giovedì 31 dicembre 2020

Dialogo di un venditore di almanacchi Leopardi

 

Giacomo Leopardi - Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere


Come ogni anno, e tanto più questo in cui ci diciamo "il 2021 sarà migliore!", oggi bisogna leggere il "Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere" del più grande di tutti, cioè Giacomo Leopardi. 

Giacomo Leopardi - Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere


Brani scelti: GIACOMO LEOPARDI, Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere, 1832 (Operette morali).

Venditore.  Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?
Passeggere. Almanacchi per l'anno nuovo?
Venditore. Si signore.
Passeggere. Credete che sarà felice quest'anno nuovo?
Venditore. Oh illustrissimo si, certo.
Passeggere. Come quest'anno passato?
Venditore. Più più assai.
Passeggere. Come quello di là?
Venditore. Più più, illustrissimo.
Passeggere. Ma come qual altro? Non vi piacerebb'egli che l'anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?
Venditore. Signor no, non mi piacerebbe.
Passeggere. Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi?
Venditore. Saranno vent'anni, illustrissimo.
Passeggere. A quale di cotesti vent'anni vorreste che somigliasse l'anno venturo?
Venditore. Io? non saprei.
Passeggere. Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?
Venditore. No in verità, illustrissimo.
Passeggere. E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?
Venditore. Cotesto si sa.
Passeggere. Non tornereste voi a vivere cotesti vent'anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste?
Venditore. Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.

Passeggere. Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?

Venditore. Cotesto non vorrei.
Passeggere. Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch'ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l'appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?
Venditore. Lo credo cotesto.
Passeggere. Né anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo?
Venditore. Signor no davvero, non tornerei.
Passeggere. Oh che vita vorreste voi dunque?
Venditore. Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz'altri patti.
Passeggere. Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell'anno nuovo?
Venditore. Appunto.
Passeggere. Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest'anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d'opinione che sia stato più o di più peso il male che gli e toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch'è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll'anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
Venditore. Speriamo.
Passeggere. Dunque mostratemi l'almanacco più bello che avete.
Venditore. Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.
Passeggere. Ecco trenta soldi.
Venditore. Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.

lunedì 28 dicembre 2020

TRASFORMARSI



TRASFORMARSI

Trasformarsi appartiene a tutti noi, alla nostra vulnerabilità, che ci chiede di uscire dalle vie consuete, per cercare nuove coordinate, fuori da quelle con cui siamo soliti confrontare  le nostre esperienze alle altrui, per esprimere giudizio su entrambe. Anche se la trasformazione riguarda chiunque, spesso temiamo la metamorfosi per paura di essere sperduti nell'ignoto. Si manifesta in noi l'ancestrale paura del buio quale metafora della morte. Allora cerchiamo rifugio nella massa, come ricerca di socialità delle differenze indifferenziate, delle differenze senza identità, subordinate a concetti impliciti che sono, spesso, solidi e rassicuranti preconcetti.

venerdì 25 dicembre 2020

ALLELUHIA Leonard Cohen



Il vero significato di ''Halleluja'' di Leonard Cohen: uno sprezzante atto di infinita superbia nei confronti di Dio

E' una delle canzoni più cantate e suonate in questo periodo natalizio associata a qualcosa di gioioso e che dovrebbe riguardare Gesù e la sua nascita. In realtà il testo è particolarmente complesso, in quanto riporta citazioni della Torah (la Bibbia Ebraica), ai più del tutto sconosciute e il risultato è quantomeno inaspettato
Di Riccardo Petroni - 24 dicembre 2020

Ha pubblicato “Yehoshua ben Yosef detto Gesù – La sua vera storia – la forza delle sue idee”, “Il Vangelo Segreto di Gesù”, “Gesù di Betlemme” e “Il Ritorno alla Casa di Israele (il Noachismo)”

In questi giorni natalizi mi è più volte capitato di sentire alla radio, o in concerti in Tv, la bellissima canzone “Hallelujah” di Leonard Cohen. Brano che molto spesso viene cantato in Chiesa e anche in Vaticano, al quale si tende, d’istinto, ad attribuire un valore quasi “liturgico”, abbinando la parola “Halleluja” alla nascita di Gesù a Betlemme nella Notte Santa.

“Halleluja” è infatti una parola che richiama sentimentalmente l'immagine dei pastori all’aperto con gli angeli in cielo che la cantano, illuminati dalla stella cometa, davanti alla capanna, con Giuseppe, Maria, il bambinello, l’asino e il bue, nella mangiatoia e con i Re Magi in arrivo. Indubbiamente una delle più belle immagini della tradizione cristiana. La sacralità quindi dell’invocazione “Hallelujah”, inserita in questa splendida ed oramai “universale” ballata, ha fatto sfuggire ai più il contenuto del testo (quindi il suo significato) scritto nel 1989 dall’ebreo-canadese Cohen e inserito, quasi per caso, nell’Lp intitolato “Various Position”, che all’epoca passò del tutto inosservato.

Tanto inosservato che se non fosse stata reinterpretata nel 1991

Contenuto sponsorizzato
con grande successo dall’americano John Cale (fondatore con Lou Reed dei “Velvet Underground”), sarebbe andata forse persa del tutto. Bene: questa canzone, che oggi vede oltre 300 covers (forse fra le più cantate in tutto l'intero pianeta), non ha alcun riferimento né con il cristianesimo né con la nascita di Gesù e, come vedremo, ha un contenuto davvero scioccante. Partiamo innanzitutto dal significato di “Hallelujah”, parola ebraica composta da Hallelu (הַלְּלוּ) e da Yah (יָהּ), che significa “preghiamo Yahveh”.

“Yah” è infatti la forma abbreviata di “Yhwh”, il Tetragramma Ebraico. Tetragramma deriva dal greco “tetragràmmaton”: τέτρα (che vuol dire “quattro”) e “γράμματα” (che significa “lettere”). E’ dunque la sequenza delle quattro lettere ebraiche che compongono il nome proprio di Dio, che per gli ebrei è troppo sacro per essere nominato o scritto per intero.

E passiamo subito al testo, che è un dialogo fra Cohen (nei panni del Re David) e Dio. Testo particolarmente complesso, in quanto riporta citazioni della Torah (la Bibbia Ebraica), ai più del tutto sconosciute.

Prima strofa:

“Ho sentito parlare di una melodia segreta
che Davide suonava e compiaceva il Signore.
Ma Tu non ti interessi di musica, non è vero?
Funziona così: la quarta, la quinta, la minore aumentata, la maggiore diminuita”

Significato

Cohen parte con un brano che si trova nella Bibbia in “Samuele”. Il giovane David suona la cetra per far guarire Saul, che era il Re di Israele. Si legge infatti: “Quando dunque lo spirito sovrumano investiva Saul, Davide prendeva in mano la cetra e suonava: Saul si calmava e si sentiva meglio e lo spirito sovrumano si ritirava da lui” (Davide a sua volta diventò Re di Israele alla morte di Saul). Rembrandt rappresenta stupendamente questo momento nel suo “Saul e Davide”, che dipinse tra il 1651 e il 1658. Cohen rivolgendosi a Dio, lo apostrofa dicendogli: “Ma a Te non interessa molto della musica, non è vero?”, sottintendendo che a Dio non interessano molto le “questioni terrene”.

Prosegue così la canzone:

“Il Re meravigliato compose un hallelujah
Hallelujah, Hallelujah, Hallelujah, Hallelujah”

Il Re adesso è David (salito al trono, come abbiamo detto, dopo Saul), meravigliato perché si trova a comporre, senza rendersene conto, proprio l’Alleluja, ovvero un’invocazione a Dio. Ma il “David” che Cohen cita adesso, vuol essere anche se stesso. Anche lui infatti è meravigliato per lo stesso motivo, per aver composto l’Halleluja con un Dio disinteressato alla musica.

E poi:
 

La tua fede era incrollabile ma avevi bisogno di una prova
l'aevevi vista mentre faceva il bagno sulla terrazza
la sua bellezza e la luce della luna ti avevano sopraffatto.
E lei ti legò ad una sedia della cucina

spezzò il tuo trono e tagliò i tuoi capelli,
e dalle tue labbra tirò fuori l'Hallelujah.
Hallelujah, Hallelujah, Hallelujah, Hallelujah”.

Qui Cohen, ricorrendo sempre ad un brano biblico di Samuele ci dice che Davide, nonostante sia il più importante Re di tutta la storia di Israele e nonostante la sua fede sia incrollabile, sale sulla terrazza della reggia e di lì vede Bath-Sheba (Betsabea), moglie di Uria l’Ittita (un guerriero al suo servizio proveniente da Hatti in Asia Minore), fare il bagno. Scrive infatti così il Testo Sacro: “Al tempo in cui i re sogliono andare in guerra Davide rimasto a Gerusalemme, un tardo pomeriggio, alzatosi dal letto si mise a passeggiare sulla terrazza e vide una donna che faceva il bagno: la donna era molto bella d’aspetto. Davide mandò ad informarsi chi fosse la donna. Gli fu detto: è Betsabea figlia di Eliàm, moglie di Urìa l’Hittita”.

David, preso da un infinito ardore “carnale” di fronte a quella vista, dimenticando il suo ruolo e la sua

Contenuto sponsorizzato
fede, manda a prendere Betsabea e giace con lei (““Allora Davide mandò messaggeri a prenderla. Essa andò da lui ed egli giacque con lei. Poi essa tornò a casa”). Compie così un adulterioreato ritenuto “immondo”, che comportava all’epoca, per gli ebrei, nientemeno che la pena di morte. Betsabea rimase incinta (“La donna concepì e fece sapere a Davide: sono incinta”).

A seguito di ciò la Bibbia ci dice che Dio decise di perdonare David per il suo peccato, ma decretò la morte di quel figlio nato illegalmente.

Va avanti così la canzone:

“Tu dici che ho pronunciato il nome invano
io neanche lo conosco il Nome,
ma se anche così fosse, cosa cambierebbe per te?
C'è un'ondata di luce in ogni parola

non importa quale hai ascoltato, l'hallelujah sacro o quello spezzato.
Hallelujah, Hallelujah, Hallelujah, Hallelujah”

In queste parole Cohen, identificandosi ancora con Davide, si rivolge di nuovo a Dio. Questa volta in modo ancor più superbo e direi del tutto oltraggioso, dicendogli “apertis verbis” che pensa che a Lui poco gli importi se gli uomini sanno o non sanno che Lui esiste. Cosa cambierebbe infatti per Dio nell’una o nell’altra ipotesi, tenuto conto che per Cohen è così poco interessato alle vicende umane? Ecco allora che Cohen ci dice che quello che invece conta per lui non è se Dio esiste o non esiste, quello che conta davvero per lui sono le parole, la poesia, le emozioni: vere “onde di luce”. Ed è proprio la forza delle parole e delle emozioni che sono in grado di trasformarsi in un autentico Halleluja. E non importa se è un’invocazione “disperata”, quindi umana e corrotta, oppure “sacra”.

Conclude così il testo
 

Ho fatto del mio meglio, non è stato molto.
Non potevo sentire, così ho tentato di toccare.
Ho detto la verità, non volevo prenderti in giro.
E sebbene tutto sia finito male
starò in piedi davanti al Dio della Musica
con nient'altro nella mia voce che il mio Hallelujah
Hallelujah, Hallelujah, Hallelujah, Hallelujah”.
 

Dopo quel tremendo atto di superbia di fronte a Yahveh (Dio), Cohen rimette i piedi per terra e dichiara - sempre a Dio, i suoi limiti affermando: “Ti ho detto quello che io penso sia la verità. E non l’ho detto per prenderti in giro”. E torna così ad immedesimarsi di nuovo con Davide, che spossessatosi sia del suo alto rango che dei suoi sentimenti religiosi , ha dato retta alla “carne”, commettendo un adulterio. Ma nonostante tutto sia finito male, con la morte del figlio (per volontà di Yahveh), che è nato da quel rapporto “impuro”, Cohen dice ugualmente e rabbiosamente che comunque, se anche a lui andrà male, gli rimarrà sempre il “Dio della Musica”, nella sua voce che canta Halleluja.

Ecco quindi che la tanto ieratica e “cristiano-liturgica” canzone “Halleluja”, altro non è che uno sprezzante atto di infinita superbia nei confronti di Dio. E’ quindi indubbiamente una canzone brutalmente “blasfema”, sia per gli ebrei che per i cristiani ''osservanti'' ma suona bene. 


domenica 20 dicembre 2020

È UN PROBLEMA Agatha Christie



È UN PROBLEMA

Agatha Christie

 Il più bel giallo, per me, di Agatha Cristie. La sua scrittura è fatta di pennellate che tratteggiano con nitidezza i personaggi...dentro dialoghi essenziali...

“- Ecco zia Edith, disse Sophia. 

La donna si curvò due o tre volte sulle aiuole fiorite, poi si avvicinò a noi. Mi alzai.

- Ti presento Charles Hayward, zia Edith. 

- Charles, questa è mia zia, la signorina de Haviland.

Edith de Haviland era una donna sulla settantina. Aveva il volto solcato di rughe, occhiali a pince-nez, e una massa di grigi capelli arruffati.”

“Qualcosa scattò nella mia mente. Era la citazione fatta da Sophia.

Improvvisamente ricordai l'intero verso della filastrocca:

C'era una volta un uomo deforme su una strada tutta tortuosa.

Trovò un'acciaccata moneta vicino a una scala sbilenca.

Aveva un gatto rognoso che catturò un topo sciancato.

E vissero tutti insieme in una piccola casa deforme.”


giovedì 17 dicembre 2020

 


ON CROIT QUE SELON LE DÉSIR...

On croit que selon son désir on changera autour de soi les choses, on le croit parce que, hors de là, on ne voit aucune solution favorable. On ne pense pas à celle qui se produit le plus souvent et qui est favorable aussi : nous n’arrivons pas à changer les choses selon notre désir, mais peu à peu notre désir change. La situation que nous espérions changer parce qu’elle nous était insupportable nous devient indifférente. Nous n’avons pas pu surmonter l’obstacle, comme nous le voulions absolument, mais la vie nous l’a fait tourner, dépasser, et c’est à peine alors si en nous retournant vers le lointain du passé nous pouvons l’apercevoir, tant il est devenu imperceptible.

— 

Marcel Proust, Albertine disparue ou La fugitive (La fuggitiva o Albertine scomparsa, Alla ricerca del tempo perduto, VI, p.38):

“Si crede che si potranno mutare a piacere le cose intorno a noi; lo si crede perché, fuori di questa, non si scorge nessun’altra soluzione favorevole. Non si pensa a quella che più spesso si avvera e che è, anch’essa, favorevole: noi non riusciamo a mutare le cose conforme al nostro desiderio, ma poco a poco il nostro desiderio muta. La situazione che desideravamo mutare perché insopportabile ci diviene indifferente. Non abbiamo potuto sormontare l’ostacolo, come volevamo assolutamente, ma la vita ce lo ha fatto aggirare, oltrepassare; e facciamo fatica allora, se, volgendoci verso le lontananze del passato, riusciamo a scorgerlo, tanto è diventato impercettibile”.

LA VITA È BELLEZZA Stefan Zweig "Dostoevskij"


 LA VITA È BELLEZZA 

La vita è bellezza, ma solo nella sofferenza trova un senso (Stefan Zweig "Dostoevskij",  pagg. 118, Castelvecchi). Zweig coglie l'essenza tragica, la vicinanza con l'abisso, la dimestichezza con i demoni, l'esperienza di Dio come tormento, il male e la perdizione come occasione di salvezza e redenzione, l'oscillazione tra generosità e dissolutezza, la centralità assoluta dell'anima. Kirillov, Satov, Raskol'nikov, Karamazov: i suoi personaggi, per Zweig, vivono nell'agitazione, intorno all'anima si forma il loro corpo, le passioni plasmano le loro figure.

domenica 13 dicembre 2020

Atene fu distrutta dalla paura



 “Atene fu distrutta dalla paura della peste, non dalla peste”

Postato il 31 Ottobre 2020 di L'ora di Cronache


Di Daniela Pastore

Durante uno dei conflitti più violenti della storia greca- la Guerra del Peloponneso – tra le due superpotenze del V a.C., cioè tra Sparta e Atene, quest’ultima fu afflitta da una gravissima epidemia che provocò la morte di migliaia di persone. Per la prima volta ne fu consegnata ai viventi, e ai posteri, una descrizione scientifica, comprensiva dei sintomi della malattia, della sua evoluzione e del suo epilogo, generalmente funesto. L’autore di questa cronaca fu Tucidide, maestro di tutti gli storici.

«E i medici non erano capaci di combatterla, perché non la conoscevano. Infatti loro erano nella situazione di curarla per la prima volta… Fece la sua prima apparizione, a quanto si racconta, in Etiopia, oltre l’Egitto; poi dilagò anche nell’Egitto, in Libia e nella maggior parte del regno di Persia. In Atene piombò all’improvviso e i primi a subirne il contagio furono gli abitanti del Pireo…». Se noi sostituiamo il nome dei paesi allora coinvolti con quello delle nazioni vittime della moderna epidemia, capiremo il senso profondo dell’antico detto: Historia magistra vitae. Etiopia come la Cina, la Persia come l’Europa, il Pireo come l’Italia con i suoi focolai.

Tucidide, che fu in prima linea nella guerra come stratega e comandante, descrive la peste arrivata ad Atene, nel 430 a.C: i suoi abitanti, padroni del mare, si erano rinchiusi nelle Grandi Mura, pensando di stare al sicuro, dalla più potente macchina da guerra del tempo cioè l’esercito degli Spartani. Fuori loro, dentro gli Ateniesi, con provviste che trasportate sul mare, sbarcate al porto del Pireo, sarebbero giunte senza problemi lungo un corridoio di circa 20 km, ben munito dalle mura, direttamente al cuore di Atene, centro della civiltà e della cultura. Ma il nemico, la peste, venne dal mare, ignoto ai più. Questi i sintomi ben descritti da Tucidide: starnuti, raucedine, tosse violenta, dolori allo stomaco, spesso lancinanti. Poi il morbo avanzava manifestandosi sul fisico: fuoco nel corpo, piccole piaghe e ulcere, tanto da voler bere continuamente acqua, anzi buttarsi dentro nella speranza di trovare un consolatore refrigerio. Si poteva diventare ciechi, ma anche c’era chi guariva: il prezzo era una completa amnesia, al punto da non riconoscere la propria famiglia. La solitudine dilagava, insieme alla peste.

«Ma di tutto il male la cosa più terrificante era la demoralizzazione da cui venivano presi quando si accorgevano di essere stati contagiati dal morbo ….. Ciò provocò la più vasta mortalità».

Le parole di Tucidide, da cui si evince il clima di paura del contagio e della morte nel quale vivevano gli ateniesi sono, ahimè, ancora attuali. La paura del virus ha generato una vera psicosi alimentata quotidianamente dai massmedia.

L’auspicio è che saremo capaci di affrontare la crisi in corso anche grazie a questa lezione di storia. Duemilacinquecento anni fà, come oggi, si dovette gestire l’emergenza, i bisogni economici e prevenire la disperazione ed i disordini sociali. Il grande Pericle non ci riuscì e così iniziò il declino della civiltà ateniese. Noi, speriamo che ce la caviamo.

giovedì 10 dicembre 2020

L’ALBA B. Pasternak Il dottor Zivago



L’ALBA

 (B.  Pasternak Il dottor Zivago)

Tutto significavi tu nel mio destino. Poi venne la guerra, lo sfacelo,

e per tanto, tanto tempo, di te

non una notizia, non una parola.

E dopo tanti, tanti anni

di nuovo la tua voce mi ha turbato. Tutta la notte ho letto il tuo messaggio riprendendomi come da un deliquio.

Ho voglia d’andare fra la gente, nella folla,

fra la loro animazione mattutina.

Sono pronto a mandare tutto in schegge 

e a mettere tutti in ginocchio.

E corro giù per la scala,

come se uscissi per la prima volta su queste strade di neve, sul lastrico deserto.

Dovunque ci si alza, luci e intimità,

e chi prende il tè, chi s’affretta ai tram: bastano pochi minuti

e la città ha tutto un altro volto.

Nei portoni la tormenta tesse una rete di fiocchi fitti fitti,

e per fare in tempo tutti corrono, 

senza finir di bere e di mangiare.

Io per loro, per tutti sento

come se fossi nella loro pelle,

anch’io mi sciolgo come si scioglie la neve,

anch’io come il mattino aggrotto le ciglia.

E’ come me gente senza nome, alberi, bambini, persone casalinghe. 

Da loro tutti io sono vinto,

e solo in questo è la mia vittoria. 

(B.  Pasternak Il dottor Zivago)

UNA SPIA NELLA CASA DELL'AMORE Anaïs Nin


UNA SPIA NELLA CASA DELL'AMORE 

Anaïs Nin

Titolo originale:  

A Spy in the House of Love 

Traduzione di  

Delfina Vezzoli 

 

I grandi tascabili 

Romanzi e racconti 

 

Copyright 1954, 1959, 1974 by Anaïs Nin Copyright 1982  by The Anaïs Nin Trust  

Rupert Pole, Trustee 

Copyright 1990  

Gruppo Editoriale Fabbri, Bompiani 

Sonzogno, Etas S'p'A' Copyright 1999 rcs Libri S'p'A', Milano 

Bompiani 

  Moglie dolcissima e mite, amante appassionata e bugiarda, Sabina,  la protagonista di ^Una spia nella casa dell'amore, è una donna dalle  innumerevoli sfaccettature che cerca la propria identità inseguendo  contemporaneamente molti amori. L'unione con il marito le dà  sicurezza ma non la soddisfa appieno, perché un solo amore non riesce  a far vibrare in lei le infinite corde della sua sensualità. Durante  le molteplici peregrinazioni amorose, Sabina ritrova negli altri  uomini il riflesso del suo io spezzato che però non le corrisponde  mai esattamente. In Donald vede l'amante figlio, nel mulatto Mambo la  possibilità di essere appassionata, nel cantante Philip quella di  essere libera di concedersi senza amore come vede fare agli uomini.  Ma chi è veramente Sabina? Forse una donna che non ha mai amato e ha  

solo raccolto tanti frammenti d'amore? E' facile riconoscere  l'autrice dei racconti erotici e dei Diari nella protagonista di  questo romanzo: forse solo Anaïs Nin poteva raccontare con tanta  maestria psicologica il «viaggio erotico e sensuale nella vita  interiore di una donna». 

 

  

  Lo scopribugie era addormentato quando sentì squillare il telefono.   Dapprima credette che fosse la sveglia che gli ordinava di alzarsi,  ma poi si risvegliò completamente e si ricordò la sua professione.   La voce che udì era rauca, come contraffatta. Non riusciva a capire  cosa l'alterasse: se l'alcool, le droghe, l'ansia o la paura. 

  Era la voce di una donna; ma avrebbe potuto essere un'adolescente  

che imitava una donna, o una donna che imitava un'adolescente. 

  «Che c'è?» egli chiese. «Pronto. Pronto. Pronto.» 

  «Dovevo parlare con qualcuno; non riesco a dormire. Dovevo chiamare  qualcuno.» 

  «Lei ha qualcosa da confessare...» 

  «Da confessare?» gli fece eco la voce incredula; questa volta con  tonalità ascendenti inconfondibilmente femminili. 

  «Ma lo sa chi sono?» 

  «No, ho composto il numero alla cieca. L'ho fatto altre volte. E'  bello sentire una voce nel cuore della notte, tutto qui.»   «Ma perché un estraneo? Poteva chiamare un amico.» 

  «Un estraneo non fa domande.» 

  «Ma fare domande è proprio il mio mestiere.» 

  «Chi è lei?» 

  «Uno scopribugie.» 

  Dopo le sue parole ci fu un lungo silenzio. Lo scopribugie si  aspettava che la donna riattaccasse, invece la sentì tossire nel  telefono. 

  «E' ancora lì?» 

  «Sì.» 

  «Pensavo che avrebbe riattaccato.» 

  Ci fu una risata nel telefono, una risata molle, scintillante, a  spirale. «Ma lei non pratica la sua professione per telefono!»   «E' vero. Eppure lei non avrebbe chiamato se fosse innocente. La  colpa è proprio l'unico fardello che gli esseri umani non possono  sopportare da soli. Appena viene commesso un crimine, c'è una  

telefonata, o una confessione a estranei.» 

  «Non c'è stato nessun crimine.» 

  «C'è solo un sollievo: confessare, essere presi, processati,  puniti. Questo è l'ideale di tutti i criminali. Ma non è così  semplice. Solo metà dell'io vuole espiare, essere liberato dai  tormenti della colpa. Così solo metà dell'io si arrende, gridando  «prendimi», mentre l'altra metà crea ostacoli e difficoltà; cerca di  sfuggire. E' un amoreggiamento con la giustizia. Se la giustizia è  abile, seguirà l'indizio con l'aiuto del criminale. Altrimenti, sarà  il criminale a occuparsi della propria espiazione.» 

  «Ed è peggio?» 

  «Credo di sì. Credo che nel giudicare le nostre azioni noi siamo  più severi dei giudici di professione. Giudichiamo i nostri pensieri,  le nostre intenzioni, le nostre segrete maledizioni, i nostri odi  nascosti, non solo le nostre azioni.»   La donna riattaccò. 

  Lo scopribugie chiamò la centralinista e ordinò che gli  rintracciassero la telefonata. Era stata fatta da un bar. Mezz'ora  dopo era seduto là. 

  Non permise ai suoi occhi di vagare o di esaminare. Voleva che  stessero attente soltanto le orecchie, per poter riconoscere la voce.   Quando la donna ordinò da bere, egli alzò gli occhi dal giornale.   Vestita di rosso e argento, ella evocava i suoni e le immagini  delle pompe antincendio quando corrono all'impazzata per le strade di  New York, mettendo il cuore in allarme con il violento gong della  catastrofe, tutta vestita di rosso e argento, un rosso e un argento  laceranti che si aprivano la strada tra la carne. Appena la vide egli  pensò: «Brucerà tutto!» 

  Per il rosso e l'argento e il lungo grido d'allarme per il poeta  che sopravvive in ogni essere umano, come sopravvive in lui il  bambino; a questo poeta ella gettò una scaletta inattesa nel cuore  della città ordinandogli: «Sali!» 

  Al suo apparire, l'allineamento ordinato della città si apriva  davanti alla scaletta su cui si veniva invitati a salire, verticale  nello spazio come la scala del Barone di Münchhausen che andava  dritta in cielo. 

  Solo che la sua scala portava nel fuoco. 

  Egli la guardò di nuovo con cipiglio professionale.   La donna non riusciva a star ferma. Parlava profusamente e  ininterrottamente con un affanno febbrile come chi tema il silenzio.  Sedeva come se non potesse sopportare di star seduta a lungo; e  quando si alzò per comprare le sigarette, parve altrettanto ansiosa  di ritornare al suo posto. Impaziente, all'erta, guardinga, come se  temesse di essere attaccata, irrequieta e tesa, beveva in fretta;  sorrideva con tanta subitaneità da non lasciare neanche il tempo di  capire se era stato un sorriso; ascoltava solo in parte quel che le  veniva detto; e persino quando qualcuno al bar si sporgeva gridando  un nome alla sua volta, sulle prime non rispondeva, come se non fosse  il suo. 

  «Sabina!» gridò un uomo dal banco, piegandosi pericolosamente verso  di lei senza mollare la presa sullo schienale dello sgabello per  paura di cadere. 

  Qualcuno più vicino a lei ripeté galantemente il nome, che infine  ella riconobbe come il proprio. In quel momento, lo scopribugie si  spogliò dell'iridescenza che la notte, la voce, la droga del sonno e  la presenza della donna avevano creato in lui, e decise che Sabina si  comportava come chi sia afflitto da tutti i sintomi della colpa: il  suo modo di guardare la porta del bar, come se aspettasse il momento  opportuno per fuggire; i suoi discorsi improvvisati, senza  continuità; i suoi gesti imprevedibili e bruschi, slegati dai suoi  discorsi; il caos delle sue frasi; i suoi silenzi improvvisi,  imbronciati. 

  Gli amici si dirigevano verso di lei, le sedevano accanto, e poi si  allontanavano verso altri tavoli, obbligandola ad alzare la voce, di  solito bassa, per farsi udire al di sopra dei blues carezzevoli.   Stava parlando di una festa alla quale si erano verificati fatti  indistinti, scene sfocate in cui lo scopribugie non riusciva a  distinguere l'eroina dalla vittima; era come un sogno spezzato, con  spazi, risvolti, ritrazioni, e fantasie galoppanti. Adesso era in  Marocco e andava ai bagni con le donne del luogo, usando la loro  pietra pomice, e imparando dalle prostitute a truccarsi gli occhi con  il kohl venduto al mercato. «E' polvere di carbone, e la si mette  proprio dentro agli occhi. Prima brucia e fa lacrimare gli occhi, ma  poi si raccoglie sull'orlo delle palpebre, formando una riga nera e  brillante intorno agli occhi.» 

  «Non ti è venuta un'infezione?» le chiese alla sua destra qualcuno  

che lo scopribugie non riuscì a vedere chiaramente, un personaggio  indistinto che ella non prese in considerazione nemmeno mentre gli  rispondeva: «Oh, no, le prostitute lo fanno benedire alla moschea.» E  poi, visto che tutti ridevano a quest'uscita che lei non considerava  umoristica, Sabina rise con loro. Poi, come se quel che aveva detto  fosse stato scritto su una grande lavagna, ella prese una spugna e  cancellò tutto con una frase che lasciò persino in dubbio su chi  fosse andato ai bagni; forse, era solo una storia che aveva letto, o  udito a un bar e, non appena fu cancellata dalla mente dei suoi  ascoltatori, ecco che ne incominciò un'altra... 

  I visi e le figure dei suoi personaggi erano delineati solo a metà;  e, proprio quando lo scopribugie incominciava a percepirli, ecco che  veniva inserito un altro viso, un'altra figura, come in sogno. Quando  credeva che Sabina avesse parlato di una donna, saltava fuori che non  si trattava di una donna, ma di un uomo; e quando incominciava a  prendere forma l'immagine di un uomo, ecco che risultava che lo  scopribugie non aveva sentito bene: era un giovane che assomigliava a  una donna che un tempo si era presa cura di Sabina; e questo giovane  si trasformava istantaneamente in un gruppo di persone che una notte  l'avevano umiliata. 

  L'uomo non riusciva a mettere ordine nella sequela di gente che  Sabina aveva amato, odiato, sfuggito, come del resto non riusciva a  tener dietro ai cambiamenti del suo aspetto personale indicati da  frasi come: «A quell'epoca avevo i capelli biondi,» o: «Allora ero  sposata,» né a capire chi fosse stato dimenticato o tradito; e  quando, per disperazione, si attaccò a certe parole ricorrenti,  scoprì che la loro ripetizione non dava origine a un disegno preciso,  ma piuttosto a un'assoluta contraddizione. La parola «attrice»  ricorreva con maggiore persistenza; eppure, anche dopo ore di  ascolto, lo scopribugie non avrebbe saputo dire se la donna era  un'attrice, o voleva esserlo, o fingeva di esserlo. 

  Era spinta da una febbre di confessione a sollevare un lembo del  velo, ma si spaventava appena qualcuno ascoltava con troppa  attenzione. Più volte prese una spugna gigante e cancellò tutto quel  che aveva detto con una smentita assoluta, come se questa confusione  fosse di per sé un manto protettivo. 

