sabato 19 ottobre 2019


SCENE DALLA VITA DI UN VILLAGGIO
 Amos Oz
Titolo dell’opera originale SCENES FROM A VILLAGE LIFE © 2009 Amos Oz
Traduzione dall’ebraico di ELENA LOEWENTHAL
© Giangiacomo Feltrinelli editore

1. 

Non sembrava del tutto forestiero. Qualcosa nella sua persona l’aveva a un tempo respinto e attirato sin dal primo sguardo, sempre che fosse tale: ad Arieh Zelnik pareva proprio di ricordarlo, quel viso, e le braccia così lunghe che arrivavano fin quasi alle ginocchia. Una vaga reminiscenza, come di un’altra vita. 
Il tizio parcheggiò davanti al cancello del giardino una macchina beige, piuttosto sporca, che aveva sul parabrezza posteriore così come sui finestrini laterali un mosaico di adesivi colorati, pieni di punti esclamativi, slogan, consigli, proclami. Chiuse l’auto e prima di lasciarla diede un energico scossone a ogni portiera per controllare che non fosse aperta. Poi assestò una leggera pacca, anzi due, sul cofano, quasi che la macchina fosse un vecchio ronzino legato a un palo, da rassicurare affettuosamente sul fatto che l’attesa non sarebbe stata lunga. Dopo di ciò, spinse il cancello e si diresse verso la terrazza, ombreggiata da un pergolato di vite. Aveva un’andatura baldanzosa eppure un poco sofferta, quasi stesse camminando a piedi nudi sulla sabbia calda. 
Dalla sua postazione sulla sedia amaca in fondo al giardino, da dove vedeva senza essere visto, Arieh Zelnik teneva d’occhio lo sconosciuto da quando aveva parcheggiato l’auto. Ma più ci provava, meno riusciva a farsi venire in mente chi fosse quel forestiero dall’aria vagamente familiare. Dove l’aveva già visto? E quando? Durante uno dei suoi viaggi all’estero? A militare? In ufficio? All’università? O forse ancora ai tempi della scuola? Quell’uomo aveva un’aria furba e soddisfatta, come se gli fosse appena andata in porto una diabolica macchinazione. Dietro, o piuttosto da sotto quella faccia sconosciuta, ne trapelava un’altra - una faccia nota, sgradevole, inquietante: quella di qualcuno che ti aveva fatto del male, una volta? O al contrario, eri tu in torto con lui, e non te lo ricordavi più? 
Come un sogno di cui nove decimi scompaiono e solo un lembo ancora balugina nella mente. 
Arieh Zelnik era comunque deciso a non alzarsi in onore del visitatore, e rimanere invece ad accoglierlo lì dalla sedia amaca, sulla terrazza di fronte a casa. 
Lo sconosciuto percorse di fretta il sentiero che conduceva dal cancello agli scalini della terrazza, con gli occhietti che correvano incessantemente a destra e a sinistra, come nel timore di esser scoperto troppo presto, o forse invece per paura che un cane mordace balzasse fuori dalla siepe di bouganvillea spinosa ai due lati del vialetto. 
Aveva radi capelli biondastri, il collo rosso con la pelle rugosa e cascante che ricordava il gozzo di un tacchino, due occhi della consistenza dell’acqua torbida che roteavano come dita invadenti, e le braccia lunghe, scimmiesche: tutto in lui destava un’ansia astratta. 
Dalla sua posizione appartata, lì sulla sedia amaca all’ombra della vite rampicante, Arieh Zelnik notò che l’uomo era sì corpacciuto, ma anche un poco flaccido - come se fosse appena guarito da una grave malattia, come se fino a poco tempo prima fosse stata una persona robusta e solo ultimamente avesse subito un crollo interno da farlo rattrappire dentro la propria pelle. Anche il giubbotto beige scuro con le tasche gonfie sembrava troppo largo, e gli cascava giù dalle spalle. 
Era fine estate e il sentiero era perfettamente asciutto, tuttavia lo sconosciuto si fermò per strofinare bene le suole delle scarpe sul tappetino ai piedi delle scale. Terminata quell’operazione, alzò prima un piede e poi l’altro, ripetendo due volte il controllo delle suole. Quando fu ben sicuro della pulizia, salì i gradini, studiò la porta a rete in cima alla scala e solo dopo aver bussato timidamente più volte senza ottenere risposta, voltò lo sguardo e scoprì finalmente il padrone di casa accomodato nella sedia amaca circondata da grandi piante e vasi di felci in un angolo sotto il pergolato, nel cuore dell’ombra. 
Lo sconosciuto sfoderò subito un sorriso largo, quasi fece la riverenza, e si schiarì la gola prima di esordire con un’esclamazione: 
Che posto magnifico, qui da voi, signor Zelkin! Strabiliante! È proprio la Provenza d’Israele! Ma quale Provenza! Toscana! E che panorama! Il bosco! La vigna! Tel Ilan è davvero il borgo più incantevole di tutto questo levantino paese. Bellissimo! Ah, buongiorno, signor Zelkin. Mi scusi. Spero di non, per caso non disturbo, vero? 
Arieh Zelnik ricambiò con un secco buongiorno, dichiarò che si chiamava Zelnik e non Zelkin, e precisò che con suo rammarico qui da noi non c’era l’abitudine di comprare dai piazzisti. 
Giusto! Assolutamente giusto! tuonò il tizio asciugandosi con la manica il sudore della fronte, come si fa a sapere se si ha davanti un piazzista vero e non un truffatore bell’e buono? O, per carità di Dio, un vero e proprio criminale venuto a studiare il terreno per la sua banda di scassinatori? Però, signor Zelnik, io non sono mica un piazzista, no. Sono insistente! 
Che? 
Wolff Maftzir, “insistente”.  Avvocato Maftzir dello studio Luts-Prujinin. Molto lieto, signor Zelnik. Sono venuto qui da lei, signore, per una questione, come spiegare, forse sarebbe meglio evitare di definirla, la questione, e piuttosto di andare dritti al dunque. Mi scusi, posso sedermi? Si tratterà di un chiarimento più o meno personale, non personale che riguarda me, per carità, perché non avrei mai e poi mai osato essere tanto invadente da disturbare in questo modo, senza preavviso. In effetti ci abbiamo provato, eccome se abbiamo provato, quante volte ci abbiamo provato, ma il suo numero di telefono è riservato e alle nostre lettere ha preferito non rispondere. Pertanto abbiamo deciso di tentare la sorte con questa improvvisata, e ci scusiamo sin d’ora per la seccatura. In effetti non è una cosa che facciamo abitualmente, figuriamoci, questa qui di fare irruzione nella privacy del prossimo, e per di più quando quel prossimo si sta godendo il posto più bello del paese. Comunque sia, cioè. Non è certamente solo una questione personale, la nostra. No, no. Assolutamente no. Cioè, è l’opposto in effetti, il motivo di questa mia sarebbe, come spiegarlo con un briciolo di tatto, potremmo dire così: il motivo di questa mia riguarda una questione personale sua, signore. Una questione personale sua e non solo nostra. Per meglio dire, la faccenda riguarda la sua famiglia. Diciamo pure famiglia in senso generico, ma anche specifico - un membro della sua famiglia, signor Zelkin, un certo parente. Non ha nulla in contrario se ci sediamo e ne parliamo per un momento, vero? Le prometto che farò del mio meglio affinché tutta la pratica non duri più di dieci minuti, va bene? Benché in fondo questo dipenda solo da lei, signor Zelkin.  
Arieh Zelnik disse:  
Zelnik. 
E poi aggiunse:  
Si sieda.  
E subito dopo:  
No, non qui. Qui. 
Quel tizio grasso, o piuttosto ex grasso, aveva osato accomodarsi sulla sedia amaca gemella, proprio accanto al padrone di casa, ginocchio contro ginocchio, lui con il suo effluvio di densi odori che lo avvolgeva come una fedele scorta - lezzo di digestione, di calze, di talco e di ascelle. Su tutte quelle esalazioni era tesa una trama sottile che sapeva di aspro dopobarba. Ad Arieh Zelnik tornò improvvisamente alla memoria il padre, perché anche lui copriva sempre gli odori corporei con quell’aroma troppo forte. 
Il visitatore scattò in piedi all’istante, barcollò leggermente con le braccia da scimmia appoggiate sulle ginocchia, chiese scusa e cambiò posto, posando il retro dei suoi pantaloni troppo larghi nel posto indicatogli, e cioè su una panca di legno dall’altra parte del tavolo da giardino. Era fatto di listelle di legno semipiallato, un po’ come le traversine sui binari del treno. Per Arieh era fondamentale che la madre malata non scorgesse dalla finestra il visitatore - nemmeno di spalle, nemmeno l’ombra sullo sfondo del pergolato. Per questa ragione, l’aveva messo seduto in un punto fuori dal campo visivo di lei. 
Quanto a quella sua voce cantilenante e oleosa, ci avrebbe pensato la sordità a tenere sua madre al riparo. 


2. 

Tre anni prima Naama, la moglie di Arieh Zelnik, era andata a trovare Telma Grant, la sua migliore amica, a San Diego. E non era più tornata. Non gli aveva scritto esplicitamente che aveva deciso di mollarlo, l’aveva solo lasciato intendere, dapprima con molta delicatezza: per ora non torno. Dopo sei mesi aveva scritto: resto ancora qui con Telma. Più tardi aveva comunicato: non è il caso che continui ad aspettarmi. Lavoro nello studio di Telma con Telma alla rigenerazione della gioventù. E in un’altra lettera: io e Telma stiamo bene insieme, abbiamo un karma simile. E ancora: la nostra guida spirituale trova che sarebbe giusto per noi non rinunciare l’una all’altra. Tu te la caverai. Vero che non sei arrabbiato? 
La loro figlia sposata, Hila, gli aveva scritto da Boston: papà, per il tuo bene, ti suggerisco di non insistere con mamma. Ti rifarai un’altra vita. 
Visto che con Eldar, il figlio primogenito, aveva troncato da tempo i rapporti, e che a parte questi pochi parenti non aveva nessun altro, l’anno prima Zelnik aveva deciso di smantellare l’appartamento sul Carmelo e tornare a vivere con sua madre nella loro vecchia casa a Tel Ilan, tirando avanti con l’affitto di due alloggi a Haifa e dedicandosi al suo hobby. 
Già, si era rifatto un’altra vita, proprio come gli aveva suggerito sua figlia. 
In gioventù Arieh aveva prestato servizio in Marina. Sin dalla più tenera infanzia aveva sempre sprezzato il pericolo, che si trattasse del fuoco nemico o di un’arrampicata su roccia. Ma con gli anni gli era venuto il terrore del buio, in quella casa vuota. Per questo aveva deciso di tornare a vivere accanto alla madre, nella vecchia dimora di campagna in cui era nato e cresciuto, in fondo al paese di Tel Ilan. La madre, Rosalia, ormai sulla novantina, era sorda, gobba e non parlava quasi più. Lo lasciava libero di passare gran parte della giornata a occuparsi della casa, senza essergli di peso e senza quasi mai fare commenti o domande. Ogni tanto Arieh Zelnik prendeva in considerazione l’eventualità che sua madre si ammalasse o che invecchiasse al punto da non essere più autosufficiente e costringerlo a imboccarla, pulirla e cambiarla. O a doversi prendere in casa una badante: in quel caso, la quiete domestica sarebbe andata a scatafascio e la vita di lui sarebbe stata esposta a occhi estranei. A volte sperava, o quasi si augurava, che sua madre peggiorasse decisamente, quanto prima, di modo da avere una giustificazione tanto logica quanto sentimentale al suo ricovero in un istituto adatto, così da poter disporre di tutta la casa. E portarci liberamente una moglie nuova, e bella. O anche nessuna moglie, piuttosto una serie di ragazze giovani. E magari buttar giù qualche muro interno, rinnovare tutta la casa. Sì che sarebbe cominciata un’altra vita. 
Nel frattempo i due, figlio e madre, continuavano a vivere in quella casa un poco buia e piuttosto vecchia, in pace e silenzio. Ogni mattina arrivava la donna di servizio, portava la spesa secondo la lista, sistemava, puliva, cucinava, e dopo aver servito il pranzo a madre e figlio se ne andava in silenzio. Per gran parte della giornata la madre se ne stava in camera sua a leggere vecchi libri, mentre Arieh ascoltava la radio o fabbricava modellini di aerei in legno di balsa. 


3. 

L’ospite mostrò tutt’a un tratto un sorriso sagace, ruffiano, un sorriso che pareva un occhiolino, come per proporre al padrone di casa: che ne dici, facciamo un peccatuccio insieme? Tradiva tuttavia anche il timore che quella proposta potesse costargli cara. Poi chiese cordialmente: 
Scusi, con il suo permesso potrei prenderne un po’, per favore? 
Data la vaga parvenza di cenno di sì da parte del padrone di casa, il tizio si servì immediatamente dalla caraffa di vetro posata sul tavolo, riempiendosi di acqua ghiacciata con una fettina di limone e alcune foglie di menta l’unico bicchiere presente sul posto, nella fattispecie quello di Arieh Zelnik. Accostò le sue labbra carnose al bordo e ingurgitò il contenuto del bicchiere con cinque, sei rumorose sorsate; se ne versò un altro mezzo bicchiere, che svuotò con la medesima sguaiataggine, e subito dopo si giustificò: 
Mi scusi! È solo che qui da lei, su questa magnifica terrazza, non ci si accorge mica di che caldo fa oggi. Ah, molto caldo. Molto! Comunque, malgrado questo caldo torrido, il posto è davvero magnifico! Tel Ilan è proprio il posto più bello di tutto il paese! Provenza! Ma quale Provenza! Toscana! Boschi! Vigneti! Case coloniche di cent’anni fa, tetti rossi e cipressi altissimi! E adesso che ne pensa lei, signore? Preferisce che parliamo ancora un po’ del paesaggio? O mi permette di arrivare alla nostra timida agenda, senza troppi giri di parole? 
Arieh Zelnik disse: 
Ascolto. 
Famiglia Zelnik, discendenti di Leon Akabiah Zelnik. Se non erro, voi qui siete fra i pionieri del posto, vero? I primissimi fondatori, vero? No? Novant’anni fa? Quasi cento, addirittura? 
Si chiamava Akiba Arieh, non Leon Akabiah. 
Certo, s’infervorò l’ospite, famiglia Zelkin. Onoriamo la vostra epopea. Altro che onorare. Ci inchiniamo! Al principio, se non erro, arrivarono i fratelli maggiori, Boris e Simon Zelkin, approdati qui da un paesino della regione di Kharkow, per fondare una nuova comunità agricola nel cuore di questa selvaggia zona dei monti di Manasse. Non c’era nulla, qui. Se non steppa di rovi. Non c’erano nemmeno villaggi arabi, in questa vallata, ma solo sul versante opposto delle colline. In seguito arrivò anche il fratello più piccolo di Boris e Simon, Leon o, se proprio ci tiene, Akabiah Arieh. Più tardi, stando almeno a quanto dice la storia, Simon e Boris se ne tornarono uno dopo l’altro in Russia, dove il primo fece fuori il secondo a colpi d’ascia, così solo suo nonno - il nonno, vero? o era il padre del nonno? - insomma, solo Leon Akabiah resistette qui. Non Akabiah? Akiba? Mi scusi. Akiba. In breve, la faccenda è questa: per caso salta fuori che noi, i Maftzir, anche noi siamo originari della zona di Kharkow! Proprio dai boschi di laggiù! Maftzir! Mai sentiti nominare? Abbiamo avuto un famoso cantore, Shaiah Leib Maftzir, e un certo Gregory Moyseyvitz Maftzir, grande generale dell’Armata Rossa. Un pezzo grosso, ma Stalin l’ha preso e fatto fuori. Nelle epurazioni degli anni trenta. 
Ciò detto, il tizio si alzò in piedi e con le sue braccia da scimmia mimò il plotone di esecuzione e simulò il rumore di una raffica di spari, scoprendo i denti davanti, aguzzi ma non propriamente bianchi. Poi tornò sorridendo a sedersi sulla panca: pareva alquanto soddisfatto dal buon esito di quella condanna a morte. Arieh Zelnik ebbe l’impressione che quel tizio si aspettasse un applauso, o almeno un sorriso in cambio del suo, quasi sdolcinato. 
E tuttavia il padrone di casa decise di non ricambiare con nessun sorriso. Anzi, scostò un poco il bicchiere usato e la caraffa di acqua fredda sul tavolo prima di dire: Sì? 
L’avvocato Maftzir strinse la mano sinistra nella destra e la premette allegramente, come se non vedesse se stesso da un bel pezzo e quest’incontro inatteso lo rallegrasse oltremodo. Sotto la sua disinvolta profusione di parole, gorgogliava un fiume carsico di inesauribile soddisfazione, un fiotto di compiaciuta euforia: 
Bene. Dunque è ora di scoprire le carte sul tavolo, come si dice. Se mi sono permesso di fare irruzione qui da lei quest’oggi, è in nome di questioni personali che riguardano fors’anche la sua cara mamma, possa campare cent’anni e passa. Cioè, l’anziana e onorevolissima signora, no? Ovviamente, ovviamente, solo se lei non ha nulla in contrario ad affrontare questo delicato argomento, no?  
Arieh Zelnik disse:  
Dica. 
Il visitatore si alzò, si tolse il giubbotto beige, tonalità sabbia sporca, mostrando così grandi pezze di sudore sotto le ascelle, sulla camicia bianca; poi appese il giubbotto allo schienale, si riaccomodò e disse: 
Scusi. Spero che non le dia fastidio. È che oggi fa un caldo. Permette che mi tolga la cravatta? E per un attimo sembrò un bambino spaventato, un bambino che sa di meritarsi una ramanzina e si vergogna a fare il piagnone. Ma quell’espressione sparì nel giro di un momento. 
Visto che il padrone di casa taceva, l’uomo strattonò la cravatta per sfilarla, con un gesto che ad Arieh Zelnik rammentò suo figlio Eldar, e sentenziò lì per lì: 
Fintanto che sua madre ci sta fra i piedi, non possiamo realizzare la proprietà. 
Scusi? 
Allora troviamole una buona sistemazione in un istituto di ottimo livello. Ce l’ho. Cioè, non proprio io, il fratello del mio socio. Ci vuole solo il consenso di lei. O forse potrebbe essere più facile per noi farci nominare suoi tutori legali? Così non ci vorrebbe il suo consenso, no? 
Arieh Zelnik annuì più volte, grattandosi con le unghie della mano destra il dorso della sinistra. In effetti, proprio ultimamente gli era capitato di pensare all’eventualità di sua madre malata e a quel che sarebbe stato di lei, e di lui, qualora non fosse più stata autosufficiente di corpo e di testa, e al momento in cui lui avrebbe dovuto prendere una decisione... Talvolta era davvero preoccupato al pensiero di doversi congedare da sua madre, sapeva che la cosa l’avrebbe intristito e mortificato molto, ma in altri momenti quasi si augurava che lei declinasse al più presto, e pensava alle prospettive che gli si sarebbero aperte, una volta messa fuori di casa. Un giorno aveva persino invitato qui Yossi Sasson, l’immobiliarista, per fare una stima della proprietà. Quelle inconfessabili speranze destavano in lui sensi di colpa e anche disgusto. Ma ora trovava davvero strano che quello sgradevole individuo gli stesse leggendo nel pensiero quelle brutte cose. Chiese allora al signor Maftzir di riprendere dal principio: 
chi esattamente rappresentava, lui? Per conto di chi era stato mandato qui? 
Wolff Maftzir ridacchiò: 
Maftzir. Mi chiami Maftzir e basta. O Wolff. Fra parenti il “signor” è superfluo, no? 


4. 

Arieh Zelnik si alzò in piedi. Era grande e grosso e molto più alto di Wolff Maftzir, con due spalle larghe e robuste - e tuttavia i due avevano in comune le braccia troppo lunghe, che arrivavano fin quasi alle ginocchia. Poi fece due passi, andando con tutta la sua mole a incombere sopra l’ospite. E disse: 
Allora che vuole. 
Pronunciò la frase senza il punto interrogativo in fondo, e intanto si slacciò un bottone della camicia, dalla quale spuntava ora il torace grigio, peloso. 
Wolff Maftzir squittì con una vocetta mite: 
Che fretta c’è, signore, la nostra operazione è meglio se procede prudentemente, con pazienza, sotto ogni profilo: non deve fare una grinza, non dev’esserci la minima pecca. Non possiamo permetterci di sbagliare nessun dettaglio. 
Arieh Zelnik trovava flaccido, un po’ cascante quel tizio. Come se avesse una misura di pelle troppo grande per lui, con quel giubbotto che prima gli pendeva dalle spalle come il cappotto addosso allo spaventapasseri dell’orto. E quegli occhi acquosi, anche un po’ torbidi. Eppure dava mostra anche di una certa quale agitazione, come se temesse di essere colto alla sprovvista. 
La nostra operazione? 
Cioè, il problema della vecchia signora. Cioè, la signora sua madre, dato che la nostra proprietà è tuttora intestata a lei e tale resterà sino alla fine dei suoi giorni e chissà che cosa le è venuto in mente di scrivere nel suo testamento, prima che noi due si riesca a farci nominare suoi tutori. 
Noi due? 
Questa casa, la si potrebbe demolire e costruire un sanatorio. Un centro benessere. Potremmo metter su un posto che non temerebbe confronti in tutto il paese: aria buona, quiete bucolica, paesaggio campestre che non ha nulla da invidiare alla Provenza o alla Toscana, erbe officinali, massaggi, meditazione, spiritualità, la gente pagherà fior di quattrini per quel che il nostro posto potrà offrire loro. 
Scusi, da quando in qua noi ci conosciamo? 
Ma già ci conosciamo, no? Siamo amici. Non solo amici, mio caro: praticamente parenti. E persino soci. 
Alzandosi, probabilmente Arieh Zelnik intendeva indurre l’ospite a ritenersi costretto a fare lo stesso, e andarsene donde era venuto. E invece quell’altro non si alzò affatto, rimase seduto dov’era, allungando persino la mano per servirsi un altro bicchiere di acqua ghiacciata con una fetta di limone e qualche foglia di menta - sempre lo stesso bicchiere che era stato di Arieh Zelnik fino al momento in cui quel tizio l’aveva espropriato a proprio uso e consumo. Come se non bastasse, si appoggiò indietro contro lo schienale. In quel momento, con la camicia chiazzata di sudore sotto le ascelle e senza più giubbotto né cravatta, Wolff Maftzir pareva un commerciante con tutto il tempo di questo mondo a disposizione, uno di quei sudaticci mercanti di bestiame che, armati di pazienza ma anche di astuzia, arrivavano in campagna a trattare con i contadini la compravendita di un bel bovino grasso da cui, sembravano convinti, entrambe le parti avrebbero avuto da guadagnarci. Ora tradiva una certa qual malizia, una sorta di inconfessabile spensieratezza, che non era del tutto estranea neanche al padrone di casa. 
Io, mentì Arieh Zelnik, adesso debbo entrare in casa. Ho una cosa da sbrigare. Mi scusi. 
Io, sorrise Wolff Maftzir, non ho alcuna fretta. Col suo permesso, resto qui ad aspettarla. O forse sarebbe meglio che venissi dentro con lei, a far la conoscenza della signora. Devo quanto prima conquistare la sua fiducia. 
La signora, disse Arieh Zelnik, non riceve ospiti. 
Io, insistette Wolff Maftzir alzandosi dalla panca, belle pronto a seguire il padrone di casa all’interno, non sono propriamente un ospite. In fondo, come dire, siamo parenti, in un certo senso, no? Soci, anche, no? 
Arieh Zelnik si ricordò tutt’a un tratto del consiglio che gli aveva dato sua figlia Hila, quello cioè di lasciar perdere la mamma, di non forzare il suo ritorno da lui, e tentare invece di rifarsi una vita. A dire la verità, non si era mai messo gran che d’impegno per far tornare a casa Naama: dopo che era partita per andare dalla sua migliore amica Telma Grant a seguito di un tremendo litigio fra loro due, Arieh Zelnik aveva messo in valigia tutti i suoi vestiti e le sue cose e aveva spedito il bagaglio all’indirizzo di Telma a San Diego. E quando suo figlio Eldar aveva troncato i rapporti, lui aveva imballato e gli aveva spedito i suoi libri e persino i giocattoli di quand’era bambino. Aveva sgombrato il campo, insomma, come si fa con le postazioni nemiche alla fine della battaglia. Qualche mese più tardi anche lui aveva fatto i bagagli e abbandonato l’appartamento di Haifa, per venire ad abitare a casa di sua madre, qui a Tel Ilan. Ora non desiderava altro che una quiete assoluta: giorni sempre uguali a se stessi, ore e ore libere. 
Ogni tanto andava a fare una lunga passeggiata intorno al paese e fuori, tra le colline che circondavano la piccola valle, per le piantagioni di alberi da frutto, nelle macchie di pini. Oppure passava una mezz’ora nel loro terreno, fra i resti della fattoria di suo padre, dismessa ormai da molti anni. Alcune baracche erano ancora più o meno in piedi, e c’erano anche pollai, tettoie di lamiera, un fienile, la stalla dei vitelli da latte ormai abbandonata. La scuderia era diventata un deposito in cui stavano accatastati i mobili della casa che aveva smantellato a Haifa, sul monte Carmelo. Lì, in quella che era stata un tempo una scuderia, accumulavano polvere le poltrone e il divano, i tappeti, la credenza e il tavolo del salotto di Haifa, e una sottile trama di ragnatele si stava piano piano intessendo fra di loro. Anche il vecchio letto matrimoniale suo e di Naama era finito lì, in piedi su un fianco, in un angolo della scuderia. Il materasso invece stava sepolto sotto un mucchio di cuscini polverosi. Arieh Zelnik disse: 
Mi scusi. Ho da fare. 
Wolff Maftzir disse: 
Ma certo. Scusi lei. Non voglio disturbare, mio caro, assolutamente no. Anzi. Da questo momento sarò muto come un pesce. Non dirò più nulla. 
Con ciò, si mise in piedi e seguì il padrone di casa all’interno - dove dimorava una fresca penombra e stagnava odore di sudore e vecchiaia. 
Arieh Zelnik non demorse: 
Per favore mi aspetti fuori. 
Anche se avrebbe voluto dire, con una certa dose di sgarbataggine, che quella visita poteva considerarsi conclusa e che l’ospite era pregato di levarsi dai piedi. 


5. 

Solo che l’ospite manco se lo sognava, di levarsi dai piedi. Seguì anzi disinvoltamente Arieh Zelnik, e attraversando il corridoio aprì una porta dopo l’altra, studiando con tutta calma la cucina, la biblioteca, la stanza degli hobby di Arieh Zelnik dove, appesi al soffitto con dei fili robusti, i suoi modellini di aerei in legno di balsa dondolavano lentamente nell’aria, come in procinto di ingaggiare una feroce battaglia. Arieh Zelnik pensò che anche lui faceva così, da bambino: apriva tutte le porte chiuse e controllava sempre se dietro si nascondeva qualcosa. 
Attraversato tutto il corridoio, giunsero in fondo alla casa; qui Arieh Zelnik si fermò per sbarrare con il proprio corpo l’ingresso nella sua stanza da letto, che un tempo era stata quella di suo padre. Ma Wolff Maftzir non aveva la benché minima intenzione di invadere la stanza da letto del padrone di casa, e invece bussò timidamente alla porta della vecchia sorda e visto che non giunse risposta, sfiorò con una carezza la maniglia della porta e la aprì dolcemente. Dentro c’era la signora Rosalia, a letto, coperta fino al mento da una coltre di lana, in mezzo al materasso matrimoniale, la testa avvolta in un fazzoletto, gli occhi chiusi e le mascelle ossute, prive di denti, che si muovevano in un’eterna masticazione. 
Proprio come pensavamo, Wolff Maftzir ridacchiò. Buongiorno cara signora, ci siete mancata tantissimo e avevamo tanto desiderio di venire a trovarla, è contenta di vederci, vero? 
Ciò detto, si chinò su di lei e la baciò due volte, due lunghi baci sulle guance, e poi un altro ancora sulla fronte, finché la vecchia aprì gli occhi annebbiati e allungò una mano ossuta da sotto la coperta per carezzare Wolff Maftzir sul capo e mormorare qualcosa, e anche l’altra mano a un certo punto spuntò da sotto la coperta, così con tutte e due trasse a sé il capo di lui che, accondiscente, si chinò ancora su di lei. Poi si tolse le scarpe lasciandole ai piedi del letto e la baciò sulla bocca sdentata e si distese accanto a lei sul letto, tirando i lembi della coperta fin sopra di sé e da lì sotto disse ecco, così, e poi disse: buongiorno carissima signora. 
Arieh Zelnik esitò, poi rivolse lo sguardo alla finestra aperta, da dove si vedevano i casotti abbandonati della fattoria e un cipresso polveroso su cui si arrampicava una bouganvillea arancione con i suoi denti di fiamma. Fece il giro del letto matrimoniale, abbassò la persiana, chiuse la finestra e anche le tende e mentre nella stanza calava il buio, si slacciò la camicia e la cintura dei pantaloni, si tolse le scarpe e si distese a letto accanto all’anziana madre. Eccoli tutti e tre: la signora padrona di casa, il figlio taciturno e lo sconosciuto che continuava ad accarezzarla e baciarla mormorando dolcemente che tutto sarebbe andato per il meglio, carissima signora, tutto sarebbe stato bello qui, tutto si sarebbe sistemato. 

  
Parenti 
  
1. 

Il buio precoce nei pomeriggi di febbraio era già calato sul paese. Ghili Steiner era sola alla fermata dei pullman, sotto la pallida luce di un lampione. La sede del consiglio municipale era chiusa, con le persiane serrate, così come quelle delle case vicine, donde sbucavano i suoni della televisione. Un gatto randagio comparve davanti ai bidoni della spazzatura con il suo passo lento e felpato, la coda dritta, la pancia un po’ gonfia. Attraversò pigramente la strada e sparì fra i cipressi. 
L’ultimo pullman da Tel Aviv arrivava a Tel Ilan alle sette di sera. Alle sette meno venti, la dottoressa Ghili Steiner, medico condotto presso l’ambulatorio del servizio sanitario, andò alla fermata davanti alla sede del consiglio municipale ad aspettare suo nipote Ghideon Ghet, militare di leva. Mentre seguiva il corso di addestramento carristi, Ghideon aveva avuto un problema ai reni ed era stato ricoverato in ospedale. Ora ch’era stato dimesso, sua madre l’aveva spedito a trascorrere qualche giorno di riposo a casa della sorella, medico condotto del paese. 
La dottoressa Steiner era una signorina magra, raggrinzita e spigolosa con i capelli grigi cortissimi, un viso severo e degli occhiali con le lenti quadrate con la montatura a giorno. Era una donna energica e, benché ne dimostrasse di più, aveva circa quarantacinque anni. A Tel Ilan era considerata una diagnostica eccezionale che non sbagliava quasi mai nelle sue prognosi ma, così almeno si diceva qui, aveva un modo di fare burbero e scostante e non manifestava alcuna simpatia verso i malati e le loro sofferenze, limitandosi ad auscultarli con molta attenzione. Non aveva mai messo su famiglia ma i suoi coetanei del villaggio si ricordavano che da giovane aveva avuto una storia con uno sposato che poi era caduto durante la Guerra del Libano. 
Ora si sedette sulla panchina della fermata ad aspettare suo nipote, abbassando di tanto in tanto lo sguardo sull’orologio da polso. Sotto la fioca luce del lampione, le lancette erano così vaghe che non c’era modo di capire per quanto tempo avrebbe ancora dovuto aspettare il pullman. Sperava che non fosse in ritardo, e che Ghideon fosse a bordo. Era talmente distratto, quel ragazzo: capace che si era confuso ed era salito sul pullman sbagliato. E adesso che era reduce da quella grave malattia, sicuro che era ancor più sbadato del solito. 
Nel frattempo, la dottoressa Steiner respirava a pieni polmoni l’aria buona di una fine giornata d’inverno, fredda e secca. Dei cani abbaiarono nei cortili, e sopra il tetto del municipio stava appesa una luna quasi piena, che spandeva il suo scheletrico chiarore sulla strada, sui cipressi e sulle siepi di cinta. Una sottile foschia avvolgeva le cime degli alberi, quasi spogli. Negli ultimi anni, Ghili si era iscritta a due dei corsi che si svolgevano alla Casa della Cultura di Tel Ilan sotto la direzione di Dalia Levin, ma senza trovarvi quel che cercava. Che cosa cercasse, non lo sapeva nemmeno lei. Forse la visita del nipote l’avrebbe aiutata a rintracciare un qualche senso. Per qualche giorno sarebbero stati soli loro due in casa, accanto alla stufa. Lei l’avrebbe curato come quando era bambino, forse avrebbero chiacchierato, forse sì, forse Ghili Steiner aveva davvero il potere di rimettere in forze quel ragazzo che aveva sempre amato come un figlio. In onor suo aveva riempito il frigorifero di leccornie, preparato il letto e steso per terra un tappeto di lana nella stanza che gli era sempre riservata, accanto alla propria. Sul comodino gli aveva sistemato alcuni giornali, qualche rivista e tre o quattro libri che a lei erano piaciuti e che sperava piacessero anche a Ghideon. Aveva anche preventivamente acceso il boiler, lasciato una tenue luce e la stufa accesa in salotto, una ciotola di frutta e un piatto con delle noccioline sul tavolo affinché, appena sceso dal pullman, Ghideon trovasse una calda atmosfera domestica. 
Alle sette e dieci si udì il rombo del pullman che veniva su da via dei Fondatori. La dottoressa Steiner si alzò in piedi in tutta la sua esile e decisa corporatura, con le spalle magre coperte da un maglione scuro e intorno al collo una sciarpa di lana, scura anch’essa. Dalla porta posteriore scesero prima due donne non più giovani, che Ghili Steiner conosceva di vista. Si salutarono. Dalla porta anteriore uscì lentamente Arieh Zelnik, con addosso un soprabito stile militare un po’ grande di misura, in testa un berretto che gli teneva nascosta la fronte e incupiva lo sguardo. Augurò buona serata a Ghili Steiner e poi le chiese con un tono ironico se per caso fosse lì ad aspettare lui, nella fattispecie. Ghili rispose che stava aspettando il nipote soldato, ma Arieh Zelnik non aveva visto nessun soldato sul pullman. Ghili Steiner disse che intendeva sì un soldato, ma in abiti civili. Nel frattempo scesero altre tre o quattro persone, ma non Ghideon. Il pullman era ormai vuoto, allora Ghili chiese a Mirkin, l’autista, se non avesse notato, fra i passeggeri saliti a Tel Aviv, un ragazzo alto e magro, occhialuto, un soldato in licenza, un bel ragazzo, sì, ma dall’aria disorientata e non perfettamente in salute. Mirkin non ricordava nessun passeggero con quei connotati, però disse con tono scherzoso: non si preoccupi, dottoressa Steiner, se non è arrivato stasera, di sicuro sarà qui domattina, e se non domattina certo a mezzogiorno. Comunque alla fine arrivano tutti. Anche ad Abraham Levin, sceso per ultimo, Ghili Steiner chiese se per caso avesse visto un giovane passeggero che magari era sceso per sbaglio a un’altra fermata. Abraham rispose: 
Forse che sì forse che no. Non ci ho fatto caso. Ero sovrappensiero. 
E dopo un attimo di riflessione, aggiunse: 
Ci sono molte fermate per strada, e tanta gente è scesa e salita. 
L’autista Mirkin offrì alla dottoressa Steiner un passaggio. Ogni sera lui parcheggiava il pullman davanti a casa e l’indomani mattina alle sette ripartiva per Tel Aviv. Ghili lo ringraziò ma disse che preferiva tornare a piedi, per godersi l’aria fresca dell’inverno. Tanto comunque non aveva nessuna fretta, visto che suo nipote non era arrivato. 
Mirkin le augurò una buona serata, chiuse le portiere del pullman con uno sbuffo del compressore e si diresse verso casa. Ghili Steiner ebbe subito un ripensamento: con tutta probabilità Ghideon si era addormentato sul sedile in fondo e nessuno s’era accorto di lui. E adesso Mirkin avrebbe parcheggiato il pullman davanti a casa, avrebbe spento le luci e chiuso a chiave le portiere, lasciando il ragazzo imprigionato lì sino all’indomani mattina. Imboccò dunque via dei Fondatori e si diede di buon passo all’inseguimento del pullman, poi prese la scorciatoia del parco della Memoria, dove il buio della notte era avvolto dal pallido chiarore di una luna quasi piena. 


2. 

