giovedì 15 agosto 2019


IL GAROFANO ROSSO
Elio Vittorini

Si tratta del primo romanzo dell’autore, apparso a puntate nella rivista «Solaria», tra il ’33 e il ’34; dato che la censura fascista lo aveva giudicato contrario «alla morale ed al buon costume», solamente nel ’48 -quindi più di dieci anni dopo- venne stampato dalla casa editrice Mondadori.
Romanzo di formazione, complesso ed articolato, soprattutto per le ambiguità e i molteplici temi trattati, nonché per le sfaccettature poliedriche dei vari personaggi; la narrazione è in prima persona, interrotta talvolta dalle pagine di diario dello stesso protagonista.
Concepito come romanzo-documentario nel 1933, "Il garofano rosso" affronta con realismo  descrittivo quelle tematiche che erano considerate sconvenienti per l’epoca: giovani, sessualità e ideologia fascista. L’itinerario esistenziale del protagonista (Alessio) evidenzia il trapasso  da un’adesione entusiastica e vitalistica al fascismo, ad un atteggiamento più perplesso e riflessivo, determinato soprattutto dall’incontro con il mondo operaio.  L’iniziazione amorosa avviene attraverso un amore sensuale e trasgressivo. 
L'aspetto letterario più interessante è quello che riguarda questa sorta di passaggio di iniziazione che viene descritto da Vittorini dal punto di vista dei giovani che vivono separati la loro realtà rispetto ad un mondo degli adulti con il quale non si aveva alcuna comunicazione, come avviene anche ora.
Ecco questo è l'aspetto narrativo più interessante, parlare del periodo dell'adolescenza dal punto di vista di chi l'ha vissuta e usa il suo linguaggio.

IL GAROFANO ROSSO
Elio Vittorini

I

  Aspettavamo la campana del secondo orario, tra undici e mezzogiorno, pigramente raccolti, sbadigliando, intorno ai tavolini del caffè Pascoli & Giglio, ch'era il caffè nostro, del Ginnasio-Liceo, sull'angolo di quella strada, anch'essa nostra, con la via principale della città, dai borghesi detta Corso e da noi Parasanghea.

  I più fortunati mandavano giù l'una dietro l'altra granite di mandorla, la più buona cosa da mandar giù ch'io ricordi della mia infanzia; e c'era la tenda rosso marrone che bruciava di sole come un sospeso velo di sabbia sopra i tavolini. C'erano discorsi di grandi parole, di grandi speranze, e c'erano i pettegolezzi scolari sulle medie, i temi in classe, i professori e i compagni sgobboni.

  I piccoli delle classi ginnasiali si rincorrevano da marciapiede a marciapiede, urlando, fin su allo sbocco di Piazza del Duomo che chiamavamo Ponto Eusino, e là subito le loro urla selvagge risuonavano più larghe e cantanti quasi come su una aperta campagna. Là era, difatti, una campagna di sole: piazza Duomo; amplissima nel suo asfalto ancora fresco, con le sue palazzine rosse settecentesche a semicerchio, col suo puzzo di preti che veniva dall'Arcivescovado insieme a un odore di limoni, e la gradinata del Duomo dal sommo della quale si scorgeva oltre tetti e tetti una striscia abbagliante di mare canuto.

  Avevo sedici anni, quasi diciassette; mi piaceva ormai fare il “grande” e stare coi grandi veri, tutti dai diciotto in su, della seconda e terza liceale, a discutere, a fumare sotto la tenda color ruggine del caffè; ma ogni volta che l'urlo di uno dei piccoli andava lontano oltre la strada sulla prateria della piazza mi sentivo nitrire dentro e ritornare cavallino com'ero stato quando anche io dai gradini della cattedrale spiccavo il volo radente sopra l'asfalto.

  Un pezzo era che più non osavo giocare a quel modo scalpitante. Una signorina della “seconda” mi aveva guardato; e avevo smesso senz'altro.

  Era figlia di colonnello. Mi pareva bellissima, sebbene portasse un cappellino che le nascondeva metà della faccia. Andava da casa a scuola, da scuola a casa con una ragazzona dai grossi fianchi della sua classe, che le dava sempre la destra e pareva la sua serva.

  Appena mi sentii guardato non esitai; mi misi dietro a lei tenendo dieci passi di distanza, e a tutte le uscite l'accompagnavo. Essa si voltava in tutto il percorso una volta sola, quando giungeva sull'angolo della strada di casa sua. Verso sera io ripassavo sotto le sue finestre in bicicletta più volte, e la musica d'un pianoforte scorreva sotterranea dentro alla lunga fila di alte mura fiorite. Le scrissi anche; ma lei non mi rispose; solo, perché in quella mia unica lettera l'avevo chiamata Diana, spesso mi faceva misteriosamente dire da qualche ragazza della mia classe che Diana mi salutava.

  Un giorno mi mandò un garofano rosso chiuso dentro una busta.

  Mi trovavo in classe mentre la professoressa di lingue moderne scandiva parole cantate di La Fontaine. Mi ama, pensai scattando, e la professoressa mi gridò di ripetere l'ultimo verso e io dissi, pensando mi vuole bene: «Ma neanche per sogno!».

  Fui cacciato dall'aula per tutto il resto della lezione; e andai a mettermi dietro la porta della “seconda” dove abitava lei. Speravo di udire la sua voce, non la conoscevo ma credevo di poterla riconoscere. Mi ama, pensavo. E la voce di “lei” si alzò, mentre quella dolente del prete che insegnava greco a tutto il Liceo, interrogava. Era una voce come di bambina che si sveglia, con un lungo “oh” di meravigliato raccoglimento al principio di ogni risposta.

  C'era un gran caldo, sebbene fosse solo maggio, o giugno, e dalle finestre spalancate del corridoio veniva odore di fieno. Mi ricordava caldi mucchi di quando cominciai a non essere più bambino, e un caldo turbamento nutriva in me la fede che Giovanna, quella voce, mi volesse bene. Lontano si sentivano marciare nella palestra femminile le allieve di un altro corso.

  Mi staccai dalla porta, la voce era diventata un'altra dentro all'aula, e mi affacciai alla finestra, mi misi a guardare giù in un cortiletto mai visto prima, ad osservare le foglie di un fico muoversi nel sole come lucertole, al di là di un muricciolo.

  Poi l'uscio dirimpetto si aprì e in una ventata di voci uscì lei, quella giovane che mi voleva bene, vestita di verde e di azzurro sugli alti tacchi.

  La vidi, nei vetri della finestra, esitare come pensasse di tornare in classe. Sentii che arrossiva. E tremai per il bene che mi voleva, che un nulla sarebbe bastato, credevo, a cancellare via dal suo cuore. Volevo far finta di continuare a guardar fuori ma appena lei svoltò l'angolo del corridoio le corsi dietro.

  Mi guardò quando la raggiunsi e nient'affatto era rossa come avevo supposto. Era tranquilla e sorridente. Vidi che aveva gli occhi chiari, fieramente grigi nel viso di bruna.

  «Oh» mi disse. «Vado a prendere il fazzoletto che ho dimenticato. Giù. In guardaroba.»

  Pensai: “E se la baciassi?”.

  Di nuovo mi assalì il caldo del ricordo di quando rotolavo sui mucchi di fieno in un tempo felice con una ciurma di bimbi, e pensai “baciarla” come se fosse significato portarla su uno di quei mucchi, rotolare fino al tramonto di quel pomeriggio con lei che mi aveva mandato un garofano rosso, quasi un papavero. Ma fu un minuto solo, durante il quale mi tremarono le mani. E subito cominciò un terrore di farle male, di distruggere il bene, di perdere per sempre la felicità di avere il garofano rosso donato da lei.

  Con timida civetteria lei disse: «Dunque?». E appena sorrise era già incamminata per andar via. Ma la fermai, la chiamai col suo nome: «Giovanna!». Era stato stupido, pensai, chiamarla Diana, mentre era così Giovanna col suo passo, le sue gambe, la sua nuca, il suo verde e azzurro; così Giovanna! Pure non trovavo parole, e non sentivo che un'acqua di mulino farmi dentro io-io-io e diventare calda entro di me, un turbine di io-io-io, al cui confronto ogni cosa pareva non essere vera.

  Oh bisogna che sia vero! pensai. Bisognava fermare quel suo passo, quelle sue gambe, quella sua nuca, quel suo verde ed azzurro e renderli veri. Io le volevo bene per tutto questo che la facevano diversa da ogni altra scolara della terra.

  Ma appena si voltò il mio sguardo entrò nel suo, sentii di volerle bene anche per qualcosa di più, come per una mia e sua bontà furiosamente vitale che avrebbe potuto farmi correre ammazzando le professoresse di franco-inglese attraverso afriche e americhe. Fu con questo senso di enorme bontà che la baciai; e fu appena un battito di labbra contro le sue labbra, profondo e vivo però nella sua gentilezza. Le sue labbra non fuggirono, le sentii anzi salire sotto le mie. E mi chiesi: “È un bacio? È stato un bacio?”.

  Essa sorrideva, poi non più. Alzò un braccio contro il mio petto ad allontanarmi e il garofano fu strappato dall'occhiello, cadde. Ma lei stessa si chinò a raccoglierlo, me lo assicurò con uno spillo, scappò via. Scappò in classe, non di sotto come doveva; e io rimasi solo, di nuovo travolto dal mio interno turbine di io-io-io.

 

  Rividi il fico. Qualcosa di stranamente orientale era stato, l'albero dei fichi, nella mia infanzia. Una Persia, un'Arabia... A sei anni avevo imparato il catechismo in un recinto parrocchiale dove c'erano, oltre il prete e noi bimbi, un tacchino e un fico. E un fico c'era anche nel giardinetto della casa dove mi avevano raccontato di Aladino e del suo Genio e della Lanterna Magica certe amiche sempre vestite di nero che mamma chiamava “le signorine”.

