lunedì 2 dicembre 2019


IL LABIRINTO DEL CASTELLO
Gabriella  Alù

Simbolismo e istituzione ne "Il Castello" di Franz Kafka

Non ci sarà sortita: Tu sei dentro e la fortezza è pari all'universo dove non è diritto nè rovescio nè muro esterno nè segreto centro.
Non sperare che l'aspro tuo cammino che ciecamente si biforca in due, abbia fine. É di ferro il tuo destino, così il giudice: Non attender l'urto del toro umano la cui strana forma plurima colma d'orrore il groviglio dell'infinita pietra che s'intreccia.
Non esiste. Non aspettarti nulla.
Neanche nel nero annottare la fiera.
J. L. BORGES
(Taduzione di Francesco Tentori Montalto)



INDICE
Premessa
Sul ponte • La lotta
Il castello
Uomini e Dei
L'aquila e il lombrico
Lo straniero
Il castello e il labirinto • Individuo, Organizzazione, Istituzione
L'agrimensore K.
L'incompiuto
Riferimenti bibliografici
Appendice



PREMESSA
  “II Castello” narra la vicenda di un tizio, K., che vuole ottenere un impiego in una pubblica amministrazione e non vi riesce.
  Da questa storia banale, Kafka fa nascere un romanzo di grande spessore sul problema del rapporto tra individuo, organizzazione ed istituzione. Un altro scrittore praghese, Milan Kundera, nel suo saggio sulla kafkianità scrive: “Kafka è riuscito in un'impresa che prima di lui sembrava profondamente antipoetica”  e cita una lettera a Milena in cui Kafka scrive: “L'ufficio non è un'istituzione stupida; secondo me appartiene al mondo del fantastico piuttosto che a quello della stupidità”.
  Ciò che segue è il tentativo di accostare il testo de “II Castello” nell'ottica dell'esplorazione delle metafore e dei simboli che fanno dello stesso “Castello” una grande metafora del rapporto con l'Istituzione dando voce ad alcune suggestioni ed evocazioni che dal testo possono essere suscitate in rapporto alla tematica del simbolismo e l'istituzione.
  Nel farlo, sono ben consapevole della “monocularità” di questa modalità di lettura e del fatto che ogni tentativo di razionalizzare un testo poetico ed abbagliante come “II Castello” può far correre il rischio di porsi nelle fila di quegli “uccisori della osservazione dei fatti” cui Kafka pensava con orrore quando, in un passo dei “Diari” cerca di definire l'arte dello scrivere come qualcosa di radicalmente opposto al carattere distruttore della mera osservazione razionale. Ma una caratteristica delle opere veramente grandi è proprio la molteplicità, la ricchezza dei livelli di lettura e di riflessioni che possono suscitare e, a proposito de “II Castello”, Camus ha scritto che “il destino e la grandezza di quest'opera consiste nell'offrire tutto e non confermare nulla”

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SUL PONTE
  “Era tarda sera quando K. arrivò. Il paese era affondato nella neve. La collina non si vedeva, nebbia e tenebre la nascondevano, e non il più fioco raggio di luce indicava il grande Castello. K. si fermò a lungo sul ponte di legno che conduceva dalla strada maestra al villaggio, e guardò su nel vuoto apparente.”
  II ponte permette a K. di passare da una riva all'altra, ma nello stesso tempo lo costringe ad abbandonare un luogo per un altro. Il ponte che egli percorre è di legno, di un materiale, cioè, tra i più precari, tra i più instabili.
  Il ponte rappresenta quindi un pericolo da superare, ma anche - se egli vuole raggiungere l'altra sponda - la necessità di superarlo. Il ponte lo pone su una strada stretta, in cui egli incontra l'obbligo di scegliere.
  La sua scelta lo può dannare o salvare.
  K. si ferma a lungo sul ponte, prima di lasciare la “strada maestra” (sulla quale - come egli stesso dirà a Schwarzer - si era comunque perduto più volte), prima di terminare il viaggio ed intraprendere la permanenza al villaggio.
  Questa permanenza sarà, essa stessa, un vero e proprio “viaggio iniziatico” che si snoderà nell'arco di sei giorni, anche se la percezione del tempo da parte di K. appare strettamente legata ai suoi stati d'animo .   Il ponte appare come una passerella gettata tra due mondi: quello da cui proviene K. e quello del villaggio e del Castello.
  Come “America”, “II Castello” si fonda sul passaggio da un vecchio mondo ad un mondo nuovo ed ignoto nel quale i protagonisti vorrebbero integrarsi senza però riuscirvi.
  K. e Karl Rossmann lasciano entrambi la “strada maestra” passando per l'acqua, l'acqua che purifica e che cancella, che “fa morire” il vecchio facendo sorgere ad una nuova vita; l'acqua della ri-generazione.   Entrambi i romanzi si aprono con una ri-nascita ma, mentre di Karl Rossmann sappiamo perché abbia lasciato il Vecchio Mondo dell'Europa, di K. non sappiamo praticamente nulla, se non che, da qualche parte, lontano ma non si sa dove, ha lasciato una moglie ed un figlio.
  È una sorta di auto-generazione.
  Per accedere al mondo nuovo, K. percorre un ponte sospeso sull'acqua ed in mezzo alla neve, Karl Rossmann varca l'oceano sotto l'acqua, nel ventre di una nave ed accanto al fuoco della sala macchine.
  Anche Karl Rossmann però, all'arrivo nel porto di New York, prima di scendere dalla nave e mettere i piedi sul suolo del Nuovo Mondo si sofferma sul ponte a guardare ciò che gli si presenta dinanzi: l'importanza del passaggio, della ri-nascita è sottolineata da questo sostare nello spazio intermedio che separa il vecchio dal nuovo.
  Sono già presenti, nell' incipit del “Castello”, tutti i simboli notturni che ritroveremo poi lungo tutto il percorso narrativo: il buio, l'impossibilità di discernere...la nebbia e le tenebre... .
  Tutti i capitoli in cui il romanzo è strutturato si aprono con la descrizione di un mondo avvolto nelle tenebre, di interni immersi nel buio, di "notti tenebrose"...
  Viene evocata la salita (la collina) ma anche la caduta (il paese affonda sotto il peso della neve); la vetta e l'abisso.
  K. può oltrepassare il ponte “in orizzontale” che lo separa dal villaggio, ma non potrà mai nemmeno trovare il ponte “in verticale” che lo separa dal Castello che si innalza sulla collina.
  Sugli assi dell' ASCESA e della DISCESA, della SOMMITÀ (della vetta) e della PROFONDITÀ (dell'abisso) si declina tutto “II Castello”.
  “Il Castello” è articolato sulla dimensione verticale, come “America” lo è su quella orizzontale.