Dopo una ventina di passi, Ghili Steiner decise che avrebbe fatto meglio a tornare direttamente a casa e di lì telefonare a Mirkin chiedendogli di andare a controllare attentamente che non ci fosse nessun passeggero addormentato sul sedile in fondo al pullman. Conveniva anche chiamare sua sorella e chiederle se Ghideon era effettivamente partito per Tel Ilan o se per caso non avesse annullato il viaggio all’ultimo momento. Ma che senso aveva preoccupare sua sorella? C’era già lei, in ansia. Se in effetti il ragazzo era sceso dal pullman troppo presto, alla fermata sbagliata, ora stava di sicuro cercando di chiamarla da qualche posto vicino. C’era poi un’altra buona ragione per tornare direttamente a casa, invece di correre dietro al pullman di Mirkin: per telefono avrebbe suggerito a Ghideon di salire su un taxi collettivo, lì dov’era sceso per sbaglio. E se non aveva i soldi, certo, la corsa l’avrebbe pagata lei. Già si vedeva il ragazzo che, entro una mezz’oretta, arrivava con il taxi, sfoderando il suo solito sorriso timido e scusandosi a mezza voce per il pasticcio che aveva combinato, mentre lei pagava il conducente e poi prendeva suo nipote per mano come faceva sempre quando lui era bambino, e lo calmava con le buone, portandolo in casa per far la doccia e poi mangiare la cena che aveva preparato per loro due, pesce al forno con le patate. Poi Ghideon si sarebbe fatto la doccia mentre lei avrebbe dato una rapida occhiata alla sua cartella medica, che gli aveva chiesto di ritirare dall’ospedale per portarla con sé. Per tutto quel che riguardava la diagnostica medica, lei si fidava solo di se stessa, e nemmeno sempre. Non del tutto. 
Benché avesse concluso che, sotto tutti i punti di vista, sarebbe stato decisamente meglio tornare subito a casa, la dottoressa Steiner aveva proseguito in direzione della Casa della Cultura, si era incamminata di buon passo su per via dei Fondatori e aveva preso la scorciatoia tagliando per il parco della Memoria. Aveva le lenti degli occhiali appannate perché l’aria invernale era umida e impregnata di vapore. Allora se li tolse, sfregò forte le lenti con il bordo della sciarpa e li inforcò di nuovo con un gesto brusco. Per un attimo, così senza occhiali, il viso perse la sua severa imperturbabilità e divenne quello sensibile e offeso di una bambina sgridata ingiustamente. Ma al parco della Memoria non c’era anima viva e nessuno ebbe modo di vederla così, senza occhiali. Qui da noi tutti conoscevano la dottoressa Steiner solo attraverso il riflesso algido delle lenti quadrate con la montatura a giorno. 
Il giardino deserto era immerso nella muta quiete del chiaro di luna. Dopo il prato e le folte siepi di bouganvillea, c’era il boschetto di pini, che ora era una densa chiazza di buio. Ghili Steiner respirò profondamente e accelerò il passo. La ghiaia del sentiero crepitava sotto le suole, come se queste stessero calpestando una bestiolina viva che reagiva lanciando dei piccoli strilli strozzati. Quando Ghideon era ancora piccolo, avrà avuto quattro o cinque anni, sua madre l’aveva portato a casa della sorella, che proprio in quel periodo aveva cominciato a lavorare in paese, a Tel Ilan, come medico di base fisso. Era un bambino un po’ torpido, trasognato, capace di passare lunghe ore a giocare da solo con tre o quattro oggetti qualunque - una tazza, un accendino, dei lacci da scarpe. Non di rado, in pantaloncini corti e maglietta tutta macchiata, si sedeva sui gradini di casa a fissare imbambolato il vuoto, muovendo solo le labbra, come per raccontare chissà quale storia. La zia Ghili non vedeva di buon occhio l’indole solitaria del bambino: aveva provato a procurargli dei compagni di gioco, invitando i bambini del vicinato. Ma quelli non l’avevano neanche preso in considerazione, e nel giro di un quarto d’ora Ghideon era di nuovo solo come prima. Lui non pareva minimamente interessato a fare amicizia con loro: eccolo di nuovo tutto solo sull’amaca del balcone, che fissava il vuoto mormorando qualcosa. O ordinava in fila delle puntine. Lei gli aveva comprato qualche giocattolo, che però il bambino aveva usato ben poco, tornando presto ai suoi consueti passatempi: due tazze, un accendino, un vaso, un fermacarte, dei cucchiaini che sistemava sulla stuoia secondo una logica chiara soltanto a lui, sparpagliava e riordinava di nuovo, muovendo incessantemente le labbra come per raccontare a se stesso delle storie che non aveva mai condiviso con la zia. La sera si addormentava abbracciato al suo piccolo canguro di lana sbiadita. 
Qualche volta lei aveva tentato di violare la solitudine del bambino proponendogli di andare a fare una passeggiata per i campi intorno al paese o all’emporio di Victor Ezra a comprare qualche dolciume o, perché no, di arrampicarsi insieme su per la torre dell’acqua che si ergeva sopra tre piloni di cemento, ma il bambino aveva sempre reagito con un’alzata di spalle, quasi interdetto da quella ventata di attivismo che aveva colto tutt’a un tratto la zia. 
Un giorno, Ghideon avrà avuto cinque o sei anni, la madre l’aveva lasciato di nuovo per un po’ a casa della zia, in campagna. Ghili Steiner si era presa dei giorni di ferie, in onor suo, ma il bambino non ne aveva voluto sapere di muoversi dalla stuoia, dove giocava con uno spazzolino da denti, una spazzola per capelli e qualche scatola di fiammiferi vuota. Poi Ghili era stata chiamata per una visita d’urgenza da un malato in fondo al paese. Non potendo assolutamente lasciare solo a casa il bambino, aveva insistito perché venisse con lei o l’aspettasse nell’ufficio dell’ambulatorio, sotto la sorveglianza della segretaria, Zila. Ma, testardo che era, il bambino era rimasto tacitamente sulle sue: voleva restare a casa. Non aveva paura di rimanere da solo. Il suo canguro avrebbe badato a lui. Aveva promesso di non aprire la porta a nessuno. Ghili Steiner era tutt’a un tratto uscita dai gangheri, non tanto per la cocciutaggine del bambino che voleva a tutti i costi restare solo a continuare quei suoi giochi solitari sulla stuoia, quanto perché era sempre così strano e flemmatico, e per quel suo canguro e per la sua totale alienazione. Aveva alzato la voce e cominciato a urlare: tu vieni con me, immediatamente! Basta. Chiuso. Il bambino le aveva risposto pacatamente, pareva quasi stupito del suo scarso comprendonio: no, zia Ghili. Io sto qui. Allora lei aveva allungato una mano e gli aveva mollato uno schiaffo tremendo e poi, quasi incredula, aveva continuato a picchiarlo con tutte e due le mani sulla testa, sulle spalle, sulla schiena, in preda a una rabbia implacabile, come se stesse lottando per soggiogare un nemico giurato o per domare un puledro recalcitrante. Sotto quella gragnuola di colpi, Ghideon si era tutto raggomitolato, infossando la testa fra le spalle e aspettando in silenzio che l’attacco di rabbia si spegnesse. Poi l’aveva fissata con due occhi sbalorditi e le aveva domandato seccamente: perché mi odi? Allora lei l’aveva abbracciato in lacrime e baciato sul capo. Ovviamente si era arresa e gli aveva permesso di restare a casa solo con il suo canguro. Al ritorno, neanche un’ora più tardi, lei gli aveva pure chiesto scusa e il bambino aveva detto: non c’è problema, capita di arrabbiarsi. Però era diventato ancor più taciturno di prima, e non aveva quasi aperto bocca finché sua madre non era tornata a prenderlo, due giorni dopo. Nessuno dei due aveva riferito alla mamma di Ghideon di quel litigio. Prima di partire, il bimbo aveva raccolto dalla stuoia gli elastici, il fermalibri, la saliera e il blocchetto per le ricette mediche, rimettendo ogni cosa al suo posto. Il canguro lo aveva chiuso in un cassetto. Ghili si era chinata e gli aveva dato un bacio affettuoso sulle guance, che lui aveva ricambiato con uno di circostanza sulla spalla di lei, a denti stretti. 


3. 

Accelerò il passo, spinta dalla certezza sempre più adamantina che Ghideon fosse lì, addormentato sul sedile in fondo, imprigionato nel pullman buio, parcheggiato per la notte davanti a casa di Mirkin. Le venne anche in mente che probabilmente il freddo e l’improvviso silenzio avevano svegliato il ragazzo, il quale forse ora stava invano tentando di uscire dalla vettura chiusa, provando a spingere le portiere bloccate, battendo contro il vetro del finestrino dietro, perché sicuramente si era dimenticato il cellulare, esattamente come aveva fatto lei poco prima, uscendo di casa per andare alla fermata del pullman. 
Cominciò a scendere una pioggerella fine, quasi impercettibile, mentre il vento era cessato. Attraversò il boschetto buio e giunse fino al fioco lampione subito fuori dal parco della Memoria, in direzione di via dell’Ulivo. Qui incappò in un bidone della spazzatura rovesciato sul marciapiede: Ghili Steiner lo aggirò e proseguì a passo di marcia su per via dell’Ulivo. Le case erano serrate, avvolte da un sottile vapore lattiginoso, e i giardini parevano caduti in un letargo di stagione, avvolti dalle siepi di ligustro, lauro e tuia. Qua e là, nascosta da una ricca vegetazione rampicante, faceva capolino sulla strada una nuova villa di lusso, costruita sui resti di una vecchia cascina. Negli ultimi anni, ogni tanto arrivava qui qualche ricco di città che si comprava un vecchio rudere, lo demoliva e costruiva al suo posto un villone a più piani, pieno di cornicioni e balconcini. Poco ci manca, pensò Ghili Steiner, che questo paese diventi una specie di residenza di lusso per gente piena di soldi. La sua, di casa, l’avrebbe lasciata in eredità al nipote Ghideon: aveva già anche fatto testamento in merito. Ora s’immaginò chiaramente Ghideon immerso in un sonno inquieto, imbacuccato nel suo cappotto marrone, riverso sul sedile dietro del pullman chiuso e spento, davanti a casa di Mirkin. 
Un venticello fresco le diede un brivido mentre passava all’angolo con lo spiazzo della sinagoga. Non pioveva più. Un sacchetto di plastica si librò vorticando sulla via deserta e le sfiorò la spalla come un pallido spettro. Ghili Steiner accelerò il passo e svoltò da via del Salice verso via del Cimitero, in fondo alla quale abitava Mirkin, il conducente del pullman, proprio di fronte a casa della professoressa Rahel Franco, che viveva con l’anziano padre Pesach Kedem. Una volta, avrà avuto dodici anni, Ghideon era comparso tutto solo a casa della zia a Tel Ilan, perché dopo aver bisticciato con sua madre aveva deciso di scappare di casa. Sua madre l’aveva chiuso in camera perché aveva preso un brutto voto, allora lui le aveva sfilato un po’ di denaro dal portafogli, si era calato dal balcone ed era partito per Tel Ilan, portando con sé una piccola borsa con biancheria, calze e due camicie di ricambio, intenzionato a chiedere asilo a Ghili. Lei l’aveva abbracciato, gli aveva preparato il pranzo, gli aveva dato il suo spelacchiato canguro di lana che da piccolo si teneva sempre stretto, e poi aveva chiamato sua sorella, anche se erano in pessimi rapporti. L’indomani la madre di Ghideon era venuta a prendere il bambino e alla sorella non aveva neanche rivolto la parola. Ghideon si era arreso, aveva salutato tristemente la zia ed era andato via in silenzio, la mano intrappolata in quella della furibonda madre. Un’altra volta, circa tre anni prima di quella sera, Ghideon, all’epoca diciassettenne, era venuto ospite da lei per preparare l’esame di biologia per la maturità, approfittando della quiete campestre. Lei avrebbe dovuto dargli una mano in quella materia, se non che, animati da una specie di complicità, invece di studiare i due si erano buttati in un interminabile torneo a dama. Avevano continuato per tutto il giorno a giocare a dama e dama al contrario - quasi sempre vinceva lei, non si faceva battere da Ghideon. Dopo ogni sconfitta, con la sua voce sonnolenta il ragazzo le chiedeva la rivincita: una partita soltanto. E invece erano andati avanti così per tutto il giorno, la sera avevano guardato fino a tardi i film che davano alla televisione, seduti uno accanto all’altra sul divano, con le gambe sotto un’unica coperta di lana. La mattina Ghili Steiner era andata al lavoro all’ambulatorio medico, lasciando sul tavolo della cucina delle fette di pane, verdure, formaggi e due uova sode. Al suo ritorno dallo studio, nel pomeriggio, lo aveva trovato addormentato vestito sul divano del salotto. Prima, però, lui aveva pulito e messo ordine in cucina, aveva scrupolosamente piegato le lenzuola del letto. Avevano ripreso a giocare a dama, una partita dopo l’altra, invece di studiare per l’esame. E senza quasi scambiarsi una parola. La sera avevano guardato la televisione fin quasi a mezzanotte - la stufa era accesa, tuttavia i due si erano tirati la coperta di lana blu fin sulle spalle - e questa volta avevano riso tutti e due perché il film era una divertente commedia inglese. L’indomani il ragazzo era tornato a casa sua, due giorni dopo aveva superato l’esame di biologia con un punteggio decente, pur non avendo praticamente aperto libro. Ghili Steiner aveva chiamato sua sorella e le aveva mentito dicendo che Ghideon si, si era preparato con il suo aiuto, e che era diligente e molto scrupoloso. Ghideon aveva mandato per posta alla zia un libro di poesie di Yehuda Amichai, scrivendo di suo pugno sul frontespizio “grazie per l’aiuto a preparare l’esame di biologia”. Lei gli aveva risposto con una cartolina illustrata del paese di Tel Ilan, così come appariva da in cima alla torre dell’acqua, dicendo “grazie per il libro”, e anche “se per caso vuoi ritornare a studiare da me, magari per qualche altro esame, la tua stanza è sempre pronta qui che ti aspetta. Non esitare a venire”. 


4. 

L’autista Mirkin, un vedovo sulla sessantina dal ragguardevole deretano, si era già messo in tenuta da casa - pantaloni della tuta larghi e maglietta con la pubblicità di una ditta commerciale. Restò piuttosto sorpreso quando la dottoressa Steiner bussò alla sua porta, chiedendogli di uscire per controllare insieme a lei che non fosse rimasto nessun passeggero addormentato sul sedile in fondo al pullman. 
Mirkin era un uomo corpulento, un chiacchierone di buon carattere. Aveva gli incisivi fuori misura e anche un po’ asimmetrici, e il suo largo sorriso sfoggiava sia i denti sia la lingua, che faceva capolino sopra il labbro inferiore. Aveva ottime ragioni per pensare che il nipote della dottoressa Steiner fosse sceso per sbaglio qualche fermata prima, e che adesso stesse cercando di arrivare a Tel Ilan facendo l’autostop; per questo secondo lui la dottoressa Steiner avrebbe fatto meglio a tornare a casa ad aspettarlo. Ciononostante, prese una torcia e andò a controllare insieme a lei che nessun passeggero fosse rimasto intrappolato nel pullman parcheggiato davanti a casa sua. 
Di sicuro non c’è, dottoressa Steiner, ma se la cosa la mette tranquilla, andiamo a verificare. Ma certo. 
Non ricorda di avere visto un ragazzo, alto, magro, occhialuto, un ragazzo un po’ imbambolato ma di buone maniere? 
C’erano dei giovani, sì. Mi pare di averne visto uno simpatico, con un grosso zaino e una chitarra. 
Nessuno di loro ha continuato sino a Tel Ilan? Sono tutti scesi strada facendo? 
Mi dispiace, dottoressa. Non ricordo. Non ha per caso una medicina miracolosa per rinforzare la memoria? Ultimamente dimentico tutto. Chiavi, nomi, date, portafogli, patenti. Se vado avanti così finisce che non mi ricordo nemmeno più come mi chiamo. 
Aprì il pullman premendo un pulsante nascosto sotto il predellino e salì a bordo con passo goffo. Passò in rassegna con la torcia una fila di posti dopo l’altra, producendo una danza di ombre nervose. Ghili Steiner lo seguì a bordo, quasi appiccicata alla sua schiena larga che avanzava lungo il passaggio. Quando illuminò l’ultima fila di sedili, gli sfuggì un piccolo grido di sorpresa. Poi si chinò e tirò su un fagotto morbido dalla natura incerta. Una volta steso, si scoprì essere un giaccone che alla dottoressa Steiner pareva familiare. 
È per caso il giaccone del suo ospite? 
Non era sicura. Forse. Può darsi. 
L’autista gettò per un attimo sul giaccone il fascio di luce della torcia, che poi diresse sul viso della dottoressa, sui suoi capelli grigi corti corti, gli occhiali quadrati e le labbra sottili, l’espressione severa. Infine le disse che magari il ragazzo era sì sul pullman, ma era sceso alla fermata sbagliata, dimenticando il giaccone a bordo. 
Ghili toccò il capo d’abbigliamento con tutte e due le mani, annusò un momento e chiese a Mirkin di illuminarlo di nuovo. 
Mi pare proprio sia suo. Credo, sì. Ma non sono sicura. 
Lo prenda, disse gentilmente l’autista, lo prenda e lo tenga lei. Se per caso domani un altro passeggero viene a cercarlo, il suo indirizzo lo so. Mi permette di accompagnarla a casa, dottoressa Steiner? Sta di nuovo per piovere. 
Ghili lo ringraziò ma disse che non era il caso, grazie, che sarebbe tornata a casa a piedi, che già l’aveva disturbato abbastanza. Scese dal pullman seguita dall’autista che illuminava il predellino perché non inciampasse. Una volta fuori, mentre indossava quel giaccone ebbe la certezza assoluta che appartenesse a Ghideon. Già, lo ricordava dall’inverno scorso. Un giaccone marrone corto, con il pelo. Stava bene con quello addosso, e per un attimo ebbe l’impressione che quel capo avesse trattenuto l’odore delicato di lui. Non quello di adesso, bensì di quando era piccolo e sapeva di sapone alle mandorle e di pappa. Quel giaccone le andava grande, ma di poco, e aveva una consistenza piacevolmente morbida. 
Ringraziò Mirkin, che insistette ancora per accompagnarla in pullman sino a casa. Ma no, non era il caso, davvero no grazie, lei lo salutò e s’incamminò. Una luna quasi piena spuntò fra le nubi, illuminando con il suo pallido chiarore le cime dei cipressi nel cimitero lì vicino. Un silenzio largo e profondo era calato sul villaggio, interrotto solo dal muggito di una mucca in direzione della torre dell’acqua, cui risposero dei cani in lontananza, con un lungo e vago ululato che si perse in un guaito. 


5. 

E se non fosse stato affatto il giaccone di Ghideon? In fondo, era assai probabile che lui avesse deciso di non venire e si fosse scordato di dirglielo. O forse il suo stato di salute si era improvvisamente aggravato, ed era di nuovo stato ricoverato? Lei sapeva da sua sorella che a metà del corso allievi carristi Ghideon si era preso una brutta infezione renale ed era stato ricoverato al reparto di nefrologia, dove era rimasto dieci giorni. Aveva in mente di andarlo a trovare all’ospedale, ma sua sorella gliel’aveva proibito. Fra lei e sua sorella c’era un livore di vecchia data. Non sapendo di preciso che cosa avesse Ghideon, lei si era preoccupata moltissimo e per telefono l’aveva pregato di portare con sé la sua cartella medica, perché lei potesse darle un’occhiata. In fatto di diagnostica, non si fidava di nessun dottore. 
Poteva anche darsi che non fosse affatto malato né che fosse rimasto a casa. Presumibilmente, invece, era salito sul pullman sbagliato, si era addormentato e si era svegliato solo al capolinea, quando ormai era buio, in chissà quale posto sperduto, e ora stava cercando di capire come arrivare a Tel Ilan. Perciò lei doveva correre a casa. E se, com’era molto probabile, lui stava cercando di chiamarla per telefono da un paese della zona? E se invece nel frattempo era arrivato qui con i suoi mezzi e stava seduto ad aspettarla sui gradini di casa, al buio? Un inverno, Ghideon avrà avuto otto anni, sua madre l’aveva portato a trascorrere le vacanze di Chanukkah a casa della zia, in campagna. Malgrado il vecchio rancore fra le due sorelle, la madre di Ghideon l’aveva lasciato alla zia per quelle vacanze. La prima notte il bambino aveva avuto un incubo. Si era fatto strada a tentoni nel buio, aveva aperto la porta di camera della zia e si era infilato scalzo nel letto di Ghili, tutto tremante e con gli occhi sbarrati dalla paura: c’è un fantasma in camera, un fantasma che ride e tende dieci lunghe braccia con dei guanti neri! Lei gli aveva accarezzato il capo e l’aveva stretto al suo magro petto, cercando di calmarlo. Ma il bambino non si quietava affatto, anzi, continuava a lanciare delle urla che parevano singhiozzi. Ghili Steiner aveva pertanto deciso di sradicare quella paura trascinando con la forza in camera sua il bambino atterrito, paralizzato dal terrore. Quello scalciava e lottava, ma lei non s’era arresa: tenendolo per le spalle l’aveva tirato e spinto sin dentro la stanza, aveva acceso la luce e gli aveva dimostrato che quella sua paura veniva, in tutto e per tutto, da un attaccapanni a piede da cui pendevano alcune camicie e un maglione. Il bambino non le aveva creduto, cercava ancora di liberarsi dalla sua presa, poi l’aveva morsicata e lei gli aveva dato due schiaffi, uno per guancia, per fargli passare l’attacco isterico. Immediatamente dopo l’aveva abbracciato stretto, accostando il proprio viso al suo, e se l’era tenuto a dormire nel letto, lui e il suo vecchio canguro di lana sbiadita. 
L’indomani lui si era svegliato corrucciato ma non aveva chiesto di tornare a casa. Ghili gli aveva detto che la mamma sarebbe venuto a prenderlo due giorni più tardi e che nelle notti che restavano era autorizzato a dormire nel letto con lei. Ghideon non aveva più menzionato l’incubo. Neanche una parola. La notte successiva aveva coraggiosamente deciso di dormire in camera sua, solo pregando la zia di lasciare aperta la porta e accesa la luce in corridoio. Alle due, però, era sgusciato tutto tremante sotto la coperta di lei, per riaddormentarsi fra le sue braccia. Lei era rimasta sveglia sino al mattino, inspirando profondamente il profumo dello shampoo con cui gli aveva lavato la testa prima di dormire: era consapevole che un muto e profondo legame si era creato per sempre fra loro due, e che a quel bambino lei voleva più bene che a qualunque altro essere umano al mondo, più di quanto avesse mai potuto immaginare di provare per chicchessia. 


6. 

Non si vedeva anima viva fuori, la sera, a parte i gatti randagi che facevano assembramento sui bidoni della spazzatura. Da ogni apparecchio televisivo nascosto dietro le persiane chiuse sbucava la voce preoccupata del giornalista, al notiziario. In lontananza un cane abbaiava testardamente, quasi che gli avessero ordinato di svegliare tutto il paese. Ghili Steiner, con addosso il giaccone che le aveva dato Mirkin, passò frettolosamente davanti allo spiazzo della sinagoga e lungo via dell’Ulivo, e s’inoltrò senza esitazione nella macchia del parco della Memoria per tagliare la strada - anche se lì era buio pesto. Dalla tenebra fitta delle fronde le strillò contro un uccello notturno, cui fecero subito eco i rospi dello stagno. Ora ne era sicura: Ghideon la stava aspettando seduto sui gradini di casa, davanti alla porta d’ingresso chiusa. Ma il suo giaccone l’aveva dimenticato sul pullman di Mirkin, e adesso ce l’aveva addosso lei. Come era potuto finire sul sedile in fondo al pullman, quest’ultimo, se Ghideon era lì che l’aspettava? Forse in fin dei conti questo qui era di qualcun altro. Il pensiero la indusse ad accelerare ulteriormente il passo. Ghideon era sicuramente lì, con il suo vero giaccone, e non si capacitava di che cosa fosse successo a lei. Uscendo dal boschetto, notò una figura con il bavero rialzato, seduta immobile su una panchina: ebbe un sussulto. Esitò un attimo, poi prese coraggio e decise di avvicinarsi per vedere da vicino. Era solo un ramo rotto cascato di sbieco sulla panchina. 
Ghili arrivò a casa che erano quasi le nove. Accese la luce davanti all’ingresso, spense il boiler e corse a vedere se c’erano messaggi nella segreteria del telefono e anche sul cellulare, rimasto sul tavolo della cucina. Ma non c’era niente, anche se pareva che qualcuno avesse effettivamente chiamato una volta, attaccando senza dire nulla. Ghili compose il numero del cellulare di Ghideon. Rispose una voce metallica, che diceva che il cliente non era raggiungibile. Decise allora di mettere da parte i risentimenti e chiamare sua sorella a Tel Aviv per capire se Ghideon era effettivamente partito o se invece aveva deciso di non venire e non le aveva detto nulla. Il telefono a casa di sua sorella continuò a squillare ma nessuno rispose, a parte la segreteria che invitava a registrare un messaggio dopo il bip. Ci pensò su un momento e poi decise di non lasciare nessun messaggio perché in fondo non sapeva che cosa dire: se Ghideon stava girando in cerca della via per arrivare qui, vuoi facendo l’autostop vuoi con un taxi collettivo, non aveva alcun senso spaventare sua madre. Se invece lui aveva deciso di rimanere a casa, gliel’aveva certamente fatto sapere. Magari non aveva ritenuto fondamentale dirlo a lei già stasera, e domani mattina l’avrebbe chiamata in studio, no? O forse era peggiorato il suo stato di salute, ed era stato di nuovo ricoverato in ospedale? Gli era venuta la febbre? Era tornata l’infezione? In quel momento decise di ignorare i divieti di sua sorella: domani, dopo il lavoro, sarebbe andata a trovarlo all’ospedale. Sarebbe entrata nella stanza dei medici e avrebbe scambiato quattro parole con il primario. Avrebbe dato un’occhiata agli esiti degli esami per farsi un’idea. 
Ghili si tolse il giaccone e lo esaminò attentamente sotto la luce della cucina. In effetti aveva un’aria del tutto estranea. Però non ne era proprio sicura. Il colore aveva un che di familiare, ma il colletto era un po’ diverso. Lo posò sul tavolo e si sedette su una delle due seggiole della cucina, per studiarlo ancora. La cena che aveva preparato per loro due, il pesce con le patate, la aspettava nel forno. Decise di aspettare Ghideon fino a tarda sera, e nel frattempo accese la stufetta con le serpentine che si arroventavano lentamente, producendo degli scoppiettii ovattati. Per circa un quarto d’ora rimase immobile ad aspettare. Poi si alzò e andò in camera di Ghideon. Il letto era fatto, con il familiare scendiletto e accanto giornali, riviste e qualche libro scelto apposta per lui con molto riguardo. Ghili accese la luce sul comodino, sistemò i cuscini. Per un attimo ebbe l’impressione che Ghideon fosse già lì, che avesse già dormito, si fosse alzato e avesse già rifatto il letto, e fosse ripartito lasciandola di nuovo sola. Come le capitava sempre, dopo che lui era venuto a trovarla. 
Si piegò per rimboccare l’angolo della coperta sotto il materasso. Tornò in cucina, affettò il pane, tirò fuori dal frigo burro e formaggi, mise sul gas il bollitore. Quando l’acqua bollì, accese la radiolina che stava sul tavolo della cucina. Tre voci stavano discutendo, parlandosi rabbiosamente addosso, riguardo al protrarsi della crisi nell’agricoltura. Spense la radio e andò a guardare alla finestra. Il sentierino che portava alla casa era molto poco illuminato, sopra la via deserta aleggiava una luna quasi piena che faceva capolino fra le nuvole basse. Avrà un’amichetta, pensò tutt’a un tratto, ecco, e per questo si è dimenticato di venire e anche di avvertirla, finalmente si era fatto la ragazza e per questo gli era passata la voglia di venire qui a trovare lei. L’idea che Ghideon avesse una fidanzata la invase di un dolore quasi insopportabile. Come se tutto in lei si fosse svuotato, lasciando solo la scorza secca che ancora premeva e faceva male. Però in fondo lui non è che avesse proprio promesso di venire, aveva solo detto che avrebbe cercato di prendere il pullman della sera, ma che non era proprio il caso di andare ad aspettarlo alla fermata, perché se veramente avesse deciso di venire in serata, era capace, no, di scendere alla fermata e arrivare a casa di lei, comunque sarebbe venuto presto, magari la settimana prossima. 
Ciononostante, Ghili Steiner non riuscì a liberarsi dal pensiero che Ghideon avesse sbagliato qualcosa, o il pullman o la fermata, e che adesso fosse bloccato in qualche posto sperduto, seduto tutto solo e tremante a qualche squallida fermata, rannicchiato sulla panchina di metallo, dietro la ringhiera di ferro fra una cassa chiusa e un chiosco sprangato. Senza sapere come raggiungere casa di lei. Quanto a lei, aveva il dovere di partire immediatamente, in quel preciso istante: lanciarsi nella notte alla ricerca del ragazzo, per ricondurlo a casa sano e salvo. 
Verso le dieci Ghili si disse che Ghideon ormai non sarebbe più arrivato, per quella sera, e che pertanto non le restava altro da fare che scaldarsi il pasto e mangiare tutta sola il pesce e le patate, poi andare a letto e alzarsi l’indomani mattina prima delle sette per andare all’ambulatorio a star dietro a quei noiosi di pazienti. Si alzò e si piegò sul forno, tirò fuori il pesce e le patate, e buttò tutto nell’immondizia. Poi spense la stufetta, si sedette in cucina, si tolse gli occhiali quadrati con la montatura a giorno e pianse un poco. Qualche secondo appena. Nascose nel cassetto il logoro canguro di lana, andò a tirar fuori il bucato dall’asciugabiancheria e fin quasi a mezzanotte continuò a stirare e piegare tutto, mettendo ogni cosa al suo posto. Infine si spogliò e andò a dormire. A Tel Ilan continuò a piovere a intermittenza per tutta la notte. 

  
Scavano 
  
1. 

Colui che un tempo era stato l’onorevole Pesach Kedem trascorreva quel che gli restava da vivere a casa di sua figlia Rahel, in fondo al villaggio di Tel Ilan, sui monti di Manasse. Era un vecchio alto e gobbo, brontolone e iracondo. La cifosi lo costringeva a tenere sempre la testa allungata in avanti, quasi ad angolo retto, in una postura che conferiva al suo corpo la forma di una forca. Aveva ottantasei anni, era ossuto, nodoso e scabro, con una pelle che pareva corteccia d’ulivo. Era un uomo tutto d’un pezzo che s’infervorava come niente quando si trattava di ideali e princìpi. Girava da mattina a sera per casa in pantofole, canottiera e pantaloni troppo larghi, tenuti su da un paio di bretelle incrociate dietro. In testa portava sempre un vecchio basco nero che gli copriva metà fronte e gli dava un’aria da carrista in congedo. Non faceva altro che brontolare: ora imprecava contro un cassetto che non ne voleva sapere di aprirsi, ora copriva di improperi la giornalista del notiziario che aveva confuso la Slovacchia con la Slovenia, ora insultava il vento che soffiando dal mare gli aveva improvvisamente scompigliato le carte sul tavolo del balcone, e se la prendeva pure con se stesso che, chinatosi per raccoglierle, rialzandosi aveva battuto contro l’angolo di quel fottuto tavolo. 
Non aveva mai perdonato al partito di essersi dissolto ed estinto, venticinque anni prima. L’aveva giurata anche ai suoi nemici e oppositori, ormai tutti defunti da un bel pezzo. La gioventù, l’elettronica e la nuova letteratura gli davano il disgusto. I giornali pubblicavano solo porcherie. Giudicava il tizio delle previsioni del tempo in televisione un pallone gonfiato, un damerino, un idiota che blaterava senza avere la minima idea di quel che stava dicendo. 
Pesach faceva apposta a storpiare i nomi degli attuali ministri e delle autorità politiche, o fingeva di non ricordarseli, proprio come il mondo si era dimenticato di lui. Mondo che, invece, non aveva dimenticato per niente: teneva infatti bene a mente ogni affronto subito. Serbava rancore per torti commessi due generazioni e mezzo fa. Rammentava uno per uno ogni momento di debolezza da parte dei suoi avversari politici - ogni voto parlamentare in odore di opportunismo, ogni viscida menzogna in una seduta del consiglio, ogni infamia di cui i compagni si erano macchiati quarant’anni prima (li definiva “falsi compagni” e a volte, riferendosi a due viceministri suoi coetanei, li soprannominava “compagno Fallimento” e “compagno Onta”). 
Nel pomeriggio, mentre stava seduto al tavolo del balcone con sua figlia Rahel, ogni tanto brandiva per aria la caraffa piena di tè bollente, sbraitando: 
Bell’affare han fatto tutti, quando Ben Gurion ha preso e se n’è andato a Londra a flirtare con Jabotinski alle loro spalle! 
Rahel allora diceva: 
Pesach. Se non ti spiace. Posa per favore quella caraffa. Ieri mi hai versato addosso lo yogurt, e ora mi stai per schizzare con il tè bollente. 
Nemmeno alla figlia adorata Pesach negava il proprio risentimento. Certo, si prendeva cura di lui in modo impeccabile, però senza un minimo di rispetto. Ogni mattina, ad esempio, lo cacciava fuori dal letto alle sette e mezzo per dare aria o cambiare le lenzuola (lui aveva sempre addosso un odore acre, tipo di formaggio troppo stagionato). Rahel non aveva ritegno nel fargli notare che puzzava, e lo costringeva a due docce al giorno, d’estate. Ogni tre giorni gli lavava la testa frizionandola per bene, e ficcava in lavatrice il basco nero. Lo buttava ripetutamente fuori dalla cucina (lui andava a frugare nei cassetti, in cerca della cioccolata che lei gli teneva nascosta, concedendogliene non più di un quadretto o due al giorno). Con le buone o con le cattive lo obbligava a tirare sempre l’acqua in gabinetto e a chiudersi la patta dei pantaloni quando usciva di lì. Ogni giorno gli preparava una lunga serie di piattini con sopra indicato l’ordine delle medicine da prendere al mattino, delle capsule per il pomeriggio e delle compresse per la sera. Rahel faceva tutto ciò con uno slancio energico e un’espressione compresa come se, ora ch’era giunto nella vecchiaia, si trattasse di rieducare suo padre, correggendo le sue brutte abitudini e riscattandolo finalmente da una lunga vita di vizi e di egocentrismo. 
Come se tutto ciò non bastasse, il vecchio ultimamente aveva cominciato a lamentarsi dei muratori che la notte scavavano sotto le fondamenta di casa, togliendogli il sonno. Non potevano farlo di giorno, nelle ore in cui la gente normale è sveglia? 
Scavano? Chi scava? 
Sono io che lo chiedo a te, Rahel, chi è che scava qui da noi di notte? 
Ma nessuno! Chi vuoi che scavi qui, di notte o di giorno? Probabilmente te lo sogni. 
Scavano! Eccome se scavano! Un’ora o due dopo mezzanotte cominciano a bucare e sterrare, sembrano dei picconi, ma si sente anche gracchiare e sfregare. Tu a quanto pare te la dormi e non senti niente. Hai sempre avuto il sonno pesante. Che cosa cercano qui da noi, in cantina o sotto le fondamenta della casa? Petrolio? Oro? Qualche manoscritto nascosto? 
Rahel cambiò al vecchio le pillole per dormire. Ma niente. Lui continuò a lamentarsi, le mattine seguenti, dei colpi e dei rumori di scavo proprio sotto il pavimento della sua stanza. 


2. 

Rahel Franco era una piacente vedova sui quarantacinque, insegnante di letteratura alla scuola di Tel Ilan. Si vestiva sempre con garbo e buon gusto - gonnelloni in gradevoli tinte pastello con dei foulard intonati al collo, scarpe con il tacco alto anche quando andava al lavoro, graziosi orecchini e ogni tanto una collanina d’argento. In paese non tutti vedevano di buon occhio quel suo portamento giovanile con tanto di frangetta (alla sua età! E per di più fa l’insegnante! Vedova! Per chi diavolo si agghinda in quel modo? Per Michi, il veterinario? Per il suo piccolo arabo? A chi spera di far uscire gli occhi dalle orbite?). 
Il paese era antiquato e conservatore, dato che aveva più di cent’anni, con i suoi alberi monumentali, i tetti rossi e le cascine ormai diventate quasi tutte delle vinerie dove si smerciavano prodotti delle cantine a conduzione familiare, olive condite, formaggi genuini, spezie esotiche e frutti rari, oltre che manufatti di macramè. Altre vecchie case coloniche erano diventate delle piccole gallerie di oggetti d’arte d’importazione, giocattoli africani e oggettistica indiana; il tutto veniva venduto ai turisti che ogni sabato affluivano qui dalle città in lunghi cortei di automobili, a caccia di originali, esclusive carabattole. 
Come il vecchio padre, anche Rahel conduceva una vita molto riservata, nella piccola casa in fondo al villaggio, con il grande giardino che confinava con la muraglia di cipressi del cimitero. Padre e figlia erano vedovi entrambi: la moglie dell’onorevole Pesach Kedem, Abigail, era morta molti anni prima per un’anemia perniciosa. Il loro primogenito, Eliezer, l’avevano perduto per una disgrazia (era stato il primo israeliano ad affogare nel Mar Rosso, nel ‘49). Mentre il marito di Rahel, Dani Franco, se n’era andato per colpa di un infarto, il giorno del suo cinquantesimo compleanno. 
La figlia più piccola di Dani e Rahel Franco, Ifat, era sposata con un affermato dentista di Los Angeles. La sorella maggiore, Osnat, commerciava diamanti in Brasile. Le due figlie, insomma, si erano ormai allontanate dalla madre, quasi la ritenessero responsabile del decesso paterno. E nessuna delle due era particolarmente affezionata al nonno, che consideravano un egoista viziato e bisbetico. 
Ogni tanto, in preda alla rabbia, il vecchio chiamava per sbaglio Rahel con il nome di sua moglie: Insomma, Abigail. Non hai niente di che andar fiera. Vergognati! 
Più raramente, se era malato, confondeva Rahel con sua madre Hinda, trucidata dai tedeschi in un paesino vicino a Riga. Quando lei lo correggeva, lui brontolava negando di essersi sbagliato. Rahel era tanto tollerante con il suo disfattismo e le sue ramanzine quanto irremovibile sulla sua trasandatezza e i suoi malcostumi: se si dimenticava di alzare l’asse del gabinetto prima di fare pipì, ad esempio, lei gli ficcava in mano uno straccio bagnato e lo spediva là da dove era venuto, a fare quel che una persona civile è tenuta a fare. Se si sbrodolava sui pantaloni, doveva immediatamente alzarsi, foss’anche a metà pasto, andare in camera sua, cambiarsi e tornare a tavola pulito. Non gli perdonava nemmeno un errore nell’abbottonatura della camicia né era disposta a transigere sugli orli dei pantaloni infilati nella calza. Quando, ad esempio, lo sgridava perché era di nuovo rimasto tre quarti d’ora seduto in bagno, dimenticandosi di alzarsi e di chiudere a chiave la porta, allora lo chiamava per nome: Pesach. Se era davvero molto arrabbiata, si rivolgeva a lui con “onorevole Kedem”. Ma, per quanto di rado, capitava anche che la solitudine e la malinconia di lui le destassero un fugace spasimo di amor materno. Ad esempio, quando lui compariva con un’aria mortificata sulla soglia della cucina, implorando come un bambino un altro quadretto di cioccolata. Allora lei cedeva e acconsentiva, e lo chiamava pure papà. 
Sono di nuovo qui da noi che trivellano sotto le fondamenta. Questa notte, saranno state l’una o le due, di nuovo quei colpi e rumori di vanghe o di pale da scavo. Ma tu non hai sentito niente? 
Nemmeno tu hai sentito niente. È solo un’impressione. 
Che cosa diavolo cercano qui da noi in cantina, o sotto le fondamenta, Rahel? Chi sono questi operai? 
Forse stanno scavando un tunnel per la metropolitana di Tel Aviv. 
Mi prendi in giro. Ma non mi sbaglio mica, Rahel. Bucano sotto casa. Stanotte mi alzo e vengo a svegliarti, così lo senti anche tu con le tue orecchie. 
Non c’è un bel niente da sentire, Pesach. Nessuno scava da queste parti, a parte forse la tua cattiva coscienza. 


3. 

