martedì 31 maggio 2022

“Non è il bel viso quello che si ama, è il viso che abbiamo distrutto”. Elias Canetti

 

“Non è il bel viso quello che si ama, è il viso che abbiamo distrutto”. Elias Canetti, lo scrittore necessario. 


Elias Canetti è uno scrittore per esseri umani compiuti: se si costringe al romanzo è per infrangerlo, per svuotarlo di senso narrativo; se indugia nel saggio – Massa e potere – è per svelare la ferocia del marchingegno storico, la corruzione che agita l’uomo vanificandone gli sforzi, il concetto che l’uomo, in fondo, si riduce a mordere più che a verbalizzare poemi, che la sua intelligenza è nei denti e negli occhi più che nel cervello. Ma che scrittura straordinaria, quella di Canetti: asciutta e cinica, senza sfibrata accademia, come uno storico bizantino che ghigna immaginando le persecuzioni e le perversioni di cui è campione il suo sovrano. Allo stesso modo, Canetti è selvaggio: ha l’autorità di un volgarizzatore di Plotino e la nitidezza di uno che incide su pietra.

Non nega la gloria e dice il fango, Canetti. Che sia sostanzialmente inattuale, rispetto a troppi cialtroni del verbo, è il metro della nostra ignavia – non siamo in grado neanche di essere decadenti, di cadere, hanno digitalizzato perfino l’abisso. Non tanto Auto da fé – che si cita per dimostrare di aver letto qualcosa oltre il consueto – ma la trilogia autobiografica La lingua salvata, Il frutto del fuoco, Il gioco degli occhi è una perla narrativa, un’opera fondamentale. Canetti è un cacciatore d’anime, ha sguardi da cecchino, descrive il labirinto delle relazioni umane con genio da Dedalo. Per paradosso, è come se gli uomini esistessero perché c’è lui, monolitico, infine, all’apparenza, innocuo, a raccontarli. L’istante narrativo in cui Elias Canetti, insieme a Hermann Broch, si tormentano con la domanda capitale, “esisteva un uomo buono?”, è memorabile. La domanda – “gli mancavano certe qualità che servivano da molla agli altri?” – presuppone che l’uomo sia naturalmente creato alla malvagità. Sviscerando la domanda, con violento candore da esegeta biblico, Canetti incontra il fatidico “dottor Sonne”, dandone una descrizione indimenticabile. Il primo aspetto che colpisce Canetti di questo stralunato sapiente, poeta abortito, edotto in tutto, l’incarnazione del ‘giusto’, è che “c’era l’assenza di ogni riferimento personale. Sonne non parlava mai di sé. Non diceva mai niente in prima persona”.

Forse imitando il fatidico Sonne, Canetti, ricevendo il Nobel per la letteratura, è il 1981, fece quattro passi indietro. Prima accennò a tre città – Vienna, Londra, Zurigo – “divinità cittadine speciali… che si distinguono per minaccia, incommensurabilità, trasfigurazione”. Poi accenna all’Europa – “mi auguro… un tempo così benedetto che al mondo nessuno più maledica il nome dell’Europa” – infine a “quattro uomini appartenenti all’autentica Europa, e da cui non voglio separarmi”. I quattro sono: Karl Kraus – “il più grande satirico in lingua tedesca” –, Franz Kafka – a cui Canetti dedica un libro importante, L’altro processo. Le lettere di Kafka a Milena –, Robert Musil – “mi ha sempre affascinato, forse soltanto ora sono in grado di afferrare completamente il suo lavoro” – e Hermann Broch. “Per me, è impossibile, oggi, non pensare a questi quattro uomini. Se fossero ancora vivi, è chiaro, uno di loro dovrebbe essere al mio posto, qui”. Nella gratitudine è il paradigma del genio.

Canetti ci pone nel quarzo della contraddizione: non bisogna credergli, ma accettarlo – con l’accetta.

E cosa importa se uno scrittore non incarna i suoi scritti?, l’importante è che essi si intaglino in noi, ci scarnifichino, fino all’inchino supremo, allo scalpo.











Allo stesso tempo, varcando in latitudine tutto il Novecento – nato nel 1905, muore nel 1994 – Canetti sfascia il diletto filosofico, sconfigge l’illusione romanzesca, scandisce di ruderi il millennio prossimo. Proprio così. I suoi quaderni, gli abbozzi di romanzi sfiorati, sfrontati, gli aforismi che celano galassie, i paragrafi visionari e violenti, costituiscono una specie di Pompei marziana, disseppellita nel 2200, d’imperiale potenza eppure fugace come un miraggio. Masticare gli episodi verbali di Canetti – “La loro libertà e spontaneità, la convinzione che i quaderni stessero a sé e non servissero ad alcuno scopo, l’assenza di responsabilità, per cui non li rileggevo mai e non vi correggevo nulla, mi salvarono da un irrigidimento fatale” –, ammetto, è una specie di rito, un veleno con cui desidero inquinare i miei giorni. Il fatto che i testi ‘laterali’ di Canetti siano il cuore della sua opera, che lo spontaneo – cioè: il vitale – ne sia il carisma, e l’irresponsabile la formula estetica li pone nella teca del sacro – e dunque, del dissacrante.

I quaderni di Canetti – lettura da bisbigliare in sprezzo agli archeologi della letteratura – sono editi da Adelphi, in tomi come Il cuore segreto dell’orologio, La tortura delle mosche, La provincia dell’uomo. Quest’ultimo, in particolare, procede a corrodermi, promette provvidenziali vertigini. Va aperto a caso, letto ovunque, sulla tazza del bagno o sul posto di lavoro, guardando il prossimo con acida superiorità, certi del proprio niente. (d.b.)

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Solo un’immagine può piacere interamente, mai una persona. Origine degli angeli.

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Dio è il più grande atto di superbia dell’uomo; e quando egli l’avrà espiato, non ne troverà mai uno più grande.

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Le cariche onorifiche sono per gli imbecilli; meglio vivere nella vergogna che negli onori; soprattutto, niente onorificenze; libertà ad ogni prezzo, per pensare. Gli onori sono appesi come arazzi sugli occhi e sulle orecchie; chi riesce più a vedere, a sentire! Negli onori asfissiano i sogni e si disseccano gli anni buoni.

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La morte la voglio seria, la morte la voglio terribile, e che il punto più terribile sia quando non c’è più da temere se non il nulla.

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Non è il bel viso quello che si ama, è il viso che abbiamo distrutto.

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La cosa più stupida sono le rimostranze: c’è sempre qualcuno verso il quale nutrire rancore. Capita sempre che l’uno o l’altro ci abbia offeso. Capita sempre che l’uno o l’altro ci abbia fatto un torto. Cosa gli è saltato in mente, che vuol dire questo e stavolta non la passerà liscia. Questa piccineria sciocca continua a frullarci in testa; piccineria, perché riguarda soltanto noi stessi, e anzi solo una minima parte della nostra persona, i suoi confini sempre artificiosi. Di tali rimostranze la vita si riempie come se fossero prove di saggezza. Invadono tutto come cimici, si moltiplicano più in fretta dei pidocchi. Si va a dormire con loro, ci si sveglia con loro; la ‘vita di relazione’ degli uomini non consiste d’altro.

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Nel silenzio, di notte, quando dormono tutti coloro che conosce bene, diventa un uomo migliore.

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Dell’aldilà è rimasto il nulla, la sua più pericolosa eredità.

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Le costellazioni erano state concepite come fossero dei consigli, ma sono consigli che nessuno ha mai capito.

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Da quando ho visto l’andatura di un ghepardo, questa ebbrezza del movimento mi ha assalito. La bellezza fisica noi la percepiamo innanzitutto negli animali. Se non ci fossero gli animali, nessuno più sarebbe bello.

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Poiché senza parole non mi è dato di esistere, devo conservare fiducia nelle parole, e posso farlo soltanto se non le travesto. Ogni pretesa esteriore che sia basata sulle parole mi è dunque impossibile. Posso scriverle e conservarle in qualche posto, al riparo. Non posso gettarle in faccia a nessuno, né esercitare con essere alcun commercio. Mi ripugna anche soltanto mutare in esse qualcosa, una volta che sono state scritte. Tutte le chiacchiere sull’arte, specialmente quelle provenienti da chi ne pratica una, mi riescono insopportabili. Mi vergogno per costoro come per i ciarlatani, con la differenza che questi ultimi sono più interessanti. I libri mi sono sacri, ma questo non ha nulla a che fare con la letteratura, tanto meno con quella che scrivo io. Molte migliaia di libri sono per me più importanti dei pochissimi che ho scritto. Di fatto, ogni libro è per me la cosa più importante, in un modo fisico, che mi è difficile spiegare. Detesto la bellezza irreprensibile della prosa troppo consapevole… La bella prosa, che si muove nella sfera delle rimasticature e delle copie, è simile a una sfilata di moda della lingua, continua a girarsi e rigirarsi, non riesco nemmeno a disprezzarla.

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Tutto è meglio dell’io, ma dove metterlo?

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Il buddismo non mi soddisfa perché rinuncia a troppo. Non dà una risposta alla morte, la aggira. Il cristianesimo ha comunque posto al centro il fatto del morire: che altro è la croce? Non c’è nessuna dottrina indiana che veramente tratti della morte, perché nessuna si è posta assolutamente contro di essa: la vita, mancando di valore, ha sgravato la morte. Rimane ancora da vedere quale fede sorga nell’uomo che vede e riconosce l’enormità della morte e le nega ogni significato positivo. L’incorruttibilità che presuppone una tale concezione della morte finora non è mai stata raggiunta: l’uomo è troppo debole e abbandona la lotta prima di avere preso la decisione di cominciarla.

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Tutto quello che si è dimenticato grida aiuto nel sogno.

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Mi interessano gli uomini vivi e mi interessano i personaggi. Detesto gli ibridi fra le due cose.

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Improvvisamente fu la fine di ogni fede. Un senso di infinita felicità si diffuse tra gli uomini. Ognuno danzò fino a crollare esausto. Ma poi, sempre da solo, qualcuno si risollevava. Il sole brillò più forte. Ma l’aria era sottile. Il mare divenne incomprensibile.

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Mistica: lo svelarsi è avvenuto una volta per tutte. È sempre lo stesso svelarsi. Avviene senza avvenimenti. Non può tirarsi indietro.

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Il prestigio che gli scrittori ricavano dai loro martiri: da Hölderlin, da Kleist, da Walser. Così, con tutte le loro pretese di libertà, apertura e invenzione, non sono nient’altro che una setta. Io sono stufo di approfittare di questa gran boria degli scrittori. Non sono ancora nemmeno un uomo.

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Ogni scrittore che si è fatto un nome e tiene ad affermarsi sa molto bene che, appena lo fa, cessa di essere scrittore, perché allora amministra una posizione sociale come qualsiasi borghese. Eppure sa di alcuni scrittori che erano scrittori e basta, fino a tal punto che proprio non riuscivano in alcun modo a sostenersi nella società. Finiscono spenti e soffocati e hanno la scelta fra un vivere di peso a tutti, come mendicanti, e il manicomio. Chi sa farsi valere sa anche che quegli scrittori erano più puri di lui, e sopporta mentalmente di averli vicino a lungo, ma è senz’altro disposto a riverirli al manicomio. Essi sono le ferite distaccate dal suo corpo, e come tali continuano a vegetare. È edificante osservare e conoscere le proprie ferite, purché non le si sentano più sul proprio corpo.

Elias Canetti

*I testi sono tratti da: Elias Canetti, “La provincia dell’uomo”, Adelphi, 1978; traduzione italiana di Furio Jesi

giovedì 26 maggio 2022

VIVERE PER RACCONTARLA Gabriel García Márquez



 VIVERE PER RACCONTARLA 

Gabriel García Márquez 

 Recensione

"Vivere per raccontarla” è un libro autobiografico, che racconta, la sua vita dall’infanzia, vissuta in casa dei nonni, alla sua giovinezza da bohémien, nemmeno particolarmente dotato negli studi, a Bogotà.
Pur essendo a volte eccessivamente descrittiva, a tratti faticosa anche per i riferimenti ad una storia poco nota, quale quella colombiana, la trama è di quelle che coinvolgono negli avvenimenti di una famiglia numerosa, costituita da undici fratelli, più i due “a parte” solo del padre, una adottiva ed un altro, praticamente acquisito, figlio di un’amica della madre.
Il romanzo non va inteso come un’autobiografia completa, ma, indubbiamente, possiede il fascino dei ricordi d’infanzia e degli esordi di una carriera straordinaria, su cui incidono i condizionamenti storici, famigliari ed economici. 
  
VIVERE PER RACCONTARLA

La vita non è quella che si è vissuta,

ma quella che si ricorda e come la si ricorda 
per raccontarla.


1

Mia madre mi chiese di accompagnarla a vendere la casa. Era arrivata quel mattino a Barranquilla dal paese lontano dove viveva la famiglia e non aveva la minima idea su come trovarmi. Domandando qui e là fra i conoscenti, le indicarono di cercarmi nella libreria Mondo o nei caffè lì accanto, dove mi recavo due volte al giorno a chiacchierare con i miei amici scrittori. Chi glielo disse l’avvertì: «Ci stia attenta perché sono dei pazzi scatenati». Arrivò a mezzogiorno in punto. Si fece strada con il suo andare lieve fra i tavoli carichi di libri in mostra, mi si piantò davanti, guardandomi negli occhi con il sorriso malizioso dei suoi giorni migliori, e prima che io potessi reagire, mi disse:

«Sono tua madre.»

Qualcosa in lei era cambiato e mi impedì di riconoscerla a prima vista. Aveva quarantacinque anni. Sommando i suoi undici parti, aveva passato quasi dieci anni incinta e almeno altrettanti allattando i suoi figli. I capelli le erano incanutiti prima del tempo, gli occhi sembravano più grandi e attoniti dietro le sue prime lenti bifocali, e osservava un lutto stretto e severo per la morte di sua madre, ma conservava la bellezza romana del suo ritratto di nozze, adesso nobilitata da un’aura autunnale. Innanzitutto, ancora prima di abbracciarmi, mi disse con il solito stile cerimoniale:

«Vengo a chiederti il favore che mi accompagni a vendere la casa.»

Non dovette dirmi quale, né dove, dal momento che per noi ne esisteva una sola al mondo: la vecchia casa dei nonni ad Aracataca, dove avevo avuto la buona sorte di nascere e dove non avevo più abitato dopo gli otto anni. Avevo appena abbandonato la Facoltà di Legge dopo sei semestri, dedicati più che altro a leggere quanto mi finiva tra le mani e a recitare a memoria le poesie irripetibili del Secolo d’Oro spagnolo. Avevo già letto, tradotti e in edizioni imprestate, tutti i libri che mi sarebbero bastati per imparare la tecnica di scrivere romanzi, e avevo pubblicato sei racconti in supplementi di giornali, che avevano riscosso l’entusiasmo dei miei amici e l’attenzione di alcuni critici. Il mese successivo avrei compiuto ventitré anni, ero ormai inadempiente rispetto al servizio militare e veterano di due blenorragie, e ogni giorno fumavo, senza premonizioni, sessanta sigarette di tabacco atroce. Alternavo i miei ozi fra Barranquilla e Cartagena de Indias, sulla costa caraibica della Colombia, sopravvivendo come un pezzente grazie a quello che mi pagavano per i miei articoli quotidiani su «El Heraldo», che era meno di niente, e dormivo nella miglior compagnia possibile dove mi sorprendeva la notte. Come se l’incertezza delle mie aspirazioni e il caos della mia vita non bastassero, insieme a un gruppo di amici inseparabili mi accingevo a pubblicare una rivista temeraria e senza mezzi che Alfonso Fuenmayor progettava da tre anni. Cos’altro potevo desiderare?

Più per penuria che per gusto personale anticipavo la moda che si sarebbe diffusa di lì a vent’anni: baffi silvestri, capelli scarruffati, pantaloni di tela jeans, camicie a fiori equivoci e sandali da pellegrino. Nel buio di un cinema, e senza sapere che io ero lì vicino, un’amica di allora disse a qualcuno: «Il povero Gabito è un caso disperato». Sicché quando mia madre mi chiese di andare con lei a vendere la casa non ebbi problemi a dirle di sì. Lei mise in chiaro che non aveva abbastanza denaro e per orgoglio le dissi che mi sarei pagato le mie spese.

Al giornale dove lavoravo non avrei potuto risolvere la situazione. Mi pagavano tre pesos per ogni pezzo e quattro per un editoriale quando mancava qualcuno degli editorialisti fissi, ma mi bastavano appena. Cercai invano di chiedere un prestito, perché il direttore mi ricordò che il mio debito originale ammontava a oltre cinquanta pesos. Quel pomeriggio commisi un abuso di cui nessuno dei miei amici sarebbe stato capace. All’uscita dal caffè Colombia, vicino alla libreria, mi incamminai con don Ramón Vinyes, il vecchio maestro e libraio catalano, e gli chiesi in prestito dieci pesos. Ne aveva solo sei.

Né mia madre né io avremmo neppure potuto immaginare che quell’innocente passeggiata di soli due giorni sarebbe stata così determinante per me, che la più lunga e diligente delle vite non mi basterebbe per finire di raccontarla. Adesso, con oltre settantacinque anni alle mie spalle, so che fu la decisione più importante fra quante dovetti prendere nella mia carriera di scrittore. Ossia, in tutta la mia vita.

Fino all’adolescenza, la memoria ha più interesse per il futuro che per il passato, sicché i miei ricordi del paese non erano ancora stati idealizzati dalla nostalgia. Lo ricordavo così com’era: un buon posto per viverci, dove tutti si conoscevano, in riva a un fiume dalle acque diafane che si precipitavano lungo un letto di pietre polite, bianche ed enormi come uova preistoriche. All’imbrunire, soprattutto in dicembre, quando passavano le piogge e l’aria diventava di diamante, la Sierra Nevada di Santa Marta sembrava avvicinarsi con i suoi picchi bianchi fino alle piantagioni di banani della riva opposta. Da lì si vedevano gli indios arhuacos che correvano in file da formiche sui cornicioni della sierra, con i loro sacchi di zenzero sulla schiena e masticando palle di coca per distrarsi la vita. Noi bambini nutrivamo allora l’illusione di organizzare battaglie con le nevi perpetue e giocare alla guerra nelle strade divampanti. Il caldo era così inverosimile, soprattutto durante la siesta, che gli adulti se ne lamentavano come se ogni giorno fosse stato una sorpresa. Fin dalla mia nascita avevo sentito ripetere senza tregua che i binari della ferrovia e gli edifici della United Fruit Company erano stati installati di notte, perché di giorno era impossibile afferrare i pezzi di ferro riscaldati dal sole.

L’unico modo per arrivare ad Aracataca da Barranquilla era una sgangherata lancia a motore lungo un canale scavato a braccia di schiavi durante la Colonia, e poi attraverso una vasta palude dalle acque torbide e desolate, fino al misterioso villaggio di Ciénaga. Lì si prendeva il treno normale che alle sue origini era stato il migliore del paese, e con cui si faceva il tragitto conclusivo attraverso le immense piantagioni di banani, con molte fermate oziose in abitati polverosi e ardenti, e stazioni solitarie. Questo fu il percorso che mia madre e io intraprendemmo alle sette di sera di sabato 18 febbraio 1950 – vigilia di carnevale – sotto un acquazzone diluviale fuori stagione e con trentadue pesos complessivi che ci sarebbero bastati appena per tornare se la casa non fosse stata venduta alle condizioni previste.

I venti alisei erano così selvaggi quella sera, che al porto fluviale feci fatica a convincere mia madre a imbarcarsi. Non gliene mancava motivo. Le lance erano imitazioni ridotte dei battelli a vapore di New Orleans, ma con motori a benzina che comunicavano un tremito da brutta febbre a tutto quanto si trovava a bordo. C’era una sala con ganci per attaccare le amache a diversi livelli, e scanni di legno su cui ognuno si sistemava a gomitate come gli riusciva con i suoi bagagli eccessivi, fagotti di merci, gabbie di galline e persino maiali vivi. Le cabine erano poche e soffocanti, con due brande da campo, quasi sempre occupate da bagasce della mala morte che prestavano servizi di emergenza durante il viaggio. Poiché all’ultimo momento non ne trovammo una libera, né avevamo con noi le amache, mia madre e io occupammo d’assalto due seggiole di ferro del corridoio centrale e lì ci preparammo a passare la notte.

Proprio come lei temeva, la tempesta flagellò l’impavida imbarcazione mentre percorrevamo il fiume Magdalena, che a così breve distanza dal suo estuario ha un’indole oceanica. Al porto io avevo comprato una buona provvista di sigarette fra le più economiche, di tabacco nero e con una carta che le mancava poco per essere straccia, e cominciai a fumare alla mia maniera di allora, accendendo l’una con il mozzicone dell’altra, mentre rileggevo Luce d’agosto, di William Faulkner, che in quel periodo era il più fedele dei miei demoni tutelari. Mia madre si aggrappò al suo rosario come a un argano capace di disincagliare un trattore o di reggere un aereo nell’aria, e secondo la sua consuetudine non chiese nulla per sé, ma solo prosperità e lunga vita per i suoi undici orfani. Le sue preghiere dovettero arrivare dov’era il caso, perché la pioggia si fece docile quando entrammo nel canale e la brezza spirò appena per allontanare le zanzare. Mia madre ripose allora il rosario e per un bel pezzo osservò in silenzio il fragore della vita che trascorreva intorno a noi.

Era nata in una casa modesta, ma crebbe nello splendore effimero della compagnia bananiera, di cui le rimase almeno una buona educazione da bambina ricca al Collegio della Presentazione della Santissima Vergine, a Santa Marta. Durante le vacanze di Natale ricamava sul tombolo con le sue amiche, suonava il clavicordio alle feste di beneficenza e partecipava con una zia guardiana ai balli più depurati della timorata aristocrazia locale, ma nessuno aveva mai saputo che avesse un fidanzato quando si sposò contro la volontà dei genitori con il telegrafista del paese. Le sue virtù più note fin d’allora erano il senso dell’umorismo e la salute di ferro che le insidie dell’avversità non sarebbero riuscite a vincere nella sua lunga vita. Ma quella più sorprendente, e già allora la meno sospettabile, era il talento squisito con cui riusciva a nascondere la tremenda forza del suo carattere: un Leone perfetto. Le era stato così possibile instaurare un potere matriarcale il cui dominio si estendeva fino ai parenti più remoti nei luoghi meno immaginabili, come un sistema planetario di cui lei disponeva dalla sua cucina, con voce tenue e senza quasi batter ciglio, mentre faceva bollire la marmitta dei fagioli.

Vedendola affrontare senza scomporsi quel viaggio brutale, io mi domandavo come avesse potuto subordinare così in fretta e con tanto dominio le ingiustizie della povertà. Niente come quella brutta notte per metterla alla prova. Le zanzare carnivore, il caldo denso e nauseabondo per via del fango dei canali che la lancia rimuoveva al suo passaggio, l’andirivieni dei passeggeri insonni che non trovavano requie nella loro pelle, tutto sembrava fatto di proposito per mettere in crisi il carattere più equilibrato. Mia madre sopportava il tutto immobile sulla sua seggiola, mentre le ragazze in affitto mietevano il raccolto del carnevale nelle cabine lì accanto, travestite da uomini o da bamboline. Una di loro era entrata e uscita dalla sua più volte, sempre con un cliente diverso, e proprio accanto al sedile di mia madre. Io pensavo che lei non l’avesse vista. Ma la quarta o quinta volta che entrò e uscì in meno di un’ora, la seguì con uno sguardo di compassione sino in fondo al corridoio.

«Povere ragazze» sospirò. «Quello che devono fare per vivere è peggio che lavorare.»

Rimase così fino a mezzanotte, quando mi stancai di leggere per via del tremore insopportabile e delle luci esigue del corridoio, e mi sedetti a fumare al suo fianco, cercando di salire a galla dalle sabbie mobili della contea di Yoknapatawpha. Avevo abbandonato l’università l’anno prima, con l’illusione temeraria di vivere di giornalismo e letteratura senza bisogno di impararli, incoraggiato da una frase che credo avessi letto in Bernard Shaw: “Fin da piccolo dovetti interrompere la mia educazione per andare a scuola”. Non mi ero sentito di discuterne con nessuno, perché capivo, senza poterlo spiegare, che le mie ragioni potevano essere valide solo per me stesso.

Cercar di convincere i miei genitori di una simile follia quando avevano riposto in me tante speranze e avevano speso tanto denaro che non avevano, era tempo sprecato. Soprattutto mio padre, che mi avrebbe perdonato qualsiasi cosa, meno che non appendessi alla parete un titolo accademico che lui non era riuscito ad avere. I rapporti si erano interrotti. Quasi un anno dopo progettavo sempre di andarlo a trovare per spiegargli le mie ragioni, quando arrivò mia madre a chiedermi di accompagnarla a vendere la casa. Tuttavia, lei non accennò al problema fin dopo la mezzanotte, sulla lancia, quando sentì come una rivelazione sovrannaturale che aveva infine trovato il momento propizio per dirmi quello che di certo era il motivo reale del suo viaggio, e cominciò con il modo e con il tono e con le parole millimetriche che dovevano essere maturate nella solitudine delle sue insonnie assai prima che le pronunciasse.

«Tuo papà è molto triste» disse.

Eccolo, infine, l’inferno tanto temuto. Iniziava come sempre, quando uno meno se l’aspettava, e con una voce rasserenante che non si sarebbe alterata dinanzi a nulla. Solo in osservanza del rituale, dal momento che conoscevo benissimo la risposta, le domandai:

«E come mai?»

«Perché hai interrotto gli studi.»

«Non li ho interrotti» le dissi. «Ho solo cambiato carriera.»

L’idea di una discussione a fondo le sollevò l’animo.

«Tuo papà dice che è la stessa cosa» disse.

Sapendo che era falso, le dissi:

«Anche lui ha smesso di studiare per suonare il violino.»

«Non era lo stesso» replicò lei con una grande vivacità. «Il violino lo suonava solo alle feste e alle serenate. Se ha interrotto gli studi è stato perché non aveva neppure di che mangiare. Ma in meno di un mese ha imparato a fare il telegrafista, che allora era un’ottima professione, soprattutto a Aracataca.»

«Io vivo scrivendo sui giornali» le dissi.

«Questo lo dici per non rattristarmi» disse lei. «Ma lo si nota da lontano che sei in una brutta situazione. Come mai, quando ti ho visto nella libreria non ti ho riconosciuto?»

«Neppure io ho riconosciuto lei» le dissi.

«Ma non per lo stesso motivo» disse. «Io ho pensato che eri un accattone». Mi guardò i sandali logori, e aggiunse: «E senza calze».

«È più comodo» le dissi. «Due camicie e due paia di mutande: uno addosso e l’altro che si asciuga. Di cos’altro c’è bisogno?»

«Di un po’ di dignità» disse lei. Ma subito dopo raddolcì il tono: «Te lo dico per tutto il bene che ti vogliamo».

«Lo so» le dissi. «Ma mi dica una cosa: al mio posto lei non farebbe la stessa cosa?»

«Non la farei» disse «se così contrariassi i miei genitori.»

Ricordando la tenacia con cui era riuscita a vincere l’opposizione della sua famiglia per sposarsi, le dissi ridendo:

«Coraggio, mi guardi.»

Ma lei mi schivò con serietà, perché sapeva troppo bene cosa stavo pensando.

«Non mi sono sposata finché non ho avuto la benedizione dei miei genitori» disse. «Per forza, sia pure, ma l’ho avuta.»

Interruppe la discussione, non perché i miei argomenti l’avessero sconfitta, ma perché voleva andare in bagno e diffidava delle sue condizioni igieniche. Domandai al nostromo se c’era un posto più salubre, ma lui stesso mi spiegò che usava il bagno comune. E concluse, come se avesse appena finito di leggere Conrad: «Sul mare siamo tutti uguali». Sicché mia madre si sottomise alla legge di tutti. Quando uscì, al contrario di quanto io temevo, a stento riusciva a dominare le risate:

«Figurati» mi disse «cosa penserà mai tuo papà se torno con una malattia da mala vita?»

Dopo la mezzanotte subimmo un ritardo di tre ore, perché i grovigli di anemoni del canale immobilizzarono le eliche, la lancia si incagliò in un gruppo di mangrovie e molti passeggeri dovettero tirarla dalle rive con le funi delle amache. Il caldo e le zanzare divennero insopportabili, ma mia madre se ne liberò con una raffica di sonni istantanei e intermittenti, ormai celebri in famiglia, che le permettevano di riposare senza perdere il filo della conversazione. Quando il viaggio riprese e sopraggiunse la brezza fresca, si svegliò del tutto.

«Comunque» sospirò «una risposta devo portarla a tuo papà.»

«Meglio se non si preoccupa» le dissi con la stessa innocenza. «In dicembre andrò a trovarlo, e allora gli spiegherò tutto.»

«Mancano dieci mesi» disse lei.

«In fin dei conti, quest’anno non si può combinare più niente all’università» le dissi.

«Prometti davvero che andrai a trovarlo?»

«Lo prometto» le dissi. E per la prima volta colsi una certa ansia nella sua voce:

«Posso dire a tuo papà che gli dirai di sì?»

«No» le replicai perentorio. «Questo no.»

Era evidente che cercava un’altra via di uscita. Ma non gliela concessi.

«Allora è meglio se gli dico la verità una volta per tutte» disse lei. «Così non sembrerà un inganno.»

«D’accordo» le dissi sollevato. «Gliela dica.»

Rimanemmo in questi termini, e chi non l’avesse conosciuta bene avrebbe pensato che lì fosse finito tutto, ma io sapevo che era una tregua per riprendere fiato. Poco dopo si addormentò profondamente. Una brezza tenue allontanò le zanzare e saturò l’aria nuova con un odore di fiori. La lancia acquistò allora la sveltezza di un veliero.

Eravamo nella Palude Grande, un altro dei miti della mia infanzia. Vi avevo navigato più volte, quando mio nonno il colonnello Nicolás Ricardo Márquez Mejía – che noi nipoti chiamavamo Papalelo – mi portava da Aracataca a Barranquilla a trovare i miei genitori. «Della palude non bisogna aver paura, bensì rispetto» mi aveva detto lui, parlando degli umori imprevedibili delle sue acque, che si comportavano sia come uno stagno sia come un oceano indomito. Durante la stagione delle piogge era alla mercé delle tempeste della sierra. Da dicembre fino ad aprile, quando il tempo doveva essere più mansueto, gli alisei del nord l’aggredivano con tale impeto che ogni notte era un’avventura. La mia nonna materna, Tranquilina Iguarán – Mina – non si azzardava ad affrontare la traversata se non in casi di massima urgenza, dopo un viaggio di sgomenti durante il quale avevano dovuto cercare riparo fino all’alba alle foci del Riofrío.

Quella notte, per fortuna, era una gora. Da prua, dove andai a respirare poco prima dell’alba, le luci delle navi da pesca fluttuavano come stelle nell’acqua. Erano innumerevoli, e i pescatori invisibili chiacchieravano come durante una visita, perché le voci avevano una risonanza spettrale nello spazio della palude. Con i gomiti appoggiati al parapetto, cercando di indovinare il profilo della sierra, mi colse d’improvviso la prima artigliata della nostalgia.

In un’altra alba come quella, mentre attraversavamo la Palude Grande, Papalelo mi aveva lasciato a dormire nella cabina e se n’era andato allo spaccio. Non so che ora fosse quando mi svegliò un bailamme di molta gente attraverso il ronzio del ventilatore arrugginito e il baccano dei pezzi di latta della cabina. Io non dovevo avere più di cinque anni ed ebbi una grande paura, ma d’improvviso si ristabilì la calma e pensai che poteva essere stato un sogno. Al mattino, ormai all’imbarcadero di Ciénaga, mio nonno stava sbarbandosi con il rasoio tenendo la porta aperta e lo specchio appeso allo stipite. Il ricordo è preciso: non si era ancora infilato la camicia, ma sopra la canottiera aveva le sue eterne bretelle elastiche, larghe e a righe verdi. Mentre si rasava, continuava a chiacchierare con un uomo che ancora oggi potrei riconoscere a prima vista. Aveva un inconfondibile profilo da corvo, un tatuaggio da marinaio sulla mano destra, e portava appese al collo diverse catenelle d’oro pesante, e bracciali e armille, pure questi d’oro, a entrambi i polsi. Io avevo appena finito di vestirmi e mi ero seduto sul letto per infilarmi gli stivali, quando l’uomo disse a mio nonno:

«Non ne dubiti, colonnello. Quello che volevano farle era buttarla in acqua.»

Mio nonno sorrise senza smettere di rasarsi, e con un’alterigia tutta sua, replicò:

«Meglio che non si siano azzardati.»

Solo allora capii il tafferuglio della notte prima e mi sentii molto impressionato all’idea che qualcuno buttasse il nonno nella palude.

Il ricordo di quest’episodio mai chiarito mi colse la mattina in cui andavo con mia madre a vendere la casa, mentre contemplavo le nevi della sierra che spuntavano azzurre sotto i primi soli. Il ritardo nei canali ci permise di vedere in pieno giorno la barra di sabbie luminose che separa appena il mare e la palude, dove c’erano villaggi di pescatori con le reti tese ad asciugare sulla spiaggia, e bambini avviliti e macilenti che giocavano a calcio con palle di stracci. Era impressionante vedere nelle strade i molti pescatori con il braccio mutilato per non aver lanciato in tempo i candelotti di dinamite. Al passaggio della lancia, i bambini si tuffavano in cerca delle monete tirate dai viaggiatori.

Erano quasi le sette quando attraccammo in un pantano pestilente a poca distanza dall’abitato di Ciénaga. Squadre di facchini con il fango al ginocchio ci accolsero nelle loro braccia e sguazzando ci portarono fino all’imbarcadero, fra uno svolazzar di avvoltoi che si contendevano le immondizie nella melma. Stavamo facendo colazione con calma sui tavoli del porto, con certi saporiti pesci della palude e fette di banane verdi fritte, quando mia madre riprese l’offensiva della sua guerra personale.

«Allora dimmi una buona volta» mi disse senza alzare lo sguardo «cosa devo dire a tuo papà.»

Cercai di guadagnare tempo per pensare.

«Su cosa?»

«Sull’unica cosa che gli interessa» disse lei un po’ irritata: «I tuoi studi».

Ebbi la fortuna che un commensale impertinente, incuriosito dalla veemenza del dialogo, volle conoscere le mie ragioni. La risposta immediata di mia madre non solo mi intimidì un poco, ma mi stupì pure da parte di lei, che era molto riservata quanto alla sua vita privata.

«Vuole fare lo scrittore» disse.

«Un bravo scrittore può guadagnare fior di quattrini» replicò con serietà l’uomo. «Soprattutto se lavora con il governo.»

Non so se fu per discrezione che mia madre si sottrasse alla conversazione, o per timore degli argomenti dell’interlocutore imprevisto, ma entrambi finirono per compiangere le incertezze della mia generazione, e per spartirsi le nostalgie. Alla fine, rintracciando nomi di conoscenti comuni, finirono per scoprire che eravamo parenti sia dalla parte dei Cotes sia da quella degli Iguarán. A quell’epoca ci accadeva ogni due persone su tre che incontravamo sulla costa caraibica e mia madre se ne rallegrava sempre come davanti a un evento insolito.

Raggiungemmo la stazione ferroviaria su una victoria tirata da un solo cavallo, forse l’ultima di una stirpe leggendaria ormai estinta nel resto del mondo. Mia madre era assorta, mentre guardava l’arida pianura calcinata dal salnitro che cominciava subito dopo la fangaia del porto e si spingeva fino a confondersi con l’orizzonte. Per me era un luogo storico: a tre o quattro anni, nel corso del mio primo viaggio a Barranquilla, il nonno mi aveva portato per mano attraverso quella sodaglia ardente, camminando in fretta e senza dirmi perché, e d’improvviso ci eravamo ritrovati dinanzi a una vasta distesa di acque verdi con creste di spuma, su cui galleggiava tutto un mondo di galline annegate.

«È il mare» mi aveva detto.

Deluso, gli avevo domandato cosa ci fosse sull’altra sponda, e lui mi aveva risposto senza esitare:

«Dall’altra parte non c’è sponda.»

Oggi, dopo tanti mari visti al dritto e al rovescio, continuo a pensare che quella fu una delle sue più grandi risposte. Comunque, nessuna delle mie immagini previe corrispondeva a quel pelago sordido, sulla cui spiaggia di pietrame era impossibile camminare in mezzo a ramaglie di mangrovie marce e a schegge di conchiglie. Era orribile.

Mia madre doveva pensare la stessa cosa del mare di Ciénaga, perché non appena lo ebbe visto comparire sulla sinistra della vettura, sospirò:

«Non c’è mare come quello di Riohacha!»

In quella circostanza le raccontai il mio ricordo delle galline annegate e, come a tutti gli adulti, le sembrò che fosse un’allucinazione dell’infanzia. Poi seguitò a contemplare ogni luogo che incontravamo lungo il percorso, e io sapevo cosa pensava di ognuno di questi dai mutamenti del suo silenzio. Passammo davanti al quartiere di tolleranza dall’altra parte della linea ferroviaria, con piccole case colorate dai tetti arrugginiti e i vecchi pappagalli di Paramaribo che chiamavano i clienti in portoghese dai loro trespoli sotto le gronde. Passammo per il deposito delle locomotive, con l’immensa volta di ferro sotto cui si rifugiavano a dormire gli uccelli migratori e i gabbiani smarriti. Costeggiammo la città senza entrarvi, ma vedemmo le strade ampie e desolate, e le case dell’antico splendore, a un solo piano con finestre a grandezza d’uomo, dove gli esercizi al pianoforte si ripetevano senza tregua fin dall’alba. D’improvviso, mia madre indicò con il dito.

«Guarda» mi disse. «È stato lì che è finito il mondo.»

Io seguii la direzione del suo indice e vidi la stazione: un edificio di legno scrostato, con tetti di zinco a due spioventi e balconi coperti, e davanti una piazzetta arida che non poteva contenere più di duecento persone. Era stato lì, come mi precisò mia madre quel giorno, che nel 1928 l’esercito aveva ucciso un numero mai definito di braccianti delle piantagioni di banani. Io conoscevo l’episodio come se l’avessi vissuto, dopo averlo sentito raccontare e mille volte ripetere da mio nonno fin dove poteva risalire la mia memoria: il militare che leggeva il decreto secondo cui i braccianti in sciopero erano stati dichiarati una banda di malfattori; i tremila uomini, donne e bambini immobili sotto il sole atroce dopo che l’ufficiale aveva concesso un lasso di cinque minuti per evacuare la piazza; l’ordine di sparare, il fracasso delle raffiche di sputi incandescenti, la folla braccata dal panico mentre la stavano riducendo palmo a palmo con le forbici metodiche e insaziabili della mitraglia.

Il treno arrivava a Ciénaga alle nove del mattino, caricava i passeggeri delle lance e quelli che scendevano dalla sierra, e proseguiva all’interno della Zona bananiera un quarto d’ora dopo. Mia madre e io raggiungemmo la stazione che erano le otto passate, ma il treno era già lì, fermo. Tuttavia, fummo gli unici passeggeri. Lei se ne rese conto non appena fu entrata nel vagone vuoto, ed esclamò con un umore festoso:

«Che lusso! Tutto il treno solo per noi!»

Ho sempre pensato che fosse una gioia finta per nascondere il suo disincanto, perché gli scempi del tempo erano evidenti al primo colpo d’occhio dalle condizioni dei vagoni. Erano quelli antichi di seconda classe, ma senza sedili di vimini né vetri da alzare e da abbassare ai finestrini, bensì con panche di legno indurito dai deretani lisci e caldi dei poveri. A confronto con quanto era stato in altri tempi, non solo quel vagone ma tutto il treno era un fantasma di se stesso. Una volta aveva tre classi. La terza, dove viaggiavano i più poveri, erano gli stessi gabbioni di assi in cui trasportavano le banane e le bestie da macello, adattati per i passeggeri con panche longitudinali di legno grezzo. La seconda classe, con sedili di vimini e rifiniture di bronzo. La prima classe, dove viaggiavano i membri del governo e gli alti impiegati della compagnia bananiera, con tappeti lungo il corridoio e poltrone foderate di velluto rosso che potevano cambiare posizione. Quando viaggiava il sovrintendente della compagnia, o la sua famiglia, o i suoi invitati di spicco, agganciavano alla coda del treno un vagone di lusso con finestrini dai vetri schermati e rifiniture dorate, e una terrazza scoperta con tavolini per viaggiare prendendo il tè. Non conobbi mai mortale che avesse visto dall’interno quella carrozza di sogno. Mio nonno era stato sindaco due volte e pure lui aveva un’idea allegra del denaro, ma viaggiava in seconda solo se accompagnava qualche donna della famiglia. E quando gli domandavano perché viaggiasse in terza, rispondeva: «Perché non c’è la quarta». Tuttavia, in altri tempi, la cosa più memorabile del treno era stata la puntualità. Gli orologi dei paesi venivano regolati secondo l’ora esatta in base al suo fischio.

Quel giorno, per un motivo o per un altro, partì con un’ora e mezzo di ritardo. Quando si mise in moto, piano piano e con un cigolio lugubre, mia madre si fece il segno della croce, ma subito dopo ritornò alla realtà.

«A questo treno manca olio nelle molle» disse.

Eravamo gli unici passeggeri, forse in tutto il treno, e fino a quel momento non c’era nulla che mi suscitasse un vero interesse. Mi immersi nel sopore di Luce d’agosto, fumando senza tregua, con rapidi sguardi occasionali per riconoscere i luoghi che ci lasciavamo alle spalle. Il treno attraversò con un fischio lungo le maremme della palude, e infilò a tutta velocità un trepidante corridoio di rocce vermiglie, dove il baccano dei vagoni divenne insopportabile. Ma di lì a quindici minuti rallentò la marcia, entrò con un respiro silenzioso nella penombra fresca delle piantagioni, e il tempo divenne più denso e non si sentì più la brezza del mare. Non dovetti interrompere la lettura per capire che eravamo entrati nel regno ermetico della Zona bananiera.

Il mondo cambiò. Ai due lati dei binari si allungavano i filari simmetrici e interminabili delle piantagioni, dove si muovevano le carrette di buoi cariche di caschi verdi. D’improvviso, in spazi intempestivi, non seminati, c’erano baracche di mattoni rossi, uffici con reticella metallica alle finestre e ventilatori a pale appesi al soffitto, e un ospedale solitario in un campo di papaveri. Ogni fiume aveva il suo villaggio e il suo ponte di ferro su cui il treno passava ululando, e le ragazze che facevano il bagno nelle acque gelide balzavano su come salacche al suo passaggio per turbare i viaggiatori con le loro tette fugaci.

Nell’abitato di Riofrío salirono diverse famiglie di arhuacos carichi di zaini pieni di avocado della sierra, i più appetitosi del paese. Percorsero il vagone a saltelli in entrambi i sensi cercando dove sedersi, ma quando il treno ebbe ripreso la marcia rimanevano solo due donne bianche con un neonato, e un prete giovane. Il bambino non smise di piangere per il resto del viaggio. Il prete indossava stivali e casco da esploratore, una sottana di stoffa grezza con toppe quadrate, come una vela per navigare, e parlava mentre il bambino piangeva, sempre come se fosse sul pulpito. Il tema della sua predica era la possibilità che la compagnia bananiera tornasse. Da quando se n’era andata non si parlava di altro nella Zona e i pareri erano divisi fra quanti volevano e quanti non volevano che tornasse, ma tutti lo davano per certo. Il prete era contrario, e lo espresse con un motivo così personale che alle donne sembrò insensato:

«La compagnia semina la rovina ovunque passa.»

Fu l’unica cosa originale che disse, ma non riuscì a spiegarla, e la donna con il bambino finì per confonderlo affermando che Dio non poteva essere d’accordo con lui.

La nostalgia, come sempre, aveva cancellato i brutti ricordi e magnificato quelli belli. Nessuno si salvava dai suoi scempi. Dal finestrino del vagone si vedevano gli uomini seduti sulla soglia delle case e bastava guardarli in viso per capire cos’aspettavano. Le lavandaie sulle spiagge di pietrame osservavano passare il treno con la stessa speranza. Ogni forestiero che arrivasse con una valigetta da uomo d’affari sembrava loro che fosse l’uomo della United Fruit Company tornato a ricomporre il passato. A ogni incontro, a ogni visita, a ogni lettera prima o poi scaturiva la frase sacramentale: «Dicono che la compagnia torna». Nessuno sapeva chi l’avesse detto, né quando né perché, ma nessuno lo metteva in dubbio.

Mia madre si credeva guarita dallo sgomento, perché una volta morti i suoi genitori aveva reciso ogni vincolo con Aracataca. Tuttavia, i suoi sogni la tradivano. Almeno, quando ne aveva uno che le interessava tanto da raccontarlo a colazione, era sempre collegato con le sue nostalgie della Zona bananiera. Era sopravvissuta ai tempi più duri senza vendere la casa, con l’illusione di ricavarne anche quattro volte di più quando fosse tornata la compagnia. Alla fine l’aveva sconfitta la pressione insopportabile della realtà. Ma quando sentì dire al prete sul treno che la compagnia stava per tornare, fece un gesto desolato e mi disse all’orecchio:

«Peccato che non possiamo aspettare ancora un po’ di tempo, altrimenti venderemmo la casa per più soldi.»

Mentre il prete parlava attraversammo un luogo dove c’erano una folla sulla piazza e una banda di musicisti che suonava una marcetta allegra sotto il sole opprimente. Tutti quei villaggi mi sembrarono sempre uguali. Quando Papalelo mi portava al nuovissimo cinema Olympia di don Antonio Daconte io notavo che le stazioni dei film western assomigliavano a quelle del nostro treno. In seguito, quando avevo cominciato a leggere Faulkner, anche i villaggi dei suoi romanzi mi sembravano uguali ai nostri. E non era sorprendente, perché questi ultimi erano stati costruiti sotto l’ispirazione messianica della United Fruit Company, e con il loro stesso stile provvisorio da accampamento effimero. Io li ricordavo tutti con la chiesa nella piazza e le casette da favola dipinte con colori primari. Ricordavo le squadre di braccianti negri che cantavano all’imbrunire, le baracche delle piantagioni dove si sedevano i contadini a guardar passare i treni merci, i confini fra una tenuta e l’altra dove all’alba venivano trovati i lavoratori decapitati a colpi di machete nelle baruffe del sabato. Ricordavo le città private dei gringos ad Aracataca e a Sevilla, dall’altra parte della linea ferroviaria, circondate da reti metalliche come enormi pollai elettrificati che nelle giornate fresche dell’estate divenivano neri di rondini abbrustolite. Ricordavo i loro lenti prati azzurri con pavoni e quaglie, le residenze con i tetti rossi e le finestre protette da grate e i tavolini rotondi con sedie pieghevoli per mangiare sulle terrazze, fra palme e roseti polverosi. Talvolta, attraverso il recinto di filo di ferro, si vedevano donne belle e languide, con vestiti di mussolina e grandi cappelli di garza, che tagliavano i fiori dei giardini con forbici d’oro.

Già durante la mia infanzia non era facile distinguere certi villaggi dagli altri. Vent’anni dopo era ancora più difficile, perché sotto le pensiline delle stazioni erano cadute le scritte con i nomi idilliaci – Tucurinca, Guamachito, Neerlandia, Guacamayal – e tutti erano più desolati che nella memoria. Il treno si fermò a Sevilla verso le undici del mattino per cambiare la locomotiva e rifornirsi d’acqua durante quindici minuti interminabili. Lì cominciò il caldo. Quando riprese la marcia, la nuova locomotiva ci mandava a ogni curva una zaffata di carbonella che entrava dal finestrino senza vetri e ci lasciava ricoperti di una neve nera. Il prete e le donne erano scesi in qualche villaggio senza che ce ne fossimo accorti e questo rafforzò la mia impressione che mia madre e io viaggiassimo soli su un treno di nessuno. Seduta davanti a me, intenta a guardare dal finestrino, lei si era fatta due o tre sonnellini, ma si riebbe d’improvviso e mi rivolse ancora una volta la domanda temibile:

«Allora, cosa dico a tuo papà?»

Io pensavo che non si sarebbe mai arresa, in cerca di un punto che le permettesse di vincere la mia decisione. Poco prima aveva suggerito qualche formula di compromesso che avevo scartato senza esitazioni, ma sapevo che il suo ripiego non sarebbe stato troppo lungo. Anche così questo nuovo tentativo mi colse di sorpresa. Pronto per un’altra battaglia sterile, le risposi con più calma delle volte precedenti:

«Gli dica che l’unica cosa che voglio nella vita è essere uno scrittore, e che lo diventerò.»

«Lui non si oppone al fatto che tu sia quello che vuoi» disse lei «sempre che tu prenda una laurea.»

Parlava senza guardarmi, fingendo di interessarsi meno al nostro dialogo che alla vita che sfilava oltre il finestrino.

«Non so perché insiste tanto, se lei sa benissimo che non mi arrenderò» le dissi.

Mi guardò subito negli occhi e mi domandò incuriosita:

«Perché credi che lo sappia?»

«Perché lei e io siamo uguali.»

Il treno fece una sosta in una stazione senza paese, e poco dopo passò davanti all’unica piantagione di banani del percorso che avesse il nome scritto sull’entrata: Macondo. Questa parola aveva attratto la mia attenzione fin dai primi viaggi con il nonno, ma solo da adulto scoprii che mi piaceva la sua risonanza poetica. Non l’avevo mai sentito pronunciare da nessuno né mi ero mai domandato cosa significasse. L’avevo già usato in tre libri come nome di un paese immaginario, quando appresi su un’enciclopedia casuale che è un albero dei tropici simile alla ceiba, che non produce fiori né frutti, e il cui legno spugnoso serve per costruire canoe e scolpirci attrezzi da cucina. In seguito scoprii sull’Enciclopedia Britannica che in Tanganica esiste l’etnia errante dei makondo e pensai che quella poteva essere l’origine della parola. Ma non lo verificai mai né conobbi l’albero, perché spesso mi informai nella Zona bananiera e nessuno seppe indicarmelo. Forse non esistette mai.

Il treno passava alle undici davanti alla tenuta Macondo, e dieci minuti dopo si fermava ad Aracataca. Il giorno in cui andavo con mia madre a vendere la casa vi passò con un’ora e mezzo di ritardo. Io ero in bagno quando cominciò ad accelerare ed entrò dal finestrino rotto un vento ardente e secco, mescolato allo strepito dei vecchi vagoni e al fischiare impaurito della locomotiva. Il cuore mi sobbalzava nel petto e una nausea glaciale mi raggelò le viscere. Uscii di gran corsa, spinto da un terrore simile a quello che si prova quando c’è un terremoto, e trovai mia madre imperturbabile al suo posto, che enumerava ad alta voce i luoghi che vedeva passare dal finestrino come raffiche istantanee della vita che era stata e che non sarebbe mai più stata.

«Quelli sono i terreni che avevano venduto a papà raccontandogli la storia che c’era oro» disse.

Passò come un fulmine la casa degli avventisti, con il suo giardino fiorito e un’insegna all’entrata: The sun shines for all.

«È stata la prima cosa che hai imparato in inglese» disse mia madre.

«La prima no» le dissi: «L’unica».

Passò il ponte di cemento e il canale con le sue acque torbide, da quando i gringos avevano fatto deviare il fiume per portarselo nelle piantagioni.

«Il quartiere delle donne di vita, dove all’alba gli uomini ballavano la cumbiamba con fasci di banconote accese al posto delle candele» disse lei.

Le panchine lungo il viale, i mandorli arrugginiti dal sole, il parco della piccola scuola montessoriana dove avevo imparato a leggere. Per un istante, l’immagine totale del paese nella luminosa domenica di febbraio risplendette nel finestrino.

«La stazione!» esclamò mia madre. «Come sarà cambiato il mondo se più nessuno aspetta il treno.»

Allora la locomotiva smise di fischiare, rallentò la corsa e si fermò con un lamento lungo. La prima cosa che mi colpì fu il silenzio. Un silenzio materiale che avrei potuto identificare a occhi bendati fra gli altri silenzi del mondo. Il riverbero del caldo era così intenso che si vedeva tutto come attraverso un vetro deformante. Non c’era memoria della vita umana fin dove arrivava la mia vista, né nulla che non fosse ricoperto da una rugiada tenue di polvere ardente. Mia madre rimase ancora per qualche minuto sul sedile, a guardare il paese morto e disteso nelle strade deserte, e infine esclamò atterrita:

«Dio mio!»

Fu l’unica cosa che disse prima di scendere.

Finché il treno rimase lì ebbi l’impressione che non fossimo del tutto soli. Ma quando partì, con un fischio istantaneo e lacerante, mia madre e io ci ritrovammo inermi sotto il sole infernale e tutta la tristezza del paese ci cascò addosso. Ma non dicemmo nulla. La vecchia stazione di legno, con il tetto di zinco e un balcone coperto, era come una versione tropicale di quelle conosciute attraverso i film western. Attraversammo la stazione abbandonata le cui mattonelle cominciavano a spezzarsi tanto l’erba vi premeva contro, e ci immergemmo nel marasma della siesta, sempre cercando il riparo dei mandorli.

Fin da bambino io detestavo quelle sieste inerti perché non sapevamo cosa fare. «State zitti, che stiamo dormendo» sussurravano i dormienti senza svegliarsi. Le botteghe, gli uffici pubblici, le scuole chiudevano a mezzogiorno e non riaprivano fin dopo le tre. L’interno delle case rimaneva a fluttuare in un limbo di sopore. In alcune era così insopportabile che la gente appendeva le amache nel cortile o spingeva sgabelli all’ombra dei mandorli e dormiva seduta in piena strada. Rimanevano aperti solo l’albergo davanti alla stazione, il suo bar e la sua sala da biliardo, e l’ufficio del telegrafo dietro la chiesa. Tutto era identico ai ricordi, ma più ridotto e povero, e travolto da un gran vento di fatalità: le stesse case corrose, i tetti di zinco forati dalla ruggine, il viale con i residui delle panchine di granito e i mandorli tristi, e tutto trasfigurato da quella polvere invisibile e ardente che ingannava la vista e calcinava la pelle. Il paradiso privato della compagnia bananiera, dall’altra parte dei binari, ormai senza il recinto di filo di ferro elettrificato, era una vasta sodaglia senza palme, con le case distrutte in mezzo ai papaveri e le rovine dell’ospedale incendiato. Non c’erano una porta, una crepa su un muro, una traccia umana che non risvegliassero dentro di me una risonanza sovrannaturale.

Mia madre camminava molto dritta, con il suo passo leggero, sudando appena dentro il vestito funebre e in un silenzio assoluto, ma il suo pallore mortale e il suo profilo affilato tradivano quanto le accadeva dentro. Alla fine del viale vedemmo il primo essere umano: una donna minuta, dall’aspetto impoverito, che spuntò a un incrocio e ci passò accanto con un pentolino di peltro il cui coperchio messo male segnava il ritmo del suo passo. Mia madre mi sussurrò senza guardarla:

«È Vita.»

Io l’avevo riconosciuta. Aveva lavorato fin da bambina nella cucina dei miei nonni, e per quanto fossimo cambiati ci avrebbe riconosciuto, se si fosse degnata di guardarci. Ma no: passò come in un altro mondo. Ancora oggi mi domando se Vita non fosse morta molto prima di quel giorno.

Quando girammo all’incrocio, la polvere mi ardeva sui piedi fra il tessuto dei sandali. La sensazione d’abbandono divenne per me insopportabile. Allora vidi me stesso e vidi mia madre, così come da bambino avevo visto la madre e la sorella del ladro che María Consuegra aveva ucciso con uno sparo una settimana prima, mentre cercava di forzare la porta della sua casa.

Alle tre del mattino l’aveva svegliata il rumore di qualcuno che tentava di forzare dall’esterno la porta di strada. Si era alzata senza accendere la luce, aveva cercato a tentoni nel guardaroba la pistola arcaica con cui nessuno aveva più sparato dopo la guerra dei Mille Giorni e aveva localizzato al buio non solo il punto dove si trovava la porta ma anche l’altezza esatta della serratura. Allora aveva puntato l’arma reggendola con entrambe le mani, aveva chiuso gli occhi e aveva premuto il grilletto. Non aveva mai sparato prima, ma il colpo centrò il bersaglio attraverso la porta.

Fu il primo morto che vidi. Quand’ero passato alle sette del mattino lì davanti per andare a scuola c’era ancora il corpo disteso sul marciapiede sopra una pozza di sangue secco, con il viso sfasciato dal piombo che aveva distrutto il naso ed era uscito da un orecchio. Aveva una maglietta da marinaio a righe colorate, pantaloni normali con una corda al posto della cintura, ed era scalzo. Accanto, per terra, avevano trovato il grimaldello artigianale con cui aveva cercato di forzare la serratura.

Gli uomini più in vista del paese erano corsi fino alla casa di María Consuegra a farle le condoglianze per aver ucciso il ladro. Quella sera ci andai con Papalelo, e la trovammo seduta su una poltrona di Manila che sembrava un enorme pavone di vimini, in mezzo al fervore degli amici che ascoltavano la sua storia mille volte ripetuta. Tutti erano d’accordo con lei sul fatto che aveva sparato solo per paura. Era stato allora che mio nonno le aveva domandato se avesse sentito qualcosa dopo lo sparo, e lei gli aveva risposto di aver sentito dapprima un grande silenzio, poi il rumore metallico del grimaldello che cadeva sul cemento e subito dopo una voce minima e dolente: «Ah, madre mia!». A quanto sembrava, María Consuegra non prese coscienza di questo lamento lacerante finché mio nonno non le fece la domanda. Solo allora scoppiò in singhiozzi.

Questo era accaduto un lunedì. Il martedì della settimana successiva, all’ora della siesta, stavo giocando a trottola con Luis Carmelo Correa, il mio amico più antico nella vita, quando ci stupì che i dormienti si svegliassero prima del tempo e si affacciassero alle finestre. Allora vedemmo nella strada deserta una donna in lutto stretto con una ragazzina sui dodici anni che reggeva un mazzo di fiori appassiti avvolti in un giornale. Si proteggevano dal sole divampante con un ombrello nero, completamente estranee all’impertinenza della gente che le guardava passare. Erano la madre e la sorella minore del ladro morto, che gli portavano fiori sulla tomba.

Quello spettacolo mi inseguì per molti anni, come un sogno unanime che tutto il paese vide passare dalle finestre, finché non riuscii a esorcizzarlo in un racconto. Ma il fatto è che non presi coscienza del dramma della donna e della ragazzina, né della loro dignità imperturbabile, fino al giorno in cui andai con mia madre a vendere la casa e sorpresi me stesso che camminavo lungo la stessa strada solitaria e nella stessa ora mortale.

«Mi sento come se fossi io il ladro» dissi.

Mia madre non batté ciglio. Anzi, quando passammo davanti alla casa di María Consuegra non guardò neppure la porta su cui si notava ancora il rattoppo del legno sul foro della pallottola. Anni dopo, rammemorando con lei quel viaggio, constatai che si ricordava della tragedia, ma che avrebbe dato l’anima per dimenticarla. Questo fu ancora più evidente quando passammo davanti alla casa in cui aveva vissuto don Emilio, più noto come il Belga, un veterano della Prima guerra mondiale che aveva perso l’uso di tutt’e due le gambe in un campo minato della Normandia, e che una domenica di Pentecoste si era messo in salvo dai tormenti della memoria con un suffumigio di cianuro d’oro. Io non avevo più di sei anni, ma ricordo come se fosse stato ieri lo scompiglio causato dalla notizia alle sette del mattino. Fu così memorabile, che quando tornammo al paese per vendere la casa, mia madre finì per infrangere il suo mutismo dopo vent’anni.

«Il povero Belga» sospirò. «Come tu hai detto, non ha più ripreso a giocare a scacchi.»

Il nostro proposito era di andare dritti fino alla casa. Tuttavia, quando ne distavamo solo un isolato, mia madre si fermò d’improvviso e svoltò all’incrocio precedente.

«Meglio se passiamo di qui» mi disse. E dal momento che volli sapere il perché, mi rispose: «Perché ho paura».

Così seppi pure il motivo della mia nausea: era paura, e non solo di affrontare i fantasmi, ma paura di tutto. Sicché proseguimmo lungo una via parallela per fare un giro nell’unico intento di non passare davanti alla nostra casa. «Non avrei avuto il coraggio di vederla senza prima parlare con qualcuno» mi avrebbe poi detto mia madre. Così fu. Quasi trascinandomi dietro di sé, entrò senza avvisare nella farmacia del dottor Alfredo Barboza, una casa all’angolo a meno di cento passi dalla nostra. Adriana Berdugo, la moglie del dottore, stava cucendo così presa dalla sua primitiva Domestic a manovella, da non accorgersi che mia madre le era arrivata davanti e le aveva detto quasi in un sussurro:

«Comare.»

Adriana alzò lo sguardo rarefatto dalle spesse lenti da presbite, se le tolse, esitò un istante, e si levò d’un balzo con le braccia aperte e un gemito:

«Ah, comare.»

Mia madre era ormai dietro il banco, e senza dirsi altro si abbracciarono e piansero. Io rimasi a guardarle fuori dal banco, senza sapere cosa fare, rabbrividendo per la certezza che quel lungo abbraccio con lacrime silenziose era qualcosa di irreparabile che stava accadendo per sempre nella mia stessa vita.

Quella farmacia era stata la migliore ai tempi della compagnia bananiera, ma dell’antico barattolame rimaneva sugli armadi scarni solo qualche vaso di ceramica segnato con lettere dorate. La macchina da cucire, la bilancia, il caduceo, l’orologio a pendolo ancora vivo, l’attestato del giuramento ippocratico, le sedie a dondolo sgangherate, tutte le cose che avevo visto da bambino erano sempre le stesse ed erano al loro stesso posto, ma trasfigurate dalla ruggine del tempo.

La stessa Adriana era una vittima. Sebbene indossasse come una volta un vestito a grossi fiori tropicali, si coglieva a stento qualcosa degli slanci e della malizia che l’avevano resa celebre fino alla sua avanzata maturità. L’unica cosa intatta attorno a lei era l’odore della valeriana, che faceva impazzire i gatti, e che continuai a evocare per il resto della mia vita con una sensazione di naufragio.

Quando Adriana e mia madre furono rimaste senza lacrime, si sentì una tosse spessa e breve dietro il tramezzo di legno che ci separava dal retrobottega. Adriana riacquistò qualcosa della sua grazia di un’altra epoca e parlò per farsi sentire attraverso il tramezzo.

«Dottore» disse: «Indovina chi c’è qui».

Una voce granulosa da uomo duro domandò senza interesse dall’altra parte:

«Chi?»

Adriana non rispose, ma ci fece segno di passare nel retrobottega. Un terrore dell’infanzia mi paralizzò di colpo e la bocca mi si riempì di una saliva livida, ma entrai con mia madre nello spazio variegato che un tempo era il laboratorio della farmacia e che era stato adattato a camera da letto di emergenza. Lì c’era il dottor Alfredo Barboza, più vecchio di tutti gli uomini e di tutti gli animali vecchi della terra e dell’acqua, disteso supino nella sua eterna amaca di bella fibra, senza scarpe, e con il suo pigiama leggendario di cotone grezzo che assomigliava più che altro a una tunica da penitente. Aveva lo sguardo fisso sul soffitto, ma quando ci sentì entrare girò la testa e ci scrutò con i suoi diafani occhi gialli, finché non ebbe riconosciuto mia madre.

«Luisa Santiaga!» esclamò.

Si sedette sull’amaca con una fatica da mobile antico, si umanizzò del tutto e ci salutò con una stretta rapida della sua mano ardente. Lui notò la mia impressione, e mi disse: «Da un anno ho una febbre essenziale». Allora abbandonò l’amaca, si sedette sul letto e ci disse tutto d’un fiato:

«Voi non potete immaginare attraverso quali cose ha dovuto passare questo paese.»

Quella sola frase, che riassunse tutta una vita, bastò perché lo vedessi come forse era sempre stato: un uomo solitario e triste. Era alto, macilento, con una bella chioma metallica tagliata alla meno peggio e certi occhi gialli e intensi che erano stati il più temibile dei terrori della mia infanzia. Nel pomeriggio, quando tornavamo dalla scuola, ci issavamo sulla finestra della sua camera da letto attratti dal fascino della paura. Era lì, che si dondolava sull’amaca con forti scosse per non patire troppo il caldo. Il gioco consisteva nel guardarlo fisso finché lui non se ne accorgeva e si girava a guardarci d’improvviso con i suoi occhi ardenti.

L’avevo visto per la prima volta all’età di cinque o sei anni, un mattino in cui ero scivolato nel retrocortile della sua casa con altri compagni di scuola per rubare i manghi enormi dei suoi alberi. D’improvviso si era aperta la porta del gabinetto di assi costruito in un angolo del cortile, e lui ne era uscito abbottonandosi i calzoni di tela. L’avevo visto come un’apparizione dell’altro mondo, con un camicione bianco da ospedale, pallido e ossuto, e quegli occhi gialli come da cane dell’inferno che mi avevano guardato per sempre. Gli altri erano fuggiti attraverso le brecce, ma io ero rimasto pietrificato dal suo sguardo immobile. Aveva notato i manghi che io avevo appena strappato dall’albero e mi aveva teso la mano.

«Dammeli!» mi aveva ordinato guardandomi in tutta la sua altezza con un grande sprezzo: «Piccolo topo da cortile».

Avevo buttato i manghi ai suoi piedi ed ero scappato via impaurito.

Fu il mio fantasma personale. Se ero da solo facevo un lungo giro per non passare davanti a casa sua. Se ero con qualche adulto azzardavo appena uno sguardo furtivo verso la farmacia. Vedevo Adriana condannata all’ergastolo della macchina da cucire dietro il banco, e vedevo lui dalla finestra della camera da letto che si dondolava con grandi scosse sull’amaca, e quel solo sguardo mi faceva accapponare la pelle.

Era arrivato in paese all’inizio del secolo, fra gli innumerevoli venezuelani che riuscivano a sottrarsi attraverso la frontiera della Guajira al dispotismo feroce di Juan Vicente Gómez. Il dottore era stato uno dei primi a venire trascinato da due forze opposte: la ferocia del despota del suo paese e l’illusione della bonaccia bananiera nel nostro. Fin dal suo arrivo si era fatto notare per il suo occhio clinico – come si diceva allora – e per i bei modi della sua anima. Era stato uno degli amici più assidui della casa dei miei nonni, dove la tavola era sempre apparecchiata senza sapere chi sarebbe arrivato con il treno. Mia madre era stata madrina del suo figlio maggiore, e mio nonno gli aveva insegnato a volare con le sue prime ali. Ero cresciuto in mezzo a loro, così come avrei poi continuato a crescere in mezzo agli esiliati della guerra civile spagnola.

Le ultime tracce della paura che mi suscitava da bambino quel paria dimenticato svanirono in fretta, mentre mia madre e io, seduti accanto al suo letto, ascoltavamo i dettagli della tragedia che aveva prostrato la popolazione. Aveva un potere evocativo così intenso che ogni cosa da lui raccontata sembrava divenire visibile nella stanza rarefatta dal caldo. Com’è naturale, l’origine di tutte le disgrazie era stato il massacro dei braccianti da parte della forza pubblica, ma persistevano ancora dubbi sulla verità storica: tre morti o tremila? Forse non erano stati così tanti, disse lui, ma ognuno aumentava la cifra secondo il proprio dolore. Adesso la compagnia se n’era andata per non tornare mai più.

«I gringos non tornano mai» concluse.

L’unica cosa certa era che avevano portato via tutto; il denaro, le brezze di dicembre, il coltello del pane, il tuono delle tre del pomeriggio, l’aroma dei gelsomini, l’amore. Erano rimasti solo i mandorli polverosi, le strade riverberanti, le case di legno con il tetto di zinco arrugginito e gli abitanti taciturni, devastati dai ricordi.

La prima volta che quel pomeriggio il dottore mi badò fu quando mi vide sorpreso dal crepitio come una pioggia di gocce sparse sul tetto di zinco. «Sono gli avvoltoi» mi disse. «Tutto il giorno passano il tempo a girare per i tetti.» Poi segnalò con un indice languido la porta chiusa, e concluse:

«Di notte è peggio, perché si sentono i morti che vanno avanti e indietro per quelle strade.»

Ci invitò a pranzo e non c’erano inconvenienti, perché l’affare della casa aveva solo bisogno di essere formalizzato. Gli stessi inquilini erano gli acquirenti, e i particolari erano stati definiti per telegrafo. Avremmo avuto tempo?

«In abbondanza» disse Adriana. «Adesso non si sa neppure quando torna il treno.»

Sicché spartimmo con loro un pasto alla creola, la cui semplicità non aveva nulla a che vedere con la povertà ma con una dieta sobria che il dottore praticava e predicava non solo per la tavola ma anche per tutti i momenti della vita. Non appena assaggiata la minestra, ebbi la sensazione che tutto un mondo addormentato si risvegliasse nella mia memoria. Sapori che erano stati miei durante l’infanzia e che avevo perso da quando me n’ero andato dal paese, ricomparivano intatti a ogni cucchiaiata e mi rinserravano il cuore.

Fin dall’inizio della conversazione, davanti al dottore mi ero sentito della stessa età che avevo quando gli facevo scherzi dalla finestra, sicché mi intimidì allorché si rivolse a me con la serietà e l’affetto con cui parlava a mia madre. Da bambino, in situazioni difficili, cercavo di nascondere il mio smarrimento con un batter di ciglia rapido e continuo. Quel riflesso incontrollabile mi tornò d’improvviso quando il dottore mi guardò. Il caldo era divenuto insopportabile. Rimasi al margine della conversazione per un po’, domandandomi com’era possibile che quel vecchio affabile e nostalgico fosse stato il terrore della mia infanzia. D’improvviso, dopo una lunga pausa e sul filo di qualche accenno banale, mi guardò con un sorriso da nonno.

«Sicché tu sei il grande Gabito» mi disse. «Cosa studi?»

Nascosi lo smarrimento con un inventario spettrale dei miei studi: tutto il liceo e buoni voti in un collegio ufficiale, due anni e qualche mese caotici di Legge, giornalismo empirico. Mia madre mi ascoltò e subito dopo cercò l’appoggio del dottore.

«Si figuri, compare» disse «vuole diventare uno scrittore.»

Al dottore brillarono gli occhi.

«Che meraviglia, comare!» disse. «È un dono del cielo.» E si volse verso di me: «Poesia?».

«Romanzi e racconti» gli dissi, con l’anima appesa a un filo.

Lui si entusiasmò:

«Hai letto Donna Barbara

«Certo» gli risposi «e quasi tutti gli altri libri di Rómulo Gallegos.»

Come resuscitato da un entusiasmo repentino, ci raccontò che l’aveva conosciuto a una conferenza tenuta a Maracaibo, e che gli era sembrato un degno autore delle sue opere. Il fatto è che in quel momento, con la mia febbre a quaranta gradi per le saghe del Mississippi, cominciavo a vedere i limiti del romanzo vernacolo. Ma la comunicazione così facile e cordiale con l’uomo che era stato l’orrore della mia infanzia mi sembrava un miracolo, e preferii concordare con il suo entusiasmo. Gli parlai di “La Giraffa” – la mia rubrica quotidiana su «El Heraldo» – e gli passai l’anteprima che molto presto intendevamo pubblicare una rivista in cui riponevamo grandi speranze. Già più sicuro, gli raccontai il progetto e gli anticipai persino il nome: «Crónica».

Lui mi scrutò da capo a piedi.

«Non so come scrivi» mi disse «ma parli già come uno scrittore.»

Mia madre si affrettò a spiegare la verità. Nessuno si opponeva al fatto che io diventassi uno scrittore, sempre che seguissi una carriera accademica che rendesse sicuri i miei passi. Il dottore minimizzò tutto, e parlò della carriera dello scrittore. Anche lui avrebbe voluto diventarlo, ma i suoi genitori, con gli stessi argomenti di lei, l’avevano costretto a studiare medicina quando non erano riusciti a far sì che diventasse un militare.

«Guardi, comare» concluse. «Medico lo sono, ed eccomi qui, senza sapere quanti dei miei pazienti sono morti per volontà di Dio e quanti in seguito alle mie medicine.»

Mia madre si sentì smarrita.

«Il peggio» disse «è che ha smesso di studiare Legge dopo tanti sacrifici che abbiamo fatto per sostenerlo.»

Il dottore, al contrario, la ritenne una prova splendida di una vocazione travolgente: l’unica forza capace di contendere i suoi diritti all’amore. E in particolare la vocazione artistica, la più misteriosa di tutte, alla quale si consacra la vita intera senza aspettarsene nulla.

«È una cosa che si ha dentro fin dalla nascita e contrariarla è la cosa peggiore per la salute» disse lui. E terminò con un affascinante sorriso da massone irredimibile: «Proprio come la vocazione del prete».

Rimasi allucinato dal modo in cui aveva spiegato quello che io non ero mai riuscito a spiegare. Anche mia madre dovette pensarla così, perché mi contemplò con un silenzio lento, e si arrese alla sua sorte.

«Quale sarà il modo migliore per dire tutto questo a tuo papà?» mi domandò.

«Né più né meno come l’abbiamo appena sentito.»

«No, così non ci sarà un risultato» disse lei. E dopo un’altra riflessione, concluse: «Ma non preoccuparti, troverò un buon modo per dirglielo».

Non so se lo fece così, o in quale altro modo, ma lì ebbe fine il dibattito. L’orologio segnò l’ora con due rintocchi come due gocce di vetro. Mia madre sobbalzò. «Dio mio» disse. «Mi ero dimenticata del motivo per cui siamo venuti.» E si alzò in piedi.

«Dobbiamo andare.»

La prima vista della casa, sul marciapiede di fronte, aveva pochissimo a che vedere con il mio ricordo, e nulla con le mie nostalgie. Avevano tagliato alle radici i due mandorli tutelari che per anni erano stati un segno di identità inequivocabile e la casa era rimasta esposta alle intemperie. Quello che rimaneva sotto il sole di fuoco non aveva più di trenta metri di facciata: la metà di materiale e tetto di tegole che facevano pensare a una casa da bambole, e l’altra metà di assi non dirozzate. Mia madre bussò piano piano alla porta chiusa, poi più forte, e domandò dalla finestra:

«C’è qualcuno?»

La porta si socchiuse e una donna domandò dalla sua penombra:

«Cosa desidera?»

Mia madre rispose con un’autorità forse inconsapevole:

«Sono Luisa Márquez.»

Allora la porta si aprì definitivamente, e una donna vestita a lutto, ossuta e pallida, ci guardò da un’altra vita. In fondo alla sala, un uomo anziano si dondolava su una seggiola da invalido. Erano gli inquilini, che dopo molti anni avevano proposto di comprare la casa, ma né loro avevano l’aspetto di compratori né la casa era in condizioni da interessare a qualcuno. Secondo il telegramma che mia madre aveva ricevuto, gli inquilini accettavano di versare in contanti la metà del prezzo dietro una ricevuta firmata da lei, e avrebbero pagato il resto allorché fossero stati firmati i relativi documenti nel corso dell’anno, ma nessuno ricordava che fosse stata prevista una visita. Dopo una lunga conversazione fra sordi, l’unica cosa messa in chiaro fu che non c’era verso di accordarsi. Spossata dall’insensatezza e dal caldo infame, bagnata di sudore, mia madre diede uno sguardo intorno a sé, e le sfuggì un sospiro:

«Questa povera casa è allo stremo» disse.

«È peggio» disse l’uomo. «Se non ci è caduta addosso è grazie a tutto quello che abbiamo speso per tenerla in piedi.»

Avevano una lista di riparazioni da fare, a parte altre che avevano detratto dall’affitto, al punto che eravamo noi a essere i debitori. Mia madre, che fu sempre di lacrima facile, era pure capace di una fermezza temibile nell’affrontare i tranelli della vita. Discusse per bene, ma io non intervenni perché fin dal primo ostacolo avevo capito che avevano ragione i compratori. Nulla era stato messo in chiaro nel telegramma sulla data e sulle modalità della vendita, e invece se ne deduceva che la si sarebbe dovuta concedere. Era una situazione tipica della vocazione congetturale della famiglia. Potevo immaginare com’era stata presa la decisione, alla tavola del pranzo, e nello stesso istante in cui era arrivato il telegramma. Senza contare me, erano dieci fratelli con gli stessi diritti. Alla fine mia madre aveva preso qualche pesos qui e là, aveva fatto il suo bagaglio da scolara ed era partita senza altri mezzi che il biglietto di ritorno.

Mia madre e l’inquilina ripassarono di nuovo tutto fin dall’inizio, e in meno di mezz’ora eravamo arrivati alla conclusione che l’affare non sarebbe stato fatto. Fra gli altri motivi ineludibili, perché non ci eravamo ricordati di un’ipoteca che gravava sulla casa e che non sarebbe stata risolta fino a molti anni dopo, allorché venne infine fatta la vendita. Sicché quando l’inquilina cercò di ripetere un’ennesima volta lo stesso argomento, mia madre la interruppe bruscamente con i suoi modi inappellabili.

«La casa non si vende» disse. «Facciamo conto che qui siamo nati e che qui moriremo tutti.»

Il resto del pomeriggio, mentre arrivava il treno di ritorno, lo passammo mettendo insieme nostalgie nella casa spettrale. Era tutta nostra, ma rimaneva in funzione solo la parte affittata che dava sulla strada, dove c’erano stati gli uffici del nonno. Il resto era un involucro di tramezzi corrosi e tetti di zinco arrugginito alla mercé delle lucertole. Mia madre, pietrificata sulla soglia, esalò un’esclamazione perentoria:

«Questa non è la casa!»

Ma non disse quale, perché durante tutta la mia infanzia la descrivevano in così tanti modi che erano almeno tre case che cambiavano forma e senso, a seconda di chi ne raccontasse. Quella originale, come avevo sentito dire da mia nonna con il suo fare sprezzante, era una baracca per gli indios. La seconda, costruita dai nonni, era con muri di argilla e tetti di palma, con una saletta vasta e bene illuminata, una sala da pranzo a forma di terrazza con fiori dai colori allegri, due camere da letto, un cortile con un castagno gigantesco, un orto ben piantato e un recinto dove vivevano le capre in comunità pacifica con i maiali e le galline. Secondo la versione più frequente, questa venne ridotta in ceneri da un razzo caduto sul tetto di palma durante i festeggiamenti di un 20 luglio, giorno dell’Indipendenza di chissà quale anno di così tante guerre. L’unica cosa che ne rimase furono i pavimenti di cemento e il blocco di due stanze con una porta sulla strada, dove c’erano stati gli uffici nelle diverse occasioni in cui Papalelo era stato un funzionario pubblico.

Sulle macerie ancora calde la famiglia costruì la sua residenza definitiva. Una casa lineare di otto vani l’uno dopo l’altro, lungo una veranda con un parapetto di begonie dove si sedevano le donne della famiglia a ricamare sul tombolo e a chiacchierare nella frescura dell’imbrunire. Le stanze erano semplici e non si distinguevano fra loro, ma mi bastò uno sguardo per rendermi conto che in ognuno degli innumerevoli dettagli c’era un istante cruciale della mia vita.

Il primo vano fungeva da salotto per i visitatori e da ufficio personale del nonno. Aveva una scrivania con la tendina, una poltrona girevole a molle, un ventilatore elettrico e una libreria vuota con un solo libro enorme e slabbrato: il dizionario della lingua. Subito dopo c’era il laboratorio da orefice dove il nonno passava le sue ore migliori fabbricando i pesciolini d’oro dal corpo articolato e dai minuscoli occhi di smeraldo, che erano motivo di svago più che di guadagno. Lì erano stati accolti alcuni personaggi degni di nota, soprattutto politici, disoccupati pubblici, veterani delle guerre. Fra questi, in circostanze diverse, due visitatori storici: i generali Rafael Uribe Uribe e Benjamín Herrera, che avevano pranzato con la famiglia. Tuttavia, quello che mia nonna avrebbe ricordato di Uribe Uribe per il resto della sua vita fu la sua sobrietà a tavola: «Mangiava come un uccellino».

Lo spazio comune dell’ufficio e dell’oreficeria era proibito alle donne, secondo la nostra cultura caraibica, così come lo erano le osterie del paese per volere della legge.

Tuttavia, con il tempo finì per diventare una stanza da ospedale, dove morì la zia Petra e patì gli ultimi mesi di una lunga malattia Wenefrida Márquez, sorella di Papalelo. Di lì innanzi cominciava il paradiso ermetico delle molte donne residenti e occasionali che passarono per la casa durante la mia infanzia. Io fui l’unico maschio a godere dei privilegi di entrambi i mondi.

La sala da pranzo era solo un tratto allargato della veranda con il parapetto dove le donne della casa si sedevano a cucire, e aveva una tavola per sedici commensali previsti o inattesi che arrivavano quotidianamente con il treno di mezzogiorno. Mia madre contemplò di lì i vasi rotti delle begonie, la sodaglia vizza e il tronco del gelsomino corroso dalle formiche, e riprese fiato.

«Certe volte non riuscivamo a respirare per via dell’odore caldo dei gelsomini» disse, guardando il cielo accecante, e sospirò con tutta l’anima. «Però, quello che più mi è mancato da allora è il tuono delle tre del pomeriggio.»

Mi colpì, perché anch’io ricordavo l’esplosione unica che ci svegliava dalla siesta come un lancio di pietre, ma non ero mai stato consapevole che accadeva alle tre.

Dopo il corridoio c’era un salotto riservato alle occasioni speciali, perché i visitatori quotidiani venivano accolti con birra gelata nell’ufficio, se erano uomini, o sulla veranda delle begonie, se erano donne. Lì iniziava il mondo mitico delle camere da letto. Dapprima quella dei nonni, con una porta grande sul giardino, e un’incisione a fiori di legno con la data della costruzione: 1925. Lì, senza avvertenze, mia madre mi fece la sorpresa più inattesa con un’enfasi trionfale.

«E qui sei nato tu!»

Non lo sapevo fino ad allora, o l’avevo dimenticato, ma nella camera successiva trovammo la culla in cui avevo dormito fino ai quattro anni, e che mia nonna aveva conservato per sempre. L’avevo dimenticata, ma non appena la vidi ricordai me stesso che piangevo strillando con il pigiamino a fiorellini azzurri che indossavo per la prima volta, affinché qualcuno venisse a cambiarmi i pannolini pieni di cacca. A stento riuscivo a tenermi in piedi aggrappandomi ai sostegni della culla, piccola e fragile come il cestino di Mosé. Tutto questo è stato motivo frequente di discussione e burle di parenti e amici, cui la mia angoscia di quel giorno sembra troppo razionale per un’età così precoce. E più ancora quand’ho insistito che il motivo della mia ansia non era la ripugnanza per le mie stesse miserie, ma il timore di sporcarmi il pigiamino nuovo. Ossia, non si trattava di un pregiudizio igienico ma di una contrarietà estetica, e dal modo in cui era perduta nella mia memoria credo che sia stata la mia prima esperienza di scrittore.

In quella camera da letto c’era pure un altare con santi a grandezza umana, più realisti e tenebrosi di quelli della chiesa. Lì dormì sempre zia Francisca Simodosea Mejía, una cugina prima di mio nonno che chiamavamo zia Mama e che viveva nella casa da padrona e signora dopo che erano morti i suoi genitori. Io avevo dormito nell’amaca accanto, atterrito dallo scintillio degli occhi dei santi accesi dalla lampada del Santissimo che non venne spenta fino alla morte di tutti, e sempre lì aveva dormito mia madre da nubile, pure lei tormentata dal terrore dei santi.

In fondo al corridoio c’erano due camere che mi erano proibite. Nella prima viveva mia cugina Sara Emilia Márquez, una figlia di mio zio Juan de Dios, detto zio Juanito, prima del suo matrimonio, che venne allevata dai nonni. Oltre a una bellezza naturale fin da molto piccola, aveva una personalità forte che assecondò i miei primi appetiti letterari con una raccolta di racconti di Calleja, illustrati a colori, cui non mi permise mai l’accesso per timore che gliela sciupassi. Fu la mia prima e amara frustrazione di scrittore.

L’ultima camera era un deposito di masserizie e bauli messi in pensione, che avevano tenuto desta la mia curiosità per anni, ma che non mi avevano mai lasciato esplorare. Venni in seguito a sapere che lì c’erano pure i settanta vasi da notte comprati dai miei nonni quando mia madre aveva invitato le sue compagne di corso a passare le vacanze nella casa.

Davanti a questi due locali, nello stesso corridoio, c’era la cucina grande, con fornelli primitivi di pietre calcinate, e il grande forno della nonna, addetta alla panetteria e alla pasticceria, i cui animaletti di caramello saturavano l’alba con il loro aroma succulento. Era il regno delle donne che vivevano o servivano nella casa, e cantavano in coro con la nonna mentre l’aiutavano nei lavori molteplici. Un’altra voce era quella di Lorenzo il Magnifico, il pappagallo di cent’anni ereditato dai bisnonni, che gridava frasi contro la Spagna e cantava canzoni della guerra di Indipendenza. Era così orbo che era caduto dentro la pentola del sancocho1 e si era salvato per miracolo visto che l’acqua cominciava appena a riscaldarsi. Un 20 luglio, alle tre del pomeriggio, mise in subbuglio la casa con strilli di panico:

«Il toro, il toro! Attenzione che arriva il toro!»

Nella casa c’erano solo le donne, perché gli uomini erano andati alla corrida della festa nazionale, e avevano pensato che le grida del pappagallo non fossero altro che un delirio della sua demenza senile. Le donne della casa, che sapevano parlare con lui, riuscirono a capire cosa gridava solo quando un toro selvaggio fuggito dai recinti della piazza aveva fatto irruzione nella cucina con bramiti da battello e travolgendo alla cieca i mobili della panetteria e le pentole sui fuochi. Io camminavo in senso contrario rispetto alla folata di donne spaventate che mi presero in braccio e mi chiusero con loro nella stanza della dispensa. I bramiti del toro smarrito nella cucina e i balzi dei suoi zoccoli sul cemento del corridoio facevano rabbrividire la casa. D’improvviso si affacciò a uno spiraglio per la ventilazione e l’ansito di fuoco del suo respiro e i suoi grandi occhi iniettati mi raggelarono il sangue. Quando gli uomini della corrida riuscirono a riportarlo nel recinto, era già iniziata nella casa la gazzarra del dramma, che si sarebbe protratto per oltre una settimana con bricchi interminabili di caffè e torte da nozze per accompagnare il racconto mille volte ripetuto e sempre più eroico delle sopravvissute in scombuglio.

Il cortile non sembrava molto grande, ma aveva una varietà di alberi, un bagno generale senza tetto con una cisterna per l’acqua della pioggia e una piattaforma sopraelevata su cui si saliva mediante una fragile scala alta circa tre metri. Lì c’erano i due grossi recipienti che il nonno riempiva all’alba con una pompa a mano. Più oltre c’era la stalla di assi non dirozzate e gli alloggi di servizio, e infine il retrocortile enorme con alberi da frutta e la latrina unica dove le indie di servizio vuotavano di continuo i vasi da notte della casa. L’albero più frondoso e ospitale era un castagno al margine del mondo e del tempo, sotto le cui fronde arcaiche dovevano essere morti mentre pisciavano più di due colonnelli ritirati dalle tante guerre civili del secolo precedente.

La famiglia era arrivata ad Aracataca diciassette anni prima della mia nascita, quando iniziavano le baraonde della United Fruit Company per ottenere il monopolio delle banane. Portava con sé il figlio Juan de Dios, di ventun anni, e le due figlie, Margarita María Miniata di Alacoque, di diciannove, e Luisa Santiaga, mia madre, di cinque. Prima di lei avevano perso due gemelle per un aborto accidentale al quarto mese di gravidanza. Quando ebbe mia madre, la nonna annunciò che sarebbe stato il suo ultimo parto, perché aveva compiuto quarantadue anni. Quasi mezzo secolo dopo, alla stessa età e in circostanze identiche, mia madre disse la stessa cosa quando nacque Eligio Gabriel, il suo figlio numero undici.

Il trasferimento ad Aracataca era previsto dai nonni come un viaggio verso l’oblio. Portavano al loro seguito due indios guajiros – Alirio e Apolinar – e un’india – Meme – comprati nelle loro terre per cento pesos l’uno quando la schiavitù era ormai stata abolita. Il colonnello portava tutto il necessario per ricostruire il passato il più lontano possibile dai suoi brutti ricordi, incalzato dal rimorso sinistro di avere ucciso un uomo in un duello d’onore. Conosceva la regione fin da molto prima, quando vi era passato in campagna di guerra per andare a Ciénaga e aveva assistito nel suo ruolo di intendente generale alla firma del trattato di Neerlandia.

La nuova casa non restituì loro la quiete, perché il rimorso era così pernicioso che avrebbe contaminato ancora qualche trisnipote smarrito. Le rievocazioni più frequenti e intense, con cui avevamo messo insieme una versione ordinata, le faceva la nonna Mina, ormai cieca e mezzo lunatica. Solo allora venimmo a sapere che in mezzo alle voci implacabili della tragedia imminente, lei era stata l’unica a non avere notizia del duello finché non era stato consumato.

Il dramma accadde a Barrancas, un paese pacifico e prospero alle pendici della Sierra Nevada dove il colonnello aveva appreso da suo padre la lavorazione dell’oro, e dove era tornato per fermarsi quand’erano stati firmati i trattati di pace. L’avversario era un gigante di sedici anni più giovane, liberale fino al midollo, come lui, cattolico militante, agricoltore povero, sposato di recente e con due figli, e con un nome da uomo buono: Medardo Pacheco. La cosa più triste per il colonnello sarà stata che non si trattava di uno dei numerosi nemici senza volto che aveva incrociato sui campi di battaglia, ma di un antico amico, della sua stessa parte, suo soldato nella guerra dei Mille Giorni, che dovette affrontare all’ultimo sangue quando entrambi credevano di avere ormai ottenuto la pace.

Fu il primo caso della vita reale che mi turbò gli istinti di scrittore e non sono ancora riuscito a esorcizzarlo. Da quando ho avuto uso di ragione mi sono reso conto della vastità e del peso che quel dramma aveva nella nostra casa, ma i suoi particolari rimanevano fra le brume. Mia madre, di soli tre anni, se ne ricordò sempre come di un sogno improbabile. Gli adulti lo imbrogliavano davanti a me per confondermi, e non mi è mai stato possibile ricostruire l’enigma completo perché ognuno, da entrambe le parti, sistemava i pezzi a modo suo. La versione più affidabile era che la madre di Medardo Pacheco l’avesse istigato a vendicare il suo onore, offesa da un commento infame attribuito a mio nonno. Questi lo qualificò come una panzana e rese soddisfazione pubblica agli offesi, ma Medardo Pacheco perseverò nel rancore e finì per passare da offeso a offensore con un grave insulto al nonno sulla sua condotta di liberale. Non venni mai a sapere con sicurezza quale fu. Ferito nel suo onore, il colonnello lo sfidò a morte senza fissare una data.

Un esempio significativo dell’indole del nonno fu il tempo che lasciò passare tra la sfida e il duello. Sistemò i suoi affari con un riserbo assoluto per garantire la sicurezza della sua famiglia nell’unica alternativa che gli lasciava il destino: la morte o il carcere. Cominciò vendendo senza la minima fretta il poco che gli era rimasto per sopravvivere dopo l’ultima guerra: il laboratorio da orefice e una piccola tenuta ereditata dal padre, dove allevava capre da macello e coltivava un appezzamento a canna da zucchero. Di lì a sei mesi ripose in fondo a un armadio il denaro raccolto, e attese in silenzio il giorno che lui stesso si era segnato: il 12 ottobre 1908, anniversario della scoperta dell’America.

Medardo Pacheco risiedeva nei dintorni del paese, ma il nonno sapeva che quella sera non poteva mancare alla processione della Vergine del Pilar. Prima di uscire a cercarlo, scrisse alla moglie una lettera breve e tenera, in cui le diceva dov’era nascosto il denaro, e le impartì alcune istruzioni finali sull’avvenire dei figli. La lasciò sotto il guanciale comune, dove sua moglie l’avrebbe sicuramente trovata quando fosse andata a dormire, e senza fare addii uscì avviandosi verso la sua mala ora.

Anche le versioni meno credibili concordano sul fatto che era un lunedì tipico dell’ottobre caraibico, con una pioggia triste di nuvole basse e un vento funebre. Medardo Pacheco, vestito da domenica, era appena entrato in un vicolo cieco allorché il colonnello Márquez gli sbarrò il passo. Entrambi erano armati. Anni dopo, nelle sue divagazioni lunatiche, mia nonna soleva dire: «Dio diede a Nicolás l’occasione di risparmiare la vita a quel pover’uomo, ma lui non seppe approfittarne». Forse lo pensava perché il colonnello le disse che aveva visto un lampo d’angoscia negli occhi dell’avversario colto di sorpresa. Le disse pure che quando l’enorme corpo da ceiba crollò sopra i cespugli, emise un gemito senza parole, «come quello di un gattino bagnato». La tradizione orale attribuì a Papalelo una frase retorica nel momento in cui si consegnò al sindaco: «La pallottola dell’onore ha vinto la pallottola del potere». È una frase fedele allo stile liberale dell’epoca ma non sono riuscito a conciliarla con il carattere del nonno. Il fatto è che non ci furono testimoni. Una versione autorevole sarebbero state le testimonianze giudiziarie del nonno e dei suoi contemporanei di entrambe le parti, ma dello scartafaccio, se mai ce ne fu uno, non rimase neppure l’ombra. Fra le numerose versioni che ho sentito finora non ne ho trovate due che coincidessero.

Il fatto divise le famiglie del paese, inclusa quella del morto. Una parte di quest’ultima si propose di vendicarlo, mentre altri accolsero nelle loro case Tranquilina Iguarán con i suoi figli, finché non furono svaniti i rischi di una vendetta. Questi particolari mi impressionavano tanto durante l’infanzia che non solo mi addossai il peso della colpa ancestrale come se fosse stata mia, ma ancora oggi, mentre ne scrivo, sento più compassione per la famiglia del morto che per la mia.

Papalelo lo trasferirono a Riohacha per maggior sicurezza, e in seguito a Santa Marta, dove lo condannarono a un anno: la metà in carcere e l’altra metà agli arresti domiciliari. Non appena fu libero si recò con la famiglia per breve tempo nel paese di Ciénaga, poi a Panama, dove ebbe un’altra figlia con un amore casuale, e infine nell’insalubre e selvaggia zona di Aracataca, con l’impiego di esattore della Finanza distrettuale. Non girò mai più armato per le strade, neppure nei peggiori tempi della violenza bananiera, e si limitò a tenere la pistola sotto il guanciale per difendere la casa.

Aracataca era lontanissima dall’essere la gora di cui sognavano dopo l’incubo di Medardo Pacheco. Era nata come un casale di indios chimila ed entrò nella storia con il piede sinistro come una remota parte senza Dio né legge del comune di Ciénaga, più degradato che rimpinguato dalla febbre del banano. Il suo nome non è quello di un paese ma quello di un fiume, che si dice ara in lingua chimila, e Cataca, che è la parola con cui la comunità designava chi comandava. Per questo fra noi del posto non diciamo Aracataca, ma com’è giusto: Cataca.

Quando il nonno cercò di entusiasmare la famiglia con la fantasia che lì il denaro scorreva per le strade, Mina aveva detto: «I soldi sono la merda del diavolo». Per mia madre fu il regno di tutti i terrori. Il più antico che ricordava era la piaga delle cavallette che devastò i seminati quando lei era ancora molto piccola. «Le si sentiva passare come un vento di pietre» mi disse quando andammo a vendere la casa. La popolazione terrorizzata dovette trincerarsi nelle sue stanze, e il flagello poté essere debellato solo con arti magiche.

In qualsiasi momento ci coglievano di sorpresa certi uragani secchi che scoperchiavano le case e travolgevano i banani novelli e lasciavano il paese ricoperto da una polvere astrale. D’estate si accaniva contro il bestiame una siccità terribile, oppure d’inverno cadevano acquazzoni universali che lasciavano le vie trasformate in fiumi riottosi. Gli ingegneri gringos navigavano su imbarcazioni di gomma, in mezzo a materassi annegati e mucche morte. La United Fruit Company, i cui sistemi artificiali di irrigazione erano responsabili delle ubbie delle acque, fece deviare il letto del fiume quando il più grave di quei diluvi disseppellì i corpi del cimitero.

La più sinistra delle piaghe, però, era quella umana. Un treno che sembrava un giocattolo riversò sulle sue sabbie divampanti un frascame di avventurieri di tutto il mondo che a mano armata si presero il potere della strada. La loro prosperità stolta comportava una crescita demografica e un disordine sociale impazziti. La compagnia era a sole cinque leghe dalla colonia penale di Buenos Aires, sul fiume Fundación, i cui reclusi avevano l’abitudine di scappare durante i fine settimana per giocare al terrore ad Aracataca. A nulla assomigliavamo tanto come ai paesi emergenti dei film western, dopo che le baracche di palma e canna selvatica dei chimila cominciarono a essere sostituite dalle case di legno della United Fruit Company, con tetti di zinco a due spioventi, finestre con reticella metallica e tettoie adorne di rampicanti dai fiori polverosi. In mezzo a quella bufera di facce sconosciute, di tende nella via pubblica, di uomini che si cambiavano i vestiti per strada, di donne sedute sui bauli con gli ombrelli aperti, e di mule e mule abbandonate, morenti di fame nella stalla della locanda, noi, i primi, eravamo gli ultimi. Eravamo i forestieri di sempre, gli avventizi.

Le carneficine avevano luogo non solo in seguito alle risse del sabato. Una sera qualsiasi sentimmo gridare in strada e vedemmo passare un uomo senza testa montato su un asino. Era stato decapitato con un colpo di machete durante una resa dei conti nelle piantagioni di banane e la testa era stata trascinata via dalle correnti gelide del canale. Quella notte sentii mia nonna dare la spiegazione di sempre: «Una cosa tanto orribile può averla fatta solo un cachaco».

I cachacos erano gente dell’altopiano, li distinguevamo dal resto dell’umanità non solo per i loro modi languidi e il loro parlare cantilenante, ma anche per le loro arie da emissari della Divina Provvidenza. Quell’immagine finì per diventare così aborrita che dopo le repressioni feroci degli scioperi bananieri da parte dei militari dell’entroterra, gli uomini della truppa non li chiamavamo soldati bensì cachacos. Li consideravamo i beneficiari unici del potere politico, e molti di loro si comportavano come se lo fossero stati. Solo così si spiega l’orrore della “Notte nera di Aracataca”, una carneficina leggendaria dalle tracce così incerte nella memoria popolare che non c’è prova sicura del suo reale accadimento.

Era iniziata un sabato peggiore degli altri quando un uomo ammodo del posto la cui identità non è passata alla storia era entrato in un’osteria a chiedere un bicchiere d’acqua per un bambino che teneva per mano. Un forestiero che beveva da solo al banco aveva voluto costringere il bambino a bersi un sorso di rum invece dell’acqua. Il padre aveva tentato di impedirlo, ma il forestiero aveva insistito, finché il bambino, spaventato e senza volerlo, gli aveva rovesciato il bicchiere con la mano. Il forestiero, senza pensarci due volte, l’aveva ammazzato con uno sparo.

Fu un altro dei fantasmi della mia infanzia. Papalelo me lo ricordava spesso quando entravamo insieme a prendere una bibita nei bar, ma in una maniera così irreale che neppure lui sembrava crederci. Doveva essere accaduto poco dopo il suo arrivo ad Aracataca, perché mia madre se ne ricordava solo per lo spavento causato ai più vecchi. Dell’aggressore si era saputo unicamente che parlava con l’accento affettato degli andini, sicché le rappresaglie del paese non si scatenarono solo contro di lui, ma contro chiunque dei forestieri numerosi e aborriti che parlavano con il suo stesso accento. Squadre di gente del posto armata con machete per tagliare la canna da zucchero si riversarono nelle strade al buio, afferravano la sagoma invisibile che sorprendevano nelle tenebre e le ordinavano:

«Parli!»

Solo per l’accento lo facevano a pezzi con il machete, senza considerare l’impossibilità di essere giusti fra modi di parlare così diversi. Don Rafael Quintero Ortega, marito della zia Wenefrida Márquez, il più verace e amato dei cachacos, fu sul punto di festeggiare i suoi cent’anni di vita perché mio nonno lo rinchiuse in una dispensa finché non si furono acquietati gli animi.

La sventura familiare culminò due anni dopo l’arrivo ad Aracataca, con la morte di Margarita María Miniata, che era la luce della casa. Il suo dagherrotipo venne esposto per anni nel salotto, e il suo nome è passato da una generazione all’altra come l’ennesimo dei molti segni particolari della famiglia. Le generazioni recenti non sembrano commosse da quell’infanta con le sottane arricciate, gli stivaletti bianchi e una treccia lunga fino alla vita, che non faranno mai coincidere con l’immagine retorica di una bisnonna. Comunque, ho l’impressione che sotto il peso dei rimorsi e delle illusioni frustrate di un mondo migliore, quello stato di allarme perpetuo era per i miei nonni quanto più assomigliasse alla pace. Fino alla morte continuarono a sentirsi forestieri da qualsiasi parte.

Lo erano, a rigor di termini, ma tra le moltitudini del treno che ci arrivarono dal mondo era difficile fare distinzioni immediate. Con lo stesso impulso dei miei nonni e della loro prole erano arrivati i Furgusson, i Durán, i Beracaza, i Daconte, i Correa, in cerca di una vita migliore. Insieme alle valanghe ravvolte continuarono ad arrivare gli italiani, i canari, i siriani – che chiamavamo turchi – infiltrati dalle frontiere della Provincia in cerca di libertà e altri modi di vivere perduti nelle loro terre. Ce n’erano di ogni pelo e di ogni condizione. Alcuni erano profughi dell’Isola del Diavolo – la colonia penale francese nelle Guayane – perseguitati più per le loro idee che per crimini comuni. Uno di loro, René Belvenoit, era un giornalista francese condannato per motivi politici, che passò fuggiasco per la Zona bananiera e rivelò in un libro magistrale gli orrori della sua prigionia. Grazie a tutti loro – buoni e cattivi – Aracataca fu sin dalle sue origini un paese senza frontiere.

Ma la colonia indimenticabile per noi fu quella venezuelana, in una delle cui case si lavavano a secchiate d’acqua nei serbatoi glaciali dell’alba due studenti adolescenti in vacanza: Rómulo Betancourt e Raúl Leoni, che di lì a mezzo secolo sarebbero stati l’uno dopo l’altro presidenti del loro paese. Fra i venezuelani, la più vicina a noi fu la signora Juana de Freytes, una matrona briosa che aveva il dono biblico della narrazione. Il primo racconto vero e proprio di cui venni a conoscenza fu Genoveffa di Brabante, e lo sentii recitare da lei insieme ai capolavori della letteratura universale, che riduceva in racconti per bambini: l’Odissea, l’Orlando furioso, il Don ChisciotteIl conte di Montecristo e molti episodi della Bibbia.

La casta del nonno era una delle più rispettabili ma anche la meno potente. Tuttavia si distingueva per una rispettabilità riconosciuta anche dai gerarchi locali della compagnia bananiera. Era quella dei veterani liberali delle guerre civili, che si erano fermati lì dopo gli ultimi due trattati, con il buon esempio del generale Benjamín Herrera, nella cui tenuta di Neerlandia si sentivano nel pomeriggio i valzer malinconici del suo clarinetto di pace.

Mia madre diventò donna in quel purgatorio e occupò lo spazio di tutti gli amori dopo che il tifo si fu portato via Margarita María Miniata. Pure lei era malaticcia. Era cresciuta in un’infanzia incerta di febbri terzane, ma quando ebbe sconfitto l’ultima si ritrovò, del tutto e per sempre, una salute che le permise di festeggiare i novantasette anni con undici figli suoi e quattro altri del marito, e con sessantacinque nipoti, ottantotto bisnipoti e quattordici trisnipoti. Senza contare quelli di cui non si era mai saputo nulla. È morta di morte naturale il 9 giugno 2002 alle otto e mezzo di sera, quando stavamo già preparandoci a festeggiare il suo primo secolo di vita e nello stesso giorno e quasi alla stessa ora in cui avevo messo il punto conclusivo a queste memorie.

Era nata a Barrancas il 25 luglio 1905, allorché la famiglia cominciava a riprendersi dal disastro delle guerre. Il primo nome glielo misero in memoria di Luisa Mejía Vidal, la madre del colonnello, che quel giorno faceva giusto un mese da quando era morta. Il secondo le toccò in sorte perché era il giorno dell’apostolo Santiago, san Giacomo il Maggiore, decapitato a Gerusalemme. Lei nascose questo nome per metà della sua vita, perché le sembrava mascolino e pomposo, finché un figlio sleale non la tradì in un romanzo.

Fu un’allieva diligente meno che alle lezioni di pianoforte, che la madre le impose perché non poteva immaginare una signorina ammodo che non fosse pure una pianista virtuosa. Luisa Santiaga lo studiò per obbedienza durante tre anni e lo abbandonò in un giorno per il tedio degli esercizi quotidiani nell’afa della siesta. Tuttavia, l’unica dote che le servì nel fiore dei vent’anni fu la forza del suo carattere, quando la famiglia scoprì che era travolta dall’amore per il giovane e altero telegrafista di Aracataca.

La storia di quegli amori contrastati fu un’altra delle meraviglie della mia gioventù. A forza di ascoltarla raccontata dai miei genitori, insieme o separatamente, me la ritrovai quasi completa quando scrissi Foglie morte, il mio primo libro, a ventisette anni, ma ero pure consapevole che dovevo ancora imparare molto sull’arte di scrivere romanzi. Entrambi erano narratori eccellenti, con la memoria felice dell’amore, ma finirono per appassionarsi tanto durante i loro racconti, che quando decisi di usarla in L’amore ai tempi del colera, a oltre cinquant’anni, non riuscii a distinguere i limiti fra la vita e la poesia.

Secondo la versione di mia madre si erano incontrati per la prima volta alla veglia funebre di un bambino che né lui né lei seppero precisarmi. Lei stava cantando nel cortile con le sue amiche, secondo la consuetudine popolare di animare con canzoni d’amore le nove notti degli innocenti. D’improvviso, una voce d’uomo si unì al coro. Tutte si girarono a guardarlo e rimasero perplesse davanti al suo bell’aspetto. «Ci sposeremo con lui» cantarono in coro battendo le mani. Mia madre non ne fu impressionata, e infatti disse: «A me era sembrato uno dei tanti forestieri». E lo era. Era appena arrivato da Cartagena de Indias dopo avere interrotto gli studi da medico e da farmacista per mancanza di denaro, e aveva intrapreso una vita un po’ banale in diversi paesi della regione con il nuovo mestiere di telegrafista. Una fotografia di quei giorni lo mostra con un’aria equivoca da giovanotto povero. Portava un abito di taffettà scuro con una giacca a quattro bottoni, molto stretta in ossequio alla moda dell’epoca, con il colletto rigido, la cravatta larga e una paglietta. Portava pure occhialini alla moda, rotondi e con una montatura sottile, e lenti naturali. Chi lo conobbe in quel periodo lo descriveva come un fannullone nottambulo e donnaiolo, che però non bevve mai un sorso di alcol né fumò mai una sigaretta in tutta la sua lunga vita.

Fu la prima volta in cui mia madre lo vide. Lui, invece, l’aveva vista alla messa delle otto della domenica precedente, vigilata dalla zia Francisca Simodosea che era la sua dama di compagnia da quando aveva lasciato il collegio. Le aveva riviste il martedì successivo, intente a cucire sotto i mandorli davanti a casa loro, sicché la sera della veglia funebre sapeva già che era la figlia del colonnello Nicolás Márquez, per il quale aveva diverse lettere di presentazione. Quanto a lei, venne a sapere fin d’allora che era scapolo e sempre innamorato, e che aveva un successo immediato per la loquela inesauribile, la versificazione facile, la grazia con cui ballava la musica alla moda e il sentimentalismo premeditato con cui suonava il violino. Mia madre mi raccontava che quando lo si sentiva all’alba non si poteva resistere alla voglia di piangere. Il suo biglietto da visita in società era stato Cuando el baile se acabó, un valzer di un romanticismo estenuante che lui aveva inserito nel suo repertorio e che divenne insostituibile nelle serenate. Questi salvacondotti cordiali, e la sua simpatia personale, gli valsero le porte aperte della casa e un posto frequente ai pranzi familiari. La zia Francisca, originaria del Carmen de Bolívar, lo adottò senza riserve quando venne a sapere che era nato a Sincé, un paese vicino al suo. Alle feste di società Luisa Santiaga si divertiva davanti alle sue furbizie da seduttore, ma non le passò mai per la mente che lui mirasse a qualcosa di più. Anzi, i loro buoni rapporti si basavano soprattutto sul fatto che lei gli serviva da schermo per i suoi amori segreti con una compagna di collegio, e aveva accettato di fargli da madrina alle nozze. Da allora lui la chiamava così e lei lo chiamava figlioccio. Così stando le cose, è facile immaginarsi quale fu la sorpresa di Luisa Santiaga durante una serata danzante allorché il telegrafista audace si tolse il fiore che portava all’occhiello del bavero, e le disse:

«Le offro la mia vita in questa rosa.»

Non fu un’improvvisazione, mi disse lui molte volte, perché dopo averle conosciute tutte era giunto alla conclusione che Luisa Santiaga era fatta per lui. Lei considerò la rosa come uno dei tanti scherzi galanti che era solito fare alle sue amiche. Al punto che andandosene se la dimenticò da qualche parte, e lui se ne accorse. Lei aveva avuto un solo pretendente segreto, poeta senza fortuna e buon amico, che non era mai riuscito a toccarle il cuore con i suoi versi ardenti. Tuttavia, la rosa di Gabriel Eligio le turbò il sonno con una furia inspiegabile. Nel corso della nostra prima conversazione seria sui suoi amori, ormai carica di figli, mi confessò: «Non riuscivo a addormentarmi per la rabbia di ritrovarmi a pensare a lui, ma a farmi arrabbiare era soprattutto che più mi arrabbiavo e più ci pensavo». Per il resto della settimana riuscì a non cedere al terrore di vederlo e al tormento di non poterlo vedere. Da madrina e figlioccio che erano stati passarono a trattarsi come sconosciuti. In uno di quei pomeriggi, mentre cucivano sotto i mandorli, la zia Francisca stuzzicò la nipote con la sua malizia india:

«Mi hanno detto che ti hanno regalato una rosa.»

Come al solito, Luisa Santiaga sarebbe stata l’ultima a rendersi conto che le tormente del suo cuore erano ormai di dominio pubblico. Durante le numerose conversazioni che ebbi con lei e con mio padre, concordarono che l’amore fulminante aveva goduto di tre circostanze decisive. La prima fu una domenica delle Palme alla messa grande. Lei era seduta in un banco con la zia Francisca, quando riconobbe i passi dei suoi tacchi flamenchi sulle mattonelle del pavimento, e lo vide passare così vicino che colse il sentore della sua lozione di fidanzato. La zia Francisca non sembrava averlo visto e neppure lui sembrò averle viste. Ma a dire il vero tutto era stato concertato da lui, che le aveva seguite quand’erano passate davanti all’ufficio del telegrafo. Rimase in piedi accanto alla colonna più vicina alla porta, sicché lui vedeva lei di spalle ma lei non poteva vederlo. Dopo qualche minuto intenso Luisa Santiaga non resistette all’ansia, e guardò verso la porta da sopra la spalla. Allora credette di morire di rabbia, perché lui la stava osservando, e i loro sguardi si incrociarono. «Era proprio quello che io avevo progettato» diceva mio padre, felice, quando mi ripeteva il racconto durante la sua vecchiaia. Mia madre, invece, non si stancò mai di ripetere che per tre giorni non era riuscita a dominare la furia di essere caduta nel tranello.

La seconda circostanza fu una lettera che lui le scrisse. Non quella che lei si sarebbe aspettata da un poeta e violinista avvezzo ad albe furtive, bensì un biglietto imperioso, che esigeva una risposta prima che lui partisse per Santa Marta la settimana dopo. Lei non gli rispose. Si rinchiuse nella sua camera, decisa a uccidere il tarlo che non le concedeva tregua nel vivere, finché la zia Francisca non cercò di convincerla a capitolare prima che fosse troppo tardi. Cercando di vincere la sua resistenza le raccontò la storia esemplare di Juventino Trillo, il pretendente che montava di guardia sotto il balcone della sua innamorata impossibile, ogni sera, dalle sette fino alle dieci. Lei l’aveva aggredito con tutti gli sgarbi possibili, finendo per versargli addosso dal balcone, una sera dopo l’altra, un vaso da notte pieno di orina. Ma non era riuscita a metterlo in fuga. Dopo ogni genere di aggressioni battesimali – commossa dall’abnegazione di quell’amore indomabile – si era sposata con lui. La storia dei miei genitori non raggiunse tali estremi.

La terza circostanza dell’assedio fu un matrimonio in pompa magna, cui vennero invitati entrambi come padrini d’onore. Luisa Santiaga non trovò un pretesto per mancare a un impegno così importante per la famiglia. Ma Gabriel Eligio aveva pensato la stessa cosa e si recò alla festa pronto a tutto. Lei non riuscì a dominare il suo cuore quando lo vide attraversare la sala con una determinazione troppo ostentata e la invitò a ballare il primo pezzo. «Il sangue mi pulsava in corpo così forte che non capii più se era per la rabbia o per la paura» mi disse lei. Lui se ne rese conto e le assestò un’artigliata brutale: «Non ha più bisogno di dirmi di sì, perché il suo cuore me lo sta già dicendo».

Lei, senza pensarci due volte, lo piantò in asso in mezzo alla sala. Ma mio padre la prese a modo suo.

«Ne fui felice» mi disse.

Luisa Santiaga non riuscì a resistere al rancore che provava nei confronti di se stessa quando all’alba la svegliarono le smancerie del valzer avvelenato: Cuando el baile se acabó. Il giorno dopo molto presto restituì a Gabriel Eligio tutti i regali. In seguito a questo sgarbo immeritato, e ai pettegolezzi sulla scenata alle nozze, non c’era più possibilità di marcia indietro. Tutti diedero per scontato che era la fine senza gloria di una tempesta estiva. L’impressione si rinvigorì perché Luisa Santiaga ebbe una ricaduta nelle febbri terzane dell’infanzia, e la madre la portò a cambiare aria nel villaggio di Manaure, una discosta località paradisiaca alle pendici della Sierra Nevada. Entrambi negarono sempre di essere in qualche modo rimasti in contatto durante quei mesi, ma non è molto credibile, perché quando lei si fu ripresa dai suoi mali e tornò, si vedeva che entrambi si erano ripresi anche dalle loro diffidenze. Mio padre diceva che andò ad aspettarla alla stazione perché aveva letto il telegramma con cui Mina aveva annunciato il ritorno a casa, e nel modo in cui Luisa Santiaga gli strinse la mano per salutarlo colse come un segno massonico che lui interpretò alla stregua di un messaggio d’amore. Lei lo negò sempre con il pudore e il rossore con cui rievocava quegli anni. Ma il fatto è che a partire da allora li si vide insieme con meno reticenze. Mancava solo il finale che inserì la zia Francisca la settimana successiva mentre cucivano sulla veranda delle begonie:

«Mina lo sa già.»

Luisa Santiaga disse sempre che fu l’opposizione della famiglia a infrangere gli argini del torrente che, represso, aveva dentro il cuore fin dalla sera in cui aveva piantato in asso il pretendente nel bel mezzo del ballo. Fu una guerra accanita. Il colonnello cercò di tenersene ai margini, ma non gli fu possibile sottrarsi alla colpa che Mina gli rinfacciò quando si rese conto che neppure lui era innocente come asseriva. A tutti sembrava chiaro che l’intolleranza non era dalla parte di lui ma da quella di lei, mentre in realtà era inscritta nel codice della tribù, per la quale ogni fidanzato era un intruso. Questo pregiudizio atavico, i cui residui perdurano, ha fatto di noi una combriccola di donne nubili e di uomini sbracati con numerosi figli sparsi in giro.

Gli amici si divisero secondo l’età, a favore degli innamorati o contro, e a quanti non avevano assunto una posizione radicale la imposero i fatti. I giovani divennero complici giubilanti. Soprattutto di lui, che si godette a sazietà il suo ruolo di vittima propiziatrice dei pregiudizi sociali. La maggioranza degli adulti, invece, vedeva in Luisa Santiaga l’ornamento più prezioso di una famiglia ricca e potente, che un telegrafista avventizio voleva non per amore ma per interesse. Lei stessa, che era stata obbediente e sottomessa, fece fronte ai suoi oppositori con una ferocia da vera leonessa. Durante la più acida delle sue molte liti domestiche, Mina perse le staffe e alzò contro la figlia il coltello per il pane. Luisa Santiaga l’affrontò impavida. D’improvviso consapevole dello slancio criminale della sua collera, Mina abbandonò il coltello e gridò spaventata: «Dio mio!». E mise la mano fra le braci del focolare a mo’ di penitenza brutale.

Fra gli argomenti di rilievo contro Gabriel Eligio c’era la sua condizione di figlio naturale di una donna nubile che l’aveva avuto alla precoce età di quattordici anni, in seguito a uno scivolone casuale con un maestro di scuola. Si chiamava Argemira García Paternina, una bianca snella dallo spirito libero, che aveva altri cinque figli e due figlie di tre padri diversi con cui non si era mai sposata né aveva mai convissuto sotto lo stesso tetto. Viveva nel villaggio di Sincé, dov’era nata, e stava allevando la sua prole con le unghie e con un animo indipendente e allegro che noi nipoti avremmo voluto avere. Gabriel Eligio era un esemplare illustre di quella stirpe scostumata. Fin dai diciassette anni aveva avuto cinque amanti vergini, secondo quanto rivelò a mia madre a titolo di atto di dolore durante la loro notte di nozze a bordo della venturosa goletta di Riohacha sferzata dalla tempesta. Le confessò che con una di loro, quando faceva il telegrafista nel villaggio di Achí a diciott’anni, aveva avuto un figlio, Abelardo, che stava per compierne tre. Con un’altra, quando faceva il telegrafista ad Ayapel, a vent’anni, aveva una figlia di pochi mesi che non conosceva e che si chiamava Carmen Rosa. Alla madre di quest’ultima aveva promesso di tornare per sposarla, e lui riteneva l’impegno sempre valido quando la sua vita aveva mutato direzione per via dell’amore di Luisa Santiaga. Il maggiore l’aveva riconosciuto davanti al notaio, e in seguito avrebbe fatto così pure con la figlia, ma erano solo formalità bizantine senza conseguenza agli occhi della legge. È sorprendente che quella condotta irregolare avesse potuto suscitare inquietudini morali al colonnello Márquez, che oltre ai suoi tre figli ufficiali ne aveva avuti altri nove da madri diverse, prima e dopo il matrimonio, e tutti venivano accolti dalla moglie come se fossero stati suoi.

Non mi è possibile indicare quando ebbi le prime notizie su questi fatti, ma comunque le trasgressioni degli antenati non mi importavano affatto. Invece, i nomi della famiglia destavano la mia attenzione perché mi sembravano unici. Dapprima quelli della linea materna: Tranquilina, Wenefrida, Francisca Simodosea. Poi, quello della mia nonna paterna: Argemira, e quelli dei suoi genitori: Aminadab García e Lozana Paternina. Di lì mi viene forse la salda convinzione che i personaggi dei miei romanzi non camminano con i loro piedi finché non hanno un nome che si identifichi con il loro carattere.

Gli argomenti contro Gabriel Eligio si aggravavano perché era un membro attivo del Partito conservatore, contro il quale aveva mosso le sue guerre il colonnello Nicolás Márquez. La pace era stata fatta solo a metà dopo la firma dei patti di Neerlandia e di Wisconsin, perché il centralismo primiparo era sempre al potere e doveva passare ancora molto tempo prima che conservatori e liberali smettessero di mostrarsi i denti. Forse il conservatorismo del pretendente veniva da un contagio familiare e non da una convinzione dottrinale, ma l’avevano preso in maggior considerazione di altri segni del suo buon carattere, come la sua intelligenza sempre all’erta e la sua rettitudine indomita.

Papà era un uomo difficile da capire e da soddisfare. Fu sempre molto più povero di quanto non sembrasse e considerò la povertà come un suo nemico abominevole cui non si rassegnò mai né riuscì a sconfiggere. Con lo stesso coraggio e la stessa dignità sopportò l’opposizione nei confronti dei suoi amori con Luisa Santiaga, nel retro dell’ufficio del telegrafo di Aracataca, dove tenne sempre appesa un’amaca per dormire da solo. Tuttavia, lì accanto aveva pure una branda da scapolo con le molle ben oliate per quello che poteva riserbargli la notte. In un periodo ebbi una certa tentazione per le sue consuetudini da cacciatore furtivo, ma la vita mi insegnò che è la forma più arida della solitudine, e sentii una grande compassione per lui.

Fino a poco prima della sua morte lo sentii raccontare che in uno di quei giorni difficili dovette andare con alcuni amici a casa del colonnello, e tutti furono invitati a sedersi, meno lui. La famiglia di lei lo respinse sempre e attribuì la cosa a un residuo del risentimento di mio padre, o almeno a un falso ricordo, ma una volta a mia nonna sfuggì nel farneticare canterino dei suoi quasi cent’anni, che non sembravano rievocati ma rivissuti.

«Ecco lì quel pover’uomo in piedi sulla soglia del salotto e Nicolás non l’ha invitato a sedersi» disse, davvero addolorata.

Sempre attento alle sue rivelazioni abbaglianti, le domandai chi era quell’uomo, e lei mi rispose seccamente:

«García, quello del violino.»

In mezzo a tanti spropositi, la cosa meno simile al modo d’essere di mio padre fu che comprò una pistola per ogni evenienza, essendo alle prese con un guerriero a riposo come il colonnello Márquez. Era una venerabile Smith & Wesson .38, a canna lunga, con chissà quanti proprietari precedenti e responsabile di chissà quanti morti. L’unica certezza è che non se ne servì mai né per precauzione né per curiosità. Noi, suoi figli maggiori, la trovammo anni dopo con le sue cinque pallottole originali in un armadio per gli arnesi inutili insieme al violino delle serenate.

Né Gabriel Eligio né Luisa Santiaga cedettero dinanzi al rigore della famiglia. All’inizio potevano incontrarsi di nascosto in casa di amici, ma quando il cerchio si chiuse definitivamente intorno a lei, l’unico contatto furono le lettere ricevute e inviate attraverso condotti ingegnosi. Si vedevano da lontano quando a lei non permettevano di recarsi a feste alle quali lui fosse invitato. Ma la repressione divenne a poco a poco così severa, che nessuno osò sfidare le ire di Tranquilina Iguarán, e gli innamorati scomparvero dalla vista del pubblico. Quando non fu rimasto neppure uno spiraglio per le lettere furtive, i fidanzati inventarono espedienti da naufraghi. Lei riuscì a nascondere un biglietto di auguri in una torta che qualcuno aveva ordinato per il compleanno di Gabriel Eligio, e questi non trascurò occasione per inviarle telegrammi falsi e innocui con il vero messaggio cifrato o scritto con inchiostro simpatico. La complicità della zia Francisca divenne allora così evidente, malgrado i suoi dinieghi perentori, che danneggiò la sua autorità nella casa, e le permisero di stare con la nipote solo mentre cuciva all’ombra dei mandorli. Allora Gabriel Eligio mandava messaggi d’amore dalla finestra del dottor Alfredo Barboza, sul marciapiede di fronte, con il telegrafo manuale dei sordomuti. Lei lo imparò così bene che durante le negligenze della zia intratteneva conversazioni intime con il fidanzato. Era solo uno dei numerosi trucchi inventati da Adriana Berdugo, la moglie del dottor Barboza, comare di Luisa Santiaga e sua complice inventiva e audace.

Quei maneggi consolatori sarebbero bastati loro per sopravvivere a fuoco lento, fin quando Gabriel Eligio non ricevette una lettera allarmante di Luisa Santiaga, che lo costrinse a una riflessione definitiva. L’aveva scritta di gran fretta sulla carta del gabinetto, con la brutta notizia che i genitori avevano deciso di portarla insieme a loro a Barrancas passando da un paese all’altro, così sottoponendola a una cura da cavalli per il suo mal d’amore. Non sarebbe stato il solito viaggio di una nottataccia sulla goletta di Riohacha, bensì quello lungo la strada orribile alle pendici della Sierra Nevada su mule e carrette, attraverso la vasta provincia di Padilla.

«Avrei preferito morire» mi disse mia madre il giorno in cui andammo a vendere la casa. E ci aveva provato davvero, chiusa con il paletto in camera sua, a pane e acqua per tre giorni, finché non si impadronì di lei il terrore riverenziale che nutriva per il padre. Gabriel Eligio si rese conto che la tensione era arrivata agli estremi, e prese una decisione pure questa estrema ma realizzabile. Attraversò la strada a lunghi passi dalla casa del dottor Barboza fino all’ombra dei mandorli e si piazzò davanti alle due donne che lo aspettavano atterrite con il lavoro in grembo.

«Mi faccia il favore di lasciarmi solo per un momento con la signorina» disse alla zia Francisca. «Ho qualcosa di importante da dire solo a lei.»

«Sfacciato!» gli rispose la zia. «Non c’è nulla che riguardi lei e che io non possa sentire.»

«Allora non glielo dico» disse lui «ma l’avverto che lei sarà responsabile di qualsiasi cosa accada.»

Luisa Santiaga supplicò la zia che li lasciasse soli, e si addossò il rischio. Allora Gabriel Eligio le disse che accettava che lei facesse il viaggio con i suoi genitori, nel modo e per il tempo che si fosse ritenuto opportuno, ma a patto che gli promettesse con giuramento solenne che si sarebbe sposata con lui. Lei lo fece, compiaciuta, e aggiunse a suo rischio e pericolo che solo la morte avrebbe potuto impedirglielo.

Entrambi disposero di quasi un anno per dimostrare la serietà delle loro promesse, ma né l’uno né l’altra si immaginava quanto avrebbero dovuto pagare. La prima parte del viaggio con una carovana di mulattieri durò due settimane a dorso di mulo lungo i cornicioni della Sierra Nevada. Con loro c’era Chon – diminutivo affettuoso di Encarnación – la domestica di Wenefrida che si era unita alla famiglia dopo la partenza da Barrancas. Il colonnello conosceva benissimo quella strada irta, dove aveva lasciato una scia di figli nelle notti disparse delle sue guerre, ma la moglie l’aveva preferita senza conoscerla per via dei brutti ricordi della goletta. Per mia madre, che inoltre montava una mula per la prima volta, fu un incubo di soli nudi e acquazzoni feroci, con l’anima sospesa a un filo per via dei vapori soporiferi dei precipizi. Pensare a un fidanzato incerto, con i suoi vestiti da mezza sera e il violino da alba, sembrava uno scherzo dell’immaginazione. Il quarto giorno, incapace di sopravvivere, minacciò la madre di buttarsi nel crepaccio se non tornavano a casa. Mina, più spaventata di lei, prese la decisione. Ma il capo della cordata le dimostrò sulla mappa che tornare o proseguire era lo stesso. Il sollievo le colse di lì a undici giorni, quando scorsero dall’ultimo cornicione la pianura radiosa di Valledupar.

Prima che fosse consumata la prima tappa, Gabriel Eligio si era assicurato una comunicazione permanente con la fidanzata errante, grazie alla complicità dei telegrafisti dei sette paesi in cui lei e sua madre dovevano fermarsi prima di arrivare a Barrancas. Anche Luisa Santiaga fece la sua parte. Tutta la provincia era satura di Iguarán e di Cotes, la cui coscienza di casta aveva il potere di un viluppo impenetrabile, e lei riuscì a mettersela dalla sua parte. Questo le permise di intrattenere una corrispondenza febbrile con Gabriel Eligio da Valledupar, dove si fermò tre mesi, fino al termine del viaggio, quasi un anno dopo. Le bastava passare per l’ufficio del telegrafo di ogni paese, con la complicità di una parentela giovane ed entusiasta, per ricevere e rispondere ai messaggi. Chon, la silenziosa, ebbe un ruolo inestimabile, perché portava messaggi nascosti fra i suoi stracci senza inquietare Luisa Santiaga né ferirne il pudore, dal momento che non sapeva leggere né scrivere e sapeva farsi uccidere per un segreto.

Quasi sessant’anni dopo, mentre cercavo di ricostruire questi episodi in Lamore ai tempi del colera, domandai a mio padre se nel gergo dei telegrafisti esisteva una parola specifica per l’atto di allacciare un ufficio con un altro. Lui non dovette pensarci due volte: incavicchiare. La parola è presente nei dizionari, non per l’uso specifico che mi occorreva, ma mi sembrò perfetta per i miei dubbi, in quanto la comunicazione con i diversi uffici veniva assicurata mediante la connessione di un cavicchio in un pannello di terminali telegrafici. Non ne parlai mai con mio padre. Tuttavia, poco prima della sua morte gli domandarono durante un’intervista se lui avesse voluto scrivere un romanzo, e rispose di sì, ma che aveva desistito quando gli avevo rivolto la domanda sul verbo incavicchiare perché in quel momento aveva scoperto che il romanzo che io stavo scrivendo era lo stesso che pensava di scrivere lui.

In quella circostanza ricordò pure un dato occulto che avrebbe potuto far cambiare la direzione delle nostre vite. E fu che a sei mesi di viaggio, quando mia madre si trovava a San Juan del César, arrivò a Gabriel Eligio la soffiata confidenziale che Mina era stata incaricata di preparare il ritorno definitivo della famiglia a Barrancas, una volta cicatrizzati i rancori per la morte di Medardo Pacheco. Gli sembrò assurdo, quando i brutti tempi erano rimasti alle spalle e l’impero assoluto della compagnia bananiera cominciava ad assomigliare al sogno della terra promessa. Ma era pure ragionevole che la testardaggine dei Márquez Iguarán li portasse a sacrificare la loro stessa felicità pur di liberare la figlia dagli artigli dello sparviero. La decisione immediata di Gabriel Eligio fu di chiedere il suo trasferimento all’ufficio del telegrafo di Riohacha, a una ventina di leghe da Barrancas. Non era possibile ma gli promisero di tenere presente la richiesta.

Luisa Santiaga non riuscì a capire le idee segrete della madre, ma non osò neppure negarle, perché aveva destato la sua attenzione il fatto che quanto più si avvicinavano a Barrancas e tanto più sospirosa e serena le sembrava. Neppure Chon, confidente di tutti, le fornì qualche pista. Per fare un po’ di chiarezza, Luisa Santiaga disse alla madre che le sarebbe piaciuto molto fermarsi a vivere a Barrancas. La madre ebbe un istante di esitanza ma non si azzardò a dire nulla, e alla figlia rimase l’impressione di essere passata vicinissima al segreto. Inquieta, si abbandonò all’azzardo delle carte con una zingara di strada che non le fornì indizi sul suo futuro a Barrancas. Ma le annunciò, invece, che non ci sarebbero stati ostacoli quanto a una vita lunga e felice con un uomo remoto che conosceva appena ma che l’avrebbe amata fino alla morte. La descrizione che fece di lui le restituì l’anima al corpo, perché gli trovò tratti comuni con il suo fidanzato, soprattutto nel modo d’essere. Infine le predisse senza un’ombra di dubbio che avrebbe avuto sei figli con lui. «Morii di spavento» disse mia madre la prima volta che me lo raccontò, senza neppure immaginarsi che il numero reale dei suoi figli sarebbe stato quasi il doppio. Entrambi considerarono la predizione con tanto entusiasmo, che la corrispondenza telegrafica smise allora di essere un concerto di intenzioni illusorie, e divenne metodica e pratica, e più intensa che mai. Fissarono date, stabilirono modalità, e impegnarono le loro vite nella risoluzione comune di sposarsi senza consultare nessuno, ovunque e comunque, quando si fossero ritrovati.

Luisa Santiaga fu così fedele all’impegno, che nel villaggio di Fonseca non le sembrò opportuno partecipare a un ballo di gala senza il consenso del fidanzato. Gabriel Eligio si trovava nell’amaca a sudare una febbre di quaranta gradi quando risuonò il segnale di un appuntamento telegrafico urgente. Era il telegrafista di Fonseca. Per sua completa sicurezza, lei domandò chi stesse battendo sul tasto al termine della catena. Più attonito che lusingato, il fidanzato trasmise una frase di identificazione: “Le dica che sono il suo figlioccio”. Mia madre riconobbe la parola d’ordine, e rimase al ballo fino alle sette del mattino, allorché dovette cambiarsi d’abito di gran corsa per non arrivare tardi a messa.

A Barrancas non trovarono la minima traccia di rancore nei confronti della famiglia. Al contrario, tra i parenti di Medardo Pacheco prevaleva una disposizione cristiana al perdono e all’oblio diciassette anni dopo la disgrazia. L’accoglienza del parentado si rivelò così calorosa che allora fu Luisa Santiaga a pensare alla possibilità che la famiglia facesse ritorno in quella gora della sierra così diversa dal caldo e dalla polvere, come pure dai sabati sanguinosi e dai fantasmi decapitati di Aracataca. Si spinse fino a suggerirlo a Gabriel Eligio, sempre che questi ottenesse il suo trasferimento a Riohacha, e lui fu d’accordo. In quei giorni, però, si venne infine a sapere non solo che la versione del trasferimento era carente di ogni realtà ma pure che nessuno la voleva meno di Mina. Così venne messo in chiaro in una lettera di risposta che lei mandò a suo figlio Juan de Dios, allorché questi le scrisse temendo che tornassero a Barrancas quando non erano ancora trascorsi vent’anni dalla morte di Medardo Pacheco. Fu sempre così convinto del fatalismo della legge guajira, che si oppose al figlio Eduardo che voleva prestare il servizio di medicina sociale a Barrancas mezzo secolo dopo.

