che successe successe perché Norton non voleva assolutamente perdere il suo buon braccio destro. Dirò di più: successe perché era terrorizzato da quello che poteva capitare — quel che Andy poteva dire contro di lui — se Andy fosse mai uscito dal Penitenziario Statale di Shawshank.
Ho saputo la storia un pezzo qua e uno là nello spazio di sette anni, in parte — ma non tutta — da Andy. Non gli faceva piacere parlare di questa parte della sua vita, e non gli do torto. Ho saputo parti di questa storia da una mezza dozzina forse di fonti diverse. Ho detto una volta che i detenuti non sono altro che schiavi, e hanno degli schiavi l'abitudine di fare l'aria tonta e tenere le orecchie aperte. L'ho saputa un po' qua e un po' là e un po' in mezzo, ma a voi la darò dal punto A al punto Z, e forse capirete perché quell'uomo ha passato una decina di mesi in uno stato di squallido torpore e di depressione. Vedete, non credo che abbia saputo la verità fino al 1963, quindici anni dopo che era entrato in questo simpatico buco d'inferno. Finché non incontrò Tommy Williams, non credo sapesse come potevano andar male le cose.

Tommy Williams entrò nella nostra allegra famigliola nel novembre del 1962. Tommy si diceva originario del Massachusetts, ma non ne era orgoglioso; nei suoi ventisette anni di vita aveva scontato condanne in tutto il New England. Era un ladro professionista e, come avrete immaginato, la mia idea era che faceva meglio a scegliersi un'altra professione.
Era sposato, e sua moglie veniva a fargli visita tutte le settimane. Era convinta che le cose potessero mettersi meglio per Tommy — e di conseguenza meglio per lei stessa e per il loro bambino di tre anni — se lui avesse preso il diploma di scuola superiore. A furia di parlargliene lo convinse, e così Tommy Williams cominciò a frequentare regolarmente la biblioteca.
Per Andy ormai questa era routine. Fece avere a Tommy una serie di testi scolastici. Avrebbe rispolverato le materie in cui era passato a scuola — non erano molte — e poi fatto gli esami. Andy lo fece anche iscrivere a un certo numero di corsi per corrispondenza sulle materie in cui a scuola era stato bocciato, o che aveva abbandonato.
Probabilmente non era lo studente migliore su cui Andy avesse mai messo le mani, e non so neppure se riuscì mai a prendere il diploma, ma questo non fa parte della mia storia. La cosa importante è che finì con l'affezionarsi molto ad Andy Dufresne, come succedeva a molti, dopo un po'.
Un paio di volte chiese ad Andy «che cosa ci fa un tipo in gamba come te in galera?» — domanda che equivale a «che ci fa una bella ragazza come te in un posto come questo?» Ma Andy non era il tipo da dirglielo; si limitava a sorridere e spostava la conversazione su altri argomenti. Com'è normale, Tommy lo domandò a qualcun altro, e quando finalmente ebbe la risposta, probabilmente ebbe anche il più grosso choc della sua giovane vita.
La persona a cui lo chiese era il suo compagno alla macchina stiratrice e piegatrice della lavanderia. Gli interni chiamano questo attrezzo la mutilatrice, perché è esattamente quello che fa se non fai attenzione e la tua infelice persona ci viene presa dentro. Il suo compagno era Charlie Lathrop, che era dentro da una dozzina d'anni con una condanna per omicidio. Fu più che lieto di rinfrescare per Tommy i particolari del processo per l'omicidio Dufresne; spezzava la monotonia del tirar fuori dalla macchina le lenzuola appena stirate e buttarle nel cesto. Era arrivato al punto in cui la giuria stava aspettando di finire il pranzo per portare il suo verdetto di colpevolezza, quando la macchina si arrestò sferragliando e scattò il fischio di allarme. All'altra estremità stavano alimentando la macchina con le lenzuola appena lavate dell'Eliot Nursing Home; che poi venivano fuori asciutte e ben stirate dal lato di Tommy e di Charlie al ritmo di uno ogni cinque secondi. Il loro compito era afferrarle, piegarle, e sbatterle nel carrello, già foderato di carta da imballaggio pulita.
Ma Tommy Williams se ne stava semplicemente lì, fissando Charlie
Lathrop a bocca aperta. Se ne stava in mezzo a un mucchio di lenzuola che erano arrivate pulite e che ora stavano raccogliendo tutta la melma del pavimento — e in una lavanderia di quel tipo di melma ce n'è tanta.
E così la guardia di sorveglianza di quel giorno, Homer Jessup, arrivò di corsa urlando. Tommy non se ne accorse. Stava parlando con Charlie come se il vecchio Homer, che probabilmente aveva spaccato più teste di quante potesse contarne, non ci fosse proprio stato.
«Come hai detto che si chiamava il campione di golf?»
«Quentin», rispose Charlie, adesso tutto confuso e turbato. Più tardi disse che il ragazzo era bianco come una bandiera di resa. «Glenn Quentin, mi pare. Qualcosa del genere, comunque...»
«Allora, allora», ruggiva Homer Jessup, col collo rosso come una cresta di gallo. «Mettete queste lenzuola nell'acqua fredda! Presto! Presto, Cristo, razza di...»
«Glenn Quentin, oh Dio mio», disse Tommy Williams, e questo fu tutto quello che riuscì a dire perché Homer Jessup, meno pacifico tra gli uomini, calò il suo bastone giù proprio dietro l'orecchio. Tommy toccò terra così forte che si spezzò tre denti davanti. Quando si svegliò era in cella di isolamento, confinato lì per una settimana. Con in più una macchia nera sui documenti.

Questo fu ai primi di febbraio del 1963 e Tommy Williams avvicinò altri sei o sette ergastolani dopo essere uscito dall'isolamento, e ne ebbe più o meno la stessa storia. Lo so: ero uno di loro. Ma quando gli chiesi perché lo voleva sapere, lui si chiuse come una cozza.
Poi un giorno andò alla biblioteca e riversò il suo bel sacco di informazioni su Andy Dufresne. E per la prima e ultima volta, almeno da quando mi aveva avvicinato per il poster di Rita Hayworth come un ragazzino che compra il suo primo pacco di Trojans, Andy perse il controllo... solo che lo perse proprio del tutto.
Lo vidi quel giorno, più tardi, e aveva l'aria di uno che avesse messo il piede su un rastrello e si fosse preso un bel colpo, zac in mezzo agli occhi. Le mani gli tremavano, e quando gli parlai non mi rispose. Prima che il pomeriggio fosse finito aveva raggiunto Billy Hanlon. che era il capo delle guardie, e fissato un appuntamento col direttore Norton per il giorno dopo. Mi disse poi che quella notte non aveva chiuso occhio; aveva continuato a sentire il freddo vento invernale che fischiava di fuori, a guardare il faro che girava e girava gettando lunghe ombre mobili sulle mura di cemento della gabbia che chiamava casa da quando Harry Truman era presidente, e a cercare di chiarirsi le idee. Disse che era come se Tommy avesse tirato fuori una chiave che apriva una gabbia nel fondo della sua mente, una gabbia uguale alla sua cella. Solo che invece che un uomo, quella gabbia conteneva una tigre, e il nome della tigre era Speranza. Williams aveva tirato fuori la chiave che apriva quella gabbia e la tigre era uscita, volente o nolente, a vagare per il suo cervello.
Quattro anni prima Tommy Williams era stato arrestato nel Rhode Island, al volante di un'auto rubata piena di  merce rubata. Tommy denunciò il complice, il procuratore distrettuale lo apprezzò, e lui ebbe una sentenza più leggera... due su quattro, col tempo già scontato. Undici mesi dopo aver iniziato la condanna, il suo vecchio compagno di cella ebbe un biglietto di uscita e Tommy si trovò un nuovo compagno, uno che si chiamava Elwood Blatch. Blatch era dentro per rapina a mano armata e doveva scontare sei su dodici.
«Non ho mai visto un tipo così eccitabile», mi disse Tommy. «Un uomo così non dovrebbe mai fare il rapinatore, soprattutto con una pistola. Al minimo rumore avrebbe fatto un salto di un metro in aria, e sarebbe tornato giù sparando, più sì che no. Una sera mi strozzò quasi perché uno in fondo al corridoio stava battendo sulle sbarre della cella con una tazza di latta.
«Feci sette mesi insieme a lui, finché mi lasciarono andare. Avevo avuto parte della condanna da fare dentro e parte fuori, hai capito. Non posso dire che parlavamo perché con El Blatch non si poteva fare, sai, esattamente una conversazione. Era lui che faceva conversazione con te. Parlava lui per tutto il tempo. Non chiudeva mai il becco. Se cercavi di infilare una parola lui ti mostrava il pugno e ruotava gli occhi. Mi faceva venire i brividi ogni volta che lo faceva. Grande e grosso era, quasi completamente pelato, con quegli occhi verdi incassati nelle orbite. Cristo, spero proprio di non rivederlo mai più.
«Era come uno di quelli che gli viene la sbronza loquace; tutte le sere: dov'era cresciuto, gli orfanotrofi da cui era scappato, i lavori che aveva fatto, le donne che si era chiavato, i tavoli di dadi che aveva ripulito. Io lo lasciavo andare avanti. La mia faccia non è un gran che, ma non avevo intenzione, sai com'è, di farmela risistemare.
«Secondo lui aveva svaligiato più di duecento posti. Per me era difficile crederci, uno come lui che saltava come un petardo ogni volta che qualcuno faceva una scoreggia un po' forte, ma lui ci giurava. Ora... ascoltami, Red.
Lo so che certi a volte fanno su le cose dopo aver saputo una notizia, ma anche prima di sapere di quel tizio del golf, Quentin, mi ricordo di aver pensato che se El Blatch avesse mai svaligiato la mia casa e io l'avessi scoperto dopo, avrei dovuto considerarmi proprio fra i più fottuti fortunati che vanno ancora in giro vivi. Te lo immagini in una camera da letto di qualche signora, che traffica nel cassetto dei gioielli, e lei tossisce nel sonno o si rigira troppo in fretta? Mi faceva venire la pelle d'oca solo a pensarla, una cosa del genere, ti giuro su mia madre che è vero.
«Diceva anche di aver ucciso della gente. Gente che gli aveva dato noia. Almeno, questo è quello che diceva. E io gli credetti. La faccia di quello che poteva ammazzare ce l'aveva. Era così fottutamente eccitato! Come una pistola con lo scatto limato. Conoscevo uno che aveva una Smith and Wesson Police Special con lo scatto limato. Non serviva a niente, salvo forse per qualcosa di cui parlare. Il grilletto di quella pistola era così leggero che sparava anche se questo tizio, Johnny Callahan si chiamava, la appoggiava sull'altoparlante del giradischi e alzava il volume al massimo. È così che era El Blatch. Non so spiegarlo meglio di così. Non ho mai dubitato che avesse fatto fuori un po' di gente.
«E così una sera, giusto per dire qualcosa, gli faccio: 'Chi è che hai ucciso?' Come uno scherzo, sai com'è. Lui si mette a ridere e fa: 'C'è uno che è dentro su nel Maine per questi due che ho ammazzato. Erano un tizio e la moglie del coglione che sta dentro. Io mi stavo infilando da loro e quello si mette a urlare.'
«Non mi ricordo se mi ha mai detto il nome della donna», continuò Tommy. «Forse sì. Ma nel New England Dufresne è come Smith o Jones nel resto del paese, perché qua ci sono un sacco di mangiarane. Dufresne, Lavesque, Oulette, Poulin, chi si ricorda i nomi dei mangiarane? Ma il nome di lui me lo disse. Disse che lui si chiamava Glenn Quentin e che era un testa di cazzo, un testa di cazzo pieno di soldi, un professionista di golf, El disse che sapeva che il tizio doveva avere soldi in casa, magari anche cinquemila dollari. A quel tempo erano un sacco di soldi, mi disse. E allora io faccio: 'Quando sarebbe?' E lui: 'Dopo la guerra. Subito dopo la guerra'.

«Insomma lui entrò e si fece la casa e quelli si svegliarono e il tizio comincia a dargli un po' di seccature. Questo è quello che El ha detto. Magari invece quello là si era messo solo a russare, questo è quello che dico io. A ogni modo, disse El che Quentin era in branda con la moglie di non so che avvocato, e quelli hanno mandato l'avvocato su al Penitenziario di Stato di  Shawshank. E poi si mette a ridere con quella sua risata. Cristo santo, non sono mai stato così felice come quando ho avuto la carta di uscita da quel posto.»
Immagino che ora capirete perché Andy andò un po' in pezzi quando Tommy gli raccontò questa storia, e perché volle vedere immediatamente il direttore. Elwood Blatch stava facendo un sei su dodici quando Tommy lo conobbe, quattro anni prima. Quando Andy seppe tutto questo, nel 1963, doveva essere sul punto di uscire... o già fuori. E così quelle erano le due punte dello spiedo su cui Andy si stava arrostendo — da una parte l'idea che Blatch potesse essere ancora dentro, e dall'altra la concretissima possibilità che potesse essere andato via come il vento.
C'erano delle discordanze nel racconto di Tommy, ma non ce ne sono sempre, nella vita reale? Blatch aveva detto a Tommy che l'uomo mandato dentro era un avvocato, e Andy era un bancario, ma queste sono due professioni che la gente non molto istruita può facilmente confondere. E non dimenticate che erano passati dodici anni tra quando Blatch si leggeva gli articoli sul processo e quando raccontava la storia a Tommy Williams. Disse anche, a Tommy, che aveva preso più di cinquemila dollari da un cassetto che Quentin aveva nel guardaroba, ma la polizia disse al processo che non c'erano segni di furto. Su questo ho qualche idea. Primo, se prendi i soldi e l'uomo a cui appartenevano è morto, come fai a sapere se è stato rubato qualcosa, se non c'è qualcuno che può dirti che c'era prima? Secondo, chi dice che Blatch su questo non mentiva? Forse non voleva ammettere di aver ucciso due persone per niente. Terzo, magari segni di scasso ce n'erano e i poliziotti o non li hanno visti — a volte sono dei veri idioti — o li hanno coperti deliberatamente per non far saltare il caso del procuratore. L'amico si presentava per una carica pubblica, ricordatelo, e aveva bisogno di una condanna per farcela. Un furto con omicidio non risolto non gli avrebbe fatto nessun bene.
Delle tre ipotesi quella che preferisco è la numero due. Nel tempo che ho passato a Shawshank, di Elwood Blatch ne ho conosciuti parecchi — grilletto facile e occhi da pazzo. Tipi così vogliono farti credere che a ogni impresa ne sono usciti con l'equivalente del diamante Hope, anche se sono stati presi con un Timex da due dollari e nove carte nella rapina che stanno scontando.
E c'era un'altra cosa nella storia di Tommy che lasciò Andy convinto senza ombra di dubbio. Blatch non aveva scelto Quentin a caso. Lo aveva chiamato «testa di cazzo pieno di soldi», e lo sapeva che era un professionista di golf. Bene, Andy e la moglie per un paio di anni erano andati una o due volte alla settimana a bere o a cena in quel country club, e Andy aveva fatto un bel po' di bevute lì da quando aveva scoperto la tresca della moglie. Nel country club c'era un imbarcadero, e per un certo periodo nel 1947 ci lavorava part time uno, al distributore, che corrispondeva alla descrizione fatta da Tommy di Elwood Blatch. Un uomo grande e grosso, quasi calvo, con due occhi verdi profondamente incassati. Un uomo che aveva un brutto modo di guardarti, come se ti stesse soppesando. Non ci rimase a lungo, disse Andy. Se ne andò, o fu Briggs, l'uomo che dirigeva l'imbarcadero, a licenziarlo. Ma non era uno che si dimentica. Colpiva troppo.

