domenica 23 aprile 2023

La palestra di Euripide. Alcesti o i volti dell’amore Estratto da "Una Spa per l"anima Cristina Dell’Acqua



La palestra di Euripide.

Alcesti o i volti dell’amore

Estratto da "Una Spa per l"anima Cristina Dell’Acqua

"Eschilo o Euripide, antichi registi, hanno gareggiato nel V sec. a.C per mettere al centro della scena non tanto uomini ma idee immortali con cui ci confrontiamo, da allora in poi, perché vanno al cuore di ciò che siamo. E mi piace pensare che lo sappiano, ovunque si trovino in questo momento. Alcesti, la protagonista dell’omonima tragedia di Euripide del 438 a. C., che si sacrifica per amore del marito Admeto, è per noi la declinazione dell’amore, parla di noi e per noi. Cosa significa amare? È essere amati oppure amare senza misura, è trovare compromessi quotidiani oppure sacrificarsi? Se qualcuno ci vuole spegnere o, peggio, se è violento anche psicologicamente nei nostri confronti, davvero ci ama?" INTERVISTA A CRISTINA DELL'ACQUA Letture.org


La maggior parte della gente ritiene che amore significhi essere amati anziché amare. 

Erich Fromm L’arte di amare


Se potessimo organizzare un viaggio ad Atene nel V secolo a.C. la primavera sarebbe il periodo migliore. In città si celebrano le Grandi Dionisie, le feste sacre in onore di Dioniso. Sette giorni di festeggiamenti, quattro dei quali dedicati a un festival teatrale: poeti tragici e comici presentano al pubblico le proprie opere, pensate per l’occasione, e una giuria premia il miglior attore, il miglior coro e il miglior poeta. Seduti in un teatro all’aperto, dalla gradinata a semicerchio appoggiata al rialzo naturale della collina, il theatron, vediamo davanti a noi due spazi, l’orchestra e la scena. La prima è circolare, con al centro la statua di Dioniso a immergerci in un’atmosfera sacra, inusuale per un teatro moderno. Lì si dispone anche il coro, cioè la voce del poeta che accompagna e commenta con sottofondo musicale l’azione che si svolge sulla scena, dove recitano gli attori e sono posti gli allestimenti teatrali, in genere essenziali. Gli attori, solo maschi, indossano una maschera che permette loro di interpretare più ruoli e di amplificare la voce, grazie a un piccolo foro sulla bocca.

Ci accorgiamo poi che le maschere hanno tratti marcati e ben visibili, ma l’espressione del volto è stereotipata, fissa. Segno che la nostra attenzione deve rivolgersi altrove, alle loro parole.

Vediamo macchinari teatrali per calare gli attori dall’alto o piattaforme per rendere visibili azioni che si svolgono in un interno. Non assisteremo invece agli atti cruenti a cui oggi siamo abituati, questi avvengono fuori dalla scena, lontano dagli sguardi di noi spettatori, e ci sono raccontati da un messaggero o da una guardia che ci mette in condizioni di vedere attraverso gli occhi della nostra immaginazione. Probabilmente perché il teatro greco non usa più di tre attori e nemmeno il sipario, non nasconde: un cadavere rimarrebbe in scena per tutta la durata dello spettacolo. Probabilmente per un’astuzia del poeta che non vuole distrarre l’attenzione del pubblico con gesti cruenti, di facile presa. Gli attori ci parlano dell’uomo, della sua dimensione religiosa, umana e politica, della sua vita in relazione a se stesso e alla polis, di cui è l’anima. E il filosofo Gorgia ci ha avvertito: «La tragedia è un inganno in cui chi è ingannato è più saggio di chi non si lascia ingannare».

Quel lasciarsi ingannare equivale a un lasciarsi andare. Chi davvero lo sa fare più? La capacità di lasciar andare le emozioni anziché reprimerle ha una funzione terapeutica. Nella religione come nella tragedia, i Greci parlano non a caso di κάθαρσις (kátharsis), catarsi, una purificazione che porta un rinnovamento interiore. Per gli antichi Greci, partecipare alla rappresentazione di una tragedia a teatro era un’esperienza multisensoriale in cui migliaia di persone vedevano, ascoltavano e rivivevano insieme una storia che era anche la loro. Paura, speranza, dolore, illusioni, gioie esplodono in una liberazione dell’anima dalle passioni irrazionali che sempre ci sovrastano.

Il teatro greco custodisce in sé il canone non scritto della Serendipity, quella felicità che scaturisce dalla rivelazione di qualcosa di inatteso. Il lasciarsi ingannare fa scoprire la forza di energie represse che non trovano quasi mai la giusta via d’uscita. Oggi siamo assediati da manuali sul pensiero positivo, inseguiamo la felicità a ogni costo e piangere è diventato un atto di cui vergognarsi. Ogni emozione viene respinta al mittente in nome di un comportamento corretto che ingabbia il nostro sentire più profondo e vero. Gli antichi sapevano piangere, ridere, provare paura e gioia nello spazio pubblico del teatro. Vivevano le emozioni, anche quelle più dolorose, e sapevano soprattutto condividerle.

Ad Atene infatti attori, coro e migliaia di spettatori entrano a far parte di una realtà dove si prova l’esperienza di essere nell’ombelico di un mondo alternativo cui abbandonarsi. Il teatro antico è un incantesimo, quello moderno è una forma di intrattenimento, più o meno culturale, in cui assistiamo alla messa in scena di un’opera in prosa. Canto, musica e danza, strettamente legati alla recitazione degli attori antichi, noi potremo apprezzarli soltanto a un concerto o all’opera. Ma la vera magia perduta è quella del teatro all’aperto. Alla luce del sole le nostre passioni e le nostre irrazionalità non possono nascondersi con il favore delle tenebre.

E pensare che nel nostro immaginario tragedia greca è sinonimo di un coacervo di disgrazie dal quale è bene guardarsi! Chi di noi le ha studiate le ha rimosse, chi di noi le ha scampate non credo le tenga sul proprio comodino tra i libri da leggere.

Eppure le tragedie greche sono storie.

Storie che ci parlano, a seconda della nostra sensibilità e del momento in cui le leggiamo, e ci raccontano di noi, delle nostre passioni e delle nostre fragilità.

I personaggi di queste storie vengono dal mito, una tavolozza di figure senza tempo da cui i poeti del teatro greco hanno attinto per dipingere le gradazioni dell’animo umano. Alcesti è una donna che sacrifica la propria vita per amore: quante donne lo fanno. Antigone è un’adolescente che, con la determinazione delle proprie idee, mette in crisi un sistema di potere consolidato, indiscusso e indiscutibile: la forza propulsiva dei giovani. Edipo è un uomo che nasce con un pesante bagaglio ereditato a prescindere dalla sua volontà e con cui dovrà fare i conti per tutta la vita come uomo, marito e padre, nell’esercizio della propria responsabilità politica. Edipo rappresenta la lotta che ciascuno di noi intraprende per affermare la propria identità.

Eschilo, Sofocle ed Euripide, i tre grandi poeti tragici del V secolo a.C., hanno preso in prestito i personaggi del mito, li hanno animati e restituiti alla tradizione dotati di una umanità nuova e sfaccettata con cui confrontarsi.

È il caso di Elena, l’incarnazione della bellezza e della sensualità femminile.

Nata da un uovo, simbolo della perfezione, è la moglie di Menelao, il re di Sparta. Molti uomini hanno lottato per averla al proprio fianco sino a quando Paride, figlio di Priamo, il re di Troia, con la complicità di Afrodite, riesce a rapirla e portarla con sé: si muoveranno schiere di guerrieri per ricondurre Elena in patria, a costo di morti, distruzione e sventure di dieci anni di battaglie.

La storia della bellissima Elena comincia nell’Iliade di Omero come causa della guerra dell’antichità per antonomasia, e si trasforma negli anni e nei secoli grazie ad altri poeti che la prendono per mano svelandone i sentimenti.

Saffo, la poetessa dell’amore del VII secolo a.C., con sensibilità femminile, ci racconta una Elena che, vinta dalla forza travolgente di Eros, segue Paride per amore, pagando con il dolore dilaniante che porta con sé l’aver abbandonato i propri figli, la propria terra e l’aver tradito la fiducia altrui. Euripide immagina che in realtà Elena non sia mai partita realmente per Troia. Al suo posto con Paride era partito un fantasma. Elena era sempre rimasta fedele al marito, aspettandolo per dieci lunghi anni.

Questa donna custodisce nel suo nome il segreto di due radici: una che indica splendore, elas/selas da cui ἑλάνη, fiaccola luminosa, e una che indica distruzione. Elena è anche connessa con ὄλεθρος (ólethros) e ὄλλυμι (óllumi), rovina e distruzione. Elena splende e illumina o distrugge. Oppure entrambe le cose. Elena è il doppio che è in ognuno di noi.

È la magia dello spirito greco, la sua innata attitudine a vedere la realtà da tutte le angolazioni possibili. Una palestra di libertà. Il teatro greco è lo spazio dove i poeti mettono in scena questa libertà. Lo fanno attraverso storie create per essere rappresentate, non lette, un’unica volta e in quell’anno. Nessun timore di esaurire la propria vena poetica, segno della grande fiducia che gli antichi avevano nella fantasia e nella complessità umana come alimentatore naturale di storie, né alcuna possibilità di replica on demand, solo repliche sul proprio schermo interiore.

Sotto il cielo greco, di primavera in primavera, a teatro si inanellavano racconti intessuti su parole, danza e musica pensati in un’armonia che sapeva raggiungere udito e mente. Un concerto di emozioni.

L’Alcesti di Euripide è una fiaba d’amore andata in scena nel 438 a.C.

Alcesti si offre di morire al posto del marito Admeto, re di Fere in Tessaglia. In cambio dell’ospitalità data ad Apollo, una volta in cui il dio era stato cacciato dall’Olimpo, il re aveva ottenuto il privilegio di evitare la morte. A una condizione, però: quando fosse giunto il momento, qualcun altro si sarebbe dovuto sacrificare al suo posto. Solo sua moglie accetta di morire, nemmeno gli anziani genitori sono disposti a rinunciare alla propria vita per il figlio.

Leggiamo insieme i versi in cui Alcesti si presenta per la prima volta sulla scena. Quella che vediamo davanti a noi non è la donna terrorizzata e già morta alla sola idea di abbandonare i suoi figli e la sua casa. Di quella donna ha parlato indirettamente l’ancella personale della regina, con uno sguardo prezioso che la osserva, per conto degli spettatori, nel suo sconforto. L’Alcesti che ci consegna Euripide è invece una donna determinata e forte. Forte del suo nome, che racchiude la radice alk-, che indica appunto la forza. Forte della sua scelta di sacrificare una vita realizzata con due figli, ricchezza e giovinezza, affronta il marito:

Admeto vedi con i tuoi stessi occhi in quale stato mi trovo e prima di morire voglio dirti le mie ultime volontà. Ti ho rispettato tanto da scambiare la mia vita con la tua. Avrei potuto scegliere di non morire, risposarmi con un altro Tessalo e vivere in una casa ricca e degna di un re. Ma ho rinunciato a vivere senza di te e con i nostri figli orfani, ti ho regalato la mia giovinezza, e ho rinunciato alle gioie della vita. Tuo padre e tua madre invece ti hanno abbandonato. Erano a un punto della vita in cui sarebbe stato glorioso e generoso per loro morire e salvare il loro unico figlio, avevano solo te. E noi due saremmo vissuti insieme per il resto dei nostri giorni, tu non saresti restato senza tua moglie e i nostri figli non sarebbero stati senza la loro madre. Ma qualcuno degli dèi ha voluto che il nostro destino fosse questo, e così sia. Tu però ricordati quello che mi devi: anch’io ho una richiesta per te, non dello stesso valore, perché niente vale quanto la vita, ma è una richiesta giusta: lo riconoscerai anche tu che non ami meno di me i nostri figli, saggio come sei. Lascia che siano loro i padroni della mia casa, non sposare un’altra donna, una matrigna che, peggiore di me, per invidia alzerà le mani sui miei e tuoi figli. Ti prego, non farlo: una matrigna è sempre nemica dei figli di primo letto, è una vipera. E certo nostro figlio maschio ha suo padre a difenderlo, ma tu, figlia mia, come potrai avere un’adolescenza felice? Come sarà con te la moglie di tuo padre? Forse sarà pronta a spargere calunnie sul tuo conto e, nel fiore dell’età, a distruggere le tue speranze di nozze. Non ci sarò per le tue nozze, non ti sarò vicina quando diventerai madre. Devo morire e questo non succederà domani o dopodomani, ma ora, subito sarò tra quelli che non sono più. Addio, siate felici. E tu, Admeto, per te sono stata una buona moglie e per voi, figli miei, una buona madre [vv. 280-325].

I miti greci, e con essi le tragedie, sono racconti ricchissimi di linee interpretative che si intrecciano fra loro. La storia di Alcesti è la storia di un amore che si dona sino al sacrificio estremo di sé. Ma è anche il racconto di antichi miti sulla morte e sulla rinascita. Ancora, è il racconto del valore dell’ospitalità e della gloria, temi sacri per chi vive in una cultura in cui ogni uomo esiste attraverso gli occhi degli altri: ciò che conta è il ricordo che ognuno sa lasciare di sé. Ma di questo aspetto avremo modo di parlare più avanti.

Ora parliamo d’amore.

Alcesti aveva già catturato l’attenzione di Platone, il filosofo dell’Eros. Come gli dèi dell’Olimpo sanno ispirare negli eroi la capacità di svolgere imprese militari straordinarie – dice il filosofo nel Simposio, forse la sua opera più affascinante – così Eros sa instillare in chi ama la forza di compiere gesti che altrimenti, per sua natura, non saprebbe compiere. Eros è un dio che può soffiare dentro di noi la capacità di andare oltre i nostri limiti. È un motore che acuisce i nostri sensi e la nostra capacità di vedere, sentire e agire.

Secondo Platone, Eros ha regalato alla vita degli uomini un codice non scritto che è il codice dell’amore: sarebbe meraviglioso vivere in una realtà abitata solo da persone innamorate! Il potere di emulazione sarebbe più forte di qualunque legge scritta. La persona innamorata infatti vuole sempre dare il meglio di sé per chi ama, mai vorrebbe farsi vedere mentre si comporta in modo poco coraggioso o addirittura scorretto.

Siamo davanti a una delle più belle utopie greche, che a noi sa trasmettere il senso della potenza di Eros. E Alcesti, secondo Platone, ne è l’esempio.

Quando la regina si presenta in scena e pronuncia le sue ultime volontà dinanzi al marito prima di morire, in realtà ci svela il suo mondo. Alcesti è il valore della famiglia che lei stessa custodisce con forza, e le parole strazianti di Admeto ce lo confermano.

Non osare abbandonarmi, in nome dei figli che lascerai orfani. Se tu muori io non posso sopravvivere. È nelle tue mani che io viva o muoia, perché io adoro il tuo amore [σήν γάρ ϕιλίαν σεβόμεσθα, vv. 275-9].

Ma amare è un verbo ricco di troppe sfumature perché il greco le possa rinchiudere in un solo vocabolo. Il cuore greco, e non solo quello greco, si agita tra philia ed eros. Philia è l’amore pacato, responsabile e disinteressato dell’amicizia, dei legami familiari, è l’affinità profonda verso qualcuno che si rispetta.

Eros è invece l’amore passionale, sensuale, è la ricerca continua della metà che ci completa, e non abbiamo pace sino a quando non la troviamo.

Eros è ricerca della Bellezza in senso greco, una bellezza che è sofisticata armonia tra ciò che colpisce i nostri occhi, il nostro udito e la nostra parte emotiva. Ciascuno è alla ricerca della propria, e, una volta trovata, essa scorre in noi dalla porta degli occhi e si riversa a sua volta negli occhi di chi si ama. Una corrente di amorosi sensi, un dialogo che non ha bisogno di parole per creare il calore che sa far germogliare le parti inaridite della nostra anima. Il calore lasciato entrare in noi prende spazio e si diffonde, e, con lo stesso dolore che provano i bambini quando spuntano i primi denti, spuntano le ali alla nostra anima. I tormenti dei bambini sono i tormenti della nostra agitazione amorosa. Ma le ali spiegate fanno di noi una persona accesa. Chi non vorrebbe con tutto se stesso aver inventato questa meravigliosa immagine, ancora una volta di Platone, ora dal Fedro?

La natura avrebbe dovuto dotarci di due cuori, in continuo contatto. Due vasi comunicanti da poter attivare separatamente o insieme. Ma ne abbiamo uno e di quello dobbiamo curarci!

Le parole di Alcesti descrivono l’intera gamma dei volti dell’amore, declinati al femminile: l’amore di una madre e l’amore di una moglie, dicevamo, espressi con la tranquillizzante philia. Ma Euripide è un sensibile inventore di personaggi femminili, di cui riesce a sviscerare gli aspetti più universali in modo assolutamente inusuale per i tempi.

Con il suo teatro, amò sperimentare e, come spesso accade ad autori fuori dagli schemi, e tendenzialmente critici nei confronti delle opinioni comuni, non fu amato dai contemporanei. In compenso lo amarono e lo imitarono i posteri a partire da Seneca, da cui deriva il primo teatro europeo. Sappiamo che il poeta nacque a Salamina nel 485 a.C., ma la sua vita non è facile da ricostruire. Fu una vittima illustre della post-verità, quel meccanismo della comunicazione per cui una notizia assume valore per l’impatto emotivo che suscita e non per l’oggettività dei fatti. I contemporanei infatti inventarono, per screditarlo, diffamazioni maligne oltre a varie disavventure coniugali nonché la notizia che egli si sarebbe dedicato alla poesia solo dopo aver fallito come atleta e come pittore. Era nato in una famiglia ragguardevole, grazie alla quale perfezionò un raffinato curriculum culturale. Possedeva una biblioteca privata, cosa inusuale a quei tempi, e visse appartato con una prima e forse una seconda moglie, tre figli e una splendida villa in riva al mare, nella quale si ritirava a scrivere. Scelse però di passare gli ultimi anni della sua vita fuori dalla sua patria, in Macedonia, dove trovò un ambiente culturale affine alla sua sensibilità. E lì morì, a settantaquattro anni, nel 406 a.C.

Euripide fu evidentemente affascinato dal mondo femminile, un territorio quasi inesplorato e dunque una nuova frontiera da conquistare. Nell’immaginario greco esistevano figure di donne note, basti pensare a Penelope, la moglie fedele per eccellenza che attende il marito. Ma si trattava di figure monolitiche rinchiuse in un solo ruolo. Euripide decise invece di riconsiderare il mondo femminile per esplorarne la personalità, la mente e il cuore.

E dietro alla corazza della regina Alcesti, egli lascia intravedere indizi del suo aspetto passionale, quello che spesso siamo abituate a tenere imbrigliato nella rete delle responsabilità quotidiane, ma potenzialmente sempre pronto a mettere le ali.

Mi piace immaginare che Eschilo avrebbe dato un ruolo secondario ad Alcesti facendone una vittima in nome del volere degli dèi e Sofocle l’avrebbe resa una ribelle in nome delle leggi dell’amore. Solo Euripide guarda Alcesti nella sua complessa femminilità. Ecco l’accenno, intriso di nostalgia e rimpianto, ai doni della giovinezza che la regina non ha certo risparmiato a Admeto: «Io ti ho onorato sino al punto di farti vivere a prezzo della mia vita, e muoio per te, quando invece avrei potuto non morire».

Ma in Alcesti irrompe anche la gelosia: «Non sposare un’altra donna».

Certo va precisato che Alcesti si muove in un mondo nel quale non le sarebbe consentito usare troppi aggettivi possessivi. «Lascia che siano i miei figli i padroni della mia casa» dice la regina. Già il lessico ci svela che nell’ambito della famiglia greca la donna era colei che semplicemente ospitava in grembo il figlio e lo partoriva. Un involucro. Generare la vita era considerata invece prerogativa del padre. Per di più, dobbiamo ricordare che della casa una donna era solo la custode. Ma è davvero in questo universo che Euripide pare creare un varco. Il dono che Alcesti chiede a Admeto in cambio della propria vita è che nessun’altra donna prenda il suo posto.

Chiunque abbia la fortuna di amare sa bene che la gelosia è una morsa al cuore che non nasce in un sentimento di pacata philia. La gelosia si nutre dell’immagine di un’altra donna o di un altro uomo che ci sostituiscano in confidenza, cura per i figli, complicità, scambio di tenerezze fisiche e intimità mentale. È una fragilità che rende forte e irresistibile chi ha il coraggio di manifestarla. Perché nulla è più dolce del regalo delle proprie debolezze. Questo è il tratto che spoglia Alcesti del ruolo di eroina tragica per vestirla di quello di donna. Ci accorgiamo che la sua calma e il suo equilibrio mascherano il suo calore e la sua voglia di vivere. È il doppio che è in ognuno di noi e che si affaccia nuovamente.

Alcesti incarna un modello di stile di vita profondamente attuale, una donna determinata, assertiva e che sa assumersi la responsabilità di una scelta. È un personaggio completamente positivo, ammirato e compianto ancora prima che muoia e che sa custodire la sua sfera femminile, della quale una donna non dovrebbe mai privarsi.

Davanti a lei Admeto, che risulta un uomo comune e francamente inconsistente, ascolta e ripete meccanicamente formule di adorazione, che hanno il sapore di un rimpianto per uno status più che per una persona.

Ci sei sempre stata solo tu per me e sarai per sempre la mia unica donna. Nessun’altra ragazza Tessala prenderà il tuo posto: nessuna ha stirpe così nobile e nessuna è così bella. E non voglio altri figli, prego gli dèi perché almeno loro possano darmi gioia. Porterò il tuo lutto per un anno, ma finché sarò vivo, odierò mia madre e mio padre che mi volevano bene solo a parole. Tu per la mia vita hai dato quello che avevi di più caro, e mi hai salvato. Come posso non piangere, perdendo una moglie come te. […] Senza di te non ci sarà più gioia nella mia vita. Farò scolpire da un grande artista una statua identica a te, la farò mettere sul mio letto, la abbraccerò e la chiamerò con il tuo nome, mi sembrerà di avere tra le braccia la mia donna: è una gioia fredda, lo so, ma capace di alleviare il peso dell’anima e tu verrai nei miei sogni a consolarmi [vv. 328-55].

Lentamente il re scivola nella paura del vuoto affettivo che lo attende ed Euripide la sa evocare e raccontare immaginando ai piedi del letto una statua che abbia le sembianze della regina. L’idea non è nuova, ma nuova è la tensione emotiva con cui Admeto dice «è una gioia fredda, lo so, ma capace di alleviare il peso dell’anima». No, caro Admeto, il freddo non allevia, il freddo raggrinzisce l’anima. Ma ormai pare tardi, è lo stesso re a rendersene conto. Dopo che lui e sua moglie si sono detti tutto quello che il momento consentiva, Admeto conclude rivolto ad Alcesti: «Neanche da morto voglio essere separato da te, l’unica persona che mi sia stata fedele [v. 368]».

Admeto ha colto nel segno, fedele è un valore che ci misura e porta con sé la promessa di curare un figlio, un amore, un amico, un genitore, la parola data. Il termine fedele custodisce l’antica radice indoeuropea della fedeltà, bheidh, che si è modificata e ancorata nella fides latina e nella fiducia italiana. La sorgente della fedeltà è dunque la fiducia. Ma, come sempre, i Greci ci danno molto di più, la loro πίστις (pístis), la loro fiducia, si sposa con qualcosa che impareremo a frequentare in queste pagine: la persuasione. Nel modo greco di percepire il mondo, la fiducia è legata a doppio filo con la persuasione, e questa corrispondenza d’amorosi sensi la realizza in modo sorprendente nel paradigma del verbo πείθω (péitho), una «poesia grammaticale»: il verbo persuadere al tempo presente racconta un’azione che sta avvenendo sotto i nostri occhi, mentre al tempo perfetto ne afferra ed esprime le conseguenze sulla nostra mente. Io desidero persuaderti a credere in me, ora, con le mie parole e con il mio esempio, e tu, che mi ascolti e mi osservi, arrivi ad avere fiducia in me.

