sabato 28 gennaio 2023

SU ALCUNI TEMI FONDAMENTALI DELLA «GAIA SCIENZA» DI NIETZSCHE Pierre Klossowski

 


SU ALCUNI TEMI FONDAMENTALI DELLA «GAIA SCIENZA» DI NIETZSCHE

Estratto da  Nietzsche, il politeismo e la parodia Pierre Klossowski

Introduzione

Nella sterminata serie di esegeti di Nietzsche che si sono susseguiti, Klossowski ha qualcosa di unico: per l'irriducibile libertà, per la capacità rabdomantica con cui si inoltra negli ingannevoli meandri degli scritti di Nietzsche. Qui con gesto risoluto sgombera subito il campo da banalizzanti interpretazioni tanto diffuse quanto fuorvianti – come quella «erronea del "superuomo" deliberatamente separata dal suo corollario della dottrina dell'eterno ritorno» –, perché occorre innanzitutto «liberare l'esperienza che porta il nome di Nietzsche sia dal suo contesto storico sia dalle malversazioni di cui è stata fatalmente oggetto presso la posterità», l'inevitabile prezzo che doveva pagare «un'anima condotta all'incandescenza». E incandescenti sono anche queste pagine di Klossowski, in una lettura di Nietzsche dove s'intrecciano il recupero della dimensione mitica, il legame di reversibilità tra verità e finzione, la tensione tra il poeta, il filosofo e il profeta. Una lettura contrassegnata dalla complicità e dalla piena identificazione con un aforisma della Gaia scienza: «Noi senza patria siamo per razza e provenienza troppo multiformi e ibridi» – vale a dire, precisa Klossowski, «troppo legati a tutto ciò che da sempre è stato vissuto e provato in diversi luoghi; insomma troppo ricchi e quindi troppo liberi per poter rinunciare a questa ricchezza e a questa libertà in favore di un'appartenenza concretamente determinata dal tempo e dallo spazio».


SU ALCUNI TEMI FONDAMENTALI DELLA «GAIA SCIENZA» DI NIETZSCHE


Il nome di Nietzsche sembra irrimediabilmente associato al concetto di volontà di potenza; e non tanto al concetto di volontà, quanto alla pura e semplice potenza. L’interpretazione più diffusa è quella che vede nel suo pensiero una sorta di giustificazione metafisica del fatto compiuto, una morale dell’atto di forza; ed ecco che allora tutto finisce nel calderone: i laboratori dediti ai più inconfessabili esperimenti, la soppressione dei degenerati, dei folli e dei vecchi, i forni crematori, i malviventi, la bomba atomica, tutto e tutti oggi possono appellarsi al padre dell’immoralismo moderno; il superman attuale, che sia capitano d’industria, esploratore, grande cardiologo, chimico, ingegnere, benefattore dell’umanità, viene considerato un prodotto diretto del maestro dell’«energia vitale». «Chi è dunque Nietzsche?» chiede l’ignaro, e il Larousse gli risponde»: «I suoi aforismi hanno avuto una grande influenza sui teorici del razzismo germanico». Invano, a quanto pare, invano l’aforisma 377 della Gaia scienza proclama con voce remota, remotissima: «Noi senza patria siamo per razza e provenienza troppo multiformi e ibridi, come “uomini moderni”, e di conseguenza scarsamente tentati a prender parte a quella mendace autoammirazione e libidine razziale che si mette in mostra oggi in Germania, quale indice di sentimenti tedeschi, e che suona doppiamente falsa e indecorosa nel popolo del “senso storico”».

Nel presentare ai lettori questa nuova traduzione della Gaia scienza, la terza in lingua francese, ci chiediamo se spetti allo svolgersi degli eventi la verifica del valore di un pensiero e della sua attualità. Certo, uno spirito che da solo rappresenta le sorde istanze di un’intera epoca in qualche misura acquisisce «importanza» se certe accezioni primarie sono capi d’imputazione per avere ispirato esperimenti aberranti: l’erronea interpretazione del «superuomo» deliberatamente separato dal suo corollario, ossia la dottrina dell’eterno ritorno; la «morte di Dio», il «nulla è vero, tutto è permesso», divenuti slogan rifritti da una cinquantina d’anni in ambito etico e sociale, e tutto questo nel contesto di iniziative politiche che, se venisse dichiarata la colpevolezza di ogni parola pronunciata o scritta, non sarebbero altro che l’inevitabile prezzo da pagare per un momento spirituale vissuto nella esclusiva felicità di un’anima condotta all’incandescenza; la distanza, lo scarto, ma anche la distorsione di una visione del mondo rispetto a ciò che davvero fu nella sua unicità: solo ravvisando tutto questo è possibile liberare opportunamente l’esperienza che porta il nome di Nietzsche sia dal suo contesto storico sia dalle manipolazioni di cui è stata fatalmente oggetto presso la posterità.

Ebbene, da questa esperienza si trae una lezione che possiamo cogliere nella sua forma più intelligibile nelle prime parole del passo citato sopra: «Noi senza patria ... troppo multiformi e ibridi, come “uomini moderni” ...» – e nella sua forma più familiare, per quanto riguarda noi che la leggiamo oggi. Troppo multiformi e ibridi, ossia troppo legati a tutto ciò che è stato vissuto nel corso del tempo, esperito in luoghi diversi; insomma, troppo ricchi e quindi troppo liberi per rinunciare a questa ricchezza e a questa libertà in favore di un’appartenenza concretamente determinata dal tempo e dallo spazio; e dunque dotati di una polivalenza del sentire tale che nessuna iniziativa limitata a un qualsivoglia interesse concreto potrebbe esaurire la nostra capacità di dispendio; ecco in che cosa consiste, secondo Nietzsche, la «modernità». Ma non ci si inganni: non si tratta, qui, di una qualche vaga forma di cosmopolitismo; moderno significa un’attitudine a una simpatia mai raggiunta prima, in virtù della quale lo spirito entra direttamente in contatto non solo con ciò che appare quanto mai estraneo, ma anche con il mondo più lontano nel tempo, con il passato più remoto. La conquista di una nuova possibilità di vivere! Noi senza patria; verso quale luogo si volgono costoro, dove vivono, di fatto?

«Sui monti, in disparte, “da inattuali”, in secoli già trascorsi o imminenti...»; e per Nietzsche non c’è soluzione di continuità: al punto culminante della conoscenza, lo spirito rivendica per sé stesso ogni singolo momento vissuto della storia, identificando l’Io con i suoi diversi paradigmi quali altrettante versioni di sé stesso. Ed è così che la vis contemplativa finisce per assorbire la volontà di potenza, giacché questa volontà non ha mai avuto altro fine se non la propria intima necessità: re-integrare quell’universo che, nella sua molteplicità, si vuole e permane identico a sé stesso.

Ebbene, tale situazione dello spirito nella sua «modernità», tale es-patrio del volere nello spirito risale all’avventura del sapere vissuta dagli umanisti della «ri-nascita», e in particolare dagli umanisti tedeschi dell’età della Riforma, che Faustus, il dottore Fortunato – la cui fortuna consiste nel ri-vivere la sua vita –, incarna meravigliosamente. Per questi umanisti, permeati del concetto platonico di reminiscenza, la conoscenza del passato – ri-nascita nel passato –, che deve rivelare il segreto dell’av-venire, si accompagna al conflitto teologico fra libero e servo-arbitrio, fra libertà umana e grazia divina, fra dannazione ed elezione. SE SONO FRA GLI ELETTI, TUTTO MI È PERDONATO FIN D’ORA. SE SONO FRA I DANNATI, TUTTO MI È ANCORA PERMESSO QUAGGIÙ. Dove sta la differenza? Nell’eternità. Mutatis mutandis, per l’ateo Nietzsche, erede della speculazione umanistica protestante e nel contempo platonica (con le relative componenti: nostalgia dell’Antichità, attrazione per il mondo latino, contraddittorio prestigio del pontificato neroniano, «Cesare-Cristo», ecc.), sapere se la conoscenza del passato mi assicura l’eternità resta ancora il tema oscuro del suo pensiero, verificabile sui diversi piani della filosofia della storia e della dottrina dell’eterno ritorno dell’identico. Per Nietzsche il mondo «moderno», con i suoi conflitti sociali e la sua morale nichilista del progresso, non è che un intermezzo di tenebre, così come per gli umanisti lo era il mondo scolastico: è al di là di questo intermezzo che, dal passato decifrato, sorgerà il sole a venire. Il dilemma – libero o servo-arbitrio? – traspare ancora nelle espressioni «Volontà di potenza», «morte di Dio», «nulla è vero, tutto è permesso», e così pure la sua risoluzione nel senso della predestinazione. Ossia della necessità dell’eterno ritorno (tutto è perdonato: questo il senso ultimo della benedizione di Zarathustra). Per l’umanesimo (Faust), il sapere, la gnosi si collocano sotto il segno del Serpente che, con la sua predizione politeista – eritis sicut dii –, promette l’eternizzazione dell’uomo attraverso il sapere. Verrà il giorno in cui alla volontà dell’«assassino di Dio» sarà concesso il perdono; quando cioè il Serpente simboleggerà, doppiamente, l’oblio del sapere e la consumazione dell’eterno ritorno di tutte le cose. La dannazione verrà da quel «senso storico» che opprime l’uomo moderno perché lo allontana dal passato, dunque dalle sue risorse originarie, e dunque dal suo avvenire; in altre parole, il nichilismo di chi non può rimettersi dal crimine dei crimini. E vedremo che essere moderno, per Nietzsche, vuol dire affrancarsi, grazie alla conoscenza della storia, dalla progressione rettilinea dell’umanità – l’irreversibile marcia «dialettica» del materialismo storico – per tentare di vivere secondo una rappresentazione del circolo dove non solo tutto è perdonato, ma addirittura dove tutte le cose sono restituite: e qui ritroviamo il concetto di grazia reintegrato nel mito, entro i limiti in cui la possibilità del mito si confonde con la grazia.

Risalirò ora a un testo di Nietzsche che precede di vent’anni la pubblicazione della Gaia scienza, e precisamente alla fondamentale Considerazione inattuale del 1876, intitolata Sull’utilità e il danno della storia per la vita, al fine di evidenziare tre concetti primari: l’istante, l’oblio e il volere, la triade che è appunto all’origine del sapere, e forse potremo allora comprendere meglio come dalla scienza del passato si giunga, nel sentimento dell’avvenire, non solo a un sapere, ma a una gaia scienza, a una gaya scienza che coincide con un recupero del passato, ma la cui gioia è quella della riscoperta non già di un passato storico propriamente detto, ma di un passaggio non storico dell’avvenire nel passato, del presente nell’eterno.

Il pretesto della Considerazione inattuale del 1876 è il rischio di un’ipertrofia del senso storico, e dunque dell’ossessione del passato, problema specificamente tedesco, caratteristico di quell’epoca; ma ciò che qui più ci interessa è il modo assolutamente paradossale in cui Nietzsche, a partire da questo momento, è portato a sviluppare la sua concezione dell’esistenza, e in particolare a screditare il «senso storico» del passato, col pretesto di liberarne il presente, mentre è in apparenza mediante una nozione positiva dell’oblio ma in realtà mediante un ricordo inconscio che Nietzsche cerca di ristabilire, sul piano della cultura, un contatto più immediato con il più remoto passato. Come punto di partenza di questa Inattuale Nietzsche sceglie il diverso modo in cui l’istante è vissuto rispettivamente dall’animale, dal bambino e dall’uomo adulto. Se l’animale, «che subito dimentica e che vede veramente morire, sprofondare nella nebbia e nella notte, spegnersi per sempre ogni istante», suggerisce la prima immagine di una vita senza storia, il bambino offre all’adulto il commovente spettacolo di una vita che «non ha ancora nessun passato da ripudiare», perché «giuoca in beatissima cecità fra le siepi del passato e del futuro». Per l’uomo, al contrario, «l’istante, eccolo presente, eccolo già sparito, prima un niente, dopo un niente, torna tuttavia ancora come spettro, turbando la pace di un istante posteriore. Continuamente un foglio si stacca dal rotolo del tempo, cade, vola via – e rivola improvvisamente indietro, in grembo all’uomo. Allora l’uomo dice “mi ricordo”». Strappato alla cieca serenità dell’infanzia occultata dall’oblio, l’uomo imparerà a capire la parola fu, atta a rammentargli in che cosa sostanzialmente consista la sua esistenza, «qualcosa di imperfetto che non può essere mai compiuto. E quando infine la morte porta il desiato oblio, essa sopprime insieme il presente e l’esistenza, imprimendo in tal modo il sigillo su quella conoscenza – che l’esistenza è solo un ininterrotto essere stato, una cosa che vive del negare e del consumare sé stessa, del contraddire sé stessa». Frase, questa, che già contiene in nuce e già prepara la futura ed estrema dottrina di Nietzsche, come lascia presagire la proposizione seguente: «Ma sia nella massima, sia nella minima felicità, è sempre una cosa sola quella per cui la felicità diventa felicità: il poter dimenticare o, con espressione più dotta, la capacità di sentire, mentre essa dura, in modo non storico. Chi non sa mettersi a sedere sulla soglia dell’attimo dimenticando tutte le cose passate, chi non è capace di star ritto su un punto senza vertigini né paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cosa sia la felicità, e ancor peggio, non farà mai alcunché che renda felici gli altri ... Per ogni agire ci vuole oblio: come per la vita di ogni essere organico ci vuole non soltanto luce, ma anche oscurità ... Dunque, è possibile vivere quasi senza ricordo, anzi vivere felicemente, come mostra l’animale; ma è assolutamente impossibile vivere in generale senza oblio». E, in effetti, quando il volere, liberato del «senso storico», si sarà identificato in quella cosa che non vive d’altro che della sua propria contraddizione, allora nell’istante, vissuto non più come spettro di un istante precedente ma come serenità, non più cieca ma ludica, l’universo apparirà non più come «qualcosa di imperfetto» ma sotto l’aspetto di un bambino che gioca. Invece:

«... c’è un grado di insonnia, di ruminazione, di senso storico, in cui l’essere vivente riceve danno e alla fine perisce, si tratti poi di un uomo, di un popolo o di una civiltà. Per determinare questo grado e poi per mezzo suo il limite in cui il passato deve essere dimenticato, se non vuole diventare l’affossatore del presente, si dovrebbe sapere con esattezza quanto sia grande la forza plastica di un uomo, di un popolo o di una civiltà, voglio dire quella forza di crescere a modo proprio su sé stessi, di trasformare e incorporare cose passate ed estranee». Ci sarebbe dunque un modo di esistere nella storia e fuori dalla storia. Quanto al «senso storico» in un determinato momento della storia, esso instaura un rapporto ingannevole dell’istante vissuto con il passato storicamente riflesso e il tempo che resta da vivere; se esalta il passato, svuota il presente; se fissa i compiti del presente sulla base di quelli assolti nel passato, squalifica il passato non meno di quanto restringa le opportunità del presente: poiché non potremmo giudicare in stato di consapevolezza ciò che un tempo fu compiuto nell’inconsapevolezza, così come l’uomo non può mai agire nel presente senza sospendere la coscienza del proprio passato; e infatti la storia è costituita essenzialmente da atti o da opere di individui che, nel momento stesso in cui creavano o agivano, procedevano spontaneamente per accecamento o per ingiustizia, e quindi per oblio; cosicché la storia non è fatta d’altro che di atti e creazioni nati dall’oblio: di qui lo stretto rapporto che intercorre fra l’oblio e la volontà creatrice. Ciò che la storia insegna è in realtà l’opposto di ciò che lo spirito «storico» vi proietta: non già un progresso via via più consapevole dell’uomo, ma il continuo ritorno delle stesse inclinazioni mai esauritesi nel corso delle generazioni che si sono succedute; comprendere la storia in questo senso, in contrasto con la scienza che proclama il suo fiat veritas pereat vita, significa appunto arrivare, grazie allo stimolo del concetto di ritorno, a una vita fuori dalla storia; «ciò che fu possibile una volta potrebbe presentarsi come possibile per la seconda volta», e l’uomo, lungi dal trovare in questo un motivo di smarrimento o di sterilità, deve agire per agire; ciò che avrà voluto sarà sempre il compimento di ciò che pensava di non volere; perché egli non può sfuggire a questa esistenza se tenta di sfuggirle consapevolmente, mentre questa stessa esistenza saprà indurlo a dimenticare al momento giusto per ritrovare immancabilmente quell’integrità che caratterizza qualsiasi opera o qualsiasi azione di rilievo. È quanto testimoniano le potenze «sovrastoriche» per eccellenza, l’arte e la religione, che «distolgono lo sguardo dal divenire, volgendolo a ciò che dà all’esistenza il carattere dell’eterno e dell’immutabile ... La scienza ... reputa infatti vera e giusta ... solo la considerazione delle cose che vede dappertutto un divenuto, un elemento storico, e in nessun luogo un ente, un eterno», ragion per cui non può che detestare queste forze eternizzanti, queste forze dell’oblio – negazione stessa della scienza – che sono l’arte e la religione, nelle quali passato, presente e futuro si confondono.

