IL BISPENSIERO SELVAGGIO
Guido Vitiello
Il Foglio, 21 aprile 2018
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La geopolitica di 1984 è il modello occulto del tripolarismo italiano. C’è l’Oceania, ossia il M5S, e poi ci sono l’Eurasia e l’Estasia, scambievoli rimanenze dei due vecchi poli. L’Oceania può indifferentemente allearsi con l’Estasia e muovere guerra all’Eurasia, oppure può allearsi con l’Eurasia e muovere guerra all’Estasia; in entrambi i casi, lo farà sbandierando una coerenza incoercibile. Siamo vicini alla Lega. Siamo sempre stati vicini alla Lega. Siamo vicini al Pd. Siamo sempre stati vicini al Pd. Siamo sempre stati con la Nato. Siamo sempre stati a favore dell’euro. Siamo sempre stati contro l’euro. Siamo sempre stati con Putin. È un gioco di prestigio mentale, che nell’incubo totalitario di Orwell riesce facilmente perché il partito, controllando il presente, controlla il passato: “A livello ufficiale, il cambiamento nelle alleanze non si era mai verificato: l’Oceania era in guerra con l’Eurasia, quindi l’Oceania era stata sempre in guerra con l’Eurasia. Il nemico contingente incarnava sempre il male assoluto; ne conseguiva che qualsiasi intesa con lui era impossibile, tanto nel passato che nel futuro”. La truffa del programma del M5S, il gioco delle tre carte e dei venti pdf, si spiega solo nei termini di quello che Orwell chiamava doublethink, o “bispensiero”: “Sapere e non sapere; credere fermamente di dire verità sacrosante mentre si pronunciavano le menzogne più artefatte; ritenere contemporaneamente valide due opinioni che si annullavano a vicenda sapendole contraddittorie fra di loro e tuttavia credendo in entrambe; fare uso della logica contro la logica; rinnegare la morale proprio nell’atto di rivendicarla”.
Ma fermiamo qui l’analogia. Rocco Casalino viene dal Grande Fratello di Endemol, non da quello di Orwell; e il M5S non dispone ancora di “buchi della memoria”, le feritoie dove i documenti sgraditi al partito finivano risucchiati da un vortice d’aria calda: al massimo possono far scomparire una dissidente da una foto ricordo del gruppo consiliare della Regione Piemonte, o affrettarsi a cancellare i murales di Roma dove il capo politico dell’Oceania bacia il leader dell’Estasia, o spazzar via dai loro siti certe truci pagine inneggianti a Putin, oggi considerate imbarazzanti, domani chissà (“dimenticare tutto ciò che era necessario dimenticare ma, all’occorrenza, essere pronti a richiamarlo alla memoria, per poi eventualmente dimenticarlo di nuovo” è un’altra regola del bis-pensiero). Schietta mentalità totalitaria, ma nulla a che vedere con il Ministero della Verità orwelliano. Volessimo anche mettere in conto la servitù volontaria dell’informazione, non basterebbe: se il gioco di prestigio funziona, dev’esserci dell’altro. Ma cosa?
Marshall McLuhan, il teorico del “villaggio globale”, detestava Orwell. In una lettera a Ezra Pound del 1951, due anni dopo la pubblicazione di 1984, scrisse che “il guaio con i perfetti idioti come George Orwell è che fanno la satira di qualcosa che è accaduto cinquant’anni fa come fosse una minaccia dal futuro!”. Provo a sbrogliare la matassa di queste frasi ingenerose: McLuhan era convinto che i media elettronici, dalla fine dell’Ottocento, ci stessero riportando a una cultura orale, chiudendo il ciclo della “Galassia Gutenberg”, ossia il dominio del libro stampato e delle sue forme di razionalità. E un tratto delle società illetterate, che vedeva riemergere nelle società post-letterate, è appunto il perpetuo accomodamento del passato al presente. Qualcuno ha detto che la memoria delle culture orali è “omeostatica”, si mantiene in un costante equilibrio grazie a un’amnesia strutturale che elimina i ricordi considerati irrilevanti. Tra i popoli Tiv della Nigeria, per esempio, le genealogie venivano continuamente aggiornate per rispecchiare i rapporti di forza attuali, e allo stesso modo i Gonja del Ghana, nei loro miti, aumentavano o riducevano secondo le esigenze il numero dei figli del re fondatore. Il villaggio globale di McLuhan significa questo: l’estensione planetaria, per via elettronica, dell’antico mondo mentale di villaggi e tribù, senza bisogno dell’apparato di Orwell.
E così, mentre noi filologi gutenberghiani setacciamo i documenti scritti in cerca di incoerenze logiche, storiche o ideologiche che non interessano più nessuno, uno strano partito-clan – forse la prima elite occidentale tutta composta di post-letterati – si prepara alla presa del potere.
Il Foglio, 21 aprile 2018