LA PERSONA E IL SACRO
Simone Weil
Adelphi.
[...] Niente più del bene è bello, meraviglioso, perpetuamente nuovo, perpetuamente sorprendente, carico di una dolce e continua ebbrezza. Nulla più del male è desertico, triste, monotono, fastidioso. Tali sono il male e il bene autentici. Il bene e il male fittizi sono il contrario. Il bene fittizio è fastidioso e piatto. Il male fittizio è vario, interessante, attraente, profondo, pieno di seduzioni. [...]
LA PERSONA E IL SACRO
INDICE
1.
Morale e letteratura;
2.
Lettera sulle responsabilità della letteratura;
3.
La Persona e il sacro;
4.
Rosa Luxemburg: "Lettere dal carcere";
5.
Lettera a Jean Giraudoux;
6.
Lettera a Paul Valery;
7.
Lettera a Georges Bernanos;
8.
Lettera a David Garnett;
1.MORALE E LETTERATURA (1)
(fine 1941- inizio 1942)
Nulla più del bene è bello, meraviglioso, perpetuamente nuovo,
perpetuamente sorprendente, carico di una dolce e continua ebbrezza. Nulla più
del male è desertico, triste, monotono, fastidioso. Tali sono il male e il bene
autentici. Il bene e il male fittizi sono il contrario. Il bene fittizio è
fastidioso e piatto. Il male fittizio è vario, interessante, attraente,
profondo, pieno di seduzioni.
Fatto sta che c'è nella realtà una
necessità, un'impossibilità che mancano nella finzione, così come la forza di
gravità che ci governa manca sulla tela di un quadro. Nello spazio che separa
il cielo e la terra, le cose cadono facilmente, perfino inevitabilmente, appena
c'è il vuoto sotto; non salgono, oppure di pochissimo, a fatica e ricorrendo ad
artifici. Un uomo che, scendendo da una scala, sbaglia un piolo e cade, è uno
spettacolo triste o privo d' interesse, anche la prima volta che lo si vede. Un
uomo che camminasse per aria come sulle scale e che vedessimo arrivare così fino
alle nuvole, poi ridiscendere, potrebbe fare questo esercizio ogni giorno, a
ogni ora; mai ci si stancherebbe di vederlo. E' così per il bene puro. Perché
una necessità forte come la gravità condanna l'uomo al male, gli vieta ogni
bene se non strettamente limitato, difficilmente ottenuto, tutto intriso e
imbrattato di male, eccetto quando appare sulla terra il soprannaturale a
sospendere l'effetto della necessità terrena. Ma se, sulla tela di un quadro,
raffiguro un uomo che sale in aria, ciò non ha nessun interesse. La cosa ha
interesse solo in quanto esiste. L'irrealtà toglie ogni valore al bene.
Un uomo che cammina con un'andatura
naturale, è cosa banale e priva d'interesse. Degli uomini che saltellano e
balzellano in maniera strana mi faranno fermare, mi divertiranno qualche
minuto. Ma se mi accorgo che sia gli uni che gli altri sono scalzi su carboni
ardenti, il rapporto cambia. I saltelli, i balzi diventano orrendi,
intollerabili a vedersi, e nello stesso tempo, attraverso l'orrore, noiosi e
monotoni. Sull'uomo che cammina in maniera naturale, si rivolgerà la mia
attenzione e vi si fermerà appassionatamente. Così il male, finché è fittizio,
trae interesse dalla varietà delle forme che assume, e che sembrano allora
dipendere da una libera fantasia. La necessità inseparabile dalla realtà
cancella del tutto questo interesse. La semplicità che fa del bene fittizio una
cosa pallida dove lo sguardo non si può fermare è meraviglia insondabile nel
bene reale.
Perciò, essendo la letteratura fatta
soprattutto di finzione, l'immoralità ne sembra inseparabile. E' certamente a
torto che si rimprovera agli scrittori di essere immorali, almeno che non gli
si rimproveri anche di essere scrittori, come si aveva il coraggio di fare nel
diciassettesimo secolo. Quelli che aspirano a un'alta moralità non sono affatto
meno immorali degli altri, ma solo scrittori peggiori; in loro come negli
altri, qualunque cosa possano fare, loro malgrado, il bene è noioso e il male
più o meno avvincente. Dopo di che si potrebbe condannare in blocco tutta la
letteratura. Perché no? Gli scrittori e i lettori appassionati grideranno che
l'immoralità non è un criterio estetico. Ma dovrebbero dimostrare, cosa che non
hanno mai fatto, che occorre applicare alla letteratura soltanto criteri
estetici. Poiché i lettori non costituiscono una specie animale particolare,
poiché quelli che leggono sono gli stessi che compiono tante altre funzioni, è
impossibile che la letteratura sia sottratta alle categorie del bene e del male
cui tutte le attività umane sono sottomesse. Ogni attività si rapporta due
volte al bene e al male, nella sua esecuzione e nel suo principio. Così da un
lato un libro può essere fatto bene o male, e d'altro canto procedere sia dal
bene, sia dal male.
Ma non è soltanto nella letteratura
che la finzione è generatrice d'immoralità. Lo è pure nella vita stessa. Perché
la sostanza della nostra vita è fatta quasi unicamente di finzione. Ci
raccontiamo il nostro avvenire. A meno di un amore eroico della verità, ci
raccontiamo il nostro passato rifacendolo a nostro piacimento. Non guardiamo
gli altri, ci raccontiamo quello che pensano, quello che dicono, quello che
fanno. La realtà ci fornisce elementi, come i romanzieri attingono spesso
l'argomento da un fatto di cronaca, ma li avvolgiamo in una nebbia dove i
valori sono rovesciati come in ogni finzione, dove il male attrae e il bene
annoia. E' solo quando la realtà ci urta tanto da svegliarci un attimo, per
esempio a contatto con un santo, o attraverso la caduta negli ambienti della
sventura o del crimine, è soltanto in casi del genere o altri simili che
proviamo per un minuto l'orribile monotonia del male o la meraviglia
insondabile del bene. Ma presto ripiombiamo nel dormiveglia popolato dalle
nostre chiacchiere.
Qualcos'altro ancora ha il potere di svegliarci alla verità.
Sono le opere degli scrittori geniali, almeno di quelli il cui genio è di
primissimo ordine, e giunto alla pienezza della maturità.
Questi sono fuori della finzione e ce ne portano fuori. Ci danno sotto forma di finzione qualcosa di equivalente allo spessore stesso della realtà, quello spessore che la vita ci presenta ogni giorno, ma che non sappiamo cogliere, perché stiamo bene nella menzogna. Benché le opere di questi uomini siano fatte di parole, vi è presente la gravità che governa le anime. In esse è presente e manifesta. Negli animi tale gravità, benché spesso sensibile, è mascherata dagli effetti stessi che produce; la sottomissione al male è sempre accompagnata da errore e menzogna. L'uomo trascinato lungo la china della crudeltà o della paura non può distinguere la natura della forza che lo spinge, né le relazioni fra questa forza e l'insieme delle condizioni esterne. Nelle parole che il genio mette insieme, sono visibili e percettibili simultaneamente varie inclinazioni, poste secondo i loro rapporti veri, ma l'ascoltatore o il lettore non ne segue alcuna. Prova la gravità come la si prova guardando un precipizio, essendo al sicuro e non soggetto a vertigini. Distingue l'unità e la diversità delle sue forme in quell'architettura dell'abisso. E' così che la china della vittoria e quella della sconfitta sono evidenti e simultaneamente percettibili nell'"Iliade", il che non è mai il caso per un soldato impegnato a combattere. Il teatro di Eschilo e di Sofocle, alcune opere di Shakespeare, la "Phedre" di Racine, unica fra le tragedie francesi, diverse commedie di Moliere, il "Grand Testament" di Villon, racchiudono questa gravità che solo il genio può catturare. Il bene e il male vi appaiono nella loro verità. Quei poeti erano dotati di genio, e il loro genio era orientato verso il bene. Vi sono anche geni demoniaci. Hanno pure la loro maturità. Ma siccome la maturità del genio è la conformità al vero rapporto del bene e del male, l'opera che corrisponde alla maturità del genio demoniaco è il silenzio. Rimbaud ne è l'esempio e il simbolo.
Tutti gli scrittori che non sono
abitati da un genio di primissimo ordine nella sua piena maturità hanno come
unica ragione di essere quella di costituire l'ambiente dove un tale genio un
giorno apparirà. Solo questa funzione giustifica la loro esistenza, la quale
altrimenti dovrebbe essere impedita a causa dell'immoralità cui sono condannati
dalla natura delle cose. Rimproverare a uno scrittore la sua immoralità, vuol
dire rimproverargli di non avere genio, o soltanto genio di secondo ordine,
ammettendo che tale accostamento di parole abbia un senso, oppure un genio non
ancora sviluppato. Che sia privo di genio, in un certo senso non è colpa sua;
in un altro senso è il suo unico peccato. Cercare un rimedio all'immoralità
delle lettere, è impresa del tutto vana. Il genio è l'unico rimedio, e la
sorgente non si trova a portata dei nostri sforzi.
Ma ciò che può e deve essere
corretto, in base a questa stessa irrimediabile immoralità, è l'usurpazione da
parte degli scrittori di una funzione di direzione spirituale che non gli si
addice per nulla. Solo i geni di prim'ordine nella loro piena maturità sono
atti ad esercitarla. In quanto agli altri scrittori, a meno che non li abiti
una vocazione filosofica oltre alla vocazione letteraria, cosa rara, la loro
concezione del mondo e della vita, le loro opinioni sui problemi di attualità,
non possono avere alcun interesse, ed è ridicolo incitarli ad esprimerle. Tale
usurpazione risale al diciottesimo secolo e in particolare al romanticismo.
Essa ha messo nella letteratura un'ampollosità messianica del tutto contraria
alla purezza dell'arte. Un tempo gli scrittori erano i servitori dei grandi.
Tale posizione implicava situazioni spesso molto penose, ma era assai più
favorevole dell'illusione messianica, non soltanto alla salute morale degli
scrittori e del pubblico, ma anche alla stessa arte. Questa usurpazione solo
nell'ultimo mezzo secolo o quarto di secolo ha avuto i più gravi effetti di cui
sia suscettibile, perché soltanto allora l'influenza ha penetrato perfino il
popolo. Indubbiamente un po di cattiva letteratura orale o scritta ha più o
meno circolato fra il popolo. Ma un tempo aveva il suo antidoto in cose
perfettamente belle che impregnavano la vita popolare, le cerimonie religiose,
le preghiere, i canti, i racconti, le danze.
E oltre tutto non aveva autorità.
Durante l'ultimo quarto di secolo, tutta l'autorità legata alla funzione di
direzione spirituale usurpata dai letterati si è calata nelle pubblicazioni più
indegne. Dato che c'era continuità tra queste pubblicazioni e la più alta
produzione letteraria, e il pubblico lo sapeva. Lo stesso ambiente di letterati
dove mai nessuno rifiutava di stringere la mano a qualcuno comprendeva coloro
che si occupavano esclusivamente di tali pubblicazioni, e i loro collaboratori
occasionali, e i nostri più grandi nomi. In nessun luogo fra un poema di Valery
e la pubblicità di una crema di bellezza che prometteva un ricco matrimonio a
chiunque la impiegasse, si sarebbe potuto trovare il punto di rottura della
continuità.
Quindi l'usurpazione spirituale
compiuta dalla letteratura ha fatto sì che la pubblicità di una crema di
bellezza avesse agli occhi delle ragazzine dei villaggi l'autorità assunta un
tempo dalle parole dei preti. Ci si può stupire di essere caduti così in basso?
Averlo permesso è un crimine di cui tutti coloro che sanno maneggiare una penna
dovrebbero portare la responsabilità al pari del rimorso.
Per secoli la funzione di direzione
spirituale era stata esclusivamente nelle mani dei preti. Spesso l'hanno esercitata
terribilmente male, come testimoniano i roghi dell'Inquisizione, ma per lo meno
ne avevano qualche titolo. A dir il vero solo i più grandi santi ne sono
capaci, come i più grandi geni fra gli scrittori. Ma tutti i preti, per
professione, si richiamano ai santi, se ne ispirano, cercano di seguirli e di
imitarli, in particolare l'unico vero santo, cioè Cristo; o se non lo fanno,
come di fatto accade spesso, non adempiono il loro dovere. Se lo adempiono,
possono comunicare una maggior quantità di bene di quanta ne possiedono
personalmente. Uno scrittore invece non procede che da se stesso; può subire
l'influenza di parecchi altri scrittori, ma non trarre da loro la propria
ispirazione.
Quando infatti i preti ebbero perso
quasi completamente questa funzione di direzione sotto l'effetto di ciò che nel
diciottesimo secolo si chiamavano i lumi, gli scrittori e gli scienziati si
sostituirono a loro. Per gli uni e per gli altri, l'assurdità è la stessa. La
matematica, la fisica, la biologia sono estranee alla direzione spirituale
quanto l'arte di accostare le parole. Quando la letteratura e la scienza
usurpano tale funzione, vuol dire che non c'è più vita spirituale. Oggi diversi
segni sembrano indicare che sin da ora quest'usurpazione da parte degli scrittori
e degli scienziati si è conclusa, benché le apparenze si prolunghino.
Bisognerebbe rallegrarsene, se non ci fosse da temere la loro sostituzione con
qualcosa di ben peggiore.
Ma le opere degli autentici geni dei
secoli scorsi rimangono. Sono alla nostra portata. La loro contemplazione è la
fonte inesauribile di un' ispirazione che legittimamente è in grado di
dirigerci. Perché quest'ispirazione, per chi sa riceverla, tende, secondo la
parola di Platone, a fare spuntare le ali contro la forza di gravità.
Emile Novis.
NOTE
1: scritto tra il 1941 e il 1942,
pubblicato postumo in "Cahiers du Sud" in gennaio 1944, firmato Emile
Novis.
2. LETTERA AI CAHIERS DU SUD SULLE RESPONSABILITA' DELLA LETTERATURA
(scritta 1941 - pubblicata 1951) (1)
Leggendo l'allusione fatta da Gros
(2) alla controversia sulla responsabilità degli scrittori, non posso fare a
meno di tornare su quest'argomento per difendere una maniera di vedere
contraria a quella della rivista, contraria a quella di quasi tutti coloro che
mi sono simpatici, e, purtroppo, simile in apparenza a quella di persone per le
quali non provo alcuna simpatia.
Credo nella responsabilità degli scrittori dell'epoca appena
trascorsa nella presente sventura. Con questo non intendo soltanto la sconfitta
della Francia; la sventura presente si estende ben oltre. Si estende al mondo
intero, cioè all'Europa, all'America, e agli altri continenti, nella misura in
cui c'è penetrata l'influenza occidentale.
E' vero, come ha fatto osservare Mauriac, che i migliori libri
contemporanei sono assai poco letti. Ma la responsabilità degli scrittori non
può misurarsi in base alla tiratura. Perché il prestigio della letteratura è
immenso. Lo si può verificare dagli sforzi compiuti un tempo da certe
formazioni politiche per assicurarsi nomi famosi a fini demagogici. Anche
coloro a cui è sconosciuto perfino il nome degli scrittori famosi, subiscono il
prestigio della letteratura che ignorano. Non si è mai letto tanto quanto oggi.
Non si leggono libri, ma periodici mediocri o cattivi; quei periodici penetrano
dovunque, nei paesi, nei sobborghi, ebbene, sotto l'effetto dei costumi
letterari del nostro tempo, fra i peggiori periodici e i nostri migliori
scrittori non c'è soluzione di continuità. Questo fatto che è noto o avvertito
piuttosto confusamente dal pubblico, agli occhi di quest'ultimo riveste di
tutto il prestigio dell'alta letteratura le più indegne imprese di pubblicità.