E così Andy andò a parlare col direttore Norton, un giorno di pioggia e di vento con delle grosse nuvole grigie che correvano nel cielo sopra le mura grigie, un giorno in cui l'ultima neve cominciava a sciogliersi mostrando le chiazze senza vita dell'erba dell'anno passato nei campi di là della prigione.
Il direttore aveva un ufficio grande nell'ala amministrazione, e dietro la sua scrivania c'era una porta che dava sull'ufficio dell'assistente. L'assistente del direttore quel giorno era fuori, ma nel suo ufficio c'era un affidabile. Era uno mezzo zoppo: il nome vero non me lo ricordo, ma tutti lo chiamavano Chester, per l'andatura storta come quella del maresciallo Dillon. Chester avrebbe dovuto dare l'acqua alle piante e pulire e dare la cera al pavimento. Potrei scommettere che quel giorno le piante morirono di sete, e l'unica cera data fu quella lasciata dall'orecchio sporco che Chester strofinò contro il buco della serratura di quella porta di comunicazione.
Sentì la porta principale del direttore aprirsi e chiudersi, e poi la voce di Norton: «Buongiorno, Dufresne, in che posso esserle utile?»
«Direttore», cominciò Andy, e il vecchio Chester ci disse che riuscì a stento a riconoscere la voce, tanto era cambiata. «Direttore... c'è una cosa... mi è successa una cosa che... che è... che è così... non so nemmeno da dove cominciare.»
«Bene, perché non comincia dall'inizio?» disse il direttore, probabilmente col suo tono più dolce da e-adesso-prendiamo-tutti-il-salmo-ventitréeleggiamo-all'unisono. «Di solito è la cosa che funziona meglio.»
E Andy così fece. Cominciò a rinfrescare per Norton i particolari del crimine per cui era stato imprigionato. Poi disse al direttore parola per parola quello che gli aveva detto Tommy Williams. Fece anche il nome di Tommy, cosa che potreste giudicare poco saggia alla luce degli sviluppi successivi, ma vorrei chiedervi: che altro poteva fare, se la sua storia voleva avere un minimo di credibilità?
Quando ebbe finito, Norton rimase in silenzio assoluto per un po' di tempo. Me lo vedo, probabilmente sprofondato nella sua poltrona da scrivania sotto il ritratto del governatore Reed appeso alla parete, le dita unite, quelle labbra di lepre sporgenti, la fronte aggrottata fino alla cima della testa, il distintivo trentennale luccicante.
«Sì», disse infine. «Questa è la più dannata storia che ho mai sentito. Ma le dirò che cosa mi sorprende di più, Dufresne.»
«Che cosa, signore?»
«Che lei se la sia bevuta.»
«Signore? Non capisco cosa vuol dire.» E, disse Chester, Andy Dufresne, che aveva steso Byron Hadley sul tetto della fabbrica di targhe tredici anni prima, balbettava quasi cercando le parole.
«Andiamo», disse Norton. «Per me è chiarissimo che questo giovane Williams è rimasto colpito da lei. Completamente preso da lei, anzi. Ha sentito la sua vicenda sventurata, ed è più che naturale che voglia... rallegrarla, diciamo. Più che naturale. È giovane, non particolarmente intelligente. Non stupisce che non si renda conto in che stato questo può metterla. Ora, quello che suggerisco io è...»
«Non crede che ci ho pensato?» chiese Andy. «Ma io non avevo mai parlato a Tommy dell'uomo che lavorava all'imbarcadero. Non lo avevo mai detto a nessuno — non mi era mai neppure venuto in mente! Ma la descrizione che ha fatto Tommy del suo compagno di cella e quell'uomo... sono identici!»
«Andiamo, può darsi che lei qui si lasci andare a una piccola percezione selettiva», disse Norton con una risatina. Espressioni come questa, percezione selettiva, sono cultura indispensabile per gente che si occupa di pene e correzione, e le usano ogni volta che possono.
«Non è assolutamente questo, signore.»
«Questo è il suo punto di vista», disse Norton. «Il mio è diverso. E non dimentichiamo che io ho solo la sua parola per dire che c'era effettivamente un uomo così a lavorare al Falmouth Hills Country Club a quel tempo.»
«No, signore», intervenne di nuovo Andy. «No, questo non è vero. Perché...»
«Comunque», lo soverchiò Norton, tutto energia e forza, «guardiamo un attimo la faccenda dall'altro lato del telescopio, sì? Supponiamo — supponiamo soltanto, ora — che effettivamente esisteva un uomo chiamato
Elwood Blotch.»
«Blatch» corresse teso Andy.
«Blatch, sì. E diciamo che era davvero compagno di cella di Thomas Williams nel Rhode Island. Ci sono ottime probabilità che ormai sia stato scarcerato. Ottime. Insomma, non sappiamo neppure quanto aveva già scontato prima di finire insieme a Williams, è giusto? Solo che stava facendo un sei su dodici.»
«No, non sappiamo quanto tempo aveva già scontato, ma Tommy dice che era un cattivo soggetto, un attaccabrighe. Secondo me ci sono buone probabilità che sia ancora dentro. Anche se è stato scarcerato la prigione deve avere il suo ultimo indirizzo, il nome dei suoi parenti...»
«E tutt'e due le informazioni ci porterebbero quasi certamente in un vicolo cieco.»
Andy rimase in silenzio per un momento, e poi scattò: «Be', una possibilità c'è, no?»
«Sì, certo. E allora, solo per un momento, Dufresne, supponiamo che questo Blatch esiste e che è ancora sotto chiave nel Penitenziario di Stato del Rhode Island. Che cosa ci dirà se gli portiamo questo mazzo di pesci in un secchio? Cadrà in ginocchio, roteerà gli occhi e dirà: 'Sono stato io! Sono stato io! Vi scongiuro, aggiungete un ergastolo alla mia condanna!'?»
«Come può essere così ottuso?» disse Andy, così piano che Chester l'udì appena. Ma il direttore lo sentì benissimo.
«Come? Come mi ha chiamato?»
«Ottuso!» esclamò Andy. «Lo fa apposta?»
«Dufresne, lei si è preso cinque minuti del mio tempo — no, sette — e oggi ho una giornata molto piena. Pertanto credo che dichiareremo chiuso questo nostro piccolo incontro e...»
«Il country club avrà tutti i vecchi cartellini, non si rende conto?» gridò Andy. «Avranno i documenti fiscali e i moduli dell'ufficio collocamento, tutto col suo nome sopra! Ci saranno ancora dipendenti che erano lì già allora, magari lo stesso Briggs! Sono quindici anni, non un'eternità! Se ne ricorderanno! Si ricorderanno di Blatch! Se porto Tommy a testimoniare su quello che gli ha detto Blatch, e Briggs a testimoniare che Blatch era lì, a lavorare veramente per il country club, posso avere un nuovo processo!
Posso...»
«Guardia! Guardia! Portate via quest'uomo!»
«Che cosa le prende?» disse Andy, e secondo Chester era proprio sul punto di mettersi a urlare. «È la mia vita, la mia occasione di uscire, non lo capisce? E non è disposto a fare una sola interurbana almeno per verificare la storia di Tommy? Ascolti, la pago io la telefonata! Pago io...»
A questo punto ci fu un trambusto confuso mentre le guardie lo afferravano cominciando a trascinarlo verso la porta.
«Isolamento», disse secco il direttore Norton. Probabilmente stava giocherellando col suo distintivo trentennale mentre lo diceva. «Pane e acqua.»
E così trascinarono via Andy, ormai completamente fuori di sé, che urlava contro le guardie; Chester disse che lo si poteva sentir urlare anche dopo che la porta fu chiusa: «È la mia vita! È la mia vita, non lo capite che è la mia vita?»

Venti giorni a pane e acqua per Andy giù in cella di isolamento. Era la seconda volta che ci finiva, e il suo scontro con Norton era la sua prima vera macchia nera da quando si era unito alla nostra felice famigliola.
Già che siamo sull'argomento vi dirò qualcosina sull'isolamento a Shawshank. È una specie di salto all'indietro nel tempo, a quei giorni duri dei pionieri nel Maine alla metà del Settecento. A quei tempi nessuno stava a perdere tempo con cose come «criminologia» e «riabilitazione» e «percezione selettiva». A quei tempi si prendevano cura di voi in termini di assoluto bianco o nero. Eravate o colpevoli o innocenti. Se eravate colpevoli, o vi impiccavano o vi mettevano in gabbia. E se la sentenza era gabbia, non è che andaste in un istituto. No, vi scavavate voi la vostra gabbia con una zappa fornita dalla Provincia del Maine. Ve la scavavate larga e profonda quanto potevate nello spazio tra l'alba e il tramonto. Poi vi davano un paio di pelli e un secchio, e giù. Una volta giù, il carceriere metteva le sbarre sopra la vostra buca, vi buttava un po' di grano e magari un pezzo di carne piena di vermi una o due volte la settimana, e magari la domenica sera c'era anche una ciotola di minestra d'orzo. Si pisciava nel secchio, e lo stesso secchio lo si porgeva al carceriere per l'acqua quando veniva a fare il giro, alle sei di mattina. Quando pioveva, il secchio lo usavate per svuotare dell'acqua la vostra cella-buca... a meno che, s'intende, non aveste voglia di morire annegato come un topo in un barile.
Nessuno passava molto tempo «nel buco», come lo chiamavano; tredici mesi era una condanna insolitamente lunga, e per quanto posso dire, il periodo più lungo mai passato da cui un prigioniero sia emerso vivo fu fatto dal cosiddetto «Ragazzo di Durham», uno psicopatico di quattordici anni che aveva castrato un compagno di scuola con un pezzo di ferro arrugginito. Fece sette anni, ma evidentemente quando ci entrò era giovane e forte.
Non dovete dimenticare che per un delitto più grave di un piccolo furto o di una bestemmia, o dell'aver dimenticato di mettervi in tasca il fazzoletto se eravate fuori casa il Sabbath, vi impiccavano. Per reati minori, come quelli appena ricordati e per altri dello stesso livello, vi facevate i vostri tre o sei o nove mesi nel buco e ne venivate fuori bianco come la pancia di un pesce, tremante davanti agli spazi aperti, gli occhi semichiusi, i denti con ogni probabilità dondolanti nelle gengive per lo scorbuto, i piedi infestati dai funghi. Vecchia cara Provincia del Maine. Yo-ho-ho e una bottiglia di rum.  L'ala isolamento di Shawshank non era affatto così brutta... probabilmente. Le cose, penso, nell'umana esperienza arrivano per tre gradi principali. C'è il buono, il cattivo e il terribile. Man mano che si scende nell'oscurità progressiva verso il terribile, è sempre più difficile fare delle distinzioni.
Per arrivare all'ala isolamento eravate condotti per ventitré scalini al livello della cantina, dove l'unico rumore era quello di una goccia d'acqua. La sola luce veniva da una serie di lampadine ciondolanti da sessanta watt. Le celle erano a forma di barilotto, come quelle casseforti a parete che i ricchi a volte nascondono dietro un quadro. Come in una cassaforte, l'ingresso rotondo era incernierato, e le porte tutte intere anziché a sbarre. La ventilazione arrivava dall'alto, ma niente illuminazione salvo la vostra lampadina da sessanta watt, spenta da un interruttore generale alle otto in punto di sera, un'ora prima del buio nel resto della prigione. Il filo non era in una gabbia di protezione o in qualcosa del genere. La sensazione era che se avevi voglia di startene laggiù al buio eri il benvenuto. Non molti lo facevano, ma dopo le otto, ovviamente, non avevi scelta. Avevi un tavolaccio fissato al muro e un cesso senza sedile. Avevi tre modi per passare il tempo: sedendo, cacando o dormendo. Gran scelta. Venti giorni potevano arrivare a parere un anno. Trenta giorni potevano parere due anni, e quaranta dieci. A volte si sentivano i topi nel sistema di aerazione. In una situazione del genere le suddivisioni del terribile tendono a smarrirsi.

Se mai qualcosa di buono si può dire dell'isolamento, è che hai tempo per pensare. Andy ebbe venti giorni per pensare mentre si godeva il suo pane e la sua acqua, e quando uscì chiese un altro colloquio col direttore. Richiesta rifiutata. Un tale colloquio, gli disse il direttore, sarebbe stato «controproducente». Questa è un'altra di quelle parole che devi imparare a padroneggiare prima di poter andare a lavorare nel campo delle prigioni e delle case di correzione.
Pazientemente, Andy rinnovò la sua richiesta. E la rinnovò. E la rinnovò. Era cambiato, Andy Dufresne. Improvvisamente, mentre la primavera del 1963 fioriva attorno a noi, comparvero le rughe sulla sua faccia, e dei fili di grigio tra i capelli. Aveva perso quella piccola traccia di sorriso che sembrava aleggiare continuamente attorno alla sua bocca. Gli occhi si perdevano nel nulla più spesso, e si impara che quando un uomo ha quello sguardo vuol dire che sta contando gli anni scontati, e i mesi e le settimane e i giorni.
Rinnovò la sua richiesta, e la rinnovò. Era paziente. Non aveva altro che il tempo. Venne l'estate. A Washington, il presidente Kennedy stava promettendo un nuovo attacco alla povertà e alla disuguaglianza nei diritti civili, senza sapere che aveva solo mezzo anno da vivere. A Liverpool un gruppo musicale chiamato i Beatles emergeva come una forza con cui fare i conti nella musica inglese, ma immagino che nessuno negli States aveva ancora sentito parlare di loro. I Boston Red Sox, ancora a quattro anni da quello che nel New England si chiama il Miracolo del '67, languivano nella cantina dell'American League. Tutte queste cose avvenivano in un mondo più vasto dove la gente cammina libera.
Norton lo ricevette verso la fine di giugno, e di questa conversazione seppi direttamente da Andy circa sette anni dopo.
«Se è per le bustarelle non ha da preoccuparsi», disse Andy a Norton a bassa voce. «Non crederà che ne parli? Sarebbe come tagliarmi la gola da solo. Potrei essere incriminato non meno di...»
«Basta così», l'interruppe Norton. La sua faccia era lunga e gelida come la lapide di una tomba. Si allungò all'indietro sulla poltrona dell'ufficio finché la testa non toccò quasi il ricamo che diceva: IL SUO GIUDIZIO ARRIVA ED È VICINO.
«Ma...»
«Non mi parli mai più di soldi», disse Norton. «Né in questo ufficio né altrove. A meno che non voglia vedere quella biblioteca ritrasformata in  magazzino e in ripostiglio per le vernici. Ha capito?»
«Stavo cercando di metterla a suo agio, questo è tutto.»
«Vediamo, quando avrò bisogno che uno squallido figlio di puttana mi metta a mio agio, mi ritirerò. Ho accettato questo incontro perché ero stufo di essere seccato, Dufresne. Voglio che la smetta. Se ha voglia di comprare questo ponte di Brooklin, affari suoi. Non lo dica a me. Potrei sentire storie pazzesche come la sua due volte alla settimana se mi mettessi a dare ascolto a tutti. Ogni peccatore di questo posto mi userebbe come fazzoletto per piangere. Io ho più rispetto per lei. Ma questa è la fine. La fine. Ci siamo capiti?»
«Sì», disse Andy. «Ma prenderò un avvocato, sappia.»
«Per che cosa, in nome di Dio?»
«Credo che possiamo mettere insieme le cose», rispose Andy. «Con Tommy Williams e con la mia testimonianza e con la testimonianza di conferma dei documenti e i dipendenti del country club, credo che possiamo metterle insieme.»
«Tommy Williams non è più ospite di questo istituto.»
«Cosa?»
«È stato trasferito.»
«Trasferito dove?»
«Cashman.»
A questa risposta, Andy piombò nel silenzio. Era un uomo intelligente, ma comunque ci sarebbe voluto un uomo eccezionalmente stupido per non sentire l'odore di accordo in questo. Cashman era un carcere di minima sicurezza nell'estremo nord nell'Aroostook County. I detenuti raccolgono una quantità di patate, ed è un lavoro duro, ma sono pagati con un salario decente per il loro lavoro, e possono partecipare ai corsi scolastici del CVI, un istituto tecnico professionale abbastanza decente, se lo desiderano. Cosa più importante per uno come Tommy, per uno con una moglie giovane e un figlio, Cashman aveva un programma di permessi... che significa la possibilità di vivere come una persona normale, almeno nei weekend. La possibilità di costruire un modello d'aereo col figlio, di fare l'amore con la moglie, magari di fare un picnic.
Quasi sicuramente Norton aveva fatto ciondolare tutto questo sotto il naso di Tommy, con un solo filo attaccato; non una sola parola su Elwood Blatch, né ora né mai. Altrimenti finisci a passartela brutta a Thomaston, laggiù sulla panoramica Route 1, con gente dura sul serio, e invece di fare sesso con tua moglie lo farai con qualche vecchia checca.
«Ma perché?» disse Andy. «Perché dovrebbe...»
«Come favore personale», disse Norton, «ho controllato con Rhode Island. Avevano davvero uno che si chiamava Elwood Blatch. Ha avuto quello che chiamano un PPP — permesso provvisorio sulla parola, un'altra di queste folli trovate liberali per rimettere i criminali in strada. Da allora è scomparso.»
«Il direttore di laggiù... è un suo amico?»
Sam Norton lanciò ad Andy un sorriso freddo come la catena dell'orologio del diacono. «Siamo conoscenti», disse.
«Perché?» ripeté Andy. «Non può dirmi perché l'ha fatto? Lo sapeva che non sarei andato a parlare di... di niente che lei potesse aver fatto. Lo sapeva questo. E allora perché?»
«Perché la gente come lei mi dà il voltastomaco», rispose lentamente Norton. «Mi fa piacere che stia giusto dov'è, Mr. Dufresne, e finché sarò direttore qui a Shawshank lei rimarrà qui. Vede, lei pensava di essere meglio di tutti. Sono bravissimo a vederla sulla faccia di un uomo quell'aria. L'ho notata sulla sua la prima volta che ho messo piede nella biblioteca. Era come se l'avesse scritto sulla fronte tutto in maiuscole. Quell'aria ora è sparita, e questo mi fa piacere. Non è solo che lei è utile, questo non l'ho mai pensato. È proprio che gente come lei ha bisogno di imparare l'umiltà. Lei, lei se ne andava a spasso per il cortile come se fosse un soggiorno e come se si trovasse in uno di quei cocktail party dove tutti quei cani se ne vanno in giro a coprire le mogli altrui e i mariti altrui e si ubriacano come bestie. Ma lei non andrà più a spasso a quel modo. E ci penserò io se dovesse ricominciare.
Per un bel po' di anni, la terrò d'occhio con il più gran piacere. E adesso se ne vada al diavolo, fuori di qui.»
«Benissimo. Ma tutte le attività extra finiscono qui, Norton. La consulenza sugli investimenti, le scappatoie, i consigli fiscali gratuiti. Finisce tutto. Dica alla H & R Block di spiegarle come fare la dichiarazione dei redditi.»
La faccia del direttore Norton si fece prima rossa come un mattone... e poi perse completamente il colore. «Se ne andrà in isolamento per questo. Trenta giorni. Pane e acqua. Un'altra macchia nera. E mentre è lì, rifletta su questo: se una sola cosa finisce, la biblioteca se ne va. Mi occuperò personalmente di farla tornare a quello che era prima che lei arrivasse qui. E a lei renderò la vita... molto dura. Molto difficile. Passerà il più difficile periodo che sia possibile passare. Perderà quell'Hilton a un letto giù al braccio cinque, tanto per cominciare, e perderà quei minerali sul davanzale, e perderà ogni protezione che le guardie le hanno dato contro i sodomiti. Perderà... tutto.
Chiaro?»
Direi che era abbastanza chiaro.