Questa concezione, agli antipodi di ogni filosofia della storia derivante da Hegel, ci interessa qui solo nella misura in cui ci mostra come Nietzsche sfrutti ulteriormente per sé stesso questo concetto di vita fuori dalla storia, e verifichi tale pensiero a monte del flusso della storia mediante la sua stessa vita, per scoprirvi infine il proprio destino. Se le possibilità dell’umanità scomparsa sono sempre valide in ciascun individuo, in ciascun momento della storia, allora per Nietzsche si tratta di condurre una guerra spietata a tutto ciò che vorrebbe soffocare nell’uomo il sempre possibile: una guerra, dunque, tanto alla morale utilitarista (sottinteso: mercantilista) quanto a quell’organizzazione scientifica della vita sociale che la posterità hegeliana trarrà come conseguenza dell’agonia del cristianesimo. Per contro, poiché il cristianesimo rappresenta nel nostro mondo una parte dell’antichità di cui è stato la via d’uscita, Nietzsche lo considera come una via d’accesso o di ritorno all’antichità, e volge il suo sguardo al di là dei duemila anni di morale cristiana. Del resto in un altro passo di quella stessa Considerazione inattuale del 1876 affermava: «Ma anche se volessimo accontentarci di buon grado di questo destino di essere discendenti dell’antichità, se almeno ci risolvessimo a prenderlo molto energicamente sul serio e con grandezza, e a riconoscere in quest’energia il nostro privilegio distintivo e unico – saremmo nondimeno costretti a chiedere se il nostro destino debba essere in eterno quello di essere discepoli dell’antichità declinante. In un qualche giorno potrà essere consentito fissare la nostra meta progressivamente più in alto e più lontano, in un qualche giorno dovremmo poterci far l’elogio di aver ricreato in noi – anche mediante la nostra storiografia universale – lo spirito della civiltà alessandrino-romana in modo così fruttuoso e grandioso, da poterci poi porre, come il più nobile compenso, l’ancor più poderoso compito di spingerci dietro questo mondo alessandrino e oltre di esso, e di cercare con sguardo coraggioso i nostri modelli nel primitivo mondo greco antico del grande, del naturale e dell’umano. Ma là troviamo anche la realtà di una cultura essenzialmente antistorica, e di una cultura nonostante ciò o piuttosto a causa di ciò indicibilmente ricca e piena di vita». In questa pagina troviamo quella tenace nostalgia di Nietzsche che, come nel caso di Hölderlin, lo ha sempre opposto alla sua epoca, e che è la vera ispiratrice della concezione antihegeliana e sovrastorica secondo la quale il mondo, lungi dal procedere verso una qualsivoglia forma di salvezza finale, si ritrova in ogni istante della sua storia compiuto e giunto al suo termine ultimo. Ragion per cui «il passato e il presente sono la stessa e identica cosa, cioè tipicamente uguali in ogni varietà, e costituiscono, come onnipresenza di tipi non transitori, una struttura immobile di valore immutato e di significato eternamente uguale». Così, collocandosi innanzitutto sul piano della cultura filologica e storica, questo tentativo paradossale di vivere la storia controcorrente, recuperando attraverso l’oblio il passato più remoto, avrebbe fatto precipitare Nietzsche nella sua esperienza decisiva. Giacché «quanto più la natura intima di un uomo ha radici forti, tanto più egli si approprierà o impadronirà del passato; e se si immaginasse la natura più potente e immane, essa si potrebbe riconoscere dal fatto che per lei non ci sarebbe nessun limite del senso storico, ove questo agisse in modo soffocante e dannoso; ogni cosa passata, propria ed estraneissima, essa l’attirerebbe a sé, l’introdurrebbe in sé, trasformandola per così dire in sangue». Venti anni più tardi, il problema del «senso storico» e della vita «fuori dalla storia» si è confuso a tal punto con la sua stessa esistenza che egli può scrivere nella Gaia scienza (afor. 337): «... chi sa sentire la storia degli uomini nella sua totalità come la sua propria storia, prova, generalizzandolo enormemente, tutto quell’angoscioso struggimento dell’infermo che pensa alla salute, del vegliardo che rammemora i sogni giovanili, dell’amante che è strappato all’amata, del martire che assiste al tramonto del proprio ideale, dell’eroe, la sera della battaglia che non ha deciso nulla, e che tuttavia gli ha recato ferite e la perdita dell’amico – ma sopportare questo cumulo immenso d’afflizioni d’ogni specie, poterlo sopportare, ed essere pur sempre ancora l’eroe che, allo spuntar di un secondo giorno di battaglia, saluta l’aurora e la sua felicità, essendo l’uomo che ha un orizzonte di millenni davanti e dietro di sé, l’erede di ogni tratto aristocratico di tutto lo spirito passato, erede gravato di obblighi, essendo il più nobile di tutti i nobili dell’antichità, e al contempo il capostipite di una nobiltà nuova, di cui nessun tempo vide e sognò l’eguale: assumersi tutto questo carico, il più antico come il più nuovo, le perdite, le speranze, le conquiste, le vittorie dell’umanità: infine possedere tutto ciò, e tutto insieme stringerlo in un unico sentimento: questo dovrebbe avere come risultato una felicità, che finora l’uomo non ha mai conosciuto – la felicità di un dio colmo di potenza e d’amore, di lacrime e di riso, una felicità, che, come il sole alla sera, non si stanca di effondere doni della sua ricchezza inestinguibile e li sparge nel mare, e come il sole, soltanto allora si sente assolutamente ricca, quando anche il più povero pescatore rema con un remo d’oro! Questo sentimento divino si chiamerebbe allora – umanità!».

Ora, questa condensazione dell’umanità passata in una sola anima può realizzarsi soltanto nell’oblio di un presente «storicamente» determinato, in un oblio con il favore del quale si liberano le risorse dell’anima, che sono poi la sua forza plastica di assimilazione; così, nel progetto di risalita verso il mondo originario della Grecia arcaica, Nietzsche faceva appello alle immagini «non storiche» soggiacenti alle loro elaborazioni razionali, e dunque al mito; proprio lui, l’erudito, lui, la cui sapienza aveva raggiunto un grado d’insonnia, lui attribuiva all’oblio la funzione positiva di un sov-venire tanto più fecondante in quanto è necessariamente «inattuale», tanto più attualizzante in quanto agisce nell’inconsapevolezza. Parleremo qui di «cultura» vissuta; ma questo termine non è che una mediocre traduzione del fatto perturbante di uno spirito che dice a sé stesso: Io sono molti. In effetti, l’abbondanza del sapere «convertito in sangue» accresce la facoltà spirituale di essere altro molto più di quanto non lo esiga una verità normativa esclusiva: «“Non io, non io! bensì un Dio attraverso di me!”. Fu nell’arte e nella forza mirabile di plasmare dèi – il politeismo – che questo istinto poté disgravarsi, purificarsi, giungere a perfezione, nobilitarsi: infatti, in origine, era questo un istinto volgare e meschino, affine alla testardaggine, alla disobbedienza e all’invidia. Essere ostili a questo istinto di un ideale proprio: era questa, una volta, la legge di ogni eticità. Non c’era, allora, che una sola norma: “l’uomo” – e ogni popolo credeva di possedere quest’unica e ultima norma. Ma, al di sopra e fuori di sé, in un lontano oltremondo, si poteva vedere una molteplicità di norme: un dio non era la negazione o la bestemmia di un altro dio!» (La gaia scienza, afor. 143); forse il Serpente, con il suo sicut dii, intendeva insinuare questa idea del vantaggio più grande del politeismo. E nella misura in cui il sapere sviluppa così la facoltà di metamorfosi, una vita vissuta una volta per tutte appare all’improvviso più povera rispetto a un solo istante ricco di molteplici modi di esistenza; ecco perché un solo istante così carico, così «sov-venuto» nella sospensione della coscienza del presente, basta a ribaltare l’intero corso di una vita. Di qui il carattere illuminativo della Gaia scienza, un’opera in cui molti aforismi testimoniano momenti di estatica serenità: sia che, a partire da quell’istante, egli abbia avuto la sensazione (formulata sette anni più tardi, alle soglie della follia) che «in fondo io sono tutti i nomi della storia», e quindi di perdere la propria identità nella certezza di ritrovarsi, comunque, molteplice, nella permanenza identica dell’universo; sia che simili momenti gli riservassero, proprio in virtù della loro familiarità, intensa sino allo straniamento, come la prova manifesta della natura ciclica dell’esistenza; allora gli sov-venne di ciò che sarebbe avvenuto, ossia dello stesso essere sov-venuto nell’oblio nel momento voluto. Tali momenti hanno trovato espressione nel seguente aforisma: «Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni cosa indicibilmente piccola e grande della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra gli alberi e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta – e tu con essa, granello di polvere!”. – Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immane, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: “Tu sei un dio, e mai intesi cosa più divina!”? Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda che ti porresti ogni volta e in ogni caso: “Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?” graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che quest’ultima eterna sanzione, questo suggello?» (La gaia scienza, afor. 341).

Brano che, nella sua forma di parabola, non può essere elucidato in modo razionale, giacché non è razionale il suo oggetto: la vita eterna ricoperta dall’oblio. L’io apprende qui qualcosa di cui non può ricordarsi: questa stessa vita, da lui già vissuta innumerevoli volte. Se l’ha dimenticata, è perché l’ha vissuta in tutti i suoi dettagli esattamente come quella che sta vivendo nell’hic et nunc. Ora, poiché l’ha vissuta in modo così identico, quando la rivivrà ancora, in essa non vi sarà alcunché di nuovo. E quindi l’io non potrà ricordarsi non solo di averla già vissuta, ma neanche di averla voluta, allorché l’eternità di questa vita voluta sta per sov-venirgli. E tuttavia l’eternità del volere emerge qui nella temporalità dell’istante come un evento nuovo: vale a dire nella forma della domanda: «Vuoi ancora una volta questo e quello?». E allora la risposta affermativa fornisce «l’eterna conferma». Ma a questo punto la parola del demone elimina di nuovo la distanza dall’«una volta per tutte»: cosicché anche questa domanda verrà posta innumerevoli volte. E poiché l’eternità del volere si colloca necessariamente al di qua del Lete,1 e non si può nel contempo volersi di nuovo e già vivere, la parabola del «peso più grande» si presenta alla mente come un’aporia: a meno che non si veda, qui, nella coincidenza tra l’estrema disperazione e la suprema speranza, tra la maledizione e la benedizione ultime, la vertigine dell’esistenza impossessarsi dello spirito, mentre lo spirito riprende di nuovo il controllo all’estremo della vertigine, come la «dea della vittoria» di cui proiettava l’immagine, capace di star ritta «su un punto, senza vertigini né paura»; esso crea in quanto principio di ogni evento, e dunque di quella stessa vertigine cui giunge e che in qualche modo conquista; e in effetti, mentre enuncia una sentenza che esclude ogni creazione – «non ci sarà ... niente di nuovo» in questa vita «come tu ora la vivi e l’hai vissuta» –, esso forgia, per conformarvisi, l’immagine di quel demone che gli rivela la sua legge, l’immagine di quella clessidra in cui vuole rovesciarsi... giacché lo spirito, identificandosi, nella sua eternità, con la legge del cerchio temporale in cui passato e futuro necessariamente coincidono, ritorna su sé stesso nell’istante, ma questa volta sotto la forma dell’imperiosa domanda che la sua stessa eternità gli rivolge: in virtù della quale l’io, in quanto essere volente e responsabile, si vede costretto a compiere il proprio destino come se esso non fosse già compiuto per il solo fatto di esistere: se non scegliessi liberamente la reiterazione (apparentemente incomprensibile e assurda) dei miei atti, già compiuti innumerevoli volte, cesserei di essere me stesso in quanto padrone del mio segreto, in quanto incarnazione di questa legge sovrana, senza tuttavia cessare, con ciò, di agire necessariamente come sua suprema conferma: io non posso essere me stesso se non volendo liberamente la mia vita necessariamente rivissuta. Ma la legge dell’eterno ritorno elimina il dilemma nel momento stesso in cui lo pone nuovamente: non responsabile del proprio esserci reiterato, perduto e subito ritrovato, l’io ridiventa ogni volta responsabile di ri-volersi quale fu necessariamente da sempre e sempre necessariamente sarà: la sua libera decisione non esaurirà mai l’eternità del suo essere, il cui moto circolare ricondurrà sempre all’imperativo «Che tu voglia te stesso!», per poi eliminarlo al momento voluto. E tuttavia la domanda posta riguardo a qualsiasi cosa – «Vuoi tutto ciò innumerevoli volte?» – deve fare di me, quale sono, un altro: giacché in virtù di questa legge opprimente, più ne avvertirò la gravità, meno importanza darò al pretesto delle mie azioni, e più seriamente prenderò la mia disinvoltura... L’eternarsi del sé, la cui aspirazione all’eternità vuol qui esplicitarsi mediante una concezione ciclica dell’essere, consiste nel razionalizzare un momento estatico per sua natura inspiegabile che, in sé, attraverso l’identificazione del tempo vissuto con l’eternità, sopprime qualsiasi espressione comunicabile al di fuori dell’immagine del circolo: tanto che un brano tardo, redatto all’epoca della Trasvalutazione di tutti i valori (1885), ribadisce: «l’ideale dell’uomo più tracotante, più pieno di vita e più affermatore del mondo, il quale non soltanto ha imparato a rassegnarsi e a sopportare ciò che è stato e che è, ma vuole riavere, per tutta l’eternità, tutto questo, così come esso è stato ed è, gridando insaziabilmente: da capo non soltanto a sé stesso, ma all’intero dramma e spettacolo, e non soltanto a uno spettacolo, ma fondamentalmente a colui che proprio di questo spettacolo ha bisogno – e lo rende necessario: poiché egli ha sempre di nuovo bisogno di sé stesso – e si rende necessario – – Come? E non sarebbe questo – circulus vitiosus deus?».

Quando lo spettacolo della risacca sulla riva del mare (afor. 310) gli rivelava, nel moto avido delle onde, così bramose di tesori sepolti, la natura stessa del volere come proprio segreto: «Così vivono le onde – così viviamo noi, i dotati di volere!», questo segreto non risiedeva già forse nel «come se ci fosse qualcosa da raggiungere!»? E invece non esiste nient’altro che questo moto avido, nient’altro che questa brama di tesori sepolti: nient’altro, di fatto, che questo volersi raccogliere nell’andirivieni delle onde: l’anima, riappropriandosi della propria sovranità, non ha nemmeno bisogno dell’enunciazione di una legge dell’eterno ritorno dell’identico: la vediamo qui vivere fuori dalla storia nella fiabesca compagnia delle onde: «Fate a vostro talento, voi tracotanti, urlate di piacere e di malvagità – o immergetevi ancora, versate nel fondo degli abissi i vostri smeraldi, sparpagliate alla superficie il vostro infinito, bianco merletto di schiuma spumeggiante – per me tutto va bene, poiché tutto vi sta così bene e di tutto vi sono così grato: come potrei tradirvi? Giacché – statemi a sentire! – io conosco voi e il vostro segreto, conosco la vostra stirpe! Sì, voi ed io, apparteniamo a una sola stirpe! – Voi ed io abbiamo anzi un solo segreto!». E questo segreto – che è poi la lezione della Gaia scienza – è che tale esaltazione del movimento per il movimento annienta il concetto di un qualsivoglia fine nell’esistenza e glorifica l’inutile presenza dell’essere nell’assenza di qualsiasi fine: in mancanza di pretesti in forza dei quali la vita vale la pena di essere vissuta, la specie umana languisce; ma «l’istinto di conservazione» ne crea sempre di nuovi, atti a preservarla dalla vertigine dell’essere, dall’angoscia di un’esistenza senza scopo; ma se i pretesti hanno sempre la funzione di celare l’inutilità dell’esistenza («come se ci fosse qualcosa da raggiungere»), solo i simboli di una religione, così come i simulacri dell’arte, danno conto dell’adesione dell’uomo all’idea dell’inutilità dell’essere.

