venerdì 20 ottobre 2023

STELLA MARIS Cormac McCarthy

 


STELLA MARIS

Cormac McCarthy

Recensione

di Giulio Minniti (estratto) da Qlibri

[...] E’ soltanto parlando di musica, di matematica, di filosofia che Alicia riesce a stabilire un qualche simulacro di contatto umano. Il libro di McCarthy (ché di romanzo in senso proprio non si può veramente parlare, essendo costituito da soli dialoghi, senza nessuna descrizione esterna dell’autore, neppure le sporadiche indicazioni di scena di un testo teatrale) affronta così un dotto campionario di argomenti “elevati” (frutto presumibilmente degli interessi nutriti negli ultimi anni dallo scrittore, il quale ha assiduamente frequentato la comunità di scienziati del Santa Fe Institute nel New Mexico), e risulta pertanto in alcuni punti alquanto ostico per il lettore (lo stesso dottor Cohen, che è un uomo di cultura e di scienza, ammette più volte candidamente di non capire niente delle cose che la sua paziente dice). In “Stella Maris” si discetta di epistemologia, di topologia, di teoria dei giochi e di meccanica quantistica, si discute di come avviene il passaggio dalla mente al mondo o di cos’è la memoria, e si citano Grothendieck, Godel, Von Neumann, Wittgenstein, Russell, Husserl, Feynman e molti, molti altri matematici, fisici e filosofi. Non si tratta a mio avviso di una pura esibizione di erudizione enciclopedica, tutt’altro. Da una parte è infatti quasi ovvio che un personaggio così mostruosamente intelligente come Alicia, che da molto tempo non mantiene più alcun rapporto con la gente, abbia scelto di rifugiarsi nella scienza come unica possibilità per appagare il suo inguaribile solipsismo. Dall’altra, queste riflessioni scientifiche chiamano direttamente in causa le posizioni di McCarthy sulla propria arte. Si pensi ad esempio a tutto ciò che viene detto intorno al linguaggio. Quando Alicia afferma che “l’intelligenza sono i numeri. Non le parole. Le parole sono cose inventate. La matematica no”, viene asseverata l’impossibilità ontologica del linguaggio di addivenire a una qualche verità ultima, il che, se ci si pensa, è, per un uomo che di professione fa lo scrittore e vive quindi di parole, una vera e propria dichiarazione di poetica, ancorché in negativo. La matematica, così come la musica, non hanno veramente bisogno del linguaggio, in quanto i loro procedimenti si compongono in gran parte a un livello inconscio.[...]

STELLA MARIS

I.

Salve. Sono il dottor Cohen.

Lei non è il dottor Cohen che aspettavo.

Mi dispiace. Forse aspettava il dottor Robert Cohen.

Sí. Immagino che i dottor Cohen non manchino.

Probabilmente no. Tutto bene? Come sta?

Come sto.

Sí.

Sono alla neuro.

Be’. A parte questo, intendo.

Da quanto tempo fa questo lavoro?

Circa quattordici anni.

Registrerà tutto.

L’accordo era questo mi pare. Va bene?

Presumo di sí. Allora pensavo che lei fosse un altro.

Non va bene.

No. È okay. Anche se dovrei precisare che io ho solo acconsentito a chiacchierare. Non a seguire terapie.

Certo. C’è qualcosa che vorrebbe chiedermi? Prima di iniziare.

Abbiamo già iniziato. Qualcosa tipo?

Forse potrebbe dirmi qualcosa di lei.

Oddio.

No?

E poi mi farà colorare seguendo i numerini?

Scusi?

Non importa. È solo che sono tanto ingenua da immaginare ancora che sia possibile lanciare questi scambi lungo un vettore non distorto all’inverosimile dall’ipocrisia.

Cos’è? Il mio tono di voce?

Non importa. Faremo come dice lei. Al diavolo.

Be’. Non vorrei partire col piede sbagliato. Pensavo solo che magari le andava di dirmi qualcosa sul motivo per cui è qui.

Non avevo nessun altro posto dove andare.

E perché qui.

Ci ero già stata.

Inizialmente perché, allora.

Perché non mi prendevano alla Coletta.

E perché la Coletta?

È dove hanno mandato Rosemary Kennedy. Dopo che suo padre le aveva fatto asportare il cervello.

Ha qualche legame con la famiglia?

No. Non ne sapevo niente di istituti psichiatrici. Ho semplicemente pensato che se loro l’avevano scelto con ogni probabilità era un ottimo indirizzo. In realtà credo che il cervello gliel’abbiano asportato altrove.

Sta parlando di lobotomia.

Sí.

Perché le hanno fatto una cosa simile?

Perché era strana e suo padre aveva paura che qualcuno se la scopasse. Non corrispondeva a quello che il vecchio aveva in mente.

È vero?

Sí. Purtroppo.

Perché ha sentito il bisogno di andare da qualche parte?

Intende stavolta?

Sí. Stavolta.

L’ho sentito e basta. Avevo lasciato l’Italia. Dove mio fratello era in coma. Cercavano continuamente di ottenere il mio consenso per staccare la spina. Di farmi firmare le carte. Per cui sono scappata. Non sapevo cos’altro fare.

Era una cosa cui non riusciva a risolversi? Smettere di tenerlo in vita artificialmente?

Sí.

È in morte cerebrale?

Non voglio parlare di mio fratello.

D’accordo. Mi dica solo perché è in coma.

Ha avuto un incidente. Era un pilota di auto da corsa. Davvero, non mi va.

D’accordo. C’è qualcosa che vorrebbe chiedermi?

A proposito di cosa?

Qualsiasi cosa. Anche di me se vuole. Posso chiamarla Alicia?

Vuole che le chieda di lei.

Se vuole. Sí.

Lei insegna all’università.

A Madison. Sí.

So dov’è l’università. Si veste piuttosto bene per un accademico.

Grazie.

Non era un complimento. Lei non è uno psicoanalista.

Sono uno psichiatra.

Non è un MD.

Lo sono. In effetti.

Cos’altro.

Sono sposato. Ho due figli. Mia moglie è responsabile di un programma per l’infanzia del Comune. Ho quarantatre anni.

Cosa fa quando nessuno la vede?

Non faccio. Lei?

