mercoledì 29 marzo 2017




RICORDI. Pasqua di guerra
di Maria Grazia Nicolini
Il campanone che annuncia Messa Grande invade la tarda  mattina. Dalla cucina l’odore domenicale dell’arrosto al rosmarino. Fuori la pioggia, un’acqua sottile che riga le camelie in fiore.
La nonna leva dalla cassapanca la tovaglia in lino di fiandra, con mani leggere la stende sul tavolo grande, odoroso di cera d’api, gli occhi assorti in ricordi lontani. I piatti filettati d’oro, le posate d’argento, i calici di cristallo di Boemia. La nonna passa nei bicchieri un panno sottile di lino. << Li comperammo durante il viaggio di nozze, a Praga-dice- Erano tempi di regine, quelli..Tempi di balli, di serate all’Opera>>. Gli occhi, vaghi, forse inseguono immagini di abiti fruscianti al suono di valzer viennesi, di gioielli sui décolletés di belle signore nella penombra dei palchi.
La mamma non sopporta i ricordi della nonna. Scende in giardino, sotto la pioggia, a cogliere rametti di edera e camelie rosa pallido per il centro-tavola.
In questa casa la guerra è condensata nelle quattro fotografie sulla credenza. Quattro giovani uomini, in divisa, quattro figli lontani.
Dalla cucina l’odore della torta. In fondo al giardino, fra l’oleandro e l’olea fragrans, c’è il pollaio. Così non mancano mai le uova per i bambini e per la torta delle feste. Quando la farina bianca scomparirà dal mercato, si farà uso di quelle meno pregiate e, quando lo zucchero non si troverà più, andrà bene anche il miele. La torta, che, via via perderà gli ingredienti, alla fine si chiamerà “ torta senza”, ma verrà acclamata ugualmente.
La guerra, dalla nonna, ha il sapore invernale delle verze e delle rape che crescono nella zona del giardino diventata orto, delle frittate di patate, della polenta e delle castagne secche nel latte e quello estivo delle frittelle di salvia e di borragine, dei pomodori cresciuti tra le dalie e le zinnie, dei minestroni di verdura profumati al basilico, delle pesche piccole e succose.
Ma oggi c’è il risotto. E l’arrosto con le patate al forno. E la torta, naturalmente.
Il campanello suona e, contemporaneamente, entrano le prozie, le ziette, come vuole che si dica la nonna. Nell’andito, voci trillanti, odore di pioggia e di vento, guance gelate nei baci, sapore di talco, ombrelli grondanti nel porta-ombrelli, soprabiti e cappelli a ingombrare il porte-manteaux. Solita allegra confusione dei loro arrivi.
Le ziette sono sempre indaffarate. Scrivono, dipingono, si tagliano e cuciono gli abiti, lavorano al tombolo, ricamano, cantano, suonano. Parlano continuamente fra loro, ridono, litigano. Entrano e escono di casa, sempre con le calze, i guanti, il cappello, anche in piena estate. E ogni volta si salutano e si baciano. Adorano la nonna, l’unica di loro cinque che si sia sposata e abbia avuto figli, quei quattro figli maschi, soldati della patria, che loro continuano a chiamare “i bimbi”.
A tavola, la luce del lampadario piove sulle bambine dai grandi fiocchi in testa, sull’unico maschietto. Parole, sospiri, rumore di posate sui piatti. Fuori continua a piovere, il lago quasi non si vede. La nonna, a capotavola, dirige il pranzo con piccoli cenni alla ragazza venuta dai monti dell’Ossola. Le voci delle ziette si sovrappongono, contrastandosi fra loro. Vivaci, cantanti. Le mamme aiutano i figli piccoli a mangiare, esortano le più grandi a stare composte. Io guardo la nonna con sconfinata ammirazione.
Dopo pranzo, tutti incitano la mamma a cantare. E’ così bella, penso. Gli occhi scuri nel viso pallido, le mani lunghe e nervose, i capelli che non vogliono stare raccolti e sfuggono allo chignon, ondeggiando intorno al viso. Così bella e così remota. E’ come se, andando in guerra, papà si fosse portato via anche la sua gioia di vivere. E’ la nonna, adesso, che colma di tenerezza il mio cuore. 
La mamma canta. Ed è Mimì, la tenera Butterfly, la piccola Liù. Voce non educata, ma garbata, seducente. Papà l’ascoltava incantato, ricordo. <<Soprano leggero!- decreta la zia Piera.- L’Augusta, invece, è un vero soprano lirico! >>. Tocca alla zia Augusta cantare. Voce alta, piena. Torna caro ideal. Tutte le feste al tempio. Caro nome che al mio cuor.
Nell’andito il fratellino e le cuginette si rincorrono. Dalla cucina l’acciottolio dei piatti nell’acquaio. Sto seduta sul divanetto di velluto rosso, tra la nonna che batte il tempo e la zia Maria che si è appisolata, la testa grigia che ciondola ritmicamente sull’ampio seno.
Nelle tazze di porcellana splende, ora, rosso, il karkadè. La nonna fa girare il vassoio con i biscotti di meliga. Già, fuori, l’ombra preme sui vetri che si appannano di freddo. La ragazza ossolana tira le tende blu dell’oscuramento, fa il giro della casa per accertarsi che non filtri la luce.
Le ziette si alzano in fretta, perché si avvicina l’ora del coprifuoco. Indossano soprabiti e cappelli, ritirano gli ombrelli ancora umidi dal porta-ombrelli. Baci, voci squillanti negli addii.
In cucina, i calici scintillano capovolti sul telo di lino steso sul tavolo, le posate d’argento pronte per essere riposte nella custodia. La nonna toglie dalla tovaglia di fiandra qualche piccola macchia con una sua segreta mistura, valuta i risultati. Sì, può essere usata anche la prossima domenica. La ragazza che fa il bucato viene ogni quindici giorni.
Foto: La nonna e la mamma


