giovedì 30 luglio 2020

IL VIRUS CHE RENDE FOLLI Bernard Henry Levy

IL VIRUS CHE RENDE FOLLI
Bernard Henry Levy
Prologo
 Anch’io sono rimasto raggelato. Ma ciò che mi ha raggelato di più non è stata la pandemia. Perché questo tipo di disgrazie esistono da sempre. L’influenza spagnola, con i suoi cinquanta milioni di morti, un secolo fa ha fatto più vittime di quanto sicuramente non farà il Covid. Per limitarmi ai nostri tempi, quelli che sono abbastanza vecchio da ricordare, dopo il maggio 1968 abbiamo vissuto la famosa influenza di Hong Kong in cui un milione di uomini è morto con labbra cianotiche, per emorragia polmonare o soffocamento (in realtà, non è stata poi così “famosa”, come ho potuto verificare quando all’inizio della crisi le ho dedicato un articolo e ho scoperto che era stata quasi completamente dimenticata!). Dieci anni prima, anch’essa scomparsa dalla memoria collettiva, c’era stata l’influenza asiatica che, sempre dalla Cina, era passata attraverso l’Iran, l’Italia, l’est della Francia, l’America e aveva causato due milioni di morti (di cui 100.000 negli Stati Uniti e probabilmente altrettanti in Francia, in ospedali poco attrezzati dove i cadaveri, secondo i testimoni, si ammassavano nei reparti di terapia intensiva senza che si potesse trasferirli altrove). No, la cosa più sorprendente è il modo molto strano in cui abbiamo reagito questa volta. Ed è l’epidemia, non solo di Covid, ma di paura che ha attanagliato il mondo. Abbiamo visto temperamenti audaci improvvisamente paralizzati. Abbiamo sentito intellettuali, che avevano visto altre guerre, riprendere la retorica del nemico invisibile, dei combattenti di prima e seconda linea, della guerra sanitaria totale. Abbiamo visto Parigi svuotarsi, come nel diario dell’Occupazione di Ernst Jünger. Abbiamo visto le città di tutto il mondo diventare città fantasma con i loro viali muti come sentieri di campagna, dove i giorni, come diceva Victor Hugo, erano come le notti. Nei video che mi sono stati inviati da Kiev e Milano, da New York e Madrid, ma anche da Lagos, Erbil o Qamishli, ho visto rari passanti frettolosi, che sembravano essere lì solo per ricordarci l’esistenza della specie umana, ma che cambiavano marciapiede, con gli occhi bassi, quando compariva un altro essere umano. Abbiamo visto tutti, da un capo all’altro del pianeta, nei paesi più poveri così come nelle grandi metropoli, popoli interi tremare e farsi trascinare nelle proprie abitazioni, a volte a colpi di manganello, come animali selvatici nelle loro tane. I manifestanti di Hong Kong sono scomparsi, come per magia. I Peshmerga, quei guerrieri curdi il cui nome significa che sanno sfidare la morte, si sono rifugiati nelle loro trincee. I sauditi e gli huthi, che stavano conducendo una guerra interminabile nello Yemen, all’annuncio dei primi casi hanno raggiunto un cessate il fuoco. Hezbollah si è autoisolato. Hamas, che al tempo denunciava otto casi, ha dichiarato di avere un solo obiettivo di guerra, ottenere ventilatori da Israele: “Ventilatori! ventilatori! il nostro regno per dei ventilatori! se è necessario verremo (a prenderceli con la forza) e toglieremo l’aria a sei milioni di israeliani.” L’ISIS ha dichiarato l’Europa zona a rischio per i suoi combattenti, che sono andati a soffiarsi il naso in kleenex all’eucalipto in fondo a qualche grotta siriana o irachena. Panama, alla scoperta di un caso sospetto, ha confinato nella giungla millesettecento disperati in cammino verso il confine con gli Stati Uniti. La Nigeria, dove qualche settimana prima avevo fatto un reportage sui massacri di villaggi cristiani da parte dei jihadisti fulani, contava, a metà aprile 2020, secondo l’AFP, dodici morti per il virus, ma diciotto persone uccise dalle forze di sicurezza per non aver rispettato le misure di lockdown. Il Bangladesh, dove mi trovavo per un reportage poche ore prima che la Francia chiudesse le frontiere, presentava tutta una serie di calamità: la gente moriva di dengue, colera, peste, rabbia, febbre gialla e virus sconosciuti; ma non appena sono stati rilevati alcuni casi di Covid, anch’esso, come un sol uomo, si è rinchiuso nell’isolamento. È in realtà l’intero pianeta, paesi ricchi e poveri in egual misura, quelli che potevano resistere e quelli che potevano crollare, a precipitare in questa idea di una pandemia senza precedenti, sul punto di sterminare il genere umano. E allora? Cosa può essere successo? Viralità, non solo del virus, ma dei discorsi sul virus? Cecità collettiva come nel romanzo di José Saramago, dove una misteriosa epidemia di cecità colpisce un’intera città? Vittoria dei collassologi che da sempre predicano la fine del mondo, la sentono adesso avvicinarsi e ci danno un’ultima chance di quaresima e di reset? Vittoria dei saggi del mondo che vedono in questo grande confinement – termine con cui è stato reso nella traduzione inglese il “grande internamento” teorizzato da Michel Foucault nei testi in cui descriveva i sistemi di potere del futuro – la prova generale di un nuovo tipo di fermo e di arresto domiciliare dei corpi? Una Grande Paura, come quella del 1789, con la sua quota di fake news, complotti, fughe disperate e poi, un giorno, rivolte radicali? O il contrario? Il segno, rassicurante, che il mondo è cambiato, che finalmente sacralizza la vita e che tra questa e l’economia, sceglie la vita? O, ancora il contrario: una follia collettiva, aggravata dai media e dai social network che ci martellano, giorno dopo giorno, coi numeri dei pazienti in rianimazione, dei moribondi e dei morti, portandoci in un universo parallelo dove non esistono più altre informazioni, rendendoci letteralmente folli: non è così, in fondo, che funziona una tortura cinese? Non è forse vero che il suono della goccia d’acqua, ripetuto più e più volte, diventa un drago minaccioso? Come reagiremmo se i responsabili della sicurezza stradale mettessero degli altoparlanti giganti a ogni chilometro, che trasmettono continuamente gli incidenti mortali del giorno? Avevo a disposizione, sempre prezioso, il mio Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de la Boétie. Avevo a disposizione, per cercare di ragionare su questa straordinaria sottomissione mondiale a un evento che, ripeto, è tragico ma non senza precedenti, i miei ricordi di René Girard e la sua ipotesi di un desiderio mimetico che è anche un virus e che, come ogni virus, scatena pandemie. C’era anche Jacques Lacan, che sosteneva che di fronte all’emergere di un “punto di realtà”, di qualcosa di reale che colpisce e da cui si viene colpiti, che genera un buco nella conoscenza e di cui non si ha a disposizione nemmeno un’immagine (e non è forse il caso di qualsiasi nuovo virus?), l’umanità ha la scelta tra negazione e delirio, nevrosi e psicosi: Trump che pesta i piedi perché bisogna “liberare il Michigan” o i governanti, spaventati dalla minaccia, brandita da collettivi di avvocati, di una “Norimberga del Coronavirus”, che giudicano più prudente mettere il mondo in stato di fermo. Era troppo presto per pronunciarsi. Anche ora, mentre scrivo queste pagine e mentre si comincia a “uscire dall’isolamento”, è troppo presto per decifrare non solo il codice del virus, ma anche il codice della paura che ha causato. E avendo anche io i miei morti, che non ho finito di piangere, non ho il coraggio della buona risata brechtiana che forse, un giorno, ci ispirerà l’enorme messa in scena a distanza che il richiamo al distanziamento sociale avrà offerto ai nostri occhi attoniti. È tempo, però, di raccontare gli effetti di tutto questo sulle nostre società e sulle nostre menti. È il momento di dire quel che ha cominciato ad accadere, in ciò che ci unisce nella parte più oscura e profonda di noi stessi. E se è vero che, come amava dire, non senza ironia, il grande medico tedesco di fine Ottocento, padre dell’anatomia patologica, Rudolf Virchow, “un’epidemia è un fenomeno sociale che ha alcuni aspetti medici”, questo è il momento di fare i conti con essa e cercare di descrivere alcuni aspetti non medici di questa storia. Alcuni sono felici. Abbiamo vissuto veri momenti di civismo e di aiuto reciproco. L’immagine di Andrea Bocelli che canta da solo per Pasqua nel duomo di Milano o quella di Fedez e Chiara Ferragni che organizzano una raccolta di fondi on line per gli ospedali rimarrà indelebile. E non saremo mai abbastanza felici del fatto che finalmente ci si sia accorti non solo dell’esistenza, ma dell’estrema dignità di un intero popolo di umiliati (personale sanitario, cassieri, contadini, trasportatori, spazzini, fattorini...) che sono venute alla luce. Ma altri aspetti sono spiacevoli. Sono state dette parole, si sono prese delle abitudini, sono riemersi riflessi che mi hanno spaventato. Dei principi che mi erano cari, e che erano i migliori delle nostre società occidentali, sono stati attaccati dal virus, e dal virus del virus, nello stesso momento in cui la gente moriva. E dal momento che anche le idee muoiono, poiché sono fatte della stessa materia degli uomini, ed è possibile che, con il regredire dell’epidemia, rimangano sulla riva, come meduse morte, scomparse senza lasciare traccia perché erano, come noi, quasi interamente fatte d’acqua, è di queste idee che voglio qui prendere le difese. Prima paura mondiale (nel senso in cui si parla di prima guerra mondiale): bilancio provvisorio. E siccome abbiamo il tempo contato, ecco un bilancio non statistico, e per questo meno facile (non è così che funziona la legge dello stupore? che più lo shock è forte, più è alterata la capacità di pensarci?), dei colpi inferti durante questa strana crisi alle nostre metafisiche intime: non è troppo tardi per combattere questa battaglia, ma questa volta la responsabilità e il rischio non spettano ai medici e ai politici.

mercoledì 15 luglio 2020


EVA
Giovanni Verga, Milano, Fratelli Treves Editori, 1873 (prima edizione)



Avevo incontrato due volte quella donna — non era più bella di tutte le altre, nè più elegante, ma non somigliava a nessun’altra — nei suoi occhi c’erano sguardi affascinanti, come il corruscare di un’esistenza procellosa ch’era piena di attrattive. — Tutti gli abissi hanno funeste attrazioni, e quelle voragini che divorano la giovinezza, il cuore, l’onore, si maledicono facilmente, ahimè! quando arriva la filosofia dei capelli bianchi. — Era bionda, delicata, alquanto pallida, di quel pallore diafano che lascia scorgere le vene sulle tempie e ai lati del mento come sfumature azzurrine; aveva gli occhi cerulei, grandi, a volte limpidi, quando non saettavano uno di quegli sguardi che riempiono le notti di acri sogni; aveva un sorriso che non si poteva definire — sorriso di vergine in cui lampeggiava l’immagine di un bacio. Ecco che cosa era quella donna, quale si rivelava in un baleno, fuggendovi dinanzi nella sua carrozza come una leggiadra visione, raggiante di giovinezza, di sorriso e di beltà. — In tutta la sua persona c’era qualcosa come una confidenza fatta al vostro orecchio con labbra tiepide e palpitanti, che vi rendeva possibile il sognare le sue carezze, e farci su mille castelli in aria. Non era soltanto una bella donna — certe altezze non attraggono appunto perchè sono inaccessibili. — L’ammirazione che ella destava, assumeva la forma di un desiderio; c’era nei suoi occhi qualche cosa come un sorriso e una promessa, che faceva discendere la dea dal suo cocchio superbo, o piuttosto si metteva accanto a lei, e faceva correre il vostro pensiero alle cortine della sua alcova; e ai viali più ombreggiati del suo giardino.
Si chiamava Eva, o almeno si faceva chiamare così, e quel nome era forse un epigramma. Tutti conoscevano la sua vita un po’ più in là del palcoscenico della Pergola, e forse meglio di tutti le dame del gran mondo, che parlavano di lei celandosi dietro il ventaglio. Nessuno ne sapeva più di un altro. Era l’apparizione di un astro in mezzo alla splendida società fiorentina, una febbre di giovanotto fatto donna.
L’avevo incontrata due volte, e non mi era sembrata l’istessa donna, forse per le diverse disposizioni d’animo in cui mi ero trovato, e forse anche per ciò era rimasta in me più viva e profonda l’impressione di lei. La prima volta la vidi pel Lungarno, in un elegante legnetto, e guidava una bella pariglia di cavalli inglesi; aveva il sorriso negli occhi più che sulle labbra, ed una cert’aria graziosa e gradita in tutta la sua persona, che vedendola faceva sorridere di piacere. Io ero triste, senza sapermi il perchè, forse per non avere meglio da fare, e macchinalmente la seguii cogli occhi e col pensiero, e il pensiero corse lontano verso tutte le ridenti follie del cuore. Un’altra volta l’incontrai alle Cascine, in uno di quei viali che nessuno frequenta. Quel mattino il mio cuore faceva festa — domeniche gioconde dei venticinque anni, che non tornano più! — Il sole splendeva, ed il sorriso brillava negli occhi di Vittorina — larva di un di quei giorni in cui si prodiga tanta parte di cuore, come se non dovessero tramontare giammai, fantasma di un’ora felice che si dimentica prima ancora che sia trascorsa, nello stesso modo che ella avrà dimenticato persino il mio nome, lo rammenterà, come io adesso mi rammento del suo, a proposito di qualche cosa che allora ci passò sotto gli occhi senza che ce ne avvedessimo. Il viale era deserto gli uccelli cinguettavano fra gli alberi, e i rami susurravano lieve lieve, intrecciando mollemente le loro ombre in bizzarri disegni sulla ghiaia del viale. Noi non si parlava certamente dell’ultimo fascicolo dell’Antologia; Vittorina era allegra, cantava, rideva, e il riso la faceva bella. Io guardavo e ascoltavo. Quando il nostro fiacre passò accanto ad un bellissimo legno, che stava fermo in mezzo al viale, vidi, verso il cristallo scintillante, una  testolina bionda, come una rosea visione, incorniciata dall’imbottitura di seta della carrozza. Ella ci volse uno sguardo, un solo sguardo limpido come l’azzurro dei suoi occhi, ma disattento, anzi noncurante, uno di quegli sguardi che vi affissano in volto senza vedervi, e tornò a chinare gli occhi sul libro.
Vittorina chinò il capo e ammutolì, come se quella bionda e leggiadra visione fosse sempre lì, fra di noi, seduta sui cuscini della nostra carrozza.





La rividi anche mascherata ad un veglione della Pergola. La folla si apriva sussurrante dinanzi a lei, e sguardi bramosi l’accompagnavano come se indovinassero la sua bellezza soltanto a quello stivalino arcuato e a tacchi alti che si posava da padrone sul tappeto. Io l’avevo vista un momento a viso scoperto, mentre discendeva da una  carrozza, di cui i fanali scintillavano come due stelle, sollevando arditamente la veste sul marciapiede con quella altera civetteria che non si cura dello sguardo indiscreto, o gli getta come una limosina l’onda vaporosa della batista e il lucido riflesso dello stivalino. La rividi in mezzo alla folla, accompagnata da un elegante trovatore che le dava il braccio, e seguita sempre da vicino o da lontano da un arlecchino con tanta insistenza, che tutti la notavano. Ella passava sorridente sotto la sua maschera — aveva un sorriso incantevole — ed ogni volta che l’arlecchino l’incontrava, le ripeteva la sciocca domanda solita: — Ti diverti, mascherina? — ed ella, rideva, rideva allegramente, e ridendo imporporava il basso delle sue guancie, quel po’ che se ne poteva vedere. Una delle volte mi trovavo fra un crocchio d’amici, e si fece largo davanti a quella regina che passava, e l’arlecchino la seguiva sempre, come un cane allampanato colla coda attaccata al ventre e l’occhio bramoso intento al tozzo di pane che indovina nella tasca del padrone, e ripetè il suo ritornello col tono afflitto di un cane che ustoli. Allora la bella mascherata, che non ne poteva più, si strinse nelle spalle con molta grazia, e gli gettò in faccia questa parola voltandosi dall’altra parte:
— Nojoso!
Noi ridevamo come matti. L’arlecchino si era fermato, ritto, immobile, con certi occhi che gettavano fiamme da sotto la maschera, e senza badare a quelle risa, e senza accorgersene, esclamò obliando di contraffare la sua voce:
— Ah! è lei!
E si allontanò.
Il veglione era animatissimo. Si vedeva anche qualche domino elegante quasi smarrito in mezzo alla folla: fra il chiasso e la calda atmosfera s’indovinava come un fiore di salone che passava, al profumo, al fruscìo particolare della veste, a certe leggiadre esitazioni da uccelletto spaventato, al guanto grigio che si stringeva timidamente alla manica di una giubba. Però la bella mascherina e il suo trovatore non si vedevano più; erano forse partiti. Verso le due vedemmo bensì l’arlecchino tutto solo, grullo, imbecillito; gettava qua e là occhiate da matto; dava e riceveva colla stessa indifferenza spintoni da orbo, sembrava ubbriaco fradicio. Quei giovanotti come lo videro, scoppiarono a ridere fragorosamente, gridandogli dietro:
— Uh! nojoso!
Egli si fermò; ci guardò con quell’aria stralunata, e sorrise stupidamente.
— Sì, son nojoso; disse sotto la maschera una voce che senza sapere il perchè ci fece trasalire; come le tue liriche, come i tuoi drammi storici, come i tuoi quadri di genere, come il tuo spirito di buona compagnia, come le tue fiabe.
Quest’ultimo complimento era diretto a me, sebbene non avessi aperto bocca, e i miei amici avevano preso ciascuno il suo con più meno garbo, credendosi obbligati a ridere.
— Mi conosci? gli dissi.
— Lo vedi.
— Non c’è che dire hai dello spirito.
— Sì, delle volte, a tavola. Vogliamo andare a tavola?
— Ci offri da cena? domandò il conte C.***
— No, vi offro di scommettere a chi la pagherà.
— Benissimo! e che scommessa?
— Scommetto che darò un bacio a quella mascherina accompagnata dal trovatore.
— Eh!
— Ti gira?
— Una cena da mille lire, disse l’arlecchino senza scomporsi.
Nessuno gli rispose. Lo credevano matto.
— Sembra che le tue scommesse non ispirino gran fiducia, disse il poeta.
L’arlecchino lo guardò colla massima calma, resa grottesca dall’aria impassibile della maschera, e rispose:
— Diamo in pegno il denaro.
— A te?
— No.... rispose senza dar retta al motteggio; mi affissò un istante e soggiunse: Ecco le mie cinquecento lire.
Quella preferenza mi sorprese.
— Ti conosco? gli domandai.
— Non so, ma mi hai conosciuto.
— Dove?
— A Catania.
Cercai inutilmente di leggere sotto la sua maschera. Egli si levò il berretto con comica gravità, e ci disse:
— Prima che finisca il veglione.
— Ma s’è partita? disse Arturo.
— Non è partita, rispose semplicemente l’arlecchino, e ci volse le spalle.
Egli era tutt’altro che stupido o ubbriaco, e l’imbarazzo del nostro silenzio lo confessava chiaramente.
Che cos’era dunque?





M’aggiravo a casaccio fra le maschere, ora spingendo, ora spinto, allorchè sentii tirarmi per le falde dell’abito. Era di nuovo l’arlecchino, colla stessa aria d’imbecille. Egli mi disse:
— Vuoi venire con me?
— Dove?
— In palco.
— Andiamo pure, risposi, essendo curioso di conoscerlo.
Egli prese il mio braccio, mi fece salire al terz’ordine, e aprì un palco.
Entrando si tolse la maschera, mi guardò un istante, e domandò:
— Mi riconosci?
Avevo visto un volto pallidissimo, assai magro, con gli occhi luccicanti come per febbre, e incavernati in un’orbita accerchiata di livido, con certi baffetti biondi appena visibili, e le labbra pallide.
— No, risposi, non ti riconosco.
Egli sorrise tristamente. — Ah! esclamò, son molto cambiato! Sono Enrico Lanti.
— Infatti.... adesso mi rammento....
— Fummo a scuola insieme; tu avevi una giacchetta coi bottoni dorati ch’era la tua disperazione. Io ero così grosso, che mi chiamavano badduzza; ti rammenti?
— Sì.
— Adesso non son più ’’badduzza!’’ diss’egli, e l’accento contrastava stranamente con la parola.
— È vero, sei molto cambiato.
Egli tossì due o tre volte e non rispose. Il silenzio si prolungava troppo: per dire qualche cosa gli domandai se egli fosse da molto tempo in Firenze.
— Da due anni, rispose.
— Sei pittore, mi sembra.
— Sì, disse con un sorriso che non dimenticherò mai più. E dopo un istante:
— Anche tu hai la malattia dell’arte!
— La malattia?
— Vuoi chiamarla follia? diss’egli collo stesso sorriso amaro. Non discutiamo sulle parole: è una malattia di cervello o del cuore, non mi picco gran fatto di fisiologia — ma so ch’è un gran malanno.... Vedi, non son più ’’badduzza’’.... ed ho la febbre.
Si tolse il guanto, e mi porse la mano che scottava.
— Ma tanto meglio! riprese collo stesso tuono, ridendo sempre in modo strano. Ti ho cercato appunto per questo. Avevo bisogno di uno come te.... Tu non mi riderai in faccia almeno.... Ed io non voglio che si rida di me!...
Gli occhi gli brillavano febbrilmente e parlava concitato assai. Incominciai a temere che fosse matto sul serio.
Tutt’a un tratto egli mi domandò bruscamente:
— Andrai in Sicilia?
— Forse.
— Conosci la mia famiglia?
— No.
— La conoscerai, soggiunse; sono brava gente; non son signori, ma potrai stringer loro la mano francamente.... e parlar di me.... Non dire di cotesta scommessa però, e in caso di disgrazia non dire come son morto.... La mia povera mamma piangerebbe anche la perdita dell’anima mia.... Di’ che son morto di tifo, di miliare, in una buona casa — che in Sicilia l’idea dell’ospedale stringe il cuore — e che sono stato assistito dagli amici sino all’ultimo momento....
— Ma che discorsi mi fai!
Egli mi guardò sorpreso, come se avesse rotto il filo logico di premesse bene stabilite, e rispose tranquillamente:
— Ma io potrei anche essere ucciso, invece di uccidere.
E ne parlava con calma sinistra.
— Che?
— To’! non ti rammenti della scommessa?
Allora il vero scopo di quella follia mi balenò in mente nudo e minaccioso.
— Ti batterai?
— Oh!! esclamò con un sorriso indefinibile che era quasi lugubre su quel volto cadaverico.
— Odii quell’uomo?
— Sì! mormorò coi denti stretti, e l’ucciderò!
— Per colei?
— Sì!
— L’ami?
Egli trasalì.
— La odio! la disprezzo! Vorrei morderla, vorrei schiaffeggiarla!... vorrei pestarmela sotto i piedi!
Tossì di nuovo, e soffocò la tosse col fazzoletto. Questa volta lo sforzo fu così violento, che egli chiuse gli occhi, e sulle sue guancie pallidissime passarono certe fiamme di malaugurio. Allorchè riaprì gli occhi, mi sembrò di vedere un cadavere. Egli mi disse con voce stentorea, che si era intieramente cambiata da un istante all’altro:
— Tu lo vedi, se non muoio di spada, morrò di qualche altra cosa. Ma non penso a ciò, che per i miei poveri genitori, e per la mia sorellina.... Stringendo la tua mano mi sembra di stringermi al cuore quei poveretti che saranno tanto afflitti.... Ecco perchè ho voluto parlarti. Non è vero che in certi momenti, quando siamo molto lontani dalla famiglia, proviamo delle strane tenerezze per le persone che ce la rammentano o che hanno il più lontano rapporto con essa?
— Mio caro.... tu esageri....
— Io esagero? rispose collo stesso sorriso. Vallo a domandare ai medici di Santa Maria Nuova, se esagero.... o vieni alle Cascine fra le sei e le sette.
— Cotesto duello è dunque inevitabile?
Egli mi guardò sorpreso.
— A meno che il conte non prenda in santa pace la scommessa.
— Qual conte?
— Il conte Silvani, il trovatore.
— Ma puoi anche uscirne vincitore....
— Perbacco! esclamò con sinistro entusiasmo. Lo so!
— Ma adesso hai la febbre; non vorrai aspettare qualche giorno?
— La febbre non mi lascia mai. Ma che importa!... Anzi!... Vedi se il pugno trema!... e lo guardava con triste soddisfazione; vedrai come ci starà bene la spada!
— E la tua famiglia?
— Povera mamma! diss’egli passandosi il guanto sugli occhi.
— Non vorrai vederla?
— No!
— No, ripetè dopo un breve silenzio in tuono tutto diverso e afferrandomi le mani. Non ne ho il coraggio.
Le lagrime gli luccicavano nell’orbita, e sentii che quelle lagrime mi facevano bene.
— Se sapessi come son fatti gli occhi della madre che ti affissano in volto.... Se sapessi: mormorò come parlando fra sè.
Tutt’ad un tratto sentii trasalire le sue mani nelle mie.
— Guarda! esclamò. La vedi?... colei?... Non è bella? mi domandò Enrico seguendola tra la folla con occhi ardenti.
— Oh!
— Se tu la vedessi senza maschera!...
— L’ho vista.
— Ah! tu la conosci! Ella ti ha gettato la fiamma del suo sguardo.... a te. Non è vero che farebbe commettere tutte le pazzie?...
Ella scomparve verso la porta. — Enrico era rimasto sempre cogli occhi fissi dov’ella non era più, e le scagliò dietro una parola infame come un’imprecazione.
— Ah! ah! sogghignò con un riso che voleva esser allegro ed era tristissimo. Se tu sapessi che cosa ho fatto per colei! — e si torceva le mani. — Tu riderai di me, eh?
— Oh, no! Ti compiango.
— Non voglio della tua compassione! mi disse bruscamente.
Poscia come pentito, e stringendomi la mano:
— Se tu sapessi come mi sento spregevole e vile! come mi disprezzo! Dimmi, soggiunse dopo una breve esitazione, piantandomi in volto due occhi luccicanti come quelli di un pazzo, — voglio domandarne a te che ti occupi di coteste orribili malattie.... Dimmi come possono farsi di tali cose per una donna che si disprezza, che si odia.... Dimmi come pur sputandole in faccia tutto quest’odio e questo disprezzo si possa morire per lei, si possa sacrificarle l’onore, la vita, la famiglia, la giovinezza, l’arte, tutte le cose che sorridono e che si amano, per abbeverarsi del fiele dell’amore di lei.... Dimmi come accada tutto ciò.... e dimmi che ne’miei panni tu avresti fatto come me, e saresti vile e spregevole del pari!... Oh dimmi questo!... che mi sembra d’impazzire!... Vuoi che io ti narri questa istoria.... vuoi?...
— Sì! gli dissi, sentendomi invadere dalla sua commozione.