LA LOTTA

  Dal momento in cui K. giunge al villaggio, noi ci troviamo di fronte alla “descrizione di una battaglia”.
  Già dall'inizio, con il colloquio tra K. e Schwarzer, il rapporto con il Castello si connota esplicitamente come una lotta.
  Tendendo l'orecchio alla conversazione telefonica che Schwarzer ha con il Castello, ed avendo appreso che "il Castello dunque lo aveva nominato “agrimensore” K. valuta la cosa soprattutto dal punto di vista della positività/negatività del fatto rispetto ai rapporti delle “forze in campo”: egli utilizza una metafora che appartiene al lessico del combattente e dello stratega.
  Questo avviene poi lungo tutto il romanzo, e l'interlocutore sempre invisibile, o i segni che da questi giungono a K. sono letti sempre e comunque come provenienti da un nemico .
  La prima lettera di Klamm consegnatagli da Barnabas, e che pure rassicura K. - almeno momentaneamente - sul suo essere “assunto al servizio del Signor Conte” viene letta come un segno del fatto che, “se la lotta si doveva impegnare, la temerarietà di incominciare l'aveva avuta K.”. Certo, gli ostacoli da superare sono tanti , e la potenza del nemico richiederebbe una strategia improntata ad una cautela che K. si rimprovera di non mettere in atto8 anche se, in un primo momento, poiché gli sembra di essere “lui l'attaccante...” pensa di poter essere in una posizione di vantaggio.   Ma per cosa lotta K.? Qual è il suo “grande scopo”?
  Abbiamo visto che l'arrivo di K. al villaggio si presenta come una rinascita, una autogenerazione.
  Abbiamo assistito al nascere di un “individuo” che viene al mondo come Atena sorge, armata di tutto punto, dalla testa di Zeus, o come Venere dalle onde del mare.
  Entrando in rapporto con la gente del villaggio e con l'organizzazione, con l'istituzione-Castello, K. entra in un gioco sociale in cui egli lotta per il riconoscimento.
  Soltanto se K. verrà riconosciuto dall'Altro potrà avere coscienza di sè, poiché noi non esistiamo, e non vi è identità personale se non siamo riconosciuti dagli altri.
  Sostanzialmente, il rapporto con il villaggio e con l'istituzione-Castello pone K. al centro del problema dell'identità, ed il suo desiderio è innanzitutto desiderio del desiderio dell'altro.
  Ma egli non cerca di conquistare la gente, il loro calore: dice di voler essere come gli altri abitanti del villaggio, ma il suo comportamento, in realtà, è arrogante ed iroso, come quando scaccia i contadini che “lo disturbano” con la loro indiscrezione... Vuole restare da chi palesemente non lo vuole... se ne vuole andar via da chi gli offre ospitalità; è ingrato verso chi, in qualche modo, gli offre aiuto e cerca le relazioni con la gente del villaggio strumentalmente, solo per giungere al Castello.
  Trova il cocchiere con il quale s'era un po' lasciato andare (...) un superbioso e la famiglia di Barnabas “non lo interessava affatto”.
  La prima lettera di Klamm viene da K. interpretata come una scelta che gli viene offerta: “essere un operaio di paese, unito al Castello soltanto da relazioni onorifiche ma solo apparenti oppure non serbare che l'apparenza di operaio, e in realtà lasciar regolare il suo lavoro dalle istruzioni che Barnabas gli avrebbe recato di quando in quando”.
  Questo significherebbe appartenere al Castello e solo apparentemente al villaggio.
  Ma “appartenere” al villaggio, essere un operaio vorrebbe dire avere a che fare con “servizio, superiori, lavoro, salario, conti, operai”, e questo significherebbe essere uomo tra gli uomini.
  Tra un'appartenenza al villaggio con relazioni solo fittizie con il Castello oppure una appartenenza solo apparente con il villaggio ma un legame reale con il Castello K. non esita: egli non vuole diventare “uomo tra gli uomini”.
  K. vuole essere accettato non da una comunità ma da un'Istituzione.