  Dapprima adescava e trascinava l'altro nel suo mondo con la  lusinga; poi offuscava i passaggi, confondeva tutte le immagini, come  per eludere ogni ricerca. 

  L'apparire dell'alba alla porta la tacitò. Si strinse il mantello  intorno alle spalle, quasi fosse davanti alla minaccia ultima, al  nemico più grande. All'alba non avrebbe rivolto neppure un discorso  febbrile. La guardò con rabbia, e lasciò il bar. 

  Lo scopribugie la seguì. 

  

  Prima che Sabina si svegliasse del tutto i suoi occhi scuri  lasciarono intravedere fra le palpebre una luce di pietre preziose,  puro berillo verde scuro e lucente, non ancora scaldato dal suo stato  febbrile. 

  Poi, tutt'a un tratto fu sveglia, in guardia. 

  Non si svegliò gradualmente, con abbandono e fiducia nel giorno  nuovo. Appena luce o suono furono registrati dalla sua coscienza, il  pericolo fu nell'aria e lei si rizzò a sedere per far fronte ai suoi  colpi. 

  La sua prima espressione fu di tensione, e non era bella. L'ansia  che disperdeva la forza del corpo conferiva anche al viso una  vaghezza oscillante, tremula, che non era bellezza, come quella di un  disegno sfocato. 

  Lentamente, al sopravvenire del nuovo giorno, fu la sua stessa  messa a fuoco che le toccò ricomporre, per rimettere insieme corpo e  mente. E ciò richiese sforzo, come se tutte le dissoluzioni e le  dispersioni del suo io la notte prima fossero difficili da rimettere  insieme. Era come un'attrice che deve atteggiare il viso a  un'espressione, una posa per accogliere il giorno. 

  La matita per gli occhi non era un semplice ritocco a carboncino di  sopracciglia bionde, ma un disegno necessario per equilibrare una  caotica asimmetria. 

  Fondo tinta e cipria non venivan messi solo per far risaltare una  carnagione di porcellana, per cancellare i gonfiori irregolari  causati dal sonno, ma per appianare i solchi profondi disegnati dagli  incubi, per ridar forma ai contorni e alle superfici confuse delle  guance, per cancellare le contraddizioni e i conflitti che  deformavano la chiarezza delle linee del viso, disturbandone la  purezza delle forme. 

  Sabina deve ridisegnarsi il viso, appianare la fronte ansiosa,  separare le ciglia, lavar via i segni di lacrime segrete, accentuare  la bocca come su una tela, perché possa reggere quel suo sorriso  esuberante. 

  Il caos interiore, come quei vulcani segreti che sollevano  all'improvviso i solchi ordinati di un campo pacificamente arato, era  in agguato dietro a tutti i disordini del viso, dei capelli e degli  abiti, in attesa di una fessura attraverso cui esplodere. 

  Quella che adesso le rimandava lo specchio era una faccia rosata,  dagli occhi chiari, sorridente, liscia, bella. Le molteplici azioni  di composizione e artificio avevano semplicemente dissolto le sue  ansie; ora che si sentiva pronta a incontrare il giorno, emergeva la  sua vera natura che era stata macchiata e sfigurata dall'ansia.   Considerò i suoi vestiti, soppesando i possibili pericoli esterni  come aveva fatto per il nuovo giorno che si era introdotto attraverso  finestre e porte chiuse. 

  Credendo nel pericolo che emana dagli oggetti così come dalla  gente, quale vestito, quali scarpe, quale cappotto esigevano meno dal  suo cuore e dal suo corpo spaventati? Perché anche un abbigliamento  era una sfida, una disciplina, una trappola che una volta adottata  poteva influenzare l'attore. 

  Finì con lo scegliere un vestito che aveva un buco nella manica.  L'ultima volta che l'aveva indossato, era rimasta in piedi davanti a  un ristorante troppo lussuoso, troppo pretenzioso, un posto che la  intimoriva, ma invece di dire: «Ho paura ad entrare lì dentro,» era  riuscita a dire: «Non posso entrare lì dentro con un buco nella  manica.» 

  Scelse il mantello che le sembrava più protettivo, più avvolgente. 

  Anche il mantello nascondeva tra le pieghe una traccia di quel che  Sabina immaginava fosse una qualità posseduta esclusivamente  dall'uomo: un impeto, un'audacia, una spavalderia di libertà negata  alla donna. 

 

  Le impennate provocanti del toreador, la bandiera sventolante del  cavaliere medioevale all'attacco, una vela spiegata in pieno scontro  col vento, la visiera che ripara il guerriero in battaglia, tutto  questo sperimentava quando si avvolgeva le spalle in un mantello.   Un mantello steso per terra era il letto dei nomadi; un mantello  spiegato era la bandiera dell'avventura. 

  Adesso era vestita del costume più appropriato agli slanci, alla  battaglia, ai tornei. 

  Il sipario della vulnerabilità della notte si sarebbe alzato per  esporre un personaggio preparato. 

  Preparata, disse lo specchio, preparata dissero le scarpe,  preparata disse il mantello. 

  Rimase ritta a contemplarsi abbigliata per un incontro con la vita  per niente pacifico o fiducioso. 

  Non rimase sorpresa quando, guardando fuori dalla finestra, vide  l'uomo che l'aveva seguita appostato all'angolo, che fingeva di  leggere un giornale. 

  Non la sorprese perché era la materializzazione di una sensazione  che le era nota da anni: quella di un Occhio che la osservava e la  seguiva in tutto il suo vivere. 

  S'incamminò per la 18a Strada verso il fiume. Camminava a un ritmo  lievemente irregolare, come chi non respiri a fondo, con lunghi passi  affrettati, come in una gara di corsa. 

  Era una strada completamente fiancheggiata da garage di autocarri.  A quell'ora stavano spalancando le pesanti porte di ferro che  vomitavano fuori enormi autocarri a oscurare il sole. Le loro ruote  erano alte quanto Sabina. 

  Erano talmente vicini gli uni agli altri che non le era più  possibile vedere la strada o le case dall'altra parte del  marciapiede. Alla sua destra creavano un muro di motori rombanti, e  di ruote gigantesche che stavano incominciando a girare. Sulla sua  sinistra si aprivano altre porte, altri autocarri avanzavano  lentamente quasi a travolgerla. Si profilavano minacciosi, disumani,  tanto alti da non lasciarle intravedere i conducenti.   Sabina sentì una contrazione in tutto il corpo, e, appena si  ritrasse dal rumore, gli autocarri parvero ingrandirsi ai suoi occhi,  la loro dimensione divenire mostruosa, il rullo delle ruote  incontrollabile. Si sentì una bambina in un mondo enorme di giganti  minacciosi. Le ossa le parvero troppo delicate nei sandali. Si sentì  fragile e frantumabile, sopraffatta dal pericolo, da un male  meccanizzato. 

  Il senso di fragilità era così forte che la sconcertò l'apparire  alla sua sinistra di una donna, che camminava al suo fianco. Sabina  lanciò un'occhiata al profilo dell'altra e fu confortata dalla sua  altezza, dalla sua andatura sicura. Anche lei era vestita di nero, ma  camminava senza terrore. 

  E poi la donna svanì. Lo specchio era finito. Sabina si era  confrontata con se stessa, con la riproduzione fedele di se stessa  che camminava accanto al suo io interiore contratto, dimostrandole  ancora una volta la sproporzione tra i suoi sentimenti e la verità  esterna. 

  Molte altre volte Sabina aveva sperimentato la piccolezza, la  sensazione di pericoli giganteschi, ma nello specchio si trovava di  fronte una donna alta, forte, una donna matura di trent'anni,  all'altezza di ciò che la circondava. Nello specchio c'era l'immagine  di ciò che era diventata e l'immagine che dava al mondo, ma il suo io  profondo e segreto poteva essere travolto dalla grande ruota di un  camion. 

  Era sempre nel preciso momento di questa diminuzione di forze che  le appariva l'immagine di suo marito Alan. Ci voleva un senso di  debolezza in lei, un certo squilibrio interiore, un'esagerazione  delle sue paure, per suscitare l'immagine di Alan. Egli appariva come  un punto fisso nello spazio. Un viso calmo. Un portamento calmo. Una  statura che lo faceva spiccare tra la folla, e che corrispondeva  all'idea che Sabina aveva della sua unicità. L'immagine di Alan le  appariva davanti agli occhi come un'istantanea. Non le arrivava  attraverso la memoria tattile o qualche altro senso, solo attraverso  gli occhi. Sabina non ricordava il suo tocco, o la sua voce. Era una  fotografia nella sua mente, con la posa statica che lo  caratterizzava: in piedi, alto più della media così da dover  inclinare leggermente il capo, con un che di calmo che dava  l'impressione di una specie di benedizione. Non riusciva a vederlo  giocoso, o sorridente, o avventato, o senza una preoccupazione. Non  parlava mai per primo, imponendo il suo umore, i suoi gusti, ma  aspettava come fanno i confessori, per captare prima di tutto le  parole o gli umori degli altri. Questo gli conferiva la passività  caratteristica di un ascoltatore, di uno specchio. Non riusciva a  immaginarselo desiderare qualche cosa disperatamente (salvo che lei  tornasse a casa) o prendere qualcosa solo per sé. Nelle due  istantanee che Sabina portava con sé egli mostrava due aspetti ma  senza alcun contrasto: in una ascoltava e attendeva, saggio e  distaccato, nell'altra sedeva in meditazione come uno spettatore.   Qualsiasi avvenimento (in questo caso quello banale della  passeggiata lungo la 18a Strada) provocasse in Sabina un senso di  panico o di chiusura, sollecitava queste due immagini di Alan,  insieme al desiderio di tornare a casa. 

  Ritornò nella stanza in cui s'era svegliata quella mattina. Tirò  fuori la valigia da sotto il letto e incominciò a riempirla.   Il cassiere al banco dell'albergo le sorrise mentre passava diretta  verso l'uscita, un sorriso che a Sabina parve esprimere una domanda,  un dubbio. L'uomo al banco guardò la sua valigia. Sabina gli si fece  incontro e disse esitante: «Non... non ha pagato il conto... mio  marito?» 

  «Suo marito si è occupato di tutto,» disse l'uomo dietro al banco.   Sabina arrossì con rabbia. Stava per dire: E allora perché mi  guarda? E perché c'era una vaga ironia sulla sua faccia? E perché  anche lei aveva esitato davanti alla parola marito? 

  Il sarcasmo del personale dell'albergo aumentò il suo senso di peso  e di fatica. La valigia le si faceva sempre più pesante nella mano.  Con questo senso di smarrimento ogni oggetto diventava  straordinariamente pesante, ogni stanza oppressiva, ogni impresa  insormontabile. Ma, soprattutto, il mondo sembrava pieno di occhi  accusatori. Il sorriso del cassiere era stato ironico e lo scrutinio  dell'uomo al banco per niente amichevole. 

  Solo due isolati più in là c'era un rifugio, eppure la distanza  sembrava enorme, le difficoltà insuperabili. Sabina fermò un taxi:  

«Al 55 di Fifth Avenue.» 

  Il tassista si ribellò dicendo: «Ma signora, è solo a due isolati,  può anche camminare fin là. Le forze non le mancano di sicuro.» E si  allontanò accelerando. 

  Sabina camminò lentamente. La casa a cui arrivò era lussuosa ma,  come molte altre case del Village, non aveva ascensore. Non c'era  nessuno in giro per portarle la valigia. I due piani che dovette  salire le parvero la scala interminabile di un incubo. Le avrebbero  tolto anche le ultime forze. 

  Ma sono al sicuro. Lui sarà addormentato. Sarà felice del mio  arrivo. Sarà lì. Aprirà le braccia. Mi farà spazio. Non dovrò più  lottare. 

  Appena prima di arrivare all'ultimo piano Sabina intravide un  sottile raggio di luce da sotto la porta di lui e si sentì invadere  il corpo da un tepore gioioso. C'è. E' sveglio. 

  Come se tutte le altre cose che aveva sperimentato non fossero che  prove del fuoco e questo il rifugio, il luogo della felicità.   Non riesco a capire che cosa mi costringe a lasciare tutto questo,  questa è la felicità. 

  Quando la porta della stanza di lui si apriva sembrava sempre  spalancarsi su una stanza immutabile. I mobili non cambiavano mai di  posto, le luci erano sempre diffuse e gentili come le lampade di un  santuario. 

  Alan era sulla porta e prima di tutto ella vide il suo sorriso.  Aveva denti forti e regolari in una faccia lunga e stretta. Il  sorriso gli chiudeva quasi gli occhi che erano stretti e lasciavano  trasparire una morbida luce fulva. Stava in piedi molto eretto con un  portamento quasi militare, ed essendo molto alto piegava la testa che  sembrava cadere per il suo stesso peso a guardar giù verso Sabina.   La accoglieva sempre con una tenerezza che pareva dar per scontato  che ella fosse passata attraverso grandi pene. Accorreva  automaticamente a offrire conforto e riparo. Il suo modo di aprire le  braccia e il tono con cui la accoglieva implicavano: «Prima di tutto  ti conforterò e ti consolerò, prima di tutto ti rimetterò insieme,  sei sempre così logorata dal mondo esterno.» 

  La strana tensione ininterrotta, quasi penosa che Sabina provava  lontano da lui svaniva sempre in sua presenza, davanti alla porta  stessa della sua camera. 

  Alan le prese la valigia, muovendosi con gesti cauti, e la depose  accuratamente nell'armadio di lei. C'era un centro saldo come una  roccia nei suoi movimenti, un senso di gravitazione perfetta. Le sue  emozioni, i suoi pensieri ruotavano intorno a un centro fisso come un  sistema planetario ben organizzato. 

  La fiducia che le suscitavano la sua voce dalle note regolari, a un  tempo calda e lieve, i suoi modi armoniosi, mai bruschi o violenti, i  pensieri che egli soppesava prima di esprimere, le sue intuizioni  moderate, era così grande da rasentare un totale abbandono a lui, un  darsi assoluto. 

  Piena di fiducia gli si abbandonò, grata e affettuosa.   Gli riservava un posto speciale tra gli altri uomini, lui era  diverso e unico. Aveva l'unica posizione fissa nel fluttuare dei suoi  sentimenti. 

  «E' stanca la mia piccolina?» le chiese Alan. «E' stato pesante il  viaggio? E' stato un successo?» 

  Aveva solo cinque anni più di lei. A trentacinque anni aveva le  tempie brizzolate e le parlava come un padre. Le aveva sempre parlato  con questo tono? Cercò di ricordarsi Alan molto giovane, quando lei  aveva vent'anni e lui venticinque. Ma non riusciva per niente a  figurarselo diverso da adesso. A venticinque anni aveva la stessa  posa, parlava nello stesso modo, e persino allora la chiamava «la mia  piccolina». 

  Per un attimo, a causa della sua voce carezzevole,  dell'accettazione e dell'amore di cui le dava prova, Sabina fu  tentata di dirgli: «Alan, non sono un'attrice, non ho fatto una  tournée, non ho mai lasciato New York, era tutta un'invenzione. Sono  stata in un albergo con...» 

  Trattenne il respiro. Era quel che faceva sempre, trattenere il  respiro in modo che la verità non trapelasse mai, in nessun momento,  non qui con Alan, e non nella stanza d'albergo con un amante che le  aveva fatto delle domande su Alan. Trattenne il respiro per soffocare  la verità, fece ancora uno sforzo per essere proprio l'attrice che  negava di essere, per recitare la parte che negava di recitare, per  descrivere quel viaggio che non aveva fatto, per ricostruire la donna  che era stata via per otto giorni, perché il sorriso non svanisse dal  viso di Alan, perché la sua fiducia e la sua felicità non venissero  scosse. 

  Durante la breve sospensione del respiro Sabina riuscì a operare il  cambiamento. Adesso era un'attrice quella che stava davanti ad Alan,  che ricostruiva gli ultimi otto giorni. 

  «Il viaggio è stato faticoso, ma la commedia è andata bene. Sulle  prime odiavo la parte, come sai. Ma poi ho incominciato a sentire il  personaggio di Madame Bovary, e la seconda sera l'ho interpretato  bene, ho persino intuito il suo particolare tipo di voce e di gesti.  Ho cambiato me stessa totalmente. Non hai idea di quanto la tensione  possa rendere la voce più acuta ed esile, e di quanto il nervosismo  aumenti il numero dei gesti!» 

  «Che attrice sei,» disse Alan, «stai ancora recitando! Ti sei  immedesimata in quella donna così a fondo che non riesci a uscire  dalla parte. Stai facendo davvero molti più gesti del solito, e la  tua voce è cambiata. Perché continui a coprirti la bocca con la mano?  Come se stessi trattenendo qualcosa che sei fortemente tentata di  dire?» 

  «E' vero, è quello che faceva lei. Devo smetterla. Sono così  

stanca, così stanca, e non riesco a smettere... non riesco a smettere  di essere lei.» 

  «Restituiscimi la mia Sabina.» 

  Poiché Alan aveva detto che quella era solo la parte che lei aveva  recitato, poiché aveva detto che chi aveva di fronte non era Sabina,  non quella genuina, quella che lui amava, Sabina cominciò a sentire  che la donna che era stata via otto giorni, che era andata in un  alberghetto con un amante, che era stata turbata dall'instabilità  dell'altra relazione, dalla sua stranezza, fino a raggiungere  un'ansietà espressa in movimenti frenetici, dispersi, inutili, come  il tumulto del vento o dell'acqua, era davvero un'altra donna, una  parte che aveva recitato in tournée. E così si spiegavano la valigia,  la precarietà, la qualità evanescente di quegli otto giorni. Niente  di quanto era successo aveva rapporto con Sabina, l'aveva solo con la  sua professione. Era tornata a casa intatta, in grado di rispondere  con lealtà alla sua lealtà, con fiducia alla sua fiducia, con un  amore unico al suo amore unico. 

  «Restituiscimi la mia Sabina, e non questa donna con gesti strani  che non ha mai fatto prima, come quello di coprirsi la faccia, la  bocca con la mano come se stesse per dire qualcosa che non vorrebbe o  non dovrebbe dire.» 

  Le fece altre domande. Ed ora che Sabina si stava allontanando  dalla descrizione della parte che aveva impersonato per immergersi  nelle descrizioni di una città, un albergo, e altra gente del cast,  provò questa contrazione segreta, angosciante che le stringeva il  cuore, un'invisibile vampata di vergogna, invisibile agli altri ma in  lei bruciante come la febbre. 

  Era questa vergogna a ricoprirla all'improvviso, a permearle i  gesti annebbiando la sua bellezza e offuscandole gli occhi di  un'improvvisa opacità. La sentiva come una perdita di bellezza,  un'assenza di qualità. 

  Ogni improvvisazione, ogni invenzione a beneficio di Alan era  sempre seguita non da una consapevolezza diretta di questa vergogna,  bensì da una sostituzione: subito dopo aver parlato, aveva come  l'impressione che il vestito le si fosse sbiadito addosso, che gli  occhi le si fossero oscurati, si sentiva poco attraente, indegna  d'amore, non abbastanza bella, non di una qualità che meritasse  d'essere amata. 

  Perché mi ama? Continuerà ad amarmi? Il suo amore è diretto a  qualcosa che non sono io. Io non sono abbastanza bella, non sono  buona, non vado bene per lui, non dovrebbe amarmi, non lo merito, che  vergogna, vergogna, vergogna, non essere bella abbastanza, ci sono  altre donne tanto più belle, con visi radiosi e occhi chiari. Alan  dice che i miei occhi sono belli, ma io non riesco a vederli, per me  sono occhi bugiardi, la mia bocca è bugiarda, solo poche ore fa la  baciava un altro... Alan sta baciando la bocca baciata da un altro,  sta baciando gli occhi che hanno adorato un altro... che vergogna...  vergogna... vergogna... bugie, bugie... I vestiti che sta appendendo  per me con tanta cura sono stati accarezzati e stropicciati da un  altro, e l'altro era così impaziente che mi ha sgualcito e strappato  il vestito. Non ho avuto il tempo di spogliarmi. E' proprio il  

vestito che sta riponendo adesso con tanto amore... come faccio a  dimenticarmi di ieri, a dimenticare la vertigine, questa impetuosità,  come faccio a tornare a casa e rimanerci? Talvolta non riesco a  sopportare i rapidi cambiamenti di scena, i passaggi veloci, non  riesco a operare i cambiamenti senza sbalzi, da un rapporto  all'altro. Alcune parti di me si staccano come un frammento, volano  qua e là. Perdo parti vitali di me stessa, una parte di me è in  quella stanza d'albergo, una parte si sta allontanando da questo  rifugio, una parte di me sta seguendo un altro che cammina per le  strade da solo, o forse non da solo: qualcuno potrebbe prendere il  mio posto al suo fianco mentre io sono qui, questa sarà la mia  punizione, e qualcuno prenderà il mio posto qui quando io me ne vado.  Mi sento in colpa per lasciare tutti soli, mi sento responsabile  della loro solitudine, e mi sento colpevole due volte, nei confronti  di entrambi gli uomini. Ovunque io sia, sono divisa in tanti pezzi, e  non oso rimetterli insieme, più di quanto non mi azzarderei a mettere  insieme i due uomini. Ora sono qui, dove non mi si farà del male,  almeno per qualche giorno non mi si farà alcun male, né con parole né  con gesti... ma io non sono qui tutta intera, solo una metà di me è  al riparo. Ebbene, Sabina, come attrice non ce l'hai fatta. Hai  rifiutato la disciplina, la routine, la monotonia, le ripetizioni,  qualsiasi sforzo prolungato, e adesso hai una parte che dev'essere  cambiata ogni giorno, per risparmiare il dolore a un essere umano.  Lava i tuoi occhi bugiardi e la tua faccia bugiarda, mettiti i  vestiti che sono rimasti a casa, e sono i suoi, battezzàti dalle sue  mani, recita la parte di una donna intera, per lo meno è qualcosa che  hai sempre desiderato essere, così non è del tutto una bugia...   Alan non riusciva mai a capire la sua ansia di fare un bagno, il  suo bisogno immediato di cambiarsi d'abito, di togliersi il trucco  vecchio. 

  Il dolore dello scombussolamento e della divisione diminuiva, la  vergogna sfumava quando Sabina riusciva a partecipare alla  contentezza di Alan. 

  In quel momento si sente spinta da una forza esterna a essere la  donna che egli vuole, desidera, e crea. Qualsiasi cosa egli dica di  lei, sul suo conto, lei la realizzerà. Non si sente più responsabile  di quello che è stata. C'è una modificazione del suo viso e del suo  corpo, dei suoi atteggiamenti e della sua voce. E' divenuta la donna  che Alan ama. 

  I sentimenti che le sbocciano dentro e la trasportano sono  sentimenti d'amore, di protezione, di devozione. Sono sentimenti che  creano una corrente poderosa su cui essa galleggia. Hanno travolto  con la loro forza tutti i suoi dubbi, come succede nel caso di  devozioni fanatiche a un paese, a una scienza, a un'arte, quando  tutti i reati minori sono condonati per l'indiscutibile valore del  fine da raggiungere. 

  Le apparve negli occhi una luce simile alla sfaccettatura di un  diamante, incastonata nella precisione più netta del suo intento.  Altre volte le sue pupille erano dilatate, e pareva non mettessero a  fuoco il presente, ma ora la loro precisione di diamante era al  lavoro su questa trama laboriosa di bugie vitali, e le rivestiva di  una chiarezza che era ancor più trasparente di quella della verità.   Sabina vuole essere la donna che Alan vorrebbe lei fosse.   Talvolta Alan non è sicuro di quel che desidera. Allora la  tempestosa, tumultuosa Sabina attende in una immobilità incredibile,  pronta a cogliere i segni dei suoi desideri e delle sue fantasie.   Il nuovo io che essa gli offrì, creato per lui, appariva  intensamente innocente, più fresco di quanto avrebbe potuto essere  qualsiasi ragazza, perché era come l'astrazione pura di una donna,  una figura idealizzata, nata non da quel che lei era, ma dai desideri  di Alan e dai suoi. Per lui alterò persino il suo ritmo, abbandonò i  suoi gesti irrequieti e pesanti, la sua passione per gli oggetti  grandi, le stanze spaziose, per l'atemporalità, per il capriccio e le  azioni improvvise. Persino le sue mani, che erano vigorose, per amor  suo impararono a posarsi con maggiore dolcezza sugli oggetti che la  circondavano. 

  «Hai sempre voluto essere un'attrice, Sabina. Sono felice che tu  stia realizzando questo desiderio. Questo mi consola delle tue  assenze.» 

  Per fargli piacere Sabina incominciò a ricostruire gli avvenimenti  dell'ultima settimana della sua assenza: il viaggio a Provincetown,  il comportamento del cast, gli errori della regia, le reazioni del  pubblico, gli parlò della sera in cui erano saltate le valvole, e di  quella in cui si era rotto l'impianto sonoro. 

  Allo stesso tempo, desiderava con tutto il cuore potergli dire quel  che era successo davvero; avrebbe voluto poter appoggiare la testa  sulla sua spalla come su una forza protettrice, una comprensione  protettrice cui non importasse di possederla ma di conoscerla  totalmente, di una conoscenza che includesse l'assoluzione. Sperava  che Alan potesse giudicare le sue azioni con lo stesso distacco e la  stessa saggezza che riservava alle azioni di altri, sperava che  potesse assolverla come assolveva degli estranei conoscendo le loro  motivazioni. 

  Soprattutto desiderava la sua assoluzione per poter dormire  profondamente. Sapeva cosa l'aspettava in luogo del sonno: un'ansiosa  veglia notturna. Infatti dopo che aveva ricostruito gli avvenimenti  dell'ultima settimana per la pace mentale di Alan, questi, dopo  averla baciata con gratitudine, e con tutta la passione accumulata  durante la sua assenza, cadde in un sonno profondo abbandonandosi  totalmente alla notte che gli aveva riportato Sabina, mentre Sabina  rimase sveglia a chiedersi se tra le sue invenzioni non ce ne fosse  una che la potesse tradire in futuro, se la sua descrizione  dell'albergo di Provincetown non potesse dimostrarsi falsa, di  seconda mano com'era. Si chiedeva se si sarebbe ricordata i  particolari che aveva descritto, e quello che aveva detto sugli altri  membri del cast; se Alan un giorno o l'altro non avrebbe incontrato  uno degli attori del cast e scoperto che Sabina non aveva mai  lavorato con loro. 

  La notte arrivava semplicemente come un palcoscenico buio su cui le  scene inventate acquistavano un risalto ben maggiore che di giorno.  Le scene circondate dall'oscurità erano come le scene di un sogno,  ingigantite, tracciate con intensità, e al contempo cariche di  

riferimento agli abissi che circondavano i cerchi di luce.   Fuori da questa stanza, da questo letto, c'era un precipizio nero.  Era sfuggita al pericolo per un giorno, niente di più. Domani la  aspettavano altri pericoli. 

  Di notte si arrovellava il cervello anche sul mistero del suo  bisogno disperato di gentilezza. Mentre altre ragazze invocavano un  amante attraente, o bello, o potente, o versato per la poesia, lei  aveva sempre pregato con fervore: fai che sia gentile.   Perché doveva avere tanto bisogno di gentilezza? Era forse una  menomata? E se avesse sposato un uomo violento, o un uomo crudele?   Bastava la parola «crudeltà» per farle battere il cuore  all'impazzata. L'enormità dei pericoli che era riuscita a scampare  era tale che non osava neanche pensarci. Aveva desiderato la  gentilezza e l'aveva ottenuta. E adesso che l'aveva trovata la  metteva a repentaglio ogni giorno, ogni ora, in cerca di  qualcos'altro! 

  Alan dormiva così tranquillamente. Persino nel sonno aveva una posa  serena. Il disegno fermo del naso, della bocca e del mento, le linee  angolose del corpo eran tutte scolpite in un materiale di rettitudine  che non si sarebbe allentato. Persino nei momenti di desiderio, non  aveva gli occhi accesi, e i capelli scomposti degli altri. Non  avrebbe mai delirato di piacere, o emesso suoni quasi disumani, dalla  giungla del primevo animalismo dell'uomo. 

  Era forse questa calma a ispirarle fiducia? Alan non raccontava  bugie; ciò che pensava e sentiva poteva dirlo tranquillamente a  Sabina. Al pensiero della confessione, di potersi confidare con lui,  Sabina si era quasi addormentata quando dall'oscurità uscì l'immagine  vivida di Alan che singhiozzava, singhiozzava disperatamente come  aveva fatto alla morte del padre. Quell'immagine la risvegliò in uno  stato di terrore misto a un senso di compassione, e di nuovo Sabina  pensò: devo stare sempre in guardia, per proteggere la sua felicità,  sempre in guardia per proteggere il mio angelo custode... 

  

  Nell'oscurità Sabina rivisse interamente gli otto giorni passati a  Provincetown. 

  Si era inoltrata tra le dune in cerca della casa di O'Neil, e aveva  perso la strada. Le dune di sabbia erano così bianche al sole, così  immacolate, che Sabina si sentì come la prima terrestre in cima a un  ghiacciaio. 

  Sotto, il mare ribolliva come se stesse lottando per riportare la  sabbia nelle sue profondità, strappandone un poco ogni volta, solo  per restituirla con l'alta marea sotto forma di disegni geologici, un  mare immoto di onde di sabbia cristallizzate. 

  Lì si fermò e si tolse il costume da bagno per sdraiarsi al sole.  Il vento sollevava veli di sabbia e li depositava sulla sua pelle  come mussola. Sabina si chiese se, rimanendo lì abbastanza a lungo,  la sabbia l'avrebbe coperta facendola sparire in una tomba naturale.  L'immobilità le suscitava sempre quest'immagine, un'immagine di  morte, ed era questo che la costringeva ad alzarsi in cerca di  qualcosa da fare. Il riposo, per lei, assomigliava alla morte.   Ma qui, in questo momento di calore e di luce, con il viso rivolto  

al cielo, e il mare che si accavallava e si srotolava violentemente  ai suoi piedi, Sabina non temeva il vento che formava disegni sulla  sabbia, e provò un sollievo momentaneo dell'ansia e della febbre. La  felicità una volta era stata definita come l'assenza di febbre. Ma  cosa possedeva lei, che fosse l'opposto della febbre?   Era contenta che i suoi nervi, ipnotizzati dal rassicurante  splendore del sole e dall'inquietudine incurabile del mare, non si  attorcigliassero e non saltassero dentro di lei distruggendo questo  momento di riposo. 

  Fu in questo momento che sentì un canto. Non era un canto qualsiasi  che chiunque avrebbe potuto intonare, passeggiando sulla spiaggia. La  voce era potente e coltivata, con un preciso centro di gravità,  abituata a grandi sale e a un grosso pubblico. Né la sabbia, né il  vento, né il mare, né lo spazio riuscivano ad attenuarla. Si  dispiegava con sicurezza, sfidando tutti gli elementi, un inno vitale  di forza eguale alla loro. 

  L'uomo che apparve aveva un corpo all'altezza della sua voce, era  una cassa perfetta per questo strumento. Aveva un collo forte, una  testa grande con la fronte alta, spalle ampie e gambe lunghe. Una  grossa cassa armonica per le corde vocali, ottima per la risonanza,  pensò Sabina, che non si era mossa sperando che l'uomo le passasse  accanto senza vederla e senza interrompere la sua romanza dal  Tristano e Isotta. 