RICORDI. L'altalena
di Maria Grazia Nicolini 
Il collegio, oltre il cancello sovrastato dalla grande insegna “ARCA PACIS”, spalanca un parco, fitto di cedri e faggi, su erbosi dossi che a primavera si infiammano di rododendri. Ma a noi è vietato addentrarsi nei prati. Alla ricreazione è riservato il cortile sul retro, che scricchiola di ghiaia sotto le suole consunte delle suore.
Non riesco a perdonare la mamma per avermi rinchiusa qui dentro, tenendosi accanto il fratellino. Saper leggere, che era la mia gioia e il mio vanto, è diventata la mia sfortuna. Ho solo cinque anni, ma frequento la prima elementare.
Sto male in collegio. Perché, dicono le suore, io sono una bambina solitaria e caparbia. Non gioco con le altre, non parlo. Stringo in silenzio nel cuore la pena per l’abbandono di papà e attendo, ostinata, il suo ritorno dalla guerra.
Le suore hanno mani secche e visi di affilata durezza. Ci spingono nelle aule, nel refettorio, nel cortile, nella camerata, nella cappella. Sempre con la stessa fretta inflessibile. Chiudono il sole fuori dalle finestre lattiginose e parlano con la stessa voce implacabile delle aste che devono essere ben diritte o del castigo eterno. Le alunne disattente provano sul palmo delle mani il rigore della bacchetta.
Infiniti rosari domenicali nel sole che sparisce dietro i vetri della cappella. Le ave marie partono da Nazareth, passano per Betlemme, svoltano in Egitto, arrivano a Gerusalemme, per finire sul Golgota. Si contempla, in tutti i Misteri. E poi i canti delle suore, dolcissimi e tremendi, perché scavano dentro noi bambine la consapevolezza della domenica che si ripiega su se stessa cancellando la speranza di giochi all’aria aperta.
La notte, nel silenzio della camerata, interrotto solo dal brusio dei sogni delle mie compagne in camicia di flanella, tasto sotto il cuscino la fotografia di papà in divisa di ufficiale e sorrido nel buio.
Solo una cosa mi piace del collegio: l’altalena. E’ stata messa in uno spiazzo erboso, in fondo al cortile, quasi sotto il muro di cinta, tra due ippocastani. E’ permesso salirvi soltanto la domenica, dopo la Messa. Ancora con i fiocchi festivi nei capelli, ci dobbiamo mettere in fila e aspettare ordinatamente il nostro turno. Ci toccano cinque minuti a testa. In silenzio, mi concentro sulla gioia dell’attesa. Quando salgo sull’altalena sono una freccia tesa verso il cielo. Dopo la prima spinta sono già in piedi, le ginocchia piegate per accelerare il movimento, su, sempre più su, nel fitto dei rami. Non rispetto il tempo del cambio, indifferente alle proteste delle compagne, ligie alle regole. Nell’ebbrezza del volo, stacco le mani dalle corde. E’ in quel momento che arriva, inaspettata, la spinta di ignote mani indispettite. Priva di appigli, volo oltre il muro di cinta. Non ho neppure il tempo di provare paura. Solo lo stupore di trovarmi in aria fra le fronde e, subito dopo, a terra, poco più che contusa.
Poi, un accorrere di monache. Rosari stretti da mani convulse, crocifissi che battono sui petti, veli scompaginati dalla corsa che lasciano intravedere teste di capelli mal rasati.
La madre Superiora è assente, ma le suore, che mi accompagnano in infermeria strattonandomi, parlano del suo prossimo ritorno come di una minaccia oscura. Mi aspetto una sgridata, una probabile punizione. Non sono preparata a un distillato di gelida cattiveria.
<<Sei ostinata e disubbidiente- dice la Superiora -. Non rispetti le regole, non fai amicizia con le tue compagne. Sei superba e presuntuosa. Stai attenta. Il ritorno di tuo padre dalla guerra te lo devi guadagnare..>>
Esco, nel sole, schiacciata da un peso troppo grande. La colpa mi si ingigantisce dentro, occupando gli spazi segreti della gioia e della speranza. Nel buio che mi invade c’è solo una piccola luce: la Madre Superiora non ha revocato il mio fine-settimana in famiglia. Fra poco verrà la nonna..
Aspetto, seduta sulla panchina di pietra del cortile, le compagne curiose e malevole, che mi ronzano attorno con sguardi di soddisfatto compatimento.
Mi chiamano. La nonna è nell’andito. La suora, che si allontana col viso contrito, certo l’ha già informata dell’accaduto. La nonna spalanca le braccia e io corro verso di lei, i singhiozzi che mi scuotono, il dolore che dilaga e mi sommerge.
<<Nonna,- dico a precipizio –papà non torna più dalla guerra. Io sono stata cattiva e Gesù lo ha fatto morire.>>
E’ la nonna, adesso, a tremare. Si inginocchia, mi abbraccia.
<<No, bambina, no. Gesù non è vendicativo. E’ un padre buono. Chiedigli perdono, se pensi di avere sbagliato. Ma poi appoggia la testa sul Suo cuore come faresti col tuo papà e lasciati consolare..>>
Ce ne andiamo, nonna e nipotina, fuori dal collegio, giù per la strada bianca verso il lago. Stringo la mano della nonna, rasserenata. In me si fa di nuovo strada la speranza fiduciosa dell’attesa. La nonna, invece, ha il cuore lacerato. Tre figli sono ancora lontani, in guerra. Può sempre arrivare una ferale notizia..