Ci sono state, negli ultimi anni, bassezze incredibili, come talune
consultazioni sentimentali accordate da scrittori conosciuti. Senza dubbio non
tutti si abbassavano così; tutt'altro. Ma quelli che si abbassavano così non
venivano né sconfessati né respinti dagli altri; non perdevano la
considerazione dei loro pari. Tale facilità dei costumi letterari, quel
tollerare la bassezza conferisce ai nostri scrittori più eminenti, una
responsabilità nella demoralizzazione di una ragazza di campagna che non ha mai
lasciato il proprio paese e non ha mai sentito il loro nome. Ma gli scrittori
hanno una responsabilità più diretta.
Il carattere essenziale della prima
metà del Novecento, è l'indebolimento e quasi il venir meno della nozione di
valore. Sembra che sia uno dei rari fenomeni, per quanto se ne possa sapere,
veramente nuovo nella storia dell'umanità. Certo, può darsi che si sia già
verificato nel corso di periodi che in seguito sono sprofondati nell'oblio come
forse sarà il caso per la nostra epoca. Questo fenomeno si è manifestato in
numerosi campi estranei alla letteratura, anzi in tutti. La sostituzione della
qualità con la quantità nella produzione industriale, il discredito in cui è
caduto il lavoro qualificato negli ambienti operai, la sostituzione della
cultura con i diplomi quale scopo degli studi fra la popolazione studentesca ne
sono alcune espressioni. La scienza stessa non possiede più nessun criterio di
valore da quando ha abbandonato la scienza classica. Ma gli scrittori erano per
eccellenza i guardiani del tesoro che è andato perso, e alcuni si sono vantati
di questa perdita.
Il dadaismo, il surrealismo sono
casi estremi. Hanno espresso l'ebbrezza della licenza totale, ebbrezza in cui
si tuffa lo spirito quando, rigettando ogni considerazione di valore, si
abbandona all' immediato. Il bene è il polo verso cui si orienta
necessariamente lo spirito umano, non soltanto nell'azione, ma in ogni sforzo,
compreso lo sforzo della pura intelligenza. I surrealisti hanno fatto del
pensiero non orientato un modello; hanno scelto come valore supremo l'assenza
totale di valore. La licenza ha sempre inebriato gli uomini, per cui, lungo
tutta la storia, si sono saccheggiate città. Ma il saccheggio delle città non
ha avuto sempre un equivalente letterario. Il surrealismo è un tale
equivalente.
Gli altri scrittori dello stesso
periodo e del periodo precedente sono andati lontano, ma quasi tutti - salvo
forse tre o quattro -sono più o meno colpiti dalla stessa carenza, la carenza
del sentimento del valore. Parole quali spontaneità, sincerità, gratuità,
ricchezza, arricchimento, parole che implicano una indifferenza quasi completa
alle opposizioni di valori, sono apparse sotto la loro penna più di frequente
delle parole che hanno a che fare col bene e col male. Del resto quest'ultima
specie di parole si è degradata, soprattutto quelle che si riferiscono al bene,
come Valery aveva osservato qualche anno fa. Parole quali virtù, nobiltà,
onore, onestà, generosità, sono diventate quasi impossibili da pronunciare
oppure hanno assunto un significato bastardo; il linguaggio non fornisce più
alcuna risorsa per lodare legittimamente il carattere di un uomo. Ne fornisce
appena un po di più per lodare lo spirito; la stessa parola spirito, le parole
intelligenza, intelligente e altre consimili sono anch'esse degradate. Il
destino delle parole rende sensibile il dileguarsi progressivo della nozione di
valore, e nonostante quel destino non dipenda dagli scrittori, non si può fare
a meno di renderli particolarmente responsabili, poiché le parole sono affare
loro.
Ultimamente si è molto lodato, e a ragione, l'opera di
Bergson; si è parlato
molto dell' influenza esercitata da essa sul pensiero e sulla letteratura della
nostra epoca. Ora, al centro della filosofia da cui procedono i suoi primi tre
libri, vi è una nozione essenzialmente estranea ad ogni considerazione di
valore, cioè la nozione di vita. Invano si è voluto fare di questa filosofia
una base per il cattolicesimo, che del resto non ne ha bisogno, poiché possiede
basi più antiche. L'opera di Proust è piena di analisi che tentano di
descrivere stati d'animo non orientati; il bene vi appare solo nei rari momenti
in cui per effetto del ricordo o della bellezza, si riesce a presentire
l'eternità attraverso il tempo. Si potrebbero fare osservazioni simili su molti
scrittori prima e soprattutto dopo il 1914. Nel complesso la letteratura del
Novecento è essenzialmente psicologica. Ora, la psicologia consiste nel
descrivere gli stati d'animo disponendoli sullo stesso piano senza
discriminazione di valore, come se il bene e il male fossero loro estranei,
come se lo sforzo verso il bene potesse
essere mai assente dal pensiero di un uomo.
Gli scrittori non hanno da essere
professori di morale, ma devono esprimere la condizione umana. E non c'è nulla
di così essenziale alla vita umana, per tutti gli uomini e in tutti i momenti,
come il bene e il male. Quando la
letteratura diventa per partito preso indifferente all'opposizione del bene e
del male, tradisce la propria funzione e non può pretendere all'eccellenza. Da
giovane Racine prendeva in giro i giansenisti, ma non li prendeva più in giro
scrivendo "Phedre" e "Phedre" è il suo capolavoro. Da
questo punto di vista, non è vero che vi sia continuità nella letteratura
francese. Non è vero che Rimbaud e i suoi successori (fatta eccezione di alcuni
passi della "Saison en Enfer") (3) prolunghino Villon. Che importa se
Villon ha rubato? L'azione di rubare fu forse, da parte sua, un effetto della
necessità, forse un peccato, ma non un'avventura né un atto gratuito. Il
sentimento del bene e del male impregna ogni suo verso, come impregna ogni opera
non estranea al destino dell'uomo.
Vi è certo qualcosa di ancora più
estraneo al bene e al male che non l'amoralità, ed è una certa moralità. Quelli
che in questo momento rimproverano gli scrittori famosi valgono infinitamente
meno di loro, e la "rieducazione" che alcuni vorrebbero imporre
sarebbe assai peggiore dello stato di cose a cui si pretende di rimediare. Se
mai le sofferenze attuali porteranno a una -rieducazione", questo non si
attuerà grazie agli slogan, ma nel silenzio e la solitudine morale, attraverso
le pene, le miserie, i terrori nel più intimo di ogni spirito.
Simone Weil.
NOTE.
1: scritta nella primavera del 1941, pubblicata solo nel 1951 dopo
la sua morte, nei "Cahiers du Sud", rivista letteraria fondata a
Marsiglia nel 1921 da Jean Ballard, Marcel Pagnol e Gaston Mouren.
2: Leon-Gabriel Gros (1905-1985), poeta e critico, fu
redattore capo dei "Cahiers du Sud", dove pubblicò fra l'altro
"Actualité de la poésie" (marzo 1940), da cui trae spunto la lettera
di Simone Weil.
3: poema in prosa in parte autobiografico, scritto a 19 anni,
fa seguito a una fuga in Belgio e in Inghilterra in compagnia di Verlaine.
Edito a Bruxelles nel 1873, e ricusato dallo stesso Rimbaud dopo la sua
pubblicazione. Con la stesura delle "Illuminations" (1873-1875),
Rimbaud rinuncia definitivamente alla letteratura per dedicarsi al commercio in
Abissinia e a un lungo girovagare per tutta l'Europa.
3. LA PERSONA E IL SACRO
(1942-1943)
"Lei non m'interessa" Queste sono parole
che un uomo non può rivolgere a un altro uomo senza commettere una crudeltà e
ferire la giustizia.
"La Sua persona non m'interessa" Queste
parole possono trovar posto in una conversazione affettuosa tra amici intimi
senza ferire ciò che vi è di più delicatamente ombroso nell'amicizia. Nello
stesso modo si dirà senza abbassarsi: "La mia persona non conta", ma
non si dirà: "Io non conto"
Questa è la prova che il vocabolario della corrente
di pensiero moderno detta personalista (1) è errato. E in questo campo, dove
c'è un grave errore di vocabolario, è difficile che non vi sia un grave errore
di pensiero.
C'è in ogni uomo qualcosa di sacro. Ma non è la sua
persona. Non è neppure la persona umana. E' semplicemente lui, quest'uomo.
Ecco un passante per la strada che ha delle lunghe
braccia, degli occhi celesti, una mente dove si agitano pensieri che ignoro ma
che forse sono mediocri.
Non è né la sua persona, né la persona umana in lui
che mi è sacra. E' lui. Lui tutto intero. Le braccia, gli occhi, i pensieri,
tutto. Non violerei niente di tutto questo senza infiniti scrupoli..
Se la persona umana in lui corrispondesse a quanto
per me è sacro, potrei facilmente cavargli gli occhi. Una volta cieco, sarà una
persona umana esattamente quanto lo era prima. Non avrò assolutamente colpito
in lui la persona umana. Avrò distrutto soltanto i suoi occhi.
E' impossibile definire il rispetto della persona
umana. Non è solo impossibile da definire con le parole. E' il caso di tante
nozioni luminose. Ma questa nozione non può neanche essere concepita; non può
essere definita, delimitata da un'operazione muta del pensiero.
Assumere per regola della morale pubblica una
nozione impossibile da definire e da concepire, significa aprire la strada ad
ogni specie di tirannia.
La nozione di diritto, lanciata attraverso il mondo
nel 1789, è stata, per sua insufficienza intrinseca, impotente ad esercitare la
funzione che le veniva affidata.
Amalgamare due nozioni insufficienti parlando dei
diritti della persona umana non ci porterà molto lontano. Che cosa di preciso
m'impedisce di cavare gli occhi a quest'uomo, se ne ho la possibilità e ciò mi
diverte?
Benché mi sia completamente sacro, non mi è sacro
sotto ogni profilo, né da ogni punto di vista. Non mi è sacro perché le sue
braccia sono lunghe, perché i suoi occhi sono celesti, perché i suoi pensieri
sono forse mediocri. Né, se è duca, perché è duca. Né, se è straccivendolo,
perché è straccivendolo. Non sarebbe niente di tutto questo a trattenere la mia
mano.
Ciò che la potrebbe trattenere, è il fatto di sapere che
se qualcuno gli cavasse gli occhi,
avrebbe l'anima lacerata dall'idea che gli si fa del male.
C'è nell'intimo di ogni essere umano, dalla prima
infanzia sino alla tomba e nonostante tutta l'esperienza dei crimini commessi,
sofferti e osservati, qualcosa che si aspetta invincibilmente che gli si faccia
del bene e non del male. E' questo, prima di tutto che è sacro in ogni essere
umano.
Il bene è l'unica fonte del sacro. Solo il bene è
sacro, e quanto è relativo al bene.
Non è questa parte profonda, infantile del cuore
che si aspetta sempre il bene, ad essere in gioco nella rivendicazione. Il
ragazzino che sorveglia gelosamente se suo fratello non ha avuto una porzione
di dolce un po più grossa della sua, cede a un movente sorto in una parte assai
più superficiale dell'anima. La parola giustizia ha due significati molto
diversi che si riferiscono a queste due parti dell'anima. Importa solo la
prima. Tutte le volte che sorge dal profondo di un cuore umano il lamento del
fanciullo che il Cristo stesso non ha saputo trattenere: "Perché mi viene
fatto del male?", vi è certamente ingiustizia. Perché se, come capita
spesso, si tratta solo di un errore, l'ingiustizia consiste allora
nell'insufficienza della spiegazione.
Quelli che infliggono i colpi capaci di provocare
questo grido, cedono a moventi differenti a seconda dei caratteri e a seconda
dei momenti. C'è chi in certi momenti trova voluttà in questo grido. Molti
ignorano che viene cacciato. Perché è un grido silenzioso che echeggia soltanto
nel segreto del cuore.
Questi due stati d'animo si assomigliano più di
quanto sembri. Il secondo è solo un modo indebolito del primo. Tale ignoranza
viene accuratamente coltivata, in quanto lusinga e contiene anch'essa voluttà.
Non vi sono altri limiti ai nostri voleri se non le necessità della materia e
l'esistenza degli altri esseri umani intorno a noi. Ogni estensione immaginaria
di questi limiti è voluttuosa, e così vi è voluttà in tutto ciò che fa
dimenticare la realtà degli ostacoli. Ecco perché gli sconvolgimenti, quali la
guerra e la guerra civile, che svuotano le esistenze umane della loro realtà,
facendole simili a burattini, sono talmente inebrianti. E' anche per questo che
la schiavitù è così piacevole per i padroni.
In quelli che hanno subito troppi colpi, come gli
schiavi, sembra morta quella parte del cuore che il male inflitto fa gridare di
sgomento. Ma non lo è mai del tutto. Solo che non può più gridare. E' immobile
in uno stato di gemito sordo e ininterrotto.
Ma anche in coloro nei quali il potere del grido è
intatto, questo grido non giunge quasi mai ad esprimersi né interiormente né
esteriormente con parole coerenti. Il più delle volte, le parole che cercano di
tradurlo suonano completamente false.
Questo è tanto più difficile da evitare in quanto
quelli che hanno più spesso occasione di sentire che gli si fa del male sono
quelli che meno sanno parlare. Per esempio non c'è niente di più orribile che
vedere in tribunale uno sventurato balbettare davanti a un magistrato che fa lo
spiritoso in un linguaggio elegante.
Oltre all'intelligenza, la sola facoltà umana
veramente interessata alla pubblica libertà di espressione è quella parte del
cuore che grida contro il male. Ma siccome non sa esprimersi, la libertà per
lei è poca cosa. Innanzitutto, bisogna che l'educazione pubblica sia tale che
le fornisca il maggior numero di mezzi espressivi. Per la pubblica espressione
delle opinioni ci vuole poi un regime che sia definito non tanto dalla libertà
quanto da un'atmosfera di silenzio e di attenzione in cui questo grido debole e
maldestro possa farsi sentire. Infine ci vuole un sistema di istituzioni che
porti il più possibile alle funzioni di comando gli uomini capaci e desiderosi
di intenderlo e di capirlo. E' chiaro che un partito occupato nella conquista o
nella conservazione del potere governativo non può discernere che rumore in
queste grida. Reagirà in maniera diversa a seconda che questo rumore
interferisca con quello della sua propaganda o che invece contribuisca ad
accrescerlo. Ma in nessun caso è capace di un'attenzione tenera e divinatrice
per coglierne il significato.
Lo stesso vale a un grado minore per le
organizzazioni che per contagio imitano i partiti, cioè, quando la vita
pubblica è dominata dal gioco dei partiti, per tutte le organizzazioni,
compresi, per esempio, i sindacati e anche le Chiese.
Naturalmente, i partiti e simili organizzazioni
sono altrettanto estranei agli scrupoli dell'intelligenza.
Difatti quando la libertà di espressione si riduce
alla libertà di propaganda per le organizzazioni di questo tipo, le uniche
parti dell'anima umana che meritano di esprimersi non sono libere di farlo.
Oppure lo sono a un grado infinitesimale, poco più che nel sistema totalitario.
E' quanto succede in una democrazia dove il gioco
dei partiti regola la distribuzione del potere, cioè in quella che noi,
Francesi, abbiamo finora chiamato democrazia. Perché non ne conosciamo altra.
