venerdì 22 marzo 2024

RICORDI: MIO PADRE

 


RICORDI: MIO PADRE

A mi padre Pedro Garfias

¿Por qué no hablamos nunca, largamente,

tú y yo padre, cuando esto era posible,

como dos hombres, como dos amigos

o dos desconocidos que se encuentran


Non ricordo di essermi mai seduto da solo con mio padre a parlare. Era di poche parole. Il tema rapporto con i figli era delegato a mia madre. Le parole che ricordo sono : " Paulin, 'o taca' al caval, dai che a go da da' l'aqua a la vida" (Paolino, ho attaccato il cavallo, dai vieni che devo dare il pesticida alla vite. (Mio padre e' morto di cancro, quasi sicuramente per effetto pesticidi.... quello studio che ho pubblicato su la Rivista Sapere era come un presentimento?). Quella mattina come sempre andammo per "dar l'aqua a la vida", io ero seduto dietro il sedere del cavallo sulla stanga di sinistra, della botte del veleno, mentre mio padre teneva lo spruzzo per irrorare la vite. Il mio ruolo era far fare due metri al cavallo e poi fermarmi per dar tempo al papa' di irrorare. Ma io nell'attesa mi guardavo intorno e fantasticavo sul volo delle farfalle nel prato, sul leprotto che scappava al rumore, sui contadini che lontano "si davano la voce". Cosi' quella mattina il cavallo, probabilmente disturbato dalle mosche, fece uno scatto in avanti e trascino' mio padre che non aveva finito quel tratto. Disse, senza alzare la voce, "Oh vacca...", si levo' dalla testa il cappello, lo butto' per terra, lo schiaccio con rabbia tre volte, destro sinistro destro, lo raccolse, se lo rimise in testa, e mi disse "tiral in dre' " (fai arretrare il cavallo)'. La crisi era superata

giovedì 21 marzo 2024

UN'AGROCHIMICA ROVESCIATA di Paolo Bolzani

 



UN'AGROCHIMICA ROVESCIATA

di Paolo Bolzani

Estrattto dalla rivista SAPERE dicembre 1979

L'industria chimica e le sue contraddizioni

Infestazioni e concimazioni

L'inquinamento dei fertilizzanti e dei pesticidi


Obiettivo di questa nota è di contribuire alla analisi del ruolo che svolge l'industria fornitrice dei mezzi di produzione sulle trasformazioni strutturali in agricoltura e quindi sulla capacità del settore agricolo di assolvere al compito duplice di soddisfaacimento dei bisogni alimentari e di conservazione delle condizioni di produttività del suolo. Il problema economico e sociale del crescente ricorso al mercato di importazione per soddisfare la domanda di beni alimentari rende particolarmente urgente un intervento di trasformazione strutturale che deve interessare i settori a monte che determinano con le politiche industriali le condizioni produttive in termini tecnologia e di livelli di produttività.

Da questo punto di vista è necessario chiarire in che modo la politica di profitto dell'industria fornitrice dei mezzi di produzione, in particolare dell'industria chimica, ha influenzato la trasformazione capitalistica della agricoltura nella direzione dualistica, favorendo il processo di concentrazione, mọdificando il modo di produzione e accrescendo il divario fra azienda agraria capitalistica e azienda contadina.


Progresso tecnologico o « ritorno alla natura »?

Riguardo al rapporto chimica-agricoltura e, più in generale, industria-agricoltura, esistono attualmente diverse posizioni che possiamo ricondurre schematicamente a due: da una parte quelli che assumono un atteggiamento, di fatto acritico, nei confronti delle scelte dell'industria chimica, come in generale dellindustria che produce mezzi di produzione, per cui il problema agro-industriale riguarderebbe principalmente la fase di produzione-trasformazione dei prodotti agricoli e non anche l'indírizzo delle industrie che producono mezzi e modi di produzioní agrari; dall'altra chi, a partire da una posizione critica, arriva a proposte di abolizione dell'impiego dei prodotti chimici in agricoltura, per un irrealistico « ritorno alla natura >.

A noi sembra, e cercheremo di fornire elementi in questa direzione, cheentrambe queste posizioni non siano accettabili se si parte dalla necessità di uno sviluppo dell'agricoltura che renda questo settore capace di soddisfare i bisogni generali. La nostra posizione è che il tipo di tecnologia fornito in prevalenza dall'industria chimica generi importanti contraddizioni che hanno un costo sociale diretto (sull'agricoltura in relazione al problema agroalimentare) e indiretto (per gli effetti ambientali) non sostenibile; inoltre ci sembra che, senza un cambiamento radicale di orientamento di strategia industriale, alla base della quale un ruolo determinante avrà la strategia di ricerca, le contraddizioni, oggi operanti, porterannoa una sempre maggiore incapacità dell'agricoltura nel dare una risposta ai.bisogni dell'umanità, con un crescente degrado ambientale. Da questo punto di vista gli aspetti importanti della strategia chimica verso l'agricoltura ci sembrano essere: 1) l'orientamento prevalente a fornire mezzi e modi di produzione in funzione del risparmio di forza lavoro; 2) specializzazione sui prodotti che rispondono meglio alle esigenze della azienda capitalistica medio-grande ad orientamento monocolturale; 3) forzatura.della domanda dei prodotti chimici più che ricerca di prodotti rispondenti a.tecnologie più « produttive » non solo nell'immediato ma anche in prospettiva (salvaguardia delle condizioni produttive).

Dal punto di vista della fertilizzazione del suolo la questione agroindustriale.può essere vista nel modo seguente:

-i concimi organici (letame etc.).non possono essere prodotti in quantità tali da soddisfare la concimazione secondo la necessità della produzione alimentare;

-i concimi chimici hanno permesso di aumentare in modo rilevante la produzione agricola, correggendo in positivo la fertilità dei terreni e contribuendo a mantenerla.

Mentre da una parte si può dire che i concimi chimici non sono di per sé dannosi, dall'altra guardando alla politica industriale, e quindi direttamente al modo di trarre profitto in questo settore, si sono avuti conseguenze negative che possono ricondursi sostanzialmente a due orientamenti: 

- uso esclusivo di concimazione chimica che va di pari passo con l'allargamento delle monocolture delle grandi aziende capitalistiche, ma che si è esteso anche alle aziende contadine con uno effetto di medio termine di impoverimento del suolo per carenza di sostanza organica e con un conseguente calo di fertilità:

- uso distorto derivante a sua volta da due cause prevalenti, che incidono particolarmente sulle aziende medio piccole che sono: da una parte una carenza conoscitiva di chi impiega il concime chimico riguardante la natura del terreno, le necessità nutritive della pianta e la conseguente composizione e modo di concimazione; dall'altra un ruolo attivo dell'industria chimica e dei suoi canali di distribuzione, che tende a vendere prodotti in relazione alle possibilità di profitto più che alle effettive. necessità collegate alle diverse condizioni dei terreni e delle coltivazioni. L'uso esclusivo della concimazione chimica è un portato di una trasformazione dei piani colturali aziendali (in direzione intensiva monocolturale) che ha comportato, in base ad una logica capitalistica rivolta al profitto di breve termine, l'abbandono di pratiche come la rotazione e la concimazione organica legata all'allevamento del bestiame. L'effetto depressivo sulla fertilità a lungo termine conseguente di queste pratiche deriva da due fattori: in primo luogo per la riduzione della sostanza organica che comporta una riduzione di fertilità per degradazione chimico-fisica e microbiologica, minor capacità di scambio, minor capacità del terreno di trattenere acqua; in secondo luogo l'intensità di impiego del concime chimico accentua gli effetti che dipendono dalla natura chimica del concime, prevalentemente in modifiche della reazione acida/basica, introduzione di minerali tossici per le piante (ad esempio cloruro di potassio per la vite e per il tabacco).

Oltre a questo, l'attuale orientamento ⁸allo sviluppo dei fertilizzanti complessi risponde a un processo di espulsione massima della forza lavoro con cui si manifesta la trasformazione capitalistica nelle campagne.

Concimi e pasticidi: vantaggi per chi?

Attraverso i concimi complessi l'industria chimica offre infatti l'opportunità della concimazione a « turno unico » all'inizio del ciclo vegetativo (prima della semina per le erbacee e in primavera per le arboree) in quanto si tratta di prodotti granulari a cessione lenta che vengono assimilati gradualmente dalle piante. Il vantaggio che l'industria chimica ne trae, traducibile in svantaggio per l'agriccltura, è in maggior prezzo dell'unità fertilizzante contenuta nella formulazione che si combina anche con un maggior consumo. E' infatti provato che: i rapporti tra azoto, fosforo e potassio delle diverse formulazioni non rispecchiano le proporzioni delle necessità nutritive; per quanto sia graduale la cessione degli elementi nutritivi esiste una dispersione nel terreno nel tempo  un conseguente spreco (questo vale in modo particolare per l'azoto facilmente dilavabile); la forzatura operata dai produttori di concimi sui composti che contengono dosi elevate di azotati, non tiene conto che lo sviluppo del catione NH4+ (che è una delle forme di azoto presenti nel concime) di fatto ostacola l'assorbimento del potassio, rendendolo in parte non utilizzabile dalla pianta. All'interno della politica industriale dei concimi complessi l'industria italiana si distingue sulla promozione dei consumi di prodotti partlcolarmente poveri, e comunque non corrispondenti alle esigenze agronomiche. L'attuale sistema di lotta chimica contro i parassiti sviluppa contraddizioni difficilmente eliminabili dati gli attuali criteri di ricerca e di politica industriale. La prima contraddizione che mettiamno in evidenza è connessa al rapporto fra uso intensivo dei prodotti chimici e sviluppo delle infestazioni causate dallo squilibrio biologico che «questa» chímica tende ad intensificare. Fra i principali fattori che influiscono sullo sviluppo delle infestazioni vi è sia la concimazione che i trattamenti antiparassitari. Soprattutto nel caso della concimazione va rilevato che un apporto abbondante di azoto esercita un effetto stimolante sulle infestazioni da ragnetto rosso, al contrario l'apporto di potassio svolge.un'azione antagonista alle infestazioni.

I pesticidi, oltre ad esercitare I'azione specifica per cui sono somministrati agiscono allo stesso tempo in direzione di uno sviluppo delle infestazioni in vari modi: distruzione degli insetti ausiliari (predatori di insetti fitofagi), selezione di specie resistenti ai pesticidi, e, secondo la teoria trofica, a causa di alterazioni dei succhi cellulari le piante diventano più attaccabili dalle malattie (ad esempio modificazione del rapporto fra azoto/idrati di carbonio ). Tale situazione, da un punto di vista di politica di profitto per le industrie produttrici di pesticidi, in realtà è una opportunità, perché queste contraddizioni, creando infestazioni o peggiorandole, aumentano le necessità di consumo con una combinazione di prodotti che può riprodursi quasi all'infinito.

La moltiplicazione dei composti a formula diversa rappresenta non solo un tentativo di risposta alle esigenze delle pratiche agronomiche ma anche un modo per creare nuove occasioni di profitto combinando principi attivi diversi che inducono continui cambiamenti nella utilizzazione in risposta all'aggravarsi delle infestazioni. E' da queste considerazioni che si puờ meglio comprendere il perché dell'esistenza in Italia di circa ottanta aziende che distribuiscono prodotti con un ventaglio di tipi che raggiunge il numero di 4600, recentemente censiti !

Non è possibile sostenere che l'esigenza di corrette pratiche colturali in funzione, oltre che alla qualità e quantià del prodotto, del mantenimento della fertilità del terreno, dell'equilibrio biologico della salvaguardia ecologica per I'ambiente e per l'uomo, rientri come fattore prevalente nelle scelte dell'industria che fa profitti sulla agricoltura.

L'industria italiana è infatti una industria formulatrice di principi attivi «maturi» prodotti anche in Italia, e «nuovi» prevalentemente principi attivi di importazione: circa il 50% delle materie prime impiegate sono di importazione, La prevalenza dell'intervento in Italía delle multinazionali chimiche (11 aziende sulle prime 20 più importanti) non solo rende difficile un orientamento alternativo della ricerca, ma anche ta spesso dell'Italia il terreno di sperimentazione di preparati i cui effetti tossici non sono ancora verificati o sono soggetti a norme restrittive in altri paesi.


 Pesticidi e inguinamento

I pesticidi sono tossici in due modi: diretto, attraverso ingestione, contatto e inalazione; indiretto, per accumulo mediante la metabolizzazione negli organismi viventi o a seguito di una degradazione nell'ambiente (aria, acqua, terreno). I pesticidi possono essere ad alta, media, bassa tossicità (vedi tabella 1) e ad ogni livello si possono avere due situazioni, che incidono diversamente come fattori di inquinamento: composti facilmente metabolizzabili o degradabili e quindi non persistenti come tali; composti scarsamente o per niente metabolizzabili o degradabili e quindi tendenti ad accumularsi nell'organismo o nell'ambiente e, da questo, mediante riciclo nella catena alimentare, di nuovo negli organismi, fino ad arrivare all'uomo

Alcuni esempi permettono di chiarire lo spettro di azione inquinante dei pesticidi.. Per quanto riguarda l'inquinamento dell'aria, la tossicità agisce soprattutto in fase di produzione e riguarda sia i lavoratori addetti alle lavorazioni sia gli scarichi esterni nell'atmosfera intorno alla fabbrica: questo è un problema comune a molte produzioni chimiche ma diventa particolarmente grave se si tratta di fabbriche di veleni: accenno solo alla vicenda di Seveso, dove veniva prodotto il triclorofenolo, composto di base per il diserbante 2, 4, 5 T.

L'inquinamento delle acque avviene in due modi prevalenti: attraverso l'azione diretta di trattamento delle acque ad esemnpio contro le larve di zanzare e contro le infetazioni acquatiche; indirettamente attraverso percolazioni o.dilavamento verticale del terreno fino al raggiungimento delle falde freatiche. Dove comunque avviene l azione più importante di inquinamento da parte dei pesticidi è sul suolo, dove vengono dispersi nelle diverse formne di lotta (insetticidi, erbicidi, anticrittogamici, rodenticidi ecc.). I risultati della lotta antiparassitaria sono innanzitutto dipendenti dalla globalità delle scelte colturali. Questo significa che occorre partire dalla necessità di riconoscere le interdipendenze fra i diversi lavori agricoli e le relative conseguenze per poter misurare i risultati attesi dalla lotta antiparassitaria. In altri termini le considerazioni fatte fin'ora permettono di affermare che la conoscenza della biologia dei Parassiti e dei presidi sanitari non sono i soli fattori della lotta antiparassitaria. Con numerosi esempi abbiamo evidenziato che la lotta chimica anche a partire dalla miglior conoscenza dei prodotti della loro selettività, e modalità di impiego se attuata in modo indiscriminato per un dato parassita, si ritorce contro l'agricoltore per il disturbo all'equilibrio biologico fra i parassiti e per gli effetti di inquinamento.