RICORDI.Il caffè
di Gianni Di Bolina Corrias
Oggi è una bellissima giornata e non voglio parlarvi di cose frivole o sgradevoli al palato...Oggi vi voglio parlare del caffè...bella forza direte voli a chi non piace il caffè ??? Ma io non vi voglio parlare del caffè attuale..in cialde ... liofilizzato o ancora peggio di quella brodaglia aziendale che sfornano le machinette caricate a cecci abbrustoliti...NO ! io vi voglio parlare di quel caffè della mia infanzia ... di quel caffè ritualizzato e atteso ...Ritualizzato si... perchè con mia madre tutto era ritualizzato quasi fosse una funzione religiosa... così come i vestiti dovevano essere acquistati da "Castangia" in via Bayle e la colazione una volta arrivati a -cagliari doveva essere con le "paste di latte" da "Clavoth" in Piazza Yenne così il caffè doveva essere acquistato in una bottega di via Sardegna " la casa del caffè" mi sembra si chiamasse.Crudo e verde...Da lì col prezioso fagotto si ritornava a casa dove si procedeva alla tostatura del tanto che serviva per la degustazione di prova...La tostatura si faceva con uno strumento " su turradori" formato da un cilinfro di lamiera munito di un portellino scorrevole che attraversato da un asse di ferro che veniva, una volta pieno del necessario quantitativo di caffè, fatto ruotare, con pazienza e dedizione su un fuoco speciale...acceso dentro il caminetto ...Speciale perchè non doveva essere prodotto da legno rsinoso che avrebbe ( diceva) alterato il profumo del caffè...La bravura consisteva nel tostare i grani senza farli bruciare... Dopodichè si macinava,... a mano con un vecchio macinino di lamiera con attorno figure che ricordavano la funzione e il percorso del chicco negro...Si doveva regolare lo spessore della polvere e anche li valutare la sua corrispondenza alla necessità... intanto si metteva a bollire l'acqua nella caffettiera di ferro smaltato celeste, bella panciuta e ornata anch'essa di fiorellini, perchè le "napoletane" nonerano ancora arrivate a casa nostra . si versava religiosamente il caffè macinato e si aspettava ..- che il miracolo si compisse ...intanto l'effluvio del caffè si era sparso in giro e piano piano arrivavano le amiche di mia madre attirate come api dal suo profumo...A me niente ...ero troppo piccolo per un caffè,... a me allora bastava solo il trambusto del viaggio a rendermi felice.

martedì 28 marzo 2017




RICORDI : Pane e pancetta
di Piero Carnini
Il primo giorno di scuola credo si ricordi per le emozioni dovute agli incontri con tanti ragazzini come te; per il primo appello e la difficoltà di presentarti; per il sorriso della maestra e la furtiva curiosa sbirciata ai cartelloni dove, sotto la figura della bandiera è scritta una lettera (probabilmente una bi)...
Lo ricordo anch'io, per la prima blusa nera e la cartella entrambe di seconda mano. Dentro due quaderni uno a quadretti e l'altro a righe; un sussidiario (allora si chiamava così quel librone che si usava per italiano, storia, geografia).
Ci saranno state di sicuro le figurine della raccolta Panini che sarebbero servite per i primi baratti e interminabili partite contro il muro della scuola. Erano di cartone duro e si prestavano per quell'esercizio che metteva alla prova la capacità di farle volare lontano per finire sopra quella del tuo avversario. Niente biglie, quel giorno, per evitare il tintinnio e i primi rimproveri: negli anni ho recuperato con gli interessi.
Di alcuni aspetti, confesso, non ne ho ricordo se non il nome della maestra, Dina... del primo vicino di banco, Nicolino... del numero dei compagni di classe, 45...
Ho invece nitido e indimenticabile un momento di quel giorno. A mezzogiorno, trovai la porta di casa chiusa. La mamma era nei campi e in quelle occasioni lasciava la chiave nascosta sotto il pezzotto che copriva il baule contenente il grano in attesa di essere portato al mulino. Con grande sorpresa, vicino alla chiave, trovai un panino con la pancetta.
Il 3 ottobre, primo giorno di scuola, coincideva con il mio compleanno.
Quel panino per me era tutto. Niente torta; niente abbraccio e domande della mamma.Niente di tutto ciò. Un panino con la pancetta che non sono riuscito a dimenticare.



