mercoledì 30 ottobre 2019


RICORDO IL MERAVIGLIOSO  ISTANTE
Aleksandr Sergeevič Puškin
Ad Anna Kern

(Traduzione di Ettore Lo Gatto) da “Aleksandr Puškin, Tutte le opere”, a cura di Ettore Lo Gatto, Mursia, Milano, 1967
Ricordo il meraviglioso istante:
davanti a me apparisti tu,
come una visione fugace,
come il genio della pura bellezza.
Nei tormenti di una tristezza disperata,
nelle agitazioni di una rumorosa vanità,
suonò per me a lungo la tenera voce,
e mi apparvero in sogno i cari tratti.
Passarono gli anni.
Il ribelle impeto delle tempeste
disperse i sogni di una volta,
e io dimenticai la tua tenera voce,
i tuoi tratti celestiali.
Nella mia remota e oscura reclusione
trascorrevano quietamente i miei giorni
senza deità, senza ispirazione,
senza lacrime, senza vita, senza amore.
Ma venne dell’animo il risveglio:
ed ecco di nuovo sei apparsa tu,
come una visione fugace,
come il genio della pura bellezza.
E il cuore batte nell’inebriamento,
e sono per esso risuscitati di nuovo
e la divinità e l’ispirazione,
e la vita, e le lacrime e l’amore.

Ad Anna Kern
 Di Luigi Spagnolo
Treccani
http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_172.html

La poesia di Aleksandr Sergeevič Puškin dedicata ad Anna Petrovna Kern, oltre ad essere una delle più note liriche d’amore della letteratura russa (non a caso è antologizzata nella bella raccolta Lirici russi dell’Ottocento, a cura di Guido Carpi e Stefano Garzonio, Roma, Carocci, 2011 [pp. 108-109]), è un arduo banco di prova per qualsiasi traduttore, come ebbe modo di notare Nabokov, commentando l’incipit che, vòlto letteralmente in inglese, suona di una banalità spaventosa: «Now, if you take a dictionary and look up those four words you will obtain the following foolish, flat and familiar statement: “I remember a wonderful moment.” What is to be done with this bird you have shot down only to find that it is not a bird of paradise, but an escaped parrot, still screeching its idiotic message as it flaps on the ground? For no stretch of the imagination can persuade an English reader that “I remember a wonderful moment” is the perfect beginning of a perfect poem».
Le quartine con tetrapodia giambica (da me resa con l’endecasillabo) presentano rime alternate, con alcune significative riprese interstrofiche: A B A B; C B D B; C B D B; E F E G; A B A B; A H A H.

Я помню чудное мгновенье:                
Передо мной явилась ты,                  
Как мимолетное виденье,                  
Как гений чистой красоты.             4   

В томленьях грусти безнадежной           
В тревогах шумной суеты,                     
Звучал мне долго голос нежный,           
И снились милые черты.                 8  

Шли годы.  Бурь порыв мятежной           
Рассеял прежние мечты,                   
И я забыл твой голос нежный,             
Твои небесные черты.                  12  

В глуши, во мраке заточенья              
Тянулись тихо дни мои                    
Без божества, без вдохновенья,           
Без слез, без жизни, без любви.       16   

Душе настало пробужденье:                
И вот опять явилась ты,                   
Как мимолетное виденье,                  
Как гений чистой красоты.             20   

И сердце бьется в упоенье,               
И для него воскресли вновь               
И божество, и вдохновенье,               
И жизнь, и слезы, и любовь.           24    


La meraviglia ricordo di un attimo:
di fronte a me l’apparizione tua
simile ad una visïone effimera,
simile a un genio di bellezza pura.                         4

In languida tristezza disperata,
nell’ansia del frastuono che tumultua,
udii a lungo una voce gentile
e sembianze sognai di grazia pura.                        8

Volsero gli anni. Tempeste in rivolta
furiosa infransero il sogno che fu,
e mi scordai la tua voce gentile
e le celesti apparenze tue.                                     12


Come in remota ed oscura prigione
trascorrevano calmi i giorni miei,
senza alcun dio e senza ispirazione,
senza pianto né vita, senza amore.                        16

Ed ecco che si è risvegliata l’anima:
e qui di nuovo ci sei proprio tu,
simile ad una visïone effimera,

simile a un genio di bellezza pura.                       20
E palpita il mio cuore in preda all’estasi,
e per lui, risuscitato, ecco ancora
tanto divino quanto ispirazione,
sia vita siano lacrime sia amore.                          24


La rima identica dei vv. 8/12 è anticipata ai vv. 4/8.



FUTURO E RESPONSABILITÀ. 
Citazione da: “Tutta la vita è risolvere problemi."
Karl Popper
"Il futuro è decisamente aperto. Esso dipende da noi; da tutti noi. Dipende da quello che noi e molte altre persone facciamo e faremo; oggi e domani e dopodomani. E quello che facciamo e faremo dipende a sua volta dai nostri pensieri; e dai nostri desideri, dalle nostre speranze, dalle nostre paure. Dipende da come vediamo il mondo; e da come valutiamo le possibilità largamente disponibili del futuro. Questo comporta per noi tutti una grande responsabilità. E la responsabilità diventa ancora maggiore se saremo consapevoli della verità che non sappiamo nulla; o che sappiamo così poco che siamo giustificati a definire questo poco come «nulla». Perché non è niente in confronto a tutto quello che dovremmo sapere per prendere le giuste decisioni."

martedì 29 ottobre 2019



FIESTA 
Ernest Hemingway 

Titolo dell'opera originale 
The Sun Also Rises 
Traduzione di Giuseppe Trevisani Con una cronologia della vita dell'Autore e del suo tempo, un'introduzione all'opera, un'antologia critica e una bibliografia a cura di Giansiro Ferrata 
Gli Oscar - Mondadori 
Copyright Giulio Einaudi Editore 

  Pubblicato nel 1926, Fiesta ebbe un successo immediato, collocando  Hemingway tra i più ammirati scrittori di quella che Gertrude Stein  definì la "generazione perduta". Fiesta era allora un romanzo di palpitante attualità per gli ambienti che descrive (Montparnasse e la  Spagna) e per i riferimenti alle burrascose inquietudini di un gruppo  di emigrati internazionali. Tipico personaggio hemingwayano, Jake  Barnes, il "narratore" al centro del romanzo, è un giornalista  americano, vittima di un'umiliante ferita di guerra. Annoiato,  incapace di trovare sollievo tra la bohème intellettuale di  Montparnasse, decide di recarsi in Spagna, alla festa di Pamplona,  con l'amico Bill. Ai due si aggiungono altri amici e una "Circe"  irrefrenabile e scontenta, che ricambia l'amore infelice di Jake, ma  cerca altrove consolazione e piacere. L'intensa suggestione  dell'ambiente (la bellezza profonda della Spagna, che il protagonista  vive con particolare passione durante le corride e la pesca sui  fiumi), le notti insonni trascorse tra clamorose sbornie e tempestose  discussioni, sono raccontate con uno stile tutto teso tra cronaca e  poesia. La narrazione, caratterizzata tra l'altro da un dialogato che  rimane esemplare per incisività ed eleganza, in una lettera di  Hemingway al suo editore, viene definita "non una satira, ma una  tragedia che ha come eroe la terra". 



Hemingway e il suo tempo 

La vita e le opere (1899-1961) 
   1899-1919 
  Nasce il 21 luglio 1899 a Oak Park (Chicago) da agiata famiglia  protestante. E' il secondogenito di Clarence E' Hemingway e di Grace  
Hall, che avranno complessivamente sei figli; l'ultimo di questi,  Leices-ter, sarà uno tra i migliori biografi del fratello. I rapporti  col padre, uomo di indole irresoluta e molto fragile, sono buoni;  difficili invece quelli con la madre, ai cui imperiosi tentativi di  avviarlo alla carriera di violoncellista Ernest si ribella. In  compagnia del padre, Ernest fa molto presto le sue prime esperienze  di caccia e pesca. Partendo dalla casa di campagna (che la madre ha  chiamato "Windemere" in memoria di Walter Scott), situata sul lago  Walloon a 500 chilometri da Chicago, i due a volte si spingono fino  alle più lontane zone dei Grandi Laghi. In questi luoghi è stanziata  una tribù di pellirosse: Ernest la frequenta in compagnia del padre,  medico chirurgo che presta la sua opera anche nelle riserve indiane  (molti ricordi di questo periodo entreranno nei suoi racconti).  Compie gli studi medi alla High School della città natale. Con  l'incoraggiamento di due insegnanti (Miss Biggs e Miss Dixon) che  hanno notato la sua inclinazione per la letteratura, collabora ai  fogli studenteschi pubblicandovi articoli e racconti, dai quali  traspare fra l'altro un'ottima vena satirica. Diplomatosi, entra come  cronista al "Kansas City Star": quotidiano che si distingue per un  linguaggio tutto moderno, rapido e "oggettivo". Frattanto, essendo  gli Stati Uniti intervenuti nella prima guerra mondiale, si presenta  volontario per andare a combattere in Europa. Un difetto alla vista  lo fa escludere dai reparti combattenti, viene tuttavia arruolato nei  servizi d'autoambulanza e destinato al fronte italiano. Nel giugno  1918 è a Milano, poi a Schio, di dove riesce presto a farsi mandare  sul Piave. Con una bicicletta - idea sua - porta generi di conforto  alle truppe in trincea. Dopo alcuni giorni viene ferito dalle schegge  di un proiettile di mortaio e da pallottole di mitraglia; nonostante  le sue condizioni, si prodiga nel soccorrere altri feriti. Sarà  decorato con la Croce di guerra americana e con la Medaglia d'argento  italiana. Rimane tre mesi all'ospedale, dove viene ripetutamente  operato e si innamora di Agnes von Kurowski, un'infermiera americana  di origine tedesca. L'amore è ricambiato, ma una richiesta di  matrimonio verrà respinta da Agnes. (Tutte queste esperienze degli  anni di guerra entreranno, variamente trasfigurate, nel Racconto  molto breve, 1924, e poi in Addio alle armi). Esce dall'ospedale e  torna al fronte a combattere per una quarantina di giorni con la  fanteria italiana. Viene smobilitato nel 1919. Il viaggio di ritorno  a Oak Park, a bordo del transatlantico Giuseppe Verdi, dura circa un  mese. In America, Hemingway è accolto come un secondo sergente York,  particolarmente dai cittadini dell'Illinois. Il giornale della città,  l'Oak Parker, gli dedica un articolo nel quale è descritto il  coraggio da lui dimostrato sul fronte italiano e l'eccezionale  capacità di sopportazione manifestata in occasione delle operazioni  chirurgiche alle quali dovette essere sottoposto per le ferite  riportate sul fronte del Piave. Ma Hemingway non riesce a  riambientarsi. Si sente incalzato dagli incubi della guerra. Comincia  a soffrire d'insonnia, e questa limitazione lo accompagnerà per tutta  la vita. Non potendo dormire, legge e beve abbondantemente. La sua  stessa famiglia, benché gli sia affettuosamente vicina, in un certo  senso gli impedisce di trovare un nuovo equilibrio nella città  natale. Per tutta l'adolescenza considerato un ragazzo instabile e  impulsivo, egli soffre per la difficoltà di farsi accettare come un  reduce di guerra, uomo fatto, personalità matura. Le sue esperienze  di giornalista e di ufficiale combattente lo hanno abituato a una  vita intensa. Esaltato come eroe dai giornali e vezzeggiato come un  ragazzo dai familiari, si annoia, sente l'incongruenza della  situazione, ha bisogno di rompere l'incantesimo, ma non sa ancora  come. Così lascia Oak Park per recarsi a Windemere, nel nord del  Michigan, dove comincia la stesura di alcuni racconti, un romanzo e  riprende a collaborare a qualche giornale. Ma i suoi genitori non  sono disposti a prendere completamente sul serio la sua attività di  scrittore. In una serie di interventi e pressioni, tentano di indurlo  a cambiare strada. Per questa ragione, in piena estate, Ernest avrà  un grave urto con la madre, che non riesce a liberarsi dalla  convinzione che suo figlio altro non sia che un ragazzo disadattato e  scapestrato. Questa rottura costituirà una tappa dolorosa risolutiva  nella vita di Ernest, che troverà il coraggio necessario per  imboccare decisamente la strada della sua vocazione. Intensifica le  collaborazioni, progetta racconti, alternando al lavoro di  giornalista e narratore salutari partite di caccia - la sua seconda  grande passione - nei maestosi boschi dello Stato del Michigan. 
  

   1920-1926 
  Collaboratore del quotidiano canadese "Toronto Star" all'inizio del  1920, nell'autunno è redattore di un periodico di Chicago. Qui  conosce Sherwood Anderson che lo stimola ad impegnarsi nella  narrativa, mentre il giornalismo sta diventando per Hemingway fonte  di rapido successo. Nel settembre dell'anno seguente sposa Hadley  Richardson; con lei, in dicembre, parte per l'Europa, corrispondente  e inviato speciale del "Toronto Star". Manda articoli dalla Spagna,  dalla Svizzera e dalla Francia, dove si stabilisce. A Parigi entra  presto in contatto con un gran numero di scrittori e artisti  angloamericani. Conosce in particolare Gertrude Stein, Ezra Pound,  James Joyce, F' Scott Fitzgerald. I primi due diventano i più  efficaci punti d'orientamento per la sua ricerca letteraria, molto  sensibile fin allora agli esempi di Ring Lardner e Sherwood Anderson.  La Stein, cui lo scrittore si è legato di forte amicizia,  contribuisce vivamente al rinnovarsi del suo stile. Ma fondamentale  per gli sviluppi del linguaggio di Hemingway è la serie di articoli  che egli scrive nei luoghi della guerra greco-turca, seguendone il  corso pressappoco fino alla conferenza della pace a Losanna. In  quell'occasione intervista Mussolini, di cui fa un ritratto sferzante  e anticipatore. Nel 1923 gli nasce un figlio; nel luglio dello stesso  anno esce il suo primo libro, Three Stories and Ten Poems (Tre  racconti e dieci poesie), che raccoglie testi in gran parte  arretrati, poco indicativi del reale valore dello scrittore. Nel  dicembre, finita la collaborazione al "Toronto Star" si dedica in  modo continuo all'attività letteraria e diventa in seguito redattore,  
a Parigi, della rivista di avanguardia "Transatlantic Review". Il  1924 è l'anno che segna forse la principale svolta di Hemingway come  scrittore. Nell'aprile pubblica In our time (Nel nostro tempo), un  volumetto di trentadue pagine dove sono raccolte diciotto prose  lirico-narrative di nuovissima e magistrale sensibilità, scritte dopo  il viaggio in Medio Oriente. Edmund Wilson parla di Goya a proposito  di quei minuscoli capolavori, e sarà da allora uno tra i suoi critici  più attenti. Il libro verrà ripubblicato l'anno seguente, arricchito  di nuovi racconti, alcuni dei quali appartengono al meglio della  produzione hemingwayana. Intanto l'amicizia con Gertrude Stein e con  Sherwood Anderson si va guastando. Cessa definitivamente nel marzo  1926 quando esce The Torrent of Spring (Torrenti di primavera),  racconto "parodistico" scritto in qualche settimana per segnare il  distacco di Hemingway dai patroni di un tempo. Lavora in quel periodo  a The Sun Also Rises (Anche il sole si leva), ribattezzato poi  Fiesta: è il romanzo della cosiddetta "generazione perduta", opera  principale dello scrittore in quegli anni. Finita nell'aprile 1926  esce nell'ottobre seguente rendendolo famoso (anche per lo scandalo  che suscita). 
  

   1927-1936 
  Nel 1927 conferma le sue doti di narratore con Men Without Women  (Uomini senza donne), che gli vale un grande successo di critica e di  pubblico. Divorzia dalla prima moglie; in seguito sposa Pauline  Pfeiffer, con la quale torna negli Stati Uniti e prende casa a Key  
West in Florida. Intanto la prima stesura di A Farewell to Arms  (Addio alle armi) è già avviata. Due avvenimenti drammatici segnano  questo periodo: la difficile nascita del secondogenito, Patrick, e il  suicidio del padre, la cui eco si ritrova anche in Per chi suona la  campana. Finito a Parigi dopo lunghi travagli, Addio alle armi esce  nel settembre 1929 ottenendo gran successo di pubblico e giudizi  critici disparati, assai controversi. In ogni modo la celebrità di  Hemingway è ormai consolidata. Viene tradotto ampiamente in tutto il  mondo, meno che in Italia; il regime fascista lo ha messo al bando  (anche per gli sgraditi riferimenti di Addio alle armi alla tragedia  di Caporetto). Egli lavora a Death In The Afternoon (Morte nel  pomeriggio), finito nel 1931 e pubblicato nel 1932. Insistenti sono  anche questa volta i contrasti nei giudizi da parte della critica.  Nel mutato clima letterario seguito alla crisi economica del 1929  molti scrittori (marxisti e non) si pronunciano per un'arte e una  cultura politicamente, socialmente impegnate, mentre gli sviluppi del  fascismo e il concretarsi della minaccia nazista provocano  un'accentuazione delle ideologie di sinistra; un libro dedicato alle  corride sembra, a molti, assurdo e colpevole. Anche per questo forse  i racconti che seguono sono pieni di pessimismo. Nel 1933 Winner Take  Nothing (Chi vince non prende niente) suscita elogi quasi unanimi, ma  rinfocola le discussioni ideologico-morali che due anni dopo  investiranno anche il saggio narrativo The Green Hills of Africa  (Verdi colline d'Africa), percorso da aspre osservazioni d'argomento  letterario e sociale. In quello stesso anno egli comincia a muoversi  
verso nuove posizioni ideologiche, nel senso dell'impegno politico e  socialmente protestatario. Partendo da esperienze dirette interviene  su vari aspetti negativi della società americana; e ciò che sta  maturando in Spagna lo trova attentissimo. Quando nel luglio 1936  scoppia il moto franchista egli sta lavorando a un nuovo romanzo, di  cui ha già pubblicato alcune parti: To Have and Have Not (Avere e non  avere), ricco di motivi polemici contro un certo tipo di borghesia  gaudente e corrotta. 
  

   1937-1945 
  Nel febbraio 1937 parte per la Spagna come giornalista, ma in breve  combatte tra i repubblicani. Prende parte fra l'altro come  sceneggiatore alle riprese del film The Spanish Earth (La terra di  Spagna). In quello stesso anno pubblica Avere e non avere; l'anno  seguente The Fifth Column and the First Forty Nine Stories (La quinta  colonna e I quarantanove racconti). Oltre alla commedia (La quinta  colonna) dell'anno prima, il libro comprende le principali raccolte  dei tempi precedenti e due nuovi racconti, Francis Macomber e Le nevi  del Chilimangiaro. Durante la guerra di Spagna conosce la giornalista  Martha Gellhorn, che sposerà nel 1940 dopo il divorzio da Pauline.  Dal 1939 si stabilisce a Cuba in una fattoria nei pressi dell'Havana,  dove scrive gran parte di For Whom the Bell Tolls (Per chi suona la  campana); il libro suscita impressioni fortissime e dibattiti a non  finire. Nel gennaio 1941 lo scrittore e la terza moglie partono per  l'Estremo Oriente come corrispondenti nella guerra cino-giapponese.  L'ingresso degli Usa nel secondo conflitto mondiale vede Hemingway  impegnato in un'efficace opera di pattugliamento antisommergibile,  nelle acque della Florida, col suo grosso battello da pesca  opportunamente attrezzato. Si trasferisce poi in Europa al seguito  dell'esercito statunitense, di nuovo come corrispondente di guerra.  Sbarca tra i primi in Normandia, ed entra a Parigi con le avanguardie  partigiane. Per il suo coraggio viene decorato con la Bronze Star.  Gli articoli di questo periodo formano in realtà anche un'opera  narrativa di alto valore. 
  

   1946-1961 
  Quarto matrimonio nel 1946: divorziato l'anno precedente da Martha,  sposa la giornalista Mary Welsh. In questo periodo lavora a un'opera  molto ampia che vorrebbe intitolare Della Terra del Mare e dell'Aria,  incompiuta, o almeno finora inedita (e che in parte si riannoda alle  esperienze fatte da Hemingway come giornalista nella seconda guerra  mondiale). Nel 1948 viene in Italia per un soggiorno di alcuni mesi  che trascorre tra Cortina e Venezia; ad esso si ispirerà per Across  the River and into the Trees (Di là dal fiume e tra gli alberi), che  pubblica nel 1950. Nel 1952 dà alle stampe The Old Man and the Sea  (Il vecchio e il mare); il successo di pubblico e gli elogi della  critica sono straordinari. L'anno seguente gli viene conferito il  premio Pulitzer. L'ultimo libro influisce anche sulla giuria del  "Nobel" che gli assegna il Premio per la letteratura del 1954. Lo  scrittore non assiste alla cerimonia, dichiarandosi impedito dai  postumi di un incidente aereo occorsogli durante una spedizione di  caccia in Africa. In realtà attraversa un periodo di crisi nervosa,  ben più grave delle ferite riportate nell'incidente aereo. Fra  l'altro la stampa di tutto il mondo lo aveva dato per morto ed erano  usciti moltissimi necrologi. Si ristabilisce in salute, riprende a  viaggiare, alternando tuttavia a periodi di benessere altri  caratterizzati da sempre più gravi depressioni nervose, esasperate  nel 1960 da un'infermità agli occhi che gli fa temere la cecità.  Lavora ancora intensamente, ma con estrema fatica. Nel 1960 un  articolo per "Life" sulle corride gli si dilata fino a trasformarsi  in un lungo racconto, The Dangerous Summer (L'estate pericolosa), che  esce a puntate; ha dovuto comunque "tagliare" gran parte del testo  restandone sconvolto. Il lavoro a Festa mobile, libro di ricordi  sulla Parigi della sua giovinezza, aumenta le sue ansietà; il 30  novembre 1960 viene ricoverato in una clinica del Minnesota. Nel  gennaio dell'anno seguente torna a Ketchum presso Sun Valley (Idaho),  dove si è stabilito con la moglie da quando i rapporti con la nuova  Cuba di Fidel Castro si sono guastati. E' ben presto vittima di  un'altra crisi, che gli impedisce il lavoro di revisione al libro su  Parigi che i curatori intitoleranno poi A Moveable Feast (Festa  mobile): uscirà postumo. Nell'aprile la moglie sventa un tentativo di  suicidio: nel primo mattino del 23, lo trova in anticamera, di fronte  alla rastrelliera dei fucili; con una mano Ernest stringe una  carabina e con l'altra due cartucce. Sopra la rastrelliera ha posato  una lettera indirizzata a lei. Mary cerca di distrarlo fino  all'arrivo del medico. Lo scrittore faceva sempre più difficoltà a  continuare il suo lavoro, ma la moglie non sospettava che la malattia  lo avrebbe indotto a tanto. Da quanto raccontò poi, Ernest, scoperto  davanti alla rastrelliera, rimane calmo e non fa il minimo tentativo  di infilare le cartucce nell'arma. Mary finge di ignorare il fucile e  gli chiede solo la lettera. Ernest non vuole dargliela, gliene legge  solo qualche passo. Lo scrittore vi parla del testamento e dà notizia  del fatto di avere provveduto a trasferire sul conto di lei  trentamila dollari. Ricoverato per un periodo di cure, a un medico  confessa che non riuscendo più a scrivere, non ha più ragione di  vivere. Ci ha rinunciato. Per questo ripete che si ucciderà. Sotto la  cura affettuosa della moglie e di qualche intimo amico, Hemingway  viene preservato dal compiere un gesto irreparabile. Ma nonostante i  sedativi che gli vengono abbondantemente somministrati e ogni  espediente escogitato per distrarlo e ridargli fiducia, non desiste  dalla volontà di farla finita. Dimesso dall'ospedale nel mese di  giugno torna a Ketchum apparentemente in migliori condizioni. Ma il 2  luglio viene trovato morto al pianterreno della casa dalla moglie,  accorsa dopo aver udito uno sparo. Ernest Hemingway, secondo la  versione accreditata dai familiari, "stava pulendo uno dei suoi  fucili", e "involontariamente" aveva finito così la vita. 

La vita politica e sociale 
  Nel 1899, presidente degli Stati Uniti è il repubblicano W'  
Mckinley. L'inasprimento del protezionismo doganale seguito alla sua  elezione (1897), garantisce ulteriore prosperità all'industria, già  in grande sviluppo, mentre la vittoriosa guerra contro la Spagna  (1898) ha assicurato agli Usa il protettorato sulle Filippine,  Portorico e Cuba. Un nuovo successo in politica estera gli Usa  ottengono nel 1900: intervenuti a fianco delle maggiori potenze  europee nella repressione della rivolta dei Boxer in Cina, riescono  ad affermare contro gli interessi di quelle il principio della "porta  aperta". In un clima di generale euforia si apre a Parigi  l'Esposizione Universale: accoglierà 39 milioni di visitatori. Si  decide la delimitazione dei confini tra Eritrea e Somalia francese.  Dopo la sconfitta dei Boeri (1889) l'Inghilterra si annette il  
Trans-vaal. L'anno successivo, a Londra, viene fondato il Labor  
Representation Committee. In Italia, Vittorio Emanuele III succede a  Umberto I assassinato dall'anarchico Bresci. Sorte analoga subisce  nel 1901 W' Mckinley, da poco rieletto presidente degli Stati Uniti:  gli succede il vicepresidente Theodore Roosevelt. Nel 1901 muore la  regina Vittoria. Nel 1903 gli Usa appoggiano un'insurrezione  anticolombiana a Panama, la quale si costituisce in repubblica  indipendente, e subito conclude con gli Usa un trattato  (precedentemente rifiutato dalla Colombia) per la cessione di una  zona dell'istmo destinata alla costruzione del canale. Frattanto  muore Leone XIII e la Chiesa elegge Papa Pio X. Nel 1903 con un  incarico extraparlamentare Giolitti costituisce il suo secondo  gabinetto, avversato dai socialisti. Nel 1904, Francia e Inghilterra  regolano le loro controversie coloniali e il presidente della  Repubblica francese, Loubet, si reca in visita ufficiale a Roma.  
Nell'Estremo Oriente la flotta giapponese aggredisce le navi russe a  Port Arthur dando inizio a una guerra che si concluderà l'anno  successivo con la sconfitta della Russia. Nel 1906, in Gran Bretagna,  il Labour Representation Committee assume il nuovo nome di Labour  Party e trenta candidati laboristi entrano in Parlamento. Nello  stesso anno si verificano il terremoto e l'incendio di San Francisco.  Nel 1908 l'Austria si annette la Bosnia-Erzegovina, prodromo della  Guerra Mondiale. Nello stesso anno si verifica lo spaventoso  terremoto di Messina. Nel 1910 l'immigrazione in Usa tocca cifre  record: oltre otto milioni di persone in dieci anni. Intanto nel  Messico scoppia la rivolta contro il regime di Porfirio Diaz.  Presidente diverrà nel 1912 Francisco Madero, che verrà a sua volta  rovesciato e ucciso nel 1913 da un colpo di stato capeggiato da  Victoriano Huerta. Nel 1911 viene iniziata la guerra italo-turca, che  si concluderà con l'annessione italiana della Cirenaica e della  Tripolitania. Nel 1912, parallela alla guerra italo-turca, si ha la  prima guerra balcanica: Bulgaria, Serbia, Romania, Montenegro e  Grecia si coalizzano contro la Turchia. Il 1914, anno della morte di  Pio X al quale succede Benedetto XV, comincia la prima guerra  mondiale. A Sarajevo viene ucciso l'arciduca austriaco Francesco  
Ferdinando con la moglie Sofia Chotek. L'Austria dichiara guerra alla  Serbia. La Germania dichiara guerra alla Russia e alla Francia e  invade Belgio e Lussemburgo. Inghilterra e Giappone dichiarano guerra  alla Germania. Italia, Stati Uniti e Spagna si dichiarano neutrali;  ma l'anno successivo l'Italia stabilisce un accordo con l'Intesa  (Inghilterra, Francia e Russia) ed entra in guerra contro  l'Austria-Ungheria. Nello stesso tempo, la dichiarata neutralità  statunitense nel conflitto che da un anno oppone le nazioni europee,  viene scossa dalla morte di un centinaio di cittadini statunitensi  coinvolti nell'affondamento del transatlantico inglese "Lusitania",  silurato dai tedeschi. Gli Usa intervengono nel conflitto nel 1917.  La rivoluzione russa del febbraio 1917 rovescia la monarchia dei  Romanoff e proclama la repubblica democratica, destinata a diventare  comunista nell'ottobre, quando i bolscevichi, guidati da Lenin,  conquistano il potere. Sul nostro fronte di guerra, dopo la tragica  disfatta di Caporetto, l'esercito italiano si attesta sulla linea  Piave-Monte Grappa; di qui l'anno seguente partirà l'offensiva che  porterà alla sconfitta dell'Austria. La conferenza della pace si apre  a Parigi nel 1919: la guerra ha lasciato l'Europa in uno stato di  gravissima crisi. Anche negli Usa sopravvengono condizioni di  pubblico turbamento. Le autorità proibiscono la produzione e lo  smercio di bevande alcooliche: il proibizionismo aggrava il fenomeno  del gangsterismo. In Ungheria Béla Kun instaura il regime comunista.  
Vengono fondati intanto da Mussolini i Fasci di combattimento.  D'Annunzio entra a Fiume con i suoi legionari. Nel 1920, in Germania  viene tentato un "putsch" monarchico e Hitler fonda in Baviera il  Partito Nazionalsocialista. Nello stesso anno si costituisce a  Ginevra la Società delle Nazioni. Gli Usa concedono il voto alle  donne e iniziano la campagna contro gli "elementi sovversivi":  episodio centrale sarà l'arresto e l'esecuzione capitale di due  lavoratori italiani anarchici, Sacco e Vanzetti, accusati di  assassinio, ma la cui colpevolezza non sarà mai chiaramente  dimostrata. L'Italia vive un drammatico dopoguerra; caduto il  ministero Nitti, lo Stato liberale si affida ancora una volta a  Giolitti. In Germania intanto l'assassinio da parte delle destre dei  due leader socialisti Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht (1919) segna  la fine del movimento spartachista. Nel 1921, W' Wilson esce  sconfitto dalle elezioni presidenziali che portano alla Casa Bianca  il repubblicano W'G' Harding. In Italia si svolge il Congresso  socialista di Livorno: scissione, e fondazione del Partito Comunista  Italiano. A Roma si svolge il congresso fascista: il movimento si  trasforma in Partito Nazionale Fascista. Nel 1922 muore Benedetto XV,  a cui succede Pio XI. La situazione economica della Germania  precipita nell'inflazione, mentre quella politica italiana sbocca  nella marcia su Roma che porta alla nomina di Mussolini a primo  ministro. Nel 1923, alla conferenza di Losanna, si conclude la pace  tra Grecia e Turchia e tra la Turchia e le Nazioni dell'Intesa. I  francesi occupano la Ruhr. Negli Usa muore Harding: presidente  diventa il vicepresidente Coolidge. In Germania fallisce il "putsch"  di Hitler. In Spagna pronunciamento militare e dittatura di Primo De  Rivera. Nel 1924, muore Lenin. La lotta per il potere all'interno del  Partito comunista si concluderà con la vittoria di Stalin che, in  seguito, obbligherà Trotzkj all'esilio. In Gran Bretagna, primo  governo laburista con Mac Donald. In Italia, in aprile, si tengono le  elezioni politiche. Il "listone" fascista, mediante le violenze  ottiene una larga maggioranza. Poco dopo viene assassinato il  
deputato socialista Giacomo Matteotti. L'opposizione abbandona la  Camera (secessione parlamentare dell'Aventino). Vengono limitate le  libertà di stampa, le violenze fasciste si acuiscono in tutta la  Penisola costringendo all'esilio molti uomini politici di sinistra.  Nel 1925, il fascismo sopprime anche la libertà di associazione, e  l'anno successivo istituisce la pena capitale per i reati politici,  che saranno giudicati dal Tribunale speciale. In Cina, nel 1928,  Chiang Kai-shek assume poteri dittatoriali e trasferisce la capitale  a Nanchino. In Europa, gli esuli italiani continuano la lotta al  fascismo e costituiscono in Francia la Concentrazione di azione  antifascista; nasce poi il movimento Giustizia e Libertà (1929).  Fatto centrale della vita politica italiana è la conciliazione tra  Stato e Chiesa con la firma dei Patti Lateranensi. Negli Usa il  candidato repubblicano Hoov-er è eletto presidente, gli Usa e il  mondo intero precipitano in una grave crisi economica. L'anno  seguente l'Urss vara il suo primo piano quinquennale. In Spagna, la  repubblica sostituisce il regime monarchico. Gli Usa e altri paesi  adottano nuove tariffe doganali protezionistiche. Nel 1932, gli  elettori americani chiamano alla presidenza Franklin D' Roosevelt. In  Germania von Hindenburg è rieletto presidente della repubblica con  l'appoggio dei nazisti, che alle elezioni ottengono un altissimo  numero di seggi al Parlamento. In Portogallo inizia il regime di  Salazar. Nel continente sudamericano scoppia la guerra per il Chaco  tra Bolivia e Paraguay; al territorio, ricco di giacimenti  petroliferi, sono interessate alcune compagnie americane e europee.  L'anno seguente, il governo Roosevelt affronta la crisi economica  promulgando le prime leggi per un'economia controllata (New Deal). Il  dollaro viene svalutato e abrogato il proibizionismo. In quel  periodo, nel Paese si contano 17.034.000 disoccupati. Appoggiato  dalle truppe Usa, nel Nicaragua sale al potere A' Somoza (vi rimarrà  fino al 1956), e a Cuba un colpo militare mette fine alla dittatura  di A' Machado. Guida l'operazione il sergente Batista che l'inviato  di Washington, Caffery, ha reso capo dell'esercito. Il 1933, in  Europa, segna la nomina di Hitler a Cancelliere del Reich; il 1934 la  sua elezione plebiscitaria a Capo dello Stato. La politica razziale  del nazismo non tarda a trovare codificazione legislativa; nel 1935  gli ebrei vengono privati dei diritti civili. Col pretesto di un  incidente di frontiera italo-etiopico a Ual-Ual, l'Italia dichiara  guerra all'Etiopia e l'invade, benché la Società delle Nazioni abbia  decretato le sanzioni economiche contro l'Italia. Allora si  trasformano i rapporti fra Germania nazista e Italia fascista, dopo  la crisi per le mire annessionistiche del nazismo verso l'Austria,  della quale Mussolini si era fatto protettore, e per l'assassinio del  cancelliere austriaco Dollfus avvenuto nel 1934. Nello stesso 1934  erano stati assassinati a Marsiglia Alessandro I di Jugoslavia e il  ministro degli Esteri francese Jean-Louis Barthou. L'Asse  Roma-Berlino si concreterà con l'intervento di formazioni militari  italiane e tedesche in Spagna a sostegno del generale Franco e del  movimento della Falange, ribellatisi al governo repubblicano sorto  nel 1936, dopo la vittoria elettorale del Fronte popolare. Un altro  governo di Fronte popolare si è costituito, nello stesso 1936, in  
Francia. Negli Usa gli elettori riconfermano la loro fiducia a  Roosevelt, rieleggendolo con una maggioranza senza precedenti.  Intanto Hitler denuncia il patto di Locarno e occupa la zona  smilitarizzata della Renania; nello stesso anno stabilisce un patto  militare anticomintern col Giappone, al quale, nel 1937, aderisce  anche l'Italia. Nello stesso periodo un'ondata di scioperi scuote gli  Usa. Il Giappone espande la sua influenza militare sul Pacifico e  verso la Cina. Nel 1939 la guerra di Spagna si conclude con la  vittoria franchista. Nello stesso anno la Germania invade la Boemia e  la Moravia, l'Italia occupa l'Albania. Muore Pio XI, gli succede Pio  XII. La Germania firma un patto di non aggressione con la Russia al  quale segue l'invasione della Polonia. Si è così iniziata la seconda  guerra mondiale. In Usa Roosevelt viene eletto presidente per la  terza volta. La Francia è sconfitta dalle forze armate germaniche;  l'esercito italiano interviene pochi giorni prima dell'armistizio.  
Nel 1941 i tedeschi invadono l'Urss e i giapponesi attaccano Pearl  Harbor. Le sorti della guerra, favorevoli ai nazifascisti, si  rovesciano dopo il '42 con la sconfitta tedesca a Stalingrado e  quella dell'Asse in Africa. Gli alleati sbarcano in Sicilia.  Mussolini viene arrestato e l'Italia firma l'armistizio. L'Italia  centro-settentrionale è occupata dai tedeschi e nel nord si  costituisce la Rsi con a capo Mussolini, liberato dal suo esilio sul  Gran Sasso. Nel 1944 gli alleati sbarcano in Francia. Nel Pacifico,  gli americani riconquistano le posizioni perdute e riprendono  l'iniziativa. Il Tripartito (Germania, Italia, Giappone) è vicino  alla sconfitta. Nel 1945, a Yalta, i Tre Grandi discutono la  sistemazione del mondo. Roosevelt muore due mesi dopo. Gli succede  Harry Truman, vicepresidente. 1945: Mussolini è fucilato dai  partigiani. La Germania viene invasa dall'Armata rossa a est, e dagli  Alleati nella parte occidentale; Hitler si uccide. Finita la guerra,  l'Inghilterra elegge il laburista Clement Attlee primo ministro, al  posto di Winston Churchill. Il 14 agosto anche il Giappone si arrende  senza condizioni, dopo l'esplosione delle bombe atomiche a Hiroshima  e Nagasaki. Nel 1946 l'Italia, in seguito a un referendum, diventa  repubblica. Presidente provvisorio viene nominato Enrico De Nicola;  primo ministro è Alcide De Gasperi. Nel 1947, negli Usa, promossa dal  senatore J'R' Mccarthy si inizia la campagna per le repressioni delle  "attività antiamericane". Nello stesso tempo, in Europa, si  costituiscono una serie di repubbliche socialiste: Albania, Ungheria,  Bulgaria, Romania, Cecoslovacchia, Jugoslavia e Polonia. Nel 1948 la  crisi tra le due maggiori potenze mondiali - Usa e Urss - si aggrava  per il "blocco di Berlino" da parte dei russi. In Palestina, gli  ebrei proclamano lo Stato d'Israele. In India la tensione  politico-religiosa sfocia nell'assassinio di Gandhi. In Cina, la  annosa guerra civile tra nazionalisti e comunisti si conclude con la  proclamazione della Repubblica popolare. L'acuirsi della lotta  politico-ideologica a livello internazionale investe la Chiesa, che  scomunica gli aderenti ai partiti comunisti. In Asia, nel 1950,  scoppia la guerra di Corea. Nello stesso tempo si sviluppa la crisi  mondiale del colonialismo: dopo che nel 1951 Mossadeq ha  nazionalizzato il petrolio iraniano, nel 1952, nel Kenya, si acuisce  
la resistenza contro gli inglesi; in Egitto, un colpo di Stato  militare estromette re Faruk, primo ministro diventa il colonnello  Neguib. Intanto il generale Eisenhower viene eletto presidente degli  
Usa e il Portorico viene proclamato "Stato libero associato" agli  S'U'. Nel 1953 muore Stalin: Georgij M' Malenkov diviene presidente  del Consiglio dei ministri, N' Kru4s4cëv segretario del Cc del Pcus.  Malenkov annuncia che l'Urss possiede la bomba H. Mentre nel mondo  continua (sconfitta francese in Indocina, guerra d'Algeria, ecc') la  lotta anticolonialista, in opposizione alla Nato nasce il Patto di  Varsavia. Nel 1955 scade il mandato presidenziale di L' Einaudi al  quale succede G' Gronchi. Nel 1956, al XX Congresso del Pcus,  Kru4s4cëv denuncia il culto della personalità. Nasser diviene  presidente della Repubblica egiziana; seguono la nazionalizzazione  del canale di Suez e l'azione anglo-francese in appoggio alle forze  israeliane, che attaccano gli egiziani nella zona del canale. Marocco  e Tunisia diventano indipendenti. A Cuba, un gruppo di combattenti  guidati da Fidel Castro inizia la guerriglia contro Batista. Sommosse  in Polonia e insurrezione in Ungheria, repressa dai carri armati  sovietici. Negli Usa, Eisenhower è rieletto presidente. Nel 1958 lo  stato di disordine politico in cui versa la Francia in seguito alla  crisi di Algeria, porta De Gaulle alla presidenza della repubblica.  Muore Pio XII a cui succede Giovanni XXIII. A Cuba, i castristi  sconfiggono Batista e salgono al potere. L'Alaska entra a far parte  degli Usa la cui sovranità viene estesa l'anno seguente anche alle  Hawaii. Nel 1960 si sostituisce il governo Tambroni: scioperi,  manifestazioni, scontri tra cittadini e polizia. Alcuni dimostranti  rimangono uccisi. Il governo si dimette. Si forma un governo  presieduto da Fanfani: vengono varate le prime giunte di  centro-sinistra. Negli Usa vittoria elettorale di John Kennedy,  candidato del Partito Democratico e fautore di una nuova politica  estera più distensiva. L'anno seguente Cuba si proclama repubblica  socialista. Nel 1961 Kennedy e Kru4s4cëv s'incontrano a Vienna. 