Da questo punto di vista « lotta integrata » significa operare per evitare un danno economico attraverso appropriate tecniche agronomiche, riducendo al minimo gli interventi della chimica, sfruttando anche il ruolo dei predatori e dei parassiti naturali. Fanno quindi parte della « lotta integrata » la tecnologia agronomica, l'intervento chimico e la lotta biologica.

La protezione della produzione a nostro avviso deve tener conto di questi fatti: il problema non si pone in termini di eliminazione totale della malattia così come viene presentata dalla promozione dell'industria che punta al massimo consumo dei prodotti chimici, ma nel senso di tenere le popolazioni di fitofagi e le malattie fungine al di sotto della soglia di tolleranza tale da assicurare le migliori condizioni di produzione; della necessità della ricerca genetica per selezionare le cultivar più resistenti alle malattie (ricerca agronomica);- della opportunità di integrare la lotta biologica con la lotta chimica (vantaggi ecologici oltre che economici).

La difesa delle produzioni dai parassiti richiede che si parta da una. impostazione della ricerca che tenga conto innanzitutto della necessità di difendere non solo le produzioni ma anche le condizioni di fertilità e le condizioni ambientali, non portando a valle l'inquinamento che si accumula fino ad arrivare all'alimento umano.

Questo significa basare la fitoiatria innanzitutto sui presupposti fondamentali della entomologia agraria e della zoologia per lo studio degli insetti e dei parassiti animali: da questo punto di vista la lotta basata su preparati sempre più selettivi e di apparente efficacia fin'ora ha dimostrato solo che.la « tecnologia chimica » cosi come è stata pensata richiede una radicale riconversione; la lotta come « veleno che uccide il parassita » sembra dimostrare un grave limite se non si combina con tecnologie agronomiche e di lotta biologica di altro tipo. Da questo punto di vista la chimica può diventare efficace e ridurre i danni collaterali, fra i quali vi è anche la creazione di condizioni di sviluppo dei parassiti che si vuol combattere, se trova nella patologia vegetale e nella ricerca botanica nuovi criteri biotossici nei riguardi dei parassiti.

Questo significa ad esempio andare nella direzione, nel caso degli insetticidi, di prodotti che agiscono in modo diverso sui meccanismi fisiologici dell'insetto: è il caso della ricerca 

SAPERE - DICEMBRE 1979 - PAG. 33 

sugli ormoni che agiscono sulla metamorfosi o come attrattivi sessuali,

Ma significa anche recuperare eventualmente attraverso la produzione di preparati di sintesi, il valore dei tradizionali pesticidi di origine naturale: è il caso delle piretrine che possono essere riprodotte attraverso sintesi (piretroidi) migliorandone l'efficacia senza peggiorare le caratteristiche che nel caso del prodotto di origine naturale ne fanno un composto a bassa tossicità per gli animali e per l'uomo.

A partire da questa impostazione possiamo indicare alcuni temi concreti che ci sembrano di una certa rilevanza per rovesciare il metodo di difesa della produzione agricola e di conseguenza per cambiare anche gli indirizzi prevalenti dell'industria chimica.

Pesticidi di terza generazione: il caso degli insetticidi - La lotta con prodotti chimici di sintesi che agiscono sui meccanismi fisiologici esclusivi degli insetti, come la metamorfosi e gli sviluppo sensoriali, è un indirizzo abbastanza recente che sta già producendo risultati a livello industriale in due direzioni: juvenoidi e attrattivi sessuali o ferormoni.

Gli juvenoidi prodotti per sintesi comprendono ormoni che agiscono non solo sulla muta e metamorfosi ma anche come regolatori dello sviluppo. 

I ferormoni vengono impiegati per di-sturbare la riproduzione o catturare in massa gli insetti utilizzando la loro caratteristica di attrattori sessuali.

Vi sono preparati in commercio contro le tignole della vite e dell'uva, contro la carpocapsa pomonella (farfalla la cui larva attacca l'interno delle pere e delle mele facendole cadere), o contro i limantridi (larve che attaccono diverse piante latifoglie forestali).

Recupero dei prodotti tradizionali: il caso degli ossicloruri. Gli ossicloruri di rame che per anni hanno svolto un ruolo fondamentale nella lotta contro talune malattie (peronospera, bolla, cercospora etc.) sono stati in gran parte sostituiti nella pratica agraria dai prodotti acuprici risultato delle più recenti ricerche « selettive » dell'industria chimica. I vantaggi dei tradizionali prodotti cupríci infatti sono sia lo spettro di azione (nella vite agiscono contro la peronospera ma anche contro l'oidio e la botrite), sia la inoffensività nei confronti di acari (triflodromi) predatori di ragnetti rossi e gialli gialli polifagi.

Lo stesso vale per la lotta contro l'oidio nelle pomacee, dove con i preparati specifici anticchiolatura si sono abbandonati i tradizionali composti di zolfo, che permettevano assieme a una difesa contro l'oidio, anche una discreta difesa antiticchiolatura.

Lotta biologica: uso degli insetti ausiliari. La ricerca entomologica e fitoiatrica permette di individuare delle opportunità di lotta biologica che, anche se puờ solo essere integrativa di quella chimica, può dare importanti risultati di produttività. Un esempio importante in questa direzione è la lotta agli insetti fitofagi attraverso loro nemici parassiti o predatori. Questo tipo di lotta potrebbe essere particolarmente efficace contro due importanti insetti dannosi per le piante: gli acari e la psilla, verso i quali, peraltro, la lotta chimica fin'ora non ha dato soddisfacenti risultati.

Un orientamento di ricerca per il potenziamento della lotta attraverso gli insetti ausiliari che attaccano quelli dannosi alla pianta, signifca adottare due tipi di orientamento: potenzianmento della ricerca pubblica sulla « lotta guidata » che integri lotta chimica e lotta biologica; assistenza tecnica sganciata dagli interessi dell'industria chimica che vede messi al bando prodotti su cui oggi si sviluppa l'al'attività su questo terreno ad esempio è impegnata la Regione Emilia Romagna in collaborazione con gli Istituti di Entomologia della Università di Bologna e Piacenza. Le esperienze fatte hanno portato ad esempio ad importanti risultati che confermano le contraddizioni dei trattamenti chimici in due direzioni: effetto di moltiplicazione degli insetti nocivi, e inoltre distruzione degli insetti ausiliari. Alcuni esempi bastino per dimostrare quanto richiamato: la lotta eseguita con Metomil contro due tipi di insetti (Cemiosto-

ma e Litocolletis) provoca la pullulazione di un'altra famiglia particolarmente distruttiva qual'è quella degli acari; come conseguenza anche della distruzione operata dal Metomil ( un carbammato) di due predatori del Ragnetto Rosso (acaro) quali lo Stethorus e i Fitoscidi.

Questo da un punto di vista di ricerca di prodotti chimici, significa che i pesticidi dovrebbero essere selettivi nei confronti degli insetti; in secondo luogo che gli insetticidi vanno usati nei momenti di necessità grave perché il rischio è di moltiplicare il danno invece che ridurlo.

Note

1 Sisto A.M., Repertorio sistematico dei fitofarmaci, edito dalla « Società Italiana di Fitoiatria », VI edizione, 1977.

2 Vedi figura con lo schema di bioaccumulazione del DdT.

3 Va annotato che l'impiego in agricoltura del 2,4,5,T era vietato con disposizione dell'11-8-70, ma si è continuato a permettere alla Roche di produrre questo terribile veleno, destinato ai paesi dove non è ancora vietato; vedi anche in « Sapere , n. 796, 1976, tutti gli aspetti dell'incidente.


mercoledì 20 marzo 2024

ANTISEMITISMO NEGAZIONISTA INTERVISTA A GEORGES BENSOUSSAN


ANTISEMITISMO NEGAZIONISTA
INTERVISTA A GEORGES BENSOUSSAN 
di Lanfranco Di Genio
Georges Bensoussan è uno storico francese, direttore della "Revue d’histoire de la Shoah", pubblicazione del Centre de Documentation Juive Contemporiane di Parigi.
Georges Bensoussan ha pubblicato : "Génocide pour Mémoire" ed. Plon 1989, "L’Eredità di Auschwitz, come ricordare?" ed. Einaudi 2002; "Sionismo. Una storia politica e intellettuale"
L’ultimo numero della rivista che lei dirige a Parigi, "La Revue d’Histoire de la Shoah", ha come tema "Négationnisme et antisémitisme dans le monde arabo-musulman: la dérive". Sfogliando le pagine si delinea un quadro molto inquietante e potenzialmente pericoloso. Si tratta di un fenomeno recente ?
Questo antisemitismo arabo-musulmano è esasperato dal conflitto ma non è nato a causa del conflitto. Esisteva già prima del 1948 e ancora prima della nascita del sionismo, anche se non in forma così violenta, da pogrom, come è avvenuto in Polonia o in Russia per esempio. Esisteva però una cultura del disprezzo che la nascita del sionismo, e in seguito dello Stato d’Israele hanno esasperato. La nascita del sionismo e la creazione dello Stato israeliano sono due eventi incomprensibili, nel senso che un popolo considerato da sempre come vile, codardo sottomesso possa edificare di punto in bianco uno Stato, in una terra considerata esclusivamente araba, e che possa inoltre imporsi, in numerose occasioni, come vincitore nelle varie guerre che si sono succedute nel corso di questi anni, tutto questo è incomprensibile.
L’antisemitismo musulmano affonda le sue radici ancor prima della nascita dello stato di Israele ed è riconducibile alla figura del Dhimmi, l’ebreo suddito all’interno degli stati arabi. E’ risaputo che questo statuto di Dhimmi intendeva relegare perennemente gli Ebrei – come anche i cristiani che vivono in Medio Oriente - in una situazione di sudditanza, all’interno del mondo arabo. Ovviamente, la nascita dello stato di Israele ha messo in crisi questo modello, obbligando gli Arabi a misurarsi con gli Ebrei da pari a pari. Tuttavia è da una trentina d’anni, che l’antisemitismo arabo ha compiuto una svolta diabolica, soprattutto dopo la guerra dei sei giorni, che per il mondo arabo è stata un grosso trauma. Com’è possibile, che un piccolo paese come Israele, composto da un popolo di Dhimmi, da sempre sottomessi, abbia potuto sconfiggere la coalizione araba? Essendo stati sconfitti, non una volta, ma più volte, questi ripetuti fallimenti sono diventati incomprensibili. Questa incomprensione, di fronte alla sconfitta ha generato, anche nel mondo arabo, la teoria del complotto ebraico mondiale, collegandosi, in questo modo, alla medesima teoria del complotto di stampo occidentale, recuperando e integrando nel proprio immaginario il famoso falso storico I protocolli dei Savi di Sion. Tuttavia l’antisemitismo musulmano ha origini proprie; per esempio nel Corano vi sono molteplici invettive contro gli Ebrei traditori. Nonostante i legami con l’antisemitismo occidentale, l’antisemitismo musulmano, non è stato importato dagli occidentali, tranne che in un caso. La Chiesa cristiana ha, all’inizio del 19° secolo, esportato in Medio Oriente alcuni schemi dell’antisemitismo cristiano, come il sacrificio rituale di bambini cristiani o l’avvelenamento dell’acqua. Tra le piccole comunità cristiane, presenti nei paesi mediorientali, troviamo questi aspetti dell’antisemitismo cristiano. Purtroppo però, negli ultimi anni, si è assistito ad un’islamizzazione di temi e argomenti ricorrenti nell’antisemitismo occidentale. Un altro punto in comune è costituito dalla Shoah. Mi spiego. Dopo la Shoah, il termine antisemitismo, nel mondo occidentale, è diventato un termine tabù, tabù che per il mondo arabo è privo di senso. Attualmente però l’antisemitismo musulmano, svincolato da sensi di colpa, sta contribuendo a scardinare questo tabù e a liberare la parola "antisemita". 

La Shoah rappresenta un ostacolo per la legittimazione dell’antisemitismo?
Sì, per forza di cose. La Shoah, nel mondo cristiano, è il senso di colpa, ma nel mondo arabo non vi è alcun senso di colpa, perché loro non si sentono, giustamente, colpevoli di nulla. Quindi, se in Occidente questo senso di colpa frena le tendenze antisemite, nel mondo arabo invece, e in particolare fra i Musulmani che vivono in Europa, questo senso di colpa non svolge alcun ruolo, perché è loro del tutto estraneo. Per loro il discorso antisemita è del tutto libero e privo di ostacoli. Questa libertà stimola il discorso e le tendenze antisemite occidentali e, soprattutto qui in Francia, rinvigorisce l’antisemitismo francese che, pur essendo minoritario, è sempre presente. In Francia l’antisemitismo francese fa leva sull’antisemitismo arabo, esprimendosi però sotto una forma più velata. Per esempio, attraverso la delegittimazione dello stato di Israele; questo antisemitismo si manifesta non attraverso una critica della politica israeliana, ma contestando il sionismo. Sono due cose estremamente diverse. Contestare la politica israeliana è perfettamente legittimo e plausibile, contestare il sionismo è direttamente legato all’antisemitismo, in quanto il sionismo è un movimento di liberazione di un popolo. Se si contesta questo diritto ad un popolo, rifiutandogli il diritto all’autodeterminazione e alla creazione di una propria nazione, e se si contesta questo diritto solo al popolo ebraico, e non agli altri, allora si fa un discorso puramente antisemita. Questo tipo di politica è, per forza di cose, una politica antisemita, perché vuol negare a questo popolo – e solo a questo popolo - il diritto di essere un popolo, per relegarlo ad una semplice espressione religiosa. Il popolo ebraico ha il sentimento e la coscienza di essere un popolo, e quindi deve essere considerato tale. 