  Rividi il fico con le sue foglie che si muovevano come lucertole nel sole, e rividi il cortiletto, l'aria, un uccello grigio che giunse di là dai muri e si posò su qualche cosa. Insomma rividi il mondo. Ma non mi riprese l'incanto disoccupato di prima. Tutto ora aveva una sua appuntita ragione precisa di piacermi. E tutto, anche l'odore del fieno, anche le voci di marcia e il passo di marcia che venivano dalla palestra femminile, ora mi facevano pensare in un nuovo modo. Quello ch'era successo sarebbe continuato... Il bacio di Giovanna sarebbe continuato.

  Così come fui da qualcuno dei miei compagni invitato a rientrare in classe, perché la professoressa mi condonava il resto del castigo e mi chiamava a ripetere la lezione, risposi di no. Era osare troppo e senza ragione per un ragazzo, ma la felicità della cosa avvenuta mi metteva dentro una voglia di sfida senza ragione.

  La professoressa di lingue imprecò di là dalla porta; giù dagli uscieri un campanello squillò allarme. E la felicità della cosa avvenuta si fece epica in me: desiderio di guerra e di trombe.

  Accorse un bidello.

  Nello stesso tempo suonò la campana delle tre, dell'uscita. Cominciò il clamore delle scolaresche sguinzagliate fra i banchi. Le porte andarono a sbattere contro i muri. Vidi le tende azzurre sventolare al di sopra di teste e teste. Ed ecco mentre prendevo cappello e libri, venirmi addosso coi suoi occhiali feroci la professoressa di lingue.

  Fui accompagnato dal preside.

  «Impari per due giorni a capire che cosa significa essere allontanato dalla scuola» disse il preside, dal centro di un tavolo, con tartarea voce.

  E tutti a quel paese! Che sapevano essi della gloria d'un garofano rosso?

 

  Andai presto a letto quella sera e mi addormentai quasi subito mentre ancora la sguattera della pensione rimuoveva e lavava le stoviglie, parlando basso con la cuoca, in cucina. Ma i miei compagni di camera, di quella stanzona dalle sovraporte affrescate dove eravamo in quattro ad avere letto e tavolo, tornando più tardi mi destarono.

  Caddero una dopo l'altra le loro scarpe, scricchiolarono le suste dei loro letti, e uno disse pure ch'era il tocco passato, ma non ripresi più sonno.

  Sentivo scorrermi sotto la guancia l'acqua impetuosa del canale che una volta, proprio lì accanto al palazzo in cui c'era la pensione, doveva alimentare un mulino. Dalla finestra del gabinetto ci si affacciava su quell'acqua che un passo più in là precipitava dentro un arco buio sotto alle case. Tutta la notte mi parve davvero che una ruota di mulino macinasse quell'acqua e che il mio garofano mi fosse caduto là dentro e la ruota lo stritolasse.

  Era anzi un'impetuosa corrente di garofani che mi scorreva sotto la guancia. E nell'ansia in cui ero mi accorsi che non sapevo più chiamare lei col nome di gioco che le avevo dato. Svaniva se la pensavo Diana. Mentre se la pensavo Giovanna era come toccarla.

 

  Aspettavo lei l'indomani, alle otto e dieci, sull'angolo della sua via. Ero quasi triste, senza i libri, e più che mai avevo voglia di andare a scuola, dove lei avrebbe trascorso la sua giornata.

  C'era un bar su quell'angolo e, dirimpetto, una farmacia; la farmacia d'un certo Gulizia che aveva il figlio in seconda liceo, nella stessa classe di Giovanna.

  Ben noto a tutta la scolaresca liceale quel Gulizia, Cosimo di nome, ma chiamato meglio “il figlio del purgantiere”. Era il ragazzo più debole del Liceo sebbene quasi diciottenne, vestiva abiti dimessi dal padre e adattati a lui da mani casalinghe; balbettava; facilmente attaccava liti da cui usciva ogni volta scappando fino alla fontana col fazzoletto sotto il naso.

  «Va' là; in seminario dovevi studiare» gli dicevamo.

  Aveva un'aria biondiccia nonostante i capelli di carbone, che faceva perdere la pazienza anche ai piccoli del Ginnasio, solo che cercasse, quando si parlava alto ai tavolini del caffè, di dire la sua.

  «Rana» lo chiamavamo.

  Perciò restava appartato e non aveva rapporti che con signorine, le quali, fuori di scuola, si lasciavano avvicinare solo da lui, come lo sentissero inerme, e, si diceva, lo accoglievano anche nelle loro case a studiare insieme durante le epoche, così temute in capo a ogni bimestre, delle ricapitolazioni.

  Mi parve di vederlo, quella mattina, nel buio della farmacia, col suo berretto di stoffa scozzese calzato fino alle orecchie e libri sottobraccio, ma non vi feci caso. Mi occupava l'incanto dell'ora presto, così piena di Giovanna.

  Nell'aria, al di là delle alte ombre dei palazzi, spuntavano foglioline di sole. Altro sole, liquido, veniva giù lungo la facciata dell'albergo Vermouth di Torino; e in fondo alla via di Giovanna appariva, velata di lontananza, la montagna rosa, non so se di sabbia o roccia, della vecchia città. Là era mare, presto sarebbero cominciati i bagni, sulla spiaggia appiè di quella montagna; i bagni; e il vaporino che andava e veniva fischiando attraverso il porto.

  Dal bar alcuni fiaccherai che bevevano caffè corretto mi squadrarono da capo a piedi, concentrarono gli occhi sull'occhiello della mia giacca, sorrisero.

  Passarono frotte di ragazzini delle elementari, vociando, con le loro cassette di fibra a tracolla. Di nuovo una autoinnaffiatrice risalì verso il Corso spruzzando i muri di lembi del suo ventaglio d'acqua. Alla farmacia il giovane di bottega in maniche di camicia metteva giù le imposte verdi delle invetriate. E aroma di caffelatte con benzina e asfalto bagnato saliva al cervello come qualcosa di essenziale dell'ora.

  Passò un questurino.

  Regia-guardia una volta, mi era noto pei nostri studenteschi tafferugli del '22: gli avevo tirato un pomodoro alla faccia uno di quei giorni. Anche lui mi squadrò come i fiaccherai, dalla testa ai piedi, ma senza simpatia, poi passò oltre col suo passo di segugio, e dondolava il bastone sul di dietro, nelle mani intrecciate, come una specie di coda.

  Istintivamente mi cercai al risvolto della giacca il garofano rosso.

  Erano i tempi dell'affare Matteotti, ogni sera la città rigurgitava di Ultime edizioni dispiegate dinanzi ai lumi dei negozi, nei caffè si tendevano le orecchie ad ogni voce d'avvocato che discuteva di rimpasti ministeriali, dimissioni, eccetera.

  “Ma il garofano non me lo levo” pensai.

  Sentivo di volergli bene come a Giovanna stessa che l'aveva tenuto dentro il petto. E del resto mi faceva piacere che Briscola, il questurino regia-guardia, tornasse, col suo occhio che non aveva dimenticato il pomodoro, a sorvegliarmi come una specie di sovversivo.

  Che desiderio aveva di picchiarmi, quando sciolsero la Regia Guardia, e rimase per un pezzo sbirro a spasso! Mi aspettava dal tabaccaio di faccia al portone della pensione tutte le volte per dirmi sempre la stessa terribile cosa:

  «Non ti ci ho portato io dentro, ma ti ci porteranno.»

  E ogni volta fremevo di rabbia e orrore ma non sapevo ribattergli altro, dal mezzo dei miei spalleggiatori in calzoni corti, che “mica si era andati a scuola di sbirraglia insieme, per darmi del tu”.

  D'improvviso mi sentii chiamare da una voce chioccia.

  «Signor Mainardi.»

  Era la levatrice. Così chiamavamo la ragazzona che accompagnava Giovanna. Era sola: usciva da casa di lei.

  «Ho da dirle qualcosa da parte della mia compagna, ma bisogna che camminiamo» disse.

  «Già; sono le otto e venticinque» dissi io, affrettando il passo dinanzi a lei.

  «Ma non così forte» disse la levatrice. E abbassò ancora la voce, chiocciando vicino a me, come con un suo pulcino.

  «Dunque senta. La mia compagna oggi sta male.»

  «Ah, è malata?»

  «Non proprio; cose passeggere. Ma la mia compagna è molto turbata per gli avvenimenti di ieri.»

  «Avvenimenti?» scattai. «Che avvenimenti?»

  «Insomma» proseguì, molto calma, la levatrice, «delle parole corse tra lei e la mia compagna. E appunto ha raccomandato di dirle che fu uno scherzo. Lei capisce che non può esserci nulla di serio fra la mia compagna e lei. Lei ha davanti a sé tutto il Liceo e l'Università prima di potere pensare a qualcosa di simile. E la mia compagna ha invece diciott'anni e prima o poi vedrà che il colonnello non le lascia prendere nemmeno la licenza e la sposa a qualcuno. Insomma la mia compagna è una donna e lei, Mainardi, scusi se glielo dico, lei è un ragazzo. Per conto mio la mia compagna ha fatto male a darle qualche speranza...»

  E mentre io la divoravo con occhi infuocati, essa strascicò lunga lunga quella “speranza” come se dovesse farmi molto bene e calmarmi, così molle sulla mia fronte che ardeva.

  Eravamo giunti, sulla Parasanghea, quasi all'altezza del caffè Pascoli & Giglio che ai rintocchi della campana di scuola si stava sfollando.

  Ma prima di svoltare, la levatrice si fermò, salì sul marciapiede come per essere un po' più alta di fronte a me che la dominavo di tutta la testa, e ancora soggiunse:

  «Sappia essere uomo questa volta tanto da dimenticare il poco che c'è stato. E ora mi lasci, arrivederla.»