La vita letteraria e artistica 
  Nel 1899 escono Voskresenie (Resurrezione) di L' Tolstoj, Naar vi  dode vaagner (Quando noi morti ci destiamo) di H' Ibsen, le poesie  raccolte da W'B' Yaets in The Wind Among the Reeds (Il vento tra le  canne). Nel 1900, Lord Jim di J' Conrad, Il fuoco di G' d'Annunzio,  Die Traumdeutung (L'interpretazione dei sogni) di S' Freud. Charles  Péguy a Parigi fonda i "Cahiers de la Quinzaine". 1901: Th' Mann  pubblica i Buddenbrook, A' Cechov Tri sestry (Tre sorelle), Ch'L'  
Philippe Bubu de Montparnasse. L'anno seguente escono L'immoraliste  (L'immoralista) di A' Gide, The Wings of the Dove (Le ali della  colomba) di H' James, L'estetica di B' Croce, Cto delat? (Che fare?)  di Lenin. A Parigi, prima rappresentazione dell'opera Pelléas et  Melisande di Debussy. 1903: G' d'Annunzio pubblica i primi tre libri  delle Laudi, G' Pascoli i Canti di Castelvecchio, U' Saba Il mio  primo libro di poesie; J' London The Call of the Wild (Il richiamo  della foresta), O' Weininger Gesthlecht und Charakter (Sesso e  carattere). A Napoli ha inizio "La Critica", rivista diretta da B'  
Croce. 1904: escono The Golden Bowl (La coppa d'oro) di H' James, La  figlia di Jorio di G' d'Annunzio, Il fu Mattia Pascal di L'  Pirandello, la prima parte del Jean-Christophe (Gian Cristoforo) di  
R' Rolland. 1905: prime manifestazioni della pittura "fauve" a  
Parigi. Esce Vida de don Quijote y Sancho (Commento al Don  
Chisciotte) di M' de Unamuno. 1906: Die Verwirrungen des Zöglings  
Törless (I turbamenti del giovane Törless) di R' Musil. 1907: Neue  
Gedichte (Nuove poesie) di R'M' Rilke, L'évolution créatrice  
(L'evoluzione creatrice) di H' Bergson. 1908: Ecce Homo di F'  Nietzsche. A Parigi alcune tele di G' Braque, rifiutate al Salon  d'Automne, vengono esposte alla galleria Kahanweiler, e la critica  definisce col termine "cubismo" il nuovo orientamento artistico. A  Firenze, G' Prezzolini fonda "La Voce". 1909: Three Lives (Tre  esistenze) di G' Stein, La porte étroite (La porta stretta) di A'  Gide. Viene fondata a Parigi "La Nouvelle Revue Française". Sul  
"Figaro" appare il manifesto del futurismo, di F'T' Marinetti. I  Menphis Blues del musicista negro W'C' Handy, col titolo "Mr' Crump",  ottengono una fama che dà gran rilievo alle forme di tradizione  scritta dei "blues". 1910: Die Aufzeichnungen des Malte Laurids  Brigge (I quaderni di Malte Laurids Brigge) di R'M' Rilke. A Parigi  va in scena L'uccello di fuoco di I' Strawinsky. Nel 1913, con La  sagra della primavera il compositore russo si affermerà come uno dei  più importanti musicisti del nostro tempo. Comincia anche la fortuna  musicale di Schönberg. 1911: The White Peacock (Il pavone bianco) di  D'H' Lawrence. 1912: Il codice di Perelà di A' Palazzeschi, Der Tod  in Venedig (La morte a Venezia) di Th' Mann, Un uomo finito di G'  
Papini. Nasce a Chicago la rivista letteraria di avanguardia  "Poetry". Alla galleria La Boétie di Parigi ha luogo la prima  esposizione riassuntiva della pittura cubista. 1913: escono, di  Apollinaire Alcools, di H'D' Lawrence Sons and Lovers (Figli e  amanti), di Alain-Fournier Le grand Meaulnes (Il grande amico), di F'  Kafka Betrachtungen (Contemplazione). Con Du côté de chez Swann (La  strada di Swann), Proust inizia la pubblicazione di à la recherche du  temps perdu (Alla ricerca del tempo perduto). 1914: Dubliners (Gente  di Dublino) di J' Joyce, Pound pubblica su "Poetry" il manifesto  della poesia imaginista. W'C' Handy scrive St' Louis Blues. Charlie  Chaplin dirige il suo primo film, Charlot e la sonnambula. 1915:  Spoon River Anthology (Antologia di Spoon River) di E'L' Mas-ters; la  prima serie di Cantos di E' Pound; L'esame di coscienza di un  letterato di R' Serra. 1916: Die Verwandlung (La metamorfosi) di  Kafka, A Portrait of the Artist as a Young Man (Dedalus: ritratto  dell'artista da giovane) di Joyce, Chicago Poems (Poesie di Chicago)  di C' Sandburg; Prologhi di V' Cardarelli, Il porto sepolto di G'  Ungaretti, Cours de linguistique générale (Corso di linguistica  generale) di F' de Saussure; Die Grundlagen der allgemeinen  Relativitätstheorie (I fondamenti della teoria generale della  relatività) di A' Einstein. 1916-1917: fondazione del Dadaismo. 1917:  Prufrock and Other Observations (Prufrock e altre osservazioni) di  Eliot. 1918: à l'ombre des jeunes filles en fleurs (All'ombra delle  fanciulle in fiore) di Proust; Così è se vi pare di L' Pirandello.  1919: Winesburg, Ohio (Racconti dell'Ohio) di Sh' Anderson; Con gli  occhi chiusi di F' Tozzi; Allegria di naufragi di G' Ungaretti. A'  
Gramsci, A' Tasca, P' Togliatti, U' Terracini fondano a Torino  
"L'Ordine Nuovo"; a Roma nasce "La Ronda". L' Aragon, A' Breton e Ph'  Soupault fondano "Littérature", iniziando una serie di attività che  porteranno alla formazione del movimento surrealista. 1920: The  
Sacred Wood (Il bosco sacro) di Eliot, si colloca nell'ambito del New  Criticism, corrente critico-letteraria basata su un'estetica dei  valori formali che si affermerà nei paesi di lingua anglosassone tra  il 1920 e il 1940. In questo stesso anno escono This Side of Paradise  (Di qua dal paradiso) di F'S' Fitzgerald, Pesci rossi di E' Cecchi,  150.000 di V' Majakovskij, Osudy dobrého vojáka 4svejka za svetové  války (Le avventure del buon soldato 4svejk) di J' Ha4sek. Negli  Stati Uniti, grande successo de Il monello di Chaplin. 1921: con Sei  personaggi in cerca d'autore, prende sviluppo la fama di L'  Pirandello; escono Il Canzoniere di U' Saba, Notturno di D'Annunzio,  Rubé di G'A' Borgese, The Seven Pillars of Wisdom (I sette pilastri  della saggezza) di Th'E' Lawrence. Viene rappresentato a New York Il  gabinetto del Dr' Caligari, di R' Wiene. 1922: The Waste Land (La  terra desolata) di Eliot, Ulysses di Joyce, Babbit di S' Lewis. Eliot  fonda a Londra la rivista letteraria "The Criterion". Inoltre escono  Trommeln in der Nacht (Tamburi nella notte) di B' Brecht e Charmes  (Gli incanti) di P' Valéry. 1923: Duineser Elegien (Elegie di Duino)  di R'M' Rilke, La coscienza di Zeno di I' Svevo, Das Ich und das Es  (L'Io e l'Es) di S' Freud, Geschichte und Klassenbewusstsein (Storia  e coscienza di classe) di G' Lukács. Per iniziativa di Majakovskij,  si costituisce a Mosca il Levyj Front Iskusstv, movimento legato alle  avanguardie artistiche rivoluzionarie e in particolare al  cubo-futurismo. 1924: Breton pubblica il primo manifesto del  surrealismo; escono Konarmija (L'armata a cavallo) di I' Babel, Der  Zauberberg (La montagna incantata) di Th' Mann, Billy Budd (La storia  di Billy Budd) di H' Melville. 1925: Dark Laughter (Riso nero) di Sh'  Anderson, Manhattan Transfer (Nuova York) di Dos Passos, An American  Tragedy (Una tragedia americana) di Th' Dreiser, The Great Gatsby (Il  grande Gatsby) di F'S' Fitz-gerald, Les faux monnayeurs (I falsari)  di A' Gide, Der Prozess (Il processo) di Kafka, Vladimir Ilic Lenin  di Majakovskij, Ossi di seppia di E' Montale. Il regista russo S'M'  Eisenstein termina La corazzata Potëmkin. L'anno seguente, La madre  rivelerà un altro grande regista sovietico, V'I' Pudovkin. 1926:  Soldier's Pay (La paga del soldato) di W' Faulkner, Uno, nessuno,  centomila di L' Pirandello, Capitale de la douleur (La capitale del  dolore) di P' éluard. M' Bontempelli e C' Malaparte fondano a Roma la  rivista "900"; a Firenze, A' Carocci fonda e dirige "Solaria". 1927:  Point Counter Point (Punto contro punto) di A' Huxley, Der  
Steppenwolf (Il lupo della steppa) di H' Hesse, Journal (Diario) di  
K' Mansfield. 1928: Dreigroschenoper (L'opera da tre soldi) di B'  
Brecht, Lady Chatterley's Lover (L'amante di Lady Chatterley) di D'H'  Lawrence, Die Beziehungen zwischen dem Ich und dem Unbe-wussten (L'io  e l'inconscio) di C'G' Jung, Gente di mare di G' Comisso, Zavis4t  (L'invidia) di J'K' Ole4sa. 1929: The Sound and The Fury (L'urlo e il  furore) di W' Faulkner, Gli indifferenti di A' Moravia, La rebelión  de las masas (La ribellione delle masse) di J' Ortega y Gasset, Im  Westen Nichts Neues (Niente di nuovo sul fronte occidentale) di E'M'  Remarque. 1930: The Bridge (Il ponte) di H' Crane, The 42nd Parallel  (Il 42o parallelo) di Dos Passos, Der Mann ohne Eigenschaften (L'uomo  senza qualità) di R' Musil, Acque e terre di S' Quasimodo. La fama di  Chaplin tocca il suo vertice con Le luci della città, mentre con  L'angelo azzurro si afferma il tedesco von Sternberg. 1931:  Sanc-tuary (Santuario) di W' Faulkner, Mourning Becomes Elettra (Il  lutto si addice ad Elettra) di E' O'Neill, Piccola borghesia di E'  Vittorini, La Madonna dei filosofi di C'E' Gadda. 1932: Voyage au  bout de la nuit (Viaggio al termine della notte) di L'-F' Céline,  Tobacco Road (La via del tabacco) di E'P' Caldwell. 1933: La  condition humaine (La condizione umana) di A' Malraux, The  
Autobiography of Alice B' Toklas (Autobiografia di Alice Toklas) di  
G' Stein, Il garofano rosso di E' Vittorini. 1934: Tender is the  
Night (Tenera è la notte) di F'S' Fitzgerald, The Postman Always  
Rings Twice (Il postino suona sempre due volte) di J' Cain, Sorelle  
Materassi di A' Palazzeschi. 1935: Tropic of Cancer (Tropico del  
Cancro) di H' Miller, Eighteen Poems (Diciotto poesie) di D' Thomas,  
Llanto por Ignacio (Lamento per Ignazio) di F' García Lorca, Tortilla  Flat (Pian della Tortilla) di J' Steinbeck. L'editore A' Mondadori  inaugura la "Medusa", collana di romanzi stranieri contemporanei,  diretta da G' Prampolini, E' Piceni e L' Mazzucchetti. 1936: Chaplin  interpreta Tempi moderni, satira della società industriale  
contemporanea. Escono Absalom, Absalom! (Assalonne, Assalonne!) di W'  Faulkner, Lavorare stanca di C' Pavese, La poesia di B' Croce, Retour  de l'Urss (Ritorno dall'Urss) di A' Gide. 1937: in Spagna si svolge  il secondo Congresso della Associazione internazionale degli  scrittori. Il congresso si concluderà il 17 luglio a Parigi con uno  storico documento, per la solidarietà della cultura internazionale  con il popolo spagnolo in lotta contro il fascismo. Picasso dipinge  Guernica, prefigurazione delle disastrose conseguenze del nazismo.  
Avertissement à l'Europe (Avvertimento all'Europa) di Th' Mann, Of  Mice and Men (Uomini e topi) di J' Steinbeck. 1938: Il mulino del Po  di R' Bacchelli, La nausée (La nausea) di J'-P' Sartre, Conversazioni  in Sicilia di E' Vittorini. 1939: America amara di E' Cecchi,  
Finnegans Wake (La veglia di Finnegans) di J' Joyce, The Grapes of  
Wrath (Furore) di J' Steinbeck. 1940: Portrait of the Artist as a  Young Dog (Ritratto di un giovane artista) di D' Thomas. 1941: escono  l'antologia Americana curata da E' Vittorini, dapprima "proibita" e  poi senza le note del curatore censurate dalle autorità fasciste;  Lettere di una novizia di G' Piovene e Paesi tuoi di C' Pavese. 1942:  Liberté (Libertà) di P' éluard, Le silence de la mer (Il silenzio del  mare) di Vercors. 1943: Finisterre di E' Montale. 1944: L'Adalgisa di  C'E' Gadda, Agostino di A' Moravia. 1945: Cristo si è fermato a Eboli  di C' Levi, The animal Farm (La fattoria degli animali) di G' Orwell,  Uomini e no di E' Vittorini, Reportá4z psaná na oprátce (Scritto  sotto la forca) di J' Fu4cik. A Parigi, J'-P' Sartre fonda "Le Temps  Modernes"; a Milano, diretto da E' Vittorini, esce "Il Politecnico".  Roma città aperta di R' Rossellini afferma nel cinema la tendenza  neorealistica. Altri capolavori della nuova scuola cinematografica,  Ladri di biciclette di V' De Sica, La terra trema e Bellissima di L'  
Visconti. 1946: A' 4zdanov, l'ideologo stalinista, polemizzando  
contro la poetessa Anna Achmatova e lo scrittore M' Zo4s4cenko,  ribadisce l'ostilità della cultura ufficiale sovietica al formalismo  e all'individualismo letterario. Breton pubblica la raccolta de Les  manifestes du surréalisme (I manifesti del surrealismo), esce La  estación total con las canciones de la nueva luz (1923-32) (La  stagione totale con le canzoni della luce nuova, 1923-32) di J'R'  Jiménez. 1947: La peste di A' Camus, Doktor Faustus di Th' Mann,  Cronache di poveri amanti di V' Pratolini, Diario di Algeria di V'  Sereni, Lettere dal carcere di A' Gramsci, Qu'est-ce que la  litterature? (Che cos'è la letteratura?) di J'-P' Sartre. 1948:  Cantos Pisan (Canti pisani) di E'L' Pound, The Age of Anxiety (L'età  dell'ansia) di W'H' Auden, Menzogna e sortilegio di E' Morante. 1949:  La vita non è sogno di S' Quasimodo, Mutter Courage (Madre Coraggio)  di B' Brecht, Il taglio del bosco di C' Cassola, Portrait d'un  inconnu (Ritratto d'ignoto) di N' Sarraute. 1950: La terra promessa  di G' Ungaretti, Canto general (Canto generale) di P' Neruda. 1951:  La letteratura americana e altri saggi di C' Pavese, L'homme révolté  
(L'uomo in rivolta) di A' Camus, Minima moralia di Th' Adorno,  Tagebücher (Diari 1910-1923) di F' Kafka. 1952: Il visconte dimezzato  di I' Calvino, Jean Santeuil di M' Proust. 1953: viene rappresentato  a New York The Crucible (Il crogiolo) di A' Miller, dramma che  critica violentemente i sistemi inquisitori del maccartismo. Vengono  pubblicati Novelle del Ducato in fiamme di C'E' Gadda, Les gommes (Le  gomme) di A' Robbe-Grillet. 1954: Black Power (Potenza negra) di R'  Wright, Les Mandarins (I Mandarini) di S' de Beauvoir, Von den  
Wurzeln (Le radici della coscienza) di C'G' Jung, Die Zerstörung der  Vernunft (La distruzione della ragione) di G' Lukács. 1955: Ragazzi  di vita di P'P' Pasolini, Metello di V' Pratolini, Lolita di V'  
Nabokov, Le phénomène humain (Il fenomeno umano) di P' Teilhard de  Chardin, Oppression et liberté (Oppressione e libertà) di S' Weil.  1956: Storie ferraresi di G' Bassani, Erica e i suoi fratelli - La  garibaldina di E' Vittorini. 1957: si va progressivamente affermando  negli Stati Uniti l'avanguardismo degli "Hipsters" che ha come  esponenti Allen Ginsberg, Jack Kerouak, Kenneth Rexroth e altri.  Escono The Town (La città), di W' Faulkner, La jalousie (La gelosia)  di Robbe-Grillet, Quer pasticciaccio brutto di via Merulana di C'E'  Gadda, Diario in pubblico di E' Vittorini, Il dottor Zivago di B'  
Pasternak. 1958: Il gattopardo di G' Tomasi di Lampedusa. Il premio  Nobel per la letteratura, conferito a B' Pasternak, suscita gravi  polemiche in Urss e largo interesse in Occidente, per cui lo  scrittore rinuncia al premio. 1959: The Mansion (La dimora) di W'  Faulkner. 1960: La noia di A' Moravia, La ragazza di Bube di C'  Cassola, Critica della ragione dialettica di J'-P' Sartre. 1961: La  religione del mio tempo, di P'P' Pasolini, Luther di J'J' Osborne.  Alcuni grandi editori europei istituiscono due nuovi premi letterari:  il Premio Internazionale degli Editori e il Premio Formentor. I  vincitori della prima edizione dei due premi sono, rispettivamente,  J'G' Hortelano e, ex-aequo, S' Beckett e J'L' Borges. 

Introduzione 

Una favola quasi dal vero 
  "Sei personaggi in cerca d'autore,... con un fucile ciascuno", fu  detto poco dopo l'uscita di questo romanzo. Hemingway vi aveva  lasciato riconoscere, sotto i nomi e i lineamenti dovuti alla sua  fantasia, una serie di persone note o addirittura famose  nell'ambiente dell'emigrazione angloamericana a Parigi, e due o tre  figure di primo piano nella Spagna devota alle corride. Nel 1926-27  la frase che testimoniava anche una recente gloria internazionale del  dramma di Pirandello fu ripetuta con slancio da un buon numero di  pettegoli. Hemingway non fece solo dello spirito, dicendo allora a  Fitzgerald "nessun proiettile mi è fischiato intorno...".   Due tra quelle persone, a quanto pare, si erano mostrate tanto  risentite da ispirargli dei dubbi sulla sua incolumità nei giorni  prossimi, e indurlo a una specie di sfida rusticana: "in questo  gennaio 1927", egli assicurava d'aver fatto loro sapere, "tutti i  giorni dalle due alle quattro pomeridiane sarò al caffè Lipp" (uno  tra i ritrovi alla moda nel Quartiere Latino). Si trattava di Harold  Loeb, un giovane assai bello e per bene, imparentato coi Guggenheim,  abile nel pugilato ma non molto nello scriver romanzi, al quale  Hemingway aveva dato veramente troppe ragioni per riconoscersi nel  personaggio di Fiesta Robert Cohn; e della sua amica Kitty Cannell,  qui raffigurata sotto il nome di Frances Clyne. Vedremo poi che cosa  ci sia d'interessante in queste e altre corrispondenze del libro tra  fantasia e realtà, attraverso determinate persone. Tutta la faccenda  ha un centro - in senso biografico - ben preciso e scottante per  l'autore del romanzo; Lady Duff Twysden, diventata più o meno il  modello per la suggestiva, corrosiva, prelibata ninfomane Lady Brett,  aveva prodotto intorno a Hemingway un groviglio di situazioni e  vicende quanto mai ingarbugliato. Qualche cosa se ne riseppe, a poco  a poco, anche fuori dal cerchio degli informatissimi; oggi la  gigantesca nuova biografia scritta da Carlos Baker (E' H' A Life  Story, New York 1969), mette in chiaro fra l'altro questo intrigo con  l'attendibilità di un resoconto alla Sherlock Holmes. Lasciamo stare  per ora. Quel che importa, cominciando una breve presentazione di  Fiesta, è dire che gli elementi presi "dal vero" rientrano con forza  in un'ispirazione poetico-narrativa genialmente innovatrice, da cui  nacque un'opera (il primo romanzo vero e proprio di Hemingway)  straordinaria anche nell'essere testimonianza sulla sua epoca e  ribadirvi l'originalità affascinante, i caratteri rivoluzionari del  suo linguaggio. 
  Nessun'altra - sembra di poterlo affermare - segnò allora con  altrettanta freschezza ed energia il concretarsi di uno stil nuovo,  nel romanzo, che riguarda insieme l'alleggerirsi delle strutture, lo  slancio dei nessi dinamici tra narrazione e dialogo, il senso del  favoloso attraverso un nitido e asciutto movimento di cronaca in cui  vengano date né più né meno che notizie, dirette, "immediate",  oggettive. Dentro a questo movimento c'è come un andirivieni di  minuscole segnalazioni dal profondo e lievitano, via via, rapide,  incisive voci e cadenze liriche; il tono cronistico diventa così una  molto delicata maniera di favoleggiare la vita senza toglierle il  chiaroscuro delle sue varie contingenze, quotidiane e terrene anche  nei modi più aspri. Ma c'è una storia non solo una cronaca, qui,  d'uomini e donne presenti con tenace naturalezza alla fantasia dello  scrittore. Una storia che da ieri ci è in gran parte rimasta  contemporanea, radicalmente, con gli sviluppi suoi. Merita che vi si  trovi interessato ogni lettore del romanzo. 

Parigi invasa, 
ossia la Generazione Perduta 
  "Ecco che cosa siete,... una generazione perduta", Gertrude Stein  diceva al giovane Hemingway pressappoco nel '25. Erano stati molto  amici. Venuto a Parigi qualche anno prima, come giornalista, e  restatone un libero cittadino fin quanto lo consentisse la sua  esistenza movimentata, Hemingway dalla Stein era stato ben accolto,  introdotto rapidamente nella società letteraria della Parigi che  parlava e scriveva in inglese o americano, - ricevette dalla Stein  anche ottimi consigli per il suo esprimersi come scrittore. Adesso la  loro amicizia deperiva. Non si sa mai chiaramente perché avvengano  queste cose; in ogni modo la Stein rappresentava a meraviglia quel  Dispotismo Illuminato in gonnella che non tollera opposizioni,  
Hemingway si era formato il carattere sui Grandi Laghi e a Chicago, a  Kansas City, aveva imparato presto a battersi con una madre non meno  imperiosa della Stein, era davvero un po' barbaro, e maturava come  autonomo scrittore. Se uno legge l'intelligentissima Autobiografia di  Alice Toklas (autoritratto della Stein in realtà) vede che secondo  Gertrude, solamente il ventenne Ch' Henry Ford e Robert Coates -  suppergiù coetaneo di Hemingway - avevano, "tra i giovani, un senso  personale della parola", davano insomma garanzie d'originalità  stilistica, sul finire degli anni '20 e beninteso in campo americano.  Hemingway risulta invece nel libro un prestigioso furfante mal  cresciuto. Quei due altri, Gertrude li salvava perché in sostanza  riecheggiavano qualcosa dei suoi magnifici amori con l'arte cubista,  e più o meno con lo spirito della miglior Avanguardia parigina  d'anteguerra (anteprima guerra mondiale); l'unico a restarle gradito  insieme a loro, tra i coetanei o i più giovani di Hemingway ben (mal)  compreso, era Scott Fitzgerald, anche per le sue opere precarie.  L'aveva appagata in qualche altro suo modo d'adorare certi sapori da  Belle Epoque, è del tutto verosimile. Hemingway, invece, finì con  l'apparirle un figlio del secolo così come si dice figlio di p...;  era andato troppo presto in guerra, si dilettava di pugilato e ne  parlava moltissimo, beveva cocktails vino bianco vino rosso kirsch  rum birra gelata whisky and soda ogni genere d'aperitivi nel  Quartiere Latino e nei paraggi dell'Opéra, non si riconosceva  debitore a Gertrude Stein del suo trasporto per le corride, aveva una  moglie simpaticissima ma un po' troppo sciatrice e brava ragazza  degli States, non un esemplare di superbe follie come Zelda  Fitzgerald... Per Gertrude la Generazione Perduta era sinonimo di  passioni volgari, alla fine. Hemingway, così come il quarantenne ma  ancor piuttosto infantile Ezra Pound, non riuscì a essere abbastanza  ossequioso allo Spirito di Gertrude per farsi perdonare certe  intemperanze, rusticità, violenze di temperamento. 
  Parigi allora traboccava di americani giovani e non giovani. Tutto  
il Greenwich Village in modo particolare sembrava aver fatto  trasloco, da New York, a Montparnasse. Un dollaro valeva dodici  franchi (più del doppio che in un passato recente), meraviglia delle  meraviglie francesi per chi i suoi dollari li contava. C'erano  
Americhe di Montmartre, dei Champs-Elysées, delle poltrone club sotto  ai nudi delle Folies Bergères ecc'; dell'Hôtel Ritz, dei ristoranti  dove le bottiglie di champagne stappate per l'aperitivo non entravano  nel conto e l'aragosta all'americana veniva servita fra un gran  corredo di bandierine franco-statunitensi, e l'orchestra riesumava la  
"Madelon" sacra alle memorie di guerra; c'erano Americhe del Bois de  
Boulogne, dei profumieri sarti gioiellieri da Rue de la Paix alla  Madeleine, delle fatate terrerosse su cui Tilden si batteva a tennis  con Lacoste, o Cochet o Borotra, e Susanne Lenglen mostrava le  mutandine. Cento dollari valevano milleduecento franchi, il conto  tornava, e anche in queste Americhe ubriacarsi era un magico  ulteriore risparmio dati i prezzi (rischi a parte) della madrepatria  proibizionista. Ma a Montparnasse uno poteva bere absinthe guardando  i pittori o scrittori surrealisti nel clima - intorno al '24 - del  primo manifesto di Breton, e delle ormai storiche vittorie su Dada.  Qui tutta un'America contestatrice, volentieri capellona nei limiti  dell'epoca, si mescolava con gli snob e i ricchi più aggiornati.  Dilaganti erano i giovani. Venne un tempo "in cui tutti avevano  ventisei anni", dice la Stein nell'Autobiografia; ed era proprio il  1925 (Hemingway nacque nel 1899). Verso il finire del libro un  intiero capitolo pare composto esclusivamente su misura del  personaggio Hemingway in base ai caratteri che la Stein gli  attribuisce, per canzonarlo e insultarlo. Vari anni erano passati da  quando lui, poco prima di far uscire questo romanzo, aveva pubblicato  la parodia di Sherwood Anderson intitolata Torrenti di primavera; la  Stein vi è abbastanza maltrattata, con allusioni dirette e indirette;  da quel momento la terribile Gertrude aveva percorso e ripercorso il  sentiero di guerra. Dei caffè di Montparnasse l'Autobiografia non  parla. Gertrude che abitava vicino (in una casa piena d'incanti  raffinati) non doveva mai avervi messo piede, tirava via con la sua  rozza automobile Ford celebre ormai come Ronzinante. Ma in quel  capitolo ogni elemento può suggerire ai lettori non superficiali la  presenza di una giovane massa americana, dal '22-23 in poi, nella  Parigi circostante alla Stein, una giovane massa di cui Hemingway sia  
parte spiritualmente caratteristica, con i suoi arrivismi ed  esibizionismi pesanti; in sostanza egli è dipinto come un  protoinvasore yankee o pellerossa della nobile cara città di  Apollinaire, di Juan Gris, già alquanto violentata dai picassiani e  adesso soggetta ai bivacchi dei surrealisti, questi "volgarizzatori  di Picabia" secondo Gertrude. 
  Hemingway ai caffè ci andava. Naturalmente anche a quelli di  
Montparnasse, dato che abitava nel quartiere, dal 1924, in Rue Notre  Dame des Champs poi riconsacrata da una poesia di Archibald Mac Leish  sul nostro protagonista (che aveva pubblicato intanto non solo questo  romanzo, ma anche Addio alle armi): 
  ...A Rue Notre Dame des Champs@ il ragazzo dal languido sguardo di  pantera assonnata, -@ che è accaduto di lui? Lo ha preso nelle sue  braccia la fama.@ Veterano di guerra prima dei vent'anni,@ famoso a  venticinque e a trenta maestro, -@ egli ha piallato per la sua epoca  uno stile in buon legno di noce,@ nella soffitta del falegname, là in  quella primaverile città.@ 
  La "soffitta" era piccola per i suoi tre inquilini di allora, e il  cantare della sottostante segheria non era sempre gradevole per uno  che scriveva, così egli riprese spesso l'abitudine che era stata  fervidamente sua nei primi tempi parigini, lavorare a un tavolo di  caffè. Agli inizi del 1924 era uscita la raccolta di frammenti o  "bozzetti", lirico-narrativi, in our time (senza maiuscole quel  titolo voluto così da un editore d'avanguardia: trad' nel nostro  tempo), che è un concentrato delle esperienze più vivide nello  Hemingway giovanissimo. Da quell'anno alla primavera 1925, scrisse e  pubblicò in genere su riviste alcuni tra i suoi migliori racconti, in  assoluto: Campo indiano, il dottore e sua moglie, Il ritorno del  soldato e Neve fra due paesi, con Il gran fiume dai due cuori i cui  meriti artistici hanno un rilievo d'eccezione. Pound, Fitzgerald  furono i più decisi nel pronunciarsi sulle qualità dello scrittore.  (Con il critico Edmund Wilson). Ma in our time era un librettino  minuscolo come le iniziali che molti gli rimproverarono. Uscì in 170  copie, un altro centinaio ne aveva rovinate il tipografo. Le riviste  "autorevoli" si ostinavano nel respingere quanto arrivasse loro da  Hemingway. Ed era giudicato, in America, pressappoco da tutti gli  specialisti di letteratura, uno tra i molti emigrati che subivano le  mode europee; qualche schizzinoso gruppo di parlanti in inglese a  Parigi lo vedeva invece ancora e sempre come un giornalista, abile  nel raccontare. Il buon amico Bill ironicamente dirà a Jake Barnes,  in Fiesta - qui a p' 20-21, vol' Iii: 
  "...Vuoi fare lo scrittore. Tu sei solo un giornalista. Un  giornalista emigrato... Ecco cosa sei. Hai perduto il contatto col  suolo. Diventi prezioso. La corruzione europea ti ha rovinato. Tu  bevi la tua vita. Ti lasci ossessionare dal sesso. Passi il tempo  parlando, non lavorando... Tu giri per i caffè...". 
  Quasi una sintesi delle maldicenze intorno a Hemingway, allora, da  destra e da sinistra. 
  Nulla che portasse un colore drammatico o tragico, come lo slogan  della Generazione Perduta venne poi assumendo. Doveva ripetutamente  illustrare, Hemingway, in epoche successive le origini abbastanza  meschine di quella formula generazionale, aggiungendo che anche i  grandiosi significati presi da essa attraverso il primo suo romanzo  non avevano molto di valido. Fu il volume di ricordi su Parigi, Festa  mobile, uscito postumo nel '64, a concludere almeno finora la  questione. (1) Sottolineò gli aspetti occasionali e di polemica  spicciola, di moralismo interessato o astratto che avevano reso  quelle parole della Stein molto simili ai circostanti pettegolezzi.  Nella realtà quotidiana i coetanei di Hemingway i "giovani che la  guerra aveva rovinato", componevano in grande prevalenza una  generazione né più né meno "perduta" d'ogni altra. Erano solo i  giovani a doversi per esempio attribuire la colpa dei peggiori  malanni nell'America proibizionista? Questo e altri generi di  "colpe", probabilmente riguardavano molto più a fondo un buon numero  di anziani e qualche fenomeno incommensurabile con l'età delle  persone. Nel campo letterario, poi, era stato forse giusto aspettarsi  poco o niente di valido dai narratori prosatori ecc' di nuova leva,  negli anni '20? Oltre a Fitzgerald, un coetaneo di Hemingway scrisse  libri abbastanza memorabili,... firmati William Faulkner; e per le  date di nascita questi tre stanno in un gruppo americano non scarso  di rappresentanti prima o poi illustri, Dos Passos e Wilder, Th'  Wolfe, Steinbeck, Caldwell. Benché scettico verso alcuni di questi  coetanei il nostro protagonista ebbe buon gioco nel definire fallite  - a tempo debito - le profezie della Stein, di parecchi là intorno.  
D'altra parte egli diceva in una lettera del '51: 
  "Forse eravamo scossi. Ma perduti, neanche per sogno; fatta  eccezione dei morti, delle gueules cassées e dei pazzi da manicomio.  Perduti no davvero. E Criqui che era proprio un tipo di gueule cassée  [muso rotto] vinse il campionato mondiale dei pesi piuma. Eravamo una  generazione molto solida...". 
  Qui evidentemente ci sono frasi messe giù per fare effetto, senza  troppo pensarci. Uno può anche sentire la presenza di un'ansietà o  addirittura di un incubo personalissimo, nelle obiezioni tenaci,  nelle smentite che Hemingway oppose più recisamente che mai dopo il  '50 allo slogan della Generazione Perduta (è difficile trovar un  simile ricorrere d'ormai vecchie polemiche in un altro grande  scrittore); un punto, al quale mi sono già riferito, dei lontani  discorsi della Stein veniva prendendo un senso grave nell'ultimo  decennio della vita di Hemingway. "Vi rovinate la salute a furia di  bere..." E nell'Autobiografia la pseudo-Alice Toklas, in realtà  Gertrude Stein, non aveva scritto che dalla guerra fatta a diciannove  anni il "povero Ernest" era uscito malconcio così da esserlo ancora,  nonostante le sue gesta sportive e le sue smargiassate? Una tesi  aggiornata dopo il '45 - anche su grossi magazines e rotocalchi  d'ogni paese - in merito ad altre guerre da lui percorse senza  risparmio. Tutto un seguito di eventi storici, d'intimi travagli e  anche di tendenze soggettive a un gran dispendio vitale, pareva aver  infierito sulla sua generazione travolgendone un'ampia parte,  ferendone profondamente un'altra in cui egli adesso poteva sentirsi  di famiglia. Ma quando mai si era messo nel cerchio dei perduti? Vi  si era forse predisposto, da giovane, a Parigi, con i più amari o  crudeli richiami autobiografici delle sue opere e con la frase  riportata sul frontespizio di Fiesta, dalla quale era sorto quasi  immediatamente lo slogan a lui così ostico? Mille "critici" diecimila  orecchianti se ne erano fatti, via via, in vent'anni un ornamento  pieno di sottintesi vaghi e suggestivi ad alto livello  culturalistico, per i loro discorsi scritti o parlati. Le nuove  applicazioni del ritornello al personaggio più che al narratore  Ernest Hemingway, egli se le sentiva pesare veramente addosso.  Controbatterle a forza di ricordi sinceri gli riuscì naturale, -  l'aspetto ossessivo della sua polemica non la rende meno onesta né  meno fondata. Soltanto... 
  Ecco: quel vecchio slogan può assumere un significato differente  dal solito. Trovarsi "perduti" vuol dire, in molti casi, altro dal  non avere più scampo fisico o morale, dall'essere incorsi in una  situazione disperata, dal non saper che cosa opporre a certi  perentori motivi di rovina; molti si sono "perduti" anche soltanto  nell'attraversare un bosco, o in altri luoghi non raramente  frequentatissimi. Per noi, con una piccola forzatura del senso più  letterale e spontaneo, se guardiamo un po' dentro alle opere e alla  biografia del giovane Hemingway, può valere l'immagine d'una  generazione perduta nel labirinto che una gran quantità di  circostanze le avevano formato intorno, che a sua volta essa aveva  reso vivo in modi nuovi, fitti di ramificazioni nei suoi  comportamenti. Non esistono "di fatto" le generazioni, s'intende. Chi  ha mai potuto distinguerle con chiarezza o almeno con un buon taglio  integrale l'una dall'altra? Ma, nel nostro caso, contano i rapporti  non matematici tra uno scrittore poco più che ventenne, certe  situazioni caratteristiche a una gioventù di allora - evocata  fortemente dalle opere di questo scrittore - e il loro tempo. Per  quel tanto che l'idea di Generazione Perduta aiuta davvero i lettori  a orientarsi su un romanzo come Fiesta, sostituire l'immagine di un  labirinto a quella di un processo fallimentare è raccomandabile.   Aveva una deliziosa sede centrale questo labirinto, non solo per il  ragazzo dal languido sguardo di pantera assonnata: Parigi. Cose già  dette, qui, spero abbiano mosso nel lettore un sentimento suo della  capitale che il mondo aveva allora, è un fatto riferito da tutti i  manuali, e mi giustifichino nell'aggiungere poco. Quella fu chiamata  da Fitzgerald l'età del jazz, ma socialmente era in modo particolare  l'età di un'enorme ripresa per lo sviluppo capitalistico - dopo le  tempeste seguite alla guerra - in un mondo occidentale dove  inquietudine e vitalismo accesissimi non intaccavano ancora i tessuti  profondamente tradizionali. Dalla cultura al pubblico la psicanalisi,  come tema sintomatico, si era già diffusa. E il cinema teneva ormai  un regno universale con magnificenze in parte sensate con rozze  mitologie del sangue del sesso e delle terre lontane, e forze vivide  in quantità, nuove dimensioni artistiche non di rado sorprendenti per  vigore o finezza da quegli schermi ancora muti; Fiesta è stata  scritta mentre milioni di persone vedevano per la prima volta La  febbre dell'oro. E' ovvio ribadire in prefazione a un libro di  Hemingway l'impeto preso dalle passioni sportive. Nel paese dove lui  aveva conosciuto la guerra, vinceva il fascismo; il giornalista  Hemingway aveva dato giudizi mordenti sulla sua indole, e intanto  aveva riassunto benissimo le prospettive aperte in Europa dagli  occupanti francesi della Ruhr, dai tedeschi sconvolti e pieni di  nuove aggressività, con l'inflazione al galoppo. Lenin morì nel '24,  l'anno stesso della morte di Kafka a cui seguirono in breve le  pubblicazioni del Processo, del Castello, di Amerika. (Gramsci, da  Vienna, aveva scritto nel gennaio '24 alla moglie che l'attacco di  Stalin a Trotzkij gli pareva "assai irresponsabile e pericoloso"). Le  antipatie di Hemingway verso molti americani presenti a Parigi le  abbiamo intraviste; ma lui pure era un americano barbaro e tinto di  colori improvvisati per far colpo, secondo la Stein.   Gli piaceva molto Joyce, che si era immerso nel lavoro al  Finnegan's Wake poco dopo l'edizione definitiva di Ulysses. Un  protagonista della cultura internazionale a Parigi. Tra gli altri  
suoi scrittori preferiti erano dei narratori classici ormai a  ispirargli le dichiarazioni più calde, Tolstoj e Flaubert, Twain,  Conrad, Henry James, Turgenev, con gli inglesi del '700. Cézanne tra  i pittori moderni; mentre scopriva il coetaneo catalano e liberamente  surrealista, da poco tempo, Joan Miró, che senza dubbio ha influito  sullo stile di Fiesta. Per quello di in our time Edmund Wilson aveva  fatto un giusto riferimento a Goya. Accuratissimi e perfetti  nell'esecuzione linguistico-espressiva, con risultati di ritmo, di  musicalità quanto mai singolari in rapporto a un linguaggio asciutto  e colmo di parole brevi da frase a frase, lo Hemingway dei racconti  scritti da ultimo fino a Il gran fiume dai due cuori aveva quel che  bastava per essere un impeccabile maestro di prosa nuova. (Ezra Pound  
disse nel '24 che era il più eccellente stilista, tra gli attuali  prosatori d'ogni paese.) (2) Ma nulla poteva dar alla sua arte un  aspetto di continuità, nelle soluzioni narrative e nelle strutture  della fantasia, e tanto meno nell'intimo senso del lavoro sulla  realtà. Elementi affettivi e morali, una straordinaria freschezza di  accordi lirici, la dimensione epica, un'eleganza quasi frivola e il  nudo esprimersi del dramma o della tragedia, il grottesco l'ironico  l'apertamente sentimentale formano, dentro alla raccolta del '25  intitolata ancora Nel nostro tempo ma con iniziali tradizionalmente  maiuscole sul testo originario - In Our Time -, proprio un labirinto  di rapporti col mondo anche sotto il profilo degli sviluppi  letterari. Ci si trova dinnanzi a un repertorio tutto mutevole,  controverso, governato da leggi volta per volta organiche e in  complesso piene di fratture. A guardare ai diversi momenti o periodi  in cui le varie narrazioni della raccolta furono scritte si nota,  facilmente, una linea di maturazione unitaria nella prosa, ma tutto  il resto che ho accennato risponde nel tempo come a un incrociarsi di  vite senza fine. E i bozzetti dell'in our time minuscolo vengono  ristampati nell'altro inserendoli da racconto a racconto come  anticorpi di un genere particolare, niente affatto immunizzanti -  "contro i germi delle malattie infettive" - nel tradizionale senso  medicobiologico; limitati, ognuno, a poche righe, splendidi e  sinistri tornano lì a scolpire i loro episodi quasi tutti sanguinosi  di guerre, rivoluzioni, corride, e tremende esecuzioni legali o no di  "delinquenti"; mettono così fra le varie narrazioni lunghe i grani di  un rosario micidiale, nell'evocare le crudeltà legate di nuovo al  mondo moderno, ma simili ad altrettanti brani di un'inverosimile  favola storica, poetica e colma con estrema semplicità di aspetti  metafisici. I racconti finiscono per descrivere un clima  variabile-quotidiano della vita, spesso insano ma aperto a  circostanze attraenti o incantevoli; i bozzetti segnano le forze  sempre in agguato della crudeltà giuridicamente lecita, stranamente  "meravigliosa" nel raggiungere i limiti dell'assurdo in relazione a  un'epoca tanto organizzata dall'uomo. Come revulsivi, la loro parte  di anti-germi la svolgono. Tranne che c'è un loro più intimo sadismo  fatto d'ironia elegante, di stoicismo per gente a prova di bomba e di  
referti giornalistici altrettanto sadici nell'essenza, - una  sarcasticità, via via, orgogliosa di sé. 
  (I Quarantanove Racconti in un altro volume della nostra edizione,  nella prima parte corrispondono quasi totalmente alla raccolta del  '25: bozzetti compresi. Il lettore scrupoloso nel voler seguire un  ordine cronologico dovrebbe far precedere a Fiesta quella sezione  della raccolta messa insieme, da Hemingway, nel 1938).   Torneremo sull'idea di "generazione perduta nel labirinto"  guardando al romanzo, a Fiesta, la cui prima stesura fu scritta di  getto mentre In Our Time era alle stampe. Poco prima - nel giugno '25  - l'autore aveva cominciato un altro romanzo. Doveva chiamarsi Along  With Youth, In compagnia della giovinezza. Protagonista certamente in  parte autobiografico un Nick Adams, come in una serie dei racconti  già scritti. Ma tornando in Spagna quell'estate, per la "fiesta" dei  tori a Pamplona, Hemingway prese appuntamento con un gruppo di amici;  questo suo primo romanzo intitolato nel '26 The Sun Also Rises, Anche  il sole si leva, nacque in rapporto alle vicende di Pamplona e  l'altro restò interrotto dopo una trentina di cartelle. 


NOTE: 
(1) Nel terzo capitolo, "Une génération perdue", di Festa mobile,  Hemingway fa risalire i discorsi della Stein su quel tema al motto  estemporaneo di un proprietario di garage, che aveva preso motivo  dalle distrazioni di un giovane meccanico (adulto però quanto bastava  ad essere stato in guerra) per esclamare: "Siete tutti una  generazione perduta", La Stein, nel 1925 circa, aveva riferito a H'  la faccenda dando a quelle parole un senso di verità molto ampio, e  rimproverando a H' come "ai suoi amici" il vizio di bere, la mancanza  di rispetto verso troppe cose, ecc'. Hemingway rese celebri le parole  riportate dalla Stein mettendole come epigrafe sul frontespizio di  The Sun Also Rises (titolo originale di Fiesta) nel 1926, insieme a  un'altra epigrafe che presentava un brano dell'Ecclesiaste: "Una  generazione va e l'altra viene, ma la Terra è sempre lì. Anche il  sole sorge e tramonta, ecc'". 
(2) Ford Madox Ford rilevò, quasi nello stesso tempo, che il  linguaggio di Hemingway faceva pensare alla corrente di un ruscello  sotto la quale si vedano "ciottoli" estremamente nitidi, levigati da  quella corrente, con un effetto meraviglioso. E a sua volta D'H'  Lawrence confrontava lo stile di H' a una successione coerentissima  di minuscole fiamme, simili - egli disse - a quelle che si ottengono  accendendo fiammiferi e fiammiferi. 

Intrigo e liberazione 
  Harold Loeb, trasfigurato qui in Robert Cohn, era un amico della  
Stein oltre che degli Hemingway. "...A Parigi era tornato Harold  Loeb", si legge verso la fine dell'Autobiografia di Alice Toklas  tradotta da Pavese. "Hemingway era diventato uno scrittore. Faceva  anche del pugilato a vuoto,... e da me sentì parlare delle corride.  Io ho sempre amato i balli spagnuoli e le corride spagnuole e mi  piace mostrare fotografie di toreri e corride..." (Diavolo d'una  donna. Hemingway era andato come giornalista, a Pamplona, nel '23 e  aveva scritto due articoli che traboccano d'entusiasmo personale.)  "...[La Stein e lui] discutevano interminabilmente del carattere di  Harold Loeb", riprende la pseudo-Alice una pagina dopo.   Stanco di Kitty Cannell, secondaria figura che ho ricordato  all'inizio, Loeb nel '25 desiderava moltissimo la scostumata quanto  seducente Lady Duff Twysden, inglese, trentenne, allora a Parigi con  un certo Pat Guthrie che nel romanzo è diventato Mike Campbell. Destò  impressioni forti anche in Hemingway, la prossima ispiratrice del suo  personaggio Lady Brett. Volto e forme e i biondi capelli tagliati  cortissimi, gli occhi grigi, "l'immensa eleganza naturale" - dice  Carlos Baker nella biografia di H' uscita quest'anno in America - di  questa moglie divisa da un grosso baronetto, solita a portare vestiti  un po' virili ma aderenti a tutt'altro, e un proprio cappello da  gentiluomo, strappavano i consensi. Reggeva all'alcool  magnificamente. Era svelta, spiritosa, risultava sensibile. Con il  giovane Pat Guthrie, bislacco scozzese che perlomeno era stato  omosessuale, lasciavano immaginare una convivenza breve. Anche  Hemingway dovette sperarlo, sebbene l'affetto per la moglie Hadley  restasse grande e ancor più contraccambiato. 
  Coniugi e amanti e Harold Loeb, con altri due amici, fissarono in  quell'estate il raduno a Pamplona. Ma Lady Duff e l'inorgoglito  Harold vi arrivarono, con Pat, dopo una settimana vissuta in  solitudine dai primi due. La situazione degenerò quasi subito. Per  opera di Hemingway specialmente. Era visibile adesso che Duff lo  apprezzava più d'ogni altro nel gruppo; lui mostrò verso Harold un  rancore violento, la non segreta avventura di quest'ultimo con Duff  pareva riuscirgli insopportabile. E infine l'aria di tempesta fece  massa nel longanime Pat, da una sera a una notte in cui egli bevette  più del solito. Invitò a un tratto Harold a capire - "presenti tutti  quanti" - che non era desiderato. Duff tentava di confortare  l'offeso, Hemingway gli rivolse allora insulti pesantissimi. Lui e  Harold uscirono dalla stanza per picchiarsi. Ma i duellanti, appena  messisi in guardia come autentici pugilatori rinunciarono a battersi;  l'informazione è di Loeb, disse che Hemingway "stava sorridendo con  quel suo aperto, infantile, contagioso modo di sorridere che rendeva  così difficile non amarlo". Loeb e poi subito l'avversario  dichiararono conclusa la faccenda. 
  Il giorno dopo, o pressappoco, partirono tutti. Hemingway andò con  la moglie a Madrid. Scrisse alla Stein che la "fiesta" di Pamplona  era stata eccellente. Il torero, diciannovenne, Cayetano Ordoñez  quasi sconosciuto fin allora, era asceso in effetti alle cime di  quest'arte; e a Madrid venne a compiere altre meraviglie, nei giorni  che l'ex-sublime Belmonte prendeva una brutta incornata. I due  
Hemingway avevano fatto amicizia con Ordoñez durante gli scompigli a  Pamplona. Fu Hadley a ricevere per prima nell'arena di Madrid gli  onori in uso, l'orecchio di qualche toro che Ordoñez aveva trattato  col suo stil nuovo. Lo scrittore cominciò allora a metter in carta  una rapidissima stesura di romanzo. Protagonista doveva essere  Ordoñez, titolo Fiesta, nelle sue prime idee; poi da Valencia a  Parigi l'impianto si trasformò, il personaggio Brett Ashley diventava  fondamentale quanto più Hemingway si liberava dallo stretto ricordo  dell'intrigo vissuto a Pamplona. La forma provvisoria del romanzo fu  conclusa in settembre. Terminava come il testo attuale: "...non è  
bello pensare così?". 
  Le rivelazioni ultime, dicono che Duff Twysden e lo scrittore  avevano perlomeno sfiorato veri e propri rapporti amorosi. In qualche  modo egli si impedì di completarli, o prolungarli. E' il motivo  certamente più diretto per la costruzione del personaggio narrante,  Jake Barnes, sulla base di un'invalidità sessuale (dovuta a una  ferita di guerra); essa venne a sostituire il probabile intervento  dell'affetto per Hadley nel complesso di rinuncia a cui Hemingway  prima o poi lasciò decidere quel capitolo della sua vita. Ma, un anno  prima, l'espressionista tedesco Ernst Toller aveva fatto  rappresentare a Berlino un suo dramma, notissimo in breve a Parigi:  Hinkemann (Il mutilato) - che per tema centrale ha la desolazione di  un uomo rimasto soggetto alla medesima sventura di Jake, lui pure in  seguito a una ferita di guerra. Il clima protestatario, e quasi  "didascalico" in analogia con una serie di drammi di Bertolt Brecht,  nell'opera di Toller, era adatto a colpire uno Hemingway ancora  sensibilissimo alle varie identificazioni tra guerra mondiale e  ferocia, spirito distruttivo, possente stupidità dell'uomo contro  l'uomo. Oltretutto, per poco a Fossalta nel '18 una tra le molte  schegge di proiettile che lo avevano colpito non l'aveva reso  preventivamente simile al mutilato di Toller, e a Jake Barnes. Ci sia  stata o no una forte connessione tra Hinkemann e questo elemento di  Fiesta (non mi risulta che qualcuno abbia messo a confronto le due  opere), l'infermità di Jake ha comunque un senso essenziale nella  vicenda raccontata da lui stesso. E il più aspro motivo contrapposto  ai migliori incanti di Parigi nei primi capitoli, alle felicità della  pesca delle trote fra le colline da paradiso terrestre di Burguete, e  infine alla stregata grandezza degli eventi rituali-popolari-taurini,  "giorno e notte per sette giorni", a Pamplona. Da un lato, resta  sempre presente la condanna che Jake si porta addosso come un inferno  personale riflettendola su Brett, sui loro amori impossibili, e su  tutta una dimensione interna ai loro rapporti con gli altri; nel  medesimo tempo ciò che in superficie rappresenta solo un affascinante  periodo di vacanze, viene a costituire una specie di eden offerto  alle emozioni vitali e al criterio dei "valori" più intensi per il  condannato n' 1 a quell'inferno, per i suoi preferiti compagni  d'assurdo intrigo amoroso, di avversione per le regole moralistiche,  e d'attaccamento profondo alle libertà alle norme consacrate alla  naturalezza delle passioni in cui ora si trovano immersi,  partecipando a questa sagra spagnola. E' probabile che in un lungo  periodo del suo lavoro Hemingway abbia pensato a sottolinearla con  durezza, tale contrapposizione, riportandovi tutto ciò che il libro  potesse contenere. Sparì a un certo punto il titolo Fiesta. Lo  scrittore - mentre nell'inverno tra '25 e '26 rielaborava quasi per  intiero la forma e in gran parte la materia della prima stesura - si  propose come titolo La generazione perduta. Egli stava allora vivendo  nuove e molto più gravi complicazioni amorose. Hadley aveva dovuto  subire la scaltra offensiva di una giovane americana residente a  Parigi, Pauline Pfeiffer, decisa a conquistarsi i favori di Ernest  Hemingway. Riuscì dapprima a ottenerli senza che Hadley perdesse  completamente quelli che la riguardavano; tuttavia, egli non era  
fatto per prolungare a cuor leggero un adulterio e quando si accorse  di non saper rinunciare né a Had-ley né a Pauline si trovò del tutto  sconvolto, fino a esprimere idee di suicidio. Si riprese. E anche  quel titolo a sfondo testamentario venne abbandonato, mentre il  lavoro correva ormai verso la fine. 
  In meno di un anno dall'estate 1925, quale labirinto, davvero, di  premesse biografiche e slanci nello scrivere e riprogettazioni, e  circostanze morali in subbuglio, venne a risolversi in un'opera  fresca e netta su un piano artistico molto alto. Se davvero lo  scrittore intendeva concentrare lo sviluppo tematico e narrativo  intorno a un'antitesi tra i due gruppi di elementi che ho accennato,  il congegno cui diede vita definitiva non lascia immaginare soluzioni  più giuste. Questa - a me sembra - ha trasferito nel movimento stesso  del romanzo l'indole labirintica di ciò che Hemingway portava in sé,  che ritrovava (naturalmente in misure e forme diverse) dentro a una  propria "generazione" rappresentativa anche di fenomeni molto più  estesi, socialmente tenaci. Ci sono altri modi per sentire e  interpretare un libro simile, così fluido, sfuggente a ogni analisi  deterministica. Ma ho cercato solo di restituirgli un insieme di  circostanze sue e tenerlo in una luce storica, dove ognuno possa  trovare ragioni per accrescergli interesse a modo proprio.   Il titolo del '26 The Sun Also Rises, Anche il sole si leva, si  richiama al brano biblico, dell'Ecclesiaste, messo sul frontespizio  accanto alla frase che sappiamo. "Una generazione va e l'altra viene,  ma la Terra è sempre lì. Anche il sole sorge e tramonta, e si  affretta verso il luogo di dove è sorto... Tutti i fiumi corrono al  mare, ma il mare non ne è riempito; si estende fino ai luoghi di dove  i fiumi provengono e dai quali tornerà di nuovo." Non ci si può  dunque mai riferire a una generazione come a un'entità che abbia una  sorte isolata, separata dalle altre. E dopo essersi riconosciuti  anche in base all'una o all'altra condizione storica, quelli che  vogliono capire avranno sempre qualche buon motivo per estendere le  unità di misura. Proprio allora, nonostante quanto li univa ancora,  Hadley decise che Ernest e lei potevano vivere insieme solo nel  passato. Poco dopo incominciava anche da tale decisione a nascere  Addio alle armi, l'unico romanzo della memoria dovuto a questo  scrittore. 

