mercoledì 28 agosto 2019


PRUGNOLE
Estratto ds "Feria d'agosto
Cesare Pavese

..."Specialmente le prugnole mi facevano gola...."
....“Le frutta, secondo il terreno, hanno molti sapori. Si riconoscono come fossero gente. Ce n'è delle magre, delle sane, delle cattive, delle aspre. Qualcuna è come le ragazze. Ci sono fichi e uva luglienga alla Bicocca che sanno ancora di Sandiana. Io ne ho mangiate di ogni sorta, e specialmente la selvatica, le prugnole e le nespole acerbe.
Specialmente le prugnole mi facevano gola. Ancora adesso lascio tutto per le prugnole. Le sento a distanza: fanno siepi spinose, verdissime lungo le forre, in mezzo ai rovi. Alla fine d'agosto i rami ingrossano di chicchi azzurri, più scuri del cielo, agglomerati e sodi. Hanno un sapore brusco e asperrimo che non piace a nessuno eppure non mancano di una punta di dolce. Con novembre son tutte cadute.
Che le prugnole sappiano di succhi selvatici, si capisce anche dai luoghi dove crescono. Io le trovavo sempre all'orlo delle vigne, dove il coltivo finisce e più nulla matura se non l'arido del terreno scoperto. Allora non pensavo a queste cose; avrei solamente voluto che mio padre, la Sandiana e tutti quanti mangiassero prugnole. Degli altri non so; la Sandiana diceva che le mordevano la lingua."

domenica 25 agosto 2019


IL GENIO E LA DEA
Aldous Huxley
"...la natura del linguaggio è tale che non possiamo fare a meno di giudicare...." Estratto da  "Il genio e la dea", un romanzo scomparso dal panorama della letteratura. 
L'incipit: "Il guaio con la narrativa è che ha troppo senso. La realtà non ha mai senso”. Huxley in questo breve romanzo ci conduce a mettere in discussione le nostre convinzioni sul mondo. Ci fa riflettere sui nostri pregiudizi riguardo alla vita , alla morte e alla morale. Porta quindi a metterci in gioco, sia che, leggendolo, lo seguiamo sia che lo contestiamo e rifiutiamo.
"La nostra filosofia della vita è l'inevitabile sottoprodotto di un linguaggio che separa nell'idea ciò che nella realtà effettiva è sempre inseparabile. Separa e al tempo stesso valuta . Una delle astrazioni è il "bene " , e l'altra è il " male ". Non giudicare e non sarai giudicato. Ma la natura del linguaggio è tale che non possiamo fare a meno di giudicare ".

giovedì 22 agosto 2019


L'ANIMALE MORENTE
Philip Roth
Einaudi
 «L’unica ossessione che la gente cerca: l’amore. Pensano, le persone, che innamorarsi sia come diventare parte di un tutto? L’unione platonica delle anime? Non per me. Sei una cosa unica prima di iniziare. Poi l’amore ti frantuma. Sei tutto intero, e poi finisci spaccato».....
.... «Riesci a immaginarla, la vecchiaia? Naturalmente no. Io no. Non ci riuscivo. Non avevo idea di che cosa fosse. Non ne avevo neanche un'immagine falsata: non ne avevo alcuna immagine. E non c'è nessuno che abbia voglia di fare previsioni. Nessuno desidera affrontare queste cose prima che venga il momento. Come andrà a finire, tutto? È di rigore l'ottusità.»
Un  libro sincero e senza pudori che ti rimesta nel  profondo. Si tratta di una meditazione  condivisa,  più che una narrazione, sul sesso, sulla vecchiaia, sulla morte che  ti stimola  a fare il punto sullo stato della tua più nascosta intimità.
David Kepesh – alter ego di Roth - non nasconde  il fatto di portarsi a letto le ragazze più  attraenti del suo corso, senza curarsi dei limiti deontologici del suo ruolo.  Spesso, a dire il vero, sono le ragazze che si portano a letto lui. È ciò che succede con Consuela Castillo, meravigliosa ed elegante ragazza, figlia di immigrati benestanti cubani anticastristi.
Consuela appartiene a «una generazione di ragazze che tiravano dalla loro figa le conclusioni sulla natura dell’esperienza e sulle delizie del mondo». Quest'uomo che supera la sessantina, che ha sempre vissuto intensamente e liberamente anche nel privato, di fronte  al declino, alla vecchiaia imminente, si trova ad affrontare  improvvisamente qualcosa di inaspettato: scopre la gelosia. Consuela ha qualcosa di straordinario che attira morbosamente questo uomo. La sua sensualità mascherata dietro al perbenismo, una consapevole femminilità alla quale appare indifferente. Ma soprattutto Consuela è un'occasione (l'ultima) per rivisitare  il proprio passato, e la sua ossessione per la sessualità e il rapporto con le donne. Dalla memoria emerge la ricchezza non sempre felice di una vita, insieme alle menzogne e meschinità, delle sue storie con le donne. Mentre si accorge per la prima volta in tutta la sua vita che non è più padrone totale dei sentimenti, delle passioni e degli impulsi, da questo amore nasce il dramma, e si passa dalla normalità la tragedia. La vecchiaia incrocia imprevedibilmente la malattia della sua giovane amante nel gioco crudele e straordinario dell'esistenza. Un romanzo tragico che racchiude tutta l'essenza dell'opera di Roth. 

L'ANIMALE MORENTE 
Nel corpo, non meno che nel cervello, è racchiusa la storia della vita.
 EDNA O’BRIEN

L’ho conosciuta otto anni fa. Frequentava il mio corso. Io non insegno piú a tempo pieno, e se volessi essere preciso dovrei dire che non insegno letteratura: già da molti anni tengo un solo corso, un grande seminario di critica letteraria, per i laureandi, che ho chiamato Practical Criticism. Le mie lezioni attirano un mucchio di studentesse. Per due ragioni. Perché l’argomento presenta un’allettante combinazione di glamour intellettuale e glamour giornalistico; e perché le ragazze mi hanno sentito recensire libri alla radio o visto parlare di cultura alla televisione. Negli ultimi quindici anni fare il critico culturale in un programma televisivo mi ha reso piuttosto popolare, localmente, e per questo il mio corso attira le ragazze. Nei primi tempi non mi ero reso conto che parlare alla Tv per dieci minuti una volta la settimana potesse fare l’effetto che fa a queste studentesse. Ma le ragazze sono irrimediabilmente attratte dalla celebrità, per insignificante che possa essere la mia. Ora, come sai, io sono molto sensibile alla bellezza femminile. Tutti hanno qualcosa davanti a cui si sentono disarmati, e io ho la bellezza. La vedo e mi acceca, impedendomi di scorgere ogni altra cosa. Queste ragazze vengono al mio corso, e io capisco quasi subito qual è quella che fa per me. C’è un racconto di Mark Twain dove lui scappa, inseguito da un toro, e quando si rifugia sopra un albero il toro alza gli occhi e pensa: «Voi siete la mia preda, signore». Be’, quando le vedo in aula quel «signore» si trasforma in «signorina». Sono passati otto anni, dunque: io ne avevo già sessantadue e la ragazza, che si chiama Consuela Castillo, ne aveva ventiquattro. Consuela non è come le altre. Non ha l’aria di una studentessa, non di una comune studentessa, per lo meno. Non è una mezza adolescente, non è una ragazza sbracata, sciatta, pullulante di «cioè». È raffinata nel parlare, misurata, e il suo portamento è perfetto: sembra che sappia qualcosa della vita degli adulti, oltre a stare seduta, stare in piedi e camminare. Come entri nell’aula, capisci che questa ragazza o la sa piú lunga delle altre o a questo aspira. Il modo in cui si veste, per esempio. Non è proprio quella che chiameremmo eleganza, la sua, e non ha sicuramente nulla di vistoso, ma, tanto per cominciare, Consuela non è mai in jeans, stirati o gualciti che siano. Veste con cura, sobrietà e buon gusto, gonne, abiti e calzoni su misura. Non per desensualizzarsi, si direbbe, ma per professionalizzarsi, veste come l’attraente segretaria di un prestigioso studio legale. Come la segretaria del presidente di una banca. Ha una camicetta di seta color panna sotto un blazer di buon taglio blu con i bottoni d’oro, una borsetta marrone con la patina della pelle piú costosa e un paio di stivaletti alla caviglia intonati alla borsetta, e porta una sottana di maglia grigia un po’elastica che rivela le linee del suo corpo con tutta la malizia che può metterci una sottana come quella. I capelli sono acconciati con naturalezza, ma con cura. Il colorito è pallido, la bocca arcuata, anche se le labbra sono piene, e la fronte è tondeggiante, una fronte levigata di un’eleganza brancusiana. È cubana. I suoi sono prosperi cubani che stanno nel New Jersey, oltre il fiume, nella Bergen County. Ha capelli nerissimi, lustri, ma un po’grossi. Ed è grande. È una ragazzona. La camicetta di seta è slacciata fino al terzo bottone, e questo ti permette di vedere che Consuela ha due seni prepotenti, bellissimi. Noti subito il solco tra i seni. E vedi che lei lo sa. Vedi che, nonostante la compostezza, la meticolosità, lo stile cautamente soigné (o forse proprio per questo), Consuela è cosciente del proprio fascino. Viene alla prima lezione con la giacca abbottonata sopra la camicetta, ma cinque minuti dopo se l’è già tolta. Quando guardo di nuovo dalla sua parte, vedo che se l’è rimessa. In questo modo capisci che è cosciente del suo potere, ma che ancora non sa come usarlo, non sa cosa farne, non sa nemmeno quanto lo desidera. Quel corpo le riesce ancora nuovo, deve ancora metterlo alla prova, ci sta ragionando su, un po’come un ragazzo che cammina per la strada con una pistola carica e deve ancora decidere se andare in giro armato per difendersi o per iniziare una vita di delitti. Ed è cosciente anche di un’altra cosa, una cosa che non potevo dedurre da quel primo incontro in aula: la cultura è importante, per lei, anche se in un modo antiquato e deferente. Non che sia una cosa da cui voglia trarre il suo sostentamento. Non vuole e non potrebbe –è stata allevata troppo bene e in un modo troppo conforme alla tradizione, per questo –, ma la cultura è importante e meravigliosa come nessun’altra delle cose che conosce. Consuela è la ragazza che trova affascinanti gli impressionisti, ma il Picasso cubista deve guardarlo bene, aguzzando gli occhi (sempre con un senso di fastidiosa perplessità) e mettendocela tutta per cogliere l’idea. Lei sta lí, in attesa della nuova e sorprendente sensazione, del nuovo concetto, della nuova emozione, e quando non viene (non viene mai), si accusa di essere inadeguata e priva di…cosa? Si accusa di non riuscire a capire nemmeno che cosa le manca. L’arte che puzza di modernità non la lascia soltanto perplessa, ma anche delusa di sé. Vorrebbe che Picasso contasse di piú, che operasse in lei qualche trasformazione, magari, ma teso sulla ribalta del genio c’è un telo trasparente che le offusca la vista e tiene un po’a distanza la sua venerazione. Consuela dà all’arte, a tutte le arti, assai piú di quanto ne riceva, una specie di zelo che non manca di un suo fascino struggente. Un cuore generoso, un bel viso, uno sguardo insieme invitante e remoto, due seni stupendi; e nata, come donna, da cosí poco tempo che trovare dei frammenti del guscio attaccati a quella fronte ovoidale non sarebbe stata una sorpresa. Capii immediatamente che quella sarebbe stata la mia ragazza. Ora, da una quindicina d’anni a questa parte io ho una regola fissa alla quale non vengo mai meno. Non cerco di avere contatti personali con nessuna di queste ragazze finché non hanno superato l’esame finale e ricevuto il voto, cioè fino al momento in cui io non sono piú, ufficialmente, in loco parentis. Nonostante le tentazioni –e anche di fronte a un chiarissimo invito a farmi avanti per iniziare il corteggiamento –non infrango questa regola da quando, verso la metà degli anni Ottanta, il numero telefonico della hotline per le molestie sessuali venne affisso per la prima volta fuori della porta del mio ufficio. Non cerco prima questi contatti per non scontrarmi con quegli esponenti dell’università che, se potessero, farebbero di tutto per impedirmi di godermi la vita. Insegno ogni anno per quattordici settimane, e in questo intervallo non cerco avventure. Ricorro, invece, a un trucco. È un trucco onesto, un trucco molto chiaro e trasparente, ma è pur sempre un trucco. Dopo l’esame finale e l’assegnazione dei voti, organizzo nel mio appartamento una festa per gli studenti. Riesce sempre benissimo ed è sempre la stessa. Li invito per un drink verso le sei. Dico che dalle sei alle otto berremo qualcosa, e loro si fermano sempre fino alle due del mattino. I piú audaci, dopo le dieci, si trasformano in esuberanti personaggi e mi spiegano che cosa li interessa veramente. Nel seminario di Practical Criticism ci sono una ventina di studenti, certe volte anche venticinque, dunque saranno quindici o sedici ragazze e cinque o sei ragazzi, due o tre
dei quali eterosessuali. Metà di questo gruppo se n’è andata prima delle dieci. Generalmente, restano un eterosessuale, forse un gay, e otto o nove ragazze. Sono invariabilmente i piú colti, intelligenti e vivaci di tutti. Parlano di quello che stanno leggendo, di quello che stanno ascoltando, delle mostre che hanno visto: entusiasmi dei quali normalmente non mettono a parte i loro genitori né, necessariamente, i loro amici. Questi ragazzi si trovano frequentando il mio corso. E trovano me. Durante quella festa scoprono all’improvviso che io sono un essere umano. Non sono il loro insegnante, non sono la mia reputazione, non sono uno dei loro genitori. Ho un appartamento su due piani gradevole e ordinato, vedono la mia grande biblioteca, corridoi di doppi scaffali che ospitano le letture di una vita e occupano tutto il piano inferiore, vedono il mio pianoforte, vedono con quale dedizione faccio quello che faccio, e si fermano. Un anno la mia studentessa piú divertente fu come la capretta della favola che va a nascondersi nella pendola. Alle due del mattino buttai fuori l’ultimo, e mentre ci stavamo salutando scoprii che mancava una ragazza. Dissi: «Dov’è il clown del nostro corso, la figlia di Prospero?» «Oh, credo che Miranda sia andata via», disse qualcuno. Rientrai in casa per rimettere un po’in ordine l’appartamento e al piano di sopra sentii una porta che si chiudeva. La porta di un bagno. E Miranda scese le scale, ridendo, un po’imbambolata da una specie di radioso abbandono –non avevo mai notato, fino a quel momento, che fosse cosí carina –, e disse: «Non sono stata brava? Mi sono nascosta nel bagno al piano di sopra, e ora andrò a letto con lei». Un cosino, forse un metro e cinquantacinque di statura; e si tolse il pullover e mi mostrò le tette, rivelando il busto adolescente di una vergine balthusiana incipientemente trasgressiva; e andammo a letto insieme, certo. Per tutta la sera, come una bambina sfuggita al periglioso melodramma di un quadro di Balthus per la baldoria della nostra festicciola, Miranda era stata carponi sul pavimento col sedere puntato verso il cielo o prostrata senza forze sul sofà o allegramente stravaccata tra i braccioli di una poltrona, apparentemente ignara del fatto che, con la gonna che le scopriva le cosce e le gambe indecorosamente aperte, aveva l’aria tipicamente balthusiana di essere seminuda pur essendo vestita di tutto punto. Ogni cosa si nasconde e nulla si cela. Molte di queste ragazze fanno sesso da quando avevano quattordici anni, e a venti ce ne sono almeno un paio curiose di farlo con un uomo della mia età, anche una sola volta, e ansiose il giorno dopo di raccontarlo a tutte le amiche, che arricciano il naso e chiedono: «Ma…E la pelle? Non aveva uno strano odore? E quei capelli bianchi, cosí lunghi? E la pappagorgia? E la trippa? Non ti è venuto da vomitare?» Miranda mi disse poi: «Sarai andato a letto con centinaia di donne. Volevo vedere come sarebbe stato». «E…?» E poi disse delle cose alle quali non credetti fino in fondo, ma questo non contava. Era stata audace: aveva visto che poteva farlo, per impaurita che potesse essere mentre si nascondeva, pronta a tutto, nel bagno. Lei scoprí il proprio coraggio affrontando questa strana giustapposizione, di poter vincere i propri timori iniziali e ogni iniziale ripugnanza, e io –quanto alla giustapposizione –mi divertii un mondo. Miranda, saltellante e sbracata, che faceva il pagliaccio e si metteva in posa lasciando cadere la biancheria. Per divertirsi bastava guardarla. Anche se questo piacere non fu l’unico premio. I lustri venuti dopo gli anni Sessanta hanno fatto molto per completare la rivoluzione sessuale. Questa è una generazione di regine della fellatio. Non c’è mai stato nulla di simile tra le ragazze del loro ceto. Consuela Castillo. La vidi e rimasi straordinariamente colpito dal suo comportamento. Quella ragazza sapeva quanto valeva il suo corpo. Sapeva che cos’era. Sapeva anche che non avrebbe mai potuto inserirsi nel mondo culturale in cui vivevo io: la cultura era una cosa dalla quale voleva essere abbagliata, non un mezzo di sostentamento. Perciò venne alla festa –prima della quale mi ero preoccupato che potesse non farsi viva –e lí, per la prima volta, si mostrò espansiva anche con me. Non sapendo fino a che punto sarebbe potuta arrivare la sua cautela, ero stato attento a non mostrare un particolare interesse per lei sia durante le lezioni che nelle due occasioni in cui ci eravamo visti nel mio ufficio per rileggere i suoi elaborati. E lei non fu, in quegli incontri privati, altro che sottomessa e rispettosa, annotando ogni parola che dicevo, per irrilevante che fosse. Nel mio ufficio entrò e uscí, sempre, con la giacca sopra la camicetta. La prima volta che venne a trovarmi –e ci sedemmo fianco a fianco al mio tavolo, secondo le direttive, con la porta del corridoio spalancata, e i nostri otto arti, i nostri due busti contrastanti ben visibili a ogni Grande Fratello di passaggio (e anche con la finestra spalancata, aperta da me, quant’era larga, per paura del suo profumo) –, la prima volta indossava un paio di eleganti calzoni grigi di flanella col risvolto, e la seconda una sottana nera di jersey e collant neri, ma, come in aula, sulla sua pelle bianchissima c’era sempre la camicetta, la camicetta di seta di una certa nuance crema, slacciata fino al terzo bottone. Alla festa, però, si tolse la giacca dopo il primo bicchiere di vino, e senza giacca mi guardò spavaldamente, con un sorriso aperto e stuzzicante. Eravamo in piedi, a pochi centimetri di distanza, nello studio, dove le avevo mostrato un manoscritto di Kafka che possiedo: tre pagine di pugno di Kafka, il discorso che aveva tenuto alla festa per il pensionamento del capo della società di assicurazioni dove lavorava, dono, questo manoscritto del 1910, di una ricca signora sposata di trent’anni che era stata una mia studentessa, e mia amante, alcuni anni prima. Consuela stava parlando con calore di ogni cosa. Farle toccare il manoscritto di Kafka l’aveva elettrizzata, e cosí le cose venivano a galla tutte in una volta, domande che aveva covato per l’intero semestre mentre io segretamente covavo il mio desiderio. «Che musica ascolta? Davvero suona il piano? Legge tutto il giorno? Sa a memoria tutte le poesie dei libri che ha negli scaffali?» Da ogni domanda era chiaro quanto la meravigliasse –parola sua –la vita che facevo, la mia vita culturale tranquilla e coerente. Le domandai cosa faceva lei, com’era la sua vita, e lei mi disse che dopo il liceo non si era iscritta subito all’università, ma aveva deciso di fare la segretaria. Ed era questo che avevo visto subito: la dignitosa e leale segretaria, il bene piú prezioso dell’uomo di potere, del direttore di banca o del capo dello studio legale. Consuela apparteneva veramente a un’era tramontata, era un regresso a un tempo piú cortese, e io pensai che il suo modo di vedersi, come il suo modo di comportarsi, fosse molto condizionato dal fatto di essere la figlia di ricchi cubani emigrati, persone facoltose fuggite dopo la rivoluzione. Mi disse: «Fare la segretaria non mi piaceva. Ci ho provato per un paio d’anni, ma è un mondo noioso, e i miei genitori hanno sempre voluto e sperato che io andassi all’università. Cosí invece, alla fine, ho deciso di studiare. Forse cercavo di ribellarmi, immagino, ma era una reazione infantile, e allora mi sono iscritta qui. Qualunque tipo di arte mi riempie di meraviglia». Ancora quella parola, «meraviglia», che usava sinceramente e con larghezza. «Sí, e cosa le piace?» chiesi. «Il teatro. Ogni forma di teatro. Vado all’opera. Mio padre ama l’opera e al Met ci andiamo insieme. Il suo compositore preferito è Puccini. Con lui vado sempre volentieri». «Ama i suoi genitori?» «Moltissimo», disse. «Mi parli di loro». «Be’, sono cubani. Molto orgogliosi. E qui hanno fatto molta strada. I cubani che sono venuti qui per colpa della rivoluzione avevano un modo di vedere il mondo che, in una qualche maniera, ha fatto fare a tutti molta strada. Quel primo gruppo, come la mia famiglia, ha lavorato sodo, ha fatto tutto quello che si doveva fare, e ha fatto tanta di quella strada che, come una volta ci diceva mio nonno, alcuni di loro, che quando sono arrivati qui hanno avuto bisogno dell’assistenza pubblica, perché non avevano niente…Da alcuni di loro, dopo qualche anno, il governo americano ha cominciato a ricevere degli assegni coi rimborsi. Non sapevano che pesci pigliare, diceva mio nonno. La prima volta, nella storia del Tesoro americano, che avevano ricevuto un rimborso». «Lei vuol bene anche a suo nonno. Com’è?» chiesi. «Come mio padre: un uomo posato, molto tradizionalista, all’antica. Prima il duro lavoro e l’istruzione. Sopra ogni cosa. E, come mio padre, tutto casa e famiglia. Religiosissimo. Anche se in chiesa non ci va poi tanto spesso. Né tanto spesso ci va mio padre. Mia madre invece sí. Mia nonna sí. Mia nonna dice il rosario tutte le sere. Quando la gente vuole farla contenta le regala dei rosari. Ha i suoi preferiti. Lo ama, il suo rosario». «E lei ci va, in chiesa?» «Quando ero piccola. Ma ora, no. I miei sanno adattarsi. I cubani di quella generazione dovevano sapersi adattare, almeno fino a un certo punto. I miei vorrebbero che ci andassimo, io e mio fratello, ma no, io non ci vado». «Quali restrizioni ha avuto una ragazza cubana cresciuta in America che non sarebbero tipiche di un’educazione americana?» «Oh, un sacco di coprifuoco anticipato. D’estate, la sera, dovevo essere a casa quando tutte le mie amiche si erano appena incontrate. A casa alle otto di sera, d’estate, quando avevo quattordici o quindici anni. Ma mio padre non era un orco. È gentile, un padre come tutti gli altri. Solo, nessun ragazzo ha mai avuto il permesso di entrare in camera mia. Mai. Per il resto, quando ho compiuto sedici anni, sono stata trattata com’erano trattate le mie amiche, come orari e tutto». «E i suoi genitori, quando sono venuti?» «Nel 1960. Allora Fidel lasciava ancora la gente libera di andarsene. Si erano sposati a Cuba. Prima sono andati in Messico. Poi qui. Io sono nata qui, naturalmente». «Si considera un’americana?» «Sono nata qui, ma no, sono cubana. Cubana fino al midollo». «Mi sorprende, Consuela. La sua voce, il suo atteggiamento, il suo modo di parlare. Per me lei è americana al cento per cento. Perché si considera cubana?» «Appartengo a una famiglia cubana. Tutto qui. I miei hanno quest’orgoglio smisurato. Amano la loro patria. Ce l’hanno nel cuore. Ce l’hanno nel sangue. A Cuba erano cosí». «Cos’amano di Cuba?» «Oh, era un tale divertimento…Era una comunità di persone che avevano il meglio di tutto il mondo. Assolutamente cosmopolita, specie se abitavi all’Avana. Ed era bellissima. E tutti davano questi grandi ricevimenti. Era un vero spasso». «Ricevimenti? Mi parli dei ricevimenti». «Ho queste foto di mia madre a questi balli in costume. Di quando ha debuttato in società. Foto di lei al ballo con cui ha debuttato in società». «I suoi cosa facevano?» «Be’, è una storia lunga». «Me la racconti». «Be’, il primo spagnolo dal lato di mia nonna vi fu mandato col grado di generale. C’erano sempre un mucchio di soldi ereditati dagli avi spagnoli. Mia nonna aveva degli istitutori privati, e a diciotto anni andava a comprare i vestiti a Parigi. Nella mia famiglia, da tutt’e due le parti, ci sono dei nobili spagnoli. Alcuni sono di una nobiltà molto antica. Come mia nonna, che è duchessa…In Spagna». «E anche lei è una duchessa, Consuela?» «No, –disse lei con un sorriso, –sono solo una ragazza cubana fortunata». «Be’, potrebbe passare per una duchessa. Sui muri del Prado ci dev’essere una duchessa che le somiglia. Conosce il celebre dipinto di Velázquez, Las meninas? Anche se lí la principessina ha i capelli chiari, è bionda». «Non credo». «È a Madrid. Al Prado. Glielo mostro». Scendemmo la scala a chiocciola d’acciaio che porta agli scaffali della biblioteca, e io trovai un librone di riproduzioni di Velázquez, e ci sedemmo l’uno accanto all’altra a voltare le pagine per quindici minuti, un eccitante quarto d’ora in cui entrambi imparammo qualcosa: lei, per la prima volta, su Velázquez e io, di nuovo, sulla deliziosa imbecillità della lussuria. Tutte queste chiacchiere! Le mostro Kafka, Velázquez…Perché uno fa queste cose? Be’, qualcosa devi fare. Questi sono i veli della danza. Non confonderla con la seduzione. Questa non è la seduzione. Quella che mascheri è la cosa che ti ha spinto, la pura e semplice lussuria. I veli nascondono l’impulso, che è cieco. Mentre fai questi discorsi hai l’erronea sensazione, come lei, di sapere con che cosa hai a che fare. Ma non è come parlare con un avvocato o sentire il parere di un dottore, e le cose che si dicono non cambieranno la tua linea di condotta. Tu sai che lo desideri e sai che lo vuoi fare e che nulla te lo impedirà. In questa fase nessuno dirà nulla che possa cambiare qualcosa. Il grosso scherzo che ti fa la biologia è che raggiungi l’intimità con una persona prima di sapere qualcosa di lei. Fin dal primo momento, hai capito tutto. Inizialmente, l’attrazione è esercitata dalle superfici, ma c’è anche l’intuizione della dimensione piú completa. E l’attrazione non dev’essere necessariamente la stessa: lei può essere attirata da una cosa, tu da un’altra. È superficie, è curiosità, ma poi, boom, ecco la dimensione. È bello che lei sia di Cuba, è bello che sua nonna fosse questo e suo nonno quello, è bello che io suoni il piano e sia il proprietario di un manoscritto di Kafka, ma questa è solo una digressione lungo la strada che ci porta nel posto dove stiamo andando. È una parte dell’incanto, immagino, ma è la parte di cui io farei volentieri a meno, senza la quale mi sentirei molto meglio. Il sesso: ecco tutto l’incanto necessario. Le donne, per gli uomini, sono davvero tanto incantevoli, una volta tolto il sesso? C’è qualcuno che trova incantevole un’altra persona di questo o di quel sesso se non nutre per lei un interesse di natura sessuale? Da chi, ancora, ti fai incantare cosí? Da nessuno. Gli sto dicendo chi sono, pensa lei. Gli interessa sapere chi sono. Questo è vero, ma io sono curioso di sapere chi è perché la voglio scopare. Non ho bisogno di tutto questo grande interesse per Kafka e Velázquez. Mentre con lei faccio questa conversazione, penso, Quanto dovrò aspettare, ancora? Tre ore? Quattro? Arriveremo a otto? Venti minuti di veli, e sono già lí che mi domando, Cosa c’entra tutto questo con le sue tette, la sua pelle e il suo portamento? L’arte francese del corteggiamento non m’interessa. L’impulso selvaggio, sí. No, questa non è seduzione. Questa è una commedia. È la commedia che si recita per creare un collegamento che non è il collegamento –che non può competere con il collegamento –creato spontaneamente dalla lussuria. Questo è un istantaneo richiamarsi alle convenzioni, un darci subito qualcosa in comune, il tentativo di trasformare la lussuria in qualcosa di socialmente conveniente. Ma è proprio la radicale sconvenienza che fa della lussuria la lussuria. No, questo si limita a tracciare la rotta, non in avanti ma indietro, verso l’impulso primordiale. Non confondiamo la dissimulazione col problema sul tappeto. Certo, potrebbero esserci altri sviluppi, ma questi sviluppi non c’entrano niente con gli acquisti prematrimoniali di tendine e copripiumoni e l’iscrizione alla squadra evoluzionista. L’evoluzionismo è un sistema che può funzionare senza di me. Io voglio scopare questa ragazza e…Sí, dovrò rassegnarmi a una certa dissimulazione, ma sarà solo un mezzo per raggiungere uno scopo. Quanto c’è, di astuzia, in tutto questo? Tutto, oserei dire.