Il tempo continuò a passare — il trucco più vecchio del mondo, ma forse l'unico veramente magico. Ma Andy Dufresne era cambiato. Si era fatto più duro. Questo è l'unico modo che mi viene in mente per dare un'idea della situazione. Continuò a fare il lavoro sporco per il direttore Norton e si aggrappò alla biblioteca, così esteriormente le cose erano più o meno uguali a prima. Continuò a farsi le sue bevute di compleanno e di fine d'anno; continuò a dividere il resto di ogni bottiglia. Di tanto in tanto gli procuravo nuovi panni da roccia, e nel 1967 gli feci avere un nuovo martello da minerali — quello che gli avevo dato diciannove anni prima, come vi ho detto, si era consumato completamente. Diciannove anni! A dirle così all'improvviso, queste poche sillabe suonano come il tonfo del catenaccio e della porta di una tomba. Il martello da minerali, che allora era un articolo da dieci dollari, nel '67 era arrivato a ventidue. Io e lui ci facemmo una risatina su questa osservazione.
Andy continuò a dar forma alle pietre che trovava in cortile, e a lucidarle, ma ormai il cortile era più piccolo; la metà di quello che c'era nel 1950 era stato asfaltato nel 1962. Ne trovava comunque abbastanza da tenersi occupato, direi. Quando aveva finito con una pietra la deponeva con cura sul davanzale della sua finestra, che era esposta a est. Mi disse che gli piaceva guardarli al sole, quei pezzi di pianeta che aveva tolto dal fango e modellato. Schisti, quarzi, graniti. Curiose microsculture tenute insieme con colla d'aereo. Vari conglomerati sedimentari che erano lucidati e tagliati in modo che si capiva perché Andy li chiamasse «sandwich di millenni» — gli strati dei diversi materiali che si erano accumulati in un periodo di decenni e secoli.
Andy di tanto in tanto dava via un po' delle sue sculture-rocce per far posto alle nuove. Ha dato a me il numero maggiore, credo — contando quelle che sembravano gemelli, ne avevo cinque. C'era una delle sculture di mica di cui vi ho detto, modellata accuratamente a forma di un uomo che lancia un giavellotto, e due dei conglomerati sedimentari, con tutti i livelli in sezione lucidi e splendenti. Li ho ancora, e ogni tanto li tiro giù e penso a quello che un uomo può fare, se ha abbastanza tempo e la voglia di usarlo, una goccia alla volta.

E così, almeno esteriormente, le cose erano più o meno uguali a prima. Se Norton aveva voluto colpire Andy duro come aveva detto, avrebbe dovuto guardare sotto la superficie per vedere il cambiamento. Ma se avesse visto davvero come era cambiato credo che sarebbe stato più che soddisfatto, nei quattro anni che seguirono il suo scontro con Andy.
Aveva detto che Andy se ne andava a spasso per il cortile come se fosse  a un cocktail party. Io non l'avrei messa così, ma so che cosa intendeva dire. Corrisponde a quello che dicevo del fatto che Andy indossa la sua libertà come un mantello invisibile, del fatto che non ha mai sviluppato veramente una mentalità da detenuto. I suoi occhi non hanno mai preso quello sguardo vuoto. Non ha mai assunto quell'andatura che prendono gli uomini quando il giorno è finito e se ne tornano in cella per un'altra notte interminabile — quell'andatura a piedi strascicati, a spalle cadenti. Andy camminava con le spalle ritte, e i suoi passi erano sempre leggeri, come se tornasse a casa verso una buona cena e una brava donna, invece che a un intruglio insapore di verdure fradice, purè di patate tutto grumi e una fetta o due di quella roba grassa, rinsecchita, che i detenuti chiamavano la carne del mistero... a quello e a una figura di Raquel Welch sul muro.
Ma per quei quattro anni, anche se non divenne mai esattamente come gli altri, si fece silenzioso, introspettivo e assorto. E chi potrebbe dargli torto? Così forse fu il direttore Norton a essere contento... almeno per un po'.