  Mentre il canto continuava Sabina si ritrovò nella Foresta Nera  delle favole tedesche che aveva letto così avidamente da bambina.  Alberi giganti, castelli, cavalieri, tutti di proporzioni smisurate  agli occhi di un bambino. 

  Il canto salì, si gonfiò, raccolse tutto il tumulto del mare, il  rutilante carnevale d'oro del sole, rivaleggiò col vento e lanciò le  sue note più alte nello spazio come l'arco di uno sgargiante  arcobaleno. E poi l'incanto si ruppe. 

  L'uomo aveva visto Sabina.  

  Esitò. 

  Il silenzio di lei, tanto eloquente quanto il canto di lui,  l'immobilità di lei un'emanazione dell'essenza del suo significato,  quanto la voce di lui. 

  (In seguito egli le disse: «Se tu avessi parlato me ne sarei  andato. Hai avuto il talento di lasciar parlare per te tutto il  resto. Proprio perché sei rimasta in silenzio, ti sono venuto  incontro.») 

  Sabina gli concesse di continuare il suo sogno. 

  Lo guardò camminare sciolto e libero su per la duna di sabbia,  sorridente. I suoi occhi prendevano il colore dal mare. Un momento  prima Sabina aveva visto il mare come un milione di occhi di diamante  e adesso soltanto due, più azzurri, più freddi, le si stavano  avvicinando. Se il mare, la sabbia e il sole avessero dato forma a un  uomo per incarnare la gioiosità del pomeriggio ne avrebbero prodotto  uno come questo. 

  Egli rimase in piedi accanto a lei oscurando il sole, ancora  sorridente mentre Sabina si copriva. Il silenzio continuò a  trasmettere messaggi tra di loro. 

  «Tristano e Isotta era più bello qui che all'opera,» disse Sabina,  e indossò tranquillamente il suo costume da bagno e la collana, come  se questo fosse la fine della prestazione del suo corpo e della voce  dell'altro. 

  L'uomo le si sedette accanto. «C'è solo un posto dove può essere  ancor più bello. La Foresta Nera stessa, dove è nato.» 

  Dall'accento dell'uomo Sabina capì che veniva di là, e che la sua  somiglianza fisica all'eroe wagneriano non era accidentale.   «L'ho cantato molto spesso lassù. C'è un'eco nella foresta, che mi  faceva pensare che quel canto venisse conservato in fonti nascoste  per sgorgare di nuovo molto dopo la mia morte.» 

  Sabina pareva ascoltare l'eco del suo canto, e della descrizione di  un luogo dove c'era una memoria, dove il passato stesso era come una  vasta eco che conservava le esperienze; mentre qui c'era una grande  determinazione a disfarsi dei ricordi e a vivere soltanto nel  presente, come se i ricordi non fossero che un bagaglio ingombrante.  

Era questo che lui voleva dire, e Sabina lo capì. 

  Poi Sabina fu di nuovo preda dei sommovimenti della marea interiore  e disse impaziente: «Camminiamo un po'.» 

  «Ho sete,» fece lui. «Torniamo verso il punto in cui ero seduto  prima, ho lasciato là un sacchetto di arance.» 

  Scesero le dune di sabbia lasciandosi scivolare come sugli sci su  un pendio nevoso, poi proseguirono sulla sabbia umida.   «Una volta vidi una spiaggia che a ogni passo faceva scintille  fosforescenti sotto i piedi.» 

  «Guarda il picchio della sabbia,» disse il cantante erroneamente,  ma a Sabina piacque la sua invenzione, e rise. 

  «Sono venuto qui a riposare prima del mio debutto all'Opera.»   Mangiarono le arance, nuotarono, e passeggiarono ancora. Solo al  tramonto finalmente si sdraiarono sulla sabbia. 

  Sabina si aspettava un gesto violento dell'altro, in armonia con il  suo grande corpo, le sue braccia pesanti, il collo muscoloso.   Egli la guardò con occhi spalancati, ora di un azzurro glaciale;  erano impersonali e parevano guardare al di là di lei, tutte le donne  che si erano fuse in una sola, che a sua volta, in qualsiasi momento,  poteva di nuovo fondersi in tutte quante. Era lo sguardo che Sabina  aveva sempre riscontrato nei Don Giovanni, ovunque, era lo sguardo di  cui diffidava. Era l'alchimia del desiderio che si fermava solo per  un attimo sull'incarnazione di tutte le donne in Sabina, ma che con  altrettanta facilità con un secondo processo poteva alchimizzare  Sabina in molte altre donne. 

  La sua identità di Sabina «unica», amata da Alan, era minacciata.  La diffidenza suscitata dallo sguardo di lui le raggelò il sangue  nelle vene. 

  Sabina esaminò il viso dell'uomo per vedere se aveva intuito il suo  nervosismo, se aveva capito che ogni attimo di esperienza suscitava  in lei questo nervosismo, che quasi la paralizzava. 

  Ma invece di fare un gesto violento, egli le prese la punta delle  dita con le sue mani ben modellate, come se stesse invitandola a un  giro di valzer, e disse: «Hai le mani così fredde.» 

  Le accarezzò il braccio, baciandole l'incavo del gomito, le spalle,  

e disse: «Hai il corpo caldo di febbre. Hai preso troppo sole?»   Per rassicurarlo Sabina disse sconsideratamente: «Paura del  palcoscenico.» 

  Egli rise a quest'uscita, in modo sarcastico, incredulo, come aveva  temuto Sabina. (C'era solo un uomo che credeva nella sua paura e in  quel momento avrebbe voluto correre da Alan, fuggire lontano da  quell'estraneo beffardo che lei aveva cercato di ingannare con le sue  pose, i suoi esperti silenzi, i suoi occhi invitanti. Era una parte  troppo difficile da reggere e non ce l'avrebbe fatta. Era tesa e  spaventata. Non sapeva come riguadagnare prestigio agli occhi di lui,  dopo aver ammesso una debolezza a cui quell'estraneo si rifiutava  beffardamente di credere, e che non armonizzava con i suoi  atteggiamenti provocanti. Quella risata beffarda l'avrebbe sentita  ancora quando il cantante l'avrebbe invitata a conoscere il suo  migliore amico, il suo compagno di avventure, il suo Don Giovanni  gemello, altrettanto affabile, leggiadro e spavaldo di lui. L'avevano  trattata spensieratamente come una della loro specie, l'avventuriera,  la cacciatrice, la donna invulnerabile, e ciò l'aveva offesa!)   Quando si avvide che Sabina non si univa alla sua risata, il  cantante, sdraiato al suo fianco, divenne serio, ma Sabina era ancora  offesa e il cuore continuava a batterle forte in preda alla paura del  palcoscenico. 

  «Devo tornare,» disse Sabina alzandosi e scuotendosi via la sabbia  con veemenza. 

  Con galanteria immediata egli si alzò, denotando una lunga  consuetudine di sottomissione ai capricci femminili. Si alzò e si  vestì, si gettò la sacca di pelle sulle spalle e camminò al suo  fianco, ironicamente cortese, impersonale, senza un'ombra di  turbamento. 

  Dopo un momento le disse: «Ti andrebbe di venire a cena con me al  

Dragon?» 

  «A cena no, ma più tardi sì. Verso le dieci o le undici.»   Egli s'inchinò di nuovo, ironico, e le camminò accanto con occhi  sereni. La sua disinvoltura la irritava. Camminava con la sicurezza  più assoluta che alla fine avrebbe realizzato il suo desiderio, e  Sabina odiava quella sicurezza, gliela invidiava. 

  Quando arrivarono alla cittadina di mare tutti si girarono a  guardarli. Il Messaggero luminoso, pensò Sabina, venuto dalla Foresta  Nera delle favole, col respiro profondo che gli allargava il petto,  la sua andatura eretta, e quel sorriso festoso che la faceva sentire  gaia e leggera. Sabina era fiera di camminargli al fianco, come se  portasse un trofeo. Come donna era appagata nella sua vanità  femminile, nel suo amore per la conquista. Questa passeggiata  vanagloriosa le diede un'illusione di forza e di potere: aveva  affascinato, conquistato, un uomo simile. Si sentì più importante ai  suoi stessi occhi, pur sapendo che questa sensazione non era diversa  dall'ubriachezza, e che sarebbe svanita come l'ebbrezza del vino, per  lasciarla il giorno dopo ancor più tremante, ancor più debole al suo  interno, sgonfiata, senza nessun arricchimento interiore.   La sua essenza profonda, là dove provava un'insicurezza costante,  quella struttura sempre prossima al collasso che poteva essere  sconvolta tanto facilmente da una parola rude, da una mancanza di  riguardo, da una critica, che si dibatteva senza risultato davanti  agli ostacoli, era ossessionata dall'immagine della catastrofe, dagli  stessi presagi ossessivi che sentiva nel valzer di Ravel.   Il valzer che portava alla catastrofe: dentro all'abisso, in un  turbinio di gonne scintillanti e vaporose, su pavimenti lucidi con le  note di sottofondo che simulavano allegria, una danza per burla, note  che ricordavano sempre che il destino dell'uomo era governato  dall'oscurità definitiva. 

  Questo nucleo profondo di Sabina era sostenuto temporaneamente da  una trave artificiale, dal sostegno dell'appagamento della vanità,  mentre quell'uomo così palesemente attraente camminava al suo fianco,  e tutti quelli che lo vedevano invidiavano la donna che lo aveva  affascinato. 

  Quando si separarono egli s'inchinò prendendole la mano alla  maniera europea, con un rispetto ironico, ma la sua voce era calda  quando le chiese di nuovo: «Verrai?» Mentre il suo fascino, la sua  perfezione e la sua disinvoltura non l'avevano affatto turbata,  quella lieve esitazione ci riuscì. Vedendolo incerto per un attimo,  lo sentì come un essere umano, un po' più vicino a lei nel suo non  essere completamente invulnerabile. 

  «Ci sono degli amici che mi aspettano,» disse Sabina. 

  Allora un sorriso lento ma decisamente abbagliante illuminò il viso  di lui mentre si ergeva in tutta la sua altezza e lanciava il saluto:  

«Cambio della guardia a Buckingham Palace!» 

  Dal tono ironico Sabina capì che il cantante non si aspettava che  lei avesse un appuntamento con degli amici, ma molto più  probabilmente con un altro uomo, un altro amante. 

  Non avrebbe creduto che lei voleva tornare nella sua stanza per  sciacquarsi via la sabbia dai capelli, per cospargersi d'olio la  pelle bruciata dal sole, per rinfrescarsi lo smalto sulle unghie, per  rivivere ogni momento del loro incontro sdraiata nel bagno,  assecondando la sua abitudine di voler gustare le ebbrezze  dell'esperienza non una, ma due volte. 

  Alla ragazza che divideva la stanza con lei sarebbe bastato solo un  accenno per spiegare la sua uscita serale, ma proprio quella sera  c'era una terza persona che stava con loro per una notte soltanto, e  questa donna era amica di Alan oltre che sua; quindi assentarsi  sarebbe stato più complicato. Ancora una volta avrebbe dovuto rubare  l'estasi e sottrarre alla notte le sue ebbrezze. Aspettò che le  amiche fossero entrambe addormentate e uscì silenziosamente, ma non  si avviò per la strada principale dove avrebbe trovato tutti i suoi  amici artisti che avrebbero potuto chiederle di unirsi a loro.  Scavalcò la ringhiera del molo e si lasciò scivolare giù per il palo  di legno, graffiandosi le mani e il vestito, e saltò sulla spiaggia.  Camminò sulla sabbia bagnata verso il più illuminato dei pontili dove  il Dragon offriva il suo corpo illuminato al neon agli assetati  esploratori della notte. 

  Nessuno dei suoi amici poteva permettersi il locale, dove persino  il piano aveva rinunciato al suo modesto coperchio per aggiungere  agli altri movimenti la danza del suo meccanismo interno denudato,  allargando il regno del pianista da note astratte a un balletto  disciplinato di pedine da scacchi inclinate su fili agitati.   Per raggiungere il night club dovette arrampicarsi su per una  grande scala di ferro fissata a pali luccicanti, su cui si  impigliarono il vestito e i capelli. Arrivò in cima senza fiato come  se fosse uscita da un'immersione e ritornasse dopo essersi liberata  dalla stretta di alghe marine. Ma non la notò nessuno eccetto Philip,  dato che il riflettore era puntato sul cantante di blues.   Una vampata di piacere trapelò anche da sotto l'intensa  abbronzatura di lui. Philip le spostò una seggiola e si piegò a  sussurrarle: «Temevo che non saresti venuta. Quando sono passato dal  tuo appartamento verso le dieci, non ho visto nessuna luce, così son  salito per le scale e ho bussato alla finestra, non troppo forte,  perché di notte non ci vedo bene, e temevo di aver fatto un errore.  Non ha risposto nessuno. Ho girato a tastoni nel buio... ho  atteso...» 

  Al pensiero che Philip potesse aver svegliato le sue amiche,  all'idea del pericolo scampato per un pelo, Sabina si sentì invadere  dalla febbre, il calore che il sangue libera di fronte al pericolo.  La bellezza di Philip di notte era come una droga, e l'immagine di  lui che la cercava alla cieca nella notte la commosse, disarmandola.  Aveva gli occhi più scuri adesso, orlati di polvere di carbone come  quelli delle donne orientali. Le palpebre avevano una sfumatura  azzurrina, e le sopracciglia, che non si strappava, le ombreggiavano  gli occhi il cui luccichio intenso sembrava venire da una fonte più  profonda che non durante il giorno. 

  Gli occhi di Sabina assorbivano le linee vivide dei tratti di lui,  e il contrasto tra la testa forte e le lunghe mani affusolate, senza  peli, coperte solo da una delicata peluria. Egli non solo le  accarezzava la pelle del braccio, ma pareva esercitare una sottile  pressione da musicista sui nervi nascosti di uno strumento che  conosceva bene, mentre le diceva: «La bellezza del tuo braccio è  esattamente come quella del tuo corpo. Se non conoscessi il tuo corpo  per volerlo mi basterebbe vedere la forma del tuo braccio.»   Il desiderio creò un'isola vulcanica, su cui essi giacquero come in  trance, sentendo sotto di sé i mulinelli sotterranei, sentendo la  pista da ballo, il tavolo, e i blues magnetici sradicati dal  desiderio, sentendo le valanghe dei tremiti del corpo. Sotto la pelle  delicata, i peli segreti, i rilievi e gli avvallamenti della carne,  scorreva lava vulcanica, desiderio incandescente, e dove essa  bruciava le note dei blues divenivano un acuto grido selvaggio, un  grido di piacere indomito di uccelli e animali, un grido di pericolo,  un grido di paura e un grido di parto e un grido ferito di dolore che  esplodeva dallo stesso delta rauco degli abissi della natura.   Le premonizioni tremanti che scuotevano la mano e il corpo  rendevano il ballo insopportabile, insopportabile l'attesa,  insopportabili le sigarette e le chiacchiere, presto sarebbero  arrivate la mossa indomabile del cannibalismo sensuale, l'epilessia  gioiosa. 

  Fuggirono gli occhi del mondo, i prologhi del cantante, profetici,  violenti, ovarici. Giù per i pioli arrugginiti di scale che portavano  ai sotterranei della notte propizi al primo uomo e alla prima donna  all'inizio del mondo, là dove non c'erano parole con cui possedersi a  vicenda, né musica per le serenate, né regali per il corteggiamento,  né tornei per colpire e indurre alla sottomissione, né strumenti  secondari, né ornamenti, collane, corone da conquistare, ma solo un  rituale, una gioiosa, gioiosa, gioiosa, gioiosa impalatura della  donna sull'albero sensuale dell'uomo. 

 

  Sabina riaprì gli occhi e si ritrovò sdraiata sul fondo di una  barca a vela, distesa sulla giacca di Philip che la proteggeva  galantemente da sedimenti, infiltrazioni d'acqua e molluschi. Philip  è sdraiato accanto a lei, e ha la testa più in alto della sua, e i  piedi che si allungano molto più in giù dei suoi. E' addormentato,  contento, respira molto profondamente. Sabina si mette a sedere alla  luce della luna, arrabbiata, inquieta, sconfitta. La febbre ha  raggiunto la sua vetta ed è calata indipendentemente dal suo  desiderio, lasciandolo irrisolto, arenato. Febbre alta e niente  orgasmo - che rabbia, che rabbia - per questo nucleo interno che non  vuole sciogliersi, mentre Sabina vuole essere come l'uomo, libera di  possedere e desiderare nell'avventura, di godere con un estraneo. Il  suo corpo non vuole sciogliersi, non vuole obbedire alla sua fantasia  di libertà. L'ha ingannata, privandola dell'avventura che si era  conquistata. La febbre, la speranza, il miraggio, il desiderio  rimasto in sospeso, non appagato, le sarebbero rimasti tutta la notte  e il giorno dopo sarebbero bruciati chiari dentro di lei facendo dire  a chi la vedeva: «Com'è sensuale!» 

  Philip si svegliò e sorrise grato. Aveva dato e preso ed era  contento. 

  Sabina giaceva pensando che non l'avrebbe più rivisto, desiderando  disperatamente di rivederlo. Lui stava parlando della sua infanzia e  della sua passione per la neve. Sciare gli piaceva molto. Poi, senza  un legame logico, un'immagine venne a disturbare questa scena  idillica ed egli disse: «Le donne non mi lasceranno mai in pace.»   «Se mai vorrai stare con una donna che non si aspetti sempre che si  faccia all'amore,» gli disse Sabina, «vieni da me. Io capirò.»   «E' meraviglioso che tu me lo dica, Sabina. Le donne si offendono  tanto se non si è sempre pronti e in vena di recitare la parte  dell'innamorato romantico quando si ha l'aria giusta per la parte.»   Furono proprio le sue parole che lo fecero tornare il giorno dopo  mentre le aveva confessato che non passava mai più di una serata con  una donna perché «poi incomincia a chiedere troppo, ad accampare  delle pretese...» 

  Venne e si incamminarono verso le dune di sabbia. Era loquace, ma  sempre impersonale. Segretamente Sabina sperava che le dicesse  qualcosa che sciogliesse l'inscioglibile nucleo sensuale, sperò di  poter reagire, che lui riuscisse a rompere la sua resistenza.   Poi l'assurdità della sua aspettativa la sconcertò: cercare un  altro tipo di fusione perché non era riuscita a raggiungere quella  sensuale, che era invece l'unica che voleva, per conquistare la  libertà maschile nell'avventura, per raggiungere un piacere senza la  dipendenza, un piacere che la liberasse da tutte le sue ansie legate  all'amore. 

  Per un attimo le sue ansie d'amore le parvero simili a quelle di un  tossicomane, un alcolizzato, un giocatore. Lo stesso impulso  irresistibile, la stessa tensione, la stessa spinta irrefrenabile e  poi la depressione che segue l'abbandono all'impulso, il ribrezzo,  l'amarezza, la depressione, e poi ancora una volta la coazione...   Per tre volte il mare, il sole e la luna assistettero ai suoi  sforzi di possedere davvero Philip e se ne beffarono: Philip, questa  avventura, quest'uomo che le altre donne le invidiavano tanto.   Ed ora, in città, in un autunno purpureo, si stava avviando verso  il suo appartamento dopo una sua telefonata. I campanellini  dell'anello indiano che lui le aveva dato tintinnavano allegramente.   Le venne in mente il suo timore che Philip svanisse con l'estate.  Non le aveva chiesto il suo indirizzo, e il giorno prima che partisse  era arrivata una sua amica. Egli le aveva parlato di questa donna con  riserbo. Sabina aveva intuito che era la più importante. Era una  cantante, le aveva detto Philip, e li univa la musica. Sabina sentì  nella sua voce un tono di rispetto che a lei non piaceva ispirare, ma  che era simile al tono che assumeva Alan quando parlava di lei. Per  quest'altra donna Philip provava i sentimenti che Alan provava per  Sabina. Egli parlò teneramente della salute cagionevole dell'amica, a  Sabina, che con tanta ostinazione gli aveva nascosto di aver freddo  quando nuotavano, o di esser stanca quando camminavano troppo a  lungo, o di sentirsi la febbre per il troppo sole. 

  Sabina inventò un gioco superstizioso: se questa donna fosse stata  bella, allora Sabina non l'avrebbe rivisto più. Se invece era la  donna amata di un amore costante, allora Sabina poteva essere il  capriccio, la droga, la febbre. 

  Quando Sabina la vide rimase sconcertata. La donna non era bella.  Era pallida, modesta. Ma in sua presenza Philip camminava sciolto,  felice, addolcito nella sua felicità, meno eretto, meno arrogante, ma  dolcemente sereno. Nessun bagliore di lampo nei suoi occhi azzurro  ghiaccio, ma una luce morbida di primo mattino. 

  E Sabina seppe che quando egli avesse voluto la febbre l'avrebbe  chiamata. 

  

  Ogniqualvolta si sentiva persa nei deserti interminabili  dell'insonnia, Sabina raccoglieva il filo labirintico della sua vita  ancora una volta dall'inizio per vedere se riusciva a scoprire in  quale momento i sentieri eran divenuti intricati. 

  Quella notte ricordò i bagni di luna, come se fosse stato questo a  marcare l'inizio della sua vita invece dei genitori, della scuola,  del luogo di nascita. Come se questi e non l'eredità o l'imitazione  dei genitori avessero determinato il corso della sua vita. Era nei  bagni di luna, forse, che giaceva la motivazione segreta delle sue  azioni. 

  A sedici anni Sabina faceva bagni di luna, prima di tutto perché  chiunque altro faceva bagni di sole, e in secondo luogo, ammise,  perché le era stato detto che era pericoloso. L'effetto dei bagni di  luna era sconosciuto, ma era sottinteso che fosse opposto a quello  del sole. 

  La prima volta che Sabina si espose ai raggi lunari era spaventata.  Quali sarebbero state le conseguenze? C'erano molti tabù contro il  guardare la luna, molte vecchie leggende sugli effetti malefici  dell'addormentarsi sotto i raggi di luna. Sabina sapeva che i pazzi  erano molto turbati dalla luna piena, e che alcuni di loro  regredivano a comportamenti animali ululando alla volta del  satellite. Sapeva che secondo l'astrologia la luna governava la vita  notturna e l'inconscio, invisibile alla coscienza. 

  Ma, d'altra parte, lei aveva sempre preferito la notte al giorno. 

  D'estate i raggi di luna cadevano direttamente sul suo letto.  Sabina si sdraiava su di esso nuda per ore e ore prima di  addormentarsi, chiedendosi che effetto avrebbero fatto i raggi  luminosi alla sua pelle, ai suoi capelli, ai suoi occhi, e anche più  a fondo, ai suoi sentimenti. 

  Le pareva che grazie a questo rituale la sua pelle acquistasse una  luminosità diversa, notturna, un bagliore innaturale che si  manifestava in tutto il suo fulgore solo di notte, sotto la luce  artificiale. La gente lo notò e le chiese cosa stesse succedendo.  

Alcuni insinuarono persino che prendesse delle droghe. 

  Ciò accrebbe il suo amore per il mistero. Sabina meditava su questo  pianeta che teneva nell'oscurità metà di se stesso. Lo sentiva vicino  perché era il pianeta degli innamorati. L'attrazione che esercitava  su di lei, il desiderio di bagnarsi nella sua luce, spiegavano la sua  repulsione per casa, marito e bambini. Incominciò a immaginarsi di  conoscere la vita che si svolgeva sulla luna. Amanti liberi, senza  casa, senza figli, neppure legati l'uno all'altro.   I bagni di luna cristallizzarono molti desideri e molti  orientamenti di Sabina. Fino a quel momento aveva solo sperimentato  una semplice ribellione contro il tipo di vita che la circondava, ma  ora incominciò a vedere le forme e i colori di altre vite, regni  molto più misteriosi e sconosciuti e remoti da scoprire, incominciò a  capire che il suo rifiuto della vita ordinaria aveva uno scopo:  lanciarla come un razzo verso altre forme di esistenza. La ribellione  era semplicemente l'attrito elettrico che accumulava una carica di  potenza che l'avrebbe lanciata nello spazio. 

  Comprese come mai la irritava che la gente parlasse della vita come  di Una vita. Divenne consapevole di una miriade di vite dentro di sé.  Il suo senso del tempo si alterò. Sentì con acutezza e dolore la  brevità dell'arco di una vita fisica. La morte era vicina in modo  terrificante, e il viaggio verso di essa, vertiginoso; ma solo quando  considerava le vite che si svolgevano intorno a lei, accettando le  loro tabelle orarie, gli orologi, e le misure. Tutto quello che essi  facevano limitava il tempo. Essi parlavano di una nascita, di  un'infanzia, di una storia d'amore, di un matrimonio, di una  maturità, di una vecchiaia, di una morte, e poi trasmettevano il  ciclo monotono ai loro figli. Ma Sabina, attivata dai raggi di luna,  sentiva germinare in sé il potere di allungare il tempo nelle  ramificazioni di una miriade di vite e di amori, di allungare il  viaggio fino all'infinito, concedendosi giri e rigiri immensi e  lussuosi come la cortigiana depositaria di più desideri. I semi di  molte vite, di molti luoghi, di molte donne dentro di lei vennero  fecondati dai raggi di luna perché essi provenivano da quella vita  notturna illimitata che di solito percepiamo soltanto nei sogni, che  affonda le radici in tutte le magnificenze del passato,  trasmettendone i ricchi sedimenti nel presente, proiettandoli nel  futuro. 

  Osservando la luna Sabina acquistò la certezza dell'espansione del  tempo grazie alla profondità delle emozioni, della portata e  dell'infinita molteplicità dell'esperienza. 

  Fu questa la fiamma che cominciò a bruciare in lei, negli occhi e  nella pelle, come una febbre segreta, e sua madre la guardò  arrabbiata e disse: «Sembri tisica.» Le bruciava dentro la fiamma di  un vivere intensificato dalla febbre e attirava la gente verso di lei  come le luci della vita notturna fanno uscire i passanti  dall'oscurità di strade vuote. 

  Quando finalmente riusciva ad addormentarsi, il suo era il sonno  della sentinella notturna, perennemente consapevole del pericolo e  degli inganni del tempo che cercava di imbrogliarla permettendo agli  orologi di scandire le ore che passavano mentre lei non era sveglia  ad afferrarne il contenuto. 

  

  Sabina guardò Alan chiudere le finestre, lo guardò accendere le  lampade, e chiudere il chiavistello della porta che si apriva sulla  veranda. Dolci chiusure, tuttavia Sabina, invece di dormire  languidamente abbandonandosi al calore e alla dolcezza, provò  un'inquietudine improvvisa come di una barca che tiri gli ormeggi.   L'immagine della barca scricchiolante con le sue ossa inquiete le  arrivò sull'onda dell'Ile Joyeuse di Debussy che le tesseva intorno  tutte le nebbie e le dissolvenze di isole remote. Le note arrivarono  cariche come una carovana di spezie, mitre dorate, pissidi e calici  colmi di messaggi di delizia che facevano scorrere il miele tra le  cosce, ed erigevano minareti sensuali sui corpi degli uomini sdraiati  sulla sabbia. Frammenti di vetro istoriato sospinti dai mari,  frantumati dalle emanazioni di radio del sole e dalle onde e dalle  correnti di sensualità, coprivano i loro corpi, desideri che si  annidavano nell'accavallarsi di ogni onda come una fisarmonica di  aurora boreale nel sangue. Ella vide una danza irraggiungibile, con  uomini e donne vestiti di colori rutilanti, vide la loro gaiezza, i  loro rapporti reciproci di splendore ineguagliabile. 

  Il suo desiderio di essere là dove il meraviglioso era più grande  trasformava ciò che era vicino e palpabile in un ostacolo, una  dilazione della vita più luminosa che l'attendeva, mentre personaggi  incandescenti rimanevano ad attenderla. 

  Il presente - Alan con i polsi coperti da un pelo biondo e setoso,  il lungo collo sempre piegato verso di lei come l'albero stesso della  fedeltà - veniva ucciso dall'intromettersi del sogno insistente,  sussurrante, una bussola che indicava miraggi portati dalla musica di  Debussy come un invito e una lusinga senza fine, le cui voci si  facevan più fiacche se lei non ascoltava con tutto il suo essere, i  cui passi divenivan più lievi se lei non li seguiva, le cui promesse  e sospiri di piacere si facevan più chiari man mano che penetravano  regioni sempre più profonde del suo corpo, direttamente attraverso i  sensi, portando su baldacchini aerei tutte le bandiere ondeggianti di  gondole e passatempi. 

  Il Chiaro di Luna di Debussy brillava su altre città... Sabina  avrebbe voluto essere a Parigi, la città propizia agli amanti, dove i  poliziotti assolvevano con un sorriso e i tassisti non interrompevano  mai un bacio... 

  Il Chiaro di Luna di Debussy brillava su molti visi estranei, su  molte Iles Joyeuses, su festival musicali della Foresta Nera, su  marimbas tintinnanti ai piedi di vulcani fumanti, su danze frenetiche  e intossicanti ad Haiti, e lei non c'era. Era sdraiata in una camera  dalle finestre chiuse sotto la luce di una lampada. 

  La musica si stancò di chiamarla, le note scure s'inchinarono  ironicamente alla sua inerzia come una pavana per un'infanta defunta,  e si dissolsero. Ora non udiva altro che le sirene antinebbia sullo  Hudson, lanciate da navi sulle quali non sarebbe mai riuscita a  salpare. 

 

  Sabina emerse una settimana dopo vestita di porpora, e attese uno  degli autobus della Quinta Strada su cui era permesso fumare. Una  volta seduta aprì una borsetta stracolma, estrasse un anello indiano  ornato di campanellini minuscoli, e se lo infilò al posto della fede  nuziale. La fede venne ricacciata in fondo alla borsa. Ora ogni suo  gesto era accompagnato dal tintinnio dei campanellini. 

  Alla 64a Strada scese dall'autobus ancor prima che si fermasse del  tutto, e la sua andatura cambiò. Ora camminava rapida, diretta,  impiegando il potere e il vigore dei fianchi. Camminava con tutto il  piede appoggiato per terra come fanno i latini e i negri. Mentre  andando da Alan le sue spalle erano piegate, ora erano erette e  vigorosamente spinte all'indietro e Sabina respirava profondamente,  sentendo i seni che premevano contro il vestito purpureo.   Le ondate del suo incedere partivano dal bacino e dai fianchi, una  forte oscillazione fatta di onde muscolari che scorreva dai piedi  alle ginocchia, poi su verso i fianchi e la vita. Camminava con tutto  il corpo quasi a prendere lo slancio per un avvenimento cui avrebbe  partecipato il corpo intero. Il suo viso non aveva più alcuna traccia  di perplessità, ma emanava una veemenza che faceva fermare i passanti  a guardarla in faccia come se li avesse sfiorati un magnete.   Si stavano accendendo le luci della sera, e a quest'ora Sabina si  sentiva come la città, illuminata all'improvviso da tante luci accese  all'unisono. Aveva luci sui capelli, sugli occhi, sulle unghie, sulle  pieghe del vestito purpureo, che ora si faceva nero. 

  Quando finalmente raggiunse l'appartamento, Sabina si rese conto  che non sapeva ancora se Philip viveva da solo. 

