lunedì 30 ottobre 2023

BARA PER DUE James Hadley


BARA PER DUE 
James Hadley Chase

1

Mi avevano detto che Paradise Palms era un bel posticino, ma quando lo vidi capii che in realtà superava ogni aspettativa.

La città era costruita attorno alla baia semicircolare, con estensioni di sabbia dorata, palme e oceano. Le case avevano i tetti rossi e i muri bianchi. Aiuole decoravano i marciapiedi. Alberi, fiori e piante tropicali crescevano per le strade. Pareva un sogno in technicolor.

Dopo aver guardato i fiori, fermai l’attenzione sulle donne. Passavano, a  bordo di grosse macchine di lusso, a piedi e anche in bicicletta. Parevano uscite da uno spettacolo di Broadway. I miei occhi non avevano mai visto tanta bellezza da anni. Ero in vacanza. Quattro mesi ai tavoli da gioco di New York erano stati un affare serio. Avevo promesso a me stesso che, non appena fossi riuscito a mettere da parte un gruzzolo di venti bigliettoni, mi sarei preso una vacanza. Arrivato a quindici, avevo quasi deciso di arrendermi, ma poi mi ero accanito, nonostante le borse sotto gli occhi, un paio di ferite di rivoltella e un sacco di guai. Non si vincono venti bigliettoni senza farsi dei nemici. La faccenda era diventata tanto pericolosa da costringermi a circolare in una macchina blindata. In casa avevo messo dei giornali sul pavimento intorno al letto perché nessuno potesse avvicinarsi senza svegliarmi. Andavo in giro portandomi la pistola persino in bagno.

Avevo il mio gruzzolo e mi ero fatto una reputazione. Si diceva che fossi il tiratore più svelto del paese, e forse era vero, ma nessuno sapeva che mi allenavo due ore al giorno, con pioggia o sole. Avevo ucciso, ma non si era trattato di omicidio. Avevo sempre fatto in modo che fossero gli altri a tirar fuori la rivoltella per primi. Che ci fossero testimoni per provarlo.

Avevo imparato a sparare prima che avessero il tempo di premere il grilletto. Mi ci era voluto molto per imparare, ma ce l’avevo fatta. E questo mi aveva fruttato lauti guadagni. Inoltre, non ero mai stato arrestato.

Avevo messo insieme un bel gruzzolo, avevo comprato una Buick ed ero pronto a godermi una vacanza a Paradise Palms.

Stavo ancora guardando le ragazze, quando si avvicinò un poliziotto.

— Non potete fermarvi qui, signore — fece. Immaginate: un poliziotto che mi chiamava “signore”!

— Sono appena arrivato — risposi, mettendo in moto. — Accidenti, che posticino coi fiocchi!

Il poliziotto sogghignò.

— Proprio così. Sono rimasto senza fiato anch’io, la prima volta che l’ho visto.

Gli chiesi dov’era il Palm Beach Hotel.

— Vi piacerà — rispose. — Ci si mangia bene, anche.

M’indicò la strada.

Raggiunsi l’albergo in un paio di minuti. L’accoglienza che mi fecero avrebbe soddisfatto anche Rockefeller. Uno stuolo di camerieri s’impossessò del mio bagaglio, qualcuno portò la Buick nel garage 
dell’albergo e un paio d’individui in divisa azzurra probabilmente mi avrebbero portato di peso nella mia stanza, se glielo avessi permesso.

Il segretario, poi, non sapeva più cosa fare, mancava solo che si inginocchiasse e battesse la testa sul pavimento.

— Siamo onorati di avervi qui, signor Cain — esclamò porgendomi penna e registro. — Le vostre stanze sono pronte. Se non siete soddisfatto della vista non avrete che da farmelo sapere.

Non ero abituato a maniere così gentili, ma me la cavai abbastanza bene.

Gli risposi che ci tenevo molto alla vista, perciò la stanza doveva averne una ottima.

Era ottima, infatti. Avevo una terrazza che si affacciava sull’oceano, con palme e spiaggia. A sinistra c’erano le altre stanze dell’albergo. Diedi un’occhiata dentro la prima: una bella figliola stava finendo di vestirsi davanti allo specchio.

Sospirai e dissi al cameriere che il panorama non poteva essere migliore.

Non ero rimasto sulla terrazza che un paio di minuti, quando squillò il telefono.

Risposi pensando che si trattasse di qualcuno che avesse sbagliato numero.

— Il signor Cain? Benvenuto a Paradise Palms — fece una voce baritonale. — Qui è Speranza, il proprietario del Casinò Club. Spero che verrete a farci visita. Abbiamo sentito parlare di voi.

— Davvero? — Mi sentivo lusingato. — Certo che verrò. Sono in vacanza, ma il gioco mi piace sempre.

— Questo è un bel posticino, signor Cain. Verrete stasera?

— Certo. Contateci.

— Chiedete di me: Don Speranza. Cercherò di sistemarvi nel migliore dei modi. Avete già un’accompagnatrice?

— Non ancora, ma a quanto pare le ragazze non mancano da queste parti.

— Non tutte sono disponibili, però. — Rise. — Ve ne presenterò una io.

Vogliamo che vi sentiate assolutamente a vostro agio, finché sarete fra noi.

Non ci capita spesso di ospitare una celebrità. Risposi che era molto gentile e riattaccai. Dopo dieci minuti il telefono squillò di nuovo. Questa volta la voce era da basso e apparteneva a un certo Ed Killeano. Non conoscevo nessun Killeano, ma fui ugualmente contento che avesse chiamato.

— Ho sentito che eravate in città, signor Cain — fece. — Voglio che sappiate che siamo felici di avervi qui. Se c’è qualcosa che io possa fare per rendervi piacevole il soggiorno, fatemelo sapere. In albergo vi diranno dove potrete trovarmi. Divertitevi!

Riattaccò prima che avessi il tempo di dire qualcosa. Chiamai il segretario per chiedergli chi fosse questo Killeano. Mi rispose che era l’amministratore civico. Mi sentii importante come fossi il Presidente degli Stati Uniti. Lo ringraziai e tornai sulla terrazza. Il sole splendeva sulla spiaggia dorata e sull’oceano. Le palme frusciavano alla brezza marina.

Paradise Palms era meravigliosa, ma cominciavo a pensare che fosse troppo bella per essere vera. Avevo il presentimento che qualcosa bollisse in pentola.
2

Diressi la macchina verso Ocean Drive. Il traffico era convulso e io guidavo piano, annusando l’odore salmastro del mare.

Era una di quelle notti di cui, nei libri, si legge: le stelle brillavano come diamanti sul velluto scuro del cielo.

Ancora due isolati, poi voltai in un viale illuminato che conduceva a un enorme edificio con una di quelle facciate che non si capisce se siano di porcellana, marmo, vetro o che altro. Appesa all’altezza del primo piano, una grande insegna blu: “Casinò”. L’edificio era illuminato da luce indiretta, con un effetto degno di nota. I bottoni del negro alla porta brillavano.

Aprì la portiera della Buick, mentre un altro negro si precipitava per condurla in garage. Entrai in un corridoio fiancheggiato dà salottini numerati, molto “confidenziali”. All’estremità opposta c’era un arco nel quale troneggiava lo sgabuzzino della guardarobiera.

— Guardaroba, signore? — chiese la bionda.

Le porsi il cappello, sorridendo amichevolmente, poi passai sotto l’arco e m’inoltrai in un locale notturno arredato in azzurro pastello e illuminato da luci indirette. In un angolo, il bar a ferro di cavallo. Una stanza enorme, col palco per l’orchestra e una piccola pista da ballo pavimentata di un materiale che pareva vetro nero. Intorno ai piccoli scompartimenti azzurri e cromati, alberi con grappoli di banane e foglie verdi. Rampicanti dai fiori colorati si avviticchiavano intorno al tronco degli alberi. Metà della stanza era senza soffitto: si vedevano le stelle, in alto.

Un grassone mi venne incontro mostrando i denti in un tentativo di sorriso. Era in pantaloni scuri, scarpe di vernice, una fascia rossa alla vita e giacca di lino bianco.

— Voglio vedere Speranza — gli dissi.

Lui mi mostrò ancora i denti, compresi quelli d’oro.

— Sono il direttore — spiegò. — Posso fare qualcosa per voi?

— Sì. Avvertite Speranza. Ditegli che è arrivato Chester Cain.

Se avessi fatto il nome di un monarca, non avrei potuto ottenere un risultato migliore.

— Scusate se non vi ho riconosciuto, signor Cain — esclamò l’uomo, inchinandosi profondamente. — Il senor Speranza sarà felice di vedervi.