Quel suo umor nero cessò al tempo della World Series nel 1967. Fu quell'anno di sogno, l'anno in cui i Red Sox vinsero lo scudetto del campionato nazionale invece di piazzarsi noni come gli allibratori di Las Vegas avevano predetto. Quando ciò accadde — quando vinsero lo scudetto dell'American League — una specie di entusiasmo invase la prigione. C'era una specie di sciocca sensazione che se i «Morti» Sox fossero tornati in vita, allora forse chiunque avrebbe potuto farlo. Ora non so spiegarla quell'atmosfera, non più, immagino, di quanto un ex fanatico dei Beatles sappia spiegare quella mania. Ma era reale. Ogni radio era sintonizzata sulle partite quando i Red Sox scendevano in campo. Fu un lutto quando i Sox persero due punti a Cleveland, verso la fine, e uno scoppio di gioia selvaggia quando Rico Petrocelli li recuperò. E poi ci fu la tristezza quando Lonborg fu battuto alla settima partita della Series mettendo fine al sogno un attimo prima della completa realizzazione. La cosa probabilmente a Norton piacque infinitamente, a quel figlio di puttana. La sua prigione gli piaceva vestita di sacco e col capo cosparso di cenere.
Ma per Andy non ci fu nessuna ricaduta nello sconforto. Lui comunque non era tanto un patito del baseball, forse per questo. Eppure, pareva anche lui preso da quella corrente di sentimento positivo, che in lui dopo l'ultima partita della Series non calò. Aveva tirato fuori dall'armadio, per rimetterselo, quel mantello invisibile.
Mi ricordo una luminosa giornata dorata d'autunno, alla fine di ottobre, un paio di settimane dopo la fine della World Series. Doveva essere domenica, perché il cortile era pieno di uomini che «smaltivano la settimana passeggiando» — lanciando qualche frisbee, passando in giro una palla, scambiandosi quello che avevano da scambiarsi. Altri saranno stati al lungo tavolo della Sala Visite, sotto l'occhio vigile dei secondini, a parlare con i parenti, a fumare, a raccontare sincere bugie, a ricevere i loro pacchi ispezionati.
Andy era accovacciato all'indiana contro il muro, giocherellando con due pietre piccole tra le mani, il viso verso il sole. Era sorprendentemente caldo, quel sole, per un giorno così avanti nell'anno. «Ehi, Red», chiamò. «Vieni a sederti un po'.» Io andai.
«Lo vuoi?» mi chiese, e mi porse uno dei due levigatissimi sandwich di millenni di cui vi ho detto.
«Certo», dissi io. «E molto bello. Grazie.»
Si strinse nelle spalle e cambiò argomento. «Grande anniversario in arrivo per l'anno prossimo.»
Annuii. L'anno seguente avrebbe fatto di me un trentennale. Il sessanta per cento della mia vita passato nella Prigione di Stato di Shawshank.  «Credi che uscirai mai?»
«Come no. Quando avrò una lunga barba bianca e non più di tre denti in bocca.»
Fece un sorrisetto e rivolse di nuovo la faccia al sole, a occhi chiusi. «Si sta bene.»
«Sempre così, credo, quando si sa che quell'accidenti di inverno ti è quasi addosso.»
Annuì, e rimanemmo in silenzio per un po'.
«Quando esco di qui», disse infine, «vado dove c'è sempre caldo.» Parlò con tale calma convinta che sembrava uno con solo un mese o due ancora da scontare. «Sai dove vado, Red?»
«No.»
«Zihuatanejo», disse, facendo scivolare lentamente la parola sulla lingua come musica. «Giù in Messico. È un posticino a una ventina di miglia da Plaza Azul e dall'autostrada messicana Trentasette. Un centinaio di miglia a nordovest di Acapulco, sul Pacifico. Sai cosa dicono i messicani dell'Oceano Pacifico?» Gli feci di no.
«Dicono che non ha memoria. Ed è lì che intendo finire la mia vita, Red.
In un posto caldo che non ha memoria.»
Parlando aveva raccolto una manciata di sassolini; ora li lanciava, uno per uno, e li guardava saltellare e rotolare lungo il terriccio dell'interno del diamante del campo di baseball, che ben presto sarebbe stato sepolto da trenta centimetri di neve.
«Zihuatanejo. Mi prendo un piccolo hotel laggiù. Sei capanne lungo la spiaggia, e altre sei più su, per i clienti dell'autostrada. Avrò uno che porterà i clienti a pesca. Ci sarà un trofeo per chi prende il pescespada più grande della stagione, e metterò la sua foto sulla parete della hall. Non sarà un posto per famiglie. Sarà un posto per gente in luna di miele... prima o seconda.»»  «E dove li prenderai i soldi per comprarti questo posto favoloso?» chiesi. «In conto titoli?»
Mi guardò e sorrise. «Non ci sei tanto lontano», disse. «A volte mi sorprendi, Red.»
«Di che stai parlando?»
«Quando arrivano i pasticci ci sono due tipi di uomini al mondo», fece lui accendendosi una sigaretta con un fiammifero protetto tra le mani. «Supponiamo che ci sia una casa piena di dipinti e sculture rare e di bei pezzi di antiquariato, Red. E supponiamo che il proprietario della casa sente che c'è un uragano mostruoso diretto proprio lì. Uno dei due tipi di uomo si limita a sperare per il meglio. L'uragano cambierà rotta, si dice. Nessun uragano con un minimo di buonsenso oserebbe mai spazzar via tutti questi Rembrandt, i miei due cavalli di Degas, il mio Grant Woods, e i miei Benton. E poi, Dio non lo permetterebbe. E se proprio andasse male, sono assicurato. Questo è un tipo di uomo. L'altro prevede che l'uragano verrà a spararsi giusto nel mezzo della sua casa. Se l'ufficio informazioni meteorologiche dice che l'uragano ha appena cambiato corso, quello è sicuro che lo cambierà di nuovo per poter radere al suolo la sua casa. Questo secondo tipo sa che non c'è niente di male a sperare per il meglio finché sei preparato al peggio.»
Accesi una sigaretta anch'io. «Stai dicendo che ti eri preparato all'eventualità?»
«Si. Mi preparavo per l'uragano. Sapevo come si presentava male. Non avevo molto tempo, ma nel tempo che avevo, agivo. Avevo un amico — praticamente l'unica persona che mi abbia sostenuto — che lavorava per una compagnia di investimenti di Portland. È morto sei anni fa, circa.»  «Mi dispiace.»
«Già.» Andy lanciò lontano il suo mozzicone. «Linda e io avevamo circa quattordicimila dollari. Non un gran mucchio, ma insomma, eravamo giovani. Avevamo tutta la vita davanti a noi.» Fece una piccola smorfia, poi rise. «Quando la merda ha quasi raggiunto il ventilatore, ho cominciato a portare i miei Rembrandt via dal cammino dell'uragano. Ho venduto i miei titoli e ho pagato le tasse sugli utili da bravo ragazzo. Dichiarato tutto. Senza tirar via niente.»
«Non ti hanno congelato il patrimonio?»
«Ero imputato di omicidio, Red, mica morto! Non si può congelare il patrimonio di un uomo innocente — grazie a Dio. E questo fu un po' prima che diventassero così coraggiosi da incriminarmi. Jim — il mio amico — e io, avevamo un po' di tempo. Ci rimisi un bel po', a mollare tutto così in fretta. Mi ci spellai il naso. Ma a quel tempo avevo cose peggiori a cui pensare che a una piccola spellatura sul mercato azionario.»
«Sì, me lo immagino.»
«Ma quando venni a Shawshank era tutto al sicuro. È ancora al sicuro. Fuori da queste mura, Red, c'è un uomo che nessun'anima viva ha mai visto in faccia. Ha una tessera della Sicurezza Sociale e una patente del Maine. Ha un certificato di nascita. Nome Peter Stevens. Bel nome anonimo, eh?»
«Chi è?» chiesi. Pensavo di sapere quello che stava per dire, ma non potevo crederci.
«Io.»
«Non mi dirai che hai avuto tempo di costruirti una falsa identità mentre quelli ti stavano addosso», dissi, «o che hai finito il lavoro mentre eri sotto processo per...»
«No, non te lo dico. Ci ha pensato il mio amico Jim a procurarmi la falsa identità. Ha cominciato dopo che la mia richiesta di appello è stata respinta, e i documenti principali di identificazione erano nelle sue mani già nella primavera del 1950.»
«Dev'essere stato un amico molto intimo», dissi. Non sapevo bene a quanto di questa storia credere — poco, molto o niente. Ma il giorno era caldo e c'era il sole, e la storia era bellissima. «Tutto questo è illegale al cento per cento, farti una falsa identità in questo modo.»
«Era un caro amico», disse Andy. «Eravamo stati in guerra insieme. Francia, Germania, l'occupazione. Era un buon amico. Lo sapeva che era illegale, ma sapeva anche che procurarsi una falsa identità in questo paese è molto facile e sicuro. Prese i miei soldi — i soldi con tutte le tasse pagate così che il fisco non ci mettesse troppo il naso — e li investì a nome di Peter Stevens. Lo fece nel 1950 e nel 1951. Oggi la cifra è di trecentosettantamila dollari, più gli spiccioli.»
La mascella mi dovette fare un tonfo contro il petto quando spalancai la bocca, perché lui mi sorrise.
«Pensa a tutte le cose in cui la gente vorrebbe aver investito dal 1950, e due o tre di quelle saranno cose in cui Peter Stevens è dentro. Se non fossi finito qua dentro, probabilmente varrei sette o otto milioni ormai. Avrei una Rolls... e probabilmente un'ulcera grossa come una radio portatile.»
Le mani gli andarono di nuovo al terreno e cominciarono a raccogliere altri sassolini. Si muovevano elegantemente, senza posa.
«Io speravo in bene e mi aspettavo il peggio — nient'altro che questo. Il nome falso era solo per mantenere pulito quel piccolo capitale che avevo.
Per portare i quadri via dal cammino dell'uragano. Ma non avevo idea che l'uragano... che potesse durare tanto.»
Non dissi nulla, per un po'. Probabilmente mi stavo sforzando di assorbire l'idea che questo piccolo, minuto uomo nella grigia uniforme della prigione accanto a me potesse valere più soldi di quanti il direttore Norton ne avrebbe mai fatti nel resto della sua miserabile vita, bustarelle comprese.
«Quando hai detto che volevi prendere un avvocato, sicuro non stavi scherzando», dissi infine. «Con quel po' di malloppo potevi assumere Clarence Darrow o qualsiasi principe del foro è in giro di questi tempi.
Perché non l'hai fatto, Andy? Cristo! Saresti uscito di qua come un razzo.»
Sorrise. Era lo stesso sorriso che aveva mentre mi diceva che lui e la moglie avevano tutta la vita davanti. «No», disse.
«Un buon avvocato avrebbe tirato fuori il ragazzo Williams da Cashman che lui lo volesse o no», dissi io. Cominciavo a scaldarmi. «Avresti avuto un nuovo processo, assunto investigatori privati per rintracciare quel Blatch e fatto saltare Norton dalla poltrona alla galera. Perché no, Andy?»
«Perché mi sarei fregato con le mie mani. Se solo cercassi di mettere le mani sui soldi di Peter Stevens da qui dentro, li perderei fino all'ultimo centesimo. Il mio amico Jim avrebbe potuto farlo, ma Jim è morto. Vedi il problema?»
Lo vedevo. Con tutto il bene che quei soldi potevano fare ad Andy, potevano benissimo essere di un altro. In un certo senso era così. E se la roba in cui erano investiti all'improvviso andava male, tutto quello che Andy poteva fare era starsene a guardare la rovina, seguirla giorno per giorno sulla pagina della borsa del Press-Herald. Vita dura.
«Ti dico io come stanno le cose, Red. C'è un grande campo da fieno nella città di Buxton. Tu sai dov'è Buxton, sì?»
Dissi di sì. Sta porta a porta con Scarborough.
«Esatto. E all'estremità nord di quel campo c'è un muro di pietra, uscito pari pari da una poesia di Robert Frost. E in un punto ai piedi di quel muro c'è una pietra che non ha niente a che fare con un campo da fieno del Maine. È un pezzo di vetro vulcanico, e fino al 1947 faceva da fermacarte sulla scrivania del mio ufficio. In quel muro ce l'ha messa il mio amico Jim. C'è una chiave sotto. La chiave apre una cassetta di sicurezza nella filiale di Portland della Casco Bank.»
«Immagino che sarai in un mare di guai», dissi io. «Quando il tuo amico Jim è morto l'ufficio delle imposte deve aver aperto tutte le sue cassette di sicurezza. Insieme al suo esecutore testamentario, certo.»
Andy sorrise e mi diede un colpetto sulla tempia. «Non male. Non è tutto gelatina qua dentro a quanto pare. Ma noi considerammo l'ipotesi che Jim morisse mentre io ero in villeggiatura. La cassetta è a nome di Peter Stevens, e una volta all'anno l'ufficio legale che ha curato il testamento di Jim manda un assegno alla Casco per coprire le spese di affitto della cassetta di Stevens.
«Peter Stevens sta dentro quella cassetta, aspettando solo di venir fuori. Il suo certificato di nascita, la tessera della Sicurezza Sociale e la patente. La patente è scaduta da sei anni perché Jim è morto sei anni fa, è vero, ma è ancora perfettamente rinnovabile, bastano cinque dollari. I suoi certificati azionari sono là dentro, i titoli municipali esentasse, e diciotto obbligazioni  al portatore dell'ammontare di diecimila dollari l'una.» Feci un fischio.
«Peter Stevens è chiuso in una cassetta di sicurezza alla Casco Bank di Portland e Andy Dufresne è chiuso in una cassetta di sicurezza a Shawshank», continuò. «Occhio per occhio. E la chiave che apre cassetta, soldi e nuova vita è sotto un blocco di vetro nero in un campo di fieno di Buxton. Detto questo, ora ti dirò qualche altra cosa, Red — negli ultimi venti anni, mese più mese meno, ho tenuto d'occhio i giornali con un interesse particolare in cerca di notizie su ogni nuovo progetto di costruzione a Buxton. Ho continuato a pensare che un giorno o l'altro finirò col leggere che ci stanno facendo passare una nuova autostrada, o costruendo un nuovo ospedale o uno shopping center. Seppellendo la mia nuova vita sotto tre metri di cemento.»
Sbottai: «Gesù Cristo, Andy, se tutto questo è vero, come fai a non impazzire?»
Sorrise. «Finora, niente di nuovo sul fronte occidentale.»
«Ma ci potrebbero volere anni...»
«Può darsi. Ma forse non tutti quelli che pensano lo stato e il direttore Norton. Non posso proprio permettermi di aspettare tanto. Continuo a pensare a Zihuatanejo e a quel piccolo hotel. Questo è tutto quello che voglio dalla mia vita, ora, Red, e non credo che sia troppo. Non ho ucciso Glenn Quentin e non ho ucciso mia moglie, e quell'hotel... non è troppo da desiderare. Nuotare e prendere il sole e dormire in una stanza con le finestre aperte e spazio... non è troppo da desiderare.» Lanciò lontano le pietre.
«Sai, Red», riprese con grande naturalezza, «un posto come quello... avrò bisogno di un uomo che sappia come procurare le cose.»
Ci pensai a lungo. E l'impedimento più grosso nella mia mente non era neppure il fatto che facevamo sogni di gallerie in uno schifo di prigione con le guardie armate che ci osservavano dalle loro postazioni. «Non potrei farlo», dissi. «Non ce la farei a star fuori. Ormai sono quello che chiamano un uomo istituzionalizzato. Qua dentro sono quello che ti procura la roba, già. Ma là fuori chiunque potrebbe. Là fuori, se vuoi un manifesto o un martello da roccia o un disco particolare o una scatola di montaggio di una barca in bottiglia, puoi usare le fottute Pagine Gialle. Qua dentro, sono io le fottute Pagine Gialle. Non saprei neppure come cominciare. O da dove.»
«Tu ti sottovaluti», disse lui. «Tu sei un autodidatta, un uomo fatto da sé.
Un uomo piuttosto notevole, secondo me.»
«Cavoli, non ho neppure un diploma di scuola superiore.»
«Lo so. Ma non è un pezzo di carta che fa l'uomo. E non è neppure la prigione che lo distrugge.»
«Non potrei tornare fuori, Andy. Lo so di sicuro.»
Si alzò. «Pensaci su», concluse con disinvoltura proprio nel momento che la sirena del rientro si mise a fischiare. E si allontanò con passo sciolto, come fosse un uomo libero che ha appena fatto una proposta a un altro uomo libero. E per un po' bastò a farmi sentire libero. Andy era capace di fare una cosa del genere. Poteva farmi dimenticare per un po' che eravamo due condannati all'ergastolo, alla mercé di un consiglio di libertà sulla parola fatto di culi di pietra e di un direttore salmodiante contento che Andy Dufresne rimanesse proprio là dov'era. Dopo tutto Andy era un cagnolino da grembo che sapeva fare le dichiarazioni dei redditi. Che meraviglioso animale!
Ma quella notte in cella mi sentii di nuovo un prigioniero. Tutta quell'idea mi pareva un'assurdità, e quell'immagine nella mente di acque azzurre e di spiagge bianche mi pareva più crudele che folle — mi stracciava il cervello come un amo da pesca. Non riuscivo proprio a indossare quel mantello invisibile come faceva Andy. Mi addormentai quella notte e sognai una grande pietra lucida in mezzo a un campo da fieno; una pietra a forma di gigantesca incudine di fabbro. Io cercavo di rovesciare la pietra per prendere la chiave che c'era sotto. Ma quella non si spostava; era troppo dannatamente grande.
E in lontananza, ma sempre più vicini, sentivo i latrati dei segugi.

Il che ci porta, direi, all'argomento delle evasioni.
Come no, se ne verificano, di tanto in tanto, nella nostra felice famigliola. Non si va di là dal muro, però, a Shawshank almeno, se sei furbo, almeno. I fari continuano a girare per tutta la notte, passando il loro lungo dito sui campi aperti che circondano la prigione da tre lati e sulla palude puzzolente del quarto. Ogni tanto un detenuto va di là dal muro, e i riflettori lo beccano sempre. Se no, li prendono mentre stanno facendo l'autostop sull'autostrada numero sei o sulla novantanove. Se tentano di tagliare per i campi, qualche contadino li vede e telefona alla prigione. I detenuti che vanno di là dal muro sono detenuti stupidi. Shawshank non è Canon City: in una zona rurale un uomo che saltella per i campi con un pigiama grigio addosso spicca come uno scarafaggio su una torta nuziale.
Nel corso degli anni, quelli a cui è andata meglio — stranamente, ma magari non tanto — sono quelli che l'hanno fatto sull'impulso del momento. Qualcuno se n'è uscito dentro un carico di lenzuola; sandwich di detenuto in bianco, si potrebbe dire. Di questo genere ce n'era un sacco quando sono arrivato qui, ma negli anni sono riusciti più o meno a bloccare quest'uscita.
Il famoso programma «Dentro-fuori» del direttore Norton diede anche lui la sua parte di evasi. Erano quelli che dell'espressione avevano deciso che preferivano la parte a destra del trattino. E anche qui, nella gran parte dei casi, era un genere di cose piuttosto improvvisato. Butti via il rastrello da mirtilli e te ne vai in mezzo ai cespugli mentre una delle guardie sta bevendo un bicchier d'acqua presso il camion o quando un paio di loro è troppo impegnato a discutere sui punti fatti dai vecchi Boston Patriots.
Nel 1969, i Dentrofuoristi stavano raccogliendo le patate a Sabbatus. Era il 3 novembre e il lavoro era quasi finito. C'era una guardia che si chiamava Henry Pugh — e non fa più parte della nostra felice famigliola, credetemi — seduta sul paraurti di dietro di uno dei camion delle patate, che faceva il suo pranzo con la carabina sulle ginocchia quando un meraviglioso (o così mi dissero, ma si sa che la gente su queste cose a volte esagera) cervo venne fuori dalla fredda nebbia del pomeriggio. Pugh si mise a inseguirlo, già vedendo come questo trofeo sarebbe stato bene nel suo salotto, e mentre lo faceva tre dei suoi affidati presero e se la squagliarono. Due furono ripresi in una sala da biliardo di Lisbon Falls. Il terzo finora non l'hanno ancora ritrovato.
Penso che il caso più famoso però sia quello di Sid Nedeau. Risale al 1958, e scommetto che non sarà mai superato. Sid era fuori a fare le linee del campo per l'incontro del sabato del campionato intramurale di baseball, quando alle tre scattò la sirena di rientro, che era anche il segnale del cambio di turno delle guardie. Il parcheggio è subito dietro il cortile, dall'altra parte del cancello elettrico principale. Alle tre il cancello si apre e le guardie che entrano si mischiano con quelle che escono. Ci sono un sacco di pacche sulla schiena e di fanfaronate, confronti tra i punteggi al bowling e i soliti vecchi scherzi e battute.
Sid non fece altro che spingere la sua macchina per fare le linee attraverso il cancello, lasciandosi dietro una bella riga bianca larga dieci centimetri, dalla terza base nel cortile fino all'altro lato della Route 6, dove fu ritrovata la macchina capovolta accanto a un mucchio di calce. Non chiedetemi come fece. Era vestito con l'uniforme della prigione, era alto un metro e novanta, e si tirava dietro una nuvola di polvere di calce. Quello che posso pensare è che essendo sabato pomeriggio e tutto, le guardie in uscita erano così contente di andarsene e quelle in entrata così avvilite di arrivare, che i membri del primo gruppo non tirarono mai la testa giù dalle nuvole e quelli del secondo non alzarono mai il naso dalla punta delle scarpe... e il vecchio Sid Nedeau non fece altro che scivolare in mezzo ai due.
Per quello che ne so Sid è ancora al largo. In tutti questi anni Andy e io abbiamo riso tanto sulla grande fuga di Sid Nedeau, e quando sentimmo del dirottamento per riscatto di quell'aereo, quello in cui il tizio si paracadutò poi dalla porta di dietro dell'aereo, Andy giurò e spergiurò che il vero nome di D. B. Cooper era Sid Nedeau.
«E probabilmente teneva una manciata di calce in tasca come portafortuna», diceva Andy. «Quel fortunato figlio di puttana.»

