IL CAVALLO
Brano di Giorgio Manganelli tratto da “La palude definitiva” (Ed. Adelphi, 2002)
Il cavallo: da che siamo giunti a questa casa, il cavallo si è appartato; non saprei come altrimenti descrivere il suo contegno; esco dalla casa, e lo scorgo, lontano forse un centinaio di metri, immobile, il volto, così debbo chiamarlo, verso la casa, ma del tutto indifferente. Non è lontano, ma lo spazio che mi divide da lui è palude irrimediabile, e chiaramente mi vien detto non so da chi, che non debbo raggiungere quel cavallo. Posso solo guardarlo, e chiedermi che mai sia. Ora so per certo che non ha nulla a che fare con i cavalli terrestri, e in qualche modo lo so coinvolto nella qualità della palude; ma appunto questa qualità mi è ignota. Né so, e questo forse è essenziale, che cosa sia questo cavallo in assenza di me, e anzi se io ed egli non formiamo non già una coppia, ma un individuo binario, fatalmente congiunto e non solo giustapposto. Giacché ho ben detto, io, che senza il cavallo non sarei mai giunto alla casa nella palude, e ciò è vero; ma non so se senza di me a questo cavallo sarebbe stato mai permesso di affrontare, e con tanta esattezza di piede, gli itinerari della mortale palude; se sono certo che il cavallo è il mio destino, non è impossibile che io stesso appartenga al destino del cavallo. Cavallo, cavallo; che strano nome per questo essere prodigioso, nel breve percorso prima di raggiungere la palude, ho provato a chiamarlo corsiero, e con quei nomi che usano, come Morello, o Baiardo. Ora rido a pensarci. A quei nomi non rispondeva, ma ora capisco che non v’è, non vi può essere nome cui risponda; e se ho tentato di non dirlo cavallo, ma corsiero, questo veniva dal mio desiderio di riconoscergli una qualità d’invenzione, quasi fosse uno dei tanti cavalli per eroi e dèi che frequentano i poeti mitici, a me una volta diletti. I “corsieri” non esistono nel senso quotidiano e terrestre, e dunque bene accadeva chiamare costui un corsiero; ma poi tutto questo si è disfatto come un gioco letterario, ed ora mi trovo a misurarmi con una metà della mia formula binaria, e tener testa a qualcosa di oscuro ma di essenziale alla definizione di questo luogo, non meno ignoto e certo dei miei predecessori, che forse il cavallo ha conosciuto, che forse lo hanno cavalcato attraverso la laguna, per gli stessi itinerari sull’orlo della morte. Ho detto: il cavaliere dell’apocalisse, ma il cavaliere aveva un cavallo, e se io sono per questa terra viva di animali, l’angelo della morte, quel cavallo non può avere minor dignità, né io di lui; siamo entrambi dèi letali? Frugo fra i miei ricordi scolastici e mi chiedo se io in verità non abbia a che fare con un cavallo, ma con la cavallinità. Ora, la cavallinità non può chiamarsi “Morello” né può essere corsiero, ma anche non mangerà nñe defecherà, né copulerà; e forse non è impossibile avere un qualche rapporto meditativo con la cavallinità, e forse anche a quella rivolgere la parola, anche se dubito che la cavallinità sia incline a rispondere. Ma l’idea che io non sia venuto a cavallo ma sul dorso della cavallinità – che spiegherebbe il suo innaturale silenzio – mi affascina; o forse è un gioco per resistere alla palude?