Antologia critica 
  "...La barbarie del mondo post-bellico è anche il tema del libro  successivo, The Sun Also Rises (Fiesta). Il titolo e le citazioni premesse al romanzo chiariscono già il giudizio morale che presiede agli eventi descritti: "Siete tutti una generazione perduta". A  conferire al libro la sua profonda unità e la sua forza inquietante,  è l'intima relazione stabilita tra la fiesta spagnola, con la sua  baldoria, le sue corride e le sue processioni, e il comportamento  atroce del gruppo di turisti inglesi e americani venuti da Parigi a  godersela. Nell'insensibilità di costoro, nel loro modo di  comportarsi, non ritroviamo lo stesso principio operante nell'orgia  pagana della festa? La brutale persecuzione dell'ebreo non ha forse  un carattere di fatalità naturale quanto il destino dell'uomo che  viene incornato dal toro mentre va a visitare l'arena? Tutto  l'interesse di The Sun Also Rises consiste nei tentativi del  protagonista e della protagonista di liberarsi da questo mondo, o  piuttosto di viverci in un modo che sia compatibile con un loro  codice personale. La storia vera è quella dei loro tentativi in tal  senso: tentativi che, in un mondo siffatto, li portano sempre a  soccombere in tutto, tranne che nell'onore. Io non ritengo che, come  talvolta si è detto, il comportamento dei personaggi di The Sun Also  Rises sia tipico solo di una piccola e particolare categoria di  espatriati americani e inglesi; credo piuttosto che esso sia più o  meno tipico di certe zone dell'intero mondo occidentale  contemporaneo: e il titolo In Our Time sarebbe stato assai più  appropriato per questo libro che non per il precedente."(Edmund  
Wilson, Saggi letterari 1920-1925, Garzanti 1967) 

  "I protagonisti (delle opere di Hemingway) non subiscono alcuna  sconfitta, se non sul loro stesso terreno. Essi non sono delatori,  bari, amanti del compromesso o codardi, e al momento di subire la  sconfitta si rendono conto che la posizione che assumono, la  sopportazione stoica e l'ostinazione, hanno, in certo modo, lo stesso  significato di una vittoria (...) Rappresentano in qualche modo  l'iter di un codice d'onore che rende l'uomo veramente uomo e lo  distingue da coloro che seguono a caso i loro impulsi e che, di  conseguenza, sono "confusionari". 
  "Vi sono numerosi esempi della posizione di questo "principio"  sportivo, come l'ha definito un critico, al centro di un racconto o  di un romanzo di Hemingway. Brett, la protagonista di The Sun Also  Rises (Fiesta), per esempio, rinuncia a Romero, il giovane torero di  cui è innamorata, perché sa che lo rovinerebbe, e l'osservazione che  ella fa a denti stretti, a Jake, potrebbe servire da motto per tutta  l'opera di Hemingway. E' la disciplina del codice che dà umanità  all'uomo, come il senso dello stile e della forma. Ritroviamo ciò nel  contrasto fra Cohn, il quale non è altro che un casuale dilettante  nel mondo dei sensi,... e iniziati come Jake e Brett, che sono consci  del modo che è al centro delle cose e le cui dissipazioni hanno  perciò un significato filosofico. L'indirizzo del modo innalza il  soddisfacimento degli appetiti al livello di un credo, di una  disciplina."(Ros Penn Warren, 1947; trad' it' per Edizioni di Storia  
e Letteratura, Roma 1962-1963) 

  "(Hemingway) è "feroce" perfettamente, con finezza. Sbaglia anche  lui, alle volte, nello stesso senso in cui sbaglia Faulkner; dà, come  in Fiesta, spiegazioni naturaliste di un atteggiamento e non giunge  al simbolo. Ma allora il difetto è di calcolo, in lui; di  prospettiva; mai di qualità. La sua qualità è sempre attiva, nella  tessitura della prosa; efficiente... Egli racconta senza motivazione,  non dice nulla che mostri e spieghi qualcosa, eppure convince che  questa vita è gioventù, solo gioventù, un'orgia intrepida, e che solo  nella gioventù è purezza, e l'uomo non importa se si logora o brucia,  sarà uomo ancora nello stoicismo, sapendo bere la cicuta."(Elio  
Vittorini, nell'Americana, edizione sequestrata, Bompiani 1941) 

  "Uno fra i temi che più spesso si ripresentarono negli anni '20,  era la morte dell'amore nella prima guerra mondiale. (In questo  senso) Hemingway sembra essersi proposta una parabola molto ampia. In  The Sun Also Rises (Fiesta) i protagonisti sono deliberatamente  costruiti come figure allegoriche: Jake Barnes e Brett Ashley sono  due innamorati preclusi ad amarsi fisicamente dalla guerra; Robert  Cohn è il falso cavaliere che diventa una sfida alla loro  disperazione; mentre Romero, il fiammante toreador, impersona la  pienezza della vita fatta per sopravvivere al loro fallimento."(Mark  
Spilka, La morte dell'amore in "The Sun Also Rises" (tra i Twelve  Original Essays on Great American Novels, Detroit 1958)) 

Bibliografia 
   Edizioni originali dei volumi    di Ernest Hemingway 
  Three Stories and Ten Poems, 1923, Contact Publishing Company,  Paris. 
  In Our Time, 1924, II ed' 1925, Three Mountains Press, Paris. 
  The Torrents of Spring, 1926, Charles Scribner's Sons, New York.   The Sun Also Rises, 1926, Boni and Liveright, New York (la nuova  edizione del 1954, presso J' Cope, Londra, si intitola Fiesta). 
  Today is Friday, 1926, Stable Pamphlets, Englewood, New Jersey. 
  Men Without Women, 1927, Scribner's Sons, New York. 
  A Farewell to Arms, 1929, Scribner's Sons, New York. 
  Death in the Afternoon, 1932, Scribner's Sons, New York. 
  Winner Take Nothing, 1933, Scribner's Sons, New York. 
  God Rest You, Merry Gentlemen, 1933, The House of Books, New York. 
  The Greens Hills of Africa, 1935, Scribner's Sons, New York. 
  To Have and Have Not, 1937, Scribner's Sons, New York. 
  The Spanish Earth, 1938, J'B' Savage Company, Cleveland.   The Fifth Column and the First Forty Nine Stories, 1938, Scribner's  Sons, New York. 
  For Whom the Bell Tolls, 1940, Scribner's Sons, New York. 
  Men at War, 1924, Crown Publishers, New York. 
  Across the River and into the Trees, 1950, Scribner's Sons, New  York. 
  The Old Man and the Sea, 1952, Scribner's Sons, New York. 
  A Moveable Feast, postumo [...] 
  

   Traduzioni in italiano 
  L'invincibile, prefaz' di G' Surace, Jandi-Sapi, Milano-Roma, 1944. 
  E il sole sorge ancora, traduz' di R' Dandolo, Jandi-Sapi,  Milano-Roma, 1944. 
  Fiesta, traduz' di G' Trevisani, Einaudi, Torino, 1946. 
  Un addio alle armi, traduz' di B' Fonzi, Jandi-Sapi, Milano-Roma,  1945. 
  Chi ha e chi non ha, traduz' di B' Fonzi, Jandi-Sapi, Milano-Roma,  1945. 
  Addio alle armi, traduz' di G' Ferrata, P' Russo, D' Isella,  
Mondadori, Milano, 1946. 
  La quinta colonna, commedia in tre atti, traduz' di G' Trevisani,  Einaudi, Torino, 1946. 
  Verdi colline d'Africa, traduz' di G' Carancini, Jandi-Sapi,  Milano-Roma, 1946. 
  Uomini senza donne, traduz' di B' Fonzi, Jandi-Sapi, Milano-Roma,  1946. 
  Avere e non avere, traduz' di G' Monicelli, Einaudi, Torino, 1946. 
  Morte nel pomeriggio, traduz' di F' Pivano, Einaudi, Torino, 1947.   Per chi suona la campana, traduz' di M' Napolitano Martone,  Mondadori, Milano, 1948. 
  Torrenti di primavera, traduz' di B' Fonzi, Einaudi, Torino, 1951.   Il vecchio e il mare, traduz' di F' Pivano, Mondadori, Milano,  1952. 
  I quarantanove racconti, traduz' di G' Trevisani, Einaudi, Torino,  1953. 
  I quarantanove racconti e La quinta colonna, traduz' di G'  Trevisani, Einaudi, Torino, 1961. 
  Festa mobile, traduz' di V' Mantovani, Mondadori, Milano, 1964.   Dal nostro inviato Ernest Hemingway, traduz' di E' Capriolo e G'  Monicelli, Mondadori, Milano, 1967. 
  

   Bibliografia critica essenziale 
  Arpino, Giovanni, Ricordo di Hemingway, "Il Paese", 19 luglio 1961.   Astre, G'A', Hemingway par lui-même, éditions du Seuil, Paris,  1959. 
  Baker, Carlos, Hemingway and His Critics, Hill and Wang, New York,  1961. 
  Bataille, Georges, Hemingway à la lumière de Hegel, "Critique", IX,  marzo 1963. 
  Beach, Sylvia, Shakespeare and Company, New York, Harcout Brace,  1956, edizione it' Rizzoli, 1961. 
  Calvino, Italo, Hemingway e noi, "Il Contemporaneo", 13 novembre  1954. 
  Cecchi, Emilio, Ernest Hemingway, "Mercurio", ottobre 1945. 
  Comisso, Giovanni, Hemingway tra noi, "Il Caffè", agosto 1961.   Cowley, Malcom, The Portable Hemingway, New York, 1944.   Crovi, Raffaele, Vittorini, l'America e la giovane letteratura  italiana, "Galleria", dicembre 1954. 
  Fenton, Charles A', The Apprenticeship of Ernest Hemingway, Farrar  and Strauss, New York, 1954. 
  Ferrata, Giansiro, Cinque informazioni su Hemingway, in Romanzi del  '900, vol' I, edizione Rai, 1956. 
  Linati, Carlo, Scrittori anglo-americani d'oggi, Corticelli,  Milano, 1943. 
  Mccaffery, John K'M', Ernest Hemingway: the Man and his Work,  World, Cleveland, 1950. 
  Montale, Eugenio, L'uomo e le opere, "Corriere della Sera", 25  gennaio 1954. 
  Moravia, Alberto, Niente e così sia, "L'Espresso", 9 luglio 1961. 
  Piovene, Guido, Il pioniere della nuova frontiera, "L'Espresso", 16  luglio 1961. 
  Pivano, Fernanda, La balena bianca e altri miti, Mondadori, 1961. 
  Poor, Charles, The Hemingway Reader, New York, 1953. 
  Praz, Mario, Cronache letterarie anglosassoni, Ediz' di Storia e  letteratura, Roma, 1951, vol' II. 
  Quarantotti Gambini, P'A', Incontro a Venezia, "Corriere della  Sera", 16 gennaio 1962. 
  Vittorini, Elio, in Americana, Bompiani, 1947. 
  Vittorini, Elio, Diario in Pubblico, Bompiani, 1957. 
  Wilson, Edmund, The Wound and the Bow, London, 1941. 
  Young, Philip, Ernest Hemingway, Mursia, 1962. 

Fiesta 

(Anche il sole si leva) 

Libro primo 

  Robert Cohn era stato campione dei pesi medi a Princeton. Non  dovete credere che questo come titolo sportivo faccia impressione a  me, ma Cohn ci teneva moltissimo. In realtà del pugilato niente gli  importava, non gli piaceva affatto, ma l'aveva dolorosamente imparato  alla perfezione per controbattere la sensazione di inferiorità e di  timidezza che l'essere trattato da ebreo a Princeton gli procurava.   C'era un certo intimo conforto nella coscienza di poter mettere a  terra chiunque fosse stato insolente con lui, per quanto Cohn,  ragazzo molto timido e per bene, non facesse mai a pugni tranne che  in palestra. Era l'allievo prodigio di Spider Kelly. 
  Di tutti i suoi giovanotti Spider Kelly tendeva a fare dei pesi  piuma, sia che pesassero cinquanta chili oppure un quintale. Ma con  Cohn gli riuscì. 
  Cohn davvero era in gamba. Era tanto in gamba che Spider Kelly  prestissimo lo mise fuori combattimento e gli ammaccò  irrimediabilmente il naso. Questo accrebbe l'antipatia di Cohn per il  pugilato ma gli diede una soddisfazione di strano genere e in qualche  modo gli abbellì il naso. Nell'ultimo anno a Princeton leggeva troppo  e aveva cominciato a portare gli occhiali. Non ho mai incontrato  nessuno della sua classe che si ricordasse di lui. Non si ricordavano  nemmeno che era stato campione dei pesi medi. 
  Io diffido di tutta la gente semplice e sincera, specialmente  quando le loro storie sono logiche e coerenti, e avevo sempre avuto  il sospetto che Cohn non fosse mai stato campione dei pesi medi, ma  che un cavallo gli avesse magari passeggiato sulla faccia, o che la  madre si fosse spaventata vedendo qualcosa, o che contro qualcosa lui  da bambino fosse andato a sbattere; ma alla fine ebbi il modo di  controllare la storia da Spider Kelly in persona. Non solo Spider  Kelly si ricordava di Cohn, ma spesso si era chiesto che cosa ne  fosse successo. 
  Robert Cohn apparteneva per parte di padre a una delle più ricche  famiglie ebree di New York e per parte di madre a una delle più  antiche. Nel collegio militare dove prima di andare a Princeton era  stato un'ottima ala della squadra di calcio nessuno gli aveva dato  una coscienza di razza. Prima che andasse a Princeton nessuno gli  aveva mai fatto sentire la sua condizione di ebreo e cioè di diverso  da tutti gli altri. Cohn era un ragazzo per bene, un ragazzo  socievole e molto timido, e la cosa lo amareggiava. Cercò uno sfogo  nel pugilato, uscì da Princeton con una dolorosa autocoscienza e il  naso ammaccato, e sposò la prima ragazza che fu carina con lui.  Rimase sposato cinque anni, ebbe tre bambini, spese la maggior parte  
dei cinquantamila dollari che il padre gli aveva lasciati -  conservando la madre l'amministrazione del patrimonio - e si  fossilizzò in una poco attraente muffa domestica nella infelice  convivenza con una moglie ricca. Proprio quando, alla fine, aveva  preso la risoluzione di piantare la moglie, questa piantò lui  andandosene con un pittore di miniature. Siccome Cohn da mesi aveva  in animo di abbandonarla e non si era deciso perché gli sembrava che  sarebbe stato troppo crudele privarla di sé, la partenza di lei fu un  salutare avvenimento. 
  Il divorzio fu concluso e Robert Cohn si trasferì sulla Costa. In  California capitò in un ambiente di letterati e dopo poco tempo, dato  che ancora gli restava una parte dei cinquantamila lasciatigli dal  padre, si trovò a finanziare una rivista d'arte. La rivista cominciò  le pubblicazioni a Carmel, California, e le finì a Provincetown,  Massachusetts. Nel frattempo Cohn, che era stato preso in  considerazione solo come una specie di angelo e il cui nome era  comparso in prima pagina esclusivamente come membro del comitato  consultivo, era diventato l'unico direttore. Era denaro suo, e Cohn  si accorse che l'autorità del direttore gli piaceva. Gli dispiacque  quando la rivista diventò troppo costosa e dovette cederla.   Nel frattempo però si trovò a doversi preoccupare di altre cose.  Una donna che sperava di tirarsi su assieme alla rivista si era  attaccata a lui. Lei fu molto abile e Cohn del resto non fu mai  capace di evitare che si attaccassero a lui. In più egli era sicuro  di amarla. Quando questa donna capì che la rivista non si sarebbe più  tirata su, si disgustò un poco di Cohn e decise che era il caso di  realizzare quello che ancora si poteva, così insistette perché tutti  e due si trasferissero in Europa, dove Cohn avrebbe potuto scrivere.  Vennero in Europa, dove lei era stata educata, e si fermarono tre  anni. Durante questi tre anni, il primo passato in viaggio, gli altri  due a Parigi, Robert Cohn ebbe due amici, Braddocks e me. Braddocks  era il suo amico letterato. Io ero il suo amico per il tennis.   Frances, la donna che si era attaccata a Cohn, scoperse verso la  fine del secondo anno che la linea se ne andava, e il suo  atteggiamento nei riguardi di Cohn mutò, da noncurante possesso e  sfruttamento, in assoluta determinazione che egli dovesse sposarla.  Nel frattempo la madre di Cohn gli aveva assegnato una rendita di  circa trecento dollari al mese. Non credo che in questi due anni e  mezzo Robert Cohn guardasse mai un'altra donna. Avrebbe potuto dirsi  assolutamente felice, se non fosse stato che, come molta gente che  vive in Europa, desiderava di vivere in America, e che aveva scoperto  la letteratura. Scrisse un romanzo, che non era poi un così infame  romanzo come la critica lo giudicò, certo era un romanzo molto  povero. Leggeva molti libri, giocava a bridge, giocava a tennis,  tirava di boxe in una palestra del posto. 
  Per la prima volta io mi resi conto dell'atteggiamento di Frances  nei riguardi di Cohn una sera che tutti e tre avevamo pranzato  assieme. Avevamo pranzato a l'Avenue ed eravamo poi andati a prendere  il caffè al Café de Versailles. Dopo il caffè prendemmo molti fines e  io dissi che dovevo andar via. Cohn aveva lanciato l'idea di andare  lui ed io a fare il week-end in qualche posto. Voleva andar via dalla  città e fare un buon giro. Io suggerii di prendere l'aeroplano fino a  Strasburgo e andare a Saint-Odile o altrove in Alsazia. "Conosco una  ragazza a Strasburgo che può farci vedere la città" dissi.   Mi arrivò un calcio sotto la tavola. Pensai che la cosa fosse  casuale e continuai: "Sta a Strasburgo da due anni e sa tutto quello  che c'è da vedere in città. E' una bella ragazza". 
  Un altro calcio mi arrivò sotto la tavola e levando gli occhi vidi  Frances che alzava il mento e irrigidiva la faccia. 
  "Diamine" dissi. "Perché andare a Strasburgo? Possiamo andare a  
Bruges, o nelle Ardenne." 
  Cohn sembrò sollevato. Non arrivarono altri calci. Io dissi  buonanotte e me ne andai. Cohn disse che veniva con me fino  all'angolo per comperare un giornale. "Per amor di Dio" disse "perché  hai parlato di quella ragazza di Strasburgo? Non hai visto Frances?"   "No, che cosa avrei dovuto vedere? Che c'entra Frances se io  conosco una ragazza americana che vive a Strasburgo?"   "Non vuol dire. Qualsiasi ragazza. Io non potrei venire." 
  "Non far lo stupido." 
  "Tu non conosci Frances. Proprio qualsiasi ragazza. Non hai visto  che faccia ha fatto?" 
  "Oh, bene" dissi. "Possiamo andare a Senlis." 
  "Non arrabbiarti." 
  "Non mi arrabbio. Senlis è un bel posto, possiamo fermarci al Gran  
Cervo, fare un giro nel bosco e ritornare." 
  "Certo sarà bello." 
  "Bene" io dissi. "Ci vediamo domani al tennis." 
  "Buonanotte, Jake" disse lui, e fece per ritornare verso il caffè. 
  "Hai dimenticato il giornale" dissi io. 
  "Già." Venne con me fino all'edicola all'angolo. "Non sei  arrabbiato, vero, Jake?" Si voltò verso di me col giornale in mano. 
  "No, perché dovrei essere arrabbiato?" 
  "Ci vediamo al tennis" disse lui. Io lo guardai allontanarsi col  giornale in mano. Mi piaceva. Lei evidentemente guidava tutta la vita  di lui. 

II 
  Quell'inverno Robert Cohn andò in America col suo romanzo e un buon  editore accettò di pubblicarlo. Seppi che la sua partenza era stata  causa di molte storie. Io penso che fu allora che Frances se lo  lasciò scappare. Infatti a New York molte donne furono carine con lui  e quando ritornò era completamente cambiato. Era più che mai  
entusiasta dell'America, ma non era più così semplice e angelico. Gli  editori avevano messo in vendita il suo romanzo a un prezzo alto e  questo fatto gli aveva dato alla testa. Per di più, molte donne si  erano date da fare per essere carine con lui, e i suoi orizzonti si  erano tutti allargati. Per quattro anni l'orizzonte di Cohn era stato  limitato alla moglie. Da tre anni o quasi non aveva mai guardato al  di là di Frances. Sono sicuro che non era mai stato innamorato in  vita sua. 
  Si era sposato per cercar di reagire al triste periodo passato  all'università, e Frances se lo era preso mentre cercava di reagire  alla scoperta di non essere stato tutto per la sua prima moglie.  Innamorato non era ancora adesso, ma certo aveva capito di essere  un'entità capace di interessare le donne, ed aveva pure capito che il  fatto che una donna si curasse di lui e desiderasse vivere con lui,  non era precisamente un miracolo del cielo. Questo cambiò tanto Cohn  che non era più piacevole averlo intorno. In più, giocando con i suoi  conoscenti di New York certe azzardate partite di bridge un po' forti  per lui, ebbe delle buone carte e vinse parecchie centinaia di  dollari. Questo lo rese assai orgoglioso della sua abilità di  giocatore di bridge e spesso parlava di come un uomo potrebbe  guadagnarsi la vita col bridge se vi fosse costretto. 
  Poi c'era un'altra cosa. Aveva letto W'H' Hudson. La cosa ha l'aria  di un passatempo innocente ma Cohn aveva letto e riletto The Purple  Land, che è un libro assai pericoloso, se letto troppo tardi nella  vita. Racconta magnifiche immaginarie avventure d'amore di un  perfetto gentiluomo inglese in una terra intensamente romantica, il  cui paesaggio è assai ben descritto. Per un uomo di trentaquattro  anni scambiare questo libro per una Guida per fare strada nella vita  è imprudente quanto arrivare alla stessa età a Wall Street  direttamente da un convento francese, munito di una completa serie  dei più raccomandabili libri algerini. Cohn, io credo, prese alla  lettera ogni parola di The Purple Land come se si trattasse di una  corrispondenza di R'G' Dun. Fece, si capisce, delle riserve ma in  complesso il libro ebbe su di lui un grande effetto. Era quello che  ci voleva per rovinarlo. Capii fino a che punto lo aveva rovinato un  giorno che Cohn venne a trovarmi in ufficio. 
  "Hello, Robert" io dissi. "Sei venuto a farmi compagnia?" 
  "Jake" chiese lui "ti piacerebbe andare nell'America del Sud?" 
  "No." 
  "Perché no?" 
  "Così. Mai avuto voglia di andarci. Costa troppo. Ad ogni modo si  possono vedere tutti i sudamericani che si vuole qui a Parigi." 
  "Non sono veri sudamericani." 
  "A me sembrano spaventosamente veri." 
  Io dovevo far partire le corrispondenze della settimana in tempo  per il piroscafo e ne avevo scritto solo una metà. Chiesi a Cohn: 
  "Sai niente di piccante?" 
  "No." 
  "Nessuno dei tuoi illustri conoscenti divorzia?" 
  "No. Ascolta, Jake. Se sostenessi io le spese per tutti e due  verresti con me nell'America del Sud?" 
  "Perché io?" 
  "Tu sai lo spagnolo. E in due sarebbe più divertente." 
  "No" dissi. "Mi piace questa città e l'estate vado in Spagna."   "Tutta la mia vita ho desiderato un viaggio del genere" Cohn disse.  Si sedette. "Diventerò vecchio prima di poterlo fare." 
  "Non far lo stupido" dissi io. "Puoi andare dove vuoi. Hai un sacco  di soldi." 
  "Lo so. Ma non mi decido." 
  "Coraggio" io dissi. "Tutti i paesi sono esattamente come al  cinema." 
  Ma mi dispiaceva per lui. La prendeva sul serio. 
  "Non posso sopportare il pensiero che la mia vita fugge e io non la  vivo." 
  "Nessuno vive mai tutta la propria vita, tranne i toreri."   "Non m'interessano i toreri. E' una vita anormale. Io voglio andare  nell'America del Sud. Potremmo fare un grandioso viaggio, Jake." 
  "Mai pensato di andare a caccia nell'Africa Orientale inglese?" 
  "No, non mi piacerebbe." 
  "Là verrei." 
  "No, là non m'interessa di andare." 
  "Perché non hai mai letto un libro che ne parlasse. Procurati da  leggere un libro pieno di storie d'amore con bellissime principesse  negre." 
  "Io voglio andare nell'America del Sud."   Era una ferma testarda ebraica fissazione. 
  "Vieni giù a bere qualcosa" io dissi. 
  "Non devi lavorare?" 
  "No" dissi. Scendemmo giù nel caffè al pianterreno. Avevo trovato  che questo era il sistema migliore per sbarazzarsi degli amici. Una  volta bevuto qualcosa si trattava solo di dire: "Bene, devo andar su  a fare dei telegrammi" ed era fatta. E' molto importante trovare di  questi simpatici modi di cavarsela, nel mestiere di giornalista dove  una delle regole principali è non aver mai l'aria di lavorare.  Scendemmo dunque giù al bar a prendere un whisky and soda. Cohn  guardò le bottiglie tutt'intorno sul muro. "E' un buon posto" disse. 
  "C'è un sacco di liquori" io acconsentii. 
  "Ascolta, Jake" Cohn si appoggiò al bar. "Non pensi mai che la vita  fugge e noi non la viviamo? Non pensi mai che abbiamo già vissuto  metà della nostra vita?" 
  "Sì, ogni tanto." 
  "Non pensi che entro trentacinque anni saremo morti?" 
  "Che diamine, Robert?" dissi io. "Che diamine?" 
  "Parlo sul serio." 
  "E' una cosa che non mi preoccupa." 
  "Pure dovrebbe." 
  "Mi sono già preoccupato di troppe cose. Ormai ho smesso di  preoccuparmi." 
  "Bene, io voglio andare nell'America del Sud." 
  "Ascolta, Robert, andare in un altro paese non cambia niente. Io ho  provato. Non si può sfuggire se stessi solo spostandosi da un posto a  un altro. Non c'è rimedio a questo." 
  "Ma tu non sei mai stato nell'America del Sud." 
  "Accidenti all'America del Sud! Se ci vai con queste idee sarà lo  stesso anche là. Parigi è una bella città. Perché non ti metti a fare  a Parigi la vita che vuoi fare?" 
  "Sono stufo di Parigi, e sono stufo del Quartiere."   "Pianta il Quartiere. Vattene in giro per conto tuo e osserva  quello che ti succede." 
  "Niente mi succede. Tutta una notte ho girato solo e nient'altro mi  è successo tranne che un poliziotto in bicicletta mi ha fermato e mi  ha chiesto i documenti." 
  "Non era bella la città di notte?" 
  "Non m'importa di Parigi." 
  Così. Mi dispiaceva per lui ma non c'era niente da fare, sempre si  urtava contro le due fissazioni: l'America del Sud era quello che ci  voleva e Parigi non gli piaceva. Aveva preso la prima idea da un  libro e suppongo che avesse preso da un libro anche la seconda. 
  "Bene" dissi. "Devo andar su a fare dei telegrammi." 
  "Davvero devi andare?" 
  "Sì, devo fare questi telegrammi." 
  "Ti dispiace se vengo a sedermi su in ufficio?" 
  "No, vieni su." 
  Si sedette in anticamera a leggere i giornali e io lavorai duro per  due ore. Alla fine tolsi le copie, timbrai, misi il tutto in un paio  di grosse buste manila e chiamai un ragazzo che le portasse alla Gare  St' Lazare. Passai in anticamera e c'era Cohn, addormentato sulla  poltrona. Dormiva con la testa fra le braccia. Mi dispiaceva  svegliarlo, ma volevo chiudere l'ufficio e andar via. Misi una mano  sulla spalla di Cohn. Egli si scosse. "No" disse. "Non posso. Non  posso far questo. Nessuno mi costringerà." 
  "Robert" dissi io, e lo scossi per una spalla. Cohn si svegliò,  alzò gli occhi e sorrise.   "Ho parlato forte ora?" 
  "Qualcosa. Ma non si è capito." 
  "Dio, che brutto sogno!" 
  "E' stata la macchina da scrivere a farti addormentare?" 
  "Immagino. Non ho dormito stanotte."   "Come mai?" 
  "Discussioni" disse lui. 
  Potevo figurarmi la scena. Ho la pessima abitudine di figurarmi le  scene che si svolgono nelle camere da letto dei miei amici. Uscimmo,  e andammo al Café Napolitain a prendere un aperitivo e a guardare la  gente sul boulevard. 

III 
  Era una tiepida sera primaverile e io rimasi seduto davanti al  Napolitain dopo che Robert Cohn se ne fu andato. Guardavo farsi buio  e comparire le scritte luminose, e i semafori rossi e verdi, e la  folla andare e venire, e le carrozze passare al trotto ai margini del  compatto traffico dei taxi, e le poules passeggiare, sole o a due a  due, in cerca del pasto serale. Guardai un bel pezzo di ragazza  passarmi davanti, la guardai andar su per la strada e la persi di  
vista. Ne guardai un'altra, poi vidi di nuovo la prima scendere. Di  nuovo mi passò davanti, io le feci segno e lei venne a sedersi al  tavolo. Venne il cameriere. 
  "Così, che cosa bevi?" io chiesi. 
  "Pernod." 
  "Non è per le ragazzine." 
  "Ragazzina tu. Dites, garçon, un pernod." 
  "Anche a me un pernod." 
  "Che si fa?" chiese lei. "Hai qualche bel posto dove andare?" 
  "Sicuro. E tu?" 
  "Che ne so. Non si sa mai niente in questa città." 
  "Non ti piace Parigi?" 
  "No." 
  "Perché non vai in qualche altro posto?" 
  "Non c'è nessun altro posto." 
  "Sei felice, allora." 
  "Felice un cavolo!" 
  Il pernod è una verdastra imitazione dell'assenzio. Aggiungendo  acqua diventa lattiginoso. Sa di liquirizia e vi tira parecchio su ma  subito vi lascia ricadere. Sedevamo al Napolitain a bere pernod, e la  ragazza aveva un aspetto tetro. 
  "Così" dissi io "hai intenzione di pagarmi la cena?" 
  Lei fece una smorfia e vidi perché si preoccupava di non ridere.  Con la bocca chiusa era una ragazza abbastanza carina. Pagai le  consumazioni e c'incamminammo. Chiamai una carrozza e il cocchiere  accostò al marciapiede. Affondai nel comodo lento fiacre dondolante,  salimmo per l'avenue de l'Opéra, passammo tra i negozi con le porte  chiuse e le vetrine illuminate, nella grande elegante avenue quasi  deserta. La carrozza passò davanti alla sede del New York Herald con  la vetrina piena di orologi. 
  "Perché tutti quegli orologi" lei chiese. 
  "Segnano le diverse ore di tutta l'America." 
  "Non pigliarmi in giro." 
  Dall'avenue attraverso il traffico di rue de Rivoli svoltammo in  rue des Pyramides e per uno scuro cancello entrammo nelle Tuileries.  Lei si strinse contro di me e io la cinsi con un braccio. Guardò su  aspettando che la baciassi. Con una mano mi toccò. Io respinsi la  mano. 
  "Lascia stare." 
  "Che c'è? Non stai bene?" 
  "No." 
  "Nessuno sta bene. Neanch'io sto bene." 
  Dalle Tuileries uscimmo di nuovo alla luce, traversammo la Senna e  voltammo su per rue des Saints-Pères. 
  "Non dovresti bere pernod se non stai bene." 
  "Tu neanche." 
  "Oh, per me non ha importanza. Per una donna non ha importanza." 
  "Come ti chiami?" 
  "Georgette. Tu come ti chiami?" 
  "Jacob." 
  "E' un nome fiammingo." 
  "Anche americano." 
  "Non sei flamand?" 
  "No, americano." 
  "Bene, io detesto i flamands." 
  Intanto eravamo giunti al ristorante. Io dissi al cocher di  fermare. Scendemmo e a Georgette il posto non piacque molto. "Non è  gran che come ristorante." 
  "No" dissi io. "Forse Foyot ti piace di più. Puoi prendere la  carrozza e andarci." 
  L'avevo presa con me per la vaga idea sentimentale che sarebbe  stato bello cenare in compagnia. Da molto tempo non passavo la serata  con una poule e avevo dimenticato quanto potesse essere malinconico.  Entrammo nel ristorante, passammo davanti a Madame Lavigne seduta  alla cassa, e ci sedemmo a un tavolo in una saletta separata.  Mangiare consolò un poco Georgette. "Non è male qui" disse. "Non è  chic, ma il mangiare è buonissimo." 
  "Migliore che a Liège." 
  "Bruxelles, vuoi dire." 
  Prendemmo un'altra bottiglia di vino e Georgette disse qualcosa di  spiritoso. Rise mostrando i brutti denti, e toccammo i bicchieri.   "Non sei un tipo malvagio" Georgette disse. "E' una scalogna che  
non stai bene. Noi due andremmo d'accordo. Che cos'è che hai, ad ogni  modo?" 
  "Ferito in guerra" dissi io. 
  "Oh, quella sporca guerra!" 
  Probabilmente avremmo attaccato a discutere l'argomento guerra,  convenendo che le guerre erano un disastro per la civiltà e che forse  sarebbe stato meglio evitarle. Ero abbastanza annoiato. Proprio  allora dall'altra sala qualcuno chiamò: "Barnes! Dico, Barnes! Jacob  Barnes!". 
  "E' un amico che mi chiama" spiegai a Georgette, e uscii. 
  C'era Braddocks a un tavolo grande con la compagnia: Cohn, Frances  Clyne, Mrs' Braddocks e altra gente che non conoscevo. 
  "Vieni al ballo, vero?" mi chiese Braddocks. 
  "Che ballo?" 
  "Ma il ballo!" s'intromise Mrs' Braddocks. "Non sapete che abbiamo  rimesso in piedi i balli?" 
  "Dovete venire, Jake. Noi andiamo tutti" disse Frances sorridendo  dall'altro capo della tavola. Stava eretta e sorrideva. 
  "Viene, si capisce" Braddocks disse. "E vieni qui a prendere il  caffè con noi, Barnes." 
  "Benissimo." 
  "E portate anche la vostra amica" disse Mrs' Braddocks ridendo. Era  una canadese e aveva per natura tutti i loro socievoli modi. 
  "Bene, ora veniamo" dissi io. Ritornai nella saletta. 
  "Chi sono i tuoi amici?" Georgette chiese. 
  "Scrittori e artisti." 
  "Ce n'è un sacco dall'altra parte del fiume." 
  "Troppi." 
  "Penso anch'io. Certi fanno soldi però." 
  "Oh, sì." 
  Finimmo di mangiare e di bere il vino. "Vieni" dissi. "Andiamo a  prendere il caffè con gli altri." 
  Georgette aprì la borsetta, si dette un po' di cipria guardandosi  nello specchietto, ripassò col rossetto le labbra e si accomodò il  cappello in testa. 
  "Bene" disse. 
  Entrammo nella sala piena di gente e Braddocks e gli altri uomini  seduti al tavolo si alzarono in piedi. 
  "Permettetemi di presentarvi la mia fidanzata, Mademoiselle  Georgette Leblanc" io dissi. Georgette sorrise con un meraviglioso  sorriso e scambiammo strette di mano in giro. 
  Chiese Mrs' Braddocks: "Siete parente di Georgette Leblanc la  cantante?". 
  "Connais pas" Georgette rispose. 
  "Ma avete lo stesso nome" insistette cordialmente Mrs' Braddocks. 
  "No" disse Georgette "io mi chiamo Hobin." 
  "Ma Mrs' Barnes vi ha presentato come Mademoiselle Georgette  Leblanc. Certo, così ha detto" insistette Mrs' Braddocks che nella  eccitazione di parlare francese era capace di non avere idea di  quello che diceva. 
  "E' scemo" Georgette disse. 
  "Oh, è stato uno scherzo, allora" disse Mrs' Braddocks. 
  "Sì" disse Georgette. "Per ridere." 
  "Hai sentito, Henry?" Mrs' Braddocks chiamò Braddocks in fondo al  tavolo. "Mr' Barnes ha presentato la sua fidanzata come Mademoiselle  
Leblanc, e invece si chiama Hobin." 
  "Si capisce, tesoro. Mademoiselle Hobin, la conosco da molto  tempo." 
  "Oh, Mademoiselle Hobin" chiamò Frances Clyne parlando francese  molto rapidamente senza sembrare come Mrs' Braddocks compiaciuta e  stupita del fatto che venisse fuori davvero francese "avete vissuto  molto tempo a Parigi? Vi piace? Amate Parigi, vero?"   "Chi è?" Georgette si rivolse a me. "Devo rispondere?"   Si rivolse ancora a Frances che sedeva sorridendo con le mani  incrociate, la testa piazzata sul lungo collo, le labbra in posizione  per parlare ancora. 
  "No, non mi piace Parigi" Georgette disse. "E' troppo cara e  sporca." 
  "Davvero? Io la trovo così straordinariamente pulita. Una delle più  pulite città d'Europa." 
  "Io la trovo sporca." 
  "Che strano! Ma forse non avete vissuto molto a Parigi." 
  "Ci ho vissuto abbastanza." 
  "Ad ogni modo ci vive della simpatica gente. Bisogna ammettere  questo." 
  Georgette si rivolse a me e ammise: "Sono simpatici i tuoi amici".   Frances aveva bevuto un poco e avrebbe voluto continuare la  conversazione, ma arrivò il caffè, poi Lavigne coi liquori e infine  uscimmo tutti diretti al club danzante di Braddocks. 
  Il club danzante era un bal musette in rue de la  
Montagne-Sainte-Geneviève. Per cinque notti della settimana vi  ballavano gli operai del quartiere Panthéon. Per una notte alla  settimana diventava club danzante. La notte del lunedì era chiuso.  Quando arrivammo, il locale era completamente vuoto, c'erano soltanto  
un poliziotto sull'entrata, la moglie del proprietario dietro il  banco di zinco e il proprietario stesso. La figlia del proprietario  comparve quando noi entrammo. Tavoli e lunghe panche attraversavano  la stanza, e in fondo c'era una pedana libera per le danze.   "Vorrei che la gente venisse prima" Braddocks disse. La ragazza si  avvicinò e chiese che cosa volevamo bere. Il proprietario salì su un  alto sgabello e cominciò a suonare l'armonica. Aveva legato ad una  caviglia un nastro con campanelli, e segnava il tempo battendo il  piede. Tutti ballammo. Faceva caldo e scendemmo sudati dalla pedana. 
  "Mio Dio, come si suda in questo posto!" Georgette disse. 
  "Fa caldo." 
  "Caldo, mio Dio!" 
  "Togliti il cappello." 
  "Buona idea." 
  Qualcuno invitò Georgette, e io mi accostai al bar. Davvero faceva  caldo. Nella notte calda la musica dell'armonica era piacevole. Bevvi  una birra, stando sulla porta per ricevere il soffio fresco del vento  dalla strada. Due taxi scendevano la ripida strada. Tutti e due si  fermarono davanti al bal. Ne scese un gruppo di giovanotti con  casacche o in maniche di camicia. Alla luce dell'ingresso vedevo le  loro mani, i capelli ondulati e lavati di recente. Il poliziotto  fermo sull'entrata mi guardò e sorrise. Entrarono. Dentro, alla luce,  vidi mani e facce bianche, capelli ondulati, e li vidi parlare ridere  scherzare agitarsi. Con loro era Brett. Era davvero graziosa, e in  mezzo a quella gente stava a suo agio. 
  Uno di quelli vide Georgette e disse: "Attenzione. C'è un'autentica  prostituta. Io vado a ballare con lei. Guardami, Lett". 
  Il lungo bruno chiamato Lett disse: "Non fare l'audace". 
  Il biondo ondulato rispose: "Non angustiarti, caro". 
  E con loro era Brett. 
  Ero seccato. In qualche modo sempre riuscivano a seccarmi. So che  bisogna far conto che siano divertenti, e perciò bisogna essere  tolleranti, ma avevo voglia di pigliarne a cazzotti uno, almeno uno,  tanto per scuotere quella idiota superiore disinvoltura. Invece scesi  giù per la strada a prendere una birra al bar del vicino bal. La  birra era pessima e presi un cognac anche peggiore nel tentativo di  mandar via il sapore della birra. Quando tornai al bal c'era molta  gente sulla pedana e il biondo ondulato ballava con Georgette,  ancheggiando, con la testa da una parte e gli occhi al cielo. Appena  la musica finì un altro di loro invitò Georgette. Io sapevo ormai che  tutti loro avrebbero ballato con lei. Sono fatti così. 
  Mi sedetti al tavolo. Pure Cohn era seduto. Frances ballava. Mrs'  
Braddocks scovò un certo Robert Prentiss e ce lo presentò. Veniva da  New York ed era di Chicago, era un giovane romanziere, una buona  speranza. Aveva una specie di accento inglese. Io lo invitai a bere. 
  "Grazie" disse lui "proprio ora ho bevuto." 
  "Bevete di nuovo." 
  "Grazie, allora." 
  Chiamammo la figlia del padrone e ci facemmo portare due fines à  l'eau. 
  "Siete di Kansas City, mi dicono" disse lui. 
  "Sì." 
  "Trovate Parigi divertente?" 
  "Sì." 
  "Davvero?" 
  Io ero un poco ubriaco. Non ubriaco in nessun senso positivo ma  abbastanza per non sopportare. 
  "Per Dio sì" dissi. "Voi no?" 
  "Oh, come vi arrabbiate deliziosamente" egli disse. "Vorrei esserne  capace." 
  Mi alzai e me ne andai verso la pedana. Mrs' Braddocks mi seguì:  "Non andate in collera per Robert" disse. "E' solo un ragazzo,  capite." 
  "Non sono in collera" dissi io. "Ho solo pensato che stavo per  rigettare." 
  Mrs' Braddocks guardò verso la pedana dove Georgette ballava tra le  braccia del lungo bruno di nome Lett. "La vostra fidanzata ha un  grande successo" disse. 
  "Vero?" dissi. 
  "Già" disse Mrs' Braddocks. 
  Cohn si avvicinò. "Vieni, Jake" disse. "Vieni a bere qualcosa." Ci  accostammo al bar. "Che cos'hai? Ho l'impressione che hai qualcosa  per la testa." 
  "Niente. Solo la cosa in generale mi disgusta."   Brett venne al bar. 
  "Hello, amici." 
  "Hello, Brett" io dissi. "Com'è che non sei sbronza?" 
  "Non mi sbronzo più. Dico, offrimi un brandy and soda."   Teneva il bicchiere in mano ed io vidi che Cohn la guardava a un  dipresso come il suo compatriota dovette un giorno guardare la Terra  Promessa. Cohn, si capisce, era molto più moderno. Ma aveva lo stesso  sguardo di ardente meritoria attesa. 
  Brett era assai ben messa. Portava un bolero di lana e una  camicetta a righe, e i capelli tirati a spazzola indietro come quelli  di un ragazzo. Era costruita con curve come lo scafo di uno yacht da  corsa, e l'occhio non ne perdeva nessuna con quel bolero di lana. 
  Io dissi: "Sei con della bella gente, Brett". 
  "Non sono carini? Anche tu del resto. Dove l'hai trovata?" 
  "Al Napolitain." 
  "E hai passato una bella serata?" 
  "Oh, impagabile." Brett rise. "Fai male, Jake. E' un'offesa per  
tutti noi. Guarda là Frances, e Jo."   Questo a benefizio di Cohn. 
  "Significa aumentare la concorrenza" Brett disse. Rise ancora: 
  "Sei straordinariamente sobria" dissi io. 
  "Vero? E dire che quando si è con la gente con cui sono io si  potrebbe bere con una certa sicurezza, anche." 
  La musica attaccò e Robert Cohn disse: "Volete concedermi questo  ballo, Lady Brett?". 
  Brett gli sorrise: "Ho promesso questo ballo a Jacob" e rise. "Hai  un accidente di nome biblico, Jake."   "Quest'altro, allora?" chiese Cohn. 
  "Dobbiamo andar via" Brett disse. "Abbiamo un appuntamento su a  
Montmartre." 
  Ballando guardai oltre la spalla di Brett e vidi Cohn che fermo al  bar ancora guardava. 
  "Hai fatto una nuova conquista" dissi. 
  "Non parliamone. Povero diavolo. Non m'ero accorta di lui prima  d'ora." 
  "Bene, suppongo che ti farà piacere averne un altro dietro." 
  "Non dire sciocchezze." 
  "Tu dici sciocchezze." 
  "Oh, bene, e con questo?" 
  "Niente" dissi. Danzavamo al suono della fisarmonica e qualcuno  suonava il banjo. Faceva caldo e io mi sentivo felice. Passammo  accanto a Georgette che ballava con uno di quelli. 
  "Che cosa ti ha preso di portare qui quella?" 
  "Non so. So solo che l'ho portata qui." 
  "Sei romantico forte." 
  "No, scocciato." 
  "Ora?" 
  "Non ora." 
  "Andiamo fuori. Lei è ben guardata." 
  "Vuoi andare?" 
  "Te lo chiederei se non volessi?" 
  Scendemmo dalla pedana, io presi la mia giacca da un attaccapanni  sul muro e me la misi. Brett era al bar e Cohn le parlava. Io mi  fermai al bar e chiesi una busta. La patronne me ne trovò una. Io  presi un biglietto da cinquanta franchi, lo misi nella busta, la  chiusi e la detti alla patronne. 
  "Se la ragazza che era con me chiede di me, volete darle questo?"  dissi. "Se se ne va con uno di quei signori, volete conservarlo per  me?" 
  "C'est entendu, Monsieur" la patronne disse. "Ve ne andate ora?  Così presto?" 
  "Sì" dissi io. 
  Ci avviammo alla porta. Cohn ancora parlava a Brett. Brett disse:  
"Buonanotte" e prese il mio braccio. "Buonanotte, Cohn" dissi io.  
Fuori in strada cercammo un taxi. 
  "Perderai i tuoi cinquanta franchi" disse Brett. 
  "Oh, sì." 
  "Niente taxi." 
  "Possiamo andare a piedi al Panthéon a prenderne uno." 
  "Entriamo in un bar e mandiamo a prenderne uno." 
  "Non hai voglia di attraversare la strada." 
  "No se posso farne a meno." 
  Entrammo nel bar vicino e mandai un cameriere a prendere un taxi. 
  "Bene" dissi. "Ora siamo lontani da quella gente." 
  Eravamo in piedi senza parlare davanti all'alto bar di zinco e ci  guardavamo. Venne il cameriere e disse che il taxi era fuori. Brett  strinse forte il mio braccio. Io detti al cameriere un franco e  uscimmo. 
  "Dove devo dirgli?" chiesi. 
  "Digli di fare un giro." 
  Dissi all'autista di andare al Parc Montsouris; salii e tirai la  porta. Brett era appoggiata indietro nell'angolo, con gli occhi  chiusi. Io mi sedetti accanto a lei. La macchina partì con uno  sbalzo. 
  "Oh, tesoro, son tanto disgraziata" Brett disse. 