Al di là di ogni timore, fu lì che in tre giorni si sciolsero tutti i nodi della situazione. Lo stesso martedì in cui Luisa Santiaga confermò a Gabriel Eligio che Mina non intendeva trasferirsi a Barrancas, a lui annunciarono che, per morte improvvisa del titolare, l’ufficio del telegrafo di Riohacha era a sua disposizione. Il giorno dopo, Mina vuotò i cassetti della dispensa cercando certe forbici per trinciare la carne, e senza che ce ne fosse bisogno scoperchiò la scatola di gallette inglesi in cui la figlia nascondeva i suoi telegrammi d’amore. Fu tanta la sua rabbia che riuscì a dirle solo uno degli improperi celebri che era solita improvvisare nei suoi momenti critici: «Dio perdona tutto meno la disobbedienza». Quel fine settimana si recarono a Riohacha perché la domenica intendevano prendere la goletta di Santa Marta. Nessuna delle due fu consapevole della notte terribile sferzata dalla buriana di febbraio: la madre annichilita dalla sconfitta, e la figlia spaventata ma felice.

La terra ferma restituì a Mina la padronanza di sé perduta con la scoperta delle lettere. Proseguì da sola per Aracataca il giorno dopo con il treno locale delle sette, e lasciò Luisa Santiaga a Santa Marta in custodia a suo figlio Juan de Dios, sicura di metterla in salvo dai diavoli dell’amore. Fu tutto il contrario: Gabriel Eligio era allora in viaggio da Aracataca per Santa Marta, risoluto a vederla ogni volta che fosse possibile. Lo zio Juan aveva deciso di non prendere partito, ancora scottato dalla sua dura esperienza, ma nel momento della verità si ritrovò catturato fra l’adorazione per la sorella e la venerazione per i genitori, e si rifugiò in una formula tipica della sua bontà proverbiale: concesse che i fidanzati si vedessero fuori casa sua, però mai da soli e senza che lui ne fosse informato. Dilia Caballero, sua moglie, che perdonava ma non dimenticava, ordì per la cognata le stesse casualità infallibili e i sotterfugi abilissimi con cui lei si era sottratta alla vigilanza dei suoi suoceri. Gabriel e Luisa cominciarono a vedersi in casa di amici, ma a poco a poco si arrischiarono in luoghi pubblici poco frequentati. Infine osarono chiacchierare alla finestra quando lo zio Juan non c’era, la fidanzata in salotto e il fidanzato in strada, fedeli all’impegno di non vedersi dentro la casa. La finestra sembrava fatta apposta per gli amori contrastati, attraverso un’inferriata andalusa a grandezza d’uomo e con una cornice di rampicanti, fra cui qualche volta non mancò una fragranza di gelsomini nel sopore della notte. Dilia aveva previsto ogni cosa, persino la complicità di alcuni vicini che tramite fischi cifrati avrebbero avvertito i fidanzati di un pericolo imminente. Tuttavia, una sera vennero meno tutte le cautele, e Juan de Dios si arrese alla verità. Dilia approfittò dell’occasione per invitare i fidanzati ad accomodarsi in salotto con le finestre aperte affinché spartissero il loro amore con il mondo. Mia madre non dimenticò mai il sospiro del fratello: «Che sollievo!».

In quei giorni Gabriel Eligio ricevette la nomina ufficiale all’ufficio del telegrafo di Riohacha. Temendo una nuova separazione, mia madre si appellò allora a monsignor Pedro Espejo, attuale vicario della diocesi, con la speranza che la sposasse senza il permesso dei genitori. La rispettabilità di monsignore aveva raggiunto una tale forza che molti fedeli la confondevano con la santità, e c’era chi assisteva alle sue messe solo per constatare se davvero si alzava di diversi centimetri sopra il livello del pavimento al momento dell’elevazione. Quando Luisa Santiaga sollecitò il suo aiuto, lui diede un’ennesima prova che la santità è uno dei privilegi dell’intelligenza. Rifiutò di intervenire all’interno di una famiglia così gelosa della sua intimità, ma optò per l’alternativa segreta di informarsi su quella di mio padre attraverso la curia. Il parroco di Sincé passò sopra le liberalità di Argemira García, e rispose con una formula benevola: “Si tratta di una famiglia rispettabile anche se poco devota”. Monsignore si intrattenne allora con i fidanzati, insieme e separatamente, e scrisse una lettera a Nicolás e Tranquilina in cui espresse la sua certezza emozionata che non c’era potere umano capace di sconfiggere quell’amore cocciuto. I miei nonni, vinti dal potere di Dio, accettarono di voltare la dolente pagina, e lasciarono a Juan de Dios pieni poteri per organizzare le nozze a Santa Marta. Ma non vi presero parte, limitandosi a inviare Francisca Simodosea come madrina.

Si sposarono l’11 giugno 1926 nella cattedrale di Santa Marta, con quaranta minuti di ritardo, perché la sposa aveva dimenticato la data e dovettero svegliarla quando le otto del mattino erano passate. Quella stessa sera salirono ancora una volta sulla goletta degli spaventi affinché Gabriel Eligio prendesse possesso dell’ufficio del telegrafo di Riohacha, e passarono la loro prima notte in castità sconfitti dal mal di mare.

Mia madre rimpiangeva tanto la casa in cui aveva passato la luna di miele, che noi, suoi figli più grandi, avremmo potuto descriverla stanza per stanza come se vi avessimo vissuto, e ancora oggi continua a essere uno dei miei falsi ricordi. Tuttavia, la prima volta che andai realmente alla penisola della Guajira, poco prima dei miei sessant’anni, mi stupì che la casa annessa all’ufficio del telegrafo non avesse nulla a che vedere con quella del mio ricordo. E la Riohacha idilliaca che fin da bambino portavo dentro il cuore, con le sue vie di salnitro che scendevano verso un mare di fango, erano solo sogni imprestati dai miei nonni. Anzi, adesso che conosco Riohacha, riesco a visualizzarla non così com’è, ma come l’avevo costruita pietra su pietra nella mia immaginazione.

Due mesi dopo le nozze, Juan de Dios ricevette un telegramma di mio padre in cui si annunciava che Luisa Santiaga era incinta. La notizia sconvolse sino alle fondamenta la casa di Aracataca, dove Mina non si era ancora ripresa dalla sua amarezza, e sia lei sia il colonnello deposero le armi affinché i novelli sposi tornassero da loro. Non fu facile. Dopo una resistenza dignitosa e ragionata di diversi mesi, Gabriel Eligio accettò che la moglie partorisse in casa dei genitori.

Poco dopo mio nonno lo accolse alla stazione ferroviaria con una frase che rimase incorniciata nell’oro dentro il libro della storia della famiglia. «Sono pronto a darle tutte le soddisfazioni che siano necessarie.» La nonna rinnovò la camera da letto che fino ad allora era stata sua, e lì installò i miei genitori. Nel corso dell’anno, Gabriel Eligio si dimise dal suo buon lavoro di telegrafista e consacrò il suo talento di autodidatta a una scienza in disgrazia: l’omeopatia. Il nonno, per gratitudine o per rimorso, intervenne presso le autorità e ottenne che la via in cui abitavamo ad Aracataca portasse il nome che porta ancora: Avenida Monseñor Espejo.

Fu così che nacque ad Aracataca il primo di sette maschi e quattro femmine, il 6 marzo 1927, sotto un acquazzone torrenziale fuori stagione, mentre il segno del Toro ascendeva nel cielo. Stava per essere strangolato dal cordone ombelicale, perché la mammana della famiglia, Santos Villero, aveva perso il dominio sulla sua arte nel momento peggiore. Ma più ancora lo perse la zia Francisca, che corse fino alla porta di strada cacciando urla da incendio:

«Maschio! Maschio!» E subito dopo, come suonando a martello: «Del rum, che sta soffocando!».

La famiglia ritiene che il rum non fosse per festeggiare ma per rianimare con frizioni il neonato. La signora Juana de Freytes, che fece la sua entrata provvidenziale nella camera da letto, mi raccontò più volte che il rischio più grave non era il cordone ombelicale, ma una brutta posizione di mia madre sul letto. Lei gliela corresse in tempo, ma non fu facile rianimarmi, sicché la zia Francisca mi versò l’acqua battesimale di emergenza. Avrei dovuto chiamarmi Olegario, che era il santo del giorno, ma nessuno aveva a portata di mano il libro dei santi, sicché mi misero d’urgenza il primo nome di mio padre seguito da quello di José, dal falegname san Giuseppe, che era patrono di Aracataca e perché si era nel suo mese di marzo. La signora Juana de Freytes propose un terzo nome in memoria della riconciliazione generale che c’era stata tra famiglie e amici con la mia venuta al mondo, ma nell’atto di battesimo ufficiale che mi fecero tre anni dopo dimenticarono di metterlo: Gabriel José de la Concordia.

1. Il sancocho è un piatto i cui ingredienti principali sono carne, yucca e banana. (NdT)

2

Il giorno in cui andai con mia madre a vendere la casa ricordavo tutto quanto mi aveva colpito durante l’infanzia, ma non ero sicuro di cosa venisse prima e cosa venisse dopo, né cosa significasse tutto questo nella mia vita. Ero appena consapevole che, in mezzo al falso splendore della compagnia bananiera, il matrimonio dei miei genitori era ormai inscritto nel processo che avrebbe toccato il culmine con la decadenza di Aracataca. Fin da quando ebbi la capacità di ricordare, sentii ripetere – dapprima con molta cautela, poi ad alta voce e con allarme – la frase fatidica: «Dicono che la compagnia se ne va». Tuttavia, o nessuno ci credeva o nessuno osò pensare ai suoi scempi.

La versione di mia madre presentava cifre così esigue e la scena era così povera per un dramma grandioso come quello che avevo immaginato io, che mi produsse un senso di frustrazione. In seguito parlai con sopravvissuti e testimoni e frugai in collezioni di giornali e documenti ufficiali, e mi resi conto che la verità non era da nessuna parte. I conformisti dicevano, infatti, che non c’erano stati morti. Quelli dell’estremità opposta affermavano senza un tremito nella voce che erano stati più di cento, che li avevano visti dissanguarsi nella piazza e che se li erano portati via su un treno merci per buttarli in mare come le banane di scarto. Sicché la mia verità rimase intorbidata per sempre in qualche punto improbabile fra le due estremità. Tuttavia, fu così persistente che in uno dei miei romanzi riferii il massacro con la precisione e l’orrore con cui l’avevo incubato per anni e anni nella mia immaginazione. Fu così che la cifra dei morti la mantenni a tremila, per conservare le proporzioni epiche del dramma, e la vita reale finì per rendermi giustizia: poco tempo fa, in uno degli anniversari della tragedia, l’oratore di turno al Senato chiese un minuto di silenzio in memoria dei tremila martiri anonimi sacrificati dalla forza pubblica.

Il massacro della compagnia bananiera fu il culmine di quelli precedenti, ma con in più il fatto che i capi erano stati additati quali comunisti, e forse lo erano. Il più famoso e ricercato, Eduardo Mahecha, lo conobbi per caso nel carcere di Barranquilla nei giorni in cui andai con mia madre a vendere la casa, e allacciai con lui una buona amicizia non appena mi presentai come il nipote di Nicolás Márquez. Fu lui a rivelarmi che il nonno non era stato neutrale bensì un mediatore nello sciopero del 1928, e lo riteneva un uomo giusto. Sicché mi completò l’idea che avevo sempre avuto del massacro ed ebbi una visione più oggettiva del conflitto sociale. L’unica discrepanza fra i ricordi di tutti fu in merito al numero dei morti, che comunque non sarà l’unica incognita della nostra storia.

Così tante versioni divergenti sono state la causa dei miei falsi ricordi. Fra questi, il più persistente è quello di me stesso sulla soglia della casa con un casco da prussiano e una doppietta giocattolo, mentre guardavo sfilare sotto i mandorli il battaglione dei cachacos sudati. Uno degli ufficiali che li comandava in uniforme da parata mi salutò mentre passava:

«Arrivederci, capitano Gabi.»

Il ricordo è nitido, ma non c’è possibilità che sia vero. L’uniforme, il casco e la doppietta coesistettero, ma circa due anni dopo lo sciopero e quando non c’erano più truppe in assetto di guerra a Cataca. Molteplici casi come questo mi crearono nella casa la cattiva reputazione di uno che aveva ricordi intrauterini e faceva sogni premonitori.

Queste erano le condizioni del mondo allorché cominciai a prendere consapevolezza del mio ambito familiare e non riesco a evocarlo altrimenti: dolori, rimpianti, incertezze, nella solitudine di una casa immensa. Per anni mi sembrò che quell’epoca si fosse per me trasformata in un incubo ricorrente di quasi tutte le notti, perché al mattino mi destavo con lo stesso terrore che nella camera dei santi. Durante l’adolescenza, interno in un collegio gelido sulle Ande, mi svegliavo piangendo nel mezzo della notte. Mi ci è voluta questa vecchiaia senza rimorsi per capire che la sventura dei nonni nella casa di Cataca fu che rimasero sempre incagliati nelle loro nostalgie, e tanto più quanto più si accanivano a esorcizzarle.

Più semplice ancora: si trovavano a Cataca ma continuavano a vivere nella provincia di Padilla, che pure oggi chiamiamo sempre la Provincia, senza altri riferimenti, come se fosse l’unica al mondo. Forse, senza neppure pensarci, avevano costruito la casa di Cataca come una replica cerimoniale della casa di Barrancas, dalle cui finestre si vedeva, dall’altra parte della strada, il cimitero triste dov’era sepolto Medardo Pacheco. A Cataca erano amati e rispettati, ma le loro vite erano soggette alla servitù della terra in cui erano nati. Si trincerarono nei loro gusti, nelle loro credenze, nei loro pregiudizi, e serrarono le fila davanti a qualsiasi cosa fosse diversa.

Le loro amicizie più strette erano innanzitutto quelle che venivano dalla Provincia. La lingua domestica era quella che i nonni avevano portato dalla Spagna attraverso il Venezuela nel secolo precedente, rivitalizzata da localismi caraibici, africanismi degli schiavi e scampoli della lingua guajira, che a goccia a goccia filtravano nella nostra. La nonna se ne serviva per depistarmi senza sapere che io la capivo benissimo per via dei miei rapporti diretti con la servitù. Ne ricordo ancora molti: atunkeshi, ho sonno; jamusaitshi taya, ho fame; ipuwots, la donna incinta; aríjuna, il forestiero, che mia nonna usava in un certo senso per indicare lo spagnolo, l’uomo bianco e in fin dei conti il nemico. Quanto ai guajiros, parlarono sempre una specie di spagnolo senza ossa con bagliori radiosi, come lo stesso dialetto di Chon, con una precisione affettata che mia nonna le proibì perché rinviava senza rimedio a un equivoco: “Le labbra della bocca”.

La giornata era incompleta finché non arrivavano le notizie su chi era nato a Barrancas, su quanti erano stati uccisi dal toro nel recinto di Fonseca, su chi si era sposato a Manaure o era morto a Riohacha, su come si era svegliato il generale Socarrás che era grave a San Juan del César. Al commissariato della compagnia bananiera si vendevano a prezzi d’occasione le mele della California avvolte in carta di riso, i pagri pietrificati dal gelo, i prosciutti della Galizia, le olive greche. Tuttavia, niente si mangiava nella casa che non venisse insaporito nel brodo delle nostalgie: la malanga della minestra doveva essere di Riohacha, il mais per le focaccine della colazione doveva essere di Fonseca, le capre venivano allevate con il sale della Guajira e le tartarughe e le aragoste le portavano vive da Dibuya.

Sicché la maggior parte dei visitatori che arrivavano ogni giorno con il treno venivano dalla Provincia o erano stati mandati da qualcuno di là. Sempre gli stessi cognomi: i Riascos, i Noguera, gli Ovalle, spesso incrociati con le tribù sacramentali dei Cotes e degli Iguarán. Erano di passaggio, senza null’altro che lo zaino in spalla, e sebbene non annunciassero la visita era previsto che si fermassero a pranzo. Non ho mai dimenticato la frase quasi rituale della nonna quando entrava in cucina: “Bisogna preparare di tutto, perché non si sa cosa piacerà a quelli che possono arrivare”.

Quello spirito di evasione perpetua si reggeva su una realtà geografica. La Provincia aveva l’autonomia di un mondo a sé e un’unità culturale compatta e antica, in una spaccatura ferace tra la Sierra Nevada di Santa Marta e la Sierra del Perijá, nei Caraibi colombiani. Le sue comunicazioni erano più facili con il mondo che con il resto del paese, perché la sua vita quotidiana si identificava meglio con le Antille per il traffico facile con la Giamaica o Curaçao, e quasi si confondeva con quella del Venezuela attraverso una frontiera dalle porte aperte che non faceva distinzioni di ranghi e di colori. Dall’interno del paese, che cuoceva a fuoco lento nella sua stessa salsa, arrivava appena la ruggine del potere: le leggi, le tasse, i soldati, le brutte notizie incubate a duemilacinquecento metri di altitudine e a otto giorni di navigazione lungo il fiume Magdalena su un battello a vapore alimentato a legna.

Quella natura insulare aveva generato una cultura stagna con un suo carattere che i nonni trapiantarono a Cataca. Più che un singolo focolare, la casa era un paese. C’erano sempre diversi turni a tavola, ma i primi due posti erano sacri fin da quando avevo compiuto tre anni: il colonnello a capotavola e io alla sua destra. Gli altri posti venivano occupati prima dagli uomini e poi dalle donne, ma sempre separati. Queste regole erano infrante durante le feste nazionali del 20 luglio, e il pranzo a turni si protraeva finché non avessero mangiato tutti. Di sera non si serviva a tavola, ma si distribuivano scodelle di caffelatte in cucina, con la squisita pasticceria della nonna. Quando si chiudevano le porte ognuno appendeva la sua amaca dove poteva, a diversi livelli, persino agli alberi del cortile.

Una delle grandi fantasie di quegli anni la vissi un giorno in cui arrivò nella casa un gruppo di uomini uguali con abiti, stivali e speroni da cavallerizzi, e tutti con una croce di cenere dipinta sulla fronte. Erano i figli generati dal colonnello nella Provincia durante la guerra dei Mille Giorni, che venivano dai loro villaggi per fargli gli auguri di buon compleanno con un mese di ritardo. Prima di recarsi alla casa avevano sentito la messa del mercoledì delle ceneri, e la croce che padre Angarita aveva disegnato sulle loro fronti mi sembrò un emblema sovrannaturale il cui mistero mi avrebbe perseguitato per anni, anche dopo aver familiarizzato con la liturgia della Settimana Santa.

La maggior parte di loro era nata dopo il matrimonio dei miei nonni. Mina li registrava con nome e cognome in un taccuino non appena aveva notizia della loro nascita, e con un’indulgenza difficile finiva per includerli con tutto il cuore nella contabilità della famiglia. Ma né a lei né ad altri era stato facile distinguerli prima di quella visita rumorosa in cui ognuno rivelò il suo peculiare modo di essere. Erano seri e laboriosi, uomini di casa, gente di pace, che tuttavia non temevano di perdere la testa nella vertigine della bisboccia. Ruppero le stoviglie, scompigliarono i roseti inseguendo un vitello per giocarci alla corrida, uccisero a pistolettate le galline per il sancocho e liberarono un maiale scivoloso che travolse le ricamatrici sulla veranda, ma nessuno si lamentò di quei danni per via della ventata di gioia che portavano.

Continuai a vedere spesso Esteban Carrillo, gemello della zia Elvira ed esperto nelle arti manuali, che viaggiava con una cassetta di attrezzi per riparare gratis qualsiasi guasto nelle case che visitava. Con il suo senso dell’umorismo e la sua buona memoria mi riempì numerosi vuoti che sembravano incolmabili nella storia della famiglia. Durante l’adolescenza frequentai pure mio zio Nicolás Gómez, un biondo intenso con lentiggini rosse che diede sempre spicco al suo buon lavoro di bottegaio nell’antica colonia penale di Fundación. Colpito dalla mia buona reputazione di caso disperato, mi salutava con una borsa per il mercato piena piena per proseguire il viaggio. Rafael Arias arrivava sempre di passaggio e di fretta su una mula e vestito come un cavallerizzo, appena con il tempo per un caffè in piedi nella cucina. Gli altri li incontrai dispersi nei viaggi di nostalgia che feci più tardi nei paesi della Provincia per scrivere i miei primi romanzi, e sempre rimpiansi la croce di cenere sulla fronte come un segno inconfondibile dell’identità familiare.

Anni dopo che erano morti i nonni e che era stata abbandonata al suo destino la casa signorile, arrivai a Fundación con il treno della notte e mi sedetti nell’unico spaccio di cibo aperto a quell’ora nella stazione. Rimaneva poco da servire, ma la proprietaria improvvisò un buon piatto in mio onore. Era chiacchierona e servizievole, e in fondo a quelle virtù docili mi sembrò di cogliere il carattere forte delle donne della tribù. Lo constatai anni dopo: la bella locandiera era Sara Noriega, un’altra delle mie zie sconosciute.

Apolinar, l’antico schiavo piccolo e massiccio che avevo sempre ricordato come uno zio, scomparve dalla casa per anni, e una sera ricomparve senza motivo, vestito a lutto con un abito di panno nero e un cappello enorme, pure questo nero, tirato fin sugli occhi taciturni. Passando per la cucina disse che veniva per il funerale, ma nessuno lo capì fino al giorno dopo, quando arrivò la notizia che il nonno era appena morto a Santa Marta, dove l’avevano portato d’urgenza e in segreto.

L’unico degli zii che ebbe una risonanza pubblica fu il maggiore di tutti e l’unico conservatore, José María Valdeblánquez, che era stato senatore della Repubblica durante la guerra dei Mille Giorni, e in quel ruolo aveva assistito alla firma della resa liberale nella vicina tenuta di Neerlandia. Di fronte a lui, dalla parte dei vinti, c’era suo padre.

Credo che l’essenza del mio modo d’essere e di pensare la devo in realtà alle donne della famiglia e alle molte della servitù che ebbero cura della mia infanzia. Avevano un carattere forte e un cuore tenero, e mi trattavano con la naturalezza del paradiso terrestre. Fra le molte che ricordo, Lucía fu l’unica che mi stupì con la sua malizia puerile, quando mi portò nel viottolo dei rospi e si alzò la sottana fino alla vita per mostrarmi il suo pelo ramato e scarruffato. Tuttavia, ad attrarre il mio sguardo fu la macchia di un’eruzione cutanea che si allargava sul suo ventre come un mappamondo con dune viola e oceani gialli. Le altre sembravano arcangeli di purezza: si cambiavano la biancheria davanti a me, mi facevano il bagno mentre si facevano il bagno, mi accomodavano sul mio vaso da notte e si accomodavano sui loro davanti a me per sfogarsi dei loro segreti, delle loro pene, dei loro rancori, come se io non capissi, senza rendersi conto che sapevo tutto perché annodavo i fili che loro stesse mi lasciavano sciolti.

Chon era della servitù e della strada. Era arrivata da Barrancas insieme ai nonni quand’era ancora bambina, aveva finito di crescere nella cucina ma assimilata alla famiglia, e il modo in cui la trattavano era quello di una zia guardiana dopo che aveva fatto la peregrinazione fino alla Provincia con mia madre innamorata. Nei suoi ultimi anni si trasferì in una camera tutta sua nella parte più povera del paese, solo perché così aveva voluto lei, e viveva del riso macinato per le focaccine che vendeva per strada fin dall’alba, con un grido che divenne familiare nel silenzio dell’alba: «Il buon riso macinato della vecchia Chon».

Aveva un bel colore di india e da sempre parve fatta di sole ossa, e camminava scalza, con un turbante bianco e avvolta in lenzuola inamidate. Avanzava piano piano nel mezzo della via, con una scorta di cani mansueti e silenziosi che procedevano girandole intorno. Finì per entrare nel folclore del paese. A certi carnevali comparve una maschera identica a lei, con le sue lenzuola e il suo grido, anche se non erano riusciti ad ammaestrare una guardia di cani come la sua. Il suo grido del buon riso macinato divenne così popolare che fu motivo di una canzone di fisarmonicisti. Una brutta mattina due cani randagi attaccarono i suoi, e questi si difesero con una tale ferocia che Chon cadde a terra con la spina dorsale fratturata. Non sopravvisse, malgrado le molte cure mediche che le procurò il nonno.

Un altro ricordo rivelatore di quel tempo fu il parto di Matilde Armenta, una lavandaia che aveva lavorato nella casa quando io ero sui sei anni. Entrai nella sua camera per sbaglio e la trovai nuda a gambe spalancate sopra una branda, mentre ululava di dolore fra una combriccola di comari senza ordine né ragione che si erano spartite il suo corpo per aiutarla a partorire tra un grido e l’altro. Una le tergeva il sudore della faccia con un asciugamani bagnato, altre le stringevano con forza le braccia e le gambe e le facevano massaggi sul ventre per accelerare il parto. Santos Villero, impassibile in mezzo al disordine, mormorava orazioni da mare calmo con gli occhi chiusi mentre sembrava scavare fra le cosce della partoriente. Il caldo era insopportabile nella camera piena di fumo per via delle pentole di acqua bollente che portavano dalla cucina. Me ne rimasi in un angolo, diviso fra lo spavento e la curiosità, finché la mammana non tirò fuori per le caviglie una cosa in carne viva come un vitello neonato, con un budello sanguinolento appeso all’ombelico. Una delle donne mi scoprì allora nell’angolo e mi trascinò fuori dalla stanza.

«Sei in peccato mortale» mi disse. E mi ordinò con un dito minaccioso: «Non ricordare mai più quello che hai visto».

Invece, la donna che davvero mi tolse l’innocenza non se l’era proposto né lo seppe mai. Si chiamava Trinidad, era figlia di qualcuno che lavorava nella casa, e cominciava appena a fiorire in una primavera mortale. Era sui tredici anni, ma portava ancora i vestiti di quando ne aveva nove, e le stavano così stretti sul corpo che sembrava più nuda che senza abiti. Una sera in cui eravamo soli nel cortile fece improvvisa irruzione una musica di banda dalla casa vicina e Trinidad si mise a farmi ballare con un braccio tanto stretto che mi lasciò senza respiro. Non so cosa ne fu di lei, ma ancora oggi mi sveglio nel mezzo della notte turbato dalla commozione, e so che potrei riconoscerla nel buio dal tatto di ogni centimetro della sua pelle e dal suo odore animale. In un istante presi consapevolezza del mio corpo con una chiaroveggenza degli istinti che non risentii mai più, e che mi azzardo a ricordare come una morte squisita. Fin da allora seppi in qualche modo confuso e irreale che c’era un mistero insondabile che io non conoscevo, ma che mi turbava come se l’avessi saputo. Al contrario, le donne della famiglia mi guidarono sempre sulla rotta arida della castità.

La perdita dell’innocenza mi insegnò al contempo che non era il Bambino Gesù a portarci i giocattoli a Natale, ma badai a non dirlo. A dieci anni, mio padre me lo rivelò come un segreto degli adulti, perché dava per scontato che lo sapessi, e mi portò nei negozi della vigilia a scegliere i giocattoli per i miei fratelli. La stessa cosa mi era accaduta con il mistero del parto prima che assistessi a quello di Matilde Armenta: mi strozzavo dal ridere quando dicevano che i bambini li portava da Parigi una cicogna. Ma devo confessare che né allora né adesso sono riuscito a mettere in rapporto il parto con il sesso. Comunque sia, penso che la mia intimità con la servitù può essere stata l’origine di un filo di comunicazione segreta che credo di avere con le donne, e che nel corso della mia vita mi ha permesso di sentirmi più a mio agio e sicuro con loro che fra gli uomini. Sempre di lì può venire la mia convinzione che sono loro a reggere il mondo, mentre noi uomini lo disordiniamo con la nostra brutalità storica.

Sara Emilia Márquez, senza saperlo, ebbe a che vedere con il mio destino. Ricercata fin da molto giovane da pretendenti che non si degnava neppure di guardare, scelse il primo che le piacque, e per sempre. Il prescelto aveva qualcosa in comune con mio padre, perché era un forestiero arrivato non si sapeva da dove né come, con una buona storia alle spalle, ma senza mezzi noti. Si chiamava José del Carmen Uribe Vergel, ma talvolta si firmava solo J. del C. Passò qualche tempo prima che si venisse a sapere chi era in realtà e da dove veniva, finché non lo si scoprì dai discorsi che scriveva dietro incarico per funzionari pubblici, e dai versi d’amore che pubblicava sulla sua stessa rivista culturale, la cui frequenza dipendeva dalla volontà di Dio. Non appena comparve nella casa provai una grande ammirazione per la sua fama di scrittore, il primo che conobbi nella mia vita. Subito volli essere uguale a lui, e non fui contento finché la zia Mama non ebbe imparato a pettinarmi come lui.

Fui il primo della famiglia che venne a conoscenza dei suoi amori segreti, una sera in cui entrò nella casa davanti alla nostra dove io giocavo con amici. Mi chiamò in disparte, in uno stato di tensione evidente, e mi diede una lettera per Sara Emilia. Io sapevo che era seduta sulla soglia di casa nostra in attesa della visita di un’amica. Attraversai la strada, mi nascosi dietro uno dei mandorli e lanciai la lettera con tale precisione che le cadde in grembo. Spaventata, alzò le mani, ma il grido le rimase in gola quando riconobbe la grafia sulla busta. Sara Emilia e J. del C. furono amici miei fin da allora.

Elvira Carrillo, sorella gemella dello zio Esteban, torceva e strizzava una canna da zucchero con le mani e ne spremeva il succo con la forza di un frantoio. Era famosa più per la sua franchezza brutale che per la tenerezza con cui sapeva badare ai bambini, soprattutto a mio fratello Luis Enrique, un anno minore di me, di cui fu al contempo sovrana e complice, e che la battezzò con il nome imperscrutabile di zia Pa. La sua specialità furono sempre i problemi impossibili. Lei ed Esteban furono i primi ad arrivare alla casa di Cataca, ma mentre lui trovò la sua via in ogni sorta di lavori e affari fruttuosi, lei rimase una zia indispensabile alla famiglia senza mai rendersi conto di esserlo stata. Spariva quando non era necessaria, ma quando lo era non si seppe mai come né da dove venisse. Nei suoi brutti momenti parlava da sola mentre rimestava nella pentola, e rivelava ad alta voce dove si trovavano le cose ritenute perse. Rimase nella casa quando ebbe finito di seppellire i più vecchi, mentre la malerba divorava lo spazio palmo a palmo e gli animali erravano per le camere da letto, turbata fin dalla mezzanotte per via di una tosse di oltretomba nella camera accanto.

Francisca Simodosea – la zia Mama – la generalessa della tribù morta vergine a settantanove anni, era diversa da tutti nelle sue abitudini e nel suo linguaggio. La sua cultura non era della Provincia, ma del paradiso feudale delle savane di Bolívar, dove suo padre, José María Mejía Vidal, era emigrato giovanissimo da Riohacha con le sue arti da orefice. Si era lasciata crescere fino alle ginocchia la chioma di crini nerissimi che resistettero alla canizie fino a una vecchiaia molto avanzata. Se la lavava con acque di essenze una volta la settimana, e si sedeva a pettinarsi sulla soglia della sua camera da letto secondo un cerimoniale sacro di diverse ore, consumando senza tregua certe sigarette di tabacco grezzo che fumava al contrario, con il fuoco dentro la bocca, come facevano le truppe liberali per non essere scoperte dal nemico nel buio della notte. Anche il suo modo di vestire era diverso, con gonnelle e corpetti di lino immacolato e babbucce di velluto.

Al contrario del purismo castigliano della nonna, la lingua di Mama era la più ricca di gergo popolare. Non la dissimulava dinanzi a nessuno e in nessuna circostanza, e a tutti cantava chiare in faccia le sue verità. Inclusa una monaca, maestra di mia madre al collegio di Santa Marta, che aveva bloccato bruscamente in seguito a un’impertinenza: «Lei è una di quelle che confondono il culo con il cervello». Però, riuscì sempre a cavarsela in modo da non sembrare grossolana né insultante.

Per mezza vita fu la depositaria delle chiavi del cimitero, compilava e consegnava i certificati di morte e preparava in casa le ostie per la messa. Fu l’unica persona della famiglia, di qualsiasi sesso, che non sembrava aver conficcata nel cuore una pena d’amore contrariato. Ne prendemmo coscienza una sera in cui il medico si preparava a metterle una sonda, e lei glielo impedì per un motivo che allora non intesi: «L’avverto, dottore, che non ho mai conosciuto un solo uomo».

Da allora innanzi continuai a sentirla parlare spesso così, eppure non mi sembrò mai gloriosa né pentita, ma come di un fatto compiuto che non aveva lasciato tracce nella sua vita. Invece, era una pronuba rinomata che dovette soffrire nel suo doppio gioco di preparare il letto ai miei genitori senza essere sleale con Mina.

Ho l’impressione che si intendesse meglio con i bambini che con gli adulti. Fu lei a occuparsi di Sara Emilia finché questa non si trasferì sola nella stanza dei quaderni di Calleja. Allora accolse Margot e me al suo posto, sebbene la nonna seguitasse a occuparsi della mia pulizia personale e il nonno badasse alla mia formazione di uomo.

Il mio ricordo più inquietante di quei tempi è quello della zia Petra, sorella maggiore del nonno, che se n’era andata da Riohacha per abitare con loro quand’era rimasta cieca. Viveva nel vano attiguo all’ufficio, lì dove in seguito ci sarebbe stata l’oreficeria, e sviluppò una destrezza magica per sbrogliarsela nelle sue tenebre senza l’aiuto di nessuno. La ricordo ancora quasi fosse ieri, che camminava senza bastone come con i suoi due occhi, lenta ma senza dubbi, e che si guidava solo aspirando i diversi odori. Riconosceva la sua camera dal vapore dell’acido muriatico nell’oreficeria accanto, la veranda dal profumo dei gelsomini del giardino, la camera da letto dei nonni dall’odore dell’alcol di legno che entrambi usavano per massaggiarsi il corpo prima di addormentarsi, la camera della zia Mama dall’odore dell’olio nelle lampade sull’altare e, in fondo al corridoio, l’odore succulento della cucina. Era snella e riservata, con una pelle di gigli appassiti, una chioma radiosa color madreperla che portava sciolta fino alla vita, e di cui si occupava lei stessa. Le sue pupille verdi e diafane da adolescente cambiavano luce secondo gli stati d’animo. Comunque le sue erano passeggiate casuali, perché passava tutto il giorno nella camera con la porta socchiusa e quasi sempre sola. Talvolta cantava con sussurri per se stessa, e la sua voce poteva essere confusa con quella di Mina, ma le sue canzoni erano diverse e più tristi. Sentii qualcuno dire che erano romanze di Riohacha, ma solo da adulto venni a sapere che in realtà le inventava lei stessa a mano a mano che le cantava. Due o tre volte non riuscii a resistere alla tentazione di entrare nella sua camera senza che nessuno se ne accorgesse, ma non la trovai. Anni dopo, durante una delle mie vacanze dal liceo, raccontai quei ricordi a mia madre, e lei si affrettò a convincermi del mio errore. Aveva assolutamente ragione, e mi fu possibile constatarlo senza ombra di dubbio: la zia Petra era morta quando io avevo due anni.

La zia Wenefrida la chiamavamo Nana, ed era la più allegra e simpatica della tribù, ma riesco a evocarla solo nel suo letto di inferma. Era sposata con Rafael Quintero Ortega – lo zio Quinte – un avvocato per i poveri nato a Chía, a una quindicina di leghe da Bogotá e alla stessa altitudine sopra il livello del mare. Ma si era adattata così bene ai Caraibi che nell’inferno di Cataca aveva bisogno di bottiglie di acqua calda ai piedi per dormire nel periodo fresco di dicembre. La famiglia si era ormai ripresa dalla disgrazia di Medardo Pacheco quando allo zio Quinte toccò subire la sua per avere ucciso l’avvocato della parte avversa in un litigio giudiziario. Aveva un’immagine da uomo buono e pacifico, ma l’avversario l’aveva aggredito senza tregua, e non gli era rimasta altra alternativa che armarsi. Era così minuscolo e ossuto che calzava scarpe da bambino, e i suoi amici gli facevano scherzi cordiali perché la pistola lo rigonfiava come un cannone sotto la camicia. Il nonno lo avvertì seriamente con la sua frase celebre: «Lei non sa quanto pesa un morto». Ma lo zio Quinte non ebbe il tempo di pensarci allorché il nemico gli sbarrò la strada con grida da energumeno nell’anticamera del tribunale, e gli si scagliò addosso con il suo corpo spropositato. «Non mi resi neppure conto di aver tirato fuori la pistola e di aver sparato in aria con entrambe le mani e gli occhi chiusi» mi disse lo zio Quinte poco prima della sua morte centenaria. «Quando aprii gli occhi» mi raccontò «lo vidi ancora in piedi, grande e pallido, e fu come se franasse a poco a poco finché non rimase seduto a terra.» Solo allora lo zio Quinte si accorse che l’aveva preso in mezzo alla fronte. Gli domandai cos’avesse sentito allorché l’aveva visto cadere, e mi stupì la sua franchezza:

«Un immenso sollievo!»

Il mio ultimo ricordo di sua moglie Wenefrida fu quello della sera di grandi piogge in cui la esorcizzò una fattucchiera. Non era la strega convenzionale bensì una donna simpatica, vestita alla moda, che scacciava con un mazzo di ortiche i cattivi umori dal corpo mentre cantava uno scongiuro come una ninnananna. D’improvviso, Nana si contorse in una convulsione profonda, e un uccello grande come un pollo e con le piume cangianti fuggì via dalle lenzuola. La donna lo acchiappò per aria con un’artigliata magistrale e lo avvolse in uno straccio nero che aveva lì apposta. Ordinò di accendere un fuoco nel retrocortile, e senza cerimonie buttò l’uccello tra le fiamme. Ma Nana non si riprese dai suoi mali.

Poco dopo, il fuoco nel cortile venne riacceso quando una gallina fece un uovo incredibile che sembrava una pallina da ping-pong con un’appendice come quella di un berretto frigio. Mia nonna lo identificò subito: «È un uovo di basilisco». Lei stessa lo buttò nel fuoco mormorando orazioni di scongiuro.

Non riuscii mai a immaginare i nonni in un’età diversa da quella che avevano nei miei ricordi di quell’epoca. La stessa dei ritratti che avevano fatto loro agli albori della vecchiaia, e le cui copie sempre più sbiadite sono state trasmesse come un rito tribale attraverso quattro generazioni prolifiche. Soprattutto quelli della nonna Tranquilina, la donna più credula e impressionabile che abbia mai conosciuto, per via del terrore che le ispiravano i misteri della vita quotidiana. Cercava di svagare le sue incombenze cantando a voce spiegata vecchie canzoni di innamorati, ma d’improvviso le interrompeva con il suo grido di guerra contro la fatalità:

«Ave Maria Purissima!»

Perché vedeva che le sedie a dondolo oscillavano da sole, che il fantasma della febbre puerperale era scivolato nelle alcove delle partorienti, che l’odore dei gelsomini del giardino era come un fantasma invisibile, che una corda buttata per caso a terra aveva la forma dei numeri che potevano essere il premio più grosso della lotteria, che un uccello senza occhi si era smarrito nella sala da pranzo ed era stato possibile scacciarlo solo cantando La Magnifica. Credeva di decifrare con chiavi segrete l’identità dei protagonisti e dei luoghi delle canzoni che le arrivavano dalla Provincia. Si immaginava disgrazie che prima o poi accadevano, presentiva chi stava per arrivare da Riohacha con un cappello bianco, o da Manaure con una colica che si poteva curare solo con fiele di avvoltoio, perché oltre che una profetessa rinomata era pure una guaritrice furtiva.

Aveva un sistema personalissimo per interpretare i sogni propri e altrui che regolavano il comportamento quotidiano di ognuno di noi e determinavano la vita della casa. Tuttavia, fu sul punto di morire senza presagi quando scostò bruscamente le lenzuola del suo letto e sfuggì uno sparo alla pistola che il colonnello nascondeva sotto il guanciale per averla a portata di mano mentre dormiva. In base alla traiettoria del proiettile che si conficcò nel soffitto venne chiarito che era passato vicinissimo al viso della nonna.

Per quanto indietro risalga la mia memoria, ho sempre patito la tortura mattutina che Mina mi pulisse i denti con lo spazzolino, mentre lei godeva del privilegio magico di togliersi i suoi per lavarli e lasciarli dentro un bicchiere di acqua mentre dormiva. Convinto che era la sua dentatura naturale che si toglieva e si metteva grazie ad arti guajiras, feci sì che mi mostrasse l’interno della bocca per vedere com’era da dentro il rovescio degli occhi, del cervello, del naso, delle orecchie, ed ebbi la delusione di non vedere altro che il palato. Ma nessuno mi decifrò il prodigio e per un bel pezzo mi ostinai insistendo che il dentista mi facesse la stessa cosa che alla nonna, affinché lei mi pulisse i denti mentre io giocavo per la strada.

Avevamo una specie di codice segreto mediante il quale ci mettevamo entrambi in comunicazione con un universo invisibile. Di giorno, il suo mondo magico era per me affascinante, ma di notte mi ispirava un terrore puro e semplice: la paura del buio, precedente il nostro essere, che mi ha perseguitato per tutta la vita lungo strade solitarie e anche in antri da ballo del mondo intero. Nella casa dei nonni ogni santo aveva la sua camera e ogni camera aveva il suo morto. Ma l’unica casa ufficialmente conosciuta come “La casa del morto” era quella accanto alla nostra, e il suo morto era l’unico che in una seduta di spiritismo si era presentato con il suo nome umano: Alfonso Mora. Qualcuno vicino a lui si prese la briga di ricercarlo nei registri dei battesimi e delle morti, e trovò numerosi omonimi, ma nessuno diede segno di essere il nostro. Quella era stata per anni la casa parrocchiale, e si era diffusa la frottola secondo cui il fantasma era lo stesso padre Angarita intenzionato ad allontanare i curiosi che lo spiavano nei loro andirivieni notturni.

Non riuscii a conoscere Meme, la schiava guajira che la famiglia aveva portato da Barrancas e che in una notte di tempesta fuggì con Alirio, il suo fratello adolescente, ma sentii sempre dire che erano stati soprattutto quei due a macchiare la parlata della casa con la loro lingua natia. Il loro spagnolo aggrovigliato fu sbalordimento di poeti, fin dal giorno memorabile in cui trovò i fiammiferi che lo zio Juan de Dios aveva perso e glieli restituì con il suo gergo trionfale:

«Qui sono, fiammiferi tuoi.»

Costava fatica credere che la nonna Mina, con le sue donne disorientate, fosse il sostegno economico della casa quando cominciarono a mancare i mezzi. Il colonnello aveva qualche terra dispersa che venne occupata da coloni cachacos e che lui si rifiutò di scacciare. In un frangente per salvare l’onore di uno dei suoi figli dovette ipotecare la casa di Cataca, e gli costò una fortuna non perderla. Quando si fu toccato il fondo, Mina continuò a sostenere la famiglia con polso saldo grazie ai suoi prodotti di panetteria, agli animaletti di caramello che si vendevano in tutto il paese, alle galline screziate, alle uova di anatra, agli ortaggi del retrocortile. Fece un taglio radicale della servitù e si tenne solo la gente più utile. Il denaro liquido finì per non avere senso nella tradizione orale della casa. Sicché quando dovettero comprare un pianoforte per mia madre al suo rientro dal collegio, la zia Pa fece i conti in moneta domestica: «Un pianoforte costa cinquecento uova».

In mezzo a quella truppa di donne evangeliche, il nonno era per me la sicurezza completa. Solo con lui svaniva l’inquietudine e mi sentivo con i piedi per terra e bene inserito nella vita reale. La cosa strana, pensandoci adesso, è che io volevo essere come lui, realista, coraggioso, sicuro, ma non riuscii mai a resistere alla tentazione costante di affacciarmi sul mondo della nonna. Lo ricordo tracagnotto e sanguigno, con pochi capelli bianchi sul cranio rilucente, baffetti a spazzolino, ben curati, e certi occhialetti rotondi con la montatura d’oro. Aveva un parlare lento, comprensivo e conciliante in tempi di pace, ma i suoi amici conservatori lo ricordavano come un nemico temibile nelle contrarietà della guerra.

Non portò mai l’uniforme militare, perché il suo grado era rivoluzionario e non accademico, ma anche molto dopo le guerre usava il tipico camiciotto detto liquilique, che era di uso comune fra i veterani dei Caraibi. Non appena fu promulgata la legge sulle pensioni di guerra riempì i formulari per ottenere la sua, e sia lui sia sua moglie e i suoi eredi più vicini continuarono ad aspettarla fino alla morte. Mia nonna Tranquilina, che morì lontano da quella casa, cieca, decrepita e mezzo lunatica, mi disse nei suoi ultimi momenti di lucidità: «Muoio tranquilla, perché so che voi riceverete la pensione di Nicolás».

Fu la prima volta che sentii quella parola mitica che seminò nella famiglia il germe delle illusioni eterne: il pensionamento. Era entrata nella casa prima della mia nascita, quando il governo istituì le pensioni per i veterani della guerra dei Mille Giorni. Il nonno stesso preparò i documenti, persino con eccesso di testimoni giurati e certificati probatori, e lo portò lui stesso a Santa Marta per firmare la ricevuta dell’avvenuta consegna. Secondo i calcoli meno allegri, era una somma sufficiente per lui e per i suoi discendenti fino alla seconda generazione. «Non preoccupatevi» ci diceva la nonna «i soldi della pensione basteranno per tutto.» La posta, che non era mai stata una cosa urgente nella famiglia, divenne allora un inviato della Divina Provvidenza.

Io stesso non riuscii a farne a meno, con la carica di incertezza che comportava. Tuttavia, certe volte Tranquilina era di una tempra che non si conciliava affatto con il suo nome. Durante la guerra dei Mille Giorni mio nonno venne arrestato a Riohacha da un cugino primo di lei che era un ufficiale dell’esercito conservatore. Il parentado liberale, e lei stessa, la presero come una dichiarazione di guerra dinanzi alla quale a nulla serviva il potere familiare. Ma quando la nonna venne a sapere che suo marito lo tenevano ai ceppi come un criminale comune, affrontò il cugino con uno scudiscio e lo costrinse a restituirglielo sano e salvo.

Il mondo del nonno era molto diverso. Anche nei suoi ultimi anni sembrava agilissimo quando girava di qua e di là con la sua cassetta di attrezzi per riparare i guasti della casa, o quando faceva salire l’acqua del bagno per ore con la pompa manuale del retrocortile, o quando si arrampicava su per le scale ripide per verificare la quantità di acqua nei serbatoi, ma invece mi chiedeva di annodargli i lacci delle scarpe perché si ritrovava senza fiato quando voleva farlo da sé. Non morì per miracolo, un mattino in cui cercò di acchiappare il pappagallo cieco che si era arrampicato fino ai serbatoi. Era riuscito a prenderlo per il collo quando scivolò sulla passerella e cadde a terra da un’altezza di quattro metri. Nessuno si spiegò come fosse riuscito a sopravvivere con i suoi novanta chili e i suoi cinquanta e più anni. Fu quello per me il giorno memorabile in cui il medico lo esaminò nudo sul letto, palmo a palmo, e gli domandò cos’era una vecchia cicatrice di mezzo pollice che gli scoprì all’inguine.

«È stata una pallottola durante la guerra» disse il nonno.

Non mi sono ancora ripreso dall’emozione. Così come non mi sono ancora ripreso dal giorno in cui si affacciò in strada dalla finestra del suo ufficio per guardare un famoso cavallo da trotto che volevano vendergli, e d’improvviso si accorse che l’occhio gli si riempiva di acqua. Cercò di proteggersi con la mano e gli rimasero sul palmo poche gocce di un liquido diafano. Non solo perse l’occhio destro, perché mia nonna non volle che comprasse il cavallo abitato dal diavolo. Portò per breve tempo una toppa da pirata sopra l’occhiaia rannuvolata finché l’oculista non gliela cambiò con un paio di occhiali graduati e gli prescrisse un bordone da pellegrino che finì per diventare un segno particolare, come l’orologino da panciotto con la catena d’oro, il cui coperchio si apriva con un sobbalzo musicale. Fu sempre di dominio pubblico che le perfidie degli anni che cominciavano a inquietarlo non coinvolsero affatto le sue scaltrezze di seduttore segreto e di buon amante.

Durante il bagno rituale delle sei del mattino, che nei suoi ultimi anni fece sempre con me, ci versavamo addosso l’acqua della cisterna con una zucca secca e alla fine eravamo fradici di Acqua Fiorita di Lanman e Kemps, che i contrabbandieri di Curaçao vendevano a scatole a domicilio, come il brandy e le camicie di seta cinese. Qualche volta lo si sentì dire che era l’unico profumo che usava perché lo sentiva solo chi lo portava, ma non ci credette più quando qualcuno lo riconobbe su un guanciale altrui. Un’altra storia che sentii ripetere per anni fu quella della notte in cui era andata via la luce e il nonno si era versato una boccetta di inchiostro sulla testa credendo che fosse la sua Acqua Fiorita.

Per le incombenze quotidiane nella casa indossava pantaloni di lino grezzo con le sue bretelle elastiche di sempre, scarpe morbide e un berretto di stoffa con la visiera. Alla messa della domenica, cui mancò pochissime volte e solo per motivi di forza maggiore, o a qualsiasi festa o circostanza quotidiana di rilievo, portava un completo di lino bianco, con colletto di celluloide e cravatta nera. Queste scarse occasioni gli valsero sicuramente la fama di damerino e di manieroso. L’impressione che ho oggi è che la casa con tutto quanto aveva dentro esistesse solo per lui, perché era un matrimonio esemplare del maschilismo in una società matriarcale, in cui l’uomo è un re assoluto della sua casa, ma a governare è la moglie. Detto senza perifrasi, lui era il maschio. Ossia, un uomo con una tenerezza squisita nel privato, di cui si vergognava in pubblico, mentre sua moglie si consumava per renderlo felice.

I nonni fecero un altro viaggio a Barranquilla nei giorni in cui si festeggiò il primo centenario della morte di Simón Bolívar nel dicembre del 1930, per assistere alla nascita di mia sorella Aida Rosa, la quarta della famiglia. Di ritorno a Cataca si portarono appresso Margot, che aveva poco più di un anno, e i miei genitori si tennero Luis Enrique e la neonata. Mi costò fatica abituarmi al cambiamento, perché Margot arrivò nella casa come una creatura di un’altra vita, rachitica e selvatica, e con un mondo interiore impenetrabile. Quando la vide Abigaíl – la madre di Luis Carmelo Correa – non capì perché i miei nonni si fossero presi un simile impegno. «Questa bambina è una moribonda» disse. Comunque, dicevano lo stesso di me, perché mangiavo poco, perché sbattevo le palpebre, perché le cose che raccontavo sembravano così enormi che le credevano menzogne, senza pensare che in generale erano vere per un altro verso. Solo anni dopo venni a sapere che il dottor Barboza era l’unico che mi avesse difeso con un argomento saggio: «Le menzogne dei bambini sono segni di un grande talento».

Passò molto tempo prima che Margot si arrendesse alla vita familiare. Si sedeva sulla piccola sedia a dondolo succhiandosi il dito nell’angolo più inatteso. Nulla attraeva la sua attenzione, tranne i rintocchi dell’orologio che a ogni ora cercava con i suoi grandi occhi da allucinata. Non riuscirono a far sì che mangiasse per diversi giorni. Respingeva il cibo senza drammaticità e talvolta lo buttava negli angoli. Nessuno capiva come potesse rimaner viva senza mangiare, finché non si accorsero che le piaceva solo la terra umida del giardino e le croste di calce che strappava dalle pareti con le unghie. Quando la nonna lo scoprì, mise fiele di mucca negli anfratti più appetitosi del giardino e nascose peperoncini brucianti nei vasi da fiori. Padre Angarita la battezzò nella stessa cerimonia con cui ratificò il battesimo di emergenza che mi avevano fatto alla nascita. Lo ricevetti in piedi sopra una seggiola e sopportai con coraggio civile il sale da cucina che il padre mi mise sulla lingua e la ciotola di acqua che mi sparse sulla testa. Margot, invece, si ribellò per entrambi con uno strillo da fiera ferita e una rivolta del corpo intero che padrini e madrine penarono a controllare sopra il fonte battesimale.

Oggi penso che lei, nel suo rapporto con me, fosse molto più ragionevole degli adulti fra loro. La nostra complicità era così strana che più di una volta ci leggemmo il pensiero. Una mattina stavamo lei e io giocando nel giardino quando riecheggiò il fischio del treno, come tutti i giorni alle undici. Ma quella volta, sentendolo, ebbi la rivelazione inspiegabile che con quel treno arrivava il medico della compagnia bananiera che mesi prima mi aveva prescritto un decotto di rabarbaro che mi aveva scatenato una crisi di vomito. Corsi per tutta la casa con grida di allarme, ma nessuno ci credette. Tranne mia sorella Margot, che rimase nascosta con me finché il medico non ebbe finito di pranzare e se ne fu andato con il treno di ritorno. «Ave Maria Purissima!» esclamò mia nonna quando ci trovarono nascosti sotto il suo letto. «Con questi bambini non c’è bisogno di telegrammi.»

Non riuscii mai a superare la paura di star da solo, e tanto meno al buio, ma sembra che avesse un’origine concreta, ed è che di notte si materializzavano le fantasie e i presagi della nonna. A settant’anni ho ancora intravisto in sogno l’ardore dei gelsomini sulla veranda e il fantasma delle camere da letto buie, e sempre con la sensazione che mi guastò l’infanzia: il terrore della notte. Spesso ho intuito, nelle mie insonnie del mondo intero, che anch’io mi trascino appresso la condanna di quella casa mitica in un mondo felice in cui morivamo ogni notte.

La cosa più strana è che la nonna reggeva la casa con il suo senso dell’irrealtà. Com’era possibile mantenere quello stile di vita con mezzi tanto scarsi? I conti non tornano. Il colonnello aveva imparato il mestiere dal padre, che a sua volta l’aveva imparato dal suo, e malgrado la fama dei suoi pesciolini d’oro che si vedevano ovunque, questi non erano un buon affare. Anzi, da bambino avevo l’impressione che li facesse solo ogni tanto o quando preparava un regalo di nozze. La nonna diceva che lui lavorava solo per regalare. Tuttavia, la sua nomea di buon funzionario si affermò una volta per tutte quando il Partito liberale raggiunse il potere, e per anni lui fu più volte tesoriere ed esattore della Finanza.

Non posso immaginare un ambiente familiare più propizio di quella casa lunatica per la mia vocazione, soprattutto grazie al carattere delle numerose donne che mi allevarono. Gli unici uomini eravamo mio nonno e io, e lui mi iniziò alla triste realtà degli adulti con racconti di battaglie sanguinose e spiegazioni scolastiche sul volo degli uccelli e sui tuoni all’imbrunire, e mi incoraggiò nel mio amore per il disegno. Al principio disegnavo sulle pareti, finché le donne della casa non levarono alte grida al cielo: le pareti e i muri sono la carta della canaglia. Mio nonno si infuriò, e fece pitturare di bianco un muro del laboratorio e mi comprò matite colorate, e in seguito un astuccio di acquarelli, affinché dipingessi a mio piacimento, mentre lui fabbricava i suoi famosi pesciolini d’oro. Qualche volta lo sentii dire che il nipote sarebbe diventato un pittore, e io non gli badai, perché credevo che i pittori fossero quelli che pitturavano porte.

Chi mi ha conosciuto a quattro anni dice che ero pallido e sempre assorto, e che parlavo solo per raccontare spropositi, ma le mie storie erano in gran parte semplici episodi della vita quotidiana, che io rendevo più attraenti con dettagli fantasiosi affinché gli adulti mi dessero retta. La mia miglior fonte di ispirazione erano le conversazioni che i più grandi sostenevano davanti a me, perché pensavano che non le intendessi, o quelle che cifravano apposta affinché non le intendessi. Ed era tutto il contrario: io le assorbivo come una spugna, le smontavo a pezzi, le alteravo per nasconderne l’origine, e quando le raccontavo agli stessi che le avevano raccontate, questi rimanevano perplessi per le coincidenze fra quello che io dicevo e quello che loro pensavano.

Talvolta non sapevo cosa fare della mia coscienza e tentavo di nasconderlo con rapidi batter di ciglia. A tal punto che qualche razionalista della famiglia decise di farmi visitare da un dottore della vista, il quale attribuì i miei batter di ciglia a un disturbo alle tonsille e mi prescrisse uno sciroppo di rafano allo iodio che fu molto efficace per tranquillizzare gli adulti. Quanto alla nonna, arrivò alla conclusione provvidenziale che suo nipote era un indovino. Si trasformò così nella mia vittima preferita, fino al giorno in cui ebbe una vertigine perché sognai davvero che al nonno era uscito un uccello vivo dalla bocca. Lo spavento che morisse per colpa mia fu il primo elemento moderatore della mia sfrenatezza precoce. Adesso penso che non erano infamie di bambino, come si poteva pensare, ma tecniche rudimentali da narratore in erba per rendere la realtà più divertente e comprensibile.

Il mio primo passo nella vita reale fu la scoperta del calcio in mezzo alla strada o in alcuni orti vicini. Il mio maestro era Luis Carmelo Correa, che era nato con un istinto spiccato per gli sport e un talento congenito per la matematica. Io ero di cinque mesi più vecchio, ma lui mi prendeva sempre in giro perché cresceva di più, e più in fretta di me. Cominciammo a giocare con palle di stracci e riuscii a diventare un buon portiere, ma quando passammo al pallone regolamentare mi beccai un colpo allo stomaco a causa di un suo tiro così potente, che fin lì mi arrivarono tutte le vanterie. Le volte in cui ci siamo incontrati da adulti ho constatato con una grande gioia che continuiamo a trattarci come quando eravamo bambini. Tuttavia, il mio ricordo più vivido di quell’epoca è il passaggio fugace del sovrintendente della compagnia bananiera su una sontuosa automobile scoperta, accanto a una donna dai lunghi capelli dorati, sciolti al vento, e con un pastore tedesco seduto come un re al posto d’onore. Erano apparizioni istantanee di un mondo remoto e inverosimile che era vietato a noi mortali.

Cominciai a servire messa senza crederci troppo, ma con un rigore che forse mi verrà abbuonato come una componente essenziale della fede. Sarà stato per via di quelle buone virtù che a sei anni mi portarono da padre Angarita per iniziarmi ai misteri della prima comunione. Mi cambiò la vita. Cominciarono a trattarmi come un adulto, e il sacrestano mi insegnò a servire messa. Il mio unico problema fu che non riuscii a capire in quale momento dovevo suonare il campanello, e lo suonavo quando mi veniva di farlo per pura e semplice ispirazione. Alla terza volta, il padre si voltò verso di me e mi ordinò aspramente di non suonarlo più. La parte migliore dell’uffizio era quando l’altro chierichetto, il sacrestano e io rimanevamo da soli a mettere in ordine la sacrestia e ci mangiavamo le ostie avanzate con un bicchiere di vino.

La vigilia della prima comunione il padre mi confessò senza preamboli, seduto come un vero e proprio papa sulla poltrona curiale, e io inginocchiato davanti a lui su un cuscino di velluto. La mia consapevolezza del bene e del male era piuttosto semplice, ma il padre mi assistette con un dizionario di peccati affinché io rispondessi quali avevo commesso e quali no. Credo di avere risposto bene finché non mi domandò se non avessi fatto cose impure con animali. Avevo un’idea confusa del fatto che alcuni grandi commettevano con le asine peccati che non avevo mai capito, ma solo quella sera appresi che era pure possibile con le galline. In tal modo, il mio primo passo verso la prima comunione fu un altro grosso balzo nella perdita dell’innocenza, e non trovai stimoli per continuare a fare il chierichetto.

La mia prova del fuoco fu quando i miei genitori si trasferirono a Cataca con Luis Enrique e Aida, i miei altri due fratelli. Margot, che si ricordava a stento del papà, ne aveva il terrore. Anch’io, ma con me fu sempre più cauto. Solo una volta si tolse la cinghia per battermi, e io mi misi sull’attenti, mi morsi le labbra e lo guardai negli occhi pronto a sopportare qualsiasi cosa pur di non piangere. Lui abbassò il braccio, e cominciò a infilarsi di nuovo la cinghia mentre recriminava fra i denti contro di me per quello che avevo fatto. Nelle nostre lunghe conversazioni da adulti mi confessò che non gli garbava affatto fustigarci, ma che forse lo faceva temendo che crescessimo male. Nei suoi buoni momenti era divertente. Gli piaceva molto raccontare barzellette a tavola, e alcune ottime, ma le ripeteva tanto che un giorno Luis Enrique si alzò e disse:

«Avvisatemi quando avrete finito di ridere.»

Tuttavia, la legnata storica fu la notte in cui non si presentò a casa dei genitori né a quella dei nonni, e lo cercarono in mezzo paese finché non lo trovarono nel cinema. Celso Daza, il venditore di bibite, gliene aveva servita una al pomo cannella alle otto di sera e lui era sparito senza pagare e con il bicchiere. La venditrice di fritture gli aveva venduto una crocchetta e poco dopo l’aveva visto chiacchierare con il portiere del cinema, che l’aveva lasciato entrare gratis perché gli aveva detto che suo papà lo aspettava dentro. Il film era Dracula, con Carlos Villarías e Lupita Tovar, diretto da George Melford. Per anni Luis Enrique mi raccontò il suo terrore nell’istante in cui si accesero le luci della sala mentre il conte Dracula stava piantando i suoi denti di vampiro nel collo della bella. Era nel posto più in disparte che aveva trovato libero in galleria, e di lì vide papà e il nonno che cercavano fila per fila in platea, con il proprietario del cinema e due agenti della polizia. Erano sul punto di arrendersi allorché Papalelo lo scoprì nell’ultima fila della galleria e lo indicò con il bastone:

«Eccolo lì!»

Papà lo trascinò via per i capelli, e la batosta che gli diede a casa rimase come un castigo leggendario nella storia della famiglia. Il mio terrore e la mia ammirazione per quel gesto di indipendenza di mio fratello si incisero per sempre nella mia memoria. Ma lui sembrava sopravvivere a tutto sempre più eroico. Però, oggi mi incuriosisce il fatto che la sua rivolta non si manifestasse nei rari periodi in cui papà non era in casa.

Mi rifugiai più che mai all’ombra del nonno. Eravamo sempre insieme, la mattina nell’oreficeria e nel suo ufficio di esattore della Finanza, dove mi assegnò un’incombenza felice: disegnare i ferri delle mucche che sarebbero state sacrificate, e io lo facevo con tanta serietà che mi cedeva il posto alla scrivania. All’ora del pranzo, con tutti gli invitati, ci sedevamo sempre a capotavola, lui con la sua brocca grande di alluminio per l’acqua gelata e io con un cucchiaio d’argento che mi serviva per tutto. Ricordo che se volevo un pezzo di ghiaccio infilavo la mano nella brocca per prenderlo, e nell’acqua rimaneva una macchia di grasso. Mio nonno mi difendeva: «Lui ha tutti i diritti».

Alle undici assistevamo all’arrivo del treno, perché suo figlio Juan de Dios, che viveva sempre a Santa Marta, gli mandava una lettera ogni giorno tramite il conducente di turno, che si faceva pagare cinque centesimi. Il nonno rispondeva per altri cinque centesimi con il treno di ritorno. Nel pomeriggio, quando calava il sole, mi portava per mano a fare le sue incombenze personali. Andavamo dal barbiere, dove passavo il quarto d’ora più lungo della mia infanzia; a vedere i fuochi d’artificio delle feste nazionali, che mi terrorizzavano; le processioni della Settimana Santa con il Cristo morto che da sempre credevo di carne e ossa. Io portavo allora un berretto da golf a quadri scozzesi, uguale a uno del nonno, che Mina mi aveva comprato affinché assomigliassi di più a lui. Il successo era stato tale che lo zio Quinte ci vedeva come una sola persona con due età diverse.

A qualsiasi ora del giorno il nonno mi portava a fare acquisti allo spaccio succulento della compagnia bananiera. Lì conobbi i pagri, e per la prima volta posai la mano sul ghiaccio e rabbrividii alla scoperta che era freddo. Ero felice mangiando quello di cui avevo voglia, ma mi annoiavano le partite a scacchi con il Belga e le conversazioni politiche. Adesso, tuttavia, mi rendo conto che durante quelle lunghe passeggiate vedevamo due mondi diversi. Mio nonno vedeva all’orizzonte il suo, e io vedevo il mio all’altezza dei miei occhi. Lui salutava i suoi amici ai balconi e io anelavo i giocattoli esposti sulle bancarelle degli ambulanti.

All’imbrunire ci fermavamo nel fragore universale dei Quattro Angoli, lui a chiacchierare con don Antonio Daconte, che lo accoglieva in piedi sulla soglia della sua bottega stipata, e io meravigliato davanti alle novità del mondo intero. Mi facevano impazzire i maghi da fiera che estraevano conigli dai cappelli, i mangiatori di fuoco, i ventriloqui che facevano parlare gli animali, i suonatori di fisarmonica che cantavano a grida le cose che accadevano nella Provincia. Oggi mi rendo conto che uno di loro, vecchissimo e con la barba bianca, avrebbe potuto essere il leggendario Francisco el Hombre.

Ogni volta che il film gli sembrava adatto, don Antonio Daconte ci invitava al primo spettacolo della sua sala Olympia, malgrado l’allarme della nonna, che lo considerava un libertinaggio improprio per un nipote innocente. Ma Papalelo non le badava, e il giorno dopo mi faceva raccontare il film a tavola, interveniva su dimenticanze ed errori e mi aiutava a ricostruire gli episodi difficili. Erano brani di arte drammatica che sicuramente mi servirono a qualcosa, soprattutto quando cominciai a disegnare fumetti comici prima di imparare a scrivere. All’inizio le festeggiavano come divertenti trovate puerili, ma mi piacevano così tanto gli applausi degli adulti, che questi ultimi finirono per evitarmi quando mi sentivano arrivare. In seguito mi accadde lo stesso con le canzoni che mi costringevano a cantare ai matrimoni e ai compleanni.

Prima di andare a dormire ce ne stavamo un bel po’ nel laboratorio del Belga, un vecchio spaventoso apparso ad Aracataca dopo la Prima guerra mondiale, e non dubito che fosse belga per via del ricordo che ho del suo accento scombussolato e delle sue nostalgie da navigante. L’altro essere vivo in casa sua era un grosso cane danese, sordo e pederasta, che si chiamava come il presidente degli Stati Uniti: Woodrow Wilson. Conobbi il Belga a quattro anni, quando mio nonno andava a giocare con lui partite a scacchi mute e interminabili. Fin dalla prima sera mi stupì che in casa sua non ci fosse nulla che io sapessi a cosa serviva. Perché era un artista in tutto, che sopravviveva nel disordine delle sue stesse opere: paesaggi marini a pastello, fotografie di bambini durante i compleanni e le prime comunioni, copie di gioielli asiatici, figure lavorate in corna di mucca, mobili di epoche e stili dispersi, impilati l’uno sull’altro.

Mi colpì la sua pelle appiccicata alle ossa, dello stesso color giallo solare dei capelli e con un ciuffo che gli ricadeva sul viso e lo disturbava nel parlare. Fumava una pipa da lupo di mare che accendeva solo per gli scacchi, e mio nonno diceva che era un tranello per confondere l’avversario. Aveva un occhio di vetro spalancato che sembrava seguire l’interlocutore più dell’occhio sano. Era invalido dalla vita in giù, curvo in avanti e sbilenco sulla sinistra, ma navigava come un pesce fra gli scogli del suo laboratorio, più appeso che sorretto dalle stampelle di legno. Non l’avevo mai sentito parlare delle sue navigazioni, che sembrava fossero molte e intrepide. L’unica sua passione nota fuori casa era quella del cinema, e non si perdeva un solo film di qualsiasi genere nei fine settimana.

Non gli volli mai bene, e tanto meno durante le partite a scacchi in cui indugiava per ore prima di muovere una pedina mentre io crollavo dal sonno. Una sera lo vidi così derelitto che ebbi il presagio che sarebbe morto molto presto, e ne ebbi pena. Ma con il tempo finì per riflettere tanto su ogni mossa che mi augurai con tutto il cuore di vederlo morire.

In quell’epoca il nonno appese in sala da pranzo il quadro del Liberatore Simón Bolívar nella sua camera ardente. Mi costò fatica accettare che non avesse il sudario dei morti che io avevo visto alle veglie funebri, ma che fosse disteso sopra una scrivania con l’uniforme dei suoi giorni di gloria. Mio nonno spazzò via ogni dubbio con una frase perentoria:

«Lui era diverso.»

Poi, con una voce tremula che non sembrava la sua, mi lesse una lunga poesia appesa vicino al quadro, di cui ricordai per sempre solo i versi finali: «Tu, Santa Marta, sei stata ospitale, e nel tuo grembo, tu gli desti almeno questo lembo di spiagge di mare per morire». Da allora, e per molti anni, mi rimase l’idea che Bolívar l’avessero trovato morto sulla spiaggia. Fu mio nonno a insegnarmi e a chiedermi di non dimenticare mai che quello era stato l’uomo più grande nella storia del mondo. Confuso dalla discrepanza della sua frase rispetto a un’altra che la nonna mi aveva detto con un’enfasi uguale, domandai al nonno se Bolívar era più grande di Gesù Cristo. Lui mi rispose scuotendo la testa senza la convinzione di prima:

«L’una cosa non ha niente a che vedere con l’altra.»

Adesso so che era stata mia nonna a imporre al marito di portarmi con lui nelle sue passeggiate vespertine, perché era sicura che erano pretesti per visitare amanti reali o presunte. È probabile che certe volte gli servissi da alibi, ma il fatto è che con me non si recò mai in qualche posto che non fosse lungo l’itinerario previsto. Tuttavia, conservo l’immagine nitida di una sera in cui passai casualmente per mano a qualcuno davanti a una casa sconosciuta, e vidi il nonno seduto nel salotto come il padrone e il signore del luogo. Non riuscii mai a capire perché in un brivido mi avesse colto la chiaroveggenza che non dovevo raccontarlo a nessuno. Fino a questo sole di oggi.

Fu sempre il nonno che mi mise a contatto con le lettere scritte a cinque anni, una sera in cui mi portò a conoscere gli animali di un circo che era di passaggio a Cataca sotto una tenda grande come una chiesa. Mi colpì soprattutto un ruminante malconcio e desolato con un’espressione da madre spaventosa.

«È un cammello» mi disse il nonno.

Qualcuno lì vicino intervenne:

«Mi scusi, colonnello, è un dromedario.»

Adesso posso immaginare come si sarà sentito il nonno perché qualcuno l’aveva corretto in presenza del nipote. Senza neppure pensarci, andò oltre con una domanda dignitosa:

«Qual è la differenza?»

«Non la so» gli disse l’altro «ma questo è un dromedario.»

Il nonno non era un uomo colto, né aveva la pretesa di esserlo, perché era scappato dalla scuola pubblica di Riohacha per andarsene a sparare in una delle innumerevoli guerre civili dei Caraibi. Non aveva mai più ripreso a studiare, ma per tutta la vita fu consapevole delle sue lacune e aveva un’avidità di conoscenze immediate che compensava largamente i suoi difetti. Quella sera del circo se ne tornò mogio mogio nell’ufficio e consultò il dizionario con un’attenzione infantile. Allora venne a sapere lui e venni a sapere io una volta per tutte la differenza fra un dromedario e un cammello. Alla fine mi mise il glorioso volumone in grembo e mi disse:

«Questo libro non solo sa tutto, ma è pure l’unico che non si sbaglia mai.»

Era un tomo illustrato che aveva sul dorso un atlante colossale, sulle cui spalle poggiava la volta dell’universo. Io non sapevo leggere né scrivere, ma potevo immaginare tutta la ragione che aveva il colonnello se erano quasi duemila pagine grandi, variopinte e con bei disegni. In chiesa mi aveva stupito la grandezza del messale, ma il dizionario era più grosso. Fu come affacciarmi sul mondo intero per la prima volta.

«Quante parole ci saranno?» domandai.

«Tutte» disse il nonno.

Il fatto è che allora io non avevo bisogno della parola scritta, perché riuscivo a esprimere con i disegni tutto quello che mi colpiva. A quattro anni avevo disegnato un mago che mozzava la testa alla moglie e gliela riappiccicava, come aveva fatto Richardine durante il suo spettacolo nella sala Olympia. La sequenza grafica iniziava con la decapitazione mediante una sega, proseguiva con l’esibizione trionfale della testa sanguinante e finiva con la donna che ringraziava per gli applausi con la testa al suo posto. I fumetti li avevano già inventati ma io ne venni a conoscenza solo in seguito grazie al supplemento a colori dei giornali domenicali. Allora cominciai a inventare racconti disegnati e senza dialoghi. Tuttavia, quando il nonno mi regalò il dizionario mi venne una tale curiosità per le parole che lo leggevo come un romanzo, in ordine alfabetico e senza quasi capirlo. Questo fu il mio primo contatto con quello che sarebbe stato il libro fondamentale nel mio destino di scrittore.

Ai bambini si racconta un primo racconto che li cattura davvero, e costa molta fatica far sì che ne ascoltino un altro. Ma credo che non sia il caso dei bambini narratori, e non fu il mio. Io ne volevo sempre di più. La voracità con cui ascoltavo i racconti mi lasciava sempre in attesa di uno migliore il giorno dopo, soprattutto quelli che avevano a che vedere con la Storia Sacra.

Tutto quanto mi accadeva in strada aveva una risonanza enorme nella casa. Le donne della cucina lo raccontavano ai forestieri che arrivavano con il treno – che a loro volta avevano altre cose da raccontare – e tutto insieme si univa nel torrente della tradizione orale. Alcuni fatti divenivano noti dapprima attraverso i fisarmonicisti che li cantavano nelle fiere, e che i viaggiatori riprendevano e arricchivano. Tuttavia, quello più impressionante della mia infanzia lo colsi una domenica molto presto, mentre andavamo a messa, in una frase smarrita di mia nonna:

«Il povero Nicolás perderà la messa di Pentecoste.»

Me ne rallegrai, perché la messa domenicale era troppo lunga per la mia età, e i sermoni di padre Angarita, cui avevo voluto tanto bene da bambino, mi sembravano soporiferi. Ma fu un’illusione vana, perché il nonno quasi mi trascinò fino al laboratorio del Belga, con il mio vestito di velluto verde che mi avevano fatto indossare per la messa, e che mi stringeva all’inguine. Gli agenti di guardia riconobbero il nonno da lontano e gli aprirono la porta con la formula rituale:

«Si accomodi, colonnello.»

Solo allora venni a sapere che il Belga aveva aspirato un decotto di cianuro d’oro spartito con il suo cane, dopo aver visto Niente di nuovo sul fronte occidentale, il film di Lewis Milestone tratto dal romanzo di Erich Maria Remarque. L’intuizione popolare, che trova sempre la verità persino dove non è possibile, intese e proclamò che il Belga non aveva resistito alla commozione di vedere se stesso che sguazzava con la sua pattuglia massacrata in un pantano della Normandia.

Il salottino era in penombra, con le finestre chiuse, ma la luce precoce del cortile illuminava la camera, dove il sindaco insieme ad altri due agenti aspettava il nonno. Il cadavere era lì, protetto da una coperta sopra una branda da campo, e con le stampelle a portata di mano, dove il proprietario le aveva lasciate per adagiarsi a morire. Accanto a lui, su uno sgabello di legno, c’erano il catino in cui aveva vaporizzato il cianuro e un foglio con grossi caratteri tracciati con il pennello: “Non incolpate nessuno, mi ammazzo perché sono un balordo”. I tramiti legali e i particolari della sepoltura, risolti in fretta dal nonno, non durarono più di dieci minuti. Per me, comunque, furono i dieci minuti più impressionanti che avrei ricordato in tutta la mia vita.

La prima cosa che mi fece rabbrividire fin dall’entrata fu l’odore della camera da letto. Solo molto più tardi venni a sapere che era l’odore delle mandorle amare del cianuro che il Belga aveva inalato per morire. Ma né quella né altre impressioni sarebbero state più intense e durature della vista del cadavere allorché il sindaco scostò la coperta per mostrarlo al nonno. Era nudo, rigido e contratto, con la pelle aspra ricoperta di peli gialli, e gli occhi di acque docili che ci guardavano come se fossero vivi. Quella paura di essere visto dalla morte mi fece rabbrividire per anni ogni volta che passavo accanto alle tombe senza croci dei suicidi sepolti fuori dal cimitero per disposizione della Chiesa. Però, a tornarmi alla memoria con il suo carico di orrore alla vista del cadavere fu soprattutto il tedio delle serate in casa sua. Forse per questo dissi a mio nonno quando ce ne andammo di lì:

«Il Belga non giocherà più a scacchi.»

Fu un’idea facile, ma mio nonno la raccontò in famiglia come una trovata geniale. Le donne la divulgarono con così tanto entusiasmo che per qualche tempo evitai le visite per timore che la raccontassero in mia presenza o che mi costringessero a ripeterla. Tutto questo mi rivelò, inoltre, una condizione degli adulti che mi sarebbe stata utilissima come scrittore: ognuno raccontava la stessa storia con particolari nuovi, aggiunti per proprio conto, al punto che le varie versioni finivano per essere diverse da quella originale. Nessuno può immaginare la compassione che provo da allora per i poveri bambini che i genitori dichiarano geni, e che li fanno cantare durante le visite, fanno imitar loro voci di uccelli e persino mentire per divertire. Oggi mi rendo conto, tuttavia, che quella frase così semplice fu il mio primo successo letterario.

Questa era la mia vita nel 1932, allorché venne annunciato che le truppe del Perù, agli ordini del generale Luis Miguel Sánchez Cerro, avevano occupato la sguarnita città di Leticia, sulle rive del Rio delle Amazzoni, all’estremo sud della Colombia. La notizia riecheggiò in tutto il paese. Il governo decretò la mobilitazione nazionale e una colletta pubblica per raccogliere di casa in casa i gioielli familiari di maggior valore. Il patriottismo esacerbato dal subdolo attacco delle truppe peruviane determinò una risposta popolare senza precedenti. Gli esattori non ce la facevano a ricevere i tributi spontanei casa per casa, soprattutto gli anelli matrimoniali, tanto stimati per il loro prezzo reale come per il loro valore simbolico.

Per me, invece, fu una delle epoche più felici proprio per il suo disordine. Si infranse il rigore sterile delle scuole e fu sostituito nelle vie e nelle case dalla creatività popolare. Si formò un battaglione civico con la parte scelta della gioventù, senza distinzione di classi né di colori, si crearono le brigate femminili della Croce Rossa, si improvvisarono inni di guerra a morte contro lo scellerato aggressore, e un grido unanime riecheggiò in tutta la patria: «Viva la Colombia, abbasso il Perù!».

Non seppi mai come terminò quell’impresa perché di lì a qualche tempo si placarono gli animi senza sufficienti spiegazioni. La pace si consolidò con l’assassinio del generale Sánchez Cerro per mano di qualche oppositore del suo sanguinoso regno, e il grido di guerra divenne un’abitudine per festeggiare le vittorie delle partite di calcio a scuola. Ma i miei genitori, che avevano dato come contributo per la guerra gli anelli di nozze, non si ripresero mai dal loro candore.

Per quanto posso ricordare, la mia vocazione per la musica si rivelò in quegli anni attraverso il fascino che mi ispiravano i fisarmonicisti con le loro canzoni da viandanti. Alcune le conoscevo a memoria, come quelle che cantavano di nascosto le donne della cucina perché mia nonna le riteneva canzoni da feccia. Tuttavia, la mia urgenza di cantare per sentirmi vivo me la infusero i tanghi di Carlos Gardel, che contagiarono mezzo mondo. Mi facevo vestire come lui, con il cappello di feltro e la sciarpa di seta, e non avevo bisogno di troppe suppliche per lasciarmi andare in un tango a pieni polmoni. Fino a quel brutto mattino in cui la zia Mama mi svegliò con la notizia che Gardel era morto nello scontro fra due aerei a Medellín. Mesi prima io avevo cantato Cuesta abajo a una festa di beneficenza, accompagnato dalle sorelle Echeverri, bogotane pure, che erano maestre di maestri e anima di qualsiasi festa di beneficenza e commemorazione patriottica che si celebrasse a Cataca. E cantai con tanto carattere che mia madre non si azzardò a contrariarmi quando le dissi che volevo studiare il pianoforte invece della fisarmonica disapprovata dalla nonna.

Quella stessa sera mi portò dalle signorine Echeverri affinché mi insegnassero. Mentre loro chiacchieravano io guardavo il pianoforte dall’altra estremità del salotto con una devozione da cane senza padrone, calcolavo se le mie gambe sarebbero arrivate ai pedali, e dubitavo che il mio pollice e il mio mignolo fossero sufficienti per quegli intervalli spropositati o che fossi capace di decifrare i geroglifici del pentagramma. Fu una visita di belle speranze per due ore. Ma inutile, perché alla fine le maestre ci dissero che il pianoforte era fuori servizio e che non sapevano fin quando. Il progetto venne rinviato a quando fosse tornato l’accordatore dell’anno, ma non se ne parlò più fino a mezza vita dopo, allorché ricordai a mia madre durante una chiacchierata casuale il dolore che avevo provato per non aver studiato pianoforte. Lei sospirò:

«E il peggio» disse «è che non era rotto.»

Allora venni a sapere che si era messa d’accordo con le maestre affinché adducessero il pretesto del pianoforte rotto volendo evitarmi la tortura che lei aveva subito per cinque anni di esercizi sciapi al Collegio della Presentazione. La consolazione fu che a Cataca avevano aperto in quegli anni la scuola montessoriana, le cui maestre stimolavano i cinque sensi mediante esercizi pratici e insegnavano a cantare. Con il talento e la bellezza della direttrice Rosa Elena Fergusson studiare era una cosa meravigliosa come giocare a essere vivi. Imparai ad apprezzare l’olfatto, il cui potere di evocazione nostalgica è travolgente. Il palato, che affinai al punto da avere assaporato bevande che sanno di finestra, pagnotte secche che sanno di baule, infusioni che sanno di messa. In teoria è difficile intendere questi piaceri soggettivi, ma chi li ha vissuti li capirà subito.

Non credo che ci sia un metodo migliore di quello montessoriano per rendere i bambini sensibili alle bellezze del mondo e per destare in loro la curiosità dei segreti della vita. Gli è stato rimproverato di fomentare il senso d’indipendenza e l’individualismo – e forse nel mio caso era vero. Invece, non ho mai imparato a fare le divisioni e a calcolare la radice quadrata, né a sbrogliarmela con le idee astratte. Eravamo così giovani che ricordo solo due compagni. Una era Juanita Mendoza, che morì di tifo a sette anni, poco dopo l’inaugurazione della scuola, e mi impressionò tanto che non sono mai riuscito a dimenticarla con corona e veli da sposa nella bara. L’altro è Guillermo Valencia Abdala, mio amico fin dalla prima ricreazione, e mio medico infallibile per i postumi delle sbornie del lunedì.

Mia sorella Margot sarà stata molto infelice in quella scuola, sebbene non ricordi che l’abbia mai detto. Si sedeva sulla sua seggiola delle elementari e se ne rimaneva lì zitta – anche durante le ore di ricreazione – senza distogliere lo sguardo da un punto indefinito finché non suonava il campanello della fine. A suo tempo non seppi mai che mentre rimaneva sola nell’aula vuota masticava la terra del giardino di casa che portava nascosta nella tasca del grembiule.

Mi era costato molto imparare a leggere. Non mi sembrava logico che la lettera m si chiamasse emme, e tuttavia con la vocale successiva non si dicesse emmea bensì ma. Mi era impossibile leggere così. Infine, quando arrivai alla Montessori la maestra non mi insegnò i nomi ma i suoni delle consonanti. Sicché riuscii a leggere il primo libro che trovai in un baule polveroso del magazzino della casa. Era scucito e incompleto, ma mi catturò in una maniera così intensa che al fidanzato di Sara sfuggì mentre passava una premonizione terrificante: «Cazzo, questo bambino diventerà uno scrittore!».

Detto da lui, che viveva dello scrivere, mi fece una grande impressione. Passarono diversi anni prima di sapere che il libro era Le mille e una notte. Il racconto che più mi piacque – uno dei più brevi e il più semplice che abbia mai letto – ha seguitato a sembrarmi il migliore per il resto della mia vita, anche se adesso non sono sicuro che fosse proprio lì che lo lessi, né qualcuno è mai riuscito a chiarirmelo. Il racconto è questo: un pescatore promette a una vicina di regalarle il primo pesce che prenderà se lei gli presta un piombo per la sua rete, e quando la donna apre il pesce per friggerlo vi trova dentro un diamante grosso come una mandorla.

Ho sempre associato la guerra del Perù con la decadenza di Cataca, perché una volta proclamata la pace mio padre si smarrì in un labirinto di incertezze che si risolse infine con il trasferimento della famiglia al suo paese natale di Sincé. Per Luis Enrique e me, che lo accompagnammo nel suo viaggio di esplorazione, fu in realtà una nuova scuola di vita, con una cultura così diversa dalla nostra che sembravano due pianeti distinti. Fin dal giorno dopo l’arrivo ci portarono negli orti vicini e lì imparammo a montare sugli asini, a mungere le mucche, a castrare vitelli, a preparare trappole per le quaglie, a pescare con l’amo e a capire perché i cani rimanevano agganciati alle loro femmine. Luis Enrique mi precedeva sempre di un bel pezzo nella scoperta del mondo che Mina ci aveva proibito, e di cui la nonna Argemira ci parlava a Sincé senza la minima malizia. Tanti zii e tante zie, tanti cugini di colori diversi, tanti parenti dai cognomi strani che parlavano in gerghi così diversi ci comunicavano all’inizio più confusione che novità, finché non la prendemmo come un altro modo di amare. Il papà di papà, don Gabriel Martínez, che era un maestro di scuola leggendario, accolse Luis Enrique e me nel suo cortile dagli alberi immensi con i manghi più famosi del paese per il loro sapore e la loro grandezza. Li contava a uno a uno tutti i giorni fin dal primo della raccolta annuale e li coglieva a uno a uno con le sue stesse mani al momento di venderli al prezzo favoloso di un centesimo ognuno. Quando ce ne andammo, dopo una chiacchierata amichevole sulla sua memoria di buon maestro, colse un mango dall’albero più frondoso e lo diede a entrambi.

Papà ci aveva vantato quel viaggio come un passo importante nell’integrazione familiare, ma fin dall’arrivo ci accorgemmo che il suo proposito segreto era di aprire una farmacia nella grande piazza principale. Mio fratello e io fummo iscritti alla scuola del maestro Luis Gabriel Mesa, dove ci sentimmo più liberi e meglio integrati in una nuova comunità. Prendemmo in affitto una casa enorme al miglior crocicchio del paese, con due piani e un balcone coperto sulla piazza, nelle cui camere da letto desolate cantava tutta la notte il fantasma invisibile di un piviere.

Tutto era pronto per lo sbarco felice della madre e delle sorelle, quando arrivò il telegramma con la notizia che il nonno Nicolás Márquez era morto. L’aveva colto un disturbo alla gola che gli fu diagnosticato come un cancro in fase terminale, ed ebbero appena il tempo di portarlo a morire a Santa Marta. L’unico di noi che vide nella sua agonia fu mio fratello Gustavo, di soli sei mesi, che qualcuno mise nel letto del nonno affinché se ne congedasse. Il nonno agonizzante gli fece una carezza di addio. Mi ci vollero molti anni per prendere coscienza di cosa significasse per me quella morte inconcepibile.

Il trasferimento a Sincé ebbe comunque luogo, non solo con i figli, ma anche con la nonna Mina e la zia Mama, già ammalata, entrambe affidate alla zia Pa. Ma la gioia della novità e il fallimento del progetto accaddero quasi al contempo, e in meno di un anno tornammo tutti alla vecchia casa di Cataca “facendo buon viso a cattivo gioco”, come diceva mia madre nelle situazioni senza rimedio. Papà se ne rimase a Barranquilla a studiare il modo per aprire la sua quarta farmacia.

Il mio ultimo ricordo della casa di Cataca in quei giorni atroci fu quello del fuoco nel cortile in cui bruciarono i vestiti di mio nonno. I suoi camiciotti da guerra e i suoi lini bianchi da colonnello in borghese assomigliavano a lui come se fosse sempre vivo lì dentro mentre ardevano. Soprattutto i molti berretti di velluto di diversi colori che erano stati il segno particolare che meglio lo distingueva a distanza. Fra questi riconobbi il mio a quadri scozzesi, buttato nel fuoco per sbaglio, e rabbrividii alla rivelazione che quella cerimonia di sterminio mi conferiva un protagonismo indubbio nella morte del nonno. Oggi ci vedo chiaro: qualcosa di me era morto con lui. Ma credo pure, senza ombra di dubbio, che in quel momento ero già uno scrittore delle elementari cui mancava solo di imparare a scrivere.

Fu quello stesso stato d’animo ad aiutarmi a rimanere vivo quando uscii con mia madre dalla casa che non ci era stato possibile vendere. Poiché il treno di ritorno poteva arrivare a qualsiasi ora, ce ne andammo alla stazione senza neppure pensare di salutare qualcuno. «Torneremo un altro giorno con più tempo» disse lei, con l’unico eufemismo che le venne in mente per dire che non sarebbe mai tornata. Quanto a me, allora io sapevo che mai più per il resto della vita avrei smesso di rimpiangere il tuono delle tre del pomeriggio.

Fummo gli unici fantasmi nella stazione, a parte l’uomo in tuta che vendeva i biglietti e faceva pure quello che ai nostri tempi richiedeva venti o trenta uomini a tempo pieno. Il caldo era di ferro. Dall’altra parte dei binari rimanevano solo i resti della città proibita della compagnia bananiera, le sue antiche dimore senza i tetti rossi, le palme vizze fra la malerba e le rovine dell’ospedale e, all’estremità del viale, l’edificio della Montessori abbandonato fra mandorli decrepiti e la piazzetta di pietrame davanti alla stazione senza la minima traccia di grandezza storica.

Ogni cosa, solo a guardarla, mi suscitava un’ansia irresistibile di scrivere per non morire. L’avevo patita altre volte, ma solo allora la riconobbi come un’estasi di ispirazione, questa parola abominevole ma così reale che travolge tutto quanto trova al suo passaggio per raggiungere in tempo le sue ceneri.

Non ricordo che avessimo parlato ancora, neppure sul treno di ritorno. Ormai sulla lancia, all’alba del lunedì, con la brezza fresca della palude addormentata, mia madre si accorse che neppure io dormivo, e mi domandò:

«A cosa pensi?»

«Sto scrivendo» le risposi. E mi affrettai a essere più gentile: «O, meglio, sto pensando a quello che scriverò quando sarò arrivato in ufficio».

«Non hai paura che tuo papà muoia dal dolore?»

Mi sottrassi con una mossa abile.

«Ha avuto così tanti motivi per morire, che questo sarà il meno mortale.»

Non era il periodo più propizio per avventurarmi in un secondo romanzo mentre ero impantanato nel primo e avevo tentato con o senza fortuna altre forme di finzione, ma quella sera io stesso me lo imposi come un impegno di guerra: scriverlo o morire. O come Rilke aveva detto: «Se crede di essere capace di vivere senza scrivere, non scriva».

Dal taxi che ci portò fino al molo delle lance, la mia vecchia città di Barranquilla mi sembrò strana e triste nelle prime luci di quel febbraio provvidenziale. Il capitano della lancia Eline Mercedes mi invitò ad accompagnare mia madre fino alla città di Sucre, dove la famiglia viveva da dieci anni. Non ci pensai neppure. Salutai mia madre con un bacio, e lei mi guardò negli occhi, mi sorrise per la prima volta dopo il pomeriggio del giorno prima e mi domandò con la sua malizia di sempre:

«Allora, cosa dico a tuo papà?»

Le risposi con il cuore in mano:

«Gli dica che gli voglio molto bene e che grazie a lui diventerò uno scrittore.» E bloccai senza compassione qualsiasi altra possibilità: «Nient’altro che uno scrittore».

Mi piaceva dirlo, certe volte per scherzo e certe altre sul serio, però mai con tanta convinzione come quel giorno. Rimasi sul molo a rispondere agli addii lenti che mi faceva mia madre dal parapetto, finché la lancia non fu scomparsa fra relitti di navi. Allora mi precipitai nell’ufficio di «El Heraldo», eccitato per l’ansia che mi rodeva le viscere, e senza quasi respirare iniziai il nuovo romanzo con la frase di mia madre: «Vengo a chiederti il favore di accompagnarmi a vendere la casa».

Il mio metodo di allora era diverso da quello che adottai in seguito da scrittore professionista. Scrivevo solo con gli indici – come continuo a fare – però non stracciavo ogni paragrafo finché non era a posto – come adesso – ma riversavo tutto quanto in forma bruta avevo dentro di me. Penso che il sistema fosse imposto dalle proporzioni della carta, che erano strisce verticali tagliate dalle bobine per la stampa, e che potevano essere anche di cinque metri. Il risultato erano certi originali lunghi e angusti come papiri che uscivano arricciolandosi dalla macchina da scrivere e si allungavano sul pavimento a mano a mano che uno scriveva. Il capo redattore non chiedeva gli articoli per cartelle, né per parole o lettere, bensì per centimetri di carta. «Un reportage di un metro e mezzo» si diceva. Rimpiansi quel formato in piena maturità, allorché mi resi conto che in pratica era uguale allo schermo del computer.

Lo slancio con cui iniziai il romanzo era così irresistibile che persi la nozione del tempo. Alle dieci del mattino dovevo aver scritto più di un metro, quando Alfonso Fuenmayor aprì d’improvviso la porta principale, e rimase di sasso con la chiave nella serratura, come se l’avesse confusa con quella del bagno. Finché non mi riconobbe.

«E lei, che cazzo ci fa qui a quest’ora!» mi disse stupito.

«Sto scrivendo il romanzo della mia vita» gli dissi.

«Un altro?» disse Alfonso con il suo umorismo impietoso. «Be’, lei ha più vite di un gatto.»

«È sempre lo stesso, ma secondo un’altra ottica» gli dissi per non dare spiegazioni inutili.

Non ci davamo del tu, per via della strana abitudine colombiana di darsi del tu fin dal primo saluto e di passare al lei solo quando c’è una maggiore confidenza – come fra marito e moglie.

Tirò fuori libri e carte dalla valigetta malconcia e li posò sopra la scrivania. Nel frattempo, ascoltò con la sua curiosità insaziabile lo scombuglio emotivo che cercai di comunicargli con il resoconto frenetico del mio viaggio. Alla fine, a mo’ di sintesi, non riuscii a evitare la mia disgrazia di ridurre a una frase irreversibile quello che non sono capace di spiegare.

«È la cosa più grande che mi sia accaduta in vita mia» gli dissi.

«Meno male che non sarà l’ultima» disse Alfonso.

Non rimase a pensarci su tanto, perché neppure lui era capace di accettare un’idea senza averla ridotta alla sua giusta grandezza. Tuttavia, lo conoscevo abbastanza per rendermi conto che forse la mia emozione del viaggio non l’aveva commosso come io speravo, ma l’aveva sicuramente incuriosito. Fu proprio così: fin dal giorno dopo cominciò a farmi ogni sorta di domande casuali ma lucidissime sullo svolgersi della scrittura, e un semplice gesto suo era sufficiente per indurmi a pensare che qualcosa doveva essere corretto.

Mentre parlavamo avevo riunito i miei fogli per lasciar libera la scrivania, perché quel mattino Alfonso doveva scrivere il primo editoriale di «Crónica». Ma la notizia che portava mi rallegrò la giornata: il primo numero, previsto per la settimana successiva, veniva rinviato una quinta volta per inadempienze nella fornitura di carta. Con un po’ di fortuna, disse Alfonso, usciremo fra tre settimane.

Pensai che quel lasso di tempo provvidenziale mi sarebbe bastato per definire l’inizio del libro, perché io ero ancora troppo inesperto per capire che i romanzi non cominciano come uno vuole ma come loro vogliono. Al punto che sei mesi dopo, quando mi credevo in dirittura d’arrivo, dovetti rifare a fondo le dieci pagine dell’inizio affinché il lettore ci credesse, e ancora oggi non mi sembrano valide. Il rinvio sarà stato un sollievo anche per Alfonso, perché invece di lagnarsene si tolse la giacca e si sedette alla scrivania per continuare a passare al vaglio la recente edizione del dizionario della Real Academia, che ci era arrivato in quei giorni. Era il suo ozio preferito dopo che aveva trovato un errore casuale in un dizionario inglese e aveva spedito la correzione documentata agli editori di Londra, forse senza altra gratificazione che fare una delle nostre battute nella lettera di accompagnamento: “Finalmente l’Inghilterra deve un favore ai colombiani”. Gli editori gli risposero con una lettera molto cortese in cui riconoscevano il loro errore e gli chiedevano di continuare a collaborare con loro. Così fu, per diversi anni, e trovò altri sbagli non solo nello stesso dizionario, ma pure in altri di diverse lingue. Quando il rapporto invecchiò, aveva ormai contratto il vizio solitario di passare al vaglio dizionari in spagnolo, inglese o francese, e se doveva fare anticamera o aspettare sugli autobus o in una qualsiasi delle tante code della vita, si intratteneva nell’impresa millimetrica di cacciare farfalloni tra le fratte della lingua.

A mezzogiorno l’afa era insopportabile. Il fumo delle sigarette di entrambi aveva rannuvolato la poca luce delle due uniche finestre, ma nessuno si prese la briga di arieggiare l’ufficio, forse per la dipendenza secondaria di continuare a fumare lo stesso fumo fino a morire. Con il caldo era diverso. Ho la fortuna congenita di poterlo ignorare fino ai trenta gradi all’ombra. Alfonso, invece, si stava togliendo la roba pezzo per pezzo a mano a mano che il caldo si addensava, senza interrompere la sua incombenza: la cravatta, la camicia, la canottiera. Con l’altro vantaggio che i vestiti rimanevano asciutti mentre lui si scioglieva in sudore, e poteva rimetterseli quando il sole fosse calato, stirati e freschi come a colazione. Sarà stato questo il segreto che gli permise di presentarsi sempre in qualsiasi posto con i suoi lini bianchi, le sue cravatte con il nodo storto e i suoi duri capelli da indio divisi in mezzo al cranio da una linea matematica. Era di nuovo così all’una del pomeriggio, quando uscì dal bagno come se si fosse appena svegliato da un sonno restauratore. Passando accanto a me, mi domandò:

«Pranziamo?»

«Niente fame, maestro» gli dissi.

La replica era formulata nel codice della tribù: se dicevo di sì era perché mi trovavo in un impiccio urgente, forse con due giorni a pane e acqua sul gobbo, e in tal caso lo seguivo senza dire nulla ed era chiaro che si sarebbe arrangiato per offrirmi il pasto. La risposta – niente fame – poteva significare qualsiasi cosa, ma era il mio modo per dirgli che non avevo problemi a pranzare. Rimanemmo d’accordo di vederci nel pomeriggio, come sempre, alla libreria Mondo.

Poco dopo mezzogiorno arrivò un uomo giovane che sembrava un artista del cinema. Biondissimo, con una pelle conciata dalle intemperie, gli occhi di un azzurro misterioso e una calda voce da armonio. Mentre parlavamo della rivista di imminente pubblicazione, tracciò sulla superficie della scrivania la sagoma di un toro selvaggio con sei linee magistrali, e lo firmò con un messaggio per Fuenmayor. Poi buttò la matita sulla scrivania e si congedò sbattendo la porta. Io ero così preso dallo scrivere, che non guardai neppure il nome sul disegno. Sicché scrissi per il resto della giornata senza mangiare né bere, e quando si spense la luce del tardo pomeriggio dovetti uscire a tentoni con il primo abbozzo del nuovo romanzo, felice e sicuro di avere finalmente trovato una strada diversa rispetto a qualcosa che scrivevo senza speranze da oltre un anno.

Solo quella sera venni a sapere che il visitatore del pomeriggio era il pittore Alejandro Obregón, appena rientrato da uno dei suoi molti viaggi in Europa. Già allora era non solo uno dei grandi pittori della Colombia, ma anche uno degli uomini più amati dai suoi amici, e aveva anticipato il suo ritorno per partecipare al lancio di «Crónica». Lo incontrai insieme ai suoi intimi in un’osteria senza nome del Callejón de la Luz, in pieno quartiere di sotto, che Alfonso Fuenmayor aveva battezzato con il titolo di un libro recente di Graham Greene: Il terzo uomo. I suoi ritorni erano sempre storici, e l’incontro di quella sera culminò con lo spettacolo di un grillo ammaestrato che obbediva come una creatura umana agli ordini del suo padrone. Si drizzava su due zampe, allargava le ali con fischi ritmici e ringraziava per gli applausi con riverenze teatrali. Alla fine, davanti al domatore inebriato dall’esplodere degli applausi, Obregón prese il grillo per le ali, con la punta delle dita, e dinanzi allo stupore di tutti se lo mise in bocca e lo masticò vivo con un diletto sensuale. Non fu facile indennizzare con ogni sorta di conforti e di regali il domatore inconsolabile. In seguito venni a sapere che non era il primo grillo che Obregón si mangiava vivo in uno spettacolo pubblico, né sarebbe stato l’ultimo.

Mai come in quei giorni mi sentii così integrato a quella città e alla mezza dozzina di amici che cominciavano a essere conosciuti negli ambienti giornalistici e intellettuali del paese come il Gruppo di Barranquilla. Erano scrittori e artisti giovani che esercitavano una certa funzione di guida nella vita culturale della città, tenuti per mano dal maestro catalano Ramón Vinyes, drammaturgo e libraio leggendario, consacrato dall’Enciclopedia Espasa fin dal 1924.

Li avevo conosciuti nel settembre dell’anno prima quand’ero arrivato da Cartagena – dove risiedevo allora – dietro raccomandazione urgente di Clemente Manuel Zabala, capo redattore del quotidiano «El Universal», per cui scrivevo i miei primi articoli. Avevamo passato una notte a parlare di tutto e ci eravamo tenuti in un contatto entusiasta e costante, scambiandoci libri e ammicchi letterari, finché non avevo cominciato a lavorare con loro. Tre del gruppo originale si distinguevano per la loro indipendenza e per il potere delle loro vocazioni: Germán Vargas, Alfonso Fuenmayor e Álvaro Cepeda Samudio. Avevamo così tante cose in comune che per cattiveria dicevano che eravamo figli di uno stesso padre, ma ci eravamo messi in vista e in certi ambienti ci amavano poco per la nostra indipendenza, le nostre vocazioni irresistibili, una determinazione creativa che si faceva strada a colpi di gomito e una timidezza che ognuno risolveva a modo suo e non sempre con successo.

Alfonso Fuenmayor era un eccellente scrittore e giornalista di ventotto anni che ebbe a lungo su «El Heraldo» una rubrica di attualità “Aria del Giorno” – con lo pseudonimo shakespeariano di “Puck”. Quanto più conoscevamo la sua disinvoltura e il suo senso dell’umorismo, tanto meno capivamo come avesse potuto leggere tutti quei libri in quattro lingue su qualsiasi argomento fosse possibile immaginare. La sua ultima esperienza di vita, a quasi cinquant’anni, fu quella di un’automobile enorme e sgangherata che guidava rischiosamente a venti chilometri all’ora. I tassisti, suoi grandi amici e lettori, lo riconoscevano a distanza e si scostavano per lasciargli la strada libera.

Germán Vargas Cantillo era un rubricista del giornale della sera «El Nacional», critico letterario competente e mordace, con una prosa così sinuosa da riuscire a convincere il lettore che le cose succedevano solo perché lui le raccontava. Fu uno dei migliori presentatori radiofonici e sicuramente il più colto in quei bei tempi di mestieri nuovi, e un esempio difficile del reporter naturale che mi sarebbe piaciuto essere. Biondo e con un’ossatura robusta, e occhi di un azzurro pericoloso, non fu mai possibile capire come ce la facesse a essere al corrente di tutto quanto era degno di essere letto. Non esitò un istante nella sua ossessione precoce di scoprire talenti letterari nascosti in angoli remoti della provincia dimenticata per esporli alla luce pubblica. Fu una fortuna che non avesse mai imparato a guidare in quella confraternita di distratti, perché avevamo paura che non avrebbe resistito alla tentazione di leggere guidando.

Álvaro Cepeda Samudio, invece, era innanzitutto un guidatore allucinato, sia di automobili sia delle lettere; buon narratore quando aveva la volontà di sedersi a scrivere; magistrale critico cinematografico, e di certo il più colto, e promotore di polemiche audaci. Sembrava uno zingaro della Palude Grande, con una pelle abbronzata e una bella testa di riccioli neri e scarruffati, e certi occhi da pazzo che non nascondevano il suo cuore facile. Le sue calzature preferite erano certi sandali di stracci dei più economici, e teneva stretto fra i denti un sigaro enorme e quasi sempre spento. Aveva fatto su «El Nacional» i suoi primi passi di giornalista, e vi aveva pubblicato i suoi primi racconti. Quell’anno si trovava a New York per finire un corso superiore di giornalismo alla Columbia University.

Un membro itinerante del gruppo, e il più distinto insieme a don Ramón, era José Félix Fuenmayor, il papà di Alfonso. Giornalista storico e narratore fra i maggiori, aveva pubblicato un libro di versi, Muse del tropico, nel 1910, e due romanzi: Cosme, nel 1927, e Una triste avventura di quattordici saggi, nel 1928. Nessuno era stato un successo di vendite, ma la critica specializzata considerò sempre José Félix uno dei migliori narratori, soffocato dalle fronde della provincia.

Non avevo mai sentito parlare di lui quando lo conobbi, un mezzogiorno in cui ci ritrovammo da soli al Japy, e subito mi abbagliò per le sue conoscenze e la semplicità della sua conversazione. Era un veterano, sopravvissuto a una brutta prigionia durante la guerra dei Mille Giorni. Non aveva la formazione di Vinyes, ma era più vicino a me per il suo modo d’essere e la sua cultura caraibica. Tuttavia, quanto più mi piaceva di lui era la sua strana capacità di trasmettere le sue conoscenze come se fosse la cosa più semplice del mondo. Era un conversatore inarrestabile e un maestro di vita, e il suo modo di pensare era diverso da tutto quello che avevo conosciuto fino ad allora. Álvaro Cepeda e io passavamo ore ad ascoltarlo, soprattutto per via del suo principio basilare secondo cui le differenze di fondo fra la vita e la letteratura erano semplici errori di forma. In seguito, non ricordo dove, Álvaro scrisse una frase indubbia: “Noi tutti proveniamo da José Félix”.

Il gruppo si era formato in modo spontaneo, quasi per forza di gravità, in virtù di un’affinità indistruttibile ma difficile da intendere a prima vista. Spesso ci domandarono com’era che essendo tanto diversi eravamo sempre d’accordo, e dovevamo improvvisare una qualche risposta per non rispondere la verità: non lo eravamo sempre, ma ne capivamo i motivi. Eravamo consapevoli che fuori dal nostro ambito avevamo un’immagine di prepotenti, narcisisti e anarchici. Soprattutto per le nostre posizioni politiche. Alfonso era visto come un liberale ortodosso, Germán come un libero pensatore controvoglia, Álvaro come un anarchico arbitrario e io come un comunista incredulo e un suicida in potenza. Tuttavia, sono convintissimo che la nostra maggior fortuna fu che anche negli impicci più estremi potevamo perdere la pazienza ma mai il senso dell’umorismo.

Le nostre poche divergenze serie le discutevamo solo fra noi, e talvolta toccavano temperature pericolose che comunque venivano dimenticate non appena ci alzavamo in piedi, o se arrivava qualche amico estraneo al gruppo. La lezione più memorabile la imparai una volta per tutte al bar I Mandorli, una sera in cui Álvaro e io, arrivato da poco, ci invischiammo in una discussione su Faulkner. Gli unici testimoni al tavolo erano Germán e Alfonso, e si tennero al margine in un silenzio di marmo che toccò estremi insopportabili. Non ricordo in quale momento, ubriaco di rabbia e di acquavite, sfidai Álvaro a risolvere la discussione a cazzotti. Entrambi facemmo come per alzarci dal tavolo e uscire in strada, quando la voce impassibile di Germán Vargas ci frenò bruscamente con una lezione valida per sempre:

«Chi si alza per primo ha già perso.»

Nessuno era allora arrivato ai trent’anni. Io, che ne avevo ventitré compiuti, ero il più giovane del gruppo, ed ero stato adottato da loro quando mi ero stabilito lì nel dicembre precedente. Ma al tavolo di Ramón Vinyes ci comportavamo tutt’e quattro da promotori e postulatori della fede, sempre insieme, parlando delle stesse cose e burlandoci di tutto, e così d’accordo nel muoverci controcorrente che avevamo finito per essere considerati come uno solo.

L’unica donna che ritenevamo parte del gruppo era Meira Delmar, che si iniziava alla passione della poesia, ma la frequentavamo solo le rare volte in cui uscivamo dalla nostra orbita di cattive abitudini. Erano memorabili le serate a casa sua con gli scrittori e gli artisti famosi che passavano per la città. Un’altra amica con meno tempo e meno occasioni di incontro era la pittrice Cecilia Porras, che ogni tanto veniva da Cartagena, e ci seguiva nei nostri peripli notturni, perché non gliene importava che le donne fossero mal viste nei caffè pieni di ubriachi e nelle case di perdizione.

Noi del gruppo ci incontravamo due volte al giorno alla libreria Mondo, che finì per trasformarsi in un centro di riunioni letterarie. Era una gora di pace in mezzo al fragore di Calle San Blas, l’arteria commerciale chiassosa e ardente in cui si riversava il centro della città alle sei del pomeriggio. Alfonso e io scrivevamo fino all’imbrunire nel nostro ufficio attiguo alla sala della redazione di «El Heraldo», da bravi alunni diligenti, lui i suoi editoriali giudiziosi e io i miei articoli squinternati. Spesso si scambiavamo idee da una macchina all’altra, ci prestavamo aggettivi, ci consultavamo a vicenda su certi dati, al punto che talvolta era difficile sapere quale paragrafo era mio o suo.

La nostra vita quotidiana fu quasi sempre prevedibile, tranne le notti del venerdì in cui eravamo preda dell’ispirazione e talvolta ci ritrovavamo davanti alla colazione del lunedì. Se l’interesse ci catturava, tutt’e quattro intraprendevamo una peregrinazione letteraria senza freni né ostacoli. Cominciava al Terzo Uomo insieme agli artigiani del quartiere e ai meccanici di un’officina, oltre che a funzionari pubblici tediati e altri che lo erano meno. Il più strano di tutti era un ladro di appartamenti che arrivava poco prima della mezzanotte con la sua personale uniforme: calzamaglia, scarpe da tennis, berretto da baseball e una valigia di strumenti leggeri. Qualcuno che lo sorprese mentre rubava a casa sua riuscì a ritrarlo e pubblicò la fotografia sui giornali per vedere se qualcuno lo identificava. L’unica cosa che ottenne furono diverse lettere di lettori indignati per la giocata sporca nei confronti dei poveri svaligiatori.

Il ladro aveva una vocazione letteraria vissuta bene, non perdeva una parola delle conversazioni su arti e libri, e sapevamo che era imbarazzato autore di poesie d’amore che declamava per la clientela quando noi non c’eravamo. Dopo la mezzanotte se ne andava a rubare nei quartieri alti, come se fosse un lavoro, e tre o quattro ore dopo ci portava in regalo qualche carabattola prelevata dal bottino. «Per le bambine» ci diceva, senza neppure domandare se ne avevamo. Quando un libro colpiva la sua attenzione ce lo portava in dono, e se ne valeva la pena lo regalavamo alla biblioteca distrettuale che dirigeva Meira Delmar.

Quelle lezioni itineranti ci avevano valso una reputazione torbida fra le buone comari che incontravamo all’uscita dalla messa delle cinque, e che cambiavano marciapiede per non incrociare ubriachi insonni. Ma il fatto è che non c’erano bisbocce più ammodo e fruttuose. Se qualcuno se ne rese subito conto questi fui io, che li accompagnavo nelle loro grida da bordello sull’opera di John Dos Passos o nei gol sprecati dal Deportivo Junior. Al punto che una delle graziose etere del Gatto Nero, stufa di tutta una notte di dispute gratuite, ci aveva gridato:

«Se voi scopaste quanto gridate, noi saremmo coperte d’oro!»

Spesso andavamo a vedere il nuovo sole in un bordello senza nome del quartiere cinese dove abitò per anni Orlando Rivera, “Figurina”, mentre dipingeva un murale che fece epoca. Non ricordo persona più bizzarra, con il suo sguardo lunatico, la sua barba da capra e la sua bontà da orfano. Fin dalle elementari gli era venuta la fissa di essere cubano, e finì per esserlo più e meglio che se lo fosse stato. Parlava, mangiava, dipingeva, si vestiva, si innamorava, ballava e viveva la sua vita come un cubano, e cubano morì senza mai essere stato a Cuba.

Non dormiva. Quando andavamo a trovarlo all’alba scendeva a balzi dalle impalcature, più pitturato lui che il murale, e bestemmiando in lingua dei mambises nei postumi della marijuana. Alfonso e io gli portavamo articoli e racconti da illustrare, e dovevamo raccontarglieli a viva voce perché non aveva la pazienza di leggerli. Faceva i disegni in un istante con tecniche da caricatura, che erano le uniche in cui credeva. Gli venivano quasi sempre bene, sebbene Germán Vargas dicesse con un sorrisetto che erano migliori quando gli venivano male.

Questa era Barranquilla, una città che non assomigliava ad altre, soprattutto da dicembre a marzo, allorché gli alisei del nord compensavano i giorni infernali con certe raffiche notturne che vorticavano nei cortili delle case e trascinavano in aria le galline. Rimanevano vivi solo gli alberghetti e le bettole per i marinai intorno al porto. Alcune cucciolette aspettavano per notti intere la clientela sempre incerta dei battelli fluviali. Una banda di ottoni suonava un valzer languido nel pioppeto, ma nessuno lo ascoltava, a causa delle grida degli autisti che discutevano di calcio fra i taxi fermi tutti insieme sul selciato del Paseo Bolívar. L’unico locale possibile era il caffè Roma, una taverna di rifugiati spagnoli che non chiudeva mai per il semplice motivo che non aveva porte. Non aveva neppure tetti, in una città con acquazzoni sacramentali, ma non si sentì mai dire che qualcuno avesse smesso di mangiare una frittata di patate o di concertare un affare per colpa della pioggia. Era una gora sotto il cielo, con tavolini rotondi dipinti di bianco e seggioline di ferro sotto fronde di acacie fiorite. Alle undici, quando chiudevano i giornali del mattino – «El Heraldo» e «La Prensa» – i redattori della notte si riunivano per mangiare. I rifugiati spagnoli erano lì fin dalle sette, dopo che avevano ascoltato a casa il radiogiornale del professor Juan José Pérez Domenech, che continuava a dare notizie sulla guerra spagnola dodici anni dopo che l’avevano persa. Una sera di fortuna, lo scrittore Eduardo Zalamea aveva buttato l’ancora lì di ritorno dalla Guajira, e si era sparato un colpo di pistola nel petto senza conseguenze gravi. Il tavolo rimase come una reliquia storica che i camerieri mostravano ai turisti senza che fosse permesso occuparlo. Anni dopo, Zalamea pubblicò la testimonianza della sua avventura in Quattro anni a bordo di me stesso, un romanzo che aprì orizzonti insospettabili per la nostra generazione.

Io ero il più derelitto della confraternita, e spesso mi rifugiai al caffè Roma per scrivere fino all’alba in un angolo discosto, perché i due lavori avevano entrambi la virtù paradossale di essere importanti e mal pagati. Lì mi sorprendeva l’alba, a leggere senza pietà, e quando mi braccava la fame mi prendevo una grossa cioccolata con un panino di buon prosciutto spagnolo e passeggiavo nelle luci dell’alba fino a certi alberi fioriti del Paseo Bolívar. Le prime settimane avevo scritto fino a molto tardi nella redazione del giornale, e avevo dormito qualche ora nella sala deserta della redazione o sopra le bobine di carta da stampa, ma con il tempo mi vidi costretto a cercare un posto meno originale.

La soluzione, come tante altre del futuro, me la fornirono gli allegri tassisti del Paseo Bolívar, in un alberghetto a un isolato dalla cattedrale, dove si dormiva soli o accompagnati per un peso e mezzo. L’edificio era molto antico ma ben tenuto, grazie alle solenni puttanelle che giravano per il Paseo Bolívar fin dalle sei del pomeriggio in cerca di amori smarriti. Il portiere si chiamava Lácides. Aveva un occhio di vetro un po’ storto e balbettava per timidezza, e lo ricordo ancora con un’immensa gratitudine fin dalla prima sera che arrivai. Buttò i soldi nel tiretto del bancone, pieno delle banconote mescolate e stropicciate della prima notte, e mi diede la chiave della stanza numero sei.

Non ero mai stato in un posto così tranquillo. Quello che più si sentiva erano i passi spenti, un mormorio incomprensibile e di tanto in tanto uno scricchiolio angoscioso di molle arrugginite. Ma né un sussurro, né un sospiro: nulla. L’unico problema era il caldo da forno che entrava dalla finestra sbarrata con paletti di legno. Però, già la prima notte lessi benissimo William Irish, fin quasi all’alba.

Era stata una dimora di antichi armatori, con colonne rivestite di alabastro e fregi di similoro, intorno a un cortile interno protetto da una vetrata pagana che irradiava un chiarore da serra. Al piano terreno c’erano gli studi notarili della città. A ognuno dei tre piani della casa originale c’erano vani di marmo, trasformati in cubicoli di cartone – uguali al mio – dove mietevano il loro raccolto le peripatetiche della zona. Un tempo quell’antro felice aveva avuto il nome di Hotel New York, e Alfonso Fuenmayor lo chiamò in seguito Il Grattacielo, in memoria dei suicidi che in quegli anni si buttavano dall’Empire State.

Comunque, l’asse delle nostre vite era la libreria Mondo, a mezzogiorno e alle sei del pomeriggio, nell’isolato più affollato di Calle San Blas. Fu Germán Vargas, amico intimo del proprietario, don Jorge Rondón, a convincerlo ad aprire quel locale che in poco tempo si trasformò nel centro di riunione di giornalisti, scrittori e politici giovani. Rondón mancava di esperienza negli affari, ma imparò in fretta, e con un entusiasmo e una generosità che lo trasformarono in un mecenate indimenticabile. Germán, Álvaro e Alfonso furono i suoi consiglieri nelle ordinazioni di libri, soprattutto quanto alle novità da Buenos Aires, i cui editori avevano cominciato a tradurre, stampare e distribuire in quantità le novità letterarie di tutto il mondo dopo la guerra mondiale. Grazie a loro potevamo leggere in tempo i libri che altrimenti non sarebbero arrivati in città. Loro stessi entusiasmavano la clientela e fecero sì che Barranquilla tornasse a essere il centro di lettura che anni prima era decaduto, quando aveva chiuso la storica libreria di don Ramón.

Non era trascorso molto tempo dal mio arrivo allorché entrai in quella confraternita che aspettava come inviati dal cielo i commessi viaggiatori delle case editrici argentine. Grazie a loro fummo ammiratori precoci di Jorge Luis Borges, di Julio Cortázar, di Felisberto Hernández e dei romanzieri inglesi e nordamericani ben tradotti dalla compagnia di Victoria Ocampo. La fucina di un ribelle, di Arturo Barea, fu il primo messaggio che infondesse speranza da una Spagna remota messa a tacere da due guerre. Uno di quei commessi, il puntuale Guillermo Dávalos, aveva la buona abitudine di unirsi alle nostre bisbocce notturne e di regalarci i campioni delle sue novità dopo aver concluso i suoi affari in città.

Il gruppo, che abitava lontano dal centro, andava di sera al caffè Roma solo per motivi concreti. Per me, invece, era la casa che non avevo. Al mattino lavoravo nella tranquilla redazione di «El Heraldo», pranzavo come potevo, quando potevo e dove potevo, ma quasi sempre invitato all’interno del gruppo da buoni amici e politici interessati. Nel pomeriggio scrivevo “La Giraffa”, il mio pezzo quotidiano, e qualsiasi altro testo d’occasione. A mezzogiorno e alle sei del pomeriggio ero il più puntuale alla libreria Mondo. L’aperitivo all’ora di pranzo, che il gruppo prese per anni al caffè Colombia, si trasferì in seguito al caffè Japy, sul marciapiede di fronte, che era il più ventilato e allegro su Calle San Blas. Lo usavamo per le visite, i lavori da sbrigare, gli affari, gli appuntamenti, e come luogo comodo per incontrarci.

Il tavolo di don Ramón al Japy aveva leggi inviolabili imposte dalla consuetudine. Era il primo ad arrivare per via del suo orario di maestro fino alle quattro del pomeriggio. Non c’era posto per più di sei a quel tavolo. Avevamo scelto dove sederci in rapporto a lui, e si considerava di cattivo gusto aggiungere altre seggiole lì dove non ci stavano. Per l’antichità e il rango della sua amicizia, Germán si sedette alla sua destra fin dal primo giorno. Si occupava lui delle sue faccende materiali. Gliele risolveva anche se non gli erano state affidate, perché il nostro saggio aveva la vocazione congenita di non immischiarsi nella vita pratica. In quei giorni, la faccenda principale era la vendita dei suoi libri alla biblioteca distrettuale, e la messa all’asta di altre cose prima che se ne tornasse a Barcellona. Più che un segretario, Germán sembrava un buon figlio.

I rapporti di don Ramón con Alfonso, invece, si basavano su problemi letterari e politici più difficili. Quanto ad Álvaro, mi sembrò sempre inibito se lo trovava da solo al tavolo e aveva bisogno della presenza di altri per cominciare a navigare. L’unico essere umano che aveva libero diritto di sedersi al tavolo era José Félix. La sera, don Ramón non andava al Japy ma al vicino caffè Roma, con i suoi amici dell’esilio spagnolo.

L’ultimo che arrivò al suo tavolo fui io, e fin dal primo giorno mi sedetti senza averne la prerogativa sulla seggiola di Álvaro Cepeda, finché questi rimase a New York. Don Ramón mi accolse come un altro discepolo perché aveva letto i miei racconti su «El Espectador». Tuttavia, non avrei mai immaginato che sarei arrivato ad avere con lui la confidenza di chiedergli in prestito il denaro per il mio viaggio ad Aracataca con mia madre. Poco dopo, per una casualità inconcepibile, ci fu la nostra prima e unica conversazione da soli quando andai al Japy più presto degli altri per restituirgli senza testimoni i sei pesos che mi aveva prestato.

«Salve, genio» mi salutò come sempre. Ma qualcosa sul mio volto lo allarmò: «È ammalato?».

«Credo di no, signore» gli dissi inquieto. «Perché?»

«La noto smagrito» disse lui «ma non mi dia retta, in questi giorni siamo tutti fotuts del cul

Ripose i sei pesos nel portafogli con un gesto reticente come se fosse stato denaro ottenuto in malo modo.

«Li accetto» mi spiegò arrossito «in ricordo di un giovanotto poverissimo che è stato capace di pagare un debito senza che ne fosse costretto.»

Non seppi cosa dire, immerso in un silenzio che sopportai come un pozzo di piombo nello schiamazzo della sala. Non mi ero mai sognato la fortuna di quell’incontro. Avevo l’impressione che nelle chiacchiere del gruppo ognuno contribuisse al disordine con il suo granello di sabbia, e che le trovate e le carenze di ognuno si confondessero con quelle degli altri, ma non mi era mai venuto in mente di poter parlare da solo delle arti e della gloria con un uomo che viveva da anni dentro un’enciclopedia. Molte volte all’alba, mentre leggevo nella solitudine della mia stanza, immaginavo i dialoghi eccitanti che avrei voluto sostenere con lui sui miei dubbi letterari, ma si scioglievano senza lasciare tracce alla luce del sole. La mia timidezza si acuiva quando Alfonso irrompeva con una delle sue idee inaudite, o Germán disapprovava un parere affrettato del maestro, o Álvaro si sgolava con un progetto che ci faceva andare fuori di testa.

Per fortuna, quel giorno al Japy fu don Ramón a prendere l’iniziativa di domandarmi come andavano le mie letture. In quel periodo io avevo letto tutto quanto ero riuscito a trovare della generazione perduta in spagnolo, con una speciale attenzione per Faulkner, che sezionavo con una cautela sanguinaria da rasoio affilato, a causa del mio strano timore che alla lunga non fosse altro che un retorico astuto. Dopo averlo detto mi fece rabbrividire il pudore che sembrasse una provocazione, e cercai di raddolcire il tutto, ma don Ramón non me ne concesse il tempo.

«Non si preoccupi, Gabito» mi rispose impassibile. «Se Faulkner fosse a Barranquilla siederebbe a questo tavolo.»

Comunque, aveva notato che Ramón Gómez de la Serna mi interessava al punto da citarlo nella “Giraffa” insieme ad altri romanzieri indiscutibili. Gli spiegai che non lo facevo per i suoi romanzi, perché a parte La villa delle rose, che mi era piaciuto molto, a interessarmi di lui erano l’audacia del suo ingegno e il suo talento verbale, ma solo come una ginnastica ritmica per imparare a scrivere. In tal senso, non ricordo un genere di prosa più intelligente delle sue famose greguerías.2 Don Ramón mi interruppe con il suo sorriso mordace:

«Per lei il pericolo è che senza accorgersene impari pure a scrivere male.»

Tuttavia, prima di chiudere l’argomento, ammise che in mezzo al suo disordine fosforescente Gómez de la Serna era un buon poeta. Le sue risposte erano così, immediate e sagge, e a stento avevo nervi sufficienti per assimilarle, offuscato dal timore che qualcuno interrompesse quell’occasione unica. Ma lui sapeva come fare. Il suo cameriere consueto gli portò la coca-cola delle undici e mezzo, e lui sembrò non accorgersene, ma la bevve a sorsetti con la cannuccia di carta senza interrompere le sue spiegazioni. La maggior parte dei clienti lo salutava ad alta voce fin dalla soglia: «Come va, don Ramón?». E lui rispondeva senza guardarli con uno svolazzo della sua mano d’artista.

Mentre parlava, don Ramón volgeva sguardi furtivi alla cartelletta di cuoio che tenevo stretta con entrambe le mani mentre lo ascoltavo. Quando ebbe finito di bere la prima coca-cola, torse la cannuccia come una vite e ordinò la seconda. Anch’io ne chiesi una sapendo benissimo che a quel tavolo ognuno pagava per sé. Alla fine mi domandò cos’era la cartelletta misteriosa cui mi aggrappavo come un naufrago.

Gli raccontai la verità: era il primo capitolo ancora da correggere del romanzo che avevo cominciato al ritorno da Cataca insieme a mia madre. Con un’audacia di cui non sarei mai più stato capace in un’alternativa di vita o di morte, posai sul tavolo la cartelletta aperta davanti a lui, come una provocazione innocente. Fissò su di me le sue pupille diafane di un azzurro pericoloso, e mi domandò un po’ stupito:

«Lei permette?»

Era scritto a macchina con innumerevoli correzioni, su strisce di carta da stampa ripiegate come il soffietto di una fisarmonica. Lui si infilò senza fretta gli occhiali per leggere, dispiegò i pezzi di carta con una maestria da professionista e li sistemò sul tavolo. Lesse senza un gesto, senza fare una piega, senza un mutamento nel respiro, con un ciuffo da cacatua mosso appena appena dal ritmo dei suoi pensieri. Quando ebbe finito due strisce complete le ripiegò in silenzio con un’arte medievale, e chiuse la cartelletta. Allora ripose gli occhiali nell’astuccio e se li infilò nella tasca sul petto.

«Si vede che è materiale ancora grezzo, com’è logico» mi disse con una grande semplicità. «Ma va bene.»

Fece qualche commento marginale sull’uso dei tempi, che era il mio problema di vita o morte, e di certo il più difficile, e aggiunse:

«Lei dev’essere consapevole che il dramma è già successo e che i personaggi sono lì solo per evocarlo, sicché si tratta di combattere con due tempi.»

Dopo una serie di precisazioni tecniche che per la mia inesperienza non riuscii a valutare, mi consigliò che la città del romanzo non si chiamasse Barranquilla, come io avevo deciso, nella prima versione, perché era un nome così condizionato dalla realtà che avrebbe lasciato al lettore pochissimo spazio per sognare. E finì con il suo tono scherzoso:

«Oppure faccia finta di niente e aspetti che le caschi dal cielo. In fin dei conti, l’Atene di Sofocle non è mai stata la stessa di Antigone.»

Ma quello che seguii sempre alla lettera fu la frase con cui quel pomeriggio si congedò da me:

«La ringrazio per la sua deferenza, e in cambio le darò un consiglio: non mostri mai a nessuno la versione provvisoria di quello che sta scrivendo.»

Fu la mia unica conversazione da solo con lui, ma valse per tutte, in quanto partì il 15 aprile 1950 per Barcellona, com’era previsto da oltre un anno, rarefatto dal vestito nero e dal cappello da magistrato. Fu come imbarcare un bambino della scuola. Era in buona salute e aveva una lucidità intatta a sessantotto anni, ma noi che l’accompagnammo all’aeroporto lo salutammo come se fosse stato una persona che tornava alla sua terra natale per assistere al suo stesso funerale.

Solo il giorno dopo, quando arrivammo al nostro tavolo del Japy, ci rendemmo conto del vuoto rimasto sulla sua seggiola, che nessuno si decise a occupare finché non si ebbe concordato che toccava a Germán. Ci volle qualche giorno perché ci abituassimo al nuovo ritmo della conversazione quotidiana, ma poi arrivò la prima lettera di don Ramón, che sembrava scritta a viva voce, con la sua calligrafia minuziosa a inchiostro viola. Così ebbe inizio una corrispondenza con tutti che passava attraverso Germán, frequente e intensa, in cui raccontava pochissimo della sua vita e molto di una Spagna che avrebbe seguitato a considerare una terra nemica finché fosse vissuto Franco e fosse perdurato il predominio spagnolo sulla Catalogna.

L’idea del settimanale era di Alfonso Fuenmayor, e molto precedente rispetto a quei giorni, ma ho l’impressione che la partenza del saggio catalano l’accelerò. Riuniti di proposito nel caffè Roma tre sere dopo, Alfonso ci informò che aveva tutto pronto per il lancio. Sarebbe stato un settimanale di venti pagine, giornalistico e letterario, il cui nome – «Crónica» – non avrebbe detto granché a nessuno. A noi sembrava un delirio che dopo quattro anni trascorsi senza ottenere fondi dove ce n’erano in abbondanza, Alfonso Fuenmayor li avesse trovati fra artigiani, meccanici, magistrati in pensione e persino osti complici che accettarono di pagare la pubblicità con rum di canna. Ma c’erano motivi per pensare che sarebbe stato bene accolto in una città che, in mezzo alle sue greggi industriali e alle sue pretese civiche, manteneva viva la devozione per i suoi poeti.

Oltre a noi sarebbero stati pochi i collaboratori regolari. L’unico professionista con una buona esperienza era Carlos Osío Noguera – il Vate Osío – un poeta e giornalista di una simpatia particolare e con un corpo enorme, funzionario del governo e censore di «El Naciona», dove aveva lavorato con Álvaro Cepeda e Germán Vargas. Un altro sarebbe stato Roberto (Bob) Prieto, uno strano erudito dell’alta classe sociale, che poteva pensare in inglese o in francese così come in spagnolo e suonare a memoria al pianoforte diverse opere di grandi maestri. Il meno comprensibile della lista che venne in mente ad Alfonso Fuenmayor fu Julio Mario Santodomingo. Lo impose senza riserve perché voleva essere un uomo diverso, ma quello che eravamo in pochi a capire era che comparisse nella lista del consiglio editoriale, quando sembrava destinato a diventare un Rockefeller latino, intelligente, colto e cordiale, ma definitivamente condannato alle brume del potere. Pochissimi sapevano, come lo sapevamo noi quattro promotori della rivista, che il sogno segreto dei suoi venticinque anni era diventare uno scrittore.

Il direttore, per diritto indiscusso, sarebbe stato Alfonso. Germán Vargas sarebbe stato innanzitutto il grande reporter con cui io speravo di condividere il lavoro, non quando ne avessi il tempo – che non abbiamo mai avuto – ma quando si fosse avverato il mio sogno di imparare a diventarlo. Álvaro Cepeda avrebbe inviato collaborazioni nei suoi momenti liberi dalla Columbia University, a New York. In fondo alla coda, nessuno era più libero e ansioso di me per essere nominato capo redattore di un settimanale indipendente e incerto, e così accadde.

Alfonso aveva da anni riserve in archivio e molto lavoro portato avanti negli ultimi sei mesi con articoli, materiali letterari, reportage magistrali e promesse di annunci commerciali da parte dei suoi amici ricchi. Il capo redattore, senza orario definito e con lo stipendio più alto di qualsiasi giornalista della mia categoria, ma subordinato ai guadagni futuri, aveva pure la preparazione per far uscire la rivista bene e in tempo. Finalmente, il sabato della settimana successiva, allorché entrai nel nostro cubicolo di «El Heraldo» alle cinque del pomeriggio, Alfonso Fuenmayor non alzò neppure lo sguardo dall’editoriale che stava finendo.

«Si dia da fare, maestro» mi disse «che la settimana prossima esce “Crónica”.»

Non mi spaventai, perché in precedenza avevo sentito quella frase già due volte. Tuttavia, la terza fu quella buona. Il maggior evento giornalistico della settimana – con un vantaggio assoluto – era stato l’arrivo del calciatore brasiliano Heleno de Freitas al Deportivo Junior, anche se non ne avremmo trattato in concorrenza con la stampa specializzata, ma come una grande notizia di interesse culturale e sociale. «Crónica» non si sarebbe lasciato catalogare in base a quel genere di distinzioni, e tanto meno essendo il caso di una realtà popolare come il calcio. La decisione fu unanime e il lavoro efficace.