IL CASTELLO
  È ovunque e in nessun luogo Quando K. arriva, di sera, non gli appare che “un vuoto”, ma il Castello viene comunque definito “grande”, anche se egli non può vederlo; alla luce del giorno poi, ma da lontano, K trova che “corrispondeva all'aspettazione”: “una vasta costruzione, composta da pochi edifici a due piani e molte case basse serrate l'una contro l'altra”.
  Avvicinandosi, rimane però deluso: in fondo, il Castello non è che una “misera cittadina”, una “accozzaglia di casupole” sulla. quale K. non vede stagliarsi che una torre attorno alla quale svolazza uno stormo di cornacchie:   Questa torre ha “qualcosa di allucinante (....) e si sarebbe detto che un tetro abitatore il quale, secondo giustizia, avrebbe dovuto restarsene confinato nella stanza più remota della casa, avesse sfondato il tetto e si fosse levato su per mostrarsi al mondo”. Una torre: una sorta di porta del (o per il) cielo, un tramite al soggiorno degli Dei.
  Una sorta di ponte, quindi, (un altro!) ma questa volta verticale, che si protende verso il cielo da un abisso in cui qualcuno si trova confinato “secondo giustizia”.
  Non viene infatti messo in dubbio che, se c'è una pena - che il tetro abitatore della torre deve scontare -, questa sia la giusta conseguenza di una colpa che, ancorché sconosciuta, è stata - poiché viene punita - sicuramente commessa. Questo qualcuno, dalla “stanza più remota della casa” cerca di di-mostrare al mondo la propria esistenza sfondandone addirittura il tetto.
  È quello che cercherà di fare K. nei confronti del “mondo del Castello”.
  Senza riuscirvi.
  A K., la torre fa venire in mente il campanile del suo paese .
  Due simboli ascensionali, quindi: ma la torre gli evoca tetraggine, pesantezza terrena, espiazione di una colpa sconosciuta, il disperato tentativo di sfondare il tetto (della condanna??); il secondo, il campanile, gli evoca “più' alta" meta” ed un'espressione più luminosa che l'opaco lavoro quotidiano.
  Ma, d'altra parte, il Castello “Non piace a nessun forestiero” gli dirà poco più avanti il maestro.
  Come si sale al Castello?   K. non riesce a scoprirlo.
  La strada principale del paese non conduce ad esso, ma soltanto nelle vicinanze... non si allontana dal Castello.... ma neppure gli si avvicina10 e comunque, anche se K. riuscisse ad individuare il percorso, sarebbe del tutto inutile, perché “Nessun forestiero può entrare al Castello senza permesso”.
  Sembra poi però che nessuno sappia di preciso dove e a chi questo permesso possa essere richiesto: “Non lo so, forse dal portinaio” risponde uno degli aiutanti a K. che pone la domanda
  II Castello ha molti ingressi, ma non si sa secondo quali regole si entri e si esca dall'uno o dall'altro.
  Anche le strade sono parecchie; a certe ore (ma mai le stesse) tutti percorrono una certa strada, mezz'ora dopo c'è folla sull'altra... tutte le strade, è vero, in prossimità del villaggio convergono, ma K., l'abbiamo visto, non è nemmeno riuscito ad arrivare all'uscita del villaggio...
  Luoghi di lavoro per i funzionari sono anche l’“Albergo dei signori” e le carrozze.
  I confini all'interno e tra l'interno e l’esterno, sono indefiniti; non ci sono barriere e limiti precisi tra un ufficio e l'altro, ma non si è mai sicuri in quali di essi si può entrare e quali sono quelli cui è interdetto l'accesso.
  La dialettica tra il centro e la periferia dell'istituzione è nebulosa perché non si è realmente mai sicuri di quale sia il centro e quale la periferia: “Gli uffici (...) sono quello che vi è di più importante...”, “...ma gli uffici, sono veramente il Castello?” si chiede Olga. Ha mille occhi
  I “grandissimi occhi” di Barnabas, lo “sguardo serio, diritto, impassibile, forse anche un pò ottuso” di Amalia, gli “occhi malinconici” di Frieda; lo “sguardo penetrante” di Klamm, gli “occhi sgranati” dell'ostessa; gli “occhi piccoli, scrutatori o assonnati” dell'oste dell’“Albergo dei Signori”; lo “sguardo freddo e penetrante” di Sortini
  Tutti questi occhi servono a spiare, controllare “Tutto è servizio di controllo” e “io non la perdo di vista”, scrive Klamm nelle sue due lettere.
  Ne “II Castello” si è continuamente osservati, e si corre sempre il rischio di essere degli “intrusi”.
In realtà, tutti spiano e sono a loro volta spiati, guardano dai buchi delle serrature, origliano attraverso i tramezzi, scrutano dai vetri delle finestre... tutti sono sotto gli occhi di tutti.
  Gli aiutanti, con i loro occhi “innocenti e scrutatori” sono gli occhi di Klamm?   Così pensa Frieda.... Nel mondo del Castello non esiste intimità, ne vita privata.
  È maschio.
  Le donne sono pianeti che ruotano attorno al sole del Castello e dei suoi funzionario e se brillano è per la loro luce riflessa. Quando la stella non le illumina più, “si spengono”, “sfioriscono”.
  È un motore immobile II Castello sembra non avere vita , eppure la sua influenza risulta determinante anche per i destini privati; questo Castello “parla”: la sua “voce” sono i sussurri, i bisbigli di chi risponde al telefono...
“Dal ricevitore uscì un sussurro che K. non aveva mai sentito telefonando.
  Pareva che il brusio di innumerevoli voci infantili - ma non era un brusio, era un canto di voci lontane, lontanissime - che questo brusio si fondesse in modo inesplicabile, e formasse una voce sola, acuta ma forte, che colpiva il timpano come chiedendo di penetrare assai più profondamente che nel misero organo dell'udito...”.
  Nonostante tutto, però, “Quel brusio e quel canto sono l'unica cosa precisa e degna di fede che i nostri telefoni ci trasmettono, tutto il resto è un inganno...” gli spiegherà poi il sindaco, poiché non si sa mai se, telefonando al Castello, qualcuno risponderà e chi, eventualmente, sarà all'altro capo del filo.
  Il Castello “parla” anche con i “fruscii delle carte” accatastate nella stanza del sindaco o, nell'ufficio del funzionario Sordini, con “il fragore quasi ininterrotto delle pile di carte che crollano” . Il Castello è un... castello di carte.
  Si scrive molto . Le carte, però, quando servono non si trovano mai e, in ogni caso, non è affatto sicuro che servano. Vengono redatti innumerevoli verbali, ma non è la quantità di lavoro che determina l'importanza del caso e, d'altra parte, sono proprio i casi ordinari, quelli senza errori, che richiedono maggior lavoro.
  Dapprima, sembra a K. che il Castello funzioni perfettamente15; poi, a poco a poco il funzionamento dell'amministrazione gli appare vergognoso. Ma “Qui non si fa nulla di inconsiderato...” gli dice il Sindaco, e l'organizzazione non sbaglia mai. È infallibile.
  “Uno dei principi che regolano il lavoro dell'amministrazione è che non si deve mai contemplare la possibilità di uno sbaglio. Questo principio è giustificato dalla perfetta organizzazione dell'insieme, ed è necessario per ottenere la massima rapidità nel disbrigo delle pratiche...”
  Certo, esiste un sistema di controllo, anzi: “Tutto è servizio di controllo.
  Certo non è fatto per scoprire errori nel senso grossolano della parola perchè errori non se ne commettono, e anche se ciò per eccezione accade
(....) chi può dire alla fin fine che sia un errore?”
  È per questo che il sindaco dice di non aver osato “sostenere nè credere che nell' ufficio di Sordini fosse stato commesso un errore” a proposito di K., così come è sempre per la stessa ragione che Sordini non ha fatto la cosa apparentemente più ipotizzabile, cioè di informarsi presso gli altri uffici “per chiarire la realtà dei fatti”.
  A Sordini, dunque, non era lecito informarsi presso altre sezioni e, d'altronde, queste non avrebbero neppure risposto perchè si sarebbero accorte immediatamente che si trattava di ricercare una possibilità di errore.   È grande L'amministrazione è vasta. Può così accadere talvolta che “una sezione ordini questo ed un'altra sezione quello, l'una all'insaputa dell'altra...” certo perchè “L'amministrazione è lassù, nella sua impenetrabile grandezza”, come K. dice ad Olga. È la Legge.
  L'amministrazione del Castello ha norme rigide - anche se non conosciute -, i richiami ai regolamenti ed ai verbali sono continui: ad essi non si può sfuggire:
  “Non nego che sia possibile qualche volta ottenere cose contrarie al regolamento e alla tradizione: io non ho mai visto nulla di simile, ma dicono che casi del genere si siano dati; può essere...” dice l'ostessa a K.
  Il riferimento è qui al regolamento come vincolo giuridico ed alla tradizione come sistema di norme culturali consolidato, che affonda le proprie radici in un passato che si intuisce remoto, in una storia che sa di leggenda.
  La Legge è contenuta in grandi libri che, aperti su un enorme, unico leggio, i funzionari compulsano spostandosi dall'uno all'altro, Legge che dettano a degli scrivani seduti su bassi tavolini con un bisbiglio che questi faticano ad udire.
  La Legge è anche contenuta in quei fasci di incartamenti che riempiono le carrozze dei funzionari e che dei fattorini riversano con delle carrette nelle loro stanze all’“Albergo dei Signori”, ma il confine tra la norma giuridica in senso stretto e la norma culturale in senso più ampio, il confine tra il formale e l'informale è anch'esso nebuloso.
  Il colloquio informale tra K. ed il sindaco - svoltosi a casa di quest'ultimo - viene verbalizzato (e quindi formalizzato) subito dopo dal maestro... che però non vi aveva assistito.
  Il colloquio, in questo modo, si rivela gravido di conseguenze - se non addirittura determinante - per i rapporti di K. con il Castello, mentre il verbale “ufficiale” (“l'unico vero atto ufficiale che egli (K.) possa avere con Klamm”) che dovrebbe stilare Momus, il funzionario alle cui domande K. si rifiuta di rispondere, si rivela un atto l'importanza del quale sembra solo apparente, perchè "Klamm non legge mai nessun verbale".
  È Parola e Verbo
  La lettera di Klamm è si, privata (dice il Sindaco), ma proprio per questo più importante che se fosse ufficiale.
  “Come potrebbe essere senza importanza l'informazione data da un funzionario del Castello? (...) tutte quelle dichiarazioni non hanno una importanza ufficiale (....) ma in compenso la loro importanza ufficiosa come senso di amicizia o di ostilità è grandissima, molto più grande, in generale, di qualsiasi testimonianza ufficiale.
  Comunque, sarà bene "non prendere alla lettera tutto quel che dice il Castello...” “Quando una questione è da molto tempo sul tappeto, può accadere, prima del termine delle deliberazioni, che in un punto imprevisto e più tardi indeterminabile si abbia una improvvisa e fulminea soluzione, la quale liquida la faccenda in modo per lo più giusto e tuttavia arbitrario (....)
Quelle soluzioni sono per lo più ottime.”
  L'unico inconveniente è che vengono comunicate troppo tardi e quindi si continua a discutere appassionatamente questioni che sono state già regolate da un pezzo... Come il bagliore di certe stelle, che noi non vedremo mai, perché quando avrà percorso tutti gli anni luce che occorrono per raggiungerci, noi non saremo più di questo mondo...