Il vecchio trascorreva quasi tutta la giornata allungato sulla sdraio, nel piccolo spiazzo pavimentato davanti alla porta d’ingresso. Se era nervoso, si alzava e prendeva a vagare come uno spiritello cattivo fra le stanze di casa, scendeva giù in cantina a nascondere trappole per topi, ingaggiava una furibonda battaglia con la porta a rete del balcone, tirandola rabbiosamente verso l’interno benché si aprisse nel senso opposto, imprecava contro i gatti di sua figlia che fuggivano di qua e di là appena sentivano lo scalpiccio delle sue pantofole. Ora scendeva dal terrazzo giù in quella che una volta era l’aia della cascina che tale più non era, con la testa tesa in avanti ad angolo quasi retto che gli conferiva un aspetto da piccone capovolto, alla furiosa ricerca di un quaderno o una lettera che non poteva non essere nel pulcinaio, nel granaio, nel magazzino degli attrezzi. Nel frattempo si dimenticava cosa stava cercando, agguantava una vanga rimasta lì e cominciava a scavare un’insulsa buca fra due aiuole, imprecando contro di sé e la propria idiozia, contro lo studente arabo che non aveva spazzato via i cumuli di foglie secche, poi scagliava la vanga e rientrava in casa dalla porta della cucina. Qui apriva il frigo, ci guardava dentro sotto la pallida luce, lo richiudeva subito dopo con un colpo che faceva tremare le bottiglie, solcava con passo nervoso il corridoio bofonchiando qualcosa fra sé e sé, probabilmente sbugiardando Tabenkin o Meir Yaari, gettava un’occhiata verso il bagno, malediceva l’Internazionale socialista, superava la stanza e tornava come un’anima in pena in cucina, il collo artritico proteso ad angolo retto e la testa dentro il suo basco nero allungata in avanti come un toro nell’arena. Frugava un po’ nella dispensa e negli armadietti in cerca di un pezzo di cioccolato, sospirava, sbatteva deluso lo sportello, i baffi bianchi e lanuginosi che pizzicavano come aghi di porcospino mentre guardava per poco dalla finestra della cucina, minacciando con il pugno ossuto una capra che girava vicino alla siepe o un albero d’ulivo giù per il pendio. E poi di nuovo giù a sciabattare con una furia distruttiva fra i mobili di casa, da una stanza all’altra, rovistando fra gli armadi: gli serviva tassativamente un certo documento, ne aveva assolutamente bisogno. Gli occhietti grigi correvano a cercare ovunque, le mani frugavano fra gli scaffali e i ripiani, mentre continuava a esporre davanti a un invisibile pubblico di ascoltatori rimostranze d’ogni sorta, sequenze di argomentazioni, lunghe teorie di abominii e vergogne, devianze e storture. Questa notte, ormai aveva deciso, avrebbe preso il toro per le corna, si sarebbe alzato, sarebbe sceso in cantina con una potente torcia in mano, e avrebbe colto in flagrante gli scavatori, una volta per tutte. 


4. 

Dopo la morte di Dani Franco, e da quando, una dopo l’altra, Osnat e Ifat se n’erano andate via di casa e dal paese, a padre e figlia non era rimasto nessun altro parente prossimo. Nemmeno amici, del resto. I vicini non cercavano certo la loro compagnia e i due non ambivano frequentarli. I coetanei di Pesach Kedem erano o defunti o del tutto spenti, e comunque anche prima non aveva mai avuto né sodali né discepoli: era stato proprio Tabenkin ad allontanarlo gradualmente dalla cerchia ristretta dei leader del movimento. Le faccende della scuola, Rahel le lasciava fuori dalla porta di casa. Il ragazzo dell’emporio portava a domicilio con il suo furgone la spesa che lei ordinava per telefono a Victor Ezra, e lo faceva passare dalla porta della cucina. Solo assai di rado qualche estraneo varcava la soglia di quell’ultima casa davanti alla muraglia di cipressi che costeggiava il cimitero. Ogni tanto compariva un rappresentante del comune, per chiedere a Rahel di potare la siepe che aveva invaso la strada. Capitava anche che un piazzista di elettrodomestici venisse a proporre una lavastoviglie o un’asciugabiancheria in comode rate (a quel punto il vecchio diceva: asciugache?! Elettro?! Bucato?! Che razza di roba è? Il sole è per caso andato in pensione? I fili della biancheria sono in sciopero?). Ancor più raramente bussava alla porta un vicino, un contadino in tuta blu da lavoro che non sapeva più dove fosse il suo cane e veniva a chiedere a denti stretti se per caso era finito nel loro giardino (un cane? ! Da noi?! I gatti di Rahel lo farebbero a pezzi!). 
Da quando lo studente era venuto ad abitare nel cortile, precisamente nel casotto che in passato Dani Franco aveva adibito a magazzino degli attrezzi e pollaio per i pulcini, i compaesani si fermavano talvolta vicino al muro di cinta, come per fiutare l’aria. Subito dopo acceleravano il passo e si dileguavano. 
Ogni tanto, Rahel, professoressa di letteratura, e suo padre, che in passato era stato onorevole, venivano invitati alla festicciola per la fine dell’anno scolastico a casa di un insegnante o dell’altro, quando non a una serata del circolo che si teneva a casa di un veterano del paese, dove era prevista la presenza di un relatore ospite. A questi inviti Rahel rispondeva quasi sempre con un “grazie, perché no?”: avrebbe cercato di esserci, e anche suo padre, certo, volentieri, questa volta. Ma di solito capitava che, qualche ora prima della festa o della conferenza, al vecchio prendesse un attacco di asma da enfisema o che si dimenticasse dove aveva lasciato la dentiera. All’ultimo momento Rahel telefonava per scusarsi a nome di tutti e due. Ogni tanto lei da sola, senza suo padre, andava alle serate canore che si svolgevano da Dalia e Abraham Levin, una coppia che aveva perso il figlio e viveva in cima alla collina. 
Il vecchio detestava in particolare quei tre o quattro insegnanti forestieri che affittavano una stanza qui in paese e ogni fine settimana sparivano per raggiungere le loro famiglie in città: giusto per scacciare la solitudine, qualche volta uno di loro spuntava qui, per chiedere o rendere un libro a Rahel, consultarsi con lei su qualche questione scolastica o esistenziale, tastare timidamente il terreno sentimentale. Pesach Kedem trovava rivoltanti questi ospiti di passaggio, fermamente convinto com’era che lui e sua figlia fossero del tutto autosufficienti e che non avessero la minima voglia di vedere girare per casa tipi estranei che chissà cos’avevano in testa e cosa diavolo nascondevano dietro quelle superflue invadenze. Il vecchio riteneva che, in questi tempi moderni, le persone ormai erano spinte solo da motivi egoistici, e anche un po’ oscuri. Finita l’epoca in cui la gente, se non tutti certo molti, o alcuni, si voleva ancora bene senza pensare sempre a far calcoli. Adesso invece sono tutti, senza eccezione - così ripeteva fino allo spasimo il vecchio a sua figlia -, sono tutti dei furfanti. Oggi come oggi tutti cercano solo di fregare qualche briciola dal tavolo del prossimo. Nessuno, così gli aveva insegnato la sua lunga vita piena di delusioni, nessuno bussa alla tua porta se non gli conviene, se non pensa di trarne qualche profitto o di fregare qualcosa. Tutto si fa per calcolo, oggigiorno, e quasi sempre per un calcolo spregevole. Per quanto mi riguarda, Abigail, penso che uno fa meglio a restarsene a casa propria. Che cosa c’è di tanto interessante qui da noi? La piazza? La sala conferenze? La sinagoga? E visto che siamo in argomento, dimmi, per favore, che ce ne facciamo di quel tuo arabo, qui? 
Rahel lo correggeva: 
Sono Rahel. Non Abigail. 
Il vecchio si zittiva immediatamente, mortificato da quell’errore e forse un poco pentito di quel che aveva appena detto. Ma dopo cinque, forse dieci minuti, riprendeva a lamentarsi con la voce chioccia, come fa un bambino quando tira per la manica: 
Rahel? Un po’ male... 
Dove ti fa male? 
Il collo. O la testa. Le spalle. No, non qui ma un po’ più giù. Qui. No, qui. Sì. La tua mano fa miracoli, Rahel. 
E timidamente aggiungeva: 
Comunque ti voglio bene, figlia mia. Tanto tanto. 
E dopo un attimo: 
Scusami, eh. Mi dispiace tanto di averti messo di cattivo umore. Lo scavo notturno non ci intimidirà. La prossima volta scendo armato di spranga di ferro, giù in cantina, e vedremo. No, te non ti sveglio. Ti ho già turbato abbastanza. Be’, sì, già a quell’epoca c’erano alcuni compagni che a mia insaputa mi avevano affibbiato il nomignolo di bestia grama. Tornando a quell’arabo, però, fammi dire... 
Pesach. Taci. 
Il vecchio strizzava gli occhi e le ubbidiva, con il baffo che tremolava sopra il labbro. Così trascorrevano la serata i due, seduti in balcone a godersi la brezza, lei in jeans e camicetta a maniche corte, lui con i pantaloni larghi tenuti su da un paio di bretelle incrociate sopra la canottiera, la sua colonna vertebrale tutta sbilenca, il vecchio basco nero, il naso affilato e un po’ storto, le labbra ripiegate, la dentiera troppo candida e perfetta, che nei suoi rari sorrisi brillava sotto i baffi come la chiostra di una splendida modella. I baffi, poi, quando non si drizzavano di rabbia, sembravano soffici, quasi di flanella. Però, se la giornalista del notiziario lo faceva arrabbiare alla radio, lui dava un fiacco colpo sul tavolo col suo pugno ossuto, e dichiarava: 
Idiota! Una perfetta idiota! 


5. 

Le rare volte in cui ricevevano la visita di un insegnante, un artigiano, un membro del consiglio municipale o il veterinario Michi, il vecchio sembrava un alveare imbizzarrito: stringeva le labbra così tanto che gli veniva una faccia da feroce inquisitore, lasciava la stanza e si asserragliava nella sua solita postazione - dietro la porta della cucina socchiusa. Qui si sedeva sospirando su uno sgabello di metallo verde, ad aspettare che l’ospite si togliesse dai piedi. Intanto si rannicchiava cercando di captare che cosa mai avessero da dirsi Rahel e il veterinario, tendendo in avanti il collo rugoso come una tartaruga che sporge il muso fuori dal carapace nel tentativo di raggiungere una foglia di lattuga, inclinando il capo per porgere l’orecchio migliore verso la fessura della porta. 
Come fai, stava dicendo Rahel al veterinario, come fai, dimmi, Michi, a farti venire delle idee del genere? 
Sei stata tu a cominciare, Rahel. 
La risata di lei è squillante, argentina, come quando si brinda con dei calici di vino: 
Michi. Per favore. Non mi freghi. Sai benissimo che cosa intendo dire. 
Quando sei arrabbiata, diventi ancor più affascinante. 
Dal suo nascondiglio, il vecchio augurò sottovoce a quei due l’afta epizootica. Rahel disse: 
Michi, guarda questo gattino: non ha neanche tre settimane, ogni tanto è ancora scombinato quando cammina, cerca di scendere per le scale e invece rotola come una pallina di lana, e fa delle facce così strappacuore, da santerelline, eppure ha già imparato a nascondersi dietro il cuscino e saltarmi addosso come una tigre nella giungla, con il corpicino teso così, vedi, che comincia a dondolare, pronto al balzo! E salta anche, ma sbaglia le misure e finisce pancia a terra! Fra un anno nessuna gatta del paese potrà resistere al suo fascino. 
Il veterinario commentò con la sua voce ruvida: 
Lo castro prima. Che non seduca pure te. 
E io, mormorò il vecchio dal suo nascondiglio dietro la porta della cucina, io castro te. 
Rahel servì al veterinario una bibita, gli offrì biscotti e frutta, e lui intanto continuò a scherzare con quei suoi modi un po’ spicci. Poi lei lo aiutò a tenere tre o quattro gatti per i quali era arrivata l’ora della vaccinazione. Una gatta, Michi la mise in gabbia per portarla in studio: l’indomani sarebbe tornata a casa fasciata e sterilizzata, e nel giro di due giorni sarebbe perfettamente guarita. Tutto ciò - a condizione che Rahel gli dicesse anche solo una parolina dolce. Per lui valeva molto di più della parcella. 
Il vecchio, dal suo nascondiglio, tuonò sottovoce: carogna bastardo che non sei altro. Dottore dei miei stivali. 
Michi il veterinario aveva un furgoncino Peugeot che il vecchio s’ostinava a chiamare Fijio, quasi come le isole. Michi teneva i capelli folti raccolti in una coda di cavallo e all’orecchio destro luccicava un anello. Questi due elementi facevano ribollire il sangue di colui ch’era stato nientemeno che l’onorevole Pesach Kedem: mille volte ti ho già messa in guardia, Rahel, da quel poco di buono che persino... 
Ma Rahel, come suo solito, interrompeva la sua ramanzina con un rimprovero fulminante: 
Pesach. Basta. Ma se è del tuo stesso partito. 
Quella frase destava nel vecchio un nuovo accesso di rabbia: 
Il mio partito? Il mio partito è defunto da un pezzo, Abigail! Prima l’hanno prostituito, il mio partito, e poi gli hanno dato la sepoltura dell’asino! Era quella che si meritava! Poi proseguiva inveendo contro i suoi colleghi defunti, finti compagni, compagni fra virgolette, per modo di dire, compagno Fallimento e compagno Onta, quei due fedifraghi diventati nemici e persecutori solo perché lui era rimasto fedele sino in fondo ai princìpi che invece loro avevano svenduto per un piatto di lenticchie. E adesso, di quei falsi compagni nonché di tutto il partito, non restava che schifezza e marciume. Quest’ultima espressione, il vecchio l’aveva presa in prestito dal poeta Bialik, anche se detestava pure lui perché a suo dire aveva smesso i panni del profeta, vibrante voce della nostra coscienza nazionale, per quelli del borghesuccio provinciale, accettando l’incarico di commissario per la cultura di Meir Diezengoff, per non parlare del resto. Ma adesso torniamo a quel tuo pivello, anzi a quel losco figuro. Razza di vitello da ingrasso! Con tanto di anello all’orecchio! Anello d’oro al naso di un maiale! Presuntuoso! Buffone! Ciarlatano! Il tuo studentello arabo, persino lui è cento volte più colto di quella bestia! 
Rahel diceva: 
Pesach. 
Il vecchio si zittiva ma dentro scoppiava di disgusto per quel Michi e quel suo grosso culo, che portava una maglia con sopra stampate in inglese le parole “Dai bambola, spassiamocela”. E gli veniva tanta tristezza per questi brutti tempi in cui al mondo non c’era più un’ombra di bontà fra la gente, né pietà, compassione, gentilezza. 
Due, tre volte all’anno in tutto e per tutto, il veterinario Michi compariva alla casa davanti al cimitero per vaccinare la nuova genia di gatti. Lui era di quelli che amano parlare di sé in terza persona e dare un tono colloquiale ai propri discorsi: allora mi sono detto, a questo punto Michi bisogna prendere la situazione in pugno. Così, non funziona. Aveva un dente finto mezzo rotto che gli conferiva un’aria da pericoloso attaccabrighe. Il passo pigro ma flessuoso, come di un predatore intorpidito. Gli occhi color grigio torbido tradivano talvolta uno sguardo un po’ lubrico. Mentre parlava, ogni tanto girava il braccio dietro la schiena per liberare i pantaloni rimasti intrappolati nella fessura fra le chiappe. 
Il veterinario chiese ora a Rahel: vuoi che ti vaccini anche lo studente arabo che tieni a pensione in cortile? No? 
Malgrado questa proposta, terminata la visita si fermò dallo studente e lo batté a dama. 
In paese si insinuava di tutto e di più sul ragazzo arabo che abitava da Rahel Franco, così ora Michi il veterinario sperava di cogliere l’occasione, partita a dama compresa, per captare qualcosa, farsi una vaga idea, un’impressione di come stessero effettivamente le cose da quelle parti. Malgrado l’assenza di grandi rivelazioni, dopo quella visita ebbe modo di far sapere al suo uditorio locale che l’arabo aveva venti, anche venticinque anni meno di Rahel, che avrebbe potuto tranquillamente essere suo figlio, che viveva in un casotto, dove lei gli aveva portato una scrivania e uno scaffale per i libri: era un intellettuale, dunque. Il veterinario era anche in grado di riferire che Rahel e il ragazzo, come dire, non parevano del tutto indifferenti: no, non che li avesse visti tenersi per mano o qualcosa del genere, ma comunque aveva notato che il ragazzo stava stendendo il bucato di lei sul filo per la biancheria nel cortile sul retro. Anche le sue mutande. 


6. 

Canottiera e mutandoni, il vecchio era in bagno, in piedi a gambe larghe. S’era di nuovo dimenticato di chiudere la porta. E di alzare l’asse del cesso prima di pisciare. Ora si chinò sul lavello, prese a strigliarsi furiosamente la faccia, le spalle, la nuca, schizzando tutt’intorno a sé come un cane bagnato quando si scrolla, grugnendo e sbuffando sotto il potente getto d’acqua del rubinetto, schiacciando forte la narice sinistra per svuotare nel lavandino quella destra e poi cambio, giù a premere impietosamente la destra per liberare la sinistra, e via di raschio in gola, e quattro o cinque sputacchiate spalmando di muco il bordo del lavandino. Alla fine si asciugò come una furia con una salvietta spessa, come si fa con una padella dopo la frittura. 
Completata l’asciugatura, indossò la camicia, sbagliando l’abbottonatura, e il suo vecchio basco da carrista, rimase un momento in corridoio incerto sul da farsi, la testa tesa in avanti ad angolo quasi retto, masticandosi la lingua in silenzio. Poi riprese la sua solita spedizione in tutti i locali di casa, scese in cantina a cercare qualche segno dello scavo notturno, imprecò contro gli operai che erano riusciti a far sparire ogni traccia del loro lavoro, o forse era perché lo scavo andava più a fondo, sotto il pavimento della cantina, fra le fondamenta dello stabile, sotto il terreno compatto. Dalla cantina risalì in cucina, ma solo per scendere dalla porta esterna, fra i casotti abbandonati, avanzando con il suo passo nervoso sino in fondo al cortile. Al suo ritorno trovò Rahel seduta al tavolo del balcone, china sui compiti dei suoi allievi. Dalle scale le disse: 
D’altra parte, anche io sono abbastanza schifoso. Sappilo. Allora che te ne fai di quel veterinario? Non te ne basta uno, di essere rivoltante? 
Poi aggiunse tristemente, in terza persona, come se Rachel non fosse presente: 
Ogni tanto ho bisogno di un pezzetto di cioccolato, per addolcire un poco questa vita così buia, invece lei me lo tiene nascosto, come se fossi un ladro. Non capisce niente. Pensa che io voglia il cioccolato per vizio. Macché! Ne ho bisogno perché l’organismo ormai ha smesso di produrre dolcezza. Non ho abbastanza zucchero nel sangue e nei tessuti. Non capisce niente, quella lì! È così crudele! Crudelissima! 
E poco dopo, arrivato davanti alla soglia della sua stanza si fermò, si girò e inveì: E tutti quei gatti portano solo malattie! Parassiti! Bacilli! 


7. 

Lo studente universitario arabo era il figlio di un vecchio amico di Dani Franco, il marito di Rahel morto il giorno in cui aveva compiuto cinquant’anni. Come mai quel legame fra Dani Franco e il padre di Adel? Rahel non ne aveva idea e lo studente non ne parlava. Forse nemmeno lui lo sapeva. 
Una mattina dell’estate scorsa era comparso qui, si era presentato e aveva timidamente chiesto se poteva affittare una stanza da loro. Cioè, non proprio affittare. E nemmeno proprio una stanza, perché non è che avesse di che pagare. Dani, buon’anima, persona meravigliosa che era, due anni prima aveva garantito al padre di Adel la propria disponibilità a dare al figlio uno dei casotti sparpagliati per il terreno di quella che un tempo era la loro fattoria, perché ormai era tutto fuori uso. Lui, Adel, veniva ora a chiedere se l’invito di due anni prima era ancora valido. Cioè, se uno dei casotti fosse ancora libero per lui, al momento. In cambio era pronto, ad esempio, a strappare le erbacce e a dare una mano nei lavori di casa. Le cose stavano così: a parte l’università, che aveva interrotto per un anno, aveva in mente di dedicarsi alla scrittura. Di un libro. Già. Una cosa sulla vita in un villaggio ebraico a confronto con quella in un altro, arabo. Un saggio o un romanzo, non aveva ancora deciso esattamente, e per questo aveva bisogno - gli serviva - un periodo di isolamento qui, in fondo al villaggio di Tel Ilan. Se lo ricordava con tutte le vigne e i frutteti e il panorama dei monti di Manasse, perché era venuto qui una volta da bambino con suo padre e le sue sorelle a trovare il caro Dani, buon’anima, e il caro Dani buon’anima li aveva invitati a trascorrere qui quasi tutta la giornata, Rahel per caso se ne ricordava? No? Ovvio che non ricordava, perché mai dovrebbe ricordarsene. Comunque lui, Adel, non se n’era dimenticato, né lo avrebbe mai dimenticato. Da allora aveva sempre sperato di tornare a Tel Ilan, un giorno o l’altro. E in questa casa con davanti i cipressi del cimitero, c’era una tale quiete qui da voi, molto più che da noi in paese, che ormai non era neanche più un paese ma una città piena di negozi e autorimesse, e squallidi parcheggi. Sognava di tornare qui per ragioni estetiche. E per la quiete. E anche per via di un’altra cosa che lui, Adel, non sapeva definire, ma forse proprio nel libro che aveva in mente di scrivere sarebbe riuscito a descriverla, quella cosa che non riusciva ancora a definire. Forse avrebbe parlato delle grandi differenze fra il villaggio ebraico e quello arabo: il vostro è nato in virtù di un sogno e secondo un progetto, il nostro non è mai nato, c’è sempre stato. Eppure qualche similitudine c’è. In fondo anche noi abbiamo dei sogni. No. E poi i confronti sono sempre un po’ falsi. Sta di fatto che a lui piace tanto questo posto, a dir tutta la verità. Sa anche preparare i cetrioli in salamoia e la marmellata di frutta gli viene benissimo. Cioè, sempre che ci sia bisogno di cose del genere. Inoltre ha esperienza di tinteggiatura ed è bravo anche a riparare i tetti. Se poi per caso vi va di tornare ai bei vecchi tempi, come dicono gli ebrei, e avviare una piccola attività di apicoltura, lui capita a proposito. E senza far disordine, senza lasciare nessuna sporcizia. E nelle ore libere si preparerà per gli esami e si metterà a scrivere il suo libro. 


8. 

Adel era un ragazzo curvo, timido ma chiacchierone, che portava degli occhiali troppo piccoli, come se li avesse rubati a un bambino o li avesse conservati dai tempi della sua infanzia. Li teneva legati con una cordicella e avevano la tendenza ad appannarsi, costringendolo a pulirli continuamente con il bordo della camicia che teneva sempre fuori dai suoi logori jeans. Sulla guancia sinistra aveva una fossetta che gli conferiva un’aria infantile, un po’ ritrosa. Si radeva solo il mento e le basette, perché il resto della faccia era ancora liscio imberbe. Le scarpe, che affondavano nella terra del cortile con degli strani tacchi da bulletto, sembravano troppo grandi e pacchiane per lui. Quando innaffiava le piante da frutto, lasciavano nel fango delle grosse impronte che si riempivano di acqua torbida. Adel si mangiava le unghie e aveva le mani ruvide, sempre arrossate, come per il freddo. I lineamenti del viso erano invece assai delicati, a parte il carnoso labbro inferiore. Quando fumava succhiava avidamente la sigaretta, incavando le guance tanto che per un momento quasi s’intravedeva il profilo del cranio sotto la pelle. 
Adel girava per il cortile con un cappello di paglia stile Van Gogh e un’espressione di malinconico stupore in faccia. Aveva le spalle perennemente coperte da una spruzzata di forfora. Fumava quasi sempre in modo distratto, come dimentico del fatto in sé: si accendeva una sigaretta, faceva tre o quattro tiri profondi tanto da incavargli le guance, la posava accesa sulla ringhiera o sul davanzale, meditava un pochino, si scordava della sigaretta e se ne accendeva un’altra. Ne aveva sempre una di riserva infilata di sbieco dietro l’orecchio. Fumava molto, ma sempre con una sorta di disgusto o di vera e propria nausea, come se detestasse il fumo e l’odore del tabacco, come se fosse qualcun altro che fumava soffiandogli il fumo in faccia. Inoltre, aveva un rapporto particolare con i gatti di Rachel: intratteneva con loro lunghe e compunte conversazioni, sempre in arabo e sempre a voce bassa, come per complicità. 
A colui che un tempo era stato l’onorevole Pesach Kedem, lo studente non piaceva affatto. Si vede, sosteneva il vecchio, si capisce subito che ci odia ma nasconde il suo odio dietro la piaggeria. Ci odiano tutti, quelli. Come potrebbero non odiarci, del resto? Anche io al posto loro ci odierei. In fondo, mica sono al posto loro. Anche senza bisogno di mettersi nei loro panni, io ci odio. Dammi retta, Rahel: noi, basta guardarci un po’ da fuori, che si vede quanto odio e disprezzo ci meritiamo, noi. Forse anche un po’ di pietà, ma la pietà non potrà mai arrivarci da parte degli arabi. Sono loro, piuttosto, ad avere bisogno di tutta la pietà di questo mondo. 
So io cosa diamine salterà fuori, diceva Pesach Kedem, da questo studente che poi studente non è. Come fai a sapere che sia davvero uno studente? Hai per caso controllato i suoi documenti, prima di adottarlo qui da noi? Hai letto i suoi lavori, per caso? Gli hai fatto un esame, orale o scritto che sia? Chi ti dice che non sia lui quello che scava nella terra sotto casa ogni notte, che sta cercando qualcosa, una testimonianza o un antico reperto che dimostri che questo terreno un tempo apparteneva ai suoi avi? Ma certo, è venuto qui apposta con l’inganno, per rivendicare il suo diritto al ritorno, riprendersi il cortile e la casa in nome di qualche nonno o trisavolo che forse stava su questa terra ai tempi degli ottomani! O dei crociati, forse? Prima si piazza qui da noi come ospite che nessuno ha invitato, a fare da inquilino e aiutante, e la notte ci scava sotto le fondamenta di casa! Vedrai che ci farà crollare i muri se va avanti così, poi salterà su e vorrà indietro la proprietà, vedrai ! Altro che proprietà! Altro che diritto atavico! Vuoi proprio che tu e io, Rahel, ci ritroviamo con il culo per terra? Ci sono nugoli di queste mosche insopportabili sul balcone, e anche in camera mia. Sono i tuoi gatti, Abigail, che ci portano le mosche. Tanto comunque i tuoi gatti ormai la fanno da padrone in casa. Loro e quell’arabo e quella bestia del tuo veterinario. E noi, Rahel? Noi che cosa contiamo, me lo sai dire per favore? No? Non me lo dici? Allora te lo dico io, mia cara: un’ombra. Un nonnulla. Ecco quello che siamo. Niente. L’ultima ruota del carro. 
Rahel lo zittì. 
Ma subito dopo si impietosì e sfoderò dalla tasca del grembiale due quadretti di cioccolato avvolti in carta argentata: 
Tieni, papà. To’. Mangia. Lasciami solo un po’ in pace. 


9. 

Dani Franco, morto il giorno in cui compì cinquant’anni, era un uomo sensibile e dalla lacrima facile. Piangeva regolarmente ai matrimoni, singhiozzava ai film che proiettavano nella Casa della Cultura al villaggio. La pelle del collo era flaccida e rugosa, ricordava un po’ il bargiglio di un tacchino. Aveva la erre moscia, quasi liquida, che dava alla sua parlata un tocco di francese, anche se quella lingua gli era pressoché sconosciuta. Era un uomo massiccio con le spalle larghe ma un paio di gambe troppo sottili: come un armadio guardaroba sostenuto da dei bastoncini. Aveva l’abitudine di abbracciare la gente che incontrava, lo faceva senza difficoltà anche con dei perfetti estranei, assestando pacche sulle spalle, sul torace, fra le costole, sulla nuca, battendosi spesso sulle cosce, quando non regalando al suo interlocutore un affettuoso pugno in pancia. 
Se qualcuno faceva i complimenti ai suoi vitelli da ingrasso o alla frittata che aveva preparato, se decantava la suggestione del tramonto alla finestra di casa sua, gli venivano gli occhi umidi di gratitudine per l’apprezzamento. 
Dietro la sua logorrea su qualunque argomento - il futuro dell’allevamento da ingrasso, la politica del governo, l’animo femminile, la meccanica dei trattori - si avvertiva sempre uno slancio di gioia immotivata, fine a se stessa. Fino all’ultimo, neanche dieci minuti prima di morire per un attacco di cuore, era ancora lì dietro la siepe che se la rideva con Yossi Sasson e Arieh Zelnik. Fra lui e Rahel era quasi sempre in vigore quel cessate il fuoco tipico dei matrimoni di lunga data in cui, superati i litigi e gli insulti e le temporanee separazioni, i coniugi hanno imparato a calibrare attentamente ogni passo e ad aggirare le insidie dei campi minati. Visto da fuori, questo costante esercizio di prudenza assomigliava quasi a un’equa rassegnazione che lasciava financo spazio a una pacata intesa, di quel genere che nasce a volte fra due soldati di eserciti nemici che si trovano l’uno di fronte all’altro, a pochi metri di distanza, durante una sfiancante guerra di trincea. 
Dani Franco mangiava le mele così: prima se la girava in mano studiando bene il frutto in cerca del punto migliore per piantarci i denti, poi si fermava per guardare la mela ormai violata, e di nuovo l’aggrediva, questa volta in un altro punto. 
Dopo la sua morte, Rahel aveva lasciato perdere l’azienda agricola. I pollai erano stati chiusi, i vitelli venduti, il pulcinaio trasformato in magazzino. Rahel aveva continuato a innaffiare gli alberi da frutto che Dani Franco aveva piantato in fondo al terreno - meli e mandorli, due fichi sempre impolverati, due melograni e un ulivo. Ma aveva rinunciato a potare le vecchie viti rampicanti che, avvinte ai muri di casa, erano ormai arrivate a coprire il tetto e ombreggiare il balcone. 
I casotti erano stati abbandonati a se stessi, si erano riempiti di ciarpame e polvere. Rahel aveva dato in affitto l’appezzamento sulla collina e i diritti d’allacciamento idrico dell’azienda agricola ormai dismessa, aveva anche venduto la casa dei suoi genitori a Kiriat Tivon, e si era presa con sé l’irascibile genitore. Con il ricavato di tutte quelle cessioni aveva comprato un pacchetto di azioni e la quota di una piccola società che produceva farmaci e integratori alimentari. Questa società forniva a Rahel Franco una rendita mensile che si aggiungeva al suo stipendio come insegnante di letteratura presso la scuola di Tel Ilan. 


10. 

Malgrado l’esile corporatura e le spalle cascanti, lo studente universitario Adel si era subito dato a estirpare le erbacce che dopo la morte di Dani avevano invaso ogni angolo del terreno. Di sua iniziativa si occupava anche dell’orticello accanto al sentierino che andava dal cancello ai gradini d’ingresso, aveva potato e bagnato la siepe che era cresciuta incolta, si era dedicato agli oleandri, alle rose e ai gerani davanti a casa, si era offerto di pulire e mettere ordine in cantina, senza trascurare gran parte dei lavori di casa, e cioè: lavare i pavimenti, stendere il bucato, stirare le camicie, fare i piatti. Aveva anche dato una bella rinfrescata al piccolo laboratorio di Dani Franco: era riuscito a ingrassare e affilare e a far funzionare la sega elettrica. Rahel gli aveva comprato dei morsetti nuovi al posto di quelli vecchi che si erano arrugginiti, e assi di legno, chiodi, viti, colla da falegname. Nelle ore libere lo studente si era costruito degli scaffali e alcuni panchetti, aveva pian piano rimesso a nuovo i paletti della recinzione e buttato via il vecchio cancelletto rotto montandone al suo posto uno nuovo, che aveva poi anche dipinto di verde. Era un cancello leggero, cui Adel aveva messo delle molle: quando si passava, i battenti oscillavano ancora cinque o sei volte prima di fermarsi e chiudersi dolcemente da soli, senza bisogno di sbattere. 
Nelle lunghe sere d’estate lo studente si sedeva tutto solo sui gradini del suo casotto che in passato era il pulcinaio, fumando e scrivendo appunti sul quaderno che teneva sopra un libro chiuso appoggiato sulle gambe unite. Dentro il casotto Rahel gli aveva messo un letto di ferro con un vecchio materasso, una sedia e una cattedra della scuola, oltre a un fornello elettrico e a un piccolo frigorifero in cui Adel teneva qualche verdura, formaggio, una confezione di uova e una di latte. Stava lì ogni sera fin verso le dieci, dieci e mezzo, sotto la luce giallastra di una lampadina, con la polvere dorata di segatura che vibrava nell’aria intorno alla sua testa scura, e il suo sudore di giovane maschio che si confondeva nel lezzo alcolico della colla da falegname. 
Più tardi, sotto la luce del crepuscolo o il chiaro di luna, capitava che suonasse la sua armonica a bocca. 
Il vecchio lo osservava dal balcone, e brontolava: 
È proprio fissato con quelle sue nenie orientaleggianti. Si vede che ha nostalgia del nostro paese, della nostra terra, che di sicuro non ci metteranno mai una pietra sopra, quelli lì. 
Conosceva non più di cinque o sei melodie, che non si stancava di ripetere. Poi smetteva di suonare e restava lì immobile sul gradino più in alto, la schiena appoggiata alla parete del casotto, chissà se a pensare o appisolandosi da seduto. Verso le undici si alzava e tornava dentro. La luce sopra il letto restava accesa anche dopo che Rahel e suo padre avevano spento le loro e si erano addormentati. 
Stanotte alle due, quando sono ripresi gli scavi sotto le fondamenta di casa, disse il vecchio, mi sono alzato e sono andato a vedere se l’arabo aveva ancora la luce accesa. Nessuna luce. Può darsi che l’avesse spenta per dormire, ma è molto probabile che invece l’avesse spenta per scendere a scavare qui sotto di noi. 
I pasti Adel se li preparava da sé: pane nero con fette di pomodoro e olive, cetriolo, cipolla e peperone verde con dadini di ricotta salata o sardine, un uovo sodo, uno zucchino o una melanzana cotta con aglio e sugo di pomodoro. E per dessert la sua amata bevanda, che si preparava in una frusta caraffa di latta: acqua di miele calda con foglie di salvia e chiodi di garofano o petali di rosa. 
Non di rado Rahel lo osservava dal balcone, lì seduto sul suo solito gradino, la schiena appoggiata alla parete del casotto, il quaderno in grembo, mentre si fermava a pensare, scriveva qualche parola, si interrompeva di nuovo, ancora una riga o due, poi si alzava, faceva il giro del giardino a passo lento, chiudeva l’irrigatore, dava da mangiare ai gatti, spargeva un po’ di sorgo per le colombe. Già, in fondo al giardino Adel aveva allestito anche una piccionaia. Dopo tornava seduto sul suo gradino. Suonava con l’armonica le sue cinque o sei melodie, una dopo l’altra - ottenendo dal suo strumento dei suoni prolungati e malinconici, quasi commoventi - la puliva con attenzione usando il bordo della camicia, e la rimetteva nel taschino. Poi tornava al quaderno. 
Anche Rahel Franco la sera scriveva: tre o quattro volte alla settimana, quasi quotidianamente durante l’estate, lei e il vecchio padre si sedevano uno di fronte all’altra, al tavolo con la tela cerata a fiori sul balcone. Il vecchio parlava e parlava, mentre Rahel annotava le sue memorie, non senza frequenti smorfie. 


11. 

Tabenkin, dice Pesach Kedem, guarda meglio non chiedermi di Tabenkin (lei non ha affatto chiesto). Giunto alla vecchiaia, Tabenkin ha deciso di mascherarsi da santone: si è fatto crescere la barba sino alle ginocchia e ha cominciato a pubblicare trattati morali. Ma di lui guarda, non voglio dire una parola. Nel bene o nel male. Era un fanatico mica da poco, credi a me, e pure un dogmatico. Un uomo crudele e inflessibile. È sempre stato così persino con sua moglie e con i figli. Quanto a me, be’, non ho nulla da dire su di lui. Nemmeno sotto tortura riusciresti a strapparmi una sola malignità su Tabenkin. Se è per quello, neanche una buona parola. Segnati solo per favore, scrivi così parola per parola: Pesach Kedem ha deciso di trattare con il massimo riserbo tutta la faccenda della grande diatriba del Cinquantadue fra lui e Tabenkin. Hai scritto? Proprio così? Parola per parola? E fammi il favore di aggiungere anche quanto segue: riguardo al profilo morale, i Lavoratori di Sion stavano almeno due o tre gradini sotto il Giovane Lavoratore. No. Questo per favore cancellalo. Scrivi invece: Pesach Kedem trova che la discussione fra Lavoratori di Sion e il Giovane Lavoratore non abbia più alcun senso. Ha fatto ormai il suo tempo. Tanto più che la realtà ha schiaffeggiato tutti e due, dimostrando a chiunque non sia né un fanatico né un dogmatico quanto si sbagliassero entrambi gli schieramenti e quanto avevo ragione io, allora. Modestamente ne sono convinto, e in assoluta obiettività: io avevo ragione e loro due sbagliavano. No. Cancella per favore la parola “sbagliavano” e scrivi invece: peccavano. E non paghi di ciò, mi aggredivano con delle rivendicazioni assurde e ciance inutili. Ma la realtà in persona, la realtà innegabile di per sé, è venuta a dimostrare quale torto mi è stato inflitto. Più di tutti, il compagno Fallimento e il compagno Onta, galoppini di Tabenkin. Punto. Fine del capitolo. Perché una volta, quando eravamo giovani, volevo bene a quei due. Ogni tanto volevo bene anche a Tabenkin. Prima che cominciasse ad atteggiarsi da santone. E anche loro volevano un po’ di bene a me. Sognavamo di redimere noi stessi e tutto il mondo. Amavamo le colline e le vallate e persino un po’ anche il deserto. Dove eravamo rimasti, Rahel? Com’è che siamo arrivati fin qui? Dove eravamo, prima? 
Alla vecchiaia di Tabenkin, mi pare. 
Lei gli riempì il bicchiere di Coca-Cola: ultimamente gli piaceva così tanto che aveva abbandonato il tè e la limonata. Peccato che si ostinasse a chiamarla CocaCoca, anche se sua figlia lo correggeva ogni volta. Storpiava altresì i nomi dei due partiti Lavoratori di Sion e Il Giovane Lavoratore e quando parlava di sé in terza persona, diceva Peisach Keidem, dando al tutto una pennellata di yiddish. Quanto alla sua Coca-Coca, lasciava a lungo il bicchiere pieno a decantare, per far andare via le bollicine, e solo allora lo avvicinava alla bocca, tenendo le labbra strette. 
E il tuo studente? chiese il vecchio tutt’a un tratto, che cosa ne pensi? È di sicuro un antisemita. 
Perché dici così? Che ti ha fatto? 
Non ha fatto niente. È solo che non ci vuole poi così bene. Tutto qui. Perché poi dovrebbe volercene? 
E dopo un attimo aggiungeva: 
Nemmeno io ci voglio bene. Non vedo perché dovrei, insomma. 
Pesach. Calmati. Adel abita e lavora da noi. La faccenda finisce qui. E in cambio dell’alloggio lavora. 
Sbagliato! sbottò il vecchio, è un errore madornale! Lui non lavora da noi! Lui lavora alle nostre spalle! E la notte ci scava sotto le fondamenta o in cantina. 
Poi aggiunse: 
Cancella per favore. Non scrivere niente di questo. Non scrivere né quel che ho detto contro quell’arabo né quel che ho detto contro Tabenkin. Alla fine dei suoi giorni Tabenkin era diventato un perfetto inetto (quest’ultima espressione il vecchio l’aveva di nuovo pronunciata con l’accento yiddish). 
E aggiunse: 
Fra parentesi, persino il nome è falso. Quell’Oylem Goylem era andato in estasi per il nome Tabenkin, ta-ben-kin! Tre colpi di martello proletario, come Shal-ya-pin, come il maresciallo Bul-ga-nin! In realtà il suo vero cognome, quello con cui era nato, era semplicemente Toybenkind, Isele Toybenkind - cioè Isele figlio di Colomba. Ma quel piccioncino non voleva sfigurare con Molotov! Stalin! Il Lenin ebreo, voleva diventare! Lasciamo perdere, non ho proprio niente da dire su di lui. Neanche una parola. Nel bene e nel male. Neanche una parola. Scrivi per favore, Abigail: Pesach Kedem tace su Tabenkin. A buon intenditore poche parole! 
Intorno alla luce sul balcone svolazzava un nugolo di mosche, falene, zanzare e libellule. In lontananza, verso le colline coperte di vigneti e alberi da frutto, piagnucolava uno sciacallo depresso. Di fronte a loro, davanti al casotto illuminato da un fioco fascio giallo, Adel si alzò lentamente dal suo solito gradino, si stiracchiò, pulì l’armonica con uno straccetto, tirò qualche respiro profondo, come per far entrare nell’esile torace tutta l’immensità della notte, e sparì dentro. Grilli, rane e irrigatori frinivano come per replicare allo sciacallo cui ora si era unito un branco intero, più vicino, verso il uadi. 
Rahel disse: 
È tardi. E se interrompessimo e tornassimo in casa? 
Suo padre disse: 
Quello scava sotto la cantina perché non ci vuole bene, tutto qui. Perché dovrebbe, poi? A che pro? Per tutte le nostre nefandezze? Per la nostra cattiveria e faccia tosta? Per la nostra ipocrisia? 
Chi è che non ci vuole bene? 
Lui. Lo straniero. 
Papà. Basta. Ha un nome. Per favore chiamalo col suo nome. Parli di lui come l’ultimo degli antisemiti. 
L’ultimo degli antisemiti ha ancora da venire al mondo. E non ci verrà mai. 
Vai a dormire, Pesach. 
Nemmeno io gli voglio bene. Proprio per niente. Non mi va proprio per niente tutto quel che loro hanno fatto a noi e a se stessi. E ovviamente men che meno quel che vorrebbero farci. Non mi va che ci guardi con quegli occhi famelici e anche sarcastici. Te ti guarda con occhi famelici e me - sprezzanti. 
Buona notte. Io me ne vado a dormire. 
E allora, anche se non mi va? Comunque nessuno vuole bene a nessuno. 
Rahel disse: 
Buona notte. Non dimenticarti di prendere le medicine prima di dormire. 
Una volta, tempo fa, prima di tutto. Forse ogni tanto ci si voleva ancora un po’ di bene. Mica tutti. Neanche tanti. Non sempre. Solo un briciolo qua e là, un po’ di bene. Ma adesso? Di questi tempi? Adesso tutti i cuori si sono inariditi. Finito. 
È pieno di zanzare, papà. Chiudi la porta per favore. 
Perché si sono inariditi tutti i cuori? Me lo sai dire tu? No? 