«Il più grande avvenimento recente» si dice all’inizio del quinto libro della Gaia scienza «– che “Dio è morto”, che la fede nel Dio cristiano è divenuta inaccettabile – comincia già a gettare le sue prime ombre sull’Europa. A quei pochi almeno, i cui occhi, la cui diffidenza negli occhi è abbastanza forte e sottile per questo spettacolo, pare appunto che un qualche sole sia tramontato, che una qualche antica, profonda fiducia si sia capovolta in dubbio: a costoro il nostro vecchio mondo dovrà sembrare ogni giorno più crepuscolare, più sfiduciato, più estraneo, più “antico”. Ma in sostanza si può dire che l’avvenimento stesso è fin troppo grande, troppo distante, troppo alieno dalla capacità di comprensione dei più perché possa dirsi già arrivata anche soltanto notizia di esso; e tanto meno, poi, perché molti già si rendano conto di quel che veramente è accaduto con questo avvenimento – e di tutto quello che ormai, essendo sepolta questa fede, deve crollare, perché su di essa era stato costruito, e in essa aveva trovato il suo appoggio, e dentro di essa era cresciuto: per esempio tutta la nostra morale europea». E, più avanti (afor. 357): «Mentre respingiamo in tal modo da noi l’interpretazione cristiana, condannandone il “senso” come un’opera di falsari, ecco che subito ci si viene avvicinando, spaventosamente, il quesito di Schopenhauer: ha dunque l’esistenza in generale un senso? – quel quesito che soltanto per essere udito in tutta la sua completezza e profondità avrà bisogno di un paio di secoli». Ma è nella morte di Dio, l’evento degli eventi, sentito, nella parabola dell’Uomo folle (afor. 125), come il crimine dei crimini che si collocherà l’istante decisivo del volere nella necessità circolare dell’essere; qui invece l’evento emerge in qualche modo dall’oblio come un’azione passata: «Quest’azione è ancor sempre più lontana dagli uomini delle stelle più lontane – eppure son loro che l’hanno compiuta!». E in effetti per Nietzsche il nichilismo, conseguenza della situazione storica dell’«agonia del cristianesimo», può essere superato soltanto se preso in carico dal volere come un atto sacrilego: «Dio è morto ... E noi lo abbiamo ucciso!... Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino a oggi si è dissanguato sotto i nostri coltelli – chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo lavarci? Quali riti espiatòri, quali sacre rappresentazioni dovremo inventare?»... Il concetto di sovr-umanità non significa niente se lo si separa dal contesto in cui il nichilismo deve essere assunto come sacrilegio: il sovrumano si annuncia come nuova maturità dello spirito tornato al sempre possibile, dove la caduta al di qua dell’umano e lo slancio al di là sembrano coincidere, indiscernibili l’uno dall’altro; malinteso che deve essere risolto e superato dal fatto stesso di volere. La libertà in cui si ritrova l’assassino di Dio (il nichilismo morale), derivando dalla soppressione del Decalogo (del tu devi), si rovescia improvvisamente in una cieca necessità in cui l’io sopravvive solo se impone a sé stesso un nuovo tu devi, il tu devi volere. Ma volere che cosa? Volere il nulla? Questa è, né più né meno, la situazione di fatto dell’Occidente; un volere inconscio, poiché l’umanità non può volere il nulla in quanto tale, pur consegnandosi al nulla nella sua impotenza a volere. (E Nietzsche, che altrove stigmatizza la mistica del nulla, parla qui [afor. 347] dei «miserabili cantucci» in cui si perdono con veemenza «i nostri più assennati contemporanei ... o in anguste professioni di fede estetica sul tipo del naturalisme parigino ... ovvero nel nichilismo alla moda di Pietroburgo [vale a dire nel credere nel non credere portato al martirio]». D’altra parte, egli considera conseguenze del nichilismo il senso di vacuità generale e la sua compensazione, ovvero il bisogno di eccitanti, caratteristica del mondo moderno). La reazione che Nietzsche mira a indurre contro il nichilismo, dopo averlo portato alla consapevole formulazione di una situazione storica, ha la sua molla nel concetto non più soltanto di morte, ma di messa a morte di Dio, in quanto atto sacrificale da parte di una volontà sacrilega, a partire dal momento in cui il volere ritrova l’integrità dell’essere come reintegrazione della propria sovranità; ed è assecondando quel moto che trascina l’io nel punto più basso (e qui morte di Dio e deicidio si confondono) per poi ricondurlo sulla più alta vetta che la volontà si afferma in un atto estremo, nell’istante in cui il tu devi volere, diventando un volere sé stesso, approda all’io sono come fui e come sarò sempre; ora, questa reintegrazione della sovranità dell’essere nell’enunciato «Io sono» non è qui concepita nel senso di un io fortuito che lo pronuncerebbe escludendo qualsiasi altro enunciato possibile, come nel caso del post-hegeliano Max Stirner, che, per parte sua, proclama l’assunzione pura e semplice del nulla da parte del proprio io: «Ho fondato la mia causa sul nulla». E in effetti, se Nietzsche ha inteso conferire al nichilismo de facto, all’ateismo volgare l’accento patetico del deicidio proclamato dall’Uomo folle, non lo ha certo fatto per promuovere il nulla fine a sé stesso, la negazione fine a sé stessa, bensì l’acquiescenza all’essere di cui il Dio morale dei cristiani, secondo lui, non è che un’alienazione utilitaria, alienazione della ricchezza dell’esistenza per via della morale (per Nietzsche sinonimo di avarizia); e poiché la distruzione della morale cristiana non ha affatto come scopo la licenza nel senso ottuso dell’ateismo volgare, il rifiuto del cristianesimo non mira a sopprimere una religione della sofferenza in quanto passione dell’esistenza, ma in quanto mercanteggiamento in cui la passione, ridotta a mero dolore, rivendica la salvezza esclusivamente in nome del dolore. «Noi siamo, in una parola – e deve essere, questa, la nostra parola d’onore! –, buoni Europei, gli eredi dell’Europa, i ricchi, stracolmi, ma, anche negli obblighi, smisuratamente ricchi eredi d’un millenario spirito europeo: in questo senso siamo cresciuti troppo anche per il cristianesimo, ostili a esso proprio perché è nel cristianesimo che abbiamo le nostre radici, perché i nostri antenati furono cristiani, di un’onestà assoluta come tali, essi che hanno sacrificato di buon animo alla loro fede sostanze e sangue, ceto sociale e patria. Noi – facciamo lo stesso. Per che cosa dunque? Per la nostra incredulità? Per ogni genere d’incredulità? No, voi lo sapete bene, amici miei! Quel nascosto  dentro di voi è più forte di tutti i no e i forse di cui siete malati insieme al vostro tempo: e se dovete tentare il mare, voi emigranti, è perché anche voi siete incalzati da – una fede!...». Se per Nietzsche il concetto di Dio «riassume tutto l’odio da sempre rivolto contro la vita», il sovrumano, nelle parabole di Zarathustra, non reintegra la sovranità dell’essere se non con il divino, in senso mitico, rinnovando così il mito di un’antica divinità come divinità a venire: Dioniso, figura suprema del sempre possibile, e che, mediante il pessimismo dionisiaco, libererà l’uomo dal suo nichilismo attuale (afor. 370).

In quale misura questa dottrina può essere insegnata? È almeno comunicabile? E a chi potrebbe essere comunicata? A chi si rivolge, oggi? A chi? Oppure questi interrogativi sono ormai del tutto superati? Questa dottrina non è separabile dalla sua vita, che, nel nostro mondo moderno, tenta di rinnovare l’antico significato di fatumsono l’uomo del fato. Resta da capire se l’amor fati, dunque un fatum «voluto», non sia appunto il paradosso della coscienza moderna, che ha «reintegrato», «interiorizzandolo», il Proclama di Lachesi2 E questo fatum voluto è incomunicabile, inalienabile perfino nella sua «alienazione» nel senso patologico del termine. A partire da Nietzsche, per il quale si trattava dell’unica possibile versione «moderna» della discesa empedoclea nell’Etna, «l’alienazione mentale» ha fatto la sua comparsa nelle vite degli uomini di lettere e, di conseguenza, ha cominciato a subire la deliberata indiscrezione della volgarizzazione pubblicitaria. Oggi un poeta sa già che, se gli capiterà di impazzire, la sua consacrazione sarà certa. Lo sa già: «Ancora qualche millennio sulla scia dell’ultimo secolo! – e in tutto l’operare dell’uomo si rivelerà la più alta saggezza; ma appunto con ciò la saggezza avrà perduto tutta la sua dignità. Allora sarà bensì necessario, ma allo stesso tempo così consueto e comune, essere saggi che un gusto aristocratico sentirà questa necessità come qualcosa di volgare. E allo stesso modo con cui una tirannide della verità e della scienza sarebbe in grado di far salire il prezzo della menzogna, così una tirannide della saggezza potrebbe far germogliare un nuovo genere di nobiltà interiore. Essere nobili – potrebbe allora forse voler dire: “Avere delle follie per la testa”». La gaia scienza, nel collocarsi in corrispondenza di una svolta decisiva nella vita di Nietzsche, contiene appunto alcune considerazioni riguardo alla comunicabilità delle sue esperienze. Nietzsche aveva nostalgia di discepoli e, forse ancor di più, di una comunità attiva ma chiusa. Forse ha vagheggiato un’azione di ampio respiro, tesa al rovesciamento di assetti sociali o istituzioni politiche (almeno a Torino, quando, trascinato dalle prime vertigini della follia, vale a dire al culmine della lucidità, diventato Dioniso e al tempo stesso il Crocifisso, vuole convocare a Roma i sovrani d’Europa per far fucilare il giovane Kaiser e gli antisemiti). E, mentre soppesava le possibilità di essere compreso, di trovare delle affinità con altri, nel contempo presagiva anche quell’infallibile legge della svalutazione di un’esperienza rara e autentica non appena quest’ultima entra a far parte delle abitudini di un maggior numero di individui, fino a diventare lo slogan popolare di una massa che se ne appropria senza passare attraverso i tormenti, i dolori e le gioie squisitamente inalienabili del singolo. La celebre sentenza di Gide – «dal momento che è dovuto diventare pazzo, noi non siamo più tenuti a impazzire» – è veridica soltanto se si ricava una lezione pratica dal suo magistero, e in particolare dall’«immoralismo». Ma da questo punto di vista la svalutazione ha compiuto la sua opera per via della standardizzazione industriale. Se vi è una lezione che la lettura di Nietzsche fornisce a ogni lettore attento, è l’orrore per la futilità: ebbene, oggi ormai immoralismo e futilità sono diventati sinonimi. Le «zitelle, le oche che dalla natura hanno ricevuto solamente l’innocenza» – con cui Nietzsche identificava i benpensanti del suo tempo – sono sparite dalla circolazione. Quasi quasi ci piacerebbe vederne ancora! La donna tentata è una mosca bianca. Questo segno dei tempi farebbe cambiare prospettiva a Nietzsche. Lo segnalo solo en passant, giusto per rammentare la confusione che si viene a creare, agli inizi del Novecento, fra il «nietzschianesimo» e l’emancipazione femminile, il movimento delle suffragette, il femminismo, nel quale Nietzsche vedeva un sintomo di decadenza. Nella prospettiva del nichilismo ascendente (in particolare, la socializzazione e la proletarizzazione massicce determinate dal mondo industrializzato, con la sua produzione a oltranza, il suo culto della produttività fine a sé stessa, tutte condizioni propizie a un generale impoverimento morale), Nietzsche prevedeva due movimenti che situava nel suo personale contesto, il clima della «morte di Dio». Due movimenti sono dunque possibili; uno è assoluto: «... livellamento dell’umanità, grandi formicai, ecc. ... L’altro movimento: il mio movimento: è, al contrario, l’inasprimento di ogni contraddizione e scissione, l’eliminazione dell’uguaglianza, la creazione di superpotenti. Quel movimento genera l’ultimo uomo. Il mio il superuomo. Il fine NON è assolutamente quello di concepire i secondi come signori dei primi: le due specie devono sussistere l’una accanto all’altra – il più possibile separate; l’una, come gli dèi di Epicuronon curandosi dell’altra» (cfr. La volontà di potenza). Insisto sull’ultima frase per sottolineare come qualsiasi idea di organizzazione «ideologica» per l’esercizio del potere si situasse esattamente agli antipodi delle sue aspirazioni, che qui si inscrivono addirittura sotto il segno dell’utopia. È nondimeno interessante rilevare ciò che pensava riguardo alle possibilità di esistenza di una comunità chiusa: «Ogni volta che la Riforma di tutto un popolo fallisce e a drizzare il capo sono soltanto le sètte, si può inferire che il popolo è già in sé molto differenziato, e che comincia a sbarazzarsi dei grossolani istinti del gregge e dell’eticità del costume: un significativo stato di sospensione che si è soliti denigrare come decadimento di costumi e corruzione: mentre, invece, esso annuncia il maturare dell’uovo e l’imminente infrangersi del guscio ... Quanto più universale e incondizionato può essere l’influsso d’un singolo, ovvero del pensiero di un singolo, tanto più indifferenziata e degradata deve essere la massa su cui si esercita questo influsso: mentre tentativi opposti tradiscono opposti bisogni interiori, tesi anch’essi a trovare appagamento e successo. Inversamente, si può sempre inferire una effettiva altezza della civiltà quando nature possenti e dominatrici finiscono per dar luogo soltanto a un effetto scarso e settario: questo vale anche per le singole arti e per i settori della conoscenza. Laddove si esercita un dominio, esistono masse: laddove esistono masse, ivi c’è un bisogno di schiavitù. Dove c’è schiavitù, gli individui non sono che pochi, e questi hanno contro di loro gli istinti del gregge e la coscienza» (La gaia scienza, afor. 149).

La gaia scienza, frutto della più grande solitudine che si possa immaginare, parla essenzialmente a degli individui che sapranno, loro sì, ritrovare quella solitudine, dunque a quelle nature che un fondo di nobiltà induce a rifiutare tanto la distrazione a ogni costo quanto il lavoro a ogni costo, e quindi a sopportare la noia: e qui veniamo ai benefici della solitudine, i quali, a dispetto dell’estremo isolamento di Nietzsche, gli davano la sensazione di essere sempre «entre nous»: «Tutto ciò che è della mia specie nella natura e nella storia, mi parla, mi loda, mi spinge innanzi, mi consola: il resto non lo intendo o lo dimentico subito. Noi siamo costantemente soltanto entre nous» (afor. 166). Quanto agli «stati d’animo elevati», gli sembra – così dice – che la maggior parte delle persone non creda affatto alla realtà di simili stati d’animo, ad eccezione di coloro che hanno avuto accesso per esperienza diretta a uno stato di elevazione di lunga durata. Nietzsche aggiunge che il fatto di essere l’individuo in cui s’incarna uno stato d’elevazione unico non è stato, fino allora, nient’altro che una «incantevole possibilità», ma che un giorno potrebbe anche accadere che la storia metta al mondo uomini del genere, «allorquando si sarà costituita e stabilita una quantità di condizioni preliminari favorevoli, che oggi neppure il caso più fortunato riesce ad accozzare insieme. Forse per queste anime dell’avvenire sarebbe lo stato d’animo abituale, quello che fino a oggi è entrato solo una volta ogni tanto nelle nostre anime, come un qualcosa d’eccezionale avvertito con un brivido: un movimento continuo tra l’alto e il basso e il sentire l’altezza e la profondità, un continuo salire per le scale e al tempo stesso riposare sulle nubi». Non è forse sorprendente, qui, che sia proprio dalla storia, vale a dire dall’evoluzione umana, che Nietzsche si aspetta la creazione di quelle «condizioni preliminari» grazie alle quali uno stato d’animo eccezionale diventerebbe uno stato ordinario? Certo, qui non viene detto che quelle anime future così dotate saranno tutte le anime; ma quand’anche egli avesse immaginato un ristretto novero di eletti, se non addirittura una casta quasi «sacerdotale» – lui che tanto apprezzava le Leggi di Manu –, una casta in grado di creare quelle condizioni preliminari di natura ascetica proprie delle comunità religiose, egli sembra tuttavia aver previsto, ancora una volta, che i suoi momenti privilegiati – il senso di «un movimento continuo tra l’alto e il basso» –, dovuti alle sue condizioni di vita, alla sua solitudine, non sarebbero comunque sfuggiti a quella inesorabile legge della svalutazione – voglio dire: alla legge dell’espropriazione di un caso personale – che accompagna necessariamente la creazione di condizioni preliminari: una legge a partire dalla quale queste ultime sono accessibili a molti, e poi a tutti; a meno che l’intero genere umano non acceda a un livello spirituale superiore... In entrambi i casi, è confermato l’eterno ritorno, che implica l’abolizione di qualsiasi vita personale, la quale è restituita all’essere, per la più gran gloria dell’essere.

SPERANZA OLTRE ALLA "BANALITÀ DEL MALE"

 


SPERANZA OLTRE ALLA "BANALITÀ DEL MALE" 

(Facebook 28/1/2017)


Paolo Bolzani 

Io credo che si debba evitare una interpretazione della visione arendtiana in termini di tragedia senza sbocchi.  Karl Jaspers suo maestro ed amico) scrive che si tratta di una “tragedia, che tuttavia non lascia senza speranze”. (H. Arendt, K. Jaspers, Briefwechsel 1926-1969, Monaco, 1985, pp 541-43). L'uomo infatti non perde mai completamente la sua capacità di agire, anche se spesso si trova a combattere con forze che non riuscirà mai a dominare del tutto completamente. Per la Arendt con l’agire «ci inseriamo nel mondo umano, e questo inserimento è come una seconda nascita, in cui confermiamo e ci sobbarchiamo la nuda realtà della nostra apparenza sica originale. Questo impulso non ci viene imposto dalla necessità, come il lavoro, e non ci è suggerito dall’utilità, come l’operare. [..] Agire, nel senso generale, significa prendere un’iniziativa, iniziare, incominciare, condurre, e anche governare, mettere in movimento qualcosa» (H. Arendt, Vita Activa la condizione umana, Milano, 2009, pag. 128). Quindi un prospettiva c'è, anche se non la vediamo. La vita dell’uomo è un continuo cambiamento. Parlo del continuo superamento, nella storia umana, di quanto l’esterno impone a ciascuno di noi, proprio a partire  dalla presa di coscienza di tale imposizione. Noi non possiamo non confrontare continuamente  il "ciò che si è" con il "ciò che si vuole essere" perchè l'uomo  è totalmente determinato e totalmente libero: in quanto  obbligato ad accettare il suo determinismo non può che partire per conquistare la propria libertà.