Ma dovete capire che un caso come quello di Sid Nedeau, o del tizio che se la squagliò dal campo di patate di Sabbatus, sono l'equivalente, per la prigione, di una lotteria. Puramente un fatto di cinque numeri che escono insieme nello stesso momento. Uno come Andy poteva aspettare novant'anni e non beccarla mai.
Forse ricorderete che, tempo fa, ho nominato un tizio che si chiamava Henley Backus, il caposquadra dei cessi della lavanderia. Entrò a Shawshank nel 1922 e morì nell'infermeria del penitenziario trentun anni dopo. Per lui le storie di evasione e di tentativi di evasione erano un hobby, forse perché non trovò mai il coraggio di fare lui stesso il passo. Poteva dirvi cento piani diversi, tutti stravaganti, e tutti tentati, prima o poi, nello Shank. Il mio preferito era la storia di Beaver Morrison, che tentò di costruirsi dal niente un aliante nello scantinato della fabbrica di targhe. I progetti su cui lavorava li aveva presi da un libro del 1900 circa intitolato Manuale del ragazzo moderno per il divertimento e l'avventura. Beaver riuscì a costruirlo senza farsi scoprire, o così raccontano, per poi accorgersi che nello scantinato non c'era una porta abbastanza grande da lasciar uscire quel maledetto aggeggio. Quando Henley raccontava questa storia, c'era da crepare dalle risate, e lui ne sapeva una dozzina — no, due dozzine — di altrettanto divertenti.
Quando c'era da raccontare di fughe da Shawshank, Henley sapeva tutti i particolari a memoria. Una volta mi disse che da quando lui era lì c'erano stati più di quattrocento tentativi di evasione di cui lui era al corrente. Pensateci un attimo prima di fare sì con la testa e andare avanti a leggere. Quattrocento tentativi di evasione! Corrisponde a 12,9 tentativi per ogni anno che Henley Backus passò a Shawshank a prenderne nota. Il Club della Tentata-Evasione-del-Mese. Ovviamente per la maggior parte si trattava di faccende maldestre, il genere di cose che finisce con il secondino che afferra per un braccio il poveraccio e grugnisce, «Dove credi di andare, testa di cazzo?»
Henley diceva di averne classificato una sessantina come tentativi seri, tra cui l'uscita in massa del 1937, l'anno prima che arrivassi io allo Shank. La nuova ala amministrazione era in costruzione, a quel tempo, e quattordici detenuti uscirono usando il materiale del cantiere riposto in un capanno facile da scassinare. Tutto il Maine del sud piombò nel panico per questi quattordici «criminali incalliti», che per lo più erano terrorizzati a morte e non avevano idea di dove andare più di quanto ne abbia la lepre inchiodata sulla strada dai fari del camion che le sta venendo addosso. Nessuno di quei quattordici ce la fece. Due di loro li fecero fuori a fucilate — i civili, non la polizia o il personale della prigione — e nessuno degli altri ce la fece.
Quanti ce l'avevano fatta invece tra il 1938, quando arrivai qui, e quel giorno di ottobre in cui Andy mi parlò per la prima volta di Zihuatanejo? Mettendo insieme le mie informazioni e quelle di Henley, direi dieci. Dieci che l'hanno fatta franca. E anche se non è il genere di cose che si possono sapere per certe, scommetto che almeno la metà di quei dieci stanno scontando pene in altri penitenziari come lo Shank. Perché è vero che si diventa, come si dice, istituzionalizzati. Quando togli la libertà a un uomo e gli insegni a vivere in una cella, pare che perda la capacità di pensare su più dimensioni. È come la lepre di cui sopra, paralizzata dalle luci del camion che avanza e che è destinato a ucciderla. Il più delle volte uno appena uscito tenterà qualche colpo idiota che non ha la minima speranza di riuscire... e perché? Perché lo riporterà dentro. Lo riporterà in un posto dove lui capisce come funzionano le cose.
Andy non era così, io sì. L'idea di vedere il Pacifico suonava bene, ma la mia paura era che esserci davvero mi avrebbe terrorizzato a morte — la sua vastità.
Comunque, il giorno di quella conversazione sul Messico, e su Mr. Peter Stevens... fu quello il giorno che cominciai a credere che Andy avesse una qualche idea di fare un gioco di prestigio e sparire. Sperai in Dio che facesse attenzione, se era così, e comunque non avrei scommesso sulle sue probabilità di riuscita. Il direttore Norton, vedete, seguiva Andy con un occhio particolare. Andy per Norton non era uno dei tanti ospiti con su il numero; loro avevano un rapporto professionale, si potrebbe dire. E poi aveva cervello, e aveva cuore. Norton era decisissimo a usare il primo e a spezzare il secondo.
Come ci sono politici disponibili fuori — quelli che si fanno comprare — così ci sono anche disponibili guardie di prigione, e se siete buon giudice e avete un po' di soldi da distribuire, immagino che sia possibile comprare abbastanza guarda-dall'-altra-parte da poter fare il colpo. Non sono il tipo che vi dirà che cose del genere non sono mai successe, ma Andy Dufresne non era il tipo che potesse farlo. Perché, come ho detto, Norton teneva gli occhi aperti. Andy lo sapeva, e anche le guardie lo sapevano.
Nessuno avrebbe mai proposto Andy per il programma Dentro-fuori, finché era il direttore Warden a esaminare le proposte. E Andy non era il tipo d'uomo da tentare una fuga casuale alla Sid Nedeau.
Se io fossi stato in lui, il pensiero di quella chiave mi avrebbe tormentato implacabilmente. Mi sarei considerato fortunato se di notte fossi riuscito a fare due ore di onesto sonno. Buxton era a meno di trenta miglia da Shawshank. Così vicino eppure così lontano.
Continuavo a pensare che la cosa migliore era assumere un legale e tentare la revisione del processo. Qualunque cosa per uscire da sotto il pugno di Norton. Magari Tommy Williams poteva essere messo a tacere con niente di più che un comodo programma di permessi, ma non era del tutto certo. Forse un buon vecchio duro avvocato del Mississippi poteva farlo cantare... e forse, chi sa, quell'avvocato non avrebbe avuto nemmeno tanto da faticare. Williams si era sinceramente affezionato ad Andy. Di tanto in tanto riaprivo questo discorso con Andy, che si limitava a sorridere, lo sguardo perso lontano, e diceva che ci stava pensando.
A quanto pare stava pensando anche a un sacco di altre cose.

Nel 1975 Andy Dufresne evase da Shawshank. Non è stato ancora ripreso, e non credo che lo sarà mai. Anzi, non credo neppure che Andy Dufresne esista più. Ma penso che ci sia un uomo giù a Zihuatanejo, Messico, chiamato Peter Stevens. Probabilmente dirige un piccolo hotel tutto nuovo in questo anno di grazia 1976.
Vi dirò quello che so e quello che penso: e questo è praticamente tutto quello che posso fare, non vi pare?
Il 12 marzo 1975, alle sei del mattino, le porte del braccio cinque si aprirono, come tutte le mattine, da queste parti, tranne la domenica. Come tutte le mattine tranne la domenica, gli inquilini di queste celle uscirono in corridoio e formarono due file mentre le porte delle celle si richiudevano dietro di loro. Si incamminarono verso il cancello principale del braccio, dove furono contati da due guardie prima di essere mandati giù alla mensa per una colazione a base di fiocchi d'avena, uova strapazzate e grasso bacon.
Tutto questo andò come da routine fino al conteggio al cancello del braccio. Dovevano essere ventisette. Invece erano ventisei. Dopo una chiamata al comandante delle guardie, il braccio cinque fu autorizzato ad andare a colazione.
Il comandante delle guardie, uno neanche tanto male chiamato Richard Gonyar, e il suo vice, un allegro cazzone chiamato Dave Burkes, scesero immediatamente al braccio cinque. Gonyar azionò l'apertura delle porte delle celle e lui e Burkes entrarono insieme nel corridoio, facendo scorrere i manganelli sulle sbarre, le pistole fuori. In un caso del genere quello che di solito è successo è che qualcuno si è sentito male durante la notte, così male che non può neppure uscire dalla cella al mattino. Più raramente, qualcuno è morto... o si è suicidato.
Ma stavolta, invece di un uomo che sta male o che è morto, trovarono un mistero. Non trovarono per niente un uomo. C'erano quattordici celle nel braccio cinque, sette per lato, tutte abbastanza pulite — per una cella tenuta male, a Shawshank, la punizione prevista è la sospensione delle visite — e tutte molto vuote.
Il primo pensiero di Gonyar fu un errore nel conteggio o uno scherzo. Per cui invece che al lavoro, dopo la colazione gli abitanti del braccio cinque furono rimandati nelle loro celle, allegri e festanti. Qualsiasi variazione nella routine è sempre la benvenuta.
Le porte delle celle si aprirono; i detenuti entrarono; le porte delle celle si chiusero. Qualche bontempone gridò: «Voglio il mio avvocato, voglio il mio avvocato, voialtri dirigete questo posto come se fosse una fottuta prigione».
Burkes: «Chiudi il becco o ti sistemo io».
Buontempone: «Io ho sistemato tua moglie, Burkie».
Gonyar: «Silenzio tutti, o ci passate la giornata qua dentro».
Lui e Burkes rifecero il giro, contando i nasi. Non dovettero arrivare molto lontano.
«Di chi è questa cella?» chiese Gonyar al secondino di notte del lato destro.
«Andy Dufresne», rispose lui, e questo fu tutto quello che ci voleva. Tutto smise di essere routine di botto. Il pallone era decollato.
In tutti i film di prigione che ho visto, scatta la sirena ogni volta che c'è un'evasione. Questo a Shawshank non succede mai. La prima cosa che fece Gonyar fu di mettersi in contatto col direttore. La seconda ordinare una ricerca all'interno della prigione. La terza avvertire la polizia di stato di Scarborough della possibilità di un'evasione.
Questa è la routine. Non richiede la perquisizione della cella del sospetto evaso, e così nessuno la fece. Non allora. Perché avrebbero dovuto? Era un caso in cui quello che vedi, quello c'è. Era una stanzetta quadrata, sbarre alla finestra e sbarre alla porta scorrevole. C'era un vaso e una branda vuota.
Qualche bella pietra sul davanzale.
E il poster, certo. Era, allora, Linda Ronstadt. Il poster era appeso giusto sopra la branda. C'erano stati poster lì, nello stesso identico posto, per ventisei anni. E quando qualcuno — fu il direttore Norton in persona, poi, nemesi storica se mai ce n'è stata una — ci guardò dietro, si prese un bello shock.
Ma questo avvenne solo alle sei e mezzo di quella sera, quasi dodici ore dopo che Andy era risultato mancante, probabilmente venti dopo che aveva fatto la sua fuga.

Norton diede i numeri.
L'ho saputo da un'autorità sicura — Chester, l'affidabile, che quel giorno stava passando a cera l'ala amministrazione. Non ebbe bisogno di lucidare nessun buco di serratura con l'orecchio, quel giorno; mi disse che poteva sentire il direttore chiaramente fin dal Documenti & Archivi mentre mangiava via la testa di Rich Gonyar.
«Che cosa significa che è 'sicuro che non è sul terreno della prigione'? Che cosa significa? Significa che non l'avete trovato! Meglio per voi se lo trovate! Meglio per voi! Perché lo voglio! Mi ha sentito? Lo voglio!» Gonyar disse qualcosa.
«Non è successo quando era lei di turno? Questo è quello che dice lei. Per quello che posso dire io, nessuno sa quando è successo. O come. O se è successo davvero. Ora, lo voglio nel mio ufficio alle tre di oggi pomeriggio, o qualche testa cadrà. Questo posso prometterglielo, e io mantengo sempre le mie promesse.»
Gonyar replicò ancora qualcosa, qualcosa che sembrò provocare in Norton una furia ancora maggiore.
«No? E allora guardi questo! Guardi questo! Lo riconosce? Il registro di stanotte del braccio cinque. Tutti i detenuti presenti. Dufresne è stato chiuso ieri sera alle nove e ora è impossibile che sia sparito! È impossibile! Ora trovatelo!»

Ma alle tre di quel pomeriggio Andy era ancora tra i mancanti. Norton si precipitò come una furia di persona nel braccio cinque, dove noi eravamo rimasti chiusi in cella per tutto il giorno. Ci avrebbe interrogati? Avevamo passato quasi tutto quel lungo giorno a essere interrogati da guardie durissime che sentivano sul collo il fiato del drago. Dicevamo tutti la stessa cosa: non avevamo sentito niente, non avevamo visto niente. E per quello che ne so dicevamo tutti la verità. So che io la dicevo. Tutto quello che potevamo dire era che Andy c'era davvero in cella al momento della chiusura, e anche al momento del buio in cella, un'ora dopo.
Uno spiritoso suggerì che Andy fosse passato dal buco della serratura. Suggerimento che procurò al suo autore quattro giorni di isolamento. Erano tesissimi.
E così Norton venne giù — si precipitò giù — squadrandoci con quegli occhi celesti roventi che quasi mandavano scintille dall'acciaio temperato delle sbarre delle nostre gabbie. Ci guardò come se fosse convinto che eravamo tutti implicati. Probabilmente ne era convinto davvero.
Entrò nella cella di Andy e si guardò attorno. Era esattamente come Andy l'aveva lasciata, le lenzuola sulla branda tirate indietro, ma senza l'aria che ci si fosse dormito dentro. Minerali sul davanzale... ma non tutti.
Quelli più belli se li era portati con sé.
«Sassi», sibilò Norton, e li spazzò via dalla finestra con fracasso. Gonyar, che ora era fuori turno, fece una smorfia ma non disse nulla.
Gli occhi di Norton caddero sul manifesto di Linda Ronstadt. Linda guardava da sopra la spalla, le mani infilate nelle tasche di dietro di un paio di calzoni beige aderentissimi. Aveva un top che le lasciava scoperta la schiena, e una magnifica abbronzatura, tipicamente californiana. Doveva offendere maledettamente la sensibilità battista di Norton, quel poster. Mentre lo guardavo che lo fissava con occhi torvi, mi ricordai di quella volta che Andy aveva parlato della sensazione di poter quasi passare attraverso la figura e trovarsi accanto alla ragazza.
In un modo concretissimo, questo era esattamente quello che aveva fatto — come Norton tra pochi secondi avrebbe scoperto.
«Ignobile cosa!» grugnì, e strappò il poster dalla parete con un unico gesto della mano.
E rivelò il buco spalancato, frastagliato, nel cemento dietro la figura.

Gonyar non volle entrarci.
Norton glielo ordinò — Dio, devono aver sentito Norton che ordinava a Rich Gonyar di entrarci per tutta la prigione — e Gonyar semplicemente si rifiutò, chiaro e tondo.
«Le farò perdere il posto per questo!» urlò Norton. Era isterico come una donna con le scalmane. Aveva perso completamente la sua flemma. Il collo gli si era fatto di un ricco rosso scuro, e due vene gli sporgevano, pulsando, sulla fronte. «Può contarci su questo, lei... lei, francese! Le farò perdere il posto e farò in modo che non ne troverà un altro in nessuna prigione del New
England!»
Gonyar, zitto, porse la pistola di servizio a Norton, col calcio in avanti.  Ne aveva abbastanza. Era di due ore oltre l'orario, quasi tre, e ne aveva abbastanza. Era come se la defezione di Andy dalla nostra allegra famigliola avesse spinto Norton oltre il ciglio di una sua qualche privata irrazionalità che era lì da tanto... certamente quella sera era pazzo.
Non so cosa potesse essere quella privata irrazionalità, è chiaro. Ma so che c'erano ventisei detenuti ad ascoltare la piccola lavata di capo di Norton con Rich Gonyar quella sera mentre l'ultima luce svaniva da un cielo opaco di fine inverno, tutti ergastolani e lì da tempo, che avevano visto amministratori venire e andarsene, culi di pietra e culi di panna senza differenza, e sapevamo tutti che il direttore Samuel Norton aveva appena passato quello che gli ingegneri amano definire «il limite di rottura».
E, perdio, mi pareva quasi di sentire da qualche parte Andy Dufresne che rideva.