mercoledì 21 agosto 2019


IL BISPENSIERO SELVAGGIO
 Guido Vitiello 
Il Foglio, 21 aprile 2018
https://guidovitiello.com/2018/05/01/il-bispensiero-selvaggio/amp/?__twitter_impression=true
La geopolitica di 1984 è il modello occulto del tripolarismo italiano. C’è l’Oceania, ossia il M5S, e poi ci sono l’Eurasia e l’Estasia, scambievoli rimanenze dei due vecchi poli. L’Oceania può indifferentemente allearsi con l’Estasia e muovere guerra all’Eurasia, oppure può allearsi con l’Eurasia e muovere guerra all’Estasia; in entrambi i casi, lo farà sbandierando una coerenza incoercibile. Siamo vicini alla Lega. Siamo sempre stati vicini alla Lega. Siamo vicini al Pd. Siamo sempre stati vicini al Pd. Siamo sempre stati con la Nato. Siamo sempre stati a favore dell’euro. Siamo sempre stati contro l’euro. Siamo sempre stati con Putin. È un gioco di prestigio mentale, che nell’incubo totalitario di Orwell riesce facilmente perché il partito, controllando il presente, controlla il passato: “A livello ufficiale, il cambiamento nelle alleanze non si era mai verificato: l’Oceania era in guerra con l’Eurasia, quindi l’Oceania era stata sempre in guerra con l’Eurasia. Il nemico contingente incarnava sempre il male assoluto; ne conseguiva che qualsiasi intesa con lui era impossibile, tanto nel passato che nel futuro”. La truffa del programma del M5S, il gioco delle tre carte e dei venti pdf, si spiega solo nei termini di quello che Orwell chiamava doublethink, o “bispensiero”: “Sapere e non sapere; credere fermamente di dire verità sacrosante mentre si pronunciavano le menzogne più artefatte; ritenere contemporaneamente valide due opinioni che si annullavano a vicenda sapendole contraddittorie fra di loro e tuttavia credendo in entrambe; fare uso della logica contro la logica; rinnegare la morale proprio nell’atto di rivendicarla”.
Ma fermiamo qui l’analogia. Rocco Casalino viene dal Grande Fratello di Endemol, non da quello di Orwell; e il M5S non dispone ancora di “buchi della memoria”, le feritoie dove i documenti sgraditi al partito finivano risucchiati da un vortice d’aria calda: al massimo possono far scomparire una dissidente da una foto ricordo del gruppo consiliare della Regione Piemonte, o affrettarsi a cancellare i murales di Roma dove il capo politico dell’Oceania bacia il leader dell’Estasia, o spazzar via dai loro siti certe truci pagine inneggianti a Putin, oggi considerate imbarazzanti, domani chissà (“dimenticare tutto ciò che era necessario dimenticare ma, all’occorrenza, essere pronti a richiamarlo alla memoria, per poi eventualmente dimenticarlo di nuovo” è un’altra regola del bis-pensiero). Schietta mentalità totalitaria, ma nulla a che vedere con il Ministero della Verità orwelliano. Volessimo anche mettere in conto la servitù volontaria dell’informazione, non basterebbe: se il gioco di prestigio funziona, dev’esserci dell’altro. Ma cosa?

Marshall McLuhan, il teorico del “villaggio globale”, detestava Orwell. In una lettera a Ezra Pound del 1951, due anni dopo la pubblicazione di 1984, scrisse che “il guaio con i perfetti idioti come George Orwell è che fanno la satira di qualcosa che è accaduto cinquant’anni fa come fosse una minaccia dal futuro!”. Provo a sbrogliare la matassa di queste frasi ingenerose: McLuhan era convinto che i media elettronici, dalla fine dell’Ottocento, ci stessero riportando a una cultura orale, chiudendo il ciclo della “Galassia Gutenberg”, ossia il dominio del libro stampato e delle sue forme di razionalità. E un tratto delle società illetterate, che vedeva riemergere nelle società post-letterate, è appunto il perpetuo accomodamento del passato al presente. Qualcuno ha detto che la memoria delle culture orali è “omeostatica”, si mantiene in un costante equilibrio grazie a un’amnesia strutturale che elimina i ricordi considerati irrilevanti. Tra i popoli Tiv della Nigeria, per esempio, le genealogie venivano continuamente aggiornate per rispecchiare i rapporti di forza attuali, e allo stesso modo i Gonja del Ghana, nei loro miti, aumentavano o riducevano secondo le esigenze il numero dei figli del re fondatore. Il villaggio globale di McLuhan significa questo: l’estensione planetaria, per via elettronica, dell’antico mondo mentale di villaggi e tribù, senza bisogno dell’apparato di Orwell.

E così, mentre noi filologi gutenberghiani setacciamo i documenti scritti in cerca di incoerenze logiche, storiche o ideologiche che non interessano più nessuno, uno strano partito-clan – forse la prima elite occidentale tutta composta di post-letterati – si prepara alla presa del potere.

Il Foglio, 21 aprile 2018

lunedì 19 agosto 2019


IL CAMPO DI GRANO
Valentina Versi

Una volta, molti anni fa, ero in un campo di grano con il mio amico Atti...
Non facevamo niente...solo la carezza erotica delle spighe che stuzzicavano la pelle...solo lo sfioramento del corpo, l' uno con l' altro... 
Aveva i pochi peli biondi da ragazzino...io non ancora... 
ci tiravamo i capelli e ci baciavamo le cosce...solo le cosce perché erano sempre nascoste dai vestiti...
Poi lui mi chiese "fammi vedere come sei qui..." sfiorandomi le mutandine e io mi rilassai...una semplice esplorazione per curiosità...lui non aveva sorelle... mi sorrise e mi accarezzò... così feci anch'io con lui...non ci fu sesso, solo un immenso piacere di carezze... esplorazioni: io ero la sua mappa e lui il mio esploratore...
Ci siamo messi a ridere e arrivò il contadino che ci scopri...ci sgrido'...anzi sgridò solo me e mi disse spurcaceta...non sapevo nemmeno cosa volesse dire e a cosa si riferisse...ho pensato a lungo che fosse per esserci rotolati nel grano...
Poi realizzai, molto dopo, e nacque in me il pudore, la vergogna: il tabù dei miei anni ...e dei tuoi...
Sì perché poi, anche se superi quella fase e rimuovi la vergogna ti resta dentro il bisogno di rivivere per trasformare in eccitazione e piacere che ti hanno rubato ...


ACQUE MORTE
W. Somerset Maugham

«Gli dèi ridono quando gli uomini ottengono quel che desiderano»

Trascrivo l'incipit della prefazione di Maugham a The Narrow Corner, titolo originale della sua opera.
"I personaggi letterari sono strane creature. Si affacciano, ti entrano nella mente. Crescono. Assumono talune, opportune, caratteristiche. Vivono in un certo ambiente. Di tanto in tanto ti accade di pensare a loro. A volte diventano un’ossessione, sicché non riesci a pensare ad altro. Allora li racconti, e per te cessano di esistere."

 La prefazione di Maugham reca una sorpresa, meglio leggerla dopo il romanzo.

Siamo in estremo oriente su un’isola dell’arcipelago malese, Il dottor Saunders sbadiglia, sono le nove del mattino. Ha tutta la giornata davanti a sé e niente da fare. Se non avete mai letto Maugham scoprirete di quanto raffinatezza è capace, di come sia dettagliata l’analisi fisica e psicologica dei personaggi al momento che li introduce. Se infatti il dottor Saunders
non leggeva per informarsi o per migliorare il suo intelletto, ma cercava nei libri occasione di fantasticherie. Leggeva con un senso dell’umorismo tutto suo, e traeva dalle narrazioni delle imprese missionarie un sobrio godimento che avrebbe non poco stupito gli autori. 
Il personaggio successivo, in ordine d’apparizione, Il capitano Nichols
aveva una curiosa caratteristica: poteva giocare un brutto tiro a qualcuno senza poi serbargli rancore, e non riusciva a capire perché la vittima continuasse ad avercela con lui.
 Maugham mette in luce i vizi, i difetti e la follia degli uomini senza nemmeno concedere sconti moralistici alla slealtà e alle debolezze femminili. Il protagonista, il dottor Saunders, radiato dall'albo professionale, oppiomane è nel contempo immagine dell'assoluta bontà e dedizione nell'aiuto del prossimo. Il dottor Saunders  rivolge queste parole all'infelicissimo Fred: "Imparerai a fare a meno di quello che non puoi avere, e ad apprezzare quello che hai. Un po' di senso comune, un po' di tolleranza, un po' di buon umore, e non immagini come si può star bene su questo pianeta".  Maugham  fonda la storia sul vissuto e la bontà del medico per far scaturire dall'intrinseca sua bontà tutta la malvagità del mondo e l'insensatezza del vivere. Maugham in questo procedere della narrazione e riflessione esistenziale sembra avvicinarsi tantissimo al Dostoevskij dell' Idiota. 