Avevamo preparato così tanto materiale nell’attesa, che l’unico dell’ultimo momento fu il reportage su Heleno, scritto da Germán Vargas, maestro del genere e fanatico del calcio. Il primo numero uscì puntuale nelle edicole sabato 29 aprile 1950, giorno di santa Caterina da Siena, scrittrice di lettere celesti nella piazza più bella del mondo. «Crónica» fu stampato con una scritta mia dell’ultimo momento sotto il titolo: “Il suo miglior weekend”. Sapevamo di sfidare il purismo indigesto che predominava nella stampa colombiana di quegli anni, ma quanto volevamo dire con quella scritta non aveva un equivalente con le stesse sfumature nella lingua spagnola. In copertina c’era un disegno a inchiostro di Heleno de Freitas fatto da Alfonso Melo, l’unico ritrattista dei nostri tre disegnatori.

L’edizione, malgrado la fretta dell’ultimo momento e la mancanza di promozione, si esaurì molto prima che la redazione al gran completo arrivasse allo Stadio Municipale il giorno dopo – domenica 30 aprile – dove si giocava la straordinaria partita fra il Deportivo Junior e lo Sporting, entrambe squadre di Barranquilla. La rivista stessa era divisa perché Germán e Álvaro erano tifosi dello Sporting, mentre Alfonso e io lo eravamo dello Junior. Comunque, il solo nome di Heleno e l’eccellente reportage di Germán Vargas assecondarono l’equivoco secondo cui «Crónica» era finalmente la grande rivista sportiva che la Colombia aspettava.

Lo stadio era zeppo. A sei minuti dal primo tempo, Heleno de Freitas fece il suo primo gol in Colombia, infilato dal centro del campo. Sebbene alla fine avesse vinto lo Sporting per 3 a 2, la partita fu di Heleno, e poi di noi, per avere indovinato la copertina premonitrice. Tuttavia, non ci fu potere umano né divino capace di far intendere al pubblico che «Crónica» non era una rivista sportiva bensì un settimanale di cultura che onorava Heleno de Freitas alla stregua di una delle grandi notizie dell’anno.

Non eravamo una ghenga di novellini. Tre di noi erano abituati a trattare argomenti calcistici nelle loro colonne di interesse generale, incluso Germán Vargas, com’è naturale. Alfonso Fuenmayor era un gran appassionato del calcio e Álvaro Cepeda fu per anni corrispondente in Colombia dello «Sporting News» di Saint Louis, nel Missouri. Tuttavia, i lettori che noi desideravamo non accolsero a braccia aperte i numeri successivi, e i fanatici degli stadi ci abbandonarono senza dolore.

Cercando di rammendare lo strappo decidemmo in consiglio editoriale che io avrei scritto un reportage centrale su Sebastián Berascochea, un altro dei campioni brasiliani del Deportivo Junior, con la speranza di conciliare calcio e letteratura, come tante volte avevo cercato di fare con altre scienze occulte nella mia rubrica quotidiana. La febbre del pallone che Luis Carmelo Correa mi aveva contagiato nei campetti di Cataca mi era scesa quasi a zero. Inoltre, io ero uno dei primi fanatici del baseball caraibico, o il gioco della palla, come dicevamo in lingua vernacola. Comunque, raccolsi la sfida.

Il mio modello, naturalmente, fu il reportage di Germán Vargas. Mi allenai con altri, e mi sentii riconfortato da una lunga conversazione con Berascochea, un uomo intelligente e cortese, e con un ottimo senso dell’immagine che voleva dare al suo pubblico. Il brutto fu che lo identificai e lo descrissi come un basco esemplare, solo per via del suo cognome, senza badare al dettaglio che era un negro nerissimo della miglior stirpe africana. Fu la grande cantonata della mia vita e nel momento peggiore per la rivista. Al punto che mi identificai sino all’anima con la lettera di un lettore che mi definì un giornalista sportivo incapace di distinguere la differenza fra un pallone e un tram. Lo stesso Germán Vargas, così meticoloso nei suoi giudizi, affermò anni dopo in un libro di memorie che il reportage su Berascochea era quanto di peggio io avessi mai scritto. Credo che esagerasse, ma non troppo, perché nessuno conosceva il mestiere come lui, autore di articoli e reportage scritti in un tono così fluido che sembravano dettati a viva voce al linotipista.

Non rinunciammo al calcio o al baseball perché entrambi erano popolari sulla costa caraibica, ma aumentammo gli argomenti di attualità e le novità letterarie. Tutto fu inutile: non riuscimmo mai a superare l’equivoco secondo cui «Crónica» era una rivista sportiva, ma i fanatici dello stadio superarono invece il loro e ci abbandonarono alla nostra malasorte. Sicché continuammo a farla come ci eravamo proposti, anche se alla terza settimana rimase a fluttuare nel limbo della sua ambiguità.

Non mi scoraggiai. Il viaggio a Cataca con mia madre, la conversazione storica con don Ramón Vinyes e il mio legame viscerale con il Gruppo di Barranquilla mi avevano infuso un nuovo respiro che mi durò per sempre. Da allora in poi non mi guadagnai un solo centesimo se non con la macchina per scrivere, e questo mi sembra più meritevole di quanto si potrebbe pensare, perché i primi diritti d’autore che mi permisero di vivere dei miei racconti e dei miei romanzi me li pagarono a più di quarant’anni, dopo aver pubblicato quattro libri con introiti infimi. In precedenza la mia vita fu sempre turbata da un viluppo di trovate finte e illusioni per sottrarmi alle innumerevoli lusinghe che cercavano di trasformarmi in qualsiasi cosa che non fosse uno scrittore.

2. Le greguerías di Ramón Gómez de la Serna (1888-1963) sono brevi composizioni in prosa formate da interpretazioni o commenti ingegnosi o umoristici relativi a vari aspetti della vita quotidiana. (NdT)

3

Consumato il disastro di Aracataca, morto il nonno ed estinto quanto poteva essere rimasto dei suoi poteri incerti, noi che ne vivevamo ci ritrovammo alla mercé delle nostalgie. La casa rimase senza anima dopo che più nessuno tornò con il treno. Mina e Francisca Simodosea rimasero affidate a Elvira Carrillo, che se ne prese carico con una devozione da serva. Quando la nonna ebbe perso definitivamente la vista e la ragione i miei genitori la portarono con loro affinché avesse almeno una migliore vita per morire. La zia Francisca, vergine e martire, continuò a essere sempre la stessa, con i suoi smarrimenti insoliti e i suoi proverbi ispidi, e non volle rinunciare alle chiavi del cimitero né alla preparazione di ostie da consacrare, affermando che Dio l’avrebbe chiamata se quella fosse stata la sua volontà. Un giorno qualsiasi si sedette sulla soglia della sua camera con diversi lenzuoli immacolati e si cucì un drappo funebre su misura, e con tale maestria che la morte aspettò più di due settimane finché lei non l’ebbe terminato. Quella sera si coricò senza congedarsi da nessuno, senza malattia o dolore, e si consegnò alla morte nelle sue migliori condizioni di salute. Solo in seguito si accorsero che la notte prima aveva compilato i documenti relativi al suo decesso e sbrigato le incombenze per il suo funerale. Elvira Carrillo, che di sua volontà non aveva conosciuto uomo neppure lei, rimase sola nella solitudine immensa della casa. A mezzanotte la svegliava lo sgomento della tosse eterna nelle camere da letto vicine, ma non gliene importò mai, perché era abituata a spartire anche le angosce della vita sovrannaturale.

Al contrario, il suo fratello gemello Esteban Carrillo rimase lucido e dinamico fino a vecchiaia avanzata. Una volta che facevo colazione con lui ricordai con tutti i particolari visivi che suo padre avevano tentato di buttarlo giù dal parapetto della lancia di Ciénaga, sollevato sulle spalle della folla e malmenato come Sancho Panza dai mulattieri. Allora Papalelo era morto, e raccontai il ricordo allo zio Esteban perché mi sembrò divertente. Ma lui si alzò d’un balzo, furibondo che non l’avessi raccontato a nessuno quand’era accaduto, e ansioso che riuscissi a identificare nella memoria l’uomo che conversava con il nonno in quell’occasione, affinché gli dicesse chi era che aveva tentato di annegarlo. Non capiva neppure che Papalelo non si fosse difeso, se era il buon tiratore che durante due guerre civili era stato molte volte sulla linea di fuoco, che dormiva con la pistola sotto il guanciale, e che ormai in tempo di pace aveva ucciso un nemico in duello. Comunque, mi disse Esteban, non sarebbe mai stato troppo tardi perché lui e i suoi fratelli lavassero l’onta. Era la legge guajira: l’offesa a un membro della famiglia dovevano pagarla tutti i maschi della famiglia dell’aggressore. Mio zio Esteban era così deciso, che si sfilò la pistola dalla cintura e la posò sul tavolo per non perdere tempo mentre finiva di interrogarmi. Da quel momento, ogni volta che ci incontravamo nelle nostre erranze gli tornava l’illusione che me ne fossi ricordato. Una sera si presentò nel mio cubicolo del giornale, nel periodo in cui io stavo passando al vaglio il passato della famiglia per un primo romanzo che non avrei finito, e mi propose di svolgere insieme un’indagine sull’attentato. Non si arrese mai. L’ultima volta che lo vidi a Cartagena de Indias, ormai vecchio e con il cuore screpolato, mi congedò con un sorriso triste:

«Non so come hai potuto diventare uno scrittore con una memoria così cattiva.»

Quando non ci fu più nulla da fare ad Aracataca, mio padre ci portò a vivere di nuovo a Barranquilla, per aprirvi un’altra farmacia senza un centesimo di capitale, ma con un buon credito da parte dei grossisti che erano stati suoi soci in affari precedenti. Non era la quinta farmacia, come dicevamo in famiglia, bensì sempre la stessa che trasferivamo da una città all’altra secondo l’intuito commerciale di papà: due volte a Barranquilla, due a ad Aracataca e una a Sincé. Tutte le volte aveva avuto facilitazioni precarie e debiti rimediabili. La famiglia senza nonni né zii né domestici si ridusse allora ai genitori e a noi figli, che eravamo già sei – tre maschi e tre femmine – in nove anni di matrimonio.

Mi sentii molto inquieto davanti a questa novità nella mia vita. Ero stato a Barranquilla più volte a trovare i miei genitori, da bambino e sempre di passaggio, e i miei ricordi di allora sono molto frammentari. La prima visita ebbe luogo a tre anni, quando mi portarono lì per la nascita di mia sorella Margot. Ricordo il lezzo di fango del porto all’alba, la vettura tirata da un cavallo il cui cocchiere allontanava con la sua frusta i facchini che cercavano di salire a cassetta nelle vie abbandonate e polverose. Ricordo le pareti ocra e il legno verde di porte e finestre del reparto della maternità dove nacque la bambina, e la densa aria di medicina che si respirava nella stanza. La neonata era in un letto di ferro molto semplice in fondo a una camera desolata, con una donna che certo era mia madre, e di cui riesco a ricordare solo una presenza senza volto che mi tese una mano languida, e sospirò:

«Non ti ricordi più di me.»

Nient’altro. La prima immagine concreta che ho di lei è di parecchi anni dopo, nitida e indubbia, ma non sono riuscito a collocarla nel tempo. Sarà stato durante qualche visita che fece ad Aracataca dopo la nascita di Aida Rosa, la mia seconda sorella. Io ero nel cortile, a giocare con un agnello neonato che Santos Villero mi aveva portato in braccio da Fonseca, quando arrivò di corsa la zia Mama e mi avvertì con un grido di sgomento:

«È arrivata tua mamma!»

Mi portò quasi trascinandomi fin nel salotto, dove tutte le donne della casa e alcune vicine erano sedute come a una veglia funebre su seggiole allineate contro le pareti. La conversazione si interruppe alla mia entrata improvvisa. Rimasi pietrificato sulla soglia, senza capire quale fra tutte fosse mia madre, finché lei non mi aprì le braccia con la voce più affettuosa di cui abbia memoria:

«Ma sei già un uomo!»

Aveva un bel naso romano, ed era dignitosa e pallida, e più distinta che mai tanto era ligia alla moda dell’anno: vestito di seta color avorio con la vita all’altezza dei fianchi, collana di perle a più giri, scarpe argentate con la fibbia e il tacco alto, e un cappello di paglia fine a forma di campana come quelli nei film muti. Il suo abbraccio mi avvolse in quel suo odore che le sentii sempre, e una raffica di colpa mi fece rabbrividire in corpo e anima, perché sapevo che il mio dovere era volerle bene ma mi accorsi che non era vero.

Invece, il ricordo più antico che ho di mio padre è fededegno e nitido del 1º dicembre 1934, giorno in cui compì trentatré anni. Lo vidi entrare a lunghi passi rapidi e allegri nella casa dei nonni a Cataca, con un abito completo di lino bianco e la paglietta. Qualcuno che lo accolse con un abbraccio gli domandò quanti anni compiva. La sua risposta non la dimenticai mai perché sul momento non la capii:

«L’età di Cristo.»

Mi sono sempre domandato perché quel ricordo mi sembri così antico, se è certo che allora dovevo essere stato con mio padre già molte volte.

Non avevamo mai vissuto in una stessa casa, ma dopo la nascita di Margot i nonni avevano preso l’abitudine di portarmi a Barranquilla, sicché quando nacque Aida Rosa ero già meno estraneo. Credo che fu una casa felice. Lì aprirono una farmacia, e in seguito ne aprirono un’altra nel centro commerciale. Rivedemmo la nonna Argemira – mamma Gime – e due suoi figli, Julio ed Ena, che era bellissima, ma famosa in famiglia per la sua malasorte. Morì a venticinque anni, non si sa perché, e si dice ancora che fu in seguito al maleficio di un innamorato respinto. A mano a mano che crescevamo, mamma Gime mi sembrava sempre più simpatica e sboccata.

In quello stesso periodo i miei genitori mi causarono un danno emotivo che mi lasciò una cicatrice difficile da scordare. Fu un giorno in cui mia madre venne investita da una raffica di nostalgia e si sedette al pianoforte a suonare Cuando el baile se acabó, il valzer storico dei suoi amori segreti, e a papà venne in mente la malizia romantica di spolverare il violino per accompagnarla, anche se allo strumento mancava una corda. Lei seguì con facilità il suo stile da alba romantica, e suonò meglio che mai, finché non lo guardò compiaciuta da sopra la spalla e si accorse che lui aveva gli occhi umidi di lacrime. «Chi stai ricordando?» gli domandò mia madre con un’innocenza feroce. «La prima volta che l’abbiamo suonato insieme» rispose lui, ispirato dal valzer. Allora mia madre diede un colpo di rabbia con entrambi i pugni sulla tastiera.

«Non è stato con me, gesuita!» gridò a pieni polmoni. «Tu sai benissimo con chi l’hai suonato e stai piangendo per lei.»

Non disse il nome, né allora né mai, ma il grido pietrificò di panico tutti noi in diversi punti della casa. Luis Enrique e io, che avevamo sempre avuto motivi occulti per temere, ci nascondemmo sotto i letti. Aida fuggì nella casa vicina e Margot contrasse una febbre improvvisa che la tenne nel delirio per tre giorni. Anche i fratelli minori erano abituati a quelle esplosioni di gelosia di mia madre, con gli occhi in fiamme e il naso romano affilato come un coltello. L’avevamo vista staccare con rara serenità i quadri del salotto e sfasciarli l’uno dopo l’altro contro il pavimento in una strepitosa grandinata di vetro. L’avevamo sorpresa ad annusare i vestiti di papà indumento per indumento prima di buttarli in una cesta per la roba da lavare. Nulla di più accadde dopo la sera del duetto tragico, ma l’accordatore fiorentino si portò via il pianoforte per venderlo, e il violino – insieme alla pistola – finì a marcire nell’armadio.

Barranquilla era allora una testa avanzata del progresso civile, del liberalismo docile e della convivenza politica. Fattori decisivi per la sua crescita e la sua prosperità furono il lasso di oltre un secolo di guerre civili che avevano devastato il paese dopo l’indipendenza dalla Spagna, e in seguito la rovina della Zona bananiera ferita a morte dalla repressione feroce che le si accanì contro dopo il grande sciopero.

Tuttavia, fino ad allora nulla aveva la meglio sullo spirito intraprendente degli abitanti. Nel 1919, il giovane industriale Mario Santodomingo – il padre di Julio Mario – si era guadagnato la gloria civica di inaugurare la posta aerea nazionale con cinquantasette lettere in un sacco di tela che gettò sulla spiaggia di Puerto Colombia, a cinque leghe da Barranquilla, da un aereo elementare pilotato dallo statunitense William Knox Martin. Alla fine della Prima guerra mondiale arrivò un gruppo di aviatori tedeschi – fra questi Helmuth von Krohn – che definirono le rotte aeree con Junkers F-13, i primi anfibi che percorrevano il fiume Magdalena come saltabecche provvidenziali con sei passeggeri intrepidi e i sacchi della posta. Questo fu l’embrione della Società Colombiana-Tedesca dei Trasporti Aerei – SCADTA – una delle più antiche del mondo.

Il nostro ultimo trasferimento a Barranquilla non fu per me un semplice cambio di città e di casa, bensì un cambio di papà a undici anni. Quello nuovo era un uomo grande, ma con un senso dell’autorità paterna molto diverso da quello che aveva reso felici Margarita e me nella casa dei nonni. Abituati a essere padroni e signori di noi stessi, ci costò molta fatica adattarci a un regime altrui. Per il suo verso più ammirevole e commovente, papà fu un autodidatta assoluto, e il lettore più vorace che io abbia mai conosciuto, ma anche il meno sistematico. Dopo avere interrotto il corso di medicina si dedicò a studiare da solo l’omeopatia, che a quei tempi non richiedeva una formazione accademica, e ottenne il diploma ad honorem. Però non aveva la tempra di mia madre nell’affrontare le crisi. Le peggiori le passò nell’amaca della sua camera a leggere qualsiasi pezzo di carta stampata gli finisse tra le mani e a risolvere parole incrociate. Ma il suo problema con la realtà era insolubile. Aveva una devozione quasi mitica per i ricchi, ma non per quelli inspiegabili bensì per quanti si erano fatti i soldi a forza di talento e di rettitudine. Sveglio nella sua amaca anche in pieno giorno, accumulava fortune colossali nell’immaginazione con imprese così facili che non capiva come mai non gli fossero venute in mente prima. Gli piaceva citare a mo’ di esempio la ricchezza più strana di cui avesse avuto notizia nel Darién: duecento leghe di scrofe in processione. Però, quelle fortune insolite non le si trovava nei luoghi dove vivevamo noi, bensì in paradisi sperduti di cui aveva sentito parlare nelle sue erranze di telegrafista. La sua irrealtà fatale ci tenne sempre in bilico tra infortuni e recidive, ma anche con lunghi periodi in cui non ci caddero dal cielo neppure le briciole del pane quotidiano. Comunque, sia in quelli buoni sia in quelli cattivi, i nostri genitori ci insegnarono a festeggiare gli uni o a sopportare gli altri con una sottomissione e una dignità da cattolici di vecchio stampo.

L’unica prova che mi mancava era viaggiare da solo con mio papà, e l’affrontai tutta quando mi portò a Barranquilla affinché lo aiutassi ad aprire la farmacia e a preparare lo sbarco della famiglia. Mi stupì che da soli mi trattasse come una persona grande, con amore e rispetto, al punto da affidarmi incombenze che non sembravano facili per la mia età, ma le feci bene e con piacere, anche se lui non era sempre d’accordo. Aveva l’abitudine di raccontarci storie dell’infanzia nel suo paese natale, ma le ripeteva un anno dopo l’altro ai più piccoli, sicché a poco a poco perdevano attrattiva per quanti le conoscevano già. Alla fine noi più grandi ci alzavamo appena cominciava a raccontarle a tavola dopo i pasti. Luis Enrique, in uno dei suoi slanci di franchezza, lo offese quando disse mentre si allontanava:

«Avvertitemi quando il nonno morirà di nuovo.»

Quelle uscite così spontanee esasperavano mio padre e si assommavano ai motivi che stava già cumulando per mandare Luis Enrique al collegio di Medellín. Ma con me a Barranquilla divenne un altro. Archiviò il repertorio di aneddoti popolari e mi raccontava episodi interessanti della sua vita difficile con la madre, della taccagneria leggendaria del padre e delle sue difficoltà nello studiare. Quei ricordi mi permisero di sopportare meglio alcuni dei suoi capricci e di capire alcune delle sue incomprensioni.

In quell’epoca parlammo di libri letti e da leggere, e sulle bancarelle lebbrose del mercato pubblico facemmo una buona provvista di fumetti di Tarzan e di vari detective e di fantascienza. Ma fui pure sul punto di essere vittima del suo senso pratico, soprattutto allorché decise che avremmo fatto un solo pasto al giorno. La nostra prima contrarietà ci fu quando mi sorprese a riempire con gassose e pagnottelle dolci i vuoti dell’imbrunire sette ore dopo il pranzo, e non seppi dirgli dove avevo trovato i soldi per comprarle. Non mi azzardai a confessargli che mia madre mi aveva dato qualche moneta di nascosto prevedendo il regime trappista che lui imponeva durante i suoi viaggi. Quella complicità con mia madre si protrasse finché lei dispose di sue risorse. Quando frequentai da interno le scuole medie mi metteva nel bagaglio cose diverse per la toeletta personale, e una fortuna di dieci pesos in una scatola di saponette Reuter con l’illusione che l’avrei aperta in qualche momento arduo. Così fu, perché mentre studiavamo lontano da casa qualsiasi momento era quello ideale per trovare dieci pesos.

Papà si arrangiava per non lasciarmi solo di notte nella farmacia di Barranquilla, ma le sue soluzioni non erano sempre le più divertenti per i miei dodici anni. Le visite serali alle famiglie amiche mi sfiancavano, perché quelle che avevano figli della mia età li costringevano ad andare a letto alle otto e mi lasciavano tormentato dalla noia e dal sonno nell’isolamento delle chiacchiere di società. Una sera devo essermi addormentato durante la visita alla famiglia di un medico amico e non seppi come né a che ora mi svegliai camminando lungo una via sconosciuta. Non avevo la minima idea di dove mi trovavo, né come fossi arrivato fin lì, e lo si poté spiegare solo come un atto di sonnambulismo. Non c’erano precedenti familiari né finora si è mai ripetuto, ma quella continua a essere l’unica spiegazione possibile. La prima cosa che mi colpì al risveglio fu la vetrina di un negozio da barbiere con specchi radiosi dove servivano tre o quattro clienti sotto un orologio che segnava le otto e dieci, un’ora impensabile perché un bambino della mia età fosse da solo per la strada. Stordito dallo spavento, confusi i nomi della famiglia dov’eravamo in visita e ricordavo male l’indirizzo della casa, ma alcuni passanti se la sbrogliarono per portarmi fino all’indirizzo giusto. Trovai il vicinato in preda al panico per ogni sorta di congetture sulla mia scomparsa. Di me sapevano solo che mi ero alzato dalla seggiola nel bel mezzo della conversazione e avevano pensato che dovessi andare in bagno. La spiegazione del sonnambulismo non convinse nessuno, e tanto meno mio padre, che la prese come una mia monelleria finita male.

Per fortuna riuscii a riabilitarmi qualche giorno dopo in un’altra casa dove mi aveva lasciato una sera mentre lui partecipava a una cena d’affari. La famiglia al gran completo badava solo a un concorso popolare a base di indovinelli dell’emittente Atlantico, che quella volta sembrava insolubile: “Qual è l’animale che rovesciato cambia nome?”. Per uno strano miracolo io avevo letto la risposta quella stessa sera sull’ultima edizione dell’Almanacco Bristol e mi era sembrata una brutta battuta: l’unico animale che cambia nome è l’escarabajo, perché rovesciandosi si trasforma in escararriba.3 Lo dissi in segreto a una delle bambine della casa, e la più grande si precipitò al telefono e diede la risposta all’emittente Atlantico. Vinse il primo premio, che sarebbe bastato per pagare tre mesi di affitto della casa: cento pesos. Il salotto si riempì di vicini strepitanti che avevano ascoltato il programma ed erano accorsi a congratularsi con le vincitrici, ma quanto interessava alla famiglia, più che il denaro, era la vittoria in se stessa a un concorso che fece epoca alla radio della costa caraibica. Nessuno si ricordò che io ero lì. Quando papà tornò a prendermi si unì al giubilo familiare, e brindò alla vittoria, ma nessuno gli raccontò chi era stato il vero vincitore.

Un’altra conquista di quell’epoca fu il permesso che mio padre mi diede per andare da solo allo spettacolo pomeridiano domenicale al teatro Colombia. Per la prima volta proiettavano film a puntate con un episodio ogni domenica, e si creava una tensione che non concedeva un istante di requie durante la settimana. L’invasione di Mongo fu la prima epopea interplanetaria che nel mio cuore sostituii molti anni dopo solo con 2001: Odissea nello spazio, di Stanley Kubrick. Tuttavia, il cinema argentino, con i film di Carlos Gardel e di Libertad Lamarque, finì per spiazzare tutti gli altri.

In meno di due mesi sistemammo la farmacia e trovammo e ammobiliammo una casa per la famiglia. La prima era a un incrocio molto frequentato nel pieno centro commerciale e a soli quattro isolati dal Paseo Bolívar. La casa, al contrario, era in una via marginale del degradato e allegro quartiere di sotto, ma il prezzo dell’affitto non corrispondeva a quello che era bensì a quello che voleva essere: una villa gotica dipinta a calce di giallo e rosso, e con due torri da difesa.

Lo stesso giorno in cui ci consegnarono il locale della farmacia appendemmo le amache ai ganci del retrobottega e lì dormivamo a fuoco lento in una zuppa di sudore. Quando occupammo la casa scoprimmo che non c’erano ganci per le amache, ma stendemmo i materassi per terra e dormimmo il meglio possibile non appena ci ebbero prestato un gatto per allontanare i topi. Quando arrivò mia madre con il resto della truppa, il mobilio era ancora incompleto e non c’erano utensili in cucina né molte altre cose per vivere.

Malgrado le sue pretese artistiche, la casa era ordinaria e appena sufficiente per noi, con salotto, sala da pranzo, due camere da letto e un piccolo cortile acciottolato. A rigore non doveva valere un terzo dell’affitto che pagavamo. Mia madre si spaventò al vederla, ma il marito la tranquillizzò con l’illusione di un avvenire dorato. Furono sempre così. Era impossibile concepire due creature tanto diverse che si capissero così bene e si amassero come loro.

L’aspetto di mia madre mi colpì. Era incinta per la settima volta, e mi sembrò che le sue palpebre e le sue caviglie fossero gonfie come la sua vita. Allora aveva trentatré anni ed era la quinta casa che ammobiliava. Mi colpì il suo brutto stato d’animo, che si aggravò fin dalla prima notte, atterrita dall’idea che lei stessa aveva inventato, senza fondamenti, che lì avesse vissuto la Donna X prima che l’accoltellassero. Il delitto era stato commesso sette anni prima, dove avevano vissuto in precedenza i miei genitori, ed era stato così terrificante che mia madre si era proposta di non vivere mai più a Barranquilla. Forse se n’era dimenticata quando vi tornò quella volta, ma d’improvviso le venne di nuovo in mente fin dalla prima notte in una casa cupa in cui aveva subito trovato una certa aria da castello di Dracula.

La prima notizia sulla Donna X era stata il rinvenimento del corpo nudo e irriconoscibile per via dello stato di decomposizione. A stento si era potuto stabilire che era una donna di non ancora trent’anni, con capelli neri e bei lineamenti. Si credette che l’avessero sepolta viva perché aveva la mano sinistra sopra gli occhi in un gesto di terrore, e il braccio destro alzato sopra la testa. L’unica pista possibile sulla sua identità erano due nastri azzurri e un pettine ornamentale infilato in quella che poteva essere stata una pettinatura a trecce. Fra le molte ipotesi, a sembrare più probabile fu quella di una ballerina francese dalla vita facile che era scomparsa nell’approssimativa data del delitto.

Barranquilla aveva giusta fama di essere la città più ospitale e pacifica del paese, ma con la disgrazia di un delitto atroce all’anno. Tuttavia, non c’era un precedente che avesse fatto rabbrividire tanto e per così tanto tempo l’opinione pubblica come quello dell’accoltellata senza nome. Il giornale «La Prensa», uno dei più importanti del paese a quei tempi, si riteneva il pioniere dei fumetti domenicali – Buck Rogers, Tarzan delle Scimmie – ma fin dai suoi primi anni si era imposto come uno dei grandi precursori della cronaca nera. Per diversi mesi tenne la città con il fiato sospeso pubblicando grandi titoli e rivelazioni sorprendenti che resero famoso nel paese, con ragione o meno, il dimenticato cronista.

Le autorità cercavano di non divulgare le loro informazioni asserendo che avrebbero ostacolato le indagini, ma i lettori finirono per credere meno a queste ultime che alle rivelazioni di «La Prensa». Il confronto li tenne con l’anima sospesa a un filo per diversi giorni, e almeno una volta costrinse gli investigatori a cambiare rotta. L’immagine della Donna X si era allora introdotta con tale forza nell’immaginazione popolare, che in molte case le porte venivano chiuse con il catenaccio e si faceva una vigilanza notturna speciale, qualora l’assassino a piede libero avesse cercato di portare avanti il suo programma di delitti atroci, e si dispose che le adolescenti non uscissero sole di casa dopo le sei del pomeriggio.

La verità, però, non la scoprì nessuno, ma fu rivelata qualche tempo dopo dallo stesso artefice del delitto, Efraín Duncan, che confessò di avere ucciso la moglie, Ángela Hoyos, nella data calcolata dalla Medicina Legale, e di averla sepolta nel luogo dove avevano trovato il cadavere accoltellato. I familiari riconobbero i nastri color azzurro e il pettine che Ángela portava quand’era uscita di casa con il marito il 5 aprile per un presunto viaggio a Calamar. Il caso fu chiuso senza ulteriori dubbi grazie a una fatalità ultima e inconcepibile che sembrava tratta da qualche romanzo fantastico: Ángela aveva una sorella gemella precisa identica che permise di identificarla senza esitazioni.

Il mito della Donna X si affievolì, trasformato in un delitto passionale come tanti altri, ma il mistero della sorella precisa identica rimase a fluttuare nelle case, perché si arrivò a pensare che fosse la stessa Donna X restituita alla vita per arti di stregoneria. Le porte venivano chiuse con il paletto e bloccate da mobili per impedire che di notte entrasse l’assassino fuggito dal carcere grazie a espedienti magici. Nei quartieri dei ricchi divennero di moda i cani da caccia addestrati contro assassini capaci di attraversare pareti. In realtà, mia madre non riuscì a superare la paura finché i vicini non la convinsero che la casa del quartiere di sotto non era stata costruita ai tempi della Donna X.

Il 10 luglio 1939 mia madre diede alla luce una bambina con un bel profilo da india, che battezzarono con il nome di Rita per la devozione inesauribile che si nutriva in casa per santa Rita da Cascia, fondata, fra molte altre grazie, sulla pazienza con cui aveva sopportato il brutto carattere del marito dissipato. Mia madre ci raccontava che questi era rincasato una notte, reso folle dall’alcol, un minuto dopo che una gallina aveva fatto una cagata sul tavolo della sala da pranzo. Non avendo il tempo per ripulire la tovaglia immacolata, la moglie era riuscita a metterci sopra un piatto per evitare che il marito vedesse, e si era affrettata a distrarlo con la domanda di rigore:

«Cosa vuoi mangiare?»

L’uomo se n’era uscito con un grugnito:

«Merda.»

Allora la moglie aveva alzato il piatto e gli aveva detto con la sua santa dolcezza:

«Eccola pronta.»

La storia dice che lo stesso marito si era convinto della santità della moglie e si era convertito alla fede di Cristo.

La nuova farmacia di Barranquilla fu un fallimento spettacolare, attenuato appena dalla rapidità con cui mio padre lo intuì. Dopo diversi mesi che si difendeva alla meno peggio, aprendo due buchi per tapparne uno, si rivelò più errabondo di quanto fosse sembrato fino ad allora. Un giorno fece i suoi bagagli e se ne andò in cerca di fortune annidate nei villaggi meno immaginabili del fiume Magdalena. Prima di andarsene mi portò dai suoi soci e amici e comunicò loro con una certa solennità che in mancanza di lui ci sarei stato io. Non seppi mai se l’avesse detto per scherzo, come gli piaceva fare anche in circostanze gravi, o se l’avesse detto sul serio, come lo divertiva dire in circostanze banali. Suppongo che ognuno l’avesse inteso come voleva, perché a dodici anni io ero rachitico e pallido e buono solo a disegnare e a cantare. La donna che ci vendeva il latte disse a mia madre davanti a tutti, e a me, senza un pizzico di cattiveria:

«Mi scusi se glielo dico, signora, ma credo che questo bambino non crescerà.»

Lo spavento mi lasciò a lungo in attesa di una morte repentina, e sognavo spesso che guardandomi nello specchio non vedevo me stesso bensì un vitello da macellare. Il medico della scuola mi diagnosticò paludismo, tonsillite e bile nera per l’abuso di letture male indirizzate. Non tentai di rassicurare nessuno. Al contrario, esageravo la mia condizione di invalido per evitare i miei doveri. Tuttavia, mio padre ignorò olimpicamente la scienza e prima di andarsene mi proclamò responsabile di casa e famiglia durante la sua assenza:

«Come se fosse me stesso.»

Il giorno della partenza ci riunì in salotto, distribuì istruzioni e reprimende preventive per quanto di male avremmo potuto fare in sua assenza, ma ci accorgemmo che erano espedienti per non piangere. Ci diede una moneta da cinque centesimi a testa, che era una piccola fortuna per qualsiasi bambino di allora, e ci promise di cambiarcela con due uguali se l’avessimo avuta intatta al suo ritorno. Infine si rivolse a me con un tono evangelico:

«Fra le tue mani li lascio, fra le tue mani vorrò ritrovarli.»

Mi si spezzò il cuore nel vederlo uscire da casa con gli stivali da cavallerizzo e le bisacce in spalla, e fui il primo ad arrendersi alle lacrime quando ci guardò per un’ultima volta prima di svoltare all’angolo e ci salutò con la mano. Solo allora, e per sempre, mi resi conto di quanto lo amavo.

Non fu difficile osservare la sua consegna. Mia madre cominciava ad abituarsi a quelle solitudini intempestive e incerte e le subiva a malincuore ma con una grande facilità. La cucina e l’ordine della casa richiesero che persino i più piccoli aiutassero nei lavori domestici, e lo fecero bene. In quel periodo ebbi la mia prima consapevolezza da adulto quando mi accorsi che i miei fratelli avevano cominciato a trattarmi come uno zio.

Non riuscii mai a dominare la timidezza. Quando dovetti affrontare in carne viva l’incarico lasciatomi dal padre errante, imparai che la timidezza è un fantasma invincibile. Ogni volta che dovevo chiedere un credito, anche quelli precedentemente concordati in botteghe di amici, indugiavo per ore girando intorno alla casa, reprimendo la voglia di piangere e le fitte al ventre, finché non riuscivo infine a farmi sotto con le mascelle così serrate che non mi usciva la voce. Non mancava qualche bottegaio senza cuore che finiva per confondermi del tutto: «Stupido bambino, non si può parlare a bocca chiusa». Più di una volta tornai a casa con le mani vuote e una scusa inventata da me. Ma non fui mai disgraziato come la prima volta che volli parlare per telefono nella bottega all’angolo. Il padrone mi aiutò con la centralinista, perché non esisteva ancora il servizio automatico. Sentii il soffio della morte quando mi passò la cornetta. Mi aspettavo una voce servizievole e quanto sentii fu il latrato di qualcuno che parlava nel buio contemporaneamente a me. Pensai che neppure il mio interlocutore mi capisse e alzai la voce il più possibile. L’altro, infuriato, alzò pure la sua:

«E tu, perché cazzo gridi?»

Riappesi atterrito. Devo ammettere che malgrado la mia febbre di comunicazione non ho ancora represso il timore del telefono e dell’aereo, e non so se mi viene da quei giorni. Come potevo combinare qualcosa? Per fortuna, la mamma mi ripeteva spesso la risposta: «Bisogna soffrire per servire».

La prima notizia di papà ci arrivò due settimane dopo in una lettera destinata più a intrattenerci che a darci qualche informazione. Mia madre la prese così e quel giorno lavò i piatti cantando per alzarci il morale. Senza mio papà era diversa: si identificava con le figlie come se fosse stata una sorella maggiore. Si adattava così bene a loro che era la migliore nei giochi infantili, anche con le bambole, e arrivava a uscire dai gangheri e a bisticciare con loro da pari a pari. Simili alla prima, arrivarono altre due lettere di mio papà con progetti talmente allettanti che ci aiutarono a dormire meglio.

Un problema grave era la rapidità con cui rimanevamo senza vestiti. Luis Enrique non ne lasciava in eredità a nessuno, né sarebbe stato possibile perché rincasava malconcio e con gli indumenti a pezzi, e non capimmo mai perché. Mia madre diceva che era come se avesse camminato fra recinti di filo spinato. Le sorelle – fra i sette e i nove anni – si arrangiavano fra di loro come potevano con prodigi di ingegno, e ho sempre creduto che le urgenze di quei giorni le avessero rese prematuramente adulte. Aida era inventiva e Margot aveva in gran parte superato la sua timidezza e si mostrò affettuosa e servizievole con la più giovane. Il più difficile fui io, non solo perché dovevo svolgere incombenze importanti, ma anche perché mia madre, protetta dall’entusiasmo di tutti, si addossò il rischio di assottigliare i fondi domestici per iscrivermi alla scuola Cartagena de Indias, a una decina di isolati a piedi da casa.

Secondo la lettera convocatoria, fummo circa venti aspiranti a presentarci alle otto del mattino per la prova di ammissione. Per fortuna non era un esame scritto, ma c’erano tre maestri che ci chiamavano nell’ordine in cui ci eravamo iscritti la settimana prima, e facevano un esame sommario in base ai nostri certificati di studio precedenti. Io ero l’unico a non averne, per mancanza di tempo nel richiederli alla Montessori e alla scuola elementare di Aracataca, e mia madre pensava che non sarei stato ammesso senza documenti. Ma decisi di fare l’indiano. Uno dei maestri mi fece uscire dalla fila quando gli confessai che non li avevo, ma un altro si prese cura della mia sorte e mi portò nel suo ufficio per esaminarmi senza requisiti previi. Mi domandò che quantità era una grossa, quanti anni erano un lustro e un millennio, mi fece ripetere i capoluoghi dei distretti, i principali fiumi nazionali e i paesi confinanti. Tutto mi sembrò normale finché non mi domandò che libri avevo letto. Lo colpì il fatto che ne citassi così tanti e così diversi alla mia età. E che avessi letto Le mille e una notte, in un’edizione per adulti in cui non erano stati soppressi alcuni degli episodi scabrosi che indignavano padre Angarita. Mi stupì venire a sapere che era un libro importante, perché avevo sempre pensato che gli adulti seri non potevano credere che uscissero geni dalle bottiglie o che le porte si aprissero pronunciando certe parole. Gli aspiranti che erano passati prima di me non ci avevano messo più di un quarto d’ora a testa, ammessi o respinti, e io rimasi più di mezz’ora a conversare con il maestro su ogni tipo di argomenti. Passammo in rassegna uno scaffale di libri bene allineati dietro la sua scrivania, fra cui si distingueva per il numero dei suoi tomi e per il suo splendore Il tesoro della gioventù, di cui avevo sentito parlare, ma il maestro mi convinse che alla mia età era più indicato il Don Chisciotte. Non lo trovò nella biblioteca, ma mi promise di prestarmelo in seguito. Dopo mezz’ora di rapidi commenti su Simbad il marinaio o Robinson Crusoe, mi accompagnò fino all’uscita senza dirmi se ero ammesso. Pensai di no, naturalmente, ma sulla terrazza mi congedò con una stretta di mano fino al lunedì mattina alle otto, per iscrivermi a una delle classi della scuola elementare: la quarta.

Era il direttore generale. Si chiamava Juan Ventura Casalins e lo ricordo come un amico dell’infanzia, senza nulla dell’immagine terrorizzante che si aveva dei maestri dell’epoca. Il suo pregio indimenticabile era di trattarci tutti come adulti, sebbene mi sembri ancora che si occupasse di me con un’attenzione particolare. Durante le lezioni mi rivolgeva più domande che agli altri, e mi aiutava affinché le mie risposte fossero sicure e spedite. Mi permetteva di prendere i libri della biblioteca scolastica per leggerli a casa. Due di questi, L’isola del tesoro e Il conte di Montecristo, furono la mia droga felice in quegli anni sassosi. Li divoravo lettera per lettera con l’ansia di sapere cos’accadeva nella riga successiva e al contempo con l’ansia di non saperlo per non spezzare l’incantesimo. Con quei libri, come con Le mille e una notte, imparai per non dimenticarmene più che si dovrebbero leggere solo i libri che ci costringono a rileggerli.

Invece, la lettura del Don Chisciotte fu per me un’esperienza a parte, perché non mi ispirò la commozione prevista dal maestro Casalins. Mi annoiavano le tirate sagge del cavaliere errante e non mi divertivano affatto le asinerie dello scudiero, al punto da pensare che non fosse lo stesso libro di cui tanto si parlava. Tuttavia, mi dissi che un maestro dotto come il nostro non poteva sbagliarsi, e mi sforzai per buttarlo giù come una purga a cucchiaiate. Feci altri tentativi al liceo, quando dovetti studiarlo come lettura obbligatoria, e ne provai definitiva ripugnanza, finché un amico non mi consigliò di metterlo sopra una mensola in bagno e di tentare di leggerlo mentre compivo i miei doveri quotidiani. Solo così lo scoprii, come una deflagrazione, e ne godetti al dritto e al rovescio fino a recitarne a memoria episodi interi.

Quella scuola provvidenziale mi lasciò pure ricordi storici di una città e di un’epoca irrecuperabili. Era l’unico edificio in cima a una collina verde, dalla cui terrazza si scorgevano le due estremità del mondo. A sinistra, il quartiere del Prado, il più raffinato e caro, che fin dalla prima vista mi sembrò una copia fedele del pollaio elettrificato della United Fruit Company. Non era casuale: lo stava costruendo un’impresa di urbanisti statunitensi con relativi gusti e norme e prezzi d’importazione, ed era un’attrattiva turistica infallibile per il resto del paese. A destra, invece, il rione del nostro quartiere di sotto, con le vie di polvere ardente e le case di canne e argilla con tetti di palma che ci ricordavano di continuo che eravamo solo mortali di carne e ossa. Per fortuna, dalla terrazza della scuola godevamo di una vista panoramica del futuro: il delta storico del fiume Magdalena, che è uno fra i maggiori del mondo, e il pelago grigio delle Bocas de Ceniza.

Il 28 maggio 1935 vedemmo la petroliera Taralite, che batteva bandiera canadese, entrare con bramiti di gioia attraverso i frangiflutti di roccia viva per attraccare al porto della città tra fragori di musica e razzi al comando del capitano D. F. McDonald. Così culminò una prodezza civica di molti anni e molti pesos per trasformare Barranquilla nell’unico porto marittimo e fluviale del paese.

Poco tempo dopo, un aereo al comando del capitano Nicolás Reyes Manotas passò sfiorando i tetti in cerca di una radura adatta a un atterraggio di emergenza, per salvare non solo la sua pelle ma anche quella dei cristiani che avrebbe schiacciato nella caduta. Era uno dei pionieri dell’aviazione colombiana. L’aereo primitivo gliel’avevano regalato in Messico, e l’aveva portato da solo da una parte all’altra dell’America Centrale. Una folla radunata all’aeroporto di Barranquilla gli aveva preparato un benvenuto trionfale con fazzoletti e bandiere e la banda musicale, ma Reyes Manotas volle fare altri due giri di saluto sopra la città, ed ebbe un guasto al motore. Riuscì a dominarlo con una perizia miracolosa e atterrò sopra la terrazza di un edificio del centro commerciale, ma rimase aggrovigliato nei fili dell’elettricità e appeso a un palo. Mio fratello Luis Enrique e io lo inseguimmo tra la folla schiamazzante fin dove ci ressero le forze, anche se riuscimmo a vedere il pilota solo quando l’avevano ormai fatto sbarcare a fatica ma sano e salvo tra un’ovazione da eroe.

La città ebbe pure la prima emittente radiofonica, un acquedotto moderno che divenne un’attrattiva turistica e pedagogica per mostrare il nuovissimo procedimento di depurazione delle acque, e una squadra di pompieri le cui sirene e campane erano una festa per bambini e adulti non appena si cominciava a sentirle. Arrivarono anche le prime automobili decappottabili che si lanciavano per le vie a velocità folli e si sfasciavano sulle nuove strade asfaltate. L’agenzia di pompe funebri La equa, ispirata all’umorismo della morte, mise un annuncio enorme all’uscita dalla città: “Non corra, noi l’aspettiamo”.

Di notte, quando non c’erano altri rifugi che la casa, la mamma ci riuniva per leggerci le lettere di papà. Perlopiù erano capolavori di distrazione, ma ce ne fu una molto esplicita sull’entusiasmo che suscitava l’omeopatia fra la gente anziana del basso Magdalena. “Qui ci sono casi che sembrerebbero miracoli” diceva mio padre. Talvolta dava l’impressione che molto presto ci avrebbe rivelato qualcosa di grande, ma a seguire era un altro mese di silenzio. Durante la Settimana Santa, quando due fratelli più piccoli contrassero una varicella perniciosa, non ci fu modo di mettersi in contatto con lui perché neppure le guide più abili conoscevano le sue tracce.

Fu in quei mesi che intesi nella vita reale una delle parole più usate dai miei nonni: la povertà. Io la identificavo con la situazione che vivevamo a casa loro dopo che la compagnia bananiera aveva cominciato a essere smantellata. Se ne lamentavano di continuo. Non erano più due e nemmeno tre i turni a tavola, come prima, bensì un turno unico. Per non rinunciare al rito sacro dei pranzi, anche quando non c’erano risorse per affrontarli, avevano finito per comprare il cibo sulle bancarelle del mercato, che era buono e molto più economico, e con la sorpresa che a noi bambini piaceva di più. Ma terminarono per sempre quando Mina venne a sapere che alcuni commensali assidui avevano deciso di non tornare alla casa perché non si mangiava più bene come prima.

La povertà dei miei genitori a Barranquilla, al contrario, era spossante, ma mi concesse la fortuna di stabilire un rapporto eccezionale con mia madre. Provavo per lei, più che l’amore filiale comprensibile, un’ammirazione stupefacente per il suo carattere da leonessa silenziosa ma feroce dinanzi all’avversità, e per il suo legame con Dio, che sembrava non di sottomissione ma di lotta. Due virtù esemplari che durante la vita le infusero una fiducia che non le venne mai meno. Nei peggiori momenti scoppiava a ridere per le sue stesse trovate provvidenziali. Come la volta in cui comprò un ginocchio di bue e lo fece bollire giorni e giorni per il brodo quotidiano sempre più annacquato, finché non servì più a nulla. Una notte di tempesta spaventosa usò il grasso di maiale di tutto il mese per bruciarlo, dal momento che la luce se n’era andata fino all’alba e lei stessa aveva inculcato nei piccoli la paura del buio affinché non si muovessero dal letto.

All’inizio i miei genitori andavano a trovare le famiglie amiche emigrate da Aracataca a causa della crisi del banano e del deterioramento dell’ordine pubblico. Erano visite circolari in cui si girava sempre intorno agli argomenti della sventura che si era installata nel paese. Ma quando la povertà braccò noi a Barranquilla non ci lagnammo più in casa altrui. Mia madre ridusse la sua reticenza a una sola frase: «La povertà la si nota negli occhi».

Fino ai cinque anni, la morte era stata per me una fine naturale che accadeva agli altri. Le delizie del cielo e i tormenti dell’inferno mi sembravano solo lezioni da imparare a memoria al catechismo di padre Astete. Non avevano nulla a che vedere con me, finché non imparai di sottecchi a una veglia funebre che i pidocchi stavano fuggendo dai capelli del morto e camminavano disorientati sui guanciali. Da allora innanzi a inquietarmi non fu la paura della morte ma la vergogna che pure a me i pidocchi fuggissero via sotto gli occhi dei parenti alla mia veglia funebre. Tuttavia, alle elementari di Barranquilla non mi resi conto di essere pieno di pidocchi finché non li ebbi ormai attaccati a tutta la famiglia. Mia madre diede allora un’ulteriore prova del suo carattere. Disinfestò i figli a uno a uno usando un’insetticida per gli scarafaggi, con interventi a fondo che battezzò con un nome di grande spicco: la polizia. Il brutto fu che non appena ripuliti cominciavamo di nuovo a riempirci, perché me li riattaccavano a scuola. Allora mia madre prese una decisione drastica e mi costrinse a radermi la zucca. Fu un gesto eroico presentarsi il lunedì a scuola con un berretto, ma sopravvissi con onore alle burle dei compagni e agli esami finali ricevetti i voti più alti. Non rividi mai più il maestro Casalins ma mi rimase una gratitudine eterna per lui.

Un amico di mio papà che non conoscemmo mai mi trovò un lavoro per le vacanze in una tipografia vicino a casa. Il salario era poco più di nulla, e il mio unico stimolo fu l’idea di imparare il mestiere. Tuttavia, non mi rimaneva un minuto per osservare la tipografia, perché il lavoro consisteva nel riordinare illustrazioni litografate affinché le rilegassero in un altro settore. Una consolazione fu che mia madre mi autorizzò a comprare con i miei soldi il supplemento domenicale di «La Prensa» che aveva i fumetti di Tarzan, di Buck Rogers – che si chiamava Rogelio el Conquistador – e quelli di Mutt and Jeff – che si chiamavano Benitín ed Eneas. Nell’ozio delle domeniche imparai a disegnarli a memoria e continuavo per conto mio gli episodi della settimana. Con questi disegni riuscii a entusiasmare alcuni adulti dell’isolato e a venderli anche per due centesimi.

Il lavoro era pesante e sterile, e sebbene ci stessi attento, le note dei miei superiori mi accusavano di mancanza di entusiasmo. Sarà stato per considerazione nei confronti della mia famiglia che mi allontanarono dalla ripetitività del laboratorio e mi nominarono distributore per strada di volantini che pubblicizzavano uno sciroppo per la tosse raccomandato dai più famosi artisti del cinema. Mi sembrò una buona cosa, perché i volantini erano belli, con foto a colori degli attori e su carta patinata. Però, fin dall’inizio mi resi conto che distribuirli non era facile come pensavo io, perché la gente li guardava con diffidenza proprio in quanto regalati, e la maggior parte si scostava per non prenderli come se fossero elettrificati. I primi giorni tornai al laboratorio con quelli che mi rimanevano affinché mi riapprovvigionassero. Finché non incontrai qualche compagno di scuola di Aracataca, la cui madre si scandalizzò nel vedermi fare quel lavoro che le sembrò da mendicanti. Fu quasi gridando che mi rimproverò perché giravo per le strade con certi sandali di stoffa che mia madre mi aveva comprato per non sciupare le scarpe delle feste.

«Di’ a Luisa Márquez» mi disse «che pensi a cosa direbbero i suoi genitori se vedessero il loro nipote preferito che distribuisce pubblicità per tisici al mercato.»

Non comunicai il messaggio per risparmiare un dispiacere a mia madre, ma piansi di rabbia e di vergogna sul mio guanciale per diverse notti. La fine del dramma fu che non andai più a distribuire volantini, perché li buttavo nei canali di scarico del mercato senza prevedere che lì l’acqua scorreva piano e la carta patinata rimaneva a galla formando sulla superficie uno strato di bei colori che divenne uno spettacolo insolito per chi guardava dal ponte.

Mia madre dovette ricevere qualche messaggio dai suoi morti in un sogno rivelatore, perché dopo neppure due mesi mi tolse dalla tipografia senza spiegazioni. Io mi opponevo per non perdere l’edizione domenicale di «La Prensa» che in famiglia ricevevamo come una benedizione del cielo, ma mia madre continuò a comprarla anche se doveva mettere una patata di meno nella minestra. Un’altra risorsa salvatrice fu la somma di conforto che nei mesi più aspri ci mandò lo zio Juanito. Viveva sempre a Santa Marta con i suoi scarsi guadagni all’esattoria, e si impose il dovere di mandarci una lettera alla settimana con due banconote da un peso. Il capitano della lancia Aurora, vecchio amico di famiglia, me la consegnava alle sette del mattino, e io tornavo a casa con una spesa sommaria per parecchi giorni.

Un mercoledì non mi fu possibile andarci e mia madre mandò Luis Enrique, che non resistette alla tentazione di moltiplicare i due pesos alla macchinetta per le monete in una bettola di cinesi. Non fu abbastanza deciso da fermarsi quando ebbe perso i due primi gettoni, e seguitò cercando di recuperarli finché non perse anche la penultima moneta. «Fu tale il panico» mi raccontò ormai adulto «che decisi di non tornare mai più a casa.» Sapeva benissimo che i due pesos bastavano per la spesa sommaria di una settimana. Per fortuna, con l’ultimo gettone accadde qualcosa nella macchina che rabbrividì con un rumore di ferraglia nelle viscere e vomitò in uno zampillo inarrestabile tutti i gettoni corrispondenti ai due pesos persi. «Allora mi illuminò il diavolo» raccontò Luis Enrique «e mi azzardai a rischiare un altro gettone.» Vinse. Ne rischiò un altro e vinse, e un altro e un altro ancora e vinse. «Lo spavento di allora era più forte di quello di aver perso e mi si rimescolarono le budella» mi raccontò «ma continuai a giocare.» Alla fine aveva raddoppiato i due pesos originali in monete da cinque, e non osò cambiarle in banconote alla cassa per timore che il cinese lo invischiasse in qualche cineseria. Gli rigonfiavano tanto le tasche che prima di dare alla mamma i due pesos dello zio Juan de Dios in monete da cinque, seppellì in fondo al cortile le quattro vinte da lui, dove aveva l’abitudine di nascondere qualsiasi centesimo gli capitasse fra le mani. Se li spese a poco a poco senza confessare a nessuno il segreto fino a molti anni dopo, e tormentato perché era caduto nella tentazione di rischiare gli ultimi cinque centesimi nella bettola del cinese.

Il suo rapporto con il denaro era molto personale. Una volta che mia madre lo sorprese a sgraffignarle dal portafoglio i soldi per la spesa, la sua difesa fu piuttosto temeraria ma lucida: i soldi che vengono sottratti senza permesso dai portafogli dei genitori non possono essere un furto, perché sono gli stessi soldi di tutti, che vengono rifiutati per l’invidia di non potersene servire come se ne servono i figli. Mi spinsi a difendere il suo argomento fino al punto da confessare che io stesso avevo saccheggiato i nascondigli domestici per bisogni urgenti. Mia madre uscì dai gangheri. «Non siate così stupidi» quasi mi gridò contro: «Né tu né tuo fratello mi rubate niente, perché io stessa lascio i soldi dove so che andrete a cercarli quando ne avrete bisogno». In qualche attacco di rabbia la sentii mormorare disperata che Dio avrebbe dovuto permettere il furto di certe cose per nutrire i figli.

L’attrazione personale di Luis Enrique per le bricconate era utilissima nel risolvere problemi comuni, ma non bastò per rendermi complice delle sue furfanterie. Al contrario, si arrangiò sempre in modo da non coinvolgermi nel minimo sospetto, e questo rafforzò un vero affetto destinato a durare per sempre. Non gli lasciai mai capire, invece, quanto invidiassi la sua audacia e quanto soffrissi per le botte che gli somministrava papà. Il mio comportamento era molto diverso dal suo, ma talvolta mi costava fatica moderare l’invidia. Invece, mi inquietava la casa dei genitori a Cataca, dove mi portavano a dormire solo quando dovevano darmi una purga contro i vermi e olio di ricino. Al punto che mi vennero in odio le monete da venti centesimi che mi regalavano per la dignità con cui prendevo quelle medicine.

Credo che il colmo della disperazione di mia madre fu farmi recapitare una lettera a un uomo che aveva fama di essere il più ricco e al contempo il filantropo più generoso della città. Le notizie sul suo buon cuore venivano divulgate con una pubblicità pari solo a quella dei suoi trionfi finanziari. Mia madre gli scrisse una lettera di sgomento senza perifrasi per richiedere un aiuto economico urgente non a suo nome, perché lei era capace di sopportare qualsiasi cosa, ma per l’amore dei suoi figli. Bisogna averla conosciuta per capire cosa significava nella sua vita quell’umiliazione, ma le circostanze lo esigevano. Mi avvertì che il segreto doveva rimanere fra noi due, e così è stato, fino a questo momento in cui scrivo.

Bussai al portone della casa, che aveva qualcosa di una chiesa, e quasi subito si aprì una finestrella da cui si affacciò una donna di cui ricordo solo il gelo dei suoi occhi. Prese la lettera senza dire una parola e richiuse. Dovevano essere le undici del mattino, e aspettai seduto accanto allo stipite fino alle tre del pomeriggio, allorché decisi di bussare di nuovo per ottenere una risposta. La stessa donna riaprì, mi riconobbe stupita, e mi chiese di aspettare un momento. La risposta fu che tornassi il martedì della settimana dopo alla stessa ora. Così feci, ma l’unica risposta fu che non ce ne sarebbe stata nessuna di lì a una settimana. Sarò tornato ancora tre volte, sempre in cerca della stessa risposta, fino a un mese e mezzo dopo, quando una donna più aspra della precedente mi rispose, da parte del signore, che quella non era un’impresa di beneficenza.

Mi aggirai per le strade ardenti tentando di trovare il coraggio per riferire a mia madre una risposta che la salvaguardasse dalle sue illusioni. Ormai a notte fonda, con il cuore dolente, mi presentai da lei con la notizia stringata che il buon filantropo era morto da diversi mesi. A dolermi fu soprattutto il rosario che mia madre recitò per l’eterno riposo della sua anima.

Quattro o cinque anni dopo, quando sentimmo alla radio la vera notizia della morte del filantropo occorsa il giorno prima, rimasi pietrificato in attesa della reazione di mia madre. Tuttavia, non potrò mai capire come mai l’avesse ascoltata con un’attenzione commossa, e avesse sospirato commossa:

«Dio lo conservi nel suo Santo Regno!»

A un isolato da casa stringemmo amicizia con i Mosquera, una famiglia che spendeva fortune in riviste a base di fumetti, e che le impilava fino al soffitto in una baracca del cortile. Noi fummo gli unici privilegiati cui fu concesso di trascorrere giornate intere a leggere Dick Tracy e Buck Rogers. Un altro incontro fortunato fu con un apprendista che dipingeva cartelloni pubblicitari dei film per il vicino cinema Las Quintas. Io lo aiutavo per il semplice piacere di dipingere i caratteri, e lui ci faceva entrare gratis due o tre volte la settimana a vedere i buoni film a base di spari e cazzotti. L’unico lusso che ci mancava era un apparecchio radiofonico grazie al quale bastasse pigiare un pulsante per ascoltare musica a qualsiasi ora. Oggi è difficile immaginarsi com’erano scarsi nelle case dei poveri. Luis Enrique e io ci sedevamo su una panca che c’era nella bottega all’angolo affinché la clientela oziosa si sedesse a chiacchierare, e passavamo pomeriggi interi ascoltando i programmi di musica popolare, che erano la maggior parte. Finimmo per conoscere a memoria un repertorio completo di Miguelito Valdés con l’orchestra Casino de la Playa, Daniel Santos con la Sonora Matancera e i boleri di Agustín Lara attraverso la voce di Toña la Negra. La distrazione durante le serate, soprattutto le due volte che ci tagliarono i fili della corrente per non aver pagato, era insegnare canzoni a mia madre e ai miei fratelli. Soprattutto a Ligia e a Gustavo, che le imparavano come pappagalli senza intenderle e ci facevano spanciar dal ridere con i loro spropositi lirici. Non c’erano eccezioni. Noi tutti avevamo ereditato dal padre e dalla madre una memoria speciale per la musica e un buon orecchio per imparare una canzone alla seconda volta. Soprattutto Luis Enrique, che era nato musicista e si specializzò per suo conto in assolo di chitarra per serenate in caso di amori contrariati. Non tardammo a scoprire che tutti i bambini senza radio delle case vicine le imparavano pure loro dai miei fratelli, e soprattutto da mia madre, che finì per essere un’ennesima sorella in quella casa di bambini.

Il mio programma preferito era L’ora di tutto un po’, del compositore, cantante e maestro Ángel María Camacho y Cano, che si accaparrava il pubblico fin dall’una del pomeriggio con ogni sorta di interventi ingegnosi, e in particolare grazie alla sua ora per i fedelissimi con meno di quindici anni. Bastava iscriversi agli uffici di La Voce della Patria e arrivare al programma con mezz’ora di anticipo. Il maestro Camacho y Cano in persona accompagnava al pianoforte e un suo assistente aveva l’incarico inappellabile di interrompere la canzone con una campanella se il fedelissimo commetteva un infimo errore. Il premio per la canzone meglio cantata era più di quanto potessimo sognare – cinque pesos – ma mia madre fu esplicita sul fatto che l’importante era la gloria di cantare bene in un programma di tale prestigio.

Fino ad allora mi ero identificato con il solo cognome di mio padre – García – e con i miei due nomi di battesimo – Gabriel José – ma in quella circostanza storica mia madre mi chiese di iscrivermi anche con il suo cognome – Márquez – affinché nessuno nutrisse dubbi sulla mia identità. Fu un evento in casa. Mi fecero vestire di bianco come per la prima comunione, e prima di uscire mi diedero un decotto di bromuro di potassio. Arrivai a La Voce della Patria con due ore di anticipo e l’effetto del sedativo mi passò tutto mentre aspettavo in un parco vicino perché non permettevano di entrare negli studi fino a un quarto d’ora prima del programma. Ogni minuto sentivo crescere dentro di me i ragni del terrore, e infine entrai con il cuore sconvolto. Dovetti fare uno sforzo supremo per non tornare a casa raccontando che non mi avevano lasciato partecipare adducendo qualche pretesto. Il maestro mi fece una prova rapida al pianoforte per individuare il mio tono di voce. Prima ne chiamarono sette secondo l’ordine di iscrizione, suonarono la campanella a tre per diversi errori e, quanto a me, mi annunciarono con il nome ridotto di Gabriel Márquez. Cantai Il cigno, una canzone sentimentale su un cigno più bianco di un fiocco di neve assassinato insieme alla sua innamorata da un cacciatore sciagurato. Fin dalle prime note mi accorsi che il tono era troppo alto per me in certi passaggi che non avevamo provato, ed ebbi un momento di panico quando l’assistente fece un gesto di dubbio e si mise in guardia per prendere la campanella. Non so da dove presi il coraggio di fargli un segno energico di non toccarla, ma fu troppo tardi: la campanella senza cuore suonò. I cinque pesos del premio, oltre a parecchi regali pubblicitari, andarono a una bionda molto bella che aveva massacrato un pezzo di Madama Butterfly. Rincasai oppresso dalla sconfitta, e non riuscii mai a consolare mia madre dalla sua delusione. Passarono molti anni prima che lei mi confessasse che il motivo della sua vergogna era che aveva avvertito parenti e amici affinché mi ascoltassero cantare, e non sapeva come evitarli.

In quel regime a base di risate e lacrime, non mancai neppure una volta a scuola. Fosse pure a digiuno. Ma il tempo per le mie letture a casa lo impiegavo in lavori domestici e non potevamo permetterci la luce per leggere fino a mezzanotte. Comunque mi arrangiavo. Sulla strada per andare a scuola c’erano diversi depositi di autobus, e in uno di questi mi fermavo anche per ore a guardare come dipingevano sulle fiancate delle vetture i loro percorsi e le loro destinazioni. Un giorno chiesi al pittore di lasciarmi dipingere qualche carattere per vedere se ne ero capace. Stupito dalla mia abilità naturale, mi permise di aiutarlo ogni tanto in cambio di qualche peso che era comunque un piccolo aiuto in famiglia. Un’altra illusione fu la mia amicizia casuale con tre fratelli García, figli di un navigatore del fiume Magdalena, che avevano organizzato un trio di musica popolare, volendo animare per puro amore dell’arte le feste degli amici. Completai con loro il quartetto García per partecipare al concorso dell’ora dei dilettanti dell’emittente Atlantico. Vincemmo già il primo giorno fra uno strepito di applausi, ma non ci versarono i cinque pesos del premio per un errore imperdonabile nell’iscrizione. Continuammo a provare insieme per il resto dell’anno e a cantare gratis in feste familiari, finché la vita non ci disperse.

Non condivisi mai la versione maligna secondo cui solo perché troppo irresponsabile mio padre si adattava con pazienza alla povertà. Al contrario, credo che fossero prove omeriche di una complicità mai venuta meno fra lui e mia madre, e che permetteva loro di trattenere il fiato fin sull’orlo del precipizio. Lui sapeva che lei dominava il panico meglio ancora della disperazione, e che questo era il segreto della nostra sopravvivenza. Quello che forse non pensò è che così lui si alleggeriva ogni pena, mentre lei lasciava lungo la strada il meglio della sua vita. Non riuscimmo mai a capire il motivo dei suoi viaggi. D’improvviso, come accadeva sempre, ci svegliarono un sabato a mezzanotte per portarci nell’agenzia locale di un campo petrolifero del Catatumbo, dove ci aspettava al radiotelefono una chiamata di mio padre. Non dimenticherò mai mia madre in preda al pianto, in una conversazione aggrovigliata dalla tecnica.

«Ah, Gabriel» disse mia madre «guarda come mi hai lasciata con tutti questi figli, che più volte non siamo neppure riusciti a mangiare.»

Lui le rispose comunicandole la brutta notizia che aveva il fegato gonfio. Gli accadeva spesso, ma mia madre non lo prendeva molto sul serio perché qualche volta lui se n’era servito per nascondere le sue mascalzonate.

«Ti succede sempre così quando ti comporti male» gli disse per scherzo.

Parlava guardando il microfono come se papà fosse stato lì e alla fine si confuse cercando di mandargli un bacio, e baciò il microfono. Lei stessa scoppiò a ridere come una matta, e non riuscì mai a raccontare la storia sino alla fine perché si ritrovava con le lacrime agli occhi tante erano le risate. Tuttavia, quel giorno rimase assorta e infine disse a tavola come parlando per nessuno:

«Ho notato qualcosa di strano nella voce di Gabriel.»

Le spiegammo che l’apparecchio radiofonico non solo distorce le voci ma maschera pure la personalità. La notte dopo disse mentre dormiva: «Comunque, dalla sua voce sembrava che fosse molto più magro». Aveva il naso affilato dei suoi brutti giorni, e si domandava fra un sospiro e l’altro come potevano essere i villaggi senza Dio né legge dove si aggirava quell’uomo allo sbando. I suoi motivi occulti furono più evidenti in una seconda conversazione per radio, allorché fece promettere a mio padre di tornare subito a casa se non avesse risolto nulla in due settimane. Tuttavia, prima della scadenza fissata ricevemmo dagli Altos del Rosario un telegramma drammatico di una sola parola: “Indeciso”. Mia madre vide nel messaggio la conferma dei suoi presagi più lucidi, ed emise un verdetto inappellabile:

«O arrivi prima di lunedì, o in questo stesso momento mi metto in viaggio per raggiungerti con tutta la prole.»

Santo rimedio. Mio padre conosceva il potere delle sue minacce, e di lì a una settimana era di ritorno a Barranquilla. Ci colpì la sua entrata, vestito in modo trasandato, con la pelle verdastra e da rasare, al punto che mia madre credette che fosse ammalato. Ma fu un’impressione momentanea, perché in due giorni recuperò il progetto giovanile di aprire una farmacia molteplice nella città di Sucre, un angolo idilliaco e prospero a una notte e un giorno di navigazione da Barranquilla. Vi era già stato nella sua gioventù di telegrafista, e il suo cuore si contraeva al ricordo del viaggio lungo canali crepuscolari e paludi dorate, e dei balli eterni. In un certo periodo si era ostinato per ottenere quella piazza, ma senza la fortuna avuta in altri casi, come Aracataca, ancora più ambiti. Ci ripensò cinque anni dopo, ai tempi della terza crisi del banano, ma trovò che la piazza era occupata dai grossisti di Magangué. Però, un mese prima di tornare a Barranquilla aveva incontrato per caso uno di loro, che non solo gli aveva dipinto una realtà opposta, ma gli aveva pure offerto un buon credito per Sucre. Non l’aveva accettato perché stava per realizzare il sogno dorato degli Altos del Rosario, ma quando l’aveva sorpreso la sentenza della moglie, aveva localizzato il grossista di Magangué, che era ancora sperduto nei villaggi del fiume, e si erano messi d’accordo.

Dopo circa due settimane di riflessioni e accomodamenti con grossisti amici, se ne andò via con l’aspetto e l’umore ristabiliti, e la sua impressione di Sucre fu così intensa, che la mise per iscritto nella prima lettera: “La realtà è stata migliore della nostalgia”. Affittò una casa con balcone nella piazza principale e di lì riallacciò le amicizie di una volta che lo accolsero a braccia aperte. La famiglia doveva vendere quello che fosse stato possibile, imballare il resto, che non era molto, e portarselo appresso su uno dei battelli a vapore che seguivano il percorso del fiume Magdalena. Con la posta di quello stesso giorno inviò un vaglia ben calcolato per le spese immediate, e ne annunciò un altro per le spese di viaggio. Non posso immaginare notizie più appetitose per il carattere facile a illudersi di mia madre, sicché la sua risposta fu ben pensata non solo per sostenere l’animo del marito, ma anche per addolcirgli la nuova che era incinta per l’ottava volta.

Fece i preparativi e le prenotazioni sul Capitán de Caro, un battello leggendario che in una notte e mezza giornata faceva il tragitto da Barranquilla a Magangué. Poi avremmo proseguito in lancia a motore lungo il fiume San Jorge e il canale idilliaco della Mojana fino alla nostra destinazione.

«Basta che ce ne andiamo di qui, sia pure all’inferno» esclamò mia madre, che aveva sempre diffidato del prestigio babilonico di Sucre. «Non bisogna lasciare un marito solo in un paese come quello.»

Ci fece così tanta fretta, che già tre giorni prima del viaggio dormivamo per terra, perché ci eravamo ormai sbarazzati dei letti e di tutti i mobili che eravamo riusciti a vendere. Tutto il resto era dentro gli scatoloni, e il denaro per i biglietti messo al sicuro in qualche nascondiglio di mia madre, ben contato e mille volte ricontato.

L’impiegato che mi servì negli uffici del battello era così affabile che non dovetti serrare le mascelle per intendermi con lui. Ho la sicurezza assoluta di avere annotato fedelmente le tariffe che lui mi dettò con la dizione chiara e ricercata dei caraibici servizievoli. Quello che più mi rallegrò e che meno ho dimenticato fu che fino ai dodici anni si pagava solo la metà della tariffa normale. Ossia, tutti i figli meno io. A partire da questi dati, mia madre mise da parte il denaro del viaggio, e spese fino all’ultimo centesimo per smontare la casa.

Il venerdì andai a comprare i biglietti e l’impiegato mi accolse con la sorpresa che i minori di dodici anni non avevano una riduzione della metà ma solo del trenta per cento, il che faceva una differenza insormontabile per noi. Affermava che io avevo annotato male, perché i dati erano stampati in una tabella ufficiale che mi cacciò sotto gli occhi. Rincasai in preda ai triboli, e mia madre non fece commenti ma si mise il vestito con cui aveva osservato il lutto per suo padre e andammo all’agenzia fluviale. Volle essere giusta: qualcuno si era sbagliato e poteva benissimo essere suo figlio, ma questo non importava. Il fatto era che non avevamo altro denaro. L’agente le spiegò che non c’era nulla da fare.

«Mi capisca, signora» le disse. «Non è che si voglia o non si voglia servirla, è il regolamento di un’impresa seria che non può cambiare come una banderuola.»

«Ma se sono dei bambini» disse mia madre, e indicò me a esempio. «Si figuri, il maggiore è questo, e ha appena dodici anni». E indicò con la mano:

«Sono grandi così.»

Non era questione di statura, soggiunse l’agente, bensì di età. Nessuno pagava di meno, tranne i neonati, che viaggiavano gratis. Mia madre cercò sfere più alte:

«Con chi bisogna parlare per mettere a posto la faccenda?»

L’impiegato non riuscì a rispondere. Il responsabile, un uomo anziano e con un ventre materno, si affacciò alla porta dell’ufficio nel bel mezzo della discussione, e l’impiegato, vedendolo, si alzò in piedi. Era immenso, con un aspetto rispettabile, e la sua autorità, anche in maniche di camicia e fradicio di sudore, era più che evidente. Ascoltò mia madre con attenzione e le rispose con una voce tranquilla che una decisione come quella era possibile solo con una modificazione dei regolamenti in un’assemblea dei soci.

«Mi creda, sono molto spiacente» concluse.

Mia madre sentì il soffio del potere, e affinò i suoi argomenti.

«Lei ha ragione, signore» disse «ma il problema è che il suo dipendente non si è spiegato bene con mio figlio, o mio figlio l’ha capito male, e io mi sono mossa sulla base di questo errore. Adesso ho tutto imballato e pronto per essere imbarcato, stiamo dormendo sulla nuda terra, i soldi per la spesa ci bastano fino a oggi e lunedì consegno la casa ai nuovi inquilini.» Si rese conto che gli impiegati della sala l’ascoltavano con un grande interesse, e allora si rivolse a loro: «Cosa può significare tutto questo per un’impresa così importante?». E senza aspettare una risposta, domandò al responsabile guardandolo dritto negli occhi:

«Lei crede in Dio?».

Il responsabile si confuse. L’ufficio intero aveva il fiato sospeso per un silenzio troppo lungo. Allora mia madre si contrasse sul sedile, unì le ginocchia che cominciavano a tremarle, strinse la borsetta sul grembo con entrambe le mani, e disse con una determinazione propria delle sue grandi cause:

«Di qui non mi muovo finché non mi avrete risolto il problema.»

Il responsabile ne fu esterrefatto, e tutto il personale interruppe il lavoro per guardare mia madre. Era impassibile, con il naso affilato, pallida e imperlata di sudore. Si era tolta il lutto di suo padre, ma in quel momento l’aveva di nuovo indossato perché le era sembrato il vestito più adatto per quell’impresa. Il responsabile non la guardò più, ma guardò i suoi impiegati senza sapere cosa fare, e infine esclamò per tutti:

«È una storia che non ha precedenti.»

Mia madre non batté ciglio. «Avevo le lacrime strozzate in gola ma dovetti resistere perché ci avrei fatto una pessima figura» mi raccontò. Allora il responsabile chiese all’impiegato di portargli i documenti nel suo ufficio. Questi lo fece, e di lì a cinque minuti ne uscì di nuovo, ringhiante e furibondo, ma con tutti i biglietti in regola per partire.

La settimana dopo sbarcammo a Sucre come se vi fossimo nati. Doveva avere circa sedicimila abitanti, come tanti comuni del paese a quei tempi, e tutti si conoscevano, non tanto per i loro nomi quanto per le loro vite segrete. Non solo la città ma anche la regione intera era un pelago di acque docili che mutavano colore per gli strati di fiori che le coprivano secondo i periodi, secondo il luogo e secondo il nostro stesso stato d’animo. Il suo splendore rammentava quello delle gore da sogno del sudest asiatico. Nei molti anni in cui la famiglia visse lì non ci fu una sola automobile. Sarebbe stato inutile, perché le strade dritte di terra battuta sembravano fatte apposta per i piedi scalzi e molte case avevano nella cucina il loro molo privato con le canoe domestiche per il trasporto locale.

La mia prima emozione fu di una libertà inconcepibile. Tutto quanto a noi bambini era mancato o avevamo rimpianto si ritrovò d’improvviso a portata delle nostre mani. Ognuno mangiava quando aveva fame o dormiva a qualsiasi ora, e non era facile occuparsi di qualcuno, perché malgrado il rigore delle loro leggi gli adulti erano così immersi nel loro tempo personale che non ne avevano abbastanza per occuparsi neppure di se stessi. L’unica norma di sicurezza per i bambini fu che imparassero a nuotare prima di camminare, perché la città era divisa in due da un canale di acque scure che serviva al contempo da acquedotto e da fogna. Fin dal primo anno li buttavano dai balconi delle cucine, dapprima con il salvagente affinché perdessero la paura dell’acqua e poi senza salvagente affinché perdessero il rispetto per la morte. Anni dopo, mio fratello Jaime e mia sorella Ligia, che erano sopravvissuti ai rischi iniziatici, gareggiarono in campionati infantili di nuoto.

A trasformare Sucre in una città indimenticabile fu il senso di libertà con cui noi bambini ci muovevamo per strada. In due o tre settimane sapevamo chi viveva in ogni casa, e lì ci comportavamo come conoscenti di sempre. Le consuetudini sociali – semplificate dall’uso – erano quelle di una vita moderna all’interno di una cultura feudale: i ricchi – allevatori di bestiame e industriali dello zucchero – sulla piazza principale, e i poveri dove potevano. Per l’amministrazione ecclesiastica era una terra di missioni con giurisdizione e potere su un vasto impero lacustre. Al centro di quel mondo, la chiesa parrocchiale, nella piazza principale di Sucre, era una versione tascabile della cattedrale di Colonia, copiata a memoria da un parroco spagnolo con pretese da architetto. L’uso del potere era immediato e assoluto. Ogni sera, dopo il rosario, al campanile della chiesa suonavano i rintocchi corrispondenti al giudizio morale del film in programma nel cinema attiguo, secondo il catalogo dell’Ufficio Cattolico per il Cinema. Un missionario di turno, seduto sulla soglia del suo studio, controllava le entrate nella sala dal marciapiede di fronte, per sanzionare i trasgressori.

La mia grande frustrazione dipese dall’età in cui arrivai a Sucre. Mi mancavano ancora tre mesi per varcare la linea fatidica dei tredici anni, e in casa non mi sopportavano più come bambino ma neppure mi ritenevano un adulto, e in quel limbo dell’età finii per essere l’unico dei fratelli che non imparò a nuotare. Non sapevano se farmi sedere alla tavola dei piccoli o a quella dei grandi. Le donne di servizio non si cambiavano più gli indumenti davanti a me neppure a luci spente, ma una di loro dormì nuda più volte nel mio letto senza turbarmi il sonno. Non avevo avuto il tempo di saziarmi di quello sproposito del libero arbitrio, che dovetti tornare a Barranquilla nel gennaio dell’anno successivo per iniziare le superiori, perché a Sucre non c’era una scuola consona ai voti eccellenti del maestro Casalins.

Dopo discorsi e consultazioni senza fine, con scarsissima partecipazione mia, i miei genitori si decisero per la scuola San José della Compagnia di Gesù a Barranquilla. Non mi spiego dove trovarono tanto denaro in così pochi mesi, se la farmacia e l’ambulatorio omeopatico erano ancora da aprire. Mia madre diede sempre una risposta che non richiedeva prove: «Dio è molto grande». Nelle spese per il trasferimento dovevano aver previsto l’installazione e il sostentamento della famiglia, ma non la mia carriera scolastica. Avendo solo un paio di scarpe rotte e un cambio di indumenti che usavo mentre mi lavavano l’altro, mia madre mi equipaggiò di vestiti nuovi in un baule grande come un catafalco senza prevedere che in sei mesi sarei cresciuto di un palmo. Fu sempre lei a decidere per conto suo che avrei cominciato a portare i pantaloni lunghi, contrariamente alla disposizione sociale osservata da mio padre secondo cui non li si poteva indossare finché non si fosse cominciato a cambiare voce.

Il fatto è che nelle discussioni sull’educazione di ogni figlio mi sorresse sempre l’illusione che papà, in una delle sue rabbie omeriche, decretasse che nessuno di noi sarebbe tornato a scuola. Non era impossibile. Lui stesso era stato un autodidatta per forza maggiore della sua povertà, e suo padre si ispirava alla morale d’acciaio di don Fernando VII, che proclamava l’insegnamento individuale in casa al fine di preservare l’integrità della famiglia. Io avevo paura della scuola come di un carcere, mi spaventava la sola idea di vivere soggetto al regime di una campanella, ma era pure la mia unica possibilità di godermi una vita libera a partire dai tredici anni, rimanendo in buoni rapporti con la famiglia, ma lontano dal suo ordine, dal suo entusiasmo demografico, dai suoi giorni azzardati, e leggendo senza prendere fiato finché avessi luce.

Il mio unico argomento contro la scuola San José, una tra le più esigenti e costose dei Caraibi, era la sua disciplina marziale, ma mia madre mi bloccò con un pronostico: «È lì che si educano i governatori». Quando non fu più possibile fare un passo indietro, mio padre se ne lavò le mani:

«Sia chiaro che io non ho detto né di sì né di no.»

Lui avrebbe preferito la scuola americana affinché imparassi l’inglese, ma mia madre l’aveva scartata adducendo il motivo capzioso che era una tana di luterani. A onore di mio padre, oggi devo ammettere che una delle deficienze nella mia vita di scrittore è stata di non avere imparato l’inglese.

Rivedere Barranquilla dal ponte dello stesso Capitán de Caro su cui avevamo viaggiato tre mesi prima, mi turbò il cuore come se avessi intuito che tornavo da solo alla vita reale. Per fortuna, i miei genitori mi avevano sistemato per l’alloggio e il vitto da mio cugino José María Valdeblánquez e sua moglie Hortensia, giovani e simpatici, che spartirono con me una vita quieta in un salottino semplice, una camera da letto e un piccolo cortile acciottolato che era sempre in ombra per gli indumenti stesi ad asciugare su fili di ferro. Loro dormivano nella camera con la loro bambina di dieci mesi. Io dormivo sul divano del salottino, che di notte si trasformava in letto.

La scuola San José era a sei isolati, in un parco di mandorli dove c’era stato il cimitero più antico della città e si trovavano ancora ossicini sparsi e pezzi di roba morta a raso terra. Il giorno in cui entrai nel cortile principale c’era una cerimonia del primo anno, in uniforme domenicale a base di pantaloni bianchi e giacca blu, e non riuscii a reprimere il terrore che loro sapessero tutto quanto io ignoravo. Ma ben presto mi resi conto che erano acerbi e spaventati come me, dinanzi alle incertezze dell’avvenire.

Un fantasma personale fu fratello Pedro Reyes, assegnato al gruppo delle elementari, che si ostinò per convincere le autorità della scuola che io non ero preparato per le superiori. Si trasformò in un’ossessione che mi bloccava nei posti meno immaginabili, e mi faceva esami istantanei con imboscate diaboliche: «Credi che Dio possa fare una pietra così pesante da non poterla reggere?» mi domandava senza lasciarmi il tempo per pensare. O quest’altro maledetto tranello: «Se mettessimo all’equatore una cintura d’oro spessa cinquanta centimetri, di quanto aumenterebbe il peso della Terra?». Non ne imbroccavo neppure una, anche se sapevo le risposte, perché la lingua mi si imbrogliava per la paura come il primo giorno al telefono. Era un terrore fondato perché fratello Reyes aveva ragione. Io non ero preparato per le superiori, ma non potevo rinunciare alla fortuna che mi avessero accettato senza esame. Tremavo al solo vederlo. Alcuni compagni davano interpretazioni maliziose all’assedio ma non ebbi motivi per crederci. Inoltre, la coscienza mi aiutava perché il mio primo esame orale lo passai senza difficoltà allorché recitai liscio come l’olio Fra Luis de León e disegnai sulla lavagna con gessetti colorati un Cristo che sembrava in carne viva. La commissione rimase così soddisfatta che si dimenticò dell’aritmetica e della storia patria.

Il problema con fratello Reyes si risolse perché durante la Settimana Santa ebbe bisogno di certi disegni per la sua lezione di botanica e io glieli preparai senza batter ciglio. Non solo lasciò perdere il suo assedio, ma talvolta si intratteneva pure durante le ricreazioni insegnandomi le risposte ben motivate delle domande cui non ero riuscito a rispondere, o di alcune più strane che poi comparivano come per caso agli esami successivi del mio primo anno. Tuttavia, ogni volta che mi trovava in gruppo, morto dal ridere mi prendeva in giro dicendo che io ero l’unico di terza elementare che se la cavava bene alle superiori. Oggi mi rendo conto che aveva ragione. Soprattutto per l’ortografia, che fu il mio calvario durante tutti i miei studi e continua a stupire i correttori dei miei originali. I più benevoli si consolano credendo che siano sbagli di battitura.

Un sollievo per le mie ansie fu la nomina del pittore e scrittore Héctor Rojas Herazo all’insegnamento di disegno. Avrà avuto vent’anni. Entrò in aula accompagnato dal padre superiore, e il suo saluto riecheggiò come una porta sbattuta nell’afa delle tre del pomeriggio. Aveva la bellezza e l’eleganza facile di un artista del cinema, con una giacca di pelo di cammello, molto aderente, e con bottoni dorati, panciotto fantasia e una cravatta di seta stampata. Ma la cosa più insolita era il cappello a bombetta, con trenta gradi all’ombra. Era alto come l’architrave della porta, sicché doveva chinarsi per disegnare sulla lavagna. Accanto a lui, il padre superiore sembrava abbandonato dalla mano di Dio.

Si vide subito che non aveva metodo né pazienza per l’insegnamento, ma il suo umore malizioso ci faceva stare con il fiato sospeso, così come ci stupivano i disegni magistrali che dipingeva con gessetti colorati sulla lavagna. Non rimase fra noi più di tre mesi, senza che avessimo mai saputo il perché, ma era presumibile che la sua pedagogia disinvolta non si armonizzasse con l’ordine mentale della Compagnia di Gesù.

Fin dai miei inizi nella scuola ebbi fama di poeta, dapprima per la facilità con cui imparavo a memoria e recitavo a squarciagola le poesie di classici e romantici spagnoli dei libri di testo, e poi per le satire in versi rimati che dedicavo a miei compagni di classe sulla rivista della scuola. Non le avrei scritte o avrei prestato loro un po’ più di attenzione se avessi immaginato che avrebbero meritato la gloria della carta stampata. In realtà erano satire cortesi che circolavano su foglietti furtivi nelle aule soporifere delle due del pomeriggio. Padre Luis Posada – assegnato al secondo gruppo – ne catturò uno, lo lesse con cipiglio adusto e mi riserbò la reprimenda di rigore, ma se lo mise in tasca. Padre Arturo Mejía mi convocò allora nel suo studio per propormi che le satire confiscate venissero pubblicate sulla rivista «Juventud» organo ufficiale degli allievi della scuola. La mia reazione immediata fu uno scossone di sorpresa, vergogna e felicità, che risolsi con un diniego per nulla convincente:

«Sono solo stupidaggini mie.»

Padre Mejía prese buona nota della risposta, e pubblicò i versi con quel titolo – “Stupidaggini mie” – e con la firma Gabito, sul numero successivo della rivista e con l’autorizzazione delle vittime. In due numeri successivi dovetti pubblicare un’altra serie dietro richiesta dei miei compagni di classe. Sicché quei versi infantili – lo si voglia o meno – sono a rigore la mia opera prima.

Il vizio di leggere tutto quanto mi capitava fra le mani occupava il mio tempo libero e quasi tutto quello delle lezioni. Potevo recitare poesie complete del repertorio popolare che allora erano di uso corrente in Colombia, e le più belle del Secolo d’Oro e del romanticismo spagnoli, molte delle quali imparate sugli stessi testi scolastici. Queste conoscenze estemporanee rispetto alla mia età esasperavano gli insegnanti, perché ogni volta che mi rivolgevano in classe qualche domanda mortale rispondevo con una citazione letteraria o un’idea libresca che non erano in grado di valutare. Padre Mejía lo disse: «È un gran saputello», per non dire insopportabile. Non dovetti mai forzare la memoria, perché le poesie e certi brani di buona prosa classica mi rimanevano come incisi nella mente dopo tre o quattro riletture. La prima stilografica che ebbi la vinsi al padre superiore perché gli recitai senza inciampi le cinquantasette decime di La vertigine di Gaspar Núñez de Arce.

Leggevo durante le lezioni, con il libro aperto sulle ginocchia, e con una tale sfacciataggine che la mia impunità sembrava possibile solo grazie alla complicità degli insegnanti. L’unica cosa che non ottenni con le mie ciurmerie ben rimate fu che mi evitassero la messa quotidiana alle sette del mattino. Oltre a scrivere le mie stupidaggini, facevo il solista nel coro, disegnavo caricature scherzose, recitavo poesie nelle circostanze solenni, e tante altre cose fuori orario e fuori luogo, al punto che nessuno capiva in quali ore studiassi. Il motivo era il più semplice: non studiavo.

In mezzo a tanto dinamismo superfluo, non capisco ancora perché gli insegnanti si occupassero tanto di me senza levare voci di scandalo per la mia pessima ortografia. Al contrario di mia madre, che nascondeva a papà alcune mie lettere per non farlo morire, e altre me le restituiva corrette e talvolta con i suoi complimenti per certi progressi grammaticali e per il buon uso delle parole. Ma di lì a due anni non ci furono miglioramenti apprezzabili. Oggi il mio problema è sempre lo stesso: non sono mai riuscito a capire perché vengono contemplate lettere mute o due lettere diverse con lo stesso suono, e tante altre forme oziose.

Fu così che scoprii una vocazione destinata ad accompagnarmi per tutta la vita: il piacere di chiacchierare con allievi più anziani di me. Anche oggi, in riunioni di giovani che potrebbero essere miei nipoti, devo fare uno sforzo per non sentirmi più ragazzo di loro. Sicché divenni amico di due allievi più anziani che in seguito furono miei compagni in momenti storici della mia vita. Uno era Juan B. Fernández, figlio di uno dei tre fondatori e proprietari del giornale «El Heraldo», a Barranquilla, presso il quale feci i miei primi sgorbi per la stampa, e presso il quale lui si formò dai suoi primi scritti fino alla direzione generale. L’altro era Enrique Scopell, figlio di un fotografo cubano leggendario nella città, e lui stesso fotoreporter. Tuttavia, la mia gratitudine nei suoi confronti non fu tanto per i nostri lavori comuni al giornale, quanto per il suo mestiere di conciatore di pelli selvagge che esportava in mezzo mondo. In uno dei miei primi viaggi all’estero mi regalò quella di un caimano lungo tre metri.

«Questa pelle costa un patrimonio» mi disse senza drammaticità «ma ti consiglio di non venderla finché non starai per morire di fame.»

Mi domando ancora fino a che punto il saggio Quique Scopell non sapesse che stava dandomi un amuleto eterno, perché in realtà avrei dovuto venderla molte volte nei miei anni di carestie ricorrenti. Tuttavia, la conservo ancora oggi, polverosa e quasi pietrificata, perché da quando me la porto in valigia attraverso il mondo intero non mi è mai più mancato un centesimo per mangiare.

Gli insegnanti gesuiti, così severi in aula, erano diversi durante le ricreazioni, quando ci insegnavano quello che non dicevano al chiuso e si sfogavano con quello che avrebbero davvero voluto insegnare. Per quanto possibile alla mia età, credo di ricordare che tale differenza la si notasse bene e ci fosse di aiuto. Padre Luis Posada, un bogotano molto giovane dalla mentalità progressista, che aveva lavorato per molti anni in settori sindacali, aveva un archivio di schede con ogni sorta di piste enciclopediche sintetiche, in particolare su libri e autori. Padre Ignacio Zaldívar era un basco selvatico che continuai a frequentare a Cartagena fino alla sua buona vecchiaia nel convento di San Pedro Claver. Padre Eduardo Núñez era già molto avanti nella redazione di una storia monumentale della letteratura colombiana, della cui sorte non ho mai più avuto notizia. Il vecchio padre Manuel Hidalgo, maestro di canto, già molto anziano, scopriva le vocazioni per conto suo e si permetteva incursioni in musiche pagane che non erano previste.

Con il padre Pieschacón, il rettore, feci qualche chiacchierata casuale, e me n’è rimasta solo la certezza che mi considerava un adulto, non solo per gli argomenti che venivano dibattuti ma anche per le spiegazioni audaci. Nella mia vita fu decisivo per chiarirmi le idee sul cielo e sull’inferno, che non riuscivo a conciliare con i dati del catechismo per via di semplici ostacoli geografici. Contro tali dogmi il rettore intervenne con le sue idee coraggiose. Il cielo era, al di là di ogni complicazione teologica, la presenza di Dio. L’inferno, naturalmente, era il contrario. Ma in due circostanze mi confessò il suo problema secondo cui «comunque nell’inferno c’era fuoco», ma non riusciva a spiegarlo. Più per queste lezioni durante le pause che per quelle vere e proprie, terminai l’anno con il petto corazzato di medaglie.

Le mie prime vacanze a Sucre cominciarono una domenica alle quattro del pomeriggio, su un molo adorno di ghirlande e palloncini colorati, e una piazza trasformata in un bazar natalizio. Non appena ebbi posato piede a terra, una ragazza bellissima, bionda e con una spontaneità importuna mi si appese al collo e mi soffocò di baci. Era mia sorella Carmen Rosa, la figlia di mio papà prima del matrimonio, che era andata a trascorrere qualche tempo con la sua famiglia sconosciuta. Quella volta arrivò pure un altro figlio di papà, Abelardo, un bravo sarto che installò il suo laboratorio su un lato della piazza principale e fu mio maestro di vita durante la pubertà.

La casa nuova e da poco ammobiliata aveva un’aria da festa e un fratello nuovo: Jaime, nato in maggio sotto il buon segno dei Gemelli, oltre che settimino. Non lo seppi fino all’arrivo, perché i genitori sembravano risoluti a moderare le nascite annuali, ma mia madre si affrettò a spiegarmi che quello era un tributo a santa Rita per la prosperità che era entrata in casa. Era ringiovanita e allegra, più canterina che mai, e papà fluttuava in un’atmosfera di buon umore, con l’ambulatorio zeppo e la farmacia ben provvista, soprattutto la domenica quando arrivavano i pazienti dai monti vicini. Non so se sia mai venuto a sapere che quell’affluenza obbediva in effetti alla sua fama di buon guaritore, sebbene la gente di campagna non l’attribuisse alle virtù omeopatiche dei suoi globuletti di zucchero e alle sue acque prodigiose, ma alle sue buone arti di stregone.

Sucre era migliore che nel ricordo, grazie alla tradizione secondo cui nelle feste di Natale gli abitanti si dividevano nei suoi due grandi quartieri: Zulia, a sud, e Congoveo, a nord. A parte altre sfide secondarie, c’era un concorso a base di carri allegorici che rappresentavano in tornei artistici la rivalità storica dei quartieri. La notte della vigilia di Natale, infine, si concentravano sulla piazza principale, in mezzo a grandi competizioni, e il pubblico decideva quale dei due quartieri era il vincitore dell’anno.

Carmen Rosa contribuì fin dal suo arrivo a un nuovo splendore della festività. Era moderna e maliziosa, e divenne la regina di tutti i balli con una coda di pretendenti in scombuglio. Mia madre, tanto gelosa delle sue figlie, non lo era con lei, e al contrario le facilitava i fidanzamenti che introdussero una nota insolita nella casa. Fu un rapporto di complicità, come mia madre non aveva mai avuto con le sue figlie. Quanto ad Abelardo, risolse la sua vita altrimenti, in un laboratorio di un solo vano diviso da un paravento. Come sarto gli andò bene, ma non come con la sua flemma da stallone, perché era più il tempo che passava ben accompagnato sul letto dietro il paravento, che solo e annoiato alla macchina da cucire.

Durante quelle vacanze mio padre ebbe la strana idea di iniziarmi agli affari. «Perché non si sa mai» mi avvertì. In primo luogo mi insegnò a riscuotere a domicilio i sospesi della farmacia. Uno di quei giorni mi mandò a riscuoterne diversi a L’Ora, un bordello senza pregiudizi nei dintorni dell’abitato.

Mi affacciai alla porta socchiusa di una stanza che dava sulla strada, e vidi una delle donne della casa che faceva la siesta su una branda di cuoio, scalza e con una sottoveste che non riusciva a coprirle le cosce. Prima che potessi parlarle si sedette sul letto, mi guardò semiaddormentata e mi domandò cosa volevo. Le dissi che avevo un messaggio di mio padre per don Eligio Molina, il proprietario. Ma invece di ragguagliarmi mi ordinò di entrare e mettere il paletto alla porta, e con l’indice mi fece un segno che mi chiarì tutto:

«Vieni qui.»

Ci andai, e a mano a mano che mi avvicinavo, il suo respiro affannato riempiva la stanza come un fiume in piena, finché non riuscì ad afferrarmi per un braccio con la mano destra e mi infilò la sinistra dentro la patta. Sentii un terrore delizioso.

«Sicché tu sei figlio del dottore dei globuletti» mi disse, mentre mi palpava dentro i pantaloni con cinque dita agili che sembrava fossero dieci. Mi tolse i pantaloni senza smettere di sussurrarmi parole tiepide all’orecchio, si sfilò la sottoveste dalla testa e si distese supina sul letto con le sole mutandine a fiori rossi. «Queste sì che me le togli tu» mi disse. «È il tuo dovere di uomo.»

Le tirai via l’indumento, ma nella fretta non riuscii a toglierglielo, e dovette aiutarmi con le gambe ben tese e un movimento rapido da nuotatrice. Poi mi sollevò di peso per le ascelle e mi sistemò sopra di lei alla maniera accademica del missionario. Il resto lo fece da sé, finché non morii da solo sopra di lei, sguazzando nella zuppa di cipolle delle sue cosce da puledra.

Si riposò in silenzio, su un fianco, guardandomi fisso negli occhi e io reggevo il suo sguardo con l’illusione di ricominciare, adesso senza spavento e con più tempo. D’improvviso mi disse che non mi faceva pagare i due pesos del suo servizio perché io non ero andato lì per quello. Poi si distese supina e mi scrutò in viso.

«Inoltre» mi disse «sei il fratello giudizioso di Luis Enrique, vero? Avete la stessa voce.»

Ebbi l’innocenza di domandarle perché lo conosceva.

«Non essere stupido» scoppiò a ridere. «Se ho qui persino un paio di sue mutande che gli ho dovuto lavare l’ultima volta.»

Mi sembrò un’esagerazione per l’età di mio fratello, ma quando me le mostrò mi accorsi che era vero. Poi saltò nuda giù dal letto con una grazia da ballerina, e mentre si vestiva mi spiegò che alla porta successiva della casa, a sinistra, c’era don Eligio Molina. Infine mi domandò:

«È la tua prima volta, vero?»

Il cuore mi fece un balzo.

«Macché» le mentii «l’avrò già fatto sette volte.»

«Comunque» disse lei con un gesto di ironia «dovresti dire a tuo fratello che ti insegni un po’.»

Quel debutto mi diede uno slancio vitale. Le vacanze andavano da dicembre a febbraio, e mi domandai quante volte avrei dovuto trovare due pesos per tornare da lei. Mio fratello Luis Enrique, che era ormai un autentico veterano della brigata, scoppiava dal ridere perché uno della nostra età doveva pagare per una cosa che erano in due a fare nello stesso tempo e che rendeva felici entrambi.

Secondo lo spirito feudale della Mojana, i signori della terra si dilettavano a iniziare le vergini dei loro feudi e dopo qualche notte di mal uso le lasciavano alla mercé della loro sorte. C’era da scegliere fra quelle che si mettevano in caccia sulla piazza dopo i balli. Tuttavia, sempre durante quelle vacanze mi facevano la stessa paura del telefono e le guardavo passare come nuvole sull’acqua. Non avevo un istante di requie per la desolazione che mi aveva lasciato in corpo la mia prima avventura casuale. Ancora oggi non credo sia esagerato credere che quella fosse la causa dell’ispido stato d’animo in cui tornai alla scuola, e completamente obnubilato da uno sproposito geniale del poeta di Bogotá don José Manuel Marroquín, che faceva impazzire il pubblico fin dalla prima strofa:

Adesso che i ladri cagnano, adesso che i canti gallano,

adesso che albando il gallo gli alti suoni campanano;

e che i ragli asinano e che i gorgheggi uccellano,

e che i fischi guardianotturnano e che i grugniti maialano,

e che l’aurorata rosa gli estesi dori campa,

imperlando liquide verti qual io lacrimo spargi

e freddando di brivido anche se il divampa anima,

vengo a sospirare i miei slanci finestro dei tuoi sotto.

Non solo introducevo il disordine dove passavo recitando i versi interminabili della poesia, ma imparai anche a parlare con la fluidità di un nativo di chissà dove. Mi accadeva spesso: rispondevo qualsiasi cosa, ma quasi sempre era così strampalata, che gli insegnanti se la svignavano. Qualcuno dovette inquietarsi per la mia salute mentale, allorché a un esame gli diedi una risposta giusta, ma di primo acchito indecifrabile. Non ricordo che ci fosse malafede in quegli scherzi facili che divertivano tutti.

Mi colpì il fatto che i sacerdoti mi parlavano come se avessero perso la ragione, e io stavo loro dietro. Un altro motivo di allarme fu che inventai parodie dei cori sacri con testi pagani che per fortuna nessuno intese. Il mio responsabile, d’accordo con i miei genitori, mi portò da uno specialista che mi fece un esame sfiancante ma molto divertente, perché oltre alla sua rapidità mentale aveva una simpatia personale e un metodo irresistibile. Mi fece leggere uno stampato con frasi sottosopra che io dovevo mettere a posto. Lo feci con tale entusiasmo, che il medico non resistette alla tentazione di mescolarsi al mio gioco, ed escogitammo combinazioni così ingegnose che ne prese nota per inserirle nei suoi esami futuri. Al termine di un’indagine minuziosa sulle mie consuetudini mi domandò quante volte mi masturbavo. Gli diedi la prima risposta che mi venne in mente: non avevo mai osato farlo. Non mi credette, ma mi avvertì come per caso che la paura era un fattore negativo per la salute sessuale, e la sua stessa incredulità mi sembrò più che altro un incitamento. Mi sembrò un uomo stupendo, che da adulto volli incontrare quando facevo già il giornalista a «El Heraldo», affinché mi raccontasse le conclusioni private che aveva tratto dal mio esame, ma venni a sapere solo che si era trasferito negli Stati Uniti da anni. Uno dei suoi antichi colleghi fu più esplicito e mi disse con un grande affetto che non c’era nulla di strano se si trovava in un manicomio a Chicago, perché gli era sempre sembrato che stesse peggio dei suoi pazienti.

La diagnosi fu un esaurimento nervoso aggravato dal leggere dopo i pasti. Mi raccomandò un riposo assoluto di due ore durante la digestione, e un’attività fisica più intensa degli sport di rigore. Mi stupisce ancora la serietà con cui i miei genitori e i miei insegnanti presero le sue prescrizioni. Mi controllarono le letture, e più di una volta mi tolsero il libro quando mi trovarono a leggere in classe sotto il banco. Mi esonerarono dalle materie difficili e mi costrinsero a fare un’attività fisica di parecchie ore al giorno. Così, mentre gli altri erano in aula, io giocavo da solo nel cortile del basket facendo canestri come un babbeo e recitando a memoria. I miei compagni di classe si divisero fin dal primo momento: quelli che pensavano davvero che fossi matto da sempre, quelli che credevano facessi il matto per godermi la vita e quelli che seguitarono a trattarmi come se i matti fossero stati gli insegnanti. Da quei giorni viene la versione secondo cui fui espulso dalla scuola perché tirai un calamaio pieno di inchiostro contro l’insegnante di aritmetica mentre scriveva esercizi sulla regola del tre alla lavagna. Per fortuna, papà la intese in maniera semplice e decise che tornassi a casa senza finire l’anno né sprecare ulteriormente tempo e denaro per un disturbo che poteva essere solo un’affezione epatica.

Per mio fratello Abelardo, invece, non c’erano problemi nella vita che non si risolvessero a letto. Mentre le mie sorelle usavano tutta la loro compassione, lui mi insegnò la ricetta magica non appena mi vide entrare nel suo laboratorio:

«A te quello che manca è una bella gnocca.»

La prese così sul serio che quasi tutti i giorni se ne andava a giocare a biliardo e mi lasciava dietro il paravento della sartoria con amiche sue di ogni pelo, e mai con la stessa. Fu una stagione di spropositi creativi, che sembrarono confermare la diagnosi clinica di Abelardo, perché l’anno dopo tornai alla scuola con tutto il mio giudizio.

Non ho mai dimenticato la gioia con cui mi accolsero di ritorno alla scuola San José e l’ammirazione che tributarono ai globuletti di mio padre. Questa volta non andai ad abitare dai Valdeblánquez, che in casa loro non ci stavano più per via della nascita del secondo figlio, bensì a casa di don Eliécer García, un fratello della mia nonna paterna, famoso per la sua bontà e la sua rettitudine. Aveva lavorato in una banca fino all’età della pensione, e a commuovermi fu soprattutto la sua passione eterna per la lingua inglese. La studiò per tutta la vita fin dall’alba, e di sera fino a molto tardi, facendo esercizi cantati con un’ottima voce e un buon accento, finché glielo permise l’età. Nei giorni di festa andava al porto in caccia di turisti per parlare con loro, e arrivò ad avere una padronanza come quella che aveva sempre avuto in spagnolo, ma la sua timidezza gli impedì di parlarla con persone conosciute. I suoi tre figli maschi, tutti più vecchi di me, e sua figlia Valentina, non riuscirono mai ad ascoltarlo.

Grazie a Valentina – che fu mia grande amica e una lettrice ispirata – scoprii l’esistenza del movimento Sabbia e Cielo, formato da un gruppo di poeti giovani che si erano proposti di rinnovare la poesia della costa caraibica grazie al buon esempio di Pablo Neruda. In realtà erano una replica locale del gruppo Pietra e Cielo che in quegli anni imperava nei caffè dei poeti di Bogotá e sui supplementi letterari diretti da Eduardo Carranza, all’ombra dello spagnolo Juan Ramón Jiménez, nel salutare intento di spazzare via le foglie morte del XIX secolo. Erano solo una mezza dozzina di giovani appena usciti dall’adolescenza, ma avevano fatto irruzione con tanta forza nei supplementi letterari della costa che cominciavano a essere guardati come una grande promessa artistica.

Il leader di Sabbia e Cielo si chiamava César Augusto del Valle, sui ventidue anni, e aveva portato il suo impeto rinnovatore non solo nei temi e nei sentimenti ma anche nell’ortografia e nelle leggi grammaticali delle sue poesie. Ai puristi sembrava un eretico, agli accademici sembrava un imbecille e ai classicisti sembrava un energumeno. Tuttavia, il fatto era che al di là della sua militanza contagiosa – come Neruda – era un romantico incorreggibile.

Mia cugina Valentina mi portò una domenica nella casa dove César abitava con i genitori, nel quartiere di San Roque, il più frenetico della città. Era un giovane dalle ossa robuste, asciutto e magro, con grossi denti da coniglio e i capelli scarruffati dei poeti della sua epoca. E, soprattutto, bisboccione e sbracato. La sua casa, di classe medio bassa, era tappezzata di libri senza spazio per uno in più. Suo padre era un uomo serio e piuttosto triste, con un’aria da impiegato in pensione, e sembrava tormentato dalla vocazione sterile del figlio. La madre mi accolse con una certa compassione quasi fossi stato un altro figlio afflitto dallo stesso male che l’aveva fatta piangere tanto per il suo.

Quella casa fu per me la rivelazione di un mondo che forse a quattordici anni intuivo, ma non avevo mai immaginato fino a che punto. A partire dal primo giorno divenni il suo visitatore più assiduo, e sottraevo così tanto tempo al poeta che ancora oggi non mi spiego come facesse a sopportarmi. Sono arrivato a pensare che mi usasse per professare le sue teorie letterarie, forse arbitrarie ma affascinanti, con un interlocutore stupefatto ma inoffensivo. Mi prestava libri di poeti che non avevo mai sentito nominare, e ne parlavo con lui senza la minima consapevolezza della mia audacia. Soprattutto nel caso di Neruda, la cui Poesia Venti imparai a memoria per far perdere le staffe a qualche gesuita che non frequentava quei territori poetici. In quei giorni l’ambiente culturale della città si agitò per una poesia di Meira Delmar a Cartagena de Indias che invase tutti gli ambienti della costa. Fu tale la maestria della dizione e della voce con cui la lesse César del Valle, che la imparai a memoria alla seconda lettura.

Molte altre volte non potevamo parlare perché César stava scrivendo alla sua maniera. Camminava per stanze e corridoi come in un altro mondo, e ogni due o tre minuti passava davanti a me come un sonnambulo, e d’improvviso si sedeva davanti alla macchina, scriveva un verso, una parola, un punto e virgola forse, e riprendeva a camminare. Io lo osservavo scombussolato dall’emozione celestiale di star scoprendo l’unico e segreto modo di scrivere la poesia. Fu sempre così nei miei anni alla scuola san José, che mi diedero una base di retorica per liberare i miei demoni. L’ultima notizia che ebbi di quel poeta indimenticabile, due anni dopo a Bogotá, fu un telegramma di Valentina con le uniche tre parole che non ebbe il cuore di firmare: “È morto César”.

La mia prima sensazione in una Barranquilla senza i miei genitori fu la consapevolezza del libero arbitrio. Avevo amicizie che non si limitavano alla scuola. Fra queste Álvaro del Toro – che mi faceva da seconda voce declamando durante le ricreazioni – e la tribù degli Arteta, con cui facevo sortite nelle librerie e al cinema. L’unico limite che mi avevano imposto in casa dello zio Eliécer, per tutelare la loro responsabilità, fu che non rincasassi dopo le otto di sera.

Un giorno che aspettavo César del Valle leggendo nel salotto di casa sua, era venuta a cercarlo una donna stupefacente. Si chiamava Martina Fonseca ed era una bianca versata in uno stampo da mulatta, intelligente e autonoma, che poteva benissimo essere l’amante del poeta. Per due o tre ore vissi in pienezza il piacere di chiacchierare con lei, finché César non rincasò e se ne andarono via insieme senza dire dove. Non seppi più nulla di lei fino al Mercoledì delle Ceneri di quell’anno, quando uscii dalla messa grande, e la trovai che mi aspettava su una panchina del parco. Credetti che fosse un’apparizione. Indossava un vestito di lino ricamato che purificava la sua bellezza, una collana di bigiotteria e un fiore di fuoco vivo nella scollatura. Tuttavia, quanto più adesso apprezzo nel ricordo è il modo in cui mi invitò a casa sua senza un minimo indizio di premeditazione, senza che tenessimo conto del segno sacro della croce di cenere che entrambi avevamo sulla fronte. Suo marito, che era pilota di un battello sul fiume Magdalena, stava facendo il suo consueto viaggio di dodici giorni. Cosa c’era di strano se sua moglie un sabato casuale mi invitava a prendere una cioccolata con pasticcini? Solo che il rituale si ripeté per tutto il resto dell’anno mentre il marito era sul battello, e sempre dalle quattro alle sette, che era l’orario del programma per giovani del cinema Rex che a casa di mio zio Eliécer mi serviva da pretesto per stare con lei.

La sua specialità professionale era preparare i maestri delle elementari per gli avanzamenti. Si occupava degli allievi più brillanti nelle sue ore libere offrendo loro cioccolata e pasticcini, sicché il turbolento vicinato non badò al nuovo allievo del sabato. Fu stupefacente la fluidità di quell’amore segreto che arse d’un fuoco folle da marzo fino a novembre. Dopo i due primi sabati credetti che non avrei potuto sopportare oltre il desiderio smisurato di stare di continuo con lei.

Eravamo in salvo da ogni rischio, perché il marito annunciava in codice il suo arrivo in città affinché lei sapesse che stava entrando nel porto. Così accadde il terzo sabato dei nostri amori, mentre stavamo a letto e si sentì il bramito lontano. Lei rimase in attesa.

«Sta’ fermo» mi disse, e aspettò altri due bramiti. Non balzò giù dal letto, come io mi aspettavo in base alla mia stessa paura, ma proseguì impavida: «Ci rimangono ancora più di tre ore di vita».

Lei me l’aveva descritto come «un negraccio di due metri e una spanna, con una verga da artigliere». Fui sul punto di infrangere le regole del gioco a causa dell’artigliata della gelosia, e non tanto per dire: volevo ammazzarlo. Intervenne la maturità di lei, che a partire da allora mi guidò tenendomi a guinzaglio attraverso gli scogli della vita reale come un lupacchiotto con una pelle da agnello.

Andavo molto male a scuola e non volevo saperne, ma Martina si occupò del mio calvario scolastico. La stupì l’infantilismo di saltare le lezioni per compiacere il demone di un’irresistibile vocazione alla vita. «È logico» le dissi. «Se questo letto fosse la scuola e tu fossi l’insegnante, io sarei il numero uno non solo della classe ma di tutta la scuola.» Lei lo prese come un esempio azzeccato.

«È proprio questo che faremo» mi disse.

Senza troppi sacrifici avviò l’impresa della mia riabilitazione con un orario fisso. Mi seguiva nel fare i compiti e mi preparava per la settimana successiva fra ruzzi da letto e rabbuffi da madre. Se i compiti non erano stati preparati bene e per tempo mi puniva con un sabato di lontananza ogni tre errori. Non ne feci mai più di due. Il mio cambiamento cominciò a essere notato a scuola.

Comunque, nella pratica mi insegnò una formula infallibile che per disgrazia mi servì solo l’ultimo anno delle superiori: se prestavo attenzione alle lezioni e facevo io stesso i compiti invece di copiarli dai miei compagni, potevo ottenere buoni voti e leggere a mio piacimento nelle ore libere, e continuare a farmi la mia vita senza spossanti notti in bianco né spaventi inutili. Grazie a questa ricetta magica fui il primo della classe in quell’anno 1942 con medaglia all’eccellenza e menzioni d’onore di ogni sorta. Ma i ringraziamenti confidenziali andarono ai medici per come mi avevano guarito bene dalla pazzia. Durante la festa mi resi conto che c’era una brutta dose di cinismo nell’emozione con cui negli anni precedenti io ringraziavo per gli elogi ottenuti in cambio di meriti che non erano miei. L’ultimo anno, allorché furono meritati, mi sembrò dignitoso non ringraziare. Ma contraccambiai di tutto cuore con la poesia Il circo, di Guillermo Valencia, che recitai completa senza suggeritore durante la cerimonia conclusiva, e più spaventato di un cristiano davanti ai leoni.

Per le vacanze di quel buon anno avevo previsto di andare a trovare la nonna Tranquilina ad Aracataca, ma lei dovette recarsi d’urgenza a Barranquilla per operarsi alle cataratte. La gioia di rivederla fu completata da quella del dizionario del nonno che mi portò in dono. Non ero mai stato consapevole che stava perdendo la vista, e non aveva voluto confessarlo, finché non le era più stato possibile muoversi dalla sua camera. L’operazione all’ospedale della carità fu rapida e si concluse con una buona prognosi. Quando le tolsero le bende, seduta sul letto, aprì gli occhi radiosi della sua nuova gioventù, le si illuminò il viso e riassunse la sua gioia in una sola parola:

«Vedo.»

Il chirurgo volle precisare fino a che punto ci vedeva e lei spazzò la stanza con il suo sguardo nuovo ed enumerò ogni cosa con una precisione ammirevole. Il medico rimase a bocca aperta, perché solo io sapevo che le cose enumerate dalla nonna non erano quelle che aveva di fronte nella stanza dell’ospedale, ma quelle della sua camera da letto di Aracataca, che ricordava a memoria e nel loro ordine. Mai più recuperò la vista.

I miei genitori insistettero che passassi le vacanze con loro a Sucre e che poi riaccompagnassi la nonna. Molto più invecchiata di quanto fosse il caso alla sua età, e con la mente alla deriva, le si era affinata la bellezza della voce e cantava di più e con più ispirazione che mai. Mia madre badò che la tenessero pulita e ben sistemata, come una bambola enorme. Era chiaro che si rendeva conto del mondo, ma lo riferiva al passato. Soprattutto i programmi radiofonici, che risvegliavano in lei un interesse infantile. Riconosceva le voci dei diversi presentatori che identificava come amici della sua gioventù a Riohacha, perché una radio non era mai entrata nella sua casa di Aracataca. Contraddiceva o criticava qualche commento dei presentatori, discuteva con loro i temi più svariati, o li rimproverava per qualsiasi errore grammaticale come se fossero stati in carne e ossa vicino al suo letto, e rifiutava di lasciarsi cambiare gli indumenti finché non si fossero congedati. Allora rispondeva con la sua buona educazione intatta:

«Le auguro una bellissima serata, signore.»

Molti misteri su cose smarrite, segreti conservati o questioni proibite si chiarirono nei suoi monologhi: chi si era portato via nascosta in un baule la pompa dell’acqua scomparsa dalla casa di Aracataca, chi era davvero stato il padre di Matilde Salmona, i cui fratelli l’avevano confuso con un altro e gliel’avevano fatta pagare con una pallottola.

Le mie prime vacanze a Sucre senza Martina Fonseca non furono facili, ma non c’era stata la sia pur minima possibilità che venisse con me. La sola idea di non vederla per due mesi mi era sembrata irreale. Ma a lei no. Al contrario, quando affrontai l’argomento, mi accorsi che, come sempre, era già tre passi davanti a me.

«Proprio di questo volevo parlarti» mi disse senza misteri. «Il meglio per entrambi sarebbe che te ne andassi a studiare da un’altra parte adesso che siamo matti da legare. Così ti renderai conto che la nostra storia non sarà mai qualcosa di più di quello che è già stata.»

La presi sullo scherzo.

«Parto domani stesso e torno fra tre mesi per rimanere con te.»

Lei mi replicò su un ritmo di tango:

«Ah, ah, ah, ah!»

Allora capii che Martina era facile da convincere quando diceva sì ma mai e poi mai quando diceva no. Sicché raccolsi il guanto, bagnato di lacrime, e mi proposi di essere un altro nella vita che lei aveva pensato per me: un’altra città, un’altra scuola, altri amici e persino un altro modo di essere. Lo pensai appena. Con l’autorità delle mie molte medaglie, la prima cosa che dissi a mio padre con una certa solennità fu che non sarei tornato alla scuola San José. Né a Barranquilla.

«Dio sia benedetto!» disse lui. «Mi ero sempre domandato da dove ti fosse venuta la romanticheria di studiare dai gesuiti.»

Mia madre ignorò la frase.

«Se non lì, deve andare a Bogotá» disse.

«Allora non andrà da nessuna parte» replicò subito papà, «perché non ci sono soldi che bastino per la capitale.»

È strano, ma la sola idea di non proseguire gli studi, che era stato il sogno della mia vita, mi sembrò allora inverosimile. Al punto da appellarmi a un sogno che non mi era mai sembrato realizzabile.

«Ci sono borse di studio» dissi.

«Moltissime» disse papà «ma per i ricchi.»

In parte era vero, ma non per i favoritismi, bensì perché i tramiti erano difficili e le condizioni mal divulgate. A causa del centralismo, chiunque aspirasse a una borsa di studio doveva andare a Bogotá, mille chilometri per otto giorni di viaggio che costavano quasi quanto tre mesi nell’internato di un buon collegio. Ma anche così poteva essere inutile. Mia madre si esasperò:

«Quando si apre la macchina dei soldi si sa dove si comincia ma non dove si finisce.»

Inoltre, c’erano altri obblighi in sospeso. Luis Enrique, che aveva un anno meno di me, era stato iscritto a due scuole locali ed entrambe le aveva abbandonate dopo pochi mesi. Margarita e Aida studiavano con profitto alle scuole elementari delle monache, ma cominciavano già a pensare a una città vicina e meno costosa per le superiori. Gustavo, Ligia, Rita e Jaime non erano ancora casi urgenti, ma crescevano a un ritmo minaccioso. Sia loro sia i tre nati dopo mi trattarono sempre come uno che arrivava solo per andarsene.

Fu il mio anno decisivo. L’attrazione maggiore di ogni carro erano le ragazze scelte per la loro grazia e la loro bellezza, e vestite come regine, che recitavano versi con allusioni alla guerra simbolica fra le due parti del paese. Io, ancora mezzo forestiero, mi godevo il privilegio di essere neutrale, e mi comportavo di conseguenza. Quell’anno, però, cedetti dinanzi alle suppliche dei capitani di Congoveo affinché scrivessi i versi per mia sorella Carmen Rosa, che sarebbe stata la regina di un carro monumentale. Accettai con piacere, ma esagerai negli attacchi contro l’avversario per la mia ignoranza delle regole del gioco. Non mi rimase altra scelta che rimediare allo scandalo con due poesie di pace: una riparatrice per la bella di Congoveo e l’altra di riconciliazione per la bella di Zulia. L’incidente divenne pubblico. Il poeta anonimo, poco conosciuto dalla gente, fu l’eroe della giornata. L’episodio mi presentò in società e mi valse l’amicizia di entrambe le parti. Da allora innanzi non ebbi abbastanza tempo per aiutare in commedie infantili, bazar di beneficenza, tombole di solidarietà e persino nel discorso di un candidato alla giunta municipale.

Luis Enrique, che già si profilava come l’ispirato chitarrista che sarebbe diventato, mi insegnò a suonare quel chitarrino che si chiama tiple. Con lui e con Filadelfo Velilla ci trasformammo nei re delle serenate, con il bel premio che alcune ragazze omaggiate si vestivano in fretta e furia, aprivano la casa, svegliavano le vicine e, tutti insieme, facevamo festa fino all’ora di colazione. Quell’anno il gruppo si arricchì con l’entrata di José Palencia, nipote di un latifondista ricco e prodigo. José era un musicista innato capace di suonare qualsiasi strumento gli capitasse fra le mani. Aveva una figura da artista del cinema, ed era un bravissimo ballerino, con un’intelligenza incredibile e una fortuna più invidiata che invidiabile negli amori di passaggio.

Io, invece, non sapevo ballare, e non riuscii a imparare neppure a casa delle signorine Loiseau, sei sorelle invalide dalla nascita, che tuttavia davano lezioni di buon ballo senza alzarsi dalle loro sedie a dondolo. Mio padre, che non fu mai insensibile alla fama, si avvicinò a me con una prospettiva nuova. Per la prima volta dedicammo lunghe ore a chiacchierare. Ci conoscevamo appena. In realtà, a ripensarci oggi, non vissi con i miei genitori più di tre anni in tutto, sommando quelli di Aracataca, di Barranquilla, di Cartagena, di Sincé e di Sucre. Fu un’esperienza molto piacevole che mi permise di conoscerli meglio. Mia madre me lo disse: «È bello che tu sia diventato amico di tuo papà». Di lì a qualche giorno, mentre preparava il caffè in cucina, mi disse ancora:

«Tuo papà è molto orgoglioso di te.»

Il giorno dopo mi svegliò in punta di piedi e mi soffiò all’orecchio: «Tuo papà ti ha preparato una sorpresa». In effetti, quando scese a far colazione, lui stesso mi diede la notizia in presenza di tutti con un’enfasi solenne:

«Sistema la tua roba, che parti per Bogotá.»

Il primo impatto fu una grande frustrazione, perché in quel momento avrei desiderato rimanere immerso in una bisboccia continua. Ma prevalse l’innocenza. Quanto ai vestiti per le terre fredde, non ci furono problemi. Mio padre aveva un abito nero di lana di Scozia e un altro di velluto, e non riusciva a chiuderne nessuno alla vita. Sicché andammo da Pedro León Rosales, il cosiddetto sarto dei miracoli, e me li aggiustò secondo le mie misure. Mia madre mi comprò pure il soprabito di cammello di un senatore morto. Mentre me lo stavo provando a casa, mia sorella Ligia – che è veggente di natura – mi avvertì in segreto che il fantasma del senatore si aggirava di notte per casa sua con il soprabito addosso. Non le diedi retta, ma meglio se l’avessi fatto, perché quando me lo misi a Bogotá mi vidi nello specchio con la faccia del senatore morto. Lo impegnai per dieci pesos al Monte di Pietà e lo lasciai perdere.

L’atmosfera domestica era talmente migliorata che stavo per piangere al momento dei saluti, ma tutto si svolse punto per punto senza sentimentalismi. La seconda settimana di gennaio mi imbarcai a Magangué sul David Arango, il battello guida della Compagnia Navale Colombiana, dopo aver passato una notte da uomo libero. Il mio compagno di cabina era un angelo di duecentoventi libbre e glabro in tutto il corpo. Aveva il nome usurpato di Jack lo Squartatore, ed era l’ultimo sopravvissuto di una stirpe di lanciatori di coltello da circo dell’Asia Minore. A prima vista mi sembrò capace di strangolarmi mentre dormivo, ma nei giorni successivi mi resi conto che era solo quello che sembrava: un bebè gigante con un cuore troppo grosso per il suo corpo.

La prima sera ci fu una festa ufficiale, con orchestra e cena di gala, ma scappai in coperta, contemplai per l’ultima volta le luci del mondo che stavo per dimenticare senza dolore e piansi a mio agio fino all’alba. Oggi mi azzardo a dire che l’unica cosa per cui vorrei essere di nuovo bambino è godermi ancora una volta quel viaggio. Dovetti farlo spesso all’andata e al ritorno nei quattro anni che mi mancavano per terminare le superiori e altri due dell’università, e ogni volta imparai più cose sulla vita che a scuola, e meglio che a scuola. Nei periodi in cui le acque formavano una buona corrente, il viaggio di risalita durava cinque giorni da Barranquilla a Puerto Salgar, da dove si faceva una giornata di treno fino a Bogotá. In tempi di siccità, che erano i più divertenti per viaggiare se non si aveva fretta, poteva durare anche tre settimane.

I battelli avevano nomi facili e immediati: AtlanticoMedellínCapitán de CaroDavid Arango. I loro capitani, come quelli di Conrad, erano autoritari e di buona indole, mangiavano come barbari e non sapevano dormire soli nelle loro cabine da re. I viaggi erano lenti e incredibili. Noi passeggeri ci sedevamo sui ponti tutto il giorno a guardare i villaggi dimenticati, i caimani distesi con le fauci aperte in attesa di farfalle incaute, gli stormi di fenicotteri che si levavano in volo per paura della scia del battello, la dovizia di anatre delle paludi interne, i manati che cantavano sulle spiagge mentre allattavano i loro piccoli. Durante tutto il viaggio ci si svegliava all’alba frastornati dallo schiamazzo delle scimmie e dei pappagalli. Spesso, il lezzo nauseabondo di una mucca annegata interrompeva la siesta, immobile sul filo dell’acqua con un avvoltoio solitario dritto sul ventre.

Adesso è raro che si conosca qualcuno sugli aerei. Sui battelli fluviali noi studenti finivamo per sembrare una sola famiglia, perché ci mettevamo d’accordo tutti gli anni per ritrovarci nello stesso viaggio. Talvolta il battello si incagliava anche per quindici giorni su un banco di sabbia. Nessuno se ne preoccupava, in quanto la festa proseguiva, e una lettera del capitano sigillata con lo stemma del suo anello serviva da scusa per arrivare tardi a scuola.

Fin dal primo giorno mi colpì il più giovane di un gruppo familiare, che suonava la fisarmonica come perduto in un sogno, camminando per giorni interi sul ponte di prima classe. Non riuscii a sopportare l’invidia, perché da quando avevo ascoltato i primi fisarmonicisti di Francisco el Hombre alle feste del 20 luglio ad Aracatacaavevo preso a insistere che mio nonno mi comprasse quello strumento, ma mia nonna si era opposta con la solfa di sempre, secondo cui la fisarmonica era roba da barabba. Circa trent’anni dopo mi sembrò di riconoscere a Parigi l’elegante fisarmonicista del battello a un congresso mondiale di neurologi. Il tempo non era passato invano: si era fatto crescere una barba da zingaro e i vestiti gli erano cresciuti di due taglie, ma il ricordo della sua maestria era così vivido che non potevo sbagliarmi. Però, la sua reazione non avrebbe potuto essere più ispida quando gli domandai senza presentarmi:

«Come va la fisarmonica?»

Mi replicò stupito:

«Non capisco di cosa parla.»

Credetti di sprofondare per la vergogna, e gli feci le mie umili scuse per averlo confuso con uno studente che suonava la fisarmonica sul David Arango, agli inizi di gennaio del ’44. Allora si illuminò a quel ricordo. Era il colombiano Salomón Hakim, uno dei grandi neurologi di questo mondo. La delusione fu che aveva sostituito la fisarmonica con la bioingegneria.

Un altro passeggero mi colpì per la sua distanza. Era giovane, robusto, con una pelle rubiconda e occhiali da miope, e una calvizie prematura molto ben curata. Mi sembrò l’immagine perfetta del turista di Bogotá. Fin dal primo giorno si accaparrò la poltrona più comoda, sistemò diverse pile di libri nuovi su un tavolino e lesse senza batter ciglio dal mattino fin quando non lo distraevano le bisbocce della notte. Ogni giorno si presentò in sala da pranzo con una camicia da spiaggia diversa e fiorita, e fece colazione, pranzò, cenò e continuò a leggere da solo al tavolo più appartato. Non credo che avesse mai scambiato un saluto con qualcuno. Fra di me lo battezzai “il lettore insaziabile”.

Non resistetti alla tentazione di dare un’occhiata ai suoi libri. Perlopiù erano trattati indigesti di diritto pubblico, che leggeva di mattina, sottolineando e prendendo appunti in margine. Con la frescura verso sera leggeva romanzi. Fra questi, uno che mi lasciò attonito: Il sosia, di Dostoevski, che avevo cercato di rubare, senza riuscirci, in una libreria di Barranquilla. Avevo una voglia matta di leggerlo. Al punto che avrei voluto chiederglielo in prestito, ma non ne ebbi il coraggio. Uno di quei giorni si fece vedere con Il grande Meaulnes, di cui non avevo mai sentito parlare, ma che ben presto sarebbe diventato uno dei capolavori da me preferiti. Invece, io avevo con me solo libri già letti e irripetibili: Jeromín, di padre Coloma, che non finii mai di leggere; La voragine, di José Eustasio Rivera; Dagli Appennini alle Ande, di Edmondo de Amicis, e il dizionario del nonno che leggevo a pezzi per ore e ore. Al lettore implacabile, invece, il tempo non bastava mai per tutti quei libri. Quello che voglio dire e che non ho detto è che avrei dato qualsiasi cosa per essere lui.

Il terzo viaggiatore, naturalmente, era Jack lo Squartatore, il mio compagno di cabina, che parlava nel sonno in una lingua barbara per ore intere. Le sue tirate avevano un tono melodico che conferiva uno sfondo nuovo alle mie letture all’alba. Mi disse che non ne era consapevole, né sapeva che lingua poteva essere quella in cui sognava, perché da bambino si intendeva con quelli del suo circo in sei dialetti asiatici, ma li aveva persi tutti quand’era morto suo padre. Gli era rimasto solo il polacco, che era la sua lingua originale, ma riuscimmo a chiarire che neppure questa era quella che parlava nel sonno. Non ricordo una creatura più adorabile mentre lubrificava e provava il filo dei suoi coltelli sinistri sulla lingua rosea.

Il suo unico problema era stato il primo giorno in sala da pranzo quando aveva protestato con i camerieri perché non avrebbe potuto sopravvivere al viaggio se non gli avessero servito quattro porzioni. Il nostromo gli aveva spiegato che avrebbero potuto farlo qualora avesse pagato un supplemento con uno sconto speciale. Lui soggiunse che aveva viaggiato per i mari di tutto il mondo e ovunque gli avevano riconosciuto il diritto umano di non lasciarlo morire di fame. Il caso fu sottoposto al capitano, che decise molto alla colombiana di fargli servire due porzioni, e che i camerieri ci andassero con abbondanza come per distrazione. Quanto a lui, si aiutò spilluzzicando con la forchetta nei piatti dei compagni di tavola e di alcuni vicini inappetenti, che si divertivano dinanzi alle sue trovate. Bisognava essere lì per crederci.

Io non sapevo cosa fare di me stesso, finché alla Gloria non si imbarcò un gruppo di studenti che organizzavano trii e quartetti di notte, e cantavano belle serenate con boleri d’amore. Quando scoprii che avevano bisogno di un tiple mi offrii, provai con loro di pomeriggio e cantammo poi fino all’alba. Il tedio delle mie ore libere trovò rimedio grazie a una ragione del cuore: chi non canta non può immaginare cosa sia il piacere di cantare.

Una notte di luna piena ci svegliò un lamento lacerante che veniva dalla riva. Il capitano Clímaco Conde Abello, uno dei più famosi, diede ordine di cercare con i riflettori l’origine di quel pianto, ed era una femmina di manato che si era intrappolata fra i rami di un albero caduto. I marinai si buttarono in acqua, la legarono con una fune e riuscirono a liberarla. Era una creatura fantastica e commovente, un po’ donna e un po’ mucca, lunga quasi quattro metri. La sua pelle era livida e morbida, e il suo torso con grosse tette era quello di una madre biblica. Fu dallo stesso capitano Conde Abello che sentii dire per la prima volta che il mondo sarebbe finito se avessero continuato a uccidere gli animali del fiume, e proibì di sparare dal suo battello.

«Chi vuole uccidere qualcuno, vada a ucciderlo a casa sua!» gridò. «Non sulla mia nave.»

Il 19 gennaio 1961, diciassette anni dopo, lo ricordo come un giorno ingrato, per via di un amico che mi telefonò a Città di Messico e mi raccontò che il battello a vapore David Arango si era incendiato e trasformato in ceneri nel porto di Magangué. Riattaccai con la consapevolezza orribile che quel giorno terminava la mia giovinezza, e che il poco che ormai ci rimaneva del nostro fiume di nostalgie se n’era andato in malora. Oggi il fiume Magdalena è morto, con le sue acque marcite e i suoi animali estinti. I lavori di recupero, di cui tanto hanno parlato i successivi governi che non hanno fatto nulla, richiederebbero l’inserimento oculato di circa sessanta milioni di alberi, su un novanta per cento di terre di proprietà privata, i cui padroni dovrebbero rinunciare per il solo amore nei confronti della patria al novanta per cento dei loro introiti attuali.

Ogni viaggio dispensava grandi insegnamenti di vita che ci legavano in modo effimero ma indimenticabile a quella dei paesi di passaggio, cui il destino di molti di noi si intrecciò per sempre. Un celebre studente di medicina si mescolò senza essere invitato a una festa di nozze, ballò senza permesso con la donna più bella della festa e il marito lo ammazzò con uno sparo. Un altro si sposò durante una sbronza epica con la prima ragazza che gli piacque a Puerto Berrío, ed è sempre felice con lei e con i loro nove figli. José Palencia, il nostro amico di Sucre, aveva vinto una mucca a un concorso di suonatori di tamburo a Tenerife, e sempre lì la vendette per cinquanta pesos: una fortuna per l’epoca. Nell’immenso quartiere di tolleranza di Barrancabermeja, la capitale del petrolio, ci colse la sorpresa di trovare mentre cantava con l’orchestra di un bordello Ángel Casij Palencia, cugino primo di José, che era scomparso da Sucre senza lasciare traccia già l’anno prima. Il conto della bisboccia lo pagò l’orchestra fino all’alba.