Lo informo subito che siete arrivato.

Rivolse cenni frenetici a un manichino rivestito che se ne stava appoggiato al bar. Il manichino scattò via come se avesse avuto i calzoni in fiamme. Era una scena preparata in precedenza. Mi finsi impressionato, dato che il suo scopo era proprio questo.

— Avete un bel localino — osservai tentando di dir qualcosa. Gli prestavo poca attenzione. Le donne che popolavano il locale mi interessavano molto di più. Una ragazza in abito rosso mi passò vicino mentre stavo per dire qualcos’altro. Mi fece restare senza parola: aveva un modo di camminare provocante, e l’abito era così aderente che pareva incollato al corpo. Si muoveva come se fosse stata di metallo fuso.

— Spero che il nostro locale vi piaccia, signor Cain — disse il ciccione, come se l’avesse costruito apposta per me. — Posso presentarmi?

Guillermo, ai vostri ordini. Volete bere qualcosa?

Distolsi lo sguardo dalla bellezza e dissi che avrei bevuto volentieri con lui.

Andammo al bar e appoggiammo i piedi sull’elegante sbarra d’ottone. Il bar era lucido e pulitissimo, ma il barista si affrettò a passarci sopra lo straccio, tenendo gli occhi fissi su Guillermo.

— Cosa preferite? — chiese quest’ultimo.

— Un bourbon.

Il barista mi servì tre dita del miglior bourbon che io avessi mai bevuto.

A questo punto mi venne vicino un uomo alto con un torace enorme.

— Il senor Speranza — fece Guillermo, lasciandoci soli.

Mi voltai a guardare il nuovo venuto. Aveva tutto quel che un uomo potrebbe desiderare. Era grosso come una casa, con gli occhi neri, dalla cornea che pareva di porcellana. Aveva i capelli piuttosto lunghi e arricciati sulle tempie, e la carnagione rosea. Era proprio bello, secondo il gusto latino.

— Il signor Cain? — chiese, porgendomi la mano.

— Proprio così — risposi, stringendogliela.

Aveva una stretta formidabile, ma la mia non era da meno. Ci stritolammo le ossa fingendo di non esserci fatti niente.

Disse che era felice di conoscermi e che sperava mi sarei divertito.

Gli risposi che il suo locale era meraviglioso, e che a New York non se li sognavano nemmeno, posti come quello.

Avevo finito il bourbon. Speranza chiamò il barista.

— Due — ordinò. — Guarda bene il signor Cain, perché voglio che lo ricordi. Tutto quello che ordina, lo offre la casa.

Il barista annuì e mi squadrò da capo a piedi. Sono certo che non avrebbe potuto scambiarmi per qualcun altro.

— Va bene così? — chiese Speranza. — Non conosco i vostri piani, signor Cain, ma se avete in mente di riposarvi e di giocare non troppo forte, questo è un locale che fa per voi.

— E’ proprio quel che voglio — risposi. — Ho in programma riposo e divertimento. Non vorrei sembrarvi ingrato, ma tutte queste attenzioni mi incuriosiscono.

— Siete modesto, signor Cain. — Rise. — Anche in questo posticino così lontano dal resto del mondo, abbiamo sentito parlare di voi. Siamo lieti di offrire ospitalità a un giocatore così fortunato.

— E’ una cosa che apprezzo moltissimo — risposi, fissandolo — ma preferirei non parlarne. Sono in vacanza: e questo significa che non voglio lavorare. Non accetto proposte da nessuno. Non che io pensi che qualcuno voglia farmene, ma tutta questa messa in scena mi innervosisce. Non mi illudo di essere importante, e preferirei che diceste in giro che sono in vacanza, che le proposte non mi interessano e che mi irrito facilmente.

Perciò se avete ancora intenzione di prodigarmi le vostre attenzioni, fate pure, ma preferirei essere lasciato in pace.

Lui rise silenziosamente, spontaneo, come se avessi detto la cosa più divertente di questo mondo.

— Vi assicuro che nessuno vi farà proposte, signor Cain. Questa è una città piccola, ma molto ricca. Siamo gente ospitale. Ci piace far divertire i turisti. Vogliamo solo che vi riposiate e vi divertiate.

Lo ringraziai, promettendogli che non avrei mancato. Nonostante i bei modi e la risata spontanea, avevo la sensazione che stesse burlandosi di me.

Parlammo ancora un po’ e bevemmo il bourbon, poi Speranza mi chiese se volevo conoscere una ragazza.

— Certo! — risposi.

— Ho detto alla signorina Wonderley di prendersi cura di voi — disse, mostrando i grossi denti bianchi in un sorriso. — La farò venire qui. Se non è il vostro tipo, non avrete che da dirlo, ve ne presenterò un’altra.

Lavorano per noi molte ragazze, ma la signorina Wonderley è la migliore.

Si allontanò sorridendo.

Lo guardai allontanarsi e mi chiesi quanto tempo sarebbe passato prima che lui o chiunque altro fosse dietro questa cordiale accoglienza, me ne chiedessero la contropartita. Certo volevano addolcirmi, per poi tirarmi fuori qualcosa. Un uomo alto e distinto dai capelli bianchi e un forte viso abbronzato mi stava guardando. Era solo all’estremità più lontana del bar.

Aveva l’aspetto di un giudice, di un dottore o di un avvocato. Vidi che faceva un cenno al barista. Gli chiese qualcosa e il barista mi guardò annuendo. L’uomo dai capelli bianchi venne verso di me.

— Siete Chester Cain, vero? — chiese bruscamente.

— Sì.

Non mi pareva avesse idee amichevoli, perciò non gli porsi la mano.

— Sono John Herrick — continuò, guardandomi in faccia. — Voi non sapete chi sono, ma io so chi siete voi. Francamente, signor Cain, mi dispiace che siate qui. Mi hanno detto che siete in vacanza e spero proprio che sia vero. Così spero che non vogliate crearci guai.

— Grazie al cielo, c’è qualcuno a cui rincresce di vedermi! — esclamai.

— Cominciavo a pensare che l’accoglienza cordiale potesse essere anche genuina.

— Questa città ha abbastanza problemi anche senza importare tipi violenti dalla pistola facile — replicò lui tranquillamente. — Desidero troppo se vi chiedo di non crearci altri grattacapi?

— Avete sbagliato tutto. — Risi. — Non sono un violento. Se mi lasciano in pace sono il tipo più tranquillo del mondo. Solo quando cominciano a darmi dei fastidi, m’innervosisco, e quando sono nervoso posso anche diventare violento.

Lui mi guardò pensieroso.

— Perdonate la mia franchezza, signor Cain. Sono certo che sapete comportarvi bene come chiunque altro, quando siete provocato. Ma preferirei che cambiaste idea riguardo al vostro soggiorno a Paradise Palms. Ho la sensazione che qualcuno vi darà dei fastidi molto presto.

Fissai il bourbon.

— Ho avuto la stessa sensazione — mormorai. — Ma scoprirò di che cosa si tratta.

— Mi dispiace che la pensiate così, signor Cain. Potreste rimpiangere la vostra decisione.

Sentii che Speranza era al mio fianco.

Herrick si voltò all’improvviso e attraversò la stanza, diretto all’uscita.

Guardai Speranza e lui guardò me. Nel suo sguardo c’era una strana luce di disagio.

— Non era uno del Comitato di Benvenuto.

— Non dovete preoccuparvi di lui. — Speranza cercò di sorridere. — E’

candidato alle elezioni del prossimo mese. Ha in programma una riforma.

— Ci tiene, pare, a che Paradise Palms rimanga una città pulita —

risposi con tono piuttosto asciutto.

— Tutti i politicanti hanno bisogno d’un piedistallo — rispose Speranza.

— Nessuno lo prende sul serio. Non può vincere. La gente preferisce Ed Killeano.

— Buon per lui.

Ci guardammo per un attimo, poi Speranza fece un cenno. Una ragazza attraversò la stanza, diretta verso di noi. Indossava un abito a giacca di crespo azzurro con una camicetta rossa. Era bionda e scommetto che non poteva passare per la strada senza che anche i vecchi fischiassero.

Finalmente riuscii a ricompormi. Aveva un profumo inebriante, di quelli che fanno accelerare i battiti del polso. E non tento neanche di descrivere quel che fece al mio. Speranza mi stava guardando ansiosamente.

— La signorina Wonderley — presentò, alzando un sopracciglio. —

Clair Wonderley — precisò.

La guardai. Lei sorrise. Aveva dei minuscoli dentini, candidi come fiori d’arancio.