Quindi bisogna inventare qualcos'altro.
Lo stesso criterio applicato in modo analogo a ogni
istituzione pubblica, può portare a conclusioni ugualmente manifeste.
Non è la persona a fornire tale criterio. Il grido
di dolorosa sorpresa che suscita nel profondo dell'anima il male inflitto non è
qualcosa di personale. Non basta un sopruso alla persona e ai suoi desideri per
farlo sorgere. Sorge sempre dalla sensazione di un contatto con 1' ingiustizia
attraverso il dolore. Costituisce sempre, nell'ultimo degli uomini come nel
Cristo, una protesta impersonale.
Molto spesso si alzano anche grida di protesta
personale, ma queste sono prive d'importanza; se ne possono provocare quante se
ne vuole senza violare nulla di sacro.
Ciò che è sacro, ben lungi dall'essere la persona, è
ciò che, in un essere umano, è impersonale. Tutto ciò che è impersonale
nell'uomo è sacro, e soltanto quello.
Nella nostra epoca, in cui gli scrittori e gli
scienziati hanno così stranamente usurpato il posto dei preti, il pubblico
riconosce con una compiacenza priva di ogni ragionevole fondamento, che le
facoltà artistiche e scientifiche sono sacre. Ciò è generalmente considerato
evidente, nonostante sia ben lungi dall'esserlo. Quando si crede di dover
allegare un motivo, si dice che il gioco di queste facoltà è tra le forme più
alte della pienezza della persona umana.
In effetti, spesso, è soltanto questo. In tal caso,
è facile rendersi conto di ciò che vale e di ciò che produce.
Questo produce atteggiamenti verso la vita come
quello, così comune nel nostro secolo, espresso dall'orribile frase di Blake
(2): "Meglio soffocare un bambino nella culla che conservare dentro di sé
un desiderio non soddisfatto" O come quello che ha fatto nascere la
concezione dell'atto gratuito. Ciò produce una scienza dove sono riconosciute
tutte le specie possibili di norme, criteri, valori, eccetto la verità.
Il canto gregoriano, le chiese romaniche,
l'"Iliade", l'invenzione della geometria, non sono stati, per gli
esseri attraverso cui queste cose sono passate prima di arrivare fino a noi,
occasioni di realizzazione.
La scienza, l'arte, la letteratura, la filosofia
che sono soltanto forme di realizzazione della persona, costituiscono un campo
in cui si realizzano successi clamorosi, gloriosi, che fanno vivere dei nomi
per migliaia di anni. Ma al di sopra di questo, molto al di sopra, separato da
un abisso, ve n'è un altro, in cui stanno le cose di primissimo ordine. Queste
sono essenzialmente anonime.
E' un caso se il nome di quelli che vi sono
penetrati, si è conservato o perduto; anche se si è conservato, sono entrati
nell'anonimato. La loro persona è scomparsa.
La verità e la bellezza abitano il campo delle cose
impersonali e anonime. E' questo che è sacro. L'altro non lo è, o se lo è, è
soltanto come potrebbe esserlo una macchia di colore che, in un quadro,
rappresentasse un'ostia.
Quel che è sacro nella scienza, è la verità. Quel
che è sacro nell'arte, è la bellezza. La verità e la bellezza sono impersonali.
Tutto questo è fin troppo evidente.
Se un bambino fa un'addizione, e si sbaglia,
l'errore porta lo stampo della sua persona. Se procede in maniera perfettamente
corretta, la sua persona è assente da tutta l'operazione.
La perfezione è impersonale. La persona in noi è la
parte dell'errore e del peccato. Tutto lo sforzo dei mistici è sempre stato
volto a ottenere che non ci fosse più nella loro anima nessuna parte che
dicesse "io".
Ma la parte dell'anima che dice "noi" è
ancora infinitamente più pericolosa.
Il passaggio nell' impersonale si opera solo
tramite un'attenzione di una rara qualità, possibile soltanto nella solitudine.
Non solo la solitudine di fatto, ma la solitudine morale. Non si compie mai in
colui che pensa se stesso come membro di una collettività, come parte di un
"noi"
Gli uomini in collettività non hanno accesso
all'impersonale, neanche nelle sue forme inferiori. Un gruppo di essera umani non
può neanche fare un'addizione. Un'addizione si effettua in una mente che
dimentica momentaneamente che esiste qualsiasi altra mente.
Il personale è contrapposto all'impersonale, ma vi
è passaggio tra l'uno e l'altro. Non vi è passaggio tra il collettivo e
l'impersonale. Bisogna prima che una collettività si dissolva in persone
distinte perché sia possibile entrare nell'impersonale. Soltanto in questo
caso, la persona partecipa al sacro più della collettività.
Non solo la collettività è estranea al sacro, ma
inganna dandone una falsa imitazione.
L'errore che attribuisce alla collettività un
carattere sacro è l'idolatria; è in ogni tempo, in ogni paese il crimine più
diffuso. Quello agli occhi del quale conta solo la realizzazione della persona
ha perso del tutto il senso del sacro. E' difficile sapere quale dei due errori
sia peggiore. Spesso si combinano nella stessa mente in misura differente. Ma
il secondo errore ha molto meno energia e molto meno durata del primo.
Dal punto di vista spirituale, la lotta tra la
Germania del 1940 e la Francia del 1940 era fondamentalmente una lotta non tra
la barbarie e la civiltà, non tra il male e il bene, ma tra il primo errore e
il secondo. La vittoria del primo non è sorprendente; è di per se stesso il più
forte.
La subordinazione della persona alla collettività
non è uno scandalo; è un fatto dell'ordine dei fatti meccanici, come quella del
grammo al chilogrammo su una bilancia. Di fatto la persona è sempre sottomessa
alla collettività, perfino in quella che viene chiamata la sua realizzazione.
Per esempio, sono proprio gli artisti e gli
scrittori, i più inclini a considerare la loro arte come l'espressione della
realizzazione della loro persona, quelli che difatti sono più sottomessi al
gusto del pubblico. Hugo non aveva alcuna difficoltà a conciliare il culto di
sé con il ruolo di "eco sonora" Esempi come Wilde, Gide o i
surrealisti sono ancora più chiari. Gli scienziati collocati allo stesso
livello sono anche loro asserviti alla moda, che esercita un maggior potere sulla
scienza che sulla forma dei cappelli. L'opinione collettiva degli specialisti è
pressoché sovrana su ciascuno di loro.
Poiché la persona è sottomessa al collettivo di
fatto e per la natura delle cose, non esiste un diritto naturale relativo a
essa. Si ha ragione quando si dice che l'antichità non aveva la nozione del
rispetto dovuto alla persona. Pensava con troppa chiarezza per una concezione
così confusa.
L'essere umano sfugge al collettivo solamente
innalzandosi al di sopra del personale per penetrare nell'impersonale. In quel
momento c'è qualcosa in lui, un frammento della sua anima, su cui niente di
collettivo può avere alcuna presa. Se può radicarsi nel bene impersonale, cioè
diventare capace di attingervi energia, è in grado, tutte le volte che pensa di
averne l'obbligo, di opporre contro qualsiasi collettività senza appoggiarsi su
nessun'altra, una forza sicuramente piccola ma reale.
Ci sono occasioni in cui una forza quasi
infinitesimale è decisiva. Una collettività è molto più forte di un uomo solo;
ma ogni collettività ha bisogno per esistere di operazioni, di cui l'addizione
è l'esempio elementare, che si compiono soltanto in una mente in stato di
solitudine.
Questo bisogno darebbe la possibilità di una presa
dell'impersonale sul collettivo, se solo si sapesse studiare un metodo per
farne uso.
Ognuno di quelli che sono penetrati nella sfera
dell' impersonale vi incontra una responsabilità verso tutti gli esseri umani.
Quella di proteggere in loro, non la persona, ma
tutto ciò che la persona racchiude di fragili possibilità di passaggio
nell'impersonale.
E' a costoro innanzitutto che deve rivolgersi
l'appello al rispetto per il carattere sacro degli esseri umani. Infatti perché
un tale appello abbia un'esistenza, bisogna che sia rivolto a degli esseri
suscettibili di comprenderlo.
E' inutile spiegare a una collettività che in
ciascuna delle unità che la compongono c'è qualcosa che non deve essere
violato. Prima di tutto una collettività non è un qualcuno, se non idealmente;
non ha un'esistenza, se non astratta; parlarle è un'operazione fittizia. Poi,
se fosse qualcuno, sarebbe qualcuno disposto a rispettare solamente se stesso.
Per di più, il pericolo maggiore non è la tendenza
del collettivo a comprimere la persona, ma la tendenza della persona a precipitarsi,
ad affogare nel collettivo. O forse il primo pericolo non è che l'aspetto
apparente e ingannatore del secondo. Se è inutile dire alla collettività che la
persona è sacra, è altrettanto inutile dire alla persona che essa stessa è
sacra. Non può crederlo. Non si sente sacra. La causa che impedisce che la
persona si senta sacra, è che di fatto non lo è.
Se ci sono esseri la cui coscienza testimonia
diversamente, a cui la propria persona dà un certo senso del sacro che credono
di potere, per generalizzazione, attribuire a ogni persona, sono in una duplice
illusione.
Ciò che provano, non è l'autentico senso del sacro,
bensì quella falsa imitazione prodotta dal collettivo. Se lo provano nei
riguardi della propria persona, è perché questa contribuisce al prestigio
collettivo attraverso la considerazione sociale di cui si trova essere la sede.
Così, è per errore che credono di poter
generalizzare. Benché questa erronea generalizzazione derivi da un impulso
generoso, non può avere sufficiente virtù perché ai loro occhi la materia umana
anonima cessi realmente di essere materia umana anonima. Ma è difficile che
abbiano l'occasione di rendersene conto, perché non hanno contatto con essa.
Nell'uomo, la persona è una cosa disperata, che ha
freddo, che corre in cerca di un rifugio e di una fonte di calore.
Questo è ignorato da coloro in cui la persona è,
sia pure temporaneamente in attesa, caldamente avvolta di considerazione
sociale.
Perciò la filosofia personalista ha avuto origine e
si è diffusa non negli ambienti popolari, ma negli ambienti di scrittori che,
per professione, possiedono o sperano di acquisire un nome e una reputazione.
I rapporti tra la collettività e la persona devono
essere stabiliti con l'unico obiettivo di scartare ciò che è suscettibile di
impedire la crescita e la germinazione misteriosa della parte impersonale
dell'anima.
A questo fine, bisogna che da un lato ci sia
intorno a ogni persona dello spazio, un certo grado di tempo libero a
disposizione, delle possibilità per il passaggio a gradi di attenzione sempre
più elevati, della solitudine, del silenzio. Nello stesso tempo bisogna che sia
in un'atmosfera di calore, perché la disperazione non la costringa ad affogare
nel collettivo.
Se tale è il bene, sembra difficile andare in
direzione del male molto più in là di quanto non faccia la società moderna,
anche democratica. In particolare, una fabbrica moderna non è forse molto
lontana dal limite dell'orrore. Ogni essere umano vi è continuamente assillato
pungolato dall'intervento di volontà estranee, e nello stesso tempo l'anima è
nel freddo, la disperazione e l'abbandono. All'uomo è necessario un silenzio
caloroso, gli si offre un tumulto ghiacciato.
Il lavoro fisico, benché penoso, non è di per sé
una degradazione. Non è arte; non è scienza; non è un'altra cosa che ha un
valore assolutamente uguale a quello dell'arte e della scienza. Poiché procura
una uguale possibilità di accesso a una forma impersonale dell'attenzione.
Cavare gli occhi a Watteau adolescente e fargli
girare una macina non sarebbe stato un crimine più grande di quello di mettere
un ragazzo che ha la vocazione di questa specie di lavoro a una catena di
montaggio o a una macchina da manovale, pagato a cottimo. Solo che questa
vocazione, a differenza di quella del pittore, non è individuabile.
Esattamente nella stessa misura dell'arte e della
scienza, seppure in maniera diversa, il lavoro fisico è un certo contatto con
la realtà, con la verità, con la bellezza di quest'universo e con la saggezza
eterna che ne costituisce l'ordine.
Perciò avvilire il lavoro è un sacrilegio nello
stesso senso in cui è un sacrilegio calpestare un'ostia.
Se quelli che lavorano lo sentissero, se sentissero
che per il fatto che ne sono le vittime, ne sono anche i complici, la loro
resistenza assumerebbe tutt'altro slancio rispetto a quello che può fornirgli
il pensiero della loro persona e del loro diritto. Non sarebbe una
rivendicazione; sarebbe una rivolta di tutto l'essere, violenta e disperata
come in una ragazza che si vuol mettere a viva forza in una casa di tolleranza;
e nello stesso tempo sarebbe un grido di speranza scaturito dal profondo del
cuore.
Certo tale sentimento abita dentro di loro, ma
talmente inarticolato che non lo possono percepire. I professionisti della
parola sono incapaci di fornirgliene l'espressione.
Quando gli si parla della loro sorte, si sceglie
generalmente di parlare di salari. Loro, sotto la fatica che li schiaccia e
rende ogni sforzo d'attenzione doloroso, accolgono con sollievo la facile
chiarezza delle cifre.
Così dimenticano che l'oggetto su cui si
mercanteggia, di cui si lamentano che sono costretti a consegnarlo a ribasso,
che gliene viene negato il prezzo giusto, non è altro che la loro anima.
Immaginiamo che il diavolo stia comprando l'anima di uno sventurato, e che
qualcuno, avendo pietà di questo sventurato, intervenga nel dibattito e dica al
diavolo: "E' vergognoso da parte vostra offrire solo questo prezzo;
l'oggetto vale almeno il doppio"
Questa sinistra farsa è quella recitata dal
movimento operaio, con i suoi sindacati, i suoi partiti, i suoi intellettuali
di sinistra.
Questo spirito di mercanteggiamento era già
implicito nella nozione di diritto che le generazioni dell'89 hanno avuto
l'imprudenza di mettere al centro dell'appello che hanno gridato in faccia al
mondo. Significava distruggerne in anticipo la virtù. La nozione di diritto è
legata a quella di divisione, di scambio, di quantità. Ha qualcosa di
commerciale. Evoca di per sé il processo, l'arringa. Il diritto non si sostiene
che col tono della rivendicazione; e quando questo tono è adottato, la forza
non è lontana, è subito dietro, per confermarlo, se no sarebbe ridicolo. C'è
una quantità di nozioni, tutte poste nella stessa categoria, che di per sé sono
totalmente estranee al sovrannaturale, eppure sono un po al di sopra della
forza bruta. Sono tutte relative ai costumi dell'animale collettivo, per usare
il linguaggio di Platone, quando conserva alcune tracce di un ammaestramento
imposto dall'operazione della grazia.
Quando dal rinnovarsi di questa
operazione non ricevono di continuo un rinnovamento dell'esistenza, quando ne
rappresentano solo delle sopravvivenze, si trovano necessariamente soggette al
capriccio dell'animale.
Le nozioni di diritto, di persona, di democrazia
rientrano in questa categoria. Bernanos ha avuto il coraggio di osservare che
la democrazia non oppone alcuna difesa contro i dittatori. La persona è per
natura sottomessa alla collettività. Il diritto è per natura dipendente dalla
forza. Le menzogne e gli errori che velano queste verità sono estremamente
pericolosi, in quanto impediscono di ricorrere a ciò che si trova esclusivamente
sottratto alla forza e da questa preserva; cioè un'altra forza, che è
l'irraggiamento dello spirito. La materia pesante è capace di salire contro la
pesantezza solo nelle piante, per l'energia del sole che il verde delle foglie
ha captato e che opera nella linfa. La pesantezza e la morte si
riapproprieranno progressivamente ma inesorabilmente della pianta priva di
luce.