La stessa persuasione, che per noi oggi ha un retrogusto negativo di manipolazione, per un uomo greco era un prodigio dell’anima, il piacere di affidarsi a una carezza o la dolcezza di aprire le proprie braccia come fossero un porto sicuro.

Alcesti è persuasiva perché è fedele e coerente con se stessa. Persuade Admeto con l’esempio del suo sacrificio e diventa a sua volta un esempio di fedeltà.

Si parla di una fedeltà che va ben oltre l’aspetto erotico o sentimentale. Alcesti è una donna capace di morire per amore della sua famiglia. È una donna che si confronta con una scala di valori tradizionali per misurare la propria personalità. È la sfida di ciascuno, quella di stringere un patto di fiducia tra sé e le proprie aspirazioni.

La letteratura sa farci di questi regali: mostrarci le sfaccettature dell’essere umano, farci entrare nei panni altrui per arrivare a noi.

Qui verrebbe da dire: nulla die sine linea, non lasciar trascorrere nessun giorno senza descrivere una linea e senza lasciar traccia di sé. È l’esercizio quotidiano più utile per i traguardi interiori, e avere una linea che si dipani e cresca insieme a lei è l’essenza di Alcesti. La sua linea è orientata verso la fedeltà, una forma d’amore che traccia un’impronta in lei stessa e nel suo mondo di affetti.

La medesima linea non è tracciata nella vita di Admeto. Più avanti nello svolgimento della narrazione, quando sarà solo con il suo dolore, pronuncerà due parole che segnano, però, una svolta nel personaggio: ἄρτι μανθάνω (árti mantháno), ora capisco!

Admeto capisce, capisce che la sorte di Alcesti è migliore della sua perché lei ha scelto, cioè ha compiuto un atto di fedeltà a se stessa, e finalmente non prova più alcun dolore. Se prima il re era inconsolabile per aver perduto la moglie, ora è disperato per aver perduto anche l’onore. Euripide sceglie di usare, e non a caso, il verbo manthano da cui deriva la parola matematica.

«Cosa c’entra» mi direte voi «Admeto con la matematica?»

Per i contemporanei di Euripide la parola matematica evocava sia Euclide sia Aristotele. Che si trattasse di teoremi o di idee, la matematica era sinonimo di un rigoroso metodo deduttivo attraverso cui leggere e capire la realtà, e aveva la forza dell’illuminazione razionale. Admeto dunque capisce sulla sua pelle, attraverso l’esperienza del dolore di una vita improvvisamente vuota. Capisce quando ormai è tardi, come spesso accade nella vita di ogni giorno.

La conversione non riabilita completamente Admeto ai nostri occhi. Ma ci aiuta a riflettere. L’amore vero, quello maturo, vuole il bene dell’altro. Presuppone rinunce, naturali compromessi, sofferenza e magari delusioni. Ma presuppone anche il rispetto. Re-spectus è il gesto generoso di sapersi fermare e guardare chi si ama con calma e riflessione. Il suo contrario è la noncuranza, quel vizio che ci fa essere ciechi e non curiosi dell’altro. Rispetto è saper dedicare tempo a capire le esigenze dell’altro, vederlo, accettarlo com’è e farlo vivere. Capire quale sia la sua linea. Il rispetto implica altruismo e non vuole certo il sacrificio altrui. Che sia di natura psicologica o fisica, l’annullamento di sé non è una prova di amore, è una forma di violenza, spesso un tentativo di minare profondamente l’indipendenza e la libertà di scelta. La gamma è ampia, dalla violenza verbale al femminicidio. Ogni donna sulla terra dovrebbe esserne sempre consapevole. Tutte possiamo, proprio come Alcesti, costruire una vita con una linea da seguire, la nostra, sempre fedeli a noi stesse. Non tutte possiamo avere la fortuna di trovare un galantuomo come Euripide che possa donarci una seconda vita.

La tragedia si rivela infatti una storia a lieto fine, decisamente inusuale nella tradizione greca, e Alcesti tornerà alla vita grazie all’intervento di Eracle.

L’eroe ospite di Admeto viene indirettamente a conoscenza della tragica fine della regina. Eracle decide allora di sua iniziativa di strappare Alcesti a Thanatos, il demone della morte, e di riportarla al marito. Prima però mette alla prova il re: fa entrare in casa Alcesti coperta da un velo, fingendo che si tratti di un’altra donna. Admeto, non volendo nemmeno guardare la donna velata che tanto gli ricorda la moglie morta, supera la prova di fedeltà. Eracle gli restituisce la sposa, che dovrà rispettare un periodo di silenzio prima di tornare nel mondo dei vivvivi

Arrivati a questo punto, chi avrà la curiosità di leggere la tragedia di Euripide scoprirà un Eracle comico: l’eroe delle dodici fatiche è ora un impunito mangione e ubriacone.

Da quando frequento i classici, mentre li leggo o li spiego, mi sono fatta l’idea che sarebbe interessante andare contro la disapprovazione greca che lo vietava alle donne e bere un bicchiere di vino di Lemno con Eschilo, per conoscerlo e rompere il ghiaccio con un uomo all’apparenza molto austero.

Con Sofocle preferirei una cena, subendo il fascino della sua conversazione filosofica.

Con Euripide vorrei però passare una giornata intera. Sarei curiosa di osservarlo nella sua quotidianità mentre passeggia nell’agorà, incontra persone, conversa. Sarei curiosa di veder nascere i suoi pensieri, mentre scrive nella sua famosa biblioteca, in compagnia dei suoi silenzi malinconici. Vorrei potergli dire che il tempo farà di lui uno dei poeti più amati e imitati dell’antichità. La sua innata capacità di annullare le distanze temporali ci farà rispecchiare nei suoi personaggi anche quando del teatro di Atene non restano che dei ruderi. Gli svelerei che presto, oltre ad Alcesti, inventerà una Medea e una Fedra come mai le avremo lette, indimenticabili nella forza della loro passione

I temi delle tragedie greche – la paura e la bellezza, l’amore e la solitudine, la guerra e la tenerezza – sono lì per noi.

Mai indici minacciosi, sempre mani tese come quelle di un padre che sa darci il calore di un gesto gratuito, forte e inaspettato.

Pulsano, pronti a farci sentire vivi, compresi e confortati: Alcesti, Admeto, Eracle, Elena, Edipo sono uomini e donne. Come noi. Cambiano cornice storica e conquiste culturali, mai debolezze e grandezze.

È il bello delle letture salutari, leggerle è ritrovarsi un’anima antica al nostro fianco.

È salutare la lettura che scatena le vertigini dentro di noi e poi non ci abbandona in balia delle nostre emozioni, al contrario ci offre il paracadute di un pensiero che indica una strada, bella quanto inattesa.

Nell’Alcesti a farci bene è indubbiamente il lieto fine, ma soprattutto la certezza che allinearsi con i nostri sentimenti più profondi è una ricetta di rinascita. L’amore è il sentimento che ci infonde coraggio, ma è anche un rischio, è imprevedibile e con un alto tasso di incognite. Alcesti lo sa e scommette sull’amore, lascia andare l’attaccamento egoistico, anche se questo le costa fatica e dolore. Sembra perdere tutto ciò che ha di più caro, invece torna a vivere, in modo inatteso. Proprio quando sceglie di perdere, vince. È la formula della Serendipity, l’inatteso che arriva e ci sorprende, come un premio al quale abbiamo tanto anelato.

Molte sono le forme del divino e molte cose gli dèi realizzano in modo insperato. E quello che si aspetta non si verifica, le cose inaspettate il dio trova un modo per realizzarle.

Le parole finali del coro ci lasciano con una carezza, ricordandoci che non siamo soli, mai.

Una mia ex alunna, ora splendida donna adulta, porta tatuato sulla sua pelle un verso greco: κῆν᾽ ὄττω τις ἔραται, ciò che ciascuno ama.

In questo caso il verso è di Saffo, nata due secoli prima di Euripide, ma il valore della scoperta è il medesimo: c’è chi crede che nella vita la cosa più importante siano gli eserciti o l’onore in guerra. Per me lo è ciò che ciascuno ama.

Ricordo bene il giorno in cui, dopo gli esami di maturità, Margherita è venuta a trovarmi con il suo verso scritto su un pezzo di carta per farmi controllare grafia, spiriti e accenti. Non avevo idea che quelle parole sarebbero poi passate sulla sua pelle.

Quando l’ho scoperto ho sorriso pensando a quanto sia vero che nelle nostre vene scorre lo spirito dei paesaggi in cui siamo nati. Margherita è nata nello Sri Lanka, un tempo Serendip, l’antico nome persiano della sua isola, e porta con sé, come i tre figli del re di Serendippo, il dono naturale di trovare la felicità quando meno la cerchi, proprio come la Serendipity di Euripide.

PERCORSO DI BENESSERE CONSIGLIATO

Le tragedie greche andrebbero lette ad alta voce, e potreste immaginare di invitare alcuni amici a casa e leggere a turno una parte. Esagero, e consiglio addirittura di far recitare la parte di Alcesti a un uomo e quella di Admeto a una donna.

martedì 18 aprile 2023

FULGIDA STELLA John Keats,

 


FULGIDA STELLA
John Keats, 

"Fulgida stella" esprime il desiderio di un amore eterno come gli astri. Era Fanny Brawne, la “fulgida stella” che ispirò il poeta John Keats.
Che meraviglia gli astri che brillano in cielo, fissi a vegliare sul mondo e su di noi.


“Fulgida stella, come tu lo sei
fermo foss’io, però non in solingo
splendore alto sospeso nella notte
con rimosse le palpebre in eterno”.


Distante, luminosa, immobile, lontana dai mutamenti dell’uomo e del mondo, la stella cantata da John Keats ci osserva solitaria.
In questa poesia, infatti, la stella è metafora dell’eterno, della fissità e della costanza che Keats, così come qualsiasi innamorato, desidererebbe nella sua relazione.

“Fulgida stella” 

John Keats

“Fulgida stella, come tu lo sei
fermo foss’io, però non in solingo
splendore alto sospeso nella notte
con rimosse le palpebre in eterno
a sorvegliare come paziente
ed insonne Romito di natura
le mobili acque in loro puro ufficio
sacerdotale di lavacro intorno
ai lidi umani della terra, oppure
guardar la molle maschera di neve
quando appena coprì monti e pianure.

No, – eppure sempre fermo, sempre senza
mutamento sul vago seno in fiore
dell’amor mio, come guanciale; sempre
sentirne il su e giù soave d’onda, sempre
desto in un dolce eccitamento
a udire sempre sempre il suo respiro
attenuato, e così viver sempre,
– o se no, venir meno nella morte”.

Bright star”
John Keats


Distant, bright, motionless, far from the changes of man and of the world, the star sung by John Keats observes us alone.
In this poem, in fact, the star is a metaphor for the eternal, for the fixity and constancy that Keats, as well as any lover, would desire in his relationship.

“Bright star”

“Bright star, would I were stedfast as thou art—
Not in lone splendour hung aloft the night
And watching, with eternal lids apart,
Like nature’s patient, sleepless Eremite,
The moving waters at their priestlike task
Of pure ablution round earth’s human shores,
Or gazing on the new soft-fallen mask
Of snow upon the mountains and the moors—

No—yet still stedfast, still unchangeable,
Pillow’d upon my fair love’s ripening breast,
To feel for ever its soft fall and swell,
Awake for ever in a sweet unrest,
Still, still to hear her tender-taken breath,
And so live ever—or else swoon to death”.

mercoledì 12 aprile 2023

Franz Kafka al parco e la bambola viaggiatrice

 

Franz Kafka al parco e la bambola viaggiatrice

"ogni cosa che ami è molto probabile che la perderai, però alla fine l’amore si muterà in una forma diversa"

Steglitz 1900 Gasthaus Schlosspark Knollmeier
Steglitz 1900 Gasthaus Schlosspark Knollmeier 

Un anno prima della sua morte, Franz Kafka visse un’esperienza insolita. Passeggiando per il parco Steglitz a Berlino incontrò una bambina, Elsi, che piangeva sconsolata: aveva perduto la sua bambola preferita, Brigida. Kafka si offrì di aiutarla a cercare e le diede appuntamento per il giorno seguente nello stesso giardino. Non essendo riuscito a trovare la bambola, Kafka scrisse una lettera, fingendo che fosse per Elsi da parte di Brigida. “Per favore non piangere, sono partita in viaggio per vedere il mondo, ti riscriverò raccontandoti le mie avventure…”, così cominciava la lettera.

Café Kurfürst, Steglitz, Schlossstrasse 54, Fernsprecher No. 555.

Per molti giorni, Kafka e la bambina si incontrarono; egli le leggeva queste lettere attentamente descrittive di avventure immaginarie della bambola amata. La bimba ne fu consolata e quando i loro incontri arrivarono alla fine Kafka le regalò una bambola. Era ovviamente diversa dalla bambola perduta; in un biglietto accluso spiegò: “I miei viaggi mi hanno cambiata”. Molti anni più avanti la ragazza cresciuta trovò un biglietto nascosto dentro la bambola ricevuta in dono. Diceva: “ogni cosa che ami è molto probabile che la perderai, però alla fine l’amore si muterà in una forma diversa" (Da “Kafka e la bambola viaggiatrice” di Jordi Sierra i Fabra)

Dalle memorie di Dora…


Kafka e la bambola che «voleva separarsi per qualche tempo dalla bambina»
di Dora Diamant (1898 – 1952)



[A raccontare questo episodio è Dora Diamant, nel libro “Quando Kafka mi venne incontro…” Ricordi di Franz Kafka, a cura di Hans-Gerd Koch” (edito da Nottetempo, 2007). Lettura appassionante per chi ama Kafka, la memorialistica e le «svolte del tutto inattese della sua fantasia», come scrive l’amico Max Brod. Attraverso le testimonianze dei compagni di scuola, dei colleghi di lavoro, delle governanti e delle donne che lo hanno conosciuto e amato, viene delineato il ritratto di «Questo gigante [che] si muoveva tra di noi come un nano» (ancora parole di Max Brod).
Franz Kafka e Dora Diamant si conobbero nell’estate del 1923 sul Mar Baltico]


“Quando eravamo a Berlino, Kafka andava spesso allo Steglitzer Park. Talvolta lo accompagnavo. Un giorno incontrammo una bambina, che piangeva e sembrava disperata. Le parlammo. Franz le chiese che cosa le fosse successo e venimmo a sapere che aveva perso la sua bambola. Subito lui si inventò una storia plausibile per spiegare la sparizione. “La tua bambola sta solo facendo un viaggio, io lo so, mi ha scritto una lettera”. La bambina era un po’ diffidente: “Ce l’hai con te?” “No, l’ho lasciata a casa, ma domani te la porto”. La bambina, incuriosita, aveva già quasi scordato le sue preoccupazioni, e Franz se ne tornò subito a casa, per scrivere la lettera.

Si mise al lavoro in tutta serietà, come si trattasse della creazione di un’opera. Era nella stessa condizione di tensione in cui si trovava non appena si sedeva alla scrivania o stava anche solo scrivendo a qualcuno. Tra l’altro, si trattava effettivamente di un vero lavoro, essenziale al pari degli altri, perché la bambina doveva assolutamente essere resa felice e preservata dalla delusione. La menzogna doveva dunque essere trasformata in verità attraverso la verità della finzione. Il giorno successivo portò la lettera alla bambina, che l’attendeva al parco. La bambola spiegava che ne aveva abbastanza di vivere sempre nella stessa famiglia ed esprimeva il desiderio di cambiare un po’ aria, in una parola, voleva separarsi per qualche tempo dalla bambina, cui per altro voleva molto bene. Prometteva tuttavia di scrivere ogni giorno – e Kafka scrisse effettivamente una lettera ogni giorno, raccontando di sempre nuove avventure, le quali, seguendo il particolare ritmo vitale delle bambole, si snodavano in modo rapidissimo. Dopo alcuni giorni la bimba aveva scordato la perdita reale del suo giocattolo e pensava solo e semplicemente alla finzione che le era stata offerta come sostituto. Franz scrisse ogni frase di quella sorta di romanzo in modo così accurato e pieno d’umorismo che la situazione della bambola risultava perfettamente comprensibile: era cresciuta, era andata a scuola, aveva conosciuto altre persone. Rassicurava sempre la bimba del suo amore, ma alludeva anche a complicazioni della sua vita, ad altri doveri e altri interessi che, al momento, non le permettevano di riprendere la vita in comune. La piccola veniva pregata di riflettere sulla cosa e veniva così preparata all’inevitabile rinuncia.

Il gioco durò come minimo tre settimane. Franz aveva una paura terribile al pensiero di come avrebbe potuto finire il tutto. Perché la fine doveva essere una vera fine, vale a dire che doveva consentire all’ordine di sostituire il disordine causato dalla perdita del giocattolo. Cercò a lungo e decise alla fine di far sposare la bambola. Descrisse dapprima il futuro marito, la festa di fidanzamento, i preparativi del matrimonio, poi in ogni dettaglio la casa dei giovani sposi: “Vedi tu stessa che dovremo rinunciare a rivederci in futuro”. Franz aveva risolto il piccolo conflitto di un bambino attraverso l’arte, attraverso il mezzo più efficace di cui disponeva personalmente per riportare ordine nel mondo

Paul Auster nel libro Follie di Brooklyn racconta questo fatto così.

“Secondo la testimonianza di Dora scriveva ogni frase con una cura maniacale del dettaglio, e la sua prosa era precisa, spiritosa e avvincente. In parole povere, era la prosa di Kafka, e lui per tre settimane andò tutti i giorni al parco e scrisse ogni volta una nuova lettera alla bambina. La bambola diventa grande, va a scuola, conosce altre persone. Continua a ripetere alla bambina che le vuole bene, ma allude a certe complicazioni che le rendono impossibile il ritorno. A poco a poco Kafka prepara la bambina per il momento in cui la bambola sparirà dalla sua vita per sempre. Si spreme per creare un finale soddisfacente temendo che se non lo troverà si possa rompere l’incantesimo. Dopo aver vagliato alcune ipotesi, alla fine decise di far sposare la bambola. Descrive il giovanotto di cui lei si innamora, la festa di fidanzamento, le nozze in campagna, perfino la casa dove ora abitano la bambola e suo marito. E poi, nell’ultima riga, la bambola dice addio alla sua vecchia e affezionata amica.

Ma a questo punto naturalmente la bambina non sente più la mancanza della bambola. Kafka le ha dato in cambio qualcos’altro, e alla fine delle tre settimane le lettere l’hanno guarita dal suo cruccio. Lei ha la storia, e quando una persona è abbastanza fortunata da vivere all’interno di una storia, da vivere in un mondo immaginario, i dolori di questo mondo svaniscono. Perché fino a quando la storia continua, la realtà non esiste più”.

Steglitz-Cafe-Kurfürst
                               Steglitz Café 
Steglitz 1900 Stubenrauchplatz
Steglitz da una cartolina del 1900, Stubenrauchplatz

venerdì 7 aprile 2023

I RAGAZZI DELLA 56a STRADA Susan Eloise Hinton



I RAGAZZI DELLA 56a STRADA

Susan Eloise Hinton

Ambientata nel 1965, la storia si svolge a New York, in un quartiere povero dell’East-side. Il protagonista, Ponyboy, fa parte del gruppo dei ‘greasers’ (gli imbrillantinati), in ‘lotta’ con i ‘Soc’, ragazzi ricchi del West-side. Nell’alienante scenario delle periferie urbane, questi ‘selvaggi’ del nostro tempo si affrontano in risse senza quartiere nelle quali sfogare la loro carica di insoddisfazione. La tragedia è in agguato ad ogni passo e una sera, per una questione di donne, esploderà con incredibile violenza…

I RAGAZZI DELLA 56a STRADA diventa il film di Francis Ford Coppola che è uscito il 25 marzo 1983. Rimane ancora oggi uno dei più struggenti e attuali racconti di formazione di tutti i tempiI ragazzi della 56ª strada arrivò in sala con grandi atteseda parte di tutti, perché connesso ad un romanzo tra i più amati dal pubblico. Eravamo nei ruggenti anni '60e l'autrice Susan Eloise Hinton, traendo ispirazione dalla sua quotidianità, a soli 17 anni pubblicò il romanzo “The Outsiders”, che conobbe nel giro di poco tempo un successo travolgente. Jo Ellen Misakian, una bibliotecaria scolastica di Fresno, in California, aveva capito quanto il libro fosse ancora popolare e considerato una delle storie più popolari dai giovani lettori. Fu lei a mandare direttamente a Coppola, nella sua casa a New York, una lettera, dove spiegava perché il libro potesse diventare un film di grande successoe naturalmente una copia dello stesso.

I protagonisti sono interpretati da Tom Cruise, Rob Lowe, Thomas Howell, Ralph Macchio, Matt Dillon, Emilio Estevez e Patrick Swayze.


I RAGAZZI DELLA 56a STRADA

I


QUANDO dal buio del cinema sbucai nel sole della strada, avevo in mente due cose: Paul Newman e la scarpinata fino a casa. Che bello sarebbe assomigliare a Paul Newman: lui sembra un duro, io no. Ma brutto non credo di esserlo. Ho i capelli castani chiari che danno un po’ sul rosso, e gli occhi grigi-verdastri. Preferirei grigi del tutto, perché quasi tutti quelli che hanno gli occhi verdi ho notato che mi stanno sulle palle, ma uno deve accontentarsi degli occhi che ha. Porto i capelli lunghi, più lunghi degli altri ragazzi, pettinati all’indietro, ma col ciuffo e la brillantina. Nel mio quartiere dal barbiere non si va: poi, sto meglio coi capelli lunghi.


È una bella scarpinata, da solo, fino a casa mia. Mi va di andare al cinema da solo, però. Mi lascio andare, vivo il film con gli attori. Invece se c’è qualcun altro mi gira-no le palle come quando uno si mette a leggermi il libro da dietro le spalle. Per modo di dire, eh, perché è una cosa che non mi capita mica quella lì. Soda, mio fratello (quello di mezzo, che ha sedici anni, quasi diciassette) non c’è pericolo che legge un libro, e Darrel, il più grande, che chiamiamo Darry, lavora troppo per aver voglia di leggere o anche di vedere un film. Io sono diverso. Non c’è nessuno, nella nostra banda, che gli piace leggere o andare al cinema come a me. Perciò, per un po’, ho creduto di essere una specie unica al mondo, così ecco che ci vado sempre da solo.


Be’, Soda almeno ci prova, a capirmi, il che è più di quello che fa Darry. Anche Soda, però, è uno diverso da tutti gli altri. Capisce tutto, o quasi. Non mi urla continuamente dietro come fa Darry, non mi tratta come se ho sei anni invece che quattordici. A Soda voglio più bene che a tutti gli altri, anche più di quanto ne volevo a mamma e papà. È sempre allegro e ride, mentre Darry è serio, ostinato, duro, e al massimo ghigna. Darry ha vent’anni e nella vita ne ha passate troppe, ha dovuto per forza crescere in fretta. Sodapop, invece, non crescerà mai. Non so cos’è che è meglio. Uno di questi giorni magari lo scopro e ve lo so dire.