UOMINI E DEI
  II villaggio appartiene al Castello del “Signor Conte Westwest”, dice Schwarzer a K. quando questi è appena arrivato al villaggio.
  È la prima e l'unica volta in cui ne sentiamo pronunziare il nome; di lui sembra non si possa nemmeno parlare. “Come potrei conoscerlo? Disse il maestro, piano e aggiunse forte “Abbia riguardo alla presenza di bambini innocenti”. Del Conte, infatti, non si parlerà più per tutto il romanzo. Di lui rimane l'ambiguità del nome, che se traduciamo Westwest con “Occidenteoccidente”, non ci si può non ricordare dell' Hotel “Occidental” di “America”; qui, però, sembra più suggestiva l'accezione “tramonto-tramonto”, che richiama ad una dimensione crepuscolare. Un crepuscolo di Dei stanchi, sornioni ed assonnati, che hanno la meglio sugli uomini solo perchè questi soccombono, come K. e prima di lui i genitori di Olga, Amalia e Barnabas, alla stanchezza ed al logoramento determinato dalla vana attesa di un perdono (che forse l’“autorità” non può dare) o di una esplicita condanna (che forse essa non vuol dare). Chi è il personale del Castello? Come lo si riconosce? Come si entra al servizio del Castello? Ci sono i funzionari, che però non portano una divisa, ma abiti come tutti gli altri, anche se più belli; ci sono gli inservienti di grado superiore (gli “alti” inservienti, prescelti appunto per la loro statura), che lavorano meno dei funzionari e che, anch'essi, non portano una divisa. Gli inservienti subalterni, i domestici del Castello, li si può riconoscere dai loro abiti, e "la cosa più' sorprendente è che quegli abiti sono sempre attillatissimi, un contadino o un artigiano non potrebbe vestire cosi; sono abiti quindi poco adatti al lavoro... Gli alti inservienti non scendono mai in paese, ma i domestici li si può vedere all’“Albergo dei Signori”. Ci sono poi i Segretari, gli scrivani, i messaggeri, di cui sappiamo che “per allenarsi saltano”   e che dovrebbero, certo, avere non una livrea, perché al Castello non ce ne sono, ma un abito speciale. A Barnabas è stato promesso da tanto tempo, ma “le cose di questo genere procedono molto lentamente, al Castello”, e colui che aspetta vive in uno stato di perpetua incertezza, perché non sa mai se si è ancora in prova, o se l'assunzione definitiva non avrà mai luogo... Dell'identità, della esatta posizione organizzativa e delle attribuzioni di competenza dei funzionari e degli altri dipendenti del Castello non si è mai sicuri, anche perché parecchi di essi fungono spesso vicendevolmente da schermo (Sortini, il funzionario respinto da Amalia “a quanto dicono si occupa della protezione contro gli incendi, ma forse era lì in rappresentanza di un altro collega...”). Un sottoportinaio può rivelarsi potente quanto un funzionario... I funzionari hanno una cultura profonda ma circoscritta: “se si resta nel loro campo basta una parola perchè essi colgano subito il nesso logico dei concetti; ma gli affari di un'altra sezione glieli puoi spiegare per ore ed ore, magari approveranno con cortesi cenni del capo ma senza capirne un'acca”. C'è, apprendiamo da Bürgel, un “regolamento sulla competenza” secondo il quale alcuni funzionari hanno una competenza principale, e poi tanti che hanno competenze particolari... ma non è detto che un caso sia sempre dibattuto da chi è competente, perché l'affidamento avviene “a seconda delle specifiche (e sconosciute) esigenze del momento All’“Albergo dei Signori”, dove alloggiano quando scendono al villaggio, i funzionari svolgono i loro affari nella sala di mescita o nelle loro stanze, durante i pasti o a letto prima di addormentarsi o la mattina presto quando sono troppo stanchi per alzarsi ed hanno ancora voglia di crogiolarsi tra le coperte. Non c'è differenza tra tempo “ordinario” (di vita) e tempo di lavoro: coloro che dipendono dal Castello lavorano giorno e notte. I funzionari sono sempre stanchi per la mole di lavoro che grava su di essi, ed è per questo che in pubblico sembrano sempre assenti; trovano opprimenti i doveri di rappresentanza, il doversi mischiare alla gente comune scendendo al villaggio e, appena possibile, fanno ritorno al Castello.
  Eppure, il maestro dice a K. che “tra i contadini ed il Castello non c'è gran differenza”. Forse è preferibile cercare di entrare al servizio del Castello per vie traverse, perché l'ammissione ufficiale è una trafila difficile e lunghissima; certo, in questo modo l'impiego non è formalizzato e non si è ammessi che per metà, non si hanno diritti nè doveri, ma si possono cogliere le buone occasioni ed approfittarne: se c'è un lavoro da fare e nessun impiegato è presente, si accorre ed allora si diventa quello che non si era appena un minuto prima: un impiegato del Castello.
  Queste occasioni però si presentano a volte subito, a volte si deve aspettare molto, ed inoltre, chi viene assunto così non può' più essere assunto ufficialmente. D'altra parte, la selezione ufficiale è molto onerosa ed a volte si aspetta il verdetto per anni e, quando si è già vecchi, si apprende il rifiuto del Castello e si comprende che la vita, allora, è stata inutile...
  Dei funzionari, quelli che vengono menzionati sono Klamm, di cui si sa soltanto che è il Capo Sezione dal quale dipenderebbe la causa di K.; l'italiano Sordini, il funzionario famoso per la sua scrupolosità, che (...) sospetta di tutti" e che si è occupato di chiarire la questione della richiesta, da parte del villaggio, dell'assunzione di un agrimensore, e Sortini, il funzionario “dallo sguardo fosco” di cui Amalia respinge sdegnosamente le richieste oscene. Ci sono poi i Segretari: Gerlander, Bürgel.
  Ma, sopra tutti, domina la figura di Klamm.