Norton finalmente trovò uno magro del turno di notte che entrasse nel buco che era dietro il poster di Andy di Linda Ronstadt. Il nome dello smilzo era Rory Tremont, e non era precisamente una palla di fuoco nel reparto cervello. Forse pensava che gli avrebbero dato un stella di bronzo o qualcosa. Come risultò, fu una fortuna che Norton avesse trovato qualcuno approssimativamente dell'altezza e della corporatura di Andy per andare lì dentro; se avessero mandato uno con un culo grosso — come sembrano essere la maggior parte delle guardie di prigione — sicuro come che Dio ha fatto verde l'erba, ci si sarebbe incastrato... e forse sarebbe ancora lì.
Tremont andò dentro con una corda di nylon, che qualcuno aveva trovato nel cofano della macchina, legata attorno alla vita e una grossa pila da sei batterie in una mano. A questo punto Gonyar, che aveva cambiato idea sull'andarsene e che pareva l'unico ancora in grado di ragionare, aveva tirato fuori una serie di piante. Sapevo benissimo cosa gli mostravano — un muro che pareva, in sezione, un sandwich. L'intero muro era largo tre metri. Le sezioni interna ed esterna erano spesse ciascuna un metro e venti. Nel centro c'erano sessanta centimetri di spazio di tubatura, e vorrete credermi se vi dico che di quel sandwich quello spazio era la parte carnosa... in molti sensi.
La voce di Tremont venne fuori dal buco, rimbombante e morta. «C'è una puzza tremenda qua dentro, direttore.»
«Non importa! Vai avanti!»
Le gambe di Tremont scomparvero nel buco. Un momento dopo anche i piedi erano spariti. La sua torcia lampeggiava fioca avanti e indietro. «Direttore, c'è puzza in un modo pazzesco.» «Non importa, ho detto!» gridò Norton.
Dolorosamente, la voce di Tremont tornò indietro. «Puzza di merda. Oh, Dio, ecco che cos'è, è merda, oh Dio mio fatemi uscire di qui, sto per vomitare oh merda è merda o mio Dio...» E poi giunse l'inconfondibile rumore di Rory Tremont che si perdeva l'ultimo paio di pasti.
Bene, a questo punto non ce la feci più. Non potei farci niente. Tutta la giornata — no, diavolo, gli ultimi trent'anni — mi tornarono davanti all'improvviso e cominciai a ridere a crepapelle, una risata come non avevo riso da quando ero libero, il tipo di risata che non mi sarei mai aspettato di farmi dentro queste grigie mura. E, Dio mio, che bello che era!
«Portate quell'uomo fuori di qui!» strillava Norton, e io ridevo così forte che non sapevo se ce l'aveva con me o con Tremont. Continuavo a ridere e a battere i piedi e a tenermi la pancia. Non avrei potuto fermarmi neppure se Norton mi avesse minacciato di stendermi morto a revolverate su due piedi.
«Portatelo VIA!»
Be', amici e vicini, fui io quello che andò. Diritto in isolamento, e ci rimasi per quindici giorni. Un lungo periodo. Ma ogni tanto ripenso al vecchio Rory Tremont, così poco sveglio, che ulula oh merda è merda, e poi penso ad Andy Dufresne che se ne va verso il sud con la sua macchina, ben vestito, e non posso fare a meno di ridere. Mi feci quei quindici giorni in isolamento praticamente senza accorgermene. Forse perché metà di me era con Andy Dufresne, Andy Dufresne che aveva guadato in mezzo alla merda ed era uscito pulito dall'altra parte, Andy Dufresne, diretto al Pacifico.

Ho sentito il resto di quello che accadde quella notte da una mezza dozzina di fonti. Non un gran che, però. Rory Tremont dovette decidere che non aveva più molto da perdere oltre il pranzo e la cena, visto che andò avanti.
Non c'era rischio di cadere nel pozzo costituito dallo spazio tra il segmento esterno e quello interno delle mura del braccio; era così stretto che Tremont dovette spingersi avanti a forza. Raccontò poi che poteva prendere solo mezzo respiro e che sapeva che rimanere bloccato lì sarebbe stato come essere sepolto vivo.
Quello che trovò in fondo al pozzo fu la tubatura principale che serviva i quattordici cessi del braccio cinque, un grosso tubo di porcellana che era stato posto trentatré anni prima. Era stato spaccato. Accanto al buco scheggiato, Tremont trovò il martello da minerali di Andy.
Andy era riuscito a liberarsi, ma non era stato facile.
La tubatura era anche più stretta del pozzo in cui Tremont era appena sceso. Rory Tremont non ci entrò, e per quello che ne so, non ci entrò nessuno. Dev'essere stato quasi indicibile. Un ratto saltò fuori dal tubo mentre Tremont esaminava il buco e il martello, e più tardi giurò che era grosso quasi come un cucciolo di cocker spaniel. Risalì per quel corridoio in discesa come una scimmia su un palo.
Andy se n'era andato per quel tubo. Forse sapeva che sboccava in un canale a cinquecento metri dalla prigione sul lato occidentale, verso la palude. Penso che lo sapesse. I piani della prigione erano in giro, e Andy poteva aver trovato il modo di darci un'occhiata. Era un tipo metodico. Doveva sapere o aver scoperto che la fogna che partiva dal braccio cinque era l'unica a Shawshank a non essere ancora collegata all'impianto di trattamento dei rifiuti, e doveva sapere che doveva farcela per la metà del 1975 o mai più, perché in agosto avrebbero allacciato anche noi al nuovo impianto di eliminazione.
Cinquecento metri. La lunghezza di cinque campi da football. Poco meno di mezzo miglio. Aveva strisciato per tutta quella distanza, magari con in mano una di quelle piccole pile a forma di penna, magari con nient'altro che un paio di scatole di fiammiferi. Strisciò attraverso uno schifo che non so o non voglio immaginare. Forse i ratti gli schizzavano davanti, o magari gli si avventavano addosso, come fanno questi animali a volte quando il buio li rende coraggiosi. Dovette avere quel minimo di spazio alle spalle per continuare ad avanzare, e probabilmente dovette spingersi attraverso i punti in cui i tratti di tubatura erano congiunti. Se fossi stato io, la claustrofobia mi avrebbe fatto impazzire una dozzina di volte. Ma lui ce la fece.
In fondo al tubo trovarono una serie di impronte fangose che portavano fuori dal canale melmoso e inquinato in cui scarica la fogna. A due miglia da lì la pattuglia di ricerca trovò l'uniforme della prigione — ma questo il giorno dopo.
La storia rimbalzò alla grande sui giornali, come avrete immaginato, ma nessuno, nel raggio di quindici miglia dalla prigione, si fece avanti per denunciare un furto di macchina, di abiti, per segnalare un uomo nudo al chiaro di luna. Non ci fu neppure un cane che abbaiava in una fattoria. Uscito dalla fogna svanì come fumo.
Ma io scommetto che svanì in direzione di Buxton.

Tre mesi dopo quel giorno memorabile, il direttore Norton si dimise. Era un uomo finito, mi fa molto piacere dirlo. Il suo passo aveva perso ogni elasticità. L'ultimo giorno se ne uscì con la testa bassa come un vecchio detenuto che si trascina all'infermeria per le sue pillole di codeina. Fu Gonyar a prendere il suo posto, e per Norton dev'essere stato il colpo più duro. Da quello che so, oggi Sam Norton è giù a Eliot, va a messa tutte le domeniche e si chiede ancora come diavolo ha fatto Andy Dufresne a fargliela.  Io avrei potuto dirgli che la risposta alla domanda è la semplicità in persona. C'è chi è il tipo, Sam. E chi non lo è, e non lo sarà mai.

Questo è quello che so; ora vi dirò quello che penso. Forse su qualche particolare potrò aver torto, ma sono disposto a scommettere orologio e catena che il quadro complessivo ce l'ho, e preciso. Perché, essendo Andy il tipo di uomo che era, sono solo uno o due i modi in cui lo poteva fare. E ogni tanto, quando ci ripenso, penso a Normaden, l'indiano mezzo matto. «Brava persona», aveva detto Normaden dopo essere stato in cella con Andy per otto mesi. «Sono stato contento di andarmene, io. Spifferi terribili in quella cella. Sempre freddo. Non lasciava toccare a nessuno le sue cose. Sta bene. Brav'uomo, mai mi ha preso in giro. Ma brutti spifferi.» Povero pazzo Normaden. Ne sapeva più di tutti noialtri, e prima di tutti. E ci vollero otto lunghi mesi perché Andy riuscisse a farlo andare via e ad avere la cella di nuovo tutta per sé. Non fosse stato per gli otto mesi che Normaden aveva passato con lui all'arrivo del direttore Norton, sono sicuro che Andy sarebbe stato libero prima che Nixon si dimettesse.

Oggi credo che la cosa cominciò nel 1949, già allora — non con il martello da minerali, ma col manifesto di Rita Hayworth. Vi ho detto come mi pareva nervoso quando me lo chiese, nervoso e pieno di eccitazione repressa. In quel momento lo giudicai solo un fatto di eccitazione, pensai che Andy era il tipo di persona a cui non piace ammettere che anche lui ha i piedi di argilla, e che desidera una donna... sia pure solo una donna di fantasia. Ma ora credo che mi sbagliavo. Ora credo che l'eccitazione di Andy era provocata da qualcosa di completamente diverso.
Che cosa era responsabile del buco che il direttore Norton infine trovò, dietro il poster di una ragazza che non era ancora nata quando la foto di Rita Hayworth era stata scattata? La perseveranza e il lavoro duro di Andy Dufresne, certo — non intendo togliergli niente di questo. Ma ci furono altri due elementi nell'equazione: un sacco di fortuna e il cemento dell'amministrazione dei lavori pubblici.
Non c'è bisogno che vi spieghi io che cos'è la fortuna, credo. Il cemento dell'ALP l'ho controllato io di persona. Ho investito un po' di tempo e un paio di francobolli e ho scritto prima alla facoltà di storia dell'Università del Maine e poi a un tale di cui seppero darmi l'indirizzo. Questo tale era stato caposquadra dell'impresa dell'ALP che aveva costruito l'ala di massima sicurezza di Shawshank.
L'ala, che contiene i bracci tre, quattro e cinque, fu costruita negli anni 1934-37. Ora, molta gente non pensa al cemento e al calcestruzzo in termini di «sviluppo tecnologico», come ci si pensa a proposito di macchine e di bruciatori a petrolio e di navi spaziali, ma in realtà sono proprio quello. Fino al 1870 circa non esisteva il cemento come lo intendiamo oggi, né il calcestruzzo moderno fino all'inizio di questo secolo. Mescolare il calcestruzzo è una faccenda delicata come fare il pane. Ti può venire troppo acquoso, o non abbastanza acquoso. Puoi fare il miscuglio di sabbia troppo spesso o troppo sottile, e lo stesso vale per il miscuglio di ghiaia. E nel 1934 la scienza del mescolare quella roba era molto meno sofisticata di oggi.
Le mura del braccio cinque erano abbastanza solide, ma non esattamente secche e asciutte. A dire il vero erano e sono dannatamente umide. Dopo un lungo periodo di umidità cominciano a trasudare e anche a gocciolare. Compaiono le crepe, qualcuna profonda un paio di centimetri, e di solito le si ottura con il gesso.
Ed ecco che arriva Andy Dufresne nel braccio cinque. È un uomo che si è laureato alla facoltà di economia dell'università del Maine, ma è anche uno che ha seguito due o tre corsi di geologia, nel frattempo. La geologia, anzi, era diventata il suo hobby principale. Immagino che andasse d'accordo con la sua natura paziente, meticolosa. Un'era glaciale di diecimila anni qui. Una formazione montuosa di un milione di anni lì. Piattaforme rocciose che sfregano una contro l'altra giù nel profondo sotto la pelle della terra per millenni. Pressione. Andy una volta mi disse che la geologia non è altro che lo studio della pressione.  E il tempo, certo.
Aveva tempo per studiare quelle mura. Tanto tempo. Quando le porte delle celle si chiudevano e si spegnevano le luci, non c'era nient'altro da guardare.
Gli incensurati di solito fanno fatica ad adattarsi alle ristrettezze della vita carceraria. Gli viene la febbre. A volte devono essere trasportati in infermeria e riempiti di sedativi prima di ritrovare la bussola. Non è raro che qualche nuovo membro della nostra felice famigliola si metta a battere contro le sbarre urlando che lo lascino uscire... e prima che le grida siano andate avanti a lungo, comincia la cantilena lungo il braccio: «Pesce fresco, ehi pesciolino, pesce fresco, pesce fresco, abbiamo pesce fresco oggi!»
Andy non scattò così quando arrivò allo Shank nel 1948, ma questo non vuol dire che non sentisse tante delle stesse cose. Può anche essere arrivato sull'orlo della pazzia; a qualcuno capita, e qualcuno si butta a capofitto oltre quell'orlo. La vecchia vita si disfa nel battere di un occhio, l'incubo indeterminato si estende davanti, una lunga stagione all'inferno.
E allora cosa fece, vi chiedo? Cercò quasi disperatamente qualcosa che distraesse la sua mente irrequieta. Oh, c'è ogni sorta di modo per distrarsi, anche in prigione; la mente umana sembra piena di un numero infinito di possibilità quando si tratta di distrazioni. Vi ho detto dello scultore e delle Tre età di Gesù. C'erano collezionisti di monete le cui collezioni finivano immancabilmente nelle mani dei ladri, collezionisti di francobolli, uno che aveva cartoline di trentacinque paesi diversi — e lasciatemelo dire, vi avrebbe tirato il collo se vi avesse pescato a fregargli le sue cartoline.
Andy si diede alle pietre. E alle mura della sua cella.
Secondo me le sue intenzioni iniziali non erano niente di più che incidere le sue iniziali sul muro dove il poster di Rita Hayworth sarebbe stato presto appeso. Le sue iniziali, o magari qualche verso di una poesia. Invece, quello che trovò fu un calcestruzzo debole in un modo molto interessante. Forse cominciò a scavare le iniziali e venne giù un bel pezzo di muro. Me lo vedo quasi, steso sulla sua branda, che guarda quel pezzo staccato di muro, rigirandoselo tra le mani. Non pensare alla rovina di tutta la vita, non pensare che sei entrato in questo posto su tutto un treno di scalogna. Dimentica tutto questo e osserva questo pezzo di cemento.
Qualche mese ancora, e potrebbe aver deciso che sarebbe stato divertente vedere quanto veniva via di quel muro. Ma non si può prendere e mettersi a scavare nel muro e poi, quando arriva l'ispezione settimanale (o una di quelle ispezioni a sorpresa che rivelano sempre interessanti scorte di alcol, droga, figure sporche e armi) dire semplicemente alla guardia: «Questo? Sto solo scavando un buchetto nella parete della cella. Niente di preoccupante, buon uomo».
No, non poteva fare così. E così venne da me e mi chiese se potevo procurargli un manifesto di Rita Hayworth. Non uno piccolo ma quello grande.
E poi, s'intende, aveva il martello da minerali. Mi ricordo che quando gli avevo dato l'aggeggio nel 1948 avevo pensato che uno ci avrebbe messo seicento anni per scavare con quello un tunnel attraverso il muro. Vero. Ma Andy andò proprio attraverso il muro — e anche con quel cemento morbido gli ci vollero due martelli e ventisette anni per fare un buco abbastanza grande da far passare il suo corpo magro per un metro e venti di spessore.
Certo, ne perse quasi uno intero, di quegli anni, per Normaden, e poi poteva lavorare solo di notte, preferibilmente di notte tarda, quando i più dormono — comprese le guardie che fanno il turno di notte. Ma ho il sospetto che la cosa che lo rallentò più di tutto fu la necessità di far sparire il materiale che scavava via dal muro. Poteva anche attutire il rumore del suo lavoro avvolgendo la testa del martello nei panni da roccia, ma che farsene del cemento polverizzato e dei pezzi interi che venivano via di tanto in tanto?
Secondo me deve aver frantumato i pezzi in sassolini e...
Mi ricordo la domenica dopo che gli ebbi dato il martello. Mi ricordo di averlo visto attraversare il cortile, il viso gonfio per l'ultimo incontro con le sorelle. Vidi che si fermava, raccoglieva un sasso... e lo faceva sparire su per la manica. Quello della tasca dentro la manica è un vecchio sistema di prigione. Su per la manica o dentro la piega dei calzoni. E ho anche un altro ricordo, molto forte ma sfocato, forse qualcosa che ho visto più di una volta. Questo ricordo è di Andy Dufresne che attraversava il cortile in un giorno di afa estiva, quando l'aria è assolutamente immobile. Immobile, sì... tranne per la leggera brezza che sembra agitare la sabbia attorno ai piedi di Andy Dufresne.
Può darsi quindi che avesse un paio di nascondigli nei calzoni sotto le ginocchia. Carichi i sacchetti di materiale e poi te ne vai in giro, le mani in tasca, e quando ti senti sicuro e inosservato, dai un piccolo strappo alle tasche. Le tasche, è chiaro, sono collegate con uno spago o un filo forte ai sacchetti. Il materiale scende a cascata lungo le gambe dei pantaloni mentre cammini. I prigionieri di guerra che nella seconda guerra mondiale tentavano di scavare dei tunnel per fuggire dai campi usavano questo trucco.
Gli anni passarono e Andy portò il suo muro, un cucchiaio alla volta, fuori nel cortile. Giocò il suo gioco con un amministratore dopo l'altro, e quelli pensavano che fosse perché voleva mantenere la sua biblioteca. Senza dubbio c'era anche questo, ma la cosa che Andy voleva più di tutto era far sì che la cella quattordici nel braccio cinque continuasse a essere una cella singola.
Dubito che avesse qualche piano concreto, o qualche concreta speranza di evadere, almeno all'inizio. Probabilmente pensava che il muro era tre metri di cemento solido, e che se pure fosse riuscito a sbucare dall'altra parte si sarebbe trovato a dieci metri sopra il cortile. Ma come ho detto, non credo che gli importasse eccessivamente l'idea di passare di là. La sua ipotesi probabilmente funzionava così: faccio un progresso di una trentina di centimetri ogni sette anni; quindi mi occorrono settanta anni per passare dall'altra parte; allora avrei cento e un anni.
Ecco la seconda supposizione che avrei fatto io se fossi stato in Andy: che prima o poi mi avrebbero scoperto e dato un sacco di tempo in isolamento, per non dire di una macchia molto grossa sul mio certificato. Dopo tutto c'era l'ispezione settimanale regolare, più quella a sorpresa — che di solito avveniva di notte — più o meno una settimana sì e una no. Presto o tardi qualche guardia avrebbe dato una sbirciata dietro Rita Hayworth, giusto per assicurarsi che Andy non avesse un manico di cucchiaio affilato o qualche spinello attaccato con lo scotch alla parete.
La sua risposta a questa seconda supposizione dev'essere stata: al diavolo.
Forse ne aveva fatto anche una gara. Di quanto posso andare dentro prima che mi scoprano? La prigione è un posto maledettamente noioso, e l'eventualità di essere scoperto da un'ispezione fuori programma nel mezzo della notte, mentre teneva il suo manifesto staccato, probabilmente aggiunse un po' di sapore alla sua vita durante i primi anni.
E sono convinto che gli sarebbe stato impossibile farla franca solo per cieca fortuna. Non per ventisette anni. Eppure, devo credere che per i primi due anni — fino a metà maggio del 1950, quando aiutò Byron Hadley ad aggirare le tasse sull'eredità improvvisa — fu esattamente su questo che si basò.
O forse aveva qualcosa di più che la cieca fortuna che lavorava per lui già allora. Aveva soldi, e può darsi che passasse una bustarella a qualcuno ogni settimana perché ci andasse piano con lui. Le guardie in genere l'accettano questa cosa, se il prezzo è giusto; sono soldi in tasca e il prigioniero continua ad avere le sue figure o le sue sigarette confezionate. E poi Andy era un prigioniero modello — tranquillo, educato nel parlare, rispettoso, non violento. Sono i più pazzi e i più turbolenti che si ritrovano la cella messa sottosopra almeno ogni sei mesi, il materasso aperto, il cuscino portato via e disfatto, il tubo di scarico del cesso attentamente esaminato.
Poi, nel 1950, Andy divenne qualcosa di più che un detenuto modello.  Nel 1950, divenne una  merce di valore, un omicida che faceva le dichiarazioni dei redditi bene come la H & R Block. Dava gratis consigli sulla gestione patrimoniale, organizzava ripari fiscali, riempiva moduli di richiesta di prestiti (a volte in modo creativo). Lo ricordo seduto al suo banco in biblioteca, a lavorare pazientemente su un contratto di prestito automobilistico, paragrafo per paragrafo, con un capoguardia che voleva comprare una Desoto usata, a spiegargli che cosa c'era di buono nell'accordo e che cosa c'era di cattivo, a dirgli che era possibile trovare un prestito da qualcuno che non impiccasse così, a metterlo in guardia dalle compagnie finanziarie, che a quei tempi erano poco più che usurai legalizzati. Quando ebbe finito, la guardia fece il gesto di tendergli la mano... e poi la ritirò in fretta. Si era dimenticato per un momento, vedete, che aveva a che fare con una mascotte, non con un uomo.
Andy continuò ad aggiornarsi sulle leggi fiscali e sui cambiamenti nel mercato azionario, e così la sua utilità non cessò, come pure poteva succedere, neppure dopo che era stato tenuto al fresco per un pezzo.
Cominciò ad avere i suoi soldi per la biblioteca, la guerra con le sorelle era finita, e nessuno buttava per aria la sua cella troppo forte. Era un bravo negro.