Va be’, ero lì che scarpinavo, pensando al film, e mi scocciava che non c’era nessuno insieme a me. Noialtri se andiamo in giro da soli prima o poi ci pestano, o se no vengono lì a dirti: «Capellone! Greaser! Zazzera!» cosa che fa girar le palle. Più che altro, ci pestano i cari Soc, la banda dei granosi del jet-set che abitano nel West Side.


Noi invece siamo quelli con le tasche vuote che stiamo giù nell’East Side, il lato sbagliato di questa metropoli, ah, ah!


Noi non abbiamo il grano come i Soc, e neanche come la classe media. Siamo anche più cattivelli, direi. Mai, però, come i Soc, i signorini, i fichetti, che aggrediscono noi Greaser, distruggono condomini, s’inciuccano di birra, e compaiono tutti i giorni sul giornale, oggi come colonne della società e domani come pericoli pubblici. Noialtri siamo sempre teppa. Rubiamo, no? rapiniamo qualche benzinaio quando ci capita la macchina giusta, e ogni tanto facciamo una bella battaglia fra bande. Io no, inten-diamoci, Darry mi scotenna se mi metto nei guai con gli sbirri. Da quando i miei sono morti in un incidente d’auto, noi tre ci lasciano stare insieme solo se filiamo dritto.


Così io e Soda cerchiamo di stare alla larga dai guai, o almeno di non farci beccare.


Volevo soltanto dire che generalmente la maggior parte dei cosiddetti Greaser fa cose del genere, proprio come porta i capelli lunghi, veste magliette e blue-jeans, lascia la camicia fuori dei calzoni, e va in giro col giubbotto di cuoio, le scarpe da tennis o gli stivaletti. Non dico mica che noi siamo meglio dei signorini, o viceversa: dico solo che le cose stanno così.


Potevo anche aspettare ad andare al cinema che tornavano dal lavoro Darry e Sodapop. Magari venivano con me, o mi portavano in macchina, anche se Soda non ce la fa proprio a stare seduto in un posto due ore e Darry al cinema si rompe da morire.


Dice che ne ha già abbastanza della sua, di vita, senza curiosare in quella degli altri.


Potevo farmi accompagnare da qualche altro dei nostri: uno qualsiasi dei quattro ragazzi con cui io, Darry e Soda siamo cresciuti, e che consideriamo della famiglia. Si diventa quasi come fratelli, quando si cresce in un quartiere come il nostro e ci si conosce molto, ma molto bene. Se mi veniva in mente potevo telefonare a Darry di passare a prendermi nel tornare a casa, o a Vaccate Mathews che ha la macchina ed è della banda. Ma qualche volta mi succede di non adoperare il cervello. Quando mi capita, mio fratello Darry dà fuori di matto, perché passo per essere un tipo piuttosto intelligente. A scuola becco dei bei voti, ho il QI alto e tutto, ma non uso la testa. Va be’, mi va di camminare, no?


Ma quando vidi la Corvair rossa che mi veniva dietro cambiai subito idea. Ormai ero a due isolati da casa, così mi misi ad andare un po’ più forte. Io non ero mai stato aggredito, ma avevo visto Johnny dopo che quattro Soc gliele avevano date, e non era mica un bello spettacolo. Da quella volta, Johnny aveva paura anche della sua ombra.


Adesso aveva sedici anni, Johnny.


Sapevo però che non serviva a niente camminare più in fretta. La Corvair si fermò davanti a me e ne uscirono cinque Soc. Che paura! Io sono un po’ piccolo per quattordici anni, anche se robusto, e quei ragazzi erano molto più grossi di me. Infilai au-tomaticamente i pollici nella cintura dei jeans e mi diedi un contegno, chiedendomi se avevo qualche possibilità di cavarmela se mi mettevo subito a correre. Mi ricordavo Johnny con la faccia tutta piena di lividi e tagli, e di come piangeva quando lo trovammo semisvenuto nel vicolo. E sì che Johnny alle botte era abituato in casa, ce ne voleva per farlo piangere.


Sudavo da matti anche se avevo freddo. Sentivo le palme delle mani farsi madide, e rivoli di sudore scorrermi giù per la schiena. Questo mi capita quando sono davvero terrorizzato. Mi guardai intorno in cerca di una bottiglia di qualche bibita, un bastone o simili – una volta Steve Randle, il miglior amico di Soda, aveva tenuto a bada quattro tipi con una bottiglia spezzata – ma non c’era proprio niente. Così me ne restai lì fermo come un pollo mentre loro mi circondavano. Non adopero la testa. Mi girarono attorno camminando piano piano, in silenzio, sorridendo.


«Ehi, zazzera», disse uno con voce fin troppo amichevole. «Adesso noi ti facciamo un favore, ti tagliamo tutti quei capelli unti.»


Aveva su una camicia di cotone stampato. Ce l’ho ancora davanti agli occhi. Una camicia di cotone stampato blu. Uno di loro rise, e si mise a insultarmi a bassa voce.


Non mi veniva in mente niente da dire. Non c’è molto da dire, in attesa che ti pestino, così tenni la bocca chiusa.


«Hai bisogno di un bel taglio di capelli, Greaser!» Il biondo di taglia media tirò fuori della tasca posteriore un coltello e fece scattare la lama.


Mi venne in mente finalmente qualcosa, e dissi: «No». Arretrai per allontanarmi dal coltello. Ovviamente finii contro un altro di loro. Mi buttarono per terra in un secondo. Mi torsero braccia e gambe, dopo di che uno mi si sedette sul torace, mettendomi le ginocchia sui gomiti, e se credete che non fa male siete matti. Sentivo il suo odore di tabacco e acqua di colonia, e stupidamente mi domandai se sarei morto asfissiato prima che mi facessero male. Avevo così tanta paura che sperai di sì. Cercai di liberarmi lottando, e quasi ce la feci per un attimo; ma si strinsero su di me, e quello seduto sopra mi tirò due cazzotti. Così la smisi e presi a insultarli, ansimando. Mi puntarono una lama alla gola.


«Ti va se il taglio di capelli comincia da qua?» Mi venne in mente che potevano ammazzarmi. Allora mi scatenai, cominciai a gridare chiamando Soda, Darry, tutti.


Qualcuno mi mise una mano sulla bocca, e io lo morsicai più forte che potevo, sentendo il sangue scorrermi fra i denti. Udii un’imprecazione soffocata e mi beccai degli altri cazzotti, mentre mi infilavano un fazzoletto appallottolato in bocca. Uno di loro continuava a ripetere: «Fatelo star zitto, porco zio, fatelo star zitto!»


Poi udii delle grida, uno scalpiccio, e i signorini si alzarono di scatto e mi lasciaro-no steso là, ad ansimare. Ero per terra e mi chiedevo cosa diavolo stava succedendo –


da tutte le parti arrivava gente che mi scavalcava di corsa perché ero troppo intontito per rendermene conto bene. Quindi uno mi sollevò per le ascelle e mi rimise in piedi.


Era Darry.


«Tutto a posto, Ponyboy?»


Mi scrollava, almeno la piantasse in fretta! Ero già abbastanza scosso. Non capivo molto: riconobbi Darry in parte dalla voce, e in parte perché era sempre molto rude con me anche senza farlo apposta.


«Sto bene. Piantala di scrollarmi, Darry, sto bene.»


La piantò subito. «Mi spiace.»


Balle. Darry non si pentiva mai di quello che faceva. Era da ridere quanto somigliava a papà, e come si comportava sempre all’incontrano. Papà aveva solo quarant’anni quando morì, ma ne dimostrava venticinque, e c’era un sacco di gente convinta che erano fratelli invece che padre e figlio. Ma si somigliavano soltanto fisicamente.


Mio padre non era mai rude con nessuno senza volerlo.


Darry è molto alto, ha le spalle larghissime e un sacco di muscoli. Ha i capelli castani scuri col ciuffo, sempre arruffati dietro come papà, ma gli occhi sono diversi.


Sembrano due pezzetti di ghiaccio turchese. Hanno un’aria molto decisa, come del resto tutto in lui. Dimostra più anni dei venti che ha, è un dritto, molto calmo e molto duro. Sarebbe veramente bello se non avesse occhi così gelidi. Non capisce altro che i fatti nudi e crudi. Ma usa la testa, lui.


Mi rimisi a sedere per terra, massaggiandomi le guance dove avevo preso i cazzotti peggiori.


Darry si mise le mani in tasca. «Non è che ti hanno fatto molto male, eh?»


Invece sì. Ero tutto pesto, col torace che pulsava e doleva. Ero così nervoso che mi tremavano le mani e avevo


voglia di mettermi a piangere, ma è una cosa che non si dice a Darry. «Sto bene.»


Sodapop arrivò a spron battuto. Dal rumore, mi era sembrato che tutta la banda fosse accorsa in mio aiuto. Si sedette vicino a me e si mise a ispezionarmi la testa.


«Ti hanno tagliuzzato, eh, Ponyboy?» Lo guardai senza capire. «Ma va’?» Tirò fuori il fazzoletto, lo inumidì con la lingua, e me lo appoggiò sul lato della testa. «Stai sanguinando come un maiale al macello.» «Ma va’?»


«Guarda!» Mi fece vedere il fazzoletto, che era diventato tutto rosso come per ma-gia. «Ti hanno aggredito con un coltello?»


Ricordai la voce: « Hai bisogno di un bel taglio di capelli, Greaser! » Doveva esser-gli scappata la lama mentre cercavano di farmi star zitto. «Eh già.»


Soda è il più bello dei ragazzi che conosco. Non come Darry: Soda sembra un attore del cinema, è di quelli che la gente si ferma per strada a guardare. Non è alto come Darry, ed è più magro, ma ha una faccia dai lineamenti fini e sensibili, che riesce in qualche modo a essere ardita e pensosa nello stesso tempo. Ha i capelli biondi scuri che pettina all’indietro – lunghi, lisci e come di seta – e d’estate il sole li schiarisce e li fa sembrar d’oro, o color del grano. Ha gli occhi bruni, scuri, vivi, mobili, arditi e ridenti, che ora possono essere dolci e un attimo dopo duri. Sono gli occhi di papà, ma Soda è unico. Se c’è una corsa di macchine truccate, o si va a ballare, Soda si ubriaca senza toccare un dito di alcool. Nel nostro quartiere è raro uno che non beve.


Ma Soda non beve mai, non ne ha bisogno. Si gasa naturalmente, vivendo. E capisce tutti quanti.


Mi guardò più da vicino. Distolsi gli occhi in fretta perché, se volete sapere la verità, stavo cominciando a piangere. Sapevo di essere pallido come un cencio, e di tremare come una foglia.


Soda mi mise la mano sulla spalla. «Sta’ tranquillo, Ponyboy. Ormai non ti faranno più niente.»


«Lo so», dissi, ma la vista del marciapiede mi si confuse e gli occhi presero a river-sarmi calde lacrime sulle guance. Le asciugai, arrabbiato. «È solo un po’ li tristezza, ecco tutto.» Feci un profondo sospiro e smisi di piangere. Non si piange davanti a Darry. A meno di non essere conciati come Johnny quella volta nel vicolo deserto. In confronto a Johnny, a me non avevano fatto niente.


Soda mi accarezzò sulla testa. «Sei un duro, Ponyboy.» Scoppiai a ridere. Soda sa sempre farti ghignare. Credo sia perché ride sempre anche lui. «Sei matto, Soda, sei fuori di testa.»


Darry ci guardava come se avesse voglia di farci sbattere insieme la zucca. «Siete matti tutti e due.»


Soda si limitò ad alzare un sopracciglio, un trucco che aveva imparato da Vaccate.


«È un difetto di famiglia.» Darry lo fissò un momento, poi si mise a ridere. Sodapop è l’unico che non ha paura di lui, e si diverte a sfotterlo. Io mi metterei piuttosto a sfot-tere un orso, ma, per qualche misteriosa ragione, a Darry piace essere sfottuto da Soda.


La nostra banda aveva inseguito i signorini fino alla macchina, prendendoli a sas-sate. Ora, eccoli di ritorno: quattro tipi veramente duri. Ne avevano anche l’aria. Ero cresciuto insieme a loro, e mi accettavano, anche se ero più piccolo, perché ero il fratellino di Darry e Soda e sapevo star zitto.


Steve Randle aveva diciassette anni, era alto e magro, coi capelli fitti e unti che pettinava a riccioli complicati. Era un dritto, un bullo, e il migliore amico di Soda fin dai tempi delle elementari. La sua specialità erano le macchine. Smontava una ruota in due secondi, con la massima tranquillità, meglio di chiunque altro nel vicinato: conosceva le auto fino all’ultimo bullone e sapeva guidarle tutte. Lui e Soda lavoravano dallo stesso benzinaio – Steve part-time, e Soda a tempo pieno – e la loro stazione di servizio era quella che aveva più clienti di tutte le altre in città. Non saprei dirvi se era perché Steve se ne intendeva così tanto di macchine, o perché Soda attirava le ragazze come le mosche il miele. A me Steve piaceva un po’ solo perché era il migliore amico di Soda. Io non gli ero simpatico: mi giudicava un rompiballe e un ragazzino, e non era con tento che Soda mi portasse sempre con loro quando non c’erano ragazze.


Non era mica colpa mia, era Soda che mi portava, io non gli chiedevo niente. Non sono un ragazzino per Soda.


Vaccate Mathews era il più vecchio della banda e lo spiritoso della compagnia. Era alto e grosso e molto orgoglioso delle sue lunghe basette rossicce. Aveva gli occhi grigi e un largo sorriso, e non era capace di tenersi dentro una battuta neanche per sal-varsi la vita. Farlo star zitto era impossibile: doveva sempre dir la sua vaccata, da cui il soprannome. Anche i suoi professori si erano dimenticati che si chiamava Keith, e noi ce lo ricordavamo appena. La vita era tutta una barzelletta per Vaccate Mathews.


Era un abilissimo taccheggiatore di negozi e supermarket: il suo coltello a serramanico dall’impugnatura nera, che si era procurato esercitando la sua specialità, era famo-so. Non faceva che prendere per il culo i poliziotti. Non riusciva a star zitto. Tutto quello che diceva era così irresistibilmente buffo che non doveva che metterne a parte i poliziotti per portare un raggio di sole e di allegria nelle loro torpide e ottuse vite (così diceva lui). Gli piacevano le risse, le bionde, e per qualche misteriosa ragione, andare a scuola. A diciott’anni era ancora in seconda e non imparava mai niente. Ci andava solo per divertimento. A me era molto simpatico perché ci faceva sempre ridere, di noi stessi e di tutto il resto. Mi ricordava Will Rogers, forse per il sorriso.


Ma se dovessi dire chi era il vero personaggio della banda, direi Dallas Winston, Dally. Quando era di cattivo umore, mi divertivo a fargli il ritratto perché allora riuscivo a schizzare la sua personalità con poche linee. Aveva una faccia da elfo, con gli zigomi alti e il mento a punta, piccoli denti aguzzi da animale, e orecchie di lince. I suoi capelli erano così biondi da sembrare bianchi. Non gli piaceva andare dal barbiere, né mettersi la brillantina, e neanche pettinarsi. I capelli gli ricadevano sulla fronte, sulla nuca e sulle orecchie in morbidi ricci. Aveva gli occhi azzurri e freddi, colmi d’odio per il mondo intero. Aveva passato tre anni nella parte più selvaggia di New York, ed era stato arrestato per la prima volta a dieci anni. Era il più duro di noi: più duro, più freddo, più cattivo. Quella sfumatura di differenza che ci separa dalla vera e propria teppa quasi svaniva in lui. Era scatenato come i ragazzi delle bande del centro, quella di Tim Shepard a esempio.


A New York, Dally faceva faville nelle battaglie fra bande, ma qua da noi le bande organizzate sono rare: più che altro sono piccoli gruppi di amici che stanno sempre insieme, e se c’è lotta si tratta di lotta di classe. Una sfida nasce in genere anche per risentimenti personali, i contendenti si limitano a chiamare qualche amico, e giù botte. Va be’, ci sono anche delle bande rinomate, come i River Kings e i Tiber Street Tigers, ma qui nel Southwest non c’è rivalità fra le bande. Così Dally, anche se ogni tanto aveva occasione di fare una bella rissa, non aveva uno specifico oggetto d’odio.


Non c’erano bande rivali. Solo i Soc. E non si può mai vincere contro di loro, neanche a mettercela tutta, perché loro hanno tutti i vantaggi e nemmeno a frustarli questo fatto può cambiare. Forse era per quello che Dally era così amaro.


Aveva una gran reputazione. Alla stazione di polizia, per esempio, hanno un dossier su di lui. Era stato arrestato diverse volte, si ubriacava, cavalcava al rodeo, menti-va, imbrogliava, rubava, buttava per terra gli ubriachi, picchiava i ragazzini… insomma faceva tutto. A me non piaceva, ma era un dritto e bisognava rispettarlo.


L’ultimo, in tutti i sensi, era Johnny Cade. Se riuscite a immaginarvi un bamboccio piccolo e nero che è stato preso troppe volte a calci ed è sperduto in una folla di estranei, quello è Johnny. Era il più giovane, oltre a me, e il più piccolo e smilzo di tutti.


Aveva dei grandi occhi neri in un volto scuro e abbronzato; i suoi capelli erano corvi-ni, pieni di brillantina e pettinati da una parte, ma così lunghi che gli ricadevano in ciuffi unti sugli occhi. Aveva uno sguardo nervoso e sospettoso, e la battuta che aveva preso dai signorini aveva peggiorato le cose. Era il cucciolo della banda, il fratellino di tutti. Suo padre non faceva che dargliele, e sua madre lo ignorava, tranne quando si arrabbiava con lui, e allora si sentivano le sue urla fino a casa nostra. Credo che preferisse le botte agli insulti di sua madre. Chissà quante volte sarebbe già scappato via, se non ci fossimo noi. Se non era per la banda, Johnny non avrebbe nemmeno saputo cos’è l’affetto e l’amicizia.


Mi asciugai rapidamente gli occhi. «Li avete beccati?» «No. Stavolta se la sono cavata, quei maledetti…» Vaccate cominciò allegramente a elargire ai signorini tutti i titoli del mondo. «E tu stai bene?»


«Bene, bene.» Pensai a qualcos’altro da dire. Sono piuttosto taciturno in mezzo agli altri, anche a quelli della mia banda. Cambiai argomento. «Non sapevo che eri già fuori, Dally.»


«Buona condotta. Sono uscito subito.» Dallas si accese una sigaretta e la passò a Johnny. Tutti quanti ci sedemmo per farci una fumata e rilassarci. Una bella fumata fa sempre diminuire la tensione. Anch’io avevo smesso di tremare e avevo ripreso il mio colorito. La sigaretta mi calmava. Vaccate alzò un sopracciglio. «Ma che bel livido che hai sulla guancia, ragazzino.»


Me la toccai con orgoglio. «Davvero?» Vaccate annuì con aria compiaciuta. «E anche un bel taglietto. Ti fa sembrare un duro.»


Duro e forte sono due parole chiave. Duro è quasi lo stesso che dritto; forte in più vuol dire tranquillo, controllato, giusto, e si può dire anche di una macchina o di un disco. Nel nostro quartiere sono i massimi complimenti.


Steve mi tirò addosso la cenere della sigaretta. «Cosa ti salta in mente di andartene in giro da solo?» «Stavo tornando dal cinema. Non credevo…» «Tu non credi mai, tu non pensi mai», mi interruppe Darry. «Mai, quando è importante usare la testa. Pensi soltanto a scuola, per prendere i bei voti da portare a casa, hai sempre il naso nei libri, ma quando si tratta di semplice buon senso, non ci arrivi. No, carino! Se proprio vuoi girare da solo, è meglio che ti porti dietro un coltello.»


Mi limitai a guardare il buco che ho sulla punta della scarpa da tennis. Io e Darry ci stiamo sulle palle. Non riesco mai a farlo contento. Se mi mettevo a girare col coltello chissà che culo che mi faceva. Se prendo otto, vuole che prendo nove. Se prendo nove dice che è un bel voto anche sette. Se vado a giocare al pallone dice che dovrei studiare, se sto studiando o peggio leggendo mi dice che dovrei uscire per andare a giocare al pallone. Non rompe mai le palle a Sodapop, neanche quando è stato bocciato a scuola: solo a me.


Soda lo fissò. «Lascia stare il mio fratellino, hai capito? Non è colpa sua se gli piace andare al cinema, e non è colpa sua se ai fichetti gli piace di pestarci, e se aveva il coltello era la scusa buona per tagliarlo a pezzettini.» Soda prende sempre le mie difese. Darry disse con impazienza: «Quando voglio che il mio fratellino mi dica cos’è che devo fare con l’altro mio fratellino, te lo chiedo, fratellino». Ma mi lasciò in pace.


Lo fa sempre, quando glielo dice Sodapop. Quasi sempre, almeno.


«La prossima volta fatti accompagnare da uno di noi, Ponyboy», disse Vaccate.


«Vedrai, chiunque verrebbe.» «Già che si parla di cinema», sbadigliò Dally, gettando lontano il mozzicone, «domani sera vado al Nightly Double. Qualcuno vuol venire a vedere se c’è qualcosa da cavarci?»


Steve scosse la testa. «Io e Soda andiamo alla partita con Evie e Sandy.»


Non aveva nemmeno bisogno di lanciarmi quell’occhiata, nel dirlo. Era chiaro che non gli avrei chiesto d’andare anch’io. Mai l’avrei detto a Soda, perché Steve gli è davvero simpatico, ma qualche volta io Steve Randle non riesco a sopportarlo. Dico davvero, qualche volta lo odio proprio.


Darry sospirò, come avevo previsto. Darry non aveva mai tempo di fare niente.


«Domani sera lavoro.»


Dally guardò gli altri. «E voi? Vaccate? Johnny bello, vuoi venire insieme a Pony?»


«Io e Johnny veniamo», dissi. Sapevo che Johnny non avrebbe aperto bocca nemmeno a costringerlo. «Va bene, Darry?»


«Sì, tanto il giorno dopo non c’è scuola.» Darry era buono a lasciarmi uscire, nei week-end. Gli altri giorni dovevo quasi stare in casa anche al pomeriggio.


«Stavo pensando di ubriacarmi, domani sera», disse Vaccate. «Ma, se cambio idea, vi raggiungo.»


Steve stava guardando la mano di Dally. L’anello che aveva portato via a un vecchio ubriaco era tornato al suo posto, all’anulare di Dally. «Hai di nuovo piantato Sylvia?»


«Sì, e stavolta per sempre. Quella troietta mi faceva le corna mentre ero dentro.»


Pensai a Sylvia, a Evie, a Sandy e alle tante ragazze di Vaccate. Erano le uniche che ci guardavano: ragazze dure sguaiate, che si truccavano fin troppo, non facevano che ridacchiare e parlavano sporco. A me piaceva la ragazza di Soda, Sandy, quella sì. Era una bionda naturale, e il suo sorriso era dolce, come i suoi occhi azzurri. Non aveva né una bella casa né niente, era come noi, ma era veramente una ragazza a posto. Un sacco di volte però mi chiedevo come potevano essere le altre ragazze, quelle che non si truccavano tanto gli occhi, che non mettevano la minigonna, e si compor-tavano come se avevano voglia di sputarci addosso alla prima occasione. Alcune avevano paura di noi, e se pensavo a Dallas Winston non potevo dargli torto. Ma la maggior parte ci guardavano come se eravamo solo spazzatura, ci lanciavano le stesse oc-chiate sprezzanti dei signorini quando, passando a bordo delle loro macchine, ci gri-davano dietro: «Capelloni!» Mi chiedevo com’erano quelle ragazze. Chissà se pian-gevano quando i loro ragazzi venivano arrestati, come Evie quando avevano beccato Steve, o li tradivano come aveva fatto Sylvia con Dallas. Magari però i loro ragazzi non venivano mai arrestati, o pestati dagli sbirri.