— Non sarebbe meglio che ci lasciaste soli? —dissi, voltando le spalle a Speranza. — Penso che andremo d’accordo, noi due.

Speranza parve così sollevato che scoppiai a ridere.

— Bene, signor Cain — disse — forse ci vedremo di sopra, più tardi.

Abbiamo quattro roulettes e potremmo preparare un tavolo di poker per voi. Scossi la testa.

— Qualcosa mi dice che stasera non giocherò —dichiarai. Poi presi il braccio della signorina Wonderley e mi diressi con lei verso il bar.

Guardai la ragazza. Era splendida. Mi piaceva la lunga onda dei suoi capelli. Il barista ci guardò.

— Cosa volete bere?

— Un pappagallo verde — rispose lei. E spiegò: — E’ una specialità di Tony.

— Va bene — feci al barista. — Due, allora.

Poi mi rivolsi ancora a lei.

— Cosa facciamo, stasera? Prepariamo un programma.

— Beviamo, ceniamo, balliamo, andiamo alla spiaggia a fare il bagno.

Poi beviamo ancora e poi…

— E poi?

— E poi vedremo. Non volete ballare con me?

— Certo.

Il barista ci mise davanti due bicchieri pieni di un liquido verde. Feci un gesto per chiedere quanto dovevo, ma quello si voltò.

— Non riesco ad abituarmi a farmi offrire tutto dalla casa — feci, prendendo il bicchiere.

— Vi ci abituerete.

Ingollai una gran sorsata di liquido, poi lo posai in fretta sul banco, tossii e chiusi gli occhi. Mi sembrava che lo stomaco volesse esplodere, ma dopo pochi secondi, mi sentii leggero come una nuvola.

— Accidenti, questa bibita è esplosiva! — esclamai quando fui in grado di parlare.

— Tony ne è molto orgoglioso — fece la ragazza sorseggiando lentamente. — E’ meravigliosa! La sento scendere fino alla punta dei piedi.

Una volta finiti i pappagalli verdi ci comportammo come se fossimo stati vecchi amici.

— Mangiamo qualcosa — mormorò lei, scivolando dallo sgabello e appendendosi al mio braccio. — Guillermo ha preparato una sua specialità.

Guillermo ci guidò al tavolo. Le stelle brillavano sopra di noi. Un venticello caldo arrivava dal mare, l’orchestra suonava melodie languide. Il cibo e il vino erano ottimi. Non ci scomodammo ad ordinare: ci servirono e non dovemmo far altro che mangiare.

Poi ballammo. La pista non era molto affollata. Mi sembrava di ballare con Ginger Rogers. Cominciavo a pensare che fosse la migliore serata della mia vita, quando notai un uomo grosso vestito di gabardine verde, vicino all’orchestra.

Aveva un muso rincagnato e cattivo e mi stava guardando con occhi malevoli. All’improvviso si voltò e sparì dietro il sipario.

Anche la signorina Wonderley l’aveva visto. Sentii che i muscoli della sua schiena si irrigidivano. Si staccò da me.

— Andiamo a fare il bagno — disse all’improvviso, dirigendosi all’uscita.

Vidi il suo viso riflesso in uno specchio. Era pallida.
3

Dayden Beach era una solitaria striscia di sabbia e palme a poche miglia dal casinò…

La ragazza era seduta vicino a me, in macchina, e canticchiava un motivetto. Pareva essersi rimessa.

Diressi la Buick verso la spiaggia, poi fermai. In lontananza vedevamo le luci di Paradise Palms, fiotti di musica ci giungevano di tanto in tanto.

Aprii il portabagagli e tirai fuori due asciugamani e un costume da bagno. In un paio di minuti fui pronto.

Anche la signorina Wonderley, che si era cambiata in macchina, era già pronta e mi stava aspettando.

Pareva una scultura.

Tenendoci per mano corremmo verso l’oceano. La sabbia era bollente, e l’acqua calda. Nuotammo a lungo, fianco a fianco. Quando uscimmo la guardai.

Avevo conosciuto un sacco di donne, in vita mia, ma questa le superava tutte.

— Non mi guardate così — mormorò. — Mi intimidite.

Sedemmo vicini.

— Raccontatemi di voi — disse.

— Non ho niente di interessante da dire.

— Provate.

— Non avevo fatto nulla di speciale, prima di entrare in servizio militare. Poi tornai dalla Francia con un sacco di medaglie, una maledetta abilità nello sparare diritto, i nervi rotti e la mania del gioco. Nessuno mi voleva, non riuscivo a trovar lavoro. Un giorno capitai in un posto dove giocavano a poker. Ci rimasi tre settimane. Mangiavamo, ci lavavamo e radevamo sempre seduti al tavolo. Vinsi cinque bigliettoni e qualcuno se la prese un po’ troppo. Lo colpii con una bottiglia e quello impugnò una pistola. Le pistole non mi fanno paura, sono stato nelle Ardenne. Gliela feci saltare di mano e cominciai a suonargliele.

— Un tipo duro, eh?

— Mh… — annuii. — Non mi piacque quella pistola. Mi fece pensare che un giorno o l’altro avrei potuto trovare qualcuno che sapesse usarla veramente e a dovere. Perciò me ne comprai una e decisi di diventare imbattibile. Vedete, dopo essere stato sotto le armi, si diventa così: si ha sempre voglia di fare le cose meglio degli altri. Mi sistemai in un albergo di decima categoria e cominciai ad allenarmi a trarre la pistola di tasca e a premere il grilletto quasi contemporaneamente. Mi allenai per sei ore al giorno. Non ho ancora trovato un tipo più svelto di me, da allora. Quel lavoro mi salvò la vita almeno cinque volte.

La ragazza rabbrividì.

— Mi hanno detto che siete un tipo senza scrupoli, ma ora che vi ho conosciuto non ci credo.

— Non lo sono — risposi, cingendole le spalle con un braccio. — Ora vi spiegherò come mi comporto in certi casi. Ad esempio: mi capita fra i piedi un tizio che si crede in gamba, ed è convinto che nessuno può batterlo. Forse è ubriaco o infelice o qualcosa del genere, ma si mette in testa che è in gamba e deve provarlo. A nessuno importa che lo sia o meno. Ma il tizio non vuol capirlo. Allora che fa? Si dà da fare per trovare qualcuno che abbia una reputazione e comincia a provocarlo. Sa che la cosa dovrà finir male. Io sopporto tutto, perché potrei batterlo facilmente e non mi piace ammazzare le persone. Perciò me ne resto là a farmi stuzzicare. Forse ho torto, perché questo lo incoraggia. Così il tipo impugna la pistola. E allora sono costretto a sparare, perché ci tengo alla mia pelle, e non ho nessuna voglia di morire. Dicono che sono senza scrupoli, ma non è vero. Quando mi mettono contro il muro, devo pur pensare a difendermi. Non fece commenti.

— E’ quello che sta accadendo anche qui —continuai. — Qualche tipo sveglio crede di essere in gamba e vuol dimostrare alla città che può siste-marmi. Vuol mettermi con le spalle al muro. Non so chi sia, né quando comincerà ad agire, ma so con sicurezza che è così e che voi siete coinvolta in tutto questo — le sorrisi. — Ma dovrò scoprire se sapete che cosa bolle in pentola, o se siete solo una pedina incosciente.

— Siete pazzo! — Lei scosse la testa. — Non accadrà niente.

— Questo non mi dice ancora se siete con me o contro di me.

— Con voi.

Me la tirai vicino. Le presi il mento e la baciai dolcemente. Chiuse gli occhi. Alla luce della luna il suo volto pareva una bella maschera di porcellana. All’improvviso si staccò da me e balzò in piedi. La guardai: la sua bellezza mi toglieva il respiro. Poco dopo si rimise a sedere al mio fianco.

— E adesso raccontami la storia della tua vita — le dissi.

— Non c’è niente da raccontare.

— Da quanto tempo sei qui?

— Un anno.

— E prima?

— New York.

— Ballerina?

— Sì.

— Come hai conosciuto Speranza?

— L’ho conosciuto.

— Ti piace?

— Non è niente per me.

— T’incarichi dei suoi ospiti illustri?

— Dovrei, almeno.

— Di chi ti sei incaricata, oltre a me?

— Di nessuno.

— Allora io sono il più illustre ospite di Paradise Palms?

— Così sembra.

— Ti piace il tuo lavoro?

— Sì.

Mi guardò negli occhi.

— Andiamo — mormorai. — Facciamo un’altra nuotata.