L'AQUILA E IL LOMBRICO
  Klamm è uno dei funzionari del Castello. Ma è anche il simbolo dell'inaccessibilità e dell'altezza.
  Egli non compare mai in primo piano, ma solo attraverso le parole di altri (Olga, l'ostessa).
  L'ostessa lo paragona ad un'aquila per la sua lontananza, la sua dimora inaccessibile, il suo mutismo costante, il suo sguardo penetrante “che cadeva dall'alto e che non si poteva mai ne dimostrare nè confutare”. K. pensa “ai cerchi indistruttibili, troppo alti perché (egli) dal suo abisso li potesse turbare, che descriveva secondo incomprensibili leggi e che solo per qualche attimo si potevano intravedere”. Le due dimensioni dell'altezza celeste (Klamm) e dell'abisso terrestre (K. viene anche paragonato, dall'ostessa, ad un “lombrico”, lo vede cioè strisciante come un verme) hanno nomi che portano la stessa iniziale... Di Klamm, come del Dio degli Ebrei nell'Antico Testamento, l'ostessa dice: “Non nomini Klamm, dica “lui”, dica come vuole, ma non pronunci il suo nome”. Per l'antica Roma, l'aquila alla quale Klamm viene paragonato rappresentava “il messaggero della volontà che sta in alto”.   Lo stesso Klamm è un messaggero... ma di chi, o di che cosa, esattamente, dato che “Klamm non parla neanche con la gente del paese, mai ha parlato con un abitante del villaggio (...) chi può conoscere le sue intenzioni?...”.
  Anche il suo aspetto fisico è incerto. K. vede Klamm solo una volta, spiando dal buco della serratura all’”Albergo dei Signori”; egli lo può vedere in pieno viso e ne fa una descrizione minuziosa: ma sarà stato veramente Klamm, quello che ha visto, o l'immagine di Klamm che K. ha colto non sarà stata (come gli suggerirà in seguito Olga) che il risultato della disposizione d'animo che sempre influisce sullo spettatore (e quindi, in questo caso, anche di K.) il quale peraltro non può mai vederlo se non per alcuni brevi istanti? Tra gli oggetti - ricordo che l'ostessa conserva di Klamm c'è anche un ritratto, che essa venera. Ma non è il ritratto di Klamm: il dio, o il semidio, non si può rappresentare; è il ritratto del messaggero che, a suo tempo, le annunciò che doveva recarsi presso di lui. Ma se la volontà, le azioni, l'aspetto di Klamm sono tanto indefiniti ed indefinibili da sembrare illusori (ed in ceco, come sottolinea Kundera , Klamm significa appunto "miraggio", "imbroglio") gli effetti della sua esistenza appaiono a K. molto concreti: essere (o essere stata) l'amante di Klamm conferisce del “rango”, Klamm è stato la “causa prima” del matrimonio dell'ostessa e “la causa immediata” della sua malattia perchè già prima del matrimonio il suo cuore era logorato dalla passione infelice". Barnabas si tormenta la notte al pensiero degli ordini di Klamm ed il declino fisico di Frieda, dopo solo pochi giorni di vita in comune con K., viene da questi attribuito al suo allontanamento da Klamm. Klamm, inoltre, dimentica totalmente le persone che non chiama più a sé (...) ma non è soltanto dimenticanza, è molto di più. Perchè della gente che si è dimenticata si può sempre rifare la conoscenza. Ma con Klamm è impossibile. Coloro che egli non fa più chiamare non sono soltanto dimenticati per il passato, ma, letteralmente, anche per l'avvenire. Ecco allora la madre di Hans malata di nostalgia e la passione infelice che dopo vent'anni ancora tormenta l'ostessa.
  In tedesco, Klamm significa “rigido”, “duro”: anche l'etimologia del nome assume un carattere di ambiguità per il preciso significato che esso ha in entrambe le lingue di Kafka: il ceco ed il tedesco.
  D'altra parte, che Kafka “giochi” con i nomi (ho già detto del Conte Westwest, il padrone del Castello) sembra chiaro anche in considerazione del fatto che pure gli altri colleghi di Klamm hanno nomi simbolici, maliziosamente simbolici: Bürgel, che K. incontra per sbaglio nella sua camera all' "Albergo dei signori" viene da “bürgen” = “garantire” ; Erlangen, che convoca K. per trasmettergli l'ordine di lasciare Frieda, viene da “eriangen” = “ottenere”, e che in realtà ottiene che K. lasci Frieda.
  Il nome di Momus, il segretario rurale di Klamm ed incaricato di sottoporre K. al famoso interrogatorio al quale questi si rifiuta di sottostare, viene fatto derivare da quello del dio greco della maldicenza. Tra i funzionar!, la confusione di ruoli, di attribuzioni e di competenze è simbolicamente rappresentata dalla confusione che spesso si fa tra i cognomi, che si distinguono solo per una consonante, di Sordini e Sortini. E che dire di Barnabas, il messaggero travagliato dal dubbio circa il proprio essere effettivamente al servizio del Castello, e su questo incessantemente confortato dalla sorella Olga, il cui nome in ebraico (terza lingua di Kafka...) significa “Figlio del conforto”? K. è sempre più consapevole del potere che Klamm comunque esercita, tanto da sentirsi nei suoi confronti ormai preso da un rapporto che gli fa dire: “Tutte le volte che sento nominare Klamm non posso trattenermi dal pensare a me stesso”.
  Sembra, in certi momenti, che poter avvicinare Klamm informalmente, potergli parlare (anche a costo di non essere nemmeno ascoltato) divenga l'esigenza prioritaria, l'unica condizione perchè K. possa esistere .
  È forse proprio per questo che gli riesce diffìcile esprimere quel che vuole da lui e che gli fa mettere in secondo piano l'importanza, che dovrebbe essere invece prioritaria, di aver di fronte il funzionario che ha il potere di concedergli o negargli la carica ufficiale di agrimensore del Castello. Siamo nel pieno della dinamica hegeliana servo-padrone, del desiderio del desiderio dell'altro. "Dicono che apparteniamo tutti al Castello, che non ci sono distanze", dice Olga, ma è molto chiaro che "in certi casi non è vero affatto": anche qui, i confini sono ambigui, incerti. I funzionari non amano mischiarsi agli uomini del villaggio, ma nel villaggio, il sindaco ed il maestro sono la “longa manus” del Castello; tutti appaiono, per quanto riguarda il Castello, degli “iniziati” di fronte al “forestiero”, al “vagabondo” K. che non sa nulla, non può saper nulla di come vanno le cose
  D'altra parte, che Kafka “giochi” con i nomi (ho già detto del Conte Westwest, il padrone del Castello) sembra chiaro anche in considerazione del fatto che pure gli altri colleghi di Klamm hanno nomi simbolici, maliziosamente simbolici: Bürgel, che K. incontra per sbaglio nella sua camera all'“Albergo dei signori” viene da “bürgen” = “garantire”; Erlangen, che convoca K. per trasmettergli l'ordine di lasciare Frieda, viene da “eriangen” = “ottenere”, e che in realtà ottiene che K. lasci Frieda.
  Il nome di Momus, il segretario rurale di Klamm ed incaricato di sottoporre K. al famoso interrogatorio al quale questi si rifiuta di sottostare, viene fatto derivare da quello del dio greco della maldicenza. Tra i funzionari, la confusione di ruoli, di attribuzioni e di competenze è simbolicamente rappresentata dalla confusione che spesso si fa tra i cognomi, che si distinguono solo per una consonante, di Sordini e Sortini.
  E che dire di Barnabas, il messaggero travagliato dal dubbio circa il proprio essere effettivamente al servizio del Castello, e su questo incessantemente confortato dalla sorella Olga, il cui nome in ebraico (terza lingua di Kafka...) significa “Figlio del conforto”?
  K. è sempre più consapevole del potere che Klamm comunque esercita, tanto da sentirsi nei suoi confronti ormai preso da un rapporto che gli fa dire: “Tutte le volte che sento nominare Klamm non posso trattenermi dal pensare a me stesso”.
  Sembra, in certi momenti, che poter avvicinare Klamm informalmente, potergli parlare (anche a costo di non essere nemmeno ascoltato) divenga l'esigenza prioritaria, l'unica condizione perché K. possa esistere .
  È forse proprio per questo che gli riesce diffìcile esprimere quel che vuole da lui e che gli fa mettere in secondo piano l'importanza, che dovrebbe essere invece prioritaria, di aver di fronte il funzionario che ha il potere di concedergli o negargli la carica ufficiale di agrimensore del Castello.
  Siamo nel pieno della dinamica hegeliana servo-padrone, del desiderio del desiderio dell'altro. “Dicono che apparteniamo tutti al Castello, che non ci sono distanze”, dice Olga, ma è molto chiaro che “in certi casi non è vero affatto”: anche qui, i confini sono ambigui, incerti. I funzionari non amano mischiarsi agli uomini del villaggio, ma nel villaggio, il sindaco ed il maestro sono la “longa manus” del Castello; tutti appaiono, per quanto riguarda il Castello, degli “iniziati” di fronte al “forestiero”, al “vagabondo” K. che non sa nulla, non può saper nulla di come vanno le cose