Stavo ancora pensandoci quando, a sera, mi misi a studiare. Per inglese, dovevo leggere Great Expectations; e quel ragazzo, Pip, mi sembrava proprio uno di noi…


perché si sentiva segnato, per il fatto che non era né un gentleman né niente, e quella ragazza lo guardava dall’alto in basso… Una volta era capitato anche a me. A una lezione di scienze, a scuola. Bisognava sezionare un verme, e siccome il bisturi non ta-gliava, distrattamente avevo tirato fuori il temperino. Non dovevo farlo: la ragazza vicino a me ha fatto uno strano verso soffocato, e poi ha detto: «Hanno proprio ragione, sei un delinquente». Come mi sono arrabbiato! In quella classe c’erano un sacco di Soc. Io finisco sempre nelle sezioni migliori, perché dicono che sono bravo a scuola.


Gli altri si misero a ridere, ma io no. Era un tipo strafottente quella ragazza. Era anche molto carina, con su quel vestito giallo.


Pensai che un sacco dei nostri guai ce li meritiamo. Dallas si merita tutte le fregature che gli capitano, e anche di più, se volete sapere la mia opinione. Quanto a Vaccate, anche lui, non ha bisogno né desiderio di metà delle cose che si diverte a rubac-chiare nei negozi. Gli piace fregare tutto quello che non è inchiodato per terra, ecco tutto. Posso capire invece Sodapop e Steve, che hanno la passione delle risse e delle corse di dragsters, hanno entrambi troppa energia, troppo sentimento, e non possono scaricarli in nessun altro modo.


«Strofina più forte, Soda», sentii mormorare Darry. «Così mi fai addormentare.»


Guardai dalla porta. Nell’altra camera Sodapop stava facendo un massaggio sulla schiena a Darry. Darry ha un po’ del culturista. Aggiusta i tetti, e non fa che provare se è capace di salire in cima alla casa sulla scala a pioli con due secchi di tegole in mano. Sapevo che Soda sarebbe riuscito a farlo dormire in breve. Soda sa fare quello che vuole. Anche lui pensa che Darry lavori troppo.


Darry non meritava di lavorare come un vecchio a soli vent’anni. Era un ragazzo molto popolare, a scuola: era capitano della squadra di football ed era anche stato eletto Ragazzo dell’Anno. Ma non avevamo i soldi per farlo andare all’università, nemmeno con la borsa di studio d’atletica che aveva vinto. E adesso lavora tanto che non gli resta nemmeno il tempo di pensarci, all’università. Non va più da nessuna parte e non fa più niente, tranne che un po’ di palestra e un week-end sulla neve con gli amici ogni tanto.


Mi strofinai la guancia dove avevo il livido. Mi ero guardato allo specchio: mica era vero che mi faceva sembrare un duro. Colpa di Darry, che mi aveva obbligato a metterci su il cerotto.


Mi ricordai com’era conciato Johnny dopo che l’avevano pestato. Avevo altrettanto diritto dei signorini di usare le vie, no? Anche Johnny non gli aveva mai fatto niente. Perché ci odiavano tanto? Noi li lasciavamo in pace. A momenti mi addormentavo sul libro cercando di trovare una risposta.


Sodapop, che nel frattempo era andato a letto, mi gridò di spegnere la luce e andare a dormire anch’io. Finii il capitolo e lo feci.


Coricato vicino a Soda, guardando il muro, continuai a pensare alle facce dei Soc quando mi avevano circondato, alla camicia di cotone stampato blu che aveva su il biondo, e sentivo ancora nelle orecchie la voce che diceva: « Hai bisogno di un bel taglio di capelli, Greaser! » Rabbrividii.


«Hai freddo, Ponyboy?»


«Un po’», mentii. Soda mi passò il braccio attorno al collo. Poi si mise a farfuglia-re, assonnato: «Ascolta, bimbo, quando Darry ti grida dietro… non è per cattiveria. È


solo che ha un sacco di preoccupazioni. Non prendertela a male, eh Pony? Non lasciarti ingannare. È molto fiero di te perché hai cervello. È solo che sei il più giovane… ti vuole un gran bene, però. Comprendido?»


«Muy bien», dissi, cercando di trattenere il sarcasmo per non offendere Soda.


«Soda…» «Sì?»


«Come mai ti sei fatto bocciare?» Non l’avevo mai superata, questa. Mi spiaceva da matti.


«Perché sono un asino. Andavo bene solo in officina meccanica e ginnastica.»


«Non sei affatto un asino.»


«Sì che lo sono. Sta’ zitto che te ne racconto una. Ma non dirlo a Darry, però.»


«Dai.»


«Credo che mi sposo con Sandy. Quando finisce la scuola e io trovo un lavoro un po’ più decente. Potrei anche aspettare che finisci la scuola tu, però. Così aiuterei Darry a pagare le spese di casa.»


«Mica male. Aspetta che finisco la scuola però, così mi difendi un po’ da Darry.»


«Non fare così, ragazzo. Te l’ho già detto che non pensa mica tutto quello che ti dice.»


«Sei innamorato di Sandy? Cosa si prova?» «Hhhmmm. È molto bello.» Sospirò, felice. Dopo un attimo, sentii il suo respiro farsi regolare. Dormiva. Mi girai a guardarlo: al chiar di luna, sembrava qualche dio greco sceso in terra. Mi domandai come faceva a essere così bello. Poi sospirai. Non capivo cosa voleva dire a proposito di Darry. Darry pensava soltanto che io ero un’altra bocca da sfamare, e uno da rimpro-verare continuamente. Darry mi amava? Pensai a quegli occhi pallidi e duri. Soda si sbagliava di grosso, per una volta. Darry non ama niente e nessuno, a parte forse Soda. Non pensavo mica che fosse un essere umano. Non m’importa niente, mentii a me stesso: non m’importa niente di lui. Mi basta Soda, e l’avrò finché non avrò finito la scuola. Non mi importa niente di Darry. Ma mentivo ancora, e lo sapevo. Io conti-nuo a mentire a me stesso, e non mi credo mai.


II


DALLY ci aspettava sotto il lampione all’angolo fra la Pickett e la Sutton Avenue.


Siccome eravamo in anticipo, avevamo tutto il tempo di fare un salto al drugstore.


Comprammo delle Pepsi, facemmo volare con un soffio la bustina della cannuccia in faccia alla commessa, e ci mettemmo a girare fra gli scaffali coperti di roba, adoc-chiandola, finché il padrone si accorse di noi e venne a dirci che quella era la porta.


Troppo tardi, comunque: Dally aveva già fatto sparire due stecche di sigarette sotto il giubbotto.


Attraversammo la strada e scendemmo giù per la Sutton Avenue verso il Dingo. Ci sono un sacco di drive-in in città. I fichetti vanno al Way Out e al Rusty’s, noi al Dingo e da Jay’s. Il Dingo è un postaccio: ci sono sempre delle risse, una volta hanno anche sparato a una ragazza. Ci andammo a piedi, e ci mettemmo a chiacchierare con tutti i Greaser e i dritti che incontravamo, affacciandoci ai finestrini delle auto o saltando sui sedili posteriori per parlare di chi era fuori, chi era dentro, chi era ricercato, chi andava con chi, chi era capace di spaccare la faccia a chi, chi aveva rubato che cosa, quando e perché. Si finisce sempre per sapere tutto di tutti, così. Mentre eravamo là ci fu una scazzottata fra un capellone di ventitré anni e un autostoppista messi-cano. Ce ne andammo quando tirarono fuori i coltelli, perché presto sarebbero arrivati gli sbirri e nessuno ha voglia di esserci quando compaiono.


Attraversammo la Sutton e tagliammo per il retro di un supermarket, corremmo un po’ per i campi dietro a due ragazzini delle medie, e quando fu abbastanza buio per arrischiarcisi andammo al recinto posteriore del drive-in Nightly Double. Era il più grosso della città, e faceva vedere due film per sera, o quattro nei week-end. Si può dire che, mentre uno va al Nightly Double, un altro può fare tutto il giro della città prima che il programma sia terminato.


Tutti avevamo i soldi per entrare – costa solo un quarto di dollaro se non si è in macchina — ma Dally aveva un’idiosincrasia per le cose legali. Gli piaceva far vedere che lui se ne fregava della legge. Cercava sempre di infrangerla. Andammo a sederci vicino al chiosco delle bibite. In quella fila di posti non c’era nessuno, tranne due ragazze, in fondo. Dally le occhieggiò freddamente, poi si diresse verso di loro e andò a sedersi proprio dietro. Temevo che ne avesse in mente qualcuna delle sue, e infatti era proprio così. Cominciò a parlare, abbastanza forte perché le ragazze lo sentissero. Iniziò male, e proseguì peggio. Era capace di parlare molto sporco, Dallas, quando ci si metteva, e stavolta ci si era proprio messo d’impegno. Mi scottavano le orecchie. Vaccate, Steve, e anche Soda, avrebbero fatto a gara con lui per vedere se riuscivano a mettere in imbarazzo le ragazze, ma a me quei divertimenti lì non mi dicono mica tanto. Così me ne rimasi seduto e zitto, e Johnny si alzò in fretta per andare a comprare una Coca.


Non sarei stato così imbarazzato se fossero state dei nostri, allora magari mi ci sarei messo anch’io, col vecchio Dallas. Ma quelle lì non erano il nostro tipo. Erano tutte fiche, e sul bono-bono. Insomma belle e ben vestite, dico. Dimostravano sedici o diciassette anni. Una aveva i capelli neri e corti, l’altra rossi e lunghi. Questa qui si stava proprio arrabbiando, o spaventando. Stava seduta immobile masticando con impegno la sua cicca americana. L’altra faceva finta di non sentire nemmeno. Dally diventava sempre più impaziente. All’improvviso mise i piedi sul sedile della rossa, mi strizzò l’occhio, dopo di che batté il record delle porcherie. Quella si voltò e gli dette un’occhiata gelida.


«Tira giù i piedi dalla mia sedia e sta’ zitto.»


Accidenti, che bella. L’avevo già vista a scuola, era la capo-majorette. L’avevo sempre giudicata una tipa altezzosa. Dally si limitò a guardarla tenendo i piedi dove stavano. «Perché, se no cosa mi succederà?»


L’altra ragazza si girò a guardarci. «Lo conosco, è il Greaser che qualche volta monta i tori giù al Corral», disse come se non potevamo sentirla.


Quante volte l’avevo sentito, quel tono. «Capellone… Greaser… Zazzera…» Oh sì, era un tono che conoscevo benissimo. Come mai erano in un drive-in senza macchina, le riccastre? pensai, e Dallas disse: «Anch’io vi conosco già. Vi ho visto al rodeo».


«Sì, ed è un vero peccato che non sai cavalcare i tori come parli sporco», commentò freddamente la rossa, e si girò di là.


Questo non sgomentò minimamente Dally. «Vi andrebbe una corsetta in macchina?»


«Lasciaci in pace», intimò la rossa seccamente, «se no chiamo un poliziotto.»


«Oh, povero me», disse annoiato Dally. «Mi hai fatto proprio spaventare. Dovresti vedere il mio dossier, baby», ghignò. «Indovina perché sono stato dentro?»


«Per favore, lasciaci in pace», ripeté la rossa. «Ma perché non puoi lasciarci in pace?»


Dally fece un altro ghigno. «Non faccio mai il bravo, io. Volete una Coca?»


A questo punto era arrabbiatissima. «Non la berrei neanche se stessi morendo di sete nel deserto. Vattene via, balordo!»


Dally si limitò ad alzar le spalle e se ne andò. La ragazza mi guardò. Avevo un po’


di strizza. Tutte le belle ragazze mi mettono un po’ di strizza, specialmente se hanno il grano. «Adesso cominci tu?» Sbarrai gli occhi, scuotendo la testa. «No.» All’improvviso sorrise. Diavolo, era proprio bella. «Già, non mi sembri il tipo. Come ti chiami?» Era meglio se non me lo chiedeva. Mi scoccia dire il mio nome alla gente appena conosciuta. «Ponyboy Curtis.»


E mi misi ad aspettare il solito «Stai scherzando!» o «Ma è proprio il tuo vero nome?» o qualcuno dei soliti complimenti. Ponyboy – qualcosa come Cavallino — è il mio vero nome e, personalmente, mi piace.


La rossa si limitò a sorridere. «È un nome carino e originale.»


«Mio papà era un tipo originale», dissi. «Ho un fratello che si chiama Sodapop –


Bibita – proprio sul certificato di nascita.»


«Io mi chiamo Sherri, ma mi chiamano Cherry, ciliegia, per i capelli rossi. Cherry Valance.»


«Lo sapevo», dissi. «Sei una capo-majorette. Andiamo alla stessa scuola.»


«Ma non sembri abbastanza vecchio per andare alla scuola superiore», commentò la bruna.


«È vero, sono avanti un anno dalle elementari.» Cherry mi stava guardando. «E


cosa ci fa un ragazzo carino e in gamba come te in giro con dei balordi del genere?»


Mi irrigidii senza volerlo. «Sono anch’io della banda, Dally è amico mio.»


«Mi spiace, Ponyboy», disse gentilmente. Poi, vivace: «Tuo fratello Sodapop fa il benzinaio? A una stazione di servizio della DX, per caso?» «Sì.»


«Cavolo, è un fusto. Dovevo capirlo che eravate fratelli, vi assomigliate.»


Sogghignai tutto orgoglioso. Non somiglio per niente a Soda, ma non capita tutti i giorni di sentire una esimia Soc dire che mio fratello è un fusto.


«Non faceva il rodeo? Mi pare che l’ho visto su qualche puledro.»


«Sì, ma papà l’ha fatto smettere dopo che si è rotto un legamento. Frequentiamo sempre l’ambiente, però.»


«Come mai non si vede più a scuola, tuo fratello?» chiese l’altra ragazza, che si chiamava Marcia. «Non deve avere più di sedici o diciassette anni, no?»


Dentro di me, sussultai. Vi ho già detto quanto mi scoccia che Soda si sia ritirato.


«Si è ritirato», risposi rudemente. Ritirato. Mi fa pensare a qualche stupidotto che gira sfaccendato per le strade tirando sassi ai lampioni. È una parola che non si addice affatto a mio fratello, allegro e pieno di vita com’è. Va bene per Dally, semmai, ma non per Soda.


In quella, tornò Johnny e si sedette di fianco a me. Si guardò intorno in cerca di Dally, poi riuscì a dire uno stentato «ciao» alle ragazze e cercò di guardare il film.


Ma era nervoso. Era sempre nervoso in presenza di estranei. Cherry lo guardò, valu-tandolo con un’occhiata come aveva fatto con me. Poi sorrise: l’aveva valutato giusto.


Dally tornò schiamazzando, con in mano una quantità di bicchieri di Coca. Ne porse uno a testa alle ragazze e si sedette vicino a Cherry. «Questa magari ti calma un po’.»


Gli lanciò un’occhiata incredula; poi gliela tirò in faccia. «Ti calmerà a te, brillantina! Poi, quando avrai imparato a parlare e a comportarti in maniera decente, magari mi calmo io.»


Dally si pulì della Coca con la manica, e sorrise pericolosamente. Se ero Cherry in quella me la squagliavo. Conoscevo il sorriso.


«Un bel caratterino, eh? Mi piacciono quelle come te.» Le mise il braccio intorno alle spalle, ma Johnny si sporse e lo fermò.


«Lasciala stare, Dally.»


«Eh?» Dally fu colto di sorpresa. Guardò incredulo Johnny. Johnny non era in grado di spaventare una gallina, di solito. Ora impallidì un po’, ma disse: «Mi hai sentito, no? Lasciala in pace».


Dallas esitò per un momento. Se si fosse trattato di me, di Vaccate, di Soda o Steve, o chiunque non fosse Johnny, l’avrebbe steso immediatamente: nessuno dice a Dallas Winston cosa deve fare. Una volta, al drugstore, un tale gli aveva detto di spo-starsi dal banco dei dolciumi: Dally gli aveva tirato subito un cazzotto che gli aveva fatto saltare un dente. A un tipo mai visto prima. Ma Johnny era il cucciolo della banda, e Dally non poteva mica picchiarlo. Era il suo protetto. Così si alzò e se ne andò, accigliato, coi pugni stretti in tasca. Non tornò più.


Cherry fece un sospiro di sollievo. «Grazie. Mi ha fatto spaventare da morire.»


Johnny cercò di fare un sorriso galante. «Non si vedeva mica. Nessuno parla a Dally come gli hai parlato tu.» La ragazza sorrise. «Tu sì, però.» A Johnny vennero le orecchie rosse. Io lo guardavo ancora con gli occhi sbarrati. Sapevo che non gli ci era voluto soltanto del coraggio per dire quello che aveva detto a Dally: Johnny adorava il terreno che Dally calpestava, e non l’avevamo mai sentito tener testa a nessuno, altro che al suo eroe.


Marcia ci sorrise. Era un po’ più piccola di Cherry. Era carina, ma quella Cherry Valance era una vera bellezza. «Venite a sedervi qui con noi, che ci proteggete.»


Johnny e io ci guardammo. All’improvviso lui sorrise, alzando i sopraccigli fino a farli sparire sotto il ciuffo. Adesso sì che avevamo qualcosa da raccontare ai ragazzi!


Questo diceva il suo sguardo. Avevamo attaccato con due ragazze di classe. Non le solite pari nostre, ma addirittura due esimie Soc. Soda sballava di certo quando glielo raccontavo. «Bene», dissi con disinvoltura. «Perché no?» Io mi sedetti fra loro, e Johnny dalla parte di Cherry. «Quanti anni avete?» chiese Marcia. «Quattordici», risposi io. «Sedici», disse Johnny.


«Che buffo», commentò Marcia, «credevo che avevate tutti e due…»


«Sedici anni», finì per lei Cherry. Le fui grato. Johnny dimostrava quattordici anni e lo sapeva benissimo e gli scocciava moltissimo.


Johnny sogghignò. «Come mai non avete paura di noi come di Dally?»


Cherry sospirò. «Siete troppo carini per far paura a una ragazza. Prima di tutto, non vi siete uniti ai discorsi sporchi di Dallas, e gli avete detto di lasciarci in pace. E


quando vi abbiamo invitato a sedervi con noi, non l’avete preso come un invito a un’orgia. Inoltre, ho già sentito parlare di Dallas Winston, e a vederlo sembra ancora più duro e cattivo di quello che è. Voi due non sembrate cattivi.» «Ma sicuro», appro-vai stancamente. «Siamo giovani e innocenti.»


«No», disse Cherry lentamente, guardandomi con attenzione. «Non innocenti. Ne avete viste troppe per es sere innocenti. Solo, non siete… sporchi.»


«Anche Dally è un tipo a posto, sai», disse Johnny, sul la difensiva, e anch’io an-nuii. Bisogna prender le parti dei compagni, sempre. Questa è una banda. Tutti per uno, uno per tutti. Come fratelli. Se no, non è più una banda. È un branco, una masna-da, quello che volete, ma non una banda. I Soc sono così, nei loro club esclusivi dove ognuno sta per sé: e anche nelle gang dei ragazzi a New York. Sono come un branco di lupi. Ma noi no. «È un tipo duro, ma sempre un amico.»


«Se vi conosceva, vi lasciava in pace», dissi, ed era verissimo. Con la cugina di Steve, che veniva dal Kansas, Dally stava attento a parlare. Ci stavamo attenti tutti, con le ragazze di tipo, diciamo così, cuginesco. Non saprei spiegarmi meglio. Cerchiamo di essere gentili con le ragazze che vediamo di quando in quando, come le cugine o le compagne di scuola: ma una bella ragazza che passa per strada, la guardia-mo e la provochiamo e le diciamo di tutto. Non chiedetemi perché, non lo so mica.


«Bene», disse Marcia in tono risolutivo. «Sono proprio contenta che non ci conosce.»


«In un certo qual modo, io lo ammiro», aggiunse Cherry piano, sicché io solo la sentii. Dopo di che ci mettemmo a guardare il film Ah sì, scoprimmo come mai non erano in macchina. Erano venute coi loro ragazzi, ma li avevano lasciati quando si erano accorte che si erano portati dietro del liquore. I ragazzi si erano arrabbiati ed erano andati via.


«Ma non me ne importa niente», disse Cherry, con l’aria annoiata. «Non è il mio genere di divertimento starmene in un drive-in a veder gente che si ubriaca.»


Da come l’aveva detto, si capiva che il suo genere di divertimento doveva essere molto raffinato e costoso. Comunque, avevano deciso di starsene a vedere il film. Era uno di quei film da spiaggia dove non c’è trama, non c’è recitazione, ma solo un sacco di ragazze in bikini e qualche canzone, quindi andava benissimo. Stavamo guardandolo tranquillamente noi quattro, in silenzio, quando all’improvviso una manaccia afferrò me e Johnny per una spalla e una voce profonda berciò: «Okay, brillantina, l’avete voluto voi»


A momenti me la facevo addosso. Era come quando uno salta fuori da dietro l’angolo e ti fa: «Bu!»


Sbirciai preoccupato dietro la mia spalla e vidi Vaccate, che ghignava come un ebete. «Cribbio, Vaccate, vuoi farci venire l’infarto!»


Era bravissimo a fare le imitazioni, e sembrava proprio un signorino incazzato, prima. Poi guardai Johnny. Aveva gli occhi chiusi ed era bianco come un lenzuolo. Re-spirava a fatica. Vaccate non poteva averlo fatto di proposito, spero bene che si era dimenticato la storia di Johnny pestato dai Soc. Aveva un cervello che, si vede, funzionava a intermittenza. Johnny aprì gli occhi e disse: «Ciao, Vaccate».


Vaccate gli scompigliò i capelli in testa. «Scusa, ragazzo», disse. «Me n’ero scor-dato.»


Scavalcò la fila di sedie e si sedette vicino a Marcia. «Chi sono queste qua? Le vostre prozie?» «No, le bisnonne di secondo grado», replicò Cherry dolcemente.


Non riuscivo a capire se Vaccate era ubriaco o no. È difficile dirlo, con lui. Qualche volta fa l’ubriaco anche quando non ha bevuto niente. Alzò un sopracciglio e abbassò l’altro nel suo gesto abituale, che fa quando è perplesso, o annoiato, o sta per dire la sua vaccata. «Cribbio, mi pare che avete novantasei anni come minimo.»


«Come no», disse Marcia. «E tu sei nato ieri.» «Acuta», commentò Vaccate ammirato. «Com’è che vi siete fatte rimorchiare da due teppe come Pony e Johnny?»


«Siamo state noi a rimorchiarli», precisò Marcia. «Perché in realtà siamo due arabe trafficanti di schiavi, e pensiamo di venderli. Varranno almeno una decina di cam-melli a testa.»


«Cinque al massimo», disse Vaccate. «Perché non lo sanno mica l’arabo. Non credo, almeno. Di’ qualcosa in arabo, Johnny bello.»


«Ma piantala!» sbottò Johnny. «Dallas gli stava dando fastidio, e così quando è andato via ci hanno chiesto di sederci vicino a loro per proteggerle. Dai teppisti spiritosi come te, credo.»


Vaccate sogghignò, perché era raro che Johnny fosse così loquace. Di solito, non si riusciva a fargli dire bah. A proposito, non ce la prendiamo a darci del teppista, del brillantina o del capellone fra noi. Allora si sa che è per scherzo, mi spiego?


«Be’, dov’è che è andato il vecchio Dally, comunque?» «È andato in cerca di un po’ d’azione. Roba da bere, belle signorine o un pestaggio. Speriamo che non finisca un’altra volta dentro. È appena uscito.»