— Voglio mostrare alla signorina la vista della mia terrazza — dissi al portiere notturno, mentre mi porgeva la chiave. Aspettavo che mi ricordasse che quello era un albergo rispettabile, ma lui non disse nulla di simile.

— Sono lieto che consideriate la vista degna di essere mostrata alla signora — fece, inchinandosi. — Desiderate che vi mandi qualcosa, signor Cain?

— Un po’ di whisky scozzese.

— C’è del liquore in un armadietto del vostro salotto, signor Cain. L’ha mandato il signor Killeano circa un’ora fa, coi suoi migliori auguri.

— Pensiero gentile! — Ero sorpreso, ma non lo diedi a vedere.

Il ragazzo dell’ascensore guardò oltre la signorina Wonderley come se fosse stata la donna invisibile. Non potevo negare che avessero tutti molto tatto. L’orologio sul banco del portiere segnava le due e venti. Non avevo sonno.

Mentre ci dirigevamo alla mia stanza sul folto tappeto del corridoio, chiesi:

— Conosci questo Killeano?

— Speravo che tu pensassi solo a me — rispose.

— Ho una mente attiva: riesco a pensare anche a due cose insieme.

Aprii la porta e lei mi seguì nella stanza. Cercai di abbracciarla, ma mi sfuggì.

— Sono venuta ad ammirare la vista, ricordi?

— Giusto — risposi, conducendola sulla terrazza. La luna era chiara.

Non si udivano rumori all’infuori di un paio di motori che rombavano lungo la costa.

Quando rientrammo la feci sedere su una poltrona, poi cercai nei mobili per trovare il liquore di Killeano. Mi aveva mandato quattro bottiglie di Scotch, una bottiglia di cognac e una di Whiterock. Presi il cognac e preparai due bibite. Ne porsi una alla ragazza e annusai l’altra. Aveva un odore squisito.

— A te e a me — brindai, alzando il bicchiere.

— No, solo a te — rispose lei.

— Va bene. Allora berremo a te più tardi. Bevvi.

Lei mise il bicchiere sul tavolino senza toccarlo. Aveva gli occhi cupi e sbarrati. La guardai, sentendomi un brivido lungo la schiena. Il liquore mi arrivò nello stomaco.

— Avrei dovuto pensarlo — borbottai.
Mi parve che la stanza girasse lentamente, poi sussultasse.

— Il regalo di Killeano — riuscii ad articolare. Guardai in alto, le luci si stavano spegnendo come quelle di un cinema. Cercai di muovermi, ma i muscoli non ubbidirono.

Udii delle voci… Voci maschili. Ombre si mossero sul muro. Poi l’oscurità completa.
4

Cominciai a risalire dall’oscurità verso un lumicino. Sapevo che era impossibile raggiungerlo, ma cercai di farcela, perché una donna stava gridando. All’improvviso la luce mi accecò. Gemetti, mentre cercavo di mettermi a sedere. La testa mi doleva maledettamente. La donna urlava ancora. Il grido mi gelò il sangue.

Riuscii a tirarmi in piedi. Il pavimento mi sussultò sotto, mentre attraversavo la stanza. Raggiunsi la porta della camera da letto e guardai nel salotto. Clair Wonderley era seduta contro il muro di faccia, con la bocca spalancata. Quando mi vide strillò ancora.

Avevo la testa che pareva riempita di ovatta, ma il grido riuscì a penetrarmi dentro, facendomi stringere i denti. Portai lo sguardo da lei al pavimento. John Herrick giaceva supino, le braccia rigide verso il soffitto, le mani strette. Aveva la fronte sfondata. Il sangue gli aveva macchiato i capelli grigi, formandogli un’aureola intorno alla testa. Colpi pesanti risuonarono alla porta. Qualcuno gridò. La ragazza rabbrividì profondamente, poi strillò ancora.

Attraversai la stanza e la schiaffeggiai. I suoi occhi rotearono fino a mostrare solo il bianco, poi scivolò lungo il muro, sul pavimento. Era svenuta. La porta si spalancò. Gli uomini guardarono prima me, poi la signorina Wonderley e alla fine John Herrick. Io guardai loro.

C’erano il portiere, un cameriere, un valletto, due donne dall’aria spiritata, tre uomini vestiti di bianco e un grassone in divisa. Proprio davanti a tutti, il tipo in gabardine verde che mi aveva guardato male al Casinò.

Le due donne cominciarono a strillare. Non potevo biasimarle, avrei fatto altrettanto volentieri. Ma l’uomo in gabardine si arrabbiò.

— Portate le due donne fuori di qui — urlò. — Fuori tutti! — Il portiere e il cameriere rimasero, ma gli altri sparirono.

Quando la porta fu chiusa, l’uomo in gabardine si rivolse a me.

— Che succede? — chiese, stringendo i pugni e indurendo la mascella.

Dal tono capii che doveva essere un poliziotto. Lo era, infatti.

“Perquisitemi” stavo per dire. Ma le parole non vennero. Avevo la bocca che pareva piena di sabbia.

Muovendosi in punta di piedi, il cameriere attraversò il salotto ed entrò nella stanza da letto. Ritornò con una coperta che gettò sul corpo di Herrick.

— Chi è questo tipo? — chiese l’uomo in gabardine, rivolto al portiere.

— Il signor Chester Cain — rispose quello con voce tremante.

Il poliziotto parve percorso da una scarica elettrica.

— Sicuro?

Il portiere annuì.

L’uomo in gabardine mi fissò negli occhi. Il suo viso era maligno.

— Sappiamo tutto di voi — esclamò. — Sono Flaggerty, della Squadra Omicidi. Siete nei guai, Cain.

Sapevo che dovevo dire qualcosa.

— Siete pazzo — riuscii ad articolare. — Non sono stato io.

— Quando trovo un topo di fogna come voi chiuso in una stanza con un uomo ucciso, non devo andare molto lontano per trovare l’assassino —

sbottò Flaggerty. — Siete in arresto e fareste meglio a confessare.

Cercai di pensare, ma avevo il cervello paralizzato. Mi sentivo male e la testa mi batteva dolorosamente.

Il portiere prese Flaggerty per la manica e cominciò a parlargli sottovoce. Dapprima Flaggerty non voleva sentire, ma quando udì il nome di Killeano cambiò senz’altro atteggiamento. Mi guardò come dubbioso, poi si strinse nelle spalle.

— E va bene — disse al portiere. — Ma è una perdita di tempo.

Il portiere lasciò la stanza. Dovette farsi strada fra la gente che si affollava nel corridoio. Due o tre persone cercarono di dare un’occhiata nella stanza.

Flaggerty sbatté la porta, poi andò alla finestra a guardar fuori.

Il cameriere mi toccò il braccio, offrendomi un bicchiere di whisky.

Lo bevvi d’un fiato. Era proprio quel che ci voleva.

Ne chiesi ancora.

Il cameriere me ne servì dell’altro, guardandomi con un misto di  servilismo e di orrore.

All’improvviso l’ovatta sparì dalla mia testa, il dolore passò e mi sentii bene. Chiesi una sigaretta, che il cameriere mi porse velocemente con mano tremante.

Flaggerty ora era rivolto verso di me e teneva in mano una pistola.

— State dove siete, Cain. Non voglio correre rischi con voi.

— Smettetela. Vi dirò cos’è successo non appena la ragazza rinviene.

Non so proprio cosa sia successo.

— Ma davvero! — sogghignò Flaggerty.

— Non parlate — sussurrò il cameriere — finché non arriva il signor Killeano.

— Deve venire? — chiesi.

— Certo. Siete nostro cliente, signor Cain, e noi faremo di tutto per togliervi dai pasticci.

— Non esiste albergo migliore di questo — fu l’unica cosa che trovai da dire.

Guardai Clair. Era ancora svenuta. Feci un passo verso di lei.

— Fermo, Cain! — urlò Flaggerty. — Rimanete dove siete.

Sapevo che avrebbe sparato, se appena gliene avessi dato l’occasione. Mi misi a sedere.

— Sarà meglio che cerchiate di far rinvenire la ragazza — dissi. —

Dovrebbe avere un sacco di cose da dire.

— Guardate di fare qualcosa — ordinò Flaggerty al cameriere.

Mi guardai intorno. Il portacenere era pieno di cicche, due bottiglie di Scotch vuote erano posate sul caminetto. Un’altra era sul pavimento in una pozza di whisky. I tappeti erano tutti in disordine, una sedia rovesciata. Era una scena preparata: doveva sembrare una stanza dove si fosse bevuto parecchio.

