venerdì 30 aprile 2021

LA MADRE Maksim Gorkij


 LA MADRE

Maksim Gorkij 

Uno squallido e fangoso borgo operaio della Russia zarista, uomini che vanno al lavoro come « scarafaggi atterriti », miseria, abbrutimento fisico e morale.

Questi eterni protagonisti delle opere di Gor'kij, si accompagnano nella Madre, per la prima volta, a una lucida consapevolezza e volontà che spinge la protagonista, una donna come tante, a impegnarsi nella lotta a fianco del figlio, leader socialista. Scritto dopo l'esperienza della prima rivoluzione russa del 1905, La madre, oltre a costituire un momento fondamentale nell'evoluzione di Gor'kij, è diventato ormai uno dei libri più noti del mondo.



Parte prima

 

  

1.


      Sul sobborgo operaio, nell'aria densa e fumosa, vibrava ogni giorno il fischio sibilante della fabbrica. Docili al suo prepotente richiamo, dalle casette grigie uscivano in fretta, come scarafaggi impauriti, uomini dall'aspetto torvo che il sonno non aveva riposato abbastanza; s'avviavano nell'alba fredda, per lo stretto viottolo di terra battuta, verso l'alta prigione di pietra che li aspettava con tranquilla indifferenza, rischiarando la strada fangosa coi suoi occhi quadri, gialli e sporchi, allineati in lunghe file. Sotto i loro passi lo sciaguattare del fango sembrava schernirli e compassionarli. S'udivano esclamazioni roche e assonnate; imprecazioni irose sferzavano l'aria, miste al rumore cupo delle grosse macchine e al sibilo del vapore compresso. Le alte ciminiere che sovrastavano il sobborgo, simili a grossi pali, avevano un'aria nera e minacciosa.


      La sera, quando nei vetri delle finestre si accendeva lo stanco bagliore del sole al tramonto, la fabbrica vomitava gli uomini come scorie dalle proprie viscere di pietra. Ed essi riprendevano il cammino spargendo intorno a sé l'odore vischioso dell'olio di macchina. Nelle facce nere di fuliggine, affamate, spiccava il biancore dei denti; le voci erano animate e perfino allegre: per quel giorno era cessata la schiavitù del lavoro, e a casa li aspettavano cena e riposo.


      La fabbrica aveva divorato la giornata intiera, le macchine avevan succhiato dai muscoli di quegli uomini ciò che serviva a farle funzionare. Un altro giorno se n'era andato senza lasciar traccia: ed era, inconsciamente, un altro passo verso la tomba.


      Ma l'uomo ora pregustava la dolcezza del riposo, la gioia della bettola affumicata, ed era contento.


      Alla festa si dormiva fin verso le dieci; poi gli uomini seri e gli ammogliati indossavano l'abito migliore e andavano a messa, pronti, se era il caso, a rimproverare i giovani per l'indifferenza religiosa. Dalla chiesa tornavano a casa, mangiavano i "piroghì" (N.d.T.: Pasticci di carne) e si buttavano di nuovo a dormire, fino a sera.


      La stanchezza, accumulata per anni, toglieva l'appetito; per farselo ritornare, bevevano molto, bruciando lo stomaco con la vodka.


      Di sera passeggiavano pigramente per le strade, e chi poteva sfoggiava soprascarpe e ombrello, sia col tempo asciutto, sia col sole: non tutti possiedono un ombrello o un paio di soprascarpe, ma tutti vogliono distinguersi in qualche modo dagli altri. Se per strada s'incontravano, discorrevano inevitabilmente della fabbrica, e imprecavano contro i dirigenti; sapevano parlare e pensare soltanto di ciò che era strettamente connesso al lavoro.


      Raramente, nella grigia monotonia della solita vita, balenava la scintilla di un pensiero nuovo. A casa litigavano con la moglie e spesso la picchiavano spietatamente; i giovani frequentavano le bettole e organizzavano serate in casa dell'uno o dell'altro: suonavano la fisarmonica, cantavano canzoni oscene, ballavano, si scambiavano parolacce e bevevano.


      Sfinita dal lavoro, questa gente si ubriacava con poco, e intanto covava nell'animo un'irritazione sorda, morbosa, destinata a sfogarsi e a prorompere. Così, alla prima occasione, si azzuffavano per qualsiasi sciocchezza, con la feroce crudeltà delle belve; ed erano risse sanguinose, spesso causa di mutilazioni gravi, non di rado mortali.


      Nel rapporti umani, soprattutto, c'era questo voluto rancore, radicato quanto la stanchezza nei muscoli. Gli uomini nascevano con l'animo malato - eredità dei padri - destinato a seguirli come un'ombra fino alla morte, e a indurli, nel corso della vita, ad azioni indegne e inutilmente crudeli.


      La festa, i giovani rientravano a notte tarda con gli abiti laceri, sporchi e impolverati, con la faccia contusa, malignamente fieri delle bòtte date ai compagni o delusi per quelle ricevute; pieni d'odio o piangenti di rabbia, ubriachi e pietosi, infelici e ripugnanti.


      Certe volte li accompagnavano a casa il padre o la madre, dopo averli scovati, ubriachi fradici all'angolo di una strada o in una bettola; coprendoli d'insulti e di bòtte sulle carni mollicce arse dalla vodka, se il portavano, più o meno sollecitamente, a letto, per poterli svegliare presto il mattino seguente, quando l'urlo rabbioso e cupo della sirena, propagandosi per l'aria, li avrebbe chiamati al lavoro.


      Tuttavia, nonostante i rimproveri e le percosse, i vecchi consideravano l'ubriachezza e le risse dei giovani manifestazioni legittime; anch'essi, in gioventù, avevano bevuto e litigato per poi buscarle dai genitori. Così era la vita: un torbido corso fluente per anni e anni lento e monotono, strettamente connesso alle antiche e radicate abitudini di pensare e di agire sempre allo stesso modo, oggi come ieri; e, a quanto sembrava, nessuno aveva il tempo e la voglia di mettersi a modificar le cose.


      Qualche volta capitavano forestieri nel sobborgo: in un primo tempo attraevano l'attenzione, solo perché estranei; poi suscitavano un lieve interessamento, affatto esteriore, descrivendo i luoghi dove avevano lavorato; infine, cessata la novità, diventavano un'abitudine, e nessuno più se ne preoccupava.


      Dai loro racconti bisognava concludere che la vita del lavoratore è uguale dappertutto. E, allora, valeva la pena di parlarne? Ma talvolta qualcuno diceva cose nuove, mai udite prima nel villaggio; e gli ascoltatori seguivano increduli, in silenzio, quegli strani discorsi, provando in parte una sorda irritazione, in parte un'ansia confusa. Alcuni, poi, turbati da un vago barlume di speranza, aumentavano la dose del vino per sciogliere quella tensione inutile e conturbante. Rendendosi conto che il forestiero era diverso da loro, gli abitanti del borgo non riuscivano a perdonarglielo, e di fronte a lui mostravano inconsapevolmente il proprio disagio: temevano volesse insinuare nella loro esistenza un elemento capace di turbarne il corso che, in tutta la sua opprimente desolazione, era almeno regolare e monotono.


      La gente s'era abituata a vedersi maltrattare dalla vita sempre nello stesso grado, e, disperando in un miglioramento, pensava che la novità servisse soltanto ad appesantire il giogo. Delle persone che parlavano in modo insolito, i paesani diffidavano in silenzio, perciò; e quelle se ne andavano altrove, oppure - se rimanevano nella fabbrica - non riuscivano a fondersi con la massa compatta e uniforme degli altri. Vivevano appartati.


      Con una vita di questo genere, nessuno superava di molto i cinquant'anni.


 

 

      2. 


      Così viveva anche il fabbro Micaìl Vlassov, uomo arcigno, con un par d'occhietti sospettosi e brillanti sotto le folte sopracciglia, di un sorriso diffidente e spiacevole. Era il miglior magnano della fabbrica, e l'uomo più forte del sobborgo; ma non sapeva trattare coi dirigenti, e perciò guadagnava poco. Alla festa imbottiva sempre qualcuno di pugni. Tutti lo temevano, nessuno gli voleva bene: più di una volta vi fu chi pensò di dargliele, ma senza successo.


      Quando Vlassov vedeva gli avversari venirgli incontro, afferrava un sasso, un legno, un pezzo di ferro, e aspettava a gambe larghe. Il suo viso coperto di una folta barba nera, dagli occhi fino al collo, e le braccia pelosissime, atterrivano la gente; ma soprattutto facevano paura gli occhietti pungenti, penetranti come succhielli d'acciaio, e chi ne incontrava lo sguardo sentiva d'avere davanti a sé una belva, una forza selvaggia, insensibile alla paura, pronta a colpire senza misericordia.


      - Largo, canaglie! - ordinava sordamente.


      Attraverso i peli fitti, spiccavano orribilmente sul viso i denti forti e gialli; la gente si scostava e imprecava spaventata.


      - Canaglie! - rincalzava laconico, e gli occhi lucenti pungevano come punteruoli. A testa alta, quasi in atto di sfida, la pipa corta e grossa fra i denti, li seguiva chiedendo ogni tanto:


      - Sotto, chi vuol morire?


      Nessuno ne aveva voglia.


      Parlava poco e la parola <canaglia> era la sua preferita: chiamava così i dirigenti della fabbrica e la polizia, così si rivolgeva alla moglie.


      - Canaglia, non vedi che ho i pantaloni rotti?


      Quando suo figlio Pavel compì i quattordici anni, Vlassov provò il desiderio di prenderlo per i capelli ancora una volta. Pavel afferrò un grosso martello e disse brevemente:


      - Non toccarmi...


      - Come? - domandò il padre, facendosi sotto alla figura alta e sottile del figlio, come l'ombra a una betulla.


      - Basta, - tagliò corto Pavel: - non voglio; - e, dilatando gli occhi, alzò il martello.


      Il padre lo guardò, nascose dietro la schiena le mani pelose, e sorridendo a denti stretti mormorò:


      - Bene...


      Poi sospirò pesantemente e soggiunse:


      - Eh, canaglia...


      Qualche tempo dopo disse alla moglie:


      - Non chiedermi più soldi: Pascia (N.d.T.: Diminutivo di Pavel, come Pavluscia) può darti da mangiare.


      - Hai intenzione di berteli tutti? - osò chiedergli.


      Con un pugno sulla tavola egli dichiarò:


      - Non sono affari tuoi, canaglia! Voglio farmi una morosa...