TRADUZIONE DI FRANCO SALVATORELLI
Adelphi eBook
TITOLO ORIGINALE:
The Narrow Corner
Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata
Atollo di Fakaofo, Isole Tokelau, 2003
Foto di Alex Webb
© ALEX WEBB/MAGNUM/CONTRASTO
Prima edizione digitale 2011
© THE ROYAL LITERARY FUND
© 2001 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO www.adelphi.it
ISBN 978-88-459-7061-0
ACQUE MORTE
Breve, dunque, è la vita dell’uomo, e angusto l’angolo della terra in cui egli dimtora
PREFAZIONE
I personaggi letterari sono strane creature. Si affacciano, ti entrano nella mente. Crescono. Assumono talune, opportune, caratteristiche. Vivono in un certo ambiente. Di tanto in tanto ti accade di pensare a loro. A volte diventano un’ossessione, sicché non riesci a pensare ad altro. Allora li racconti, e per te cessano di esistere. È buffo che un essere il quale ha occupato un posto nei tuoi pensieri, spesso solo nello sfondo, ma non di rado proprio nel bel mezzo; e allora, magari, ha vissuto con te per mesi ogni ora del giorno, e anche nei tuoi sogni, ti svanisca dalla coscienza al punto che nemmeno ricordi come si chiamava, e che faccia aveva. Capita perfino che ti scordi che sia mai esistito. Ma a volte le cose vanno diversamente. Un personaggio che credevi di aver liquidato, un personaggio di cui ti eri curato non più di tanto, non si dilegua nell’oblio. Ti accade di ripensarci. Spesso è una cosa molto irritante. Ne hai fatto quel che volevi, non ti serve più. Perché insiste a importi la sua presenza? È un intruso, non ce lo vuoi alla tua festa. Mangia il cibo, beve il vino preparato per altri. Non hai posto per lui. Devi occuparti di gente che per te conta molto di più. Ma lui se ne infischia. Incurante del decoroso sepolcro che gli hai allestito, continua caparbiamente a vivere, e anzi ? sotto sotto attivissimo; e un giorno, con tua sorpresa, scopri che si ? spinto fin nella prima linea dei tuoi pensieri; e non c?? che fare, devi dargli retta.
Il lettore di questo romanzo troverà il dottor Saunders in una breve scena di On a Chinese Screen. Era stato concepito per recitare la sua parte nel raccontino intitolato Lo straniero. Là avevo avuto spazio per disegnarlo solo in poche righe, e non prevedevo di pensarci più. Non c’era motivo che lui, invece di una qualsiasi delle molte altre persone che comparivano in quel libro, continuasse a vivere. Come ha fatto, di sua iniziativa.
E il capitano Nichols è stato presentato al lettore in La luna e sei soldi. Me lo aveva suggerito una specie di vagabondo incontrato nei Mari del Sud. Ma nel suo caso sapevo, terminato quel libro, che con lui non avevo chiuso i conti. Al capitano Nichols continuavo a pensare, e quando il manoscritto mi tornò dalla tipografia, e correggevo gli errori, mi colpì un brano di conversazione. Mi venne fatto di pensare che lì c’era il germe di un romanzo; e più ci pensavo, più l’idea mi piaceva. Quando alla fine mi arrivarono le bozze avevo deciso di scriverlo, il romanzo, e così stralciai il brano in questione. Che era il seguente:
«Su altri tratti della sua carriera egli fu fortunatamente più comunicativo. Aveva fatto contrabbando d’armi nel Sudamerica e dell’oppio in Cina. Aveva praticato la tratta dei neri nelle isole Salomone, e esibì una cicatrice sulla fronte, residuo di una ferita inflittagli da una canaglia di negro, che non capiva le sue intenzioni filantropiche. La sua impresa maggiore era stata una lunga crociera nei mari d’Oriente, il cui ricordo era argomento immancabile della sua conversazione. Sembrava che un tale a Sydney avesse avuto la sventura di commettere un omicidio; gli amici, desiderando tenerlo al riparo dai guai per un po’ di tempo, si erano rivolti al capitano Nichols. Gli avevano dato dodici ore per comprare una goletta e trovare l?equipaggio, e la notte seguente, un po? in l? lungo la costa, l?interessante passeggero era stato portato a bordo.
«“Ho avuto mille sterline per quel lavoro, sull’unghia, pagate in oro” disse il capitano Nichols. “Abbiamo fatto un gran bel viaggio. Tutte le Celebes e in giro per l’arcipelago del Borneo. Una meraviglia, quelle isole. Bellissime, sa, per la vegetazione eccetera. E da cacciare quanto ne vuoi. Si capisce che stavamo alla larga dalle vie battute”.
«“Che tipo era, il passeggero?” domandai.
«“Un buon diavolo. Ottima persona. E bravo con le carte, anche. Abbiamo giocato a écarté tutti i giorni, per un anno, e alla fine dell’anno si era ripreso tutte le mille sterline. E sì che a carte ci so fare, e tenevo gli occhi aperti”.
«“E poi è tornato in Australia, il passeggero?”.
«“L’idea era questa. Aveva degli amici, là, e contavano di sistemare il suo guaio in un paio d’anni”.
«“Capisco”.
«“Sembrava che mi toccasse fare da capro espiatorio”.
«Il capitano Nichols tacque per un momento. I suoi occhi vivaci parvero velarsi di una sorta di opacità.
«“Poveraccio, una notte cadde in mare al largo della costa giavanese. Gli squali avranno fatto il resto, immagino. Era un bravo giocatore, uno dei meglio che ho conosciuto”. Scosse la testa pensosamente. “Ho venduto la goletta a Singapore. Tra i soldi che ne ho ricavato e le mille sterline in oro, alla fin fine non m’è andata tanto male”».
Questo, dunque, l’episodio da cui mi è venuta l’idea del presente romanzo. Che però ho cominciato a scrivere solo dodici anni dopo.
1
Tutto questo accadde molti molti anni fa.
2
Il dottor Saunders sbadigliò. Erano le nove del mattino. Aveva tutta la giornata davanti a sé e niente da fare. Aveva già visitato alcuni pazienti. Sull’isola non c’erano medici, e chi soffriva di qualche disturbo approfittava del suo arrivo per consultarlo. Ma il luogo era salubre, e le infermità che gli chiedevano di guarire erano croniche, e lui poteva fare ben poco; oppure lievi, e bastavano semplici rimedi. Il dottor Saunders aveva esercitato per quindici anni a Fuchu, acquistando grande reputazione fra i cinesi per la sua abilità nel curare le malattie degli occhi; ed era per operare di cateratta un ricco mercante cinese che era venuto a Takana. Takana era un’isola in fondo all’arcipelago malese, lontanissima da Fuchu, tanto che dapprima Saunders aveva rifiutato di andarci. Ma il cinese, Kim Ching, era nativo di Fuchu, e due suoi figli vivevano là. Conosceva bene il dottor Saunders e nei suoi periodici viaggi in quella citt? lo aveva consultato perch? la vista gli si andava indebolendo. Aveva sentito che il dottore ridava quasi miracolosamente la vista ai ciechi; e quando fu ridotto al punto di distinguere appena il giorno dalla notte decise di affidarsi a lui e a nessun altro per l?operazione che, gli assicuravano, lo avrebbe guarito. Saunders gli aveva consigliato di venire a Fuchu quando fossero comparsi certi sintomi, ma Kim Ching aveva indugiato, per timore del bisturi, e quando si trov? a non saper riconoscere un oggetto dall?altro il lungo viaggio lo impensier?, e ordin? ai figli di convincere il dottore a andare da lui.
Kim Ching, all’inizio un povero coolie, a furia di lavoro e coraggio, e aiutato dalla fortuna, dalla scaltrezza e dalla mancanza di scrupoli, aveva ammassato una grossa fortuna. Adesso, settantenne, era proprietario di grandi piantagioni in varie isole; le sue golette pescavano perle, ed egli praticava un vasto commercio di tutti i prodotti dell’arcipelago. I suoi figli, entrambi uomini di mezza età, andarono a trovare il dottor Saunders, di cui erano amici e pazienti. Due o tre volte all’anno lo invitavano a un gran pranzo, con zuppa di nidi di rondine, pinne di pescecane, trepang e molte altre leccornie; cantatrici ingaggiate a caro prezzo intrattenevano la compagnia con le loro esibizioni, e tutti si ubriacavano. I cinesi volevano bene al dottor Saunders. Parlava correntemente il dialetto di Fuchu, e a differenza degli altri stranieri non viveva nel quartiere europeo ma nel cuore della città cinese, anno dopo anno. Erano abituati a lui. Sapevano che fumava oppio (moderatamente), e sapevano quanto altro c’era da sapere sul suo conto; lo ritenevano un uomo assennato. Non erano dispiaciuti che gli stranieri della comunità lo schifassero. Saunders non andava al circolo se non per leggere i giornali, quando arrivava il postale; nessuno lo invitava a cena; gli stranieri avevano un loro medico inglese, e solo quando questi era in vacanza si rivolgevano a Saunders. Se però avevano qualche guaio agli occhi, mettevano da parte il disdegno e si recavano nella misera casetta di l? dal fiume dove il dottore dimorava felicemente tra i cattivi odori di una citt? indigena. Si guardavano attorno con disgusto, sedendo nel salottino che fungeva anche da ambulatorio; arredato alla cinese, salvo uno scrittoio con l?alzata avvolgibile e un paio di malconce sedie a dondolo. Sui muri stinti le pergamene cinesi, dono di grati pazienti, facevano un curioso contrasto con il riquadro di cartone dov?erano stampate in varie grandezze e combinazioni le lettere dell?alfabeto. A quei visitatori sembrava sempre che nella casa aleggiasse lievemente l?acre odore dell?oppio.
Ma di questo i figli di Kim Ching non si accorsero, e nel caso non se ne sarebbero infastiditi. Dopo i soliti convenevoli, e dopo che Saunders ebbe loro offerto una sigaretta da un barattolo verde, gli fecero un’ambasciata. Il padre, ormai cieco e troppo vecchio per affrontare il viaggio a Fuchu, desiderava che il dottore andasse a Takana per eseguire l’operazione da lui dichiarata necessaria due anni prima. Quale sarebbe stato il suo onorario? Il dottore scosse la testa. A Fuchu aveva una vasta clientela, e gli era impossibile assentarsi a lungo. Venisse Kim Ching, magari con una delle sue golette; se non se la sentiva, ricorresse a un medico di Macassar, perfettamente in grado di eseguire l’operazione. I figli, con agile
parlantina, gli spiegarono che Kim Ching, ben sapendo che nessuno era capace di miracoli come il dottor Saunders, non voleva esser toccato da altri. Era disposto a pagare il doppio di quanto il dottore avrebbe guadagnato a Fuchu nel periodo di assenza. Saunders continuò a scuotere la testa. I due fratelli si scambiarono un’occhiata, e il maggiore estrasse da una tasca interna un grosso e sdrucito portafoglio di pelle nera, gonfio di biglietti della Chartered Bank. Li stese davanti al dottore, mille dollari, duemila dollari; il dottore sorrideva, con un ammicco degli occhi vivaci; il cinese continuò a squadernare banconote; anche i due fratelli sorridevano, propiziatori, ma fissavano attenti il suo viso, e colsero un mutamento di espressione. Saunders non si mosse, aveva nello sguardo la stessa tollerante bonomia; eppure intuivano di aver suscitato il suo interesse. Il figlio maggiore di Kim Ching si ferm? e gli dette un?occhiata interrogativa.
«Non posso lasciare tutti i miei pazienti per tre mesi interi» disse il dottore. «Kim Ching si rivolga a uno dei medici olandesi di Macassar o di Amboina. Ad Amboina ce n’è uno bravissimo».
Il cinese non replicò. Mise altre banconote sul tavolo, banconote da cento dollari; le dispose in mucchietti da dieci. Il portafoglio era meno gonfio. Accostò i mucchietti uno all’altro e alla fine ce ne furono dieci.
«Basta» disse il dottore. «Basta così».
3
Il viaggio fu complicato. Da Fuchu, Saunders andò con un battello cinese a Manila nelle Filippine, e di là, dopo alcuni giorni di attesa, a Macassar con un cargo. Poi si imbarcò su una nave olandese che ogni due mesi faceva servizio per Merauke in Nuova Guinea, fermandosi in una quantità di posti lungo la strada, e così approdò finalmente a Takana. Lo accompagnò nel viaggio un boy cinese, che fungeva da domestico, all’occorrenza da anestesista, e gli preparava la pipa quando fumava l’oppio. Saunders operò felicemente Kim Ching. Adesso non aveva niente da fare se non girarsi i pollici finché la nave olandese non fosse ripassata, di ritorno da Merauke. L’isola era abbastanza grande ma fuori mano, e il governatore olandese la visitava solo di tanto in tanto. L’amministrazione era rappresentata da un meticcio giavanese, che non parlava l’inglese, e da alcuni agenti di polizia. La cittadina era un’unica strada di negozi; due o tre tenuti da arabi di Baghdad, gli altri da cinesi. A una decina di minuti a piedi dal paese c’era una piccola locanda dove alloggiava il governatore nelle sue visite periodiche, e qui si era sistemato il dottor Saunders. Alla locanda si giungeva per un viottolo che attraversava tre miglia di piantagioni e poi si perdeva nella foresta vergine.
L’arrivo della nave olandese produceva una certa animazione. Il capitano, uno o due ufficiali, il direttore di macchina scendevano a terra, e i passeggeri, se ce n’erano. Si sedevano nella bottega di Kim Ching e bevevano birra, ma non si trattenevano mai più di tre ore, e quando risalivano sulle barche e tornavano alla nave la cittadina si riaddormentava. Il dottor Saunders se ne stava adesso sulla soglia di questa bottega. Una tettoia di canne lo proteggeva dal sole, ma sulla strada il sole picchiava, abbagliante. Un cane spelacchiato annusò un rifiuto avvolto da uno sciame di mosche e si mise in cerca di qualcosa da mangiare. Due o tre galline razzolavano per la carreggiata, e una, pancia a terra, strofinava le penne nella polvere. Fuori del negozio dirimpetto un bambino cinese nudo, col ventre enfiato, cercava di costruire un castello di sabbia con la polvere della strada. Mosche gli svolazzavano attorno, si posavano su di lui, ma il bambino non se ne curava, e non le scacciava, intento al suo gioco. Passò un indigeno, con addosso solo un sarong, e in bilico sulla spalla una pertica che reggeva ai capi due ceste di canna da zucchero. Strascicava i piedi, e camminando sollevava polvere. All’interno della bottega un commesso, curvo su un tavolo, era impegnato a redigere, con inchiostro e pennello, un documento in caratteri cinesi. Un coolie seduto per terra arrotolava sigarette e le fumava una dietro l’altra. Nessuno entrava a far compere. Saunders chiese una birra. Il commesso smise di scrivere, andò in fondo a prendere una bottiglia da un secchio d’acqua e la portò al dottore, con un bicchiere. La birra era gradevolmente fresca.
Il tempo passava un po’ a rilento, per il dottore, ma egli non se ne dispiaceva. Sapeva svagarsi con piccole cose, e il cane spelacchiato, le galline scarne, il bambino ventruto lo distraevano. Bevve lentamente la sua birra.
4
Alzò gli occhi e diede in un’esclamazione di sorpresa. In mezzo alla strada polverosa c’erano, e camminavano verso di lui, due uomini bianchi. Si chiese da dove venissero; non era arrivata nessuna nave. Camminavano pigramente, guardando a destra e a sinistra, come forestieri che visitassero l’isola per la prima volta. Erano vestiti alla buona, in calzoni e maglietta, con un sudicio casco coloniale. Si avvicinarono, lo videro seduto fuori dalla bottega e si fermarono. Uno gli rivolse la parola.
«È questo il locale di Kim Ching?».
«Sì».
«Lui c’è?».
«No, sta male».
«Peccato. Si può bere qualcosa?».
«Certo».
L’uomo si rivolse al suo compagno.
«Su, vieni».
Entrarono.
«Cosa desiderate?» chiese il dottor Saunders.
«Per me una birra».
«Anche per me» disse l’altro.
Il dottore diede l’ordinazione al coolie, che portò birre e sedie per i forestieri. Uno di essi era di mezza età, con una faccia olivastra e rugosa, capelli bianchi e corti baffi bianchi a spazzola; di statura media, smilzo, e quando parlava mostrava denti devastati dalla carie. Gli occhi scaltri, irrequieti, erano piccoli e chiari e piuttosto ravvicinati, il che gli dava un’aria volpina; ma aveva modi gradevoli.
«Da dove venite?» domandò il dottore.
«Siamo appena arrivati con un ketch. Da Thursday Island».
«Un bel tratto. Tempo buono?».
«Non si poteva desiderare di meglio. Venticello e mare calmo. Mi chiamo Nichols. Capitano Nichols. Magari il nome l’ha sentito».
«Non mi pare».
«Navigo questi mari da trent’anni. Non c’è isola dell’arcipelago che non ho toccato una volta o l’altra. Qua attorno sono abbastanza conosciuto. Kim Ching mi conosce. Da vent’anni buoni».
«Io non sono di qui» disse il dottore.
Il capitano Nichols lo guardò. L’espressione era cordiale, il viso aperto, ma nello sguardo sentivi la diffidenza.
«La sua faccia mi sembra di conoscerla» disse. «Giurerei che l’ho vista da qualche parte».
Saunders sorrise ma non largì notizie su di sé. Il capitano Nichols aguzzò gli occhi nello sforzo di ricordare dove avesse visto quell’ometto. Lo scrutò attentamente in volto. Il dottore era basso, poco più di un metro e sessantacinque, e esile, ma con un accenno di pancetta. Le mani, morbide e paffute, erano piccole, con dita affusolate; e si poteva supporre che un tempo, se avesse peccato di vanità, se ne fosse non poco compiaciuto. Serbavano ancora una sorta di educata eleganza. Era bruttissimo, col naso schiacciato e la bocca larga; e quando rideva, come faceva spesso, mostrava grossi denti gialli e irregolari. Sotto i cespugli grigi delle sopracciglia brillavano due occhi verdi, divertiti e intelligenti. Era mal rasato, con la pelle brufolosa; di un colorito acceso che sugli zigomi si accentuava in un rossore violaceo e faceva pensare a una qualche affezione cardiaca di vecchia data. I capelli dovevano essere stati un tempo neri, folti e ruvidi, ma adesso erano quasi bianchi, e radi sul cocuzzolo. La sua bruttezza, però,
lungi dal ripugnare, era simpatica. Nel ridere la pelle gli si increspava intorno agli occhi, dando al suo viso una straordinaria vivacità, con un’espressione maliziosa ma non malevola. L’avresti preso allora per un buffone, salvo per la sagacia che traspariva dal luccichio degli occhi. La sua intelligenza era evidente. E sebbene allegro e vivace, amante e divertito dalle facezie proprie ed altrui, avevi l’impressione che anche nell’abbandono del riso non si rivelasse mai del tutto. Sembrava stare in guardia. Nonostante il fare ciarliero e la cordialit? dei modi, capivi (se avevi spirito di osservazione e non ti lasciavi ingannare dalla sua superficiale franchezza) che gli occhi allegri e ridenti sorvegliavano, soppesavano, giudicavano, si formavano un?opinione. Non era tipo da fermarsi all?apparenza delle cose.
Poiché il dottore non parlava, il capitano Nichols proseguì:
«Questo è Fred Blake» disse, indicando il compagno col pollice.
Saunders accennò un saluto.
«Si trattiene a lungo?» continuò il capitano.
«Aspetto il piroscafo olandese».
«Nord o sud?».
«Nord».
«Come ha detto di chiamarsi?».
«Non l’ho detto. Saunders».
«Ho girato troppo a lungo per l’Oceano Indiano per fare domande» disse il capitano, con la sua amabile risata. «Non fare domande e non ti diranno bugie. Saunders? Ho conosciuto un sacco di tizi che rispondevano a questo nome, ma se fosse il nome vero o no lo sapevano solo loro. Che gli succede, al vecchio Kim Ching? Un bel tipo, in gamba. Speravo di farci una chiacchierata».