Sul pavimento, vicino al cadavere, una pesante Luger. Il calcio della pistola era macchiato di sangue. Nel sangue, ciuffi di capelli bianchi.

Riconobbi la pistola. Era la mia. Continuai a guardarla. Se la ragazza non diceva la verità, ero nei guai. Speravo proprio che l’avrebbe detta, e presto.

.

Rimanemmo seduti mezz’ora senza parlare. Clan—si mosse due o tre volte, ma non rinvenne. Stavo cominciando a perdere la pazienza quando la porta si aprì. Entrò un uomo basso e tarchiato con un largo cappello nero. Assomigliava a Mussolini, quando mostrava i pugni dal balcone.

Diede un’occhiata alla stanza, poi si avvicinò a me.

— Cain? — chiese porgendomi la mano. — Sono Killeano. Non dovete preoccuparvi di niente. Siete mio ospite e io so come trattare gli ospiti.

Non strinsi la sua mano né mi alzai.

— Il vostro avversario politico è morto, Killeano — feci, squadrandolo da capo a piedi. — Perciò non dovete preoccuparvi più neanche voi.

Guardò Herrick.

— Povero ragazzo — mormorò. Avrei giurato che fosse commosso. —

Era un avversario onesto e leale. E’ una grande perdita per l’amministra-zione.

— Conservate le grandi scene per i giornalisti —feci.

Eravamo là fermi come manichini, quando Clair si alzò e ricominciò a urlare.

Mi accorsi subito che Killeano era grande, in quanto a organizzazione.

— Dobbiamo essere onesti con Cain — esclamò, picchiando il pugno sul bracciolo della poltrona. — So che la faccenda è contro di lui, ma è mio ospite e dobbiamo dargli la possibilità di discolparsi. Flaggerty borbottò qualcosa, ma il padrone era Killeano.

— Perché perdere tempo? — chiese Flaggerty. — Voglio portarlo alla centrale per interrogarlo.

— Non siamo certi che sia colpevole — abbaiò Killeano. — E non permetterò che lo arrestiate senza prove. Interrogatelo qui.

— Accidenti! — borbottai. Non mi guardò neppure.

— Fatela star zitta — continuò, accennando alla ragazza, che stava piangendo nel fazzoletto del cameriere. — Non voglio che apra la bocca finché non avremo udito gli altri testimoni.

Fumai guardando fuori dalla finestra mentre Killeano organizzava le cose. Finalmente fu tutto come lui voleva. Il portiere, il cameriere, il ragazzo dell’ascensore, Speranza, il barista del Casinò erano in fila nel corridoio. Disse loro di aspettare. Clair era andata nel bagno con un donnone venuto dalle carceri per sorvegliarla. C’erano anche due grossi poliziotti ai miei lati. E poi Flaggerty, due agenti in borghese, un fotografo e un dottore. Un piccolo stenografo in un angolo scriveva diligentemente, come ne andasse della sua vita, non della mia.

Poi c’eravamo io e il mio paladino Killeano. Flaggerty cominciò.

— Siete Chester Cain?

— Sì — risposi. — E voi siete il tenente Flaggerty, quello che non sa 
niente.

Killeano balzò in piedi:

— Questa è una cosa seria, Cain.

— Sono il capro espiatorio. Perché volete preoccuparvi di come tratto la faccenda?

Killeano si mise a sedere.

Flaggerty si muoveva nervosamente. Appena Killeano si fu rimesso a posto, incominciò a interrogarmi.

— Va bene — fece — siete Chester Cain e di professione fate il giocatore.

— Non la chiamerei professione. Arrossì penosamente.

— Non ammettete che vi guadagnate da vivere giocando?

— No. Non ho ancora cominciato a guadagnarmi da vivere. Sono stato appena congedato.

— Siete libero da quattro mesi. Durante questi quattro mesi non avete forse giocato?

Annuii.

— Avete fatto soldi?

— Abbastanza.

— Ventimila dollari li chiamate abbastanza?

— Non c’è male.

Esitò, poi decise di lasciar perdere. Aveva stabilito che ero un giocatore.

— E’ vero che avete assassinato un uomo e ferito altri quattro, in questi ultimi mesi? — chiese all’improvviso.

Killeano balzò di nuovo in piedi.

— Non scrivete questo nel rapporto — strillò indignato. — Cain sparò per legittima difesa.

— Li ha colpiti, comunque! — gridò Flaggerty. —Pensate, cinque bersagli vivi in quattro mesi. Che record! Legittima difesa o no, è orribile.

E qualsiasi cittadino decente ne dovrebbe essere sconvolto!

Killeano si rimise a sedere. Forse ci teneva ad essere considerato un cittadino decente.

— Avanti — continuò Flaggerty, rivolto a me. —Avete colpito quei cinque uomini o no?

— Cinque individui col dito già sul grilletto hanno cercato di uccidere me, e così mi sono difeso — risposi tranquillo. — Se è questo che intendete, allora avete ragione. Ma vi faccio notare che ne ho ucciso uno  solo. Avrei potuto farli fuori tutti, se avessi voluto.

Flaggerty spalancò le braccia.

— Ha colpito cinque uomini innocenti! — esclamò.

Killeano balzò in piedi per l’ennesima volta, ma io cominciai a seccarmi.

— Finitela! — gli gridai. — C’è un rapporto su questi fatti e il Procuratore Distrettuale di New York è convinto che io sia pulito. Chi credete che possa dar peso a quel che dice un piccolo poliziotto di provincia?

Flaggerty pareva sul punto di avere un colpo.

— Vedrete chi ci darà peso — sbottò. — Ora vi dirò qualcosa. Siete venuto a Paradise Palms perché sapevate che era una miniera d’oro.

Avevate deciso di ripulire i tavoli da gioco.

— Neanche per sogno! Ero venuto a godermi le vacanze.

— Eppure appena arrivato siete corso al Casinò.

— Ero stato invitato da Speranza e, non avendo di meglio da fare, ci sono andato.

— Da quanto conoscevate Speranza?

— Non lo conoscevo. Flaggerty alzò il sopracciglio.

— Davvero? E così volete darci a intendere che Speranza, senza conoscervi, vi abbia invitato al Casinò?

— Veramente strano, vero? — sogghignai.

— Sì. Ma forse non vi ha invitato. Forse vi siete invitato da solo perché avevate fretta di farvi il gruzzoletto e poi sparire.

Mi stava scuotendo un dito davanti agli occhi, urlando come un dannato.

— Non lo fate — dissi gentilmente — se no, vi arriva un cazzotto nello stomaco.

Si voltò, attraversò la stanza e fece entrare Speranza.

Speranza vestiva calzoni azzurro chiaro e una giacca color mostarda che faceva sembrare le sue spalle ancor più larghe di quanto non fossero in realtà. All’occhiello portava una rosellina bianca.

Molte donne avrebbero di certo fatto pazzie per lui.

Sorrise, poi notò il corpo di Herrick e il sorriso spari. Mi guardò, ma distolse subito lo sguardo.

Accesi un’altra sigaretta. Di lì a pochi minuti avrei saputo quel che mi sarebbe capitato.

Lo seppi abbastanza in fretta. Speranza disse che non mi aveva invitato.

Affermò che non sapeva neppure che fossi in città, finché non mi aveva visto al Casinò. Continuò che, conoscendo la mia reputazione, si era seccato quando mi aveva notato nel suo locale.

Gli dissi che era un bugiardo, ma lui non si scompose. Si trattava della sua parola contro la mia, e la mia parola non valeva molto, sui mercato.

Flaggerty mandò via Speranza e mi guardò con l’espressione di un gatto che abbia mangiato un canarino.

—— Inutile mentire, Cain. Fareste meglio a stare attento a quel che dite.

— Andate a quel paese — risposi, soffiandogli il fumo in faccia.

— Aspettate finché vi abbia portato alla Centrale! — urlò.

— Non ci sono ancora, però — gli ricordai. Killeano disse a Flaggerty di andare avanti.

— Avete conosciuto Herrick al Casinò? — domandò Flaggerty, dopo aver controllato la rabbia, che gli ribolliva in corpo.

— Sì.

— Vi disse di lasciare la città?

— Mi consigliò di andarmene.

— Che gli rispondeste?

— Che sarei rimasto.

— Gli diceste di tenere il naso fuori dai vostri affari, altrimenti l’avreste sistemato.

— Balle.

Flaggerty chiamò il barista, che disse di avermi sentito minacciare Herrick. — Ha detto: “Tenete il naso fuori dai miei affari, altrimenti ve lo farò uscire dall’altra parte della testa” — disse il barista.

— Quanto ti hanno dato per recitare la commedia? — chiesi.