  Philip la condusse in una stanza che gli assomigliava ed era stata  disposta per lui solo. Alle pareti erano appesi i suoi trofei di sci:  a una tenda viennese di damasco era appeso un intero esercito di  soldatini di latta schierati militarmente. Sul piano erano  sparpagliati in disordine degli spartiti musicali, e al centro della  stanza, sotto un ombrello che pendeva aperto dal soffitto, c'era un  telescopio in costruzione. 

  «Voglio vedere le stelle con un telescopio fatto dalle mie mani.  

Sto lucidando il vetro adesso e ci vuole molto tempo e un sacco di  pazienza.» 

  «Ma l'ombrello!» esclamò ridendo Sabina. 

  «I bambini dell'appartamento di sopra saltano come dei matti e  fanno cadere sul mio vetro frammenti di intonaco che lo graffiano.  Anche il più piccolo granello di polvere può rovinare tutto il lavoro  di una giornata.» 

  Sabina capiva il suo desiderio di osservare i pianeti attraverso  uno strumento fatto dalle sue mani. Era ansiosa di vederlo finito e  volle sapere quanto ci sarebbe voluto. Concentrati sul telescopio,  gli amanti si comportavano come amici, e per un momento misero da  parte le sfide nervose e le schermaglie della conquista.   Fu in questo stato d'animo che si spogliarono. Philip inventava  smorfie interminabili, come fanno i bambini. Gli piaceva rendersi  grottesco come se fosse stanco di essere sempre impeccabilmente  bello. Poteva trasformarsi in Frankenstein. 

  Sabina rideva, ma a disagio, temendo che se la bellezza di lui  fosse svanita davvero lei non l'avrebbe più desiderato, consapevole  della fugacità e della fragilità del suo desiderio. Se spariva il  cantore di Tristano e Isotta che cantava nella Foresta Nera delle  fiabe, cosa le sarebbe rimasto da desiderare? 

  Poi gli occhi calmi di lui registrarono l'intensità degli occhi di  Sabina e la scintilla scoccò. Il suo distacco si infiammò di fronte  alla violenza che covava in lei. Egli non voleva fuochi o esplosioni  di sentimento in una donna, ma voleva sapere che c'erano. Voleva  sfiorarli soltanto nelle scure profondità della sua carne, ma senza  svegliare un cuore che l'avrebbe incatenato. Spesso fantasticava di  possedere una donna che avesse le braccia legate dietro la schiena.   Una volta aveva visto una grande nube temporalesca distendersi  sopra i capezzoli di una montagna, intrecciarsi ad essa come in un  amplesso, e aveva detto: «Che meravigliosa copulazione, la montagna  non ha braccia.» 

  Si stancò di fare le smorfie, e, ricomposti i lineamenti perfetti,  si piegò su di lei a rendere omaggio al suo corpo. 

  E allora accadde, come un miracolo; quella pulsazione di piacere  che neanche i musicisti più esaltati potevano eguagliare, neanche le  vette della perfezione in arte, in scienza o in guerra, che neanche  le più regali bellezze della natura pareggiavano, quel piacere che  trasformava il corpo in una torre di fuochi d'artificio che  esplodevano gradualmente in fontane di delizia attraverso i sensi.   Ella aprì gli occhi per contemplare la gioia penetrante della sua  liberazione: era libera, libera come un uomo, di godere senza amore.   Senza l'ardore del cuore, era riuscita a godere un estraneo, come  un uomo. 

  Allora le venne in mente quel che aveva sentito dire dagli uomini:  

«Poi volevo andarmene.» 

  Guardò l'estraneo disteso nudo al suo fianco e lo vide come una  statua che non voleva toccare di nuovo. Come una statua egli giaceva  lontano da lei, a lei estraneo, e in lei scaturì qualcosa di simile  alla rabbia, al rimpianto, quasi il desiderio di riprendersi il dono  che aveva fatto di sé, di cancellarne ogni traccia. Di bandirlo dal  

suo corpo. Voleva staccarsi da lui in modo rapido e netto, districare  e separare quello che per un attimo era stato fuso, i loro fiati, le  loro pelli, gli umori e i profumi del corpo. 

  Scivolò giù dal letto dolcemente, si vestì senza far rumore mentre  lui dormiva. Andò in bagno in punta di piedi. 

  Su una mensola trovò cipria, pettine, rossetto in un involucro rosa  conchiglia. Sorrise vedendo quegli oggetti. Moglie? Amante? Com'era  bello poterli contemplare senza il più lieve tremito di rimpianto,  invidia o gelosia. Questo era il significato della libertà. Libera  dall'attaccamento, dalla dipendenza e dalla possibilità del dolore.  Respirò a fondo e sentì di aver scoperto questa fonte di piacere una  volta per sempre. Come mai era stato tanto difficile? Così difficile  che spesso era stata costretta a simulare il piacere? 

  Mentre si pettinava e si ritoccava le ciglia, apprezzò il bagno,  quella zona di sicurezza neutrale. Quando era con gli uomini, con gli  amanti, entrava sempre con piacere in una zona di sicurezza neutrale  (andando da uno all'altro, in autobus, in taxi, in strada, in questo  momento in bagno) al sicuro dal dolore. Se avesse amato Philip quanto  

l'avrebbe ferita ciascuno di quegli oggetti: cipria, forcine,  pettine! 

  (Non c'è da fidarsi di lui. Io sono solo di passaggio. Sono diretta  verso un altro posto, un'altra vita, dove lui non può neanche  trovarmi, volermi. Come è bello non amare; ricordo gli occhi della  donna che venne a trovare Philip al mare. Aveva gli occhi pieni di  timore mentre mi guardava. Si chiedeva se io fossi la donna che  gliel'avrebbe portato via. E ricordo come il panico scomparve di  fronte al tono di voce di Philip mentre me la presentava: «Ti  presento Dona Juana.» La donna aveva capito il significato della sua  voce e la paura era svanita dai suoi occhi.) 

  Che sicurezza nuova provò Sabina allacciandosi i sandali,  gettandosi il mantello sulle spalle e lisciandosi i lunghi capelli  diritti! Non era solo libera dal pericolo ma era anche libera per una  rapida fuga. Così la chiamava lei. (Philip aveva detto di non aver  mai visto una donna vestirsi con tanta rapidità e raccattare tutte le  sue cose senza dimenticarne una sola!) 

  Come aveva imparato bene a far sparire lettere d'amore giù per lo  sciacquone, a non lasciare capelli su un pettine in prestito, a non  lasciare in giro forcine, a cancellare ovunque le tracce di rossetto,  a spazzar via nuvole di cipria. 

  I suoi occhi come gli occhi di una spia. 

  Le sue abitudini come le abitudini di una spia: con quel suo modo  di deporre tutti i vestiti su una seggiola sola, come se potesse  capitarle di dover fuggire all'improvviso e non dovesse lasciare  alcuna traccia della sua presenza. 

  Conosceva tutti i trucchi di questa guerra d'amore. 

  Poi c'era la sua zona neutrale, il momento in cui non apparteneva a  nessuno, quando rimetteva insieme il suo io disperso. Il momento di  non-amore, di non-desiderio. Il momento in cui prendeva il volo se  l'uomo aveva ammirato un'altra donna di passaggio, o aveva parlato  troppo a lungo di un vecchio amore, le piccole offese, le piccole  sferzate, un atteggiamento indifferente, una piccola infedeltà, un  piccolo tradimento erano tutti presagi della possibilità di cose  peggiori, da controbattere con un'infedeltà uguale o più grande o  totale: la sua, il più grandioso degli antidoti, preparato in  anticipo per i casi d'urgenza assoluta. Stava accumulando una riserva  di tradimenti in modo da essere preparata quando fosse arrivato lo  shock: «Non mi ha colto di sorpresa, non è stata una trappola alla  mia ingenuità, a una fiducia senza limiti. Io avevo già tradito. Per  essere sempre più avanti, un po' più avanti dei tradimenti che  bisogna aspettarsi dalla vita. Per essere là prima, e pertanto  preparata...» 

  Quando tornò in camera Philip era ancora addormentato. Il  pomeriggio volgeva alla fine e la pioggia mandava ventate di freddo  sul letto, ma Sabina non provò il desiderio di coprire l'amante, o di  dargli calore. 

  Era stata lontana solo cinque giorni ma tutte le emozioni e le  esperienze verificatesi, tutte le espansioni e le esplorazioni  interiori, le davano l'impressione di essere stata lontana molti  anni. L'immagine di Alan era retrocessa lontano nel passato, e la  assaliva un terribile timore di perderlo completamente. Cinque giorni  pieni di tanti cambiamenti nel suo corpo e nei suoi sentimenti  allungavano il periodo di assenza, aggiungevano chilometri  incommensurabili alla sua separazione da Alan. 

  Certe strade che uno imboccava emotivamente apparivano anche sulla  mappa del cuore come direttrici che si allontanavano dal centro, e  alla fine portavano all'esilio. 

  Guidata da questo stato d'animo, Sabina apparve alla sua porta. 

  «Sabina! Sono così felice. Non ti aspettavo per un'altra settimana.  Cos'è successo? E' andato storto qualcosa?» 

  Lui era lì. Cinque giorni non avevano cambiato la sua voce,  l'espressione avvolgente dei suoi occhi. L'appartamento non era  cambiato. Accanto al suo letto era ancora aperto lo stesso libro,  c'erano le stesse riviste di prima. Alan non aveva ancora finito la  frutta che lei aveva comprato l'ultima volta che era stata a casa. Le  sue mani accarezzarono i portacenere stracolmi, le sue dita  disegnarono fiumi di meditazione sul velo di polvere che copriva il  tavolo. Qui la vita era graduale, organica, senza discese o salite  vertiginose. 

  Mentre se ne stava lì in piedi il resto della sua vita le parve una  fantasia. Prese la mano di Alan e cercò le lentiggini familiari sul  polso. Aveva un gran bisogno di fare un bagno prima che lui la  toccasse, di lavarsi via rigorosamente altri luoghi, altre mani,  altri odori. 

  Alan le aveva fatto una sorpresa, era riuscito a procurarsi delle  registrazioni dei tamburi e dei canti dell'Ile Joyeuse. Ascoltarono  la musica delle percussioni, dapprima remota, come tamburi di un  villaggio lontano soffocati dai rampicanti della giungla. Prima come  piccoli passi di bimbo che corre su canne secche, poi passi più  pesanti su legno cavo, poi dita acute e potenti su pelli di tamburo,  e tutt'a un tratto una confusione di ceppi scricchiolanti, di pelli  d'animale schiaffeggiate e colpite da nocche, agitate e tormentate  con una rapidità che non lasciava tempo alle eco. Sabina vedeva i  corpi d'ebano e bronzei da cui non traspariva mai la struttura ossea,  luccicanti di impavidi bagni di mare, scattanti e impegnati in una  danza altrettanto rapida dei rulli di tamburo, in verde smeraldo,  azzurro indaco, tangerini di tutti i colori dei frutti e dei fiori,  eucalipti di carne fiammeggianti. 

  C'erano posti in cui a guidare il corpo era solo il pulsare del  sangue, dove non c'era separazione tra la velocità del vento, il  tumulto delle onde e le orge del sole. Le voci ricche di linfa  cantavano gioiose... cascabel... guyabana... negrette ciarliere... 

  «Sarebbe bello andare laggiù insieme,» disse Sabina. 

  Alan le lanciò un'occhiata di rimprovero come se gli facesse male  essere costretto a ricordarle: «Non posso lasciare il mio lavoro.  

Forse più in là, quest'anno...» 

  Gli occhi di Sabina divennero statici. Alan lo interpretò come un  segno di delusione e aggiunse: «Ti prego, Sabina, abbi pazienza.»   Ma lo sguardo di Sabina non era bloccato dalla delusione. La sua  era la fissità del visionario. Stava guardando un miraggio prendere  corpo, nascevano uccelli con nomi nuovi: «Cuchuchito», «Pito real».  Erano appollaiati su alberi chiamati «Liquidambra», e sulla sua testa  c'era un soffitto fatto di foglie di palma intrecciata con canne di  bambù. Dopo era sempre troppo tardi; dopo non esisteva. C'era solo  un'enorme distanza da superare per raggiungere l'inaccessibile. I  tamburi erano arrivati carichi dell'odore di pelli bronzee in una  danza scandita dai battiti del cuore. Presto avrebbero portato un  invito che lei non avrebbe rifiutato. 

  Quando Alan la guardò in viso di nuovo, le vide le palpebre  abbassate in un simulacro di obbedienza. Sentì che una partenza  imminente era stata stornata da un'improvvisa docilità. Non si  accorse che la sua acquiescenza era già di per sé una forma di  assenza. Sabina stava già abitando sull'Ile Joyeuse.   Fu forse per questo che, udendo un suono di tamburi mentre  camminava lungo Mcdougal Street, Sabina trovò naturale fermarsi,  scendere gli scalini fino a uno scantinato dalle pareti arancioni e  sedersi su uno dei tamburi coperti di pelliccia. 

  I suonatori percuotevano i tamburi completamente assorti in se  stessi, in un rituale che doveva portarli a uno stato di trance.  Dalla cucina arrivavano odori di spezie e sopra i piatti fumanti  danzavano orecchini di cerchi d'oro. 

  Le voci diedero inizio a un incantesimo per Alalle, si  trasformarono in canti d'uccelli, richiami d'animali, rapide  gorgoglianti sulle rocce, giunchi con le radici di dita affondate  nell'acqua della laguna. Il ritmo dei tamburi divenne tanto veloce  che la stanza si trasformò in una foresta il cui fogliame ballava il  tip tap, sonagli mossi dal vento che blandivano Alalle, il  dispensatore di piacere. 

  In mezzo alle facce scure ce n'era una pallida. Una nonna francese  o spagnola aveva riversato un rivolo bianco conchiglia nel calderone  d'ebano; i capelli eran rimasti scuri ma con una profondità di  rifrazione come quella di uno specchio nero. La testa era rotonda, la  fronte spaziosa, le guance piene, gli occhi dolci e brillanti. Le  dita sul tamburo agili eppure fluide, suonavano con una veemenza che  gli sgorgava dai fianchi e dalle spalle. 

  Sabina poteva immaginarselo a nuotare, ad accovacciarsi su un fuoco  accanto alla spiaggia, a saltare, ad arrampicarsi sugli alberi.  Nessuna delle ossa in vista, soltanto la levigatezza degli isolani  dei mari del Sud, con muscoli forti ma invisibili, come un gatto.   Il colore che gli si diffondeva in viso conferiva anche ai suoi  gesti una fermezza senza vigore, abbastanza diversa dallo staccato  nervoso degli altri percussionisti. Egli veniva dall'isola della  mitezza, del vento mite e del mare caldo, dove la violenza rimaneva  in sospeso ed esplodeva solo a cicli. Dove la vita era troppo dolce,  troppo acquietante, una droga troppo intensa per permettere una  rabbia continua. 

  Quando smisero di suonare, i musicisti si sedettero al tavolo  vicino al suo, e si misero a parlare in uno spagnolo coloniale del  diciassettesimo secolo, elaborato e formale, nel linguaggio  altisonante di vecchie ballate. Praticavano rituali elaborati di  cortesia che fecero sorridere Sabina. Lo stile imposto dai  conquistatori sulla cultura africana era come un ornamento barocco su  una capanna dal tetto di foglie di palma. Uno di loro, il più scuro,  portava un colletto bianco rigido, e aveva accanto alla seggiola un  ombrello dal manico lungo. Reggeva con grande cura il cappello su un  ginocchio, e per non rovinare le pieghe ben stirate del vestito  suonava facendo partire i colpi quasi completamente dai polsi, e  muoveva la testa a destra e a sinistra del colletto inamidato, una  testa indipendente dalle spalle come quella di un danzatore balinese.   Sabina era tentata di interrompere le loro cortesi cerimonie, di  rompere con la sua stravaganza la liscia superficie della loro  placidità. Mentre batteva la sigaretta sul portacipria, l'anello  indiano datole da Philip tintinnò, e il suonatore dal viso pallido si  girò verso di lei e sorrise, come se questo suono fragile fosse una  risposta inadeguata ai suoi colpi sul tamburo. 

  Quando egli riprese a cantare, tra i loro occhi s'era già intessuta  una ragnatela invisibile. Sabina non gli guardava più le mani sulle  bacchette ma la bocca. Aveva labbra piene, regolari, ricche ma con un  disegno preciso, e il suo modo di atteggiarle era come l'offerta di  un frutto. Non si chiudevano mai completamente e non erano irrigidite  neanche dalla più lieve contrazione, ma rimanevano offerte.   Egli le offriva il canto nella coppa della sua bocca, e Sabina lo  beveva intensamente, senza lasciar cadere neanche una goccia di  questo incantesimo di desiderio. Ogni nota era un tocco delle sue  labbra. Il suo canto divenne esaltato, il battito del tamburo più  profondo e acuto e le piovve sul cuore e sul corpo.  

Tum-tum-tum-tum-tum sul cuore, il tamburo era lei, la sua pelle tesa  sotto le sue mani, e i colpi le rimbombavano nel resto del corpo.  Ovunque egli posasse gli occhi, ella sentiva il tamburellare delle  dita sul suo stomaco, sui seni, sui fianchi. Gli occhi di lui si  posarono sui suoi piedi nudi nei sandali che risposero battendo il  ritmo. Si posarono sull'incavo della sua vita da dove i fianchi  incominciavano ad arrotondarsi, e Sabina si sentì posseduta dal suo  canto. Quando egli smise di suonare il tamburo, lasciò le mani aperte  sulla pelle dello strumento, come se non volesse toglierle dal corpo  

di lei, ed essi continuarono a guardarsi per poi stornare gli occhi  per timore che tutti avessero visto il desiderio scorrere tra loro.   Ma quando ballarono egli cambiò. In modo diretto, inevitabile,  intrecciò le ginocchia a quelle di lei, quasi a piantare la rigidità  del suo desiderio. La abbracciò saldamente, tanto stretta che ogni  movimento sembrava compiuto da un corpo solo. Le tenne la testa  contro la sua, con una definitività che sembrava dovesse durare in  eterno. Il suo desiderio divenne un centro di gravità, la saldatura  finale. L'uomo non era molto più alto di lei ma aveva un portamento  fiero e quando Sabina alzò gli occhi, quelli di lui la trapassarono  fin dentro il suo essere, così diretti e sensuali che ella non riuscì  a sopportarne la radiosità, la richiesta. Nel suo viso brillava la  febbre come un raggio di luna. Allo stesso tempo apparve una strana  ondata di rabbia che Sabina sentì senza riuscire a capire.   Quando il ballo finì, l'inchino di lui fu un addio, preciso come il  suo desiderio. 

  Sabina attese, angosciata e confusa. 

  Egli tornò al suo canto e al suo tamburo ma non le offrì più la sua  musica. 

  Eppure Sabina sapeva che l'aveva desiderata, perché adesso  distruggeva quel desiderio? Perché? 

  La sua angoscia divenne così violenta che avrebbe voluto  interrompere il suono dei tamburi, impedire agli altri di ballare. Ma  controllò quell'impulso, sentendo che l'avrebbe allontanato da sé.  C'era il suo orgoglio. C'era in lui uno strano miscuglio di passività  e aggressività. Nella musica era stato luminoso e tenero, offerto;  nella danza, tirannico. Lei doveva aspettare. Doveva rispettare il  rituale. 

  La musica s'interruppe ed egli venne al suo tavolo, si sedette e le  rivolse un sorriso misto a una contrazione di dolore. 

  «Lo so,» le disse. «Lo so...» 

  «Lo sai?» 

  «Lo so, ma non può essere,» disse molto gentilmente. Poi  all'improvviso l'ira traboccò: «Per me, è tutto o niente. Mi è già  capitato prima... una donna come te. Desiderio. E' desiderio, ma non  per me. Tu non mi conosci. E' desiderio per la mia razza, per il  potere sensuale che noi abbiamo.» 

  Le prese il polso e le parlò vicino al viso: «Mi distrugge. Ovunque  desiderio, ma quanto al donarsi definitivo, chiusura. Perché sono  Africano. Cosa sai di me? Canto e suono il tamburo e tu mi desideri.  Ma non sono un canzonettista. Sono un matematico, un compositore, uno  scrittore.» La guardò severamente, con la bocca sensuale difficile da  comprimere nell'ira, ma gli occhi sferzanti. «Non verresti mai  all'Ile Joyeuse per essere mia moglie, allevare i miei bambini neri e  assistere pazientemente la mia nonna negra!» 

  Sabina gli rispose con eguale violenza, allontanando con uno scatto  i capelli dal viso, e abbassando il tono di voce finché non suonò  come un insulto: «Ti dirò una cosa: se si trattasse solo di quello  che hai detto, mi è già capitato, e non mi ha preso, non era  abbastanza, era magnifico, ma non mi ha preso. Stai distruggendo  tutto, con la tua amarezza, sei arrabbiato, sei stato ferito...» 

  «Sì, è vero, sono stato ferito, e proprio da una donna che ti  assomigliava. Appena sei entrata, ho pensato che fosse lei...» 

  «Mi chiamo Sabina.» 

  «Non mi fido di te, non mi fido per niente.» 

  Ma quando ella si alzò per ballare con lui, egli aprì le braccia e  quando Sabina gli posò la testa sulla spalla, abbassò gli occhi sul  suo viso, ormai purificato di ogni segno di rabbia e amarezza. 

  

  L'appartamento di Mambo era situato a Patchen Place, una strada  senza uscita. Una cancellata di ferro ne bloccava l'entrata a metà,  come l'ingresso di una prigione. Le case tutte identiche  contribuivano a conferire al posto l'aspetto di un'istituzione in cui  ogni variazione della personalità umana sarebbe stata considerata  un'eccentricità e un sintomo di devianza. 

  Sabina odiava questa strada. L'aveva sempre considerata una  trappola. Era sicura che lo scopribugie l'avesse vista entrare e  avrebbe aspettato al cancello per vederla uscire. Come sarebbe stato  semplice per lui scoprire chi viveva lì, chi andava a trovare, e da  quale casa usciva il mattino. 

  Sabina se lo immaginò a scrutare attentamente ogni casa, a leggere  tutti i nomi sulle cassette delle lettere: E.E. Cummings, Djuna  Barnes, Mambo del Night Club Mambo's conosciuto da tutti. 

  All'alba lo scopribugie in persona l'avrebbe vista uscire dalla  casa, stringendosi addosso il mantello contro il rigore del mattino,  coi capelli pettinati alla meglio, e gli occhi non del tutto aperti. 

  Qualsiasi altra strada ma non questa. 

  Una volta, all'inizio dell'estate, era stata svegliata da una  penosa tensione nervosa. Tutte le finestre erano aperte. Era quasi  l'alba. La stradina era assolutamente silenziosa. Poteva sentire le  foglie rabbrividire sugli alberi. Poi il lamento di un gatto. Perché  si era svegliata? C'era qualche pericolo? Forse Alan stava  sorvegliando il cancello? 

  Sentì distintamente una voce di donna che gridava: «Betty! Betty!»  E una voce che rispondeva ancora impastata dal sonno: «Che c'è?»   «Betty! C'è un uomo nascosto in uno dei portoni. L'ho visto  sgattaiolare dentro.» 

  «E allora... cosa vuoi che ci faccia? Sarà un ubriaco che torna a  casa.» 

  «No, Betty. Ha cercato di nascondersi quando mi sono affacciata  alla finestra. Di' a Tom di andare a dare un'occhiata. Ho paura.»   «Ma dai, non essere puerile. Vai a dormire. Tom ha lavorato fino a  tardi ieri sera. Non posso svegliarlo. L'uomo non può entrare  comunque, a meno che tu non schiacci il bottone per aprirgli!» 

  «Ma sarà lì quando vado a lavorare. Starà lì ad aspettare. Chiama  

Tom.» 

  «Vai a dormire.» 

  Sabina incominciò a tremare. Era sicura che si trattasse di Alan.  Alan stava aspettando giù da basso, per vederla uscire. Per lei era  la fine del mondo. Alan era il nucleo centrale della sua vita. Gli  altri momenti di febbre erano attimi di sogno: chimerici, che  svanivano con la stessa rapidità con cui si presentavano. Ma se Alan  la ripudiava, sarebbe stata la sua morte. La sua esistenza agli occhi  di Alan era la sua sola esistenza vera. Dire a se stessa: Alan mi ha  cacciato, equivaleva a dire: Alan mi ha ucciso. 

  Le carezze della notte prima erano di un'intensità meravigliosa,  come le fiamme multicolori di un artistico fuoco d'artificio, scoppi  di soli in esplosione e di luci al neon dentro al corpo, stelle  comete dirette a tutti i centri del piacere, che lasciavano una scia  di gioia penetrante, e tuttavia se avesse detto: «Resterò qui e vivrò  con Mambo per sempre,» le sarebbe successo quello che accade ai  bambini quando tentano di rimanere sotto la pioggia di scintille dei  fuochi d'artificio: durano solo un istante e li ricoprono di ceneri.   Le si presentarono due scene davanti agli occhi: Alan che  singhiozzava come aveva fatto alla morte del padre, e quell'immagine  le causò un dolore intollerabile. Poi le apparve Alan arrabbiato,  come non era mai stato con lei ma con altri, e anche quell'immagine  le risultò intollerabile; egualmente annientante. 

  Non era ancora l'alba. Cosa poteva fare? La sua ansia era così  forte da non permetterle di rimanere ancora lì sdraiata in silenzio.  

Come poteva spiegare a Mambo la sua uscita di primo mattino?  Nonostante tutto si alzò piano piano dopo essere scivolata  gradualmente fuori dal letto, e si vestì. Tremava e i vestiti le  scivolavano goffamente dalle dita. 

  Doveva andare a vedere chi era l'uomo nascosto nel portone. Non  poteva sopportare l'incertezza. 

  Lasciò l'appartamento lentamente, senza rumore. Scese le scale a  piedi nudi tenendo in mano i sandali. Quando uno scalino scricchiolò,  si fermò. Il sudore le imperlava la fronte. Un senso di estrema  debolezza le faceva tremare le mani. Finalmente arrivò alla porta e  vide i contorni dell'uomo dietro la porta a vetri smerigliata. Era lì  in piedi e fumava la pipa come Alan. Il cuore di Sabina si paralizzò.  Sapeva perché aveva sempre odiato quella strada senza uscita. Rimase  immobile almeno dieci minuti, paralizzata dal terrore e dalla colpa,  dai rimpianti per quello che stava perdendo. 

  «E' la fine del mondo,» mormorò. 

  Come se fosse in punto di morte, fece il riassunto della propria  esistenza: i momenti esaltanti di passione si dissolsero come cose di  scarsa importanza di fronte alla perdita di Alan, come se questo  amore fosse il nucleo stesso della sua esistenza. 

  Mentre formulava questo pensiero, l'angoscia crebbe fino a non  permetterle di rimanere ancora immobile. Spalancò la porta  violentemente. 

  Si trovò di fronte un estraneo, con gli occhi iniettati di sangue,  malfermo sulle gambe. L'uomo si spaventò alla sua comparsa improvvisa  e bofonchiò oscillando all'indietro: «Non riesco a trovare il mio  nome sui campanelli, signora, può aiutarmi?» 

  Sabina lo guardò con una furia selvaggia, e si allontanò di corsa  sferzandogli il viso con un lembo del mantello. 

  

  Mambo la rimproverava costantemente: «Tu non mi ami.» Egli sentiva  che Sabina abbracciava in lui la musica, baciava sulle sue labbra le  leggende, gli alberi, i tamburi dell'isola da cui era venuto, intuiva  

che ella cercava di possedere ardentemente sia il suo corpo che la  sua isola, che offriva il suo corpo alle sue mani quanto ai venti  tropicali, e che le ondulazioni del piacere ricordavano quelle dei  nuotatori nei mari tropicali. Sulle sue labbra ella assaporava le  spezie della sua isola, di quell'isola in cui egli aveva imparato il  suo modo speciale di accarezzarla, una voluttuosità serica senza  durezza o violenza, come la forma del suo corpo isolano che non  lasciava vedere le ossa. 

  Sabina non si sentiva colpevole per assaporare i tropici attraverso  il corpo di Mambo: provava una vergogna più sottile, quella di  presentargli una Sabina inventata, che simulava un amore unico.   Quella notte, quando la droga delle carezze li avrebbe fatti  mulinare nello spazio, liberi - liberi per un istante da tutti gli  ostacoli all'unione completa creati dagli esseri umani stessi -, lei  gli avrebbe dato una Sabina autentica. 

  Quando i loro corpi ancora frementi giacevano fianco a fianco,  c'era sempre silenzio, e in questo silenzio ciascuno incominciava a  tessere trame di separazione, a dividere ciò che era stato unito, a  restituire all'altro quello che per un attimo era stato egualmente  condiviso. 

  C'erano essenze di carezze che potevano penetrare negli isolamenti  più forti, filtrare attraverso le più forti difese, ma queste, subito  dopo lo scambio del desiderio, potevano essere distrutte come i semi  della nascita. 

  Mambo procedeva in questo lavoro attento rinnovando la sua accusa  segreta contro Sabina, che ella cercava solo il piacere, che in lui  amava solo l'uomo dell'isola, il nuotatore e il suonatore di tamburi,  che in lui non toccava mai, né desiderava ardentemente, né accoglieva  nel suo corpo, l'artista che egli più stimava in se stesso, il  compositore di una musica che era un distillato dei temi barbarici  della sua origine. 

  Egli era un fuggiasco della sua isola, in cerca di consapevolezza,  in cerca di sfumature e delicati equilibri come nella musica di  Debussy, e al suo fianco giaceva Sabina, che disperdeva febbrilmente  ogni delicatezza chiedendogli: «Batti il tamburo! Mambo, battilo!  

Suona per me.» 

  Anche Sabina sgusciava fuori dal momento bruciante che aveva quasi  saldato le loro differenze. Il suo io segreto nudo e senza veli nelle  braccia di lui doveva essere rivestito ancora una volta per quelle  che pur nel silenzio ella sentiva come le sue chiusure e le sue  tacite accuse. 

  Prima che lui potesse parlare ferendola con le parole mentre  giaceva nuda e indifesa, mentre egli preparava un giudizio, lei  preparava la sua metamorfosi, in modo che qualsiasi Sabina egli  colpisse, lei potesse abbandonarla come un travestimento, disfandosi  della persona di cui egli si era impossessato con l'affermazione:  

«Non ero io.» 

  Allora, qualsiasi parola di distruzione indirizzata alla Sabina che  egli aveva posseduto, quella primitiva, non poteva raggiungerla; ella  era ormai uscita a metà dalla foresta del loro desiderio, il nucleo  già lontanissimo, invulnerabile, protetto dalla fuga. Quel che  rimaneva era un costume: era afflosciato sul pavimento della sua  stanza, senza lei dentro. 

 

  Una volta in un'antica città del Sud America, Sabina aveva visto  strade che eran state sconvolte da un terremoto. Non era rimasto  altro che le facciate, come nei quadri di De Chirico, le facciate di  granito eran sopravvissute con porte e finestre mezze scardinate che  si aprivano non su una famiglia raccolta intorno al focolare, ma su  famiglie intere accampate sotto il cielo, protette dagli estranei  soltanto da una parete e da una porta, ma altrimenti completamente  prive di pareti o di tetti sugli altri tre lati. 