      La morosa non se la fece; ma, per quasi due anni, da quel giorno fino alla morte, ignorò il figlio e non gli rivolse più la parola.


      Aveva un cane, grosso e peloso come lui, che ogni giorno lo accompagnava alla fabbrica e ogni sera lo aspettava all'uscita. Vlassov camminava in silenzio, squadrando la gente con le consuete occhiate ferine, come se cercasse qualcuno; e il cane sempre dietro, con la grossa coda fra le gambe. Tornando a casa ubriaco, si sedeva a tavola e dava da mangiare al cane dalla propria ciotola. Non lo picchiava, né lo maltrattava, né lo accarezzava mai.


      Dopo cena, se la moglie non sparecchiava subito, buttava per terra il piatto, si metteva davanti la bottiglia della vodka e, appoggiato alla parete, cantava una nenia triste e lamentosa, spalancando la bocca e socchiudendo gli occhi. I suoni gli uscivano falsi e monotoni dalle labbra, staccandone briciole di pane; si lisciava con le grosse dita i peli della barba e dei baffi, e cantava. Le parole erano pressoché incomprensibili, strascicate; il canto ricordava l'inverno, l'ululo dei lupi.


      Così continuava fino all'ultima goccia di vodka: poi si sdraiava di fianco sul pancone o reclinava la testa sulla tavola e dormiva sino al fischio della sirena. Il cane giaceva accanto a lui.


      Morì d'ernia, ed ebbe una lenta agonia. Per cinque giorni si rigirò tutto nero nel letto, battendo i denti, con gli occhi serrati; diceva alla moglie:


      - Dammi l'arsenico, fammi morire...


      La donna fece venire il medico, che ordinò i cataplasmi, dichiarando urgente l'operazione e il ricovero all'ospedale.


      - Va' al diavolo... morirò da solo, canaglia! - proruppe Micaìl.


      Quando il medico fu uscito, la moglie lo supplicò di farsi operare, ma egli col pugno serrato la minacciò:


      - Sta' attenta: se guarirò, sarà peggio per te.


      Morì di mattina, al richiamo della sirena. Giaceva nella bara a bocca aperta, con le sopracciglia irosamente aggrottate. Lo portarono al camposanto la moglie, il figlio, il cane, un vecchio ladro ubriacone, di nome Danilo Vièssovcicov che avevano scacciato dalla fabbrica, e alcuni poveri del sobborgo. La moglie pianse un poco, silenziosamente; Pavel, invece, non versò una lacrima. La gente davanti al feretro si segnava dicendo:


      - Può esser contenta, Pelagheia, che sia morto.


      Alcuni correggevano:


      - Non morto, crepato...


      Quando fu seppellito, tutti se ne andarono; rimase il cane seduto sulla terra smossa, a fiutare lungamente la tomba, senza un latrato. Qualche giorno dopo qualcuno lo ammazzò...


      Trascorse due settimane dalla morte del padre, una domenica Pavel Vlassov tornò a casa ubriaco fradicio. Entrò barcollando nell'isba, e battendo il pugno sulla tavola, proprio come il padre, gridò alla madre:


      - Da mangiare!...


      Essa gli si accostò, si sedette vicino a lui e lo abbracciò, attirandosene il capo sul petto. Egli le puntò una mano sulla spalla e la respinse, gridando:


      - Mamma, spicciati.


      - Sciocco! - ribatté la madre triste e carezzevole, cercando di vincere la sua opposizione.


      - Voglio fumare: dammi la pipa del babbo... - biascicò Pavel con la lingua inceppata e pesante.


      Era la prima volta che si ubriacava: la vodka l'aveva indebolito senza annebbiargli la coscienza, e il cervello martellava la domanda:


      <Ubriaco, ubriaco?>.


      Turbato da quelle carezze e dallo sguardo triste della madre, avrebbe voluto piangere; e per non piangere si fingeva più ubriaco del vero. La madre gli accarezzava i capelli disordinati, sudaticci e diceva piano:


      - Non devi farlo più...


      Gli venne da vomitare. Dopo che si fu liberato, la madre lo mise a letto, coprendogli la fronte con un asciugamano bagnato.


      Sfumata la sbornia, gli girava la testa; si sentiva le palpebre pesanti e un sapore amaro in bocca. Attraverso le ciglia guardò il viso largo della madre e pensò incoerente:


      <Forse è ancora presto per me... gli altri bevono, e non succede nulla; invece a me viene da vomitare>.


      Come da lontano gli giunse la morbida voce materna.


      - Che sostegno sarai per me, se ti metti a bere?


      Stringendo forte gli occhi, egli rispose:


      - Tutti bevono...


      La madre sospirò profondamente. Pavel aveva ragione; sapeva anch'essa che la bettola e la vodka erano l'unica fonte di gioia e di piacere dei poveri.


      Tuttavia soggiunse:


      - Non devi bere: ha già bevuto abbastanza tuo padre, e lo sai se mi ha tormentato. Almeno tu risparmiami, no?


      Udendo le parole tristi e dolci, Pavel ricordò che, fino alla morte del padre, nessuno in casa si era mai curato della mamma: l'aveva sempre vista taciturna, sempre in ansiosa attesa delle bòtte.


      Per non incontrare il padre, negli ultimi tempi aveva evitato di stare in casa, s'era straniato da lei. Ora, con la mente snebbiata, la guardò fissamente. Era alta, un po' curva; il suo corpo, appesantito e fiaccato dalle fatiche e dalle bòtte, si muoveva silenziosamente, un po' sbilenco, come se temesse di urtare qualcosa; il viso largo, gonfio e solcato di rughe era illuminato dagli occhi scuri, tristi e ansiosi, come quelli di molte altre donne del villaggio; il sopracciglio destro era attraversato da una profonda cicatrice che lo rialzava un poco e faceva sembrare più basso l'orecchio destro: ciò dava al suo volto l'espressione di chi ha paura e sta all'erta. Fra i capelli folti, corvini, brillava qualche ciocca grigia, quasi un segno dei grevi colpi... Tutta la sua persona denotava un carattere dolce, malinconico, sottomesso.


      Il figlio, vedendo quel viso rigato di lacrime, disse con voce sommessa:


      - Aspetta, non piangere; lascia che mi passi la sbornia!


      - Ti porto subito l'acqua col ghiaccio.


      Quando rientrò, si era già addormentato.


      Indugiò un momento accanto a lui, cercando di respirare piano; la ciotola le tremava fra le mani e il ghiaccio tintinnava contro la latta. Deposto il recipiente sulla tavola, s'inginocchiò davanti alle immagini e cominciò a pregare in silenzio. Attraverso i vetri delle finestre giungeva attutito il suono di una vita oscura, ubriaca; nella sera autunnale, buia e umida, qualcuno cantava forte, qualcuno imprecava con parolacce oscene, s'udivano le voci stanche, irritate, ansiose delle donne.


      Dai Vlassov la vita prese un ritmo più calmo e un po' diverso che nelle altre case del sobborgo. La loro abitazione era al limite dell'abitato, presso il pendio breve e ripido che portava allo stagno; un terzo di essa era occupato dalla cucina, e un tramezzo sottile, più basso del muro circostante, isolava un breve spazio nel quale dormiva la madre; gli altri due terzi della casa formavano un locale quadrato, con due finestre: in un cantuccio v'era il letto di Pavel, nella parte anteriore d'angolo, la tavola e due panche. Qualche seggiola, un cassettone per la biancheria con sopra uno specchietto, un baule per gli abiti, un orologio a muro e due icone in un angolo completavano l'arredamento.


      Pavel cercò di vivere come gli altri. Fece ciò che era richiesto a un giovanotto: si comprò la fisarmonica, una camicia col petto inamidato, una cravatta sgargiante, le soprascarpe, una canna, e assunse l'aspetto di un qualsiasi altro giovane della stessa età. Frequentò i ritrovi serali, imparò a danzare la quadriglia e la polca; alla festa tornava a casa ubriaco, e continuava a non sopportare la vodka. Al mattino gli dolevano la testa e lo stomaco; era pallido, annoiato.


      Un giorno la madre gli domandò:


      - Be', ti sei divertito iersera?


      Le rispose cupo, irritato:


      - Una barba da morire: sembrano tante macchine. Voglio andare a pescare con la lenza; o forse mi comprerò un fucile.


      Lavorava con impegno e assiduità, senza mai buscarsi una multa, silenzioso; i suoi occhi azzurri, grandi come quelli della madre, parevano scontenti. Non comprò il fucile e non andò a pescare, ma a poco a poco si allontanò da tutti; frequentava sempre più raramente le riunioni serali, e benché la festa uscisse, rientrava sobrio.


      La madre gli osservava, non parendo, il viso abbronzato e lo vedeva farsi sempre più sottile, mentre lo sguardo era serio e le labbra contratte, stranamente severe, come se Pavel fosse sempre tacitamente scontento di qualche cosa o lo struggesse un malanno. Prima i compagni venivano da lui; ora, non trovandolo mai in casa, non si facevano più vedere.


      La madre notò con piacere che il figlio prendeva un'aria diversa da quella degli altri giovani della fabbrica; ma, quando si accorse che egli deliberatamente e ostinatamente deviava dalla cupa corrente di quell'esistenza monotona verso una meta misteriosa e lontana, sentì sorgere nell'animo un sentimento di confuso pericolo. Pavel prese l'abitudine di portare a casa dei libri, e i primi tempi cercò di leggerli senza farsi vedere; poi, dopo averli letti, di nasconderli. Talvolta copiava qualche frase su un foglietto, e lo riponeva.


      - Stai bene, Pavluscia? - gli domandava la madre ogni tanto.


      - Sì, benissimo, - rispondeva.


      - Sei molto dimagrito! - continuava lei, sospirando.


      Lui taceva.


      Parlavano poco e stavano poco insieme.


      La mattina beveva il tè in silenzio e poi andava alla fabbrica; a mezzogiorno, quando rientrava per la colazione, scambiava poche parole con lei, e subito dopo spariva fino a sera. Di sera, terminato il lavoro, si lavava accuratamente, cenava e si metteva a leggere fino a tardi.