— Non ve ne preoccupate, Cain — fece Flaggerty.

— Potete andare, voi. Vi chiameremo per il processo.

Il barista uscì scuotendo la testa.

— Poi ritornaste all’albergo con questa donna — fece Flaggerty, accennando a Clair Wonderley. La ragazza si sentiva a disagio, con l’abito di crespo azzurro nel sole del mattino. Sembrava infelice. Le feci l’occhietto, ma non se ne accorse. — Vi siete ubriacati insieme, poi lei ha perso conoscenza e voi avete cercato Herrick. Immaginavate che potesse essere pericoloso, che avrebbe sconvolto i vostri piani. Perciò gli telefonaste dicendogli di venire qui.

— Non dite idiozie — esclamai. — Io ho perso conoscenza. Chiedetelo alla bambola, ve lo dirà. Ancora meglio: cercate la bottiglia di cognac, la  troverete piena di sonnifero.

— Che cognac? — chiese Flaggerty.

Uno dei poliziotti andò nella stanza da letto, ma ritornò a mani vuote.

— Niente cognac — disse.

— Certo, dovevo immaginarlo — commentai. — Ma chiedetelo a lei.

— Non ho bisogno di chiederle niente! — gridò Flaggerty. — Il telefonista dell’albergo ha preso nota di una vostra chiamata alle due di stanotte. Una vostra telefonata a Herrick. Quando è arrivato qui, Herrick ha chiesto il numero della vostra stanza. Che avete da dire di questo?

— Niente.

— Avete parlato con Herrick. Eravate ubriaco e violento. Siete un assassino, Cain. Non ci pensate certamente due volte, voi, prima di uccidere. Herrick, però, non si è lasciato intimidire, e allora l’avete colpito con la pistola. Eravate tanto ubriaco che ve ne siete dimenticato subito dopo. Scoppiai a ridere.

— Chiedetelo a lei… — guardai Clair. — Senti, piccola, ieri sera hai detto che eri dalla mia parte. Dimostralo allora. Sei l’unica che possa aprire questa trappola. Mi fido di te. Mi hanno messo nei guai. Non posso fare niente, ma tu puoi aiutarmi. Se dici la verità potrò uscire sano e salvo.

— Un momento! — esclamò Killeano, con un’espressione di sospetto negli occhi. Attraversò la stanza verso la signorina Wonderley. — La vostra parola in tribunale non può avere molto valore. Se Herrick non è stato ucciso da Cain, allora l’avete ucciso voi. E vi dirò perché. La porta era chiusa dall’interno. Perciò non mentite. Forse Cain è stato gentile con voi, ma dovete dire la verità.

Mi accorsi che avevano pensato proprio a tutto. Se la ragazza diceva che avevo perso conoscenza, avrebbero accusato lei.

— E va bene, piccola — mormorai. — Di’ pure una bugia, se preferisci.

Sono stati un po’ troppo furbi, per noi.

— Non dico niente — disse lei, cominciando a piangere.

Flaggerty la prese per un braccio e cominciò a scuoterla.

— Sì che parlerete, invece!

La scosse ancora violentemente, facendole sbattere la testa.

Mi alzai di scatto prima che i due poliziotti riuscissero a fermarmi.

Lo colpii sulla bocca. Sentii il pugno battere sui suoi denti. Indietreggiò perdendo sangue. Mi sentii meglio.

I poliziotti mi raggiunsero e mi colpirono alla testa con uno sfollagente.
Quando mi rialzai avevo un bitorzolo sulla testa, ma Flaggerty aveva perso due denti.

Dopo un po’ l’atmosfera era più tranquilla, ma Flaggerty era ancora troppo intontito per continuare l’interrogatorio. Killeano si mise davanti a Clair Wonderley.

— O ci dite cos’è accaduto o vi arrestiamo — esclamò.

— Che t’importa? — dissi, massaggiandomi la testa, rivolto alla ragazza.

— Perché non vuoi parlare? Di’ che hai perso conoscenza e che non ne sai niente. Hanno tutte le testimonianze che vogliono, tanto…

Uno dei poliziotti mi colpì alla bocca.

— Questa è una cosa che pagherete cara — mormorai. Lo sguardo che gli lanciai lo fece indietreggiare.

La ragazza guardò Killeano, poi me.

— Non è stato lui — disse alla fine. — E’ una trappola. Non importa quel che mi farete, ma non è stato lui. Mi sentite? Non è stato lui.

Killeano la guardò come se non credesse alle proprie orecchie. La sua faccia grassa diventò gialla per la rabbia.

— Vigliacca! — gridò, colpendola con un ceffone.

Uno dei poliziotti mi colpì alla gola col randello. Non riuscii a muovermi né a respirare. Flaggerty e Killeano continuarono a guardare la Wonderley. Lei ricambiò lo sguardo, tenendosi la mano sulla guancia colpita.

— Non è stato lui! — ripeté con rabbia. — Potete tenervi il vostro sporco denaro. Potete anche uccidermi, ma non vi aiuterò.

Sogghignai fra me.

Killeano si voltò verso Flaggerty.

— Arrestateli tutti e due. Cercheremo di farli ragionare.

Poi guardò Clair.

— Ve ne pentirete.

Lasciò la stanza, chiudendosi la porta alle spalle.

Sapevo che se non avessi fatto qualcosa subito, dopo sarebbe stato troppo tardi. Una volta alla Centrale, saremmo stati fritti.

— Avanti, pivello — fece un poliziotto. — Se tenti di fare qualcosa, prima spariamo, poi chiediamo scusa. Non vogliamo ucciderti prima di esserci divertiti un po’, ma neanche correre rischi.

— Ho sentito parlare del terzo grado — feci —voglio provarlo.

— Lo proverai, non temere.

Flaggerty stava andando avanti e indietro. Clair Wonderley era seduta, col donnone alle spalle. Flaggerty mi guardò cattivo. Aveva le labbra gonfie e sporche di sangue.

— Cinque uomini in quattro mesi — sbottò, fissandomi malignamente.

— Un assassino, eh? Ti mostrerò io come trattiamo gli assassini! Hai ancora due settimane prima del processo. Saranno due settimane d’inferno, Cain.

— Non fare il tragico, ciccione.

Il grosso poliziotto che mi aveva colpito ripeté l’assalto; questa volta mi prese da dietro. Caddi sulle mani. Flaggerty mi sferrò un calcio al collo.

Giacevo vicino al corpo di Herrick, fingendo di essere svenuto. Di sotto la coperta spuntava la canna della mia Luger. Avevano dimenticato di prenderla, quando avevano coperto il corpo di Herrick. Flaggerty stava urlando.

— Alzati se no ti prendo di nuovo a calci!

— Un momento — borbottai, mettendomi lentamente in ginocchio.

Fingevo di essere intontito. La rivoltella insanguinata era a circa un metro da me. Cercai di ricordare se qualche poliziotto aveva una pistola in pugno. Mi sembrava di no. Erano molto coraggiosi, ora che mi sapevano disarmato. Flaggerty mi diede un altro calcio.

Caddi sul corpo di Herrick. Provai una strana sensazione, disteso sul corpo irrigidito. Chiusi la mano sul calcio della pistola. Era sporco di sangue, ma non me ne importava.

Mi rialzai.

Il viso di Flaggerty diventò verde, quando vide la Luger. Gli altri sembravano delle figure di cera.

— Salve! — esclamai. — Vi ricordate di me?

Non puntai la pistola. La tenni con noncuranza lungo il fianco; e mi appoggiai al muro per guardarli tutti.

— Bene, andiamo — sogghignai. — Vi porto alla Centrale.

Non si mossero né dissero una parola. Guardai Clair. Era seduta sull’orlo della sedia, con gli occhi sbarrati per la meraviglia.

— Un branco di sorelline che giocano a fare i duri — le dissi. — Vieni con me, piccola?

Si alzò e mi si avvicinò. Le tremavano le ginocchia. La presi per la vita.

— Mi fai un piacere?

— Sì.

— Va’ in camera da letto e metti un po’ della mia roba in una valigia.

Scegli la migliore, l’altra lasciala. Svelta!

Passò vicino alle figure di cera senza alzare gli occhi, poi scomparve nella stanza da letto.

— Qualcuno di voi immagina come faccio presto a premere questo grilletto? — chiesi allegramente. —Se siete curiosi datemi l’opportunità di dimostrarvelo.

Nessuno si mosse. Erano troppo spaventati. Non avevano neanche il coraggio di respirare.

Accesi una sigaretta e soffiai il fumo in faccia a Flaggerty.