Ogni tanto fumo una sigaretta. Non bevo e non faccio uso di droghe. Né di medicine. Sigarette non ne ha immagino.

No. Potrei portarne qualcuna.

Okay.

Cos’altro?

Ho delle conversazioni clandestine con dei personaggi a quanto pare inesistenti. Mi hanno dato dell’attizza quel-che-sa-lei ma secondo me non è vero. La gente ha l’aria di trovarmi interessante ma ho praticamente smesso di parlarci. Parlo solo con i miei colleghi svitati.

Non parla con altri matematici?

Non piú. Be’. Con alcuni.

Come mai?

È una storia lunga.

Si occupa ancora di matematica?

No. Non della matematica propriamente detta.

Che matematica faceva?

La topologia. La teoria dei topoi.

Ma adesso non se ne occupa piú.

No. Sono stata distratta.

Cos’è che l’ha distratta?

La topologia. La teoria dei topoi.

Forse per il momento dovremmo mettere da parte la matematica.

Come vuole. Comunque sia non sapevo cosa stessi facendo.

Questo mi sorprende. Non poteva chiedere aiuto ad altri matematici?

No. Non lo sapevano nemmeno loro.

Sicura che va bene se registro?

Sicura. E se dico cazzo o cose cosí? In realtà mi sa che l’ho già fatto. E di nuovo.

Non lo so. Se non sbaglio l’accordo era che non avrebbe avuto la facoltà di modificare alcunché.

Non dico proprio sul serio.

Ah.

Alicia è okay. Lo preferisco a Henrietta.

Nemmeno adesso dice sul serio.

No.

D’accordo. Su suo fratello non le va di dirmi niente?

Tutto ciò comincia a ricordarmi Eliza. No. Non. Mi. Va.

Il programma informatico di psichiatria.

Sí.

D’accordo. Di cosa le piacerebbe parlare?

Non lo so. Mi sa che ho solo voglia di fare la sbruffona. Se davvero vuole parlare con me come minimo dovremo ignorare qualche stronzata. Lei non crede? O no?

Lo credo. Penso che abbia assolutamente ragione.

Tipo questa.

È una stronzata?

Certo che è una stronzata. Col cavolo che pensa che ho assolutamente ragione.

Capisco.

E per favore non dica capisco.

Significa solo che sto cercando di comprendere il suo punto di vista. È in contatto con qualcuno?

Intende persone reali?

Preferibilmente. Sí.

Non proprio.

Qualche matematico? Nessuno dell’università?

Credevo che non dovessimo parlare di matematica.

D’accordo.

Scrivo ancora a Grothendieck ma ha lasciato l’Ihes e non risponde alle mie lettere. E va bene cosí. Non mi aspetto che lo faccia.

È un matematico?

Sí. O era.

Dove vive?

Non so dove vive. Immagino che sia sempre in Francia.

Non è un nome molto francese.

Non è affatto un nome francese. Suo padre si chiamava Schapiro. Poi lui è diventato Tanaroff. Non aveva passaporto. Era un bambino sfollato durante la guerra. Che si nascondeva. Cercando di salvarsi la pelle. Suo padre morí ad Auschwitz.

Lei dove gli scrive?

All’Ihes. Non sa chi sia, vero?

No.

Non importa. Eravamo amici. Siamo amici. Condividiamo un certo scetticismo.

Su cosa?

Sulla matematica.

Non sono sicuro di seguirla.

Non importa.

È scettica sulla matematica?

Sí.

Si sente in qualche modo delusa dalla disciplina? Immagino che non si possa essere scettici sulla materia in toto.

Lo so.

Però l’ha delusa.

Volendo potremmo dire cosí.

Come ha fatto a deluderla?

Be’. In questo caso è stato per via di un gruppo di perfide e aberranti e assolutamente malvagie equazioni differenziali alle derivate parziali che avevano cospirato per sottrarre la loro stessa realtà ai discutibili circuiti cerebrali del loro ideatore in modo non dissimile dalla ribellione descritta da Milton e issare la loro bandiera di nazione indipendente svincolata da Dio quanto dagli uomini. Qualcosa del genere.

Pensa che le mie siano domande ingenue.

Mi scusi. No. Non lo penso. La falla non sta in colui che indaga.

È un matematico di spicco? Il suo amico.

Grothendieck. È comunemente considerato il piú importante matematico del ventesimo secolo. Se trascuriamo il fatto che Hilbert e Poincaré e Dedekind e Cantor sono tutti vissuti nel ventesimo secolo. Ed è bene farlo, visto che i loro lavori di maggior rilievo risalgono tutti al diciannovesimo. E non sono una grande fan di von Neumann.

Mi spiace ma sono nomi che non ho mai sentito.

Lo so. Non importa. Be’, fino a un certo punto. Ma va bene.

Grothendieck.

Sí.

Ha lavorato con lui?

Non so se potremmo definirlo lavoro. Abbiamo passato molto tempo a parlare. Veniva all’Istituto di martedí. E ho passato molto tempo a casa sua. Mangiavo con la sua famiglia. Poi le conversazioni si protraevano fino a notte fonda. In un certo senso eravamo semplicemente insieme nello stesso manicomio. L’Istituto fu fondato per lui e per un altro matematico di nome Dieudonné da un russo facoltoso di nome Motchane – sempre che questo fosse il suo vero nome – il quale era matto come un cavallo. Fu realizzato sul modello dell’Ias. A Princeton. Oppenheimer era uno dei consulenti. Io ci sono rimasta un anno, ma al tempo i fondi avevano cominciato a prosciugarsi. Alla fine i soldi della mia borsa non li ho mai visti tutti. Ero l’unica donna. All’inizio credevano che lavorassi in cucina.

Mi pare di capire che non è stata una bella esperienza.

È stato fantastico. Anche a Chicago avevo avuto parecchie difficoltà. Ma Grothendieck prestava attenzione a ogni singola parola che dicevi. Annuiva e scribacchiava sul suo blocco per appunti. Parlava. Ti poneva domande che tu non ti eri posto.

Lei quanti anni aveva?

Diciassette.

E non era un problema? La sua età.

Non gli sarebbe neanche passato per la testa.

Perché non risponde alle sue lettere?

Fondamentalmente perché ha mollato la matematica.

Come lei.

Sí. Come me.

È stata dura?

