domenica 23 aprile 2023

La palestra di Euripide. Alcesti o i volti dell’amore Estratto da "Una Spa per l"anima Cristina Dell’Acqua



La palestra di Euripide.

Alcesti o i volti dell’amore

Estratto da "Una Spa per l"anima Cristina Dell’Acqua

"Eschilo o Euripide, antichi registi, hanno gareggiato nel V sec. a.C per mettere al centro della scena non tanto uomini ma idee immortali con cui ci confrontiamo, da allora in poi, perché vanno al cuore di ciò che siamo. E mi piace pensare che lo sappiano, ovunque si trovino in questo momento. Alcesti, la protagonista dell’omonima tragedia di Euripide del 438 a. C., che si sacrifica per amore del marito Admeto, è per noi la declinazione dell’amore, parla di noi e per noi. Cosa significa amare? È essere amati oppure amare senza misura, è trovare compromessi quotidiani oppure sacrificarsi? Se qualcuno ci vuole spegnere o, peggio, se è violento anche psicologicamente nei nostri confronti, davvero ci ama?" INTERVISTA A CRISTINA DELL'ACQUA Letture.org


La maggior parte della gente ritiene che amore significhi essere amati anziché amare. 

Erich Fromm L’arte di amare


Se potessimo organizzare un viaggio ad Atene nel V secolo a.C. la primavera sarebbe il periodo migliore. In città si celebrano le Grandi Dionisie, le feste sacre in onore di Dioniso. Sette giorni di festeggiamenti, quattro dei quali dedicati a un festival teatrale: poeti tragici e comici presentano al pubblico le proprie opere, pensate per l’occasione, e una giuria premia il miglior attore, il miglior coro e il miglior poeta. Seduti in un teatro all’aperto, dalla gradinata a semicerchio appoggiata al rialzo naturale della collina, il theatron, vediamo davanti a noi due spazi, l’orchestra e la scena. La prima è circolare, con al centro la statua di Dioniso a immergerci in un’atmosfera sacra, inusuale per un teatro moderno. Lì si dispone anche il coro, cioè la voce del poeta che accompagna e commenta con sottofondo musicale l’azione che si svolge sulla scena, dove recitano gli attori e sono posti gli allestimenti teatrali, in genere essenziali. Gli attori, solo maschi, indossano una maschera che permette loro di interpretare più ruoli e di amplificare la voce, grazie a un piccolo foro sulla bocca.

Ci accorgiamo poi che le maschere hanno tratti marcati e ben visibili, ma l’espressione del volto è stereotipata, fissa. Segno che la nostra attenzione deve rivolgersi altrove, alle loro parole.

Vediamo macchinari teatrali per calare gli attori dall’alto o piattaforme per rendere visibili azioni che si svolgono in un interno. Non assisteremo invece agli atti cruenti a cui oggi siamo abituati, questi avvengono fuori dalla scena, lontano dagli sguardi di noi spettatori, e ci sono raccontati da un messaggero o da una guardia che ci mette in condizioni di vedere attraverso gli occhi della nostra immaginazione. Probabilmente perché il teatro greco non usa più di tre attori e nemmeno il sipario, non nasconde: un cadavere rimarrebbe in scena per tutta la durata dello spettacolo. Probabilmente per un’astuzia del poeta che non vuole distrarre l’attenzione del pubblico con gesti cruenti, di facile presa. Gli attori ci parlano dell’uomo, della sua dimensione religiosa, umana e politica, della sua vita in relazione a se stesso e alla polis, di cui è l’anima. E il filosofo Gorgia ci ha avvertito: «La tragedia è un inganno in cui chi è ingannato è più saggio di chi non si lascia ingannare».

Quel lasciarsi ingannare equivale a un lasciarsi andare. Chi davvero lo sa fare più? La capacità di lasciar andare le emozioni anziché reprimerle ha una funzione terapeutica. Nella religione come nella tragedia, i Greci parlano non a caso di κάθαρσις (kátharsis), catarsi, una purificazione che porta un rinnovamento interiore. Per gli antichi Greci, partecipare alla rappresentazione di una tragedia a teatro era un’esperienza multisensoriale in cui migliaia di persone vedevano, ascoltavano e rivivevano insieme una storia che era anche la loro. Paura, speranza, dolore, illusioni, gioie esplodono in una liberazione dell’anima dalle passioni irrazionali che sempre ci sovrastano.