«Troverà il pestaggio, credo», disse allegramente Vaccate. «È per quello che sono venuto a cercarlo. Il signor Timothy Shepard & Co. sta cercando quel tale che gli ha gentilmente bucato le gomme della macchina, e siccome il signor Curly Shepard ha visto che è stato Dally, be’… sai se Dally ha una lama?»


«No, che io sappia», dissi. «Mi risulta che ha un pezzo di tubo di piombo; il coltello l’ha rotto stamattina.»


«Bene. Tim lotterà lealmente, se Dally non gli fa vedere il coltello. Non credo che Dally avrà problemi.» Cherry e Marcia ci guardavano a occhi sbarrati. «Ma non vi sembra di esagerare un po’?» «Esagerare? Non c’è niente di male in un bel pestaggio», disse Vaccate. «Invece i coltelli sono tutta un’altra cosa, come le catene.


Le botte a mani nude fanno bene, ti


sfoghi meglio che in ogni altro modo. Non c’è veramente niente di male a tirare qualche cazzotto. Sono i fichetti che esagerano: ti saltano addosso in due o tre contro uno. Noialtri andiamo abbastanza d’accordo. Se litighiamo fra noi, è una scazzottata leale, uno contro uno. E Dally si merita tutto quello che gli può toccare, perché bucar le gomme non è uno scherzo quando si deve lavorare per pagarle. Poi è stato anche visto; cazzi suoi. La nostra unica legge, oltre a stai coi tuoi, è non farti beccare. Può darsi che le prenda, può darsi di no. In ogni caso, non ci sarà nessuna faida fra la nostra banda e quella di Tim Shepard. Se domani abbiamo bisogno di loro, vengono. Se è Tim che spacca la testa a Dally, e domani ha bisogno del nostro aiuto, noi glielo diamo. Dally aveva voglia di divertirsi: l’hanno beccato, e adesso la paga. Tutto qua.»


«Già», commentò sarcastica Cherry. «Tutto qua.» «Ma sì», disse Marcia, senza interesse. «Se lo fanno fuori, voi lo seppellite, non c’è problema.»


«Tu sì che l’hai capita, baby.» Vaccate sogghignò e si accese una sigaretta. «Qualcuno ne vuole una?»


Guardai ammirato Vaccate. Sapeva spiegarsi bene. A diciott’anni e mezzo, poteva essere il più gran ripetente di tutti i tempi, e forse le sue basette erano un po’ eccessive, e magari si ubriacava un po’ troppo, ma le cose le capiva di sicuro.


Cherry e Marcia scossero la testa, rifiutando l’offerta di una sigaretta, ma io e Johnny l’accettammo. Il colore era tornato a Johnny, e anche il respiro normale, ma la mano gli tremava ancora un po’. Una sigaretta gliel’avrebbe fermata.


«Ponyboy, vieni con me a comprare un po’ di pop-corn?» mi domandò Cherry.


«Come no», risposi saltando su. «Ne volete anche voi?»


«Io sì», disse Marcia. Stava finendo la Coca offertale da Dally. Mi accorsi che lei e Cherry non si assomigliavano affatto. Cherry aveva detto che non avrebbe bevuto la Coca di Dally neanche se stava morendo di sete, e lo diceva sul serio. Era una questione di principio. Invece Marcia non vedeva ragione di sbatter via un’ottima Coca gratis.


«Anch’io», disse Vaccate. Mi dà una moneta da cinquanta cents. «Comprali anche per Johnny, pago io», continuò mentre Johnny cominciava a frugarsi in tasca.


Andammo al chiosco delle bibite vicino alla biglietteria, dove come al solito c’era una coda di un chilometro, così ci mettemmo in fila ad aspettare. Un bel po’ di ragazzi si voltarono a guardarci… non si vedono spesso insieme una capo-majorette piena di grano e un teppista in bolletta. Cherry faceva finta di niente.


«Il tuo amico con le basette è un tipo a posto?»


«Non è pericoloso come Dally se è quello che vuoi dire. È okay.»


Sorrise e i suoi occhi mostrarono che stava già pensando ad altro. «Johnny… gli è capitato qualcosa di brutto una volta, o sbaglio? È ancora spaventato.»


«Sono stati i tuoi amici», dissi nervosamente, perché c’erano un sacco di fichetti intorno e qualcuno di loro mi stava lanciando delle occhiatine sfottenti, come se non avevo diritto di stare con Cherry o roba del genere. E poi non mi va di parlarne… del pestaggio di Johnny, voglio dire. Ma glielo raccontai, parlando un po’ più in fretta del solito perché non mi va neanche di pensarci.


Fu quattro mesi fa. Ero andato alla stazione di servizio della DX a prendere una bibita e a trovare Steve e Soda, perché loro mi offrono sempre un paio di Pepsi se gli do una mano con le macchine, e io mi diverto. Non ci vado mai nei week-end perché allora so che c’è un sacco di ragazze che fanno il filo a Soda… ragazze di tutti i tipi, anche col grano. A me non m’interessa ancora molto delle ragazze. Soda dice che quando cresco ancora un po’ poi m’interesseranno di più.


Era una giornata un po’ tiepida di primavera col sole che splendeva bello chiaro, ma quando ci mettemmo in strada per tornare a casa, cominciava a far fresco perché veniva scuro. Andavamo a piedi perché avevamo lasciato la macchina di Steve alla stazione di servizio. All’angolo del nostro isolato c’è uno spiazzo incolto bello grande, dove andiamo a giocare al pallone, e dove spesso si svolgono battaglie e scazzottate. Stavamo passando di lì, dando calci ai sassi e finendo l’ultima bottiglia di Pepsi, quando Steve notò una cosa per terra. La tiriamo su, è la giacca jeans di Johnny, l’unica che ha.


«Pare che Johnny ha perso la giacca», fa Steve, e la raccoglie per portargliela a casa. Ma poi si mette a guardarla meglio: sul colletto c’è una macchia color ruggine.


Preoccupato scruta per terra. Sull’erba ci sono delle altre macchie.


A quel punto sentiamo un lamento, e vediamo una specie di fagotto per terra dall’altra parte dello spiazzo. Soda lo raggiunge per primo, era Johnny che giaceva faccia a terra. Soda lo gira pian piano, e a momenti svengo da come l’avevano conciato.


Eravamo abituati a vedere Johnny segnato, suo papà gliele dava sempre, e anche se ci faceva arrabbiare da matti, non potevamo farci niente. Ma ‘ste botte erano tutta un’altra cosa. Aveva la faccia tutta nera e insanguinata, con una larga ferita dalla tempia allo zigomo. Una cicatrice che si porterà dietro per tutta la vita. La maglietta bianca era tutta piena di sangue. Restavo in piedi fermo, rabbrividendo. Credevo che era morto. Nessuno può prenderne tante e sopravvivere. Steve chiuse gli occhi un momento e grugnì poi si inginocchiò vicino a Soda.


In qualche modo, la banda aveva sentito che succedeva qualcosa di brutto. All’improvviso ecco Vaccate vicino a me, e per una volta non rideva, ma i suoi occhi grigi avevano un lampo duro. Darry ci aveva visto dalla veranda e correva verso di noi, fermandosi trafelato. Anche Dally c’era, bestemmiava sottovoce, distogliendo gli occhi da Johnny con aria sofferente. Mi sentii turbato. Dally aveva visto dei morti ammazzati a New York, sulle strade del West Side. Come mai adesso era così sconvolto?


«Johnny?» Soda lo tirò su e lo sorresse per le ascelle. Scrollò piano quel corpo inerte. «Ehi, Johnny bello.»


Johnny non aprì gli occhi, ma si udì una fievole domanda: «Soda?»


«Sì, sono io», disse Sodapop. «Non parlare. Passerà in fretta.»


«Erano in tantissimi», continuò Johnny, ignorando il consiglio di Soda. «Una Mustang blu tutta piena… che paura…» Cercò di imprecare, ma all’improvviso si mise a piangere, senza riuscire a trattenersi, e piangendo anche di più proprio per questo. Io che avevo visto Johnny beccarsi una scarica di bastonate da suo padre senza emettere un lamento, rimasi umiliato da questo crollo. Soda lo teneva in piedi, togliendogli i capelli dagli occhi. «È tutto finito, Johnny, se ne sono andati. È finita.»


Alla fine, fra i singhiozzi, Johnny riuscì a raccontarci la storia. Se ne stava a dar calci al pallone da rugby per perfezionare certi tiri quando la Mustang blu si era fermata vicino al terreno incolto. C’erano dentro quattro Soc. Gli erano saltati addosso e avevano cominciato a picchiarlo. Uno di loro aveva un sacco di anelli: per questo aveva tutti quei tagli sulla faccia. Non erano solo le botte che aveva preso — quasi da morirne — quelle poteva sopportarle: era lo spavento. L’avevano minacciato. Dicevano che gli avrebbero fatto quasi tutto quello che si può fare di male a uno. E poi Johnny era già esaurito per le botte che prendeva in casa e le continue liti dei suoi genitori. Vivere in quelle condizioni avrebbe trasformato chiunque altro in un ribelle amareggiato: invece, Johnny ne stava morendo. Non era mai stato un codardo. Era bravo nelle risse. Noi della banda potevamo contare su di lui: non chiacchierava coi poliziotti. Ma, dopo la sera del pestaggio, Johnny diventò superprudente. Non credevo che potesse mai superarlo. Non andava più in giro da solo. E proprio lui, che era il più rispettoso delle leggi, cominciò a portarsi sempre dietro un coltello dalla lama di quindici centimetri. E l’avrebbe anche usato, se fosse stato aggredito di nuovo. A quel punto l’avevano intimidito. Avrebbe ucciso il primo che l’avesse aggredito di nuovo. Nessuno l’avrebbe mai più pestato in quel modo.


A nessun costo…


Mi ero quasi dimenticato che Cherry ascoltava. Ma quando tornai alla realtà e la guardai, rimasi stupito nel vederla bianca come un lenzuolo.


«Non siamo tutti così», disse. «Devi credermi, Pony-boy. Non siamo mica tutti così.»


«Sicuro», risposi.


«È come credere che tutti voialtri Greaser siete come Dallas Winston. Scommetto che ne ha pestata di gente.»


Dovevo ammetterlo. Era vero. Dallas aveva commesso molte aggressioni. Raccontava storie di rapine a New York che mi facevano rizzare i capelli in testa. Ma non tutti noi eravamo così cattivi.


Cherry adesso non sembrava più sconvolta, solo triste. «Scommetto che pensi che noialtri signorini ci troviamo la pappa fatta. Noialtri pieni di grano, i fichetti del West Side. Ti dirò una cosa, Ponyboy, che magari ti sorprenderà. Abbiamo dei guai che non ti immagini nemmeno. Vuoi sapere una cosa?» Mi guardò dritto negli occhi. «È


dura per tutti.»


«Ti credo», dissi. «Meglio che torniamo là coi pop-corn o Vaccate penserà che sono scappato col suo grano.»


Tornammo indietro e ci rimettemmo a guardare il film. Marcia e Vaccate andavano abbastanza d’accordo: avevano tutti e due lo stesso spirito di rapa. Ma Cherry, Johnny e io restammo zitti. Io smisi di preoccuparmi e mi limitai a pensare quant’era bello starmene seduto con una ragazza senza sentirla dire parolacce tutto il tempo, a meno di minacciarla di bastonate. Sapevo che piaceva anche a Johnny. Non parlava molto con le ragazze. Una volta, mentre Dallas era al riformatorio, Sylvia aveva cominciato a gironzolargli intorno facendogli gli occhi dolci; allora Steve la prese da parte e le disse che se cercava di far qualche trucco dei suoi con Johnny le avrebbe dato una manica di botte. Quindi, fece a Johnny una lezione sui guai che poteva passare per una puttanella intrigante come Sylvia. Come risultato, Johnny non parlò più con nessuna ragazza: non saprei se era perché era timido, o perché aveva paura di Steve.


Ricevetti la stessa lezione da Vaccate un giorno che avevamo rimorchiato un paio di ragazze in centro. A me pareva divertente, perché le ragazze sono uno degli argo-menti su cui perfino per Darry so usare il cervello. Anche la lezione di Vaccate fu divertente, perché era mezzo ubriaco quando me la impartì. Mi raccontò delle storie che mi fecero venir voglia di strisciare sotto il pavimento, o qualcosa del genere. Ma parlava di ragazze tipo Sylvia o come quelle che lui e Dally e gli altri rimorchiavano in centro o ai drive-in: non di tipi fini come le ragazze dei Soc. Così pensavo che era okay starmene seduto là con quelle due. Anche se avevano anche loro i loro guai per davvero. Veramente, non capivo di che cosa dovevano preoccuparsi i signorini: avevano buoni voti, belle macchine, belle ragazze, bei vestiti, Mustang e Corvair per scorrazzare in giro. Cribbio, pensai, se avessi dei guai del genere mi considererei for-tunato.


Adesso però non lo penso più.


III


QUANDO il film finì ci venne in mente a un tratto che Cherry e Marcia non avevano un mezzo per tornare a casa. Vaccate si offrì galantemente di accompagnarle a casa a piedi — il West Side della città era solo a una quarantina di chilometri di distanza —


ma loro volevano telefonare ai genitori e farsi venire a prendere. Vaccate finalmente propose di accompagnarle a casa con la sua macchina. Credo che avevano ancora un po’ paura di noi. Ma la stavano superando però, visto che si incamminarono con noi verso la casa di Vaccate per prendere l’auto. Mi sembrava buffo che i Soc — se queste ragazze erano davvero rappresentative di quella banda — fossero proprio come noi. Gli piacevano i Beatles ma non Elvis Presley, mentre noi consideravamo superati i Beatles mentre Elvis restava un duro; ma quella mi parve l’unica differenza. Naturalmente erano un po’ meno vivaci delle nostre compagne solite, ma in fondo erano uguali. Pensai che forse l’unica cosa che ci separava erano i soldi.


«No», disse lentamente Cherry quando glielo chiesi. «Non è solo quello. Anche quello, ma non soltanto. Voialtri avete valori diversi. Siete più emotivi. Noi siamo più sofisticati, freddi, al punto di non sentire quasi più emozioni. Niente è mai sul serio per noi. Sai, qualche volta mi colgo a parlare con qualche mia amica, e mi accorgo che non penso davvero nemmeno la metà di quello che le dico. Non sono mica convinta che una sbronza di birra sul fondo del fiume sia la cosa più ganza che ci sia, ma ho dichiarato di bramarla a una mia amica così, tanto per dire qualcosa.» Mi sorrise.


«Non l’ho mai detto a nessuno, questo. Credo che sei la prima persona con cui mi sento veramente in confidenza.»


Ed eravamo davvero in confidenza, forse perché ero dell’altra banda, e più giovane: non doveva stare in guardia con me.


«È un circolo vizioso», disse. «Si va e si va, senza scopo, senza sapere dove. Hai mai pensato cosa vuol dire avere più di quello che si desidera? Aver tutto quello che si vuole, e lambiccarsi il cervello alla ricerca di qualche cos’altro da volere? Sembra che stiamo sempre cercando qualcosa che ci soddisfi, senza trovarlo mai. Forse se perdessimo un po’ delle nostre arie ci riusciremmo.»


Era la verità. I signorini erano sempre come isolati dietro un muro, attenti a non mostrarsi quali erano in realtà. Una volta avevo assistito a uno scazzo fra di loro. Si picchiavano con freddezza e praticamente in maniera impersonale.


«È quello che ci separa», affermai. «Non i soldi, i sentimenti: voi non ne avete, e noi li abbiamo troppo violenti.»


«E poi», lei cercava di nascondere un sorrisetto «è sempre per quello che facciamo a turno per vedere i nostri nomi sul giornale.»


Vaccate e Marcia non ci stavano nemmeno ad ascoltare. Erano intenti a una con-versazione balorda che non aveva senso che per loro.


Io ho una certa reputazione di essere un tipo tranquillo, quasi come Johnny. Vaccate si domanda sempre come mai io e Johnny siamo tanto amici. «Chissà che conver-sazioni interessanti», dice, alzando un sopracciglio, «te che tieni la bocca chiusa, e lui che non dice una parola.» Ma io e Johnny ci capivamo senza bisogno di parlare. Nessuno, a parte Soda, riusciva a farmi parlare, in realtà. Finché non incontrai Cherry Valance.


Non so perché riuscivo a parlare con lei: forse, per la stessa ragione per cui ci riusciva lei. Senza accorgermene mi misi a raccontarle di Mickey Mouse, il cavallo di Soda. Non ne avevo mai parlato a nessuno. Era una cosa troppo personale.


Soda aveva questo cavallo roano, solo che non era mica suo. Apparteneva a un tale che lo teneva nelle scuderie dove lavorava Soda. Però Mickey Mouse in realtà era di Soda.


Appena lo vide disse: «Ecco il mio cavallo», e io non ne dubitai mai. Avevo un dieci anni, allora. Sodapop è appassionato di cavalli. Dico sul serio. Non fa che girare per scuderie e rodei, saltando in groppa a un cavallo ogni volta che ne ha l’occasione.


Quando avevo dieci anni pensavo che lui e Mickey Mouse si assomigliavano, anzi erano uguali. Mickey Mouse era un roano scuro, razzente e bizzoso, poco più che un puledro. Veniva quando Soda lo chiamava. Quando lo chiamavano gli altri, no. Quel cavallo amava Soda. Labbreggiava sulla sua spalla, o sul suo collo. E anche Soda era pazzo per quel cavallo. Andava a trovarlo tutti i giorni. Era un cavallo cattivo, Mickey Mouse. Scalciava gli altri cavalli e si metteva nei guai. «Ho un cavallo un po’


nervoso», gli diceva allora Soda, accarezzandolo sul collo. «Come mai sei così cattivo, Mickey Mouse?» Mickey Mouse gli labbreggiava sulla spalla, e qualche volta lo mordicchiava. Ma senza fargli male. Poteva essere di proprietà di qualcun altro, ma era il cavallo di Soda.


«Ce l’ha ancora, Soda?» chiese Cherry.


«È stato venduto», risposi. «Un giorno sono venuti a prenderlo e l’hanno portato via. Era un cavallo di grande valore. Un purosangue.»


Non disse altro e ne fui soddisfatto. Non potevo mica raccontarle che Soda aveva singhiozzato tutta la notte dopo che erano venuti a prendere Mickey Mouse. Avevo pianto anch’io, se volete saperlo, perché Soda non desiderava veramente che un cavallo, e aveva perso il suo. Allora, Soda aveva dodici anni, e andava per i tredici. Non fece mai capire a mamma e papà i suoi sentimenti, tuttavia, perché non avevamo abbastanza soldi e facevamo già abbastanza fatica a tirare avanti. A tredici anni, nel nostro quartiere, certe cose si sanno benissimo. Risparmiai per un anno, pensando che prima o poi avrei messo via abbastanza soldi per ricomprare Mickey Mouse a Soda.


A dieci anni non si è mica tanto furbi, invece.


«Tu leggi un sacco, eh, Ponyboy?» domandò Cherry.


Restai sorpreso. «Sì, perché?»


Alzò le spalle. «Mah, si capisce. Scommetto che guardi anche i tramonti.» Rimase zitta un momento quando le risposi di sì. «Anch’io li guardavo, prima, quando avevo meno da fare.»


Cercai di immaginarlo: forse Cherry si fermava a guardare il tramonto mentre usciva a depositare la spazzatura nel bidone. Se ne stava là a guardarlo e dimenticava tutto il resto finché suo fratello maggiore non le urlava di sbrigarsi. Scossi la testa. Mi sembrava buffo che il tramonto che vedeva lei dal suo patio era lo stesso che vedevo io dai gradini dietro casa mia. Magari i due mondi diversi in cui io e lei vivevamo non erano poi così diversi. Vedevamo lo stesso tramonto.


All’improvviso, Marcia ebbe un sussulto. «Cherry, guarda chi c’è!»


Guardammo tutti e vedemmo una Mustang blu per la strada. Johnny emise un gemito soffocato e, quando lo guardai, era bianco come un lenzuolo. Marcia era agitata.


«Cosa facciamo?» Cherry si mangiava le unghie. «Sta’ ferma. Non c’è niente da fare.»


«Cosa c’è?» chiese Vaccate. «L’FBI?» «No», disse Cherry, piattamente. «Sono Randy e Bob.»


«Più qualcun altro dell’élite con la camicia a scacchi», aggiunse torvo Vaccate.


«Sono i vostri ragazzi?» La voce di Johnny era ferma, ma io gli stavo accanto e vidi che tremava. Mi stupii: Johnny era un po’ esaurito, ma fino a quel punto?


Cherry si avviò. «Magari non ci vedono. Comportatevi normalmente.»


«Son mica un attore», disse Vaccate. «Io sono sempre normalmente normale.»


«Lo dici tu», mormorai, e lui mi esortò a non dire parole inutili.


La Mustang ci superò pian piano, ma senza fermarsi.


Marcia fece un sospiro di sollievo. «Stavolta erano proprio vicini.»


Cherry si rivolse a me. «Parlami di tuo fratello maggiore. Non ne parli volentieri?»


Cercai qualcosa da dire di Darry. Poi alzai le spalle. «Cosa c’è da dire di lui? È


grande, è piuttosto bello, e gli piace giocare a football.»


«Voglio dire, che tipo è? Da come ne parli, Soda mi sembra già di conoscerlo: par-lami un po’ di Darry.» Siccome me ne stavo zitto, insistette. «Cos’è, un bullo come Soda? O uno con la testa fra le nuvole come te?»


Arrossii, mordendomi le labbra. Darry… che tipo era Darry? «È uno che…» volevo dire che era un tipo in gamba ma non ci riuscii. Proruppi amaro: «Non è affatto come Sodapop né come me. È duro come una roccia, e altrettanto disumano. Ha occhi che sembrano di ghiaccio. Io sono un fastidio, per lui. Vuol bene a Soda — tutti vogliono bene a Soda — ma a me non mi può vedere. Mi spedirebbe in qualche collegio se Soda lo permettesse».


Johnny e Vaccate mi guardarono fisso. «No…» disse Vaccate, confuso. «No, Ponyboy, non è così… ti sbagli…» «Cribbio», borbottò Johnny. «Credevo che voi tre andaste d’amore e d’accordo.»


«Be’, non è così», dissi secco, sentendomi uno sciocco. Sapevo di aver le orecchie rosse, per come mi bruciavano, e ringraziavo il cielo scuro. Mi sentivo uno stupido.


In confronto alla casa di Johnny, la mia era il paradiso. Almeno Darry non si ubriacava e non mi picchiava e non se ne andava di casa, e avevo Sodapop per parlare. Mi arrabbiai da matti per aver fatto la figura dello stupido di fronte a tutti. «Ma perché non stai zitto, Johnny Cade, lo sanno tutti che anche a te non ti vogliono bene in casa, e hanno pure ragione!»


Johnny distolse gli occhi, smarrito, e sbatté le palpebre come se l’avessi frustato.


Vaccate mi tirò una sberla sulla testa, ma forte.


«Chiudi il becco, ragazzino. Se non eri il fratellino di Soda ti conciavo per le feste. Non si parla così al nostro amico Johnny.» Gli mise la mano sulla spalla. «Non diceva mica sul serio, Johnny.»


«Mi spiace», dissi confuso. Johnny era il mio migliore amico. «Ero solo arrabbiato.»


«No, è la verità», disse con una smorfia amara. «Non m’importa niente.»


«Piantala di dire stronzate», ribadì Vaccate, arrabbiato, scompigliando i capelli di Johnny. «Cosa faremmo senza di te noialtri? Non dire così!»