«Un guaio agli occhi. Una cateratta».
Il capitano Nichols si drizzò sulla sedia e tese la mano.
«Il dottor Saunders. Lo sapevo di aver visto la sua faccia. Fuchu. Ci sono stato sette anni fa».
Il dottore strinse la mano profferta. Il capitano Nichols si rivolse all’amico.
«Tutti conoscono il dottor Saunders. Il miglior medico dell’Estremo Oriente. Occhi. È la sua specialità. Una volta avevo un amico, dicevano tutti che sarebbe diventato cieco, niente da fare. Andò dal dottore e un mese dopo ci vedeva bene come te e me. I cinesi giurano per lui. Il dottor Saunders. Be’, questa è una bella sorpresa. Credevo che lei non si allontanasse mai da Fuchu?.
«Ora l’ho fatto».
«Per me è una fortuna. Lei è proprio l’uomo che mi occorreva». Il capitano Nichols si chinò in avanti e i suoi occhi scaltri fissarono il dottore con un’intensità quasi minacciosa. «Soffro maledettamente di gastrite».
«Oh, Cristo!» mormorò Blake.
Apriva bocca per la prima volta da quando si erano seduti e Saunders lo guardò. Sedeva scomposto e si rosicchiava le dita, in un atteggiamento tra di noia e di malumore. Era un giovanotto alto, smilzo ma muscoloso, con una chioma ricciuta di scuri capelli castani e grandi occhi azzurri. Non dimostrava più di vent’anni. Con quei calzonacci di tela e la maglietta sudicia aveva un’aria rozza, da giovinastro, pensò il dottore, e l’espressione scontrosa era poco gradevole; ma il naso era diritto e la bocca ben disegnata.
«Piantala di mangiarti le unghie, Fred» disse il capitano. «Che brutto vizio».
«Tu e le tue gastriti» ridacchiò il giovane.
Aveva denti molto belli, piccoli, bianchissimi e di forma perfetta; erano una grazia così inattesa in quel volto cupo, la loro bellezza era così straordinaria, da coglierti alla sprovvista. Il suo sorriso imbronciato aveva una grande dolcezza.
«Ridi, ridi, è perché non sai cos’è» disse il capitano Nichols. «Per me è un martirio. E non è che non bado a quello che mangio. Ho provato di tutto. Niente mi giova. Questa birra, per esempio. Credi che non mi farà male? Mi farà male, lo sai meglio di me».
«Dài, racconta tutto al dottore» disse Blake.
Il capitano Nichols non domandava altro. Si lanciò nella storia della sua malattia. Ne descrisse i sintomi con precisione scientifica, senza omettere alcun rivoltante dettaglio. Elencò tutti i medici che aveva consultato, le specialità farmaceutiche sperimentate invano. Saunders ascoltava in silenzio, sul viso un?espressione di amichevole interesse, annuendo di tanto in tanto.
«Se c’è uno che può fare qualcosa per me è lei» disse il capitano con fervore. «Non ho bisogno che mi dicano che lei è bravo, lo vedo da me».
«Miracoli non ne posso fare. Non pensi che sull’istante si possa far molto, per una malattia cronica come la sua».
«No, non chiedo questo, ma lei può darmi una ricetta, no? Proverò qualunque cosa. Quello che vorrei è che lei mi visitasse per bene, capisce?».
«Quanto tempo vi fermate?».
«Quanto ci pare».
«Ma ce ne andiamo appena avremo quel che ci serve» disse Blake.
I due si scambiarono un’occhiata. Saunders la notò, e senza sapere perché ebbe l’impressione che ci fosse qualcosa di strano.
«Come mai siete approdati qui?» domandò.
La faccia di Fred Blake tornò a incupirsi, e a questa domanda lanciò uno sguardo al dottore. Saunders vi lesse diffidenza, forse paura, chissà. Fu il capitano a rispondere.
«Conosco Kim Ching da una vita. Ci servivano certe provviste, e abbiamo pensato che non guastava, farci una bevuta».
«Commercianti?».
«In un certo senso. Se capita l’occasione ne approfittiamo. Chi non lo farebbe?».
«Che carico trasportate?».
«Un po’ di tutto».
Il capitano Nichols sorrise affabilmente, mostrando i brutti denti cariati. Aveva un’aria stranamente ambigua e losca. A Saunders venne in mente che forse i due contrabbandavano oppio.
«Non andate a Macassar, per caso?».
«Potrebbe darsi».
«Quello che giornale è?» chiese a un tratto Fred Blake, indicando un giornale sul bancone.
«Oh, è di tre settimane fa. È arrivato con la nave con cui sono venuto io».
«Hanno giornali australiani, qui?».
«No». Saunders sorrise all’idea.
«Ci sono notizie dall’Australia, su quel giornale?».
«È olandese. Io non so l’olandese. Comunque avrete avuto notizie più fresche a Thursday Island».
Blake si accigliò. Il capitano sogghignò furbescamente.
«Non è che questo sia proprio l’ombelico dell’universo, Fred» disse con un risolino.
«Giornali inglesi non ce ne sono?» domandò Blake.
«Ogni tanto arriva una copia spersa del giornale di Hong Kong o dello "Straits Times", ma sono vecchie di un mese».
«Niente notizie?».
«Solo quelle che porta la nave olandese».
«Non c’è un telegrafo, la radio?».
«No».
«Se uno volesse stare alla larga dalla polizia, ho idea che qui sarebbe abbastanza al sicuro» disse il capitano Nichols.
«Per qualche tempo, almeno» convenne Saunders.
«Un’altra birra, dottore?» chiese Blake.
«No, penso di no. Torno alla locanda. Se a voi due va di venire a cena, un boccone ve lo posso rimediare».
Si era rivolto a Blake, perché aveva la sensazione che questi tendesse d’impulso a rifiutare, ma fu il capitano Nichols a rispondere.
«Benone. Sarà un cambiamento dal cibo di bordo».
«Non vorremmo disturbare» disse Blake.
«Nessun disturbo. Ci vediamo qui verso le sei. Beviamo qualcosa e poi si va».
Il dottore si alzò, salutò con un cenno del capo e andò via.
5
Ma non andò subito alla locanda. L’invito così cordialmente profferto agli sconosciuti non era nato da un subitaneo moto ospitale, bensì da un’idea che gli si era affacciata alla mente parlando con loro. Ora che aveva lasciato Fuchu e la sua clientela, Saunders non aveva nessuna fretta di tornare, e si proponeva di fare un viaggetto a Giava, la sua prima vacanza da molti anni, prima di riprendere il lavoro. Se quei due gli davano un passaggio sulla barca, magari non fino a Macassar, ma almeno a una delle isole più frequentate, poi avrebbe trovato un vapore che lo portasse nella direzione che desiderava. Si era rassegnato a passare altre tre settimane o giù di lì a Takana quando sembrava non ci fosse modo di partire; ma Kim Ching non aveva più bisogno dei suoi servigi, e ora che gli si presentava l’occasione era impaziente di approfittarne. L’idea di restare lì tanto tempo, senza niente da fare, gli divenne a un tratto insopportabile. Percorse lo stradone, lungo meno di mezzo miglio, fino al mare. Non c’era banchina. Gli alberi di cocco crescevano fin sulla riva, e tra di essi spuntavano le capanne degli indigeni. Bambini giocavano qua e là, e scarni maiali grufolavano intorno alle palafitte. C’era una lunga spiaggia d’argento, con qualche praho e canoa tirati in secco. La sabbia corallina luccicava sotto il sole ardente, e anche con le scarpe scottava la pianta dei piedi. Orridi granchi sgattaiolavano a destra e a sinistra. Un praho giaceva capovolto e tre malesi in sarong, scuri di pelle, lavoravano a ripararlo. Una barriera corallina, a qualche centinaio di metri dalla spiaggia, formava una laguna, dove l’acqua era chiara e profonda. Nell’acqua bassa ruzzava uno stuolo di ragazzetti. Una delle golette di Kim Ching stava all’ancora, linda e pinta, e poco discosto c’era il ketch dei forestieri; assai misero, al confronto, e bisognosissimo di riverniciatura. Sembrava molto piccolo, per correre l’impervio oceano, e Saunders ebbe un attimo di esitazione. Alzò gli occhi al cielo. Non una nuvola. Nessun vento agitava il fogliame degli alberi di cocco. In secco sulla spiaggia c?era un battellino a remi, sul quale, suppose, quei due erano venuti a riva. Sul ketch non vide equipaggio.
Data una buona occhiata, Saunders tornò sui suoi passi e raggiunse la locanda. Si cambiò, indossando i pantaloni cinesi e la tunica di seta in cui per lunga abitudine si sentiva più a suo agio, e andò a sedersi nella veranda, con un libro in mano. Tutt’intorno crescevano alberi da frutto, e di fronte, dall’altra parte del viottolo, c’era un bel boschetto di cocchi. Sorgevano, altissimi e diritti, in file regolari, e il sole, filtrando tra le foglie, tingeva il terreno di un bizzarro disegno di luce gialla, a traforo. Dietro di lui, nella cucina, il boy preparava una leggera colazione.
Il dottor Saunders non era un gran lettore. Di rado apriva un romanzo. Interessato ai caratteri, amava i libri che illustravano le peculiarità della natura umana, e aveva letto più e più volte i diari di Samuel Pepys e il Johnson di Boswell, il Montaigne di Florio, e i saggi di Hazlitt. Gli piacevano i vecchi libri di viaggio, e leggeva con piacere, nei testi di Richard Hakluyt, le descrizioni di paesi dove non era mai stato. Aveva, a casa, tutta una biblioteca di libri sulla Cina scritti dai primi missionari. Non leggeva per informarsi o per migliorare il suo intelletto, ma cercava nei libri occasione di fantasticherie. Leggeva con un senso dell’umorismo tutto suo, e traeva dalle narrazioni delle imprese missionarie un sobrio godimento che avrebbe non poco stupito gli autori. Era un uomo tranquillo, di conversazione gradevole, ma alieno dall’imporla; capace di divertirsi a una sua facezia senza desiderare di farne parte ad altri.
Adesso aveva tra le mani un volume di viaggi del padre Évariste-Régis Huc, ma lo leggeva distrattamente. I suoi pensieri erano assorbiti dai due forestieri comparsi sull’isola in modo così inaspettato. Saunders aveva conosciuto nella sua vita in Oriente tante migliaia di persone, che non gli era difficile catalogare il capitano Nichols. Un poco di buono. Inglese, a giudicare dall?accento; e se batteva da tanto tempo i mari della Cina, probabile che in Inghilterra si fosse messo nei guai. Nel suo viso meschino e furbesco era stampata la disonest?. Non doveva aver fatto molta fortuna, se adesso era solo lo
skipper di quel misero due alberi; e il dottor Saunders emise nell?aria immobile un sospiro, un sospiro ironico, riflettendo su com?era raro che i furfanti ottenessero un compenso adeguato alle loro fatiche. Ma verosimilmente il capitano Nichols preferiva comunque il lavoro sporco a uno pulito. Era il tipo d?uomo disposto a metter mano a qualsiasi cosa. Non c?era da fidarsi a perderlo di vista; potevi far conto soltanto sulla sua volont? di gabbarti. Diceva di conoscere Kim Ching. Probabilmente era disoccupato pi? spesso che no, e sarebbe stato ben lieto di impiegarsi sotto un padrone cinese. Era il tipo di persona che uno assumerebbe per qualcosa di losco, e poteva ben darsi che una volta o l?altra fosse stato skipper di una goletta di Kim Ching. La conclusione a cui giunse il dottor Saunders fu che il capitano Nichols gli era piuttosto simpatico. Gli piaceva l?amichevole cordialit? dello skipper, dava gradevolmente sapore alla sua bricconeria, e le sue gastriti aggiungevano un?amabile nota comica. Il dottore era lieto di rivederlo quella sera.
Saunders aveva per i suoi simili un interesse né puramente scientifico né puramente umano. Li considerava una fonte di svago; li guardava spassionatamente, e dipanare i grovigli individuali gli dava un piacere non diverso da quello del matematico nel risolvere un problema. Delle cognizioni che si procurava non faceva alcun uso; la soddisfazione che ne traeva era di natura estetica, e se conoscere e giudicare gli uomini gli dava un senso sottile di superiorità, egli non ne era consapevole. Aveva pochi pregiudizi, meno della maggior parte degli uomini. Disapprovare non era nella sua indole. Molti sono indulgenti riguardo ai vizi che praticano, e intolleranti verso quelli a cui non sono inclini; alcuni, di più larga veduta, li accettano tutti con generica tolleranza, spesso, peraltro, più teorica che reale; ma pochi riescono a sopportare senza disgusto comportamenti diversi dai loro. Di rado ci si scandalizza perch? qualcuno ha sedotto la moglie altrui, e magari (se non sei la vittima) si resta equanimi sapendo che il tizio ha barato alle carte o falsificato un assegno; ma ? difficile stringersi d?intima amicizia con chi ha una cattiva pronuncia, e quasi impossibile con chi raccoglie il sugo col coltello. Il dottor Saunders a queste cose era poco sensibile. Il malcomportamento a tavola non lo turbava, come non lo turbava un?ulcera purulenta. Diritto e torto per lui non contavano pi? del buono e del cattivo tempo. Li prendeva come venivano. Giudicava ma non condannava. Rideva.
Con lui era facile andare d’accordo. Era molto benvoluto; ma non aveva amici. Era un compagno gradevole ma non cercava né dava confidenza. Non c’era persona al mondo che non gli fosse in sostanza indifferente. Bastava a se stesso; la sua felicità non dipendeva da altri che lui. Era egoista, ma essendo insieme accorto e disinteressato, pochi lo sapevano e nessuno ne aveva danno. Poiché non desiderava nulla, non era d’inciampo a nessuno. Il denaro per lui non aveva molta importanza, e poco gli premeva che i pazienti lo pagassero o no. Lo ritenevano un filantropo. Dato che del suo tempo faceva altrettanto poco conto che dei soldi, era comunque disposto a curarli. Lo divertiva vedere le loro infermità cedere alle cure mediche, e continuava a trarre diletto dalla natura umana. Confondeva persone e pazienti. Ognuno era come una pagina di un libro interminabile, e che ci fossero tante ripetizioni non faceva che aumentare l’interesse. Era curioso vedere come tutta questa gente, bianchi, gialli e bruni, reagiva alle situazioni critiche della condizione umana; ma lo spettacolo non gli toccava il cuore né gli turbava i nervi. La morte era, in fin dei conti, l’evento principale della vita di ognuno, e per Saunders era fonte di inesausto interesse il modo in cui veniva affrontata. Era con una certa emozione che egli cercava di penetrare nella coscienza di un uomo, guardando attraverso gli occhi impauriti, spavaldi, cupi o rassegnati, l?anima che per la prima volta affrontava la consapevolezza che la sua corsa era al termine; ma l?emozione era di pura curiosit?. La sua sensibilit? non era toccata. Non provava dolore n? piet?. Solo, si chiedeva vagamente come mai ci? che per uno era tanto importante importasse tanto poco a un altro. E tuttavia i suoi modi erano pieni di comprensione. Sapeva esattamente cosa dire per alleviare il terrore o la sofferenza del momento, e tutti traevano da lui forza d?animo, consolazione e incoraggiamento. Giocava una partita, e gli dava soddisfazione giocarla bene. Aveva una grande benevolenza naturale, ma era una benevolenza istintiva, sciolta da ogni interesse verso il destinatario. Veniva in tuo soccorso se eri nei pasticci, ma se non c?era modo di tirartene fuori ti lasciava perdere. Non
gli piaceva uccidere esseri viventi, e non andava a caccia n? a pesca. Pensava che ogni creatura avesse diritto di vivere, e anche una mosca o una zanzara preferiva allontanarla con la mano che schiacciarla. Forse era un uomo profondamente logico. Era innegabile che viveva in buon modo (almeno, se non si riduce il buon vivere all?attenersi alle proprie inclinazioni sensuali), poich? era gentile e caritatevole, e dedicava le sue energie al sollievo della sofferenza; ma se il movente conta qualcosa nel giudicare della bont? e della rettitudine, egli non meritava lode, perch? n? amore n? piet? o carit? influiva sulle sue azioni.
6
Saunders consumò un pranzo leggero, poi andò in camera e si gettò sul letto. Ma faceva un gran caldo e non riuscì a dormire. Si domandava che rapporto ci fosse tra il capitano Nichols e Fred Blake. Nonostante i sudici calzoni di tela, il dottore aveva l’impressione, senza sapersela spiegare, che il giovane non fosse un marinaio; e in mancanza di ragioni migliori congetturò che fosse perch? non aveva il mare negli occhi. Difficile situarlo. Parlava con un certo accento australiano, ma evidentemente non era uno zotico, e doveva aver ricevuto una qualche istruzione; sembrava di modi educati. Forse i suoi avevano un?attivit? commerciale a Sydney, e lui era abituato a una casa confortevole e a un ambiente perbene. Ma perch? navigasse per quei mari solitari su un ketch che andava a pesca di perle, con un furfante come il capitano Nichols, era un mistero. Poteva darsi, naturalmente, che quei due fossero in societ?, ma restava da vedere in quale traffico erano impegnati. Saunders era incline a credere che non fosse un traffico molto onesto; e che, qualunque fosse, Fred Blake sarebbe stato truffato.
Sebbene completamente nudo, Saunders sudava a profusione. Aveva tra le gambe quella sorta di attrezzo di bambù, cavo e tondeggiante, detto «la comare olandese», che usano da quelle parti per averne frescura; e molti ci si abituano a tal punto che anche in climi temperati non possono dormire senza. Ma per il dottore era una cosa insolita e lo infastidiva. Lo gettò via e si girò sulla schiena. Nel giardino intorno alla locanda, nel boschetto di cocchi dirimpetto, rumoreggiava una miriade di insetti, e quel brusio insistente, di solito inavvertito dalle orecchie intorpidite, adesso gli urtava i nervi con un frastuono da destare i morti. Rinunciò al tentativo di dormire, e avvolto in un sarong uscì di nuovo in veranda. Ci faceva caldo come all’interno, un caldo afoso. Era stanco. La sua mente era irrequieta, ma funzionava malamente, i pensieri gli schizzavano per il cervello come lo scoppiettio di un carburatore difettoso. Cercò di calmarsi con un bagno, ma non servì a ristorargli lo spirito, che rimase fiacco e agitato. La veranda era insopportabile, e si gettò di nuovo sul letto. L’aria sotto la zanzariera sembrava immobile. Non riusciva a leggere, non riusciva a pensare, non riusciva a riposare. Le ore avevano piedi di piombo.
Fu riscosso alfine da una voce sulla scala, e uscendo vi trovò un messo di Kim Ching, il quale lo pregava di andare da lui. Il dottore aveva fatto una visita professionale al suo paziente al mattino, e molto altro per lui non poteva fare; ma si vest? e and?. Kim Ching aveva sentito dell?arrivo del due alberi, ed era curioso di sapere cosa volessero i forestieri. Gli avevano detto che il dottore aveva passato un?ora con loro quella mattina. Non gradiva che degli sconosciuti mettessero piede sull?isola, tanta parte della quale gli apparteneva. Il capitano Nichols aveva chiesto di vederlo, ma il cinese aveva risposto che stava male e non poteva ricevere nessuno. Il capitano asseriva di conoscerlo; tuttavia Kim Ching non si ricordava affatto di lui. Gli era gi? arrivata un?accurata descrizione di quell?uomo, e la relazione del dottore non aggiunse niente che lo aiutasse. Sembrava che i forestieri si sarebbero trattenuti due o tre giorni.
«A me hanno detto che salpavano all’alba» disse Saunders. Rifletté un momento. «Forse hanno cambiato i loro piani quando li ho informati che nell’isola non c’era telegrafo né radio».