Il teatro greco custodisce in sé il canone non scritto della Serendipity, quella felicità che scaturisce dalla rivelazione di qualcosa di inatteso. Il lasciarsi ingannare fa scoprire la forza di energie represse che non trovano quasi mai la giusta via d’uscita. Oggi siamo assediati da manuali sul pensiero positivo, inseguiamo la felicità a ogni costo e piangere è diventato un atto di cui vergognarsi. Ogni emozione viene respinta al mittente in nome di un comportamento corretto che ingabbia il nostro sentire più profondo e vero. Gli antichi sapevano piangere, ridere, provare paura e gioia nello spazio pubblico del teatro. Vivevano le emozioni, anche quelle più dolorose, e sapevano soprattutto condividerle.

Ad Atene infatti attori, coro e migliaia di spettatori entrano a far parte di una realtà dove si prova l’esperienza di essere nell’ombelico di un mondo alternativo cui abbandonarsi. Il teatro antico è un incantesimo, quello moderno è una forma di intrattenimento, più o meno culturale, in cui assistiamo alla messa in scena di un’opera in prosa. Canto, musica e danza, strettamente legati alla recitazione degli attori antichi, noi potremo apprezzarli soltanto a un concerto o all’opera. Ma la vera magia perduta è quella del teatro all’aperto. Alla luce del sole le nostre passioni e le nostre irrazionalità non possono nascondersi con il favore delle tenebre.

E pensare che nel nostro immaginario tragedia greca è sinonimo di un coacervo di disgrazie dal quale è bene guardarsi! Chi di noi le ha studiate le ha rimosse, chi di noi le ha scampate non credo le tenga sul proprio comodino tra i libri da leggere.

Eppure le tragedie greche sono storie.

Storie che ci parlano, a seconda della nostra sensibilità e del momento in cui le leggiamo, e ci raccontano di noi, delle nostre passioni e delle nostre fragilità.

I personaggi di queste storie vengono dal mito, una tavolozza di figure senza tempo da cui i poeti del teatro greco hanno attinto per dipingere le gradazioni dell’animo umano. Alcesti è una donna che sacrifica la propria vita per amore: quante donne lo fanno. Antigone è un’adolescente che, con la determinazione delle proprie idee, mette in crisi un sistema di potere consolidato, indiscusso e indiscutibile: la forza propulsiva dei giovani. Edipo è un uomo che nasce con un pesante bagaglio ereditato a prescindere dalla sua volontà e con cui dovrà fare i conti per tutta la vita come uomo, marito e padre, nell’esercizio della propria responsabilità politica. Edipo rappresenta la lotta che ciascuno di noi intraprende per affermare la propria identità.

Eschilo, Sofocle ed Euripide, i tre grandi poeti tragici del V secolo a.C., hanno preso in prestito i personaggi del mito, li hanno animati e restituiti alla tradizione dotati di una umanità nuova e sfaccettata con cui confrontarsi.

È il caso di Elena, l’incarnazione della bellezza e della sensualità femminile.

Nata da un uovo, simbolo della perfezione, è la moglie di Menelao, il re di Sparta. Molti uomini hanno lottato per averla al proprio fianco sino a quando Paride, figlio di Priamo, il re di Troia, con la complicità di Afrodite, riesce a rapirla e portarla con sé: si muoveranno schiere di guerrieri per ricondurre Elena in patria, a costo di morti, distruzione e sventure di dieci anni di battaglie.

La storia della bellissima Elena comincia nell’Iliade di Omero come causa della guerra dell’antichità per antonomasia, e si trasforma negli anni e nei secoli grazie ad altri poeti che la prendono per mano svelandone i sentimenti.

Saffo, la poetessa dell’amore del VII secolo a.C., con sensibilità femminile, ci racconta una Elena che, vinta dalla forza travolgente di Eros, segue Paride per amore, pagando con il dolore dilaniante che porta con sé l’aver abbandonato i propri figli, la propria terra e l’aver tradito la fiducia altrui. Euripide immagina che in realtà Elena non sia mai partita realmente per Troia. Al suo posto con Paride era partito un fantasma. Elena era sempre rimasta fedele al marito, aspettandolo per dieci lunghi anni.