Poi un giorno, molto in là — forse verso l'ottobre del 1967 — il vecchio passatempo improvvisamente divenne qualcos'altro. Una notte mentre era nel buco fino alla vita con Raquel Welch che gli penzolava sopra il sedere, l'estremità appuntita del martelletto dev'essere affondata improvvisamente nel cemento fino all'elsa.
Mentre ritirava qualche pezzo di cemento, forse sentì il rumore di altri pezzi che cadevano giù nel pozzo, saltellando avanti e indietro, facendo tintinnare la tubatura. Lo sapeva già che stava per arrivare a quel pozzo, o fu una sorpresa totale? Non lo so. Può darsi che ormai avesse visto i piani di costruzione della prigione, e può darsi di no. Se no, potete essere dannatamente certi che trovò un modo per farlo, non molto tempo dopo.
Improvvisamente deve essersi reso conto che, invece di giocare semplicemente per giocare, stava giocando per una posta alta... rispetto alla sua vita e il suo futuro, la posta più alta. Neppure allora forse lo sapeva di sicuro, ma dev'essersi fatto una discreta idea perché fu proprio a quel tempo che mi parlò per la prima volta di Zihuatanejo. Tutto d'un tratto, invece di essere semplicemente un gioco, quello stupido buco nel muro divenne il suo padrone — se sapesse o meno della fogna in fondo, e che questa conduceva oltre il muro esterno, lo fece comunque.
Aveva avuto la chiave sotto la pietra a Buxton di cui preoccuparsi per anni. Ora aveva da preoccuparsi che a qualche zelante nuova guardia venisse in mente di dare un'occhiata dietro il poster scoprendo tutta la faccenda, o che gli capitasse un altro compagno di cella, o che improvvisamente, dopo tutti quegli anni, lo trasferissero. Ebbe tutte quelle cose in mente per i successivi otto anni. Quello che posso dire è che deve essere stato uno degli uomini più freddi che siano mai vissuti. Io avrei dato completamente i numeri dopo un po', a vivere con quell'incertezza. Andy invece andò avanti a fare il suo gioco.  Dovette reggere l'idea della possibilità di essere scoperto per altri otto anni — la probabilità, potreste dire, perché per quanto con cura giocasse le sue carte, non ne aveva tante, di carte... e gli dei gli erano stati benevoli per tanto tempo; qualcosa come diciannove anni.
L'ironia più sinistra che riesco a pensare è se gli avessero offerto la libertà sulla parola. Ve lo immaginate? Tre giorni prima che il detenuto sia rilasciato, è trasferito in un'ala di minore sicurezza per essere sottoposto a test fisici e attitudinali completi. Mentre lui è lì, la sua cella viene ripulita completamente. Invece della libertà, Andy avrebbe avuto un lungo turno di sotto, in isolamento, più un bel po' di altro tempo di sopra... ma in un'altra cella.

Se sbucò nel pozzo nel 1967, come mai non fuggì fino al 1975?
Non lo so di sicuro, ma posso avanzare qualche ipotesi.
Primo, dev'essere diventato più cauto che mai. Era troppo furbo per andare semplicemente avanti tutta e tentare di esser fuori in otto mesi, o anche in diciotto. Deve aver continuato ad allargare l'apertura un po' alla volta. Un buco largo quanto una tazza da tè quando si fece la bevuta di Capodanno di quell'anno. Un buco quanto un piatto al tempo della bevuta del compleanno del 1968. Quanto un vassoio all'apertura del campionato di baseball del 1969.
Per un certo tempo ho pensato che dovesse essere andato molto più in fretta di quanto apparentemente andò — dopo aver sfondato, dico. Mi pareva che invece di dover polverizzare il materiale e portarlo fuori dalla cella nei sacchetti nascosti che vi ho descritto, poteva semplicemente lasciarlo cadere giù lungo il pozzo. La lunghezza del tempo che ci impiegò fa pensare che non osò farlo. Potrebbe aver deciso che il rumore avrebbe sollevato dei sospetti. O, se era al corrente dell'esistenza del tubo di scarico della fogna, come credo, forse aveva paura che un pezzo più grosso di cemento cadendo potesse spaccarlo prima che lui fosse pronto, bloccando il sistema di scarico del braccio e provocando un'indagine. E un'indagine, inutile dirlo, avrebbe portato alla rovina.
Insomma, secondo me al tempo che Nixon giurò per il suo secondo mandato, il buco doveva essere abbastanza grosso da lasciarlo strisciare attraverso... e probabilmente anche prima. Andy era così minuto.  Perché non andò, allora?
È a questo punto che le mie ipotesi razionali finiscono, gente; da qui in poi diventano progressivamente più casuali. Una possibilità è che lo spazio dove strisciare era intasato e dovette ripulirlo. Ma questo non può aver preso tutto il tempo. E allora cosa fu?
Io penso che Andy forse ebbe paura.
Vi ho spiegato meglio che ho potuto che significa essere un uomo istituzionalizzato. All'inizio non si sopportano queste quattro mura, poi si arriva a esserne infastiditi, poi si arriva ad accettarle... e poi, quando il tuo corpo e la tua mente e il tuo spirito si adattano a una vita in scala ridotta, finisci per amarle. Ti dicono quando devi mangiare, quando puoi scrivere le tue lettere, quando puoi fumare. Se lavori nella lavanderia o nella fabbrica di targhe, ti concedono cinque minuti ogni ora in cui puoi andare al gabinetto. Per trentacinque anni il mio momento è stato all'ora e venticinque, e dopo trentacinque anni quello è l'unico momento in cui mi venga voglia di fare una pisciata o una cacata: l'ora e venticinque. E se per qualche motivo non posso andarci, alla mezz'ora il bisogno passa e ritorna ai venticinque minuti dell'ora dopo.
Secondo me Andy stava lottando con questa tigre — questa sindrome da istituzione — e anche con la paura opprimente che tutto quello potesse essere stato fatto per niente.
Quante notti deve essere rimasto sdraiato sotto il suo poster, a pensare a quella fogna, sapendo che tutto quello che aveva era una sola occasione? Forse il disegno della pianta gli aveva detto quanto era larga la tubatura, ma un disegno non poteva dirgli come sarebbe stato dentro quella tubatura — se sarebbe riuscito a respirare senza soffocare, se i ratti erano tanto grossi e tanto feroci da attaccare invece di ritirarsi... e un disegno non poteva dirgli cosa avrebbe trovato in fondo alla tubatura, se e quando ci fosse arrivato. Ecco un tiro ancora più simpatico della libertà sulla parola: Andy entra nel collettore, striscia per cinquecento metri nell'oscurità soffocante e nel puzzo di merda, e finisce contro una bella solida grata proprio in fondo. Ah, ah, molto divertente.
Questo deve aver avuto in mente. E se il gran colpo fosse riuscito e lui fosse stato in grado di uscire, sarebbe stato capace di trovare degli abiti civili e di allontanarsi dalla zona della prigione senza farsi notare? E alla fine di tutto, se fosse uscito dal tubo, si fosse allontanato da Shawshank prima che fosse dato l'allarme, fosse arrivato a Buxton, rovesciato la pietra giusta... e sotto non ci fosse stato niente? Non necessariamente una cosa spettacolare tipo arrivare al campo e scoprire che sul posto è stato eretto un palazzone o che è stato trasformato nel parcheggio di un supermercato. Bastava che qualche ragazzino a cui piacevano i minerali avesse notato quel pezzo di vetro vulcanico, lo avesse rovesciato, visto la chiave della cassetta di sicurezza e portato chiave e pietra in camera sua come souvenir. Magari un cacciatore poteva aver dato inavvertitamente un calcio alla pietra, scoprendo la chiave, e uno scoiattolo o un corvo con un debole per gli oggetti scintillanti se l'era portata via. Magari un anno c'era stata un'alluvione primaverile, che aveva abbattuto il muretto trascinandosi via la chiave. Qualsiasi cosa.
E così penso — ipotesi casuale o no — che Andy rimase semplicemente paralizzato al suo posto per un bel po'. Dopo tutto, se non scommetti non puoi perdere. Che cosa aveva da perdere, dite? Intanto la biblioteca. Poi la pace intossicante della vita istituzionale. Ogni futura speranza di riprendere la sua identità di salvezza.
Ma alla fine lo fece, come vi ho detto. Tentò... e, Dio! Non ci riuscì in una maniera spettacolare? Ditemelo voi!

Ma sarà poi riuscito a farla franca, state chiedendo? Che successe dopo? Che successe quando arrivò a quel pascolo e rivoltò la pietra... sempre supponendo che la pietra fosse ancora lì?
Questa scena non posso descrivervela, perché questo uomo istituzionale qui è ancora in questa istituzione qui, e conta di rimanerci per anni e anni a venire.
Ma vi dico questo. Alla fine dell'estate del 1975, il quindici settembre per essere esatti, ricevetti una cartolina imbucata nella cittadina di McNary, Texas. Questa città è sul lato americano del confine, giusto di fronte a El Porvenir. La parte sinistra della cartolina, quella dei messaggi, era completamente vuota. Ma io so. Lo so nel mio cuore, sicuro, come so che tutti prima o poi si muore.
McNary fu dove passò il confine. McNary, Texas.

E così questa è la mia storia, amico. Non avrei mai creduto che ci sarebbe voluto tanto a scriverla, o che avrebbe occupato tante pagine. Ho cominciato a scriverla subito dopo aver avuto la cartolina, e sono qui a finirla il 14 gennaio del 1976. Ho consumato fino alla fine tre matite e un blocco intero di carta. Ho tenuto le pagine accuratamente nascoste... non che molti saprebbero leggere le mie zampe di gallina, comunque.
La cosa mi ha agitato più ricordi di quanti avrei mai creduto. Scrivere di se stessi sembra proprio come ficcare un ramo in un'acqua chiara di fiume e tirar su il fondo fangoso.
Be', non stavi scrivendo mica di te stesso, sento qualcuno dire laggiù in galleria. Stavi scrivendo di Andy Dufresne. Tu sei soltanto un personaggio secondario nella tua storia. Ma, sapete, non è proprio così. È tutto su di me, ogni dannata parola. Andy era la parte di me che non sono mai riusciti a rinchiudere, la parte di me che si rallegrerà quando finalmente i cancelli si apriranno per me e io uscirò col mio vestito da due soldi, con i miei venti dollari nella tasca. La parte di me che si rallegrerà per quanto vecchio e spezzato e spaventato sia il resto di me. È proprio, credo, che Andy ne aveva più di me, di questa parte, e la usava meglio.
Ci sono altri qui con me, altri che si ricordano di Andy. Siamo felici che sia andato, ma anche un po' tristi. Certi uccelli non sono fatti per la gabbia, questo è tutto. Le loro penne sono troppo vivaci, il loro canto troppo dolce e libero. E allora lasciateli andare, altrimenti quando aprite la gabbia per dargli da mangiare, loro trovano il modo di volare via. E la parte di te che sa che non era giusto imprigionarli si rallegra, ma il posto dove vivi resta tanto più triste e vuoto per la loro partenza.
Questa è la storia, e sono contento di avervela raccontata, anche se è un po' inconcludente e anche se alcuni dei ricordi che la matita ha tirato fuori (come il ramo che agita il fango del fiume) mi hanno fatto sentire un po' triste, e anche un po' più vecchio di come sono. Grazie per avermi ascoltato. E, Andy, se sei davvero laggiù, come credo, guarda le stelle per me subito dopo il tramonto, e tocca la sabbia, e metti i piedi nell'acqua, e sentiti libero.