Il mio ricordo più sgradevole è quello di una buia osteria di Puerto Berrío, da dove la polizia scacciò a manganellate quattro passeggeri, fra cui io, senza dare spiegazioni né ascoltarne, per poi arrestarci con l’accusa di aver stuprato una studentessa. Quando fummo arrivati al comando di polizia avevano già in cella e senza un solo graffio i veri colpevoli, certi fannulloni del posto che non avevano nulla a che vedere con il nostro battello.

Nello scalo finale, Puerto Salgar, bisognava sbarcare alle cinque del mattino vestiti per il clima delle terre alte. Gli uomini con abiti di panno nero, panciotto e bombetta e con i cappotti sul braccio, avevano mutato identità fra il gracidare dei rospi e il tanfo del fiume saturo di animali morti. All’ora dello sbarco ci fu una sorpresa. Un’amica dell’ultima ora aveva convinto mia madre ad aggiungermi anche un piccolo bagaglio da zotico con un’amaca di fibra d’agave, una coperta di lana e un vaso da notte di emergenza, il tutto avvolto in una stuoia di sparto e legato a croce con le corde dell’amaca stessa. I miei compagni musicisti si scompisciarono dal ridere vedendomi con un simile fardello nella culla della civiltà, e il più risoluto fece quanto io non avrei mai osato fare: lo buttò in acqua. La mia ultima immagine di quel viaggio indimenticabile fu quel bagaglio che tornava alle sue origini fluttuando sulla corrente.

Il treno di Puerto Salgar saliva come a gattoni fra le rocce nelle prime quattro ore. Nei tratti più ripidi faceva marcia indietro per prendere slancio e ritentava la salita con un ansito da drago. Talvolta era necessario che i passeggeri scendessero per alleggerire il peso, e risalire a piedi fino al cornicione successivo. I paesi lungo il percorso erano tristi e gelidi, e nelle stazioni deserte ci aspettavano solo le venditrici di tutta la vita che offrivano sotto i finestrini del vagone galline grasse e gialle, cucinate intere, e patate candide che sapevano di gloria. Lì conobbi per la prima volta una condizione del corpo sconosciuta e invisibile: il freddo. All’imbrunire, per fortuna, si aprivano d’improvviso fino all’orizzonte le savane immense, verdi e belle come un mare del cielo. Il mondo diveniva tranquillo e breve. L’atmosfera del treno diveniva diversa.

Mi ero completamente dimenticato del lettore insaziabile, quando spuntò fuori e si sedette davanti a me con un’aria di urgenza. Fu incredibile. L’aveva colpito un bolero che cantavamo nelle notti sul battello e mi chiese che glielo trascrivessi. Non mi limitai a farlo, ma gli insegnai pure a cantarlo. Mi stupirono il suo buon orecchio e la fiamma della sua voce quando lo cantò da solo, tutto giusto, fin dalla prima volta.

«Quella donna morirà sentendolo!» esclamò raggiante.

Così capii la sua ansia. Quando aveva sentito il bolero cantato da noi sul battello, si era detto che sarebbe stato una rivelazione per la fidanzata che l’aveva salutato tre mesi prima a Bogotá e che quella sera lo aspettava alla stazione. L’aveva risentito due o tre volte, ed era capace di ricostruirlo a pezzi, ma vedendomi solo sul sedile del treno aveva deciso di chiedermi il favore. Neppure io rinunciai allora all’audacia di dirgli con intenzione, e senza che c’entrasse, quanto mi aveva stupito sul suo tavolino un libro così difficile da trovare. La sua sorpresa fu autentica:

«Quale?»

«Il sosia

Rise compiaciuto.

«Non l’ho ancora finito» disse. «Ma è una delle cose più strane che mi siano capitate fra le mani.»

Non si spinse oltre. Mi ringraziò su tutti i toni per il bolero e si congedò con una forte stretta di mano.

Cominciava a fare notte quando il treno rallentò la marcia, passò per un deposito zeppo di ferraglia arrugginita e si fermò sotto una pensilina buia. Presi il baule per una maniglia e lo trascinai verso la strada prima che la folla mi travolgesse. Stavo per arrivare allorché qualcuno gridò:

«Giovanotto, giovanotto!»

Mi girai a guardare, come diversi giovani e altri meno giovani che si muovevano con me, quando il lettore insaziabile mi passò accanto e mi diede un libro senza fermarsi.

«Buona lettura!» mi gridò, e si perse nella ressa.

Il libro era Il sosia. Ero così confuso che non riuscii a rendermi conto di quello che mi era appena accaduto. Infilai il libro nella tasca del soprabito, e il vento gelido del crepuscolo mi investì quando uscii dalla stazione. Sul punto di soccombere lasciai il baule lì davanti e mi ci sedetti sopra per respirare l’aria che mi mancava. Non c’era un’anima per le strade. Il poco che riuscii a vedere era un viale sinistro e glaciale sotto una pioviggine tenue mescolata al nerofumo, a duemilaquattrocento metri di altitudine e con un’aria polare che ostacolava la respirazione.

Aspettai morto di freddo non meno di mezz’ora. Qualcuno doveva arrivare, perché mio padre aveva avvertito con un telegramma don Eliécer Torres Arango, un suo parente che si sarebbe preso cura di me. Ma in quel momento a preoccuparmi non era che qualcuno arrivasse o non arrivasse, bensì la paura di starmene seduto sopra un baule sepolcrale senza conoscere nessuno in quell’altra parte del mondo. D’improvviso scese da un taxi un uomo distinto, con un ombrello di seta e un cappotto di cammello che gli arrivava alle caviglie. Capii che era lui che aspettavo, Eliécer Torres Arango, anche se mi guardò appena e passò oltre, e non ebbi l’audacia di fargli un cenno. Entrò di corsa nella stazione, e ne uscì qualche minuto dopo senza un gesto di speranza. Infine mi scoprì e mi fece segno con l’indice:

«Tu sei Gabito, vero?»

Gli risposi con tutta l’anima:

«Più o meno.»

3. È un gioco di parole. Il termine escarabajo, scarafaggio, contiene l’avverbio bajo – sotto – che, rovesciato, diventa arriba – sopra – e, quindi, da escarabajo si passa a escararriba. (NdT)

4

Bogotá era allora una città remota e lugubre dove stava cadendo una pioviggine insonne fin dall’inizio del XVI secolo. Mi colpì che per le strade ci fossero troppi uomini di fretta, vestiti come lo ero io fin dall’arrivo, con abiti neri e cappelli duri. Invece non si vedeva neppure una donna di consolazione, cui era vietato l’ingesso nei caffè bui del centro commerciale, come ai sacerdoti in tonaca e ai militari in uniforme. Sui tram e negli orinatoi pubblici c’era una scritta triste: “Se non hai paura di Dio, abbi paura della sifilide”.

Mi impressionarono i cavalli giganteschi che tiravano i carri di birra, le scintille da fuochi d’artificio dei tram che giravano agli incroci e le interruzioni del traffico per lasciar passare i funerali a piedi sotto la pioggia. Erano i più lugubri, con carrozze di lusso e cavalli adorni di velluti e ciuffi di piume nere, con cadaveri di buone famiglie che si comportavano come gli inventori della morte. Sul sagrato della chiesa delle Nevi vidi dal taxi la prima donna per strada, snella e segreta, e con l’avvenenza di una regina in lutto, ma rimasi per sempre illuso a metà, perché aveva il viso coperto da un velo invalicabile.

Fu un crollo morale. La casa in cui trascorsi la notte era grande e confortevole, ma mi sembrò spettrale a causa del suo giardino buio con rose scure e un freddo che triturava le ossa. Era della famiglia Torres Gamboa, parenti di mio padre e conoscenti miei, ma durante la cena li vedevo come estranei imbacuccati com’erano in coperte. La mia impressione più forte fu quando scivolai fra le lenzuola e lanciai un grido d’orrore, perché le sentii fradice di un liquido gelido. Mi spiegarono che la prima volta accadeva sempre così e che a poco a poco mi sarei abituato alle stranezze del clima. Piansi per lunghe ore in silenzio prima di cadere in un sonno infelice.

Tale era il mio stato d’animo quattro giorni dopo l’arrivo, mentre camminavo di gran fretta contro il freddo e la pioviggine verso il ministero dell’Educazione, dove sarebbero state aperte le iscrizioni per il concorso nazionale alle borse di studio. La fila cominciava al terzo piano del ministero, davanti alla porta stessa degli uffici per l’iscrizione, e scendeva serpeggiando lungo le scale fino all’entrata principale. Lo spettacolo era deprimente. Quando smise di piovigginare, verso le dieci del mattino, la fila si prolungava per altri due isolati lungo Avenida Jiménez de Quesada, e mancavano ancora aspiranti che si erano rifugiati sotto i portici. Mi sembrò impossibile ottenere alcunché in quella ruffaraffa.

Poco dopo mezzogiorno sentii che qualcuno mi batteva leggermente sulla schiena. Era l’instancabile lettore del battello, che mi aveva individuato tra gli ultimi della fila, ma mi costò fatica riconoscerlo con la bombetta e i panni funebri della gente di Bogotá. Anche lui perplesso, mi domandò:

«Ma cosa cazzo fai qui?»

Glielo dissi.

«Che cosa divertente!» disse lui, morto dal ridere. «Vieni con me» e mi portò sottobraccio verso il ministero. Allora venni a sapere che era il dottor Adolfo Gómez Támara, direttore nazionale delle borse di studio del ministero dell’Educazione.

Fu la casualità meno probabile e una delle più fortunate della mia vita. Con una battuta di pura ascendenza studentesca, Gómez Támara mi presentò ai suoi assistenti come il più ispirato cantante di boleri romantici. Mi offrirono un caffè e mi iscrissero senza ulteriori indugi, non senza avermi prima avvertito che non stavano rinviando altre richieste, ma rendendo tributo agli dei insondabili del caso. Mi informarono che l’esame generale avrebbe avuto luogo il lunedì successivo nella scuola di San Bartolomé. Calcolavano circa mille aspiranti di tutto il paese per più o meno trecentocinquanta borse di studio, sicché la battaglia sarebbe stata lunga e difficile, e forse un colpo mortale per le mie illusioni. I prescelti avrebbero conosciuto i risultati di lì a una settimana, insieme alle indicazioni della scuola loro assegnata. Questa fu una seria novità per me, dal momento che potevano inviarmi a Medellín come nel Vichada. Mi spiegarono che quella lotteria geografica era stata decisa per stimolare la mobilità culturale fra le diverse regioni. Quando furono terminate le formalità, Gómez Támara mi strinse la mano con la stessa energia entusiasta con cui mi aveva ringraziato per il bolero.

«Datti da fare» mi disse. «Adesso la tua vita è nelle tue mani.»

All’uscita dal ministero, un omino dall’aspetto clericale si offrì di procurarmi una borsa di studio sicura e senza esami nella scuola che io avrei voluto mediante il pagamento di cinquanta pesos. Era una fortuna per me, ma credo che se l’avessi avuta l’avrei versata pur di evitare il terrore dell’esame. Giorni dopo riconobbi l’impostore in una fotografia apparsa sui giornali, ed era il capo di una banda di truffatori che si travestivano da preti per combinare affari illeciti in organismi ufficiali.

Non disfeci il baule nella certezza che potevano mandarmi ovunque. Il mio pessimismo era tale che la vigilia dell’esame andai con i musicisti del battello in una bettola della mala morte nello scabroso quartiere di Las Cruces. Cantavamo per bere al prezzo di una canzone ogni bicchiere di chicha, la tremenda bevanda di mais fermentato che gli ubriaconi raffinati rinvigorivano con polvere da sparo. Sicché arrivai tardi all’esame, con la testa che mi scoppiava e senza neppure ricordare con chi ero stato né chi mi aveva portato a casa la notte prima, ma mi lasciarono entrare per carità in una sala immensa e zeppa di aspiranti. Uno sguardo complessivo al questionario mi bastò perché mi rendessi conto di essere liquidato in partenza. Solo per distrarre i sorveglianti mi soffermai su educazione civica, le cui domande mi sembrarono quelle meno crudeli. D’improvviso mi sentii posseduto da un’aura d’ispirazione che mi permise di improvvisare risposte credibili e azzardi miracolosi. Ma non nel caso di quelle di matematica, cui neppure per intervento divino sarei riuscito a rispondere. L’esame di disegno, che feci in fretta ma bene, mi riconfortò. «Sarà stato un miracolo della chicha» mi dissero i miei musicisti. Comunque sia, alla fine ero in uno stato di spossatezza estrema, deciso a scrivere una lettera ai miei genitori su diritti e ragioni per non tornare a casa.

Andai a richiedere i miei voti la settimana dopo. L’addetta dovette riconoscere qualche segno sul mio fascicolo perché mi portò senza ragioni dal direttore nazionale. Lo trovai di ottimo umore, in maniche di camicia e con bretelle a fantasia rosse. Controllò i voti del mio esame con un’attenzione professionale, esitò una o due volte e infine tirò un respiro.

«Non c’è male» disse fra di sé. «Tranne che in matematica, ma te la sei cavata per un pelo grazie al cinque in disegno.»

Si spinse indietro sulla seggiola e mi domandò a quale scuola avessi pensato.

Fu uno dei miei smarrimenti storici, ma non ebbi dubbi:

«La San Bartolomé, qui a Bogotá.»

Lui posò il palmo della mano su una pila di carte che aveva sulla scrivania.

«Tutte queste sono lettere di pezzi grossi che raccomandano figli, parenti e amici per scuole di qui» disse. Si accorse che non avrebbe dovuto dirlo, e proseguì: «Se permetti che ti aiuti, la scuola più opportuna per te è il Liceo Nazionale di Zipaquirá, a un’ora di treno».

Di quella città storica sapevo solo che aveva miniere di sale. Gómez Támara mi spiegò che era una scuola coloniale espropriata a una comunità religiosa grazie a una riforma liberale recente, e che adesso aveva una splendida serie di insegnanti giovani con una mentalità moderna. Pensai fosse mio dovere mettere una cosa in chiaro.

«Mio papà è un conservatore.»

Scoppiò a ridere.

«Non essere così serio» disse. «Dico liberale nel senso di persona con la mente aperta.»

Riacquistò subito il suo stile personale e decise che il mio destino si sarebbe giocato in quell’antico convento del XVII secolo, trasformato in collegio di increduli in un abitato sonnolento dove non c’erano altre distrazioni che studiare. Il vecchio chiostro, in effetti, rimaneva impassibile dinanzi all’eternità. Nei suoi primi tempi aveva una scritta incisa sul portale di pietra: “Il principio della saggezza è il timore di Dio”. Ma il motto era stato cambiato con lo stemma della Colombia allorché il governo liberale del presidente Alfonso López Pumarejo aveva nazionalizzato l’educazione nel 1936. Nell’atrio, mentre mi riprendevo dall’asfissia per il peso del baule, mi depresse il cortiletto dalle arcate coloniali tagliate nella pietra viva, con balconi di legno dipinto di verde e vasi di fiori malinconici alle ringhiere. Tutto sembrava soggetto a un ordine confessionale, e in ogni cosa si notava benissimo che in più di trecento anni non avevano conosciuto l’indulgenza di mani di donne. Educato male negli spazi senza legge dei Caraibi, mi assalì il terrore di vivere i quattro anni decisivi della mia adolescenza in quel tempo arenato.

Ancora oggi mi sembra impossibile che due piani intorno a un cortile taciturno, e un altro edificio di pietra improvvisato sul terreno in fondo, potessero bastare per la residenza e l’ufficio del preside, la segreteria amministrativa, la cucina, la mensa, la biblioteca, le sei aule, il laboratorio di fisica e di chimica, il magazzino, i servizi igienici e il dormitorio comune con letti di ferro disposti in fila per mezzo centinaio di allievi trascinati fin lì dai suburbi più miseri della nazione, e pochissimi della capitale. Per fortuna, quella condizione da esilio fu un’ennesima grazia della mia buona stella. È così che imparai in fretta e bene com’è il paese toccatomi in sorte nella riffa del mondo. La dozzina di ragazzi provenienti dai Caraibi che mi accolsero come uno dei loro fin dall’arrivo, e anch’io, naturalmente, facevamo distinzioni rigide fra noi e gli altri: i natii e i forestieri.

I diversi gruppi sparsi negli angoli del cortile fin dalla ricreazione della prima sera erano un bel campionario della nazione. Non c’erano rivalità purché ognuno rimanesse sul suo terreno. I miei rapporti immediati furono stretti con quelli della costa caraibica, che come me avevano fama di essere rumorosi, fanatici della solidarietà di gruppo e amanti delle bisbocce e dei balli. Io ero un’eccezione, ma Antonio Martínez Sierra, gran festaiolo di Cartagena, mi insegnò a ballare le arie alla moda durante le ricreazioni serali. Ricardo González Ripoll, mio grande complice di fidanzamenti furtivi, era un architetto di spicco che tuttavia non interruppe mai la stessa canzone a malapena percettibile che mormorava fra i denti e ballava da solo sino alla fine dei suoi giorni.

Mincho Burgos, un pianista congenito che sarebbe diventato direttore di un’orchestra da ballo, fondò il complesso del collegio con cui volle imparare a suonare uno strumento, e mi insegnò il segreto della seconda voce per i boleri e per i canti vallenatos.4 Tuttavia, la sua prodezza maggiore fu istruire Guillermo López Guerra, un bogotano puro, nell’arte caraibica di suonare claves, che funzionano sul tre due, tre due.

Humberto Jaimes, di El Banco, era uno studioso indefesso cui non interessò mai ballare, che sacrificava i suoi fine settimana per rimanere a studiare in collegio. Credo che non avesse mai visto un pallone né avesse mai letto la cronaca di una partita di qualsiasi cosa. Finché non si fu laureato in ingegneria a Bogotá e non fu entrato a «El Tiempo» come apprendista redattore sportivo, dove finì per diventare direttore della sua sezione e uno dei bravi cronisti di calcio del paese. Comunque, il caso più strano che ricordo fu sicuramente quello di Silvio Luna, un bruno del Chocó che si laureò in legge e poi in medicina, e sembrava pronto a iniziare la sua terza carriera quando lo persi di vista.

Daniel Rozo – Pagocio – si comportò sempre da saggio in tutte le scienze umane e divine, e si prodigava durante lezioni e momenti liberi. Ci rivolgevamo sempre a lui per informarci sulle condizioni del mondo nel corso della Seconda guerra europea, di cui seguivamo appena le voci, perché l’entrata regolare di giornali o riviste in collegio non era autorizzata, e la radio la usavamo solo per ballare fra noi. Non ci fu mai possibile sapere da dove Pagocio tirava fuori le sue battaglie storiche in cui vincevano sempre gli alleati.

Sergio Castro – di Quetame – fu forse il migliore studente per tutti gli anni del liceo, ed ebbe sempre i voti più alti fin dal suo arrivo. Mi sembra che il suo segreto fosse quello stesso che mi aveva consigliato Martina Fonseca alla scuola San José: non perdeva neppure una parola dell’insegnante e degli interventi dei suoi compagni a lezione, si annotava persino il respiro dei professori e ordinava il tutto in un quaderno perfetto. Forse proprio per questo non aveva bisogno di perdere tempo a preparare gli esami, e leggeva libri d’avventura nei fine settimana mentre noi ci cuocevamo a fuoco lento studiando.

Il mio compagno più assiduo alle ricreazioni fu il bogotano puro Álvaro Ruiz Torres, che scambiava con me notizie quotidiane su nostre innamorate durante la ricreazione serale, mentre camminavamo con passo militare intorno al cortile. Altri erano Jaime Bravo, Humberto Guillén e Álvaro Vidal Barón, ai quali fui molto vicino in collegio e con cui seguitammo a incontrarci per anni nella vita reale. Álvaro Ruiz andava a Bogotá dalla sua famiglia ogni fine settimana, e tornava ben provvisto di sigarette e notizie su innamorate varie. Fu lui a incoraggiare entrambi i vizi nel periodo in cui studiammo insieme, e che negli ultimi due anni mi ha prestato i suoi migliori ricordi per rinverdire queste memorie.

Non so cosa imparai davvero durante la prigionia al Liceo Nazionale, ma i quattro anni di convivenza in buoni termini con tutti mi conferirono una visione unitaria della nazione, scoprii com’eravamo diversi e a cosa servivamo, e imparai una volta per tutte che nell’insieme di ognuno di noi c’era l’intero paese. Forse era stato questo che avevano voluto dire al ministero a proposito della mobilità regionale che il governo assecondava. Ormai in età matura, invitato nella cabina di pilotaggio di un aereo transatlantico, le prime parole che mi rivolse il capitano furono per domandarmi di dov’ero. Mi bastò sentirlo per rispondere:

«Io sono della costa proprio come lei è di Sogamoso.»

Aveva lo stesso modo d’essere, la stessa gestualità, la stessa materia della voce di Marco Fidel Bulla, mio compagno di banco in quarta liceo. Quest’improvvisa intuizione mi insegnò a navigare nelle paludi di quella comunità imprevedibile, anche senza bussola e contro corrente, ed è forse stata una chiave universale nel mio mestiere di scrittore.

Mi sembrava di vivere in un sogno, in quanto avevo aspirato alla borsa non perché volessi studiare, ma per conservare la mia indipendenza rispetto a qualsiasi altro impegno, rimanendo in buoni rapporti con la mia famiglia. La certezza di tre pasti al giorno bastava per presumere che in quel rifugio di poveri avremmo vissuto meglio che nelle nostre case, in un regime di autonomia controllata meno evidente del potere domestico. In mensa funzionava un sistema di baratto che permetteva a ognuno di combinarsi i pasti a proprio gusto. Il denaro era privo di valore. Le due uova della colazione erano la moneta più stimata, e servivano per procurarsi con vantaggio qualsiasi altro piatto dei tre pasti. Ogni cosa aveva il suo giusto equivalente, e nulla turbò quel commercio legittimo. Anzi, non ricordo una sola scazzottata neppure per altri motivi in quattro anni di internato.

Gli insegnanti, che mangiavano a un’altra tavola della stessa sala, non erano estranei ai baratti personali fra loro, perché si trascinavano ancora dietro consuetudini dei loro recenti collegi. Perlopiù erano scapoli o vivevano lì senza le mogli, e gli stipendi erano esigui quasi quanto i nostri mensili familiari. Si lagnavano del cibo con le nostre stesse ragioni, e in una crisi pericolosa si sfiorò la possibilità di organizzare con alcuni di loro uno sciopero della fame. Solo quando ricevevano regali o avevano invitati da fuori si permettevano piatti ispirati che per una volta guastavano le uguaglianze. Così accadde, durante il quarto anno, quando il medico del liceo ci promise un cuore di bue per studiarlo nel suo corso di anatomia. Il giorno dopo lo fece riporre nella ghiacciaia della cucina, ancora fresco e sanguinante, ma non era più lì quando andammo a cercarlo per la lezione. Solo allora venne chiarito che all’ultimo momento, in mancanza di un cuore di bue, il medico aveva mandato quello di un muratore che si era fatto a pezzi scivolando da un quarto piano. Dal momento che non bastava per tutti, i cuochi l’avevano preparato con salse squisite credendo che fosse il cuore di bue che avevano annunciato per la tavola degli insegnanti. Credo che questi rapporti fluidi tra professori e allievi avessero a che vedere con la recente riforma dell’educazione di cui sarebbe rimasto poco nella storia, ma che almeno ci servì a semplificare i protocolli. Si ridussero le differenze di età, si allentò l’uso della cravatta e nessuno si allarmò più se insegnanti e allievi bevevano qualche bicchiere insieme e il sabato partecipavano agli stessi balli.

Quest’atmosfera era possibile solo per quegli insegnanti che in generale permettevano facili rapporti personali. Il nostro professore di matematica, con la sua ponderatezza e il suo aspro senso dell’umorismo, trasformava le lezioni in una festa temibile. Si chiamava Joaquín Giraldo Santa e fu il primo colombiano a ottenere il titolo di dottore in matematica. Per mia sventura, e malgrado i miei grandi sforzi e quelli suoi, non riuscii mai a partecipare con profitto alle sue lezioni. Allora si diceva che le vocazioni poetiche interferissero con la matematica, e si finiva non solo per crederci, ma anche per farvi naufragio. La geometria fu più abbordabile forse per opera e grazia del suo prestigio letterario. L’aritmetica, al contrario, si comportava con una semplicità ostile. Ancora oggi, per fare un’addizione mentale, devo ridurre i numeri secondo le loro componenti più facili, soprattutto il sette e il nove, le cui tabelline non sono mai riuscito a memorizzare. Sicché per sommare sette e quattro tolgo due al sette, sommo il quattro al cinque che mi rimane e alla fine sommo ancora il due: undici! Le moltiplicazioni non mi sono mai riuscite perché non riesco a ricordare i numeri che ho in mente. All’algebra ho dedicato tutta la mia buona volontà, non solo per rispetto della sua ascendenza classica ma anche per il mio affetto e per il mio terrore nei confronti dell’insegnante. Fu inutile. Ogni trimestre ebbi brutti voti, due volte la scampai e fallii un altro tentativo concessomi solo per carità.

Tre insegnanti dotati di abnegazione furono quelli di lingue. Il primo – di inglese – fu mister Abella, un caraibico puro con una dizione oxfordiana perfetta e un fervore un po’ ecclesiastico per il dizionario Webster’s, che recitava a occhi chiusi. Il suo successore fu Héctor Figueroa, un buon insegnante giovane con una passione febbrile per i boleri che cantavamo a più voci durante le ricreazioni. Feci il meglio che mi fu possibile nel sopore delle lezioni e all’esame finale, ma credo che il mio buon piazzamento fu non tanto per Shakespeare quanto per Leo Marini e Hugo Romani, responsabili di tanti paradisi e di tanti suicidi d’amore. L’insegnante di francese al quarto anno, monsieur Antonio Yelá Alban, mi trovò intossicato dai romanzi polizieschi. Le sue lezioni mi annoiavano come quelle di tutti gli altri, ma le sue citazioni opportune del francese gergale furono un buon aiuto per non morire di fame a Parigi dieci anni dopo.

La maggior parte degli insegnanti si erano formati alla Normale Superiore sotto la guida del dottor José Francisco Socarrás, uno psichiatra di San Juan del César che si era impegnato a cambiare la pedagogia clericale di un secolo di governo conservatore con un razionalismo umanistico. Manuel Cuello del Río era un marxista radicale, che forse proprio per questo ammirava Lin Yutang e credeva nelle apparizioni dei morti. La biblioteca di Carlos Julio Calderón, presieduta dal suo compaesano José Eustasio Rivera, autore di La voragine, comprendeva in parti uguali i classici greci, i seguaci creoli di Pietra e Cielo e i romantici di ovunque. Grazie agli uni e agli altri, noi pochi lettori assidui leggevamo San Giovanni della Croce o José María Vargas Vila, ma pure gli apostoli della rivoluzione proletaria. Gonzalo Ocampo, il professore di educazione civica, aveva nella sua camera una buona biblioteca politica che circolava senza malizia nelle aule dei più grandi, ma non intesi mai perché L’origine della famiglia, della proprietà e dello Stato di Friederich Engels venisse studiato negli aridi pomeriggi di economia politica e non nelle lezioni di letteratura come l’epopea di una bella avventura umana. Guillermo López Guerra lesse durante le ricreazioni l’Anti-Dühring, sempre di Engels prestato dal professor Gonzalo Ocampo. Tuttavia, quando glielo chiesi per discuterne con López Guerra, Ocampo mi disse che non mi avrebbe fatto quel brutto favore con quel tomo fondamentale per il progresso dell’umanità, ma così lungo e noioso che magari non sarebbe passato alla storia. Forse questa congerie ideologica contribuì alla brutta fama secondo cui il liceo sarebbe stato un laboratorio di perversione politica. Comunque, ho avuto bisogno di mezza vita per rendermi conto che fu piuttosto un’esperienza spontanea per allontanare i deboli e vaccinare i forti contro ogni sorta di dogmatismo.

Il mio rapporto più diretto fu sempre con il professor Carlos Julio Calderón, insegnante di spagnolo per i primi anni, di letteratura universale al quarto, di quella spagnola in quinta e di quella colombiana in sesta. E di una cosa strana rispetto alla sua formazione e ai suoi gusti: la contabilità. Era nato a Neiva, capoluogo del distretto del Huila, e non si stancava di proclamare la sua ammirazione patriottica per José Eustasio Rivera. Dovette interrompere i suoi studi di medicina e chirurgia, e se ne ricordava come del fallimento della sua vita, ma la passione che nutriva per le arti e le lettere era irresistibile. Fu il primo insegnante a costellare i miei lavori di indicazioni pertinenti.

Resta il fatto che i rapporti fra allievi e insegnanti erano di una naturalezza eccezionale, non solo durante le lezioni ma soprattutto anche nel cortile della ricreazione dopo la cena. Il che permetteva un modo di frequentarsi diverso da quello cui eravamo abituati, e che fu sicuramente proficuo per il clima di rispetto e di cameratismo in cui vivevamo.

Un’avventura stupefacente la devo alle opere complete di Freud, che erano presenti nella biblioteca. Naturalmente, non capivo nulla delle sue analisi scabrose, ma i suoi casi clinici mi spingevano con il fiato sospeso sino alla fine, come le fantasie di Jules Verne. Nell’ora di spagnolo il professor Calderón ci chiese di scrivergli un racconto a tema libero. Me ne venne in mente uno su un’ammalata mentale di circa sette anni e con un titolo pedante che andava in controsenso rispetto alla poesia: “Un caso di psicosi ossessiva”. Il professore lo fece leggere in classe. Il mio compagno di banco, Aurelio Prieto, criticò senza riserve la petulanza di voler scrivere senza la minima formazione scientifica né letteraria su una faccenda così contorta. Gli spiegai, più con rancore che con umiltà, che l’avevo preso da un caso clinico descritto da Freud nelle sue memorie e la mia unica pretesa era stata di usarlo per il compito in classe. Il professor Calderón, forse credendomi risentito per le critiche acide di parecchi compagni, a ricreazione mi chiamò da parte per incoraggiarmi a proseguire lungo la stessa strada. Mi segnalò che nel mio racconto era chiaro che ignoravo le tecniche della finzione moderna, ma ne avevo l’istinto e gli obiettivi. Gli sembrò ben scritto e almeno con l’intento di fare qualcosa di originale. Per la prima volta mi parlò della retorica. Mi consigliò alcuni trucchi pratici quanto a tematica e metrica per versificare senza pretese, e concluse che comunque dovevo persistere nella scrittura anche solo per salute mentale. Quella fu la prima delle lunghe chiacchierate che ci furono tra noi durante i miei anni al liceo, nelle ricreazioni e in altre ore libere, e alle quali devo molto nella mia vita di scrittore.

Era la mia atmosfera ideale. Fin dalla scuola San José il vizio di leggere tutto quanto mi capitasse fra le mani era così radicato, che mi prendeva il tempo libero e quasi tutto quello delle lezioni. A sedici anni, e con o senza una buona ortografia, potevo ripetere tutto d’un fiato le poesie che avevo imparato alla scuola San José. Le leggevo e le rileggevo, senza aiuto né ordine, e quasi sempre di nascosto durante le lezioni. Credo di aver letto completa l’indescrivibile biblioteca del liceo, fatta con i residui di altre meno utili: collezioni ufficiali, eredità di professori svogliati, libri insospettabili finiti lì in seguito a chissà quali naufragi. Non posso dimenticare la Biblioteca Aldeana della Casa editrice Minerva, patrocinata da don Daniel Samper Ortega e distribuita in scuole e collegi dal ministero dell’Educazione. Erano cento volumi con tutto il meglio e il peggio che si fosse scritto in Colombia fino ad allora, e mi proposi di leggerli in ordine numerico fin quando avessi avuto fiato in corpo. Ad atterrirmi ancora oggi è che quasi ci riuscii negli ultimi due anni, e per il resto della mia vita non ho potuto stabilire se mi sia servito a qualcosa.

I risvegli nel dormitorio avevano una sospetta somiglianza con la felicità, a parte la campanella mortifera che suonava a martello – come dicevamo noi – alle sei del mattino. Solo due o tre malati mentali balzavano giù dal letto per occupare i primi posti davanti alle sei docce d’acqua gelida nel bagno del dormitorio. Noi rimanenti ne approfittavamo per spremere le ultime gocce di sonno finché il maestro di turno non percorreva la stanza strappando via le coperte agli addormentati. Era un’ora e mezza di intimità sbracata per riordinare i vestiti, lucidare le scarpe, farci una doccia con il gelo liquido del tubo senza innaffiatoio, mentre ognuno si sfogava a squarciagola delle sue frustrazioni e si beffava di quelle altrui, si violavano segreti amorosi, si discutevano faccende varie, e si concertavano i baratti della mensa. Tema mattutino di discussioni costanti era il capitolo letto la sera prima.

Guillermo Granados dava stura fin dall’alba alle sue virtù di tenore con il suo inesauribile repertorio di tanghi. Con Ricardo González Ripoll, mio vicino nel dormitorio, cantavamo in due guarachas caraibiche al ritmo dello straccio con cui lucidavamo le scarpe al capezzale del letto, mentre il mio compare Sabas Caravallo percorreva il dormitorio da un’estremità all’altra nudo come quand’era venuto al mondo, con l’asciugamano appeso alla sua verga di cemento armato.

Se fosse stato possibile, una buona quantità di noi interni sarebbe scappata all’alba per recarsi ad appuntamenti combinati nei fine settimana. Non c’erano sorveglianti notturni né anziani responsabili nel dormitorio, salvo quello del turno settimanale. E l’eterno portiere del liceo, Riverita, che in realtà dormiva sempre con gli occhi aperti mentre svolgeva i suoi doveri quotidiani. Viveva in una stanza dell’atrio e faceva benissimo il suo lavoro, ma di notte potevamo pure abbattere i pesanti portoni della chiesa, risistemarli senza rumore, goderci la notte in casa altrui e tornare poco prima dell’alba per le strade glaciali. Non si seppe mai se Riverita dormisse davvero come quel morto che sembrava, o se era il suo modo gentile di essere complice dei ragazzi. Non erano molti quelli che scappavano, e i loro segreti avvizzivano nella memoria dei loro complici fedeli. Ne conobbi alcuni che lo facevano normalmente, altri che una volta si azzardarono a uscire con il coraggio infuso dalla tensione dell’avventura, e che tornarono sfiancati dal terrore. Non si seppe mai di qualcuno che fosse stato scoperto.

Il mio unico problema sociale in collegio erano certi incubi sinistri ereditati da mia madre, che irrompevano nei sonni degli altri come urla di oltretomba. I miei vicini di letto li conoscevano a sazietà e li temevano solo per il terrore del primo grido nel silenzio dell’alba. L’insegnante di turno, che dormiva in uno stanzino di cartone, si metteva a camminare come un sonnambulo da un’estremità all’altra del dormitorio finché non tornava la calma. Non solo erano sogni incontrollabili, ma avevano pure a che vedere con la cattiva coscienza, perché in due circostanze mi vennero in case forestiere. Erano pure indecifrabili, perché non dipendevano da sogni spaventosi, ma, tutto il contrario, da episodi felici con persone o luoghi comuni che d’improvviso mi rivelavano un dato sinistro con uno sguardo innocente. Un incubo appena paragonabile con un altro di mia madre, che teneva in grembo la sua stessa testa e ne spulciava lendini e pidocchi che non la lasciavano dormire. Le mie grida non erano di terrore, ma invocazioni di aiuto affinché qualcuno mi facesse la carità di svegliarmi. Nel dormitorio del liceo non c’era tempo per nulla, in quanto al primo gemito mi cascavano addosso i guanciali che mi lanciavano dai letti vicini. Mi svegliavo ansimante, con il cuore in gola ma felice di essere vivo.

Il meglio del liceo erano le letture ad alta voce prima di coricarsi. Erano cominciate per iniziativa del professor Carlos Julio Calderón con un racconto di Mark Twain che quelli del quinto anno dovevano studiare per una prova inattesa alla prima ora del giorno dopo. Lesse le quattro cartelle ad alta voce nel suo cubicolo di cartone affinché prendessero appunti gli allievi che non avevano avuto il tempo di leggerlo. Fu così grande l’interesse, che da allora innanzi si prese la consuetudine di leggere ad alta voce ogni sera prima che ci coricassimo. Non fu facile all’inizio, perché qualche insegnante bigotto aveva imposto il criterio di scegliere ed espurgare i libri che si sarebbero letti, ma il rischio di una rivolta li affidò al criterio degli studenti più anziani.

Si cominciò con mezz’ora. L’insegnante di turno leggeva nel suo stanzino bene illuminato all’entrata del dormitorio generale, e all’inizio lo mettevamo a tacere con ronfate vere o per finta, ma quasi sempre meritate. In seguito le letture si protrassero anche per un’ora, secondo l’interesse del racconto, e gli insegnanti furono sostituiti da allievi in base a turni settimanali. I bei tempi iniziarono con Nostradamus e con La maschera di ferro, che soddisfecero tutti. Quello che non mi spiego ancora è il grande successo di La montagna incantata, di Thomas Mann, che richiese l’intervento del preside perché non passassimo la notte in bianco nell’attesa di un bacio fra Hans Castorp e Clawdia Chauchat. Oppure la tensione insolita di noi tutti seduti sui letti per non perdere neppure una parola dei farraginosi duelli filosofici fra Naphta e il suo amico Settembrini. La lettura si protrasse quella notte per oltre un’ora e fu festeggiata nel dormitorio da un’esplosione di applausi.

L’unico insegnante che rappresentò una delle grandi incognite della mia giovinezza fu il preside che trovai al mio arrivo. Si chiamava Alejandro Ramos, ed era aspro e solitario, con certi occhiali dalle lenti spesse che sembravano da cieco, e un potere senza compiacimenti che pesava in ogni sua parola come un pugno di ferro. Scendeva dal suo rifugio alle sette del mattino per controllare la nostra toeletta personale prima che entrassimo nella mensa. Portava vestiti impeccabili dai colori vivaci, e il colletto inamidato come di celluloide con cravatte allegre e scarpe rilucenti. Qualsiasi trascuratezza nella nostra pulizia personale veniva registrata con un grugnito che era un ordine di tornare in dormitorio a rimediarvi. Per il resto della giornata si chiudeva nel suo ufficio al secondo piano, e non lo rivedevamo più fino al mattino successivo alla stessa ora, o mentre faceva i dodici passi tra il suo ufficio e l’aula del sesto anno, dove teneva la sua unica lezione di matematica tre volte la settimana. I suoi allievi dicevano che era un genio dei numeri, e divertente nelle sue lezioni, e li lasciava esterrefatti dinanzi alla sua preparazione e tremebondi per il terrore dell’esame finale.

Poco dopo il mio arrivo dovetti scrivere il discorso inaugurale per una cerimonia ufficiale del liceo. La maggior parte degli insegnanti approvò la composizione, ma furono tutti d’accordo che in casi come quello l’ultima parola era del preside. Il suo ufficio era in cima alla scala al secondo piano, ma percorsi quella distanza come se fosse stato un viaggio a piedi intorno al mondo. Avevo dormito male la notte prima, mi misi la cravatta della domenica e a stento assaggiai la colazione. Bussai così piano alla porta della presidenza che il preside mi aprì solo la terza volta, e mi fece accomodare senza salutarmi. Per fortuna, visto che io non avrei avuto voce per rispondergli, non solo per la sua asciuttezza ma anche per l’importanza, l’ordine e la bellezza dell’ufficio con mobili di legno nobile e fodere di velluto, e le pareti tutte con una stupefacente scaffalatura zeppa di libri rilegati in cuoio. Il preside aspettò con una flemma formale che riprendessi il fiato. Poi mi indicò la poltrona davanti alla scrivania e si sedette sulla sua.

Avevo preparato la spiegazione della mia visita quasi come il discorso. Lui l’ascoltò in silenzio, approvò con il capo ogni frase, ma sempre senza guardare me bensì il foglio che mi tremava in mano. A un certo punto che io credevo divertente cercai di strappargli un sorriso, ma fu inutile. Anzi, sono sicuro che era già al corrente del senso della mia visita, ma mi fece osservare il rito di spiegarglielo.

Quando ebbi finito tese la mano sopra la scrivania e ricevette il foglio. Si tolse gli occhiali per leggere con un’attenzione profonda, e si fermò solo per fare due correzioni con la penna. Poi si rimise gli occhiali e mi parlò senza guardarmi negli occhi con una voce sassosa che mi scosse il cuore.

«Qui ci sono due problemi» mi disse. «Lei ha scritto: “In armonia con la flora esuberante del nostro paese, che nel secolo XVIII il saggio spagnolo José Celestino Mutis fece conoscere al mondo, viviamo in questo liceo come in un ambiente paradisíaco”. Ma il fatto è che esuberante non vuole un’acca iniziale, e che su paradisiaco non ci vuole l’accento.»

Mi sentii umiliato. Per il primo caso non ebbi una risposta, ma per il secondo non nutrivo dubbi, e replicai subito con quel poco di voce che mi rimaneva:

«Mi scusi signor preside, il dizionario ammette paradisíaco, con accento o senza accento, ma come sdrucciola la parola mi sembrava più sonora.»

Dovette sentirsi aggredito come me, ma continuò a non guardarmi per poi prendere il dizionario dalla libreria senza dire una parola. Mi si contrasse il cuore, perché era lo stesso volume di mio nonno, ma nuovo e lustro, e forse mai usato. Al primo tentativo lo aprì alla pagina esatta, lesse e rilesse la voce e mi domandò senza scostare lo sguardo dalla pagina:

«Che anno frequenta?»

«Il terzo» gli dissi.

Chiuse il dizionario con un forte colpo da ceppi e per la prima volta mi guardò negli occhi.

«Bravo» disse. «Continui così.»

Da quel giorno mancò solo che i miei compagni di classe mi proclamassero un eroe, e cominciarono a chiamarmi con tutta l’ironia possibile “quello della costa che ha parlato con il preside”. Tuttavia, a colpirmi in quell’incontro fu soprattutto aver dovuto affrontare, ancora una volta, il mio dramma personale con l’ortografia. Non sono mai riuscito a spiegarmelo. Uno dei miei insegnanti cercò di darmi il colpo di grazia con la notizia che Simón Bolívar non meritava la gloria a causa della sua pessima ortografia. Altri mi consolavano con il pretesto che è un male di molti. Ancora oggi, con diciassette libri pubblicati, i correttori delle mie bozze a stampa mi onorano con la galanteria di correggermi gli errori di ortografia come semplici refusi.

Le feste mondane a Zipaquirá corrispondevano in generale alla vocazione e al modo d’essere di ognuno. Le miniere di sale, che gli spagnoli avevano trovato produttive, erano un’attrattiva turistica durante i fine settimana, che comprendevano anche la lombata al forno e le patate messe sotto sale. Noi interni della costa con la nostra meritata fama di sguaiati e maleducati, avevamo la buona educazione di ballare come artisti la musica alla moda e il buon gusto di innamorarci a morte.

Finii per diventare così spontaneo, che il giorno in cui si venne a sapere della fine della guerra mondiale uscimmo in strada manifestando per la gioia con bandiere, scritte e grida di vittoria. Qualcuno chiese un volontario per pronunciare il discorso e io senza neppure pensarci uscii sul balcone del circolo, davanti alla piazza principale, e lo improvvisai con grida altisonanti, che a molti sembrarono imparate a memoria.

Fu l’unico discorso che mi vidi costretto a improvvisare nei miei primi settant’anni. Finii con un ringraziamento lirico a ognuno dei Quattro Grandi, ma a colpire l’attenzione della piazza fu quello al presidente degli Stati Uniti, morto da poco: «Franklin Delano Roosevelt, che come il Cid Campeador sa vincere le battaglie anche da morto». La frase rimase a fluttuare nella città per diversi giorni, e venne riprodotta su manifesti in strada e su ritratti di Roosevelt nelle vetrine di alcuni negozi. Sicché il mio primo successo pubblico non fu come poeta né come romanziere, ma come oratore, e peggio ancora: come oratore politico. Da quel momento non ci fu cerimonia al liceo in cui non mi facessero salire su un balcone, solo che allora erano discorsi scritti e corretti fino all’ultima lettera.

Con il tempo, quella sfacciataggine mi servì per contrarre un terrore scenico che mi portò al punto del mutismo assoluto, sia nei grandi matrimoni sia nelle bettole degli indiani in sandali, dove crollavamo a terra; a casa di Berenice, che era bella e senza pregiudizi, ed ebbe la fortuna di non sposarsi con me perché era pazza d’amore per un altro, o all’ufficio del telegrafo, la cui indimenticabile Sarita mi trasmetteva a credito i telegrammi d’angoscia quando i miei genitori erano in ritardo con i vaglia per le mie spese personali e più di una volta me li aveva anticipati per trarmi dagli impicci. Ma più indimenticabile non fu l’amore di nessuno bensì la fata degli appassionati della poesia. Si chiamava Cecilia González Pizano e aveva un’intelligenza svelta, una simpatia personale e uno spirito libero in una famiglia di ascendenza conservatrice, e una memoria sovrannaturale per tutta la poesia. Abitava davanti al portone del liceo insieme a una zia aristocratica e nubile in una dimora coloniale intorno a un giardino di eliotropi. All’inizio fu un rapporto limitato ai tornei poetici, ma Cecilia finì per diventare una vera compagna nella vita, sempre morta dal ridere, che infine si introdusse nelle lezioni di letteratura del professor Calderón, con la complicità di tutti.

Ai miei tempi di Aracataca avevo sognato la bella vita di passare cantando da una fiera all’altra, con fisarmonica e bella voce, che mi è sempre parso il modo più antico e felice di raccontare una storia. Se mia madre aveva rinunciato al pianoforte per avere dei figli, e mio padre aveva riposto il violino per poterci mantenere, era solo giusto che il maggiore di loro stabilisse il precedente di morire di fame per la musica. La mia partecipazione sporadica come cantante e suonatore di tiple al complesso del liceo provò che avevo orecchio per imparare a suonare uno strumento più difficile, e che potevo cantare.

Non c’era circostanza patriottica o cerimonia solenne al liceo in cui io non fossi in qualche modo coinvolto, sempre grazie a Guillermo Quevedo Zornosa, compositore e insigne abitante della città, direttore eterno della banda municipale e autore di Amapola – quella lungo il sentiero, rossa come il cuore – una canzone di gioventù che a suo tempo fu l’anima di feste e di serenate. La domenica dopo la messa io ero fra i primi ad attraversare il parco per assistere alla sua esibizione in piazza, sempre con La gazza ladra, all’inizio, e il coro dei gitani di Il trovatore, alla fine. Il maestro non lo seppe mai, né io osai dirglielo, che il sogno della mia vita in quegli anni era essere come lui.

Quando il liceo chiese volontari per un corso di approfondimento della musica, i primi ad alzare la mano fummo Guillermo López Guerra e io. Il corso si sarebbe svolto il sabato mattina, tenuto dal professor Andrés Pardo Tovar, direttore del primo programma di musica classica di La Voce di Bogotá. Non riuscimmo a occupare neppure la quarta parte della mensa adattata per la lezione, ma fummo subito sedotti dal parlare apostolico del professore. Era il perfetto bogotano, con blazer da sera, panciotto di raso, voce sinuosa e gesti tranquilli. Oggi a sembrare stupefacente per la sua antichità sarebbe il fonografo a manovella che faceva funzionare con la maestria e l’amore di un domatore di foche. Partiva dal presupposto – corretto nel nostro caso – che fossimo dei veri e propri novellini. Sicché cominciò con Il carnevale degli animali, di Saint-Saëns, illustrando con dati eruditi il modo d’essere di ogni animale. Poi fece suonare – come no! – Pierino e il lupo, di Prokofiev. Il brutto di quella festa di sabato fu che mi inculcò il pudore per cui la musica dei grandi maestri sarebbe un vizio quasi segreto, ed ebbi bisogno di molti anni per non fare distinzioni prepotenti fra musica buona e musica cattiva.

Non ebbi più contatti con il preside fino all’anno dopo, quando occupò la cattedra di geometria per il quarto anno. Entrò nell’aula il primo martedì alle dieci del mattino, augurò il buongiorno con un grugnito, senza guardare nessuno, e pulì la lavagna con il cancellino finché non rimase neppure la minima traccia di polvere. Allora si girò verso di noi, e senza avere ancora fatto l’appello domandò ad Álvaro Ruiz Torres:

«Cos’è un punto?»

Non ci fu tempo per rispondere, perché il professore di educazione civica aprì la porta senza bussare e disse al preside che aveva una chiamata urgente dal ministero dell’Educazione. Il preside uscì in fretta per rispondere al telefono e non tornò in classe. Mai più, perché la chiamata era per comunicargli la revoca della sua carica di preside, che aveva avuto per cinque anni al liceo, e dopo tutta una vita di buon servizio.

Il successore fu il poeta Carlos Martín, il più giovane dei bravi poeti del gruppo Pietra e Cielo, che César del Valle mi aveva aiutato a scoprire a Barranquilla. Aveva trent’anni e tre libri pubblicati. Io conoscevo poesie sue, e l’avevo visto una volta in una libreria di Bogotá, ma non avevo mai avuto nulla da dirgli né un suo libro da fargli firmare. Un lunedì comparve senza annunciarsi durante la ricreazione del pranzo. Non l’aspettavamo così presto. Sembrava più un avvocato che un poeta con un vestito inglese a righe, la fronte vasta e un paio di baffi lineari con un rigore di forma che si coglieva pure nella sua poesia. Avanzò con i suoi passi ben misurati verso i gruppi più vicini, tranquillo e sempre un po’ distante, e ci tese la mano:

«Salve, sono Carlos Martín.»

A quell’epoca io ero affascinato dalle prose liriche che Eduardo Carranza pubblicava sulle pagine letterarie di «El Tiempo» e sulla rivista «Sábado». Mi sembrava che fosse un genere ispirato a Platero e io, di Juan Ramón Jiménez, di moda fra i poeti giovani che aspiravano a cancellare dalla faccia della terra il mito di Guillermo Valencia. Il poeta Jorge Rojas, erede di una fortuna effimera, patrocinò con il suo nome e con il suo denaro la pubblicazione di una serie di fascicoletti originali che risvegliarono un grande interesse nella sua generazione e unificò un gruppo di buoni poeti conosciuti.

Fu un cambiamento drastico nei rapporti in collegio. L’immagine spettrale del preside anteriore fu sostituita da una presenza concreta che conservava le debite distanze, ma rimanendo sempre a portata di mano. Evitò l’ispezione e la presentazione solite, così come altre norme oziose, e talvolta chiacchierava con gli allievi durante la ricreazione della sera.

Il nuovo stile mi fece prendere la strada giusta. Forse Calderón aveva parlato di me al nuovo preside, perché una delle prime sere mi fece una serie di domande oblique sui miei rapporti con la poesia, e gli confidai tutto quanto avevo dentro. Lui mi domandò se avessi letto L’esperienza letteraria, un libro molto discusso di don Alfonso Reyes. Gli dissi di no, e me lo portò il giorno dopo. Ne divorai metà sotto il banco in tre lezioni successive, e il resto durante la ricreazione sul campo sportivo. Mi piacque che un saggista di tanto prestigio si occupasse di studiare le canzoni di Agustín Lara come se fossero poesie di Garcilaso, con il pretesto di una frase ingegnosa: “Le popolari canzoni di Agustín Lara non sono canzoni popolari”. Per me fu come trovare la poesia sciolta in una minestra della vita quotidiana.

Martín fece a meno della magnifica sede della presidenza. Installò un ufficio a porte aperte nel cortile principale, e questo lo avvicinò ancora di più alle nostre chiacchiere dopo cena. Si installò per un lungo periodo con la moglie e i figli in una casa coloniale ben tenuta a un angolo della piazza centrale, con uno studio dalle pareti coperte da tutti i libri che un lettore attento ai gusti rinnovatori di quegli anni poteva sognare. Lì andavano a trovarlo nei fine settimana i suoi amici di Bogotá, soprattutto i suoi compagni di Pietra e Cielo. Una domenica qualsiasi dovetti andare a casa sua per un’incombenza casuale insieme a Guillermo López Guerra e lì c’erano Eduardo Carranza e Jorge Rojas, i due membri più importanti. Il preside ci fece sedere con un cenno rapido per non interrompere la conversazione, e restammo lì per mezz’ora senza capire una parola perché discutevano di un libro di Paul Valéry, di cui non avevamo mai sentito parlare. Avevo visto Carranza più di una volta in librerie e caffè di Bogotá, e sarei riuscito a identificarlo solo per il timbro e la fluidità della sua voce, che si intonava ai suoi abiti disinvolti e al suo modo d’essere: un poeta. Jorge Rojas, invece, non avrei potuto identificarlo a causa del suo vestire e del suo stile ministeriali, finché Carranza non si rivolse a lui per nome. Io bramavo essere testimone di una discussione sulla poesia fra i tre massimi, ma non ci fu. Alla fine dell’argomento, il preside mi posò una mano sulla spalla, e disse ai suoi invitati:

«Questo è un gran poeta.»

Lo disse come un complimento, certo, ma io ne fui come fulminato. Carlos Martín insistette per farci una fotografia con i due grandi poeti, e la fece, in effetti, ma non ne ebbi più notizia fino a mezzo secolo dopo nella sua casa sulla costa catalana, dove si era ritirato a godersi una buona vecchiaia.

Il liceo fu scosso da un vento rinnovatore. La radio, che usavamo solo per ballare fra ragazzi, si trasformò con Carlos Martín in uno strumento di divulgazione sociale, e per la prima volta si ascoltavano e si discutevano nel cortile della ricreazione i notiziari della sera. L’attività culturale aumentò con la creazione di un centro letterario e la pubblicazione di un giornale. Quando compilammo una lista dei candidati possibili in base alle loro passioni letterarie ben definite, il loro numero ci fornì il nome del gruppo: centro letterario dei Tredici. Ci sembrò un colpo di fortuna, anche perché era una sfida alla superstizione. L’iniziativa fu degli stessi studenti, e consisteva solo nel riunirci una volta alla settimana per parlare di letteratura quando in realtà non facevamo altro nei momenti liberi, dentro e fuori del liceo. Ognuno portava le sue cose, le leggeva e le sottoponeva al giudizio di tutti. Stupefatto da quest’esempio, io contribuivo con la lettura di sonetti che firmavo con lo pseudonimo inspiegabile di Javier Garcés, che in realtà non usavo per contraddistinguermi ma per nascondermi. Erano semplici esercizi tecnici senza ispirazione né aspirazione, cui non attribuivo valore poetico perché non mi venivano dall’anima. Avevo cominciato con imitazioni di Quevedo, Lope de Vega e anche García Lorca, i cui ottosillabi erano così spontanei che bastava iniziare e subito si proseguiva per inerzia. Mi spinsi così lontano in questa febbre di imitazione, che mi proposi il compito di parodiare nel loro ordine ognuno dei quaranta sonetti di Garcilaso de la Vega. Ne scrivevo, inoltre, dietro richiesta di alcuni interni che li spacciavano per loro e li consegnavano alle fidanzate domenicali. Una di queste, in assoluto segreto, mi lesse emozionata i versi che il suo pretendente le aveva dedicato dicendo di averli scritti lui.

Carlos Martín ci concesse un piccolo magazzino nel secondo cortile del liceo con le finestre sbarrate per sicurezza. Eravamo in cinque e ci assegnavamo compiti per la riunione successiva. Nessuno di loro fece carriera da scrittore, ma non si trattava di questo bensì di mettere alla prova le possibilità di ognuno. Discutevamo le opere degli altri, e arrivavamo pure a irritarci come se fossero state partite di calcio. Un giorno Ricardo González Ripoll dovette uscire nel bel mezzo di un dibattito, e sorprese il preside con l’orecchio contro la porta per ascoltare la discussione. La sua curiosità era legittima perché non gli sembrava verosimile che dedicassimo le nostre ore libere alla letteratura.

Alla fine di marzo ci giunse la notizia che l’antico preside, don Alejandro Ramos, si era sparato un colpo in testa nel parco nazionale di Bogotá. Nessuno si rassegnò ad attribuirlo al suo carattere solitario e forse depresso, né si individuò un motivo ragionevole per suicidarsi dietro al monumento del generale Rafael Uribe Uribe, un guerriero di quattro guerre civili e politico liberale assassinato con un colpo di scure da due fanatici nell’entrata del Campidoglio. Una delegazione del liceo capeggiata dal nuovo preside assistette ai funerali del professor Alejandro Ramos, che rimasero nella memoria di tutti come l’addio a un’altra epoca.

L’interesse per la politica nazionale era piuttosto scarso in collegio. Nella casa dei miei nonni avevo troppo sentito dire che l’unica differenza fra i due partiti dopo la guerra dei Mille Giorni era che i liberali andavano alla messa delle cinque per non essere visti e i conservatori alla messa delle otto perché li credessero credenti. Tuttavia, le differenze reali si fecero di nuovo sentire trent’anni dopo, allorché il Partito conservatore perse il potere e i primi presidenti liberali tentavano di aprire il paese ai nuovi venti del mondo. Il Partito conservatore, corroso dalla ruggine del suo potere assoluto, faceva ordine e pulizia in casa sua sotto le luci lontane di Mussolini in Italia e le tenebre del generale Franco in Spagna, mentre la prima amministrazione del presidente Alfonso López Pumarejo, formata da una pleiade di giovani colti, aveva cercato di creare le condizioni per un liberalismo moderno, forse senza accorgersi che stava assecondando il fatalismo storico di dividerci nelle due metà in cui era diviso il mondo. Era ineludibile. In uno dei libri che gli insegnanti ci prestarono lessi una citazione attribuita a Lenin: “Se non ti occupi di politica, la politica finirà per occuparsi di te”.

Però, dopo quarantasei anni di un’egemonia cavernicola a base di presidenti conservatori, la pace cominciava a sembrare possibile. Tre presidenti giovani e con una mentalità moderna avevano inaugurato una prospettiva liberale che sembrava capace di allontanare le brume del passato. Alfonso López Pumarejo, il più notevole dei tre, che era stato un riformatore audace, si fece rieleggere nel 1942 per un secondo periodo, e nulla sembrava turbare il ritmo dei cambi di guardia. Sicché nel mio primo anno al liceo eravamo imbevuti di notizie sulla guerra europea, che ci facevano stare con il fiato sospeso come la politica nazionale non era mai riuscita a fare. I giornali non entravano nel collegio se non in casi molto speciali, perché non eravamo abituati a pensarci. Non esistevano radio portatili, e l’unica del liceo era il vecchio marchingegno della sala degli insegnanti che accendevamo a pieno volume alle sette di sera solo per ballare. Eravamo lontani dal pensare che in quel momento fosse in incubazione la più sanguinosa e irregolare di tutte le nostre guerre.

La politica entrò con prepotenza nel liceo. Ci dividemmo in gruppi di liberali e di conservatori, e per la prima volta capimmo da che parte stava ognuno di noi. Si organizzò una militanza interna, cordiale e un po’ accademica all’inizio, che degenerò nello stesso stato d’animo che cominciava a far marcire il paese. Le prime tensioni del collegio erano a stento percettibili, ma nessuno dubitava della buona influenza di Carlos Martín alla testa di un corpo di professori che non avevano mai nascosto le loro ideologie. Se il nuovo preside non era un militante esplicito, diede almeno la sua autorizzazione per ascoltare i notiziari della sera alla radio della sala, e a partire da allora le notizie politiche prevalsero sulla musica da ballare. Senza che fosse confermato si diceva che nel suo ufficio tenesse un ritratto di Lenin o di Marx.

Frutto di quell’atmosfera rarefatta sarà stato l’unico tentativo di sommossa che ebbe luogo nel collegio. Nel dormitorio cominciarono a volare guanciali e scarpe a detrimento della lettura e del sonno. Non sono riuscito a stabilire quale fu il motivo, ma credo di ricordare – e diversi compagni concordano con me – che fu in seguito a qualche episodio del libro che si leggeva ad alta voce quella sera: Cantachiaro, di Rómulo Gallegos. Uno strano motivo di rissa.

Chiamato d’urgenza, Carlos Martín entrò nel dormitorio e lo percorse più volte da un’estremità all’altra nel silenzio immenso causato dalla sua comparsa. Poi, in uno slancio di autoritarismo, insolito in un carattere come il suo, ci ordinò di abbandonare il dormitorio in pigiama e pantofole, e di metterci in fila nel cortile gelido. Lì ci propinò un’arringa nello stile circolare di Catilina e tornammo in un ordine perfetto a dormire. Fu l’unico incidente di cui ho memoria nei nostri anni del liceo.

In quel periodo eravamo tutti eccitati per via di Mario Convers, uno studente arrivato in sesta proprio allora, che aveva il progetto di fare un giornale diverso da quelli convenzionali in uso nelle altre scuole. Uno dei suoi primi contatti lo prese con me, e mi sembrò così convincente che accettai di essere il suo caporedattore, lusingato ma senza un’idea chiara delle mie funzioni. I preparativi finali del giornale coincisero con l’arresto del presidente López Pumarejo da parte di un gruppo di alti ufficiali delle Forze Armate l’8 luglio 1944, mentre era in visita ufficiale nel sud del paese. La storia, raccontata da lui stesso, non faceva una grinza. Forse senza volerlo, aveva fatto agli investigatori un racconto stupendo, secondo il quale non si era reso conto dei fatti sin quando non era stato liberato. E il tutto aderiva così bene alle verità della vita reale, che il golpe di Pasto fu tramandato come uno dei tanti episodi ridicoli della storia nazionale.

Alberto Lleras Camargo, nel suo ruolo di nuovo presidente, addormentò il paese con la sua voce e la sua dizione perfette, per parecchie ore, attraverso Radio Nazionale, fin quando il presidente López non fu liberato e non si ristabilì l’ordine. Ma un rigoroso stato d’assedio, con censura della stampa, si impose. I pronostici erano incerti. I conservatori avevano governato il paese dall’indipendenza dalla Spagna, nel 1830, fino all’elezione di Olaya Herrera un secolo dopo, e non davano ancora il minimo segno di liberalizzazione. I liberali, invece, diventavano sempre più conservatori in un paese che stava lasciando nella sua storia pezzi di se stesso. In quel momento avevano un’élite di giovani intellettuali affascinati dai barbagli del potere, il cui esemplare più radicale e vitale era Jorge Eliécer Gaitán. Questi era stato uno degli eroi della mia infanzia per le sue azioni contro la repressione della Zona bananiera, di cui sentii parlare senza capirci nulla da quando avevo uso di ragione. Mia nonna lo ammirava, ma credo che la preoccupassero le sue coincidenze con i comunisti. Io mi ero tenuto alle sue spalle mentre pronunciava un discorso rimbombante da un balcone della piazza di Zipaquirá, e mi avevano colpito il suo cranio a forma di melone, i capelli lisci e duri e la pelle da indio puro, e la sua voce da buono con l’accento da scugnizzo di Bogotá, forse esasperato per calcolo politico. Nel suo discorso non parlò di liberali e di conservatori, o di sfruttatori e di sfruttati, come facevano tutti, ma di poveri e di oligarchi, una parola che sentii allora per la prima volta martellata in ogni frase, e che mi affrettai a cercare sul dizionario.

Era un avvocato eminente, allievo stimato a Roma del grande penalista italiano Enrico Ferri. Aveva studiato lì le arti oratorie di Mussolini e aveva qualcosa del suo stile teatrale sulla tribuna. Gabriel Turbay, suo compagno di partito e rivale, era un medico colto ed elegante, con sottili occhiali d’oro che gli conferivano una certa aria da artista del cinema. In un recente congresso del Partito comunista aveva pronunciato un discorso imprevisto che aveva stupito molti e inquietato alcuni dei suoi compagni di partito borghesi, ma lui non riteneva di andare contro la sua formazione liberale e la sua vocazione di aristocratico con parole o azioni. La sua familiarità con la diplomazia russa gli veniva dal 1936, allorché aveva allacciato a Roma i rapporti con l’Unione Sovietica, nel suo ruolo di ambasciatore della Colombia. Sette anni dopo li aveva formalizzati a Washington nel suo successivo ruolo di ministro della Colombia negli Stati Uniti.

I suoi buoni rapporti con l’Ambasciata sovietica a Bogotá erano molto cordiali, e nel Partito comunista colombiano aveva alcuni dirigenti amici che avrebbero potuto concordare un’alleanza elettorale con i liberali, di cui si parlò spesso in quei giorni, ma che non venne mai realizzata. Sempre in quel periodo, essendo ambasciatore a Washington, si sparse in Colombia la voce insistente secondo cui era il fidanzato segreto di una grande star di Hollywood – forse Joan Crawford o Paulette Goddard – ma comunque non rinunciò mai alla sua carriera di scapolo impenitente.

Gli elettori di Gaitán e quelli di Turbay avrebbero potuto costituirsi in una maggioranza liberale e aprire nuove vie all’interno dello stesso partito, ma nessuna delle due metà separate avrebbe vinto il conservatorismo unito e armato.

La nostra «Gaceta Literaria» uscì in quei brutti giorni. Noi stessi che avevamo già stampato il primo numero fummo stupiti dalla sua veste professionale con otto pagine formato rotocalco, ben impaginato e ben stampato. Carlos Martín e Carlos Julio Calderón furono i più entusiasti, ed entrambi discussero durante le ricreazioni alcuni degli articoli. Fra questi, il più importante era stato uno scritto da Carlos Martín dietro nostra richiesta, e vi si prospettava il bisogno di una coraggiosa presa di coscienza in lotta contro i truffatori degli interessi dello Stato, i politici arrampicatori e gli aggiotatori che rallentavano la libera marcia del paese. Il giornale uscì con una sua grande fotografia in prima pagina. C’era un articolo di Convers sullo spirito ispanico, e una mia prosa lirica firmata da Javier Garcés. Convers ci annunciò che fra i suoi amici di Bogotá c’erano grande entusiasmo e possibilità di sovvenzioni per lanciarlo in grande stile come un giornale intercollegiale.

Il primo numero non aveva potuto essere distribuito all’epoca del golpe di Pasto. Lo stesso giorno in cui era stato in pericolo l’ordine pubblico, il sindaco di Zipaquirá aveva fatto irruzione nel liceo alla testa di una squadra armata e aveva sequestrato le copie che avevamo preparato per metterle in circolazione. Fu un assalto da cinematografo, spiegabile solo in seguito a qualche denuncia subdola secondo cui il giornale avrebbe contenuto materiale sovversivo. Lo stesso giorno era arrivata una notifica dell’ufficio stampa della Presidenza della Repubblica, in cui si diceva che il giornale era stato stampato senza passare attraverso la censura dello stato d’assedio, e Carlos Martín era stato destituito dalla presidenza senza preavviso.

Per noi fu una decisione insensata che ci fece sentire al contempo umiliati e importanti. La tiratura del giornale non superava le duecento copie per una distribuzione fra amici, ma ci spiegarono che il requisito della censura era ineludibile in stato d’assedio. La licenza fu annullata fino a un nuovo ordine che non arrivò mai.

Passarono oltre cinquant’anni prima che Carlos Martín mi rivelasse per queste memorie i misteri di quell’episodio assurdo. Il giorno in cui la «Gaceta» venne sequestrata lo convocò nel suo ufficio a Bogotá lo stesso ministro dell’Educazione che l’aveva nominato – Antonio Rocha – e gli chiese di dimettersi. Carlos Martín lo trovò con una copia della «Gaceta Literaria» in cui aveva sottolineato a matita rossa numerose frasi che considerava sovversive. Lo stesso era stato fatto con il suo editoriale e con quello di Mario Convers e anche con qualche poesia di autore noto ritenuta sospetta di essere scritta in codice. «Persino la Bibbia sottolineata in quel modo malizioso potrebbe esprimere il contrario del suo vero senso» disse Carlos Martín, con una reazione così adirata che il ministro lo minacciò di chiamare la polizia. Fu nominato direttore della rivista «Sábado», cosa che per un intellettuale come lui doveva essere ritenuta una grossa promozione. Tuttavia, gli rimase definitivamente l’impressione di essere vittima di una congiura della destra. Subì un’aggressione in un caffè di Bogotá che fu sul punto di respingere a suon di pallottole. In seguito un nuovo ministro lo nominò primo avvocato della sezione giuridica e lui fece una carriera brillante, culminata con un ritiro circondato da libri e nostalgie nella sua gora di Tarragona.

Insieme alla voce delle dimissioni di Carlos Martín – e senza che ci fossero vincoli con lui – circolò nel liceo e in case e caffè della città una versione anonima secondo la quale la guerra del Perù, nel 1932, era stata una panzana del governo liberale per sostenersi di forza contro l’opposizione libertina del conservatorismo. La versione, diffusa persino su fogli ciclostilati, asseriva che il dramma era iniziato senza la minima intenzione politica quando un sottotenente peruviano aveva attraversato il Rio delle Amazzoni con una pattuglia militare e aveva sequestrato sulla riva colombiana la fidanzata segreta dell’intendente di Leticia, una mulatta conturbante che chiamavano La Pila, come diminutivo di Pilar. Allorché l’intendente colombiano aveva scoperto il sequestro si era spinto oltre la frontiera naturale con un gruppo di uomini armati e aveva liberato La Pila in territorio peruviano. Ma il generale Luis Sánchez Cerro, dittatore assoluto del Perù, aveva saputo approfittare della scaramuccia per invadere la Colombia e cercar di cambiare i confini amazzonici a favore del suo paese.

Olaya Herrera – dietro feroci insistenze del Partito conservatore sconfitto dopo mezzo secolo di regno assoluto – dichiarò lo stato di guerra, promosse la mobilitazione nazionale, depurò il suo esercito inserendovi uomini di fiducia e spedì truppe a liberare i territori violati dai peruviani. Un grido di battaglia fece rabbrividire il paese e infiammò la nostra infanzia: “Viva la Colombia, abbasso il Perù”. Nel parossismo della guerra circolò pure la versione secondo cui gli aerei civili della SCADTA erano stati militarizzati e armati come squadriglie di guerra, e che uno di questi, in mancanza di bombe, aveva disperso una processione della Settimana Santa nell’abitato peruviano di Guepí bombardandolo con noci di cocco. Il grande scrittore Juan Lozano y Lozano, incaricato dal presidente Olaya affinché lo tenesse al corrente sulla verità in una guerra di menzogne reciproche, scrisse con la sua prosa magistrale la verità dell’incidente, ma la falsa versione venne a lungo considerata vera.

Il generale Luis Miguel Sánchez Cerro trovò nella guerra un’opportunità celestiale per rinvigorire il suo regime di ferro. A sua volta, Olaya Herrera nominò comandante delle forze colombiane il generale conservatore Alfredo Vásquez Cobo, che si trovava a Parigi. Il generale varcò l’Atlantico su una nave d’artiglieria e penetrò attraverso le bocche del Rio delle Amazzoni fino a Leticia, quando i diplomatici di entrambe le parti cominciavano ormai a soffocare la guerra.

Senza alcun rapporto con il golpe di Pasto né con l’incidente del giornale, Carlos Martín venne sostituito alla presidenza da Óscar Espitia Brand, un educatore di carriera e un fisico di prestigio. La sostituzione risvegliò nel collegio ogni sorta di sospetti. Le mie riserve nei suoi confronti mi fecero rabbrividire fin dal primo saluto, per via dello stupore con cui fissò la mia zazzera da poeta e i miei baffi ispidi. Aveva un aspetto duro e guardava dritto negli occhi con un’espressione severa. La notizia che sarebbe stato il nostro professore di chimica organica mi spaventò completamente.

Un sabato di quell’anno eravamo al cinema a metà di un programma pomeridiano, quando una voce turbata annunciò dagli altoparlanti che uno studente del liceo era morto. Fu così impressionante, che non sono riuscito a ricordare quale film stessimo vedendo, ma non ho mai dimenticato l’intensità di Claudette Colbert sul punto di buttarsi in un fiume torrenziale dal parapetto di un ponte. Il morto era uno studente di seconda, di diciassette anni, appena arrivato dalla sua remota città di Pasto, vicino alla frontiera con l’Ecuador. Aveva subito un blocco respiratorio durante una corsa organizzata dall’insegnante di ginnastica come penitenza di fine settimana per i suoi allievi pigri. Fu l’unico caso di uno studente morto per qualsiasi motivo nel corso della mia permanenza in collegio, e causò una grande commozione non solo nel liceo ma in tutta la città. I miei compagni mi scelsero affinché al funerale dicessi qualche parola di addio. Quella stessa sera chiesi udienza al nuovo preside per mostrargli la mia orazione funebre, e l’entrata nel suo ufficio mi fece rabbrividire come una ripetizione sovrannaturale dell’unica visita che avevo fatto al preside morto. Il professor Espitia lesse il mio manoscritto con un’espressione tragica, e lo approvò senza commenti, ma quando mi alzai per uscire mi fece segno di risedermi. Aveva letto articoli e versi miei, fra i molti che circolavano sottobanco durante le ricreazioni, e alcuni gli erano sembrati degni di essere pubblicati in un supplemento letterario. Non appena tentai di vincere la mia timidezza spietata, lui aveva già espresso quello che sicuramente era il suo proposito. Mi consigliò che mi tagliassi i riccioli da poeta, inadatti a un uomo serio, che dessi una forma ai miei baffi e che smettessi di portare camicie con uccelli e fiori che sembravano da carnevale. Non mi aspettavo nulla di simile, e per fortuna ebbi abbastanza nervi per non rispondergli con un’impertinenza. Lui se ne accorse, e prese un tono sacramentale per spiegarmi il suo timore che la mia moda si imponesse fra gli allievi più giovani per la mia reputazione di poeta. Uscii da quell’ufficio colpito dal riconoscimento delle mie consuetudini e del mio talento poetici in sfere così alte, e pronto a soddisfare il preside con un cambiamento d’aspetto per una circostanza così solenne. Al punto da interpretare come un fallimento personale che annullassero gli omaggi postumi su richiesta della famiglia.

La conclusione fu tenebrosa. Qualcuno aveva scoperto che il vetro della bara sembrava appannato mentre era esposto nella biblioteca del liceo. Álvaro Ruiz Torres l’aprì dietro istanza della famiglia e constatò che in effetti era umido dall’interno. Cercando a tentoni la causa del vapore in una cassa ermetica, fece una leggera pressione con la punta delle dita sul petto, e il cadavere emise un gemito lacerante. La famiglia rimase sconvolta all’idea che fosse ancora vivo, ma il medico spiegò che i polmoni avevano trattenuto aria in seguito all’interrompersi del respiro e che lui l’aveva fatta espellere con la pressione sul petto. Malgrado la semplicità della diagnosi, o forse proprio per questo, in alcuni rimase il timore che lo seppellissero vivo. Fu in quello stato d’animo che andai a passare le vacanze del quarto anno, ansioso di convincere i miei genitori a non farmi continuare a studiare.

Sbarcai a Sucre sotto una pioviggine invisibile. La cinta del porto mi sembrò diversa da quella delle mie nostalgie. La piazza era più piccola e nuda che nella memoria, e la chiesa e il viale avevano una luce desolata sotto i mandorli potati. I festoni variopinti delle vie annunciavano il Natale, ma questo non mi suscitò le emozioni di altre volte, e non riconobbi nessuno dei pochi uomini con l’ombrello che aspettavano sul molo, finché uno di loro non mi disse passando, con il suo accento e il suo tono inconfondibili:

«Ma che combinazione!»

Era mio papà, un po’ emaciato per la perdita di peso. Non portava il vestito di lino bianco che lo faceva riconoscere a distanza fin dai suoi anni di giovanotto, ma un paio di pantaloni da casa, una camicia tropicale a maniche corte e uno strano cappello da gastaldo. Lo accompagnava mio fratello Gustavo, che non riconobbi per l’aumento di statura dei suoi nove anni.

Per fortuna, la famiglia conservava le sue audacie da poveri, e la cena sul presto sembrava fatta di proposito per notificarmi che quella era casa mia, e che non ce n’era un’altra. La buona notizia a tavola fu che mia sorella Ligia aveva vinto alla lotteria. La storia – raccontata da lei stessa – era iniziata quando mia madre aveva sognato che suo papà aveva sparato in aria per spaventare un ladro sorpreso a rubare nella vecchia casa di Aracataca. Mia madre aveva raccontato il sogno a colazione, secondo una consuetudine familiare, e aveva suggerito di comprare un biglietto della lotteria che finisse con il sette, perché questo numero aveva la stessa forma della pistola del nonno. La sorte non aveva favorito il biglietto che mia madre aveva comprato a credito per pagarlo con lo stesso denaro del premio. Ma Ligia, che allora aveva undici anni, aveva chiesto a papà trenta centesimi per pagare il biglietto che non aveva vinto, e altri trenta per insistere la settimana dopo con lo stesso strano numero: 0207.

Nostro fratello Luis Enrique aveva nascosto il biglietto per spaventare Ligia, ma maggiore fu lo spavento suo il lunedì successivo, quando la sentì entrare in casa gridando come una pazza che aveva vinto alla lotteria. Nella fretta dello scherzo mio fratello aveva dimenticato dov’era il biglietto, e nel tafferuglio della ricerca avevano dovuto vuotare armadi e bauli, e mettere la casa sottosopra dal salotto fino al gabinetto. Tuttavia, più inquietante di tutto fu la somma cabalistica del premio: 770 pesos.

La brutta notizia fu che i miei genitori avevano infine realizzato il sogno di mandare Luis Enrique nel collegio di Fontidueño – a Medellín – convinti che fosse una scuola per figli disobbedienti e non quello che era in realtà: un carcere per la riabilitazione di giovani delinquenti fra i più pericolosi.

La decisione finale l’aveva presa papà quando aveva spedito il figlio indisciplinato a riscuotere un debito della farmacia, e invece di consegnare gli otto pesos che gli avevano pagato lui aveva comprato un tiple di buona fattura che aveva imparato a suonare da maestro. Mio padre non fece commenti quando scoprì lo strumento in casa, e seguitò a chiedere al figlio i soldi del debito, ma questi gli rispondeva sempre che la persona in questione non aveva soldi per pagare. Erano trascorsi quasi due mesi allorché Luis Enrique trovò papà che si accompagnava con il tiple cantando una canzone improvvisata: «Guardami, sono qui che suono questo tiple che mi è costato otto pesos».

Non riuscimmo mai a capire come fosse venuto a conoscenza dell’origine dello strumento, né perché avesse fatto l’indiano davanti alla mascalzonata del figlio, ma questi sparì dalla casa finché mia madre non ebbe calmato il marito. Allora papà formulò le prime minacce di mandare Luis Enrique al collegio di Medellín, ma nessuno gli badò, perché aveva pure rinunciato al proposito di mandarmi al seminario di Ocaña, non nell’intento di punirmi per qualcosa ma per l’onore di avere un prete in casa, e ci aveva messo più tempo a concepire l’idea che a dimenticarsene. Il tiple, invece, fu la goccia che fece traboccare il vaso.

L’ingresso nella casa di correzione era possibile solo in seguito a decisione di un giudice dei minori, ma papà superò la mancanza di requisiti grazie ad amici comuni, con una lettera di raccomandazione dell’arcivescovo di Medellín, monsignor García Benítez. Quanto a Luis Enrique, diede un’ennesima prova della sua buona indole, per la gioia con cui si lasciò portare come a una festa.

Le vacanze senza di lui non erano le stesse. Sapeva fare coppia come un professionista con Filadelfo Velilla, il sarto magico e magistrale suonatore di tiple, e naturalmente con il maestro Valdés. Era facile. All’uscita da quei balli arruffati dei ricchi ci aggredivano nelle ombre del parco certi nugoli di apprendiste furtive con ogni sorta di tentazioni. A una che passava vicino, ma che non era di quelle stesse, proposi per errore che venisse via con me, e mi rispose con una logica esemplare che non poteva, perché il marito dormiva in casa. Però, due notti dopo mi avvertì che avrebbe lasciato la porta di strada senza paletto tre volte alla settimana affinché io potessi entrare senza dover bussare quando il marito non c’era.

Ricordo il suo nome e i suoi cognomi, ma preferisco chiamarla come allora: Nigromanta. Avrebbe compiuto vent’anni a Natale, e aveva un profilo abissino e una pelle di cacao. Era di letto allegro e orgasmi sassosi e tribolati, e aveva un istinto per l’amore che sembrava non di una creatura umana ma di un fiume in piena. Fin dal primo assalto nel letto diventammo pazzi. Suo marito – come Juan Breva – aveva un corpo da gigante e una voce da bambina. Era stato un ufficiale dell’ordine pubblico nel sud del paese, e si portava appresso la mala fama di uccidere liberali solo per non perdere la mira. Abitavano in una stanza divisa da un paravento di cartone, con una porta sulla strada e un’altra sul cimitero. I vicini si lagnavano che lei turbasse la pace dei morti con le sue grida da cagna felice, ma più forte lei gridava e più felici dovevano essere i morti che venivano disturbati da lei.

Nella prima settimana dovetti scappare dalla stanza alle quattro del mattino, perché ci eravamo sbagliati di data e l’ufficiale poteva arrivare da un momento all’altro. Uscii dalla porta sul cimitero in mezzo a fuochi fatui e latrati di cani necrofili. Sul secondo ponte del canale vidi avanzare una sagoma enorme che non riconobbi finché non ci incrociammo. Era l’ufficiale in persona, che mi avrebbe trovato a casa sua se mi fossi attardato altri cinque minuti.

«Buongiorno, bianco» mi disse con un tono cordiale.

Io gli risposi senza convinzione:

«Dio la conservi, ufficiale.»

Allora si fermò per chiedermi da accendere. Gli porsi del fuoco, vicinissimo a lui, per proteggere il fiammifero dal vento dell’alba. Quando si allontanò con la sigaretta accesa, mi disse di buon umore:

«Hai addosso un odore di puttana che è roba da non crederci.»

Lo spavento mi durò meno di quanto mi aspettassi, perché il mercoledì dopo mi addormentai di nuovo e quando aprii gli occhi mi ritrovai davanti il rivale vulnerato che mi contemplava in silenzio dai piedi del letto. Il mio terrore fu così intenso che mi costò fatica continuare a respirare. Lei, nuda come me, cercò di frapporsi, ma il marito l’allontanò con la canna della pistola.

«Non immischiarti» le disse. «Le faccende di letto si aggiustano con il piombo.»

Posò la pistola sul tavolo, aprì una bottiglia di rum di canna, la posò accanto alla pistola, e ci sedemmo faccia a faccia a bere senza parlare. Non potevo immaginare cos’avrei fatto, ma pensai che se voleva uccidermi l’avrebbe fatto senza tante storie. Poco dopo arrivò Nigromanta avvolta in un lenzuolo e con un’aria da festa, ma lui le puntò contro la pistola.

«Questa è una faccenda tra uomini» le disse.

Lei fece un balzo e si nascose dietro il paravento.

Avevamo finito la prima bottiglia quando si abbatté il diluvio. Lui aprì allora la seconda, si appoggiò la canna contro la tempia e mi guardò fissamente con occhi glaciali. Premette a fondo il grilletto, ma ci fu un suono secco. Stentavo a controllare il tremito della mano quando mi passò la pistola.

«Tocca a te» mi disse.

Era la prima volta che tenevo una pistola in mano e mi sorprese che fosse così pesante e calda. Non seppi cosa fare. Ero fradicio di un sudore gelido e avevo il ventre pieno di una schiuma ardente. Volli dire qualcosa ma non mi uscì la voce. Non mi venne da sparargli, ma gli restituii la pistola senza rendermi conto che era la mia unica possibilità.

«Be’, ti sei cagato sotto?» domandò lui con un disprezzo felice. «Avresti potuto pensarci prima di venire.»

Avrei potuto dirgli che anche i maschi si cagano sotto, ma mi accorsi di non avere abbastanza coglioni per certi scherzi fatali. Allora aprì il tamburo della pistola, tolse l’unico bossolo e lo buttò sul tavolo: era vuoto. La mia sensazione non fu di sollievo ma di una terribile umiliazione.

L’acquazzone perse forza prima delle quattro. Entrambi eravamo così spossati dalla tensione, che non ricordo in quale momento mi diede l’ordine di vestirmi, e io obbedii con una certa solennità da duello. Solo quando si sedette di nuovo mi accorsi che era lui a piangere. A fiotti e senza pudore, e quasi come esibendo le sue lacrime. Alla fine se le asciugò con il dorso della mano, si soffiò il naso con le dita e si alzò.

«Lo sai perché sei sempre vivo?» mi domandò. E rispose a se stesso: «Perché tuo papà è stato l’unico che sia riuscito a guarirmi una gonorrea da cagnaccio contro cui nessuno aveva saputo fare qualcosa in tre anni.»

Mi diede una pacca da uomo sulla spalla, e mi spinse in strada. La pioggia seguitava a cadere, e il paese era tutto una pozzanghera, sicché me ne andai lungo la fiumana con l’acqua alle ginocchia, e con lo stupore di essere vivo.

Non so come mia madre venne a sapere dell’alterco, ma nei giorni successivi intraprese una campagna ostinata affinché non uscissi di casa la sera. Nel frattempo, mi trattava come avrebbe trattato papà, con espedienti di distrazione che non servivano a molto. Cercava segni che mi fossi tolto gli indumenti fuori casa, scopriva tracce di profumo dove non ce n’erano, mi preparava pasti difficili prima che uscissi per la superstizione popolare che né suo marito né i suoi figli si sarebbero azzardati a fare l’amore nel sopore della digestione. Infine, una sera in cui non trovò più pretesti per trattenermi, si sedette davanti a me e mi disse:

«In giro dicono che hai una storia con la moglie di un poliziotto e che lui ha giurato di spararti un colpo.»

Riuscii a convincerla che non era vero, ma la voce perdurò. Nigromanta mi mandava a dire che era sola, che suo marito lavorava fuori, che da tempo l’aveva perso di vista. Feci sempre tutto il possibile per non incrociarlo, anche se lui si premurava di salutarmi a distanza con un cenno che poteva essere di riconciliazione come di minaccia. Durante le vacanze dell’anno successivo lo vidi per l’ultima volta, una notte di baldoria in cui mi offrì un bicchiere di rum grezzo che non osai rifiutare.

Non so per quali arti di illusionismo gli insegnanti e i compagni che mi avevano sempre considerato uno studente riservato, al quinto anno iniziarono a considerarmi un poeta maledetto erede dell’ambiente disinvolto prosperato ai tempi di Carlos Martín. Non sarà stato per adattarmi di più a tale immagine che cominciai a fumare al liceo a quindici anni? La prima botta fu tremenda. Passai metà della notte agonizzando nel mio vomito sul pavimento del bagno. All’alba ero esausto, ma i postumi del tabacco, invece di respingermi, mi suscitarono un desiderio irresistibile di continuare a fumare. Così iniziai la mia vita di tabagista accanito, al punto di non poter pensare una frase se non avevo la bocca piena di fumo. Al liceo era consentito solo durante le ricreazioni, ma io chiedevo il permesso per andare in bagno due o tre volte ogni lezione, solo per placare l’ansia di fumare. Così arrivai a tre pacchetti di venti sigarette al giorno, e andavo anche oltre il quarto secondo la bisboccia della nottata. In un periodo, ormai fuori dal collegio, credetti di impazzire per la grande secchezza in gola e il dolore alle ossa. Decisi di smettere ma non resistetti per più di due giorni d’angoscia.

Non so se fu proprio questo a liberare la mia mano nello scrivere prosa, anche in seguito agli incarichi sempre più audaci del professor Calderón, e ai libri di teoria letteraria che quasi mi costringeva a leggere. Oggi, rivedendo la mia vita, ricordo che la mia concezione del racconto era primaria malgrado tutti quelli che avevo letto dopo la mia prima meraviglia davanti alle pagine di Le mille e una notte. Finché mi ero spinto a pensare che i prodigi narrati da Sheherazade accadevano davvero nella vita quotidiana del suo tempo, e che avevano smesso di accadere in seguito all’incredulità e alla codardia realista delle generazioni successive. Proprio per questo, mi sembrava impossibile che qualcuno dei nostri tempi tornasse a credere che si potesse volare su città e montagne a bordo di un tappeto, o che uno schiavo di Cartagena de Indias vivesse in castigo per duecento anni dentro una bottiglia, a meno che l’autore del racconto fosse capace di farlo credere ai suoi lettori.

Mi infastidivano le lezioni, tranne quelle di letteratura – che imparavo a memoria – e nelle quali avevo un protagonismo unico. Stufo di studiare, lasciavo tutto alla mercé della buona sorte. Avevo un istinto tutto mio nell’intuire i punti algidi di ogni materia, e quasi nell’indovinare quelli che più interessavano agli insegnanti per non studiare il resto. Il fatto è che non capivo perché dovevo sacrificare ingegno e tempo in materie che non mi coinvolgevano e che proprio per questo non mi sarebbero servite a nulla in una vita che non era mia.

Mi sono azzardato a pensare che la maggior parte dei miei insegnanti mi davano voti in base più al mio modo d’essere che ai risultati delle mie prove. Mi salvavano le risposte impreviste, le trovate dementi, gli interventi irrazionali. Tuttavia, quando finii il quinto anno, con trambusti accademici che non mi sentivo capace di superare, presi coscienza dei miei limiti. Il liceo era stato fino ad allora una via cosparsa di miracoli, ma il cuore mi avvertiva che alla fine della quinta mi aspettava un muro invalicabile. La verità nuda e cruda era che mi mancavano ormai la volontà, la vocazione, l’ordine, il denaro e l’ortografia per imbarcarmi in una carriera accademica. Per meglio dire, gli anni volavano e io non avevo la minima idea di cos’avrei fatto della mia vita, perché doveva passare ancora molto tempo prima che mi rendessi conto che persino quello stato di sconfitta era propizio, dal momento che non c’è nulla di questo mondo né dell’altro che non sia utile a uno scrittore.

Neppure per il paese le cose andavano meglio. Braccato dall’opposizione feroce della reazione conservatrice, Alfonso López Pumarejo rinunciò alla Presidenza della Repubblica il 31 luglio 1945. Gli successe Alberto Lleras Camargo, designato dal congresso a completare l’ultimo anno del termine presidenziale. Fin dal suo discorso di insediamento, con la sua voce tranquillizzante e la sua prosa di grande stile, Lleras avviò l’impresa illusoria di moderare gli animi del paese per l’elezione di un nuovo titolare.

Grazie all’intervento di monsignor López Lleras, cugino del nuovo presidente, il preside del liceo ottenne un’udienza speciale per richiedere un aiuto del governo per un’escursione di studio sulla costa atlantica. Non capii perché il preside mi avesse scelto per accompagnarlo all’udienza, a patto che mi sistemassi un po’ i capelli scarmigliati e i baffi ispidi. Gli altri invitati furono Guillermo López Guerra, un conoscente del presidente, e Álvaro Ruiz Torres, il nipote di Laura Victoria, una poetessa famosa dai temi audaci della generazione dei Nuovi, cui apparteneva pure Lleras Camargo. Non ebbi scelta: il sabato sera, mentre Guillermo Granados leggeva in dormitorio un romanzo che non aveva nulla a che vedere con il mio caso, un apprendista barbiere del terzo anno mi fece un taglio da recluta e mi scolpì dei baffetti da tango. Sopportai per il resto della settimana gli scherzi di interni ed esterni davanti al mio nuovo stile. La sola idea di entrare nel palazzo presidenziale mi raggelava il sangue, ma fu un errore del cuore, perché l’unico segno dei misteri del potere che vi trovammo fu un silenzio celestiale. Dopo una breve attesa nell’anticamera con arazzi e tende di raso, un militare in uniforme ci condusse nello studio del presidente.

Lleras Camargo aveva una somiglianza poco comune con i suoi ritratti. Mi colpirono le spalle triangolari in un vestito impeccabile di gabardine inglese, gli zigomi pronunciati, il pallore da pergamena, i denti da bambino discolo che facevano la delizia dei caricaturisti, la lentezza dei gesti e il suo modo di dar la mano guardando dritto negli occhi. Non ricordo che idea io avessi su com’erano i presidenti, ma non mi sembrò che tutti fossero come lui. Con il tempo, quando lo conobbi meglio, mi resi conto che forse neppure lui aveva mai saputo di essere più che altro uno scrittore smarrito.

Dopo avere ascoltato le parole del preside con un’attenzione troppo evidente, fece qualche commento opportuno, ma non decise prima di avere ascoltato anche i tre studenti. Lo fece con pari attenzione, e ci lusingò essere trattati con lo stesso rispetto e la stessa simpatia con cui trattava il preside. Gli bastarono gli ultimi due minuti perché avessimo la certezza che se ne intendeva più di poesia che di navigazione fluviale, e che sicuramente gli interessava di più.

Ci accordò tutto quanto richiesto, e promise inoltre di assistere alla cerimonia di chiusura dell’anno al liceo, di lì a quattro mesi. E lo fece, quasi fosse stata la più seria delle cerimonie del governo, e rise come nessun altro alla farsa che rappresentammo in suo onore. Al ricevimento conclusivo si divertì come uno dei tanti studenti, proponendo un’immagine diversa dalla sua, e non resistette alla tentazione studentesca di allungare una gamba verso chi serviva da bere. Questi fece appena in tempo ad accorgersene.

Nello stato d’animo della festa conclusiva andai a passare in famiglia le vacanze del quinto anno, e la prima notizia che mi diedero fu che per fortuna mio fratello Luis Enrique era di ritorno dopo un anno e sei mesi nella casa di correzione. Mi stupì ancora una volta la sua buona indole. Non provava rancore nei confronti di nessuno per la punizione, e raccontava le disgrazie con un umorismo indomito. Nelle sue meditazioni di recluso era arrivato alla conclusione che i nostri genitori l’avevano fatto entrare in riformatorio in buona fede. Tuttavia, la protezione episcopale non l’aveva messo in salvo dalla dura prova della vita quotidiana lì dentro, che invece di pervertirlo arricchì il suo carattere e il suo senso dell’umorismo.

Al ritorno il suo primo lavoro fu come segretario al municipio di Sucre. Qualche tempo dopo, il titolare ebbe un improvviso disturbo gastrico, e qualcuno gli prescrisse un rimedio magico appena uscito sul mercato: alkaseltzer. Il sindaco non lo fece sciogliere nell’acqua, ma lo inghiottì come una normale pastiglia e solo per un miracolo non si soffocò per l’effervescenza intrattenibile nello stomaco. Senza essersi ripreso dallo spavento, si prescrisse qualche giorno di riposo, ma aveva ragioni politiche per non farsi sostituire da nessuno dei suoi supplenti legittimi, e lasciò provvisoriamente mio fratello al suo posto. Con questa strana carambola – senza che avesse l’età regolamentare – Luis Enrique rimase nella storia del municipio come il sindaco più giovane.

L’unica cosa a turbarmi davvero in quelle vacanze era la certezza che in fondo al loro cuore i miei familiari fondavano il loro futuro su quanto si aspettavano da me, e solo io sapevo con certezza che erano illusioni vane. Due o tre frasi casuali di mio padre a metà del pasto mi indicarono che c’era molto da parlare della nostra sorte comune, e mia madre si affrettò a confermarlo. «Se le cose vanno avanti così» disse «prima o poi dovremo tornare a Cataca.» Ma un rapido sguardo di mio padre la indusse a correggersi:

«O in qualsiasi altro posto.»

Allora era chiaro: l’eventualità di un nuovo trasferimento da qualche parte era un argomento ormai consueto in famiglia, e non a causa dell’atmosfera morale, ma volendo offrire un avvenire più vasto ai figli. Fino a quel momento mi consolavo all’idea di attribuire alla città e alla sua gente, e persino alla mia famiglia, lo spirito di sconfitta di cui io stesso soffrivo. Ma la drammaticità di mio padre rivelò ancora una volta che è sempre possibile trovare un colpevole pur di non esserlo noi.

Quello che io coglievo nell’aria era qualcosa di molto più profondo. Mia madre sembrava badare solo alla salute di Jaime, il figlio minore, che non era riuscito a superare la sua complessione di settimino. Passava la maggior parte della giornata distesa con lui sull’amaca in camera da letto, sfinita dalla tristezza e dai calori umilianti, e la casa cominciava a risentire della sua negligenza. I miei fratelli sembravano andare alla deriva. L’ordine dei pasti si era allentato tanto che mangiavamo senza orari quando avevamo fame. Mio padre, il più casalingo degli uomini, passava la giornata contemplando la piazza dalla farmacia e i pomeriggi giocando partite interminabili al circolo del biliardo. Un giorno non riuscii a sopportare oltre la tensione. Mi distesi accanto a mia madre sull’amaca, come non avevo potuto farlo da bambino, e le domandai qual era il mistero che si respirava nell’aria della casa. Lei inghiottì un sospiro intero per evitare che le tremasse la voce, e mi aprì l’anima:

«Tuo papà ha un figlio per la strada.»

Dal sollievo che colsi nella sua voce mi resi conto dell’ansia con cui aspettava la mia domanda. Aveva scoperto la verità grazie alla chiaroveggenza della gelosia, quando una ragazzina della servitù era tornata a casa tutta emozionata perché aveva visto papà parlare al telefono nell’ufficio del telegrafo. Una donna gelosa non aveva bisogno di sapere nulla di più. Era l’unico telefono in paese e solo per chiamate a lunga distanza con prenotazione, attese incerte e minuti così cari che veniva usato solo in casi di gravità estrema. Ogni chiamata, per semplice che fosse, destava un allarme malizioso nella comunità in piazza. Sicché quando papà rientrò mia madre lo sorvegliò senza dirgli nulla, finché lui non stracciò un foglietto che aveva in tasca parlando di un reclamo giudiziario per un abuso professionale. Mia madre attese l’occasione opportuna per domandargli a bruciapelo con chi aveva parlato al telefono. La domanda fu così rivelatrice che mio papà non trovò subito una risposta più credibile della verità:

«Parlavo con un avvocato.»

«Questo lo so già» disse mia madre. «Ma voglio che me lo racconti tu stesso con la franchezza che merito.»

Mia madre ammise poi che era stata lei a scoperchiare la pentola senza rendersene conto, visto che se lui aveva osato dirle la verità era perché pensava che lei sapesse tutto. O che avrebbe dovuto raccontarglielo.

Così erano andate le cose. Papà aveva confessato di aver ricevuto la notifica di una denuncia contro di lui per avere abusato nel suo ambulatorio di un’ammalata narcotizzata con un’iniezione di morfina. Il fatto era accaduto in un luogo dimenticato dove lui aveva trascorso brevi periodi per curare ammalati senza mezzi. E subito fornì una prova della sua rettitudine: il melodramma dell’anestesia e dello stupro era una frottola criminale dei suoi nemici, ma il bambino era suo, e concepito in circostanze normali.

Per mia madre non fu facile evitare lo scandalo, perché qualcuno di peso muoveva nell’ombra i fili della cospirazione. Esisteva il precedente di Abelardo e di Carmen Rosa, che erano vissuti con noi in diverse occasioni e tra l’affetto di tutti, ma entrambi erano nati prima del matrimonio. Tuttavia, anche mia madre superò il rancore per l’amarezza del nuovo figlio e l’infedeltà del marito, e lottò al suo fianco a faccia scoperta fino a smascherare la menzogna dello stupro.

La pace tornò in famiglia. Comunque, poco dopo arrivarono notizie confidenziali dalla stessa regione, in merito a una bambina di un’altra madre che papà aveva riconosciuto come sua, e che viveva in condizioni deplorevoli. Mia madre non perse tempo con liti e supposizioni, ma sferrò una battaglia per portarsela a casa. «Stessa cosa aveva fatto Mina con tutti quei figli seminati in giro da papà» disse quella volta «e non ha mai avuto motivo di pentirsene.» Sicché ottenne per suo conto che le mandassero la bambina, senza tante chiacchiere pubbliche, e la fece entrare nella famiglia già numerosa.

Tutte queste erano cose del passato quando mio fratello Jaime incontrò in una festa di un altro paese un ragazzo identico a nostro fratello Gustavo. Era il figlio che aveva causato la denuncia, ormai bene allevato e accudito da sua madre. Ma la nostra fece ogni sorta di interventi e se lo portò a vivere in casa – quando eravamo già in undici – e lo aiutò a imparare un mestiere e a inserirsi nella vita. Allora non riuscii a nascondere lo stupore che una donna con una gelosia allucinogena come la sua fosse capace di simili atti, e lei stessa mi rispose con una frase che da quel momento conservo come un diamante:

«Lo stesso sangue dei miei figli non può andarsene in giro, non si sa dove.»

Vedevo i miei fratelli solo durante le vacanze annuali. Dopo ogni viaggio faticavo sempre di più a riconoscerli e a trovare posto nella memoria per uno nuovo. Oltre al nome di battesimo, ne avevamo tutti un altro che la famiglia ci metteva poi per uso quotidiano, e non era un diminutivo bensì un soprannome casuale. Quanto a me, fin dallo stesso istante in cui nacqui mi chiamarono Gabito – diminutivo irregolare di Gabriel sulla costa guajira – e ho sempre sentito che questo è il mio nome di battesimo, e che il diminutivo è Gabriel. Qualcuno stupito da quel santorale capriccioso ci domandava perché i nostri genitori non avessero preferito battezzare una buona volta tutti i loro figli con il soprannome.

Tuttavia, tale liberalità di mia madre sembrava muoversi in senso opposto al suo atteggiamento nei confronti delle due figlie maggiori, Margot e Aida, cui cercava di imporre lo stesso rigore che sua madre aveva imposto a lei per i suoi amori ostinati con mio padre. Voleva cambiare città. Papà, invece, che non aveva bisogno di sentirselo dire due volte per fare i bagagli e mettersi a girare attraverso il mondo, quella volta era renitente. Passarono parecchi giorni prima che venissi a sapere che il problema erano gli amori delle due figlie maggiori con due uomini diversi, naturalmente, ma con lo stesso nome: Rafael. Quando me lo raccontarono non riuscii a nascondere le risate per via del ricordo del romanzo dell’orrore che avevano dovuto affrontare papà e mamma, e a lei lo dissi.

«Non è la stessa cosa» mi disse.

«È la stessa cosa» insistetti.

«Be’» concesse lei, «è la stessa cosa, ma due volte nello stesso tempo.»

Com’era accaduto allora a lei, non c’erano ragioni né propositi che valessero. Non si seppe mai come i genitori fossero venuti a saperlo, perché ognuna di loro aveva separatamente preso precauzioni per non essere scoperta. Ma i testimoni erano i meno immaginabili, dal momento che le stesse sorelle si erano fatte accompagnare qualche volta da fratelli minori che potessero difendere la loro innocenza. La cosa più incredibile fu che pure papà aveva preso parte alla sorveglianza, non con atti diretti, ma con la stessa resistenza passiva di mio nonno Nicolás contro sua figlia.

«Andavamo a un ballo e mio papà arrivava alla festa e ci riportava a casa se scopriva che i due Rafael erano lì» ha raccontato Aida Rosa in un’intervista apparsa sulla stampa. Non davano loro il permesso di fare una passeggiata in campagna o di andare al cinema, oppure le mandavano con qualcuno che non le perdesse di vista. Entrambe inventavano separatamente pretesti inutili per recarsi ai loro appuntamenti d’amore, e lì arrivava un fantasma invisibile che le tradiva. Ligia, più piccola di loro, si guadagnò la mala fama di spia e traditrice, ma lei stessa si giustificava asserendo che la gelosia tra fratelli era un altro modo dell’amore.

Durante quelle vacanze cercai di intercedere presso i miei genitori affinché non ripetessero gli sbagli che i genitori di mia madre avevano commesso con lei, e trovarono sempre motivi difficili per non intenderli. Il più temibile fu quello delle pasquinate, che avevano rivelato segreti atroci – reali o inventati – anche nelle famiglie più insospettabili. Vennero denunciate paternità nascoste, adulteri vergognosi, perversità da letto che in qualche modo erano diventate di dominio pubblico seguendo vie meno facili delle pasquinate. Ma non ne era mai stata affissa una che denunciasse qualcosa che in qualche modo non si sapesse già, per quanto nascosto lo si fosse tenuto, o che prima o poi non si sarebbe venuto a sapere. «Le pasquinate le facciamo noi stessi» diceva una delle loro vittime.

Quanto i miei genitori non previdero fu che le figlie si sarebbero difese con gli stessi espedienti usati da loro. Margot la mandarono a studiare a Montería e Aida andò a Santa Marta di sua volontà. Erano interne, e nei giorni liberi era stato avvisato qualcuno affinché le accompagnasse, ma ce l’avevano sempre fatta a tenersi in contatto con i due Rafael remoti. Tuttavia, mia madre realizzò quello che i suoi genitori non erano riusciti a realizzare con lei. Aida passò metà della sua vita in convento, e lì visse senza pene né gloria finché non si sentì in salvo dagli uomini. Margot e io restammo sempre uniti grazie ai ricordi della nostra infanzia comune quando io sorvegliavo gli adulti affinché non la sorprendessero a mangiare terra. Alla fine divenne una seconda madre di tutti, in particolare di Cuqui, che ne aveva più bisogno, e lo tenne con sé fino al suo ultimo respiro.

Solo oggi capisco come quel brutto stato d’animo di mia madre e le tensioni interne della casa fossero in sintonia con le contraddizioni mortali del paese che non riuscivano a venire a galla, ma che esistevano. Il presidente Lleras avrebbe dovuto indire le elezioni con il nuovo anno, e l’avvenire si prospettava torbido. I conservatori, che erano riusciti ad abbattere López, facevano un doppio gioco con il successore: lo adulavano per la sua imparzialità matematica ma fomentavano la discordia nella provincia per riconquistare il potere con la ragione o con la forza.

Sucre si era tenuta estranea alla violenza, e i pochi casi che si ricordavano non avevano nulla a che vedere con la politica. Uno era stato l’assassinio di Joaquín Vega, un musicista molto stimato che suonava il bombardino nella banda locale. Stavano per l’appunto suonando alle sette di sera all’entrata del cinema, quando un parente nemico gli diede un unico taglio sul collo gonfio per la pressione della musica e lui si dissanguò a terra. Entrambi erano molto amati in città e l’unica spiegazione nota e mai confermata fu una questione d’onore. Proprio alla stessa ora stavano celebrando il compleanno di mia sorella Rita, e l’emozione per la brutta notizia sconvolse la festa programmata per molte ore.

L’altro duello, molto precedente ma incancellabile dalla memoria del paese, fu quello di Plinio Balmaceda e di Dionisiano Barrios. Il primo era un membro di una famiglia antica e rispettabile, e lui stesso un uomo enorme e affascinante, ma anche un attaccabrighe dalla mente contorta quando beveva troppo. Sobrio, aveva aspetto e belle maniere da gentiluomo, ma quando esagerava con il bere si trasformava in un manigoldo dalla pistola facile e con una frusta da cavallerizzo alla cintura per scagliarsi su chi non gli andava a genio. La stessa polizia tentava di tenerlo lontano. I membri della sua buona famiglia, stufi di trascinarlo a casa ogni volta che beveva troppo, finirono per abbandonarlo alla sua sorte.

Dionisiano Barrios era il caso contrario: un uomo timido e malfatto, nemico delle liti e astemio dalla nascita. Non aveva mai avuto problemi con qualcuno, finché Plinio Balmaceda non cominciò a provocarlo con battute infami per com’era fatto. Lui lo evitò il più possibile, fino al giorno in cui Balmaceda non se lo ritrovò davanti e lo picchiò in faccia con la frusta solo perché così gli era venuto voglia di fare. Allora Dionisiano non pensò più alla sua timidezza, alla sua gobba e alla sua mala sorte, e affrontò con la pistola l’aggressore. Fu un duello istantaneo, in cui entrambi rimasero gravemente feriti, ma solo Dionisiano morì.

Comunque, il duello storico della città furono le morti gemelle dello stesso Plinio Balmaceda e di Tasio Ananías, un sergente della polizia famoso per la sua rettitudine, figlio esemplare di Mauricio Ananías, che suonava il tamburo nella stessa banda in cui Joaquín Vega suonava il bombardino. Fu un duello formale in piena strada, in cui entrambi rimasero malamente feriti, e patirono una lunga agonia ognuno a casa sua. Plinio riacquistò lucidità quasi subito, e la sua preoccupazione immediata fu per la sorte di Ananías. Questi, a sua volta, fu colpito dalla preoccupazione con cui Plinio pregava per la sua vita. Ognuno si mise a supplicare Dio affinché l’altro non morisse, e le famiglie li tennero informati finché respirarono. Il paese intero visse l’attesa con ogni sorta di sforzi per allungare le due vite.

Dopo quarantott’ore di agonia, le campane della chiesa suonarono a morto per una donna che si era appena spenta. I due moribondi le sentirono, e ognuno nel suo letto credette che suonassero per la morte dell’altro. Ananías morì quasi subito di dolore, piangendo per la morte di Plinio. Questi lo venne a sapere, e morì due giorni dopo piangendo a fiotti per il sergente Ananías.

In una città di amici pacifici come quella, la violenza si manifestò in quegli anni in modo meno mortale, ma non meno nocivo: le pasquinate. Il terrore era vivo nelle case delle grandi famiglie, che aspettavano il mattino successivo come una lotteria della fatalità. Nel posto più inatteso compariva un foglio punitivo, che era un sollievo per quello che non diceva di uno, e talvolta una festa segreta per quello che diceva di altri. Mio padre, forse l’uomo più pacifico che abbia mai conosciuto, oliò la pistola venerabile con cui non aveva mai sparato, e si lasciò andare nella sala del biliardo.

«Chi si azzardasse a toccare una qualsiasi delle mie figlie» gridò «si prenderà una bella dose di piombo.»

Diverse famiglie iniziarono l’esodo per timore che le pasquinate fossero un preludio della violenza poliziesca che travolgeva abitati interi nell’entroterra per intimidire l’opposizione.

La tensione divenne come il pane di ogni giorno. All’inizio si organizzarono ronde furtive non tanto per scoprire gli autori delle pasquinate quanto per sapere cosa dicevano, prima che venissero distrutte all’alba. Una volta che ero con un gruppo di bagordoni, trovammo un funzionario municipale alle tre del mattino, che prendeva il fresco sulla soglia di casa sua, ma che in realtà spiava con la speranza di vedere chi metteva le pasquinate. Mio fratello gli disse un po’ per scherzo e un po’ sul serio che alcune dicevano la verità. Lui tirò fuori la pistola e la puntò con il cane alzato:

«Lo ripeta!»

Allora venimmo a sapere che la notte prima avevano affisso una pasquinata veridica contro la sua figlia nubile. Ma i dati erano di dominio pubblico, anche dentro la stessa casa, e l’unico a non conoscerli era il padre.

All’inizio fu evidente che le pasquinate erano state scritte dalla stessa persona, con lo stesso pennello e sulla stessa carta, ma in una serie limitata di botteghe come quella della piazza, solo una poteva vendere quei generi, e lo stesso proprietario si affrettò a dimostrare la sua innocenza.

Da quel momento seppi che un giorno avrei scritto un romanzo sulle pasquinate, ma non per quello che dicevano, che quasi sempre erano fantasie di dominio pubblico e non molto divertenti, bensì per la tensione insopportabile che riuscivano a creare nelle case.

In La mala ora, mio terzo romanzo scritto vent’anni dopo, mi sembrò un gesto di semplice decenza non usare casi concreti né identificabili, sebbene alcuni reali fossero migliori di quelli inventati da me. Inoltre, non ce n’era bisogno, perché mi aveva sempre interessato più il fenomeno sociale che la vita privata delle vittime. Solo dopo averlo pubblicato venni a sapere che nei sobborghi, dove noi abitanti della piazza centrale non eravamo amati, molte pasquinate erano state motivo di festa.

Il fatto è che le pasquinate mi servirono solo come punto di partenza per un argomento che non riuscii mai a concretizzare, perché quello che scrivevo dimostrava che il problema di fondo era politico e non morale come si credeva. Pensai sempre che il marito di Nigromanta fosse un buon modello per il sindaco militare di La mala ora ma mentre lo sviluppavo come personaggio cominciò a sedurmi come essere umano, e non ebbi motivo di ammazzarlo, perché scoprii che uno scrittore serio non può ammazzare un personaggio se non ha un motivo convincente, e quello non era il caso.

Oggi mi rendo conto che il romanzo stesso avrebbe potuto essere un altro romanzo. Lo scrissi in un albergo per studenti di Rue Cujas, nel Quartiere Latino di Parigi, a centro metri da Boulevard Saint-Michel, mentre i giorni passavano senza misericordia in attesa di un assegno che non arrivò mai. Quando lo ritenni terminato feci un rotolo con i fogli, lo legai con una delle tre cravatte che avevo portato in tempi migliori, e lo seppellii in fondo all’armadio.

Due anni dopo a Città di Messico non sapevo neppure dov’era quando me lo chiesero per un concorso narrativo della Esso colombiana, con un premio di tremila dollari in quei tempi di carestia. L’emissario era il fotografo Guillermo Angulo, mio vecchio amico colombiano, che conosceva l’esistenza degli originali in fieri da quando stavo scrivendolo a Parigi, e se li era portati via nelle condizioni in cui erano, ancora legati con la cravatta e senza neppure il tempo per stirarli un po’ a causa dell’imminente scadenza. Sicché lo mandai al concorso senza sperare in un premio che bastava per comprarsi una casa. Ma proprio così come l’avevo mandato venne dichiarato vincitore da una giuria illustre, il 16 aprile 1962, e quasi alla stessa ora in cui nacque il nostro secondo figlio, Gonzalo, sotto buoni auspici.

Non avevamo avuto neppure il tempo per pensarci, quando ricevetti una lettera di padre Félix Restrepo, presidente dell’Accademia Colombiana della Lingua, e uomo ammodo che aveva presieduto la giuria del premio ma ignorava il titolo del romanzo. Solo allora mi accorsi che nella fretta dell’ultimo momento avevo dimenticato di scriverlo sulla pagina iniziale: Questo paese di merda.

Padre Restrepo si scandalizzò quando ne venne a conoscenza, e attraverso Germán Vargas mi chiese nel modo più cortese di cambiarlo con un altro meno brutale, e più intonato all’atmosfera del libro. Dopo molti scambi d’idee con lui, mi decisi per un titolo che forse non diceva molto del dramma, ma che gli sarebbe servito da bandiera per navigare nei mari della bigotteria: La mala ora.

Una settimana dopo, il dottor Carlos Arango Vélez, ambasciatore della Colombia in Messico, e recente candidato alla presidenza della Repubblica, mi convocò nel suo ufficio per informarmi che padre Restrepo mi supplicava di cambiare due parole che gli sembravano inammissibili nel testo premiato: preservativo e masturbazione. Né l’ambasciatore né io potevamo nascondere lo stupore ma decidemmo di compiacere padre Restrepo per mettere un termine felice al concorso interminabile con una soluzione equanime.

«Benissimo, signor ambasciatore» gli dissi. «Elimino una delle due parole, ma mi farà lei il favore di sceglierla.»

L’ambasciatore eliminò con un sospiro di sollievo la parola masturbazione. Così ebbe termine il conflitto, e il libro venne pubblicato dalla Casa editrice Iberoamericana di Madrid, con un’alta tiratura e un lancio eccezionale. Era rilegato in pelle, con una carta bellissima e una stampa impeccabile. Tuttavia, fu una luna di miele effimera, perché non resistetti alla tentazione di fare una lettura esplorativa, e scoprii che il libro scritto nella mia lingua da indio era stato doppiato – come i film di allora – nel più puro dialetto di Madrid.

Io avevo scritto: “Così come vivete adesso, non solo vi trovate in una situazione insicura ma costituite pure un cattivo esempio per la gente”. La trascrizione dell’editore spagnolo mi fece accapponare la pelle: “Così come lorsignori vivono adesso, non solo si trovano in una situazione insicura, ma costituiscono pure un cattivo esempio per la gente”. Più grave ancora: poiché questa frase veniva detta da un sacerdote, il lettore colombiano poteva pensare che fosse una strizzata d’occhi dell’autore per indicare che il prete era spagnolo, sicché il suo comportamento si complicava e un aspetto essenziale del dramma si snaturava del tutto. Non soddisfatto di pettinare la grammatica dei dialoghi, il correttore si era permesso di entrare a mano armata nello stile, e il libro rimase cosparso di rattoppi madrileni che non avevano nulla a che vedere con la mia copia. Di conseguenza, non mi rimase altra scelta che disconoscere l’edizione in quanto adulterata, e raccogliere e incenerire gli esemplari che non erano ancora stati venduti. La risposta dei responsabili fu il silenzio assoluto.

A partire da quell’istante considerai il romanzo inedito, e mi dedicai alla dura impresa di ritradurlo nel mio dialetto caraibico, perché l’unica versione originale era quella che avevo spedito al concorso, e la stessa che era finita in Spagna per essere stampata. Una volta ristabilito il testo originale, e fra l’altro corretto ancora una volta per mio conto, lo pubblicò la Casa editrice Era, messicana, con l’avvertenza bene evidenziata che si trattava della prima edizione.

Non ho mai saputo perché La mala ora sia l’unico dei miei libri che mi trasporta nel suo tempo e nel suo spazio in una notte di luna piena e brezze primaverili. Era sabato, aveva smesso di piovere, e le stelle gremivano il cielo. Erano appena suonate le undici quando sentii mia madre in sala da pranzo che sussurrava un fado d’amore per far addormentare il bambino che teneva fra le braccia. Le domandai da dove veniva la musica e mi rispose a modo suo:

«Dalle case delle sciagurate.»

Mi diede cinque pesos senza che glieli avessi chiesti, perché vide che mi vestivo per andare alla festa. Prima che uscissi mi avvertì con la sua preveggenza infallibile che avrebbe lasciato senza paletto la porta del cortile affinché potessi tornare a qualsiasi ora senza svegliare mio padre. Non arrivai fino alle case delle sciagurate perché c’era una prova musicale nella falegnameria del maestro Valdés, al cui gruppo si era unito Luis Enrique non appena era tornato a casa.

Quell’anno mi misi con loro per suonare il tiple e cantare insieme ai sei maestri anonimi fino all’alba. Considerai sempre mio fratello un buon chitarrista, ma la mia prima notte seppi che persino i suoi rivali più accaniti lo ritenevano un virtuoso. Non c’era complesso migliore, ed erano così sicuri di se stessi che allorché qualcuno li ingaggiava per una serenata di riconciliazione o di sgravio, il maestro Valdés lo tranquillizzava subito.

«Non preoccuparti, che le faremo mordere il guanciale.»

Le vacanze senza di lui non erano uguali. Infiammava la festa ovunque arrivasse, e Luis Enrique e lui, con Filadelfo Velilla, facevano coppia come professionisti. Fu allora che scoprii la lealtà dell’alcol e imparai a vivere al contrario, dormendo di giorno e cantando di notte. Come diceva mia madre, avevo perduto la tramontana.

Su di me si disse di tutto, e corse la voce che la mia corrispondenza arrivasse non all’indirizzo dei miei genitori ma alle case delle sciagurate. Mi trasformai nel cliente più puntuale dei loro epici piatti di sancocho al fiele di giaguaro e dei loro stufati di iguana, che davano impeto per tre notti complete. Non ripresi a leggere né a unirmi alle consuetudini della tavola familiare. Il che corrispondeva all’idea tante volte espressa da mia madre secondo cui io facevo a modo mio tutto quello di cui avevo voglia, e invece la mala fama se la portava appresso il povero Luis Enrique. Questi, senza conoscere la frase di mia madre, mi disse in quei giorni: «Adesso ci manca solo che dicano che sto corrompendoti e mi rimandino in casa di correzione».

Per Natale decisi di evitare la gara annuale dei carri e con due amici complici scappai nel villaggio vicino di Majagual. In casa annunciai che sarei stato via tre giorni, ma rimasi lì per dieci. La colpa fu di María Alejandrina Cervantes, una donna inverosimile che conobbi la prima sera, e con cui persi la testa nella bisboccia più fragorosa della mia vita. Fino alla domenica in cui non si svegliò nel mio letto e scomparve per sempre. Anni dopo la riscattai dalle mie nostalgie, non tanto per le sue grazie quanto per la risonanza del suo nome, e la feci rivivere per proteggere un’altra in uno dei miei romanzi, come padrona e signora di una casa di piacere mai esistita.

Di ritorno a casa trovai mia madre che faceva bollire il caffè in cucina alle cinque del mattino. Mi disse con un sussurro complice di rimanere con lei, perché mio padre si era appena svegliato, ed era pronto a dimostrarmi che neppure nelle vacanze ero libero come credevo. Mi servì una scodella di caffè amaro, pur sapendo che non mi piaceva, e mi fece sedere accanto al focolare. Mio padre entrò in pigiama, ancora con l’umore del sonno, e si stupì di vedermi con la scodella fumante, ma mi fece una domanda obliqua:

«Non dicevi che non bevevi caffè?»

Senza sapere cosa rispondergli, gli inventai la prima cosa che mi passò per la testa:

«Ho sempre sete a quest’ora.»

«Come tutti gli ubriachi» replicò lui.

Non mi guardò oltre né si riparlò della faccenda. Ma mia madre mi informò che mio padre, da quel giorno in poi depresso, aveva cominciato a considerarmi un caso perduto, anche se non me lo lasciò mai capire.

Le mie spese aumentavano tanto che decisi di saccheggiare il salvadanaio di mia madre. Luis Enrique mi assolse con la sua logica secondo cui il denaro rubato ai genitori, se viene usato per il cinema e non per andare a puttane, è denaro legittimo. Soffrii per gli impicci di complicità di mia madre affinché mio padre non si rendesse conto che avevo preso una brutta strada. Aveva più che ragione dal momento che in casa si notava anche troppo che talvolta continuavo a dormire senza motivo all’ora di pranzo e che avevo una voce da gallo rauco, ed ero sempre così distratto che un giorno non sentii due domande di papà, e lui mi propinò la più dura delle sue diagnosi:

«Hai male al fegato.»

Malgrado tutto, riuscii a salvare le apparenze agli occhi del mondo. Mi facevo vedere ben vestito e meglio educato ai balli di gala e ai pranzi occasionali che organizzavano le famiglie della piazza principale, le cui case rimanevano chiuse tutto l’anno e si aprivano per le feste di Natale quando tornavano gli studenti.

Fu quello l’anno di Cayetano Gentile, che festeggiò le sue vacanze con tre balli splendidi. Per me furono giorni fortunati, perché in tutt’e tre ballai sempre con la stessa dama. La feci ballare la prima sera senza prendermi la briga di domandare chi era, né di chi era figlia, né con chi era. Mi sembrò così riservata che al secondo pezzo le proposi sul serio di sposarsi con me e la sua risposta fu ancora più misteriosa:

«Mio papà dice che non è ancora nato il principe che si sposerà con me.»

Qualche giorno dopo la vidi attraversare il viale della piazza sotto il sole selvaggio delle dodici, con un radioso vestito di organza e tenendo per mano un bambino e una bambina di sei o sette anni. «Sono miei» mi disse morta dal ridere, senza che io gliel’avessi domandato. E con tanta malizia, che cominciai a sospettare che la mia proposta di nozze non se la fosse portata via il vento.

Fin da quand’ero nato nella casa di Aracataca avevo imparato a dormire nell’amaca, ma solo a Sucre l’adottai come parte della mia natura. Non c’è nulla di meglio per la siesta, se si vuole vivere l’ora delle stelle, pensare con calma, far l’amore senza pregiudizi. Il giorno in cui tornai dalla mia settimana dissipata l’appesi fra due alberi nel cortile, come faceva mio papà in altri tempi, e dormii con la coscienza tranquilla. Ma mia madre, sempre tormentata dal terrore che i suoi figli morissero nel sonno, mi svegliò alla fine del pomeriggio per sapere se ero vivo. Allora si coricò al mio fianco e abbordò senza preamboli la questione che le disturbava la vita.

«Tuo papà e io vorremmo sapere cos’è che ti capita.»

La frase non poteva essere più opportuna. Sapevo da tempo che i miei genitori condividevano l’inquietudine per i cambiamenti del mio modo d’essere, e lei improvvisava spiegazioni banali per tranquillizzarlo. Non accadeva nulla in casa che mia madre non venisse a sapere e le sue stizze erano ormai leggendarie. Ma il secchio era traboccato al mio arrivo a casa in pieno giorno per una settimana. La mia reazione giusta sarebbe stata eludere le domande o lasciarle in sospeso fino a un’occasione più propizia, ma lei sapeva che una faccenda così seria ammetteva solo risposte immediate.

Tutti i suoi argomenti erano legittimi: sparivo all’imbrunire, vestito come per un matrimonio, e non tornavo a dormire in casa, ma il giorno appresso dormicchiavo sull’amaca fin dopo l’ora del pranzo. Non avevo ripreso a leggere e per la prima volta dalla mia nascita osai rincasare senza sapere bene dove mi trovavo. «Non guardi neppure i tuoi fratelli, confondi i loro nomi e le loro età, e l’altro giorno hai baciato un nipote di Clemencia Morales credendo che fosse uno di loro» disse mia madre. Ma d’improvviso prese consapevolezza delle sue esagerazioni e le compensò con la semplice verità:

«Insomma, sei diventato un estraneo in questa casa.»

«Verissimo» le dissi «ma il motivo è molto semplice: ne ho fin sopra i capelli di tutta questa storia.»

«Di noi?»

La mia risposta poteva essere affermativa, ma non sarebbe stata giusta.

«Di tutto» le dissi.

E allora le raccontai la mia situazione al liceo. Mi giudicavano dai miei voti, i miei genitori si gloriavano un anno dopo l’altro dei miei risultati, mi credevano non solo lo studente impeccabile, ma anche l’amico esemplare, il più intelligente e rapido, e il più conosciuto per la sua simpatia. O, come diceva mia nonna: «Il ragazzino perfetto».

Tuttavia, per finire in fretta, la verità era tutto il contrario. Sembrava così, perché non avevo il coraggio e il senso dell’indipendenza di mio fratello Luis Enrique, che faceva solo quello di cui aveva voglia. E che avrebbe sicuramente raggiunto una felicità che non è quella che si desidera per i figli, ma quella che permette loro di sopravvivere agli affetti spropositati, alle paure irrazionali e alle gaie speranze dei genitori.

Mia madre rimase annichilita dal ritratto opposto rispetto a quello che si erano costruiti nei loro sogni solitari.

«Non so proprio cosa si può fare» disse dopo un silenzio mortale «perché se raccontiamo tutto questo a tuo papà morirà di un colpo. Non ti rendi conto che sei l’orgoglio della famiglia?»

Per loro era semplice: poiché non c’era possibilità che io diventassi il medico eminente che mio padre non era riuscito a diventare per mancanza di mezzi, sognavano almeno che sarei diventato un professionista in qualche campo.

«Non sarò niente di niente» conclusi. «Non accetto che mi facciate per forza come io non voglio o come voi vorreste che fossi, e tanto meno come vuole il governo.»

La disputa, un po’ a branciconi, si protrasse per il resto della settimana. Credo che mia madre volesse prendersi il tempo per discuterne con papà, e tale idea mi infuse nuovo coraggio. Un giornò le venne per caso una proposta sorprendente:

«Dicono che se te lo proponessi potresti essere un buon scrittore.»

Non avevo mai sentito qualcosa di simile in famiglia. Le mie inclinazioni avevano permesso di supporre fin da bambino che sarei stato un disegnatore, un musicista, un cantore da chiesa e persino un poeta domenicale. Però, lei aveva scoperto in me una tendenza nota a tutti per uno scrivere piuttosto contorto ed etereo, ma quella volta la mia reazione fu più che altro di sorpresa.

«Se si tratta di diventare uno scrittore io dovrei essere uno dei maggiori, e questi non li fanno più» risposi a mia madre. «In fin dei conti, per morire di fame ci sono altri mestieri migliori.»

Una di quelle sere, invece di chiacchierare con me, pianse senza lacrime. Oggi mi sarei allarmato, perché ritengo il pianto represso un espediente infallibile delle grandi donne per realizzare i loro propositi. Ma a diciott’anni non seppi cosa dire a mia madre, e il mio silenzio rese inutili le lacrime.

«Benissimo» disse allora «promettimi almeno che finirai il liceo il meglio possibile e io mi occupo di sistemare il resto con tuo papà.»

Sentimmo entrambi al contempo il sollievo di aver vinto. Accettai, per lei come per mio padre, perché temetti che sarebbero morti se non avessimo raggiunto in fretta un accordo. Fu così che trovammo la soluzione facile secondo cui avrei frequentato Legge e Scienze Politiche, che non solo erano una buona base culturale per qualsiasi mestiere, ma anche per una carriera più umana con lezioni al mattino e tempo libero per lavorare nel pomeriggio. Preoccupato anche dalla carica emotiva che mia madre aveva dovuto sopportare in quei giorni, le chiesi di prepararmi l’atmosfera per parlare faccia a faccia con papà. Si oppose, sicura che avremmo finito per azzuffarci.

«Non ci sono in questo mondo due uomini più simili che tu e lui» mi disse. «E questo è il peggio per parlare.»

Avevo sempre creduto il contrario. Solo adesso, ormai passato per tutte le età che mio padre ha avuto nella sua lunga vita, ho cominciato a vedermi nello specchio molto più simile a lui che a me stesso.

Mia madre dovette coronare quella sera il suo preziosismo da orefice, perché papà riunì a tavola tutta la famiglia e annunciò con un’aria casuale: «Avremo un avvocato in famiglia». Forse timorosa che mio padre tentasse di riaprire il dibattito davanti alla famiglia al completo, mia madre intervenne con la sua migliore innocenza.

«Nella nostra situazione, e con tutti questi figli» mi spiegò «abbiamo pensato che la migliore soluzione sia l’unica carriera che ti puoi pagare da solo.»

Non era così semplice come diceva lei, ma per noi poteva essere il minore dei mali, e i danni avrebbero potuto essere i meno sanguinosi. Sicché chiesi a mio padre il suo parere, per portare avanti il gioco, e la sua risposta fu immediata e di una sincerità lacerante:

«Cosa vuoi che ti dica? Mi spezzi il cuore in due, ma mi rimane almeno l’orgoglio di aiutarti a essere come tu desideri.»

Il colmo dei lussi in quel gennaio del 1946 fu il mio primo viaggio in aereo, grazie a José Palencia, che ricomparve con un grosso problema. Aveva fatto tra un salto e l’altro cinque anni di liceo a Cartagena, ma gli era appena andato male il sesto. Mi impegnai a trovargli un posto in collegio affinché avesse infine il suo diploma e lui mi invitò ad andarci in aereo.

Il volo per Bogotá c’era due volte alla settimana con un DC-3 della compagnia LANSA, il cui rischio maggiore non era l’aereo in sé ma le mucche in libertà sulla pista d’argilla improvvisata in un pascolo. Talvolta doveva fare diversi giri in attesa che fossero riusciti ad allontanarle. Fu l’esperienza inaugurale della mia leggendaria paura per gli aerei, in un’epoca in cui la Chiesa proibiva di portarsi appresso ostie consacrate per tenerle in salvo dalle catastrofi. Il volo durava quasi quattro ore, senza scali, a trecentoventi chilometri l’ora. Noi che avevamo seguito il prodigioso percorso fluviale, ci orientavamo dal cielo sulla viva mappa del grande fiume della Magdalena. Riconoscevamo i paesi in miniatura, i piccoli battelli, le bamboline felici che ci salutavano dai cortili delle scuole. Le hostess in carne e ossa passavano il tempo a tranquillizzare i passeggeri che viaggiavano pregando, soccorrendo gli indisposti e convincendo molti che non c’erano rischi di scontrarsi con gli stormi di avvoltoi che guatavano le carogne lungo il fiume. Quanto ai viaggiatori esperti, raccontavano una e più volte a mo’ di prodezze i voli storici. L’ascesa fin sull’altopiano di Bogotá, senza pressurizzazione né maschere d’ossigeno, la si sentiva come un tamburo nel cuore, e le scosse e le vibrazioni delle ali aumentavano la gioia dell’atterraggio. Ma la sorpresa più grossa fu essere arrivati prima dei nostri telegrammi del giorno precedente.

Di passaggio a Bogotá, José Palencia comprò strumenti per un’orchestra completa, e non so se lo fece con premeditazione o per premonizione, ma non appena il preside Espitia lo vide entrare a passo sicuro con chitarra, tamburi, maracas e armoniche, capii che era ammesso. Quanto a me, anch’io sentii il peso della mia nuova condizione una volta varcato l’atrio: ero un allievo del sesto anno. Fino ad allora non ero consapevole di avere sulla fronte una stella che tutti sognavano, e che si notava dal modo in cui la gente si avvicinava a noi, dal tono in cui ci parlava e anche da un certo timore riverenziale. Inoltre, fu tutto un anno di festa. Dal momento che il dormitorio era solo per chi godeva di una borsa di studio, José Palencia si installò nel migliore albergo della piazza, una delle cui proprietarie suonava il pianoforte, e la vita si trasformò in una domenica lunga un anno intero.

Fu un altro dei mutamenti della mia vita. Mia madre mi comprava vestiti di scarto mentre ero adolescente, e quando non mi servivano più li adattava per i fratelli più giovani. Gli anni più problematici erano stati i primi due, perché gli abiti di panno per il clima feddo erano cari e difficili da trovare. Sebbene il mio corpo non crescesse con troppo entusiasmo, non c’era il tempo di adattare un vestito a due altezze successive in uno stesso anno. Come se non fosse bastato, l’abitudine originale di scambiarsi gli indumenti fra noi interni non prese piede, perché i corredi erano così riconoscibili che gli scherzi nei confronti dei nuovi proprietari erano insopportabili. La situazione si risolse in parte allorché Espitia impose un’uniforme con giacca blu e pantaloni grigi, che unificò l’apparenza e occultò i baratti.