Questa donna custodisce nel suo nome il segreto di due radici: una che indica splendore, elas/selas da cui ἑλάνη, fiaccola luminosa, e una che indica distruzione. Elena è anche connessa con ὄλεθρος (ólethros) e ὄλλυμι (óllumi), rovina e distruzione. Elena splende e illumina o distrugge. Oppure entrambe le cose. Elena è il doppio che è in ognuno di noi.

È la magia dello spirito greco, la sua innata attitudine a vedere la realtà da tutte le angolazioni possibili. Una palestra di libertà. Il teatro greco è lo spazio dove i poeti mettono in scena questa libertà. Lo fanno attraverso storie create per essere rappresentate, non lette, un’unica volta e in quell’anno. Nessun timore di esaurire la propria vena poetica, segno della grande fiducia che gli antichi avevano nella fantasia e nella complessità umana come alimentatore naturale di storie, né alcuna possibilità di replica on demand, solo repliche sul proprio schermo interiore.

Sotto il cielo greco, di primavera in primavera, a teatro si inanellavano racconti intessuti su parole, danza e musica pensati in un’armonia che sapeva raggiungere udito e mente. Un concerto di emozioni.

L’Alcesti di Euripide è una fiaba d’amore andata in scena nel 438 a.C.

Alcesti si offre di morire al posto del marito Admeto, re di Fere in Tessaglia. In cambio dell’ospitalità data ad Apollo, una volta in cui il dio era stato cacciato dall’Olimpo, il re aveva ottenuto il privilegio di evitare la morte. A una condizione, però: quando fosse giunto il momento, qualcun altro si sarebbe dovuto sacrificare al suo posto. Solo sua moglie accetta di morire, nemmeno gli anziani genitori sono disposti a rinunciare alla propria vita per il figlio.

Leggiamo insieme i versi in cui Alcesti si presenta per la prima volta sulla scena. Quella che vediamo davanti a noi non è la donna terrorizzata e già morta alla sola idea di abbandonare i suoi figli e la sua casa. Di quella donna ha parlato indirettamente l’ancella personale della regina, con uno sguardo prezioso che la osserva, per conto degli spettatori, nel suo sconforto. L’Alcesti che ci consegna Euripide è invece una donna determinata e forte. Forte del suo nome, che racchiude la radice alk-, che indica appunto la forza. Forte della sua scelta di sacrificare una vita realizzata con due figli, ricchezza e giovinezza, affronta il marito:

Admeto vedi con i tuoi stessi occhi in quale stato mi trovo e prima di morire voglio dirti le mie ultime volontà. Ti ho rispettato tanto da scambiare la mia vita con la tua. Avrei potuto scegliere di non morire, risposarmi con un altro Tessalo e vivere in una casa ricca e degna di un re. Ma ho rinunciato a vivere senza di te e con i nostri figli orfani, ti ho regalato la mia giovinezza, e ho rinunciato alle gioie della vita. Tuo padre e tua madre invece ti hanno abbandonato. Erano a un punto della vita in cui sarebbe stato glorioso e generoso per loro morire e salvare il loro unico figlio, avevano solo te. E noi due saremmo vissuti insieme per il resto dei nostri giorni, tu non saresti restato senza tua moglie e i nostri figli non sarebbero stati senza la loro madre. Ma qualcuno degli dèi ha voluto che il nostro destino fosse questo, e così sia. Tu però ricordati quello che mi devi: anch’io ho una richiesta per te, non dello stesso valore, perché niente vale quanto la vita, ma è una richiesta giusta: lo riconoscerai anche tu che non ami meno di me i nostri figli, saggio come sei. Lascia che siano loro i padroni della mia casa, non sposare un’altra donna, una matrigna che, peggiore di me, per invidia alzerà le mani sui miei e tuoi figli. Ti prego, non farlo: una matrigna è sempre nemica dei figli di primo letto, è una vipera. E certo nostro figlio maschio ha suo padre a difenderlo, ma tu, figlia mia, come potrai avere un’adolescenza felice? Come sarà con te la moglie di tuo padre? Forse sarà pronta a spargere calunnie sul tuo conto e, nel fiore dell’età, a distruggere le tue speranze di nozze. Non ci sarò per le tue nozze, non ti sarò vicina quando diventerai madre. Devo morire e questo non succederà domani o dopodomani, ma ora, subito sarò tra quelli che non sono più. Addio, siate felici. E tu, Admeto, per te sono stata una buona moglie e per voi, figli miei, una buona madre [vv. 280-325].