IV 
  Il taxi andò su per la collina, passò la piazza illuminata e sempre in salita entrò nel buio, per una via scura dietro  
Saint-Etienne-du-Mont proseguì in piano, poi scese senza rumore  sull'asfalto, passò gli alberi di place de la Contrescarpe e gli  autobus fermi, svoltò sui ciottoli di rue Mouffetard. Ai due lati  della strada c'erano bar illuminati e negozi ancora aperti. Eravamo  seduti a distanza, e gli scossoni ci avvicinarono, scendendo la  vecchia strada. Brett si era tolto il cappello. Teneva la testa  indietro. Vidi la faccia di lei alla luce dei negozi, poi fu buio,  vidi ancora chiaramente la faccia di lei quando uscimmo sull'avenue  de Gobelins. La strada in riparazione era sventrata e uomini  lavoravano sulle rotaie alla luce delle lampade ad acetilene. La  faccia di Brett era bianca e la lunga linea del collo risaltava alla  luce viva delle lampade. Poi la strada fu di nuovo buia ed io baciai  Brett. Le nostre labbra si unirono, poi lei si staccò e si schiacciò  contro l'angolo del sedile, più lontano possibile. Teneva la testa  bassa. 
  "Non toccarmi" disse. "Ti prego non toccarmi." 
  "Che c'è?" 
  "Non sopporto." 
  "Oh, Brett." 
  "Non devi. Sai che non devi. Non sopporto, ecco. Oh, tesoro, ti  prego, capisci!"   "Non mi ami?" 
  "Amarti? Semplicemente divento gelatina quando tu mi tocchi." 
  "Possiamo farci qualcosa?" 
  Ora sedeva eretta. Io tenevo il braccio attorno a lei e lei si  appoggiava a me, ed eravamo tranquilli. Lei fissava i suoi occhi nei  miei, con quel suo modo che mi faceva pensare se davvero lei vedeva,  al di là dei suoi occhi. Continuavano a guardare quando gli occhi di  chiunque altro al mondo avrebbero smesso di guardare. Guardavano come  
se nient'altro sulla terra ci fosse da guardare a quel modo, e  davvero di tante cose Brett aveva paura.   "E non possiamo farci niente?" io dissi. 
  "Non so" disse lei. "Non voglio passare un'altra volta  quell'inferno." 
  "Meglio sarebbe che noi due non ci vedessimo." 
  "Ma, tesoro, io devo vederti. Sai che questo non è tutto." 
  "No, ma pare che lo sia." 
  "E' colpa mia. Ma tutto quello che si fa si paga, non è vero?" 
  Tutto il tempo aveva fissato i suoi occhi nei miei. Gli occhi di  Brett avevano differenti profondità. Qualche volta parevano  assolutamente piatti. Ora invece in quegli occhi tante cose si  potevano vedere. 
  "Quando penso l'inferno che ho fatto passare alla gente. Sto  pagando tutto ora." 
  "Non dire sciocchezze" dissi io. "Oltretutto, quello che è successo  a me si suppone che sia buffo. Io non ci penso mai." 
  "Ci credo proprio." 
  "Bene, non parliamo di questo." 
  "Una volta la cosa mi fece ridere" Brett disse senza guardarmi. "Un  amico di mio fratello ritornò così conciato da Mons. Pareva un  accidente di beffa. Gli amici non sanno niente, no?" 
  "No" io dissi. "Nessuno sa niente." 
  L'argomento non mi faceva impressione. Una volta, probabilmente,  avevo preso in considerazione la cosa nei suoi vari aspetti, compreso  quello che certe ferite o imperfezioni possono essere argomento di  scherzo pur rimanendo una cosa molto seria per la persona che le ha.   "E' buffo" dissi. "E' molto buffo. E il più buffo, poi, è essere  innamorato." 
  "Così pensi?" Gli occhi di lei parevano di nuovo piatti.   "Buffo, sicuro. Ma secondo in che senso. In un certo senso non è  una piacevole sensazione." 
  "No" Brett disse. "Penso che dev'essere l'inferno sulla terra." 
  "Pure è bene che noi due ci vediamo." 
  "No. Penso che no." 
  "Non vuoi?" 
  "Devo." 
  Ora eravamo seduti come due estranei. Sulla destra era il Parc  Montsouris. Il ristorante, dov'era l'allevamento di trote vive e si  poteva star seduti a guardare il parco, era chiuso. L'autista voltò  la testa verso di noi. 
  "Dove vuoi andare?" chiesi a Brett. Brett si voltò dall'altra  parte. 
  "Andiamo al Select" disse. 
  "Café Select" dissi all'autista. "Boulevard Montparnasse."   L'auto tagliò giù direttamente, girando attorno al Lion de Belfort  che sovrasta il passaggio dei tram a Montrouge. Brett guardava fisso  avanti. Sul boulevard Raspail, con le luci di Montparnasse già in  vista, Brett disse: 
  "Ti dispiace molto se ti chiedo un favore?" 
  "Non far la sciocca." 
  "Dammi un altro bacio prima di arrivare." 
  Quando il taxi si fermò scesi e pagai. Brett scese dall'auto  mettendosi il cappello. Mi dette la mano nello scendere dal  predellino. La mano le tremava. "Dico, sono molto conciata?" Si calcò  in testa il cappello da uomo ed entrò nel bar. Dentro, al bar e ai  tavoli, erano molti di quelli che avevamo lasciati al club danzante. 
  "Hello, amici" Brett disse. "Ho voglia di bere qualcosa."   "Oh, Brett, Brett" si avvicinò il piccolo greco, pittore di  ritratti, che si faceva chiamare duca ma che tutti chiamavano Zizi.  "Ho una cosa importante da dirvi."   "Hello, Zizi" Brett disse. 
  "Voglio presentarvi un amico" Zizi disse. Si fece avanti un uomo  grasso. "Conte Mippipopolous, vi presento la mia amica Lady Ashley."   "Come va?" disse Brett. 
  "Bene, si diverte Vostra Signoria a Parigi?" chiese il conte  Mippipopolous, che portava un dente d'alce appeso alla catena  dell'orologio. 
  "Parecchio" disse Brett. 
  "Parigi è certo una bella città" disse il conte. "Ma io penso che  
voi avrete grossi impegni a Londra."   "Oh, enormi" disse Brett. 
  Braddocks mi chiamò da un tavolo: "Barnes" disse "vieni a bere.  
Quella tua ragazza ha fatto una pregevole scena". 
  "Per che cosa?" 
  "Per qualcosa che aveva detto la figlia della patronne. Una scena  notevole. E' stata magnifica, sai. Ha mostrato la sua tessera gialla  e ha chiesto di vedere quella della figlia della patronne. Ti dico,  una scena." 
  "E come è finita?" 
  "Oh, qualcuno l'ha portata a casa. Un bel pezzo di ragazza.  
Meravigliosa padronanza della lingua. Resta con noi a bere qualcosa." 
  "No, grazie" io dissi. "Vado via. Hai visto Cohn?"   "E' andato a casa con Frances" si intromise Mrs' Braddocks. 
  "Povero diavolo, sembra terribilmente giù" Braddocks disse. 
  "Oso dire che lo è" disse Mrs' Braddocks. 
  "Vado via" io dissi. "Buonanotte." 
  Al bar dissi buonanotte a Brett. Il conte pagava champagne. "Volete  bere un bicchiere di vino con noi, signore?" mi chiese.   "No, molte grazie. Vado via."   "Davvero te ne vai?" Brett chiese. 
  "Sì" dissi io "ho un accidente di mal di testa." 
  "Ci vediamo domani?" 
  "Vieni in ufficio." 
  "Sarà difficile." 
  "Bene, dove ci vediamo?" 
  "Dove vuoi verso le cinque." 
  "Facciamo allora dall'altro lato della città."   "Bene. Sarò al Crillon alle cinque."   "Cerca di esserci" dissi io. 
  "Non preoccuparti" disse Brett. "Non ti ho mai piantato solo, no?" 
  "Notizie da Mike?" 
  "Una lettera oggi." 
  "Buonanotte, signore" disse il conte. 
  Uscii sul marciapiede e camminai giù per il boulevard Saint-Michel,  passai davanti ai tavoli della Rotonde ancora affollati, guardai  dall'altra parte della strada il Dôme con i tavoli sull'orlo del  selciato. Qualcuno da un tavolo mi salutò. Non guardai chi era e  passai avanti. Volevo andare a casa. Il boulevard Montparnasse era  deserto. Lavigne era chiuso e davanti alla Closerie de Lilas stavano  accatastando i tavoli. Passai davanti alla statua di Ney che si  
ergeva nella luce dei lampioni, in mezzo alle foglie recenti degli  ippocastani. Sul piedestallo c'era una corona con un nastro rosso. Mi  fermai a leggere la scritta: il Gruppo Bonapartista, e la data che  non ricordo. Aveva un bell'aspetto, il maresciallo Ney con gli  stivali, che brandiva la spada tra il verde recente degli  ippocastani. Il mio appartamento era dall'altra parte della strada,  poco più giù del boulevard Saint-Michel. 
  C'era luce nella stanza della concierge. Io bussai e lei mi dette  la posta. Le augurai buonanotte e salii di sopra. C'erano due lettere  e dei giornali. Li guardai sotto la lampada a gas della sala da  pranzo. Le lettere venivano dagli Stati. Una era un rendiconto di  banca. Presentava un bilancio di 4l 2432,60. Tirai fuori il libretto  degli assegni, sottrassi quattro assegni emessi dal primo del mese e  trovai di avere un bilancio di 4l 1832,60. Scrissi la cifra a tergo  del foglio. L'altra lettera era un annunzio matrimoniale. Il signore  e la signora Aloysius Kirby annunciavano il matrimonio della figlia  Caterina: non conoscevo né la ragazza né lo sposo. Dovevano aver  riempito la città di annunzi. Era un nome buffo. Ero certo di potermi  ricordare di chiunque avesse un nome come Aloysius. Era un buon nome  cattolico. C'era uno stemma sull'annunzio. Come Zizi il duca greco. E  quel conte. Il conte era buffo. Anche Brett aveva un titolo. Lady  Ashley. All'inferno Brett. All'inferno Vossignoria, Lady Ashley.   Accesi la lampada accanto al letto, spensi il gas e aprii la  finestra. Il letto era lontano dalla finestra ed io con la finestra  aperta mi sedetti sul letto e mi svestii. Fuori in strada un tram  notturno correva sui binari, portava la verdura ai mercati. Facevano  rumore la notte quando uno non poteva dormire. Spogliandomi mi  guardai nello specchio del grande armadio oltre il letto. Questo era  un tipico modo francese di arredare una stanza. Pratico anche,  suppongo. Essere pieno di ferite. Suppongo che fosse buffo. Misi il  pigiama e entrai a letto. Presi i giornali e strappai le fascette.  Erano giornali di corride. Uno era arancione. L'altro giallo. Avevano  tutti e due le stesse notizie, così bastava leggerne uno e l'altro  diventava inutile. Le Toril era il migliore, così cominciai a  leggerlo. Lo lessi da cima a fondo, compresa la Piccola Posta e gli  Annunzi Economici. Spensi la lampada. Forse sarei riuscito a dormire.   La mia testa cominciò a lavorare. La solita faccenda. Bene, era una  lurida faccenda essere ferito durante la fuga, su un fronte da burla  come quello italiano. Nell'ospedale italiano stavamo per formare  un'associazione. Aveva un buffo nome italiano. Fu nell'Ospedale  Maggiore di Milano, padiglione Ponte. L'edificio accanto era il  padiglione Zonda. C'era una statua di Ponte. O forse era Zonda. Fu  qui che il colonnello comandante del reggimento venne a visitarmi. Fu  buffo. Fu almeno la prima cosa buffa. Io ero tutto bendato. Ma gli  avevano detto come stava la cosa. Lui allora fece quel magnifico  discorso: "Voi, uno straniero, un inglese" (ogni straniero era un  inglese) "avete dato più della vostra vita". Che discorso! Avrei  voluto averlo in cornice per appenderlo in ufficio. Non rise mai. Si  metteva nei miei panni, immagino. "Che disgrazia" diceva "che  disgrazia!" 
  Non ci ho ancora fatta l'abitudine, suppongo. Cerco solo di non  occuparmene e di non aver pasticci con la gente. Probabilmente mai  avrei avuto pasticci se non avessi incontrato Brett quando mi  spedirono in Inghilterra. Suppongo che lei volesse solo quello che  non poteva avere. Bene, la gente è fatta così. All'inferno la gente.  La Chiesa cattolica aveva un modo assai buono di considerare tutta la  faccenda. Buon sistema, ad ogni modo. Quello di non pensarci. Oh, un  ottimo sistema. Provare per credere. 
  Giacevo sveglio a pensare e il cervello mi saltava in aria. Non  riuscii a non pensarci, pensai a Brett e a tutto il resto che era  stato. Pensavo a Brett, e il cervello smise di saltarmi in aria,  cominciò dolcemente a navigare. Allora improvvisamente cominciai a  piangere. Dopo un poco mi sentii meglio, rimasi disteso nel letto  ascoltando i pesanti tram andare e venire giù nella strada, poi mi  addormentai. 
  Mi svegliai. C'era chiasso sulle scale. Stetti ad ascoltare e mi  sembrò di riconoscere una voce. Misi una vestaglia e andai alla  porta. Al pianterreno la concierge parlava. Era molto infuriata.  
Sentii fare il mio nome e chiamai giù. 
  "Siete voi, Monsieur Barnes?" la concierge gridò. 
  "Sì, sono io." 
  "C'è qui un tipo di donna che ha svegliato tutta la strada.  Guardate se è un lavoro da fare a quest'ora di notte! Dice che deve  vedervi. Io le ho detto che stavate dormendo." 
  Poi sentii la voce di Brett. Mezzo addormentato ero sicuro che si  trattasse di Georgette. Non so perché. Georgette non poteva sapere il  mio indirizzo. 
  "Volete farla venir su, per favore?" 
  Brett venne su. Vidi che era completamente ubriaca. 
  "Cosa idiota" disse. "Fare una scena simile. Dico, tu non stavi  
mica dormendo, vero?" 
  "Che pensavi che stessi facendo?" 
  "Non so. Che ora è?" 
  Guardai l'orologio. Erano le quattro e mezzo. 
  "Non avevo idea che ora fosse" disse Brett. "Senti, mi posso  sedere? Non essere in collera, tesoro. Ho lasciato il conte adesso.  
Mi ha portata qui." 
  "Che tipo è?" Stavo prendendo i bicchieri e la bottiglia del  brandy. 
  "Solo un poco" disse Brett. "Non cercare di ubriacarmi. Il conte?  
Oh, mica male. E' proprio uno dei nostri." 
  "E' un conte?" 
  "E' almeno come se lo fosse. Io credo che lo sia, sai. Merita di  esserlo, ad ogni modo. Sa tutto quello che bisogna sapere sulla  gente. Non so dove ha imparato tante cose. Ha un circuito di  pasticcerie negli Stati." 
  Mise la cannuccia nel bicchiere e succhiò. 
  "Pensa che l'ha chiamato un circuito. Qualcosa del genere. Tutte  collegate una con l'altra. Me ne ha parlato un poco. Maledettamente  interessante. E' uno dei nostri, però. Sul serio si può dire che è  uno dei nostri." 
  Prese un altro sorso. 
  "Questo è il mio pane" disse. "Ci sto bene in queste cose. Non ti  dispiace, vero? Sai, lui è occupato con Zizi." 
  "E' davvero un duca anche Zizi?" 
  "Non mi stupirebbe. Greco, sai. Infame pittore. Mi piace di più il  conte." 
  "Dove sei stata con lui?" 
  "Oh, dappertutto. Mi ha portata qui adesso. Mi ha offerto diecimila  dollari per andare a Biarritz con lui. Quanto è in sterline?" 
  "Duemila circa." 
  "Un sacco di soldi. Io gli ho detto che conoscevo troppa gente a  Biarritz."   Rise. 
  "Dico, come sei lento" disse. Io avevo appena toccato il mio  brandy. Ne bevvi un gran sorso. 
  "Così va meglio" disse Brett. "Molto buffo. Allora lui voleva che  andassi a Cannes con lui. Gli ho detto che conoscevo troppa gente a  
Cannes. Monte Carlo. Gli ho detto che conoscevo troppa gente a Monte  Carlo. Gli ho detto che conoscevo troppa gente dappertutto. Ed è  vero, anche. Così gli ho chiesto di portarmi qui." 
  Mi guardò, con una mano sul tavolo, tenendo il bicchiere.   "Non fare quella faccia" disse. "Gli ho detto che sono innamorata  di te. Ed è vero, anche. Non fare quella faccia. Lui è stato molto  carino. Ci vuole a pranzo con lui domani sera. Ne hai voglia?" 
  "Perché no?" 
  "Adesso è meglio che vada." 
  "Perché?" 
  "Volevo solo vederti. Un'idea così. Vuoi vestirti e venir giù? Lui  è giù in strada con la macchina." 
  "Il conte?" 
  "Lui. Con la macchina e lo chauffeur in livrea. Vuol portarmi a far  colazione al Bois. Panieri di roba. Preso tutto da Zelli. Dozzine di  bottiglie di Mumms. Ti tenta?" 
  "Ho da lavorare nella mattinata" dissi "e sono troppo indietro  rispetto a voi per raggiungervi ormai più. Non sarei divertente." 
  "Non far lo scemo." 
  "Non posso." 
  "Bene. Gli invii un tenero messaggio?" 
  "Niente." 
  "Buonanotte, tesoro." 
  "Non fare la sentimentale." 
  "Sei tu che mi rovini." 
  Ci baciammo per darci la buonanotte e Brett rabbrividì. "Meglio che  vada" disse. "Buonanotte, tesoro." 
  "Nessuno ti obbliga ad andar via." 
  "Sì, devo." 
  Ci baciammo ancora sulle scale e quando io chiamai con il cordone,  la concierge di dietro la porta borbottò qualche cosa. Rientrai in  casa e dalla finestra aperta vidi Brett traversare la strada verso la  grossa limousine ferma all'angolo, sotto il lampione. Brett entrò e  l'auto partì. Mi voltai. Sul tavolo c'erano un bicchiere vuoto e un  bicchiere semipieno di brandy. Li portai in cucina e vuotai il  bicchiere semipieno nel lavandino. Spensi il gas in camera da pranzo,  
seduto sul letto buttai via le pantofole, poi entrai sotto le  lenzuola. Questa era Brett, quella per cui ero stato capace di  piangere. Pensai allora a Brett che traversava la strada e saliva in  macchina, come l'avevo vista l'ultima volta, e dopo un attimo,  naturalmente, di nuovo mi sentii l'inferno dentro. E'  straordinariamente facile fare il superiore su ogni cosa di giorno,  ma di notte è un'altra faccenda. 

  Al mattino feci a piedi il boulevard fino alla rue Soufflot, dove  presi il caffè con delle brioches. Era una bella mattina. Gli  ippocastani nel giardino del Lussemburgo erano in fiore. C'era la  piacevole sensazione del mattino presto prima di un giorno caldo. Col  caffè lessi i giornali e fumai una sigaretta. Le fioraie venivano dal  mercato e preparavano i banchi per la giornata. Studenti salivano  all'università di giurisprudenza, o scendevano alla Sorbona. C'era  traffico sul boulevard, di tram e di gente che andava al lavoro. Io  presi un autobus "S" e in piedi nella piattaforma posteriore arrivai  fino alla Madeleine. Dalla Madeleine camminai per il boulevard des  Capucines fino all'Opéra, poi su verso il mio ufficio. Passai l'uomo  delle ranocchie saltatrici e l'uomo dei pugilatori meccanici. Feci un  passo di lato per evitare il filo col quale la ragazza-assistente  faceva funzionare i pugilatori. Stava in piedi col filo in mano,  guardava da un'altra parte. L'uomo cercava di convincere due turisti  a comprare. Altri tre turisti si erano fermati e guadavano. Davanti a  me un uomo camminava spingendo un cilindro che stampava sul  marciapiede il nome Cinzano in lettere scure. Tutt'in giro c'era  gente che andava al lavoro. Era piacevole essere uno che andava al  lavoro. Traversai l'avenue ed entrai nel portone del mio ufficio.   Su in ufficio lessi i giornali francesi del mattino, fumai, poi mi  sedetti alla macchina da scrivere e feci il lavoro di una buona  mattina. Alle undici con un taxi mi recai al quai d'Orsay, entrai e  mi sedetti con una dozzina di giornalisti, mentre il portavoce del  Ministero degli Esteri, un giovane diplomatico da Nouvelle Revue  Française con occhiali di tartaruga, parlava e rispondeva a domande  per mezz'ora. Il Presidente del Consiglio era a Lione a fare un  discorso, o meglio era sulla via del ritorno. Molta gente fece  domande per sentire il suono della propria voce e ci furono un paio  di domande fatte da giornalisti novellini che davvero s'interessavano  alle risposte. Non c'erano notizie. Tornando dal quai d'Orsay divisi  un taxi con Woolsey e Krum. 
  "Che fai la notte, Jake?" chiese Krum. "Non ti si vede mai in  giro." 
  "Oh, sono nel Quartiere." 
  "Verrò giù qualche notte. Il Dingo. E' quello il gran posto, no?" 
  "Sì. Quello oppure l'ultima moda, il Select." 
  "Voglio venir giù qualche notte" Krum disse. "Sai com'è però, con  una moglie e dei bambini." 
  "Giochi a tennis, Krum?" chiese Woolsey. 
  "Bene, no" disse Krum. "Non posso dire di aver giocato mai  quest'anno. Volevo andar fuori ma la domenica ha sempre piovuto, e i  campi sono così affollati." 
  "Gli inglesi fanno tutti il sabato fuori" Woolsey disse.   "Eh, loro sono signori" disse Krum. "Bene, sentite. Un giorno io  non dovrò lavorare per un'agenzia. Allora avrò tempo abbastanza per  andarmene a stare in campagna." 
  "Questo bisognerebbe fare. Vivere fuori in campagna e avere una  piccola automobile." 
  "Io avrei pensato di comprare un'automobile l'anno venturo."   Picchiai sul vetro. Lo chauffeur fermò. "Io sono arrivato" dissi.  "Venite su a bere qualcosa?" 
  "Grazie, vecchio" Krum disse. Woolsey scosse la testa "Devo  rivedere quello che ha detto quel tale stamattina."   Io misi un pezzo da due franchi in mano a Krum. 
  "Sei matto, Jake" disse lui. "Penso io." 
  "Pensa a tutto l'ufficio, sai." 
  "Fa niente. Voglio pensarci io." Li salutai. Krum mise fuori la  testa. "Ci vediamo a pranzo mercoledì." 
  "Va bene." 
  Salii in ufficio con l'ascensore. Robert Cohn mi aspettava. "Hello,  
Jake" disse. "Vieni a pranzo fuori?" 
  "Sì. Lasciami guardare se c'è niente di nuovo." 
  "Dove mangiamo?" 
  "Dove vuoi." Guardavo sulla mia scrivania. "Dove vuoi mangiare tu?" 
  "Che ne dici di Wetzel? Hanno dei buoni antipasti."   Al ristorante ordinammo antipasti e birra. Il sommelier portò la  birra, spumante fuori degli alti boccali e fredda. C'erano una  dozzina di piatti di differenti antipasti. 
  Chiesi io: "Divertito stanotte?". 
  "No. Non direi." 
  "Come va il libro?" 
  "Male. Questo secondo libro non va avanti." 
  "Succede a tutti." 
  "Oh, ne sono convinto. La cosa mi secca, però." 
  "Pensato più di andare nell'America del Sud?" 
  "Sono sempre deciso." 
  "E perché non parti?" 
  "Frances." 
  "Bene" io dissi "prendi con te anche lei." 
  "Non le piacerebbe. Non è il genere di cose che piacciono a lei. A  lei piace avere un sacco di gente attorno." 
  "Dille di andare all'inferno." 
  "Non posso. Sono in un certo senso obbligato a lei."   Allontanò le fettine di cetriolo e prese un'acciuga salata. 
  "Che cosa sai di Lady Brett Ashley, Jake?" 
  "Lady Ashley è il cognome" io dissi. "Brett è il nome. E' una  ragazza per bene. Sta per divorziare e sposare Mike Campbell. Mike  
Campbell è in questo momento in Scozia. Perché?" 
  "E' una donna eccezionalmente interessante." 
  "Vero?" 
  "C'è della classe in lei, della finezza. E' così fine, così  
personale. Ha una qualità speciale." 
  "E' assai per bene." 
  "Non so spiegare che qualità è" Cohn disse. "Immagino che  dev'essere questione di nascita." 
  "Mi pare che ti piaccia parecchio." 
  "Difatti. Non mi meraviglierei di esserne innamorato."   "Beve molto" dissi io. "E' innamorata di Mike Campbell, e lo  sposerà. Mike sarà ricco sfondato un giorno." 
  "Io non credo che lo sposerà." 
  "Perché no?" 
  "Così. Non credo che lo sposerà. La conosci da molto tempo?"   "Sì" dissi io. "Era infermiera in un ospedale dov'ero io durante la  guerra." 
  "Doveva essere addirittura una bambina a quell'epoca." 
  "Ha trentaquattro anni, adesso." 
  "Quando ha sposato Ashley?" 
  "Durante la guerra. Il suo vero unico amore era crepato con la  dissenteria." 
  "Parli in un modo sgradevole." 
  "Mi dispiace, non lo faccio apposta. Ho cercato solo di esporti i  fatti." 
  "Non credo che sposerà mai qualcuno che non ama." 
  "Be'" dissi io "lo ha già fatto due volte." 
  "Non ci credo." 
  "Bene" dissi io "non farmi un sacco di domande sceme se poi non ti  piacciono le risposte." 
  "Non ti ho chiesto questo." 
  "Mi hai chiesto che cosa sapevo di Brett Ashley." 
  "Non ti ho chiesto di insultarla." 
  "Oh, va' all'inferno." 
  Cohn si alzò, bianco in faccia, e rimase in piedi, pallido e  infuriato, dietro i piccoli piatti di antipasti. 
  "Siediti" dissi. "Non fare lo scemo." 
  "Devi ritirare." 
  "Oh, non fare discorsi da ginnasio." 
  "Ritira." 
  "Sicuro. Ritiro tutto. Mai sentita nominare Brett Ashley. Va bene?" 
  "No. Non questo. Ritira che io vada all'inferno." 
  "Oh, non andare all'inferno" dissi. "Resta pure qui. Dobbiamo  ancora mangiare." 
  Cohn tornò a sorridere e si sedette. Sembrò lieto di sedersi. Che  cosa diavolo avrebbe fatto se non si fosse seduto? 
  "Dici delle cose maledettamente offensive, Jake." 
  "Mi dispiace. Ho una lingua indisponente. Non faccio mai apposta,  quando dico cose indisponenti." 
  "Lo so" Cohn disse. "Tu sei davvero il miglior amico che ho, Jake."   "Dio t'aiuti" io pensai. E dissi forte: "Dimentica quello che ho  detto. Mi dispiace". 
  "Benissimo. Così va bene. Per un momento mi ero seccato." 
  "Bene. Prendiamo qualcos'altro da mangiare." 
  Finito di pranzare andammo a piedi fino al Café de la Paix a  prendere il caffè. Capivo che Cohn voleva ritornare sull'argomento  Brett, ma riuscii ad evitarlo. Parlammo del più e del meno, e lasciai  Cohn per tornare in ufficio. 

VI 
  Alle cinque ero all'Hôtel Crillon ad aspettare Brett. Brett non  c'era, così mi sedetti nell'atrio a scrivere delle lettere. Come  lettere non erano gran che, ma io speravo che l'essere sulla carta  intestata del Crillon le avrebbe aiutate. Brett non si fece vedere.  Alle sei meno un quarto circa io scesi nel bar e presi un Jack Rose  con George il barista. Nemmeno nel bar Brett si era fatta vedere.  
L'aspettai ancora di sopra, poi presi un taxi per il Select.  Traversando la Senna vidi una fila di chiatte vuote, rimorchiate giù  per la corrente, alte sull'acqua, gli uomini delle chiatte fermi ai  grandi remi mentre le chiatte si avvicinavano al ponte. Era sempre  piacevole traversare i ponti, a Parigi. 
  Il taxi girò intorno alla statua dell'inventore del semaforo  raffigurato nell'attitudine di inventare il medesimo e svoltò per il  boulevard Raspail. Io mi appoggiai indietro sui cuscini per non  vedere quel tratto di strada. Passare in macchina per il boulevard  
Raspail era sempre malinconico. Era come una certa strada tra  Fontainebleau e Montereau, che sempre mi rendeva mortalmente tetro e  malinconico. Suppongo che qualche associazione di idee renda  insopportabile passare in macchina per certi posti. Ci sono a Parigi  altre strade brutte quanto il boulevard Raspail. Lo stesso boulevard  Raspail è una strada per la quale non mi fa nessuna impressione  camminare a piedi. Ma non posso sopportare di passarci in macchina.  Forse avevo letto qualcosa sull'argomento. Per Robert Cohn tutta  Parigi era così. Mi chiesi da dove Cohn avesse derivato  
quell'incapacità ad apprezzare Parigi. Forse da Mencken. Mencken odia  Parigi, credo io. Così molti giovani derivano le loro antipatie e  simpatie da Mencken. 
  Il taxi si fermò al Rotonde. A qualsiasi caffè di Montparnasse voi  diciate a un autista di portarvi, essi sempre vi portano al Rotonde.  Tra dieci anni probabilmente sarà il Dôme. Ad ogni modo, era vicino.  Camminai oltre i tavoli antipatici del Rotonde fino al Select. Dentro  c'era poca gente al bar, e fuori, solo, sedeva Harvey Stone. Aveva la  barba lunga e davanti a sé sul tavolo una pila di piattini. 
  "Siediti" disse Harvey. "Ti stavo cercando." 
  "Cosa c'è?" 
  "Niente. Solo ti cercavo." 
  "Sei stato alle corse?" 
  "No. Da domenica." 
  "Che notizie dagli Stati?" 
  "Niente. Assolutamente niente." 
  "Come mai?" 
  "Non so. Sono in rotta con gli Stati. Sono assolutamente in rotta."   Si appoggiò avanti e mi fissò negli occhi. 
  "Vuoi sapere una cosa, Jake?" 
  "Sì." 
  "Non mangio da cinque giorni." 
  Tre giorni prima al bar New York Harvey mi aveva vinto duecento  franchi ai dadi da poker. 
  "Come mai?" 
  "Senza denaro. Denaro non ce n'è" fece una pausa. "Ti dico è  strano, Jake. Quando è così mi viene solo voglia di star solo. Mi  viene voglia di starmene nella mia stanza. Sono come un gatto."   Mi frugai in tasca. 
  "Cento ti servirebbero, Harvey?" 
  "Sì." 
  "Vieni, andiamo a mangiare." 
  "Non c'è fretta. Beviamo." 
  "Meglio mangiare." 
  "No. Quando è così non m'importa di mangiare o no."   Bevemmo. Harvey aggiunse il suo piattino alla sua pila. 
  "Conosci Mencken, Harvey?" 
  "Sì, perché?" 
  "Com'è?" 
  "E' in gamba. Dice delle cose molto spiritose. L'ultima volta che  ho pranzato con lui abbiamo parlato di Hoffenheimer. "Il guaio è" ha  detto lui "che è un garter-snapper, un ladro di giarrettiere." Non è  cattiva." 
  "Non è cattiva." 
  "Ora è in crisi. Ha scritto di tutte le cose che sa, e adesso  scrive di quelle che non sa." 
  "Suppongo che sia in gamba" dissi io. "Solo, io non riesco a  leggerlo." 
  "Oh, nessuno lo legge ormai" Harvey disse "eccetto la gente  abituata a leggere l'Alexander Hamilton Institute." 
  "Be'" dissi "anche quella era una cosa buona." 
  "Sicuro" disse Harvey. Poi stemmo seduti a pensare profondamente  per un poco. 
  "Prendiamo un altro porto?"   "Benissimo" Harvey disse. 
  Dissi io: 
  "Ecco Cohn." 
  Cohn attraversava la strada. 
  "Quel minus habens" Harvey disse. Cohn venne al nostro tavolo. 
  "Salve, gente" disse. 
  "Salve, Robert" disse Harvey. "Stavo proprio dicendo a Jake che sei  un minus habens." 
  "Perché?" 
  "Sputa fuori. Non pensare. Che cosa faresti se potessi fare tutto  quello che vuoi?"   Cohn cominciò a riflettere. 
  "Non pensare. Sbatti fuori." 
  "Non so" Cohn disse. "Di che genere, ad ogni modo?"   "Dico quello che faresti. La prima cosa che ti viene in mente.  
Sputa fuori. Fa niente se è scema." 
  "Non so" disse Cohn. "Credo che giocherei di nuovo al football con  l'esperienza che ho ora."   Disse Harvey: 
  "Ti avevo mal giudicato. Non sei un minus habens. Sei soltanto un  caso di sviluppo tardivo." 
  "Tu sei spaventosamente spiritoso, Harvey" Cohn disse. "Qualche  
giorno qualcuno ti spaccherà la faccia."   Harvey Stone rise. 
  "Lo pensi tu. Invece non succederà. Perché per me non avrebbe  importanza. Io non sono un pugilatore." 
  "Io dico" disse Cohn "che avrebbe pure importanza per te se  qualcuno lo facesse." 
  "Non l'avrebbe, invece. E' qui che tu sbagli di grosso. Perché non  sei intelligente." 
  "Oh, piantala di prendertela con me." 
  "La pianto" Harvey disse. "Non ha importanza per me. Tu non  
significhi niente per me."   Dissi io: 
  "Su, Harvey. Prendi un altro porto." 
  "No" disse lui. "Vado a mangiare. Ci vediamo dopo, Jake."   S'incamminò su per la strada. Lo guardai attraversare la strada tra  i taxi, basso e tarchiato, lentamente sicuro di sé nel traffico.   "Mi fa sempre arrabbiare" Cohn disse. "Non lo sopporto."   "A me piace" io dissi. "Trovo che è grande. Tu non dovresti  arrabbiarti." 
  "Lo so" disse Cohn "mi dà ai nervi, però." 
  "Scritto questo pomeriggio?" 
  "No. Non riesco ad andare avanti. Questo secondo libro è più  difficile del primo. Mi fa faticare." 
  Quella specie di sana concezione della vita che Cohn aveva al suo  ritorno dall'America in primavera, era scomparsa. Allora egli era  sicuro del suo lavoro, solo con personali nostalgie di avventura. Ora  la sicurezza se n'era andata. A questo punto io penso che forse non  ho reso con chiarezza Cohn. La ragione è che, finché non s'innamorò  di Brett, mai gli sentii fare un'osservazione che in qualche modo lo  differenziasse dagli altri. Aveva un buon gioco di tennis, un gioco  assai per bene, aveva un buon fisico e si manteneva in forma. Teneva  bene le carte al bridge, e aveva in complesso un'aria buia da  universitario. Se era in un gruppo, mai niente diceva che si notasse.  Portava quelli che a scuola si chiamavano polo-shirt, e forse ancora  così si chiamano, ma non che per partito preso fosse giovanile. Non  credo che badasse molto ai vestiti. Esternamente era stato formato a  Princeton, internamente era stato modellato dalle due donne che lo  avevano allenato per la vita. Aveva una specie di buonumore infantile  e molto per bene che nessun allenamento era riuscito a togliergli e  che io probabilmente non ho reso. Gli piaceva vincere al tennis.  Probabilmente gli sarebbe piaciuto vincere quanto Lenglen, per  esempio. D'altra parte quando lo battevano non si arrabbiava. Quando  s'innamorò di Brett il suo gioco andò in pezzi. Lo batteva gente che  non aveva mai avuto fortuna con lui. Ma lui non si arrabbiava. Era  tanto per bene. 
  Eravamo dunque seduti davanti al Café Select e Harvey Stone aveva  appena attraversato la strada.   "Vieni ai Lilas" dissi io. 
  "Ho un appuntamento." 
  "A che ora?" 
  "Frances viene qui alle sette e un quarto." 
  "Eccola." 
  Frances veniva verso di noi traversando la strada. Era una donna di  alta statura e camminava con ampi movimenti. Ci salutò agitando la  mano, e sorrise. Noi la guardammo attraversare la strada.   "Hello" disse Frances. "Sono contenta che siate qui, Jake. Ho  bisogno di parlarvi." 
  "Hello, Frances" Cohn disse. E sorrise. 
  "Hello, Robert. Dunque, sei qui?" Continuò parlando rapidamente.  "Giornata seccante oggi. Costui" accennò con la testa a Cohn "non è  venuto a casa a pranzo." 
  "Non ti avevo mica detto che sarei venuto." 
  "Oh, lo so. Ma al cuoco non hai detto niente. Poi anch'io avevo un  appuntamento, e Paola non era in ufficio. Sono andata ad aspettarla  al Ritz, e non è venuta, e si capisce che io non avevo abbastanza  denaro per mangiare al Ritz..." 
  "E cosa hai fatto?" 
  "Venuta via, si capisce." Parlava in un modo di scherzosa  imitazione. "Io vado sempre agli appuntamenti. Dovresti saperlo. Come  state, Jake, ad ogni modo?" 
  "Bene." 
  "Eravate con una bella ragazza al ballo, e poi siete andato via con  quella Brett." 
  "Non ti piace?" Cohn chiese.   "La trovo affascinante. Tu no?"   Cohn non rispose. 
  "Sentite, Jake. Ho bisogno di parlarvi. Volete venire con me al  
Dôme? Tu aspetti qui, no, Robert? Venite, Jake." 
  Traversammo il boulevard Montparnasse e ci sedemmo a un tavolo.  Venne un ragazzo con il Paris Times, io ne comprai una copia e la  aprii. 
  "Che c'è, Frances?" 
  "Oh, niente" disse lei. "Solo che lui vuole lasciarmi." 
  "Come sarebbe?" 
  "Oh, ha detto a tutti che ci sposavamo, e io l'ho detto a mia madre  e a tutti, e adesso non vuole più." 
  "Come mai?" 
  "Ha deciso che non ha vissuto abbastanza. Io sapevo che sarebbe  successo questo, quando lui andò a New York." 
  Alzò gli occhi disinvolta, cercando di parlare con noncuranza.   "Non ho intenzione di sposarlo se lui non vuole. Non ho affatto  intenzione. Ma mi sembra che sia un po' tardi ora, dopo che abbiamo  
aspettato tre anni, e dopo che io ho ottenuto il divorzio."   Io non dissi niente. 
  "Eravamo ormai quasi arrivati alla cerimonia, e invece abbiamo  fatto solo scene. Facciamo scene spaventose, e lui piange e mi  supplica di essere ragionevole, ma dice che non può." 
  "E' una storia spiacevole." 
  "Dico anch'io che è una storia spiacevole. Ho sprecato due anni e  mezzo con lui. E adesso non so se nessuno mi vorrà sposare. Due anni  fa avrei potuto sposare chi volevo giù a Cannes. Tutti i vecchioni  che volevano sposare un tipo chic e sistemarsi andavano matti per me.  Adesso non credo che potrei trovare."   "Sicuro che potrete sempre trovare.". 
  "No, non lo credo. Oltretutto lui mi piace. E mi piacerebbe avere  dei bambini. Sempre ho pensato che avremmo avuto dei bambini."   Mi guardò con aria disinvolta. 
  "Non mi sono mai piaciuti troppo i bambini, ma non voglio pensare  di non averne mai. Ho sempre pensato che ne avrei avuti e che mi  sarebbero piaciuti." 
  "Lui ha già dei bambini." 
  "Oh, sicuro, lui ha dei bambini, ha un sacco di denaro, ha una  madre ricca, e ha scritto un libro, e io invece non troverò più  nessun editore. E non ho denaro. Niente. Avrei potuto avere gli  alimenti ma ho divorziato più alla svelta possibile."   Ancora mi guardava con disinvoltura. 
  "Non è giusto. E' colpa mia e non lo è. Avrei dovuto saperlo. E  quando glielo dico lui piange e dice che non può sposarmi. Perché non  può sposarmi? Io posso essere una buona moglie. E' comodo tirare  avanti con me. Io lo lascio solo. Lo lascio libero. Ma non serve." 
  "E' una spiacevole faccenda." 
  "Sicuro, è una spiacevole faccenda. Ma non è il caso di parlarne,  no? Venite, torniamo al caffè." 
  "E naturalmente non c'è niente che io possa fare." 
  "No. Solo non fate capire a lui che ve ne ho parlato. So che non  vuole." E per la prima volta abbandonò la sua maniera disinvolta e  terribilmente scherzosa. "Io so quello che lui vuole. Vuole tornare a  New York, ed essere là quando uscirà il libro. Questo è quello che  vuole." 
  "Può darsi di no. Io non penso così." 
  "Voi non lo conoscete come lo conosco io, Jake. Questo è quello che  lui vuole. Io lo so. Lo so. Per questo non vuole sposarmi. Vuole  avere un grande trionfo tutto per sé." 
  "Volete che torniamo al caffè?" 
  "Sì. Andiamo." 
  Ci alzammo - non erano venuti a portarci niente da bere - e  traversammo la strada verso il Select dove Cohn da dietro il tavolino  di marmo ci sorrideva. 
  "Bene, cos'hai da sorridere?" Frances gli chiese. "Ti senti così  felice?" 
  "Sorridevo di te e di Jake coi vostri segreti." 
  "Oh, quello che ho detto a Jake non è un segreto. Tutti molto  presto lo sapranno. Volevo solo fornire a Jake una versione decente." 
  "Di che? Della tua partenza per l'Inghilterra?" 
  "Sì, della mia partenza per l'Inghilterra. Oh, Jake! Ho dimenticato  di dirvelo. Parto per l'Inghilterra." 
  "Ah, sì?" 
  "Sì, così si fa nelle migliori famiglie. Robert mi spedisce via. Mi  darà duecento sterline e io me ne andrò a visitare gli amici. Non è  ben trovata? Gli amici però ancora non ne sanno niente." 
  Si voltò verso Cohn e gli sorrise. Egli ora non sorrideva.   "Tu volevi darmi solo cento sterline, vero Robert? Ma l'ho convinto  a darmene duecento. E' davvero molto generoso. Vero, Robert?"   Non so come la gente potesse dire così terribili cose a Cohn. C'è  della gente a cui non potreste dire cose offensive. Vi danno la  sensazione che il mondo sarebbe immediatamente distrutto sotto i  vostri occhi se voi diceste certe cose. Ma Cohn incassava tutto.  Ecco, la cosa succedeva proprio sotto i miei occhi, ed io non sentivo  la minima voglia di fare un tentativo per farla smettere. E questo  era ancora una amichevole presa in giro rispetto a quello che venne  poi. 
  Cohn interruppe: 
  "Come puoi dire cose di questo genere, Frances?"   «Sentitelo. Io vado in Inghilterra. Vado a trovare amici. Mai  visitato amici che non avevano voglia di vedervi? Oh, dovranno pure  accettarmi, benissimo. "Come stai, cara? Quanto tempo che non ti  vedevamo! E come sta tua madre?" Già, come sta mia madre. Investì  tutto il suo denaro in Prestito di Guerra Francese. Probabilmente la  sola persona al mondo che lo fece. "E Robert?" "Devi fare attenzione  a non nominarlo, mia cara, la povera Frances ha avuto un'avventura  sfortunata." Non sarà divertente, Robert? Non credete che sarà  divertente, Jake?» 
  Si voltò verso di me con quel terribile sorriso disinvolto. Era una  grande soddisfazione per lei avere un pubblico. 
  "E che sarà di te, Robert? E' colpa mia, benissimo. Solo colpa mia.  Quando ti convinsi a sbarazzarti della tua piccola segretaria avrei  dovuto capire che ti saresti sbarazzato di me nello stesso modo. Jake  non lo sa. Devo raccontarglielo?" 
  "Piantala, Frances, per amor di Dio." 
  "Sì, glielo racconterò. Robert aveva una piccola segretaria nella  rivista. Il più dolce piccolo essere del mondo, e lui la trovava  incantevole. Poi arrivai io e lui trovò incantevole anche me. Così io  lo convinsi a sbarazzarsi di lei, e lui l'aveva portata a  
Provincetown da Carmel quando la rivista cambiò sede, e non le pagò  nemmeno il biglietto di ritorno in California. Tutto per farmi  piacere. Allora mi trovava incantevole. No, Robert? Non dovete  fraintendere, Jake. Tutto era assolutamente platonico, con la  segretaria. Anzi nemmeno platonico. Niente del tutto. Solo, lei era  così carina. E lui fece quello solo per farmi piacere. Bene, suppongo  che noi che viviamo di spada, di spada dobbiamo perire. Non è  letterario? Dovresti ricordartene per il tuo prossimo libro, Robert.  
Sapete che Robert sta raccogliendo materiale per un nuovo libro.  Vero, Robert? E' per questo che mi lascia. Ha deciso che io non sono  un buon personaggio. Capite, per tutto il tempo che abbiamo vissuto  insieme, lui era così occupato a scrivere il libro che non si è mai  ricordato di quello che c'era attorno a noi. Così ora vuole andare in  giro a raccogliere nuovo materiale. Bene, voglio sperare che troverà  qualcosa di spaventosamente interessante. Ascolta, Robert, caro. Devo  dirti una cosa. Non ti dispiace, vero? Non fare scene con le tue  ragazze. Cerca di non farle. Perché non sei capace di fare una scena  senza piangere, e quando piangi ti viene tanta compassione di te  
stesso che non ti puoi più ricordare quello che l'altra persona ha  detto. Non potrai mai ricordarti delle conversazioni in questo modo.  Cerca solo di star calmo. So che ti è terribilmente difficile. Ma  ricordati, è per la letteratura. Tutti dobbiamo fare sacrifici per la  letteratura. Prendi me. Io vado in Inghilterra senza protestare.  Tutto per la letteratura. Dobbiamo aiutare i giovani scrittori. Non  pensate così, Jake? Ma voi non siete un giovane scrittore. Tu sì,  Robert? Hai trentaquattro anni. Però suppongo che è ancora presto per  un grande scrittore. Prendiamo Hardy. Prendiamo Anatole France. A  Robert non piace, però. I suoi amici francesi gliene hanno parlato.  Robert non legge molto bene il francese. Non era un grande scrittore  come te, no, Robert? Supponi che avesse bisogno di andare in giro a  cercar materiale? Cosa supponi che dicesse alle sue amiche quando non  voleva sposarle? Chissà se piangeva, anche? Oh, mi è venuta in mente  una cosa." Si portò alle labbra la mano inguantata. "Conosco la  ragione vera per cui Robert non vuole sposarmi, Jake. Mi è venuta in  mente in questo momento. Mi è arrivata come una visione nel Café  Select. Non è mistico? Un giorno ci metteranno una lapide. Come a  Lourdes. Ascolti, Robert? Dico a te. E' così semplice. Mi meraviglio  di non averci mai pensato. Ecco, capite, Robert ha sempre desiderato  avere un'amica, e se non mi sposa, ecco che ne ha avuta una. E' stata  la sua amica per due anni. Capite com'è? E se invece mi sposasse,  come ha sempre promesso di fare, sarebbe la fine di tutto il romanzo.  
Non è intelligente da parte mia aver pensato questo? E' vero, anche.  
Date uno sguardo a lui e dite se non è vero. Dove andate, Jake?"   "Vado dentro un minuto a cercare Harvey Stone." 
  Cohn alzò gli occhi quando andai dentro. Era bianco in faccia.  Perché restava seduto lì? Perché continuava ad incassare in quel  modo? 
  Dall'interno del bar guardai fuori e li vidi attraverso la vetrina.  Frances continuava a parlare, sorridendo. disinvolta, guardando in  faccia Cohn ogni volta che gli chiedeva: "Vero, Robert?". O forse non  glielo chiedeva. Forse diceva qualcos'altro. Io dissi al barista che  non volevo niente da bere e uscii da una porta laterale. Mentre  uscivo guardai attraverso le due lastre di vetro e li vidi seduti là.  
Lei ancora parlava. Per una strada laterale scesi sul boulevard  Raspail. Un taxi si avvicinò. Io salii e detti all'autista  l'indirizzo di casa mia. 