RICORDI: La sberla
di Velia Gabelli. 
Ero in collegio a Sala Baganza. Avevo 13 anni ed ero in 2a media. A scuola, durante l'ora di economia domestica , avevo imparato a lavorare con l'uncinetto e mi ero fatta un bel collettino bianco di filo.
Quel giorno pensai bene di indossarlo al posto di quello solito di plastica duro che peraltro mi dava un po' fastidio essendo rigido e scomodo. Suor Francesca mi noto' e con una '"sberla" mi intimo' di toglierlo. Le mie compagne nel frattempo erano gia' uscite in fila di due in ordine di altezza, dirette alla parrocchia del paese a circa 500 mt . Dal collegio. Mentre correvo per raggiungerle, con le lacrime agli occhi, incrociai i 3 ragazzi della 3a media conosciuti qualche settimana prima durante la gita scolastica .Tutti e 3 insieme mi avevano scritto una lettera in cui mi dichiaravano la loro "simpatia" ed ora seduti insieme sullo schienale di pietra di una panchina aspettavano di vedermi passare nella "fila " del collegio. Dissi loro fra le lacrime : scrivete su tutti i muri "abbasso il collegio!". Lo fecero. Quello fu il mio 7o ed ultimo anno di collegio. Fui espulsa . Feci la 3a media a Parma, al Laura Sanvitale, sempre dalle suore ma da esterna. L'ultimo giorno di collegio , durante il saggio di fine anno ero diventata " signorina".
L'infanzia era finita. Iniziava l'adolescenza ed insieme " la libertà'".

RICORDI: Kiev 1989
di Piero Carnini
Facevo parte della delegazione del PCI con Patrizio del Nero in quel lontano 1989. Missione Mosca, S. Pietroburgo, Kiev e qualche altra cittadina minore per visitare la tomba di Boris Godunov o qualche statua di eroi e operai come raccontava il poeta ne “Le ragazze dell’Est”.Tutti quelli che erano con noi avevano impegni commerciali per promuovere le loro aziende presso le autorità sovietiche. Chi comperava gas… chi vendeva prodotti dell’Emilia Romagna… chi prenotava il Coro dell’Armata Rossa. Il mio impegno era molto semplice: assicurarmi i campioni del mondo di pattinaggio artistico e di ginnastica ritmica per alcuni spettacoli tra Bormio e Chiavenna; a tale scopo incontrai il Ministro dello Sport dell’Unione Sovietica e la trattativa fu breve e positiva: 50 milioni di lire, una stretta di mano, nessuna tangente o richiesta men che lecita. Invitai sua figlia a visitare la Valtellina e l’Italia. Come si direbbe oggi, un bell’incontro. Con Patrizio invece, dopo la visita alla sede della Pravda, ebbi l’incarico di incontrare il Primo segretario del Partito Comunista Ucraino, Shcherbitsly. Ci alzammo di buonora. Scegliemmo il miglior vestito e ci avviammo con qualche timore verso questo per noi sconosciuto personaggio. Sulla piazza antistante la sua residenza, con nostra sorpresa, ci imbattemmo in una manifestazione di protesta promossa da intellettuali e gente comune contro il regime dell’uomo di Breznev. Patrizio, mi propose di partecipare al finanziamento della manifestazione. Mi parve pazzo, ma l’idea mi stuzzicò… A rischio di un arresto mettemmo le mani in tasca per estrarre i dollari che non ci sarebbero serviti e li donammo ai leader dei manifestanti. Nessuno ci fermò. Scattammo alcune foto ricordo molto discrete e andammo all’incontro con l’uomo del potere di Kiev. La camera dove ci ricevette era surriscaldata; la forte emozione dovuta al nostro incauto agire a sostegno dello sciopero; le domande piene di azzardi che volevamo porre… il riscaldamento che funzionava a pieno regime in un caldissimo giorno di fine settembre mi fece apparire quel luogo l’anticamera dell’inferno. Il leader ucraino tenne la sua relazione scontata come ci aspettavamo. Lo lasciammo finire e, non mi ricordo chi, formulò il quesito scottante:” Abbiamo visto in piazza migliaia di manifestanti”, cosa ne pensa?! La risposta fu lapidaria :”Straccioni”… 
Nessuno ebbe l’ardire di continuare; passammo subito ad argomenti di circostanza. Al clima esterno e interno, atteggiamento naturale di chi è in grave difficoltà. Scoprimmo allora che i caloriferi erano accesi con le finestre aperte, perché la nafta andava consumata prima dell’arrivo pianificato da tempo del nuovo carico e le rondelle arrugginite non consentivano di spegnere ogni singolo riscaldamento. Nessuno di noi sorrise prima di accomiatarci dall’illustre interlocutore. 
A pomeriggio inoltrato ci arrivò la notizia all’Hotel “Cigno Bianco” che il Primo segretario del Partito Comunista dell’Ucraina era stato dimesso dagli uomini del Kremlino.
In ottobre iniziò il lavoro del Movimento degli Arancioni che ha visto negli anni seguenti alterne vicissitudini.
A volte, quando ascolto il poeta che canta “La primavera che non venne mai”, torno con il pensiero a Kiev… a quello storico giorno.
Putin senza fare nulla di storico ancora oggi reprime ogni dissenso facendomi sprofondare nello sconforto… Con Patrizio, al ritorno in Italia avevamo qualche speranza che quel mondo (e non solo quello, cambiasse)… ma, purtroppo l’oggi è rimasto uguale a quel lontano fine settembre del 1989.