— Ma bisogna che ti dica quello che ero, per farti comprendere quel che sono divenuto. Ero un genio in erba, una speranza dell’arte italiana, coi capelli lunghi e il cappellaccio alla Rubens; abitavo all’ultimo piano di una vecchia casa in Santo Spirito che il vento, d’inverno, sembrava far traballare sulle fondamenta, e desinavo a cinquantacinque lire al mese. Però in tutte codeste cose ci mettevo, direi, tanta buona fede, che le rendevo quasi rispettabili. Il mio paese mi pagava una pensione, allo scopo di aumentare il numero dei suoi grandi uomini; i miei professori ed i miei colleghi mi tenevano in gran conto — è vero che c’era poco da fidarsi di loro che avevano in corpo le stesse magagne, ma chi ci avrebbe rinunciato? — il pubblico e i giornali mi bruciavano sotto il naso tutti gli stimolanti della vanagloria.... Ebbene, chi sarebbe stato più forte di me scagli la prima pietra.... Io battezzai pomposamente la mia vanità, la chiamai amore dell’arte, e presi sul serio i miei capelli lunghi a tutte le altre belle cose. Ero felice di passeggiare le vie di Firenze, come se andassi a braccetto con Raffaello o con Michelangelo. Mi pareva di respirare l’arte a pieni polmoni, e avevo in cuori tutti gli entusiasmi, le antipatie, gli affetti della mia illusione. Vivevo come in una atmosfera del Cinquecento, che mi rendeva idolatra dei palazzi anneriti dal tempo, delle gronde sporgenti e malinconiche, e delle acque torbide dell’Arno.... Tu fede mia! aggiunse con un ghigno amarissimo, non aveva ancora pensato all’ospedale e al camposanto....
Tacque e si passò a più riprese la mano sulla fronte, come per discacciarne molesti pensieri o la commozione che lo vinceva.
— Follie.... sì! mormorò dopo qualche istante, quasi parlasse fra di sè.
— Sei certo di non sbagliarti giudicando così dei sentimenti umani?
— Oh, no.... nessuno potrebbe avere cotesta sicurezza.... poichè non ci sono sentimenti veri.
— Eh?!
— Quistione d’ottica, mio caro. Io chiamo follie quelle che tu chiami nobili affetti, rispose con un cinismo amarissimo, perchè.... mi hanno ridotto quale mi vedi.... — Quanto guadagni colla tua arte? soggiunse dopo un breve silenzio, appoggiando l’accento in modo ironico sull’ultima parola.
La domanda era così brusca e brutale, che lo guardai sorpreso. Egli scoppiò a ridere. — Lo vedi, mi disse, ti vergogni a dirlo! — Adunque sei un pazzo vanitoso — il peggiore.
Ero disgustato da quell’affettazione, e gli risposi secco secco:
— Io mi contento di non mischiare del danaro in certe idee.
— Bella frase! disse senza scomporsi. Un tempo mi sarebbe parsa anche una nobile risposta. Ma, amico mio, in un’epoca in cui le più vive ambizioni dell’uomo, ed i più serii sforzi della sua attività hanno uno scopo positivo — arricchire — la logica ha il difetto di non prestarsi alle ipocrisie, — confesserai anche tu che le tue idee nelle quali non vuoi mischiare del denaro, non valgono nulla... Cioè... no!... valgono a gettarti fra i piedi di codesta gente, laboriosa perchè è assetata di donne e di vino; — e cotesta gente, che si affretta verso la Borsa, riderà di te ubbriaco in pieno giorno delle sue passioni, — che anche tu vivi nella medesima atmosfera, e la bevi avidamente, perchè il tuo cervello e i tuoi nervi sono in uno stato di esaltazione morbosa — e la folla ti schernirà, finchè arriva una pietosa guardia urbana che ti conduce in prigione, in nome della moralità, o ti chiude nel manicomio.
Egli si tacque per esaminare trionfante l’effetto della sua eloquenza da pessimista.
— Che cosa mi rispondi? domandò sorpreso del mio silenzio.
— Che hai veramente il cuore ammalato.
— Sarà anche vero. Già te l’ho detto ch’è quistione d’ottica, ed io non pretendo all’infallibilità.
— E ti credo molto sventurato.
— Sì! sì! accennò col capo, e sembrava commosso, indi soggiunse: È pure una gran sventura quella di perdere certe illusioni... certe follie... care follie che riempivano dì rosei sogni la mia cameretta al terzo piano!... e poi, che resta quando esse son svanite!...
— Tu lo vedi!
— Sì! ci dev’essere qualcosa di vero in coteste illusioni che spalancano il cuore a due battenti verso tutto ciò ch’è nobile e bello!... esclamò lasciandosi dominare dalla commozione, e poscia, come pentitosi, rifacendosi scuro in volto: — Ma è poi vero che sia nobile e bello ciò che mi è parso anche ridicolo un giorno?
— Un giorno di febbre o di sconforto!...
— Potresti assicurarmi quali siano i giorni di sereno per giudicare con esattezza dei sentimenti, tu che hai amato e odiato la stessa cosa, che ne hai pianto e riso nel medesimo giorno? — domandò con quel sorriso che voleva sembrar cinico, ed era una contrazione dolorosa del suo cuore. E lasciando più libero varco alla sua amarezza mormorò: Non c’è altro di vero che le modificazioni dei nostri nervi, o la temperatura del nostro sangue.
— La tua scienza è desolante! È la scienza del nulla.
— È vero!
— Non hai mai pensato alla tua famiglia?
Egli trasalì e si fece pallido; accennò due o tre volte di voler parlare, e le labbra gli tremavano.
— Io l’ho abbandonata per correr dietro a quelle larve! mormorò con voce soffocata. E allora ho dovuto chiedermi quale di cotesti due affetti fosse il vero, se il più forte o il più puro... È stato un gran dolore!... ma il dolore è una debolezza, non è una verità... E dei due affetti, sai quale ha vinto... nel mio cuore entusiasta e vergine?... ha vinto il più turpe; ha vinto il sensuale nella mia anima che viveva in un mondo ideale... Ora dimmi tu le tue frasi sonore; io ti getterò fra i piedi i fatti eloquenti.





Io non avevo mai amato, o almeno cotesto sentimento che era sparso in tutto il mio essere non si era incarnato in una figura di donna. Ero superbo della mia arte, superbo di me che la sentiva degnamente, e ciò mi rendeva quasi geloso di me medesimo. I miei sogni erotici non erano mai scesi più giù di una duchessa, cui prestavo gratuitamente tutti i miei entusiasmi, e piedi che non si erano mai posati sul lastrico delle vie, e mani che nessuno aveva visto senza guanti all’infuori di me, e aspettando la duchessa che non veniva, io faceva all’amore coi miei quadri, sognavo i capelli biondi della cameriera che spolverava le tende della finestra in faccia alla mia — i soli capelli — o le linee graziose degli omeri della modista che vedevo tutti i giorni dietro la vetrina in via Rondinelli. Nella compressione dell’arte c’è una squisita sensualità; la bellezza plastica che  compenetravasi nel bello ideale aveva per me certi affascinamenti ancora verginali, ma potentissimi.
La mia vita trascorreva serena in un mondo che m’ero creato colla mia fantasia. Non avevo mai rivolto un solo sguardo di desiderio su quei piaceri di una grande città che mi passavano sotto gli occhi, sebbene ad una certa distanza, e come in nube; eppure se ne avevo provato la curiosità come un amaro sentimento di privazione, m’ero rifugiato nella mia arte come nelle braccia d’una amante. Il mio più gran divertimento era quello di andare a teatro la domenica; avrei preferito, è vero, quegli spettacoli che parlano più vivamente all’immaginazione, come l’opera in musica ed il ballo; ma erano spettacoli che costavano cari, ed in ciascun mese ci son quattro o cinque domeniche — troppo lusso per un bilancio di centocinquanta lire.
Ora se ti dirò che senza fare un buco nel mio bilancio io non avrei fatto uno strappo nel mio cuore, che se una domenica non fossi andato alla Posta per riscuotere un vaglia, non avrei visto forse il cartellone della Pergola, e se non avessi finito il giorno innanzi un lavoro di cui ero soddisfattissimo, e il sole dì quella domenica non mi fosse perciò sembrato in festa come il mio cuore, io avrei visto il cartellone senza pensare a fare un buco nel mio bilancio, tu mi darai del fatalista.... Farai come tutti gli altri, ti sbarazzerai con una parola di un esame increscioso.
Andai dunque alla Pergola di buon’ora per trovare un posto in platea, e lì, nella semi-oscurità, col mio paletò piegato sulla spalliera, l’ombrello fra le gambe, il cappello sull’ombrello, l’occhio intento, stavo a godermi il mio biglietto d’ingresso esaminando tutto, le dorature dei palchi, il leggìo del suggeritore, i lumi della ribalta, e sopratutto l’ora che segnava l’orologio.
I palchetti si andavano popolando di belle signore; almeno avevano indosso tanti fiori, e gemme, e nastri, e bianco, e rosso, che nella mezza luce sembravano tutte belle. Degli uomini poi ce n’erano così bellini, e così ben rasi, e colle testoline così ben pettinate, ricciutelle e lucide, che quelle belle donne dovevano al certo guardarli con tanto d’occhi spalancati, come io li guardavo, e  istintivamente mi nascondevo le mani nude sotto il cappello.
Squillò un campanello; un’onda di luce invase quella splendida sala, e incominciò la rappresentazione. Io ascoltavo, guardavo, tutto commosso e rimpicciolito nel mio cantuccio; il mio entusiasmo non si manifestava altrimenti che come una gran soddisfazione di avere bene impiegato le mie tre lire. Avevo comprato per tre sole lire un tesoro di emozioni. Costruivo un paradiso di matte aspirazioni, di sogni, e ne cercavo il riflesso negli occhi scintillanti di quelle belle dame — e quando le vedevo parlare e ridere sbadatamente, agitando il ventaglio o aggiustando il fisciù, provavo una molesta sensazione, e mi scuotevo bruscamente, come se m’avessero svegliato di soprassalto da un sogno delizioso.
Vedi, mio caro, quante belle cose ci sono in tre lire per uno spettatore novizio?
Alcuni istanti prima del ballo corse per la folla un mormorio d’aspettazione. Io sentivo come allargarmisi il cuore, e aggiustavo macchinalmente il mio cappello sull’ombrello. Improvvisamente  apparve una scena incantata, riboccante di suoni, di luce, di veli, e di larve seducenti che turbinavano nelle ridde più voluttuose, come una fantasmagoria di sorrisi affascinanti, di forme leggiadre, di occhi lucenti e di capelli disciolti. Poi quando quella musica fu più delirante, quando tutti gli occhi erano più intenti, e tutti gli occhialetti si affissavano bramosi sulla scena, corse un nuovo susurrío: Eva! Eva! — e in mezzo ad un nembo di fiori, di luce elettrica e di applausi apparve una donna splendida di bellezza e di nudità, corruscante febbrili desiderii dal sorriso impudico, dagli occhi arditi, dai veli che gettavano ombre irritanti sulle forme seminude, dai procaci pudori, dagli omeri sparsi dei biondi capelli, dai brillanti falsi, dalle pagliuzze dorate, dai fiori artificiali. — Diffondeva un profumo di acri voluttà e di bramosie penose. Guardavo stupefatto, colla testa in fiamme e vertiginosa; provavo mostruosi desiderii, e invidie, e scoramenti, e alterezze per la mia arte che sentivo abbassarsi sino ai miei desiderii, e pel mio ingegno che mi pareva si elevasse sino a guardarla faccia a faccia, e in fondo a tutto questo un amaro rammarico di trovarmi in quel meschino posto in platea, e senza guanti. Poi tutta quella visione scomparve in un lampo di luce e in un’onda di musica. Tutto tornò buio. Rimasi ancora come sognando, con quei suoni negli occhi, e quelle larve davanti agli occhi. Mi alzai quando gli altri si alzavano; uscii barcollando, urtando nel vestibolo tante belle signore e calpestando tante code, rischiando venti volte di gettarmi sotto i piedi dei cavalli in istrada. Quella notte non potei dormire; mi sentivo come se avessi tutti i nervi agitati; avevo bisogno di sfogarmi in qualche modo delle mie pressioni, e giacchè mi parve che il pennello non avrebbe potuto esprimerle tutte, mi misi a scrivere un vero delirio, un sogno da febbricitante, però senza pretese, e senza altro scopo che quello di accendere il fuoco quando avrei avuto freddo.
Ahimè! la stagione era mite; il caldo del cuore durava ancora troppo per lasciar sentire il freddo alle membra — ecco perchè quello scritto, che non raggiunse il suo scopo di comunicare la fiamma alle fascine del caminetto, arse il mio cuore e consunse la mia vita.





Un mio amico, appendicista molto conosciuto, veniva spesso a trovarmi — eravamo giovani, artisti entusiasti, matti del pari — poi fumavamo spesso la pipa insieme, e digerivamo la gloria di là da venire. Il mio cuore, o piuttosto la mia immaginazione, aveva bisogno di espandersi; gli parlai delle impressioni ricevute con tanto calore, che egli volle leggere il mio scritto, e lo trovò bello. — Dammelo, mi disse, voglio farti amare da quella donna.
— Eh?! risposi come sbalordito da quell’enormità.
— Che ci trovi d’impossibile? la donna è cosí vana! e la ballerina ha tanto bisogno di simili entusiasmi che facciano la réclame, e si comunichino agli altri!
— Oh! amarmi! lei! amar me!... sei matto!
— Chi lo sa! E poi mi renderai un servigio: mi risparmierai buona parte dell’appendice teatrale che dovrei scrivere; il tuo articolo è proprio bello; me ne farò onore.
E lo portò via diffatti, e la sera dopo trovai in camera il giornale ed una letterina del mio amico.
«Non te l’avevo detto? — mi scriveva, — il tuo articolo ha fatto furore; l’Eva desidera conoscerti. Stasera trovati in teatro, ti presenterò.»
Provai come una fitta al cuore. Presentarmi a lei!... io!... così fatto!... a quella bellezza circondata da tante seduzioni, da tanti splendori, che non avea nulla di terreno!... proprio io!... E in me successe una lotta di mille pensieri diversi, e l’intima soddisfazione ch’ella avesse letto il mio articolo, avesse scorto una parte del mio cuore, e ne fosse lieta, e la ripugnanza di svelare al pubblico e a lei stessa il segreto delle mie impressioni, e il timore che esse fossero giudicate ridicole... Se ella mi trovasse ridicolo?...
Non ebbi neanche un istante il coraggio di pensare ad accettar quell’invito. Eppure ero felice, tutto solo nella mia cameretta, fantasticando cogli occhi fissi sulla fiamma del caminetto. 
A un tratto fu suonato il campanello con violenza, ed io mi scossi bruscamente. Udii nell’andito la voce dì Giorgio. — E così, mi disse entrando, che cosa fai? Non hai ricevuto il mio biglietto? — Sì, ma... — O dunque?... — Ma non verrò.... Non posso venire.... — Eh! che diavolo! Ora che ho promesso di presentarti! Che figura mi fai fare? — Ma capisci.... — Capisco che sei di una timidità ridicola. — Così la paura di un ridicolo scacciò l’altra, e mi lasciai condurre. Alla porta del teatro sentii rinascere più vive che mai le ultime esitazioni e le misi fuori risolutamente; egli le respinse senza ammettere replica e mi prese pel braccio. Infilammo alcuni corridoi poco illuminati e ci trovammo quasi improvvisamente in mezzo ad un caos di ordegni, di assi, di tele dipinte, di scale, tutto polveroso, unto, sudicio, dove stavano a chiacchierare alcuni macchinisti in maniche di camicia, e un pompiere faceva la corte ad una figurante lercia, seduta a cavalcioni su di una seggiola zoppa, — era il rovescio di quel paradiso di tela dipinta e di fiori di carta. Di fuori risuonavano applausi fragorosi che soverchiavano la musica del ballo. Ad un tratto dalle quinte, entrò correndo un leggiadro folletto, tutto involto in una nube di veli, e rialzando la gonnellina appoggiò il piede su di uno sgabello per allacciar meglio uno degli scarpini.
— È lei, mi disse Giorgio; vieni.
Ella levò il capo, ancora tutta rossa e anelante dalla fatica, ci vide e ci sorrise. — Ahimè! un sorriso stanco, distratto, reso sgarbato dalla respirazione accelerata; i capelli le cadevano sul petto senz’arte; alcune stille di sudore rigavano il suo balletto; le sue candide braccia, vedute così da vicino, avevano per la fatica certe macchie rossastre, e nello stringere i legaccioli vi si rivelavano i muscoli che ne alteravano la delicata morbidezza; le scapule si ravvicinavano sgarbatamente, — fin la suola del suo scarpino era insudiciata dalla polvere del palcoscenico. — Ti parlo da pittore: ma anche da pittore ne avevo ricevuto la prima impressione. — Era la silfide dietro la scena, nel suo momento di prosa, in cui non ha bisogno di esser bella, e non si cura di esserlo. Ora è impossibile esprimerti l’effetto che tutto ciò dovea fare sulla squisita e nobilissima sensibilità mia. La farfalla tornava bruco, ed io ne risentivo un dispetto ed una amarezza indicibile.
— Ah, il signore! mi diss’ella sorridendo fra un nodo e l’altro. Le son molto riconoscente del suo articolo.
E siccome io non rispondevo, il mio amico stimò conveniente di dire qualche cosa per conto mio; ella si rizzò tutta rossa, ancora anelante, ed aggiustando i suoi capelli, e le pieghe del suo gonnellino mi affissava co’suoi grand’occhi — erano tutt’altri occhi da quelli lampeggianti ebbrezze e seduzioni mentite che avevano sconvolto la mia ragione; ma ci era un’aria d’insistente e quasi ingenua curiosità che era stranissima.
— Rientro in iscena, disse vivamente e stendendoci le due mani nell’istesso tempo. Mi rincresce non potermi fermare più a lungo. Ma spero che il signore vorrà farmi il piacere di venirmi a trovare....
Ci sorrise e con vivacità piena di grazia spinse all’indietro colle due mani quel fiocco di velo che formava il suo gonnellino, riprese come una maschera il suo sorriso, e disparve.
Rimanevo tristamente là dov’erano svanite le mie illusioni.
— Che te ne sembra? domandò Giorgio.
— In fede mia! non valeva proprio la pena di venir qui a sciupare i bei frutti delle mie tre lire!
— Che bel matto! avresti voluto essere accolto con una piroetta? E credi forse che la prima ballerina della Pergola non debba far altro che sorrisi convenzionali e gesti aggraziati? Puoi essere ben contento, giacchè ti ha invitato ad andarla a trovare....
— Oh, grazie!
— Saresti capace di non andarci!
— Tanto capace che non ci andrò.
— Eh, via! cotesto si chiama viver nelle nuvole!...
— Lasciami pure le mie nuvole così belle — perchè tutto il resto è così brutto!
— Amen! rispose Giorgio in tuono derisorio: non te le invidierò di certo!