«Sul ketch hanno solo zavorra» disse Kim Ching. «Sassi».
«Nessun carico?».
«Niente».
«Oppio?».
Kim Ching scosse la testa. Il dottore sorrise.
«Forse è solo un viaggetto di piacere. Lo skipper soffre di stomaco. Vuole il mio aiuto».
Kim Ching emise un’esclamazione, illuminato da questa notizia. Ricordò che otto o dieci anni prima aveva impiegato il capitano Nichols su una delle sue golette, e lo aveva licenziato. C’era stata una controversia, ma Kim Ching non scese in particolari.
«È un pessimo soggetto» disse. «Avrei potuto mandarlo in galera».
Saunders intuì che il loro rapporto d’affari, quale che fosse, non era stato dei più limpidi; e probabilmente il capitano Nichols, sapendo che Kim Ching non si sarebbe arrischiato a citarlo in giudizio, aveva intascato una quota dei profitti maggiore di quanto gli spettava. Sul viso del cinese c?era una brutta espressione. Del capitano, adesso, ricordava ogni cosa. Nichols aveva perso il suo brevetto, aveva avuto dei guai con una compagnia di assicurazione, e da allora si era contentato di lavorare con armatori che non andavano troppo per il sottile. Gran bevitore, finch? lo stomaco non gli aveva dato dei guai. Si guadagnava da vivere alla meno peggio; spesso era disoccupato. Ma era un marinaio di prim?ordine, e ingaggi ne trovava. Non li manteneva a lungo, perch? era incapace di rigare diritto.
«Gli dica che farà bene a filarsela da qui alla svelta» concluse Kim Ching, passando a parlare in inglese.
7
Era calata la notte quando il dottor Saunders tornò un’altra volta al locale di Kim Ching. Nichols e Blake erano già lì, a bere una birra. Li accompagnò alla locanda. Il capitano chiacchierava volubilmente, in tono faceto, ma Fred rimaneva cupo e silenzioso, e Saunders capì che veniva malvolentieri. Entrando nel soggiorno del bungalow si guardò attorno con diffidenza, come aspettandosi chissà cosa, e sussultò quando il geco domestico cacciò d’improvviso il suo sibilo.
«È solo una lucertola» disse Saunders.
«Mi ha stranito».
Saunders chiamò Ah Kay, il suo boy, che portasse whisky e bicchieri.
«Non mi azzardo a berlo» disse lo skipper. «Per me è veleno. A lei piacerebbe, ogni volta che mangia o beve qualcosa, sapere che ci starà male?».
«Vediamo cosa posso fare per lei» disse Saunders.
Andò alla cassetta dei medicinali e sciolse qualcosa in un bicchiere. Lo diede al capitano e glielo fece inghiottire.
«Questo forse l’aiuterà a cenare in pace».
Versò un whisky per sé e per Fred Blake e mise in funzione il grammofono. Il giovane ascoltò il disco, animandosi; e terminato che fu ne mise su un altro lui stesso; guardava lo strumento e si dondolava un poco, a ritmo. Lanciò un paio di occhiate al dottore, che finse di non accorgersene. Il capitano Nichols, gli occhi sempre sfuggenti, conversava; per lo più facendo domande sul tale e il talaltro di Fuchu, di Shanghai, di Hong Kong, e raccontando le feste e le sbronze cui aveva partecipato in quei paraggi. Ah Kay portò la cena e si accomodarono.
«Mangiare mi piace» disse il capitano. «Mica leccornie, badi. Roba buona, roba semplice. Non sono un mangione, mai stato. Un tocco di carne, un paio di verdure e un pezzetto di formaggio per finire, e sono soddisfatto. Si può mangiare più semplice di così? Eppure, dopo venti minuti, preciso come l’orologio, cominciano i dolori. Le dico che non vale mica la pena di vivere, quando uno sta male come me. Ha mai conosciuto il vecchio George Vaughan? Un tipo dei più in gamba. Stava su una nave della Jardine e faceva la rotta di Amoy. Soffriva di stomaco al punto che si è impiccato. Non mi stupirei di finire allo stesso modo, un giorno o l’altro».
Ah Kay non era un cattivo cuoco, e Fred Blake fece ampiamente onore alla cena.
«Un banchetto, dopo quello che abbiamo dovuto mangiare sulla barca».
«Quasi tutta roba in scatola, ma Ah Kay le dà gusto. I cinesi sono cuochi nati».
«Non pranzavo così da un mese e passa».
Saunders ricordò che avevano detto di venire da Thursday Island. Col tempo buono, non potevano averci messo più di una settimana.
«Che posto è, Thursday Island?» domandò.
Fu il capitano a rispondere.
«Un postaccio. Capre e basta. Il vento soffia sei mesi in un senso e poi sei mesi nell’altro. Dà sui nervi».
Gli occhi di Nichols ebbero un luccichio mentre parlava; come se avesse capito cosa c?era dietro la semplice domanda del dottore, e lo divertisse la facilit? con cui l?aveva ribattuta.
«Lei abita là?» chiese Saunders al giovane, con un candido sorriso sulle labbra.
«No, a Brisbane» rispose l’altro bruscamente.
«Fred ha un po’ di capitale» disse il capitano Nichols «e ha pensato di vedere se da queste parti si trovava qualche buona occasione per investirlo. Idea mia, è stata. Sa, io conosco queste isole come le mie
tasche, e dico che ci sono un sacco di possibilità, per un giovanotto con del capitale. Se l’avessi io, ecco cosa vorrei, comprare una piantagione in una di queste isole».
«E anche pescare un po’ di perle» disse Blake.
«Puoi avere tutta la manodopera che vuoi. Manodopera indigena, niente di meglio. Poi te ne stai in poltrona e fai lavorare gli altri. Gran bella vita, per un giovane».
Gli occhi sfuggenti dello skipper, fermi per un momento, fissavano il viso calmo del dottor Saunders, e non era difficile capire che osservava l’effetto di ciò che andava dicendo. Il dottore pensò che era una storiella concordata fra i due quel pomeriggio. E Nichols, quando vide che Saunders non la beveva, sorrise allegramente. Era come se godesse tanto a mentire, che gli guastava il piacere veder prese per buone le sue bugie.
«Per questo abbiamo attraccato qui» proseguì. «Il vecchio Kim Ching c’è poco che non sappia di queste isole, e ho pensato che magari potevamo fare affari con lui. Ho incaricato il ragazzo della bottega di dirgli che ero qui».
«Lo so. Kim Ching mi ha informato».
«L’ha visto, allora? Di me ha detto niente?».
«Sì, ha detto che lei farà bene ad andarsene alla svelta».
«Perbacco, cos’ha contro di me?».
«Questo non me l’ha detto».
«Abbiamo avuto qualche screzio, lo so, ma è stato secoli fa. Non c?? senso a rinfacciare una cosa dopo tutto questo tempo. Perdonare e dimenticare, dico io?.
Il capitano Nichols aveva una curiosa caratteristica: poteva giocare un brutto tiro a qualcuno senza poi serbargli rancore, e non riusciva a capire perché la vittima continuasse ad avercela con lui. Il dottor Saunders notò questa peculiarità con divertito distacco.
«La mia impressione è che Kim Ching abbia buona memoria» disse.
Parlarono di questo e di quello.
«Sa,» disse a un tratto il capitano «credo che stasera non mi verrà mal di stomaco. Cos’era quella roba che mi ha dato?».
«Un piccolo preparato che mi risulta utile in casi cronici come il suo».
«Vorrei che me ne desse un altro po’».
«Non è detto che la prossima volta le faccia bene. Lei ha bisogno di una cura».
«Pensa di potermi guarire?».
Il dottore vide profilarsi la sua buona occasione.
«Non lo so. Se potessi tenerla in osservazione per qualche giorno e provare un paio di rimedi, forse potrei fare qualcosa per lei».
«A me va di restare qui per un po’, per darle modo. Non abbiamo fretta».
«E Kim Ching?».
«Cosa può fare?».
«Lascia perdere» disse Fred Blake. «Non è il caso di metterci nei pasticci. Partiamo domani».
«Parli bene, tu. Non patisci quello che patisco io. Guarda, ti dico cosa farò. Domani andrò dal vecchio diavolo a vedere cos’ha contro di me».
«Domani partiamo» ripeté l’altro.
«Partiremo quando lo dico io».
I due uomini si guardarono per un attimo. Lo skipper sorrideva con la sua solita giovialità volpina, ma Fred Blake era nero di rabbia. Saunders interruppe la lite incombente.
«Suppongo, capitano, che i cinesi lei li conosca meno bene di me, però una cosa su di loro dovrebbe saperla. Se hanno il dente avvelenato con qualcuno non lo mollano tanto facilmente».
Lo skipper batté il pugno sul tavolo.
«Ma era solo questione di un duecento sterline. Kim è ricco sfondato. Per lui che differenza fa? È
un vecchio furfante, comunque».
«Ha mai notato che niente irrita un furfante come essere imbrogliato da un altro furfante?».
Il capitano Nichols era torvo in faccia. I suoi occhietti verdognoli, troppo ravvicinati, parvero convergere nello sguardo rancoroso da lui rivolto allo spazio. Sembrava molto maldisposto. Ma alle parole di Saunders gettò indietro la testa e fece una risata.
«Questa è buona. Lei mi piace, dottore, non ha peli sulla lingua, eh? Be’, il mondo è bello perché è vario. Tieni gli occhi aperti e accidenti a chi si fa fregare, dico io. E se capita l’occasione di rimediare un gruzzolo è da scemi farsela scappare. Si capisce che tutti si sbaglia, ogni tanto. Ma non si può sapere in anticipo come andranno le cose».
«Se il dottore ti dà un altro po’ di quella roba e ti dice cosa fare starai bene» disse Blake.
Si era rabbonito.
«No, questo non lo farò» disse Saunders. «Ma sentite: sono stufo di quest’isola sperduta e ho voglia di andarmene. Se mi date un passaggio sul ketch fino a Timor, a Macassar o a Surabaja, lei avrà tutte le cure che le occorrono».
«È un’idea» disse il capitano Nichols.
«Un’idea del cavolo» esclamò l’altro.
«Perché?».
«Non possiamo portare passeggeri».
«Possiamo segnarlo in ruolo».
«Non c’è dove alloggiarlo».
«Il dottore non è schizzinoso, immagino».
«Neanche un po’. Al mio vitto prowederò io. Prenderò della roba in scatola da Kim Ching, e birra, ne ha in abbondanza?.
«Non se ne parla».
«Senti, caro giovanotto, chi comanda su questa barca, tu o io?».
«Io, se veniamo al dunque».
«Toglitelo dalla testa, ragazzo mio. Io sono lo skipper, e vale quel che dico io».
«Di chi è la barca?».
«Lo sai benissimo di chi è».
Saunders li osservava incuriosito, e ai suoi occhi attenti non sfuggiva nulla. Il capitano, perduta la sua giovialità, aveva la faccia chiazzata di rosso. Il giovane era inferocito; stava con i pugni serrati, la testa protesa.
«Sulla barca non ce lo voglio, punto e basta» esclamò.
«Oh, via,» disse il dottore «che sarà mai. Si tratta solo di cinque o sei giorni. Datemi una mano. Se non mi prendete in barca dovrò restare qui Dio sa quanto».
«Se la veda lei».
«Cos’ha contro di me?».
«Fatti miei».
Saunders gli diede un’occhiata interrogativa. Blake era non solo arrabbiato, era in ansia. Il suo bel viso tenebroso era pallido. Strano, che fosse così ostile ad accoglierlo sulla barca. In quei mari non si facevano storie, per cose del genere. Kim Ching diceva che non avevano un carico; ma forse era un carico di quelli poco ingombranti, che era facile nascondere. Morfina e cocaina non occupavano molto spazio, e a venderle nei posti giusti c’era da guadagnare un mucchio di soldi.
«Mi fareste un grosso favore» disse gentilmente.
«Perdoni, non voglio sembrare villano, ma io e Nichols siamo qui per affari e non possiamo andar fuori strada per sbarcare un passeggero in qualche posto dove non ci va di andare».
«Conosco il dottore da vent’anni» disse Nichols. «È una persona come si deve».
«L’hai visto stamattina per la prima volta».
«So tutto di lui». Il capitano sogghignò, mostrando i suoi denti disastrati, e Saunders pensò che avrebbe dovuto farseli togliere. «E se quello che ho sentito è vero, a noi due non darà fastidio».
Lanciò al dottore uno sguardo furbesco. Era interessante vedere la durezza dietro il sorriso cordiale. Saunders resse lo sguardo senza batter ciglio. Impossibile dire se la frecciata fosse andata a segno, o se egli non avesse idea di ciò a cui alludeva lo skipper.
«Delle faccende altrui non mi occupo» disse sorridendo.
«Vivi e lascia vivere, dico io» commentò il capitano con l’amabile tolleranza del briccone.
«Quando dico no è no» rispose il giovane, caparbio.
«Oh, mi hai stufato» disse Nichols. «Non c’è da aver paura».
«Chi dice che ho paura?».
«Io».
«Non ho niente da aver paura».
Si lanciavano rapidi le brevi frasi, con irritazione crescente. Saunders si domandò quale segreto ci fosse tra loro. Riguardava evidentemente più Fred Blake che Nichols; per una volta il furfante non aveva pesi sulla coscienza. Il capitano, rifletté, non era tipo da rendere la vita facile a qualcuno di cui conoscesse il segreto; però, senza poter dire perché, lui aveva l’impressione che questo segreto, quale che fosse, Nichols più che conoscerlo lo sospettasse. Comunque il dottore desiderava molto avere un passaggio sul ketch, e non intendeva rinunciarvi prima del necessario. Lo divertì giocare d’astuzia per ottenere il suo scopo.
«Sentite, non mi va di farvi litigare. Se Blake non mi vuole, non ne parliamo più».
«Ma io la voglio» ribatté lo skipper. «Per me è un’occasione d’oro. Se al mondo c’è uno che mi può mettere in riga la digestione è lei, e crede che mi faccio scappare una fortuna simile? Manco per sogno».
«Pensi troppo alla tua digestione» disse Blake. «Sono convinto che se mangiassi quel che ti pare senza tanti patemi staresti benone».
«Ah sì? Si vede che del mio apparato digestivo ne sai più di me. Allora saprai che un pezzetto di pan tostato nudo e crudo mi pesa sullo stomaco come una tonnellata di piombo. Scommetto che tra poco dirai che sono tutte fantasie».
«Be’, se me lo chiedi, secondo me la fantasia c’entra parecchio più di quel che pensi».
«Figlio di puttana».
«A chi dai del figlio di puttana?».
«A te, lo do».
«Oh, piantatela» disse il dottore.
Il capitano Nichols ruttò sonoramente.
«Adesso il bastardo me l’ha fatto tornare. Erano tre mesi che dopo cena me la passavo discretamente, e adesso me l’ha fatto tornare. Litigare così per me è la morte. Mi va subito allo stomaco. Sono un fascio di nervi. Sempre stato. Pensavo di avere una serata piacevole, per una volta, e ci si è messo lui a rovinarmela. Ho un mal di stomaco micidiale».
«Mi dispiace» disse il dottore.
«Dicono tutti la stessa cosa. Capitano, dicono, sei un fascio di nervi. Delicato? Sei più delicato di un bimbo».
Saunders era grave e partecipe.
«È come sospettavo, lei ha bisogno di assistenza; il suo stomaco va educato. Se fossi venuto in barca con voi avrei cercato di insegnare ai suoi succhi gastrici a funzionare a dovere. Non dico che in sei o sette giorni l’avrei guarita; ma potevo metterla sulla buona strada».
«E chi dice che lei non viene con noi?».
«Lo dice Blake, e mi par di capire che il padrone è lui».
«Ah, davvero? Be’, si sbaglia. Io sono lo skipper, e vale quel che dico io. Faccia la valigia e venga
a bordo domattina. La segnerò come membro dell’equipaggio».
«Non farai niente del genere» sbottò Blake, balzando in piedi. «Il mio parere conta quanto il tuo, e io dico che lui non viene. Non ci voglio nessuno sulla barca, punto e basta».
«No? E che dirai se la porto dritta nel Borneo? Al Nord. Territorio britannico, caro il mio bel giovane».
«Bada che non ti capiti qualcosa».
«Credi che ho paura di te? Credi che mi sono sbattuto in giro per il mondo da prima che tu nascessi senza sapermi guardare? Mi vorresti piantare un coltello nella schiena, eh? E chi la guida la barca, tu e quei quattro neri di negri? Mi fai ridere. Ma se non distingui la poppa dalla prua».
Blake strinse di nuovo i pugni. I due si guardavano in cagnesco, ma negli occhi del capitano c’era un ghigno beffardo. Sapeva di avere lui le carte in mano, se si veniva al dunque. All’altro sfuggì un sospiro.
«Dove vuole andare?» chiese al dottore.
«In qualunque isola olandese dove posso prendere una nave che mi porti sulla mia strada».
«Va bene, venga, allora. Sarà sempre meglio che starmene da solo tutto il tempo con questo qui».
Lanciò allo skipper un’occhiata di odio impotente. Nichols rise, benevolo.
«È vero, ti farà compagnia, ragazzo mio. Partiamo domattina verso le dieci. Le sta bene?».
«A pennello» disse il dottore.
8
Gli ospiti se ne andarono presto, e il dottor Saunders, preso il suo libro, si allungò su una sdraio di malacca. Guardò l’orologio. Erano passate da poco le nove. Aveva l’abitudine, la sera, di fumare una mezza dozzina di pipe. Gli piaceva cominciare alle dieci. Attendeva quel momento non con malessere ma con un lieve fremito di aspettativa, piacevole, che non voleva abbreviare anticipando l’ora dell’appagamento.
Chiamò Ah Kay e gli disse che al mattino sarebbero partiti sulla barca dei forestieri. Il boy annuì. Anche lui era contento di andar via. Saunders lo aveva assunto all’età di tredici anni; adesso ne aveva diciannove. Era un bel giovane, snello, con grandi occhi neri e la pelle liscia come quella di una fanciulla. I capelli, di un nero carbone e tagliati cortissimi, gli coprivano la testa come una calotta. Il viso ovale aveva il colore dell’avorio antico. Era facile al sorriso, e allora mostrava due file di denti perfetti, piccoli, bianchi e regolari. Con i corti calzoni cinesi di cotone bianco e la giacchetta attillata senza bavero aveva un’eleganza languida, stranamente toccante. Si muoveva silenziosamente e i suoi gesti avevano la grazia guardinga di un gatto. Il dottor Saunders a volte si lusingava al pensiero che Ah Kay lo considerasse con affetto.
Alle dieci, chiuso il libro, chiamò:
«Ah Kay!».
Il boy entrò, e sotto il placido sguardo di Saunders prese da un tavolo il vassoietto con il lume a petrolio, l’ago, la pipa e il barattolo tondo dell’oppio. Lo depose a terra accanto al dottore, si accosciò e accese il lume. Scaldò l’ago alla fiamma, e con la punta rovente estrasse dal barattolo una bastante quantità d’oppio; l’appallottolò sveltamente con le dita e delicatamente l’arrostì sulla fiammella gialla. Saunders la vide sfrigolare e gonfiarsi. Il ragazzo la ritrasse dal fuoco, impastò di nuovo la palletta e tornò a scaldarla; poi la inserì nella pipa, che porse al padrone. Il dottore la prese e con una vigorosa tirata da fumatore esperto inspirò il fumo dolciastro. Lo trattenne alquanto nei polmoni e lo esalò lentamente. Restituì la pipa. Il ragazzo la raschiò e la mise sul vassoio. Di nuovo scaldò l’ago e cominciò a cuocere un’altra palletta. Il dottore fumò una seconda pipa e una terza. Il ragazzo si alzò da terra e andò nella cucina. Ricomparve con una piccola teiera di tè al gelsomino e lo versò in una tazza cinese. Per un attimo la fragranza sovrastò l’odore acre della droga. Il dottore, disteso sulla sdraio, la testa appoggiata a un cuscino, guardava il soffitto. Non parlavano. Nell?ambiente c?era un grande silenzio, e l?unico suono che rompeva la quiete era lo strido di un geco. Il dottore osserv? la bestiola giallastra immobile sul soffitto, simile a un mostro antidiluviano in miniatura, che di tratto in tratto guizzava rapido a ghermire una mosca o una farfalla notturna. Ah Kay si accese una sigaretta, e cominci? a suonare pian piano uno strano strumento a corde, vagamente simile a un banjo. Le esili note si sperdevano per l?aria, parevano suoni sconnessi, e se a momenti si udiva un principio di melodia non c?era seguito, l?orecchio si ingannava; era una musica lenta e lamentosa, incoerente come i variati profumi dei fiori, e sembrava offrire solo indicazioni, un accenno qua e l?, un suggerimento di ritmo, con cui creare nell?anima una musica pi? sottile di quella percepita dall?orecchio. Ogni tanto una brusca dissonanza, come il graffiare del gesso sulla lavagna, urtava d?improvviso i nervi. Dava all?anima lo stesso brivido delizioso che fa fremere il corpo quando dal caldo si tuffa in un lago gelato. Il ragazzo sedeva per terra in una posa di spontanea bellezza, e toccava meditabondo le corde del suo liuto. Saunders si domand? quali vaghe emozioni lo pervadessero. Il suo viso malinconico era impassibile. Sembrava cercasse nella memoria melodie udite in un?antica esistenza.