  C'era dietro a lei il negozio d'un armaiolo e intanto che essa parlava le lunghe canne scintillanti dei fucili in vetrina mi affascinavano. Un fucile c'era, appeso al muro, ma arrugginito, nella vecchia casa di campagna di zio Costantino, e arrivavo a toccarne l'estremità del calcio se mi arrampicavo sulla spalliera del divano. Lo toccavo, poi mi mettevo in un angolo, quieto, a meditare un assassinio. Crescevo così, ed ero in grembiule, aspettando un giorno in cui avrei potuto staccare quel fucile dal muro e sparare fuori dalla finestra su qualcuno. Avevo anche deciso su chi, mi ero scelto un tipo con una barba grigia che vedevo sempre nell'aia della fattoria accanto buttare manciate di granoturco ai suoi tacchini. Sognavo zolfo, zolfo, e gialla polvere da sparo sulle mie mani. E nel '22 avevo posseduto una rivoltella, una Mauser, finalmente, ma fu solo per mezza giornata. Mai, ecco, avevo fatto uso vero di un'arma, mai tirato un colpo, e mai ammazzato qualcuno. E invece, più che mai ora, dopo il tempo del grembiulino, mi pareva che fosse necessario avere steso a terra nel sangue qualcuno, se veramente volevo entrare nella vita, al di là della levatrice e del prete insegnante di greco, nella vita dove si coglievano garofani rossi e si baciava Giovanna.

  Che significava il Liceo e l'Università davanti a me?

  Io sentivo di volere bene a Giovanna proprio nel punto in cui mi trovavo con tanto Liceo davanti e tanta Università; e sentivo che nulla poteva esserci di più serio di questo fra me e lei, e di più reale. Ma poco dopo, quando la via del Ginnasio-Liceo restò deserta, ruminando ancora su quelle parole demolitrici, ebbi quasi piacere che mi fossero state dette, oscuramente piacere come di essere stato ammesso a un mondo diverso dal mio, e di essere entrato con una parte da protagonista proprio lì dove si ragionava alla maniera della levatrice.

  In ritardo passò il figlio del purgantiere.

  «Rana» gli gridai, con tutta l'ira che avevo.

  Misteriosamente quello mi sorrise, come di derisione, e pur correndo via verso il portone della scuola, per un attimo mi fece sentire il suo alito sulla faccia.

  «Lo so chi ti ha dato quel garofano» disse.

  «Figlio di puttana» gli urlai dietro.

  E di nuovo pensai alla levatrice, che d'un tratto mi parve non avesse parlato proprio come una grande, che avesse solo rappresentato una sua buffa parte di grande. Le votai morte nel cuore, e furioso contro Giovanna, e nello stesso tempo confusamente felice di essere fuori da quella scuola dove lei non c'era, me ne andai giù per la Parasanghea a trovare in pensione il mio grande amico Tarquinio; e avevo quasi voglia, malgrado tutto, di fischiettare.
II

  Tarquinio Masséo era un ragazzo di diciott'anni, che per una complessa vicenda di bocciature non aveva preso a tempo la licenza ginnasiale e ora si preparava da esterno per quella del Liceo. In pensione c'era per questo; ma con quali professori studiasse non si sapeva; e quando noi tornavamo, di luglio, ai nostri paesi, soltanto lui, come non avesse parenti, restava a godersi l'estate della città coi bagni, le orchestrine a mare, e i varietà all'aperto. Raccontava poi delle ballerine che erano venute a pensione ai nostri posti e delle prove di ballo ch'esse facevano, ancora in pigiama o in camicia, nella grande sala comune tutta la mattinata.

  In quella nostra pensione della signora Formica ce l'avevo portato io.

  L'avevo conosciuto una sera del '22 nella bottega di un fabbro-tipografo dove si stampava un giornaletto di scolari su carta grossa come da pacchi, a quanto ricordo.

  Si entrava nel ridotto tipografico passando per la caverna delle incudini, tra le scintille, e spesso non si entrava nemmeno, ci si fermava sulla soglia a guardare maestro e garzoni affaccendati intorno a un cavallo, poiché spesso, quel fabbro, ferrava anche cavalli.

  Si divenne amici, io e Tarquinio, continuando tutte le sere tra le sette e le otto a frequentare quella bottega, anche quando il giornale smise di uscire.

  “La cava”, la chiamavamo.

  «Allora t'aspetto alla “cava”» mi diceva Tarquinio ogni volta salutandomi con un cenno per aria della sua mano.

  E “cava” non era soltanto la bottega, ma quell'ora speciale di buio e di lumi accesi, tutti quei vicoli là presso, su quell'ora, pieni di scalpiti misteriosi di cavalli, e tutte le cose che avevamo da dirci, là dentro, rosicchiando castagne secche, di donne, di terre, di bastonate, d'aeroplani e automobili, di gioco del calcio, di libri e di avvenire. Era quello che avevamo in comune.

  «Allora presero Liebknecht, mentre dormiva, e lo portarono dal generale. Dunque non volete sciogliere la lega? disse il generale. Perché dovrei scioglierla? disse Liebknecht. Se la sciolgo chi difenderà il popolo di Berlino dagli uomini come voi? Bene, disse il generale e lo congedò con una stretta di mano. Da un'altra porta entrava Rosa Luxemburg che avevano presa anch'essa mentre dormiva. E Liebknecht scese le scale senza nessuno che lo accompagnasse, mentre Rosa Luxemburg rispondeva le stesse cose di lui al generale. Uscì Liebknecht e c'erano sulla porta quattro bavaresi che lo aspettavano. Due gli misero le manette, e due con la mazza di ferro dietro alle spalle lo massacrarono. Così è finita con questa carogna, dissero. E cominciarono con Rosa Luxemburg che scendeva le scale, usciva e altri due bavaresi le misero le manette, altri due con la mazza di ferro la massacrarono...»

  Questo raccontava Tarquinio, e diventava tra noi comune.

  Tutte le cose ch'egli sapeva diventavano tra noi comuni. I suoi libri diventavano i miei libri, le sue idee diventavano le mie idee, la sua logica diventava la mia logica. E questo accomunarci, questo riconoscerci nelle nostre aspirazioni di ragazzi, noi chiamavamo “la cava”. Tarquinio parlava di tutto questo anche nei caffè, con gli altri, ma allora non era “la cava”. Pareva non potesse esserci “cava” fuori di quell'ora, quegli scalpiti di cavalli, quel buio e quei lumi, quelle castagne secche che rosicchiavamo, quei garzoni fabbri e maniscalchi, quel padrone fabbro e maniscalco, quella bottega.

  «Ah, è come cospirare qui!» diceva Tarquinio.

  Raccontava anche di sé, naturalmente, del suo paese favoloso, Quero, dove non era stato più da dieci anni, dei suoi genitori morti, della sua parentela sconosciuta, della sua infanzia tra alte montagne.

  «Ogni contadino, ogni pastore abita in una reggia, a Quero» diceva. «La loro vita è umile, ognuno fa umili lavori e si ciba di ulive, ricotta e montone ma ognuno abita una casa di re. Oh se solo si potesse abitare tutti case di re! Ci fu un gran re negli antichi tempi che riempì Quero di fontane e di statue...»

  E raccontava: «Nella mia casa c'erano scalinate di marmo, alti cancelli di ferro battuto, e grandi balconi a pancia sul fiume... Nelle stanze il soffitto era profondo come le cupole delle chiese... E dal cortile entrava fogliame di nespoli a tutte le finestre... Ma c'erano sempre temporali» raccontava, «e io tremavo pei fulmini che vedevo strappar giù le teste alle statue... Non potevo soffrire la luce dei lampi, sai. Del tuono non mi importava ma la luce mi dava ai nervi. Anche ora, del resto...».

  Così egli dava via anche le sue paure, e qualche volta io lo burlavo e lui diceva: «È incredibile, Mainardi, come non capisci niente».

  Io allora restavo mortificato e dopo un po' raccontavo anche io una mia paura ed era lui, allora, a burlarmi: «Questa è una paura stupida» diceva. E si litigava. «Ci sono paure stupide e paure intelligenti?» dicevo io. «Altro che!» lui diceva. «Altro che! La gente si allea nelle paure. E tu vedi come i bravi e i giusti siano alleati in una paura intelligente... Come i perfidi siano alleati in una paura idiota! L'umanità è tutta divisa da patti e alleanze contro le paure...»

  Poi Tarquinio venne, con la sua cassa verde e le sue valigie di cuoio nero, ad abitare anche lui dalla signora Formica, e tutta la pensione fu “il protettorato” e la vasta stanza dalle sovraporte affrescate fu “il campo”. Ma egli trascorreva buona metà della giornata sotto “la tenda”.
III

  Lo trovai là, dico nel suo lettuccio di ferro, col capo dentro alle coperte che dormiva o meditava quieto come in sonno.

  Avevo bisogno di destarlo, farlo alzare, uscire insieme a lui, e cominciare a spendere, tutti, al sole, quei miei due giorni di castigo. Sarebbero stati due meravigliosi giorni con lui, anche a trascinarsi senza scopo da caffè a caffè; due interi giorni di “cava”!

  Ma di Giovanna non gli avrei parlato; temevo i suoi due anni di più, che mi facevano vedere in lui una specie di me stesso cresciuto che avrebbe potuto portarmela via, magari sposarla.

  «Tarquinio» chiamai.

  Nella stanza semibuia penetrava, dall'invetriata socchiusa del balcone, un accordo di pianoforte. Di qualcuno che studiava, ed era così esile di lontananza che mi parve suonassero da dentro il suo sogno.

  Poi, siccome avevo spalancato il balcone e la finestra (che dava sul canale), egli si destò nell'aria fresca della corrente guardandosi attorno, tutto arruffato, coi suoi occhi già ironici ma stupefatti, come si trovasse d'un tratto sopra la tolda d'un veliero.

  Mi vide, dove m'ero seduto, che me la ridevo.