I miti greci, e con essi le tragedie, sono racconti ricchissimi di linee interpretative che si intrecciano fra loro. La storia di Alcesti è la storia di un amore che si dona sino al sacrificio estremo di sé. Ma è anche il racconto di antichi miti sulla morte e sulla rinascita. Ancora, è il racconto del valore dell’ospitalità e della gloria, temi sacri per chi vive in una cultura in cui ogni uomo esiste attraverso gli occhi degli altri: ciò che conta è il ricordo che ognuno sa lasciare di sé. Ma di questo aspetto avremo modo di parlare più avanti.

Ora parliamo d’amore.

Alcesti aveva già catturato l’attenzione di Platone, il filosofo dell’Eros. Come gli dèi dell’Olimpo sanno ispirare negli eroi la capacità di svolgere imprese militari straordinarie – dice il filosofo nel Simposio, forse la sua opera più affascinante – così Eros sa instillare in chi ama la forza di compiere gesti che altrimenti, per sua natura, non saprebbe compiere. Eros è un dio che può soffiare dentro di noi la capacità di andare oltre i nostri limiti. È un motore che acuisce i nostri sensi e la nostra capacità di vedere, sentire e agire.

Secondo Platone, Eros ha regalato alla vita degli uomini un codice non scritto che è il codice dell’amore: sarebbe meraviglioso vivere in una realtà abitata solo da persone innamorate! Il potere di emulazione sarebbe più forte di qualunque legge scritta. La persona innamorata infatti vuole sempre dare il meglio di sé per chi ama, mai vorrebbe farsi vedere mentre si comporta in modo poco coraggioso o addirittura scorretto.

Siamo davanti a una delle più belle utopie greche, che a noi sa trasmettere il senso della potenza di Eros. E Alcesti, secondo Platone, ne è l’esempio.

Quando la regina si presenta in scena e pronuncia le sue ultime volontà dinanzi al marito prima di morire, in realtà ci svela il suo mondo. Alcesti è il valore della famiglia che lei stessa custodisce con forza, e le parole strazianti di Admeto ce lo confermano.

Non osare abbandonarmi, in nome dei figli che lascerai orfani. Se tu muori io non posso sopravvivere. È nelle tue mani che io viva o muoia, perché io adoro il tuo amore [σήν γάρ ϕιλίαν σεβόμεσθα, vv. 275-9].

Ma amare è un verbo ricco di troppe sfumature perché il greco le possa rinchiudere in un solo vocabolo. Il cuore greco, e non solo quello greco, si agita tra philia ed eros. Philia è l’amore pacato, responsabile e disinteressato dell’amicizia, dei legami familiari, è l’affinità profonda verso qualcuno che si rispetta.

Eros è invece l’amore passionale, sensuale, è la ricerca continua della metà che ci completa, e non abbiamo pace sino a quando non la troviamo.

Eros è ricerca della Bellezza in senso greco, una bellezza che è sofisticata armonia tra ciò che colpisce i nostri occhi, il nostro udito e la nostra parte emotiva. Ciascuno è alla ricerca della propria, e, una volta trovata, essa scorre in noi dalla porta degli occhi e si riversa a sua volta negli occhi di chi si ama. Una corrente di amorosi sensi, un dialogo che non ha bisogno di parole per creare il calore che sa far germogliare le parti inaridite della nostra anima. Il calore lasciato entrare in noi prende spazio e si diffonde, e, con lo stesso dolore che provano i bambini quando spuntano i primi denti, spuntano le ali alla nostra anima. I tormenti dei bambini sono i tormenti della nostra agitazione amorosa. Ma le ali spiegate fanno di noi una persona accesa. Chi non vorrebbe con tutto se stesso aver inventato questa meravigliosa immagine, ancora una volta di Platone, ora dal Fedro?

La natura avrebbe dovuto dotarci di due cuori, in continuo contatto. Due vasi comunicanti da poter attivare separatamente o insieme. Ma ne abbiamo uno e di quello dobbiamo curarci!