VII
Mentre cominciavo a salire le scale la concierge picchiò sul vetro  del suo stanzino. Io mi fermai e lei uscì dalla guardiola. Aveva in  mano delle lettere e un telegramma.
  "Ecco la posta. E' stata qui una signora a cercarvi."
  "Ha lasciato un biglietto?"
  "No. Era con un signore. Era quella stessa di stanotte. In fin dei  conti trovo che è molto per bene."
  "Era con uno dei miei amici?"
  "Non so. Era uno mai venuto qui prima. Uno molto grosso. Molto,  molto grosso. Lei è molto per bene. Molto, molto per bene. Stanotte  forse era un poco..." Poggiò la testa sulla mano e la dondolò in su e  in giù. "Vi dirò francamente, Monsieur Barnes. Stanotte non l'avevo  trovata così gentille. Stanotte mi ero formata un'altra idea di lei.  Ma sentite cosa vi dico, è très, très gentille. E' proprio assai per  bene. E' di ottima famiglia, si vede."
  "Non hanno lasciato detto niente?"
  "Sì. Hanno lasciato detto che tornavano tra un'ora."
  "Quando vengono fateli salire."
  "Sì, Monsieur Barnes. E quella donna, quella donna è un tipo. E'  qualcuno. Un'eccentrica forse, ma quelqu'un, quelqu'un!"   La concierge prima di fare la concierge aveva tenuto uno spaccio di  bibite all'ippodromo di Parigi. Lo spaccio era nel prato ma lei aveva  tenuto d'occhio la gente del peso, per cui si faceva un gran vanto di  dirmi quali dei miei ospiti erano di bella presenza, quali di buona  famiglia e quali sportsmen, una parola francese pronunciata con  l'accento sul men. Il solo guaio era che la gente che non rientrava  in una delle tre categorie aveva molta probabilità di sentirsi  rispondere che non c'era nessuno in casa, chez Barnes. Un mio amico,  un pittore dall'aspetto assai malnutrito, che naturalmente secondo  madame Duzinell non era né di bella presenza né di buona famiglia né  sportsman, mi scrisse una lettera chiedendomi un lasciapassare da  presentare alla concierge, così da potermi venire a trovare qualche  volta la sera.
  Salii le scale chiedendomi che cosa Brett poteva aver fatto alla  concierge. Il telegramma era di Bill Gorton che annunciava il suo  arrivo col France. Misi la posta sul tavolo, entrai in camera da  letto, mi svestii e feci una doccia. Mi stavo asciugando quando  sentii suonare il campanello. Infilai accappatoio e pantofole e andai  alla porta. Era Brett. Dietro di lei era il conte, con un gran mazzo  di rose in mano.
  "Hello, tesoro" disse Brett. "Ci lasci entrare"
  "Venite. Stavo facendo un bagno."
  "Sentite, che uomo fortunato. Facendo un bagno."
  "Solo una doccia. Sedete, conte Mippipopolous. Cosa volete bere?"   "Non so se vi piacciono i fiori, signore" disse il conte "ma mi  sono preso la libertà di portarvi queste rose."
  "Qua, datele a me" Brett le prese. "Metti dell'acqua qui dentro,  Jake." Io riempii d'acqua in cucina il grosso vaso di terracotta,  Brett vi mise dentro le rose e lo collocò al centro del tavolo in  camera da pranzo.
  "Dico. Abbiamo passato una fantastica giornata."
  "Non ti ricordi per caso di avermi dato un appuntamento alle cinque  al Crillon?"
  "Davvero? Dovevo essere fradicia."
  "Eravate completamente ubriaca, mia cara" il conte disse.   "Vero? Il conte è un mattone, invece. E' assolutamente  refrattario."
  "Ora però ti sei tirata la concierge dalla tua. Va matta per te."
  "Direi. Le ho dato duecento franchi."
  "Esagerata."
  "Suoi" disse lei accennando al conte.
  "Ho pensato che avevamo il dovere di darle qualche piccola cosa per  questa notte. Era molto tardi."
  "Sentite che uomo meraviglioso" Brett disse. "Si ricorda tutto  quello che è successo."
  "Anche voi, mia cara."
  "Mica vero" disse Brett. "Chi ne ha voglia? Dico, Jake, si beve?"
  "Fai tu mentre io vado a vestirmi. Sai dov'è."
  "Mi pare."
  Mentre mi vestivo sentii Brett tirar fuori dei bicchieri e un  sifone, poi la sentii che parlava col conte. Mi vestii lentamente,  seduto sul letto. Mi sentivo stanco e molto giù. Brett entrò nella  stanza con un bicchiere in mano e si sedette sul letto.   "Che c'è tesoro? Mal di testa?"   Mi baciò con distacco sulla fronte.
  "Oh, Brett, ti amo tanto."
  "Tesoro" disse lei "vuoi che mandi via lui?"
  "No. E' tanto per bene."
  "Lo mando via."
  "No."
  "Sì, lo mando via."
  "Non puoi mandarlo via così."
  "Non posso? Tu stai qui. E' matto per me, ti dico."
  Era uscita dalla stanza. Io rimasi disteso a faccia in giù sul  letto. Stavo passando un brutto momento. Sentii che parlavano ma non  ascoltai. Brett rientrò e si sedette sul letto.
  "Povera stella." Mi accarezzò la testa.
  "Cosa gli hai detto?" Stavo disteso guardando da un'altra parte.
Non volevo vedere lei.
  "L'ho mandato a comprare champagne. Gli piace andare a comprare  champagne."
  E dopo un poco: "Ti senti meglio, tesoro? Va meglio la testa?".
  "Va meglio."
  "Rimani pure tranquillo. E' andato all'altro capo della città."
  "Non potremmo vivere assieme, noi, Brett? Non potremmo almeno  vivere assieme?"
  "Penso che no. Non potrei fare a meno di te tromper, con tutti. Tu  non potresti sopportare."
  "Sopporto ora."
  "Sarebbe diverso. E' colpa mia, Jake. E' il modo come sono fatta."   "Non potremmo andarcene assieme in campagna, per un poco?"   "Non servirebbe a niente. Ci verrò se ti fa piacere. Ma non potrei  vivere tranquilla in campagna. Non potrei, col mio unico vero amore."
  "Lo so."
  "Non è una lurida faccenda? E oltretutto non c'è senso a dirti che  ti amo."
  "Sai che io ti amo."
  "Non parliamone. Parlarne è solo un guaio. Io parto. Vado via,  lontano da te, e poi tornerà Mike."
  "Perché vai via?"
  "Meglio per te. E per me."
  "Quando vai?"
  "Prima possibile."
  "Dove?"
  "San Sebastiano."
  "Non potremmo andare assieme?"
  "No. Sarebbe una sciagurata idea dopo che abbiamo fatto questi  discorsi."
  "Non abbiamo concluso."
  "Oh, tu sai bene quanto me. Non ostinarti, tesoro."
  "Oh, sicuro" dissi. "So che hai ragione. Solo sono giù e quando  sono giù parlo come uno scemo."
  Mi alzai a sedere, mi chinai avanti, trovai le scarpe sotto il  letto e le infilai. Mi alzai in piedi.
  "Non fare quella faccia, tesoro."
  "Che faccia devo fare?"
  "Non far lo scemo. Io parto domani."
  "Domani?"
  "Sì. Non ho detto così? Domani."
  "Beviamo, allora. Il conte ora tornerà."
  "Sì, dovrebbe essere già qui. Sai che è splendido in fatto di  comprar champagne. La spesa non gli fa impressione."   Passammo in camera da pranzo. Io presi la bottiglia del brandy e  versai un bicchiere a Brett ed uno a me. Il campanello suonò. Andai  ad aprire ed era il conte. Dietro di lui era lo chauffeur con un  paniere di bottiglie di champagne.
  "Dove devo far mettere, signore?" chiese il conte.
  "In cucina" disse Brett.
  "Metti là, Enrico" il conte indicò. "Poi vai giù a prendere il  ghiaccio."
  Guardò il paniere in cucina. "Penso che troverete buono questo  vino" disse. "So che oggigiorno negli Stati non si hanno molte  occasioni di apprezzare del buon vino, ma io ho preso questo da un  mio amico che è nel ramo."
  "Oh, voi avete sempre qualcuno nel ramo!" disse Brett.
  "Questo tale è proprietario dei vigneti. Ha duemila iugeri."
  "Come si chiama?" chiese Brett. "Veuve-Cliquot?"
  "No" disse il conte. "Mumms. E' un barone."
  "Magnifico" disse Brett. "Abbiamo tutti dei titoli. Perché non hai  un titolo anche tu, Jake?"
  "Vi assicuro, signore" il conte mi posò la mano sul braccio "che è  una cosa che non serve a nulla. Il più delle volte vi costa del  denaro."
  "Oh, non so. Certe volte è utile forte" Brett disse.
  "Io non mi sono mai accorto che mi sia servito a nulla."   "Perché non ne avete usato bene. Io col mio ho ottenuto un sacco di  credito."
  "Sedete, conte" dissi io. "Datemi il vostro bastone."   Alla luce della lampada a gas il conte guardava Brett dietro la  tavola. Brett fumava una sigaretta e gettava la cenere sul tappeto.  Vide che me n'ero accorto. "Dico, Jake" disse "non voglio rovinare i  tuoi tappeti. Puoi darmi un portacenere?"
  Trovai dei portacenere e li disposi in giro. Lo chauffeur tornò su  con un secchio pieno di ghiaccio secco. "Mettici dentro due  bottiglie, Enrico" il conte disse.
  "Altro, signore?"
  "No. Aspetta giù in macchina." Si voltò verso di noi: "Vogliamo  andare a mangiare al Bois?".
  "Se fa piacere a voi" disse Brett. "Io per me non mangio niente."   "A me fa sempre piacere mangiar bene" disse il conte.
  "Devo portar dentro il vino, signore?" lo chauffeur chiese.   "Sì, portalo dentro, Enrico" il conte rispose. Tirò fuori un grosso  portasigari di cinghiale e me lo presentò: "Volete fumare un vero  sigaro americano?".
  "Grazie" dissi. "Finisco la sigaretta."
  Il conte tagliò la punta del sigaro con un temperino d'oro appeso  alla catena dell'orologio.
  "Mi piacciono i sigari che tirano davvero" disse. "La metà dei  sigari che si fumano non tirano."
  Accese il sigaro e aspirò, guardando Brett dietro il tavolo.   "E quando avrete divorziato, Lady Ashley, non avrete più un  titolo."
  "No. Che peccato."
  "No" disse il conte. "Voi non avete bisogno di un titolo. Voi avete  la classe in voi."
  "Grazie. Molto cortese da parte vostra."
  "Non vi sto prendendo in giro." Il conte soffiò una nuvola di fumo.  "Avete più classe di chiunque io abbia mai conosciuto. L'avete,  questo è tutto."
  "Molto per bene da parte vostra" disse Brett. "Mamma sarebbe  contenta. Potreste scrivermelo giù, e io lo manderei a mamma in una  lettera."
  "Posso dirglielo, anche" il conte disse. "Non vi sto prendendo in  giro. Mai io prendo in giro la gente. Prendete in giro la gente e vi  farete dei nemici. Questo dico sempre io."
  "Avete ragione" Brett disse. "Avete terribilmente ragione. Io  prendo sempre in giro la gente e non ho un amico al mondo. Eccetto
Jake qui."
  "Voi non lo prendete in giro."
  "Difatti."
  "E ora?" il conte chiese. "Lo prendete in giro?"   Brett mi guardò e strinse gli occhi.
  "No" disse. "Non lo prendo in giro."
  "Vedete" il conte disse. "Voi non lo prendete in giro."   "Questo è un discorso malinconico forte" disse Brett. "Che ne  direste di un po' di champagne?"
  Il conte si chinò a voltare le bottiglie nel secchio lucente. "Non  è ancora freddo. Voi bevete sempre, mia cara. Perché non parlate  soltanto?"
  "Ho parlato anche troppo. Ho parlato tanto con Jake."   "A me piacerebbe di sentirvi davvero parlare una volta. Quando  parlate con me non finite mai le vostre frasi."
  "Le lascio a voi da finire. Le lascio sempre da finire agli altri  come vogliono."
  "E' un interessante sistema" di nuovo il conte si chinò a voltare
le bottiglie nel secchio. "Però mi piacerebbe sentirvi parlare sul  serio una volta."
  "Sentite che tipo" disse Brett.
  "Ecco" il conte tirò fuori una bottiglia. "Credo che ora sia  freddo."
  Io gli porsi un tovagliolo ed egli asciugò la bottiglia e la tenne  in alto. "Mi piace bere lo champagne in ghiaccio. Il vino è meglio ma  sarebbe stato più difficile da ghiacciare." Teneva in alto la  bottiglia guardandola. Io tirai fuori i bicchieri.
  "Dico, potreste aprirla" Brett suggerì.   "Sì, mia cara. Ora la apro."
  Era champagne di prima qualità.
  "Dico, questo è champagne" Brett disse alzando il bicchiere.
"Dovremmo mangiarci qualcosa assieme."
  "E' troppo buono per mangiarci altro assieme, mia cara. Non bisogna  mescolare emozioni a un vino come questo. Si perde il sapore."   Il bicchiere di Brett era vuoto.
  "Voi dovreste scrivere un libro sui vini, conte" io dissi.   "Mr' Barnes" rispose il conte "tutto quello che io cerco nei vini è  di godermeli."
  "Godiamoci ancora un po' di questo." Brett mise avanti il  bicchiere. Il conte versò con molta cura.
  "Ecco, mia cara. Ora godetevi lentamente questo, e sarete ubriaca."
  "Ubriaca? Chi ubriaca?"
  "Mia cara, voi siete affascinante quando siete ubriaca."
  "Sentite l'uomo."
  "Mr' Barnes" il conte riempì il mio bicchiere "è l'unica donna che  io conosco che sia affascinante tanto ubriaca quanto sobria."
  "Non avete viaggiato molto, vero?"
  "Invece sì, mia cara. Ho viaggiato molto. Oso dire che ho viaggiato  moltissimo."
  "Bevete il vostro vino" disse Brett. "Qui tutti abbiamo viaggiato.
Oso dire che Jake ha visto tanti posti quanti ne avete visti voi."   "Mia cara, io sono certo che Mr' Barnes ha visto un sacco di posti.  Non pensate che io non lo penso, signore. Ma anch'io ho visto un  sacco di posti."
  "Si capisce, mio caro" disse Brett. "Facevo per stuzzicarvi."   "Sono stato in sette guerre e quattro rivoluzioni" il conte disse.
  "Da militare?", chiese Brett.
  "Qualche volta, mia cara. E ho avuto ferite di freccia. Avete mai  visto ferite di freccia?"
  "Vediamole."
  Il conte si alzò in piedi e si tolse la giacca, sbottonò la camicia  e sollevò la maglia sul torace, e rimase in piedi sotto la luce col  torace scuro e i grossi muscoli dello stomaco tesi.
  "Vedete?"
  Sotto la linea delle costole c'erano due segni bianchi in rilievo.  "Guardate dietro dove vengono fuori." Dietro sulla schiena c'erano le  stesse due cicatrici tonde dello spessore di un dito.
  "Dico. Queste sono qualcosa."
  "Da parte a parte."
  Il conte si rimise a posto la camicia.
  Io chiesi:
  "Dove le avete avute?"
  "In Abissinia. Avevo allora ventun anni."
  "Cosa facevate?" chiese Brett. "Eravate nell'esercito?"
  "Ero in viaggio per affari, mia cara."
  "Ti avevo detto che era uno dei nostri. Vero?" Brett si rivolse a  me, poi di nuovo al conte: "Vi amo, conte. Siete una stella".
  "Mi fate molto felice, mia cara. Ma non è vero."
  "Sentite che scemo."
  "Vedete, Mr' Barnes, è perché ho vissuto molto che ora posso godere  di ogni cosa. Non trovate anche voi?"
  "Sì, certo."
  "Bisogna arrivare a conoscere i valori delle cose" il conte disse.  "Questo è il segreto e io lo so. Conoscere i valori."   Chiese Brett: "Non succede mai niente ai vostri valori?".
  "No. Ormai non più."
  "Mai innamorato?"
  "Sempre" disse il conte. "Sempre innamorato."
  "Come c'entra questo coi vostri valori?"
  "Questo anche ha un buon posto tra i miei valori."
  "Voi non avete valori. Voi siete un indifferente, ecco tutto."
  "No mia cara, avete torto. Io non sono affatto un indifferente."   Bevemmo tre bottiglie di champagne e il conte lasciò il paniere con  le altre nella mia cucina. Cenammo in un ristorante al Bois. Il cibo  aveva un eccellente posto tra i valori del conte. Così il vino.  Durante la cena il conte era in forma, e così pure Brett. Era una  piacevole compagnia.
  Dopo cena il conte chiese: "Dove volete andare?". Eravamo gli unici  rimasti nel ristorante. I due camerieri stavano in piedi accanto alla  porta. Volevano andare a casa.
  "Potremmo andare su in collina" Brett disse. "Abbiamo passato una  bella serata, no?"
  Il conte aveva l'aria soddisfatta. Era felice.
  "Siete gente simpatica" disse. Stava fumando un altro sigaro.
"Perché non vi sposate, voi due?"
  "Vogliamo condurre ognuno la propria vita" io dissi.
  "Sicuro, abbiamo già scelto le nostre carriere" disse Brett.
"Avanti. Andiamo via di qui."
  "Prendiamo un altro brandy."
  "Su in collina."
  "No, prendiamolo qui. C'è più calma."
  "Voi e la vostra calma" disse Brett. "Cosa ci trovano gli uomini  nella calma?"
  "Ci piace" disse il conte. "Come a voi piace il chiasso, mia cara."   "Bene" Brett disse. "Prendiamone uno ancora."   "Sommelier!" chiamò il conte.
  "Signore?"
  "Qual è il più vecchio brandy che avete?"
  "Ottocentoundici, signore."
  "Portatecene una bottiglia."
  "Dico. Non fate l'esagerato. Richiamalo indietro, Jake."   "Sentite, mia cara. Io spendo più del mio denaro in vecchio brandy  che in altre antichità."
  "Avete molte antichità?"
  "Una casa piena."
  Finalmente andammo su a Montmartre. Da Zelli c'erano folla, fumo e  chiasso. Come entravate la musica vi dava un colpo violento. Brett ed  io ballammo. La folla era così fitta che appena riuscivamo a  muoverci. Il batterista negro fece un segno di saluto a Brett.
Pigiati nella ressa ballavamo fermi in un punto davanti a lui.
  "Come va?" disse il negro.
  "Benone."
  "Così va bene."
  Era tutto denti e labbra.
  "E' un mio grande amico" Brett disse. "E' un batterista bravo  forte."
  La musica finì e noi ci avviammo verso il tavolo dov'era seduto il  conte, ma la musica attaccò di nuovo e noi di nuovo ballammo. Guardai  il conte. Era seduto al tavolo e fumava un sigaro. La musica si fermò  di nuovo.
  "Cerchiamo di attraversare."
  Brett fece per andare verso il tavolo. La musica di nuovo attaccò e  di nuovo dovemmo ballare, pressati tra la folla.
  "Sei un ballerino infame, Jake. Michael è il miglior ballerino che  io conosca."   "E' splendido."
  "Ha stile."
  "Mi piace" dissi. "Trovo che è grande."
  "E io sto per sposarlo" Brett disse. "Buffo. Non ci penso da una  settimana."
  "Non gli scrivi?"
  "Io no. Mai scritto lettere."
  "Scommetto che lui ti scrive."
  "Parecchio. Lettere buone forte, anche."
  "Quando vi sposate?"
  "Che ne so? Appena avremo il divorzio. Michael sta cercando di  persuadere sua madre a pagar lei le spese."
  "Potrei esservi utile?"
  "Non far lo scemo. La gente di Michael è carica di denaro."   La musica si fermò e noi riuscimmo ad arrivare fino al tavolo. Il  conte si alzò in piedi.
  "Bravi" disse. "Bravi, molto bravi."   "Voi non ballate, conte?" chiesi.   "No. Sono troppo vecchio."   "Oh, venite" Brett disse.
  "Mia cara, lo farei se mi facesse piacere. Invece mi fa piacere  vedere voi ballare."
  "Splendido" disse Brett. "Ballerò qualche volta ancora per voi. Sul  serio. Come sta il vostro piccolo amico Zizi?"
  "Vi dirò. Io mantengo quel ragazzo, ma non mi piace averlo  intorno."
  "E' parecchio pesante."
  "Sapete che io penso che quel ragazzo ha un avvenire. Ma  personalmente non mi piace averlo intorno."
  "Jake è dello stesso parere."
  "Mi dà ai nervi."
  "Bene" il conte disse "circa il suo avvenire non si può mai dire.  Ad ogni modo, suo padre era un grande amico di mio padre."   "Vieni, balliamo" disse Brett.
  Ballammo. La folla ci stringeva.
  "Oh, tesoro" disse Brett. "Sono tanto disgraziata."
  Io ebbi la sensazione che questo fosse già tutto accaduto prima.
  "Eri felice un momento fa" dissi.
  Il batterista cantò rauco: "You can't two time...".
  "Tutto finito."
  "Perché?"
  "Non so. Solo mi sento in un modo terribile."
  "..." il batterista cantò. Poi prese in mano le bacchette.
  "Vuoi che andiamo via?" Avevo la sensazione d'incubo che tutto si  ripetesse, qualcosa che avevo già passato e che ora di nuovo dovevo  passare.
  "..." il batterista cantò piano.
  "Andiamo via" disse Brett. "Non ti dispiace?"   "..." cantò rauco il batterista e sorrise a Brett.   "Bene" dissi io. Uscimmo dalla folla. Brett si diresse al  guardaroba.
  "Brett vuole andar via" io dissi al conte. Lui approvò. "Vuole  andare? E' giusto. Prendete pure la macchina. Io resto qui ancora un  po', Mr' Barnes."
  Ci stringemmo la mano.
  "E' stata una magnifica serata" dissi. "Vorrei che permetteste a me  di pensare a questo." Tolsi una banconota dal portafoglio.
  "Mr' Barnes, non fatemi ridere" disse il conte.
  Brett tornò col mantello indosso. Dette un bacio al conte e gli  mise una mano sulla spalla per impedirgli di alzarsi. Quando fummo  sulla porta io mi voltai a guardare e c'erano tre ragazze al tavolo  del conte. Salimmo nella grossa automobile. Brett dette allo  chauffeur l'indirizzo dell'albergo.
  "No, non venir su" mi disse all'albergo. Aveva bussato e la porta  fu aperta.
  "Davvero?"
  "No, ti prego."
  "Buonanotte, Brett" dissi. "Mi dispiace che tu sia giù."
  "Buonanotte, Jake, tesoro. Non ci vediamo più prima che io parta."  Fermi sulla porta ci baciammo. Lei mi respinse. Poi di nuovo ci  baciammo.
  "Oh, no!" disse Brett.
  Bruscamente si voltò ed entrò nell'albergo. Lo chauffeur mi portò  fino a casa. Io gli detti venti franchi ed egli si toccò il berretto  e disse: "Buonanotte, signore". Mise in moto e si allontanò. Io  suonai il campanello. La porta si aprì ed io salii di sopra e andai a  letto.

Libro secondo

VIII
  Non vidi Brett fino al suo ritorno da San Sebastiano. Mi arrivò una  sua cartolina con una veduta della Concha. C'era scritto: "Tesoro.
Qui calma e aria buona. Saluti a tutti gli amici. Brett".   Non vidi più nemmeno Cohn. Seppi che Frances era partita per  l'Inghilterra ed ebbi da Robert un biglietto in cui mi diceva che se  ne andava per un paio di settimane in campagna, non sapeva dove, ma  che ci teneva a venire con me a pescare le trote in Spagna, come  nell'inverno avevamo progettato. Avrei potuto rintracciarlo  dappertutto, mi scriveva, attraverso i suoi banchieri.   Brett se n'era andata, io non dovevo affliggermi per i guai di  Cohn, ero parecchio contento di non dover giocare a tennis, c'era  molto lavoro da fare, andavo spesso alle corse, pranzavo con amici e  impiegavo del tempo extra in ufficio a mandar avanti del lavoro, in  modo da poter affidare l'ufficio al mio segretario quando alla fine  di giugno con Bill Gorton sarei partito per la Spagna. Bill Gorton  arrivò, si fermò un paio di giorni a casa mia e ripartì per Vienna.  Era di ottimo umore e disse che gli Stati erano meravigliosi. New  York era meravigliosa. C'erano stati una grandiosa stagione teatrale  e un vero raccolto di ottimi giovani pesi massimi. Ognuno di questi  era una speranza e poteva crescere, metter peso e fregare Dempsey.  Bill era felice. Aveva fatto un sacco di soldi col suo ultimo libro  ed altri ancora ne avrebbe fatti. Passammo delle belle giornate per  il tempo che lui rimase a Parigi, poi ripartì per Vienna. Doveva  tornare dopo tre settimane e assieme ce ne saremmo andati in Spagna a  pescare e a vedere la fiesta di Pamplona. Mi scrisse che Vienna era  meravigliosa. Poi una cartolina da Budapest: "Jake, Budapest è  meravigliosa". Infine ricevetti un telegramma: "Torno lunedì".   Lunedì sera arrivò a casa mia. Sentii il suo taxi fermarsi in  strada, mi affacciai alla finestra e lo chiamai. Egli mi salutò  agitando la mano, entrò e cominciò a salire portando le valige. Io  gli andai incontro sulle scale e presi una delle valige.
  "Così" dissi "ho sentito che hai fatto un viaggio meraviglioso."   "Meraviglioso, Jake" disse lui. "Budapest è decisamente  meravigliosa."
  "E Vienna?"
  "Non gran che, Jake... Non gran che. Sembrava meglio di quello che  poi era."
  "E cioè?" io chiesi mentre prendevo i bicchieri e un sifone.
  "Sbronzo, Jake. Ero sbronzo."
  "Cosa strana" dissi io. "Ora beviamo questo."
  Bill si strofinò la fronte. "Cosa notevole" disse. "Non so come
successe. Improvvisamente, successe."   "Ti sei fermato molto a Vienna?"
  "Quattro giorni, Jake. Solo quattro giorni."
  "Dove sei andato?"
  "Non ricordo. Ti ho scritto una cartolina. Ricordo questo  perfettamente."
  "Non hai fatto altro?"
  "Non saprei. E' possibile."
  "Avanti. Raccontami."
  "Non ricordo. Ti dirò quello che mi ricordo."
  "Avanti. Bevi questo e ricordati."
  "Forse ricordo un poco" Bill disse. "Ricordo qualcosa di un  incontro di pugilato. Un colossale incontro di pugilato a Vienna.
C'era un negro. Ricordo il negro perfettamente."
  "Avanti."
  "Meraviglioso negro. Pareva Tiger Flowers, solo quattro volte più  grosso. Improvvisamente tutti cominciarono a gettare oggetti. Non  contro me. Contro il negro. Tutto perché il negro aveva buttato a  terra il campione del posto. Il negro alzò il guanto. Voleva fare un  discorso. Eccezionale nobilissimo negro. Cominciò a fare il discorso.  Allora il tipo bianco del posto lo colpì. Allora lui liquidò il tipo  bianco. Allora tutti cominciarono a gettare le sedie. Il negro tornò  a casa in macchina con noi. Non riuscì ad avere i suoi vestiti.
Portava la mia giacca. Ricordo tutto adesso. Grande serata sportiva."
  "E poi?"
  "Prestai dei vestiti al negro e andammo in giro per cercare di  riavere il suo denaro. Dissero che il negro doveva loro del denaro  per risarcire i danni al locale. Chissà chi traduceva? Ero io?"
  "Probabilmente non eri tu."
  "Hai ragione. Non ero io. Era un altro. Mi pare che fosse uno detto  l'uomo di Harvard. Lo ricordo adesso. Uno che studia musica."
  "E come finì?"
  "Non gran che, Jake. Ingiustizia dovunque. L'impresario gridò che  il negro aveva promesso di lasciar stare il tipo del posto. Gridò che  il negro aveva violato il contratto. Non si può mettere k'o' un tale  di Vienna a Vienna. "Mio Dio Mr' Gorton" disse il negro. "Per  quaranta minuti non ho fatto altro che cercare di lasciarlo stare.
Quel tipo bianco si deve esser fatto male da sé tirandomi un pugno.
Io non gli avevo tirato nessun pugno.""
  "E riusciste ad avere il denaro?"
  "Niente denaro, Jake. Tutto quello che potemmo avere furono i  vestiti del negro. Qualcuno si era preso anche l'orologio. Splendido  negro. Grosso sbaglio essere andato a Vienna. Non gran che, Vienna,
Jake. Non gran che."
  "Cosa fece il negro?"
  "Tornato a Colonia. Vive là. Sposato. Ha famiglia. Mi scriverà una  lettera e mi manderà il denaro che gli ho prestato. Spero di avergli  dato l'indirizzo giusto."
  "Probabilmente glielo hai dato giusto."
  "Bene, ad ogni modo andiamo a mangiare" Bill disse. "A meno che tu
voglia sentire altre storie di viaggio."
  "Avanti."
  "No, andiamo a mangiare."
  Scendemmo giù e uscimmo sul boulevard Saint-Michel nella calda sera  di giugno.
  "Dove andiamo?"
  "Andiamo a mangiare all'isola?"
  "Bene."
  Scendemmo a piedi per il boulevard. All'incrocio della rue
Denfert-Rochereau col boulevard c'è un monumento a due uomini vestiti  con ampie tuniche.
  "So chi sono" Bill adocchiò il monumento. "Signori che hanno  inventato la farmacia. So tutto su Parigi. Nessuno mi batte."   Andammo avanti.
  "Ecco un imbalsamatore" Bill disse. "Vuoi comprare qualcosa? Un bel  cane impagliato?"
  "Vieni via" dissi. "Hai un occhio di lince."
  "Bellissimi cani impagliati. Certo alzerebbero il tono del tuo  appartamento."
  "Vieni via."
  "Solo un cane impagliato. Non posso prenderli io e poi  abbandonarli. Ma ascolta, Jake. Solo un cane impagliato."
  "Vieni via."
  "Tutto cambierà per te nel mondo se tu compri un bel cane  impagliato. Semplice scambio di valori. Tu dai loro denaro. Loro ti  danno un cane impagliato."
  "Ne prendiamo uno al ritorno."
  "Benissimo. Fa' come vuoi. La via dell'inferno è lastricata di cani
impagliati e non comperati. Non è colpa mia."   Andammo avanti.
  "Cosa ti ha preso improvvisamente per i cani?"
  "Sempre stato così per i cani. Sempre stato un grande amatore degli  animali impagliati."
  Ci fermammo ad un bar a bere.
  "Certo mi piace di bere" Bill disse. "Dovresti provare, Jake."
  "Tu mi freghi facile."
  "Solo non devi lasciarti abbattere. Mai lasciarsi abbattere.
Segreto del mio successo: mai abbattuto. Mai abbattuto in pubblico."
  "Dove sei stato a bere?"
  "Mi sono fermato al Crillon. George mi ha fatto un paio di Jack  Rose. George è un grand'uomo. Conosci il segreto del suo successo?
Mai abbattuto."
  "Tu sarai abbattuto con tre pernod ancora."
  "Non in pubblico. Se comincio a sentirmi abbattuto me la batto.
Quanto a questo sono come un gatto."
  "Quando hai visto Harvey Stone?"
  "Al Crillon. Harvey era solo un poco abbattuto. Non mangia da tre  giorni. Non mangia più. Non fa che battersela come un gatto. Molto  triste."
  "E' fantastico."
  "Splendido. Vorrei che non se la battesse come un gatto però. Mi dà  ai nervi."
  "Che facciamo stanotte?"
  "Non ha importanza. L'importante è solo non lasciarsi abbattere.  Supponi che abbiano delle uova sode qui? Se qui avessero delle uova  sode non avremmo bisogno di far tutta la strada fino all'isola per  mangiare."
  "Nix" dissi io. "Noi faremo un pranzo vero e proprio."
  "Era solo una proposta" Bill disse. "Dobbiamo riattaccare a  camminare?"
  "Vieni."
  Ricominciammo a camminare giù per il boulevard. Una carrozza ci  sorpassò e Bill la osservò.
  "Vedi quel cavallo? Te lo farò avere impagliato per Natale. Farò  avere a tutti i miei amici animali impagliati. Io sono uno scrittore  di cose di natura."
  Un taxi ci sorpassò, dall'interno qualcuno fece un segno di saluto,  poi gridò all'autista di fermare. Il taxi accostò al marciapiede.
Dentro c'era Brett.
  "Bellissima donna" Bill disse. "Vieni a rapire noi?"
  "Hello!" disse Brett. "Hello!"
  "Ti presento Bill Gorton. Lady Ashley."
  Brett sorrise a Bill. "Dico, arrivo adesso. Neanche fatto un bagno  ancora. Michael arriva stanotte."
  "Bene, vieni a mangiare con noi. Poi andremo tutti alla stazione."
  "Devo ripulirmi."
  "Oh, sciocchezze. Vieni."
  "Devo fare un bagno. Michael non arriva prima delle nove."
  "Vieni a bere qualcosa, allora, prima di andare a fare il bagno."
  "Questo si può fare. Ora non parli male."   Salimmo nel taxi. Il conducente si voltò verso di noi.
  "Fermate al primo bistro" io dissi.
  "Potremmo anche andare alla Closerie" disse Brett. "Non posso bere  questi liquori infami."   "Closerie de Lilas."   Brett si rivolse a Bill.
  "E' molto che siete in questa pestilenziale città?"
  "Arrivo oggi da Budapest."
  "Com'era Budapest?"
  "Meravigliosa. Budapest è meravigliosa."
  "Chiedigli di Vienna."
  "Vienna" disse Bill "è una strana città."
  "Molto come Parigi." Brett gli sorrise socchiudendo gli occhi.
  "Esatto" Bill disse. "Molto come Parigi in questo momento."   "Avete un buon inizio" disse Brett.
  Seduti davanti ai Lilas, Brett ordinò un whisky and soda, io pure,  e Bill prese un altro pernod.
  "Come stai, Jake?"
  "Benone" dissi. "Ho passato bene questo tempo."
  Brett mi guardò. "Ho fatto una sciocchezza ad andar via" disse. "E'  una sciocchezza andar via da Parigi."
  "Hai passato delle buone giornate?"
  "Oh, sicuro. Interessanti. Non gran che divertenti."
  "Visto nessuno?"
  "No, nessuno quasi. Non sono mai andata fuori."
  "Non hai fatto bagni?"
  "No. Non ho fatto niente."
  "Sul tipo di Vienna" Bill disse.
  Brett gli sorrise socchiudendo gli occhi.
  "Così dunque era Vienna."   "Era come ogni cosa, Vienna."   Brett gli sorrise ancora.
  "Hai un simpatico amico, Jake."
  "E' fantastico" dissi io. "E' un imbalsamatore."
  "Questo fu in un altro paese" Bill disse. "E tutti gli animali  erano morti."
  "Uno ancora" Brett disse "e devo scappare. Manda il cameriere a  prendere un taxi."
  "Ce n'è un posteggio. Proprio di fronte."
  "Bene."
  Finimmo di bere e mettemmo Brett nel taxi.
  "Ricordati di essere al Select verso le dieci. Fa' venire anche  lui. Ci sarà Michael."
  "Ci saremo" disse Bill. Il taxi partì e Brett ci salutò con la  mano.
  "Che ragazza" Bill disse. "Che ragazza in gamba forte. Chi è
Michael?"
  "L'uomo che sta per sposarla."
  "Bene, bene" Bill disse. "E' sempre a questo punto che io incontro  la gente. Cosa manderò loro? Credi che apprezzerebbero una coppia di  cavalli da corsa impagliati?"
  "E' meglio che andiamo a mangiare."
  "E' davvero Lady Qualchecosa?" Bill mi chiese nel taxi verso l'Ile  Saint-Louis.
  "Oh, già. Per l'albero genealogico e per il resto."
  "Bene, bene."
  Pranzammo nel ristorante di Madame Lecomte sull'altra riva  dell'isola. Era affollato di americani e dovemmo aspettare in piedi  un posto. Qualcuno lo aveva messo nella lista dell'American Women's  Club come un originale ristorante dei quais di Parigi ancora non  frequentato da americani, così noi dovemmo aspettare una tavola  quarantacinque minuti. Bill aveva mangiato qui nel 1918, subito dopo  l'armistizio, e Madame Lecomte fece gran festa nel rivederlo.   "Però non ci fa avere un tavolo" Bill disse. "Gran donna, ad ogni  modo."
  Facemmo un buon pranzo: pollo arrosto, fave fresche, purè di  patate, insalata, formaggio e torta di mele.
  "Avete tirato qui tutto il mondo" Bill disse a Madame Lecomte. Lei  alzò la mano: "Oh, mio Dio!".
  "Diventerete ricca."
  "Lo spero."
  Dopo il caffè e un fine arrivò il conto, scritto come al solito col  gesso su una lavagna, e questo era uno dei lati più "originali".
Pagammo, stringemmo mani ed uscimmo.
  "Voi non venite più qui, Monsieur Barnes" disse Madame Lecomte.
  "Troppi compatrioti."
  "Venite a mezzogiorno. Non c'è folla."
  "Bene. Presto verrò."
  Camminammo sotto gli alberi lungo il fiume, dalla parte del quai  d'Orléans. Al di là del fiume c'erano vecchie case in demolizione.   "Fanno passare una strada di là."   "Sarebbe una buona idea" disse Bill.
  Camminando girammo intorno all'isola. Il fiume era buio, e un  bateau-mouche passò, saliva veloce e calmo e uscì di vista sotto il  ponte. In fondo al fiume era Notre-Dame, tozza contro il cielo  notturno. Dal quai de Béthune per il ponte di legno passammo sulla  riva sinistra della Senna, e sul ponte ci fermammo a guardare il  ponte verso Notre-Dame. Dal ponte l'isola appariva scura, le case  erano alte contro il cielo, e gli alberi erano ombre.   "E' grandioso" Bill disse. "Cristo, avrei voglia di tornare  indietro."
  Ci appoggiammo al parapetto di legno e guardammo le luci dei grandi  ponti sul fiume. Sotto di noi l'acqua era nera e silenziosa, non  faceva rumore contro i pali del ponte. Un uomo e una ragazza ci  passarono vicini. Camminavano abbracciati.
  Traversammo il ponte e camminammo su per rue du Cardinal Lemoine.  La strada era ripida. Salimmo fino a place Contrescarpe. La luce dei  lampioni compariva tra le foglie degli alberi nella piazza e sotto  gli alberi era fermo un autobus "S" pronto a partire. Musica veniva  fuori dalla porta del Nègre Joyeux. Attraverso la vetrina del Café  aux Amateurs vidi il lungo banco di zinco. Fuori davanti al caffè,  operai sedevano a bere. Nella cucina degli Amateurs una ragazza  friggeva patate a fette. C'era una pentola di stufato. La ragazza ne  mise un poco in un piatto a un vecchio che teneva in mano una  bottiglia di vino rosso.
  "Beviamo qualcosa?"
  "No" disse Bill. "Non ne ho voglia."
  Da place Contrescarpe svoltammo verso destra, camminammo per  silenziose strade, strette tra le alte facciate dei vecchi palazzi.   Alcune case sporgevano fuori sulla strada. Altre erano tagliate in  dentro. Arrivammo alla rue Pot-de-Fer e la seguimmo fino al rigido  nord-sud della rue Saint Jacques e camminammo allora verso sud, oltre  Val-de-Grâces situata dietro il cortile e il cancello di ferro, fino  al boulevard du Port Royal.
  "Cosa facciamo?" io chiesi. "Andiamo al caffè a vedere Brett e  Mike?"
  "Perché no?"
  Camminammo per Port Royal finché diventò Montparnasse, poi passammo  i Lilas, Lavigne, e tutti gli altri piccoli caffè, Damoy, traversammo  la strada, passammo i tavoli e le luci del Rotonde e arrivammo al  Select.
  Mike ci venne incontro tra i tavoli. Era abbronzato e bene in  salute.
  "Hel-lo, Jake" disse. "Hel-lo! Hel-lo! Come stai, vecchio amico?"
  "Ti trovo in forma, Mike."
  "Sicuro. Sono terribilmente in forma. Non ho fatto nient'altro che  camminare. Camminare tutto il giorno. A spasso. Bere una volta sola  al giorno con mia madre all'ora del tè."
  Bill si era avvicinato al bar e parlava con Brett. Brett era seduta  su un alto sgabello, con le gambe incrociate. Era senza calze.
  "Che piacere vederti, Jake" Michael disse. "Sono un poco sbronzo.
Ti sorprende, vero? Hai visto il mio naso?"   C'era una macchia di sangue secco sul suo naso.
  "E' stata la valigia di una vecchia signora" disse Mike. "Ho fatto  per aiutarla e mi è caduta addosso."
  Brett dal bar gli fece segno col bocchino e socchiuse gli occhi  sorridendo.
  "Una vecchia signora" disse Mike. "La valigia mi è caduta addosso."   "Andiamo da Brett" disse. "Dico, è un notevole tipo. Sei una  ragazza davvero notevole, Brett. Dove ha preso quel cappello?"
  "Un tale me lo ha pagato. Non ti piace?"
  "E' un cappello spaventoso. Comprati un buon cappello."   "Oh, abbiamo tanti soldi adesso" disse Brett. "Dico, non conosci  ancora Bill? Jake, sei un anfitrione pessimo."
  Si rivolse a Mike: "Ti presento Bill Gorton. Questo ubriacone è  Mike Campbell. Mr' Campbell è un bancarottiere ricercato dai  tribunali".
  "Vero?" disse Mike. "Sai che ho incontrato il mio ex socio ieri a
Londra. Il tipo che mi ha messo nel pasticcio."
  "Cosa dice?"
  "Mi ha pagato da bere. Ho pensato che potevo anche accettare. Dico,
Brett, sei un adorabile tipo. Non trovate che è bellissima?"
  "Bellissima? Con questo naso?"
  "E' un naso adorabile. Puntalo verso di me. Non è un tipo  adorabile?"
  "Non avremmo potuto lasciarlo in Scozia, l'uomo?" disse Brett.
  "Dico, Brett, andiamo a nanna presto."
  "Non essere sconveniente, Mike. Ricordati che ci sono delle signore  a questo bar."
  "Non è un tipo adorabile? Non trovi, Jake?"
  "C'è un incontro stanotte" disse Bill. "Vogliamo andarci?"
  "Incontro" Mike disse. "Incontro di che?"
  "Boxe. Ledoux e un altro."
  "Ledoux è molto bravo" Mike disse. "Vorrei andarci, sicuro" faceva  uno sforzo per tenersi assieme "ma non posso. Ho un appuntamento con
questa cosa qui. Dico, Brett, comprati un cappello nuovo."   Brett tirò giù su un occhio il cappello di feltro e di sotto la  falda sorrise. "Voi due andate all'incontro. Io devo portare
direttamente a casa Mr' Campbell."
  "Non sono sbronzo" Mike disse. "Forse solo un poco. Dico, Brett,  sei un tipo adorabile."
  "Andate all'incontro" disse Brett. "Mr' Campbell diventa  impossibile. Cosa sono queste esplosioni di affetto, Michael?"   "Dico, sei un tipo adorabile."   Ci demmo la buonanotte.
  "Mi spiace, ma proprio non posso venire" Mike disse. Brett rise.   Sulla porta io mi voltai a guardare. Mike si appoggiava al bar e  parlava con Brett. Brett lo guardava in apparenza con distacco ma con  gli occhi sorrideva.
  Fuori in strada io dissi: "Vuoi che andiamo all'incontro?".   "Sicuro" disse Bill "se non preferisci camminare."
  "Mike era molto eccitato per la sua ragazza" dissi in taxi.
  "Bene" Bill disse. "Non è certo colpa sua con una fortuna simile."

IX
  L'incontro Ledoux-Kid Francis fu la notte del 20 giugno. Fu un buon  incontro. La mattina dopo ricevetti una lettera di Robert Cohn da  Hendaye. Diceva che passava delle giornate molto tranquille, faceva  bagni, giocava un poco al golf e molto al bridge. Il golfo di Hendaye  era incantevole, ma egli era impaziente di venire a pescare. Quando  lo raggiungevo? Se volevo fargli il favore di comprargli una doppia  lenza mi avrebbe rimborsato quando l'avessi raggiunto.   Quella mattina stessa scrissi a Cohn dall'ufficio che Bill ed io,  se non gli telegrafavo diversamente, partivamo il 25 da Parigi, per  incontrare lui a Bayonne e di qui proseguire in corriera attraverso  le montagne per Pamplona. La stessa sera verso le sette passai al  Select per cercare Brett e Michael. Non c'erano, così arrivai fino al  Dingo. Erano lì, seduti al bar.
  "Ciao, stella." Brett mi tese la mano.
  "Ciao, Jake" Mike disse. "Ho l'idea che ero sbronzo stanotte."
  "E quando mai no?" Brett disse. "Vergognosa faccenda."
  "Senti" disse Mike "quand'è che andate in Spagna? Se veniamo anche  noi vi dispiace?"
  "Sarebbe magnifico."
  "Non ti dispiace, davvero? Io per me sono già stato a Pamplona.  Brett ha una voglia matta di andarci. Sei sicuro che non saremmo  soltanto una seccatura fottuta?"   "Non parlare come uno scemo."
  "Sono un poco sbronzo, capisci. Non parlerei come uno scemo se non  fossi sbronzo. Sei sicuro che non ti dispiace?"
  "Oh, piantala, Mike" disse Brett. "Come può lui adesso dirti che  gli dispiace? Glielo chiederò dopo io."
  "Ma non ti dispiace, vero?"
  "Non chiedermelo più se non vuoi farmi arrabbiare sul serio. Bill  ed io partiamo il 25 mattina."   "A proposito, dov'è Bill?" chiese Brett.   "E' a cena a Chantilly con della gente."
  "E' un bel tipo."
  "Splendido tipo" Mike disse. "Sul serio."   "Tu non ti ricordi di lui" disse Brett.
  "Me ne ricordo perfettamente. Senti, Jake, noi partiamo il 25 sera.
Brett non è capace di alzarsi di mattina."
  "Evviva!"
  "Se il nostro denaro arriva e se tu sei sicuro che non ti  dispiace."
  "Benissimo, ci conto. Il denaro arriverà."
  "Dimmi che arnesi devo mandare a prendere."   "Due o tre canne con rotelle, lenze ed esche."   "Io non ho voglia di pescare" disse Brett.
  "Due lenze, allora, e Bill farà a meno di comprarne una."
  "Bene" Mike disse. "Manderò un telegramma al custode."
  "Sarà magnifico" disse Brett. "Spagna! Certo ci divertiremo."   "Il 25. Quand'è?"
  "Sabato."
  "Certo dovremo far presto."
  "Dico" disse Mike "vado dal parrucchiere."
  "Io devo fare un bagno" disse Brett. "Accompagnami all'albergo,
Jake. Fa' il bravo."
  "Abbiamo trovato un albergo tanto carino" Mike disse. "Io dico che  è un casino!"
  "Abbiamo lasciato le valige qui al Dingo quando siamo arrivati"  disse Brett "e in quest'albergo ci hanno chiesto se volevamo una  camera solo per il pomeriggio. Sono stati terribilmente contenti  quando hanno saputo che ci fermavamo anche la notte."
  "Io sono convinto che è un casino" Mike disse. "E dovrei saperlo."
  "Oh, piantala e va' a tagliarti questi capelli."
  Mike se ne andò e Brett ed io restammo seduti al bar.
  "Un altro?"
  "Magari."
  "Ne avevo bisogno" disse Brett.
  Camminavamo in su per la rue Delhambre. Disse Brett:
  "Non ti ho visto da che sono tornata."
  "Già."
  "Come stai, Jake?"
  "Bene."
  Brett mi guardò. "Dico" disse "viene anche Robert Cohn con noi?"
  "Sì. Perché?"
  "Non credi che sarà un po' grigia per lui?"
  "E perché?"
  "Con chi credevi che fossi andata a San Sebastiano?"   "Complimenti" dissi.
  Camminammo.
  "Perché hai detto complimenti?"
  "Non so. Cosa avresti preferito che dicessi?"
  Camminammo ancora e voltammo un angolo.
  "Si è comportato abbastanza bene, anche. E' un tipo malinconico."
  "Sì?"
  "Avevo pensato che gli avrebbe fatto piacere."
  "Dovresti assumerti il ruolo di benefattrice sociale."
  "Non essere indisponente."
  "Non lo faccio apposta."
  "Davvero non sapevi?"
  "No" dissi. "Sarà che non ci avevo pensato."
  "Allora, non credi che sarà troppo grigia per lui?"
  "Riguarda lui" io dissi. "Fagli sapere che vieni tu. Lui può sempre  non venire."
  "Glielo scriverò, così potrà tirarsi indietro."   Non vidi Brett fino alla notte del 24 giugno.
  "Ti ha risposto Cohn?"
  "Già. E' più che mai deciso."
  "Santo cielo!"
  "Ha meravigliato anche me. Dice che non può fare a meno di  vedermi."
  "Forse crede che vieni giù sola?"
  "No. Gli ho detto che andiamo tutti assieme. Michael e tutti gli  altri."   "E' grande."
  "Vero?"
  Aspettavano il denaro il giorno dopo. Decidemmo di trovarci a  Pamplona. Essi sarebbero andati direttamente a San Sebastiano e  avrebbero preso il treno di là. Tutti ci dovevamo trovare a Pamplona  all'Hôtel Montoya. Se Mike e Brett lunedì al più tardi non  arrivavano, saremmo andati intanto noi a pescare a Burguete, su fra  le montagne. Per Burguete c'era una corriera. Io buttai giù un  itinerario in modo che potessero raggiungerci.
  Bill ed io prendemmo il treno della mattina, dalla Gare d'Orsay.  Era una bella giornata, non troppo calda, e il paesaggio fu piacevole  fin dall'inizio. Andammo nella vettura ristorante a far colazione.  Uscendo dal ristorante io chiesi al conduttore dei tagliandi per la  prima serie.
  "Niente da fare fino alla quinta."
  "Come mai?"
  Su quel treno non c'erano mai più di due serie, e in tutte e due  sempre numerosi posti vuoti.
  "Sono tutte riservate" disse il conduttore del vagone ristorante.  "Ci sarà una quinta serie alle tre e mezzo."   "Ciò è grave" dissi io a Bill.
  "Prova a dargli dieci franchi."
  "Ecco" dissi. "Noi desideriamo mangiare con la prima serie."   Il conduttore intascò i dieci franchi.
  "Grazie" disse. "Posso consigliarvi di prendere dei sandwiches.  Tutti i posti delle prime quattro serie sono stati prenotati agli  uffici della compagnia."
  "Tu farai strada, fratello" Bill gli disse in inglese. "Suppongo  che se ti avessimo dato solo cinque franchi ci avresti consigliato di  saltar giù dal treno."
  "Comment?"
  "Oh, va' all'inferno" disse Bill. "Facci avere i sandwiches e una  bottiglia di vino. Diglielo tu, Jake."
  "E mandateli nella carrozza vicina." Gli spiegai dove eravamo.
  Nel nostro scompartimento c'era un uomo con la moglie e il figlio.   Disse l'uomo: "Suppongo che siate americani, no? State facendo buon  viaggio?".
  "Meraviglioso" disse Bill.
  "Ecco come bisogna fare. Viaggiare finché si è giovani. Mamma ed io  volevamo sempre farlo, ma abbiamo dovuto aspettare un poco."   "Si sarebbe potuto dieci anni fa, se tu avessi voluto" disse la  moglie. "Ma tu dicevi sempre: prima bisogna vedere l'America! Dico io  che ne abbiamo vista parecchia, di America, in un modo o nell'altro."   "Dico, questo treno è pieno di americani" il marito disse. "Ce n'è  sette vetture di Dayton, Ohio. Sono stati in pellegrinaggio a Roma e  adesso vanno a Biarritz e a Lourdes."
  "Così ecco chi sono. Pellegrini" disse Bill. "Dannati puritani."
  "Di che parte degli Stati siete voi, ragazzi?"
  "Io di Kansas City" dissi. "Lui di Chicago."
  "Andate a Biarritz tutti e due?"
  "No. Andiamo in Spagna a pescare."
  "A me non è mai piaciuto pescare. Però si pesca molto dalle mie  parti. C'è da pescar bene, nel Montana. Ci sono stato coi ragazzi, ma  non mi è piaciuto."
  "Forse perché hai pescato poco in quei viaggi" la moglie disse.
  Lui ci strizzò l'occhio.
  "Sapete come sono le donne. Se uno fa fuori una bottiglia o una  cassetta di birra, subito pensano che è l'inferno e la dannazione."   "Così sono gli uomini" la moglie ci disse. Si sistemò più  comodamente a sedere. "Io ho votato contro il proibizionismo per far  piacere a lui e perché mi piace avere un po' di birra in casa, e lui  parla a quel modo. E' un miracolo che trovano sempre qualcuna che li  sposa."
  "Dite" disse Bill "sapete che quella banda di padri pellegrini ha  accaparrato il vagone ristorante fino alle tre e mezzo del  pomeriggio?"
  "Che dite? Non possono fare una cosa simile."
  "Provatevi ad andare a prendere dei posti."
  "Bene, mamma, mi pare che sarebbe meglio andare a fare un'altra  colazione" disse l'uomo.
  La donna si alzò e si sistemò il vestito.
  "Volete dare un occhio alle nostre cose? Vieni, Hubert."   Tutti e tre passarono nel vagone ristorante. Se n'erano andati da  poco quando un maggiordomo passò annunziando la prima serie, e i  pellegrini coi loro preti cominciarono a sfilare per il corridoio. Il  nostro amico con la famiglia non tornò indietro. Un cameriere passò  nel corridoio coi nostri sandwiches e una bottiglia di Chablis. Noi  lo chiamammo.
  "Avete da lavorare oggi" io dissi.
  Egli approvò scuotendo la testa. "Si comincia adesso, alle dieci e  mezzo" disse.
  "Quando mangeremo noi?"
  "Mah! Quando mangerò io?"
  Con la bottiglia ci lasciò due bicchieri. Noi pagammo i sandwiches  e gli demmo una mancia.
  "Tornerò a prendere i piatti" disse il cameriere "oppure portateli  con voi."
  Mangiammo i sandwiches, bevemmo lo Chablis e guardammo il paesaggio  dal finestrino. Il grano cominciava a maturare e i campi erano pieni  di papaveri. C'erano pascoli verdi, begli alberi, e qualche volta  grandi fiumi e in mezzo agli alberi, castelli.
  A Tours scendemmo a comprare un'altra bottiglia di vino, e quando  risalimmo nello scompartimento il signore del Montana, la moglie e il  figlio Hubert, erano di nuovo comodamente seduti.
  Chiese Hubert: "Si fanno dei bagni a Biarritz? Si può nuotare?".   "Questo ragazzo diventa matto se non può gettarsi in acqua" la  madre disse. "E' una cosa impossibile viaggiare coi ragazzi."   "Si può nuotare bene" dissi io. "Ma è pericoloso quando è agitato."   "Avete pranzato voi?" chiese Bill.
  "Sicuro. Ci siamo seduti proprio mentre quelli cominciavano a venir  dentro, e devono aver creduto che anche noi fossimo della comitiva.  Uno dei camerieri ci ha detto qualcosa in francese e hanno rimandato  indietro tre di quelli."
  "Ci hanno preso per dei bigotti, sicuro" l'uomo disse. "Certo  questo dimostra il potere della Chiesa cattolica. E' un peccato che  voi due non siate cattolici. Se no potreste fare un buon pranzetto  anche voi."
  "Io sono cattolico" dissi io. "Per questo mi arrabbio."   Finalmente alle quattro e un quarto potemmo pranzare. Bill era  diventato piuttosto impossibile verso la fine. Affrontò un prete che  tornava con una delle processioni di pellegrini.
  "Quand'è che potremo mangiare anche noi protestanti, padre?"   "Non saprei. Non avete preso i tagliandi?"   "Può bastare per far convertire un uomo" disse Bill.
  Il prete si voltò a guardarlo.
  Nel vagone ristorante i camerieri servirono il quinto pranzo di  seguito. Il cameriere che servì noi era una spugna di sudore. La sua  giacca bianca era rossa sotto le ascelle.   "Deve bere molto vino."
  "O forse porta una maglia rossa."
  "Chiediamoglielo."
  "No. E' troppo stanco."
  Il treno si fermò mezz'ora a Bordeaux e noi scendemmo a far due  passi in stazione. Non c'era tempo per visitare la città. Poi  traversammo le Landes e guardammo il tramonto. C'erano segnali  luminosi piantati in mezzo ai pini ad indicare la via su per la  collina boscosa, parevano grandi strade di città. Alle sette e mezzo  cenammo e guardammo il paesaggio dal finestrino del ristorante. Era  un paesaggio sabbioso, folto di pini e d'erica. C'erano case in  piccole radure, ed una volta passammo una segheria. Si faceva scuro.  Potevamo sentire il paesaggio caldo e sabbioso al di là del  finestrino. Alle nove circa arrivammo a Bayonne.
  Il signore del Montana, la moglie e Hubert ci strinsero la mano.
Andavano fino a La Negresse a cambiare per Biarritz.
  "Così, molti auguri" io dissi.
  "Fate attenzione con quelle corride."   "Forse ci vedremo a Biarritz" disse Hubert.
  Scendemmo con le valige e il fodero delle canne da pesca,  traversammo la stazione buia e uscimmo fuori alla luce dov'eran ferme  le macchine e gli autobus degli alberghi. Fermo con i fattorini degli  alberghi c'era Cohn. Sul primo momento non ci vide. Poi ci venne  incontro.
  "Hello, Jake, fatto buon viaggio?"
  "Ottimo" dissi. "Ti presento Bill Gorton."
  "Molto piacere."
  "Venite" disse Robert "ho una carrozza."
  Era un poco miope. Non me n'ero accorto prima. Squadrava Bill  cercando di vederlo bene. Era imbarazzato.
  "Andiamo al mio albergo. E' un buon albergo, molto per bene."   Salimmo in carrozza, il cocchiere caricò avanti accanto a sé i  bagagli, salì a cassetta e fece schioccare la frusta. Attraverso il  ponte scuro entrammo in città.
  "Sono molto contento di fare la tua conoscenza" Robert disse a  Bill. "Ho sentito tanto parlare di te da Jake, e ho letto i tuoi  libri. Jake, mi hai portato la lenza?"
  La carrozza si fermò davanti all'albergo, noi scendemmo ed  entrammo. Era un buon albergo, gli impiegati al banco erano molto  gentili, e ognuno di noi ebbe una piccola stanza.