LO STRANIERO
  Anche le donne sono, in un certo senso, delle “iniziate”, ma ciò che le accomuna tra loro e le differenzia dai personaggi maschili è che, per ciascuna di esse, questa iniziazione è in qualche modo connessa a dei rapporti personali improntati ad una dimensione erotico/affettiva con un funzionario del Castello.
  Gardena non smette di pensare, dopo vent'anni di abbandono, a Klamm di cui è stata l'amante e nonostante questo, o forse proprio per questo, è diventata la “sacerdotessa” della “mistica della distanza di Klamm” e la teorica della sua inaccessibilità. Questo, pur nella palese contraddizione di non riuscire a rassegnarsi all' abbandono che cerca di alleviare con il culto feticista che riserva ai tré oggetti provenienti da Klamm non perchè questi glieli avesse regalati - Klamm non regala mai nulla - ma perche' egli non glieli aveva negati quando essa glieli aveva chiesti. Frieda sfiorisce visibilmente dopo avere abbandonato Klamm per K.; la madre di Hans è malata di nostalgia del Castello al quale non può tornare, e la stessa Amalia ha il destino suo e di tutta la sua famiglia segnato da un rapporto con un funzionario del Castello - opposto a quello delle altre, perchè lei ha “osato respingere” sdegnosamente le sue proposte, ma pur sempre un rapporto centrato sull'erotismo. Tra dei, semidei, gente comune come i contadini, tutta però in qualche modo legata al Castello, il posto di K “non è tra i contadini e, certo, neanche al Castello”. Egli è il “forestiero”, il “vagabondo”, anzi, “un volgare vagabondo”, come lo definisce Schwarzer, e quindi “capace di tutto”, come dice di fui l'oste dell’“Albergo dei Signori”. “Lei non è del Castello, lei non è del paese, lei non è nulla” gli dice il Sindaco “Eppure, sventuratamente, è un forestiero...uno che è sempre di troppo e che è sempre tra i piedi...”.
  Straniero, “quindi” un potenziale nemico da cui guardarsi... Uno straniero non potrà che avere schemi mentali diversi da quelli della gente del luogo; quindi il forestiero non sa, non comprende, fraintende, vede tutto sbagliato .…



IL CASTELLO E IL LABIRINTO
  K. e Karl Rossmann hanno entrambi il problema dell'orientamento in un mondo nuovo che, soprattutto per K., si presenta come un labirinto del quale non verrà mai a capo. K. deve orientarsi tra le strade da percorrere. Strade concrete: quale é quella che porta al Castello, quali sono “i luoghi” del Castello? Quali sono le sue porte? Quali sono i suoi confini? Strade immateriali, perché deve orientarsi tra le norme, le regole, i valori del sistema; tra le tante contraddizioni che si rilevano in ciò che viene fatto e viene detto, tra rappresentazioni simboliche che tenta di leggere con tortuose (ed esse stesse labirintiche) riflessioni e colloqui.
  Questo vale, in qualche modo, anche per il lettore: anche per noi il Castello, con la complicazione della sua pianta e la difficoltà dei suoi percorsi, è un vero e proprio labirinto: “geografico”, “logico”, organizzativo-istituzionale, simbolico. L'accesso al centro di un labirinto è vietato a coloro che non sono qualificati. Esso rappresenta una sorta di prova iniziatica, discriminatoria, preliminare al cammino verso un centro nascosto. Il labirinto come difesa di qualcosa di prezioso e di sacro: non permette l'accesso se non a coloro che ne conoscono la pianta, agli iniziati. E la difesa è anche contro il male rappresentato dall'intruso, colui che è pronto a violare i segreti, il sacro, l'intimità dei rapporti con il divino. Il rituale labirintico è un rituale di iniziazione, ed è anche l'archetipo della paura, un simbolo della discesa e spesso un tema da incubo, mentre la nozione di centro equivale all'ombelico, all'onphalos del mondo... Ad un altro livello, il labirinto conduce anche all'interno di sè stessi, verso una sorta di santuario interiore e nascosto, nel quale si trova la parte più misteriosa della persona umana. Nell'opera di Kafka, il labirinto ricorre spesso. Se “II Castello” ha dei parallelismi e delle specularità con “America”, parallelismi e specularità emergono anche dall'accostamento con il racconto “La tana”. Ne “II Castello” il protagonista è un uomo “senza nome” (è indicato soltanto con una iniziale non si sa , peraltro, se del nome o del cognome) e la sua storia è narrata in terza persona. Ne “La tana”, il protagonista è un animale anch'esso senza nome e, sebbene possa essere identificato con una talpa, non è probabilmente casuale che non venga mai esplicitamente menzionato come tale. In entrambe le storie, abbiamo un labirinto: metaforico ma con effetti terribilmente reali ne “II Castello”, concreto ne “La tana”, perché l'animale si è costruito un intrico di complicatissimi cunicoli sotterranei nel quale vive. In entrambi i testi è presente, con i temi del LUOGO CHIUSO e del VARCARE LA SOGLIA, la problematica del rapporto ESTERNO/INTERNO.
  Il Castello è infatti anch'esso un mondo chiuso, non solo perchè a K. ne viene esplicitamente vietato l'accesso, ma perché, come dice Citati, “L'unico spazio è quello del Castello, il villaggio. Il resto del mondo sembra inghiottito” .
  Unico accenno al resto del mondo è costituito dallo sprazzo di luce mediterranea che compare nelle parole di Frieda quando parla del suo desiderio di andare con K. in Francia o in Spagna, solo uno sprazzo, perché subito dopo lei stessa dice di sognare “una fossa stretta e profonda” dove lei e K. possano “stare avvinti come in una sorta di morsa...”.
  Chiuso nello spazio, quindi, ma anche nel tempo: la dimensione temporale è infatti, nel Castello”, congelata sul presente.
  Non esiste un passato individuale e gli unici accenni sono strettamente legati al Castello: la storia della famiglia di Barnabas che ha offeso un funzionario del Castello e il ricordo di Frieda dei suoi giochi infantili con Jeremias sulla collina del Castello. Gli accenni al passato collettivo, alla storia del villaggio, hanno i toni della mitologia e della leggenda.
  Il labirinto è quindi una barriera per impedire l'accesso dell'estraneo, del forestiero ad un luogo chiuso. Ma nel “Castello”, K. si trova all'esterno, vorrebbe entrare e non gli è consentito; è nei suoi confronti che l'ostacolo è posto; ne “La tana” l'animale è, invece, dentro il labirinto; il “forestiero”, l'“estraneo”, il NEMICO è fuori, ma contro il pericolo di un suo pur sempre possibile ingresso nella tana la difficoltà degli ostacoli da porgli di fronte non è considerata, dall'animale, mai sufficiente. K. “vuole entrare” nel Luogo chiuso del mondo del Castello: solo "entrandovi dentro" sarebbe sicuro, legittimato; l'animale “non vuole uscire”, ma forse sarà" costretto a farlo.
  In entrambi i casi, però, luogo chiuso (castello o tana) sembra essere sostanzialmente uno SPAZIO MENTALE: il mondo-castello la rappresentazione di un immaginario riguardante il rapporto individuo/istituzione inteso, come abbiamo visto, in termini di desiderio del rapporto con l'Altro; nel racconto “La tana”, abbiamo la rappresentazione di un immaginario che è quello della paura del rapporto con L'Altro/nemico ed in cui i cunicoli non sono che i tortuosi meandri di una mente pensante.