«Non è giusto!» sbottai appassionatamente. «Non è giusto che tutte le fregature tocchino a noi!» Non sapevo esattamente cosa volevo dire, ma pensavo al padre di Johnny, che era un ubriacone, e a sua madre, che era una cicciona egoista, e alla madre di Vaccate che faceva la barista per mantenere lui e la sua sorellina dopo che suo padre se n’era andato via di casa, e a Dally — il selvaggio, furbo Dally – che era diventato un delinquente per sopravvivere, e a Steve, il cui odio per suo padre trapelava dalla sua voce piana e amara, e dal suo carattere violento. Sodapop… si era ritirato dalla scuola, per trovarsi un lavoro e mantenere me; e Darry, che diventava vecchio anzitempo nella fatica di mandare avanti una famiglia, e faceva due mestieri, e non faceva mai niente di divertente… mentre i ragazzi ricchi, i signorini, avevano un sacco di soldi e tempo libero, e ci pestavano, o si pestavano, per divertimento, e si sbron-zavano di birra perché non avevano niente da fare. Dura la vita, sì, dura la vita nell’East Side! Non mi sembrava giusto, ecco.


«Lo so», affermò Vaccate con un bel sorriso. «Tutte le fregature sono per noi, ma che ci vuoi fare, così va il mondo.»


Cherry e Marcia tacevano. Per forza, cosa dovevano dire? Ci eravamo dimenticati di loro. Ma riecco la Mustang blu sulla strada, che si dirige, più lentamente, verso di noi.


«Bene», disse rassegnata Cherry «ci hanno individuato.»


La Mustang si fermò vicino a noi, e ne scesero i due ragazzi seduti davanti. Erano proprio due Soc. Uno aveva la camicia bianca e una giacca a vento, l’altro una camicia giallina e un golf color vino. Guardai i loro abiti e all’improvviso mi resi conto che io avevo solo un paio di jeans, e la vecchia maglietta da marinaio di Soda con le maniche tagliate. Inghiottii. Vaccate cominciò a infilarsi la camicia nei calzoni, ma si fermò in tempo: si limitò a tirar su il collo del giubbotto di pelle e ad accendersi una sigaretta. I fichetti facevano finta di non vederci nemmeno.


«Cherry, Marcia, ascoltateci un po’…» cominciò il bel tipo col golf color vino.


Johnny ansimava e mi accorsi che stava guardandogli la mano. Aveva tre grossi anelli alle dita. Ricordavo che quelli che gli avevano dato la battuta erano scesi da una Mustang blu, e che i tagli in faccia glieli aveva fatti uno con gli anelli.


La voce del signorino interruppe il corso dei miei pensieri. «Solo perché l’altra sera abbiamo bevuto un po’…» Cherry sembrava incavolatissima. «Un po’? Cader per terra ubriaco in mezzo a una strada ti sembra poco? Bob, te l’ho già detto, non esco più con te se bevi. Quando bevi fai delle cose da pazzo. Devi scegliere, o me o il liquore.» L’altro signorino, un tipo alto con i capelli un po’ alla Beatle, si rivolse a Marcia. «Baby, sai benissimo che non ci ubriachiamo spesso…» Quando lei si limitò a rivolgergli un’occhiata gelida, si arrabbiò. «E anche se siete arrabbiate con noi, non è una buona ragione per andare in giro con questi barboni.»


Vaccate fece una lunga tirata dalla sigaretta, Johnny ingobbì nel giubbotto, e io mi irrigidii. Siamo capaci di sembrare molto duri quando vogliamo. L’aria del duro ci viene facile. Vaccate mise una mano sulla spalla a Johnny. «A chi è che avete dato del barbone?»


«Sta’ a sentire, Greaser, in macchina ci sono altri quattro di noi..»


«Che peccato», disse Vaccate con la massima indifferenza. «Per loro, voglio dire.»


«Se cerchi rogne…»


Vaccate alzò un sopracciglio, il che ebbe il risultato di farlo sembrare ancora più calmo. «Vuoi dire se sto cercando l’occasione di rimediare un bel pestaggio, visto che siete più di noi? Be’…» Prese una bottiglia di Coca, fece saltar via il fondo contro il muro e me la passò, mentre lui prendeva il coltello nella tasca di dietro dei calzoni.


«Provateci un po’, belli.»


«No» gridò Cherry. «Piantatela!» Guardò Bob. «Veniamo a casa con voi. Ma state calmi.»


«E perché?» domandò Vaccate. «Non abbiamo mica paura di loro.»


Cherry rabbrividì. «Non posso sopportare le risse… non posso sopportarle…»


La tirai da parte. «Non sarei capace di adoperare ‘sta roba», le dissi, lasciando cadere la bottiglia rotta. «Non potrei mai tagliare qualcuno…» Dovevo dirglielo, avevo visto i suoi occhi quando Vaccate aveva tirato fuori il coltello.


«Lo so», rispose lei tranquilla, «ma è meglio che andiamo via con loro. Ponyboy…


voglio dire… se ci incontriamo a scuola in corridoio, o da qualche altra parte, e io non ti saluto, sappi che non è niente di personale o roba del genere… è che…» «Lo so», dissi.


«Non possiamo farci vedere dai nostri genitori con voi. Tu sei un ragazzo simpatico e tutto, ma…»


«Va bene», affermai, desiderando esser morto e sepolto da qualche parte. O almeno di avere una bella camicia. «Non apparteniamo alla stessa classe. Solo, non di-menticarti che anche fra noi c’è chi guarda i tramonti.»


Mi scoccò una breve occhiata. «Potrei innamorarmi di Dallas Winston», disse.


«Spero di non rivederlo mai più, se no capita.»


Mi lasciò là a bocca aperta, mentre la Mustang blu rombava andando via.


Continuammo a piedi verso casa, in silenzio. Volevo chiedere a Johnny se quelli erano gli stessi che gli avevano dato la battuta, ma non glielo chiesi. Johnny non ne parlava mai, e neanche noi.


«Bene, erano proprio due belle ragazze», sbadigliò Vaccate mentre ci sedevamo sul gradino del marciapiede accanto allo spiazzo incolto. Tirò fuori di tasca un pezzo di carta e lo strappò.


«Cos’era?»


«Il numero di telefono di Marcia. Probabilmente sbagliato. Chissà perché gliel’ho chiesto. Devo essere un po’ ciucco.»


Così, aveva bevuto. Vaccate era un dritto, uno che sa come vanno le cose. «Andate a casa, voi?» ci domandò.


«Fra un po’», risposi. Volevo farmi un’altra fumatina guardando le stelle. Dovevo rincasare a mezzanotte, e c’era ancora tempo.


«Non so come mai ti ho passato quella bottiglia rotta», commentò Vaccate alzan-dosi in piedi. «Non l’avresti mai usata.»


«Forse sì», dissi. «E tu dov’è che vai?»


«Ho in mente di fare un pokerino. O magari mi piglio una grandissima sbronza, non so. Ci vediamo domani.»


Johnny e io ci sdraiammo sulla schiena a guardare le stelle. Io stavo gelando – era una notte fredda e avevo su soltanto la maglietta — ma sarei capace di starmene a guardar le stelle anche sotto zero, io. Vidi la sigaretta di Johnny brillare rossa rossa nel buio e mi domandai oziosamente come ci si sentirebbe in mezzo alle braci arden-ti…


«È solo perché siamo capelloni», disse Johnny, e io capii subito che si riferiva a Cherry. «Le rovinerebbe la reputazione.»


«Eh già», risposi, chiedendomi se era il caso di rivelare a Johnny quello che mi aveva confidato Cherry a proposito di Dallas.


«Ohi, che macchina! La Mustang è la fine del mondo.» «Signorini in grande stile», dissi sentendo crescere in me l’amarezza. Non era giusto che avessero tutto loro. Non eravamo assolutamente da meno, noi: non era mica colpa nostra se eravamo Greaser.


Io non ero assolutamente capace di fregarmene come Vaccate, e godermi la vita lo stesso, come Sodapop, o indurirmi come Dally, o sguazzarci come Tim Shepard. Sentivo la tensione crescere in me e sapevo che doveva succedere qualcosa, se no scop-piavo.


«Non ne posso più», proruppe Johnny, dando voce ai miei stessi pensieri. «Ho voglia di farla finita.»


«No!» urlai, sedendomi allarmato. «Non puoi ammazzarti, Johnny!»


«E allora non mi ammazzerò. Ma devo far qualcosa. Ci sarà pure un posto senza ricchi e poveri, dove la gente è solo gente.»


«Fuori dalle grosse città», dissi, tornando a sdraiarmi. «In campagna…»


In campagna… mi piaceva proprio, la campagna. Volevo andar via dalla città, lasciarmi dietro la sua frenesia. Volevo solo stendermi sotto un albero a leggere un libro o a disegnare, senza dovermi preoccupare di essere aggredito né di portarmi dietro una lama né di finir sposato a qualche stronzetta senza testa. Così pensavo che era, la campagna che sognavo. Avrei avuto un cane da cortile capace di abbaiare all’avvicinarsi di un estraneo, e Sodapop avrebbe riavuto Mickey Mouse per montarlo in tutti i rodei che voleva, e Darry avrebbe perso quell’aria chiusa e dura per ridiventare quello che era otto mesi prima, quando mamma e papà non erano ancora morti. Giacché sognavo, riportai mamma e papà alla vita… la mamma avrebbe fatto le sue famo-se torte al cioccolato, e il papà sarebbe uscito con il camioncino tutti i giorni alla mattina presto, per portare il mangime al bestiame. Avrebbe tirato una pacca sulla spalla a Darry, come faceva una volta, e gli avrebbe detto che stava diventando un uomo, un virgulto della vecchia quercia, e sarebbero stati vicini come sempre. Magari anche Johnny poteva venire a vivere con noi, e la banda poteva riunirsi nei week-end, e Dallas vedere che c’era qualcosa di buono al mondo in fondo, e la mamma avrebbe parlato con lui e l’avrebbe fatto sorridere a dispetto di se stesso. «Avete una gran mamma», usava dire Dally. «È una che la sa lunga.» Poteva parlarci lei, con Dallas, e tenerlo fuori da un’infinità di guai. Mia mamma era bella, era d’oro…


«Ponyboy…» Era Johnny che mi scuoteva. «Ehi, Pony, svegliati.»


Mi rizzai a sedere, rabbrividendo. Le stelle si erano spostate di un bel po’. «Cribbio, ma che ora è?»


«Non lo so. Mi sono addormentato anch’io, a sentirti battere i denti continuamente.


È meglio che vai a casa. Io credo che sto qua tutta notte.» I suoi genitori se ne fregavano se tornava a casa a dormire o no.


«Okay», sbadigliai. Cribbio, che freddo. «Se hai freddo o roba del genere vieni a casa nostra.» «Okay.»


Corsi a casa, tremando al pensiero di trovarmi di fronte a Darry. La luce della veranda era accesa. Forse si erano addormentati e potevo scivolare a letto senza sve-gliarli. Mi affacciai alla finestra. Sodapop era sdraiato sul divano, e a giudicare dal respiro dormiva, ma Darry era seduto in poltrona sotto la lampada a leggere il giornale.


Inghiottii e aprii la porta piano piano. Darry alzò gli occhi dal giornale e balzò in piedi. Io me ne rimasi là, a mangiarmi l’unghia del mignolo.


«Dove cacchio sei stato? Ma lo sai che ora è?» Era più arrabbiato di come l’avessi mai visto. Scossi la testa, senza parole.


«Be’, sono le due del mattino, piccolo. Ancora un’ora, e chiamavo la polizia. Dove sei stato, Ponyboy?» Alzò la voce. «Dove diavolo sei stato, si può sapere?»


La risposta sembrò cretina anche a me: «Nel prato… mi sono addormentato…»


«Cosa?» urlò Darry. Sodapop si svegliò e si fregò gli occhi.


«Ehi, Ponyboy», disse tutto sonnacchioso «dove sei stato?»


«Non l’ho fatto apposta», dissi a Darry, con tono lamentoso. «Stavo parlando con Johnny e ci siamo addormentati tutti e due.»


«Non ti è mica venuto in mente che i tuoi fratelli potevano preoccuparsi da morire?


Non abbiamo chiamato la polizia solo perché due tipi come voi, dopo una faccenda del genere, sarebbero finiti dritto filato al riformatorio. E vi siete addormentati nel prato? Ponyboy, ma si può sapere dove hai la testa? Sei anche vestito leggero!»


Sentii spuntarmi calde lacrime di rabbia e frustrazione. «Ve l’ho detto che non l’ho fatto apposta…»


«Non l’ho fatto apposta» gridò Darry, e mi fece sobbalzare. «Non ci ho pensato!


L’ho dimenticato! Ecco tutto quello che sei capace di dire! Ma non sei buono di riflettere un po’, qualche volta?»


«Darry…» cominciò Sodapop, ma Darry se la prese con lui. «Chiudi il becco tu!


Sono arcistufo di sentirti prendere le sue difese!»


Non doveva sgridare Soda. Nessuno può gridar dietro a mio fratello. Esplosi: «Non sgridarlo!» urlai. Darry si voltò di scatto e mi diede una sberla da farmi andare a sbattere contro la porta.


All’improvviso, piombò su di noi una gran calma. Eravamo tutti e tre gelati. Nessuno, in famiglia, mi aveva mai picchiato. Nessuno. Soda guardava esterrefatto. Darry si guardò il palmo della mano, che gli era diventato tutto rosso, e poi diede un’occhiata a me: «Ponyboy…» disse a occhi sbarrati.


Io mi voltai e scappai fuori della porta, in strada, correndo più forte che potevo.


Darry gridava: «Pony, scusami, non volevo!» ma ormai ero arrivato al prato, e facevo finta di non sentire. Me ne stavo andando di casa: per me, era fin troppo chiaro che Darry non mi voleva tra i piedi. E se non mi voleva io non ci stavo, a casa. Non mi avrebbe picchiato mai più.


«Johnny?» chiamai, e sobbalzai quando lo vidi alzarsi vicinissimo a dove mi trovavo. «Vieni, Johnny, che ce la battiamo.»


Johnny non fece domande. Corremmo per diversi isolati, finché ci mancò il fiato.


Poi ci mettemmo a camminare. A quel punto, ormai, piangevo. Alla fine mi sedetti su un marciapiede e piansi, con la faccia tra le mani. Johnny sedeva accanto a me, mettendomi una mano sulla spalla. «Su, dai, Ponyboy», mi ripeteva. «È tutto passato, no?»


Alla fine mi calmai e mi asciugai gli occhi con l’avambraccio nudo. Singhiozzavo ancora un po’, però. «Ci hai mica una sigaretta?»


Me ne porse una e accese un fiammifero. «Johnny, ho paura.»


«Fa’ a meno, se no me la fai venire anche a me. Cos’è successo? Non ti ho mai visto caragnare così.»


«Non mi capita spesso. È stato Darry, me le ha date. Non so cos’è successo, ma non sono stato capace di sopportare rimproveri e botte insieme. Non so… qualche volta andiamo d’accordo, e poi all’improvviso s’arrabbia o se no mi fa due palle, continuamente… una volta non era così… andavamo d’accordo, prima che morissero mamma e papà. Adesso invece non mi può più vedere.»


«Io preferisco quando mio papà me le dà», commentò Johnny con un sospiro. «Almeno allora so che sa chi sono. Entro in casa, e nessuno mi dice niente. Sto fuori tutta notte, e non se ne accorgono neanche. Almeno tu hai Soda, io non ho nessuno.»


«Mierda», dissi, sbalordito, dimenticando i miei guai. «Tu hai tutta la banda, Johnny. Stasera Dally non ti ha picchiato perché ti vuol bene. Tutti noi ti vogliamo un bene dell’anima.»


«Be’, non è lo stesso che avere dei genitori che si curano di te», ribadì semplicemente Johnny. «Tutto qua, non è la stessa cosa.»


Stavo cominciando a rilassarmi e a chiedermi se scappare di casa era stata davvero un’idea: avevo sonno e un freddo cane e volevo essere a casa nel mio letto, al sicuro e al caldo sotto le coperte, col braccio di Soda sulle spalle. Decisi di tornare, ma di non parlare più con Darry. Era casa mia come casa sua, no? E se voleva fingere che non esistessi, oh be’, per me andava bene. Ma non poteva mica impedirmi di stare a casa mia.


«Facciamo una passeggiata fino al parco, e poi torniamo indietro. Quando mi sono calmato vado a casa.» «Okay», disse Johnny, amichevolmente. «Okay.» Le cose dovevano migliorare per forza, pensavo. Non poteva mica andar peggio. Mi sbagliavo, però.


IV


IL parco era quadrato, delle dimensioni di due isolati, con una fontana in mezzo e una piscinetta per i bambini. La piscina era vuota adesso che era autunno, ma la fontana funzionava allegramente. Grandi olmi rendevano il parco scuro e ombroso, e sarebbe stato un bel posto per riunirsi: ma noialtri preferivamo il prato incolto vicino a casa, e la banda di Shepard i vicoli ciechi lungo la ferrovia, così il parco restava a di-sposizione degli innamorati e dei bambini piccoli.


Non c’era nessuno in giro, alle due e mezzo del mattino. Era un bel posto per rilas-sarsi e calmarsi un po’. I miei bollenti spiriti, veramente, erano già sbolliti da un pezzo per colpa del freddo, e mi sentivo come un ghiacciolo nel frigo. Johnny si abbottonò la giacchetta jeans fino al collo. «Pony, non è che stai congelando?» «L’hai detto, amigo», dissi, strofinandomi le braccia fra un tiro e l’altro della sigaretta. Stavo per dire qualcosa a proposito della crosta di ghiaccio che si stava formando sui bordi della fontana quando un colpo di clacson ci fece sussultare. La Mustang blu stava girando lentamente attorno al parco.


Johnny imprecò sottovoce, e io mormorai: «Ma che vogliono? Questo è il nostro territorio. Cosa ci fanno ‘sti signorini così a est?»


Johnny scosse la testa. «Non lo so. Ma scommetto che cercano noi. Abbiamo rimorchiato le loro ragazze.»


«Oh cribbio!» dissi con un grugnito. «Ci mancava anche questa! Che nottata!»


Feci l’ultimo tiro dalla sigaretta e schiacciai il mozzicone sotto il tacco. «Ce la squa-gliamo?»


«Troppo tardi», disse Johnny. «Eccoli che arrivano.» Cinque Soc stavano già venendo di buon passo verso di noi, e da come barcollavano compresi che dovevano essere alquanto ubriachi. Mi spaventai. Un gelido bluff qualche volta li può mettere in fuga, ma se sono in molti, e ubriachi, è difficile. La mano di Johnny andò alla tasca posteriore dei calzoni, dove teneva il coltello. Mi spiacque di non avere più in mano la bottiglia rotta. Gli avrei fatto vedere io che sono capace di adoperarla se mi ci co-stringono. Johnny aveva una paura boia. Parlo sul serio. Era bianco come un lenzuolo e aveva uno sguardo allucinato, come quello di un animale in trappola. Indietreg-giammo fino alla fontana e i Soc ci circondarono. Puzzavano così tanto di whisky e acqua di colonia che mi veniva la nausea. Sperai disperatamente che Darry e Soda mi avessero inseguito. In quattro, potevamo tenerli facilmente a bada. Ma non c’era in giro nessuno di noi, e sapevo che io e Johnny dovevamo cavarcela da soli. Johnny aveva un’espressione impenetrabile e dura… bisognava conoscerlo, per leggergli il panico negli occhi. Io fissavo freddamente i Soc. Potevano spaventarci da morire, ma non gli avrei mai dato la soddisfazione di accorgersene.


Erano Randy, Bob e altri tre fichetti, e ci riconobbero. Anche Johnny, me ne accorsi, li riconobbe; stava guardando lo scintillio degli anelli di Bob al chiar di luna con gli occhi sbarrati.


«Ma guarda», farfugliò Bob con la voce impastata. «Sono i barboncelli che hanno rimorchiato le nostre ragazze. Ehi, zazzera!»


«Siete fuori del vostro territorio», li avvertì Johnny a voce bassa. «Attenti a quello che fate.»


Randy ci insultò e ci strinsero più da vicino. Bob stava occhieggiando Johnny.


«No, caro, siete voi due che dovete starci attenti. La prossima volta che volete una ragazza, pigliatevene una del vostro genere… spazzatura!»


Mi stavo arrabbiando davvero. Li odiavo al punto di perdere la testa.


«Sai cos’è un Greaser?» domandò Bob. «Spazzatura di razza bianca coi capelli lunghi.»


Sentii il sangue abbandonarmi il viso. Ero stato già sfottuto e insultato, ma mai niente mi aveva offeso così. Johnny fece una specie di gemito soffocato, e gli occhi gli lampeggiarono.


«E tu sai cos’è un Soc?» dissi, colla voce tremante di rabbia. «Spazzatura di razza bianca, con la macchina e la camicia pulita.» E poi, siccome non mi venivano in mente altri insulti adeguati, gli sputai addosso.


Bob scosse la testa, sorridendo beato. «Dovresti farti un bagno, fetente. E lavarti ben bene. Ma abbiamo tutta la notte per ripulirti un po’. David, fa’ il bagno al ragazzo.»


Mi rannicchiai e cercai di squagliarmela, ma il signorino mi prese il braccio e me lo torse dietro la schiena, e poi mi mise la faccia nella fontana. Lottai, ma la mano che mi teneva giù era salda e dovevo trattenere il respiro. Sto morendo, pensai, e mi domandai cosa sarebbe capitato a Johnny. Non potevo più tenere il fiato. Cercai disperatamente di divincolarmi ma riuscii solo a ingoiare dell’acqua. Stanno esageran-do, pensai…


Un alone rosso mi riempì la testa e lentamente mi rilassai.


Un attimo dopo, mi accorsi di giacere accanto alla fontana, sputando acqua e tos-sendo. Il vento sbatteva la maglietta bagnata e i capelli madidi. Mi battevano ininter-rottamente i denti, e non riuscivo a smetterla. Finalmente mi rimisi in sesto, mi rialzai e mi appoggiai al bordo della fontana, con l’acqua che mi colava sulla faccia. Poi vidi Johnny.


Era seduto vicino a me, col gomito appoggiato al ginocchio, e guardava lontano.


Aveva uno strano colorito bianco-verdastro, e gli occhi sbarrati, enormi, come non glieli avevo mai visti.


«L’ho ammazzato», disse lentamente. «Ho ammazzato quel ragazzo.»


Bob, il bel signorino, giaceva sotto il chiar di luna, rannicchiato e immobile. Una pozza scura si stava allargando sotto di lui, sul cemento azzurrognolo. Guardai la mano di Johnny: impugnava il coltello, scuro fino al manico. Mi si gelò il sangue ed ebbi un colpo di nausea.


«Johnny», cercai di dire, combattendo il vomito, «credo di star male.»


«Fai pure», rispose con la stessa voce ferma. «Non ti guardo.»


Voltai la testa e vomitai per un minuto. Poi mi girai, chiudendo gli occhi per non rivedere Bob.


Non può essere. Non può essere. Non può essere successo…


«L’hai ammazzato davvero, sei sicuro, Johnny?» «Sì.» Ora la sua voce tremava un po’. «Ho dovuto. Ti stavano affogando, Pony. E poi avevano il coltello anche loro…


volevano darmi un’altra battuta…»


«Come…» inghiottii. «Come l’altra volta?» Johnny tacque un istante. «Sì», disse poi. «Come l’altra volta.»


Johnny mi raccontò cos’era successo: «Sono scappati via quando l’ho accoltellato.