Nel terzo e nel quarto anno mi serviva l’unico vestito che il sarto di Sucre mi aveva sistemato, ma per il quinto ne dovetti comprare un altro molto ben conservato che non mi servì fino al sesto. Tuttavia, mio padre si entusiasmò tanto davanti ai miei propositi di ravvedermi, che mi diede denaro per comprarmi un vestito nuovo su misura, e José Palencia me ne regalò un altro suo dell’anno prima che era un completo di pelo di cammello pochissimo usato. Ben presto mi resi conto fino a che punto l’abito non fa il monaco. Con il vestito nuovo, intercambiabile con la nuova uniforme, partecipai ai balli in cui regnavano quelli della costa, e mi trovai solo un’innamorata che mi durò meno di un fiore.

Espitia mi accolse con un entusiasmo strano. Le due lezioni di chimica alla settimana sembrava tenerle solo per me in un regime di rapide domande e risposte. Quest’attenzione obbligata si rivelò essere un buon punto di partenza per mantenere la promessa fatta ai miei genitori di un finale positivo. Il resto lo fece il metodo unico e semplice di Martina Fonseca: stare attento alle lezioni per evitare notti insonni e cuore in gola durante gli spaventosi esami. Era stato un saggio insegnamento. Da quando decisi di metterlo in pratica nell’ultimo anno del liceo si acquietò la mia angoscia. Rispondevo con facilità alle domande degli insegnanti, che cominciavano a essere più familiari, e mi accorsi di quanto fosse facile mantenere la promessa che avevo fatto ai miei genitori.

Il mio unico problema inquietante continuò a essere quello dei gemiti durante gli incubi. Il responsabile della disciplina, che intratteneva ottimi rapporti con i suoi allievi, era allora il professor Gonzalo Ocampo, e una notte del secondo semestre entrò in punta di piedi nel dormitorio al buio per chiedermi certe sue chiavi che avevo dimenticato di restituirgli. Ebbe appena il tempo di posarmi una mano sulla spalla, che cacciai un urlo selvaggio che svegliò tutti. Il giorno dopo mi trasferirono in un dormitorio per sei improvvisato al secondo piano.

Fu una soluzione per le mie paure notturne, ma troppo tentatrice, visto che ci trovavamo sopra la dispensa, e quattro allievi del dormitorio improvvisato scivolarono fino alle cucine e le saccheggiarono a loro piacimento per una cena di mezzanotte. L’insospettabile Sergio Castro e io, il meno audace, rimanemmo nei nostri letti per fungere da negoziatori in caso di emergenza. Dopo un’ora tornarono con mezza dispensa pronta da imbandire. Fu la grande abbuffata dei nostri lunghi anni di internato, ma risolta con la cattiva digestione di essere scoperti in ventiquattr’ore. Pensai che lì fosse finito tutto, e solo il talento negoziatore di Espitia ci salvò dall’espulsione.

Fu un bel periodo del liceo e il meno promettente del paese. L’imparzialità di Lleras, senza volerlo, accrebbe la tensione che si cominciava a sentire per la prima volta nel collegio. Tuttavia, oggi mi rendo conto che già prima era presente dentro di me, ma che solo allora iniziai a prendere coscienza del paese in cui vivevo. Alcuni insegnanti che tentavano di mantenersi imparziali fin dall’anno precedente non ci riuscirono più durante le lezioni, e se ne uscivano in tirate indigeste sulle loro preferenze politiche. Soprattutto dopo che era cominciata la campagna dura per la successione presidenziale.

Ogni giorno era più chiaro che con Gaitán e Turbay al contempo, il Partito liberale avrebbe perso la presidenza della Repubblica dopo venticinque anni di governi assoluti. Erano due candidati così opposti l’uno all’altro, che sembravano appartenere a due partiti diversi, non solo per i loro personali difetti, ma anche per la risoluzione sanguinosa del conservatorismo, che ci aveva visto chiaro fin dal primo giorno: invece di Laureano Gómez, impose la candidatura di Ospina Pérez, che era un ingegnere milionario e aveva una fama ben meritata di patriarca. Con il liberalismo diviso e un conservatorismo unito e armato, non c’era scelta: Ospina Pérez venne eletto.

Laureano Gómez si preparò fin d’allora per superarlo grazie all’utilizzo delle forze ufficiali con una violenza in piena regola. Era di nuovo la realtà storica del XIX secolo, quando non avevamo avuto pace ma solo tregue effimere fra otto guerre civili generali e quattordici locali, tre colpi di stato e infine la guerra dei Mille Giorni, che aveva lasciato circa ottantamila morti da entrambe le parti in un paese di quattro milioni scarsi di abitanti. Come dire che era tutto un programma comune per indietreggiare di cent’anni.

Il professor Giraldo, ormai alla fine del corso, fece con me un’eccezione flagrante di cui mi vergogno ancora oggi. Mi preparò un questionario semplice per farmi recuperare l’algebra persa a partire dal quarto anno, e mi lasciò solo nello studio degli insegnanti con tutti i raggiri possibili a portata della mia mano. Tornò un’ora dopo, vide il risultato catastrofico e annullò ogni pagina con una croce dall’alto in basso e un grugnito feroce: «Questa zucca è marcia». Però, nei risultati finali l’algebra l’avevo passata, anche se ebbi la decenza di non ringraziare l’insegnante per essere andato contro i suoi principi e i suoi doveri a favore mio.

La vigilia dell’ultimo esame finale di quell’anno, Guillermo López Guerra e io avemmo un brutto incidente con il professor Gonzalo Ocampo per via di una rissa fra ubriachi. José Palencia ci aveva invitati a studiare nella sua camera all’albergo, che era un gioiello coloniale con una vista idilliaca sul parco fiorito con la cattedrale in fondo. Dal momento che ci mancava solo l’ultima prova, rimanemmo lì fino a notte e tornammo al collegio passando per le nostre bettolacce. Il professor Ocampo, che faceva il suo turno come responsabile della disciplina, ci rimproverò per l’ora e per le brutte condizioni in cui tornavamo, e tutt’e due in coro lo sommergemmo di improperi. La sua reazione furibonda e le nostre grida misero in agitazione il dormitorio.

La decisione del corpo dei professori fu che López Guerra e io non avremmo potuto presentarci all’unica prova finale che rimaneva. Ossia, almeno per quell’anno non avremmo finito il liceo. Non ci fu mai possibile chiarire come andarono i negoziati segreti fra gli insegnanti, perché serrarono le file con una solidarietà invalicabile. Il preside Espitia dovette farsi carico del problema a suo rischio e pericolo, e fece sì che potessimo presentarci all’esame al ministero dell’Educazione, a Bogotá. Così accadde. Lo stesso Espitia ci accompagnò, e rimase con noi mentre svolgevamo la prova scritta, che venne valutata subito. Con un ottimo risultato.

Dev’essere stata una situazione interna molto complessa, perché Ocampo non assistette alla cerimonia solenne, forse a causa della facile soluzione di Espitia e per i nostri voti eccellenti. E anche per i miei risultati personali, che mi valsero come premio speciale un libro indimenticabile: Vite di filosofi illustri, di Diogene Laerzio. Non solo era più di quanto i miei genitori sperassero, ma fui pure il primo di quell’annata, sebbene i miei compagni di classe – e io più di chiunque altro – sapessimo che non ero il migliore.

4. I canti vallenatos appartengono al più tipico patrimonio musicale colombiano e sono originari della zona di Valledupar. (NdT)

5

Non avrei mai immaginato che nove mesi dopo aver finito il liceo sarebbe stato pubblicato il mio primo racconto sul supplemento letterario «Fin de Semana» di «El Espectador» di Bogotá, il più interessante e severo dell’epoca. Quarantadue giorni dopo venne pubblicato il secondo. Tuttavia, a stupirmi fu soprattutto un pezzo consacratore del vicedirettore del giornale e direttore del supplemento letterario, Eduardo Zalamea Borda, “Ulisse”, che era il critico colombiano più lucido di allora e il più attento alla comparsa di nuovi talenti.

Fu un succedersi di fatti così inatteso che non è facile raccontarlo. All’inizio di quell’anno mi ero iscritto alla Facoltà di Legge dell’Università Nazionale di Bogotá, come concordato con i miei genitori. Abitavo in pieno centro, in una pensione di Calle Florián, occupata per la maggior parte da studenti della costa atlantica. Nei pomeriggi liberi, invece di lavorare per vivere, me ne rimanevo a leggere nella mia camera o nei caffè che lo permettevano. Erano libri trovati per fortuna o per azzardo, e dipendevano più dalla mia fortuna che dai miei azzardi, perché gli amici che potevano comprarli me li prestavano per periodi così brevi che passavo la notte in bianco per restituirli in tempo. Ma al contrario di quelli che avevo letto al liceo di Zipaquirá, che ormai meritavano di comparire in un mausoleo di autori consacrati, questi li leggevamo come pane caldo, tradotti di recente e stampati a Buenos Aires dopo le lunghe proibizioni della Seconda guerra europea. Così scoprii per mia fortuna i già ben noti Jorge Luis Borges, D. H. Lawrence e Aldous Huxley, Graham Greene e Chesterton, William Irish e Katherine Mansfield e molti altri.

Queste novità comparivano nelle vetrine irraggiungibili delle librerie, ma alcune copie circolavano nei caffè degli studenti, che erano centri attivi di divulgazione culturale fra universitari di provincia. Molti avevano i loro luoghi riservati un anno dopo l’altro, e lì ricevevano la posta e persino i vaglia postali. Certi favori dei proprietari, o dei loro dipendenti di fiducia, furono decisivi nel salvare molte carriere universitarie. Numerosi professionisti del paese erano in debito più con loro che con le invisibili famiglie.

Io preferivo Il Mulino, il caffè dei poeti affermati, a solo duecento metri dalla mia pensione e all’incrocio di Avenida Jiménez de Quesada con la Carrera Séptima. Non permettevano che gli studenti avessero un tavolo fisso, ma noi eravamo sicuri di imparare di più e meglio che sui libri di testo grazie alle conversazioni letterarie che ascoltavamo rannicchiati ai tavoli vicini. Era un locale enorme e bene arredato nello stile spagnolo, e le sue pareti erano decorate dal pittore Santiago Martínez Delgado, con episodi della battaglia di don Chisciotte contro i mulini a vento. Pur non avendo un posto riservato, mi arrangiai sempre perché i camerieri mi sistemassero il più vicino possibile al grande maestro León de Greiff – barbuto, brontolone, affascinante – che cominciava le sue chiacchiere all’imbrunire con alcuni fra gli scrittori più famosi del momento, e finiva a mezzanotte sopraffatto dagli alcolici della mala morte con i suoi allievi di scacchi. Furono pochissimi i grandi nomi delle arti e delle lettere del paese che non passarono a quel tavolo, e noi non aprivamo bocca al nostro per non perdere neppure una delle loro parole. Sebbene in genere parlassero più di donne o di intrighi politici che delle loro arti e dei loro mestieri, dicevano sempre qualcosa di nuovo da imparare. I più assidui eravamo noi della costa atlantica, uniti non tanto dalle cospirazioni costiere contro quelli della capitale quanto dal vizio dei libri. Jorge Álvaro Espinosa, uno studente di legge che mi aveva insegnato a navigare nella Bibbia e che mi aveva fatto imparare a memoria i nomi completi della combriccola di Giobbe, mi posò un giorno sul tavolo un librone impressionante, e sentenziò con la sua autorità da vescovo:

«Questa è l’altra Bibbia.»

Era, figurarsi, l’Ulisse di James Joyce, che lessi a pezzi e a stento finché la mia pazienza non si esaurì. Fu una temerarietà prematura. Anni dopo, ormai da adulto ossequioso, mi imposi di rileggerlo sul serio, e fu non solo la scoperta di tutto un mondo che non avevo mai sospettato dentro di me, ma anche un aiuto tecnico incalcolabile per la libertà del linguaggio, l’uso del tempo e le strutture dei miei libri.

Uno dei miei compagni di stanza era Domingo Manuel Vega, uno studente di medicina che era mio amico già a Sucre e che condivideva con me la voracità della lettura. Un altro era mio cugino Nicolás Ricardo, il figlio maggiore di mio zio Juan de Dios, che mi teneva vive le virtù della famiglia. Vega arrivò una sera con tre libri appena comprati, e me ne prestò uno a caso, come faceva spesso per aiutarmi a prendere sonno. Ma quella volta accadde tutto il contrario: mai più dormii con la tranquillità di prima. Il libro era La metamorfosi di Franz Kafka, nella falsa traduzione di Borges pubblicata dalla Casa editrice Losada di Buenos Aires, che aprì una nuova strada per la mia vita fin dalla prima riga, e che oggi è una delle pietre miliari della letteratura universale: “Un mattino svegliandosi dopo un sonno inquieto, Gregor Samsa si ritrovò nel suo letto trasformato in un mostruoso insetto”. Erano libri misteriosi i cui percorsi erano non solo diversi ma anche spesso contrari rispetto a tutto quanto conoscevo allora. Non era necessario dimostrare i fatti: bastava che l’autore l’avesse scritto perché fosse vero, senza ulteriori prove che non fossero il potere del suo talento e l’autorità della sua voce. Era di nuovo Sheherazade, ma non nel suo mondo millenario in cui tutto era possibile, bensì in un altro mondo irreparabile in cui tutto si era ormai perduto.

Al termine della lettura di La metamorfosi mi rimase un’ansia irresistibile di vivere in quel paradiso altrui. Il nuovo giorno mi sorprese davanti alla portatile che mi prestava lo stesso Domingo Manuel Vega, immerso nel tentativo di fare qualcosa che assomigliasse al povero burocrate di Kafka trasformato in uno scarafaggio enorme. Nei giorni successivi non andai all’università per timore che si spezzasse l’incantesimo, e continuai a sudare gocce di invidia finché Eduardo Zalamea Borda non pubblicò sulle sue pagine un pezzo sconfortato, in cui deplorava che la nuova generazione di scrittori colombiani fosse priva di nomi da ricordare, e che nulla si intravedesse nell’avvenire che potesse rimediarvi. Non so con quale diritto mi sentii tirato in ballo a nome della mia generazione dalla sfida di quel pezzo, e ripresi il racconto abbandonato per tentare una riparazione. Elaborai l’idea tematica del cadavere cosciente di La metamorfosi ma alleggerito dei suoi falsi misteri e dei suoi pregiudizi ontologici.

Comunque, mi sentivo così insicuro che non osai farlo leggere a nessuno dei miei compagni di tavolo. Neppure a Gonzalo Mallarino, che studiava con me alla Facoltà di Legge, e che era il lettore unico delle prose liriche che io scrivevo per sopportare il tedio delle lezioni. Rilessi e corressi il mio racconto fino alla spossatezza, e infine scrissi due righe personali per Eduardo Zalamea – che non avevo mai visto – e di cui non ricordo neppure una parola. Misi il tutto dentro una busta e la portai di persona nella portineria di «El Espectador». Il portiere mi autorizzò a salire al secondo piano affinché consegnassi la busta allo stesso Zalamea in carne e ossa, ma la sola idea mi paralizzò. Lasciai la busta sul tavolo del portiere e mi diedi alla fuga.

Tutto questo era accaduto un martedì e non nutrivo ansie sulla sorte del mio racconto, ma ero sicuro che qualora fosse stato pubblicato non sarebbe stato troppo presto. Nel frattempo vagai e divagai due settimane da un caffè all’altro per ingannare il nervosismo il sabato pomeriggio, fino al 13 settembre, quando entrai nel Mulino e mi scontrai con il titolo del mio racconto su tutta la pagina di «El Espectador» appena uscito: La terza rassegnazione.

La mia prima reazione fu la certezza terrificante che non possedevo i cinque centesimi per comprare il giornale. Questo era il simbolo più esplicito della povertà, perché molte cose basilari della vita quotidiana, oltre al giornale, costavano cinque centesimi: il tram, il telefono pubblico, la tazza di caffè, una lucidata alle scarpe. Mi lanciai in strada senza protezione contro la pioviggine imperturbabile, ma nei caffè vicini non trovai conoscenti che mi dessero una moneta di carità. Non trovai nessuno neppure alla pensione nell’ora morta del sabato, tranne la proprietaria, che era come dire nessuno, perché le dovevo già settecentoventi volte cinque centesimi per due mesi di letto e pulizie. Quando tornai in strada, pronto a fare qualsiasi cosa, incontrai un uomo della Divina Provvidenza che scese da un taxi con «El Espectador» in mano, e gli chiesi direttamente di regalarmelo.

Così riuscii a leggere il mio primo racconto a caratteri di stampa, con un’illustrazione di Hernán Merino, il disegnatore ufficiale del giornale. Lo lessi di nascosto nella mia camera, con il cuore in subbuglio e tutto d’un fiato. A ogni riga scoprivo il potere devastante delle lettere stampate, perché quanto avevo costruito con amore e dolore come una parodia sommessa di un genio universale, mi si rivelò allora nei termini di un monologo aggrovigliato e fragile, a stento sorretto da tre o quattro frasi consolatrici. Dovettero passare quasi vent’anni perché mi azzardassi a leggerlo una seconda volta, e il mio giudizio di allora – un po’ moderato dalla compassione – fu molto meno compiacente.

La cosa più difficile fu la valanga di amici raggianti che mi invasero la camera con copie del giornale ed elogi sperticati su un racconto che sicuramente non avevano inteso. Fra i miei compagni di università, alcuni lo apprezzarono, altri lo capirono di meno, altri ancora, più comprensibilmente, non andarono oltre la quarta riga, ma Gonzalo Mallarino, il cui parere letterario non mi era facile mettere in dubbio, lo approvò senza riserve.

La mia ansia maggiore era per il verdetto di Jorge Álvaro Espinosa, la cui lama critica era la più temibile, anche al di fuori della nostra cerchia. Mi sentivo in uno stato d’animo contraddittorio: volevo vederlo subito per risolvere una volta per tutte l’incertezza, ma al contempo mi atterriva l’idea di affrontarlo. Scomparve fino al martedì, cosa che non era strana in un lettore insaziabile, e quando ricomparve al Mulino si mise a parlare non del racconto ma della mia audacia.

«Suppongo che ti renderai conto del casino in cui ti sei messo» mi disse, con i suoi verdi occhi da cobra reale fissi nei miei occhi. «Adesso sei nella vetrina degli scrittori riconosciuti, e hai molto da fare per meritarlo.»

Rimasi pietrificato dall’unico giudizio che poteva colpirmi quanto quello di Ulisse. Ma prima che finisse, decisi di farmi sotto con quella che consideravo e seguitai a considerare sempre come la verità:

«Quel racconto è una cazzata.»

Lui mi rispose con un dominio inalterabile che non poteva ancora dire nulla perché aveva appena avuto il tempo per una lettura in diagonale. Ma mi spiegò che anche se fosse stato brutto come dicevo io, non lo sarebbe stato al punto da sacrificare l’occasione d’oro che la vita mi stava offrendo.

«Comunque, quel racconto appartiene ormai al passato» concluse. «L’importante adesso è il prossimo.»

Mi lasciò senza parole. Feci la sciocchezza di cercare argomenti contro, fino a convincermi che non avrei sentito un parere più intelligente del suo. Si dilungò con la sua idea fissa che dapprima occorreva ideare il racconto e poi lo stile, ma che l’uno dipendeva dall’altro in una schiavitù reciproca che era la bacchetta magica dei classici. Mi intrattenne un po’ con il suo parere tante volte ripetuto secondo cui avevo bisogno di una lettura a fondo e senza pregiudizi dei greci, e non solo di Omero, l’unico che io avessi letto per obbligo al liceo. Glielo promisi, e volli sentire altri nomi, ma lui cambiò e spostò il discorso su I falsari di André Gide, che aveva letto in quel fine settimana. Non ebbi mai il coraggio di dirgli che forse la nostra conversazione mi aveva risolto la vita. Passai la notte in bianco prendendo appunti per un prossimo racconto senza i meandri del primo.

Sospettavo che chi me ne parlava non fosse impressionato dal racconto – che forse non aveva letto e di certo non aveva capito – ma perché l’avevano pubblicato con un’evidenza inusitata su una pagina tanto importante. Per cominciare, mi accorsi che i miei due grandi difetti erano i due maggiori: la goffaggine della scrittura e l’ignoranza del cuore umano. E questo era più che chiaro nel mio primo racconto, che fu una confusa meditazione astratta, aggravata dall’abuso di sentimenti inventati.

Cercando nella mia memoria situazioni della vita reale per un secondo, ricordai che una delle donne più belle che avessi conosciuto da bambino mi aveva detto che voleva stare dentro il gatto di una rara bellezza che accarezzava sul suo grembo. Le avevo domandato perché, e mi aveva risposto: «Perché è più bello di me». Allora trovai un punto d’appoggio per il secondo racconto, e un titolo accattivante: Eva sta dentro il suo gatto. Il resto, come il racconto precedente, fu inventato dal nulla, e proprio per questo – come ci piaceva dire allora – entrambi racchiudevano il germe della loro stessa distruzione.

Questo racconto fu pubblicato con la stessa evidenza del primo, il sabato 25 ottobre 1947, illustrato da una stella in ascesa nel cielo dei Caraibi: il pittore Enrique Grau. Mi colpì che i miei amici lo accogliessero come il solito lavoro di uno scrittore consacrato. Io, invece, soffrii per i difetti e dubitai del buon esito, ma riuscii a tollerare l’incertezza. Il colpo grosso fu qualche giorno dopo, con un pezzo che pubblicò Eduardo Zalamea, sotto il consueto pseudonimo di Ulisse, nella sua rubrica quotidiana su «El Espectador». Scriveva senza preamboli: “I lettori di ‘Fin de Semana’, supplemento letterario di questo giornale, avranno notato la comparsa di un ingegno nuovo, originale, dalla vigorosa personalità”. E più avanti: “Nell’immaginazione può accadere tutto, ma saper mostrare con naturalezza, con semplicità e senza smanie la perla che si riesce a strapparle, non è cosa che possano fare tutti i ragazzi di vent’anni che iniziano il loro rapporto con le lettere”. E finiva senza reticenze: “Con García Márquez nasce un nuovo e importante scrittore”.

Il pezzo – e come avrebbe potuto essere altrimenti? – mi rese felicissimo, ma al contempo mi costernò che Zalamea non si fosse lasciato possibilità di ritrattazione. Tutto era già consumato e io dovevo interpretare la sua generosità come un richiamo alla mia coscienza, e per il resto della mia vita. Il pezzo rivelò pure che Ulisse aveva scoperto la mia identità attraverso uno dei suoi colleghi di redazione. Quella sera venni a sapere che era stato attraverso Gonzalo González, un cugino primo fra i miei tanti cugini primi, che scrisse per quindici anni sullo stesso giornale, con lo pseudonimo di “Gog” e una passione senza cedimenti, una rubrica in cui rispondeva a domande dei lettori, a cinque metri dalla scrivania di Eduardo Zalamea. Per fortuna, questi non mi cercò, né io cercai lui. Lo vidi una volta al tavolo del poeta De Greiff e conobbi la sua voce e la sua tosse aspra da fumatore irredimibile, e lo vidi da vicino a diverse cerimonie culturali, ma nessuno ci presentò. Alcuni perché non ci conoscevano e altri perché non credevano possibile che non ci conoscessimo.

È difficile immaginare fino a che punto allora si vivesse all’ombra della poesia. Era una passione frenetica, un altro modo d’essere, una palla di fuoco che si muoveva ovunque per conto suo. Aprivamo il giornale, anche alla pagina economica o a quella di cronaca nera, oppure leggevamo i fondi di caffè nella tazzina, e lì c’era la poesia che ci aspettava e si faceva carico dei nostri sogni. Sicché per noi, aborigeni di tutte le province, Bogotá era la capitale del paese e la sede del governo, ma soprattutto era la città dove vivevano i poeti. Non solo credevamo nella poesia, e per questa morivamo, ma sapevamo pure con certezza – come scrisse Luis Cardoza y Aragón – che “la poesia è l’unica prova concreta dell’esistenza dell’uomo”.

Il mondo era dei poeti. Per la mia generazione le loro novità erano più importanti delle notizie politiche sempre più deprimenti. La poesia colombiana era uscita dal XIX secolo illuminata dalla stella solitaria di José Asunción Silva, il romantico sublime che a trentun anni si era sparato un colpo di pistola nel cerchio che il suo medico gli aveva dipinto con lo iodio sul cuore. Non nacqui in tempo per conoscere Rafael Pombo o Eduardo Castillo – il grande lirico – che i suoi amici descrivevano come un fantasma fuggito dalla tomba all’imbrunire, con un doppio mantello, una pelle verdastra per la morfina e un profilo d’avvoltoio: la rappresentazione fisica dei poeti maledetti. Una sera passai in tram davanti a una grande casa della Carrera Séptima e vidi dinanzi al portone l’uomo più impressionante che avessi visto in vita mia, con un abito impeccabile, un cappello inglese, un paio di occhiali scuri per i suoi occhi senza luce e una ruana5 come quelle che portano nelle savane. Era il poeta Alberto Ángel Montoya, un romantico un po’ appariscente che aveva pubblicato alcune delle buone poesie della sua epoca. Per la mia generazione erano ormai fantasmi del passato, tranne il maestro León de Greiff, che per anni spiai al caffè Mulino.

Nessuno di loro riuscì neppure a sfiorare la gloria di Guillermo Valencia, un aristocratico di Popayán che prima dei suoi trent’anni si era imposto come il sommo pontefice della generazione del Centenario, così chiamata per aver coinciso nel 1910 con il primo secolo dell’indipendenza nazionale. I suoi contemporanei Eduardo Castillo e Porfirio Barba Jacob, due grandi poeti di ascendenza romantica, non ottennero la giustizia critica che meritavano abbondantemente in un paese arroventato dalla retorica di marmo di Valencia, la cui ombra mitica sbarrò il passo a tre generazioni. Quella immediata, sorta nel 1925 con il nome e gli slanci dei Nuovi, annoverava esemplari magnifici come Rafael Maya e di nuovo León de Greiff, che non furono riconosciuti in tutta la loro grandezza finché Valencia rimase sul suo trono. Fino ad allora questi aveva goduto di una gloria peculiare che lo portò di peso fino alle stesse porte della presidenza della Repubblica.

In mezzo secolo gli unici che si azzardarono ad affrontarlo furono quelli del gruppo Pietra e Cielo con i loro quaderni giovanili, che in ultima istanza avevano in comune solo la virtù di non essere seguaci di Valencia: Eduardo Carranza, Arturo Camacho Ramírez, Aurelio Arturo e lo stesso Jorge Rojas, che aveva finanziato la pubblicazione delle sue poesie. Non tutti erano uguali nella forma e neppure nell’ispirazione, ma nel complesso sconvolsero le rovine archeologiche dei parnassiani e risvegliarono alla vita una nuova poesia del cuore, con risonanze molteplici di Juan Ramón Jiménez, Rubén Darío, García Lorca, Pablo Neruda o Vicente Huidobro. Il consenso pubblico non fu immediato né loro stessi sembrarono consapevoli di essere visti alla stregua di inviati della Divina Provvidenza per dare una bella spazzata alla casa della poesia. Tuttavia, don Baldomero Sanín Cano, il saggista e critico più rispettabile di quegli anni, si affrettò a scrivere un saggio perentorio per ovviare a qualsiasi tentativo contro Valencia. La sua moderazione proverbiale sparì. Fra molte altre frasi definitive, scrisse che Valencia si era “impadronito della scienza antica per conoscere l’anima dei tempi remoti nel passato, e lavora sui testi contemporanei volendo cogliere, per analogia, tutta l’anima dell’uomo”. Lo consacrò ancora una volta come un poeta senza tempo né frontiere, e lo collocò fra quanti “come Lucrezio, Dante, Goethe, hanno conservato il corpo per salvare l’anima”. Più di uno avrà allora pensato che con simili amici Valencia non aveva bisogno di nemici.

Eduardo Carranza replicò a Sanín Cano con un articolo che diceva tutto fin dal titolo: “Un caso di bardolatria”. Fu il primo e sicuro attacco per ricondurre Valencia fra i suoi limiti e ridurne il piedistallo al suo posto e alla sua grandezza. Lo accusò di non avere acceso in Colombia una fiamma dello spirito bensì un’ortopedia di parole, e definì i suoi versi come quelli di un poeta concettista, frigido e abile, e un cesellatore coscienzioso. La sua conclusione fu una domanda rivolta a se stesso che essenzialmente rimase come una delle sue buone poesie: “Se la poesia non serve per farmi accelerare il sangue, per aprirmi improvvise finestre sul mistero, per aiutarmi a scoprire il mondo, per fare compagnia a questo desolato cuore nella solitudine e nell’amore, nella gioia e nel disamore, a cosa mi serve la poesia?” E finì: “Per me – blasfemo tra i blasfemi! – Valencia è appena un buon poeta”.

La comparsa di “Un caso di bardolatria” su “Lecturas Dominicales” di «El Tiempo», che allora aveva una vasta diffusione, suscitò una commozione sociale. Ebbe pure il risultato prodigioso di un’analisi approfondita della poesia in Colombia fin dalle sue origini, che forse non era più stata fatta con serietà dopo che don Juan de Castellanos aveva scritto i centocinquantamila endecasillabi della sua Elegia degli uomini illustri delle Indie.

Da allora innanzi la poesia rimase un campo sgombro. Non solo per i Nuovi, che divennero di moda, ma anche per altri che emersero in seguito e che si contendevano il posto a gomitate. La poesia finì per essere così popolare che oggi non è possibile intendere fino a che punto si vivesse ogni numero di “Lecturas Dominicales”, che dirigeva Carranza, o di «Sábado», che allora dirigeva Carlos Martín, il nostro vecchio preside del liceo. Oltre alla sua poesia, Carranza impose con la sua gloria un modo d’essere poeta alle sei del pomeriggio nella Carrera Séptima di Bogotá, che era come passeggiare in una vetrina di dieci isolati con un libro nella mano appoggiata sul cuore. Fu un modello della sua generazione, che fece scuola in quella successiva, ognuna a modo suo.

Verso la metà dell’anno arrivò il poeta Pablo Neruda, convinto che la poesia doveva essere un’arma politica. Nelle sue conversazioni a Bogotá venne a conoscenza di quale sorta di reazionario fosse Laureano Gómez, e a mo’ di congedo, quasi in punta di penna scrisse in suo onore tre sonetti fustiganti, la cui prima quartina dava il tono di tutte:

Addio, Laureano mai laureato,
satrapa triste e re avventizio.
Addio, imperatore del quarto piano,
prima del tempo e senza posa pagato.

Malgrado le sue simpatie di destra e la sua amicizia personale con lo stesso Laureano Gómez, Carranza mise in rilievo i sonetti sulle sue pagine letterarie, più come un’anteprima giornalistica che come un proclama politico. Ma la disapprovazione fu quasi unanime. Soprattutto per il controsenso di pubblicarli sul giornale di un liberale fino al midollo come l’ex presidente Eduardo Santos, contrario al pensiero retrogrado di Laureano Gómez come a quello rivoluzionario di Pablo Neruda. La reazione più rumorosa fu quella di chi non tollerava una simile prepotenza da parte di uno straniero. Il solo fatto che tre sonetti casistici e più ingegnosi che poetici potessero originare un tale schiamazzo, fu un sintomo incoraggiante del potere della poesia in quegli anni. Comunque sia, in seguito a Neruda fu vietato l’ingresso in Colombia dallo stesso Laureano Gómez, ormai divenuto presidente della Repubblica, e a suo tempo dal generale Gustavo Rojas Pinilla, ma lui si fermò più volte a Cartagena e a Buenaventura in scali marittimi fra Cile ed Europa. Per gli amici colombiani cui annunciava il suo passaggio, ogni scalo di andata e di ritorno era una grande festa.

Quando entrai nella Facoltà di Legge, nel febbraio del 1947, la mia identificazione con il gruppo Pietra e Cielo era sempre incolume. Sebbene avessi conosciuto i componenti più ragguardevoli in casa di Carlos Martín, a Zipaquirá, non ebbi l’audacia di ricordarlo neppure a Carranza, che era il più abbordabile. Una volta lo incontrai così da vicino e allo scoperto nella libreria Grancolombia, che gli feci un saluto da ammiratore. Mi rispose con grande gentilezza, ma non mi riconobbe. Invece, un’altra volta il maestro León de Greiff si alzò dal suo tavolo al Mulino per venire a salutarmi al mio perché qualcuno gli aveva raccontato che avevo pubblicato racconti su «El Espectador», e mi promise di leggerli. Per sfortuna, poche settimane dopo ebbe luogo la rivolta popolare del 9 aprile, e dovetti abbandonare la città ancora fumante. Quando feci ritorno, di lì a quattro anni, il Mulino era scomparso sotto le sue ceneri, e il maestro si era trasferito con armi, bagagli e corte al caffè L’Automatico, dove diventammo buoni amici di libri e acquavite, e mi insegnò a muovere senza arte né fortuna le pedine degli scacchi.

Ai miei amici del primo periodo sembrava incomprensibile che mi ostinassi a scrivere racconti, e io stesso non me lo spiegavo in un paese in cui la grande arte era la poesia. Lo seppi fin da molto piccolo, per via del successo di Miseria umana, un poema popolare che si vendeva in fascicoli di carta straccia o recitato per due centesimi nei mercati e nei cimiteri dei paesi dei Caraibi. Il romanzo, invece, era scarso. Dopo María, di Jorge Isaacs, se n’erano scritti molti senza grande risonanza. José María Vargas Vila era stato un fenomeno insolito con cinquantadue romanzi che andavano dritti al cuore dei poveri. Viaggiatore instancabile, il suo eccesso di bagaglio erano i suoi stessi libri, che venivano esposti ed esauriti come il pane davanti agli alberghi dell’America Latina e della Spagna. Aura o le viole, il suo romanzo più noto, infranse più cuori che molti altri migliori di suoi contemporanei.

Gli unici a suo tempo sopravvissuti erano stati Il montone, scritto fra il 1600 e il 1638 in piena Colonia dallo spagnolo Juan Rodríguez Freyle, un resoconto così smisurato e libero sulla storia della Nuova Granata, che finì per essere un capolavoro della finzione; María, di Jorge Isaacs, del 1867; La voragine, di José Eustasio Rivera, del 1924; La marchesa di Yolombó, di Tomás Carrasquilla, del 1926, e Quattro anni a bordo di me stesso, di Eduardo Zalamea, del 1934. Nessuno di questi era riuscito a sfiorare la gloria che tanti poeti raggiungevano con o senza giustizia. Invece il racconto – con un precedente insigne come quello dello stesso Carrasquilla, il grande scrittore dell’Antioquia – era naufragato in una retorica irta e senz’anima.

La prova che la mia vocazione era solo quella di un narratore fu la scia di versi lasciati al liceo, senza firma o con pseudonimi, perché non li presi mai troppo sul serio. Anzi, quando pubblicai i primi racconti su «El Espectador», molti si contendevano il genere, ma senza diritti sufficienti. Oggi penso che così stavano le cose perché la vita in Colombia, secondo molti punti di vista, era sempre quella del XIX secolo. Soprattutto nella Bogotá lugubre degli anni Quaranta, ancora nostalgica della Colonia, quando mi iscrissi senza vocazione né volontà alla Facoltà di Legge dell’Università Nazionale.

Per constatarlo bastava immergersi nel centro nevralgico della Carrera Séptima e di Avenida Jiménez de Quesada, battezzato dall’esagerazione bogotana come il migliore incrocio del mondo. Quando l’orologio pubblico del campanile di San Francisco scoccava i dodici rintocchi di mezzogiorno, gli uomini si fermavano per strada o interrompevano le chiacchiere al caffè per regolare gli orologi secondo l’ora ufficiale della chiesa. Nei pressi di quell’incrocio, e negli isolati adiacenti, c’erano i posti più affollati dove si riunivano due volte al giorno i commercianti, i politici, i giornalisti – e i poeti, ovvio – tutti in nero fino ai piedi vestiti, come il re nostro signore don Filippo IV.

Quand’ero studente in quel luogo si leggeva ancora un giornale che forse aveva pochi precedenti nel mondo. Era una lavagna nera come quella delle scuole, che veniva esposta al balcone di «El Espectador» a mezzogiorno e alle cinque del pomeriggio con le ultime notizie scritte con il gesso. In quei momenti il passaggio dei tram diventava difficile, se non impossibile, per l’intralcio delle folle che aspettavano impazienti. Quei lettori in strada avevano pure la possibilità di applaudire con una serrata ovazione le notizie che sembravano buone e di fischiare o tirare pietre contro la lavagna quando non erano di loro gradimento. Era una forma di partecipazione democratica istantanea grazie alla quale «El Espectador» disponeva di un termometro più efficace di qualsiasi altro per misurare la febbre dell’opinione pubblica.

Non esisteva ancora la televisione e c’erano notiziari radiofonici molto completi ma a ore fisse, sicché prima di andare a pranzo o a cena, si restava in attesa della comparsa della lavagna per arrivare a casa con un’idea più completa del mondo. Lì si conobbe e si seguì con un rigore esemplare e indimenticabile il volo solitario del capitano Concha Venegas fra Lima e Bogotá. Quand’erano notizie come queste, la lavagna veniva cambiata più volte fuori dalle ore previste per alimentare la voracità del pubblico con bollettini straordinari. Nessuno dei lettori in strada di quel giornale unico sapeva che l’inventore e schiavo dell’idea si chiamava José Salgar, un redattore primiparo che aveva cominciato a lavorare a «El Espectador» a vent’anni, e che sarebbe diventato uno fra i grandi giornalisti senza essere andato oltre le elementari.

L’istituzione distintiva di Bogotá erano i caffè del centro, dove prima o poi confluiva la vita di tutto il paese. Ognuno ebbe a suo tempo una specialità – politica, letteraria, finanziaria – sicché gran parte della storia della Colombia di quegli anni ha avuto rapporto con quei caffè. Ognuno aveva il suo preferito a titolo di contrassegno infallibile della propria identità.

Scrittori e politici della prima metà del secolo – incluso qualche presidente della Repubblica – avevano studiato nei caffè della Calle Catorce, davanti al collegio del Rosario. Il Windsor, che fece epoca con i suoi politici famosi, era uno dei più duraturi e fu rifugio del grande caricaturista Ricardo Rendón, che elaborò lì la sua grande opera, e anni dopo si perforò il cranio geniale con una pallottola di pistola nel retro della Gran Vía.

Il rovescio di molti miei pomeriggi di tedio fu la scoperta casuale di una sala da musica aperta al pubblico nella Biblioteca Nazionale. Ne feci il mio rifugio preferito per leggere all’ombra dei grandi compositori, le cui opere richiedevamo per iscritto a un’impiegata affascinante. Fra i visitatori consueti scoprivamo affinità di ogni tipo dal genere di musica che preferivamo. Così conobbi la maggior parte dei miei autori preferiti attraverso i gusti altrui, tanto abbondanti e vari, e per molti anni aborrii Chopin per colpa di un melomane implacabile che lo chiedeva quasi ogni giorno e senza misericordia.

Un pomeriggio trovai la sala deserta perché il sistema era guasto, ma la direttrice mi permise di sedermi a leggere in silenzio. All’inizio mi sentii in una gora di pace, ma di lì a due ore non ero riuscito a concentrarmi a causa di certe raffiche di ansia che mi disturbavano la lettura e mi facevano sentire estraneo alla mia stessa pelle. Ci misi parecchi giorni a rendermi conto che il rimedio alla mia ansia non era il silenzio della sala bensì l’ambito della musica, che da allora innanzi si trasformò per me in una passione quasi segreta e definitiva.

La domenica pomeriggio, quando chiudevano la sala da musica, il mio divertimento più fruttuoso era viaggiare sui tram dai vetri azzurri, che per cinque centesimi giravano senza tregua da Plaza de Bolívar fino ad Avenida de Chile, e lì sopra passare quei pomeriggi dell’adolescenza che sembravano trascinarsi appresso una coda interminabile di molte altre domeniche perdute. L’unica cosa che facevo durante quel viaggio a cerchi viziosi era leggere libri di versi, forse un chilometro della città per ogni chilometro di versi, finché non si accendevano le prime luci nella pioviggine perpetua. Allora percorrevo i caffè taciturni dei quartieri vecchi in cerca di qualcuno che mi facesse la carità di chiacchierare con me sulle poesie che avevo appena letto. Talvolta lo trovavo – sempre un uomo – e rimanevamo fin oltre mezzanotte in qualche posto della mala morte, riscattando i mozziconi delle sigarette che noi stessi avevamo fumato e parlando di poesia mentre nel resto del mondo l’umanità intera faceva l’amore.

A quei tempi noi tutti eravamo giovani, ma incontravamo sempre degli altri più giovani di noi. Le generazioni si spintonavano l’una con l’altra, soprattutto fra i poeti e i criminali, e non appena uno aveva finito di fare qualcosa ecco che si profilava qualcuno che minacciava di farla meglio. Talvolta trovo fra vecchie carte qualche foto che ci scattavano i fotografi per strada nell’atrio della chiesa di San Francisco, e non posso trattenere un fremito di compassione, perché non sembrano fotografie nostre ma dei figli di noi stessi, in una città dalle porte sbarrate dove niente era facile, e tanto meno sopravvivere senza amore nelle domeniche pomeriggio. Lì conobbi per caso mio zio José María Valdeblánquez, quando mi sembrò di vedere mio nonno che si faceva strada con l’ombrello tra la folla domenicale che usciva dalla messa. Il suo abbigliamento non mascherava affatto la sua identità: completo di panno nero, camicia bianca con colletto di celluloide e cravatta a righe diagonali, panciotto con la catena dell’orologio, cappello duro e occhiali d’oro. Fu tale la mia impressione che gli sbarrai il passo senza rendermene conto. Lui alzò l’ombrello minaccioso e mi affrontò con gli occhi negli occhi:

«Posso passare?»

«Mi scusi» gli dissi imbarazzato. «È che l’ho confusa con mio nonno.»

Lui continuò a scrutarmi con il suo sguardo da astronomo, e mi domandò in malo modo con ironia:

«E si può sapere chi è questo nonno tanto famoso?»

Confuso dalla mia stessa impertinenza gli dissi il nome completo. Lui abbassò allora l’ombrello e sorrise di ottimo umore.

«Be’, c’è un buon motivo se ci assomigliamo» disse. «Sono il suo primogenito.»

La vita quotidiana era più tollerabile all’Università Nazionale. Tuttavia, non riesco a trovare nella memoria la realtà di quei tempi, perché credo di non essere stato uno studente di Legge neppure per un giorno, sebbene i miei voti del primo anno – l’unico che portai a termine a Bogotá – permettessero di pensare il contrario. Lì non c’erano tempo né occasione di allacciare i rapporti personali che si intrattenevano al liceo, e i compagni di corso si disperdevano nella città alla fine delle lezioni. La mia più bella sorpresa fu trovare come segretario generale della Facoltà di Legge lo scrittore Pedro Gómez Valderrama, di cui avevo notizia per le sue collaborazioni precoci alle pagine letterarie, e che fu uno dei miei grandi amici fino alla sua morte prematura.

Il mio compagno più assiduo fin dal primo anno fu Gonzalo Mallarino Botero, l’unico abituato a credere in alcuni prodigi della vita che erano veri pur non essendo certi. Fu lui a insegnarmi che la Facoltà di Legge non era arida come io pensavo, perché fin dal primo giorno mi fece uscire dalla lezione di statistica e demografia, alle sette del mattino, e mi sfidò a un duello personale di poesia nel caffè della città universitaria. Nelle ore morte del mattino recitava a memoria le poesie dei classici spagnoli, e io gli replicavo con poesie dei giovani colombiani che avevano aperto il fuoco sui contraccolpi retorici del secolo precedente.

Una domenica mi invitò a casa sua, dove viveva con la madre e le sorelle e i fratelli, in un’atmosfera di tensioni fraterne come quella della mia casa paterna. Víctor, il maggiore, era già un uomo di teatro a tempo pieno, e un declamatore famoso nell’ambito della lingua spagnola. Da quando mi ero sottratto alla tutela dei miei genitori non mi ero mai più sentito come a casa mia, finché non conobbi Pepa Botero, la madre del Mallarino, una signora dell’Antioquia rimasta rustica e indomita in mezzo al fior fiore ermetico dell’aristocrazia di Bogotá. Con la sua intelligenza naturale e la sua loquela prodigiosa aveva il pregio impareggiabile di conoscere il punto giusto in cui le brutte parole riacquistavano la loro ascendenza cervantina. Erano serate indimenticabili, guardando l’imbrunire sopra lo smeraldo senza limiti delle savane, al caldo della cioccolata profumata e dei pasticcini caldi. Da Pepa Botero, con il suo gergo sboccato, con il suo modo di dire i fatti della vita comune, imparai cose importantissime per una nuova retorica della vita reale.

Altri compagni simili erano Guillermo López Guerra e Álvaro Vidal Varón, che erano già stati miei complici al liceo di Zipaquirá. Tuttavia, all’università fui più vicino a Luis Villar Borda e a Camilo Torres Restrepo, che con le unghie e i denti e per amore dell’arte facevano il supplemento letterario di «La Razón», un quotidiano quasi segreto diretto dal poeta e giornalista Juan Lozano y Lozano. Nei giorni di chiusura del supplemento andavo con loro in redazione e davo una mano nelle emergenze dell’ultimo momento. Certe volte incontrai pure il direttore, di cui ammiravo i sonetti e più ancora i profili di personaggi nazionali che pubblicava sulla rivista «Sábado». Lui ricordava un po’ vagamente il pezzo di Ulisse su di me, ma non aveva letto i racconti, ed evitai l’argomento perché ero sicuro che non gli sarebbero piaciuti. Fin dal primo giorno mi disse mentre se ne andava via che le pagine del suo giornale erano aperte per me, ma la presi solo come un complimento bogotano.

Al caffè Asturias, Camilo Torres Restrepo e Luis Villar Borda, miei compagni alla Facoltà di Legge, mi presentarono Plinio Apuleyo Mendoza, che a sedici anni aveva pubblicato una serie di prose liriche, il genere alla moda imposto nel paese da Eduardo Carranza sulle pagine letterarie di «El Tiempo». Aveva la pelle brunita, capelli nerissimi e lisci, che accentuavano la sua buona parvenza da indio. Malgrado l’età era riuscito a piazzare i suoi pezzi sul settimanale «Sábado», fondato dal padre, Plinio Mendoza Neira, antico ministro della Guerra e gran giornalista nato che forse non scrisse una riga completa in tutta la sua vita. Tuttavia, insegnò a molti a scrivere le loro su giornali che fondava a suon di grancassa e abbandonava per alte cariche politiche o per fondare altre imprese enormi e catastrofiche. Suo figlio non lo vidi più di due o tre volte in quel periodo, sempre con compagni miei. Mi colpì che alla sua età ragionasse come un anziano, ma non mi sarebbe mai passato per la testa che anni dopo avremmo spartito tante ore e ore di giornalismo temerario, perché non avevo ancora considerato la ciurmeria del giornalismo come mestiere, e come scienza mi interessava ancora meno di Legge.

Non avevo mai pensato davvero che avrebbe potuto interessarmi, fino a uno di quei giorni, allorché Elvira Mendoza, sorella di Plinio, fece alla declamatrice argentina Berta Singerman un’intervista all’ultimo momento che mi modificò completamente ogni pregiudizio nei confronti del mestiere e mi fece scoprire una vocazione ignorata. Più che una classica intervista a base di domande e risposte – che tanti dubbi mi lasciavano e continuano a lasciarmi – fu una delle più originali fra quante fino ad allora pubblicate in Colombia. Anni dopo, quando Elvira Mendoza era ormai una giornalista internazionale consacrata e una delle mie buone amiche, mi raccontò che era stato un espediente disperato per evitare un fallimento.

L’arrivo di Berta Singerman era stato l’evento del giorno. Elvira – che dirigeva la sezione femminile della rivista «Sábado» – chiese il permesso per farle un’intervista, e lo ottenne con qualche perplessità del padre per la sua mancanza di pratica nel genere. La redazione di «Sábado» era un punto di incontro degli intellettuali più noti in quegli anni ed Elvira chiese loro qualche domanda per il suo questionario, ma fu sull’orlo del panico quando dovette affrontare lo sprezzo con cui Berta Singerman l’accolse nella suite presidenziale dell’Hotel Granata.

Fin dalla prima domanda si compiacque nel respingerle tutte in quanto stupide o imbecilli, senza sospettare che dietro ognuna c’era un buon scrittore dei tanti che lei aveva conosciuto e ammirato nelle sue diverse visite in Colombia. Elvira, che ha sempre avuto un temperamento vivace, dovette inghiottire le lacrime e sopportare con il cuore in gola quegli sgarbi. L’entrata imprevista del marito di Berta Singerman le salvò il reportage, perché fu lui a dominare la situazione con un tatto squisito e un buon senso dell’umorismo proprio quando stava per trasformarsi in un incidente grave.

Elvira non trascrisse il dialogo che aveva previsto con le risposte della diva, ma fece il reportage delle sue difficoltà con lei. Approfittò dell’intervento provvidenziale del marito, e ne fece il vero protagonista dell’incontro. Berta Singerman esplose in una delle sue furie storiche quando lesse l’intervista. Ma «Sábado» era ormai il settimanale più letto, e la sua diffusione crebbe sino alle centomila copie in una città di seicentomila abitanti.

Il sangue freddo e l’intelligenza con cui Elvira Mendoza approfittò della stupidaggine di Berta Singerman per rivelare la sua vera personalità, mi fece pensare per la prima volta alle possibilità del reportage, non come mezzo spettacolare di informazione, ma molto di più: come genere letterario. Non sarebbero trascorsi molti anni prima che lo constatassi di persona, fino ad arrivare a credere come oggi credo più che mai che romanzo e reportage sono figli di una stessa madre.

Fino ad allora mi ero azzardato solo con la poesia: versi satirici sulla rivista del collegio San José e prose liriche o sonetti di amori immaginari alla maniera di Pietra e Cielo sull’unico numero del giornale del Liceo Nazionale. Poco prima, Cecilia González, la mia complice di Zipaquirá, aveva convinto il poeta e saggista Daniel Arango a pubblicare una canzoncina scritta da me, con pseudonimo e in corpo sette, nell’angolo più nascosto del supplemento domenicale di «El Tiempo». La pubblicazione non mi impressionò né mi fece sentire più poeta di quanto fossi. Invece, con il reportage di Elvira presi consapevolezza del giornalista che mi dormiva nel cuore, e decisi di svegliarlo. Cominciai a leggere i giornali in un altro modo. Camilo Torres e Luis Villar Borda, che si dissero d’accordo con me, mi reiterarono l’offerta di don Juan Lozano sulle pagine di «La Razón», ma ci provai solo con un paio di poesie tecniche che non considerai mai mie. Mi proposero di parlare con Plinio Apuleyo Mendoza per la rivista «Sábado», ma la mia timidezza tutelare mi avvertì che mi mancava molto per azzardarmi a luci spente in un mestiere nuovo. Tuttavia, la mia scoperta ebbe un’utilità immediata, perché in quei giorni ero impegolato nella cattiva coscienza secondo cui tutto quanto scrivevo, in prosa o in versi, e persino i compiti al liceo, erano imitazioni sfacciate di Pietra e Cielo, e mi proposi un cambiamento a fondo a partire dal mio racconto successivo. La pratica finì per convincermi che gli avverbi di modo con terminazione in mente sono un vizio che impoverisce. Sicché cominciai a eliminarli ogni volta che mi uscivano dalla penna, e mi convincevo sempre più che quell’ossessione mi costringeva a trovare forme più ricche ed espressive. Da molto tempo nei miei libri non ce n’è nessuno, se non in qualche citazione testuale. Non so se i miei traduttori hanno individuato e anche contratto, per motivo del loro mestiere, questa paranoia di stile.

L’amicizia con Camilo Torres e Villar Borda si spinse in fretta oltre i limiti delle aule e della sala di redazione e andavamo molto più spesso per le strade che all’università. Entrambi bollivano a fuoco lento in un anticonformismo duro per la situazione politica e sociale del paese. Immerso nei misteri della letteratura io non cercavo neppure di capire le loro analisi circolari e le loro premonizioni cupe, ma le tracce della loro amicizia prevalsero fra quelle più gradevoli e utili di quegli anni.

Alle lezioni dell’università, invece, ero arenato. Deplorai sempre la mia mancanza di devozione per i pregi dei maestri dai grandi nomi che sopportavano la nostra noia. Fra questi Alfonso López Michelsen, figlio dell’unico presidente colombiano rieletto del XX secolo, e credo che di lì venisse l’impressione generalizzata che pure lui era predestinato per nascita a diventare presidente, come in effetti accadde. Iniziava le sue lezioni di introduzione al Diritto con una puntualità irritante e con certe splendide giacche di cachemire fatte a Londra. Teneva il suo corso senza guardare nessuno, con quell’aria celestiale dei miopi intelligenti che sembrano sempre muoversi attraverso i sogni altrui. Le sue lezioni sembravano monologhi a una sola corda come lo era per me qualsiasi lezione che non fosse di poesia, ma il tedio della sua voce aveva la virtù ipnotica di un incantatore di serpenti. La sua vasta cultura letteraria aveva già allora basi sicure, e sapeva usarla per iscritto e a viva voce, ma cominciai ad apprezzarla solo quando ci incontrammo di nuovo anni dopo e diventammo amici, ormai lontano dal sopore delle aule universitarie. Il suo prestigio di politico indefesso si nutriva del suo fascino personale quasi magico e di una lucidità pericolosa nello scoprire le seconde intenzioni della gente. Soprattutto quella che gli garbava di meno. Però, la sua virtù maggiore di uomo pubblico fu il potere stupefacente nel creare situazioni storiche con una sola frase.

Con il tempo stringemmo una buona amicizia, ma all’università non fui il più assiduo e diligente alle sue lezioni, e la mia timidezza irredimibile frapponeva una distanza invalicabile, soprattutto con la gente che ammiravo. Proprio per questo mi stupì tanto che mi accettasse all’esame finale del primo anno, malgrado la scarsa presenza che mi aveva valso una reputazione di studente invisibile. Ricorsi al mio vecchio trucco di far deviare il discorso con espedienti retorici. Mi resi conto che il professore era consapevole della mia astuzia, ma forse l’apprezzava come un gioco letterario. L’unico inciampo fu che nell’agonia dell’esame usai la parola prescrizione e lui si affrettò a chiedermi di definirla per assicurarsi che sapessi di cosa stavo parlando.

«La prescrizione equivale all’acquisizione di una proprietà grazie al trascorrere del tempo» gli dissi.

Lui mi domandò subito:

«Acquisizione o perdita?»

Era lo stesso ma non ne discussi per la mia insicurezza congenita, e credo che fu una delle sue celebri battute, perché nel voto non mi fece scontare il dubbio. Anni dopo gli parlai dell’incidente e non se ne ricordava, naturalmente, ma allora né lui né io eravamo più sicuri che l’episodio fosse vero.

Entrambi trovammo nella letteratura una buona gora per dimenticare la politica e i misteri della prescrizione, e invece scoprivamo libri stupefacenti e scrittori dimenticati in conversazioni infinite che talvolta finirono per guastare visite ed esasperare le nostre mogli. Mia madre mi aveva convinto che eravamo parenti, e così era. Ma, meglio di qualsiasi vincolo dimenticato, ci identificava la nostra passione comune per i canti vallenatos.

Un altro parente casuale, da parte di padre, era Carlos H. Pareja, professore di economia politica e proprietario della libreria Grancolombia, la preferita dagli studenti per la buona abitudine di mettere in mostra le novità di grandi autori su ampi tavoli senza vigilanza. Persino noi, che eravamo suoi studenti, invadevamo il locale durante le distrazioni dell’imbrunire e sottraevamo i libri grazie ad arti digitali, secondo il codice universitario per cui rubare libri è delitto ma non peccato. Non per virtù ma per paura fisica, il mio ruolo negli assalti si limitava a proteggere le spalle dei più abili, a patto che oltre ai libri per loro ne prendessero pure qualcuno indicato da me. Un pomeriggio, uno dei miei complici aveva appena rubato La città senza Laura, di Francisco Luis Bernárdez, quando sentii un artiglio feroce su una spalla, e una voce da sergente:

«Finalmente, cazzo!»

Mi girai atterrito, e mi ritrovai davanti il professor Carlos H. Pareja, mentre tre dei miei complici scappavano a gambe levate. Per fortuna, prima che cominciassi a scusarmi, mi accorsi che il professore non mi aveva avvicinato in quanto ladro, ma perché non mi aveva visto alle sue lezioni da oltre un mese. Dopo un rabbuffo piuttosto convenzionale, mi domandò:

«È vero che sei figlio di Gabriel Eligio?»

Era vero, ma gli risposi di no, perché sapevo che suo padre e il mio erano davvero parenti alla lontana in seguito a un incidente personale che non ho mai inteso. Ma venne poi a conoscenza della verità e da quel giorno mi individuò nella libreria e alle lezioni come nipote suo, e stringemmo un rapporto più politico che letterario, sebbene lui avesse scritto e pubblicato diversi libri di versi disuguali con lo pseudonimo di “Simón Latino”. La consapevolezza della parentela, però, servì solo a lui perché non mi prestai più a fare il palo per rubargli libri.

Un altro professore eccellente, Diego Montaña Cuéllar, era il contrario di López Michelsen, con cui sembrava avere una rivalità segreta. López in quanto liberale accorto e Montaña Cuéllar in quanto radicale di sinistra. Intrattenni con lui un buon rapporto fuori dall’aula, e pensai sempre che López Michelsen mi considerava un poeta in erba, e invece Montaña Cuéllar mi considerava una buona possibilità per il suo proselitismo rivoluzionario.

La mia simpatia per Montaña Cuéllar cominciò con un incidente per via di tre giovani ufficiali della scuola militare che assistevano alle sue lezioni in uniforme da parata. Erano di una puntualità da caserma, si sedevano tutti insieme sugli stessi sedili discosti, prendevano appunti implacabili e ottenevano voti ben meritati in esami severi. Diego Montaña Cuéllar consigliò loro in privato fin dai primi giorni di non recarsi alle lezioni in uniforme da guerra. Loro gli risposero con i migliori modi che osservavano ordini superiori, e non evitarono occasioni per farglielo presente. Comunque, al di là delle loro stranezze, per allievi e professori fu sempre chiaro che i tre ufficiali erano bravi studenti.

Arrivavano con le uniformi identiche, impeccabili, sempre insieme e puntuali. Si sedevano a parte, ed erano gli studenti più seri e metodici, ma pensai sempre che appartenessero a un mondo diverso dal nostro. Se si rivolgeva loro la parola, erano attenti e cortesi, ma di un formalismo insuperabile: non dicevano nulla più di quanto si domandava loro. In periodi di esami, noi civili ci dividevamo a gruppi di quattro per studiare nei caffè, ci incontravamo ai balli del sabato, alle manifestazioni studentesche, nelle osterie disciplinate e nei bordelli lugubri dell’epoca, ma non incontrammo mai neppure per caso i nostri compagni militari.

Scambiai con loro solo qualche saluto durante il lungo anno in cui ci ritrovammo insieme all’università. Inoltre, non ce n’era tempo, perché arrivavano puntuali alle lezioni e se ne andavano via all’ultima parola del professore, senza chiacchierare con nessuno, tranne qualche altro militare giovane del secondo anno, con cui si riunivano nei momenti di pausa. Non ne conobbi mai i nomi e neppure ne ebbi più notizia. Oggi mi rendo conto che le maggiori reticenze erano non tanto loro quanto mie, perché non riuscii mai a superare l’amarezza con cui i miei nonni evocavano le guerre perse e i massacri atroci della Zona bananiera.

Jorge Soto del Corral, il professore di Diritto Costituzionale, aveva fama di conoscere a memoria tutte le costituzioni del mondo, e a lezione eravamo abbagliati dalla luce della sua intelligenza e della sua erudizione giuridica, appannata solo dal suo scarso senso dell’umorismo. Credo che fosse uno dei professori che facevano tutto il possibile per non lasciare trasparire divergenze politiche in aula, ma le si notava più di quanto loro stessi pensassero. Persino dai gesti delle mani e dall’enfasi delle idee, perché era soprattutto all’università che si sentiva il vero polso di un paese sul bordo di una nuova guerra civile dopo quaranta e più anni di pace armata.

Malgrado il mio assenteismo cronico e la mia negligenza giuridica, superai gli esami facili del primo anno di Legge grazie a ripassi dell’ultimo momento, e i più difficili con il mio vecchio trucco di evitare l’argomento con espedienti ingegnosi. Il fatto è che non mi sentivo bene nella mia pelle e non sapevo come proseguire a tentoni in quel vicolo cieco. Il Diritto lo capivo meno e mi interessava molto meno di qualsiasi materia del liceo, sentendomi ormai abbastanza adulto da prendere per mio conto ogni decisione. Alla fine, dopo diciassette mesi di sopravvivenza miracolosa, mi rimase solo un buon gruppo di amici per il resto della vita.

Il mio scarso interesse negli studi divenne più scarso ancora dopo il pezzo di Ulisse, soprattutto all’università, dove alcuni miei compagni iniziarono a conferirmi il titolo di maestro e mi presentavano come scrittore. Il che coincideva con la mia decisione di imparare a costruire una struttura al contempo verosimile e fantastica, ma senza fessure. Con modelli perfetti e schivi, come Edipo re, di Sofocle, il cui protagonista indaga sull’assassinio di suo padre e finisce per scoprire che lui stesso ne è l’assassino; come La zampa di scimmia, di W. W. Jacob, che è il racconto perfetto, in cui tutto quanto succede è casuale; come Palla di sego, di Maupassant, e tanti altri grandi peccatori che Dio conservi nel suo santo regno. Era quella la mia situazione quando una domenica sera mi accadde infine qualcosa che valeva la pena di raccontare. Avevo trascorso quasi tutta la giornata a blaterare delle mie frustrazioni di scrittore con Gonzalo Mallarino nella sua casa in Avenida de Chile, e mentre tornavo alla pensione sull’ultimo tram salì un fauno in carne e ossa alla fermata di Chapinero. Ho detto bene: un fauno. Notai che nessuno tra gli scarsi passeggeri di mezzanotte si sorprendeva al vederlo, e questo mi fece pensare che fosse uno dei tanti individui travestiti che la domenica vendevano di tutto nei parchi per i bambini. Ma la realtà mi convinse che non potevo dubitare, perché le sue corna e la sua barba erano ispide come quelle di un caprone, al punto che passando colsi un lezzo di pelame. Prima della Calle 26, che era quella del cimitero, scese con modi da buon padre di famiglia e scomparve fra gli alberi del parco.

Dopo la mezzanotte, svegliato dai miei sobbalzi nel letto, Domingo Manuel Vega mi domandò cosa accadeva. «Un fauno è salito sul tram» gli dissi ancora semiaddormentato. Lui mi rispose ben sveglio che se era un incubo doveva essere per via della cattiva digestione della domenica, ma se era l’argomento per il mio prossimo racconto gli sembrava fantastico. La mattina dopo non capii più se avevo davvero visto un fauno sul tram o se era stata un’allucinazione domenicale. Iniziai con l’ammettere che mi ero addormentato per la stanchezza della giornata e che avevo fatto un sogno così nitido che non riuscivo a separarlo dalla realtà. Ma alla fine l’essenziale per me non fu se il fauno fosse reale, ma il fatto che io l’avessi vissuto come se lo fosse stato. E proprio per questo – reale o sognato – era legittimo considerarlo non un incantesimo dell’immaginazione ma un’esperienza meravigliosa della mia vita.

Sicché lo scrissi il giorno dopo tutto d’un fiato, lo infilai sotto il guanciale e diverse sere lo rilessi prima di addormentarmi e la mattina al risveglio. Era una trascrizione scarna e letterale dell’episodio del tram, così com’era accaduto, e in uno stile innocente come la notizia di un battesimo su una pagina mondana. Infine, sollecitato da nuovi dubbi, decisi di sottoporlo alla prova infallibile della stampa, ma non su «El Espectador» bensì sul supplemento letterario di «El Tiempo». Forse volevo conoscere un parere diverso da quello di Eduardo Zalamea, senza coinvolgerlo in un’avventura che non aveva motivo di spartire. Lo mandai tramite un compagno della pensione con una lettera per don Jaime Posada, il nuovo e giovanissimo direttore del supplemento letterario di «El Tiempo». Però il racconto non venne pubblicato né ci fu una risposta alla lettera.

I racconti di quell’epoca, nell’ordine in cui furono scritti e pubblicati su «Fin de Semana», scomparvero dagli archivi di «El Espectador» in occasione dell’assalto e dell’incendio contro questo giornale da parte delle folle ufficiali il 6 settembre 1952. Io stesso non ne avevo una copia, né l’avevano i miei amici più attenti, sicché pensai con un certo sollievo che fossero stati inceneriti dall’oblio. Tuttavia, alcuni supplementi letterari di provincia li avevano riprodotti a suo tempo senza autorizzazione, e altri erano stati pubblicati in diverse riviste, finché non vennero raccolti in un volume per le Edizioni Alfil di Montevideo, nel 1972, con il titolo di uno di questi: Nabo, il negro che fece aspettare gli angeli.

Ne mancava uno che non è mai stato inserito in un libro forse per mancanza di una versione affidabile: Tubal Caín forgia una stella, pubblicato su «El Espectador» il 17 gennaio 1948. Il nome del protagonista, come non tutti sanno, è quello di un fabbro biblico che inventò la musica. Furono tre racconti. Letti nell’ordine in cui vennero scritti e pubblicati mi sembrarono scombinati e astratti, e alcuni demenziali, e nessuno si basava su sentimenti reali. Non riuscii mai a chiarire il criterio con cui li lesse un critico severo come Eduardo Zalamea. Resta il fatto che per me hanno un’importanza come per nessun altro, perché in ognuno c’è qualcosa che risponde alla rapida evoluzione della mia vita a quell’epoca.

Molti dei romanzi che allora leggevo e ammiravo mi interessavano solo per i loro insegnamenti tecnici. Ossia, per la loro carpenteria segreta. Dalle astrazioni metafisiche dei tre primi racconti fino agli ultimi tre di allora, ho trovato piste precise e utilissime per la formazione primaria di uno scrittore. Non mi era passata per la testa l’idea di esplorare altre forme. Pensavo che racconto e romanzo erano non solo due generi letterari diversi ma anche due organismi di natura diversa che sarebbe stato funesto confondere. Oggi continuo a crederlo come allora, e sono convinto più che mai della supremazia del racconto sul romanzo.

Le pubblicazioni su «El Espectador», al margine del successo letterario, mi crearono altri problemi più terrestri e divertenti. Amici persi di vista mi fermavano per strada chiedendomi prestiti di salvezza, perché non potevano credere che uno scrittore così pubblicizzato non ricevesse somme enormi per i suoi racconti. Pochissimi credettero che non mi avevano mai pagato un centesimo per la loro pubblicazione, né io me l’aspettavo, perché non era in uso nella stampa del paese. Più grave ancora fu la delusione di mio papà allorché si convinse che non avrei potuto provvedere da solo alle mie spese quando stavano studiando tre degli undici fratelli già nati. La famiglia mi mandava trenta pesos al mese. La sola pensione me ne costava diciotto senza il diritto a uova per la colazione, e mi vedevo sempre costretto a integrarli per spese impreviste. Per fortuna, non so dove avessi preso l’abitudine di fare disegni inconsapevoli sui margini dei giornali, sui tovagliolini dei ristoranti, sui tavoli di marmo dei caffè. Oso credere che quei disegni fossero diretti discendenti di quelli che facevo da bambino sulle pareti dell’oreficeria del nonno, e che forse erano facili valvole di sfogo. Un amico occasionale del Mulino, che aveva entrature in un ministero per sistemarsi come disegnatore senza avere la minima nozione del disegno, mi propose di fargli il lavoro e di dividerci il denaro. Nel resto della mia vita non mi trovai mai più così vicino alla corruzione, ma non così vicino da pentirmene.

Anche il mio interesse per la musica crebbe in quell’epoca in cui i canti popolari dei Caraibi – con cui ero stato allattato – si facevano strada a Bogotá. Il programma più ascoltato era L’ora costiera, animata da don Pascual Delvecchio, una specie di console musicale della costa atlantica nella capitale. Era diventato così popolare la domenica mattina, che noi studenti caraibici andavamo a ballare negli studi dell’emittente fino a pomeriggio inoltrato. Fu quella l’origine dell’immensa popolarità della nostra musica all’interno del paese e in seguito fino a raggiungere i suoi ultimi angoli, e una promozione sociale degli studenti costieri a Bogotá.

L’unico inconveniente era il fantasma del matrimonio per forza. Non so quali brutti precedenti avessero fatto prosperare sulla costa la convinzione secondo cui le fidanzate di Bogotá erano facili con i costieri e ci organizzavano tranelli a letto per costringerci a sposarle. E non per amore, ma per l’illusione di vivere con una finestra aperta sul mare. Non ebbi mai quest’idea. Al contrario, i ricordi più sgradevoli della mia vita sono i bordelli sinistri nelle periferie di Bogotá, dove andavamo a sperperare le nostre sbronze cupe. Nel più sordido di questi rischiai di lasciare la poca vita che avevo in corpo quando una donna con cui ero appena stato comparve nuda nel corridoio gridando che le avevo rubato dodici pesos dal cassetto della specchiera. Due buttafuori della casa mi presero a botte e non si accontentarono di togliermi dalle tasche gli ultimi due pesos che mi rimanevano dopo un amore della mala morte, ma mi spogliarono pure da capo a piedi e mi esplorarono pezzo per pezzo in cerca del denaro rubato. Comunque, avevano deciso di non ammazzarmi ma di consegnarmi alla polizia, quando la donna si ricordò che il giorno prima aveva cambiato il nascondiglio dei suoi soldi e li trovò intatti.

Fra le amicizie dell’università che mi rimasero, quella di Camilo Torres fu non solo fra le meno dimenticabili, ma anche la più drammatica della nostra gioventù. Un giorno non si presentò alle lezioni per la prima volta. Il motivo si diffuse in un baleno. Sistemò le sue cose e decise di scappare da casa per andare al seminario di Chiquinquirá, a cento e più chilometri da Bogotá. Sua madre lo raggiunse alla stazione ferroviaria e lo rinchiuse nella sua biblioteca. Andai a trovarlo lì, più pallido del solito, con una ruana bianca e una serenità che per la prima volta mi fece pensare a uno stato di grazia. Aveva deciso di entrare in seminario per una vocazione che dissimulava benissimo, ma cui era deciso di obbedire sino alla fine.

«La parte più difficile ormai è passata» mi disse.

Fu il suo modo per dirmi che aveva detto addio alla sua fidanzata, e che lei approvava la sua decisione. Dopo un pomeriggio che mi arricchì mi fece un regalo indecifrabile: L’origine delle specie, di Darwin. Mi congedai da lui con la strana certezza che fosse per sempre.

Lo persi di vista finché rimase in seminario. Ebbi notizie vaghe che era andato a Lovanio per tre anni di formazione teologica, che i voti non avevano cambiato il suo spirito studentesco e i suoi modi laici, e che le ragazze che sospiravano per lui lo trattavano come un attore del cinema disarmato dalla sottana.

Dieci anni dopo, quando fece ritorno a Bogotá, aveva acquisito in corpo e anima il carattere della sua investitura ma conservava le sue migliori virtù di adolescente. Io ero allora uno scrittore e un giornalista senza laurea, sposato e con un figlio, Rodrigo, che era nato il 24 agosto 1959 nella clinica Palermo di Bogotá. In famiglia decidemmo che sarebbe stato Camilo a battezzarlo. Il padrino sarebbe stato Plinio Apuleyo Mendoza, con cui mia moglie e io avevamo ormai stretto un’amicizia da compari. La madrina fu Susana Linares, la moglie di Germán Vargas, che mi aveva trasmesso le sue arti di buon giornalista e migliore amico. Camilo era più vicino a Plinio che a noi, già da molto tempo, ma non voleva accettarlo come padrino per le sue affinità di allora con i comunisti, e forse anche per il suo spirito burlone che poteva benissimo rovinare la solennità del sacramento. Susana si impegnò a farsi carico della formazione spirituale del bambino, e Camilo non trovò o non volle trovare altri argomenti per sbarrare la strada al padrino.

Il battesimo ebbe luogo nella cappella della clinica Palermo, nella penombra glaciale delle sei del pomeriggio, solo con il padrino e me, e un contadino in sandali che si avvicinò come levitando per assistere alla cerimonia senza farsi notare. Quando Susana arrivò con il neonato, il padrino incorreggibile disse per scherzo la prima provocazione:

«Di questo bambino faremo un grande guerrigliero.»

Camilo, preparandosi a somministrare il sacramento, contrattaccò sullo stesso tono: «Sì, ma un guerrigliero di Dio». E iniziò la cerimonia con una decisione di grosso calibro, del tutto inconsueta per quegli anni:

«Lo battezzerò in spagnolo affinché gli increduli capiscano cosa significa questo sacramento.»

La sua voce risuonava in uno spagnolo altisonante che io seguivo attraverso il latino dei miei teneri anni da chierichetto ad Aracataca. Al momento dell’abluzione, senza guardare nessuno, Camilo inventò un’altra formula provocatoria:

«Chi crede che in questo momento scende lo Spirito Santo su questa creatura, si inginocchi.»

I padrini e io rimanemmo in piedi e forse un po’ a disagio per l’inghippo del sacerdote amico, mentre il bambino strillava sotto la doccia d’acqua gelida. L’unico a inginocchiarsi fu il contadino in sandali. L’impressione di quest’episodio mi rimase impressa come un severo monito della mia vita, perché ho sempre creduto che fosse stato Camilo a far venire in tutta premeditazione il contadino per punirci con una lezione di umiltà. O, almeno, di buona educazione.

Lo rividi poche volte e sempre per qualche motivo valido e urgente, quasi sempre connesso alle sue opere di carità a favore dei perseguitati politici. Un mattino si presentò nella mia casa di novello sposo con un ladro d’appartamenti che aveva scontato la sua condanna, ma la polizia non gli concedeva tregua: gli rubavano tutto quanto avesse addosso. Una volta gli regalai un paio di scarpe da esploratore con un disegno speciale sulla suola per maggior sicurezza. Di lì a pochi giorni, la domestica della casa riconobbe le suole nella foto di un delinquente di strada trovato morto in un fosso. Era il ladro nostro amico.

Non voglio dire che quest’episodio abbia avuto qualcosa a che vedere con il destino finale di Camilo, ma qualche mese dopo entrò nell’ospedale militare per far visita a un amico ammalato, e non si seppe più nulla di lui finché il governo non annunciò che era ricomparso come guerrigliero semplice nell’esercito di liberazione nazionale. Morì il 5 febbraio 1966, a trentasette anni, in uno scontro aperto con una pattuglia militare.

L’entrata di Camilo in seminario era coincisa con la mia decisione intima di non continuare a perdere tempo alla Facoltà di Legge, ma non ebbi il coraggio di affrontare una volta per tutte i miei genitori. Da mio fratello Luis Enrique – che era arrivato a Bogotá con un buon impiego nel febbraio del 1948 – venni a sapere che erano soddisfatti dei miei risultati al liceo e del mio primo anno di Legge, e che mi avevano fatto la sorpresa di mandarmi la macchina per scrivere più leggera e moderna che ci fosse sul mercato. La prima che ho avuto in questa vita, e anche la più sfortunata, perché quello stesso giorno la impegnammo in cambio di dodici pesos per proseguire la festa di benvenuto con mio fratello e i compagni di pensione. Il giorno dopo, pazzi di mal di testa, andammo al banco dei pegni a constatare che la macchina fosse ancora lì con i suoi sigilli intatti, e assicurarci che fosse sempre in buone condizioni, in attesa che ci cascasse dal cielo il denaro per recuperarla. Avemmo una buona occasione grazie a quanto mi pagò il mio socio disegnatore falso, ma all’ultimo momento decidemmo di rinviare il recupero a più tardi. Ogni volta che passavamo davanti al banco dei pegni mio fratello e io, insieme o separati, constatavamo dalla strada che la macchina era sempre al suo posto, avvolta come un gioiello nel cellophane e con un nastro di organza, tra file di apparecchi domestici ben protetti. Di lì a un mese, i calcoli allegri che avevamo fatto nell’euforia della sbronza non erano stati osservati, ma la macchina rimaneva intatta al suo posto, e lì poteva restare finché avessimo pagato in tempo gli interessi trimestrali.

Credo che allora non fossimo ancora consapevoli delle terribili tensioni politiche che cominciavano a turbare il paese. Malgrado il prestigio di conservatore moderato con cui Ospina Pérez era arrivato al potere, la maggioranza del suo partito sapeva che la vittoria era stata possibile solo grazie alla divisione dei liberali. Questi, messi in confusione dal golpe, rimproveravano a Alberto Lleras l’imparzialità suicida che aveva reso possibile la disfatta. Il dottor Gabriel Turbay, oppresso più dalla sua intelligenza depressiva che dai voti contrari, partì per l’Europa senza meta né senso con il pretesto di un’alta specializzazione in cardiologia, e dopo un anno e mezzo morì solo e vinto dall’asma della disfatta tra i fiori e gli arazzi logori dell’Hotel Place Athénée di Parigi. Jorge Eliécer Gaitán, invece, non interruppe neppure per un giorno la sua campagna elettorale per il periodo successivo, radicalizzandola a fondo con un programma di restaurazione morale della Repubblica che superò la divisione storica del paese fra liberali e conservatori, e l’accentuò con un taglio orizzontale e più realista tra sfruttatori e sfruttati: il paese politico e il paese nazionale.Con il suo grido storico – «Alla carica!» – e la sua energia sovrannaturale, sparse il seme della resistenza anche negli ultimi angoli con una gigantesca campagna di agitazione che guadagnò terreno in meno di un anno, fino ad arrivare alle soglie di un’autentica rivoluzione sociale.

Solo allora ci accorgemmo che il paese cominciava a precipitare nel dirupo della stessa guerra civile che ci era rimasta dopo l’indipendenza dalla Spagna, e che raggiungeva già i bisnipoti dei protagonisti originali. Il Partito conservatore, che aveva riconquistato la presidenza grazie alla frattura dei liberali dopo quattro presidenze consecutive, era deciso a non perderla mai più. Per riuscirci, il governo di Ospina Pérez portava avanti una politica facendo terra bruciata dietro di sé e insanguinando il paese fin nella vita quotidiana fra le pareti domestiche.

Con la mia incoscienza politica e dalle mie brume letterarie non avevo neppure intravisto quella chiara realtà fino a una sera in cui stavo tornando alla mia pensione e mi ero imbattuto nel fantasma della mia coscienza. La città deserta, flagellata dal vento glaciale che soffiava attraverso le spaccature dei monti, era occupata dalla voce metallica e dalla deliberata enfasi plebea di Jorge Eliécer Gaitán nel suo discorso di rigore del venerdì al Teatro Municipale. Il luogo non poteva contenere più di mille persone strette strette, ma il discorso si diffondeva in onde concentriche, dagli altoparlanti nelle vie adiacenti e dalle radio a pieno volume che risuonavano come frustate nella città attonita, e travolgevano per tre e anche per quattro ore gli ascoltatori nazionali.

Quella sera ebbi l’impressione di essere l’unico in strada, a parte l’incrocio dove aveva sede il giornale “El Tiempo”, protetto come ogni venerdì da una squadra di poliziotti armati come per la guerra. Fu una rivelazione per me, che mi ero concesso l’arroganza di non credere in Gaitán, e quella sera capii d’improvviso che si era spinto oltre il paese spagnolo e stava inventando una lingua franca per tutti, non tanto per quello che dicevano le parole quanto per la commozione e la destrezza della voce. Lui stesso, nei suoi discorsi epici, consigliava agli ascoltatori con un malizioso tono paternalistico di rincasare in pace, e loro lo traducevano come l’ordine cifrato di esprimere rifiuto contro tutto quanto rappresentava le disuguaglianze sociali e il potere di un governo brutale. Persino gli stessi poliziotti che dovevano vegliare sull’ordine venivano motivati da un avvertimento che interpretavano al rovescio.

L’argomento del discorso di quella sera era un inventario scarno di quanti erano morti per la violenza ufficiale durante una politica tesa a distruggere l’opposizione liberale, con un numero ancora incalcolabile di morti a causa della forza pubblica nelle aree rurali, e di borgate intere di rifugiati senza tetto né pane nelle città. Dopo un elenco spaventoso di assassini e di abusi, Gaitán cominciò ad alzare la voce, ad assaporare parola per parola, frase per frase, in un prodigio di retorica sensazionalista e sicura. La tensione del pubblico cresceva al ritmo della sua voce, fino a un’esplosione finale che deflagrò in tutta la città e attraverso la radio riecheggiò fin negli angoli più remoti del paese.

La folla infiammata si riversò nelle vie in una battaglia campale incruenta, dinanzi alla tolleranza segreta della polizia. Credo che sia stato quella sera che capii infine le frustrazioni del nonno e le lucide analisi di Camilo Torres Restrepo. Mi stupiva che all’Università Nazionale gli studenti continuassero a essere liberali e conservatori, con gruppuscoli comunisti, ma lì non si sentiva la breccia che Gaitán stava aprendo nel paese. Raggiunsi la pensione stordito dalla commozione della serata e trovai il mio compagno di stanza che stava leggendo Ortega y Gasset nella quiete del suo letto.

«Arrivo trasformato in un altro, dottor Vega» gli dissi. «Adesso so come e perché cominciavano le guerre civili del colonnello Nicolás Márquez.»

Pochi giorni dopo – il 7 febbraio 1948 – Gaitán presiedette alla prima cerimonia politica cui partecipai in vita mia: una sfilata in lutto per le innumerevoli vittime della violenza ufficiale nel paese, con oltre sessantamila donne e uomini tutti vestiti di nero, con le bandiere rosse del partito e le bandiere nere del lutto liberale. La loro parola d’ordine era: silenzio assoluto. E così accadde con una drammaticità inconcepibile, persino sui balconi di case private e uffici che ci videro passare lungo gli undici isolati gremiti del viale principale. Una signora mormorava accanto a me una preghiera fra i denti. Un uomo vicino a lei la guardò stupito:

«Signora, per favore!»

Lei emise un gemito di scusa e si perse nel pelago di fantasmi. Però, a spingermi fin sul bordo delle lacrime fu la cautela dei passi e il respiro della folla nel silenzio sovrannaturale. Io ero accorso lì senza una convinzione politica, attratto dalla curiosità del silenzio, e d’improvviso mi colse il nodo del pianto in gola. Il discorso di Gaitán in Plaza de Bolívar, dal balcone dell’esattoria, fu un’orazione funebre di una carica emotiva impressionante. Al di là dei pronostici sinistri del suo stesso partito, culminò con l’osservanza più incredibile della parola d’ordine: non ci fu un solo applauso.

Così si svolse la “marcia del silenzio”, la più emozionante fra quante ci siano state in Colombia. L’impressione che rimase di quella serata storica, fra sostenitori e nemici, fu che l’elezione di Gaitán fosse inarrestabile. Anche i conservatori lo sapevano, per via del grado di contaminazione che aveva raggiunto la violenza in tutto il paese, della ferocia della polizia di regime contro il liberalismo disarmato e della politica di lasciarsi terra bruciata alle spalle. L’espressione più tenebrosa dello stato d’animo del paese la visse in quel fine settimana il pubblico della corrida nella piazza dei tori di Bogotá, dove la gente delle gradinate invase l’arena sdegnata dalla docilità del toro e dall’impotenza del torero nel finire di ammazzarlo. La folla infiammata squartò vivo il toro. Numerosi giornalisti e scrittori che vissero quell’orrore o ne sentirono parlare vi individuarono il sintomo più terrificante della rabbia brutale che stava gravando sul paese.

In quel clima ad alta tensione si aprì a Bogotá il Nono Congresso Panamericano, il 30 marzo alle quattro e mezzo del pomeriggio. La città era stata abbellita spendendo una cifra enorme, in base all’estetica pomposa del cancelliere Laureano Gómez, che in virtù della sua carica era il presidente del congresso. Vi partecipavano i cancellieri di tutti i paesi dell’America Latina e le personalità del momento. I politici colombiani più eminenti furono invitati d’onore, con l’unica e significativa eccezione di Jorge Eliécer Gaitán, eliminato dalla proibizione assai significativa di Laureano Gómez, e forse da quella di alcuni dirigenti liberali che lo detestavano per i suoi attacchi all’oligarchia comune di entrambi i partiti. La stella polare del congresso era il generale George Marshall, delegato degli Stati Uniti e grande eroe della recente guerra mondiale, circondato dall’aura abbagliante di un artista del cinema nel dirigere la ricostruzione di un’Europa annientata dalla contesa.

Tuttavia, venerdì 9 aprile Jorge Eliécer Gaitán era l’uomo del giorno nelle notizie, avendo ottenuto l’assoluzione del tenente Jesús María Cortés Poveda, accusato di aver dato la morte al giornalista Eudoro Galarza Ossa. Era arrivato molto euforico nel suo studio di avvocato, all’affollato incrocio fra la Carrera Séptima e Avenida Jiménez de Quesada, poco prima delle otto del mattino, sebbene fosse stato in tribunale fino all’alba. Aveva diversi appuntamenti per le ore successive, ma accettò subito quando Plinio Mendoza Neira lo invitò a pranzo, verso l’una, con sei amici personali e politici che erano andati nel suo studio volendo congratularsi per la vittoria giudiziaria che i giornali non erano riusciti a pubblicare. Fra questi, il suo medico personale, Pedro Eliseo Cruz, che era pure membro della sua corte politica.

In quest’atmosfera intensa mi sedetti a mangiare nella sala da pranzo della pensione in cui vivevo, a meno di tre isolati. Non mi avevano ancora servito la minestra quando Wilfrido Mathieu si piantò spaventato davanti alla tavola.

«Questo paese si è fregato» mi disse. «Hanno appena ammazzato Gaitán davanti al Gatto Nero.»

Mathieu era uno studente esemplare di Medicina e di Chirurgia, nato a Sucre come altri ospiti della pensione, che aveva presagi sinistri. Solo una settimana prima ci aveva annunciato che il più imminente e terribile, per le sue conseguenze devastanti, avrebbe potuto essere l’assassinio di Jorge Eliécer Gaitán. Tuttavia, la cosa non impressionava più nessuno, perché non mancavano presagi atti a supporlo.

Ebbi a stento il fiato per attraversare di volata Avenida Jiménez de Quesada e arrivare senza fiato al caffè Gatto Nero, quasi all’angolo con la Carrera Séptima. Avevano appena portato il ferito all’ospedale centrale, a circa quattro isolati di lì, ancora vivo ma senza speranze. Un gruppo di uomini inzuppava i fazzoletti nella pozza di sangue caldo per conservarli come reliquie storiche. Una donna in scialle nero e sandali, una delle tante che vendevano carabattole in quel posto, grugnì stringendo il fazzoletto insanguinato;

«Figli di puttana, me l’hanno ammazzato.»

Le squadre di lustrascarpe armati delle loro cassette di legno cercavano di sfondare le grate metalliche della farmacia Nueva Granata, dove gli scarsi poliziotti di guardia avevano rinchiuso l’aggressore per proteggerlo dalla folla eccitata. Un uomo alto e molto padrone di sé, con un vestito grigio impeccabile come per un matrimonio, la incitava a grida ben calcolate. E anche così efficaci, che il proprietario della farmacia tirò giù le serrande per timore che gliela incendiassero. L’aggressore, stretto a un agente della polizia, cedette al panico dinanzi ai gruppi infiammati che si scagliarono su di lui.

«Agente» supplicò quasi senza voce «non mi lasci ammazzare.»

Non potrò mai dimenticarlo. Aveva i capelli spettinati, una barba di due giorni e un lividore da morto con gli occhi sconvolti dal terrore. Portava un vestito di panno marrone logoro a righe verticali, con il bavero lacerato dai primi strattoni della calca. Fu un’apparizione istantanea ed eterna, perché i lustrascarpe lo strapparono alle guardie a colpi di cassetta e lo uccisero a calci. Nella prima caduta aveva perso una scarpa.

«A palazzo!» ordinò gridando l’uomo in grigio che non fu mai identificato. «A palazzo!»

I più esaltati obbedirono. Afferrarono per le caviglie il corpo insanguinato e lo trascinarono lungo la Carrera Séptima verso Plaza de Bolívar, fra gli ultimi tram elettrici rallentati dalla notizia, vociferando insulti bellicosi contro il governo. Dalle terrazze e dai balconi li incitavano con grida e applausi, e il cadavere sfigurato a forza di colpi stava lasciando lembi di indumenti e di corpo sull’acciottolato della strada. Molti si unirono alla marcia, che in meno di sei isolati si era espansa in grandezza e forza fino a divenire una sommossa di guerra. Al corpo macerato rimanevano solo le mutande e una scarpa.

Plaza de Bolívar, da poco rifatta, non aveva la maestà di altri venerdì storici, con gli alberi desolati e le statue rudimentali della nuova estetica ufficiale. Al Campidoglio Nazionale, dove si era aperto dieci giorni prima il Congresso Panamericano, i delegati erano andati a pranzo. Sicché la turba proseguì fino al palazzo presidenziale, pure questo sguarnito. Lasciarono lì quanto rimaneva del cadavere senz’altri indumenti che lo straccio delle mutande, la scarpa sinistra e due cravatte inesplicabili annodate alla gola. Qualche minuto dopo arrivarono per il pranzo il presidente della Repubblica Mariano Ospina Pérez e sua moglie, che avevano appena inaugurato una mostra di bestiame nel paese di Engativá. Fino a quel momento ignoravano la notizia dell’assassinio perché tenevano spenta la radio dell’automobile presidenziale.

Rimasi sul luogo del delitto ancora per una decina di minuti, stupito dalla rapidità con cui le versioni dei testimoni cambiavano forma e sostanza sino a perdere qualsiasi somiglianza con la realtà. Eravamo all’incrocio fra Avenida Jiménez e la Carrera Séptima, nell’ora di maggiore affluenza e a cinquanta passi da «El Tiempo». Allora sapevamo che quando uscì dal suo ufficio Gaitán era accompagnato da Pedro Eliseo Cruz, Alejandro Vallejo, Jorge Padilla e Plinio Mendoza Neira, ministro della Guerra durante il recente governo di Alfonso López Pumarejo. Questi li aveva invitati a pranzo. Gaitán era uscito dal palazzo in cui aveva il suo ufficio, senza scorta di alcun genere, e in mezzo a un gruppo compatto di amici. Appena arrivati sul marciapiede, Mendoza lo prese per un braccio, lo spinse un passo davanti gli altri, e gli disse:

«Quello che volevo dirti è una stupidaggine.»

Non riuscì a dire altro. Gaitán si coprì la faccia con il braccio e Mendoza sentì il primo sparo prima di vedere dinanzi a loro l’uomo che puntò la pistola e sparò tre volte alla testa del leader con la freddezza di un professionista. Un istante dopo si parlava già di un quarto sparo senza direzione, e forse di un quinto.

Plinio Apuleyo Mendoza, che era arrivato con suo papà e le sue sorelle, Elvira e Rosa Inés, riuscì a vedere Gaitán disteso sul marciapiede un minuto prima che lo portassero all’ospedale. «Non sembrava morto» mi raccontò anni dopo. «Era come una statua imponente in posizione supina sul marciapiede, accanto a un’esigua macchia di sangue e con una grande tristezza negli occhi aperti e fissi.» Nello smarrimento dell’istante le sue sorelle pensarono che anche il loro padre fosse morto, ed erano così confuse che Plinio Apuleyo le fece salire sul primo tram che passò per allontanarle da quel luogo. Solo allora il conducente si rese conto di quanto era accaduto, e buttò il berretto sul pavimento e abbandonò il tram in piena strada per unirsi alle prime grida di rivolta. Qualche minuto dopo quello fu il primo tram rovesciato dalla folla impazzita.

Le discrepanze erano inconciliabili sul numero e sul ruolo dei protagonisti, perché qualche testimone assicurava che erano stati tre a sparare a turno, e un altro diceva che il vero assassino si era perso nella ressa ed era salito senza fretta su un tram in marcia. Neppure quello che Mendoza Neira voleva chiedere a Gaitán quando l’aveva preso per un braccio era connesso a tutto quanto si è in seguito confabulato, perché voleva solo chiedergli di autorizzare la creazione di un istituto che formasse leader sindacali. O come aveva scherzato suo suocero qualche giorno prima: «Una scuola per insegnare filosofia agli autisti». Non aveva potuto dirlo perché davanti a loro era esploso il primo sparo.

Cinquant’anni dopo, la mia memoria conserva fissa l’immagine dell’uomo che sembrava istigare la calca davanti alla farmacia, e non l’ho trovato in nessuna delle innumerevoli testimonianze che ho letto su quel giorno. L’avevo visto molto da vicino, con un vestito di lusso, una pelle di alabastro e un controllo millimetrico dei gesti. Mi colpì tanto che non gli staccai gli occhi di dosso fin quando non passarono a prenderlo con un’automobile troppo nuova non appena si furono portati via il cadavere dell’assassino, e a partire da allora fu come cancellato dalla memoria storica. Persino dalla mia, fino a molti anni dopo, ai tempi in cui facevo il giornalista, allorché mi venne l’idea che quell’uomo fosse riuscito a far ammazzare un falso assassino per proteggere l’identità di quello vero.

In quel tumulto incontrollabile c’era il leader studentesco cubano Fidel Castro, di vent’anni, delegato dell’Università dell’Avana per un convegno di studenti convocato come una replica democratica al Congresso Panamericano. Era arrivato cinque o sei giorni prima, in compagnia di Alfredo Guevara, Enrique Ovares e Rafael del Pino – universitari cubani come lui – e uno dei suoi primi gesti fu richiedere un appuntamento con Jorge Eliécer Gaitán, che ammirava. Di lì a due giorni, Castro incontrò Gaitán, e questi gli diede appuntamento per il venerdì successivo. Gaitán in persona annotò l’appuntamento nell’agenda sopra la sua scrivania, sulla pagina relativa al 9 aprile: “Fidel Castro, ore 14”.

Secondo quanto da lui stesso raccontato in diverse circostanze, e negli interminabili resoconti che abbiamo fatto insieme nel corso di una vecchia amicizia, Fidel aveva avuto la prima notizia del delitto mentre era nei paraggi, in attesa di recarsi all’appuntamento delle due. D’improvviso lo sorpresero le prime orde che correvano impetuose, e il grido generale:

«Hanno ammazzato Gaitán!»

Fidel Castro non si rese subito conto che l’appuntamento non avrebbe potuto aver luogo prima delle quattro o delle cinque per via dell’imprevisto invito a pranzo che Mendoza Neira aveva fatto a Gaitán.

Non ci si poteva avvicinare al luogo del delitto. Il traffico era interrotto e i tram rovesciati, sicché mi diressi verso la pensione per terminare il pasto quando il mio professore Carlos H. Pareja mi sbarrò il passo davanti al suo ufficio e mi domandò dove andavo.

«Vado a pranzare» gli dissi.

«Non fare lo scemo» disse lui, nella sua impenitente parlata caraibica. «Come ti viene in mente di pranzare quando hanno appena ammazzato Gaitán?»

Senza lasciarmi altro tempo, mi ordinò di andare all’università e di mettermi alla testa della protesta studentesca. Lo strano fu che gli diedi retta malgrado il mio modo d’essere. Proseguii per la Carrera Séptima verso nord, in senso contrario alla moltitudine che si precipitava verso l’incrocio del delitto tra la curiosità, il dolore e la furia. Gli autobus dell’Università Nazionale, guidati da studenti eccitati, capeggiavano la marcia. Nel Parco Santander, a cento metri dall’incrocio del delitto, il personale chiudeva in gran fretta le porte dell’Hotel Granada – il più lussuoso della città – dove alloggiavano in quei giorni alcuni cancellieri e invitati di spicco al Congresso Panamericano.

Un nuovo sciame di poveri in franco atteggiamento di sommossa spuntava a tutti gli angoli. Molti erano armati di machete appena rubati nei primi assalti ai negozi, e sembravano ansiosi di usarli. Io non avevo un’idea chiara delle conseguenze possibili dell’attentato, e pensavo più al pranzo che alla protesta, sicché tornai sui miei passi fino a raggiungere la pensione. Salii a lunghi balzi le scale, pensando che i miei amici politicizzati fossero sul piede di guerra. Ma no: la sala da pranzo era sempre deserta, e mio fratello e José Palencia – che occupavano la stanza accanto – cantavano insieme ad altri amici.

«Hanno ammazzato Gaitán!» gridai.

Mi fecero segno che lo sapevano già, ma l’umore di tutti era più festaiolo che funerario, e non interruppero la canzone. Poi ci sedemmo a mangiare nella sala da pranzo deserta, convinti che le cose si sarebbero fermate lì, ma qualcuno alzò il volume della radio affinché noi indifferenti ascoltassimo. Carlos H. Pareja, facendo onore all’incitamento che mi aveva espresso un’ora prima, annunciò la costituzione della giunta rivoluzionaria di governo formata dai più importanti liberali di sinistra, fra cui il noto scrittore e politico Jorge Zalamea. Il suo primo intervento fu la costituzione del comitato esecutivo, il comando della Polizia Nazionale e di tutti gli organi per uno Stato rivoluzionario. Poi parlarono gli altri membri della giunta con frasi sempre più accese.

Nella solennità della cerimonia, la prima cosa che mi venne in mente fu cos’avrebbe pensato mio padre quando avesse saputo che suo cugino, il conservatore duro, era il gran leader di una rivoluzione di estrema sinistra. La proprietaria della pensione, dinanzi all’importanza dei nomi vincolati alle università, si stupì che non si comportassero da professori ma da studenti screanzati. Bastava fare ancora pochi passi e ci si sarebbe ritrovati alle prese con un paese diverso. A Radio Nazionale, i tradizionalisti invitavano alla calma, ad altre inveivano contro i comunisti fedeli a Mosca, mentre i più alti dirigenti del liberalismo ufficiale sfidavano i rischi delle strade in guerra, cercando di raggiungere il palazzo presidenziale per negoziare un’intesa di unità con il governo conservatore.

Rimanemmo come storditi davanti a quella confusione demente finché un figlio della proprietaria non gridò d’improvviso che la casa stava bruciando. In effetti, si era aperta una crepa nella parete in fondo, e un fumo nero e denso cominciava a invadere le camere da letto. Proveniva sicuramente dal Governatorato Distrettuale, attiguo alla pensione, che era stato incendiato dai manifestanti, ma il muro sembrava abbastanza robusto da resistere. Sicché scendemmo di corsa le scale e ci ritrovammo in una città in guerra. Gli assaltatori fuori di sé buttavano dalle finestre del Governatorato tutto quanto trovavano negli uffici. Il fumo degli incendi aveva rannuvolato l’aria, e il cielo incappottato era un manto sinistro. Orde impazzite, armate di machete e ogni sorta di attrezzi rubati nelle ferramenterie, assalivano e appiccavano il fuoco ai negozi della Carrera Séptima e delle vie adiacenti con l’aiuto di poliziotti ammutinati. Un rapido sguardo ci bastò per accorgerci che la situazione era incontrollabile. Mio fratello prevenne il mio pensiero con un grido:

«Merda, la macchina per scrivere!»

Corremmo verso il banco dei pegni che era ancora intatto, con le grate di ferro ben chiuse, ma la macchina non era lì dov’era sempre stata. Non ce ne preoccupammo, pensando che nei giorni successivi avremmo potuto recuperarla, senza ancora renderci conto che quel disastro colossale non avrebbe avuto giorni successivi.

La guarnigione militare di Bogotá si limitò a proteggere i centri ufficiali e le banche, e dell’ordine pubblico non fu incaricato nessuno. Molti alti comandi della polizia si trincerarono nella Quinta Divisione fin dalle prime ore, e numerosi agenti in strada li seguirono con carichi di armi raccolte in giro. Parecchi di loro, con il bracciale rosso dei ribelli, fecero una scarica di fucileria così vicina a noi che mi rimbombò dentro il petto. Da quel momento nutro la convinzione che un fucile può uccidere con la sola esplosione.

Al ritorno dal banco dei pegni vedemmo devastare in pochi minuti i negozi della Carrera Octava, che erano i più ricchi della città. I gioielli squisiti, le stoffe inglesi e i cappelli di Bond Street che noi studenti della costa ammiravamo nelle vetrine irraggiungibili, erano allora fra le mani di tutti, davanti ai soldati impassibili che sorvegliavano le banche straniere. Il raffinatissimo caffè San Marino, dove non avevamo mai potuto entrare, era aperto e smantellato, per una volta senza i camerieri in smoking che si facevano avanti per impedire l’ingresso di studenti caraibici.

Alcuni di quelli che uscivano carichi di indumenti di pregio e grossi rotoli di stoffa in spalla li abbandonavano in mezzo alla strada. Ne raccolsi uno, senza pensare che pesava tanto, e dovetti lasciarlo lì con tutto il dolore della mia anima. Ovunque inciampavamo in apparecchi domestici buttati in strada, e non era facile camminare in mezzo alle bottiglie di whisky di grandi marche e ogni sorta di alcolici esotici che le folle spaccavano a colpi di machete. Mio fratello Luis Enrique e José Palencia trovarono rimanenze del saccheggio in un magazzino di buon abbigliamento, fra cui un vestito celeste di ottimo panno e della taglia precisa di mio padre, che lo portò per anni in circostanze solenni. Il mio unico trofeo provvidenziale fu la cartelletta di pelle di vitello della sala da tè più cara della città, che mi servì per tenere i miei originali sotto il braccio nelle molte notti degli anni successivi in cui non ebbi un posto dove dormire.

Ero in un gruppo che si faceva strada lungo la Carrera Octava in direzione del Campidoglio, quando una scarica di mitragliatrice spazzò via i primi che si affacciarono su Plaza de Bolívar. I morti e i feriti istantanei riversi in mezzo alla strada ci frenarono bruscamente. Un moribondo zuppo di sangue che uscì trascinandosi dal mucchio mi afferrò l’orlo dei pantaloni e mi gridò una supplica lacerante:

«Giovanotto, per l’amor di Dio, non mi lasci morire!»

Fuggii spaventato. Da allora imparai a dimenticare altri orrori, miei e altrui, ma non dimenticai mai l’abbandono di quegli occhi nel bagliore degli incendi. Tuttavia, mi stupisce ancora di non aver pensato neppure per un istante che mio fratello e io potevamo morire in quell’inferno senza scampo.

A partire dalle tre del pomeriggio aveva cominciato a piovere a raffiche, ma dopo le cinque esplose un diluvio biblico che spense molti incendi marginali e attenuò gli slanci della rivolta. La scarsa truppa di Bogotá, incapace di affrontarla, disperse la furia della gente. Non venne rinforzata fin dopo la mezzanotte dalle squadre di emergenza dei distretti vicini, soprattutto di Boyacá, che aveva il cattivo prestigio di essere la scuola della violenza ufficiale. Fino ad allora la radio incitava ma non informava, sicché ogni notizia era priva di origine, e la verità era impossibile. All’alba le truppe di rinforzo recuperarono il centro commerciale devastato dalle orde e senz’altra luce che quella degli incendi, ma la resistenza politicizzata continuò ancora per diversi giorni con franchi tiratori appostati su torrette e tetti delle case. A quell’ora, non si potevano più contare i morti nelle strade.

Quando tornammo alla pensione la maggior parte del centro era in fiamme, con tram rovesciati e carcasse di automobili che servivano da barricate casuali. Infilammo in una valigia le poche cose di qualche valore, e solo in seguito mi resi conto che avevo abbandonato la prima versione di due o tre racconti impubblicabili, il dizionario del nonno, che non recuperai mai più, e il libro di Diogene Laerzio ricevuto in premio alla cerimonia conclusiva del liceo.

L’unica cosa che ci passò per la testa fu chiedere asilo con mio fratello a casa dello zio Juan de Dios, a soli quattro isolati dalla pensione. Era un appartamento al secondo piano, con salotto, sala da pranzo e due camere da letto, dove lo zio viveva con la moglie e i figli Eduardo, Margarita e Nicolás, il maggiore, che per qualche tempo era stato con me alla pensione. Ci stavamo a stento, ma i Márquez Caballero ebbero il buon cuore di improvvisare spazi dove non ce n’erano, persino nella sala da pranzo, e non solo per noi ma anche per altri amici nostri e compagni di pensione: José Palencia, Domingo Manuel Vega, Carmelo Martínez – tutti di Sucre – e altri che conoscevamo appena.

Poco prima della mezzanotte, quando ebbe smesso di piovere, salimmo sul terrazzo per vedere il paesaggio infernale della città illuminata dalle braci dell’incendio. In fondo, i monti di Monserrate e della Guadalupe erano due immense sagome contro il cielo rannuvolato dal fumo, ma l’unica cosa che io continuavo a vedere nella bruma desolata era la faccia enorme del moribondo che si era trascinato verso di me per supplicarmi un aiuto impossibile. Le scorribande per strada erano diminuite, e nel silenzio tremendo si sentivano solo i colpi sparsi di innumerevoli franchi tiratori appostati in tutto il centro, e lo strepito delle truppe che a poco a poco eliminavano ogni traccia di resistenza armata o disarmata per dominare la città. Impressionato dal paesaggio della morte, lo zio Juan de Dios espresse in un solo sospiro la sensazione di tutti:

«Dio mio, tutto questo sembra un sogno!»

Di ritorno nel salotto in penombra crollai sul divano. I bollettini ufficiali delle emittenti occupate dal governo dipingevano un panorama di lenta tranquillità. Non si tenevano più discorsi, ma non si poteva distinguere con precisione fra le emittenti ufficiali e quelle che erano sempre in mano della rivolta, e anche queste ultime era impossibile distinguerle dalla valanga inarrestabile di voci incontrollabili. Si disse che tutte le ambasciate erano zeppe di rifugiati, e che il generale Marshall si era fermato in quella degli Stati Uniti protetto da una guardia d’onore della Scuola Militare. Anche Laureano Gómez si era rifugiato lì fin dalle prime ore, e aveva intrattenuto conversazioni telefoniche con il suo presidente, tentando di impedire che questi negoziasse con i liberali in una situazione che lui riteneva manovrata dai comunisti. L’ex presidente Alberto Lleras, allora segretario generale dell’Unione Panamericana, si era salvato la vita per miracolo quand’era stato riconosciuto nella sua automobile non blindata mentre abbandonava il Campidoglio e avevano cercato di fargli pagare la consegna legale del potere ai conservatori. La maggior parte dei delegati del Congresso Panamericano era in salvo fin dalla mezzanotte.

Fra tante notizie contraddittorie venne annunciato che Guillermo León Valencia, il figlio del poeta omonimo, era stato lapidato e il cadavere appeso in Plaza de Bolívar. Ma l’idea che il governo controllasse la situazione si era profilata non appena l’esercito aveva recuperato le emittenti radiofoniche in mano ai ribelli. Invece dei proclami di guerra, le notizie miravano allora a tranquillizzare il paese assicurando che il governo era padrone della situazione, mentre l’alta gerarchia liberale negoziava con il presidente della Repubblica per ottenere metà del potere.

In realtà, gli unici che sembravano agire con senso politico erano i comunisti, minoritari ed esaltati, che nel disordine in mezzo alle strade si vedevano dirigere le folle – come vigili urbani – verso i centri del potere. Il liberalismo, invece, mostrò di essere diviso nelle due metà indicate da Gaitán durante la sua campagna: i dirigenti che cercavano di negoziare una quota di potere al palazzo presidenziale, e i loro elettori che avevano resistito alla meno peggio su torrette e tetti.

Il primo dubbio che emerse in merito alla morte di Gaitán fu quello sull’identità del suo assassino. Ancora oggi non esiste una convinzione unanime che sia stato Juan Roa Sierra, il pistolero solitario che sparò contro di lui in mezzo alla folla della Carrera Séptima. Quello che non è facile capire è che avesse agito solo per sé dal momento che non sembrava avere una cultura autonoma per decidere di sua spontanea volontà una morte così devastante, quel giorno, a quell’ora, in quel posto e in quel modo. Sua madre, Encarnación Sierra, vedova Roa, di cinquantadue anni, era stata informata per radio dell’assassinio di Gaitán, suo eroe politico, e stava tingendo di nero il suo vestito migliore per mettersi in lutto. Non aveva finito quando sentì che l’assassino era Juan Roa Sierra, il tredicesimo dei suoi quattordici figli. Nessuno era andato oltre le elementari, e quattro di loro – due maschi e due femmine – erano morti.

Lei dichiarò che da circa otto mesi si erano notati cambiamenti strani nel comportamento di Juan. Parlava da solo e rideva senza motivo, e una volta aveva confessato alla famiglia che credeva di essere l’incarnazione del generale Francisco de Paula Santander, eroe della nostra indipendenza, ma avevano pensato che fosse un’uscita da ubriaco. Non si era mai saputo che suo figlio avesse fatto male a qualcuno, ed era riuscito a far sì che gente di un certo peso gli desse lettere di raccomandazione per trovare lavoro. Una di queste era nel suo portafogli quando uccise Gaitán. Sei mesi prima ne aveva scritta una di suo pugno indirizzata al presidente Ospina Pérez, in cui sollecitava un incontro per chiedergli un impiego.

La madre dichiarò agli investigatori che il figlio aveva sottoposto il problema anche a Gaitán in persona, ma che questi non gli aveva lasciato speranze. Non si sapeva che avesse mai sparato in vita sua, ma il modo in cui usò l’arma del delitto era molto lontano dall’essere quello di un novellino. La pistola era una .38 lunga, così malconcia che ci fu da stupirsi che neppure una pallottola fosse andata a vuoto.

Alcuni impiegati dell’edificio credevano di averlo visto al piano degli uffici di Gaitán nei giorni precedenti l’assassinio. Il portiere affermò senza esitazioni che la mattina del 9 aprile l’aveva visto salire per le scale e poi scendere con l’ascensore insieme a uno sconosciuto. Gli sembrò che entrambi avessero aspettato per diverse ore vicino all’entrata del palazzo, ma Roa era solo accanto alla porta quando Gaitán salì nel suo ufficio.

Gabriel Restrepo, un giornalista di «La Jornada» – il quotidiano della campagna gaitanista – fece l’inventario dei documenti che Roa Sierra aveva con sé quando commise il delitto. Non lasciavano dubbi sulla sua identità e sulla sua condizione sociale, ma non fornivano piste sui suoi propositi. Aveva nelle tasche dei pantaloni ottantadue centesimi in monete varie, quando parecchie cose importanti della vita quotidiana ne costavano solo cinque. In una tasca interna della giacca aveva un portafogli di pelle nera con una banconota da un peso. Aveva pure un certificato che garantiva la sua onestà, un altro della polizia secondo cui non aveva precedenti penali, e un terzo con il suo indirizzo in un quartiere povero: Calle Octava, numero 30-73. In base al suo certificato militare di riserva di seconda classe che aveva nella stessa tasca, era figlio di Rafael Roa e di Encarnación Sierra, ed era nato ventun anni prima: il 4 novembre 1927.

Tutto sembrava in regola, tranne il fatto che un uomo di condizione così umile e senza precedenti penali avesse con sé tante prove di buona condotta. Però, a lasciarmi qualche traccia di dubbio che non sono mai riuscito a dimenticare è soltanto l’uomo elegante e ben vestito che l’aveva additato alle orde furibonde ed era scomparso per sempre su un’automobile di lusso.

Nel fragore della tragedia, mentre imbalsamavano il cadavere dell’apostolo assassinato, i membri della direzione liberale si erano riuniti nella mensa dell’Ospedale Centrale per accordarsi su formule di emergenza. La più urgente fu recarsi al palazzo presidenziale senza udienza previa per discutere con il capo dello Stato una formula di emergenza capace di scongiurare il cataclisma che minacciava il paese. Poco prima delle nove di sera la pioggia era diminuita e i primi delegati si fecero strada alla meno peggio fra le vie distrutte dalla rivolta popolare e con cadaveri crivellati dalle pallottole cieche dei franchi tiratori su balconi e tetti.

Nell’anticamera dello studio presidenziale trovarono alcuni funzionari e politici conservatori, e la moglie del presidente, donna Berta Hernández Ospina, molto padrona di sé. Indossava ancora il vestito con cui aveva accompagnato il marito alla mostra di Engativá, e alla cintura una pistola regolamentare.

Al termine del pomeriggio il presidente aveva perso i contatti con i punti più critici e cercava di valutare a porte chiuse con militari e ministri le condizioni del paese. La visita dei dirigenti liberali lo colse di sorpresa poco prima delle dieci di sera, e non voleva riceverli tutti insieme bensì a due a due, ma loro decisero che in tal caso nessuno sarebbe entrato. Il presidente cedette, ma i liberali la presero comunque come un motivo di scoraggiamento.

Lo trovarono seduto in capo a un lungo tavolo per le riunioni, con un vestito impeccabile e senza il minimo segno di ansia. Tradiva solo una certa tensione dal modo di fumare, continuo e avido, e a tratti spegnendo una sigaretta a metà per accenderne un’altra. Uno dei visitatori mi raccontò anni dopo quanto l’avesse colpito il bagliore degli incendi sulla testa argentata del presidente impassibile. Attraverso le grandi finestre dello studio presidenziale si scorgevano le macerie sotto il cielo ardente e sino ai confini del mondo.

Quanto si sa di quell’udienza lo dobbiamo al poco che ne raccontarono gli stessi protagonisti, alle rare confidenze di alcuni e alle molte fantasie di altri, e alla ricostruzione di quei giorni infausti fatta pezzo per pezzo dal poeta e storico Arturo Alape, che ha in buona parte reso possibile le basi di queste memorie.

I visitatori erano Luis Cano, direttore del giornale della sera «El Espectador», Plinio Mendoza Neira, che aveva promosso la riunione, e altri tre fra i più attivi e giovani dirigenti liberali: Carlos Lleras Restrepo, Darío Echandía e Alfonso Araujo. Nel corso della discussione, entrarono o uscirono altri liberali eminenti.

Secondo le rievocazioni lucide che mi fece anni dopo Plinio Mendoza Neira nel suo impaziente esilio a Caracas, nessuno di loro aveva ancora un piano pronto. Lui era l’unico testimone dell’assassinio di Gaitán, e lo raccontò passo per passo con le sue arti da narratore congenito e giornalista cronico. Il presidente lo ascoltò con un’attenzione solenne, e alla fine chiese che i visitatori esprimessero le loro idee per una soluzione giusta e patriottica di quell’emergenza colossale.

Mendoza, famoso tra amici e nemici per la sua franchezza senza complimenti, rispose che la cosa più efficace sarebbe stata che il governo delegasse il potere alle Forze Armate, per la fiducia di cui in quel momento godevano presso la popolazione. Era stato ministro della Guerra durante il governo liberale di Alfonso López Pumarejo, conosceva bene i militari dall’interno, e pensava che solo loro avrebbero potuto far tornare la normalità. Ma il presidente non fu d’accordo con il realismo della formula, né altri fra i liberali lo sostennero.

L’intervento successivo fu quello di don Luis Cano, ben conosciuto per la sua brillante prudenza. Nutriva sentimenti quasi paterni nei confronti del presidente e si limitò a offrirsi per qualsiasi decisione rapida e giusta che Ospina avesse espresso con l’appoggio della maggioranza. Questi lo rassicurò che avrebbe trovato gli espedienti indispensabili per il ritorno alla normalità, ma sempre nell’osservanza della Costituzione. E indicando dalle finestre l’inferno che divorava la città, rammentò con un’ironia mal repressa che non era stato il governo a causarlo.

Era famoso per la sua flemma e la sua buona educazione, in contrasto con gli strepiti di Laureano Gómez e l’alterigia di altri membri del suo partito, esperti in elezioni truccate, ma in quella notte storica dimostrò che non era disposto a essere meno recalcitrante di loro. Sicché la discussione si protrasse fino a mezzanotte, senza arrivare a un accordo, e con le interruzioni di donna Berta Ospina che comunicava notizie sempre più spaventose.

Già allora era incalcolabile il numero dei morti nelle strade, e dei franchi tiratori in posizioni irraggiungibili e delle folle impazzite per il dolore, la rabbia e gli alcolici di grandi marche saccheggiati nei negozi di lusso. Il centro della città era devastato e ancora in fiamme, così com’erano distrutti o incendiati tutti i negozi, il Palazzo di Giustizia, il Governatorato, e molti altri edifici storici. Era la realtà a rendere impietosamente anguste le vie di un accordo sereno di più uomini contro uno, nell’isola deserta dell’ufficio presidenziale.

Darío Echandía, forse l’uomo con maggiore autorità, fu il meno loquace. Fece due o tre commenti ironici sul presidente e si immerse di nuovo nelle sue brume. Sembrava fosse il candidato insostituibile per rimpiazzare Ospina Pérez alla presidenza, ma quella notte non fece nulla di concreto per meritarlo o evitarlo. Il presidente, che veniva ritenuto un conservatore moderato, lo sembrava sempre meno. Discendeva da due presidenti di uno stesso secolo, era padre di famiglia, ingegnere in pensione e milionario da sempre, e diverse altre cose che faceva senza pubblicità, al punto che si diceva senza alcun fondamento che a comandare davvero, sia a casa sua sia a palazzo, fosse la sua battagliera moglie. E anche così – concluse con un sarcasmo acido – non ci sarebbero stati inconvenienti ad accettare la proposta, ma si sentiva molto a suo agio nel dirigere il governo dalla poltrona su cui era seduto per volontà del popolo.

Parlava sicuramente rinvigorito da un’informazione che mancava ai liberali: la conoscenza puntuale e completa dell’ordine pubblico nel paese. La ebbe in ogni momento, grazie alle varie volte in cui era uscito dall’ufficio per informarsi a fondo. La guarnigione di Bogotá non raggiungeva i mille uomini, e in tutti i distretti c’erano notizie più o meno gravi, ma tutte sotto controllo e con la lealtà delle Forze Armate. Nel vicino distretto di Boyacá, famoso per il suo liberalismo storico e il suo conservatorismo ispido, il governatore José María Villareal – conservatore di vecchio stampo – non solo aveva represso molto presto la sommossa locale, ma stava pure inviando truppe ben armate per sottomettere la capitale. Sicché l’unica cosa di cui il presidente aveva bisogno era distrarre i liberali con la sua flemma calcolata parlando poco e fumando piano. In nessun momento guardò l’orologio, ma dovette calcolare benissimo l’ora in cui la città sarebbe stata rifornita di truppe fresche e fin troppo esperte nella repressione ufficiale.

Dopo un lungo scambio di formule esplorative, Carlos Lleras Restrepo propose quella che aveva concordato la direzione liberale all’Ospedale Centrale e che si erano riservati come espediente estremo: proporre al presidente di delegare il potere a Darío Echandía, a buon pro della concordia politica e della pace sociale. Non c’erano dubbi che la formula sarebbe stata accolta senza riserve da Eduardo Santos e da Alfonso López Pumarejo, ex presidenti e uomini di vasto credito pubblico, ma che quel giorno non erano nel paese.

Tuttavia, la risposta del presidente, formulata con la stessa flemma con cui fumava, non era quella che ci si poteva aspettare. Non sprecò l’occasione per dimostrare il suo vero carattere, che fino ad allora erano in pochi a conoscere. Disse che per lui e per la sua famiglia sarebbe stato più comodo ritirarsi dal potere e vivere all’estero con la sua fortuna personale e senza preoccupazioni politiche, ma lo inquietava quello che poteva significare per il suo paese che un presidente eletto si desse alla fuga. La guerra civile sarebbe stata inevitabile. E dinanzi a una nuova insistenza di Lleras Restrepo sul suo ritiro, si permise di ricordare il suo dovere di difendere la Costituzione e le leggi, che aveva nei confronti non solo della sua patria ma anche della sua coscienza e di Dio. Fu allora che dicono abbia detto la frase storica che a quanto sembra non disse mai, ma che rimase come sua per sempre:

«Per la democrazia colombiana è meglio un presidente morto che un presidente fuggiasco.»

Nessuno dei testimoni ricordò di averla sentita dalle sue labbra, né da altre. Con il tempo l’attribuirono a personaggi diversi, e addirittura vennero messi in discussione i suoi meriti politici e il suo valore storico, ma mai il suo splendore letterario. A partire da allora fu il motto del governo di Ospina Pérez, e uno dei pilastri della sua gloria. Si è arrivati a dire che fu inventata da diversi giornalisti conservatori, e con più ragioni dal notissimo scrittore, politico e attuale ministro delle Miniere e del Petrolio, Joaquín Estrada Monsalve, che in effetti si trovava nel palazzo presidenziale ma non nella sala delle riunioni. Sicché rimase nella storia come detta da chi avrebbe dovuto dirla, in una città devastata dove cominciavano a raggelarsi le ceneri, e in un paese che non sarebbe mai più stato lo stesso.

In fin dei conti, il merito reale del presidente non era inventare frasi storiche, ma intrattenere i liberali con caramelle soporifere fin dopo la mezzanotte, quando arrivarono le truppe di rinforzo per reprimere la rivolta della plebe e imporre la pace conservatrice. Solo allora, alle otto di mattina del 10 aprile, svegliò Darío Echandía con un incubo di undici squilli del telefono e lo nominò ministro del Governo per un regime di consolazione bipartitico. Laureano Gómez, irritato dalla soluzione e inquieto per la sua sicurezza personale, partì per New York con la sua famiglia finché non si fossero presentate le condizioni opportune per il suo anelito eterno di diventare presidente.

Ogni sogno di cambiamento sociale di fondo per cui era morto Gaitán svanì tra le macerie fumanti della città. I morti per le vie di Bogotá, e in seguito alla repressione ufficiale negli anni successivi, saranno stati oltre un milione, a parte la miseria e l’esilio di tanti. Già molto prima che i dirigenti liberali delle alte sfere si rendessero conto che si erano addossati il rischio di passare alla storia nel ruolo di complici.

Fra i molti testimoni storici di quella giornata a Bogotá, ce n’erano due che non si conoscevano fra loro, e che anni dopo sarebbero stati due dei miei grandi amici. Uno era Luis Cardoza y Aragón, un poeta e saggista politico e letterario del Guatemala, che partecipava al Congresso Panamericano in qualità di cancelliere del suo paese e capo della sua delegazione. L’altro era Fidel Castro. Entrambi, inoltre, vennero prima o poi accusati di essere stati implicati nella sommossa.

Di Cardoza y Aragón si disse in concreto che era stato uno dei promotori, protetto dalle sue credenziali di delegato speciale del governo progressista di Jacobo Arbenz in Guatemala. Bisogna capire che Cardoza y Aragón era il delegato di un governo storico e un grande poeta della lingua che non si sarebbe mai prestato per un’avventura folle. La rievocazione più dolente nel suo bel libro di memorie fu l’accusa di Enrique Santos Montejo, “Calibano”, che nella sua popolare rubrica su «El Tiempo», La Danza delle Ore, gli attribuì la missione ufficiale di assassinare George Marshall. Numerosi delegati del congresso intervennero affinché il giornale rettificasse quell’accusa delirante, ma non fu possibile. «El Siglo», organo ufficiale del conservatorismo al potere, proclamò ai quattro venti che Cardoza y Aragón era stato il promotore della sedizione.

Lo conobbi molti anni dopo a Città di Messico, con sua moglie Lya Kostakowsky, nella loro casa di Coyoacán, sacralizzata dai ricordi e abbellita ancora di più dalle opere originali di grandi pittori dell’epoca. Noi suoi amici ci recavamo lì la domenica a trascorrere serate intime di un’importanza senza pretese. Si riteneva un sopravvissuto, dapprima allorché la sua automobile venne mitragliata dai franchi tiratori solo poche ore dopo il delitto. E qualche giorno dopo, ormai sedata la sommossa, quando un ubriaco che gli sbarrò la strada gli sparò in faccia con una pistola che si inceppò due volte. Il 9 aprile era un tema ricorrente delle nostre conversazioni, in cui la rabbia si confondeva con la nostalgia degli anni perduti.

Fidel Castro, a sua volta, fu vittima di ogni sorta di accuse assurde, per via di alcuni interventi legati alla sua condizione di attivista studentesco. In quella notte buia, dopo una giornata terribile tra le folle in subbuglio, finì alla Quinta Divisione della Polizia Nazionale, cercando come essere utile per mettere termine al massacro nelle strade. Occorre conoscerlo per immaginarsi quale fu la sua disperazione nella fortezza in rivolta dove sembrava impossibile imporre un criterio comune.

Si consultò con i comandanti della guarnigione e altri ufficiali ammutinati, e tentò di convincerli, senza riuscirci, che ogni forza che si isola è perduta. Propose che portassero i loro uomini a lottare nelle strade per il mantenimento dell’ordine e un sistema più giusto. Li motivò con ogni tipo di precedenti storici, ma non venne ascoltato, mentre truppe e carri armati ufficiali crivellavano la fortezza. Alla fine, decise di correre la sorte di tutti.

All’alba entrò nella Quinta Divisione Plinio Mendoza Neira con istruzioni della Direzione Liberale per ottenere la resa pacifica non solo di ufficiali e agenti in rivolta, ma anche di numerosi liberali che aspettavano ordini per agire. Nelle molte ore che durò la negoziazione di un accordo, a Mendoza Neira rimase fissa nella memoria l’immagine di quello studente cubano, corpulento e dialettico, che più volte intervenne nelle controversie fra i dirigenti liberali e gli ufficiali ribelli con una lucidità che li stupì tutti. Solo qualche anno dopo seppe chi era perché lo vide per caso a Caracas in una fotografia della notte terribile, quando Fidel Castro era ormai sulla Sierra Maestra.

Lo conobbi undici anni dopo, quando accorsi come reporter alla sua entrata trionfale all’Avana, e con il tempo stringemmo un’amicizia personale che attraverso gli anni ha resistito a innumerevoli inciampi. Nelle mie lunghe conversazioni con lui su ogni cosa divina e umana, il 9 aprile è stato un argomento ricorrente che Fidel Castro avrebbe finito per rievocare come uno dei drammi decisivi della sua formazione. Soprattutto la notte alla Quinta Divisione, dove si rese conto che la maggioranza degli ammutinati che entravano e uscivano, si lasciavano andare al saccheggio invece di persistere con i loro interventi nell’urgenza di una soluzione politica.

Mentre quei due amici erano testimoni dei fatti che spaccarono in due la storia della Colombia, mio fratello e io sopravvivevamo nelle tenebre insieme ai rifugiati in casa dello zio Juanito. In nessun momento presi coscienza di essere ormai un apprendista scrittore che un giorno avrebbe tentato di ricostruire a memoria la testimonianza dei giorni atroci che stavamo vivendo. La mia unica preoccupazione era quella più terrestre: informare la nostra famiglia che eravamo vivi – almeno fino ad allora – e al contempo essere informati sui nostri genitori e fratelli, e soprattutto su Margot e Aida, le due maggiori, interne in collegi di città lontane.

Il rifugio dello zio Juanito era stato un miracolo. Le prime giornate furono difficili a causa delle sparatorie costanti e senza notizie affidabili. Ma a poco a poco esplorammo le botteghe vicine e riuscimmo a comprare dei commestibili. Le strade erano occupate da truppe d’assalto con l’ordine perentorio di sparare. L’incorreggibile José Palencia si travestì da militare per circolare senza limitazioni con un cappello da esploratore e certi gambali trovati in un cassonetto della spazzatura, e sfuggì per miracolo alla prima pattuglia che lo scoprì.

Le emittenti commerciali, messe a tacere fin dalla mezzanotte, rimasero sotto il controllo dell’esercito. I telegrafi e i telefoni primitivi e scarsi erano riservati all’ordine pubblico, e non esistevano altri mezzi di comunicazione. Le file per i telegrammi erano eterne davanti agli uffici stracolmi, ma le stazioni radiofoniche instaurarono un servizio di messaggi via aere indirizzati a chi avesse la fortuna di captarli. Tale modalità ci sembrò la più facile e sicura, e a questa ci affidammo senza troppe speranze.

Mio fratello e io uscimmo in strada dopo tre giorni passati chiusi in casa. Fu una vista terrorizzante. La città era in macerie, rannuvolata e torbida per la pioggia costante che aveva limitato gli incendi ma che aveva pure rallentato il recupero. Molte vie erano chiuse a causa delle postazioni dei franchi tiratori sui tetti del centro, e bisognava fare lunghi giri senza senso seguendo gli ordini di pattuglie armate come per una guerra mondiale. Il lezzo di morte nelle strade era insopportabile. I camion dell’esercito non erano riusciti a prelevare i mucchi di corpi sui marciapiedi e i soldati dovevano affrontare i gruppi disperati per riconoscere chi era dei loro.

Fra le rovine di quello che era stato il centro commerciale il tanfo era irrespirabile, al punto che molte famiglie dovevano rinunciare alla ricerca. In una delle grandi piramidi di cadaveri ne spiccava uno scalzo e senza pantaloni ma con una giacca impeccabile. Tre giorni dopo, le ceneri sprigionavano ancora il tanfo dei corpi senza padrone putrefatti fra le macerie e impilati sui marciapiedi.

Quando meno ce l’aspettavamo, mio fratello e io venimmo fermati bruscamente dallo schiocco inconfondibile di un fucile che veniva armato alle nostre spalle, e da un ordine perentorio:

«Mani in alto!»

Le alzai senza neppure pensarci, pietrificato dal terrore, finché non mi fece resuscitare la risata del nostro amico Ángel Casij, che aveva risposto al richiamo delle Forze Armate come riserva di prima classe. Grazie a lui, noi che ci eravamo rifugiati dallo zio Juan de Dios riuscimmo a mandare un messaggio via aere dopo un giorno d’attesa davanti a Radio Nazionale. Mio padre lo sentì a Sucre in mezzo agli innumerevoli che vennero letti di giorno e di notte per due settimane. A mio fratello e a me, vittime irredimibili della mania congetturale della famiglia, rimase il timore che nostra madre potesse interpretare la notizia come un’opera buona degli amici mentre stavano preparandola al peggio. Ci sbagliammo di poco: fin dalla prima notte nostra madre aveva sognato che i suoi due figli maggiori erano annegati in un mare di sangue durante la sommossa. Dovette essere un incubo così convincente che quando le arrivò la verità per altre vie decise che nessuno di noi sarebbe mai più tornato a Bogotá, anche se avessimo dovuto rimanere in casa a morire di fame. La decisione sarà stata perentoria perché l’unico ordine che ci diedero i nostri genitori nel loro primo telegramma fu che partissimo per Sucre il più presto possibile per tutelarci l’avvenire.

Nell’attesa snervante, diversi compagni mi avevano prospettato in termini da favola la possibilità di proseguire gli studi a Cartagena de Indias, pensando che Bogotá sarebbe rinata dalle sue macerie, ma che i bogotani non si sarebbero mai ripresi dal terrore e dall’orrore del massacro. Cartagena aveva un’università centenaria con un prestigio pari a quello delle sue reliquie storiche, e una Facoltà di Legge a misura umana dove avrebbero preso per belli i miei brutti voti dell’Università Nazionale.

Non volli scartare l’idea senza averne prima considerato i pro e i contro, né parlarne con i miei genitori finché non l’avessi sperimentata di persona. Mi limitai ad annunciare che avrei raggiunto Sucre in aereo via Cartagena, perché con quella guerra il fiume Magdalena poteva essere un percorso suicida. Quanto a Luis Enrique, annunciò che si sarebbe recato a Barranquilla in cerca di lavoro non appena avesse aggiustato i conti con i suoi padroni di Bogotá.

Comunque, io sapevo che non sarei diventato un avvocato da nessuna parte. Volevo solo guadagnare un po’ più di tempo per distrarre i miei genitori, e Cartagena poteva essere un buon scalo tecnico per riflettere. Certo non avrei mai pensato che quel calcolo ragionevole mi avrebbe portato a decidere con il cuore in mano che lì avrei voluto continuare la mia vita.

In quei giorni trovare cinque posti su uno stesso aereo per qualsiasi luogo della costa fu una prodezza di mio fratello. Dopo aver fatto code interminabili e pericolose ed esser corso da una parte all’altra per tutta una giornata in un aeroporto di emergenza, trovò i cinque posti in tre aerei diversi, a ore improbabili e in mezzo a sparatorie ed esplosioni invisibili. A mio fratello e a me confermarono infine due sedili su uno stesso aereo per Barranquilla, ma all’ultimo momento partimmo con voli diversi. La pioviggine e la nebbia che persistevano a Bogotá fin dal venerdì precedente avevano un lezzo di polvere da sparo e di corpi putrefatti. Dalla casa all’aeroporto fummo interrogati in due posti di blocco militari successivi, i cui soldati erano in preda al terrore. Al secondo posto di blocco si buttarono a terra e ci ordinarono di fare lo stesso a causa di un’esplosione seguita da una sparatoria di armi pesanti che si rivelò essere una fuga di gas industriale. Capimmo la situazione quando un soldato ci disse che il loro dramma era stare lì di guardia da tre giorni senza che ci fossero turni, oltre che privi di munizioni, perché in città non ce n’erano più. Osavamo a stento parlare già quando ci avevano fermati, ma il terrore dei soldati finì per assestarci il colpo di grazia. Tuttavia, dopo le pratiche formali di identificazione e accertamento, ci consolò sapere che dovevamo rimanere lì senza fare altro finché non ci avrebbero portati a bordo. Nell’attesa fumai due delle tre sigarette che qualcuno mi aveva dato per carità, e ne riservai una per il terrore del viaggio.

Poiché non c’erano telefoni, gli annunci dei voli e di altri cambiamenti venivano comunicati nei diversi posti di blocco tramite ordinanze militari in motocicletta. Alle otto del mattino chiamarono un gruppo di passeggeri per salire subito a bordo di un aereo per Barranquilla diverso dal mio. Venni poi a sapere che gli altri tre del nostro gruppo si erano imbarcati con mio fratello su un altro aereo. L’attesa solitaria fu una cura efficace per la mia paura congenita dell’aereo, perché nel momento di salire a bordo il cielo era rannuvolato e pieno di tuoni sassosi. Anche perché la scaletta del nostro aereo l’avevano presa per un altro velivolo e due soldati dovettero aiutarmi a salire a bordo con una scala da muratori. Erano lo stesso aeroporto e la stessa ora in cui Fidel Castro era salito su un altro aereo che partì per L’Avana carico di tori da combattimento – come lui stesso mi raccontò anni dopo.