— Anzi, avevo detto a Giorgio, un altro giorno voglio tornare a vederla, cotesta sirena che abbaglia la ragione collo scintillare delle sue pagliuzze dorate e che irrita i sensi colle sue vesti vaporose, — che getta la febbre nel sangue, e fa scrivere appendici ridicole. Voglio ridere di me anch’io, giacchè ne hanno riso gli altri, e lei per la prima!
— Si direbbe che nella tua ironia c’è molta amarezza!
— No! c’è del dispetto!... C’è il dispetto di aver visto il mio cuore ginocchioni dinanzi a cotesta dea che si allaccia le scarpe come l’ultima donnicciuola...
Giorgio quest’altra volta era accanto a me, in teatro, e guardava con occhi spalancati quella donna circondata dagli stessi splendori, e irradiante le medesime ebbrezze, e quasi volesse rispondermi colla sua ammirazione indignata dal mio  sarcasmo, esclamava, come fra di sè: — Perdio!... com’è bella! perdio!...
— Oh! sì! sì! gli risposi, ed è qualcosa che irrita, che fa dispetto, questa bellezza alla cui presenza il cuore si contorce come di spasimo, e la ragione diventa vigliacca, — cotesta profanazione del bello che, sorridente e non curante, calpesta colle scarpine di raso tutto quello che abbiamo creduto puro e santo — la donna, l’amore, l’ideale. — Vedi, essa mi ha messo la febbre nel sangue, ed io mi sento come schiaffeggiato.
— Mio caro, esclamò Giorgio uscendo fuori dei gangheri, qualche volta io credo che tutte le nostre creazioni rachitiche non valgano un capello della schietta e reale bellezza fisica.
— Ah! sì, per esempio, cotesta vale tre lire.
— Oh!
— Sì, ella vende per tre lire le sue spalle, il sue seno, le menzogne de’ suoi sguardi, i baci del suo sorriso, il suo pudore, per tre lire — a me, a te, a quel grasso signore che la guarda coll’occhio imbambolato dal vino, a quel giovane che le getta in faccia i suoi sozzi desideri con  esclamazioni da trivio, a quell’elegante annoiato che fissa su lei il suo cannocchiale distratto dal fondo del suo palchetto, a quella signora che non si fa pagare la sua seminudità, ma che la guarda con disprezzo, — tutto ciò non vale che tre lire – ella ebbra, procace, in mezzo a gente che ha la testa a segno, e qualche volta il sorriso o la curiosità insultante!... Nelle medesime condizioni la cortigiana ha su di lei il vantaggio di aver di faccia un uomo abietto e ridicolo del pari.
— Ella ha udito tutto quello che hai detto di lei! rispose ridendo Giorgio, che da qualche istante non mi dava più retta.
Io trasalii. — Spiegamene tu il motivo se puoi.
— Davvero? esclamai come se fosse stato possibile.
— Sì. Non vedi come ci guarda?
Allora mi accorsi che anche la mia sorpresa e la mia credulità erano ridicole, e giacchè mi sentivo umiliato, senza sapere il perchè, ammutolii.
Giorgio era partito prima di me. Quando fui per uscire mi si avvicinò un inserviente del teatro, e mi porse un biglietto.
— A me? esclamai sorpreso.
— Sissignore, mi fu ben indicato.
— Da chi?
— Dalla signora Eva.
— Eh?!...
— Che l’aspetti nel vestibolo. Verrà fra mezz’ora.
La mia sorpresa era tale che non potei metter fuori una sola delle interrogazioni che mi si affollavano in mente.
Apersi il biglietto e lessi:
«Non siete venuto; perchè? Se volete accompagnarmi dopo il ballo, aspettatemi nel vestibolo.»
Rimanevo come sbalordito dalla sorpresa, leggendo e rileggendo quelle due o tre righe, sentendomi serpeggiare fiamme ignote per le vene, provando improvvisi e inesplicabili turbamenti. Gli spettatori, gli artisti, gli impiegati del teatro erano tutti partiti gli uni dopo gli altri; i lumi erano stati spenti; non rimaneva che qualche fiammella di gas pei corridoi, e il lampione di un fiacre che si riverberava sull’invetriata del vestibolo. Avrai osservato come in certi momenti  eccezionali un oggetto insignificante assorbisca tutta la nostra attenzione e s’inchiodi nel nostro cervello. — Quel lume che brillava al di fuori esercitava una specie di fascino sui miei occhi e sembrava mi penetrasse sino al onore con un raggio di fuoco. Non sapevo da qual parte ella sarebbe venuta, e al menomo rumore che sentivo su per le scale o pei corridoi, il sangue mi si rimescolava tutto. Venti volte provai una gran tentazione di scappar via. — Avevo paura, ecco!
Udii un leggiero fruscìo di seta dietro di me. Uscì dall’ombra del corridoio una donna tutta  infagottata nelle sciarpe, nelle pelliccie, e col velo dinanzi al viso; attraversò con passo leggiero il vestibolo; passò la sua mano sotto il mio braccio senza dirmi una sola parola; spinse l’usciale, e mentre raccoglieva lo strascico della sua veste per montare in carrozza, mi disse con voce soffocata sotto il cappuccio ed il velo: — Venite.
Appena fui seduto al suo fianco calò il cristallo, sporse il viso in fuori ed ordinò al cocchiere:
— Ai colli.
Poscia sollevò il cappuccio che le veniva fin sugli occhi, gettò il suo velo all’indietro, e si volse a guardarmi fisamente, coi suoi grandi occhi azzurri spalancati, senza dir motto, con un’aria di curiosità insistente, e quasi fanciullesca. Erasi sdraiata in un angolo del legno, col capo rivolto dalla mia parte; sembrava assai stanca, e faceva scorrere quell’occhio curioso su tutta la mia persona dal capo alle piante. A un tratto si rizzò sulla vita, e mi domandò semplicemente:
— Come vi chiamate?
— Enrico Lanti.
— Quanti anni avete?
— Venticinque.
— Siete da molto tempo in Firenze?
— No, da due mesi.
— Ci resterete ancora del tempo?
— Tre o quattro anni.
— Io partirò in giugno, mi disse con una lieve tinta d’ingenua malinconia.
Aveva la voce sonora, di quella sonorità, ch’è dolce come una musica.
E s’abbandonò sui cuscini, appoggiò la testa all’indietro e chiuse gli occhi; sembrava che dormisse.
La notte era tiepida e rischiarata da un bel lume di luna. Sentivo accanto a me quel respiro lievissimo come quello di una bambina; di quando in quando, a seconda delle svolte che faceva il legno, un raggio di luna passava dallo sportello e gettava dei capricciosi chiaroscuri su quei viso così bianco da sembrare diafano, su cui svolazzavano, pel vento che veniva dal di fuori, alcuni ricci biondi così fini e leggieri che sembravano delle vaporose piccole ombre cenerine. Credevo di sognare. Ero proprio io! dentro quel legnetto! sotto quel mucchio di velluto e di seta c’era proprio lei!
— Perdonatemi; mi disse ella, dopo alcuni minuti di silenzio, senza nemmeno aprire gli occhi, sono molto stanca! E tutte le sere di solito mi riposo così un pochino.
E siccome volevo rialzare il cristallo che avea lasciato aperto, mi disse:
— Lasciatelo così. La sera è bella!
— Ma vi farà male.
— No, anzi!
Sporse la testa fuori dello sportello e respirò con forza.
— Mio Dio, come fa bene!
E rimase immobile, guardando lungamente al di fuori.
A un tratto si volse verso di me, e mi disse quasi bruscamente:
— Perchè non siete più venuto a trovarmi?
Ero imbarazzato a rispondere, ed ella seguitò, senza attendere la mia risposta:
— Siete poeta?
— No, son pittore.
— È lo stesso, siete artista! mormorò, e mi affissò a lungo coi suoi grand’occhi lucenti; così a lungo che il mio imbarazzo si faceva visibile.
— Voi mi avete trovata brutta, — esclamò con tutta naturalezza, rompendo improvvisamente quel silenzio che sembravami eterno, benchè non durasse da due secondi. — Oh, non mi dite nulla, soggiunse con un grazioso movimento del capo; è così!
E si tacque nuovamente, guardò al di fuori, si passò a più riprese le mani su quei ricci ribelli, e di quando in quando mi affissava sempre con quello sguardo insistente.
— Di dove siete? mi domandò.
— Son siciliano.
— È assai lontana la Sicilia?
— Sì.
— Più lontana di Napoli?
— Sì.
— Avete visto il S. Carlo di Napoli?
— No.
— Io ci andrò forse in dicembre.
Era una conversazione bizzarra, in cui le parole avevano tutt’altro significato di quello letterale, e nell’accento della voce erravano certi suoni che ricercavano le più intime fibre del cuore.
— È vero che i Siciliani sono gelosi? mi domandò dopo qualche istante.
— Nè più nè meno degli altri.
— Voi non siete geloso?
— Non lo sono mai stato.
— Non avete amato?
— No.
— Giammai?
— Giammai.
Mi affissò alcuni istanti e riprese:
— Siete innamorato dell’arte vostra?
— Sì.
— Come di una donna?
— Come di una donna.
— Come lo sapete se non avete mai provato l’amore della donna?
Parve sorpresa ella stessa della sua scappata, e soggiunse, quasi per non darmi il tempo di rispondere:
— Come siete fatti voialtri artisti!
Nuovo silenzio, oscillante di vibrazioni arcane, e pieno di turbamenti misteriosi.
— Ho conosciuta molta gente, ma non un artista, diss’ella. Dicono che sono così matti. Vi ho guardato con curiosità per questo. Ve ne siete accorto.
— Sì.
— Ma non ho visto nulla! Vi credo troppo superbi per lasciarvi scorgere... Avrei una grande curiosità di leggervi in cuore le vostre stranezze. Vi guardo quasi come un animale curioso.
E rideva schietta, ingenua, scoprendo i suoi piccoli denti bianchi e lucidi.
— Non vi faccio paura? le dissi ridendo.
— No!... No! rispose stringendomi la mano. Siete stato così buono verso di me!
Sembrò esitare qualche istante, e all’improvviso mi disse con vivacità:
— Ditemelo francamente: Voialtri non vi montate la testa da per voi quando pensate tante belle cose di una donna?
— No.
— Davvero?
— Davvero.
— Ah! com’è bello quello che avete scritto di me! esclamò battendo le mani con gioja infantile, m’ha fatto tanto piacere!
La sua vanità, era così sincera, così ingenua, direi ch’era quasi commovente. Abbandonava fra le mie le sue mani senza guanto, quella piccola mano affilata, tiepida, colla pelle fine come il raso.
— Che sciocca sono stata a farmi vedere da voi così brutta! soggiunse. Non me lo son mai perdonato! La colpa è mia. Vi ho letto in cuore come su di un libro aperto... avete dovuto odiarmi...
Mi strinse la mano, come per proibirmi di rispondere; mise la testa fuori lo sportello e soggiunse come parlando a sè stessa:
— Rincresce davvero l’aver sciupate coteste illusioni... anche delle illusioni!...
— Guardate! esclamò con infantile vivacità poco dopo tirandomi per la mano, guardate com’è bello!
Misi anch’io la testa allo sportello. Il legno correva pei deliziosi viali dei colli; l’alito di lei mi sfiorò il viso, e un brusco movimento della carrozza spinse il suo volto sul mio.
— Oh! esclamò sorridendo e arrossendo, e buttandosi vivamente indietro. — Che bella sera! Vogliamo scendere?
Saltò a terra leggiera come un uccelletto, e siccome la notte era freddina, si strinse al mio braccio.
— Che bel freddo! esclamò ridendo e rabbrividendo con tanta grazia, che mi comunicò il brivido delle sue membra. Corriamo!
E corremmo come due fanciulli, ella posando appena i suoi piedini sul suolo, compiacendosi del fruscio della sua veste, e tirandosi sul viso il mantello che il vento gonfiava.
— Oh, com’è bello! esclamava quando non tremava dal freddo. Oh! che bella sera! — E i suoi piccoli denti scricchiolavano.
Quando fummo in carrozza ella chiuse tutti i cristalli e ai rannicchiò in un angolo del legno tremando e ridendo a sbalzi: — Mettetevi vicino, mi disse; ho freddo.
Le misi un cuscino sotto i piedi, e di sopra il mio paletò.
— Ma voi avrete freddo! diss’ella. Facciamo a metà.
Tirò indietro i suoi piedini e gettò sulle mie spalle metà del suo mantello di velluto.
— Eccovi metà del manicotto, soggiunse; avete le mani gelate! Che piccole mani avete, signore!
E poscia con un sospiro tutto gajo: — Ah! come si sta bene così!
Sentivo il suo corpicino delicato, tremante,  raggomitolato in un cantuccio, e che mi mandava sul viso il suo alito tiepido e profumato.
— Che avete che non parlate? mi disse dopo un breve silenzio.
— Nulla.
— Siete contento di questa passeggiata?
— Sì.
— Anch’io! esclamò, e un istante dopo, con quella sua bizzarra mobilità di pensiero: — Fate anche dei ritratti?
— Sì.
— Volete fare il mio?
— Sì.
— Mi farete bella?
— Come siete.
— Vi piaccio?
— Assai!
— Anche voi mi piacete.
Tutto ciò con tal franchezza e tal semplicità come se fossimo fratello e sorella, o fosse la cosa più naturale del mondo.
— Ebbene, che fate adesso? mi disse vedendomi sedere in faccia a lei.
— Ho bisogno di guardarvi in faccia!...
Ella sorrise dolcemente, con quello stesso sorriso di piena e schietta ingenuità, piegò la testa all’indietro, socchiuse gli occhi, e schiuse le labbra senza far motto.
E piovve da tutta la sua persona su di me le sue emanazioni inebbrianti.
Poscia scoppiò a ridere allegramente: — Oh! che matti! esclamava. Oh! che matti!... Ma pure è una gran felicità fare i matti di tanto in tanto!... Quanta noja in tutto il resto!
— Anche il teatro? domandai.
— Oh, sopratutto il teatro!
— Allora perchè non lo lasciate?
Ella mi guardò sorpresa, con quei suoi grand’occhi spalancati da bambina, e mi disse ingenuamente:
— Ma è il mio mestiere, signore!
— Ah!
— E poi ci son anche dei bei momenti.
— Gli applausi?
— Sì.... in mezzo a tutti quei lumi, e quella musica, e quegli entusiasmi, e si sente d’esser bella....
— Si sente?
— Sì, proprio! Dapprincipio anche cotesto fa una certa paura... a trovarsi così bella e così poco vestita sotto tutti quegli occhialetti che luccicano... l’è qualcosa che fa piacere e fa soffrire. Poscia quei sorrisi, quegli occhialetti, quelle grida, quelle mani inguantate che si sporgono fuori dei palchi montano alla testa come una febbre. E poi c’è anche una grande soddisfazione d’amor proprio.
— E quale?
— Quella di sentirci dire da tanti signori eleganti che siamo più belle di quelle grandi dame superbe che ci guardano sdegnosamente come cagnolini ammaestrati.
— Ah! le visite sul palcoscenico?
— Sì, e anche in casa.
— Vi piacciono?
— Sì, ce ne son di quelle che piacciono.
Diceva tutto questo guardandomi tranquillamente negli occhi, con una grand’aria di semplicità e di naturalezza.
— Che cosa avete, che non dite più nulla?
— Proprio nulla!
— Vi dispiace che vi abbia detto queste cose?
— Oh, no!
— Perchè fra le visite che mi piaccion c’è la vostra. È vero che non me ne avete fatte, ma me ne farete.
— Oh, no.
— Come no? Perchè?
Ella aspettò lungamente la mia risposta, e riprese con la voce dolce ed il fare insinuante di un bambino che teme di aver torto:
— Ma se chiudo la porta in faccia a tutti quei signori sarò fischiata... E allora a voi pel primo non sembrerò più così bella...
C’era tanta sincerità, tale accento di verità, nella sua voce, che non seppi che cosa rispondere a quella osservazione, di cui la cruda verità mi spezzava il cuore. Anche lei s’era fatta pensosa, e teneva il capo chino fra le mani.
La carrozza si fermò; ella s’affacciò allo sportello, e mormorò: — Diggià!
— Volete tirare il campanello del primo piano? mi disse.
Al primo piano c’erano le finestre illuminate.
— C’è gente da voi!
— Sì, mi rispose semplicemente, e prese la mia mano.
Si era fatta improvvisamente triste. Erano le due del mattino; la carrozza era partita; la strada era deserta e vivamente rischiarata dalla luna; noi rimanevamo soli, davanti a quella porta, come un commesso ed una sartina che fanno all’amore di nascosto.
— Verrete a trovarmi? domandò.
— Forse.
— Perchè forse? non potete promettermelo?
— Temerei di mancare!
— Ah! temete diggià di mancare!
Mi scosse la mano, dopo un breve silenzio, e ripetè con voce quasi supplichevole:
— Venite a trovarmi!
— Verrò.
— Ah! bravo così! Domani?
— Domani.
— Verrete a prendermi dopo il ballo?
— Se lo volete...
— Ma non lo voglio! Mi farete un piacere, ecco!
— Ebbene, sì.
— Addio dunque.
E scomparve nell’andito. Avevo fatto una ventina di passi quando udii che mi chiamava per nome. Era la prima volta che udivo il mio nome in bocca sua, e mi parve che mi rimescolasse tutto il sangue. Mi rivolsi — era ancora sulla soglia, e la luna l’irradiava tutta.
— Dove abitate? mi domandò semplicemente.
— In Santo Spirito, — e le dissi anche il numero.
— Che piano?
— Il terzo, l’ultimo.
— Buona sera! — e stavolta partì davvero.





Rimanevo estatico, come inchiodato dinanzi a quella porta, respirando l’aria fredda della notte a pieni polmoni. Sentivo un’esuberanza di vita quasi dolorosa, che mi dilatava e mi comprimeva il cuore a vicenda. Mi pareva che ella dovesse guardarmi dietro i vetri, e quelle finestre illuminate, dinanzi alle quali passavano tutt’altre ombre che la sua, mi abbacinavano gli occhi. Sì, ero geloso di quegli uomini che l’aspettavano in casa sua, alle due del mattino, e li vedevo belli, orgogliosi e sorridenti, rubarmi le sue parole, la sua vista, e la felicità. Vidi come un baleno dell’avvenire: mi trovai povero, solo, meschino, ridicolo, abbandonato su quella soglia, tremante di freddo e divorato dall’invidia! che cos’ero io per disputare quella donna a quegli uomini felici? Provai dispetto, vergogna, gelosia rabbiosa; sentii che la vertigine di quella sera mi strappava violentemente da tutte le mie affezioni, e mi gettava nell’ignoto. Ebbi paura, e l’orgoglio mi diede la forza di giurare che mai più avrei riveduto quella donna, la quale sarebbesi vergognata di confessare il suo amore per me.
Non dirò che il mio giuramento non mi costasse, e molto; ma ebbi la forza di mantenerlo — per invidia, per dispetto, per orgoglio, per gelosia... non lo so...





Il giorno dopo, nell’ora in cui avevo promesso di andarla a trovare, combattei una lotta terribile. Venti volte fui sul punto di uscire, di correre a buttarmi ai suoi piedi. Mi afferrai a due mani a tutte le mie più dispettose passioni, e non mi mossi... e se piangevo ero felice che nessuno mi vedesse piangere.
Così suonò un’ora. Allora respirai con forza, come se avessi superato una gran prova.
Faceva freddo. Di fuori un vento impetuoso scuoteva le imposte e gemeva per le strette viuzze di oltr’Arno. Guardavo i rari fiocchi di neve che svolazzavano sui vetri con una strana compiacenza, e pensavo alla mia famiglia lontana, e a tutte le tranquille gioie che avevo abbandonato per correre dietro a larve affascinanti; mi sentivo invadere da cento ispirazioni gigantesche, e sognavo tutte le ebbrezze della gloria.
All’improvviso fu suonato vivamente al mio uscio. Saltai sulla seggiola come se il filo del campanello fosse stato attaccato al mio cuore. Presi un lume e andai ad aprire tutto tremante, come se attendessi una disgrazia; indietreggiai stupefatto.





Era Eva tutta imbaccuccata, pallida e tremante dal freddo, e che mi guardava con certi occhi dove avrei giurato che ci fossero delle lagrime.
Mi aspettavo rimproveri, scene drammatiche: non fu nulla di tutto ciò. Ella entrò, sedette accanto al camino spento, e mi disse tranquillamente:
— Non siete venuto!
— Voi!
Ella sorrise dolcemente. Aveva gli stivalini tutti coperti di neve.
— Siete venuta a piedi?
— Sì.
— Perche?
— Non so. Avevo bisogno di farmi perdonare l’altra sera.
E si sforzava di non tremare, e di non far scricchiolare i suoi dentini, come se avesse temuto di rimproverarmi il freddo glaciale che regnava nella mia cameretta. Sebbene cotesta delicatezza mi commovesse, io ero tutto vergognoso pel mio camino spento, pei miei mobili più che modesti, e pel mio vecchio mantello che avevo gettato su di una seggiola.
Ruppi il cavalletto, e accesi il fuoco nel camino.
Ella sorrise; aveva le labbra violette, e stese le sue manine tremanti sulla fiamma che le rendeva quasi trasparenti.
— Oh! che bel fuoco! esclamava.
Io m’inginocchiai ai suoi piedi; asciugai i suoi stivalini con un lembo del mio mantello, e poscia glielo stesi sotto i piedi a guisa di tappeto. Ella mi lasciava fare ridendo come una bambina; guardava all’intorno con curiosità, e mi sembrava che in cotesta curiosità così espressa, non ci fosse più nulla di mortificante pel mio amor proprio.
— È la vostra camera? mi domandò.
— Sì.
— Come siete felici voi altri artisti! Quanti bei sogni dovete aver fatto fra queste pareti!
Oh! il bel sogno che era la sua leggiadra figurina, col sorriso dolce, gli occhi umidi, le bianche mani incrociate sulle ginocchia, e la veste bruna che si spiegava mollemente sulla persona come carezzandola, là, in quel povero angolo della mia cameruccia, illuminata dalla fiamma del mio camino!
Ella aveva capricci improvvisi, bizzarri, dietro ai quali si smarriva volentieri il proprio buon senso, come dietro al sorriso di un bambino. — Fatemi vedere! disse — e si mise a rovistare in tutti gli angoli, in tutti i miei disegni, in tutti i miei cartoni, ponendo tutto sossopra, scappando in mille ingenue esclamazioni, facendomi mille domande prive di senso ma piene di grazia. — Oh! bello! esclamava. Oh! bello! — seguitando a metter tutto a soqquadro, e battendo le mani dinanzi alle mie tele.
— Come fate a creare tutte coteste belle cose? mi domandò facendosi seria, — e senza aspettare la mia risposta: — Regalatemi qualche cosa.
— Scegliete voi stessa.
— Datemi quel paesaggio. È una spiaggia di mare?
— Sono I Ciclopi.
— Che cosa sono I Ciclopi?
— Si chiamano così certi scogli giganteschi sulla spiaggia di Aci-Trezza.
— In Sicilia?
— Sì.
— Oh, come son belli!
Prese un pennello, e sul margine della tela scrisse:
«Eva — 22 Marzo.
— Così ci avrò lavorato anch’io! mi disse con quel suo vago sorriso. E poscia facendosi seria:
— Voi altri dovete crearvi un paradiso dappertutto!
Girò all’intorno uno sguardo sorridente e riprese:
— Son contenta di esser venuta. Così ho visto il vostro nido.
Il suo sguardo cadde sul modesto lettuccio, e sorrise vagamente senza dir motto. Poi tornò a sedersi accanto al fuoco, con un atto di dimestichezza carezzevole, e soggiunse guardandomi fiso:
— Sì, son contenta di esser venuta; ma mi avete pur dato un gran dispiacere!
— Perdonatemi!
— Oh, non ho nulla da perdonarvi. Non vi ho nemmeno domandato perchè non siete venuto. Quando non vi ho visto all’uscire dal teatro, ho subito indovinato il motivo che vi faceva mancare alla vostra promessa... e son venuta.
Mi stese le mani, mi guardò negli occhi sorridendo, e soggiunse:
— Siete ancora geloso?
— Oh... no!
— Mi amate molto?
— Mi par d’impazzire.
— Molti m’hanno detto la stessa cosa.
— Oh, Eva! quali parole dite!
— Ma a voi vi credo. Dovete amarmi così. Oh, Dio mio! com’è bello essere amata così! Ho  dovuto piacervi molto per farvi pensare di me a quel modo... Se sapeste che cos’è per una donna il sapere di aver tanto piaciuto! Quanto durerà cotesta impressione in voi? Chi lo sa! Ma non importa. È pur dolce l’averla destata, anche per un momento solo! Anch’io vi amo.
— Voi! voi!
— Sì, vi amo perchè vi piaccio tanto.
Mi guardava con tanta serenità, che quelle semplici parole avevano un senso affascinante.
— E poi, in questo momento anche voi mi piacete.
— Ah! in questo momento!...
— Sì; mio Dio, bisogna mentire per farvi piacere? Con voi credevo che potessi aprire il cuore schiettamente. Potreste giurare che mi amerete sempre come oggi?
— Sì! oh, sì!
— Fanciullo! esclamò essa con un tristo sorriso; quanti me lo hanno detto!
— Non mi parlate in tal modo, Eva!
— Che v’importa, se in questo momento non amo che voi! Mi crederete almeno, giacchè sono così franca! Sì, sarà un capriccio, sarà una pazzia. — Vi amo perchè siete ingenuo, perchè non siete ricco, perchè non siete elegante, perchè avete in cuore tutte le follie dell’arte, perchè mi guardate con quegli occhi, e anch’io divento come voi, non mi riconosco più! — Ecco perchè vi amo. Domani forse mi piacerà di più la cravatta di un bel giovane, come a voi piaceranno le mani rosse di una sartina. Avremmo avuto torto perciò di godere insieme questo momento di felicità? O saremmo più stimabili se ci mentissimo oggi con promesse, per mentirci ancora domani con menzogne? Io ne ho amati tanti! Anche voi chissà quante donne avrete amato! Oggi mi piacete, vi piaccio, e son felice di dirvelo, ecco! Domani.... Chi lo sa il domani? Dunque vedete che se vi parlo con tanta franchezza avete torto di essere geloso.
C’era tanta sincerità, direi tanto cuore, in quelle cose dure, che le rendeva affascinanti. Avrei potuto farmi saltare le cervella, ma non avrei potuto abbandonare la mano di quella donna che mi diceva di amarmi in tal modo, facendomi indovinare il giorno in cui non mi avrebbe più amato.
Ella era seduta di faccia a me, dinanzi al camino, e quasi le nostre ginocchia si toccavano; teneva le mani nelle mie, e i suoi piccoli polsi bianchi e rotondi uscivano fuori dalle trine delle maniche; mi guardava sorridente, fiduciosa, con abbandono, felice di espandersi così sinceramente, e di parlarmi del suo cuore, povera e modesta come me. Ella mi disse anche:
— Vedete che vi amo davvero, se ve lo dico qui, quasi al buio, così infagottata, senza che possiate trovarmi bella...
Il fuoco s’era spento. Ella s’inginocchiò dinanzi al camino — ella sì elegante, sì delicata, che avevo visto circondata da tutti gli splendori del lusso, s’inginocchiò dinnanzi al mio povero camino, affumicato e pieno di cenere, e cercò di rianimare le poche bracie. Io andavo attorno per vedere che cosa potessi sacrificare al gran freddo che faceva. Ella si avvide del mio imbarazzo e mi disse:
— Vogliamo andare a prendere il thè?
— Dove?
— A casa mia.
— Ma come? a piedi?
— A piedi, come due scapati. Voi mi darete il vostro mantello.
— Andiamo.
Faceva un freddo da gennajo; le strade erano tutte bianche di neve; ella tremava. Allorchè fummo in piazza d’Azeglio il mio primo sguardo cadde sa quelle finestre del primo piano ancora illuminate. Ella, che si stringeva al mio braccio, lo sentì trasalire, e lo premette leggermente come per attaccarsi a me.
— Non ci ho colpa, vi giuro! esclamò con voce supplichevole. Speravo che a quest’ora fossero partiti!...
Mi prese per mano, come un bambino, e mi fece salir le scale appresso a lei.
— Zitto! mi sussurrò all’orecchio. Non voglio che vi vedano; spegnete il gas.
Io girai la chiavetta. Eravamo al bujo, e sentivo il profumo del suo fazzoletto, il soffio del suo respiro; ella cercò tastoni il campanello e suonò quasi timidamente. Venne ad aprire una leggiadra cameriera; Eva le disse all’orecchio qualche parola, mi spinse in un andito, e  scomparve senza far rumore da un altro uscio a vetri.
La cameriera mi fece entrare in una stanza da letto, debolmente illuminata, e scomparve anche lei.