Be’. Direi che forse perdere una cosa sola è piú dura che perdere tutto.

Una cosa potrebbe essere tutto.

Sí. Potrebbe. La matematica era tutto quello che avevamo. Non è che abbiamo mollato la matematica per darci al golf. Adesso lo invitano a tenere dei seminari e lui si presenta e sproloquia a proposito di ambiente o di guerrafondai. I suoi genitori erano attivisti politici. È molto devoto alla loro memoria. Sulla sua scrivania ha un disegno a matita di suo padre e quella che mi dicono essere una maschera mortuaria di sua madre. Ma la verità è che l’hanno abbandonato da bambino per inseguire il loro sogno politico di un mondo che non esisterà mai e io sospetto che si sia sentito in dovere di abbracciare la loro causa per giustificare quel tradimento. È sposato e ha dei figli. E ho paura che farà la stessa cosa.

Sta piangendo?

Mi scusi.

Però ha mollato tutto.

Sí.

Perché?

Secondo i suoi amici è diventato via via sempre piú instabile mentalmente.

È cosí?

È complicato. Alla fine ci si ritrova a parlare di fede. Della natura della realtà. Comunque sia, tra i miei colleghi matematici c’è chi si divertirebbe a sentir descrivere l’abbandono della matematica come una prova di instabilità mentale.

Quanti anni ha?

Ne ha quarantaquattro.

E lei è andata in Francia per una fellowship presso il suo Istituto.

Sono andata in Francia per stare con mio fratello. Non sapevo se sarebbe tornato. Però sí. Volevo andare all’Istituto. Stavano facendo quello che volevo fare io.

Si era già laureata all’Università di Chicago.

Sí.

A sedici anni.

Sí. Ero iscritta al dottorato di ricerca. Lo sono ancora, immagino. Di fatto non avevo una vita. Non facevo altro che lavorare.

Se non fosse diventata una matematica cosa le sarebbe piaciuto essere?

Morta.

È una risposta seria?

Io ho preso sul serio la sua domanda. Lei dovrebbe prendere sul serio la mia risposta.

Si sente bene?

Sí. Forse in effetti ho un po’ snobbato la sua domanda. Quello che veramente volevo era un figlio. Quello che veramente voglio. Se avessi un figlio tornerei a casa la sera e me ne starei seduta lí. In silenzio. Ad ascoltare il respiro di mio figlio. Se avessi un figlio, della realtà non me ne importerebbe niente.

Lei mi sorprende.

Sí. Be’.

Vuole andare avanti?

Sto bene. Ad ogni buon conto Grothendieck e Motchane sono andati ai ferri corti. Motchane gli ha detto che l’Istituto accettava fondi militari il che voleva dire che ora si sarebbe licenziato. Cosa che ha fatto. Non sono neanche sicura che fosse vera. La storia dei soldi.

È veramente un grande matematico?

Sí.

C’è qualcosa che ha fatto che io possa comprendere?

Non lo so. Ha prodotto piú lui di quanto ci si aspetterebbe da cinque matematici messi assieme. Quasi quanto Eulero. Alla fine si era prefisso di riscrivere tutta la geometria algebrica. È arrivato soltanto a un terzo. Varie migliaia di pagine. Ma ha cambiato la matematica in modo sostanziale. Era alla testa del gruppo Bourbaki ma alla resa dei conti gli altri non sono riusciti a seguirlo. O non hanno voluto. La loro matematica si fondava sulla teoria degli insiemi – che ormai appariva sempre piú porosa – e lui si era spinto un bel po’ oltre. A un livello di astrazione logica completamente inedito. Un nuovo modo di guardare il mondo. Stava completando quanto iniziato da Riemann. Scalzare Euclide una volta per tutte. Per il momento ignorando il quinto postulato. L’ingerenza dell’infinito con cui Euclide non riusciva a venire a patti. Quando arrivi alla teoria dei topoi ti affacci su un altro universo. Hai trovato un posto da dove puoi voltarti a guardare il mondo dal nulla. Non è solo una configurazione qualsiasi. È basilare.

Lei si è fatta internare di sua volontà.

Alla Stella Maris.

Sí.

Se ti internano sei diagnosticato mentre se ti fai internare di tua volontà no. Immaginano che tu debba essere ragionevolmente sano di mente, altrimenti non ti saresti presentato. Spontaneamente. Per cui dal punto di vista della cartella clinica la sfanghi. Se sei abbastanza sano di mente da sapere che sei pazzo non sei cosí pazzo come se pensassi di essere sano di mente.

È già stata qui, quanto? Due volte?

Sí.

Perché stavolta? Suppongo che la mia domanda sia questa.

Continuavo a incontrare strane persone in camera mia.

A quanto pare non è niente di nuovo.

Volevo vedere alcune persone di qui.

Pazienti.

Sí. Credeva che fossi venuta per far visita al personale?

Intende i terapeuti.

Sí.

Non lo so.

Sí che lo sa.

Non sta prendendo nessun farmaco.

No.

Crede che sia giudizioso?

Non so cosa sia giudizioso. Non sono una persona giudiziosa.

Ma non crede di essere pazza.

Non lo so. No. O quantomeno non rientro nel suo libro dei matti.

Il Dsm.

Sí. Ovviamente non sono l’unica che manca in quel libro.

Ha ancora le allucinazioni?

Non ho mai detto che erano allucinazioni.

Si è riferita ai suoi visitatori definendoli persone inesistenti.

Personaggi.

D’accordo, personaggi.

Stavo citando dalla letteratura.

Quale letteratura?

La letteratura su di me. Comunque no. Ultimamente non li ho visti. Non amano venire in posti come questo. Li mette a disagio. Sta sorridendo.

Sembrerebbe quasi che stia dicendo che una struttura come questa favorisce di suo la sanità mentale. Come? Allo stesso modo in cui una chiesa allontana gli spiriti maligni?

Suppongo che possa essere una discreta analogia. Dei peccatori la Chiesa non si stanca mai di parlare. Dei salvati non fa praticamente menzione. Qualcuno ha fatto notare che gli interessi di Satana sono squisitamente spirituali. Chesterton, mi pare.

Non sono sicuro di seguirla.

Satana si interessa unicamente alla tua anima. Per il resto, della tua salute se ne frega.

Interessante. I suoi visitatori. Chiunque essi siano. Cosa mi può dire di loro?