  «Ah» disse e ricadde col suo capo crespo sul cuscino. «Ma accidenti, che t'è preso di svegliarmi a quest'ora?»

  «A quest'ora?» dissi io. «Ma se esco di scuola» soggiunsi.

  Balzò a sedere: «Che mi vuoi dare ad intendere? Ma se avevo detto di chiamarmi alle otto e mezzo. Dovevo essere fuori; alle undici...».

  M'accorsi che sul suo tavolo da studio c'era il vassoio con la tazza del caffelatte e il panino.

  «Vedi bene» dissi indicandoglielo, «che sono venuti a chiamarti. E tu ti sei riaddormentato.»

  Era sconcertato eppure già distratto come se già stesse rassegnandosi all'idea di aver perso l'appuntamento.

  «Be'! Ma che ore sono?» disse.

  «Ti dico. Esco di scuola...»

  Ma ammutolii sotto il primo rintocco d'un orologio che nel nostro teso silenzio, al di là dello scroscio monotono del canale e del filo di musica, e del rotolìo del tram ondulante lontano, suonò dalla chiesa dell'Angelo Custode, lì presso, dieci colpi.

  «Ah, le dieci sono?» disse Tarquinio sbadigliando; con indifferenza estrema.

  Poi mi guardò, ammiccante:

  «Esci di scuola?»

  Gli dissi dei miei due giorni liberi.

  «Grazie a quell'occhialuta...» dissi.

  Tarquinio si stiracchiava, si sgranchiva, si lisciava come una specie di gatto.

  «Ah, Madre di Dio!» esclamò. «Pensa che mi sognavo di volere bene...»

  E per un momento ebbe la sua voce calma delle grandi confidenze.

  «Ci credi? A una che non vedevo e suonava, figurati. Come dire che volevo bene a una musica... E doveva essere questo stesso abbicì di piano; lo senti? Ma nel sonno era un'altra cosa... Che coglione!»

  Bussarono.

  Entrò col suo vasto cappello a piume di avantiguerra, con la sua larga faccia vescovile, la signora Rosmunda Formica.

  «Ragazzi, la posta...»

  Ansimava. Buttò una lettera sul marmo della specchiera. «È per il ragusano» disse, e il suo bonario sguardo un po' strabico di donna grassa passò su di noi, ridente, senza far caso se Tarquinio era a letto, se io mi trovavo lì invece che a scuola.

  «Signora, signora...» la richiamò Tarquinio, quando, data attorno un'ultima occhiata, essa stava per uscire di stanza.

  «Me le manda un paio di calze pulite?» disse.

  Essa si fermò, come soprapensiero, e lo contemplava evasiva, girando e rigirando nella sua manina guantata di nero il pomo della porta.

  «Ah?! Be'?! Così allora?» disse. E varcò la soglia.

  «Ebete» disse Tarquinio tranquillamente, scuotendo il suo capo ricciuto.

  Scoppiammo a ridere, soddisfatti di noi, e ci raccontammo, recitandola come una lezione, la solita storia.

  «C'era una volta la signora Rosmunda Formica che venti anni fa fu abbandonata dal marito e ci pensava ancora...»

  «Ma via» esclamai dopo; e intanto gli avevano portato le calze. «Sarebbe così straordinario fuori. Fa' presto. Ti offro la granita se siamo al Giglio per le undici e mezzo...»

  Mi chiese se avessi molti soldi, fischiettò, mi pregò di porgergli il caffelatte che bevve d'un fiato, si stirò, sbadigliò, e accese una sigaretta.

  «Non ti spaventare» disse. «Me la fumo in un attimo e mi vesto. Tanto all'appuntamento non ci vado. Non ci vado. Era per fissare alcune lezioni di trigonometria; con quel Bongiovanni, sai... Me ne infischio.»

  E continuò con l'aria di una canzonetta in voga:

  Sì, me ne infischio
  Sì, me ne infischio
  Sì, me ne infischio
  Me ne strainfischio
  Me ne strainfischio
  E tu? E tu? E tu?

  «Oh, io» risposi.

  E feci un gesto che avevo imparato guardando i fiaccherai. Ma subito, non so perché, ne arrossii.

  «Che hai?» disse Tarquinio, con uno sguardo strizzato, quasi sardonico. «Non sei in perfetta forma, mi pare.»

  Senza ribattere uscii sul balcone.

  Ampio, panciuto balcone di gran signori, alto sul Corso dove le lente carrozzelle, la lenta folla nera, il lento fruscìo della città pancia all'aria nel sole, gridavano la splendida, splendida vita. E in un punto preciso oltre tetti e tetti, c'era l'amore di Giovanna: nell'immenso mondo di sole.

  Come un comignolo, o una di quelle teste d'albero con pavese che spuntavano di là, dov'era il molo; e sarebbe bastato esserci, in quel punto, starci quieto, calmo, abbracciandomi le ginocchia, per sentirmi d'un tratto felice. “La cava” era qualcosa di simile... Una rimessa di felicità. E quand'ero bambino, nella casa di campagna dello zio, avevo un mio posto speciale, in cucina fra l'uscio sempre aperto e il muro, dove correvo zitto ad accoccolarmi e diventavo, qualunque fosse il mio dispiacere, diventavo, così solo a starci, felice.

  Suonò la mezz'ora dopo le dieci.

  «Senti» dissi a Tarquinio, dal balcone, «com'è passata mezz'ora e non hai finito di fumare...»

  Ma non udii quello che mi rispose poiché la sua voce arrivava dissolta nell'aria ronzante del balcone, pieno di sole.

  Rientrai un po' irritato.

  «Ma tu, non esci mai di mattina?»

  «Neanche tu esci mai, se non t'alzi per la scuola... Per me è sempre come la tua domenica.»

  «Sei tu che me le guasti le domeniche... E i giorni come questi pure.»

  Mi offendeva quel suo parlarmi della domenica come se io fossi uno scolaro modello e non mi prendessi tutte le vacanze che volevo.

  «Ecco, mi metto la camicia...» disse lui.

  E toltasi la buffa magliettina azzurra che indossava per la notte s'infilò la camicia; poi ristette con le mani dentro le lenzuola abbracciandosi le gambe.

  «Ma...» disse. «Pensavo a una donna. La più bella donna del mondo...»

  «Dove l'hai vista?» chiesi ansioso, e vagamente temevo che si trattasse di Giovanna.

  Egli ricadde col capo sul cuscino.

  «Da madama Ludovica...» disse. «Ma non avevo i soldi. E oggi riparte. Alle undici; sai.»

  Intanto il suo sguardo venne a posarsi su di me come un moscone che era ronzante, ronzante, e me lo trovavo addosso d'improvviso.

  «O che hai? Un garofano all'occhiello, rosso...»

  E scandiva le sillabe.

  «Non ti sei affiliato alla Pro Spada della Giustizia?!»

  Arrossii di rabbia con una voglia di scagliarmi su di lui, e percuoterlo.

  «Io? Vorrei che tu lo fossi un altro Matteotti e ti farei sentire...» dissi.

  Egli non era il questurino Briscola che poteva vedere in uno con garofano rosso un sovversivo. Egli non vedeva che un romantico rivendicatore - e questo mi faceva rabbia, orrore.

  «No» protestai ancora, ma con troppa veemenza; e non mi riusciva di distruggere il suo insopportabile sguardo ironico che mi vedeva, lo sentivo, con fiaccola in una mano, bilancia in un'altra, la bocca atteggiata nell'invocazione di Giustizia e Normalità.

  E avrebbe cominciato a darmi del borghese.

  «Tutta questa gazzarra, in cui comunisti, massoni e liberali si ritrovano unanimi sotto un vessillo da Esercito della Salvezza rivela la mentalità piccolo-borghese e nient'affatto rivoluzionaria dei vecchi partiti italiani. E per il fascismo è un bene, ve lo dico io. Il fascismo, che credevate reazionario, ne uscirà rivoluzionario davvero e antiborghese...»

  Mi veniva in mente con queste sue parole che erano anche mie, come lo avevo visto a volte inveire contro taluni dissidenti figli di bottegai, nell'aula della sezione. Ah il fascino della parola “antiborghese”! E che voglia di fucilate!

  «Allora un'anadiomene?» disse invece.

  Assentii con slancio.

  «Sì... Si chiama Giovanna.»

  E gli raccontai di una grande passione d'amore, inventandomi storie di appuntamenti con baci, di scalate alla casa, ma gli dissi anche di quella furiosa bontà che m'invadeva quando ero vicino a lei.

  Egli mi chiese soltanto a che ora andassi a far le scalate.

  Non mi persi d'animo.

  «Oh, scalate per modo di dire...» dissi. «Sai; qualche metro di muro e op, c'è subito il terrazzo...»

  «Sì, ma a che ora» disse lui.

  E io: «Mica sempre... Sarà stato tre, cinque volte. Un momento, mentre i suoi sono che mangiano».

  «E lei non mangia?» disse lui.

  Sospirai.

  «Dico. Mentre i suoi si attardano a tavola, come succede. Giovanna s'alza, gira un po' per le stanze e viene in terrazzo...»

  «Tu poi in un balzo» concluse Tarquinio calcando sulla mezza rima.

  Ma capii che in fondo egli credeva, se non a tutto a molto, e si accaniva a fingere di non credere, come per salvarsi dal turbamento che nebbiosamente scendeva sul suo cuore per questa cosa che io dicevo d'avere ed egli non aveva mai avuto.

  «E non hai una fotografia?» mi chiese, dopo un breve silenzio.

  «Scusami» mentii, «non posso mostrartela.»

  E mi feci un po' discosto col presentimento di una di quelle lotte che mi capitava di sostenere quando voleva togliermi di tasca qualche sciocchezza che m'ero rifiutato di mostrargli; e ci si rincorreva, ci si buttava sui tavoli, si rotolava in terra, ci si mordeva le orecchie, sempre mezzo ridendo, finché lui, più forte di me, non riusciva a levarmi e portarmi via la giacca.