— Vi siete divertiti? Ora mi diverto io. Volevo solo passare una buona vacanza e spendere il mio gruzzolo, ma voi avete voluto fare i furbi.

Volevate uccidere Herrick perché vi dava fastidio e io ero il tipo su cui far ricadere la colpa. Avete ucciso Herrick, ma non avete ucciso me. Vi accorgerete che sono duro a morire. Scoprirò chi voleva togliere di mezzo Herrick e continuerò il suo lavoro. Rimarrò qui finché non avrò scoperto la faccenda. E cercate di fermarmi, se ci riuscite. Non mi piace, di venir messo con le spalle al muro da quattro piedipiatti pidocchiosi di provincia.

Ferisce il mio orgoglio. Feci un cenno al poliziotto che mi aveva colpito.

— Vieni qui, fratello.

Obbedì, le mani in alto, camminando come avesse avuto delle uova sotto i piedi. Quando fu abbastanza vicino lo colpii sul naso. Barcollò, cadde addosso a Flaggerty, e poco dopo erano tutti e due per terra.

Il naso del poliziotto cominciò a sanguinare. La ragazza apparve sulla soglia. Teneva in mano una valigia.

— Un momento, piccola.

Andai alla finestra, tirai le tende e ricuperai la scatola dei sigari che avevo nascosto sull’intelaiatura. La scatola conteneva diciotto bigliettoni: il gruzzolo per le vacanze.

Per quanto non mi preoccupassi di guardarli, i poliziotti non osarono muovere neanche un muscolo. Cominciai a pensare che avevo un’ottima reputazione, a Paradise Palms.

— Andiamo — dissi a Clair. Lei aprì la porta.

— Ciao — feci a Flaggerty. — Vienimi dietro, se ne hai il coraggio.

Sarei felice di essere costretto a dar battaglia, ma non sparo mai per primo.

Non devo. — Gli feci l’occhietto. — Arrivederci! Rimase seduto sul 
pavimento a fissarmi con odio, ma non disse niente.

Presi il braccio della ragazza e mi diressi all’ascensore. Un attimo dopo, la cabina della porta si aprì silenziosamente.

— Al pianterreno, signore? — chiese il ragazzo. Era quello che aveva giurato di aver visto Herrick entrare nella mia stanza.

Lo tirai fuori dall’ascensore e lo colpii in mezzo agli occhi. Cadde per terra e rimase immobile. Spinsi Clair nella cabina, poi entrai anch’io.

— Al pianterreno — dissi, e sorrisi al ragazzo immobile. Poi chiusi la porta.
5

— Sanno dove abiti? — chiesi alla ragazza tirando la Buick fuori dal garage dell’albergo.

Scosse la testa.

— Ne sei certa?

— Sì. Ho cambiato casa un paio di giorni fa. Nessuno ne è al corrente.

— Andremo a prendere dei vestiti tuoi. Dov’è? Mi prese per un braccio.

— No, lasciamo la città. Ho paura.

— Abbiamo tempo. E non devi aver paura: non ci prenderanno, se usiamo il cervello. Dov’è la tua casa?

— Sull’angolo di Essex e Merrivale. Diritto. Dirò io, dove fermare.

Premetti sull’acceleratore, tenendo gli occhi fissi allo specchietto retrovisore. Nessuno ci seguiva.

— Abbiamo un sacco di cose da dirci — mormorai.

— Grazie per esserti messa dalla mia parte. Rabbrividì.

— Ci prenderanno?

— Non riuscirebbero neanche a prendere il treno — risposi, ma la mia risata non era spontanea. Mi chiedevo se all’albergo avessero preso il numero della mia macchina e quanto tempo sarebbe passato prima che Flaggerty ne venisse in possesso. Mi domandavo dove diavolo potevamo nasconderci e se sarebbe stato meglio lasciare la città. Ma non volevo andare lontano: ero deciso a mettere Killeano nei guai.

— Senti, piccola — dissi con voce tranquilla — voglio che tu usi il cervello. C’è un posto qui in città o nelle vicinanze dove possiamo nasconderci con un certo margine di sicurezza?

— Dobbiamo andarcene. Non sai cosa sarebbero capaci di farmi, se mi prendessero.

— Non ti preoccupare. Nessuno ti prenderà. Stiamo sfuggendo alla polizia, e presto tutte le autostrade saranno bloccate. Non potremmo andare molto lontano. Dobbiamo nasconderci finché la bufera non è passata. Poi, una notte, ce ne andremo di qui per sempre.

— E’ meglio che ce ne andiamo adesso — esclamò, stringendo i pugni.

— Non aver paura. Devi pensare a un posto dove possiamo nasconderci per tre o quattro giorni. Avevamo raggiunto la casa della ragazza. Fermai la Buick davanti a un edificio stinto.

— Andiamo — dissi, prendendo la scatola dei sigari.

— Facciamo presto.

Corremmo su per le scale e ci trovammo in un’ampia stanza da letto che guardava la strada. Feccia valigia come se avesse avuto il diavolo alle calcagna. In tre minuti aveva finito. In cima alle scale ci fermammo di botto.

— Cos’è? — chiese lei.

Le feci cenno di star zitta. Una radio stava trasmettendo un comunicato della polizia. Avvertivano i cittadini di Paradise Palms della nostra fuga.

— Ti piace essere chiamata “bionda assassina”? —le chiesi sorridendo.

Mi diede una spinta e corse verso l’uscita. In fondo alle scale si fermò.

Un uomo grosso in maniche di camicia era uscito da una stanza laterale.

— Ehi! — esclamò il tipo. — Siete ricercata!

— Anch’io sono ricercato — mormorai, continuando a scendere.

L’uomo indietreggiò impallidendo.

— Non so niente di voi, signore — mormorò con voce stridula.

— Dov’è il tuo telefono, amico? — chiesi, spingendolo da parte.

Fece un cenno verso la stanza di dove era appena uscito. Lo seguii. Clair Wonderley si appoggiò al muro.

La stanza era grande e in disordine. Le tende erano tirate perché non entrasse il sole.

Una vecchia teneva il ricevitore contro l’orecchio.

Quando ci vide lasciò cadere l’apparecchio, che rimbalzò sul tavolo con un tonfo sordo. Presi il filo del telefono e tirai finché non si staccò dal muro.

— Ora non potrete più dirlo a nessuno — mormorai all’uomo. — Ed è una fortuna, per voi.

Lui rabbrividì, sudando abbondantemente. A quanto pareva lo terrorizzavo.

Lo lasciai lì e raggiunsi la ragazza. Anche lei sembrava spaventata.

Accidenti! Lo ero anch’io! Saltammo sulla Buick e partimmo a tutto gas.

— Hai trovato il nascondiglio, piccola? — chiesi. Scosse la testa.

— No.

— E allora pensaci, altrimenti tra poco sarà troppo tardi.

Posò il capo sui pugni chiusi e cominciò a piangere.

Era davvero terrorizzata.

Guardai l’oceano lucente, al di là della baia.

— Che isole sono quelle? — chiesi. — Le conosci? Si rialzò e le lacrime smisero di fluire all’improvviso.

— Naturalmente. Le conosco tutte. Ecco il posto che fa per noi: Cudco Key. E’ là in fondo a sinistra, la più piccola delle isole. C’è una baracca, anche.

— Bene. Se riusciamo a raggiungerla, siamo a posto.

Passammo vicino a Dayden Beach. Guardai la striscia di sabbia e mi parve che fosse passata un’eternità, da quando ci eravamo stati insieme.

Continuammo a camminare, poi la vista del molo mi diede un’idea.

— Daremo la macchina in cambio d’un motoscafo.

— Sono felice di essere con te — mormorò lei. Le carezzai un ginocchio.

Uscimmo dalla macchina e ci dirigemmo al molo. Mi accertai di avere la pistola a portata di mano e strinsi la scatola dei sigari. C’erano molte imbarcazioni da diporto, ancorate nella baia, ma nessuna mi parve abbastanza veloce. Avevo bisogno di qualcosa che potesse tener testa a una lancia della polizia, in caso di bisogno.

Trovai quello che cercavo subito dopo. Uno snello motoscafo di mogano, acciaio e ottone lucente. Sembrava molto veloce.

— Eccolo là! — dissi alla ragazza.

Stavamo ancora guardando la barchetta, quando un ometto grasso uscì da una casa lì vicino. Ci diede un’occhiata, poi salì a bordo. Ci guardò ancora, poi ridiscese.

— Ehei! — urlai.

Aveva il viso bruciato dal sole e i capelli color stoppa. Non sembrava un tipo cattivo, ma duro e deciso.