  Al mattino il tempo era ottimo. Innaffiavano le strade. Facemmo  colazione in un caffè. Bayonne è una graziosa cittadina. Ha l'aspetto  di una città spagnola pulita, ed è situata su un fiume importante.  Già sul ponte che traversa il fiume faceva molto caldo, per quanto  fosse ancora assai presto. Passammo il ponte e facemmo un giro per la  città. 
  Io non ero sicuro che le canne di Mike sarebbero arrivate in tempo,  così cercammo un negozio di attrezzi da pesca e in un emporio  acquistammo una canna per Bill. L'uomo che vendeva gli attrezzi era  fuori, e dovemmo aspettare che tornasse. Finalmente arrivò, e  comperammo una buona canna non cara e due reti a mano.   Usciti di nuovo in strada, andammo a vedere la cattedrale. Cohn  osservò che era un perfetto esempio di qualcosa, non ricordo che. Era  una bella cattedrale, tranquilla e scura, come le chiese spagnole.  Poi camminammo oltre le vecchie mura fino alla sede del comitato  turistico locale, per chiedere dove partivano le corriere. Ci fu  detto che il servizio delle corriere non cominciava prima del 1o  luglio. Chiedemmo quanto ci sarebbe venuta a costare una macchina, e  ne contrattammo una, in una grande rimessa proprio dietro l'angolo  del teatro municipale. L'auto doveva venire a prenderci all'albergo  tra quaranta minuti, e noi ci fermammo a bere birra al caffè dove  avevamo fatto colazione. Faceva caldo, ma la città aveva un fresco  odore di primo mattino, ed era piacevole star seduti al caffè.  Cominciava a soffiare un venticello, e si sentiva che l'aria veniva  dal mare. C'erano colombi nella piazza e le case erano gialle,  bruciate dal sole, e io non avrei voluto lasciare il caffè. Ma  dovevamo andare all'albergo per fare i bagagli e pagare il conto.  Pagammo le birre, discutemmo tra noi e credo che alla fine pagasse  Cohn, poi tornammo all'albergo. 
  Erano solo sedici franchi a testa per me e Bill, col dieci per  cento in più per il servizio. Facemmo portar giù i bagagli in attesa  di Cohn. Mentre lo aspettavamo, io vidi sul pavimento di legno uno  scorpione lungo almeno tre centimetri. Lo mostrai a Bill, poi lo  schiacciai con la scarpa. Convenimmo che doveva essere entrato dal  giardino. L'albergo era invero molto pulito. 
  Finalmente Cohn scese. Uscimmo fuori, dove l'auto ci aspettava. Era  una grande automobile chiusa, e l'autista aveva un camice bianco con  colletto e polsini azzurri. Noi gli dicemmo di aprire la macchina  dietro, per l'aria. L'autista caricò i bagagli e partimmo, prendendo  la strada che usciva di città. Passammo graziosi giardini e demmo  alla città un ultimo sguardo d'assieme, poi ci trovammo in campagna,  una campagna verde e ondulata, mentre la strada continuava a salire.  
Sorpassammo carri baschi tirati da buoi, e graziose casette di  campagna col tetto basso ed i muri bianchi di gesso. Nel paese dei  baschi il paesaggio ha sempre un aspetto di fertilità e ricchezza, le  case e i villaggi si presentano bene, hanno un'aria decente e pulita.  In ogni villaggio c'era un cortile per la pelota; in qualcuno c'erano  ragazzi al sole che giocavano. Sui muri delle chiese v'erano scritte  che vietavano di giocarvi la pelota contro, e le case avevano tetti  di tegole rosse. Poi la strada svoltò e cominciò a salire, e la  nostra macchina attaccò la salita, lungo un fianco di collina.  Sovrastavamo una valle e v'erano colline dietro di noi, sparse fino  al mare. Il mare non si vedeva, era troppo lontano. Si vedevano solo  colline, e ancora colline, ma si capiva dove il mare doveva essere.   Passammo la frontiera spagnola. V'erano un piccolo corso d'acqua e  un ponte, e su un lato carabinieri spagnoli con cappelli napoleonici  di cuoio grezzo e fucili a tracolla, sull'altro lato grassi francesi  con baffi e chepì. Non aprirono che una delle valige, e dettero  un'occhiata ai passaporti. Tanto da una parte che dall'altra del  confine, c'erano un bazar e una trattoria. L'autista dovette fermarsi  a far bollare certe carte per l'auto. Noi smontammo e ci avvicinammo  al corso d'acqua per vedere se c'erano trote. Bill tentò di parlar  spagnolo con uno dei carabinieri, ma non ebbe troppo successo. Cohn  chiese, indicando col dito, se c'erano trote nel ruscello, e il  carabiniere disse sì, ma non molte. 
  Io gli chiesi se lui pescasse mai, e lui disse che no, che non  gliene importava. 
  A questo punto un vecchio barbuto, con lunghi capelli bruciati dal  sole e vestiti che parevano fatti di tela di sacco, imboccò a grandi  passi il ponte. Aveva un lungo bastone e portava in spalla un  capretto, legato per le quattro zampe e con la testa penzoloni.   Con la baionetta il carabiniere fece segno al vecchio di tornare  indietro. Senza dir niente l'uomo si voltò e riprese la strada bianca  verso la Spagna. 
  "Perché così con quel vecchio?" chiesi io. 
  "Non ha passaporto." 
  Offrii alla guardia una sigaretta. La prese e mi ringraziò. 
  "Come farà?" chiesi. 
  La guardia sputò nella polvere. 
  "Oh, passerà il ruscello a guado." 
  "C'è molto contrabbando?" 
  "Oh" disse lui "passano." 
  L'autista tornò ripiegando le carte, che mise nella tasca interna  della giacca. Salimmo tutti in macchina, e la macchina partì per la  strada bianca di polvere, verso la Spagna. Per un poco il paesaggio  non mutò. Poi, su per le svolte continue della strada, raggiungemmo  il punto più alto di una gola. E allora fu davvero Spagna.   C'erano lunghe montagne brune e pini sparsi e lontane foreste di  faggi sui fianchi delle montagne. La strada salì fino alla sommità  del passo, poi scese. L'autista dovette suonare la tromba e  rallentare e sterzare per non investire due asini addormentati in  mezzo alla strada. Scendemmo attraverso una foresta di querce, e  nella foresta pascolavano bianche mucche. In basso c'erano piani  erbosi e limpidi ruscelli. Traversammo un ruscello, poi un piccolo  villaggio malinconico, e ricominciammo a salire. Salendo raggiungemmo  un altro valico, lo sorpassammo e la strada scendeva di costa, e a  sud vedemmo nuove catene di brune montagne arse tagliate in sagome  strane. 
  Dopo un poco lasciammo le montagne e c'erano ora alberi ai due lati  della strada, e un ruscello e campi di grano maturo, e la strada  continuava molto bianca e diritta davanti a noi, poi cominciò a  salire un poco e sulla collina a sinistra ci fu un vecchio castello  con altre costruzioni strette attorno e un campo di grano che si  spingeva fin sotto le mura e ondeggiava nel vento. Io ero seduto  avanti accanto all'autista, e mi voltai. Cohn dormiva ma Bill stava  guardando e chinò la testa in segno d'approvazione. Poi traversammo  una vasta pianura, sulla destra v'era un gran fiume lucente tra i  filari degli alberi, e lontano si scorgeva l'altopiano di Pamplona  sorgere in mezzo alla pianura, e le mura della città e la grande  cattedrale scura e il profilo frastagliato delle altre chiese. Dietro  l'altopiano v'erano montagne, da qualsiasi parte si guardasse v'erano  altre montagne. E davanti a noi la strada si stendeva bianca nel  piano verso Pamplona. 
  Entrammo in città dall'altro lato dell'altopiano. La strada fu  dapprima ripida e polverosa, con alberi ombrosi ai lati, poi  procedette in piano attraversando i nuovi quartieri in costruzione,  fuori della cinta di mura della città. Passammo l'arena delle  corride, alta, bianca e massiccia nel sole, e per una strada laterale  arrivammo in piazza. L'auto si fermò davanti all'Hôtel Montoya.   L'autista ci seguiva con i bagagli. Una folla di ragazzini guardava  l'automobile; faceva caldo nella piazza, gli alberi erano verdi e dai  pennoni pendevano le bandiere. Fu piacevole passare dal sole  all'ombra del portico che corre tutto attorno alla piazza. Montoya fu  contento di vederci. Ci strinse la mano e ci dette delle buone stanze  che affacciavano in piazza. Ci lavammo e ci mettemmo in ordine, poi  scendemmo a mangiare nella sala da pranzo al pianterreno. Anche  l'autista si fermò a mangiare, e dopo che l'avemmo pagato ripartì per  Bayonne. 
  Al Montoya ci sono due sale da pranzo. Una è su al secondo piano e  affaccia sulla piazza. L'altra è giù al pianterreno, più bassa del  livello stradale, ed ha una porta che dà nel vicolo per il quale la  mattina del combattimento passano i tori diretti all'arena. Fa sempre  fresco nella sala da pranzo al pianterreno. Facemmo un buon pranzo.  In Spagna il pasto di mezzogiorno è sempre un'entità massiccia da  affrontare: antipasto, uova, due piatti di carne, verdura, insalata,  dessert e frutta. Occorreva ber molto vino per mandar giù tutto.  Robert Cohn tentò di spiegare che non voleva il secondo piatto di  carne, ma noi non ci prestammo a fargli da interpreti, così la  cameriera gli portò qualcos'altro come supplemento, un piatto di  carne fredda, mi pare. Da quando ci eravamo incontrati a Bayonne,  Cohn era nervoso. Non sapeva se noi sapevamo o no che Brett era stata  con lui a San Sebastiano, e questo lo teneva sulle spine.   "Bene" dissi io "Brett e Mike dovrebbero arrivare stanotte."   "Non sono sicuro che verranno" Cohn disse. 
  "Perché poi no?" Bill disse. "Si capisce che verranno."   "Arrivano sempre in ritardo" io dissi. 
  Disse Robert Cohn: "E io penso che non verranno".   Disse questo con un'aria di superiore conoscenza che ci irritò  tutti e due. 
  "Scommetto cinquanta pesetas che stanotte sono qui" Bill disse.  Bill scommette sempre quando si arrabbia, così di solito scommette  stupidamente. 
  "Accettato" disse Cohn. "Ricordati, Jake. Cinquanta pesetas."   "Mi ricordo da me" disse Bill. Vidi che era irritato e cercai di  calmarlo. 
  "Che verranno è certo" dissi. "Ma forse non stanotte."   "Vuoi ritirare?" Cohn chiese a Bill. 
  "No. Perché dovrei? Faccio cento se vuoi." 
  "Benissimo. Io accetto." 
  "Ora basta" dissi io. "Se no ti toccherà farci un libro e dovrò  aiutarti io." 
  "Per me basta" Cohn disse. Sorrise: "Probabilmente però rivincerai  tutto a bridge". 
  "Ancora non hai vinto" Bill disse. 
  Uscimmo a far due passi sotto il portico, fino all'Iruña a prendere  il caffè. Cohn disse che andava a tagliarsi i capelli. 
  "Senti" Bill disse a me. "Ho fatto male a scommettere?"   "Malissimo hai fatto. Non arrivano mai puntuali in nessun posto. Se  non hanno avuto il denaro è garantito che stanotte qui non arrivano."   "Mi è spiaciuto appena aperto bocca. Ma dovevo rispondergli. Ha  ragione, suppongo. Ma di dove gli viene tutta questa sicurezza? Brett  e Mike erano d'accordo con noi." 
  Vidi Cohn che ritornava traversando la piazza. 
  "Eccolo che viene." 
  "Bene, basta che non si metta a fare il tipo superiore e l'ebreo."   "Il parrucchiere è chiuso" disse Cohn. "Non apre fino alle  quattro." 
  All'Iruña prendemmo il caffè, seduti in comode poltrone bianche di  vimini, guardando, dal fresco dei portici, la grande piazza.   Dopo un poco Bill andò a scrivere delle lettere. Cohn passò di  nuovo dal parrucchiere. Era ancora chiuso, così Cohn decise di  tornare in albergo a fare un bagno. Io rimasi seduto davanti al  caffè, poi feci un giro a piedi per la città. Faceva molto caldo, ma  io mi tenevo sul lato in ombra delle strade. Passai per il mercato,  ero contento di riveder di nuovo la città. Andai all'Ayuntamiento a  trovare il vecchio signore che tutti gli anni prenota per me i  biglietti delle corride. Aveva ricevuto il denaro che da Parigi gli  avevo mandato e aveva rinnovato le prenotazioni. Era l'archivista,  nel suo ufficio c'erano tutti gli archivi della città. Questo non ha  niente a che fare con la storia. Ad ogni modo, c'erano in  quell'ufficio una tenda di stoffa verde e una grande porta di legno.  Io, uscendo, le chiusi entrambe e lasciai il vecchio seduto tra gli  archivi che coprivano le pareti. 
  Uscendo dal palazzo in strada il portiere mi fermò per spazzolarmi  la giacca. 
  "Siete stato in auto" disse. 
  Il dietro del bavero e le spalle erano grigi di polvere. 
  "Sì, da Bayonne." 
  "Ecco, ecco" disse lui. "Sapevo che eravate stato in auto dal modo  com'era messa la polvere." 
  Allora gli detti due monete di rame. 
  Vidi in fondo alla strada la cattedrale e m'incamminai da quella  parte. La prima volta che l'avevo vista, avevo pensato che la  facciata era brutta; ma ora mi piaceva. Entrai. Era grigia e scura e  i pilastri salivano in alto, c'era gente che pregava, odore d'incenso  e magnifici finestroni. Mi inginocchiai e cominciai a pregare, pregai  per tutti quelli che mi vennero in mente, per Brett e Mike e Robert  Cohn e me stesso, e per tutti i toreri, singolarmente per quelli che  mi piacevano e in blocco per gli altri, poi pregai di nuovo per me e  mentre pregavo per me mi accorsi che mi stavo addormentando, così  pregai che le corride fossero buone, che la fiesta riuscisse bene, e  che noi facessimo buona pesca. Mi chiesi se c'era altro per cui  potessi pregare, e pensai che mi sarebbe piaciuto avere molto denaro,  così pregai che potessi fare un sacco di soldi, e allora cominciai a  pensare come avrei potuto farli, e pensare di far soldi mi fece  venire in mente il conte, e cominciai a chiedermi dove poteva essere,  ed ero spiacente di non averlo più visto dopo quella notte a  Montmartre e pensavo a qualcosa di divertente che Brett aveva detto  di lui e intanto ero inginocchiato tenendo la fronte sul banco di  legno davanti a me e pensavo a me stesso in preghiera, ed un poco mi  vergognavo di essere un così lurido cattolico ma capivo che non c'era  niente da fare, certo almeno per un poco ancora, e forse per sempre,  ma che ad ogni modo era una grande religione e sentirmi religioso era  tutto quello che desideravo, e magari quest'altra volta ci sarei  riuscito. Poi mi trovai fuori nel sole caldo sulla gradinata della  cattedrale, sentii il sole asciugare la punta delle dita della mia  mano destra. Il sole era caldo e violento: io mi riparai dietro le  case e per vie laterali tornai a piedi all'albergo. 
  La sera a cena trovammo che Cohn si era fatto radere la barba e  tagliare e lavare i capelli, facendovi metter qualcosa per tenerli  giù. Era nervoso, e io non cercai di venirgli in aiuto. Alle nove  arrivava il treno da San Sebastiano. Su quello dovevano essere Brett  e Mike, se arrivavano. Alle nove meno venti non eravamo ancora a metà  della cena. Robert Cohn si alzò e annunziò che andava alla stazione.  Io, giusto per tormentarlo di più, dissi che lo avrei accompagnato.  Bill disse che voleva esser dannato se lasciava la sua cena. Io dissi  che saremmo tornati subito. 
  Andammo a piedi alla stazione. Il nervoso di Cohn mi faceva godere.  Speravo che Brett fosse sul treno. Alla stazione il treno era in  ritardo. Noi ci sedemmo su un carrettino dei bagagli e aspettammo  fuori, al buio. Mai nella vita borghese avevo visto qualcuno nervoso  come Cohn, o così impaziente. Io ci godevo. Era da carogna da parte  mia godere di questo, ma io carogna mi sentivo. Cohn aveva la  mirabile facoltà di tirare alla luce la parte peggiore di ognuno.   Dopo un poco sentimmo il fischio del treno sull'altro lato  dell'altopiano, poi vedemmo le luci di testa venir su per la collina.  
Entrammo in stazione e con una folla di gente ci fermammo dietro i  cancelli; il treno arrivò e si fermò e i viaggiatori scesero e  cominciarono a uscire dai cancelli. Brett e Mike non c'erano.  Aspettammo finché tutti furono usciti dalla stazione ed ebbero preso  autobus e carrozze o furono spariti a piedi coi loro amici e parenti  nel buio della città. 
  "Sapevo che non sarebbero venuti" Robert disse. Stavamo ritornando  all'albergo. 
  "Poteva darsi che venissero, però" dissi io. 
  Quando entrammo Bill era alle frutta e stava finendo una bottiglia  di vino. 
  "Non sono venuti, eh?" 
  "No." 
  "Cohn, ti spiace se ti do quelle cento pesetas domattina?" chiese  
Bill. "Non ho ancora cambiato." 
  "Oh, lascia andare" Robert Cohn disse. "Scommettiamo su  qualcos'altro. Si può scommettere sulle corride?" 
  "Si può" Bill disse. "Ma non ce n'è bisogno." 
  "Sarebbe come scommettere sulla guerra" dissi io. "Non c'è bisogno  di un interesse economico." 
  "Sono molto curioso di vederle" Robert disse. 
  Montoya si avvicinò al nostro tavolo con un telegramma in mano. 
  "E' per voi" lo porse a me. 
  Diceva: 
  Restiamo notte San Sebastiano 
  "Sono loro" io dissi. Misi il telegramma in tasca. Normalmente lo  avrei mostrato. 
  "Si sono fermati a San Sebastiano" dissi. "Vi salutano." 
  Non so perché sentissi quel bisogno di tormentare Cohn. O meglio lo  so. Ero ciecamente, inesorabilmente geloso di quello che gli era  successo. Il fatto che io considerassi la cosa in sé poco importante  non cambiava niente. Certo lo odiavo. Non credo di averlo mai  realmente odiato prima di quel suo momento di superiorità a pranzo,  per quello e per tutta quella barbitonsura lo odiavo. Così misi il  telegramma in tasca. Ad ogni modo era indirizzato a me.   "Bene" dissi "dobbiamo prendere la corriera di mezzogiorno per  Burguete. Possono raggiungerci là se arrivano domani sera."   C'erano solo due treni da San Sebastiano, uno al mattino presto e  quello che era appena arrivato. 
  "Buona idea" Cohn disse. 
  "Prima partiamo per il fiume, meglio è." 
  "Per me sono d'accordo" disse Bill. "Prima andiamo, meglio è."   Restammo un poco seduti all'Iruña, prendendo il caffè, poi  camminammo fino all'arena e giù per i campi sotto gli alberi, fin  dove si vedeva il fiume nel buio, dall'orlo del terrapieno. Io mi  ritirai presto. Bill e Cohn rimasero al caffè fino a tardi, credo,  perché io dormivo quando si ritirarono. 
  Al mattino comprai tre biglietti per la corriera di Burguete. La  partenza era in orario per le due. Non c'era nessuna corriera prima.   Ero seduto all'Iruña a leggere il giornale quando vidi Robert Cohn  venire traversando la piazza. Si avvicinò al mio tavolo e si sedette  nella poltrona di vimini. 
  "E' comodo questo caffè" disse. "Hai passato una buona notte,  
Jake?" 
  "Ho dormito come un piombo." 
  "Io non ho dormito gran che. Con Bill sono rimasto alzato fino a  tardi." 
  "Dove?" 
  "Qui. Poi, quando qui hanno chiuso, siamo andati all'altro caffè.  
Il padrone parla tedesco e inglese." 
  "Il Caffè Suizo." 
  "Quello. Il padrone è un tipo simpatico. Mi sembra un caffè  migliore di questo." 
  "Di giorno no" io dissi. "Troppo caldo. A proposito, ho fatto i  biglietti per la corriera." 
  "Io non vengo oggi. Tu e Bill andate pure avanti." 
  "Ho fatto il biglietto anche per te." 
  "Dammelo. Ti ridò i soldi." 
  "Sono cinque pesetas." 
  Robert Cohn tirò fuori una moneta d'argento da cinque pesetas e me  la diede. 
  "Devo restar qui" disse. "Capisci, ho paura che ci sia una specie  di malinteso." 
  Dissi io: "Può darsi che non vengano per tre o quattro giorni, se a  San Sebastiano trovano compagnia". 
  "Già" disse Robert. "Ho paura che si aspettassero di trovare me a  
San Sebastiano e per questo si siano fermati." 
  "Cosa ti fa pensare questo?" 
  "Bene, avevo scritto proponendolo a Brett." 
  "Perché cavolo non sei stato là ad aspettarli, allora?" stavo per  dire, ma mi trattenni. Pensavo che quell'idea gli dovesse venir da  sola, ma non credo che gli fosse venuta mai. 
  Diventava confidenziale adesso, e lo faceva godere poter parlare  sapendo che io sapevo che c'era qualcosa tra lui e Brett. 
  "Bene: Bill ed io partiamo subito dopo pranzo" dissi. 
  "Proprio vorrei venire anch'io. Tutto l'inverno avevamo progettato  questa gita per andare a pescare." Era sentimentale su questo punto.  
"Ma devo restare. Davvero devo. Appena arrivano li porto su." 
  "Andiamo a cercar Bill." 
  "Io vado dal barbiere." 
  "Ci vediamo a pranzo." 
  Trovai Bill in camera sua. Si stava facendo la barba.   "Oh, sì, mi ha detto tutto stanotte" Bill disse. "Ha una certa  tendenza a confidarsi. Dice che aveva un appuntamento con Brett a San  
Sebastiano." 
  "Lo sporco bastardo!" 
  "Oh, no" Bill disse. "Non t'incazzare. Non t'incazzare proprio a  questo punto del viaggio. Ad ogni modo, com'è che t'è capitato di  conoscere questo tipo?" 
  "Oh, lascia stare." 
  Bill si voltò, con la faccia a metà rasa, e continuò a parlare allo  specchio insaponandosi la faccia. 
  "Lo mandasti da me a New York con una lettera, vero? Grazie a Dio  io sono un tipo che viaggia. Non avevi altri amici ebrei da portarti  dietro?" 
  Si strofinò il mento col pollice e l'osservò, poi cominciò a  radersi. 
  "Anche tu ne hai di buoni" dissi io. 
  "Oh, sì. Ne ho di ignobili. Ma non reggono al paragone con questo  Robert Cohn. La cosa più buffa è che è tanto per bene, anche. Mi  piace. Ma è tremendo." 
  "Sa essere maledettamente per bene." 
  "Lo so. Questo è il terribile."   Io risi. 
  "Sì, ridi, tu" Bill disse. "Tu non sei stato con lui stanotte fino  alle due." 
  "E' stato brutto?" 
  "Tremendo. Cos'è tutta questa storia di lui e di Brett, ad ogni  modo? Ha avuto mai niente a che fare lei con lui?"   Sollevò il mento e lo spostò di lato. 
  "Sicuro. E' andata con lui a San Sebastiano." 
  "Che maledetta stupidaggine. Perché lo ha fatto?" 
  "Voleva andar via da Parigi e non sa andare in nessun posto da  sola. Ha detto che pensava che a lui avrebbe fatto piacere."   "Che fottute stupidaggini fa la gente. Perché non andar via con uno  come lei? Con te?" si corresse in fretta "o con me? Perché non con  me?" Si guardò con attenzione la faccia nello specchio e piazzò due  grosse pennellate di sapone sulle guance. "E' una faccia onesta. E'  una faccia con cui ogni donna dovrebbe sentirsi al sicuro." 
  "Lei non l'aveva mai vista." 
  "Avrebbe dovuto. Tutte le donne dovrebbero. E' una faccia che  dovrebbe esser proiettata su tutti gli schermi dei cinematografi. A  ogni donna si dovrebbe dare una riproduzione di questa faccia quando  lascia l'altare. Le madri dovrebbero parlare di questa faccia alle  figlie. Figlio mio" puntò il rasoio verso di me "vai nell'ovest con  questa faccia e farai fortuna." 
  Si chinò a sciacquare la faccia con l'acqua fredda del catino, vi  passò su dell'alcool, poi si guardò con attenzione nello specchio,  tirando giù il labbro superiore sporgente.   "Cristo" disse. "Non è una faccia eccezionale?"   Si guardò nello specchio. 
  "E quanto a questo Robert Cohn" disse "mi rompe le scatole e può  andarsene all'inferno, io sono arcicontento che rimanga qua e che non  lo avremo a pescare con noi." 
  "Perdio hai ragione." 
  "E noi ce ne andiamo a pescare le trote. Ce ne andiamo a pescare le  trote del fiume Irati, e adesso ce ne andiamo a prendere una ricca  sbornia col vino del paese e subito dopo una ricchissima corriera." 
  "Vieni, andiamo all'Iruña e diamoci sotto." 
XI 
  Il sole scottava nella piazza quando dopo pranzo uscimmo dall'albergo con le valige e le canne da pesca, per prendere la  corriera per Burguete. Molta gente era già sulla corriera, ed altri  per una scaletta si arrampicavano. Bill salì su e Robert si sedette  accanto a lui per conservarmi un posto. Io rientrai in albergo a  prendere un paio di bottiglie di vino da portare con noi. Quando  tornai fuori, la corriera era piena. Uomini e donne erano seduti su  casse e valige, e le donne agitavano i ventagli al sole. Proprio  faceva caldo. Robert scese, e io mi sistemai nel posto che lui mi  aveva conservato, sull'unica panca trasversale di legno sul piano  superiore della corriera. 
  Robert Cohn si fermò nell'ombra del portico aspettando di vederci  partire. Un basco con una grossa fiasca di vino era seduto per terra  davanti a noi, appoggiato contro le nostre gambe. Offrì a Bill e a me  la grossa fiasca e quando io l'alzai per bere imitò il suono di un  klaxon d'automobile, così che io versai un po' di vino e tutti  risero. Il basco mi chiese scusa e volle che bevessi un altro sorso.  Di nuovo fece il suono del klaxon, un istante dopo, e mi fregò per la  seconda volta. Era molto bravo. I baschi si divertivano. L'uomo seduto accanto a Bill gli parlava spagnolo e Bill non capiva. Allora  offrì all'uomo una delle sue bottiglie di vino. L'uomo la respinse  con la mano. Disse che faceva troppo caldo e che aveva già bevuto  molto a pranzo. Quando Bill offrì ancora la bottiglia, egli prese una  buona sorsata, poi la bottiglia fece il giro di quel lato della  corriera. Tutti bevvero molto educatamente, poi vollero che turassimo  la nostra bottiglia e la mettessimo via. Volevano tutti che bevessimo  dalle loro fiasche di cuoio. Erano contadini che andavano su nelle  colline. Finalmente, dopo un altro paio di falsi klaxon la corriera  partì. Robert Cohn dal portico agitò la mano per salutarci e tutti i  baschi salutarono Robert Cohn. Appena uscimmo dalla città faceva  fresco. Era bello viaggiare così in alto e vicino ai rami degli  alberi. La corriera andava veloce e c'era una bella arietta.  Scendendo giù per la collina, tra la polvere che si sollevava,  vedemmo dietro gli alberi il panorama della città, alta sulla valle  scoscesa del fiume. Il basco appoggiato contro le mie ginocchia  indicò il panorama tendendo la fiasca e fece cenno a noi. 
  "Mica male, eh?" 
  "Brava gente questi baschi" disse Bill. 
  Il basco appoggiato alle mie ginocchia aveva la pelle abbronzata,  colore del cuoio da sella. Portava un abito nero come tutti gli  altri. C'erano rughe sul suo collo abbronzato. Si voltò e presentò a  Bill la fiasca. Bill gli tese una delle nostre bottiglie. Il basco  fece segno di no col dito e respinse la bottiglia ricacciando a posto  il turacciolo con la palma della mano. Mostrò la fiasca. 
  "Arriba! Arriba!" disse. "Alzate." 
  Bill alzò la fiasca e con la testa piegata indietro lasciò che il  fiotto del vino gli ricadesse in bocca. Quando smise di bere e  abbassò la bottiglia, poche gocce gli scorsero sul mento. 
  "No, no!" parecchi baschi dissero. "Non così." 
  Uno tolse la fiasca di mano al proprietario che si preparava a dare  egli stesso una dimostrazione. Era un giovane, tenne la fiasca a  braccio teso e l'alzò in alto, premendo l'involucro di cuoio con la  mano in modo da farsi sprizzare il vino in bocca. Tenne alta la  fiasca, il vino formava una decisa solida traiettoria dalla fiasca  alla bocca. Il giovane beveva lentamente con continuità.   "Ehi!" il proprietario della fiasca gridò. "Di chi è quel vino?"   Il giovane che stava bevendo indicò col dito il proprietario e con  gli occhi sorrise a noialtri. Poi interruppe il fiotto di colpo, fece  saltare con destrezza la fiasca e la tese al proprietario. Ammiccò a  noi. Il proprietario scosse tristemente la fiasca di pelle vuota.   Passammo per un paese e il conducente si fermò alla posada a  caricare dei pacchi. Ripartimmo e, appena fuori del paese, la strada  ricominciò a salire. Traversavamo una campagna coltivata, con colline  rocciose che sorgevano in mezzo ai campi. I campi di grano montavano  sul fianco delle colline. Man mano che salivamo, c'era vento che  soffiava tra il grano. La strada era bianca e polverosa, la polvere  si alzava sotto le ruote e restava sospesa in aria dietro di noi. Poi  la strada si arrampicò tra le colline, lasciando indietro i ricchi  campi di grano. C'erano ora macchie di grano solo sui fianchi nudi  delle colline e vicino ai corsi d'acqua. La corriera sterzò  bruscamente per sorpassare una fila di sei mule legate a un carro  carico di masserizie. Il carro e le mule erano impolverati. Subito  dietro venivano un'altra fila di mule e un altro carro. Questo era  carico di legname e, mentre noi lo sorpassavamo, l'arriero che  guidava le mule si chinò indietro a far funzionare i grossi freni di  legno. Più su il paesaggio era tutto arido e le colline erano roccia  e argilla cotta dal sole e solcata dalla pioggia. 
  Dopo una curva entrammo in un paese. Sui due lati si apriva una  ripida vallata verde. Un fiume traversava il paese, le vigne  crescevano fin sotto le case. 
  La corriera fermò ad una posada, molti passeggeri scesero e molti  bagagli furono calati a terra. Bill ed io scendemmo ed entrammo nella  posada. 
  Era un locale basso e scuro, c'erano selle e finimenti da cavallo,  forche da fieno di legno bianco, mucchi di scarpe con suola di  canapa, prosciutti, fette di lardo, agli bianchi e lunghe salsicce  pendenti dal soffitto. Faceva fresco nella penombra, noi ci  accostammo al lungo banco di legno dove due donne servivano da bere.  
Dietro le due donne c'erano scaffali carichi di provviste. 
  Prendemmo un aguardiente per uno e pagammo quaranta centesimi in  tutto. Io per far mancia detti alla donna cinquanta centesimi, lei mi  ridette la moneta pensando che io non avessi capito bene il prezzo.   Entrarono due dei nostri baschi e insistettero per pagarci da bere.  Così pagarono, poi pagammo noi, poi essi ci dettero una manata sulla  spalla e pagarono di nuovo. Di nuovo pagammo noi, poi uscimmo tutti  fuori nella luce calda del sole e ci arrampicammo sulla corriera. Ora  c'era posto a sedere per tutti. I baschi che stavano prima sul tetto,  sedevano ora tra noi. La donna che ci aveva servito da bere, venne  fuori asciugandosi le mani nel grembiale, e parlò con qualcuno nella  corriera. Poi venne fuori il conducente con due sacchi di posta e  salì. Tra i saluti generali partimmo. 
  La strada lasciava subito la vallata verde e di nuovo fummo tra le  colline. Bill era impegnato in una conversazione col basco della  fiasca. Un uomo dal sedile posteriore si chinò verso di noi e chiese  in inglese: 
  "Voi, americani?" 
  "Sicuro." 
  "Io stato laggiù" disse lui. "Quarant'anni fa." 
  Era un vecchio, bruno come gli altri, con una bianca barba di  stoppa.   "Com'era?" 
  "Come?" 
  "Com'era l'America?" 
  "Stato in California. Bello era." 
  "Quando siete tornato?" 
  "Come?" 
  "Quando siete voi venuto via di là?" 
  "Oh! Venuto qua per sposarmi. Volevo ritornare là ma mia moglie non  
ci piace di viaggiare. Voi di dove siete?" 
  "Kansas City." 
  "Io stato laggiù" disse lui. "Stato a Chicago, St' Louis, Kansas  City, Denver, Los Angeles, Salt Lake City."   Le nominò con molta attenzione. 
  "Quanto tempo siete stato là?" 
  "Quindici anni. Venuto indietro e sposato." 
  "Bevete?" 
  "Grazie" disse lui. "Niente questo in America, eh?" 
  "Ce n'è se potete pagare." 
  "Perché venite qui?" 
  "Andiamo alla fiesta di Pamplona." 
  "Piacciono corride?" 
  "Sicuro. A voi no?" 
  "Sì" lui disse. "Suppongo che sì."   Poi dopo un poco: "Dove andate ora?". 
  "Su a Burguete a pescare." 
  "Bene" disse lui. "Spero prenderete qualcosa." 
  Mi strinse la mano e tornò a sedersi sul sedile posteriore. Gli  altri baschi erano rimasti impressionati. Egli si sedette  appoggiandosi comodamente allo schienale e mi sorrideva quando io mi  voltavo a guardare il paesaggio. Ma lo sforzo di parlare americano  sembrava averlo esaurito. Non disse più altro. 
  Su per la strada ripida si arrampicava la corriera. Il paesaggio  era arido, rocce emergevano dall'argilla. Non c'era erba ai lati  della strada. Guardando indietro potevamo vedere la pianura  distendersi in basso. Lontano, i campi erano macchie di verde e di  bruno sui fianchi delle colline. L'orizzonte era chiuso da scure  montagne, stranamente sagomate. Come salimmo più in alto, l'orizzonte  cominciò a mutare. La corriera si arrampicava più lenta, e vedemmo  altre montagne venirci incontro da sud. Poi la corriera passò la  cresta e proseguì attraverso una foresta in piano. Era una foresta di  querce da sughero, il sole penetrava a macchie tra gli alberi e  dietro gli alberi pascolava il bestiame. Uscimmo dalla foresta e la  strada attaccò una salita, davanti a noi c'era un piano verde  ondulato con montagne scure al di là. Non erano come le brune  montagne bruciate dal sole che avevamo lasciato dietro di noi. Erano  boscose e c'erano nuvole che calavano nelle valli. Davanti a noi si  stendeva il piano verde. Era tagliato da siepi e il bianco della  strada appariva fra i tronchi di un doppio filare d'alberi che  attraversava la pianura verso nord. 
  Quando arrivammo in cima alla salita vedemmo i tetti rossi e le  case bianche di Burguete allineate nel piano, e lontano, ai piedi  della prima montagna scura, il tetto di metallo grigio del monastero  di Roncisvalle. 
  "Ecco Roncisvalle" io dissi. 
  "Dove?" 
  "Dritto là dove cominciano le montagne."   "Fa freddo quassù" Bill disse. 
  "E' alto" dissi io. "Devono essere milleduecento metri."   "Fa un freddo cane" disse Bill. 
  La corriera proseguì in piano sulla striscia diritta di strada  verso Burguete. Passammo una via trasversale e un ponte su di un  fiume. Le case di Burguete erano tutte ai due lati della strada. Non  c'erano altre vie laterali. La corriera passò la chiesa e la scuola e  si fermò. Noi scendemmo e il conducente ci tese giù i bagagli e il  fodero delle canne da pesca. Ci venne incontro un carabiniere col  cappello a due punte e il cinturone di cuoio giallo. 
  "Che c'è qui dentro?" indicò il fodero delle canne. 
  Aprii e gli feci vedere. Egli chiese di vedere le nostre licenze di  pesca e io le tirai fuori. Guardò la data, poi ci salutò. 
  "Tutto in regola?" io chiesi. 
  "Sì, tutto in regola." 
  Camminammo per la strada fino alla locanda, tra le due file di case  di pietra bianca lavata, con le famiglie che sedute sulle porte ci  guardavano passare. La donna grassa che dirigeva la locanda venne  fuori dalla cucina e ci strinse la mano. Si tolse gli occhiali, li  pulì e se li rimise. Faceva freddo nella locanda, fuori cominciava a  soffiare il vento. La donna mandò su con noi una ragazza a mostrarci  la camera. C'erano due letti, un lavabo, un armadio e una grossa  incisione in ferro di Nuestra Señora de Roncesvalles. Dietro le  imposte il vento soffiava. La stanza era a nord. Ci lavammo, mettemmo  dei maglioni e scendemmo giù in sala da pranzo. Qui il pavimento era  di pietra, il soffitto basso, e i muri rivestiti di pannelli di  quercia. Tutte le imposte erano chiuse e faceva così freddo che si  poteva vedere il fiato. 
  "Cristo!" Bill disse. "Non può far così freddo domani. Io non entro  coi piedi in acqua, con un tempo simile." 
  Nell'angolo c'era un pianoforte. Bill si sedette e attaccò a  suonare. 
  "Ho trovato da riscaldarmi" disse. 
  Io andai in cerca della donna per chiederle quanto erano camera e  pensione. Lei mise le mani sotto il grembiale e guardò dà un'altra  parte. 
  "Dodici pesetas." 
  "Ma pagavamo tanto a Pamplona." 
  Lei non disse niente, solo si tolse gli occhiali e li pulì nel  
grembiale. 
  "E' troppo" dissi io. "Non pagheremmo di più in un grande albergo." 
  "C'è il bagno." 
  "Non ne avete di meno care?" 
  "Non d'estate. Ora è stagione alta." 
  Noi eravamo le sole persone nella locanda. "Bene" pensai "è solo  per pochi giorni." 
  "E' compreso il vino?" 
  "Oh, sì." 
  "Allora" dissi io "va bene." 
  Tornai da Bill. Bill soffiò il fiato verso di me per mostrarmi che  freddo faceva, e continuò a suonare. Io mi sedetti a un tavolo e  guardai le pitture sul muro. C'erano un pannello di conigli morti,  uno di fagiani, pure morti, e un pannello di anatre morte. I pannelli  erano scuri e affumicati. C'era una credenza piena di bottiglie di  liquore. Io la guardai. Bill continuava a suonare. 
  "Che ne diresti di un punch caldo al rum?" disse. "Questo mica può  riscaldarmi a tempo indefinito." 
  Io andai a dire alla donna che cos'era e come si faceva un punch al  rum. Pochi minuti dopo una ragazza portò in sala una fumante brocca  di terracotta. Bill si alzò dal piano e si avvicinò. Bevemmo il punch  caldo e ascoltammo il vento che soffiava. 
  "Non c'è troppo rum qui dentro." 
  Io mi accostai alla credenza, presi la bottiglia del rum e ne  versai un mezzo bicchiere nella brocca. 
  "Azione diretta" Bill disse. "Batte la legislazione."   La ragazza entrò ad apparecchiare la tavola per la cena. 
  "Senti che Cristo di vento" disse Bill. 
  La ragazza portò dentro una grande zuppiera di minestra di verdura  e il vino. Avemmo poi trote fritte, una specie di stufato e una  grande fruttiera piena di fragole selvatiche. Il vino non ci costava  niente, e la ragazza era un po' scontrosa ma per portarci il vino era  brava. La donna grassa mise dentro la testa una volta e contò le  bottiglie vuote. 
  Dopo cena salimmo di sopra. Fumammo e leggemmo a letto per  riscaldarci. Una volta nella notte io mi svegliai e sentii il vento  soffiare. Era bello essere a letto e al caldo. 
XII 
  Al mattino quando mi svegliai andai alla finestra e guardai fuori.  Era schiarito e non c'erano nuvole sulle montagne. Fuori, sotto la  finestra, c'erano alcuni carri e una vecchia diligenza col tetto  sfondato dal maltempo. Doveva esser lì abbandonata da un'epoca  anteriore alle automobili. Una capra saltò su un carro poi si  arrampicò sul tetto della diligenza. Di qui si voltò a guardar giù le  altre capre. Saltò giù quando io alzai un braccio. 
  Bill dormiva ancora. Io mi vestii, uscii nel corridoio a mettere le  scarpe e scesi giù. Giù non si vedeva nessuno, e tolsi la spranga  alla porta e uscii in strada. Faceva fresco, di primo mattino, e  ancora il sole non aveva asciugato la rugiada posatasi al cessar del  vento. Rovistai nella stalla dietro la locanda e, trovata una specie  di vanga, mi avvicinai al fiume per scavare vermi da esca. Il fiume  era chiaro e poco profondo, ma non pareva che ci fossero trote. Sulla  riva erbosa, all'asciutto, cacciai nella terra la vanga e sollevai  una zolla. C'erano vermi sotto, che scomparvero quando io alzai la  zolla di terra, ma frugando con attenzione ne raccolsi un bel po'.  Scavando al margine del terreno umido riempii di vermi due scatole di  tabacco vuote, e le colmai fino all'orlo di sabbia. Le capre mi  guardavano scavare. 
  Tornato alla locanda trovai la padrona in cucina. Le dissi di  prepararci il caffè e la colazione. Bill era sveglio e seduto in  mezzo al letto. 
  "Ti ho visto dalla finestra" disse. "Non ho voluto interromperti.  
Cosa facevi? Seppellivi il tuo denaro?" 
  "Lazzarone!" 
  "Lavoravi per il bene comune? Splendido. Dovresti farlo tutte le  mattine." 
  "Avanti" dissi "alzati." 
  "Che? Alzarmi? Chi si alza? Io non mi alzo."   Si rimise sotto e si tirò il lenzuolo fino al mento.   "Ora discuti e tenta di convincermi ad alzarmi."   Io raccolsi gli arnesi da pesca e li misi nel fodero. 
  "Non t'interessa discutere?" chiese Bill. 
  "Vado giù a mangiare." 
  "Mangiare? Perché non hai detto prima mangiare? Io credevo che tu  mi volessi far alzare per scherzo. Mangiare? Bene. Ora ragioni. Tu  vai giù a scavare altri vermi e io vengo subito." 
  "Oh, va' al diavolo!" 
  "Vai a lavorare per il bene comune." Bill si infilò le mutande.  
"Dimostra ironia e pietà!" 
  Uscii dalla camera con gli arnesi, le reti e le canne.   "Ehi! Torna qui!"   Rimisi dentro la testa. 
  "Non vuoi dimostrare ironia e pietà?"   Io mi misi il pollice sul naso. 
  "Questa non è ironia" disse Bill. 
  Mentre scendevo giù sentii Bill cantare: 
  "L'Ironia e la Pietà. Quando uno dice così... Oh, dateci l'Ironia,  oh, dateci la Pietà. Oh, dateci l'Ironia. Quando uno dice così...  
Solo un poco d'Ironia, solo un poco di Pietà..." 
  Continuò a cantare finché arrivò giù. Il motivo era The bells are  ringing for me and my gal. Io stavo leggendo un giornale spagnolo  vecchio di una settimana. 
  "Cos'è tutta questa storia di Ironia e Pietà?" 
  "Che? Non sai niente della faccenda Ironia e Pietà?" 
  "No. Chi l'ha tirata fuori?" 
  "Tutti. A New York vanno tutti pazzi per questa faccenda. Quasi  come una volta andavano pazzi per i Fratellini." Entrò la ragazza col  caffè e i toasts al burro. O meglio si trattava di pane tostato e  imburrato. 
  "Chiedile se hanno marmellata" Bill disse. "Sii ironico con lei." 
  "Avete marmellata?" 
  "Non è ironico. Vorrei saper parlare io spagnolo." 
  Il caffè era buono e lo bevemmo nelle grandi tazze. La ragazza ci  portò un vaso di marmellata di lampone. 
  "Grazie" dissi. 
  "Eh, non così" disse Bill. "Di' qualcosa di ironico. Di' una  battuta su Primo de Rivera." 
  "Potrei chiederle che marmellata è successa al Riff." 
  "Povera" disse Bill. "Molto povera. Non sei capace, ecco tutto. Non  capisci l'ironia. Non hai pietà. Di' qualcosa di pietoso." 
  "Robert Cohn." 
  "Non c'è male. Questa va meglio. Ora, perché è pietoso Cohn? Sii  ironico." 
  Bevve un lungo sorso di caffè. 
  "Oh, cavolo" dissi io. "E' troppo presto a quest'ora di mattina."   "Ecco come fai. E poi dici che vuoi fare lo scrittore. Tu sei solo  un giornalista. Un giornalista emigrato. Dovresti essere ironico  nell'istante in cui ti alzi dal letto. Dovresti svegliarti con la  
bocca piena di pietà." 
  "Avanti" dissi. "Dove hai pescato queste storie?" 
  "Dappertutto. Non leggi? Non vedi nessuno? Sai cosa sei? Sei un  emigrato. Perché non vivi a New York? Sapresti queste cose. Cosa devo  
fare io secondo te? Venire qui tutti gli anni a dirtele?"   "Prendi dell'altro caffè" io dissi. 
  "Bene. Il caffè a te fa bene. C'è la caffeina. Caffeina, noi siamo  qua. La caffeina mette l'uomo a cavallo e la donna in imbarazzo. Sai  qual è il tuo guaio? Sei un emigrato. Uno del tipo peggiore. Non te  lo hanno mai detto? Nessuno che abbia abbandonato il suo paese ha  scritto mai niente di buono. Nemmeno nei giornali."   Bevve il caffè. 
  "Sei un emigrato, ecco cosa sei. Hai perduto il contatto col suolo.  Diventi prezioso. La corruzione europea ti ha rovinato. Tu bevi la  tua vita. Ti lasci ossessionare dal sesso. Passi il tempo parlando,  non lavorando. Tu sei un emigrato, capisci. Tu giri per i caffè." 
  "Sembrerebbe una bella vita" dissi io. "E quando lavoro?"   "Tu non lavori. Alcuni affermano che le donne ti mantengono. Altri  gruppi sostengono che sei impotente." 
  "No" dissi io "soltanto ho avuto un incidente." 
  "Mai parlarne" disse Bill. "Questo è il genere di cose di cui non  bisogna mai parlare. E' questo che tu dovresti coprire di mistero.  
Come la bicicletta di Henry." 
  Stava andando avanti magnificamente ma si fermò. Io ebbi paura che  pensasse di avermi urtato con quell'accenno all'impotenza. Volevo che  andasse avanti ancora. 
  "Ma non era una bicicletta" dissi. "Andava a cavallo." 
  "A me pareva che fosse un triciclo." 
  "Bene" dissi io. "Un aeroplano è una specie di triciclo. I comandi  
funzionano nello stesso modo." 
  "Ma non si pedala." 
  "No" dissi io. "Credo bene che non si pedala."   "Lasciamo andare questo" disse Bill. 
  "Bene. Eravamo rimasti al triciclo. Vada per il triciclo." 
  "Penso che è un bravo scrittore, anche" Bill disse. "E tu sei un  accidente di bel tipo. Non ti ha mai detto nessuno che sei un bel  tipo?" 
  "Io non sono un bel tipo." 
  "Senti, sei un accidente di bel tipo e io sono più innamorato di te  che di chiunque altro sulla terra. Non potrei dirti questo a New  York. Significherebbe che sono un finocchio. Questa è la vera storia  della guerra civile. Abraham Lincoln era un finocchio. Così Jefferson  Davis. Lincoln liberò gli schiavi per una scommessa. Il caso Dred  Scott fu una montatura della Lega anti-alcoolica. Il sesso spiega  tutto. La moglie del colonnello e Judy O'Grady sono lesbiche sotto la  pelle." 
  Si fermò. 
  "Vuoi sentirne ancora?" 
  "Sputa fuori." 
  "Non ne so più. Te ne dirò altre a pranzo."   "Vecchio Bill" dissi io.   "Lazzarone" Bill disse. 
  Mettemmo nel sacco da montagna il pacco della colazione e due  bottiglie di vino. Se lo caricò Bill. Io portavo a tracolla le reti e  le canne da pesca nel fodero. C'incamminammo. Passato un prato  trovammo un sentiero per i campi, che portava ai boschi sulla  collina. 
  Camminammo per il sentiero sabbioso, attraverso i campi. I campi  erano ondulati e erbosi, l'erba era corta, mangiata dalle pecore. Le  greggi erano su nelle colline, sentivamo nei boschi le campanelle.   Il sentiero attraversava un ruscello su di un ponte fatto con un  tronco. Il tronco era stato livellato nella parte superiore, e un  ramo era stato messo di traverso per potervisi appoggiare. Nello  stagno, passato il ruscello, c'erano pali piantati nella sabbia.  Salimmo su per una ripida scarpata, proseguimmo attraverso i campi  ondulati. Guardando indietro vedevamo Burguete, case bianche e tetti  rossi, e la strada bianca dove un carro passava e si sollevava la  polvere. 
  Dopo i campi traversammo un altro ruscello dal corso più veloce.  Una strada sabbiosa portava al guado e finiva nel bosco. Poco più giù  del guado il nostro sentiero passava il ruscello su un altro tronco,  e si riuniva alla strada. Entrammo nel bosco. 
  Era un bosco di faggi molto antichi. Le radici ingrossavano sotto  terra e i rami s'intrecciavano. Percorremmo il sentiero, fra i  tronchi massicci degli antichi faggi, e la luce del sole arrivava tra  le foglie, in macchie di luce sull'erba. Gli alberi erano grossi, il  fogliame spesso ma non cupo. Non c'erano cespugli, solo l'erba  morbida, molto verde e fresca, e i grossi alberi grigi ben  distanziati come in un parco. 
  "Questo è paesaggio" disse Bill. 
  Entrammo in boschi più fitti e il sentiero cominciò ad  arrampicarsi. Di tanto in tanto scendeva, poi di nuovo saliva ripido.  Continuamente sentivamo le greggi nei boschi. Infine il sentiero  sboccò in una radura che dominava le colline. Eravamo nel punto più  alto dell'anello di colline boscose che avevamo viste da Burguete.  
Fragole selvatiche crescevano in una piccola radura fra gli alberi,  sul fianco solatio dell'altura. 
  Più avanti la strada usciva dal bosco e continuava lungo il  costone. Davanti a noi le colline non erano boscose, c'erano vasti  campi gialli di ginestra. Lontano vedevamo la spaccatura, scura di  alberi e rocce sporgenti, che segnava il corso del fiume Irati. 
  Io indicai a Bill: 
  "Dobbiamo seguire questa strada lungo il costone, passare queste  colline, poi passare quei boschi sulle colline più lontane e arrivare  giù alla vallata dell'Irati." 
  "E' un accidente di viaggio." 
  "Certo è un po' lontano per andare e venire nello stesso giorno  comodamente." 
  "Comodamente, bella parola. Dobbiamo fare quest'accidente di  viaggio per andare e venire e magari non riuscire a pescare niente."   Fu un lungo cammino, ed era bello il paesaggio, ma noi eravamo  stanchi quando arrivammo in fondo al ripido sentiero che dai boschi  portava nella valle del Rio de la Fabrica. 
  Dall'ombra dei boschi il sentiero usciva nel sole caldo. Davanti a  noi c'era ora una valle. Oltre il fiume v'era una ripida collina e  sulla collina un campo di granturco, sul fianco della collina una  casa tra gli alberi. Faceva molto caldo, noi ci fermammo accanto a  una chiusa che traversava il corso d'acqua formando una cascata.   Bill posò il sacco contro un albero. Montammo le canne sistemando  le lenze e fummo pronti per pescare. 
  "Sei sicuro che in questo coso ci siano trote?" Bill chiese.   "E' pieno di trote." 
  "Voglio pescare con le mosche. Hai portato dei Mc Gintys?" 
  "Ce n'è lì dentro." 
  "Tu peschi con la lenza?" 
  "Già. Pesco qui, nella cascata." 
  "Bene, io prendo la scatola delle mosche, allora." Legò una mosca  sull'amo. "Dove è meglio mettersi? Su o giù?"   "Giù è meglio. Ma anche su ce n'è molte."   Bill si avviò giù lungo la riva. 
  "Prendi un barattolo di vermi." 
  "Non mi serve. Se le mosche alle trote non gli vanno, faccio la  pesca a getto." 
  Bill guardava il fiume. 
  "Ascolta" gridò nel rumore della cascata. "Che ne diresti di  mettere il vino in quella specie di fontana?"   "Bene" gridai io. 
  Bill salutò agitando la mano e si avviò in giù, lungo il fiume. Io  presi dal sacco le bottiglie e mi avvicinai al luogo in cui l'acqua  di una sorgente sgorgava da un tubo di ferro. Sopra la fontana c'era  una lastra di pietra. Io la sollevai e, ficcati ben dentro i  turaccioli, calai le bottiglie in acqua. L'acqua era così fredda che  sentii la mano e il polso intorpidirmisi. Rimisi a posto il coperchio  di pietra e mi augurai che nessuno scoprisse quel vino.   Presi la canna che avevo appoggiato ad un albero, il barattolo dei  vermi e la lenza, e mi avvicinai alla chiusa. Serviva come testa  d'acqua per il trasporto dei tronchi sul fiume. Il cancello era  sollevato. Io mi sedetti su uno dei grossi pali quadrati, guardando  la massa d'acqua che era calma e lenta prima della cascata. Al piede  della palizzata l'acqua era opaca e profonda. Mentre infilavo l'esca,  una trota dall'acqua opaca saltò nella cascata e fu trascinata giù.  Prima che io potessi finire di innescare, un'altra trota saltò nella  cascata, compiendo il medesimo arco elegante e scomparendo nell'acqua  che rumoreggiava. Misi a posto bene il sughero e immersi la lenza  nell'acqua bianca, presso i pali della barriera. 
  Non sentii la prima trota abboccare, sentii che c'era qualcosa  quando feci per tirar su. La tirai fuori faticando e quasi piegando  in due la canna, fuori dell'acqua che ribolliva ai piedi della  cascata, la tirai al volo sulla chiusa. Era una bella trota, e io le  sbattei la testa contro il palo; con un tremito la trota si stirò  immobile e io la feci scivolare nella borsa. 
  Intanto parecchie trote erano saltate nella cascata. Avevo appena  infilata la lenza e immerso l'amo, quando un'altra abboccò, e la  tirai fuori allo stesso modo. In breve ne presi sei, tutte  pressappoco grandi uguali. Le disposi una accanto all'altra, con le  teste tutte dallo stesso lato, e le guardai. Avevano bellissimi  colori, ferme e indurite com'erano dal freddo dell'acqua. Era un  giorno caldo, così le aprii e tolsi interiora, branchie e pinne, che  gettai oltre il fiume. Tornato sulla riva presi le trote e le lavai  nell'acqua tranquilla sopra la chiusa, poi raccolsi delle felci e  sistemai tutto nella borsa, uno strato di felci, poi tre trote, poi  un altro strato di felci, altre tre trote, e un altro strato di  felci. Stavano bene, messe lì tra le felci. Ora la borsa era grossa e  voluminosa e la posai sotto un albero all'ombra.   Faceva caldo, sulla chiusa. Io misi il barattolo dei vermi  all'ombra accanto alla borsa, presi un libro dal sacco e mi piazzai  sotto un albero a leggere, aspettando Bill per far colazione.   Era da poco passato mezzogiorno e non c'era molta ombra, ma io mi  sedetti appoggiandomi al tronco di due alberi riuniti, e lessi. Era  un libro di A'E'W' Mason, e io leggevo la meravigliosa storia di un  uomo che, sorpreso dal gelo sulle Alpi, veniva congelato e cadeva in  un ghiacciaio sparendo, e la fidanzata di quest'uomo aspettava  ventiquattro anni che il corpo di lui venisse fuori dalla morena,  aspettava il suo grande unico amore, e ancora aspettava quando Bill  arrivò. 
  "Preso niente?" chiese. 
  Aveva in mano canna lenza e borsa, ed era tutto sudato. Io non lo  avevo sentito arrivare per il rumore della chiusa. 
  "Io sei. E tu?" 
  Bill si sedette, aprì la borsa, posò sull'erba una grossa trota.  Tirò fuori ad una ad una altre tre trote, ognuna un po' più grossa  dell'altra, e le dispose allineate nell'ombra dell'albero. La faccia  di Bill era sudata e felice. 
  "Come sono le tue?" 
  "Più piccole." 
  "Vedere." 
  "Sono già impacchettate." 
  "Come sono grosse?" 
  "Suppergiù come la tua più piccola." 
  "Non mi prendi in giro?" 
  "Magari." 
  "Prese tutte coi vermi?" 
  "Sì." 
  "Lazzarone!" 
  Bill rimise le trote nella borsa e si avviò verso il fiume roteando  la borsa aperta. Era bagnato dalla cintola in giù e si capiva che era  entrato con le gambe in acqua. 
  Io andai a prendere le due bottiglie di vino. Erano fredde. Mentre  andavo verso gli alberi comparve sulle bottiglie un velo di umidità.  Stesi un giornale sull'erba e vi disposi sopra la colazione, sturai  una delle bottiglie e appoggiai l'altra all'albero. Bill tornò  indietro asciugandosi le mani, con la borsa sovraccarica di felci.  "Vediamo quella bottiglia" disse. Tolse il turacciolo, alzò la  bottiglia e bevve. "Uh! Questo aguzza la mia vista." 
  "Provare." 
  Il vino era ghiacciato e aveva un sapore leggermente acidulo. 
  "Non è infame come vino" disse Bill. 
  "Il freddo lo aiuta" dissi. 
  Aprimmo i piccoli involti della colazione. 
  "Pollo." 
  "E queste sono uova sode." 
  "Trovi del sale?" 
  "Prima le uova" disse Bill. "Poi il pollo. Anche Bryan capirebbe  questo." 
  "E' morto. L'ho letto ieri sul giornale." 
  "No. Davvero?" 
  "Sì. Bryan è morto." 
  Bill posò l'uovo che stava sbucciando. 
  "Signore e signori" disse, e tolse una forchetta da un pezzo di  giornale. "Inverto l'ordine in onore di Bryan. Come tributo al Grande  
Politico. Prima il pollo. Poi le uova." 
  "Chissà in che giorno Dio creò il pollo." 
  "Oh" disse Bill succhiando la forchetta "come possiamo saperlo? Non  dobbiamo chiedercelo. Il nostro soggiorno sulla terra è breve.  
Rallegriamoci, crediamo e rendiamo grazie." 
  "Mangia un uovo." 
  Bill gesticolò con la forchetta in una mano e la bottiglia  nell'altra. 
  "Rallegriamoci e benediciamo. Utilizziamo i pennuti abitanti  dell'aria. Utilizziamo il prodotto della vite. Vuoi utilizzare un po'  di questo, fratello?" 
  "Dopo di te, fratello."   Bill bevve un lungo sorso. 
  "Utilizza, fratello." Mi tese la bottiglia. «Non poniamoci dubbi,  fratello. Non frughiamo con mani di scimmia nei sacri misteri del  pollaio. Accettiamo ogni cosa con fede e semplicemente diciamo:  "Voglio che tu ti unisca a me nel dire...". Che cosa dobbiamo dire,  fratello?» Puntò verso di me la forchetta e proseguì: "Ora ti dico.  
Noi diremo, ed io per primo sono orgoglioso di dire, e voglio che tu  dica con me: "in ginocchio, fratello". Non deve un uomo vergognarsi  di inginocchiarsi qui nel grande vestibolo. Ricordati che i boschi  furono i primi templi di Dio. Inginocchiamoci e diciamo: "Non  mangiate quello, Lady..., quello è Mencken"."   "Qua" dissi io "utilizza un poco di questo."   Sturammo l'altra bottiglia. 
  "Che c'è?" io dissi. "Non ti piaceva Bryan?" 
  "Amavo Bryan" disse Bill. "Eravamo come fratelli." 
  "Dove lo avevi conosciuto?" 
  "Lui, Mencken ed io andammo a Santa Croce assieme." 
  "E Frankie Fritsch." 
  "Bugia. Frankie Fritsch andò a Fordham." 
  "Bene" dissi io. "Io andai a Loyola col vescovo Manning."   "Bugia" disse Bill. "Io andai a Loyola col vescovo Manning."   "Hai preso la ciucca" dissi io. 
  "Di vino?" 
  "Perché no?" 
  "E' l'umidità" Bill disse. "Bisognerebbe eliminare questa dannata  umidità." 
  "Prendi un altro sorso." 
  "Questo è tutto quello che abbiamo?"   "Due bottiglie solo."   "Sai cosa sei?" Bill disse. 
  Guardò con affetto la bottiglia. 
  "No" dissi io. 
  "Sei pagato dalla Lega anti-alcoolica." 
  "Io? Io andai a Notre-Dame con Wayne B' Wheeler." 
  "Bugia" disse Bill. "Io andai all'Austin Business College con Wayne  
B' Wheeler. Era capoclasse." 
  "Bene" dissi io. "La lega se ne va." 
  "Sicuro, vecchio condiscepolo" Bill disse. "Se ne va la lega e chi  se ne frega." 
  "Hai preso la ciucca." 
  "Di vino?" 
  "Di vino." 
  "Bene, può essere." 
  "Vuoi fare una dormita?" 
  "Ottima idea." 
  Ci sdraiammo con la testa all'ombra sotto gli alberi. 
  "Dormi?" 
  "No" Bill disse. "Pensavo." 
  Io chiusi gli occhi. Era bello essere distesi sulla terra. 
  "Senti" Bill disse. "Cos'è questa storia di Brett?" 
  "Cos'è come?" 
  "Mai preso la cotta per lei?" 
  "Sicuro." 
  "Quanto è durata?" 
  "Dura da un sacco di tempo e immagino che ancora per un sacco di  tempo durerà." 
  "Oh, cavolo" disse Bill. "Mi dispiace, amico. Scusami." 
  "Niente" dissi. "Non me ne importa un accidente, ormai." 
  "Davvero?" 
  "Davvero. Solo sarei più che contento di non parlarne." 
  "Ti è seccato che io ne abbia parlato?" 
  "No, figurati." 
  "Bene, ora mi addormento" Bill disse. Si coprì la faccia con un  giornale. 
  "Ascolta, Jake" disse. "Sei davvero un cattolico?" 
  "In senso tecnico." 
  "Che vuol dire?" 
  "Non so." 
  "Bene, ora mi addormento. Non cercare di tenermi sveglio con le tue  chiacchiere." 
  Anch'io mi addormentai. 
  Quando mi svegliai, Bill stava preparando il sacco. Era pomeriggio  tardo, l'ombra degli alberi era lunga e arrivava fino alla chiusa. Mi  sentii indolenzito per aver dormito in terra. 
  "Che fai, ti svegli?" chiese Bill. "Perché non dormi addirittura  tutta la notte?" 
  Mi stirai e mi stropicciai gli occhi. 
  "Ho fatto un meraviglioso sogno" Bill disse. "Non mi ricordo che  sogno era, ma certo era un sogno meraviglioso." 
  "Io non credo di aver sognato." 
  "Male. Avresti dovuto" disse. "Tutti i nostri più grandi uomini  sono stati dei sognatori. Prendi Ford. Prendi il presidente Coolidge.  
Prendi Rockefeller. Prendi Jo Davidson." 
  Smontai la mia canna e quella di Bill e le misi nel fodero. Misi i  sugheri nella borsa degli attrezzi. Bill mise nel sacco una delle due  borse piene di trote. Io presi l'altra. 
  "Bene" disse Bill "abbiamo preso tutto?" 
  "I vermi." 
  "I tuoi vermi. Mettili qui dentro." 
  Aveva il sacco in spalla. Io misi i barattoli dei vermi in una  tasca esterna. 
  "Abbiamo preso tutto ora?" 
  Io guardai in giro, sull'erba e ai piedi dell'olmo. 
  "Sì" dissi. 
  Prendemmo la strada attraverso i boschi. Fu un lungo cammino fino a  Burguete, ed era scuro quando, dai campi, sbucammo sulla strada, e  lungo la strada camminammo fino all'albergo, tra le case del paese  con le finestre illuminate. 
  Ci fermammo cinque giorni a Burguete e facemmo buona pesca. La  notte faceva freddo e il giorno caldo, ma c'era sempre un po' d'aria  anche nella calura del giorno. Faceva caldo abbastanza per entrare  coi piedi nell'acqua fredda del ruscello, e il sole vi asciugava  quando venivate fuori a sedervi sulla riva. Trovammo un corso d'acqua  con uno stagno profondo abbastanza per nuotare. La sera giocavamo un  bridge a tre con un inglese di nome Harris che veniva da Saint  Jean-Pied-de-Port e si fermava alla locanda per pescare. Era un tipo  simpatico e venne due volte con noi al fiume Irati. Nessuna notizia  arrivò da Robert Cohn né da Brett e Mike. 
XIII 