Severina Alberti

Vero. Sia la Arendt che Jaspers, ma anche altri fra i quali Benjamin sono 'ebrei'. Lo spirito di fondo che li accompagna è soprattutto la speranza... uno spirito messianico.

Il tema che tu hai toccato nei post precedenti, quello della responsabilità, c'entra, secondo me...   nella società, oltre alla forza modellante l'individuo (come vedeva Adorno) è presente   anche una forza che parte dal basso ...che reagisce...  E' una visione non deterministica... che vede l'uomo libero e responsabile. Mi ricordo un passo di Jaspers in cui dichiarava che, nonostante i colpevoli siano stati gli 'altri' lui si sentiva colpevole. 'noi c'entravamo, siamo stati i testimoni dell' orrore...quasi in silenzio. ( dovrei cercarlo perché non ricordo su quale testo l'ho letto)

Fabio Noto

Ci vogliamo 'responsabili', immaginando così d'esser nel 'giusto'. Ma la parola 'responsabile' racchiude un doppio senso, che fa emergere di rado la 'colpa' che sottende. Un po' come esser colpevoli per nascita.

Severina Alberti 

Non intendevo responsabile= essere nel giusto. Un ladro può rubare per sé o per altri con piena coscienza delle proprie azioni e conseguenze. Un 'ladro' in una 'catena di montaggio' per il furto può esserne cosciente oppure no. Potrebbe non essere consapevole dell' obiettivo della struttura alla quale appartiene. Altrimenti, Fabio, anche noi qui parliamo per parlare senza la responsabilità delle conseguenze del nostro dire. Forse sopra mi sono spiegata male.

Fabio Noto 

È un discorso molto complesso quello sulla responsabilità. Essa si inscrive in un 'sistema di valori', riconosciuto e riconoscibile per, anche, 'abitudine' (plasma il nostro abito e il nostro abitare). Eichmann, ad esempio, si sentiva profondamente responsabile nei confronti del 'sistema di valori' nazista. Poi divenne, con sua meraviglia, colpevole: il 'sistema di valori' era cambiato, non la doppiezza della parola 'responsabilità'.

Severina Alberti 

In un tuo post parli di olocausti 'moderni' nei quali il sistema anestetizza la coscienza per poter essere efficiente, nonostante la sua spietatezza... è vero. Tu quindi sei convinto che ci sono oggi sistemi che considerano bene ciò che in fondo è solo 'male'. C'è anche in te il riconoscimento di una differenza fra ciò che è bene e ciò che è male, fra la responsabilità e la mancanza della stessa perché si è sotto anestesia. Eichmann credeva di fare il bene del sistema...ma non era un uomo libero. Era un drogato di ideologia. Non era responsabile come uomo era il funzionario di un apparato ma quando ha scelto la 'droga' del nazismo non era nel sistema...era un uomo libero, quindi era colpevole.

Fabio Noto 

Ci sono sistemi, non solo oggi, che si preoccupano di distinguere un Bene e un Male, per dispiegare rapporti di forza. Ciascuno di noi abita uno di quei sistemi ed è, per ciò stesso, 'drogato' in partenza. Acquisisce una cultura, degli usi e dei costumi. Può 'disintossicarsi'? Difficile, dovrebbe uscire totalmente da quel sistema. Così c'è chi brancola, cercando lumi e ombre senza poter incidere in alcun modo. Se non per riempirsi una vita. Con la presunzione che ciò non sia una colpa, né un dovere. È solo vita.

Severina Alberti

Sembri anche tu un 'sistema'. L'analisi va bene, ma non si può negare la necessità di lasciare l'analisi e immergerci nel mondo: il rapporto diretto con il mondo richiede che ciascuno di noi si assuma le proprie responsabilità... senza delegare a nessun sistema. Insomma, Fabio io sono condizionata dal mio ambiente...ma anche'io condizionò l'ambiente... anche tu lo fai con l'agire e con le parole.

Fabio Noto 

Il 'mio ambiente' è estremamente circoscritto. Pensa quanta capacità di incidere possa avere, ad esempio, una multinazionale che, per sua natura, ha confini pressoché illimitati.

Severina Alberti 

Siamo usciti parecchio del seminato. Forse è meglio spostare la conversazione... E' interessante, ma non c'entra nulla con il tema della responsabilità.

Fabio Noto 

Ritorno al post di Paolo; che si conclude con la dicotomia tra "accettare il determinismo" (cioè la Necessità) e "conquistare la libertà": individuare questa antitesi, e porla come tale, ha come conseguenza la lotta per l'abolizione di uno dei due termini. Gli ultimi cento anni di storia umana (occidentale) sembrano avere come orizzonte la libertà: il che significa l'annullamento di ogni necessità e, quindi, la 'macchinizzazione' dell'umano nel solco della pura razionalità (cioè come 'creazione libera' dell'umano). La Ragione non accetta vincoli di sorta, si libera anche dell'uomo pur di prevalere. Ma, così facendo, è destinata a consegnarsi alla Necessità più pura: il proprio superamento.

 Paolo Giacobbe Piol

Fabio scusami, mangiare è una necessità e tu sei libero di decidere cosa mangiare, un esempio banale ma reale

Fabio Noto 

Scusa P.G., so di pretendere di 'volare alto' e tu mi riporti ad un reale che così banale non è. La Necessità di cui parlavo è qualcosa d'altro, non è riducibile all'umano. È l'incessante (da nec-cedere, scusa il gioco latino che sa di professorale) che tutto avvolge, come dicevano gli antichi greci. Ben al di là degli dèi olimpici. Rispetto a cui ogni apparente scelta si riduce a tracotanza. Ma non chiedo d'esser compreso. 😀

Paolo Giacobbe Piol 

Con l' esempio banale intendevo dire che la nostra libertà è limitata però questo non toglioe la nostra responsabilità.

Fabio Noto 

Perfetto. Inscritto nel nostro quotidiano sensato non fa, effettivamente, una grinza. È quando si esce da quel recinto che, però, si apre uno spazio infinito, dove tutto è possibile. Anche l'insensato. Il che non fa vivere 'meglio', sia chiaro

venerdì 27 gennaio 2023

I PASSANTI Franz Kafka



 RESPONSABILITÀ

A proposito del rapporto fra responsabilità e morale nel giorno dedicato alla Memoria, c'è un racconto per me molto illuminante di Kafka che si intitola  "I PASSANTI". Ecco il testo:"Quando di notte si passeggia per una via e, già visibile da lontano -perché la strada dinanzi a noi è in salita e c'è la luna piena-, un uomo corre verso di noi, noi non lo agguanteremo, anche se è debole e cencioso, anche se qualcuno lo rincorre urlando, bensì lo lasceremo andare.

Perché è notte, e non abbiamo colpa se dinanzi a noi la via è in salita nella luna piena, e oltre tutto quei due hanno forse inscenato la caccia per loro divertimento, forse entrambi inseguono un terzo, forse il primo viene inseguito pur essendo innocente, forse il secondo vuole uccidere, e noi diverremmo complici dell'assassinio, forse i due non sanno nulla l'uno dell'altro e corrono a letto ciascuno sotto la propria responsabilità, forse sono sonnambuli, forse il primo è armato.

E infine, non abbiamo forse il diritto di essere stanchi, e non abbiamo bevuto tanto vino? Non ci par vero che anche il secondo sia ormai scomparso dalla vista."


“I passanti” Franz Kafka






[...] "Questo suo mini-racconto s’intitola I passanti e fa parte della raccolta Meditazione. La versione analizzata è tratta dalla raccolta di tutti i racconti pubblicata da Mondadori nel 1988 (primo volume, pagina 129).

L’ambientazione è notturna e indistinta. Le indicazioni relative al luogo in cui si svolge sono imprecise, volutamente generiche. Kafka adotta un inconsueto plurale maiestatis, una specie di impersonalità pluralizzata. Probabile indizio della volontà di identificarsi con l’umanità dolente.

Un uomo che urla ne insegue un altro, fragile e malmesso. I “narratori” scelgono di non immischiarsi, abbandonando quei due al loro destino, qualunque esso sia. Si avverte in questo atteggiamento la tendenza dell’autore ad accettare come perfettamente naturali eventi che invece dovrebbero apparire bizzarri o inquietanti. L’attenzione si concentra, comunque, più sull’inseguito che sull’inseguitore, la cui unica ragion d’essere è la presenza del primo.

Nel secondo capoverso, dopo avere ribadito l’ambientazione notturna, gli “osservatori” avvertono la necessità di giustificarsi (non dipende da noi), anche se in realtà non ce ne sarebbe bisogno, perché in fondo ognuno è libero di comportarsi come meglio crede nei confronti del prossimo. Segue un elenco di ipotesi, ognuna delle quali introdotta da un forse. Si pensa immediatamente alla più comoda. È tutta una finta: quei due si stanno divertendo. Un modo per tranquillizzarsi, scaricando la coscienza, legittimando ulteriormente la decisione di restarne fuori. La paura di poter essere complici di un delitto è palpabile. L’unica certezza è proprio l’incertezza: forse i due s’ignorano completamente che è poi anche la condizione in cui si dibattono i “narratori”.

I quali nella conclusione rimangono sulla difensiva. Espongono nuove giustificazioni, rivendicano il diritto alla stanchezza, all’ebbrezza, all’indifferenza, ma soprattutto al sollievo: possiamo esser contenti di non vedere più nemmeno il secondo. Anche stavolta l’hanno scampata. Fino a quando, non si sa"

giovedì 26 gennaio 2023

TUTTE LE NOSTRE TRISTEZZE Estratto da "Lettere a un giovane poeta" Rainer Maria Rilke



TUTTE LE NOSTRE TRISTEZZE

Estratto da "Lettere a un giovane poeta" Rainer Maria Rilke


Borgeby gård, Flädie (Svezia), 12 agosto 1904

 

Voglio tornare a parlarvi ancora un tratto, caro signor Kappus, se anche non posso dirvi quasi nulla che rechi qualche aiuto, a pena qualcosa di utile. Voi avete avuto molte e grandi tristezze, che se ne sono andate. E dite che anche quel loro andarsene fu per voi difficile e irritante. Ma vi prego, riflettete se quelle grandi tristezze non siano piuttosto passate attraverso di voi. Se molto in voi non si sia trasformato, se in qualche parte, in qualche punto del vostro essere non vi siate mutato, mentre eravate triste. Pericolose e maligne sono quelle tristezze soltanto, che si portano tra la gente, per soverchiarle col rumore; come malattie, che vengano trattate superficialmente e in maniera sconsiderata, fanno solo un passo indietro e dopo una breve pausa erompono tanto più paurosamente; e si raccolgono nell’intimo e sono vita, sono vita non vissuta, avvilita, perduta, di cui si può morire. Ci fosse dato di veder più oltre che non giunga il nostro sapere e un poco più in là dei bastioni del nostro presentimento, forse allora sopporteremmo noi le nostre tristezze con maggior fiducia che le nostre gioie. Ché sono esse i momenti, in cui qualcosa di nuovo è entrato in noi, qualcosa di sconosciuto; i nostri sentimenti ammutoliscono in casta timidezza, tutto in noi indietreggia, sorge una calma, e il nuovo, che nessuno conosce, vi sta nel mezzo e tace.

Io credo che quasi tutte le nostre tristezze siano momenti di tensione, che noi risentiamo come paralisi, perché non udiamo più vivere i nostri sentimenti sorpresi. Perché noi siamo soli con la cosa straniera ch’è entrata in noi; perché quanto ci era confidente e abituale per un momento ci è tolto; perché noi siamo in un trapasso, dove non possiamo fermarci. Perciò anche passa la tristezza; il nuovo in noi, il sopravvenuto, è entrato nel nostro cuore, è penetrato nella sua camera più interna e anche là non è più, – è già nel sangue. E noi non apprendiamo che fosse. Ci si potrebbe facilmente persuadere che nulla sia accaduto, e pure noi ci siamo trasformati, come si trasforma una casa, in cui sia entrato un ospite. Noi non possiamo dire chi sia entrato, forse non lo sapremo mai, ma molti indizi suggeriscono che il futuro entra in noi in questa maniera per trasformarsi in noi, molto prima che accada. E però è tanto importante essere soli e attenti, quando si è tristi: perché il momento vuoto in apparenza e fisso, in cui il futuro entra in noi, è tanto più vicino alla vita, di quell’altro sonoro e casuale istante in cui esso, come dal di fuori, ci accade. Quanto più calmi, pazienti e aperti noi siamo nella tristezza, tanto più profondo e infallibile entra in noi il nuovo, tanto meglio noi ce lo conquistiamo, tanto più sarà esso nostro destino, e noi ci sentiremo, se un giorno più tardi «accadrà» (cioè da noi uscirà verso gli altri) nel più intimo affini e prossimi a lui. E questo è necessario. È necessario – e su questo cammino si svolgerà successivamente il nostro sviluppo, – che nulla ci accada di estraneo, ma solo quanto da lungo tempo ormai ci appartiene. Si sono già dovuti ripensare rovesciando tanti concetti di movimento, si imparerà anche a poco a poco a riconoscere che quello che noi chiamiamo destino esce dagli uomini, non entra in essi da fuori. Solo perché tanti non assorbirono e trasformarono in se stessi i loro destini, finché vivevano in loro, non riconobbero che cosa usciva da essi; era a loro così estraneo ch’essi credettero, nel loro terrore smarrito, che dovesse appunto ora essere entrato in loro, ché giuravano non avere in sé prima ritrovato mai cosa simile. Come a lungo ci si è ingannati sul movimento del sole, così ci s’inganna ancora sempre sul movimento dell’avvenire. Il futuro sta fermo, caro signor Kappus, ma noi ci moviamo nello spazio infinito.

Come dovremmo non sentirne fatica?

E se torniamo a parlare della solitudine, si chiarisce sempre più che non è cosa che sia dato scegliere o lasciare. Noi siamo soli. Ci si può ingannare su questo e fare come se non fosse così. È tutto. Ma quanto meglio è comprendere che noi lo siamo, soli, e anzi muovere di lì. E allora accadrà che saremo presi dalle vertigini; ché tutti i punti, su cui il nostro occhio usava riposare, ci vengono tolti, non v’è più nulla di vicino, e ogni cosa lontana è infinitamente lontana. Chi dalla sua stanza, quasi senza preparazione e trapasso, venisse posto sulla cima di una grande montagna, dovrebbe provare un senso simile: una incertezza senza uguali, un abbandono all’ignoto quasi l’annienterebbe. Egli vaneggerebbe di cadere o si crederebbe scagliato nello spazio o schiantato in mille frantumi; quale enorme menzogna dovrebbe inventare il suo cervello per recuperare e chiarire lo stato dei suoi sensi. Così si mutano per colui che diviene solitario tutte le distanze, tutte le misure; di queste mutazioni molte sorgono d’improvviso e, come in quell’uomo sulla cima della montagna, nascono allora straordinarie imaginazioni e strani sensi, che sembrano crescere sopra ogni misura sopportabile. Ma è necessario che noi consumiamo anche questa esperienza. Noi dobbiamo accogliere la nostra esistenza quanto più ampiamente ci riesca; tutto, anche l’inaudito, deve essere ivi possibile. È questo in fondo il solo coraggio, che a noi si richieda: il coraggio di fronte all’esperienza più strana, più prodigiosa e inesplicabile, che si possa incontrare. Che gli uomini fossero in questo senso vili, ha recato un danno infinito alla vita; le esperienze che si chiamano «apparizioni», tutto il così detto «mondo degli spiriti», la morte, tutte queste cose a noi così affini sono state tanto cacciate per difesa quotidiana dalla vita che i sensi, con cui le potremmo afferrare, sono rattrappiti. Non parliamo poi di Dio. Ma l’angoscia davanti all’inesplicabile non solo ha impoverito l’esistenza del singolo, anche le relazioni da uomo a uomo ne sono state ristrette, come trasportate da un alveo d’infinite possibilità su un argine incolto, a cui nulla accade. Ché non si deve solo alla pigrizia se le relazioni umane si ripetono così indicibilmente monotone e senza novità da caso a caso, ma alla paura di un’esperienza nuova, imprevedibile, a cui non ci si crede maturi. Ma solo chi è disposto a tutto, chi non esclude nulla, neanche la cosa più enigmatica, vivrà la relazione con un altro come qualcosa di vivente e attingerà sino al fondo la sua propria esistenza. Ché come noi pensiamo questa esistenza del singolo quale uno spazio o più grande o più piccolo, si mostra così che i più imparano a conoscere soltanto un angolo del loro spazio, un posto alla finestra, una striscia, su cui vanno su e giù. Così hanno essi una certa sicurezza. E pure è quella incertezza piena di pericoli tanto più umana, che spinge i prigionieri nelle storie di Poe a palpare le forme del loro pauroso carcere e a non estraniarsi agli indicibili terrori del loro soggiorno. Ma noi non siamo prigionieri. Non reti e trappole sono tese intorno a noi, e non v’è nulla che ci debba angosciare o tormentare. Noi siamo posti nella vita come nell’elemento più conforme a noi, e inoltre per adattamento millenario ci siamo tanto assimilati a questa vita, che, se ci teniamo immobili, per un felice mimetismo appena ci si può distinguere da tutto quanto ci attornia. Noi non abbiamo alcuna ragione di diffidare del nostro mondo, ché non è esso contro di noi. E se ha terrori, sono nostri terrori; se ha abissi, appartengono a noi questi abissi, se vi sono pericoli, dobbiamo tentare di amarli. E se solo indirizziamo la nostra vita secondo quel principio, che ci consiglia di attenerci sempre al difficile, quello che ora ci appare ancora la cosa più estranea, ci diventerà la più fida e fedele. Come possiamo dimenticarci di quegli antichi miti, che stanno alle origini di tutti i popoli? i miti dei draghi, che si tramutano nel momento supremo in principesse; sono forse tutti i draghi della nostra vita principesse, che attendono solo di vederci un giorno belli e coraggiosi. Forse ogni terrore è nel fondo ultimo l’inermità, che vuole aiuto da noi.