La camera era piccola, ed imbottita di seta bianca come un elegante scatolino. In un canto c’era un letto tutto velato di trine — con certe cortine diafane che sembravano i vapori di un sogno d’amore, e lasciavano trasparire certe coperte color di rosa, di cui la seta sembrava carezzare l’epidermide, e nascondere nelle sue pieghe scrosci di risa soffocate, di risa virginee. C’era un profumo singolare in quella camera, un profumo di cosa viva, un profumo di donna, e di donna elegante. C’erano in tutti gli angoli quei piccoli oggetti che luccicano e che hanno forme e colori leggiadri leggiadri. C’erano negli specchi come il riflesso di chiome bionde, come il lampo di occhi lucenti e di sorrisi giovanili; vi si riverberavano ombre leggiere, colori delicati; il moto dell’orologio era silenzioso; il tappeto era spesso, bianco, e carezzava i piedi.
Nell’altra stanza si udivano delle voci di uomini e di tanto in tanto delle risa allegre. Si udì anche per qualche istante il suono del pianoforte, e ad intervalli la voce di Eva, fresca, spensierata, giuliva. Poi si udì un rumore di tazze smosse.
Improvvisamente una luce più viva invase la camera, ed entrò Eva.
Ella corse verso dì me: mi afferrò improvvisamente il capo, senza dire una sola parola, e mi diede un bacio.
— Ecco il tuo thé! mi disse.





E quand’io la baciavo, quand’io la soffocavo di carezze deliranti, ella metteva un piccolo grido — un grido pieno d’amore e di voluttà.
— Ahi! mi fai male! esclamava.
Si svincolò ridendo dalle mie braccia; mi guardò fiso, con quegli ardori negli occhi, stendendo le mani per tenermi discosto, ed esclamò:
— Come sei bello! Come devi amar tu! — Vieni, soggiunse sottovoce, prendendomi per la mano. Zitto! vien qui! accanto a me!
Lisciava i miei baffi, arruffava i miei capelli e li intrecciava coi suoi; mi prendeva la testa fra le mani per guardarmi a lungo negli occhi, e mormorava:
— Bambino! bambino mio bello!
Ad un tratto si fece seria; mi affissò con certi occhi attoniti, e mi disse:
— Mi pare di amarti davvero — guarda!
Saltò dalle mie ginocchia come un uccello, corse all’uscio, e girò la chiave.
— Buona notte, signori! disse, e volgendosi verso di me, con uno scroscio di riso infantile: — Se ci vedessero!
Si udì uno scoppio di voci e di recriminazioni al di là dell’uscio.
— Ho sonno! ripetè Eva. Buona notte!
— Che imbecilli! soggiunse quindi, si credono in diritto di annojarmi anche quando sono felice!
Stette ad ascoltare, e ripigliò dopo alcuni istanti:
— Se ne vanno; finalmente! Verrai domani, non è vero?
— Sì.
— Alla stessa ora. Mi aspetterai in teatro?
— Sì.
— Anzi fai così: m’aspetterai in fiacre, in piazza Santa Maria Nuova. Verrò a trovarti io stessa. Prendi il fiacre numero nove; mi piace il numero nove; è la data del giorno in cui mi hai conosciuta. Ora che farai?
— Come vuoi ch’io te lo dica se non lo so... se non ho più testa, se ho la febbre!...
Ella aveva i capelli disciolti, e me ne sferzava il viso con certi movimenti felini. — Ebbene, mi disse, se hai la febbre vai a casa.
— No, starò a vederti dormire!
— Eh?!
— Starò a guardare le tue finestre, e ti vedrò dormire.
Ella sorrise in modo inesprimibile, e mi avventò un bacio come un morso.
— Birbone!
Scostò colle sue mani i capelli della mia fronte; mi guardò con certi lampi abbaglianti negli occhi — mi guardò a lungo così, tenendomi la fronte fra le mani — e poscia, come rispondendo a sè stessa:
— Vattene! mi disse, vattene! e non mi lasciava, e sporgeva verso le mie le sue labbra sitibonde, e chiudeva gli occhi.
Mi richiamò di nuovo, quand’ero sulla soglia dell’uscio. — Dammi qualche cosa di tuo, mi disse: dammi il tuo fazzoletto.
E poscia un’altra volta:
— Aspetta! voglio che anche tu pensi a me.
Si staccò dal seno uno spillo d’oro, e mi punse leggermente sulla mano.
— Bravo! esclamò dandovi su un bacio. Ora vattene. Addio!
Attraversai l’andito al buio, e andavo tastando tastando tutte le serrature dell’uscio, senza trovar modo di aprirle.
Al di là dell’altro uscio udivo un fruscìo di vesti e di passi, come se Eva andasse e venisse per la camera. Quella situazione sì prolungava, e cominciava a farsi imbarazzante. Non potevo tornare indietro, e non potevo chiamare la cameriera. Tutt’a un tratto udii uno scoppio di risa fresco, gajo, argentino, uno scoppio di risa che mi chiamava per nome, e comprendeva tutte le mie follie. Mi trovai, non so come, sull’uscio della sua camera; sollevai la portiera, e vidi quella leggiadra testolina che si affacciava fra le cortine del letto incorniciata dai biondi capelli e dai candidi merletti, e saettandomi il delirio del suo sorriso, le ebbrezze dei suoi sguardi, e il fascino del suo silenzio.





Io non saprei dirti quanto durasse cotesto sogno febbrile, e quello che io vi provassi. Avevo in seno tutte le gioie, tutti gli entusiasmi, tutte le frenesie, e mi soffocavano. Sembravami che il cuore mi si dilatasse talmente, per tanta piena d’affetti, che il mio petto non bastasse a contenerlo. Provavo nello stesso tempo tal fastidio di me! tal rimorso! un non so che come un dolore pungente. Sentivo ch’ero tremendamente felice. Passavo i giorni sognando ad occhi aperti, alla finestra o presso il camino o gironzando per le vie, senza vedere, senza udire, senza pensare, e la notte divoravo avidamente tutte le ebbrezze. Partivo da lei all’alba, di nascosto, come un ladro che viene dal rubare il paradiso.
Provavo sgomenti inesplicabili; di tratto in tratto il cuore mi palpitava di gioje improvvise, acri e dolorose; sentivo arcane ed infinite ispirazioni artistiche che non avrei neppur tentato di esprimere, e impotenze desolanti.





Ella mi amava veramente. Quell’amore sarà stato un capriccio, ma in quel momento era sincero. Le arrecava paura e diletto. Delle volte mi guardava timidamente, e all’improvviso mi saltava al collo, ebbra anch’essa d’amore. Aveva certe strane curiosità di sapere come fosse fatto il mio cuore che l’amava in tal modo. Mi chiudeva gli occhi colle mani, metteva la sua bocca nella mia per sentire come fosse caldo il mio alito, ed appoggiava l’orecchio sul mio cuore per udire come battesse. Mi voltava e rivoltava in tutti i sensi, scomponeva i miei capelli, e quando l’affissavo a lungo negli occhi, li chiudeva con un piccolo grido di paura.
— Se avessi saputo di doverti amare così, mi diceva, non ti avrei più cercato. — Mi fai male!





Delle volte voleva che le suonassi al pianoforte la musica dei suoi balli, ed ella m’appariva improvvisamente dinanzi nel suo leggiadro costume, e spiegava attorno a me tutte le seduzioni — per me! per me solo! — il sorriso inebbriante, gli sguardi pieni di promesse, i capelli disciolti, il seno palpitante — e tutte le volte finiva saltandomi sulle ginocchia, e annegandomi in un’onda di velo.
— Come ti amo! mi diceva. Come ti amo!





Un giorno mi disse, quasi paurosa:
— Come farò a non amarti più?





E un’altra volta:
— Sai ch’è più di un mese che ti amo così!
Erano esclamazioni di una commovente ingenuità, ma mi arrecavano aspri dolori.
— Non mi amerai sempre così! le dissi!
— Oh, sempre! mormorò con mestizia. Neanche tu m’amerai sempre così!





In cotesto delirio che si prolungava per tutte le ventiquattr’ore della giornata, capirai facilmente che il mio tenore di vita aveva subito grandi modificazioni. Non lavoravo più, non ricevevo più nessuno, non scrivevo più, nemmeno alla mia famiglia, tranne delle brevissime lettere, ad uso telegramma, e tutte le volte per chieder danaro.
Non puoi immaginare come una tal vita sia divorante per uno che si trovi in quella mia disgraziata condizione, e come divori specialmente il danaro, ch’è la cosa più preziosa. Io non spendevo un soldo per Eva; nemmeno per regalarle un mazzolino di viole, ma provavo mille nuovi bisogni; avevo comperato degli abiti nuovi, avevo bisogno di essere elegante, di lavarmi le mani con acqua di Colonia, di essere bene alloggiato, di desinare da Doney, di portar dei guanti — e tutti questi nonnulla sono enormemente dispendiosi per un pensionato del Comune a cencinquanta lire.
Ohimè! Vorrei credere che fossi pazzo, perchè fui assai vigliacco, perchè fui infame. Io divenni esigente sino all’impossibile verso la mia famiglia — sino a strapparle il necessario per comprarmi delle cravatte. — Non scrivevo altro che per chieder danaro, e mentivo anche l’affezione! Oh, mia povera mamma! Oh, padre mio!... e non arrossivo allorchè vedevo giungere quel danaro che costava tanti stenti ai miei genitori! No! non arrossivo! — E allorchè le mie richieste si fecero più frequenti, più insistenti, vidi le lagrime di mia madre, lo sconforto di mio padre per non potermi mandare più nulla — e non provai altro dolore che la paura di rimaner senza quattrini — e non esitai, no! ad abusare dell’inesauribile affetto paterno fingendomi ammalato, e scrivendo di aver bisogno di danaro ad ogni costo — e non pensai al dolore immenso, alle ansie mortali dei miei genitori che per specularci sopra... Ah! com’ero divenuto, mio Dio! dove avevo la testa? che se n’era fatto del mio cuore?...
Non pensai neanche a morire: non pensai a buttarmi in Arno — avevo bisogno di vivere.
La risposta non si fece aspettare. Ricevetti un vaglia di centoventicinque lire ed una lettera che mi avrebbe lacerato il cuore se non l’avessi avuto di pietra. Mia madre ci aveva aggiunto i suoi scarabocchi e li aveva inzuppati di lagrime; mio padre mi scongiurava di vender tutto quello che possedevo, se quei danari non mi fossero bastati per fare il viaggio, e di ritornarmene a casa, giacchè non poteva mandarmi più nulla.
Riscossi il vaglia e lacerai la lettera.
Ero malato, non è vero? Avevo un’orribile malattia di cervello o di cuore! Ero pazzo!Non ero io!





Alcune volte, quando aspettavo Eva delle ore intere nella sua camera, mentre ella riceveva i suoi numerosi amici, mentre la sentivo ridere e folleggiare nel suo salotto, provavo delle collere sorde ma selvaggie contro di lei. Allora tutte le amarezze che quell’amore mi costava mi sfilavano dinanzi agli occhi. Ero geloso, e mi vedevo ridicolo, nascosto dietro il suo uscio, a divorare in silenzio la mia gelosia. — Alcune volte sembravami che tutta quella gran gelosia non si riducesse ad altro che ad una febbrile impazienza di stringermi Eva fra le braccia. Poi ella compariva, sorridente, inebbriante — la luce si faceva e mi abbagliava.
Ella trovava cento pretesti per venire a stare con me due o tre volte durante quelle visite, e in quei due minuti in cui ella mi saltava sulle ginocchia, aveva tali carezze, tali baci, tali parole da farmi impazzire. Sembrava che gli ostacoli irritassero il suo amore, e gli dessero mille nuove attrattive. Noi ci dicevamo delle cose futili, sciocche, senza significato, sottovoce, tremanti, estatici. — Poi ella mi lasciava con un bacio, e scappava via.





Una volta mi trovò che ridevo.
— Che hai che ridi così? mi domandò.
— Penso alla bella figura che ci fanno quei tuoi amici là mentre tu sei con me.
— Oh, mio Dio!... ma ne ridi in un certo modo!...





Un altro giorno le dissi:
— Senti, Eva, delle volte mi assale la tentazione di entrare all’improvviso in quel salotto, e schiaffeggiare tutti quei bei signori.
— Sei matto?...
— Lo so anch’io. È una pazzia; ma ci avrei gusto — ecco!





Una sera ebbi la tentazione di origliare dietro l’uscio, e di guardare dal buco della serratura. Lo feci con un gran battito di cuore — non di vergogna, ma di paura.
Quand’ella venne da me, mi trovò così pallido e corrucciato, che mi domandò dolcemente che cosa avessi. Io le dissi con amaro sorriso:
— Che persone son quelle, Eva?
— Oh, della miglior società.
— Infatti sembrava che si tenessero molto al di sopra di voi. Vi fumavano in faccia!
— Hai visto?
— Sì, esclamai con un sogghigno dove cercai di mettere tutto il fiele che avevo in cuore.
Ella non mi rimproverò la mia indiscrezione.
— Hai fatto male, mi disse semplicemente facendosi triste.
— Ho avuto torto, lo so.
— Non ti dico ciò per me, ma per te.
— Oh! per me!
— Non ridere, così, Enrico! Ascoltami, se vuoi esser felice, contentati di amarmi e di essere amato come io ti amo. Tu hai il cuore caldo e la mente esaltata; certe curiosità a mio riguardo ti farebbero male.
— Ah! voi lo sapete!
— Sì, rispose tranquillamente, guardandomi con tutta franchezza. Ma che vuoi farci? Tu sai che cosa sono; mi hai amata appunto per questo; ora per essere quella che sono bisogna che io mi rassegni a siffatte visite, anche quando mi annojano.
— Soltanto questo?
— Soltanto questo.
— Oh! non basterà!
— Basterà... perchè ti amo! Hai torto a lagnarti.
Mi guardò a lungo negli occhi con tanto amore, che avrei giurato fosse sincero; mi prese entrambe le mani, e mi disse con serietà — ella che non era mai seria:
— Ti amo ancora, e voglio che tu mi ami. Mi prometti unaa cosa?
— Di’.
— Giurami che non starai ad origliare dietro quell’uscio.
— Ah! mormorai amaramente con un riso ch’era una contrazione dolorosa del cuore.
— Oh, mio Dio! esclamò torcendosi le mani. Che timore potrei avere di essere spiata se volessi ingannarti?
— Perchè non volete dunque che ascolti?
— Perchè... tu l’hai visto... Perchè quelle famigliarità, insolenti che per me sono soltanto una mortificazione d’amor proprio, per te sarebbero morsi acuti di gelosia... Per risparmiarti dei dispiaceri...
— Che m’importa se questi non mi vengono da voi!
Ella lesse nei miei sguardi tutta l’amarezza che non c’era nelle mie parole, chinò gli occhi, e mi disse solamente:
— Come siete ingiusto!
C’era tal suono di verità nella sua voce, e così schietta e dignitosa franchezza nelle sue parole, nei suoi occhi, e nel suo gesto, che mi facevano soffrire orribilmente per tutte le sciagurate contraddizioni della sua vita.
— Sì, lo sento che sono ingiusto! esclamai. Ma soffro orribilmente! Son geloso, Eva! Son geloso di questo tuo disgraziato mestiere; son geloso di tutti quelli che ti vedono, perchè tutti ti desiderano; son geloso di tutti quelli che ti parlano, perchè ti parlano per sedurti...
— Oh! esclamò Eva con uno scoppio di riso schietto e gajo, se sapeste come dovrebbero invidiarvi quei signori di cui siete geloso!
— Non importa; essi vi fanno la corte!
— Oh, non tutti! Ci son di quelli vengono per prendere il mio thé, degli altri per trovare gli amici, altri perchè la mia casa è di moda, altri pur di far sapere che ci vengono.
— Io vorrei che non foste obbligata a ricevere tutte quelle persone, Eva.
— Sono tutti abbonati, giovanotti chic, di quelli che dispongono dell’esito di uno spettacolo — ed io appartengo al teatro.
— Io intendo che la donna che mi ama appartenga a me anzitutto!
— Allora non avresti dovuto innamorarti di una ballerina.
— Oh, io m’innamorai della donna, perdio!
Ella sorrise tristamente.
— La donna la vedesti un momento, nel dietro scena.... e scappasti via.
— Ma io vi amo così, come siete!
— Lo sai tu come sono? Una donna non è che come vuol essere. Sai tu che cosa sarei senza la mia gonnellina corta e le mie scarpine di raso? Sarei una modesta operaia colle dita punzecchiate dall’ago, e con un vecchio ombrello sotto il braccio, una ragazza che potrebbe dirsi bellina se non avesse gli stivalini rotti e il cappellino di traverso — che andrebbe al mercato, farebbe la cucina, e se avesse la fortuna sposerebbe un cuoco o un cocchiere. Ecco che cosa sarei, mio caro; invece ecco che cosa sono; faccio fare anticamera a tanti signori che sarebbero gelosi di te, — e tu che non mi avresti neanche guardato se m’avessi vista andare attorno colle acarpe rotte, tu hai fatto delle pazzie per me. Oh! Io so bene ch’è assai meglio non esser costretti a far buon viso a quelli che sono uggiosi, e a soffrire delle galanterie insolenti. Ma che vuoi farci? Non son nata duchessa!
Venne a sedermi sulle ginocchia; mi cinse il collo delle sue braccia, e mi baciò a più riprese.
— Andiamo, via! non piangere, bambino mio! amor mio! non piangere! mi fai male! Io ti amo davvero, sai! Non ho nulla a sperare da te, anzi potresti nuocermi, vedi che son sincera! Mi credi dunque che ti amo?
— Se tu non mi amassi così io farei una cosa semplicissima, mi ucciderei.
— Ah! no! esclamò dessa con quel suo riso da bambina, tenendosi appesa al mio collo colle mani intrecciate, e dondolandosi sulle mie ginocchia. Non voglio che tu ti uccida perchè sei il mio amore, il mio amore bello! — e nella voce aveva la dolce cantilena con cui si cullano i bimbi.





Alcune sere quelle visite ai prolungavano molto innanzi nella notte. Era un giuoco di scherma fra quei signori a chi dovesse rimaner padrone del campo. Una volta Eva entrò improvvisamente e come se fuggisse; era rossa in viso, e avea le narici dilatate; chiuse l’uscio a chiave, si gettò su di me con passione, e nascose il mio viso nel suo seno, baciandomi sui capelli, come per impedirmi di udire, o per nascondermi qualche cosa.
— Che hai? le chiesi svincolandomi dalle sue braccia, vedendola tutta turbata e colle lagrime agli occhi.
— Nulla! rispose.
Io impallidii, e non osai domandarle altro.