12. 

Quella notte, alle due, forse due e mezzo, svegliato ancora una volta dai colpi di mazza e dai rumori di scavo, il vecchio si alzò (dormiva sempre con i mutandoni lunghi), andò a tentoni in cerca della torcia che si era preparato preventivamente e dell’asta di ferro che aveva scovato nel magazzino. Poi, come due mendicanti ciechi, i piedi cercarono a lungo nel buio le pantofole, ma invano. Lui si rassegnò a percorrere scalzo il corridoio, tastando con mano tremante i muri e i mobili, la testa tesa in avanti come una forca. Trovata finalmente la porta della cantina, la tirò verso di sé (anche se quella era fatta per aprirsi con una spinta), ma l’asta di ferro gli cascò di mano e finì su un piede nonché per terra, provocando un suono metallico che non svegliò Rahel, però zittì di colpo il rumore dello scavo. 
Il vecchio accese la torcia e si chinò con un gemito per riprendere l’asta di ferro. Il suo corpo storto gettava tre o quattro ombre deformi sulle pareti del corridoio, sul pavimento e sulla porta della cantina. 
Rimase lì un momento, con l’asta sotto l’ascella, la torcia in una mano e l’altra che tirava la porta della cantina, cercando di auscultare meglio che poteva. Ma dato che ora in quel profondo silenzio si udivano solo i grilli e le rane, decise di tornare a letto e ritentare la notte successiva. 
Verso l’alba Pesach Kedem si svegliò un’altra volta, si mise seduto sul letto, ma senza allungare la mano verso la torcia e l’asta di ferro, perché tutto era avvolto dal silenzio della notte. Per un po’ rimase così, ad ascoltare quella profondissima quiete. Nemmeno più i grilli. Solo un alito di brezza che passava tra le fronde dei cipressi al cimitero, ma troppo tenue per l’udito di Pesach Kedem, che si riaddormentò. 


13. 

L’indomani mattina, prima di andare a scuola, Rahel uscì a prendere i pantaloni del vecchio dal filo della biancheria. Adel la aspettava davanti alla piccionaia, con i suoi occhialini, il sorriso timido che gli imprimeva una fossetta sulla guancia, e il cappello di paglia alla Van Gogh. 
Rahel. Scusami. Solo un momento. 
Buongiorno Adel. Oggi, se ce la fai, non scordarti di mettere a posto la mattonella storta all’inizio del sentiero. Sennò finisce che qualcuno ci inciampa. 
Va bene Rahel. Ma volevo chiederti, che è successo stanotte? 
Stanotte? Che è successo stanotte? 
Pensavo che magari lo sapevi. Viene della gente a lavorare da te in giardino la notte? 
A lavorare? La notte? 
Non senti niente? Alle due di notte? Rumori? Vanghe? Allora hai il sonno molto pesante. 
Che genere di rumori? 
Rumori di sotto, Rahel. 
Era un sogno, Adel. Chi vuoi che venga a scavare sotto casa tua, nel cuore della notte? 
Non so. Pensavo che magari tu lo sapevi. 
Te lo sei sognato. Ricordati di riparare la mattonella, oggi, prima che Pesach ci inciampi e caschi per terra. 
Pensavo che magari era tuo padre che girava la notte. Non è che non riesce a dormire? Magari stanotte si è alzato, ha preso una vanga ed è andato a scavare qualcosa giù? 
Non dire stupidaggini, Adel. Non c’è nessuno che scava. Te lo sei sognato. 
Si incamminò verso casa con il bucato che era stato sul filo, mentre lo studente rimase lì ancora un momento a guardarla che s’allontanava. Poi si tolse gli occhiali per pulirli con l’orlo della camicia. Infine, con quelle sue scarpe fuori misura, si diresse ai cipressi, incrociò uno dei gatti di Rahel, si chinò e gli rivolse cinque o sei frasi in arabo, con un tono oltremodo serio, come se i due - lui e il gatto - condividessero una nuova responsabilità di tutto rispetto. 


14. 

L’anno scolastico volgeva alla fine. L’estate stava entrando nel vivo. La luce celeste intorno al mezzodì diventava un’incandescenza bianca che piombava sui tetti del paese, sui cortili e sulle piantagioni, sulle tettoie di lamiera bollenti e sulle imposte di legno tenute chiuse. Un vento caldo e secco soffiava dalle colline. La gente stava tutto il giorno in casa, solo alla sera usciva sul balcone o in giardino. Le serate erano calde e umide. Rahel e suo padre dormivano ormai con le finestre e le persiane aperte. Gli ululati dei cani, la notte, invitavano i branchi di sciacalli, che giù nel uadi levavano interminabili guaiti. Oltre le colline si udivano ogni tanti gli echi di uno sparo remoto. Orde di grilli e rane impestavano l’aria della notte di una gravità ottusa e monotona. A mezzanotte Adel si alzava e andava a chiudere gli irrigatori in giardino. E dato che il caldo gli toglieva il sonno, si sedeva sul suo solito gradino a fumare due o tre sigarette di fila. 
A volte Rahel era colta da un attacco di rabbia e insofferenza verso il padre, la casa, il terreno, questo paese insopportabilmente noioso, la sua vita che si andava sprecando qui fra scolari sbadiglianti e l’opprimente genitore. Fino a quando sarebbe rimasta sepolta qui? Un giorno o l’altro, perché no, si sarebbe dileguata affidando il vecchio a una badante e la casa con il terreno allo studente, e sarebbe tornata all’università per terminare una buona volta la sua ricerca sui momenti di luce e svelamento nell’opera di Yizhar e Cahana Carmon, riallacciare vecchi legami, fare viaggi, andare a trovare Osnat in Brasile e Ifat in America, cambiare vita, rinnovarsi. A volte si ritrovava con sgomento a sognare a occhi aperti un incidente domestico tale da far schiattare suo padre: una caduta. Un cortocircuito. Una fuga di gas. 
Ogni sera, Rahel Franco e colui che un tempo era stato l’onorevole Pesach Kedem si sedevano sul balcone, dove con una prolunga facevano arrivare anche un ventilatore elettrico a piantana. Rahel si chinava sui quaderni dei suoi allievi, il vecchio guardava una rivista o un fascicolo, sfogliando avanti e indietro, bofonchiando e brontolando e imprecando e insultando i pazzi scatenati o gli ignoranti abissali. Capitava anche che, all’opposto, manifestasse un sommo disgusto per se stesso, si definisse una persona cattiva e prepotente, decidesse che era ora di chiedere personalmente scusa e perdono, per iscritto, a Michi il veterinario: perché mai ce l’avevo tanto con lui? Perché mai a momenti la settimana scorsa lo cacciavo di casa? Non è forse uno che si guadagna onestamente da vivere? Anche io, in fondo, sarei potuto diventare un medico delle bestie, invece di fare il politico, no? Almeno così sarei servito a qualcosa, rimediando nel mio piccolo ogni tanto al dolore che ci circonda, no? 
Ogni tanto il vecchio si appisolava con la bocca aperta, cigolando rumorosamente con il respiro, i baffi bianchi di flanella che vibravano come animati di vita propria. Quando se l’era sbrigata con la montagna di compiti da correggere, Rahel apriva il quaderno marrone delle memorie e metteva per iscritto, sotto dettatura del padre, la sua versione della tragica disputa fra la maggioranza e lo schieramento opposto, o punto per punto la posizione all’epoca del grande scisma, e quanto aveva ragione lui e si sbagliavano tutti quei falsi profeti e quanto tutto sarebbe potuto andare diversamente se tutti e due i fronti fossero stati ad ascoltarlo. 
Dei rumori notturni non si parlò più. Il vecchio aveva ormai deciso che prima o poi li avrebbe beccati in flagrante, mentre Rahel aveva trovato una spiegazione tanto per l’insonnia di suo padre quanto per quella di Adel: uno era mezzo sordo e sentiva cose che aveva solo in testa, l’altro era un ragazzo ansioso, fors’anche un po’ nevrotico, con molta fantasia. Non è da escludersi, pensava Rahel, che alle ore piccole della notte si sentano effettivamente dei suoni lontani, che arrivano da chissà dove in paese: quando mungono le vacche, il rumore della macchina e il tintinnio dello sportello metallico che si apre e si chiude al movimento degli animali nella stalla, in queste afose notti d’estate uno può anche scambiarlo per un rumore di scavo. O forse quei due, nel sonno sentono il gorgoglio nella tubatura della fogna (che è ormai molto vecchia). 
Una mattina, mentre Adel stava stirando una camicia sull’asse, in camera di Rahel, il vecchio piombò inopinatamente su di lui, la testa piegata in avanti ad angolo quasi retto, come un toro che sta per cozzare, e cominciò a indagare: 
Universitario, eh? Che specie di studi fai? 
Adel rispose sottovoce: 
Scienze spirituali. 
Pesach Kedem disse: 
Scienze spirituali. Ma di quale spirito? Spiritello? Spiritaccio? Spirito nel senso di fantasma? Se a quanto pare sei uno studente di scienze spirituali, allora perché, scusa eh, perché stai qui invece di andare all’università? 
Per un periodo. Mi sono preso un periodo di pausa dall’università. Cerco di scrivere un libro su di voi. 
Su di noi? 
Su di voi e su di noi. Un confronto. 
Un confronto. Quale genere di confronto? Che ci sarebbe da confrontare? Per dimostrare che noi siamo i cattivi e voi i buoni? Per svelare il nostro brutto muso? 
Non così brutto. Forse più, così, ecco, avvilito. 
E la vostra, di faccia, com’è? Non disperata? Bellissima? Non ha difetti? È una faccia immacolata, la vostra? 
Avvilita anche quella. 
Quindi non ci sarebbe nessuna differenza, fra noi e voi? Ma allora, perché te ne staresti qui a fare paragoni e scriverci un libro? 
Qualche differenza c’è. 
Tipo? 
Adel piegò con cura la camicia stirata, la posò con attenzione sul letto, ne stese un’altra sull’asse, prima di stirarla ci schizzò sopra un po’ d’acqua con lo spruzzatore, e disse: 
Il nostro avvilimento è un po’ per colpa vostra e un po’ per colpa nostra. Ma il vostro viene dall’anima. 
Dall’anima? 
O dal vostro cuore. Dalla coscienza. Difficile da sapere. Viene da voi. Da dentro di voi. Dal profondo. 
Spiegami un po’, compagno Adel, da quando in qua gli arabi suonano l’armonica? 
Me l’ha insegnato un mio amico. Un amico russo. E una ragazza me l’ha regalata. 
E perché suoni sempre cose tristi? Come mai? Sei triste qui da noi? 
È così: qualunque musica per armonica, se uno la sente di lontano sembra triste. Anche tu di lontano, uno pensa che sei una persona triste. 
E da vicino? 
Da vicino a me sembri più arrabbiato. E adesso scusami, ho finito di stirare e devo dar da mangiare ai piccioni. 
Mister Adel.  
Sì. 
Spiegami per favore una cosa, perché tu ci scavi sotto la cantina di notte? Sei tu? Che cosa speri di trovare, lì sotto? 
Ma allora li senti anche tu di notte quei rumori? Allora come mai Rahel no? Lei non sente e non ci crede. Non crede neanche a te? 


15. 

Rahel non credeva né alle visioni notturne di suo padre né ai sogni di Adel. Con tutta probabilità i due sentivano i rumori della mungitura provenienti da una stalla di qualche vicino o le esercitazioni notturne di una pattuglia militare nelle piantagioni giù per le colline, ed entrambi nella loro fantasia trasformavano quei suoni in rumori di scavo. Comunque, aveva deciso di restare sveglia una notte, fino alle ore piccole, per sentire anche lei, con le sue orecchie. 
Intanto giunsero gli ultimi giorni di scuola. Gli allievi delle classi alte erano tutti presi dagli esami, mentre fra i più piccoli l’attenzione ormai latitava: arrivavano tardi a scuola, non pochi si dileguavano con svariate scuse. Le classi erano decimate e insofferenti, Rahel terminava stancamente il programma. Non di rado concludeva la lezione con un quarto d’ora d’anticipo e spediva i ragazzi in cortile prima dell’intervallo. Una volta, forse due, acconsentì alla richiesta degli studenti di dedicare tutta l’ora alla libera discussione. 
Di sabato, le viuzze del paese erano ingolfate di visitatori automuniti, che parcheggiavano fra le siepi e bloccavano gli ingressi. Frotte affamate di genuinità si assiepavano ai banchi di formaggi artigianali e di spezie, nelle piccole vinerie, nei cortili delle fattorie dove si vendevano mobili indiani e oggettistica importata da Burma e dal Bangladesh, davanti alle esposizioni di tappeti e arazzi orientali e nelle gallerie d’arte: tutto ciò che il paese aveva da offrire ora che l’agricoltura era stata abbandonata. Benché in molte case ci fossero ancora le stalle per i vitelli all’ingrasso, le incubatrici per i pulcini, le serre per i fiori, e le colline fossero ancora coperte di vigneti e filari d’alberi da frutto. 
Rahel andava e tornava da scuola con passo lesto, energico, e la gente la guardava senza riuscire a venire a capo della sua strana vita tutta compresa fra l’anziano onorevole e il giovane arabo. Era pur vero che non era l’unica ad assoldare personale - al paese lavoravano thailandesi, rumeni, arabi e cinesi - ma da Rahel Franco non si produceva nulla né si creavano oggetti d’arte. E allora che se ne faceva di quel ragazzo? Per di più acculturato? Universitario? Il veterinario Michi, che giocava a dama con quel ragazzo, diceva che era una specie di studente, no? O un topo di biblioteca? 
Si facevano varie ipotesi. Michi il veterinario sosteneva di aver visto con i propri occhi il ragazzo arabo che stirava e piegava la biancheria di lei, e che comunque non girava mica solo in giardino, anche dentro casa, come uno di famiglia. Il vecchio raccontava all’arabo dei dissidi del movimento laburista, mentre l’arabo parlava con tutti i gatti, riparava il tetto, e ogni sera dava un recital per armonica a bocca. 
In paese avevano un buon ricordo di Dani Franco, morto per un attacco di cuore il giorno del suo cinquantesimo compleanno. Era un uomo massiccio con le spalle larghe e le gambe magre. Una persona cordiale, che s’invaghiva facilmente dei suoi interlocutori, e non aveva il pudore di nascondere la propria emotività. La mattina del giorno in cui morì, aveva pianto un po’ per un vitello agonizzante. O forse perché una gatta aveva partorito due micini morti. A mezzogiorno gli era venuto l’infarto: era caduto lungo disteso davanti al deposito dei fertilizzanti. Così l’aveva trovato Rahel, con spalmata in faccia un’espressione di sdegno misto a uno stupore immenso, come se l’avessero ingiustamente respinto a un corso di addestramento militare. Lì per lì sua moglie non aveva capito come mai se la dormisse in pieno giorno per terra accanto alla parete del magazzino. Si era chinata su di lui, Dani, che hai, alzati, smettila di fare lo scemo. Solo prendendolo con tutte e due le mani per aiutarlo ad alzarsi, si era accorta che erano fredde. Allora aveva provato a fargli la respirazione bocca a bocca, gli aveva anche dato due schiaffi sulle guance. Poi era corsa a casa a telefonare in ambulatorio per chiamare la dottoressa Ghili Steiner. Aveva la voce ferma e gli occhi asciutti. Le rincresceva molto per i due schiaffi che gli aveva dato ingiustamente. 


16. 

Era una serata afosa e umida, gli alberi in giardino erano avvolti da un vapore bagnato e anche le stelle parevano tamponate con dell’ovatta sporca. Rahel Franco era sul balcone con il vecchio padre, stava leggendo un romanzo israeliano che parlava di alcuni svampiti inquilini in un condominio a Tel Aviv. Con il suo solito basco che gli copriva metà della fronte, i pantaloni larghi con le bretelle incrociate sopra la canottiera, il vecchio sfogliava convulsamente il supplemento del giornale, mugugnando senza sosta. Poveracci, diceva, sventurati, soli fino al midollo, reietti, nessuno che riesca a sopportarli. Nessuno più sopporta nessuno. Tutti sono estranei a tutti. Persino le stelle in cielo, si ignorano l’una con l’altra. 
Adel era seduto a trenta metri dai due, sul gradino del suo casotto: fumando, stava con tutta calma riparando delle cesoie che avevano la molla fuori posto. Sulla ringhiera del balcone due gatti parevano tramortiti dal caldo. Dalla densa profondità della notte si udiva il clic degli irrigatori, accompagnato dall’indefesso frinìo delle cicale. Ogni tanto un uccello notturno se ne usciva con il suo verso acuto. Da qualche parte in lontananza dei cani abbaiavano, ogni tanto calavano di tono producendo un lamento triste, straziante, che talvolta era l’eco di uno sciacallo solitario, giù dai frutteti sulla collina. Rahel alzò gli occhi dal libro e disse, chissà se a se stessa o a suo padre: 
A volte mi capita di non capire proprio che ci faccio qui. 
Il vecchio disse: 
Ovvio. Lo so bene che ti peso. 
Ma non stavo affatto parlando di te, Pesach. Parlavo della mia vita. Perché pensi che tutto riguardi sempre solo te? 
Allora prego, accomodati, vai, sogghignò il vecchio, vai a rifarti una vita. Io e il piccolo arabo restiamo ancora un po’ a badare alla casa. In attesa che crolli. Tanto comunque presto ci cascherà in testa. 
Cascherà? Che cosa? Chi? 
La casa. Quegli scavi stanno sbriciolando le fondamenta. 
Non c’è nessuno che scava. Ti compro dei tappi di cera per le orecchie, così non ti svegli più di notte. 
Adel posò le cesoie, spense la sigaretta, tirò fuori di tasca l’armonica e ne estrasse qualche nota incerta, come se non riuscisse a scegliere la melodia da suonare. O come se, invece, stesse provando a imitare con lo strumento l’ululato disperato dello sciacallo, laggiù nei frutteti bui. Ora pareva proprio che lo sciacallo gli stesse rispondendo. Poi un aereo sfrecciò alto sopra il villaggio, con le luci che brillavano sulle ali. Su tutto stagnava un’aria soffocante, umida e calda e carica, quasi solida. Il vecchio disse: 
Bella musica. Straziante. Ci ricorda i tempi in cui c’era ancora ogni tanto un po’ di bontà fra la gente. Ma oggi non ha più nessun senso suonare una musica del genere: oggi come oggi una musica così è anacronistica, perché a chi vuoi che importi. Basta. Nessuno più che abbia un briciolo di cuore. Tutti i sentimenti sono morti. Nessuno si rivolge più al suo prossimo, se non per interesse, egoisticamente. Che è rimasto? È rimasta forse solo questa musica malinconica, una specie di memoriale dei cuori distrutti. 
Rahel riempì di acqua e limone tre bicchieri, e chiamò anche Adel a venire a bere sul balcone. Il vecchio avrebbe preferito la Coca-Cola, ma questa volta non insistette. Adel arrivò con i suoi occhiali da bambino appesi al collo con la cordicella, e si sedette un po’ in disparte, sul muretto di pietra del balcone. Rahel lo invitò a suonare l’armonica. Adel esitò un attimo, e poi scelse una nostalgica melodia russa. I suoi compagni d’università a Haifa gli avevano insegnato qualcuna di queste canzoni. Il vecchio smise di brontolare e il suo collo da tartaruga si piegò in avanti come per l’ansia di tendere l’orecchio verso la sorgente di quei suoni. Poi sospirò, e disse: 
Che diamine. Peccato. 
Con ciò tacque senza prendersi il disturbo di spiegare peccato per cosa, stavolta. 
Alle undici e dieci Rahel disse che era stanca, chiese ad Adel qualcosa che riguardava l’indomani: si trattava del taglio di un ramo di troppo o della tinteggiatura di una panca. Adel glielo promise sommessamente e fece due domande. Rahel rispose a entrambe. Il vecchio piegò il giornale: in due, in quattro, in otto, finché non divenne un quadratino. Rahel si alzò, raccolse sul vassoio la frutta e i dolcetti ma lasciò ai due i bicchieri e la bottiglia d’acqua. A suo padre raccomandò di non coricarsi tardi e ad Adel di spegnere la luce sul balcone quando andava via. Augurò a tutti e due la buona notte, scavalcò i due gatti addormentati ed entrò in casa. Il vecchio fece tre o quattro volte sì con la testa, rivolto verso l’interno, poi mormorò, più all’aria che ad Adel. 
Be’ sì. Ha bisogno di cambiare aria. Noi ormai la stanchiamo. 


17. 

Rahel si ritirò in camera. Accese prima la luce centrale, poi optò per quella sul comodino. Per un attimo si fermò davanti alla finestra aperta. L’aria calda e densa della notte e le stelle inanellate di nebbia. Le cicale. Gli irrigatori. Ascoltò il verso degli sciacalli dalle colline e l’ululato di risposta dei cani, nei cortili. Poi diede le spalle alla finestra, senza però chiuderla, si tolse il vestito, si grattò e si tolse anche la biancheria, infilò la camiciola da notte di cotone, con un motivo floreale. Si versò un bicchiere d’acqua e bevve. Andò in bagno. Tornata in camera, sostò ancora un attimo alla finestra. Dal balcone si udiva la voce del vecchio: stava parlando ad Adel con un tono infervorato, il ragazzo gli rispondeva con stringata mitezza. Non riusciva a capire di che cosa stessero parlando, si domandò che cosa mai volesse il vecchio dal ragazzo, e anche che cosa trattenesse quest’ultimo lì da loro. 
Una zanzara le ronzò vicino all’orecchio. Intorno alla lampada sul comodino danzava una falena ebbra: ammaliata dalla luce, sbatteva le ali contro il paralume. Rahel ebbe pena di sé e dei giorni che trascorrevano senza scopo, senza senso. L’anno scolastico stava finendo, presto sarebbero arrivate le vacanze estive, poi sarebbe cominciato un nuovo anno, simile in tutto e per tutto al precedente: di nuovo i quaderni degli allievi, le sedute di gruppo, Michi il veterinario. 
Rahel accese il ventilatore, si coricò e si coprì con il lenzuolo. Ma la stanchezza se n’era andata, lasciando spazio a una specie di effervescenza. Si prese un altro bicchier d’acqua dalla bottiglia accanto al letto, bevve, si girò, si infilò un cuscino fra le gambe, di nuovo cambiò posizione. Un fischio molto basso, quasi impercettibile, la spinse a sedersi e riaccendere la luce sul comodino. Ora non sentì più nessun rumore, a parte le cicale, le rane, gli irrigatori e i cani, in lontananza. Spense la luce, cacciò via il lenzuolo, e rimase supina. Ecco che però qualcosa si sentiva di nuovo: una specie di sibilo, come se stessero grattando le piastrelle con un chiodo. 
Rahel accese la luce e si alzò per andare a controllare la persiana, sospettando che di quella si trattasse. Però era aperta e ben fissata. Controllò anche la tenda, magari il rumore veniva di lì, e pure la porta del bagno. Non c’era nessuno spiffero. Neanche un alito di vento. Niente. Rimase per un po’ seduta sulla sedia, senza sentire nulla. Ma appena tornò a letto, si coprì con il lenzuolo e spense la luce, in quel preciso istante, quel vago sibilo riprese. Sarà stato un topo, in camera? Difficile da credere, visto che la casa era piena di gatti. Ora era come se qualcuno stesse graffiando il pavimento sotto il letto con qualcosa di appuntito. Restò perfettamente immobile, quasi trattenendo il respiro, per concentrarsi nell’ascolto. Riaccese la luce e scese carponi a dare un’occhiata sotto il letto: niente, a parte qualche batuffolo di polvere e qualche brandello di carta. Invece di tornare a letto, dopo avere acceso anche la luce sul soffitto, Rahel restò ferma in piedi, tutta tesa, in mezzo alla stanza. Ora i sibili e gli scricchiolii si sentivano anche con la luce, perciò decise che qualcuno, forse Adel, forse chissà proprio quel suo tremendo vecchio, fosse piegato sotto la sua finestra e stesse graffiando apposta il muro, dando anche qualche colpetto. Non è che fossero del tutto a posto di testa, quei due. Rahel prese la torcia dal ripiano accanto al guardaroba e fece per dirigersi dietro casa. O forse era meglio scendere in cantina? 
Prima però andò sul balcone a vedere chi dei due non fosse più lui, giusto per sapere di chi sospettare. Ma sul balcone era tutto spento, e buie erano anche la stanza del vecchio e il casotto di Adel. In sandali e camicia da notte, Rahel scese dal balcone verso il lato della casa, si chinò fra le colonne e gettò il fascio di luce verso lo spazio sotto il pavimento: ragnatele e un piccolo insetto in fuga dalla luce. Si tirò su. La notte regnava profonda e muta tutt’intorno a lei. Il muro di cipressi che separava il suo giardino dal cimitero era perfettamente immobile. Non un alito che facesse vibrare l’aria. Anche i cani e le cicale tacquero per un attimo. Il buio era pesto, angosciante, il caldo pesante. Rahel Franco rimase lì sola, tremante, nel buio sotto le vaghe stelle. 

  
Smarriti 
  
1. 

Ieri mi chiama Batia Rubin, la vedova di Eldar Rubin. Senza stare a farla lunga, chiede se sta parlando con l’immobiliarista Yossi Sasson, e quando le dico: sempre a sua disposizione, signora, lei fa: dovrei parlarle di una cosa. 
È da un pezzo che ho messo gli occhi su casa Rubin, in via Tarpat, dietro il giardino dei Primi, quella casa che da noi si chiama il Rudere. È un vecchio edificio che risale all’epoca della fondazione del villaggio, più di un secolo fa. Quelle che c’erano di fianco, a destra e a sinistra, casa Vilinski e casa Shmueli, sono già state abbattute e sul terreno ci hanno fatto delle ville a più piani. Hanno dei bei giardini intorno, una pure la vasca con una cascatella artificiale, dei pesci ornamentali e una fontana. Il Rudere sta lì piantato fra le ville come un dente guasto in mezzo a una candida chiostra. È un edificio pieno di curve e movimenti, alzate ed estensioni, fatto di pietra arenaria, con l’intonaco sui muri esterni ormai scrostato. Si trova in una posizione appartata, distante dalla strada, con il retro rivolto verso l’esterno e intorno un giardino abbandonato all’incuria, pieno di ortiche e rottami sparpagliati in giro. C’è un pozzo otturato in mezzo al giardino, con sopra una pompa arrugginita. Le imposte sono perennemente chiuse e nelle fessure del malconcio opus incertum che conduce dal cancello alla casa crescono il convolvolo, la nitraria e la gramigna. Le poche camicie e i capi di biancheria che ogni tanto compaiono sul filo del bucato accanto a casa sono gli unici segni di vita. 
Per molti anni abbiamo avuto uno scrittore famoso qui a Tel Ilan, Eldar Rubin, un paralitico in sedia a rotelle che ha scritto lunghi romanzi sulla Shoah, anche se lui non l’aveva vissuta perché era sempre stato a Tel Ilan e solo negli anni cinquanta era andato per qualche tempo a studiare e fare ricerche a Parigi. Era nato qui, in questa vecchia casa di via Tarpat, qui ha scritto i suoi libri e qui è morto una decina d’anni fa, a cinquantanove anni. È da quando è morto che ci sto dietro, a quella casa: mi piacerebbe comprarla e rivenderla a qualcuno che la demolisca e ricostruisca dal niente. A dire la verità, ci ho anche provato, a leggere i libri di Eldar Rubin, ma non fanno per me: tutto mi sembra pesante e opprimente, la trama è lenta e i personaggi sempre infelici. Io leggo soprattutto inserti di economia, saggi di politica e libri gialli. 
Due donne vivono nel Rudere e fino a ora non ne hanno voluto sapere di vendere, a qualunque prezzo. La madre dello scrittore, Rosa, avrà novantacinque anni, mentre la sua vedova dev’essere sulla sessantina. Qualche volta le ho chiamate al telefono, mi ha sempre risposto la vedova, Batia Rubin. Ho puntualmente esordito con un attestato di stima per l’opera del defunto scrittore, motivo di vanto per tutto il nostro villaggio, ho accennato delicatamente al cattivo stato della casa e al fatto che non avrebbe alcun senso restaurarla, ho altresì formulato cortese richiesta di poterla andare a trovare per far due chiacchiere sui possibili sviluppi. Batia Rubin non ha mai mancato di concludere queste conversazioni telefoniche con un grazie per l’interessamento ma la faccenda è ancora prematura, non avrebbe senso una visita, allo stato attuale delle cose. 
Finché ieri non mi chiama di sua iniziativa e mi dice che bisogna che ci parliamo. Ho subito deciso di non portarle nessun possibile acquirente, ma di comprare io stesso il Rudere. Poi lo faccio demolire e per il terreno chiedo molto di più di quel che pagherò per l’immobile. Da bambino ci sono stato, una volta, in quella casa: mia madre era infermiera diplomata, quel giorno era stata chiamata per fare un’iniezione allo scrittore Eldar Rubin, così mi aveva portato con sé. Avrò avuto otto, nove anni. Ricordo una grande stanza centrale, ammobiliata in stile orientale, su cui si aprivano molte porte che davano nelle stanze laterali, e anche delle scale che credo portassero in cantina. I mobili erano massicci, cupi. Due pareti erano interamente coperte di scaffali di libri, dal pavimento sino al soffitto, un’altra era piena di carte geografiche costellate di spilli colorati. Sul tavolo, dentro un vaso, c’era un fascio di rovi. E c’era anche una pendola marrone, con delle lancette dorate, che faceva tic tac. 
Lo scrittore era sulla sedia a rotelle, aveva una coperta a scacchi sulle gambe e una criniera bianca in testa. Ricordo quel viso largo e rubizzo infossato fra le spalle, come se il collo non l’avesse, due grandi orecchie e delle folte sopracciglia, bianche come i capelli. Dei ciuffi bianchi spuntavano anche fuori dalle orecchie e dalle narici. Ricordava un po’ un vecchio e viziato orso polare, mezzo in letargo. Mia madre e la sua lo avevano portato dalla carrozzella al divano, lui non aveva collaborato affatto, anzi, brontolava e cercava goffamente di sfuggire alla presa, ma i muscoli erano impotenti e così avevano vinto le due donne. Sua madre, Rosa, gli aveva tirato giù i pantaloni, mostrando il deretano gonfio, mia madre si era chinata e gli aveva fatto la puntura sopra la coscia biancastra. Dopo l’iniezione lo scrittore aveva scambiato qualche battuta con lei. Non ricordo che cosa aveva detto, ma ricordo che le sue battute non facevano per niente ridere. Poi era arrivata anche Batia, la moglie: una donna magra e tesa con i capelli raccolti in una piccola crocchia dietro la nuca. Aveva offerto a mia madre una tazza di tè e a me dello sciroppo di lampone dolciastro in una tazza che mi era sembrata scheggiata. Saremo rimasti un quarto d’ora, mamma e io, nel salotto di quella casa che già allora qui in paese tutti chiamavano il Rudere. Ricordo che quella casa aveva un non so che - qualcosa che aveva rapito la mia immaginazione. Forse perché in quel salotto in mezzo alla casa si aprivano cinque o sei porte su altrettante stanze tutt’intorno. Le altre case di qui non sono fatte in questo modo. Solo nei villaggi arabi ho visto una pianta del genere. E lo scrittore, anche se sapevo che parlava soprattutto di Shoah, non mi era affatto sembrato un tipo triste, deprimente, anzi: sprizzava tutt’intorno a sé un’allegria infantile, per quanto forzata. Con quei suoi modi un po’ sonnolenti, voleva a tutti i costi divertirci: aveva raccontato qualche aneddoto, sfoderato qualche gioco di parole. Io, da quell’unico incontro, lo ricordo non come una persona simpatica, bensì come uno che ce la metteva tutta per esserlo, che voleva a tutti i costi rendere gradevole la situazione. 


2. 

Alle sei mi sono alzato dalla scrivania e sono andato a fare un giretto a piedi per il paese. Ero stanco e mi bruciavano gli occhi, dopo una lunga giornata in ufficio a fare calcoli d’imposta. Avevo in mente di star fuori una mezz’oretta, un’ora al massimo, mangiare qualcosa al bar di Chaimowitz e tornare al lavoro, perché dovevo finire per oggi. Ero talmente stanco che la luce della sera, invece di essere trasparente, mi pareva un po’ sfocata, nebulosa. Un’estate torrida pesava su Tel Ilan. In fondo a via del Pozzo c’è la muraglia di cipressi, oltre comincia una piantagione di peri. Dietro i cipressi il sole stava calando verso l’orizzonte occidentale. Era torbido come sempre quando accompagna l’afa nel mese di giugno, come se una cortina grigia lo separasse da quaggiù. Camminavo di buon passo, né troppo lento né di corsa. Ogni tanto mi fermavo a guardare distrattamente verso un giardino. C’era poca gente fuori, e quei pochi stavano correndo a casa. In pomeriggi come questi di solito si sta a casa o sui balconi interni, che danno verso il giardino, in canottiera e pantaloncini, bevendo limonata con ghiaccio e sfogliando il giornale. 
Ogni tanto, qualche passante. Abraham Levin mi ha salutato con un cenno del capo, altri si sono fermati per scambiare due parole. Qui in paese ci conosciamo quasi tutti. Alcuni ce l’hanno con me perché vendo le case a gente di fuori che si fa qui un’oasi per il fine settimana o l’estate. Poco ci manca che il paese diventi una specie di villaggio turistico, dicono. Gli abitanti della prima ora non sono affatto contenti di questo cambiamento, anche se i nuovi hanno portato ricchezza e, almeno nei fine settimana, se prima era proprio un posto sperduto, ora lo riempiono di vita. Ogni sabato, ad esempio, arrivano in centro colonne di automobili, i cui passeggeri visitano cantine, gallerie d’arte, esposizioni di mobili in stile dell’Estremo Oriente e banchetti di formaggi, miele e olive. 
Era il tramonto quando sono arrivato allo spiazzo della Casa della Cultura, in via dei Fondatori: le gambe mi hanno portato sul retro dell’edificio, dove non c’è niente a parte un giardinetto molto malandato, e pure inutile dato che quasi nessuno arriva fino a quell’angolo. Mi sono fermato un momento ad aspettare, senza avere la minima idea di chi o cosa stessi aspettando. C’è un piccolo monumento, piuttosto sporco, con intorno dell’erba ingiallita e una pianta di rose assetata, a memoria dei cinque fondatori del villaggio uccisi cent’anni fa in un attacco. Accanto all’ingresso sul retro della Casa della Cultura, sulla bacheca per gli annunci c’era la promessa di una serata indimenticabile per via di tre artisti che sarebbero arrivati qui il prossimo fine settimana. Sotto questo avviso ce n’era uno di avventisti ultraortodossi dove si diceva in lettere cubitali che questo mondo è solo lo squallido corridoio in cui dobbiamo emendare noi stessi, preparandoci a varcare la soglia del Santuario. Sono rimasto un po’ lì davanti, dicendomi che io di quel santuario non so niente, mentre ‘sto corridoio non mi dispiace affatto. 
Stavo ancora fissando la bacheca, quand’ecco che davanti al monumento compare una donna che prima non c’era. Sotto la luce del tramonto mi pareva un’estranea, e anche un po’ fuori dal comune. Era per caso uscita dalla porta dietro dell’edificio? O era sbucata dallo stretto passaggio fra quello e le case vicine? Che strano: sino a un momento prima ero qui da solo, mentre adesso, così dal niente, era spuntata quella sconosciuta. Non era di qui. Era molto magra e impettita, con un naso aquilino, il collo corto e massiccio, in testa un buffo cappello giallo pieno di spille e fibbie. Era vestita da escursionista, aveva uno zaino rosso sulle spalle, una borraccia legata alla cintura, degli scarponcini, teneva in mano un bastone e sull’altro braccio aveva appeso un impermeabile, non certo adatto al mese di giugno. Sembrava ritagliata da una pubblicità per viaggi alla scoperta della natura. Ma non qui da noi, in regioni ben più fredde. Non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. 
La sconosciuta ha ricambiato con uno sguardo truce e penetrante, quasi feroce. Aveva un’aria altera, come se mi disprezzasse dal profondo del cuore, o quasi volesse dire che per me non c’era nulla da fare e lo sapevamo bene tutti e due. Era talmente pungente, quel suo sguardo, che non ho potuto fare a meno di scostare il mio e allontanarmi in direzione di via dei Fondatori, verso la facciata dell’edificio. Dopo una decina di passi non ce l’ho più fatta e mi sono voltato. La forestiera non c’era più. Inghiottita dalla terra. Ma io non riuscivo a mettermi il cuore in pace. Ho fatto il giro dell’edificio e proseguito su per via dei Fondatori, con un nitido presentimento che mi piantava le unghie addosso: la sensazione di non essere a posto, di dover fare qualcosa, qualcosa di essenziale ma anche grave, qualcosa che dovevo assolutamente compiere e invece mi defilavo. 
Ho accelerato il passo e sono andato verso il Rudere, per discutere della vendita già stasera con la vedova Batia Rubin, e magari anche con Rosa Rubin, l’anziana madre. Erano state loro a chiamarmi, finalmente, per farmi sapere che era ora di parlarne. 