Shoah, antisemitismo e negazionismo sono quindi strettamente legati tra loro.
Sempre e comunque la Shoah rappresenta un ostacolo e, ovviamente, il negazionismo è strettamente coinvolto in questo discorso. Se si riuscisse a dimostrare che la Shoah non è mai avvenuta, l’ostacolo sarebbe rimosso. Per diversi anni il mondo arabo ha tentato di dimostrare che la Shoah non era mai avvenuta, ma che era una semplice invenzione dei sionisti; oggi non si fa quasi più questo discorso, non si nega più la Shoah, perché non incontrerebbe alcun eco in Occidente, e quindi si è cambiata strategia. Oggi, la linea dominante è di riconoscere che la Shoah è avvenuta, ma proprio perché avvenuta gli ebrei dovrebbero comportarsi in un altro modo, e non come dei nazisti. In altre parole, siccome voi Israeliani avete subito la Shoah, nel nome stesso della Shoah non avete il diritto di comportarvi in questo modo, e cioè di comportarvi come dei sionisti. Il discorso, però, va ancora oltre. Agli israeliani viene detto: se vi ostinate a volere uno stato proprio e a continuare ad essere dei sionisti, siete sulla stessa linea di Hitler, perché è stato Hitler, attraverso la persecuzione, a fare di voi un popolo e quindi, continuando a definirvi come un popolo, in fondo siete ciò che Hitler voleva che voi foste. Ma, siccome voi siete solo una religione, e non un popolo, dovreste rinunciare ad uno stato ebraico, dal momento che non esiste né uno stato cristiano, né uno stato musulmano in quanto tali. Se persistete nel volere un vostro stato, siete allo stesso livello dei nazisti. In nome della Shoah, dovreste staccarvi dal sionismo.
E’ questo un discorso molto complesso e molto perverso. Il fatto di aver islamizzato alcuni schemi dell’antisemitismo occidentale – quelli che si tenevano fino al 1945 - è anche una conseguenza della crisi profonda in cui versa il mondo arabo, il quale accusa e ritiene gli Ebrei quali principali responsabili di tutti i mali che lo affliggono. Si tratta però di un’evoluzione recente. 30 o 40 anni fa non era così. Io credo che la grande svolta sia avvenuta nel 1967, dopo la sconfitta cocente che gli arabi hanno subito. Per il mondo arabo questa sconfitta è stato un vero e proprio trauma; in sei giorni tre eserciti sono stati sconfitti da un manipolo di persone considerate sino ad allora come degli essere meschini e vigliacchi. Non solo sono stati sconfitti ma hanno addirittura subito una controffensiva che ha portato l’esercito israeliano a 100 km dal Cairo. Da questo momento in poi nel mondo arabo si è cominciato a costruire una logica per spiegare tale sconfitta, e cioè come mai il mondo arabo così valoroso e potente abbia potuto essere battuto da un nugolo di vermi. Oggi, gli israeliani sono visti come un esercito potente ma non era affatto così 30/40 anni fa. Basti guardare le caricature della stampa araba degli anni ‘50 e ‘60 in cui l’ebreo veniva rappresentato, secondo il classico stereotipo occidentale antisemita, come un essere gracile, malaticcio, pauroso e quindi totalmente inoffensivo. Nel 1967 tutto questo immaginario collettivo viene clamorosamente smentito, e da allora si comincia ad elaborare una teoria del complotto in cui l’ebreo diventa l’espressione di un potere malefico e mostruoso i cui tentacoli sono onnipresenti. Le successive sconfitte militari non fanno altro che accentuare e sviluppare questo nuovo arsenale ideologico. In particolare, la guerra del 1973 lanciata da due eserciti arabi in piena festa religiosa ebraica (festa del Kippour), rappresenta una delle vittorie militari israeliane, strategicamente più brillanti, tant’è che viene studiata nelle scuole militari europee. La vittoria del 1973 è un esempio di come si possa ribaltare a proprio a favore un confronto bellico partendo da una situazione iniziale di forte debolezza. Questo particolare viene oggi trascurato, come ci si dimentica delle notevoli perdite subite che, pur essendo state pesanti da entrambe le parti, per quanto riguarda l’esercito israeliano (3000 morti e 22.000 feriti gravi in 18 giorni), se rapportate alla popolazione totale del paese - che all’epoca contava 3, 5 milioni di abitanti - sono delle perdite enormi, quasi irreparabili. Gli arabi pur considerando questa guerra una mezza vittoria non possono ignorare che dopo 18 giorni di battaglia, la situazione si sia ribaltata e che l’esercito israeliano è ormai a 40 km da Damasco. Questo nuovo fallimento non fa che aumentare la frustrazione del mondo arabo. Questa senso di frustrazione provoca un discorso sempre più improntato sull’odio e allo stesso tempo completamente slegato dalla realtà. Per riuscire a giustificare la propria sconfitta il mondo arabo cambia strategia, e da questo momento l’ebreo diventa l’emblema di un complotto mondiale, il grande burattinaio che, da New York, regge i fili dei destini dell’umanità. Attualmente questa ossessione ha assunto un aspetto genocidario a causa di questo senso di frustrazione, non solo nei confronti del popolo ebraico, ma nei confronti del mondo occidentale in generale. Questa immensa frustrazione emerge in particolare dall’ultimo rapporto dal programma delle Nazioni unite sullo sviluppo, per gli anni 2002 e 2003. Questo rapporto indica una forte regressione a livello economico e culturale in tutti i paesi arabi. Mentre tutte le aree del pianeta danno dei segnali di ripresa, in particolare in America latina e Asia orientale, l’insieme del mondo arabo affonda a livello economico, culturale e sociale. Per esempio, l’ONU rivelava che attualmente nel mondo arabo vengono tradotti molto meno libri rispetto alla Grecia, che ha una popolazione di appena 10 milioni di abitanti. Questa immensa frustrazione, cristallizzata in particolare sul conflitto israelo-palestinese - che dovrebbe avere una valenza solo territoriale - ipermediatizzato e esasperato, genera un discorso inquietante e genocidario, perché frutto di un’ossessione: o noi o loro. I problemi saranno risolti quando finalmente Israele sarà scomparso e con lui tutti gli ebrei. C’è quindi in atto una demonizzazione dell’ebreo e dello stato di Israele, che, ai loro occhi, rappresentano il male assoluto sulla terra. Abbiamo allora da un lato una versione religiosa dell’ebreo, in veste di diavolo, e dall’altra una versione laica, rappresentata da Israele, in veste di stato fascista, imperialista e razzista. In entrambi i casi si tratta del diavolo sulla terra. E cosa si fa se si è in presenza del male? Lo si deve estirpare. Ci troviamo allora in presenza di un anitisemitismo che sta assumendo caratteristiche tipiche da genocidio. Ciò che avviene è estremamente preoccupante. E’ un discorso prettamente genocidario, e non bisogna aver paura di usare questa terribile parola, perché i discorsi, i cliché e l’immaginario che si sta sviluppando all’interno del mondo arabo, ci fa pensare ai discorsi nazisti degli anni ’30 e a quelli degli Hutu contro i Tutsi nel Rwanda, prima del genocidio del ’94.

In Europa, si è a conoscenza di questa linea e di questa piega così fortemente antisemita, che si sta sviluppando nel mondo arabo?
In Europa c’è tanta ignoranza, anche perché c’è un grosso lavoro di documentazione e di traduzione da svolgere. Sono pochi i documenti, gli articoli, i saggi che per il momento sono stati tradotti. E’ un lavoro che noi, della "Revue d’histoire de la Shoah" stiamo facendo. Siamo ancora all’inizio, solo adesso si comincia a prendere coscienza di questa tragica deriva, di questo sconvolgente discorso genocidario.
Io comunque non credo che ci sia una consapevole censura, anche se penso che quando se ne verrà a conoscenza, sarà una verità molto scomoda e imbarazzante, poiché contraddice gli schemi classici del pensiero occidentale. E’ inconcepibile pensare che una vittima del razzismo diventi a sua volta razzista. Una vittima è sempre innocente secondo il pensiero progressista occidentale. Invece purtroppo la realtà è un’altra e anche una vittima può diventare un bastardo.

Questo antisemitismo riguarda tutti i paesi arabo-musulmani o solo alcuni?
Purtroppo, secondo le nostre fonti di informazione, riguarda tutti i paesi, dal Marocco all’Iran. Il fatto grave è che sia attecchito e penetrato in tutti gli strati della società, diventando un discorso molto popolare e populista, che identifica negli ebrei i soli responsabili di tutte le loro sventure. La popolazione ha fatto proprio questo discorso antisemita, che si manifesta attraverso le caricature, le vignette, la stampa, la televisione, il cinema, gli slogans, le canzoni. E’ per questo che è estremamente pericoloso. Per esempio lo si nota molto bene in Francia, all’interno della consistente comunità araba, che è impregnata di questo discorso antisemita, soprattutto nelle classi sociali più umili e, fatto grave, fra i bambini. Quando ci si accorge, che nelle scuole elementari, tra gli scolari emergono sentimenti antiebraici, è ovvio che questo atteggiamento lo hanno respirato a casa. E’ doloroso constatare di come si stia pian piano sviluppando una cultura dell’odio, non solo nei paesi arabi, ma anche qui in Francia, dove esiste una forte comunità araba. Oggi, purtroppo, la pace civile interna è seriamente minacciata da questo fenomeno. Ci sono fatti, che avvengono addirittura all’interno delle scuole, che devono farci riflettere. Comunque le autorità francesi sono a conoscenza di ciò e devo riconoscere che, essendo consapevoli dei pericoli, hanno preso le misure adeguate.
Da due anni il governo francese, profondamente consapevole della gravità della situazione, sta lavorando e seguendo molto da vicino la situazione. I rapporti e le informazioni che giungono dalla polizia e dai servizi investigativi sono molto preoccupanti.

Ci sono forze nel mondo arabo consapevoli della pericolosità di questa fobia antisemita e che cercano di frenarla ?
E’ molto difficile oggi riuscire ad arginare ed emarginare questa degenerazione che sta colpendo il mondo arabo. Tuttavia, vi sono dei segnali che inducono all'ottimismo e che mostrano come anche all'interno della variegata società araba vi siano delle forze che si stanno opponendo a questa deriva genocidaria. Si può citare anche l'Algeria, un paese che ha conosciuto il terrorismo islamico in casa propria e, dopo aver sconfitto i fondamentalisti, è una delle coscienze più critiche all'interno del mondo arabo. Occorre inoltre sottolineare il ruolo delle donne arabe, in particolare le algerine, che si battono per i loro diritti, il più delle volte a loro rischio e pericolo, poiché dagli estremisti islamici sono considerate un vero e proprio nemico del loro modello di società arcaica, quasi alla stessa stregua degli ebrei. Vi sono anche degli intellettuali che alzano la loro voce per condannare certe iniziative di chiara impronta antisemita. Per esempio, nel 2001, era stato organizzato un congresso antisemita a Beirut, che per fortuna venne annullato, ed alcuni intellettuali arabi (pochi purtroppo) gridarono allo scandalo, manifestando la propria vergogna. Nello stesso tempo però, il celebre negazionista francese Garaudy ha ricevuto la laurea honoris causa in Egitto e le sue opere sono tradotte in 5 versioni diverse in arabo. I Protocolli dei Savi di Sion sono presenti oggi in 126 diverse edizioni. Si tratta per altro di edizioni recenti, che vanno dagli anni ’70 sino al 2002, che vengono vendute ovunque anche presso le librerie arabe di Parigi. C’è dunque solo un manipolo di intellettuali arabi che è consapevole di questa degenerazione e che la ritiene un aspetto della regressione in atto nel mondo arabo. In ogni caso, questa ondata di antisemitismo avviene purtroppo sotto la spinta di impulsi irrazionali, e di fronte all’irrazionale la ragione è disarmata. D’altra parte invece - e questo non appartiene all’ambito dell’irrazionale - oggigiorno, il fatto che l’Europa, per dei motivi complessi, appoggi troppo spesso la causa del mondo arabo, a causa della Palestina, potrebbe spianare la strada ad una nuova catastrofe. L’Europa non riesce a rendersi conto del pericolo nello stesso identico modo in cui, una grossa parte degli intellettuali europei chiuse gli occhi davanti ai crimini dello stalinismo, del comunismo e del gulag, sino almeno al XX congresso del partito e anche oltre. Nel 1974, la pubblicazione del libro L’Arcipelago Gulag di Solzenytsin è un’autentica sorpresa per moti intellettuali. Però, 40 anni prima, nel 1935, Boris Suvarin aveva pubblicato in francese "Stalin"; nel 1936 Anton Siliga, comunista iugoslavo, "Viaggio nel paese delle menzogne"; sempre nel 1936, André Gide "Ritorno dall’URSS"; questi autori non vennero letti, o vennero letti male, o addirittura disdegnati. Eppure, se fossero stati presi sul serio, in particolare Suvarin, si sarebbe capito immediatamente quello che stava avvenendo. Occorre sottolineare anche l’estrema diffidenza con cui vennero accolti questi libri. Suvarin, nel 1935, dovette pubblicare il suo libro presso una piccola casa editrice. André Malraux, per esempio, gli disse che avrebbe pubblicato il suo libro quando lui e i suoi compagni sarebbero andati al potere. Per tornare al discorso di prima: qual è il rapporto con l’odierna cecità degli intellettuali europei ? Essa mi fa pensare alla cecità, che c’è stata nei confronti dell’Unione Sovietica, dei crimini comunisti in Cina. Mi viene in mente il libro di Maria Antonietta Macciocchi "Sulla Cina" e l’eco che ha avuto in Europa. Il libro esce nel 1972, presso una grande casa editrice francese, " Seuil". Questo libro diventa subito un best seller, letto da numerose persone. Questo libro fa letteralmente schifo, perché è stato un’apologia dell’orrore, un’apologia del regime cinese, un’apologia dell’orrore della rivoluzione culturale cinese, di quel bagno di sangue che ha segnato la rivoluzione culturale cinese. La cecità della Macciocchi e di tutti coloro che hanno seguito la Macciocchi, il comunismo in generale e hanno chiuso gli occhi di fronte ai crimini dei Khmer rossi in Cambogia è la stessa cecità che mostrano oggi i filo-arabi e i filo-palestinesi. La forza dell’esercito israeliano annebbia loro la mente, senza che si rendano conto che invece Israele corre un gravissimo pericolo. 