Il giorno dopo ella mi vide così cambiato, che mi domandò anche lei: — Che hai? — E stavolta fui io che risposi: — Nulla!
Ella si fece pensierosa e parlò d’altro.
Passammo quella notte come le altre, soffocando le ciarle infantili sotto i guanciali, e scambiandoci i sorrisi nelle dolci ombre dei cortinaggi; però sentivamo che fra noi due ci era qualche cosa che ci faceva morire il bacio sulle labbra ed il riso in cuore. Ella mi guardava con quei suoi grand’occhi spalancati, col gomito sul guanciale, il mento sulla mano, il braccio trasparente attraverso alla nebbia dei merletti, e i capelli che gettavano onde dorate sui candidi lini. — Aveva degli accessi quasi tristi e paurosi di tenerezza; mi gettava al collo le braccia nude, e mi nascondeva in petto la sua bionda testolina. — Poi mi stava di nuovo a guardare fiso senza dir parola, colla testa affondata nella batista, ed il braccio disteso, mentre le sue piccole dita giocherellavano colla trina della coperta.
Una volta, mentre si parlava di tutt’altro esclamò:
— Come son pazza ad amarti così!
E più tardi, dopo uno scoppio di risa così allegre, così matte, che mi facevano un senso di pena:
— Come farò quando non mi amerai più?
Poi, senza badare a quel che le rispondessi, mi parlò della sua sarta, delle sue vesti, dei suoi cavalli, dei suoi fiori, del teatro, di musica, di balli, mi parlò della mia arte, di me, del mio paese; — giammai ella non mi aveva parlato della mia famiglia: era una circostanza che incominciava a sorprendermi. Era delicatezza? era istinto di gelosia?
Allorchè partivo, sull’alba, ella mi richiamò, mi attirò sui guanciali, allacciandosi tenacemente al mio collo, e mi domandò collo stesso tuono della prima volta, come se tra la prima domanda e la seconda non ci fossero passate tutte quelle ore e quelle follie. — Che hai?
— Nulla.
— Oh, non partire così! esclamò colle lagrime nella voce.
— Perchè me lo domandi? Non mi ami? Non ti amo? Non siamo felici?
Ella appoggiava la testa sul cuscino, rivolta dalla mia parte, e mi affissava senza parlare, coi suoi occhi azzurri pieni di lagrime.
— Credimi, soggiunsi, la nostra curiosità è funesta. Io l’ho capito, e non ti ho domandato altro, quando l’altra sera mi hai risposto nulla.
Ella mi prese le mani e le baciò — le sentii umide di lagrime.
— Non mi ami più! disse.
— Dio lo volesse! esclamai con un’esplosione di tutte quelle ire che mi rodevano da due giorni.
Ella si rizzò a sedere di botto, splendida di  bellezza, sotto la fine batista, come una statua greca, e mi si buttò al collo, coprendomi di lagrime e di baci.
— Sì, tu mi ami! tu mi ami! singhiozzò, ed io pure ti amo come una pazza!
Poscia, tenendosi allacciata a me come l’edera, nascondendo il suo capo nel mio seno, e parlandomi sottovoce, come vergognosa per quello che doveva dirmi:
— Non credi che ti amo?
— Sì!
— Temi che io possa ingannarti per un altro?
— Oh, no!
E chinando maggiormente la testa, e abbassando dippiù la voce, e abbracciandomi più strettamente:
— Perchè quella domanda adunque?
— Perchè ti amo! Perchè son geloso... in un altro modo.
— ... Come?
— Oh!... non lo so!... non te lo dirò mai!
Tuttavia sembrò aver compreso, poichè allentò le braccia, non disse motto, e ricadde sul guanciale, nascondendovi il viso.
— Ascolta! mi disse vivamente, afferrandomi per le mani, mentre ero per partire. Piuttosto che cessare di amarmi... quando lo vorrai... domandami quel che vuoi... Ti giuro che lo farò!





— Non voglio che tu venga a teatro, mi avea detto altre volte.
— Perchè?
— Perchè... perchè... È una fanciullaggine, lo so... ma se sapessi che tu fossi là... in mezzo a quella folla... ciò mi farebbe pena.
Io le fui grato di cotesta delicatezza, e promisi, — e un giorno, la sera della sua beneficiata, con la logica così strana del cuore umano, le domandai di sciogliermi dalla mia promessa. Ella mi guardò sorpresa.
— Perchè?
— Voglio vederti.
— Non mi vedi adesso?
— No! vederti là... a quel modo!...
— Mi vestirò qui per te.
— Oh, è tutt’altro!...
Ella sorrise e mi disse: — Orgoglioso!
— Orgoglioso?
— Sì! Vuoi godere del tuo trionfo, e dire: Quella donna che tutti desiderano, mi appartiene!
— È vero!... sì!
— Ebbene, soggiunse semplicemente, dillo pure giacchè è la verità.
La sua cameriera l’attendeva per pettinarla; prima di lasciarmi ella mi disse, come risovvenendosi:
— Però mi prometterai di non esser geloso!
Ahimè! prevedeva forse che avrei dovuto esserlo?
Non l’avevo più vista sul palcoscenico, e quando la rividi mi parve tutt’altra! Io comprendo come si possano fare quelle che si dicono pazzie — e sono brani di cuore spezzati da penose voluttà, brani di ragione torturati dal delirio, — per coteste donne che hanno un pubblico per amante, che ci sbattono sul viso tutte le seduzioni,  inchiodandoci ad una poltrona d’orchestra, e che ci abbruciano gli occhi col lampo della loro bellezza, costringendoli ad affissarle avidamente. — Cotesta voluttà che c’inebbria di suoni, che abbaglia di luce, che sollecita con acri profumi, che vi fa ondeggiare dei veli dinanzi alla curiosità spasmodica, che ha il sorriso sfacciato, e la nudità pudica, che idealizza tutte le vostre più sensuali passioni, è mostruosa, — e la brama d’immergervisi, di annegarvisi, è mostruosa del pari, con tutte le cecità, con tutte le frenesie, — e lo spasimo di sguazzarci dentro, le mani, i piedi, il petto, i capelli, di abbeverarsene, di affogarvi la coscienza, il cuore, il sentimento della vita, ha le medesime estasi inenarrabili, i medesimi splendori, le stesse torture, le stesse infamie... Se si potesse vedere in cuore ad uno di quei felici mortali, su cui passò il turbine di una tal passione, e che va invidiato dalla moltitudine!...
Quella donna per cui gli applausi avevano fremiti di desiderio era mia, avea posato la testa sul mio guanciale; ma io non ci pensai che per essere geloso delle sue spalle nude, della  trasparenza dei suoi veli, di quei cannocchiali che sembravano baciarla con lingue di fuoco, di quelle mani inguantate che mi sembrava accarezzassero le sue spalle.
Partii come un pazzo, assai prima che fosse terminato il ballo, ed andai ad attenderla in casa sua, arso di gelosia, di corruccio, di desiderio — spiegami tu questo contrasto. E allorchè udii il suo passo leggiero per le scale, allorchè me la vidi comparire dinanzi ancora ansante, allegra, ridente, colle guancie rosse e gli occhi brillanti di giubilo, me le gettai al collo, stringendola freneticamente come se temessi di vedermela strappare dalle braccia. Ella credette che fosse l’entusiasmo destatomi dal suo trionfo!
— Oh! come son contenta che tu sii stato lì! mi disse senza scorgere il male orribile che mi facevano quelle parole. Fu un vero entusiasmo, non è vero? Vedi quanti fiori!
E si pavoneggiava ingenuamente in mezzo agli enormi mazzi che il suo domestico avea portato in sala. Io dovevo aver l’aria orribilmente stralunata; ma ella era così compresa della gioja del suo trionfo che non se ne avvide. Si aggirava intorno alla stanza con movimenti bruschi, vivi, quasi serpentini. Si mirava nello specchio, mi abbracciava, e mi baciava, come baciava quei fiori, per sfogare la sua contentezza.
— Come son felice, mio Dio! esclamava, senza avvedersi guanto egoismo c’era nella sua felicità.
Suonarono il campanello. Eravamo nel salotto; ella mi prese per mano, e mi fece entrare nella sua camera. — Aspettami qui, mi disse.
— È inutile, giacchè me ne vado.
— Te ne vai? E perchè?
— Avrete molte visite... È la vostra festa...
— È vero! diss’ella tutta giuliva.
— Vedete che mi rassegno anch’io...
Ella mi guardò in volto con sorpresa.
— Fai il broncio alla mia contentezza? Uh, brutto!
— No.
— Davvero?
— Davvero.
— A domani dunque?
— A domani.
— Buona sera.
Io non risposi — ella se ne accorse. Era impaziente, tutta commossa di gioja, si contentava facilmente della mia assicurazione, e non mi leggeva nulla negli occhi.





Partii con tal corruccio in cuore che mi sembrava d’odiarla. Quando fui in istrada, piansi come un bambino. E il giorno appresso dopo una notte di collera, di gelosia e d’amore, appena furono le dieci, corsi da lei.
Avevo bisogno di vederla, di vedere i suoi occhi chiusi, di vederla dormire e di sognare ancora le dolci notti d’abbandono e d’amore. Avevo bisogno di schiudere le sue cortine, e di vedere il sorriso incerto di quelle labbra vermiglie, ancora tiepide dal respiro notturno, e quegli occhi  ancora socchiusi che cercavano i miei. Entrai nella sua camera in punta di piedi, ma trovai ch’era già alzata, e che leggeva una lettera, accanto al caminetto.
Vedendomi entrare all’improvviso si scosse bruscamente, come sorpresa, e fece un movimento istintivo e impercettibile quasi per nascondere la lettera che stava leggendo. Non fu che un lampo, ma bastò al mio occhio acutamente sospettoso. Si alzò, venne a gettami le braccia al collo, e mi disse con effusione:
— Ah! bravo! Mi hai fatto un gran bene!
E gettò la lettera con tutta naturalezza sul marmo del caminetto.
— Perchè? io le dissi.
— Ieri sera mi lasciasti in tal modo! Vedi, ero così commossa che non mi avvidi che partivi in collera. Tu sei più buono di me... Ci ho pensato tutta la notte... Sei ancora in collera?
— Oh, no!
— Ma perchè eri in collera? che ti avevo fatto?
Io chinai la testa senza rispondere.
— Vedi, soggiunse, se io avevo ragione di  temere quello ch’è avvenuto! Ho più giudizio di te, io, o piuttosto t’amo dippiù.
Mi prese per mano e mi fece sedere accanto al fuoco.
— Come sei pallido! mi disse. Non hai dormito stanotte?
— No.
— Caro! caro! caro! esclamò con trasporto infantile baciandomi in fronte.
Indi con improvvisa e ingenua vivezza:
— Vedi, io t’amo per questo! T’amo perchè mi ami così, perchè sei matto, perchè sei geloso, perchè sei ingiusto e cattivo. Mi piaci così — ecco!
In quel momento sorprese i miei occhi che involontariamente si fissavano sulla lettera, e credette forse che la mia curiosità fosse rivolta ad un braccialetto ch’era anch’esso sul marmo del camino accanto alla lettera.
— Ti piace quel braccialetto? mi disse prendendolo in mano onde prevenire i sospetti che credeva scorgere in me.
— Non l’avevo visto.
— Ah! esclamò come sconcertata.
Aprì e richiuse due o tre volte la busta di velluto, facendo scintillare i raggi delle gemme, e soggiunse per riprendere un certo contegno, o per disarmarmi colla franchezza:
— È un regalo per la mia beneficiata.
— Oh!
— È bello, non è vero?
Io che avevo la testa a tutt’altro, risposi:
— Bellissimo.
— E di gran valore.
— Varrà per lo meno duecento lire.
— Oh! esclamò Eva, dimenticando a quella mia ingenua scappata tutte le sue preoccupazioni in una schietta risata, ne vale almeno duemila!
Ebbene, francamente, io fui umiliato dalla mia ignoranza sul valore delle gemme.
— A che pensi? ella domandò con una certa inquietudine.
— Penso che sono ben fortunati coloro che possono offrirvi regali di duemila lire.
— Tu mi dai il tuo amore che vale assai dippiù!
Io sorrisi amaramente.
Si parlò un po’ di tutto, ora serii, ora innamorati, ora quasi giulivi. Ad un tratto, le gettai fra i piedi questa domanda, che la fece trasalire, tanto era fatta bruscamente:
— Chi t’ha regalato quel gioiello?
Ella rispose con la maggior franchezza: Il conte Silvani. — Saresti geloso di lui! soggiunse vedendo che m’ero fatto serio.
— Oh, avrei torto!
— E avresti torto davvero! esclamò dessa con tale accento dignitoso che mi umiliò.
— Oh, Eva, perdonami! esclamai quasi fuori di me. Io m’avveggo che sono ingiusto e cattivo! Faccio dispetto a me stesso!... Ma son geloso! orribilmente geloso!
Per tutta risposta ella mi diede un bacio.
— Perchè non hai rimandato quel braccialetto? le domandai dolcemente.
Ella mi guardò con tanto d’occhi spalancati, come se stentasse a capire il significato delle mie parole.
— Come rimandarlo? ma vuol dire rifiutarlo!
— Sì, rifiutarlo.
Quel rifiuto sconcertava tutti i suoi principii sinceramente e francamente accettati da tanto tempo.
— Ma non si usa in teatro! mi disse sorridendomi come si fa ad un bambino che ha detto una sciocchezza.
— Ah! sogghignai. Credevo che ci fosse della dignità anche fra le persone dì teatro!
— Ma, mio caro, è un altro genere di dignità. C’è l’uso di far dei regali agli artisti in occasione delle loro beneficiate, e ciò non ha nulla di umiliante pel loro amor proprio. Perchè ridi?
— Rido perchè sono uno sciocco, un provincialetto, perchè non so tutte coteste cose, e sopratutto perchè non oserei mai offrire un regalo simile ad una signora per bene... senza temere di farmi rosso in viso, o di farmi gettare dalla finestra dai suoi domestici.
— Ma un’artista non è una duchessa, mio caro! te l’ho già detto.
E ci metteva tanto candore che avrebbe disarmato tutt’altro risentimento che non fosse stato il mio.
Io passeggiavo a grandi passi per la camera, ed ella mi teneva dietro cogli occhi, tenera, amorosa, quasi timida — ella che era così orgogliosa! Io sentivo quello sguardo attaccato su di me, e sentivo che cercava il mio, che vinceva la mia collera, e m’irritava. Improvvisamente mi arrestai dinanzi al camino, come soverchiato dal fascino mordente che quella lettera esercitava da un’ora su di me, e la presi in mano. Ella trasalì, ma non si mosse.
— Entrando ho interrotto la tua lettura; le dissi, e le porsi la lettera.
Ella la prese vivamente.
— Oh, nulla d’importante.
— Ebbene, leggila pure.

— L’avevo già letta, e con un gesto naturalissimo la buttò nel camino.

Io non seppi dominare un movimento come per buttarmi sul fuoco.
— Chi ti scrive? le domandai facendomi rosso in viso.
— Il conte Silvani.
— Ah!
— Mi pare che la mia franchezza dovrebbe disarmare i tuoi pazzi sospetti!
— Tanto più che adesso devo contentarmi della tua franchezza! le dissi amaramente, additando il foglio che ardeva.
— Oh! esclamò ella celandosi il viso fra le mani. Oh!
Sentivo montarmi alla testa dei caldi soffi di collera selvaggia. Ella rimase un istante in silenzio, col viso rosso di vergogna, poi esclamò: — Siete pazzo!
— Avete ragione! le dissi mettendo tutta la mia amarezza in un sorriso; e aspettai che mi rispondesse qualche cosa per sfogarmi di tatti i sarcasmi che mi bollivano in seno.
Ella non mi diceva più nulla; attizzava il fuoco colle molle, ed avea l’aria severa.
— Quella lettera naturalmente accompagnava quel giojello! ripresi dopo un lungo silenzio, poichè sentivo il bisogno ch’ella dicesse qualcosa.
— Sì, rispose seccamente.
Allora, irritato da tanta calma, le domandai brutalmente:
— Perchè l’avete bruciata?
— Perchè non vi riguardava.
Perdei la testa: — È vero; le dissi, io non posso farvi dei regali di duemila lire!
Ella si rizzò come se l’avessi morsa al cuore, pallida, con certe lagrime ardenti negli occhi, e mi disse con un accento che non dimenticherò giammai:
— Adesso siete più che ingiusto, e più che cattivo!
C’era tanta collera nel mio cuore che non ne fui scosso. Rimasi com’ero, appoggiato al caminetto, duro, pallido, fosco. Ella fece due o tre giri per la camera, asciugandosi dispettosamente le lagrime; poi venne a me all’improvviso; prese le mie mani, e mi fissò in volto i suoi occhi lagrimosi.
— M’avete fatto molto male! mi disse. M’avete detto quello che nessuno m’ha detto; mi avete rinfacciata la mia condizione come io sentivo di meritarmi, ma come nessuno osava dirmelo.... Ora che volete che io faccia?
— Scacciatemi.
— Oh, no! ti amo troppo!
— Tu vedi come ti amo, come son geloso,  giacchè ti faccio piangere, e non fai nulla per togliermi da quest’inferno!
— Che cosa vuoi che io faccia? tutto quello che posso fare per provarti il mio amore non l’ho fatto? Tutto ciò che posso dissimularti per risparmiarti dei dispiaceri non te lo dissimulo? E tu me ne ringrazii con un aumento di sospetti ingiuriosi e d’insulti! La mia sincerità dovrebbe rassicurarti rassicurarti e t’irrita! Gli stessi fastidi che mi prendo per nasconderti quelle cose che possono ferire il tuo amore o il tuo orgoglio dovrebbero provarti che ti amo tanto... sino a mentire per te!
Io la guardai in viso coll’occhio freddo e scintillante di collera come una lama d’acciaio, e le piantai in faccia queste parole, come una pistolettata a bruciapelo:
— Non vi credo!
Ella si celò il viso fra le mani e si lasciò cadere sulla poltrona, come se quelle parole le avessero schiantato il cuore. Poscia levò verso di me il viso tutto bagnato di lagrime, e i singhiozzi le soffocavano la parola: — Perchè? balbettava, perchè?
— Perchè ti ho visto fingere allo stesso modo sul palcoscenico; perchè il tuo volto è una maschera; perchè dubiterò sempre che tu mentisca, giacchè la tua arte è una menzogna! gridai fuori di me, sputandole in faccia tutta la mia rabbia, tutta la mia gelosia, e tutto il mio amore.
Mi attendevo un’esplosione di collera. — Ella si alzò, pallidissima, si tenne ritta di faccia a me, piangendo silenziosamente e cogli occhi come attoniti per tanto dolore. — Le labbra le tremarono due o tre volte prima di poter parlare.
— Non mi credi! balbettò. E che dovrei fare perchè tu mi creda? Dillo.
— Dovresti abbandonare il teatro.
— Oh!
— Dovresti romperla con tutto il mondo.
— Oh!
— Dovresti venire a vivere con me.
— Oh, no! non lo farò mai, perchè ti amo! mi rispose con uno scoppio di pianto.
— Ah! è una ragione singolare!
— Sì! Tu pel primo te ne pentiresti, tu!... No! no! no!
Allora, due o tre volte, feci per precipitarmi su di lei e strangolarla; le gettai in faccia un sorriso che valeva uno schiaffo, e scappai via. Quando la notte tornai a casa, con tutte le smanie, tutte le frenesie, tutte le più pazze risoluzioni in cuore, trovai Eva sulla soglia della mia porta che mi aspettava.
— L’hai voluto: mi disse semplicemente, ecco che ti ho obbedito.





Credetti di esser felice. Ella mi apparteneva intieramente; non aveva che me. Mi pareva d’avere avvinto più solidamente la sua esistenza alla mia, rompendo tutti i legami che l’attaccavano al mondo esteriore. Io più non sarei stato geloso di tutta Firenze, e avrei potuto uccidere come un cane colui che avesse osato stendere la mano verso la mia felicità.
Mille volte avevo fatto quel sogno senza sperare di realizzarlo giammai, e l’avevo abbellito con  seducenti particolari. L’idea sola di avere Eva accanto a me, ad ogni ora della mia vita, sotto il mio medesimo tetto, mi avea creato altre volte delle estasi di paradiso. Avevo sognato le ridenti follie di una eterna luna di miele, le passeggiate in campagna, la fiamma del caminetto, la lucerna della sera, i giuochi infantili, e i dolci silenzi. Avevo pensato a tutte le parole più comuni che ella avrebbe potuto dirmi nelle più insignificanti congiunture. L’avevo vista come un raggio di sole in tutti gli angoli della mia camera.
Ahimè! il domani, allorchè la vidi sotto le povere cortine del mio letto, allorchè ebbe freddo e non ebbi altro da metterle sui piedi che il mio paletò, allorchè accese il fuoco del mio camino e si insudiciò le mani — quelle candide manine — e tossì due o tre volte pel fumo, allorchè dovette trascurare i suoi capelli per fare il caffè, provai un dolore nuovo e come una spaventosa sorpresa: mi parve che la fata fosse svanita, e non rimanesse più che una bella donnina — di quelle che piacciono — ma io avevo bisogno di adorarla!
Un demone maligno si assise sogghignando al capezzale del mio letto sin dalla prima notte, per strascinare nel volgare e nel ridicolo tutte le mie illusioni.
La realizzazione dei miei castelli in aria era diventata la sorgente di mille fastidii, di mille sorprese, ed anche di mille dolori. Ero costretto a starmi fuor di casa la maggior parte del tempo per non spoetarmi intieramente l’anima alla vista di lei che, con un’abnegazione senza pari, affaccendavasi nelle cure domestiche. Mi era parso che lo starle sempre accanto dovesse essere una felicità sovrumana, e quella felicità, vista da vicino, aveva particolari così volgari, che mi facevano chiudere gli occhi e sanguinare il cuore. Delle notti intiere, col gomito sul guanciale, vedendola dormire accanto a me, bella, serena, quasi felice anche nel sonno — lei che mi aveva tutto sacrificato — domandavo a me stesso se ella soffocasse, con me, le medesime dolorose impressioni, oppure se non le provasse nemmeno perchè mi amava dippiù, o in un altro modo, oppure se nella donna ci fosse, come un istinto provvidenziale, l’affetto del focolare domestico... oppure se la sua condizione, l’educazione ricevuta, i suoi sentimenti, la tenessero molto al di sotto della mia ombrosa e delicata suscettibilità... e finivo per darle il torto — a lei! di non aver la delicatezza di risparmiarmi certi particolari volgarissimi che mi sembrava affrontasse colla più volgare disinvoltura...
Non cerco di spiegarti cotesto mostruoso mistero che chiamasi cuore. Non mi son mai sognato di giustificarlo. Ti faccio osservare un fatto.
Cotesta disillusione, cotesta amarezza intima m’invadeva tutto, la mente come il cuore. L’arte mi negava anch’essa le sue ispirazioni; era forse gelosa, o la vita mi assorbiva troppo per potermi sollevare sino a lei. Però fu un altro gran dolore per me. Provare lo febbre e l’impotenza di creare! L’hai tu provato? Ero stato delle ore intere dinanzi a quel cavalletto, accanto a quella donna che mi avea riempita l’anima di tanta luce e di tanti colori, che adesso attaccava i bottoni ai miei vestiti e mi rendeva ebete; e qualche volta m’ero strappato i capelli, qualche altra volta avevo pianto di rabbia, o avevo tirato giù linee e  pennellate che il giorno dopo scancellavo. Ella mi guardava con sorpresa; mi stringeva le mani; mi diceva delle parole affettuose. Io le rispondevo sgarbatamente, infastidito, quasi iroso, e delle volte, trovandomi l’anima così vuota, piangevo tutt’altre lagrime.
Intanto i bisogni materiali della vita si facevano sentire più che mai. Quel pochissimo di cui potevo disporre era stato dissipato in un lampo; ero indebitato fin sopra ai capelli coll’oste, col padrone di casa, con tutti i miei amici ed anche coi semplici conoscenti, poichè la necessità mi avea reso sfacciato. Avevo momenti di preoccupazione tale, che le carezze di Eva mi avrebbero fatto montare in collera. Non osavo più scrivere ai miei genitori perchè aveva l’orgoglio del mio fallo; ed il mio amore sciagurato non era abbastanza potente per assorbire anche e soffocare il rimorso di strappare il pane di bocca alla mia famiglia per prolungare la mia dolorosa follia. Ero troppo orgoglioso per far trapelare ad Eva la menoma mia preoccupazione; e allorchè ella si mostrava più affettuosa, più sommessa, e cercava timidamente di prender parte alle mie angustie e di venirmi in aiuto, avevo per lei modi aspri e parole dure. Per vivere alla meglio avevo accettato una delle più umili occupazioni: dipingevo ad oleografia; il mio cervello si atrofizzava, ma si tirava innanzi.