3. 

Per strada pensavo che è un po’ un peccato demolire il Rudere, che in fondo è una delle ultime case costruite qui dai fondatori, più di cent’anni fa. Ghedalia Rubin, il nonno dello scrittore Eldar Rubin, era un facoltoso agricoltore venuto a Tel Ilan con i primi abitanti, si era fatto lui questa casa con le sue mani, e aveva piantato gli alberi da frutto, e le pregiate viti. Qui da noi era noto come uno spilorcio collerico, mentre sua moglie Marta da giovane era considerata la ragazza più bella di tutta la regione. Ma adesso il Rudere è ridotto allo sfacelo e non avrebbe più alcun senso investire in lavori di restauro. Avevo dunque in mente di comprare l’immobile dalla madre e dalla vedova, per rivendere il terreno edificabile, su cui farci una villa. Forse si sarebbe potuto mettere sulla facciata della nuova villa una piccola lapide con sopra scritto che qui c’era una volta la casa dello scrittore Eldar Rubin, e che qui aveva scritto tutti i suoi libri, ambientati al tempo della Shoah. Quando ero piccolo, pensavo che quei tempi là fossero ancora presenti dentro la casa dello scrittore, forse in cantina o in una delle stanze sul retro. 
Nella piazzetta della fermata del pullman ho incontrato Benni Avni, sindaco di Tel Ilan, insieme all’ingegnere responsabile dei lavori pubblici e a un piastrellista di Netanya che stava spiegando come rifare i vecchi marciapiedi. Mi è parso strano che stessero discutendo della faccenda a un’ora così tarda. Benni Avni mi ha dato una pacca sulle spalle e ha chiesto: come va, mister immobiliare? Poi ha aggiunto: hai l’aria preoccupata, Yossi, fai un salto da me in ufficio, magari venerdì a mezzogiorno, io e te dobbiamo parlare. Ma quando ho provato a tastare il terreno su che cosa volesse da me, non sono riuscito a cavarne nulla. Vieni, ha detto, ti offro un caffè e ne parliamo. 
Tutto ciò non ha fatto che accrescere l’ansia che già mi accompagnava: qualcosa che mi toccava fare, o che mi era impedito di fare, mi stava addosso e mi turbava, anche se non riuscivo proprio a capire di che cosa si trattasse. Mi sono incamminato verso il Rudere. Ma non per la via più breve, bensì facendo un piccolo giro per passare davanti alla scuola e lungo il viale di pini lì accanto. Avevo come l’impressione che quella forestiera, apparsa tutt’a un tratto nel giardinetto abbandonato dietro la Casa della Cultura, volesse accennarmi qualcosa, fors’anche di molto importante, mentre io mi ero rifiutato di ascoltare. Che cosa mi aveva spaventato? Perché ero fuggito via da lei? Ma era andata proprio così? A dire la verità, quando mi ero voltato la donna non c’era più. Dissolta nel crepuscolo. Era una figura esile e impettita, stretta in quella strana tenuta da escursionista, con un bastone da passeggio in una mano e un impermeabile ripiegato sull’altro braccio. Come se non fosse affatto il mese di giugno. Sembrava piuttosto un’alpinista un po’ eccentrica: forse austriaca? Svizzera? Che cosa aveva da dirmi, e perché ero scappato via? Non avevo alcuna risposta in proposito, del resto non avevo nemmeno la minima idea di come mai Benni Avni volesse far quattro chiacchiere con me e non potesse accennarmi già qualcosa, visto che ci eravamo incrociati nella piazzetta della fermata. Invece mi aveva invitato a passare in ufficio da lui a quell’ora così strana - venerdì a mezzogiorno. 
Su una panchina in ombra, in fondo a via Tarpat, c’era un pacco di modeste dimensioni, avvolto in carta marrone e legato con dello spago nero. Mi sono fermato lì davanti e mi sono chinato per vedere se ci fosse scritto qualcosa. E invece niente. L’ho anche girato con prudenza di qua e di là, ma la carta era intonsa su tutti i lati. Dopo un attimo di esitazione ho deciso di non aprirlo, ma sapevo che era mio dovere comunicare a qualcuno di quel reperto. A chi, però? L’ho sollevato con tutte e due le mani. Sembrava piuttosto pesante, in rapporto al volume: più pesante di un pacco di libri, come se dentro ci fossero state delle pietre o del metallo. Mi è preso un certo timore per quell’oggetto, perciò l’ho rimesso dov’era con somma attenzione. Dovevo dire alla polizia di quel pacco sospetto, ma il mio cellulare era rimasto sulla scrivania, in ufficio. Ero uscito solo per far quattro passi, e non volevo essere disturbato. 
Intanto l’ultima luce si andava lentamente spegnendo, solo i bagliori del tramonto vibravano giù per la via, come se volessero dirmi di seguirli o forse, al contrario, ingiungermi di star lontano. Ombre dense riempivano ora la strada: erano quelle dei cipressi, delle siepi intorno alle case. Non erano stabili, anzi, si muovevano in ogni direzione, parevano chine a cercare un oggetto perduto. Dopo un po’ si sono accesi i lampioni, ma le ombre non sono affatto sparite, anzi, ora si avvoltolavano nel vento leggero che faceva tremare le chiome degli alberi, come se una mano invisibile stesse frugando in mezzo a esse. 
Mi sono fermato davanti allo sgangherato cancello di ferro del Rudere, e sono rimasto così qualche istante, a respirare a pieni polmoni il profumo dell’oleandro e quello amarognolo dei gerani. La casa sembrava deserta perché non c’era nessuna luce accesa, né alle finestre né in giardino. Le cicale cantavano dai rovi e le rane dal giardino accanto, giù dalla strada dei cani continuavano ad abbaiare. Perché son venuto qui senza telefonare e senza fissare un appuntamento? Se bussassi alla porta adesso che è quasi buio, sicuro che le due donne si spaventerebbero. Probabilmente non aprirebbero nemmeno. O forse non sono in casa: le luci sono tutte spente. Pertanto ho deciso di andarmene e tornare un altro giorno. Ma proprio mentre prendevo quella decisione ho aperto il cancello, che ha prodotto un cigolio tremendo, ho attraversato il giardino buio e ho bussato due volte alla porta. 


4. 

Mi ha aperto una ragazza che avrà avuto venticinque anni: Yardena, la figlia del defunto scrittore Eldar Rubin. Sua madre e sua nonna erano andate a Gerusalemme e lei era venuta da Haifa per isolarsi qui qualche giorno e andare avanti con la sua tesi sui fondatori di Tel Ilan: me la ricordavo da piccola perché una volta, avrà avuto dodici anni, era venuta in ufficio da me mandata da suo padre a chiedermi un disegno o una piantina del villaggio. Era una bambina magra e timida, bionda, con un corpo a forma di stelo, il collo lungo e un viso delicato che esprimeva sorpresa, come se tutto la lasciasse interdetta, garbatamente stupita. Allora avevo provato a farla parlare un po’ di suo padre, dei suoi libri, degli ospiti che arrivavano a casa loro dai quattro angoli del paese, ma Yardena mi aveva risposto a monosillabi e solo una volta aveva detto: e come faccio a saperlo? Insomma, la conversazione si era subito arenata. Le avevo dato una copia della mappa del villaggio, che suo padre l’aveva mandata a prendere, lei mi aveva ringraziato e se n’era andata lasciando una scia di timida stupefazione. Come se io o il mio ufficio l’avessimo lasciata a bocca aperta. Da allora l’avevo incrociata qualche altra volta all’emporio di Victor Ezra, negli uffici del consiglio comunale o all’ambulatorio, e mi aveva sempre sorriso affettuosamente, parlando molto poco. E lasciandomi sempre con la frustrante sensazione che ci fosse ancora qualcosa in sospeso fra noi, che avessimo ancora qualcosa da dirci. Sei o sette anni fa era partita per il servizio militare e poi, si diceva qui da noi, era andata a studiare a Haifa. 
Adesso me la trovo davanti sulla soglia di quella casa, con tutte le imposte chiuse: una ragazza magra e sottile, con indosso un abito molto semplice, i capelli sciolti che cascano fin sulle spalle, e dei sandali sopra delle calzette bianche da ginnasiale. Ho abbassato gli occhi e ho guardato solo i sandali. Tua madre, ho detto, mi ha telefonato per dirmi di venire a parlare con voi a proposito del futuro della casa. 
Yardena ha detto che sua mamma e sua nonna erano andate a passare qualche giorno a Gerusalemme, lei era sola in casa ma io potevo entrare, anche se in merito al futuro della casa lei non era certo la persona giusta. Ho deciso dunque di ringraziarla, salutare e tornare un’altra volta, se non che le mie gambe sono entrate dentro da sole, dietro di lei. Siamo arrivati nella grande stanza che mi ricordavo quando c’ero stato da bambino, con il soffitto alto e su cui si aprivano diverse porte che davano nelle stanze laterali, e c’era anche una scala che portava in cantina. La stanza era appena rischiarata da una luce gialla e opaca che veniva dai paralumi metallici fissati quasi ad altezza del soffitto. Due pareti erano interamente occupate da scaffali strapieni di libri, su quella che dava a est c’era ancora la grande cartina del bacino mediterraneo. Era un po’ ingiallita, con i bordi consumati. In tutto il locale stagnava un che di vecchio e denso, un sottile odore di oggetti che non hanno più preso aria. O forse non era un odore, piuttosto la luce pallida che catturava un pulviscolo impalpabile, creando un fascio obliquo sopra il tavolo da pranzo nero con otto sedie dallo schienale dritto. 
Yardena mi ha fatto accomodare su una vecchia poltrona viola e mi ha chiesto che cosa volevo bere. Non è il caso, ho detto io, non voglio disturbare, mi fermo un momento ma torno un’altra volta, quando tua madre e tua nonna sono in casa. Yardena ha insistito che bevessi qualcosa, fa così caldo e sei venuto a piedi, ha detto, poi è uscita e io le ho guardato le lunghe gambe con in fondo quei sandali da bambina e le calzette bianche. Il vestitino blu le copriva le cosce. In casa c’era un profondo silenzio, quasi che fosse già stata venduta e abbandonata una volta per tutte. Il grande orologio a muro ticchettava sopra il divano e fuori un cane abbaiava in lontananza, ma non c’era più vento fra le fronde dei cipressi neri tutt’intorno al giardino. La luna piena faceva capolino dalla finestra rivolta a est. Le sue macchie parevano più scure del solito. 
Yardena è tornata e mi sono accorto che si era tolta sandali e calze, e ora era a piedi nudi. Teneva con tutte e due le mani un vassoio di vetro nero con sopra un bicchiere e una bottiglia di acqua fredda, c’era anche un piatto con dei datteri, delle prugne e delle ciliegie. La bottiglia era coperta di condensa fredda, il bicchiere era alto e aveva una sottile corolla blu. Ha posato il vassoio davanti a me sul tavolo, si è chinata per versare l’acqua nel bicchiere e l’ha riempito sino alla striscia blu. Mentre si chinava ho intravisto le protuberanze dei seni e la fessura in mezzo. Erano piccoli e sodi e per un attimo mi sono sembrati uguali alla frutta che lei aveva appena portato. Ho dato qualche sorsata, ho sfiorato la frutta ma senza prendere niente, anche se le prugne erano umide, forse di frigo forse perché le aveva lavate, e sembravano buone, invitanti. Ho detto a Yardena che mi ricordavo di suo padre e di questa stanza dalla mia infanzia e che non era cambiato quasi niente da allora. Lei ha spiegato che suo padre amava questa casa, dove era nato e cresciuto, dove aveva scritto tutti i suoi libri, ma sua madre voleva andarsene di qui, voleva vivere in città. Il silenzio la opprimeva. La nonna l’avrebbero messa in una bella casa di riposo e la casa sarebbe stata venduta. Lei non era né pro né contro la vendita della casa. Era una questione che riguardava mamma. Se proprio doveva esprimersi, pensava che sarebbe stato meglio aspettare a vendere, finché nonna era ancora viva. Ma d’altro canto capiva sua madre, che cosa aveva da fare qui adesso che finalmente era andata in pensione e non insegnava più biologia al liceo? Mamma qui era sempre sola con nonna, che per di più era diventata mezza sorda. 
Vuoi visitare la casa? Facciamo un giro per le stanze? Ce ne sono mica poche. Questa casa, ha detto Yardena, è stata costruita senza nessuna logica. L’architetto doveva avere le allucinazioni, per affastellare in questo modo stanze, corridoi, passaggi, nicchie, tutto quel che gli saltava in testa. In realtà non era stato nessun architetto: il padre di suo nonno aveva costruito la parte centrale della casa, e ogni qualche anno aveva ampliato l’edificio aggiungendo un’ala nuova o un allargamento. Poi era toccato al nonno, che aveva fatto anche lui altri locali. 
Mi sono alzato e l’ho seguita dalla sala attraverso una porta che si è aperta su uno spazio in penombra, ritrovandomi in un corridoio rivestito di pietra, con delle vecchie foto appese alle pareti - erano paesaggi di colline e fiumi. Io però avevo gli occhi incollati sui suoi piedi scalzi, che si muovevano con eleganza sul pavimento di pietra, come se stesse danzando lì davanti a me. Sul corridoio si aprivano diverse porte, Yardena ha detto che malgrado fosse ormai grande, quella casa le dava ancora la sensazione di trovarsi dentro un labirinto, e c’erano alcuni punti in cui non aveva più messo piede da quando era bambina. Poi ha aperto una porta e mi ha condotto a una specie di tortuoso covo cui si arrivava scendendo per cinque stretti gradini, e lì sotto c’era una penombra densa, rischiarata solo da una lucina gialla appesa al soffitto. Anche qui, nel covo, c’erano degli scaffali pieni di vecchi libri, al riparo dietro delle porte di vetro. Fra i volumi c’era in mostra anche una specie di collezione di fossili e conchiglie. 
Yardena ha detto: a mio padre piaceva tanto venire qui la sera. Aveva la passione dei posti chiusi, senza finestre. Ho detto che anche io ero attirato da quel genere di locali dove ancora in piena estate stagna qualcosa dell’inverno. Yardena ha detto: 
allora ti ho portato nel posto giusto. 


5. 

Da quel buio nascondiglio, attraverso una porta cigolante, siamo passati in una stanzetta con pochi mobili: solo un vecchio divano logoro, una poltrona marrone e un tavolo rotondo, anch’esso marrone, con dei piedi storti. Sul muro c’era appesa una grande fotografia in bianco e nero di Tel Ilan, scattata molti anni fa da in cima alla torre dell’acqua, in centro al villaggio. Vicino a questa foto ho notato un attestato di onorificenza incorniciato, ma c’era troppa poca luce per potervi leggere il testo. Yardena ha proposto di sederci qui un momento e io non ho detto di no. Mi sono messo sul vecchio divano, Yardena davanti a me in poltrona. Ha incrociato le gambe nude, tendendo il vestito sulle ginocchia - ma era troppo corto per coprirle. Ha detto che non avevamo ancora visto nemmeno una piccola parte della casa. Ha aggiunto che da questa stanza si arrivava alla porta sinistra del salotto d’ingresso, da dove avevamo cominciato il giro, mentre quella destra dava sulla cucina, da cui si passava alla dispensa oppure al corridoio che portava verso alcune stanze da letto. In un’altra ala della casa ce n’erano ancora. Ce n’erano alcune dove nessuno aveva più dormito, negli ultimi cinquant’anni. I primi tempi, ogni tanto, il papà del nonno ci alloggiava gente venuta da lontano a vedere i suoi frutteti e le piantagioni. Papà invece ci ospitava professori e attori che venivano a tenere conferenze o esibirsi in paese. Io fissavo le gambe tornite e lisce di Yardena, che facevano capolino dal vestito. Anche Yardena si è guardata le gambe. Allora io ho scostato subito lo sguardo dalle gambe, e l’ho fissata in viso: sorrideva appena, distrattamente, come ispirata da un pensiero piacevole, eppure vago. 
Le ho chiesto perché aveva deciso di portarmi a fare quel giro fra le stanze di casa. Yardena ha risposto stupita: ma sei tu che vuoi comprarla, no? Stavo per dirle che la mia idea era di comprare l’immobile per demolirlo, ma ci ho ripensato e ho deciso di soprassedere. Invece ho detto: una casa così grande, e adesso ci abitano solo due donne. Yardena ha spiegato che sua mamma e sua nonna abitavano nell’ala della casa che dava sul retro e anche lei, quando veniva qui, aveva la sua stanzetta in quella zona. Ti va di continuare, adesso? Non sei stanco? C’era ancora un sacco di stanze chiuse, e visto che ero arrivato io, voleva cogliere l’occasione per darci un’occhiata. Da sola avrebbe avuto un po’ di paura, ma in due no, vero? 
Un che di provocante, quasi di sfida, aveva quella domanda sulla mia stanchezza, e sul fatto che insieme non avremmo avuto paura. Dalla porta di destra ci siamo ritrovati nella stantia, fumosa cucina, con una serie di padelle appese al muro e una vecchia stufa con canna fumaria fatta di mattoni rossi che occupava un lato del locale. Dal soffitto pendevano trecce di aglio e collane di frutta secca. Sul tavolo scuro di legno grezzo c’era un’accozzaglia di stoviglie, taccuini, barattoli di polveri, scatole di sardine, una bottiglia d’olio coperta di polvere, un grande coltello, noci, marmellate e spezie. Sul muro stava appeso un calendario illustrato, ho notato che non era mica di quest’anno. 
Qui, ha detto Yardena, mio padre amava stare accanto alla stufa d’inverno, a scrivere sui suoi quaderni. Adesso invece mamma e nonna usavano il cucinino nell’altra ala della casa, non questa cucina, praticamente abbandonata. Mi ha chiesto se avevo fame, e ha proposto di preparare qualcosa, che ci avrebbe messo un attimo. In effetti avevo un po’ di appetito, nulla in contrario a mangiare una fetta di pane con avocado, cipolla e sale. Ma la cucina mi pareva impraticabile e avevo curiosità di vedere il resto della casa, di inoltrarmi nel suo labirinto. Ho risposto: grazie mille, magari la prossima volta, adesso forse sarebbe meglio continuare il giro, per vedere cos’altro c’è. 
Di nuovo è spuntato nei suoi occhi quel guizzo provocante, lievemente ironico, come se quel che aveva trovato scavando dentro di me non mi facesse propriamente onore. Allora ha detto: andiamo. Di qui. Siamo usciti dalla cucina verso uno stretto corridoio e di lì a sinistra in diagonale su un altro corridoio tutto storto, dove Yardena ha acceso una pallida luce gialla. Mi sentivo un po’ obnubilato, non ero affatto sicuro d’essere capace di ritrovare la via per tornare indietro. Avevo anche l’impressione che Yardena si divertisse a condurmi nei meandri della casa. I suoi piedi scalzi si muovevano con disinvoltura sulle fredde mattonelle di pietra, il suo corpo snello volteggiava quasi, come se stesse danzando sulle punte. In quel corridoio buio era ammassato dell’equipaggiamento da campo - una tenda piegata, dei paletti, dei materassini di gomma, funi e due lanterne affumicate. Come se qualcuno fosse in procinto di partire per qualche giorno di eremitaggio in montagna. Un odore di mobili e polvere stagnava fra gli spessi muri. Quand’ero bambino, avrò avuto otto o nove anni, un giorno mio nonno mi aveva chiuso per un po’ nel magazzino degli attrezzi in cortile perché avevo rotto un termometro. Ricordo le grinfie del freddo e del buio che mi sfioravano: dovetti raggomitolarmi tutto come un feto, in un angolo del locale. 
Quel corridoio storto aveva tre porte chiuse, a parte quella da cui eravamo passati. Yardena ne ha indicata una e ha spiegato che di lì si scendeva in cantina, poi mi ha chiesto se volevo andare a vederla. Ti mettono paura, le cantine? No, ho risposto io, magari lasciamo perdere per questa volta, grazie mille, ma ci ho ripensato subito: in fondo sì, dai, perché no? Val la pena dare un’occhiata. Yardena ha preso una torcia elettrica da un gancio al muro del corridoio e con il piede scalzo ha spinto la porta. L’ho seguita al buio, fra le ombre mobili, contando quattordici gradini. C’era un freddo umido, laggiù, e la torcia in mano a Yardena disegnava sui muri delle sagome spesse. Ha detto: ecco la nostra cantina. Qui teniamo tutto quello che non trova più spazio in casa, qui scendeva ogni tanto papà a prendere un poco di fresco nei giorni torridi come oggi. Nonno ci veniva anche a dormire, fra le botti e le cassette, quando c’era afa. E tu? Hai paura dei posti chiusi? Del buio? Io no, non ho paura. Anzi. Sin da piccola cercavo sempre dei nascondigli nei posti più chiusi e bui. Se compri questa casa, cerca di convincere gli inquilini a non cambiarle la forma. Almeno finché nonna c’è. 
Cambiare? ! E se i nuovi inquilini, invece di modificare la casa, la demoliranno per farci sopra una villa moderna (qualcosa mi ha trattenuto dal dire che presto l’avrei demolita io, la casa)? 
Se avessi i soldi, ha detto Yardena, la comprerei io da mamma e nonna. E la terrei chiusa. Mai e poi mai verrei a stare qui. La comprerei e la chiuderei, che restasse abbandonata a se stessa. Ecco quello che farei. 
Ormai quasi avvezzi al buio, i miei occhi hanno scoperto sui muri della cantina file e file di scaffali con sopra latte e barattoli di cetrioli in salamoia, olive, marmellate, sughi e provviste d’ogni sorta, che non capivo bene che cosa fossero. Come se la casa si stesse preparando a un lungo assedio. Il locale era inoltre stipato di cumuli di sacchi, casse, botti. A destra c’erano tre o quattro botti sigillate, forse di vino, ma vai a sapere. In un angolo c’erano cumuli di libri che arrivavano da terra fin quasi al soffitto. Yardena ha detto che quella cantina l’aveva scavata con le sue mani il padre di suo nonno, Ghedalia Rubin, ancor prima di costruirci sopra la casa. La cantina era parte delle fondamenta e all’inizio la famiglia aveva vissuto lì. Anche la casa non era venuta su tutta in una volta ma nel corso di molti anni: ogni generazione vi aveva aggiunto delle parti nuove, e perciò sembrava costruita senza progetto. Per me, ha detto Yardena, questo insieme alla rinfusa è uno dei segreti del suo fascino: ci si può perdere, ci si può nascondere e, nei momenti di turbamento, ci si può trovare un angolino dove isolarsi. Ti piace stare da solo? 
Le sue parole mi hanno stupito: non riuscivo a capire come si potesse avere bisogno di un angolo tranquillo per isolarsi, in una casa così grande e complicata dove abitavano solo due vecchie, occasionalmente due vecchie e una studentessa scalza. Tuttavia stavo bene lì in cantina, dove la buia frescura si associava chissà come nei miei pensieri a quella sconosciuta escursionista spuntata e quasi subito sparita nel triste giardinetto dietro la Casa della Cultura, insieme allo strano invito del sindaco Benni Avni, e a quel pacco pesante che avevo trovato su una panchina e di cui avrei dovuto fare rapporto a qualcuno, invece me n’ero scordato. 
Ho chiesto a Yardena se la cantina avesse un’uscita diretta sul cortile, lei ha risposto che l’unico accesso era quello per le scale e la porta da cui eravamo passati, ma c’erano altri scalini che portavano su un pianerottolo. Vuoi tornare su? Ho detto di sì, ma subito ci ho ripensato e ho risposto che no, ancora no. Yardena mi ha preso la mano e mi ha portato davanti a una botte, ci si è seduta sopra davanti a me, incrociando le gambe e cercando di tendere il vestito. Adesso, ha detto, tu e io non abbiamo fretta di andare da nessuna parte. Giusto? Allora ti prego dimmi che succederà alla casa dopo che l’avrai comprata tu. 


6. 

Ha posato la torcia accanto a sé sulla botte, con il fascio di luce puntato verso il soffitto. Lassù è spuntata una bolla rotonda, mentre tutto il resto è rimasto nel buio totale. Yardena è diventata un’ombra fra le ombre. E adesso, ha ripetuto, adesso potrei ad esempio spegnere la torcia e scappare via di qui al buio, chiuderti in questa cantina e lasciarti qui per sempre. Mangeresti le olive e i crauti, berresti vino tastando le pareti, finché a un certo punto la batteria della torcia finirebbe. Avrei voluto risponderle che in fondo sognavo sempre di ritrovarmi rinchiuso in una cantina buia, ma ho preferito tacere. In fondo a quel mio silenzio, Yardena ha chiesto: a chi venderai la nostra casa? Chi comprerà una vecchia tana come questa? Vedremo, ho risposto, magari non la rivendo neanche. Magari ci vengo a vivere. Questa casa mi piace. E anche l’inquilina. Magari potrei comprarla insieme all’inquilina, no? 
Io, ha detto Yardena, ogni tanto mi spoglio pian piano davanti allo specchio e provo a immaginare che ci sia un uomo famelico seduto a guardarmi mentre lo faccio. Mi eccitano i giochetti del genere. La luce della torcia è tremolata un momento, come se la batteria fosse esaurita, ma dopo un istante ha ripreso a disegnare sul soffitto un anello di luce ferma. In quel silenzio mi è parso di sentire un vago fruscio, non di qui, forse in una cantina sotto di questa - come un lento e sommesso gorgoglio. Avrò avuto cinque o sei anni, quando i miei genitori un giorno mi portarono a fare una gita, doveva essere in Galilea, e ricordo vagamente un edificio di pietra, tutto coperto di muschio, forse un antico reperto, e anche lì si sentiva in lontananza dell’acqua che scorreva. Mi sono alzato e ho chiesto a Yardena se c’erano altre parti della casa che volesse mostrarmi. Lei mi ha puntato in faccia la torcia, tanto da abbagliarmi, e mi ha chiesto ironicamente se avevo fretta di andare. 
È che non vorrei farti perdere tutta la sera, ho risposto. E poi oggi dovrei ancora finire i conteggi delle imposte. E il cellulare l’ho lasciato sulla scrivania in ufficio, e magari Etti mi sta cercando. Comunque dovrò tornare qui per parlare con tua madre e magari anche con tua nonna. Ma no, hai ragione, in fondo non ho nessuna fretta. 
Ha smesso di accecarmi, e puntato la torcia sul pavimento fra di noi. Neanche io, ha detto quasi con stupore, neanche io non ho nessuna fretta. Abbiamo tutta la sera davanti, e la notte è ancora giovane. Raccontami un po’ di te. Anzi no, meglio di no. Quel che devo sapere già lo so, e quel che non so non mi serve proprio. Qui in questa cantina, ha detto, quand’ero piccola papà mi chiudeva per un’ora o due, se lo facevo arrabbiare. Ad esempio, una volta, avrò avuto otto o nove anni, sono andata alla sua scrivania e ho visto le pagine scritte da lui piene di grosse cancellature, allora ho preso una matita e su ogni pagina ho disegnato un gattino sorridente, una scimmia che faceva una smorfia. Volevo farlo contento. Ma mio padre invece è andato su tutte le furie e mi ha chiuso in cantina al buio, perché imparassi che guai a toccare i suoi scritti, anche solo guardarli. Sono rimasta qui un’eternità, prima che lui mandasse nonna ad aprire e liberarmi. In effetti da allora non tocco, non guardo niente. Non ho letto nessuno dei suoi libri, e quando è morto noi tre - nonna, mamma e io - abbiamo ceduto tutti i suoi quaderni, le carte e i biglietti all’archivio dell’associazione scrittori. Chi aveva voglia di occuparsi di quel lascito. Nonna non ce la faceva a leggere niente sulla Shoah, se la sogna sempre di notte; mamma era arrabbiata con papà, e io non me la sentivo e basta. È solo che non mi piacciono i libri del genere che scriveva lui, non sopporto lo stile. Quando ero al liceo, in classe mi avevano costretto a leggere e ripetere un capitolo di un suo romanzo, e leggendo avevo avuto l’impressione, come dire, di soffocare, come se mi trovassi insieme a lui sotto la sua coperta, con gli odori del suo corpo, senza luce né aria. Da allora non ho più letto nulla di lui, non ho più cercato di leggere nulla di quel che ha scritto lui. E tu? 
Ho risposto che ci avevo provato una volta, a leggere un romanzo di Eldar Rubin, dopo tutto era di qui, del nostro paese, e tutti erano orgogliosi di lui, ma non ero riuscito a finirlo. Io leggo libri gialli, inserti economici dei giornali e ogni tanto qualcosa di politica o una biografia. 
Yardena ha detto: hai fatto bene a venire stasera, Yossi. Io ho allungato timidamente una mano e per un attimo le ho toccato la spalla, e visto che lei taceva e non diceva niente, le ho preso la mano e dopo un momento anche l’altra e siamo rimasti così un poco, seduti uno davanti all’altra su due cassette in cantina, mani nelle mani, come se il fatto che entrambi non avessimo letto gli scritti di Eldar Rubin ci rendesse in qualche modo complici. O non il fatto in sé, piuttosto la casa vuota, e il silenzio della cantina e quell’impasto di odori stagnanti. 
Dopo un po’ Yardena si è alzata, e io ho fatto lo stesso. Ha liberato le mani dalla mia presa e mi ha abbracciato, stringendosi a me con tutto il calore del suo corpo, mentre io affondavo la faccia nei suoi capelli castani e lunghi, aspirandone il delicato profumo di shampoo al limone misto a un sentore di sapone. L’ho baciata due volte, sull’angolo degli occhi. Siamo rimasti così, immobili, e io sentivo uno strano miscuglio di desiderio e fratellanza. Vieni, ha detto, adesso saliamo in cucina e ci mangiamo qualcosa, ma ha continuato a stringermi con le braccia, come se il suo corpo non sentisse quello che la bocca mi diceva. Le mie mani le accarezzavano la schiena mentre le sue si stringevano alla mia, sentivo i suoi seni premere contro il petto, e quel senso di solidarietà era ancora più potente dell’eccitazione. Continuavo ad accarezzarle lentamente i capelli, l’ho di nuovo baciata sugli occhi, evitando le labbra come se temessi di dover rinunciare a qualcosa di impagabile. Lei ha nascosto la testa nel mio collo e il calore della sua pelle ha contagiato la mia, destandomi una gioia silenziosa, talmente più forte della passione da tenere a freno i miei istinti. Anche lei mi stringeva senza desiderio, piuttosto come per impedirmi di cadere. 


7. 

Poi in un angolo della cantina abbiamo trovato la vecchia carrozzella del padre paralitico, lo scrittore Eldar Rubin, imbottita di cuscini ormai stinti e con due grandi ruote dai cerchioni di gomma. Yardena mi ha fatto sedere lì e ha cominciato a portarmi avanti e indietro per la cantina, dalle scale alla montagnola di sacchi, dagli scaffali di verdure in conserva sino ai cumuli di libri in fondo. E intanto rideva, e diceva: adesso posso farti tutto quel che mi pare. Anche io ridevo, e le chiedevo che cosa aveva in mente di farmi. Yardena ha risposto che voleva addormentarmi, farmi dormire beatamente qui in cantina. Dormi, ha detto, buona notte: la sua voce aveva un tono dolceamaro, mentre pronunciava questa breve frase. Poi ha cominciato a cantarmi una ninnananna che non sentivo dai tempi della mia infanzia, una ninnananna strana, assurda, su spari e incursioni notturne, su un padre a cui sparano e una mamma che fra poco andrà anche lei a fare la guardia, brucia l’aia di Tel Yosef e anche Bet Alfa è in fumo, ma tu non piangere, dormi piccino dormi. 
Quella nenia era, chissà poi perché, intonata alla casa in cui ci trovavamo, e in particolare a quella cantina e a Yardena, che continuava a trasportarmi pian piano in giro per il locale, passandomi ogni tanto una mano sul capo e sul viso o un dito sulle labbra, tanto che davvero una piacevole spossatezza mi ha invaso tutto il corpo e, se non fosse stato per una vaga percezione di pericolo che scavava sotto quel torpore e mi negava il sonno, avrei anche chiuso gli occhi. Ho abbassato il mento sul petto e ho vagato col pensiero a quella sconosciuta che avevo intravisto vicino al monumento al parco della Memoria, dietro la Casa della Cultura, quell’escursionista vestita da alpinista con lo strano cappello pieno di spille e fibbie, che mi aveva squadrato con disprezzo e poi, quando mi ero voltato, era sparita improvvisamente, come se non fosse mai esistita. Io questa casa la comprerò, costi quel che costi, ho deciso da dentro quel soave torpore, la compro e la butto giù anche se mi piace da morire. Avevo insomma maturato la certezza che questa casa dovesse essere distrutta, anche se era quasi l’ultima superstite e ben presto a Tel Ilan non sarebbe rimasta più traccia delle origini. La scalza Yardena mi ha baciato sul capo e mi ha lasciato sulla sedia a rotelle: allontanandosi in punta di piedi, quasi danzando da sola, è risalita per le scale. È uscita con la torcia, ha chiuso la porta e io sono rimasto sulla sedia, immerso in una quiete profonda. Sapevo che andava tutto bene, e che non dovevo correre da nessuna parte. 


Si aspetta 
  
1. 

Con ormai più di cent’anni di storia, Tel Ilan era circondato di piantagioni e frutteti, mentre i declivi delle colline a Oriente erano coperti da vigneti. Oltre la strada d’accesso in paese, c’erano filari e filari di mandorli. I tetti di tegole erano immersi nel verde intenso delle fronde di alberi secolari. Molti qui lavoravano ancora nei campi e impiegavano manodopera straniera che abitava in casotti situati nei giardini sul retro. Ma alcuni abitanti avevano ormai dato in affitto i terreni e si mantenevano con il Bed and Breakfast, le gallerie d’arte, le boutique alla moda e altri lavori fuori. In centro avevano aperto due ristoranti tipici e una vineria a conduzione familiare, oltre a un negozio di acquari. Uno del posto aveva fondato una piccola ditta di mobili in stile. Il sabato il paese si riempiva di visitatori, chi veniva per mangiare e chi per comprare cianfrusaglie. Durante la settimana, invece, a mezzogiorno il paese pareva deserto perché la gente si chiudeva in casa a riposare, con le persiane chiuse. 
Benni Avni, sindaco di Tel Ilan, era un uomo allampanato, con le spalle curve, un poco trasandato nel vestire, con un maglione lungo e troppo largo che gli dava un’aria goffa. Aveva un passo deciso, un po’ teso in avanti, come se camminasse sempre controvento. Il viso era piacevole, la fronte alta, le labbra delicate e gli occhi scuri dall’espressione attenta e curiosa, che parevano dirti: ti voglio bene e vorrei tanto che mi parlassi un po’ di te. Ma era bravo anche a dire di no, facendo in modo che il destinatario del rifiuto non se ne rendesse quasi conto. 
Un venerdì di febbraio, all’una, Benni Avni era seduto nel suo ufficio al municipio, e stava rispondendo ad alcune lettere dei cittadini. Tutti gli impiegati erano già andati a casa, perché il venerdì il comune stava aperto fino alle dodici. Dopo quell’ora, quando ormai gli uffici erano chiusi, Benni Avni si dedicava a rispondere personalmente a tutte le lettere che gli arrivavano. Ora gliene restavano ancora due o tre, dopo di che sarebbe andato a casa a mangiare, farsi una doccia e dormicchiare per il resto del pomeriggio. La sera Benni Avni e sua moglie Nava erano invitati alla serata canora a casa di Dalia e Abraham Levin, in fondo al vicolo chiamato alzata del Pozzo. 
Mentre stava rispondendo, a mano, alle ultime lettere, qualcuno bussò timidamente alla porta della stanza che fungeva da ufficio provvisorio, ammobiliato solo da una scrivania, due sedie e uno scaffale per i documenti, perché al municipio erano in corso ormai da alcuni mesi dei lavori di ammodernamento. Benni Avni disse: prego, e alzò gli occhi dai fogli. Nella stanza entrò un ragazzo arabo di nome Adel, uno studente o ex studente che viveva e lavorava a casa di Rahel Franco in fondo al paese, accanto al filare di cipressi che costeggiava il cimitero. Benni lo conosceva. Sorrise amabilmente, lo guardò con i suoi occhi buoni e disse:  
Accomodati. 
Adel, un ragazzo occhialuto, mingherlino e molto riservato, rimase in piedi a due passi di distanza dalla scrivania del sindaco. Chinò rispettosamente il capo e si scusò:  
Di sicuro disturbo. Ora l’ufficio è già chiuso.  
Benni Avni disse:  
Non importa. Accomodati. 
Adel esitò un attimo, poi si sedette in punta alla sedia, senza appoggiare la schiena, e disse: 
Ecco. Sua moglie mi ha visto che andavo in centro e mi ha detto di passare da lei e consegnarle una cosa. Per meglio dire, una lettera. 
Benni Avni tese la mano e prese il foglietto che Adel gli stava porgendo. 
Dove l’hai vista? 
Vicino al parco della Memoria. 
In che direzione stava andando? 
Non andava. Era seduta sulla panchina. 
Adel si alzò, sempre più titubante, chiese se aveva ancora bisogno di lui, Benni Avni sorrise e, sollevando le spalle, rispose che non c’era bisogno di nulla, Adel disse grazie tante e uscì con la schiena curva. Benni Avni aprì il foglietto piegato, strappato via dal quaderno della cucina. Ci trovò scritte nella grafia pacata e tondeggiante di sua moglie, queste poche parole: 
Non preoccuparti per me. 
Quelle parole lo lasciarono esterrefatto. Ogni giorno puntualmente lei lo aspettava a casa per pranzo: lui arrivava all’una mentre lei, che faceva la maestra elementare, finiva di lavorare già alle dodici. Nava e Benni si amavano ancora, dopo diciassette anni di matrimonio, ma nella vita di tutti i giorni regnava fra loro quasi sempre una certa reciproca cortesia mista a una larvata insofferenza. Lei non gradiva la sua attività pubblica e il suo ruolo in comune, che lo inseguivano sin dentro casa, né sopportava la sua democratica cordialità, che riservava indistintamente a chiunque. Lui, dal canto suo, era un po’ stufo della sua enfatica passione artistica e delle statuette di ceramica che faceva e cuoceva in un apposito forno. L’odore dell’argilla bruciata di cui s’impregnavano a volte i suoi vestiti, proprio non gli piaceva. 
Benni Avni fece il numero di casa e lasciò squillare il telefono otto, nove volte, prima di rassegnarsi al fatto che effettivamente Nava non c’era. Trovava molto strano che lei fosse uscita proprio all’ora di pranzo, e ancor più strano l’invio di quel biglietto con un messo, senza neanche prendersi il disturbo di dirgli dov’era andata né quando sarebbe tornata. Il biglietto era irricevibile e quel messo gli sembrava improbabile. Eppure, non era minimamente preoccupato. Nava e lui si premuravano sempre di lasciarsi dei brevi messaggi sotto il vaso in soggiorno se uscivano senza averlo comunicato preventivamente. 
Benni Avni finì dunque di scrivere le ultime due lettere, una ad Ada Devash a proposito dello spostamento dell’ufficio postale e l’altra al tesoriere del municipio sul diritto alla pensione di un impiegato; archiviò la posta in entrata, infilò tutte le sue lettere nella casella della posta in uscita, controllò finestre e persiane, mise il suo giaccone tre quarti scamosciato, chiuse a chiave a doppia mandata il suo ufficio e se ne andò. Aveva in mente di passare dal parco della Memoria, prendere Nava alla panchina dove forse era ancora seduta, e tornare a casa insieme a lei per pranzo. Però, appena uscito dall’ufficio si voltò e tornò indietro perché gli sembrava d’aver dimenticato di spegnere il computer o forse la luce accesa in bagno. Ma il computer era spento e la luce in bagno pure, così Benni Avni chiuse di nuovo la porta a doppia mandata e partì alla ricerca di sua moglie. 