  Sabina si rese conto che nella stanza di ogni amante si era  aspettata di trovare proprio questo spazio illimitato, il mare, le  montagne visibili tutto intorno, col mondo chiuso fuori da una parte.  Un focolare senza tetto o pareti, annidato tra gli alberi, un  pavimento attraverso il quale spuntavano fiori selvatici a mostrar  facce sorridenti, una colonna che ospitava uccelli vagabondi, e in  lontananza templi, piramidi e chiese barocche. 

  Ma quando vedeva quattro pareti e un letto spinto nell'angolo come  se volando fosse andato a sbattere contro un ostacolo, non si diceva,  come capita ad altri viaggiatori: «Sono arrivata a destinazione e  posso togliermi l'abito da viaggio» ma: «Sono stata catturata e prima  o poi dovrò scappare.» 

  Nessun posto, nessun essere umano potevano sostenere lo sguardo  

dell'occhio critico dell'assoluto, sentirsi un ostacolo al  raggiungimento di luoghi o persone di maggior valore, creati  dall'immaginazione. Era questa la maledizione che Sabina gettava su  ogni stanza quando si chiedeva: «Dovrò vivere qui per sempre?» Era  questo il veleno, l'applicazione dell'irrevocabile, la fissazione  interminabile su un luogo o su un rapporto. Lo faceva invecchiare  prematuramente, ne accelerava il processo di decadenza, rendendolo  stantio. Era un raggio chimico di morte, questa concentrazione del  tempo, che infliggeva la paura della stasi come un raggio  dissolvente, che sgretolava tutto alla velocità di cent'anni al  minuto. 

  In questi momenti Sabina si rendeva conto della propria malvagità,  del crimine invisibile che commetteva, pari al delitto. Era la sua  malattia segreta, un male che credeva incurabile, innominabile.   Dopo aver trovato la sorgente della morte, ella tornò alla sua  fonte di vita; era soltanto nell'Uccello di Fuoco di Strawinsky che  Sabina trovava la sua infallibile autobiografia musicale. Solo qui  poteva ritrovare la Sabina perduta, la rivelazione di sé.   Fin dal primo apparire dei passi sensuali dell'uccello aranciato,  orme fosforescenti dentro a foreste di magnolia, ella riconobbe le  sue prime sensazioni, l'appostamento adolescente in attesa  dell'emozione, della sua ombra innanzitutto, l'eco della sua presenza  abbacinante, che ancora non osa entrare nel cerchio della frenesia.   Ella riconobbe i primi valzer di prologo, i dipinti su vetro che  rischiavano di frantumarsi al tocco di mani calde, gli aloni lunari  intorno a teste senza lineamenti, i preparativi per le festività e i  tamburi impazziti che annunciavano una festa del cuore e dei sensi.  

Riconobbe le attese cremisi, le altitudini che acceleravano le  pulsazioni, il vento che spingeva i suoi geroglifici su per il collo  di cigno dei tromboni. 

  I fuochi d'artificio eran montati su intelaiature di fili che  agitavano braccia amorose, in punta di piedi sulle lingue purpuree  dello Spirito Santo, sfuggendo alla prigionia, ali di mercurio  aranciate su torce appuntite lanciate come giavellotti nello spazio  in lotta per trapassare le nuvole, le vulve purpuree della notte. 

 

  Molto spesso, nelle serate che passavano insieme, Sabina e Mambo  non andavano da nessuna parte. 

  Quando Sabina era rimasta d'accordo con Alan di tornare a casa per  mezzanotte, la sua uscita con un amico non sarebbe stata fatale né  troppo difficile da spiegare; ma c'eran delle sere (quando voleva  passare qualche notte intera col suo amante) in cui era stata  obbligata a dire che sarebbe partita per un viaggio, e allora quando  Mambo proponeva: «Andiamo al cinema,» scoppiava il conflitto. Non le  andava di rispondere: «Non voglio che Alan mi veda.» La faceva  sentire una bambina sotto controllo, o una donna in uno stato di  soggezione, perché i suoi sentimenti per Alan non ricordavano quelli  di una donna che vuole essere fedele o leale ma piuttosto quelli di  un'adolescente che scappa di casa per qualche gioco proibito.  Riusciva a vedere Alan solo come una specie di padre che avrebbe  potuto arrabbiarsi per le sue bugie e punirla. Se avesse accennato ai  diritti di Alan, sarebbe stata anche costretta a confessare a Mambo  la divisione dei suoi affetti. A volte le sue bugie le sembravano più  un'intricata forma artistica di protettività che un grande  tradimento. C'erano giorni in cui si sentiva tentata di confessare,  ma la bloccava la certezza che quand'anche fosse stata perdonata,  Alan avrebbe richiesto da lei un cambiamento di vita che sapeva di  non poter operare. 

  Quando le veniva proposto di andare al cinema Sabina assentiva, ma  come se stesse facendo il gioco delle probabilità, ogni volta che  Mambo proponeva un film, o un altro, o un altro ancora, lei li  prendeva in considerazione non tanto rispetto alla loro qualità  cinematografica, ma in base alla zona della città in cui venivano  proiettati, o a seconda che si trattasse di un film che potesse  interessare Alan o no; o che fosse o meno vicino a casa (dato che  Alan non si spostava tanto facilmente). Quand'era con Alan, d'altro  canto, doveva cercare di ricordarsi i film che Mambo aveva già visto,  o quelli che voleva vedere, e sapendo quanto era fanatico dei film,  prendere in considerazione persino quelli che avrebbe potuto vedere  due volte. 

  Alla fine, come un giocatore, doveva interrogare il suo istinto.   Una volta seduta al cinema la sua ansia aumentava. Alan avrebbe  potuto apprezzare abbastanza quel film da volerlo rivedere, o un  amico poteva averlo convinto a fare lo sforzo di andare nei quartieri  alti. Era possibile che tra il pubblico ci fosse Mambo mentre lei  sedeva accanto ad Alan, poteva averla vista camminare per il  corridoio? 

  Talvolta liquidava la sua ansia come nervosismo. Altre volte era  costretta ad andare alla toilette appena entrata in modo da poter  camminare lentamente e attentamente lungo il corridoio esaminando la  folla degli spettatori da dietro prima di sistemarsi accanto a Mambo  o ad Alan. Questo espediente le toglieva per un po' l'ansia, ma a  suscitarla di nuovo bastava un frammento della vicenda del film che  rappresentasse una bugia, una situazione falsa, uno smascheramento.  

Soprattutto se era una storia di spionaggio. 

  Fu proprio vedendo la vita delle spie che si rese conto pienamente  che la tensione in cui viveva ogni momento era uguale alla loro, la  stessa paura di compromettersi, di dormire troppo profondamente, di  parlare nel sonno, di essere trascurati nell'accento e nel  comportamento, lo stesso bisogno di pretesti continui, di scuse  inventate sui due piedi, di giustificazioni della propria presenza in  un posto o in un altro. 

  Era sicura che avrebbe potuto offrire i suoi servigi ed essere di  grande valore in quella professione. 

  Io sono una spia internazionale nella casa dell'amore. 

  Quando diventava assolutamente intollerabile, l'ansia si tramutava  in giocosità. L'eccitazione e il rischio acquistavano sapore,  diventavano giochi estremamente spiritosi. Allora Sabina si  immedesimava del tutto nel ruolo di una bambina che sfugge alla  sorveglianza e si diverte alla propria ingegnosità. Allora dalla  segretezza passava a un bisogno di vantarsi apertamente delle sue  manovre e le descriveva con una tale spensieratezza da traumatizzare  i suoi ascoltatori. Ansietà e humour divenivano interscambiabili. I  pretesti, le scappatelle, i mille artifizi, quand'era in questo stato  d'animo, le parevano sforzi allegri e galanti per proteggere tutti  dalle crudeltà dell'esistenza di cui lei non era responsabile. E così  spirito e buona recitazione venivano impiegati a fini giustificabili:  per proteggere gli esseri umani da verità intollerabili. 

  Ma nessuno di quelli che l'ascoltavano condivideva la sua subitanea  gaiezza: nelle loro occhiate Sabina leggeva la condanna. La sua  risata sembrava una dissacrazione, una presa in giro di quanto  dovrebbe essere considerato tragico. Nei loro occhi Sabina leggeva  chiaramente il desiderio di vederla cadere da quel trapezio  incandescente su cui camminava con l'aiuto di delicati ombrellini di  carta giapponesi, poiché nessuna persona colpevole ha il diritto a  tanta abilità e a vivere soltanto grazie al suo potere di rimanere in  equilibrio al di sopra della rigidezza della vita che detta una  scelta in accordo con i suoi tabù contro le vite multiple. Nessuno  voleva condividere con lei questa ironia e questa gioiosità contro la  rigidezza della vita stessa; nessuno applaudiva quando lei riusciva  con la sua ingegnosità a sconfiggere le limitazioni della vita.   I momenti in cui ella raggiungeva una vetta umoristica al di sopra  dei pantani del pericolo, delle paludi soffocanti della colpa, erano  quelli in cui tutti la lasciavano sola, senza assoluzione; pareva che  attendessero l'ora della sua punizione per aver vissuto come una spia  nella casa di molti amori, per aver evitato lo smascheramento, per  aver sconfitto le sentinelle che sorvegliavano frontiere ben  definite, per essere passata senza passaporto o lasciapassare da un  amore all'altro. 

  La vita di tutte le spie si era conclusa con una morte ignominiosa.   Sabina stava aspettando che venisse il verde all'incrocio del piccolo centro balneare. 

  Quello che la colpì e le fece esaminare attentamente il ciclista che aspettava accanto a lei fu la straordinaria luminosità dei suoi grandi occhi. Brillavano di un luccichio umido e argenteo che faceva quasi paura, perché metteva in piena luce il panico tumultuoso pronto ad emergere. L'argento fuso era inquietante, come un riflettore acciecante nell'oscurità più totale. Ella fu contagiata da questo panico, la pellicola trasparente di tremule pietre preziose, sul  punto di essere fagocitate da un ingranaggio nascosto. 

  Solo più tardi Sabina notò il viso delicatamente cesellato, il naso  piccolo, la bocca modellata dalla dolcezza, che non si accordavano al  turbamento più profondo degli occhi, la bocca di un uomo molto  giovane, un disegno puro su un viso che i sentimenti non avevano  ancora segnato. Questi sentimenti a lui ancora sconosciuti non avevano ancora intaccato il suo corpo. I suoi gesti eran liberi e  sciolti, i gesti di un adolescente, inquieto e spensierato. Solo gli  occhi contenevano tutta la febbre. 

  Aveva guidato la sua bicicletta come una macchina da corsa o un  aeroplano. Le era piombato accanto come se non avesse visto alberi,  macchine, gente, fermandosi per un pelo al segnale di stop.   Per liberarsi dal colpo infertole dagli occhi di lui, Sabina cercò  di sminuirne il potere pensando: «Sono solo dei begli occhi, occhi  appassionati; gli uomini giovani raramente hanno occhi così  appassionati, sono solo più vivi di altri occhi.» Ma non aveva ancora  finito di formulare questo pensiero per esorcizzare l'incantesimo di  quello sguardo, che un istinto più profondo in lei aggiunse: «Ha  visto qualcosa che altri giovani non hanno visto.» 

  Il semaforo segnalò il verde; il giovane spinse violentemente i  pedali, con tanta rapidità che Sabina non ebbe il tempo di salire sul  marciapiede, poi, con altrettanta veemenza, si fermò e le chiese la  strada per la spiaggia con una voce ansante che sembrava perdere  colpi. La voce armonizzava con gli occhi, al contrario  dell'abbronzatura e della pelle liscia e sana. 

  Dal tono con cui le chiese le indicazioni sembrava che la spiaggia  fosse un riparo a cui stesse correndo allontanandosi da gravi  pericoli. 

  Il ragazzo non era più bello di altri giovani che Sabina aveva  visto sul posto, ma i suoi occhi lasciavano il segno e suscitarono in  lei una forte ribellione contro quel luogo di villeggiatura. Con  amara ironia Sabina ricordò le rovine che aveva visto in Guatemala, e  un turista americano che diceva: «Odio le rovine, lo sfacelo, le  tombe.» Ma questa nuova cittadina di mare era infinitamente più  statica e più disintegrata delle rovine antiche, con le nubi di  monotonia e l'uniformità che pendeva sui suoi bei palazzi nuovi, sui  giardini impeccabili, sugli immacolati mobili da giardino. Con gli  uomini e le donne sulla spiaggia, tutti a una dimensione, senza alcun  magnetismo che li avvicinasse, zombi della civiltà, in abiti eleganti  e con occhi morti. 

  Perché era lì? Aspettava che Alan finisse il suo lavoro, Alan che  aveva promesso di venire. Ma il desiderio struggente di altri luoghi  non le dava pace. 

  Continuò a camminare e andò a sbattere contro un cartello che  diceva: «Questa è la sede della chiesa più costosa di Long Island.»   Continuò a camminare. A mezzanotte la cittadina era deserta. Erano  tutti a casa davanti a una serie di bottiglie da cui speravano di  estrarre una gaiezza imbottigliata altrove. 

  «Sembrano le bevute che si fanno alle veglie funebri,» pensò Sabina  guardando dentro ai bar dove figure ciondolanti si aggrappavano a  bottiglie contenenti l'oblio. 

  All'una andò in cerca di una farmacia per comprare dei sonniferi.  Erano tutte chiuse. Continuò a camminare. Alle due era esausta ma  ancora tormentata e infastidita da un luogo che si rifiutava di aver  feste nelle strade, balli, fuochi d'artificio, orge di chitarre, di  marimbas, grida di piacere, tornei di poesia e corteggiamento.   Alle tre piegò verso la spiaggia per chiedere alla luna come mai  avesse permesso a uno dei figli della notte di perdersi in un posto  da tanto tempo privo di vita umana. 

  Le si fermò accanto una macchina, e un poliziotto irlandese  altissimo e coi capelli bianchi le parlò cortesemente. 

  «Posso accompagnarla a casa?» 

  «Non riuscivo a dormire,» disse Sabina. «Stavo cercando una  farmacia per comprare dei sonniferi o dell'aspirina. Sono tutte  chiuse. Volevo camminare finché mi venisse sonno...»   «Guai con il ragazzo?» chiese il poliziotto, con la testa bianca  nobilmente eretta e una correttezza affabile che non gli veniva dalla  sua educazione di poliziotto ma da una convinzione più profonda per  cui la correttezza era qualcosa di cui essere orgogliosi, come  immagine dell'onore erotico dell'uomo. 

  Ma le parole erano così inadeguate che inibirono ogni possibile  confessione di Sabina, che temeva un altro commento balbettato e  adolescenziale. L'aspetto maturo del poliziotto era contraddetto  dalla goffaggine delle sue parole. Così Sabina disse vagamente: «Ho  nostalgia di tutti i posti di mare che ho visto, Capri, Maiorca, il  sud della Francia, Venezia, la riviera italiana, il Sud America.»   «La capisco benissimo,» fece lui. «Anch'io ero pieno di nostalgia  quando arrivai qui per la prima volta dall'Irlanda.» 

  «Un anno fa ballavo sulla spiaggia, sotto le palme. La musica era  scatenata, e le onde ci lambivano i piedi mentre ballavamo.»   «Sì, lo so. Un tempo facevo la guardia del corpo di un ricco. Di  notte tutti sedevano ai caffè del porto. Era come il 4 luglio tutte  le sere. Venga, la porterò a casa mia. Mia moglie e i bambini  dormono, ma posso darle dell'aspirina.» 

  Sabina gli si sedette accanto. Egli continuò a rievocare il suo  passato di guardia del corpo, quando aveva viaggiato in tutto il  mondo. Controllava la macchina senza una dissonanza. 

  «Odio questo posto,» disse Sabina con impeto.   Il poliziotto si era fermato senza scosse vicino a una bella  casetta bianca. «Aspetti qui,» le disse, ed entrò in casa. 

  Tornò portando un bicchier d'acqua e due aspirine sul palmo della  mano. I nervi di Sabina cominciarono a distendersi. Obbediente, prese  l'acqua e le aspirine. 

  L'uomo puntò gli abbaglianti su un cespuglio del suo giardino  dicendo: «Guardi che roba!» 

  Nella notte Sabina vide fiori di velluto con cuori neri e occhi  d'oro. 

  «Che fiori sono?» gli chiese per compiacerlo. 

  «Rose di Sharon,» disse lui in tono riverente e con il più puro  accento irlandese. «Crescono solo in Irlanda e a Long Island.»   La ribellione di Sabina si stava acquietando. Provò tenerezza per  le rose di Sharon, per la protettività del poliziotto, per il suo  tentativo di trovare un sostituto ai fiori tropicali, un po' di  bellezza in quella notte. 

  «Credo che ora dormirò,» disse Sabina. «Mi può lasciare al Penny  

Cottage.» 

  «No, no,» fece lui, mettendosi al volante. «Andremo a zonzo  costeggiando il mare finché non avrà tanto sonno da non farcela più.  Non si può dormire, sa, finché non si trova qualcosa di cui essere  grati, non si può mai dormire quando si è arrabbiati.»   Sabina non riuscì a seguire distintamente tutte le descrizioni  della sua vita errabonda di guardia del corpo, ma lo sentì quando  disse: «Siete in due a crearmi dei problemi con la vostra nostalgia.  L'altro è un giovane dell'Aviazione inglese. Aviatore per tutta la  guerra, diciassettenne quando si arruolò volontario. E' stato  assegnato a terra adesso, e non riesce a rassegnarsi. E' inquieto e  continua ad andare in giro come un matto infrangendo le regole del  traffico. I semafori rossi lo fanno impazzire. Quando ho capito di  cosa si trattava, ho smesso di dargli la multa. Abituato com'è agli  aeroplani, è dura per lui essere a terra. So che cosa prova.»   Sabina sentì le nebbie del sonno salire dalla terra, portando il  profumo delle rose di Sharon; nel cielo brillavano gli occhi  dell'aviatore non ancora rassegnato a proporzioni ridotte, a spazi  contratti. C'erano altri esseri umani che tentavano grandi voli, con  un poliziotto gentile alto come i crociati che vegliava su di loro  con un bicchier d'acqua e due aspirine; ora poteva dormire, poteva  dormire, poteva trovare il suo letto con la torcia del poliziotto  puntata sul buco della serratura, mentre la sua macchina si  allontanava tanto gentilmente e senza scosse, e la sua testa bianca  diceva dormi... 

  Sabina nella cabina del telefono. Alan le ha appena detto che non  sarebbe venuto quel giorno. Sabina avrebbe voluto lasciarsi scivolare  sul pavimento a singhiozzare per la solitudine. Voleva tornare a New  York ma Alan la pregò di aspettare. 

  C'erano posti che erano come tombe antiche in cui un giorno era un  secolo di non esistenza. «Ma sì che puoi aspettare un altro giorno,»  le aveva detto Alan. «Sarò lì domani. Non essere irragionevole.»   Sabina non poteva spiegargli che prati perfetti, chiese costose,  cemento nuovo e pittura fresca possono creare una grande tomba senza  dei di pietra da ammirare, senza gioielli o urne piene di cibo per i  morti, senza geroglifici da decifrare. 

  I fili del telefono trasmettevano solo messaggi letterali, e mai le  grida sotterranee d'angoscia e di disperazione. Come i telegrammi,  distribuivano solo colpi finali e definitivi: arrivi, partenze,  nascite e morti, ma non c'era spazio per fantasie come: Long Island è  una tomba, e ancora un giorno qui mi soffocherebbe. L'aspirina, il  poliziotto inglese e le rose di Sharon erano cure troppo blande  contro il soffocamento. 

  Assegnato a terra. Appena prima di scivolare sul pavimento, in  fondo alla cabina telefonica, sul fondo della sua solitudine, Sabina  vide l'aviatore in attesa di usare il telefono. Uscendo  dall'abitacolo lo vide di nuovo angosciato, come sembrava esserlo da  ogni cosa che succedeva in tempo di pace. Ma sorrise riconoscendola e  

le disse: «Lei mi ha indicato la strada per la spiaggia.» 

  «L'ha trovata? Le è piaciuta?» 

  «Un po' piatta per i miei gusti. Mi piacciono le rocce e le palme.  Mi ci sono abituato in India, durante la guerra.» 

  La guerra come astrazione non era ancora penetrata nella coscienza  di Sabina. Ella era come i comunicandi che pensano alla religione  soltanto sotto forma di un'ostia sulla lingua. La guerra, come  un'ostia messale sulla lingua dal giovane aviatore, le arrivò  vicinissima all'improvviso e Sabina capì che se il ragazzo la rendeva  partecipe del suo disprezzo per le placidità della pace era solo per  portarla dritta dentro al nucleo infernale della guerra. Quello era  il suo mondo. E quando le disse: «Prenda la bicicletta, e le mostrerò  una spiaggia migliore un po' più lontana...» non fu per sfuggire alle  eleganti figure sdraiate sulla spiaggia, ai giocatori di golf e alle  sanguisughe umane incollate ai fianchi umidi di un bar, ma per  portarla in bicicletta dentro al suo inferno. Appena incominciarono a  passeggiare sulla spiaggia, il giovane prese a parlare: 

  «Mi son fatto cinque anni di guerra come mitragliere di coda. Sono  stato in India un paio d'anni, in Nord Africa, ho dormito nel  deserto, sono precipitato parecchie volte, ho fatto circa un  centinaio di missioni, ne ho viste di tutte... uomini che morivano,  uomini che gridavano intrappolati in aerei in fiamme. Le braccia  carbonizzate, le mani come artigli d'animali. La prima volta che fui  mandato sul luogo dopo la caduta di un aereo... l'odore di carne  bruciata. E' dolce e nauseabondo, e ti rimane appiccicato per giorni.  Non riesci a lavarlo via. Non riesci a liberartene. Ti ossessiona.  Però ci siamo fatti delle belle risate, si rideva sempre. Ridevamo un  sacco. Rapivamo delle prostitute e le ficcavamo nei letti degli  uomini a cui non piacevano le donne. Prendevamo delle sbornie che  duravano parecchi giorni. Era una vita che mi piaceva. L'India, mi  piacerebbe tornarci. La vita qui, quello di cui parla la gente,  quello che fanno, che pensano, mi annoia. Mi piaceva dormire nel  deserto. Ho visto una donna nera partorire... lavorava nei campi  portando terriccio per un nuovo campo d'atterraggio. Smise di portare  terriccio per partorire sotto l'ala dell'aereo, come se niente fosse,  e poi avvolse il bambino in un paio di stracci e tornò al lavoro.  Strano vedere il grande aereo, così moderno, e questa donna nera  mezza nuda che partoriva per rimettersi poi a trasportare terriccio  nei secchi per un campo d'atterraggio. Solo due di noi sono tornati  vivi, del gruppo con cui ho cominciato, certo che ce ne facevamo di  scherzi. I miei compagni mi avvertivano sempre: «Non farti assegnare  a terra; una volta a terra sei fatto.» Be', hanno atterrato anche me.  Troppi mitraglieri di coda in servizio. Non volevo tornare a casa.  Cos'è la vita civile? E' buona per vecchie zitelle. Roba da fossili. E'  monotona. Le ragazze ridacchiano, ridono per niente. I ragazzi mi  vengono dietro. Non succede mai niente. Non ridono forte e non  gridano. Non si feriscono, e non muoiono, e non ridono nemmeno.»   C'era sempre qualcosa nei suoi occhi che Sabina non riusciva a  decifrare, qualcosa che l'altro aveva visto e di cui non voleva  parlare. 

  «Tu mi piaci perché odi questo posto e perché non ridacchi,» le  disse prendendole la mano con dolcezza. 

  Camminarono senza posa, instancabilmente lungo la spiaggia, finché  non ci furono più case, né giardini curati, né gente, finché la  spiaggia non divenne deserta, senza più un'orma, finché i rifiuti del  mare non furono che «un museo bombardato», come disse lui.   «Sono contento di aver trovato una donna che mi sta al passo,» le  disse. «E che odia quello che odio io.» 

  Mentre tornavano in bicicletta verso casa il giovane era euforico,  la pelle liscia arrossata dal sole e dal piacere. Il leggero tremore  dei suoi gesti era scomparso. 

  Le lucciole erano tanto numerose che volavano sul loro viso.   «In Sud America,» disse Sabina, «le donne portano delle lucciole  nei capelli, ma le lucciole quando si addormentano smettono di  brillare per cui le donne devono scuoterle di quando in quando per  tenerle sveglie.»   John rise. 

  Sulla porta del cottage dove stava Sabina, il giovane esitò. Si era  accorto che era la casa privata di una famiglia che affittava stanze.  Sabina non fece alcun movimento ma fissò i suoi occhi dilatati dalle  pupille violette in quelli di lui e ne resse lo sguardo, come a  soggiogare il panico che li pervadeva. 

  Egli disse a voce bassa: «Mi piacerebbe poter stare con te.» E si  piegò a baciarla con un bacio fraterno, evitando le sue labbra. 

  «Puoi farlo se vuoi.» 

  «Ma ^loro mi sentiranno.» 

  «Tu la sai lunga sulla guerra,» disse Sabina, «ma io la so lunga  sulla pace. C'è un modo per entrare senza che se ne accorgano.»   «Davvero?» fece lui, ma senza troppa convinzione e Sabina si  accorse che il giovane aveva semplicemente trasferito la sua sfiducia  dai padroni di casa alla sua conoscenza dell'intrigo che la rendeva  un'avversaria temibile. 

  Sabina rimase silenziosa e fece un gesto di abdicazione cominciando  ad avviarsi verso casa. Fu allora che lui la afferrò e la baciò quasi  disperatamente, affondandole le dita nervose e affusolate nelle  spalle, nei capelli, afferrandoglieli come se stesse affogando,  tenendole la testa contro la sua come se lei potesse sfuggire alla  sua stretta. 

  «Lasciami entrare con te.» 

  «Togliti le scarpe allora,» gli mormorò Sabina   Lui la seguì. 

  «La mia stanza è al primo piano. Tieniti al passo con me mentre  saliamo le scale; scricchiolano. Ma sembrerà che salga una persona  sola.» 

  John sorrise. 

  Quando arrivarono nella sua stanza, e Sabina chiuse la porta, egli  esaminò l'ambiente come ad accertarsi di non essere caduto in una  trappola nemica. 

  Le sue carezze erano così delicate da essere quasi un tormento, una  sfida evanescente che Sabina non riusciva a ricambiare per timore che  svanisse. Le sue dita la stuzzicavano, e si ritraevano quando  l'avevano eccitata, la sua bocca la tormentava per poi eludere quella  di lei, il suo viso e il suo corpo venivano vicinissimi, sposavano le  sue membra e scivolavano via nell'oscurità. Egli cercava ogni curva e  piega su cui potesse esercitare la pressione del suo caldo corpo  snello e improvvisamente giaceva immobile, lasciandola in sospeso.  Quando le prese la bocca si allontanò dalle sue mani, quando lei  rispose alla pressione delle sue cosce, egli cessò di esercitarla.  Non concedeva mai una fusione abbastanza lunga, ma si gustava ogni  abbraccio, ogni area del suo corpo per poi abbandonarla, come se  volesse solo eccitarla per poi eludere la fusione finale. Un  tormentoso, caldo, tremante, elusivo corto circuito dei sensi mobile  e inquieto quanto lo era stato lui tutto il giorno, e qui di notte,  con i lampioni della strada che rivelavano la loro nudità ma non i  suoi occhi, Sabina arrivò a un'attesa del piacere quasi  insopportabile. Egli aveva fatto del suo corpo un cespuglio di rose  di Sharon, emananti polline, ciascuna preparata alla delizia.   Così a lungo protratto, così a lungo sollecitato, quando venne, il  possesso vendicò l'attesa con una lunga, prolungata profonda estasi.   Il tremore passò al corpo di Sabina, ella aveva incorporato le  ansie di lui, ne aveva assorbito la pelle delicata, gli occhi  splendenti. 

  Il momento d'estasi si era appena concluso che egli si allontanò  mormorando: «Vivere è volare, volare.» 

  «Questo è volare,» disse Sabina. Ma vide il corpo dell'altro  giacerle accanto senza più fremiti, e seppe di essere sola nel suo  sentire, che questo momento conteneva tutta la velocità, tutta  l'altitudine, tutto lo spazio che lei voleva. 

  Quasi immediatamente egli incominciò a parlare nel buio di aerei in  fiamme, parlò di uscire a cercare i resti dei vivi, e controllare i  morti. 

  «Alcuni muoiono in silenzio,» egli disse. «Lo si vede dallo sguardo  nei loro occhi che stanno per morire. Alcuni muoiono urlando, e  bisogna girare la faccia e non guardarli negli occhi. Quando ero in  addestramento, la prima cosa che mi dissero fu: «Non guardare mai  negli occhi un uomo che muore...»   «Ma tu l'hai fatto,» disse Sabina. 

  «No, non l'ho fatto, non l'ho fatto.» 

  «Ma io so che l'hai fatto. Te lo leggo negli occhi; tu hai guardato  negli occhi un uomo che moriva, forse la prima volta...»   Se lo immaginava così chiaramente, a diciassette anni, non ancora  uomo, con la pelle delicata di una ragazza, i lineamenti  delicatamente scolpiti, il piccolo naso diritto, la bocca di una  donna, una risata timida, qualcosa di tenerissimo nel viso e nel  corpo, lo vide benissimo guardare negli occhi il moribondo.   «Il mio istruttore diceva: «Non guardar mai negli occhi i moribondi  o impazzirai.» Pensi che io sia pazzo? E' questo che vuoi dire?»   «Non sei pazzo. Sei molto ferito, e molto spaventato, e molto  disperato, e senti di non avere il diritto di vivere, di godere,  perché i tuoi amici sono morti o moribondi, o volano ancora. Non è  così?» 

  «Vorrei essere là adesso, a bere con loro, a volare, a vedere paesi  nuovi, facce nuove, a dormire nel deserto, con la sensazione che si  può morire da un momento all'altro e quindi bisogna bere in fretta,  lottare duramente, e ridere forte. Vorrei essere là adesso invece che  qui dove sono così cattivo.» 

  «Cattivo?» 

  «Questo è essere cattivi, non ti pare? Non puoi dire che non lo  sia.» 

  Scivolò fuori dal letto e si vestì. Le sue parole avevano distrutto  l'euforia di Sabina. Ella si tirò il lenzuolo fin sotto il mento e  rimase sdraiata in silenzio. 

  Quando fu pronto, prima di raccogliere le scarpe, il giovane si  piegò su di lei e con la voce di un ragazzo tenero che gioca a fare  

il padre le disse: «Vuoi che ti rimbocchi le coperte prima di  andarmene?» 

  «Sì, sì,» rispose Sabina, mentre l'angoscia si dissolveva, «sì,»  disse con gratitudine non per il gesto di protettività, ma perché se  lui l'avesse giudicata male, non le avrebbe rimboccato le coperte.  Non si rimboccano le coperte a una donnaccia. E sicuramente questo  gesto voleva dire che forse l'avrebbe rivista. 

  Le rimboccò le coltri con delicatezza e con tutta la precisione di  un addestramento in aviazione, valendosi di tutta l'abilità di una  lunga esperienza di accampamenti. Sabina rimase sdraiata accettando  il suo gesto, ma quello che egli rimboccò così delicatamente non fu  una notte di piacere, un corpo sazio, ma un corpo in cui aveva  iniettato il veleno che lo stava uccidendo, la follia di desiderio,  di colpa e di morte che lo tormentavano. Aveva iniettato nel corpo di  lei la propria colpa velenosa per vivere e desiderare. Aveva  mischiato veleno a ogni goccia di piacere, una goccia di veleno in  ogni bacio, ogni fitta di piacere sensuale come la pugnalata di un  coltello che uccideva quel che desiderava, lo uccideva con la colpa. 