INDIVIDUO, ORGANIZZAZIONE, ISTITUZIONE
  Milan Kundera trova sbagliato interpretare i romanzi di Kafka come una parabola religiosa ma, secondo lui, questa interpretazione è comunque rivelatrice: “dovunque il potere si deifichi, esso produce automaticamente la propria teologia: dovunque si comporti come Dio, suscita nei propri confronti sentimenti religiosi; il mondo può essere descritto con un linguaggio teologico”
  Quando si parla di organizzazione, ne “II Castello” viene fatto sempre riferimento all’”amministrazione”. Sarebbe però estremamente riduttivo, a mio modo di vedere, cogliere nella modalità di essere di questa amministrazione soltanto la descrizione di un modello di funzionamento organizzativo di tipo burocratico.
  Perché è l'Istituzione in quanto tale, infatti, che, ne “II Castello” viene ad essere posta in questione e la burocrazia, con tutti i suoi labirinti di norme, carte, ruoli, funzioni non è che lo "strumento" poetico utilizzato per rappresentarla. Questo Castello di carte, che sussurra, bisbiglia, fruscia; guarda per spiare e controllare, che assume a volte tratti antropomorfici , che è onnipresente, onnipotente, onniscente ed inconoscibile, infallibile (l'errore è un tabu, l'infallibilità il dogma); "indicibile" (non si può pronunciare il nome di Klamm, del Conte non si può nemmeno parlare; questo Castello che non è guardabile  ha tutti gli attributi di Dio. Ma la sacralità è la caratteristica della fantasmatica relativa ad ogni istituzione in quanto tale. Scrive Kaës: “Per l'inconscio, l'istituzione si iscrive nello spazio del sacro (...). L'origine divina dell'istituzione le assicura potenza, legittimità, permanenza assoluta.
L'istituzione è diritto divino”.
  Ecco allora “II Castello” come grandiosa metafora dell'Istituzione e di ciò che può significare, per l'individuo, non esserne partecipe. Il paradosso di K. è proprio questo: più egli guarda verso l'alto, più viene ricacciato in basso, gli si ricorda che è un terrestre, un lombrico, lo si pone continuamente di fronte all' ineluttabile pesantezza dell'essere.
  Lette in un ottica istituzionale, le contraddizioni del funzionamento del mondo del Castello acquistano un senso. Diventa comprensibile che nessuna sappia (possa) indicare come si ottiene il permesso per entrare nel Castello, così come diventa comprensibile la costante mancanza di certezza circa l'essere o meno al servizio del Castello e quindi di appartenervi ufficialmente. Le modalità di assunzione, che lette in un'ottica meramente organizzativa appaiono farraginose ed oscure, che non garantiscono mai all'interessato alcuna sorta di una qualche "certezza del diritto", appaiono persino ovvie se le riferiamo alla dimensione istituzionale: condividere un immaginario sociale, un sistema istituzionale non è cosa che possa essere acquisita con un atto, un gesto formale. L'assenza di un passato individuale ed il richiamo alla tradizione a livello collettivo rimanda ad origini mitologiche; il mito, il "si dice" tengono il posto della storia. K. stesso è, d'altra parte, chiuso nella pura attualità del presente, senza memoria del passato e senza proiezione nel futuro: non ha nè un passato da riprendere, nè un futuro su cui proiettarsi: è "raggrinzito nel puro presente". Non è possibile individuare i luoghi ed i livelli del potere perché l'istituzione è inafferrabile e non la si può costituire come oggetto di pensiero. L'istituzione ha memoria per i suoi miti ed i rituali che la sostengono, ma essa, come Klamm, "dimentica", non si cura dei destini individuali. Sembra che, paradossalmente, solo del "forestiero" K. il Castello si ricordi e si occupi, ma con l'attenzione sorniona del funzionario Galater che ha mandato a K. Arthur e Jeremias come assistenti dicendo loro: "essenziale è che lo teniate un pò allegro.
  È arrivato adesso in paese e gli sembra sia un avvenimento straordinario, mentre invece è una cosa da niente. Dovete farglielo capire ". Il Castello è un Walhalla di Dei non più guerrieri e privo anche di eroi, siano essi sapienti e sensuali come Edipo o innocenti e casti come Parsifal. Ci sono solo i burocrati, che respingono K. non con le armi o con la violenza fisica ma semplicemente con l'indifferenza e con il non accoglimento del suo desiderio integrazione.
  Un Walhalla diroccato e pieno di cornacchie, i cui messaggeri vanno in giro con le vesti rattoppate ed in cui gli Dei passano il tempo libero alla mescita di un' osteria bevendo birra invece che nettare. Un Wahlalla che non punisce, non perdona e non condanna perchè non riconosce l'esistenza di una colpa.   Come è stato rilevato da Citati, ne “II Castello”, a differenza del “Processo”, manca persino la condanna, che era ancora l'ultimo legame che l'istituzione manteneva con l'uomo. Questi non può essere più nemmeno sicuro di essere stato punito, non ha più nemmeno la certezza della colpa, il diritto al riconoscimento della colpa. Se questo Wahlalla sembra potente in una situazione crepuscolare è perché questa chiusura porta all'entropia; il Castello appare un'istituzione senza conflitti apparenti e priva di spazio per il desiderio. Un' istituzione mortifera che si struttura sulla ripetitività e sulla elefantiasi della sua burocrazia (molteplicità di norme, fuga dalle responsabilità mediante il proliferare di regolamenti e verbali etc.). Nella dinamica tra istituente ed istituito, K. rappresenta l'istituente che viene schiacciato dall' istituito del Castello con un meccanismo di isolamento e di emarginazione sempre più forte che nega la possibilità di una identità sociale e quindi di una identità personale. Il suo spazio psichico si assottiglia per il prevalere dell'istituito sull'istituente, con la massiccia presenza burocratica dell' organizzazione a scapito dei processi, con la supremazia delle formazioni repressive e di diniego .
  Viene quindi confinato in una alterità totale che lo mette di fronte al baratro dell'impotenza. K. “nasce” al villaggio del Castello chiuso nella sua individualità. L'Istituzione è chiusa, e respinge il corpo estraneo. L'Istituzione non accetta chi si pone come auto-generato e non facente parte della catena della storia e della memoria collettiva. L'Altro è allora lo straniero .
  K. soccombe perché non riesce ad essere “attraversato” dal sociale; l'impotenza sociale e la perdita di identità vanno sempre più intrecciandosi; K. è sempre più sottoposto ad un processo di degradazione psichica di cui la stanchezza fisica crescente - della quale si stupisce essendo un uomo giovane, sano e robusto - non è che il simbolo: K. è sempre più stanco, nota che anche gli altri sono sempre stanchi, ma la loro è “la stanchezza dell'operosità felice”.
  Quella che in loro sembra stanchezza è in realtà quiete, pace indistruttibile.   La stanchezza soddisfatta di chi è in accordo con sè stesso e con il mondo in cui è inserito. Per lui, come per Pepi, “quello che stanca è l'attesa, la delusione”.