  Un mattino io scesi a colazione e l'inglese, Harris, era già a  tavola. Leggeva il giornale con gli occhiali. Mi guardò e sorrise.   "C'è posta per voi" disse. "Sono passato alla posta e mi hanno dato  anche una lettera per voi."
  La lettera era al mio posto, accanto alla tazza del caffè. Harris  si era rimesso a leggere il giornale. Io aprii la lettera. Era stata  rispedita da Pamplona ed era datata San Sebastiano, domenica:Caro  Jake,
  siamo arrivati qui venerdì. Brett sul treno è stata male, così l'ho  portata qui per farla riposare tre giorni con vecchi amici nostri.  Saremo martedì a Pamplona all'Hôtel Montoya, l'ora dell'arrivo non la  so. Puoi mandarci con la corriera un biglietto con quel che dobbiamo  fare per riunirci tutti mercoledì. Tanti saluti e scuse per il  ritardo, ma Brett davvero stava male e starà completamente bene  martedì e già praticamente sta bene ora. Io la conosco bene e cerco  di starle dietro ma non è tanto facile. Saluti agli amici.
    Michael
  Io chiesi ad Harris: "Che giorno della settimana è?".
  "Mercoledì, mi pare. Sicuro, mercoledì. Meraviglioso come si perde  la nozione del tempo tra queste montagne."   "Oh, sì. Siamo qui ormai da quasi una settimana."
  "Spero che non avrete intenzione di andar via."   "Ho paura di sì. Ho paura che prenderemo la corriera oggi  pomeriggio."
  "Che scalogna. Io speravo che saremmo andati almeno un'altra volta  assieme all'Irati."
  "Dobbiamo tornare a Pamplona. C'è gente che ci aspetta."   "Che dannata scalogna per me. Qui a Burguete abbiamo passate delle  buone giornate. Siamo stati allegri."
  "Venite a Pamplona. Possiamo giocare a bridge anche là, e ci sarà  una fiesta buona forte."
  "Mi piacerebbe. Molto gentile da parte vostra dirmelo. Però è  meglio che mi fermi qui. Non mi resta molto altro tempo per pescare."
  "Voi volete prendere quelle grosse trote dell'Irati."
  "Sicuro. Ce ne sono di enormi in quel fiume."
  "Mi piacerebbe provare ancora una volta a prenderle."
  "Potete. Fermatevi un altro giorno. Fate il bravo."
  "Davvero dobbiamo tornare a Pamplona."
  "Che peccato."
  Dopo colazione Bill ed io ce ne stavamo seduti a scaldarci al sole  su una panca, davanti alla locanda. Una ragazza veniva verso di noi  su per la strada dal centro del paese. Si fermò davanti a noi e prese  un telegramma dalla borsa di cuoio che aveva a tracolla.
  "Por ustedes?"
  Io guardai. L'indirizzo era "Barnes, Burguete".
  "Sì, per noi."
  La ragazza tirò fuori un libro che mi dette da firmare, e io le  detti un paio di monete di rame. Il telegramma era in spagnolo:   Vengo jueves Cohn
  Io passai il telegramma a Bill.
  "Che cosa significa la parola Cohn?" chiese Bill.
  "Che telegramma idiota" dissi io. "Poteva scrivere dieci parole per  lo stesso prezzo. Arrivo giovedì. Ottiene un formidabile effetto,  no?"
  "Tutto l'effetto che vuole Cohn."
  "Ad ogni modo partiamo" dissi. "Non è il caso di far andare avanti  e indietro Brett e Mike prima della fiesta. Dobbiamo rispondere?"   "Si potrebbe" Bill disse. "Non dobbiamo mostrarci maleducati."   Camminammo fino all'ufficio telegrafico e chiedemmo un modulo.
  "Che diciamo?" chiese Bill.
  ""Arriviamo stanotte". Può bastare."
  Pagammo e tornammo alla locanda. C'era qui Harris, e con lui  facemmo una passeggiata fino a Roncisvalle. Entrammo nel monastero.
  Disse Harris quando uscimmo:
  "Notevole posto. Ma voi sapete che io non sono troppo fatto per  questi posti."
  "Io nemmeno" disse Bill.
  "E' un posto notevole, ad ogni modo" Harris disse. "Mi spiacerebbe  di non averlo visto. Voglio venire quassù tutti i giorni, anzi."
  "Ma non è come pescare, no?" chiese Bill. A Bill, Harris piaceva.   "Sicuro che no."
  Eravamo fermi davanti all'antica cappella del monastero. Chiese  Harris:
  "Dico, non è uno spaccio che vedo a mezza via? O m'ingannano i miei  occhi?"
  "Ha tutta l'aria di uno spaccio" Bill disse.
  "Anche a mie pare uno spaccio" dissi io.
  "Andiamo a utilizzare quel vino" Harris disse. Aveva preso da Bill  il verbo utilizzare.
  Prendemmo una bottiglia di vino a testa. Harris non volle che  pagassimo noi. Parlava spagnolo molto bene e l'oste da noi non volle  accettare denaro.
  "Dico. Voi non sapete cosa ha significato per me star con voi."   "Che magnifiche giornate, Harris."   Harris era un poco brillo.
  "Dico. Davvero, voi non sapete che cosa ha significato. Dal tempo  della guerra non mi ero più divertito tanto."
  "Pescheremo assieme di nuovo, un giorno. Non dimenticartene,
Harris."
  "Dobbiamo. Sicuro che dobbiamo. Siamo stati allegri in questi  giorni. Che grandiose giornate."   "Prendiamo un'altra bottiglia?"   "Magnifica idea" Harris disse.
  "Questa la pago io" disse Bill. "O se no non si beve."   "Vorrei che lasciaste pagare a me. Vi assicuro che per me è un  piacere."
  "Questa" disse Bill "sarà un piacere per me."
  L'oste portò la quarta bottiglia. Avevamo gli stessi bicchieri.
Harris alzò il suo.
  "Dico" disse. "Questo si utilizza bene."
  Bill gli dette una manata sulla spalla.
  "Buon vecchio Harris."
  "Dico. Io veramente non mi chiamo Harris, sapete. Mi chiamo
Wilson-Harris. Tutto un nome. Con la lineetta."
  "Buon vecchio Wilson-Harris" disse Bill. "Noi ti chiamiamo Harris  perché siamo tanto innamorati di te."
  "Dico, Barnes. Voi non sapete cosa ha significato questo per me."
  "Avanti" io dissi "utilizzate un altro bicchiere."
  "Barnes. Davvero, Barnes, voi non sapete. Sul serio. Voi non  sapete, Barnes."
  "Forza, bevete, Harris."
  Tenendo Harris in mezzo, scendemmo da Roncisvalle. Alla locanda  pranzammo, poi Harris ci accompagnò alla corriera. Ci dette il suo  biglietto da visita con l'indirizzo di Londra, casa, club e ufficio.  Quando salimmo in corriera, consegnò a ciascuno di noi un pacchetto.  Io aprii il mio e c'erano una dozzina di mosche. Le aveva acchiappate  Harris. Acchiappava sempre da sé tutte le sue mosche.
  "Ma, Harris..." incominciai.
  "No, no" disse lui scendendo dalla corriera. "Non sono nemmeno  mosche di prima qualità. Solo ho pensato che se qualche volta vi  accadrà di pescare con quelle, vi ricorderete delle grandiose  giornate di qui."   La corriera partì.
  Harris fermo davanti all'ufficio postale agitò la mano. Quando la  corriera si allontanò sulla strada, Harris si voltò e tornò verso la  locanda.
  "Senti" disse Bill. "Non è tanto per bene, quell'Harris?"
  "Penso che davvero si è divertito in questi giorni."
  "Harris? Puoi scommetterci."
  "Volevo che venisse a Pamplona."
  "Ma lui vuole pescare."
  "Oh, sì. Non sì può mai sapere quando un inglese vuol stare in
compagnia e quando no."
  "Già."
  Arrivammo a Pamplona tardi nel pomeriggio e la corriera si fermò  davanti al Montoya. Nella plaza stavano sistemando i fili elettrici  per l'illuminazione durante la fiesta. Quando la corriera si fermò,  si avvicinarono pochi ragazzi. Una guardia doganale fermava la gente  che scendeva dalla corriera e faceva aprire tutti i fagotti sul  marciapiede. Entrammo in albergo e sulle scale incontrammo Montoya.
Ci strinse la mano, sorridendo nella sua maniera imbarazzata.
  "Ci sono qui i vostri amici" disse.
  "Mr' Campbell?"
  "Sì. Mr' Cohn, Mr' Campbell e Lady Ashley."
  Sorrideva come se ci fosse qualcosa che io dovessi capire.
  "Quando sono arrivati?"
  "Ieri. A voi ho conservato le camere che avevate."
  "Oh, bene. Avete dato a Mr' Campbell una camera che affacci sulla  piazza?"
  "Tutte le nostre camere affacciano sulla piazza."
  "Dove sono i nostri amici, ora?"
  "Credo che siano andati alla pelota."
  "Bene. E i tori?" dissi io. "Come vanno i tori?"
  Montoya sorrise. "Stasera" disse. "Stasera alle sette portano i  tori di Villar e domani quelli di Miuras. Venite giù tutti a vedere?"   "Sì, i miei amici non hanno mai visto una desencajonada."   Montoya mi mise la mano sulla spalla.
  "Ci vediamo là, allora."
  Di nuovo sorrise. Sorrideva sempre come se corrida e toreri fossero  un segreto molto delicato e importante tra noi due, uno speciale  segreto di cui solo noi due eravamo a conoscenza. Sempre sorrideva  come se ci fosse stato qualcosa di segreto che in presenza di  estranei non si poteva dire ma che noi capivamo, qualcosa che non si  poteva raccontare a gente che non avrebbe compreso.
  "Il vostro amico è un aficionado?" mi chiese Montoya, sorridendo a  Bill.
  "Oh, sì" dissi io. "Viene direttamente da New York per vedere la  fiesta di San Firmino."
  "Sì?" Montoya chiese, educatamente incredulo. "Ma non è aficionado  come voi."
  Mi mise con imbarazzo la mano sulla spalla.
  "Come no" dissi io. "E' un vero aficionado."
  "Non un aficionado come voi."
  Afición significa passione, Aficionado è un appassionato di  corride. All'Hôtel Montoya si fermavano tutti i buoni toreri. Quelli  che avevano afición. I toreri commerciali potevano al più fermarsi  una volta ma non ritornavano più. Quelli buoni ritornavano tutti gli  anni. Nella stanza di Montoya c'erano le loro fotografie, dedicate a  Juanito Montoya e alla sorella. Le fotografie dei toreri in cui  Montoya aveva davvero creduto, erano in cornice. Le fotografie dei  toreri senza afición Montoya le teneva in un cassetto della  scrivania. Spesso recavano le dediche più lusinghiere, ma questo  niente significava per Montoya. Un giorno Montoya le prese tutte e le  gettò nel cestino della carta straccia. Non le voleva intorno.   Spesso io e Montoya parlavamo di tori e di toreri. Erano molti anni  che io venivo al Montoya. Non parlavamo mai troppo a lungo ogni  volta. Solo parlavamo per il piacere di ritrovare i nostri sentimenti  comuni. Uomini venivano da città lontane e prima di lasciare Pamplona  si fermavano per pochi minuti a parlar di tori con Montoya. Questi  uomini erano aficionados. Gli aficionados potevano sempre trovare  camere, anche quando l'albergo era pieno. Montoya me ne presentò  alcuni. Dapprima erano sempre molto gentili, e li divertiva il fatto  che io fossi un americano. In qualche modo pareva fuor di discussione  che un americano potesse avere afición. Poteva simularla, poteva  confonderla con l'eccitamento, ma non davvero averla. Quando poi si  accorgevano che io avevo afición - e non c'erano domande esplicite,  piuttosto si trattava di una specie di esame orale ed interno con  domande sempre un po' sulla difensiva e mai appariscenti - quando  finalmente accertavano che io davvero avevo afición, c'era quel  medesimo imbarazzato metter la mano sulla spalla, oppure un "Buen  hombre". Ma più spesso vi mettevano la mano sulla spalla. Pareva che  vi volessero toccare per accertarsi della vostra afición.
  Montoya poteva perdonare tutto a un torero che avesse afición.  Poteva perdonare attacchi di nervi, panico, mosse brutte e  ingiustificate, ogni sorta di errori. Ad uno che avesse afición  Montoya poteva perdonare tutto. A me subito perdonò tutti i miei  amici. Montoya non diceva niente, ma essi erano sempre tra noi un  particolare un poco spiacevole, come l'uccisione dei cavalli  nell'arena.
  Bill era salito di sopra e lo trovai nella sua stanza che si lavava  e si cambiava.
  "Così" disse "hai parlato spagnolo abbastanza?"
  "Abbiamo parlato dei tori che arrivano oggi."
  "Cerchiamo gli altri della ghenga e andiamo a vedere quest'arrivo."
  "Credo che li troveremo al caffè."
  "Hai i biglietti?"
  "Sì, ho preso i biglietti per tutti gli arrivi."
  "Di che roba si tratta?"
  "E' mica male" dissi io. "Mandano fuori tutti i tori assieme dalle  gabbie, e ci sono nel recinto a riceverli dei giovenchi per badare  che non litighino tra loro, e i tori caricano i giovenchi, e i  giovenchi corrono in giro come vecchie zitelle cercando di tenerli  buoni."
  "E non si prendono mai delle cornate questi giovenchi?"
  "Sicuro. Molte volte i tori li prendono in pieno e li ammazzano."
  "E non possono far niente i giovenchi?"
  "No. Possono solo cercare di farsi amici i tori."
  "Cosa li tengono lì dentro a fare?"
  "Per tener buoni i tori e badare che non si rompano le corna contro
i muri di pietra o si piglino a cornate tra loro."
  "Bel mestiere fare il giovenco."
  Scendemmo giù e attraversammo la piazza verso il caffè di fronte,  l'Iruña. C'erano in mezzo alla piazza due chioschi solitari per la  vendita dei biglietti. Gli sportelli con le scritte: Sol, sol y  sombra, e sombra erano chiusi e non si aprivano fino alla vigilia  della fiesta.
  Di fronte, sull'altro lato della piazza, tavoli e poltrone di  vimini dell'Iruña si stendevano fuori del portico fino all'orlo del  marciapiede. Io cercai ai tavoli Brett e Mike. E qui li vidi, Brett,  Mike e Robert Cohn. Brett portava un berretto basco e così Mike.  Robert Cohn era a testa scoperta e portava occhiali. Brett ci vide  venire e alzò la mano.   "Hello, gente!" gridò.
  Brett appariva felice. Mike aveva un suo modo di tradurre nella  stretta di mano l'intensità del sentimento. Anche Cohn volle  stringerci la mano perché eravamo tornati.
  "Dove diavolo eravate andati?" io chiesi.
  "Li ho portati io qui" disse Cohn.
  "Che sciocchezza" Brett disse. "Saremmo venuti qui prima se non  fossi venuto tu."
  "Non sareste mai venuti" Cohn disse.
  "Che sciocchezza. Voi, gente, siete abbronzati. Guardate Bill."
  "Avete pescato bene?" Mike chiese. "Noi volevamo raggiungervi."   "Non c'è stato male. Sentivamo la vostra mancanza."
  "Io volevo venire" disse Cohn "ma ho pensato che dovevo far loro da  guida."
  "Far da guida. Che sciocchezza!"
  "Davvero non c'è stato male?" chiese Mike. "Avete preso molte  trote?"
  "Qualche giorno una dozzina per uno. C'era un inglese lassù."   "Di nome Harris" Bill disse. "Mai conosciuto, Mike? Era stato in  guerra, anche."
  "Fortunato individuo" Mike disse. "Bei tempi quelli. Come vorrei  che quei bei tempi tornassero."
  "Non far lo scemo" Brett disse.
  Chiese Cohn: "Sei stato in guerra, Mike?".
  "E come no!"
  "E' stato un valoroso soldato" Brett disse. "Racconta la storia del  cavallo che ti pigliò la mano a Piccadilly."   "No, l'ho già raccontata quattro volte."   "A me mai" disse Robert Cohn.
  "Non racconterò quella storia. Getta grande discredito su di me."
  "Racconta la storia delle medaglie."
  "No. E' una storia che getta discredito su di me."
  "Che storia è?"
  "Può raccontarvela Brett. Brett racconta tutte le storie che  gettano discredito su di me."   "Avanti, raccontala, Brett."
  "Devo raccontarla?"
  "La racconterò io."
  "Che medaglie hai tu, Mike?"
  "Non ho medaglie."
  "Pure devi averne."
  "Suppongo che ho le solite. Ma mai le avevo mandate a prendere.  Dunque, ci fu una volta questo famoso pranzo e doveva venire il  principe di Galles, e gli inviti dicevano di portare le medaglie.  Così io naturalmente non avevo medaglie, e passai dal mio sarto e lui  fu impressionato dall'invito, e io pensai che era quello che ci  voleva e gli dissi: "Dovete procurarmi delle medaglie". Lui disse:  "Che medaglie, signore?" e io dissi: "Oh, medaglie qualsiasi. Mi  basta che mi diate un po' di medaglie". Così lui disse: "Che medaglie  avete voi, signore?". E io dissi: "Che ne so io?". Forse lui pensava  che io sbattessi via il tempo a leggere quell'accidenti di gazzetta  ufficiale. "Mi basta che me ne diate un bel po'. Sceglietele voi."  Così lui mi dette delle medaglie, capite, fac-simili di medaglie, mi  dette tutta la scatola e io la misi in tasca e me ne dimenticai.  Bene, così andai al pranzo, e fu la notte che spararono a Henry  Wilson, e non vennero né il principe né il re e nessuno portava  medaglie e tutti quanti erano occupati a togliersi le loro, e io le  mie le avevo in tasca."
  Si fermò per lasciarci ridere.
  "Tutto qui?"
  "Tutto qui. Ma forse non l'ho detta giusta."
  "Eh, già" Brett disse "ma fa niente."
  Noi ridevamo tutti.
  "Ah, già" Mike disse "ora mi ricordo. Era un pranzo malinconico  forte e a me non andava, così me ne andai. Più tardi in serata trovai  la scatola delle medaglie in tasca. "Cos'è questo?" dissi. "Fottute  medaglie militari?" Così le staccai da un nastro, sapete che le  attaccano tutte su un nastro, e le distribuii in giro. Ne detti una  ad ogni ragazza. Una forma di souvenir. Credo che pensarono che ero  un bel tipo di soldato. Dar via le medaglie in un night club. Un tipo  formidabile."
  "Di' il resto" disse Brett.
  "Non trovate che fu buffo?" Mike chiese. Noi ridevamo. "Sicuro, era  buffo. Lo giuro che era buffo. Poi successe che il sarto mi scrisse e  voleva indietro le medaglie. Mandò un uomo a ritirarle. Continuò a  scrivere per dei mesi. Pare che le medaglie gliele avesse lasciate un  tale da pulire. Doveva essere un tale terribilmente militarista. Con  tutte quelle medaglie avrebbe potuto metter su un negozio." Mike fece  una pausa. "Brutto affare per il sarto" disse.
  "Ma no" disse Bill. "Io pensavo che era un grandioso affare, per il  sarto."
  "Buon sarto. Non credo che abbia più speranza di vedermi. Io gli  mandavo cento sterline all'anno per tenerlo buono, così lui non mi  mandava conti. Brutto affare per lui quando feci bancarotta. Fu  subito dopo la storia delle medaglie. Quel sarto dava alle sue  lettere un tono piuttosto pungente."
  "Come hai fatto a far bancarotta?" chiese Bill.
  "In due modi" Mike disse. "Gradualmente prima e improvvisamente  poi."
  "Chi ti ci ha portato?"
  "Amici" disse Mike. "Io avevo un sacco di amici. Falsi amici. Poi  avevo anche creditori. Credo che avessi più creditori di chiunque  altro in Inghilterra."
  "Racconta del tribunale" Brett disse.
  "Non mi ricordo" disse Mike. "Ero un poco brillo."
  "Brillo!" Brett esclamò. "Fradicio eri."
  "Straordinaria cosa" Mike disse. "Ho incontrato l'altro giorno il  mio socio principale. Mi ha pagato da bere."   "Racconta del tuo avvocato" Brett disse.
  "No" disse Mike "l'avvocato era fradicio anche lui. Dico, questo è  un discorso noioso. Andiamo a veder scaricare questi tori o no?"
  "Andiamo."
  Chiamammo il cameriere, pagammo, e c'incamminammo a piedi  attraverso la città. Io feci per camminare avanti con Brett ma Cohn  ci raggiunse e si appiccicò a lei dall'altro lato. Tutti e tre  camminammo, oltre l'Ayuntamiento con le bandiere sui balconi, oltre  il mercato e giù per la ripida strada che porta al ponte sull'Arga.  Molta gente era in cammino per andare a vedere i tori. Carri venivano  giù dalla collina e traversavano il ponte, con guidatori cavalli e  fruste alti sulla folla che camminava a piedi. Passato il ponte  prendemmo la strada dei recinti. Passammo un'osteria con un cartello  in vetrina: Vino buono trenta centesimi al litro.
  Disse Brett: "Verremo qui quando saremo in bolletta".
  Una donna ferma sulla porta della bottega ci guardò passare. Chiamò  qualcuno nell'interno della casa e tre ragazze si affacciarono alla  finestra a guardare. Guardavano Brett.
  Al cancello due uomini ritiravano i biglietti della gente che  entrava. Noi passammo il cancello. C'erano alberi, dentro, e un basso  fabbricato di pietra. In fondo c'era il muro di pietra dei recinti,  con aperture tonde sul davanti di ogni recinto. Una scaletta portava  in cima al muro, e la gente saliva su per la scaletta per andare a  sedersi in cima al muro che separa i due recinti, a guardare. Per  arrivare alla scaletta, camminando sull'erba sotto gli alberi  passammo davanti ai grandi cassoni dipinti di grigio, nei quali erano  rinchiusi i tori. C'era un toro in ogni cassone. Erano venuti col  treno da un allevamento della Castiglia, e alla stazione erano stati  caricati su carri scoperti e portati qui per essere mandati fuori  dalle casse nei recinti. Su ogni cassa erano segnati il nome e lo  stemma dell'allevatore.
  Ci arrampicammo sul muro e scegliemmo un posto dal quale si potesse  guardar giù nel recinto. I muri di pietra erano bianchi e lavati, e  c'era paglia per terra e mangiatoie di legno e truogoli per bere  contro il muro.
  "Guardate lassù" dissi io.
  Oltre il fiume sorgeva l'altopiano della città. Gente era ferma su  tutte le vecchie mura e sui bastioni. Le tre linee di fortificazioni  erano tre linee nere di gente. Dalle finestre delle case si  affacciavano teste. All'estremità più lontana dell'altopiano ragazzi  si erano arrampicati sugli alberi.
  "Pare che stiano ad aspettare qualcosa" Brett disse.   "Aspettano di vedere i tori."
  Mike e Bill erano sull'altro muro, al di là della fossa del  recinto. Agitarono la mano per salutarci. Gente che era arrivata più  tardi era in piedi dietro di noi. Ci premevano addosso perché altra  folla spingeva.   Chiese Robert Cohn:
  "Perché non cominciano?"
  Una mula tirò uno dei cassoni davanti al cancello nel muro del  recinto. Gli uomini guidarono la cassa e con pertiche la misero in  posizione davanti all'entrata. Altri uomini erano pronti sul muro per  alzare il cancello del recinto e lo sportello del cassone. All'altra  estremità del recinto una porta si aprì e due giovenchi entrarono,  guardandosi in giro, muovendo i fianchi magri. Si fermarono assieme  in fondo al recinto, guardando la porta da cui dovevano entrare i  tori.
  "Non hanno un'aria felice" Brett disse.
  Gli uomini sul muro si chinarono ad alzare il cancello del recinto,  poi lo sportello del cassone.
  Io mi sporsi avanti per cercare di vedere nel cassone. Era buio  dentro. Qualcuno percosse la cassa con una sbarra di ferro. Qualcosa  dentro sembrò esplodere. Il toro battendo le pareti di legno con le  corna faceva un gran frastuono. Vidi un muso scuro e l'ombra delle  corna, poi, con uno schianto del cassone di legno, il toro caricò e  venne fuori nel recinto, frenò con le zampe nella paglia e si fermò,  testa alta, con la gran massa dei muscoli del collo tirati e gonfi, i  muscoli di tutto il corpo frementi, guardando la gente sui muri di  pietra. I due giovenchi a testa bassa indietreggiarono verso il muro,  guardando il toro.
  Il toro li vide e caricò. Da dietro una delle casse un uomo gridò e  picchiò col cappello sulle tavole, e il toro prima di raggiungere il  giovenco si voltò, si raccolse e caricò dov'era stato l'uomo,  cercando di raggiungerlo attraverso le tavole di legno con una mezza  dozzina di veloci insistenti colpi tirati col corno destro.   "Dio, non è fantastico?" disse Brett. Il toro era proprio sotto di  noi.
  "Guarda come sa usare le corna" dissi io. "Ha tirato un sinistro e  un destro proprio come un pugilatore."
  "Ma va'."
  "Guarda tu."
  "Va troppo svelto."
  "Aspetta. Ne verrà subito un altro."
  Avevano accostato all'entrata un altro cassone. Dall'angolo opposto  un uomo al riparo dietro le tavole attirò il toro e, mentre il toro  guardava da un'altra parte, il cancello fu sollevato e un secondo  toro entrò.
  Il toro caricò diretto contro i giovenchi, e di dietro le tavole  vennero fuori due uomini e gridarono, perché si voltasse. Il toro non  deviò e gli uomini gridarono: "Hah, hah, toro!" e agitarono le  braccia. I due giovenchi si voltarono di fianco per ricevere la  cornata e il toro ne infilò uno.
  "Non guardare" io dissi a Brett.
  Brett guardava, affascinata.
  "Bene" dissi "se non ti fa star male."
  "L'ho visto" disse lei. "Ho visto il toro cambiare corno, prima il  sinistro e poi il destro."
  "E' fantastico."
  Il giovenco era giù ora, col collo squarciato e la testa piegata,  giaceva com'era caduto. Improvvisamente il toro si voltò e si diresse  roteando le corna verso l'altro giovenco che era fermo nell'angolo  opposto. Il giovenco fuggì goffo, il toro lo raggiunse e lo toccò  leggermente nel fianco col corno, poi alzò la testa a guardare la  gente sul muro, la massa dei muscoli tesi. Il giovenco gli si  avvicinò e fece per annusarlo, e il toro lo toccò col corno appena  appena. Poi lo annusò e insieme trottarono verso l'altro toro.   Quando il terzo toro entrò, i due tori e il giovenco, assieme,  stettero con le teste parallele, con le corna contro il nuovo venuto.  In pochi minuti il giovenco attirò il nuovo toro, lo calmò e lo unì  alla mandra. Quando furono scaricati gli altri due tori la mandra fu  al completo.
  Il giovenco colpito si era rialzato e appoggiato al muro. Nessuno  dei tori gli si avvicinò, ed esso non si azzardò ad avvicinarsi alla  mandra.
  Scendemmo dal muro con la folla e demmo un altro sguardo ai tori  attraverso le aperture rotonde del muro. Erano tutti calmi, ora, con  la testa bassa. Fuori, prendemmo una carrozza fino al caffè. Un'ora  dopo Bill e Mike arrivarono. Si erano fermati parecchie volte lungo  la strada a bere.
  Eravamo seduti al caffè.
  Disse Brett:
  "Che spettacolo straordinario."
  "Gli ultimi combatteranno bene come i primi?" chiese Robert Cohn.
"Parevano calmarsi troppo alla svelta."
  "Si conoscono tra loro" dissi. "Sono pericolosi soltanto quando  sono soli, o in due o tre."
  "Cosa intendi per pericoloso?" Bill disse. "A me sono sembrati  pericolosi tutti."
  "Soltanto quando sono soli hanno voglia di uccidere. Si capisce che  se andassi dentro tu ne staccheresti uno dalla mandra, e allora  sarebbe pericoloso."
  "Troppo complicato" Bill disse. "Hai capito, Mike, non staccarmi  mai dalla mandra."
  "Dico" disse Mike "erano proprio bei tori, no? Avete visto che  corna?"
  "Come no" Brett disse. "Non avevo idea prima di come fosse."   "Avete visto quello che ha colpito il giovenco?" chiese Mike. "Era  fantastico."   Cohn disse:
  "Che vita impossibile, fare il giovenco!"   Disse Mike:
  "Lo pensi, Robert? Io invece avrei giurato che a te doveva piacere,  fare il giovenco."
  "Che vuoi dire, Mike?"
  "Fanno una vita così tranquilla. Non dicono mai niente. Non fanno  altro che ronzare attorno."
  Noi tutti eravamo imbarazzati. Bill rise. Robert Cohn era seccato.
Mike continuò a parlare.
  "Proprio pensavo che ti dovesse piacere. Tu non dici mai una  parola. Avanti, Robert. Di' qualcosa. Non star solo seduto lì."   "Ho già detto qualcosa, Mike. Non ricordi? Sui giovenchi."   "Oh, di' qualcos'altro. Di' qualcosa di divertente. Non capisci che  noi siamo tutti qui per divertirci?"
  "Finiscila, Mike. Sei ubriaco" Brett disse.
  "Non sono ubriaco. Parlo sul serio. Forse che non è vero, che  Robert Cohn continua a star dietro a Brett come un giovenco?"
  "Piantala, Michael. Cerca di mostrare un po' di educazione."   "Educazione un cavolo. E poi, chi più educato dei tori? Solo i tori  hanno educazione. Hanno razza. Non sono tanto carini i tori? Vero che  a te piacciono, Bill? Perché non dici qualcosa, Robert? Non star  seduto lì come un funerale fottuto. Che vuol dire che Brett sia  venuta a letto con te? Brett è andata a letto con un sacco di gente  assai più in gamba di te."
  "Oh, piantala" Cohn disse e si alzò. "Piantala, Mike."
  "Oh, non far la scena di volermele dare. Non avrebbe importanza per  me. Dimmi una cosa, Robert. Perché stai dietro a Brett come un povero  giovenco? Non capisci che non ti si vuole? Io capisco quando non mi  si vuole. Perché tu non lo capisci quando non ti si vuole? Sei venuto
giù a San Sebastiano dove nessuno ti voleva e hai continuato a star  dietro a Brett come un giovenco fottuto. Credi che sia bello far  così?"
  "Piantala, sei ubriaco."
  "Forse sì, sono ubriaco. Tu perché non sei ubriaco? Perché tu non  ti ubriachi mai, Robert? Tu sai che a San Sebastiano non ti sei  divertito perché nessuno dei nostri amici ti ha invitato mai. Ma non  devi prendertela troppo con loro. Non devi. Ero stato io a chiedere  loro che così facessero. Loro non l'avrebbero fatto. Tu non puoi  prendertela con loro. Rispondi. Puoi prendertela con loro?"
  "Va' all'inferno, Mike."
  "Io no, non posso prendermela con loro. Tu puoi? Perché stai dietro  a Brett? Non hai un po' di buone maniere? Cosa dovrei dire io?"   "Sei fantastico a parlar tu di buone maniere" disse Brett. "Tu hai
delle maniere tanto per bene."   Disse Bill:
  "Vieni via, Robert."
  "Perché stai dietro a Brett?"
  Bill si alzò e prese per il braccio Cohn.
  "Non andate via" Mike disse. "Robert Cohn ora ci pagherà da bere."   Bill se ne andò con Cohn. La faccia di Cohn era gialla. Mike  continuò a parlare. Io seduto ascoltavo. Brett aveva l'aria  disgustata.
  "Dico, Michael" lo interruppe. "Non dovresti essere così animale.
Non dico che non abbia ragione, capisci" e si rivolse a me.
  L'emozione lasciò la voce di Mike. Eravamo tra amici, ora.
  "Non ero così ubriaco come avevo l'aria di essere" Mike disse.
  "So bene che non lo eri" disse Brett.
  "Nessuno di noi è sobrio" dissi.
  "Non ho detto niente che non volessi dire."   "Ma l'hai detto in modo infame" Brett disse.
  "E' lui che è una bestia. E' venuto giù a San Sebastiano dove porca  miseria nessuno lo voleva. Si è messo a ronzare attorno a Brett e non  faceva altro che guardarla. Mi faceva star male."
  "Certo si è comportato molto male" Brett disse.
  "Ora ascolta, Jake. Brett ha già avuto a che fare con uomini prima.  A me dice tutto. Mi ha dato da leggere le lettere di questo Cohn. Io  non ho voluto leggerle."
  "Molto nobile da parte tua."
  "Non è questo, ascolta, Jake. Tante volte Brett è andata con  uomini. Ma non erano ebrei e non sono mai venuti dopo a ronzare  intorno."
  "Erano persone per bene" Brett disse. "Ma è stupido parlare di  questo. Michael ed io ci intendiamo benissimo."
  "Mi ha dato da leggere le lettere di Robert Cohn. Io non le ho  volute leggere."
  "Tu non leggi lettere, tesoro. Tu non leggeresti nemmeno le mie."
  "Non posso legger lettere" Mike disse. "Buffo, no?"
  "Tu non leggi niente."
  "Mica vero, qui ti sbagli. Io leggo tanto. Leggo quando sono a  casa."
  "Oh, tra poco ti metterai a scrivere" Brett disse. "Bene, ora  ascolta, Michael. Questa faccenda deve finire. Lui è qui con noi. Tu  non devi rovinare la fiesta."
  "Purché lui si comporti bene."
  "Si comporterà bene. Glielo dirò io."
  "Diglielo tu, Jake. Digli che o si comporta bene o se ne va."
  "Oh" io dissi "sarà assai simpatico per me dirglielo."
  "Senti, Brett. Di' a Jake come Robert ti chiama. E' magnifico,  sai."
  "Oh, no, non posso."
  "Avanti. Siamo tra amici. Non siamo tra amici ora, Jake?"
  "Non posso dirglielo. E' troppo ridicolo."
  "Glielo dirò io."
  "No, Michael. Non far lo scemo."
  "La chiama Circe" disse Mike. "Dice che cambia gli uomini in porci.
Buona no? Vorrei essere anch'io uno di questi letterati."   "Sarebbe bravo, sai, Jake" Brett disse. "Scrive delle fantastiche  lettere."
  "Lo so" dissi. "Mi ha scritto da San Sebastiano."   "Quello era niente" disse Brett. "Sa scrivere delle lettere  divertenti forte."
  "Fu lei a farmi scrivere quella. Pretendeva di essere ammalata."   "Sicuro che lo ero."   Dissi io:
  "Avanti, andiamo a mangiare."
  Mike chiese: "Come devo comportarmi con Cohn?".
  "Fai come se niente fosse accaduto."
  "Per me va bene" Mike disse. "La cosa non mi imbarazza."
  "Se lui dice qualcosa, tu di' che eri ubriaco."
  "Bene. E la cosa più buffa è che io penso che davvero ubriaco ero."   "Andiamo" disse Brett. "Avete pagato queste velenose bevande? Io  devo andare a fare un bagno prima di pranzo."
  Traversammo a piedi la piazza. Era scuro e c'erano tutt'in giro  sotto i portici le luci dei caffè. Camminammo sulla ghiaia sotto gli  alberi e arrivammo all'albergo.
  Mike e Brett salirono su, e io mi fermai a parlare con Montoya.
  "Così, come vi son piaciuti i tori?" chiese lui.
  "Molto" io dissi. "Erano bei tori."
  "Certo sono buoni" Montoya disse scuotendo la testa "ma non gran  che."
  "Che cosa non vi è piaciuto di loro?"
  "Non saprei. Soltanto mi hanno dato l'impressione che non fossero  gran che."
  "Capisco cosa volete dire."
  "Certo sono buoni."
  "Sì, sono buoni."
  "Come sono piaciuti ai vostri amici?"   "Moltissimo."   "Bene" Montoya disse.
  Io salii su.
  Bill era in camera sua, sul terrazzo che affacciava in piazza. Io
mi avvicinai a lui.   "Dov'è Cohn?"
  "Su in camera sua."
  "Come l'ha presa?"
  "Malissimo, si capisce. Mike è spaventoso. E' terribile quando è  ubriaco."
  "Non era tanto ubriaco."
  "Il cavolo che non era ubriaco. So io quanto abbiamo bevuto prima  di venire al caffè."
  "Gli è passata la sbornia subito dopo."
  "Bene, certo è terribile. A me Cohn non piace, Dio lo sa, e penso  che non poteva fare una cosa più idiota che andar giù a San  Sebastiano, ma nessuno ha il diritto di parlare come Mike."
  "Come ti sono piaciuti i tori?"
  "Grandiosi, Jake. Grandiosi. E' grandioso il modo come li tirano  fuori."
  "Domani arrivano quelli di Miuras."
  "Quando comincia la fiesta?"
  "Dopodomani."
  "Dobbiamo badare che Mike non si ubriachi così. E' una roba  terribile."
  "Ora faremo bene a prepararci per il pranzo."
  "Bene, immagino che sarà un piacevole pranzo."
  "Vero?"
  Come dato di fatto, fu un piacevole pranzo. Brett portava un abito  nero da sera senza maniche. Era davvero bella. Mike si comportò come  se niente fosse accaduto. Io dovetti salire a chiamare Robert Cohn  perché scendesse. Dapprima fu riservato e sostenuto, la sua faccia  era ancora gialla e dura, ma alla fine si fece animo. Non poteva fare  a meno di guardare Brett. Questo pareva farlo felice. Doveva essere  piacevole per lui vederla così bella e sapere che era stata con lui.  Nessuno poteva togliergli questo. Bill era molto divertente, e così  Michael. Insieme erano una bella coppia.
  Era come certi pranzi di guerra che ricordo. C'era molto vino, una  sconosciuta tensione e la sensazione di cose che dovranno accadere e  che non è possibile prevenire. Col vino mi passò la sensazione di  disgusto, e mi sentii felice. Parevano tutti gente tanto per bene.