A questa domanda non so mai come rispondere. Che cosa vuole sapere?

Hanno un nome?

Nessuno ha un nome. Glielo dai tu per poterli ritrovare al buio. So che ha letto la mia relazione ma i bravi medici fanno ben poco caso alle descrizioni delle figure allucinatorie.

A lei quanto reali sembrano? Cos’hanno? Qualcosa di onirico?

Non credo. Le figure oniriche mancano di coerenza. Ne intravedi dei pezzi e il resto ce lo metti tu. Un po’ come col punto cieco. Mancano di continuità. Si tramutano in altri esseri. Senza contare che il paesaggio in cui si muovono è un paesaggio onirico.

La figura principale è quella di un nano calvo.

Una persona di piccole dimensioni. Sí.

Il Kid.

Il Kid. Sí.

Ma non è come le figure che vediamo nei sogni.

No. È come una figura che vediamo in camera da letto.

Mi chiedo se abbia un’idea del perché queste figure assumano l’aspetto che assumono.

Vuole provare a riformulare la domanda? Assumono l’aspetto di cui il loro aspetto si compone. Immagino che in realtà quello che vuole sapere sia che cosa potrebbero simboleggiare. Non ne ho idea. Non sono una junghiana. La sua domanda inoltre tradisce la convinzione che ci possa essere qualche possibilità di orchestrare quell’assurdo serraglio. In un modo o nell’altro. Serraglio del quale ogni figura in pratica brilla di realtà. Intravedo i peli nelle narici e riesco a vedere dentro i buchi delle orecchie e i nodi alle stringhe delle scarpe. Se pensa che con tutto questo potrebbe allestire un’opera dei miei processi mentali disturbati le auguro buona fortuna.

Però è consapevole che altri non credono nell’esistenza di creature simili.

Mi definisca esistenza.

Prego?

In cosa credano gli altri non mi preoccupa granché. Non li considero qualificati per avere un’opinione.

Perché non le hanno viste.

Be’. Direi che questa si qualifica come un’impasse logica. Lei cosa ne dice?

Saprà certamente che le allucinazioni della portata da lei descritta sono di una rarità che rasenta lo zero. Piú di un terapeuta ha insinuato che se le stesse inventando.

Che me le stessi inventando.

Sí.

Mi sembra una formulazione assai curiosa, no?

Che si stesse inventando che se le stava inventando.

Sí, be’. Nemmeno loro sono legittimati a esprimere un parere.

I terapeuti?

I terapeuti.

Forse no. Quando è cominciata tutta questa storia? A che età?

Trova che mi presenti come una psicotica perfetta?

No. Non trovo. D’altra parte com’è ovvio non le piace sottoporsi ai test.

No. A lei sí?

No. Tranne se credo che avrò un buon risultato. Ma in generale lei dei test cosa crede? Che siano mal pensati? Invasivi?

Diciamo semplicemente che non mi piacciono.

Però qualche test l’ha fatto. Nelle matrici avanzate ha ottenuto un punteggio perfetto.

Come altri prima di me.

Non nel tempo che ci ha messo lei.

Le domande iniziali sono parecchio stupide. Devi solo inserire la figura mancante. Poi basta comporre le cose in modo piuttosto grossolano. Piú avanti i problemi diventano piú difficili ma non veramente diversi. E comunque, a prescindere da quanto complesse diventino le figure le regole non sono mai piú di sei.

Alla fine del test lei ha buttato giú un paio di matrici tridimensionali.

Reticoli. Sí. Uno era geometrico e l’altro computazionale. Niente di cosí difficile. Ma ho pensato che sembrassero promettenti. Ho visto che potevano diventare abbastanza rognosi abbastanza in fretta. Se sbagliavi la dimensionalità non riuscivi a seguire la progressione. Non ne ho piú saputo niente. Ma la mia idea era che se uno i test proposti se li mangiava a colazione probabilmente bisognava somministrargliene di piú tosti. Credevo volesse parlare delle orti.

Delle che?

Le orti. Le entità. Orti come diminutivo di coorti.

È una parola? Orti?

Al maschile sono dei verzieri. In tedesco sono dei posti, ma senza la i finale. E adesso esistono anche al femminile. Comunque, a che età. Per tornare alla sua domanda. All’insorgere del ciclo credo si dica nella relazione.

Mi chiedevo solo se l’informazione fosse corretta. È piuttosto presto.

Potrebbe perfino dire precoce.

Perdoni la domanda ma che età aveva?

Dodici anni.

Nei soggetti femminili la schizofrenia tende a manifestarsi intorno ai vent’anni.

Non mi hanno mai ufficialmente diagnosticato la schizofrenia.

No.

Magari escogiteranno un test per la stranezza generica. Che ne pensa?

Lei qui ha fatto il test Minnesota. Due anni fa.

D’accordo.

A proposito di stranezza generica. Lei è stata inquadrata come sociopatica deviante piú vari altri aggettivi piuttosto sgradevoli. Questo sulla scala quattro. Lo conosceva l’Mmpi?

No. Non passo il tempo a studiare i vostri test. Li trovo di una stupidità e di un’inutilità letali. Per cui ero sempre piú incazzata. Alla fine cercavo di qualificarmi come squilibrata con tendenze omicide.

Non temeva di essere rinchiusa?

Ero rinchiusa.

Nel test Minnesota non ci ha trovato niente di interessante.

No.

Ha ottenuto novantasei allo Stanford-Binet.

Io puntavo ai cento.

Perché?

Perché è quello che bisogna ottenere.

Di quant’è il suo QI?

Non ho un QI.

Non è una forma di superbia? Essere non testabili?

Non se non lo sei. Comunque sia, lo Stanford-Binet è razzista. Tra le altre cose.

Come può essere razzista?

Nel test non c’è neanche una domanda sulla musica. Per dire. A quanto pare la musica non conta. Cosí qua dentro c’è un nero con un QI stimato a ottantacinque che qualunque metro di misura si voglia adottare è un genio musicale. Semplicemente incommensurabile. Ma per quelli del QI è poco piú di un deficiente.

Suppongo che ai suoi occhi gli ideatori stessi dei test non siano delle aquile.