Nel mondo occidentale il sionismo non gode dunque di una maggiore legittimità.
Decisamente no. In Occidente il sionismo è sempre più delegittimato e in particolare per gli Europei. Io credo per una ragione in particolare e cioè che il sionismo, nella sua ambizione di costruire il proprio Stato nazionale, va contro l’attuale tendenza europea che consiste invece nel superamento dello Stato nazionale come è stato inteso sino a poco tempo fa. Queste due opposte tendenze fanno sì che per gli europei il sionismo sia attualmente incomprensibile, appunto perché viene considerato anacronistico. Da una parte c’è l’Europa che va verso una federazione di stati, verso un’integrazione, e dall’altra c’è il sionismo che invece va esattamente all’opposto, collocandosi quindi a controcorrente di un’evoluzione, per apparire agli occhi degli europei come un movimento retrogrado, simbolo di un modello arcaico di apartheid e di conseguenza come una forma di razzismo. Questa è una delle ragioni di fondo che secondo me tendono a delegittimare il sionismo. Ma ve sono anche delle altre. Una di queste è il senso di colpa per la Shoah, poiché sono state la Germania, l’Austria e i vari collaborazionisti europei ad aver commesso questo crimine, quindi si tratta di un crimine europeo. Che gli ebrei possano, oggi, commettere delle violenze in Palestina, contro un popolo che per il momento stanno sottomettendo e dominando - che è un fatto innegabile -, che si comportino da oppressori contro un popolo oppresso, è qualcosa che serve a rassicurare gli europei in quanto li aiuta a liberarsi dal proprio senso di colpa. Paragonando gli ebrei ai nazisti, ci si vuole liberare di un senso di colpa; si tratta però di un paragone aberrante, perché se gli ebrei stessero veramente usando i metodi dei nazisti, oggigiorno non ci sarebbero più palestinesi. Pensare che gli ebrei si stiano comportando come dei nazisti aiuta a liberarsi dal proprio senso di colpa e sentirsi in perfetta parità da un punto di vista di morale: seguendo questo ragionamento gli europei non hanno più nulla da rimproverarsi poiché in questo momento gli ebrei si stanno macchiando dello stesso crimine commesso 60 anni fa contro di loro, e quindi le colpe a questo punto sono equamente ridistribuite.
Però, a queste due ragioni appena evocate ne aggiungerei una terza, più sfumata. Io credo che gran parte dell’economia psichica dell’occidente cristiano si sia costruita intorno al rifiuto dell’ebreo. Questo rifiuto ha una matrice religiosa anche se successivamente ha assunto una forma nazionale e razziale. In ogni caso tutta l’economia psichica occidentale è avvelenata da questo rifiuto dell’ebreo. Il sionismo è un’ideologia nazionale che mette un termine a questa oppressione e denigrazione dell’ebreo, nello stesso modo in cui l’anticolonialismo mette fine alla dominazione del colonizzato. Per l’economia psichica occidentale l’ebreo era stato la vittima designata che fino adesso garantiva il funzionamento di tale economia, dal momento che per farla funzionare abbiamo sempre bisogno di rifiutare e respingere qualcuno o un gruppo; essere privati della propria vittima preferita mette in pericolo l’economia psichica occidentale. Mi spiego: l’ebreo che si ama in Europa è l’ebreo vittima, è ciò emerge, in particolare, negli ambienti della sinistra e dell’estrema sinistra occidentale, dove le stesse persone, da una parte commemorano la Shoah, con grande contrizione e sincerità, e dall’altra detestano il sionismo e lo Stato d’Israele. L’ebreo forte, sicuro, vittorioso, alla testa del suo esercito non corrisponde più all’immagine dell’ebreo vittima e di conseguenza non è più amato. Si è disposti a piangere per l’ebreo ma non si sopporta di vederlo in veste di colonnello al comando dei suoi carri armati. E’ per questa ragione che il sionismo disturba l’economia psichica dell’Europa.

In Europa c’è ancora chi sostiene che in una certa misura lo stato d’Israele sia stata un’operazione tutto sommato artificiale, che sia sorto improvvisamente, quasi dal nulla, dopo 3000 anni, su di una terra occupata da un’altra popolazione, come compenso per la persecuzione subita.
Certo, lo so, ma è un ragionamento sbagliato e che alla prova dei fatti non tiene assolutamente. Si vorrebbe che fosse artificiale, ma non è così. Basta andare in Israele per accorgersi di quanto sia forte il sentimento nazionale. E’ una nazione estremamente viva che ha un senso della propria identità molto marcato. In Israele ci sono dei dibattiti politici abbastanza animati riguardo al conflitto con i palestinesi, ma nessuno mette in discussione l’identità nazionale israeliana, e tutti si sentono ben radicati sulla loro terra. In Europa si fa fatica a cogliere questo aspetto fondamentale, ma non appena un europeo si reca in Israele è quasi costretto a constatare questo forte sentimento d’identità nazionale, e quindi deve ricredersi. Affermare che Israele sia uno stato artificiale è semplicemente ridicolo e non corrisponde assolutamente alla realtà.
Per capire la nascita di Israele occorre conoscere la storia del sionismo. Il sionismo viene generalmente visto solo sotto un aspetto protettivo: gli ebrei da sempre perseguitati avevano bisogno di un rifugio. Poiché oggi, il pericolo di persecuzione non c’è più, perché ci sono la democrazia, i diritti dell’uomo a proteggere gli ebrei, di conseguenza si pensa che il sionismo e Israele non abbiano alcuna ragion d’essere. Questo ragionamento è completamente sbagliato, perché il sionismo non nasce come reazione all’antisemitismo. Il sionismo nasce dalla laicizzazione del pensiero ebraico occidentale, in altre parole come risposta al processo di secolarizzazione del mondo occidentale. A questa secolarizzazione il mondo ebraico ha dato una risposta di tipo nazionale, che è appunto il sionismo. Il sionismo è quindi una reazione interna al mondo ebraico e non una risposta ad un’aggressione antisemita. L’aggressione antisemita ha sicuramente, in seguito, svolto un ruolo propulsore, ma all’origine del movimento sionista vi è la ricerca innanzitutto di dare una definizione nazionale dell’ebraismo, al di fuori della tradizione, della religione e della Torah. In altre parole, come restare ebrei quando si diventa atei. Si tratta dunque di una rivoluzione intellettuale, e chi afferma che lo stato d’Israele, oggigiorno, nell’Europa democratica e dei diritti dell’uomo, non ha più alcuna giustificazione, non ha capito nulla del sionismo. Non è la Shoah all’origine della nascita dello stato d’Israele. Anche senza Shoah esisterebbe oggi lo stato israeliano.Anche in questo caso si parte da una idea falsa degli ebrei, considerati tali, solo dal punto vista strettamente religioso. Non ci si rende conto che gli ebrei, oltre ad essere una religione, sono anche un popolo.

Per il mondo arabo l’illegittimità del sionismo e d’Israele poggia su presupposti molto diversi.
Per gli arabi il discorso è semplice, poiché, secondo loro la Palestina è una terra esclusivamente araba e gli ebrei sono dei colonialisti, tanto più che i primi sionisti provenivano dall’Europa e quindi il sionismo era necessariamente visto come un ramo del colonialismo europeo. Infatti espansione sionista e espansione imperialista sono concomitanti. Per gli arabi, inoltre, il sionismo è strettamente legato alla dichiarazione di Belfour del 1917: la dichiarazione di Belfour è una dichiarazione britannica, quindi dell’imperialismo britannico e, di conseguenza, i sionisti sono i figli dell’imperialismo britannico. Senza gli inglesi i sionisti non sarebbero mai riusciti a costruire un proprio stato. Tutto questo è vero da un punto di vista politico, nel senso che, senza l’ombrello britannico, nel periodo che va dal 1920 al ‘48, i sionisti sarebbero stati spazzati via. Questo bisogna ammetterlo, è vero. Però, gli inglesi non sono venuti in Palestina per curare gli interessi dei sionisti, ma i propri. La fortuna dei sionisti è stato incontrare, sulla loro strada, gli inglesi, ma è stato un puro caso. Gli inglesi si sono installati in Palestina per curare i propri interessi, e infatti, già nel 1922 avevano cominciato a rimangiarsi le promesse fatte ai sionisti nel 1917, perché si erano resi conto di aver commesso un grave errore politico-diplomatico, nei confronti del mondo arabo. Successivamente, le rivolte arabe contro i sionisti, nel 1929 e nel 1936, furono represse dalle truppe inglesi per ripristinare l’ordine pubblico e non per proteggere i sionisti.

Per quanto riguarda Israele e la Palestina siamo di fronte a due popoli che hanno entrambi una propria legittimità su questa terra.
Su questo non c’è dubbio. Entrambi i popoli hanno ragione. Si può sempre arguire che gli ebrei non hanno ragione, perché quella non era più la loro terra, ecc., ecc., ma io sono convinto che il sionismo abbia una sua legittimità. Voglio aggiungere un altra cosa: quelli che tentano di delegittimare il sionismo sono, a loro volta e involontariamente gli artefici di un’ingiustizia, perché la caratteristica dell’ingiustizia consiste nel voler trattare in maniera paritaria delle persone, che non sono uguali. Quello che voglio dire è che per gli ebrei Israele significa tutto, e quando dico tutto, intendo che non hanno nient’altro al mondo, se non questo fazzoletto di terra, su cui poggiano il loro immaginario spirituale, le loro tradizioni, la loro religione e la loro lingua. Per il mondo arabo e per i palestinesi, invece, la Palestina è solo una parte del mondo arabo. Se anche perdessero la Palestina, non avrebbero per questo perso tutto, come invece gli ebrei. C’è quindi una sproporzione a livello territoriale, tra i 4 milioni di kmq del mondo arabo e i 21.000 kmq di Israele. E’ inspiegabile questo accanimento su di un territorio così piccolo, che è a malapena l’equivalente di due province europee. La posta in gioco è molto sproporzionata, perché per gli ebrei perdere Israele sarebbe drammatico e rappresenterebbe la fine del popolo ebraico. Nel 1963 Hannah Arendt disse ad un’amica: " Se per disgrazia dovesse scomparire lo stato di Israele, ciò significherebbe la fine del popolo ebraico ". Per quanto riguarda i palestinesi, questo rischio non c’è, perché il popolo arabo non rischia l’estinzione. Si fa fatica in Europa a prendere in considerazione questa gigantesca sproporzione. 

Da un punto di vista mediatico, si tende sempre ad accentuare le sofferenze e le miserie del popolo palestinese, mettendo in secondo piano le difficoltà ed i pericoli della popolazione israeliana.
Questo è dovuto al fatto, che il rapporto tra l’Europa e l’ebreo è completamente marcio, avvelenato e mi viene in mente un’osservazione che fece a suo tempo Sartre, riguardo al rapporto padre-figlio. Sartre diceva: " Quando, per strada, vedo un uomo e un giovane, che camminano insieme, senza dirsi una parola, allora so che sono padre e figlio". Con questo intendo dire, che i rapporti fra ebrei ed europei sono letteralmente schifosi, e questo è da imputare alla chiesa cattolica. Per quanto riguarda la stampa si stigmatizza molto, ad esempio, la sofferenza dei palestinesi, ma si evita di fare gli approfondimenti sulle sofferenze subite dagli israeliani, a causa degli attentati suicida. Su questa realtà, fatta di paura, di angoscia con il suo corollario di morti, di feriti e di persone che, pur essendo sopravvissute agli attentati sono ridotti oggi a delle larve, c’è purtroppo in Europa un angosciante silenzio. A me è capitato, quando ero lo scorso febbraio in Israele, di trovarmi non molto distante dal luogo in cui era appena avvenuto un attentato. Nel giro di 5 minuti sono passate una ventina di autoambulanze e le persone erano completamente agghiacciate e immobilizzate dalla paura, ed io stesso, quel giorno, dovevo recarmi in una biblioteca per cercare dei documenti e mi sentivo come paralizzato e ho dovuto rinviare ciò che mi ero proposto di fare. Però vorrei aggiungere anche altre due ragioni, riguardanti le posizioni quasi esclusivamente filo-palestinesi dei media. Perché la Palestina è così presente, all’interno della sinistra? Nel momento in cui il mito della rivoluzione proletaria ha cominciato a vacillare, la causa palestinese ha assunto un ruolo sempre maggiore, sino a diventare l’emblema della lotta degli oppressi di tutta la terra. Sotto sotto la Palestina rappresenta la causa per tutti quelli, che sognano una rivoluzione. Come a suo tempo c’era il mito di Cuba e della rivoluzione cinese, oggi è la Palestina che incarna questo mito rivoluzionario della sinistra. Con questo non voglio negare che la causa palestinese non abbia una sua legittimità e che non sia degna di questo nome. In Palestina c’è effettivamente un’ingiustizia che occorre riparare. Detto questo, il fatto che però abbia assunto un carattere mondiale, credo che sia dovuto ad un fascino per la violenza e per la forza, che gli ambienti dell’estrema sinistra nutrono ormai da tanto tempo, senza però mai esplicitarlo apertamente. E questo è un argomento tabù, perché siamo di fronte ad un discorso, che, da una parte si fa promotore della pace, dei diritti dell’uomo, della non-violenza e dall’altra sottintende una sordida realtà, da cui emerge un fascino per tutto ciò che è forza, violenza di tipo bolscevico. C’è una distorsione tra un discorso umanista, e un certo fascino per la violenza. Questo fascino si manifesta anche nei confronti del mondo arabo, che oggigiorno inneggia costantemente alla forza e alla violenza. Israele, pur essendo uno stato ben armato e potente, non tiene però un discorso di forza e di violenza. Intendo dire che Israele possiede la forza ma non la usa fino in fondo, cosa che invece farebbero gli altri se avessero gli stessi suoi mezzi. Porto un piccolo esempio: durante una lezione di storia, un adolescente di origine araba di un liceo parigino ha detto che non riusciva a capire come mai questi imbecilli di israeliani, con tutti i mezzi militari a disposizione, non fossero capaci di servirsene adeguatamente in Palestina. Si tratta di uno dei tanti episodi che avvengono nelle scuole francesi in cui si assiste purtroppo a diverse manifestazioni di antisemitismo, tra gli alunni di origine araba. Questo episodio mi ha fatto venire in mente il racconto di un ex soldato dell’esercito israeliano il quale nel corso di un’operazione militare, durante la guerra dei sei giorni, nel 1967, è entrato, insieme a un gruppo di soldati, nella casa di un palestinese abbastanza anziano, che alla loro vista ha cominciato a tremare di paura. Hanno perquisito la casa, e, non avendo trovato nulla, sono andati via. Sei mesi dopo, questa persona, che era ormai in congedo, passeggiando per strada ha incontrato l’anziano palestinese e l’ha salutato. Il tipo ha fatto finta di non riconoscerlo. L’ex soldato è tornato indietro e gli ha chiesto: "Ti ricordi di me ?" e l’altro ha risposto "Sì mi ricordo di te, ma siccome avete vinto la guerra non voglio avere nulla a che fare con voi." L’ex soldato però, prima di andarsene ha voluto sapere da questa persona anziana cosa pensasse del fatto che i soldati israeliani, quel famoso giorno, non gli avessero neanche torto un capello. L’anziano palestinese gli disse allora, testuali parole: "io penso che voi israeliani non siate dei veri uomini". Questo dimostra sino a che punto le nozioni di guerra e di virilità siano strettamente connesse. La virilità si dimostra attraverso la forza e la violenza. Questa mentalità è molto radicata nel mondo arabo, e mi ha colpito il fatto che sia presente anche in questo adolescente di origine araba nato in Francia. Ciò che è preoccupante è questo abisso culturale, ed è questo abisso che gli europei non riescono o non vogliono capire. Non ci si rende conto del conflitto culturale e ogni volta che lo si mette in evidenza si viene considerati razzisti. Anche in questo caso appare la solita miopia, incapace di riconoscere che, volenti o nolenti, si è in presenza di un conflitto culturale. C’è un conflitto di valori, come per esempio il ruolo assegnato alla donna; riconoscere questo conflitto non significa essere razzisti.