Il verno era ritornato, e rigidissimo. Io andavo al Caffè tutte le sere a bere il ponce e a leggere il giornale, mentre Eva mi aspettava in casa. Mi occupavo delle quistioni internazionali, e tenevo dietro al corso dei valori pubblici con interesse! Leggevo sino alla quarta pagina; poi facevo quattro chiacchiere coi vicini, e tornavo a casa sbadigliando. Una sera avevo trovato il ponce freddo; la politica volgevasi contraria ai mio colore, — poichè avevo già un colore politico! — il mio vicino era stato sgarbato; fioccava maledettamente, e tornando a casa avevo trovato il camino spento.
— Perdio! dissi ad Eva aspramente — ella lavorava presso il lume. — Non vien certamente la voglia di tornare a casa!
Ella levò su me i suoi occhi sempre dolci e sereni, e non rispose.
— Con una notte come questa farmi trovare una ghiacciaja! ripresi. Vedevo che ella avea il viso livido, che tremava dal freddo sotto il suo scialle, e non pensai che in quella ghiacciaja ella avea dovuto pur starci tutto quel tempo in cui io avevo acconciato l’Europa a modo mio, seduto in un angolo ben riscaldato del Caffè.
— Non è freddo, rispose.
— Perdio, s’è freddo! si gela!
— Non c’è più legna, soggiunse timidamente.
— Non ce n’è più in Firenze?
Ella chinò la testa sul lavoro, e stette zitta.
— Non hai denari? domandai.
Era la prima volta che quella parola mi veniva sulle labbra, e malgrado fossi tanto cambiato, mi fece una singolare impressione, come se avesse suonato altrimenti dalla mia intenzione.
— No, rispose Eva dolcemente.
— Come! non hai denari? replicai, senza che la parola questa volta mi ripugnasse. Hai fatto delle spese straordinarie?
— No.
— Ma non siamo che ai venti del mese!
— È vero.
Malgrado il mio abbrutimento un raggio di luce si fece nella mia mente, e mi parve che attraversasse la parte più sensibile del mio cuore come uno stile d’acciaio.
— Vuol dire... esclamai, sentendo che la voce mi tremava, vuol dire che i denari che ti ho dati ciascun mese... non bastavano!
— Che importa? mi diss’ella sorridendomi con la stessa dolcezza.
— Ma allora... come hai fatto?...
— Avevo del denaro.
— Tu!!! — e mi nascosi il volto fra le mani.
Il mio orgoglio si contorceva dolorosamente, poichè il mio cuore non si commoveva più.
— Sì.
— Tu non avevi nulla quando venisti!
— Avevo quei pochi giojelli.
— Li hai venduti?
— Sì.
— Ah!
Ella venne a me dolcemente; mi rialzò il capo, e mi baciò in fronte.
— Non mi ami più? mi disse.
— Perchè?
— Perchè quello che ho fatto ti dispiace.
— No.
— Ti fa arrossire.
— Sì!
— Non mi ami più! Io non mi son vergognata di quello che hai fatto per me.
— È tutt’altra cosa; io sono un uomo!
— È lo stesso, quando si ama!
Io le baciai le mani, e la guardai con occhi che aveano le migliori intenzioni di adorarla. Ella aveva una cuffietta assai modesta; alcune ciocche di biondi capelli le scappavano attraverso i nastri scoloriti; sul suo seno s’incrociava un leggiero scialletto; aveva le labbra pallide e le mani livide. Le prime parole che mi vennero in bocca furono:
— Ed ora come si fa?
— Bisogna aver coraggio!
— Oh, se potessimo contentarci delle belle parole! le dissi aspramente.
— Mio Dio! rispose ella timidamente, come per rabbonirmi, non sono stata mai ricca, tu lo sai; quella bella casa e quei bei mobili non mi appartenevano, e, pur troppo, tutto il mio danaro lo spendevo malamente per vivere in un certo lusso; sicchè quando ci ho voltato le spalle possedevo ben poco. Ho fatto tutto quello che ho potuto, e te l’ho nascosto per risparmiarti un dispiacere dippiù. Adesso non ho più nulla.
— Io non vi ho chiesto nulla! le dissi amaramente.
— Oh!
— E se l’avessi saputo non vi avrei permesso di infliggermi questa umiliazione che adesso mi rinfacciate!
— Oh! ripetè Eva con un raddoppiamento di dolore.
Io non ebbi cuore per prendere le sue mani, con le quali si celava il viso, e asciugarle le lagrime che vedevo scorrerle fra le dita.
— Enrico! mi disse ella dolcemente come nei nostri più bei giorni d’amore, vedi come sei divenuto! Vedi se m’ingannavo presagendo quel ch’è avvenuto! tu te ne sei pentito pel primo!
L’abbassamento morale, direi, era così pronunciato in me che non pensai nemmeno di protestare per illuderla; e non pensai che quel mio lugubre silenzio dovea pesarle sul cuore come piombo fuso. Poi, quando me ne avvidi, dopo un lungo e mortale indugio, non trovai di meglio per consolarla che sciorinarle un’imprecazione.
— Arte pitocca e bugiarda! esclamai stendendo il pugno verso il cavalletto, che vai tronfia d’orgoglio e non dai pane da sfamare!
Eva mi guardò sorpresa, quasi addolorata. Io le ripetei quel ritornello che riepilogava tutte le mie abbjezioni: — Ed ora come si fa?
Non rispose.
— Se tornassi al teatro? le dissi con tutta naturalezza, compiacendomi, direi, della mia vigliaccheria.
— È impossibile; rispose colla stessa calma rassegnata; non è la sola abilità che forma l’artista; ma la carriera fatta, il palcoscenico, il pubblico, i giornali teatrali, i cartelloni degli spettacoli, gli agenti, gli impresari. Bisogna vivere in quel mondo per appartenervi. Io ne sono uscita, e nessuno più mi conosce. Per rientrarvi bisognerebbe che incominciassi da capo.
Allora soltanto mi balenò dinanzi agli occhi tutta l’estensione del sacrificio che ella aveva fatto alle mie folli esigenze.
— E tu sapevi tutto questo? le dissi.
— Sì, rispose tranquillamente, e sapevo anche che doveva arrivare questo giorno.
— Ti giuro, esclamai, che ti renderò tutto quello che mi hai sacrificato, o mi ucciderò!
Ella mi guardò in modo singolare con quei suoi occhi mesti e dolci, e mi disse quasi con un soffio di voce:
— Io non me ne sono mai lagnata, e tu non mi avevi promesso di ucciderti.





Passai la notte in magnanime risoluzioni, e appena fu giorno cominciai a darmi le mani attorno per cercarmi altre occupazioni che mi fruttassero dippiù. Ma le magnanime risoluzioni non riuscirono che a procurarmi un modesto impiego, presso un fotografo. Di meglio in meglio, dalle nebulose altezze della grande arte io ero arrivato a stendere i colori dietro le fotominiature che si vendevano a dodici lire l’una. E neanche questo bastava. Io ero inquieto, irascibile, dispettoso; ella trascurava il suo vestire, era triste, e qualche volta stizzosa; aveva certi suoni di voce aspri, certi sorrisi che non la rendevano bella. Io credevo coscienziosamente di farle dei veri sacrifici andando a casa la sera invece di andare al Caffè, e fumando la pipa accanto a lei, leggendo il giornale, mentre ella lavorava. Ambedue senza dire una parola, sentendoci gravare quel silenzio sul petto come un peso enorme.
Dopo alcuni giorni osservai in lei un cambiamento che mi avrebbe sorpreso se il mio cuore fosse stato più all’erta. Ella cantava per la camera, sembrava allegra, aveva comperato una veste di seta e degli stivalini nuovi coi suoi risparmi — faceva già dei risparmi! — aveva dei guanti, e si abbigliava con cura! Quell’aria di festa si era stesa anche sul mio focolare e sulla mia mensa — ed io ne godevo come un parassita!
Mi accadde due o tre volte di non trovarla in casa, e non le domandai dove fosse stata a passeggiare. Una sera trovai la chiave nella serratura. La camera era al buio. La chiamai e non rispose. Accesi il lume e vidi la camera vuota; sul camino, appoggiata allo specchio, e messa con cura in evidenza, c’era una lettera aperta; era per me — ecco che cosa lessi:
«Mio caro Enrico, tu non mi ami più, io non ti amo più nemmeno — e siamo pari. Te l’aveva predetto! Tu mi hai vista attizzare il fuoco, e far la calza, io ti ho visto stendere tranquillamente i colori sulle tue stupide fotografie, senza ispirazione e senza entusiasmo ecco perchè non ci amiamo più. Le asprezze, i diverbi, le amarezze, son degli accessorii. Domani forse saremmo arrivati a picchiarci! Ti lascio, e credo fare del bene anche a te. Tu hai bisogno di sognare per buscarti gloria e quattrini; io non ho che la mia giovinezza, e bisogna che ne approfitti se non voglio andar a finire all’ospedale. Tu hai il cuore buono; ti ho parlato con franchezza, e credo perciò di non lasciarti in collera. Io ti voglio sempre del bene e te lo proverò, quando potrò. Eccoti 500 lire.»





Devo confessare che la prima impressione destatami da quella lettera fu di sollievo. Tutto quello che c’è di falso e di malsano in tali legami si scorge al sentimento inesplicabile di soddisfazione che si prova rompendoli, anche quando il romperli costi qualche lagrima. Poi quando la tempesta è passata, rimangono qualche volta nei bassi fondi limacciosi le serpi che si sono avviticchiate più strettamente al cuore, e che hanno più tenace vitalità; il dispetto, l’amor proprio ferito, la vanità schiaffeggiata. Trovandomi solo, in quella camera ove m’aveva aspettate tante volte, non pensai ad altro che al modo con cui l’aveva abbandonata, e quando mi avvicinai a quei guanciali che conservavano ancora l’impressione del suo capo, non pensai a quell’altro letto, dove ella forse dormiva, se non perchè non era il mio; non pensai a quei baci che più non desideravo se non perchè un altro li aveva.
E al nuovo giorno il raggio di sole che veniva dalla finestra era così allegro, diceva tante belle cose della giovinezza, dell’arte, dell’avvenire, della mia famiglia, cui non avevo rivolto il pensiero sino a quel giorno senza una spina nel cuore, che mi trovai con sorpresa l’animo in festa; esso non voleva rammaricarsi ad ogni costo dell’abbandono di Eva. Scrissi ai miei genitori; fumai la mia pipa; riordinai tatti i miei utensili da dipingere, come se non dovessi che ritornare all’arte perchè l’arte mi sorridesse, e non pensai ad Eva che pel dispetto di aver trovato fra la cenere del caminetto una busta mezzo arsa, ove l’indirizzo di lei era scritto con quello stesso carattere elegante della lettera che accompagnava il braccialetto del conte Silvani, e per quel biglietto di cinquecento lire che, tutto sdegnato, misi nel portafogli, col fermo proposito di buttarglielo in volto appena l’avessi rinvenuta.
Ahimè! io non la rinvenni! non le buttai nulla in viso! Il vuoto che si era fatto nel mio cuore, a furia di vivere soltanto per essa, mi aveva prostrato intieramente e avea isterilito il mio ingegno. Tutte le orride lingue della miseria del cuore, dell’intelletto e della borsa, lambivano la mia esistenza. L’avvilimento mi snervava, e logoravo la mia vita nell’ozio, sulle panche di un bigliardo o di un Caffè. I debiti, l’inerzia e la miseria mi affogavano; tutta l’attività del mio spirito non avea altra mira che di farmi acconciare alla meglio in quel fango — ed io mangiai tranquillamente il biglietto di cinquecento lire.





Poi anche questo finì.
E allora incominciò un’altra lotta più bassa, più accanita, più dolorosa, la lotta degli espedienti, delle transazioni d’amor proprio, delle viltà, contro un desinare. Dopo aver venduto tutto quello che era vendibile, le tele, i disegni, le scatole, i colori, gli abiti, le scarpe, tutto, mi trovai senza pane, quasi senza vesti, alloggiato come in ostaggio pel mio debito, con cinque lire in tasca, e certe allucinazioni come quelle che devonsi provate al momento di smarrire la ragione.





Mi venne in mente di giuocare. Mi ricordai di tutte quelle storielle e di tutti quei bei romanzi ove si parla di guadagni enormi fatti con un nulla, e mi parve d’essere ricco possedendo cinque lire e quella bella idea. Salii senza esitare le scale di una casa ove gli artisti e gli studenti poveri andavano a disputarsi l’un l’altro il pane quotidiano; arrischiai una lira, poi l’altra, poi l’altra, poi l’ultima. Vedevo delle fiamme abbaglianti passarmi dinanzi agli occhi, e provavo degli improvvisi sbalordimenti. Mi parve che si facesse un gran vuoto nel mio cuore, e ne sentii tutta la penosa sensazione, nel momento in cui si voltava la carta che dovea decidere dell’ultima mia lira. Tu non sai quel che voglia dire l’ultima lira! vuol dire il pane dell’indomani, e si ha lo stomaco vuoto! e i fantasmi dei tuoi bisogni ti attraversano in un lampo lo spirito!... Poi sentii una gran calma improvvisa, con una specie di benessere, una terribile lucidità d’idee. Avevo perduto. Almeno non avevo più nulla!
Scesi le scale con passo fermo; avevo la vista chiara e la mente tranquilla. Passeggiai per le vie più frequentate; lessi gli annunzii degli spettacoli; passai dinanzi alle vetrine di parecchi caffè provando una strana soddisfazione a veder la gente che vi era; andai per lungarno alla pescaja, e stetti una mezz’ora a guardare i bizzarri riflessi del gas sulle acque del fiume, senza pensare un istante che sarebbe stato anche più bello trovarvisi in mezzo. Poi, quando suonò la mezzanotte, mi trovai come per abitudine nella mia strada; avevo freddo, e mi ricordai che non avevo meglio da fare che andare in letto.





Il giorno dopo pensai ch’era naturalissimo di andare a chiedere qualche cosa in prestito al solo amico che non mi voltasse ancora le spalle, come tutti gli altri, Giorgio, e mi meravigliai come quell’idea non mi fosse venuta prima. Quell’idea non mi fruttò che una lunga corsa, ed io non ero molto in forze: Giorgio non era in Firenze. Domandai quando sarebbe ritornato; mi dissero fra dieci o quindici giorni. — Dieci o quindici giorni!
Quella risposta mi lasciò come istupidito; tornai indietro colle mani nelle tasche, e zufolando un’arietta fra i denti.
Mi venne in mente di fumare. Cercai in tutte le mie tasche, e non vi trovai che uno scatolino di fiammiferi; era pieno. — Se potessi cambiarlo con un sigaro!... pensai, o con un pezzo di pane!
E credo anche che scappai a ridere!
Avevo una preoccupazione insistente: quella di ammazzare il tempo, come se aspettassi qualche avvenimento, e l’indugio mi pesasse. Pensai di trastullarmi colle mie fantasticherie, giacchè non avevo fiducia nell’ispirazione, e di andare alle Cascine per cercarvi solitudine. Ahimè! la mia mente era vuota, come il mio cuore, come il mio stomaco. Andavo baloccandomi a guisa d’imbecille pei viali, ora guardando correre le nuvole più basse o brune su di un ciclo di piombo, attraverso gli incrociamenti dei rami nudi, ora tenendo dietro con grande curiosità ai passeri che correvano sull’erba riarsa dal gelo in cerca di cibo — anch’essi avevano fame. Tutt’a un tratto udii uno scalpito accelerato ed un grido — guarda! — e mi gettai sul ciglione, tutto sossopra, come se ne valesse la pena! e vidi passare come frecce due cavalieri, anzi un cavaliere ed un’amazzone. L’amazzone era lei, Eva; la riconobbi al riso, rideva allegramente, e alla persona; ma non la vidi in faccia; era rivolta verso il suo compagno, gli parlava, non mi vide — credo che non mi abbia visto. Il suo cavallo era coperto di sudore, aveva le narici rosse e mandava nugoli di fumo; ella era leggermente inclinata sulla sella, acconsentiva la mano alle redini e tutta la persona ai bruschi movimenti del cavallo con grazia ardita e sicura; si udivano stridere il cuoio e le cinghie della sella: il velo le svolazzava dietro coi biondi capelli, e la lunga veste ondeggiava come un prolungamento della sua persona. Il giovane che l’accompagnava aveva la sigaretta fra le labbra, il brio spensierato, e nel sorriso, nel gesto, nel guanto, aveva come l’insolenza di tutte le ricchezze, di quella della gioventù, della salute, dell’avvenenza, della condizione e del denaro. Non so se Eva mi vide; so che vedendola così bella e accanto a quel bel giovane, mi parve tutt’altra donna; mi parve che non avrei giammai osato di stringerle la punta di un dito. Più non sentivo il menomo desiderio di lei. C’era come un abisso fra di noi; ella era così lontana, così in alto, che non provavo nè desiderii, nè memorie — o erano di tutt’altro genere. — Se mi avesse gettato un pezzo da cinque lire non l’avrei preso, ma se mi avesse buttato un pezzo di pane, chissà... quand’ella avrebbe svoltato l’angolo del viale!...





Verso le sei mi trovai senza avvedermene dinanzi all’osteria dove solevo desinare. Mi sentii stanco, e mi rammentai che non aveva mangiato dal giorno innanzi.
Allora provai una paura improvvisa, rapida come un lampo.
— Dio mio! balbettai, se lo sapesse mia madre!
Mi aggirai tutta la sera per le vie come un fantasma, senza direzione, senza saper che fare, guardando stupidamente tutti quelli che  incontravo, non per altro che per cercar di indovinare alla loro cera soddisfatta se avessero desinato.





Il freddo mi arrecava le convulsioni; avevo le vertigini; la mia camera era gelata, e le coltri della padrona erano povere come il mio vestito. Tutta la notte non potei chiudere un occhio; provavo degli stiramenti convulsivi di stomaco, delle nausee che mi facevano assai soffrire.
Mi rammentai di Eva, di averla incontrata alle Cascine, e quel ricordo fu come di persona che avessi conosciuta molto tempo addietro. Nella mia mente c’era come un penoso sonnambulismo che faceva correre incessantemente il mio pensiero stanco dietro le memorie del passato. Mi ricordavo di tutti i particolari del mio amore per Eva,anzi una forza che non era nella mia volontà ci costringeva quasi ostinatamente il mio pensiero, e parevami che mi ricordassi di un fatto accaduto ad altra persona, o narratomi molto tempo addietro. Non mi sorprendevo nemmeno di non esserne geloso. Prima di tutto l’amore sta in un complesso di circostanze, e in me allora non c’erano che circostanze negative. L’avevo amata quando la mia immaginazione e il mio cuore potevano permettersi cotesto lusso — l’avrei forse amata nuovamente quando la mia immaginazione e il mio cuore sarebbero stati ricchi; quanto alla gelosia, essa richiede, se non un grande amore, almeno una certa dose di amor proprio che renda possibile un parallelo anche ipotetico fra due rivali. — Io avevo fame!





Avevo preoccupazioni lugubri. Pensavo alle ore che mi rimanevano ancora di vita e alle sofferenze che dovevano accompagnare tal genere di morte, come per conciliarmi con quell’idea. Non osavo uscir di casa; non ne avrei avuto le forze, e sembravami che tutti dovessero leggermi in viso la fame. Avevo ancora dell’orgoglio!
L’aria era frizzante; dalla finestra vedevo la gente andar lesta; certuni avevano la cera sorridente, molti una tranquilla spensieratezza; tutti erano certi di trovare a casa il desinare. Vedevo i camini che fumavano, e, attraverso i vetri delle finestre di faccia alla mia, donne affaccendate e fumo di vivande. Vedevo tutto ciò con una dolorosa lucidità di pensiero, e fermavo il mio pensiero in mezzo a tante domestiche felicità, che vedevo o che indovinavo, con una penosa voluttà, e domandavo a me stesso, con immenso sconforto, se fosse possibile che tutta quella gente felice potesse credere che a venti passi c’era un uomo che moriva di fame.





La sera le mie sofferenze si fecero insopportabili. Uscii come un pazzo. Mi trascinai dinanzi a tutti i caffè a tutti i teatri nascondendomi fra i monelli, cercando il buio, esitando lungamente. Poi, tutt’a un tratto mi trovai abbietto, rassegnato, contento di esserlo. Vidi uscire una coppia di giovani eleganti dalla Pergola; la donna era bella, coperta di pelliccie e sorridente; l’uomo avea la cravatta bianca, e guardava lei con occhi innamorati. Ella montò in una bella carrozza, gli strinse la mano e gli sorrise; egli la vide partire col cappello in mano e gli occhi intenti; allo svolto della via un guanto bianco si affacciò allo sportello del legno, e il giovane salutò nuovamente quel guanto; poi si avvicinò al gas e lesse un piccolo bigliettino che aveva in mano; gli occhi gli raggiavano, sembrava felice, doveva esser buono. Me gli avvicinai col cappello in mano e gli dissi: — Ho fame.
Cotesta terribile verità dovea leggersi chiaramente sul mio volto, poichè quel giovane mi guardò sorpreso, senza parlare, e mi diede un biglietto da cinque lire. Dovette accorgersi delle lagrime che avevo gli occhi febbrili; si fermò a guardare e mi disse:
— Voi siete giovane, e sembrate sano; come va che avete fame?
Però non attese altra risposta da me; io non ne avevo alcuna da dargliene, e soggiunse:
— Se volete occuparvi, venite a questo recapito domani alle undici.





Era giovane, amato, ricco, felice, aveva del cuore, e quel ch’è più raro, la delicatezza del cuore. Egli mi fece fare il suo ritratto, me lo pagò benissimo non solo, ma risparmiò anche il mio amor proprio comprendendo le cinque lire che mi aveva anticipato nel prezzo del lavoro. Egli mi aiutò in tutti i modi, col denaro, colle raccomandazioni, cogli incoraggiamenti ed anche, posso dirlo, colla sua amicizia. Mercè sua entrai in un’altra vita, nella vita operosa, lauta e onorata. Povero giovane! aveva il cuore pieno e l’espandeva! Un bel giorno la sua felicità si esaurì — egli aveva creduto che fosse inesauribile — la sua amante era una gran dama, portava un bel nome, e cambiava spesso d’abiti e d’amiche intime. — Egli ebbe un duello per una quistione di giuoco con un capitano di cavalleria, e fu ucciso — il marito fece da secondo al capitano. I suoi migliori amici gli diedero torto; dissero ch’egli spingeva le cose sino al romanticismo, che avea mancato di delicatezza e di saper vivere, che l’aveva ricompensata di tutti i sacrifici ch’ella avea fatto per lui nel passato, e della felicità che gli avea regalato, compromettendola; che era ridicolo mostrarsi più geloso del marito. Egli pagò colla vita.





Perchè ti ho narrato anche questo episodio estraneo al mio racconto? Tant’è, acciocchè serva a qualche cosa, ti dirò come, senza saper perchè, pensai ad Eva che non era ricca, che non era gran dama, che non aveva un bel nome, e che era nella condizione di dover smungere la borsa dei suoi amanti, come la gran dama smungeva i cuori dei suoi.