Così non dovete, caro signor Kappus, sgomentarvi, se una tristezza si leva davanti a voi, grande come ancora non ne avete viste; se una inquietudine, come luce e ombra di nuvole, scorre sulle vostre mani e su quanto voi fate. Dovete pensare che qualcosa accade in voi, che la vita non vi ha dimenticato, che vi tiene nella sua mano; non vi lascerà cadere. Perché volete voi escludere alcuna inquietudine, alcuna sofferenza, alcuna amarezza dalla vostra vita, poiché non sapete ancora che cosa tali stati stiano lavorando in voi? Perché mi volete voi perseguitare con la domanda di dove possa venire tutto questo e dove voglia finire? Quando pure sapete che siete in trapasso e nulla avete tanto desiderato quanto trasformarvi. Se qualcosa dei vostri processi ha l’aspetto d’una malattia, riflettete che la malattia è il mezzo con cui l’organismo si libera dall’estraneo; allora bisogna solo aiutarlo a essere malato, con tutta la sua malattia, che scoppi poiché questo è il suo progresso. In voi, caro signor Kappus, accadono ora tante cose: dovete essere paziente come un malato e guardingo come un convalescente, ché voi siete l’uno e l’altro. E più: voi siete anche il medico, che deve vigilare se stesso. Ma in ogni malattia ci sono molti giorni, in cui il medico non può fare altro che attendere. E questo è quello che voi, in quanto siete voi il vostro medico, ora anzitutto dovete fare.

Non vi osservate troppo. Non ricavate conclusioni troppo rapide da quello che vi accade; lasciate che semplicemente vi accada. O troppo facilmente arriverete a guardare con risentimento (cioè: moralmente) il vostro passato, che naturalmente è compartecipe a tutto quello che ora vi accade. Ciò che in voi opera ancora degli errori, desideri e brame della vostra fanciullezza, non è però quello che ricordate e giudicaste. Le straordinarie condizioni di un’infanzia solitaria e inerme sono così difficili, così complicate, abbandonate a tante influenze e nello stesso tempo così sciolte da tutte le reali connessioni della vita, che dove un vizio entra in essa, non lo si può senz’altro chiamare vizio. Si deve in generale esser così prudenti coi nomi, è spesso il nome di un delitto, a cui la vita s’infrange, non l’azione stessa senza nome e personale, che forse era una necessità assolutamente determinata di quella vita e senza fatica potrebbe venirne assunta. E lo spreco di forza solo perciò vi appare così grande, perché stimate troppo la vittoria; non è essa la cosa «grande», che voi credete di avere compiuta, se anche il vostro sentimento ha ragione; grande è che già qualcosa esisteva, che poteste mettere al luogo di quell’inganno, qualcosa di vero e di reale. Senza di questo anche la vostra vittoria sarebbe stata soltanto una reazione morale, senza vasto significato, così invece è divenuta una fase della vostra vita. Della vostra vita, caro signor Kappus, a cui io penso con tanti voti. Vi ricordate come questa vita bramava di uscire dall’infanzia incontro ai «grandi»? Io vedo come ora dai «grandi» si tende oltre verso più grandi. Perciò resta difficile, ma perciò anche non finirà di crescere.

E se vi debbo dire ancora una cosa, è questa: non crediate che colui, che tenta di confortarvi, viva senza fatica in mezzo alle parole semplici e calme, che qualche volta vi fanno bene. La sua vita reca molta fatica e tristezza e resta lontana dietro a loro. Ma, fosse altrimenti, egli non avrebbe potuto trovare quelle parole.

 

Il vostro
RAINER MARIA RILKE

SPARARE A UNA COLOMBA David Grossman



 SPARARE A UNA COLOMBA

David Grossman 

[...] In un certo senso, si può dire che il popolo ebraico, e di fatto quasi ogni ebreo, sia un colombo viaggiatore della Shoah, che lo voglia o no.[...]

Il colombo viaggiatore della Shoah

Discorso tenuto in occasione

del ricevimento della laurea honoris causa

dell’Università di Firenze, 28 gennaio 2008

Shalom, buon giorno.

Rettore magnifico, autorità, preside, professori, gentili ospiti, ambasciatore d’Israele e soprattutto cari amici, grazie di essere venuti.

Prima di tutto vi ringrazio del grande onore che mi concedete oggi. Vi ringrazio per come leggete i miei libri e mi date forza nel cammino che perseguo. Non c’è soddisfazione più grande di questa per uno scrittore. Qui oggi vorrei parlare di cose sulle quali ho scritto molto, che vivo incessantemente in qualità di ebreo, di israeliano e di scrittore. Cose che toccano la ferita aperta tra gli ebrei e gli altri popoli del mondo, soprattutto quelli europei.

Oggi ricorre la Giornata internazionale della memoria. Sei milioni di ebrei morirono in Europa in un eccidio senza precedenti nella storia dell’umanità e dopo il quale l’umanità non fu più la stessa. Ecco alcuni interrogativi che la Giornata della memoria risveglia: esiste oggi un dibattito sulla Shoah inteso come avvenimento dal valore universale e non esclusivamente ebraico? Tale dibattito è significativo e autentico, oppure, con l’andar degli anni, si è trasformato in una sorta di obbligo formale? Di tributo che il senso di colpa europeo si sente in dovere di pagare una volta all’anno agli ebrei e ai patimenti da loro subiti durante la Shoah? E noi, rappresentanti di questa generazione, di tutti i popoli e le religioni, comprendiamo l’incisività e l’attualità degli interrogativi che la Shoah ci prospetta e la rilevanza che hanno per noi ancora oggi, soprattutto oggi?

Questi interrogativi concernono, peraltro, anche il nostro rapporto con gli stranieri, i diversi, i deboli di ogni nazione del globo; concernono l’indifferenza che il mondo mostra, di volta in volta, verso episodi di massacro in Ruanda, in Congo, in Kosovo, in Cecenia, nel Darfur; concernono la malvagità e la crudeltà del genere umano che nel periodo della Shoah si profilarono come concreta possibilità di comportamento. In che modo i suddetti interrogativi trovano espressione nella nostra vita e quale influenza hanno sulla conformazione e sulla condotta del genere umano? In altre parole: la memoria che serbiamo della Shoah può essere veramente una sorta di segnale d’avvertimento morale? E siamo noi in grado di trasformare i suoi insegnamenti in parte integrante della nostra vita?

A causa del poco tempo a disposizione vorrei parlare solo di un determinato aspetto della memoria della Shoah e di come, a mio parere, sia possibile rivitalizzare il dibattito intorno a essa e renderlo più rilevante nella vita di ciascuno di noi. Quanto più ci allontaniamo dall’epoca degli avvenimenti, quanto più il numero dei sopravvissuti diminuisce, tanto più cresce il timore che il dibattito sulla Shoah rimanga circoscritto a un ambito accademico, astratto, e perda gradualmente il legame con una dimensione umana, individuale, privata. Apparentemente, questo è un processo naturale. Coloro che ricordano si allontanano dalla sofferenza personale delle vittime a favore di una prospettiva storica più ampia, generale, teorica. In un certo senso, è più facile e persino comodo occuparsi di un evento storico traumatico con gli strumenti del pensiero astratto e del dibattito concettuale, piuttosto che esporsi di volta in volta alle atrocità, all’insopportabile sofferenza del singolo, dell’individuo, dell’uomo, della donna e del bambino vittime di quel trauma. Noi ebrei non abbiamo altra scelta che toccare direttamente con mano la Shoah in quasi ogni circostanza o congiuntura significativa della nostra vita. La Shoah ha elaborato in noi schemi di pensiero e di condotta ravvisabili in quasi ogni ambito della nostra esistenza. Dal modo in cui alleviamo e educhiamo i figli a quello in cui lo Stato di Israele affronta i problemi di sicurezza e di politica estera. Ma la Shoah è più che altro presente nel modo occulto, tragico, con cui gli israeliani e gli ebrei percepiscono la loro esistenza in quanto popolo, la loro diversità, l’agghiacciante peculiarità del loro destino, la loro estraneità tra gli altri popoli. Nell’esperienza della loro esistenza, che appare immancabilmente fragile, incerta, sempre in bilico e sulla quale incombe l’ombra di una qualche minaccia. Mentre altri popoli possono, con relativa facilità, evitare di riflettere sulle conseguenze della Shoah, e dunque sfuggire a un dibattito profondo che le concerne, noi ebrei siamo condannati a dibatterle ripetutamente, a cadere talvolta nella trappola dell’angoscia esistenziale che la Shoah ha scavato in noi, a definire gli aspetti significativi della nostra vita nei termini categorici, estremi, che la Shoah ha lasciato impressi in noi. In un certo senso, si può dire che il popolo ebraico, e di fatto quasi ogni ebreo, sia un colombo viaggiatore della Shoah, che lo voglia o no.

Ma affinché questa disquisizione non rimanga a un livello puramente teorico, non appaia come una sorta di dissertazione filosofica distante dagli esseri umani, vorrei raccontarvi una storia di quel periodo. Non è una storia particolarmente traumatica. Ne ho sentite di più brutte e terribili. Eppure racchiude una tale sofferenza e un tale dolore che da anni non mi dà pace.

Si tratta della vicenda di un giornalista ebreo polacco di nome Leib Rochman. Negli anni Trenta del secolo scorso Rochman scriveva per un giornale in yiddish pubblicato a Varsavia. Dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale, fece ritorno alla cittadina nella quale era nato, Mińsk Mazowiecki, situata a est di Varsavia, dove operò come “assistente sociale” tra gli ebrei del ghetto, facendo meraviglie nel procacciare cibo agli affamati. Nel 1942 sposò Ester, anch’ella nativa del luogo, e tre mesi dopo i nazisti sterminarono la comunità ebraica. Dei seimila ebrei della cittadina ne rimasero meno di venti.

Leib ed Ester, insieme alla sorella minore di quest’ultima, riuscirono a mettersi in salvo e a trovare rifugio presso una donna il cui soprannome era “Ciotka”, zia in polacco, un’anziana prostituta cordiale e piena di vita. Affidarono a degli amici i risparmi che avevano messo da parte negli anni anteriori alla guerra e di tanto in tanto mandavano da loro Ciotka, affinché venisse pagata, continuasse a tenerli con sé e si occupasse della loro sopravvivenza. Nel suo salotto Ciotka costruì per Leib ed Ester una parete, a poca distanza dal muro originario, che creava un nascondiglio. Leib, sua moglie e sua cognata vissero in quell’intercapedine tra le due pareti per quasi due anni. A un certo punto decisero di portarvi anche Haim, il fratellino minore di Ester, che era tenuto prigioniero in un campo dei dintorni, e consegnarono a Ciotka del denaro affinché si recasse al campo, corrompesse le guardie, liberasse Haim e lo conducesse da loro.

Ciotka si mise in viaggio ma, strada facendo, bevve un po’, divenne allegra, passò accanto a una fiera, salì su una giostra, si divertì e quando finì di spendere tutto il denaro che aveva con sé tornò a casa senza Haim. Quella notte i tedeschi giustiziarono tutti i prigionieri del campo e anche Haim morì.

Quando Leib ed Ester vennero a sapere che Haim non era più in vita decisero di salvare un altro ebreo, il quale, per quanto non fosse un loro amico stretto, possedeva una vasta cultura ebraica e parlava la lingua della Bibbia. Poiché credevano che non ci fossero quasi più ebrei al mondo, ritennero indispensabile tentare di salvare chi potesse perpetuare lo spirito e la tradizione ebraica. (A volte penso: tre ebrei vivevano dietro una parete, ignari di ciò che avveniva nel mondo, eppure decisero di salvare qualcuno in grado di tramandare l’ebraismo. Questa fu la loro considerazione, a quell’epoca.) Così fecero arrivare Efraim, e dopo di lui un altro ebreo, più anziano di tutti loro. Ora erano in cinque. Il vano creato tra le pareti era largo pochi centimetri. Di notte uscivano strisciando dall’intercapedine e dormivano sul pavimento del salotto di Ciotka. La mattina, prima che il sole si levasse, rientravano strisciando attraverso un pertugio nascosto dietro un letto, si infilavano tra le due pareti e rimanevano lì, in piedi. Cinque persone, schiena contro schiena, faccia contro faccia. A causa della mancanza di spazio, non potevano girarsi né muoversi. Non potevano vedere nulla. Tra le pareti regnava l’oscurità. Restavano in piedi fino al calare della notte. Di tanto in tanto da Ciotka arrivavano degli ospiti e i cinque ascoltavano i loro discorsi. La sorella di Ester, che aveva diciotto anni, nell’udire Ciotka dare consigli alle ragazze su argomenti intimi era colta da scoppi di ilarità. Ed Efraim, che era allergico alla polvere, a volte starnutiva così forte che tutti temevano di essere scoperti da chi si trovava al di là della finta parete.

Vissero così per due anni. Per un certo periodo si trasferirono in una buca scavata sotto una stalla, da cui non uscivano nemmeno di notte. La maggior parte del tempo, però, la trascorrevano fra le due pareti. In piedi. In silenzio. Ciotka portava loro del cibo e dei vasi da notte in cui fare i propri bisogni, ma Leib e i suoi compagni diventavano sempre più deboli, si ammalarono gravemente e non poterono ricevere cure. Da dietro la parete sentivano talvolta le voci di ebrei perseguitati che arrivavano in quella casa a chiedere un tozzo di pane. Un giorno giunsero due bambini, e dopo di loro una vedova. Un poco alla volta, però, queste persone smisero di arrivare e a quel punto Leib, Ester e i loro compagni erano ormai sicuri di essere gli ultimi ebrei rimasti al mondo, e che tutti gli altri, a eccezione di loro, fossero stati uccisi. Scavando nella memoria, i tre uomini tentarono di ricomporre un breviario di preghiere, di ricostruire un calendario ebraico. Quando giunse il giorno in cui, secondo i loro calcoli, cadeva lo Yom Kippur, digiunarono. E quando, in base alle loro supposizioni, arrivò la Pasqua, si astennero dal mangiare cibo lievitato per una settimana.

Rimasero nascosti fino alla fine della guerra, quando finalmente poterono uscire. Leib Rochman era molto malato e debole. I cinque abbandonarono il nascondiglio e si misero in viaggio, senza sapere per dove. Cinque ebrei pressoché nudi. Gli abiti che indossavano si erano logorati in quei due anni. Attraversarono i villaggi intorno a Lublino. Bussarono a porte. Supplicarono per un tozzo di pane, per un po’ d’acqua. Nessuno aprì. Nessuno diede loro né pane né acqua. Ovunque andassero, la gente li indicava e diceva stupita, in tono di scherno: “Ma come? Sono rimasti così tanti ebrei?”.

Una volta trovarono rifugio in un campo di prigionieri vuoto, il cui recinto era stato sfondato, e vi trascorsero la notte. C’erano giacigli e tavolacci e su quelli dormirono. La mattina, al loro risveglio, scoprirono di essere nel campo di concentramento di Majdanek, liberato un paio di giorni prima dai russi, e di aver dormito sui letti dei prigionieri. Alla luce del giorno, gironzolarono per il campo e all’improvviso scoprirono la Shoah.

Non sapevano esattamente che cosa fosse avvenuto negli ultimi due anni e ora vedevano davanti a sé mucchi di cadaveri e cumuli di cenere delle persone che erano state bruciate. Non riuscivano a crederci: tutto era lì, sotto i loro occhi, eppure non riuscivano a capacitarsi che fosse successo veramente, che una cosa simile fosse stata possibile. A quel punto si imbatterono in un gruppo di ufficiali e di guardie del campo catturati dai russi. I tedeschi, prigionieri, stavano seduti al centro, accerchiati dai soldati dell’Armata rossa.

Così, nello stesso giorno, Leib e i suoi compagni videro le vittime e i carnefici. I carnefici in carne e ossa. Non qualcosa di astratto, un qualche simbolo del male. Lì, davanti a loro, c’erano gli assassini che avevano messo in atto il piano della “soluzione finale”. Di colpo, Leib Rochman non fu più in grado di sopportarlo. Corse verso un soldato russo e gli strappò di mano il fucile, con l’intenzione di sparare ai tedeschi. Fermo davanti a loro, prese la mira, ma non riuscì a premere il grilletto. Quasi impazzì, urlò, ma non poté farlo.