      Nei giorni di festa stava fuori dal mattino fino a notte inoltrata. Essa sapeva che andava in città e a teatro, però non veniva mai nessuno dalla città a trovarlo. Le sembrava che col tempo il figlio diventasse sempre più taciturno; e non le sfuggivano neppure le parole nuove, incomprensibili, ch'egli cominciava a usare, mentre le espressioni crude e volgari cui era usa sparivano poco la volta dal suo linguaggio. Notò nel comportamento del figlio alcuni particolari significativi: Pavel evitava gli sfoggi di eleganza, ma curava di più la pulizia del corpo e del vestiario; si muoveva con maggior disinvoltura e scioltezza; ed essa, scorgendolo così semplice, naturale, osservava curiosamente preoccupata.


      Anche nel contegno verso la madre c'era qualcosa di nuovo: quando poteva, si scopava la camera, rifaceva il letto la domenica, alleggeriva, insomma, il lavoro di lei, sempre in silenzio e cercando di non farsi notare.


      Nessun altro nel villaggio si era mai sognato di fare altrettanto.


      Un giorno portò a casa un quadro e lo attaccò alla parete; rappresentava tre uomini che s'avviavano a passo leggero e disinvolto, discorrendo tra loro.


      - E' Cristo che va a Emmaus, - spiegò Pavel.


      Il quadro le piacque, ma intanto pensò: <Onora Cristo, però non va in chiesa>.


      Altri quadri furono appesi, e su un bello scaffale, fabbricato da un amico di Pavel, furono disposti nuovi libri. La stanza aveva assunto un aspetto gradevole.


      Le dava del voi e la chiamava mammina, ma qualche volta le diceva bruscamente:


      - Ti prego, mamma, non preoccuparti se tornerò a casa tardi.


      Questo tono le piaceva, perché rivelava serietà e fermezza.


      Tuttavia era sempre più inquieta: nelle cose del figlio non ci vedeva chiaro, e il cuore angosciato le presentiva qualcosa d'insolito. Talvolta era quasi scontenta di lui; pensava:


      <Tutti gli uomini son uomini, lui sembra un monaco: troppo serio, per la sua età>.


      Altre volte pensava:


      <Che si sia fatto una ragazza?>.


      Ma chi va a donne ha bisogno di quattrini, e Pavel le dava quasi tutto il salario.


      Passarono le settimane, i mesi, e insensibilmente trascorsero due anni di quella vita strana, silenziosa, densa di confusi pensieri e di minacce incombenti.


      Una sera dopo cena, Pavel abbassò la tendina della finestra e, appesa al muro dietro di sé la lampada di latta, sedette nel solito angolo a leggere.


      La madre lavò i piatti e, uscendo dalla cucina, si avvicinò adagio.


      Egli sollevò la testa e la guardò interrogativamente.


      - Niente, Pascia, non volevo nulla, - essa si affrettò a dire, e si allontanò, muovendo confusa le sopracciglia. Ma, giunta in cucina, rimase un momento immobile; poi con aria perplessa, si lavò accuratamente le mani e ritornò dal figlio.


      - Posso chiederti, - domandò piano, - che cosa leggi sempre?


      Egli chiuse il libro.


      - Siedi, mammina...


      La madre sedette grevemente accanto a lui, poi eresse il busto aspettandosi di udire qualcosa di molto grave.


      Senza guardarla, a voce bassa, austera, Pavel le spiegò:


      - Sto leggendo dei libri proibiti. E sono proibiti perché non vogliono che si sappia com'è realmente la vita di noi operai: vengono stampati di nascosto e se me li trovano, mi mandano in galera... In galera perché voglio sapere la verità, capisci?


      Improvvisamente le mancò il respiro. Dilatando gli occhi guardò il figlio e le sembrò di vedere un altro: aveva una voce diversa, più bassa, piena e sonora; si tormentava con le dita i baffetti morbidi, e guardava stranamente di sbieco un punto nell'angolo. Provò paura e pietà per lui.


      - Ma perché tutto questo, Pascia? - chiese.


      Egli alzò il capo, la guardò in faccia e rispose con voce tranquilla:


      - Voglio sapere la verità.


      La sua voce era calma ma decisa; lo sguardo, tenace. Essa sentì col cuore che il figlio s'era votato per sempre a una causa misteriosa e terribile; e, poiché sapeva che opporsi alla vita era inutile, ed era abituata ad accettare tutto passivamente, cominciò a piangere piano, incapace di trovarsi nel cuore, oppresso dalla pena, una sola parola.


      - Non piangere, - mormorò Pavel con dolcezza, e a lei sembrò di ricevere l'ultimo addio. - Pensa un momento: che vita è la nostra? Tu, per esempio, hai quarant'anni: hai vissuto, tu? Non facevi che prender bòtte... Soltanto ora capisco che papà sfogava sulle tue spalle il dolore, il dolore della sua vita: ne era soffocato e non sapeva perché. Ha lavorato per trent'anni; quando ha incominciato, la fabbrica aveva in tutto due edifici, e guardala adesso: sette. Le fabbriche s'ingrandiscono e la gente ci muore dentro.


      Lo ascoltava spaventata e avida insieme. Gli occhi di Pavel erano belli e luminosi; appoggiato col petto alla tavola, egli si protese verso di lei e le parlò sul viso bagnato di lacrime; fu il suo primo discorso sulla nuova verità.


      Con tutto l'entusiasmo della giovinezza e il calore del neofita, era fiero delle nuove cognizioni e convinto della santità dei suoi argomenti. Parlava di cose che gli sembravano chiarissime, e più che alla madre parlava a sé. Quando si fermò per cercar le parole, si vide davanti il viso di lei desolato, gli occhi buoni, offuscati dalle lacrime: era uno sguardo pieno di paura e di perplessità; ne provò compassione, e così, riprendendo il discorso, parlò della madre e della sua vita.


      - Sei mai stata felice? - le domandò. - Cosa rimpiangi del passato?


      Essa scuoteva tristemente la testa, provando gioia e umiliazione insieme; una sensazione sconosciuta che le addolciva il cuore dolorante. Per la prima volta sentiva qualcuno parlare della sua vita; ascoltando, le si riaffacciavano timidamente pensieri da lungo tempo sopiti, e il ricordo sbiadito degli anni giovanili, torbidi e insoddisfatti, si ravvivava dolcemente.


      Allora gli parlò a lungo di sé, delle sue compagne: tutte loro non avevano avuto che amarezze dalla vita, eppure non si erano mai chieste perché il destino fosse stato così aspro e difficile. Ma, adesso, si sentiva orgogliosa e commossa perché il figlio, seduto lì di fronte, sapeva quanto aveva sofferto e glielo mostrava con gli occhi, col viso, con le stesse parole.


      Certo nessuno aveva mai compatito il destino di una madre, e lei lo sapeva bene.


      In quanto al discorso di Pavel, non l'aveva afferrato appieno: ma, come purtroppo era certa della verità sulla propria vita, così considerava sacrosanto anche il resto del discorso, e il cuore le palpitava di sconosciuta dolcezza.


      - Che cosa intendi fare? - gli domandò, interrompendolo.


      - Studiare, e poi insegnare agli altri. Noi operai dobbiamo studiare, dobbiamo sapere perché la nostra vita è così pesante.


      Mentre parlava era bello vedere i suoi occhi azzurri, quasi sempre pensosi e severi, animarsi di una luce dolcissima, e il suo viso assumere una nuova espressione.


      Le guance rugose della madre erano ancora bagnate di lacrime, ma sulle labbra si stendeva un sorriso sereno e felice. In lei contrastavano due sentimenti: l'orgoglio per il figlio che voleva porsi contro il volere umano alla ricerca del bene comune, e d'altra parte la paura per la lotta che egli avrebbe dovuto sostenere da solo, così giovane e diverso dagli altri, contro un'organizzazione sociale a cui tutti, lei compresa, erano abituati.


      Avrebbe voluto dirgli:


      <Tesoro, che cosa ci puoi fare, tu? Chi ti crederà? Non potrai riuscire>.


      Ma le piaceva ammirare in silenzio il figlio da poco tempo così cambiato, così intelligente... in un certo senso, persino sconosciuto.


      Pavel vide la madre sorridergli e guardarlo amorevolmente, il volto teso per l'attenzione, ed ebbe la certezza di averle fatto comprendere la sua verità; e intanto l'orgoglio giovanile per l'efficacia della propria parola, accrebbe la fede che egli aveva in sé.


      Eccitatissimo, continuava a parlare un po' sorridente, un po' accigliato; talvolta le parole gli fremevano d'odio, e la madre, spaventata per l'asprezza della voce, scuoteva il capo e gli domandava timida:


      - Dici davvero, Pavel?


      - Naturalmente! - rispondeva lui con energia. E raccontava di persone che per il bene del popolo avevano diffuso il seme della verità, ed erano stati braccati come belve dai nemici della verità, messi in galera, mandati all'ergastolo.


      - Ne ho conosciuti anch'io, - esclamò esaltato: - le persone migliori del mondo!


      Invece a lei quel tipo di persone faceva paura, e avrebbe voluto chiedere: <Davvero, Pascia?>.


      Ma non osava. Col fiato sospeso lo ascoltava parlare di gente ch'essa non riusciva a capire, da cui il figlio aveva imparato a parlare e a pensare in un modo tanto pericoloso. Finalmente gli disse:


      - Presto verrà giorno... Va' a letto, dormi: lo sai che domani devi lavorare.


      - Sì, vado subito, - annuì lui. E, chinandosi verso di lei le chiese: - Mi hai capito?


      - Sì, - rispose essa con un sospiro. - Gli occhi le si riempirono nuovamente di lacrime e aggiunse singhiozzando: - Ho paura per te!


      Il figlio si alzò, avviandosi verso la camera, e disse:


      - Be', adesso sai quello che faccio e dove vado, ti ho detto tutto. Però, mamma, se mi vuoi bene lasciami fare!


      - Tesoro mio, - essa esclamò, - forse sarebbe stato meglio che non sapessi niente!


      Pavel le prese una mano e la strinse fra le proprie.


      Ella si sentì commossa per il tono pieno di calore con cui l'aveva chiamata <mamma> e per l'insolita stretta di mano.


      - Non farò niente per impedirtelo, - disse con voce rotta; - ma non esagerare, te ne prego. - Non sapendo neppur lei in che senso egli non avrebbe dovuto esagerare, aggiunse tristemente: - Mi continui a dimagrire... - E, abbracciando con un'occhiata calda e amorevole la figura forte e slanciata del figlio, proruppe: - Che Dio ti benedica! Non t'impedirò mai di vivere come desideri; però devo farti una raccomandazione: quando parli, sta' attento, perché bisogna diffidare della gente: gli uomini non fanno che odiarsi, sono avidi e invidiosi, godono di far il male. Appena comincerai a smascherarli, ti odieranno e ti rovineranno.