Io avevo vissuto vent’anni in dieci mesi, e mi sentivo forte, pieno di vita, di cuore, di memorie e d’immaginazione. Se non avessi tanto goduto e tanto sofferto, credo che non avrei mai avuta tanta vigoria di mente e d’anima, tanta facilità di trasmettere nelle mie opere cotesta sovrabbondanza di vita. Avevo una bella riputazione, ero quasi ricco, e godevo la vita — io che avevo avuta l’anima piena di sogni luminosi e di aspirazioni ideali, e l’avevo ancora qualche volta! La contraddizione che c’era nella mia esistenza fra le passioni e il sentimento si rivelava nelle mie opere. Ero falso nell’arte com’ero fuori del vero nella vita — e il pubblico mi batteva le mani; quegli applausi, delle volte, mi umiliavano agli occhi miei stessi, ma sovente mi ubbriacavano. Sembravami che andassi tentoni in cerca di non so che; mi sentivo isolato e spesso ridicolo; avevo una menzogna per l’arte che avvilivo e per la società che ingannavo; mi inebbriavo di tutti i piaceri, o di tanto in tanto sentivo il bisogno di uscir fuori da quell’atmosfera come un nuotatore che annega. Non mi rimanevano che le passioni più sterili, e le arricchivo di tutte le esuberanze del mio cuore, poichè sentivo il bisogno di avere delle passioni ad ogni costo. Non credevo più nell’amore, dopo averne fatto lo sciagurato esperimento, e dopo aver veduto nelle braccia del grosso capitano di cavalleria quella donna per la quale il mio benefattore avea dato sorridendo i suoi venticinque anni, quella donna così elegante, così delicata, così poetica, e mi sbramavo col capriccio. Non avevo un caldo sentimento religioso: il sentimento civile lo vedevo sciupato nelle lotte dei partiti, e intorbidato dalle dispute di giornali rare volte convinti di aver ragione; vivevo lontano dalla famiglia, in mezzo ad un mondo di usurai e di egoisti o di gaudenti; l’atmosfera era calda di effluvi giovanili. — Come vuoi che io potessi comprender l’arte in tali condizioni?... mettendomela sotto i piedi! Arrossivo delle mie illusioni di una volta, e per non ridere di me che mi ostinavo ancora a sognare in mezzo a tutti che tenevano gli occhi aperti, risi di quella buffonesca serietà e di quella sordida preoccupazione generale. Risi del contegno ipocrita per nascondere il marcio della frase elegantemente vaporosa che conteneva desiderii volgari, del pudore del velo e dell’innocenza dello sguardo.
Ero ricco di giovinezza, di gloria e di fiducia in me; più di uno stivalino altiero, di quelli che avevo sognati, avea toccato per me il lastrico della via, e si era posato furtivo sul tappeto della mia scala; più di un guanto profumato era stato dimenticato dimenticato sul mio canapè. Ti giuro che i miei sogni valevano assai dippiù della realtà! Ah! le mie duchesse di via S. Spirito! Se avessi saputo che la scienza della vita dovea costarmi tante e sì care illusioni, io avrei preferito la miseria, l’oscurità e i miei castelli in aria. Non ti dirò di chi fosse il torto; anzi probabilmente era mio, perch’ero sognatore, perch’ero ombroso e diffidente, perch’ero divenuto scettico, perchè amavo da osservatore, e mettevo sempre del riserbo, direi della restrizione mentale, nelle espansioni del cuore. Quando nei trasporti amorosi non si mette lo stesso abbandono dalle due parti, una delle due è ridicola di certo. — Non so quale.





Nei crocchi eleganti che frequentavo sentivo spesso parlare di Eva, come si parlava del miglior cavallo da corsa, dell’opera in voga e della più bella pariglia. Era un’appendice necessaria a quella vita di lusso e di piaceri. Io avevo buttato dalla finestra le poche memorie che mi rimanessero di lei — i suoi nastri scolorati, i suoi stivalini rotti, i suoi guanti scompagnati — avevo lasciato da molto tempo quella cameretta dov’ella avea dormito tanti sonni, ed ora, delle volte, sentivo un ardente desiderio di rivederla,  d’incontrarla, di gettarle in faccia il lusso della mia felicità. — Non era più amore, ma era vanità. — Io non so quale dei due sentimenti sia più forte; certo spesso si scambiano l’uno per l’altro.
Non l’avevo più vista: la dicevano bella come una dea, elegante come un mazzo di fiori, e corteggiata come una regina. Molti entusiasmi giovanili si scaldavano parlando di cotesta donna che avevo visto attizzare il fuoco del mio camino; e non rammentavo altro che la sua bellezza, la sua eleganza, e il suo sorriso — ricordi che mi montavano alla testa come vampe di fuoco. — Ero dispettoso che la fosse così, e che sembrasse ancora così agli altri.





Una sera ero al Pagliano, in uno di quei palchetti dove è favore distinto essere ammesso, dove i numi dell’olimpo fiorentino si pigiavano come ad una mostra per scambiare un sorriso od una stretta di mano, in faccia ad un pubblico di gelosi, colla dea del santuario. Io le sedeva accanto, e la dea mi largiva parole e sorrisi. Tutt’a un tratto la vidi aggrottare il sopracciglio, da vera dea, prendere l’occhialetto, e dirigerlo bruscamente su di un palchetto di faccia — era uno di quei gesti espressivi che usano le gran dame quando non vogliono scendere alla parola — ma siccome non mi curavo di seguire il capriccio di lei, così mi contentai di guardare quel bel braccio nudo, tanto bello ch’era pudico, e si nascondeva nel guanto sino a metà. Però l’osservazione di lei era così insistente che senza volerlo seguii la direzione di quell’occhialetto, e ne vidi un altro che gli rispondeva come una pistola da duellante. La dea si stancò per la prima, e distese mollemente il braccio sul velluto del parapetto; allora anche l’altro occhialetto scomparve, e riconobbi Eva — Eva sfolgorante di tutta la sua bellezza, colle spalle e le braccia nude, i diamanti fra i capelli, i merletti sul seno, la giovinezza, il brio, l’amore negli occhi, anzi la voluttà, e il sorriso inebbriante — il sorriso che faceva luccicare come perle i suoi denti.
— Chi c’è nel palco numero tre, in seconda fila? domandò la dea con quell’accento inimitabile che hanno le dee quando parlano dei semplici mortali.
L’officioso più lesto e più fortunato rispose:
— Il conte Silvani.
— È un pezzo che non si vede il conte!
— È stato in Germania.
— E ha preso moglie?
— No.
— Ah!
Nel vestibolo incontrai nuovamente Eva di faccia a faccia. Ella mi lanciò a bruciapelo uno di quei tali sguardi, come se mi desse un pugno nel cuore.
La dea avea un altro genere di sguardi, quelli della lente che vi tiene a distanza poichè l’occhio non vi vede, e domandò, con quel muto linguaggio, all’insolente che osava fissare gli occhi su di lei, come non rimanesse abbagliata da tanto splendore. Eva si contentò di sorridere, levando il capo per dire qualche parola al suo compagno, mentre si appoggiava al suo braccio con un  raddoppiamento di leggiadra civetteria; — il conte era alto e le dava il vantaggio di levare il capo verso di lui per parlargli, vantaggio grandissimo per le donne che sanno farlo in un certo modo! Lasciò anche scivolare la mantiglia sulle spalle onde sollevare il lembo della sua veste, e mi parve che osservasse colla coda dell’occhio se io facessi attenzione a tutta cotesta manovra. Quelle due donne che non si conoscevano nemmeno, che non si sarebbero incontrate giammai, dovevano odiarsi cordialmente.
Io non potei dimenticare un momento quegli occhi che mi avevano dardeggiato, e che si erano rivolti sorridenti verso il conte.





Un giorno, all’improvviso, Eva venne da me, leggiadra, pazzerella, sorridente come sempre, girando per tutte le stanze, toccando tutto, facendo frusciare gaiamente la sua veste sul tappeto come se ci fossimo lasciati il giorno innanzi. Mi domandò se fossi in collera con lei, se avessi pensato a lei, se l’amassi ancora; mi disse che non mi aveva mai dimenticato, che era contenta di vedermi in quello stato, che era orgogliosa di avermi amato, mi disse cento cose seducenti, com’ella le sa dire, scaldandosi al fuoco, e sollevando la veste per posare i suoi piedini sugli alari. È impossibile esprimerti tutto quello che c’era nelle sue parole, nel suo riso, nei suoi occhi e nei suoi gesti. Mi parlò del passato; mi domandò dei miei amori, e come amassi, e come fossi amato, e se amassi di più o in un altro modo, e mi diede anche un bacio come mi avrebbe dato una stretta di mano. Poi, dopo che ebbe fatto ardere il mio sangue con quella grazia così calma e nello stesso tempo così spensierata, con quei suoi sguardi sorridenti come ad un fratello, col profumo del suo fazzoletto e coi talloni dei suoi stivalini, ella si levò tranquillamente, come se mi avesse fatto una visita, e mi stese la mano. — Se ne andava! erano due ore, doveva andare dalla modista, dalla sarta, da Marchesini, e fare un giro alle Cascine, alle sei poi davano in tavola — mille ragioni inoppugnabili! Io chiusi la porta e le presi le mani; ella me le strappò, e si mise a correre per le stanze, ridendo, folleggiando come una bambina, e poi mi si abbandonò tutta tremante, collo stesso sorriso, con un movimento infantile e inebbriante.





— Matto! matto! mi disse lisciandosi i capelli allo specchio. Ed io più matta di te! A proposito, e la tua dea!
— Qual dea?
— Quella del Pagliano, la superbiosa. L’ami molto?
— Punto.
— Ti credo. Siete così orgogliosi entrambi! Dovete bisticciarvi sempre. L’amerai per vanità.
— Sono troppo orgoglioso per avere di coteste vanità.
— Come sei diventato! e mi guardava tutta  sorpresa, con cert’aria ingenua che possedeva ancora. Dimmi come amano le gran dame — e annodava i nastri del ano cappellino.
— Come le piccole.
— Adulatore! Ma io perdo il mio tempo con te! Addio.
— Verrai a trovarmi?
— No.
— Verrò io?
— No.
— Come, no! Ma non capisci che ho bisogno di vederti!
Ella mi guardò in volto e scoppiò a ridere.
— Proprio? mi disse.
— Come dell’aria per respirare!
— Sei pur stato tanto tempo senza, e non sei morto!
— Perchè sei venuta dunque, maliarda? perchè mi hai fatto ardere il sangue colle stesse febbri?...
Ella si guardò nello specchio, con quel sorriso! e mi disse:
— Ero gelosa!
— Dunque mi ami!
— No. Tu non capisci coteste gelosie di donna, tu! e sei un uomo di spirito! — Andiamo, via, non più sciocchezze! — riprese con dolcezza dopo alcuni istanti, accarezzandomi la mano come per rabbonirmi. — Ti voglio ancora del bene, ma bisogna essere ragionevoli. Non scherziamo col fuoco!
Ella seguitava ad accarezzarmi le mani, e vedendomi sempre accigliato soggiunse:
— Ti giuro che se avessi previsto cotesta nuova follia non sarei venuta!
— Ah! non lo sapevi!
— No! mi pareva di trovarti più ragionevole.
— Ma adesso che vedi che non lo sono, e che son più pazzo di prima, e che son geloso non del tuo cuore, ma del tuo corpo, e che un lembo della tua veste se mi tocca mi fa perdere la testa, perchè non seguitare, se non ad amarmi, almeno a lasciarti amare?
Eva mi guardò in viso in modo singolare e mi disse tranquillamente:
— Perche ho più giudizio di te.
— Non mi ami più?
— No.
— Perchè sei venuta dunque? perchè sei venuta? dimmelo, maledetta! maledetta! Fu un capriccio!...
— Sì... e se durasse sarebbe una follia... e per te, e per me.
Allora io andai all’uscio, senza far motto e l’apersi.
— Senza rancore! diss’ella stendendomi la mano.
E lasciandola cadere dopo aver aspettato inutilmente, soggiunse:
— È pure una gran disgrazia che siate fatto così!
Uscì stringendosi nella veste per non toccarmi. Io corsi a nascondere il viso e le lagrime nei guanciali ancora odorosi del profumo dei suoi capelli.





Quelle due ore avevano gettato sul mio cuore il soffio ardente delle tempeste del passato. Io l’adoravo, sì, l’adoravo così com’era, l’adoravo perchè era così! Avevo il desiderio frenetico dei suoi guanti che si lasciava strappare e lacerare ridendo, e dei suoi stivalini di cui la seta strideva fra le mie mani.
Feci mille pazzie per lei, la cercai, implorai, piansi, passai le notti sotto le sue finestre, vidi l’ombra di lei accanto all’ombra di un uomo dietro le cortine, seguii di notte la sua carrozza per le Cascine, e vidi il suo capo sull’omero di lui. — Ella, mi ravvisò, e chiuse le imposte, o si tirò vivamente indietro, o volse il capo dall’altra parte. — Sirena! maliarda! che mi aveva inebbriato coll’amore, ed ora mi attossicava colla gelosia! Le scrissi; le scrissi umile, delirante, minaccioso. Ella mi rimandò le mie lettere con un sol motto: — «Una follia non si fa due volte, o diventa sciocchezza». — Una sera la rividi in teatro; ella mi gettò una sola occhiata dal suo palchetto — a me che divoravo la sua bellezza con tutti i sensi, e ne ero geloso! La vidi uscire raggiante, superba, colla testa alta, il cappuccio sugli occhi, e il braccio nudo appoggiato a quello di lui. Io feci stridere la seta della sua veste imprigionata sotto al mio piede; ella si volse vivamente e mi gettò in faccia un’occhiata di collera, forse senza riconoscermi.





E così la seguo da mesi, con questo acre desiderio di lei, ch’è memoria e gelosia ad un tempo, e cerco di vederla, e frequento i luoghi dove spero incontrarla, e la riconosco al portamento, al posare del piede, al muover della testa, e stasera la riconobbi subito appena la vidi, sebbene mascherata, e quando potei farla parlare ed accertarmi ch’era proprio lei, non la lasciai più, da lontano o da vicino, e so quel che ha fatto, quel che farà, l’ora in cui la sua carrozza verrà a prenderla; e poco fa, mentre era seduta nel ridotto, nel momento in cui vidi allontanarsi il conte per andarle a comprare dei dolci, sedetti accanto a lei e mi tolsi la maschera.
— Voi! esclamò, ancora!
— Sì, non tentar di sfuggirmi; ti amo come un pazzo e voglio il tuo amore!
— Siete pazzo! mi disse, gettandomi in testa la doccia fredda della sua calma.
— E voi non avete cuore!
— Io! io che vi ho sacrificato dieci mesi della mia giovinezza, i più belli! che vi ho sacrificato la mia carriera, e che voi avete messo alla porta quasi in cenci.
— Ah! e volete vendicarvi!...
— No, ve lo giuro. Non sono in collera con voi. Non lo sarei che ove vi ostinaste in questa follia. Noi ci siamo trastullati con una cosa pericolosa, abbiamo preso sul serio il romanzo del cuore: ecco il nostro torto, perchè anch’io ci ho creduto per un istante. Ma non siamo abbastanza ricchi per permetterci cotesto lusso.
— Non credete all’amore? le dissi insolentemente. Non ci credete più?
— Oh, tutt’altro! È il ferro del mestiere. Ma credo a quello degli altri. Anche voi dovete crederci, ma in tutt’altro modo, per scaldare la vostra fantasia e farne risultare dei bei quadri che vi frutteranno onori e quattrini.
— Oh, è un’infamia!
Ella si drizzò come una duchessa, cui si fosse mancato di rispetto e mi disse seccamente:
— Me l’avete insegnata voi! Ora andatevene, che viene il conte.
— Oh! tanto meglio! Voglio conoscerlo questo felice mortale che vi paga i baci e le menzogne!
— Ah! esclamò con un sorriso che non avevo mai visto in lei, mi ricompensate così! Ma guardatevi! che il conte oltre il pagarmi tutto questo regala anche dei famosi colpi di spada!
— Pel nome di Dio! mormorai ebbro di collera e di gelosia, egli non ti pagherà più nulla, e domani sarai sulla strada, se non vorrai venire a chiedermi ospitalità!
Tu sai che ho scommesso! finì Enrico guardandomi con occhi sfavillanti.





Enrico si passò la mano sugli occhi, come per scacciarne la frenesia che vi lampeggiava, e riprese dopo alcuni istanti di silenzio:
— Sono pazzo! lo so anch’io! Ma la ragione mi è insopportabile. Non credo più nell’arte, non credo più nella vita, di cui posso contare i giorni che ancora mi rimangono, non credo più nell’amore... e son geloso!
— Hai visto le sue braccia nude? mi domandò dopo un istante con voce rauca, come se parlasse in sogno.
— Ma la tua famiglia? gli dissi.
Non rispose. Poscia, dopo un lungo silenzio, e asciugandosi gli occhi:
— È il solo dolore che mi rimanga!
— Potrebbe anche essere un conforto, e tale da compensarti ampiamente.
Enrico mi rise in faccia con un’ironia quasi insolente.
— Mio caro, i sentimenti puri non sono che per le anime pure. Che cosa porterei in mezzo alla mia famiglia che ha sacrificato tutto al mio egoismo?... i miei infami sogni? i miei sozzi desiderii? i miei disinganni colpevoli? Grazie a Dio, non sono arrivato così basso da non comprendere che morrei di vergogna pensando ad Eva nelle braccia di mia madre, e che profanerei vilmente le labbra di mia sorella coi baci che ho dato a quella donna!
Si alzò bruscamente, come se temesse qualche altra osservazione.
— Fra mezz’ora, mi disse, al buffet; il conte ci ha dato appuntamento ad un suo amico che parte per Parigi col primo treno. Son le quattro; hanno ordinato la carrozza per le cinque; sono certo di non mancare.
Mi toccò appena la mano, ed uscì.





Egli mi avea rovesciata addosso quella narrazione come una valanga, tutta di un fiato, quasi fosse stato uno sfogo supremo e disperato, con parole rotte, con frasi smozzicate, con accenti che solo il cuore sa metter fuori, e cui solo lo sguardo sa dare un significato. Io non potrei accennare la millesima parte dell’impressione che faceva quella dolorosa frenesia, irrompente, concitata e febbrile, da un uomo col piede diggià nella fossa, che gemeva, si contorceva, ed urlava nel suono della sua voce, nel tremito delle sue labbra, nelle lagrime dei suoi occhi, mentre la folla delle maschere urlava anch’essa ebbra di vino e di musica rimbombante. Tutto ciò mi saliva alla testa, mi ubbriacava. Ero rimasto attonito, quasi annichilato, dinanzi a quella tempesta del cuore, come dinanzi ad una tempesta degli elementi. Uscii dal palco dopo di Enrico, e lo cercai inutilmente pei corridoi, in platea, sul palcoscenico, dappertutto. Dov’era andato?
Vidi l’elegante coppia che aveva attirato tutti gli sguardi dirigersi verso il buffet, e la seguii. Quella strana avventura mi avea gettato in una singolare preoccupazione. Il trovatore si tolse la maschera; era veramente il conte Silvani, bel giovane, ricco, prodigo, coraggioso. Era l’ora in cui la stanchezza, o il caldo, o il vino, o la follia fanno cadere tutte le maschere, ed anche Eva si tolse la sua. Aveva il viso rosso, volse in giro un’occhiata quasi timida; poi si assise di faccia al suo compagno. Lo sciampagna spumeggiava nei bicchieri, gli occhi brillavano, e l’eguaglianza sociale regnava in un modo che mai democrazia al mondo ha sognato possibile. A poco a poco vidi radunarsi nella sala tutti quei giovanotti che si erano trovati impegnati, senza saper come, in quella bizzarra scommessa. Si guardavano attorno con curiosità, sorridevano e si parlavano a bassa voce. Di quando in quando Eva volgeva uno sguardo sulla folla che andava e veniva dall’uscio, e poi tornava a ridere e a parlare col conte; la  mezz’ora suonava. Io tenevo gli occhi fissi su di Eva e tutt’a un tratto la vidi impallidire lievemente, chinarsi all’orecchio del conte, e dirgli qualche parola; questi sorrise e accennò negativamente; prese il bicchiere di lei, e lo riempì di sciampagna. Seguii la direzione degli occhi della donna, straordinariamente straordinariamente spalancati, e vidi Enrico, che si teneva sulla soglia, senza maschera, con certa faccia pallida di malaugurio che gli dava l’aspetto di un cadavere. Non so perchè — non conoscevo, direi, costui che da due ore — ma il cuore mi battè forte.
Infatti vi doveva essere veramente qualcosa di straordinario nel suo aspetto, poichè tutti lo guardarono in un certo modo come di sorpresa. Anche il conte si volse a guardarlo, vedendo che tutti lo guardavano, e sorrise.
— To’! ancora quell’originale!
Enrico gli si avvicinò con tutta calma,e si tolse il berretto con comica serietà.
— Ti diverti? gli disse ridendo il conte per dire qualche cosa, giacchè quel saluto gli avea tirato addosso l’attenzione generale.
— Sì! in fede mia, sì! quando ti vedo mi diverto.
— Mi riconosci!
— Diavolo! Chi non ti conosce!
— Bevi alla mia salute dunque, gli disse porgendogli il bicchiere spumeggiante.
— In coscienza, non posso; chè tu stai molto male!
— Ah! ah! una delle solite facezie! sghignazzò il conte rivolto ad Eva. Adesso ci dirà i nostri segreti!
Io guardai Eva, e la vidi pallida come cera.
— Oh! oh! rispose Enrico ridendo come avrebbe potuto ridere uno spettro se gli spettri potessero ridere; il segreto di pulcinella!
Il conte sembrò imbarazzato per un istante; ma non era uomo da darsi vinto alla prima, e replicò:
— Sapevo la tua risposta; è vecchia come il tuo travestimento.
— Da arlecchino d’onore, no! Anzi, per provarti che non sono un ciarlatano ti dirò quelli di lei — e accennò a Eva — non i segreti del suo cuore, poichè non ne ha; ma posso dirti quelli della sua vita.
Eva fece un movimento per alzarsi, come se avesse perduta la testa, e agitò due o tre volte le labbra pallide senza poter parlare. Attorno a quel gruppo si era formato un cerchio di curiosi, di cui il centro era occupato da quei due uomini che si sorridevano. Ci fu un istante di silenzio. Evidentemente il conte avrebbe fatto a meno di quella lotta di frizzi, ma come trarsi indietro? Enrico gli sorrideva sempre, col suo viso cadaverico e gli occhi luccicanti come quelli di un fantasma.
— Ah! davvero? E come li sai? disse il conte con uno sforzo d’audacia, perchè era imbarazzato egli medesimo del suo silenzio.
Enrico appoggiò ambe le mani sul marmo del tavolino, si chinò verso di lui sin quasi a soffiargli in faccia le sue parole, e rispose lentamente:
— Lo so, perchè sono stato l’amante della tua amante.
Nell’occhio del conte passò un lampo, e le sue labbra si contrassero sforzandosi di sorridere ancora. Sembrò ondeggiare un istante sul partito da prendere, e istintivamente volse attorno uno sguardo furtivo e lo fermò su di Eva. Ella era pallidissima, avea le labbra livide e l’occhio smarrito, come se stesse per svenire. Tutti quegli sguardi che si fissavano sul conte sembrarono raddoppiare il suo sangue freddo: egli esitò un solo momento; poi alzò il bicchiere ricolmo all’altezza del naso di Enrico ed esclamò:
— Alla salute dei tuoi amori passati dunque!
E vuotò il bicchiere in un fiato. Ci fu uno scoppio di applausi.
— Bravo! disse anche Enrico. Sei un uomo di spirito!
— Grazie!
— Io lo sapevo, e perciò ho fatto una scommessa.
— Davvero?
— Sì: ho scommesso che avrei dato un bacio alla tua amante, e che tu non te l’avresti avuto a male.
— Eh! caro mio! Scommessa arrischiata! disse il conte che incominciava a farsi pallido.
— Oibò! Sei un nomo ammodo! Guarda!...
E senza precipitazione, con quella calma che non l’avea abbandonato un solo istante, si chinò su di Eva, la quale era quasi fuori di sè, e non si aspettava certamente quell’eccesso di follia, e la baciò sulla guancia.
Il conte si rizzò come un fulmine, e gli applicò un sonoro schiaffo.
— Oh, oh, esclamò Enrico senza scomporsi, sorridendo ancora del suo lugubre sorriso, e passandosi la manica sulla guancia rossa. Vedi che avevo ragione di non bere alla tua salute.