Le parole di Alcesti descrivono l’intera gamma dei volti dell’amore, declinati al femminile: l’amore di una madre e l’amore di una moglie, dicevamo, espressi con la tranquillizzante philia. Ma Euripide è un sensibile inventore di personaggi femminili, di cui riesce a sviscerare gli aspetti più universali in modo assolutamente inusuale per i tempi.

Con il suo teatro, amò sperimentare e, come spesso accade ad autori fuori dagli schemi, e tendenzialmente critici nei confronti delle opinioni comuni, non fu amato dai contemporanei. In compenso lo amarono e lo imitarono i posteri a partire da Seneca, da cui deriva il primo teatro europeo. Sappiamo che il poeta nacque a Salamina nel 485 a.C., ma la sua vita non è facile da ricostruire. Fu una vittima illustre della post-verità, quel meccanismo della comunicazione per cui una notizia assume valore per l’impatto emotivo che suscita e non per l’oggettività dei fatti. I contemporanei infatti inventarono, per screditarlo, diffamazioni maligne oltre a varie disavventure coniugali nonché la notizia che egli si sarebbe dedicato alla poesia solo dopo aver fallito come atleta e come pittore. Era nato in una famiglia ragguardevole, grazie alla quale perfezionò un raffinato curriculum culturale. Possedeva una biblioteca privata, cosa inusuale a quei tempi, e visse appartato con una prima e forse una seconda moglie, tre figli e una splendida villa in riva al mare, nella quale si ritirava a scrivere. Scelse però di passare gli ultimi anni della sua vita fuori dalla sua patria, in Macedonia, dove trovò un ambiente culturale affine alla sua sensibilità. E lì morì, a settantaquattro anni, nel 406 a.C.

Euripide fu evidentemente affascinato dal mondo femminile, un territorio quasi inesplorato e dunque una nuova frontiera da conquistare. Nell’immaginario greco esistevano figure di donne note, basti pensare a Penelope, la moglie fedele per eccellenza che attende il marito. Ma si trattava di figure monolitiche rinchiuse in un solo ruolo. Euripide decise invece di riconsiderare il mondo femminile per esplorarne la personalità, la mente e il cuore.

E dietro alla corazza della regina Alcesti, egli lascia intravedere indizi del suo aspetto passionale, quello che spesso siamo abituate a tenere imbrigliato nella rete delle responsabilità quotidiane, ma potenzialmente sempre pronto a mettere le ali.

Mi piace immaginare che Eschilo avrebbe dato un ruolo secondario ad Alcesti facendone una vittima in nome del volere degli dèi e Sofocle l’avrebbe resa una ribelle in nome delle leggi dell’amore. Solo Euripide guarda Alcesti nella sua complessa femminilità. Ecco l’accenno, intriso di nostalgia e rimpianto, ai doni della giovinezza che la regina non ha certo risparmiato a Admeto: «Io ti ho onorato sino al punto di farti vivere a prezzo della mia vita, e muoio per te, quando invece avrei potuto non morire».

Ma in Alcesti irrompe anche la gelosia: «Non sposare un’altra donna».

Certo va precisato che Alcesti si muove in un mondo nel quale non le sarebbe consentito usare troppi aggettivi possessivi. «Lascia che siano i miei figli i padroni della mia casa» dice la regina. Già il lessico ci svela che nell’ambito della famiglia greca la donna era colei che semplicemente ospitava in grembo il figlio e lo partoriva. Un involucro. Generare la vita era considerata invece prerogativa del padre. Per di più, dobbiamo ricordare che della casa una donna era solo la custode. Ma è davvero in questo universo che Euripide pare creare un varco. Il dono che Alcesti chiede a Admeto in cambio della propria vita è che nessun’altra donna prenda il suo posto.

Chiunque abbia la fortuna di amare sa bene che la gelosia è una morsa al cuore che non nasce in un sentimento di pacata philia. La gelosia si nutre dell’immagine di un’altra donna o di un altro uomo che ci sostituiscano in confidenza, cura per i figli, complicità, scambio di tenerezze fisiche e intimità mentale. È una fragilità che rende forte e irresistibile chi ha il coraggio di manifestarla. Perché nulla è più dolce del regalo delle proprie debolezze. Questo è il tratto che spoglia Alcesti del ruolo di eroina tragica per vestirla di quello di donna. Ci accorgiamo che la sua calma e il suo equilibrio mascherano il suo calore e la sua voglia di vivere. È il doppio che è in ognuno di noi e che si affaccia nuovamente.