RICORDI. Primavera del '62
di Marinella Bellin
Avevo 9 anni, mia sorella era nata da pochi mesi e mamma era ancora ricoverata in ospedale. Sono sempre stata una bimba ubbidiente, responsabile, molto amata, anche se poco "bambina". Papà, dopo pranzo (la scuola ricominciava alle 14), quel giorno mi mandò alla "roggia" vicino casa a lavare i "ciripà" della mia sorellina. Fu là che incontrai Piero, un mio compagno, che mi invitò a mettere i piedi in acqua per divertirci un po'. Sapevo benissimo di non doverlo e poterlo fare ma...il richiamo era forte e il desiderio di fare qualcosa di nascosto e proibito, pure. Persi il senso del tempo....le risate, gli schizzi....non sentivo i fischi di papà. Quando fu silenzio e percepii il richiamo era ormai troppo tardi e provai paura, senso di colpa, dispiacere per aver deluso. La scuola era già iniziata e trovai papà molto spaventato. Non ero stata capace di trasgredire. Papà mi prese sulle ginocchia e mi picchiò sul sedere fino ad impedirmi di stare seduta. Fu per la prima ed ultima volta. Tanti anni sono passati.....ed io non sono mai stata una donna trasgressiva.





RICORDI. La polentata.
Era il 1958. Frequentavo la scuola elementare a Via Zanardelli a Roma. La nonna mi accompagnava e alle 12:30, all'uscita, passavamo per Piazza Navona dove giocavo in attesa che si facessero le 14:00, ora in cui si pranzava. I miei genitori gestivano una attivita' a Campo Marzio e rincasavano per pranzo. Ricordo con gioia un giorno della settimana in cui veniva servita la polenta. Era un rito. In famiglia si viveva con i nonni e una giovane zia che aiutava la nonna in casa. Eravamo in sei. In sala la tavola era sempre apparecchiata con cura. L'acqua frizzante veniva fatta al momento aggiungendo due cartine di "Idrolitina". Nel giorno della polenta al centro del grande tavolo veniva posizionato un grande tagliere di legno. Sopra questo si versava la polenta, un paio d'ore prima di iniziare il pranzo. Quando arrivavano mamma e papa', la nonna e la zia portavano in tavola altri contenitori con mestoli. Papa' o nonno con un filo tagliavano la polenta a fette che venivano distribuite nei piatti. Dai contenitori si prendeva lo spezzatino con il sugo oppure la trippa o un misto di verdure da mettere sopra le fette di polenta. Per finire una bella cucchiaiata di parmigiano per chi lo gradiva.
Mentre si gustava questa prelibatezza si conversava. Ognuno raccontava la propria mattinata. La TV l'avevamo ma...e'era un solo canale in b/n ed era rigorosamente spenta. Questo, per me, e' il "profumo della famiglia.




RICORDI. I miei 16 anni.
di Michele Volpe
E' l'età in cui le linee caratteriali cominciano a marcarsi già in modo definitivo, indissolubile. La musica, l'esibirsi, il sentirsi protagonista, gli amici.......l'amico !!! Si, l'amico, quello con cui hai condiviso i primi discorsi senza fine, fino a notte fonda. Son passati 41 anni da quei tempi e ripensandoli, li sento ancora così vicini da poterli toccare con mano qual'ora la allungassi. Ci si trova la sera nella stanza di un capannone che mio papà ci aveva concesso in uso per le prove. Era il nostro regno, li dentro, padroni del mondo, tutto il resto oltre quella porta di ferro !!! Un momento di vita intenso, molto intenso, poi le prime esibizioni, i primi " concertini " a livello locale e la vita assieme che scorreva, i primi amori importanti, quelli impossibili da condividere, ma si sa che in amore..............Poi la fine di tutto, le strade che si dividono, amicizie e amori che si perdono, forse per sempre, lasciando un segno di indelebile tristezza !!!