— Avete bisogno di me? — chiese.

— Non di voi, del vostro guscio.

— Chester Cain, accidenti! — squittì. Stette bene attento a tenere le mani bene in vista e a non fare movimenti falsi, ma non era spaventato.

— Proprio così — risposi.

— Per me va bene lo stesso. La radio continua a parlare di voi. Tutta la città sa che siete in fuga. Guardò la ragazza e sorrise. La bellezza l’aveva colpito.

— E così volete il mio motoscafo?

— Sì. Ho fretta, ma non voglio derubarvi. Vi do in cambio la Buick e un biglietto da mille.

Sbarrò gli occhi.

— Potrò riaverlo, prima o poi?

— Certo, se non l’affondano.

— Affondarlo? Non lo vedranno neanche! Il suo ottimismo mi fece bene.

— E’ così veloce?

— Il motoscafo più veloce della costa. Il destino è stato benigno con voi, mandandovi da me.

— Comincio a crederlo anch’io. E allora, facciamo l’affare?

— Non vorrei. Ma lo farò lo stesso — sogghignò. — Quell’Herrick non mi è mai piaciuto.

— E’ proprio vostro, il guscio?

— Certo! Mi chiamo Tim Duval. Lo uso per la pesca del tonno. Quando sarete fuori dai guai vi porterò a fare un giretto. Vi piacerà. Tenetelo pure quanto volete. Potrebbe portarvi anche a Cuba, se vi piacesse.

La bionda andò a prendere le due valigie. Voleva rendersi utile. Era molto carina, nel vestito azzurro. Duval non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Salimmo a bordo.

— Va’ in cabina, piccola — dissi. — Sarai più sicura.

Non volevo che qualcuno la vedesse, mentre mi allontanavo dal molo.

Lei andò in cabina e chiuse la porta.

— Volete che vi accompagni? — chiese Duval, speranzoso.

Scossi la testa.

— No.

Lui si strinse nelle spalle.

— Come volete. Comunque avrei preferito viaggiare solo con lei. Bella, vero?

— Mh… mh… — borbottai, gettandogli le chiavi della Buick.
Avviai il motore. Duval fece per scendere, poi si fermò un momento.

— Non mi piace neanche Flaggerty, a essere sincero.

— Rise.

Capii che non ci avrebbe traditi. Lo salutai, poi diressi l’imbarcazione verso il mare aperto. Poco dopo eravamo fuori dalla baia. Mi voltai. Duval stava salutandomi con le mani alzate. Risposi al saluto. Accelerai e l’imbarcazione fece un balzo in avanti, ruggendo.

Cudco Key era un isolotto a cinque miglia dalla catena di isole che facevano corona a Palm Bay. La sua spiaggia era circondata da palme di cocco, piante di orchidee bianche cariche di delicati fiori venati di verde, e salici piangenti. Molto più nell’interno scorgemmo platani e alberi tropicali. Spire di fumo si innalzavano dove venivano bruciati gli alberi per ricavare carbone. Nascosi l’imbarcazione fra i platani, sicuro che nessuno l’avrebbe scorta dal mare. Lasciammo la nostra roba a bordò e andammo in cerca della baracca.

Clair Wonderley aveva infilato un paio di calzoni verde bottiglia, una camicetta e si era fermata i riccioli con un fazzoletto arancione. L’isola era caldissima. Nonostante fossi in calzoni di tela e canottiera, sudavo abbondantemente. La mia bionda amica mi disse che l’isola era abitata da una dozzina di pescatori, ma non ne vedemmo nessuno.

Fui molto sorpreso, quando arrivammo alla baracca. Prima di tutto era situata in modo da permettere una bella vista di Palm Bay e Paradise Palms in lontananza e poi non era una baracca. Era una costruzione antitifone fabbricata anni prima dalla Croce Rossa.

Queste case antitifone, fatte di cemento armato e acciaio, sono robuste come piccole fortezze. Le finestre hanno doppi vetri e persiane di ferro. Il solo legno è quello della porta, rinforzata da sbarre metalliche.

Questa sorgeva all’estremità dell’isola e per circa due miglia non sorgevano altre costruzioni.

— Una baracca, eh? — chiesi ridendo.

Clair incrociò le mani dietro la schiena e si alzò in punta di piedi per ammirare la casa.

— L’avevo appena intravista da un battello —spiegò. — Mi avevano detto che era disabitata.

— Proviamo a entrare.

Non fu facile. Alla fine fui costretto a far saltare la serratura con un colpo di rivoltella. Il luogo era sporco e l’aria irrespirabile, ma dopo aver aperto le finestre cominciammo a sentirci meglio.

— Cercheremo di renderla abitabile — mormorai. — Almeno siamo al sicuro.

Scovai senza volerlo un piccolo molo costruito quando era stata progettata la casa. Era seminascosto dai cespugli e solo rischiando di cadere, dopo essere scivolato, mi resi conto di quanto potesse essere importante per noi.

— E’ meraviglioso! — esclamai. — Possiamo portare qui la nostra flotta! Andiamo.

Facendo il giro dell’isola col motoscafo, m’imbattei nella comunità di pescatori, accampata sul lato orientale. C’erano tre o quattro barche ancorate, una dozzina di baracche di legno e una grande costruzione che aveva l’aria di essere un negozio.

— Rimani in cabina — dissi alla ragazza. — Vado a fare provviste.

Alcuni uomini erano seduti sul muretto, quando attraccai. Uno di loro, un ragazzone a piedi nudi, allungò la mano per prendere la corda che gli avevo gettato.

Gli uomini guardarono prima me poi il motoscafo.

— Quello è il motoscafo di Tim! — esclamò il ragazzone, fregandosi le mani sui calzoni sporchi.

— Si — feci io, temendo che potessero pensare che l’avevo rubato. —

L’ho affittato per andare a pesca.

— Bello scafo! — approvò il ragazzone.

— E come!

Mi diressi al negozio, sperando di non trovar guai. Non ne trovai.

Il negoziante mi disse che si chiamava Mac. Gli risposi che il mio nome era Reilly. Era un ometto dagli occhi brillanti e furbi. Quando cominciai a comprare, sorrise. Avevo bisogno di un sacco di roba. Dopo, chiamammo qualcuno per darci una mano a caricare. Arrivarono un paio di uomini e il ragazzone. Anche Mac venne con noi, ma non portò niente.

— Il battello di Duval — esclamò, quando fummo sulla spiaggia.

— Lo conoscete tutti, a quanto pare.

— Certo — rispose sorridendo.

Accesi una sigaretta, offrendogliene una.

— Bel posticino, quieto — dissi, guardandomi intorno.

— Proprio così. Nessuno viene mai a darci fastidio.

— Ho sentito che a Paradise Palms ci sono stati guai — aggiunse dopo
una pausa. — Omicidio politico, se non sbaglio. La radio ha continuato a parlarne.

— L’ho sentito dire.

— Non sono affari nostri, comunque.

Mi chiesi se volesse dire qualcosa.

— Siete solo? — domandò guardando il battello.

— Sì.

Annuì, poi sputò nel mare.

— Pensavo che vi foste portato dietro la moglie.

— Non sono sposato.

Il ragazzone scese dal battello. Era sudato.

— Ho lasciato tutto sul ponte — disse. — La cabina era chiusa.

Mac e il ragazzone si guardarono. Capii quello che stavano pensando.

Porsi al ragazzo cinque dollari. Li prese felice, come se fossero stati cento.

— Spero di vedervi ancora — fece Mac. — Gli amici di Tim sono anche amici nostri. E so che non avrebbe affittato il suo motoscafo a una persona disonesta.

— Credo proprio di no — risposi, pensando che Duval era rispettato da tutti. Poi salii a bordo.

— Una pattuglia viene spesso da queste parti a fare ispezione — fece Mac.

— Davvero?

Lui mi fece l’occhietto.

— Ma noi non parliamo molto — sorrise.

— Bene.

— Fareste meglio a farla uscire. Dev’esserci un gran caldo nella cabina.

— Mh — feci. — Cercate di non fare troppo il furbo.

Prese un morso di tabacco e cominciò a succhiarlo seriamente.

— Non mi piacciono i poliziotti — disse alla fine. — E quel Herrick aveva cercato di mettere il naso nei nostri affari. Era una noia. I ragazzi sono felici che qualcuno l’abbia fatto fuori.

Annuii.

— Ho sentito dire che non era benvisto. Misi in moto le macchine.

— Ho anche la benzina, se dovesse servirvi! — urlò.

Lo salutai con la mano.

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