Non ho mai incontrato nessuno del campo che abbia la benché minima comprensione della matematica. E l’intelligenza sono i numeri. Non le parole. Le parole sono cose che abbiamo inventato. La matematica no. Nel test del QI le domande di matematica e logica sono una barzelletta.

Com’è che ci siamo arrivati? All’intelligenza come fatto numerico.

Forse lo è sempre stata. O forse in effetti ci siamo arrivati contando. Per un milione di anni prima che venisse pronunciata la prima parola. Se vuoi un QI superiore a centocinquanta ti conviene essere bravo coi numeri.

Tendo a pensare che sarebbe difficile mettere insieme le risposte che ha dato lei in alcuni di quei test senza avere familiarità con il test in questione.

Io avevo un certo allenamento. All’università nelle materie umanistiche ho dovuto ingegnarmi per prendere A senza leggere le dispense idiote che ci rifilavano.

Non leggeva le dispense per principio?

No. Semplicemente non avevo tempo.

Perché non aveva tempo?

Perché facevo matematica diciotto ore al giorno.

Alcuni direbbero che non è possibile.

Sí. Che lo dicano.

Cosa mi dice della scala otto?

Non so cosa sia.

Be’, tra le altre cose è uno strumento per rilevare la schizofrenia.

Ah sí? Come sono andata?

L’ha superato per il rotto della cuffia. Per cui se stava manipolando il test non potrebbe significare che è schizoide e che in qualche modo è riuscita a mentire in proposito? Naturalmente il test è concepito anche per individuare traumi cranici ed epilessia.

Sono caduta di testa da piccola.

Sul serio?

No.

Tutta questa matematica che faceva. Non sarà stato tutto materiale in programma.

Era tutta roba che esulava dal programma.

Cos’è che le interessava di piú?

Ho passato parecchio tempo sulla teoria dei giochi. Ha qualcosa di affascinante. Von Neumann ci è rimasto invischiato. Forse non è il termine giusto. Ma credo che alla fine ho cominciato a rendermi conto che prometteva spiegazioni che era incapace di fornire. È veramente una teoria dei giochi. Nient’altro. Conway o no. All’inizio hai sempre solo uno strumento, ma la speranza è che in realtà costituisca una teoria.

Ma la teoria dei giochi è una teoria, no?

Se lo dice lei.

Abitava nella soffitta della casa di sua nonna.

Sí. Dopo la morte di mia madre. Bobby me l’ha messa a posto.

Ed è lí che sono cominciate le apparizioni?

Sí.

Cosa facevano loro mentre lei faceva tutta quella matematica?

Non lo so. A un certo punto io perlopiú ho iniziato a ignorarle. Tranne il Kid. Lui era piuttosto difficile da ignorare.

Mi sorprende che non le trovasse piú inquietanti.

Be’. Avevo dodici anni. Come facevo a sapere che non era normale?

Però lo sapeva.

Sapevo che non era normale. Ma non sapevo che non era normale per me.

Perché lo chiama il Kid?

È un diminutivo di Talidomide Kid. Non ha le mani. Solo delle pinne.

È lui il nano.

La persona di piccole dimensioni.

Chi altri?

Una quantità di personaggi. Intrattenitori. In teoria.

La intrattenevano?

No.

E appaiono cosí. Dal nulla.

In contrapposizione a? Da qualche parte? Okay. Dal nulla. Diciamo pure dal nulla. Guardi. Questa conversazione la conosco praticamente a memoria.

Avuta con altri terapeuti.

Sí.

Cosa vorrebbe che facessi?

Che mi sorprendesse.

Sorprenderla.

Sí. Be’. Non mi farò illusioni. Col tempo i dati di fatto e gli indizi sono entrambi destinati alla stessa evanescenza. Nella memoria degli eventi c’è una sintesi che quanto a realtà non ha niente a che fare con la realtà. Ti risvegli da un incubo con un certo sollievo. Ma questo non lo cancella. L’incubo è sempre lí. Anche dopo che l’hai dimenticato. La sensazione che ci sia qualcosa che non hai capito continuerà a perseguitarti a lungo. Quello che stava cercando di chiedermi. La risposta è no. Sono arrivati e basta. Senza preavviso. Niente odori strani, niente musica. Io sto ad ascoltarli. A volte. Altre volte mi metto a dormire e basta.

Riesce a dormire con loro nella stanza?

Qui è un po’ come avere una conversazione con Zenone. Ci ha riflettuto su questa domanda? Non è buffo come la risposta sia sempre nell’ultimo posto in cui la cerchi?

D’accordo. Ma in generale non la spaventano.

No.

E questo a lei non sembra strano.

No. Avevo dodici anni. Probabilmente ho pensato che venivano con la pubertà. Lo pensavano tutti. In ogni caso, era la pubertà a spaventarmi, non i fantasmi. Piú la tua vita è innocente piú i tuoi sogni sono spaventosi. Il tuo subconscio continuerà a cercare di svegliarti. In tutti i sensi. L’insidia è senza fondo. Fintantoché respiri potrai sempre essere piú spaventato ancora. Però no. Loro erano quel che erano. Qualunque cosa fossero. Non li ho mai visti come soprannaturali. Alla fin fine non c’era niente di cui aver paura. Avevo già imparato che nella mia vita c’erano cose che era meglio non raccontare. Dall’età di sette anni circa non ho mai piú accennato alla sinestesia. Per dire. Pensavo fosse normale e ovviamente non lo era. Per cui ho smesso di parlarne. In ogni caso, sapevo che sarebbe successo qualcosa, solo che non sapevo cosa. La tua vita, che tu la comprenda o no, finirai comunque coll’accettarla. Se temevo i fantasmi non era per la loro essenza o per il loro aspetto ma per quello che avevano in mente. Quello sí che mi era incomprensibile. In realtà l’unica cosa che capivo di loro era che cercavano di dare un volto e un nome a quello che non ne aveva. E naturalmente non mi ispiravano fiducia. Forse dovremmo andare avanti.

Ma vanno e vengono a volontà?

A volontà?

Sí.

Gesú. Non so rispondere a questa domanda. L’unica volontà che sottendono sarebbe tipo la Volontà schopenhaueriana.

Stavo solo cercando di sottolineare che di rado i pazienti sono a loro agio con le allucinazioni. Di solito capiscono che sono la spia di una specie di interruzione della realtà e questo per loro non può che essere ragione di spavento.