RICORDI.'figlia dei fiori' 

di Paola Rossi 
Ero in una splendida e intrigante Londra degli anni '70, a 17 anni, per una vacanza studio (più vacanza che studio :-)), con la mia compagna di liceo più cara. Era la prima volta che ci allontanavamo da casa, senza genitori. Eravamo giovani, idealiste, piene di sogni e con tanta voglia di conoscere, fare esperienze ed affermare la nostra libertà ed autonomia. Abbiamo macinato tanta strada, per vedere il più possibile il primo anno e anche il secondo, conciliando il tutto, con la frequenza ad una scuola. Abitavamo presso una deliziosa e tipica famiglia inglese, a Richmond Park. Ci siamo da subito fatte una bella e numerosa compagnia di ragazzi di tutto il mondo, in nome di un multiculturalismo, che ci ha, da sempre, caratterizzate. Volevamo conquistare il mondo. Tempi indimenticabili. Beata gioventù! 

lunedì 27 marzo 2017

RICORDI. Mus
di Pietro Cazzaniga. 
La giornata era quasi finita e stavamo tornando da una lunga passeggiata mia nonna, il suo cane ed io. Avrò avuto tredici anni. Per prenderci una pausa ci fermammo  ad osservare alcuni laghetti artificiali vicino a un rifugio e io tenevo il cane al guinzaglio: si chiamava Mus, ed era un pinscher nano, il che significa in soldoni avere le fattezze di un dobermann e le dimensioni di una nutria. Ad un tratto lo sentimmo guaire: un gatto più grosso di lui gli stava piantato con le unghie conficcate sul dorso. Mollai il guinzaglio. Mus fece per allontanarsi, mentre il gatto, spaventato dalla nostra reazione se ne fuggì via. Quando lo tirammo in braccio l'occhio sanguinava. Ricordo il viaggio in auto verso il veterinario, la mia mano che gli tratteneva la zampa perché non si grattasse l'occhio infettandolo, e la paura che restasse cieco. Fu una delle prime volte in cui realizzai come gli incidenti dividano la vita in un prima e in un dopo. Fortunatamente la ferita era superficiale e il cane non riportò danni permanenti. Da lì in poi rimase a me una certa diffidenza nei confronti dei gatti e del loro carattere.
RICORDI. LA SIGNORA DOMENICA    
di Maria Grazia Nicolini
La signora Domenica sbatte i panni sull’asse, le maniche arrotolate sopra il gomito a scoprire le braccia tonde e robuste, la treccia bionda che si solleva e ricade sulla schiena ad ogni colpo. E’ giovane, quasi una ragazza, ma va chiamata signora Domenica, per volere della nonna.  Il  chiuso del cortile risuona di quel rumore ottuso e le pietre assorbono l’odore scivoloso. Anche il gatto Vercingetorige, detto Gige, si è fermato, la coda ritta, lo sguardo allertato.
Schizzi d’acqua saponosa attorno alla tinozza, lacrime che rotolano lungo le guance sode. La signora Domenica piange, e sbatte più forte le lenzuola sull’asse, le torce e le affonda nell’acqua schiumosa della tinozza. Le danza sulla nuca bianca e sulle spalle la grossa treccia e il sudore  si allarga a chiazze sulla camicia azzurra. Le lacrime sgorgano ininterrotte dai larghi occhi sbiaditi. Ogni tanto lei si passa una mano schiumosa sul viso e sotto il naso. Poi, d’improvviso, comincia a imprecare contro il marito violento, nel chiuso dialetto delle valli. Quando torna ubriaco, la notte e lei sta dormendo, le dice di voltarsi, perché vuole adoperarla.. Forse vorrebbe che si alzasse e gli preparasse da mangiare? Piange, singhiozza e continua a  lavare la biancheria la signora Domenica. << Diu, s’el ghè, gavria de fal murì->>, conclude sbattendo per l’ultima volta i panni ritorti, pronti per il risciacquo. Si rizza sulla schiena, asciuga le mani nella gonna e se le passa energicamente sul viso, tirando su col naso. Il mastello rovesciato nella fogna, un catino di panni strizzati sulla testa, la signora Domenica se ne va fiera verso il lago, la grossa treccia che batte a ogni passo sulla schiena sudata.
Nella casa, la nonna si muove leggera, con passi furtivi di gatto. L’estate si allarga pesante sul lago, in lente foschie, ma il salotto della nonna è scuro e fresco.
La cucina, invece, è chiara, spalancata sul lago. La ragazza venuta dall’Ossola trita le verdure dell’orto con la mezza-luna, la nonna decora la crostata con giri di frutta. Il rosso delle ciliegie, il giallo aranciato delle albicocche, il verde delle pere affiorano dal pallore della crema pasticciera. La gelatina fa sembrare la frutta sotto vetro. << E’ bellissimo! Come hai fatto?>>  La nonna ride: < <Non sai che sono una maga?>>.  L’ho sempre pensato. Soprattutto quando scivolo dietro di lei nella stanza-dispensa gelidamente azzurra. Ci sono vasi di vetro grandi e piccoli. E, dentro, le magie della nonna:  brillanti ortaggi sott’olio e sott’aceto, albicocche e pesche nel liquido sciroppo, marmellate di prugne e di fragole, gelatine di rose, ciliegie sotto spirito, miele dorato e denso, mammole e scorzette d’arancia candite. E poi erbe. Colte con la luna crescente e seccate al sole. Pronte per tisane e impiastri, che guariscono ogni male e danno sonni sereni e sogni colorati.
La sera  esplode il  temporale, con un vento che piega gli alberi   furioso, come a voler  cancellare l’estate. La nonna accende Il camino  e spegne la luce. Ad ogni scoppiettio del ciocco, le scintille scappano su, nella cappa nera, mentre la nonna racconta. Così serena e radiosa nel sole, le braccia sempre colme di fiori o di prodotti dell’orto, si  trasforma alla luce rossastra del fuoco. La voce si  fa bassa e arcana nel dipanarsi delle storie orrende di streghe e di stregati. Sto aggrappata al mio sgabello, tra la meraviglia e la paura, accanto a una sconosciuta che appartiene, ora ne sono certa, al mondo dei sortilegi.
Poi la nonna dice: < <E’ ora di andare a letto>>.  Accende la luce e torna ad essere la dolce vecchia signora, tutta vaporosi capelli bianchi e merletti, dal quieto rassicurante sorriso. Però io adesso so la sua vera natura.. Mi prende per mano e mi conduce, lungo il corridoio, verso la camera.<<Nonna- dico- se sai fare gli incantesimi, perché non fai morire il marito della signora Domenica?>>.  Lei si ferma di colpo. Ha gli occhi così severi che vorrei sparire. Invece continuo, cocciuta, sfidando il gelo di quello sguardo. << E’ cattivo. La sveglia di notte per adoperarla. La signora Domenica piange e dice che Dio dovrebbe farlo morire. Ma forse Dio non ha tempo. Potresti pensarci tu, no?>>.  La nonna riprende a camminare in silenzio tenendo stretta la mia mano. Il pigiama, le preghiere, il lenzuolo rimboccato, il bacio lieve sulla fronte. Rimango a lungo nel buio con gli occhi spalancati. Chiederò alla signora Domenica se il marito è morto per davvero, penso addormentandomi.
La Domenica da noi viene il lunedì, diceva sempre la zia Irma, ridendo ogni volta per la boutade. Ma nessun lunedì  vide più la signora Domenica, scivolata via, insieme alle sue lacrime, con l’acqua saponosa del ranno.