Allora gridò, in yiddish: “Aufstein! Fallen!” – “In piedi! A terra!”. I tedeschi, sicuri che quell’uomo stesse per ucciderli, scattarono in piedi e si lasciarono cadere a terra, più volte. Leib capì che non sarebbe riuscito ad ammazzarli. Non sapendo cosa fare, buttò via il fucile, si ritirò in disparte e scoppiò a piangere e, tossendo, per la prima volta sputò sangue. Allora scoprì di essere malato di tubercolosi.

Leib ed Ester Rochman ebbero molte altre vicissitudini, attraversarono numerose nazioni e alla fine giunsero in Terra di Israele. Si stabilirono a Gerusalemme ed ebbero un figlio e una figlia. Quest’ultima, la poetessa Rivka Miriam Rochman, è una mia cara e buona amica ed è da lei che ho appreso questa storia. Leib Rochman divenne giornalista dell’emittente radio israeliana Kol Israel, ma per gran parte della sua vita si dedicò alla scrittura. Pubblicò due romanzi e una raccolta di racconti che ritengo esempi meravigliosi di letteratura innovativa, profonda, che discende negli abissi dell’animo umano. Questa è la storia sua e di sua moglie Ester.

Ci sono altri milioni di storie come questa. Ogni persona morta, o sopravvissuta, è una vicenda a sé e tutte queste storie, in apparenza, si mantengono su un piano totalmente diverso da quello su cui si dibattono oggi le grandi “questioni” relative alla Shoah, sempre che avvenga. Tali questioni vertono soprattutto sulla negazione della Shoah, sulla crescita del numero dei neonazisti in diverse nazioni e sul rafforzamento dell’antisemitismo nel mondo. Negli ultimi anni, la discussione circa il diritto dei tedeschi di considerarsi vittime di quella guerra al pari di altri popoli, o addirittura di creare una simmetria – errata e inammissibile, a mio parere – tra la loro sofferenza e quella degli ebrei durante la Shoah si fa sempre più accesa. Le vicende personali di Leib ed Ester Rochman, così come quelle di altri milioni di persone, si mantengono, come ho detto, su un piano diverso, ma senza di esse un dibattito sulla Shoah non sarebbe completo e sarebbe impossibile creare un legame emotivo tra le generazioni future e ciò che avvenne allora. Dirò di più: senza quelle storie personali il dibattito sulla Shoah potrebbe talvolta apparire un tentativo inconsapevole di difendersi dall’orrore di ciò che avvenne. E, spingendoci oltre, si potrebbe ipotizzare che senza di esse il dibattito si spegnerebbe lentamente.

Proprio le vicende individuali, private, sono il “luogo” più universale, la dimensione entro la quale è possibile creare il senso di identificazione umana e morale con le vittime che spinge chiunque a porsi ardui interrogativi: come mi sarei comportato io se fossi vissuto a quell’epoca, in quella realtà? Come mi sarei comportato se fossi stato una delle vittime, o un connazionale degli aguzzini?

Ho l’impressione che fino a che non risponderemo a queste domande – ognuno per proprio conto –, fino a che non ci sottoporremo a questo autointerrogatorio, non potremo dire a noi stessi di avere affrontato pienamente ciò che avvenne “lassù”. E se non lo faremo, dimenticheremo.

Più si assottiglia il numero dei sopravvissuti (e malgrado il lavoro di documentazione portato avanti da Yad vaShem, il museo israeliano dedicato alla memoria delle vittime della Shoah, e, nell’ultimo decennio, dall’Archivio Spielberg), più cresce l’importanza dell’arte quale possibile mezzo per affrontare questi interrogativi. La letteratura, la poesia, il teatro, la musica, il cinema, la pittura e la scultura sono i “luoghi” in cui l’individuo moderno può affrontare la Shoah ed esplorare le sensazioni e la particolare esperienza umana che la ricerca e il dibattito accademici solitamente non sono in grado di far rivivere. Stalin disse una volta che la morte di un uomo è una tragedia, quella di milioni è statistica. Grazie all’arte, noi siamo in grado di redimere la tragedia dalla statistica, di riscattarla da una visione astratta, accademica, di studio. L’arte è lo strumento più accessibile e comprensibile con il quale gran parte di noi può oggi venire a contatto direttamente e lucidamente con la memoria della Shoah e con gli insegnamenti che da essa derivano. È una grossa responsabilità per gli artisti presentare le cose in modo immediato, non manipolatorio, sentimentale, volgare o esaltato. È molto difficile penetrare in quelle tenebre, nel luogo dove tutte le bussole impazzirono, e mostrare chiaramente la follia di ciò che avvenne. Mediante l’arte possiamo ravvivare il linguaggio con il quale descrivere ciò che accadde, senza sedimentarci in cliché di parole e di sentimenti intesi a proteggerci da quell’insopportabile sofferenza. Ancora e di nuovo, in un’infinità di varianti, dobbiamo raccontare a noi stessi e agli altri quella storia terribile, con tutte le sue atrocità, ma anche con le sue scintille di luce e di pietà, e di compassione, e di coraggio. Raccontarne i substrati con gli strumenti della coscienza, dell’intelletto, del sentimento. Raccontarla basandoci sulla conoscenza dei fatti storici, facendo riecheggiare gli interrogativi morali, sociali e filosofici che essa risveglia, ma mantenendo sempre un legame con le vicende personali degli esseri umani che la vissero. Ponendo noi stessi “lassù”, al posto loro, con loro. Ancora e di nuovo, dobbiamo tornare lassù, identificarci totalmente con la donna, con l’uomo, con il bambino costretti a spogliarsi gli uni davanti agli altri un attimo prima di essere giustiziati e gettati in una fossa. Tornare a essere con i due bambini ebrei presi prigionieri durante un rastrellamento mentre giocavano a pallone con i loro amici cristiani, e che quando il treno che li trasportava via passò accanto al campo di calcio videro attraverso le fessure del vagone i compagni che continuavano a giocare. Tornare a essere con i residenti del ghetto di Łódź, ai quali i nazisti ordinarono di scegliere ventiquattromila vecchi e bambini che venissero inviati allo sterminio, assicurando però che, se avessero scelto piccoli sotto i dieci anni, quattromila di quei bambini avrebbero potuto essere salvati. Tornare a essere con le due donne e i tre uomini che per giorni e settimane e mesi e anni rimasero in piedi, al buio, tra due pareti.

Il mio modo di tornare a raccontare questa storia è stato scrivendo Vedi alla voce: amore. Scrissi quel libro perché ero arrivato a un momento della mia vita in cui sentivo di non poterne più fare a meno. Di non poter più vivere e comprendere appieno la mia vita di essere umano, di padre, di ebreo, di israeliano e di scrittore fintanto che non avessi sperimentato, grazie alla scrittura, l’esistenza che non avevo avuto “lassù”, all’epoca della Shoah. Dovevo capire se e in che modo sarei stato in grado di mantenere una parvenza umana qualora mi fossi trovato “lassù”, come una delle vittime, o anche, Dio non voglia, come uno dei carnefici. Volevo sapere che cosa un uomo deve cancellare, o rimuovere, dentro di sé per arrivare a essere parte di un meccanismo omicida. In altre parole, che cosa avrei dovuto sopprimere in me stesso per poter sopprimere altri uomini, o anche soltanto accettare quella situazione in silenzio.

È evidente che tali interrogativi sono pertinenti non solo al periodo della Shoah ma anche a situazioni meno estreme. La vita moderna e la società umana costituitasi intorno a noi – aggressiva, anonima, aliena – ci sfidano a porci questi interrogativi in un’infinità di contesti e di circostanze.

Ognuno di noi può rispondervi a proprio modo. Io lo faccio scrivendo: immagino che questo sia il motivo per il quale avete deciso di concedermi oggi questa laurea ad honorem. Prometto che i miei libri continueranno a porre questi interrogativi e cercheranno di dar loro una risposta. Ancora e di nuovo e ancora.

Sempre resistere alle forze contrarie

Discorso tenuto alla cerimonia di consegna

del premio intitolato ai fratelli Sophie e Hans Scholl,

Monaco, 24 novembre 2008

Buona sera.

Innanzitutto vorrei ringraziare il comitato incaricato dell’assegnazione del Premio alla memoria dei fratelli Scholl, i dirigenti dell’Università di Monaco, le autorità cittadine, i miei editori e redattori in Germania, le mie traduttrici, i miei amici arrivati qui stasera da lontano e voi, caro pubblico.

Questo premio mi emoziona in modo particolare e vorrei spiegare perché è tanto importante e significativo per me.

Qualche anno fa un anziano ebreo mi raccontò la seguente storia: un giorno, durante l’occupazione nazista di Vilnius, stava giocando a calcio con alcuni suoi compagni, ebrei e cristiani, nel cortile della scuola. La partita era accanita ed entusiasmante. All’improvviso, in tutta la città gli altoparlanti annunciarono una retata.

Nel giro di pochi istanti, soldati tedeschi fecero irruzione nella scuola e arrestarono i ragazzi ebrei che, un’ora dopo, erano già su un treno che li portava allo sterminio. Il treno transitò in prossimità del cortile della scuola. I ragazzi ebrei sbirciarono dalle fessure del vagone e videro i loro compagni che continuavano a giocare a calcio.

Questo racconto non è particolarmente drammatico. A quei tempi, com’è noto, avvenivano cose ben più terribili. Eppure, da quando l’ho sentito, non ho smesso di pensarci perché, più di qualunque altro, rivela quella capacità umana, tanto ambigua e raffinata, di ignorare ciò che accade intorno a noi. Di non fare i conti con la propria coscienza. Di chiudere gli occhi e di andare avanti per la propria strada come se nulla fosse.

Signore e signori,

oggi mi consegnate questo premio prestigioso intitolato a due giovani che presero la decisione più difficile e pericolosa: quella di non chiudere gli occhi, di non andare avanti per la loro strada come se nulla fosse. Al contrario: decisero di vedere tutto. Se ne andarono in giro per il mondo come se avessero strappato loro le palpebre, chiedendo conto alla propria coscienza di ciò che vedevano.

E osarono chiamare le cose per nome: gli omicidi, omicidi, la malvagità, malvagità, la follia, follia. Rifiutarono il lessico e gli schemi di pensiero imposti dalle autorità, dall’esercito, dalla stampa, dal potente apparato di propaganda, dallo spirito del tempo. Durante il loro processo, il presidente del Tribunale del Popolo domandò a quei giovani come giustificassero ciò che avevano fatto e Sophie Scholl, con semplice e limpida ingenuità, rispose: «Qualcuno doveva cominciare, dopotutto».

E loro avevano cominciato. Furono molto coraggiosi. Non so chi fra noi, qui, in questa sala, sarebbe stato capace di fare lo stesso. Non so se io ne sarei stato capace. Se avrei avuto il coraggio di essere così diverso e solo, di mantenermi fedele a me stesso all’interno di una società – di un intero popolo – che pensava e agiva in maniera tanto dissimile dalla mia. Mi piacerebbe crederci, ma mentirei se dicessi che ne sono certo.

Ho scritto Vedi alla voce: amore, un romanzo sulla Shoah, per cercare di rispondere, tra l’altro, proprio a questo interrogativo: come mi sarei comportato io se fossi vissuto a quell’epoca? Avrei osato – o sarei potuto – rimanere me stesso in un vortice tanto violento, travolgente, totale? Ovviamente, prima di tutto, me lo sono chiesto in quanto ebreo. Nei panni di chi era destinato allo sterminio ed era stato privato di tutto ciò che gli era caro. In che modo avrei cercato – se ne avessi avuto la forza – di serbare la mia indole, la mia scintilla di umanità, in una situazione totalmente programmata per cancellarmi dalla faccia della terra e dalla coscienza?

C’era però un’altra domanda che mi tormentava mentre scrivevo Vedi alla voce: amore. Se fossi stato tedesco, a quel tempo, sarei riuscito a resistere alla prepotente ondata che aveva investito e travolto la quasi totalità del mio popolo? A trovare dentro di me gli anticorpi contro la febbre nazionalista, razzista e violenta che aveva colpito un’intera nazione? A individuare per tempo il momento in cui avrei iniziato a collaborare con meccanismi estremamente sofisticati progettati per far sì che persone normali, equilibrate e dai ragionevoli principi morali rinunciassero gradatamente al libero pensiero, al libero arbitrio, ad avere una volontà propria e ai valori etici in base ai quali avevano vissuto fino a quel momento?

Cari amici,

non è semplice per me parlare della Shoah con dei tedeschi. Quasi sempre ho la sensazione di non riuscire a esprimere con precisione ciò che vorrei. Di essere troppo suscettibile, o di esagerare. Talvolta, invece di esternare il mio dolore personale, mi ritrovo a parlare come un “rappresentante” di qualcosa, o di qualcuno. Sono sospettoso nei confronti di me stesso e bado continuamente a non cadere in qualche involontaria manipolazione emotiva laddove occorre mantenere un rigore assoluto. Sono consapevole di quanto sia preponderante il sentimento di offesa dentro di me quando penso a ciò che è accaduto durante la Shoah. Non provo rabbia, odio, e neppure un desiderio di vendetta; piuttosto, una sensazione di amara offesa per il fatto che cose simili siano state fatte a degli esseri umani.

E so che nulla quanto l’offesa è in grado di cristallizzare in un individuo una sorta di cocente risentimento, che è di per sé umiliante.

Ma ecco che la vicenda di Sophie e Hans Scholl e dei loro compagni del movimento clandestino della Rosa Bianca mi permette (e forse non solo a me) di parlare di ciò che accadde qui, a Monaco, in Germania, in Europa, senza sentirmi intrappolato in quell’offesa.

I fratelli Scholl e i loro compagni crearono una minuscola e audace cellula clandestina in una realtà di cecità, di omertà e di deriva scaturita da un’ondata di pulsioni nazionaliste e razziste. Il loro modo di agire, per quanto raro, dimostra con chiarezza che esiste un margine di libertà di scelta in quasi ogni situazione (benché sia difficile da mettere in pratica) e che anche in un contesto dominato da un sistema totalmente arbitrario ognuno di noi ha la possibilità di definirsi in maniera autonoma, di sottrarsi alla sfera di controllo assoluto di quel sistema.

Il modo in cui gli esseri umani affrontano l’arbitrio e la tirannia ha suscitato il mio interesse da che sono scrittore. In quasi tutti i miei libri c’è un tentativo – o un desiderio – di creare “cellule” semiclandestine di libera scelta, di individualismo, di idiosincrasia nei confronti di una realtà dispotica, coercitiva e alienante. I personaggi che descrivo lottano quasi sempre contro un qualche “meccanismo” rigido, indifferente e insensibile. Contro l’umiliante realtà dell’occupazione militare della Cisgiordania, per esempio, o contro il modo in cui tutti noi impariamo a adattarci a un primo tipo di arbitrio, quello del corpo, per cui la nostra anima – libera, elastica, infinita all’apparenza – è costretta a rassegnarsi a una dimensione fisica e ristretta: alla complessa burocrazia del nostro organismo.

Nei miei libri, e soprattutto nell’ultimo, A un cerbiatto somiglia il mio amore, che sarà pubblicato il prossimo anno in Germania, ho cercato di descrivere, tra le altre cose, la vita odierna in Israele, il pericolo di soccombere alle ansie e alla disperazione causate dal protratto conflitto con i Paesi arabi, e l’immenso sforzo di proteggere la sfera familiare, delicata, intima e vulnerabile, in una realtà tanto brutale e violenta.

Guardando oggi gli israeliani – e anche i palestinesi – è possibile notare come le circostanze arbitrarie in cui sono intrappolati filtrino nelle loro cellule più intime. Da decenni sono imprigionati in un meccanismo quasi automatico di botta e risposta, di disperazione a cui fa seguito una fugace euforia, e tutti noi, israeliani e palestinesi, siamo prigionieri di una situazione in cui, giorno dopo giorno, la nostra libertà decisionale, di pensiero e di azione, si riduce sempre di più.

Io scrivo da trent’anni e, ormai lo so, ogni volta che parlo in maniera dettagliata della lotta di un singolo contro qualunque tipo di arbitrio, scopro che qualcosa in me cambia, si redime. E se insisto a descrivere accuratamente le sensazioni e le sottili sfumature di questa lotta, riformulando con parole mie una situazione che si va via via cristallizzando intorno a me, mi rendo conto di aver percorso un altro millimetro della distanza che mi separa da ciò che in passato mi sembrava irraggiungibile, e immutabile.

Non che scrivendo io abbia trovato un modo migliore di accettare le contraddizioni tra il corpo e l’anima. E nemmeno ho veramente capito come un essere umano possa cancellare se stesso fino a diventare parte di un meccanismo di sterminio. Né tantomeno mi illudo che, raccontando meticolosamente le ingiustizie dell’occupazione militare, questa finisca. Però il mio atteggiamento nei confronti di ciò che sembrava inalterabile cambia. Nel momento in cui comincio a scrivere non sono più paralizzato dinanzi all’arbitrio – qualunque tipo di arbitrio –, e situazioni che mi sembravano eterne, assolute, monolitiche – quasi condanne celesti, o umane – rivelano nuove sfumature. Riesco a muovermi con una certa libertà dinanzi a ciò che in precedenza, per paura o disperazione, mi impietriva. Non sono più una vittima.