      Fermo sulla soglia della camera, il figlio ascoltava i consigli della madre, e quand'essa ebbe finito, disse sorridendo:


      - La gente è cattiva, lo so... ma, da quando ho saputo che esiste una verità, vedo anche gli uomini sotto una luce migliore. - Sorrise nuovamente e proseguì: - Non so nemmeno io come sia avvenuto: da piccolo avevo paura della gente; crescendo, ho cominciato a odiare tutti, un po' perché erano dei vigliacchi, e un po' senza ragione. Adesso, invece, vedo gli uomini con occhi diversi: ne ho pietà, capisci? Non riesco a comprenderli, ma il mio cuore si è raddolcito da quando so che esiste una verità: che non tutti sono colpevoli del brago in cui vivono. - Tacque, come se ascoltasse una voce interiore, poi disse lentamente: - Ecco cosa s'impara dalla verità!


      Essa gli gettò un'occhiata e proferì piano:


      - Dio mio, come sei cambiato, ho paura per te...


      Quando si fu coricato ed era già immerso nel sonno, la madre si alzò cauta dal letto, avvicinandosi piano a quello di lui. Pavel giaceva supino, sul guanciale spiccava il viso abbronzato, serio e volitivo.


      Si fermò accanto al figlio a piedi nudi, in camicia, con le braccia conserte sul petto; le sue labbra si movevano silenziosamente, e grosse lacrime di turbamento le cadevano una dopo l'altra dagli occhi, lente e uguali.


      Così ricominciarono, divisi e vicini al tempo stesso, la solita vita silenziosa.


      Un giorno festivo di metà settimana, Pavel, uscendo di casa, disse alla madre:


      - Sabato verranno certe persone...


      - Che persone? - essa domandò.


      - Qualcuno da qui e gli altri dalla città.


      - Dalla città? - ripeté la madre, scuotendo il capo, e scoppiò in singhiozzi.


      - Che hai, mammina? - esclamò Pavel malcontento. - Perché piangi?


      Asciugandosi gli occhi col grembiule, gli rispose piano:


      - Non so, così...


      Egli passeggiò per la stanza e fermandosi davanti a lei, le domandò:


      - Hai paura?


      - Sì, - essa convenne: - gente della città... chi li conosce?


      Avvicinò il viso a quello di lei, e le disse irritato, col tono del padre:


      - E' questa paura che ci perde tutti; e, siccome chi ci comanda lo sa, ne approfitta per spaventarci ancor più. Mettitelo bene in testa: se continueremo ad aver paura, marciremo come le betulle dello stagno. E' giunta l'ora di farsi avanti! - Si allontanò in un angolo della stanza e proseguì: - Non importa, staremo in camera mia.


      La madre singhiozzò accoratamente:


      - Non arrabbiarti; come posso non aver paura? Ho vissuto sempre nel terrore, e ce l'ho chiuso in fondo a l'anima...


      A voce più bassa e dolce egli disse:


      - Perdonami... non posso fare altrimenti!


      E uscì.


      Essa stette col cuore in ansia per tre giorni; ogni volta che pensava alla imminente visita di quegli estranei si sentiva venir meno. Non riusciva a immaginare che tipo di gente fosse, ma provava al solo pensarci orrore: era colpa loro se il figlio s'era messo per quella strada.


      Il sabato sera, di ritorno dalla fabbrica, Pavel si lavò, si cambiò, e mentre usciva un'altra volta, disse alla madre senza guardarla:


      - Quando vengono, di' che torno subito e che mi aspettino. E non aver paura, mi raccomando: sono persone come tutte le altre.


      Essa si lasciò cadere sulla panca; Pavel la guardò preoccupato, chiedendo:


      - Non sarebbe meglio che tu andassi fuori?


      La proposta l'offese. Scuotendo negativamente la testa, rispose:


      - No... non importa. Perché poi?


      Era la fine di novembre; durante il giorno sulla terra congelata erano caduti fiocchi di neve minuti, asciutti, e fuori il terreno scricchiolava sotto i piedi di Pavel. Ai vetri della finestra si affacciava una tenebra fitta, che sembrava spiasse minacciosa all'interno. La madre, con le mani sulla panca e gli occhi fissi alla porta, stava aspettando; le sembrava che da ogni parte di quelle tenebre si accostassero furtivamente alla casa persone ignote, vestite in modo insolito, curve e silenziose nell'agguato. Qualcuno aveva già aggirato la casa, strisciava con le mani lungo il muro...


      Qua e là, nelle tenebre, risonò un fischio lamentevole, sottile come un filo, che si avvicinava sempre più; d'improvviso tacque sotto la finestra, come inghiottito dalle pareti di legno della casa.


      Nell'andito si udì un rumore di passi; la madre sussultò e sollevando spasmodicamente le sopracciglia, si rizzò in piedi.


      La porta si aprì, e nel vano apparve una testa ricoperta di un berrettone di pelo, sopra un corpo lungo lungo che per infilarsi nella camera dovette curvarsi lentamente. Infine quella figura si raddrizzò, sollevò adagio la destra, e respirando rumorosamente, disse con voce grossa, profonda:


      - Buona sera.


      La madre s'inchinò senza rispondere.


      - Pavel non è ancora ritornato?


      L'uomo si tolse lentamente la giacchetta di pelo, alzò una gamba, scosse col berretto la neve dallo stivale, ripeté lo stesso gesto con l'altra gamba; poi buttò il berretto in un angolo e, dondolandosi sulle gambe lunghe, entrò nella camera. Avvicinatosi a una sedia, per assicurarsi che fosse solida, prima la osservò ben bene, poi vi si sedette, e infine sbadigliò, portandosi una mano davanti alla bocca.


      Aveva i capelli ben tagliati, le guance rasate e un paio di baffoni all'ingiù. Osservò accuratamente la stanza con gli occhi grigi, grandi e sporgenti; accavallò le gambe, e dondolandosi sulla seggiola domandò:


      - E' casa vostra o è in affitto?


      Seduta di fronte a lui, la madre rispose:


      - In affitto...


      - Che catapecchia! - osservò lui.


      - Pascia verrà tra poco; ha detto di aspettarlo, - essa spiegò con aria tranquilla.


      - E' quello che sto facendo, - ribatté l'uomo lungo senza scomporsi.


      Quella calma, quella voce profonda e cadenzata, quel volto bonario rincuorarono la madre. Egli la guardava con aperta simpatia: negli occhi limpidi scintillava il buonumore, e in tutta la persona curva, angolosa, dinoccolata, c'era una nota comica e piacevole. Indossava una camiciola grigia e un paio di bragoni chiusi negli stivali.


      Essa stava già per chiedergli chi era, da dove veniva, da quanto tempo conosceva suo figlio, quando improvvisamente egli si dimenò sulla sedia esclamando:


      - Ma chi è stato a conciarvi in questo modo la fronte, mammetta?


      Il tono della domanda era garbato, lo sguardo dell'interlocutore chiaro e sorridente, eppure si sentì offesa da quelle parole; serrò le labbra, e dopo una pausa gli chiese con fredda cortesia:


      - E a voi, caro mio, che cos'importa?


      Si piegò verso di lei e cercò di scusarsi:


      - Sù, non prendetevela: ve l'ho chiesto perché la mia madre adottiva aveva lo stesso segno in fronte, e a lei - vedete - la testa la ruppe l'amante, con una forma da scarpe. Faceva la lavandaia, e lui il ciabattino, un ubriacone che aveva raccolto a un angolo della strada dopo che già aveva adottato me. Povera disgraziata, sapeste quante bòtte si buscava... io non ragionavo più dalla paura.


      Disarmata da tanta sincerità, la madre incominciò a pensare a Pavel, che si sarebbe inquietato con lei se avesse risposto sgarbatamente a quell'originale; perciò soggiunse con un sorriso colpevole:


      - Non mi sono offesa, ma una domanda così a bruciapelo... E' un segno del mio maritino, che il cielo lo perdoni. Siete tartaro, per caso?


      L'uomo agitò le gambe e sorrise fino agli orecchi; poi disse seriamente:


      - No, non ancora.


      - Avete una pronuncia che non sembra russa, - spiegò sorridendo la madre che aveva afferrato l'intonazione scherzosa.


      - Meglio che russa! - esclamò allegramente l'ospite chinando il capo. - Sono ucraino della città di Kanev.


      - E siete qui da un pezzo?


      - In città sono stato circa un anno, e un mese fa mi sono trasferito da voi, nella vostra fabbrica, dove ho trovato della brava gente: vostro figlio e qualche altro... non molti, però. Mi fermerò qui, - spiegò, tirandosi i baffi.


      Era proprio una simpatica persona, e la madre, per ringraziarlo in qualche modo di ciò che aveva detto del figlio, domandò:


      - Volete una tazzina di tè?


      - Io solo? - rispose alzando le spalle. - Aspettate che arrivino anche gli altri...


      Queste parole le risvegliarono l'angoscia. <Speriamo che siano tutti così>, si augurò di cuore.


      Altri passi risuonarono nell'atrio, e la porta si aprì di colpo. La donna si alzò nuovamente; ma, con sua gran meraviglia, vide entrare in cucina una ragazza di media statura, vestita di roba leggera e andante, con un viso semplice da contadina e una grossa treccia bionda, la quale domandò con voce timida:


      - Sono in ritardo?


      - Nient'affatto, - rispose l'ucraino, guardandola attraverso l'uscio. - Siete venuta a piedi?


      - Naturalmente. Voi... siete la madre di Pavel Micàilovic? Buon giorno! Io sono Natascia.


      - E il vostro patronimico? - domandò la madre.


      - Vassìlievna. E voi?


      - Pelagheia Nìlovna.


      - Ecco fatta la nostra conoscenza, sì, - concluse la madre con un lieve sospiro di sollievo, e guardò sorridendo la ragazza.


      L'ucraino l'aiutò a togliersi il cappotto, domandando:


      - Fa freddo?


      - Molto; c'è un vento nei campi...


      Aveva una voce chiara, morbida, la bocca piccola, carnosa, ed era fresca e rotondetta. Quando si fu spogliata, si strofinò energicamente le guance colorite con le manine rosse per il freddo; poi attraversò la camera a passetti rapidi, battendo sul pavimento i tacchi degli stivali.


      - E' senza soprascarpe! - scoprì improvvisamente la madre.


      - Si...ì, - strascicò la ragazza, - sono proprio gelata...