  

  Il giorno dopo arrivò Alan, immutato il sorriso costante, e  immutato il carattere costante. Immutata la sua visione di Sabina.  Sabina sperava che egli avrebbe esorcizzato l'ossessione che l'aveva  schiavizzata la notte prima, ma Alan era troppo lontano dalla sua  caotica disperazione, e la sua mano tesa, il suo amore offerto erano  impari nella lotta col potere che la trascinava giù. 

  Il momento di piacere intenso, acuto che aveva preso possesso del  suo corpo e il forte veleno della tensione si fusero. 

  Sabina voleva salvare John da una deformazione che sapeva l'avrebbe  condotto alla follia. Voleva dimostrargli che la sua colpa era una  deformazione, che il suo giudizio negativo di lei e del desiderio e  

della sua brama era una malattia. 

  Il panico, la bramosia e il terrore dei suoi occhi si erano  trasferiti dentro di lei. Si augurò di non averlo mai guardato negli  occhi. Sentiva un bisogno disperato di eliminare la sua colpa, il  bisogno di salvarlo perché, per una ragione che non riusciva ad  individuare, era affondata con lui nella colpa; doveva salvare lui e  se stessa. Egli l'aveva avvelenata, le aveva trasmesso la sua  dannazione. Sarebbe impazzita con lui se non fosse riuscita a  salvarlo, a cambiare la sua visione delle cose. 

  Se lui non le avesse rimboccato le coperte, Sabina avrebbe potuto  rivoltarglisi contro, odiarlo, odiare la sua cecità. Ma quel gesto di  tenerezza aveva annientato tutte le difese: era cieco nel suo errore,  tenero e spaventato, crudele e sperduto, e anche lei era tutte queste  cose con lui, per lui, attraverso di lui. 

  Non riusciva neanche a prendersi gioco della sua ossessione di  volare. Gli aerei erano per lui quello che erano per lei i rapporti,  attraverso i quali ella cercava altre terre, visi sconosciuti,  cercava l'oblio, l'ignoto, la fantasia e la favola. 

  Non poteva prendersi gioco della sua ribellione contro l'essere  assegnato a terra. Lo capiva, lo sperimentava ogni volta che, ferita,  tornava da Alan. Se solo non le avesse rimboccato le coperte, non  come a una donnaccia, ma come a una bambina, da bambino qual era, in  un mondo terrificante e confuso. Se solo l'avesse lasciata  brutalmente, proiettando la sua vergogna su di lei come succedeva  spesso alle donne, che devono sopportare il bruciore della vergogna  del maschio, una vergogna che vien gettata loro addosso invece delle  pietre, per aver sedotto e tentato. Allora avrebbe potuto odiarlo, e  dimenticarlo, ma poiché le aveva rimboccato le coperte, sarebbe  ritornato. Non le aveva gettato addosso la sua vergogna, non aveva  detto: «Sei odiosa.» Non si rimboccano le coperte a una donnaccia.   Ma quando s'incontrarono per caso, ed egli la vide camminare al  fianco di Alan, in quel momento, nell'occhiata che le lanciò, Sabina  vide che era riuscito a gettarle addosso la vergogna e che ora  pensava: «Sei davvero una donnaccia,» e capì che non sarebbe più  tornato da lei. Rimase solo il veleno, senza la speranza  dell'antidoto. 

  Alan partì, e Sabina rimase, nella speranza di rivedere John. Lo  cercò inutilmente nei bar, nei ristoranti, nei cinema, sulla  spiaggia. Chiese di lui nel posto dove aveva affittato la bicicletta:  

non l'avevano visto ma la bicicletta l'aveva ancora. 

  Disperata chiese di lui nella casa dove aveva affittato una stanza.  La stanza era pagata ancora per una settimana, ma da tre giorni John  non si faceva vedere e la proprietaria era preoccupata perché il  padre aveva telefonato ogni giorno. 

  Era stato visto l'ultima volta al bar, con un gruppo di sconosciuti  che poi si erano allontanati con lui. 

  Sabina sentì che avrebbe dovuto tornare a New York e dimenticarlo,  ma il suo viso ansioso e l'angoscia dei suoi occhi le facevano  sembrare la partenza una diserzione. 

  In altri momenti il piacere che lui le aveva dato le infiammava il  corpo come caldo mercurio liquido che le pulsava nelle vene. Il  ricordo di quel piacere fluttuava tra le onde quando nuotava, e le  onde sembravano le sue mani, o la forma del suo corpo nelle mani di  lei. 

  Sabina sfuggiva alle onde e alle sue mani. Ma quando si sdraiava  sulla sabbia calda, era di nuovo come essere sdraiata sul corpo di  lui; erano la sua pelle asciutta e i suoi movimenti elusivi che le  scivolavano tra le dita, le sfuggivano sotto i seni, e Sabina fuggiva  dalla sabbia delle sue carezze. 

  Ma anche quando tornava in bicicletta verso casa, era in gara con  lui, udiva le sue allegre sfide, più in fretta - più in fretta - più  veloci nel vento, il suo viso la inseguiva in volo o era lei a  inseguire il viso di lui. 

  Quella notte Sabina alzò il viso verso la luna, e quel gesto  risvegliò il dolore, perché anche per ricevere il suo bacio aveva  dovuto alzare la testa così, ma con il sostegno delle sue mani. La  sua bocca si schiuse per ricever ancora una volta quel bacio, ma si  chiuse sul vuoto. Sabina quasi urlò per il dolore, urlò alla luna, la  deità sorda e impassibile del desiderio che illuminava beffarda una  notte vuota, un letto vuoto. 

  Decise di passare ancora una volta dalla casa di John, benché fosse  tardi, nonostante temesse di vedere ancora una volta la faccia vuota  e morta della sua finestra. 

  La finestra era illuminata e aperta! 

  Sabina si fermò e sussurrò il nome di lui. Era nascosta da un  cespuglio, temeva che la potesse udire qualcun altro della casa.  Temeva gli occhi del mondo puntati su una donna in attesa sotto la  finestra di un giovanotto. 

  «John! John!» 

  John si affacciò, coi capelli scompigliati, e persino alla luce  della luna Sabina si accorse che aveva il viso in fiamme e gli occhi  offuscati. 

  «Chi è?» chiese lui, sempre col tono di un uomo in guerra, che teme  un'imboscata. 

  «Sabina. Volevo solo sapere... stai bene?» 

  «Certo che sto bene. Sono stato all'ospedale.» 

  «All'ospedale?» 

  «Un attacco di malaria, tutto qui.» 

  «Malaria?» 

  «Mi succede, quando bevo troppo...» 

  «Ti vedrò domani?» 

  John sorrise piano: «Mio padre verrà a stare qui con me.» 

  «Allora non riusciremo a vederci. Sarà meglio che torni a New  

York.» 

  «Ti chiamerò quando torno.» 

  «Perché non scendi a darmi il bacio della buonanotte?»   John esitò: «Mi sentiranno, lo diranno a mio padre. « 

  «Addio, buonanotte...» 

  «Addio,» le rispose lui, distaccato, allegro. 

  Ma Sabina non riuscì a lasciare Long Island. Era come se le avesse  tessuto intorno una rete fatta di un piacere che lei voleva ancora,  della creazione di una Sabina che lei voleva cancellare, di un veleno  per cui lui solo aveva la cura, la rete di una colpa reciproca che  solo un atto d'amore poteva trasformare in qualcos'altro, qualcosa  che non fosse solo l'incontro di una notte con uno sconosciuto.   La luna si burlò di lei mentre tornava al suo letto vuoto. Il  grande sorriso della luna che Sabina non aveva mai notato prima, né  mai prima aveva notato il suo scherno per questo desiderio d'amore  che essa stessa suscitava. Io capisco la sua follia, perché dunque si  allontana da me? Io mi sento vicina a lui, perché lui non si sente  vicino a me, perché non vede la somiglianza tra di noi, tra le nostre  follie? Io voglio l'impossibile, voglio sempre volare, io distruggo  la vita ordinaria, corro incontro a tutti i pericoli dell'amore come  lui a tutti i pericoli della guerra. Lui fugge, la guerra per lui è  meno terrificante della vita... 

  John e la luna non riuscirono a operare esorcismi su questa follia.  Non ne trapelava alcuna traccia eccetto quando la provocavano: 

  «Non t'interessano i bollettini di guerra, non leggi i giornali?» 

  «Io conosco la guerra, so tutto della guerra.» 

  «Non sembra che ti sia familiare.» 

  (Ho dormito con la guerra, una volta ho dormito tutta notte con la  guerra. Ho riportato profonde ferite di guerra sul mio corpo, come a  voi non è mai successo, un fatto d'arme per cui non sarò mai  decorata!) 

  

  Nelle molteplici peregrinazioni amorose, Sabina riconosceva subito  gli echi di amori e desideri più grandi. Quelli grandi, soprattutto  se non erano morti di morte naturale, non morivano mai completamente  

e lasciavano dei riverberi. Una volta interrotti, troncati  artificialmente, soffocati per caso, essi continuavano a esistere in  frammenti separati e interminabili echi più smorzati.   Una vaga somiglianza fisica, una bocca quasi uguale, una voce  leggermente simile, alcuni frammenti del carattere di Philip, o di  John, passavano a qualcun altro, che Sabina riconosceva  immediatamente in una folla, a una festa, per la risonanza erotica  che essa risvegliava. 

  L'eco dapprima colpiva attraverso la misteriosa risonanza dei sensi  che trattengono le sensazioni come gli strumenti trattengono un suono  dopo essere stati toccati. Il corpo rimaneva vulnerabile a certe  ripetizioni anche dopo che la mente credeva di aver operato un taglio  netto e decisivo. 

  Il disegno di una bocca che ne richiamava un altro bastava a  rigenerare la corrente interrotta di sensazioni, a ricreare un  contatto per mezzo della ricettività di un tempo, come un canale che  conduca perfettamente solo una parte dell'estasi passata attraverso  il canale dei sensi che suscitano vibrazioni e sensibilità un tempo  risvegliate da un amore totale o da un desiderio totale per l'intera  personalità. 

  I sensi creavano alvei di fiume fatti di risposte formate in parte  dai sedimenti, dagli scarti, dalle inondazioni dell'esperienza  originaria. Una somiglianza parziale poteva risvegliare quel che  rimaneva dell'amore sradicato in modo imperfetto, che non era morto  di morte naturale. 

  Qualsiasi cosa venisse strappata fuori dal corpo, come ogni cosa  tagliata, sradicata violentemente dalla terra, lasciava queste radici  vive, insospettate, sotto la superficie, pronte a germogliare di  nuovo sotto l'effetto di un'associazione artificiale, di un innesto  di sensazioni, capaci di tornare a nuova vita grazie a questo innesto  della memoria. 

  Della perdita di John, Sabina conservò una vibrazione musicale  invisibile, che la rese insensibile a uomini totalmente diversi da  John e la preparò a una continuazione del suo desiderio interrotto  per John. 

  Quando vide il corpo snello di Donald, lo stesso naso piccolo, e la  testa sostenuta da un collo come uno stelo, l'eco delle passate  violente emozioni fu abbastanza forte da sembrare un nuovo desiderio.   Sabina non badò alle differenze, non osservò che la pelle di Donald  era ancor più trasparente, i suoi capelli più serici, che non  avanzava a scatti ma quasi scivolando, strascicando un po' i piedi,  che la sua voce era passiva, indolente, lievemente lamentosa.   Sabina dapprima pensò che con le sue parodie egli si prendesse  gioco dei gesti volubili delle donne, imitando con un sorriso  deliberatamente seducente le attrazioni intricate della corolla.   Sorrideva indulgente quando lui si sdraiava sul divano allestendo  una mostra di arti, testa e mani tale da suggerire un banchetto  carnale. 

  Rideva quando lui strascicava le frasi come rampicanti, o esprimeva  all'improvviso giudizi severi come fanno i bambini quando si prendono  gioco delle prepotenze assurde del padre, o degli sprechi di fascino  della madre. 

  Quando Sabina attraversava la strada, si nutriva del sorriso  galante del poliziotto che fermava il traffico per lei, coglieva il  desiderio del portiere che le spingeva la porta girevole, raccoglieva  le occhiate di adorazione del commesso della farmacia: «Lei è  un'attrice?» Raccoglieva il complimento del commesso che le provava  le scarpe: «Lei è una ballerina?» Seduta sull'autobus, riceveva i  raggi del sole come una visita intima, personale. Provava una  connivenza spiritosa con il camionista che doveva frenare  violentemente di fronte ai suoi passaggi impulsivi, e frenava ridendo  perché si trattava di Sabina ed era contento di vederla attraversare  il suo campo visivo. 

  Ma considerava tutto ciò un nutrimento tipicamente femminile, al  pari del polline. Con sua meraviglia, Donald, camminandole accanto,  dava invece per scontato che queste offerte fossero rivolte a lui.   Egli passava da quella che Sabina credeva essere una mimica  all'altra: per il poliziotto pomposo si riempiva d'aria i polmoni; in  onore delle curve della donna che camminava di fronte a loro,  ancheggiava come in un tango. 

  Sabina rideva ancora, chiedendosi quando sarebbero finite le  sciarade e sarebbe apparso il vero Donald. 

  In quel momento, di fronte a lei al tavolo del ristorante, Donald  faceva le ordinazioni con la tirannia esagerata dell'uomo d'affari o  trattava con sufficienza la commessa, come un politicante con poco  tempo per il fascino. Egli ridicolizzava le donne nei loro cicli di  irrazionalità periodica con una riproduzione esatta dei loro capricci  e dello spirito di contraddizione e commentava il loro debole per la  moda con una esperta minuzia di particolari che a Sabina mancava. La  fece dubitare della sua femminilità con la precisione da miniaturista  dei suoi interessi miniaturizzati. La sua passione per le roselline,  per i gioielli delicati, sembrava più femminile delle pesanti collane  barbariche di Sabina, e della sua avversione per i fiorellini e per  gli azzurri pastello da neonato. 

  Da un momento all'altro, pensava Sabina, questa giocosità sarebbe  cessata, egli avrebbe assunto una posizione più eretta e avrebbe riso  con lei dell'assurdità dei propri vestiti, una camicia dello stesso  colore dell'abito di Sabina, un orologio barocco, un portafoglio da  donna, o una ciocca di capelli tinta di grigio argento sulla giovane  testa d'un biondo lucente. 

  Ma egli continuava ad assumere atteggiamenti burleschi, per  prendersi gioco di tutte loro. Soprattutto possedeva un'enciclopedia  estremamente elaborata dei difetti delle donne. In questa galleria  aveva escluso con estrema cura Giovanna D'Arco e altre eroine, Madame  

Curie e altre donne di scienza, tutte le Florence Night-ingale, le  Amelie Earhart, le donne chirurgo, le artiste, le mogli  collaboratrici. Le sue figure di cera a imitazione delle donne erano  un interminabile concentrato di puerilità e perfidie. 

  «Dove hai trovato tutte queste donne ripugnanti?» gli chiese un  giorno Sabina, e tutt'a un tratto non riuscì più a ridere: la  caricatura era una forma di odio. 

  La più grande perfidia si celava nella sua gentilezza. La sua  sottomissione e la sua delicatezza cullavano l'interlocutore mentre  lui raccoglieva materiale per le satire future. Il suo sguardo veniva  sempre dal basso come se stesse ancora alzando gli occhi sulle figure  monumentali dei genitori dal punto di vista di un bambino. Questi  tiranni immensi potevano essere scalzati soltanto con la parodia più  sottile: la madre, sua madre col suo turbinio di piume e pellicce,  sempre a darsi pena per gente senza importanza, mentre lui piangeva  di solitudine e lottava da solo contro l'orrore degli incubi.   Ella ballava, civettava, si lamentava, turbinava senza dedicarsi ai  suoi dolori. La sua voce carezzevole conteneva tutte le  contraddizioni più tormentose: la voce gli leggeva le favole, e  proprio quando stava per crederci e si accingeva a modellare su di  esse la propria vita, quella stessa voce gettava acqua fredda su  tutti i suoi desideri, le sue brame, i suoi progetti, e distribuiva  parole peggiori di uno schiaffo, di una porta chiusa o una cena senza  frutta. 

  E così oggi, mentre Sabina camminava al suo fianco credendo di  poter distruggere la madre corrosiva incarnando il suo opposto,  dedicandosi completamente ai suoi segreti desideri, non ballando con  altri, non civettando, non lamentandosi mai, puntando su di lui tutto  il fascio di luce del suo cuore, gli occhi di Donald non vedevano  solo lei, ma Sabina e una terza donna sempre presente in un triangolo  perpetuo, un ménage à trois, in cui la figura materna si ergeva  spesso tra di loro, intercettando l'amore che Sabina desiderava,  traducendo i suoi messaggi a Donald come ripetizioni di precedenti  delusioni e tradimenti, tutte manifestazioni della madre contro di  lui. 

  Egli si inginocchiò ai suoi piedi per riallacciarle il sandalo  slacciato, un atto che eseguiva con la delicatezza non di un uomo  innamorato, ma di un bambino ai piedi di una statua, di un bambino  intento a vestire una donna, ad adornarla, ma non per reclamarla per  sé. Con queste adulazioni egli soddisfaceva un amore segreto per il  raso, per le piume, per i ciondoli, per l'ornamento, ed era una  carezza rivolta non ai piedi di Sabina ma alla periferia di quanto  egli poteva accarezzare senza rompere il tabù fondamentale: toccare  il corpo di sua madre. 

  Toccare la seta che la avviluppava, i suoi capelli, i fiori che  portava. 

  Tutto a un tratto il viso di Donald, prima piegato sul suo compito,  si alzò verso di lei con la espressione di un uomo cieco che acquisti  improvvisamente la vista. «Sabina,» le spiegò, «ho sentito un brivido  percorrermi tutto il corpo mentre ti allacciavo i sandali. E' stata  come una scossa elettrica.» 

  Poi, con altrettanta subitaneità, sul suo viso si diffuse la luce  attenuata di emozioni filtrate, ed egli tornò nella sua zona  neutrale: una primitiva, preumana conoscenza della donna, indiretta,  avviluppante, ma senza alcuna traccia di un passaggio per la  penetrazione erotica. Tocchi lievi, radiazioni seriche, omaggio degli  occhi soltanto, possesso di un ninnolo, di una manica, mai tutta la  mano su una spalla nuda, ma una fuga dal contatto, ondine e rivoletti  di incensi delicati, questo era quanto fluiva tra di loro. 

  La scossa elettrica affondò sotto la sua coscienza. 

  Toccandole il piede nudo egli aveva provato un senso di unità che  assomigliava all'originaria unità del mondo, all'unità con la natura,  all'unità con la madre, ai primi ricordi di un'esistenza dentro alla  seta, al calore e all'assenza di sforzi di un grande amore.  Toccandole il piede questo deserto vuoto che si stendeva tra lui e  altri esseri umani, pullulante di tutte le piante della difesa, delle  varietà spinose dei repellenti emotivi, cresciuti come un muro  impenetrabile tra lui e altri giovani, persino quando giacevano  accanto corpo a corpo, fu annientato. C'erano atti sensuali che non  gli avevano suscitato questo improvviso senso di unità che si era  verificato tra il piede nudo di Sabina e le sue mani, tra il cuore di  lei e il nucleo più profondo di sé. Questo cuore di Sabina che egli  immaginava armato di tutto punto, e il nucleo profondo di sé che non  aveva mai sentito prima se non come la struttura cristallina del suo  corpo di ragazzo che egli conosceva, alla presenza di lei, si  rivelarono morbidi e vulnerabili. 

  Egli divenne consapevole di tutta la sua fragilità, della sua  dipendenza, del suo bisogno. Più vicina si accostò lei, e il suo viso  divenne più grande mentre si piegava su di lui, gli occhi più  luminosi e caldi, sempre più vicina, a sciogliere le sue ostilità.   Era terribilmente dolce essere così nudi in sua presenza. Come in  tutti i climi tropicali dell'amore, la sua pelle si ammorbidì, i suoi  capelli divennero più serici, i suoi nervi si liberarono dalle loro  dure contorsioni di fili. Tutte le tensioni della messa in scena  cessarono. Egli si sentì diventare più piccolo, tornare alla sua  dimensione naturale, come nelle storie di magia, si sentì  rimpicciolire senza dolore per potere entrare nel rifugio del cuore  di lei, abbandonando la lotta per la maturità. Ma insieme a questo si  presentarono tutti i sintomi corrispettivi dell'infanzia: la dolorosa  vulnerabilità, la mancanza assoluta di difese, l'angoscia per essere  totalmente alla mercé di altri. 

  Era necessario arrestare quell'invasione di calore che ottundeva la  sua volontà, l'integrità del suo furore, arrestare quella  dissoluzione e quello scorrere di un essere dentro a un altro che si  era già verificato un tempo tra lui e sua madre per poi essere fatto  a pezzi violentemente dalla volubilità e frivolezza di lei provocando  il trauma e il dolore più grandi. Era necessario distruggere questo  calore fluido in cui si sentiva assorbire, annegare come dentro al  mare stesso. Un calice il corpo di lei, un ciborio, una nicchia  d'ombre. Il suo vestito di cotone grigio raccolto intorno ai piedi  come una fisarmonica, con la polvere dorata della segretezza tra le  pieghe del tessuto, un viaggio di giri tortuosi, infiniti in cui  sarebbe stata intrappolata, catturata, la sua virilità. 

  Lasciò andare il piede nudo e si alzò rigidamente. Ricominciò dal  punto in cui si era arrestato, riprese le sciarade adolescenziali. La  sua gentilezza divenne debolezza, la mano che allungò per toglierle  il mantello dalle spalle sembrava fosse stata tagliata dal resto del  corpo. 

  Egli continuò a seguirla, portandole il mantello. La blandì con le  parole, continuò a sedersi il più vicino possibile, alla sua ombra,  sempre abbastanza vicino da crogiolarsi nel calore che emanava dal  suo corpo, sempre alla portata della sua mano, sempre con la camicia  aperta sul collo in una sfida obliqua alle mani di lei, ma con la  bocca che sfuggiva. Indossando le cinture più straordinarie perché  gli occhi di lei ammirassero la sua vita, ma col corpo in fuga.   Questo disegno nello spazio era una continuazione del modo di  accarezzarla di John, era l'eco delle sue provocazioni. La notte di  tormenti appassionati passata alla ricerca delle fonti del piacere  evitando però tutti i possibili pericoli della fusione dei loro corpi  in una sembianza di matrimonio. Suscitava in Sabina una sospensione  

eguale, con tutti i nervi erotici risvegliati, a lanciare nello  spazio scintille inutili e sprecate. 

  Sabina vedeva le sue sciarade come le imitazioni di un bambino  invidioso di una maturità che non riusciva a raggiungere.   «Sei triste, Sabina,» le disse Donald, «vieni con me, ho delle cose  da farti vedere.» Quasi a innalzarsi con lei nel suo giroscopio di  fantasia, egli la portò a vedere la sua collezione di gabbie vuote.   Gabbie affollavano la sua stanza, alcune di bambù provenienti dalle  Filippine, alcune dorate, lavorate con disegni intricati provenienti  dalla Persia, altre a punta come tende, altre come piccole case  d'argilla, altre ancora come capanne africane di foglie di palma. Ad  alcune delle gabbie aveva aggiunto egli stesso dei merli, delle torri  medioevali, trapezi e scale barocche, vasche da bagno fatte di  specchi, e una giungla completa in miniatura che riusciva a conferire  a queste prigioni un'illusione di libertà, per qualsiasi uccello  

selvatico o meccanico in esse imprigionato. 

  «Preferisco le gabbie vuote, Sabina, almeno finché non avrò trovato  l'uccello eccezionale che vidi una volta nei miei sogni.»   Sabina mise sul giradischi l'Uccello di Fuoco. I delicati passi  dell'Uccello di Fuoco si fecero udire dapprima a una distanza  infinita, mentre ogni passo sprigionava dalla terra scintille  fosforescenti, e ogni nota una tromba dorata a introdurre la delizia.  Una giungla di code di drago sferzanti in derisioni erotiche, un  braciere di fedeli fumante di carne, le molteplici macerie delle  fontane del desiderio dai vetri istoriati. 

  Sabina alzò la puntina, interrompendo bruscamente la musica a  mezz'aria. 

  «Perché? Perché? Perché?» gridò Donald, come se gli avesse inferto  una ferita. 

  Sabina aveva tacitato gli uccelli di fuoco del desiderio ed ora  allungò le braccia come ali distese, ali non più aranciate, e Donald  si abbandonò al loro abbraccio protettivo. La Sabina che egli  abbracciò era quella di cui aveva bisogno, la dispensatrice di cibo,  di promesse mantenute, di rammendi e sferruzzi, di comodità e  conforto, di coperte e rassicurazioni, di stufe, di medicine, di  pozioni e puntelli. 

  «Tu sei l'uccello di fuoco, Sabina, ed è per questo che tutte le  mie gabbie sono rimaste vuote finché non sei arrivata tu. Eri tu che  volevo catturare.» Poi con una tenerezza dolce, sconfitta, abbassò le  palpebre e aggiunse: «So di non aver niente per tenerti qui, niente  per farti restare...» 

  I seni di Sabina non finivano più in due punte di fuoco, erano i  seni della madre, dai quali scorreva nutrimento. Ella abbandonò i  suoi altri amori per esaudire i bisogni di Donald. «Sono una donna,»  sentì Sabina, «sono calda, tenera e do nutrimento. Sono feconda e  sono buona.» 

  Quanta serenità le venne da questa condizione di donna madre! La  madre umile, che fa lavori servili, come lei l'aveva conosciuta  durante l'infanzia. 

  Quando trovava brevi messaggi caotici e frettolosi di Donald per  dirle dov'era e quando sarebbe tornato, si concludevano sempre così:  «Sei meravigliosa. Sei meravigliosa e buona. Sei generosa e gentile.»   E queste parole calmavano la sua ansietà più di quanto il  soddisfacimento sensuale avesse calmato le sue febbri. Ella stava  disfandosi delle altre Sabine, credendo di liberarsi dell'ansietà. I  colori dei suoi vestiti si fecero di giorno in giorno più smorzati,  la sua andatura meno animalesca. Era come se, in cattività, il suo  piumaggio brillante stesse perdendo il suo fulgore. Ella sentiva la  metamorfosi. Sapeva che stava mutando le penne. Ma non sapeva cosa  stava perdendo modellandosi secondo il bisogno di Donald.   Una volta, salendo le scale con una borsa della spesa piena,  catturò con la coda dell'occhio la sua scura silhouette su uno  specchio sfocato, e rimase sconcertata nel constatare una forte  somiglianza con sua madre. 

  Quel che Donald aveva ottenuto catturandola nella sua rete di  fantasia come l'uccello di fuoco (mentre con l'assenza del clima  erotico aveva sottilmente smorzato il suo piumaggio) non era solo il  soddisfacimento dei propri bisogni, ma la capacità per lei di  ricongiungersi all'immagine di sua madre che rappresentava l'immagine  della bontà: sua madre, dispensatrice di cibo e di conforto, dolce,  calda e feconda. 

  Lo specchio macchiato rifletteva l'ombra e l'eco di sua madre,  procacciatrice di cibo. Con indosso i vestiti dai toni neutri della  modestia, gli indumenti sbiaditi del sacrificio, l'uniforme esterna  della bontà. 

  Nel regno di Donald, il regno della propria madre, ella aveva  trovato la cessazione momentanea del senso di colpa. 

  Adesso sapeva cosa doveva dire a Donald, per curare il suo senso di  piccolezza, e la piccolezza di quanto le aveva dato. Gli avrebbe  detto: 

  «Donald! Donald! Tu mi hai dato davvero qualcosa che nessun altro  poteva darmi, mi hai dato la mia innocenza! Mi hai aiutato a  ritrovare il modo che avevo imparato da bambina per raggiungere la  pace. Quand'ero bambina, solo un po' più piccola di te adesso, dopo  giorni di letture intense, di giochi, di fantasie sulla gente, di  amicizie appassionate, dopo giorni passati a sfuggire ai miei  genitori, dopo giorni e giorni pieni di scappatelle, e di tutte le  attività che erano definite cattive, scoprii che aiutando mia madre a  cucinare, a rammendare, a pulire, a scrostare, e sbrigando tutte le  faccende che più odiavo, potevo calmare questa coscienza assetata e  tirannica. Non è un crimine che tu sia rimasto un bambino, Donald. In  alcune delle vecchie favole, molti personaggi immaturi furono  rimpiccioliti come nani, come accadde ad Alice che divenne piccola di  nuovo per risperimentare la sua infanzia. Siamo noi che fingiamo;  fingiamo tutti di essere grandi e grossi. Tu solo sei incapace di  fingere.» 

  Quando entrò nella stanza di Donald, trovò una lettera sul suo  tavolino. 

  Una volta in cui il suo stato d'animo era stato troppo  contraddittorio Sabina gli aveva detto: «L'adolescenza è come il  cactus,» e lui le aveva risposto: «Un giorno o l'altro ti scriverò  una lettera con latte di cactus!»   Ed eccola qui! 

  Lettera a un'attrice: «Da quanto mi hai detto ieri sera, vedo che  non conosci il tuo potere. Sei come una persona che si consumi  nell'amare e nel dare e non conosca i miracoli che ne derivano.  Questo l'ho capito ieri sera mentre ti guardavo recitare Cenerentola,  ho capito che eri tutto ciò che recitavi, che riuscivi a toccare il  punto in cui arte e vita si incontrano e c'è soltanto l'eSSERE. Ho  sentito il tuo desiderio appassionato e i tuoi sogni, la tua  compassione e i tuoi desideri nel momento stesso in cui risvegliavi  tutti i miei. Ho sentito che non stavi recitando ma sognando; ho  intuito che tutti noi che ti guardavamo potevamo uscire dal teatro e  di colpo potevamo entrare energicamente in un altro ballo, un'altra  tempesta di neve, un altro amore, un altro sogno. Davanti ai nostri  occhi ti stavi consumando d'amore e per il sogno d'amore. Lo  sfavillio dei tuoi occhi, dei tuoi gesti, come un falò di fede e  dissoluzione. 

  «Tu hai il potere. Non usare mai più la parola esibizionismo. In te  recitare è una rivelazione. Quel che tanto spesso l'anima non può  dire attraverso il corpo perché il corpo non è abbastanza sottile, tu  lo puoi dire. Di solito il corpo tradisce l'anima. Tu hai il potere  del contagio, il potere di trasmettere l'emozione attraverso le  sfumature infinite dei tuoi movimenti, le variazioni del disegno  della tua bocca, i palpiti lievi delle tue ciglia. E la tua voce, la  tua voce legata più di ogni altra al tuo respiro, l'affanno del  sentire, toglie il respiro per portare gli altri con te e  trasportarli in un regno di silenzi ansimanti. Tale è il potere che  hai, Sabina! Il dolore che hai sentito dopo non era il dolore del  fallimento o dell'esibizionismo, come hai detto tu, dev'essere il  dolore per aver messo a nudo tanta parte che è dello spirito, come  una rivelazione mistica di compassione, e amore e segreta illusione,  talmente grande, che aspettavi che si fosse comunicato agli altri, e  che questi altri reagissero come di fronte a un rituale magico.  Dev'essere stato uno shock vedere che questo non succedeva, vedere il  pubblico rimanere impassibile. Ma, a quelli che reagiscono come me,  tu appari come qualcosa che trascende l'attore, che può trasmettere  agli altri il potere di sentire, di credere. Per me il miracolo è  successo. Mi sei parsa l'unica persona viva tra gli attori. Quel che  ti ha ferito è che non era recitazione, e che quando finì ci fu  un'interruzione del sogno. Avresti dovuto essere protetta dal  cambiamento violento. Avresti dovuto essere portata in braccio giù  dal palcoscenico, in modo da non sentire il cambiamento di livello,  dal palcoscenico alla strada, e dalla strada a casa tua, e da lì a  un'altra festa, a un altro amore, a un'altra tempesta di neve, a un  altro paio di scarpine d'oro. 