Alcesti incarna un modello di stile di vita profondamente attuale, una donna determinata, assertiva e che sa assumersi la responsabilità di una scelta. È un personaggio completamente positivo, ammirato e compianto ancora prima che muoia e che sa custodire la sua sfera femminile, della quale una donna non dovrebbe mai privarsi.

Davanti a lei Admeto, che risulta un uomo comune e francamente inconsistente, ascolta e ripete meccanicamente formule di adorazione, che hanno il sapore di un rimpianto per uno status più che per una persona.

Ci sei sempre stata solo tu per me e sarai per sempre la mia unica donna. Nessun’altra ragazza Tessala prenderà il tuo posto: nessuna ha stirpe così nobile e nessuna è così bella. E non voglio altri figli, prego gli dèi perché almeno loro possano darmi gioia. Porterò il tuo lutto per un anno, ma finché sarò vivo, odierò mia madre e mio padre che mi volevano bene solo a parole. Tu per la mia vita hai dato quello che avevi di più caro, e mi hai salvato. Come posso non piangere, perdendo una moglie come te. […] Senza di te non ci sarà più gioia nella mia vita. Farò scolpire da un grande artista una statua identica a te, la farò mettere sul mio letto, la abbraccerò e la chiamerò con il tuo nome, mi sembrerà di avere tra le braccia la mia donna: è una gioia fredda, lo so, ma capace di alleviare il peso dell’anima e tu verrai nei miei sogni a consolarmi [vv. 328-55].

Lentamente il re scivola nella paura del vuoto affettivo che lo attende ed Euripide la sa evocare e raccontare immaginando ai piedi del letto una statua che abbia le sembianze della regina. L’idea non è nuova, ma nuova è la tensione emotiva con cui Admeto dice «è una gioia fredda, lo so, ma capace di alleviare il peso dell’anima». No, caro Admeto, il freddo non allevia, il freddo raggrinzisce l’anima. Ma ormai pare tardi, è lo stesso re a rendersene conto. Dopo che lui e sua moglie si sono detti tutto quello che il momento consentiva, Admeto conclude rivolto ad Alcesti: «Neanche da morto voglio essere separato da te, l’unica persona che mi sia stata fedele [v. 368]».

Admeto ha colto nel segno, fedele è un valore che ci misura e porta con sé la promessa di curare un figlio, un amore, un amico, un genitore, la parola data. Il termine fedele custodisce l’antica radice indoeuropea della fedeltà, bheidh, che si è modificata e ancorata nella fides latina e nella fiducia italiana. La sorgente della fedeltà è dunque la fiducia. Ma, come sempre, i Greci ci danno molto di più, la loro πίστις (pístis), la loro fiducia, si sposa con qualcosa che impareremo a frequentare in queste pagine: la persuasione. Nel modo greco di percepire il mondo, la fiducia è legata a doppio filo con la persuasione, e questa corrispondenza d’amorosi sensi la realizza in modo sorprendente nel paradigma del verbo πείθω (péitho), una «poesia grammaticale»: il verbo persuadere al tempo presente racconta un’azione che sta avvenendo sotto i nostri occhi, mentre al tempo perfetto ne afferra ed esprime le conseguenze sulla nostra mente. Io desidero persuaderti a credere in me, ora, con le mie parole e con il mio esempio, e tu, che mi ascolti e mi osservi, arrivi ad avere fiducia in me.

La stessa persuasione, che per noi oggi ha un retrogusto negativo di manipolazione, per un uomo greco era un prodigio dell’anima, il piacere di affidarsi a una carezza o la dolcezza di aprire le proprie braccia come fossero un porto sicuro.

Alcesti è persuasiva perché è fedele e coerente con se stessa. Persuade Admeto con l’esempio del suo sacrificio e diventa a sua volta un esempio di fedeltà.

Si parla di una fedeltà che va ben oltre l’aspetto erotico o sentimentale. Alcesti è una donna capace di morire per amore della sua famiglia. È una donna che si confronta con una scala di valori tradizionali per misurare la propria personalità. È la sfida di ciascuno, quella di stringere un patto di fiducia tra sé e le proprie aspirazioni.