      - Allora corro a preparare il samovàr! - s'affrettò a dire la donna, andando in cucina.


      Le sembrava di aver sempre conosciuto quella ragazza, e di volerle già bene come a una figlia; era contenta che fosse venuta, e sorrise pensando a quegli occhi azzurri, un po' socchiusi. Dall'altra camera le giungeva la conversazione degli ospiti.


      - Siete triste, Nacodca? - domandò la ragazza.


      - Così... - rispose piano l'ucraino. - La vedova ha due occhi buoni; pensavo che forse mia madre aveva lo stesso sguardo. Sapete, penso spesso a mia madre, e ho la sensazione che sia ancora viva.


      - Ma non avete detto che è morta?


      - Quella adottiva, sì; ma io parlo della mia vera mamma. Mi sembra di vederla girare per le strade di Kiev, in cerca di elemosina, certo ubriaca di vodka.


      - Perché?


      - Così. E quand'è ubriaca i poliziotti la schiaffeggiano.


      <Poverino!>, pensò la madre con un sospiro.


      Natascia mormorò con calore qualche parola. Poi si sentì di nuovo la voce dell'ucraino.


      - Eh, siete troppo giovane, compagna; dovete mangiarne ancora, di pane e cipolla! Tutti gli uomini hanno una madre, eppure son crudeli: se è difficile partorire, è ancora più difficile insegnare la bontà...


      <Senti un po'>, disse fra sé la madre, e avrebbe voluto rispondere all'ucraino che lei, per esempio, avrebbe insegnato con gioia la bontà al figlio, se fosse stata un po' meno ignorante.


      Ma la porta s'aprì lentamente, e nella cucina entrò Nicolai Vièssovcicov, il figlio del vecchio ladro Danilo, un tipo scontroso e misantropo di cui tutti si beffavano.


      La madre gli domandò stupita:


      - Tu... cosa vuoi, Nicolai?


      La guardò con gli occhietti grigi, si passò la grossa mano sul viso butterato dagli zigomi sporgenti e senza salutare domandò sordamente:


      - E' in casa, Pavel?


      - No.


      Sbirciò nella camera attigua ed entrò, dicendo:


      - Buona sera, compagni.


      <Possibile che anche lui...>, pensò la madre irritata, e si stupì molto di vedere Natascia tendergli la mano, con gentilezza e affabilità.


      Vennero successivamente due giovanotti, ancora quasi imberbi; la madre ne conosceva uno: Fiodor, il nipote di Sisov, un operaio della fabbrica. Era un giovane dal viso aguzzo, con la fronte spaziosa e i capelli ricci. L'altro, venuto con lui, aveva i capelli lisci e un'aria modesta che la tranquillò, anche se non l'aveva mai visto. Finalmente giunse Pavel con due giovani della fabbrica che essa conosceva di vista. Pavel le disse affettuosamente:


      - Hai messo sù il samovàr? Grazie!


      - Devo comprare un po' di vodka? - propose lei, non sapendo come esprimere la strana gratitudine che provava per lui.


      - No, non occorre, - dichiarò Pavel spogliandosi, e le sorrise amichevolmente.


      Pensò per un momento che il figlio le avesse fatto credere maggiore il pericolo per divertirsi alle sue spalle.


      - Sono loro le persone pericolose? - chiese piano.


      - Proprio, - rispose Pavel, entrando nella camera.


      - Ma va'! - essa esclamò affettuosamente, e intanto pensò con indulgenza: <Che bambino!>.


      Quando il samovàr fu pronto, ed essa l'ebbe portato nella camera, gli ospiti sedevano in gruppo intorno alla tavola, mentre Natascia s'era accomodata nell'angolo sotto la lampada con un opuscolo fra le mani.


      - Per capire perché gli uomini vivono così malamente... - disse Natascia.


      - E perché sono così malvagi, - soggiunse l'ucraino.


      - Bisogna vedere come vivevano da principio.


      - Sì, sì, guardate pure, - borbottò la madre, versando il tè.


      Tutti tacquero.


      - Che avete detto, mammina? - domandò Pavel, un po' seccato.


      - Io? - si guardò intorno, e, vedendosi fissata da tutti, si confuse e disse: - Così, parlavo fra di me... dicevo di guardare...


      Natascia scoppiò in una risata e Pavel abbozzò un sorriso. L'ucraino disse:


      - Grazie, mammina, per il tè.


      - Bevetelo, prima di ringraziarmi, - essa replicò e, sbirciando il figlio, aggiunse: - Vi disturbo, forse?


      Rispose Natascia:


      - Ma come! Una padrona di casa che disturba gli ospiti! - E supplicò con un'intonazione infantile: - Tesoro, datemi in fretta il tè: son tutta un brivido; ho le gambe ghiacciate!


      - Subito, subito... - rispose la madre premurosamente.


      Dopo la prima tazza di tè, Natascia tirò un profondo respiro, gettò la treccia dietro le spalle e cominciò a leggere in un librone illustrato dalla copertina gialla. La madre intanto lavava i bicchieri senza far rumore per poter seguire la conversazione spigliata della ragazza. Il canto esile e malinconico del samovàr accompagnava la voce sonora di Natascia che nell'altra stanza rievocava una storia semplice, viva come i colori di un nastro variopinto: la storia degli uomini primitivi che vivevano nelle caverne e uccidevano le belve con le pietre. Sembrava una vera fiaba, e la madre guardò più volte il figlio, ansiosa di chiedergli perché fosse proibita quella storia di selvaggi; ma presto si stancò di seguire il discorso e senza farsi vedere cominciò a osservare gli ospiti.


      Pavel, seduto accanto a Natascia, era il più bello di tutti. Natascia, china sul libro, s'aggiustava continuamente i riccioli che le scivolavano morbidi sulle tempie; talvolta gettava indietro la testa e commentava il libro a voce più bassa, sfiorando affettuosamente con lo sguardo gli ascoltatori. L'ucraino stava appoggiato con l'ampio torace a uno spigolo della tavola e si attorcigliava i baffi, strabuzzando gli occhi per vederne le punte. Vièssovcicov sedeva tutto impettito con le mani sulle ginocchia. Aveva la faccia butterata, senza sopracciglia; con le labbra strette, immobile come una maschera, e senza battere ciglio guardava insistentemente, con gli occhi allungati, la propria immagine riflessa nel lucido samovàr di rame: sembrava che non respirasse neppure. Il piccolo Fedia ascoltava muovendo le labbra in silenzio, come se ripetesse fra sé le parole del libro, e il suo compagno se ne stava tutto curvo coi gomiti sulle ginocchia e gli zigomi tra i palmi delle mani, sorridendo meditabondo. Uno dei giovanotti venuti con Pavel, un ragazzo snello, coi capelli rossi e ricciuti e due occhi verdi pieni d'allegria, aveva evidentemente qualcosa da dire, perché si agitava impaziente; l'altro, coi capelli biondi a spazzola, si passava la mano sulla testa, ma poiché teneva gli occhi bassi non lo si vedeva bene in faccia.


      La camera era calda e più accogliente del solito. La madre, con una nuova sensibilità, se ne rendeva conto, e cullata dalla voce di Natascia e dalla tremula canzone del samovàr, ricordava le serate chiassose della sua gioventù, le parole sgarbate dei giovanotti, gli scherzi cinici. In quel momento sentiva di compassionarsi: il suo cuore stanco e umiliato era stretto in una morsa. Le ritornò alla mente come era avvenuto il suo fidanzamento. Una sera, durante una delle solite riunioni dei giovani, lui l'aveva afferrata al buio nell'ingresso e schiacciandola con tutto il corpo contro la parete, le aveva chiesto cupamente: <Vuoi sposarmi?>. Si era sentita oppressa e umiliata, mentre le palpava il seno con le dita rozze, ruttando e soffiandole in faccia un alito caldo e umido. Infine si era divincolata per sfuggirgli e con uno strattone era riuscita a girarsi su un fianco... <Dove scappi?>, aveva gridato lui. <Rispondi>.


      Ansimando di vergogna e di umiliazione, essa aveva taciuto. Qualcuno aveva aperto la porta dell'ingresso, ed egli lentamente si era scostato, con questo avvertimento: <Domenica ti mando la comare>.


      E gliel'aveva mandata.


      La madre chiuse gli occhi e sospirò. Dalla camera le giunse la voce malcontenta di Vièssovcicov:


      - Non ho bisogno di sapere come gli uomini vivevano una volta, ma come devono vivere adesso.


      - Giusto! - rincalzò il ragazzo rosso, alzandosi.


      - Nient'affatto! - interruppe Fedia. - Se vogliamo progredire, dobbiamo conoscere il passato.


      - Giusto, giustissimo, - disse tranquillamente il ragazzo ricciuto.


      La discussione si animò e le parole proruppero vivaci come le scintille di un falò. La madre non capiva la ragione di tutto quel baccano; i visi si erano riscaldati per l'eccitazione, ma nessuno sembrava adirato o parlava in quel modo volgare ch'essa conosceva.


      <Si vergognano per la signorina>, così infine decise.


      Le piaceva il viso serio di Natascia, che osservava quei giovanotti come fossero stati bambini.


      - Un momento, compagni, - essa disse improvvisamente, e tutti ammutolirono, gli occhi fissi su di lei. - Ha ragione chi dice che dobbiamo approfondire la cultura: dobbiamo possedere la luce intellettuale per illuminare chi vive nell'oscurità e poter rispondere in modo esatto ed onesto a qualunque domanda ci venga rivolta. Dobbiamo imparare a distinguere il vero dal falso...


      L'ucraino ascoltava e approvava con la testa ogni parola della ragazza; Vièssovcicov, il giovane rosso e l'altro operaio venuto con Pavel, formavano un gruppo separato. La madre istintivamente non li trovava simpatici.


      Quando Natascia tacque, Pavel si alzò e domandò con calma:


      - Dobbiamo forse accontentarci di avere abbastanza da mangiare? No! - rispose a se stesso guardando severamente i tre in disparte. - Noi vogliamo essere uomini. Dobbiamo mostrare a chi ci siede sul collo, a chi ci benda gli occhi, che vediamo tutto; che non siamo né scemi né bestie selvatiche e che non ci basta mangiare, ma vogliamo vivere come esseri umani. Mostreremo ai nostri nemici che la vita grama che ci hanno imbastito non c'impedirà di raggiungere intellettualmente il loro livello e di oltrepassarlo!


      La madre lo ascoltava, col cuore fremente di orgoglio. Come parlava bene!