Fra queste menzogne si trova quella del diritto
naturale, lanciato dal diciottesimo secolo materialista. Non da Rousseau, che
era una mente lucida, possente, e d'ispirazione veramente cristiana, ma da
Diderot e dagli ambienti dell' Enciclopedia.
La nozione di diritto ci viene da Roma, e come
tutto ciò che viene dall'antica Roma, la donna gravida dei nomi della bestemmia
di cui parla l'Apocalisse, è pagana e non battezzabile. I Romani che avevano
capito, come Hitler, che la forza ha la pienezza dell'efficacia solo quando è
rivestita di alcune idee, impiegavano la nozione di diritto a questo scopo. Ci
si presta benissimo. Si accusa la Germania moderna di disprezzarla. Ma l'ha
usata a sazietà nelle sue rivendicazioni di nazione proletaria. E' vero che non
riconosce a coloro che soggioga altro diritto che quello di ubbidire. Anche
l'antica Roma.
Lodare l'antica Roma per averci trasmesso la nozione
di diritto è singolarmente
scandaloso. Perché se si vuole esaminare ciò che tale nozione era in origine,
al fine di determinarne la specie, si vede che la proprietà era definita dal
diritto di usare e abusare. E in effetti la maggior parte di quelle cose di cui
ogni proprietario aveva il diritto di usare e abusare erano esseri umani.
I Greci non avevano la nozione di diritto. Non
avevano parole per esprimerla. Si accontentavano del nome giustizia.
E' per via di una singolare confusione che si è
potuto assimilare la legge non scritta di Antigone al diritto naturale. Agli
occhi di Creonte, non c'era assolutamente niente di naturale in quello che
faceva Antigone. La giudicava pazza.
Non saremmo certo noi a dargli torto, noi che, in
questo momento, pensiamo, parliamo e agiamo
esattamente come lui. Lo si può
verificare riferendosi al testo.
Antigone dice a Creonte: "Non era stato Zeus a
pubblicare questa ordinanza; non è stata la compagna delle divinità dell'altro
mondo, la Giustizia, a stabilire leggi simili fra gli uomini" Creonte
prova a convincerla che i suoi ordini sono giusti; la accusa di aver
oltraggiato uno dei suoi fratelli onorando l'altro, dal momento che lo stesso
onore è stato accordato all'empio e al fedele, a colui che è morto cercando di
distruggere la sua patria e a colui che è morto per difenderla.
Essa dice: "Nondimeno l'altro mondo richiede
leggi uguali" Egli obbietta con buon senso: "Ma non vi è spartizione
uguale per il prode e per il traditore" Lei non trova che questa risposta
assurda: "Chi sa se nell'altro mondo questo è legittimo?"
L'osservazione di Creonte è perfettamente ragionevole:
"Però mai un nemico, anche dopo che è morto, è un amico" Ma la
piccola idiota ribatte: "Sono nata per partecipare all'amore, non
all'odio"
Allora Creonte, sempre più ragionevole: "Va
dunque nell'altro mondo, e poiché tu devi amare, ama quelli che stanno
laggiù"
In effetti, era proprio quello il suo vero posto.
Perché la legge non scritta a cui ubbidiva questa bambina, ben lungi dall'avere
qualcosa in comune con un qualche diritto o con qualcosa di naturale non era
altro che l'amore estremo, assurdo che ha spinto il Cristo sulla Croce.
La Giustizia, compagna delle divinità dell'altro
mondo, prescrive quest'eccesso d'amore. Nessun diritto lo prescriverebbe. Il diritto
non ha nessun legame diretto con l'amore.
Come la nozione di diritto è estranea allo spirito
greco, è pure estranea all'ispirazione cristiana, laddove questa è pura, non
frammista di eredità romane, ebraiche, o aristoteliche. Non è possibile
immaginarsi San Francesco che parla di diritto.
Se si dice a qualcuno in grado di intendere:
"Quel che mi fate non è giusto", si può scuotere e risvegliare alla
sua sorgente lo spirito d'attenzione e d'amore. Non è la stessa cosa per parole
come: "Ho il diritto di...", "Non ha il diritto di...";
racchiudono una guerra latente e svegliano uno spirito di guerra. La nozione di
diritto, posta al centro dei conflitti sociali, rende impossibile sia da una
parte che dall'altra ogni sfumatura di carità.
E' impossibile, quando se ne fa un uso quasi
esclusivo, tenere lo sguardo fisso sul vero problema. Un contadino su cui un
acquirente, in un mercato, fa indiscretamente pressione per indurlo a vendere
le uova a basso prezzo può benissimo rispondere: "Ho il diritto di tenere
le uova se non mi fate un buon prezzo.". Ma una ragazza che stanno
mettendo a viva forza in una casa di tolleranza non parlerà dei suoi diritti.
In una situazione simile, questa parola sembrerebbe ridicola tanto è
insufficiente.
Perciò il dramma sociale, che è analogo alla
seconda situazione, è apparso falsamente, per via dell'uso di questa parola,
come analogo alla prima.
L'uso di questa parola ha fatto di ciò che avrebbe
dovuto essere un grido scaturito dal profondo del cuore, un acre piagnisteo di
rivendicazioni, senza purezza né efficacia.
La nozione di diritto trascina naturalmente dietro
di sé, per via della sua stessa mediocrità, quella di persona perché il diritto
è relativo alle cose personali. E' situato a questo livello. Aggiungendo alla
parola diritto quella di persona, il che implica il diritto della persona a ciò
che si chiama la propria realizzazione, si farebbe un male ancora più grave. Il
grido degli oppressi scenderebbe ancora al di sotto del tono della
rivendicazione, assumerebbe quello dell' invidia.
Perché la persona si realizza soltanto quando il
prestigio sociale la gonfia; la sua realizzazione è un privilegio sociale. Non
lo si dice alle folle parlando loro dei diritti della persona, gli si dice il
contrario. Non dispongono di una sufficiente capacità di analisi per
riconoscerlo chiaramente da sé; ma lo intuiscono, la loro esperienza quotidiana
gliene fornisce la certezza.
Ciò non può essere per loro un motivo di respingere
questa parola d'ordine. In questi tempi di intelligenza offuscata, non si ha
nessuna difficoltà a chiedere per tutti una partecipazione uguale ai privilegi,
alle cose che sono per essenza dei privilegi. E' una specie di rivendicazione
insieme assurda e bassa; assurda, perché il privilegio per definizione è
disuguale; bassa, perché non vale la pena di essere desiderato.
Ma la categoria degli uomini che formulano e le
rivendicazioni e ogni cosa, che hanno il monopolio del linguaggio, è una
categoria di privilegiati. Non saranno loro a dire che non vale la pena di
desiderare il privilegio. Non lo pensano. Ma soprattutto sarebbe indecente da
parte loro.
Molte verità indispensabili e che salverebbero gli
uomini non vengono dette per una ragione di questo genere; coloro che
potrebbero dirle, non possono formularle, coloro che potrebbero formularle non
possono dirle. Il rimedio a questo male sarebbe uno dei problemi di una vera
politica.
In una società instabile, i privilegiati hanno
cattiva coscienza. Gli uni lo nascondono sotto un'aria di sfida e dicono alle
folle: "E' del tutto legittimo che voi non abbiate privilegi, e che io ne
abbia" Gli altri dicono loro con aria benevola: "Chiedo per tutti voi
una parte uguale ai privilegi che possiedo io"
Il primo atteggiamento è odioso. Il secondo è privo
di buon senso. E' anche troppo facile.
L'uno e l'altro spingono il popolo a correre sulla
via del male, ad allontanarsi dal suo unico e vero bene, che non è nelle sue
mani, ma che, in un certo senso, gli è così vicino. Il popolo è molto più
vicino a un bene autentico, che sia fonte di bellezza, di verità, di gioia e di
pienezza rispetto a coloro che gli accordano la loro pietà. Ma non essendoci, e
non sapendo come andarci, tutto si svolge come se ne fosse infinitamente
lontano. Coloro che parlano per lui, a lui, sono ugualmente incapaci di capire
in che stato di disperazione si trovi e quale pienezza di bene si trovi quasi
alla sua portata. In quanto a lui, gli è indispensabile essere capito.
La sventura è di per sé inarticolata. Gli
sventurati supplicano in silenzio che gli vengano fornite le parole per
esprimersi. Ci sono dei periodi in cui non sono esauditi. Ce ne sono altri in
cui gli vengono fornite delle parole, ma scelte male, perché coloro che le scelgono
sono estranei alla sventura che interpretano.
Il più delle volte ne sono lontani per il posto in
cui le circostanze li hanno collocati. Ma anche se le sono vicini o vi sono
stati dentro in un periodo della loro vita, anche recente, nondimeno le sono estranei,
perché tali si sono resi appena hanno potuto.
Il pensiero ripugna a pensare la sventura quanto la
carne vivente ripugna alla morte. L'offerta volontaria di un cervo che si fa
avanti passo passo per presentarsi ai denti di una muta è possibile più o meno
nella stessa misura di un atto d'attenzione diretto su una sventura reale e
vicinissima, da parte di una mente che ha la facoltà di farne a meno.
Ciò che, essendo indispensabile al bene, è
impossibile per natura, è sempre possibile in modo sovrannaturale.
Il bene sovrannaturale non è una specie di complemento
al bene naturale, come ci vorrebbero fare credere, con l'aiuto di Aristotele, a
nostro massimo conforto. Sarebbe piacevole se fosse così, ma non lo è. In tutti
i problemi strazianti dell'esistenza umana, c'è da scegliere soltanto tra il
bene sovrannaturale e il male.
Mettere in bocca agli sventurati parole che
appartengono alla regione media dei valori, quali democrazia, diritto o
persona, significa far loro un regalo che non è suscettibile di recare alcun
bene e che inevitabilmente causa loro un gran male.
Tali nozioni non hanno il loro posto in cielo, sono
sospese nell'aria, e per questa stessa ragione, sono incapaci di mordere la
terra.
Solo la luce che cade in continuazione dal cielo fornisce
a un albero l'energia che fa
affondare nella terra le potenti radici.
In realtà l'albero è radicato in
cielo.
Solo quello che viene dal cielo è suscettibile
d'imprimere realmente un marchio sulla terra.
Se si vogliono armare efficacemente gli sventurati,
occorre metter loro in bocca solo parole la cui sede si trovi in cielo, sopra
il cielo, nell'altro mondo. Non bisogna temere che questo sia impossibile. La
sventura predispone l'anima a ricevere avidamente, a bere tutto quanto viene da
quel luogo. Sono i fornitori, non i consumatori, che mancano per questa specie
di prodotti.
Il criterio per la scelta delle parole è facile da
riconoscere e da impiegare. Gli sventurati, sopraffatti dal male, aspirano al
bene. Bisogna dar loro soltanto parole che esprimono il bene, il bene allo
stato puro. La discriminazione è facile. Le parole alle quali può aggregarsi
qualcosa che indichi il male sono estranee al bene puro. Si esprime un biasimo
quando si dice: "Mette la sua persona davanti a tutto" La persona è
dunque estranea al bene. Si può parlare di un abuso della democrazia. La
democrazia è dunque estranea al bene. Il possesso di un diritto implica la
possibilità di farne un buono o un cattivo uso. Il diritto è dunque estraneo al
bene. Al contrario, il compimento di un obbligo è un bene sempre, dovunque. La
verità, la bellezza, la giustizia, la compassione, sono dei beni sempre,
dovunque. Per essere sicuri di dire quel che occorre, basta limitarsi, quando
si tratta delle aspirazioni degli sventurati, alle parole e alle frasi che
esprimono sempre, dovunque, in ogni circostanza, unicamente del bene.
E' uno dei due soli servizi che gli si possa
rendere con le parole. L'altro consiste nel trovare parole che esprimano la
verità della loro sventura; che, attraverso le circostanze esterne, rendano
sensibile il grido sempre cacciato nel silenzio: "Perché mi viene fatto
del male?"
Non devono per questo contare sugli uomini di
talento, sulle personalità, sulle celebrità, neppure sugli uomini di genio, nel
senso in cui abitualmente viene usata la parola genio, di cui si confonde l'uso
con quello della parola talento. Non possono contare che sui geni di primissimo
ordine, il poeta dell"'Iliade", Eschilo, Sofocle, Shakespeare qual
era quando scrisse "Lear", Racine qual era quando scrisse"
Phedre" E non è un gran numero.
Ma c'è una quantità di esseri umani, i quali,
essendo poco o mediocremente dotati dalla natura, appaiono infinitamente
inferiori non solo a Omero, Eschilo, Sofocle, Shakespeare, Racine, bensì anche
a Virgilio, Corneille, Hugo; e che tuttavia vivono nel regno dei beni impersonali
dove questi ultimi non sono penetrati. L'idiota del villaggio, nel senso
letterale della parola, che ama realmente la verità, quand'anche emettesse
soltanto balbettìi, è per il pensiero infinitamente superiore ad Aristotele. E'
infinitamente più vicino a Platone, di quanto non lo sia mai stato Aristotele.
E' dotato di genio mentre ad Aristotele si addice soltanto la parola talento.
Se una fata venisse a proporgli di scambiare la sua sorte con un destino
analogo a quello di Aristotele, saggezza per lui sarebbe di rifiutare senza
esitazione. Ma non ne sa nulla. Nessuno glielo dice. Tutti gli dicono il
contrario. Bisogna dirglielo. Bisogna incoraggiare gli idioti, le persone prive
di talento, le persone dal talento mediocre o poco più che medio, ma dotate di
genio. Non c'è da temere di renderli orgogliosi. L'amore della verità è sempre
accompagnato da umiltà. Il genio naturale non è altro che la virtù
sovrannaturale dell'umiltà nel campo del pensiero.
Invece d'incoraggiare lo sbocciare dei talenti,
come si erano prefissi nel 1789, bisogna amare teneramente e scaldare con
tenero rispetto la crescita del genio; perché soltanto gli eroi realmente puri,
i santi e i geni possono rappresentare un soccorso per gli sventurati. Tra gli
uni e gli altri, la gente che ha talento, intelligenza, energia, carattere,
forte personalità, fa da schermo e impedisce il soccorso. Non occorre far male
allo schermo, bisogna metterlo tranquillamente da parte, facendo in modo che se
ne accorga il meno possibile. E bisogna rompere lo schermo molto più pericoloso
del collettivo, sopprimendo tutta la parte delle nostre istituzioni e dei
nostri costumi in cui risiede una qualche forma dello spirito di partito. Né le
personalità, né i partiti prestano mai attenzione sia alla verità che alla sventura.
C'è alleanza naturale tra la verità e la sventura,
in quanto sia l'una che l'altra sono dei supplicanti muti, condannati in eterno
a restare senza voce davanti a noi.
Come un vagabondo, accusato in tribunale di aver
preso una carota in un campo, sta in piedi di fronte al giudice, il quale,
comodamente seduto, infila elegantemente domande, commenti e scherzi, mentre
l'altro non riesce neanche a balbettare; così sta la verità di fronte a
un'intelligenza occupata ad allineare elegantemente opinioni.