Per buona o mala sorte il mio era un DC-3 che sapeva di pittura fresca e grassi recenti, senza luci individuali né ventilazione regolata dalla cabina passeggeri. Serviva al trasporto della truppa e invece di sedili separati in file da tre, come nei voli turistici, c’erano due panche longitudinali di assi ordinarie, ben assicurate al pavimento. Tutto il mio bagaglio era una valigia di tela con due o tre cambi di roba sporca, libri di poesia e ritagli di supplementi letterari che mio fratello Luis Enrique era riuscito a salvare. Noi passeggeri rimanemmo seduti gli uni davanti agli altri dalla cabina di pilotaggio fino alla coda. Invece di cinture di sicurezza c’erano due corde di quelle per ormeggiare imbarcazioni, che fungevano da lunghe cinture di sicurezza collettive per ogni lato. Per me la cosa più dura fu che non appena ebbi acceso l’unica sigaretta conservata per sopravvivere al volo, il pilota in tuta ci annunciò dalla cabina che era proibito fumare perché le riserve di benzina dell’aereo erano ai nostri piedi sotto il pavimento di assi. Furono tre ore di volo interminabili.

Quando arrivammo a Barranquilla aveva appena piovuto come piove solo in aprile, con case rovesciate dalle fondamenta e trascinate dalla corrente delle strade, e ammalati solitari che annegavano nei loro letti. Dovetti aspettare che spiovesse nell’aeroporto stravolto dal diluvio e faticai a informarmi sull’arrivo dell’aereo di mio fratello e dei suoi due compagni, ma tutt’e tre si erano affrettati ad abbandonare la stazione quando cominciavano appena a riecheggiare i primi tuoni di un primo acquazzone.

Ebbi bisogno di altre tre ore per raggiungere l’agenzia di viaggi e persi l’ultimo autobus che partì per Cartagena in anticipo rispetto all’orario proprio per evitare la bufera. Non mi preoccupai, perché credevo che con quell’autobus fosse partito mio fratello, ma mi spaventai all’idea di dover dormire una notte a Barranquilla senza denaro. Infine, grazie a José Palencia, ottenni un asilo di emergenza in casa delle belle sorelle Ilse e Lila Albarracín, e tre giorni dopo partii per Cartagena con l’autobus sgangherato dell’Agenzia Postale. Mio fratello Luis Enrique sarebbe rimasto in attesa di un impiego a Barranquilla. Non mi restavano più di otto pesos, ma José Palencia mi promise di portarmi qualcosa all’autobus della notte. Non c’era spazio libero, neppure in piedi, ma il conducente accettò di sistemare sul tetto tre passeggeri, seduti sui loro bagagli, e per un quarto del prezzo regolare. In una situazione così strana, e in pieno sole, credo di aver preso coscienza che quel 9 aprile 1948 era cominciato in Colombia il secolo XX.

5. La ruana è una specie di poncho. (NdT)

6

Al termine di una giornata a base di scossoni mortali lungo una strada non asfaltata, l’autobus dell’Agenzia Postale esalò l’ultimo respiro lì dove meritava: impantanato fra un gruppo di mangrovie fetide di pesci marci a mezza lega da Cartagena de Indias. “Chi viaggia in autobus non sa dove può morire” ricordai con la memoria di mio nonno. I passeggeri abbrutiti da sei ore di sole nudo e dal lezzo della maremma non aspettarono che arrivassero con la scaletta per scendere a terra, ma si affrettarono a buttare giù le gabbie di galline, i fagotti di banane e ogni sorta di cose da vendere o morire che avevano usato per sedersi sul tetto dell’autobus. L’autista balzò a terra e annunciò con un grido mordace:

«L’Eroica!»

È il nome emblematico con cui è nota Cartagena de Indias per le sue glorie del passato, e lì doveva essere. Ma non la vedevo perché potevo respirare a stento dentro l’unico vestito di panno nero che avevo addosso fin dal 9 aprile. Gli altri due del mio guardaroba avevano fatto la stessa fine della macchina per scrivere al banco dei pegni, ma la versione per i miei genitori fu che la macchina e altre cose di inutilità personale erano scomparse insieme agli indumenti nella baraonda dell’incendio. L’autista insolente, che per tutto il viaggio si era burlato del mio aspetto da bandito, stava scoppiando di piacere quando continuai a rigirarmi su me stesso senza trovare la città:

«Ce l’hai nel culo!» mi gridò a nome di tutti. «E stacci attento, che gli scemi se lo prendono sempre lì.»

Cartagena de Indias, in effetti, era alle mie spalle da quattrocento anni, ma non mi fu facile immaginarla a mezza lega dal folto di mangrovie, nascosta dalle mura leggendarie che l’avevano tenuta in salvo da gentili e pirati nei suoi anni di gloria, e aveva finito per scomparire sotto un viluppo di ramaglie arruffate e lunghe filze di campanule gialle. Sicché mi unii al tumulto dei passeggeri e trascinai la valigia per una fratta tappezzata di granchi vivi i cui gusci scoppiavano come petardi sotto le suole delle scarpe. Fu impossibile non ricordare allora il bagaglio da zotico che i miei compagni avevano buttato nel fiume Magdalena durante il mio primo viaggio, o il baule funerario che mi ero trascinato dietro per mezzo paese piangendo di rabbia nei miei primi anni del liceo e che avevo infine spinto in un precipizio delle Ande per festeggiare la fine del liceo. Mi è sempre parso che ci fosse qualcosa di un destino altrui in quei sovraccarichi immeritati e non mi sono bastati i miei ormai lunghi anni per allontanare tale idea.

Stavamo appena cominciando a intravedere la sagoma di alcune cupole di chiese e di conventi nella foschia dell’imbrunire, quando ci aggredì una raffica di pipistrelli che volavano rasenti le nostre teste e solo per la loro destrezza non ci fecero stramazzare a terra. Le ali rimbombavano come tuoni e passando lasciavano un tanfo di morte. Colto dal panico mollai la valigia e mi rannicchiai a terra con le braccia sulla testa, finché una donna matura che camminava accanto a me non mi gridò:

«Recita la Magnifica

Ossia l’orazione segreta per scongiurare assalti del demonio, ripudiata dalla Chiesa ma consacrata dai grandi atei quando le bestemmie ormai non bastavano più. La donna si rese conto che io non sapevo recitarla, prese la mia valigia per l’altra maniglia e mi aiutò a portarla.

«Prega con me» mi disse. «Ma attento, devi farlo con fede.»

Sicché mi dettò la Magnifica verso per verso e io li ripetei ad alta voce con una devozione che non ho mai più sentito. I pipistrelli, sebbene oggi mi costi fatica crederci, scomparvero dal cielo prima che avessimo finito di pregare. Allora rimase solo l’immenso fracasso del mare sugli scogli.

Eravamo arrivati alla grande porta dell’Orologio. Per cent’anni lì c’era stato un ponte levatoio che collegava la città antica con il quartiere di Getsemaní e con le fitte borgate di poveri in mezzo alle mangrovie, ma lo alzavano sempre dalle nove di sera fino all’alba. La popolazione rimaneva isolata non solo dal resto del mondo ma anche dalla storia. Si diceva che i coloni spagnoli avessero costruito quel ponte per il terrore che a mezzanotte la feccia dei suburbi scivolasse fino a casa loro per sgozzarli nel sonno. Comunque, qualcosa della sua grazia divina doveva rimanere alla città, perché mi bastò fare un passo dentro la cinta per vederla in tutta la sua grandezza nella luce malva delle sei del pomeriggio, e non mi fu possibile reprimere la sensazione di essere rinato.

Ne avevo ben motivo. All’inizio della settimana avevo lasciato Bogotá sguazzando in un pantano di sangue e fango, ancora con mucchi di cadaveri senza padrone abbandonati fra macerie fumanti. D’improvviso, il mondo era diventato un altro a Cartagena. Non c’erano tracce della guerra che devastava il paese e mi costava fatica credere che quella solitudine senza dolore, quel mare incessante, quell’immensa sensazione di essere arrivato mi stesse cogliendo solo una settimana dopo in una stessa vita.

A forza di averne sentito parlare da quand’ero nato, identificai subito la piazzetta dove parcheggiavano le carrozzelle tirate da cavalli e i carretti tirati da asini, e in fondo le arcate del porticato dove il commercio popolare diveniva più accalcato e chiassoso. Pur non essendo ammesso dalla coscienza ufficiale, quello era l’ultimo cuore attivo della città originaria. Durante la Colonia, si era chiamato Porticato dei Mercanti. Da lì si muovevano i fili invisibili del commercio di schiavi e si cucinavano gli animi contro il dominio spagnolo. In seguito si sarebbe chiamato Porticato degli Scrivani, per via dei calligrafi taciturni in panciotto di panno e mezze maniche che scrivevano lettere d’amore e ogni sorta di documenti per illetterati poveri. Molti erano stati librai d’occasione che vendevano sottobanco, soprattutto opere condannate dal Santo Uffizio, e si crede che fossero oracoli della cospirazione creola contro gli spagnoli. All’inizio del XX secolo mio padre amava assecondare i suoi slanci da poeta con l’arte di scrivere lettere d’amore nel porticato. Non prosperò di certo né come l’uno né come l’altro perché alcuni clienti scaltri – o davvero derelitti – gli chiedevano per carità non solo che scrivesse loro la lettera, ma anche il denaro per il francobollo.

Da parecchi anni si chiamava Porticato dei Dolci, con le tende marcite e i mendicanti che andavano a mangiare gli avanzi del mercato, e le grida infauste degli indios che si facevano pagare a caro prezzo se non si voleva che cantassero al cliente il giorno e l’ora in cui sarebbe morto. Le golette dei Caraibi si fermavano nel porto per comprare i dolci dai nomi inventati dalle stesse comari che li facevano e messi in rima gridando: «Le ciambelle per le villanelle, le meringhe per le casalinghe, gli spumoni per i lazzaroni, la giulebbata per la zia maritata». Nel bene come nel male il porticato continuava a essere un centro vitale della città dove si discutevano faccende di Stato alle spalle del governo e l’unico luogo del mondo dove le venditrici di cibo fritto sapevano chi sarebbe stato il prossimo governatore prima ancora che a Bogotá ci pensasse il presidente della Repubblica.

Subito affascinato dalla baraonda, mi feci strada incespicando con la mia valigia in mezzo alla calca delle sei del pomeriggio. Un vecchio cencioso e ridotto pelle e ossa mi guardava senza batter ciglio dalla pedana dei lustrascarpe con certi occhi gelidi da piviere. Mi frenò bruscamente. Non appena vide che l’avevo notato si offrì di trasportarmi la valigia. Lo ringraziai, finché non precisò nella sua lingua materna:

«Sono trenta palanche.»

Impossibile. Trenta centesimi per trasportare una valigia era un bel morso agli unici quattro pesos che mi rimanevano in attesa dei rinforzi dai miei genitori la settimana dopo.

«È quanto vale la valigia con tutto quello che c’è dentro» gli dissi.

Inoltre, l’albergo dove pensavo si trovasse già il gruppo di Bogotá, non era molto lontano. Il vecchio si accontentò di tre palanche, si appese al collo i sandali che calzava e si caricò la valigia in spalla con una forza inverosimile per le sue ossa, e corse come un atleta a piedi scalzi in un labirinto di case coloniali scrostate da secoli di abbandono. In quei miei ventuno anni il cuore mi usciva di bocca cercando di non perdere di vista il vecchione olimpico cui non potevano rimanere molte ore di vita. Dopo cinque isolati entrò nel portone grande dell’albergo e fece a due a due i gradini delle scale. Con il fiato intatto posò la valigia a terra e mi tese il palmo della mano:

«Trenta palanche.»

Gli ricordai che l’avevo già pagato, ma lui si accanì asserendo che i tre centesimi pattuiti nel porticato non includevano le scale. La padrona dell’albergo, che uscì a riceverci, gli diede ragione: le scale si pagavano a parte. E mi fece un pronostico valido per tutta la mia vita:

«Lo vedrai che a Cartagena tutto è diverso.»

Dovetti pure affrontare la brutta notizia che non era arrivato nessuno dei miei compagni della pensione di Bogotá, anche se le quattro prenotazioni erano state fatte, inclusa la mia. Il programma concordato con loro era di incontrarci all’albergo prima delle sei di quel giorno. Il cambio dell’autobus regolare con quello avventuroso dell’Agenzia Postale mi aveva fatto ritardare di tre ore, ma in quel momento ero lì più puntuale di tutti senza poter fare nulla con quattro pesos meno trentatré centesimi. La padrona dell’albergo era una madre affascinante ma schiava delle proprie norme, come avrei constatato nei due lunghi mesi che soggiornai da lei. Sicché non accettò di registrarmi se non pagavo il primo mese anticipato: diciotto pesos per i tre pasti in una stanza da sei.

Non aspettavo il soccorso dei miei genitori prima di una settimana, sicché la mia valigia non sarebbe andata oltre il pianerottolo finché non fossero arrivati i miei amici che potevano aiutarmi. Mi sedetti ad aspettare su una poltrona da arcivescovo con grossi fiori dipinti che fu come un regalo del cielo dopo l’intera giornata sotto il sole sull’autobus della mia disgrazia. Il fatto era che nessuno poteva essere sicuro di qualcosa in quei giorni. Metterci d’accordo per ritrovarci lì in un giorno e a un’ora precisi mancava di senso della realtà, perché non osavamo dire neppure a noi stessi che mezzo paese era piombato in una guerra sanguinosa, da diversi anni nascosta nelle province, e da una settimana aperta e mortale nelle città.

Otto ore dopo, arenato nell’albergo di Cartagena, non capivo cos’era potuto accadere a José Palencia e ai suoi amici. Dopo un’altra ora di attesa senza notizie, presi a camminare per le strade deserte. In aprile fa buio presto. L’illuminazione pubblica era già accesa ed era così scarsa che poteva confondersi con una serie di stelle in mezzo agli alberi. Mi bastò un primo giro di quindici minuti a caso per gli anfratti acciottolati della zona coloniale per scoprire con grande sollievo del petto che quella strana città non aveva nulla a che vedere con il fossile sotto vetro che ci descrivevano a scuola.

Per le strade non c’era anima viva. Le folle che arrivavano dai suburbi all’alba per lavorare o vendere, tornavano in gregge nelle loro borgate alle cinque del pomeriggio, e gli abitanti dello spazio cintato si chiudevano in casa per cenare e giocare a domino fino a mezzanotte. L’abitudine delle automobili personali non aveva ancora preso piede, e le poche in servizio rimanevano fuori dalle mura. Anche i funzionari più altezzosi continuavano ad arrivare fino alla piazza delle macchine con gli autobus di fabbricazione locale, e di lì si facevano strada sino ai loro uffici scavalcando le bancarelle di cianfrusaglie sotto i portici. Un governatore fra i più affettati di quegli anni tragici si vantava di spostarsi dal suo quartiere di eletti fino alla piazza delle macchine con gli stessi autobus con cui era andato a scuola.

L’inserimento delle automobili era stato difficile perché andavano in senso contrario rispetto alla realtà storica: non ci stavano nelle vie strette e contorte della città dove riecheggiavano di notte gli zoccoli non ferrati dei cavalli rachitici. In tempi di grande caldo, quando si aprivano i balconi affinché entrasse il fresco dei giardini, si sentivano le raffiche delle conversazioni più intime con una risonanza spettrale. I nonni appisolati sentivano passi furtivi sulle strade di pietra, li seguivano senza aprire gli occhi fino a riconoscerli, e dicevano disincantati: «È José Antonio che va da Chabela». A far uscire dai gangheri gli insonni erano solo i colpi secchi delle pedine sui tavoli da domino, che riecheggiavano ovunque fra le mura.

Per me fu una notte storica. A stento riconoscevo nella realtà le finzioni scolastiche dei libri, ormai messe da parte per sempre. Mi emozionò fino alle lacrime che i vecchi palazzi dei marchesi fossero gli stessi che avevo davanti agli occhi, slabbrati, con i mendicanti che dormivano negli atri. Vidi la cattedrale senza le campane che si era portato via il pirata Francis Drake per fabbricare cannoni. Le poche che si erano salvate dall’assalto erano state esorcizzate dopo che gli stregoni del vescovo le avevano condannate al rogo per le loro risonanze maligne atte a convocare il diavolo. Vidi gli alberi avvizziti e le statue di uomini illustri che non sembravano figure scolpite in marmo perituro bensì morti in carne viva. A Cartagena non erano preservate dalla ruggine del tempo ma tutto il contrario: si preservava il tempo per le cose che continuavano ad avere l’età originale mentre i secoli invecchiavano. Fu così che la notte stessa del mio arrivo la città mi si rivelò a ogni passo con la sua vita, non come il fossile di cartongesso degli storici, bensì come una città di carne e ossa che non era più sorretta dalle sue glorie marziali ma dalla dignità delle sue rovine.

In questo nuovo stato d’animo tornai all’albergo quando risuonarono le dieci alla torre dell’Orologio. Il guardiano semiaddormentato mi informò che nessuno dei miei amici era arrivato, ma che la mia valigia era al sicuro nel deposito. Solo allora fui consapevole di non aver mangiato né bevuto dopo la brutta colazione di Barranquilla. Le gambe mi cedevano per la fame, ma mi sarei accontentato che la proprietaria prendesse in pegno la valigia e mi lasciasse dormire nell’albergo per quell’unica notte, sia pure sulla poltrona dell’atrio. Il guardiano scoppiò a ridere davanti alla mia innocenza:

«Non fare il frocio!» mi disse in caraibico crudo. «Con il mucchio di soldi che ha quella madama, va a dormire alle sette e si alza il giorno dopo alle undici.»

Mi sembrò un argomento così legittimo che mi sedetti su una panchina del Parco Bolívar, dall’altra parte della via, in attesa che arrivassero i miei amici, senza disturbare nessuno. Gli alberi avvizziti erano a stento visibili nella luce della strada, perché i lampioni del parco venivano accesi solo la domenica e le feste comandate. Le panchine di marmo avevano tracce di frasi molte volte cancellate e riscritte da poeti sfrontati. Nel palazzo dell’Inquisizione, dietro la sua facciata vicereale scolpita in pietra vergine e il suo portone da basilica primaziale, si sentiva il gemito inconsolabile di qualche uccello infermo che non poteva essere di questo mondo. Allora l’ansia di fumare mi assalì insieme a quella di leggere, due vizi che nella mia gioventù si confondevano in me per la loro impertinenza e la loro tenacia. Contrappunto, il romanzo di Aldous Huxley, che la paura fisica non mi aveva permesso di continuare a leggere sull’aereo, dormiva sottochiave nella mia valigia. Sicché accesi l’ultima sigaretta con una strana sensazione di sollievo e di terrore, e la spensi a metà tenendola di riserva per una notte senza domani.

Con l’animo ormai disposto a dormire sulla panchina su cui ero seduto, mi sembrò d’improvviso che ci fosse qualcosa di occulto tra le ombre più fitte degli alberi. Era la statua equestre di Simón Bolívar. Proprio lui: il generale Simón José Antonio de la Santísima Trinidad Bolívar y Palacios, mio eroe da quando me l’aveva ordinato il nonno, con la sua radiosa uniforme di gala e la sua testa da imperatore romano, scagazzata dalle rondini.

Era sempre il mio personaggio indimenticabile, malgrado le sue contraddizioni irredimibili o forse proprio per quelle. In fin dei conti erano appena paragonabili a quelle con cui il nonno aveva conquistato il suo grado di colonnello e si era giocato la vita tante volte nella guerra che i liberali avevano sostenuto contro lo stesso Partito conservatore fondato e sorretto da Bolívar. Fra quelle brume mi aggiravo quando mi riportò sulla terra una voce perentoria dietro di me:

«Mani in alto!»

Le alzai riconfortato, pensando che fossero finalmente i miei amici, e mi ritrovai alle prese con due poliziotti, rozzi e piuttosto male in arnese, che mi tenevano sotto mira con i loro fucili nuovi. Volevano sapere perché avessi violato il coprifuoco vigente da due ore. Non sapevo neppure che fosse stato imposto la domenica prima, come mi informarono loro, né avevo sentito suoni di trombe o di campane, né altri indizi che mi avessero permesso di capire perché non c’era nessuno per strada. I poliziotti furono più pigri che comprensivi quando videro la mia carta d’identità mentre spiegavo perché mi trovavo lì. Me la restituirono senza guardarla. Mi domandarono quanto denaro avessi e risposi che non arrivavo a quattro pesos. Allora il più risoluto dei due mi chiese una sigaretta e gli mostrai il mozzicone spento che pensavo di fumare prima di addormentarmi. Me lo prese e se lo fumò sino alle unghie. Un po’ più tardi mi portarono per un braccio lungo la via, più per l’ansia di fumare che per disposizione della legge, in cerca di un posto aperto per comprare sigarette sciolte da un centesimo. La notte era diventata diafana e fresca sotto la luna piena, e il silenzio sembrava una sostanza invisibile che si poteva respirare come l’aria. Allora capii quello che così spesso ci raccontava papà senza che gli credessimo, che suonava il violino all’alba nel silenzio del cimitero per sentire che i suoi valzer d’amore li si potesse ascoltare in tutti i Caraibi.

Stanchi della ricerca inutile di sigarette sciolte, uscimmo dalle mura fino a un molo di cabotaggio con vita propria dietro il mercato pubblico, dove attraccavano le golette di Curaçao e di Aruba e di altre Antille minori. Era il posto notturno della gente più spassosa e utile della città, che aveva diritto a salvacondotti per il coprifuoco in virtù dell’indole dei loro lavori. Mangiavano fino all’alba in un’osteria a cielo aperto con un buon prezzo e miglior compagnia, perché finivano lì non solo i lavoratori notturni, ma anche chiunque volesse mangiare quando altrove tutto era chiuso. Il luogo non aveva un nome ufficiale ed era noto con quello che meno gli si addiceva: La Grotta.

Lì i poliziotti erano come a casa loro. Era chiaro che i clienti già seduti ai tavoli si conoscevano da sempre e si sentivano contenti di stare insieme. Era impossibile individuare nomi perché tutti si chiamavano con i soprannomi di scuola e parlavano gridando al contempo senza intendersi né guardarsi. Avevano abiti da lavoro, tranne un sessantenne adonio dalla testa innevata in smoking di altri tempi, insieme a una donna matura e ancora molto bella con un vestito di lustrini sciupato dall’uso e troppi gioielli legittimi. La sua presenza poteva essere un dato chiaro della sua condizione, perché erano molto poche le donne i cui mariti permettessero loro di frequentare quei posti di mala fama. Avrei potuto pensare che fossero turisti se non fosse stato per la disinvoltura e l’accento creolo, e per la familiarità che avevano con tutti. In seguito venni a sapere che non erano affatto quello che sembravano, bensì una vecchia coppia di Cartagena che si vestiva da cerimonia con qualsiasi pretesto per cenare fuori casa e che quella sera aveva trovato addormentati gli anfitrioni e i ristoranti a causa del coprifuoco.

Furono loro a invitarci a cenare. Gli altri ci fecero posto al grosso tavolo, e tutt’e tre ci sedemmo un po’ oppressi e intimiditi. Trattavano anche i poliziotti con una familiarità da domestici. Uno era serio e disinvolto, e a tavola aveva riflessi da bambino ammodo. L’altro sembrava svagato, tranne che nel mangiare e nel fumare. Io, più per timidezza che per cortesia, ordinai meno cibo di loro e quando mi resi conto che mi sarei ritrovato con più di metà della mia fame gli altri avevano già finito.

Il proprietario e unico cameriere della Grotta si chiamava José Dolores, un negro quasi adolescente, di una bellezza scomoda, avvolto in lenzuoli immacolati da musulmano, e sempre con un garofano fresco all’orecchio. Ma si notava soprattutto la sua intelligenza eccessiva, che sapeva usare senza riserve per essere felice e rendere felici gli altri. Era chiaro che gli mancava pochissimo per essere donna e aveva una fama ben fondata di andare a letto solo con suo marito. Nessuno gli fece mai una battuta sul suo modo d’essere, perché aveva una grazia e una rapidità di replica che non lasciava favore senza ringraziamento né offesa senza attacco. Lui da solo faceva tutto, dal cucinare con destrezza quanto sapeva che garbava a ogni cliente, sino a friggere le fette di banana verde con una mano e fare i conti con l’altra, senz’altro aiuto che quello molto scarso di un bambino sui sei anni che lo chiamava mamma. Quando ci salutammo mi sentivo commosso per quello che avevo trovato, ma non mi sarei immaginato che quel posto per nottambuli discoli sarebbe diventato uno dei luoghi indimenticabili della mia vita.

Dopo il pasto accompagnai i poliziotti affinché completassero le ronde per cui erano in ritardo. La luna era un piatto d’oro nel cielo. La brezza cominciava a levarsi e trascinava da molto lontano pezzi di musiche e grida remote di grande bisboccia. Ma i poliziotti sapevano che nei quartieri dei poveri nessuno andava a letto per via del coprifuoco, perché organizzavano balli a pagamento in case diverse ogni notte, senza dover uscire fino all’alba.

Quando suonarono le due bussammo al mio albergo sicurissimi che gli amici erano arrivati, ma questa volta il guardiano ci mandò al diavolo senza riguardi per averlo svegliato invano. Allora i poliziotti si resero conto che io non avevo un posto dove dormire e decisero di portarmi in caserma. Mi sembrò uno scherzo così azzardato che persi il buon umore e me ne uscii con un’impertinenza. Uno di loro, stupito dalla mia reazione puerile, mi rimise al mio posto con la canna del fucile sullo stomaco.

«Non fare lo stronzo» mi disse morto dal ridere. «Ricordati che sei ancora agli arresti per aver violato il coprifuoco.»

Così passai – in una cella per sei e sopra una stuoia fermentata dal sudore altrui – la mia prima notte felice di Cartagena.

Raggiungere l’anima della città fu molto più facile che sopravvivere alla prima giornata. Quasi due settimane dopo avevo risolto i rapporti con i miei genitori, che approvarono senza riserve la mia decisione di vivere in una città senza guerra. La proprietaria dell’albergo, pentita per avermi condannato a una notte di carcere, mi sistemò insieme ad altri venti studenti in un capannone costruito di recente sul terrazzo della sua bella casa coloniale. Non ebbi motivo di lagnarmi, perché era una copia caraibica del dormitorio del Liceo Nazionale, e costava meno della pensione di Bogotá tutto compreso.

L’entrata alla Facoltà di Legge si risolse in un’ora con l’esame di ammissione davanti al segretario, Ignacio Vélez Martínez, e un professore di Economia Politica, il cui nome non sono riuscito a trovare fra i miei ricordi. Com’era in uso, l’esame si svolse alla presenza del secondo anno riunito al completo. Fin dall’inizio mi colpì la chiarezza di opinioni e la proprietà del linguaggio dei due professori, in una regione famosa all’interno del paese per la sua sguaiataggine verbale. Il primo argomento, scelto per sorteggio, fu la guerra di Secessione degli Stati Uniti, di cui io sapevo un po’ meno di nulla. Fu un peccato che non avessi ancora letto i nuovi romanzieri nordamericani, che cominciavano appena ad arrivare da noi, ma ebbi la fortuna che il professor Vélez Martínez cominciasse con una citazione casuale da La capanna dello zio Tom, che io conoscevo bene dai tempi del liceo. Colsi l’occasione al volo. I due professori dovettero essere vittime di un accesso di nostalgia, perché i sessanta minuti che avevamo riservato all’esame si risolsero tutti in un’analisi emotiva dell’ignominia del regime schiavista nel sud degli Stati Uniti. E lì ci fermammo. Sicché quanto da me previsto come una roulette russa fu una conversazione divertente che mi valse un buon voto e qualche applauso cordiale.

Così entrai all’università per terminare il secondo anno di Legge, alla condizione mai osservata che facessi esami di recupero in una o due materie che non avevo ancora dato nel primo anno a Bogotá. Alcuni compagni si entusiasmarono per il mio modo di dominare gli argomenti, perché fra loro c’era una certa militanza a favore della libertà creativa in un’università incagliata nel rigore accademico. Era il mio sogno solitario fin dal liceo, non per un anticonformismo gratuito ma in quanto ritenevo fosse la mia unica speranza per passare gli esami senza studiare. Tuttavia, gli stessi che proclamavano l’indipendenza di giudizio nelle aule non potevano fare altro che arrendersi alla fatalità e salivano sul patibolo degli esami con gli scartafacci atavici dei testi coloniali imparati a memoria. Per fortuna, nella vita reale erano esperti provetti nell’arte di tenere vivi i balli del venerdì, malgrado i rischi della repressione sempre più sfacciata all’ombra dello stato d’assedio. I balli continuarono ad aver luogo grazie ad accordi presi sottobanco con le autorità dell’ordine pubblico finché ci fu il coprifuoco, e quando venne eliminato rinacquero dalle loro ceneri con più vigore di prima. Soprattutto a Torices, a Getsemaní o ai piedi della Popa, i quartieri più bisboccioni di quegli anni cupi. Bastava affacciarsi alle finestre per scegliere la festa che ci piaceva di più, e per cinquanta centesimi si ballava fino all’alba con la musica più calda dei Caraibi aumentata dallo strepito degli altoparlanti. Le dame invitate per cortesia erano le medesime studentesse che durante la settimana vedevamo all’uscita dalle scuole, solo che indossavano le uniformi della messa domenicale e ballavano come candide donne di vita sotto lo sguardo all’erta di zie guardiane o di madri liberate. Una di quelle notti di caccia grossa mi aggiravo per Getsemaní, che ai tempi della Colonia era stato il quartiere degli schiavi, quando riconobbi come una parola d’ordine una forte pacca sulla schiena e l’esplosione di una voce:

«Disgraziato!»

Era Manuel Zapata Olivella, ostinato abitante di Calle de la Mala Creanza, dove aveva vissuto la famiglia dei nonni dei suoi trisnonni africani. Ci eravamo visti a Bogotá, in mezzo al fragore del 9 aprile, e la nostra prima sorpresa a Cartagena fu ritrovarci vivi. Manuel, oltre che medico caritatevole era romanziere, attivista politico e promotore della musica caraibica, ma la sua vocazione dominante era cercare di risolvere i problemi di tutti. Ci eravamo appena scambiati notizie sulle nostre esperienze del venerdì funesto e sui nostri piani per l’avvenire, quando mi propose di provare la via del giornalismo. Un mese prima il dirigente liberale Domingo López Escauriaza aveva fondato il quotidiano «El Universal», il cui capo redattore era Clemente Manuel Zabala. Ne avevo sentito parlare non come giornalista ma come erudito di tutte le musiche e comunista a riposo. Zapata Olivella mi convinse affinché andassimo a trovarlo, perché sapeva che cercava gente nuova per dare vita con l’esempio a un giornalismo creativo contro quello abitudinario e sottomesso che regnava nel paese, soprattutto a Cartagena, che era allora una delle città più arretrate.

Per me era chiarissimo che il giornalismo non sarebbe stato il mio mestiere. Volevo diventare uno scrittore diverso, ma cercavo di diventarlo per imitazione di altri autori che non avevano nulla a che vedere con me. Sicché in quei giorni vivevo una pausa di riflessione, dal momento che dopo i miei primi tre racconti pubblicati a Bogotá, e tanto elogiati da Eduardo Zalamea e altri critici e amici buoni e cattivi, mi sentivo in un vicolo cieco. Zapata Olivella insistette malgrado le mie obiezioni affermando che il giornalismo e la letteratura finivano alla lunga per essere la stessa cosa, e che un vincolo con «El Universal» avrebbe potuto assicurarmi tre destini al contempo: risolvermi la vita in una maniera dignitosa e utile, collocarmi in un ambiente professionale che era di per sé un mestiere importante e lavorare con Clemente Manuel Zabala, il miglior maestro di giornalismo che si potesse immaginare. Il freno di timidezza che mi produsse quel ragionamento così semplice avrebbe potuto mettermi in salvo da una disgrazia. Ma Zapata Olivella non sapeva sopravvivere ai rifiuti e mi diede appuntamento per il giorno dopo alle cinque del pomeriggio al numero 381 di Calle de San Juan de Dios, dove aveva sede il giornale.

Dormii male quella notte. Il giorno dopo, a colazione, domandai alla proprietaria dell’albergo dov’era la Calle de Juan de Dios, e lei me la indicò con il dito dalla finestra:

«È qui vicino» mi disse, «due isolati più avanti.»

Era proprio lì la sede di «El Universal», davanti all’immenso muro dorato della chiesa di San Pedro Claver, il primo santo delle Americhe, il cui corpo incorrotto è esposto da oltre cent’anni sotto l’altare maggiore. È un vecchio edificio coloniale ricamato di rattoppi repubblicani e due portoni e qualche finestra da cui si vedeva tutto quanto costituiva il giornale. Ma il motivo del mio vero terrore era al di là di una balaustra di legno grezzo a circa tre metri dalla finestra: un uomo maturo e solitario, vestito di lino bianco con giacca e cravatta, dalla pelle scura e dai capelli duri e neri da indio, che scriveva a matita su una vecchia scrivania con risme di fogli da sbrigare. Ripassai in senso opposto in preda a una fascinazione urgente, e altre due volte, e alla quarta come alla prima non ebbi neppure il minimo dubbio che quell’uomo fosse Clemente Manuel Zabala, identico a come l’avevo immaginato, ma più temibile. Atterrito, presi la semplice decisione di non presentarmi all’appuntamento di quel pomeriggio con un uomo che bastava vedere da una finestra per accorgersi che ne sapeva troppo sulla vita e sui suoi mestieri. Tornai all’albergo e mi offrii un’altra delle mie giornate tipiche senza rimorsi disteso supino sul letto con I falsari di André Gide, e accendendo una sigaretta con il mozzicone dell’altra. Alle cinque del pomeriggio, la porta del dormitorio rabbrividì sotto un colpo secco come lo sparo di un fucile.

«Muoviti, cazzo!» mi gridò dall’entrata Zapata Olivella. «Zabala ti sta aspettando, e nessuno in questo paese può prendersi il lusso di fargli un bidone.»

L’inizio fu più difficile di quanto avessi immaginato in un incubo. Zabala mi ricevette senza sapere cosa fare, fumando come un turco con un’irrequietezza aggravata dal caldo. Ci mostrò tutto. Da una parte, la direzione e il settore amministrativo. Dall’altra, la sala della redazione e la tipografia con tre scrivanie sgombre perché era ancora presto, e in fondo una rotativa sopravvissuta a un tumulto e le due uniche linotype.

La mia grossa sorpresa fu che Zabala avesse letto i miei tre racconti e che il pezzo di Zalamea gli fosse sembrato giusto.

«A me no» gli dissi. «I racconti non mi piacciono. Li ho scritti seguendo impulsi un po’ inconsapevoli e dopo averli letti stampati non ho più saputo come proseguire.»

Zabala aspirò a fondo il fumo e disse a Zapata Olivella:

«È un buon sintomo.»

Manuel acchiappò l’occasione al volo e gli disse che io avrei potuto essergli utile al giornale nel mio tempo libero dall’università. Zabala disse che lui aveva pensato la stessa cosa quando Manuel gli aveva chiesto l’appuntamento per me. Al dottor López Escauriaza, il direttore, mi presentò come il collaboratore possibile di cui gli aveva parlato la sera prima.

«Sarebbe stupendo» disse il direttore con il suo eterno sorriso da gentiluomo all’antica.

Non decidemmo nulla ma il maestro Zabala mi chiese di tornare il giorno dopo per presentarmi a Héctor Rojas Herazo, buon poeta e pittore e suo bravissimo rubricista. Non gli dissi che era stato mio insegnante di disegno alla scuola San José per una timidezza che oggi mi sembra inspiegabile. Uscendo di lì, Manuel spiccò un salto nella piazza della dogana, davanti alla facciata imponente di San Pedro Claver, ed esclamò con un giubilo prematuro:

«Hai visto, compare, l’affare è fatto!»

Lo contraccambiai con un abbraccio cordiale per non deluderlo, ma mi allontanavo con seri dubbi sul mio avvenire. Manuel mi domandò allora come mi era sembrato Zabala, e gli risposi la verità. Mi era sembrato un pescatore di anime. Quello era forse un motivo determinante per cui i gruppi di giovani si nutrivano della sua ragione e della sua cautela. Conclusi con un falso apprezzamento da vecchio prematuro, che forse era quel modo d’essere ad avergli impedito di svolgere un ruolo decisivo nella vita pubblica del paese.

Manuel mi chiamò la sera morto dal ridere per una conversazione che aveva avuto con Zabala. Questi gli aveva parlato di me con grande entusiasmo, aveva ripetuto che era sicuro che sarei stato un acquisto importante per il giornale, e il direttore la pensava allo stesso modo. Ma il vero motivo della sua chiamata era raccontarmi che a inquietare il maestro Zabala era solo che la mia timidezza accentuata potesse essere un grande ostacolo nella mia vita.

Se all’ultimo momento decisi di tornare al giornale fu perché la mattina dopo mi aprì la porta della doccia un compagno di stanza e mi mise sotto gli occhi la prima pagina di «El Universal». C’era un pezzo terrorizzante sul mio arrivo nella città, che mi definiva scrittore prima ancora che lo fossi e giornalista imminente meno di ventiquattro ore dopo aver visto dall’interno un giornale per la prima volta. A Manuel, che mi telefonò subito per congratularsi, rimproverai senza nascondere la rabbia che avesse scritto righe così irresponsabili senza prima parlarmene. Tuttavia, qualcosa cambiò in me, e forse per sempre, quando venni a sapere che il pezzo l’aveva scritto il maestro Zabala in persona. Sicché mi strinsi la cintura e tornai alla redazione per ringraziarlo. Non mi diede molta retta. Mi presentò a Héctor Rojas Herazo, in pantaloni cachi e camicia a fiori amazzonici, e parole enormi sparate con una voce da tuono, che non si arrendeva nella conversazione finché non aveva catturato la sua preda. Lui, è ovvio, non mi riconobbe come uno dei suoi allievi del collegio di San José.

Il maestro Zabala – come lo chiamavano tutti – ci coinvolse con ricordi di due o tre amici comuni, e di altri che io dovevo conoscere. Poi ci lasciò da soli e tornò alla guerra accanita della sua matita rosso vivo contro le carte urgenti, come se non avesse mai avuto a che vedere con noi. Héctor continuò a parlarmi nel rumore della pioviggine minuta delle linotype come se neppure lui avesse avuto a che vedere con Zabala. Era un conversatore infinito, di un’intelligenza verbale abbagliante, un avventuriero dell’immaginazione che inventava realtà inverosimili in cui lui stesso finiva per credere. Parlammo per ore di altri amici vivi e morti, di libri che non avrebbero mai dovuto essere scritti, di donne che ci avevano dimenticato e che riuscivamo a dimenticare, delle spiagge idilliache del paradiso caraibico di Tolú – dove lui era nato – e degli stregoni infallibili e delle sventure bibliche di Aracataca. Di tutto un po’, senza mai bere, respirando appena e fumando come turchi per paura che la vita non ci bastasse per tutto quello di cui dovevamo ancora parlare.

Alle dieci di sera, quando il giornale chiuse, il maestro Zabala si infilò la giacca, si annodò la cravatta, e con un passo di danza cui rimaneva poco di giovanile, ci invitò a mangiare. Alla Grotta, com’era prevedibile, dove li aspettava la sorpresa che José Dolores e diversi suoi commensali tardivi mi riconobbero come un cliente di vecchia data. La sorpresa crebbe quando passò uno dei poliziotti della mia prima visita che fece una battuta equivoca sulla mia nottataccia in caserma e mi sequestrò un pacchetto di sigarette appena comprato. Héctor, a sua volta, promosse con José Dolores un torneo a base di doppi sensi che fece scoppiar dal ridere i commensali dinanzi al silenzio compiaciuto del maestro Zabala. Io osai introdurre qualche replica senza grazia che mi servì almeno per essere riconosciuto come uno dei pochi clienti che José Dolores contraddistingueva servendoli a credito anche quattro volte al mese.

Dopo il pasto, Héctor e io proseguimmo la conversazione del pomeriggio sul Paseo de los Mártires, davanti alla baia appestata dagli avanzi repubblicani del mercato pubblico. Era una notte splendida nel centro del mondo, e le prime golette di Curaçao salpavano alla chetichella. In quell’alba Héctor mi fornì qualche lume sulla storia sotterranea di Cartagena, nascosta da fazzoletti intrisi di lacrime, che forse assomigliava più alla verità che alla finzione compiacente degli accademici. Mi illustrò la vita dei dieci martiri i cui busti di marmo erano ai lati del viale centrale in memoria del loro eroismo. La versione popolare – che sembrava sua – voleva che quando li avevano collocati nei loro posti originali, gli scultori non avevano inciso i nomi e le date sui busti ma sui piedistalli. Sicché quando li avevano smontati per ripulirli in occasione del loro centenario, non seppero più a quali corrispondevano i nomi né le date, e dovettero risistemarli alla rinfusa sui piedistalli perché nessuno ormai sapeva come dovevano essere messi. La storia circolava da molti anni alla stregua di una barzelletta, ma io pensai, al contrario, che era stato un atto di giustizia storica aver consacrato quegli uomini illustri senza nome non tanto per le loro vite quanto per il loro destino comune.

Quelle notti insonni si ripeterono quasi ogni giorno nei miei anni a Cartagena, ma a partire dalle prime due o tre mi resi conto che Héctor aveva il potere della seduzione immediata, con un senso così complesso dell’amicizia che solo noi che gli volevamo molto bene potevamo capire senza riserve. Era un tenero autentico, capace al contempo di collere strepitose, e talvolta catastrofiche, che poi celebrava se stesso come una grazia di Dio. Allora si capiva com’era, e perché il maestro Zabala faceva tutto il possibile perché gli volessimo bene come gliene voleva lui. La prima notte, come tante altre, ci fermammo fino all’alba sul Paseo de los Mártires, in salvo dal coprifuoco grazie alla nostra condizione di giornalisti. Héctor aveva la voce e la memoria intatte quando vide il chiarore della nuova giornata all’orizzonte del mare, e disse:

«Speriamo che questa notte finisca come Casablanca

Non disse altro, ma la sua voce mi restituì con tutto il suo splendore l’immagine di Humphrey Bogart e Claude Rains che camminavano spalla contro spalla fra le brume dell’alba verso il chiarore radioso all’orizzonte, e la frase già leggendaria del tragico finale felice: “Questo è l’inizio di una grande amicizia”.

Tre ore dopo mi svegliò per telefono il maestro Zabala con una frase meno felice:

«Come va il capolavoro?»

Mi ci volle qualche minuto per capire che si riferiva alla mia collaborazione per il quotidiano del giorno dopo. Non ricordo che avessimo preso un accordo, né che avessi detto sì o no quando mi aveva chiesto di scrivere la mia prima collaborazione, ma quel mattino mi sentivo capace di qualsiasi cosa dopo l’olimpiade verbale della notte prima. Zabala dovette intenderla così, perché aveva già fatto una scaletta di alcuni argomenti del giorno e io gliene proposi un altro che mi sembrò più attuale: il coprifuoco.

Non mi diede indicazioni. Io volevo raccontare la mia avventura della prima notte a Cartagena e così feci, di mio pugno, perché non seppi intendermi con le macchine preistoriche della redazione. Fu un parto di quasi quattro ore che il maestro lesse davanti a me senza un gesto che permettesse di scoprire il suo pensiero, finché non trovò il modo meno amaro per dirmelo:

«Non è male, ma è impossibile pubblicarlo.»

Non mi stupì. Al contrario, l’avevo previsto e per qualche minuto mi sentii sollevato dal peso sgradevole di fare il giornalista. Ma i suoi motivi reali, che io ignoravo, erano perentori: dal 9 aprile c’era in ogni giornale un censore del governo che si installava a una scrivania della redazione come a casa sua fin dalle sei del pomeriggio, con volontà e potere di non autorizzare neppure una lettera che potesse turbare l’ordine pubblico.

I motivi di Zabala pesavano su di me molto più di quelli del governo perché io non avevo scritto un pezzo di opinione bensì il resoconto soggettivo di un episodio privato senza pretese da prima pagina. Inoltre, non avevo trattato il coprifuoco come uno strumento legittimo dello Stato, ma come l’espediente di due rozzi poliziotti per procurarsi sigarette da un centesimo. Per fortuna, prima di condannarmi a morte, il maestro Zabala mi restituì il pezzo che dovevo rifare dall’inizio alla fine, non per lui ma per il censore, e mi fece la carità di un giudizio a doppio taglio.

«Capacità letteraria ne hai, lo sapevamo già» mi disse. «Ma di questo parleremo poi.»

Così lui era fatto. Fin dal mio primo giorno a «El Universal», quando Zabala aveva chiacchierato con me e con Zapata Olivella, mi aveva colpito la sua insolita abitudine di parlare con uno guardando in faccia un altro, mentre le sue unghie si bruciavano a contatto con la stessa brace della sigaretta. All’inizio questo mi causò un’insicurezza scomoda. La cosa meno stupida che mi venne in mente, solo per timidezza, fu ascoltarlo con un’attenzione reale e un interesse enorme, ma guardando non lui bensì Manuel per trarre da entrambi le mie stesse conclusioni. In seguito, quando parlavamo con Rojas Herazo, e poi con il direttore López Escauriaza, e con tanti altri, mi resi conto che era un modo tipico di Zabala quando parlava in gruppo. Così la intesi, e così io e lui potemmo scambiare idee e sensazioni attraverso complici incauti e intermediari innocenti. Con la fiducia intervenuta negli anni mi azzardai a dirgli quella mia impressione, e lui mi spiegò senza stupore che guardava l’altro quasi di profilo per non soffiargli in faccia il fumo della sigaretta. Era fatto così: non ho mai conosciuto qualcuno con un carattere altrettanto quieto e segreto, con un temperamento civile come il suo, perché seppe sempre essere quello che voleva: un saggio in penombra.

Io avevo scritto discorsi, versi precoci al liceo di Zipaquirá, proclami patriottici e proteste per il vitto cattivo, e pochissimo di più, senza contare le lettere alla famiglia che mia madre mi restituiva con l’ortografia corretta anche quando ero già stato riconosciuto come uno scrittore. Ma il pezzo che venne infine pubblicato sulla prima pagina non aveva nulla a che vedere con quello che io avevo scritto. Fra i rammendi del maestro Zabala e quelli del censore, quanto di me rimase furono alcuni sgorbi di prosa lirica senza criterio né stile, sottoposti pure al settarismo grammaticale del correttore di bozze. All’ultimo momento concordammo una rubrica quotidiana, forse per delimitare le responsabilità, con il mio nome completo e un titolo fisso: “Punto a capo”.

Zabala e Rojas Herazo, che ormai ci avevano fatto il callo a quel logorio quotidiano, riuscirono a consolarmi dell’incidente del mio primo pezzo, e così osai proseguire con il secondo e con il terzo, che non furono migliori. Rimasi nella redazione quasi due anni pubblicando anche due pezzi al giorno, che riuscivo a strappare alla censura, con firma e senza firma, e sul punto di sposarmi con la nipote del censore.

Mi domando ancora come sarebbe stata la mia vita senza la matita del maestro Zabala e il cavalletto della censura, la cui sola esistenza era una sfida creativa. Ma il censore era sempre più in guardia di noi per via dei suoi deliri di persecuzione. Le citazioni di grandi autori gli sembravano imboscate sospette, come in effetti lo furono spesso. Vedeva fantasmi. Era un cervantino di paccottiglia che fiutava significati immaginari. Una sera della sua mala stella dovette andare al gabinetto ogni quarto d’ora, finché non osò dirci che stava per diventare matto a causa degli spaventi che noi gli facevamo venire.

«Cazzo!» gridò. «Con tutti questi andirivieni fra un po’ non avrò più culo!»

La polizia era stata militarizzata per un’ennesima dimostrazione di rigore del governo nella violenza politica che stava dissanguando il paese, con una certa moderazione sulla costa atlantica. Tuttavia, all’inizio di maggio la polizia sparò senza ragioni buone né cattive contro una processione della Settimana Santa nelle vie del Carmen de Bolívar, a una ventina di leghe da Cartagena. Io avevo un debole sentimentale per quel paese, dov’era cresciuta la zia Mama, e dove il nonno Nicolás aveva inventato i suoi famosi pesciolini d’oro. Il maestro Zabala, nato nel vicino paese di San Jacinto, mi affidò con una strana determinazione la responsabilità della notizia senza badare alla censura e con tutte le sue conseguenze. Il mio primo pezzo senza firma in prima pagina chiedeva al governo un’indagine a fondo su aggressione e castigo dei colpevoli. E finiva con una domanda: “Cos’è successo al Carmen de Bolívar?”. Dinanzi al disdegno ufficiale, e ormai in guerra franca con la censura, seguitammo a ripetere la domanda con un pezzo al giorno sulla stessa pagina e con un’energia crescente, disposti a esasperare il governo molto più di quanto già lo fosse. Di lì a tre giorni, il direttore del quotidiano mise in chiaro che si era consultato con la redazione al completo, e che lui stesso era d’accordo nel continuare a porre la domanda. Nel frattempo, l’unica cosa che venimmo a sapere del governo trapelò in seguito a un’indiscrezione: avevano impartito ordine di lasciarci soli con la nostra mania da matti in libertà finché non ci fossimo stufati. Non fu facile, perché la nostra domanda di ogni giorno si era ormai diffusa per le strade come un saluto popolare: «Salve, amico: cos’è successo al Carmen de Bolívar?».

La sera in cui meno ce l’aspettavamo, senza preavviso, una pattuglia dell’esercito sbarrò Calle de San Juan de Dios con uno strepito di voci e di armi, e il generale Ernesto Polanía Puyo, comandante della polizia militarizzata, entrò con passi sonori nella sede di «El Universal». Indossava l’uniforme bianco panna delle grandi occasioni, con gli stivali di vernice e la sciabola attaccata con un cordone di seta, e i bottoni e le medaglie così lucidi che sembravano d’oro. Era in perfetta armonia con la sua fama di uomo elegante e affascinante, anche se sapevamo che era un duro sia in pace sia in guerra, come dimostrò anni dopo al comando del battaglione Colombia nella guerra di Corea. Nessuno si mosse nelle due ore intense durante le quali parlò a porte chiuse con il direttore. Presero ventidue tazzine di caffè nero, senza sigarette né alcolici perché entrambi non avevano vizi. Uscendo, il generale sembrò ancora più rilassato quando si congedò da noi a uno a uno. Con me indugiò un po’ di più, mi guardò dritto negli occhi con i suoi occhi da lince, e mi disse:

«Lei arriverà lontano.»

Il mio cuore ebbe un sussulto, al pensiero che forse sapeva già tutto di me e che lontano per lui poteva essere la morte. Nel resoconto confidenziale che il direttore fece a Zabala della sua conversazione con il generale, gli rivelò che questi conosceva nome e cognome di chi scriveva ogni pezzo. Il direttore, con un gesto tipico del suo modo d’essere, gli aveva detto che lo faceva per ordini suoi e che nei giornali come nelle caserme gli ordini venivano eseguiti. Comunque, il generale aveva consigliato al direttore di moderare la campagna, per evitare che qualche barbaro delle caverne volesse far giustizia a nome del suo governo. Il direttore aveva capito, e noi tutti capimmo anche quello che non aveva detto. A stupire il direttore erano stati soprattutto i suoi vanti di conoscere la vita interna del giornale come se ci vivesse dentro. Nessuno dubitò che il suo agente segreto fosse il censore, anche se questi giurò sulla tomba di sua madre che non era lui. L’unica cosa cui il generale non aveva cercato di rispondere durante la sua visita era stata la nostra domanda quotidiana. Il direttore, che aveva fama di saggio, ci consigliò di credere a quanto ci avevano detto perché la verità poteva essere peggiore.

Da quando mi ero impegnato nella guerra contro la censura mi disinteressai dell’università e dei racconti. Meno male che la maggior parte dei professori non faceva l’appello, e questo favoriva le assenze. Inoltre, i professori liberali che conoscevano i miei sgambetti alla censura soffrivano più di me cercando il modo per aiutarmi agli esami. Oggi, nel tentativo di raccontarli, non trovo quei giorni fra i miei ricordi, e ho finito per credere più all’oblio che alla memoria.

I miei genitori dormirono sonni tranquilli dopo che li ebbi informati che al giornale guadagnavo abbastanza per sopravvivere. Non era vero. Lo stipendio mensile da apprendista non mi bastava neppure per una settimana. Prima di tre mesi abbandonai l’albergo con un debito che non avrei potuto saldare, e che in seguito la proprietaria mi condonò in cambio di un pezzo sulla pagina mondana in merito ai quindici anni di sua nipote. Ma accettò quello scambio solo per una volta.

Il dormitorio più frequentato e fresco della città era sempre il Paseo de los Mártires, anche con il coprifuoco. Mi fermavo lì a dormicchiare seduto, quando finivano le ultime chiacchiere dell’alba. Altre volte dormivo nel magazzino del giornale sopra i rotoli di carta oppure andavo con la mia amaca da circo sotto il braccio nelle stanze di altri studenti giudiziosi, finché riuscirono a sopportare i miei incubi e la mia brutta abitudine di parlare dormendo. Così sopravvissi alla meno peggio, mangiando quello che c’era e dormendo dove Dio voleva, finché la tribù umanitaria dei Franco Múnera non mi propose i due pasti al giorno a un prezzo da compassione. Il padre della tribù – Bolívar Franco Pareja – era uno storico maestro delle elementari, con una famiglia allegra, appassionata degli artisti e degli scrittori, che mi costringeva a mangiare più di quello per cui pagavo affinché il mio cervello funzionasse bene. Spesso mi ritrovai senza neppure un soldo, ma loro si consolavano con mie declamazioni dopo i pasti. Prezzo frequente di quell’affare sostentatore furono le strofe di versi intercalati di don Jorge Manrique alla morte di suo padre e il Romancero gitano di García Lorca.

I bordelli a cielo aperto sulle spiagge di Tesca, lontani dal silenzio conturbante delle mura, erano più ospitali degli alberghi per turisti in riva al mare. Eravamo una mezza dozzina di studenti e ci installavamo al Cigno sul far della notte a preparare esami sotto le luci accecanti della pista da ballo. La brezza del mare e il bramito delle navi all’alba ci consolavano del baccano degli ottoni caraibici e della provocazione delle ragazze che ballavano senza mutande e con sottane molto ampie affinché la brezza del mare gliele sollevasse fino alla vita. Di tanto in tanto qualche passerotta nostalgica di papà ci invitava a dormire con quel poco d’amore che le rimaneva all’alba. Una di queste, il cui nome e le cui proporzioni ricordo benissimo, si lasciò sedurre dalle fantasie che le raccontavo dormendo. Grazie a lei passai l’esame di Diritto Romano senza tranelli e mi sottrassi a diverse retate quando la polizia proibì di dormire nei parchi. Ci intendevamo come marito e moglie bene assortiti, non solo a letto, ma anche per le incombenze domestiche che io le facevo all’alba affinché potesse dormire qualche ora in più.

Allora cominciavo a prendere bene il lavoro di scrivere sul giornale, che ritenevo sempre una forma più di letteratura che di giornalismo. Bogotá era un incubo del passato a duecento leghe di distanza e a oltre duemila metri sul livello del mare, di cui ricordavo solo il lezzo delle ceneri del 9 aprile. Avevo sempre la febbre delle arti e delle lettere, soprattutto durante le chiacchiere di mezzanotte, ma cominciavo a perdere l’entusiasmo di diventare uno scrittore. Era così vero, che non ripresi a scrivere un racconto dopo i tre pubblicati su «El Espectador», finché Eduardo Zalamea non mi localizzò all’inizio di luglio e mi chiese con la mediazione del maestro Zabala che gliene inviassi un altro per il suo giornale dopo sei mesi di silenzio. Venendo la richiesta da chi veniva, ripresi in considerazione idee appena abbozzate fra le mie carte e scrissi L’altra costola della morte, che fu pochissimo più dei precedenti. Ricordo bene che non avevo un argomento previo e che lo inventavo a mano a mano che lo scrivevo. Fu pubblicato il 25 luglio 1948 sul supplemento «Fin de Semana», come gli altri, e non scrissi più racconti fino all’anno dopo, quando la mia vita era ormai diversa. Non avevo che da rinunciare alle poche lezioni di Legge che seguivo a lunghi intervalli, ma erano il mio unico alibi per mantenere vivo il sogno dei miei genitori.

Allora neppure io sospettavo che molto presto sarei diventato uno studente migliore che mai nella biblioteca di Gustavo Ibarra Merlano, un amico nuovo che Zabala e Rojas Herazo mi avevano presentato con grande entusiasmo. Era appena tornato da Bogotá con una laurea della Normale superiore e si era subito unito ai nostri incontri a «El Universal» e alle discussioni dell’alba sul Paseo de los Mártires. Fra la loquela vulcanica di Héctor e lo scetticismo creativo di Zabala, Gustavo introdusse il rigore sistematico di cui avevano bisogno le mie idee improvvisate e disperse, come la leggerezza del mio cuore. E tutto questo mescolato a una grande tenerezza e a un carattere di ferro.

Fin dal giorno dopo mi invitò a casa dei suoi genitori sulla spiaggia di Marbella, con il mare immenso a mo’ di retrocortile, e una biblioteca su una parete di dodici metri, nuova e ordinata, dove teneva solo i libri che occorreva leggere per vivere senza rimorsi. Aveva edizioni dei classici greci, latini e spagnoli così ben conservate che non sembravano lette, ma i margini delle pagine erano scarabocchiati con note accorte, alcune in latino. Gustavo le pronunciava pure ad alta voce, e pronunciandole arrossiva fino alla radice dei capelli e lui stesso cercava di abbassarne il tono con un umorismo corrosivo. Un amico mi aveva detto di lui prima che lo conoscessi: «Quel tipo è un prete». Ben presto capii perché era facile crederlo, anche se dopo averlo conosciuto bene era quasi impossibile credere che non lo fosse.

Quella prima volta parlammo senza tregua fino all’alba e appresi che le sue letture erano lunghe e varie, ma sorrette dalla conoscenza approfondita degli intellettuali cattolici del momento, di cui io non avevo mai sentito parlare. Sapeva tutto quello che bisognava sapere sulla poesia, ma in particolare sui classici greci e latini che leggeva nelle loro versioni originali. Aveva idee bene informate sugli amici comuni e mi fornì dati validi per affezionarmi a loro di più. Mi confermò pure l’importanza di conoscere i tre giornalisti di Barranquilla – Cepeda, Vargas e Fuenmayor – di cui tanto mi avevano parlato Rojas Herazo e il maestro Zabala. Mi colpì che oltre a tanti pregi intellettuali e civici nuotasse come un campione olimpico, con un corpo fatto e allenato per esserlo. A preoccuparlo in me fu soprattutto il mio disdegno per i classici greci e latini, che mi sembravano noiosi e inutili, tranne l’Odissea, che avevo letto e riletto a pezzi più volte al liceo. Sicché prima che ci lasciassimo scelse nella biblioteca un libro rilegato in pelle e me lo diede con una certa solennità. «Potrai diventare un buon scrittore» mi disse «ma non sarai mai ottimo se non conosci i classici greci.» Il libro erano le opere complete di Sofocle. Da quell’istante Gustavo fu una delle persone decisive nella mia vita, perché fin dalla prima lettura Edipo re mi si rivelò come l’opera perfetta.

Fu una nottata storica per me, in quanto scoprii al contempo Gustavo Ibarra e Sofocle, e perché qualche ora dopo avrei potuto morire di mala morte nella camera della mia innamorata segreta al Cigno. Ricordo come se fosse stato ieri quando un suo vecchio moroso che credeva morto da oltre un anno buttò giù a calci la porta della stanza, gridando improperi da energumeno. Subito riconobbi in lui un buon compagno delle elementari di Aracataca che tornava furibondo a prendere possesso del suo letto. Non ci vedevamo da allora ed ebbe il buon gusto di fare finta di niente quando mi riconobbe nudo e impegolato di terrore nel letto.

Quell’anno conobbi pure Ramiro e Óscar de la Espriella, parlatori interminabili, soprattutto in case proibite dalla morale cristiana. Entrambi vivevano con i genitori a Turbaco, a un’ora da Cartagena, e comparivano quasi ogni giorno nelle conversazioni fra scrittori e artisti della gelateria Americana. Ramiro, laureato alla Facoltà di Legge di Bogotá, era molto vicino al gruppo di «El Universal», dove pubblicava una rubrica. Suo padre era un avvocato duro e un liberale senza preconcetti, e la moglie era affascinante e senza peli sulla lingua. Entrambi avevano la buona abitudine di conversare con i giovani. Nelle nostre lunghe chiacchierate sotto i frondosi frassini di Turbaco, loro mi fornirono dati preziosissimi sulla guerra dei Mille Giorni, la fonte letteraria che in me si era prosciugata con la morte del nonno. Ne ho ancora la visione che mi sembra più affidabile del generale Rafael Uribe Uribe, con la sua presenza rispettabile e il calibro dei suoi polsi.

La migliore testimonianza su com’eravamo Ramiro e io in quei giorni la plasmò a olio su tela la pittrice Cecilia Porras, che si sentiva come a casa sua nelle baldorie fra uomini, in lotta contro i pregiudizi del suo ambiente sociale. Era un ritratto di noi due seduti a un tavolino del caffè dove ci incontravamo con lei e con altri amici due volte al giorno. Quando Ramiro e io fummo sul punto di intraprendere vie diverse ci fu una discussione accanita sul proprietario di quel quadro. Cecilia la risolse applicando la formula salomonica di tagliare la tela a metà con le cesoie per potare, e diede a ognuno la sua parte. La mia rimase anni dopo arrotolata nell’armadio di un appartamento a Caracas e non mi fu mai più possibile recuperarla.

Al contrario del resto del paese, la violenza ufficiale non aveva fatto scempi a Cartagena fino all’inizio di quell’anno, quando il nostro amico Carlos Alemán fu eletto deputato all’Assemblea Distrettuale dalla rispettabilissima circoscrizione di Mompox. Era un avvocato in erba e di carattere allegro, ma il diavolo gli giocò il brutto tiro che nella seduta inaugurale i due partiti opposti si affrontarono a colpi di pistola e una pallottola gli bruciacchiò per caso una spalla della giacca. Alemán deve aver pensato con buona ragione che un potere legislativo inutile come il nostro non meritava il sacrificio di una vita, e preferì spendere anticipatamente i suoi emolumenti in buona compagnia con i suoi amici.

Óscar de la Espriella, che era un bisboccione di buona lega, concordava con William Faulkner sul fatto che un bordello è la migliore residenza per uno scrittore, perché le mattine sono tranquille, ci sono feste tutte le notti e si è in buoni rapporti con la polizia. Il deputato Alemán l’aveva preso alla lettera e divenne il nostro anfitrione a tempo pieno. Una di quelle notti, però, mi pentii di aver creduto alle illusioni di Faulkner quando un vecchio magnaccia di Mary Reyes, la proprietaria della casa, buttò giù la porta a spallate per portarsi via il bambino di entrambi, sui cinque anni, che viveva con lei. Il suo magnaccia attuale, che era stato un ufficiale della polizia, uscì dalla camera da letto in mutande per difendere l’onore e i beni della casa con la sua pistola regolamentare, e l’altro lo accolse con una raffica di piombo che riecheggiò come una cannonata nella sala da ballo. L’ufficiale, spaventato, si nascose in camera sua. Quando uscii dalla mia seminudo, gli inquilini di passaggio contemplavano dalle loro camere il bambino che orinava in fondo al corridoio, mentre il papà lo pettinava con la mano sinistra e la pistola ancora fumante in quella destra. Nella casa si sentivano solo le contumelie di Mary che rimproverava l’ufficiale per la sua mancanza di coglioni.

In quegli stessi giorni entrò senza farsi annunciare negli uffici di «El Universal» un uomo gigantesco che si tolse la camicia con un gran senso teatrale e si mise a camminare nella sala della redazione per stupirci con la sua schiena e le sue braccia lastricate di cicatrici che sembravano di cemento. Colpito dallo stupore che riuscì a infondere in noi, ci spiegò lo scempio del suo corpo con una voce rimbombante:

«Graffi di leoni!»

Era Emilio Razzore, appena arrivato a Cartagena per preparare la stagione del suo famoso circo familiare, uno dei maggiori del mondo. Era partito dall’Avana la settimana prima con il transatlantico Euskera, che batteva bandiera spagnola, ed era atteso per il sabato successivo. Razzore si vantava di essere nel circo da prima ancora della nascita, e non c’era bisogno di vederlo esibirsi per capire che era un domatore di grandi fiere. Le chiamava con i loro nomi propri come i membri della sua famiglia e loro lo ricambiavano trattandolo in modo al contempo appassionato e brutale. Entrava disarmato nelle gabbie delle tigri e dei leoni per dar da mangiare con le sue mani. Il suo orso preferito gli aveva dato un abbraccio d’amore che l’aveva spedito all’ospedale per una primavera. Tuttavia, l’attrazione maggiore non era lui né il mangiatore di fuoco, ma l’uomo che si svitava la testa e camminava intorno alla pista tenendosela sotto un braccio. Di Emilio Razzore era memorabile soprattutto il suo modo d’essere indistruttibile. Dopo averlo ascoltato a bocca aperta per lunghe ore, pubblicai su «El Universal» un editoriale in cui mi azzardai a scrivere che era “l’uomo più terribilmente umano che io abbia conosciuto”. Non erano stati molti ai miei ventun anni, ma credo che la frase continui a essere valida. Mangiavamo alla Grotta con la gente del giornale, e anche lì si fece amare con le sue storie di fiere umanizzate dall’amore. Una di quelle notti, dopo averci pensato a lungo, osai chiedergli che mi portasse via con il suo circo, anche solo per lavare le gabbie quando non ci fossero le tigri. Lui non mi disse nulla, ma mi strinse la mano in silenzio. Io la presi come un patto, e considerai la cosa fatta. L’unico cui lo confessai fu Salvador Mesa Nicholls, un poeta dell’Antioquia che aveva un amore folle per il tendone, ed era appena arrivato a Cartagena come socio locale dei Razzore. Anche lui se n’era andato con un circo quando aveva la mia età, e mi avvertì che chi vede piangere i pagliacci per la prima volta decide di partire con loro, ma il giorno dopo se ne pente. Comunque, non solo approvò la decisione ma convinse pure il domatore, a patto che conservassimo un segreto assoluto per evitare che la cosa diventasse troppo presto di dominio pubblico. L’attesa del circo, che fino ad allora era stata emozionante, divenne per me irresistibile.

L’Euskera non arrivò nella data prevista ed era stato impossibile contattarlo. In capo a un’altra settimana, al giornale decidemmo un servizio di radioamatori per chiarire le condizioni del tempo nei Caraibi, ma non riuscimmo a evitare che alla radio e sulla stampa si cominciasse ad avanzare la possibilità di una notizia spaventosa. In quei giorni intensi Mesa Nicholls e io rimanemmo con Emilio Razzore senza mangiare né dormire nella sua camera d’albergo. Lo vedemmo crollare, perdere volume e grandezza nell’attesa interminabile, finché il cuore non confermò a noi tutti che l’Euskera non sarebbe mai arrivato da nessuna parte, né si sarebbe mai avuta notizia del suo destino. Il domatore rimase ancora una giornata chiuso da solo nella sua camera, e quello successivo venne a trovarmi al giornale per dirmi che cent’anni di battaglie quotidiane non potevano scomparire in un giorno. Sicché se ne partiva per Miami senza un soldo e senza famiglia, per ricostruire pezzo per pezzo, e a partire da niente, il circo annegato. Mi impressionò tanto la sua risolutezza al di là della tragedia, che lo accompagnai a Barranquilla dove avrebbe preso l’aereo per la Florida. Prima di salire a bordo mi ringraziò per la mia decisione di entrare a far parte del suo circo e mi promise che mi avrebbe fatto cercare non appena avesse avuto fra le mani qualcosa di concreto. Si congedò con un abbraccio così lacerante che capii con l’anima l’amore dei suoi leoni. Non si seppe mai più nulla di lui.

L’aereo per Miami partì alle dieci del mattino dello stesso giorno in cui comparve il mio pezzo su Razzore: il 16 settembre 1948. Stavo per tornare a Cartagena quello stesso pomeriggio quando mi venne in mente di passare da «El Nacional», un quotidiano della sera su cui scrivevano Germán Vargas e Álvaro Cepeda, gli amici dei miei amici di Cartagena. La redazione si trovava in un edificio fatiscente della città vecchia, con una lunga sala vuota divisa da una ringhiera di legno. In fondo alla sala, un uomo giovane e biondo, in maniche di camicia, scriveva su una macchina i cui tasti esplodevano come petardi nello spazio deserto. Mi avvicinai quasi in punta di piedi, intimidito dagli scricchiolii lugubri del pavimento, e aspettai davanti alla ringhiera finché lui non si girò a guardarmi, e mi disse bruscamente, con una voce armoniosa da annunciatore professionista:

«Cosa succede?»

Aveva i capelli corti, gli zigomi duri e certi occhi diafani e intensi che mi sembrarono contrariati dall’interruzione. Gli risposi come mi riuscì, lettera per lettera:

«Sono García Márquez.»

Mi bastò sentire il mio nome pronunciato con una simile convinzione per rendermi conto che Germán Vargas poteva benissimo non sapere chi ero, anche se a Cartagena mi avevano detto che parlavano molto di me con gli amici di Barranquilla dopo aver letto il mio primo racconto. «El Nacional» aveva pubblicato un pezzo entusiasta di Germán Vargas, che non era di bocca buona quanto a novità letterarie. Ma l’entusiasmo con cui mi accolse mi confermò che sapeva benissimo chi ero e che il suo affetto era più reale di quanto mi avessero detto. Qualche ora dopo conobbi Alfonso Fuenmayor e Álvaro Cepeda nella libreria Mondo, e prendemmo l’aperitivo al caffè Colombia. Don Ramón Vinyes, il saggio catalano che tanto desideravo e tanto mi atterriva conoscere, quel pomeriggio non si era presentato al solito incontro delle sei. Quando uscimmo dal caffè Colombia, con cinque bicchieri a testa, era come se fossimo amici da anni.

Fu una lunga notte di innocenza. Álvaro, autista geniale e più sicuro e più prudente quanto più beveva, seguì l’itinerario delle occasioni memorabili. Ai Mandorli, un’osteria all’aria aperta sotto gli alberi fioriti dove accoglievano solo i tifosi del Deportivo Junior, parecchi clienti organizzarono una protesta che per poco non finì con una scazzottata. Cercai di calmarli, finché Alfonso non mi consigliò di non intervenire perché in quel posto di professori del calcio i pacifisti se la sbrogliavano malissimo. Sicché passai la notte in una città che per me non fu la stessa di mai, né quella dei miei genitori nei loro primi anni, né quella della povertà con mia madre, né quella della scuola San José, bensì la mia prima Barranquilla da adulto nel paradiso dei suoi bordelli.

Il quartiere cinese erano quattro isolati di musiche metalliche che facevano tremare la terra, ma avevano pure anfratti domestici che sfioravano la carità. C’erano bordelli familiari i cui proprietari, con mogli e figli, servivano i clienti veterani secondo le norme della morale cristiana e l’urbanità di don Manuel Antonio Carreño. Alcuni facevano da garanti affinché le apprendiste andassero a letto a credito con clienti conosciuti. Martina Alvarado, la più antica, aveva una porta furtiva e tariffe umanitarie per chierici pentiti. Non c’era consumo truccato, né conti gonfiati, né sorprese veneree. Le ultime tenutarie francesi della Prima guerra mondiale, appassite e tristi, si sedevano fin dall’imbrunire sulla soglia delle loro case sotto le stigmate dei lampioni rossi, in attesa di una terza generazione che credesse ancora nei loro preservativi afrodisiaci. C’erano case con salotti freschi per conciliaboli da cospiratori e fughe di sindaci lontani dalle mogli.

Il Gatto Nero, con una pista da ballo sotto un pergolato di astromelie, fu il paradiso della marina mercantile da quando l’aveva comprato una guajira ossigenata che cantava in inglese e vendeva sottobanco pomate allucinogene per signore e per signori. Una notte storica nei suoi annali, Álvaro Cepeda e Quique Scopell non tollerarono il razzismo di una dozzina di marinai norvegesi che facevano la coda davanti alla camera dell’unica negra, mentre sedici bianche russavano sedute in cortile, e li sfidarono a pugni. Loro due contro dodici li misero in fuga a suon di cazzotti, con l’aiuto delle bianche che si svegliarono felici e intervennero armate di seggiole. Alla fine, in una riparazione delirante, incoronarono la negra nuda come regina della Norvegia.

Fuori dal quartiere cinese c’erano altre case legali o clandestine, e tutte in buoni rapporti con la polizia. Una di queste era un cortile con grandi mandorli fioriti in un quartiere di poveri, con un tendone della mala morte e una stanza con due brande in affitto. La sua merce erano le bambine anemiche dei dintorni che si guadagnavano un peso a botta con gli ubriachi persi. Álvaro Cepeda scoprì il posto per caso, una sera in cui si smarrì nell’acquazzone di ottobre e dovette rifugiarsi sotto il tendone. La padrona gli offrì una birra e gli offrì due bambine invece che una con diritto a fare il bis finché non avesse smesso di piovere. Álvaro continuò a invitare amici lì a prendere una birra ghiacciata sotto i mandorli, non perché se la spassassero con le bambine ma perché insegnassero loro a leggere. Alle più diligenti procurò borse di studio che permettessero di studiare nelle scuole ufficiali. Una di loro divenne infermiera dell’Ospedale della Carità per anni e anni. Alla padrona regalò la casa, e quell’asilo della mala morte ebbe fino alla sua estinzione naturale un nome tentatore: “La casa delle ragazzine che lo fanno per fame”.

Per la mia prima notte storica a Barranquilla scelsero solo la casa della Negra Eufemia, con un enorme cortile di cemento per ballare, fra tamarindi frondosi, con trabacche da cinque pesos all’ora, e tavolini e seggiole dai colori vivaci, dove passeggiavano a loro agio i pivieri. Eufemia in persona, monumentale e quasi centenaria, riceveva e selezionava i clienti all’entrata, dietro una scrivania da ufficio il cui unico utensile – inspiegabile – era un enorme chiodo da chiesa. Le ragazze le sceglieva lei stessa per la loro buona educazione e per le loro grazie naturali. Ognuna si metteva il nome che più le piaceva e alcune preferivano quelli trovati da Álvaro Cepeda con la sua passione per il cinema messicano: “Irma la Malvagia”, “Susana la Perversa”, “Vergine di Mezzanotte”.

Sembrava impossibile chiacchierare con un’orchestra caraibica che suonava in estasi a pieni polmoni i nuovi ritmi di mambo di Pérez Prado e un complesso specializzato in boleri per far dimenticare brutti ricordi, ma noi tutti eravamo esperti nel chiacchierare gridando. L’argomento della nottata l’avevano proposto Germán e Álvaro, sugli elementi comuni del romanzo e del reportage. Erano entusiasti di quello che John Hersey aveva appena pubblicato sulla bomba atomica di Hiroshima, ma io preferivo come testimonianza giornalistica diretta il Diario dell’anno della peste, finché gli altri non mi misero in chiaro che Daniel Defoe non aveva più di cinque o sei anni ai tempi della peste di Londra che gli sarebbe servita da modello.

Seguendo questa via arrivammo all’enigma di Il conte di Montecristo, che tutt’e tre trascinavano da discussioni precedenti, alla stregua di un indovinello per romanzieri. Com’era riuscito Alexandre Dumas a far sì che un marinaio innocente, povero e ingiustamente incarcerato, potesse fuggire da una fortezza inaccessibile trasformandosi nell’uomo più ricco e colto del suo tempo? La risposta fu che quando Edmond Dantès entrò nel castello d’If aveva già costruito dentro di sé l’abate Faria, il quale gli avrebbe trasmesso in prigione l’essenza della sua saggezza e gli avrebbe rivelato quanto gli mancava di sapere per una nuova vita: il luogo dov’era nascosto un tesoro fantastico e il modo per fuggire. Ossia, Dumas aveva costruito due personaggi diversi e poi aveva scambiato i loro destini. Sicché al momento della fuga Dantès era già un personaggio dentro l’altro, e l’unica cosa che rimaneva di lui era il suo corpo di buon nuotatore.

Germán aveva chiaro in mente che Dumas aveva voluto che il suo personaggio fosse un marinaio affinché potesse uscire dal sacco di tela e nuotare fino alla costa dopo che l’avevano gettato in mare. Alfonso, l’erudito e di certo il più mordace, replicò che non era una garanzia di niente perché il sessanta per cento dell’equipaggio di Cristoforo Colombo non sapeva nuotare. Nulla gli piaceva tanto come spargere questi granelli di pepe per togliere allo stufato qualsiasi gusto di pedanteria. Entusiasmato dal gioco degli enigmi letterari, cominciai a bere a dismisura il rum di canna con limone che gli altri assaporavano a sorsi. La conclusione di tutt’e tre fu che il talento e l’uso dei dati di Dumas in quel romanzo, e forse in tutta la sua opera, erano più da reporter che da romanziere.

Alla fine mi fu chiaro che i miei nuovi amici leggevano con profitto Quevedo e James Joyce come Conan Doyle. Avevano un senso dell’umorismo inesauribile ed erano capaci di passare notti intere intonando boleri e canti vallenatos o recitando senza esitazioni la miglior poesia del Secolo d’Oro. Per sentieri diversi arrivammo al comune accordo che la vetta della poesia universale sono le strofe di don Jorge Manrique in morte del padre. La notte si trasformò in una ricreazione deliziosa, che mise fine agli ultimi pregiudizi che avrebbero potuto disturbare la mia amicizia con quel gruppo di malati delle lettere. Mi sentivo così bene con loro e con quel rum incredibile, che mi tolsi la camicia di forza della timidezza. “Susana la Perversa”, che nel marzo di quell’anno aveva vinto il concorso di ballo a carnevale, mi invitò a ballare. Allontanarono galline e pivieri dalla pista e si misero intorno a noi per incoraggiarci.

Ballammo la serie del Mambo numero 5 di Dámaso Pérez Prado. Con il fiato che mi rimase presi le maracas sulla pedana del complesso tropicale e cantai di seguito più di un’ora di boleri di Daniel Santos, di Agustín Lara e di Bienvenido Granda. A mano a mano che cantavo mi sentivo redento da una brezza di liberazione. Non seppi mai se quei tre fossero orgogliosi o imbarazzati a causa mia, ma quando tornai al tavolo mi accolsero come uno dei loro.

Álvaro aveva iniziato allora un argomento su cui gli altri non gli controbattevano mai: il cinema. Per me fu una scoperta provvidenziale, perché avevo sempre considerato il cinema come un’arte sussidiaria che si nutriva più del teatro che del romanzo. Álvaro, invece, lo vedeva un po’ come io vedevo la musica: un’arte utile per tutte le altre.

Ormai all’alba, un po’ addormentato e un po’ ubriaco, Álvaro guidava come un tassista provetto l’automobile zeppa di libri recenti e di supplementi letterari del «New York Times». Lasciammo Germán e Alfonso a casa loro e Álvaro insistette per portarmi da lui affinché vedessi la sua biblioteca, che copriva tre pareti della camera da letto fino al soffitto. Li additò con l’indice facendo un giro completo, e mi disse:

«Questi sono gli unici scrittori del mondo che sanno scrivere.»

Io ero in uno stato di eccitazione che mi fece dimenticare la fame e il sonno del giorno prima. L’alcol era sempre vivo dentro di me come uno stato di grazia. Álvaro mi mostrò i suoi libri preferiti, in spagnolo e in inglese, e parlava di ognuno con la voce arrugginita, i capelli scompigliati e gli occhi più dementi che mai. Parlò di Azorín e di Saroyan – due suoi deboli – e di altri le cui vite pubbliche e private conosceva per filo e per segno. Fu la prima volta che sentii il nome di Virginia Woolf, che lui chiamava la vecchia Woolf, come il vecchio Faulkner. La mia ignoranza lo esaltò fino al delirio. Prese la pila dei libri in cui mi aveva indicato i suoi preferiti e me li mise fra le mani.

«Non fare lo stronzo» mi disse «prendili tutti e quando avrai finito di leggerli andremo a cercarli ovunque.»

Per me erano una fortuna inconcepibile che non mi azzardai a mettere in rischio dal momento che non avevo neppure un tugurio miserabile dove tenerli. Infine si limitò a regalarmi la versione in spagnolo di La signora Dalloway di Virginia Woolf, con il pronostico inappellabile che l’avrei imparato a memoria.

Stava albeggiando. Volevo tornare a Cartagena con il primo autobus, ma Álvaro insistette perché dormissi nel letto gemello del suo.

«Cazzo!» disse con l’ultimo respiro. «Fermati a vivere qui e domani ti troviamo un lavoro coi fiocchi.»

Mi distesi vestito sul letto, e solo allora sentii nel corpo l’immenso peso di essere vivo. Lui fece lo stesso e dormimmo fino alle undici del mattino, quando sua madre, l’adorata e temuta Sara Samudio, bussò all’uscio con il pugno chiuso, credendo che l’unico figlio della sua vita fosse morto.

«Non darle retta, maestro» mi disse Álvaro dal fondo del sonno. «Tutte le mattine dice la stessa cosa, e il fatto grave è che un bel giorno sarà vero.»

Tornai a Cartagena con l’aria di uno che avesse scoperto il mondo. Le chiacchierate a casa dei Franco Múnera furono a base non più di poesie del Secolo d’Oro e delle Venti poesie d’amore di Neruda, ma di paragrafi di La signora Dalloway e dei deliri del suo personaggio lacerato, Septimus Warren Smith. Divenni un altro, ansioso e difficile, al punto che a Héctor e al maestro Zabala sembravo un imitatore consapevole di Álvaro Cepeda. Gustavo Ibarra, con la sua visione compassionevole del cuore caraibico, si divertì al mio racconto della notte a Barranquilla, mentre mi somministrava cucchiaiate sempre più grosse di poeti greci, con la mai ben spiegata eccezione di Euripide. Mi fece scoprire Melville: la prodezza letteraria di Moby Dick, il sermone su Jonas per i balenieri di tutti i mari del mondo sotto l’immensa volta costruita con costole di balena. Mi prestò La casa dalle sette torri, di Nathaniel Hawthorne, che mi segnò per tutta la vita. Sbozzammo insieme una teoria sulla fatalità della nostalgia nell’erranza di Ulisse Odisseo, in cui ci smarrimmo senza trovare via d’uscita. Mezzo secolo dopo la trovai risolta in un testo magistrale di Milan Kundera.

In quella stessa epoca ci fu il mio unico incontro con il grande poeta Luis Carlos López, più conosciuto come il Guercio, che aveva inventato una maniera comoda di essere morto senza morire, e sepolto senza sepoltura, e soprattutto senza discorsi. Abitava nel centro storico in una casa storica di Calle del Tablón, dov’era nato e dove morì senza disturbare nessuno. Vedeva pochissimi amici di sempre, e la sua fama di grande poeta continuava a crescere mentre era ancora vivo come crescono solo le glorie postume.

Lo chiamavano guercio senza che lo fosse, perché in realtà era strabico, ma in un modo diverso, e molto difficile da notare. Suo fratello, Domingo López Escauriaza, il direttore di «El Universal», aveva sempre la stessa risposta per chi gli domandava di lui:

«È lì.»

Sembrava una risposta evasiva, ma si trattava dell’unica verità: era lì. Più vivo di chiunque, ma anche con il vantaggio di esserlo senza che lo si sapesse troppo, rendendosi conto di tutto e risoluto a seppellirsi da solo. Si parlava di lui come di una reliquia storica, e ancora di più fra quanti non l’avevano letto. Al punto che da quando ero arrivato a Cartagena non avevo cercato di vederlo, per rispetto nei confronti dei suoi privilegi di uomo invisibile. Allora aveva sessantotto anni, e nessuno metteva in dubbio che era un grande poeta della lingua di tutti i tempi, sebbene non fossimo in molti a sapere chi era né perché, né era facile crederci per via della strana qualità della sua opera.

Zabala, Rojas Herazo, Gustavo Ibarra, noi tutti conoscevamo sue poesie a memoria, e le citavamo sempre senza pensarci, in maniera spontanea e sicura, per illuminare le nostre conversazioni. Non era scontroso ma timido. Ancora oggi non ricordo di aver visto una sua fotografia, se mai ce ne furono, ma solo qualche caricatura facile che veniva pubblicata al suo posto. Credo che a forza di non vederlo avessimo dimenticato che era sempre vivo, fino a una sera in cui mentre terminavo il mio pezzo del giorno sentii l’esclamazione strozzata di Zabala:

«Cazzo, il Guercio!»

Alzai lo sguardo dalla macchina, e vidi l’uomo più strano che avrei mai visto. Molto più basso di quanto immaginassimo, con i capelli così bianchi che sembravano azzurri e così ribelli che sembravano imprestati. Vestiva come in casa, con pantaloni di tela scura e una camicia a righe, la mano destra all’altezza della spalla, e un bocchino d’argento con una sigaretta che non fumava e la cui cenere cadeva da sola quando non poteva più reggersi.

Attraversò la sala fino all’ufficio del fratello e ne uscì due ore dopo, quando rimanevamo solo Zabala e io nella redazione, in attesa di poterlo salutare. Morì circa due anni dopo, e la commozione che suscitò tra i suoi fedeli fu come se fosse resuscitato, e non morto.

Nello stesso periodo lo scrittore spagnolo Dámaso Alonso e sua moglie, la romanziera Eulalia Galvarriato, tennero due conferenze nell’aula magna dell’università. Il maestro Zabala, cui non piaceva turbare la vita altrui, superò per una volta la sua discrezione e chiese che lo ricevessero. Lo accompagnammo Gustavo Ibarra, Héctor Rojas Herazo e io, e ci fu un’intesa immediata con loro. Rimanemmo per circa quattro ore in una sala privata dell’Hotel del Caribe scambiando impressioni sul loro primo viaggio in America Latina e sui nostri sogni di nuovi scrittori. Héctor offrì un libro di poesie e io una fotocopia di un racconto pubblicato su «El Espectador». Ci interessò a entrambi la franchezza delle loro riserve, perché le usavano come conferme oblique delle lodi.

In ottobre trovai a «El Universal» un messaggio di Gonzalo Mallarino in cui diceva che mi aspettava insieme al poeta Álvaro Mutis a Villa Tulipán, una pensione indimenticabile nella stazione balneare di Bocagrande, a pochi metri dal luogo dov’era atterrato Charles Lindbergh una ventina d’anni prima. Gonzalo, mio complice di spettacoli privati all’università, esercitava già la professione di avvocato, nel suo ruolo di capo delle relazioni pubbliche di LANSA, una compagnia aerea creola fondata dai suoi stessi piloti.

Poesie di Mutis e racconti miei erano stati pubblicati insieme almeno una volta sul supplemento «Fin de Semana», e ci bastò conoscerci perché iniziassimo una conversazione che non è ancora finita, in innumerevoli luoghi del mondo, per oltre mezzo secolo. Prima i nostri figli e poi i nostri nipoti ci hanno domandato spesso di cosa parliamo con una passione così accanita, e abbiamo risposto la verità: parliamo sempre delle stesse cose.

Le mie amicizie miracolose con adulti delle arti e delle lettere mi diedero il coraggio per sopravvivere in quegli anni che ricordo ancora come i più incerti della mia vita. Il 10 luglio avevo pubblicato l’ultimo “Punto a capo” su «El Universal», dopo tre mesi ardui in cui non ero riuscito a superare le mie barriere di principiante, sicché preferii interrompere con l’unico merito di sottrarmi per tempo. Mi rifugiai nell’impunità dei pezzi di opinione della prima pagina, senza firma, se non quando dovevano avere un tocco personale. Mi ci adattai per semplice routine fino al settembre del 1950, con un pezzo presuntuoso su Edgar Allan Poe, il cui unico merito fu quello di essere il peggiore.

Durante tutto quell’anno avevo insistito che il maestro Zabala mi insegnasse i segreti per scrivere reportage. Con la sua indole misteriosa, non si decise mai, ma mi ritrovai in scombuglio davanti all’enigma di una ragazzina di dodici anni sepolta nel convento di Santa Clara, i cui capelli erano cresciuti dopo la morte per oltre ventidue metri in due secoli. Non avrei mai immaginato che sarei tornato sull’argomento quarant’anni dopo per raccontarlo in un romanzo romantico con implicazioni sinistre. Ma non furono i miei tempi migliori per pensare. Facevo le bizze per qualsiasi motivo, sparivo dal lavoro senza spiegazioni finché il maestro Zabala non mandava qualcuno ad ammansirmi. Passai agli esami del secondo anno di Legge per un colpo di fortuna, e mi fu possibile iscrivermi al terzo, ma circolò la voce che ci fossi riuscito grazie a pressioni politiche del giornale. Il direttore dovette intervenire quando mi fermarono all’uscita del cinema con una falsa chiamata alle armi secondo cui ero in lista per essere arruolato in missioni punitive di ordine pubblico.

Nella mia confusione politica di quei giorni non mi resi neppure conto che lo stato d’assedio si era di nuovo imposto nel paese a causa del deterioramento dell’ordine pubblico. La censura della stampa fu molto più severa. L’atmosfera divenne rarefatta come nei tempi peggiori, e una polizia politica rinforzata da delinquenti comuni seminava il panico nelle campagne. La violenza costrinse i liberali ad abbandonare terre e case. Il loro eventuale candidato, Darío Echandía, professor di professori specializzato in Diritto Civile, scettico di nascita e lettore indefesso di greci e latini, si pronunciò a favore dell’astensione liberale. La strada rimase sgombra per l’elezione di Laureano Gómez, che sembrava dirigere il governo con fili invisibili da New York.

Non avevo allora una consapevolezza chiara che quei danni erano non solo infamie dei conservatori ma anche sintomi di brutti cambiamenti nelle nostre vite, fino a una delle tante notti alla Grotta, quando mi venne da far sfoggio del mio libero arbitrio che mi autorizzava a quello che più mi andava a genio. Il maestro Zabala, che stava mangiando una minestra, rimase con il cucchiaio in aria, guardandomi da sopra gli occhiali, e mi interruppe bruscamente:

«Dimmi una cosetta, Gabriel: fra le tante stronzate che combini ti sei reso conto che questo paese sta toccando la sua fine?»

La domanda centrò il bersaglio. Ubriaco perso, all’alba mi distesi a dormire su una panchina del Paseo de los Mártires e un acquazzone biblico mi lasciò trasformato in una zuppa di ossa. Rimasi due settimane all’ospedale con una polmonite refrattaria ai primi antibiotici conosciuti, che avevano la brutta fama di determinare effetti collaterali temibili come l’impotenza precoce. Più scheletrico e pallido che di natura, i miei genitori mi chiamarono a Sucre affinché mi riprendessi dall’eccesso di lavoro – come dicevano nella loro lettera. Più lontano arrivò «El Universal», con un editoriale di commiato che mi consacrò come giornalista e scrittore dalle risorse magistrali, e in un altro pezzo come autore di un romanzo mai esistito e con un titolo che non era mio: Abbiamo già tagliato il fieno. Più strano che mai in un momento in cui non avevo intenzione di dedicarmi ancora alla finzione. Il fatto è che quel titolo tanto estraneo a me lo inventò Héctor Rojas Herazo mentre batteva a macchina, come uno dei tanti contributi di César Guerra Valdés, uno scrittore immaginario della più pura stirpe latinoamericana creato da lui per arricchire le nostre polemiche. Héctor aveva pubblicato su «El Universal» la notizia del suo arrivo a Cartagena e io gli avevo scritto un saluto nella mia rubrica “Punto a capo” con la speranza di togliere la polvere dalle coscienze addormentate di un’autentica narrativa continentale. Comunque sia, il romanzo inventato con il bel titolo di Héctor venne indicato anni dopo non so dove né perché in un saggio sui miei libri, come un’opera centrale della nuova letteratura.

L’atmosfera che trovai a Sucre fu molto propizia alle mie idee di quei giorni. Scrissi a Germán Vargas per chiedergli di mandarmi libri, molti libri, tutti quelli che fosse possibile, per intrattenermi a base di capolavori in una convalescenza prevista per sei mesi. Il paese era sotto un diluvio. Papà aveva rinunciato alla schiavitù della farmacia e si era costruito all’entrata del paese una casa spaziosa per noi figli, che eravamo undici dopo la nascita di Eligio, sedici mesi prima. Una casa grande e in piena luce, con una veranda per le visite davanti al fiume dalle acque scure e finestre aperte alle brezze di gennaio. Aveva sei camere da letto ben ventilate con un letto per ognuno, e non a due a due, come prima, e ganci per appendere amache a diversi livelli persino nei corridoi. Il cortile senza illuminazione si estendeva fino alla boscaglia, con alberi da frutto di dominio pubblico e animali nostri e altrui che passeggiavano nelle alcove. Mia madre, che rimpiangeva i cortili della sua infanzia a Barrancas e ad Aracataca, trasformò la casa nuova in una fattoria, con galline e oche senza recinto e maiali libertini che entravano nella cucina per mangiarsi il cibo del pranzo. Era ancora possibile godersi le estati dormendo a finestre aperte, con il rumore dell’asma delle galline sui trespoli e l’odore dei frutti maturi del guanábano che cadevano dagli alberi all’alba con un colpo istantaneo e denso. «Risuonano come se fossero bambini» diceva mia madre. Mio padre ridusse le visite al mattino per quei pochi fedeli dell’omeopatia, continuò a leggere qualsiasi pezzo di carta stampata gli passasse vicino, disteso su un’amaca che appendeva fra due alberi, e contrasse la febbre oziosa del biliardo contro le tristezze dell’imbrunire. Aveva pure abbandonato i suoi vestiti di lino bianco con la cravatta, e girava per le strade come non l’avevo mai visto, con camicie giovanili a maniche corte.

La nonna Tranquilina Iguarán era morta due mesi prima, cieca e demente, e nella lucidità dell’agonia aveva seguitato a predicare i segreti della famiglia con la sua voce radiosa e la sua dizione perfetta. Il suo argomento eterno fino all’ultimo respiro fu la pensione del nonno. Mio padre preparò il cadavere con aloe preservatrice e lo ricoprì di calce dentro la bara per una quieta putrefazione. Luisa Santiaga aveva sempre ammirato la passione di sua madre per le rose rosse e gliene fece un giardino in fondo al cortile affinché non mancassero mai sulla sua tomba. Finirono per fiorire con tanto splendore che non si aveva il tempo per rispondere a tutti i forestieri che arrivavano da lontano ansiosi di sapere se tutte quelle rose rossicanti erano cosa di Dio o del diavolo.

Quei cambiamenti nella mia vita e nel mio modo d’essere trovavano corrispondenza nei cambiamenti della mia casa. A ogni visita mi sembrava diversa per le innovazioni e le variazioni introdotte dai miei genitori, per i fratelli che nascevano e crescevano così somiglianti fra loro che era più facile confonderli che riconoscerli. Jaime, che aveva già dieci anni, era stato quello che più aveva tardato ad allontanarsi dal seno materno a causa della sua condizione di settimino, e mia madre non aveva ancora finito di allattarlo che era già nato Hernando (Nanchi). Tre anni dopo era nato Alfredo Ricardo (Cuqui) e un anno e mezzo dopo Eligio (Yiyo), l’ultimo, che in quelle vacanze cominciava a scoprire il miracolo di girare a gattoni.

Inoltre, c’erano i figli di mio padre prima e dopo il matrimonio: Carmen Rosa, a San Marcos, e Abelardo, che facevano soggiorni a Sucre: Germaine Hanai (Emi), che mia madre aveva preso come sua con il beneplacito dei fratelli e, infine, Antonio María Claret (Toño), allevato da sua madre a Sincé, e che veniva spesso a trovarci. Quindici in tutto, che mangiavano per trenta quando ce n’era e seduti dove si poteva.

I racconti che le mie sorelle maggiori hanno fatto di quegli anni danno un’idea precisa di com’era la casa in cui non si era finito di crescere un figlio che già ne nasceva un altro. Mia madre stessa era consapevole della sua colpa, e pregava le figlie affinché si occupassero dei più piccoli. Margot moriva di spavento quando veniva informata che era di nuovo incinta, perché sapeva che lei da sola non avrebbe avuto il tempo di allevarli tutti. Sicché, prima di andarsene al collegio di Montería, supplicò mia madre con assoluta serietà che il fratello successivo fosse l’ultimo. Mia madre glielo promise, come sempre, anche solo per compiacerla, perché era sicura che Dio, con la sua saggezza infinita, avrebbe risolto il problema nel miglior modo possibile.

I pasti a tavola erano disastrosi, in quanto non c’era verso di riunirli tutti. Mia madre e le sorelle maggiori servivano a mano a mano che gli altri arrivavano, ma non era strano che al dolce spuntasse un ritardatario che reclamava la sua razione. Nel corso della notte passavano nel letto dei miei genitori i più piccoli che non riuscivano ad addormentarsi per il freddo o il caldo, per il mal di denti o la paura dei morti, per l’amore verso i genitori o la gelosia degli altri, e all’alba erano tutti ammucchiati nel letto matrimoniale. Se dopo Eligio non ne nacquero altri fu grazie a Margot, che impose la sua autorità allorché fece ritorno dal collegio e mia madre mantenne la promessa di non avere più figli.

Per sventura, la realtà aveva avuto il tempo di frapporre altri piani nel caso delle due sorelle maggiori, che rimasero nubili per tutta la vita. Aida, come nei romanzi rosa, entrò in un convento di clausura, da cui uscì ventidue anni dopo con tutti i crismi della legge, quando non poteva più trovare lo stesso Rafael né altri per lei disponibili. Margot, con il suo carattere rigido, perse il suo per un errore di entrambi. Malgrado precedenti così tristi, Rita si sposò con il primo uomo che le piacque, e fu felice con cinque figli e nove nipoti. Le altre due – Ligia e Emi – si sposarono con chi vollero quando i genitori si erano ormai stancati di battersi contro la vita reale.

Le angustie della famiglia sembravano far parte della crisi che viveva il paese in seguito all’incertezza economica e al dissanguamento a causa della violenza politica, che era arrivata a Sucre come una stagione sinistra, ed era entrata in casa in punta di piedi, ma con passo risoluto. Allora ci eravamo già mangiati le scarse provviste, ed eravamo poveri come lo eravamo stati a Barranquilla prima del viaggio a Sucre. Ma mia madre non batteva ciglio, a causa della sua certezza già provata secondo cui ogni bambino nasce protetto dal suo angelo custode. Queste erano le condizioni della casa quando arrivai da Cartagena, convalescente della polmonite, ma la famiglia si era messa d’accordo per tempo affinché non me ne accorgessi.

La voce che più circolava in paese era quella di una presunta relazione del nostro amico Cayetano Gentile con la maestra di scuola del vicino casale di Chaparral, una bella ragazza di una classe diversa dalla sua, ma molto seria e di una famiglia rispettabile. Non era strano: Cayetano era sempre stato un donnaiolo, non solo a Sucre ma anche a Cartagena, dove aveva fatto il liceo e iniziato a studiare Medicina. Ma a Sucre non gli avevano mai conosciuto una fidanzata in pianta stabile, né una dama preferita ai balli.

Una sera lo vedemmo arrivare dal podere sul suo cavallo migliore, la maestra sulla sella con le redini in pugno, e lui dietro, stretto alla sua vita. Ci stupì non solo il grado di familiarità che avevano, ma anche l’audacia di entrambi nell’entrare dal viale della piazza centrale, nelle ore di maggiore affollamento e in una città tanto dedita al pettegolezzo. Cayetano spiegò a chi volle starlo a sentire che l’aveva trovata sulla soglia della sua scuola in attesa di qualcuno che le facesse la carità di portarla in città a quell’ora tarda. Gli dissi per scherzo che uno di quei giorni si sarebbe trovato all’alba una pasquinata affissa alla porta, e lui scrollò le spalle con un gesto molto suo e mi dispensò la sua battuta preferita:

«Con i ricchi non si azzardano.»

In effetti, le pasquinate erano passate di moda così com’erano arrivate, e si pensò che forse erano state un ennesimo sintomo del malumore politico che travolgeva il paese. Chi le temeva riprese a dormire sonni tranquilli. Invece, pochi giorni dopo il mio arrivo sentii che qualcosa nell’animo di alcuni compagni di partito di mio padre era cambiato nei miei confronti, perché venni indicato come autore di articoli contro il governo conservatore pubblicati su «El Universal». Non era vero. Se qualche volta avevo dovuto scrivere pezzi politici, erano sempre apparsi senza firma e sotto la responsabilità della direzione, da quando questa aveva deciso di mettere fine alla domanda su cos’era successo al Carmen de Bolívar. Quelli della mia rubrica firmata rivelavano senza dubbio una posizione chiara in merito alle brutte condizioni del paese, e all’ignominia della violenza e dell’ingiustizia, ma senza prese di posizione di partito. Del resto, né allora né mai militai nell’uno o nell’altro. L’accusa aveva allarmato i miei genitori, e mia madre si era messa ad accendere candele ai santi, soprattutto quando rimanevo in giro fino a tardi. Per la prima volta sentii intorno a me un’atmosfera così opprimente che decisi di uscire di casa il meno possibile.

Fu in quei brutti tempi che si presentò nell’ambulatorio di papà un uomo impressionante che sembrava già essere il fantasma di se stesso, con una pelle che lasciava trasparire il colore delle ossa e il ventre enfiato e teso come un tamburo. Gli bastò una sola frase a diventare per sempre indimenticabile:

«Dottore, vengo perché mi tolga una scimmia che mi hanno fatto crescere dentro la pancia.»

Dopo averlo visitato, mio padre si accorse che il caso non era alla portata della sua scienza, e lo mandò da un collega chirurgo che non trovò la scimmia che il paziente credeva, bensì un embrione senza forma ma con vita propria. Comunque, a interessarmi non fu la bestia nel ventre ma il racconto dell’ammalato sul mondo magico di La Sierpe, un paese di leggenda tra i confini di Sucre cui si poteva arrivare solo attraverso pantani fumiganti, dove uno degli episodi più normali era vendicare un’offesa con un malefizio come quello di una creatura del demonio dentro il ventre.

Gli abitanti di La Sierpe erano cattolici convinti ma vivevano la religione a modo loro, con orazioni magiche per ogni circostanza. Credevano in Dio, nella Madonna e nella santissima Trinità, ma li adoravano in qualsiasi oggetto in cui pensassero di scoprire facoltà divine. Per loro l’inverosimile era che una persona cui crescesse una bestia satanica dentro il ventre fosse così razionale da chiamare in causa l’eresia di un chirurgo.

Ben presto ebbi la sorpresa che tutti a Sucre conoscevano l’esistenza di La Sierpe come un fatto reale, il cui unico problema era arrivarvi attraverso ogni sorta di ostacoli geografici e mentali. All’ultimo momento scoprii per caso che l’esperto in fatto di La Sierpe era il mio amico Ángel Casij, che avevo visto per l’ultima volta quando ci aveva scortati in mezzo alle macerie pestilenziali del 9 aprile affinché potessimo contattare le nostre famiglie. Lo trovai con più uso di ragione che quella volta, e con un resoconto allucinante sui suoi diversi viaggi a La Sierpe. Allora seppi tutto quello che si poteva sapere sulla Marchesina, padrona e signora di quel vasto regno dove si conoscevano orazioni segrete per il bene o il male, per far alzare dal letto un moribondo non conoscendo di lui altro che la descrizione del suo fisico e il luogo preciso dove si trovava, o per inviare un serpente attraverso i pantani che in capo a sei giorni avrebbe dato la morte a un nemico.

L’unica cosa a lei vietata era la resurrezione dei morti, essendo un potere riservato a Dio. Visse tutti gli anni che volle, e si presume che arrivarono a duecentotrentatré, ma senza invecchiare neppure di un giorno dopo i sessantasei. Prima di morire concentrò le sue favolose mandrie e le fece girare per due giorni e due notti intorno alla sua casa, finché non si formò la palude di La Sierpe, un pelago senza limiti tappezzato di anemoni fosforescenti. Si dice che lì nel centro ci sia un albero con zucche d’oro, al cui tronco è ormeggiata una canoa che ogni 2 novembre, giorno dei Morti, naviga senza che nessuno la guidi fino all’altra riva, scortata da caimani bianchi e bisce con sonagli d’oro, dove la Marchesina seppellì la sua illimitata fortuna.

Dopo che Ángel Casij mi ebbe raccontato questa storia fantastica caddi in preda all’ansia di visitare il paradiso di La Sierpe arenato nella realtà. Preparammo ogni cosa, cavalli immunizzati con orazioni al contrario, canoe invisibili, e guide magiche e tutto quanto fosse necessario per scrivere la cronaca di un realismo sovrannaturale.

Tuttavia, le mule rimasero nella stalla. La mia lenta convalescenza dalla polmonite, gli scherzi degli amici ai balli in piazza, i rimproveri intimidatori degli amici adulti mi costrinsero a rinviare il viaggio a una data che non arrivò mai. Oggi, comunque, lo rievoco come una fortunata delusione, perché in mancanza della Marchesina fantastica mi immersi a fondo nella scrittura di un primo romanzo, di cui mi è rimasto solo il titolo: La casa.

Voleva essere un dramma della guerra dei Mille Giorni nei Caraibi colombiani, di cui avevo parlato con Manuel Zapata Olivella, in una precedente visita a Cartagena. In quell’occasione, e senza c’entrasse con il mio piano, lui mi aveva regalato un fascicoletto scritto da suo padre su un veterano di quella guerra, il cui ritratto stampato sul frontespizio, con il liquilique e i baffi bruciacchiati dalla polvere da sparo, mi aveva in qualche modo ricordato mio nonno. Ho dimenticato il suo nome, ma il cognome sarebbe rimasto per sempre con me: Buendía. Per questo avevo pensato di scrivere un romanzo con il titolo La casa, sull’epopea di una famiglia che poteva avere molto della nostra durante le guerre sterili del colonnello Nicolás Márquez.

Il titolo si basava sul fatto che l’azione non avrebbe mai dovuto uscire dalla casa. Feci diversi inizi e schemi di personaggi parziali cui mettevo nomi di famiglia che in seguito mi servirono per altri libri. Sono molto sensibile alla debolezza di una frase in cui due parole vicine rimano fra loro, sia pure in rima vocalica, e preferisco non pubblicarla finché non l’ho risolta. Per questo fui spesso sul punto di lasciar perdere il cognome Buendía a causa della sua rima ineludibile con l’imperfetto.6 Comunque, il cognome mi si impose perché gli avevo trovato un’identità convincente.

In quel periodo, un bel giorno all’alba, trovammo davanti alla casa di Sucre una cassa di legno senza scritte dipinte né contrassegno alcuno. Mia sorella Margot l’aveva ricevuta senza sapere da chi, convinta che fosse qualche rimanenza della farmacia venduta. Io pensai lo stesso e feci colazione in famiglia con il cuore tranquillo. Mio papà chiarì che non aveva aperto la cassa perché aveva pensato che fosse il resto del mio bagaglio, senza ricordarsi che non mi rimanevano neppure i resti di niente in questo mondo. Mio fratello Gustavo, che a tredici anni aveva già abbastanza pratica per inchiodare o schiodare qualsiasi cosa, decise di aprirla senza permesso. Qualche minuto dopo sentimmo il suo grido:

«Sono libri!»

Il mio cuore balzò ancora prima di me. In effetti, erano libri senza traccia del mittente, sistemati con mano maestra fino in cima alla cassa e con una lettera difficile da decifrare a causa della calligrafia geroglifica e della lirica ermetica di Germán Vargas: “Ecco una bella provvigione, maestro, speriamo che finalmente impari”. Firmavano pure Alfonso Fuenmayor, e uno sgorbio che decifrai come di don Ramón Vinyes, che non conoscevo ancora. Mi raccomandavano solo di non rendermi responsabile di qualche plagio che si notasse troppo. In uno dei libri di Faulkner c’erano due righe di Álvaro Cepeda, con la sua grafia aggrovigliata, scritte in fretta e furia, in cui mi avvertiva che la settimana dopo se ne andava per un anno a frequentare un corso speciale presso la scuola di giornalismo della Columbia University, a New York.

La prima cosa che feci fu mettere in mostra i libri sul tavolo della sala da pranzo, mentre mia madre finiva di togliere le stoviglie della colazione. Dovette armarsi di una scopa per scacciare i figli più piccoli che volevano ritagliare le illustrazioni con le cesoie per potare e i cani randagi che fiutavano i libri quasi fossero stati roba da mangiare. Anch’io li annusavo, come faccio sempre con ogni libro nuovo, e li sfogliai tutti a caso leggendo paragrafi qua e là. Nella notte cambiai tre o quattro volte di posto perché non trovavo requie o perché mi stancava la luce scarsa della veranda sul cortile, e all’alba mi ritrovai con la schiena indolenzita e sempre senza la più pallida idea del profitto che avrei potuto trarre da quel miracolo.

Erano ventitré opere importanti di autori contemporanei, tutte in spagnolo e scelte con l’evidente intento che venissero lette all’esclusivo fine di imparare a scrivere. E in traduzioni recentissime come nel caso di L’urlo e il furore, di William Faulkner. Cinquant’anni dopo mi è impossibile ricordare la lista completa e i tre amici eterni che la conoscevano non sono più qui a ricordarsene. Ne avevo letto solo due: La signora Dalloway, della signora Woolf, e Contrappunto, di Aldous Huxley. Quelli che ricordo meglio erano quelli di William Faulkner: Il borgoL’urlo e il furoreMentre morivo e Palme selvagge. Anche Manhattan Transfer e forse un altro, di John Dos Passos; Orlando, di Virginia Woolf; Uomini e topi e Furore, di John Steinbeck, Il ritratto di Jennie, di Robert Nathan, e La via del tabacco, di Erskine Caldwell. Fra i titoli che a distanza di mezzo secolo non ricordo, almeno uno di Hemingway, forse una raccolta di racconti, che era quanto di lui più piaceva ai tre di Barranquilla; un altro di Borges, di certo pure questo di racconti, e forse un altro di Felisberto Hernández, l’insolito narratore uruguayano che i miei amici avevano appena scoperto fra grida di entusiasmo. Li lessi tutti nei mesi successivi, alcuni bene e altri meno bene, e mi servirono per uscire dal limbo creativo in cui mi ero arenato.

A causa della polmonite mi avevano proibito di fumare, ma fumavo nel bagno come di nascosto da me stesso. Il medico se ne accorse e mi parlò sul serio, ma non riuscii a obbedirgli. A Sucre, mentre cercavo di leggere senza pause i libri ricevuti, accendevo una sigaretta con il mozzicone dell’altra finché non ce la facevo più, e quanto più tentavo di smettere tanto più fumavo. Arrivai a quattro pacchetti al giorno, interrompevo i pasti per fumare e bruciavo le lenzuola perché mi addormentavo con la sigaretta accesa. La paura della morte mi svegliava a qualsiasi ora della notte, e solo fumando di più riuscivo a sopportarla, finché non decisi che preferivo morire piuttosto che smettere di fumare.

Oltre vent’anni dopo, ormai sposato e con figli, continuavo a fumare. Un medico che esaminò una radiografia dei miei polmoni mi disse spaventato che di lì a due o tre anni non avrei più potuto respirare. Atterrito, arrivai al punto da rimanere seduto ore e ore senza fare altro, perché non riuscivo a leggere, o ascoltare musica, o parlare con amici o nemici senza fumare. Una sera qualsiasi, durante una cena casuale a Barcellona, un amico psichiatra spiegava ad altri che il tabacco era forse la dipendenza più difficile da sradicare. Mi azzardai a domandargli qual era il motivo fondamentale, e la sua risposta fu una spiegazione di una semplicità raggelante:

«Perché smettere di fumare sarebbe per te come uccidere una persona amata.»

Fu una deflagrazione di chiaroveggenza. Non seppi mai perché, né volli saperlo, ma sbriciolai nel portacenere la sigaretta che avevo appena acceso, e non ripresi mai più a fumare, senza ansia né rimorsi, per il resto della mia vita.

L’altra dipendenza non era meno persistente. Una sera arrivò una delle domestiche della casa accanto, e dopo aver parlato con tutti venne sulla terrazza e con grande rispetto mi chiese il permesso di parlare con me. Non interruppi la lettura finché lei non mi domandò:

«Si ricorda di Matilde?»

Non ricordavo chi era, ma non mi credette.

«Non faccia il furbo, signor Gabito» mi disse con un’enfasi ben scandita: «Ni-gro-man-ta».

Aveva ragione: Nigromanta era allora una donna libera, con un figlio del poliziotto morto, e viveva da sola con sua madre e altri della famiglia nella stessa casa, ma in una camera discosta con un’uscita propria sul retro del cimitero. Andai a trovarla, e il nuovo incontro si protrasse per oltre un mese. Ogni volta rinviavo il ritorno a Cartagena e volevo restare a Sucre per sempre. Fino a un’alba in cui mi sorprese a casa sua una tempesta con tuoni e lampi come la notte della roulette russa. Cercai di ripararmi sotto le grondaie, ma quando non ce la feci più mi buttai in strada con l’acqua fino alle ginocchia. Ebbi la fortuna che mia madre fosse da sola in cucina e mi portò in camera da letto attraverso i sentieri del giardino affinché papà non se ne accorgesse. Non appena mi ebbe aiutato a togliermi la camicia fradicia, con le punte del pollice e dell’indice la allontanò per tutta la lunghezza del braccio e la gettò nell’angolo con una smorfia di ripugnanza.

«Eri con quella là» disse.

Rimasi di sasso.

«E come lo sa?»

«Perché è lo stesso odore dell’altra volta» disse impassibile. «Meno male che il marito è morto.»

Mi stupì una simile mancanza di compassione per la prima volta nella sua vita. Lei dovette accorgersene, perché mi rintuzzò senza pensarci.

«È l’unica morte di cui mi sia rallegrata quando ne sono venuta a conoscenza.»

Le domandai perplesso:

«Come ha saputo chi è lei?»

«Ah, figlio» sospirò «Dio mi dice tutto quanto ha a che vedere con voi.»

Alla fine mi aiutò a togliermi i pantaloni zuppi e li gettò nell’angolo con il resto degli indumenti. «Tutti voi diventerete uguali a tuo papà» mi disse d’improvviso con un sospiro profondo, mentre mi massaggiava la schiena con un asciugamano. E finì con tutta l’anima:

«Dio voglia che siate pure dei mariti come lui.»

Le premure drammatiche cui mi sottomise mia madre devono avere avuto il loro effetto nell’evitarmi una ricaduta della polmonite. Finché non mi resi conto che lei stessa le complicava senza motivo per impedirmi di tornare nel letto di tuoni e lampi di Nigromanta. Non la vidi mai più.

Tornai a Cartagena rinvigorito e allegro, con la notizia che stavo scrivendo La casa, e ne parlavo come se fosse cosa compiuta mentre ero solo al capitolo iniziale. Zabala e Héctor mi accolsero come il figlio prodigo. All’università i miei buoni professori sembravano rassegnati ad accettarmi così com’ero. Al contempo seguitai a scrivere pezzi molto occasionali che «El Universal» mi pagava a cottimo. La mia carriera di scrittore di racconti continuò con il poco che riuscii a scrivere quasi per compiacere il maestro Zabala: Dialogo dello specchio e Amarezza per tre sonnambuli, apparsi su «El Espectador». Sebbene in entrambi si notasse un alleggerimento della retorica rispetto ai quattro precedenti, non ero riuscito ad allontanarmi dal pantano.

Cartagena era allora contaminata dalla tensione politica del resto del paese e questo doveva essere considerato come un presagio che qualcosa di grave stava per accadere. Alla fine dell’anno i liberali dichiararono l’astensione su tutta la linea per l’intensità della persecuzione politica, ma non rinunciarono ai loro piani sotterranei per abbattere il governo. La violenza si infittì nelle campagne e la gente fuggì nelle città, ma la censura costringeva la stampa a scrivere di sbieco. Tuttavia, era di dominio pubblico che i liberali braccati avevano dato vita a guerriglie in diversi punti del paese. Nelle pianure occidentali – un oceano immenso di erba verde che occupa più di un quarto del territorio nazionale – erano diventate leggendarie. Il loro comandante generale, Guadalupe Salcedo, era già considerato come una figura mitica, anche dall’Esercito, e le sue fotografie venivano distribuite in segreto, ne facevano centinaia di copie e si accendevano candele lì davanti sugli altari.

I De la Espriella, a quanto sembra, sapevano più di quanto dicessero, e dentro lo spazio circondato da muri si parlava con tutta naturalezza di un colpo di Stato imminente contro il regime conservatore. Non conoscevo particolari, ma il maestro Zabala mi aveva avvertito che quando avessi notato qualche scompiglio in strada raggiungessi subito il giornale. La tensione la si poteva toccare con le mani quando mi recai a un appuntamento nella gelateria Americana alle tre del pomeriggio. Mi sedetti a leggere a un tavolo appartato finché non fosse arrivato qualcuno, e uno dei miei vecchi compagni, con cui non avevo mai parlato di politica, mi disse passando senza guardarmi:

«Va’ al giornale, che il casino sta per cominciare.»

Feci tutto il contrario: volevo sapere come fosse la situazione nel centro della città invece che rinchiudermi nella sede del giornale. Qualche minuto dopo si sedette al mio tavolo un ufficiale del Governatorato addetto al controllo della stampa, che conoscevo bene, e non pensai che me l’avessero assegnato per neutralizzarmi. Chiacchierai con lui per una mezz’ora nel più puro stato di innocenza e quando si alzò per andarsene mi accorsi che l’enorme sala della gelateria si era vuotata senza che me ne rendessi conto. Lui seguì il mio sguardo e controllò l’ora: l’una e dieci.

«Non preoccuparti» mi disse con un sollievo represso. «Ormai non è successo niente.»

In effetti, il gruppo più importante dei dirigenti liberali, esasperati dalla violenza ufficiale, si era messo d’accordo con i militari democratici del più alto rango per mettere fine al massacro scatenato in tutto il paese dal regime conservatore, deciso a restare al potere a qualsiasi prezzo. La maggioranza di loro aveva partecipato agli interventi del 9 aprile per ottenere la pace mediante l’accordo stretto con il presidente Ospina Pérez, e solo venti mesi dopo si rendevano conto troppo tardi di esser stati vittime di un inganno colossale. La fallita azione di quel giorno l’aveva autorizzata il presidente della Direzione Liberale in persona, Carlos Lleras Restrepo, attraverso Plinio Mendoza Neira, che aveva eccellenti rapporti all’interno delle Forze Armate, da quando era stato ministro della Guerra sotto il governo liberale. L’azione coordinata da Mendoza Neira con la cauta collaborazione di eminenti sostenitori dello stesso partito in tutto il paese doveva cominciare all’alba di quel giorno con il bombardamento del palazzo presidenziale con aerei delle Forze Aeree. Il movimento era appoggiato dalle basi navali di Cartagena e di Apiay, dalla maggioranza delle guarnigioni militari e da organismi sindacali decisi a prendersi il potere per costruire un governo civile di riconciliazione nazionale.

Solo dopo il fallimento si venne a sapere che due giorni prima della data prevista per l’azione, l’ex presidente Eduardo Santos aveva riunito a casa sua a Bogotá i gerarchi liberali e i dirigenti del golpe per un esame finale del progetto. Nel mezzo del dibattito, qualcuno fece la domanda rituale:

«Ci sarà spargimento di sangue?»

Nessuno fu così ingenuo o così cinico da dire di no. Altri dirigenti spiegarono che erano stati presi i massimi provvedimenti affinché non ce ne fosse, ma che non esistevano ricette magiche per impedire l’imprevedibile. Spaventata dalle proporzioni della sua stessa congiura, la Direzione Liberale impartì senza discutere il contrordine. Molte persone coinvolte che non lo ricevettero in tempo vennero incarcerate o uccise nel tentativo. Altri consigliarono a Mendoza di non rimanere da solo fino alla presa del potere, e lui non lo fece per motivi più etici che politici, ma né il tempo né i mezzi gli bastarono per prevenire tutti quelli che erano coinvolti. Trovò asilo presso l’ambasciata del Venezuela e riuscì a vivere per quattro anni in esilio a Caracas, sottraendosi a un Consiglio di guerra che l’aveva condannato in contumacia a venticinque anni per sedizione. Cinquantadue anni dopo non mi trema il polso nello scrivere – senza la sua autorizzazione – che se ne pentì per il resto della vita nel suo esilio a Caracas, considerato il bilancio desolante del conservatorismo al potere: non meno di trecentomila morti.

Anche per me, in un certo senso, fu un momento cruciale. Prima di due mesi avevo lasciato il terzo anno alla Facoltà di Legge e avevo messo fine al mio impegno con «El Universal» in quanto non vedevo avvenire né nell’una né nell’altro. Il pretesto fu avere tempo libero per il romanzo appena cominciato, anche se in fondo alla mia anima sapevo che questo non era né vero né falso, ma il progetto si rivelò d’improvviso ai miei occhi come una formula retorica, con pochissimo del buono che avevo saputo trarre da Faulkner e tutto il cattivo della mia inesperienza. Ben presto imparai che raccontare storie parallele a quelle di cui si sta scrivendo – senza rivelarne l’essenza – è una parte importante dell’ideazione e della scrittura. Ma questo non era allora il mio caso, perché in mancanza di qualcosa da mostrare avevo inventato un romanzo parlato per intrattenere i lettori e ingannare me stesso.

Tale presa di coscienza mi costrinse a ripensare dall’inizio alla fine il progetto che non si risolse mai in più di quaranta cartelle, e tuttavia fu citato su riviste e giornali – anche da me – e si pubblicarono persino anticipazioni critiche molto dotte di lettori immaginosi. In fondo, il motivo di quest’abitudine di raccontare progetti paralleli non dovrebbe riscuotere rimproveri spietati: il terrore di scrivere può essere intollerabile come quello di non scrivere. Nel mio caso, inoltre, sono convinto che raccontare la storia vera porti sfortuna. Mi conforta, tuttavia, che qualche volta la storia orale potrebbe essere migliore di quella scritta, e che senza saperlo stiamo inventando un nuovo genere di cui la letteratura ha ormai bisogno: la finzione della finzione.

La pura verità è che non sapevo come continuare a vivere. La mia convalescenza a Sucre mi servì per rendermi conto che non sapevo dove mi dirigevo nella vita, ma non mi fornì buone tracce sulla direzione da prendere né argomenti nuovi per convincere i miei genitori che non ne soffrissero troppo se mi prendevo la libertà di decidere per conto mio. Sicché me ne andai a Barranquilla con duecento pesos che mi aveva dato mia madre prima che tornassi a Cartagena, sottratti alle spese domestiche.

Il 15 dicembre 1949 entrai nella libreria Mondo alle cinque del pomeriggio per aspettare gli amici che non avevo rivisto dopo la nostra notte di maggio in cui ero stato insieme all’indimenticabile signor Razzore. Non avevo che una borsa da spiaggia con un cambio di biancheria e qualche libro e la cartelletta di pelle con i miei scritti. Qualche minuto dopo di me nella libreria arrivarono tutti, uno dietro l’altro. Fu un benvenuto rumoroso senza Álvaro Cepeda, che era sempre a New York. Quando il gruppo fu al completo passammo agli aperitivi, che non si prendevano più al caffè Colombia accanto alla libreria, ma in uno recente di amici più stretti sul marciapiede di fronte: il caffè Japy.

Non sapevo da che parte andare, né quella notte né per il resto della mia vita. La cosa strana è che non pensai mai che la parte dove andare poteva essere Barranquilla, e se mi ero recato lì era solo per parlare di letteratura e ringraziare di persona per l’invio di libri che mi era stato fatto a Sucre. Quanto al primo punto, ne ebbi a bizzeffe, ma niente da fare quanto al secondo, sebbene ci avessi tentato più volte, perché il gruppo aveva un terrore sacramentale per l’abitudine di dire o di sentirsi dire grazie fra loro.

Germán Vargas improvvisò quella sera una cena per dodici persone, fra cui c’era di tutto: giornalisti, pittori e notai, fino al governatore del Distretto, un tipico conservatore di Barranquilla, con il suo personale modo di giudicare e governare. La maggioranza se ne andò dopo la mezzanotte e il resto si sgretolò a poco a poco, finché non rimanemmo solo Alfonso, Germán e io, insieme al governatore, più o meno con la chiarezza di idee che eravamo soliti avere nelle albe dell’adolescenza.

Durante le lunghe conversazioni di quella notte avevo ricevuto da lui una lezione sorprendente sul modo d’essere dei governanti della città negli anni sanguinosi. Calcolava che fra gli scempi di quella politica barbara il meno incoraggiante fosse il numero impressionante di rifugiati senza tetto né pane nelle città.

«Di questo passo» concluse «il mio partito, con l’appoggio delle armi, rimarrà senza un avversario alle prossime elezioni e padrone assoluto del potere.»

L’unica eccezione era Barranquilla, grazie a una cultura di convivenza politica che gli stessi conservatori locali condividevano, e che ne aveva fatto un rifugio di pace nell’occhio dell’uragano. Volli fargli un’obiezione etica, ma lui mi fermò perentorio con un gesto della mano.

«Mi scusi» disse «questo non significa che siamo ai margini della vita nazionale. Al contrario, proprio per il nostro pacifismo, il dramma sociale del paese è entrato fra noi in punta di piedi dalla porta posteriore, e ormai l’abbiamo nel cuore.»

Allora capii che c’erano circa cinquemila rifugiati venuti dall’interno nella peggiore miseria e che non sapevano come inserirli né come nasconderli affinché il problema non diventasse pubblico. Per la prima volta nella storia della città c’erano pattuglie militari che montavano di guardia in punti critici, e tutti le vedevano, ma il governo lo negava e la censura impediva che la cosa fosse denunciata sui giornali.

All’alba, dopo esserci liberati del signor governatore, andammo al Chop Suey, il posto dove facevano colazione i grandi nottambuli. Alfonso comprò al chiosco all’angolo tre copie di «El Heraldo», sulla cui prima pagina c’era un pezzo firmato da Puck, pseudonimo della sua rubrica a giorni alterni. Era solo un saluto a me, ma Germán lo prese in giro perché il pezzo diceva che io ero lì in vacanza di piacere.

«Meglio sarebbe stato dire che si ferma a vivere qui per non dover scrivere un pezzo di saluto e poi un altro di commiato» si burlò Germán. «Meno spese per un giornale taccagno come “El Heraldo”.»

Adesso serio, Alfonso pensava che non sarebbe stato male avere un rubricista in più. Ma Germán era indomabile nella luce dell’alba.

«Sarà un quinta colonna visto che ne avete già quattro.»

Nessuno di loro si consultò con me, come io avrei desiderato, per dire di sì. Non si parlò oltre dell’argomento. Né fu necessario, perché Alfonso mi disse quella sera che aveva parlato con la direzione del giornale e che a loro sembrava una buona idea avere un nuovo rubricista, sempre che fosse bravo ma senza troppe pretese. Comunque, non poteva decidere nulla fin dopo le feste dell’Anno Nuovo. Sicché mi fermai lì con il pretesto del lavoro, anche se in febbraio avrebbero potuto dirmi di no.

6. In spagnolo, l’imperfetto dei verbi in –er e in –ir termina per l’appunto in –ía, così creando una rima inevitabile con Buendía. (NdT)

7

Fu così che apparve il mio pezzo di debutto sulla prima pagina di «El Heraldo» di Barranquilla il 5 gennaio 1950. Non volli firmarlo con il mio nome per cautelarmi qualora non fossi riuscito ingranare com’era accaduto a «El Universal». Quanto allo pseudonimo, non ci pensai due volte: “Septimus”, preso da Septimus Warren Smith, il personaggio allucinato di Virginia Woolf in La signora Dalloway. Il titolo della rubrica – “La Giraffa” – era il soprannome confidenziale con cui solo io conoscevo la mia unica dama ai balli di Sucre.

Mi sembrò che quell’anno le brezze di gennaio soffiassero più che mai, e a stento si poteva camminarvi contro nelle vie sferzate fino all’alba. Gli argomenti di conversazione al risveglio erano gli sconquassi dei venti folli durante la notte, che trascinavano via sogni e pollai, e trasformavano in ghigliottine volanti le lastre di zinco dei tetti.

Oggi penso che quelle brezze folli spazzarono via le stoppie di un passato sterile e mi aprirono le porte di una nuova vita. Il mio rapporto con il gruppo smise di funzionare a base di cortesie e divenne una complicità professionale. All’inizio discutevamo gli argomenti in progetto o scambiavamo osservazioni nient’affatto dottorali ma da non dimenticare. Per me fu importante la mattina in cui entrai nel caffè Japy mentre Germán Vargas stava finendo di leggere in silenzio “La Giraffa” ritagliata dal quotidiano del giorno. Gli altri del gruppo aspettavano il suo verdetto intorno al tavolo con una specie di terrore reverenziale che rendeva più denso il fumo nella sala. Alla fine, senza neppure guardarmi, Germán la fece a pezzettini senza dire una sola parola e li mescolò insieme alle cicche e ai fiammiferi bruciati nel portacenere. Nessuno aprì bocca, né l’umore del tavolo cambiò, né si commentò mai l’episodio. Ma la lezione mi è ancora utile quando per pigrizia o per fretta mi viene la tentazione di scrivere un paragrafo tanto per cavarmela in qualche modo.

Nello scalcinato albergo Il Grattacielo dove vissi quasi un anno, i proprietari finirono per trattarmi come un membro della famiglia. Il mio unico patrimonio di allora erano i sandali storici e la cartelletta di pelle che avevo rubato nella sala da tè più raffinata di Bogotá durante i tumulti del 9 aprile. La portavo con me ovunque insieme agli originali di qualsiasi cosa stessi scrivendo, che erano le uniche cose che avevo da perdere. Non mi sarei azzardato a lasciarla neppure sotto sette chiavi nella cassaforte blindata di una banca. L’unica persona cui l’avevo affidata nelle mie prime notti era il segreto Lácides, il portinaio dell’albergo, che me l’aveva presa in garanzia per il prezzo della stanza. Aveva dato uno sguardo intenso alle strisce di carta scritte a macchina e aggrovigliate di correzioni, e l’aveva riposta nel cassetto del bancone. La recuperai il giorno dopo all’ora convenuta e seguitai a versare il denaro dovuto con tale rigore che me l’accettava in pegno anche per tre notti. Finì per essere un’intesa così seria che talvolta gliela posavo sul bancone senza dirgli altro che buonanotte, e io stesso prendevo la chiave dal quadro e salivo nella mia stanza.

Germán era sempre attento a qualsiasi cosa mi mancasse, al punto da sapere se non avevo un posto dove dormire e mi passava di nascosto il peso e mezzo per il letto. Non capii mai come facesse a saperlo. Grazie alla mia buona condotta mi guadagnai la fiducia del personale dell’albergo, al punto che le puttane mi prestavano il loro sapone personale per la doccia. Al posto di comando, con le sue tette siderali e il suo cranio a zucca, presiedeva la padrona e signora, Caterina la Grande. Il suo magnaccia in pianta stabile, il mulatto Jonás San Vicente, era stato un trombettista di lusso finché non gli avevano sconquassato la dentatura aurifera in un’aggressione per rubargli le otturazioni. Malconcio e senza mantice per soffiare aveva dovuto cambiar mestiere, e non avrebbe potuto trovarne uno migliore per il suo membro di sei pollici che il letto d’oro di Caterina la Grande. Anche lei aveva il suo tesoro intimo che le era servito per arrampicarsi in due anni dalle albe miserabili del molo fluviale fino al suo trono da scanfarda in grande stile. Ebbi la fortuna di conoscere l’ingegno e la mano abile di entrambi nel rendere felici i loro amici. Ma non capirono mai perché così spesso non avevo un peso e mezzo per dormire, anche se passavano a prendermi persone di spicco in limousine ufficiali.

Un altro passo felice di quei giorni fu che mi ritrovai a fare l’aiutante dello Scimmione Guerra, un tassista così biondo da sembrare albino, e così intelligente e simpatico che l’avevano eletto consigliere municipale onorario senza che si fosse presentato alle elezioni. Le sue albe nel quartiere cinese sembravano momenti da film, perché lui stesso si incaricava di arricchirle con bizzarrie ispirate. Mi avvertiva quando poteva disporre di una notte senza fretta, e la passavamo insieme nello sgangherato quartiere cinese, dove i nostri padri e i padri dei suoi padri avevano imparato a farci.

Non riuscii mai a scoprire perché, in mezzo a una vita così semplice, sprofondai d’improvviso in una svogliatezza imprevista. Il mio romanzo in corso – La casa – quasi sei mesi dopo che l’avevo cominciato, mi sembrò una farsa scipita. Più che scrivere ne parlavo, e in realtà quel poco di coerente che misi insieme furono i frammenti che a intervalli pubblicai nella “Giraffa” e su «Crónica» allorché rimanevo senza un argomento. Nella solitudine dei fine settimana, quando gli altri si rifugiavano nelle loro case, mi ritrovavo più solo che mai nella città in abbandono. Ero di una povertà assoluta e di una timidezza da colombella, che tentavo di vincere con un’alterigia insopportabile e una franchezza brutale. Sentivo che mi schizzavano da tutti i pori e alcuni conoscenti me lo facevano pure notare. Mi rintanavo nella sala della redazione di «El Heraldo», dove scrivevo anche dieci ore continue in un angolo discosto senza parlare con nessuno, avvolto nel fumo delle sigarette di tabacco grezzo che fumavo di continuo in una solitudine senza conforto. Lo facevo di gran fretta, spesso fino all’alba, e su strisce di carta da stampa che portavo con me ovunque dentro la cartelletta di pelle.

In una delle tante negligenze di quei giorni la dimenticai in un taxi, e la presi senza amarezza come un ennesimo tiro della mia mala sorte. Non feci sforzi per recuperarla, ma Alfonso Fuenmayor, allarmato dalla mia sbadataggine, redasse e pubblicò una nota in fondo alla mia rubrica: “Sabato scorso è stata dimenticata una cartella su un’automobile pubblica. Dal momento che il proprietario di tale cartella e l’autore di questa rubrica sono, per coincidenza, la stessa persona, entrambi sarebbero grati a chi l’abbia trovata se sarà così cortese da mettersi in contatto con uno qualsiasi dei due. La cartella non contiene assolutamente oggetti di valore: solo Giraffe inedite”. Due giorni dopo qualcuno lasciò i miei fogli nella portineria di «El Heraldo», ma senza la cartelletta, e con tre errori di ortografia corretti in ottima calligrafia a inchiostro verde.