      - La pancia piena ce l'hanno molti, ma mancano gli onesti! - esclamò l'ucraino. - Dobbiamo costruircelo noi un ponticello che ci faccia passare da questo fango al regno futuro della bontà e della comprensione: ecco il nostro dovere, compagni.


      - E' giunta l'ora di lottare, non abbiamo tempo per curarci le piaghe, - obiettò Vièssovcicov cupamente.


      - Prima che si arrivi alla lotta, ci avranno già liquidati! - proruppe allegramente l'ucraino.


      Quando la riunione si sciolse, era ormai suonata la mezzanotte. Vièssovcicov e il rosso furono i primi ad andarsene, lasciando così alla madre una nuova sgradevole impressione. <Quanta fretta>, pensò, mentre li salutava freddamente.


      - Mi accompagnate, Nacodca? - domandò Natascia.


      - Come no? - rispose l'ucraino.


      Quando Natascia fu entrata in cucina per vestirsi, la madre le disse:


      - Voi avete le calze troppo sottili per questa stagione! Ve le farò io di lana, se permettete...


      - Grazie, Pelagheia Nìlovna, ma la lana mi pizzica, - rispose Natascia, ridendo.


      - Come ve le farò io, non vi pizzicherà, - disse la Vlàssova.


      Natascia la guardò a lungo, socchiudendo gli occhi, e la madre ne rimase intimidita.


      - Perdonatemi, forse sono stata sciocca, ma l'ho detto col cuore, - aggiunse piano.


      - Siete un tesoro, - proruppe Natascia, pure a bassa voce, stringendole in fretta la mano.


      - Buona notte, mammetta, - augurò l'ucraino guardandola negli occhi, e seguì Natascia piegandosi per uscire.


      La donna allora osservò il figlio: se ne stava ritto presso la porta della camera, sorridendo.


      - Perché ridi? - gli chiese sconcertata.


      - Così, sono allegro!


      - Anche a me, sai, piace ridere, sebbene sia vecchia e stupida, - osservò lei, lievemente offesa.


      - Così mi piace! - esclamò il giovane, approvando col capo. - Ma è ora che andiate a letto.


      - Anche tu. Io adesso ci vado.


      Si mise a sparecchiare la tavola e raccolse le tazze. Era felice, sudava persino per la piacevole eccitazione e per la gioia che tutto fosse stato così bello e fosse finito bene.


      - Hai avuto una bella idea, Pavluscia! - gli disse. - Che brava persona, quell'ucraino, è simpaticissimo; e la signorina, com'è intelligente! Chi è?


      - E' una maestra, - rispose brevemente Pavel, camminando per la camera.


      - Ah, sembra una poveretta. Così mal vestita... si prenderà un accidente. E i genitori dove stanno?


      - A Mosca, - disse Pavel, e fermandosi davanti alla madre, proferì a mezza voce, serio: - Sai, suo padre è un ricco commerciante in ferro, e possiede parecchie case. L'ha scacciata perché seguiva questa strada; eppure lei, cresciuta in mezzo alle comodità, abituata all'agiatezza, preferisce farsi sette verste di notte, sola soletta...


      La madre era stupefatta; in piedi in mezzo alla camera, agitava le sopracciglia e guardava ammutolita il figlio. Poi bisbigliò:


      - Va in città?


      - Sì, in città.


      - Ah, e non ha paura?


      - No di certo! - scoppiò a ridere Pavel.


      - Ma perché? Poteva dormir qui, con me!


      - Meglio di no; domattina l'avrebbero vista e sarebbe stato un guaio per noi e per lei.


      La madre capì; guardò sovrappensiero la finestra e domandò quietamente:


      - Non me ne rendo conto, Pascia; cosa c'è qui di pericoloso, da proibire? Niente di brutto, mi sembra...


      Ma non ne era sicura, e desiderava che il figlio glielo assicurasse. Pavel, guardandola tranquillamente negli occhi, le disse con fermezza:


      - Niente di male, né adesso né poi; però ci aspetta tutti la prigione. Ora lo sai...


      Essa si sentì tremare le mani; con voce spenta invocò lentamente:


      - Forse Dio non lo vorrà... Magari tutto andrà bene.


      - No, - rispose il figlio affettuosamente ma senza esitazione; - non posso ingannarti: non la scamperemo.


      E sorrise.


      - Va' a letto. Hai l'aria stanca. Buona notte!


      Rimasta sola, la madre s'avvicinò alla finestra e guardò nella strada. Di là dai vetri l'aria era fredda e torbida; il vento staccava la neve dai tetti delle casupole addormentate, si abbatteva contro i muri, sussurrava in fretta qualcosa e cadeva pesantemente a terra, sollevando lungo la strada turbini bianchi e asciutti di neve.


      - Gesù Cristo, abbi pietà di noi, - mormorò la donna sommessamente.


      Il cuore, colmo di pianto per la sciagura che Pavel aveva predetto con serena certezza, le palpitò come una povera, cieca farfalla notturna. Davanti a lei si stendeva la pianura nevosa, arruffata dal vento, che con un fischio acuto e freddo sconvolgeva la terra; e, in mezzo a quella distesa, procedeva a stento la figuretta oscura della ragazza: il vento le soffiava tra i piedi, le sollevava il vestito, le sbatteva in faccia i fiocchi pungenti di neve. E' difficile camminare quando i piedini affondano nella neve; la notte è fredda e minacciosa. La fanciulla si piega in avanti, come uno stelo, nella pianura sconvolta dal gioco vivace del vento autunnale; a destra, intorno alla palude, si erge come una cupa muraglia il bosco; là stormiscono esili betulle e nudi pioppi tremuli e desolati. Nella foschia s'intravedono le luci lontane della città.


      - Signore, abbi pietà di noi, - mormorò ancora la madre, rabbrividendo di freddo e dì paura. 


 

 

      3. 


      I giorni si susseguivano come i grani del rosario, formando le settimane, i mesi. Ogni sabato i compagni si riunivano in casa di Pavel; ogni riunione li portava su un gradino più alto di quella lunga scala che gli uomini salgono lentamente senza vederne la fine; e ogni volta comparivano visi nuovi. Nella cameretta dei Vlassov si stava stretti e si soffocava. Natascia arrivava stanca, intirizzita, ma con un buonumore e una vivacità inesauribili. La madre le aveva fatto le calze e gliele aveva infilate con le proprie mani; Natascia allora era scoppiata a ridere, poi di colpo si era fatta silenziosa e assorta, e le aveva confidato:


      - Io avevo una bambinaia buona così. Che strano, Pelagheia Nìlovna, la gente del popolo ha una vita tanto grama, eppure ha più cuore e più bontà di quegli altri... - E accennò vagamente, con la mano, a un luogo lontano, molto lontano da lei.


      - Ecco come siete, voi, - rispose la Vlàssova: - i genitori si privano di tutto... - e non sapendo come finire la frase, s'interruppe con un sospiro: guardava Natascia con riconoscenza, stando seduta per terra davanti a lei. La ragazza si fece pensierosa e le sorrise, chinando la testa.


      - I genitori si privano? - ripeté. - Questo non è vero. Mio padre era stupido, volgare, e anche ubriacone; come mio fratello, del resto; la mia sorella maggiore, disgraziata, ha sposato uno molto più anziano di lei, ricco quanto avaro, e noioso. Ma, per la mamma, sì, mi dispiace; è semplice come voi, piccola piccola: proprio un topolino, sempre di corsa, paurosa di tutto. Qualche volta muoio dalla voglia di vederla, la mamma!


      - Poverina! - esclamò la donna rattristata, scotendo il capo.


      La ragazza alzò bruscamente la testa e tese la mano come per respingere qualcosa.


      - Nient'affatto, sono invece così contenta, così felice... - Era pallida in volto, ma gli occhi le splendevano. Pose le mani sulle spalle della madre e con una voce che le saliva dal profondo del cuore le sussurrò ispirata: - Sapeste, se poteste capire la grandezza dell'opera che abbiamo intrapreso e tutta la gioia che ne riceviamo!


      Un sentimento simile all'invidia penetrò nel cuore della Vlàssova. Alzandosi da terra, disse con amarezza:


      - Sono troppo vecchia, io, per queste cose... vecchia e ignorante.


      Pavel parlava sempre più volentieri e più spesso, discuteva con crescente entusiasmo, ma continuava anche a dimagrire. La madre aveva l'impressione che, quando conversava con Natascia o la guardava, il suo sguardo severo si ammorbidisse, la voce diventasse carezzevole, e l'atteggiamento più semplice.


      <Dio lo volesse!>, pensò; e, all'idea d'aver Natascia come nuora, sorrise..


      Ogni volta che nelle riunioni la discussione diventava troppo vivace e aspra, l'ucraino si alzava e dondolandosi come il batacchio di una campana, parlava con la sua voce sonora in modo semplice e bonario, riportando nel gruppo la calma e la compostezza. Vièssovcicov, sempre molto arcigno, aveva la smania di concretare subito tutto; lui e il rosso, un certo Samòilov, erano quelli che si riscaldavano di più. Un altro, Ivàn Buchin, che sembrava appena uscito da un bagno di candeggina per la testa rotonda rasata a zero, lo assecondava invariabilmente. Invece Iacov Somov, un giovane dall'aspetto lindo e pulito, parlava poco, con calma e serietà; lui e Fedia Masin, dalla fronte intelligente, nelle discussioni sostenevano sempre Pavel e l'ucraino. A volte il posto di Natascia era preso da Nicolai Ivànovic, un giovane con gli occhiali e la barbetta bionda, oriundo di una provincia remota, che parlava con una curiosa cadenza. Era diverso dagli altri, anche trattando argomenti da poco, comuni, come la vita domestica, i bambini, il lavoro, la polizia, il prezzo del pane e della carne, in tutto vedeva l'imbroglio, la stupidità talvolta ridicola, e sempre palesemente nociva agli uomini. La madre pensava che venisse addirittura da un altro mondo, dove la vita fosse semplice, onesta e facile; lo sentiva un estraneo, incapace di adattarsi alle cose così com'erano; forse la realtà non gli piaceva, e il carattere irriducibile lo costringeva a voler rifare il mondo a modo suo. Aveva un colorito giallastro, una raggiera di piccole rughe attorno agli occhi, la voce bassa e le mani calde; quando salutava la Vlàssova, le stringeva la mano con le dita lunghe e forti, e quella stretta le infondeva calma e serenità.