RICORDI
Dovremmo accorgerci che le risposte alle domande che ci poniamo oggi sono spesso custodite già, in buona parte, nel nostro bagaglio di esperienze. Per questo è positivo ricreare con il ricordo lo stesso stato sperimentato nell’istante che abbiamo vissuto quella esperienza, anche se questo significa richiamare emozioni non sempre gradevoli, a volte imbarazzanti. Basta che non abbiamo paura a richiamare quei momenti. 



RICORDI: LA CONCHIGLIA 
Era il 7 Luglio 1958. Di li' ad un mese avrei compiuto 7 anni. Mi trovavo al mare ad Ostia, e quel giorno scendemmo in spiaggia con i nonni. Salimmo sul frangiflutti per stare piu' vicini al mare. Non ho mai visto i nonni in costume. La nonna indossava sempre degli eleganti abitini da spiaggia mentre il nonno, solo al mare, indossava pantaloni lunghi con camicia senza giacca. Negli anni '50 le attivita' commerciali erano sempre aperte. Non chiudevano per le ferie estive ed erano aperte anche la domenica mattina. Avendo la mia famiglia una attivita' commerciale, quando terminavano le scuole, la nonna ed io ci trasferivamo nella casa al mare a Ostia. Avevamo il posto con ombrellone, sdraio e cabina allo stabilimento balneare La Conchiglia. Proprio dinanzi allo stabilimento, poco lontano dalla riva, c'erano dei frangiflutti sui quali si poteva salire dallo stabilimento e passeggiare anche senza bagnarsi i piedi. I giorni trascorrevano sereni. Al mattino presto la nonna ed io scendevamo in spiaggia e passeggiavamo. La nonna sosteneva che l'aria marina del mattino sarebbe stata salutare per me che soffrivo spesso di tonsilliti e raffreddamenti. Poi giocavo con altri bambini vicini di ombrellone mentre le nonne parlottavano tra loro e ci controllavano amorevolmente. Il nonno e la zia ci raggiungevano con il trenino ogni venerdi' mentre mamma e papa' arrivavano in auto la domenica dopo la chiusura del negozio e ripartivano la sera riportando con loro il nonno e la zia. Quel mattino io correvo avanti, la nonna allungava il passo per starmi dietro mentre il nonno aveva un passo piu' lento, quasi a volersi godere ogni alito di quell'aria pulita e profumata ....di mare.
All'improvviso...un tonfo alle nostre spalle. Ci voltammo e...Il nonno era disteso sul frangiflutti. La nonna rimase immobile, io lo chiamai...sembrava dormire.
Il viso era sereno, quasi sorridente. La nonna mi porto' via ma prima mi consenti' di dargli un bacino. Mentre ci allontanavano mi voltai piu' volte nella speranza di vederlo rialzarsi. Ma rimase li' disteso con tanta gente intorno a lui. Il mare sembrava cullarlo mentre il sole lo scaldava.