Dopo un po’ il ragazzo alzò gli occhi, il viso amabilmente illuminato da un rapido sorriso, e chiese al padrone se era pronto. Il dottore annuì. Ah Kay posò il liuto, riaccese il lume e preparò un’altra
pipa. Saunders la fumò, e poi due altre. Era il suo limite. Fumava regolarmente, ma con moderazione. Si allungò sulla sdraio e si abbandonò ai suoi pensieri. Ah Kay preparò un paio di pipe per sé, le fumò, e spense il lume. Si distese su una stuoia, col collo appoggiato su un rialzo di legno, e ben presto si addormentò.
Ma il dottore, mirabilmente in pace, contemplava l’enigma dell’esistenza. Il suo corpo riposava così comodo sulla sdraio che egli non ne aveva coscienza, salvo che un senso oscuro di benessere fisico accresceva il suo sollievo spirituale. In questa condizione di libert? la sua anima poteva considerare la carne con un?affettuosa tolleranza simile a quella verso un amico che ci annoia ma il cui amore ci ? gradito. La sua mente era straordinariamente sveglia, e tuttavia scevra da ansia e irrequietezza; si muoveva con la sicura padronanza di un grande fisico che si muove tra i suoi simboli, e con una lucidit? che gli dava il piacere assoluto della pura bellezza, fine a se stessa. Era signore dello spazio e del tempo. Non c?era problema che non potesse risolvere se lo desiderava; tutto era chiaro, tutto stupendamente semplice; ma sembrava una sciocchezza sciogliere i nodi dell?esistenza quando era cos? squisitamente piacevole sapere che avresti potuto farlo quando e come volevi.
9
Il dottor Saunders era mattiniero. Uscì in veranda che l’alba era appena spuntata, e chiamò Ah Kay. Il ragazzo gli portò la colazione, le piccole banane deliziose chiamate «dita di dama», le inevitabili uova fritte, il pan tostato e il tè. Il dottore mangiò di buon appetito. I bagagli furono presto fatti. Un involto di carta da pacchi contenne lo scarso guardaroba di Ah Kay, una valigia cinese di cinghiale quello del dottore; i medicinali e gli strumenti chirurgici erano tenuti in una scatola di latta di modeste dimensioni. Tre o quattro indigeni aspettavano al piede della scaletta che portava alla veranda, pazienti che desideravano consultare il dottore. Questi li ricevette uno per uno mentre faceva colazione; e li informò che partiva quella mattina. Poi andò da Kim Ching. La casa di Kim Ching sorgeva in una piantagione di cocchi. Era un bungalow imponente, il più grande dell’isola, con qualche tratto architettonico che gli conferiva stile, ma la sua pretenziosità faceva uno strano contrasto con il sordido ambiente circostante. Non aveva giardino, e il terreno intorno, cosparso di lattine vuote di cibi in scatola e di frammenti di casse da imballaggio, era abbandonato a se stesso. Galline, anatre, cani e maiali gironzolavano tra i rifiuti in cerca di qualcosa da mangiare. La casa era arredata all?europea, con credenze di quercia patinata, sedie a dondolo americane come se ne vedevano negli alberghi del Middle West, e qua e l? tavoli col piano rivestito di velluto. Alle pareti, in massicce cornici dorate, c?erano ingrandimenti fotografici di Kim Ching e dei molti membri della sua famiglia.
Kim Ching era alto e robusto, d’aspetto autorevole; portava calzoni bianchi di tela e una catena d’orologio d’oro massiccio. Contentissimo del risultato dell’operazione (ci vedeva meglio di come avesse mai sperato), avrebbe però preferito che il dottor Saunders restasse ancora un poco nell’isola.
«Lei molto stupido a partire su quel ketch» disse quando il dottore lo informò che si imbarcava col capitano Nichols. «Lei qui molto comodo. Perché non aspetta? Se la prenda calma e si diverta. Molto meglio aspettare la nave olandese. Nichols pessimo soggetto».
«Neanche lei è uno stinco di santo, Kim Ching».
Il mercante, mostrando una fila di costosi denti d’oro, accolse questa botta con un largo sorriso consenziente. Voleva bene al dottore, gli era grato. Quando vide che non c’era modo di persuaderlo a rimanere smise di insistere. Saunders gli diede le ultime istruzioni e prese congedo. Kim Ching lo accompagnò alla porta, si accommiatarono. Il dottore andò in paese a comprare provviste per il viaggio, un sacco di riso, un casco di banane, cibi in scatola, whisky, birra; disse al coolie di portarle alla spiaggia e di aspettarlo, e tornò alla locanda. Ah Kay era pronto, e uno dei pazienti del mattino, per guadagnare qualche soldo, era lì per trasportare i bagagli. In spiaggia c’era un figlio di Kim Ching, per salutarli alla partenza, e aveva portato per ordine del padre una pezza di seta cinese come dono d’addio, e un pacchettino quadrato avvolto in carta bianca con sopra dei caratteri cinesi. Saunders ne indovin? il contenuto.
«Chandu, oppio preparato?».
«Mio padle dice loba molto buona. Folse lei non avele abbastanza pel il viaggio».
Sul ketch non c’era segno di vita, e sulla spiaggia non si vedeva il canotto. Saunders gridò, ma la sua voce fievole, di gola, non arrivava lontano. Ah Kay e il figlio di Kim Ching cercarono di farsi udire, inutilmente; quindi caricarono bagaglio e provviste su una canoa e un indigeno portò il dottore e Ah Kay fin sotto alla barca. Saunders chiamò di nuovo:
«Capitano Nichols!».
Apparve Fred Blake.
«Ah, è lei. Nichols è andato a terra a prendere acqua».
«Non l’ho visto».
Blake non disse altro. Il dottore salì a bordo, seguito da Ah Kay, e l’indigeno porse loro il bagaglio e le provviste.
«La mia roba dove la metto?».
«Là in cabina» disse Blake, indicando.
Il dottore scese per la scaletta del boccaporto. La cabina era a poppa. Era così bassa che non ci si poteva stare ritti in piedi, angusta, e attraversata dall’albero maestro. Dal soffitto annerito pendeva una lampada fumosa. C’erano dei piccoli oblò, con scuri di legno. I materassi di Nichols e Fred Blake erano disposti per lungo, e il dottore vide che per lui c’era posto solo ai piedi della scaletta. Tornò sul ponte e disse a Ah Kay di portare giù il suo materassino e la valigia.
«Le provviste sarà meglio metterle nella stiva» disse a Fred.
«Se la passerebbero male. Le nostre le teniamo in cabina. Dica al suo boy che troverà posto sotto le assi. Si levano».
Il dottore si guardò attorno. Del mare non sapeva nulla. Tranne a volte sul fiume Min, aveva navigato soltanto su piroscafi. La barca, poco più di quindici metri, sembrava molto piccola per un viaggio cos? lungo. Avrebbe voluto fare parecchie domande a Blake, ma era andato a prua. Blake era chiaramente contrario alla sua venuta, pur avendo acconsentito, e teneva il broncio. Sul ponte c?erano un paio di vecchie sedie di tela, e il dottore sedette su una di esse.
Poco dopo si avvicinò un nero, vestito soltanto di un sudicio pareo. Era di corporatura gagliarda, grigi i ricciuti capelli crespi.
«Capitano arriva» disse.
Saunders guardò nella direzione indicata e vide il canotto venire verso di loro. Il capitano Nichols era al timone e due neri remavano. Accostarono e lo skipper chiamò:
«Utan, Tom, date una mano per i barili».
Un altro nero venne su dalla stiva. L’equipaggio consisteva di quei quattro. Isolani dello stretto di Torres, uomini alti, forti, di bell’aspetto. Il capitano Nichols salì a bordo e strinse la mano a Saunders.
«Sistemato bene, dottore? Il Fenton non sembra proprio un levriero del mare, ma è la barca migliore che si possa desiderare. Regge a qualunque cosa».
Diede alla piccola imbarcazione sporca e maltenuta l’occhiata di un artigiano soddisfatto degli utensili di cui sa fare buon uso.
«Be’, si parte».
Gridò bruschi comandi. Vela maestra e vela di trinchetto furono issate, l’ancora salpata, e scivolarono fuori dalla laguna. In cielo non c’era una nuvola, e il sole batteva sul mare lucente. Soffiava il monsone, ma con poca forza; il mare era appena mosso. Due o tre gabbiani giravano attorno in ampi cerchi. Ogni tanto un pesce volante forava la superficie dell’acqua, guizzava in alto e si rituffava con un piccolo tonfo. Saunders leggeva, fumava sigarette, e quando era stanco di leggere guardava il mare e le isole verdi davanti a cui passavano. Dopo un po’ lo skipper lasciò il timone a uno dell’equipaggio e venne a sedersi accanto a lui.
«Stasera ci fermiamo a Badu» disse. «È a circa quarantacinque miglia. Dalla Guida nautica sembra un buon posto. C?? un ancoraggio?.
«Che posto è?».
«Solo un’isola disabitata. In genere la notte stiamo all’ancora».
«Blake sembra tuttora scontento di avermi a bordo» disse il dottore.
«Ieri sera abbiamo avuto una piccola discussione».
«Perché se l’è presa?».
«È solo un ragazzino».
Saunders sapeva di doversi guadagnare il passaggio, e sapeva anche che un uomo, quando ti ha raccontato tutti i suoi sintomi, prende confidenza e ti dirà molte altre cose. Cominciò a interrogare Nichols sulla sua salute, argomento sul quale lo skipper era quanto mai incline a diffondersi. Il dottore lo
accompagnò giù in cabina, lo fece distendere e lo esaminò accuratamente. Quando risalirono sul ponte il nero dai capelli grigi, Tom Obu, che era cuoco e cameriere di bordo, stava portando a poppa la cena.
«Fred, vieni» chiamò lo skipper.
Si sedettero.
«Che profumino» disse Nichols mentre Tom Obu toglieva il coperchio dalla casseruola. «Qualcosa di nuovo, Tom?».
«Non mi stupirei se il mio boy avesse dato una mano» disse il dottore.
«Questo credo di poterlo mangiare» disse lo skipper, gustando un boccone del miscuglio di riso e carne che si era scodellato sul piatto. «Che te ne pare, Fred? Direi che ce la passeremo benone, col dottore a bordo».
«È meglio della cucina di Tom, perlomeno».
Mangiarono di buon appetito. Il capitano accese la pipa.
«Se dopo non mi verranno i dolori, dirò che lei fa miracoli, dottore».
«Non avrà dolori».
«Quello che non capisco è perché uno come lei sia andato a finire in un posto come Fuchu. A Sydney potrebbe fare quattrini a palate?.
«A Fuchu mi trovo benissimo. La Cina mi piace».
«Sì? Lei ha studiato in Inghilterra, vero?».
«Sì».
«Ho sentito che lei era uno specialista con una grossa clientela a Londra, e non so che altro».
«Non creda a tutto quello che si dice».
«Sembra buffo, buttare via ogni cosa e stabilirsi in una fetente città cinese. A Londra doveva guadagnare bene».
Lo skipper lo guardò con i suoi scaltri occhietti azzurri, il viso sogghignante pieno di malizia. Il dottore sostenne l’esame senza batter ciglio. Sorrise, mostrando i denti macchiati, gli occhi vivi e vigili, ma non diede segno di imbarazzo.
«Torna mai in Inghilterra?».
«No. Perché dovrei? Casa mia è Fuchu».
«Non le do torto. L’Inghilterra è finita, se vuol sapere come la penso. Troppe regole e regolamenti, per i miei gusti. Non potrebbero lasciarti in pace, dico io? Lei non è nell’albo, vero?».
Fece questa domanda di punto in bianco, come se volesse cogliere il dottore di sorpresa. Ma aveva trovato pane per i suoi denti.
«Non dica che non ha fiducia in me, capitano. Bisogna credere nel proprio medico, altrimenti lui non può far molto».
«Credere in lei? Perdinci, se non credessi in lei non l’avrei presa a bordo». Il capitano Nichols diventò serissimo; questa era una faccenda che lo riguardava. «So che tra Bombay e Sydney non c’è nessuno che valga una cicca al suo confronto, e a dire il vero scommetterei che anche a Londra si dovrebbe girare un pezzo prima di trovare uno degno di portarle la borsa. So che lei ha preso tutti i diplomi possibili e immaginabili, e ho sentito che se stesse a Londra a quest’ora sarebbe baronetto».
«Devo ammettere che ho più diplomi di quanti me ne servono»» disse il dottore ridendo.
«Strano che lei non sia nel libro. Come si chiama? L’Annuario medico».
«Cosa le fa pensare che non ci sono?» mormorò il dottore, sorridente ma guardingo.
«Un tale di Sydney che conoscevo ha cercato il suo nome. Parlava di lei con un altro dottore, un amico, dicendo che lei era un prodigio eccetera, e per curiosità sono andati a vedere».
«Forse il suo conoscente ha cercato nell’edizione sbagliata».
Il capitano Nichols fece una risatina furbesca.
«Può darsi. Non ci avevo pensato».
«Comunque, capitano, l’interno di una galera io non l’ho mai visto».
Lo skipper ebbe un piccolo sussulto. Lo represse subito, ma cambiò colore. Saunders aveva sparato alla cieca, e gli brillavano gli occhi. Lo skipper rise.
«Buona battuta. Non l’ho visto neanch’io, dottore, ma non dimentichi che ce n’è molti che sono andati in galera senza colpa loro, e molti che ci sarebbero andati se non avessero pensato che gli conveniva cambiare aria».
Si guardarono l’un l’altro, e ridacchiarono.
«Cosa c’è da ridere?» chiese Fred Blake.
10
Verso sera avvistarono l’isola dove il capitano Nichols intendeva passare la notte: un cono coperto d’alberi fino alla cima, simile ai colli che si vedono nei dipinti di Piero della Francesca. Vi girarono intorno e raggiunsero l’ancoraggio descritto nella Guida nautica. Era una baia ben riparata; l’acqua era così limpida che guardando dalle murate si vedeva sul fondo dell’oceano la fantastica fioritura dei coralli, e si vedevano i pesci nuotare come indigeni della foresta in cammino nei familiari sentieri attraverso la giungla. L? ancorata, con non poca sorpresa dei nuovi venuti, c?era una goletta.
«Quella cos’è?» domandò Fred Blake.
I suoi occhi erano ansiosi, e in effetti era strano entrare in quella baia silenziosa, protetta dal colle verdeggiante, nel placido fresco della sera, e trovarci un veliero. Stava fermo, con le vele ammainate, e nella solitudine del luogo la sua presenza era vagamente sinistra. Il capitano Nichols lo esaminò col binocolo.
«È una nave per la pesca delle perle. Port Darwin. Non so cosa ci faccia, qui. Ce ne sono in giro molte dalle parti delle isole Aru».
  Videro l’equipaggio, tra cui un bianco, che li osservava. Fu calata una scialuppa.   «Vengono da noi» disse lo skipper.
  Il tempo di gettare l’ancora e la scialuppa accostò. Nichols scambiò gridi di saluto col capitano della goletta, e questi venne a bordo. Era un australiano; il suo sommozzatore giapponese, disse, era ammalato, e lui era diretto a una delle isole olandesi in cerca di un medico.
  «Un medico l’abbiamo qui» disse il capitano Nichols. «Gli diamo un passaggio».
  L’australiano pregò Saunders di venire a vedere il malato, e dopo che ebbero dato all’ospite una tazza di tè, poiché rifiutava di bere altro, il dottore scese nella scialuppa.
  «Avete giornali australiani?» chiese Fred.
  «Ho una copia del ‟Sydney Bulletin”. Di un mese fa».
  «Non importa. Per noi è nuova».
  «È a sua disposizione. Gliela mando col dottore». Saunders non ci mise molto a scoprire che il sommozzatore soffriva di un grave attacco di dissenteria, e stava malissimo. Gli fece un’iniezione ipodermica e disse al capitano che bisognava tenerlo in riposo.
  «Accidenti a questi giapponesi, sono degli smidollati. Dunque da quello lì non caverò altro, per un po’?».
  «Ad andar bene» disse il dottore.
  Si strinsero la mano e Saunders ridiscese nella scialuppa. Il nero mise mano ai remi.   «Ehi, aspetti. Ho dimenticato di darle quel giornale».
  L’australiano corse in cabina. Ne riemerse con un «Sydney Bulletin» e lo gettò nella barca.    Quando il dottore risalì sul Fenton Nichols e Blake stavano giocando a cribbage. Il sole tramontava e il mare liscio riluceva di pallidi e vari colori, azzurro, verde, rosa salmone, violetto lattiginoso, e somigliava al colore tenero e lieve del silenzio.
  «Lo ha rimesso in sesto?» domandò distrattamente lo skipper.    «È ridotto male».
  «Quello è il giornale?» chiese Fred.
  Lo prese di mano al dottore e andò a prua.
  «Lei gioca a cribbage?» disse Nichols.
  «No».
  «Io e Fred ci giochiamo tutte le sere. Lui ha una fortuna del diavolo. Mi vergogno a dire quanto mi ha vinto. Non può continuare così, il vento deve cambiare». Gridò: «Dài, Fred».
  «Un attimo».
  Lo skipper alzò le spalle.
  «Che maleducato. Gli premeva vedere il giornale, eh?».
  «Vecchio di un mese, per giunta» rispose il dottore.
  «Quant’è che siete partiti da Thursday Island?».
  «Mai stati da quelle parti».
  «Ah!».
  «Se ci bevessimo un goccio? Mi farà male?».
  «Non credo».
  Lo skipper chiamò Tom Obu, e il nero portò due bicchieri e dell’acqua. Nichols andò a prendere il whisky. Il sole era tramontato e la notte calava lentamente sul mare tranquillo. Il silenzio era rotto solo di tanto in tanto dal guizzo di un pesce. Tom Obu portò una lampada controvento e la piazz? sulla tuga, e sceso di sotto accese il fumoso lume a petrolio della cabina.
  «Mi domando cosa stia leggendo il nostro giovane amico tutto questo tempo».
  «Al buio?».
  «Forse sta pensando a quello che ha letto».
  Ma quando infine Fred li raggiunse e riprese la partita interrotta, sembrò a Saunders, nella luce incerta, che fosse molto pallido. Non aveva il giornale con sé e il dottore andò a prua per riprenderlo. Non lo trovò, e disse a Ah Kay di cercarlo. Intanto, in piedi nell’oscurità, rimase a osservare i giocatori.   «Quindici e due. Quindici e quattro. Quindici e sei. Quindici e otto, più sei fa quattordici. E uno per il fante, diciassette. Dio, hai una fortuna...».
  Lo skipper era un cattivo perdente. Aveva la faccia tesa e dura; i suoi occhi sfuggenti guardavano ogni carta che rivoltava con un’espressione di scherno rabbioso. L’altro giocava con un sorriso sulle labbra. La luce della lampada ritagliava dall’oscurità il suo profilo, di una finezza straordinaria. Le lunghe ciglia gettavano una piccola ombra sulle guance. In quel momento non era solo un bel giovane, aveva una bellezza tragica, molto toccante. Ah Kay venne a dire che non aveva trovato il giornale.
  «Dove l’hai lasciato quel “Bulletin”, Fred?» chiese il dottore. «Il mio boy non riesce a trovarlo».
  «Là non c’è?».
  «No, abbiamo cercato tutti e due».
  «E come diavolo faccio a sapere dov’è? Due per il fante di briscola».
  «L’hai gettato a mare, una volta letto?» chiese il capitano.   «Io? Perché mai?».
  «Be’, se non l’ha gettato a mare da qualche parte dev’essere» disse il dottore.
  «Un’altra partita tua» ringhiò lo skipper. «Mai visto nessuno beccare carte simili».