      Dalla città venivano anche alcuni altri, fra i quali più spesso una signorina alta e ben fatta, con due occhioni immensi nel viso magro e pallido. La chiamavano Sàscenca; aveva l'andatura e i gesti un po' mascolini; aggrottava con ira le fitte sopracciglia scure e, parlando, dilatava le narici del naso diritto. Sàscenca fu la prima che un giorno dicesse con voce forte e decisa:


      - Noi socialisti...


      A quelle parole la madre la guardò fissamente, muta di terrore, ma la ragazza, socchiudendo gli occhi, continuò decisa:


      - Noi dobbiamo dare tutte le nostre energie alla causa del rinnovamento sociale...


      La madre sapeva che i socialisti avevano ucciso lo zar. Ciò era successo quando lei era giovane; si diceva allora che i proprietari, per vendicarsi dello zar che aveva affrancato i contadini, avevano fatto voto di non tagliarsi i capelli finché non l'avessero ucciso, e per questo erano stati chiamati socialisti; perciò adesso la madre non riusciva a capacitarsi come mai il figlio e i suoi compagni fossero socialisti. Quando tutti se ne furono andati, domandò a Pavel:


      - Pavluscia, ma tu sei socialista?


      - Sì, - le rispose, dritto, e fermo come sempre. - Perché?


      La madre sospirò profondamente e domandò a occhi bassi:


      - Davvero, Pavluscia? Ma non sono contro lo zar? Ne hanno ucciso uno...


      Pavel passeggiò per la camera accarezzandosi la guancia, abbozzò un sorriso e disse:


      - Questo a noi non interessa.


      Le parlò a lungo con voce calma e grave. Essa lo guardava dritto negli occhi e pensava: <Non farà mai nulla di male: non potrebbe>.


      Da quel giorno la terribile parola fu ripetuta sempre più spesso; divenne meno aspra e così familiare al suo orecchio come molte altre parole incomprensibili. Però Sàscenca non le piaceva, e ogni sua visita le dava un senso di ansia e d'imbarazzo. Un giorno disse all'ucraino, stringendo le labbra con aria malcontenta:


      - Sàscenca mi sembra un po' troppo autoritaria; comanda tutti a bacchetta: tu fa' questo, tu fa' quello...


      L'ucraino scoppiò in una risata.


      - Ben detto. Voi, mammetta, avete colpito nel segno; vero, Pavel?


      E ammiccando alla madre, le disse col riso negli occhi:


      - Gratta, gratta, la nobiltà salta sempre fuori.


      Pavel osservò seccamente:


      - E' una brava persona, - e si rabbuiò.


      - Anche questo è vero, - approvò l'ucraino; - ma non capisce che il suo è un dovere, mentre noi vogliamo e siamo in diritto!


      Cominciarono una discussione per lei incomprensibile.


      Essa aveva notato che Sàscenca era particolarmente severa con Pavel, e a volte perfino lo sgridava. Pavel sorrideva ma non replicava, accontentandosi invece di guardare la ragazza con la stessa dolcezza con cui aveva guardato anche Natascia. E la madre non ne era contenta.


      L'afflusso della gente continuava ad aumentare; le riunioni avvenivano non più una, ma due volte la settimana; e quando la madre si accorse con che intensa avidità i giovani ascoltavano le parole del figlio e dell'ucraino, e le storie avvincenti di Sàscenca, di Natascia, di Nicolai Ivànovic e di altri compagni della città, dimenticava le ansie e scuoteva tristemente il capo, ricordando la tetraggine della sua gioventù.


      A volte invece osservava con stupore, e non riusciva a capire certi improvvisi e impetuosi scatti di allegria. Accadeva di solito quando i giornali riportavano qualche notizia sul movimento operaio all'estero: in quei momenti i loro occhi brillavano di gioia; tutti si sentivano felici come bambini, ridevano di un riso gaio e spensierato, si davano manate affettuose sulle spalle.


      - Bravi ragazzi, i compagni tedeschi! - esclamava qualcuno, trasportato dall'entusiasmo.


      - Viva i compagni lavoratori d'Italia! - gridavano un'altra volta.


      Inneggiando con quelle grida ai compagni lontani che di loro ignoravano persino la lingua, era come se quegli uomini sconosciuti potessero udire e condividerne l'entusiasmo: Con gli occhi lucenti e il cuore colmo di amore per l'umanità, l'ucraino diceva:


      - Sarebbe bello scriverglielo, vero, compagni? Fargli sapere che nella lontana Russia ci sono amici lavoratori che hanno la stessa religione e la professano; compagni che perseguono gli stessi ideali e godono delle loro vittorie.


      Chiacchieravano a lungo e meditavano serenamente il problema della classe operaia; parlavano dei francesi, degli inglesi, degli svedesi come di carissimi amici, che da lontano amavano e stimavano, condividendone gioie e dolori.


      In quella cameretta angusta era nato un sentimento nobile e grande, quello della fratellanza che lega in ispirito tutti i lavoratori della terra, e non distingue fra padroni e servitori. Già affrancati nel pensiero dalle pastoie dei pregiudizi, sentivano di vincere il mondo; quel sentimento fondeva le loro anime in un'anima sola, e, sebbene fosse incomprensibile alla madre, le comunicava la sua forza gioiosa, trionfale e giovanile, le infondeva coraggio, dolcezza e speranza.


      - Come siete, voi, - le capitò di dire un giorno all'ucraino: - chiamate compagni tutti, armeni, ebrei, austriaci: tutti amici allo stesso modo per voi; per tutti vi rattristate o gioite...


      - Per tutti, mammetta mia, per tutti! - esclamò l'ucraino. - Il mondo è nostro, il mondo è dei lavoratori. Per noi non esistono né nazioni, né razze, ma soltanto compagni o nemici; i lavoratori sono i nostri compagni, i ricchi e i governi i nostri nemici. Se pensi com'è grande la terra, quanto siamo numerosi noi lavoratori e quanta forza morale è racchiusa in noi, sei preso da una gioia e da una felicità così grandi che il cuore è tutto in festa; e lo stesso provano i francesi, i tedeschi, gl'italiani. Siamo tutti figli della stessa madre: la grande, insopprimibile idea della fratellanza che unisce i lavoratori di tutto il mondo; questa idea cresce e ci riscalda col suo calore, come il sole di un cielo più giusto. Chiunque lavora ha questo cielo nel cuore; e, chiunque sia, comunque si chiami, è un socialista ed è nostro fratello in spirito, oggi e sempre, nei secoli dei secoli.


      Quella gioia infantile, quella fede luminosa e indomita si affermava sempre più, e si irrobustiva di giorno in giorno. Di fronte a questo spettacolo la madre sentiva che nel mondo era realmente nato qualcosa di grande e di luminoso, paragonabile al sole che splendeva nel cielo.


      Spesso cantavano canzoni semplici, note, a voce alta e allegra; qualche volta anche canzoni nuove, molto armoniose benché tristi e un po' insolite. Queste ultime, le intonavano a mezza voce, come arie di chiesa, seri e assorti; i loro volti impallidivano e avvampavano: da quei canti emanava una grande forza.


      Uno di essi soprattutto, turbava la donna. Era un canto senza i lamenti e le malinconie di un animo amareggiato, umiliato e smarrito lungo gli oscuri sentieri del dubbio, senza i sospiri di un animo inebetito dalla miseria e da una paura vaga e incolore; non vi risuonavano i tristi aneliti di una forza vagamente assetata di spazio, i gridi provocatori e audaci di sfida, rivolti indifferentemente al bene o al male; non c'era il cieco sentimento di vendetta e di offesa, capace di distruggere, impotente a creare; nulla che ricordasse il mondo dell'antica servitù. Le parole aspre e la melodia severa della canzone non piacevano alla donna, ma essa sentiva, al di là delle parole e del canto, una forza più grande del suono e della parola, tale da risvegliare nel cuore il presentimento di un mondo inaccessibile alla mente. Leggeva ciò negli occhi e sui visi dei giovani, glielo sentiva battere in petto; e, soggiogata dalla forza della canzone, indipendentemente dai suoni e dalle parole, l'ascoltava con un interesse sempre più intenso e con un'ansia sempre più profonda. Benché cantata a mezza voce, sembrava più sonora delle altre, e dava l'effetto di una brezza di marzo, il primo giorno di primavera.


      - E' ora che la cantiamo per le strade, - diceva l'arcigno Vièssovcicov.


      Un giorno che suo padre era tornato in prigione perché aveva nuovamente rubato, Nicolai dichiarò con calma ai compagni:


      - Adesso possiamo radunarci a casa mia: la polizia ci crederà ladri, e i ladri le sono simpatici.


      Quasi ogni sera, dopo il lavoro, veniva da Pavel qualche compagno; subito, senza nemmeno lavarsi, si mettevano a leggere e a prendere appunti. Mangiavano e bevevano il tè col libro in mano e dicevano cose che la madre capiva sempre meno.


      - Abbiamo bisogno di un giornale, - ripeteva spesso Pavel.


      La vita era diventata turbinosa e febbrile; gli uomini si radunavano sempre più assiduamente e passavano da un libro all'altro, come le api di fiore in fiore.


      - Siamo sulla bocca di tutti, - disse un giorno Vièssovcicov: - non la passeremo liscia.


      - La quaglia c'è apposta per cadere nella rete! - esclamò l'ucraino.


      Alla madre, egli piaceva sempre di più; quando la chiamava <mammetta>, quella parola era per lei come la carezza di una morbida mano infantile su una guancia.


      Di domenica, se Pavel non aveva tempo, le spaccava la legna; un giorno capitò con una tavola sulla schiena e, presa la scure, cambiò in un baleno il gradino infradicito dell'ingresso. Un'altra volta aggiustò con la stessa rapidità il vecchio steccato.


      Lavorava fischiettando arie tristi con molta bravura.


      Un giorno la madre disse al figlio:


      - Prendiamolo a pensione da noi? Sarà meglio per tutti e due, così non vi inseguirete più.


      - Non è un fastidio per voi? - domandò Pavel con un'alzata di spalle.


      - Bella questa, tutta la vita mi sono scomodata senza sapere perché... Potrò ben farlo per una persona simpatica!


      - Come volete, - rispose il figlio; - se accetterà, ne sarò lietissimo.


      L'ucraino si trasferì da loro.


      La casetta in fondo al borgo attirava la curiosità della gente, e decine di sguardi sospettosi già ne frugavano le pareti. Attorno a essa battevano insistentemente le ali variegate del pettegolezzo; la gente si nascondeva dietro il muro della casa, dalla parte del borro, nella speranza di scoprire qualcosa; di notte curiosavano alle finestre, qualcuno batteva anche sui vetri e subito dopo se la dava a gambe spaventato.