  «Dev'essere necessario un grande coraggio per donare a molti quel  che spesso non si dà che all'amato. Una voce alterata dall'amore, dal  desiderio, il sorriso di una tenerezza aperta e nuda. A noi è  concesso di assistere alla messa a nudo di tutti i sentimenti,  tenerezza, rabbia, debolezza, abbandono, infantilismo, paura, tutte  cose che di solito riveliamo soltanto alla persona amata. Per questo  amiamo gli attori. Essi ci donano l'essere intimo che viene rivelato  soltanto nell'atto d'amore. Su noi si riversano tutti i tesori,  un'occhiata carezzevole, un gesto intimo, le segrete tonalità della  voce. Questa apertura, che si richiude non appena ci troviamo in un  rapporto parziale, di fronte a qualcuno che capisce soltanto una  parte di noi, è la miracolosa apertura che si verifica nell'amore  totale. E così ho assistito sul palcoscenico a questo mistero d'amore  totale che nella vita mi rimane nascosto. E ora, Sabina, non posso  sopportare gli amori di poco conto, eppure non posso pretendere tutto  il tuo, e adesso ogni volta che ti vedo, immensa, completa, mentre io  non son che un frammento, sperduto...» 

  Sabina toccò la lettera che teneva appoggiata al seno, con gli  angoli acuti delle pagine che le facevano un po' male... «Cosa posso  darti,» chiedeva Donald, «cos'ho da darti?» gridava angosciato,  pensando che questo fosse il motivo per cui non l'aveva vista né  sentita per tre giorni. Un'altra volta le aveva detto scherzando:  «Posso solo mordicchiarti.» E le aveva premuto nella spalla i suoi  piccoli denti perfetti. 

  L'ascensione dei ballerini nello spazio e il loro ritorno a terra  le riportò davanti agli occhi la visione di un ombrellino giapponese  fatto di carta colorata che un tempo portava sui capelli. Era bello  da vedere, fatto con tanta delicatezza. Quando pioveva e gli altri  aprivano i loro ombrelli, per lei era ora di chiudere il suo.   Ma un vento forte l'aveva strappato, e quando Sabina era andata a  Chinatown per comprarne un altro la proprietaria del negozio le aveva  gridato con veemenza: «E' fatto in Giappone, lo butti nella  spazzatura!» 

  Sabina aveva guardato il parasole, innocente e fragile, fatto in un  momento di pace da un artigiano che sognava la pace, fatto come un  fiore, più leggero della guerra e dell'odio. Sabina uscì dal negozio,  lanciò un'occhiata alla spazzatura e non riuscì a gettarlo via. Lo  chiuse tranquillamente, richiuse i giardini teneri, la fragile  struttura di sogno, il sogno di pace, e di musica innocente di un  artigiano, di un artigiano innocente le cui mani non avevan  fabbricato proiettili. In tempo di guerra l'odio confondeva tutti i  valori, l'odio cadeva sulle cattedrali, sui quadri, sulla musica, sui  libri rari, sui bambini, sui passanti innocenti.   Sabina piegò la lettera, come aveva chiuso il parasole,  proteggendolo alla vista dell'odio e della violenza. Non riusciva a  tenere dietro al ritmo furioso del mondo. Era impegnata in un ciclo  più piccolo, del tutto opposto alla guerra. C'erano verità che eran  state date alle donne da proteggere mentre gli uomini andavano in  guerra. Quando tutto sarebbe saltato per aria, un parasole di carta  avrebbe alzato la testa tra le macerie, ricordando all'uomo la pace e  la tenerezza. 

  

  Alan era sempre convinto di far piacere a Sabina quando la portava  

a teatro, e sulle prime il viso di lei era illuminato  dall'aspettativa e dalla curiosità. Ma poi, inevitabilmente,  diventava irrequieta e tumultuosa, caotica e angosciata; le capitava  persino di piangere in silenzio nel buio e scomparire nell'intervallo  tra un atto e l'altro, per non mostrare un viso devastato.   «Che c'è, che c'è?» ripeteva Alan pazientemente, sospettandola  d'invidia o di gelosia per i ruoli dati ad altre. «Potresti essere la  più fantastica delle attrici del nostro tempo se volessi dedicarci  

tutta la vita, ma sai bene come la pensi sulla disciplina e la  monotonia.» 

  «Non è questo, non è questo,» e Sabina non aggiungeva altro.   A chi avrebbe potuto spiegare che quel che invidiava agli attori  era la facilità con cui uscivano dai loro ruoli, se li lavavano di  dosso dopo la commedia per tornare alle loro vere personalità. Lei  avrebbe desiderato che queste metamorfosi della sua personalità  avessero luogo sulla scena in modo che a un segnale dato avrebbe  saputo per certo che erano finite e che poteva tornare a una Sabina  permanente e immutabile. 

  Invece quando lei desiderava metter fine a un ruolo, ridiventare se  stessa, gli altri si sentivano immensamente traditi, e non solo  combattevano il cambiamento ma si arrabbiavano con lei. Una volta che  un ruolo era stabilito in un rapporto era quasi impossibile  cambiarlo. E anche se ci fosse riuscita, quando veniva il momento di  ritornare alla Sabina originaria, dov'era più? Se si fosse ribellata  contro il suo ruolo con Donald, se avesse rimesso sul giradischi  l'Uccello di Fuoco, il tambureggiare dei sensi, le lingue di fuoco e  avesse negato la propria madre dentro di sé, sarebbe forse tornata  alla vera Sabina? 

  Quando rimise la puntina sul disco e si accinse a svolgere il suo  primo compito col desiderio non era forse suo padre che camminava  dentro di lei, dirigendo i suoi passi? Suo padre che, nutritosi della  prestigiosa cucina di sua madre, infilatasi la camicia che lei aveva  stirato, baciatale la fronte non bella e umida di sudore per la  fatica di stirare, dopo aver permesso alle sue mani rovinate di  fargli il nodo alla cravatta, si accingeva a lasciare sua madre e  Sabina per le sue passeggiate vanagloriose per le strade dei dintorni  dove il vicinato lo conosceva per la sua bellezza e le sue  scappatelle? 

  Quante volte una donna profumata e truccata e bella l'aveva fermata  per strada per baciarla, accarezzarle i lunghi capelli e dire: «Sei  Sabina! Sei sua figlia! Conosco tuo padre così bene.» Non erano le  parole, era l'occhiata intima, il tono da boudoir della voce che la  mettevano in allarme. Questa conoscenza di suo padre aggiungeva  sempre agli occhi delle donne una scintilla che non c'era prima, un  accenno a piaceri segreti. Persino da bambina Sabina riusciva a  leggere i loro messaggi. Sabina era la figlia deliziosa nata dal suo  genio amoroso e loro la accarezzavano come una ulteriore  manifestazione di un rituale che ella intuiva e dal quale sua madre  era stata esclusa per sempre. 

  «Conoscevo tuo padre così bene!» sempre le donne attraenti che si  piegavano su di lei, odiose col loro profumo che non si poteva fare a  meno di annusare, con sottogonne inamidate e caviglie provocanti. Per  tutte queste umiliazioni avrebbe voluto punire suo padre, per tutte  le sue profanazioni di molteplici serate estive di vagabondaggi che  davano a queste donne il diritto di ammirarla come un'altra delle sue  amanti. Sabina era anche arrabbiata con sua madre perché non si  arrabbiava, perché lo preparava e lo vestiva per queste intruse.   Era dunque Sabina che ora si lanciava nei propri rituali di  piacere, o era suo padre dentro di lei, che la guidava col suo sangue  nei giochi dell'amore, dettandole gli intrighi, lui che era  inesorabilmente intrecciato a lei da fili ereditari che ella non  avrebbe mai più potuto separare per sapere qual era Sabina e qual era  il padre di cui aveva assunto il ruolo per l'alchimia dell'amore  mimetico. 

  Dov'era Sabina? 

  Ella guardò il cielo e vide il viso di John sfrecciare tra nuvole  inseguite, e il suo fascino svanire come fumo da pire celestiali;  vide il dolce bagliore notturno degli occhi di Mambo che diceva: «Non  mi ami,» mentre le si premeva addosso; e Philip che rideva della  risata del conquistatore, calando su di lei mentre anche il suo  fascino svaniva di fronte al viso pensoso e chiuso di Alan. Tutto il  cielo come una coperta calda di occhi e bocche che brillavano su di  lei, l'aria piena di voci ora rauche per lo spasmo sensuale, ora  dolci di gratitudine, ora dubbiose, e lei aveva paura perché non  c'era nessuna Sabina, non una, ma una moltitudine di Sabine riverse  che urlavano e venivano smembrate, formavano costellazioni in tutte  le direzioni e si rompevano. Una piccola Sabina che si sentiva debole  al centro portava avanti una gigantesca onda di dispersione. Guardò  il cielo arcuato sopra di lei ma non era un cielo protettivo, non era  la volta di una cattedrale né di un paradiso; era una vastità  illimitata a cui non si poteva aggrappare, e stava piangendo:  «Qualcuno mi tenga - tenetemi, così che non continui a correre da un  amore a un altro disperdendomi, mi sto spezzando... tenetemi  attaccata a uno solo...» 

  Sporgendosi dalla finestra all'alba, premendo i seni contro il  davanzale, ella ancora guardava fuori sperando di vedere quanto non  era riuscita a possedere. Guardava la notte morente e i passanti con  la vigilanza acuta del viaggiatore che non può mai raggiungere la  meta come la gente ordinaria raggiunge la stazione d'arrivo alla fine  di ogni giorno, accettando pause, deserti, rifugi, come lei non  poteva accettarli. 

  

  Sabina si sentiva sperduta. 

  La bussola impazzita alle cui fluttuazioni aveva sempre obbedito,  sostituendo tumulto e moto alla direzione, si frantumò tutt'a un  tratto cosicché ella non conobbe più il sollievo dei flussi e  riflussi e delle dispersioni. Si sentiva sperduta. La dispersione era  divenuta troppo vasta, troppo estesa. Una fitta di dolore la colpì  attraverso il disegno nebuloso, Sabina si era sempre mossa così  velocemente che tutto il dolore era passato con rapidità come  attraverso un setaccio lasciando un dispiacere come quello dei  bambini, presto dimenticato, presto sostituito da un altro interesse.  

Non aveva mai conosciuto una pausa. 

  Il suo mantello, che era più di un mantello, che era una vela, che  era i sentimenti che ella gettava ai quattro venti perché li  inghiottissero e li spazzassero via col loro moto, era afflosciato  nella bonaccia. 

  Il suo vestito era in bonaccia. 

  Era come se ormai ella non fosse niente che il vento potesse  catturare, gonfiare e spingere. 

  Per Sabina, essere in bonaccia significava morire.   L'ansia le era entrata in corpo e si rifiutava di scorrerle nelle  vene. I buchi d'argento del suo setaccio contro il dolore, regalo di  nascita, erano intasati. Ora il dolore si era installato dentro di  lei, come qualcosa cui non si poteva più sfuggire. 

  Aveva perduto se stessa da qualche parte, lungo il confine tra le  sue invenzioni, le sue storie, le sue fantasie e il suo vero io. Le  frontiere eran state cancellate, i sentieri perduti; ella si era  inoltrata nel caos puro e non un caos che la trasportava come il  galoppo dei cavalieri romantici nelle opere e nelle leggende, ma che  all'improvviso rivelava la finzione di scena: un cavallo di carta  pesta. 

  Aveva perduto la sua vela, il suo mantello, il suo cavallo, i suoi  stivali delle sette leghe, tutti in un sol colpo. Era arenata nella  semi oscurità di una serata invernale. 

  Allora, come se tutte le energie e il calore si fossero ritirati  all'interno per la prima volta, uccidendo il corpo esterno,  offuscando gli occhi, ottundendo le orecchie, rendendo più spessi il  palato e la lingua, rallentando i movimenti del corpo, Sabina provò  un freddo intenso e tremò dello stesso tremito delle foglie, sentendo  per la prima volta che qualche foglia appassita del suo essere le si  staccava dal corpo. 

  Entrando nel Mambo's Night Club, Sabina notò nuovi quadri alle  pareti e per un attimo si rivide a Parigi, sette anni prima, quando  aveva incontrato per la prima volta Jay a Montparnasse. 

  Riconobbe i suoi quadri all'istante. 

  Erano come allora, nelle mostre di Parigi, tutti i metodi della  spaccatura scientifica dell'atomo applicati al corpo, e alle  emozioni. Le sue figure esplodevano e si frammentavano in  costellazioni, come un puzzle sparpagliato, di cui ogni pezzo fosse  volato tanto lontano da sembrare irrecuperabile, ma non abbastanza da  essere dissociato. Con uno sforzo dell'immaginazione era possibile  ricostruire completamente una figura umana da questi frammenti  salvati dall'annientamento totale nello spazio, da una tensione  invisibile. Uno sforzo di contrazione al centro poteva ancora  amalgamarli fino a formare il corpo di una donna. 

  Nessun cambiamento nella pittura di Jay, ma un cambiamento in  Sabina che capiva per la prima volta cosa significasse. In quel  momento poteva vedere alla parete un ritratto esatto di se stessa  come si sentiva dentro. 

  Jay aveva dipinto Sabina, o qualcosa che succedeva a tutte loro,  come succedeva in chimica, nei fenomeni scientifici? Avevano trovato  tutti gli acidi corrosivi, tutte le disintegrazioni, tutte le  alchimie della spaccatura. Ma quando il pittore metteva a nudo quel  che avveniva nel corpo e nelle emozioni dell'uomo, lo facevano morire  di fame, o gli davano da allestire le vetrine della Quinta Strada,  dove Paris la Nuit lasciava disporre sullo sfondo cappelli, scarpe,  borsette e cinture fluttuanti a mezz'aria, in attesa di essere  riuniti su un'unica donna. 

  Sabina era in piedi di fronte ai quadri e ora riusciva a vedere con  precisione i frammenti minuti delle sue azioni, che aveva creduto di  scarsa importanza, causare minute incisioni, erosioni della  personalità. Un piccolo gesto, un bacio dato a una festa a un giovane  che ne aveva beneficiato grazie alla sua somiglianza con un John  perduto, una mano abbandonata sul taxi a un uomo non desiderato solo  perché era stata chiesta la mano dell'altra donna e Sabina non poteva  sopportare di tenere la sua in grembo, non voluta: sembrava un  affronto ai suoi poteri di seduzione. Una parola di lode su un quadro  che non le era piaciuto, ma pronunciata per paura che il pittore  dicesse: «Ah, Sabina... Sabina non capisce la pittura.»   Tutte le piccole insincerità eran colate come rivoletti invisibili  di acido provocando danni profondi, le erosioni avevano fatto ruotare  tutti i frammenti di Sabina come pezzi separati di pianeti in  

collisione, dentro altre sfere, e tuttavia non abbastanza potenti da  volare nello spazio come uccelli, non abbastanza organici da dar  origine a un'altra vita, da ruotare intorno al proprio asse.   La pittura di Jay era una danza di frammenti al ritmo delle  macerie. Era anche un ritratto dell'attuale Sabina. 

  E tutta la sua ricerca del fuoco per saldare questi frammenti, la  ricerca di una saldatura dei frammenti in un amore totale dentro alla  fornace del piacere, la ricerca di una donna totale, era fallita.   Quando si allontanò dai quadri, Sabina vide Jay seduto a uno dei  tavoli, con il viso più che mai somigliante a Lao Tze. La sua testa  semicalva orlata d'una brina di capelli bianchi, gli occhi  semichiusi, stretti, che ridevano. 

  Qualcuno tra Sabina e Jay si rivolse al pittore per complimentarsi  con lui per le sue vetrine della Quinta Strada. Jay rise allegramente  e disse: «Ho il potere di sbalordirli, e mentre rimangono sbalorditi  dall'arte moderna i pubblicitari possono fare il loro mestiere  velenoso.» 

  Fece cenno a Sabina di sedersi con lui. 

  «Hai appena guardato la mia pila atomica in cui uomini e donne  vengono bombardati per trovare in essi la misteriosa fonte del  potere, una nuova fonte di forza.» 

  Le parlò come se non fossero passati anni e anni dal loro ultimo  incontro in un caffè di Parigi. Continuava sempre la stessa  conversazione cominciata chissà quando, forse a Brook-lyn dov'era  nato, ovunque e in qualsiasi posto finché non era arrivato nel paese  dei caffè dove aveva trovato un pubblico, in modo da poter dipingere  e parlare perpetuamente in una lunga catena di dissertazioni.   «Hai trovato il tuo potere, la tua nuova forza?» chiese Sabina. «Io  no.» 

  «Neanch'io,» disse Jay con scherzosa contrizione. «Sono appena  tornato a casa, per via della guerra. Ci hanno chiesto di andarcene,  chiunque non potesse essere arruolato era solo una bocca in più da  sfamare per la Francia. Il consolato. ci spedì un messaggero:  «Facciamo partire da Parigi tutta la gente inutile.» In un giorno  scomparvero tutti gli artisti, come se fosse arrivata la peste. Non  mi ero mai accorto che gli artisti occupassero tanto spazio! Noi  artisti internazionali ci trovavamo di fronte la fame o i campi di  concentramento. Ti ricordi di Hans, Sabina? Volevano rispedirlo  indietro in Germania. Un Paul Klee minore, è vero, ma tuttavia  meritava un destino migliore. E Suzanne fu rimandata in Spagna, non  aveva documenti e il marito ungherese con la poliomielite fu  rinchiuso in un campo di concentramento. Ti ricordi l'angolo di  Montparnasse e Raspail dove stavamo fermi per ore ad augurarci la  buonanotte? Per via dell'oscuramento non c'era neanche il tempo di  dirsi buonanotte, ci si perdeva appena usciti dal caffè, si svaniva  nella notte nera. L'innocenza scomparve da ogni nostra azione. Il  nostro abituale stato di ribellione divenne un serio crimine  politico. La chiatta di Djuna fu requisita per il trasporto del  carbone. Tutto poteva essere riutilizzato salvo gli artisti. Come si  fa a riconvertire gli sconvolgitori dell'ordine passato e presente, i  dissenzienti cronici, gli spodestati del presente, i lanciatori di  

bombe atomiche della mente, delle emozioni, che cercano di generare  con sconvolgimenti continui nuove forze e un nuovo ordine mentale?»   Mentre guardava Sabina, i suoi occhi parevano dire che non era  cambiata, che era ancora, per lui, il simbolo stesso di questa febbre  e inquietudine e sconvolgimento e anarchia che egli aveva applaudito  a Parigi sette anni prima. 

  In quel momento si sedette accanto a Jay un altro personaggio. «Ti  presento Cold Cuts, Sabina. Cold Cuts è il nostro migliore amico qui.  Quando la gente viene trapiantata, le succede esattamente quel che  succede alle piante; dapprima c'è un appassimento, uno sfiorimento;  alcuni ne muoiono. Siamo tutti a questo stadio critico, soffriamo del  cambiamento di terreno. Cold Cuts lavora all'obitorio. La sua  familiarità costante col suicidio e la descrizione terrificante che  ce ne fa ci impediscono di suicidarci a nostra volta. Parla sedici  lingue ed è pertanto l'unico che può parlare a tutti gli artisti,  almeno all'inizio della serata. Più tardi è ubriaco in extremis, e  riesce solo a parlare l'esperanto degli alcolizzati, che è una lingua  piena dei balbettii degli strati geologici dei nostri antenati  animali.» 

  Soddisfatto di questa presentazione, Cold Cuts lasciò il tavolo e  si diede da fare col microfono. Ma Jay aveva torto. Benché fossero  solo le nove, Cold Cuts aveva già delle difficoltà col microfono.  Stava lottando per mantenere un rapporto verticale, ma il microfono  si ammosciava, si inclinava, oscillava sotto il suo abbraccio come un  giovane giunco flessibile. In questi abbracci disperati, sembrava che  lo strumento e Cold Cuts sarebbero finiti sul pavimento avvinghiati  come amanti incontrollabili. 

  Quando finalmente fu raggiunto un equilibrio provvisorio, Cold Cuts  divenne volubile e cantò in sedici lingue (incluso l'esperanto degli  alcolizzati) trasformandosi in rapida successione in un cantante di  strada francese, in un cantante lirico tedesco, in un suonatore  d'organetto viennese ecc.. 

  Poi tornò al tavolo con Jay e Sabina. 

  «Questa sera Mambo mi ha tagliato i rifornimenti prima del solito.  Chissà come mai? Non dovrei essergli così fedele. Ma non vuole che  perda il mio lavoro. A mezzanotte devo essere in forma per ricevere  educatamente i morti. Non devo balbettare o far cadere niente. I  morti sono sensibili. Oh, ho un suicidio perfetto da raccontare agli  esuli: una cantante europea che era viziata e coccolata nel suo  paese. Si è strangolata con tutte le sue sciarpe colorate legate  insieme. Credete che volesse imitare la morte di Isadora Duncan?»   «Non credo,» disse Jay. «Posso ricostruire la scena. Qui era un  fallimento come cantante. La sua vita ormai era grigia, era  dimenticata e non abbastanza giovane da partire alla conquista  un'altra volta, forse... Ha aperto il suo baule pieno di programmi  dei passati trionfi, pieno di ritagli di giornale che lodavano la sua  voce e la sua bellezza, pieno dei fiori secchi che le eran stati  donati, pieno di lettere d'amore ingiallite, pieno di sciarpe  colorate che le riportavano i profumi e i colori dei suoi passati  successi, e per contrasto la sua vita di oggi le è diventata  intollerabile.» 

  «Hai assolutamente ragione,» disse Cold Cuts. «Sono sicuro che è  andata proprio così. Si è impiccata con il cordone ombelicale del  passato.» Sputacchiò come se tutto l'alcool che aveva in corpo avesse  incominciato a far bolle effervescenti dentro di lui e disse a  Sabina: «Sai perché sono così fedele a Mambo? Te lo dirò. Data la mia  professione la gente preferirebbe ignorarmi. Nessuno vuole che gli si  ricordi la morte. Forse non è me che vogliono ignorare, ma le  compagnie che frequento. Devo dire che non me ne importa gran che per  tutto l'anno, ma m'importa molto a Natale. Viene Natale e io sono  l'unico che non riceve una cartolina di auguri. E questa è l'unica  cosa che non riesco a sopportare del mio lavoro all'obitorio. Così  qualche giorno prima di Natale dissi a Mambo: «Non mancare di  spedirmi una cartolina di auguri. Ne devo ricevere almeno una.  Bisogna che abbia la sensazione che almeno una persona mi pensa a  Natale, come se fossi un essere umano come tutti gli altri.» Ma  sapete come è fatto Mambo, promesse, sorrisi, e poi, una volta che  comincia a suonare il tamburo, è come un drogato, e non si riesce a  farlo tornare in sé. Non riuscii a dormire per una settimana pensando  che avrebbe potuto dimenticarsi e immaginando come mi sarei sentito  il giorno di Natale, dimenticato come se fossi morto... Be', non se  ne dimenticò.» 

  Poi, con rapidità inaspettata, si tolse di tasca la tromba di  un'automobile, se la puntò all'occhiello e la schiacciò con  l'esuberanza di una donna che sprizzi profumo da un atomizzatore e  disse: «Ascoltate il linguaggio del futuro. La parola scomparirà del  tutto ed è così che si parleranno gli esseri umani!» 

  E inchinandosi con infinito controllo delle acque tumultuose  dell'alcool che stavano premendo contro la diga della sua buona  educazione, Cold Cuts si avviò verso i suoi doveri all'obitorio.   Mambo incominciò il suo rullio di tamburi e Sabina incominciò ad  avere un aspetto febbrile e intrappolato come la prima volta che Jay  l'aveva vista. 

  Vestita di rosso e argento, ella evocava i suoni e le immagini  delle pompe antincendio quando corrono all'impazzata per le strade di  New York, mettendo il cuore in allarme con le violente accelerazioni  della catastrofe. 

  Tutta vestita di rosso e argento, ella evocava la sirena lacerante  rossa e argento che si apriva la strada tra la carne. Appena la vide  egli pensò: «Brucerà tutto!» 

  Per il rosso e l'argento e il lungo grido di allarme per il poeta  che sopravvive (anche se segretamente e invisibilmente) in ogni  essere umano come in lui sopravvive il bambino (negato e camuffato);  a questo poeta ella gettò una sfida inattesa, una scaletta nel cuore  della città ordinandogli: «Sali!» 

  Al suo apparire, l'allineamento ordinato della città si aprì  davanti a questa scaletta su cui si era invitati a salire, verticale  nello spazio come la scala del Barone di Münchhausen che andava  dritta in cielo. 

  Solo che la sua scala portava nel fuoco. 

  Jay rise e scosse la testa vigorosamente, per la persistenza  dell'immagine che aveva di Sabina. Dopo sette anni, non aveva ancora  imparato a star ferma. Parlava profusamente e ininterrottamente con  un affanno febbrile come chi tema il silenzio. Sedeva come se non  potesse sopportare di star seduta a lungo e quando si alzò per  comprare le sigarette parve altrettanto ansiosa di ritornare al suo  posto. Impaziente, all'erta, guardinga, come se temesse di essere  attaccata, irrequieta e tesa. Beveva in fretta, sorrideva con tanta  subitaneità da non lasciargli neanche il tempo di capire se era stato  un sorriso, ascoltava solo in parte quel che le veniva detto; e,  persino quando qualcuno al bar si sporgeva gridando un nome alla sua  volta, sulle prime non rispondeva, come se non fosse il suo.   Col suo modo di guardare la porta del bar, come se aspettasse il  momento opportuno per fuggire, i suoi gesti imprevedibili e bruschi,  i suoi silenzi improvvisi, imbronciati, si comportava come chi sia  afflitto da tutti i sintomi della colpa. 

  Sopra l'iridescenza delle candele, sopra le brume del fumo di  sigaretta e gli echi cullanti dei blues, Sabina si rendeva conto che  Jay stava meditando su di lei. Ma sarebbe stato troppo pericoloso  interrogarlo; egli amava la satira, e in questo momento da lui non  avrebbe ottenuto altro che una caricatura, che non poteva prendere  alla leggera o liquidare, e che, nel suo stato d'animo attuale,  avrebbe contribuito a deprimerla ancor di più. 

  Ogni volta che Jay scuoteva gentilmente la testa, con la lenta  giocosità pesante di un orso, stava per dire qualcosa di terribile  con quella che egli amava definire la sua brutale onestà. E questa,  Sabina non voleva stuzzicarla. Così incominciò una storia sinuosa,  incalzante, confusa, su una festa alla quale si eran verificati fatti  indistinti, scene sfocate in cui non si riusciva a distinguere  l'eroina dalla vittima. Quando finalmente Jay ebbe l'impressione di  riconoscere il posto (Montparnasse, sette anni prima, una festa  durante la quale Sabina era stata veramente gelosa del forte legame  che stava cercando di rompere tra Jay e Lillian, Sabina se ne era già  allontanata, e parlava come in un sogno interrotto, con spazi,  risvolti, ritrazioni e fantasie galoppanti. 

  Adesso era in Marocco, e andava ai bagni turchi con le donne del  luogo, usando la loro pietra pomice e imparando dalle prostitute a  truccarsi gli occhi con il kohl venduto al mercato. 

  «E' polvere di carbone,» spiegò Sabina, «e la si mette proprio  dentro agli occhi. Prima brucia e fa lacrimare gli occhi, ma poi si  raccoglie sull'orlo delle palpebre, formando una riga nera e  brillante intorno agli occhi.» 

  «Non ti è venuta un'infezione?» chiese Jay. 

  «Oh, no, le prostitute hanno l'accortezza di farlo benedire alla  moschea.» 

  Tutti risero a quest'uscita, Mambo che era rimasto in piedi lì  accanto, Jay e due personaggi indistinti seduti al tavolo vicino che  avevano spostato le seggiole per ascoltare Sabina. Sabina non rise;  era invasa da un altro ricordo del Marocco; Jay poteva vedere le  immagini che le attraversavano gli occhi come un film che veniva  presentato alla censura. Sapeva che era intenta a eliminare altre  storie che stava per raccontare; forse si sarebbe persino pentita del  racconto dei bagni, e adesso era come se tutto quel che aveva detto  fosse stato scritto su una grande lavagna ed ella prese una spugna e  cancellò tutto aggiungendo: «In realtà, non successe a me. Mi venne  raccontato da qualcuno che era stato in Marocco,» e prima che  qualcuno potesse chiedere: «Vuoi dire che non sei mai andata in  Marocco?» ella continuò a confondere le trame aggiungendo che si  trattava di una storia che aveva letto da qualche parte o udito a un  bar, e appena aveva cancellato dalla mente dei suoi ascoltatori  qualsiasi fatto che potesse essere attribuito direttamente alla sua  responsabilità, incominciò un'altra storia... 

  I visi e le figure dei suoi personaggi erano tracciati solo a metà,  e appena Jay incominciava a ricostruire i frammenti mancanti (quando  Sabina parlò dell'uomo che stava lucidando il vetro del suo  telescopio non volle dire troppo per paura che Jay riconoscesse  Philip che aveva conosciuto a Vienna e che a Parigi chiamavano tutti:  «Vienna come era prima della guerra») Sabina metteva di mezzo un  altro viso e un altro personaggio come succede nei sogni, e appena  Jay era riuscito laboriosamente a decidere che stava parlando di  Philip (col quale era sicuro che Sabina avesse avuto una relazione)  di colpo risultò che non stava più parlando di un uomo che lucidava  il vetro di un telescopio con un ombrello aperto in mezzo al soffitto  sopra la sua opera, ma di una donna che aveva continuato a suonare  l'arpa a un concerto a Città del Messico durante la rivoluzione anche  dopo che avevan fatto saltare le luci della sala, intuendo che se  avesse continuato a suonare avrebbe impedito che scoppiasse il  panico, e dato che Jay sapeva che questa storia era stata raccontata  a proposito di Lillian, e che non era un'arpa ma un piano che Lillian  aveva continuato a suonare, Sabina si rese conto che non voleva  ricordare Lillian a Jay perché per lui sarebbe stato penoso, e le  venne in mente che dell'abbandono di Lillian era stata in qualche  modo responsabile l'avventura di Sabina con Jay a Parigi, per cui  cambiò velocemente il racconto talché Jay finì col chiedersi se non  fosse lui ad aver sentito male, se non avesse bevuto troppo  immaginando che Sabina stava parlando di Lillian, perché in effetti  in questo preciso momento lei stava di nuovo parlando di un  giovanotto, un aviatore, a cui era stato detto di non guardare negli  occhi i morti. 