E, da ebreo e da israeliano, questa sensazione di non essere più una vittima e di non dover più subire alcun arbitrio è forse il risultato più confortante dopo tutto ciò che ho vissuto e passato in questi ultimi anni.

Allen Gewalten zum Trotz sich erhaltena è, com’è noto, un verso di una poesia di Goethe che il padre di Hans Scholl era solito leggergli da bambino. E sono le parole che Hans scrisse a matita su un muro della prigione pochi minuti prima di essere condotto al patibolo.

Anche se Hans e Sophie e i loro compagni furono trucidati dal regime di quell’epoca ecco che, di fatto, non ne furono vittime. In una realtà tirannica e totalitaria, stabilirono le loro regole, le loro norme e i loro valori. In un luogo e in un tempo in cui decine di milioni di persone ruggivano all’unisono “noi”, loro dissero “io”.

Conoscete forse un coraggio e una libertà più grandi di questi?

Vi ringrazio per avermi ritenuto degno di ricevere questo premio.


a. Dalla poesia di J.W. Goethe Feiger Gedanken (Di pensieri ignavi). I versi originali sono: “Allen Gewalten / zum Trutz sich erhalten” (“Sempre resistere / alle forze contrarie”, trad. it. Cento Poesie, Einaudi, Torino 2011).



Combattere l’arbitrio

Discorso tenuto in occasione del conferimento

del Premio per la pace

dell’Associazione librai di Francoforte, 10 ottobre 2010

Signore e signori,

quando cominciai a scrivere A un cerbiatto somiglia il mio amore sapevo di voler raccontare la storia di Israele che da più di cent’anni – da ancor prima che diventasse una nazione – si trova in uno stato di guerra. E sapevo che l’avrei raccontata attraverso la storia privata, intima, di una famiglia. Sarete forse d’accordo con me che il vero grande dramma dell’umanità è quello della famiglia. E poiché siamo tutti nati in una famiglia, ognuno di noi è un personaggio di questo dramma. Ai miei occhi, i momenti più salienti della storia non sono avvenuti sui campi di battaglia, in saloni di palazzi o nei parlamenti, bensì in cucine, in camere da letto o nelle camerette dei bambini. In A un cerbiatto somiglia il mio amore ho cercato di mostrare come il conflitto mediorientale si proietti con brutalità sulla fragile e delicata sfera familiare e come, inevitabilmente, ne modifichi il tessuto. Ho tentato di descrivere la lotta che persone intrappolate in questo conflitto, o in un qualunque scontro violento e protratto, devono affrontare per mantenere il sottile e complesso intreccio dei rapporti umani, per serbare sentimenti di tenerezza, sensibilità e compassione, in un contesto difficile e indifferente, nel quale il volto del singolo viene cancellato. Talvolta paragono il tentativo di preservare questi sentimenti nel pieno di una guerra a quello di camminare con una candela in mano durante una violenta tempesta.

Permettetemi ora di condurvi, con una candela in mano, in mezzo a questa violenta tempesta.

Se mi chiedeste che cosa mi auguro per il conflitto israelo-palestinese, la mia risposta, ovviamente, sarebbe che finisca al più presto, che si trovi una soluzione, che regni la pace. Ma forse, allora, insistereste a chiedere: “E se dovesse durare ancora a lungo, quale sarebbe il tuo più grande desiderio?”. Dopo aver provato una fitta di dolore per questa domanda risponderei che, in quel caso, vorrei imparare a non rinchiudermi in me stesso per cercare di proteggermi, ma a essere il più possibile esposto alle atrocità e alle ingiustizie, grandi e piccole, che il conflitto crea e ci presenta ogni giorno. Per me, trovarmi in un confronto tanto prolungato significa soprattutto osservare, tenere gli occhi ben aperti. Non sempre ci riesco, non sempre ho la forza d’animo di farlo, però so per lo meno di dover tentare, per essere consapevole di ciò che succede, di che cosa viene fatto a nome mio e di ciò a cui sto collaborando, malgrado lo disapprovi nella maniera più assoluta. Devo vedere per reagire e dire a me stesso e agli altri ciò che provo. E devo descrivere quegli eventi con parole mie, senza farmi tentare da definizioni e termini che il governo, l’esercito, le mie paure, o persino il nemico, cercano di impormi.

E vorrei ricordare – e spesso è questa la cosa più difficile – che anche chi mi sta di fronte, il nemico che mi odia e vede in me una minaccia alla sua esistenza, è un essere umano che ha una famiglia, dei figli, una propria idea di giustizia, speranze, angosce, paure, limitatezze.

Signore e signori, oggi mi conferite questo prestigioso Premio per la pace, e della pace voglio parlare. È indispensabile parlarne, insistere a parlarne, soprattutto in una realtà come la nostra. È importante praticare una rianimazione costante e intensa alla coscienza spaventata e paralizzata degli israeliani e dei palestinesi per i quali la parola “pace” è quasi un sinonimo di illusione, di visione, se non di trappola mortale.

Dopo cent’anni di guerra, infatti, e decenni di occupazione e di terrorismo, la maggior parte di noi e dei nostri avversari non crede più nella possibilità di una vera pace. Non osa nemmeno immaginare una situazione di pace. È rassegnata al fatto di essere probabilmente costretta a vivere in una spirale infinita di violenza e di morte.

Ma chi ha rinunciato a questa possibilità è già sconfitto, si è autocondannato a una guerra perpetua. E talvolta occorre ricordare – e a maggior ragione su questo autorevole palco – ciò che è ovvio: le due parti, israeliani e palestinesi, hanno il diritto di vivere in tranquillità, liberi da occupazioni, dal terrorismo, dall’odio. Hanno il diritto di guarire dalle ferite provocate da un secolo di guerre e di condurre un’esistenza dignitosa, sia come singoli che come popoli indipendenti in un loro Stato sovrano. E non solo ne hanno il diritto: ne hanno anche bisogno. Un bisogno estremo e vitale.

Non posso dire che cosa si aspettino i palestinesi dalla pace. Non sono autorizzato a sognare per loro. Posso solo augurargli, dal profondo del cuore, che conoscano al più presto un’esistenza di libertà e di sovranità dopo anni di oppressione e di occupazione sotto turchi, inglesi, egiziani, giordani, israeliani; che costruiscano la loro nazione, uno Stato democratico, in cui crescere i figli senza paura, condurre una vita normale, pacifica, e godere di ciò che questa può offrire a qualunque essere umano.

Posso però parlare dei miei desideri e delle mie speranze di israeliano e di ebreo. Ai miei occhi, la parola “pace” non definisce solamente una situazione in cui la guerra, con tutte le sue paure, sarà finalmente finita e Israele manterrà buoni rapporti con i suoi vicini. La vera pace, per Israele, significherà un nuovo modo di essere nel mondo, la possibilità di guarire lentamente dalle distorsioni causate da duemila anni di diaspora, di persecuzioni, di antisemitismo e di demonizzazione. E forse, tra molti anni, se questa fragile pace resisterà, se Israele rafforzerà le basi della propria esistenza e potrà sfruttare appieno il suo grande potenziale umano, spirituale e culturale, anche la sensazione di estraneità esistenziale, di isolamento, che il singolo e il popolo ebreo provano in mezzo agli altri, svanirà.

Con la pace Israele avrà finalmente dei confini, cosa non da poco, soprattutto per un popolo che per gran parte della sua storia è stato disperso in altre nazioni, e molte delle sue tragedie sono scaturite proprio da questo. Pensate: ormai da sessantadue anni Israele non ha confini definiti. Le sue frontiere sono instabili e vengono modificate, ampliate o ridotte, ogni decennio. E, nel nostro mondo, chi non possiede dei confini chiari è paragonabile a chi vive in una casa dove i muri ondeggiano e la terra trema costantemente sotto i suoi piedi. A chi non possiede una vera casa.

Nonostante la sua grande forza militare, Israele non è ancora riuscito a infondere nei suoi cittadini quel senso di naturale serenità che contraddistingue chi è al sicuro nel proprio Paese. Non è riuscito – ed è questa la tragedia – a guarire gli ebrei da un’amarezza di fondo: dal disagio di non sentirsi quasi mai a casa da nessuna parte.

Dopotutto, Israele è stato creato per essere il rifugio del popolo ebraico. Era questo il sogno all’origine della sua creazione. Ma fintanto che non avremo la pace, dei confini definiti e concordati, e non proveremo un vero senso di sicurezza, noi israeliani non avremo la dimora che ci meritiamo e di cui abbiamo bisogno. Non ci sentiremo a nostro agio nel mondo.

Di sicuro ve ne rendete conto: certe parole, pronunciate da un ebreo israeliano in Germania, producono un’eco come in nessun’altra parte del mondo. Ciò di cui parlo, i termini che utilizzo, i palpiti della memoria che risvegliano, provengono dalla ferita della Shoah e lì fanno ritorno. Molto di ciò che avviene in Israele, sia in ambito privato (nei rapporti di un uomo con la famiglia o con gli amici), sia in quello pubblico, politico e militare, intrattiene un dialogo complesso con la Shoah, con il modo con cui questa ha forgiato la coscienza ebraica e israeliana. Anche le cose che dico qui, nella Paulskirche, sede del primo parlamento tedesco democraticamente eletto nel 1848, le mie parole, tornano sempre “lassù” e a quei giorni, come un colombo viaggiatore della Shoah.

Al tempo stesso, però, e senza fare paragoni inaccettabili tra situazioni storiche completamente diverse, ricordo a me stesso che qui, in Germania, si può anche vedere come un popolo sia riuscito a risollevarsi non solo dalla distruzione fisica ma anche dallo sgretolamento di ogni genere di umanità, dal superamento di ogni limite e remora, impegnandosi a rispettare valori etici e democratici e a educare i giovani all’idea della pace.

Ma torniamo alla realtà del Medio Oriente: solo la pace potrà curare Israele dal profondo timore che palpita nei cuori dei suoi cittadini circa il futuro del loro Paese e dei loro figli. Credo che non ci sia nessun altro Stato al mondo che vive in preda a una tale ansia esistenziale. Quando voi leggete sul giornale che la Germania ha grandi progetti per il 2030, la cosa vi sembra logica e naturale, mentre nessun israeliano farebbe progetti così a lungo termine. Se penso a Israele nel 2030 provo una stretta al cuore, come se avessi profanato un qualche tabù concedendomi di immaginare un futuro tanto lontano...

Solo la pace darà a Israele una casa, un domani, generazioni future. E solo la pace permetterà a noi israeliani di vivere in una situazione, o di provare una sensazione, mai sperimentata prima: quella di un’esistenza stabile.

Chi è stato esiliato, deportato, perseguitato, cacciato ripetutamente per gran parte della sua storia, chi ha errato, sospeso tra la vita e la morte, per migliaia di anni, può solo aspirare a un’esistenza stabile e sicura nella propria patria, alla sensazione di essere un popolo radicato nella propria terra con confini protetti e riconosciuti dalla comunità internazionale, accettato dai vicini, in buoni rapporti con loro, integrato nel tessuto delle loro vite, con la prospettiva di un futuro e finalmente a casa nel mondo.

Eccomi qui a parlarvi della pace. È strano. Io che non ho mai conosciuto un solo istante di vera pace, vengo a parlarne a voi? Eppure ritengo che a darmi il diritto di farlo sia proprio ciò che conosco della guerra. Già da molti anni la mia vita e i miei libri si dipanano in un miscuglio di scontri, timori delle loro conseguenze, ansia per Israele e per i miei cari, lotta per avere una vita privata, intima, non eroica, in una situazione spesso monopolizzata dal conflitto, dalla tempesta, dalla candela.

E più conosco la distruzione e la devastazione di una vita in uno stato di guerra, più sento il bisogno di scrivere, di creare, come se così facendo potessi rivendicare il mio diritto all’individualità, a dire “io” anziché “noi”.

La guerra, per sua natura, cancella le sfumature che fanno sì che un individuo sia unico, annulla la meravigliosa peculiarità di ogni essere umano. E con la stessa violenza rinnega la somiglianza fra gli esseri umani, le cose che ci rendono uguali, il nostro comune destino.

La letteratura – non solo scrivere libri, ma anche leggerli – è l’opposto di tutto ciò. È la totale dedizione all’individuo, al suo diritto di essere, al destino che condivide con l’intera umanità. La letteratura è la stupefazione per l’uomo, per la sua complessità, per la sua ricchezza, per le sue ombre.

Quando scrivo, cerco con tutte le mie forze di redimere ogni personaggio dalla morsa dell’estraneità, della banalità, degli stereotipi, dei cliché, dei pregiudizi. Talvolta lotto per anni per cercare di capire ogni aspetto di una figura umana, per essere lei.

C’è un che di tenero, quasi materno, nel modo in cui uno scrittore cerca di percepire con tutti i suoi sensi i sentimenti e le emozioni dei personaggi che crea. C’è un che di vulnerabile e di candido nella sua disponibilità a dedicarsi senza difese alle figure di cui scrive. E forse è questo il grande dono che può offrire la letteratura a chi vive in uno stato di guerra, di alienazione, di discriminazione, di povertà e di esilio, con la sensazione che il suo “io” venga continuamente calpestato: la capacità di restituirci un volto umano.

Signore e signori, ho esordito parlando di come ho cominciato a scrivere A un cerbiatto somiglia il mio amore. Forse sapete che il romanzo narra di un soldato israeliano che parte per la guerra e della madre che, in ansia per il figlio, fugge di casa perché la comunicazione della sua morte non la raggiunga.

Tre anni e tre mesi dopo avere cominciato la stesura del libro, in seguito a un improvviso attacco di Hezbollah a una pattuglia israeliana in ricognizione dentro i confini di Israele, scoppiò la seconda guerra del Libano.

La sera di sabato 12 agosto 2006, poche ore prima del cessate il fuoco, mio figlio Uri, che faceva parte dell’equipaggio di un carro armato, fu colpito da un razzo di Hezbollah e rimase ucciso insieme ai suoi tre compagni.

Dirò solo questo: pensate a un ragazzo che si affaccia alla vita con tutte le speranze, l’entusiasmo, la gioia di vivere, l’ingenuità, l’umorismo e i desideri di un giovane uomo. Così era Uri. Così erano le migliaia di israeliani, palestinesi, libanesi, siriani, giordani ed egiziani che hanno perso e continuano a perdere la vita in questo conflitto. Al termine della settimana del lutto ripresi a scrivere.

Quando a un uomo capita una tragedia, una delle sensazioni più forti che prova è quella di sentirsi esiliato da tutto ciò in cui credeva e di cui era certo, dalla storia della sua vita. All’improvviso niente è più scontato.

Per me, tornare a scrivere è stato un atto istintivo. Avevo la sensazione che così facendo sarei potuto, in un certo senso, tornare dall’esilio.

Mi rimisi a scrivere. Ripresi in mano quella storia che, stranamente, era uno dei pochi aspetti della mia vita che ancora riuscivo a capire. Mi misi a tavolino e cominciai a riannodare i fili lacerati della trama. Dopo qualche settimana tornai ad assaporare, per la prima volta, e con un certo stupore, il piacere di creare. Mi ritrovai a cercare per ore una parola che descrivesse con esattezza un determinato sentimento. Sapevo di non potermi accontentare di un termine che non rispecchiasse fedelmente ciò che intendevo esprimere, e a tratti mi meravigliavo che qualcosa di così piccolo attirasse tanto la mia attenzione, quando tutto intorno a me era crollato. Ma non appena trovavo quella parola, avvertivo una soddisfazione che pensavo non avrei mai più assaporato in vita mia: quella di fare qualcosa di giusto in un mondo tanto caotico. Talvolta mi sentivo come chi, dopo un terremoto, esce dalle macerie della propria casa, si guarda intorno, e comincia ad accatastare un mattone sull’altro.

E mentre scrivevo a poco a poco riaffiorava in me il piacere di immaginare, di inventare, lo stimolo del gioco e della scoperta che palpitano in ogni creazione. Ideavo personaggi, soffiavo in loro la vita, il calore e la fantasia che non credevo più di avere in me. Davo loro una realtà, una quotidianità. Ritrovavo il desiderio di toccare tutte le sfumature di un sentimento, di una situazione, di un rapporto. E non temevo il dolore che talvolta tutto questo implica.

Riscoprivo che scrivere, per me, è il modo migliore di combattere l’arbitrio – qualunque tipo di arbitrio – e la sensazione di essere una vittima impotente. E ho imparato che in certe situazioni l’unica libertà che un uomo ha è quella di descrivere con parole sue il proprio destino. Talvolta è un modo per non essere più una vittima. E questo è vero sia per il singolo che per le comunità, per i popoli.