Sono scappati tutti…»


Mentre ascoltavo la voce tranquilla di Johnny proseguire continuamente, fui colto dal panico. «Johnny!» gridai quasi. «Cosa facciamo adesso? C’è la sedia elettrica per un omicidio!» Tremavo. Voglio una sigaretta. Voglio una sigaretta. Voglio una sigaretta. Le avevamo finite. «Ho paura, Johnny. Cosa facciamo adesso?»


Johnny balzò in piedi, mi prese per la maglietta bagnata e mi scrollò. «Calmati, Ponyboy, torna in te.»


Non mi ero assolutamente accorto di gridare. Mi liberai. «Okay», dissi, «adesso sto bene.»


Johnny si guardò attorno, frugandosi nervosamente nelle tasche. «Bisogna tagliare la corda. Nascondersi da qualche parte. Filare. La polizia arriverà tra poco.» Tremavo, e non certo per il freddo. Ma Johnny, a parte il tremito delle mani, sembrava pa-dronissimo di sé, addirittura quanto Darry. «Avremo bisogno di soldi. E di una pistola, magari. E di un piano.»


Soldi. Una pistola. Un piano. Dove mai potevamo trovare queste tre cose?


«Dally», disse Johnny, deciso: «Ci aiuterà lui a scappare.»


Sospirai. Perché non era venuto in mente a me? Davvero non sapevo usar la testa.


Dallas Winston era capace di tutto.


«Sì ma dove lo peschiamo?»


«Da Buck Merril, credo che ci sia una festa. Me l’ha accennato Dally ‘sto pomeriggio.»


Buck Merril era il socio di Dally nei rodei. Era stato lui a trovargli il posto da fantino alla scuderia «J» barrato. Buck allevava qualche cavallo da corsa, e faceva il grano con un po’ di contrabbando e un po’ di corse truccate. Sia Darry sia Soda mi avevano proibito di metter piede da lui, il che mi stava anche bene, perché Buck Merril non mi piaceva. Era un cowboy alto e smilzo, coi denti sporgenti e i capelli biondi. Almeno, aveva i denti sporgenti prima che qualcuno glieli facesse saltare con un cazzotto in una rissa. Era un tipo incredibile, gli piaceva Hank Williams, figurarsi.


Venne Buck ad aprirci la porta quando bussammo, e ci inondò un fiume di brutta musica. Tintinnio di bicchieri, risatacce e risatine femminili, e Hank Williams sul gi-radischi. Mi raschiava la pelle come carta vetrata, coi nervi che avevo. Con una lattina di birra in mano, Buck ci guardò dall’alto in basso. «Che volete?»


«Dally!» esclamò Johnny, cercando di guardare oltre Buck. «Dobbiamo vedere Dally.»


«È occupato», rispose secco Buck, e in soggiorno qualcuno rise rumorosamente.


Quasi mi saltarono i nervi a quelle sghignazzate.


«Digli che c’è qui Pony e Johnny», gli ordinai. Conoscevo Buck, e sapevo che l’unica maniera di prenderlo era quella. Così anche Dally gli faceva fare quello che voleva: lo intimidiva, benché Buck fosse sui venticinque e Dally avesse solo diciassette anni. «Vedrai che viene.»


Buck mi guardò fisso per un secondo, poi si ritirò dentro barcollando. Era ubriaco, il che mi preoccupò. Se lo era anche Dally, e di cattivo umore..


Comparve dopo qualche minuto, con su un paio di jeans e basta, grattandosi la testa. Era abbastanza sobrio, e mi sorprese, forse era appena arrivato.


«Okay, ragazzi, cos’è che volete da me?»


Mentre Johnny gli raccontava la storia, studiai Dally, per capire cosa c’era, in questo balordo dall’aria dura, che poteva fare innamorare una ragazza come Cherry Valance. Dally era tutto meno che bello. Tuttavia, nel suo volto duro c’era carattere, orgoglio, e una selvaggia sfida al mondo intero. Lui certo non poteva amare Cherry Valance. Sarebbe stato un miracolo che si rivelasse capace di amare qualcuno o qualcosa. La lotta per la vita l’aveva indurito ben oltre queste affettuose regioni.


Non batté ciglio quando Johnny gli raccontò l’accaduto, solo ghignò dicendo:


«Meglio per te», al sentire come aveva pugnalato il signorino. Alla fine, Johnny aggiunse: «Ho pensato che l’unico che ci può dare una mano sei tu. Mi spiace se ti abbiamo disturbato qua alla festa».


«Oh, merda, ragazzi», disse Dally guardandosi con disdegno al di sopra della spalla. «Ero in camera da letto.»


All’improvviso mi guardò. «Cribbio, Ponyboy, che orecchie rosse che hai.»


Mi era solo venuto in mente cosa succedeva di solito in camera da letto alle feste di Buck. Dally se ne accorse e sogghignò. «Non stavo facendo nulla del genere, ragazzo. Stavo dormendo, o ci provavo, con tutto ‘sto casino.» Roteò gli occhi. «Ci mancava pure Hank Williams, quello…» e qui snocciolò diversi aggettivi. «Ho avuto una discussione con Tim Shepard, e devo avere delle costole rotte. Avevo solo bisogno di un posto dove coricarmi un po’.» Si massaggiò i fianchi con impegno. «Il vecchio Tim bisogna dire che sa tirar cazzotti. Be’, per almeno una settimana non ci vedrà da un occhio.» Ci guardò e sospirò. «Be’, aspettate un secondo che vedo cosa posso fare per


‘sto casino.» Poi mi lanciò una lunga occhiata. «Ponyboy, sei mica un po’


bagnato?»


«S-s-s-sì-ì», riuscii a dire battendo i denti. «Mamma mia!» Aprì la porta e mi fece entrare, facendo segno a Johnny di seguirci. «Morirai di polmonite ancora prima che ti becchino gli sbirri.»


Mi trascinò in una camera da letto vuota, imprecando continuamente contro di me.


«Tirati via quella camicia bagnata.» Mi gettò un asciugamano. «Asciugati e aspetta qua. Almeno Johnny ha su il giubbotto jeans. Dovresti arrivarci, a non tentare la fuga con una maglietta di cotone, e per giunta bagnata. Ma non usi la testa?» Sembrava proprio Darry, al punto che mi misi a fissarlo. Non se ne accorse, e ci lasciò seduti sul letto.


Johnny ci si coricò sopra. «Vorrei avere una sigaretta.» Mi tremavano le ginocchia quando finii di asciugarmi, con su solo i jeans.


Dally ricomparve dopo un minuto. Chiuse attentamente la porta. «Ecco qua», disse porgendoci una pistola e un rotolo di banconote. «La pistola è carica. Per la miseria, Johnny, non puntarmela addosso. Qua ci sono cinquanta dollari: è tutto quello che sono riuscito a farmi sganciare da Buck stasera. Non gliene restano molti dopo l’ultima corsa.»


Uno potrebbe magari pensare che era Dally a truccare le corse per Buck, essendo un fantino e tutto, ma non era così. L’ultimo che l’ha insinuato, ha perso tre denti. È


vero: Dally correva onestamente, e faceva del suo meglio per fare arrivar primo il suo cavallo. Era l’unica cosa che Dally faceva onestamente.


«Pony, Darry e Sodapop sanno di questa faccenda?» Scossi la testa. Dally sospirò.


«Cribbio, non ho nessuna voglia di essere quello che gliela racconta e si fa spaccare la testa.»


«E allora, non dirglielo», dissi. Mi scocciava che Sodapop si preoccupasse, e avrei preferito sapesse che almeno finora stavo bene, ma non mi interessava niente che a Darry venissero i capelli grigi. Ero troppo stanco per dire a me stesso che mi stavo comportando in modo crudele e irragionevole. Mi convinsi che non sarebbe stato giusto spingere Dally a parlare coi miei fratelli. Darry l’avrebbe ammazzato di botte per averci dato i soldi, la pistola e mandato fuori città.


«Tieni!» Dally mi diede una camicia circa sessanta milioni di taglie più grande. «È


di Buck: non siete esattamente della stessa misura, ma almeno è asciutta.» Mi porse poi il suo giubbotto imbottito di lana grezza. «Farà freschetto dove state andando, ma non potete rischiare di portarvi delle coperte, vi beccherebbero subito.»


Cominciai ad abbottonarmi la camicia. Quasi mi inghiottì. «Saltate sul merci delle tre e un quarto per Windrixville», ci istruì Dally. «C’è una vecchia chiesa abbandona-ta in cima al Monte Jay. Dietro c’è una pompa, quindi non preoccupatevi dell’acqua.


Appena arrivate, fate la scorta di viveri… stamattina, prima che la storia si sappia: poi statevene là senza tirar fuori neanche il naso. Verrò io a prendervi quando non ci sarà più pericolo. Cribbio, pensavo che solo a New York potevo restare incastrato in un assassinio!»


A questa parola Johnny fece un piccolo rumore di gola e rabbrividì.


Dally ci riaccompagnò alla porta, spegnendo la luce del portico prima di farci uscire. «Filate!» Scompigliò i capelli a Johnny. «Fa’ attenzione, ragazzo», disse affettuo-samente.


«Sì, Dally, grazie.» Uscimmo di corsa nel buio.


Ci acquattammo nelle erbacce vicino alle rotaie della ferrovia, sentendo avvicinarsi il fischio del treno. Il convoglio rallentò sferragliando, quindi si fermò. «Adesso!»


sussurrò Johnny, e saltammo su un vagone aperto. Ci addossammo a una parete, mentre i ferrovieri andavano su e giù per la massicciata lungo il treno. Uno infilò la testa nel


nostro vagone, e ci gelammo: ma non ci vide. Il vagone si avviò traballando.


«La prima fermata è Windrixville» disse Johnny, posando allegramente la pistola sul pavimento. Scosse la testa. «Non so perché me l’ha data. Non potrei mai sparare a qualcuno.»


E allora per la prima volta, in realtà, mi resi conto in che guaio ci eravamo cacciati.


Johnny aveva ammazzato uno. Il calmo e pacato Johnny, che non avrebbe fatto male ad anima viva, aveva spento una vita umana. E ora stavamo scappando, ricercati dalla polizia per omicidio, con una pistola carica accanto. Ah! se almeno Dally ci avesse dato anche un pacchetto di sigarette!


Mi stesi a terra, usando la gamba di Johnny per cuscino. Rannicchiandomi ringra-ziai mentalmente Dally per la giacca imbottita. Era troppo grande, ma era calda.


Nemmeno il traballare del treno riuscì a tenermi sveglio, e così mi addormentai nel giubbotto di un balordo, con una rivoltella a portata di mano.


Né molto più sveglio ero quando con Johnny saltai giù dal treno, in un prato. Solo quando atterrai in mezzo alla rugiada, e mi bagnai tutto, mi resi conto di quello che facevo. Johnny doveva avermi svegliato dicendomi di saltare, ma non me ne ricordavo. Giacemmo nell’erba alta e madida, ansimando. Stava sorgendo l’alba. A est il cielo era già chiaro, e un raggio d’oro lambiva le colline. Le nuvole erano rosa, e nel prato cantavano le allodole. Eccomi in campagna, pensai, mezzo addormentato. I miei sogni si sono avverati e sto in campagna.


«Cribbio, Ponyboy», disse Johnny massaggiandosi la gamba. «È tutta indolenzita.


A forza di dormirci sopra me l’hai messa fuori uso, chissà come ho fatto a saltar giù da quel treno.»


«Mi spiace, ma perché non mi hai svegliato?»


«Niente, niente. Volevo lasciarti dormire finché potevi.»


«E adesso dov’è che troviamo ‘sto Monte Jay?» domandai a Johnny. Ero ancora insonnolito, e avevo voglia di dormire eternamente nell’erba rugiadosa dell’alba.


«Va’ a chiederlo un po’ in giro. La storia non sarà ancora finita sul giornale. Fa’


finta di essere un ragazzo di campagna che fa una passeggiata o roba del genere.»


«Non sembro mica un ragazzo di campagna», dissi. Mi vennero in mente all’improvviso i capelli lunghi, e la camminata strascicata a cui mi ero ormai avvezzato.


Guardai Johnny, anche lui non sembrava mica un paesano. Aveva sempre l’aria di un botolo sperduto che avesse preso troppi calci, ma per la prima volta lo vidi come l’avrebbe visto un estraneo: un tipo tosto e duro, per via della maglietta nera e del com-pleto jeans, nonché dei capelli lunghi tutti imbrillantinati. Vidi i capelli che gli si ar-ricciavano dietro le orecchie e pensai: abbiamo tutti e due bisogno di un buon taglio di capelli e di qualche vestito decente. Guardai i miei jeans lisi e macchiati, la camicia troppo grande, e la giacca imbottita di Dally, tutta consumata. Capiranno che siamo dei teppisti come ci vedranno, pensai.


«Dovrò starmene qua, io», disse Johnny, massaggiandosi le gambe. «Tu va’ sulla strada, e chiedi dov’è il Monte Jay al primo che vedi.» Sobbalzò per il dolore alle gambe. «Poi torna qua. E per la miseria pettinati e piantala di strascicare i piedi come un assassino.»


Così l’aveva notato anche Johnny. Tirai fuori di tasca il pettine e mi pettinai con cura. «Adesso come sto?»


Johnny mi studiava. «Sai, assomigli un sacco a Sodapop, per via dei capelli e tutto il resto, tranne che gli occhi ce li hai verdi, tu.»


«Non sono mica verdi, sono grigi», replicai, arrossendo. «E assomiglio a Soda come gli assomigli te.» Mi alzai in piedi. «Lui è bello.»


«Macché. Sei bello anche tu», aggiunse Johnny con un sogghigno.


Saltai al di là del filo spinato senza dire altro. Sentivo Johnny che sghignazzava ancora alle mie spalle, ma non ci feci caso. Imboccai la strada di terra rossa, sperando di tornare del mio colorito naturale prima di incontrare qualcuno. Mi domando che staranno facendo adesso Darry e Sodapop, pensai, sbadigliando. Finalmente Soda ha il letto tutto per sé. Scommetto che Darry si è pentito di avermi dato quello sberlone. Si preoccuperà davvero quando verrà a sapere che Johnny e io abbiamo ammazzato quel signorino. Poi, per un attimo, mi figurai la faccia di Sodapop nel venirlo a sapere.


Vorrei essere a casa mia, pensai distrattamente: vorrei essere a casa mia, e ancora a letto. Forse però ci sono, forse sto solo sognando…


Era solo ieri sera che Dally e io ci eravamo seduti dietro a quelle ragazze al Nightly Double. Cribbio, pensai con la sensazione di essere travolto, le cose stanno andando troppo in fretta. Troppo veloci. Mi figurai che era impossibile cacciarsi in un pasticcio peggio di questo, omicidio. Johnny e io, ormai, eravamo costretti a nascon-derci per tutto il resto della nostra vita. Nessuno, eccetto Dally saprebbe dove stiamo, e lui non potrebbe dirlo a nessuno perché altrimenti finirebbe ancora in galera per averci dato la rivoltella. Se beccavano Johnny, gli davano la sedia elettrica, e se beccavano me, finivo al riformatorio. Avevo sentito parlare dei riformatori da Curly Shepard, e non avevo nessuna voglia di finirci. Così, ci toccava farci eremiti per tutto il resto della nostra vita, e non vedere mai nessuno tranne Dally. Magari non avrei mai più rivisto Darry e Sodapop. Né Vaccate o Steve. Ero in campagna, ma sapevo che non sarebbe stato come me l’ero immaginato: perché c’erano cose molto peggiori che essere semplicemente un ragazzo povero.


Incontrai un contadino abbronzato alla guida di un trattore. Gli feci segno con la mano e si fermò.


«Non sa dove si trova il Monte Jay?» gli domandai con la massima educazione.


Indicò la strada. «Segui la strada fino a quella grossa collina, è il Monte Jay. Stai facendo una passeggiata?»


«Sissignore.» Mi studiai di assumere un atteggiamento da pirla. «Stiamo giocando ai soldati, e io devo andare a rapporto proprio là.»


Certe volte mi spavento io stesso di come so mentire. Soda dice che è perché leggo molto. Ma anche Vaccate continua a dir balle, e non mi risulta che abbia mai aperto un libro.


«Sempre uguali i ragazzi», commentò il contadino con un sogghigno, e mi venne in mente che forse era un fan di Hank Williams anche lui. Proseguì, e io tornai dove mi aspettava Johnny.


Salimmo per la strada della chiesa, che si rivelò molto più lontana di quel che sembrava. La strada diventava a ogni passo più ripida. Io mi sentivo come ubriaco – mi capita sempre quando ho sonno — e avevo le gambe sempre più pesanti. Credo che Johnny aveva anche più sonno di me — era rimasto sveglio, in treno, per assicurarsi che scendessimo al posto giusto — comunque in tre quarti d’ora ci arrivammo. Entrammo per una finestra sul retro. Era una chiesetta molto antica, lugubre e piena di ragnatele. Mi metteva agitazione. Io in chiesa ci andavo sempre, anche dopo la morte di mamma e papà. Una domenica, convinsi Soda a venirci con Johnny e me. Lui non voleva, a meno che non venisse anche Steve; Vaccate decise di venirci. Dally stava a letto a smaltire una sbronza, e Darry era al lavoro. Quando io e Johnny arrivammo, ci sedemmo in fondo, cercando di trarre profitto dal sermone senza badare alla gente, vestita troppo bene per i nostri gusti. Ma nessuno faceva caso al nostro abbigliamen-to. Per quello ci piaceva andare. Ma proprio quel giorno… be’, Soda non è capace di star seduto un pezzo senza far niente, nemmeno al cinema ci sta, figurarsi a una pre-dica. Non passò molto che lui e Vaccate cominciarono a fare i buffoni, tirandosi aero-planini di carta e compagnia bella, e alla fine Steve lasciò cadere un libro di inni sul pavimento. Il librone ci arrivò piatto e fece un botto inaudito. Per caso, naturalmente.


Tutti si voltarono a fissarci, e io e Johnny quasi ci nascondemmo dietro le panche.


Vaccate si mise a salutare i fedeli con la mano…


Da allora non ci sono andato più.


Ma questa chiesa mi dava una sensazione di disagio inspiegabile. Come si chiama, premonizione? Mi buttai per terra, e immediatamente decisi di non rifarlo più: il pavimento era di pietra, e duro. Johnny si coricò vicino a me, appoggiando la testa sul braccio. Feci per dirgli qualcosa, ma mi addormentai prima che mi uscissero le parole di bocca. Ma Johnny non se ne accorse: dormiva già anche lui.

V


Mi SVEGLIAI nel tardo pomeriggio. Per un secondo non seppi più dov’ero. Sapete com’è, quando ci si sveglia in un posto strano e ci si chiede dove diavolo si è, finché non arriva, come un’onda, la memoria. Mi ero già quasi convinto di essermi sognato tutto quello che era accaduto la, sera prima. Sono a casa, a letto, pensavo. È tardi e sia Sodapop sia Darry si sono già alzati. Darry sta facendo la colazione, e tra un momento lui e Soda faranno irruzione in camera e mi tireranno giù dal letto senza tanti complimenti, oppure si metteranno a farmi il solletico al punto che li dovrò implorare di smetterla per non schiattare. Tocca a me e Soda fare i piatti dopo mangiato: poi andiamo fuori, e ci mettiamo a giocare a football. Io, Johnny e Vaccate staremo con Darry, perché io e Johnny siamo piccoli e Darry è il più bravo. Andrà tutto come nelle solite mattinate di week-end. Cercai di convincermene mentre giacevo sul freddo pavimento di pietra, avviluppato nella giacca imbottita di Dally, ascoltando il vento che frusciava nelle foglie secche di fuori.


Alla fine la smisi di far finta e mi tirai su. Ero tutto irrigidito e indolenzito per la dormita sul pavimento, ma non avevo mai dormito così profondamente. Ero ancora KO. Spostai la giacchetta jeans di Johnny, che in qualche modo era finita sopra di me, e sbattei gli occhi grattandomi la testa. C’era un terribile silenzio, solo il vento tra gli alberi. All’improvviso mi resi conto che Johnny non c’era.


«Johnny?» chiamai forte, e quella vecchia chiesa di legno mi rispose con l’eco, onny onny… Mi guardai attorno già quasi in preda al panico, ma ben presto vidi un messaggio tracciato con l’indice sulla polvere del pavimento. SONO A FAR LA SPESA, TORNO SUBITO, j.c. Sospirai, e andai alla pompa a bere.


L’acqua era come ghiaccio liquido e aveva un sapore un po’ strano, ma era acqua.


Me ne spruzzai un po’ in faccia e


mi svegliò subito. Mi asciugai con la giacca di Johnny e mi sedetti sui gradini del retro. La collina su cui era la chiesa finiva bruscamente a una decina di metri dalla pompa, e lo sguardo spaziava per chilometri e chilometri. Era come star seduti in cima al mondo.


Quando non hai niente da fare non puoi evitare di ricordare. E io ricordai ogni particolare della scorsa notte, ma con la strana sensazione di sognare. Mi sembravano passate ben più di ventiquattro ore, da quando avevamo incontrato Dally all’angolo fra la Pickett e la Sutton Avenue. E forse era così. Magari Johnny era via da una settimana, e io non avevo fatto che dormire. Magari gli sbirri l’avevano già arrestato, e stava per andare sulla sedia elettrica perché non voleva rivelare dove stavo io. Magari Dally era morto in un incidente d’auto o roba simile e nessuno sapeva dove mi trovavo, e sarei morto quassù, solo, lasciando lì il mio scheletro. La mia immaginazione scatenata mi stava trascinando per l’ennesima volta. Sudavo e tremavo. Mi girò la testa, e chiusi gli occhi. Immagino che fosse una specie di shock retroattivo. Alla fine, lo stomaco mi si quietò e mi rilassai un tantino, sperando che Johnny si ricordasse di comprare anche delle sigarette. Ero spaventato, a star lì seduto tutto solo.


Sentii qualcuno avvicinarsi camminando sulle foglie morte e andai a nascondermi in chiesa. Poi sentii il fischio lungo e basso, che terminava di colpo su una nota acuta.


Lo conoscevo bene: era il segnale usato da noi e dalla banda di Tim Shepard, significava: «Chi è là?» Lo restituii con cura, poi schizzai fuori dalla porta così in fretta che inciampai e finii a capofitto giù dai gradini, ai piedi di Johnny.


Mi rialzai subito e gli sorrisi. «Ciao, Johnny, ma che strano incontrarci qua!»


Mi guardò da dietro un grosso pacco. «Ponyboy, è un po’ di tempo che mi sembri Vaccate sputato.»


Cercai senza successo di alzare un sopracciglio. «Ah sì?» Saltai in piedi, felice di essere di nuovo in compagnia. «Cos’hai comprato?»


«Vieni dentro. Dally ci ha detto di star dentro.»


Entrammo. Johnny spolverò un tavolo con la giacca e cominciò a tirar fuori le cose dal pacco, allineandole con ordine. «Una scorta di mortadella per una settimana, due filoni di pane, una scatola di fiammiferi…» elencò.


Mi stufai di starlo a guardare, e mi misi anch’io a frugare nel sacco. «Ehi!» esclamai sedendomi su una sedia polverosa, sbarrando gli occhi. C’era un’edizione econo-mica di Via col vento. «Come facevi a sapere che avevo voglia di leggerlo?»


Johnny diventò rosso. «Mi pare che una volta l’hai accennato. E il film l’abbiamo visto insieme, ti ricordi? Ho pensato che potevi leggerlo ad alta voce, così, tanto per passare un po’ di tempo.»


«Cribbio, grazie!» Misi giù il libro con riluttanza. Avevo voglia di cominciarlo subito. «Acqua ossigenata, un mazzo di carte…» All’improvviso mi venne un sospetto.