2. 

Nava non era sulla panchina al parco della Memoria né altrove. In compenso Adel, lo studente mingherlino, se ne stava lì tutto solo con un libro aperto e capovolto in grembo: invece di leggere guardava la strada con sopra la testa uno stormo di rondini che garrivano fra gli alberi. Benni Avni gli mise una mano sulla spalla e gli chiese gentilmente, quasi con il timore di fargli male: Nava non era qui? Adel rispose che prima sì, ma adesso non c’era più. Lo vedo che non c’è più, disse Benni Avni, ma pensavo che magari tu sapessi in quale direzione s’è allontanata. Adel rispose: 
Mi scusi. Mi dispiace molto. 
Benni Avni disse allora: 
Tutto ok. La colpa non è tua. 
S’incamminò verso casa, passando dalla via della Sinagoga e via delle Tribù d’Israele. Teneva un’andatura obliqua, testa e spalle tese in avanti come se dovesse fronteggiare un invisibile ostacolo. Chiunque incontrasse lo salutava cordialmente, perché Benni Avni era un sindaco simpatico e bene accetto da tutti. Lui ricambiava i saluti con un sorriso gentile, chiedeva notizie, s’informava, e a volte spiegava che al marciapiede rotto si sarebbe presto rimediato. Tutti stavano tornando a casa per pranzo e per il pisolino del venerdì: ben presto le vie del paese sarebbero state deserte. 
La porta esterna non era chiusa a chiave, in cucina la radio era ancora accesa, a basso volume. Qualcuno stava parlando dello sviluppo della rete ferroviaria e dei vantaggi della comunicazione su binari rispetto a quella su strada. Benni Avni cercò invano un bigliettino di Nava al solito posto, sotto il vaso in soggiorno. In compenso, sul tavolo della cucina lo aspettava il suo pranzo, coperto da un piatto perché non si raffreddasse: un quarto di pollo, purea di patate, carote bollite e piselli. Accanto al piatto c’erano coltello e forchetta, sotto il coltello anche il tovagliolo ripiegato. Benni Avni mise il piatto nel microonde per due minuti perché, malgrado la protezione, il cibo si era raffreddato. Intanto, prese dal frigo una bottiglia di birra e si riempì il bicchiere. Poi si sedette e mangiò di buon appetito, ma senza badare al sapore perché continuava a sentire la radio, che ora mandava musica leggera con delle lunghe pause pubblicitarie. Durante una di queste interruzioni gli parve di sentire i passi di Nava in cortile, lungo il sentiero d’ingresso. Si alzò e andò alla finestra della cucina, guardò a lungo fuori ma il cortile era deserto e fra i rovi e i rottami si vedevano solo la stanga di un carretto smontato e due ruote arrugginite. 
Finito di mangiare, mise le stoviglie nel lavello e andò a farsi una doccia. Mentre si dirigeva in bagno, spense la radio. Un silenzio profondo calò su tutta la casa. Ora si sentiva solo il ticchettio dell’orologio a muro. Le due figlie gemelle dodicenni, Yuval e Inbal, erano in gita scolastica in Galilea. La loro stanza era chiusa e lui, passando, aprì la porta per darci un’occhiata. Le persiane erano serrate, nell’aria c’era un vago sentore di sapone da bucato e stiratura. Chiuse delicatamente la porta ed entrò in bagno. Si tolse camicia e pantaloni. Rimasto in mutande ebbe un ripensamento, andò al telefono. Non che avesse la minima preoccupazione, però si domandava dove fosse sparita Nava e perché non lo avesse aspettato, come al solito, per pranzo. Chiamò dunque Ghili Steiner e le chiese se per caso Nava era da lei. Ghili rispose: 
No, affatto. Perché? Ti ha detto che veniva da me? 
Benni Avni rispose: 
No, non ha detto niente. 
Ghili allora: 
L’emporio chiude alle due. Forse ha fatto un salto lì. 
Benni Avni disse: 
Grazie, Ghili. Tutto ok. Tornerà fra poco, sicuro. Non sono mica preoccupato. 
E tuttavia si mise a cercare il numero dell’emporio di Victor. Il telefono squillò a lungo senza che nessuno venisse a rispondere. Alla fine dalla cornetta sbucò la voce nasale da tenore del vecchio Lieberson, che rispose con un tono cantilenante: 
Sì, prego. Parla Shlomo Lieberson del negozio. In cosa posso esserle utile? 
Benni Avni chiese di Nava e il vecchio Lieberson rispose tristemente: 
No, compagno Avni, mi dispiace, la tua bella moglie proprio non s’è vista qui, oggi. Non abbiamo goduto il privilegio del suo volto radioso. E dubito che lo avremo ancora, oggi, visto che fra dieci minuti chiudiamo e andiamo a casa ad accogliere il santo sabato. 
Benni Avni tornò in bagno, si tolse la biancheria, regolò la temperatura dell’acqua e rimase a lungo sotto la doccia. A un certo punto gli sembrò di sentire il cigolio della porta. Così, mentre si asciugava, gridò: Nava? Ma non ottenne alcuna risposta. Si mise della biancheria pulita e un paio di pantaloni beige, uscì e passò in rassegna prima la cucina, poi il soggiorno, l’angolo della televisione e la camera da letto e anche la veranda chiusa, che era il laboratorio di Nava. Qui lei restava a lungo a creare figurette con l’argilla, creature immaginarie e omini minacciosi dagli zigomi squadrati, a volte con il naso rotto. Tutte queste opere Nava le cuoceva nel forno che aveva messo nel magazzino. Così ora lui andò anche lì, accese la luce e strizzò gli occhi un momento, ma vide solo quelle statuette deformi e il forno spento circondato da ombre scure capovolte sugli scaffali impolverati. 
Benni Avni si chiese se era proprio il caso di andare a riposare senza aspettarla. Tornò in cucina a mettere i piatti in lavastoviglie, chissà che dai piatti sporchi dentro non ci fosse modo di capire se Nava aveva pranzato da sola prima di uscire o se doveva ancora mangiare. Ma essendo la macchina già quasi piena di stoviglie da lavare, risultava impossibile capire quali aveva eventualmente usato Nava per pranzo, e quali stavano lì dentro già prima. 
Sui fornelli c’era una pentola con del pollo cotto. Nemmeno da lì c’era modo di accertare se Nava avesse pranzato e lasciato quel pollo per l’indomani, o se fosse uscita senza mangiare. Benni Avni si sedette al telefono e fece il numero di Batia Rubin, per chiederle se per caso Nava era lì. Ma il telefono squillò dieci, quindici volte e nessuno rispose. Benni pronunciò fra sé e sé le parole “be’, insomma” e andò in camera da letto a schiacciare un pisolino. Accanto al letto c’erano le pantofoline colorate di Nava, un po’ consumate sui tacchi, sembravano due barchette. Restò disteso un quarto d’ora, forse meno, a fissare il soffitto. Nava era un tipo permaloso e col passar del tempo lui aveva imparato che ogni tentativo di rabbonirla con le parole non faceva che peggiorare la situazione. Per questo di solito preferiva trattenersi e lasciare che il tempo cancellasse o mitigasse il senso d’offesa. Anche lei si tratteneva, ma non per questo dimenticava. Una volta la sua cara amica, la dottoressa Ghili Steiner, le aveva suggerito l’idea di fare una piccola mostra delle sue statuette nella galleria del municipio. Benni Avni aveva gentilmente promesso che avrebbe preso in considerazione la cosa e avrebbe risposto in merito, ma alla fine aveva deciso che sarebbe stato di cattivo gusto, sul profilo pubblico: i lavori di Nava in fondo erano niente più che roba da dilettanti, e l’esposizione si poteva allestire anche in un corridoio della scuola dove lei insegnava, invece che nella galleria del municipio, evitando così le malelingue su favoritismi ecc. ecc. Nava non aveva fiatato, ma per alcune notti era rimasta a stirare in camera da letto fino alle tre, anche le quattro di mattina. Aveva stirato tutto, persino gli asciugamani e le coperte dei letti. 
Venti minuti dopo, Benni Avni si alzò di scatto, si rivestì, scese in cantina, accese la luce mettendo così in fuga un esercito di scarafaggi, controllò casse e valigie, tastò il trapano elettrico, batté sulla botte di vino che mandò un’eco sorda, spense la luce, salì in cucina, esitò un momento, poi indossò il giaccone tre quarti di pelle scamosciata sopra il goffo maglione, e uscì di casa senza chiudere a chiave. Camminava di buona lena, curvo in avanti come se avesse da lottare contro un forte vento, e partì alla ricerca di sua moglie. 


3. 

Il venerdì pomeriggio non c’è quasi mai nessuno per strada, in paese: tutti si godono il breve riposo, in previsione delle energie necessarie per affrontare la serata. Era una giornata grigia e umida, delle nuvole basse sfioravano i tetti delle case e dei lembi di nebbia aleggiavano sulle strade deserte. Ai due lati della via, dietro le persiane chiuse le case erano avvolte in una specie di sonnolenza. Il vento pomeridiano di febbraio trasportò un brandello di giornale su e giù per la via, Benni si chinò a raccoglierlo e lo mise in un bidone della spazzatura. Un grosso cane bastardo lo placcò davanti al giardino dei Primi e cominciò a seguirlo ringhiando e mugugnando e mostrandogli i denti. Benni inveì ma quello s’infuriò e sembrò sul punto di aggredirlo. Allora Benni si chinò, raccolse un sasso e lo brandì per aria. Il cane si allontanò con la coda fra le gambe, ma poi riprese a seguirlo, a distanza di sicurezza. I due percorsero così la via deserta, separati da una decina di metri, poi svoltarono in via dei Fondatori. Dato che era l’ora del pisolino, le case tenevano chiuse quasi tutte le vecchie persiane di legno dipinto di verde ormai sbiadito, con qua e là qualche listella storta o staccata. 
Nei cortili che un tempo erano le aie delle fattorie e adesso non servivano più, Benni Avni scorgeva una piccionaia abbandonata, un ovile trasformato in deposito, la carcassa di un vetusto furgoncino mezza affondata nell’erba incolta vicino a una tettoia di lamiera, una cuccia disabitata. Davanti alle facciate delle case svettavano alte palme. Anche loro una volta ne avevano due, molto vecchie, ma quattro anni prima Nava gli aveva chiesto di tagliarle, perché il fruscio delle foglie contro la finestra della camera da letto le disturbava il sonno la notte, procurandole malumore e malinconia. 
In alcuni giardini fiorivano il gelsomino e l’asparagina, in altri c’erano solo erbacce disseminate fra alti pini che confabulavano con il vento. Benni Avni attraversò tutta via dei Fondatori e via delle Tribù d’Israele con la sua falcata tesa in avanti, passò davanti al parco della Memoria, rimase un attimo presso la panchina dove, così gli aveva detto Adel, era seduta Nava mentre gli aveva chiesto di prendere il biglietto con le parole “non preoccuparti per me” e portarlo a Benni nel suo ufficio temporaneo al municipio. 
Durante la sosta davanti alla panchina, anche il cane che aveva alle calcagna si fermò, a una decina di metri da lui. Ora non ringhiava più né mostrava i denti, e invece fissava Benni con uno sguardo intelligente e curioso. Nava era rimasta incinta quando loro due erano ancora all’università a Tel Aviv, lei frequentava il magistero e lui studiava economia e commercio. Avevano deciso di comune accordo che quella gravidanza era indesiderata e che bisognava interromperla. Ma due ore prima dell’appuntamento, previsto per le dieci del mattino, in uno studio medico privato in via Reines, Nava era stata presa dai rimorsi e avrebbe voluto ripensarci. Aveva posato la testa sul suo grembo ed era scoppiata a piangere. Lui però non si era impietosito, l’aveva invitata a essere ragionevole, perché non c’era altro da fare, e in fondo tutta la faccenda era un po’ come farsi cavare un dente del giudizio. 
Poi l’aveva aspettata in un caffè davanti allo studio, leggendo due giornali, compreso il supplemento sullo sport. Dopo meno di due ore Nava era venuta fuori pallida come un cencio, ed erano tornati nella loro stanza della residenza studentesca con un taxi. Sei o sette studenti chiassosi, ragazzi e ragazze, stavano aspettando Benni in camera loro, per una riunione fissata da tempo. Nava si era distesa nel letto in un angolo della stanza e aveva cercato di coprirsi fin sopra la testa, ma la discussione, le urla, le battute e il fumo di sigaretta la disturbavano. Era debolissima e aveva tanta nausea, così era andata verso il bagno barcollando e appoggiandosi al muro. Le girava la testa e aveva male, perché stava passando l’effetto dell’anestesia. In bagno aveva scoperto che qualcuno aveva vomitato per terra e sull’asse del gabinetto. Non ce l’aveva più fatta, aveva rimesso anche lei. Era rimasta a lungo lì a piangere in piedi, le mani contro il muro e la faccia premuta sopra, e dopo che l’invadente gruppetto se n’era andato, Benni l’aveva trovata in bagno tutta tremante e sorreggendola per le spalle l’aveva condotta al letto. Due anni più tardi si erano sposati ma Nava non riusciva a restare incinta. Si era rivolta a diversi medici che le avevano prescritto varie terapie. Erano passati altri cinque anni prima che venissero al mondo le gemelle, Yuval e Inbal. Di quel pomeriggio nella stanza da studenti a Tel Aviv, Nava e Benni non avevano mai parlato. Come se si fossero messi d’accordo che non era il caso di rivangare. Nava ora insegnava a scuola e durante le ore libere lavorava nella veranda chiusa, creava i suoi mostriciattoli e quei grugni con il naso rotto che cuoceva nel forno giù al laboratorio. Benni Avni era stato eletto sindaco di Tel Ilan e quasi tutti i concittadini avevano simpatia per lui e lo apprezzavano perché sapeva ascoltare tutti ed era una persona affabile. Era peraltro molto bravo a convincere il prossimo a fare come voleva lui, senza quasi rendersene conto. 


4. 

All’angolo con via della Sinagoga si arrestò un momento e si voltò per vedere se il cane lo seguiva ancora. Questi si fermò davanti a un cancello, con la coda fra le gambe e la bocca leggermente aperta, a fissare Benni con uno sguardo di curiosa indulgenza. Benni lo chiamò a bassa voce: vieni qui. Il cane drizzò le orecchie e lasciò penzolare la lingua rosa. Sembrava interessato a Benni, ma preferiva mantenere le distanze. Fuori non c’era anima viva, nemmeno un gatto, un passerotto: solo lui, il cane e le nuvole basse fin quasi sulle fronde dei cipressi. 
Vicino alla torre dell’acqua sospesa su tre piloni di cemento c’era il rifugio antiaereo pubblico, Benni Avni saggiò la porta di metallo e s’accorse che non era chiusa. Scese per i dodici gradini. Un alito umido e muffoso sfiorava la pelle, poi trovò a tentoni l’interruttore della corrente, che però era staccata. E tuttavia entrò dentro, al buio, tastando fra le cose irriconoscibili - un cumulo di materassi o forse brandine pieghevoli, e un mobile rotto. Inspirò fin dentro i polmoni l’aria densa, si fece strada a tentoni nel buio, tornò alle scale e provò ancora, ma di nuovo invano, l’interruttore della luce. Poi chiuse la porta di ferro e tornò sulla strada deserta. 
Il vento era quasi cessato ma la nebbia era più fitta e ora offuscava i contorni delle vecchie case, alcune delle quali costruite più di cent’anni fa. L’intonaco dei muri era scrostato e si andava sempre più sbriciolando, lasciando qua e là delle chiazze grigie a vista. Nei giardini c’erano dei vecchi pini, grigi anch’essi, e fra una casa e l’altra si stagliava una barriera di cipressi. Ogni tanto si vedeva una falciatrice tutta arrugginita, o un mastello immerso in una giungla di vegetazione selvatica, ortiche, convolvolo e gramigna. 
Benni Avni fischiò basso al cane ma quello teneva ancora le distanze. Davanti alla sinagoga, costruita all’epoca della fondazione del paese, all’inizio del Ventesimo secolo, c’era la bacheca con sopra appesa la locandina del cinema locale e anche la pubblicità di una cantina, accanto a degli annunci del comune, con la sua firma in calce. Benni si fermò a guardare quelle comunicazioni, che chissà perché in quel momento gli parvero incongrue, o del tutto superflue. Per un attimo ebbe l’impressione che una figura gobba stesse passando all’angolo della via, ma più da vicino si accorse che erano solo delle piante nella nebbia. In cima alla sinagoga c’era un candeliere di metallo e sulla porta erano incisi dei leoni e delle stelle di David. Salì per i cinque gradini e verificò che la porta era chiusa, sì, ma non a chiave. Nella sala l’aria era fresca ma intrisa di polvere, ed era quasi buio. Sopra l’arca santa coperta da un arazzo s’intravedeva, illuminata da un pallido lumicino elettrico, la scritta biblica “Ti ho posto dinnanzi a me per sempre”. Benni Avni passeggiò per qualche minuto fra le panche, poi salì al matroneo. Sui sedili erano sparpagliati dei vecchi libri di preghiera con la copertina nera. Alle narici gli arrivava un odore di sudore stagnante frammisto a quello che hanno i cuscini stantii. Toccò una panca, perché per un attimo gli era parso di vederci sopra qualcosa - una sciarpa o una maglia. 
Uscito dalla sinagoga, Benni Avni ritrovò il cane che lo aspettava in fondo ai gradini. Batté con un piede e disse: e vai. Sparisci. Il cane, che aveva il collare e la piastrina con il numero identificativo, piegò un poco la testa, aprì la bocca e ansimò, come in paziente attesa di una spiegazione. Ma questa non arrivò. Benni si diresse per la sua strada, le spalle curve e il maglione troppo lungo che spuntava sotto al giaccone tre quarti di pelle scamosciata. Camminava di buon passo, il corpo piegato in avanti, come la prua di una nave che fende le onde. Il cane non lo mollò, pur continuando a mantenere le distanze. 
Dove sarà finita? Magari era passata a trovare un’amica e si era trattenuta, dimenticandosi di tornare a casa. Forse era rimasta a scuola per una faccenda urgente. Forse era all’ambulatorio medico. Qualche settimana prima, durante una lite, Nava gli aveva detto che la sua cordialità era soltanto una maschera, sotto la quale c’era un gelo siberiano. Lui non le aveva risposto, si era limitato a sorridere amabilmente, come faceva sempre quando lei era arrabbiata con lui. Nava era uscita dai gangheri e aveva detto: a te non t’importa di niente. Né di noi né delle bambine. Lui aveva continuato a sorridere, posandole una mano sulla spalla per calmarla, ma lei se l’era scrollata via di dosso con un gesto brusco ed era uscita sbattendo la porta. Dopo un’ora lui le aveva servito una tazza di tisana calda con miele, lì al suo rifugio nella veranda chiusa che le serviva da laboratorio. Gli era parso che le stesse venendo un leggero raffreddore. Non era niente del genere, ma Nava aveva preso la tazza e con un tono mite gli aveva detto: 
Grazie, ma è davvero superflua. 


5. 

E se, mentre lui stava girando per le strade deserte nella nebbia, lei fosse rientrata a casa? Per un momento prese in considerazione l’eventualità di tornare sui propri passi, ma il pensiero della casa vuota, e soprattutto la loro stanza con le sue pantofole colorate che sembravano delle barchette, lì ai piedi del letto, lo sconvolse. Decise pertanto di continuare e, spalle curve in avanti, proseguì il cammino lungo via della Vigna e via Tarpat, finché non arrivò alla scuola elementare dove Nava insegnava. Appena un mese prima, aveva ingaggiato una dura battaglia in consiglio comunale e al ministero dell’Istruzione, riuscendo infine a ottenere dei fondi per la costruzione di quattro nuove aule e una spaziosa palestra. 
I cancelli di ferro della scuola erano già chiusi per il fine settimana. Una cinta di ferro con delle bobine di filo metallico stava tutt’intorno all’edificio e al cortile. Benni Avni fece il giro per ben due volte, prima di trovare un punto da cui potersi arrampicare per entrare nel cortile. Sventolò il braccio verso il cane, che lo fissava dal marciapiede opposto, afferrò due stanghe di ferro, si tirò su respingendo con due dita il filo di ferro, e fra un graffio e l’altro saltò giù dall’altra parte, non senza una lieve storta a un piede. Zoppicando un po’ e con la mano sinistra che sanguinava, attraversò il cortile. 
Percorso il cortile entrò nell’edificio dall’ingresso laterale, ritrovandosi in un lungo corridoio su cui s’affacciavano aule da tutti e due i lati. C’era odore di sudore, avanzi di cibo e gesso. Il pavimento era costellato di cartacce e bucce di arance e mandarini. Benni Avni entrò in un’aula che aveva la porta semiaperta e notò sulla cattedra uno straccio impolverato, la pagina strappata di un quaderno con qualche riga di minuta. Si chinò per vedere meglio la scrittura, che effettivamente era femminile ma non di Nava. Benni Avni rimise sulla cattedra il foglio, ormai macchiato del suo sangue, e alzò lo sguardo verso la lavagna, sopra la quale c’era scritto, nella medesima grafia: la vita di campagna è tranquilla in rapporto alla caotica vita di città - da preparare al massimo per mercoledì. Sotto questa frase comparivano le parole: leggere bene a casa i tre capitoli successivi e prepararsi a rispondere a tutte le domande a voce. Sul muro c’erano le foto di Herzl, del presidente della nazione e del capo del governo, oltre ad alcuni cartelli illustrati, uno dei quali diceva che gli amanti della natura rispettano i fiori spontanei. 
I banchi parevano accatastati, come se gli allievi li avessero spinti concitatamente uno sull’altro al primo squillo della campanella. Sui davanzali c’erano delle piantine di geranio dall’aria piuttosto malconcia e trascurata. Di fronte alla cattedra c’era una grande carta della Terra d’Israele con un cerchio verde intorno a Tel Ilan, fra le alture della regione di Manasse. Appeso al gancio c’era un unico, solingo maglione. Benni Avni uscì dall’aula e continuò per un po’ a vagare fra i corridoi deserti, zoppicando leggermente. Le gocce di sangue che colavano dalla mano graffiata lasciavano traccia del suo percorso. Quando arrivò al bagno in fondo al corridoio, le gambe lo spinsero in quello delle femmine. Lo accolse un puzzo non troppo prepotente, che riscontrò essere un po’ diverso da quello che stagna di solito nei bagni maschili. C’erano cinque loculi nei servizi femminili, Benni Avni aprì tutte le porte e controllò che cosa c’era dietro, senza trascurare di dare un’occhiata anche nell’armadio delle pulizie. Poi uscì e tornò sui propri passi, imboccò un altro corridoio, e di lì un altro ancora, finché alla fine trovò la sala insegnanti. Esitò un momento, toccò con un dito la targhetta metallica con la scritta “sala insegnanti - vietato l’ingresso agli studenti senza autorizzazione”. Per un attimo gli parve che ci fosse qualcuno, dietro la porta chiusa: per un verso non voleva disturbare, per l’altro sentiva l’ardente desiderio di farlo. Se non che la sala insegnanti era deserta e buia dato che finestre e tende erano chiuse. 
Due lati della stanza erano interamente coperti da scaffali di libri, in centro c’era un grosso tavolo con una ventina di sedie tutt’intorno. Sopra il tavolo erano sparse tazze da tè e da caffè vuote o semivuote, alcuni libri, un registro di classe, alcune circolari e dei fogli vari. Vicino alla finestra c’era un grosso armadio con un cassetto per ogni insegnante. Trovato quello di Nava Avni, lo prese e lo posò sul tavolo: ci trovò dentro un mucchio di quaderni, una scatola di gessi, un pacco di compresse per il mal di gola e un vecchio astuccio per gli occhiali da sole, vuoto. Meditò un momento e poi rimise il cassetto al suo posto. 
In fondo al tavolo, sullo schienale di una sedia, Benni Avni scoprì ora una sciarpa che gli sembrava familiare, poteva proprio appartenere a Nava, però c’era troppa poca luce per esserne sicuri. Comunque, la prese, ci si pulì la mano sporca di sangue, la piegò e la infilò nella tasca del suo giaccone. Poi uscì dalla sala insegnanti e zoppicando attraversò il lungo corridoio, alla fine del quale svoltò in un altro. Mentre passava buttò l’occhio nelle classi, cercò la porta dell’infermeria, che era chiusa a chiave, lanciò uno sguardo anche nello stanzino vuoto dei bidelli, poi trovò un’uscita diversa da quella per la quale era entrato poco prima. Attraversò sempre zoppicando il cortile, si arrampicò di nuovo sulla cinta, spostando il filo di metallo, e saltò infine giù sulla strada, questa volta procurandosi una bella lacerazione sulla manica del giaccone. 
Si fermò un momento davanti alla scuola, aspettando senza sapere bene che cosa. Poi vide il cane seduto sul marciapiede di fronte che lo guardava con profonda serietà, a distanza di dieci metri. Gli venne in mente di provare ad avvicinarsi per fargli una carezza, ma il cane si alzò, si stiracchiò e s’avviò adagio adagio, sempre attento a mantenere la consueta distanza. 


6. 

Per circa un quarto d’ora, Benni andò zoppicando dietro al cane per le vie deserte, la mano sanguinante che aveva fasciato con la sciarpa a scacchi presa nella sala insegnanti che forse apparteneva a Nava o forse semplicemente assomigliava a una delle sue. Il cielo basso e grigio s’impigliava nelle fronde degli alberi, dei grumi torbidi di nebbia si erano depositati sui giardini. Per un attimo gli parve di sentire qualche gocciolina di pioggia, ma non ne era sicuro e poi non gliene fregava niente. Alzò lo sguardo verso un muro di cinta perché gli era sembrato di vederci un uccello appollaiato sopra, ma da vicino si rivelò una latta vuota. 
Entrò in un vicolo stretto fra due alte siepi di bouganvillea, e per il quale aveva di recente dato ordine di rifare la pavimentazione - una mattina era anche passato a controllare lo stato dei lavori. Dal vicolo i due si ritrovarono di nuovo in via della Sinagoga, il cane davanti a indicare la strada. Ora la luce era qui ancor più grigia di prima. Per un attimo prese in considerazione l’idea di tornare direttamente a casa, magari lei era rientrata ed era andata a riposarsi, stupita dell’assenza di lui, e chissà, magari era anche un poco preoccupata. Ma il pensiero della casa deserta lo spaventava, pertanto zoppicando leggermente continuò a seguire il cane che ora lo precedeva senza guardarsi indietro, con il muso un po’ abbassato, come per fiutare la strada. Fra poco, forse ancor prima di sera, sarebbe cominciato a piovere forte: l’acqua avrebbe dilavato gli alberi impolverati, i tetti e i marciapiedi. Pensò a quel che avrebbe potuto essere e che non sarebbe mai più stato, ma la mente vagava. Nava a volte stava in veranda insieme alle figlie, a guardare gli alberi di limone, a chiacchierare con loro sottovoce. Non aveva idea di quel che si dicevano, nemmeno gli interessava saperlo. Adesso se lo chiese, senza trovare risposta. Aveva l’impressione di dover prendere una decisione, ma nonostante fosse abituato a farlo più volte al giorno, questa volta era in preda ai dubbi, e in fondo non sapeva nemmeno che cosa gli fosse richiesto. Intanto il cane si fermò e si sedette sul marciapiede, a una decina di metri da lui, e lui allora fece lo stesso, proprio davanti al parco della Memoria, usando la stessa panchina dove probabilmente c’era stata Nava, due o tre ore prima, quando aveva chiesto ad Adel di andare nell’ufficio provvisorio del consiglio a consegnargli quel biglietto. Si sistemò in mezzo alla panchina, la mano sanguinante fasciata con la sciarpa, si abbottonò il giaccone per via della pioggerella, e rimase ad aspettare sua moglie. 


Estranei 
  
1. 

E fu sera. Un uccellino cantò due note. Chissà che cosa esprimeva. A tratti veniva il vento. Gli anziani tirarono fuori delle sedie e si sistemarono sulla soglia delle case a studiare i passanti. Ogni tanto una macchina passava e poi spariva dietro la curva. Una donna stava tornando lemme lemme a casa dall’emporio, con la sporta della spesa. Un gruppo di bambini invase la strada poi si allontanò, le loro voci si spensero. Dietro la collina abbaiò un cane, un altro gli fece eco. Il cielo era sempre più grigio e solo a Occidente, fra le ombre dei cipressi, si scorgeva ancora l’ultimo bagliore del tramonto. In lontananza, le montagne erano ormai scure. 
Kobi Ezra, un infelice diciassettenne, stava aspettando dietro un eucalipto con il tronco dipinto di bianco. Era esile, con due gambe a stecchino, la carnagione scura e sul viso quasi sempre spalmata un’espressione di mesto stupore, come se fosse stato appena colto alla sprovvista da qualcosa di brutto. Portava dei jeans sporchi e una maglia con sopra stampata la scritta “Festa dei Tre Giganti”. Era perdutamente ma anche disperatamente innamorato, visto che lei aveva quasi il doppio dei suoi anni, oltre che un fidanzato, ed era chiaro che provava per lui solo una generosa pietà. Sperava tanto che prima o poi lei capisse, ma temeva altresì che i propri sentimenti le facessero schifo. Anche stasera, se il suo tipo non fosse arrivato con l’autocisterna, lui si sarebbe offerto di accompagnarla nel tragitto dall’ufficio postale alla biblioteca, fra un lavoro e l’altro. Chissà mai che stavolta per strada non riuscisse a farle capire qualcosa. 
Ada Devash, impiegata alle poste nonché bibliotecaria di Tel Ilan, era una trentenne divorziata, bassotta e ridanciana, rotondetta e simpatica. I capelli chiari le cascavano fin sulle spalle, più sulla sinistra che sulla destra. Camminando, faceva dondolare i due grossi anelli che penzolavano dalle orecchie. Aveva gli occhi di un castano caldo, con un leggero strabismo che le donava, pareva quasi fosse un vezzo, quel difetto. Tanto in posta quanto in biblioteca lavorava con impegno e diligenza, e si divertiva pure. Amava la frutta estiva e la musica leggera. Ogni mattina alle sette e mezzo era già lì che inventariava la posta in entrata e infilava lettere e pacchi dentro le caselle dei cittadini di Tel Ilan. Alle otto e mezza apriva l’ufficio postale al pubblico. All’una lo chiudeva, andava a casa a mangiare e riposarsi, e tra le cinque e le sette riapriva l’ufficio. Alle sette chiudeva la posta e due volte alla settimana, cioè il lunedì e il mercoledì, andava direttamente ad aprire la biblioteca. Da sola si occupava di pacchi e plichi, telegrammi e raccomandate. Da sola accoglieva con cordialità chi si presentava all’unico sportello per comprare francobolli o carta da lettera per posta aerea, pagare bollette o multe o volturare un veicolo. Tutti apprezzavano la sua disponibilità e se non c’era coda allo sportello si fermavano a far due chiacchiere. 
Il paese era piccolo, non c’era mai un gran traffico in posta. La gente si fermava davanti alla parete con le caselle, all’esterno dell’ufficio, controllava la propria e se ne andava. Trascorreva anche un’ora, un’ora e mezzo senza che nessun utente si presentasse nell’ufficio. Ada Devash stava seduta dietro lo sportello a occuparsi della posta, compilare moduli o ordinare i pacchi in torri regolari. Ogni tanto, così si diceva in paese, veniva a trovarla un tizio sulla quarantina con delle sopracciglia folte senza soluzione di continuità, uno di fuori, alto e massiccio ma un po’ curvo, che indossava sempre una tuta blu e degli scarponi da lavoro. Parcheggiava l’autocisterna davanti alla posta e la aspettava sulla panchina all’ingresso, giocherellando con un mazzo di chiavi che lanciava per aria e riacchiappava al volo con una mano sola. Ogni volta che parcheggiava l’autocisterna davanti all’ufficio postale o davanti a casa di lei, in paese dicevano che l’amico di Ada Devash era di nuovo in luna di miele.  Non era un pettegolezzo cattivo, anzi, affettuoso, perché Ada Devash era benvoluta da tutto il paese. Quattro anni prima, quando il marito l’aveva lasciata, quasi tutti erano stati dalla parte di lei. 


2. 

Con l’ultimo sprazzo di luce, il ragazzo trovò ai piedi dell’eucalipto un bastone con cui, mentre aspettava che Ada Devash finisse il turno alla posta, disegnò per terra alcune figure umane. Gli venivano deformi, come ispirate da un senso di disgusto. Ma siccome era quasi buio, non le vedeva nessuno, a momenti nemmeno lui. Poi cancellò tutto con il sandalo, sollevando una piccola nube di polvere. Cercò dentro di sé le parole adatte per avviare la conversazione con Ada Devash, mentre l’avrebbe accompagnata dalla posta alla biblioteca. L’aveva già fatto due volte, parlando per tutto il tragitto con tale foga del proprio amore per i libri e la musica, che non era riuscito a esprimere alcun sentimento. E se questa volta avesse affrontato l’argomento solitudine? No, perché lei avrebbe potuto fraintendere, pensare che lui volesse alludere al suo divorzio e sentirsi ferita, offesa. La volta precedente lei gli aveva detto che amava la Bibbia, di cui leggeva ogni sera un brano prima di dormire. E se avesse esordito con gli amori della Bibbia? Davide e Mikhal figlia di Saul? Cantico dei Cantici? Siccome però la sua competenza in materia era alquanto limitata, temeva che Ada non vedesse di buon occhio l’atteggiamento di uno che si butta allo sbaraglio in cose di cui non ci capisce niente. Meglio parlarle di animali, un argomento a lui caro. Ad esempio, i riti di corteggiamento di alcuni uccelli canterini. Forse, con il loro aiuto, sarebbe riuscito a darle un segno dei propri sentimenti. Per quanto, che possibilità aveva un ragazzo di diciassette anni con una donna di trenta? Al massimo, sarebbe riuscito a ispirarle un briciolo di pietà. E la pietà sta all’amore quanto la notte al giorno. 
Nel frattempo calò il buio. Alcuni anziani erano ancora appisolati o imbambolati sulla soglia delle loro case, altri stavano piegando le sedie e rientrando. La strada si andava svuotando. Dalle vigne sulle colline intorno al paese si udiva l’ululato degli sciacalli, dai giardini i cani rispondevano abbaiando furiosamente. Uno sparo isolato, attutito dalla distanza, fece tremare l’oscurità. Gli fece eco un largo fiume di cicale canterine. Fra un attimo lei uscirà, chiuderà a chiave l’ufficio postale e si dirigerà verso la biblioteca. Tu spunterai fra le ombre e, come le due volte precedenti, le chiederai se puoi accompagnarla. 
A dire il vero, non aveva ancora finito il libro che lei gli aveva prestato la volta prima, La signora Dalloway, ma voleva chiedergliene un altro perché aveva in mente di passare tutto il fine settimana a leggere. Non ha amici? Amiche? Programmi divertenti? Be’, la verità è che no. Preferisce star chiuso in camera sua a leggere o sentire musica. Ai suoi compagni di classe piace far baccano e starci dentro, nel baccano, a lui invece piace tanto il silenzio. Così le avrebbe detto questa volta, per convincerla che lui è speciale, diverso. Perché diamine devi essere sempre diverso da tutti, gli chiedeva di continuo suo padre: esci, fai un po’ di sport. Sua madre entrava in camera sua e ogni sera controllava che si fosse cambiato le calze. Una volta si era chiuso dentro a chiave. L’indomani suo padre gli aveva sequestrato la chiave. 
Grattò col bastone sul tronco dell’eucalipto spalmato di calce, poi si toccò il mento per controllare che la rasatura di due ore prima tenesse ancora bene. Dal mento si passò la mano sulla guancia e sulla fronte, immaginandosi che quelle dita fossero di lei. Poco prima delle sette arrivò il pullman da Tel Aviv e si fermò davanti al municipio. Dal suo nascondiglio dietro l’eucalipto, Kobi vide la gente che scendeva portando borse e pacchi. Fra loro riconobbe la dottoressa Steiner e anche la sua professoressa, Rahel Franco. Stavano parlando del vecchio padre della professoressa Rahel che era uscito a comprare il giornale e poi aveva smarrito la strada per tornare a casa. Le voci delle due donne arrivarono fino a lui, ma non poté seguire la conversazione, e in fondo nemmeno gli interessava. I passeggeri si dispersero, le voci si spensero in lontananza. Il motore del pullman rombava sempre più distante. Le cicale frinivano di nuovo. 
Alle sette spaccate Ada Devash uscì dall’ufficio postale, chiuse a chiave la porta, e anche il pesante lucchetto all’esterno, controllò la serratura e attraversò la via deserta. Indossava una camicetta estiva che le danzava sul petto e una gonna larga di un tessuto leggero. Kobi Ezra spuntò fuori dal suo nascondiglio e con voce flautata, come per non spaventarla, le disse: 
Sono di nuovo io. Kobi. Posso accompagnarti per un pezzo? 
Ada Devash disse: 
Buona sera. Da quanto tempo sei qui? 
Kobi fu sul punto di mentire, ma chissà perché gli venne fuori la verità: 
Ti aspettavo da mezz’ora. Anche un po’ di più. 
Perché mi aspettavi? 
Così. Tanto per. 
Potevi venire direttamente in biblioteca. 
Certo. Ma mi andava di più aspettare qui. 
Hai portato indietro il libro? 
Non l’ho ancora finito. Sono venuto a chiederne un altro per il fine settimana. Li leggerò tutti e due. E poi, mentre salivano per via dei Fondatori, le raccontò che era quasi l’unico a leggere, della sua classe. Gli altri erano patiti di computer o di sport. Le ragazze, sì, un po’, alcune sì. Ada Devash lo sapeva ma non voleva dirgli che lo sapeva, per non metterlo in imbarazzo. Lui camminava accanto a lei e parlava senza sosta, come per paura che se fosse stato zitto anche solo un attimo, lei avrebbe potuto indovinare il suo segreto. Lei l’aveva già indovinato, e così si stava domandando come fare per non ferire quell’adolescente, ma anche non illuderlo. Dovette trattenersi per non allungare un braccio e fargli una carezza sui capelli corti, a parte un ciuffo dritto e piumoso che gli dava un’aria da bambino. 
Amici non ne hai? Amiche? 
I maschi sono infantili, le femmine non è che vanno matte per i tipi come me. 
E poi inopinatamente aggiunse: 
Anche tu non sei proprio come tutti gli altri. 
Nel buio lei sorrise e si aggiustò la scollatura della camicetta, che era messa un po’ storta. Mentre camminava, i grossi orecchini di legno dondolavano, parevano animati di vita propria. Kobi parlava incessantemente, questa volta del fatto che le persone di valore sono sempre guardate dalla società con diffidenza, persino con disprezzo. Mentre parlava, sentiva montare il desiderio di toccare, anche solo sfiorare, la donna che gli camminava accanto. E in effetti allungò una mano e a momenti raggiungeva la spalla di lei, ma all’ultimo si ritirò stringendo il pugno. Ada Devash disse: 
In questo giardino c’è un cane che una volta è uscito, mi ha inseguito e mi ha mordicchiato la gamba. Dai, facciamo svelto. 
Quando Ada menzionò la gamba, il ragazzo divenne tutto rosso e pensò che meno male che era buio, così non se n’era accorta. E invece lei sì che aveva notato qualcosa: non il suo colorito, piuttosto quell’improvviso silenzio. Quasi commossa, lo sfiorò appena con la schiena e gli chiese com’era il libro che stava leggendo, La signora Dalloway. Kobi riprese a parlare concitatamente del libro, con la voce che saliva e si estendeva, quasi stesse davvero confessando i propri sentimenti. Parlò a lungo de La signora Dalloway e di altri libri e del fatto che la vita ha senso solo se è consacrata a un ideale o a un sentimento intorno al quale gira tutto il resto. Senza un ideale, un sentimento, la vita resta vuota e insulsa e per lui non valeva la pena d’essere vissuta. Ada Devash apprezzò il suo ebraico forbito, ma si domandò se non fosse una delle ragioni che spiegavano la sua solitudine e il fatto che non avesse ancora una ragazza. Mentre lui continuava a parlare, arrivarono alla biblioteca, situata al pianoterra sul retro della Casa della Cultura. Entrarono passando dall’ingresso sul cortile. Erano le sette e venti, la biblioteca apriva alle sette e mezzo. Per questo Ada propose di bere un caffè insieme. Kobi dapprima bofonchiò un no grazie, non è il caso, grazie, ma dopo un attimo ci ripensò e disse: ma sì. Perché no. Grazie. E chiese se poteva dare una mano. 