Per loro.

Sí.

Be’. Direi che quello che ho capito io è che il nocciolo del mondo dei pazzi consiste nella consapevolezza che c’è un altro mondo e che loro non ne fanno parte. Vedono che poco è richiesto ai loro guardiani e molto a loro.

Secondo lei è vero?


No. Ma secondo loro lo è.

Queste creature che vengono a intrattenerla ma non sono granché brave. A intrattenere. A distrarre. Secondo lei cos’è che starebbero facendo?

Non so cos’è che starebbero facendo. Sono una palla inenarrabile.

Ma un’idea di quel che vogliono ce l’avrà.

Vogliono fare qualcosa col mondo cui lei non ha mai pensato. Vogliono metterlo in dubbio.

E per quale motivo?

Perché loro sono cosí. Sono questo. Se volessi soltanto una conferma del mondo non avresti bisogno di convocare strane creature.

È questo lo scopo dell’intrattenimento? Se cosí possiamo chiamarlo. Sollevare riserve sul mondo?

Perché no?

Cos’altro mi può dire di loro? Hanno un’ombra? Riescono a entrare in una stanza chiusa a chiave?

Non hanno nessun problema a metter su un’apparenza. Non le verrebbe mai in mente di chiedere se in un sogno una figura abbia un’ombra o meombra

No. Immagino di no. Ma lei mi dice che non sono come figure in un sogno.

No. E possiamo presumere che investano una certa energia solo per apparire plausibili. Ma non è altro che una farsa. Un diversivo.

A cosa?

In pratica siamo tornati alla casella di partenza. Suppongo che il primo dovere di un’allucinazione sia effettivamente di apparire reale, ma cercare di emulare una realtà in cui le tue credenziali sono scadute comporta un diverso ordine del giorno. Mettersi in fase con questo nuovo mondo nel migliore dei casi è solo una preparazione.

Le ha chiamate allucinazioni.

Sto solo cercando di assecondarla.

Adesso so che sta scherzando.

Vuole davvero entrare nel merito?

Non so bene nel merito di cosa.

Che a questo mondo la gioia scarseggi non è solo un punto di vista. Ogni gesto benevolo è sospetto. Finché non capisci che il mondo non ha in mente te. Né ti ci ha mai avuto.

La gente perlopiú riesce a trascorrere i giorni che le sono stati assegnati in qualcosa che non sia uno stato di disperazione.

Sí. Loro ci riescono.

Se dovesse dire qualcosa di definitivo sul mondo in una sola frase cosa sarebbe?

Sarebbe questo: Il mondo non ha creato un solo essere vivente che non intenda distruggere.

Suppongo sia vero. Ma quindi? È tutto qui quel che il mondo ha in mente?

Se il mondo ha una mente allora è anche peggio di quello che pensavamo.

Ce l’ha? Lo è?

Non so se arriveremo a tanto.

In queste consultazioni.

Sí. Torniamo ai giorni assegnati.

D’accordo.

Dubito che ci sia chi rivivrebbe la propria vita. A stento ne rivivrebbero un giorno.

A me vengono in mente giorni che non mi dispiacerebbe rivivere.

Momenti di gioia o di grande acume forse. Ma ventiquattr’ore filate?

Non lo escluderei. Passa molto tempo a pensare alla morte?

Non so quanto sia molto. Contemplare l’idea della morte dovrebbe avere un certo valore filosofico. Addirittura palliativo. Banale dirlo, suppongo, ma il modo migliore per morire bene è vivere bene. Morire per un altro darebbe un senso alla tua morte. Trascurando provvisoriamente il fatto che l’altro morirà comunque.

Non so quante di queste siano frasi a effetto.

Diciamo tutte, va’.

Questa, per esempio. E vivere per gli altri?

Be’. Mettendo da parte gli altri amorfi delle ideologie sociali e limitandoci alle persone reali immagino che sarebbe una cosa abbastanza rara da poterla quantomeno definire nevrosi. Cosa ne dice?

O questa. Nella sua relazione c’è un appunto sul fatto che aveva l’impressione di decomporsi. Mi pare sia la parola che ha usato. Ricorda di aver espresso qualcosa del genere? Sembrerebbe la classica allucinazione somatica. La si ritrova cosí in letteratura. O stava solo prendendo per i fondelli i suoi sorveglianti?

Forse mi stavo semplicemente annoiando.

Be’. La gente si annoia.

Non direi.

Ah no?

No. Non hanno idea di cosa sia la noia.

Be’. Le credo sulla parola. Anche se si dice che l’intelligenza tenga di per sé lontano il tedio.


Credo lo faccia. Fino a un certo punto. Poi i serramenti cedono.


Forse quello che mi preoccupa è che lo scetticismo di questi specialisti – alcuni dei quali a quanto pare hanno finito col rifiutarsi di credere a qualunque cosa lei dicesse – rende arduo per non dire impossibile curarla. Non sanno bene che pesci pigliare con una persona che secondo loro si inventa le cose.


Che si inventa le cose.


Sí.


La solita frase insidiosa.


Sí.


Potrei chiedere per cosa credono di essere pagati. Vogliono spiegare i miei deliri o la mia inclinazione a mentire ma la verità è che non sanno spiegare niente. Pensano che sarebbe piú facile curare una mente delirante o una mente che crede solo di esserlo? Dovrebbe sentire come suona tutto questo. Comunque sia, ormai sono ben oltre le spiegazioni. Ho chiuso.


Si sente al suo posto qui? Alla Stella Maris?


No. Ma questo non risponde alla domanda. L’unica entità sociale di cui io abbia mai fatto parte era il mondo della matematica. Ho sempre saputo che il mio posto era quello. Credevo addirittura che avesse precedenza sull’universo. E lo credo ancora.


Precedenza sull’universo.


Sí.


Non si sta divertendo con me.


Non molto.


Intendevo nel senso di prendermi in giro.


So in che senso intendeva.


Forse mi stupisce solo che possa sentirsi a casa in una struttura psichiatrica.


Non so se sia questione di essere a casa. Forse è solo questione di approfittare della libertà d’azione accordata ai matti.


Con gli altri pazienti ci parla.


Sí. Ovvio.


Crede che le dicano la verità?


Su cosa?


In generale. Su qualsiasi cosa.