Lei, come storico, si occupa di storia del sionismo e di storia della Shoah argomenti che, come abbiamo visto, nonostante abbiano origini e contesti diversi, continuano ad intrecciarsi e a richiamarsi tra loro. Come è nato il suo saggio "L’Eredità di Auschwitz, come ricordare ?"
L’idea di scrivere sulla Shoah mi è venuta circa 17 anni fa, mentre preparavo con i miei studenti liceali una raccolta di testi fondamentali sulla Shoah. Con i miei studenti abbiamo realizzato una piccola dispensa e da questa dispensa è nato il mio primo libro, pubblicato nel 1989, dal titolo "Génocide pour Mémoire". In seguito, le diverse conferenze, che ho cominciato a tenere, hanno costituito la base del mio saggio "L’Eredità di Auschwitz". Però è innanzitutto la lettura di certi testi didattici sulla Shoah – in particolare un testo di Jean François Forges - in cui si diceva per esempio che ogni tipo di violenza, come quelle sui bambini, fosse un primo passo verso Auschwitz, che mi sono detto che affermazioni del genere erano decisamente stupide, e che era necessario riprendere le questioni politiche, che avevo trattato nel corso delle mie conferenze, per rispondere ad argomentazioni così moralistiche. Questa mia collera contro il testo di Forges ha dato alla luce il saggio " L’eredità di Auschwitz ", il che dimostra quanto sia proficuo arrabbiarsi con i testi altrui. Lo scopo, anche in questo caso, è pedagogico. Come insegnare Auschwitz? Non pretendo di avere una risposta assoluta, ma mi limito a indicare delle piste, degli itinerari per riflettere e aiutare a cercare delle risposte. L’obiettivo è quello di trasmettere un messaggio ed evitare che Auschwitz diventi una storia ripetitiva e nauseante. In Francia ormai esiste così tanto materiale, che si è quasi sommersi e stufi di sentir parlare sempre dello stesso argomento. Inoltre l’approccio viene fatto sempre da un punto di vista moralista, piagnucoloso.

Lei propone di affrontare la storia della Shoah, cambiando prospettiva, cercando di fare una genealogia del pensiero razzista nella cultura europea.
In questo senso si può individuare già nella teoria della " limpieza de sangre ", emanata dalla Spagna, alla fine del 1400, un primo segnale di questo pensiero razzista. In quel periodo gli ebrei, pur convertendosi al cristianesimo, non venivano equiparati al resto della popolazione, ed erano chiamati " nuovi cristiani ". Ciò significa che esistevano degli autentici cristiani e dei non autentici cristiani. In questo momento si introduce il concetto di sangue, di origine e quindi di razza nella percezione dell’essere umano. Questo avviene prima di Colombo e delle grandi scoperte. In seguito, la conquista delle Americhe e la tratta degli schiavi si fondano su un pensiero razzista europeo, ma non c’è ancora una volontà genocidaria. In ogni caso la scoperta delle Americhe, lo schiavismo e l’Inquisizione gettano le basi per lo sviluppo progressivo di un pensiero razzista tipicamente europeo.

Proseguendo nei secoli, è la stessa idea di umanità e di progresso, così come è stata sviluppata dal pensiero europeo, che deve essere rimessa in questione. Hannah Arendt diceva, che i diritti dell’uomo non ci proteggono da nulla.
La Dichiarazione dei diritti naturali dell’uomo è stata solo una tappa nella storia dell’emancipazione dell’uomo. Il problema è che i diritti umani si sono scontrati, sono entrati in conflitto con l’emergere dello stato-nazione e dei nazionalismi. Ci si è resi conto, allora, che un uomo senza passaporto, senza nazionalità è un essere completamente indifeso, e che la Dichiarazione dei diritti umani effettivamente non garantisce i diritti naturali ed è quindi insufficiente. Questo non significa che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo non sia più valida. Occorre, invece, completarla, correggerla, partendo da un’analisi critica della civiltà occidentale, dal 1700 in poi, insistendo in particolare su di un punto: non sono responsabili gli Illuministi, ma al contrario l’oblio dell’insegnamento e dell’eredità illuminista. E’ questo rifiuto, che ha condotto alla catastrofe della Shoah. La Germania nazista ha rifiutato e negato l’Illuminismo, ed è questo antilluminismo di fondo, che ha portato alla catastrofe. Al tempo stesso è necessario rendersi conto della debolezza dell’Illuminismo, che è un pensiero che deve essere esteso, integrato e completato. E’ importante capire come mai la razza e la nazione abbiano assunto una tale importanza nel corso del 19° e 20° secolo, dal momento che le due nozioni si sviluppano parallelamente. Io credo che una risposta sia da cercare nella progressiva secolarizzazione della società e nella morte del concetto di Dio. L’idea di trascendenza, rappresentata da Dio, viene sostituita dall’idea di razza. La razza è la figura laicizzata della trascendenza ed è in questo senso che il razzismo è strettamente legato alla secolarizzazione.

Nella nuova edizione del suo saggio lei sviluppa ulteriori tematiche sulle quali è necessario riflettere, per esempio la nozione del male, e cioè come un uomo comune diventa assassino. Hannah Arendt a suo tempo, nel suo reportage sul processo a Eichmann aveva parlato di banalità del male.
Sì, ho sviluppato molto la nozione del "lavoro del male". Il male è un lavoro, e dal momento che si tratta di un lavoro è alla portata di gente comune. Come diventa un uomo comune assassino ? Lo diventa attraverso la forza dell'ideologia, attraverso la logica di gruppo e attraverso il conformismo. Si tratta in questo caso della scarsa capacità dell'individuo di riuscire a mantenersi autonomo e di agire secondo i propri principi e la propria indole, preferendo in questo caso rimanere integrato al gruppo per paura di essere rifiutato. Ciò è perfettamente visibile negli uomini che costituivano gli Einsatzkommando il cui compito fu di streminare gli ebrei della Polonia orientale, della Lituania, Estonia e Ucraina. Quando vennero arruolati furono immediatamente messi al corrente degli obiettivi delle loro missioni e venne lasciato loro la possibilità di essere trasferiti in altre unità dell'esercito e di non partecipare quindi allo sterminio. Ebbene, solo il 10% di questi soldati si avvalse di questa opportunità. La maggioranza aderì perché prevalse la logica del gruppo e dunque la paura di essere considerati dei vigliacchi e degli uomini senza coglioni. Per quanto riguarda il lavoro di Hannah Arendt io mi sono molto ispirato al suo lavoro. Uno degli aspetti che contesto riguarda il ruolo svolto dai consigli ebraici. E' vero che lei non è una storica e inoltre eravamo ancora negli anni '60 e tanti documenti importanti non erano ancora a portata di mano. Lei non conosceva a fondo la storia del ghetto di Varsavia, non aveva letto i vari scritti del ghetto di Varsavia che sono apparsi molto più tardi, e di conseguenza ignorava la complessità della situazione, sopravvalutando il ruolo dei consigli ebraici. Ci sono da parte sua degli errori di valutazione, il che non vuol dire che la sua analisi fosse del tutto sbagliata. La nozione per esempio di collaborazione che lei ha attribuito ai consigli ebraici è una questione estremamente delicata e io non impiegherei il termine "collaborazione"; direi piuttosto compromesso, ma non collaborazione. Aggiungerei anche il fatto che lei abbia sottovalutato l'adesione ideologica di Eichmann, privilegiando il ruolo burocratico dell'uomo. Bisogna tener conto che per il nazista Eichmann è un autentico incubo ritrovarsi a Gerusalemme, prigioniero degli ebrei, e di conseguenza tutta la dimensione ideologica del suo operato in seno al governo nazista ha cercato di tenerla lontana per far apparire esclusivamente la dimensione burocratica dell'uomo che ha semplicemente eseguito degli ordini. Ma lui non era ciò che voleva apparire; era un uomo che aveva condiviso un'ideologia, era un antisemita fanatico. C'è un aneddoto molto significativo, a dimostrazione ancora una volta di quanto un approccio moralistico serva a gran poco per studiare la Shoah: durante la sua prigionia, poiché Eichmann si annoiava nella sua cella, un secondino gli propose di acquistare un libro, appena uscito, dello scrittore Nabukov "Lolita", che stava riscuotendo un grande successo. "Lolita", un gran bel romanzo da cui poi Stanley Kubrick ha tratto un film, racconta la storia di un uomo di 40 anni sedotto da una ragazzina di 14 anni, e Eichmann dopo aver letto una trentina di pagine, gettò il libro disgustato dicendo che si trattava di un romanzo immorale. E' veramente incredibile che abbia detto questo. Per tornare all'affermazione di Hannah Arendt riguardo alla "banalità del male" sicuramente si riferiva alla "banalità dell'assassino", all'uomo Eichmann come "essere banale", perché il male non è mai una cosa "banale". Il "male" è sempre una scelta, anche nel caso in cui si obbedisca semplicemente agli ordini, è un atto che implica la scelta di fare del male. Parlando di banalità Hannah Arendt intendeva l'uomo comune che diventa assassino, perché pensando al male crediamo che il criminale sia un pazzo, uno psicopatico - il che è senza dubbio anche vero - , ma la grossa schiera degli assassini è composta da gente comune, che del resto, dopo la guerra, hanno ripreso tranquillamente la loro vita, come se ne niente fosse. Questo aspetto è estremamente interessante perché ci aiuta a capire come, dietro il male, ci sia un'operazione di "banalizzazione del male, attraverso il "lavoro", e cioè di come si riesca a convincere tantissime, normalissime persone ad operare il male nella misura in cui lo riescono a considerare un semplice lavoro da svolgere, separando con estrema facilità il lavoro dalla propria coscienza. Ciò è altrettanto valido quando pensiamo alla cultura. La cultura in se non ci protegge da nulla. Se invece serve a gettare uno sguardo critico su quello che si sta facendo allora la cultura può essere una barriera e un ostacolo al male, altrimenti è un accumulo di conoscenze che non servono a gran che. La cultura deve essere anche pensiero. Per concludere vorrei dire che nell'insegnamento della Shoah i punti sui cui occorre insistere è che non si tratta di una storia che riguarda esclusivamente il popolo ebraico ma che, attraverso questo popolo, è stata assassinata una nozione fondamentale e cioè una nozione di essere umano. Questo assassinio è strettamente legato a un certa evoluzione del pensiero occidentale di cui noi siamo gli eredi. In altre parole, vi sono nella nostra cultura dei germi molto pericolosi che occorre snidare per evitare che la nostra società continui a essere in balia del biopotere. Purtroppo invece viviamo in una società fortemente improntata sul biologico e l'economico.
pubblicata originariamente sulla rivista "Una Città di Forlì" 

ANTISEMITISMO NEGAZIONISTA INTERVISTA A GEORGES BENSOUSSAN di Lanfranco Di Genio


ANTISEMITISMO NEGAZIONISTA

INTERVISTA A GEORGES BENSOUSSAN 

di Lanfranco Di Genio

Georges Bensoussan è uno storico francese, direttore della "Revue d’histoire de la Shoah", pubblicazione del Centre de Documentation Juive Contemporiane di Parigi.

Georges Bensoussan ha pubblicato : "Génocide pour Mémoire" ed. Plon 1989, "L’Eredità di Auschwitz, come ricordare?" ed. Einaudi 2002; "Sionismo. Una storia politica e intellettuale"

L’ultimo numero della rivista che lei dirige a Parigi, "La Revue d’Histoire de la Shoah", ha come tema "Négationnisme et antisémitisme dans le monde arabo-musulman: la dérive". Sfogliando le pagine si delinea un quadro molto inquietante e potenzialmente pericoloso. Si tratta di un fenomeno recente ?

Questo antisemitismo arabo-musulmano è esasperato dal conflitto ma non è nato a causa del conflitto. Esisteva già prima del 1948 e ancora prima della nascita del sionismo, anche se non in forma così violenta, da pogrom, come è avvenuto in Polonia o in Russia per esempio. Esisteva però una cultura del disprezzo che la nascita del sionismo, e in seguito dello Stato d’Israele hanno esasperato. La nascita del sionismo e la creazione dello Stato israeliano sono due eventi incomprensibili, nel senso che un popolo considerato da sempre come vile, codardo sottomesso possa edificare di punto in bianco uno Stato, in una terra considerata esclusivamente araba, e che possa inoltre imporsi, in numerose occasioni, come vincitore nelle varie guerre che si sono succedute nel corso di questi anni, tutto questo è incomprensibile.

L’antisemitismo musulmano affonda le sue radici ancor prima della nascita dello stato di Israele ed è riconducibile alla figura del Dhimmi, l’ebreo suddito all’interno degli stati arabi. E’ risaputo che questo statuto di Dhimmi intendeva relegare perennemente gli Ebrei – come anche i cristiani che vivono in Medio Oriente - in una situazione di sudditanza, all’interno del mondo arabo. Ovviamente, la nascita dello stato di Israele ha messo in crisi questo modello, obbligando gli Arabi a misurarsi con gli Ebrei da pari a pari. Tuttavia è da una trentina d’anni, che l’antisemitismo arabo ha compiuto una svolta diabolica, soprattutto dopo la guerra dei sei giorni, che per il mondo arabo è stata un grosso trauma. Com’è possibile, che un piccolo paese come Israele, composto da un popolo di Dhimmi, da sempre sottomessi, abbia potuto sconfiggere la coalizione araba? Essendo stati sconfitti, non una volta, ma più volte, questi ripetuti fallimenti sono diventati incomprensibili. Questa incomprensione, di fronte alla sconfitta ha generato, anche nel mondo arabo, la teoria del complotto ebraico mondiale, collegandosi, in questo modo, alla medesima teoria del complotto di stampo occidentale, recuperando e integrando nel proprio immaginario il famoso falso storico I protocolli dei Savi di Sion. Tuttavia l’antisemitismo musulmano ha origini proprie; per esempio nel Corano vi sono molteplici invettive contro gli Ebrei traditori. Nonostante i legami con l’antisemitismo occidentale, l’antisemitismo musulmano, non è stato importato dagli occidentali, tranne che in un caso. La Chiesa cristiana ha, all’inizio del 19° secolo, esportato in Medio Oriente alcuni schemi dell’antisemitismo cristiano, come il sacrificio rituale di bambini cristiani o l’avvelenamento dell’acqua. Tra le piccole comunità cristiane, presenti nei paesi mediorientali, troviamo questi aspetti dell’antisemitismo cristiano. Purtroppo però, negli ultimi anni, si è assistito ad un’islamizzazione di temi e argomenti ricorrenti nell’antisemitismo occidentale. Un altro punto in comune è costituito dalla Shoah. Mi spiego. Dopo la Shoah, il termine antisemitismo, nel mondo occidentale, è diventato un termine tabù, tabù che per il mondo arabo è privo di senso. Attualmente però l’antisemitismo musulmano, svincolato da sensi di colpa, sta contribuendo a scardinare questo tabù e a liberare la parola "antisemita". 