3. 

La biblioteca era illuminata da un feroce neon bianco. Ada accese il condizionatore, che esordì con un gracchio sommesso. C’era una sala abbastanza modesta, tappezzata di scaffali metallici dipinti di bianco, da cui partivano altre tre corsie di libri parallele, dove la luce al neon era un po’ meno forte che in sala. Vicino all’ingresso c’era un banco con computer, telefono, una pila di quaderni e fascicoli, due di libri e anche un piccolo transistor. 
Ada scomparve fra gli scaffali, nel corridoio in fondo al quale c’erano il lavabo e l’ingresso ai servizi. Riempì il bollitore e lo mise a scaldare. In attesa che l’acqua bollisse, accese il computer e fece accomodare Kobi vicino a sé, dietro il banco. Lui abbassò lo sguardo, e notò che la gonna color limone finiva sopra il ginocchio. Quella vista lo fece diventare di nuovo tutto rosso. Posò le mani in grembo. Poi ci ripensò e le mise conserte sul petto, ma poco dopo le appoggiò sul banco. Lei lo guardò e il suo leggero strabismo all’occhio sinistro le diede un’aria ammiccante, quasi di complicità. Come se gli dicesse: non è grave, Kobi. E lui di nuovo arrossì. 
L’acqua bolliva. Ada Devash preparò due tazze di caffè forte, che addolcì entrambe senza chiedergli come lo voleva. Poi gliene porse una e l’altra la tenne per sé. Guardò la maglia di lui con quella scritta stampata sopra e si domandò di quale festa si trattasse e chi fossero i tre giganti. Erano già le otto meno venti, eppure nessuno era ancora comparso in biblioteca. In fondo al banco c’erano impilati cinque o sei libri nuovi, acquistati la settimana prima. Ada mostrò a Kobi come si inserivano nel computer le nuove accessioni, gli spiegò che ogni libro andava marcato con il timbro della biblioteca, foderato con del nylon rigido e numerato con l’etichetta sul dorso. 
D’ora in poi sarai il vicebibliotecario, disse lei. Poi aggiunse: senti, ma non è che ti aspettano a casa? Per cena? E se sono preoccupati per te? Lo strabismo dell’occhio sinistro danzava come una strizzatina affettuosa. 
Anche tu non hai mangiato. 
Ma io mangio sempre dopo la chiusura della biblioteca. Pesco qualcosa in frigo e mi siedo davanti alla televisione. 
Poi ti riaccompagno. Di qui fino a casa tua. Così non sei da sola al buio. 
Lei gli sorrise e posò una calda mano sul dorso di quella di lui, sopra il banco. 
Non è il caso, Kobi. Abito a cinque minuti di qui. 
Il contatto della sua mano gli procurò un dolce fremito che andava dalla nuca sino in fondo alla schiena. Ma da quella frase intese con orrore che evidentemente il tipo, il conducente dell’autocisterna, la stava aspettando a casa. E se non era già lì, lei comunque immaginava che sarebbe arrivato più tardi. Per questo gli aveva detto che non era il caso che l’accompagnasse. Ma lui avrebbe insistito, l’avrebbe seguita come un cane fino alla soglia di casa, e sarebbe rimasto seduto sulle scale davanti alla porta chiusa. Questa volta, sì, le avrebbe preso la mano per darle la buona notte, e tenendola fra le sue l’avrebbe stretta due volte, non forte, giusto perché capisse. Che brutto che era questo mondo in cui un autista di autocisterna la spuntava solo perché era più grande di te. D’un tratto immaginò quel tizio con le sopracciglia folte e unite che ficcava le mani grassocce dentro la camicetta di lei. Questa scena gli destò desiderio, vergogna, e anche una certa rabbia disperata, e l’impulso a farla soffrire un poco. 
Ada lo guardò di sottecchi e notò qualcosa. Gli propose di fare un giro insieme fra gli scaffali, così gli avrebbe mostrato i loro piccoli tesori, come ad esempio le opere dello scrittore Eldar Rubin, con le correzioni di suo pugno a margine. Ma prima che lui facesse in tempo a rispondere, ecco entrare in biblioteca due attempate signore, una tarchiata e massiccia come una cassa, con dei pantaloni a palloncino e i capelli rossi, mentre l’altra li aveva bianchi e corti, sopra due occhi sporgenti nascosti da spesse lenti. Dovevano fare il cambio dei libri, chiacchierarono un po’ con Ada del nuovo romanzo israeliano di cui tutto il paese stava parlando. Kobi si rifugiò in una corsia di libri dove, su uno scaffale basso, trovò Gita al faro di Virginia Woolf: lo aprì a metà e si mise a leggere lì in piedi una pagina o due, pur di non dover ascoltare quella conversazione. Però le voci delle donne arrivavano fin lì, e ora ne udì una che diceva: secondo me è piuttosto ripetitivo. Scrive sempre lo stesso romanzo, con dei piccoli cambiamenti. La sua amica commentò: anche Dostoevskij e Kafka si ripetono, se è per quello. Ada spiegò con un sorriso: ci sono temi e motivi che uno scrittore continua a ripetere perché evidentemente sono radicati nella sua anima. 
Quando Ada pronunciò le parole “radicati nella sua anima”, Kobi Ezra sentì il cuore che gli si stringeva in petto. In quell’istante ebbe la certezza che lei aveva fatto in modo che lui dal suo nascondiglio sentisse quelle parole, che si era rivolta a lui e non alle donne, per dirgli che l’anima di loro due aveva una radice comune. Immaginò di avvicinarsi, stringerla e posarle il capo sulla propria spalla, visto che lui era una testa più alto. Immaginò anche di sentire i suoi seni premere sul petto e il suo ventre contro il proprio e allora quella fantasia divenne insopportabilmente forte. 
Le due donne se ne andarono ma lui rimase ancora un momento nel suo nascondiglio fra gli scaffali dove aveva scovato Gita al faro, per placare i bollori. Con un tono di voce un po’ più virile del solito, disse ad Ada che l’avrebbe raggiunta fra un momento. Nel frattempo, lei inserì nel computer i titoli dei libri che le due avevano reso e quelli che avevano preso in prestito. 
Poi Kobi e Ada Devash tornarono seduti uno vicino all’altra dietro il banco, come se ora anche lui lavorasse in biblioteca. Nel silenzio che c’era fra loro si udivano solo il borbottio del condizionatore e il ronzio dell’illuminazione al neon. Parlarono un po’ di Virginia Woolf che si era affogata durante la Seconda guerra mondiale. Ada disse che trovava davvero strano suicidarsi durante la guerra, che era quasi inconcepibile il fatto che non avesse neanche un briciolo di partecipazione, un’ombra di curiosità per quel che sarebbe successo, l’ansia di sapere chi avrebbe vinto quella guerra tremenda in cui in un modo o nell’altro tutto il mondo era coinvolto. Non poteva almeno aspettare di vedere se la sua Inghilterra la spuntava o veniva conquistata dai nazisti? Kobi disse: 
Disperava di tutto. 
Ada disse: 
È proprio questo che non capisco. Rimane sempre almeno una cosa che ti è cara e dalla quale non vuoi separarti. Anche solo un gatto, un cane. O la poltrona su cui ti siedi ogni sera. La vista del giardino sotto la pioggia. Il tramonto, alla finestra. 
Tu sei una persona felice. Sei estranea alla disperazione, credo. 
Non proprio, sai. Ma nemmeno mi attira. 
Una ventenne occhialuta dalle cosce grosse varcò l’ingresso della biblioteca. Portava una camicia a fiori e dei jeans attillati, strizzò gli occhi per via della luce al neon, sorrise ad Ada e a Kobi, domandò a Kobi se era il sostituto bibliotecario e chiese aiuto per del materiale sui disordini del Trentasei-Trentanove, detti anche “la rivolta araba”. Ada la condusse agli scaffali di storia locale e alle mensole dedicate al Medio Oriente, dove insieme scelsero qualche volume, per darci un’occhiata. 
Kobi andò al lavello accanto all’ingresso dei bagni a lavare le due tazze. L’orologio sopra il banco faceva le nove meno venti. Anche questa serata passerà senza che tu riesca a trovare il coraggio di confessarti a lei. No, questa volta no, non puoi arrenderti. Quando voi due sarete di nuovo soli in biblioteca, tu le prenderai una mano fra le tue, la guarderai dritto negli occhi e le dirai finalmente tutto. Ma che cosa, esattamente? E se lei dovesse scoppiare a ridere? O al contrario, se si spaventasse e tirasse bruscamente via la mano? Può anche darsi, però, che tu le faccia pietà, tanto da stringerti al petto e accarezzarti i capelli. Come un bambino. La pietà, però, gli parve ancor più terrificante della repulsione. Aveva perfettamente chiaro il fatto che di fronte a uno slancio di compassione lui non avrebbe potuto fare a meno di scoppiare a piangere. Non sarebbe riuscito a trattenere le lacrime. Che bel buco nell’acqua: da alzarsi e fuggire via di corsa, nell’oscurità. 
Intanto, strigliava le due tazze con la salvietta appesa accanto al lavello, perseverando nell’asciugarle anche quando ormai erano perfettamente asciutte. E fissava una falena che continuava a sbattere contro la luce al neon. 


4. 

La ragazza occhialuta ringraziò, salutò e uscì con un sacchetto di plastica pieno di tomi sulla rivolta araba. Ada caricò sul computer i dati di quei libri, copiandoli dalle schede posate sul banco. Spiegò a Kobi che in effetti il regolamento le avrebbe vietato di dare in prestito più di due libri alla volta allo stesso utente, ma quella ragazza doveva preparare una tesina entro dieci giorni. Fra poco, cioè alle nove, spiegò ancora, qui chiudiamo e ce ne andiamo a casa. All’udire le parole “ce ne andiamo a casa”, il cuore di Kobi cominciò a battere all’impazzata, come se quella frase contenesse una segreta promessa. Dopo un attimo si calmò, incrociò le gambe perché il corpo si era di nuovo risvegliato e minacciava di imbarazzarlo. Una voce dentro di lui gli ingiunse: bando alla vergogna, bando allo scherno e alla pietà, tu non mollare. Diglielo. 
Ada. Ascolta.  
Sì. 
Mi permetti di farti una domanda personale? 
Chiedi pure. 
Ti è mai capitato di innamorarti di qualcuno senza alcuna speranza di essere ricambiata? 
Lei capì subito dove voleva arrivare, e per un attimo fu in dubbio fra la simpatia per quel ragazzo e il senso di responsabilità che le imponeva grande prudenza nei suoi confronti. Dietro queste due alternative c’era anche una vaga propensione alla compiacenza. 
Sì. Ma è stato tempo fa. 
E che hai fatto? 
Quello che fanno tutte le donne. Ho smesso di mangiare, piangevo un po’ di notte, prima mi agghindavo e poi ho cominciato a vestirmi in modo sciatto e deprimente, apposta. Finché non è passata. Passa, Kobi, anche se mentre c’è ci sembra che non passerà mai. 
Ma io... 
Entrò un’altra lettrice, una donna sui settantacinque, asciutta ed energica, con una gonna estiva troppo giovanile, due anelli sulle braccia abbronzate e un doppio giro di ambra al collo. Salutò Ada e le chiese incuriosita: 
E chi è questo simpatico ragazzo? Dove l’hai pescato? 
Ada rispose sorridendo: 
È il mio nuovo vice. 
Ma io ti conosco, esclamò la vecchia rivolta a Kobi, tu sei il figlio di Victor Ezra dell’emporio. Fai volontariato qui? 
Sì. Cioè, no. Be’... 
Ada disse: 
È venuto a darmi una mano. Ama i libri. 
La donna rese un romanzo tradotto e chiese in cambio il libro di quell’autore israeliano di cui tutti parlavano, che volevano anche le due di prima. Ada le spiegò che bisognava mettersi in coda, ne avevano solo due copie, erano fuori tutte e due e c’era una lunga lista d’attesa. 
Vuoi che metta anche te in lista, Lisa? Ci vorrà uno, due mesi. 
La donna rispose: 
Due mesi? Fra due mesi quello avrà fatto in tempo a scrivere un altro romanzo, ancor più nuovo! 
Ada la convinse a ripiegare su un bel romanzo tradotto dallo spagnolo. La donna salutò e se ne andò. Kobi disse: 
Antipatica. E pure pettegola. 
Ada non replicò. Stava sfogliando il libro che la vecchia aveva reso. Kobi fu colto tutt’a un tratto da un senso d’irrefrenabile urgenza: il corpo ma anche le sue emozioni stavano montando a livelli insopportabili. Eccoli di nuovo soli loro due. Fra dieci minuti lei gli dirà che è giunta l’ora di chiudere e tutto sarà perduto, e questa volta - forse, per sempre. Tutt’a un tratto prese a odiare quella luce al neon così bianca e accecante, una luce da dentista. Sentì che se non ci fosse stata, forse sarebbe riuscito a dirglielo. 
Dai, facciamo che sei davvero il mio vice, disse Ada, registra tu la scheda del libro che Lisa ha appena preso e anche di quello che ha restituito. Ti mostro come si fa. 
Ma chi si crede di essere, pensò in preda a una rabbia improvvisa. Insomma, non sono mica un bambino che lascia giocare un po’ con il suo computer prima di spedirmi a nanna! È così stupida? Non ha capito proprio niente? Niente? In quel momento gli venne una voglia matta di farle del male, mordere, pestare, strapparle via quegli orecchini, svegliarla. Che capisca, una buona volta! 
Lei s’accorse di avere sbagliato. Gli mise una mano sulla spalla e disse: 
Kobi. Basta. 
Quel contatto gli diede il capogiro, ma lo rattristò anche, perché sapeva che lei voleva solo consolarlo. Lui si voltò, con tutte e due le mani le prese le guance, sotto gli orecchini, le voltò con forza il viso e lo accostò al suo, ma senza trovare il coraggio di avvicinare le labbra. Restò invece così per un lungo momento, con il viso di lei fra le mani e gli occhi fissi sulla sua bocca, che non era aperta ma nemmeno chiusa. Sotto la spietata luce al neon, scoprì in lei un’espressione quale non aveva mai visto prima, che non era né di rammarico né di offesa, ma forse di malinconia. La tenne così per un po’, non con delicatezza, non con forza, la sua bocca davanti a quella di lei e tutto il corpo che tremava di desiderio e di paura. Ada non fece resistenza e non tentò di liberarsi dalla sua presa. Si limitò ad aspettare. Alla fine disse: 
Kobi. 
E poi: 
Dobbiamo andare. 
Allora lui mollò la presa e balzò in piedi, senza staccare lo sguardo da lei. Con le mani tremanti trovò a tentoni l’interruttore nell’angolo: la luce al neon si spense e il buio invase la biblioteca. Adesso, si disse, se non glielo dici adesso te ne pentirai per il resto della vita. Per sempre. Ma ecco che insieme al desiderio e all’emozione che lo saturavano, neutralizzandosi a vicenda, venne anche un’indecifrabile tentazione di proteggerla, difenderla. Da lui. 


5. 

Le sue braccia tese la trovarono immobile dietro il banco. Al buio la strinse - non viso contro viso, ma di lato, con le gambe incollate al fianco di lei. Forte di quel coraggio che regala l’oscurità, la baciò sull’orecchio e sulla tempia, senza però osare voltarsi a cercare le sue labbra. Lei rimase immobile, con le braccia lungo i fianchi, senza fare opposizione ma anche senza collaborare. La mente andò al bambino che le era nato morto dopo cinque mesi di gravidanza, durante un travagliato parto prematuro a seguito del quale il medico le aveva detto che non avrebbe più potuto avere figli. Dopo quell’esperienza erano venuti dei mesi cupi in cui aveva continuato a incolpare il marito della morte del feto anche se quell’accusa non aveva alcun fondamento né senso, a parte il fatto che una sera, poco prima della disgrazia, suo marito voleva fare l’amore e lei no, ma aveva ceduto perché, sin da quando era bambina, ubbidiva quasi sempre se si trovava di fronte a qualcuno che voleva fortemente qualcosa, e soprattutto se quel qualcuno era un uomo. Non perché fosse arrendevole di carattere, piuttosto perché la ferma volontà maschile le dava un senso di sicurezza e fiducia, accompagnato dalla disponibilità, anzi dal desiderio, di cedere. Adesso, dunque, accolse quell’abbraccio laterale del ragazzo senza incoraggiarlo né fermarlo. Rimase immobile, le braccia lungo i fianchi e il capo chino, sospirando sommessamente. Kobi non sapeva decifrare quel sospiro: era di piacere, come aveva sentito nei film, o invece manifestava una mite protesta? Ma il desiderio prepotente, la voglia da diciassettenne dotato di molta fantasia e ancora digiuno in fatto di amore, lo spinse a sfregare le cosce contro i fianchi di lei. E dato che era tutta una testa più alto di lei, le strinse il capo sul proprio petto e sfiorò dolcemente con le labbra i suoi capelli, toccando appena anche un orecchino; come se, con quei baci innocenti, stesse cercando di distrarla da quel che stavano invece facendo le sue cosce. La vergogna non disturbava il piacere, anzi lo accresceva: lui stava distruggendo tutto, questo lo sapeva, stava azzerando e annientando definitivamente tutto quello che forse sarebbe potuto nascere fra lui e la sua amata. Questa devastazione gli dava le vertigini, a un certo punto la sua mano andò a cercare il seno di lei, poi si spaventò e ci ripensò, tornando a stringere le spalle, ma continuò a sfregare le gambe contro i suoi fianchi, finché il piacere montò, lo invase e gli fece tremare la spina dorsale e le gambe: dovette tenersi a lei per non cadere. Poi sentì il ventre che si bagnava e si staccò subito da lei per non sporcarla. Rimase lì fermo al buio, tutto tremante e ansimante, vicinissimo a lei ma senza toccarla, con il viso in fiamme ma quasi battendo i denti, come se facesse freddo. In fondo al silenzio, Ada disse dolcemente:  
Accendo la luce.  
Kobi disse:  
Sì. 
Ma Ada non andò ad accendere la luce. Disse:  
Puoi andarci tu.  
Kobi disse:  
Sì. 
E poi nel buio mormorò:  
Scusa. 
Trovò a tentoni la mano di lei, la prese e se la passò sulle labbra, le chiese scusa di nuovo, cercò la porta e scappò dal buio denso della biblioteca a quello radioso del cielo notturno d’estate. Era sorta una mezzaluna che da sopra la torre dell’acqua spandeva il suo pallido chiarore sui tetti, sugli alberi e sulle colline a Oriente. 
Ada accese le luci al neon e strizzò gli occhi. Con una mano si sistemò la camicetta, con l’altra i capelli. Per un attimo ebbe l’impressione che il ragazzo fosse ancora lì, che si fosse solo ritirato un momento in bagno. Ma la porta della biblioteca era spalancata. Lei seguì il suo percorso, varcò la soglia e si fermò sulla scala esterna, inspirando a pieni polmoni l’aria frizzante della notte: aveva un vago profumo d’erba tagliata, letame e un fiore dolce che non riusciva a identificare. Ma perché scappi via, si disse dentro di sé, perché sei andato via, piccino, perché ti sei spaventato? 
Tornò nella sala della biblioteca, spense il computer e il condizionatore, staccò anche le accecanti luci al neon, chiuse a chiave la porta e si diresse a casa. La accompagnavano i gracidii delle rane, il frinire delle cicale e un alito di vento che portava con sé sentore di terra e rovi. Forse il piccino era di nuovo in agguato dietro un albero, forse si sarebbe offerto di accompagnarla, e questa volta chissà, magari avrebbe trovato il coraggio di prenderle la mano o anche di cingerle i fianchi con un braccio, chissà? Le sembrava di sentire intorno a sé anche il suo odore - sapeva di pane nero, sapone e sudore. Era certa che non sarebbe più tornato da lei, né quella sera e con tutta probabilità nemmeno in futuro. Le dispiaceva per la sua solitudine, i rimorsi e la vergogna - tutto inutile. Eppure sentiva anche una inconfessabile gioia, una specie di esaltazione, quasi un’ombra di orgoglio, per avergli permesso di fare quel che voleva. In fondo, aveva preteso così poco da lei. Se avesse chiesto di più, può anche darsi che non l’avrebbe fermato. Respirò profondamente. Si rammaricò di non essere riuscita a dirgli poche, semplici parole come: non fa niente, Kobi. Non avere paura. Tutto ok. Va tutto bene adesso. 
L’autocisterna non la stava aspettando davanti a casa: capì che quella notte sarebbe rimasta sola. Dentro la accolsero due gatti affamati che presero a girarle fra le gambe, strusciandosi pesantemente. Li rimproverò alzando la voce, disseminando qua e là qualche vezzeggiativo e riempiendo le loro ciotole di cibo e acqua. Poi andò in bagno, si lavò il viso e il collo, si pettinò. Uscì e accese la televisione, capitando nel mezzo di un programma sullo scioglimento dei ghiacci al polo e l’estinzione della fauna artica. Spalmò di burro e formaggio una fetta di pane, tagliò un pomodoro, si fece due uova e una tazza di tè. Poi si sedette in poltrona davanti alla televisione e al dramma della fauna artica, mangiando e sorseggiando il tè, senza rendersi conto che aveva le guance bagnate di lacrime. Quando se ne accorse, continuò a mangiare e a bere e a fissare lo schermo, accarezzandosi la guancia sinistra tre o quattro volte. Le lacrime continuavano a scendere, ma lei stava meglio e si disse le parole che prima aveva in serbo per Kobi ma non era riuscita a pronunciare: non fa niente, non aver paura, è tutto a posto, va tutto bene. Poi, sempre piangendo, si alzò, prese in braccio un gatto e tornò in poltrona. Alle undici meno un quarto lasciò la poltrona, chiuse le persiane e spense quasi tutte le luci. 


6. 

Kobi Ezra stava vagando per le vie del paese. Passò due volte di fronte alla Casa della Cultura e altrettante davanti all’emporio con cui tirava avanti la sua famiglia. Entrò nel parco della Memoria e si sedette sulla panchina che era già un po’ umida di rugiada. Si chiese che cosa stesse pensando lei di lui e perché non gli avesse mollato uno schiaffo come si meritava. Lì per lì alzò un braccio e si diede un ceffone così forte che gli fecero male i denti, le orecchie rimbombarono e l’occhio sinistro lacrimò un poco. La vergogna lo riempiva come una materia densa e repellente. 
Elad e Shachar, due suoi coetanei, passarono davanti alla sua panchina senza accorgersi di lui, perché si era rannicchiato, nascondendo il capo fra le gambe. Shachar disse: si vede subito che è una bugiarda. Nessuno le crede neanche mezzo minuto. Elad commentò: ma era una bugia a fin di bene. Poi i due si allontanarono, facendo crepitare la ghiaia del sentiero sotto le suole. Kobi pensò che quel che aveva fatto quella sera non si sarebbe cancellato mai più. Neanche fra molti anni, quando la vita l’avrebbe portato in posti ora impensabili. Nemmeno se fosse andato in città a cercarsi una puttana, come aveva fantasticato molte volte. Nulla avrebbe cancellato l’onta di quel che era appena successo. Perché, perché non era rimasto seduto a chiacchierare con lei in biblioteca, invece di andare a spegnere la luce? E quand’anche avesse inavvertitamente spento la luce, avrebbe potuto approfittare del buio per esprimere i propri sentimenti! Tutti gli dicono sempre che le parole sono il suo forte. Avrebbe potuto usare le parole. Citare qualche verso di una poesia d’amore di Bialik o di Yehudah Amichai. Avrebbe potuto confessarle che ne scrive anche lui, di poesie, e magari recitare quella che aveva composto per lei, su di lei. D’altro canto, pensò, tutto era successo per colpa di lei che mi ha trattato per tutta la sera come un bambino, anzi, come una maestra con il suo allievo. Ha fatto finta che per lei fosse normale che io l’aspettassi la sera davanti alla posta per accompagnarla in biblioteca. Lei sapeva benissimo la verità, faceva solo finta, per non mettermi in imbarazzo. Magari mi avesse spiazzato con qualche domanda personale! Magari avessi trovato io il coraggio di spiazzare lei e dirle dritto in faccia che una come lei non ha niente a che spartire con un conducente di autocisterna. Che io e lei sì che siamo due anime gemelle e tu lo sai benissimo questo. Ma non si può rimediare al fatto che sono nato una quindicina d’anni dopo di te. Tutto è perduto adesso, dopo quello che è successo. Tutto è perduto per sempre. Anche se in fondo quello che ho fatto non ha cambiato un bel niente perché tutto era già perduto anche prima. Non abbiamo nessuna possibilità, noi, né io né tu. Nessuna possibilità, non un barlume di speranza. Forse, pensò, forse dopo il servizio militare, potrei prendere la patente da autocisterna. 
Si alzò dalla panchina e attraversò il parco della Memoria. La ghiaia quasi cigolava sotto le suole dei sandali. Un uccello notturno fece un verso spezzato e da qualche parte in lontananza, in fondo al paese, un cane noioso abbaiò. Non aveva mangiato niente da mezzogiorno, ora aveva fame e sete, ma lo atterriva l’idea di tornare a casa, dove i suoi genitori e i fratelli erano incollati davanti alla molesta televisione. Anche se presumibilmente nessuno gli avrebbe rivolto la parola, né fatto domande: sarebbe potuto andare in cucina, prendersi qualcosa dal frigo e rinchiudersi in camera sua. Ma che cosa avrebbe fatto, lì, fra l’acquario sporco dove ormai da una settimana galleggiava un pesce morto, e il materasso macchiato? Era meglio restare fuori, fors’anche trascorrere tutta la notte fra le vie deserte. La cosa migliore è che te ne torni alla tua panchina e ti corichi lì, per una notte di sonno senza sogni. Fino a domattina. 
Poi tutt’a un tratto gli venne in mente di andare a casa di lei: se l’autobotte non era parcheggiata lì davanti, si sarebbe arrampicato e avrebbe buttato dentro un fiammifero acceso, facendo saltare tutto per aria. Si frugò nella tasca in cerca di fiammiferi, anche se sapeva benissimo che non ce n’erano. Le gambe lo condussero sotto la torre dell’acqua con i suoi tre piloni di cemento. Decise di arrampicarsi fino in cima, per stare un po’ più vicino alla mezzaluna che ora riposava sopra le colline, a Oriente. I pioli di ferro della scala erano freddi e umidi, lui montò lesto e quasi all’istante si ritrovò in cima alla torre. C’era una postazione di cemento con dei sacchi di sabbia e degli spioncini, residuo della Guerra d’Indipendenza. Entrò dentro, e guardò dallo spioncino. C’era odore di piscio vecchio. Di lassù, la notte era vuota e immensa. Il cielo era limpido, le stelle brillavano indifferenti l’una all’altra, e anche a se stesse. Dalle profondità di quel buio sbucarono due spari in sequenza, che di lì sembrarono un po’ sordi. Alle finestre c’erano ancora delle luci accese. Qua e là da una finestra aperta si intravedeva lo schermo bluastro di una televisione che tremolava. Due macchine passarono lì sotto, lungo via della Vigna: i fari scoprirono per un attimo lo scuro viale di cipressi. Kobi cercò la finestra di lei, ma dato che non riusciva a localizzarla con sicurezza, decise di focalizzarsi su una che era più o meno in quella direzione: doveva essere quella. Vi era accesa una luce giallastra, offuscata da una tenda. Capì che da quel giorno, incrociandosi per strada, si sarebbero ignorati. Lui non avrebbe mai più osato rivolgerle la parola. Lei l’avrebbe evitato, certamente. Se un giorno o l’altro gli fosse toccato di andare alla posta, lei avrebbe alzato il capo dietro lo sportello con la grata e con una voce piatta gli avrebbe detto: sì, prego, mi dica. 


Si canta 
  
1. 

Siccome la porta era aperta, nell’ingresso entrava l’aria fredda e umida dell’inverno. Al mio arrivo c’erano in casa già una ventina, anche venticinque persone, alcune ancora assiepate in entrata, che si aiutavano l’una con l’altra a togliersi i cappotti. Un brusio di chiacchiere mi accolse insieme all’aroma di stufa a legna, lana bagnata e pietanze calde. Almozlino, un tizio massiccio con degli occhiali trattenuti da un cordino, si chinò per baciarsi due volte, una per guancia, con la dottoressa Ghili Steiner; poi le cinse il fianco e le disse, stai proprio d’incanto, Ghili. Lei gli rispose, senti chi parla. Il paffuto Korman, che aveva una spalla un po’ più alta dell’altra, venne anche lui a baciare Ghili Steiner, Almozlino e me. Poi disse, che bello ritrovarvi tutti! Avete visto come piove, fuori? Davanti all’attaccapanni trovai Edna e Yoel Ribak, una coppia di dentisti sui cinquantacinque che col tempo erano diventati molto somiglianti, quasi gemelli: tutti e due portano i capelli grigi tagliati corti, hanno il collo rugoso e le labbra sottili. Edna Ribak disse: alcuni non sono venuti per via del temporale. Anche noi a momenti ce ne restavamo a casa. Suo marito Yoel aggiunse: a fare che? L’inverno è deprimente. 
A Tel Ilan era infatti un sabato sera d’inverno. I cipressi erano avvolti dalla nebbia. Ora pioveva leggermente. La gente si stava radunando a casa di Dalia e Abraham Levin per una serata canora. La casa dei Levin stava su una collinetta, in un vicolo detto alzata del Pozzo. Aveva il tetto di tegole con il fumaiolo, due piani e una cantina. Nel giardino illuminato crescevano alcuni alberi da frutto ora inzuppati, qualche olivo e qualche mandorlo. Davanti a casa c’era un fazzoletto di prato contornato da aiuole di ciclamini. C’era anche una montagnola di pietre da cui sgorgava una cascatella artificiale che finiva in una vasca ornamentale: dei pesci rossi maculati nuotavano avanti e indietro nel fascio del faretto che restava sempre acceso sul fondo della vasca, illuminando l’acqua da dentro. La pioggia continua increspava ora la superficie. 
Posai il mio cappotto in cima a un cumulo di altri, sul divano in una stanza laterale, e mi incamminai verso il salotto. Una trentina fra uomini e donne, per lo più sui cinquanta e oltre, si radunavano una volta ogni qualche settimana a casa dei Levin. Ogni coppia portava uno sformato, un’insalata, un piatto caldo, poi ci si sedeva in cerchio e si riempiva l’aria di vecchie canzoni ebraiche e russe, quasi tutte permeate di malinconia nostalgica. Yohai Blum accompagnava i versi con la fisarmonica e tre attempate signore sedute intorno a lui suonavano il flauto. 
Il ronzio delle voci riempì la stanza finché la dottoressa Ghili Steiner non alzò la sua, per dire: tutti seduti, per favore. È ora di cominciare. Ma gli ospiti non avevano fretta di sedersi: stavano chiacchierando, se la ridevano a suon di pacche sulla spalla. Yossi Sasson, ch’era alto e barbuto, mi placcò davanti alla credenza: novità? Come va? Che mi racconti? Nulla di nuovo, risposi, e tu? Come al solito, disse. Poi aggiunse: niente di che. Ed Etti, dov’è? chiesi. È che non si sente tanto bene, in sostanza, questa settimana le hanno trovato un tumore per niente simpatico. Ma non vuole che se ne parli. E a parte questo... disse, poi si tacque. Chiesi: a parte questo che? Ma Yossi Sasson: niente. Non importa. Hai visto come piove fuori? Che inverno, eh? 
Dalia, la padrona di casa, girava distribuendo a tutti un canzoniere in fotocopia. Con le spalle alla sala, suo marito Abraham era chino ad attizzare il fuoco nel camino acceso. Molti anni prima, Abraham Levin era stato il mio comandante nell’esercito. Sua moglie Dalia aveva studiato storia insieme a me all’Università di Gerusalemme. Abraham era un uomo taciturno e introverso, mentre Dalia era sempre un po’ sopra le righe. Ero amico di tutti e due, ancor prima che si conoscessero. Dopo il loro matrimonio, l’amicizia era continuata, solida e pacata, senza bisogno di ulteriori dimostrazioni e a prescindere dalla frequenza con cui ci vedevamo. Passava anche un anno, un anno e mezzo, fra un incontro e l’altro, ma loro mi accoglievano sempre con grande cordialità. Chissà perché, però, non ero mai rimasto a dormire a casa loro. 
Una ventina d’anni prima Dalia e Abraham avevano messo al mondo il loro unico figlio, Yaniv. Era stato un bambino un po’ solitario, e anche da grande stava sempre chiuso in camera sua. Quand’era piccolo e io venivo a trovare i suoi genitori, a Yaniv piaceva tanto mettermi la testa sulla pancia e farsi una piccola cuccia sotto il mio maglione. Una volta gli avevo portato in regalo una tartaruga. Quattro anni prima di quella serata canora, il ragazzo - all’epoca sedicenne -, era andato nella camera da letto dei suoi, era strisciato sotto il letto e si era sparato in fronte con la pistola di suo padre. Per un giorno e mezzo l’avevano cercato per tutto il paese, senza poter immaginare che fosse esangue sotto il letto dei genitori. Nemmeno Dalia e Abraham, che la notte erano andati a dormire, s’erano accorti di avere il corpo del figlio sotto il materasso. L’aveva trovato raggomitolato lì, apparentemente addormentato, la domestica che l’indomani era venuta a pulire. Non aveva lasciato uno straccio di lettera e per questo fra i suoi amici s’erano fatte varie congetture: chi diceva questo, chi quest’altro. Dalia e Abraham avevano dedicato alla memoria di Yaniv una modesta borsa di studio per gli allievi di canto, perché ogni tanto Yaniv cantava nel coro del paese. 