Il linguaggio, anche nell'uomo che apparentemente
tace, è sempre ciò che formula le opinioni. La facoltà naturale che viene
nominata intelligenza è relativa alle opinioni e al linguaggio. Il linguaggio
enuncia delle relazioni. Ma ne enuncia poche, perché si svolge nel tempo. Se è
confuso, vago, poco rigoroso, senza ordine, se la mente che lo emette o
l'ascolta ha una debole capacità di conservare un pensiero presente allo
spirito, è vuoto o quasi vuoto di ogni contenuto reale di relazioni. Se è
perfettamente chiaro, preciso, rigoroso, ordinato; se si rivolge a una mente
capace, dopo aver concepito un pensiero, di conservarlo presente mentre ne
concepisce un altro, di conservarli entrambi mentre ne concepisce un terzo, e
così via; in tal caso, il linguaggio può essere relativamente ricco di
relazioni. Ma come ogni ricchezza, questa ricchezza relativa è un'atroce
miseria, in confronto alla perfezione che è sola desiderabile.
Anche considerando le cose nel modo migliore, una
mente racchiusa nel linguaggio è in prigione. Il suo limite, è la quantità di
relazioni che le parole possono rendere presenti contemporaneamente alla sua
mente. Resta ignorante dei pensieri che implicano la combinazione di un maggior
numero di relazioni; questi pensieri sono fuori del linguaggio, non
formulabili, benché siano perfettamente rigorosi e chiari e benché ciascuna
delle relazioni che li compone sia esprimibile con parole perfettamente
precise. Così la mente si muove in uno spazio chiuso di verità parziale, che
del resto può essere più o meno grande, senza poter mai gettare uno sguardo su
ciò che è fuori.
Se una mente prigioniera ignora la propria
prigionia, vive nell'errore. Se l'ha riconosciuta, sia pure per un decimo di
secondo, e se si è affrettata a dimenticarla per non soffrire, vive nella
menzogna. Uomini dall'intelligenza estremamente brillante possono nascere,
vivere e morire nell'errore e nella menzogna. In questi l'intelligenza non è un
bene e neanche un vantaggio. La differenza fra uomini più o meno intelligenti è
come la differenza tra criminali condannati a vita alla galera le cui celle
siano più o meno grandi. Un uomo intelligente e orgoglioso della sua
intelligenza assomiglia a un condannato orgoglioso di avere una cella grande.
Una mente che sente la propria prigionia vorrebbe
dissimularla. Ma se ha orrore della menzogna, non lo farà. Dovrà allora
soffrire molto. Batterà la testa contro la muraglia fino allo svenimento; si
sveglierà, guarderà la muraglia con timore, poi un giorno ricomincerà e sverrà
di nuovo; e così di seguito, senza fine, senza alcuna speranza. Un giorno si
sveglierà dall'altra parte del muro.
Forse è ancora prigioniero, in una cornice soltanto
più spaziosa. Che importa? Ormai possiede la chiave, il segreto che fa cadere
tutti i muri. E' al di là di ciò che gli uomini chiamano intelligenza, dove
comincia la saggezza.
Ogni mente chiusa nel linguaggio è capace solo di opinioni.
Ogni mente capace di afferrare pensieri inesprimibili a causa della
molteplicità dei rapporti che vi si combinano, benché più rigorosi e più
luminosi rispetto a ciò che esprime il linguaggio più preciso, ogni mente
pervenuta a questo punto è già nella verità.
La certezza e la fede senz'ombra sono sue. E non
importa che in origine abbia avuto poca o molta intelligenza, che sia stata in
una cella stretta o larga. La sola cosa che importa, è, dopo avere raggiunto il
limite della propria intelligenza, qualsiasi esso sia, essere andati oltre.
L'idiota del villaggio è vicino alla realtà quanto un bambino prodigio. Solo
che l'uno è separato dall'altro da una muraglia. Non si entra nella verità
senza essere passati attraverso il proprio annientamento; senza aver
soggiornato a lungo in uno stato di estrema e totale umiliazione. E' lo stesso
ostacolo che si oppone alla conoscenza della sventura. Così come la verità è
tutt'altra cosa rispetto all'opinione, la sventura è tutt'altra cosa rispetto
alla sofferenza. La sventura è un meccanismo che stritola l'anima; l'uomo che
vi rimane preso è come un operaio afferrato dai denti di una macchina. Non è
più che una cosa lacerata e sanguinante.
Il grado e la natura della sofferenza che
costituisce in senso proprio una sventura, differiscono molto secondo gli
esseri umani. Questo dipende soprattutto dalla quantità di energia vitale
posseduta inizialmente e dall'atteggiamento adottato di fronte alla sofferenza.
Il pensiero umano non può riconoscere la realtà
della sventura. Se qualcuno riconosce la realtà della sventura deve dire a se
stesso: "Un gioco di circostanze che non controllo può togliermi qualsiasi
cosa in qualsiasi istante, comprese tutte quelle cose che sono talmente mie che
le considero come parte di me stesso. Non c'è niente in me che io non possa
perdere. Il caso può in qualsiasi momento abolire ciò che sono e mettere al suo
posto qualsiasi cosa di vile e di dispregevole"
Pensare questo con tutta l'anima, significa
sperimentare il nulla. Lo stato di estrema e totale umiliazione è anche la
condizione del passaggio nella verità. E' una morte dell'anima. Perciò lo
spettacolo della sventura nuda causa all'anima la stessa ritrazione che la
vicinanza della morte causa alla carne.
Si pensa ai morti con pietà quando li si evoca
soltanto con la mente, o quando si va sulle tombe, o quando li si vede
convenientemente disposti su un letto. Ma la vista di alcuni cadaveri che sono
come gettati su un campo di battaglia, con un aspetto insieme sinistro e
grottesco, causa orrore. La morte appare nuda, non vestita, e il corpo
rabbrividisce.
La sventura, quando la distanza materiale o morale
permette di vederla soltanto in modo vago, confuso, senza distinguerla dalla
semplice sofferenza, ispira alle anime generose una tenera pietà. Ma quando un
qualche gioco di circostanze fa sì che d'improvviso si trovi da qualche parte
messa a nudo, come qualcosa capace di distruggere, una mutilazione o una lebbra
dell'anima, si rabbrividisce e si retrocede. E gli stessi sventurati provano lo
stesso brivido di orrore davanti a se stessi.
Ascoltare qualcuno, significa mettersi al suo posto
mentre parla. Mettersi al posto di un essere la cui anima è mutilata dalla
sventura o in pericolo imminente di esserlo, significa annientare la propria
anima. E' più difficile di quanto non sarebbe il suicidio per un bambino felice
di vivere. Così gli sventurati non sono ascoltati. Sono nello stato in cui si
troverebbe qualcuno a cui fosse stata tagliata la lingua e che a momenti
dimenticasse la propria infermità. Le loro labbra si muovono, ma nessun suono
viene a colpire le nostre orecchie. Loro stessi sono rapidamente colpiti
d'impotenza nell'uso del linguaggio per la certezza di non essere sentiti.
E' la ragione per cui non c'è speranza per il
vagabondo in piedi davanti al magistrato. Se attraverso i suoi balbettìi esce
qualcosa di straziante, che trafigge l'anima, non verrà inteso né dal magistrato
né dagli spettatori. E' un grido muto. E gli sventurati fra di loro sono quasi
sempre altrettanto sordi gli uni nei confronti degli altri. E ogni sventurato,
costretto dall' indifferenza generale, cerca con la menzogna o con l'
incoscienza di rendersi sordo a se stesso.
Solo l'operazione sovrannaturale della grazia è in
grado di condurre un'anima attraverso il proprio annientamento fino al luogo
dove si coglie quella specie di attenzione che da sola permette di essere
attenti alla verità e alla sventura. E' la stessa per i due oggetti. E'
un'attenzione intensa, pura, senza moventi, gratuita, generosa. E
quest'attenzione è amore.
Proprio perché la sventura e la verità hanno
bisogno per essere sentiti della stessa attenzione, lo spirito di giustizia e
quello di verità sono tutt'uno. Lo spirito di giustizia e di verità non è altro
che una certa categoria di attenzione, la quale è puro amore.
Per una eterna disposizione della Provvidenza,
tutto ciò che un uomo produce in ogni campo quando lo spirito di giustizia e di
verità lo domina, è dotato dello splendore della bellezza.
La bellezza è su questa terra il mistero supremo.
E' uno splendore che sollecita l'attenzione, ma non le fornisce alcun motivo
per durare. La bellezza promette sempre e non dà mai nulla; suscita la fame, ma
non c'è in essa nutrimento per quella parte dell'anima che quaggiù cerca di
sfamarsi; ne ha soltanto per quella parte dell'anima che guarda. Suscita il
desiderio, e fa sentire chiaramente che non c'è in lei niente da desiderare,
poiché si vuole innanzitutto che niente in lei possa cambiare. Se non si
cercano espedienti per uscire dal delizioso tormento che infligge, a poco a
poco il desiderio si trasforma in amore, e si forma un germe di facoltà di
attenzione gratuita e pura.
Tanto la sventura è orrenda quanto l'espressione
vera della sventura è sovranamente bella. Si possono dare come esempi, anche
nei secoli recenti, "Phedre", "L'Ecole des Femmes",
"Lear", le poesie di Villon, ma meglio ancora le tragedie di Eschilo
e di Sofocle; e meglio ancora l'"Iliade", il Libro di Giobbe, alcuni
poemi popolari; e meglio ancora i racconti della Passione nei Vangeli. Lo
splendore della bellezza si sparge sulla sventura grazie alla luce dello
spirito di giustizia e d'amore, che solo permette a un pensiero umano di
guardare e riprodurre la sventura qual è.
Anche ogni volta che un frammento di inesprimibile
verità passa nelle parole che, senza poter contenere la verità che le ha
ispirate, realizzano con questa, grazie alla loro connessione, una
corrispondenza così perfetta, da fornire un supporto ad ogni mente desiderosa
di ritrovarla, ogni volta che è così, un lampo di bellezza si riversa sulle
parole.
Tutto ciò che procede dall'amore puro è illuminato
dallo splendore della bellezza.
Benché molto confusamente e mescolata con tante
false imitazioni, la bellezza è sensibile all'interno della cella in cui ogni
pensiero umano si trova inizialmente imprigionato. La verità e la giustizia
dalla lingua tagliata non possono sperare nessun altro soccorso. Non ha neppure
un linguaggio; non parla; non dice niente. Ma ha una voce per chiamare. Chiama
e indica la giustizia e la verità che sono prive di voce. Come un cane abbaia
per far accorrere delle persone vicino al padrone che giace nella neve privo di
sensi.
Giustizia, verità, bellezza sono sorelle e alleate.
Con tre parole così belle, non c'è bisogno di cercarne altre.
La giustizia consiste nel badare che non venga
fatto del male agli uomini. Viene fatto del male a un essere umano quando grida
interiormente: "Perché mi viene fatto del male?" Spesso si sbaglia
appena cerca di rendersi conto del male che subisce, di chi glielo infligge,
del perché gli venga inflitto. Ma il grido è infallibile.
L'altro grido sentito così spesso: "Perché lui
ha più di me?" è relativo al diritto. Bisogna imparare a distinguere i due
gridi e a far tacere il più possibile il secondo, con meno brutalità possibile,
aiutandosi con un codice, con tribunali ordinari e con la polizia. Per formare
menti capaci di risolvere i problemi che si pongono in questo campo, basta la
Scuola del Diritto.
Ma il grido: "Perché mi viene fatto del
male?" pone tutt'altri problemi, per i quali è indispensabile lo spirito
di verità, di giustizia e d'amore.
In ogni anima umana sorge di continuo la richiesta
che non le venga fatto del male. Il testo del Pater rivolge questa richiesta a
Dio. Ma Dio ha il potere di preservare dal male soltanto la parte eterna di
un'anima entrata con lui in contatto reale e diretto. Il resto dell'anima, e
l'anima tutta quanta in chiunque non abbia ricevuto la grazia del contatto
reale e diretto con Dio, è abbandonato al volere degli uomini ed è in balia
delle circostanze.
Così tocca agli uomini badare che non venga fatto
del male agli uomini.
Quando si fa del male a qualcuno, in lui penetra
veramente il male; non soltanto il dolore, la sofferenza, ma l'orrore stesso
del male. Come hanno il potere di trasmettersi il bene gli uni agli altri, gli
uomini hanno anche il potere di trasmettersi il male. Si può trasmettere del
male a un essere umano lusingandolo, procurandogli del benessere, dei piaceri;
ma il più delle volte gli uomini trasmettono il male agli uomini facendogli del
male. Eppure la Saggezza eterna non lascia l'anima umana completamente alla
mercé della casualità degli eventi e del volere degli uomini.
Il male inflitto dall'esterno a un essere umano
sotto forma di ferita esaspera il desiderio del bene e così suscita
automaticamente la possibilità di un rimedio. Quando la ferita è penetrata
profondamente, il bene desiderato è il bene perfettamente puro. La parte
dell'anima che chiede: "Perché mi viene fatto del male?" è la parte
profonda che in ogni essere umano, anche il più depravato, è rimasta sin dalla
prima infanzia perfettamente intatta e perfettamente innocente.
Preservare la giustizia, proteggere gli uomini da
ogni male, significa prima di tutto impedire che gli venga fatto del male.
Significa per quelli a cui è stato fatto del male, cancellarne le conseguenze
materiali, mettere le vittime in una situazione in cui la ferita, se non è
penetrata troppo profondamente, venga guarita naturalmente col benessere. Ma
per quelli cui la ferita ha lacerato tutta l'anima, significa per di più e
oltretutto calmare la sete dando loro da bere del bene perfettamente puro.
Si può essere obbligati a infliggere il male per
suscitare questa sete allo scopo di estinguerla. E' proprio in ciò che consiste
la punizione. Quelli che sono diventati tanto estranei al bene da cercare di
spargere il male intorno a loro, non possono reintegrare il bene che
infliggendo del male. Bisogna infliggergliene fino a che si svegli anche in
fondo a loro quella voce perfettamente innocente che dice con stupore:
"Perché mi viene fatto del male?" Bisogna che questa parte innocente
dell'anima del criminale riceva nutrimento e che cresca, fino a costituirsi in
tribunale all'interno dell'anima, per giudicare i crimini passati, per
condannarli, e in seguito, con l'aiuto della grazia, per perdonarli.
L'operazione del castigo è allora compiuta; il colpevole è reintegrato nel
bene, e deve essere pubblicamente e solennemente reintegrato nella città.
Il castigo non è altro che questo. Perfino la pena
capitale, benché escluda la reintegrazione nella città nel senso letterale, non
dev'essere altro. Il castigo è unicamente un procedimento per procurare del
bene puro a chi non lo desidera; l'arte di punire è l'arte di svegliare nei
criminali il desiderio del bene puro grazie al dolore o anche alla morte.
Ma abbiamo perso completamente perfino la nozione
di castigo. Non sappiamo più che esso serve a procurare il bene. Per noi si
limita a infliggere il male. E' la ragione per cui c'è una cosa, un'unica cosa,
nella società moderna, ancora più orrenda del crimine, la giustizia repressiva.
Fare dell'idea di giustizia repressiva il movente
centrale nello sforzo della guerra e della rivolta è più pericoloso di quanto
nessuno possa immaginare. E necessario usare la paura per diminuire l'attività
criminale dei vili; ma è orribile fare della giustizia repressiva, quale oggi
la concepiamo nella nostra ignoranza, il movente degli eroi.
Oggi tutte le volte che un uomo parla di castigo,
di punizione, di retribuzione, di giustizia in senso punitivo, si tratta
soltanto della più bassa vendetta.
Di questo tesoro della sofferenza e della morte
violenta, che Cristo ha preso per sé e che offre tanto spesso a quelli che ama,
facciamo così poco caso che lo gettiamo agli esseri più vili ai nostri occhi,
ben sapendo che non ne faranno alcun uso e non avendo l'intenzione di aiutarli
a trovarne l'uso.