XIV
  Non so a che ora andai a letto. Ricordo che mi svestii, indossai un  accappatoio e stetti un po' sul terrazzo. Avevo coscienza di essere  completamente ubriaco, e quando rientrai accesi la luce a capo del  letto e mi misi a leggere. Stavo leggendo un libro di Turghenjev.  Probabilmente lessi più volte le stesse pagine. Era Le memorie di un  cacciatore. Lo avevo già letto ma ora mi pareva del tutto nuovo. Il  paesaggio schiariva e mi stava passando la sensazione di oppressione  nel cervello, ero molto ubriaco e non volevo chiuder gli occhi perché  la stanza avrebbe cominciato a girare. Continuando a leggere, quella  sensazione sarebbe passata.
  Sentii Brett e Cohn salir le scale. Davanti alla mia porta Cohn  disse buonanotte e salì disopra in camera sua. Sentii Brett entrare  nella stanza vicina. Mike era già a letto, era salito con me un'ora  prima. Si svegliò quando lei entrò, e parlarono. Li sentii ridere. Io  spensi la luce e cercai di dormire. Non era più necessario leggere.  Potevo chiudere gli occhi senza provare la sensazione rotatoria. Ma  non potevo dormire. Non c'è ragione perché le cose al buio debbano  sembrar diverse da quando c'è luce. Al diavolo, proprio non c'è  ragione!
  Già una volta avevo pensato questo, e per sei mesi avevo dormito  senza spegnere la luce. Brillante idea anche quella. Al diavolo le  donne, ad ogni modo. Al diavolo tu, Brett Ashley.
  Le donne in fatto di amicizia sono fantastiche. Che fantastiche  amiche! In primo luogo, per aver una base di amicizia, voi dovete  essere innamorato di una donna. Io consideravo Brett mia amica. Mai  pensato cosa pensasse lei. Io avevo una cosa senza dar nulla in  cambio. Questo solo rimandava la presentazione del conto. Il conto  arriva sempre. Questa è una delle fantastiche cose su cui potete  sempre fare assegnamento.
  Pensavo che tutto io avevo pagato. Non come una donna paga e paga.  No. Nessuna idea di risarcimento o punizione. Semplice scambio di  valori. Voi date qualcosa e ricevete qualcos'altro. Oppure lavorate,  in cambio. Così si paga tutto quello che si ha di buono. Io così per  passare bene il tempo avevo pagato con tante cose che mi piacevano. O  si paga con l'impararle, o con l'esperienza, o con delle occasioni, o  col denaro. Per godere la vita dovete imparare a conoscere il valore  del vostro denaro. E' facile conoscere il valore del denaro. Questo  mondo è un buon posto per far compere. Pareva una bella filosofia.  Cinque anni ancora, pensai, e sembrerebbe idiota anche questa come  tutte le altre belle filosofie che io avevo avuto.
  Magari non era vero, però. Magari andando avanti s'impara qualcosa.
A me non importava di sapere cosa fosse tutta la faccenda.  M'importava di sapere come vivere, nella faccenda. Forse però se  scoprivate come viverci, potevate anche capire che cosa l'intera  faccenda fosse.
  Avrei voluto che Mike non si comportasse in modo così terribile con  Cohn, però. Mike aveva il vino cattivo. Brett invece aveva il vino  buono. Anche Bill aveva il vino buono. Cohn non aveva niente, non era  ubriaco mai. Mike era sgradevole quando passava un certo limite. Mi  sarebbe piaciuto che prendesse a schiaffi Cohn. Per quanto non avrei  voluto che lo facesse, perché poi mi sarei sentito disgustato di me  stesso. Questa era la moralità. Cose che vi fanno sentir disgustati  dopo. No, questa dev'essere l'immoralità. Era una buona battuta. Che  sciocchezze potevo pensare io di notte. "Che sciocchezze", mi pareva  di sentirlo dire da Brett. Che sciocchezza! A stare con gl'inglesi  prendevate l'abitudine di pensare con espressioni inglesi. L'inglese  parlato - quello delle classi alte per lo meno - ha pochissime  parole, deve averne meno dell'eschimese. Si capisce che io non sapevo  niente di eschimese. Magari l'eschimese è uno bella lingua. Diciamo  il cherokee. Nemmeno di cherokee sapevo niente. Gli inglesi parlano  per frasi fatte. Una frase significa già tutto. Mi piacevano, però.  Mi piaceva come parlavano. Harris per esempio. Per quanto Harris non  fosse delle classi alte.
  Accesi la luce e ripresi a leggere. Lessi Turghenjev. Ora sapevo  che, leggendo in quella condizione soprasensibile della mente dopo  molto, troppo liquore, avrei ricordato tutto in qualche modo, e mi  sarebbe poi sembrato che tutto fosse accaduto a me. Avrei voluto  esser sempre in quella condizione. Questa era un'altra delle buone  cose che per avere bisogna prima pagare. Poco dopo l'alba mi  addormentai.

  I due giorni seguenti a Pamplona furono tranquilli e senza  incidenti. La città si preparava per la fiesta. Operai sistemavano le  palizzate a chiusura delle strade laterali per quando i tori,  lasciati uscire dai recinti, sarebbero passati di corsa per la strada  fino all'arena, la mattina del combattimento. Gli operai scavavano  buchi e vi piantavano pali, ogni palo numerato e al suo posto. Sulla  spianata dietro la città inservienti dell'arena allenavano i cavalli  dei picadores, facendoli galoppare impettiti sui campi davanti  all'arena che erano duri e bruciati dal sole. Il grande cancello  dell'arena era aperto e nell'interno stavano scopando l'anfiteatro.  La sabbia era ondulata e innaffiata, e carpentieri rimpiazzavano le  tavole rotte o malandate della barrera. Dal margine della sabbia  soffice e ondulata si poteva dare uno sguardo nei recinti vuoti e  scorgere delle vecchie donne che scopavano i box.   Fuori, la doppia palizzata, che dall'ultima strada della città  conduceva all'ingresso dell'arena, era già a posto e formava un lungo  passaggio obbligato. Sarebbe passata di qui la folla la mattina del  combattimento correndo, coi tori dietro. Fuori, sulla spianata  dov'erano cavalli e bestie da pascolo, zingari si erano accampati  sotto gli alberi. I venditori di vino e di aguardiente avevano  piantato le loro baracche. Anis del toro, una baracca annunciava. La  scritta di stoffa era inchiodata sulle tavole al sole.
  Nella grande piazza che era il centro della città, ancora nulla era  cambiato. Noi stavamo seduti nelle bianche sedie di vimini davanti al  caffè e guardavamo gli autobus arrivare e scaricare contadini venuti  al mercato dalla campagna, e vedevamo gli stessi autobus ripartire  pieni di contadini che sedevano sui sacchi zeppi di cose comperate in  città. I grossi autobus grigi erano la sola cosa vivente della  piazza, oltre i piccioni e l'uomo che con la pompa innaffiava il  selciato.
  Alla sera c'era il paseo. Per un'ora dopo cena, tutta la città, le  belle ragazze, gli ufficiali della guarnigione e la gente elegante,  passeggiava a piedi su un lato della piazza mentre i tavoli dei caffè  erano affollati dal solito pubblico serale.
  Al mattino di solito io sedevo al caffè a leggere i giornali di  Madrid, poi camminavo un po' per la città o fuori in campagna.  Qualche volta Bill veniva con me, altre volte restava in camera sua a  scrivere. Robert Cohn passava le mattinate a studiare lo spagnolo e  ad aspettare il suo turno dal barbiere. Brett e Mike non si alzavano  mai prima di mezzogiorno. Prendevamo tutti assieme un vermut al  caffè. Era una vita molto calma e nessuno si ubriacava. Io andai in  chiesa un paio di volte, una volta con Brett. Brett disse che voleva  sentirmi mentre mi confessavo ma io le dissi che non soltanto era  impossibile ma non era così interessante come poteva sembrare e  oltretutto sarebbe stato in una lingua che lei non conosceva. Quando  uscimmo dalla chiesa, ci trovammo di fronte Cohn, il quale, per  quanto fosse evidente che ci aveva seguiti, fu molto gentile e per  bene, e tutti e tre camminammo fino all'accampamento degli zingari e  Brett si fece dire la sorte.
  Era una bella mattina, c'erano alte nuvole bianche sulle montagne.  Aveva piovuto un poco nella notte e l'aria era fresca e spianata, e  c'era una bellissima vista. Tutti bene e tranquilli ci sentivamo, ed  io molto amico di Cohn. In una mattina come quella non era possibile  avercela con qualcuno.
  Questo fu l'ultimo giorno prima della fiesta.

XV
  A mezzogiorno di domenica 6 luglio la fiesta esplose. Non c'è altro  modo di descrivere la cosa. Gente era arrivata dalla campagna tutti i  giorni ma una volta nella città veniva assimilata e non ci si  accorgeva di essa. La piazza era tranquilla nel sole caldo come tutti  gli altri giorni. Davanti alle osterie stavano i contadini, bevevano  e si preparavano per la fiesta. Erano appena arrivati dal piano e  dalle colline ed era necessario che gradualmente si abituassero ad  innalzare i loro valori. Non potevano subito mettersi a pagare i  prezzi dei caffè. Impiegavano il valore del loro denaro nelle  osterie. Ancora il denaro aveva un valore definito, ore di lavoro  sudate o staia di grano vendute. Più tardi nella fiesta nulla più  sarebbe importato quanto pagassero o che cosa comperassero.   Nel giorno dunque dell'inaugurazione della fiesta di San Firmino,  fin dal primo mattino i contadini erano nelle osterie delle strade  secondarie. Passando per queste strade, per andare a messa nella  cattedrale, li sentii cantare nelle osterie. Cominciavano a  riscaldarsi. C'era molta gente alla messa delle undici. San Firmino è  anche un festival religioso.
  Dalla cattedrale tornai a piedi al caffè in piazza. Mancava poco a  mezzogiorno. Robert Cohn e Bill erano seduti a un tavolo. I tavoli di  marmo e le bianche sedie di vimini erano spariti, ed erano stati  sostituiti da tavolini di ferro e sedie pieghevoli. Il caffè era una  piccola nave da guerra pronta per l'azione. Oggi i camerieri non vi  lasciavano soli a leggere tutta la mattina, senza chiedervi che cosa  ordinavate. Un cameriere si avvicinò appena io mi sedetti.
  "Cosa state bevendo voi?" chiesi io a Bill e Robert.
  "Sherry" Cohn disse.
  "Jerez" io dissi al cameriere.
  Prima che il cameriere portasse lo sherry, si alzò nella piazza il  razzo che annunciava l'inizio della fiesta. Scoppiò e formò una  grigia nuvola di fumo in alto sopra il teatro Gayarre, sull'altro  lato della piazza. La nuvola di fumo rimase sospesa nel cielo come  uno scoppio di shrapnel, e mentre io guardavo, un altro razzo si  alzò, con una scia di fumo nella chiara luce del sole. Allo scoppio  del secondo razzo, sotto il portico, un minuto prima vuoto, c'era già  tanta gente che il cameriere a stento poté arrivare al nostro tavolo  fendendo la folla, tenendo la bottiglia alta sopra le teste. Gente  entrava nella piazza da tutte le parti, e si sentivano arrivare dalle  strade flauti pifferi e tamburi. Suonavano il riau-riau, i flauti in  tono acuto e i tamburi basso, e dietro venivano uomini e ragazzi  ballando. Quando i suonatori si fermarono, tutti si accovacciarono in  mezzo alla piazza e quando pifferi e flauti ripresero a fischiare e i  tamburi a rullare gravi e sordi, tutti allora balzarono su a danzare.  Soltanto si potevano vedere teste e spalle di ballerini andar su e  giù in mezzo alla folla.
  Nella piazza, un uomo curvo suonava un piffero e lo seguiva una  folla di ragazzi, gridando e attaccandosi ai vestiti di lui. L'uomo  uscì dalla piazza con i ragazzi dietro e al suono del piffero li  guidò oltre il caffè, giù per una strada laterale. Vedemmo la sua  bianca faccia butterata quando passò davanti a noi suonando il  piffero, e i ragazzi gridavano e gli si attaccavano dietro.   "Dev'essere l'idiota del villaggio" disse Bill. "Santo cielo,  guardatelo un po'!"
  Arrivavano ballerini giù da una strada. La strada era gremita di  ballerini in massa compatta, tutti uomini. Danzavano al tempo dei  loro pifferi e tamburi. Erano tutti di un'associazione, e portavano  tute azzurre da operaio con fazzoletti rossi al collo, e un grande  striscione tenuto su da due pali. Lo striscione danzava su e giù con  loro mentre venivano avanti circondati dalla folla. Viva il vino!
Viva i forestieri! era dipinto sullo striscione.
  Chiese Robert: "Chi sono i forestieri?".
  "Siamo noi i forestieri" Bill disse.
  Intanto altri razzi continuavano ad alzarsi. Ora i tavoli dei caffè  erano tutti occupati. La piazza si affollava sempre più e i caffè si  riempivano di gente.
  "Dove sono Brett e Mike?" chiese Bill.
  "Vado a prenderli" Cohn disse.
  "Portali qui."
  La fiesta era davvero cominciata. Continuò giorno e notte per sette  giorni. Continuarono le danze, si continuò a bere, e per una  settimana il chiasso non cessò. Le cose che accadevano, potevano solo  accadere durante una fiesta. Tutto diveniva irreale e pareva che  niente potesse avere conseguenze. Pareva fuor di posto pensare alle  conseguenze durante la fiesta. Per tutto il tempo che la fiesta  durava, si aveva la sensazione, anche quando c'era calma, che  bisognasse urlare ogni frase per farsi sentire. La stessa sensazione  si aveva per le azioni. Era una fiesta, e per sette giorni continuò.   Nel pomeriggio ci fu la grande processione religiosa. San Firmino  fu portato da una chiesa a un'altra. C'erano tutte le autorità,  civili e religiose, ma non potemmo vederle perché c'era troppa folla.  Davanti e dietro la processione ufficiale ballavano i ballerini di  riau-riau. C'era in mezzo alla folla una zona di camicie gialle che  ballavano su e giù. Tutto quello che della processione potevamo  vedere oltre la folla pressata e assiepata che invadeva strada e  marciapiedi, erano i grandi giganti, grandi fantocci in figura di  indiani, alti trenta piedi, mori, e un re e una regina: tutti  avanzavano solennemente e vorticosamente al suono di valzer del  riau-riau.
  Stavano tutti fermi davanti alla cappella dove San Firmino e le  autorità erano entrati lasciando fuori il drappello di militari, i  giganti - con gli uomini che vi ballavano dentro fermi accanto agli  involucri vuoti - e i nani che si muovevano tra la folla agitando le  loro vesciche. Facemmo per entrare e c'era odore d'incenso  nell'interno e una fila di gente che entrava in chiesa, ma Brett fu  fermata sotto la porta perché non aveva cappello. Allora uscimmo di  nuovo e riprendemmo la strada che dalla cappella porta in città. Ai  lati della strada c'erano due file di gente ferma sul marciapiede ad  aspettare il ritorno della processione. Un gruppo di ballerini formò  circolo attorno a Brett e cominciò a ballare. Portavano grosse trecce  di aglio bianco al collo. Presero per il braccio me e Bill e ci  fecero entrare nel cerchio. Bill si mise a ballare anche lui.  Cantavano tutti. Anche Brett avrebbe voluto danzare ma essi non  vollero: la volevano come immagine intorno a cui ballare. Quando  nell'acuto del riau-riau, il canto finì, essi ci spinsero in una  osteria.
  Ci avvicinammo al banco. Brett fu fatta sedere su una botte.
L'osteria era buia e piena di uomini che cantavano con le voci forti.  Dietro il banco servivano vino dalle botti. Io tirai fuori del denaro  per pagare il vino, ma uno di quegli uomini lo prese e me lo rimise  in tasca.
  "Io voglio una fiasca di cuoio per il vino" disse Bill.   "C'è un posto giù in questa strada" dissi. "Vado a prenderne un  paio."
  I ballerini non volevano lasciarmi uscire. Tre di loro erano seduti  sulla grande botte accanto a Brett e le insegnavano a bere dalla  fiasca. Le avevano appeso al collo una treccia di aglio bianco. Uno  volle darle un bicchiere. Un altro stava insegnando una canzone a  Bill. Gli cantava nell'orecchio. Batteva il tempo sulla schiena di  Bill.
  Io assicurai che sarei ritornato. Uscito in istrada cercai il  negozio dove vendevano fiasche di cuoio ma non riuscii a trovarlo. La  folla era compatta sui marciapiedi e molti negozi avevano le  saracinesche abbassate. Camminai fino alla chiesa, senza trovare il  negozio, guardando ai due lati della strada. Chiesi poi a un uomo e  questi mi prese per un braccio e mi ci condusse. La saracinesca era  abbassata ma la porta era aperta.
  Nell'interno c'era odore di cuoio fresco e di catrame. Un uomo  stava decorando delle fiasche già complete. Pendevano a grappoli dal  soffitto. Il proprietario ne prese una per me, vi soffiò dentro, mise  a posto il tappo e vi picchiò sopra col piede.
  "Vedete! Non perde."
  "Ne voglio anche un'altra. Una grossa."
  Egli ne prese dal soffitto una grossa che poteva tenere un gallone  o più. Vi soffiò dentro, gonfiando le guance, poi vi salì sopra  tenendosi a una sedia.
  "Cosa dovete farne? Mandarle a Bayonne?"
  "No. Berci."
  Egli mi dette una manata sulla spalla.
  "Bravo. Otto pesetas tutte e due. Prezzo minimo."
  L'uomo che decorava le fiasche nuove alzò il capo.
  "E' vero" disse. "Otto pesetas non è caro."
  Io pagai, uscii in istrada e ritornai all'osteria. Dentro c'era più  buio e più folla che mai. Non vidi Brett e Bill e qualcuno mi disse  che erano nel retrobottega. Al banco la ragazza mi riempì le due  fiasche. Una teneva due litri, l'altra cinque. Riempirle tutte e due  costò tre pesetas e sessanta centimos. Un tale che io non avevo mai  visto prima, voleva pagare, ma alla fine riuscii a pagare io. Allora  l'uomo volle pagarmi un bicchiere. Non volle che io pagassi a lui in  cambio, disse però che avrebbe preso una risciacquatina di bocca  dalla fiasca nuova. Alzò in alto la fiasca da cinque litri e la  scosse in modo che il vino gli cadesse in fondo alla gola.
  "Bene" disse, e mi restituì la fiasca.
  Nel retrobottega Brett e Bill sedevano su barili, circondati dai  ballerini. Si tenevano con le mani sulle spalle, e cantavano tutti.  Mike era seduto a un tavolo con parecchi uomini in maniche di  camicia, mangiando da un grande piatto, tonno, cipolle e aceto.  Bevevano vino e asciugavano l'olio e l'aceto dal piatto con pezzi di  pane.
  "Hello, Jake, hello!" Mike gridò. "Vieni qua. Voglio presentarti i  miei amici. Stiamo prendendo un antipasto."
  Fui presentato alla gente del tavolo. Essi suggerirono i loro nomi  e mandarono a prendere una forchetta per me.
  "Piantala di mangiare il loro pranzo, Michael" Brett gridò dai  barili di vino.
  "Non voglio mangiare il vostro pranzo" dissi quando qualcuno mi  tese una forchetta.
  "Mangiate" disse l'uomo. "Cos'è qui per fare, allora?"   Io tolsi il tappo della fiasca grossa e la passai in giro. Ognuno  prese un sorso, alzando la fiasca a braccio teso.
  In mezzo al canto sentivamo fuori la musica della processione  passare.
  "Non è la processione?" chiese Mike.
  "Nada" qualcuno disse. "Non è niente. Bevete. Su la bottiglia."   Io chiesi a Mike: "Dove ti hanno trovato?".
  "Qualcuno mi ha portato qui" disse Mike. "Hanno detto che voi  eravate qui."
  "Dov'è Cohn?"
  "E' andato" disse Brett. "Lo hanno messo via da qualche parte."
  "Dov'è?"
  "Non so."
  "Che ne sappiamo?" Bill disse. "Io dico che è morto."
  "Non è morto" disse Mike. "Io lo so che non è morto. Solo è andato,  con l'Anis del Mono."
  Appena disse Anis del Mono, uno degli uomini seduti al tavolo alzò  la testa, cavò fuori una bottiglia dalla tuta e la tese a me.
  "No, no, grazie" dissi io.
  "Sì, sì. Arriba! Su la bottiglia!"
  Presi un sorso. Sapeva di liquirizia e riscaldava. La sentivo  bruciare nello stomaco.   "Dove diavolo è Cohn?"
  "Non so" disse Mike. "Ora chiedo. Dov'è il camerata ubriaco?"  chiese in spagnolo.   "Volete vederlo?"   "Sì" dissi.
  "Non io" disse Mike. "Questo signore."
  L'uomo dell'Anis del Mono si asciugò la bocca e si alzò.
  "Venite."
  In una stanzetta Robert Cohn dormiva placidamente su alcune botti.  Era troppo scuro perché si potesse vedere la faccia. Lo avevano  coperto con una giacca e un'altra giacca era sotto la sua testa.  Attorno al collo e sul petto aveva una grossa collana di aglio  intrecciato.
  "Lasciamolo dormire" sussurrò l'uomo. "Sta bene."
  Due ore dopo Cohn comparve. Aveva ancora la treccia dell'aglio al  collo. Gli spagnoli lanciarono grida quando egli entrò. Cohn si  strofinò gli occhi e sorrise.
  "Devo aver dormito" disse.
  "Macché!" disse Brett.
  "Eri semplicemente morto" Bill disse.
  Cohn chiese: "Non si va a cena?".
  "Hai voglia di mangiare?"   "Sì. Perché no? Ho fame."   Disse Mike:
  "Mangia quell'aglio, Robert. Dico, mangia quell'aglio."   Cohn rimase tranquillo. Dormire gli aveva fatto proprio bene.
  "Andiamo a mangiare" disse Brett. "Devo fare un bagno."
  "Andiamo" Bill disse. "Trasportiamo Brett all'albergo."
  Dicemmo addio e stringemmo la mano a molta gente e uscimmo. Fuori  era buio.
  "Che ora è, secondo voi?" Cohn chiese.
  "E' domani" disse Mike. "Hai dormito due giorni."
  "No" disse Cohn. "Che ora è?"
  "Le dieci."
  "Quanto abbiamo bevuto."
  "Vuoi dire quanto abbiamo bevuto noi. Tu hai dormito."   Scendendo all'albergo per le stradette buie vedevamo i razzi salire  in cielo dalla piazza. Dalle strade laterali che conducevano in  piazza, vedevamo la piazza gremita di gente, e al centro i ballerini  danzare.
  Fu un grande pasto, all'albergo. Era il primo pasto coi prezzi  raddoppiati per la fiesta, c'erano parecchie portate in più. Ricordo  che decisi di star alzato tutta notte per vedere la corsa dei tori  per le vie della città alle sei della mattina e che avevo tanto sonno  che andai a letto alle quattro. Gli altri rimasero alzati.   La mia stanza era chiusa ed io non riuscivo a trovare la chiave,  perciò salii al piano di sopra e dormii su uno dei letti in camera di  Cohn. Fuori la fiesta continuò tutta notte, ma avevo troppo sonno  perché potesse tenermi sveglio. Quando mi destai, sentii lo scoppio  del razzo che annunciava l'uscita dei tori dai recinti alla periferia  della città. Correndo sarebbero ora passati attraverso tutte le  strade fino all'arena. Avevo dormito sodo e svegliandomi compresi che  avevo fatto ormai tardi. Mi gettai addosso un soprabito di Cohn e  uscii sul terrazzo. La stretta strada sottostante era vuota. Tutti i  balconi erano gremiti di persone. Ad un tratto, gente cominciò a  venir giù per la strada. Correvano vicini. Passarono e sparirono  verso l'arena, poi dietro di loro altri uomini corsero più veloci,  poi vennero pochi isolani che davvero correvano. Dietro di loro c'era  un piccolo spazio libero, poi i tori venivano al galoppo e roteando  le corna. Il tutto scomparve alla vista dietro l'angolo. Un uomo  cadde e si tirò da parte, rimase immobile disteso. Ma i tori  passarono oltre e non badarono a lui. Tutti uniti correvano.   Dopo che furono usciti di vista, un gran clamore si levò  dall'arena, e continuò. Poi finalmente ci fu lo scoppio del razzo:  significava che i tori erano stati rinchiusi nei recinti. Rientrai in  camera e mi rimisi a letto. Sul terrazzo di pietra ero stato a piedi  nudi. Sapevo che la nostra gente doveva essere tutta all'arena. A  letto mi riaddormentai.
  Cohn mi svegliò entrando. Cominciò a svestirsi e andò a chiudere la  finestra perché la gente dal balcone di fronte guardava.
  Chiesi: "Hai visto lo spettacolo?".
  "Sì, eravamo là tutti."
  "Ferito nessuno?"
  "Un toro ha ferito sette o otto di quelli che erano nell'arena."
  "Com'è piaciuto a Brett?"
  "E' stata una cosa così rapida che nessuno ha avuto tempo di  disturbarsi."
  "Vorrei esserci stato anch'io."
  "Non sapevamo dov'eri. Siamo venuti a cercarti in camera tua, ma  era chiusa a chiave."
  "Dove siete stati voi?"
  "Abbiamo ballato in un club."   "Io avevo sonno" dissi.
  "Perbacco, io ho sonno ora" disse Cohn. "Non si ferma mai questa  cosa?"
  "Mai per una settimana."
  Bill aprì la porta e mise dentro la testa.   "Dove t'eri cacciato, Jake?"
  "Ho visto dal terrazzo. Com'era?"
  "Magnifico."
  "Dove vai?"
  "A dormire."
  Nessuno si alzò prima di mezzogiorno. Pranzammo fuori, sotto il  portico. La città era piena di gente. Per avere un tavolo dovemmo  aspettare. Dopo pranzo andammo all'Iruña. Era già pieno, e  avvicinandosi l'ora della corrida si riempì ancor più, i tavolini  erano stretti l'uno accanto all'altro. C'era il denso brusio di folla  che si creava prima della corrida ogni giorno. A nessuna altra ora  del giorno c'era nel caffè quel rumore, per quanto potesse essere  affollato. Il brusio cresceva, e anche noi ne facevamo parte.   Io avevo preso sei posti per tutti i combattimenti. Tre erano  barreras, la prima fila verso l'arena, e tre erano sobrepuertas,  posti con schienale di legno a metà dell'anfiteatro. Mike pensò che  Brett, per la prima volta, avrebbe fatto meglio a prender posto in  alto, e Cohn volle stare con loro; Bill ed io ci saremmo seduti nei  barreras. Detti ad un cameriere il biglietto in più perché lo  vendesse. Bill volle dire a Cohn come doveva guardare per non  impressionarsi del fatto dei cavalli. Bill aveva visto una stagione  di corride.
  "Non mi preoccupa se sopporterò" disse Cohn. "Ho solo paura di  annoiarmi."
  "Così pensi?"
  "Non guardare i cavalli quando il toro li colpisce" io dissi a  Brett. "Guarda la carica e il picador che cerca di deviare il toro,  ma poi non guardare finché il cavallo non è morto, se è colpito."   "Sono un po' nervosa" Brett disse. "Mi preoccupa se sopporterò."   "Altroché. C'è solo quella faccenda del cavallo che potrebbe  disturbarti, e dura solo pochi minuti per ogni toro. Basta che tu non
guardi quando è il momento brutto."   "Penserò io a lei" disse Mike.
  "Non credo che vi annoierete" Bill disse.
  "Vado in albergo a prendere i bicchieri e la fiasca" dissi. "Ci
vediamo dopo. Non prendete la ciucca."
  "Vengo con te" disse Bill. Brett ci sorrise.
  Facemmo il giro sotto il portico per evitare il gran caldo della  piazza.
  "Quel Cohn mi dà ai nervi" Bill disse. "Si sente così ebreo e  superiore che pensa che la sola emozione che potrà avere dalla  corrida sarà di annoiarsi."
  "Lo guarderemo col binocolo" io dissi.
  "Oh, che vada all'inferno!"
  "Mi pare che gli facciamo trascorrere là la maggior parte del suo  tempo."
  "Che ci rimanga."
  All'albergo incontrammo Montoya sulle scale.
  "Venite" disse Montoya. "Volete conoscere Pedro Romero?"
  "Buono" Bill disse. "Andiamo a vedere."
  Con Montoya salimmo al piano di sopra e andammo in fondo al  corridoio.
  "E' nella stanza numero otto" Montoya spiegò. "Si sta vestendo per  la corrida."
  Montoya bussò alla porta ed aprì. Era una stanza grigia. Poca luce  entrava dalla finestra che dava sul vicolo. C'erano due letti  separati da una divisione di tipo monastico. La luce elettrica era  accesa. Il ragazzo era molto elegante e dignitoso nel suo costume da  torero. Sulla spalliera di una seggiola stava la giacca. Gli stavano  finendo di allacciare la fascia. La capigliatura nera brillava sotto  la luce elettrica. Egli portava una camicia bianca di lino. Il  portatore di spada, sistemata la fascia, si alzò e fece un passo  indietro. Pedro Romero fece un cenno col capo e ci strinse la mano  con aria molto distante e con degnazione. Montoya spiegò quali grandi  aficionados noi fossimo, e disse che volevamo augurargli buona  fortuna. Romero ascoltava con molta serietà. Poi si rivolse a me. Era  il più bel ragazzo che io avessi mai visto.
  "Voi andate alla corrida" disse in inglese.
  "Sapete l'inglese" dissi io, sentendomi del tutto idiota.
  "No" disse lui, e sorrise.
  Uno dei tre uomini seduti sul letto si alzò e ci chiese se  parlavamo francese. "Volete che io faccia da interprete per voi? C'è  niente che vogliate chiedere a Pedro Romero?"
  Ringraziammo. Che cosa volevate chiedere? Il ragazzo aveva  diciannove anni, era solo col suo portatore di spada e i tre  aiutanti, e la corrida cominciava tra venti minuti. Augurammo "Mucha  suerte", stringemmo mani e uscimmo. Romero era in piedi, snello,  elegante ed appartato dagli altri, solo nella stanza con gli aiutanti  quando chiudemmo la porta.
  "E' un bel ragazzo, non vi pare?" chiese Montoya.
  "E' un bel pezzo di ragazzo" dissi io.
  "L'aria del torero ce l'ha" Montoya disse. "Ha il tipo."
  "E' un bel ragazzo."
  "Vedremo com'è nell'arena" Montoya disse.
  In camera mia trovammo appesa al muro la grossa fiasca, la  prendemmo e prendemmo il binocolo, chiudemmo la porta a chiave e  scendemmo giù.
  Fu una buona corrida. Bill ed io eravamo entusiasti di Pedro
Romero. A una decina di posti di distanza era seduto Montoya. Quando  Romero uccise il suo primo toro, Montoya guardò me e fece un cenno  affermativo col capo. Questo era un torero. Era molto tempo che un  vero torero non c'era. Degli altri due matadores uno era buono e  l'altro passabile. Neanche da mettere con Romero, però, per quanto  nessuno dei suoi tori fosse gran che.
  Più volte durante la corrida io guardai Mike, Brett e Cohn seduti  in alto. Pareva che stessero bene. Brett non appariva disturbata.  Tutti e tre si appoggiavano avanti sulla solida balaustra di fronte a  loro.
  "Passami il binocolo" disse Bill.
  Io chiesi: "Ha l'aria annoiata Cohn?".
  "Quel giudeo!"
  Dopo la corrida, non ci si poteva muovere tra la folla fuori  dell'arena. Non potemmo farci strada, dovemmo muoverci con tutta la  massa, lentamente come un ghiacciaio, per ritornare in città.  Provavamo il senso di emozionato malessere che sempre segue a una  corrida, assieme al senso di esaltazione che segue a una corrida  buona. La fiesta continuava. I tamburi rullavano e la musica dei  pifferi era acuta, e qua e là il fiume di folla era interrotto da  isole di ballerini. I ballerini ballavano in gruppo, e non si poteva  scorgere l'intricato gioco dei piedi. Tutto quel che si poteva vedere  erano teste e spalle andar su e giù, su e giù. Alla fine uscimmo  dalla folla e arrivammo al caffè. Il cameriere conservò le sedie per  gli altri, e noi due prendemmo ciascuno un assenzio e guardammo la  folla nella piazza e i ballerini.
  Chiese Bill:
  "Che ballo credi che sia?"
  "E' una specie di jota."
  "Non è sempre uguale" Bill disse. "Ballano in modo diverso per ogni  diverso motivo."
  "E' un bel ballo."
  Di fronte a noi su uno spiazzo libero della strada un gruppo di  ragazzi ballava. I passi erano molto complicati e le facce dei  ballerini attente e concentrate. Le scarpe con la suola di corda  battevano il tap sul selciato. Si toccavano le punte dei piedi. Si  toccavano i talloni tra loro e si toccavano le piante dei piedi. Poi  la musica cambiò bruscamente tono e finì quel ballo, ma essi  continuarono a ballare su per la strada.
  "Ecco la ghenga" Bill disse.
  Essi attraversavano la strada.
  "Salute, uomini" io dissi.
  "Salute, signori" disse Brett. "Ci avete conservato i posti? Che  bravi."
  "Dico" Mike disse. "Quel Romero o come si chiama è qualcuno. Mi  sbaglio?"
  "Oh, è tanto carino" Brett disse. "E quei pantaloni verdi."
  "Brett non ha mai levato gli occhi da quei pantaloni."
  "Dico, ti chiederò il binocolo domani."
  "Com'è andata?"
  "Magnificamente. Perfetto. Dico, è uno spettacolo!"
  "E i cavalli?"
  "Non ho potuto fare a meno di guardarli."
  "Non ha mai potuto levar gli occhi di là" Mike disse. "E' una  straordinaria donzella."
  "Brutto quello che succede ai cavalli" Brett disse. "Non ho potuto  levar gli occhi di là, però."   "Non ti fa impressione?"
  "Nessuna impressione."
  "A Robert Cohn sì" Mike notò. "Eri verde, Robert."   "Il primo cavallo mi ha un po' disturbato" Cohn disse.
  "Non ti sei annoiato, no?" disse Bill.
  Cohn rise.
  "No. Annoiato no. Chiedo perdono di averlo detto."
  "Va bene" Bill disse. "Basta che tu non ti sia annoiato."
  "Non pareva annoiato" disse Mike. "Pareva che stesse male."
  "Non proprio male. E' stato un momento solo."
  "Io pensavo che stesse male. Non ti sei annoiato, no, Cohn?"
  "Finiamola, Mike. Ho detto che mi spiaceva di averlo detto."
  "Lo era, sapete. Era davvero verde."
  "Oh, dacci un taglio, Michael."
  "Non devi annoiarti alla tua prima corrida, Robert" Mike disse.
"Potrebbe farti male."
  "Oh, Michael, dacci un taglio" disse Brett.
  "Ha detto che Brett era sadica" Mike disse. "Brett non è sadica.  Brett è solo una graziosa forte donzella."   "Sei sadica, Brett?" chiesi io.
  "Spero di no."
  "Ha detto che Brett era sadica solo perché Brett ha uno stomaco  buono e forte."   "Non sarà forte a lungo."
  Bill portò Mike a parlar d'altro e non di Cohn. Il cameriere portò  i bicchieri d'assenzio.
  "Davvero ti è piaciuto?" chiese Bill a Cohn.
  "Non posso dire che mi sia piaciuto. Però devo dire che è una  magnifica cosa da vedere."
  "Caspita, sì. Che spettacolo!" disse Brett.
  "Vorrei che non ci fosse quell'affare dei cavalli" Cohn disse.   "Non è importante" disse Bill. "Dopo un poco non ci si fa più caso  e non disturba più."
  "E' un po' impressionante sul principio" disse Brett. "C'è stato un  momento mortale per me, quando il toro è partito verso il cavallo."   "Erano belli i tori" disse Cohn.
  "Erano ottimi" Mike disse.
  "Voglio sedere giù la prossima volta." Brett bevve dal suo  bicchiere di assenzio.
  Disse Mike: "Vuoi vedere i toreri da vicino".
  "Vale la pena" disse Brett. "Quel Romero è proprio un ragazzo."   "E' un bel pezzo di ragazzo" io dissi. "Quando siamo stati su in  camera sua non avevo mai visto un più bel pezzo di ragazzo."
  "Che età credi che abbia?"
  "Diciannove anni o venti."
  "Pensate un po'."
  La seconda corrida il giorno dopo fu assai migliore della prima.  Brett sedette tra Mike e me alla barrera, e Bill e Cohn andarono di  sopra. Romero era tutto lo spettacolo. Non credo che Brett guardasse  nessun altro torero. Così pure tutti gli altri, eccetto gli induriti  tecnici del mestiere. Romero era tutto. C'erano altri due matadores,  ma non contavano. Io sedevo accanto a Brett e le spiegavo. Le dissi  di guardare il toro, non il cavallo, quando il toro caricava il  picador, e le feci osservare il picador che piazzava la punta della  picca: questo perché Brett potesse rendersi conto e tutto diventasse  per lei qualcosa con uno scopo definito, anziché uno spettacolo di  inspiegabili orrori. Le feci osservare come Romero distoglieva col  mantello il toro dal cavallo caduto, e come col mantello lo teneva e  lo faceva girare, dolce e persuasivo, senza mai sprecare il toro.  Brett vide che Romero evitava ogni movimento brusco e conservava i  suoi tori per la fine come li voleva, non sfiatati o scoppiati, ma  dolcemente logorati. Brett vide come Romero lavorava vicino al toro,  e io le mostrai i trucchi che gli altri toreri usavano per aver  l'aria di lavorar vicino. Brett capì perché le piaceva il lavoro di  mantello di Romero e non quello degli altri.
  Romero non si contorceva mai, era sempre diritto, puro e spontaneo.  Gli altri ruotavano come cavaturaccioli, con i gomiti alzati, e si  protendevano verso i fianchi del toro quando le corna erano passate,  per dare una fittizia impressione di pericolo. Ma poi tutto quanto  era artificioso e falso, appariva e spiaceva. Romero invece davvero  dava emozione, perché manteneva costante nei movimenti l'assoluta  purezza di stile e con calma e distacco lasciava le corna passargli  vicino ogni volta. Non aveva bisogno di enfatizzare la loro  vicinanza. Brett vide che quanto era bello fatto vicino al toro, era  ridicolo se fatto poco distante. Io le dissi che dalla morte di
Joselito tutti i toreri per dare un fittizio senso di emozione  avevano perfezionato una tecnica che simulava l'apparenza del  pericolo, mentre il torero era in realtà al sicuro. Romero aveva la  vecchia cosa, la purezza dello stile costantemente conservata pure  attraverso il massimo dell'esposizione, mentre dominava il toro  facendogli sentire la sua invulnerabilità e lo preparava per  ucciderlo.
  "Non gli ho mai visto fare una mossa sbagliata" disse Brett.
  "No, finché non si spaventa" dissi io.
  "Mai si spaventerà" Mike disse. "E' troppo bravo."
  "Sa tutto da sempre. Gli altri non potranno mai imparare quello che  in lui è innato."
  "E Dio, che bello" disse Brett.
  Disse Mike:
  "Sai, credo che si stia innamorando di questo torero."
  "Non mi meraviglierebbe."
  "Fa' il bravo, Jake. Non parlarle più di lui. Raccontale come
battono le vecchie mamme."
  "Raccontami che ubriaconi sono."
  "Spaventosi" disse Mike. "Ubriachi tutto il giorno e passano il
tempo a battere le vecchie mamme."   "L'aria ce l'ha" disse Brett.
  "Vero?" dissi io.
  Avevano legato le mule al toro morto, poi le fruste schioccarono,  gli uomini corsero e le mule, con uno sforzo in avanti puntando le  zampe, scattarono al galoppo. Il toro morto, con un corno in alto e  la testa di lato scopò una striscia nella sabbia e fuori del cancello  rosso.
  "Il prossimo è l'ultimo."   "Peccato" disse Brett.
  Si appoggiò alla barrera davanti a lei.
  Romero fece cenno ai suoi picadores di mettersi a posto, poi stette  aspettando, col mantello sul petto, guardando al di là dell'arena il  punto da cui doveva uscire il toro.
  Quando alla fine uscimmo ci trovammo pressati stretti nella folla.   "Queste corride conciano" disse Brett. "Sono qui ridotta uno  straccio."
  "Oh, adesso berrai qualcosa" Mike disse.
  Il giorno dopo Romero non lavorò. I tori erano di Miura, e fu una  brutta corrida. Il giorno seguente non c'erano corride in programma.
Ma tutto il giorno e tutta la notte la fiesta continuò.


XVI