La Shoah rappresenta un ostacolo per la legittimazione dell’antisemitismo?

Sì, per forza di cose. La Shoah, nel mondo cristiano, è il senso di colpa, ma nel mondo arabo non vi è alcun senso di colpa, perché loro non si sentono, giustamente, colpevoli di nulla. Quindi, se in Occidente questo senso di colpa frena le tendenze antisemite, nel mondo arabo invece, e in particolare fra i Musulmani che vivono in Europa, questo senso di colpa non svolge alcun ruolo, perché è loro del tutto estraneo. Per loro il discorso antisemita è del tutto libero e privo di ostacoli. Questa libertà stimola il discorso e le tendenze antisemite occidentali e, soprattutto qui in Francia, rinvigorisce l’antisemitismo francese che, pur essendo minoritario, è sempre presente. In Francia l’antisemitismo francese fa leva sull’antisemitismo arabo, esprimendosi però sotto una forma più velata. Per esempio, attraverso la delegittimazione dello stato di Israele; questo antisemitismo si manifesta non attraverso una critica della politica israeliana, ma contestando il sionismo. Sono due cose estremamente diverse. Contestare la politica israeliana è perfettamente legittimo e plausibile, contestare il sionismo è direttamente legato all’antisemitismo, in quanto il sionismo è un movimento di liberazione di un popolo. Se si contesta questo diritto ad un popolo, rifiutandogli il diritto all’autodeterminazione e alla creazione di una propria nazione, e se si contesta questo diritto solo al popolo ebraico, e non agli altri, allora si fa un discorso puramente antisemita. Questo tipo di politica è, per forza di cose, una politica antisemita, perché vuol negare a questo popolo – e solo a questo popolo - il diritto di essere un popolo, per relegarlo ad una semplice espressione religiosa. Il popolo ebraico ha il sentimento e la coscienza di essere un popolo, e quindi deve essere considerato tale. 

Shoah, antisemitismo e negazionismo sono quindi strettamente legati tra loro.

Sempre e comunque la Shoah rappresenta un ostacolo e, ovviamente, il negazionismo è strettamente coinvolto in questo discorso. Se si riuscisse a dimostrare che la Shoah non è mai avvenuta, l’ostacolo sarebbe rimosso. Per diversi anni il mondo arabo ha tentato di dimostrare che la Shoah non era mai avvenuta, ma che era una semplice invenzione dei sionisti; oggi non si fa quasi più questo discorso, non si nega più la Shoah, perché non incontrerebbe alcun eco in Occidente, e quindi si è cambiata strategia. Oggi, la linea dominante è di riconoscere che la Shoah è avvenuta, ma proprio perché avvenuta gli ebrei dovrebbero comportarsi in un altro modo, e non come dei nazisti. In altre parole, siccome voi Israeliani avete subito la Shoah, nel nome stesso della Shoah non avete il diritto di comportarvi in questo modo, e cioè di comportarvi come dei sionisti. Il discorso, però, va ancora oltre. Agli israeliani viene detto: se vi ostinate a volere uno stato proprio e a continuare ad essere dei sionisti, siete sulla stessa linea di Hitler, perché è stato Hitler, attraverso la persecuzione, a fare di voi un popolo e quindi, continuando a definirvi come un popolo, in fondo siete ciò che Hitler voleva che voi foste. Ma, siccome voi siete solo una religione, e non un popolo, dovreste rinunciare ad uno stato ebraico, dal momento che non esiste né uno stato cristiano, né uno stato musulmano in quanto tali. Se persistete nel volere un vostro stato, siete allo stesso livello dei nazisti. In nome della Shoah, dovreste staccarvi dal sionismo.

E’ questo un discorso molto complesso e molto perverso. Il fatto di aver islamizzato alcuni schemi dell’antisemitismo occidentale – quelli che si tenevano fino al 1945 - è anche una conseguenza della crisi profonda in cui versa il mondo arabo, il quale accusa e ritiene gli Ebrei quali principali responsabili di tutti i mali che lo affliggono. Si tratta però di un’evoluzione recente. 30 o 40 anni fa non era così. Io credo che la grande svolta sia avvenuta nel 1967, dopo la sconfitta cocente che gli arabi hanno subito. Per il mondo arabo questa sconfitta è stato un vero e proprio trauma; in sei giorni tre eserciti sono stati sconfitti da un manipolo di persone considerate sino ad allora come degli essere meschini e vigliacchi. Non solo sono stati sconfitti ma hanno addirittura subito una controffensiva che ha portato l’esercito israeliano a 100 km dal Cairo. Da questo momento in poi nel mondo arabo si è cominciato a costruire una logica per spiegare tale sconfitta, e cioè come mai il mondo arabo così valoroso e potente abbia potuto essere battuto da un nugolo di vermi. Oggi, gli israeliani sono visti come un esercito potente ma non era affatto così 30/40 anni fa. Basti guardare le caricature della stampa araba degli anni ‘50 e ‘60 in cui l’ebreo veniva rappresentato, secondo il classico stereotipo occidentale antisemita, come un essere gracile, malaticcio, pauroso e quindi totalmente inoffensivo. Nel 1967 tutto questo immaginario collettivo viene clamorosamente smentito, e da allora si comincia ad elaborare una teoria del complotto in cui l’ebreo diventa l’espressione di un potere malefico e mostruoso i cui tentacoli sono onnipresenti. Le successive sconfitte militari non fanno altro che accentuare e sviluppare questo nuovo arsenale ideologico. In particolare, la guerra del 1973 lanciata da due eserciti arabi in piena festa religiosa ebraica (festa del Kippour), rappresenta una delle vittorie militari israeliane, strategicamente più brillanti, tant’è che viene studiata nelle scuole militari europee. La vittoria del 1973 è un esempio di come si possa ribaltare a proprio a favore un confronto bellico partendo da una situazione iniziale di forte debolezza. Questo particolare viene oggi trascurato, come ci si dimentica delle notevoli perdite subite che, pur essendo state pesanti da entrambe le parti, per quanto riguarda l’esercito israeliano (3000 morti e 22.000 feriti gravi in 18 giorni), se rapportate alla popolazione totale del paese - che all’epoca contava 3, 5 milioni di abitanti - sono delle perdite enormi, quasi irreparabili. Gli arabi pur considerando questa guerra una mezza vittoria non possono ignorare che dopo 18 giorni di battaglia, la situazione si sia ribaltata e che l’esercito israeliano è ormai a 40 km da Damasco. Questo nuovo fallimento non fa che aumentare la frustrazione del mondo arabo. Questa senso di frustrazione provoca un discorso sempre più improntato sull’odio e allo stesso tempo completamente slegato dalla realtà. Per riuscire a giustificare la propria sconfitta il mondo arabo cambia strategia, e da questo momento l’ebreo diventa l’emblema di un complotto mondiale, il grande burattinaio che, da New York, regge i fili dei destini dell’umanità. Attualmente questa ossessione ha assunto un aspetto genocidario a causa di questo senso di frustrazione, non solo nei confronti del popolo ebraico, ma nei confronti del mondo occidentale in generale. Questa immensa frustrazione emerge in particolare dall’ultimo rapporto dal programma delle Nazioni unite sullo sviluppo, per gli anni 2002 e 2003. Questo rapporto indica una forte regressione a livello economico e culturale in tutti i paesi arabi. Mentre tutte le aree del pianeta danno dei segnali di ripresa, in particolare in America latina e Asia orientale, l’insieme del mondo arabo affonda a livello economico, culturale e sociale. Per esempio, l’ONU rivelava che attualmente nel mondo arabo vengono tradotti molto meno libri rispetto alla Grecia, che ha una popolazione di appena 10 milioni di abitanti. Questa immensa frustrazione, cristallizzata in particolare sul conflitto israelo-palestinese - che dovrebbe avere una valenza solo territoriale - ipermediatizzato e esasperato, genera un discorso inquietante e genocidario, perché frutto di un’ossessione: o noi o loro. I problemi saranno risolti quando finalmente Israele sarà scomparso e con lui tutti gli ebrei. C’è quindi in atto una demonizzazione dell’ebreo e dello stato di Israele, che, ai loro occhi, rappresentano il male assoluto sulla terra. Abbiamo allora da un lato una versione religiosa dell’ebreo, in veste di diavolo, e dall’altra una versione laica, rappresentata da Israele, in veste di stato fascista, imperialista e razzista. In entrambi i casi si tratta del diavolo sulla terra. E cosa si fa se si è in presenza del male? Lo si deve estirpare. Ci troviamo allora in presenza di un anitisemitismo che sta assumendo caratteristiche tipiche da genocidio. Ciò che avviene è estremamente preoccupante. E’ un discorso prettamente genocidario, e non bisogna aver paura di usare questa terribile parola, perché i discorsi, i cliché e l’immaginario che si sta sviluppando all’interno del mondo arabo, ci fa pensare ai discorsi nazisti degli anni ’30 e a quelli degli Hutu contro i Tutsi nel Rwanda, prima del genocidio del ’94.

In Europa, si è a conoscenza di questa linea e di questa piega così fortemente antisemita, che si sta sviluppando nel mondo arabo?

In Europa c’è tanta ignoranza, anche perché c’è un grosso lavoro di documentazione e di traduzione da svolgere. Sono pochi i documenti, gli articoli, i saggi che per il momento sono stati tradotti. E’ un lavoro che noi, della "Revue d’histoire de la Shoah" stiamo facendo. Siamo ancora all’inizio, solo adesso si comincia a prendere coscienza di questa tragica deriva, di questo sconvolgente discorso genocidario.

Io comunque non credo che ci sia una consapevole censura, anche se penso che quando se ne verrà a conoscenza, sarà una verità molto scomoda e imbarazzante, poiché contraddice gli schemi classici del pensiero occidentale. E’ inconcepibile pensare che una vittima del razzismo diventi a sua volta razzista. Una vittima è sempre innocente secondo il pensiero progressista occidentale. Invece purtroppo la realtà è un’altra e anche una vittima può diventare un bastardo.

Questo antisemitismo riguarda tutti i paesi arabo-musulmani o solo alcuni?

Purtroppo, secondo le nostre fonti di informazione, riguarda tutti i paesi, dal Marocco all’Iran. Il fatto grave è che sia attecchito e penetrato in tutti gli strati della società, diventando un discorso molto popolare e populista, che identifica negli ebrei i soli responsabili di tutte le loro sventure. La popolazione ha fatto proprio questo discorso antisemita, che si manifesta attraverso le caricature, le vignette, la stampa, la televisione, il cinema, gli slogans, le canzoni. E’ per questo che è estremamente pericoloso. Per esempio lo si nota molto bene in Francia, all’interno della consistente comunità araba, che è impregnata di questo discorso antisemita, soprattutto nelle classi sociali più umili e, fatto grave, fra i bambini. Quando ci si accorge, che nelle scuole elementari, tra gli scolari emergono sentimenti antiebraici, è ovvio che questo atteggiamento lo hanno respirato a casa. E’ doloroso constatare di come si stia pian piano sviluppando una cultura dell’odio, non solo nei paesi arabi, ma anche qui in Francia, dove esiste una forte comunità araba. Oggi, purtroppo, la pace civile interna è seriamente minacciata da questo fenomeno. Ci sono fatti, che avvengono addirittura all’interno delle scuole, che devono farci riflettere. Comunque le autorità francesi sono a conoscenza di ciò e devo riconoscere che, essendo consapevoli dei pericoli, hanno preso le misure adeguate.

Da due anni il governo francese, profondamente consapevole della gravità della situazione, sta lavorando e seguendo molto da vicino la situazione. I rapporti e le informazioni che giungono dalla polizia e dai servizi investigativi sono molto preoccupanti.

Ci sono forze nel mondo arabo consapevoli della pericolosità di questa fobia antisemita e che cercano di frenarla ?