Ai criminali, il vero castigo; agli sventurati che
la sventura ha morso nel profondo dell'anima, un aiuto capace di portarli ad
estinguere la loro sete alle fonti sovrannaturali; a tutti gli altri un po di
benessere, molta bellezza, e la protezione contro quelli che potrebbero far
loro del male; dappertutto la limitazione rigorosa del tumulto delle menzogne,
delle propagande e delle opinioni; l'instaurazione di un silenzio in cui la
verità possa germogliare e maturare; ecco quello che è dovuto agli uomini.
Per assicurare questo agli uomini, non si può
contare che sugli esseri che sono andati oltre un certo limite. Si dirà che
sono troppo poco numerosi. Probabilmente sono rari, eppure non si possono
contare; la maggior parte sono nascosti. Il bene puro è mandato dal cielo
quaggiù in quantità impercettibile, sia in ogni anima, sia nella società.
"Il seme di senape è il più piccolo dei semi" Proserpina ha mangiato
un solo chicco di melagrano. Una perla sepolta in un campo non è visibile. Non
si nota il lievito mescolato all'impasto.
Ma come nelle reazioni chimiche i catalizzatori o i
batteri, di cui il lievito è un esempio, analogamente nelle cose umane i semi
impercettibili di bene puro operano in un modo decisivo con la loro sola
presenza, se sono messi al posto giusto.
Come metterli al posto giusto?
Sarebbe già molto se fra quelli che hanno
l'incarico di indicare al pubblico cose da lodare, da ammirare, da sperare, da
ricercare, da chiedere, per lo meno alcuni decidessero in cuor loro di
disprezzare recisamente e senza eccezione tutto ciò che non è il puro bene, la
perfezione, la verità, la giustizia, l'amore.
Sarebbe ancora di più se la maggior parte di coloro
che detengono oggi frammenti d'autorità spirituale si sentissero costretti a
non proporre mai altro alle aspirazioni degli uomini se non bene reale e
perfettamente puro.
Quando si parla del potere delle parole si tratta
sempre di un potere d'illusione e di errore. Ma sotto l'effetto di una
disposizione provvidenziale, esistono certe parole, che, se ne viene fatto un
buon uso, hanno in se stesse la virtù di illuminare e di innalzare verso il
bene. Sono le parole a cui corrisponde una perfezione assoluta e per noi
inafferrabile. La virtù d'illuminazione e di trasmissione verso l'alto risiede
in queste stesse parole, in queste parole come tali, non in un qualche
concetto. Perché farne un buon uso, significa prima di tutto non far loro
corrispondere alcun concetto. Ciò che esprimono è inconcepibile.
Dio e verità sono tra queste parole. Pure
giustizia, amore, bene. Tali parole sono pericolose da usare. Il loro uso è
un'ordalia. Perché ne venga fatto un uso legittimo, occorre da un lato non
rinchiuderle in alcuna concezione umana, e dall'altro collegarle a concetti e
azioni direttamente ed esclusivamente ispirati dalla loro luce. Se no, sono
riconosciute subito da tutti come menzogne. Sono compagne scomode. Parole come
diritto, democrazia e persona sono più comode. A questo titolo sono naturalmente
preferibili agli occhi di chi, seppure ben intenzionato, ha assunto funzioni
pubbliche. Le funzioni pubbliche non hanno altro significato che la possibilità
di fare del bene agli uomini, e coloro che le assumono con buone intenzioni,
vogliono spargere del bene sui loro contemporanei; ma generalmente commettono
l'errore di credere che da prima potranno essi stessi acquistarlo a prezzo
ridotto.
Le parole della zona intermedia, diritto,
democrazia persona, sono di uso comune nella loro zona, quella delle istituzioni
medie. L'ispirazione da cui tutte le istituzioni procedono, di cui sono come la
proiezione, reclama un altro linguaggio.
La subordinazione della persona al collettivo è
nella natura delle cose come quella del grammo al chilogrammo su una bilancia. Ma
una bilancia può essere tale che il chilogrammo ceda al grammo. Basta che uno
dei bracci sia più di mille volte più lungo dell'altro. La legge
dell'equilibrio supera ampiamente la disuguaglianza dei pesi. Ma il peso
inferiore non vincerà mai il peso superiore senza una relazione tra di loro
dove sia cristallizzata la legge dell'equilibrio.
Nello stesso modo, la persona non può essere protetta contro
il collettivo, e la democrazia assicurata, se non grazie a una
cristallizzazione nella vita pubblica del bene superiore, che è impersonale e
senza relazione con alcuna forma politica.
E' vero che la parola persona è applicata spesso a
Dio. Ma nel passo dove il Cristo propone Dio stesso agli uomini come il modello
di una perfezione che è comandato loro di compiere, non vi aggiunge soltanto
l'immagine di una persona, ma soprattutto quella di un ordine impersonale:
"Diventate i figli di vostro Padre, quello dei cieli, in quanto fa sorgere
il suo sole sui cattivi e sui buoni, e cadere la sua pioggia sui giusti e sugli
ingiusti" Questo ordine impersonale e divino dell'universo ha come
immagine fra di noi la giustizia, la verità, la bellezza. Niente di inferiore a
queste cose è degno di servire d'ispirazione agli uomini che accettano di
morire.
Sopra le istituzioni destinate a proteggere il
diritto, le persone, le libertà democratiche, bisogna inventarne altre
destinate a discernere e ad abolire tutto ciò che, nella vita contemporanea,
schiaccia le anime sotto il peso dell'ingiustizia, della menzogna e della
bruttezza.
Bisogna inventarle, perché sono sconosciute, ed è
impossibile dubitare che siano indispensabili.
NOTE.
1: Scritto a Londra fra il 1942 e il 1943, "La
persona e il sacro" apparve, postumo, la prima volta in dicembre
1950 su "La Table Ronde"
2: Elementi cosiddetti personalistici si
rintracciano nell'esistenzialismo religioso (Gabriel Marcel e Nicolas Berdjaev)
Il personalismo sociale tende a unire l'istanza personalistica con quella
comunitaria, superando i limiti dell'individualismo e del collettivismo. Suo
organo fu la rivista "Esprit" fondata nel 1932 da Emmanuel Mounier.
3: William Blake (1757-1827), poeta, pittore,
incisore inglese, denuncia la falsità della morale corrente, la natura divina
dell'energia e dell'immaginazione, contro il pensiero meccanicista che si
accompagna al sorgere del modo di produzione industriale. Negando una
concezione dell'uomo diviso fra spirito e corpo, desiderio e repressione,
realtà e fantasia, Blake esalta l'innocenza sensuale, l'attività creatrice e
totalizzante dell'immaginazione attraverso la quale può essere ricomposta, in
un tutto organico, la realtà scissa.
4. ROSA LUXEMBURG: "LETTERE DAL
CARCERE"
(novembre 1933) (1)
Datate dalle differenti prigioni dove Rosa ha
trascorso gli anni della guerra, indirizzate alla compagna di Karl Liebknecht,
anche lui imprigionato, scritte nel pieno della tormenta, nel pieno del massacro
di tutta una giovane generazione, nel bel mezzo del crollo della
socialdemocrazia e del movimento operaio, queste lettere praticamente non
parlano d'altro che di poesia, di fiori, di uccelli, di albe e di crepuscoli, e
respirano la gioia di vivere.
Non si capisce bene perché l'editore abbia messo in
epigrafe una frase senza dubbio sfuggita alla penna di Rosa: "Spero di
morire al mio posto: per la strada durante una battaglia o in un
penitenziario" Se questa formula traducesse un
sentimento profondo, non farebbe molto onore alla sua autrice. Ma la lettura
della raccolta non lascia alcuna incertezza in proposito. La vita di Rosa, la
sua opera, e in particolare queste stesse lettere manifestano un'aspirazione
alla vita e non alla morte, all'azione efficace e non al sacrificio.
In tal
senso non c'è niente di cristiano nel temperamento di Rosa. E' profondamente
pagana. Ogni riga di questa raccolta respira una concezione storica della vita,
nel senso che questa parola poteva avere per i Greci e non nel senso limitato
che ha preso oggi. A dire il vero, l'atteggiamento virile di fronte alla
sventura, di solito l'unico che si intenda col termine stoicismo, appare spesso
in queste lettere, principalmente in quelle che si riferiscono alla morte
brutale di un amico di Rosa. Ma ciò che più che altro appare, è quel sentimento
veramente stoico, così raro nei moderni, specialmente oggi, di essere a casa
propria nell'universo, qualunque evento vi si possa produrre. Da ciò derivava
l'amore di Rosa per Goethe. Avrebbe certo firmato i famosi versi: "Occhi
miei felici, tutto ciò che avete visto, qualsiasi cosa possa essere, era
comunque così bello!" Per lei la tristezza era solo una debolezza che
bisognava subire in silenzio e far scomparire al più presto. Le lamentele le
erano odiose. "Chiunque mi scrive", scriveva nello stesso periodo a
Luisa Kautsky, "si lamenta e sospira allo stesso modo. Non conosco niente
di più risibile. Non capisci che il disastro generale è di gran lunga troppo
grande perché ci si lamenti sopra? Posso essere rattristata quando Mimì è
malata o perché le cose non vanno bene a casa tua; ma quando il mondo intero
esce dai gangheri, cerco solo di capire che cosa accade e il perché di quel che
accade, e dal momento che ho fatto il mio dovere, ritrovo la mia calma e il mio
buon umore... Questo annientarsi completamente nella miseria attuale mi è
generalmente incomprensibile e insopportabile." E a Sonia Liebknecht:
"Sono sdraiata qui tutta sola, avvolta nelle pieghe oscure della notte,
della noia della prigionia, e tuttavia il mio cuore batte di una
incomprensibile gioia interiore, di una gioia nuova per me, come se camminassi
su un prato fiorito con un sole splendente. E sorrido alla vita nell'ombra
della mia cella... Vorrei tanto comunicare questa chiave incantata, affinché
lei possa sentire in ogni situazione quel che c'è di bello di gioioso nella
vita" E altrove: "Lei mi chiede nel suo biglietto: Perché tutto è
così?
Lei è ancora una fanciulla, è la vita che è 'così' Bisogna
saperla prendere nel suo insieme, senza togliervi niente, e trovare un senso e
una bellezza in tutto ciò che offre. Almeno è quello che io faccio Non vorrei
cancellare nulla della mia vita, e non desidererei che nulla di ciò che vi è
stato fosse cambiato" Non si trovano simili accenti che in Marco-Aurelio:
"Tutto è frutto per me di ciò che mi portano le tue stagioni, o
natura!"
Queste brevi citazioni bastano per mostrare quale
interesse umano presenti questa raccolta di lettere. Contrariamente a tanti
capi del movimento operaio, soprattutto i bolscevichi e Lenin in particolare,
Rosa non ha ristretto la sua vita entro i limiti dell'attività politica. Fu un
essere completo, aperto a ogni cosa, e a cui niente di umano era estraneo. La
sua azione politica era soltanto una delle espressioni della sua natura
generosa. Da questa differenza tra lei e i bolscevichi circa l'atteggiamento
interiore del militante nei confronti dell'azione rivoluzionaria, derivano
anche i grandi disaccordi politici che sorsero tra di loro, e che il tempo
indubbiamente non avrebbe fatto che accentuare se Rosa fosse vissuta.
E' grazie al carattere profondamente umano di Rosa
che il suo carteggio conserverà sempre un interesse attuale, qualunque cosa
rechi il corso della storia. Oggi siamo in una situazione molto peggiore, dal
punto di vista morale, rispetto ai militanti degli anni di guerra. Rosa credeva
fermamente, nonostante il fallimento della socialdemocrazia, che la guerra
avrebbe finito col mettere in moto il proletariato tedesco e portato a una
rivoluzione socialista. Tale speranza non è stata confermata. L'embrione di
rivoluzione proletaria prodottosi nel 1918 e rapidamente soffocato nel sangue,
ha trascinato nella sua rovina la vita di Rosa Luxemburg e quella di
Liebknecht. Da allora, tutte le speranze che avevano potuto formare i militanti
sono state deluse l'una dopo l'altra. Ora non possiamo più, come Rosa, fidarci
ciecamente della spontaneità della classe operaia, e le organizzazioni sono
crollate. Ma Rosa non attingeva la sua gioia e il suo amore religioso della
vita e del mondo alle sue fallaci speranze, li attingeva alla sua forza d'animo
e di spirito. Perciò ognuno può tuttora seguire il suo esempio.
Simone Weil.
NOTE.
NOTA 1: recensione pubblicata in "La Critique
Sociale", numero 10, novembre 1933. Quindi, uno dei pochi testi della Weil
pubblicati mentre era ancora in vita. "La Critique Sociale" raccolse
giovani intellettuali tra i quali Georges Bataille, Raymond Queneau, Michel
Leiris, eccetera e teorici e studiosi di questioni sociali. Venne fondata da
Boris Souvarine (1895-1984), militante comunista e pubblicista, membro del
Comitato per la Terza Internazionale (1919), dell'esecutivo dell'Internazionale
Comunista (1921-1924), e della direzione del Partito Comunista Francese dal
quale viene escluso nel 1924; amico di Simone Weil, disse di lei che era
"l'unico cervello che il movimento operaio avesse avuto da anni"
5. LETTERA DI SIMONE WEIL A JEAN GIRAUDOUX
(maggio-giugno 1937) (1)
Caro "archicube" (2)
Non posso trattenermi di parlarle con questo tono
familiare che si usa, quando ci si lascia andare alle proprie inclinazioni,
verso gli uomini che si sono frequentati molto intimamente sulla superficie
della carta stampata. Ero all'estero quando è uscita "Electre" (3), e
benché quel paese fosse l'Italia, perfino in mezzo agli ulivi l'idea che ero
attesa a Parigi da questa combinazione di Sofocle, di lei e di Jouvet (4) mi
faceva a momenti pensare al ritorno. Eppure, devo dire, questa "Electre"
non ha soddisfatto la mia attesa. Come fanno le cose che brillano di mille
bellezze, ma non perfette, mi ha fatto sognare altre Elettre possibili.
Per esempio una vicina alla sua stessa idea centrale.
Il delitto non è stato ignorato. Perché corrompa tutta la città, bisogna che
sia stato reso noto. E' stato reso noto. Ma la versione della caduta vi si è
sostituita progressivamente, abbellita da particolari circa la dedizione
d'Egisto che si sarebbe ferito sul marmo precipitandosi per trattenere
Agamennone. Egisto, una volta giovane dissoluto, è diventato re sposando
Clitemnestra, e ottimo re. Ha
acquisito ogni sorta di virtù. Contrariamente a quel fanatico di Agamennone,
ama la pace e non nasconde la sua repulsione per le follie del genere
spedizione di Troia. Ha seriamente ed efficacemente lavorato per rimediare un
po all'orribile confusione economica che ha seguito la guerra di Troia. In
quanto a Elettra, non ha mai accettato la versione della caduta. Ha i propri
ricordi e ha delle prove. Si va ripetendo un po dovunque che soffre di disturbi
mentali. Il medico della corte fa tutti i certificati che si vuole per
attestarlo. I bambini la prendono in giro, nessuno si presenta per sposarla,
del resto viene mantenuta in un isolamento abbastanza grande col pretesto della
salute, e, per darle un'aria un po stravolta, viene vestita e nutrita male,
viene fatta lavorare sodo.