L'AGRIMENSORE K.
  K. è un agrimensore, (in tedesco “Landvermessen”), colui cioè che per professione misura, divide e descrive su mappa i terreni, qualcuno la cui funzione è dunque di "dare ordine" e far funzionare entro confini ben definiti.   Ma una istituzione chiusa non può tollerare il “pensiero nuovo” e, attraverso il Sindaco, dice: “Di agrimensori non abbiamo che farcene. Non abbiamo il minimo lavoro da affidarle. I confini dei nostri poderi sono tracciati, tutto è registrato regolarmente. Di rado avvengono trapassi di proprietà , e le piccole controversie riguardo ai limiti le liquidiamo noi. A che servirebbe dunque un agrimensore?”
  In un mondo in cui nessun confine appare chiaro, gli unici ad esserlo sembra siano quelli che potrebbero venir modificati da K.
  Essere agrimensore vuoi dire vantare una specificità professionale consistente nel "fare chiarezza" in un mondo il cui funzionamento si basa sulla impossibilità del distinguere e sulla nebulosità. K. è allora una di quelle figure marginali che sono tali in quanto si comportano in modo non congruente con il sistema sociale prendendosi cura di ciò che ad esso non solo importa poco ma, come nel caso dell' istituzione Castello, rischierebbe di mettere in discussione le basi stesse delle fondamenta dell'istituzione.
  L'istituzione difende quindi il proprio principio costitutivo (la non possibilità o non volontà di “far chiarezza”) dichiarando esattamente il contrario, cioè che “tutto è già in ordine”, “tutto è chiaro”. A K. viene quindi concesso un lavoro di bidello tuttofare in cui, ancora una volta, i confini tra diritti e doveri sono incerti e l’“oggetto lavorativo” indeterminato. I meccanismi dell'istituto hanno cosi controllato, padroneggiato, banalizzato e quindi neutralizzato il “pensiero nuovo” di cui l'istituente (l'agrimensore K.) potrebbe essere portatore. K. non è più in grado di controllare nulla degli elementi quotidiani della propria vita di relazione, e gli viene negata anche la sua identità professionale di agrimensore; non gli è possibile fare previsioni, non può autodeterminare assolutamente nulla, le relazioni sono svuotate di contenuti affettivi, è impotente a prevedere le conseguenze di ogni suo più apparentemente insignificante atto. Non solo egli è "fuori posto" ma, per giunta, non vuole comprenderlo, ed ha la spudoratezza di mettersi in mostra il più possibile, mentre “Persino la tignola notturna, povero insetto, quando si leva il giorno non cerca forse un cantuccio nascosto, non si appiattisce, non vorrebbe scomparire e non è desolata di non poterlo fare?” La sua scelta di rimanere al villaggio è assolutamente libera, nessuno lo costringe nè a rimanere nè ad andarsene ma è venuto per restare al villaggio e ci resterà, dice a Frieda, perchè “Che cosa avrebbe potuto attirarmi in un paese così tetro, se non il desiderio di rimanere?”... Eppure “nulla era così assurdo, così disperato, come quell'indipendenza, quell'attesa, quell'invulnerabilità...”.
  Come per il Franz Tunda di un altro celebre scrittore mitteleuropeo, Joseph Roth, di K. si potrebbe dire: “Superfluo come lui non c'era nessuno al mondo” .



L'INCOMPIUTO
  “Il Castello” è rimasto incompiuto, il romanzo non finisce, ma si esaurisce lentamente, come si esaurisce, dopo vani tentativi, la vitalità dell'agrimensore
K., come si stava esaurendo la vitalità dell'autore, scrive Mittner
  Sembra che Kafka, secondo Max Brod, avesse accennato ad un finale che avrebbe visto K., sul letto di morte, raggiunto da un messaggio del Castello che gli avrebbe concesso il diritto di vivere e lavorare al villaggio, ma senza concedergli la cittadinanza.
  Il Castello avrebbe agito nei suoi confronti mantenendo K., comunque, sempre in una sorta di limbo, di “terra di nessuno” e destinandolo a quella “esistenza torbida, strana, fuori della vita ufficiale da lui temuta sin dall'inizio”.   Ma questo o un altro finale non venne, di fatto, mai scritto, ed il pathos del romanzo nasce anche da questo perché, come dice Borges, Kafka non completò i suoi romanzi “perché era fondamentale che fossero interminabili”31.
  Nel libro resta “un grande vuoto”32.
  Forse il centro del Castello è proprio questo grande vuoto, un vuoto come quello che a K. sembra di vedere nella “cornice senza quadro” che scorge nell'osteria del Ponte dopo la sua prima notte di permanenza al villaggio, o come quel "vuoto" apparente, cioè “che appare” a K. al suo arrivo al villaggio.   Tutto il simbolismo di Kafka può essere assunto, come scrive Mittner , come simbolo di un reale che non può essere compreso, e l'eroe kafkiano non giunge e non vuole giungere alla chiarificazione ed alla identificazione di questi simboli. “I personaggi kafkiani dicono no all'esistenza”, dice Magris , e Kafka stesso scrive: “Colmo di tristezza ero seduto un giorno, molti anni or sono, sul pendio del Laurenzienberg [a Praga], analizzando i miei desideri di vita, e mi sembrava che il più importante o il più attraente fosse di giungere ad una concezione della vita (e naturalmente anche di portarvi gli altri, con i miei scritti) in cui la vita apparisse bensì, qual'era, un'alterna vicenda di salite e di gravi cadute, ma venisse nello stesso tempo riconosciuta, con non minore chiarezza, come un nulla, un sogno, un respiro sospeso...” .



RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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Gilbert DURAND: “Le strutture antropologiche dell'immaginario”, Dedalo, 1989
Gilbert DURAND: “L'imagination symbolique”, Quadrige/Presses Universitaires de France, 1989
Gilbert DURAND: “Figures mythiques et visages de l'oeuvre”, Dunod, Paris, 1992
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Eugène ENRIQUEZ: “Vers la fm de l'interiorité?” in “Psychologie clinique”, 1989/2
Clemens HESELHAUS: “Kafka” in “Da Lessing a Brecht - i grandi scrittori nella grande critica tedesca”, Bompiani, 1968
Renè KAËS: “Realtà psichica e sofferenza nelle istituzioni” in
“L'istituzione e le istituzioni”, AA.W., Borla, 1991
J. et O. KETLEY-LAPORTE: “Le labyrinthe dechiffre”, Editions Gamier, Chartres, 1992
Milan KUNDERA: “L'arte del romanzo”, Adelphi, 1988
Claudio MAGRIS : “Dietro le parole”, Garzanti
Ladislao MITTNER: “Kafka senza kafkismi” in “La letteratura tedesca del novecento”, Einaudi, 1975
Joseph ROTH: “Fuga senza fine”, Adelphi, 1976