  Ma adesso era in letto; non aveva nemmeno le mutande, pensai. Ecco, però, che le prendeva.

  Soprapensiero, e con voce crucciata come di rammarico, mi domandò:

  «Ma perché non m'hai detto mai nulla?! Alla “cava” ci si diceva ogni cosa...»

  Questo inatteso suo rimprovero, che mi colpiva in maniera così affettuosa, proprio nella nostra favola di vita insieme, mi fece perdere tutta la mia voglia d'esser fuori. E sentii l'inutilità della mia bugia, che m'aveva portato ad esagerare, senza che me ne accorgessi, quella specie di mancanza d'amicizia.

  «Non so» dissi; e volevo dire un'immensa verità. «Mi pareva che tu dovessi rubarmela. Essa è grande come te.»

  Egli scoppiò a ridere.

  «Ah, tipo d'idiota... Te l'ho fatta la profezia che finirai un borghese qualunque. Ti pareva che... Sta tranquillo, preferisco le pandemie.»

  Bussarono.

  Entrò la Peppa, la nostra terribile Granatiera cinquantenne addetta alle stanze: servizio e pulizia. La chiamavamo anche Igiene, e qualche volta Innaffiatrice. Si presentò, mani sui fianchi, dopo aver posato in terra il secchio d'acqua e appoggiata al muro la sua scopa.

  Aveva proprio la faccia del cosiddetto “buon viso a cattiva sorte” sorridendo nel suo modo speciale, un po' grosso, di incassatrice di frizzi. Ma Tarquinio le indirizzò, senza molta voglia, un paio di contumelie già molto usate, affrettandosi a concederle il «fate pure».

  «Madre di Dio» protestai. «Ma prima che finisca sarà mezzogiorno. Aspettate Peppa... Che scenda dal letto, prima, perlomeno...»

  «Per me» disse quella, alzando le spalle, e già buttava all'aria i materassi d'uno dei letti, «il signorino Masséo lo sa che può fare anche balli nudo: o si vergogna lui? Ma mi sgombri il suo letto, però...»

  Guardai Tarquinio interrogativamente.

  Con un muso conciliativo, pur come chiedendo una breve proroga, egli accennò di sì.

  «Son quasi vestito» disse. «Anche le calze ho messo, vedi.»

  E stirò un piede fuori dalle coperte.

  «Mi fumo solo una sigaretta...» soggiunse.

  «Ancora?» dissi io.

  «Via, cinque minuti...»

  Tornai al balcone.

  Cominciava a calare l'ombra che nel pomeriggio avrebbe risalito addirittura fino ai tetti là di faccia, a calare su di me dall'alto del palazzo. Un antico palazzo di nobili, dove la signora Formica aveva avuto la fortuna, meravigliosa per noi, di installare a primo piano i lettini di ferro e i tavolini d'abete della sua pensione per studenti. Giù adesso, era più bello. La folla nera indugiava sui propri passi, senza più niente della fretta mattutina... Più che mai avevo voglia di uscire. Fuori di vista ronzava un aeroplano. E pensai il fremito di felicità, a trovarsi su un marciapiede di sole verso le undici, sentir ronzare un aeroplano, e guardare alto, alto, strizzando gli occhi...

  Nella stanza, tutte le seggiole accumulate sui tavolini, la Granatiera spazzava. Era d'impetuoso umore, mi era sempre dietro con la sua scopa, e non sapevo da che parte scansarmi.

  «Si levi, si levi» mi diceva continuamente, con tetra energia. «Ma signorino Mainardi, ma s'è messo a scuola privata anche lei?» proruppe quando cominciò a strofinare il pavimento con lo straccio e gli camminai sul bagnato.

  Saltai sul mio tavolo e sedetti lassù in una poltrona.

  Suonarono le undici.

  «Le undici?» disse Tarquinio buttando lontano la sua cicca.

  «Né più, né meno» dissi io dal mio trono, e ostentai soddisfazione.

  Infilandosi i pantaloni egli balzò giù, mise i piedi nelle scarpe, e si rigirava attorno cercando fra i suoi panni, con gesti di impazienza improvvisa.

  «La barba anche, debbo farmi» disse poi, come tra sé, guardandosi nello specchio immenso, dall'alta cornice dorata, ch'era tra il suo letto e il mio. E stanco, svogliato di nuovo, si lisciava perplesso le guance.

  «Potresti anche fartela una volta sì e due no» dissi io nella mia ansia di vederlo pronto.

  Ma egli non mi diede retta.

  «Presto Peppa. La ciotola dell'acqua calda» disse alla Innaffiatrice. E preparò il suo Gillette.

  Poi la Peppa portò via secchio e scopa, egli andò a lavarsi, tornò, si pettinò, si annodò la cravatta, e dalla strada fischiarono a noi i nostri amici del Terzo che usciti allora di scuola risalivano la Parasanghea.

  Gridammo loro che li avremmo raggiunti al Giglio.

  «E ora dove andiamo?» mi chiese invece Tarquinio quando fummo sulla soglia del portone.

  Neanche io sapevo ora dove avessi voglia di andare.

  «Vedi» soggiunse, «se si faceva in tempo, si poteva correre alla Marittima... Partiva alle undici e dieci. Ti giuro che è una donna straordinaria.»

  «E non tornerà?» dissi io, con vago interesse.

  «Dovrebbe tornare» disse lui. «Ho sentito che madama Ludovica la vuole per un paio di mesi almeno. Ma sai, è una donna che se ne infischia, così al di là, al di là...»

  Tacque, stringendo i suoi occhi di miope che guardavano lontano, come se il ricordo di quella donna gli diventasse insopportabilmente vivo, d'improvviso, ora che si trovava nell'aria allegra del mondo.

  «Bisogna averla vista, assonnata, assorta, in piedi vicino alla finestra del salottino senza curarsi di nessuno. Essa non è come le altre. Non viene addosso, sollevandosi la veste con quel chiasso da vispe Terese... Se la vogliono, è lì, vicino alla finestra. E credi che non si può fare a meno di volerla. È magnifica, magnifica...»

  «Non mi piacciono le Magnifiche» dissi io, ma avevo in bocca un sapore aspro di desiderio, come di monete di rame.

  «Oh!» egli disse, «non volevo dire una Solenne.»

  E la sua voce era stridula.

  «Pensa una donna alta» disse, «un po' scura, dagli occhi neri ma sul serio, mica del solito castano, e bionda di capelli! Cammina con una lentezza, una lentezza... Sai la lentezza di un animale da corsa, da fuga, di una gazzella, quando non è più libera con un Far-West davanti a sé? Deve aver corso e galoppato come matta ai tempi che aveva dodici anni. E la chiamano signora, le sue compagne... Dicono che sia sposata.»

  Guardai su, ai balconi, da uno dei quali, l'ultimo della fila, il pappagallo della signora Formica urlava:

  «...Quinio!... Quinio!»

  «E come si chiama?» chiesi con voce anch'io stridula.

  «Come si fa chiamare, vuoi dire» disse il mio amico. «Indovina. È un nome da mille e una notte quasi.»

  «Sheherazade? Fatima?» dissi io.

  «Ma no! Zobeida...»

  «Zobeida?!»

  Lo presi sottobraccio e ci incamminammo.
IV

  Dal diario di Mainardi

 

  Giugno 1924, domenica.

  «Da quattro giorni non la vedo, la mia demoiselle élue, e comincio ad aver paura che non torni più a scuola. Se non torna domani scommetto che non tornerà più. Che fare? Sono passato sotto le sue finestre e non è successo nulla. Nemmeno il piano ho udito. E mi pare curioso che di giugno tengano i vetri chiusi in quella casa. Che siano andati in campagna? Oh Dio! e so bene che Giovanna mi ama e che io l'adoro. Sicuro; ci vogliamo bene; potremmo esser felici; e invece, ecco questo mistero.

  «Stamani avrebbe dovuto recarsi a messa, come sempre; ero uscito con tanta speranza e sicura gioia, ero accorso sull'angolo ad aspettarla, tutto era bello, con un sole più forte di sempre, ma non ho visto che il genitore passarmi davanti in uniforme di gala per la rivista dello Statuto.

  «Deve essere un complotto della levatrice tutto questo. E un po' anche di Rana. Quell'idiota, iersera, è venuto a cercarmi in pensione, cosa stranissima perché non abbiamo mai avuto nulla in comune, e credo che lui mi detesti né più né meno come io detesto lui. Per disgrazia ero fuori. Gli hanno chiesto cosa potessero riferirmi da parte sua e ha risposto che non c'era nulla da riferirmi e che anzi era meglio non mi dicessero niente d'esserci stato lui a cercarmi. Ma io lo cerco sì, e se l'acciuffo bisogna bene che abbia molte cose da dirmi o gli rompo il muso.

  «Con Tarquinio non oso parlare di Giovanna. Ed egli continua a sospirare la sua Zobeida. Zobeida. Zobeida. Zobeida. Me la figuro grassa e bianchissima; distesa sempre nuda su un sofà di velluto azzurro quasi nero con alberi di fichi attorno, e la testa bionda in un piccolo turbante. E non capisco come mai ogni volta che si dice il suo nome, sento che vorrei infinitamente più bene a Giovanna, e che sarei assai più felice di volerle bene, se Giovanna fosse una specie di questa Zobeida, una mia Zobeida. In realtà, poi, non potrebbe essere così. Si può voler bene a una donna di quella specie?

  «Ad ogni modo, eccomi qui, col mio diario. Dico: col mio vecchio Diario d'uno Stratega; che tanti anni fa ho cominciato quando ero bambino in quella campagna di cotone, e si andava all'assalto dei fortilizi di fieno al di là delle siepi dei fichidindia. Erano due anni che non lo tiravo fuori e non ci scrivevo più nulla. Dall'ottobre del '22, santo dio, e precisamente dal giorno che divenni amico di Tarquinio sul serio, che fu la sera del 31 ottobre nella bottega del fabbro-tipografo, dove solo e triste aspettavo il ritorno dei miei compagni dalla Marcia su Roma.