 11



 Era tra l’una e le due del mattino. Il dottor Saunders stava su una sdraio sul ponte. Lo skipper dormiva nella cabina e Fred aveva portato il suo materasso a prua. C’era una gran quiete. Le stelle erano così luminose che la sagoma dell’isola si profilava nettamente sullo sfondo della notte. La distanza è più questione di tempo che di spazio, e sebbene avessero percorso solo quarantacinque miglia sembrava a Saunders che Takana fosse lontanissima. Londra era all’altro capo del mondo. Ebbe una fugace visione di Piccadilly Circus, splendente di luci, con la ressa di autobus, automobili e taxi, e la folla di spettatori vomitata dai teatri. C’era una parte che ai suoi tempi chiamavano «the Front», la strada sul lato nord che portava da Shaftesbury Avenue a Charing Cross Road, dove dalle undici a mezzanotte la gente camminava su e giù fitta fitta. Questo prima della guerra. C’era nell’aria un senso di avventura. Gli sguardi si incontravano e... Il dottore sorrise. Non rimpiangeva il passato; non rimpiangeva nulla. I suoi pensieri vagabondi si posarono sul ponte di Fuchu, il ponte sul fiume Min, da dove si vedevano i pescatori, sotto, nelle barche, pescare con i cormorani; traversavano il ponte i ricsciò, e i coolie con i loro pesanti carichi, e i cinesi innumerevoli che andavano di qua e di là. Sulla riva destra, guardando a valle, c’era la Città cinese, con le sue case affollate e i suoi templi. Dalla goletta non traspariva una luce, e il dottore la vedeva, nel buio, solo perché sapeva che c’era. A bordo tutto era silenzioso. Ma nella stiva, dov’era accumulata la madreperla, in una delle cuccette di legno lungo la fiancata, giaceva il sommozzatore morente. Saunders dava scarso valore alla vita umana. Come farne gran conto, dopo essere vissuti tanto a lungo tra quelle miriadi di cinesi dove essa era tenuta così a vile? Era giapponese, il moribondo, e probabilmente buddhista. La trasmigrazione? Guardate il mare: un’onda segue all’altra, e non è la stessa onda, ma una è causa dell’altra e le trasmette forma e movimento. Cos? gli esseri che viaggiano attraverso il mondo non sono gli stessi oggi e domani, n? in una vita gli stessi che in un?altra; eppure ? la spinta e la forma delle vite precedenti a determinare il carattere di quelle che seguono. Una credenza ragionevole, ma incredibile. E tuttavia, pi? incredibile del fatto che tanti sforzi, tanta variet? di accidenti, tanti casi miracolosi si fossero combinati, nei lunghi evi del tempo, per produrre alla fine dal limo primigenio quest?uomo che veniva vanamente annientato dal bacillo di Flexner? A Saunders la cosa pareva strana ma naturale; senza dubbio insensata, ma da molto tempo egli si sentiva a suo agio nella futilit? delle cose. Lo spirito, certo, era un problema. Cessava di esistere quando la materia che era il suo strumento si dissolveva? In quella bella notte, mentre i suoi pensieri fluivano senza scopo, come uccelli, come i gabbiani che roteavano sul mare e salivano e scendevano portati dal vento, non poteva che astenersi dal prendere partito.
  Dalla scaletta del boccaporto venne un fruscio di passi, e apparve lo skipper. Nell’oscurità si distinguevano le strisce del suo pigiama.
  «Capitano?».
  «Sono io. Sono salito a prendere una boccata d’aria». Si abbandonò su una sedia accanto al dottore. «Ha fatto la sua fumata?».
  «Sì».
  «Io non mi ci sono mai avvezzato. Ma ne ho conosciuti tanti, che avevano questa abitudine; senza danno, sembrava. Fa bene allo stomaco, dicono. Uno che conoscevo ci andò in malora. Era skipper di una nave della Butterfield, sullo Yang-tze. Un buon posto, eccetera. Lo portavano in palma di mano. Una volta lo rimandarono a casa a farsi curare, ma appena tornato ricominciò. Finì a procacciare clienti per una bisca. A Shanghai gironzolava per le banchine, accattando mezzi dollari».
  Rimasero in silenzio. Il capitano Nichols succhiava una pipa di radica.
  «Visto niente di Fred?».
  «Dorme sul ponte».
  «Curiosa, la storia del giornale. Non voleva che lei e io leggessimo qualcosa».    «Che ne ha fatto, secondo lei?».
  «L’ha gettato in acqua».
  «Di che si tratta?».
  Lo skipper fece una risatina sommessa.
  «Mi creda o no, non ne so più di lei».
  «Ho vissuto in Oriente abbastanza a lungo per sapere che è meglio non impicciarsi dei fatti altrui».
  Ma lo skipper era incline alle confidenze. La digestione non gli dava fastidi, e dopo tre o quattro ore di buon sonno si sentiva sveglio e vispo.
  «C’è qualcosa non tanto per la quale, questo lo so, ma io sono come lei, dottore, preferisco non ficcare il naso. Non fare domande e non ti diranno bugie, dico io. E se ti capita l’occasione di fare un po’ di soldi, acchiappala al volo». Lo skipper diede una tirata alla pipa. «Questa storia la terrà per sé, vero?».
  «Assolutamente».
  «Be’, il fatto è questo. Ero a Sydney. Senza lavoro da quasi due anni. E non è che non lo cercavo, badi. Solo scarogna. Sono un marinaio coi fiocchi, e esperienza ne ho da vendere. Vela o vapore, per me è tutt’uno. Uno pensa che dovessero corrermi appresso. Macché. Sono un uomo sposato, per giunta. Le cose si misero così male che mia moglie dovette andare a servizio. Non mi piaceva per niente, le garantisco, ma tant’è, mi toccò abbozzare. Avevo un tetto sulla testa e tre pasti al giorno, merito suo, ma quando si trattava di darmi un mezzo dollaro per andare al cinema o farmi un paio di bevute, nossignore. E brontolava. Si è mai sposato, lei?».
  «No».
  «Be’, non la biasimo. Sono tirchie, sa. Alle donne non gli va di separarsi dai loro soldi. Io sono sposato da vent?anni, ed ? stato tutto un gran brontolare. Una donna molto su, la mia signora, il guaio ? cominciato di l?, pensava di essersi buttata via, sposandomi. Figlia di un grosso negoziante di stoffe di Liverpool, e me lo sbatteva in faccia ogni momento. Se la prendeva con me perch? non trovavo lavoro. Diceva che a me piaceva andarmene a zonzo, fannullone, mi chiamava, bighellone ozioso, e diceva che era stufa di ammazzarsi di lavoro per darmi vitto e alloggio, e se non mi sbrigavo a rimediare un impiego potevo pure andarmene e arrangiarmi per conto mio. Parola, a volte dovevo mettercela tutta per non prenderla a sganassoni, la gran signora, creda pure. Conosce Sydney??.
  «No, non ci sono mai stato».
  «Be’, una sera stavo in un bar giù al porto, dove andavo qualche volta. Non avevo bevuto un goccio tutto il giorno, bruciavo di sete, la mia gastrite era uno strazio e mi sentivo a terra. In tasca non avevo un soldo, io che ho comandato più navi di quante si può contarne con le dita delle due mani, e a casa non potevo andare. La mia mogliera mi avrebbe fatto cenare con un pezzo di castrato freddo, anche se sa che per me è la morte, e mi avrebbe dato il tormento a non finire; sempre da signora, se rendo l’idea, ma di una cattiveria, e con un’aria di superiorità, senza mai alzare la voce. Non un minuto di pace. E se perdevo la pazienza e la mandavo al diavolo, si rizzava impettita e diceva: niente parolacce, capitano, per favore; anche se ho sposato un volgare marinaio, voglio essere trattata da signora».
  Il capitano Nichols abbassò la voce e si chinò con fare confidenziale.
  «Queste sono cose da dire a quattr’occhi, tra lei e me. Con le donne non si sa mai come regolarsi.
Non si comportano da esseri umani. Ci crederebbe, da mia moglie sono scappato quattro volte. Dopodiché una donna, pare, dovrebbe rendersi conto, no?».
  «Pare».
  «Invece no. Mi è sempre venuta dietro. Una volta sapeva dov’ero andato, ed è stato facile, ma le altre non ne sapeva un accidente. Avrei scommesso fino all?ultimo centesimo che non mi avrebbe trovato. Come trovare un ago in un pagliaio, era. E poi un bel giorno eccola l?, tranquilla e placida, come se mi avesse visto il giorno avanti, e niente come stai o guarda un po? che sorpresa, e cose del genere, ma: ?? ora che ti fai la barba, capitano?, oppure: ?Hai dei calzoni da vergognarsene, capitano?... Cose da far saltare i nervi a un cristiano?.
  Il capitano Nichols tacque e i suoi occhi vagarono sul mare deserto. La notte era limpida, e si vedeva nitida la linea sottile dell’orizzonte.
  «Stavolta ce l’ho fatta a mollarla, me la sono svignata. Non sa dove sono e non lo può scoprire, ma le giuro che non mi stupirei se arrivasse dal mare su una barchetta, linda e pinta, a vederla è sempre una signora, glielo devo riconoscere, e salendo a bordo mi dicesse: “Cos’è questo brutto tabacco puzzolente che fumi, capitano? Lo sai che io sopporto solo il Player’s Navy Cut”. Sono i miei nervi. C’è questo all’origine delle mie gastriti, se andiamo a vedere la verità. Una volta, ricordo, andai da un medico a Singapore, mi era stato molto raccomandato, e scrisse un sacco di roba in un quaderno, sa come fanno i dottori, e poi ci mise una croce. A me non piacque per niente, così gli dissi: “Dottore,” dico “che vuol dire quella croce?”. “Ah,” fa lui “metto sempre una croce quando ho motivo di sospettare tensione in famiglia”. “Ah, capisco” dico io. “Be’, dottore, ci ha azzeccato. Una croce ce l’ho eccome”. Era uno in gamba, ma alla mia gastrite non fece niente di buono».
  «Socrate era afflitto da guai dello stesso genere, capitano, ma non ho mai sentito che influissero sulla sua digestione».
  «E chi era?».
  «Un onest’uomo».
  «Gli avrà giovato assai, scommetto».   «No, di fatto non gli giovò».
  «Bisogna prendere le cose come sono, dico io, e a far troppo i sofistici non si approda a nulla».    Il dottor Saunders rise in cuor suo. Stuzzicava il suo senso dell’umorismo pensare a quel cinico furfante miseramente atterrito dalla moglie. Era il trionfo dello spirito sulla materia. Si domandò che aspetto avesse, la moglie.
  «Le stavo raccontando di Fred Blake» continuò lo skipper, dopo una pausa per riaccendere la pipa. «Dunque, come dicevo, ero in quel bar. Dissi buonasera a uno o due tizi, sa, cordialmente, e quelli mi dissero buonasera e si voltarono dall’altra parte. Si capiva cosa pensavano, riecco il barbone che vuol scroccare un bicchierino, ma con noi va in bianco. Non c’è da meravigliarsi, se mi sentivo giù. Una cosa umiliante, ecco cos’era, per uno con la mia carriera alle spalle. Terribile come la gente può essere rognosa, quando sa che non hai un soldo. Il padrone mi guardava storto e avevo paura che mi chiedesse cosa vuoi bere, e se dicevo per ora niente mi dicesse va be’, allora stattene fuori. Mi misi a parlare con uno o due tizi mai visti, ma, come dire, mi filavano poco. Raccontai un paio di storielle senza riuscire a farli ridere, e mi fecero capire abbastanza chiaramente che rompevo. E poi vidi entrare un tale che conoscevo. Un tipo di bullo, grande e grosso. Ryan, si chiamava. Uno da tenerselo buono. C’entrava per qualcosa con la politica. Sempre avuto un mucchio di soldi. Una volta mi aveva prestato cinque scellini.
Be’, pensai che non avesse voglia di vedermi, feci finta di non riconoscerlo e continuai a chiacchierare.
Ma lo sbirciavo con la coda dell’occhio. Lui si guardò attorno e venne dritto da me.
  «“Buona sera, capitano” dice tutto affabile. “Come ti va la vita di questi giorni?”.
  «“Da schifo” dico io.
  «“Ancora in cerca di lavoro?”.
  «“Sì” dico io.
  «“Cosa bevi?” dice.
  «Presi una birra, e lui anche. Più o meno mi salvò la vita. Ma sa, io non sono uno che crede ai miracoli. Di quella birra avevo un gran bisogno, ma sapevo, come so che sto parlando con lei, che Ryan non me la offriva per niente. ? di quei tipi che ti danno pacche amichevoli sulla schiena e ridono da scoppiare alle tue barzellette, e ?Dove ti sei nascosto?? di qua e ?La mia signora ? una gran donnina e dovresti vedere i miei figlioli? di l?, eccetera eccetera, e intanto ti squadrano e ti ficcano gli occhi dentro.
I gonzi si lasciano fregare. "Il vecchio Ryan," dicono ?che brava persona?. Io non sono mica scemo, dottore, non mi lascio incantare cos? facilmente. E mentre bevevo la birra pensavo: ?Tieni gli occhi aperti, caro mio, questo vuole qualcosa?. Ma non lo diedi a vedere, si capisce. Gli raccontai un paio di storielle e lui gi? a ridere.
  «“Sei proprio una sagoma, capitano,” dice “un vero spasso. Finisci la tua birra e ne prendiamo un’altra. Starei ad ascoltarti tutta la notte”.
  «Be’, finii la birra e vidi che stava per ordinarne un’altra.
  «“Stai a sentire, Bill” mi fa; io mi chiamo Tom, ma non dissi niente, capivo che cercava di essere cordiale. “Stai a sentire, Bill,” dice “qua c’è troppa gente, non si riesce a parlare, e non si sa chi ascolta quello che dici. Facciamo una cosa”. Chiamò il padrone. “Ehi, George, vieni un momento”. E quello arriva di corsa. “Senti, George, io e il mio amico vorremmo farci una chiacchieratina in pace sui vecchi tempi. Si può andare da te?”.
  «“Nell’ufficio? Se volete andate pure, e mettetevi comodi”.
  «“Così va bene. E portaci un paio di birre”.
  «Be’, andiamo in ufficio, e George ci porta le birre, di persona, e mi fa anche un cenno di saluto, mi fa. Poi esce, e Ryan gli chiude la porta dietro, e guarda la finestra per vedere se è ben chiusa, perché, dice, non sopporta le correnti d’aria. Io non sapevo cosa avesse in mente, e pensai che era meglio mettere tutto bene in chiaro subito.
  «“Senti, Ryan,” dico “mi dispiace per quei cinque scellini che mi hai prestato. Non me ne sono mica scordato, ma il fatto ? che ho dovuto mettercela tutta solo per sopravvivere?.
  «“Non ci pensare” dice lui. “Cosa sono cinque scellini? So che sei uno a posto, Bill, una persona come si deve. A che serve avere soldi se non li puoi prestare a un amico che se la passa male?”.   «“Be’, io farei lo stesso per te, Ryan” dico io, rispondendo a tono. A sentirci, pareva che fossimo fratelli».
  Il capitano Nichols ridacchiò ricordando la scena. Traeva un piacere artistico dalla sua furfanteria.
  «“Cin cin” dico io.
  «Bevemmo tutti e due un sorso di birra. “Sta’ a sentire, Bill,” dice Ryan asciugandosi la bocca col dorso della mano “mi sono informato, sul tuo conto. Sei un bravo marinaio, eh?”. “Uno meglio non lo trovi” dico io. “Se da un po’ sei senza lavoro penso che sia più sfortuna che cattiva condotta”. “Giusto” dico io. “Ti faccio una sorpresa, Bill” dice lui. “Te lo do io, un lavoro”. “Lo prendo,” dico “quello che sia”. “Bravo,” dice lui “così si fa. Sapevo di poter contare su di te”.
  «“Di che si tratta?” gli chiedo.
  «Mi guarda, e mi sorride come se fossi un fratello perduto da chissà quando e mi amasse come chissà cosa, ma ha gli occhi duri. Era una faccenda seria, ho capito.
  «“Sai tenere la bocca chiusa?” mi chiede.
  «“Come un’ostrica”.
  «“Bene. Dunque che ne diresti di prendere un bel due alberi da pescare le perle, di quelli che hanno a Thursday Island e a Port Darwin, e andare in giro qualche mese per le isole?”.    «“Mi pare un’ottima cosa”.
  «“Ecco, il lavoro è questo”.
  «“Commercio?” dico io.
  «“No, piacere e basta”».
  Il capitano Nichols sogghignò.
  «Mancò poco che non gli ridessi sul muso, ma ci vuole prudenza, c’è tanti che non hanno il senso dell’umorismo, così feci una faccia seria seria. Mi diede un?altra occhiata e capii che a irritarlo poteva diventare una brutta bestia.
  «“Ti dirò com’è” dice. “Un giovanotto che conosco è esaurito per il troppo lavoro. Suo papà è un vecchio amico mio, e mi do questa briga per fargli un piacere, capisci? È uno molto in alto, che ha un sacco di influenza per un verso o per l’altro”.
  «Bevve ancora un po’ di birra. Io gli tenevo gli occhi addosso ma non dissi una parola. Neanche una sillaba.
  «“Il vecchio è molto preoccupato. Vedi, è il suo unico figlio. Io so com’è con i figli miei. Se uno si fa male a un dito, ci sto in pena tutto il giorno”.
  «“Non dirlo a me” dico io. “Anch’io ho una figlia”.
  «“Figlia unica?”.
  «Annuii.
  «“Gran cosa, i figli. Niente come loro per far felice un uomo”.   «“Hai ragione” dico.
  «“Questo ragazzo è sempre stato delicato” dice lui, scuotendo la testa. “Debole di polmoni. I dottori dicono che per lui la cosa migliore è una crociera per mare. Be’, a suo padre non andava che si imbarcasse su una nave qualsiasi, ha saputo di questo ketch e l’ha comprato. Così, capisci, non hai vincoli e vai dove ti pare. Vita bella e tranquilla, vuole questo per il suo ragazzo; insomma, non c’è da aver fretta. Scegli il vento che vuoi, e quando arrivi a un’isola dove ti sembra di poterti fermare per un po’, be’, ti ci fermi. Ci sono decine di queste isole tra l’Australia e la Cina, mi dicono”.
  «“Migliaia”.
  «“E il ragazzo deve stare tranquillo, questo è essenziale. Suo papà vuole che sia tenuto alla larga da dove c’è molta gente”.
  «“Va bene” dico io, con l’aria più innocente di un bimbo in fasce. “E per quanto tempo?”.
  «“Non so di preciso. Dipende dalla salute del ragazzo. Due o tre mesi, forse, o magari un anno”.
  «“Capisco” dico io. “E a me cosa ne viene?”.
  «“Duecento sterline quando il tuo passeggero sale a bordo e duecento quando torni”.
  «“Facciamo cinquecento contanti e ci sto” dico. Lui non dice niente ma mi guarda brutto e fa il muso duro. Parola mia, non era un bel vedere. Se c’è una cosa che non mi manca è il tatto. Quello se voleva poteva complicarmi la vita. Lo sapevo, e ho capito che se non stavo attento così avrebbe fatto. Sicché ho alzato le spalle, con aria noncurante, e mi sono messo a ridere. “Oh, be’, dei soldi non m’importa” dico. “Per me i soldi non contano, mai contato. Altrimenti oggi sarei uno degli uomini più ricchi d’Australia. Prendo quello che dici. Tutto per favorire un amico”.
  «“Bravo il vecchio Bill" dice.
  «“Dov’è adesso la barca? Mi piacerebbe andarle a dare un’occhiata”.
  «“Oh, è perfetta. Un amico mio l’ha appena portata da Thursday Island per venderla. È in gran forma. Non sta a Sydney, è a qualche miglio su per la costa”.
  «“E l’equipaggio?”.
  «“Negri dello stretto di Torres. L’hanno portata loro. Non devi far altro che salire a bordo e partire”.
  «“Quando vuoi che parta?”.
  «“Subito”.
  «“Subito?” dico io, sorpreso. “Mica stanotte?”.
  «“Sì, stanotte. Ho un’auto che aspetta in strada. Ti accompagno dov’è ancorata”.
  «“Perché tanta fretta?” dico io, sorridendo, ma con un’occhiata come per dire che la faccenda mi pareva parecchio sospetta.
  «“Il padre del ragazzo è un grosso uomo d’affari. Fa sempre le cose a questo modo”.    «“Un politico?” dico io.
  «Cominciavo a fare due più due quattro, mi spiego.
  «“Altroché” dice Ryan.
  «“Ma io sono un uomo sposato” dico. “Se sparisco così senza dire una parola a nessuno, la mia vecchia andrà in giro a fare domande. Vorrà sapere dove sono e se non trova chi glielo dice finirà che va alla polizia”.
  «Lui allora mi ha dato un’occhiataccia, e ho capito che l’idea che lei andasse alla polizia non gli piaceva per niente.
  «“Sembrerà strano, un capitano che scompare in questa maniera. Cioè, non è come se fossi un nero o un canaco. Naturalmente non so se qualcuno ha motivo di curiosare. In giro ci sono un sacco di ficcanaso, specie adesso con le elezioni in vista”.
  «Mi venne da pensare che ci avevo azzeccato, con questa frase sulle elezioni, ma lui non diede a vedere un bel niente. La sua brutta faccia era tale e quale un muro cieco.
  «“Andrò a parlarci io con tua moglie” dice Ryan.
  «Faceva gioco anche a me, e non volevo farmi scappare un’occasione simile.
  «“Dille che il primo ufficiale di un piroscafo si è rotto il collo al momento di partire e che hanno preso me, e non ho avuto il tempo di passare da casa, e che le manderò mie notizie da Città del Capo”.    «“Così va bene” dice lui.
  «“E se lei pianta una grana dalle un biglietto per Città del Capo e cinque sterline. Non è chiedere molto”.
  «Allora lui rise, davvero, e disse che l’avrebbe fatto.
  «Finì la sua birra e io finii la mia.
  «“Allora,” dice “se sei pronto si va”. Guardò l’orologio. “Ci vediamo tra mezz’ora all’angolo di Market Street. Arrivo con la mia auto e salti su. Adesso esci per primo. Non c’è bisogno che passi dal bar. C’è una porta in fondo al corridoio. Vai per di là e sei in strada”.
  «“Okay” dico io, e prendo il berretto.
  «“Ancora una parola” dice, mentre me ne sto andando. “E vale per adesso e per dopo. Se non vuoi ritrovarti con un coltello nella schiena o una pallottola nella pancia, meglio che non provi a fare scherzi.
Intesi?”.
  «Affabilmente, lo disse, ma io non sono mica scemo, ho capito che parlava sul serio.
  «“Niente paura” dico. “Se uno mi tratta come si deve, mi comporto come si deve?. Poi, con aria indifferente: ?Il giovanotto ? a bordo, immagino??.
  «“No. Verrà più tardi”.
  «Uscii in strada e andai dove mi aveva dato appuntamento. Erano solo un duecento metri. Pensai che se voleva che lo aspettassi lì per mezz’ora era perché doveva andare a parlare con qualcuno. Mi domandai cosa avrebbe detto la polizia, se la informavo che c’era per aria qualcosa di losco, e che le sarebbe convenuto seguire l’automobile e dare un’occhiata a questa barca. Ma pensai che forse non sarebbe convenuto a me. Va bene agire da bravo cittadino, e a me fa piacere come a tutti essere in buona con la polizia, ma non mi avrebbe giovato a molto se beccavo una coltellata nella pancia. E niente quattrocento sterline per il disturbo. Forse meno male che non cercai di fare imbrogli con Ryan, perché dall’altra parte della strada c’è un tizio, nell’ombra, come se non volesse farsi vedere, e mi sembrò che mi stesse sorvegliando. Traverso la strada per dargli un’occhiata e lui si allontana quando mi vede arrivare, poi torno indietro e rieccolo di nuovo lì dov’era prima. Strano. Era tutto maledettamente strano. Quello che mi scocciava era che Ryan si fidasse così poco di me. Se devi fidarti di un uomo, dico io, fidati. Che fosse strano non mi importava, intendiamoci. In vita mia ne ho viste di stranezze, e le prendo come vengono».
  Saunders sorrise. Cominciava a capire il capitano Nichols. Era un uomo che trovava l’onesto trantran della vita quotidiana un tantino noioso. Aveva bisogno di un pizzico di furfanteria per neutralizzare la depressione prodotta dalla sua gastrite. Quando intingeva le dita nel malaffare, il suo sangue scorreva più rapido, si sentiva meglio in salute, la sua vitalità si intensificava. La vigilanza che doveva allora esercitare per guardarsi dai guai lo distraeva dai suoi lamentevoli processi digestivi. Nel dottor Saunders una tal quale mancanza di partecipe simpatia per il prossimo era compensata da una non comune tolleranza. Non riteneva che spettasse a lui lodare o condannare. Sapeva riconoscere il santo e il briccone, ma considerava l?uno e l?altro con lo stesso tranquillo distacco.
  «Mi veniva da ridere,» continuò lo skipper «pensando a me che stavo lì, pronto a partire in crociera senza nemmeno un vestito di ricambio, gli aggeggi per farmi la barba e uno spazzolino da denti. Non ce n’è molti, che lo farebbero come niente fosse».
  «Senz’altro» disse il dottore.
  «E poi ho pensato alla faccia di mia moglie, quando Ryan le diceva che ero partito. Mi pare di vederla, scapicollarsi a Città del Capo con la prima nave. Stavolta non mi trova più. Me la sono svignata, da lei. E chi l’avrebbe immaginato, proprio quando pensavo che non ce l’avrei fatta un giorno di più. Se questa non è la Provvidenza, non so cos’altro».   «Imperscrutabili, dicono, sono le sue vie».
  «E che, non lo so? Sono nato e cresciuto battista. “Non cade foglia...” eccetera. Ho visto tante volte che è vero. Allora, ho aspettato lì per un po’, una buona mezz’ora, e arriva una macchina e si ferma davanti a me. "Monta su" dice Ryan, e via. Intorno a Sydney le strade sono uno schifo, lui guidava svelto e si ballonzolava su e giù come turaccioli.
  «“E le provviste eccetera?” gli dico.
  «“È tutto a bordo” dice lui. “Abbastanza per tre mesi”.
  «Dove andasse non sapevo. Era buio pesto, doveva esser quasi mezzanotte, e non si vedeva un accidente.
  «“Eccoci” dice, e si ferma. “Scendi”.
  «Scendo, e lui dopo di me, e spegne i fari. Ho capito che eravamo vicino al mare, ma vedere, neanche a un metro di distanza. Aveva una torcia elettrica.   «“Vienimi dietro” dice “e bada a dove metti i piedi”.
  «Camminammo per un po’, su una specie di sentiero. Io sono lesto di gambe, ma due o tre volte sono stato lì lì per finire col culo per terra. “Bell’affare” mi dico “se ti rompi una gamba a scendere giù di qua”. Ho tirato il fiato quando siamo arrivati in fondo e mi sono sentito la spiaggia sotto i piedi. Si vedeva l?acqua, ma nient?altro. Ryan fa un fischio, e dal mare qualcuno grida, sottovoce, mi spiego, e Ryan segnala con la torcia per mostrare dove eravamo. Poi ho sentito uno sciacquio di remi, e dopo un minuto o due arriva un canotto con un paio di neri. Montiamo, io e Ryan, e via. Se avessi avuto in tasca venti sterline ne avrei date poche per la possibilit? di rivedere l?Australia. Australia felix, perdiana. Remiamo una decina di minuti, direi, e accostiamo al ketch.
  «“Che te ne pare?” chiede Ryan, una volta a bordo.
  «“Non vedo granché” dico io. “Ti dirò meglio domattina”.
  «“Domattina sarai un pezzo al largo” dice Ryan.
  «“Quando arriva questo povero ragazzo malato?” dico.
  «“Tra poco” dice Ryan. “Vai giù in cabina, accendi il lume e da’ un’occhiata. Ci facciamo una birra. To’, prendi i fiammiferi”.
  «“D’accordo” dico io, e vado giù.
  «Ci vedevo poco, ma sapevo la strada d’istinto. E scendendo ho fatto in tempo a guardarmi dietro, fiutavo che Ryan stava combinando qualcosa. Lo vedo che lampeggia con la torcia, tre o quattro volte. “Ehilà,” mi dico “c’è qualcuno all’erta”, ma se fosse a riva o in mare non avevo idea. Poi Ryan viene giù e dà un’occhiata in giro. Pesca una bottiglia di birra per sé e una per me.
  «“Tra poco spunta la luna” dice. “C’è un bel venticello”.
  «“Partiamo subito?” dico io.
  «“Prima è meglio è, dopo che il ragazzo sale a bordo, e tu fila senza fermarti, intesi?”.
  «“Senti qua, Ryan,” dico “non ho neanche la roba per radermi”.
  «“Allora fatti crescere la barba, Bill” risponde. “L’ordine è di non approdare in nessun posto finché non arrivi in Nuova Guinea. Puoi prendere terra a Merauke, se vuoi”.
  «“È olandese, eh?”. Annuisce. “Senti, Ryan,” dico “lo sai che non sono nato ieri. Non posso fare a meno di pensare, no? Che senso c’è, perché non mi dici chiaro come stanno le cose?”.
  «“Bill, vecchio mio,” dice lui, affabile "beviti la tua birra e non fare domande. Lo so che non posso impedirti di pensare, ma tu dai retta a quello che ti si dice o giuro a Dio che ti cavo gli occhi con le mie mani".
  «“Be’, per esser chiaro è chiaro” dico io, ridendo.
  «“Alla salute” dice.
  «Si fa un sorso di birra e io anche.
  «“Ce n’è, di birra?” chiedo.
  «“Tanta che ti basti. So che non sei una spugna. Altrimenti non ti avrei dato questo lavoro”.
  «“No,” dico “un goccio di birra mi piace, ma non vado troppo in là. E i soldi?”.
  «“Li ho qui” dice. “Te li do prima di andarmene”.
  «Siamo rimasti a chiacchierare di questo e quello. Gli chiedo dell’equipaggio eccetera, e lui mi chiede se ho niente in contrario a prendere il largo di notte e io dico no, potrei pilotare la barca a occhi chiusi, e poi d’improvviso sento un rumore. Le orecchie ce l’ho fine, ce l’ho, e da quel lato non mi sfugge niente.
  «“Arriva una barca” dico.
  «“Era ora,” dice lui “stanotte ho da tornare a casa, da mia moglie e i bambini”.
  «“Meglio salire sul ponte, no?” dico.
  «“Nessun bisogno” dice.    «“Come vuoi” dico.
  «Siamo rimasti lì in ascolto. Una scialuppa, dal rumore. Accosta, dando una botta sulla fiancata. Poi qualcuno sale a bordo. Scende dal boccaporto, tutto acchittato, vestito blu, colletto e cravatta, scarpe marroni. Mica come è adesso.
  «“Questo è Fred” dice Ryan, dandomi un’occhiata.
  «“Fred Blake” dice il giovanotto.
  «“Il capitano Nichols. Uomo di mare di prim’ordine. Persona a posto”.
  «Ci guardiamo, col ragazzo. Delicato non sembrava. Il ritratto della salute, avrei detto. Un po? nervoso. Come se avesse paura.
  «“Peccato, che stai male” dico, tutto cordiale. “Vedrai che l’aria di mare ti rimette in sesto. Niente di meglio di una crociera per irrobustire un giovanotto”.
  «Mai visto nessuno arrossire come lui, quando gli ho detto questo. Ryan l’ha guardato e ha guardato me e si è messo a ridere. Poi dice che mi avrebbe dato il contante e se ne sarebbe andato. L’aveva nella cintura e l’ha tirato fuori e mi ha pagato, duecento sovrane d’oro. Non vedevo oro da secoli. L’avevano solo le banche. Chiunque fosse che voleva togliere di torno il ragazzo, doveva essere un pezzo grosso, ho pensato.
  «“Dammi anche la cintura, Ryan” dico. “Non posso lasciare tanti soldi in giro”.
  «“Va bene,” dice “prenditi la cintura. Buona fortuna”. E prima che potessi dire una parola è uscito dalla cabina, ha scavalcato la murata e si è allontanato con la scialuppa. Non volevano rischiare che vedessi chi c’era dentro».
  «E poi cosa è successo?».
  «Be’, ho rimesso i soldi nella cintura e me la sono stretta addosso».    «Un bel peso, no?».
  «Quando siamo arrivati a Merauke abbiamo comprato un paio di cassette e la mia l’ho nascosta nessuno sa dove. Ma se le cose vanno avanti così, i soldi che mi restano peseranno come una piuma».
  «Cosa intende dire?».
  «Ecco, abbiamo navigato sempre su lungo la costa, col tempo buono e tutto, una bella brezza, e ho detto al ragazzo: "Ti va una partita a cribbage?". Bisognava passare il tempo in qualche modo, e sapevo che lui soldi ne aveva, parecchi. Perché non approfittarne? Gioco a cribbage da una vita, e pensavo di vincere facile. In quelle carte ci dev’essere il diavolo. Da quando siamo partiti da Sydney non c’è stato un giorno che ho vinto. Ho perso qualcosa come settanta sterline, ho perso. E non ? che lui sappia giocare. ? che ha una fortuna maledetta?.
  «Forse gioca meglio di quanto lei pensi».
  «Macché. Quel gioco lo conosco a menadito. Altrimenti crede che glielo avrei proposto? No, è fortuna, e la fortuna non può continuare in perpetuo. Deve cambiare, e allora mi rifarò delle perdite e lo ripulirò, anche. È scocciante, si capisce, ma non mi preoccupo».
  «Le ha detto niente di sé?».
  «Non ha fiatato. Ma io ho fatto due più due quattro, e ho ben la mia idea di cosa c’è dietro».
  «Sì?».
  «La politica, c’è dietro, o mi mangio il berretto. Sennò non ci starebbe di mezzo Ryan. Nel Nuovo Galles del Sud il governo è malmesso, si regge coi denti. Se ci fosse uno scandalo cadrebbe domani. Comunque presto ci saranno le elezioni, e loro pensano di farcela, ma a parer mio è testa o croce, e sanno di non poter correre rischi. Non mi stupirei che Fred fosse figlio di qualcuno parecchio importante».
  «Il capo del governo, vuol dire, o roba del genere? C’è un ministro di nome Blake?».
  «Lui si chiama Blake tanto come me. Si tratta di un ministro, di sicuro, e Fred è suo figlio o suo nipote; e comunque sia, se la storia viene fuori quello perde la poltrona, e la mia idea è che tutti quanti hanno pensato che era meglio togliere Fred dalla circolazione per qualche mese».
  «Cosa può aver fatto?».
  «Ha ammazzato qualcuno, secondo me».
  «È solo un ragazzo».
  «Abbastanza grande per finire sulla forca».