Mi auguro che il mio Paese, Israele, trovi la forza di riscrivere la propria storia. Di porsi in maniera nuova e coraggiosa dinanzi al suo tragico passato e di rinascere da esso. Mi auguro che tutti noi troveremo la forza necessaria per distinguere i veri pericoli dai potenti echi delle sciagure e delle tragedie che ci hanno colpito in passato, per non essere più vittime dei nostri nemici o delle nostre angosce e per arrivare, finalmente, a casa.

Grazie e shalom.

Gettare un’àncora nel futuro. Riflessioni sulla libertà

Discorso tenuto in occasione del 75° compleanno

del presidente tedesco Joachim Gauk, Berlino, 29 gennaio 2015

Illustri ospiti, caro presidente Gauk,

quando lei oggi, dall’alto dei suoi settantacinque anni, si guarda indietro, credo possa essere orgoglioso della sua vita. Non molte persone hanno superato come lei tante difficoltà. E ancora meno sono quelle che hanno avuto il privilegio di vedere realizzato il sogno di libertà per il quale avevano combattuto, di diventarne il portavoce e uno dei simboli.

Caro Joachim Gauk, noi ci conosciamo solo da quattro anni. Ci siamo incontrati in varie occasioni, a Gerusalemme e in Germania, e ogni volta mi sono detto: “Quest’uomo è un vero mentsch”. Non nell’accezione tedesca del termine Mensch – essere umano –, però: in quella yiddish, nel senso di una persona sulla quale si può contare in ogni occasione, un uomo che si dimostra tale anche in una realtà in cui è difficile esserlo, in cui non è facile mostrarsi umani.

E lei, durante i suoi anni di lotta a Rostock, ha dato prova di essere un vero mentsch.

Vorrei ringraziarla per avere scelto me, uno scrittore israeliano, come oratore nel giorno del suo compleanno, qui a Berlino. Non è una scelta ovvia e mi commuove in modo particolare. Soprattutto, però, la ringrazio di avermi chiesto di parlare del concetto di libertà, dandomi così l’opportunità di formulare pensieri rimasti finora a livello di sensazioni, o di istinti, dentro di me. In fondo, una persona sa – talvolta in maniera del tutto inconscia – in quali aspetti della propria vita e della propria anima è libera, e in quali, invece, la libertà gli è negata. Il suo invito mi ha aiutato a chiarire a me stesso questi aspetti, nonché il complesso contesto della società in cui vivo, in Israele e nel conflitto mediorientale, e anche di questo la ringrazio.

Quando sono libero?

Sono libero quando non soffro la fame, il freddo, privazioni fisiche e mentali. Sono libero quando non sono oggetto di discriminazione e di scherno. Sono libero quando mi è concesso di stare con le persone che mi sono care senza alcuna restrizione. Sono libero quando non temo l’arbitrarietà di altri esseri umani. Sono libero quando so di poter essere diverso, dissimile dagli altri e persino fuori dal comune, senza però dover soffrire ed essere “punito” per questo in alcun modo. Sono libero quando posso esprimere i miei pensieri e le mie opinioni, e non quelle impostemi da altri. Sono libero quando posso descrivere con le mie parole una particolare situazione senza che nessuno me lo impedisca, o mi costringa a usare termini e frasi che non mi appartengono.

Ognuno dei presenti in questa sala potrebbe aggiungere le proprie definizioni di “libertà”. Non dimentico, per esempio, che qualcuno potrebbe sentirsi libero interiormente malgrado non sussistano tutte le condizioni sopraccitate. E so anche che io non sarò libero fintanto che negherò a qualcun altro – a un individuo, o a un intero popolo – anche una sola di queste condizioni.

Mentre scrivevo queste righe affiorava in me la sensazione che la libertà, in sostanza, sia indissolubilmente legata al concetto di “speranza”. Quasi che questa parola, “libertà”, contenesse in sé un verbo declinato al futuro, in costante movimento verso qualcosa, e anche una qualche promessa non ancora del tutto adempiuta. Forse perché persino nelle società e nei Paesi più liberi e tolleranti ci sono libertà che devono ancora essere definite, ottenute, e per le quali si deve continuare a combattere. O forse perché il progresso e l’evoluzione umani creano immancabilmente nuove e inaspettate limitazioni alla libertà, quando non vere e proprie forme di subordinazione.

La libertà è intrinsecamente correlata alla speranza e la speranza è imprescindibilmente legata alla forza dell’immaginazione umana, alla nostra capacità di concepire, con grande vitalità, situazioni che trascendono quelle in cui ci troviamo, permettendoci così di affrancarci dalla loro morsa.

Lei, signor Presidente, ha ben formulato tutto questo nel suo libro Libertà!, quando ha scritto: “Nel luogo in cui ho trascorso la mia vita (nella RDT, cioè) non c’era libertà se non nei desideri e nei pensieri”.

Con queste semplici parole ha espresso il ruolo della speranza e dell’immaginazione nello slancio verso la libertà, nonché quel senso di affrancamento interiore intrinseco alla capacità di sperare, di aggrapparsi alla speranza, persino quando si è oppressi da un regime di prevaricazione e di terrore. Anche chi non ha vissuto in prima persona una simile situazione può immaginare quanto sia arduo serbare una qualsiasi capacità di slancio interiore, fluida e creativa, quando l’animo è rattrappito dalla paura e teme il contatto con la realtà. Non è difficile intuire come, nella mente delle vittime della tirannia e dell’intimidazione, i “canali interiori” in cui scorre la linfa vitale dell’uomo si ostruiscano.

La speranza e l’immaginazione umane possiedono strane qualità: apparentemente si focalizzano al di fuori dell’uomo e del presente, in una dimensione futura dalle possibilità ancora inattuate. Ma affinché gli oppressi possano liberarsi dalle loro catene devono, grazie all’immaginazione, serbare l’idea viva e dinamica della libertà a cui aspirano. In altre parole, la speranza è frutto di un esercizio mentale e, in un certo senso, può essere considerata un atto creativo, in quanto dipinge agli occhi di chi è sottomesso, o di una società asservita, un quadro di vita ricco e vivace, diverso da quello in cui si è imprigionati.

E si potrebbe anche dire che la speranza è una sorta di àncora che, da un’esistenza assoggettata e disperata, viene gettata in una realtà ancora inesistente, costituita per lo più da intime aspirazioni. E questo atto di “gettare” un’àncora nel futuro, la capacità di farlo, è già un modo di delineare uno spazio libero nell’animo di chi osa sperare.

È interessante che una persona, o un’intera società, lanci lontano – nel futuro – un sogno, o una visione, e che, a partire da quel momento, quel sogno o quella visione agiscano su chi li ha concepiti come una potente calamita, attirandolo a sé.

La speranza di essere liberi, come lei sa per esperienza, signor presidente, talvolta esiste a dispetto di tutto, contro ogni probabilità, spesso contro la realtà dei fatti. Per anni lei, da pastore protestante, ha mantenuto vive le sue speranze e quelle dei membri della sua congregazione. Lei sa che la speranza non è una vacua illusione (malgrado all’apparenza non abbia alcuna possibilità di vedersi avverata), nemmeno quando l’asservimento – nelle sue mille forme e varianti – è totale. In un clima di disperazione generale, quando la forza di volontà della maggioranza si affievolisce, coloro che non si danno per vinti ma si impegnano a realizzare le proprie aspirazioni continuano a serbare nel profondo un angolo di libertà che nessuno potrà usurpare, contaminare o sottrargli, e grazie al quale sono consapevoli di come dovrebbe, o potrebbe essere una vita libera. E quanto valga la pena di lottare per averla.

Tale consapevolezza è forse la leva di Archimede con la quale queste persone iniziano a sgretolare una realtà oppressiva o un regime tirannico e a produrre un cambiamento.

Signore e signori, io vengo da Israele, dal cuore di un conflitto che prosegue da oltre cento anni e di cui non si vede la fine. Nella realtà delle nostre vite in Medio Oriente, parole quali “pace” o “speranza” potrebbero risuonare come vuoti slogan. La pace, infatti, o anche la sola speranza di pace, è oggi ritenuta da molti in Israele un’idea delirante, infantile, ingenua; un’illusione pericolosa e ingannevole che potrebbe indurci a rinunciare alla nostra capacità di diffidare degli altri, di rimanere all’erta, di sopravvivere.

Sempre più persone in Israele, e anche in Palestina, sostengono che “La situazione non cambierà mai”, che “Vivremo in eterno con la spada in mano”, che “Siamo condannati a vivere e a morire di spada”. Frasi che si ripetono da decenni. Ciò che è cambiato, negli ultimi tempi, è il tono con cui vengono pronunciate: come un lamento querulo, che racchiude un senso di rassegnazione a una situazione percepita come una sorta di “legge della natura”, o un assioma. Una specie di destino ineluttabile che non permetterà mai a queste due nazioni, Israele e Palestina, di arrivare alla pace.

In mancanza di un processo politico e di speranza è la disperazione a dettare la realtà. E come la speranza implica libertà e movimento, la disperazione paralizza, limita, sottomette. Oggi, in Israele e nei Territori dell’Autorità palestinese, prevale una sensazione generale di paralisi e di stallo. Ma è una sensazione fuorviante, che pregiudica in maniera pericolosa la percezione della realtà. Laddove ci sono esseri umani, infatti, in special modo oppressi, non c’è vero stallo. Al contrario: c’è una fiamma che brucia sempre più forte. Ci sono frustrazione, umiliazione, desiderio di vendetta. E tutti questi sentimenti, addensandosi, rinfocolano il fanatismo religioso e nazionalista, rischiando di esplodere con una forza e una violenza forse persino più letali di quelle registrate l’estate scorsa, durante la guerra a Gaza.

Considero l’affermazione che il conflitto tra Israele e i palestinesi sia irrisolvibile come un’ammissione di sconfitta di entrambe le parti. Una sconfitta non sul campo di battaglia o nell’arena politica, ma umana. Nel momento in cui abbandoniamo la speranza di raggiungere la pace, di remare costantemente verso la pace, qualcosa di profondo e di vitale ci viene portato via.

Quando un popolo rinuncia a desiderare una vita migliore e più ricca, quando rinuncia al senso di libertà interiore che può attizzare questo desiderio, di fatto si proclama vittima. Vittima passiva e indifesa delle azioni altrui, di circostanze al di fuori del suo controllo.

Da ebreo e da israeliano, faccio fatica ad accettare una cosa simile. La grande e miracolosa idea alla base dello Stato di Israele sta nel fatto che il popolo ebraico è tornato alla sua terra natale, a casa, dove non sarà più impotente di fronte alla volontà e alle azioni altrui. Dove non sarà più vittima.

Oggi Israele è il Paese più forte del Medio Oriente. Il suo esercito è il decimo al mondo per dimensioni e potenza. È un Paese sovrano e prospero che gode del sostegno di potenze quali gli Stati Uniti, la Germania, la Gran Bretagna e la Francia. È uno Stato intraprendente, pionieristico, all’avanguardia in molti campi: agricoltura, scienza, cultura, industria, tecnologia e informatica. Solo sulla questione più vitale per la sua esistenza – quella della pace – si mostra spaventato, intrappolato, passivo.

Israele, ovviamente, ha molte ragioni di preoccuparsi, di sentirsi in ansia. Il Medio Oriente è una regione turbolenta, violenta, in cui operano forze e correnti fondamentaliste. Gran parte dei Paesi arabi è estremamente ostile allo Stato ebraico e aspira apertamente a distruggerlo. I palestinesi combattono fra di loro. Il movimento fanatico di Hamas si rafforza e non è affatto chiaro se la leadership palestinese sia pronta a un vero compromesso. Ma proprio dinanzi a questi pericoli e minacce, l’inattività, la mancanza di iniziativa e la paralisi che i governi israeliani mostrano da anni non rappresentano una strategia efficace. Di fatto, una situazione di paralisi non può essere considerata una strategia politica.

Questo stato di cose, sommato alla crescente violenza nei Paesi limitrofi, sta spingendo la popolazione ebraica di Israele verso disposizioni d’animo vulnerabili e pericolose. In noi, nel 2015, tornano ad affiorare ricordi di traumi del passato e di persecuzioni, l’angoscia per il destino del popolo ebraico e un senso di alienazione esistenziale.

Per tutte queste ragioni e, ovviamente, per l’inconcepibile fatto che Israele domina un altro popolo ormai da quarantasette anni, non ci troviamo oggi in una condizione di libertà. Israele, e lo dico con rammarico e dolore, è un Paese indipendente e sovrano, ma non è ancora libero. Non come potrebbe essere. Non è una “casa” nel vero senso della parola e noi, suoi cittadini, non siamo liberi secondo lo spirito del nostro inno nazionale, Hatikva (“la Speranza”), che recita: “Ancora non è andata persa la speranza / una speranza di duemila anni / di essere un popolo libero nella nostra terra / la terra di Sion e Gerusalemme”.

Solo mentre scrivevo queste righe mi sono reso conto che quando penso alla pace, in realtà, penso alla libertà. Alla libertà dalla paura, dalla disperazione (divenuta una costante della vita), dalla sensazione di oppressione connaturata a un’esistenza trascorsa in mezzo alla guerra e all’odio.

Sì: pace è libertà. Libertà esteriore che può condurre a una libertà interiore. È un tipo di libertà che io non conosco perché in tutta la mia vita non ho mai conosciuto un singolo momento di vera pace. Di vera libertà.

La pace è un genere di libertà che cerco di tenere vivo con la fantasia per lasciare aperto in me il canale che vi conduce. Per impedire che quel canale si ostruisca a causa delle mie angosce, delle incessanti esplosioni di violenza intorno a me, del dolore per tutti coloro che hanno perso la vita nel conflitto, compreso mio figlio, della sofferenza per guerre che avrebbero potuto essere evitate.

Quale speranza può esserci in una situazione tanto complessa come quella attuale tra Israele e i palestinesi? In un certo senso, la stessa che ha motivato lei, presidente Gauck, e i suoi compagni a lottare nell’estate del 1989 (un periodo da lei definito “inverno in piena estate”), quando all’orizzonte non si profilava alcuna possibilità di cambiamento. Una speranza che, pur non ignorando i pericoli e le minacce reali, rifiuta di vedere solo quelli.

Nel cuore di israeliani e palestinesi (di pochi, in verità) palpita ancora l’auspicio che, se le fiamme del conflitto si placheranno, a poco a poco torneranno a svelarsi i tratti sani e razionali dei due popoli, sui quali agirà il potere curativo della quotidianità, l’assennatezza del compromesso, un senso di sicurezza esistenziale, l’augurio che in futuro potremo crescere i figli senza timori per le loro vite, senza l’umiliazione dell’occupazione e l’angoscia del terrorismo. Allora potremo soddisfare le nostre fondamentali aspirazioni umane. Quelle connesse alla vita familiare, al lavoro, allo studio, alla creazione. Al tessuto della vita.

E forse, in futuro, ognuno dei due popoli si aprirà lentamente alla complessità dell’altro, alla sua tragedia, alla sua unicità e bellezza, alla sua storia. Ci sarà un riavvicinamento più profondo e si instaureranno persino legami di amicizia. È già successo in passato. Senza fare paragoni storici fuori luogo, persino il fatto che io, oggi, mi trovi qui, davanti a voi, in questo solenne evento (uno scrittore ebreo israeliano che ebbe così tanti familiari, ottanta persone, trucidati durante la Shoah e al quale lei, signor presidente, il presidente della Germania, ha chiesto di tenere un discorso nella settimana in cui il mondo celebra il settantesimo anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz...) – persino questo fatto, dicevo, racchiude un moto di libertà e di speranza.

Quest’anno si celebrerà il cinquantesimo anniversario delle relazioni tra Germania e Israele e, per quanto oggi queste relazioni siano buone e articolate, rimangono, e rimarranno, comunque complesse, delicate e traumatiche. Non c’è e non potrà esserci perdono per quel terribile capitolo della storia tedesca. E non potrà esserci guarigione da parte nostra. Nel punto di incontro tra ebrei e tedeschi la ferita della Shoah rimarrà inevitabilmente aperta. Lo ha detto lei stesso la settimana scorsa, durante il discorso che ha tenuto ad Auschwitz: «Non esiste identità tedesca senza Auschwitz».

In Germania, però, è nata una nuova generazione, alla quale ne sono seguite altre che lei, signor presidente, con il suo approccio alla Shoah e a Israele, rappresenta in maniera ammirevole ed encomiabile. Gli appartenenti a queste generazioni (non tutti, ovviamente, e ognuno a modo proprio) vedono nella Shoah un grande banco di prova per se stessi, per le loro scelte di vita, per l’educazione dei figli, per la determinazione con cui aspirano alla libertà, alla democrazia e all’uguaglianza tra gli esseri umani.

Molti ebrei e tedeschi si sforzano di guardare in faccia le tenebre e l’orrore della Shoah, che permea ogni minima parte della loro vita e della loro memoria, e di creare ponti su questo abisso. E così facendo riaffermano qualcosa di profondo che è parte dell’uomo, delle sue possibilità, della sua complessità, della sua tragicità e della sua grandezza.

E in questa capacità di ricordare, di assumersi le proprie responsabilità, di provare dolore e di guardarsi l’un l’altro come esseri umani, c’è una grande libertà.

Signor presidente, le auguro ancora molti anni di attività e di innovazione. Anni che siano di ispirazione a tutti noi.