  Jay non riusciva a tener dietro alla sequela di gente che Sabina  aveva amato, odiato, sfuggito, come del resto non riusciva a seguire  i cambiamenti del suo aspetto personale mentre Sabina diceva: «A  quell'epoca ero bionda, e avevo i capelli molto corti,» o: «Questo  avvenne prima che mi sposassi, quando avevo solo diciannove anni,»  (eppure una volta gli aveva raccontato di essere già sposata all'età  di diciotto anni). Impossibile capire chi avesse tradito,  dimenticato, sposato, abbandonato, o a chi fosse rimasta legata. Lo  stesso valeva per la sua professione. La prima volta che le aveva  fatto una domanda in proposito, Sabina aveva risposto immediatamente:  «Sono un'attrice.» Ma quando le fece domande più precise, non riuscì  a scoprire in quale commedia avesse recitato, se avesse avuto  successo o fosse stato un fiasco, o se, forse (conclusione a cui  giunse più tardi) avesse semplicemente desiderato fare l'attrice  senza però mai impegnarsi con abbastanza persistenza e serietà, se  

non come stava facendo adesso, coi suoi cambiamenti di personalità  che si alternavano con tanta rapidità da ricordare a Jay un  caleidoscopio. 

  Jay cercò di cogliere la ripetizione di certe parole nel suo  discorso, pensando di poterle usare come chiave di interpretazione,  ma benché le parole «attrice», «miracoloso», «viaggio»,  «vagabondaggio», «rapporto» si ripetessero con una certa frequenza,  restava impossibile capire se le avesse usate in senso letterale o  simbolico, dato che per lei era lo stesso. Una volta l'aveva sentita  dire: «Quando ci vien fatto del male, cerchiamo di allontanarci il  più possibile dal luogo in cui è accaduto,» e quando Jay esaminò più  attentamente cosa intendesse dire, scoprì che si riferiva a un  cambiamento di quartiere nello spazio di quindici isolati all'interno  della città di New York. 

  Era spinta da una febbre di confessione a sollevare lievemente il  velo, soltanto un lembo, ma si spaventava appena qualcuno ascoltava  troppo attentamente, soprattutto Jay di cui non si fidava, e per il  quale sapeva che scoprire la verità equivaleva mettere a nudo i  difetti, le debolezze, le pecche. 

  Appena Jay ascoltava con troppa attenzione, Sabina prendeva una  spugna gigantesca e cancellava tutto quel che aveva detto con una  smentita assoluta, come se questa confusione fosse di per sé un manto  protettivo. 

  Dapprima adescava e trascinava l'altro nel suo mondo con la  lusinga, poi offuscava i passaggi, confondeva tutte le immagini, come  per eludere ogni investigazione. 

  «Finti misteri,» disse Jay con impeto, sconcertato e irritato dalla  sua elusività. «Ma cosa sta nascondendo dietro questi finti misteri?»   Il comportamento di lei suscitava sempre in Jay (patito com'era  della verità, della rivelazione, dell'apertura, della messa a nudo  brutale) un desiderio che assomigliava al desiderio di un uomo di  violentare una donna che gli resiste, di violentare una vergine che  crea una barriera contro il suo possesso. Sabina gli scatenava sempre  il desiderio violento di strapparle tutte le finzioni, i suoi veli e  di scoprire l'essenza del suo vero io, che con questi continui  voltafaccia, con questa mobilità, sfuggiva a ogni investigazione.   Quanto era stato nel giusto a dipingere sempre Sabina come una  mandragora con radici carnose, ornata di un solitario fiore purpureo  in una corolla purpurea a campana fatta di carne necrotica. Quanto  era stato nel giusto a dipingerla dotata di occhi rosso oro sempre  brucianti come fuochi in una caverna, da dietro gli alberi, come una  delle donne lussureggianti, una pianta tropicale, interdetta  all'alimentazione come sostanza troppo ricca per la vita di tutti i  giorni, situandola lì semplicemente come un'abitante del paese del  fuoco, accontentandosi delle sue apparizioni intermittenti e  paraboliche. 

  «Sabina, ti ricordi le nostre corse in ascensore a Parigi?» 

  «Certo, le ricordo benissimo.» 

  «Non sapevamo dove andare e vagavamo per le strade. Mi ricordo che  era stata un'idea tua quella di prendere l'ascensore.» 

  (Eravamo ingordi l'uno dell'altra, Sabina, lo ricordo. Salimmo su  

un ascensore e incominciai a baciarla. Primo piano. Secondo piano.  Non riuscivo a staccarmi da lei. Terzo piano, e quando l'ascensore si  fermò era troppo tardi... non potevo fermarmi, non potevo staccarmi  da lei neanche se tutta Parigi fosse stata lì a guardarci. Lei spinse  il bottone con impeto, e continuammo a baciarci mentre l'ascensore  scendeva. Quando arrivammo in fondo fu ancor peggio, così lei  schiacciò il bottone di nuovo e andammo su e giù, su e giù, mentre la  gente cercava di fermare l'ascensore per salire...) 

  Jay scoppiò in un riso incontrollabile a quel ricordo, ripensando  all'audacia di Sabina. In quel momento Sabina era stata spogliata di  ogni mistero e Jay aveva gustato quello che il mistero conteneva: la  più ardente furia di desiderio. 

  L'apparire alla porta di un'alba smorta li tacitò. La musica era  cessata da molto tempo, e non se n'erano accorti. Avevano continuato  il loro rullio di tamburi con le parole. 

  Sabina si strinse il mantello intorno alle spalle come se la luce  del giorno fosse il peggiore dei nemici. All'alba non avrebbe rivolto  neppure un discorso febbrile. La guardò con rabbia, e uscì dal bar. 

 

  Nella vita della città non c'è momento più squallido di quello in  cui si sovrappongono le frontiere tra chi non ha dormito tutta notte  e chi sta andando al lavoro. Per Sabina era come se sulla terra  vivessero due razze di uomini e donne, la gente della notte e la  gente del giorno, che non s'incontravano mai faccia a faccia a  eccezione di questo momento. Qualsiasi cosa Sabina avesse indosso,  anche se durante la notte sembrava scintillante, all'alba perdeva i  suoi colori. L'espressione decisa di quelli che andavano al lavoro le  sembrava un rimprovero. La sua fatica non era come la loro. La sua le  segnava il viso come una lunga febbre, lasciandole ombre violette  sotto gli occhi. Avrebbe voluto nascondere la faccia alla loro vista.  Inclinava la testa in modo che i capelli le nascondessero in parte il  viso. 

  La sensazione di smarrimento persisteva. Per la prima volta Sabina  sentì di non poter andare da Alan. Si portava dietro un peso troppo  grande di storie non dette, un fardello troppo pesante di ricordi,  era seguita da troppi fantasmi di personaggi irrisolti, di esperienze  ancor da capire, di colpi e umiliazioni non ancora dissolti. Avrebbe  potuto tornare e fingere una stanchezza estrema, e addormentarsi, ma  sarebbe stato un sonno irrequieto, e avrebbe potuto parlare in sogno.   Questa volta Alan non avrebbe avuto il potere di esorcizzare il suo  stato d'animo. E non avrebbe neanche potuto descrivergli la cosa che  più la tormentava: l'uomo che aveva visto per la prima volta qualche  mese prima dalla finestra della sua stanza d'albergo, in piedi  proprio sotto il suo davanzale a leggere il giornale, come se  aspettasse di vederla uscire. Una volta lo aveva visto mentre stava  andando da Philip. Lo aveva incontrato alla stazione della  metropolitana, e l'uomo aveva lasciato passare parecchie carrozze per  poter prendere la stessa su cui saliva lei. 

  Non era un corteggiamento. L'uomo non faceva alcuno sforzo per  parlarle. Sembrava impegnato a osservarla in modo impersonale. Al  Mambo's Night Club si era seduto a pochi tavoli dal suo mettendosi a  scrivere su un taccuino. 

  Era così che venivano pedinati i criminali, proprio prima di essere  catturati. Si trattava di un detective? Di cosa la sospettava?  Avrebbe riferito tutto a Alan? O ai suoi genitori? Oppure avrebbe  portato i suoi appunti in centro, in uno di quegli edifici imponenti  in cui svolgevano indagini di ogni tipo? E chissà se un bel giorno  avrebbe ricevuto un avviso che le chiedeva di lasciare gli Stati  Uniti e di ritornare al paese natio, l'Ungheria, perché la vita di  

Ninon de l'Enclos, o di Madame Bovary non era consentita dalla legge?   Se avesse raccontato a Alan di essere stata seguita da un uomo,  Alan avrebbe detto con un sorriso: «E allora, non è certo la prima  volta. E' lo scotto che paghi per essere una bella donna. Non  vorresti che non succedesse, vero?» 

  Per la prima volta, nello squallore di questa passeggiata di primo  mattino per le strade di New York non ancora ripulite dei mozziconi  di sigaretta e delle bottiglie vuote di liquore della gente notturna,  Sabina capì il quadro di Duchamp che rappresentava un nudo nell'atto  di scendere le scale. Otto o dieci silhouettes della stessa donna,  come altrettante rivelazioni molteplici della personalità di una  donna, ordinatamente divise in molti strati, che scendevano le scale  all'unisono. 

  Se fosse andata da Alan adesso sarebbe stato come staccare uno di  questi profili di donna, e costringerlo a camminare separatamente  dagli altri, ma una volta staccato dall'insieme, avrebbe rivelato di  essere solo il contorno di una donna, un disegno che gli occhi  potevano vedere, ma vuoto di sostanza, essendo evaporata la sostanza  attraverso gli spazi tra uno strato e l'altro della personalità. Una  donna divisa davvero, una donna divisa in contorni infiniti, ed ella  poteva vedere questa forma apparente di Sabina, che ne lasciava  un'altra disperata e solitaria a camminare per le strade in cerca di  un caffè caldo, venire accolta da Alan come la ragazza dall'innocenza  cristallina che egli aveva sposato dieci anni prima, giurando di  amarla, come aveva fatto, solo che aveva continuato ad amare la  stessa ragazza che aveva sposato, la prima istantanea di Sabina, la  prima immagine consegnata nelle sue mani, la prima dimensione, di  questa serie elaborata, complessa e ampliata di Sabine che erano nate  dopo, e che lei non era riuscita a dargli. Ogni anno, così come un  albero getta nuovi rami, Sabina avrebbe dovuto riuscire a dirgli:  «Alan, ecco una nuova versione di Sabina, aggiungila alle altre,  fondile bene, stringile quando la abbracci, tienile tutte insieme  nelle tue braccia, altrimenti, divisa e separata, ciascuna immagine  vivrà una vita propria, e non ci sarà una Sabina, ma sei o sette, o  otto Sabine che cammineranno talvolta all'unisono, con un grande  sforzo di sintesi, talvolta separatamente, mentre una di loro segue  un profondo rullar di tamburi in foreste di capelli neri e bocche  voluttuose, un'altra va a trovare Vienna-come-era-prima-della-guerra,  un'altra giace accanto a un giovane pazzo, e un'altra ancora apre le  braccia materne a un Donald tremante e spaventato. «Era dunque un  crimine aver cercato di sposare ogni Sabina con un altro compagno, di  accordare a ciascuna una vita diversa di volta in volta?   Oh, com'era stanca, ma non per la mancanza di sonno, o per aver  parlato troppo in una stanza piena di fumo o per aver eluso le  caricature di Jay, o i rimproveri di Mambo o la sfiducia di Philip  nei suoi confronti, o perché Donald col suo comportamento tanto  infantile le aveva dato l'impressione che i suoi trent'anni fossero  un'età da nonna. Era stanca di rimettere insieme questi frammenti  disparati. Comprese anche i dipinti di Jay. Forse fu proprio in un  momento di isolamento come questo che Madame Bovary prese il veleno.  Era il momento in cui la vita segreta corre il rischio di esser  smascherata, e nessuna donna può sopportare la condanna.   Ma perché lei doveva temere di essere smascherata? In questo  momento Alan stava dormendo profondamente, o se non dormiva stava  leggendo tranquillo. 

  Era semplicemente questa figura di scopribugie, che la pedinava  passo per passo, a causarle un'ansia così acuta? 

  La colpa è l'unico fardello che gli esseri umani non possono  sopportare da soli.  

  Dopo aver bevuto una tazza di caffè, andò all'albergo dove la  conoscevano già, prese un sonnifero, e si rifugiò nel sonno.   Quando si svegliò alle dieci di sera dalla sua stanza di albergo  riuscì a sentire la musica del Mambo's Night Club al di là della  strada. 

  Aveva bisogno di un confessore! L'avrebbe trovato là, nel mondo  degli artisti? In tutto il mondo essi avevano i loro luoghi  d'incontro, le loro affiliazioni, le loro regole per essere accettati  come soci, i loro reami, i loro capi, i loro canali segreti di  comunicazione. Erano loro a credere di comune accordo in determinati  pittori, musicisti, scrittori. Anche loro eran gente fuori posto,  indesiderati in patria, di solito, o ripudiati dalle loro famiglie.  Ma essi fondavano nuove famiglie, religioni proprie, si sceglievano i  loro dottori, le loro comunità. 

  Si ricordò che qualcuno aveva chiesto a Jay: «Posso essere ammesso  se fornisco le credenziali di un gusto eccellente?» 

  «Non basta,» aveva risposto Jay. «E' anche disposto a diventare un  esiliato? O un capro espiatorio? Noi siamo i famigerati capri  espiatori, perché viviamo come altri vivono solo nei sogni, perché  confessiamo apertamente quello che altri confessano solo a dottori  sotto il vincolo del segreto professionale. Siamo anche sottopagati:  la gente ritiene che, essendo noi appassionati al nostro lavoro, non  dovremmo essere pagati per fare quello che ci appassiona di più.»   In questo mondo c'erano anche dei criminali. Gangster del mondo  artistico, che producevano lavori distruttivi nati dall'odio, che  uccidevano e avvelenavano con la loro arte. Si può uccidere anche con  un quadro o con un libro. 

  Sabina era forse una di loro? Cos'aveva distrutto? 

  Entrò nel Mambo's Night Club. Le palme artificiali sembravano meno  verdi, i tamburi meno violenti. Il pavimento, le porte, le pareti  erano leggermente storti per l'età. 

  Djuna arrivò nello stesso momento, con la calzamaglia nera per le  prove visibile sotto l'impermeabile, i capelli raccolti da un nastro  come una ragazzina. 

  Quando si verificano delle entrate e delle uscite magiche in un  

balletto, quando i ballerini svaniscono dietro alle colonne o a  colline fitte d'ombre, nessuno chiede loro un lasciapassare o  documenti di identificazione. Djuna arrivò come fa una vera  ballerina, venendo dalla sua sbarra per gli esercizi pochi piani  sopra il night club con la stessa naturalezza che aveva a Parigi  quando studiava coi ballerini del balletto dell'Opéra. Sabina non  rimase sorpresa vedendola. Ma di lei non ricordava tanto la sua  bravura nel ballo, le sue lisce gambe tese da ballerina, quanto la  bravura della sua compassione, come se ogni giorno esercitasse alla  sbarra invisibile del dolore la sua comprensione oltre al suo corpo.   Djuna avrebbe saputo chi aveva rubato, chi aveva tradito, e cosa  era stato rubato e cosa era stato tradito. E Sabina poteva smettere  di cadere - di cadere da tutti i suoi trapezi incandescenti, da tutte  le sue scale verso il fuoco. 

  Erano tutti fratelli e sorelle che si muovevano sui palcoscenici  girevoli dell'inconscio, che non ingannavano mai intenzionalmente gli  altri quanto se stessi, tutti imprigionati in un balletto di errori e  di travestimenti, ma Djuna era in grado di distinguere tra  allucinazione, vita e amore. Era in grado di individuare l'ombra di  un crimine che altri non potevano processare. Lei avrebbe saputo  l'identità del criminale. 

  A Sabina ora non restava che aspettare. 

  I tamburi cessarono di suonare come se fossero soffocati da foreste  dall'intricata e impenetrabile vegetazione. L'ansia di Sabina aveva  cessato di pulsarle contro le tempie rendendola sorda agli altri  rumori. Al sangue fu restituito il suo ritmo, e le mani le giacquero  immobili in grembo. 

  Mentre aspettava che Djuna fosse libera, Sabina pensò allo  scopribugie che aveva osservato le sue azioni. Era di nuovo nel  caffè, seduto da solo a scrivere su un taccuino. Sabina si preparò  mentalmente all'intervista. 

  Si sporse a chiamarlo: «Come sta? E' venuto ad arrestarmi?»   L'uomo chiuse il taccuino, si avviò verso il suo tavolo e le  sedette accanto. Sabina disse: 

  Sapevo che sarebbe successo, ma non così presto. Si sieda. So  esattamente cosa pensa di me. Lei sta dicendo: ecco qui la famigerata  impostora, la spia internazionale nella casa dell'amore. (O dovrei  specificare: nella casa di molti amori?) Bisogna che l'avverta, deve  maneggiarmi con delicatezza: sono coperta di un manto di iridescenza  altrettanto facile da distruggere di un fiore di sabbia, e benché sia  abbastanza pronta a essere arrestata, se mi maneggia bruscamente può  perdere gran parte delle prove. Non voglio che lei sciupi quel  fragile mantello dai sorprendenti colori creato dalle mie illusioni,  e che nessun pittore è mai riuscito a riprodurre. Strano, vero, che  nessun prodotto chimico possa dare a un essere umano l'iridescenza  che gli danno le illusioni? Mi dia il suo cappello. Ha un'aria così  formale e a disagio! E così lei è riuscito a individuare i miei  travestimenti! Ma si rende conto del coraggio, dell'audacia che  richiede la mia professione? Sono pochi quelli che ci sono portati.  Io avevo la vocazione. Si manifestò molto presto, come capacità di  ingannare me stessa. Io ero una che poteva chiamare giardino un  cortiletto sul retro, villa un appartamento in affitto, e se ero in  ritardo quando tornavo a casa, per evitare una lavata di testa,  riuscivo a inventare all'istante ostacoli e avventure talmente  interessanti, che ci volevan parecchi minuti prima che i miei  genitori riuscissero a riscuotersi dall'incantesimo per ritornare  alla realtà. Potevo uscire dal mio io di tutti i giorni o dalla mia  vita quotidiana per entrare in molteplici personalità e vite senza  richiamare l'attenzione. Voglio dire che il mio primo crimine, anche  se può sorprenderla, è stato commesso contro me stessa. Ero dunque  una corruttrice di minorenni, e questa minorenne ero io stessa. Io  corrompevo quel che si chiama la verità in favore di un mondo più  fantastico. Potevo benissimo migliorare i fatti. Non fui mai  arrestata per questo: riguardava solo me. I miei genitori non furono  abbastanza saggi da accorgersi che una tale prestidigitazione dei  fatti poteva produrre una grande artista, o quanto meno una grande  attrice. Essi mi picchiavano, per scuotere via la polvere delle  allucinazioni. Ma, stranamente, più mio padre mi picchiava, più  questa polvere si riformava con abbondanza, e non era polvere grigia  o marrone come la si riscontra nella sua forma quotidiana, ma quello  che gli avventurieri conoscono come oro matto. Mi dia il suo  cappotto. Come investigatore può interessarle sapere che, per  difendermi, accuso gli scrittori di favole. Non la fame, né la  crudeltà, né i miei genitori, ma queste favole che promettevano che a  dormire nella neve non si prendeva mai la polmonite, che il pane non  diventava mai stantio, che gli alberi fiorivano fuori stagione, che i  draghi potevano essere uccisi col coraggio, che desiderare  intensamente avrebbe portato all'esaudimento immediato del desiderio.  Un desiderio intrepido, dicevano le favole, è più efficace della  fatica. Il fumo che esce dalla lampada di Aladino fu il mio primo  schermo di fumo, e le bugie imparate dalle favole furono i miei primi  spergiuri. Diciamo che avevo delle tendenze falsate: credevo a tutto  quel che leggevo. 

  Sabina rise delle proprie parole. Djuna pensò che stesse bevendo  troppo e le lanciò un'occhiata.  

  "Cos'è che ti ha fatto ridere, Sabina?» 

  «Ti presento lo scopribugie, Djuna. Forse mi arresterà.» 

  «Ma Sabina, non hai mai fatto niente per cui essere arrestata!»   Djuna guardò in viso Sabina. L'intensità di quel viso, il fervore  che l'aveva sempre caratterizzato non erano più quelli di una  vivacità esuberante. C'era una tensione nei lineamenti, e un timore  negli occhi. 

  «Devo parlarti, Djuna... non riesco a dormire...»   «Ti ho cercata quando sono arrivata da Parigi, ma cambi di  indirizzo così spesso, e persino di nome.» 

  «Lo sai che ho sempre voluto rompere gli stampi che la vita ci  costruisce intorno se glielo permettiamo.» 

  «Perché?» 

  «Voglio oltrepassare i confini, cancellare tutte le  identificazioni, qualsiasi cosa ci rinchiuda per sempre in uno  stampo, un posto senza speranza di cambiamento.» 

  «E' esattamente l'opposto di quel che di solito si vuole, vero?» 

  «Sì, un tempo dicevo che avevo problemi di alloggio: infatti io un  alloggio non lo volevo. Volevo una barca, una roulotte, qualsiasi  cosa si muovesse liberamente. Mi sento più sicura che mai quando  nessuno sa dove sono, quando per esempio sono in una camera d'albergo  

dove persino il numero è graffiato dalla porta.» 

  «Ma al sicuro da cosa?» 

  «Non so cosa sto mettendo al sicuro dall'investigazione, salvo  forse il fatto che sono colpevole di molti amori, di molti amori  invece di uno.» 

  «Ma questo non è un crimine. E' semplicemente un caso di amori  divisi!» 

  «Ma le bugie, le bugie che devo raccontare... sai, come alcuni  criminali ti dicono: «Non ho mai trovato il modo di ottenere quello  che volevo eccetto col furto,» anche a me viene spesso voglia di  dire: «Non ho mai trovato il modo di ottenere quello che volevo  eccetto con le bugie.'» 

  «E te ne vergogni?» 

  Sabina ricominciò ad avere paura. «Con ogni uomo, in ogni rapporto,  viene il momento in cui mi sento sola.» 

  «Per via delle bugie?» 

  «Ma se dicessi la verità non sarei soltanto sola ma anche  abbandonata, e farei un gran male a tutti. Come faccio a dire a Alan  che per me lui è come un padre?» 

  «E' per questo che continui ad abbandonarlo, come si abbandona un  genitore, è una legge della maturità.» 

  «Sembra che tu mi esoneri dalle mie colpe.» 

  «Ti sto esonerando solo nel caso del tuo rapporto con Alan, nel  quale ti comporti come una bambina. 

  «E' l'unico di cui mi fido, l'unico il cui amore sia infinito,  

instancabile, pronto a perdonare tutto.» 

  «Quello che descrivi non è l'amore di un uomo, e neanche quello di  un padre. E' un padre della fantasia, un padre idealizzato, inventato  un tempo da una bimba bisognosa. L'amore di cui hai bisogno, Alan te  l'ha dato. Per questa forma d'amore hai ragione ad aver fiducia in  lui. Ma un giorno lo perderai, perché ci sono altri Alan esattamente  come ci sono altre Sabine, e anch'essi hanno bisogno di vivere e di  accoppiarsi. Il nemico dell'amore non è mai all'esterno, non è un  uomo o una donna, è quello che viene meno dentro di noi.» 

  Sabina aveva piegato il capo sul petto, in una posa di contrizione.   «Non credi che quest'uomo sia venuto ad arrestarmi?»   «No, Sabina, sei tu che lo immagini. Sei tu che hai trasferito la  tua colpa su quest'uomo. Probabilmente questa colpa la vedi riflessa  in ogni poliziotto, ogni giudice, ogni genitore, ogni personaggio che  abbia un'autorità. La vedi con gli occhi degli altri. E' un riflesso  di quello che senti. E' la tua interpretazione: gli occhi del mondo  puntati sulle tue azioni.» 

  Sabina alzò la testa. La sommerse una tale ondata di ricordi  dolorosi da lasciarla senza fiato. Provò un dolore enorme. Era come  il dolore che provavano i palombari quando risalivano in superficie  troppo in fretta. 

  «Nel mondo che ti sei inventata, Sabina, gli uomini sono o crociati  pronti a combattere le tue battaglie per te, o giudici che continuano  a svolgere i doveri dei tuoi genitori, o principi che non hanno  ancora raggiunto la maggiore età, e pertanto non possono diventare  mariti.» 

  «Mi liberi,» disse Sabina allo scopribugie. «Liberatemi. L'ho detto  a tanti uomini: «Riuscirai a liberarmi?»» Rise. «Ero pronta a dirlo  anche a lei.» 

  «Deve liberarsi da sé. E succederà con l'amore...» rispose lo  scopribugie. 

  «Oh, se bastasse questo, ho amato a sufficienza. Ho amato  moltissimo. Guardi il suo taccuino. Sono sicura che è pieno di  indirizzi.» 

  «Lei non ha ancora amato,» fece l'altro. «Ha soltanto provato,  incominciato ad amare. La fiducia da sola non è amore, il desiderio  da solo non è amore, l'illusione non è amore, il sogno non è amore.  Questi eran tutti sentieri che la portavano fuori di sé, è vero, e  lei ha creduto che conducessero verso un'altra persona, ma l'altro  non l'ha mai raggiunto. Era solo per strada. Adesso sarebbe capace di  uscire e trovare le altre facce di Alan, che non ha mai cercato di  vedere, o di accettare? Riuscirebbe a scoprire l'altra faccia di  Mambo che lui le nasconde con tanta delicatezza? Lotterebbe per  trovare l'altra faccia di Philip?» 

  «E' forse colpa mia se mi hanno rivolto solo una delle loro facce?»   «Tu sei un pericolo per altri esseri umani. Prima di tutto li  rivesti col costume del mito: il povero Philip è Sigfrido, deve  sempre cantare intonato, ed essere per sempre attraente. Lo sai dov'è  adesso? In un ospedale, con una caviglia rotta. A causa  dell'immobilità ha messo su un bel po' di chili. E tu gli volti le  spalle, Sabina? Non è più il mito col quale hai fatto l'amore, vero?  Se Mambo smettesse di suonare il tamburo per andare a casa ad  accudire la madre malata, andresti con lui e faresti bollire gli aghi  per l'iniezione? E se un'altra donna amasse Alan, la smetteresti di  pretendere la sua protezione come una bambina? Ti deciderai a fare di  te stessa un'attrice competente invece di continuare a recitare  Cenerentola solo nei teatri filodrammatici, tenendoti sul naso il  fiocco di neve artificiale anche dopo che la commedia è finita come a  dire: «Per me non c'è differenza tra la neve di scena e quella che  cade addosso sulla Quinta Strada?» Oh, Sabina, come hai giostrato i  fatti nei tuoi giochi di desiderio, in modo di vincere sempre. Chi  pensa solo a vincere non ha ancora amato!» 

  Allo scopribugie Sabina disse: «E se facessi tutto quello che mi  hai chiesto, la smetteresti di seguirmi, smetteresti di scrivere sul  tuo taccuino?» 

  «Sì, Sabina te lo prometto,» le rispose lui. 

  «Ma come facevi a sapere tante cose della mia vita...»   «Dimentichi che sei stata proprio tu a invitarmi a seguirti. Sei  stata tu a conferirmi il potere di giudicare le tue azioni. Hai  conferito questo potere a tanta gente: preti, poliziotti, dottori.  Seguita dalla tua coscienza, intercambiabile, ti sentivi più sicura.  Sentivi di poter conservare la tua salute mentale. Una metà di te  voleva espiare, esser liberata dai tormenti della colpa, ma l'altra  metà voleva essere libera. Solo metà di te si stava arrendendo,  gridava agli estranei: «Prendetemi!» Mentre l'altra metà cercava di  sfuggire industriosamente alla cattura finale. Era un altro dei tuoi  amoreggiamenti, un amoreggiamento con la giustizia. E adesso sei in  fuga, dalla colpa dell'amore diviso, e dalla colpa di non amare.  Povera Sabina, non avresti mai smesso di girare. Hai cercato la tua  interezza nella musica... La tua è una storia di non amore... e sai,  Sabina, se tu fossi stata arrestata e processata, ti sarebbe stata  inflitta una condanna meno severa di quella che tu infliggi a te  stessa. Noi siamo i giudici più severi delle nostre azioni.  Giudichiamo i nostri pensieri, le nostre intenzioni segrete, persino  i nostri sogni... Non hai mai considerato le circostanze attenuanti.  Un trauma deve averti sconvolto facendoti diffidare di un unico  amore. E così li hai divisi come misura di sicurezza. Tante botole si  aprivano, tra il mondo da night di Mambo, la  

Vienna-prima-della-guerra di Philip, il mondo industrioso di Alan, o  l'evanescente mondo adolescenziale di Donald. La mobilità in amore è  divenuta una condizione necessaria alla tua esistenza. Non c'è niente  di vergognoso nel cercare misure di sicurezza. La tua paura era  enorme.» 

  «Le mie botole mi hanno tradito.»  

  «Vieni con me, Sabina.» 

  

  Sabina salì con Djuna nel suo appartamento, dove poteva ancora  udire il suono dei tamburi. 

  Come per metterlo a tacere, Djuna mise un disco sul suo fonografo. 

  «Sabina...» ma le parole s'interruppero appena uno dei Quartetti di  Beethoven incominciò a parlare a Sabina come Djuna non avrebbe  potuto, di quello che entrambe conoscevano con assoluta certezza:  

della continuità dell'esistenza e della catena di vette, di  elevazioni attraverso cui si raggiunge tale continuità. Con  l'elevarsi la coscienza raggiungeva un movimento perpetuo, che  trascendeva la morte, e allo stesso modo otteneva la continuità  dell'amore afferrandone l'essenza impersonale, che era una somma di  tutte le alchimie che danno origine alla vita e alla nascita, un  bambino, un'opera d'arte, un prodotto della scienza, un atto eroico,  un atto d'amore. L'identità della coppia umana non era eterna ma  interscambiabile, per proteggere questo scambio di spiriti, la  trasmissione del carattere, tutte le fecondazioni dei nuovi io che  nascevano, e la fedeltà alla continuità soltanto, le estensioni e le  espansioni dell'amore che raggiungevano la propria cristallizzazione  in momenti e vette elevate uguali ai momenti e alle vette più alte  dell'arte o della religione. 

  Sabina si lasciò scivolare sul pavimento e rimase seduta con la  testa appoggiata al giradischi, con la gonna ampia che per un attimo  fluttuò come un paracadute che si chiuda; poi si sgonfiò  completamente per morire nella polvere. 

  Le lacrime sul viso di Sabina non erano rotonde e separate come  lacrime ordinarie, ma sembravano cadute come un velo d'acqua, come se  

fosse stata trascinata sul fondo del mare dal peso e dalle  dissolvenze della musica. Gli occhi e i lineamenti le si dissolsero  completamente, come se stesse perdendo la sua essenza.   Lo scopribugie le tese una mano come se volesse salvarla, con un  gesto lieve, come se fosse di fronte a una danza del dolore piuttosto  che al dolore stesso, e disse: «L'omeopatia ha un rimedio chiamato  pulsatile per quelli che piangono al suono della musica.»  

Fine