 12



  «Ehi, cos’è?» disse lo skipper. «Arriva una barca».
  Aveva davvero un orecchio fino, perché Saunders non udiva nulla. Il capitano scrutò nell’oscurità. Posò la mano sul braccio del dottore, e alzandosi quietamente scivol? gi? in cabina. Dopo un momento riapparve con un revolver.
  «La prudenza non guasta» disse.
  Ora il dottore distinse un tenue cigolio di remi entro scalmi arrugginiti.    «È la scialuppa della goletta» disse.
  «Lo so. Ma non so cosa vogliono. Un po’ tardi, per una visita».
  I due uomini aspettarono in silenzio, ascoltando il suono che si avvicinava. Presto, non solo udirono lo sciabordio dell’acqua ma videro profilarsi vagamente la barca, una piccola massa nera sullo sfondo nero del mare.
  «Ehi, della barca!» gridò Nichols.
  «È lei, capitano?» giunse una voce dal mare.
  «Sì, sono io. Cosa volete?».
  Stava al parapetto, col braccio pendulo e il revolver in mano. L’australiano continuò ad avvicinarsi.
  «Aspetti che vengo a bordo» disse.
  «Un po’ tardi, no?» gridò Nichols.
  L’australiano disse al rematore di fermarsi.
  «Svegli il dottore, la prego. Il mio giapponese ha una brutta aria. Mi pare che stia morendo».    «Il dottore è qui. Accostate».
  La scialuppa accostò e il capitano Nichols, sporgendosi, vide che l’australiano era solo con un nero.
  «Volete che venga da voi?» chiese Saunders.
  «Mi dispiace disturbarla, dottore, ma è ridotto male».
  «Arrivo. Prendo la mia roba».
  Corse giù per la scaletta del boccaporto e prese la borsa del pronto soccorso. Scavalcò il parapetto e si calò nella scialuppa. Il nero diede di piglio ai remi.
  «Sa cos’è,» disse l’australiano «sommozzatori è difficile trovarne, specie giapponesi, che sono i soli che valgano. Adesso nelle isole Aru non ce n’è uno senza lavoro, e se perdo questo qui mi va all’aria tutto il programma. Dovrò andare fino a Yokohama, e poi probabilmente mi toccher? girare un mese prima di trovare quello che mi occorre?.
  Il sommozzatore era steso su una cuccetta bassa nell’alloggio dell’equipaggio. L’aria era fetida e il caldo tremendo. Due neri erano addormentati e uno, sdraiato sulla schiena, respirava rumorosamente. Un terzo, accovacciato per terra accanto al malato, lo fissava con occhi imbambolati. Una lampada controvento appesa a una trave spandeva una luce fioca. Il giapponese era in stato di collasso. Era cosciente, ma quando il dottore si chinò su di lui nei neri occhi orientali non ci fu alcun mutamento di espressione; come se già guardassero l’Eternità e non potessero essere distratti da oggetti transitori. Saunders gli sentì il polso e gli posò la mano sulla fronte madida. Gli fece un’iniezione ipodermica. In piedi accanto alla cuccetta osservò meditabondo la forma supina.
  «Saliamo a prendere un po’ d’aria» disse poi. «Dica a quest’uomo di avvertirci se c’è qualche cambiamento».
  «È spacciato?» chiese l’australiano quando furono sul ponte.
«Sembra proprio».
«Dio, la sfortuna che ho».
  Il dottore fece una risatina. L’australiano lo invitò a sedersi. La notte era tranquilla e silenziosa. Da infinite lontananze le stelle si specchiavano nell’acqua calma. I due uomini tacevano. Dicono alcuni che se si crede a una cosa con forza sufficiente essa si avvera. Per quel giapponese là disteso, morente di una morte indolore, questa non era la fine, ma un voltar pagina; era sicuro, com’era sicuro che il sole sarebbe sorto tra poche ore, di passare semplicemente da una vita a un’altra. Il karma, le azioni di questa vita come di tutte le altre da lui vissute, sarebbero in qualche modo continuate; e forse, nel suo sfinimento, la sola emozione che in lui sussisteva era la curiosità, tra ansiosa e divertita, di sapere in quale condizione sarebbe rinato. Il dottor Saunders si appisol?. Fu svegliato dalla mano di un nero sulla spalla.
  «Venga, presto».
  Spuntava l’alba. Non era ancora giorno, ma la luce delle stelle era impallidita e il cielo era spettrale. Il dottore scese. Il malato si spegneva rapidamente. Aveva ancora gli occhi aperti ma il polso era impercettibile e il corpo di un gelo mortale. A un tratto ebbe un piccolo rantolo, sommesso, quasi contrito e conciliante, come le maniere dei giapponesi, e morì. I due dormienti si erano svegliati e uno era seduto sul bordo della cuccetta, con le nere gambe nude penzoloni, mentre l’altro, come se volesse escludere da sé ciò che avveniva tanto vicino, era accoccolato sul pavimento con la schiena rivolta al morente, e si teneva la testa fra le mani.
  L’australiano, quando il dottore tornò sul ponte e lo informò, si strinse nelle spalle.
  «Non hanno nerbo, questi giapponesi» disse. L’alba adesso scivolava sull’acqua, e i primi raggi del sole tingevano il mare immobile di colori freschi e delicati.
  «È ora che torni sul Fenton» disse il dottore. «So che il capitano vuole partire appena fa giorno».
  «Sarà meglio che faccia un po’ di colazione prima di andare. Dev’essere affamato».
  «Be’, una tazza di tè non mi dispiacerebbe».
  «Le dico io cosa. Ho delle uova, le tenevo per il giapponese ma adesso non gli servono più. Facciamoci delle uova col bacon».
  Diede una voce al cuoco.
  «Mi va proprio, un piatto di uova col bacon» disse fregandosi le mani. «Dovrebbero essere ancora abbastanza fresche».
  Poco dopo il cuoco le portò, calde e sfrigolanti, con del tè e dei biscotti.
  «Dio, che buon odore» disse l’australiano. «È curioso, sa. Non mi stanco mai delle uova col bacon. Quando sono a casa le mangio tutti i giorni. A volte mia moglie mi d? qualcos?altro, per cambiare, ma non c?? niente che mi piaccia tanto?.
  Sulla scialuppa che lo riportava al Fenton, al dottore venne fatto di pensare che la morte era una cosa anche più curiosa del fatto che al capitano della goletta piacessero le uova col bacon a colazione. Il mare piatto splendeva come acciaio polito. I suoi colori erano pallidi e delicati come quelli del boudoir di una marquise settecentesca. Al dottore sembrava molto strano che gli uomini morissero. C’era qualcosa di assurdo nell’idea che quel pescatore di perle, erede di innumerevoli generazioni, risultato di complicati processi evolutivi in atto dalla formazione del pianeta, fosse venuto a morire qui e ora, per un succedersi di casi davanti a cui l’immaginazione si smarriva, in quel luogo sperduto e disabitato.
  Il capitano Nichols si stava facendo la barba quando il dottore accostò, e gli diede una mano per aiutarlo a salire a bordo.
  «Allora, che notizie?».
  «È morto».
  «Lo immaginavo. Cosa fanno per la sepoltura?».
  «Non so. Non ho chiesto. Lo getteranno in mare, probabilmente».   «Come un cane?».
  «Perché no?».
Lo skipper diede segni di un’agitazione che sorprese non poco il dottor Saunders.
«Questo non va affatto. Non su una nave inglese. Va sepolto come si deve, con una funzione regolare e tutto».
  «Ma lui era buddhista o scintoista, o qualcosa del genere».
  «E con ciò? Io navigo da più di trent’anni, fin da ragazzo, e quando uno muore su una nave inglese deve avere un funerale inglese. La morte rende tutti eguali, dottore, dovrebbe saperlo, e in momenti così non possiamo rinfacciare a nessuno di essere giapponese, negro o che so io. Ehi, voialtri, calate una scialuppa e sbrigatevi. Vado alla goletta. Quando ho visto che lei ci metteva tanto a tornare mi son detto che sarebbe andata cos?. Per questo mi stavo facendo la barba, quando lei ? arrivato?.
  «Cosa intende fare?».
  «Vado a parlare con lo skipper della goletta. Dobbiamo fare quello che è giusto. Dare a quel giapponese un addio in regola. Per me è stato sempre un punto d’onore, su tutte le navi che ho comandato. Fa buona impressione all’equipaggio. Così sanno cosa aspettarsi se gli capita un incidente».    Fu calata la scialuppa e lo skipper si allontanò. Fred Blake venne a poppa. Con i capelli arruffati, la pelle chiara e gli occhi azzurri, col suo splendore primaverile, somigliava al giovane Bacco di un quadro veneziano. Il dottore, stanco dopo una notte in cui aveva dormito ben poco, provò un attimo di invidia per la sua insolente giovinezza.
  «Come sta il paziente, dottore?».
  «È morto».
  «Certa gente ha tutte le fortune, eh?».
  Saunders gli diede un’occhiata curiosa, ma non disse niente.
  Dopo breve tempo videro tornare la scialuppa, ma senza il capitano Nichols. L’uomo chiamato Utan, che parlava bene l’inglese, riferì che dovevano andare tutti sulla goletta.
  «Perché diavolo?» chiese Blake.
  «Vieni» disse il dottore.
  Scesero nella scialuppa, con gli altri due membri dell’equipaggio.
  «Capitano dice tutti. Anche boy cinese».
  «Salta dentro, Ah Kay» disse il dottore al suo domestico, che stava noncurante sul ponte ad attaccare un bottone a un paio di calzoni.
  Ah Kay posò il lavoro e col suo sorriso gentile scese leggero nella scialuppa. Raggiunsero la goletta, e saliti a bordo trovarono ad aspettarli il capitano Nichols e l’australiano.
  «Il capitano Atkinson è d’accordo che bisogna fare le cose per bene per questo povero giapponese,» disse Nichols «e dato che ha meno esperienza di me mi ha chiesto di condurre la cerimonia secondo le regole».
  «Giusto» disse l’australiano.
  «Non mi compete, lo so. Quando c’è una morte in mare tocca al capitano leggere il servizio, ma lui non ha un libro delle preghiere a bordo e non sa che pesci prendere. Dico bene, capitano?».   L’australiano annuì gravemente.
  «Ma io credevo che lei fosse battista» disse il dottore.
  «Di solito sì» disse Nichols. «Ma in caso di funerali e simili ho sempre usato il libro delle preghiere anglicano e sempre lo userò. Dunque, capitano, appena i suoi sono pronti aduniamo gli uomini e procediamo».
  L’australiano andò a prua e ritornò dopo un momento.
  «Mi pare che stiano dando gli ultimi punti» disse.
  «Un punto in tempo ne risparmia cento» disse il capitano Nichols, suscitando qualche perplessità nel dottore.
  «Che ne direste di un goccetto mentre aspettiamo?».
  «Non ancora, capitano. Dopo. Prima il dovere poi il piacere».
Comparve un marinaio.
«Tutto fatto, capo» disse.
  «Bene» disse Nichols. «Andiamo».
  Alacre, la schiena dritta, gli occhietti volpini luccicanti di piacevole aspettativa. Il dottore osservava blandamente divertito la sua aria di sommessa gaiezza; era chiaro che Nichols gustava la situazione. Andarono a poppa. I marinai delle due navi, tutti di pelle nera, gironzolavano, alcuni con la pipa in bocca, un paio con un mozzicone di sigaretta appiccicato alle labbra spesse. Sul ponte c’era un fagotto, avvolto, sembrò al dottore, in un sacco di fibra di cocco. Molto piccolo; difficile credere che contenesse ci? che un tempo era un uomo.
  «Ci siete tutti?» chiese il capitano Nichols, guardando attorno. «Non si fuma, prego. Rispetto per i morti».
  I marinai misero via le pipe, sputarono le cicche.
  «State in circolo, adesso. Lei vicino a me, capitano. Questo lo faccio solo per venirle incontro, lei capisce, so bene che spetterebbe a lei e non a me. Allora, siete pronti?».
  Il capitano Nichols aveva del servizio funebre un ricordo approssimativo. Cominciò con una preghiera per buona parte di sua invenzione, ma la disse con fervore, in un linguaggio fiorito, e terminò con un sonoro «amen».
  «Adesso canteremo un inno». Guardò i neri. «Voi siete andati tutti alle scuole missionarie, e voglio che ci mettiate l’anima. Devono sentirvi fino a Macassar. Su, tutti quanti. "Avanti soldati cristiani, avanti come in battaglia"».
  Attaccò il canto con impeto, sebbene con accenti rauchi e discordi, e subito gli uomini delle due barche fecero coro. Cantavano con gusto e con voci profonde e gagliarde, e il suono si spandeva sul mare tranquillo. Era un inno che tutti avevano imparato nelle isole natie, e ne conoscevano ogni parola; ma nella loro peculiare pronuncia, con le sue strane modulazioni, acquistava un che di misterioso, e non assomigliava a un inno cristiano, bensì al gridio ritmico e barbarico di una moltitudine selvaggia. Si immaginava nello sfondo un battere di tamburi, il clangore di strumenti esotici; suggeriva la notte, oscure cerimonie in riva al mare, il sangue sgorgante di sacrifici umani. Ah Kay, lindo nel suo vestito bianco, stava un po’ in disparte dai neri, in un atteggiamento di grazia negligente, e nei suoi begli occhi liquidi c’era un’espressione di stupore lievemente sprezzante. Terminarono la prima strofa e d’impulso cantarono la seconda; ma quando cominciarono la terza il capitano Nichols batté bruscamente le mani.
  «Basta così»» esclamò. «Questo non è mica un concerto. Non vogliamo far notte».
  Si fermarono di colpo ed egli girò attorno uno sguardo severo. Gli occhi del dottore si posarono sul sacco che giaceva sul ponte in mezzo al cerchio. Pensò, senza sapere perché, al bambino che un tempo era stato quel morto, con la sua faccia gialla e i neri occhi a mandorla, un bambino che giocava per le strade di una cittadina giapponese, e che la madre, nel leggiadro abito giapponese, le spille nei capelli acconciati con cura, gli zoccoletti ai piedi, portava a vedere i ciliegi in fiore e, nelle festività, al tempio, dove gli veniva dato un dolcetto; e che forse una volta, vestito tutto di bianco, con una bacchetta di frassino in mano, era andato in pellegrinaggio insieme a tutta la famiglia e aveva visto sorgere il sole dalla vetta del Fujiyama, la montagna sacra.
  «Ora dirò un’altra preghiera, e quando arrivo alle parole: "affidiamo il suo corpo all’oceano", e badate di stare attenti, non voglio intoppi, voi lo prendete e lo buttate giù, intesi? Meglio assegnare due uomini a questo compito, capitano».
  «Tu, Bob. E Jo».
  I due vennero avanti e fecero per afferrare il sacco.
  «Non ancora, maledetti scemi» gridò il capitano Nichols. «Aspettate che le parole mi escano di bocca, accidenti a voi». Poi, senza fermarsi a riprender fiato, proruppe in una preghiera, e andò avanti finché evidentemente non seppe più cosa dire. Poi, alzando un poco la voce: «Giacché Dio Onnipotente, nella sua misericordia, ha voluto chiamare a sé l’anima del nostro caro fratello defunto, noi affidiamo il suo corpo all’oceano...». Diede un’occhiata arcigna ai due, ma quelli lo fissavano a bocca aperta.
«Allora, non metteteci una giornata. Buttate giù quest’affare, accidenti a voi».
  Con un sussulto i due balzarono sul fagotto che giaceva sul ponte e lo gettarono in acqua. Sollevò appena uno spruzzo. Il capitano Nichols, con un sorrisetto compiaciuto, proseguì:
  «... destinato a corrompersi, in attesa della resurrezione, quando il mare restituirà i suoi morti.
Ora, diletti fratelli, diremo il padrenostro, e non bofonchiate, per favore. Dio vuole sentire e io anche. Padre nostro che sei nei cieli...».
  Lo recitò a voce alta e tutti, tranne Ah Kay, si unirono a lui.
  «Bene, gente, più o meno abbiamo finito» continuò, ma con la stessa unzione nella voce. «Sono contento di aver avuto l’opportunità di condurre questa mesta cerimonia come si conviene. Nel pieno della vita siamo preda della morte, e accidenti ne avvengono nelle migliori famiglie. Voglio che sappiate che se giungete al confine dal quale nessuno fa ritorno mentre siete su una nave inglese e sotto la bandiera inglese, potete essere sicuri di avere un funerale decoroso e di essere sepolti come fedeli figlioli di Nostro Signore Gesù Cristo. In circostanze ordinarie vi inviterei ora a lanciare tre urrà per il vostro capitano, il capitano Atkinson, ma questa per cui siamo qui riuniti è una triste occasione e i nostri pensieri volgono al pianto, così vi chiedo di dargli tre urrà in cuor vostro. E adesso, in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. A-a-men».
  Il capitano Nichols si girò col fare di uno che scende dal pulpito e tese la mano al capitano Atkinson. L’australiano la strinse con calore.
  «Perdio, ha fatto una cosa di prim’ordine» disse.
  «Esperienza» disse il capitano Nichols modestamente.
  «Be’, se ci bevessimo un goccio?».
  «Buona idea» rispose Nichols. Si volse ai suoi uomini. «Voialtri tornate sul Fenton e tu, Tom, vieni poi a riprenderci».
  I quattro si allontanarono sul ponte. Il capitano Atkinson portò su dalla cabina una bottiglia di whisky e dei bicchieri.
  «Un prete non poteva far meglio» disse, brindando a Nichols.
  «È tutta questione di sentimento. Ci vuole sentimento. Cio?, quando ho condotto questa funzione io non pensavo che era solo per un piccolo giapponese fetente, per me era come se fosse per lei, per Fred o per il dottore. Si tratta di essere cristiani, ecco cosa?. 
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