Quanto guadagnavo al giorno mi bastava giusto per pagare la stanza, ma in quei giorni l’abisso della povertà era la cosa che meno mi importava. Le molte volte in cui non mi fu possibile pagarla me ne andavo a leggere al caffè Roma come quello che in realtà ero: un solitario alla deriva nella notte del Paseo Bolívar. A qualsiasi conoscente facevo un saluto da lontano, sempre che mi degnassi di guardarlo, e me ne rimanevo nel mio angolo consueto, dove spesso lessi finché non mi sorprendeva il sole. Anche allora ero un lettore insaziabile privo di una formazione sistematica. Soprattutto di poesia, senza escludere quella cattiva, perché nei peggiori stati d’animo sono rimasto convinto che la cattiva poesia prima o poi porta a quella buona.

Nei miei pezzi della “Giraffa” mi mostravo molto attento alla cultura popolare, al contrario dei miei racconti che sembravano semmai enigmi kafkiani scritti da qualcuno che non sapesse in quale paese viveva. Tuttavia, la verità della mia anima era che il dramma della Colombia mi giungeva come un eco remoto e mi commuovevo solo se straripava in fiumi di sangue. Accendevo una sigaretta con il mozzicone dell’altra, aspiravo il fumo con l’ansia di vita con cui gli asmatici bevono l’aria, e i tre pacchetti che consumavo in un giorno mi si notavano nelle unghie e in una tosse da cagnaccio che turbò la mia gioventù. Insomma, ero timido e triste, da buon caraibico, e così geloso della mia intimità che a qualsiasi domanda in merito rispondevo con una battuta retorica. Credevo che la mia mala sorte fosse congenita e senza rimedio, soprattutto con le donne e il denaro, ma non me ne importava, perché pensavo di non aver bisogno della buona sorte per scrivere bene. Non mi interessavano la gloria, né i soldi, né la vecchiaia in quanto ero sicuro che sarei morto per strada molto giovane.

Il viaggio con mia madre per vendere la casa di Aracataca mi tirò fuori da quest’abisso, e la certezza di un buon romanzo mi indicò l’orizzonte di un avvenire diverso. Fu un viaggio decisivo fra i numerosi viaggi della mia vita, perché mi dimostrò nella mia stessa carne che il libro che avevo cercato di scrivere era una pura invenzione retorica senza sostegno alcuno su una verità poetica. Così il progetto andò in frantumi nel momento in cui dovetti metterlo a confronto con la realtà in quel viaggio rivelatore.

Il modello di un’epopea come quella che io sognavo poteva essere solo quello della mia stessa famiglia, che non era mai stata protagonista e neppure vittima di alcunché, ma testimone inutile e vittima di tutto. Cominciai a scriverlo proprio quando tornai, perché a servirmi non era più l’elaborazione con espedienti artificiali, bensì la carica emotiva che trascinava senza saperlo e che mi aveva aspettato intatta nella casa dei nonni. Fin dal mio primo passo sulla polvere ardente del paese mi ero reso conto che il mio metodo non era il più felice per raccontare quel paradiso terrestre della desolazione e della nostalgia, anche se ci misi molto tempo e molta fatica per trovare il metodo giusto. Gli strapazzi per via di «Crónica», sul punto di uscire, non furono un ostacolo, ma tutto il contrario: un freno di ordine all’ansia.

Tranne Alfonso Fuenmayor – che mi sorprese in preda alla febbre creativa qualche ora dopo che avevo cominciato a scrivere – il resto dei miei amici credette a lungo che il vecchio progetto di La casa rimanesse sempre vivo. Decisi che così fosse per il timore puerile che si scoprisse il fallimento di un’idea di cui avevo tanto parlato come di un capolavoro. Ma lo feci pure per la superstizione che coltivo ancora di raccontare una storia e di scriverne un’altra diversa affinché non si sappia di quale si tratta. Soprattutto nelle interviste, che in fin dei conti sono un genere di finzione pericoloso per scrittori timidi che non vogliono dire più di quello che devono dire. Tuttavia, Germán Vargas dovette scoprirlo con la sua perspicacia misteriosa, perché mesi dopo il viaggio di don Ramón a Barcellona glielo disse in una lettera: “Credo che Gabito abbia abbandonato il progetto di La casa e che abbia iniziato un altro romanzo”. Naturalmente, don Ramón lo sapeva già prima di partire.

Fin dalla prima riga ebbi la sicurezza che il nuovo libro doveva basarsi sui ricordi di un bambino di sette anni sopravvissuto al massacro pubblico del 1928 nella Zona bananiera. Ma lo scartai in fretta, perché la narrazione ne rimaneva limitata al punto di vista di un personaggio senza abbastanza risorse poetiche per guidarla. Allora presi coscienza che la mia avventura di leggere l’Ulisse a vent’anni, e più tardi L’urlo e il furore, erano due audacie premature senza futuro, e decisi di rileggerli con un’ottica meno innocente. In effetti, molto di quanto mi era sembrato pedante o ermetico in Joyce e in Faulkner mi apparve allora di una bellezza e di una semplicità travolgenti. Pensai di diversificare il monologo con voci di tutto il paese, come un coro greco narrante, alla stregua di Mentre morivo, che si articola in base alle riflessioni di tutta una famiglia riunita intorno a un moribondo. Non me la sentii di riprendere il suo espediente semplice di indicare i nomi dei protagonisti prima di ogni monologo, come nei testi teatrali, ma mi diede l’idea di usare solo le tre voci del nonno, della madre e del bambino, i cui toni e i cui destini tanto diversi potevano identificarsi da soli. Il nonno del romanzo non sarebbe stato guercio come il mio, bensì zoppo; la madre assorta, ma intelligente, come la mia, e il bambino immobile, spaventato e pensoso, come lo ero sempre stato alla sua età. Non fu una trovata creativa, figuriamoci, ma solo un espediente tecnico.

Il libro non subì cambiamenti fondamentali durante la scrittura né una redazione diversa da quella originale, tranne soppressioni e rammendi per circa due anni prima della sua pubblicazione, quasi per il vizio di continuare a correggere fino a morire. Il paese – molto diverso da come pensato nel progetto precedente – l’avevo visualizzato nella realtà quand’ero tornato ad Aracataca con mia madre, ma questo nome – come mi aveva avvertito il saggio don Ramón – mi sembrò poco convincente quanto quello di Barranquilla, perché mancava pure del soffio mitico che cercavo per il mio romanzo. Così decisi di chiamarlo con il nome che conoscevo fin da bambino, ma la cui carica magica non mi si era rivelata fino ad allora: Macondo.

Dovetti cambiare il titolo La casa – allora tanto familiare tra gli amici – perché non aveva nulla a che vedere con il nuovo progetto, ma commisi l’errore di annotare su un quaderno di scuola i titoli che mi venivano in mente a mano a mano che scrivevo, e arrivai ad averne più di ottanta. Alla fine lo trovai senza cercarlo nella prima redazione già quasi terminata, quando cedetti alla tentazione di scrivere un prologo d’autore. Il titolo mi saltò in faccia, come il più sdegnoso e al contempo compassionevole che mia nonna, con i suoi residui aristocratici, aveva battezzato la calca venuta con la United Fruit Company: Foglie morte.

Gli autori che più mi stimolarono a scrivere il romanzo furono quelli nordamericani, e in particolare quelli che gli amici di Barranquilla mi avevano mandato a Sucre. Soprattutto per le affinità di ogni tipo che trovavo fra le culture del profondo sud e quella dei Caraibi, in cui mi identifico in modo assoluto, essenziale e insostituibile nella mia formazione di creatura umana e di scrittore. A partire da queste prese di coscienza iniziai a leggere come un vero e proprio romanziere artigianale, non solo per piacere, ma anche per la curiosità insaziabile di scoprire com’erano scritti i libri dei grandi. Li leggevo prima al dritto, poi al rovescio, e li sottoponevo a una sorta di sventramento chirurgico fino a estrarne i misteri più reconditi della loro struttura. Proprio per questo, la mia biblioteca non è mai stata molto più di uno strumento di lavoro, dove posso consultare all’istante un capitolo di Dostoevskij, o controllare un dato sull’epilessia di Giulio Cesare o sul meccanismo di un carburatore di automobile. Posseggo addirittura un manuale per commettere assassini perfetti, nel caso ne avesse bisogno qualche mio personaggio derelitto. Il resto è opera degli amici che mi orientavano nelle mie letture e mi prestavano i libri che dovevo leggere al momento giusto, e quelli che hanno fatto le letture spietate dei miei originali prima che venissero pubblicati.

Esempi come questi mi diedero una nuova consapevolezza di me stesso, e il progetto di «Crónica» finì per mettermi le ali. Il nostro morale era così alto che malgrado gli ostacoli insuperabili riuscimmo ad avere uffici nostri a un terzo piano senza ascensore, fra gli strilli delle venditrici di commestibili e gli autobus senza legge di Calle San Blas, che era una fiera turbolenta dall’alba fino alle sette di sera. Ci stavamo appena. Non avevano ancora installato il telefono, e l’aria condizionata era una fantasia che poteva costarci più del settimanale, ma Fuenmayor aveva già avuto il tempo di riempire gli uffici con le sue enciclopedie squinternate, i suoi ritagli di giornale in qualsiasi lingua e i suoi celebri manuali per strani mestieri. Sulla sua scrivania di direttore c’era la storica Underwood che aveva salvato con grande rischio della vita dall’incendio di un’ambasciata, e che oggi è un gioiello del Museo Romantico di Barranquilla. L’unica altra scrivania la occupavo io, con una macchina imprestata da «El Heraldo», nel mio nuovissimo ruolo di capo redattore. C’era un tavolo da disegno per Alejandro Obregón, Orlando Guerra e Alfonso Melo, tre pittori famosi che sani di mente si erano impegnati a illustrare gratis certi pezzi, e così facevano, in primo luogo per la generosità congenita di tutti, e in secondo perché non avevamo un centesimo disponibile neppure per noi stessi. Il fotografo più costante e sacrificato era Quique Scopell.

A parte il lavoro di redazione, che era quello relativo al mio ruolo, mi toccava pure controllare l’impaginazione e aiutare il correttore di bozze nonostante la mia ortografia da olandese. Poiché vigeva sempre il mio impegno con «El Heraldo» di continuare “La Giraffa”, non avevo molto tempo per collaborazioni regolari su «Crónica». Ne avevo, però, per scrivere i miei racconti nelle ore morte del primo mattino.

Alfonso, specialista in tutti i generi, contribuì con il peso della sua fede nei racconti polizieschi, per cui nutriva una passione insaziabile. Li traduceva o sceglieva, e io li sottoponevo a un processo di semplificazione formale che mi sarebbe servito per il mio lavoro. Consisteva nel risparmiare spazio eliminando non solo le parole inutili ma anche i fatti superflui, fino a ridurli alla pura essenza, evitando però di danneggiarne il potere di convincimento. Ossia, cancellare tutto quanto poteva essere di troppo in un genere drastico in cui ogni parola avrebbe dovuto rispondere per tutta la struttura. Questo fu un esercizio fra i più utili nelle mie indagini sbieche per imparare la tecnica di raccontare una storia.

Diversi sabati alcune delle migliori di José Félix Fuenmayor ci salvarono, ma la circolazione rimaneva impavida. Però, l’eterno salvagente fu la tempra di Alfonso Fuenmayor, cui non furono mai riconosciuti meriti da imprenditore, e si impegnò nella nostra iniziativa con una tenacia superiore alle sue forze, che lui stesso cercava di sgretolare a ogni passo con il suo terribile senso dell’umorismo. Faceva tutto, dallo scrivere gli editoriali più lucidi fino ai pezzi più inutili, con la stessa costanza con cui si procurava annunci pubblicitari, crediti inimmaginabili e scritti esclusivi di collaboratori difficili. Ma furono miracoli sterili. Quando gli strilloni tornavano con la stessa quantità di copie che avevano ritirato per vendere, tentavamo una distribuzione personale nelle osterie preferite, da Il Terzo Uomo fino a quelle taciturne del porto fluviale, dove gli scarsi guadagni che riscuotevamo erano di natura etilica.

Uno dei collaboratori più puntuali, e di certo il più letto, si rivelò essere il Vate Osío. Fin dal primo numero di «Crónica» fu uno degli infallibili, e il suo Diario di una dattilografa, con lo pseudonimo di “Dolly Melo”, finì per conquistare il cuore dei lettori. Nessuno poteva credere che tante incombenze disparse venissero portate a termine con tale gentilezza da uno stesso uomo.

Bob Prieto poteva impedire il naufragio di «Crónica» con qualsiasi trovata medica o artistica del Medioevo. Ma in fatto di lavoro aveva una norma diafana: se non pagano non c’è prodotto. Ben presto, e con il dolore nelle nostre anime, non ce ne fu più.

Di Julio Mario Santodomingo riuscimmo a pubblicare quattro racconti enigmatici scritti in inglese che Alfonso tradusse con l’ansia di un cacciatore di libellule tra le fronde dei suoi dizionari rari, e che Alejandro Obregón illustrò con una raffinatezza da grande artista. Ma Julio Mario viaggiava tanto, e con così tante destinazioni opposte, che divenne un socio invisibile. Solo Alfonso Fuenmayor seppe dove trovarlo, e ce lo rivelò con una frase inquietante:

«Ogni volta che vedo passare un aereo penso che lì sopra c’è Julio Mario Santodomingo.»

Il resto erano collaboratori occasionali che negli ultimi minuti della chiusura – o del pagamento – ci facevano stare con il fiato sospeso.

Bogotá si avvicinò a noi trattandoci da pari, ma nessuno degli amici utili fece qualche sforzo per tenere a galla il settimanale. Tranne Jorge Zalamea, che intese le affinità fra la sua rivista e la nostra, e ci propose un patto di scambio di materiali che diede buoni risultati. Ma credo che in realtà nessuno apprezzò quanto «Crónica» aveva ormai di miracoloso. Il consiglio editoriale era formato da sedici membri scelti da noi secondo i meriti riconosciuti di ognuno, e tutti erano esseri di carne e ossa, ma così potenti e occupati che si poteva benissimo dubitare della loro esistenza.

Per me «Crónica» ebbe l’importanza laterale di costringermi a improvvisare racconti di emergenza per riempire spazi imprevisti nell’angoscia della chiusura. Mi sedevo davanti alla macchina mentre linotipisti e impaginatori facevano la loro parte, e inventavo dal niente un racconto della dimensione del vuoto da riempire. Così scrissi Come Natanael fa una visita, che mi risolse un problema urgente all’alba, e Occhi di cane azzurro cinque settimane dopo.

Il primo di questi due racconti fu l’origine di una serie con uno stesso personaggio il cui nome presi senza permesso da André Gide. In seguito scrissi La fine di Natanael per risolvere un altro dramma dell’ultimo momento. Entrambi fecero parte di una sequenza di sei, che archiviai senza dolore quando mi resi conto che non avevano nulla a che vedere con me. Fra quanti rimasero a metà ne ricordo uno senza la minima idea del suo argomento: Come Natanael si veste da sposa. Oggi posso dire che il personaggio non assomiglia a nessuno che io abbia conosciuto, né era basato su esperienze mie o altrui, né posso neppure immaginare come fosse un racconto mio con un tema così equivoco. Natanael, in definitiva, era un rischio letterario senza interesse umano. È bene ricordare tali disastri per non dimenticare che un personaggio non lo si inventa da zero, come avevo voluto fare con Natanael. Per fortuna l’immaginazione non mi permise di spingermi tanto lontano da me stesso e, per disgrazia, ero pure convinto che il lavoro letterario doveva essere pagato bene come cementare un mattone all’altro, e se pagavamo bene e puntuali i tipografi, a maggior ragione occorreva pagare gli scrittori.

La migliore risonanza che avessimo del nostro lavoro su «Crónica» ci arrivava attraverso le lettere di don Ramón a Germán Vargas. Si interessava alle notizie meno immaginabili e agli amici e ai fatti della Colombia, e Germán gli spediva ritagli di giornali e gli raccontava in lettere interminabili le notizie proibite dalla censura. Ossia, per lui c’erano due «Crónica»: quella che facevamo noi e quella che riassumeva Germán nei fine settimana. I commenti entusiasti o severi di don Ramón sui nostri articoli risvegliavano la nostra maggiore avidità.

Fra le varie cause con cui si volle spiegare le difficoltà di «Crónica», e anche le incertezze del gruppo, venni per caso a sapere che alcuni le attribuivano alla mia mala sorte congenita e contagiosa. A mo’ di prova indiscutibile si citava il mio reportage su Berascochea, il calciatore brasiliano, con cui tentammo di conciliare sport e letteratura in un genere nuovo e che fu l’infortunio definitivo. Quando venni a conoscenza della mia fama indegna, questa era ormai molto diffusa fra i clienti del Japy. Demoralizzato al massimo, ne parlai con Germán Vargas, che già la conosceva, come il resto del gruppo.

«Tranquillo, maestro» mi disse senza il minimo dubbio. «Scrivere come lei scrive lo si spiega solo con una buona sorte che nessuno saprebbe sbaragliare.»

Non ci furono solo brutte notti. Quella del 27 luglio 1950, nella casa in festa della Negra Eufemia, ebbe un certo valore storico nella mia vita di scrittore. Non so per quale buona causa la padrona avesse ordinato un epico sancocho con quattro carni, e i pivieri eccitati dagli odori selvatici accentuarono gli strilli intorno al focolare. Un cliente frenetico prese un piviere per il collo e lo buttò vivo a bollire nella pentola. L’animale riuscì appena a lanciare un gemito di dolore con qualche ultimo colpo d’ali e fu risucchiato nei profondi inferni. Il barbaro assassino cercò di acchiapparne un altro, ma la Negra Eufemia si era già alzata dal trono con tutto il suo potere.

«Fermi, cazzo» gridò «che i pivieri vi caveranno gli occhi!»

Solo a me importò, perché fui l’unico che non ebbe cuore di assaggiare il sancocho sacrilego. Invece di andarmene a dormire mi precipitai nell’ufficio di «Crónica» e scrissi tutto d’un fiato il racconto di tre clienti di un bordello cui i pivieri avevano cavato gli occhi e nessuno ci aveva creduto. Era di sole quattro cartelle battute a doppio spazio, ed era raccontato alla prima persona plurale da una voce senza nome. È di un realismo trasparente e tuttavia il più enigmatico dei miei racconti, che fra l’altro mi fece proseguire lungo una direzione che stavo per abbandonare credendo che non ci sarei riuscito. Avevo cominciato a scrivere alle quattro del mattino del venerdì e finii alle otto dell’indomani tormentato da un abbagliamento premonitore. Con la complicità infallibile di Porfirio Mendoza, l’impaginatore storico di «El Heraldo», modificai il menabò previsto per l’edizione di «Crónica» che avrebbe circolato il giorno dopo. All’ultimo minuto, disperato per la ghigliottina della chiusura, indicai a Porfirio il titolo definitivo che avevo infine trovato, e lui lo scrisse direttamente nel piombo fuso: La notte dei pivieri.

Per me fu l’inizio di una nuova epoca, dopo nove racconti che erano ancora nel limbo metafisico e quando non avevo progetti per andare avanti in un genere che non riuscivo ad acchiappare. Jorge Zalamea lo ripubblicò il mese dopo su «Crítica», la sua eccellente rivista di grande poesia. L’ho riletto cinquant’anni dopo, prima di scrivere questo paragrafo, e credo che non cambierei neppure una virgola. In mezzo al disordine senza bussola in cui stavo vivendo, quello fu l’inizio di una primavera.

Il paese, invece, era sull’orlo dell’abisso. Laureano Gómez era tornato da New York per essere proclamato candidato conservatore alla presidenza della Repubblica. Il liberalismo si astenne dinanzi al dilagare della violenza, e Gómez venne eletto il 7 agosto 1950. Dal momento che il Congresso era chiuso, fu investito della carica alla presenza della Corte Suprema di Giustizia.

Riuscì a essere fisicamente presente nel governo solo per poco, perché dopo quindici mesi si ritirò dalla presidenza per reali motivi di salute. Lo sostituì il giurista e parlamentare conservatore Roberto Urdaneta Arbeláez, nel suo ruolo di vicepresidente della Repubblica. I più perspicaci la presero come un modo tipico di Laureano Gómez per lasciare il potere in altre mani, ma senza perderlo, e continuare a governare da casa sua per interposta persona. E in casi urgenti, per telefono.

Penso che il ritorno di Álvaro Cepeda con la sua laurea alla Columbia University, un mese prima del sacrificio del piviere, fu decisivo per sopportare il fato funesto di quei giorni. Tornò più spennacchiato e senza i baffetti, e più selvatico di quando se n’era andato via. Germán Vargas e io, che lo aspettavamo da diversi mesi con il timore che a New York l’avessero dirozzato, scoppiammo a ridere quando lo vedemmo scendere dall’aereo in giacca e cravatta e salutando dalla scaletta con la novità di Hemingway: Di là del fiume e tra gli alberi. Glielo strappai di mano, lo accarezzai da una parte e dall’altra, e quando feci per domandargli qualcosa, Álvaro mi prevenne:

«È una merda!»

Germán Vargas, strozzato dal ridere, mi mormorò all’orecchio: «È tornato preciso identico». Tuttavia, Álvaro ci chiarì in seguito che il suo giudizio su quel libro era una battuta, perché aveva appena cominciato a leggerlo sul volo da Miami. Comunque, a sollevarci l’animo fu soprattutto che aveva sempre il morbo del giornalismo, del cinema e della letteratura. Nei mesi successivi, mentre si riacclimatò, ci fece salire la febbre a quaranta.

Fu un contagio immediato. “La Giraffa”, che da qualche mese girava su se stessa dando capocciate a destra e a manca, riprese a respirare con due frammenti saccheggiati dagli originali di La casa. Uno era Il figlio del colonnello, mai nato, e l’altro era Ny, una bambina fuggiasca alla cui porta bussai molte volte in cerca di strade diverse, e che mai rispose. Recuperai anche il mio interesse di adulto per i fumetti, non come passatempo domenicale ma come un nuovo genere letterario condannato senza ragione alla camera dei bambini. Il mio eroe, fra i tanti e tanti, fu Dick Tracy. E inoltre, ovvio, recuperai il culto del cinema che mi aveva inculcato il nonno e che mi aveva assecondato don Antonio Daconte ad Aracataca, e che Álvaro Cepeda trasformò in una passione evangelica per un paese in cui si veniva a conoscenza dei migliori film grazie a racconti di pellegrini. Fu una fortuna che il suo ritorno coincidesse con la prima di due capolavori: Intruder in the Dust, diretto da Clarence Brown dal romanzo di William Faulkner, e Il ritratto di Jennie, diretto da William Mieterle dal romanzo di Robert Nathan. Scrissi di entrambi nella “Giraffa”, dopo lunghe discussioni con Álvaro Cepeda. Ne fui così colpito che iniziai a considerare il cinema secondo un’altra ottica. Prima di conoscere Álvaro io non sapevo che la cosa più importante era il nome del regista, che è l’ultimo a comparire nei titoli di testa. Per me era una semplice questione di scrivere sceneggiature e guidare attori, perché il resto lo facevano i numerosi membri dell’équipe. Quando Álvaro tornò mi fece un corso completo a base di grida e rum bianco fino all’alba ai tavoli delle peggiori osterie, per insegnarmi quanto di cinema gli avevano insegnato negli Stati Uniti, e rimanevamo svegli fino alle prime luci a sognare di farne in Colombia.

A parte queste esplosioni luminose, l’impressione di noi amici che seguivamo Álvaro nella sua velocità di crociera era che non disponeva di serenità per sedersi a scrivere. Noi che lo vivevamo da vicino non riuscivamo a immaginarlo seduto per più di un’ora a una scrivania. Comunque, due o tre mesi dopo il suo ritorno, Tita Manotas – sua fidanzata da molti anni e sua moglie di tutta la vita – ci chiamò terrorizzata per raccontarci che Álvaro aveva venduto il suo camioncino storico e aveva dimenticato nel portaoggetti gli unici originali dei suoi racconti inediti. Non aveva fatto sforzi per rintracciarli, adducendo l’argomento tutto suo che erano «sei o sette racconti di merda». Amici e corrispondenti aiutammo Tita nella ricerca del camioncino più volte rivenduto su tutto il litorale caraibico e nell’entroterra fino a Medellín. Infine lo trovammo in un’officina di Sincelejo, a circa duecento chilometri di distanza. Gli originali su strisce di carta da stampa, masticati e incompleti, li affidammo a Tita per timore che Álvaro li smarrisse di nuovo per negligenza o di proposito.

Due di quei racconti apparvero su «Crónica» e gli altri li conservò Germán Vargas per un paio d’anni mentre si cercava una sistemazione editoriale. La pittrice Cecilia Porras, sempre fedele al gruppo, li illustrò con disegni ispirati che erano una radiografia di Álvaro vestito da tutto quello che poteva essere al contempo: autista di camion, pagliaccio da fiera, poeta pazzo, studente della Columbia o qualsiasi altra cosa, meno che uomo normale. Il libro lo pubblicò la libreria Mondo con il titolo Noi tutti eravamo in attesa, e fu un evento editoriale che passò inosservato agli occhi della critica consacrata. Per me – come scrissi allora – fu il miglior libro di racconti che si fosse pubblicato in Colombia.

Quanto ad Alfonso Fuenmayor, fece recensioni critiche e pezzi sulla letteratura per giornali e riviste, ma aveva un grande pudore di raccoglierli in volume. Era un lettore di una voracità spropositata, paragonabile solo a quella di Álvaro Mutis o di Eduardo Zalamea. Germán Vargas e lui erano dei critici così drastici che lo furono più con i loro stessi racconti che con quelli del prossimo, ma la mania che avevano di trovare giovani talenti non venne mai meno. Fu la primavera creativa in cui corse la voce insistente che Germán passava le notti in bianco scrivendo racconti magistrali, ma non se ne seppe più nulla fino a molti anni dopo, quando si rinchiuse nella camera da letto della sua casa paterna e li bruciò qualche ora prima di sposarsi con la mia comare Susana Linares, per essere sicuro che non sarebbero stati letti neppure da lei. Si supponeva che fossero racconti e saggi, e forse la prima versione di un romanzo, ma Germán non disse mai una parola in merito né prima né dopo, e solo alla vigilia del suo matrimonio prese quella drastica cautela affinché non ne venisse al corrente neppure la donna che il giorno dopo sarebbe diventata sua moglie. Susana se ne accorse, ma non entrò nella camera per impedirglielo, perché sua suocera non gliel’avrebbe permesso. «A quei tempi» mi disse Susi anni dopo con il suo umorismo precipitoso «una fidanzata non poteva entrare prima di sposarsi nella camera da letto del suo promesso.»

Non era passato un anno e le lettere di don Ramón cominciarono a essere meno esplicite, e sempre più tristi e scarse. Entrai nella libreria Mondo il 7 maggio 1952, a mezzogiorno, e Germán non dovette dirmelo perché mi rendessi conto che don Ramón era morto, due giorni prima, nella Barcellona dei suoi sogni. L’unico commento, a mano a mano che arrivavamo nel caffè, fu lo stesso per tutti:

«Che disastro!»

In quel periodo non fui consapevole di vivere un anno diverso della mia vita, e oggi non ho dubbi che sia stato decisivo. Fino ad allora mi ero rassegnato al mio aspetto da pezzente. Ero amato e rispettato da molti, e ammirato da alcuni, in una città dove ognuno viveva secondo i suoi gusti. Facevo una vita intensa, partecipavo a gare artistiche e mondane con i miei sandali da pellegrino che sembravano comprati per imitare Álvaro Cepeda, con un solo paio di pantaloni di tela e due camicie di diagonale che lavavo nella doccia.

Da un giorno all’altro, per motivi diversi – e talvolta troppo frivoli – cominciai a badare di più all’abbigliamento, mi tagliai i capelli come una recluta, mi assottigliai i baffi e imparai a portare certe scarpe da senatore che senza averle mai usate mi aveva regalato il dottor Rafael Marriaga, membro itinerante del gruppo e storiografo della città, perché gli andavano troppo grandi. Per la dinamica inconsapevole dell’arrivismo sociale cominciai a sentire che soffocavo dal caldo nella stanza del Grattacielo, come se Aracataca fosse stata in Siberia, e a essere disturbato dai clienti di passaggio che parlavano ad alta voce al risveglio e non mi stancavo di brontolare perché le passerotte notturne continuavano a portarsi in camera squadre intere di marinai d’acqua dolce.

Oggi mi rendo conto che il mio aspetto da mendicante non era per fare il povero o il poeta ma perché le mie energie erano concentrate a fondo sulla cocciutaggine di imparare a scrivere. Non appena scorsi la strada giusta abbandonai il Grattacielo e mi trasferii nel tranquillo quartiere di El Prado, all’altra estremità urbana e sociale, a due isolati dalla casa di Meira Delmar e a cinque dall’albergo storico in cui i figli dei ricchi ballavano con le loro amanti vergini dopo la messa della domenica. O come disse Germán: cominciai a migliorare nel male.

Abitavo in casa delle sorelle Ávila – Esther, Mayito e Toña – che avevo conosciuto a Sucre, e si erano da tempo impegnate a salvarmi dalla perdizione. Invece dello stambugio di cartone dove avevo perso tante squame di ragazzo ammodo, avevo allora una mia camera da letto con bagno privato e una finestra sul giardino, e i tre pasti al giorno per poco più del mio stipendio da carrettiere. Mi comprai un paio di pantaloni e mezza dozzina di camicie tropicali a fiori e uccelli dipinti, che per qualche tempo mi valsero una fama segreta di finocchio da battello a vapore. Vecchi amici che si erano tenuti lontani da me adesso li incontravo un po’ ovunque. Scoprii con gioia che citavano a memoria gli spropositi della “Giraffa”, che erano fanatici di «Crónica» per quella che loro chiamavano la sua dignità sportiva e che leggevano i miei racconti sia pure senza capirli. Incontrai Ricardo González Ripoll, mio vicino nel dormitorio del Liceo Nazionale, che si era installato a Barranquilla con la sua laurea in architettura e in meno di un anno si era risolto la vita con una Chevrolet di anno incerto, in cui all’alba inscatolava anche otto passeggeri. Tre sere la settimana passava a prendermi a casa per andarcene a fare bisboccia con nuovi amici ossessionati dall’idea di raddrizzare il paese, alcuni con formule di magia politica e altri a cazzotti con la polizia.

Quando fu informata su tali novità, mia madre mi mandò un messaggio molto suo: “I soldi chiamano soldi”. Quelli del gruppo non li misi al corrente del trasloco fino a una sera in cui li trovai al tavolo del caffè Japy, e mi aggrappai alla formula magistrale di Lope de Vega: «E mi diedi un ordine, perché conveniva che dessi un ordine al disordine mio». Non ricordo così tanti fischi neppure a una partita di pallone. Germán scommise che fuori dal Grattacielo non mi sarebbe venuta neppure un’idea. Secondo Álvaro, non sarei sopravvissuto ai torcibudella di tre pasti al giorno e ai loro orari. Alfonso, invece, protestò per l’abuso di intervenire nella mia vita privata e buttò acqua sul fuoco con una discussione sull’urgenza di prendere decisioni radicali sul destino di «Crónica». Penso che in fondo si sentissero colpevoli del mio disordine ma erano troppo dignitosi per non tirare un sospiro di sollievo davanti alla mia decisione.

Al contrario di quanto ci si poteva aspettare, la mia salute e il mio morale migliorarono. Leggevo di meno per la scarsità di tempo, ma migliorai il tono della “Giraffa” e mi costrinsi a continuare a scrivere Foglie morte nella mia nuova camera con la macchina rupestre che mi aveva prestato Alfonso Fuenmayor, e nelle notti che prima sprecavo con lo Scimmione Guerra. In una serata normale nella redazione del giornale potevo scrivere “La Giraffa”, un editoriale, alcuni dei miei tanti articoli senza firma, condensare un racconto poliziesco e scrivere i pezzi dell’ultimo momento per la chiusura di «Crónica». Per fortuna, invece di diventare facile a mano a mano che passavano i giorni, il romanzo in corso iniziò a imporre i suoi criteri contro i miei ed ebbi il candore di intenderli come un sintomo di venti propizi.

Mi sentivo così risoluto che improvvisai in fretta e furia il mio racconto numero dieci – Qualcuno scompiglia queste rose – perché fu colto da un grave infarto l’opinionista politico cui avevamo riservato tre pagine di «Crónica» per un articolo dell’ultimo momento. Solo quando corressi le bozze a stampa del racconto scoprii che era un ennesimo dramma statico di quelli che senza rendermi conto scrivevo già. Questa contrarietà finì per appesantire il rimorso di aver svegliato un amico poco prima della mezzanotte affinché mi scrivesse l’articolo in meno di tre ore. Con quello stato d’animo da penitente scrissi al contempo il racconto, e il lunedì riproposi nel consiglio editoriale l’urgenza di scendere in strada per togliere la rivista dai suoi guai con reportage d’urto. Tuttavia, l’idea – che era di tutti – fu respinta ancora una volta con un argomento favorevole alla mia felicità: se scendevamo in strada, con l’idea idilliaca che avevamo del reportage, la rivista non sarebbe più uscita in tempo – ammesso che uscisse. Dovetti prenderlo come un complimento, ma non riuscii mai a superare la brutta idea che il loro vero motivo era il ricordo ingrato del mio reportage su Berascochea.

Una buona consolazione di quei giorni fu la telefonata di Rafael Escalona, l’autore delle canzoni che si cantavano e si continuano a cantare in questa parte del mondo. Barranquilla era un centro vitale, per via del passaggio frequente dei fisarmonicisti che conoscevamo alle feste di Aracataca, e della loro diffusione intensa da parte delle emittenti della costa caraibica. Un cantante allora molto noto era Guillermo Buitrago, che si vantava di mantenere vive le novità della Provincia. Un altro molto popolare era Crescencio Salcedo, un indio scalzo che si piantava all’angolo del ristorante Americano per cantare a cappella le canzoni sue e altrui, con una voce che aveva qualcosa della latta, ma con un’arte tutta sua che l’aveva imposto tra la folla quotidiana di Calle San Blas. Buona parte della mia prima gioventù la passai al suo fianco, senza neppure salutarlo, senza farmi vedere, finché non imparai a memoria il suo vasto repertorio di canzoni di tutti.

Il culmine di questa passione fu in un pomeriggio di sopore quando il telefono mi interruppe mentre scrivevo “La Giraffa”. Una voce uguale a quella di tante persone conosciute nella mia infanzia mi salutò direttamente:

«Salve, amico. Sono Rafael Escalona.»

Cinque minuti dopo ci incontrammo in un séparé del caffè Roma per stringere un’amicizia di tutta la vita. Appena finito di salutarci, cominciai a insistere perché Escalona mi cantasse le sue ultime canzoni. Versi e versi, con una voce molto bassa e bene impostata, che lui accompagnava tamburellando con le dita sul tavolo. La poesia popolare delle nostre terre si mostrava con un vestito nuovo a ogni strofa. «Ti darò un mazzo di nontiscordardimé affinché tu faccia quel che dice il loro significato» cantava. Quanto a me, gli dimostrai che conoscevo a memoria le migliori canzoni della sua terra, individuate fin da bambino nel fiume composito della tradizione orale. Ma quanto più lo stupì fu che io parlavo della Provincia come se la conoscessi.

Qualche giorno prima, Escalona si era recato in autobus da Villanueva a Valledupar, mentre componeva a memoria la musica e il testo di una nuova canzone per i carnevali della domenica successiva. Era il suo metodo consueto, perché non sapeva scrivere musica né suonare qualche strumento. In uno dei paesi intermedi salì sull’autobus un trovatore errante con sandali e fisarmonica, come innumerevoli altri che percorrevano la regione cantando di fiera in fiera. Escalona lo fece sedere accanto a sé e gli cantò all’orecchio le uniche due strofe terminate della sua nuova canzone.

Il cantore scese felice a metà strada, ed Escalona proseguì con l’autobus fino a Valledupar, dove dovette coricarsi per la febbre a quaranta dovuta a un normale raffreddore. Tre giorni dopo era la domenica di carnevale, e la canzone incompiuta, che Escalona aveva cantato in segreto all’amico casuale, ebbe la meglio su tutta la musica vecchia e nuova da Valledupar fino al Cabo de la Vela. Solo lui capì chi l’aveva diffusa mentre smaltiva la sua febbre di carnevale, e chi le aveva messo il titolo La vecchia Sara.

La storia è veritiera, ma non è strana in una regione e in un ambiente in cui le cose più naturali sono stupefacenti. La fisarmonica, che non è uno strumento proprio della Colombia né di uso generale presso di noi, è popolare nella provincia di Valledupar, forse importato da Aruba e da Curaçao. Durante la Seconda guerra mondiale si interruppe l’importazione dalla Germania, e quelle che c’erano già nella Provincia sopravvissero grazie alle attenzioni dei loro proprietari del posto. Uno di questi fu Leandro Díaz, un falegname che era non solo un compositore geniale e un maestro della fisarmonica, ma anche l’unico che seppe ripararle finché durò la guerra, pur essendo cieco di nascita. Il modo di vivere di questi trovatori è cantare di paese in paese i fatti divertenti e semplici della storia quotidiana, in feste religiose o pagane, e soprattutto nella gazzarra dei carnevali. Quello di Rafael Escalona era un caso diverso. Figlio del colonnello Clemente Escalona, nipote del celebre vescovo Celedón e allievo del liceo di Santa Marta che porta il suo nome, iniziò a comporre fin da piccolo fra lo scandalo della famiglia, che riteneva il canto con la fisarmonica cosa da braccianti. Era non solo l’unico trovatore che avesse fatto il liceo, ma anche uno dei pochi che sapevano leggere e scrivere a quei tempi, e l’uomo più altero e donnaiolo mai esistito. Ma non è né sarà l’ultimo: adesso ce ne sono centinaia e sempre più giovani. Bill Clinton ha potuto rendersene conto negli ultimi giorni della sua presidenza, quando ha ascoltato un gruppo di bambini delle elementari che dalla Provincia erano andati a cantare per lui alla Casa Bianca.

In quei tempi di buona fortuna incontrai per caso Mercedes Barcha, la figlia del farmacista di Sucre cui avevo proposto di sposarci quando lei aveva tredici anni. E al contrario delle altre volte, accettò finalmente un mio invito a ballare la domenica dopo all’Hotel del Prado. Solo allora seppi che si era trasferita a Barranquilla con la famiglia a causa della situazione politica, sempre più opprimente. Demetrio, suo padre, era un liberale tutto d’un pezzo che non aveva ceduto alle prime minacce che gli avevano fatto quando si erano rincrudite la persecuzione e l’ignominia sociale delle pasquinate. Però, dinanzi alle pressioni dei suoi, aveva liquidato le poche cose che gli rimanevano a Sucre e aveva aperto la farmacia a Barranquilla, vicino all’Hotel del Prado. Sebbene avesse gli anni di mio papà, con me intrattenne sempre un’amicizia giovanile che avevamo l’abitudine di rinfrescare nell’osteria di fronte e più di una volta finimmo per sbronzarci come galeotti con il gruppo completo al Terzo Uomo. Mercedes studiava allora a Medellín e raggiungeva la famiglia solo per le vacanze di Natale. Era sempre stata divertente e cortese con me, ma aveva un talento da illusionista nel sottrarsi a domande e a risposte e non lasciarsi mettere con le spalle al muro. Dovetti accettarla come una strategia più pietosa dell’indifferenza o del rifiuto, e mi accontentavo di farmi vedere con suo padre e i suoi amici nell’osteria di fronte. Se lui non sospettò il mio interesse in quelle vacanze ansiose fu perché era il segreto meglio mantenuto nei primi venti secoli della cristianità. In diverse circostanze al Terzo Uomo si vanagloriò della frase che lei mi aveva citato a Sucre durante il nostro primo ballo: «Mio papà dice che non è ancora nato il principe che si sposerà con me». Non seppi neppure se lei ci aveva creduto, ma si comportava come se ci credesse, anche la vigilia di quel Natale in cui accettò che ci incontrassimo la domenica dopo al ballo pomeridiano dell’Hotel del Prado. Sono così superstizioso che attribuii la sua decisione alla pettinatura e ai baffi da artista che mi aveva fatto il barbiere, e al vestito di lino grezzo e alla cravatta di seta acquistati per l’occasione in una svendita di turchi. Sicuro che ci sarebbe andata con il padre, come dappertutto, invitai pure mia sorella Aida Rosa, che passava le sue vacanze con me. Ma Mercedes si presentò da sola, e ballò con una naturalezza e tanta ironia che qualsiasi proposta seria sarebbe sembrata ridicola. Quel giorno si inaugurò la stagione indimenticabile del mio compare Pacho Galán, creatore glorioso del merecumbé che si ballò per anni e fu l’origine di nuove arie caraibiche ancora vive. Lei ballava benissimo la musica alla moda, e approfittava della sua abilità per evitare con arguzie magiche le proposte con cui la incalzavo. Mi sembra che la sua tattica fosse di farmi credere che non mi prendeva sul serio, ma con tanta destrezza che io trovavo sempre il modo per andare avanti.

A mezzanotte in punto si spaventò per l’ora e mi piantò in asso in mezzo alla sala, ma non volle che l’accompagnassi alla porta. A mia sorella sembrò così strano che in qualche modo si sentì colpevole, e mi domando ancora se quel cattivo esempio non avesse a che vedere con la sua decisione repentina di entrare nel convento delle salesiane di Medellín. Mercedes e io, a partire da quel giorno, finimmo per inventarci un codice personale con cui ci intendevamo senza dirci nulla, e anche senza vederci.

Ebbi nuove notizie di lei dopo un mese, il 22 gennaio dell’anno successivo, con un messaggio scarno che mi lasciò a «El Heraldo»: “Hanno ucciso Cayetano”. Per noi poteva essere solo uno: Cayetano Gentile, il nostro amico di Sucre, medico eminente, animatore di balli e innamorato del suo lavoro. La versione immediata fu che l’avevano ucciso a colpi di coltello due fratelli della maestrina della scuola di Chaparral che gli avevamo visto portare sul suo cavallo. Nel corso della giornata, di telegramma in telegramma, ebbi la storia completa.

Non erano ancora tempi dai telefoni facili, e le chiamate personali a lunga distanza venivano concordate con telegrammi previi. La mia reazione immediata fu quella del reporter. Decisi di andare a Sucre per scriverne, ma al giornale lo interpretarono come un impulso sentimentale. E oggi lo capisco, perché già allora noi colombiani ci ammazzavamo a vicenda per qualsiasi motivo, e talvolta li inventavamo per ammazzarci, ma i delitti passionali erano considerati lussi da ricchi nelle città. Mi sembrò che l’argomento fosse eterno e cominciai a prendere appunti ascoltando testimoni, finché mia madre non scoprì le mie intenzioni segrete e mi pregò di non scrivere il reportage. Almeno finché fosse viva la madre di Cayetano, donna Julieta Cimento, che come se non bastasse era sua comare e madrina di battesimo di Hernando, il mio fratello numero otto. Il suo motivo – imprescindibile in un buon reportage – aveva grande peso. Due fratelli della maestra avevano inseguito Cayetano quando aveva tentato di rifugiarsi a casa sua, ma donna Julieta si era precipitata a chiudere la porta di strada, perché aveva creduto che il figlio fosse già nella sua camera. Sicché a non poter entrare era stato lui, e l’avevano assassinato a colpi di coltello contro la porta chiusa.

La mia reazione immediata fu sedermi a scrivere il reportage del delitto ma trovai ogni sorta di intralci. A interessarmi non era più il delitto in sé bensì il tema letterario della responsabilità collettiva. Ma nessun argomento convinse mia madre e mi sembrò una mancanza di rispetto scrivere senza il suo permesso. Tuttavia, dopo quel giorno non ne passò uno senza che mi sentissi braccato dalla voglia di scriverlo. Cominciavo a rassegnarmi, molti anni dopo, mentre aspettavo la partenza di un aereo all’aeroporto di Algeri. La porta della sala di prima classe si aprì d’improvviso, ed entrò un principe arabo con la tunica immacolata del suo rango e sul pugno una femmina splendida di falco pellegrino, che invece del classico cappuccio di cuoio ne portava uno con incrostazioni di diamanti. Naturalmente, mi ricordai di Cayetano Gentile, che aveva imparato da suo padre le belle arti della caccia con il falco, all’inizio con sparvieri creoli e poi con esemplari magnifici venuti dall’Arabia Felice. Al momento della morte nella sua tenuta aveva una falconara da professionista, con due femmine e un maschio ammaestrati per la caccia delle pernici, e un nibbio scozzese addestrato per la difesa personale. Io conoscevo allora la storica intervista che George Plimpton aveva fatto a Ernest Hemingway per «The Paris Review» sul procedimento atto a trasformare un personaggio della vita reale in un personaggio di romanzo. Hemingway aveva risposto: “Se io spiegassi come si fa una cosa del genere, finirebbe per essere un manuale a uso degli avvocati specializzati in casi di diffamazione”. Tuttavia, dopo quella mattina provvidenziale ad Algeri, la mia situazione era tutt’altra: non sarei più riuscito a vivere in pace se non avessi scritto la storia della morte di Cayetano.

Mia madre rimase ferma nella sua decisione di impedirmelo al di là di ogni mia argomentazione, fino a trent’anni dopo il dramma, quando lei stessa mi telefonò a Barcellona per comunicarmi la brutta notizia che Julieta Cimento, la madre di Cayetano, era morta senza che si fosse mai ripresa dalla morte del figlio. Ma questa volta, con la sua morale indomita, mia madre non trovò ragioni per impedire il reportage.

«Solo di una cosa ti supplico come madre» mi disse. «Trattalo come se Cayetano fosse figlio mio.»

Il lungo racconto, con il titolo Cronaca di una morte annunciata, fu pubblicato due anni dopo. Mia madre non lo lesse per un motivo che conservo come un altro gioiello suo nel mio museo personale: «Una cosa risolta così male nella vita non può risolversi bene in un libro».

Il telefono sulla mia scrivania aveva squillato alle cinque del pomeriggio una settimana dopo la morte di Cayetano, mentre cominciavo a scrivere il mio pezzo quotidiano per «El Heraldo». Telefonava mio papà, appena arrivato a Barranquilla senza essersi annunciato, e mi aspettava d’urgenza al caffè Roma. La tensione della sua voce mi spaventò, ma mi allarmai ancora di più vedendolo come non mai, trascurato e con la barba lunga, con il vestito celeste del 9 aprile masticato dall’afa della strada, e a stento sorretto dalla strana placidità dei vinti.

Ne rimasi così sconvolto che non mi sento capace di trasmettere l’angoscia e la chiarezza con cui papà mi informò sul disastro familiare. Sucre, il paradiso della vita facile e delle belle ragazze, si era piegata alla scossa sismica della violenza politica. La morte di Cayetano non era altro che un sintomo.

«Tu non ti rendi conto di cosa sia quell’inferno perché vivi in quest’oasi di pace» mi disse. «Ma se noi siamo ancora vivi là, è solo perché Dio ci conosce.»

Era uno dei pochi membri del Partito conservatore che non avessero dovuto nascondersi dai liberali infiammati dopo il 9 aprile, e adesso quegli stessi del suo partito che si erano rifugiati alla sua ombra lo ripudiavano accusandolo di essere tiepido. Mi dipinse un quadro così terrificante – e così reale – che giustificava bene la sua decisione disorientata di abbandonare tutto per far trasferire la famiglia a Cartagena. Io non avevo ragioni della mente né del cuore da opporgli, ma pensai che avrei potuto intrattenerlo con una soluzione meno radicale del trasloco immediato.

Occorreva tempo per riflettere. Bevemmo due bibite in silenzio, ognuno con i suoi pensieri, e lui riacquistò il suo idealismo febbrile prima di finire e mi lasciò senza parole. «L’unica cosa che mi consola in tutto questo disastro» disse con un sospiro tremulo «è la gioia che tu possa finalmente terminare i tuoi studi.» Non gli avrei mai detto quanto mi commuovesse quell’incredibile felicità per un motivo tanto banale. Sentii un soffio gelido nel ventre, fulminato dall’idea perversa che l’esodo della famiglia fosse solo una sua astuzia per costringermi a diventare un avvocato. Lo guardai dritto negli occhi ed erano due gore attonite. Mi rendevo conto che era così indifeso e ansioso che non mi avrebbe costretto a fare alcunché, né mi avrebbe negato nulla, ma nutriva abbastanza fede nella sua Divina Provvidenza da credere che avrei potuto arrendermi per stanchezza. Anzi, con lo stesso spirito inerme mi rivelò che mi aveva trovato un lavoro a Cartagena, e che era tutto pronto perché iniziassi il lunedì successivo. Un gran bel lavoro, mi spiegò, per cui mi sarei presentato solo ogni quindici giorni a riscuotere lo stipendio.

Era molto più di quanto io potessi digerire. A denti stretti gli avanzai alcune reticenze che lo preparassero a un rifiuto finale. Gli raccontai la lunga conversazione con mia madre durante il viaggio ad Aracataca su cui non avevo mai ricevuto un suo commento, ma capii che la sua indifferenza nei confronti dell’argomento era la migliore risposta. La cosa più triste era che io giocavo con dadi truccati, perché sapevo che non mi avrebbero accettato all’università essendo stato respinto in due materie del secondo anno, ai cui esami non mi ero mai ripresentato, e in altre tre irrecuperabili del terzo. L’avevo nascosto alla famiglia per evitarle un dispiacere inutile e non volli neppure immaginare quale sarebbe stata la reazione di papà se gliel’avessi raccontato quel pomeriggio. All’inizio della conversazione avevo deciso di non cedere a debolezze del cuore perché mi addolorava che un uomo tanto buono dovesse farsi vedere dai suoi figli in simili condizioni di sconfitta. Comunque, mi sembrò che fosse come mostrare troppa fiducia nei confronti della vita. Alla fine mi rassegnai alla formula facile di chiedergli una notte di grazia per pensare.

«D’accordo» disse lui «sempre che tu non perda di vista che il destino della famiglia è nelle tue mani.»

La condizione era di troppo. Ero così consapevole della mia debolezza, che quando lo salutai alla partenza dell’ultimo autobus, alle sette di sera, dovetti mettere a tacere il cuore per non andarmene via sul sedile accanto al suo. Per me era chiaro che il ciclo si era chiuso, e che la famiglia tornava a essere così povera che avrebbe potuto sopravvivere solo con il contributo di tutti.

Non era una buona nottata per prendere una decisione. La polizia aveva fatto sloggiare con la forza diverse famiglie di rifugiati dell’entroterra che si erano accampate nel Parco di San Nicolás in fuga dalla violenza rurale. Tuttavia, la pace del caffè Roma era inespugnabile. I rifugiati spagnoli mi domandavano sempre che notizie avevo di don Ramón Vinyes, e per scherzo rispondevo sempre che le sue lettere non contenevano notizie sulla Spagna bensì domande ansiose su quelle di Barranquilla. Da quando morì non lo menzionarono più ma continuarono a tenere vuota la sua seggiola al tavolo. Un amico si congratulò per “La Giraffa” del giorno prima che in qualche modo gli aveva ricordato il romanticismo lacerato di Mariano José de Larra, e non capii mai il perché. Il professor Pérez Domenech mi tolse dall’impiccio con una delle sue frasi opportune: «Spero che non ne segua pure il cattivo esempio di spararsi un colpo». Credo che non l’avrebbe detto se avesse saputo fino a che punto la faccenda poteva essere vera quella notte.

Mezz’ora dopo presi sottobraccio Germán Vargas e lo portai in fondo al caffè Japy. Non appena ci ebbero serviti gli dissi che dovevo fargli una domanda urgente. Lui interruppe il gesto di portarsi alle labbra la tazzina – preciso identico a don Ramón – e mi domandò allarmato:

«Per dove parte?»

La sua chiaroveggenza mi impressionò.

«Come cazzo lo sa?» gli dissi.

Non lo sapeva, ma l’aveva previsto, e pensava che il mio allontanamento sarebbe stato la fine di «Crónica», e un’irresponsabilità grave che sarebbe pesata su di me per il resto della mia vita. Mi lasciò intendere che era poco meno che un tradimento, e che nessuno più di lui aveva il diritto di dirmelo. Nessuno sapeva cosa fare di «Crónica» ma noi tutti eravamo consapevoli che Alfonso l’aveva sorretta in un momento cruciale, anche con investimenti superiori alle sue possibilità, sicché non riuscii mai a togliere a Germán la brutta idea che il mio trasferimento immediato era una sentenza di morte per la rivista. Sono sicuro che lui, che capiva tutto, sapeva che i miei motivi erano ineludibili, ma osservò il dovere morale di dirmi quello che pensava.

Il giorno dopo, mentre andavo all’ufficio di «Crónica», Álvaro Cepeda diede una dimostrazione commovente del nervosismo che gli suscitavano le burrasche interiori degli amici. Senza dubbio Germán gli aveva già comunicato la mia decisione di andarmene e la sua timidezza esemplare salvò entrambi da qualsiasi argomento salottiero.

«Che cazzo» mi disse. «Andarsene a Cartagena è come andarsene da nessuna parte. Non sarebbe la stessa cosa andarsene a New York, come ho fatto io, che sono qui tutto intero.»

Era il genere di risposte paraboliche che gli servivano in casi come il mio per sottrarsi alla voglia di piangere. Proprio per questo non mi stupì che preferisse parlare per la prima volta del progetto di fare del cinema in Colombia, che avremmo portato avanti senza risultati per il resto delle nostre vite. Lo abbordò alla stregua di un modo obliquo per lasciarmi con qualche speranza, e fece una frenata brusca tra la folla ingolfata e le bancarelle di cianfrusaglie di Calle San Blas.

«Ho già detto ad Alfonso» mi gridò dal finestrino «che mandi al diavolo la rivista. Facciamone una come “Time”!»

La conversazione con Alfonso non fu facile per me né per lui in quanto erano sei mesi che dovevamo chiarire un punto, ed entrambi eravamo vittime di balbettio mentale in circostanze difficili. Era successo che in una delle mie bizze puerili avevo tolto il mio nome e il mio titolo dal sommario di «Crónica», a titolo di metafora di rinuncia formale, e quando la bufera era passata mi dimenticai di reinserirli. Nessuno se n’era reso conto prima di Germán Vargas due settimane dopo, che ne parlò con Alfonso. Anche per lui fu una sorpresa. Porfirio, l’addetto all’impaginazione, raccontò loro delle mie bizze, e loro decisero di lasciare le cose com’erano finché io non avessi spiegato i miei motivi. Per mia disgrazia, me ne dimenticai del tutto fino al giorno in cui Alfonso e io ci mettemmo d’accordo sul mio allontanamento da «Crónica». Quando finimmo, mi salutò morto dal ridere con una delle sue battute tipiche, forte ma irresistibile.

«È una fortuna» disse «che non dobbiamo neppure togliere il tuo nome dal sommario.»

Solo allora rivissi l’incidente come una coltellata e sentii che la terra sprofondava sotto i miei piedi, non per quello che Alfonso aveva detto in modo così opportuno, ma perché mi ero dimenticato di chiarirlo. Alfonso, come c’era da aspettarsi, mi fornì una spiegazione da adulto. Se era l’unica contrarietà che non avevamo sviscerato non era bene lasciarla senza una spiegazione. Il resto l’avrebbe fatto Alfonso insieme ad Álvaro e a Germán, e se fra tutti ci fosse stato da salvare la barca io avrei ben potuto fare ritorno nel giro di un paio d’ore. Come risorsa estrema contavamo sul consiglio editoriale, una specie di Divina Provvidenza che non eravamo mai riusciti a far sedere intorno al lungo tavolo di noce delle grandi decisioni.

I commenti di Germán e di Álvaro mi infusero il coraggio di cui avevo bisogno per andarmene. Alfonso capì le mie ragioni e le accolse come un sollievo, ma non diede assolutamente a intendere che «Crónica» avrebbe potuto finire con il mio allontanamento. Al contrario, mi consigliò di affrontare la crisi con calma, mi tranquillizzò con l’idea che avrebbe costruito una base solida con il consiglio editoriale, e disse che mi avrebbe avvertito quando fosse stato possibile fare qualcosa che valesse davvero la pena.

Mi parve il primo indizio che Alfonso immaginava la possibilità inverosimile che «Crónica» finisse. E così accadde, senza pena né gloria, il 28 giugno, dopo cinquantotto numeri in quattordici mesi. Comunque, mezzo secolo dopo, ho l’impressione che la rivista sia stata un evento importante del giornalismo nazionale. Non ne rimase una raccolta completa, solo i sei primi numeri, e alcuni ritagli nella biblioteca catalana di don Ramón Vinyes.

Un caso fortunato per me fu che nella casa dove abitavo volessero cambiare i mobili del salotto, e me li offrirono a prezzo ridotto. Il giorno prima del viaggio, sistemando i miei conti con «El Heraldo», accettarono di anticiparmi sei mesi della “Giraffa”. Con parte di quei soldi comprai i mobili di Mayito per la nostra casa di Cartagena, perché sapevo che la famiglia non avrebbe portato quelli di Sucre né aveva modo di comprarli tutti. Non posso omettere che con cinquant’anni in più sono sempre ben tenuti e in uso, perché mia madre riconoscente non permise mai di rivenderli.

Una settimana dopo la visita di mio padre mi trasferii a Cartagena con l’unico carico dei mobili e poco più di quanto avevo addosso. Al contrario della prima volta, sapevo come fare quello di cui c’era bisogno, conoscevo le persone giuste a Cartagena, e volevo con tutto il cuore che alla famiglia le cose andassero bene, ma che a me andassero male come castigo per la mia mancanza di carattere.

La casa si trovava in una buona zona del quartiere della Popa, all’ombra del convento storico che è sempre parso sul punto di crollare. Le quattro camere da letto e i due bagni al piano terreno erano riservati ai genitori e agli undici figli, da me che ero il maggiore, di quasi ventisei anni, fino a Eligio, che era il minore, di cinque. Tutti bene allevati secondo la cultura caraibica delle amache e delle stuoie per terra e dei letti per tutti quanti avessero trovato posto lì.

Al primo piano abitava lo zio Hermógenes Sol, fratello di mio padre, con suo figlio Carlos Martínez Simahan. La casa non era sufficiente per tutti, ma l’affitto era ragionevole grazie agli affari dello zio con la proprietaria, di cui sapevamo solo che era molto ricca e che veniva chiamata la Pepa. La famiglia, con la sua implacabile tendenza agli scherzi, non tardò a trovare l’indirizzo perfetto a mo’ di ritornello: «La casa della Pepa giusto ai piedi della Popa».

L’arrivo della prole è per me un ricordo misterioso. L’illuminazione si era interrotta in mezza città, e cercavamo di sistemare la casa nel buio per mettere a letto i bambini. Noi fratelli maggiori ci riconoscevamo dalle voci, ma i minori erano cambiati tanto dopo la mia ultima visita, che i loro occhi enormi e tristi mi spaventavano alla luce delle candele. Il disordine di bauli, fagotti e amache appese nelle tenebre lo patii come un 9 aprile domestico. Tuttavia, l’impressione più forte la ebbi quando cercai di rimuovere un sacco senza forma che mi sfuggiva dalle mani. Erano i resti della nonna Tranquilina che mia madre aveva fatto disseppellire e che si era portata appresso per depositarli nell’ossario di San Pedro Claver, dove si trovano quelli di mio padre e della zia Elvira Carrillo in una stessa cripta.

Mio zio Hermógenes Sol era l’uomo provvidenziale in quell’emergenza. L’avevano nominato segretario generale della polizia distrettuale a Cartagena e il suo primo provvedimento radicale fu aprire una breccia burocratica per salvare la famiglia. Incluso me, lo sfacciato politico con una reputazione da comunista che mi ero guadagnato non per la mia ideologia ma per il mio modo di vestire. C’erano lavori per tutti. A papà diedero un incarico amministrativo senza responsabilità politica. Mio fratello Luis Enrique lo nominarono investigatore e a me diedero un canonicato negli uffici del censimento nazionale che il governo conservatore si impegnava a fare, forse per avere un’idea di quanti avversari rimanessero vivi. Il costo morale dell’impiego era per me più pericoloso del costo politico, perché riscuotevo lo stipendio ogni due settimane e non potevo farmi vedere dal personale nel resto del mese per evitare domande. La giustificazione ufficiale, non solo per me ma anche per cento e più altri impiegati, era che mi trovavo in missione fuori città.

Il caffè Moka, davanti agli uffici del censimento, era sempre zeppo di falsi burocrati dei paesi vicini che andavano lì solo per riscuotere. Non ci fu un centesimo per il mio uso personale durante il periodo in cui ebbi la nomina, perché il mio stipendio era sostanziale e veniva assorbito tutto dalle spese domestiche. Nel frattempo, papà aveva cercato di iscrivermi alla Facoltà di Legge, e si era scontrato con la verità che io gli avevo nascosto. Il solo fatto che lui lo sapesse mi rese felice come se mi avessero consegnato la laurea. La mia felicità era ancora più meritata, perché in mezzo a tante contrarietà e a tanti scombugli avevo finalmente trovato il tempo e lo spazio per finire il romanzo.

La mia entrata a «El Universal» me la fecero vivere come un ritorno a casa. Erano le sei del pomeriggio, l’ora con più trambusto, e il silenzio ruvido che la mia entrata determinò fra le linotype e le macchine da scrivere mi si annodò in gola. Per il maestro Zabala e per la sua chioma da indio non era passato un solo minuto. Come se non me ne fossi mai andato via mi chiese il favore di scrivergli un pezzo da prima pagina per cui era in ritardo. La mia macchina la occupava un novellino adolescente che cascò a terra per l’urgenza frastornata con cui mi cedette il sedile. La prima cosa che mi stupì fu la difficoltà di un pezzo anonimo con la circospezione che richiedeva la prima pagina, dopo quasi due anni di spropositi con “La Giraffa”. Avevo scritto una cartella quando venne a salutarmi il direttore López Escauriaza. La sua flemma britannica era un luogo comune in chiacchierate fra amici e caricature politiche, e mi colpì il suo rossore di gioia mentre mi salutava con un abbraccio. Quando ebbi finito il pezzo, Zabala mi aspettava con un foglietto su cui il direttore aveva fatto dei conti per propormi uno stipendio di centoventi pesos al mese per editoriali. Mi colpì tanto la cifra, insolita per la data e il luogo, che non risposi neppure né ringraziai ma mi sedetti a scrivere altri due pezzi, inebriato dalla sensazione che la terra girava davvero intorno al sole.

Era come essere tornato alle origini. Gli stessi argomenti corretti in rosso liberale dal maestro Zabala, tagliuzzati dalla stessa censura di un censore ormai vinto dalle astuzie empie della redazione, le stesse mezzanotti a base di bistecca accompagnata da banane fritte alla Grotta e lo stesso tema del mondo da rimettere a posto fino all’alba sul Paseo de los Mártires. Rojas Herazo aveva passato un anno vendendo quadri per trasferirsi da qualsiasi altra parte, finché non si era sposato con Rosa Isabel, la grande, e aveva traslocato a Bogotá. Alla fine della notte mi sedevo a scrivere “La Giraffa” che mandavo a «El Heraldo» con l’unico mezzo moderno di allora che era la normalissima posta, e con pochissime eccezioni per forza maggiore, fino al saldo del debito.

La vita con la famiglia al completo, in condizioni precarie, era un dominio non della memoria ma dell’immaginazione. I genitori dormivano in una camera da letto al piano terreno con alcuni dei più piccoli. Le quattro sorelle si sentivano ormai in diritto di avere una camera a testa. Nella terza dormivano Hernando e Alfredo Ricardo, affidati a Jaime, che li teneva in stato di all’erta con le sue prediche filosofiche e matematiche. Rita, che era sui quattordici anni, studiava fino a mezzanotte davanti alla porta di strada sotto la luce del lampione pubblico, per risparmiare quella di casa. Imparava a memoria le lezioni recitandole ad alta voce e con la grazia e la buona dizione che ha ancora oggi. Molte stranezze dei miei libri vengono dai suoi esercizi di lettura, con la mula che va al mulino e la cioccolata del ciccione che ciangotta e cicala e l’indovino che si dondola didascalico. La casa era più viva e soprattutto più umana dopo la mezzanotte, fra l’andare in cucina a bere un po’ d’acqua, o al gabinetto per urgenze liquide o solide, o appendere amache incrociate a diversi livelli nei corridoi. Io stavo al secondo piano con Gustavo e Luis Enrique – quando lo zio e suo figlio si installarono nella loro casa di famiglia – e in seguito con Jaime, sottoposto alla penitenza di non pontificare su nulla dopo le nove di sera. Un giorno all’alba ci tenne svegli per diverse ore il belato ciclico di un agnello orfano. Gustavo disse esasperato:

«Sembra un faro.»

Non lo dimenticai mai, perché era il genere di similitudini che a quel tempo acchiappavo al volo nella vita reale per il romanzo imminente.

Fu la casa più viva fra le tante di Cartagena, che andarono scadendo come le risorse della famiglia. Cercando quartieri più convenienti scendemmo di livello fino alla casa del Toril, dove di notte compariva il fantasma di una donna. Ebbi la fortuna di non trovarmi lì, ma le testimonianze di genitori e fratelli mi causavano terrore come se mi ci fossi trovato. La prima notte i miei genitori dormicchiavano sul divano del salotto, e videro l’apparizione che passò senza guardarli da una camera all’altra, con un vestito a fiorellini rossi e i capelli corti tenuti dietro le orecchie da fiocchetti rossi. Mia madre la descrisse persino nei disegni del vestito e nel modello delle scarpe. Papà negava di averla vista per non impressionare oltre la moglie né spaventare i figli, ma la familiarità con cui l’apparizione si muoveva per la casa fin dall’imbrunire non permetteva di ignorarla. Un giorno all’alba mia sorella Margot si svegliò e la vide ai piedi del suo letto che la scrutava con uno sguardo intenso. Ma a impressionarla fu soprattutto la paura di essere vista da un’altra vita.

La domenica, all’uscita da messa, una vicina confermò a mia madre che in quella casa non abitava nessuno da molti anni a causa della sfacciataggine della donna fantasma che una volta era apparsa in pieno giorno mentre la famiglia pranzava. Il giorno dopo mia madre uscì insieme a due dei più piccoli in cerca di una casa dove traslocare e la trovò in quattro ore. Tuttavia, alla maggior parte dei fratelli costò fatica esorcizzare l’idea che il fantasma della morta avesse traslocato con loro.

Nella casa ai piedi della Popa, nonostante il molto tempo di cui disponevo, era tanto il piacere che mi dava lo scrivere, che le giornate mi sembravano corte. Lì ricomparve Ramiro de la Espriella, con la sua laurea di dottore in Legge, più politico che mai ed entusiasta della lettura di romanzi recenti. Soprattutto di La pelle, di Curzio Malaparte, che quell’anno era diventato il libro chiave della mia generazione. L’efficacia della prosa, il vigore dell’intelligenza e la concezione truculenta della storia contemporanea ci catturavano fino all’alba. Però, il tempo ci dimostrò che Malaparte era destinato a essere un esempio di virtù diverse da quelle che io credevo, e che finirono per oscurare la sua immagine. Tutto il contrario di quanto accadde quasi nello stesso tempo con Albert Camus.

I De la Espriella abitavano allora vicino a noi e avevano un negozietto da cui saccheggiavano le bottiglie innocenti per portarle a casa nostra. Contro il consiglio di don Ramón Vinyes, leggevo per loro e per i miei fratelli lunghi pezzi dei miei lavori, nelle condizioni in cui si trovavano e ancora da dirozzare, e sulle stesse strisce di carta da stampa di qualsiasi cosa scrivessi nelle notti insonni di «El Universal».

In quei giorni tornarono Álvaro Mutis e Gonzalo Mallarino, ma ebbi il fortunato pudore di non chiedere che leggessero il mio lavoro ancora incompiuto e senza titolo. Volevo rinchiudermi senza pause per fare una copia in normali cartelle prima dell’ultima correzione. Avevo una quarantina di pagine in più rispetto alla versione prevista, ma ignoravo ancora che questo potesse essere un grave ostacolo. Ben presto capii che lo era: sono schiavo di un rigore perfezionista che mi costringe a fare un calcolo previo della lunghezza del libro, con un numero esatto di pagine per ogni capitolo e per il libro in totale. Un solo sbaglio in questi calcoli mi costringerebbe a riconsiderare tutto, perché anche solo un errore di battitura mi disturba come un errore di creazione. Pensavo che tale metodo assoluto dipendesse da un criterio esacerbato della responsabilità, ma oggi so che era un semplice terrore, puro e fisico.

Invece, di nuovo senza dare retta a don Ramón Vinyes, feci pervenire a Gustavo Ibarra l’originale completo, sia pure senza titolo, quando lo ritenni finito. Due giorni dopo mi invitò a casa sua. Lo trovai su una sedia a dondolo di vimini sulla terrazza davanti al mare, tostato dal sole e rilassato in pigiama, e mi commosse la tenerezza con cui accarezzava le mie pagine mentre mi parlava. Un vero maestro, che non mi tenne una lezione sul libro né mi disse se gli sembrava bello o brutto, ma che mi fece prendere coscienza dei suoi valori etici. Alla fine mi osservò soddisfatto e concluse con la sua semplicità quotidiana:

«Questo è il mito di Antigone.»

Dalla mia espressione si accorse che non avevo inteso, e prese dai suoi scaffali il libro di Sofocle e mi lesse quello che voleva dire. La situazione drammatica del mio romanzo, in effetti, era in essenza la stessa di Antigone, condannata a lasciare insepolto il cadavere di suo fratello Polinice per ordine del re Creonte, zio di entrambi. Io avevo letto Edipo a Colono nel volume che lo stesso Gustavo mi aveva regalato nei giorni in cui ci eravamo conosciuti, ma ricordavo troppo male il mito di Antigone per ricostruirlo a memoria all’interno del dramma della Zona bananiera, le cui affinità emotive non avevo colto fino ad allora. Sentii l’anima ravvolta di felicità e di delusione. Quella notte rilessi l’opera, con una strana mescolanza di orgoglio per aver coinciso in buona fede con uno scrittore così grande e di dolore per la vergogna pubblica del plagio. Dopo una settimana di crisi torbida decisi di fare qualche cambiamento di fondo che lasciasse in salvo la mia buona fede, sempre senza rendermi conto della vanità sovrumana di modificare un libro mio affinché non sembrasse di Sofocle. Alla fine – rassegnato – mi sentii con il diritto morale di usare una frase sua come epigrafe reverenziale, e così feci.

Il trasferimento a Cartagena ci protesse in tempo dal deterioramento grave e pericoloso di Sucre, ma la maggior parte dei calcoli si rivelarono illusori, sia per la scarsità degli introiti sia per la dimensione della famiglia. Mia madre diceva che i figli dei poveri mangiano di più e crescono più in fretta di quelli dei ricchi, e per dimostrarlo bastava l’esempio della sua stessa casa. Gli stipendi di tutti non sarebbero bastati per vivere senza impicci.

Il tempo si occupò del resto. Jaime, secondo un’altra confabulazione familiare, divenne ingegnere civile, l’unico della famiglia che stimasse una laurea alla pari di un titolo nobiliare. Luis Enrique diventò un ragioniere e Gustavo si specializzò come tipografo, ed entrambi continuarono a essere gli stessi chitarristi e cantanti di serenate altrui. Yiyo ci sorprese fin da molto piccolo con una vocazione letteraria ben definita e per il suo carattere forte, di cui ci aveva dato una dimostrazione precoce a cinque anni quando l’avevano colto mentre cercava di appiccare il fuoco a un armadio con l’illusione di vedere i pompieri che spegnevano l’incendio dentro la casa. Anni dopo, quando lui e suo fratello Cuqui furono invitati da compagni più grandi a fumare marihuana, Yiyo rifiutò spaventato. Il Cuqui, invece, che è sempre stato curioso e temerario, l’aspirò a fondo. Anni più tardi, naufrago nelle sabbie mobili della droga, mi raccontò che fin da quel primo viaggio si era detto: “Merda! Non voglio fare nient’altro che questo nella vita”. Nei quarant’anni successivi, con una passione senza avvenire, non fece che mantenere la promessa di morire secondo la sua legge. A cinquantadue anni calcò troppo la mano sul suo paradiso artificiale e un infarto lo fulminò di brutto.

Nanchi – l’uomo più pacifico del mondo – rimase nell’esercito dopo il servizio militare obbligatorio, si specializzò in ogni sorta di armi moderne e prese parte a numerose simulazioni, ma non ebbe mai l’occasione di una delle nostre tante guerre croniche. Sicché si accontentò del lavoro di pompiere allorché uscì dall’esercito, ma neppure lì ebbe l’occasione di spegnere un solo incendio in oltre cinque anni. Tuttavia, non si sentì mai frustrato, grazie a un senso dell’umorismo che lo consacrò in famiglia come un maestro della battuta istantanea, e gli permise di essere felice per il solo fatto di essere vivo.

Yiyo, negli anni più difficili della povertà, divenne scrittore e giornalista con il sudore della sua fronte, senza aver mai fumato né bevuto nella sua vita. La sua vocazione letteraria travolgente e la sua creatività silenziosa si imposero contro l’avversità. Morì a cinquantaquattro anni, avendo avuto il tempo di pubblicare solo un libro di oltre seicento pagine con un’indagine magistrale sulla vita segreta di Cent’anni di solitudine, cui aveva lavorato per anni senza che io lo sapessi, e senza mai chiedermi un’informazione diretta.

Appena adolescente, Rita seppe trarre profitto dalle lezioni impartite ad altri. Quando tornai alla casa dei miei genitori dopo una lunga assenza, stava soffrendo lo stesso purgatorio di tutte per i suoi amori con un attraente uomo bruno, serio e ammodo, la cui unica incompatibilità con lei erano due palmi e mezzo di statura. Quella stessa sera trovai mio padre che ascoltava le notizie sull’amaca della camera da letto. Abbassai il volume della radio, mi sedetti sul letto di fronte e gli domandai con il mio diritto di primogenitura come andavano gli amori di Rita. Lui mi sparò la risposta che senza dubbio aveva previsto da sempre.

«Vanno che lui è un ladro.»

Proprio quello che mi aspettavo.

«Ladro di cosa?» gli domandai.

«Ladro ladro» mi disse lui, sempre senza guardarmi.

«Ma cos’ha rubato?» gli domandai senza compassione.

Lui continuò a non guardarmi.

«Be’» sospirò infine. «Lui no, ma ha un fratello in carcere per furto.»

«Allora non c’è problema» gli dissi con un’imbecillità facile «perché Rita non vuole sposarsi con lui ma con quello che non è in carcere.»

Non replicò. La sua rettitudine priva di macchie aveva superato i limiti fin dalla prima risposta, perché sapeva pure che non era sicura la voce del fratello in carcere. Senza altri argomenti, cercò di aggrapparsi al mito della dignità.

«Va bene, ma che si decidano a sposarsi, perché non voglio fidanzamenti lunghi in questa casa.»

La mia replica fu immediata e con una mancanza di carità che non mi sono mai perdonato.

«Domani, sul presto.»

«Caspita! Non è neppure il caso di esagerare» mi rispose papà innervosito ma già con il suo primo sorriso. «Quella ragazzina non ha ancora niente da mettersi addosso.»

L’ultima volta che vidi la zia Pa, quando aveva quasi novant’anni, fu un pomeriggio di caldo infame in cui arrivò a Cartagena senza essersi annunciata. Veniva da Riohacha su un taxi reggendo una valigetta da scolara, in lutto stretto e con un turbante di straccio nero. Entrò felice, le braccia aperte, e gridò a tutti:

«Vengo a salutarvi perché sto per morire.»

L’accogliemmo non solo perché era chi era, ma anche perché sapevamo fino a che punto conosceva i suoi patti con la morte. Si fermò in casa, aspettando la sua ora nella stanzetta di servizio, l’unica che accettò per dormirci, e lì morì in odore di castità a un’età che calcolavamo fosse di cento e uno anni.

Quel periodo fu il più intenso a «El Universal». Zabala mi orientava con la sua esperienza politica affinché i miei pezzi dicessero quello che dovevano dire senza inciampare nella matita della censura, e per la prima volta gli interessò la mia vecchia idea di scrivere reportage per il giornale. Di lì a poco ci fu il terribile episodio dei turisti attaccati dagli squali sulle spiagge di Marbella. L’idea più originale del municipio fu quella di offrire cinquanta pesos per ogni squalo morto, e il giorno dopo non bastavano i rami dei mandorli per esibire quelli catturati durante la notte. Héctor Rosas Herazo, morto dal ridere, scrisse da Bogotá nella sua nuova rubrica di «El Tiempo» un pezzo che metteva in burla lo sproposito di applicare alla caccia allo squalo il metodo stantio di prenderlo per la coda. Questo mi diede l’idea di scrivere il reportage della caccia notturna. Zabala mi appoggiò entusiasta, ma il mio fallimento iniziò al momento stesso di imbarcarmi, quando mi domandarono se pativo il mal di mare e risposi di no; se avevo paura del mare e la verità era che ne avevo, ma dissi sempre di no, e alla fine mi domandarono se sapevo nuotare – che avrebbe dovuto essere la prima domanda – e non osai dire la bugia che sapevo farlo. Comunque, su terra ferma e da una conversazione fra marinai, venni a sapere che i cacciatori andavano fino alle Bocas de Ceniza, a ottantanove miglia nautiche da Cartagena, e che tornavano carichi di squali innocenti per venderli come criminali a cinquanta pesos l’uno. La notizia grossa finì quello stesso giorno, e per me fu la fine dell’illusione del reportage. Al suo posto, pubblicai il mio racconto numero otto: Nabo, il negro che fece aspettare gli angeli. Almeno due critici seri e miei severi amici di Barranquilla lo giudicarono un buon cambio di direzione.

Non credo che la mia maturità politica fosse sufficiente per coinvolgermi, ma il fatto è che subii una ricaduta simile a quella precedente. Mi sentii così impantanato che il mio unico divertimento era stare sveglio fino all’alba con gli ubriachi a Las Bóvedas, dalle parti delle mura, lì dove c’erano stati bordelli per militari durante la Colonia e in seguito un carcere politico sinistro. Il generale Francisco de Paula Santander vi aveva scontato una condanna di otto mesi, prima di essere esiliato in Europa dai suoi compagni di causa e d’armi.

Il guardiano di quelle reliquie storiche era un linotipista in pensione i cui colleghi attivi si riunivano con lui dopo la chiusura dei giornali per festeggiare il nuovo giorno tutti i giorni con una damigiana di rum bianco clandestino miscelato con arti da masnadieri. Erano tipografi colti per tradizione familiare, grammatici drammatici e grandi bevitori del sabato. Mi unii al loro gruppo.

Il più giovane si chiamava Guillermo Dávila e aveva compiuto la prodezza di lavorare sulla costa malgrado l’intransigenza di alcuni dirigenti regionali che non gradivano accettare gente di Bogotá fra loro. Forse ci riuscì per arte della sua arte, perché oltre alla sua esperienza nel lavoro e alla sua simpatia personale era un meraviglioso prestidigitatore. Ci lasciava abbagliati davanti alle ingegnosità magiche di far uscire uccelli vivi dai cassetti delle scrivanie o rendere bianchi i fogli su cui avevamo scritto il pezzo appena consegnato mentre l’edizione stava per essere chiusa. Il maestro Zabala, così severo nell’adempimento del dovere, dimenticava per un istante Paderewski e la rivoluzione proletaria, e chiedeva un applauso per il mago, con l’avvertenza sempre reiterata e disobbedita che fosse l’ultima volta. Per me, spartire con un mago il lavoro quotidiano fu come scoprire infine la realtà.

In una di quelle albe a Las Bóvedas, Dávila mi raccontò la sua idea di fare un giornale di ventiquattro per ventiquattro – mezza cartella – che circolasse gratis prima di sera nell’ora frenetica della chiusura dei negozi. Sarebbe stato il giornale più piccolo del mondo da leggere in dieci minuti. E così fu. Si chiamava «Comprimido», “compresso”, lo scrivevo io in un’ora alle undici del mattino, lo impaginavo e lo stampava Dávila in due ore e lo distribuiva uno strillone temerario che non aveva fiato neppure per pubblicizzarlo gridando più di una volta.

Uscì martedì 18 settembre 1951 ed è impossibile immaginare un successo più travolgente né più breve: tre numeri in tre giorni. Dávila mi confessò che neppure per arte di magia nera avrebbe potuto concepire un’idea così grande a così basso costo, che occupasse così poco spazio, si realizzasse in così breve tempo e scomparisse con tanta rapidità. La cosa più strana fu che per un istante della seconda giornata, inebriato dal ruffaraffa per strada e dal fervore dei fanatici, arrivai a pensare che la soluzione della mia vita poteva essere altrettanto semplice. Il sogno durò fino al giovedì, quando il direttore ci dimostrò che un numero in più ci avrebbe portati al fallimento, anche se avessimo deciso di pubblicare annunci commerciali, perché avrebbero dovuto essere così piccoli e così cari che non c’era una soluzione razionale. La stessa idea del giornale, che si basava sul suo formato, recava con sé il germe matematico della sua stessa distruzione: era tanto più caro quanto più si fosse venduto.

Rimasi a mani vuote. Il trasferimento a Cartagena era stato opportuno e utile dopo l’esperienza di «Crónica», e inoltre mi aveva fornito un’atmosfera molto propizia per continuare a scrivere Foglie morte, soprattutto per la febbre creativa con cui si viveva a casa nostra, dove le cose più insolite sembravano sempre possibili. Mi basterebbe evocare un pranzo in cui chiacchieravo con mio papà sulla difficoltà di molti scrittori nello scrivere le loro memorie quando non si ricordavano più nulla. Il Cuqui, di appena sei anni, trasse la conclusione con una semplicità magistrale:

«Allora» disse «uno scrittore deve innanzitutto scrivere le sue memorie, quando si ricorda ancora di tutto.»

Non osai confessare che con Foglie morte mi stava accadendo la stessa cosa che con La casa: cominciava a interessarmi più la tecnica che il tema. Dopo un anno in cui avevo lavorato con tanta gioia, mi sembrò che fosse come un labirinto circolare senza entrata né uscita. Oggi credo di sapere perché. Il costumbrismo7 che alle sue origini aveva fornito ottimi esempi di rinnovamento aveva finito per fossilizzare i grandi temi nazionali che cercavano di aprire vie di emergenza. Il fatto è che non sopportavo più neppure per un minuto l’incertezza. Mi mancavano solo verifiche di dati e scelte di stile prima del punto finale, eppure sentivo che il romanzo non respirava. Ma ero così impantanato dopo tanto tempo di lavoro al buio, che vedevo pericolare il libro senza sapere dove fossero le crepe. Il peggio era che a quel punto della scrittura non mi serviva l’aiuto di nessuno, perché le screpolature non erano nel testo ma dentro di me, e solo io potevo avere occhi per vederle e cuore per patirne. Forse proprio per questo motivo interruppi “La Giraffa” senza pensarci troppo quando ebbi finito di pagare a «El Heraldo» l’anticipo con cui avevo comprato i mobili.

Per disgrazia, né l’ingegno, né la resistenza, né l’amore furono sufficienti per sconfiggere la povertà. Tutto sembrava a suo favore. L’organismo del censimento era terminato nel giro di un anno e il mio stipendio a «El Universal» non riusciva a compensarlo. Non tornai alla Facoltà di Legge, malgrado le furbizie di alcuni professori che avevano confabulato per spingermi avanti a dispetto del mio disinteresse per il loro interesse e per la loro scienza. Il denaro di tutti non bastava in casa, ma il vuoto era così grande che il mio contributo non fu mai sufficiente e l’affievolirsi delle illusioni mi coinvolgeva più dell’affievolirsi dei soldi.

«Se dobbiamo annegare tutti» dissi a pranzo in una giornata decisiva «lasciate che mi salvi io per cercare di mandarvi anche solo una barca a remi.»

Sicché la prima settimana di dicembre mi trasferii di nuovo a Barranquilla, con la rassegnazione di tutti, e la sicurezza che la barca sarebbe arrivata. Alfonso Fuenmayor dovette immaginarselo al primo colpo d’occhio quando mi vide entrare senza che mi fossi annunciato nel nostro vecchio ufficio di «El Heraldo», perché quello di «Crónica» era rimasto senza risorse. Mi guardò dalla macchina per scrivere come un fantasma, ed esclamò allarmato:

«Che cazzo ci fa lei qui senza avere avvertito?»

Poche volte nella mia vita ho risposto qualcosa di così vicino alla verità:

«Ne ho le palle piene, maestro.»

Alfonso si tranquillizzò.

«Ah, bene!» replicò con il suo solito tono e con il verso più colombiano dell’inno nazionale: «Per fortuna, così è fatta l’umanità intera, che in catene geme».

Non mostrò la minima curiosità per il motivo del mio viaggio. Gli sembrò una specie di telepatia, perché negli ultimi mesi a chiunque gli domandasse di me rispondeva che sarei tornato da un momento all’altro per fermarmi. Si alzò felice dalla scrivania mentre si infilava la giacca, in quanto per lui io arrivavo lì per caso come caduto dal cielo. Aveva mezz’ora di ritardo a un appuntamento, non aveva finito l’editoriale per il giorno dopo, e mi chiese di finirglielo. Riuscii appena a domandargli qual era l’argomento, e lui mi rispose dal corridoio in gran fretta con una disinvoltura tipica del nostro modo di essere amici:

«Lo legga e vedrà.»

Il giorno dopo c’erano di nuovo due macchine per scrivere l’una di fronte all’altra nell’ufficio di «El Heraldo», e io stavo di nuovo scrivendo “La Giraffa” per la solita pagina. E – come no! – allo stesso prezzo. E alle stesse condizioni private fra Alfonso e me, secondo le quali molti editoriali avevano paragrafi dell’uno o dell’altro, ed era impossibile distinguerli. Alcuni studenti di giornalismo o di letteratura hanno cercato di distinguerli recuperandoli dagli archivi e non ci sono riusciti, tranne che nei casi di argomenti specifici e non per lo stile ma per l’informazione culturale.

Al Terzo Uomo mi dispiacqui alla notizia che avevano ucciso il nostro amico ladroncello. Una notte come le altre era uscito a fare il suo lavoro, e in seguito di lui si seppe solo, senza ulteriori dettagli, che gli avevano sparato un colpo al cuore nella casa dove stava rubando. Il corpo venne reclamato da una sorella maggiore, unico membro della famiglia, e solo noi e il proprietario del caffè partecipammo al suo funerale di carità.

Tornai a casa delle Ávila. Meira Delmar, di nuovo vicina, continuò a purificare con le sue serate acquietanti le mie nottatacce del Gatto Nero. Lei e sua sorella Alicia sembravano gemelle nel loro modo di essere e nel far sì che il nostro tempo divenisse circolare quand’eravamo con loro. In una maniera molto speciale facevano sempre parte del gruppo. Almeno una volta all’anno ci invitavano a una tavola imbandita con squisitezze arabe che ci nutrivano l’anima, e a casa loro c’erano serate sorprendenti con visitatori illustri, da grandi artisti di qualsiasi genere fino a poeti traviati. Mi sembra che siano state loro insieme al maestro Pedro Viaba che misero ordine nella mia melomania sfacciata, e mi arruolarono nella banda felice del centro artistico.

Oggi mi sembra che Barranquilla mi desse una prospettiva migliore su Foglie morte, perché non appena ebbi una scrivania con una macchina per scrivere avviai la correzione con slancio rinnovato. In quei giorni mi azzardai a mostrare al gruppo la prima copia leggibile, pur sapendo che non era terminata. Ne avevamo parlato tanto che qualsiasi avvertimento era di troppo. Alfonso passò due giorni seduto davanti a me senza neppure alludervi. La sera del terzo giorno, finito il nostro lavoro, posò sulla mia scrivania il dattiloscritto aperto e lesse le pagine che aveva segnato con strisce di carta. Più che un critico, sembrava uno impegnato nell’individuare incoerenze e nel purificare lo stile. Le sue osservazioni furono così azzeccate che le utilizzai tutte, tranne in un caso che a lui sembrò tirato per i capelli, anche dopo avergli dimostrato che era un episodio reale della mia infanzia.

«Persino la realtà si sbaglia quando la letteratura è brutta» disse morto dal ridere.

Il metodo di Germán Vargas era che se il testo funzionava non faceva commenti immediati ma esprimeva un parere tranquillizzante, e finiva con un punto esclamativo:

«Cazzuto!»

Ma nei giorni successivi continuava a riversare sfilze di idee sparse sul libro, che in una notte di bisboccia culminavano con un giudizio sicuro. Se il dattiloscritto non gli sembrava buono, dava un appuntamento all’autore per incontrarsi da soli, e glielo diceva con tale franchezza e tanta eleganza, che al novellino non rimaneva altro da fare che dire grazie di tutto cuore malgrado la voglia di piangere. Non fu il mio caso. Il giorno più inatteso Germán, un po’ per scherzo e un po’ sul serio, mi fece un commento sul mio dattiloscritto che mi restituì l’anima in corpo.

Álvaro era sparito dal Japy senza il minimo segno di vita. Quasi una settimana dopo, quando meno me l’aspettavo, mi sbarrò la strada con l’automobile sul Paseo Bolívar, e mi gridò di ottimo umore:

«Salga, maestro, che adesso la concio per i giorni festivi.»

Era la sua frase anestetizzante. Girammo un po’ senza una meta fissa nel centro commerciale arroventato dalla canicola, mentre Álvaro formulava a grida un’analisi piuttosto emotiva ma impressionante della sua lettura. La interrompeva ogni volta che vedeva un conoscente sui marciapiedi per gridargli qualche sproposito cordiale o scherzoso, per poi riprendere la sua esaltata disamina, con i capelli scarruffati e quegli occhi schizzati che sembravano guardarmi dalle sbarre di un carcere panoptico. Ci ritrovammo a bere birra ghiacciata sulla terrazza dei Mandorli, assillati dalle tifoserie del Junior e dello Sporting sul marciapiede di fronte, e alla fine ci travolse la valanga di energumeni che fuggivano dallo stadio sgonfiati da un indegno due a due. L’unico giudizio definitivo sul mio libro Álvaro me lo gridò all’ultimo momento dal finestrino dell’automobile:

«Comunque, maestro, c’è ancora molta influenza del romanzo costumbrista.»

Io, riconoscente, riuscii a gridargli:

«Ma di quello buono, alla Faulkner!»

E lui mise fine a tutto quanto non detto né pensato con una sghignazzata fenomenale:

«Non faccia il figlio di puttana!»

Cinquant’anni dopo, ogni volta che ricordo quella sera, sento di nuovo la risata esplosiva che risuonò come un lancio di pietre nella strada in fiamme.

Mi fu chiaro che il romanzo era piaciuto a tutt’e tre, con le loro riserve personali e forse giuste, ma non l’avevano detto a chiare lettere forse perché l’avrebbero ritenuto troppo semplice. Nessuno parlò di pubblicarlo, cosa che era molto tipica da parte loro, per i quali l’importante era scrivere bene. Il resto era una faccenda che riguardava gli editori.

Insomma, ero di nuovo nella nostra Barranquilla di sempre, ma la mia disgrazia era la consapevolezza che quella volta non ce l’avrei fatta a perseverare con “La Giraffa” In realtà aveva adempiuto alla sua missione di impormi una carpenteria quotidiana per imparare a scrivere da zero, con la tenacia e la pretesa ostinata di diventare uno scrittore diverso. Molte volte l’argomento mi scoraggiava, e lo cambiavo con un altro quando mi rendevo conto che non riuscivo ad andare avanti. Comunque, fu una ginnastica essenziale per la mia formazione di scrittore, con la certezza comoda che era solo un lavoro buono per sopravvivere senza coinvolgimento storico.

La sola ricerca dell’argomento quotidiano mi aveva amareggiato nei primi mesi. Non mi lasciava tempo per altro: perdevo ore passando al vaglio gli altri giornali, prendevo appunti su conversazioni private, mi smarrivo in fantasie che mi bistrattavano il sonno, finché non dovetti affrontare la vita reale. In questo senso la mia esperienza più felice fu quella di un pomeriggio in cui passando in automobile davanti a una casa vidi sulla porta un cartello semplice: “Si vendono palme funebri”.

Il mio primo impulso fu andare a bussare per chiarire di cosa si trattasse, ma me lo impedì la timidezza. Sicché la vita stessa mi insegnò che uno dei segreti più utili per scrivere è imparare a leggere i geroglifici della realtà senza bussare a una porta per fare domande. Tutto questo mi è diventato molto più chiaro mentre rileggevo in anni recenti le oltre quattrocento “giraffe” pubblicate, e le confrontavo con alcuni dei testi letterari cui hanno dato origine.

Per Natale arrivò in vacanza il gruppo al completo di «El Espectador», compreso il direttore generale, Gabriel Cano, con tutti i figli: Luis Gabriel, l’amministratore; Guillermo, allora vicedirettore; Alfonso, viceamministratore, e Fidel, il minore, apprendista in tutto. Con loro arrivò Eduardo Zalamea, “Ulisse”, che ai miei occhi rivestiva un valore speciale per via della pubblicazione dei miei racconti e del suo pezzo di presentazione. Avevano l’abitudine di spassarsela tutti insieme la prima settimana del nuovo anno nella stazione balneare di Pradomar, a dieci leghe da Barranquilla, dove prendevano d’assalto il bar. L’unica cosa che ricordo con una certa precisione di quella baraonda è che Ulisse in persona fu una delle grandi sorprese della mia vita. Lo vedevo spesso a Bogotá, all’inizio al Mulino e anni dopo all’Automatico, e talvolta al tavolo del maestro De Greiff. Lo ricordavo per il suo aspetto scontroso e la sua voce di metallo, da cui trassi la conclusione che era uno stizzoso, proprio così com’era celebre fra i buoni lettori della città universitaria. Ecco perché l’avevo evitato diverse volte per non deformare l’immagine che mi ero inventato a mio uso personale. Mi sbagliavo. Era una delle persone più affettuose e servizievoli che ricordi, sebbene capisca che aveva bisogno di un motivo speciale della mente o del cuore. La sua materia umana non aveva nulla in comune con quella di don Ramón Vinyes, di Álvaro Mutis o di León de Greiff, ma spartiva con loro l’atteggiamento congenito da maestro sempre disponibile, e la strana fortuna di aver letto tutti i libri che si dovevano leggere.

Dei Cano giovani – Luis Gabriel, Guillermo, Alfonso e Fidel – sarei diventato più che un amico nel periodo in cui lavorai come redattore di «El Espectador». Sarebbe temerario cercare di ricordare qualche dialogo di quelle conversazioni di tutti contro tutti nelle notti di Pradomar, ma sarebbe pure impossibile dimenticarne la persistenza insopportabile nella malattia mortale del giornalismo e della letteratura. Mi elessero uno di loro, in veste di narratore personale, scoperto e adottato dal gruppo e per il gruppo. Ma non ricordo – come spesso si è detto – che qualcuno avesse almeno suggerito che andassi a lavorare con loro. Non lo rimpiansi, perché in quel brutto momento non avevo la minima idea di quale sarebbe stato il mio destino né se mi sarebbe stato possibile sceglierlo.

Álvaro Mutis, entusiasta dell’entusiasmo dei Cano, tornò a Barranquilla quando l’avevano appena nominato direttore delle relazioni pubbliche della Esso colombiana, e cercò di convincermi ad andare a lavorare con lui a Bogotá. La sua vera missione, però, era molto più drammatica: per un errore disastroso di qualche concessionario locale avevano riempito i depositi dell’aeroporto con benzina per le automobili invece che con benzina per gli aerei, ed era impensabile che un velivolo rifornito con quel combustibile sbagliato potesse arrivare da qualche parte. Il compito di Mutis era porre rimedio all’errore in silenzio assoluto prima dell’alba senza che i responsabili dell’aeroporto se ne accorgessero, e tanto meno la stampa. Così venne fatto. Il combustile fu cambiato con quello buono in quattro ore di whisky e chiacchiere al bar dell’aeroporto locale. Ci fu tempo in abbondanza per parlare di tutto, ma l’argomento per me inimmaginabile fu che la Casa editrice Losada di Buenos Aires poteva pubblicare il romanzo che stavo per terminare. Álvaro Mutis lo sapeva per via indiretta dal nuovo amministratore della casa editrice a Bogotá, Julio César Villegas, un antico ministro del governo del Perù da poco in esilio in Colombia.

Non ricordo un’emozione più intensa. La Casa editrice Losada era una fra le migliori di Buenos Aires, e aveva riempito il vuoto editoriale determinato dalla guerra civile spagnola. Ci nutriva di continuo con novità così interessanti e rare che a stento avevamo tempo per leggerle. I suoi venditori arrivavano puntuali con i libri che noi ordinavamo e li accoglievamo come inviati della felicità. La sola idea che una simile casa editrice potesse pubblicare Foglie morte per poco non mi scombussolò. Avevo appena salutato Mutis su un aereo rifornito con il combustibile giusto, e corsi al giornale per fare una revisione a fondo del mio dattiloscritto.

Nei giorni successivi mi dedicai anima e corpo all’esame frenetico di un testo che finì per sfuggirmi dalle mani. Non erano più di centoventi cartelle a doppio spazio, ma feci così tanti interventi, modifiche e aggiunte, che non capii mai se ne risultò migliore o peggiore. Germán e Alfonso rilessero le parti più critiche ed ebbero il buon cuore di non farmi osservazioni irredimibili. In quello stato d’ansia feci un’ultima revisione con il cuore in mano e presi la decisione serena di non pubblicarlo. In futuro, questo atteggiamento sarebbe diventato una mania. Una volta che mi sentivo soddisfatto di un libro terminato, mi rimaneva l’impressione desolante che non sarei stato capace di scriverne uno migliore.

Per fortuna, Álvaro Mutis sospettò qual era la causa del mio indugio, e volò a Barranquilla per prendere e spedire a Buenos Aires l’unico originale pulito, senza lasciarmi il tempo di una lettura finale. Non esistevano ancora le fotocopie commerciali e mi rimase solo una brutta copia corretta sui margini e fra le righe con inchiostri di colori diversi per evitare confusioni. La buttai nella spazzatura e non recuperai la serenità nei due lunghi mesi che ci vollero per la risposta.

Un giorno qualsiasi mi consegnarono a «El Heraldo» una lettera che era andata a finire sulla scrivania del capo redattore. Il logo della Casa editrice Losada di Buenos Aires mi gelò il cuore, ma ebbi il pudore di non aprirla subito e aspettare di ritrovarmi nel mio cubicolo privato. Fu così che affrontai senza testimoni la notizia scarna con cui mi comunicavano che Foglie morte era stato respinto. Non dovetti arrivare sino alla fine per sentire l’impatto brutale che in quell’istante stavo per morire.

La lettera era il verdetto supremo di don Guillermo de Torre, presidente del consiglio editoriale, espresso in una serie di frasi semplici in cui risuonavano la dizione, l’enfasi e la sufficienza dei bianchi di Castiglia. L’unico conforto fu la sorprendente concessione finale: “Bisogna riconoscere all’autore le sue eccellenti doti di osservatore e di poeta”. Tuttavia, ancora oggi mi stupisce che al di là della mia costernazione e della mia vergogna, anche le obiezioni più acide mi sembrassero pertinenti.

Non ne feci mai una copia né seppi dove andò finire la lettera dopo essere circolata per diversi mesi fra i miei amici di Barranquilla, che fecero ricorso a ogni sorta di ragioni balsamiche per cercare di consolarmi. Certo è che quando ho cercato di procurarmene una copia per documentare queste memorie, cinquant’anni dopo, non se ne sono trovate tracce nella casa editrice di Buenos Aires. Non ricordo se sia mai stata pubblicata come notizia, anche se non ho mai preteso che così fosse, ma so che ebbi bisogno di un bel po’ di tempo per riacquistare la serenità dopo essermela presa e avere scritto qualche lettera di rabbia che è stata pubblicata senza la mia autorizzazione. Questa sfiducia mi causò una pena più grossa, perché la mia reazione finale era stata di approfittare di quanto del verdetto mi fosse utile, correggere tutto il correggibile secondo il mio criterio e andare avanti.

Il miglior conforto me lo diedero i pareri di Germán Vargas, di Alfonso Fuenmayor e di Álvaro Cepeda. Alfonso lo incontrai in un’osteria del mercato pubblico, dove aveva scoperto un’oasi per leggere nell’andirivieni degli avventori. Gli domandai se dovevo lasciare il mio romanzo così com’era, o se era il caso di riscriverlo secondo un’altra struttura, perché mi sembrava che nella seconda metà perdesse la tensione della prima. Alfonso mi ascoltò con una certa impazienza, e pronunciò il suo verdetto.

«Guardi, maestro» mi disse infine, da quel maestro che era, «Guillermo de Torre è la persona rispettabile che lui stesso crede di essere, ma non mi sembra molto al corrente sul romanzo attuale.»

In altre conversazioni oziose di quei giorni mi consolò con il precedente che Guillermo de Torre aveva rifiutato il dattiloscritto di Residenza sulla Terra, di Pablo Neruda, nel 1927. Fuenmayor pensava che il destino del mio romanzo avrebbe potuto essere un altro se il lettore fosse stato Jorge Luis Borges, ma in cambio il dolore sarebbe stato più forte se pure lui l’avesse rifiutato.

«Sicché non stia qui a rompere» concluse Alfonso. «Il suo romanzo è buono come le abbiamo già detto, e quello che lei deve subito fare è solo continuare a scrivere.»

Germán – fedele ai suoi modi riflessivi – mi fece il favore di non esagerare. Pensava che il romanzo non fosse così brutto da non pubblicarlo in un continente dove il genere era in crisi, né che fosse così buono da suscitare uno scandalo internazionale, il cui unico perdente sarebbe stato un autore sconosciuto alle prime armi. Álvaro Cepeda riassunse il parere di Guillermo de Torre con una sua ennesima lapide fiorita:

«Il fatto è che gli spagnoli sono degli idioti.»

Quando mi resi conto di non avere una copia corretta del mio romanzo, la Casa editrice Losada mi fece sapere da una terza o quarta persona che non era loro norma restituire i dattiloscritti. Per fortuna, Julio César Villegas aveva fatto una copia prima di spedire la mia a Buenos Aires, e me la fece avere. Allora iniziai una nuova correzione a partire dalle conclusioni dei miei amici. Eliminai un lungo episodio della protagonista che contemplava dalla veranda delle begonie un acquazzone di tre giorni, che in seguito trasformai nel “Monologo di Isabel mentre vede piovere su Macondo”. Eliminai un dialogo superfluo del nonno con il colonnello Aureliano Buendía poco prima del massacro nella Zona bananiera, e una trentina di cartelle che rallentavano nella forma e nella sostanza la struttura unitaria del romanzo. Quasi vent’anni dopo, quando li credevo dimenticati, parti di quei frammenti mi aiutarono a sorreggere nostalgie in tutto Cent’anni di solitudine.

Stavo per smaltire il colpo quando fu pubblicata la notizia che il romanzo colombiano scelto per essere stampato al posto del mio dalla Casa editrice Losada era Il Cristo di spalle, di Eduardo Caballero Calderón. Fu un errore o una verità venata di malafede, perché non si trattava di un concorso bensì di un piano della Casa editrice Losada per entrare nel mercato colombiano con autori colombiani, e il mio romanzo non fu rifiutato in concorrenza con l’altro ma perché don Guillermo de Torre lo considerò impubblicabile.

La mia costernazione fu maggiore di quanto io stesso ammisi allora, e non ebbi il coraggio di subirla. Sicché mi recai senza annunciarmi dal mio amico d’infanzia, Luis Carmelo Correa, nella piantagione di banane di Sevilla – a poche leghe da Cataca – dove in quegli anni lavorava come guardiano e amministratore. Passammo due giorni ricapitolando ancora una volta, come sempre, la nostra infanzia comune. La sua memoria, la sua intuizione e la sua franchezza erano per me così rivelatrici da infondermi un certo timore. Mentre parlavamo, lui sistemava con la sua cassetta degli attrezzi i guasti della casa, e io lo ascoltavo su un’amaca cullata dalla brezza tenue delle piantagioni. La Nena Sánchez, sua moglie, ci correggeva spropositi e dimenticanze, morta dal ridere in cucina. Alla fine, durante una passeggiata di riconciliazione per le vie deserte di Aracataca, capii fino a che punto avessi riacquistato la mia salute d’animo, e non mi rimase il minimo dubbio che Foglie morte – rifiutato o meno – era il libro che mi ero proposto di scrivere dopo il viaggio con mia madre.

Incoraggiato da quell’esperienza andai a cercare Rafael Escalona nel suo paradiso di Valledupar, cercando di frugare nel mio mondo fino alle radici. Non mi stupì, perché tutto quanto trovavo, tutto quanto accadeva, tutta la gente che mi presentava era come se l’avessi già vissuto, e non in un’altra vita, ma in quella che stavo vivendo. In seguito, in uno dei miei tanti viaggi, conobbi il colonnello Clemente Escalona, padre di Rafael, che fin dal primo giorno mi colpì per la sua dignità e il suo portamento da patriarca all’antica. Era magro e dritto come un giunco, con una pelle conciata e ossa salde, e di una dignità a prova di bomba. Fin da molto giovane mi aveva ossessionato il tema delle angosce e del decoro con cui i miei nonni avevano aspettato sino alla fine dei loro lunghi anni la pensione da veterano. Però, quattro anni dopo, mentre infine scrivevo il libro in un vecchio albergo di Parigi, l’immagine che ebbi sempre nella memoria non era quella di mio nonno, ma quella di don Clemente Escalona, come un doppio del colonnello cui nessuno scriveva.

Da Rafael Escalona venni a sapere che Manuel Zapata Olivella si era installato come medico dei poveri nell’abitato di La Paz, a pochi chilometri da Valledupar, e ci recammo da lui. Arrivammo all’imbrunire, e nell’aria c’era qualcosa che impediva di respirare. Zapata ed Escalona mi ricordarono che solo venti giorni prima c’era stato un assalto della polizia che seminava il terrore nella regione per imporre la volontà ufficiale. Era stata una notte di orrore. Avevano ucciso senza criterio, e avevano appiccato il fuoco a quindici case.

A causa della censura ferrea non eravamo stati informati della verità. Comunque, neppure allora ebbi l’occasione di rifletterci. Juan López, il miglior musicista della regione, se n’era andato per non tornare dopo la notte nera. A Pablo, suo fratello minore, chiedemmo di suonare per noi a casa sua, e ci disse con una semplicità impavida:

«Non canterò mai più in tutta la mia vita.»

Allora capimmo che non solo lui, ma tutti i musicisti dell’abitato avevano riposto le fisarmoniche, i tamburi, le chitarre, e non avevano più cantato per il dolore dei loro morti. Era comprensibile, e lo stesso Escalona, che era maestro di molti, e Zapata Olivella, che cominciava a essere il medico di tutti, non riuscirono a far sì che qualcuno cantasse.

Dinanzi alla nostra insistenza, i vicini accorsero a spiegare le loro ragioni, ma in fondo all’anima sentivano che il lutto non poteva durare oltre. «È come essere morti insieme ai morti» disse una donna che portava una rosa rossa all’orecchio. La gente l’appoggiò. Allora Pablo López dovette sentirsi autorizzato a far piazza pulita della sua pena, perché senza dire una parola entrò nella sua casa e ne uscì con la fisarmonica. Cantò come non mai, e mentre cantava cominciarono ad arrivare altri musicisti. Qualcuno aprì la bottega lì di fronte e offrì da bere gratis. Anche le altre si aprirono dopo un mese di lutto, e si accesero le luci, e tutti cantammo. Mezz’ora dopo l’intero abitato cantava. Sulla piazza deserta spuntò il primo ubriaco in un mese e cominciò a cantare a squarciagola una canzone di Escalona, dedicata allo stesso Escalona, in omaggio al suo miracolo di aver resuscitato quei luoghi.

Per fortuna, la vita proseguiva nel resto del mondo. Due mesi dopo il rifiuto del dattiloscritto conobbi Julio César Villegas, che aveva rotto con la Casa editrice Losada, ed era stato nominato rappresentante per la Colombia della Casa editrice González Porto, che vendeva a rate enciclopedie e testi scientifici e tecnici. Villegas era un uomo alto e forte, e il più intraprendente dinanzi ai peggiori scogli della vita reale, consumatore spropositato dei whisky più cari, conversatore ineludibile e affabulatore da salotto. La sera del nostro primo incontro nella suite presidenziale dell’Hotel del Prado uscii vacillando con una valigetta da commesso viaggiatore zeppa di opuscoli pubblicitari e campioni di enciclopedie illustrate, libri di medicina, legge e ingegneria della Casa editrice González Porto. Fin dal secondo whisky avevo accettato di trasformarmi in un venditore di libri a rate nella provincia di Padilla, da Valledupar fino alla Guajira. Il mio guadagno era l’anticipo in contanti del venti per cento, che doveva bastarmi per vivere senza angosce dopo aver pagato le mie spese, incluso l’albergo.

È questo il viaggio che io stesso ho fatto diventare leggendario per il mio difetto incorreggibile di non misurare in tempo i miei aggettivi. La leggenda è che fu programmato come una spedizione mitica in cerca delle mie radici nella terra degli avi, secondo lo stesso itinerario romantico di mia madre portata via dalla sua per metterla in salvo dal telegrafista di Aracataca. Il fatto è che il mio non fu uno bensì due viaggi molto brevi e frastornati.

Nel secondo mi limitai a fare ritorno ai paesi nei pressi di Valledupar. Una volta lì, naturalmente avevo previsto di seguitare fino al Cabo de la Vela secondo lo stesso itinerario di mia madre innamorata, ma arrivai solo a Manaure de la Sierra, a La Paz e a Villanueva, a poche leghe da Valledupar. Non fu allora che conobbi San Juan del César, né Barrancas, dove si erano sposati i miei nonni ed era nata mia madre, e dove il colonnello Nicolás Márquez aveva ucciso Medardo Pacheco; non conobbi neppure Riohacha, che è l’embrione della mia tribù, fino al 1984, quando il presidente Belisario Betancur mandò da Bogotá un gruppo di amici invitati a inaugurare le miniere di carbone del Cerrejón. Fu il primo viaggio nella mia Guajira immaginaria, che mi sembrò mitica come l’avevo descritta tante volte senza conoscerla, ma penso che così fosse non tanto per i miei falsi ricordi quanto per la memoria degli indios comprati da mio nonno a cento pesos l’uno per la casa di Aracataca. La mia maggiore sorpresa, naturalmente, fu la prima vista di Riohacha, la città di sabbia e sale dove nacque la mia stirpe a partire dai trisnonni, dove mia nonna vide la Vergine dei Remedios spegnere il forno con un soffio gelido quando il pane era sul punto di bruciarsi, dove mio nonno fece le sue guerre e patì la prigione per un delitto d’amore, e dove io fui concepito durante la luna di miele dei miei genitori.

A Valledupar non ebbi molto tempo per vendere libri. Alloggiavo all’Hotel Wellcome, una stupenda casa coloniale ben conservata nel perimetro della piazza grande, che aveva una lunga tettoia di palma nel cortile con rustici tavoli da bar e amache appese ai ganci. Víctor Cohen, il proprietario, vegliava come un cerbero sull’ordine del luogo, non meno che sulla sua reputazione morale minacciata dai forestieri dissipati. Cohen era anche un purista della lingua che declamava a memoria Cervantes con puro accento spagnolo, e metteva in discussione la morale di García Lorca. Mi intesi bene con lui per via della sua conoscenza di Andrés Bello, della sua declamazione rigorosa dei romantici colombiani, e molto male me la intesi per via della sua ossessione di impedire che si andasse contro i codici morali nel puro spazio del suo albergo. Tutto questo iniziò in maniera facilissima dal momento che lui era un vecchio amico di mio zio Juan de Dios e gli piaceva evocare i suoi ricordi.

Per me fu una bazza quel cortile con la tettoia, perché le molte ore che mi avanzavano le passavo leggendo su un’amaca sotto l’afa del mezzogiorno. In tempi di carestia arrivai a leggere da trattati di chirurgia fino a manuali di ragioneria, senza pensare che mi sarebbero serviti per le mie avventure da scrittore. Il lavoro era quasi spontaneo, perché la maggior parte dei clienti passavano in qualche modo per le sabbie mobili degli Iguarán e dei Cotes, e a me bastava una visita che si protraeva fino al pranzo rievocando trame di famiglia. Alcuni firmavano il contratto senza leggerlo per raggiungere in tempo il resto della tribù che ci aspettava per pranzare all’ombra delle fisarmoniche. Fra Valledupar e La Paz feci un buon raccolto in meno di una settimana e tornai a Barranquilla con l’emozione di essere stato nell’unico posto del mondo che davvero capivo.

La mattina presto del 13 giugno ero sull’autobus diretto non so dove quando venni a sapere che le Forze Armate avevano preso il potere per mettere fine al disordine che regnava nel governo e nel paese intero. Il 6 settembre dell’anno prima una ressa di scalmanati conservatori e poliziotti in uniforme avevano appiccato il fuoco a Bogotá agli edifici di «El Tiempo» e di «El Espectador», i due quotidiani nazionali più importanti, e avevano attaccato a suon di pallottole le residenze dell’ex presidente Alfonso López Pumarejo e di Carlos Lleras Restrepo, presidente della Direzione Liberale. Quest’ultimo, conosciuto come un politico dalle maniere forti, si mise a scambiare spari con i suoi aggressori, ma alla fine si vide costretto a scappare passando per una casa vicina. La situazione di violenza ufficiale di cui soffriva il paese dal 9 aprile era divenuta intollerabile.

Fino all’alba di quel 13 giugno, quando il generale di divisione Gustavo Rojas Pinilla fece uscire dal palazzo il presidente in carica, Roberto Urdaneta Arbeláez. Laureano Gómez, il presidente titolare ritiratosi per disposizione dei medici, riprese allora il comando sulla sua sedia a rotelle, e cercò di farsi forza e di governare per i quindici mesi che mancavano alla scadenza del suo mandato. Ma Rojas Pinilla e i suoi ufficiali erano arrivati fin lì con l’intenzione di fermarsi.

Fu immediato e unanime l’appoggio nazionale alla decisione dell’Assemblea costituente che legittimò l’intervento militare. Rojas Pinilla fu investito del potere fino alla scadenza del mandato presidenziale, nell’agosto dell’anno successivo, e Laureano Gómez si recò con la sua famiglia a Benidorm, sulla costa levantina della Spagna, lasciandosi alle spalle l’impressione illusoria che i suoi tempi di rabbia fossero finiti. I patriarchi liberali proclamarono il loro appoggio alla riconciliazione nazionale con un richiamo a tutti i membri del partito in armi. La fotografia più significativa che pubblicarono i quotidiani nei giorni successivi fu quella di un gruppo di liberali che cantavano una serenata da innamorati sotto il balcone della camera da letto presidenziale. L’omaggio lo guidò don Roberto García Peña, direttore di «El Tiempo», e uno degli oppositori più accaniti del regime deposto.

Comunque, la fotografia più emozionante di quell’epoca fu la fila interminabile di guerriglieri liberali che consegnarono le armi nelle pianure orientali, capeggiati da Guadalupe Salcedo, la cui immagine da fuorilegge romantico aveva toccato a fondo il cuore dei colombiani sferzati dalla violenza ufficiale. Era una nuova generazione di guerrieri che si muovevano contro il regime conservatore, in qualche modo identificati come un residuo della guerra dei Mille Giorni, e che intrattenevano rapporti nient’affatto clandestini con i dirigenti legali del partito liberale.

Alla loro testa, Guadalupe Salcedo aveva diffuso a tutti i livelli del paese, a favore o contro, una nuova immagine mitica. Forse per questo – a quattro anni dalla sua resa – venne crivellato di pallottole dalla polizia in qualche punto di Bogotá, che non è mai stato precisato, così come non sono state indicate con sicurezza le circostanze della sua morte.

La data ufficiale è il 6 giugno 1977, e il corpo venne deposto durante una cerimonia solenne in un loculo numerato del cimitero centrale di Bogotá alla presenza di noti uomini politici. Dai suoi accampamenti di guerra, Guadalupe Salcedo aveva mantenuto rapporti non solo politici ma anche di cortesia con i dirigenti del liberalismo in disgrazia. Tuttavia, ci sono almeno otto versioni diverse della sua morte, e non mancano increduli di quegli anni come di questi che si domandano ancora se il cadavere fosse il suo e se si trovi davvero nel loculo dove fu inumato.

In quello stato d’animo intrapresi il secondo viaggio d’affari nella Provincia, dopo avere assicurato a Villegas che tutto era a posto. Come la volta precedente, a Valledupar feci molto in fretta le mie vendite a una clientela previamente convinta. Partii con Rafael Escalona e Poncho Cotes per Villanueva, La Paz, Patillal e Manaure de la Sierra per visitare veterinari e agronomi. Alcuni avevano parlato con acquirenti del mio viaggio precedente e mi aspettavano con richieste speciali. Qualsiasi momento era buono per organizzare una festa con gli stessi clienti e i loro allegri compari, e ci ritrovavamo all’alba a cantare con i grandi fisarmonicisti senza mancare ad appuntamenti né pagare crediti urgenti perché la vita quotidiana seguiva il suo ritmo naturale nel fragore della bisboccia. A Villanueva incontrammo un fisarmonicista e due suonatori di organetto che sembrava fossero nipoti di un tipo che da bambini ascoltavamo ad Aracataca. In tal modo, quella che era stata una passione infantile mi si rivelò in quel viaggio come un’occupazione ispirata che mi avrebbe accompagnato per sempre.

Quella volta conobbi Manaure, nel cuore della sierra, un paese bello e tranquillo, storico in famiglia perché era stato lì che avevano portato mia madre da bambina a cambiare aria, in seguito a certe febbri terzane che avevano resistito a ogni sorta di beveraggi. Avevo sentito parlare tanto di Manaure, dei suoi pomeriggi di maggio e delle sue colazioni medicinali, che quando mi ci trovai per la prima volta mi resi conto che me ne ricordavo come se l’avessi conosciuta in una vita precedente.

Stavamo bevendo una birra ghiacciata nell’unica osteria del paese quando si avvicinò al nostro tavolo un uomo che sembrava un albero, con stivali per cavalcare e alla cintura una pistola da guerra. Rafael Escalona ci presentò, e lui rimase a guardarmi negli occhi con la mia mano nella sua.

«Ha qualcosa a che vedere con il colonnello Nicolás Márquez?» mi domandò.

«Sono suo nipote.»

«Allora» disse lui «suo nonno ha ammazzato mio nonno.»

Era il nipote di Medardo Pacheco, l’uomo che mio nonno aveva ucciso in duello. Non mi lasciò il tempo di spaventarmi, perché lo disse in una maniera molto calorosa, come se pure quello fosse un modo d’essere parenti. Si fece baldoria con lui per tre giorni e tre notti sul suo camion a doppio fondo, bevendo brandy caldo e mangiando sancocho di montone in memoria dei nonni morti. Passarono diversi giorni prima che mi confessasse la verità: si era messo d’accordo con Escalona per spaventarmi, ma non aveva avuto cuore di portare avanti le storie dei nonni morti. In realtà si chiamava José Prudencio Aguilar, ed era un contrabbandiere di mestiere, retto e di buon cuore. Volendo omaggiarlo, per non essere da meno, battezzai con il suo nome il rivale che José Arcadio Buendía uccide con una lancia nella pista da combattimento dei galli in Cent’anni di solitudine.

Il brutto fu che alla fine di quel viaggio di nostalgie non erano ancora arrivati i libri venduti, senza i quali non potevo riscuotere i miei anticipi. Rimasi senza un centesimo e il metronomo dell’albergo andava più in fretta delle mie notti di festa. Víctor Cohen cominciò a perdere la poca pazienza che gli rimaneva vedendo che i soldi che gli dovevo li scialacquavo con lazzaroni di bassa lega e baldracche della mala morte. A restituirmi la quiete furono solo gli amori contrariati di Il diritto di nascere, lo sceneggiato radiofonico di don Félix B. Caignet, il cui impatto sugli ascoltatori fece rivivere le mie vecchie illusioni sulla letteratura lacrimosa. La lettura inaspettata di Il vecchio e il mare, di Hemingway, che arrivò di sorpresa sulla rivista «Life en Español», finì per rimettermi in sesto.

Con la stessa posta arrivò il carico di libri che dovevo consegnare ai loro proprietari per riscuotere i miei anticipi. Tutti pagarono puntuali, ma ormai dovevo all’albergo più del doppio di quanto avevo guadagnato, e Villegas mi avvertì che non avrei più avuto neppure un centesimo prima di tre settimane. Allora parlai sul serio con Víctor Cohen e lui accettò un mio impegno scritto se ci fosse stato un garante. Poiché Escalona e la sua banda non erano nei dintorni, un amico provvidenziale mi fece il favore di intervenire, solo perché gli era piaciuto un mio racconto apparso su «Crónica». Tuttavia, al momento della verità non mi fu possibile rimborsare nessuno.

Anni dopo il mio pagherò divenne storico quando Víctor Cohen lo mostrava ad amici e visitatori, non come un documento accusatore ma come un trofeo. L’ultima volta che lo vidi aveva quasi cento anni ed era snello e lucido, e con il buonumore intatto. Al battesimo di un figlio della mia comare Consuelo Araujonoguera, di cui fui padrino, rividi l’impegno scritto mai assolto quasi cinquant’anni dopo. Víctor Cohen lo mostrò a chiunque volesse vederlo, con la grazia e la finezza di sempre. Mi stupì la scioltezza del documento scritto da lui, e l’enorme volontà di pagare che si notava nella sfacciataggine della mia firma. Víctor lo festeggiò quella notte ballando un tipico ritmo vallenato con un’eleganza coloniale come nessuno l’aveva ballato dai tempi di Francisco l’Uomo. Alla fine, molti amici mi ringraziarono di non aver assolto in tempo all’impegno che diede origine a quella notte impareggiabile.

La magia seduttrice del dottor Villegas avrebbe avuto ulteriori effetti, ma non con i libri. Non è possibile ignorare la maestria signorile con cui si giostrava con i creditori e la gioia con cui loro intendevano le sue ragioni per non pagare in tempo. Il più allettante dei suoi argomenti di allora aveva a che vedere con il romanzo Si sono sbarrate le strade, della scrittrice di Barranquilla Olga Salcedo de Medina, che aveva suscitato clamori più mondani che letterari ma con scarsi precedenti regionali. Ispirato al successo di Il diritto di nascere, che seguii con attenzione crescente per tutto il mese, avevo pensato che eravamo in presenza di un fenomeno popolare che noi scrittori non potevamo ignorare. Senza neppure alludere al debito da estinguere, ne parlai con Villegas al mio ritorno da Valledupar, e lui mi propose di scriverne l’adattamento con abbastanza scaltrezza da triplicare i numerosi ascoltatori già catturati dallo sceneggiato radiofonico di Félix B. Caignet.

Feci l’adattamento per la trasmissione radiofonica in un ritiro di due settimane che mi sembrarono molto più rivelatrici del previsto, con dialoghi, livelli di tensione e situazioni e strutture e tempi fluidi che non assomigliavano a nulla di quanto avevo scritto fino ad allora. Con la mia inesperienza nel dialogo – che continua a non essere il mio forte – l’esperimento fu prezioso e l’apprezzai più per quello che imparai che per quello che guadagnai. Comunque, neppure da questo punto di vista avevo motivo di lagnarmi, perché Villegas mi anticipò la metà in contanti e si impegnò ad annullare il debito precedente con i primi introiti del romanzo sceneggiato.

Fu registrato presso l’emittente Atlantico, con il miglior cast regionale possibile e diretto senza esperienza né ispirazione dallo stesso Villegas. Come narratore avevano raccomandato Germán Vargas, che nel parlare si distingueva per una sobrietà che strideva con la radio locale. La prima grossa sorpresa fu che Germán accettò, e la seconda fu che sin dalla prima prova lui stesso arrivò alla conclusione di non essere adatto. Villegas in persona si addossò allora la responsabilità della narrazione con la sua cadenza e i suoi fischi andini che finirono per scombinare quell’avventura temeraria.

Il romanzo sceneggiato venne trasmesso tutto con più pene che glorie, e fu una lezione magistrale per le mie pretese insaziabili di narratore in qualsiasi genere. Fui presente alle incisioni, che venivano fatte in diretta sul disco vergine con una puntina che lasciava dietro di sé scie di filamenti neri e luminosi, quasi intangibili, come capelli d’angelo. Ogni sera ne portavo una bella manciata che distribuivo fra i miei amici come un trofeo insolito. Fra inciampi e pasticci innumerevoli, lo sceneggiato debuttò in tempo con una festa enorme tipica del suo promotore.

Nessuno riuscì a inventarsi frasi di cortesia per farmi credere che il lavoro gli piaceva, ma ebbe un buon ascolto e abbastanza sostegno pubblicitario da salvarsi la faccia. A me, per fortuna, infuse nuovo entusiasmo per un genere che mi sembrava proiettato verso orizzonti inimmaginabili. La mia ammirazione e la mia gratitudine per don Féliz B. Caignet arrivarono al punto da chiedergli un incontro una decina di anni dopo, quando trascorsi alcuni mesi all’Avana come redattore dell’agenzia cubana Stampa Latina. Ma nonostante ogni sorta di ragioni e di pretesti, non si lasciò mai vedere. Di lui mi rimane solo una lezione magistrale letta in una sua intervista: “La gente vuole sempre piangere: io mi limito a fornirle il pretesto”. Quanto alle magie di Villegas, si esaurirono qui. Tutto gli andò male, anche con la Casa editrice González Porto – come prima con Losada – e non ci fu verso di aggiustare i nostri ultimi conti, perché lasciò perdere i suoi sogni di grandezza per tornarsene al suo paese.

Álvaro Cepeda Samudio mi tolse dal purgatorio con la sua vecchia idea di trasformare «El Nacional» nel giornale moderno che aveva imparato a fare negli Stati Uniti. Fino ad allora, tranne le sue collaborazioni occasionali a «Crónica», che erano sempre state letterarie, aveva avuto occasione di mettere in pratica la sua laurea alla Columbia University solo con i sintetici pezzi che inviava allo «Sporting News», di Saint-Louis, nel Missouri. Infine, nel 1953 il nostro amico Julián Davis Echandía, che era stato il primo capo di Álvaro, gli telefonò affinché si prendesse cura di tutto il suo giornale della sera, «El Nacional». Lo stesso Álvaro gli aveva riempito la testa con il progetto astronomico che gli aveva esposto al suo rientro da New York, ma una volta catturato il mastodonte mi propose che lo aiutassi a occuparsene senza responsabilità né doveri ben definiti, ma con il primo stipendio anticipato che mi bastò per vivere anche senza riscuoterlo tutto.

Fu un’avventura mortale. Álvaro aveva organizzato il progetto secondo modelli degli Stati Uniti. Come dio nell’alto dei cieli c’era Davis Echandía, precursore dei tempi eroici del giornalismo sensazionalista locale e l’uomo meno decifrabile che io abbia mai conosciuto, buono di nascita e più sentimentale che compassionevole. Il resto della squadra erano grandi giornalisti di battaglia, fra quelli con il pelo sullo stomaco, tutti amici tra loro e colleghi da molti anni. In teoria, ognuno aveva il suo settore ben definito, ma non si capì mai cosa determinò che l’enorme mastodonte tecnico non riuscì a fare il primo passo. I pochi numeri che uscirono furono il risultato di un’impresa eroica, anche se non si seppe mai di chi. Al momento di andare in stampa le lastre erano rovinate. Spariva il materiale urgente, e chi era buono impazziva di rabbia. Non ricordo una sola volta in cui il giornale sia uscito in tempo e senza rattoppi, a causa dei diavoli che avevamo imboscati nella tipografia. Non si capì mai cosa fosse accaduto. La spiegazione che prevalse fu forse la meno perversa: alcuni veterani anchilosati non riuscirono a sopportare il regime rinnovatore e si misero d’accordo con le loro anime gemelle finché non ebbero mandato in malora il giornale.

Álvaro se ne andò sbattendo la porta. Io avevo un contratto che in condizioni normali sarebbe stato una garanzia, ma nelle peggiori era una camicia di forza. Ansioso di trarre profitto dal tempo perduto, cercai di organizzare con la macchina per scrivere qualsiasi cosa valida con frammenti che mi rimanevano da tentativi precedenti. Pezzi di La casa, parodie del Faulkner truculento di Luce d’agosto, delle piogge di uccelli morti di Nathaniel Hawthorne, dei racconti polizieschi che mi avevano stufato tant’erano ripetitivi, e di alcuni lividi che mi rimanevano ancora del viaggio ad Aracataca con mia madre. Li lasciai fluire in libertà nel mio ufficio sterile, dove rimanevano solo la scrivania scrostata e la macchina per scrivere con l’ultimo respiro, fino ad arrivare d’un sol getto al titolo finale: Un giorno dopo il sabato. Un altro dei pochi racconti miei che mi lasciarono soddisfatto fin dalla prima versione.

A «El Nacional» mi abbordò un venditore ambulante di orologi da polso. Non ne avevo mai avuto uno, per motivi ovvi in quegli anni, e quello che mi veniva offerto era costoso e di un lusso appariscente. Lo stesso venditore mi confessò allora di essere un membro del Partito comunista incaricato di vendere orologi a mo’ di ami per pescare sottoscrittori.

«È come comprare la rivoluzione a rate» mi disse.

Gli risposi di buon umore:

«La differenza è che l’orologio me lo danno subito, mentre la rivoluzione no.»

Il venditore non prese molto bene la brutta battuta e finii per comprare un orologio più economico, solo per blandirlo, e con una serie di rate che lui stesso sarebbe passato a riscuotere ogni mese. Fu il primo orologio che ebbi, e così preciso e resistente che lo conservo ancora come una reliquia di quei tempi.

In quei giorni tornò Álvaro Mutis con la notizia di un grosso finanziamento della sua società per la cultura e della comparsa imminente della rivista «Lámpara», suo organo letterario. Dinanzi al suo invito a collaborare gli proposi un’idea di emergenza: la leggenda di La Sierpe. Pensai che se volevo raccontarla non avrei dovuto ricorrere a una prospettiva retorica, bensì riscattarla dall’immaginazione collettiva per quello che era: una verità geografica e storica. Insomma, finalmente un gran reportage.

«Faccia quello che le viene e come le viene» mi disse Mutis. «Ma lo faccia, che è il genere e il tono che cerchiamo per la rivista.»

Glielo promisi per due settimane dopo. Prima di recarsi all’aeroporto aveva telefonato al suo ufficio di Bogotá, e ordinò il pagamento anticipato. L’assegno che mi arrivò per posta una settimana dopo mi lasciò senza fiato. Ancora di più quando andai a riscuoterlo e il cassiere della banca si inquietò per il mio aspetto. Mi fecero passare in un ufficio, dove un altro impiegato, troppo cortese, mi domandò dove lavoravo. Gli risposi che scrivevo su «El Heraldo», secondo la mia consuetudine, anche se allora non era più vero. Nient’altro. L’impiegato esaminò l’assegno sulla scrivania, lo osservò con un’aria di diffidenza professionale e infine sentenziò:

«Si tratta di un documento perfetto.»

Quello stesso pomeriggio, mentre cominciavo a scrivere La Sierpe, mi annunciarono una telefonata dalla banca. Mi ritrovai a pensare che l’assegno non fosse pagabile per uno qualsiasi degli innumerevoli motivi possibili in Colombia. Riuscii a stento a inghiottire il nodo che avevo in gola quando l’uomo della banca, con la cadenza affettata degli andini, si scusò per non aver saputo in tempo che il mendicante che aveva presentato l’assegno era l’autore di “La Giraffa”.

Mutis tornò di nuovo alla fine dell’anno. A pranzo quasi non mangiò per aiutarmi a pensare a qualche modo stabile e definitivo per guadagnare di più senza troppo lavoro. Quello che al momento del dolce gli sembrò il migliore fu far sapere ai Cano che io sarei stato disponibile per «El Espectador», anche se la sola idea di tornare a Bogotá mi era insopportabile. Ma Álvaro non demordeva quando si trattava di aiutare un amico.

«Facciamo una cosa» mi disse «le mando il biglietto per partire quando vuole e come vuole, e vediamo cosa capita.»

Era troppo per dire di no, ma ero sicuro che l’ultimo aereo della mia vita era stato quello che mi aveva portato via da Bogotá dopo il 9 aprile. Inoltre, grazie agli scarsi guadagni tratti dallo sceneggiato e la pubblicazione messa bene in evidenza della prima parte di La Sierpe sulla rivista «Lámpara», mi avevano richiesto alcuni testi pubblicitari che mi permisero di mandare una barca di sollievo alla famiglia a Cartagena. Sicché ancora una volta resistetti alla tentazione di trasferirmi a Bogotá.

Álvaro Cepeda, Germán e Alfonso, e la maggior parte degli amici del Japy e del caffè Roma, mi parlarono in termini positivi di La Sierpe quando apparve su «Lámpara» la prima parte. Erano d’accordo che la formula diretta del reportage si era rivelata la più adatta per un argomento che si collocava sulla pericolosa frontiera di quanto era impossibile credere. Alfonso, con il suo stile un po’ per scherzo e un po’ sul serio, mi disse allora una cosa che non ho mai dimenticato: «La credibilità, mio caro maestro, dipende molto dalla faccia che uno fa per raccontare». Fui sul punto di rivelare le proposte di lavoro di Álvaro Mutis, ma non mi azzardai, e oggi so che fu per paura che le approvassero. Aveva di nuovo insistito più volte, anche dopo che mi aveva fatto una prenotazione sull’aereo e che io l’avevo disdetta all’ultimo momento. Mi diede la sua parola che non stava facendo una manovra per «El Espectador» né per altri mezzi di comunicazione scritti o parlati. Il suo unico proposito – insistette sino alla fine – era il desiderio di parlare di una serie di collaborazioni fisse per la rivista ed esaminare alcuni particolari tecnici sulla serie completa di La Sierpe, la cui seconda parte doveva uscire sul numero imminente. Álvaro Mutis si mostrava sicuro che questo genere di reportage poteva essere un bel calcio al costumbrismo piatto sul suo stesso terreno. Fra tutti i motivi che mi aveva prospettato fino ad allora, questo fu l’unico che mi lasciò pensoso.