  «Non mi avevano voluto con loro nemmeno per suonare la tromba. Ricordo bene che il Pelagrua, quello vestito in giacca nera filettata e pantaloni nocciola di gabardine, allora in prima liceo, ma più che diciottenne, credo, mi aveva afferrato per i capelli perché smettessi di insistere e io l'avevo morso a una mano. E aspettavo nella bottega del fabbro, riassaporando il gusto del sangue di quella mano e del grido selvaggio di rabbia e dolore del Pelagrua, aspettavo appoggiato allo stipite della porta di strada mentre faceva più buio, più buio, pensando che forse sarebbe stato meglio diventare comunista e tutta la vita battere col martello sopra l'incudine.

  «Oh, lo pensavo sul serio; e io che avrei cominciato subito; e c'era in qualche punto una Rosa Luxemburg da cui bastava andare a stringerle le mani alla spartachiana, e subito sarebbe cominciata una caccia feroce attraverso il mondo ai professori, alle guardie regie e ai Pelagrua.

  «Avevo posseduto uno di quei giorni una Mauser ma per la mia caccia feroce avrei voluto un fucile.

  «“Un fucile” chiesi al vecchio fabbro “si carica come una rivoltella?”

  «I due garzoni scoppiarono a ridere ma il mio vecchio fabbro mi guardò con serietà sollevando la mano nell'aria luminosa di riverbero che veniva dal forno.

  «“Tutto si carica allo stesso modo” disse.

  «Allora capitò Tarquinio insieme a quattro o cinque in camicia nera. Erano arrivati da qualche minuto, dissero; eccitati parlarono del viaggio, d'una lunga marcia nella campagna, d'una pianura di tende, e delle guardie regie a cavallo. Essi volevano fare uscire subito un numero del nostro giornaletto.

  «“Ecco, tu ci scriverai l'articolo di fondo” venne a dirmi, posandomi una mano sulla spalla, Tarquinio.

  «Lo conoscevo appena di vista ma già mi era simpatico, e malgrado mi facesse rabbia d'essere creduto utilizzabile per scrivere un articolo, so bene che in fondo gli ero grato e quasi riconoscente.

  «“Ma nient'affatto” però dissi, “io non so scrivere degli articoli. Per gli altri. Fatevelo voi che ci siete stati.”

  «Tarquinio non aveva smesso di tenermi la spalla con la mano leale ed ebbi un po' l'impressione che volesse abbracciarmi.

  «“Meglio era che fossi venuto anche tu, certo. Tu almeno, avresti consumato delle cartucce” disse.

  «Di nuovo si rise di me dentro la fucina, mentre qualcuno tornava a dimostrarmi la più profonda considerazione da uomo a uomo che mai avessi potuto sperare.

  «“Non c'è niente de ridere” egli disse ancora. “Quel Pelagrua per esempio non ha nemmeno caricato il suo fucile.”

  «“Ah, non ha sparato?” chiesi ansiosamente.

  «E seppi che non solo non aveva sparato ma che la mattina del 28 aveva piantato in valigia, grigioverde e camicia nera e se n'era andato per Roma a sbandierare i suoi calzoni di gabardine.

  «“Bellissimo” esclamai. Ma subito ridiventato tetro: “Siete tutti così” dissi e digrignavo i denti “tutti figli di bottegai... Lo so. Io voglio Carlo Liebknecht.”

  «“Carlo Liebknecht?” esclamarono gli altri di nuovo pronti a sghignazzare di me.

  «“È un pseudonimo di Lenin, Carlo Liebknecht?”

  «Arrossendo uno dei due garzoni disse che lo sapeva chi fosse quel tale.

  «“Era l'innamorato di Rosa Luxemburg” spiegò guardandoci tutti, insieme timido e fiero, e aveva l'aria di aspettarsi in risposta una rivoltellata.

  «Ma Tarquinio mirò me coi suoi occhi dalle palpebre palpitanti.

  «“Amico” disse. “Tu ci devi scrivere un articolo proprio nel senso del Liebknecht che hai nel cuore. Ora è questo che bisogna dire. Che non è stata una marcia di industriali; e che fascismo deve essere qualcosa di più e di meglio di un comunismo e non qualcosa di meno del liberalismo. Capisci?”

  «Capivo, pressappoco; ma non ero stato a Roma...

  «“E credi” dissi “credi che si combatterà ancora?”

  «Un tale rispose che era un'idea. O Mussolini, allora, non aveva preso il potere?

  «“Ma non è che una qualunque presa della Bastiglia!” protestò vagamente Tarquinio e si strinse nelle spalle. Poi mi venne vicino sino a farmi sentire il suo alito di fumo recente sulla faccia e all'orecchio mi sussurrò con baldanza:

  «“La Montagna saremo noi; vedrai!”

  «Allora gli volli bene. Ed ecco; è da allora che siamo amici, che abbiamo cominciato a stare insieme e a raccontarci tutto, ad avere “la cava” nell'antica fucina - e proprio da allora io non ho scritto più niente nel mio Diario d'uno Stratega.

  «Questo, però, mi pare stupido: di non aver scritto più niente nel diario - e adesso mi sento felice, nel mio amore per Giovanna, se non scrivo a lei, di potermi dire, almeno, delle cose segrete e tutte mie, e di appartarmi, per questo, anche da Tarquinio. Forse, non so, qualche cosa è successo tra noi, tra me e Tarquinio, ieri l'altro mattina, che ci ha diviso nel cuore; qualche parola sua o mia; o forse è cominciata per me una nuova vita da solo come era prima, ai tempi delle strategie; ma è certo che un respiro profondo mi occupa tutto, e sono come un gallo che sta per cantare, se mi dico: IO.»

 

  Lunedì.

  «Oggi sono accorso con ansia a scuola, ma niente Giovanna neanche oggi. Allora ho cercato della levatrice, deciso ad affrontarla e dirgliene quattro, ma è riuscita a sfuggirmi. E che brutti occhi biechi mi ha fatto!

  «Ho cercato anche di Rana e non c'era. I ragazzi dicono che il suo farmacista genitore stia sperimentando in corpore di lui gli effetti d'un nuovo sciroppo purgativo. Ed è detto bene.

  «Intanto, a scuola, è stato così triste, il sole mi ha pesato addosso come terra, al banco, tutta la mattinata, e quando la Bermùda mi ha interrogato sulle conquiste di Alessandro, non ho voluto nemmeno alzarmi, e ho avuto voglia di urlare. Non ci mancherebbe altro che mi mettessi a fare con la Bermùda, che è così bella, come con la Sempresei di franco-inglese. L'anno scorso ero il suo orgoglio in quinta ginnasio.

  «Eppure io so che saprei studiare ed essere bravo ma qualche cosa mi manca per questo; qualche cosa che oggi avrei avuto se Giovanna fosse venuta a scuola invece di no. Se questo mistero continua e Giovanna non ritorna a frequentare la scuola e se io non posso ricominciare a dirmi che ci si vuol bene, neanche la Bermùda potrà più essere bella in questo mondo. E sarà tutto rane, tutto levatrici, tutto Sempresei, e dentro di me, prima pianto, pianto, e poi cattiveria.

  «Gran Dio! E di Tarquinio che me ne importa?

  «Mi fa rabbia e non mi farà che rabbia, lui, d'essermi amico, se non avrò più e di più, vicino al mio cuore, Giovanna.

  «Ieri pomeriggio voleva condurmi alla partita di football, aveva due biglietti per la tribuna, tutto contento di essersene procurati due, uno per lui, uno per me, e mi sono rifiutato di andarci. Per questo oggi non ci parliamo, ci guardiamo torvo, e francamente, confesso che mi piace proprio, per oggi almeno, di non parlare con lui.

  «Era là, dianzi, con la Gazzetta dello Sport spiegata davanti alla faccia, sicuro in cuor suo che mi rodessi d'invidia, e non sa che me ne infischiavo.

  «A mezzogiorno poi è stato odioso.

  «Eravamo al Giglio, come al solito, aspettando la campana del secondo orario, e sono passate due carrozze piene di donne dalle braccia nude, che ridevano. Era la quindicina nuova di madama Ludovica; ai tavolini, appena ce ne siamo accorti, s'è fatto chiasso e Tarquinio d'un tratto ha gridato loro che qualcuno aveva un garofano rosso per chi di esse si fosse chiamata Giovanna. E una vestita di bianco ha risposto ma non ho capito cosa perché la carrozza, mentre essa ancora si voltava e ci rideva, è scomparsa al trotto nella Parasanghea.

  «Ma il mio garofano rosso me lo tengo ed è cosa mia, altro che! Me lo son messo nel portafoglio.

  «E del resto era idiota volerlo ostentare all'occhiello come il primo giorno. Per poco, sabato, non avevo un conflitto con quelli del terzo; m'hanno preso per matteottardo, figurarsi, e io, pur di stare in tutti i modi dalla parte del mio garofano, ho avuto quasi voglia di dire che sì.

  «Ma adesso che abbiamo ammazzato e che tutti i borghesi e i professori ci sono contro, sono troppo fiero d'essere un fascista, troppo fiero, e voglio restarlo.»

 

  Martedì.

  «Mi sono destato oggi in un rotolìo di tuoni.

  «Erano le sei, tutti dormivano a polmoni pieni, e da un tuono all'altro pareva che la casa, oltre le pareti e il tetto della stanza, crollasse attorno in pioggia. Dentro la pioggia si sentiva la cuoca macinare il caffè, e in fondo in fondo l'acqua del canale che rombava come di cavalli.

  «Poi il ragusano ha cominciato a bestemmiare, quell'altro pure rimpiangendo il bel tempo dei giorni scorsi, e Tarquinio ha inveito contro ambedue.