Non avrei mai pensato che avrei ripreso questo racconto, e invece eccomi qui con le mie pagine spiegazzate aperte sulla scrivania davanti a me. Eccomi ad aggiungere altre tre o quattro pagine, scritte su un blocco tutto nuovo. Un blocco che ho comprato in un negozio — semplicemente sono entrato in un negozio di Congress Street di Portland e l'ho comprato.
Pensavo di aver messo il punto alla mia storia in una cella di prigione di Shawshank in un cupo giorno di gennaio del 1976. Ora è la fine di giugno del 1977 e sono seduto in una piccola stanza a poco prezzo del Brewster Hotel di Portland, a fare un'aggiunta.
La finestra è aperta, e il rumore del traffico che entra sembra enorme, eccitante e pauroso. Devo continuamente guardare la finestra e assicurarmi che non ci sono sbarre. Dormo male la notte perché il letto di questa camera, per economica che sia, mi pare troppo grande e lussuoso. Apro gli occhi di scatto tutte le mattine alle sei e mezzo, disorientato e impaurito. Ho la sensazione folle della caduta libera. Una sensazione terrificante ed eccitantissima.
Cosa è accaduto alla mia vita? Non lo immaginate? Ho avuto la libertà sulla parola. Dopo trentotto anni di richieste di routine e di rifiuti di routine (nel corso di questi trentotto anni mi sono morti tre avvocati), la libertà mi è stata concessa. Immagino che abbiano deciso che, a cinquantotto anni, ero finalmente abbastanza consumato da potermi considerare inoffensivo.
Sono stato sul punto di bruciare il documento che avete appena letto. Perquisiscono quelli che escono sulla parola con la stessa cura con cui perquisiscono i «pesci nuovi». E oltre a contenere dinamite a sufficienza da assicurarmi un rapido dietro-front e altri sei o otto anni dentro, le mie «memorie» contenevano qualche altra cosa; il nome della città dove penso che Andy Dufresne si trovi. La polizia messicana è lieta di collaborare con la polizia americana, e non volevo che la mia libertà — o la riluttanza a rinunciare alla storia a cui ho lavorato così a lungo e così intensamente — costasse ad Andy la sua.
Poi mi sono ricordato come fece Andy nel 1948 a portare dentro i suoi cinquecento biglietti, e ho portato fuori allo stesso modo la mia storia. Tanto per stare sicuro ho riscritto accuratamente tutte le pagine in cui ho nominato Zihuatanejo. Se i fogli fossero stati trovati durante la perquisizione, io sarei rientrato direttamente... ma i poliziotti si sarebbero ritrovati a cercare Andy in una città peruviana sul mare che si chiama Las Intrudres.
Il Comitato della Libertà sulla Parola mi aveva trovato un lavoro di «aiuto magazziniere» al grande Foodway Market allo Spruce Mall di South Portland — il che significa che sono diventato un ragazzo delle consegne, solo un po' più vecchio degli altri. Ci sono solo due tipi di fattorini, sapete; i vecchi e i giovani. Nessuno guarda mai né gli uni né gli altri. Se avete fatto spese allo Spruce Mall Foodway, può darsi che vi abbia portato io le borse alla macchina... ma dovevate esserci tra marzo e aprile del 1977, perché è in questo periodo che ho lavorato lì.
All'inizio pensavo che non ce l'avrei fatta proprio, fuori. Ho descritto la società carceraria come un modello in scala ridotta del vostro mondo esterno, ma non avevo idea di quanto si muovessero veloci le cose di fuori; la velocità pura e semplice a cui si muove la gente. Parlano anche più in fretta. E più forte.
È stato l'adattamento più duro che mi sia mai toccato fare, e non ho ancora finito... ci vorrà ancora tanto. Le donne, per esempio. Dopo aver appena saputo che erano la metà della razza umana per quarant'anni, mi trovavo improvvisamente a lavorare in un magazzino che ne era pieno. Donne vecchie, donne incinte in t-shirt con su una freccia che punta verso il basso e la scritta QUI BAMBINO, donne magre con i capezzoli che spingono contro la camicetta — una donna che avesse portato una cosa del genere quando io sono andato dentro l'avrebbero arrestata e condannata per infermità mentale — donne di ogni forma e dimensioni. Mi trovai ad andare in giro con una mezza erezione praticamente tutto il tempo, e a imprecare contro di me per essere diventato un vecchio porco.
Andare al bagno, questa era un'altra cosa. Quando dovevo andarci (e il bisogno arrivava come sempre all'ora e venticinque), dovevo soffocare l'impulso quasi invincibile di chiedere il permesso al boss. Sapere che c'era qualcosa che potevo semplicemente andare a fare, in questo troppo vivace mondo esterno, era una cosa; adattare il mio io profondo a questa informazione, dopo tutti quegli anni di domande di permesso alla guardia più vicina altrimenti ti trovavi con due giorni in isolamento per la trascuratezza... era una cosa completamente diversa.
Al boss non piacevo. Era uno giovane, ventisei o ventisette anni, e vedevo benissimo che lo disgustavo, come il vecchio cane servile e piagnucoloso che ti striscia ai piedi sulla pancia per farsi accarezzare disgusta un uomo. Cristo, disgustavo anche me. Ma... non riuscivo a fare diversamente. Avrei voluto dirgli: Questo è quello che ti fa una vita intera in prigione, giovanotto. Trasforma chiunque sia in una posizione di autorità in un padrone, e te nel cane di ogni padrone. Forse lo sai che sei diventato un cane, ma dato che tutti quelli che hanno la divisa grigia sono anche loro dei cani, questo là non sembra avere troppa importanza. Fuori sì. Ma non potevo dirglielo, a un giovanotto come lui. Non avrebbe mai capito. Né lo avrebbe capito il mio poliziotto di controllo, un grosso ex marinaio con una grande barba rossa e una scorta di barzellette sui polacchi. Mi vedeva circa cinque minuti alla settimana. «Ancora fuori, eh, Red?» mi chiedeva quando aveva finito le barzellette. Io dicevo già; e fino alla settimana dopo eravamo a posto.
Musica alla radio. Quando andai dentro, le grandi orchestre facevano una musica che era come una nuvola. Oggi ogni canzone è come una chiavata.
Tante macchine. All'inizio mi pareva di tenere la vita coi denti ogni volta che attraversavo la strada.
E altro ancora — tutto era strano e spaventoso — ma credo che abbiate afferrato l'idea, o almeno un pezzetto. Cominciai a pensare di fare qualcosa per tornare dentro. Quando sei fuori sulla parola, basta una cosa qualsiasi. Mi vergogno a dirlo, ma cominciai a pensare di rubare un po' di soldi o di portar via della roba dal Foodway, una cosa qualsiasi, per poter tornare dentro dove c'è calma e sai tutto quello che succederà nel corso della giornata.
Se non avessi conosciuto Andy probabilmente l'avrei fatto. Ma continuavo a pensare a lui, che ha passato tutti quegli anni a intagliare pazientemente il cemento col suo martellino per essere libero. Pensavo a questo, e questo mi faceva vergognare, e lasciavo cadere l'idea. Oh, potreste dire, lui aveva più ragioni di me per essere libero — aveva una nuova identità e un mucchio di quattrini. Ma non è del tutto vero, lo sapete. Perché lui non sapeva per certo che la nuova identità c'era ancora, e senza la nuova identità i quattrini sarebbero stati irraggiungibili per sempre. No, quello che cercava era semplicemente di essere libero, e se io avessi dato un calcio a quello che avevo, sarebbe stato come sputare in faccia a tutto quello per cui lui aveva lavorato così duro.
E così quello che cominciai a fare nel tempo libero fu fare l'autostop fino alla cittadina di Buxton. Questo era all'inizio di aprile del 1977, la neve cominciava a sciogliersi dai campi, l'aria iniziava a intiepidirsi, le squadre di baseball arrivavano su al nord per iniziare un nuovo campionato dell'unico gioco che sono sicuro che Dio approva. Quando facevo queste gite, mi portavo in tasca una bussola Silva.
C'è un grande campo da fieno a Buxton, aveva detto Andy, e all'estremità nord di questo campo c'è un muro di pietre, uscito pari pari da una poesia di Robert Frost. E a un certo punto alla base del muro c'è una pietra che non ha niente a che fare con un campo da fieno del Maine.
Impresa da pazzi, dite voi? Quanti campi così ci saranno in una piccola cittadina rurale come Buxton? Cinquanta? Cento? Parlando per esperienza personale, direi ancora di più, se aggiungete i campi oggi coltivati che quando Andy andò dentro potevano essere distese d'erba. E anche se avessi trovato quello giusto, avrei potuto non accorgermene neppure. Perché quella pietra di vetro vulcanico avrebbe potuto sfuggirmi o, più probabilmente, Andy poteva essersela messa in tasca e portata dietro.
Per cui, sono d'accordo con voi. Impresa da pazzi, senza nessun dubbio. Peggio, pericolosa per un uomo in libertà condizionata, perché alcuni di quei campi erano chiaramente segnati col cartello VIETATO L'ACCESSO. E, come ho detto, sono più che felici di risbattervi dentro se appena uscite dalla linea. Impresa da pazzi... ma anche scavare una parete di cemento per ventisette anni. E quando non siete più quello che può procurare la roba ma solo un vecchio ragazzo della spesa, è bello avere un hobby che ti distrae la mente dalla tua nuova vita. Il mio hobby era cercare la pietra di Andy.
E così facevo l'autostop fino a Buxton e camminavo per le strade. Ascoltavo gli uccelli, i fruscii del disgelo primaverile nei canali, esaminavo le bottiglie che la neve sciogliendosi lasciava scoperte — tutte inutilmente a perdere, devo dire, purtroppo; il mondo sembra essere diventato spaventosamente scialacquone da quando io sono andato dentro — e tenevo d'occhio i campi.
Molti potevo escluderli subito. Niente muri di pietra. Altri avevano muri di pietra, ma la mia bussola mi diceva che erano esposti nella direzione sbagliata. Esaminavo lo stesso anche quelli sbagliati. Era una cosa rassicurante, e in queste mie gite mi sentivo davvero libero, in pace. Un vecchio cane camminò insieme a me un sabato. E un giorno vidi un cervo, smagrito dall'inverno.
Poi arrivò il ventitré aprile, un giorno che non dimenticherò mai neppure se vivessi altri cinquantotto anni. Era un tiepido pomeriggio di sabato, e stavo attraversando quella che un ragazzino che pescava da un ponte mi disse che si chiamava l'Old Smith Road. Mi ero portato il pranzo in un sacchetto del Foodway, e lo avevo mangiato seduto su una roccia accanto alla strada. Quando ebbi finito sotterrai accuratamente i resti, come mi aveva insegnato il mio papà prima di morire, quando ero un ranocchio non più grande del pescatore che mi aveva insegnato il nome della strada.
Verso le due arrivai a un grande campo sulla mia sinistra. In fondo c'era un muro di pietre, che correva grosso modo verso nordest. Ci arrivai, affondando nel terreno umido, e cominciai a camminarci rasente. Uno scoiattolo mi lanciò un'occhiata severa da una quercia.
A tre quarti del cammino, vidi la pietra. Senza possibilità di errore. Vetro nero liscio come seta. Una pietra che non aveva niente a che fare con un campo da fieno del Maine. Rimasi a lungo a guardarla soltanto, sentendo che stavo per mettermi a piangere, per qualche motivo. Lo scoiattolo mi aveva seguito, e squittiva a tutto spiano. Il cuore mi batteva come impazzito.
Quando mi parve di aver ripreso il controllo, mi avvicinai alla pietra, mi accoccolai accanto a lei — le giunture delle ginocchia spararono come una doppietta — e lasciai che la mia mano la toccasse. Era reale. Non che la raccolsi perché pensavo che potesse esserci qualcosa sotto; avrei potuto benissimo andarmene via senza scoprire cosa c'era. Certamente non avevo avuto l'intenzione di portarla con me, perché pensavo che non stesse a me prenderla — avevo la sensazione che portar via quella pietra dal campo sarebbe stato il peggior genere di furto. No, lo raccolsi solo per sentirla meglio, per sentirne il peso e, immagino, per provarne la realtà sentendo la sua grana di seta contro la mia pelle.
Dovetti guardare a lungo quello che c'era sotto. I miei occhi vedevano, ma ci volle un po' perché la mente li raggiungesse. Era una busta, accuratamente avvolta in un sacchetto di plastica per proteggerla dall'umidità. Sopra c'era scritto il mio nome con la chiara grafia di Andy.
Presi la busta e lasciai la pietra dove l'aveva lasciata Andy, e l'amico di Andy prima di lui.

Caro Red,
Se stai leggendo questo, allora sei fuori. In un modo o nell'altro sei fuori. E se sei arrivato fin qui potresti aver voglia di andare un po' più in là. Forse ti ricordi il nome della città, no? Mi servirebbe proprio un uomo in gamba per aiutarmi a far andare il mio progetto.
Nel frattempo, bevi alla mia salute — e pensaci su. Io continuerò a tenerti d'occhio. Ricordati che la speranza è una cosa buona, Red, forse la migliore delle cose, e le cose buone non muoiono mai. Continuerò a sperare che questa lettera ti trovi, e ti trovi bene.
Il tuo amico,
Peter Stevens

La lettera non la lessi nel campo. Mi aveva preso una specie di terrore, il bisogno di allontanarmi prima che mi vedessero.
Tornai nella mia camera e la lessi lì, con l'odore delle cene dei vecchi che saliva su per la tromba delle scale — Beefaroni, Rice-a-roni, Noodle Roni.
Potete star sicuri che qualunque cosa i vecchi in America, quelli a reddito fisso, stanno mangiando stasera, quasi certamente finisce in roni.
Aprii la busta e lessi la lettera e poi appoggiai la testa sulle braccia e piansi. Con la lettera c'erano venti biglietti nuovi da cinquanta dollari.

Ed eccomi qui al Brewster Hotel, tecnicamente ancora un fuggiasco dalla giustizia — violazione della parola è il mio reato; nessuno alzerà un blocco stradale per prendere un criminale ricercato con questa accusa, immagino — a chiedermi cosa devo fare.
Ho questo manoscritto. Ho un piccolo bagaglio, grande quanto la valigetta di un dottore, che contiene tutto quello che posseggo. Ho diciannove pezzi da cinquanta, quattro da dieci, uno da cinque, tre da uno e spiccioli vari. Uno di quelli da cinquanta l'ho cambiato per comprare questo blocco di carta e un pacchetto di sigarette.
Chiedendomi cosa devo fare.
Ma non è una vera e propria domanda. La questione finisce sempre davanti a una scelta a due uscite. Darsi da fare a vivere o darsi da fare a morire.
Prima di tutto rimetterò questo manoscritto nella borsa. Poi la chiudo, prendo il cappotto, vado di sotto e pago il conto di questo cimiciaio. Poi faccio una passeggiata fino in centro, entro in un bar e metto quel biglietto da cinque dollari davanti al barista e gli chiedo di portarmi due Jack Daniel's lisci — uno per me e uno per Andy Dufresne. A parte una o due birre, saranno i primi drink che avrò bevuto da uomo libero dal 1938. Poi lascerò al cameriere un dollaro di mancia e lo ringrazierò cordialmente. Lascerò il bar e mi incamminerò per Spring Street fino al capolinea dei Greyhound e comprerò un biglietto per El Paso via New York City. Quando arriverò a El Paso, comprerò un biglietto per McNary. E quando sarò a McNary, credo che avrò l'occasione di vedere se un vecchio pellaccia come me è ancora in grado di trovare il modo di passare il confine ed entrare in Messico.
Certo che me lo ricordo il nome. Zihuatanejo. Un nome così è troppo bello per dimenticarselo.
Mi accorgo di essere eccitato, così eccitato che riesco a stento a tenere la matita nella mia mano tremante. Credo che sia l'eccitazione che solo un uomo libero può provare, un uomo libero che inizia un lungo viaggio la cui conclusione è incerta.
Spero che Andy sia laggiù.
Spero di farcela a passare il confine.
Spero di vedere il mio amico e stringergli la mano.
Spero che il Pacifico sia azzurro come nei miei sogni.  Spero.