Non lo so. No. Però credo che qua dentro siano tutti abbastanza convinti che tutti gli altri siano qui perché devono esserci. Dove altro succede una cosa del genere?


Capisco.


Dovrebbe proprio cercare di smetterla di dirlo.


Vedrò cosa posso fare. I suoi famigli. Non so proprio come chiamarli.


Famigli può andare.


Godono di un certo ascendente? Questo non mi è chiaro. Le dicono cosa fare?


No. L’ascendente di cui godono consiste nel fatto che sanno chi sono io ma io non so chi sono loro.


Direbbe che è soprattutto questo a definire la relazione?


Forse è semplicemente un paradigma della relazione che ciascuno intrattiene col mondo.


Sarebbe a dire che il mondo sa chi siamo noi ma non il contrario. Crede che sia cosí?


No. Penso che la nostra esperienza del mondo sia sostanzialmente un proteggersi dallo sgradevole dato di fatto che il mondo non sa che siamo qui. E no, non so bene cosa voglia dire. Penso che secondo una visione piú spirituale la grazia si trovi nell’anonimato. Raggiungere la notorietà significa spianare la strada al cordoglio e alla disperazione. Lei cosa ne pensa?


Non lo so.


Non è una cosa che la gente domanda. È solo una cosa su cui si interroga: Se il mondo in realtà abbia coscienza di noi. Ma è in buona compagnia. Come domanda. Che ne dice di: Ci meritiamo di esistere? Chi l’ha detto che è un privilegio? L’alternativa all’essere qui è il non essere qui. Ma anche cosí, di fatto vorrebbe dire non essere piú qui. Non possiamo non essere mai stati qui. Non ci sarebbe un noi che non sia esistito. Cosa ne pensa, dottore?


Può chiamarmi Michael se preferisce.


No. Non preferisco.


Ma non le dispiace se io la chiamo Alicia.


No.


Originariamente il suo nome era Alice.


Il senso dell’umorismo di mio padre.


Mi scusi?


Bob ed Alice sono i nomi dei due personaggi nelle domande scientifiche in forma narrativa. L’ho cambiato. All’età di quindici anni.


Il suo nome.


Sí.


Se l’è fatto cambiare legalmente.


Sí.


Non bisognerebbe avere diciott’anni per farlo?


Infatti. Perciò prima ho cambiato il mio certificato di nascita.


E come ha fatto?


Tra gli amici di mio fratello c’era un delinquente di nome John Sheddan che aveva un amico titolare di una tipografia a Morristown Tennessee specializzato in contraffazione di documenti. Ad ogni modo, Alicia mi pareva piú aristocratico.


Voleva essere aristocratica?


Lei sembra davvero Eliza certe volte. Ero Alice Western di Wartburg Tennessee e invece volevo essere una principessa della dinastia Hohenzollern. Magari lo sono. Che bimba furba.


Forse dovremmo andare avanti. Come le piace dire.


D’accordo.


Lungo silenzio. Posso chiederle a cosa sta pensando?


Non sto pensando.


Se sia possibile o meno è questione dibattuta.


Sí, be’. Io mi c’impegno. Naturalmente uno può smettere di parlare tra sé e sé. Ma può farlo soltanto parlando tra sé e sé. Contando i propri respiri o recitando un mantra. Smettere di pensare è piú difficile.


Pensare e parlare sono due cose diverse.


Parlare è solo fare il verbale di quel che si pensa. Non è la cosa in sé. Mentre parlo con lei una parte distinta della mia mente compone quello che sto per dire. Ma non ancora in forma di parole. In che forma quindi? Di sicuro immaginarci che qualche omuncolo ci suggerisca le parole che stiamo per dire non ha nessun senso. Oltre a sollevare lo spettro di un regresso all’infinito – del tipo chi suggerisce al suggeritore – solleva la questione di un linguaggio del pensiero. Che rientra nel piú generico enigma del come avvenga il passaggio dalla mente al mondo. Cento miliardi di eventi sinaptici che ticchettano nel buio come cieche signore sferruzzanti. Quando uno dice: Mettiamola cosí, qual è il cosí che intende mettere? Forse dovremmo andare avanti. Come lei dice che mi piace dire.


Cosa cambierebbe se potesse cambiare una cosa?


Una cosa.


Sí.


Sceglierei di non essere qui.


In questa consultazione.


Su questo pianeta.


L’hanno già messa sotto sorveglianza per rischio suicidario. È un problema serio?


È un problema serio il suicidio?


No. Intendo se pensa di essere a rischio.


So cosa intendeva. Forse finché uno ci pensa è fuori pericolo. Dal momento che hai preso la decisione non c’è piú niente a cui pensare.


E lei di questo percorso a che punto è?


Preferirei non finire sotto sorveglianza.


Preferirei anch’io.


Se potessero sparire con uno schiocco di dita quante persone lo farebbero? Secondo lei. Ogni traccia dell’esistere e anche dell’essere esistiti.


Non lo so. A mio parere meno di quanto lei creda.


Desiderare di non essere mai esistiti. Di nuovo, non è lo stesso che non esistere piú. Chi era? Anassimandro? Lo stesso per chi?


Non ne ho idea.


Si deve fare i conti col fatto che all’ultimo sospiro il morente finisce non solo coll’accettare ma con il votarsi alla morte. Che si deve produrre una qualche epifania che perfino ai piú ottusi e ai piú illusi di noi consenta di accettare quanto è non solo inaccettabile ma anche inimmaginabile. L’assoluto capolinea del mondo. Mondo che nemmeno per un istante si soffermerà a chiedersi cosa ne sia stato di noi.


E il fatto che sia una cosa comune non è di nessun sollievo immagino.


Be’. Suppongo che si possa ricondurre i morti a qualche tipo di comunità. Anche se non assomiglia molto a una comunità dico bene? Sconosciuti gli uni agli altri e in breve tempo a chicchessia. Comunque. È solo che essere ipso cazzo facto dichiarato malato di mente e bisognoso di cure perché conduci una vita intellettuale in contrasto con quella del resto della popolazione a me sembra grottesco. La malattia mentale si distingue dalla malattia fisica in quanto a causare la malattia mentale è sempre e soltanto l’informazione.


L’informazione.