  «Allora ho avuto voglia che ci fosse un diluvio nelle strade e non si potesse andare a scuola. Infatti, non ci sono andato. Ma dopo le nove l'ultimo tuono ha ululato lontanissimo appena come una nube che si smembra, ed è tornato sole.

  «“Vogliamo uscire?” mi ha detto Tarquinio alle dieci e mezzo.

  «Zitti zitti ci siamo vestiti, e alle undici eravamo fuori.

  «Stupito che in mezz'ora gli fosse riuscito d'esser pronto gli ho chiesto se non s'è messo a cura da qualche medico ad energia elettrica. M'ha risposto ch'era forse effetto del temporale.

  «“Ah già! Tu sei quello che ha paura dei tuoni” io dissi.

  «E lui mi guardò con rimprovero, poi disse: “Ti dispiace?”.

  «“Mi dispiace cosa?”

  «“Ti dispiace che non sia rimasto in letto a sbadigliare?”

  «Davvero, confesso, forse mi è dispiaciuto sì che non sia stato il solito pigro anche oggi.

  «Su per il corso abbiamo svoltato nella via di Giovanna; dapprincipio non me n'ero quasi accorto, e d'un tratto mi ha preso una specie di panico. Volevo a tutti i costi tornare indietro ma Tarquinio duro.

  «“È qui che abita la tua Giovanna?” mi ha chiesto.

  «Ho accennato col capo di sì e m'è parso di vederlo inghiottirsi un sorriso. Uno di quei sorrisi cattivi suoi d'un attimo che gli attraversano la faccia dagli occhi alle labbra quando trionfa.

  «“Non sai raccontarmi nulla di questa Giovanna” ha detto e ha infilato il suo braccio nel mio. “Curioso. Come non ti fidassi di me... Vediamo, mostrami dov'è che abita.”

  «“Oh, è lì” ho detto io vagamente con un gesto verso sinistra.

  «E lui invece ha toccato subito a segno.

  «“Diciannove, no!”

  «Con una sicurezza così canzonatoria lo ha detto che per un momento ho pensato se non abbia fatto all'amore con Giovanna una volta. E, francamente, non mi dispiacerebbe che ciò fosse già stato... Ho paura che sia da essere!

  «Ma, ecco, egli ha cominciato a tormentarmi, e a volere che gli mostrassi il terrazzo di cui gli avevo parlato, eccetera, sempre con un tono incredulo e canzonatorio che mi ha dato tutta la sfacciataggine che so avere, se detesto.

  «E sono stato fortunato per imporgli di più la mia bugia.

  «C'è una sottovolta come una specie di galleria proprio accanto al numero diciannove.

  «“Ecco” ho detto. “È di qua.”

  «E son passato oltre con arrabbiata speranza.

  «Ci siamo trovati in un cortile vasto come un'aia con un prato d'erba in mezzo, e attorno basse costruzioni gialle di laboratori. In terra, tra la ghiaia, c'erano fili di paglia. Un rimorchio da camion era fermo in un angolo carico di casse. E il fragore monotono di una segheria veniva dall'al di là delle invetriate, come da un altro mondo.

  «A Tarquinio è piaciuto tutto questo e ha detto ch'era più bello della “cava”.

  «“Non è straordinario?” ha detto. “E tu lo sapevi e non me n'hai parlato. Anche questo è Giovanna? Tutto per conto tuo. Che mascalzone!”

  «E ha fatto un gesto di darmi un pugno.

  «Poi ha soggiunto: “Il padrone lo conosci?”.

  «E io: “Così così, ci salutiamo... Ma non vuol gente dentro”.

  «E lui: “Cos'è? Un misantropo? E se volessi apprendere il mestiere?”.

  «Io: “Bah. Ti pare che sia serio di voler apprendere un mestiere tutti i momenti? Alla “cava” ti sentivi nato per ferrare i cavalli”.

  «Egli mi ha guardato un po' con esitazione come per decidere in cuor suo se valesse la pena di rispondermi o no, e quindi:

  «“Non so proprio” ha detto. “Ferrare cavalli o altro, è certo che la mia vita d'uomo me la immagino solo in una specie di mia fucina, di mia segheria accanto a qualche macchina che ronza o a un fuoco che arde. Mi penso, a cinquant'anni, come il nostro vecchio della ‘cava’; come mai mio padre nel suo studio di notaro, quand'era vivo... E tu?”

  «Io non mi sono pensato ancora come vorrei essere a cinquant'anni, anzi mi pare piuttosto buffo di poter avere cinquant'anni, anch'io; tento, tento, mi rivedo nella campagna di cotone, nella grande casa vicino alla fornace di papà; e mi viene da ridere.

  «“Oh, tu non c'è bisogno che te lo chieda” ha soggiunto subito Tarquinio. “Si sa che tu ti sogni professore. Con Giovanna moglie professoressa di storia e geografia e i figli tutti ingegneri.”

  «È ben stupido a voler essere spiritoso per forza, mentre sa che proprio quello che lui sogna di fare, potrò farlo davvero nella mia fornace di mattoni, e dovrò farlo, io! Gliel'ho detto e si è quasi impermalito. Bel tipo!

  «E ha voluto entrare nella segheria.

  «Siamo rimasti un pezzo sulla soglia, a guardare, con le mani in tasca, e dovevamo aver proprio l'aria di gente al sole perché nessuno si è precipitato a prendersi le nostre ordinazioni...

  «Tornando fuori, egli si è ricordato del terrazzo.

  «“Dunque dov'è che ti arrampichi?” mi ha chiesto.

  «Mi sono cercato attorno e dapprincipio non ho trovato nulla che avesse potuto essere il mio terrazzo d'appuntamenti. Ho visto tetti, tetti, tetti ma poi, proprio sul lato della casa di Giovanna, su fino a un sette metri, una catasta di tronchi d'albero.

  «“Vedi quei tronchi?” ho detto.

  «“Ebbene?” ha detto lui.

  «“Di là si passa sopra quel tetto e si arriva... Vedi dove ci sono i vasi delle fresie?” ho detto io.

  «E così ho scoperto che Giovanna ha davvero un piccolo terrazzo, e che è pieno di fresie. C'è anche la pianta del mio garofano, ho visto. E aveva un garofano anche oggi, uno solo, ma non proprio rosso come il mio. Chi sa se non lo ha colto adesso. “A chi lo darà quello?” ho pensato. Ma esiste ancora, è esistita una volta, Giovanna?, è lì?, e quel giorno a scuola è stato vero?»

 

  Idem.

  «Stasera all'Ideal comincia il Guanto di cavallo e durerà nove sere. Un film come piacciono a me, coi cappellacci, le sabbie, le palizzate, e fumo pim-pam di pistole; che gioia nove sere!

  «Mi ricordo dell'anno scorso quando abbiamo avuto Il Vascello Fantasma, e andavamo insieme tanti del Ginnasio con le Ardizzoni e la Giaquìnto. Che chiasso si faceva, era così bello... Stavamo al buio, stretti nella stessa fila, e pareva che ci si volesse un gran bene. Ma ormai! Ci siamo trovati tutti grandi quest'anno; e non è più capitato. A Giovanna non deve piacere, il cinematografo. Non ce l'ho mai vista.

  «Stasera ci vado con Tarquinio.»

 

  Idem.

  «C'è movimento in città. Sono arrivate edizioni speciali di giornali e s'è fatta folla. Dicono che ci sarà corteo. Tarquinio è scappato di corsa e non m'ha lasciato detto niente per il cinematografo.»

 

  Idem.

  «Poco fa dev'esser successo qualcosa. Quelli del soldino arringano. Ma non ho potuto occuparmi di sapere che diavolo abbiano.

  «Avevo visto Rana nella folla e l'ho rincorso, rincorso finché l'ho acciuffato.

  «“Oh Gulizia” gli ho detto. “Ma che piacere! Non hai un mucchio di cose da dirmi?”

  «“Io? Perché?” ha detto lui e balbettava nel suo modo che pare faccia apposta.

  «“Ah no?” ho detto io. “Mi pareva.”

  «E d'un colpo secco gli tiro via un bottone scagliandolo lontano.

  «“Oh” egli ha detto diventando livido. “Cosa, cosa credi che non sia capace di reagire? Se non fosse che siamo in mezzo alla strada...”

  «Io: “Me ne infischio proprio della strada”.

  «E mi sono accorto che aguzzava gli occhi, a coniglio, sul mio distintivo di fascista.

  «“E che guardi?” ho detto io. “Ti senti un po' Matteotti, di' la verità... Ma basta che tu mi dica che cosa volevi sabato sera. Qua la mano.”

  «Lui: “Sabato sera?”.

  «Io: “Sabato sera sì. Sei venuto a cercarmi in pensione e non hai detto nemmeno chi eri. Ma t'illudi se ti ritieni indescrivibile. Uno che puzzava di fiele di bue, mi dicono, e chi poteva essere?”.

  «“Questa poi” ha scattato, con un tentativo convulso di liberarsi dalle mie mani.

  «E io: “Stai buono, stai buono. E ragioniamo. Dato che sabato sera sei venuto a cercarmi, e mai prima avevi salito quelle scale né per me né per altri nella tua vita, non è ovvio che avevi qualcosa di molto importante da dirmi? Ammesso per assurdo che tu ora non abbia più voglia o ragione di dirmela, la mia curiosità resta ferma, non è così?, e bisogna in qualche modo soddisfarla... Inventa, di' balle, ma parla... Ti do tre minuti di tempo”.

  «E lui: “Ma niente. Era quella storia del garofano...”.

  «Ed è diventato rosso, come un pinocchio, sopra gli zigomi.

  «“La storia del garofano?” ho detto io.

  «“Pensavo che tu potessi vendermelo” ha detto lui.

  «“Il garofano?” ho detto io.