«Johnny, non avrai mica intenzione di…»


Johnny si sedette e tirò fuori il coltello. «Ci tagliamo i capelli, e tu li tingi», disse con gli occhi bassi. «Avranno stampato sui giornali la nostra descrizione, meglio non assomigliarci.»


«Oh no!» La mano mi corse ai capelli. «No, Johnny, i capelli no!»


Erano il mio orgoglio. Lunghi e setosi, come quelli di Soda, solo un po’ più rossi.


Avevamo dei bei capelli, non eravamo obbligati a metterci troppa brillantina. Inoltre, erano i capelli che ci distinguevano, a noi Greaser. Erano il nostro marchio di fabbri-ca, l’unica cosa di cui andavamo fieri. Magari non avevamo la Corvair, né la camicia indiana, ma i capelli sì!


«Tanto, se ci beccano ce li fanno tagliare loro. Sai che la prima cosa che fa il giudice è chiamare il barbiere.»


«Non capisco perché», dissi, amaramente. «Dally è capace di rapinare qualcuno anche coi capelli corti, di sicuro.»


«Non so neanch’io perché, forse è solo un tentativo di domarci in qualche modo.


Cosa possono fare i tipi come Curly Shepard o Tim? Gliene hanno già fatte di tutti i colori. E non possono portargli via niente, per prima cosa perché non hanno niente.


Così gli tagliano i capelli.»


Guardai Johnny, implorante. Lui sospirò. «Anch’io me li taglio e lavo via la brillantina, ma non posso tingerli perché ho la carnagione troppo scura per passare davvero per biondo. Dai, dai, Ponyboy, tanto ricrescono», sospirò. «Okay», dissi con gli occhi sbarrati. «Comincia pure.» Johnny tirò fuori la lama affilatissima del suo coltello, mi prese per il ciuffo e cominciò a tagliare. Io rabbrividii. «Non troppo corti», lo scongiurai. «Per piacere, Johnny…»


Finalmente la piantò. Sparsi sul pavimento, i miei capelli erano strani. Ne raccolsi una ciocca. «Sono più leggeri di quel che avrei detto», commentai, esaminandola.


«Posso guardarmi per vedere come sto?»


«No», rispose calmo Johnny, fissandomi. «Prima li schiariamo.»


Dopo che fui rimasto al sole un quarto d’ora per fare asciugare l’acqua ossigenata, Johnny mi permise di guardarmi allo specchio, un affare mezzo rotto che avevamo trovato in un angolo. Ci restai quasi. Non mi assomigliavo affatto. Sembravo più giovane, e più impaurito di quello che ero, anche. Cribbio, pensai, adesso sì che ho l’aria del duro… sembravo un frocio, altro che. Che guaio.


Johnny mi porse il coltello. Anche lui aveva l’aria abbattuta. «Taglia il ciuffo e ac-corcia il resto. Li lavo e poi me li pettino all’indietro.»


«Johnny», dissi tristemente, «con questo tempo gelido non puoi lavarti i capelli, ti becchi il raffreddore.» Alzò le spalle. «Dai, taglia.»


Feci del mio meglio. Dopo di che, lui fece a modo suo e se li lavò, con la saponetta che aveva comprato. Ero contento di trovarmi in fuga con lui, invece che con Vaccate o Steve o Dally: non ci avrebbero pensato di sicuro, loro, al sapone. Gli diedi il giaccone di Dally e si sedette al sole, sui gradini posteriori della chiesa, rabbrividendo, coi capelli ravviati. Era la prima volta che notavo le sue sopracciglia. Non sembrava affatto Johnny. La fronte era più bianca dove aveva avuto il ciuffo: ci sarebbe stato da ridere, se non fossimo stati così spaventati. Continuava a tremare dal freddo. «Credo che adesso siamo proprio travestiti», bisbigliò debolmente.


Mi sedetti vicino a lui. «Irriconoscibili.» «Oh, merda», disse a un tratto. «Sono solo capelli.» «Un cavolo», replicai, rabbioso. «Sai quanto tempo mi ci è voluto per averli proprio come li volevo. E poi non siamo più noi. È come mascherarsi per Hal-loween e non riuscire più a togliersi il costume.»


«Be’, dovremo abituarci», ribadì Johnny con decisione. «Siamo nei guai fino al collo e dobbiamo scegliere: o noi o il nostro aspetto.»


Cominciai a mangiarmi una tavoletta di cioccolato. «Sono ancora stanco morto», dissi. Con mia grande sorpresa il suolo mi si confuse, e sentii le lacrime colarmi giù per le guance. Le asciugai in fretta. Johnny aveva l’aria abbattuta esattamente come me.


«Mi spiace che ho dovuto tagliarti i capelli, Ponyboy.» «Oh, non è mica per quello», risposi fra bocconi di cioccolato. «Voglio dire, non soltanto. È che sono un po’


spaventato. Non so neanch’io perché, sono confuso.»


«Io lo so», disse Johnny battendo i denti. Entrammo: «È che le cose sono capitate così in fretta…» Lo abbracciai per riscaldarlo.


«Doveva vederlo Vaccate, quel negozietto. Caro mio, qua siamo nel deserto sai?


La prima casa è a cinque chilometri. Le cose sugli scaffali sono tutte lì che aspettano solo di esser fregate da uno dritto come Vaccate. Poteva uscire con mezzo negozio sotto la giacca.» Si appoggiò a me, e lo sentii tremare. «Il buon vecchio Vaccate», commentò con voce incerta. Doveva avere nostalgia, come me.


«Ti ricordi che buffone, ieri sera?» gli dissi. «Ieri sera… quando stavamo accom-pagnando Cherry e Marcia a


casa sua, a prender la macchina. E poi ci siamo sdraiati sul prato, a guardare le stelle e sognare…»


«Smettila!» disse Johnny di scatto, a denti stretti. «Smettila di parlare di ieri sera!


Ieri sera ho ammazzato un ragazzo. Avrà avuto diciassette o diciott’anni, e l’ho ammazzato. Ti piacerebbe, a te, averlo sulla coscienza?» Piangeva. Lo sostenni come Soda l’aveva sostenuto il giorno che gliele avevano date, sul prato incolto vicino a casa mia.


«Io non volevo», singhiozzò alla fine. «Ma quelli là ti stavano affogando, e avevo tanta paura…» Restò in silenzio un minuto. «Cavolo, quanto sangue che abbiamo dentro.»


Si alzò di colpo e cominciò a camminare avanti e indietro, tirandosi grandi pacche sulle cosce.


«Cosa facciamo adesso?» Ormai, piangevo. Stava venendo buio e avevo freddo e mi sentivo solo. Chiusi gli occhi appoggiando la testa all’indietro, ma le lacrime con-tinuarono a sgorgare.


«Colpa mia», disse Johnny con voce cupa. Aveva smesso di piangere quando avevo cominciato io. «Per essermi portato dietro un ragazzino di tredici anni. Dovresti andare a casa, non ti farebbero niente. Non sei mica stato tu ad ammazzarlo.»


«No!» gridai. «Ho quattordici anni, non tredici! Li ho compiuti da un mese. E sono nei guai esattamente come te. Fra un momento smetto di piangere… non riesco a trat-tenermi!»


Si buttò a sedere accanto a me. «Non volevo offenderti, Ponyboy. Non piangere, Pony, andrà tutto bene. Non piangere…» Mi appoggiai alla sua spalla e piansi finché non mi addormentai.


Mi svegliai a tarda notte. Johnny era ancora appoggiato al muro, e io mi ero addormentato col capo sulla sua spalla. «Johnny?» sbadigliai. «Sei sveglio?» Avevo sonno, però sentivo caldo.


«Sì», rispose tranquillamente.


«Adesso non piangiamo più, vero?» «No. Abbiamo già pianto tutte le lacrime.


Adesso ci stiamo abituando all’idea. D’ora in poi andrà tutto bene.» «È quello che pensavo anch’io», dissi, più calmo. E per la prima volta da quando con Dally ci eravamo seduti dietro quelle ragazze al Nightly Double, mi rilassai. Ormai eravamo pronti a tutto.


I quattro o cinque giorni che seguirono furono i più lunghi della mia vita. Ammaz-zavamo il tempo leggendo Via col vento e giocando a poker. A Johnny piaceva da matti quel libro, anche se non sapeva niente della Guerra di Secessione e ancor meno delle piantagioni, e io dovevo spiegargli sempre un sacco di cose. Mi, stupiva, però, come Johnny riuscisse a trarre da alcuni episodi del libro un grande significato che a me invece sfuggiva: e si che dovevo essere io, di noi due, il tipo profondo. Johnny era stato bocciato un anno a scuola, e non aveva mai preso voti buoni: non riusciva ad as-similare nulla che gli venisse propinato troppo in fretta, e immagino che i professori lo giudicassero semplicemente uno sciocco. Ma non lo era affatto. Era solo un po’


lento a capire le cose, ma quando le aveva capite gli piaceva molto approfondirle. Era rimasto colpito soprattutto dai gentlemen sudisti: dalle loro maniere, dal loro fascino.


«Dovevano essere dei duri», disse, con gli occhi che gli brillavano, quando gli lessi l’episodio della galoppata verso la morte sicura per il loro senso dell’onore. «Mi fanno pensare a Dally.»


«Dally?» esclamai, sconcertato. « Mierda! quello è un gentleman come me. Hai visto anche tu come ha trattato le ragazze al cinema. Per me, Soda assomiglia di più a quei ragazzi sudisti.»


«Sì… per quanto riguarda i modi, e anche il fascino, immagino. Ma io una sera ho visto Dally arrestato dagli sbirri», disse lentamente Johnny; «è rimasto sempre cal-missimo e padrone di sé. Lo arrestavano per la rottura dei vetri della scuola, ed era stato Vaccate a romperli, e lui lo sapeva benissimo. Ma si è beccato la condanna senza batter ciglio e senza nemmeno negare. Non è cavalleria questa?»


Fu la prima volta che apprezzai l’estensione dell’adorazione di Dally da parte di Johnny. Di tutti noi, Dally era quello che mi piaceva meno. Non aveva la comprensione umana di Soda, né la sua finezza, né l’umorismo di Vaccate, né le qualità da su-perman di Darry. Ma mi accorsi che questi tre qua mi affascinavano perché erano simili agli eroi dei romanzi che leggevo. Dally invece era vero. A me piacevano i libri, le nuvole e i tramonti. Dally era così vero che mi faceva paura.


Johnny e io non andavamo mai sul davanti della chiesa. Dalla strada si vedeva la facciata, e a volte ci passavano, a cavallo, dei ragazzi di campagna che andavano al negozio. Così ce ne stavamo sul retro, di solito seduti sui gradini, a guardare la valle.


Si vedeva un vasto panorama, di chilometri e chilometri, col nastro dell’autostrada e i puntini delle macchine e delle case. Non si vedevano i tramonti, perché il retro della chiesa dava a est, ma mi piaceva guardare i colori dei campi e le sfumate penombre dell’orizzonte.


Una mattina mi svegliai prima del solito. Johnny e io dormivamo abbracciati per riscaldarci… Dally aveva ragione a metterci in guardia contro il freddo. Attento a non svegliarlo, mi divincolai per andare a fumarmi una sigaretta sui gradini. Era l’alba. La valle era coperta di nebbia che si sfaldava qua e là in nuvolette bianche. Il cielo era già chiaro a oriente, e l’orizzonte era una sottile riga d’oro. Ci fu un momento di si-lenziosa pace, come se il mondo trattenesse il respiro, e poi il sole sorse. Era bellissi-mo.


«Cavolo», la voce di Johnny al mio fianco mi fece sobbalzare «è stato veramente bello.»


«Sì.» Sospirai, desiderando avere dei colori per dipingere quello spettacolo finché ce l’avevo fresco in mente.


«Merito della nebbia», commentò Johnny. «Tutta oro e argento.»


«Uhmmmmm», dissi, cercando di fare un anello di fumo.


«Peccato che non sia durato di più.»


«Ciò che è d’oro non dura.» Mi era venuta in mente una poesia che avevo letto una volta.


«Come?»


Della natura il primo verde è d’oro,


il più raro ed effimero color.


La prima foglia è un fior


che dura un’ora sola.


Poi, foglia cede a foglia.


Così l’Eden piombò nella doglia;


così l’alba nel giorno si cala.


Ciò che è d’oro non dura1


Johnny mi guardava con gli occhi sbarrati. «Dov’è che l’hai imparata? Era proprio quello che volevo dire io.»


«L’ha scritta Robert Frost. Voleva dire qualcosa di più, ma non lo capisco.» Stavo cercando di capire il significato che il poeta aveva in mente, ma mi eludeva. «Me la son sempre ricordata proprio perché non sono mai riuscito a capirla fino in fondo.»


«Sai», disse Johnny piano, «finché non mi ci hai fatto far caso non ho mai dato importanza ai colori, alle nuvole e roba del genere. Mi sembra quasi che prima non c’erano.» Rimase a pensare un momento. «Certo che è buffa la tua famiglia.»


«Cosa ci sarebbe di così buffo?» domandai, sulla difensiva.


Johnny mi guardò negli occhi. «Non intendo mica niente di male, sai. Voglio solo dire, ecco, che Soda assomiglia a tua madre, ma si comporta esattamente come tuo padre. E Darry è tuo padre sputato, ma non è affatto scatenato e ridanciano come lui.


Si comporta come tua madre. E tu non assomigli a nessuno di loro.»


«Lo so», dissi. «Be’», proseguii, pensandoci un po’, «anche tu non sei come gli altri della banda. Voglio dire, non mi sognerei mai di parlare a Vaccate o a Steve o anche a Darry del sorgere del sole, delle nuvole o roba del genere. Non mi verrebbe neanche in mente, quella poesia, insieme a loro. Voglio dire, sono lontanissimi. Solo a te e a Sodapop posso dirlo, e forse a Cherry Valance.»


Johnny alzò le spalle. «Sì», rispose con un sospiro. «Credo proprio che siamo diversi.»


«Mierda», dissi facendo un perfetto anello di fumo con la sigaretta, «magari sono loro che sono diversi.»


Il quinto giorno ero così stufo di mortadella che mi veniva la nausea solo a vederla.


Le tavolette di cioccolato le avevamo mangiate tutte i primi due giorni. Stavo morendo dalla voglia di una Pepsi. Sono una specie di drogato della Pepsi. Ne bevo un’infinità, e star cinque giorni senza berne nemmeno una, mi stava uccidendo. Johnny pro-mise di comprarmene un po’ alla fine delle provviste, ma intanto soffrivo. Fumavo molto più del solito – anche se Johnny mi aveva avvertito che sarei stato male così facendo — ma cos’altro c’era da fare? Stavamo molto attenti a fumare: se quella vecchia chiesa di legno prendeva fuoco, non ci sarebbe stato verso di spegnere l’incendio.


Il quinto giorno, eravamo arrivati all’assedio di Atlanta da parte del generale Sher-man in Via col vento; dovevo a Johnny centocinquanta dollari per via del poker, mi ero fumato due pacchetti di Camel e come Johnny aveva previsto, stavo male. Non mangiai niente in tutta la giornata, e fumare a stomaco vuoto non ti fa sentire pieno di salute. Mi accucciai in un angolo per dormirci sopra. Stavo quasi per addormentarmi quando udii in lontananza un fischio lungo e basso, che di colpo terminava su una nota acuta. Avevo troppo sonno per farci caso, benché Johnny non potesse aver motivo di fischiare così. Era seduto sui gradini dietro la chiesa, a cercar di leggere Via col vento. Io ero quasi arrivato a convincermi di essermi solo sognato il mondo esterno, e che esistevano soltanto i panini alla mortadella, la Guerra di Secessione, la vecchia chiesa e la nebbia nella vallata. Mi sembrava di aver sempre vissuto in quella chiesa, oppure al tempo della Guerra di Secessione, per poi essere stato in qualche modo tra-piantato lì. Ciò per farvi capire che razza di immaginazione scatenata ho.


Mi arrivò un calcetto nelle costole. «Cribbio», disse una voce aspra ma familiare,


«sembra un altro coi capelli così conciati.»


Saltai in piedi, fregandomi gli occhi e sbadigliando. Guarda chi si vede! «Ciao, Dally!»


«Ehilà, Ponyboy!» Mi sorrise. «O dovrei dire piuttosto la Bella Addormentata.»


Non avrei mai pensato che veniva il giorno che ero contento di vedere Dally Winston, ma eccolo qua, ero contentissimo: significava una sola cosa, contatto col mondo esterno. A un tratto si era incarnato, in lui.


«Come sta Sodapop? Gli sbirri ci cercano? Darry sta bene? I ragazzi lo sanno dove siamo? Che cosa…»


«Ehi, calma, ragazzo», mi interruppe Dally. «Non posso mica rispondere a tutte le domande in una volta. Perché per prima cosa non andate a prendere qualcosa da mangiare? Ho saltato la colazione e sono affamato.»


«Tu sei affamato?» Johnny era così indignato che quasi squittiva. Mi tornò in mente la mortadella…


«Sarà prudente uscire?» domandai, impaziente di cambiare menu.


«Sì.» Dally si frugò in tasca in cerca di una sigaretta e non trovandone nessuna, chiese: «Hai una cancrosa, Johnny bello?»


Johnny gliene tirò un intero pacchetto. «Gli sbirri non vi cercano di sicuro da queste parti»,


disse Dally, accendendo la sigaretta. «Credono che siete scappati nel Texas. Ho la T-bird di Buck parcheggiata a poca distanza da qua. Cribbiolino, ragazzi, ma non vi siete portati niente da mangiare?»


Johnny aveva la faccia perplessa. «Ma sì, certo. Cos’è che ti fa pensare di no?»


Dally scosse la testa. «Siete tutti e due pallidi e siete dimagriti. Cavolo, uscite e state al sole un po’ di più, d’ora in poi. Sembrate passati fra le pale di un mulino.»


Stavo per dire senti chi parla ma per prudenza me ne astenni. Anche Dally aveva bisogno d’una bella rasatura: aveva la mascella coperta da una peluria scolorita; e pareva lui quello che da una settimana dormiva vestito, non noi. Sapevo che non vedeva il barbiere da mesi e mesi. Ma era meglio non far tanto i chiacchieroni con Dally.


«Ehi, Ponyboy», disse tirando fuori un pezzo di carta dalla tasca posteriore dei calzoni. «Ho qua una lettera per te.»


«Una lettera? Di chi?»


«Il Presidente, naturalmente, fesso! È di Soda.» «Sodapop?» dissi, sbalordito. «Ma come fa a sapere che…»


«Un paio di giorni fa ha fatto un salto da Buck e ha trovato la tua maglietta. Gli ho detto che non sapevo dov’eri, ma non mi ha creduto. Mi ha dato questa lettera e metà della sua paga da darti. Ragazzo mio, dovresti vedere Darry. L’ha presa malissimo…»


Non stavo più ascoltando. Leggevo, appoggiato alla parete della chiesa: Ponyboy,


vedo che sei leggermente inguaiato, eh? Darry e io a momenti diamo fuori di matto quando sei scappato via. Darry è pentitissimo di averti picchiato, sai che non l’ha fatto con cattiveria. E poi tu e Johnny siete spariti, con quel ragazzo morto al parco, con Dally fermato dagli sbirri: cavolo che spavento! La polizia è venuta a interrogarci e abbiamo detto tutto quello che sapevamo Non riesco a credere che il caro vecchio Johnny ha ammazzato uno. So che Dally sa dove siete, ma sapete com’è: tiene la bocca chiusa, e non ce lo vuol dire. Darry a momenti ci resta per la preoccupazione di non sapere dove sei. Vorrei che tornate e vi costituite ma credo che a Johnny non gli conviene mica tanto. Sai che siete famosi? Vi hanno messo anche sul giornale. State-vi accorti e salutami Johnny.


SODAPOP CURTIS


Dopo averla letta tre o quattro volte, sempre inciampando su quello spartiti (cosa ci voleva a curare un po’ di più l’ortografìa?) mi rivolsi a Dally. «Com’è che ti hanno fermato?»


«Mierda, ragazzo», disse sogghignando, «gli sbirri al distretto ormai mi conosco-no, mi fermano ogni volta che capita qualcosa. Mentre ero là, ho lasciato cadere che ve la siete filata nel Texas, così adesso è là che vi cercano.» Fece un tiro dalla sigaretta e la maledì allegramente per non essere della sua marca preferita. Johnny ascoltò ammirato la litania: «Quante ne sai, però, Dally!»


«Non è vero?» rispose Dally tutto contento. Era fiero del suo vocabolario. «Ma voialtri ragazzini non prendete i miei vizi, eh?»


Mi diede un pizzicotto in testa. «Bello mio, giuro che mi fai schifo con i capelli così conciati. Prima sì che stavi bene! Tu e Soda avete i capelli più forti della città.»


«Lo so», affermai amaro. «Sto da cane, ma non ricordarmelo.»


«Allora, volete che andiamo a mangiare qualcosa sì o no?»


Johnny e io balzammo in piedi. «Come no!» «Cribbio», esclamò Johnny tutto contento. «Che bello risalire su una macchina!»


«Molto bene», ghignò Dally, «vi offro la scarrozzata in cambio di tutto il vostro grano…»


A Dally piaceva andar forte, in macchina, e guidava sempre come se non gli interessava di arrivare o no. Scendemmo giù per la strada del Monte Jay a centoventi al-l’ora. A me piace la velocità, e Johnny va pazzo per le corse di dragsters, ma quando Dally prese una curva su due ruote diventammo verdi, sin sopra le orecchie. Forse perché era troppo tempo che non salivamo su una macchina.


Ci fermammo a una latteria e per prima cosa mi beccai una Pepsi. Johnny e io poi ci gettammo su hamburger e banane split.


«Cavolo», disse stupito Dally, vedendoci divorare la roba in due bocconi, «guardate che di grano ce ne ho un sacco, non c’è bisogno di far la figura dei morti di fame.


Piano, piano, che poi mi vomitate addosso. E io che credevo di aver fame!»


Johnny si limitò a diminuire il moto delle mascelle. Io non rallentai finché non mi venne un po’ di mal di testa.


«Non vi ho ancora detto una cosa», disse Dally, finendo il terzo hamburger. «I Soc ci fanno la guerra in tutta la città. Quel ragazzo che avete fatto fuori aveva un sacco di amici dappertutto. Così è scoppiata la guerra Soc contro Greaser. Non si può più andare in giro da soli. Ho cominciato a portarmi dietro il cannone…»


«Dally!» gridai, spaventato. «Si ammazza la gente, col cannone!»


«Anche col coltello a serramanico, no, caro?» rispose Dally in tono duro. Johnny inghiottì. «Non preoccuparti, non lo carico mica», proseguì Dally. «Non ho nessuna voglia di farmi incastrare per omicidio. Mi serve per far passare qualche bluff. Domani sera la nostra banda e quella di Tim Shepard la facciamo fuori coi signorini nel prato vicino a casa vostra. Abbiamo catturato il presidente di uno dei loro club e tenuto un consiglio di guerra. Sì», sospirò Dally, e mi accorsi che stava ricordando New York, «proprio come ai vecchi tempi. Se vincono loro, tutto va avanti come prima: se vinciamo noi, staranno fuori dal nostro territorio per sempre. Qualche giorno fa sono saltati addosso a Vaccate: io e Darry siamo arrivati subito, ma non era in difficoltà.


Vaccate è uno che sa battersi. Ehi, non vi ho ancora detto che abbiamo una spia.»


«Una spia?» Johnny alzò il viso dalla sua banana split. «E chi è?»


«Quella bella ragazza che ho cercato di rimorchiare la sera che hai ammazzato il signorino. La rossa, Cherry come-si-chiama.»


VI