Nel momento in cui inizia il dramma, c'è angoscia
nell'atmosfera. Difficoltà interne, minacce di disordini. Naturalmente, la
propaganda sovversiva prima cerca di rimettere in circolazione la vecchia
storia del delitto. Elettra è stata sorpresa mentre stava per arringare una
turba di pezzenti eccitati. D'altra parte, in Grecia vi è un'allarmante
tensione diplomatica. Si sa in particolare grazie a informazioni sicure che sin
dai primi disordini interni, i Corinzi dovrebbero invadere Argo. Diventa
urgente far tacere Elettra. Il medico della corte la esamina per farla
rinchiudere in un manicomio. In quel mentre arriva Oreste. Lui non dubita un
attimo di Elettra. E' il primo fra tutti quelli che l'hanno avvicinata, a non
dubitare di lei. Lo mette al corrente del delitto. Nel momento in cui Egisto
sta per far arrestare Oreste, egli ha già sfruttato lo stupore che paralizzava
tutti per fuggire verso ì quartieri già in parte in rivolta. Un messaggero reca
le notizie più allarmanti sulla situazione esterna. Una sola speranza: che la
stessa Elettra si smentisca, per permettere ad Egisto di avere tutta la città
dietro di sé nei suoi ultimi tentativi per mantenere la pace. Egisto supplica
Elettra come re, Clitemnestra come madre. Lei è inflessibile. Oreste arriva col
suo esercito di sediziosi.
Consumato il duplice delitto (fuori
scena), lui torna sconvolto, incapace di proferire parola. Nello stesso
momento, qualcuno annuncia che si sono visti, dall'alto della torre, i primi
cavalieri corinzi. Oreste non sente neanche quel che gli dicono, e lascia la
scena sempre in preda allo stesso smarrimento. Gli altri, un attimo prima
insolenti per aver fatto perire i padroni, scoppiano a gemere e vanno a
piangere nei templi. Intorno a Elettra rimasta sola, le tre piccole Eumenidi
vengono a ballare un girotondo descrivendole le belle cose che stanno per
accadere: le spose fedeli violentate sotto gli occhi dei figli, le spose
infedeli che consegnano di persona i mariti alla spada dei vincitori, gli
adolescenti strozzati, le vergini seviziate da dieci mercenari in una sera.
Elettra fugge per non sentire più. Il sipario cade sulle piccole Eumenidi (non
le farei crescere) le quali, rimaste sole sulla scena, cantano la virtù senza
di cui avrebbero su questa terra così poche catastrofi orribili da assaporare.
Il punto culminante del dramma sarebbe, come in Sofocle, il riconoscimento, ma
siccome avverrebbe pubblicamente, Elettra e gli spettatori avrebbero capito che
il giovane straniero è Oreste dieci minuti prima di tutti gli altri, dieci
minuti dedicati a teiere effusioni.
Queste fantasticherie non hanno nessun valore, ma
dimostrano che c'è qualcosa che non va nell'opera; non si fantastica così intorno
a un lavoro compiuto, com'era "La Guerre de Troie". Senz'altro ciò è dovuto soprattutto al fatto
che il primo atto è un atto da tragedia e il secondo no. L'essenza della
tragedia è l'attesa della catastrofe; c'è certamente quest'attesa nel primo
atto, ma nel secondo, essendo già il nemico, sin dall'inizio, intento a
devastare i sobborghi, l'imminenza della catastrofe distrugge da sé il
sentimento dell'attesa, e la vista del capo che si dedica per tutto l'atto a
conversazioni raffinate mentre il suo popolo viene massacrato impedisce che si
prendano sul serio gli orrori dell'invasione. Nella tragedia, la marcia
progressiva della catastrofe ventura deve imprimersi nei discorsi dei
personaggi come le forme in una medaglia a sbalzo; è proprio questo che è impossibile
se in mezzo all'opera la catastrofe è già presente, o immediatamente vicina. E
man mano che questa marcia continua, le raffinatezze letterarie devono lasciare
a poco a poco il posto alla semplicità, per ridursi, se torneranno, a
catastrofe in atto. E' quello che accade in Sofocle (dove del resto non c'è
catastrofe, ma liberazione); è nelle prime strofe di Elettra che si trovano
tutte le complicazioni della poesia lirica. Nella sua opera invece, il secondo
atto è più letterario del primo.
Ciò non di meno l'opera scintilla di bellezze. Per
esempio le ragioni dell'odio di Clitemnestra verso Agamennone, la trovata delle
piccole Eumenidi, la formula del presidente: "Quando il sonno del
colpevole continua, dopo la prescrizione legale, ad essere più agitato del
sonno degli innocenti, una società è fortemente compromessa" Solo nei
libri firmati Giraudoux si trovano queste cose.
Scusi queste riflessioni vagabonde, che tutt'al più
possono avere l'interesse di divertirla qualche minuto.
Con la più viva ammirazione.
Simone Weil.
NOTE.
1: scritta presumibilmente nel maggio o nel giugno
1937, è pubblicata in "Le Figaro litteraire" del 5 dicembre
1959; pare che Simone Weil avrebbe
poi rinunciato a spedirla.
2: in gergo studentesco indica un ex-alunno
dell'Ecole Normale Superieure.
3: opera teatrale in due atti, rappresentata per la
prima volta nel maggio 1937.
4: "La guerre de Troie n'aura pas lieu",
opera teatrale in due atti, rappresentata per la prima volta a Parigi il 21
novembre 1935.
6. LETTERA A PAUL VALERY
Signore,
Nel settembre scorso, le ho mandato una poesia
intitolata "Promethée", a proposito della quale lei mi ha scritto una
lettera; tuttavia non ho osato ringraziarla per paura di importunarla.
Dopo, ho scritto ancora alcuni versi, fra i quali
le mando la breve poesia qui allegata; non più per avere il suo giudizio
-poiché una tale richiesta, di nuovo ripetuta, diventerebbe molto indiscreta -
ma perché immagino, forse a torto, che corrisponde in qualche modo a certe idee
sulla poesia, da lei espresse in un suo libro a proposito della pittura, che mi
hanno molto colpita.
In questi ultimi tempi, sono andata al College de
France (1) il venerdì e il sabato, e benché, per ragioni di salute, abbia
potuto farlo solo molto saltuariamente, il che m'impedisce fino a un certo
punto di afferrare la continuità del pensiero, ho trovato in queste conferenze
alcune idee molto preziose.
Creda alla mia sincera ammirazione.
Simone Weil.
P. S. Benché questa volta io non aspetti alcuna
risposta, non posso trattenermi dal dirle, per ogni evenienza, che se fosse
possibile, mi piacerebbe moltissimo rivolgerle la seguente domanda. Da qualche parte
ha scritto di possedere un piccolo opuscolo tecnico che è per lei il modello
della precisione e del rigore stilistico, un campione a cui rapportare tutti
gli scritti in prosa per apprezzarne il valore. Ho sempre pensato che la
tecnica è un campo privilegiato dove dovrebbero poter apparire tutte le virtù
del linguaggio, anche se generalmente non è così. Perciò darei molto per sapere
quale sia quell'opuscolo, per potermelo procurare se non è introvabile.
NOTE.
1: Paul Valery è titolare della cattedra di Poetica
al "College de France" a partire dal 1937.
7. LETTERA A GEORGES BERNANOS
(1938) (1)
Signore,
Per quanto sia ridicolo scrivere a uno scrittore,
che è sempre, per la natura del suo mestiere, sommerso di lettere, non posso
astenermi dal farlo dopo aver letto "Les Grands cimetieres sous la
lune" (2) Non è certo la prima volta che un Suo libro mi tocca; il
"Journal d'un curé de campagne"(3) è ai miei occhi il più bello,
almeno fra quelli che ho letto, e davvero un gran libro. Ma se ho potuto amare
altri suoi libri, non avevo nessun motivo di importunarla scrivendoglielo. Per
l'ultimo, è un'altra cosa; ho avuto un'esperienza che corrisponde alla sua,
benché più breve, meno profonda, situata altrove e vissuta, in apparenza -solo
in apparenza - con tutt'altro spirito.
Non sono cattolica, malgrado - quello che sto per
dire sembrerà senz'altro presuntuoso a ogni cattolico, da parte di un
noncattolico, ma non mi posso esprimere diversamente - nonostante mai nulla di
cattolico, nulla di cristiano mi sia sembrato estraneo. Talvolta mi sono detta
che se solo si affiggesse alle porte delle chiese che l'ingresso è vietato a
chiunque gode di un reddito superiore a tale o talaltra somma, poco elevata, mi
sarei convertita immediatamente. Sin dall'infanzia, le mie simpatie si sono
rivolte verso quei raggruppamenti che si richiamavano agli strati disprezzati
della gerarchia sociale, fino a che ho preso coscienza che questi
raggruppamenti sono di natura tale da scoraggiare ogni simpatia. L'ultimo ad
avermi ispirato una qualche fiducia, era la C. N. T. (4) spagnola. Avevo
viaggiato un po in Spagna-abbastanza poco - prima della guerra civile, ma a
sufficienza per sentire l'amore che è difficile non provare verso quel popolo;
avevo visto nel movimento anarchico l'espressione naturale delle sue grandezze
e delle sue tare, delle sue aspirazioni più o meno legittime. La C. N. T., la
F. A. I. (5) erano un'accozzaglia sorprendente, dove si ammetteva chiunque, e
dove, di conseguenza, erano gomito a gomito l'immoralità, il cinismo, il
fanatismo, la crudeltà, ma anche l'amore, lo spirito di fratellanza, e
soprattutto la rivendicazione dell'onore così bella negli uomini umiliati; mi
sembrava che quelli che venivano animati da un ideale prevalessero su quelli
spinti dal gusto della violenza e del disordine. Nel luglio 1936, ero a Parigi.
Non amo la guerra; ma ciò che mi ha sempre fatto più orrore nella guerra, è la
situazione di quelli che si trovano nelle retrovie. Quando ho capito che,
malgrado i miei sforzi, non potevo fare a meno di partecipare moralmente a
questa guerra, cioè di augurarmi ogni giorno, in ogni momento, la vittoria degli
uni, la sconfitta degli altri, mi sono detta che Parigi per me era le retrovie,
e ho preso il treno per Barcellona con l'intenzione di arruolarmi. Era l'inizio
dell'agosto 1936.
Un incidente mi ha costretta ad abbreviare il mio
soggiorno in Spagna. Sono stata qualche giorno a Barcellona; poi in piena
campagna aragonese, lungo l'Ebro, a una quindicina di chilometri da Saragozza,
nello stesso posto dove recentemente le truppe di Yague hanno passato l'Ebro;
poi nel più lussuoso albergo di Sitges trasformato in ospedale; poi di nuovo a
Barcellona; complessivamente pressappoco due mesi. Ho lasciato la Spagna mio
malgrado e con l'intenzione di tornarvi; in seguito, volontariamente, non ne ho
fatto di niente. Non sentivo più alcuna necessità interiore di partecipare a
una guerra che non era più, come mi era sembrato fosse all'inizio, una guerra
di contadini affamati contro i proprietari terrieri e un clero complice dei
proprietari, ma una guerra tra la Russia, la Germania e l'Italia. Ho
riconosciuto quell'odore di guerra civile, di sangue e di terrore che emana dal
suo libro; lo avevo respirato. Devo dire che non ho visto né sentito nulla che
eguagliasse l'ignominia di certe storie che Lei racconta, quegli assassini di
vecchi contadini, quei balilla che fanno correre degli anziani a manganellate.
Eppure quello che ho sentito era sufficiente. C'è
mancato poco che assistessi all'esecuzione di un prete; durante i minuti
dell'attesa, mi chiedevo se avrei guardato semplicemente, o se mi sarei fatta
fucilare io stessa, cercando d'intervenire; non so ancora ciò che avrei fatto,
se un caso felice non avesse impedito l'esecuzione.
Quante storie si affollano sotto la mia penna Ma
sarebbe troppo lungo; e a che pro? Una sola basterà. Ero a Sitges quando sono
tornati, sconfitti, i miliziani della spedizione di Maiorca. Erano stati
decimati. Su quaranta ragazzi partiti da Sitges, nove erano morti. Lo si seppe
soltanto al ritorno degli altri trentuno. La notte successiva, si fecero nove
spedizioni punitive, si uccisero nove fascisti o sedicenti tali, in questa
cittadina dove, in luglio, non era accaduto nulla. Fra questi nove, un fornaio
di una trentina d'anni, la cui colpa, mi dissero, era di essere stato membro
della milizia dei "somaten" (6); il vecchio padre, di cui era l'unico
figlio e l'unico sostegno, impazzì. Ancora un'altra: in Aragona, un piccolo
gruppo internazionale di ventidue miliziani di tutti i paesi, prese, dopo un
breve scontro, un giovane ragazzo quindicenne, che combatteva fra i falangisti.
Appena preso, tutto tremante per aver visto uccidere i suoi compagni al proprio
fianco, disse che era stato arruolato a viva forza. Lo frugarono, gli trovarono
addosso una medaglia della
Vergine e una tessera di falangista;
lo spedirono da
Durruti (7), capo della colonna, il
quale, dopo avergli esposto per un'ora le bellezze dell'ideale anarchico, gli
fece scegliere tra morire e arruolarsi immediatamente fra i ranghi di quelli
che l'avevano fatto prigioniero, contro i suoi compagni di ieri. Durruti diede
al ragazzo ventiquattr'ore per riflettere; al termine delle ventiquattr'ore, il
ragazzo disse di no e venne fucilato. Eppure Durruti era sotto certi aspetti un
uomo ammirevole. La morte di questo piccolo eroe non ha mai cessato di pesarmi
sulla coscienza, benché l'abbia saputo soltanto dopo. Ancora questo: in un
paese che rossi e bianchi avevano preso, perso, ripreso, riperso non so quante
volte, i miliziani rossi, che lo avevano ripreso definitivamente, trovarono
nelle cantine un pugno di esseri stravolti, terrificati e affamati, fra i quali
tre o quattro giovani. Ragionarono così: se questi giovani invece di venire con
noi l'ultima volta che ci siamo ritirati, sono rimasti ad aspettare i fascisti;
vuol dire che sono fascisti. Quindi li fucilarono immediatamente, poi diedero
da mangiare agli altri, e credettero di essere stati molto umani. Un'altra
storia, quella delle retrovie: due anarchici mi raccontarono una volta come,
con dei compagni, avessero preso due preti; uccisero l'uno sul posto, in
presenza dell'altro, con una rivoltellata, poi dissero all'altro che se ne
poteva andare. Quando fu a venti passi, lo abbatterono. Quello che mi
raccontava la storia era molto sorpreso di non vedermi ridere.
A Barcellona, si uccideva in media, sotto forma di
spedizioni punitive, una cinquantina di uomini per notte. Proporzionalmente era
molto meno che a Maiorca, poiché Barcellona è una città di quasi un milione di
abitanti del resto per tre giorni nelle strade si era svolta una battaglia
particolarmente cruenta. Ma forse le cifre non sono l'essenziale in materia.