Un anno o due dopo la morte del figlio, Dalia Levin aveva cominciato a occuparsi di spiritualità dell’Estremo Oriente. Dirigeva la biblioteca di Tel Ilan e di sua iniziativa vi aveva avviato un corso di meditazione. Una volta ogni sei settimane riuniva in casa sua il gruppo canoro. Anche io partecipavo ogni tanto a quelle serate, e dato che si erano ormai rassegnati al mio inguaribile celibato, tutti accoglievano cordialmente le partner occasionali che ogni tanto mi accompagnavano. Quella sera ero venuto solo, con una bottiglia di Merlot per i padroni di casa, pronto ad accomodarmi nel mio solito angolino, fra la credenza e l’acquario. 
Dalia era l’animatrice delle serate di canto che si svolgevano a casa sua: organizzava, telefonava, invitava, faceva accomodare, offriva da mangiare e da bere, dirigeva il canzoniere che preparava e fotocopiava lei. Dopo la tragedia, era stata presa da un attivismo febbrile. A parte la biblioteca e la meditazione e le serate canore, aveva tutta una serie di comitati e consigli, gruppi di yoga, giornate di studio, riunioni, circoli domestici, ritrovi, conferenze, perfezionamenti e gite d’istruzione. 
Quanto ad Abraham Levi, lui invece era diventato vieppiù introverso, usciva sempre meno di casa. Ogni mattina alle sei e mezzo spaccate metteva in moto la macchina e andava al lavoro al centro ricerche dell’industria aereonautica, dove si era sempre occupato di sviluppo di diversi impianti. Finito il lavoro, verso le cinque e mezzo, sei, tornava dritto a casa. Le lunghe sere d’estate indossava canottiera e pantaloncini e trafficava un’oretta in giardino. Poi si faceva una doccia, consumava da solo una cena leggera, nutriva il gatto e i pesciolini e leggeva ascoltando musica barocca, quando non Fauré o Debussy. Ogni tanto optava anche per un jazz pacato e meditativo. 
D’inverno, all’ora in cui Abraham Levin tornava a casa dal lavoro era già buio. Allora si distendeva vestito sul tappeto davanti al divano del salotto, ad ascoltare musica e aspettare Dalia di ritorno da una riunione o un corso. Alle dieci spaccate si ritirava in camera sua. Quella matrimoniale l’avevano chiusa e abbandonata, dopo la tragedia, e ora dormivano in stanze separate, a due estremità della casa. Nessuno entrava più in quell’altra, che aveva le persiane perennemente chiuse. 
Di sabato, un po’ prima del tramonto, estate o inverno che fosse, Abraham faceva la sua solita, lunga passeggiata: tutto il giro del paese partendo da sud, attraversando campi e frutteti, e tornando da nord. Passava con la sua andatura decisa davanti alla vecchia torre dell’acqua sui tre piloni di cemento, percorreva tutta via dei Fondatori, svoltava a sinistra su via della Sinagoga, attraversava il giardino dei Primi, proseguiva per via Tribù d’Israele e tornava a casa per l’alzata della Pompa. Se incrociava un conoscente che lo salutava, Abraham Levin ricambiava con un cenno del capo, ma non si fermava e nemmeno rallentava il passo. A volte, poi, non ricambiava nemmeno e tirava dritto perché, immerso com’era nei pensieri, non si accorgeva di nulla. 


Mi ero appena seduto nel mio solito angolino, fra l’acquario e la credenza, quando sentii qualcuno che mi chiamava. Mi guardai intorno ma senza riuscire a capire chi fosse stato. Alla mia destra era seduta una sconosciuta sulla cinquantina con i capelli raccolti in una piccola crocchia dietro la nuca. Di fronte avevo la finestra, da cui si vedevano solo buio e pioggia. Alla mia sinistra due pesci nuotavano dietro il vetro. Chi era che mi aveva chiamato? Forse mi era solo sembrato. Intanto le voci si stavano spegnendo e Dalia Levin stava facendo una serie di comunicazioni sulla serata: la cena a buffet alla pausa delle dieci, i formaggi e il vino a mezzanotte precisa. Comunicò anche le date dei successivi incontri del circolo canoro che si riuniva a casa sua una volta ogni sei settimane. 
Mi voltai dunque verso la sconosciuta che era seduta accanto a me, mi presentai sottovoce e le chiesi se anche lei suonava qualche strumento. Lei rispose, sempre sottovoce, che si chiamava Dafna Katz e che una volta suonava il flauto, ma aveva smesso da tempo. Con ciò, concluse. Era alta, molto magra, occhialuta. Anche le braccia, dentro le maniche di lana, sembravano lunghe e magre. E teneva i capelli raccolti, alla moda di un tempo. 
Intanto il cerchio dei presenti stava già intonando qualche canto sabbatico: il sole è sparito fra le fronde, cala il sabato sulla valle di Ghinosar, pace a voi angeli di pace. Mi unii al coro e un piacevole tepore mi si diffuse dentro, come se avessi bevuto un sorso di vino. Passai lo sguardo sul cerchio di persone, cercando di capire chi mi avesse chiamato per nome, un attimo prima: ma erano tutti intenti a cantare, chi con un filo di voce, chi a toni alti. Alcuni mostravano un’ombra di sorriso compiaciuto. Dalia Levin, la padrona di casa, si stringeva il corpo con le braccia. Yohai Blum iniziò a suonare la fisarmonica e le tre donne lo accompagnarono con il flauto. Una se ne venne fuori con una nota superflua, troppo alta e stridula, ma si corresse subito, tornando a tempo con le sue compagne. 
Dopo i canti festivi, toccò a quattro o cinque motivetti sulla Galilea e il lago di Tiberiade: inni da pionieri, seguiti da altri dedicati alla pioggia e all’inverno. Quella vera, intanto, continuava a battere sulle finestre e a tratti si sentivano anche dei tuoni bassi che facevano tremare i vetri. La corrente mancò per un attimo sotto la tempesta di lampi. 
Abraham Levin era come sempre seduto sullo sgabello vicino alla porta che dava sulla cucina. Non si fidava della sua voce e per questo non partecipava al coro, limitandosi ad ascoltare a occhi chiusi, come se il suo compito fosse quello di prevenire la benché minima stecca. Ogni tanto si alzava e andava in silenzio in cucina, a dare un’occhiata alle zuppe e agli sformati in forno e sul fuoco, controllando che tenessero la temperatura giusta per la cena a buffet prevista per le dieci, durante l’intervallo fra i due atti della serata. Prima di tornare seduto sul suo sgabello, sempre a occhi chiusi, si chinava a governare il fuoco del camino. 


Poi Dalia chiese silenzio e disse: adesso Almozlino ci canterà un assolo. Almozlino, un uomo grande e grosso con gli occhiali appesi a un cordino nero intorno al collo, si alzò e cantò in assolo Ridi, ridi dei miei sogni. Aveva una voce di basso calda e profonda, e quando pronunciò le parole ridi perché nell’uomo crederò, parve che soffrisse sin negli abissi dell’anima, esprimendo con quelle parole un pensiero nuovo e toccante, quale nessuno di noi aveva mai sentito. 
Dopo gli applausi si alzarono Edna e Yoel Ribak, i due dentisti che si assomigliavano quasi come una coppia di gemelli - nei capelli grigi e corti, nelle labbra strette e in quel tratto d’ironia che si disegnava in tutti e due, intorno alla bocca. Cantarono in duetto Dispiega le tue ali, sera, con le voci avvinte come in una danza in coppia. Dopo questa canzone si esibirono in Fammi entrare sotto la tua ala. Intanto pensavo che se persino Bialik, il poeta nazionale, si domanda che cosa sia l’amore, allora noi che non siamo poeti come potremmo pretendere di conoscere la risposta a questa domanda? Edna e Yoel Ribak terminarono la loro performance, fecero un leggero e sincrono inchino a destra e a sinistra, e di nuovo tutti applaudirono. 
Ci fu poi una piccola pausa perché Rahel Franco e Arieh Zelnik erano arrivati in ritardo e mentre si toglievano i cappotti raccontarono a tutti i presenti che la radio aveva appena dato la notizia che alcuni nostri aerei avevano bombardato un obiettivo nemico ed erano tornati sani e salvi alla loro base. Yohai Blum posò la sua fisarmonica per terra e disse: finalmente. Al che Ghili Steiner reagì indispettita, commentando che non c’era proprio di che stare allegri, che la violenza genera solo altra violenza, e a una ritorsione ne segue immancabilmente un’altra. Yossi Sasson, l’immobiliarista alto e barbuto, chiese con sarcasmo: allora che cosa proponi di fare, Ghili? Stare buoni e zitti? Porgere l’altra guancia? Almozlino s’intromise con la sua voce di basso, dicendo che un governo normale in situazioni del genere dovrebbe agire in silenzio e con estrema ponderazione mentre qui da noi, come al solito, si faceva tutto sventatamente, con superficialità... allora toccò a Dalia Levin, la padrona di casa, che invitò a non litigare per la politica e piuttosto continuare a cantare, motivo per il quale erano riuniti lì quella sera. 
Arieh Zelnik, che nel frattempo si era tolto il cappotto, non trovò un posto dove sedersi, perciò finì sul tappeto ai piedi dei coniugi Ribak. Rahel Franco, invece, era andata a prendersi lo sgabello accanto all’attaccapanni in ingresso, e si era seduta in corridoio, davanti alla porta aperta, un po’ per non sovraffollare la sala, un po’ perché doveva andare via dopo un’ora, per badare al vecchio padre rimasto solo in casa. Io, dal canto mio, avrei voluto dire qualche parola sul bombardamento aereo, esprimere il mio articolato punto di vista, ma non feci in tempo perché la discussione era ormai finita e Yohai Blum stava già suonando qualche nota alla fisarmonica, mentre Dalia Levin invitava gli astanti a proseguire con le canzoni d’amore. Esordì lei stessa con C’erano una volta due rose, due rose. 

Tutti si unirono. 
In quel preciso istante sentii che dovevo tassativamente andare nell’altra stanza, dove avevo lasciato il mio cappotto in cima a una montagnola di altri, a tirare fuori qualcosa da una tasca. Mi sembrava una cosa urgente e improrogabile, ma non riuscivo in alcun modo a capire che cosa dovessi prendere dalla tasca, proprio adesso, e chi mi avesse di nuovo chiamato, o almeno così mi pareva, benché la tizia magra seduta vicino a me fosse impegnata a cantare mentre Abraham, sul suo sgabello verso la cucina, teneva di nuovo gli occhi chiusi e si appoggiava alla parete senza cantare. 
Allora i miei pensieri andarono alle vie deserte del paese su cui ora stava sferzando la pioggia, ai cipressi scuri che dondolavano nel vento, alle luci sempre più fioche dentro le case, nei campi bagnati, nei frutteti spogli. In quel momento ebbi l’impressione che qualcosa stesse accadendo chissà dove, ma che mi riguardasse, mi coinvolgesse. Però non avevo la minima idea di che cosa. 
Il cerchio canoro intonò ora Se vuoi che ti mostri la città in bianco e nero, mentre la fisarmonica di Yohai Blum taceva per lasciar spazio ai tre flauti, che questa volta suonavano in armonia, senza stridori. Poi cantammo Dov’è andato il tuo diletto, bellissima fra le donne. Che cosa sarà stata, quella cosa che dovevo urgentemente verificare nella tasca del mio cappotto? Non trovavo nessuna risposta, pertanto trattenni l’impulso di alzarmi e andare nell’altra stanza. Cantai invece insieme a tutti gli altri Il melograno profuma e Mia amata dal candido collo. Fra queste due canzoni e la successiva, mi chinai e chiesi sottovoce a Dafna Katz, quella con le braccia esili seduta vicino a me, che cosa le facessero venire in mente queste canzoni. Quasi stupita della mia domanda, lei rispose: nulla di particolare. Poi ci ripensò: ogni genere di cose, mi fanno venire in mente. Mi piegai di nuovo verso di lei, con l’intenzione di dire qualcosa a proposito dei ricordi, ma Ghili Steiner ci stava fissando con uno sguardo truce: che cosa avevamo tanto da confabulare? Rinunciai e ripresi a cantare. La mia vicina Dafna Katz aveva una bella voce da contralto. Come Dalia Levin. Rahel Franco invece era un soprano, cui faceva contrasto il basso caldo di Almozlino. Yohai Blum suonava la fisarmonica mentre i tre flauti gli disegnavano intorno arabeschi di note, come un’edera rampicante. Era così bello cantare tutt’insieme in cerchio in quella notte tempestosa di pioggia, ripescando vecchie canzoni di un tempo in cui tutto era chiaro a tutti. 
Abraham Levin si alzò stancamente dallo sgabello per aggiungere un ciocco di legna nel camino, che riscaldava tutta la stanza con la sua fiamma sommessa. Poi tornò sullo sgabello e chiuse gli occhi, come se gli toccasse trovare e isolare, fra tutte le voci, la nota stonata. Fuori forse continuava a tuonare, o forse erano i caccia che passavano sulle nostre teste a bassa quota, di ritorno dopo il bombardamento dell’obiettivo nemico. Ma fra voci e suoni, dentro la stanza non penetrava quasi nulla. 


5. 

Alle dieci Dalia Levin decretò la pausa buffet e tutti si alzarono per dirigersi verso la zona pranzo, fra il salotto e la cucina. Ghili Steiner e Rahel Franco aiutarono Dalia a tirare fuori dal forno gli sformati e prendere le zuppe rimaste sul fuoco, e gli ospiti si affollarono al tavolo del buffet, servendosi nei bicchieri e nei piatti di carta. Intanto, ripresero la conversazione e le discussioni. Qualcuno disse che gli impiegati municipali avevano ragione a far sciopero, qualcuno replicò che a forza di scioperi giusti il governo avrebbe ricominciato a stampare banconote e fra breve tutti saremmo tornati ai tempi dell’inflazione galoppante. Al che Yohai Blum, il fisarmonicista, osservò che non aveva alcun senso accusare il governo di tutto, che in fondo avevano le loro colpe anche i comuni cittadini, e includo anche me stesso. 
Almozlino teneva in mano una scodella di minestra fumante e mangiava in piedi. I suoi occhiali con il cordino erano appannati dal vapore della zuppa. Ora sentenziò che i giornali e la televisione dipingevano a tinte troppo fosche un quadro generale che a lui personalmente non sembrava così cupo come lo facevano i media. Verrebbe da pensare, concluse amaramente Almozlino, che qui siamo tutti ladri e malfattori. 
Dato che aveva una voce profonda e pensierosa, le sue parole suonarono convincenti. Il paffuto Korman, che aveva nel piatto, tenuto in equilibrio sulla mano sinistra, una montagnola di sformato di patate oltre a delle patate al forno e una polpetta con delle verdure cotte, faceva molta fatica a destreggiarsi con la destra, fra coltello e forchetta. Come se non bastasse, in quel momento Ghili Steiner gli offrì un calice di vino rosso. Non ho abbastanza mani, ridacchiò Korman, allora Ghili si mise in punta di piedi e gli porse il vino direttamente alla bocca. Dunque secondo te, chiese Yossi Sasson ad Almozlino, secondo te la colpa è tutta dei media. Non è che la fai un po’ troppo facile, così? 
Io dissi: bisogna guardare le cose in prospettiva. Ma Korman, che aveva una spalla un po’ più alta dell’altra, mi interruppe per insultare piuttosto pesantemente un ministro del governo. In un paese normale, proseguì, un tipo del genere lo avrebbero già cacciato via da un pezzo. Almozlino disse: solo un momento, un momento, prima di tutto dovresti dirci che cosa intendi per paese normale. Ghili Steiner commentò: come se tutti i nostri problemi dipendessero da una persona sola. Magari, fosse così. E tu, Yossi, non hai ancora assaggiato la torta di verdure. Perché? Yossi Sasson, l’immobiliarista, le rispose con un sorriso: prima devo far fuori quel che ho nel piatto, via uno avanti l’altro. S’intromise Dafna Katz: vi sbagliate tutti. Se non che, il seguito della frase fu inghiottito dal frastuono generale. Parlavano tutti contemporaneamente, alcuni a voce molto alta. Dentro ogni uomo, pensai, sta sempre acquattato il bambino ch’era una volta. In alcuni si capisce che è ancora vivo e vegeto, mentre altri si portano in seno un cucciolo morto. 
Mi allontanai un poco dal gruppo di discussione e con il piatto in mano andai a far quattro chiacchiere con Abraham Levin. Stava scostando la tenda dalla finestra per guardare fuori, verso la pioggia e il temporale. Gli sfiorai la spalla e lui si voltò verso di me senza dire niente, tentò un sorriso e invece gli venne fuori un fremito di labbra. Dissi: Abraham. E poi: perché te ne stai qui da solo. Lui ci pensò su un momento e poi rispose tristemente che si sentiva a disagio insieme a così tanta gente che parlava tutta insieme: faceva fatica a sentire, a seguire i discorsi. È proprio inverno fuori, dissi. E Abraham: sì. Gli raccontai che quella sera ero arrivato senza accompagnatrice perché ne avevo due per le mani e non volevo dover scegliere. Abraham disse: sì. Ascolta, dissi, Yossi Sasson mi ha detto in gran segreto che hanno scoperto un tumore a sua moglie. Un tumore per niente simpatico, così mi ha detto Yossi. Abraham fece due o tre volte sì con il capo, come per concordare fra sé e sé o forse perché gli avevo appena dato conferma di una sua supposizione. Poi disse: se c’è bisogno, ci saremo. 
Ci aprimmo un varco fra la gente che stava mangiando in piedi su dei piatti usa e getta, attraversammo il ronzio di voci che conversavano o discutevano, e uscimmo sul balcone. L’aria era fredda, pungente, e ora scendeva una pioggia sottile. In lontananza, sopra le colline a oriente, apparivano tenui bagliori di fulmini, ma senza tuoni. Un silenzio largo e profondo dimorava in giardino, sugli alberi da frutto e sui cipressi scuri, sul prato e sui campi e sulle piantagioni che respiravano nel buio, oltre la cinta. 
Sotto di noi baluginava il pallido faretto dentro la vasca ornamentale di pietra. Uno sciacallo solitario ululò dal buio. Alcuni cani indispettiti risposero dai cortili del paese. 
Guarda, disse Abraham. 
Tacqui. Aspettavo che continuasse, dicendomi che cosa dovevo guardare, in quale direzione. Ma Abraham stava zitto. Alla fine di quel silenzio, dissi: chissà se ti ricordi, Abraham, di quando eravamo soldati, noi due, nel Settantanove, dell’incursione a Deir a-Nashef? Quando fui ferito alla spalla e tu mi portasti via? Abraham ci pensò su un momento e poi disse: sì. Mi ricordo. 
Ora gli chiesi se ogni tanto ci ripensava, a quei tempi. Abraham appoggiò le mani sulla ringhiera di ferro del balcone fredda e bagnata e, rivolto al buio invece che a me, rispose: sai, è così, io ormai da un pezzo non penso più a niente. Niente. Solo al bambino. Forse avrei potuto ancora salvarlo ma ero così mentalmente ottuso, e Dalia mi veniva dietro a occhi chiusi. Dai, entriamo. L’intervallo è finito, si ricomincia a cantare. 


6. 

All’inizio della seconda parte della serata cantammo alcuni inni della Resistenza e della Guerra d’Indipendenza, Nelle sere del Neghev, Canto di fratellanza, poi passammo ad alcune canzoni di Naomi Shemer. Aspettate ancora un’ora e mezza, comunicò Dalia, a mezzanotte precisa facciamo un altro intervallo e serviamo formaggi e vino. Rimasi seduto al mio posto, fra la credenza e l’acquario, con Dafna Kaftz sempre seduta vicino a me. Teneva il canzoniere con tutte e dieci le dita, come per paura che qualcuno volesse portarglielo via. Mi chinai per chiederle sottovoce dove abitava e se aveva già un passaggio per tornare a casa, perché se c’era bisogno, sarei stato felice di accompagnarla. Dafna mi bisbigliò che era arrivata con Ghili Steiner, che l’avrebbe anche riportata a casa alla fine della serata, grazie mille. È la prima volta che vieni? le chiesi, e Dafna, sempre sottovoce, mi rispose che qui sì, era la prima volta, ma d’ora in poi avrebbe partecipato regolarmente a tutte le serate di canto, che si tenevano ogni sei settimane. Dalia Levin ci indicò con un dito sulle labbra che era meglio se la piantavamo di parlottare. Pertanto sfilai delicatamente il canzoniere dalle esili dita di Dafna e voltai pagina. Ci scambiammo un rapido sorriso, prima di tornare tutti e due a cantare insieme agli altri Notte di vento che passa. Di nuovo ebbi la sensazione di dover prendere qualcosa nella tasca del cappotto, in cima alla montagnola nella stanza laterale. Ma non avevo la minima idea di che cosa fosse, quella cosa. Per un verso ero in preda al panico, sentivo che stavo trascurando un impegno urgente, per l’altro sapevo che mi stavo agitando per niente. 
Dalia Levin fece un cenno a Yohai Blum, il fisarmonicista, e fors’anche alle tre donne che lo accompagnavano con il flauto. Visto che faticavano a capire che cosa volesse, lei si alzò, andò da loro e si chinò per dire qualcosa, poi attraversò la stanza aggirando il cerchio di gente e bisbigliò qualcosa nell’orecchio di Almozlino, che strinse le spalle e fece no con il capo, ma lei insisteva e lo pregò finché lui non acconsentì. Allora Dalia alzò la voce: un attimo di silenzio per favore. Ci zittì tutti e comunicò che ora si sarebbe cantato a canone Tutto sulla terra passa e Leverò gli occhi lassù, chiederò alle stelle perché non splendono su di me. Poi chiese a suo marito Abraham di smorzare le luci nella stanza. 
Che cosa era quella cosa che dovevo andare a controllare nella tasca del cappotto? Il portafogli con i documenti l’avevo qui nella tasca dei pantaloni: avevo appena verificato. Gli occhiali da guida si trovavano al loro posto dentro l’astuccio, nel taschino della camicia. Era tutto qui. E tuttavia, alla fine della sequenza di canzoni mi alzai, chiesi sottovoce scusa alla mia vicina Dafna Katz, attraversai il cerchio di persone e sbucai nel corridoio. Le gambe mi condussero fino all’ingresso e alla porta. Chissà perché, la socchiusi anche se non c’era nessuno fuori, solo la pioggia. Tornai nel corridoio, passai davanti al soggiorno e alla zona pranzo. Ora stavano cantando alcune tristi melodie di Natan Yonatan, La nostalgia talvolta protegge, Il canto esce ancora per via, Di nuovo si va a destra e si piange. 
In fondo al corridoio svoltai verso un passaggio laterale e di lì nella stanza dove avevo posato il mio cappotto, in cima a un mucchio di altri. Scavai per un po’, scostando roba a destra e a sinistra, prima di trovare il mio e pian piano controllare scrupolosamente una tasca dopo l’altra. In una tenevo una sciarpa ripiegata, in un’altra delle carte e un pacchetto di caramelle, oltre a una piccola torcia. Dato che non sapevo che cosa stavo cercando, continuai a frugare anche nelle tasche interne, in cui pescai altre carte e un astuccio con degli occhiali da sole. Che erano l’ultima cosa di cui avessi bisogno, in una notte d’inverno. Ma allora che cosa stavo cercando? Non trovai risposta, solo un nervosismo mordace, rivolto a me stesso e alla montagna di cappotti che si era disfatta sotto le mie mani. Feci del mio meglio per ricomporla, presi la torcia e me ne andai. Avevo in mente di tornare al mio posto fra la credenza e l’acquario, vicino all’ossuta Dafna Katz dalle esili braccia, ma qualcosa me lo impedì. Forse il timore che il mio ingresso a metà di una canzone mi attirasse un’attenzione che non gradivo, forse il presentimento di una vaga incombenza che, seppure di poco conto, gravava ancora su di me. Senza avere idea di che cosa si trattasse. La torcia la tenni con me. 
Dentro stavano cantando Uccellino dall’ala piccina, vaga all’infinito l’anima mia tormentata, mentre la fisarmonica di Yohai Blum taceva per lasciar spazio ai tre flauti. Una delle strumentiste steccò di nuovo per un attimo ma subito dopo tornò in riga. Non sapendo più dove mettermi, feci per andare in bagno anche se non ne avevo bisogno. Solo che il bagno era occupato e la porta chiusa a chiave, perciò salii su per le scale al piano di sopra, dove ce n’era sicuramente un altro. Su in cima alle scale il canto giungeva attutito, aveva una tonalità più invernale; quanto alla fisarmonica di Yohai, che in quel momento aveva ripreso, era come se qualcosa premesse, quasi ne soffocasse i suoni. Adesso tutti, a parte me, intonarono la canzone di Rahel Perché siete miraggi di luci lontane, e io mi bloccai su un gradino lassù, ad ascoltare. 


7. 

Rimasi lì con la torcia in mano per due o tre minuti, senza riuscire a darmi una risposta sul perché fossi salito lassù. In fondo al corridoio del piano di sopra era accesa una lampada. Più che far luce, sembrava che avvolgesse le ombre. C’era qualche disegno appeso alle pareti del corridoio, ma data la penombra si vedevano solo delle macchie grigie e sfocate. Tutte le porte erano chiuse. Ci passai davanti due volte, avanti e indietro, come indeciso su quale aprire. Non avrei saputo dire quale perché nemmeno sapevo che cosa stavo cercando e mi ero ormai completamente dimenticato il motivo per cui ero salito fin lì. Fuori si sentiva fischiare il vento. La pioggia ora era più forte, batteva sulle finestre. Forse stava anche grandinando. Rimasi lì nel corridoio del piano alto per qualche minuto, a saggiare con lo sguardo le porte chiuse, come fossi uno scassinatore in cerca della cassaforte nascosta. 
Infine aprii cautamente la terza porta sulla destra. Fui accolto da un freddo opprimente e dal buio. L’aria sapeva di chiuso. Mi feci luce con la torcia e vidi le ombre dei mobili girare e confondersi l’una nell’altra al tremito della mia mano. La grandine e il vento graffiavano le persiane chiuse. In quel debole chiarore mi sbucò davanti un grande specchio appeso sull’anta dell’armadio. Rifletté il fascio di luce della mia torcia come se volesse accecarmi. Un odore denso e stagnante dimorava nella stanza: puzza di vecchia polvere e lenzuola da cambiare. Si capiva che da molto tempo nessuno qui aveva aperto la finestra né la porta. Di sicuro c’erano delle ragnatele in un angolo del soffitto, ma non riuscivo a vederle. Fra le ombre dei mobili riconobbi un piccolo comò e una sedia, anzi due. Mentre stavo lì impalato sulla soglia, la mia mano sentì l’impulso di chiudere la porta alle mie spalle, anche a chiave. Poi le gambe mi spinsero a inoltrarmi nella stanza. Adesso delle voci là sotto mi giungeva solo un tenue brusio che si perdeva nel rumore del vento e nelle sferzate della grandine alla finestra. Probabilmente fuori in giardino era calata la nebbia, confondendo il profilo dei cipressi. Non un’anima viva, nella viuzza chiamata alzata del Pozzo. Solo i pesci rossi là fuori nuotavano lentamente, indifferenti alla grandine e al vento, nell’acqua della vasca ornamentale con il fondale illuminato e la cascatella che scaturiva dai sassi increspando la superficie della vasca. 
Sotto la finestra c’era un ampio letto con due piccoli comodini ai lati. C’era anche un tappeto per terra. Mi sfilai le scarpe e le calze, restando scalzo. Era spesso e peloso. Stranamente morbido, al contatto con i piedi nudi. Indirizzai il fascio della torcia sul letto e notai che aveva un copriletto imbottito con vari cuscini sparpagliati sopra. Per un attimo mi sembrò che giù al piano di sotto stessero cantando Ascolti la mia voce, mio remoto, ma non potevo essere sicuro né di quel che sentivano le mie orecchie né di quel poco che gli occhi vedevano alla tremula luce della torcia. Perché nella stanza pareva aver luogo un lento, seppure incessante, andirivieni: come se un essere grande, pesante e torpido si spostasse in un angolo, passasse carponi, si chinasse goffamente, fra il comò e la finestra chiusa. Con tutta probabilità, era solo il tremito della torcia a provocare quella specie di fantasma. Però avevo l’impressione che anche dietro di me, dov’era buio pesto, avvenisse un lento movimento. Di cui non avrei saputo dire altro. 
Che ci facevo lì? Non avevo la benché minima risposta da dare, anche se sapevo bene che era proprio qui, in questa stanza da letto abbandonata, che desideravo arrivare sin dall’inizio della serata e fors’anche da molto prima. Tutt’a un tratto sentii il mio respiro e mi dispiacque perché aveva violato quel silenzio umido che ora saturava l’aria, visto che non pioveva più, il vento s’era calmato e giù al pianoterra il coro tutt’a un tratto s’era zittito. Forse era finalmente giunto il momento dei formaggi e del vino. Io non avevo voglia né di una cosa né dell’altra. Non avevo più alcun motivo per voltare le spalle alla disperazione. Per questo mi piegai carponi sul tappeto ai piedi del letto matrimoniale, scostai un poco il copriletto e mandai il pallido fascio di luce a tastare il buio nello spazio compreso fra le gambe del letto. 


Lontano, in un altro tempo 
  
Per tutta la notte dei vapori venefici salgono dalla verde palude. Un dolciastro fetore di marcio si diffonde fra le nostre baracche. Qui gli attrezzi di ferro arrugginiscono nel giro di una notte, gli steccati vanno a pezzi sotto la fioritura di muschio, la muffa si mangia i muri, l’umidità colora la paglia e il fieno di nero, come dopo un rogo, le zanzare arrivano ovunque, le nostre stanze sono piene di insetti che volano e strisciano. La terra stessa sobbolle. Tarli, tignole e cocciniglie si mangiano mobili, assi di legno e persino le tegole marcescenti. Per tutta l’estate i bambini sono tormentati dalla scabbia, dall’eczema e dalla rogna. Gli anziani muoiono per degenerazione delle vie respiratorie. Persino i vivi mandano lezzo di cadavere. Molti qui sono minorati: o hanno il gozzo o sono deficienti, storpi o deformi, bavosi, perché tutti figliano con tutti. Fratelli e sorelle. Figli con madri. Padri con figlie. 
Io, che sono stato spedito qui venti, forse venticinque anni fa per conto dell’agenzia per lo sviluppo delle regioni arretrate, ogni giorno al crepuscolo continuo a cospargere le acque della palude con del materiale disinfettante e a distribuire ai diffidenti indigeni chinino e acido carbolico e polvere di zolfo, oltre a pomate per la pelle e antiparassitari, a raccomandare loro una vita meno promiscua e l’igiene, a usare il cloro e il DDT; tengo duro in attesa che venga finalmente a darmi il cambio un sostituto, possibilmente più giovane e un po’ più energico di me. 
Intanto faccio il farmacista, l’insegnante, il notaio, l’arbitro, il sanitario, l’archivista, il sensale e il paciere. Davanti a me si levano ancora i loro malconci cappelli, li premono contro il petto, fanno l’inchino e mi danno del lei. Ancora sfoderano per me i loro sorrisi furbi e sdentati. Eppure sono sempre più portato a viziarli, a chiudere un occhio, a fare il callo alle loro superstizioni, ignorare i loro sogghigni impudenti, sopportare l’odore del loro corpo e le loro sconcezze, soprassedere sulle violazioni diffuse per tutto il paese. Dentro di me ringrazio il fatto di non aver quasi più nessun controllo. Ho perso quasi completamente l’autorità. Rimane solo quale blando residuo di influenza che investo in sotterfugi, ipocrisie, menzogne inevitabili, vaghi allarmi e piccole mazzette. Non mi resta che tener duro ancora per un po’, poco, in attesa del sostituto. Allora me ne andrò via di qui per sempre o, al contrario, mi prenderò una baracca vuota, ci piazzerò una contadinella bene in carne e chi s’è visto s’è visto. 
Prima che io arrivassi, un quarto di secolo fa, anche di più, un giorno venne qui un governatore regionale insieme alla sua folta corte, si trattenne un’ora, forse due, ordinò prontamente di deviare il corso del fiume per porre fine alla palude velenosa. Insieme al governatore c’erano ufficiali e funzionari, agrimensori, uomini di fede, un giurista, un aedo, lo storico ufficiale, un filosofo o due, un astrologo e sedici agenti dei servizi segreti. Il governatore dettò i suoi ordini: scavare. Deviare. Prosciugare. 
Estirpare. Purificare. Far fluire. Debellare. Elevare. Aprire una pagina nuova. 
Non è successo un bel nulla. 
Alcuni dicono che laggiù, oltre il fiume, i boschi e le montagne, si erano da allora avvicendati alcuni governatori: il primo licenziato, il secondo sconfitto, il terzo caduto in disgrazia, il quarto assassinato, il quinto finito in prigione, il sesto un voltafaccia, il settimo codardo o forse letargico. Qui è rimasto tutto come sempre: i vecchi continuano a morire, i giovani invecchiano anzitempo. La popolazione locale, almeno secondo le mie attente stime, va diminuendo. Stando al grafico che ho appeso sopra il mio letto, a metà del secolo qui non resterà anima viva. A parte insetti e rettili. 
È vero che di bambini ne nascono in gran quantità, ma quasi tutti muoiono in fasce e quei pochi che sopravvivono fanno ancora più pena. I ragazzi fuggono a nord. Le femmine coltivano nel fango denso rape e patate, a dodici anni restano incinte e a venti sono decrepite. Ogni tanto viene una ventata di libidine che travolge improvvisamente tutto il paese in una notte di danze sotto la luce dei falò di legna umida. Allora tutti si scatenano: vecchi con bambini, ragazze con uomini menomati, uomini e bestie. Non scendo nei particolari, perché in quelle notti mi asserraglio nella mia baracca, che è poi anche la farmacia, chiudo le imposte di legno pericolanti, stringo il catenaccio alla porta e infilo una pistola sotto il cuscino, nel caso si facciano qualche idea. 
Ma sono abbastanza rare, quelle notti. L’indomani si svegliano a mezzogiorno, storditi e con gli occhi cisposi, e ricominciano a sfinirsi dall’alba al tramonto nei loro campi fangosi, rassegnati a quel destino. Le giornate sono torride. Delle pulci sfacciate, grosse come una moneta, ci volano addosso e quando pizzicano producono uno schiocco disgustoso. Il lavoro nei campi dev’essere tremendo. Le rape e le patate vanno estratte dalla pappa fangosa e sono già quasi tutte guaste, tuttavia qui si mangiano crude o cotte in una specie di sbobba che sa di marcio. I due figli del becchino sono scappati sulle montagne e hanno messo su una banda di contrabbandieri. Le loro mogli, con i rispettivi figli, sono andate a stare nella catapecchia del fratello minore: era ancora un bambino, neanche quattordici anni. 
Quanto al becchino, un uomo taciturno, gobbo e dall’ossatura massiccia, aveva deciso che la cosa non poteva passare sotto silenzio. Se non che si è andati avanti così per settimane, e mesi, e pure anni. Poi un bel giorno il becchino ha preso ed è andato pure lui a stare a casa del figlio minore, dove nel frattempo erano nati tanti altri bambini e nessuno sapeva più di chi fossero figli: dei fratelli contrabbandieri che ogni tanto venivano a trascorrere una notte o due in paese? Del fratello minore? Del becchino? Ci si metteva pure il vecchio padre! Tanto comunque la maggior parte moriva in tenera età, qualche settimana dopo la nascita. E c’era pure un andirivieni di altri uomini, la notte, e arrivavano ragazze idiote, svampite, in cerca di un tetto o di un uomo, di un rifugio, o un neonato o un pasto. L’attuale governatore non ha battuto ciglio davanti ai tre urgenti promemoria che gli sono giunti in rapida sequenza, uno più severo dell’altro, per lamentare l’abbruttimento morale, ed esigere da lui pronte misure. L’indignato autore nonché mittente di quegli appunti sono io. 

Gli anni passano in silenzio. Non si è visto nessun sostituto. Al posto del gendarme è venuto suo cognato, mentre il gendarme licenziato, a quanto dicono, si è unito alla banda di contrabbandieri sui monti. Io sono ancora al mio posto, solo sempre più stanco. Ormai non mi danno più del lei, non si prendono nemmeno più la briga di levarsi i loro luridi cappelli. I disinfettanti sono finiti. Senza darmi niente in cambio, le donne mi portano pian piano via quel poco che è rimasto della farmacia. È pur vero che sento calare gradualmente su di me una specie di inerzia mentale e sentimentale. Non trovo più sufficiente luce dentro di me. La canna pensante si va svuotando di pensieri. Forse solo i miei occhi vedono sempre più scuro, tanto che persino la luce del mezzogiorno mi appare torbida, e la coda di donne in attesa sulla soglia della farmacia ha per me i contorni di una fila di sacchi gonfi. Ai loro denti marci e al loro alito fetido mi sono quasi abituato, dopo tanto tempo. Così tiro avanti da mattina a sera, giorno dopo giorno, estate e inverno. Ormai da molto tempo non sono più sensibile alle punture degli insetti. Dormo un sonno profondo e quieto. Ho la muffa sulle lenzuola e le pareti cosparse di infiorescenze malefiche. Una contadina o l’altra mi consola di tanto in tanto, mi propina una specie di sbobba gommosa che si ricava, credo, dalle bucce delle patate. I miei libri sono tutti marci. Le rilegature si sbriciolano e vanno a pezzi. Non mi resta nulla, finirà che non saprò più distinguere il giorno dalla notte, la primavera dall’autunno, un anno dall’altro. A volte, la notte, mi pare di sentire in lontananza il gemito di un antico strumento a fiato che non ho idea di che cosa sia né di chi lo stia suonando, né se suonino nel bosco, fra i monti o solo dentro la mia testa, sotto i capelli sempre più grigi e radi. Così, volto a poco a poco la schiena a tutto ciò che mi circonda. E in fondo anche a me stesso. 
A parte un fatto accaduto di cui sono stato testimone, questa mattina, e che debbo mettere per iscritto, astenendomi da giudizi di sorta: 
Stamane, al sorgere del sole, i vapori della palude sono diventati una specie di pioggia densa, gommosa. Una pioggia estiva e calda che sapeva di sudore di vecchio non lavato. La gente è uscita dalle catapecchie per andare nei campi di patate. Quand’ecco che in cima alla collina a Oriente è spuntato fra noi e il sole che sorgeva uno straniero, un uomo sano e di bell’aspetto, che ha cominciato ad agitare le braccia, a disegnare nell’aria umida una serie di cerchi e arabeschi, a dar calci e fare inchini, saltellare sul posto, senza pronunciar parola. Chi è quell’uomo, si sono chiesti i nostri, che cosa cerca da queste parti? Non è di qui, e nemmeno dell’altro paese, non è dei monti, hanno detto gli anziani. Forse è sceso dalla nuvola. 
Le donne hanno avvertito: bisogna stare attenti, bisogna prenderlo al volo, bisogna ucciderlo. 
Mentre si consultavano fra loro e discutevano, l’aria giallastra si è riempita dei suoni più svariati: strilli di uccelli, urla di cani, discorsi, muggiti, grida, ronzio di insetti grandi come un boccale di birra. Anche le rane della palude si sono animate e hanno cominciato a gracidare, le galline non si sono tirate indietro, i finimenti tintinnavano, tosse, sospiro e imprecazione. Insomma, i rumori più diversi. 
Quell’uomo, ha detto il figlio minore del becchino, ma poi ci ha ripensato e s’è taciuto. Quell’uomo, ha detto l’oste, cerca di sedurre le giovinette. Le giovinette strillavano: guardate, è nudo! Guardate, che grande! Guardate, balla, vuole volare! Guardate, sono come ali! Guardate, è bianco fino all’osso. 
Il vecchio becchino ha detto: che c’è tanto da parlare. Il sole è ormai sorto, l’uomo bianco che c’era o che pensavamo ci fosse è sparito dietro la palude, i discorsi non servono a niente, comincia un altro giorno torrido e bisogna andare a lavorare. Chi può lavorare, lavori, fatichi e taccia. Chi non ce la fa più, per favore, che si degni di morire. Chiusa la faccenda.