E’ molto difficile oggi riuscire ad arginare ed emarginare questa degenerazione che sta colpendo il mondo arabo. Tuttavia, vi sono dei segnali che inducono all'ottimismo e che mostrano come anche all'interno della variegata società araba vi siano delle forze che si stanno opponendo a questa deriva genocidaria. Si può citare anche l'Algeria, un paese che ha conosciuto il terrorismo islamico in casa propria e, dopo aver sconfitto i fondamentalisti, è una delle coscienze più critiche all'interno del mondo arabo. Occorre inoltre sottolineare il ruolo delle donne arabe, in particolare le algerine, che si battono per i loro diritti, il più delle volte a loro rischio e pericolo, poiché dagli estremisti islamici sono considerate un vero e proprio nemico del loro modello di società arcaica, quasi alla stessa stregua degli ebrei. Vi sono anche degli intellettuali che alzano la loro voce per condannare certe iniziative di chiara impronta antisemita. Per esempio, nel 2001, era stato organizzato un congresso antisemita a Beirut, che per fortuna venne annullato, ed alcuni intellettuali arabi (pochi purtroppo) gridarono allo scandalo, manifestando la propria vergogna. Nello stesso tempo però, il celebre negazionista francese Garaudy ha ricevuto la laurea honoris causa in Egitto e le sue opere sono tradotte in 5 versioni diverse in arabo. I Protocolli dei Savi di Sion sono presenti oggi in 126 diverse edizioni. Si tratta per altro di edizioni recenti, che vanno dagli anni ’70 sino al 2002, che vengono vendute ovunque anche presso le librerie arabe di Parigi. C’è dunque solo un manipolo di intellettuali arabi che è consapevole di questa degenerazione e che la ritiene un aspetto della regressione in atto nel mondo arabo. In ogni caso, questa ondata di antisemitismo avviene purtroppo sotto la spinta di impulsi irrazionali, e di fronte all’irrazionale la ragione è disarmata. D’altra parte invece - e questo non appartiene all’ambito dell’irrazionale - oggigiorno, il fatto che l’Europa, per dei motivi complessi, appoggi troppo spesso la causa del mondo arabo, a causa della Palestina, potrebbe spianare la strada ad una nuova catastrofe. L’Europa non riesce a rendersi conto del pericolo nello stesso identico modo in cui, una grossa parte degli intellettuali europei chiuse gli occhi davanti ai crimini dello stalinismo, del comunismo e del gulag, sino almeno al XX congresso del partito e anche oltre. Nel 1974, la pubblicazione del libro L’Arcipelago Gulag di Solzenytsin è un’autentica sorpresa per moti intellettuali. Però, 40 anni prima, nel 1935, Boris Suvarin aveva pubblicato in francese "Stalin"; nel 1936 Anton Siliga, comunista iugoslavo, "Viaggio nel paese delle menzogne"; sempre nel 1936, André Gide "Ritorno dall’URSS"; questi autori non vennero letti, o vennero letti male, o addirittura disdegnati. Eppure, se fossero stati presi sul serio, in particolare Suvarin, si sarebbe capito immediatamente quello che stava avvenendo. Occorre sottolineare anche l’estrema diffidenza con cui vennero accolti questi libri. Suvarin, nel 1935, dovette pubblicare il suo libro presso una piccola casa editrice. André Malraux, per esempio, gli disse che avrebbe pubblicato il suo libro quando lui e i suoi compagni sarebbero andati al potere. Per tornare al discorso di prima: qual è il rapporto con l’odierna cecità degli intellettuali europei ? Essa mi fa pensare alla cecità, che c’è stata nei confronti dell’Unione Sovietica, dei crimini comunisti in Cina. Mi viene in mente il libro di Maria Antonietta Macciocchi "Sulla Cina" e l’eco che ha avuto in Europa. Il libro esce nel 1972, presso una grande casa editrice francese, " Seuil". Questo libro diventa subito un best seller, letto da numerose persone. Questo libro fa letteralmente schifo, perché è stato un’apologia dell’orrore, un’apologia del regime cinese, un’apologia dell’orrore della rivoluzione culturale cinese, di quel bagno di sangue che ha segnato la rivoluzione culturale cinese. La cecità della Macciocchi e di tutti coloro che hanno seguito la Macciocchi, il comunismo in generale e hanno chiuso gli occhi di fronte ai crimini dei Khmer rossi in Cambogia è la stessa cecità che mostrano oggi i filo-arabi e i filo-palestinesi. La forza dell’esercito israeliano annebbia loro la mente, senza che si rendano conto che invece Israele corre un gravissimo pericolo. 

Nel mondo occidentale il sionismo non gode dunque di una maggiore legittimità.

Decisamente no. In Occidente il sionismo è sempre più delegittimato e in particolare per gli Europei. Io credo per una ragione in particolare e cioè che il sionismo, nella sua ambizione di costruire il proprio Stato nazionale, va contro l’attuale tendenza europea che consiste invece nel superamento dello Stato nazionale come è stato inteso sino a poco tempo fa. Queste due opposte tendenze fanno sì che per gli europei il sionismo sia attualmente incomprensibile, appunto perché viene considerato anacronistico. Da una parte c’è l’Europa che va verso una federazione di stati, verso un’integrazione, e dall’altra c’è il sionismo che invece va esattamente all’opposto, collocandosi quindi a controcorrente di un’evoluzione, per apparire agli occhi degli europei come un movimento retrogrado, simbolo di un modello arcaico di apartheid e di conseguenza come una forma di razzismo. Questa è una delle ragioni di fondo che secondo me tendono a delegittimare il sionismo. Ma ve sono anche delle altre. Una di queste è il senso di colpa per la Shoah, poiché sono state la Germania, l’Austria e i vari collaborazionisti europei ad aver commesso questo crimine, quindi si tratta di un crimine europeo. Che gli ebrei possano, oggi, commettere delle violenze in Palestina, contro un popolo che per il momento stanno sottomettendo e dominando - che è un fatto innegabile -, che si comportino da oppressori contro un popolo oppresso, è qualcosa che serve a rassicurare gli europei in quanto li aiuta a liberarsi dal proprio senso di colpa. Paragonando gli ebrei ai nazisti, ci si vuole liberare di un senso di colpa; si tratta però di un paragone aberrante, perché se gli ebrei stessero veramente usando i metodi dei nazisti, oggigiorno non ci sarebbero più palestinesi. Pensare che gli ebrei si stiano comportando come dei nazisti aiuta a liberarsi dal proprio senso di colpa e sentirsi in perfetta parità da un punto di vista di morale: seguendo questo ragionamento gli europei non hanno più nulla da rimproverarsi poiché in questo momento gli ebrei si stanno macchiando dello stesso crimine commesso 60 anni fa contro di loro, e quindi le colpe a questo punto sono equamente ridistribuite.

Però, a queste due ragioni appena evocate ne aggiungerei una terza, più sfumata. Io credo che gran parte dell’economia psichica dell’occidente cristiano si sia costruita intorno al rifiuto dell’ebreo. Questo rifiuto ha una matrice religiosa anche se successivamente ha assunto una forma nazionale e razziale. In ogni caso tutta l’economia psichica occidentale è avvelenata da questo rifiuto dell’ebreo. Il sionismo è un’ideologia nazionale che mette un termine a questa oppressione e denigrazione dell’ebreo, nello stesso modo in cui l’anticolonialismo mette fine alla dominazione del colonizzato. Per l’economia psichica occidentale l’ebreo era stato la vittima designata che fino adesso garantiva il funzionamento di tale economia, dal momento che per farla funzionare abbiamo sempre bisogno di rifiutare e respingere qualcuno o un gruppo; essere privati della propria vittima preferita mette in pericolo l’economia psichica occidentale. Mi spiego: l’ebreo che si ama in Europa è l’ebreo vittima, è ciò emerge, in particolare, negli ambienti della sinistra e dell’estrema sinistra occidentale, dove le stesse persone, da una parte commemorano la Shoah, con grande contrizione e sincerità, e dall’altra detestano il sionismo e lo Stato d’Israele. L’ebreo forte, sicuro, vittorioso, alla testa del suo esercito non corrisponde più all’immagine dell’ebreo vittima e di conseguenza non è più amato. Si è disposti a piangere per l’ebreo ma non si sopporta di vederlo in veste di colonnello al comando dei suoi carri armati. E’ per questa ragione che il sionismo disturba l’economia psichica dell’Europa.

In Europa c’è ancora chi sostiene che in una certa misura lo stato d’Israele sia stata un’operazione tutto sommato artificiale, che sia sorto improvvisamente, quasi dal nulla, dopo 3000 anni, su di una terra occupata da un’altra popolazione, come compenso per la persecuzione subita.

Certo, lo so, ma è un ragionamento sbagliato e che alla prova dei fatti non tiene assolutamente. Si vorrebbe che fosse artificiale, ma non è così. Basta andare in Israele per accorgersi di quanto sia forte il sentimento nazionale. E’ una nazione estremamente viva che ha un senso della propria identità molto marcato. In Israele ci sono dei dibattiti politici abbastanza animati riguardo al conflitto con i palestinesi, ma nessuno mette in discussione l’identità nazionale israeliana, e tutti si sentono ben radicati sulla loro terra. In Europa si fa fatica a cogliere questo aspetto fondamentale, ma non appena un europeo si reca in Israele è quasi costretto a constatare questo forte sentimento d’identità nazionale, e quindi deve ricredersi. Affermare che Israele sia uno stato artificiale è semplicemente ridicolo e non corrisponde assolutamente alla realtà.

Per capire la nascita di Israele occorre conoscere la storia del sionismo. Il sionismo viene generalmente visto solo sotto un aspetto protettivo: gli ebrei da sempre perseguitati avevano bisogno di un rifugio. Poiché oggi, il pericolo di persecuzione non c’è più, perché ci sono la democrazia, i diritti dell’uomo a proteggere gli ebrei, di conseguenza si pensa che il sionismo e Israele non abbiano alcuna ragion d’essere. Questo ragionamento è completamente sbagliato, perché il sionismo non nasce come reazione all’antisemitismo. Il sionismo nasce dalla laicizzazione del pensiero ebraico occidentale, in altre parole come risposta al processo di secolarizzazione del mondo occidentale. A questa secolarizzazione il mondo ebraico ha dato una risposta di tipo nazionale, che è appunto il sionismo. Il sionismo è quindi una reazione interna al mondo ebraico e non una risposta ad un’aggressione antisemita. L’aggressione antisemita ha sicuramente, in seguito, svolto un ruolo propulsore, ma all’origine del movimento sionista vi è la ricerca innanzitutto di dare una definizione nazionale dell’ebraismo, al di fuori della tradizione, della religione e della Torah. In altre parole, come restare ebrei quando si diventa atei. Si tratta dunque di una rivoluzione intellettuale, e chi afferma che lo stato d’Israele, oggigiorno, nell’Europa democratica e dei diritti dell’uomo, non ha più alcuna giustificazione, non ha capito nulla del sionismo. Non è la Shoah all’origine della nascita dello stato d’Israele. Anche senza Shoah esisterebbe oggi lo stato israeliano.Anche in questo caso si parte da una idea falsa degli ebrei, considerati tali, solo dal punto vista strettamente religioso. Non ci si rende conto che gli ebrei, oltre ad essere una religione, sono anche un popolo.

Per il mondo arabo l’illegittimità del sionismo e d’Israele poggia su presupposti molto diversi.

Per gli arabi il discorso è semplice, poiché, secondo loro la Palestina è una terra esclusivamente araba e gli ebrei sono dei colonialisti, tanto più che i primi sionisti provenivano dall’Europa e quindi il sionismo era necessariamente visto come un ramo del colonialismo europeo. Infatti espansione sionista e espansione imperialista sono concomitanti. Per gli arabi, inoltre, il sionismo è strettamente legato alla dichiarazione di Belfour del 1917: la dichiarazione di Belfour è una dichiarazione britannica, quindi dell’imperialismo britannico e, di conseguenza, i sionisti sono i figli dell’imperialismo britannico. Senza gli inglesi i sionisti non sarebbero mai riusciti a costruire un proprio stato. Tutto questo è vero da un punto di vista politico, nel senso che, senza l’ombrello britannico, nel periodo che va dal 1920 al ‘48, i sionisti sarebbero stati spazzati via. Questo bisogna ammetterlo, è vero. Però, gli inglesi non sono venuti in Palestina per curare gli interessi dei sionisti, ma i propri. La fortuna dei sionisti è stato incontrare, sulla loro strada, gli inglesi, ma è stato un puro caso. Gli inglesi si sono installati in Palestina per curare i propri interessi, e infatti, già nel 1922 avevano cominciato a rimangiarsi le promesse fatte ai sionisti nel 1917, perché si erano resi conto di aver commesso un grave errore politico-diplomatico, nei confronti del mondo arabo. Successivamente, le rivolte arabe contro i sionisti, nel 1929 e nel 1936, furono represse dalle truppe inglesi per ripristinare l’ordine pubblico e non per proteggere i sionisti.

Per quanto riguarda Israele e la Palestina siamo di fronte a due popoli che hanno entrambi una propria legittimità su questa terra.

Su questo non c’è dubbio. Entrambi i popoli hanno ragione. Si può sempre arguire che gli ebrei non hanno ragione, perché quella non era più la loro terra, ecc., ecc., ma io sono convinto che il sionismo abbia una sua legittimità. Voglio aggiungere un altra cosa: quelli che tentano di delegittimare il sionismo sono, a loro volta e involontariamente gli artefici di un’ingiustizia, perché la caratteristica dell’ingiustizia consiste nel voler trattare in maniera paritaria delle persone, che non sono uguali. Quello che voglio dire è che per gli ebrei Israele significa tutto, e quando dico tutto, intendo che non hanno nient’altro al mondo, se non questo fazzoletto di terra, su cui poggiano il loro immaginario spirituale, le loro tradizioni, la loro religione e la loro lingua. Per il mondo arabo e per i palestinesi, invece, la Palestina è solo una parte del mondo arabo. Se anche perdessero la Palestina, non avrebbero per questo perso tutto, come invece gli ebrei. C’è quindi una sproporzione a livello territoriale, tra i 4 milioni di kmq del mondo arabo e i 21.000 kmq di Israele. E’ inspiegabile questo accanimento su di un territorio così piccolo, che è a malapena l’equivalente di due province europee. La posta in gioco è molto sproporzionata, perché per gli ebrei perdere Israele sarebbe drammatico e rappresenterebbe la fine del popolo ebraico. Nel 1963 Hannah Arendt disse ad un’amica: " Se per disgrazia dovesse scomparire lo stato di Israele, ciò significherebbe la fine del popolo ebraico ". Per quanto riguarda i palestinesi, questo rischio non c’è, perché il popolo arabo non rischia l’estinzione. Si fa fatica in Europa a prendere in considerazione questa gigantesca sproporzione. 

Da un punto di vista mediatico, si tende sempre ad accentuare le sofferenze e le miserie del popolo palestinese, mettendo in secondo piano le difficoltà ed i pericoli della popolazione israeliana.