Sí. Qui il presupposto è sapere lo stretto necessario. L’evoluzione non prevede un meccanismo per informarci dell’esistenza di fenomeni che non impattano sulla nostra sopravvivenza. Di ciò di cui qui non sappiamo niente non sappiamo niente. Lo crediamo solo.


Sarebbe a dire il soprannaturale?


Direi semplicemente il di cui.


Il di cui.


Il di cui non si può parlare.


Wittgenstein.


Molto bene. Finirà coll’essere a corto di molliche di pane.


I famigli. Adesso che hanno preso licenza si sente sollevata?


Dio solo lo sa. Lei forse si immagina che sia sempre stato in mio potere licenziarli. O addirittura che fossero qui su mio invito. E anche se fosse chissà se lo saprei.


Perché no?


Forse perché invitare a casa delle chimere è una faccenda un po’ piú complessa che non invitare i vicini per un tè. O invitarli ad andarsene. Certo, dopo essersi sentiti chiedere di andarsene i vicini sanno che non torneranno piú. Il che gli concede una maggior libertà di scappare con l’argenteria. Con cosa può scappare una chimera? Non lo so. Cos’ha portato? Cos’ha portato che potrebbe benissimo dimenticare? Il fatto che potrebbe essere fatta di vapore non significa che quando se ne va da casa tua sarà la stessa di prima.


Ha mai chiamato Talidomide Kid il Talidomide Kid davanti a lui?


Sí. Una volta.


E lui cos’ha detto?


Ha detto: Gesú, Jessica. Se non esistessi bisognerebbe inventarti.


Ha detto veramente cosí?


Ha detto veramente cosí.


Rapporti con la famiglia ne ha ancora?


Ho soltanto mia nonna.


Non aveva uno zio?


Sí. Ma o è piú pazzo di me o non lo sono manco io. Mi sa che a mia nonna toccherà metterlo al ricovero. Ultimamente ha cominciato a defecare in posti strani e difficili da individuare. Non si sa come è riuscito a cacare nella plafoniera della cucina. Per dire. Con lei parlo al telefono. Anche se di rado. Lei lo considera uno spreco. È cresciuta nel Tennessee dove all’epoca il telefono ce l’avevano solo i ricchi. Ho dei parenti da parte di mio padre in Rhode Island ma non li conosco quasi.


Come mai?


Secondo loro mio padre aveva fatto un matrimonio non alla sua altezza. Secondo loro eravamo un branco di bifolchi.


E questo la indispone?


No. Sono un branco di imbecilli del cazzo. Mi sa che quindi mi indispone, giusto? Non lo so. Non penso mai a loro.


Quando ha visto sua nonna l’ultima volta?


Circa tre mesi fa.


Ha intenzione di rivederla?


La prende alla larga, eh?


Mi chiedevo solo se le fosse affezionata.


Molto. Ho perso mia madre quando avevo dodici anni e lei ha perso sua figlia. Un cordoglio comune dovrebbe unire le persone ma in me lei aveva già cominciato a vedere qualcosa per cui non aveva un nome. Di certo non sapeva che la parola prodigio deriva dalla parola mostro in latino. Ma i trucchetti mentali cui ricorrevo da bambina avevano smesso di essere carini. Le volevo bene. A volte però la sorprendevo a guardarmi in un modo abbastanza inquietante. Ero una tale rompicoglioni che a scuola le suore mi facevano saltare le classi. Non ho manco finito gli ultimi due anni di elementari. Avevo praticamente smesso di dormire. Camminavo per la strada a qualsiasi ora della notte. Era solo una strada asfaltata di campagna a due corsie e non ci passava mai nessuno. Una notte sono rientrata e in cucina la luce era accesa. Erano circa le tre del mattino e quando ho risalito il vialetto lei era in piedi sulla porta della cucina. Prima che arrivassi alla casa si è voltata ed è tornata di sopra. Sapevo che era forse una delle ultime possibilità che avevamo di parlare veramente e ho avuto la tentazione di chiamarla ma non l’ho fatto. Pensavo che forse quando sarei stata un po’ piú grande le cose sarebbero cambiate. Pensavo a lei e alla sua vita. Ai sogni che doveva aver sognato per sua figlia e a quelli che invece le erano toccati. So di aver pianto per lei piú di quanto lei abbia mai pianto per me. E so che voleva bene a Bobby piú di quanto ne avrebbe mai voluto a me ma andava bene cosí. Non le volevo meno bene per questo. Di lei sapevo cose che non avrei dovuto sapere. Ciononostante pensavo che se tua nipote dodicenne se ne va in giro per le strade alle tre del mattino probabilmente dovresti farla sedere e parlargliene. E sapevo che lei non ci riusciva.


Perché non ci riusciva? Non sono sicuro di capire.


Non so cosa dirle. Mettiamola cosí. Immagino che la spiegazione piú semplice sia che sapeva che le notizie sarebbero state cattive e non voleva sentirle. Dire che avesse paura di me mi pare un po’ forte. Ma forse no. Immagino anche che avesse paura che per quanto le cose sembrassero gravi probabilmente erano anche peggio. E naturalmente aveva ragione.


Ed è stata lei a crescerla dopo la morte di sua madre.


Sí.


Quanti anni aveva suo fratello? All’epoca.


Diciannove.


Suo padre era ancora vivo.


Sí.


Ma non lo vedeva granché.


No.


È venuto al funerale di sua madre?


No.


Davvero?


Davvero.


E questo l’ha fatta star male?


No. Non ci sono andata neanch’io.


Non è andata al funerale di sua madre?


No.


Cos’hanno detto i parenti? Suo fratello ci è andato?


Sí. Ovvio. Io avevo dodici anni. Stavo attraversando una crisi religiosa. Non mi andava di sorbirmi una messa solenne con la bara di mia madre nella navata centrale. Non avrei potuto.


Suo fratello cos’ha detto?


Mi ha dato un bacio sulla guancia e ha sussurrato che mi voleva bene e che andava bene cosí. Dopodiché cosí è stato.


Dopodiché cosí è stato.


Sí. Guardi. È un disco rotto. Sto facendo tutto questo per lei, non per me. Mi hanno dato una lettera da consegnare e mi hanno detto di non leggerla. E io l’ho letta. E non posso tornare indietro. Tempo scaduto.


Oh. Sí. Certo.