L'essenziale è l'atteggiamento di fronte all'assassinio. Non ho mai visto, né
fra gli Spagnoli, né perfino fra i Francesi venuti sia per combattere che per
viaggiare - questi ultimi il più delle volte intellettuali scialbi e
inoffensivi - non ho mai visto nessuno esprimere neanche privatamente
repulsione, disgusto o soltanto disapprovazione per il sangue inutilmente
versato. Lei parla della paura. Sì, la paura ha avuto una qualche parte in
questi massacri; ma là dove mi trovavo, non ho potuto vedere la parte che lei
le attribuisce. Uomini apparentemente coraggiosi - ce n'è almeno uno di cui ho
personalmente constatato il coraggio - durante un pranzo pieno di cameratismo,
raccontavano con un buon sorriso fraterno quanti preti o "fascisti" -
termine molto ampio avessero ucciso. Per quanto mi riguarda, ho avuto la
sensazione che quando le autorità temporali e spirituali hanno messo una
categoria di esseri umani fuori da quelli la cui vita ha un prezzo, non c'è
niente di più naturale per l'uomo che uccidere. Quando si sa che è possibile
uccidere senza rischio di castigo o di biasimo, si uccide; o almeno si
circondano di sorrisi incoraggianti quelli che uccidono. Se per caso si prova
un po di disgusto, lo si fa tacere, e presto lo si soffoca per paura di
sembrare privi di virilità. Si tratta qui di un allenamento, di un'ebbrezza cui
è impossibile resistere senza una forza d'animo che devo credere eccezionale,
poiché non l'ho incontrata da nessuna parte. Ho incontrato invece dei Francesi
pacati, che fino ad allora non disprezzavo, che non avrebbero avuto l'idea di
andare di persona a uccidere, ma che stavano immersi in quell'atmosfera intrisa
di sangue con un visibile piacere. Per questi d'ora in avanti non potrò mai
avere nessuna stima.
Un clima simile cancella subito il fine stesso
della lotta. Poiché non si può formulare il fine se non riconducendolo al bene
pubblico, al bene degli uomini - e gli uomini non hanno alcun valore. In un
paese dove i poveri sono, nella stragrande maggioranza, contadini, il
miglioramento della condizione dei contadini deve essere uno scopo essenziale
per ogni raggruppamento di estrema sinistra; e forse questa guerra fu in primo
luogo, agli inizi, una guerra per o contro la divisione delle terre. Ebbene,
questi miserabili e fieri contadini d'Aragona, rimasti così fieri sotto le
umiliazioni, non erano neanche per i miliziani un oggetto di curiosità. Senza
insolenze, senza ingiurie, senza brutalità -almeno non ho visto niente di
simile, e so che furto e stupro, nelle colonne anarchiche, erano passibili
della pena di morte - un abisso separava gli uomini armati dalla popolazione
disarmata, un abisso del tutto analogo a quello che separava i poveri dai
ricchi. Lo si avvertiva dall'atteggiamento sempre un po dimesso, sottomesso
timoroso degli uni, dalla spigliatezza, dalla disinvoltura dalla condiscendenza
degli altri.
Si parte come volontari, con idee di sacrificio, e
si capita in una guerra che assomiglia a una guerra di mercenari, con molte
crudeltà in più e con in meno il senso dei riguardi dovuti al nemico.
Potrei prolungare indefinitamente tali riflessioni,
ma bisogna limitarsi. Da quando sono stata in Spagna, da quando sento e leggo
ogni sorta di considerazioni sulla Spagna, non posso citare nessuno, eccetto
Lei, che, per quanto io sappia, sia stato immerso nell'atmosfera della guerra
spagnola, e vi abbia resistito. Lei è monarchico discepolo di Drumont (8) - che
me ne importa? Mi è più vicino, senza paragone, dei miei compagni delle milizie
d'Aragona - quei compagni che, tuttavia, amavo.
Quel che lei dice del nazionalismo, della guerra,
della politica estera francese dopo la guerra mi ha ugualmente commossa. Avevo
dieci anni al tempo del trattato di Versailles. Fino ad allora ero stata
patriota con tutta l'esaltazione dei bambini in periodo di guerra. La volontà
di umiliare il nemico vinto, che invase tutto in quel momento (e negli anni
successivi) in maniera così repellente, mi guarì una volta per tutte da questo
patriottismo ingenuo. Le umiliazioni inflitte dal mio paese mi sono più
dolorose di quelle che può subire.
Temo di averla importunato con una lettera così
lunga. Non mi resta che esprimerle la mia viva ammirazione.
Simone Weil.
P. S. - Ho messo il mio indirizzo macchinalmente.
Giacché, in primo luogo, penso che lei avrà di meglio da fare che rispondere
alle lettere. E poi vado a passare un mese o due in Italia, dove forse una sua
lettera non mi giungerebbe senza essere fermata per strada.
NOTE.
1: scritta presumibilmente nel 1938, pubblicata in
"Nuovi Argomenti", 2 (maggio-giugno 1953)
2: libello politico scritto nel 1938 da Bernanos
(18881948)
Al centro del libro si trova la tragedia spagnola,
simbolo di uno scandalo permanente. Bernanos instaura un processo
"spirituale" in cui attacca tutti, dal generale Franco a Paul
Claudel, dai vecchi amici della scuola maurrassiana alla Corte pontificia, eccetera:
denuncia una nuova rottura tra la chiesa e i poveri, e chi si serve della
religione per giustificare i propri odi sociali.
3: romanzo pubblicato nel 1936. Attraverso la
confessione, in forma di diario, di un giovane prete, Bernanos vuole dimostrare
che la povertà è un atteggiamento fondamentale della vita cristiana.
4: Confederacion nacional del Trabajo, sindacato
anarchico.
5: Federacion anarquista iberica.
6: milizia catalana; raggruppava borghesi e
contadini, adunati in caso di necessità dal suono di una campana.
7: delegato dei sindacati anarchici catalani,
Buenaventura Durruti (1896-1936) dirigeva la più importante formazione di
milizie della C. N. T., che si trovava sulla riva sinistra dell'Ebro.
8: giornalista, Edouard Drumont (1844-1917) pubblica
nel 1886 "La France juive", libello antisemita che ebbe larghissima
diffusione. Nel 1892, fonda la "La Libre Parole", organo nazionalista
e antisemita che avrà vasta influenza durante l'affare Dreyfus.
8. LETTERA A DAVID GARNETT
(1938)
Posso confessarle che la pubblicazione delle lettere di
Lawrence è il vero motivo che mi spinge a scriverle con indicibile gratitudine?
Conoscevo poco più del suo nome prima di leggere i "Seven Pilars"
(1), e ho subito riconosciuto che questi era l'unico uomo famoso della storia,
non direi del nostro tempo, ma per quanto io sappia di tutti i tempi, che posso
con tutto il cuore amare ed ammirare; e mi riesce difficile sopportare la
notizia della sua morte. Poiché tutti i miei canoni sono contrari alle regole
usuali dell'agire fra gli uomini, e tuttavia il non agire sembra una prova di
debolezza piuttosto che di forza, sono sempre dilaniata a proposito delle cose
passate e lontane quanto per quelle presenti ed attuali, tra l'ammirazione e
l'orrore; poiché crudeltà e pusillanimità mi appaiono ugualmente orribili, e
siccome tutte le relazioni umane sono più o meno basate su una qualche forma di
schiavitù, è impossibile non essere o crudeli o vigliacchi, oppure tutti e due
insieme, a meno di evadere più o meno coscientemente dalla vita concreta, il
che sembra una soluzione facile e meschina. Eppure ecco un uomo che ha gli
stessi valori, e che agisce in una maniera particolarmente eroica e gloriosa.
Naturalmente non ha agito in conformità con i propri valori, in quanto era impossibile;
ma quasi sempre, anche quando era
pressoché ebbro di sconfitta o
vittoria, ha cercato di non tradire i propri valori, li ha riconosciuti con
piena consapevolezza, con una lucidità dell'intelletto più eroica delle sue
azioni più eroiche. Essere un eroe, un conquistatore, un grande capo è, penso,
relativamente facile, se uno dimentica i diritti di quella comune umanità che
in se stessi e negli altri serve da materiale per l'azione gloriosa; ricordare
costantemente questi diritti, e tuttavia doverli calpestare è praticamente
impossibile. Tale è, secondo me, l'unica grandezza di quest'uomo; pagò per
questa grandezza terribili sofferenze, e ovviamente era incompreso. Non
pretendo di capirlo; come sarebbe possibile? Se non che nulla di quello che
fece, disse o scrisse (salvo numerosi suoi giudizi letterari) mi appare
estraneo, tutto sembra a tal punto chiaro e trasparente che non riesco a
concepire che sia un uomo reso lontano dalla grandezza, dalla gloria e dalla
morte, e non il mio amico più intimo. Questa è la ragione per cui io le ho
scritto in modo così inconsueto; dato che lei era suo amico, non riesco a
concepire che anche lei non sia mio amico, benché forse sia stupido essere
trascinati così dai propri sentimenti.
Secondo me, ciò che risulta più chiaro e naturale è
proprio ciò che sembrava e sembra più strano ai suoi amici e ammiratori, cioè
gli anni di sofferenza e di degradazione volontarie. Sembra veramente ancora
più umano e nello stesso tempo più grande nella sua miseria che nella sua
gloria: nonostante le sue lettere dalla Royal Tank Corps urtino in maniera
insopportabile. Penso che gran parte della sua anormalità possa essere messa
sul conto del trattamento che ricevette a Deraa (2) Nessuno avrebbe potuto
conservare veramente o ritrovare in seguito il proprio equilibrio. Ma nella
maggior parte degli uomini, una tale sorta di maltrattamenti degradanti e
avvilenti porta a una sete di potere e di gloria, e a una tendenza alla
crudeltà che viene mascherata col nome di dovere; così ognuno li crede normali,
poiché tutti ritengono che la crudeltà e l'amore del potere siano del tutto
normali. Ma c'è anche un'altra causa più profonda. Lawrence era uno di quei
pochissimi uomini - quanti saranno stati di fatto nell'intera storia
dell'umanità - per i quali l'uguaglianza in tutte le relazioni umane è
necessaria quanto l'aria pura che si respira. Molti cercano questa uguaglianza
in sogni sul passato, il futuro o qualche altro mondo dopo la morte; ma fra
questi sognatori sono pochissimi quelli che realmente ardono e si consumano per
questo loro sogno. Lawrence era sufficientemente avveduto per sapere che fra
gli uomini in generale, non l'eguaglianza, ma il potere e una subordinazione
schiacciante erano stati, sono, e saranno la legge; perciò vivere gli era impossibile;
tuttavia giudicava vile cercare un rifugio fuori della vita, sia attraverso i
sogni o le teorie, sia attraverso l'auto-illusione, l'oblio o la morte
volontaria. Avendo utilizzato uomini, siano essi nemici, servi, alleati, come
materiali da spremere ai propri fini, benché i fini non fossero personali, non
ha potuto perdonarsi. Il fatto che avesse acquistato gloria in questa maniera,
e che avesse provato un piacere involontario nella gloria, era per lui un
veleno. Punì se stesso degradandosi praticamente a quell'estremo livello degli
schiavi-soldati turchi che aveva ucciso a migliaia; e non avendo potuto
sopportare l'ineguaglianza né instaurare o trovare l'eguaglianza, gli rimase
solo da scendere a un livello tale che nessuno potesse essere inferiore a lui.
Per natura e per volontà, possedeva un'attitudine rarissima, quella di sentirsi
di casa in mezzo a tutti gli uomini. Penso di poterlo capire meglio in quanto -
anche se naturalmente nessun confronto è possibile - io, nella mia oscurità, ho
provato tale impulso e gli ho ubbidito, benché una debolezza sia fisica che
mentale mi abbia impedito di resistere a lungo. Per un anno, sono diventata
schiava in diverse fabbriche; e in quel periodo (1934-1935), la sorte delle
operaie nelle fabbriche di Parigi era quanto mai vicina alla schiavitù,
soprattutto per quelle che, come me, erano impedite dal disgusto e dalla
debolezza fisica, di godersi le ore libere. Quindi le lettere che Lawrence
scrisse nei suoi giorni di schiavitù mi hanno colpito come non possono colpire
coloro che hanno sempre conosciuto la libertà e la rispettabilità sociale, ma
per nessun verso mi sono apparse strane. Desidererei ardentemente che mi
venisse concesso un po di tempo prima del 1950 di leggere "The Mint"
(3); ma benché le confessi questo mio desiderio, non lo consideri come una
richiesta; poiché naturalmente so benissimo che niente mi dà il diritto di fare
una tale richiesta, poiché la semplice ammirazione non può giustificare alcuna
pretesa.
Spero che voglia scusarmi per averle scritto in
modo così insolito, che è la cosa meno difendibile poiché non so niente di lei,
se non riferendomi a Lawrence, e non ho letto nessuno dei suoi libri; benché
ora li voglia leggere, perché è impossibile leggere questo volume di lettere
senza collegarlo al curatore. Non posso fare a meno di ringraziarla per la sua
bontà verso Lawrence durante la vita e dopo la morte, poiché la mia ammirazione
per lui mi sembra stranamente vicina a un legame di tipo personale: e con
questi ringraziamenti, concludo questa lettera troppo lunga.
Sua sinceramente,
Simone Weil.
NOTE.
1: "I Sette Pilastri della Saggezza",
opera di Thomas Edward Lawrence (1888-1935), detto "Lawrence
d'Arabia", ebbe una prima edizione nel 1926 e fu ristampata nel 1935. Archeologo
in Medio-Oriente nel 1914, poi agente dell'"Intelligence Service",
incaricato di guadagnare agli Inglesi gli Arabi, egli sogna la resurrezione del
mondo arabo, denuncia la disciplina militare, cessa di credere all'Occidente e
alle sue convenzioni, malgrado il suo ruolo. Perciò, dopo la pubblicazione del
libro, teme di aver tradito la causa araba e cerca di distaccarsi dal proprio
passato, di fare scomparire il suo nome, di forgiarsi una nuova personalità.
Rinuncia per esempio ai diritti d'autore per non essere accusato di sfruttare a
fini di lucro le proprie gesta militari. Sul piano letterario, ha dichiarato di
aver avuto l'ambizione di dare un equivalente inglese dei "Fratelli
Karamazov", di "Così parlò Zarathustra", di "Moby
Dick"
2: Deraa, cittadina siriana presso il confine
giordano. Nell'agosto 1917, Lawrence progettò un'incursione contro il viadotto
di Yarmuk, che avrebbe isolato i turchi sul fronte palestinese. Nel timore di
essere stato tradito, compì una ricognizione nelle linee nemiche, vestito da
mendicante arabo. Catturato a Deraa, e riconosciuto dal Bey, viene
selvaggiamente percosso e violentato prima di poter fuggire. L'episodio è
narrato ne "I sette pilastri della saggezza": "(Il governatore)
si tolse la babbuccia e mi picchiò ripetutamente sulla faccia () Si piegò in
avanti, mi affondò i denti nel collo fino a farne uscire il sangue, poi mi
baciò. Infine, afferrò una delle baionette dei suoi uomini. Pensai che stesse
per uccidermi, e ne fui dispiaciuto: ma si limitò a pizzicarmi un po la pelle
sulle costole, a infilarmi dopo molta fatica la punta, e dar mezzo giro di
lama. Era un gioco doloroso (...) (Il caporale) mi fece sibilare la frusta
all'orecchio proclamando con sprezzo che prima della decima sferzata avrei
chiesto il perdono e alla ventesima implorato le carezze del Bey; poi cominciò
a fustigarmi selvaggiamente, con tutta la sua forza, mentre io stringevo i
denti per sopportare quella cosa che mi si avvolgeva intorno al corpo come un
filo di ferro infuocato (...)"
3: oltre alle "Lettere", Lawrence lascia
una traduzione dell'"Odissea" e due libri: "Crusaders
Castles" e "The Mint" Quest'ultimo, il cui manoscritto affidato
a Garnett non avrebbe potuto essere pubblicato prima del 1950, racconta sotto
forma di diario la sua esperienza nella R. A. F., dove si era arruolato nel
1922 sotto falso nome.