Le condizioni del duello furono stabilite quasi subito fra due amici del conte e due dei giovanotti che avevano impegnata la scommessa con Enrico. Silvani era partito. Io accompagnai il mio amico che sembrava sembrava diventato tutt’altro; era indifferente a tutto, anzi un po’ inebetito come quando girava fra la calca del veglione. I suoi occhi luccicavano come quelli di un pazzo: era la sola manifestazione di quello che dovea chiudersi in petto. Passando attraverso la ridda frenetica dei ballerini e delle maschere sorrideva in modo strano, e un momento si fermò a guardare come uno sfaccendato che si balocca colla sua spensieratezza. — Quella musica, quell’allegria scapigliata e quell’uomo che guardava sorridendo, mi stringevano il cuore. Allorchè fummo in carrozza, m’accorsi che Enrico tremava come chi è colto dal ribrezzo della febbre. Volli dargli il mio paletò; lo rifiutò.
— Non occorre; mi disse, fa caldo.
— Hai la febbre!
— Lo so. Son parecchi mesi che l’ho tutte le sere... Passerà.
E sorrideva.
Era ancora buio. Nella notte era caduta molta neve che imbiancava le strade ed i tetti, e la carrozza vi correva sopra senza far rumore, come se facessimo un viaggio fantastico. Lasciammo il legno al piazzale delle Cascine, e ci mettemmo a piedi per un lungo viale. L’aria era frizzante; i primi chiarori dell’alba imbiancavano debolemente il cielo attraverso l’incrociarsi dei rami inargentati dalla neve; una sfumatura opalina si disegnava in fondo al viale sull’orizzonte, e il viale stesso appariva come una lunga striscia candida su cui risaltava ad una certa distanza un’ombra indistinta che si avvicinava senza far rumore, facendo tremolare due fiammelle rossigne ai due lati.
L’alba si era fatta più chiara quando il conte e i suoi testimoni ci raggiunsero. Erano avvolti nei loro mantelli e avevano il sigaro in bocca. Ci fu uno scambio generale di saluti fatti in silenzio. Quei due uomini si guardarono senza batter ciglio, come se non si fossero conosciuti giammai.
Gli uccelli cominciavano a pispigliare, e un raggio indorato corse come una freccia sui rami più alti. Il conte accese un’altra sigaretta mentre si compivano le formalità preliminari, ed uno dei testimoni alzò il naso verso il cielo e disse:
— Sarà una bella giornata.
Poscia tutti i sigari si spensero, e tutti i volti assunsero la maschera di circostanza.
Enrico si tolse l’abito e lo piegò accuratamente posandolo in terra; vi sovrappose il cappello, rimboccò le maniche della camicia sino al gomito, prese la spada che gli presentavano, la piegò in tutti i sensi sulla punta del piede, e frustò l’aria con essa. Successe un istante di silenzio solenne; poi si udì una voce:
— A voi, signori!
E le due lame scintillarono.
Ho ancora dinanzi agli occhi quel triste spettacolo.
Enrico avea la guardia un po’ spavalda, ma ferma come il bronzo, che gli spagnuoli ci hanno lasciato a noi del mezzogiorno; sembrava tutto d’un pezzo dalla punta della spada alla punta del piede, e parava con un semplice movimento di pugno. Il conte era bravo spadaccino, snello, agile, nervoso; la spada gli guizzava fra le mani come un baleno, cavando e ricavando colla rapidità di un mulinello; si raccorciava, si nascondeva quasi sul fianco, e vibravasi improvvisamente come un giavellotto a spuntarsi su quei pochi centimetri di coccia, dietro alla quale Enrico riparavasi come dietro ad uno scudo che coprisse tutta la sua persona.
Dopo alcuni istanti il conte ruppe di un passo, e si mise in guardia come per vedere con chi avesse da fare. Due o tre minuti rimasero immobili, con il ferro sul ferro, gli occhi negli occhi, l’odio che si scontrava con l’odio.
Enrico ritirò la sua spada facendola strisciare lento lento su quella del suo avversario con un movimento felino. Parve che un fremito si fosse comunicato dal suo ferro a tutto il suo corpo, ed assaltò bruscamente. Ad un tratto si piegò come un arco colla rapidità del lampo, ed io che gli stavo alle spalle vidi luccicare la punta della spada nemica dall’altra parte del suo petto.
— Alto! gridarono i secondi, mettendo la spada fra i duellanti.
— Non è nulla! disse Enrico scoprendosi il petto. È una scalfittura.
Il ferro però avea fatto quel che avea potuto, e avea portato via quello che avea incontrato; una striscia di carne lacerata solcava il petto di Enrico, e la camicia, ch’era stata meno lesta di lui, era stata bucata netto.
Il chirurgo — un nostro carissimo amico, molto conosciuto a Mentana, come il dottore dal cappello bianco — esaminò la ferita; era infatti orribile a vedersi, ma non era grave, e quei signori potevano ancora seguitare a bucarsi la pelle.
— Diavolo! esclamò Enrico. Non credevo che ci fosse tanta carne sulle mie ossa.
Il dottore voleva fasciargli la ferita: — No, egli rispose; il signore ha diritto di aver nudo il suo bersaglio. — Il conte s’inchinò.
Non c’era che dire, quei due bravi giovinotti si scannavano da perfetti gentiluomini.
Tornarono a mettersi in guardia; ma stavolta erano pallidi entrambi, di un pallore sinistro; lo scherzo di buona società cominciava a farsi serio. Enrico sentiva al certo che non avea tempo da perdere, perchè il sangue gli scorreva fra le dita della mano che si teneva sulla ferita, e la mano e la camicia gli si erano fatte rosse; si vedeva una terribile tensione in tutta la sua persona, nell’occhio intento, nei movimenti nervosi, nel garretto saldo, nel corpo piegato all’indietro: sembrava una molla d’acciaio che stia per scattare. Il conte l’assaliva colla furia di chi capisce d’avere a fare con un terribile avversario, e sente di dover uccidere per non essere ucciso. Tutt’a un tratto si vide una striscia di luce strisciare e serpeggiare come una biscia sulla spada del conte, Enrico andare a fondo tutto d’un pezzo, e saltare indietro levando in alto la spada.
Il conte portò vivamente la sinistra sul petto, stralunò gli occhi, abbandonò la guardia, e si appoggiò un istante alla spada che si piegò sotto il suo peso; poscia barcollò e cadde su di un ginocchio.
Tutti si precipitarono su di lui. Enrico si fece ancora più pallido, e lo guardò cogli occhi di un mentecatto.
Il dottore dal cappello bianco s’inginocchiò presso del conte, mentre uno dei suoi secondi gli teneva il capo sui ginocchi, e gli aprì la camicia.
La ferita non doveva essere grave; era appena visibile, fra la terza e la quarta costola, e mandava pochissimo sangue. Sembrava davvero una cosa da nulla. Il dottore non ci gettò che una sola occhiata, quindi rialzandosi vivamente, con quell’accento che hanno soltanto i medici in certe occasioni: — La carrozza! ordinò, presto, la carrozza!





Passarono alcuni mesi senza che io più rivedessi Enrico Lanti. Ero ritornato in Sicilia, ma non ne avevo avuto più notizia. Un mattino, verso gli ultimi di ottobre, mi fu recapitata da un contadino una lettera urgente in Sant’Agata-li-Battiati, ove mi trovavo.
Il carattere di quella lettera che veniva a cercarmi con urgenza mi era assolutamente sconosciuto, e sembrava tracciato con mano tremante. Però non ci volle molto per correre alla firma, giacchè la lettera era brevissima: era di Enrico Lanti, e diceva:
«Amico mio, vorrei vederti, e siccome me ne rimane pochissimo tempo ti prego di affrettarli se vuoi rendermi quest’ultimo servigio.»
Mi misi in viaggio immediatamente, facendomi guidare dal contadino che mi avea recato la lettera.
Fuori Aci Sant’Antonio, dopo un cinque minuti di corsa per quella bella strada che svolge agli occhi del viandante l’incantevole panorama della vallata di Aci, tutta seminata di ville e di villaggi, fra le vigne e i boschi d’aranci, sino al mare, la mia guida mi additò una casetta elevata su di un ciglione. Bisognò lasciare la carrozza e metterci per una viottola attraverso ai campi.
Alla svolta del sentiero mi si presentò la casa ridente ed ariosa, ornata di viti e di rosai, con una bella spianata sul davanti, e due magnifici castagni che le facevano ombra.
Sotto uno di quegli alberi c’era una poltrona colla spalliera appoggiata al tronco; un mucchio di guanciali le dava l’aspetto doloroso che hanno le poltrone degli infermi. Vidi una scarna e pallida figura quasi sepolta fra quei guanciali, e accanto alla poltrona un’altra figura canuta e veneranda — la madre accanto al figliuolo che moriva.
Corsi a lui con una commozione che non sapevo padroneggiare. Com’egli mi vide mi sorrise di quel riso così dolce degli infermi, e fece un movimento per levarsi.
Si vedeva diggià il cadavere; il naso affilato, le labbra sottili e pallide, l’occhio incavernato.
Lo tenni stretto fra le mie braccia, ed egli mi baciò più volte; quel bacio era caldo di febbre; tutta la sua epidermide era riarsa, e l’anelito frequente ed affannoso gli si sprigionava dal petto come un sibilo.
Sedetti di faccia a lui; egli non volle abbandonare le mie mani, e cercava di sorridermi, quantunque dovesse molto soffrire, a giudicarne dalla contrazione dei suoi lineamenti, che di tratto in tratto non poteva dissimulare.
— Grazie! mi disse tutto commosso. Tu almeno non mi hai dimenticato!
Tacque subito, sopraffatto da un violento scoppio di tosse, che, ahimè! non ebbe neanche la forza di prorompere, ma si contentò di lacerare quel povero petto, facendolo sobbalzare convulsivamente; poscia si abbandonò sui cuscini cogli occhi chiusi, sfinito. Quali occhi! Le palpebre nerastre si affondavano nell’occhiaja incavata, e quando si riaprivano scoprivano qualche cosa che parlava dell’altro mondo; nell’impeto della tosse tutto quel poco sangue che gli rimaneva sembrava aver corso, con rossori fuggitivi, sulla mortale pallidezza delle sue gote; poi quella pallidezza si era fatta più mortale ancora. La madre teneva abbracciati quei cuscini dove si perdeva quasi il corpo del figlio, e guardava quelle sembianze adorate, ove la morte sbatteva diggià la sua livida ala, con l’occhio asciutto, come se il cuore avesse bevuto tutte le sue lagrime.
Feci un movimento per alzarmi; egli che possedeva la squisita percezione di tutto quello che si faceva vicino a lui, come l’hanno tutti i moribondi di quel male, mi strinse le mani, senza riaprir gli occhi, e mi fece cenno di non muovermi.
Dopo qualche secondo volse lentamente il capo, e fissò un lungo sguardo negli occhi di sua madre. Negli occhi della madre e in quelli del figlio non c’erano lagrime: c’era una mutezza che spezzava il cuore.
— Mamma! disse Enrico, e la sua voce fioca vibrava come una carezza in quella dolce parola. Ecco un mio amico. Tu gli vuoi bene, non è vero?
La povera donna mi stese la mano, ed io la baciai religiosamente.
— Dove sono gli altri? domandò Enrico con la curiosità inquieta, particolare al suo stato.
— Tuo padre è andato ad accompagnare il medico, e l’Agatina è andata a coglierti una manata di gelsomini che ti piacciono tanto.
— Il medico!... mormorò il moribondo con accento che stringeva il cuore.
Nessuno di noi ebbe il coraggio di rispondere.
— Ti ho disturbato forse? mi domandò dopo alcuni istanti.
— Oh no!
— Avevo bisogno di vederti... e di parlarti.
Mi affissò col suo sguardo espressivo e lucidissimo, e soggiunse:
— Noi non fummo mai intimi; ma ci siamo incontrati in una tal'epoca della mia vita che mi pare di non avere altri amici che te. Eppoi — e sorrise dolorosamente — ho diritto alla tua  indulgenza... come tutti quelli che se ne vanno verso coloro che rimangono...
— Enrico! esclamai stringendogli le mani con dolce rimprovero, e rivolgendo involontariamente uno sguardo alla madre di lui.
Anch’egli rivolse gli occhi su di lei, e dopo alcuni secondi di angosciosa contemplazione gli si riempirono di lagrime.
— Mamma! le disse dopo una qualche esitazione, non vorresti dire all’Agatina di fare anche un mazzolino pel nostro amico?
La povera madre si levò in silenzio, e si allontanò.
Rimasti soli ci guardammo senza aprir bocca. Nessuno di noi due trovava la prima parola, e quel suo sguardo mi trafiggeva il cuore.
— Io muoio!... diss’egli finalmente, con un accento che non potrò mai dimenticare. Tu lo vedi!...
Non potei frenare le lagrime, e gli strinsi la mano con forza.
— Coraggio, povero amico mio!
— Credi dunque che mi rincresca di morire?... Io non avrei bisogno di coraggio... se non fosse per quei poveri vecchi che mi spezzano il cuore!
I suoi occhi, ove soltanto sembrava essersi raccolta la vita, luccicavano di lagrime mentre li volgeva su tanto sorriso di cielo, su tanto azzurro di mare, su tanto verde di giardini che gli stava attorno. Il suo cuore d’artista, che possedeva la squisita suscettibilità d’idealizzare quelle impressioni dei sensi, doveva grondar sangue parlando di morte fra tanta ricchezza di vita. Non ebbe più a lungo la forza di dissimulare l’angoscia che doveva lacerarlo a quelle parole, e mormorò con un sospiro a stento represso:
— Com’è bello tutto ciò!... Io solo posso sentirlo!...
Rimanemmo qualche tempo in silenzio. — L’hai veduta? mi domandò tutt’a un tratto, come se noi ci vedessimo soltanto da pochi giorni, o come se seguitasse un discorso incominciato.
— No! risposi con ripugnanza, poichè il ricordo di tal donna mi pareva una profanazione in quel momento.
Egli capì, e sorrise ironicamente.
— Ah! voi altri puritani!... come siete sciocchi!
Si aprì la camicia sul petto per cercarvi un pacchetto di carte. — Le ossa sembravano forargli la pelle gialla ed arida come cartapecora.
— Guardala! mi disse trionfante, svolgendo da quelle carte una piccola miniatura, e dimmi se il vostro puritanismo vale il suo sorriso!
Quel disgraziato, diggià per tre quarti cadavere, faceva un ultimo sforzo onde delirare per quella donna che gli sorrideva ancora nel ritratto, e che non si ricordava più di averlo amato.
— Quando sarai al punto in cui sono, mi disse Enrico, o quando sarai vecchio, il che è peggio! maledirai la tua saviezza che ti ha fatto insensibile alla luce, ai profumi, alle dolcezze della giovinezza!... — e c’era tanto calore nel paradosso di quel moribondo, che lo rendeva, direi, solenne.
— Oh, povero amico mio! gli dissi. Interroga la tua coscienza, interrogala senza rimpianti e senza collera, e non dirai più così.
— Che m’importa! saltò su a dire Enrico con tal vivezza come se un serpe l’avesse morsicato. Che m’importa della mia coscienza, e di tutti quei fantasmi che voi altri avete creato a furia di paroloni! Che m’importa del vero e del falso!... ho tempo di perderci la testa io?... E neanche voi altri ce l’avete... voi che v’isterilite il cuore mentre la giovinezza fugge come un lampo! Tu, vedi, sei giovane, sano e forte... tu mi guardi forse con maggior sorpresa che compassione, e domandi a te stesso come mai sia possibile che la vitalità che senti in te rigogliosa e robusta possa giungere a tanta miseria di deperimento... Eppure, tu lo vedi! Tutta cotesta robustezza, tutta cotesta forza... un soffio... e se ne vanno! e l’uomo... l’uomo che sente dentro di sè ancora intatto tutto questo inesplicabile mistero di desiderii, di speranze, di gioie e di dolori, che la malattia non ha nè indebolito, nè ucciso, l’uomo che lo sente più forte e tumultuoso quanto più infiacchiscono le sue forze, domanderà a sè stesso, come te, cosa sia dunque questa vita, e questa incognita che chiamano cuore!... Chi lo può dire?... Nessuno. E se nessuno lo sa, chi può dargli torto o ragione?
Tacque anelante, rifinito, come un uomo che abbia fatto una lunga corsa, e dopo un triste silenzio ripigliò con esaltazione morbosa:
— Ho visto tante mostruosità rispettate, tante bassezze cui si fa di cappello, tante contraddizioni di quello che chiamate senso morale, che non so più dove stia la verità. Tu che mi parli di gioie false, dimmi quali sieno le vere: quelle che costano più lagrime, o quelle che lasciano più rimorsi? — e perchè rimorsi? — Qual è l’amor vero, quello che muore, o quello che uccide? — e qual è la donna più degna d’amore? la più casta, o la più seducente? — dov’è l’infamia? nella donna che ama per vivere, o nell’uomo che vive per godere? — o che tiene il sacco all’adulterio colla complicità del silenzio — o che gli si inchina quando lo vede passare in carrozza? Chi sentenzia del bene e del male? Il mondo! Che cos’è? Quali sono i suoi diritti? e non mentisce? e non s’inganna? non è ipocrita? o non ha altra scienza che quella di negare? — e quell’altra di biasimare?
Si arrestava di quando in quando, e agitava la testa sul cuscino, come se i pensieri che gli martellavano il cervello non potessero più irrompere. La parola gli usciva rotta, a sibili, a rantoli; era uno spettacolo straziante.
— I pazzi son più felici di voi! — e ripetè due o tre volte questa frase. — Se vivete di menzogne, se non avete di certo che le illusioni, perchè le maledite quando sono belle?... Voi altri savi... che vi affannate dietro ad illusioni che non raggiungerete giammai... o che sconfesserete quando le avrete raggiunte, chiamate pazzo colui che si vive beato nelle sue illusioni!... Il pazzo come vi chiamerà, voi altri savj?
— E l’arte? gli dissi.
Egli scrollò il capo: - Menzogna! esclamò — Menzogna!... o illusione!
Dopo coteste parole stette a lungo in silenzio, cogli occhi chiusi, come se la vita l’avesse abbandonato intieramente. Era un lugubre silenzio. Poscia fissandomi in volto uno sguardo relativamente calmo, ed ove c’era una tinta di sorpresa: — È strano! mormorò; mi pareva che avessi bisogno di parlare di lei... e che tu mi dicessi che ella ti ha parlato di me... Ora non lo desidero più... Ho pensato ad Eva... e alla mia giovinezza... e li ho vedute lontan lontano... Sarà perchè sono stanco!
E dopo un altro silenzio.
— Posso contare le ore che mi restano di vita; posso dire: Domani... fra due giorni... quando quel bel sole farà scintillare l’immensa pianura d’acqua che si stende laggiù, e colorirà del suo bell’azzurro questo cielo... quando lo stesso albero getterà la stessa ombra sulla mia povera casa, e quegli uccelli schiamazzeranno fra le foglie... io sarò morto... non vedrò e non sentirò più nulla... nemmeno i pianti desolati dei miei genitori che mi chiameranno... Che rimarrà di me? di tutta cotesta immensità di pensiero che sento in così fragile involucro?... Non lo so! nessuno me lo sa dire! ciò è ben triste!... Non è vero?
Volse gli occhi lentamente, con stanchezza, su tutto l’orizzonte che lo circondava, e con una certa inesprimibile amarezza:
— La vita!... mormorò chiudendo gli occhi di nuovo, come se quella vista l’affaticasse, o gli lacerasse l’anima, e dopo una lunga esitazione — Sì! sì! c’è qualche cosa di vero nell’arte!...
Il dolore m’opprimeva. Non sapevo far altro che stringere fra le mie quelle povere mani scarne.
— Tu non muori, tu! mi diss’egli con una sublime e lacerante ingenuità... e forse la vedrai! Prendi; soggiunse dopo qualche secondo d’esitazione consegnandomi quel pacchetto che non aveva abbandonato. Se mai la rivedrai un giorno... se si rammenterà di me... dagliele... Se no... fanne quello che vuoi... bruciale... Domani forse sarò morto, e mia madre, e mia sorella... non devono saper nulla...
Ed esitò ancora lungamente prima di darmi il ritratto. In questo momento si udirono le voci dei suoi parenti che si avvicinavano. — Maledetta! esclamò egli trasalendo e buttando il ritratto per terra. Maledetta! Menzogna infame che mi hai rubato la felicità vera! maledetta! E maledetta anche te, arte bugiarda che c’inebrii con tutte le follie! Maledetta!
Un accesso di tosse sembrò soffocarlo; il corpo era troppo debole; ma lo spasimo lo faceva sollevare sulla poltrona, agitando le braccia  smaniosamente, e tentava quasi colle mani contratte di strapparsi dalla bocca e dal petto quel dolore insoffribile. In quel momento temetti sul serio che mi morisse fra le braccia.
Allorchè sopraggiunsero i suoi parenti era abbandonato sui cuscini, con un soffio di vita sulle labbra, cogli occhi fissi e le lagrime che gli rigavano le guancie.
Qual più doloroso spettacolo di persone che si adorano, che hanno la terribile certezza di doversi separare per sempre, che hanno il cuore a brani pel dolore, e che devono nasconderlo reciprocamente! Nella madre quel dolore era sovrumano, ma rassegnato, quasi sacro, nel padre era cupo e profondo, nell’ingenua e candida giovinetta era meno dissimulato, ma anche meno vivo, forse perchè a quell’età non si crede giammai intieramente alla sventura.
— Eccoti i tuoi gelsomini, Enrico! disse ella scuotendo il suo grembialino sulle ginocchia del fratello; ed ecco per lei... aggiunse arrossendo con un grazioso sorriso e inchinandosi con bel garbo.
La rigraziai commosso al vivo. Il desolato genitore venne a stringermi la mano.
Vidi la madre che si chinava sui cuscini del figliuolo e gli diceva qualche parola all’orecchio. Dal triste sorriso con cui il figlio rispose indovinai che gli aveva domandato come si sentisse — quella dolorosa domanda che si ripete più spesso quanto minori sono le speranze di avere una risposta rassicurante. Il padre che aveva lasciato il medico pochi momenti prima, non ebbe forse il coraggio di domandarglielo.
Lo sguardo intelligente del moribondo si affissava con indefinibile espressione sui suoi cari, come se volesse saziarsi della felicità di vederseli accanto mentre sentiva l’angoscia di allontanarsene sempre più ogni secondo.
— Perchè mi lasci così spesso? diss’egli al padre con accento che spezzava il cuore, stendendogli la mano che ricadde senza forza.
— Accompagnai il dottore, figliuol mio... rispose il povero vecchio facendo sforzi sovrumani per dissimulare le sue lagrime.
— Ah!... il dottore!... esclamò l’ammalato stringendosi nelle spalle.
Nessuno osò aprir bocca.
Mi alzai, poichè non mi sentivo le forze di assistere più a lungo a quello spettacolo, e perchè mi sembrava di dover rispettare il pudore di quelle angoscie.
— Te ne vai diggià? mi diss’egli stendendomi la mano.
— Sì.
— Verrai domani?
— Verrò.
Credeva ancora nel domani!
— Domani!... esclamò quindi tristamente. Chi lo sa?... Ad ogni modo, soggiunse stringendomi le mani, baciamoci... come due amici che si lasciano per lungo tempo...
Quel bacio caldo, in cui si sentiva già l’anelito del moribondo, mi trafisse il cuore. Egli mi seguiva con quello sguardo che strappava le lagrime, finchè svoltai l’angolo della viottola.
Il padre suo insisteva per accompagnarmi sino allo stradale. Mi parve un delitto il defraudarlo di quegli ultimi e solenni momenti che poteva passare ancora presso il figlio che la morte gli rapiva. Partii addolorato profondamente.
Tutta la notte non potei dormire. Sembravami di sentire al mio capezzale il rantolo di quel moribondo, e di vedermi dinanzi agli occhi quello sguardo e quel sorriso nuotanti nel sudore dell’agonia.
Il giorno dopo, di buon mattino, ritornai ad Aci Sant’Antonio. Sulla strada di Valverde incontrai il contadino che mi avea recato la lettera di Enrico il giorno innanzi. Lessi tutta la verità nell’occhiata che egli mi volse, e l’interrogai col solo sguardo.
— All’alba! mi rispose levandosi il cappello e segnandosi.
Ordinai al cocchiere di tornare indietro; mi buttai in fondo alla carrozza, e piansi.


fine.