La letteratura sa farci di questi regali: mostrarci le sfaccettature dell’essere umano, farci entrare nei panni altrui per arrivare a noi.

Qui verrebbe da dire: nulla die sine linea, non lasciar trascorrere nessun giorno senza descrivere una linea e senza lasciar traccia di sé. È l’esercizio quotidiano più utile per i traguardi interiori, e avere una linea che si dipani e cresca insieme a lei è l’essenza di Alcesti. La sua linea è orientata verso la fedeltà, una forma d’amore che traccia un’impronta in lei stessa e nel suo mondo di affetti.

La medesima linea non è tracciata nella vita di Admeto. Più avanti nello svolgimento della narrazione, quando sarà solo con il suo dolore, pronuncerà due parole che segnano, però, una svolta nel personaggio: ἄρτι μανθάνω (árti mantháno), ora capisco!

Admeto capisce, capisce che la sorte di Alcesti è migliore della sua perché lei ha scelto, cioè ha compiuto un atto di fedeltà a se stessa, e finalmente non prova più alcun dolore. Se prima il re era inconsolabile per aver perduto la moglie, ora è disperato per aver perduto anche l’onore. Euripide sceglie di usare, e non a caso, il verbo manthano da cui deriva la parola matematica.

«Cosa c’entra» mi direte voi «Admeto con la matematica?»

Per i contemporanei di Euripide la parola matematica evocava sia Euclide sia Aristotele. Che si trattasse di teoremi o di idee, la matematica era sinonimo di un rigoroso metodo deduttivo attraverso cui leggere e capire la realtà, e aveva la forza dell’illuminazione razionale. Admeto dunque capisce sulla sua pelle, attraverso l’esperienza del dolore di una vita improvvisamente vuota. Capisce quando ormai è tardi, come spesso accade nella vita di ogni giorno.

La conversione non riabilita completamente Admeto ai nostri occhi. Ma ci aiuta a riflettere. L’amore vero, quello maturo, vuole il bene dell’altro. Presuppone rinunce, naturali compromessi, sofferenza e magari delusioni. Ma presuppone anche il rispetto. Re-spectus è il gesto generoso di sapersi fermare e guardare chi si ama con calma e riflessione. Il suo contrario è la noncuranza, quel vizio che ci fa essere ciechi e non curiosi dell’altro. Rispetto è saper dedicare tempo a capire le esigenze dell’altro, vederlo, accettarlo com’è e farlo vivere. Capire quale sia la sua linea. Il rispetto implica altruismo e non vuole certo il sacrificio altrui. Che sia di natura psicologica o fisica, l’annullamento di sé non è una prova di amore, è una forma di violenza, spesso un tentativo di minare profondamente l’indipendenza e la libertà di scelta. La gamma è ampia, dalla violenza verbale al femminicidio. Ogni donna sulla terra dovrebbe esserne sempre consapevole. Tutte possiamo, proprio come Alcesti, costruire una vita con una linea da seguire, la nostra, sempre fedeli a noi stesse. Non tutte possiamo avere la fortuna di trovare un galantuomo come Euripide che possa donarci una seconda vita.

La tragedia si rivela infatti una storia a lieto fine, decisamente inusuale nella tradizione greca, e Alcesti tornerà alla vita grazie all’intervento di Eracle.

L’eroe ospite di Admeto viene indirettamente a conoscenza della tragica fine della regina. Eracle decide allora di sua iniziativa di strappare Alcesti a Thanatos, il demone della morte, e di riportarla al marito. Prima però mette alla prova il re: fa entrare in casa Alcesti coperta da un velo, fingendo che si tratti di un’altra donna. Admeto, non volendo nemmeno guardare la donna velata che tanto gli ricorda la moglie morta, supera la prova di fedeltà. Eracle gli restituisce la sposa, che dovrà rispettare un periodo di silenzio prima di tornare nel mondo dei vivvivi

Arrivati a questo punto, chi avrà la curiosità di leggere la tragedia di Euripide scoprirà un Eracle comico: l’eroe delle dodici fatiche è ora un impunito mangione e ubriacone.