Questo è dovuto al fatto, che il rapporto tra l’Europa e l’ebreo è completamente marcio, avvelenato e mi viene in mente un’osservazione che fece a suo tempo Sartre, riguardo al rapporto padre-figlio. Sartre diceva: " Quando, per strada, vedo un uomo e un giovane, che camminano insieme, senza dirsi una parola, allora so che sono padre e figlio". Con questo intendo dire, che i rapporti fra ebrei ed europei sono letteralmente schifosi, e questo è da imputare alla chiesa cattolica. Per quanto riguarda la stampa si stigmatizza molto, ad esempio, la sofferenza dei palestinesi, ma si evita di fare gli approfondimenti sulle sofferenze subite dagli israeliani, a causa degli attentati suicida. Su questa realtà, fatta di paura, di angoscia con il suo corollario di morti, di feriti e di persone che, pur essendo sopravvissute agli attentati sono ridotti oggi a delle larve, c’è purtroppo in Europa un angosciante silenzio. A me è capitato, quando ero lo scorso febbraio in Israele, di trovarmi non molto distante dal luogo in cui era appena avvenuto un attentato. Nel giro di 5 minuti sono passate una ventina di autoambulanze e le persone erano completamente agghiacciate e immobilizzate dalla paura, ed io stesso, quel giorno, dovevo recarmi in una biblioteca per cercare dei documenti e mi sentivo come paralizzato e ho dovuto rinviare ciò che mi ero proposto di fare. Però vorrei aggiungere anche altre due ragioni, riguardanti le posizioni quasi esclusivamente filo-palestinesi dei media. Perché la Palestina è così presente, all’interno della sinistra? Nel momento in cui il mito della rivoluzione proletaria ha cominciato a vacillare, la causa palestinese ha assunto un ruolo sempre maggiore, sino a diventare l’emblema della lotta degli oppressi di tutta la terra. Sotto sotto la Palestina rappresenta la causa per tutti quelli, che sognano una rivoluzione. Come a suo tempo c’era il mito di Cuba e della rivoluzione cinese, oggi è la Palestina che incarna questo mito rivoluzionario della sinistra. Con questo non voglio negare che la causa palestinese non abbia una sua legittimità e che non sia degna di questo nome. In Palestina c’è effettivamente un’ingiustizia che occorre riparare. Detto questo, il fatto che però abbia assunto un carattere mondiale, credo che sia dovuto ad un fascino per la violenza e per la forza, che gli ambienti dell’estrema sinistra nutrono ormai da tanto tempo, senza però mai esplicitarlo apertamente. E questo è un argomento tabù, perché siamo di fronte ad un discorso, che, da una parte si fa promotore della pace, dei diritti dell’uomo, della non-violenza e dall’altra sottintende una sordida realtà, da cui emerge un fascino per tutto ciò che è forza, violenza di tipo bolscevico. C’è una distorsione tra un discorso umanista, e un certo fascino per la violenza. Questo fascino si manifesta anche nei confronti del mondo arabo, che oggigiorno inneggia costantemente alla forza e alla violenza. Israele, pur essendo uno stato ben armato e potente, non tiene però un discorso di forza e di violenza. Intendo dire che Israele possiede la forza ma non la usa fino in fondo, cosa che invece farebbero gli altri se avessero gli stessi suoi mezzi. Porto un piccolo esempio: durante una lezione di storia, un adolescente di origine araba di un liceo parigino ha detto che non riusciva a capire come mai questi imbecilli di israeliani, con tutti i mezzi militari a disposizione, non fossero capaci di servirsene adeguatamente in Palestina. Si tratta di uno dei tanti episodi che avvengono nelle scuole francesi in cui si assiste purtroppo a diverse manifestazioni di antisemitismo, tra gli alunni di origine araba. Questo episodio mi ha fatto venire in mente il racconto di un ex soldato dell’esercito israeliano il quale nel corso di un’operazione militare, durante la guerra dei sei giorni, nel 1967, è entrato, insieme a un gruppo di soldati, nella casa di un palestinese abbastanza anziano, che alla loro vista ha cominciato a tremare di paura. Hanno perquisito la casa, e, non avendo trovato nulla, sono andati via. Sei mesi dopo, questa persona, che era ormai in congedo, passeggiando per strada ha incontrato l’anziano palestinese e l’ha salutato. Il tipo ha fatto finta di non riconoscerlo. L’ex soldato è tornato indietro e gli ha chiesto: "Ti ricordi di me ?" e l’altro ha risposto "Sì mi ricordo di te, ma siccome avete vinto la guerra non voglio avere nulla a che fare con voi." L’ex soldato però, prima di andarsene ha voluto sapere da questa persona anziana cosa pensasse del fatto che i soldati israeliani, quel famoso giorno, non gli avessero neanche torto un capello. L’anziano palestinese gli disse allora, testuali parole: "io penso che voi israeliani non siate dei veri uomini". Questo dimostra sino a che punto le nozioni di guerra e di virilità siano strettamente connesse. La virilità si dimostra attraverso la forza e la violenza. Questa mentalità è molto radicata nel mondo arabo, e mi ha colpito il fatto che sia presente anche in questo adolescente di origine araba nato in Francia. Ciò che è preoccupante è questo abisso culturale, ed è questo abisso che gli europei non riescono o non vogliono capire. Non ci si rende conto del conflitto culturale e ogni volta che lo si mette in evidenza si viene considerati razzisti. Anche in questo caso appare la solita miopia, incapace di riconoscere che, volenti o nolenti, si è in presenza di un conflitto culturale. C’è un conflitto di valori, come per esempio il ruolo assegnato alla donna; riconoscere questo conflitto non significa essere razzisti.

Lei, come storico, si occupa di storia del sionismo e di storia della Shoah argomenti che, come abbiamo visto, nonostante abbiano origini e contesti diversi, continuano ad intrecciarsi e a richiamarsi tra loro. Come è nato il suo saggio "L’Eredità di Auschwitz, come ricordare ?"

L’idea di scrivere sulla Shoah mi è venuta circa 17 anni fa, mentre preparavo con i miei studenti liceali una raccolta di testi fondamentali sulla Shoah. Con i miei studenti abbiamo realizzato una piccola dispensa e da questa dispensa è nato il mio primo libro, pubblicato nel 1989, dal titolo "Génocide pour Mémoire". In seguito, le diverse conferenze, che ho cominciato a tenere, hanno costituito la base del mio saggio "L’Eredità di Auschwitz". Però è innanzitutto la lettura di certi testi didattici sulla Shoah – in particolare un testo di Jean François Forges - in cui si diceva per esempio che ogni tipo di violenza, come quelle sui bambini, fosse un primo passo verso Auschwitz, che mi sono detto che affermazioni del genere erano decisamente stupide, e che era necessario riprendere le questioni politiche, che avevo trattato nel corso delle mie conferenze, per rispondere ad argomentazioni così moralistiche. Questa mia collera contro il testo di Forges ha dato alla luce il saggio " L’eredità di Auschwitz ", il che dimostra quanto sia proficuo arrabbiarsi con i testi altrui. Lo scopo, anche in questo caso, è pedagogico. Come insegnare Auschwitz? Non pretendo di avere una risposta assoluta, ma mi limito a indicare delle piste, degli itinerari per riflettere e aiutare a cercare delle risposte. L’obiettivo è quello di trasmettere un messaggio ed evitare che Auschwitz diventi una storia ripetitiva e nauseante. In Francia ormai esiste così tanto materiale, che si è quasi sommersi e stufi di sentir parlare sempre dello stesso argomento. Inoltre l’approccio viene fatto sempre da un punto di vista moralista, piagnucoloso.

Lei propone di affrontare la storia della Shoah, cambiando prospettiva, cercando di fare una genealogia del pensiero razzista nella cultura europea.

In questo senso si può individuare già nella teoria della " limpieza de sangre ", emanata dalla Spagna, alla fine del 1400, un primo segnale di questo pensiero razzista. In quel periodo gli ebrei, pur convertendosi al cristianesimo, non venivano equiparati al resto della popolazione, ed erano chiamati " nuovi cristiani ". Ciò significa che esistevano degli autentici cristiani e dei non autentici cristiani. In questo momento si introduce il concetto di sangue, di origine e quindi di razza nella percezione dell’essere umano. Questo avviene prima di Colombo e delle grandi scoperte. In seguito, la conquista delle Americhe e la tratta degli schiavi si fondano su un pensiero razzista europeo, ma non c’è ancora una volontà genocidaria. In ogni caso la scoperta delle Americhe, lo schiavismo e l’Inquisizione gettano le basi per lo sviluppo progressivo di un pensiero razzista tipicamente europeo.

Proseguendo nei secoli, è la stessa idea di umanità e di progresso, così come è stata sviluppata dal pensiero europeo, che deve essere rimessa in questione. Hannah Arendt diceva, che i diritti dell’uomo non ci proteggono da nulla.

La Dichiarazione dei diritti naturali dell’uomo è stata solo una tappa nella storia dell’emancipazione dell’uomo. Il problema è che i diritti umani si sono scontrati, sono entrati in conflitto con l’emergere dello stato-nazione e dei nazionalismi. Ci si è resi conto, allora, che un uomo senza passaporto, senza nazionalità è un essere completamente indifeso, e che la Dichiarazione dei diritti umani effettivamente non garantisce i diritti naturali ed è quindi insufficiente. Questo non significa che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo non sia più valida. Occorre, invece, completarla, correggerla, partendo da un’analisi critica della civiltà occidentale, dal 1700 in poi, insistendo in particolare su di un punto: non sono responsabili gli Illuministi, ma al contrario l’oblio dell’insegnamento e dell’eredità illuminista. E’ questo rifiuto, che ha condotto alla catastrofe della Shoah. La Germania nazista ha rifiutato e negato l’Illuminismo, ed è questo antilluminismo di fondo, che ha portato alla catastrofe. Al tempo stesso è necessario rendersi conto della debolezza dell’Illuminismo, che è un pensiero che deve essere esteso, integrato e completato. E’ importante capire come mai la razza e la nazione abbiano assunto una tale importanza nel corso del 19° e 20° secolo, dal momento che le due nozioni si sviluppano parallelamente. Io credo che una risposta sia da cercare nella progressiva secolarizzazione della società e nella morte del concetto di Dio. L’idea di trascendenza, rappresentata da Dio, viene sostituita dall’idea di razza. La razza è la figura laicizzata della trascendenza ed è in questo senso che il razzismo è strettamente legato alla secolarizzazione.

Nella nuova edizione del suo saggio lei sviluppa ulteriori tematiche sulle quali è necessario riflettere, per esempio la nozione del male, e cioè come un uomo comune diventa assassino. Hannah Arendt a suo tempo, nel suo reportage sul processo a Eichmann aveva parlato di banalità del male.

Sì, ho sviluppato molto la nozione del "lavoro del male". Il male è un lavoro, e dal momento che si tratta di un lavoro è alla portata di gente comune. Come diventa un uomo comune assassino ? Lo diventa attraverso la forza dell'ideologia, attraverso la logica di gruppo e attraverso il conformismo. Si tratta in questo caso della scarsa capacità dell'individuo di riuscire a mantenersi autonomo e di agire secondo i propri principi e la propria indole, preferendo in questo caso rimanere integrato al gruppo per paura di essere rifiutato. Ciò è perfettamente visibile negli uomini che costituivano gli Einsatzkommando il cui compito fu di streminare gli ebrei della Polonia orientale, della Lituania, Estonia e Ucraina. Quando vennero arruolati furono immediatamente messi al corrente degli obiettivi delle loro missioni e venne lasciato loro la possibilità di essere trasferiti in altre unità dell'esercito e di non partecipare quindi allo sterminio. Ebbene, solo il 10% di questi soldati si avvalse di questa opportunità. La maggioranza aderì perché prevalse la logica del gruppo e dunque la paura di essere considerati dei vigliacchi e degli uomini senza coglioni. Per quanto riguarda il lavoro di Hannah Arendt io mi sono molto ispirato al suo lavoro. Uno degli aspetti che contesto riguarda il ruolo svolto dai consigli ebraici. E' vero che lei non è una storica e inoltre eravamo ancora negli anni '60 e tanti documenti importanti non erano ancora a portata di mano. Lei non conosceva a fondo la storia del ghetto di Varsavia, non aveva letto i vari scritti del ghetto di Varsavia che sono apparsi molto più tardi, e di conseguenza ignorava la complessità della situazione, sopravvalutando il ruolo dei consigli ebraici. Ci sono da parte sua degli errori di valutazione, il che non vuol dire che la sua analisi fosse del tutto sbagliata. La nozione per esempio di collaborazione che lei ha attribuito ai consigli ebraici è una questione estremamente delicata e io non impiegherei il termine "collaborazione"; direi piuttosto compromesso, ma non collaborazione. Aggiungerei anche il fatto che lei abbia sottovalutato l'adesione ideologica di Eichmann, privilegiando il ruolo burocratico dell'uomo. Bisogna tener conto che per il nazista Eichmann è un autentico incubo ritrovarsi a Gerusalemme, prigioniero degli ebrei, e di conseguenza tutta la dimensione ideologica del suo operato in seno al governo nazista ha cercato di tenerla lontana per far apparire esclusivamente la dimensione burocratica dell'uomo che ha semplicemente eseguito degli ordini. Ma lui non era ciò che voleva apparire; era un uomo che aveva condiviso un'ideologia, era un antisemita fanatico. C'è un aneddoto molto significativo, a dimostrazione ancora una volta di quanto un approccio moralistico serva a gran poco per studiare la Shoah: durante la sua prigionia, poiché Eichmann si annoiava nella sua cella, un secondino gli propose di acquistare un libro, appena uscito, dello scrittore Nabukov "Lolita", che stava riscuotendo un grande successo. "Lolita", un gran bel romanzo da cui poi Stanley Kubrick ha tratto un film, racconta la storia di un uomo di 40 anni sedotto da una ragazzina di 14 anni, e Eichmann dopo aver letto una trentina di pagine, gettò il libro disgustato dicendo che si trattava di un romanzo immorale. E' veramente incredibile che abbia detto questo. Per tornare all'affermazione di Hannah Arendt riguardo alla "banalità del male" sicuramente si riferiva alla "banalità dell'assassino", all'uomo Eichmann come "essere banale", perché il male non è mai una cosa "banale". Il "male" è sempre una scelta, anche nel caso in cui si obbedisca semplicemente agli ordini, è un atto che implica la scelta di fare del male. Parlando di banalità Hannah Arendt intendeva l'uomo comune che diventa assassino, perché pensando al male crediamo che il criminale sia un pazzo, uno psicopatico - il che è senza dubbio anche vero - , ma la grossa schiera degli assassini è composta da gente comune, che del resto, dopo la guerra, hanno ripreso tranquillamente la loro vita, come se ne niente fosse. Questo aspetto è estremamente interessante perché ci aiuta a capire come, dietro il male, ci sia un'operazione di "banalizzazione del male, attraverso il "lavoro", e cioè di come si riesca a convincere tantissime, normalissime persone ad operare il male nella misura in cui lo riescono a considerare un semplice lavoro da svolgere, separando con estrema facilità il lavoro dalla propria coscienza. Ciò è altrettanto valido quando pensiamo alla cultura. La cultura in se non ci protegge da nulla. Se invece serve a gettare uno sguardo critico su quello che si sta facendo allora la cultura può essere una barriera e un ostacolo al male, altrimenti è un accumulo di conoscenze che non servono a gran che. La cultura deve essere anche pensiero. Per concludere vorrei dire che nell'insegnamento della Shoah i punti sui cui occorre insistere è che non si tratta di una storia che riguarda esclusivamente il popolo ebraico ma che, attraverso questo popolo, è stata assassinata una nozione fondamentale e cioè una nozione di essere umano. Questo assassinio è strettamente legato a un certa evoluzione del pensiero occidentale di cui noi siamo gli eredi. In altre parole, vi sono nella nostra cultura dei germi molto pericolosi che occorre snidare per evitare che la nostra società continui a essere in balia del biopotere. Purtroppo invece viviamo in una società fortemente improntata sul biologico e l'economico.

pubblicata originariamente sulla rivista "Una Città di Forlì"