Un martedì di pioviggini lugubri mi resi conto che non avrei potuto partire neppure se l’avessi voluto perché non avevo che le mie camicie da scapestrato. Alle sei del pomeriggio non trovai nessuno nella libreria Mondo e rimasi ad aspettare sulla soglia, con un nodo di lacrime in gola per via del crepuscolo triste che cominciavo a patire. Sul marciapiede di fronte c’era una vetrina con abiti formali che non avevo mai guardato sebbene fosse lì da sempre, e senza pensare a quello che facevo attraversai Calle San Blas sotto le ceneri della pioviggine, ed entrai con passo fermo nel negozio più caro della città. Comprai un vestito clericale di panno blu notte, ben consono allo spirito di Bogotá di quei tempi; due camicie bianche con il colletto rigido, una cravatta a righe diagonali e un paio di quelle scarpe che aveva lanciato l’attore José Modica prima di diventare santo. Gli unici cui raccontai che me ne andavo furono Germán, Álvaro e Alfonso, che ritennero fosse una decisione sensata a patto che non tornassi trasformato in uno di Bogotá.

Festeggiammo al Terzo Uomo con il gruppo al completo fino all’alba, a titolo di festa anticipata del mio prossimo compleanno, perché Germán Vargas, che ricordava tutte le date, ci informò che il 6 marzo successivo io avrei compiuto ventisette anni. Fra i buoni auguri dei miei grandi amici, mi sentii pronto a mangiarmi crudi i settantatré che ancora mi mancavano per compiere i primi cento.

7. Con costumbrismo si intende un tipo di letteratura in prosa risolta soprattutto attraverso la presentazione di quadri di costume e la riproduzione del linguaggio parlato in quel determinato ambiente. Nell’America di lingua spagnola, tale modalità del raccontare portò – nei primi decenni del Novecento – alla scoperta delle realtà regionali e, di qui, a proposte tese a definire le singole identità nazionali. (NdT)

8

Il direttore di «El Espectador», Guillermo Cano, mi chiamò per telefono quando seppe che mi trovavo nell’ufficio di Álvaro Mutis, quattro piani sopra il suo, in un edificio che era stato inaugurato da poco a cinque isolati dalla sua antica sede. Io ero arrivato il giorno prima e stavo per pranzare insieme a un gruppo di amici suoi, ma Guillermo insistette che passassi subito a salutarlo. Così fu. Dopo gli abbracci calorosi d’obbligo nella capitale del parlar forbito, e qualche commento sulla notizia del giorno, mi prese per un braccio e mi allontanò dai suoi compagni di redazione. «Senta una cosa, Gabriel» mi disse con un’innocenza insospettabile. «Perché non mi fa il grosso favore di scrivermi un piccolo editoriale che proprio mi manca per chiudere il giornale?» Mi indicò con pollice e indice l’altezza di mezzo bicchiere d’acqua, e concluse:

«Grande così.»

Più divertito di lui gli domandai dove potevo sedermi, e mi indicò una scrivania vuota con una macchina per scrivere d’altri tempi. Mi accomodai senza ulteriori domande, pensando a un argomento buono per loro, e rimasi lì seduto sulla stessa seggiola, davanti alla stessa scrivania e alla stessa macchina, nei diciotto mesi successivi.

Qualche minuto dopo il mio arrivo uscì dall’ufficio attiguo Eduardo Zalamea Borda, il vicedirettore, immerso in un fascicolo. Riconoscendomi si spaventò.

«Caspita, don Gabo!» gridò quasi, con il nome che aveva inventato per me a Barranquilla come apocope di Gabito, e che solo lui usava. Ma questa volta si diffuse nella redazione e continuarono a usarlo anche a lettere di stampa: Gabo.

Non ricordo l’argomento del pezzo affidatomi da Guillermo Cano, ma conoscevo benissimo fin dall’Università Nazionale lo stile dinastico di «El Espectador». E in particolare quello della rubrica “Giorno per giorno” della prima pagina, che godeva di un prestigio meritato, e decisi di imitarlo con il sangue freddo con cui Luisa Santiaga affrontava i demoni dell’avversità. Lo finii in mezz’ora, gli feci qualche correzione a mano e lo consegnai a Guillermo Cano, che lo lesse in piedi da sopra l’arco delle sue lenti da miope. La concentrazione sembrava non solo sua ma di tutta una dinastia di avi dai capelli bianchi, iniziata da don Fidel Cano, il fondatore del giornale nel 1887, proseguita da suo figlio don Luis, consolidata dal fratello di quest’ultimo, don Gabriel, e ricevuta già matura nel torrente sanguineo dal nipote Guillermo, che aveva appena assunto la direzione generale a ventitré anni. Come avrebbero fatto i suoi antenati, fece qualche correzione accompagnata da diversi dubbi minori, e finì con il primo uso pratico e semplificato del mio nuovo nome:

«Benissimo, Gabo.»

La sera del ritorno mi ero reso conto che Bogotá non sarebbe stata più la stessa per me finché fossero sopravvissuti i miei ricordi. Come molte grandi catastrofi del paese, il 9 aprile aveva agito a favore più dell’oblio che della storia. L’Hotel Granada era stato abbattuto nel suo parco centenario e cominciava già a crescere al suo posto l’edificio troppo nuovo della Banca della Repubblica. Le antiche vie dei nostri anni non sembravano di nessuno senza i tram illuminati, e l’incrocio del delitto storico aveva perso la sua grandezza negli spazi guadagnati dagli incendi. «Adesso sì che sembra una grande città» disse esterrefatto qualcuno che era con noi. E finì per lacerarmi con la frase rituale:

«Bisogna ringraziare il 9 aprile.»

Invece, non ero mai stato meglio che alla pensione senza nome dove mi installò Álvaro Mutis. Una casa abbellita dalla disgrazia su un lato del Parco Nazionale, dove la prima notte non riuscii a sopportare l’invidia per i miei vicini di stanza che facevano l’amore come se fosse una guerra felice. Il giorno dopo, quando li vidi uscire non potevo credere che fossero loro: una bambina macilenta con un vestito da orfanotrofio pubblico e un signore in età, con i capelli d’argento e due metri di statura, che poteva benissimo essere suo nonno. Pensai di essermi sbagliato, ma loro stessi mi confermarono l’accaduto durante le notti successive con le loro morti urlate fino all’alba.

«El Espectador» pubblicò il mio pezzo in prima pagina, con grande spicco. Passai la mattina per negozi comprando indumenti che Mutis mi imponeva con il fragoroso accento inglese che inventava per divertire i commessi. Pranzammo con Gonzalo Mallarino e con altri giovani scrittori invitati per presentarmi in società. Non seppi più nulla di Guillermo Cano fino a tre giorni dopo, quando mi telefonò nell’ufficio di Mutis.

«Senta Gabo, cosa le è successo?» mi disse con una severità male imitata da direttore generale. «Ieri abbiamo chiuso in ritardo aspettando il suo pezzo.»

Scesi nella redazione per parlare con lui, e non so ancora come seguitai a scrivere pezzi non firmati tutti i pomeriggi per oltre una settimana, senza che nessuno mi parlasse di lavoro né di stipendio. Nei momenti di riposo i redattori mi trattavano come uno di loro, e di fatto lo ero senza che mi immaginassi fino a che punto.

La rubrica “Giorno per giorno”, mai firmata, di solito l’apriva Guillermo Cano, con un pezzo politico. In un ordine stabilito dalla direzione, seguiva il pezzo ad argomento libero di Gonzalo González, che aveva pure la rubrica più intelligente e popolare del giornale – “Domande e risposte” – in cui risolveva qualsiasi dubbio dei lettori con lo pseudonimo “Gog”, per via non di Giovanni Papini ma del suo stesso nome. Subito dopo pubblicavano i miei pezzi, e in rarissime circostanze qualche pezzo speciale di Eduardo Zalamea, che occupava ogni giorno lo spazio migliore della prima pagina – “La città e il mondo” – con lo pseudonimo di “Ulisse”, per via non di Omero – come lui soleva precisare – ma di James Joyce.

Álvaro Mutis doveva fare un viaggio di lavoro a Port-au-Prince nei primi giorni del nuovo anno, e mi invitò ad accompagnarlo. Haiti era allora il paese dei miei sogni dopo aver letto Il regno di questo mondo, di Alejo Carpentier. Non gli avevo ancora risposto il 18 febbraio, quando scrissi un pezzo sulla regina madre di Inghilterra smarrita nella solitudine dell’immenso Buckingham Palace. Mi colpì che lo pubblicassero nel primo spazio di “Giorno per giorno” e che ne avessero parlato bene nei nostri uffici. Quella notte, a una festa di pochi in casa del caporedattore José Salgar, Eduardo Zalamea fece un commento ancora più entusiasta. In seguito qualche benevolo indiscreto mi disse che quel parere aveva allontanato le ultime perplessità affinché la direzione mi facesse l’offerta formale di un impiego fisso.

Il giorno dopo sul presto Álvaro Mutis mi chiamò nel suo ufficio per darmi la triste notizia che il viaggio ad Haiti era stato annullato. Quello che non mi disse fu che l’aveva deciso dopo una conversazione casuale con Guillermo Cano, in cui questi gli aveva chiesto con tutto il cuore di non portarmi a Port-au-Price. Álvaro, che non conosceva Haiti neppure lui, volle sapere il motivo. «Be’, quando lo saprai» gli disse Guillermo «capirai perché è il posto che a Gabo può piacere di più al mondo.» E coronò il pomeriggio con una bella uscita:

«Se Gabo va ad Haiti non tornerà mai più.»

Álvaro capì, annullò il viaggio, e me lo comunicò come se fosse stata una decisione della sua società. Sicché non conobbi mai Port-au-Prince, ma non seppi i motivi reali fino a pochissimi anni fa, quando Álvaro me li raccontò in una delle nostre tante interminabili rievocazioni da nonni. Quanto a Guillermo, una volta che mi ebbe legato al giornale con un contratto, mi ripeté per anni di pensare al grande reportage su Haiti, ma non mi fu mai possibile andarci né gli dissi perché.

Non mi sarebbe mai venuta in mente l’idea di fare il redattore in pianta stabile di «El Espectador». Capivo che pubblicassero i miei racconti, considerata la scarsità e la povertà del genere in Colombia, ma la redazione quotidiana in un giornale della sera era una sfida ben diversa per uno così poco avvezzo al giornalismo di battaglia. Con mezzo secolo di vita, cresciuto in una casa d’affitto e con i macchinari avanzati a «El Tiempo» – un giornale ricco, forte e prepotente – «El Espectador» era un modesto quotidiano della sera di sedici pagine fitte fitte, ma le sue cinquemila copie mal contate venivano strappate di mano agli strilloni sulla soglia stessa della tipografia, e venivano lette in mezz’ora nei caffè taciturni della città vecchia. Eduardo Zalamea Borda in persona aveva dichiarato attraverso la Bbc di Londra che era il miglior giornale del mondo. Ma la cosa più compromettente non era la dichiarazione in sé, bensì che quasi tutti quelli che lo facevano e molti di quelli che lo leggevano erano convinti che era vero.

Devo confessare che il cuore mi fece un balzo in petto il giorno dopo che il viaggio ad Haiti venne annullato, quando Luis Gabriel Cano, l’amministratore generale, mi diede appuntamento nel suo ufficio. L’incontro, con tutta la sua formalità, non durò cinque minuti. Luis Gabriel aveva una reputazione di uomo fosco, generoso come amico e taccagno come buon amministratore, ma mi sembrò e continuò sempre a sembrarmi molto concreto e cordiale. La sua proposta in termini solenni fu che rimanessi al giornale come redattore in pianta stabile per scrivere pezzi di informazione generale, opinioni, e tutto quanto fosse necessario nelle urgenze dell’ultimo momento, con uno stipendio mensile di novecento pesos. Rimasi senza fiato. Allorché lo ebbi recuperato domandai di nuovo quanto, e lui me lo ripeté lettera per lettera: novecento. Fu tale la mia impressione, che qualche mese dopo, parlandone a una festa, il mio caro Luis Gabriel mi rivelò che aveva interpretato la mia sorpresa come un gesto di rifiuto. L’ultimo dubbio l’aveva espresso don Gabriel, in seguito a un timore ben fondato: «È così magro e pallido che può morirci in ufficio». Così entrai come redattore fisso a «El Espectador», dove consumai la maggior quantità di carta della mia vita in meno di due anni.

Fu un caso fortunato. L’istituzione più temibile del giornale era don Gabriel Cano, il patriarca, che per sua scelta si costituì quale inquisitore implacabile della redazione. Leggeva con una lente millimetrica persino la virgola più inimmaginabile dell’edizione del giorno, segnava con inchiostro rosso gli errori di ogni articolo ed esibiva su un pannello i pezzi flagellati dai suoi commenti devastanti. Il pannello si impose fin dal primo giorno come “Il Muro dell’Infamia”, e non ricordo un redattore che fosse sfuggito al suo stilo sanguinoso.

La promozione spettacolare di Guillermo Cano come direttore di «El Espectador» a ventitré anni non sembrava essere il frutto prematuro dei suoi meriti personali, ma piuttosto il concretizzarsi di una predestinazione che era scritta già prima della sua nascita. Per questo fu per me una sorpresa constatare che era davvero il direttore, quando eravamo in molti da fuori a pensare che fosse solo un figlio obbediente. Mi colpì soprattutto la rapidità con cui riconosceva la notizia.

Talvolta doveva affrontare tutti, anche senza molti argomenti, ma finiva sempre per convincerli della bontà della sua idea. Era un’epoca in cui il mestiere non lo insegnavano nelle università ma lo si imparava sul campo, respirando inchiostro da stampa, e «El Espectador» aveva i maestri migliori, di buon cuore ma di mano dura. Guillermo Cano aveva cominciato lì partendo dall’abicì, con pezzi sulle corride così severi ed eruditi che la sua vocazione dominante non sembrava quella del giornalista bensì quella del torero. Sicché l’esperienza più dura della sua vita sarà stata quella di vedersi promosso dalla sera alla mattina, senza gradini intermedi, da studente in erba a professore esperto. Nessuno che lo conoscesse da vicino avrebbe potuto scorgere, dietro i suoi modi dolci e un po’ evasivi, la terribile determinazione del suo carattere. Con la stessa passione si impegnò in battaglie vaste e pericolose, senza mai indugiare davanti alla certezza che anche dietro le cause più nobili può essere in agguato la morte.

Non ho più conosciuto una persona refrattaria come lui alla vita pubblica, renitente nei confronti degli onori personali, schivo dinanzi alle lusinghe del potere. Era un uomo con pochi amici, ma quei pochi erano ottimi, e io mi sentii uno di loro fin dal primo giorno. Forse vi contribuì il fatto che ero uno dei più giovani nella sala di una redazione composta da veterani scaltriti, cosa che determinò fra noi due un senso di complicità che non si affievolì mai. Quest’amicizia fu esemplare soprattutto per la sua capacità di prevalere sulle nostre contraddizioni. Le divergenze politiche erano molto profonde e lo divennero ancora di più a mano a mano che il mondo andava in pezzi, ma riuscimmo sempre a trovare un territorio comune dove continuare a lottare insieme per le cause che ci sembravano giuste.

La sala della redazione era enorme, con scrivanie su entrambi i lati, e in un’atmosfera presieduta dal buon umore e dalla battuta pesante. C’era Darío Bautista, una strana sorta di controministro delle Finanze, che fin dal primo canto del gallo si dava da fare per rendere amara l’aurora ai funzionari più alti, con i presagi sempre azzeccati di un avvenire sinistro. C’era il redattore di cronaca nera, Felipe González Toledo, un reporter nato che spesso precedette le indagini ufficiali nell’arte di denunciare una magagna e far luce su un delitto. Guillermo Lanao, che si occupava di diversi settori, conservò il segreto di rimanere bambino fino alla sua più tenera vecchiaia. Rogelio Echeverría, un grande poeta, responsabile dell’edizione mattutina, che non vedemmo mai alla luce del giorno. Mio cugino Gonzalo González, con una gamba ingessata in seguito a una brutta partita a pallone, doveva studiare per rispondere a domande su tutto, e finì per diventare specialista in tutto. Sebbene all’università fosse stato un calciatore fra i migliori, aveva una fede interminabile nello studio teorico di qualsiasi cosa al di là dell’esperienza. La dimostrazione spettacolare ce la diede al campionato di bowling dei giornalisti, quando si applicò a studiare su un manuale le leggi fisiche del gioco invece di fare pratica come noi sui campi fino all’alba, e fu il campione dell’anno.

Con un simile gruppo la sala della redazione era un eterno divertimento, sempre soggetto al motto di Darío Bautista o di Felipe González Toledo: “Chi si incazza si frega”. Conoscevamo tutti gli argomenti su cui gli altri scrivevano e ci aiutavamo fin dove veniva chiesto o era possibile. Era tale la partecipazione comune, che si può quasi dire che si lavorava ad alta voce. Ma quando le cose si facevano serie non si sentiva volare una mosca. Dall’unica scrivania messa di traverso in fondo alla sala comandava José Salgar, che andava avanti e indietro per la redazione, informando e informandosi su tutto, mentre si sfogava l’anima con la sua terapia da equilibrista.

Credo che il pomeriggio in cui Guillermo Cano mi portò da una scrivania all’altra attraverso la sala per presentarmi in società, fu la prova del fuoco per la mia timidezza insuperabile. Persi la parola e mi si disarticolarono le ginocchia quando Darío Bautista bramì senza guardare nessuno con la sua temibile voce di tuono:

«È arrivato il genio!»

L’unica cosa che mi venne in mente fu fare un dietrofront teatrale con il braccio teso verso tutti, dicendo quanto di meno spassoso mi uscì dall’anima:

«Ai vostri ordini.»

Ho ancora nelle orecchie il coro di fischi, ma sento pure il sollievo degli abbracci e delle buone parole con cui ognuno mi diede il suo benvenuto. Da quell’istante fui uno tra i membri di quella comunità di tigri caritatevoli, con un’amicizia e un senso del gruppo che non diminuì mai. Ogni informazione di cui avessi bisogno per un pezzo, per minima che fosse, la chiedevo al redattore in quel campo, e al momento opportuno non mi venne mai a mancare.

La mia prima grande lezione da reporter la ricevetti da Guillermo Cano e la visse la redazione al completo un pomeriggio in cui esplose su Bogotá un nubifragio che la tenne in stato di diluvio universale per tre ore ininterrotte. Il torrente di acque vorticanti di Avenida Jiménez de Quesada trascinò via tutto quanto trovava al suo passaggio lungo la china delle alture, e lasciò sulle strade una scia di catastrofe. Le automobili di ogni genere e i mezzi di trasporto pubblico rimasero paralizzati lì dove li colse l’emergenza, e migliaia di passanti si rifugiarono inciampando negli edifici inondati finché non ci fu più posto. Noi redattori del giornale, sorpresi dal disastro nel momento della chiusura, contemplavamo il triste spettacolo dalle finestre senza saper cosa fare, come bambini in castigo con le mani in tasca. D’improvviso, Guillermo Cano sembrò svegliarsi da un sogno senza fondo, si girò verso la redazione paralizzata e gridò:

«Questo nubifragio è una notizia!»

Fu un ordine non impartito cui si obbedì all’istante. Corremmo ai nostri posti di combattimento, e ci informammo per telefono sui particolari che José Salgar ci indicava convulsamente affinché potessimo scrivere fra tutti un reportage sul nubifragio del secolo. Le ambulanze e le volanti chiamate per i casi urgenti vennero immobilizzate dai veicoli imbottigliati in mezzo alle strade. Le condutture domestiche erano ingorgate dalle acque e non bastò tutto il corpo dei pompieri per scongiurare l’emergenza. Diversi quartieri al completo dovettero essere evacuati con la forza per la rottura di una diga urbana. In altri esplosero i tombini. I marciapiedi erano occupati da anziani invalidi, ammalati e bambini con problemi di asfissia. In mezzo al caos, cinque proprietari di barche a motore per pescare nei fine settimana, organizzarono un campionato in Avenida Caracas, la più sommersa della città. Questi dati raccolti sul momento José Salgar li distribuiva fra noi redattori, che li elaborammo per l’edizione speciale improvvisata lì per lì. I fotografi, ancora fradici con l’impermeabile addosso, sviluppavano le fotografie. Poco prima delle cinque, Guillermo Cano scrisse la sintesi magistrale di uno dei nubifragi più drammatici di cui si ebbe memoria nella città. Quando finì di piovere, l’edizione improvvisata di «El Espectador» circolò come tutti i giorni, con solo un’ora di ritardo.

Il mio rapporto iniziale con José Salgar fu il più difficile ma sempre creativo come nessun altro. Credo che lui avesse il problema opposto al mio: cercava sempre di far sì che i suoi reporter dessero il massimo, mentre io ero ansioso che mi mettesse al corrente. Ma gli altri impegni con il giornale mi tenevano legato e non mi rimanevano altre ore che quelle della domenica. Mi sembra che Salgar avesse individuato in me un reporter, mentre per gli altri ero uno adatto al cinema, agli editoriali e alle questioni culturali, perché venivo sempre additato come narratore. Ma il mio sogno era diventare un reporter fin dai primi passi sulla costa atlantica, e sapevo che Salgar era il miglior maestro, ma mi chiudeva le porte forse nella speranza che io le abbattessi per entrare con la forza. Lavoravamo benissimo, cordiali e dinamici, e ogni volta che io gli passavo materiali, scritti d’accordo con Guillermo Cano e anche con Eduardo Zalamea, lui li approvava senza reticenze, ma non evitava il rituale. Faceva il gesto arduo di stappare una bottiglia con forza, e mi diceva più sul serio di quanto lui stesso sembrasse credere:

«Bravo, tiriamo il collo alla vecchia retorica.»

Comunque, non fu mai aggressivo. Tutto il contrario: un uomo cordiale, forgiato a fuoco, che era salito per le scale dei buoni lavoratori, avendo cominciato a distribuire il caffè negli uffici a quattordici anni, fino a trasformarsi nel capo redattore con maggiore autorità professionale nel paese. Credo che lui non potesse perdonarmi che mi sprecassi in equilibrismi lirici, in un paese in cui c’era bisogno di tanti reporter efficaci. Io pensavo, invece, che nessun genere a stampa fosse più adatto del reportage per esprimere la vita quotidiana. Tuttavia, oggi so che la cocciutaggine con cui entrambi cercavamo di farlo fu il migliore incentivo che mi venne fornito per concretizzare il sogno schivo di diventare un reporter.

Colsi l’occasione giusta alle undici e venti minuti della mattina del 9 giugno 1954, mentre tornavo dalla visita a un amico nel carcere di Bogotá. Truppe dell’esercito armate come per una guerra tenevano a bada una folla di studenti sulla Carrera Séptima, a due isolati dallo stesso incrocio dove sei anni prima avevano assassinato Jorge Eliécer Gaitán. Era una manifestazione di protesta per la morte di uno studente il giorno prima da parte di militari del battaglione Colombia addestrati per la guerra in Corea, e il primo scontro in strada di civili contro il governo delle Forze Armate. Da dove mi trovavo io si sentivano solo le grida dell’alterco fra gli studenti che cercavano di proseguire fino al palazzo presidenziale e i militari che li ostacolavano. In mezzo alla folla non riuscimmo a capire cosa si gridassero, ma la tensione la si coglieva nell’aria. D’improvviso, senza alcuna avvertenza, si sentirono una raffica di mitragliatrice e altre due successive. Diversi studenti e alcuni passanti caddero morti. I sopravvissuti che tentarono di portare i feriti all’ospedale vennero percossi con il calcio dei fucili. La truppa sgomberò la zona e sbarrò le strade. Nel fuggifuggi rivissi in pochi secondi tutto l’orrore del 9 aprile, alla stessa ora e nello stesso luogo.

Feci quasi di corsa i tre isolati ripidi verso l’edificio di «El Espectador» e trovai la redazione pronta per la battaglia. Raccontai strozzandomi quello che ero riuscito a vedere sul luogo del massacro, ma chi meno ne sapeva stava già scrivendo al volo il primo pezzo sull’identità dei nove studenti morti e sulle condizioni dei feriti negli ospedali. Ero sicuro che mi avrebbero ordinato di raccontare l’aggressione dal momento che ero l’unico ad averla vista, ma Guillermo Cano e José Salgar erano già d’accordo che doveva essere un articolo collettivo in cui ognuno avrebbe messo del suo. Alla fine, il redattore responsabile, Felipe González Toledo, gli avrebbe conferito unità.

«Stia tranquillo» mi disse Felipe, preoccupato per la mia delusione. «La gente sa che qui lavoriamo tutti per ogni pezzo anche se non porta la firma.»

Quanto a Ulisse, mi consolò dicendomi che l’editoriale che avrei dovuto scrivere io era il più importante, perché si trattava di un gravissimo problema di ordine pubblico. Aveva ragione, ma fu un pezzo così delicato e così compromettente per la politica del giornale, che venne scritto a più mani fra le alte sfere. Credo che sia stata una lezione giusta nei confronti di tutti, ma a me sembrò sconfortante. Quella fu la fine della luna di miele fra il governo delle Forze Armate e la stampa liberale. Era cominciata otto mesi prima con la presa del potere da parte del generale Rojas Pinilla, che aveva permesso al paese di tirare un sospiro di sollievo dopo il bagno di sangue di due governi conservatori successivi, ed era durato fino a quel giorno. Ma fu pure una prova del fuoco per i miei sogni di reporter senza gradi.

Di lì a poco venne pubblicata la fotografia del cadavere di un bambino abbandonato che non avevano potuto identificare nell’obitorio di Medicina Legale, e mi sembrò uguale a quella di un altro bambino scomparso che era stata pubblicata giorni prima. Le mostrai al capo della cronaca nera, Felipe González Toledo, e lui chiamò la madre del primo bambino che non era ancora stato rintracciato. Fu una lezione che non avrei mai dimenticato. La madre del bambino scomparso aspettava Felipe e me all’entrata dell’obitorio. Mi sembrò così povera e avvilita che mi ritrovai a sperare con tutto il cuore che il cadavere non fosse quello del suo bambino. Nel lungo scantinato glaciale, sotto un’illuminazione intensa, c’era una ventina di tavoli disposti uno dopo l’altro con cadaveri come tumuli di pietra sotto lenzuoli scomposti. Tutt’e tre seguimmo il guardiano flemmatico fino al penultimo tavolo in fondo. Da sotto l’estremità del lenzuolo emergevano le suole di un paio di scarpette tristi, con i tacchi logorati dall’uso. La donna le riconobbe, divenne livida, ma riuscì a dominarsi finché il guardiano non tolse il lenzuolo con uno svolazzo da torero. Il corpo sui nove anni, con gli occhi sbarrati e attoniti, aveva gli stessi indumenti bistrattati con cui l’avevano trovato morto da parecchi giorni in un fosso lungo la strada. La madre lanciò un gemito e stramazzò a terra gridando. Felipe la sollevò, le mormorò parole di conforto, mentre io mi domandavo se tutto quello era il mestiere di cui sognavo. Eduardo Zalamea mi disse di no. Pure lui pensava che la cronaca nera, tanto seguita dai lettori, fosse un settore difficile che richiedeva un’indole particolare e un cuore corazzato. Non ci provai mai.

Un’altra realtà assai diversa mi costrinse a fare il critico cinematografico. Non avevo mai pensato di farlo, ma al teatro Olympia di don Antonio Daconte ad Aracataca e poi alla scuola itinerante di Álvaro Cepeda avevo intravisto gli elementi di base per scrivere piccole recensioni cinematografiche con un criterio più utile di quello allora diffuso in Colombia. Ernesto Volkening, un grande scrittore tedesco e critico letterario stabilitosi a Bogotá ai tempi della guerra mondiale, trasmetteva alla Radio Nazionale un programma su prime cinematografiche, ma limitato a un pubblico di specialisti. C’erano altri recensori eccellenti ma occasionali intorno al libraio catalano Luis Vicens, stabilitosi a Bogotá ai tempi della guerra di Spagna. Fu lui a fondare il primo cineclub con la complicità del pittore Enrique Grau e del critico Hernando Salcedo, e con la partecipazione della giornalista Gloria Valencia de Castaño Castillo. Nel paese c’era un pubblico immenso per i grandi film d’azione e quelli strappalacrime, ma il cinema di qualità era circoscritto agli appassionati colti e i distributori si azzardavano sempre meno a proporre film che duravano tre giorni in cartellone. Guadagnare un pubblico nuovo tra quella folla senza volto richiedeva una pedagogia difficile ma possibile per procurare una clientela accessibile ai film di qualità, e aiutare i distributori che volevano finanziarli ma non ci riuscivano. L’inconveniente maggiore era che questi ultimi facevano gravare sulla stampa la minaccia di interrompere la pubblicità cinematografica – che era un introito sostanziale per i giornali – a mo’ di rappresaglia per la critica contraria. «El Espectador» fu il primo ad assumersi il rischio, e mi affidò il compito di recensire le prime della settimana, più come una cartella elementare per appassionati che come uno sfoggio pontificale. Una precauzione presa di comune accordo fu che il mio tesserino di favore rimanesse sempre intatto, come prova che entravo con il biglietto comprato al botteghino.

I primi pezzi tranquillizzarono i distributori perché recensivano film che erano un buon campionario del cinema francese. Fra questi, Puccini, una lunga illustrazione della vita del grande musicista; Sogno di bohème, che era la storia ben raccontata della cantante Grace Moore, e Henriette, una commedia pacifica di Julien Duvivier. Gli impresari che incontravamo all’uscita dal cinema ci manifestavano la loro soddisfazione per i nostri pezzi critici. Álvaro Cepeda, invece, mi svegliò alle sei del mattino da Barranquilla quando fu informato della mia audacia.

«Come ti passa per la testa di fare il critico cinematografico senza il mio permesso, cazzo!» mi gridò morto dal ridere nel telefono. «Bestia come sei in fatto di cinema!»

Si trasformò nel mio aiutante fisso, com’era naturale, anche se respinse sempre l’idea che non si trattava di fare scuola ma di orientare un pubblico elementare senza formazione accademica. Neppure la luna di miele con gli impresari fu dolce come avevamo pensato all’inizio. Quando fu il caso di affrontare il cinema commerciale puro e semplice, persino i più comprensivi si lagnarono della durezza dei nostri articoli. Eduardo Zalamea e Guillermo Cano ebbero sufficiente abilità per distrarli al telefono, verso la fine di aprile, quando un distributore con pretese da caporione ci accusò in una lettera aperta di disanimare il pubblico per colpire i suoi interessi. Mi sembrò che il nodo del problema fosse che l’autore della lettera non conosceva il significato della parola disanimare, ma mi sentii prossimo alla disfatta, perché non credetti possibile che nella crisi di crescita in cui si trovava il giornale, don Gabriel Cano potesse rinunciare alla pubblicità cinematografica per il puro piacere estetico. Lo stesso giorno in cui fu recapitata la lettera convocò i suoi figli e Ulisse per una riunione urgente, e io pensai che la rubrica sarebbe finita morta e sepolta. Tuttavia, passando davanti alla mia scrivania dopo la riunione, don Gabriel mi disse senza precisare l’argomento e con una malizia da nonno:

«Stia tranquillo, signorino.»

Il giorno dopo comparve in “Giorno per giorno” la risposta al distributore, scritta da Guillermo Cano in un deliberato stile dottorale, e il cui finale era chiarissimo: “Non si disanima il pubblico né tanto meno si colpiscono gli interessi di chicchessia pubblicando sulla stampa recensioni cinematografiche serie e responsabili, che assomiglino un po’ a quelle di altri paesi e infrangano i vecchi e nocivi modelli dell’elogio sperticato al bello come al brutto”. Non furono l’unica lettera né l’unica nostra risposta. Proprietari dei cinema ci abbordavano con reclami acidi e ricevevamo lettere contraddittorie di lettori disorientati. Ma fu tutto inutile: la rubrica sopravvisse finché la critica cinematografica smise di essere occasionale nel paese, e divenne cosa consueta sui giornali e alla radio.

A partire da allora, in poco meno di due anni, pubblicai settantacinque recensioni, cui bisognerebbe aggiungere le ore passate a vedere i film. Oltre a circa seicento editoriali, un articolo con o senza firma ogni tre giorni, e almeno ottanta reportage fra quelli firmati e quelli anonimi. Da allora in avanti le collaborazioni letterarie furono pubblicate sul «Magazine Dominical», dello stesso giornale, fra cui diversi racconti e la serie completa di La Sierpe, che si era interrotta sulla rivista «Lámpara» per divergenze interne.

Fu la prima bonaccia della mia vita ma senza che avessi il tempo per godermela. L’appartamento ammobiliato preso in affitto, con servizio di lavanderia, non era che un dormitorio con bagno, telefono e colazione a letto, e una finestra grande con la pioviggine eterna della città più triste del mondo. Lo usai solo per dormire alle tre del mattino, dopo un’ora di lettura, fino ai notiziari radiofonici del mattino per avere un’idea dell’attualità della nuova giornata.

Non smisi di pensare con una certa inquietudine che era la prima volta che avevo un luogo fisso e tutto mio dove vivere ma senza neppure il tempo per accorgermene. Ero così occupato a destreggiarmi nella mia nuova vita, che la mia unica spesa fu la barca a remi che alla fine di ogni mese spedii puntualmente alla famiglia. Solo oggi mi rendo conto che ebbi appena il tempo di occuparmi della mia vita privata. Forse perché sopravviveva in me l’idea delle madri caraibiche, secondo cui le bogotane si abbandonavano senza amore agli uomini della costa solo per vedere concretizzarsi il loro sogno di vivere davanti al mare. Però, nel mio primo appartamento a Bogotá ci riuscii senza rischi, dopo aver domandato al portiere se erano permesse le visite di amiche della mezzanotte, e lui mi aveva dato la sua saggia risposta:

«È proibito, signore, ma io non vedo quello che non devo vedere.»

Alla fine di luglio, senza preavviso, José Salgar si piazzò di fronte al mio tavolo mentre scrivevo un editoriale e mi guardò in un lungo silenzio. Interruppi a metà una frase, e gli dissi incuriosito:

«Qual è la storia?»

Lui non batté ciglio, segnando il tempo di un bolero invisibile con la sua matita colorata, e con un sorriso diabolico la cui intenzione era troppo evidente. Mi spiegò senza che glielo domandassi di non avere autorizzato il mio reportage sul massacro di studenti nella Carrera Séptima perché era un’informazione difficile per uno alle prime armi. Invece, mi offriva a suo rischio e pericolo la laurea da reporter, in un modo diretto, ma senza il minimo accenno di sfida, se me la sentivo di accettare una proposta mortale:

«Perché non va a Medellín e ci racconta cosa cazzo è successo lì?»

Non fu facile capirlo, perché mi stava parlando di una cosa accaduta da oltre due settimane, così inducendo a sospettare che fosse un pallone sgonfio. Si sapeva che la mattina del 12 luglio c’era stato uno smottamento alla Mezza Luna, un posto ripido a nord di Medellín, ma lo scandalo della stampa, il disordine delle autorità e il panico dei danneggiati avevano determinato grovigli amministrativi e umanitari che impedivano di vedere la realtà. Salgar non mi chiese di tentare di verificare l’accaduto nei limiti del possibile, ma mi ordinò con semplicità e chiarezza di ricostruire in loco tutta la verità, e nient’altro che la verità, nel minor tempo possibile. Tuttavia, qualcosa nel suo modo di dirlo mi fece pensare che finalmente mi mollava le redini.

Fino ad allora, il mondo intero sapeva di Medellín solo che lì era morto Carlos Gardel, carbonizzato in una catastrofe aerea. Io sapevo che era una terra di grandi scrittori e poeti, e che vi aveva sede il collegio della Presentazione dove Mercedes Barcha si era messa a studiare quell’anno. Dinanzi a una missione così delirante, non mi sembrava più irreale ricostruire pezzo per pezzo l’ecatombe di una montagna. Sicché atterrai a Medellín alle undici del mattino, in una tempesta così spaventosa che ebbi l’impressione di essere l’ultima vittima dello smottamento.

Lasciai la valigia all’Hotel Nutibara con indumenti per due giorni e una cravatta di emergenza, e uscii in strada, in una città idilliaca ancora rannuvolata dai residui della tempesta. Álvaro Mutis mi accompagnò per aiutarmi a tollerare la paura di volare, e mi fornì nomi di gente bene inserita nella vita della città. Ma la verità nuda e cruda era che non sapevo affatto da dove cominciare. Camminai a caso per le vie radiose sotto la farina d’oro di un sole splendido dopo la tempesta, e in capo a un’ora dovetti rifugiarmi nella prima bottega perché riprese a piovere malgrado il sole. Allora cominciai a sentire nel petto i primi sussulti del panico. Cercai di dominarli con la formula magica di mio nonno in mezzo al combattimento, ma la paura della paura finì per farmi crollare il morale. Mi resi conto che non sarei mai stato capace di fare quanto mi avevano assegnato e che non avevo avuto il coraggio di dirlo. Allora capii che l’unica cosa sensata era scrivere una lettera di ringraziamento a Guillermo Cano, e tornare a Barranquilla e allo stato di grazia in cui mi trovavo da sei mesi.

Con l’immenso sollievo di essere uscito dall’inferno presi un taxi per tornare all’albergo. Il notiziario di mezzogiorno fece un lungo servizio a due voci come se gli smottamenti avessero avuto luogo il giorno prima. L’autista si sfogò quasi gridando contro la negligenza del governo e il cattivo uso dei soccorsi per i danneggiati, e in qualche modo mi sentii colpevole della sua giusta rabbia. Ma allora aveva di nuovo smesso di piovere e l’aria era diventata diafana e fragrante nell’esplosione di fiori del Parco Berrío. D’improvviso, non so perché, sentii l’artigliata della pazzia.

«Facciamo una cosa» dissi all’autista: «prima di passare per l’albergo mi porti sul luogo degli smottamenti».

«Ma là non c’è niente da vedere» mi disse lui. «Solo le candele accese e le piccole croci per i morti che non hanno potuto disseppellire.»

Così mi resi conto che sia le vittime sia i sopravvissuti erano di zone diverse della città, e che questi ultimi l’avevano attraversata in massa per recuperare i corpi dei vicini travolti dal primo smottamento. La tragedia grande era stata quando i curiosi avevano invaso il luogo e un altro pezzo della montagna era scivolato giù in una valanga devastante. Sicché gli unici che avevano potuto raccontare la storia erano stati quei pochi sfuggiti agli smottamenti successivi e che erano vivi all’altro estremo della città.

«Capisco» dissi all’autista cercando di dominare il tremito della voce. «Mi porti dove ci sono i vivi.»

Fece dietrofront in mezzo alla strada e si avviò sparato nel senso opposto. Il suo silenzio doveva essere non solo il risultato della velocità del momento, ma anche la speranza di convincermi delle sue ragioni.

L’inizio della vicenda erano due bambini di otto e di undici anni che erano usciti di casa per andare a tagliare legna martedì 12 luglio alle sette del mattino. Si erano allontanati un centinaio di metri quando avevano sentito il fracasso della valanga di terra e rocce che precipitava su di loro lungo il versante dell’altura. A stento erano riusciti a scappare. Nella casa erano rimaste intrappolate le tre sorelle minori con la madre e un fratellino nato da poco. Gli unici sopravvissuti erano stati i due bambini appena usciti e il padre di tutti, che si era recato presto al suo lavoro di renaiolo a dieci chilometri da casa.

Il posto era una brughiera inospitale sulla strada da Medellín a Rionegro, dove alle otto del mattino non c’erano abitanti che potessero diventare ulteriori vittime. Le emittenti radio avevano diffuso la notizia esagerata con così tanti particolari sanguinosi e appelli urgenti, che i primi volontari avevano preceduto i pompieri. A mezzogiorno c’erano stati altri due smottamenti senza vittime, che avevano fatto aumentare il nervosismo generale, e un’emittente del posto si era installata per trasmettere in diretta dal luogo del disastro. A quell’ora era lì la quasi totalità degli abitanti dei paesi e delle borgate vicini, più i curiosi di tutta la città attratti dai clamori della radio, e i passeggeri che scendevano dagli autobus interurbani più per disturbare che per essere utili. Oltre ai pochi corpi che erano rimasti la mattina, ce n’erano allora altri trecento degli smottamenti successivi. Ma, al momento dell’imbrunire, più di duemila volontari continuavano a prestare aiuto disorientato ai sopravvissuti. Non c’era più spazio neppure per respirare con agio. La folla era fitta e caotica alle sei, quando precipitò un’altra valanga travolgente di seicentomila metri cubi, con uno strepito colossale che causò tante vittime come se si fosse riversata sul Parco Berrío di Medellín. Una catastrofe così rapida che il dottor Javier Mora, segretario ai Lavori Pubblici del comune, trovò fra i detriti il cadavere di un coniglio che non aveva fatto in tempo a fuggire.

Due settimane dopo, quando arrivai sul posto, solo settantaquattro cadaveri erano stati recuperati, e numerosi sopravvissuti erano in salvo. La maggior parte non era stata vittima degli smottamenti ma dell’imprudenza e della solidarietà disordinata. Come nei terremoti, non fu possibile calcolare il numero di persone con problemi che avevano approfittato dell’occasione per sparire senza lasciare tracce, volendo sottrarsi ai debiti o cambiare donna. Tuttavia, anche la buona sorte ci mise il suo zampino, perché un’indagine successiva dimostrò che fin dal primo giorno, mentre si tentavano i salvataggi, per poco non si staccò una massa di rocce capace di provocare un’altra valanga di cinquantamila metri cubi. Più di quindici giorni dopo, con l’aiuto dei sopravvissuti che intanto si erano ripresi, ricostruii la storia che prima non sarebbe stato possibile per inadeguatezze e lungaggini della realtà.

La mia impresa si ridusse a riscattare la verità perduta in un groviglio di ipotesi divergenti e a ricostruire il dramma umano secondo l’ordine in cui si era verificato, e al margine di ogni calcolo politico e sentimentale. Álvaro Mutis mi aveva avviato lungo la strada giusta mandandomi dalla pubblicista Cecilia Warren, che aveva messo ordine nei dati con cui ero tornato sul luogo del disastro. Il reportage fu pubblicato in tre parti, ed ebbe almeno il merito di suscitare l’interesse con due settimane di ritardo per una notizia dimenticata, e di mettere ordine nel caos della tragedia.

Comunque, il mio migliore ricordo di quei giorni non è quello che feci bensì quello che fui sul punto di fare, grazie all’immaginazione delirante del mio vecchio compare di Barranquilla, Orlando Rivera, “Figurina”, che incontrai per caso in una delle poche tregue dell’indagine. Abitava a Medellín da qualche mese, ed era felice per il recente matrimonio con Sol Santamaría, una suora affascinante e di spirito libero che lui aveva aiutato a uscire da un convento di clausura dopo sette anni di obbedienza, castità e povertà. In una delle nostre sbronze, Figurina mi rivelò che aveva preparato con sua moglie e a suo rischio e pericolo un piano magistrale per far uscire Mercedes Barcha dal suo collegio. Un parroco amico, famoso per le sue arti di paraninfo, si sarebbe tenuto pronto per sposarci a qualsiasi ora. L’unica condizione, naturalmente, era che Mercedes fosse d’accordo, ma non trovammo modo per consultarla chiusa com’era fra le quattro mura della sua prigionia. Oggi più che mai mi tormenta l’idea di non avere avuto il coraggio di vivere quell’episodio da romanzo d’appendice. Quanto a Mercedes, non è mai venuta a conoscenza del piano fino a cinquanta e più anni dopo, quando lo ha letto negli originali di questo libro.

Fu una delle ultime volte in cui vidi Figurina. Al carnevale del 1960, travestito da giaguaro cubano, scivolò dalla carrozza che lo portava di ritorno alla sua casa di Baranoa dopo la battaglia dei fiori, e si ruppe la testa sul suolo tappezzato con i residui del carnevale.

La seconda notte del mio lavoro sugli smottamenti di Medellín mi aspettavano all’albergo due redattori del quotidiano «El Colombiano» – così giovani che lo erano più di me – intenzionati a farmi un’intervista sui miei racconti pubblicati fino ad allora. Dovettero faticare per convincermi, perché avevo e continuo ad avere un pregiudizio forse ingiusto nei confronti delle interviste, intese come una seduta di domande e risposte in cui entrambe le parti fanno sforzi per intrattenere una conversazione rivelatrice. Questo pregiudizio mi ha seguito in tutti i giornali per cui ho lavorato, e in particolare a «Crónica», dove tentai di contagiare le mie reticenze ai collaboratori. Tuttavia, concessi quella prima intervista per «El Colombiano», e fu di una sincerità suicida.

Oggi è innumerevole la serie di interviste di cui sono stato vittima nel corso di cinquant’anni e in mezzo mondo, e non sono ancora riuscito a convincermi dell’efficacia del genere, né da una parte né dall’altra. La stragrande maggioranza di quelle che non ho potuto evitare su qualsiasi argomento dovrà essere considerata come parte importante delle mie opere di finzione, perché tali sono: fantasie sulla mia vita. Invece, le considero preziose non per pubblicarle ma come materiale di base per il reportage, che ritengo sia il genere capitale del miglior mestiere del mondo.

Certo è che non erano tempi da stare allegri. Il governo del generale Rojas Pinilla, in conflitto aperto con la stampa e con gran parte dell’opinione pubblica, aveva coronato il mese di settembre con la decisione di dividere il remoto e dimenticato distretto del Chocó fra i suoi tre prosperi vicini: Antioquia, Caldas e Valle. A Quibdó, il capoluogo, si poteva arrivare solo da Medellín lungo una strada a senso unico e in condizioni così cattive che ci volevano venti ore per centosessanta chilometri. Le condizioni di oggi non sono migliori.

Alla redazione del giornale davamo per scontato che non ci fosse molto da fare per impedire lo smembramento decretato da un governo in cattivi rapporti con la stampa liberale. Primo Guerrero, il corrispondente veterano di «El Espectador» a Quibdó, informò al terzo giorno che una manifestazione popolare di famiglie intere, inclusi i bambini, aveva occupato la piazza principale risoluta a rimanere lì con qualsiasi tempo finché il governo non avesse desistito dal suo proposito. Le prime fotografie delle madri ribelli con i loro bambini in braccio sbiadirono a mano a mano che passavano i giorni in seguito ai danni della vigilia nell’abitato esposto alle intemperie. Queste notizie le rinvigorivamo quotidianamente in redazione con editoriali o dichiarazioni di politici e intellettuali del Chocó residenti a Bogotá, ma il governo sembrava deciso a vincere con l’indifferenza. Dopo parecchi giorni, tuttavia, José Salgar si avvicinò alla mia scrivania con la sua matita da burattinaio e mi suggerì di andare a investigare su cosa stava davvero accadendo nel Chocó. Cercai di oppormi con la poca autorità che avevo ottenuto grazie al reportage di Medellín, ma in quell’occasione non mi bastò. Guillermo Cano, che scriveva di spalle a noi, gridò senza guardarci:

«Ci vada, Gabo, che quelle del Chocó sono migliori di quelle che voleva vedere ad Haiti!»

Sicché ci andai senza neppure domandarmi come si poteva scrivere un reportage su una manifestazione di protesta che si opponeva alla violenza. Mi accompagnò il fotografo Guillermo Sánchez, che da mesi mi tormentava con la solfa di fare insieme reportage di guerra. Stufo di sentirlo, gli gridai:

«Ma quale guerra, cazzo?»

«Non faccia il furbo, Gabo» mi spiattellò d’improvviso la verità «che la sento dire di continuo che questo paese è in guerra dall’Indipendenza in poi.»

All’alba di martedì 21 settembre si presentò in redazione vestito come un guerriero più che come un reporter fotografico, con macchina da presa e borse appese su tutto il corpo per andarcene a scoprire una guerra imbavagliata. La prima sorpresa fu che al Chocó si arrivava da un aeroporto secondario di Bogotá senza servizi di alcun genere, fra carcasse di camion morti e aerei arrugginiti. Il nostro, ancora vivo per arti di magia, era uno dei leggendari Catalina della Seconda guerra mondiale che una compagnia civile aveva trasformato in velivolo da carico. Non aveva sedili. L’interno era scarno e cupo, con finestrini rannuvolati e pieno di fagotti di fibre per fabbricare scope. Eravamo gli unici passeggeri. Il copilota in maniche di camicia, giovane e gagliardo come gli aviatori del cinema, ci insegnò a sederci sui fagotti da carico che gli sembrarono più confortevoli. Non mi riconobbe, ma io sapevo che era stato un bravo giocatore di baseball di una squadra di Cartagena.

Il decollo fu terrificante, anche per un passeggero esperto come Guillermo Sánchez, a causa del bramito rintronante dei motori e dello strepito di ferraglia della fusoliera, ma una volta stabilizzatosi nel cielo diafano della savana l’aereo scivolò con il brio di un veterano di guerra. Tuttavia, dopo lo scalo a Medellín ci colse un acquazzone diluviano sopra una foresta avviluppata fra due cordigliere, e fummo costretti a entrarci frontalmente. Allora vivemmo quanto forse pochissimi mortali hanno vissuto: piovve dentro l’aereo dalle fessure nella fusoliera. Il copilota amico, saltando tra i fagotti di scope, ci portò i quotidiani del giorno affinché li usassimo a mo’ di ombrelli. Io mi coprii con il mio non tanto per proteggermi dall’acqua quanto per evitare che mi vedessero piangere di terrore.

Dopo circa due ore di fortuna e azzardo l’aereo piegò sulla sua sinistra, scese in posizione di attacco su una foresta compatta e fece due giri esploratori sulla piazza principale di Quibdó. Guillermo Sánchez, pronto a captare fin dall’aria la manifestazione spossata dal logorio delle vigilie, trovò solo la piazza deserta. L’anfibio sconquassato fece un ultimo giro per constatare che non c’erano ostacoli vivi né morti sul fiume Atrato quieto e fece un ammaraggio felice nel sopore del mezzogiorno.

La chiesa rattoppata con assi, le panchine di cemento impiastrate dagli uccelli e una mula senza padrone che scalpicciava sotto i rami di un albero gigantesco erano gli unici segni dell’esistenza umana nella piazza polverosa e solitaria che a nulla assomigliava come a una capitale africana. La nostra prima intenzione era scattare fotografie urgenti della folla manifestante e spedirle a Bogotá con l’aereo di ritorno, mentre raccoglievamo abbastanza informazioni di prima mano da trasmettere con il telegrafo per l’edizione dell’indomani. Nulla di tutto questo era possibile, perché non accadde nulla.

Percorremmo senza testimoni la lunghissima via parallela al fiume, costeggiata da botteghe chiuse per il pranzo e case con balconi di legno e tetti arrugginiti. Era lo scenario perfetto ma mancava il dramma. Il nostro buon collega Primo Guerrero, corrispondente di «El Espectador», si era sbracato a fare la siesta su un’amaca primaverile sotto il pergolato di casa sua, come se il silenzio che lo circondava fosse la pace dei sepolcri. La franchezza con cui ci spiegò la sua incuria non poteva essere più obiettiva. Dopo le manifestazioni dei primi giorni la tensione si era allentata per mancanza di argomenti. Si era allora organizzata una mobilitazione di tutto l’abitato con tecniche teatrali, erano state fatte fotografie mai pubblicate in quanto poco credibili ed erano stati pronunciati i discorsi patriottici che in effetti avevano scosso il paese, ma il governo era rimasto imperturbabile. Primo Guerrero, con una flessibilità etica che forse Dio gli avrà perdonato, aveva mantenuto viva la protesta a forza di telegrammi.

Il nostro problema professionale era semplice: non avevamo intrapreso quella spedizione da Tarzan per informare che la notizia non esisteva. Piuttosto, avevamo sotto mano i mezzi per far sì che fosse sicura e corretta. Primo Guerrero propose allora di organizzare ancora una volta la manifestazione portatile, e a nessuno venne in mente un’idea migliore. Il nostro collaboratore più entusiasta fu il capitano Luis A. Cano, nuovo governatore nominato in seguito alle dimissioni adirate del precedente, ed ebbe la gentilezza di far fermare l’aereo affinché il giornale ricevesse in tempo le fotografie di Guillermo Sánchez. Fu così che la notizia inventata per necessità divenne l’unica sicura, amplificata dalla stampa e dalla radio di tutto il paese e acchiappata al volo dal governo militare per salvarsi la faccia. Quella stessa sera iniziò una mobilitazione generale dei politici del Chocó – alcuni dei quali molto influenti in certi settori del paese – e due giorni dopo il generale Rojas Pinilla dichiarò di esser tornato sulla sua decisione di dividere il Chocó a pezzi fra i suoi vicini.

Guillermo Sánchez e io non tornammo subito a Bogotá perché convincemmo il giornale a permetterci di passare attraverso l’entroterra del Chocó in modo da conoscere a fondo la realtà di quel mondo fantastico. Dopo dieci giorni di silenzio, quando arrivammo nella sala della redazione bruciati dal sole e cascando a terra per il sonno, José Salgar ci accolse felice ma secondo il suo carattere.

«Voi sapete» ci domandò con la sua sicurezza imbattibile «quanto tempo fa si è esaurita la notizia sul Chocó?»

La domanda mi mise davanti per la prima volta la condizione mortale del giornalismo. In effetti, nessuno si era più interessato al Chocó dopo che era stata resa nota la decisione presidenziale di non smembrarlo. Comunque, José Salgar mi assecondò nel rischio di cucinare quanto era ancora possibile di quel pesce morto.

Quello che cercammo di comunicare in quattro lunghe puntate fu la scoperta di un paese inconcepibile all’interno della Colombia, di cui non avevamo consapevolezza. Una patria magica di foreste fiorite e diluvi eterni, dove tutto sembrava una versione inverosimile della vita quotidiana. La grande difficoltà per la costruzione di vie terrestri era un’enorme quantità di fiumi indomiti, con un solo ponte in tutto il territorio. Avevamo trovato una strada di settantacinque chilometri attraverso la foresta vergine, costruita con enorme dispendio per collegare il paese di Itsmina a quello di Yuto, ma che non passava né per l’uno né per l’altro, a causa di una rappresaglia del costruttore per le sue liti con i due sindaci.

In qualche paese dell’entroterra l’agente postale ci chiese di portare al suo collega di Itsmina la posta di sei mesi. Lì un pacchetto di sigarette nazionali costava trenta centesimi, come nel resto del paese, ma se l’aereo settimanale dei rifornimenti ci metteva più del previsto le sigarette aumentavano di prezzo per ogni giorno di ritardo, finché la popolazione non si vedeva costretta a fumare sigarette straniere che finivano per essere più economiche di quelle nazionali. Un sacco di riso costava quindici pesos di più che nel luogo di produzione perché lo trasportavano attraverso ottanta chilometri di foresta vergine a dorso di mule che si aggrappavano come gatti alle pendici della montagna. Le donne dei villaggi più poveri cercavano oro e platino nei fiumi, mentre i loro uomini pescavano, e il sabato vendevano agli ambulanti una dozzina di pesci e quattro grammi di platino per soli tre pesos.

Tutto questo accadeva in un contesto famoso per la sua ansia di studiare. Ma le scuole erano poche e disparse, e ogni giorno gli alunni dovevano farsi svariate leghe a piedi e in canoa per andare e tornare. Alcune erano così piene che uno stesso locale veniva usato il lunedì, il mercoledì e il venerdì per i maschi, e il martedì, il giovedì e il sabato per le femmine. Per forza di cose erano le più democratiche del paese, dal momento che il figlio della lavandaia, che aveva a stento di che mangiare, frequentava la stessa scuola del figlio del sindaco.

Allora eravamo in pochissimi colombiani a sapere che nel cuore della foresta del Chocó si levava una delle città più moderne del paese. Si chiamava Andagoya, alla confluenza dei fiumi San Juan e Condoto, e aveva un sistema telefonico perfetto, moli per le imbarcazioni e lance che appartenevano alla stessa città dai bei viali alberati. Le case, piccole e pulite, con grandi spazi recintati e pittoresche scalinate di legno sulla facciata, sembravano seminate sull’erba. Nel centro c’era un casinò con un ristorante e un bar dove si consumavano alcolici importati a prezzo inferiore che nel resto del paese. Era una città abitata da uomini di tutto il mondo, che avevano dimenticato la nostalgia e vivevano lì meglio che nella loro terra sotto l’autorità dell’amministratore locale della Chocó Pacifico. Perché Andagoya, nella vita reale, era un paese straniero di proprietà privata, le cui draghe saccheggiavano l’oro e il platino dei suoi fiumi preistorici e se li portavano via su una nave che partiva per il mondo intero senza il controllo di nessuno attraverso le foci del fiume San Juan.

Questo era il Chocó che intendemmo rivelare ai colombiani senza risultato, perché una volta pubblicata la notizia tutto tornò al suo posto, e seguitò a essere la regione più dimenticata del paese. Credo che il motivo sia evidente: da sempre la Colombia è stata un paese dall’identità caraibica aperto al mondo attraverso il cordone ombelicale di Panama. L’amputazione coatta ci ha condannati a essere quello che siamo oggi: un paese dalla mentalità andina con le condizioni propizie affinché il canale tra i due oceani non fosse nostro ma degli Stati Uniti.

Il ritmo settimanale della redazione sarebbe stato mortale non fosse per i venerdì pomeriggio, a mano a mano che ci liberavamo dal lavoro e ci concentravamo nel bar dell’Hotel Continental, sul marciapiede di fronte, per uno sfogo che poteva protrarsi fino all’alba. Eduardo Zalamea battezzò quelle notti con un loro nome: i Venerdì Culturali. Era la mia unica occasione di chiacchierare con lui per non perdere il treno delle novità letterarie del mondo, su cui si teneva al corrente con la sua capacità di lettore insaziabile. I sopravvissuti a quelle chiacchiere accompagnate da alcolici infiniti e da finali imprevedibili – oltre a due o tre amici eterni di Ulisse – eravamo noi redattori che non avevamo paura di tirare il collo alla vecchia retorica in attesa dell’alba.

Mi aveva sempre colpito che Zalamea non avesse mai fatto un’osservazione sui miei pezzi, sebbene molti fossero ispirati ai suoi. Comunque, allorché si consolidarono i Venerdì Culturali riversò tutte le sue idee sul genere. Mi confessò che era in disaccordo con i criteri di molti dei miei pezzi e me ne suggeriva altri, ma non in un tono da capo che si rivolge al suo discepolo bensì da scrittore a scrittore.

Un altro rifugio frequente dopo gli spettacoli del cineclub erano gli incontri di mezzanotte nell’appartamento di Luis Vicens e di sua moglie Nancy, a pochi isolati da «El Espectador» Lui, collaboratore di Marcel Colin Reval, capo redattore della rivista «Cinématographie française» a Parigi, aveva cambiato i suoi sogni sul cinema con il buon mestiere di libraio in Colombia, a causa delle guerre in Europa. Nancy si comportava come un’ospite magica capace di ampliare fino a dodici una sala da pranzo per quattro. Si erano conosciuti poco dopo che lui era arrivato a Bogotá, nel 1937, a una cena familiare. A tavola rimaneva solo un posto accanto a Nancy, che vide entrare con orrore l’ultimo invitato, con i capelli bianchi e una pelle da alpinista tostato dal sole. “Che sfortuna!” si disse. “Adesso mi è toccato di avere al fianco questo polacco che non saprà neppure lo spagnolo!” Fu sul punto di indovinare quanto alla lingua, perché il nuovo venuto parlava lo spagnolo in un catalano rozzo incrociato con il francese, mentre lei era saccente e di lingua sciolta. Ma si intesero così bene fin dal primo saluto che rimasero a vivere insieme per sempre.

Le loro serate venivano improvvisate dopo le grandi prime cinematografiche in un appartamento accalcato con un miscuglio di gente venuta da ogni parte, dove non c’era più posto per un altro quadro dei nuovi pittori colombiani, alcuni dei quali sarebbero diventati famosi in tutto il mondo. Io vi entrai come a casa mia fin dalla prima recensione cinematografica, e quando uscivo dal giornale entro la mezzanotte facevo a piedi i tre isolati e li costringevo a stare svegli. La maestra Nancy, che oltre a essere una cuoca eccelsa era una paraninfa indefessa, improvvisava cene innocenti perché mi legassi a una delle ragazze più carine e libere del mondo artistico, e non mi perdonò mai quando a ventott’anni le dissi che la mia vera vocazione non era quella dello scrittore né del giornalista ma dello scapolo impenitente.

Álvaro Mutis, nei vuoti che gli rimanevano dai suoi viaggi mondiali, completò in grande stile il mio ingresso nella comunità culturale. Nel suo ruolo di capo delle relazioni pubbliche della Esso colombiana organizzava pranzi nei ristoranti più cari, con quanto davvero aveva peso e valore nelle arti e nelle lettere, e spesso con invitati di altre città del paese. Il poeta Jorge Gaitán Durán, ossessionato dall’idea di fare una grande rivista letteraria che costava una fortuna, realizzò il suo progetto in parte con i fondi di Álvaro Mutis per l’incremento della cultura. Álvaro Castaño Castillo e sua moglie, Gloria Valencia, cercavano da anni di fondare un’emittente consacrata alla buona musica e ai programmi culturali a portata di mano. Noi tutti li prendevamo in giro per l’irrealtà del progetto, meno Álvaro Mutis, che fece il possibile per aiutarli. Così fondarono l’emittente HJCK, “Il mondo a Bogotá”, con una trasmittente da 500 watt che a quei tempi era il minimo. In Colombia non esisteva ancora la televisione, ma Gloria Valencia inventò il prodigio metafisico di fare per radio un programma con sfilate di moda.

L’unico riposo che mi concedevo in quel periodo di strapazzi furono i lenti pomeriggi domenicali a casa di Álvaro Mutis, che mi insegnò ad ascoltare la musica senza pregiudizi. Ci stendevamo sul tappeto a seguire con il cuore i grandi maestri senza speculazioni dotte. Fu l’origine di una passione che era cominciata nella saletta nascosta della Biblioteca Nazionale, e che non si allontanò mai da noi. Oggi ho ascoltato tutta la musica che sono riuscito a procurarmi, soprattutto quella romantica da camera che considero il culmine delle arti. In Messico, mentre scrivevo Cent’anni di solitudine – fra il 1965 e il 1966 – avevo solo due dischi che si consumarono a forza di essere ascoltati: i Preludi di Debussy e A hard day’s night, dei Beatles. In seguito, quando a Barcellona ebbi finalmente tutti quelli che avrei voluto avere, mi sembrò troppo convenzionale la classificazione alfabetica, e per mia comodità privata adottai l’ordine per strumenti: il violoncello, che è il mio preferito, da Vivaldi a Brahms; il violino, da Corelli fino a Schönberg; il clavicembalo e il pianoforte, da Bach a Bartók. Fino a scoprire il miracolo per cui qualsiasi cosa suoni è musica, inclusi i piatti e le posate nel lavandino, purché assecondino l’illusione di indicarci in che direzione va la vita.

Il mio limite era che non riuscivo a scrivere con la musica perché facevo più attenzione a quanto ascoltavo che a quanto scrivevo, e ancora oggi assisto a pochissimi concerti, perché sento che seduti in poltrona si stabilisce una sorta di intimità un po’ impudica con vicini estranei. Tuttavia, con il tempo e con le possibilità di disporre di buona musica in casa, ho imparato a scrivere con un sottofondo musicale in armonia con quello che scrivo. I Notturni di Chopin per gli episodi quieti o i sestetti di Brahms per i pomeriggi felici. Invece, ho smesso di ascoltare Mozart per anni, da quando mi venne l’idea perversa che Mozart non esiste, perché quando è bravo è Beethoven e quando non lo è allora è Haydin.

Negli anni di cui evoco queste memorie ho ottenuto il miracolo che nessun tipo di musica mi disturbi nello scrivere, anche se forse non sono consapevole di una certa influenza, perché la maggior sorpresa me la riservarono due musicisti catalani, molto giovani e arguti, che credevano di avere scoperto affinità sorprendenti fra L’autunno del patriarca, il mio sesto romanzo, e il Terzo concerto per pianoforte di Béla Bartók. È vero che lo ascoltavo senza misericordia mentre scrivevo, in quanto mi determinava uno stato d’animo molto speciale e un po’ strano, ma non avevo mai pensato che avesse potuto influenzarmi al punto che lo si potesse notare nella mia scrittura. Non so come fossero venuti a sapere di tale preferenza i membri dell’Accademia Svedese che lo misero come sottofondo alla consegna del mio premio. Ne fui grato con tutta l’anima, ma se me l’avessero domandato – con tutta la mia gratitudine e il mio rispetto per loro e per Béla Bartók – mi sarebbe piaciuto ascoltare una delle romanze spontanee di Francisco l’Uomo alle feste della mia infanzia.

Non ci fu in Colombia in quegli anni un progetto culturale, un libro da scrivere o un quadro da dipingere che non passasse prima per l’ufficio di Mutis. Fui testimone del suo dialogo con un pittore giovane che aveva tutto pronto per fare il suo periplo di rigore attraverso l’Europa, ma gli mancava il denaro per il viaggio. Álvaro non aveva ascoltato neppure tutta la storia, quando tirò fuori dalla scrivania la cartellina magica.

«Ecco il biglietto» disse.

Io assistevo abbagliato alla naturalezza con cui faceva questi miracoli senza il minimo sfoggio di potere. Per questo mi domando ancora se non ebbe qualcosa a che vedere con la richiesta che mi fece a un cocktail il segretario dell’Associazione Colombiana degli Scrittori e degli Artisti, Óscar Delgado, di partecipare al concorso nazionale di narrativa che stava per essere dichiarato vacante. Lo disse così male che la proposta mi sembrò indecorosa, ma qualcuno che la sentì mi precisò che in un paese come il nostro non si poteva essere scrittori senza sapere che i concorsi letterari sono semplici pantomime mondane. «Persino il premio Nobel» concluse senza la minima malizia, e senza neppure pensarci mi mise in guardia fin da allora nei confronti di un’altra decisione inaudita che mi coinvolse ventisette anni dopo.

La giuria del concorso di narrativa era composta da Hernando Téllez, Juan Lozano y Lozano, Pedro Gómez Valderrama e altri tre scrittori e critici. Sicché non feci considerazioni etiche né economiche, ma passai una notte immerso nella correzione finale di Un giorno dopo il sabato, il racconto che avevo scritto a Barranquilla in un accesso di ispirazione negli uffici di «El Nacional». Dopo aver giaciuto per oltre un anno nel cassetto mi sembrò in grado di entusiasmare una buona giuria. Così fu, con la gratificazione straordinaria di tremila pesos.

In quegli stessi giorni, e senza che c’entrasse con il concorso, mi capitò in ufficio don Samuel Lisman Baum, addetto culturale dell’Ambasciata Israeliana, che aveva appena inaugurato una casa editrice con un libro di poesie del maestro León de Greiff. L’edizione era presentabile e le notizie su Lisman Baum erano buone. Sicché gli diedi una copia molto rammendata di Foglie morte e lo congedai in fretta e furia con l’impegno che poi avremmo parlato. Soprattutto di soldi, che alla fine – lo assicuro – fu l’unica cosa di cui non parlammo mai. Cecilia Porras dipinse una bella illustrazione – che neppure lei riuscì a farsi pagare – basata sulla mia descrizione del personaggio del bambino. La tipografia di «El Espectador» regalò il cliché per la copertina a colori.

Non ne seppi più nulla fino a cinque mesi dopo, quando la Casa editrice Sipa di Bogotá – che non avevo mai sentito nominare – mi telefonò al giornale per dirmi che l’edizione di quattromila copie era pronta per la distribuzione, ma che non sapevano cosa farne finché qualcuno non avesse fornito notizie di Lisman Baum. Neppure gli stessi reporter del giornale riuscirono a trovarne traccia né altri ne hanno più trovata fino a oggi. Ulisse propose alla tipografia di vendere le copie alle librerie promettendo una campagna stampa che lui stesso aveva avviato con una recensione, cosa di cui ancora oggi non so come ringraziarlo. Le critiche furono eccellenti, ma la maggior parte dell’edizione rimase nel magazzino e non si appurò mai quante copie fossero state vendute, né ricevetti da qualcuno un solo centesimo sulle mie percentuali.

Quattro anni dopo, Eduardo Caballero Calderón, che dirigeva la Biblioteca di Cultura Colombiana, vi incluse un’edizione tascabile di Foglie morte per una raccolta di opere che vennero messe in vendita nelle edicole di Bogotá e di altre città. Pagò i diritti pattuiti, scarsi ma puntuali, che ebbero per me il valore sentimentale di essere i primi ricevuti per un libro. L’edizione presentava allora alcuni cambiamenti che non identificai come miei né badai a far sì che non fossero inclusi nelle edizioni successive. Di lì a quasi tredici anni, quando passai per la Colombia dopo il lancio di Cent’anni di solitudine a Buenos Aires, trovai nelle edicole di Bogotá numerose copie rimanenti della prima edizione di Foglie morte a un peso l’una. Comprai tutte quelle che mi fu possibile. Da allora innanzi ho trovato in librerie dell’America Latina altre rimanenze disperse che cercavano di vendere come libri storici. Circa due anni fa, una ditta inglese di libri antichi vendette per tremila dollari una copia firmata da me della prima edizione di Cent’anni di solitudine.

Nessuno di tali casi mi distrasse neppure per un istante dal mio andirivieni di giornalista. Il successo iniziale dei reportage a puntate ci aveva costretti a cercare materiali per nutrire una fiera insaziabile. La tensione quotidiana era insostenibile, non solo nell’identificazione e nella ricerca degli argomenti, ma anche nel corso della scrittura, sempre minacciata dalle malie della finzione. A «El Espectador» non nutrivano dubbi: la materia prima invariabile del mestiere era la verità e nient’altro che la verità, e questo ci faceva vivere in una tensione intollerabile. José Salgar e io finimmo per cadere in uno stato d’animo che non ci lasciava un istante di pace neppure durante il riposo della domenica.

Nel 1956 si venne a sapere che papa Pio XII aveva una crisi di singhiozzo che poteva costargli la vita. L’unico precedente che io ricordi è il racconto magistrale P & O, di Somerset Maugham, il cui protagonista era morto nel bel mezzo dell’Oceano Indiano in seguito a una crisi di singhiozzo che l’aveva liquidato in cinque giorni, mentre dal mondo intero gli arrivava ogni sorta di ricette stravaganti, ma credo che a quell’epoca non lo conoscessi ancora. I fine settimana non ci azzardavamo a spingerci troppo lontano nelle nostre escursioni attraverso i villaggi della savana perché il giornale era pronto a lanciare un’edizione straordinaria qualora il papa fosse morto. Io insistevo perché tenessimo l’edizione pronta, con solo i vuoti da riempire ai primi cablogramma della morte. Due anni dopo, essendo corrispondente a Roma, si aspettavano ancora gli sviluppi del singhiozzo papale.

Un altro problema irresistibile al giornale era la tendenza a occuparci solo di argomenti spettacolari che potessero catturare sempre più lettori, mentre io seguivo quella più modesta di non perdere di vista un altro pubblico meno seguito che pensava più con il cuore. Fra i pochi che riuscii a trovare, conservo il ricordo del reportage più semplice che acchiappai al volo attraverso il finestrino di un tram. Davanti al portone di una bella casa coloniale al numero 567 della Carrera Octava a Bogotá c’era un cartello che irrideva se stesso: “Ufficio delle Lettere Inesitate della Posta Nazionale”. Non ho il minimo ricordo di aver mai perso qualcosa in quel modo, ma scesi dal tram e bussai alla porta. L’uomo che mi aprì era il responsabile dell’ufficio con sei impiegati metodici, coperti dalla ruggine della consuetudine, la cui missione romantica era trovare i destinatari di qualsiasi lettera male indirizzata.

Era una bella casa, enorme e polverosa, con soffitti alti e pareti scrostate, corridoi bui e anfratti colmi di carte senza padrone. Su una media di cento lettere inesitate che arrivavano tutti i giorni, almeno dieci erano state ben affrancate ma le buste erano in bianco e non avevano neppure il nome del mittente. Gli impiegati dell’ufficio le chiamavano “lettere per l’uomo invisibile”, e non lesinavano sforzi per consegnarle o restituirle. Ma il cerimoniale per aprirle in cerca di piste era di un rigore burocratico piuttosto inutile anche se meritorio.

Il reportage in una sola puntata apparve con il titolo “Il postino suona sempre mille volte”, con un sottotitolo: “Il cimitero delle lettere smarrite”. Quando Salgar lo ebbe letto, mi disse: «Qui alla vecchia retorica è stato tirato il collo una volta per tutte». Lo pubblicò, con il giusto spicco, né troppo né troppo poco, ma si notava che era addolorato come me per l’amarezza di quello che avrebbe potuto essere. Rogelio Echeverría, forse perché poeta, si complimentò con bel garbo ma anche con una frase che non dimenticai mai: «Il fatto è che Gabo acchiappa al volo anche un chiodo rovente».

Mi sentii così demoralizzato, che a mio rischio e pericolo – e senza raccontarlo a Salgar – decisi di rintracciare la destinataria di una lettera che aveva risvegliato in me un’attenzione speciale. Recava il timbro del lebbrosario di Agua de Dios, ed era indirizzata alla “signora in lutto che va tutti i giorni alla messa delle cinque nella chiesa delle Aguas”. Dopo aver fatto ogni sorta di indagini inutili presso il parroco e i suoi aiutanti, continuai a informarmi presso i fedeli della messa delle cinque per diverse settimane senza risultati. Mi sorprese che le più assidue fossero tre donne molto anziane e sempre in lutto stretto, ma nessuna aveva a che vedere con il lebbrosario di Agua de Dios. Fu un fallimento da cui ci misi a riprendermi, non solo per amor proprio o perché avessi voluto fare un’opera di carità, ma perché ero convinto che dietro la storia di quella donna in lutto ci fosse un’altra storia appassionante.

A mano a mano che sprofondavo nei pantani del reportage, il mio rapporto con il gruppo di Barranquilla divenne più intenso. I loro viaggi a Bogotá non erano frequenti, ma io li cercavo per telefono a qualsiasi ora e in qualsiasi frangente, soprattutto Germán Vargas, per la sua idea pedagogica del reportage. Li consultavo in ogni impiccio, che erano molti, oppure mi chiamavano loro quando per qualche motivo volevano congratularsi con me. Álvaro Cepeda lo considerai sempre un compagno di banco. Dopo gli scherzi cordiali e reciproci che erano di rigore all’interno del gruppo, mi chiariva le idee con una semplicità che riuscì sempre a stupirmi. Invece, le mie consultazioni con Alfonso Fuenmayor erano soprattutto letterarie. Aveva una magia infallibile nel liberarmi dai guai con esempi di grandi autori o nell’impartirmi la citazione salvifica recuperata dal suo arsenale senza fondo. La sua battuta migliore fu quando gli chiesi il titolo per un pezzo sui venditori ambulanti di generi commestibili braccati dall’Ufficio di Igiene. Alfonso mi diede una risposta immediata:

«Chi vende da mangiare non muore di fame.»

Gliene fui riconoscente fin nell’anima, e mi sembrò così opportuna che non mi fu possibile resistere alla tentazione di domandargli di chi era. Alfonso mi bloccò subito con la verità che io non ricordavo:

«È sua, maestro.»

In effetti, l’avevo improvvisata in qualche pezzo senza firma, ma me n’ero dimenticato. La storia circolò per anni fra gli amici di Barranquilla, che non riuscii mai a convincere che non era stata una battuta.

Un viaggio occasionale di Álvaro Cepeda a Bogotá mi distrasse per qualche giorno dalla galera delle notizie quotidiane. Arrivò con l’idea di fare un film di cui aveva solo il titolo: L’aragosta azzurra. Fu un errore irrimediabile, perché Luis Vicens, Enrique Grau e il fotografo Nereo López lo presero sul serio. Non seppi più nulla del progetto finché Vicens non mi mandò una prima versione della sceneggiatura affinché aggiungessi qualcosa di mio sulla base originale di Álvaro. Ci misi qualcosa che oggi non ricordo, ma la storia mi sembrò divertente e con la dose sufficiente di pazzia perché sembrasse nostra.

Tutti fecero un po’ di tutto, ma il legittimo papà fu Luis Vicens, che impose molte delle cose che gli rimanevano dei suoi primi sgambetti a Parigi. Il mio problema era che mi trovavo preso da uno di quei reportage prolissi che non mi lasciavano neppure il tempo per respirare, e quando riuscii a liberarmene le riprese del film erano ormai iniziate da un pezzo a Barranquilla.

È un’opera elementare, il cui pregio maggiore sembra essere il dominio dell’intuizione, che era forse l’angelo custode di Álvaro Cepeda. A una delle numerose prime proiezioni casalinghe di Barranquilla partecipò il regista italiano Enrico Fulchignoni, che ci stupì con la vastità della sua compassione: il film gli sembrò molto buono. Grazie alla tenacia e al coraggio di Tita Manotas, la moglie di Álvaro, quanto ancora rimane di L’aragosta azzurra ha fatto il giro del mondo in festival temerari.

Queste cose ci distraevano a tratti dalla realtà del paese, che era terribile. La Colombia si riteneva libera dalla guerriglia dopo che le Forze Armate avevano preso il potere con la bandiera della pace e la concordia fra i partiti. Nessuno dubitò che qualcosa fosse cambiato, fino al massacro di studenti sulla Carrera Séptima. I militari, ansiosi di consensi, vollero provare a noi giornalisti che c’era una guerra diversa da quella eterna fra liberali e conservatori. Eravamo a questo punto quando José Salgar si avvicinò alla mia scrivania con una delle sue idee terrorizzanti:

«Si prepari a conoscere la guerra.»

Noi che eravamo stati invitati a conoscerla, senza ulteriori dettagli, ci presentammo puntuali alle cinque del mattino per raggiungere l’abitato di Villarica, a centottantatré chilometri da Bogotá. Il generale Rojas Pinilla era in attesa della nostra visita, a metà strada, in una delle sue frequenti pause nella base militare di Melgar, e aveva promesso una conferenza stampa che sarebbe finita prima delle cinque del pomeriggio, abbastanza in tempo per tornare indietro con foto e notizie di prima mano.

Gli inviati di «El Tiempo» erano Ramiro Andrade, con il fotografo Germán Caycedo; altri quattro che non sono riuscito a ricordare, e Daniel Rodríguez e io per «El Espectador». Alcuni indossavano abiti da campagna, perché eravamo stati avvertiti che forse avremmo dovuto addentrarci un po’ nella foresta.

Andammo fino a Melgar in automobile e lì ci divisero in tre elicotteri che ci portarono attraverso un crepaccio stretto e solitario della cordigliera centrale, con alti versanti affilati. A impressionarmi, però, fu soprattutto la tensione dei giovani piloti che eludevano certe zone dove la guerriglia aveva centrato un elicottero e ne aveva danneggiato un altro il giorno prima. Dopo una quindicina di minuti intensi atterrammo sulla piazza enorme e desolata di Villarica, il cui strato di ghiaia non sembrava abbastanza saldo per sopportare il peso dell’elicottero. Intorno alla piazza c’erano case di legno con botteghe in rovina e edifici di nessuno, tranne uno dipinto di recente che era stato l’albergo del paese finché non si era installato il terrore.

Davanti all’elicottero si scorgevano le pendici della cordigliera e il tetto di zinco dell’unica casa visibile fra le brume del cornicione. Secondo l’ufficiale che ci accompagnava, lì c’erano guerriglieri con armi abbastanza potenti da abbatterci, sicché dovevamo correre fino all’albergo a zigzag e con il busto chino come precauzione elementare contro eventuali spari dalla cordigliera. Solo quando fummo arrivati ci rendemmo conto che l’albergo era stato trasformato in caserma.

Un colonnello equipaggiato per la guerra, con un’avvenenza da artista del cinema e una simpatia intelligente, ci spiegò senza allarme che nella casa della cordigliera c’era da parecchie settimane un caposaldo della guerriglia e che di lì avevano tentato diverse incursioni notturne contro il villaggio. L’esercito era sicuro che avrebbero tentato qualcosa allorché avessero visto gli elicotteri sulla piazza, e le truppe erano preparate. Tuttavia, dopo un’ora di provocazioni, incluse sfide tramite altoparlanti, i guerriglieri non diedero segni di vita. Il colonnello, scoraggiato, inviò una pattuglia in esplorazione per vedere se rimaneva ancora qualcuno nella casa.

La tensione si allentò. Noi giornalisti uscimmo dall’albergo ed esplorammo le strade vicine, anche le meno protette intorno alla piazza. Il fotografo e io, insieme ad altri, iniziammo la salita sulla cordigliera per un tortuoso sentiero sul cornicione. Alla prima curva c’erano soldati distesi fra la malerba in posizione di tiro. Un ufficiale ci consigliò di tornare alla piazza perché poteva accadere qualsiasi cosa, ma non gli badammo. Il nostro intento era salire fino a trovare qualche caposaldo guerrigliero che ci riempisse la giornata con una grossa notizia.

Non ce ne fu il tempo. D’improvviso si sentirono diversi ordini simultanei e subito dopo una scarica serrata dei militari. Ci buttammo a terra vicino ai soldati e questi aprirono il fuoco contro la casa sul cornicione. Nella confusione istantanea persi di vista Rodríguez, che corse in cerca di una posizione strategica per il suo obiettivo. La sparatoria fu breve ma intensissima e fu seguita da un silenzio letale.

Eravamo tornati sulla piazza quando riuscimmo a vedere una pattuglia militare che usciva dalla foresta trasportando un corpo su una barella. Il comandante della pattuglia, molto eccitato, non permise che si facessero fotografie. Cercai con lo sguardo Rodríguez e lo vidi spuntare, cinque metri alla mia destra, con la macchina fotografica pronta. La pattuglia non l’aveva visto. Allora vissi l’istante più intenso, fra il dubbio di gridargli che non scattasse la fotografia per timore che inavvertitamente gli sparassero, e l’istinto professionale di scattarla a qualsiasi costo. Non ne ebbi il tempo, perché in quello stesso momento si sentì il grido fulminante del comandante della pattuglia:

«Niente foto!»

Rodríguez abbassò la macchina senza fretta e si portò sul mio fianco. Il corteo passò così vicino a noi che sentivamo il lezzo acido dei corpi vivi e il silenzio del morto. Quando furono andati oltre, Rodríguez mi disse all’orecchio:

«Ho preso la foto.»

Così era stato, ma non venne mai pubblicata. L’invito si era risolto in un disastro. Ci furono altri due militari feriti e almeno due guerriglieri morti che erano già stati trascinati fino al rifugio. Il colonnello cambiò il suo umore con un’espressione tetra. Ci diede la semplice informazione che la visita veniva annullata, che avevamo mezz’ora per pranzare, e che subito dopo saremmo ripartiti per Melgar seguendo la strada, perché gli elicotteri erano riservati ai feriti e ai cadaveri. La cifra degli uni e degli altri non fu mai rivelata.

Nessuno parlò più della conferenza stampa del generale Rojas Pinilla. Passammo su una jeep senza fermarci davanti alla sua casa di Melgar e arrivammo a Bogotá dopo la mezzanotte. La sala della redazione ci aspettava al completo, perché l’ufficio addetto all’informazione e alla stampa della presidenza della Repubblica aveva telefonato per informare senza ulteriori particolari che saremmo arrivati via terra, ma non avevano precisato se vivi o morti.

Fino ad allora l’unico intervento della censura militare era stato in seguito alla morte degli studenti nel centro di Bogotá. Non c’era un censore nella redazione dopo che l’ultimo del governo precedente si era ritirato quasi in lacrime quando non era più riuscito a sopportare le notizie false e le finte da burla dei redattori. Sapevamo che l’ufficio addetto all’informazione e alla stampa non ci perdeva di vista, e spesso ci comunicavano per telefono avvertimenti e consigli paterni. I militari, che all’inizio del loro governo esibivano una cordialità accademica dinanzi alla stampa, divennero invisibili o ermetici. Tuttavia, un nucleo continuò a crescere da solo e in silenzio, e infuse la certezza mai verificata né smentita che il capo di quell’embrione guerrigliero del Tolima era un ragazzo di ventidue anni laureatosi in Legge, il cui nome non ha mai potuto essere confermato né smentito: Manuel Marulanda Vélez o Pedro Antonio Marín, “Tirofisso”. Più di quarant’anni dopo, Marulanda – consultato in merito nel suo accampamento di guerra – rispose che non ricordava se era davvero lui.

Non fu possibile trovare altre notizie. Io ero ansioso di scoprirne da quando avevo fatto ritorno da Villarica, ma non capivo come avrei potuto. L’Ufficio Stampa della presidenza ci era proibito, e lo sgradevole episodio di Villarica era coperto dalla riservatezza militare. Avevo buttato la speranza nel cestino della spazzatura, quando José Salgar si piazzò davanti alla mia scrivania, fingendo il sangue freddo che non ebbe mai, e mi mostrò un telegramma che aveva appena ricevuto.

«Ecco qui tutto quello che lei non ha visto a Villarica» mi disse.

Era il dramma di una folla di bambini che le Forze Armate avevano portato via da paesi e borghi senza un piano prestabilito e senza risorse, per favorire la guerra di sterminio del Tolima. Li avevano separati dai genitori senza il tempo di chiarire chi era figlio di chi, e molti di loro stessi non sapevano dirlo. Il dramma era iniziato con una valanga di duemiladuecento adulti condotti in diversi abitati del Tolima, dopo la nostra visita a Melgar, installati alla bell’e meglio e poi abbandonati alla misericordia di Dio. I bambini, separati dai genitori in base a semplici considerazioni logistiche e dispersi in vari asili del paese, erano circa tremila di diverse età e condizioni. Solo trenta erano orfani di padre e madre, e fra questi un paio di gemelli nati da tredici giorni. La mobilitazione era stata fatta in assoluto segreto, protetta dalla censura della stampa, finché il corrispondente di «El Espectador» non ci ebbe telegrafato le prime indicazioni da Ambalema, a duecento chilometri da Villarica.

In meno di sei ore trovammo trecento minori di cinque anni alla Protezione dei Bambini di Bogotá, molti dei quali non sapevano come si chiamavano. Helí Rodríguez, di due anni, riuscì a stento a indicare il suo nome. Non sapeva nulla di nulla, né dove si trovava, né perché, né sapeva i nomi dei genitori né gli fu possibile fornire qualche traccia per individuarli. Il suo unico conforto era che aveva il diritto di rimanere nell’asilo fino ai quattordici anni. Il bilancio dell’orfanotrofio era alimentato da ottanta centesimi al mese che il governo distrettuale passava per ogni bambino. Dieci scapparono la prima settimana con l’intento di salire clandestinamente sui treni per il Tolima, e non riuscimmo più a trovare traccia di loro.

Nell’asilo a molti venne fatto un battesimo d’ufficio con nomi della regione per poterli distinguere, ma erano così tanti, così simili e mobili che durante la ricreazione si confondevano tutti, soprattutto nei mesi più freddi, quando dovevano riscaldarsi correndo per corridoi e scale. Era impossibile che quel doloroso spettacolo non mi costringesse a domandarmi come la guerriglia che aveva ucciso il soldato in combattimento avesse potuto fare tanto scempio fra i bambini di Villarica.

La storia di quell’assurdità logistica fu resa pubblica con diversi pezzi successivi senza consultare nessuno. La censura rimase in silenzio e i militari replicarono con la spiegazione di moda: i fatti di Villarica facevano parte di una vasta mobilitazione comunista contro il governo delle Forze Armate, e queste erano costrette a procedere con metodi di guerra. Mi bastò una riga di questo comunicato perché mi venisse in mente di ottenere l’informazione diretta da Gilberto Vieira, segretario generale del Partito comunista, che non avevo mai incontrato.

Non ricordo se il passo successivo lo feci autorizzato dal giornale o per iniziativa personale, ma ricordo benissimo che tentai diverse manovre inutili per stabilire un contatto con qualche dirigente del Partito comunista clandestino che potesse informarmi sulla situazione di Villarica. Il problema principale era che il cerchio stretto dal regime militare intorno ai comunisti clandestini non aveva precedenti. Allora mi misi in contatto con qualche amico comunista, e due giorni dopo si presentò davanti alla mia scrivania un altro venditore di orologi che stava cercandomi per riscuotere le rate che non ero riuscito a pagare a Barranquilla. Gli pagai quelle che mi fu possibile, e gli dissi come per caso che avevo bisogno di parlare con urgenza con qualche suo dirigente in alto, ma mi rispose con la formula nota che lui non era la via giusta né avrebbe saputo dirmi chi lo era. Però, quello stesso pomeriggio, senza annuncio previo, mi colse di sorpresa al telefono una voce armoniosa e svagata:

«Salve, Gabriel, sono Gilberto Vieira.»

Sebbene fosse il più illustre tra i fondatori del Partito comunista, Vieira non aveva avuto fino ad allora neppure un minuto di esilio o di carcere. Tuttavia, malgrado il rischio che entrambi i nostri telefoni fossero sotto controllo, mi diede l’indirizzo della sua casa segreta affinché andassi a trovarlo quello stesso pomeriggio.

Era un appartamento con un salottino zeppo di libri di politica e di letteratura, due camere da letto a un sesto piano con scale ripide e buie cui si arrivava senza fiato, non solo per l’altezza ma anche per il fatto di penetrare in uno dei misteri meglio custoditi del paese. Vieira viveva con la moglie, Cecilia, e con una figlia nata da poco. Poiché la moglie non era in casa, lui teneva a portata di mano la culla della bambina, e la faceva dondolare piano piano quando lei si sgolava a piangere nelle pause lunghissime della conversazione, che verteva sulla politica come sulla letteratura, sia pure senza molto senso dell’umorismo. Era impossibile immaginare che quel quarantenne roseo e calvo, con occhi chiari e incisivi e linguaggio preciso, fosse l’uomo più ricercato dai servizi segreti del paese.

Fin dall’inizio mi resi conto che era al corrente della mia vita fin da quando avevo comprato l’orologio a «El Nacional» di Barranquilla. Leggeva i miei reportage su «El Espectador» e identificava i miei pezzi anonimi per cercare di interpretarne i secondi fini. Comunque, si mostrò d’accordo sul fatto che il miglior servizio che potevo prestare al paese era proseguire lungo quella linea senza lasciarmi compromettere da nessuno in qualche genere di militanza politica.

Entrò in argomento non appena ebbi avuto occasione di rivelargli il motivo della mia visita. Era al corrente della situazione di Villarica, come se fosse stato lì, ma non fu possibile pubblicare neppure una riga in merito a causa della censura ufficiale. Però, mi fornì dati importanti per intendere che quello era il preludio di una guerra cronica dopo mezzo secolo di scaramucce casuali. Il suo linguaggio, in quel luogo e in quel giorno, aveva più elementi dello stesso Jorge Eliécer Gaitán che del suo Marx prediletto, nell’indicare una soluzione che sembrava essere non quella del proletariato al potere ma una specie di alleanza dei derelitti contro le classi dominanti. La fortuna di quella visita fu non solo il chiarimento su quanto stava accadendo, ma anche un metodo per capirlo meglio. In questi termini lo spiegai a Guillermo Cano e a Zalamea, e lasciai la porta socchiusa, qualora prima o poi si affacciasse la possibilità di un reportage. Va da sé che Vieira e io stringemmo un ottimo rapporto da amici che ci facilitò i contatti anche nei tempi più duri della sua clandestinità.

Un altro dramma cresceva nascosto finché le brutte notizie non infransero il cerchio, nel febbraio del 1954, quando si pubblicò sui giornali che un veterano della Corea aveva impegnato le sue medaglie per mangiare. Era solo uno degli oltre quattromila che erano stati reclutati a caso in un altro dei momenti inconcepibili della nostra storia, allorché qualsiasi destino era migliore di nulla per i contadini espulsi a suon di pallottole dalle loro terre in seguito alla violenza ufficiale. Le città sovraffollate dai nuovi senzatetto non offrivano speranze. La Colombia, come si ripeté quasi ogni giorno in articoli di prima pagina, per strada, nei caffè, nelle conversazioni familiari, era una repubblica invivibile. Per molti contadini trasferiti e per molti ragazzi senza prospettiva, la guerra in Corea era una soluzione personale. Ci andò di tutto, ben ravvolto, senza criteri precisi se non in base a generiche condizioni fisiche, più o meno come gli spagnoli erano venuti a scoprire l’America. Al ritorno in Colombia, a goccia a goccia, quel gruppo eterogeneo acquisì infine un nome comune: veterani. Bastò che alcuni fossero responsabili di una rissa perché la colpa ricadesse su tutti. Vennero chiuse loro le porte avanzando il facile argomento che non avevano diritto a un lavoro perché erano degli squilibrati mentali. Invece, non ci furono abbastanza lacrime per gli innumerevoli individui trasformati in duemila libbre di ceneri.

La notizia di quello che aveva impegnato le medaglie mostrò un contrasto brutale rispetto a un’altra pubblicata dieci mesi prima, quando gli ultimi veterani erano tornati nel paese con quasi un milione di dollari in contanti, che venendo cambiati nelle banche avevano fatto scendere il prezzo del dollaro in Colombia da tre pesos e trenta centesimi a due pesos e novanta. Tuttavia, più calava il prestigio dei veterani e più loro dovevano affrontare la realtà del paese. Prima del ritorno erano state pubblicate versioni sparse secondo cui avrebbero ricevuto speciali borse di studio per carriere produttive, avrebbero avuto pensioni a vita e agevolazioni per fermarsi negli Stati Uniti, e l’unica cosa che molti di loro si ritrovarono in tasca furono le fotografie delle fidanzate giapponesi che erano rimaste ad aspettarli negli accampamenti del Giappone dove li portavano a riposarsi dalla guerra.

Era impossibile che quel dramma nazionale non mi ricordasse quello di mio nonno il colonnello Márquez, in eterna attesa della sua pensione di veterano. Ero arrivato a pensare che quella meschinità fosse una rappresaglia nei confronti di un colonnello sovversivo in guerra accanita contro l’egemonia conservatrice. I sopravvissuti della Corea, invece, avevano lottato contro la causa del comunismo e a favore delle brame imperialistiche degli Stati Uniti. Eppure, al ritorno, non comparivano sulle pagine mondane ma nella cronaca nera. Uno di loro, che aveva sparato uccidendo due innocenti, domandò ai suoi giudici: «Se in Corea ne ho ammazzati cento, perché non posso ammazzarne dieci a Bogotá?».

Quest’uomo, al pari di altri delinquenti, aveva raggiunto i campi di battaglia quando l’armistizio era già stato firmato. Tuttavia, molti come lui furono vittime anche del maschilismo colombiano, che si era manifestato nel trofeo di uccidere un veterano della Corea. Non erano trascorsi tre anni da quand’era tornato il primo contingente, e i veterani vittime di una morte violenta superavano già la dozzina. Per diverse cause, parecchi erano morti in alterchi inutili poco tempo dopo il ritorno. Uno di loro era morto pugnalato in una lite per aver fatto suonare due volte una canzone sul giradischi di un bar. Il sergente Cantor, che aveva fatto onore al suo cognome cantando e accompagnandosi con la chitarra nelle pause della guerra, venne ucciso a suon di pallottole qualche settimana dopo il ritorno. Un altro veterano era stato ucciso a colpi di coltello sempre a Bogotá, e per seppellirlo avevano dovuto organizzare una colletta fra i vicini. Ángel Fabio Goes, che aveva perso in guerra un occhio e una mano, l’avevano ammazzato tre sconosciuti che non vennero mai presi.

Ricordo – come se fosse ieri – che stavo scrivendo l’ultima parte della serie quando squillò il telefono sulla mia scrivania e riconobbi subito la voce radiosa di Martina Fonseca:

«Pronto?»

Interruppi l’articolo a metà pagina tanto il mio cuore si mise a palpitare, e attraversai il viale per incontrarla all’Hotel Continental dopo dodici anni che non la vedevo. Non fu facile distinguerla dalla soglia in mezzo alle altre donne che pranzavano nella sala piena, finché lei non mi fece un segno con il guanto. Era vestita con il gusto personale di sempre, e portava un soprabito di una volta, una volpe appassita sulla spalla e un cappello da cacciatore, e gli anni cominciavano a essere troppo visibili sulla pelle di prugna maltrattata dal sole, negli occhi spenti, e tutta lei svilita dalle prime tracce di una vecchiaia ingiusta. Entrambi ci rendemmo conto che dodici anni erano molti alla sua età, ma lo sopportammo bene. Avevo cercato di rintracciarla durante i miei primi anni a Barranquilla, finché non ero venuto a sapere che viveva a Panama, dove suo marito era un addetto al canale, ma se non toccai l’argomento fu per timidezza e non per orgoglio.

Credo che avesse appena finito di pranzare con qualcuno che l’aveva lasciata sola in attesa della visita. Bevemmo tre tazze mortali di caffè e fumammo insieme mezzo pacchetto di sigarette grossolane cercando a tentoni una via per conversare senza parlare, finché non si azzardò a domandarmi se qualche volta avessi pensato a lei. Solo allora le dissi la verità: non l’avevo mai dimenticata, ma il suo addio era stato così brutale che aveva cambiato il mio modo d’essere. Lei fu più compassionevole di me:

«Non dimentico mai che per me sei come un figlio.»

Aveva letto i miei articoli, i miei racconti e il mio unico romanzo, e me ne parlò con una perspicacia lucida e testarda che era possibile solo per amore o per dispetto. Ma io mi limitai a eludere i trabocchetti della nostalgia con la viltà meschina di cui solo noi uomini siamo capaci. Quando fui infine riuscito ad allentare un po’ la tensione osai domandarle se aveva avuto il figlio che voleva.

«È nato» disse lei con allegria, «e sta finendo le elementari.»

«Nero come suo padre?» le domandai con la meschinità propria della gelosia.

Lei fece appello al suo buon senso di sempre. «Bianco come sua madre» disse. «Ma il papà non se n’è andato di casa come io temevo, anzi, si è avvicinato ancora di più a me.» E davanti al mio smarrimento evidente me lo confermò con un sorriso mortale:

«Non preoccuparti: è di lui. Con l’aggiunta di due figlie precise identiche come se fossero una sola»

Si rallegrò di essere venuta, mi intrattenne con qualche ricordo che non aveva nulla a che vedere con me, ed ebbi la vanità di pensare che si aspettasse una risposta più intima. Ma, come tutti gli uomini, mi sbagliai anche di tempo e di luogo. Guardò l’orologio quando ordinai il quarto caffè e un altro pacchetto di sigarette, e si alzò senza preamboli.

«Bene, ragazzo, sono felice di averti visto» disse. E concluse: «Non ce la facevo più a non sapere come sei dopo averti letto tanto».

«E come sono?» mi azzardai a domandarle.

«Ah, no!» scoppiò a ridere con tutta l’anima «questo non lo saprai mai.»

Solo quando ebbi ripreso fiato davanti alla macchina per scrivere mi resi conto dell’ansia di vederla che avevo sempre avuto e del terrore che mi aveva impedito di rimanere con lei per tutto il resto delle nostre vite. Lo stesso terrore desolato che spesso riprovai dopo quel giorno quando squillava il telefono.

Il nuovo anno 1955 cominciò per i giornalisti il 28 febbraio con la notizia che otto marinai del cacciatorpediniere Caldas dell’Armata Nazionale erano caduti in mare e scomparsi durante una tempesta quando mancavano due ore scarse per arrivare a Cartagena. Era salpato quattro giorni prima da Mobile, in Alabama, dopo essere rimasto lì diversi mesi per una riparazione regolamentare.

Mentre la redazione al completo ascoltava con il cuore in gola il primo bollettino radiofonico del disastro, Guillermo Cano si era voltato verso di me sulla sua seggiola girevole, e mi teneva sotto mira con un ordine pronto sulla punta della lingua. José Salgar, di passaggio nell’ufficio, si piazzò pure lui davanti a me con i nervi tesi per via della notizia. Io ero tornato un’ora prima da Barranquilla, dove avevo preparato un pezzo sull’eterno dramma delle Bocas de Ceniza, e stavo di nuovo per domandarmi a che ora sarebbe partito l’aereo successivo per la costa dove avrei potuto scrivere un articolo sugli otto naufraghi. Ma ben presto il bollettino mise in chiaro che il cacciatorpediniere sarebbe arrivato a Cartagena alle tre del pomeriggio senza altre novità, perché non avevano recuperato i corpi degli otto marinai annegati. Guillermo Cano si sgonfiò.

«Niente da fare, Gabo» disse. «La notizia non c’è.»

Il disastro rimase ridotto a una serie di bollettini ufficiali, e l’informazione venne passata con gli onori di rigore ai caduti in servizio, ma nient’altro. Verso la fine della settimana, tuttavia, la Marina rivelò che uno di loro, Luis Alejandro Velasco, aveva raggiunto esausto una spiaggia di Urabá, con un’insolazione ma guaribile, dopo essere rimasto per dieci giorni alla deriva senza mangiare né bere su una zattera senza remi. Noi tutti fummo d’accordo che poteva essere il reportage dell’anno se fossimo riusciti ad assicurarcelo, anche solo per mezz’ora.

Non fu possibile. La Marina lo tenne segregato mentre si riprendeva nell’ospedale navale di Cartagena. Lì riuscì a incontrarlo per qualche minuto fugace un astuto redattore di «El Tiempo», Antonio Montaña, che si era intrufolato travestito da medico. A giudicare dai risultati, però, aveva ottenuto dal naufrago solo qualche disegno a matita in merito alla sua posizione sulla nave allorché era stato trascinato via dalla tempesta e qualche dichiarazione scucita da cui si capiva che aveva ricevuto ordine di non raccontare la storia. «Se io avessi saputo che era un giornalista l’avrei aiutato» dichiarò Velasco pochi giorni dopo. Una volta salvatosi, e sempre sotto l’ala della Marina, concesse un’intervista al corrispondente di «El Espectador» a Cartagena, Lácides Orozco, che non poté arrivare dove volevamo per sapere com’era stato possibile che un colpo di vento avesse causato un simile disastro con sette morti.

Luis Alejandro Velasco, in effetti, era bloccato da un impegno ferreo che gli impediva di muoversi o di esprimersi in libertà, anche dopo essere stato trasferito a casa dei suoi genitori a Bogotá. Qualsiasi aspetto tecnico o politico ce lo risolveva con una destrezza cordiale il tenente di fregata Guillermo Fonseca, ma con pari eleganza eludeva dati essenziali per l’unica cosa che ci interessasse allora, che era la verità dell’avventura. Solo per guadagnare tempo scrissi una serie di pezzi generici sul ritorno del naufrago a casa dei genitori, quando i suoi accompagnatori in uniforme mi impedirono ancora una volta di parlare con lui, mentre lo autorizzavano a fare un’intervista insulsa con un’emittente locale. Allora fu chiaro che eravamo fra le mani di maestri nell’arte ufficiale di lasciar decantare la notizia, e per la prima volta mi sentii scosso all’idea che stavano nascondendo all’opinione pubblica qualcosa di molto grave sulla catastrofe. Più che un sospetto, oggi lo ricordo come un presagio.

Era un marzo dai venti glaciali e la pioviggine polverosa accresceva il peso dei miei rimorsi. Prima di affrontare la sala della redazione oppresso dalla sconfitta, mi rifugiai nel vicino Hotel Continental e ordinai da bere al banco del bar solitario. Stavo bevendo a sorsi lenti, senza neppure togliermi il grosso cappotto ministeriale, quando sentii una voce dolcissima all’orecchio:

«Chi beve da solo muore da solo.»

«Che Dio ti ascolti, bella mia» risposi con l’anima in bocca, convinto che fosse Martina Fonseca.

La voce lasciò nell’aria una traccia di gardenie tiepide, ma non era lei. La vidi uscire dalla porta girevole e scomparire con il suo indimenticabile ombrello giallo nel viale infangato dalla pioviggine. Dopo un secondo bicchiere attraversai anch’io il viale e raggiunsi la sala della redazione ben sorretto dalle due prime bevute. Guillermo Cano mi vide entrare e lanciò un grido allegro per tutti:

«Vediamo cosa ci porta il grande Gabo!»

Gli replicai la verità:

«Nient’altro che un pesce morto.»

Allora mi resi conto che i burloni inclementi della redazione avevano cominciato a volermi bene quando mi avevano visto passare in silenzio trascinando il cappotto fradicio, e nessuno ebbe cuore di dare l’avvio ai fischi rituali.

Luis Alejandro Velasco continuò a godersi la sua gloria repressa. I suoi mentori non solo gli permettevano ma gli patrocinavano pure ogni sorta di perversioni pubblicitarie. Ricevette cinquecento dollari e un orologio nuovo affinché raccontasse per radio che il suo aveva sopportato il rigore delle intemperie. La fabbrica delle sue scarpe da tennis gli pagò mille dollari per raccontare che le sue erano così resistenti che non era riuscito a farle a pezzi per avere qualcosa da masticare. In una stessa giornata pronunciava un discorso patriottico, si lasciava baciare da una reginetta di bellezza e si mostrava agli orfani come esempio della morale patriottica. Stavo per dimenticarlo il giorno memorabile in cui Guillermo Cano mi annunciò che era nel suo ufficio, pronto a firmare un contratto per raccontare la sua avventura completa. Mi sentii umiliato.

«Non è più un pesce morto. È marcio» insistetti.

Per la prima e unica volta rifiutai di fare per il giornale una cosa che era mio dovere. Guillermo Cano si rassegnò alla realtà e congedò il naufrago senza spiegazioni. In seguito mi raccontò che dopo averlo lasciato andare, nel suo ufficio aveva cominciato a riflettere e non era riuscito a spiegare a se stesso quello che aveva appena fatto. Allora aveva ordinato al portiere di richiamare il naufrago, e mi telefonò per notificarmi in modo inappellabile che gli aveva comprato i diritti esclusivi del racconto completo.

Non era la prima volta né sarebbe stata l’ultima in cui Guillermo si ostinava in un caso perduto e finiva coronato dalla ragione. Lo avvertii depresso, sia pure con il migliore stile possibile, che avrei fatto il reportage solo per obbedienza lavorativa ma che non ci avrei messo la mia firma. Senza averci pensato, quella fu una decisione casuale e giusta per il reportage, perché mi costringeva a raccontarlo secondo la prima persona del protagonista, con le sue modalità e le sue idee personali, e firmato con il suo nome. Così mi preservavo da qualsiasi altro naufragio in terra ferma. Ossia, sarebbe stato il monologo interiore di un’avventura solitaria, alla lettera, così come lo era stata nella vita. La scelta fu miracolosa, perché Velasco rivelò di essere un uomo intelligente, con una sensibilità e una buona educazione indimenticabili e un senso dell’umorismo al momento giusto e nel posto giusto. E tutto questo, per fortuna, sottomesso a un carattere senza crepe.

L’intervista fu lunga, minuziosa, per tre settimane complete e spossanti, e la feci consapevole che non si sarebbe potuto pubblicarla in forma bruta ma che avrebbe dovuto essere cucinata in un’altra pentola: un reportage. La iniziai con un po’ di malafede cercando di far sì che il naufrago si contraddicesse per scoprire le sue verità nascoste, ma ben presto fui sicuro che non ne aveva. Non dovetti forzare nulla. Era come passeggiare su un prato cosparso di fiori con la libertà suprema di scegliere quelli che preferivo. Velasco arrivava puntuale alle tre del pomeriggio alla mia scrivania della redazione, davamo una scorsa agli appunti precedenti e proseguivamo in ordine lineare. Ogni capitolo che mi raccontava io lo riscrivevo di notte e veniva pubblicato nel pomeriggio del giorno successivo. Sarebbe stato più facile e sicuro scrivere dapprima l’avventura completa e pubblicarla dopo una revisione e con tutti i particolari verificati a fondo. Ma non c’era tempo. L’argomento stava perdendo attualità a ogni minuto e qualsiasi altra notizia di spicco poteva superarlo.

Non usammo un registratore. Li avevano inventati da poco e i migliori erano grandi e pesanti quanto una macchina per scrivere, e il nastro magnetico si aggrovigliava come un dolce a capelli d’angelo. La sola trascrizione era una prodezza. Ancora oggi sappiamo che i registratori sono molto utili per ricordare, ma che non bisogna mai dimenticare la faccia dell’intervistato, che può dire molto di più della sua voce, e talvolta tutto il contrario. Dovetti adeguarmi al metodo degli appunti su un quaderno da scuola, ma grazie a questo credo di non avere perso una parola né una sfumatura della conversazione, e mi fu possibile approfondire meglio a ogni passo. Le due prime giornate furono difficili, perché il naufrago voleva raccontare tutto al contempo. Tuttavia, imparò molto presto grazie all’ordine e alla formulazione delle mie domande, e soprattutto grazie al suo stesso istinto di narratore e alla sua facilità congenita nel capire la carpenteria del lavoro.

Volendo preparare il lettore prima di buttarlo in acqua, decidemmo di avviare il resoconto con gli ultimi giorni del marinaio a Mobile. Decidemmo pure di non farlo finire con il momento in cui posava il piede sulla terraferma, ma quando fosse arrivato a Cartagena ormai acclamato dalle folle, che era il punto in cui i lettori potevano seguire per conto loro il filo della narrazione con i dati già pubblicati. Il tutto si traduceva in dodici capitoli che avrebbero tenuto con il fiato sospeso per due settimane.

Il primo fu pubblicato il 5 aprile 1955. L’edizione di «El Espectador», preceduta da annunci radiofonici, si esaurì in poche ore. Il nodo esplosivo si presentò il terzo giorno quando indicammo la vera causa del disastro, che secondo la versione ufficiale era stata una tempesta. In cerca di maggiore precisione chiesi a Velasco di raccontarla in tutti i suoi dettagli. Lui era ormai così familiarizzato con il nostro metodo comune che scorsi nei suoi occhi un fulgore di malizia prima che mi rispondesse:

«Il fatto è che non c’è stata una tempesta.»

C’era stata – precisò – una ventina d’ore di venti duri, tipici della zona in quell’epoca dell’anno, che non erano previsti dai responsabili del viaggio. Gli uomini a bordo avevano ricevuto il pagamento di diversi stipendi in ritardo prima di salpare e se l’erano spesi all’ultimo momento in ogni sorta di apparecchi domestici da portare a casa. Un fatto così imprevisto che nessuno si era allarmato quando gli spazi interni della nave erano traboccati e le casse più grosse avevano dovuto essere legate sul ponte: frigoriferi, lavatrici, stufe. Un carico proibito su una nave da guerra, e in una quantità tale da occupare spazi vitali. Forse si era pensato che in un viaggio a carattere non ufficiale, di meno di quattro giorni e con eccellenti pronostici sul tempo, non fosse il caso di applicare troppo rigore. Quante volte se n’erano già fatti e si sarebbe continuato a farne senza che accadesse nulla? La mala sorte per tutti era stata che venti appena un po’ più forti di quanto annunciato avevano mosso il mare sotto un sole splendido, facendo rollare la nave più del previsto e spezzando le gomene del carico mal stivato. Se non fosse stata una nave marinara come il Caldas sarebbe colata a picco senza misericordia, ma otto dei marinai di guardia in coperta erano caduti giù dai parapetti. Sicché la causa maggiore dell’incidente non era stata una tempesta, come avevano insistito le fonti ufficiali fin dal primo giorno, ma quanto Velasco dichiarò nel suo reportage: il sovraccarico di apparecchi domestici mal stivati sul ponte di una nave da guerra.

Un altro aspetto tenuto nascosto era di quali zattere avevano potuto disporre quelli che erano caduti in mare e di cui solo Velasco si era salvato. Si presumeva che a bordo dovessero esserci due tipi di zattere regolamentari cadute insieme a loro. Erano di sughero e tela impermeabile, lunghe tre metri e larghe uno e mezzo, con una piattaforma di sicurezza al centro e dotate di viveri, acqua potabile, remi, medicinali, strumenti da pesca e da navigazione, e una Bibbia. In tali condizioni, dieci persone potevano sopravvivere per otto giorni anche senza gli strumenti da pesca. Tuttavia, sul Caldas era stato imbarcato anche un carico di zattere più piccole senza dotazione. Dai racconti di Velasco, sembra che la sua fosse una di quelle sguarnite. La domanda che rimarrà per sempre senza risposta è quanti altri naufraghi riuscirono a raggiungere altre zattere che non li portarono in nessun luogo.

Questi erano stati i motivi più importanti che avevano intralciato le spiegazioni ufficiali del naufragio. Finché non ci si era resi conto che era un tentativo insostenibile perché il resto dell’equipaggio stava già riposando a casa sua e raccontando la storia completa in tutto il paese. Il governo insistette sino alla fine sulla sua versione della tempesta e la rese ufficiale con dichiarazioni perentorie in un comunicato formale. La censura non si spinse fino a proibire la pubblicazione dei capitoli rimanenti. Quanto a Velasco, conservò nei limiti del possibile un’ambiguità leale, e non si seppe mai se avessero fatto pressioni su di lui affinché non rivelasse verità, né ci chiese o ci impedì di rivelarla.

Dopo il quinto capitolo si era pensato di fare una nuova tiratura dei primi quattro per soddisfare la richiesta dei lettori che volevano raccogliere la serie completa. Don Gabriel Cano, che in quei giorni frenetici non avevamo visto in redazione, tornò fra noi e venne dritto alla mia scrivania.

«Mi dica una cosa, amico mio» mi domandò «quanti capitoli avrà il naufragio?»

Eravamo arrivati al resoconto del settimo giorno, quando Velasco si era mangiato un biglietto da visita come unico commestibile a portata di mano, e non era riuscito a rompere a morsi le sue scarpe per aver qualcosa da masticare. Sicché ci mancavano altri sette capitoli. Don Gabriel si scandalizzò.

«No, amico mio, no» reagì contratto. «Devono essere almeno cinquanta capitoli.»

Gli esposi i miei argomenti, ma i suoi si basavano sul fatto che la diffusione del giornale stava per raddoppiare. Secondo calcoli che aveva fatto poteva raggiungere una cifra senza precedenti nella stampa nazionale. Si improvvisò un consiglio redazionale, si studiarono i particolari economici, tecnici e giornalistici e si concordò un limite ragionevole di venti capitoli. Ossia, sei più del previsto.

Sebbene la mia firma non comparisse nei capitoli stampati, si sapeva che ne ero io il responsabile, e una sera in cui mi ero recato a svolgere il mio lavoro di critico cinematografico ci fu all’entrata della sala una vivace discussione sul racconto del naufrago. Perlopiù erano amici con cui scambiavo idee nei caffè vicini dopo gli spettacoli. Le loro opinioni mi aiutarono a chiarire le mie sul pezzo settimanale. In merito al naufrago, il desiderio generale – con scarsissime eccezioni – era che si dilungasse il più possibile.

Una di tali eccezioni fu un uomo maturo e attraente, con un bel soprabito di pelo di cammello e una bombetta, che mi seguì lungo quasi tre isolati mentre io tornavo da solo al giornale. Lo accompagnava una donna molto bella, ben vestita come lui, e un amico meno impeccabile. Si tolse il cappello per salutarmi e si presentò con un nome che non ricordo. Senza tante perifrasi mi disse che non poteva essere d’accordo con il reportage sul naufrago, perché faceva il gioco del comunismo. Gli spiegai senza esagerare troppo che io ero solo il trascrittore della storia raccontata dallo stesso protagonista. Ma lui aveva le sue idee, e pensava che Velasco fosse un infiltrato nelle Forze Armate al servizio dell’Urss. Ebbi allora l’intuizione di parlare con un alto ufficiale dell’Esercito o della Marina e mi entusiasmò l’idea di un chiarimento. Ma all’apparenza voleva dirmi solo quello.

«Io non so se lei lo fa con consapevolezza o meno» mi disse «comunque sia sta rendendo un cattivo servizio al paese per conto dei comunisti.»

La sua abbagliante moglie fece un gesto di allarme e cercò di portarlo via con una supplica a voce molto bassa: «Per favore, Rogelio!». Lui finì la frase con la stessa compostezza con cui aveva cominciato:

«Mi creda, la prego, che mi permetto di dirglielo solo per l’ammirazione che nutro nei confronti di quanto lei scrive.»

Mi strinse di nuovo la mano e si lasciò portare via dalla moglie tribolata. Il loro accompagnatore, stupito, non ebbe modo di salutarli.

Fu il primo di una serie di incidenti che ci indussero a riflettere seriamente sui rischi della strada. In un’osteria dietro il giornale, che serviva operai della zona fino all’alba, due sconosciuti avevano tentato giorni prima un’aggressione gratuita contro Gonzalo González, che prendeva lì l’ultimo caffè della sera. Nessuno capiva che motivi potessero avere contro l’uomo più pacifico del mondo, a meno che non l’avessero confuso con me per via dei nostri modi e delle nostre mode caraibiche e delle due g del suo pseudonimo: Gog. Comunque, il servizio di sicurezza del giornale mi avvertì di non uscire da solo la notte in una città sempre più pericolosa. Per me, invece, era così affidabile che andavo a piedi fino al mio appartamento quando il mio orario era finito.

All’alba di uno di quei giorni intensi pensai che fosse arrivato il mio momento a causa di una pioggia di vetri provocata da un mattone lanciato dalla strada contro la finestra della mia camera da letto. Era Alejandro Obregón, che aveva perso le chiavi di casa sua e non aveva trovato amici svegli né posto in qualche albergo. Stanco di cercare dove dormire, e di suonare il campanello guasto, risolse la sua notte con un mattone della vicina casa in costruzione. Mi salutò appena per non svegliarmi del tutto quando gli aprii la porta, e si buttò supino a dormire sul nudo pavimento fino a mezzogiorno.

Il ruffaraffa per comprare il giornale proprio davanti a «El Espectador» prima che venisse diffuso in strada era sempre maggiore. I commessi dei negozi del centro si fermavano per comprarlo e leggere il capitolo sull’autobus. Penso che l’interesse dei lettori fosse cominciato per motivi umanitari, e che fosse proseguito per motivi letterari e alla fine per considerazioni politiche, ma sempre sorretto dalla tensione interna del racconto. Velasco mi raccontò episodi che sospettai inventati da lui, e trovò significati simbolici o sentimentali, come quello del primo gabbiano che non voleva allontanarsi. Quello degli aerei, raccontato da lui, era di una bellezza cinematografica. Un amico navigatore mi domandò come mai conoscevo così bene il mare, e gli risposi che mi ero limitato a trascrivere alla lettera le osservazioni di Velasco. A partire da un certo punto non ebbi più nulla da aggiungere.

Il comando della Marina non era dello stesso umore. Poco prima della fine della serie indirizzò al giornale una lettera di protesta per aver giudicato con criterio mediterraneo e in forma poco elegante una tragedia che poteva succedere ovunque operassero unità navali. “Malgrado il lutto e il dolore che hanno invaso sette rispettabili dimore colombiane e tutti gli uomini dell’armata” diceva la lettera, “non si è visto alcun inconveniente nello spingersi fino al romanzo d’appendice scritto da giornalisti neofiti in materia, zeppo di parole e concetti antitecnici e illogici, messi in bocca allo sfortunato e meritorio marinaio che coraggiosamente si è salvato la vita.” Per tale motivo, l’armata richiese l’intervento dell’Ufficio Stampa della presidenza della Repubblica affinché approvasse – con l’aiuto di un ufficiale della Marina – le pubblicazioni che in futuro venissero fatte sull’incidente. Per fortuna, quando arrivò la lettera eravamo al penultimo capitolo, e ci fu possibile far finta di nulla sino alla settimana successiva.

In previsione della comparsa finale del testo completo, avevamo chiesto al naufrago di aiutarci con la lista e gli indirizzi di altri compagni suoi che avessero apparecchi fotografici, e questi ci inviarono una collezione di fotografie scattate durante il viaggio. C’era di tutto, ma perlopiù erano di gruppi sul ponte, e nello sfondo si vedevano le casse di articoli domestici – frigoriferi, stufe, lavatrici – con i loro marchi di fabbrica bene in vista. Quel colpo di fortuna ci bastò per smentire le smentite ufficiali. La reazione del governo fu immediata e categorica, e il supplemento superò tutti i precedenti pronostici di diffusione. Ma Guillermo Cano e José Salgar, imbattibili, avevano solo una domanda:

«E adesso cosa cazzo facciamo?»

In quel momento, presi dalla gloria, non trovavamo una risposta. Tutti gli argomenti ci sembravano banali.

Quindici anni dopo la comparsa del testo su «El Espectador», la Casa editrice Tusquets di Barcellona lo pubblicò in un volume dalla copertina dorata, che andò a ruba. Ispirato da un sentimento di giustizia e dalla mia ammirazione per il marinaio eroico, scrissi alla fine della premessa: “Per fortuna, ci sono libri che non sono di chi li scrive ma di chi li soffre, e questo è uno. I diritti d’autore, di conseguenza, andranno a chi li merita: al compatriota anonimo che dovette soffrire per dieci giorni senza né mangiare né bere su una zattera perché questo libro fosse possibile”.

Non fu una frase vana, perché la metà dei diritti del libro venne pagata a Luis Alejandro Velasco dalla Casa editrice Tusquets, secondo mie istruzioni, per quattordici anni. Finché l’avvocato Guillermo Zea Fernández, di Bogotá, non lo convinse che i diritti appartenevano tutti a lui per legge, pur sapendo che le cose non stavano così, se non in seguito a una mia decisione in omaggio al suo eroismo, al suo talento di narratore e alla sua amicizia.

L’istanza contro di me fu presentata al tribunale civile 22 di Bogotá. Allora il mio avvocato e amico Alfonso Gómez Méndez diede ordine alla Casa editrice Tusquets di sopprimere il paragrafo conclusivo della premessa nelle edizioni successive e di non pagare più a Luis Alejandro Velasco neppure un centesimo dei diritti finché la giustizia non avesse deciso. Così venne fatto. In capo a un lungo dibattito che incluse prove documentali, testimoniali e tecniche, il tribunale stabilì che l’unico autore dell’opera ero io, e respinse le richieste avanzate dall’avvocato di Velasco. Di conseguenza, i pagamenti fatti sino ad allora per disposizione mia non dipendevano dal fatto che riconoscessi nel marinaio l’autore del testo, ma dalla decisione spontanea e libera di chi aveva scritto il racconto. A partire da allora i diritti d’autore, sempre per mia volontà, vennero donati a una fondazione.

Non ci fu possibile trovare un’altra storia simile, perché non era di quelle che si inventano sulla carta. Le inventa la vita, e quasi sempre di sorpresa. Lo imparammo in seguito, quando cercammo di scrivere una biografia del formidabile ciclista dell’Antioquia Ramón Hoyos, incoronato quell’anno campione nazionale per la terza volta. Lo lanciammo con lo stesso spicco del reportage sul marinaio e lo protraemmo fino a diciannove capitoli, prima di accorgerci che il pubblico preferiva Ramón Hoyos intento a scalare montagne e ad arrivare primo al traguardo, ma nella vita reale.

Una minima speranza di recupero la intravidi un pomeriggio in cui Salgar mi telefonò affinché ci incontrassimo subito al bar dell’Hotel Continental. Lo trovai insieme a un vecchio e serio amico suo, che gli aveva appena presentato la persona che era con lui, un albino vestito da operaio, con capelli e sopraccigli così bianchi che sembrava abbagliato persino nella penombra del bar. L’amico di Salgar, che era un noto uomo d’affari, lo presentò come un ingegnere minerario che stava facendo scavi in un terreno abbandonato a duecento metri da «El Espectador», in cerca di un tesoro da favola appartenuto al generale Simón Bolívar. L’amico di Salgar – che a partire da allora divenne pure amico mio – ci garantì la veridicità della storia. Era sospetta tanto era semplice: quando il Liberatore stava per proseguire il suo ultimo viaggio da Cartagena, sconfitto e moribondo, sembrava che avesse preferito non portare con sé un cospicuo tesoro personale accumulato durante le penurie delle sue guerre come riserva ben meritata per una buona vecchiaia. Mentre si accingeva a proseguire il suo viaggio amaro – non si sa se per Caracas o alla volta dell’Europa – ebbe la prudenza di lasciare il tesoro nascosto a Bogotá, protetto da un sistema di codici lacedemoni tipici della sua epoca, per ritrovarlo allorché gli fosse stato necessario e da qualsiasi parte del mondo. Ricordai queste notizie con un’ansia irresistibile mentre scrivevo Il generale nel suo labirinto, dove la storia del tesoro sarebbe stata essenziale, ma non trovai dati sufficienti per renderla credibile, e invece mi sembrò trascurabile come finzione. Questa fortuna da favola, mai recuperata dal suo proprietario, era quello che l’ingegnere cercava con tanto impegno. Non capii perché ce l’avessero rivelata, finché Salgar non mi spiegò che il suo amico, impressionato dal racconto del naufrago, aveva voluto comunicarci l’anteprima affinché la seguissimo giorno per giorno fin quando non fosse stato possibile pubblicarla con pari spicco.

Raggiungemmo il terreno. Era l’unico terreno abbandonato a occidente del Parco dei Giornalisti e vicinissimo al mio nuovo appartamento. L’amico ci spiegò su una mappa coloniale le coordinate del tesoro in base ai particolari reali delle alture di Monserrate e di Guadalupe. La storia era affascinante e il premio sarebbe stato una notizia esplosiva come quella del naufrago, e con maggiore coinvolgimento mondiale.

Seguitammo a recarci sul luogo con una certa frequenza per tenerci al corrente, ascoltavamo l’ingegnere per ore interminabili a base di acquavite e limone, e ci sentivamo sempre più lontani dal miracolo, finché non fu trascorso così tanto tempo che non ci rimase neppure l’illusione. In seguito riuscimmo solo a sospettare che la storia del tesoro fosse stata una copertura per sfruttare senza licenza una miniera di qualcosa di molto prezioso in pieno centro della capitale. Ma era possibile che pure questa fosse un’ennesima copertura per tenere in salvo il tesoro del Liberatore.

Non erano i tempi migliori per sognare. Dopo il racconto del naufrago mi avevano consigliato di tenermi per qualche tempo fuori dalla Colombia finché non si fossero calmate le minacce di morte, reali o fittizie, che ci arrivavano. Fu la prima cosa che pensai quando Luis Gabriel Cano mi domandò senza preamboli cos’avrei fatto il mercoledì successivo. Poiché non avevo progetti, mi disse con la sua flemma consueta di preparare i miei documenti per partire come inviato speciale del giornale per il Congresso dei Quattro Grandi, che si teneva la settimana dopo a Ginevra.

La prima cosa che feci fu telefonare a mia madre. La notizia le sembrò così grossa che mi domandò se mi riferivo a qualche tenuta che si chiamasse Ginevra. «È una città della Svizzera» le dissi. Senza scomporsi, con la sua serenità interminabile nell’assimilare i pasticci più inimmaginabili dei suoi figli, mi domandò fin quando mi sarei fermato lì, e le risposi che tuttalpiù ci sarei rimasto due settimane. In realtà ci andavo solo per i quattro giorni dell’incontro. Tuttavia, per motivi che non ebbero nulla a che vedere con la mia volontà, ci rimasi non due settimane ma tre anni. Allora ero io ad aver bisogno della barca a remi anche solo per mangiare una volta al giorno, ma badai a non dirlo a nessuno della famiglia. Qualcuno volle una volta turbare mia madre con la perfidia secondo cui suo figlio viveva come un principe a Parigi dopo averla ingannata con la storia che sarebbe rimasto via solo per due settimane.

«Gabito non inganna nessuno» gli disse lei con un sorriso innocente «il fatto è che talvolta persino Dio deve fare settimane di due anni.»

Non mi ero mai reso conto di essere privo di documenti, proprio come i milioni di individui trasferiti in seguito alla violenza. Non avevo mai votato per mancanza di una carta d’identità. A Barranquilla mi identificavo con il tesserino di redattore di «El Heraldo», su cui compariva una falsa data di nascita per sottrarmi al servizio militare, nei cui confronti non ero in regola da due anni. In casi di emergenza mi identificavo con una cartolina postale che mi aveva dato la telegrafista di Zipaquirá. Un amico provvidenziale mi mise in contatto con il direttore di un’agenzia di viaggi che si impegnò a imbarcarmi sull’aereo nella data indicata, mediante il pagamento anticipato di duecento dollari e la mia firma in calce a dieci fogli in bianco di carta intestata. Così venni a sapere di rimbalzo che il saldo del mio conto in banca era una cifra sorprendente che non avevo avuto il tempo di spendere a causa dei miei andirivieni di reporter. L’unica spesa, a parte le mie personali che non superavano quelle di uno studente povero, era l’invio mensile della barca a remi per la famiglia.

Il giorno prima della partenza, il direttore dell’agenzia di viaggi recitò davanti a me il nome di ogni documento a mano a mano che li posava sulla scrivania affinché non li confondessi: la carta d’identità, il libretto militare, le dichiarazioni degli avvenuti pagamenti delle tasse e i certificati di vaccinazione contro il vaiolo e la febbre gialla. Alla fine mi chiese una mancia per il povero ragazzo che si era vaccinato le due volte a nome mio, così come si vaccinava ogni giorno da anni per i clienti che avevano fretta.

Partii per Ginevra giusto in tempo per la seduta inaugurale con Eisenhower, Bulganin, Eden e Faure, senza conoscere altre lingue che lo spagnolo e con la prenotazione per un albergo di terza categoria, ma ben protetto dai miei risparmi bancari. Il ritorno era previsto di lì a poche settimane, ma non so per quale strana premonizione distribuii fra gli amici tutto quanto era mio nell’appartamento, inclusa una stupenda biblioteca cinematografica che avevo messo insieme in due anni con la sovrintendenza di Álvaro Cepeda e di Luis Vicens.

Il poeta Jorge Gaitán Durán venne a salutarmi mentre stavo stracciando carte inutili, ed ebbe la curiosità di frugare nel cestino per la spazzatura nel caso che avesse trovato qualcosa in grado di servirgli per la sua rivista. Recuperò tre o quattro cartelle lacerate a metà e le lesse appena mentre le sistemava come un rompicapo sulla scrivania. Mi domandò da dove venivano e gli risposi che era il “Monologo di Isabel mentre vede piovere su Macondo”, eliminato dalla prima versione di Foglie morte. Lo avvertii che non era inedito, perché l’avevano pubblicato su «Crónica» e sul «Magazine Dominical» di «El Espectador», con lo stesso titolo messo da me e con un’autorizzazione che non ricordavo di aver dato di fretta in un ascensore. A Gaitán Durán non importò e lo pubblicò sul successivo numero della rivista «Mito».

I saluti a casa di Guillermo Cano il giorno prima della partenza furono così tormentosi che quando arrivai all’aeroporto era già partito l’aereo per Cartagena, dove avrei dormito quella notte per congedarmi dalla famiglia. Per fortuna ne presi un altro a mezzogiorno. Feci bene, perché l’atmosfera domestica si era rilassata dall’ultima volta, e i miei genitori e i miei fratelli si sentivano capaci di sopravvivere senza la barca a remi di cui avrei avuto bisogno più io che loro in Europa.

Mi recai a Barranquilla via terra il giorno dopo molto presto per prendere il volo diretto a Parigi alle due del pomeriggio. Al terminal degli autobus di Cartagena incontrai Lácides, il portiere indimenticabile del Grattacielo, che da quei tempi non avevo più visto. Mi si buttò addosso in un vero abbraccio e con gli occhi in lacrime, senza sapere cosa dire né come trattarmi. Dopo un convulso scambio di parole, perché il suo autobus arrivava e il mio partiva, mi disse con un fervore che mi toccò l’anima:

«Quello che non capisco, don Gabriel, è perché non mi ha mai detto chi era.»

«Ah, mio caro Lácides» gli risposi, più addolorato di lui, «non avrei potuto dirglielo perché ancora oggi neppure io so chi sono.»

Qualche ora dopo, sul taxi che mi portava all’aeroporto di Barranquilla sotto l’ingrato cielo più trasparente di qualsiasi altro al mondo, mi accorsi di essere in Avenida 20 de Julio. Per un riflesso che faceva ormai parte della mia vita da cinque anni guardai in direzione della casa di Mercedes Barcha. E lei era lì, come una statua seduta sotto il portico, snella e lontana, e abbigliata secondo la moda dell’anno con un vestito verde guarnito da pizzi dorati, i capelli tagliati come ali di rondine e la quiete intensa di chi aspetta qualcuno che non arriverà. Non riuscii a evitare il pensiero che l’avrei persa per sempre la mattina presto di un giovedì di luglio, e per un istante pensai di far fermare il taxi per salutarla, ma preferii non sfidare ancora una volta un destino incerto e persistente come il mio.

Sull’aereo in volo ero sempre in preda alle convulsioni del rimorso. Esisteva allora la buona abitudine di sistemare nella spalliera del sedile anteriore una cosa che correttamente si chiama ancora corredo per scrivere. Un foglio con filettature dorate e la sua busta della stessa carta rosa, crema o azzurra, e talvolta profumata. Nei miei pochi viaggi precedenti me n’ero servito per scrivere poesie di addio che trasformavo in colombelle di carta e che lanciavo per aria una volta sceso dall’aereo. Scelsi un foglio azzurro e scrissi la mia prima vera lettera a Mercedes seduta sotto il portico di casa sua alle sette del mattino, con il vestito verde da fidanzata senza padrone e i capelli da rondine incerta, senza neppure sospettare per chi si fosse vestita quel giorno. Le avevo scritto altri biglietti scherzosi che improvvisavo a caso e ricevevo solo risposte verbali e sempre elusive quando ci accadeva di incontrarci. Quelle non volevano essere che due righe per comunicarle la notizia ufficiale del mio viaggio. Tuttavia, alla fine aggiunsi un post scriptum che mi accecò come un lampo a mezzogiorno nell’istante in cui firmai: “Se non ricevo risposta a questa lettera prima di un mese, mi fermerò a vivere per sempre in Europa”. Mi concessi appena il tempo per pensarci ancora una volta prima di infilare la lettera alle due di notte nella buca del desolato aeroporto di Montego Bay. Era già venerdì. Il giovedì della settimana successiva, entrando nell’albergo di Ginevra dopo un’altra giornata inutile di disaccordi internazionali, avrei trovato la lettera di risposta.