Da quando frequento i classici, mentre li leggo o li spiego, mi sono fatta l’idea che sarebbe interessante andare contro la disapprovazione greca che lo vietava alle donne e bere un bicchiere di vino di Lemno con Eschilo, per conoscerlo e rompere il ghiaccio con un uomo all’apparenza molto austero.

Con Sofocle preferirei una cena, subendo il fascino della sua conversazione filosofica.

Con Euripide vorrei però passare una giornata intera. Sarei curiosa di osservarlo nella sua quotidianità mentre passeggia nell’agorà, incontra persone, conversa. Sarei curiosa di veder nascere i suoi pensieri, mentre scrive nella sua famosa biblioteca, in compagnia dei suoi silenzi malinconici. Vorrei potergli dire che il tempo farà di lui uno dei poeti più amati e imitati dell’antichità. La sua innata capacità di annullare le distanze temporali ci farà rispecchiare nei suoi personaggi anche quando del teatro di Atene non restano che dei ruderi. Gli svelerei che presto, oltre ad Alcesti, inventerà una Medea e una Fedra come mai le avremo lette, indimenticabili nella forza della loro passione

I temi delle tragedie greche – la paura e la bellezza, l’amore e la solitudine, la guerra e la tenerezza – sono lì per noi.

Mai indici minacciosi, sempre mani tese come quelle di un padre che sa darci il calore di un gesto gratuito, forte e inaspettato.

Pulsano, pronti a farci sentire vivi, compresi e confortati: Alcesti, Admeto, Eracle, Elena, Edipo sono uomini e donne. Come noi. Cambiano cornice storica e conquiste culturali, mai debolezze e grandezze.

È il bello delle letture salutari, leggerle è ritrovarsi un’anima antica al nostro fianco.

È salutare la lettura che scatena le vertigini dentro di noi e poi non ci abbandona in balia delle nostre emozioni, al contrario ci offre il paracadute di un pensiero che indica una strada, bella quanto inattesa.

Nell’Alcesti a farci bene è indubbiamente il lieto fine, ma soprattutto la certezza che allinearsi con i nostri sentimenti più profondi è una ricetta di rinascita. L’amore è il sentimento che ci infonde coraggio, ma è anche un rischio, è imprevedibile e con un alto tasso di incognite. Alcesti lo sa e scommette sull’amore, lascia andare l’attaccamento egoistico, anche se questo le costa fatica e dolore. Sembra perdere tutto ciò che ha di più caro, invece torna a vivere, in modo inatteso. Proprio quando sceglie di perdere, vince. È la formula della Serendipity, l’inatteso che arriva e ci sorprende, come un premio al quale abbiamo tanto anelato.

Molte sono le forme del divino e molte cose gli dèi realizzano in modo insperato. E quello che si aspetta non si verifica, le cose inaspettate il dio trova un modo per realizzarle.

Le parole finali del coro ci lasciano con una carezza, ricordandoci che non siamo soli, mai.

Una mia ex alunna, ora splendida donna adulta, porta tatuato sulla sua pelle un verso greco: κῆν᾽ ὄττω τις ἔραται, ciò che ciascuno ama.

In questo caso il verso è di Saffo, nata due secoli prima di Euripide, ma il valore della scoperta è il medesimo: c’è chi crede che nella vita la cosa più importante siano gli eserciti o l’onore in guerra. Per me lo è ciò che ciascuno ama.

Ricordo bene il giorno in cui, dopo gli esami di maturità, Margherita è venuta a trovarmi con il suo verso scritto su un pezzo di carta per farmi controllare grafia, spiriti e accenti. Non avevo idea che quelle parole sarebbero poi passate sulla sua pelle.

Quando l’ho scoperto ho sorriso pensando a quanto sia vero che nelle nostre vene scorre lo spirito dei paesaggi in cui siamo nati. Margherita è nata nello Sri Lanka, un tempo Serendip, l’antico nome persiano della sua isola, e porta con sé, come i tre figli del re di Serendippo, il dono naturale di trovare la felicità quando meno la cerchi, proprio come la Serendipity di Euripide.

PERCORSO DI BENESSERE CONSIGLIATO

Le tragedie greche andrebbero lette ad alta voce, e potreste immaginare di invitare alcuni amici a casa e leggere a turno una parte. Esagero, e consiglio addirittura di far recitare la parte di Alcesti a un uomo e quella di Admeto a una donna.