  «“Sì, ecco” ha detto lui. “Io ti odio, Mainardi, sai. Io l'avevo chiesto alla signorina Giovanna, ma essa lo ha mandato a te. E pensavo che te lo avrei comprato. Ecco. E ora” ha finito quasi singhiozzando “ora andiamo al Matto Grosso.”

  «“Sì” ho detto. “È necessario.”

  «Andare al Matto Grosso significa andare a picchiarsi, ed è un posto tutto chiuso da steccati che abbiamo alla Darsena Vecchia. Un tempo era il recinto della dogana ma da un pezzo è stato abbandonato, la casa è in rovina, e la gente dice che di notte ci sono gli spiriti. Prima capitava quasi ogni giorno di accompagnare al Matto Grosso due che dovevano picchiarsi. Ed era di regola che i due fossero soli nel recinto; gli altri si aspettava al Vecchio Imbarcadero, poi si entrava a lotta finita, quando il vincitore dava un fischio, per acclamare lui e soccorrere quello abbattuto. Adesso capita di rado, e ci si prende a pugni senza tanto cerimoniale dovunque ci si trova. Ma per una questione che non si sa come può finire, è sempre meglio andare al Matto Grosso, lì non ci vede nessuno, e vi abbiamo ancora, nascosta nel pavimento della casa, una cassettina con bende, dell'aceto e della tintura di jodio. E con Rana la questione era seria.

  «Appena arrivati ci siamo tolta la giacca e camicia e subito lui s'è messo a correre e saltare come un cannibale, con strida di galletto, attorno a me.

  «Confesso che per un momento m'ha fatto paura e ho creduto che il Matto Grosso doveva mettergli dentro qualche sinistro potere.

  «“Stabiliamo le regole” ha detto. “Se vinco, il garofano sarà mio...”

  «Sentendolo balbettare mi è tornata tutta la sicurezza di me.

  «“Va bene” ho detto. “E se vinco io tu dovrai servirmi.”

  «E lui: “Come sarebbe a dire?”.

  «E io: “Sarebbe a dire che dovrai aiutarmi a rompere il mistero”.

  «Lui: “Il mistero?”.

  «Io: “Sì; il mistero che m'avete fatto, tu e la levatrice, attorno a Giovanna, sai bene. E ora guardati”.

  «Così gli corro addosso e gli do un gran colpo con la mano aperta, di quelli che accendon la pelle, a un lato del torace.

  «“Brucia, eh?” ho detto.

  «Egli dà indietro d'un passo, urla, salta, poi si slancia a testa giù cercando di colpirmi allo stomaco. Lo afferro al collo e mi sento le sue unghie fitte nei polsi. Lo scuoto, andiamo a terra, vedo i suoi denti avidi di mordermi. E subito egli mi lascia i polsi e vorrebbe agguantarmi all'inguine... Allora scatto inferocito. Lo rivolto a faccia sotto e gli sbatto il muso sul suolo, due, tre volte, quattro. Dopo è molle.

  «“Sarebbe a dire che hai vinto” dice, e sento che piange.

  «In terra vedo sangue. Lo metto supino, corro a cercare la cassetta dei medicinali, poi comincio a lavargli il viso con aceto. Ha gli occhi chiusi e lo penso morto. È Matteotti, penso: ora lo butto nella darsena. - Ma non ha nessuna ferita e sanguina dal naso. Ma sanguina, sanguina. Lo guardo. Penso che non finirà più di sanguinare. “Gli ficco dentro della tintura di jodio?” mi chiedo. Allora lui ha socchiuso gli occhi e ha detto: “Lasciami solo”.

  «E lì l'ho lasciato, mi sono rivestito e sono venuto qui come deluso e nient'altro. Ho avuto un gran pianto di mezz'ora, poi, ecco, mi son messo a scrivere calmo. E ho scritto proprio questo perché ora ho bisogno di qualche specie di perdono. È strano. Non so che cosa gli ho fatto, ma vorrei che lo avessi ammazzato e potessi chiedere un'immensa bontà di perdono, una grande, grande bontà tutta fatta di Giovanna.»

  Mercoledì.

  «Ieri non s'è mica fatto chiusura con Rana. Rana non è stato che il principio. Ho avuto serata movimentatissima. Qualcosa come una guerra, e punto Guanto di cavallo, ma pim-pam sì, e come anche!

  «È cominciato subito dopo cena. Tarquinio non era a tavola con noi.

  «“Bisognerà lasciargli tutto freddo; no?” dice la signora Rosmunda. “Sì. Lo credo proprio. Non c'è altra decisione da prendere. No ragazzi?”

  «“Certamente signora Rosmunda Formica” rispondiamo in coro.

  «E si ode uno sparo.

  «Corriamo ai balconi e vediamo che la strada è deserta con un tranvai fermo all'Angelo Custode, abbandonato. Ma lontano verso la Prefettura c'è folla che sembra assista a una esecuzione capitale. Poi si sente una marcia di gambe marziali nel vuoto d'una strada accanto, e ad intervalli, l'a noi d'un tempo, come piuttosto un chi va là che s'allontana.

  «Scappo a mettermi in camicia nera, mi cerco un bastone e scendo.

  «La Sezione dell'Angelo è chiusa, guardata da carabinieri. Incontro gente che mi chiama “balilla” e fischia. In piazza Duomo mi trovo tra fascisti, non li conosco, ma non importa, giro con loro. Dicono che i soldini (e questo mi fa venire in mente codini) avrebbero intenzione di attaccare la Sede, e che il grosso dei nostri è là attorno.

  «“Allora ci vo” dico, pensando che ci saranno anche quelli del Liceo con Tarquinio.

  «“Sei armato?” mi chiede uno che ha le stellette ai polsi della camicia nera.

  «“Son due passi” rispondo.

  «E lui: “Senti mozzo” mi richiama. “Sai sparare?”

  «E io: “Certo che so sparare. Avevo una Mauser quando è stato di Roma. Questione è che l'ho venduta”.

  «E lui mi porge una cosa diaccia che mi luccica in mano come d'argento.

  «“Ma che la guardi a fare?” dice. “Sai sparare o no? Mettila via. Bada di non servirtene che in caso estremo. E domani riportala al Fascio. Come ti chiami?”

  «Gli do nome e cognome che lui annota, poi li lascio e a poco a poco allungo il passo, poi mi metto a correre.

  «Allora mi sento felice. Mi sento il freddo della rivoltella battermi sulla coscia. Mi viene voglia di camminare e camminare così tutta la notte, e di avere duelli misteriosi, e di passare per la via di Giovanna. Penso Rana disteso nel suo sangue al Matto Grosso. “L'ho ammazzato” mi dico. “L'ho ammazzato oggi con questa.” E mi stringo forte la questa con la mano dentro la tasca.

  «Giunto alla Sede chiamo Tarquinio e gliela mostro.

  «Ma subito qualcuno urla che bisogna andare in piazza. Anch'io vado, con Tarquinio, in una trentina. E dov'è la folla vediamo altre venti o trenta camicie nere che chiudono lo sbocco della Parasanghea.

  «Tra noi si scherza, si ride, e non si sente nulla dell'uomo che sta commemorando Matteotti in qualche punto della piazza. Sappiamo solo che parla, che c'è questa voce commossa e un po' nasale a tratti stridula come alle arringhe della Corte d'Assise, e che c'è quest'Unto della Giustizia Borghese gesticolante sopra coscienze e coscienze come per farle figliare - ma non lo vediamo e fischiettiamo tra noi “Giovinezza”.

  «La folla zittisce. Questurini vengono a pregarci di aver pazienza. Una voce urla: “Viva Matteotti!” e prima che diventi un grido di tutti, scattiamo coi bastoni impugnati.

  «Ma si son lasciati picchiare. Non volevano che fuggire con dignità, come se battersi fosse stato fuori di decoro; e si lasciavan picchiare picchiare. Ne ho dato di batoste! Era tutta la classe media che legge i giornali; dai commendatori ai barbieri... Preso in mezzo, portato via sempre picchiando, a un tratto mi sento gridare contro: “Vergogna coi vecchi!”. E vedo che il mio vecchio è un pezzo di cinquantenne dai mustacchi neri che avrebbe potuto rompermi l'osso del collo se voleva. Allora ho avuto il senso che tutto fosse sciupato, inutile... E voglia di essere piuttosto con la folla, ma con una terribile folla nera di carbone a lottare contro mitragliatrici.

  «Tarquinio dice che la vera rivolta siamo noi mentre tutta la folla è un'immensa e pesante casta privilegiata. E che la vera libertà la vogliamo noi perché vogliamo distruggere tutti i privilegi. Delle massonerie, dei portafogli, dei fatti morali, dei fori, e delle anonime, eccetera.

  «Io non so...

  «Ma è certo che dopo le rivoltellate, che ci sono state più tardi alla Sede, passando verso casa con Tarquinio e altri davanti all'Ideal m'è venuta voglia di entrare lì; e l'ho anche detto.

  «Tarquinio m'ha capito, credo, perché s'è fermato con me a guardare i cartelloni. Le sabbie, le palizzate... Siamo rimasti zitti in una specie di incanto, un pezzo. E anche lui deve aver sentito come me un bisogno di altro adempimento, di conclusione. Lo sportello dei biglietti era già chiuso, diversamente ci saremmo precipitati tutti e due dentro il cinematografo, lo so, a respirare nel Guanto di cavallo un fumo di morte, come dire?, un fumo di morte e ferocia assai più persuasivo.

  «P.S. - Questo significa che Tarquinio è pur sempre il mio grande amico, no?» 

  Idem.
  «A casa, poi, gli ho raccontato la storia di Rana.
  «Tutta la notte abbiamo parlato, basso, alla finestra che dà sul canale. Giovanna e Zobeida ma soprattutto Zobeida, Zobeida, Zobeida... E prima di andare a letto ci siamo stretta la mano proprio come sulla soglia della “cava” quando si usciva di là.»