RICORDI. Il Pavan. 
di Anonima Veneziana. 
Entrare in aula mi metteva una certa ansia. Ero nella classe dei ripetenti, in prima elementare. L'unica mista su tre classi in tutto. I maschi avuevano due anni più di me. Anche lui. Il Pavan. Era alto, magro, portava il vestito di 'cenci' come se fosse un modello. Non era bello, con quei capelli rosso-biondo e un naso secco che attirava l'occhio. Cercavo di non guardarlo, ne avevo un certo timore. Era spesso alla lavagna a scrivere il nome di chi non rispettava il silenzio. Io rispettavo il silenzio, sempre, ma lui scriveva il mio nome, in cima alla lista. Arrossivo e tacevo. Poi, mentre entrava l'insegnante, cancellava velocemente solo il mio nome, non quello dei compagni. Cercavo di sfuggire al suo sguardo, perchè il suo "doppio" messaggio mi confondeva: non capivo se veramente ce l'avesse con me. 
Un giorno la maestra chiese di metterci a coppie, un maschio e una femmina. Esercitazioni di aritmetica. Subito si sedette accanto a me. Il Pavan. Non sapeva quasi scrivere e con i numeri era un naufrago in mezzo al mare. Cominciai a contare con lui. Ero leggermente emozionata. Dovevo inventare le operazioni e sottoporgliele e lui avrebbe dovuto fare la stessa cosa. Contavamo... ma i numeri diventarono altro: un linguaggio comune, sorrisi di intesa. Lui era grande, io no. Lui sapeva spostarmi i capelli, sfiorandoli, per vedere bene la pagina, perchè i miei capelli coprivano il quaderno. Ascoltava come procedevo nell'esercitazione e mi guardava. 
Il giorno dopo per la prima volta mi sono guardata allo specchio. Mi piacevo. Grembiule nero, colletto bianco e poi quel fiocco blu. Ce l'avevo solo io in quella classe. Mi pettinai i capelli con più cura delle altre volte, mi controllai le scarpe che la mamma puliva sempre. E poi rubai un tocco di cipria,me lo misi solo vicino all'orecchio per sentirne il profumo.
L'insegnante, qualche giorno più tardi, rifece la prova del lavoro in coppia. Si doveva studiare a memoria una poesia. Il Pavan, in quell'anno, era riuscito a imparare a leggere bene, a contare e pure a scrivere quasi correttamente. Un giorno mi trovai un biglietto in tasca. Era per me. Non capivo bene cosa volesse dire. C'era scritto: mi piace quando leggi.  
E' durata un anno quasi. Finché, all'entrata dell'oratorio, mi confessò che avrebbe voluto stare con me... nel banco... nei giochi... nella strada.
"E poi, quando siamo grandi, ti sposo".  
Parlava male, ma i suoi occhi parlavano più delle parole. Mi è rimasto impresso il suo sguardo. Era smaliziato come quello di un adulto, ma era troppo innocente nell'anima. 
Sono sempre stata catturata da quelle finestre che ognuno tiene sulla parete del viso... e se ci guardi dentro ci vedi il paradiso.
In seconda mi hanno mandata nella classe delle bambine... era un privilegio, e, a dire degli insegnanti, una promozione.
Per me no. Non l'ho più visto il Pavan.

Foto: Archivio Storico Indire, Fondo Fotografico. ©Indire

mercoledì 22 marzo 2017



RICORDI. Vacanze a Bordighera (2) l sassi della spiaggia. 
Mi scrive mio fratello Roberto, di quelle vacanze a Bordighera:"Ero molto piccolo, di Bordighera ricordo la spiaggia di sassi levigati dall'acqua, alcuni di colore verde quasi trasparenti, sembravano vetri corrosi dall'acqua, i nostri preferiti. Quelli più piatti erano ottimi per il lancio a pelo d'acqua in modo da farli saltare più volte. Per arrivare alla spiaggia dalla casa in cui abitavamo passavamo in un tunnel sotto la ferrovia.  Dopo il tunnel si apriva la spiaggia e la vista del mare. Di Bordighera ricordo lo zio Joffre che mi incuteva soggezione, come si diceva italianizzando il dialettale "sugesiun". 
Ma ricordo soprattutto i profumi. Al mattino mentre andavamo al mare il profumo dei garofani di cui erano pieni balconi e giardini. Al ritorno dal mare il profumo dell'olio di oliva che dalle padelle si diffondeva nelle vie esaltato dal profumo della legna, anche quella di ulivo, usata nelle stufe per preparare la cena.
Foto di autore ignoto. Conservata da Roberto Bolzani