      Un giorno la Vlàssova fu fermata per la strada dall'oste Biegunzov, un vecchietto arzillo con un fazzoletto di seta nera intorno al collo rosso e rugoso e uno spesso panciotto lilla di felpa. Sul naso lucido e aguzzo portava un paio di occhiali di tartaruga, che gli avevano valso il soprannome di <Occhi ossuti>.


      Costui, fermata la Vlàssova, le disse con voce secca e gracidante, senza tirare il fiato né ascoltar la risposta:


      - Pelagheia Nìlovna, come state? E il vostro ragazzo? Non pensate di dargli moglie? E' venuto il momento di sistemarlo; più presto i figli si sposano, più tranquilli stanno i genitori. In famiglia uno si conserva meglio di spirito e di corpo; come un fungo nell'aceto. Al vostro posto non aspetterei. Coi tempi che corrono bisogna sorvegliare strettamente le nostre creature; oggi la gente vuol vivere di testa sua, senza criterio; c'è una gran confusione nei cervelli, e si agisce in modo vergognoso: i giovani trascurano la chiesa, evitano i ritrovi pubblici, si frequentano di nascosto, e si parlano all'orecchio dietro gli angoli. Cos'hanno da complottare? lo sapete voi? Perché sfuggono la gente? Per me, chi ha paura di parlare in pubblico, per esempio all'osteria, nasconde un mistero; ma i misteri stanno bene soltanto in chiesa nella nostra santa Chiesa apostolica. Gli altri, invece, quelli che si tramano dietro gli angoli, sono illusioni della mente. State bene.


      Si levò il berretto con ostentazione, lo agitò nell'aria e se ne andò, lasciando la madre perplessa.


      Anche la vicina dei Vlassov, una certa Maria Corsùnova, la vedova di un fabbro che ogni giorno andava in fabbrica a vendere alimentari, avendo incontrato la madre al mercato, non mancò di dirle:


      - Sta' attenta a tuo figlio, Pelagheia!


      - Perché? - domandò l'altra.


      - Corre una voce, - sussurrò la donna con aria misteriosa; - una voce, cara mia: si dice che stia organizzando una specie di società... qualcosa come i "clistì" (N.d.T.: I flagellanti; setta russa). Una setta, ecco la parola; e che si frustino fra loro come i clistì.


      - Non dire sciocchezze, Maria!


      - Le sciocchezze è peggio farle che dirle, - replicò la vicina.


      La madre riportò al figlio tutti questi discorsi; egli alzò le spalle in silenzio, mentre l'ucraino scoppiava in una delle solite risate gustose.


      - Anche le ragazze ce l'hanno con voi, - continuò lei. - Vi considerano fidanzati ideali, buoni operai come siete e sobri, per di più....e invece le ragazze non le guardate neppure. Dicono che vi vengono a trovare dalla città certe ragazze poco per bene...


      - Naturalmente! - esclamò Pavel con una smorfia di disgusto.


      - Nella palude tutto puzza di marcio, - soggiunse l'ucraino sospirando. - Voi, mammetta, dovete spiegare a quelle sciocche che cos'è il matrimonio, visto che hanno tanta fretta di rompersi il collo.


      - Eh, caro mio, - esclamò la madre; - lo vedono bene che è una disgrazia, ma che possono fare d'altro?


      - Vedono poco, se non sanno trovare la strada giusta, - osservò Pavel.


      La madre gli sbirciò la faccia severa, poi disse:


      - E voi perché non le aiutate a trovarla? Perché non dite alle più intelligenti di venire da voi?


      - Non è il caso, - disse il figlio asciutto.


      - E se ci provassimo? - domandò l'ucraino.


      Dopo un momento di silenzio, Pavel rispose:


      - Tutto si limiterebbe a qualche passeggiatina in coppietta e forse a qualche matrimonio.


      La madre rimase sovrappensiero.


      L'austerità monacale di Pavel la metteva in imbarazzo. Vedeva che perfino compagni maggiori di lui, come l'ucraino, ne seguivano i consigli, ma le sembrava anche che tutti lo temessero, che nessuno l'amasse per quella secchezza.


      Una sera ch'era già coricata, e il figlio s'era attardato a leggere con l'amico, li udì, attraverso la sottile parete, conversare sommessamente.


      - Lo sai che mi piace Natascia? - esclamò improvvisamente l'ucraino.


      - Lo so, - rispose Pavel dopo una breve esitazione.


      - Sicuro...


      Udì l'ucraino alzarsi e camminare per la camera, strisciando i piedi sul pavimento; poi udì il suo fischio sommesso, malinconico, e di nuovo la sua voce sonora:


      - E lei se n'è accorta?


      Pavel taceva.


      - Tu, cosa ne pensi? - si informò l'ucraino, abbassando la voce.


      L'ucraino strascicò pesantemente i piedi sul pavimento, e ricominciò a fischiettare; poi chiese:


      - E se le dicessi che...


      - Che cosa? - fu la risposta di Pavel, secca come uno sparo.


      - Che, ecco, io... - cominciò lentamente l'ucraino.


      - A che scopo? - lo interruppe Pavel.


      La madre sentì che l'altro s'era fermato e le parve di vederlo sorridere.


      - Io, vedi, sono del parere che, se una ragazza ti piace, devi dirglielo, altrimenti non ha senso.


      Pavel chiuse il libro di colpo; poi domandò:


      - E che cosa ti aspetti, tu?


      Tacquero a lungo tutti e due.


      - Be'? - domandò l'ucraino.


      - Bisogna pensare bene ciò che si desidera, Andrei, - disse Pavel lentamente. - Supponiamo che anche lei ti ami - non credo, ma supponiamo -, vi sposerete, dunque. Bel matrimonio! Una intellettuale e un operaio. Vi nasceranno dei figli: dovrai lavorare tu solo, e molto; e la vostra vita diventerà la solita: il pane quotidiano, i bambini, la casa, il lavoro... Voi due non esisterete più, né l'uno, né l'altra!


      Si fece silenzio. Poi la voce di Pavel sembrò addolcirsi.


      - Lascia andare questa idea, Andrei; non dirle nulla, non turbarla: è più onesto.


      - Ricordi quando Nicolai Ivànovic ci disse che l'uomo deve vivere una vita piena, con tutte le forze fisiche e morali? Ricordi?


      - Non è roba per noi, - rispose Pavel. - Come farai a vivere una vita piena? Non lo potresti mai. Il tuo dovere è amare il futuro e rinunciare al presente, compagno.


      - E' pesante per un uomo! - esclamò l'ucraino sommessamente.


      - Come sarebbe possibile altrimenti? pensaci un po'...


      Ricadde il silenzio. Il pendolo batteva il suo tic-tac monotono e uguale, scandendo inesorabile ogni attimo di vita. L'ucraino disse:


      - Una metà del mio cuore ama, l'altra odia... S'è mai visto un cuore così?


      - Ti torno a chiedere: come potrebbe essere altrimenti?


      Frusciarono le pagine del libro: Pavel s'era rimesso a leggere.


      La madre giaceva con gli occhi chiusi e non osava muoversi; provava una pena immensa per l'ucraino, e ancor più grande per il figlio. Aveva voglia di piangere. Gli disse mentalmente:


      <Adorato, disgraziato ragazzo!>.


      A un tratto l'ucraino domandò:


      - Allora devo tacere?


      - E' più onesto, Andrei, - mormorò Pavel.


      - Va bene; seguiamo pure questa strada, - rispose l'ucraino, e dopo qualche istante soggiunse accoratamente: - Sarà un momento difficile per te, Pascia, quando anche tu...


      - E' già difficile adesso.


      - Davvero?


      Il vento frusciava contro i muri della casa: la pendola scandiva coi suoi battiti il tempo che passava.


      - Però è ben triste! - proferì lentamente l'ucraino.


      La madre affondò il viso nel cuscino e pianse piano.


      La mattina dopo, quando rivide Andrei, le sembrò più piccolo, quasi più gentile. Il figlio invece, come al solito, magro, diritto e taciturno. Fino allora aveva chiamato l'ucraino Andrei Onissìmovic; in quel momento le venne spontaneo, e neppure se ne accorse, di dirgli:


      - Andriuscia, se non fate riparare le scarpe, vi congelerete i piedi.


      - Appena prendo la paga me ne compero un paio nuovo, - rispose con una risata, e mettendole la grossa mano sulla spalla, le domandò a bruciapelo: - Non sarete per caso voi mia madre? Ditemi la verità: lo tenete nascosto perché sono troppo brutto, vero?


      Per tutta risposta essa gli batté sulla mano. Avrebbe voluto dirgli tutto il suo affetto, ma aveva il cuore pesante e le parole non le uscivano di bocca.


      Nel borgo si parlava dei socialisti che seminavano ovunque foglietti in inchiostro azzurro; erano notizie aspre ed esatte sui regolamenti di fabbrica, gli scioperi operai a Pietroburgo e nella Russia meridionale, un invito ai lavoratori perché si unissero e lottassero per i loro interessi.


      Gli uomini anziani, che avevano raggiunto un buon salario, a quella lettura si incollerivano:


      - Agitatori! Rompergli il muso, bisogna, a questa gente!


      E portavano i foglietti in ufficio.


      I giovani leggevano con entusiasmo i proclami e dicevano eccitati:


      - E' vero.


      La maggioranza, indifferente e abbrutita dal lavoro, osservava con fiacchezza:


      - Non succederà niente... impossibile.


      Comunque quei foglietti turbavano gli animi, e, se per una settimana non ne comparivano, la gente mormorava in confidenza:


      - Niente neppur oggi; avranno smesso di stampare...


      Ma, il lunedì, i foglietti ricomparivano, e gli operai tornavano ad agitarsi. Persone sconosciute a tutti apparvero all'osteria e alla fabbrica; facevano domande, mettevano il naso dovunque, attirando su di sé l'attenzione generale, gli uni per la prudenza sospetta, gli altri per l'eccessiva importunità.


      La madre sapeva che quello scompiglio era opera di Pavel, ma si sentiva abbastanza tranquilla, poiché vedeva che tutti si raccoglievano intorno a lui, e non lo lasciavano mai solo. Era ansiosa per lui e, insieme, fiera; ché la fatica segreta del figlio le sembrava un fresco ruscello fluente nel torbido fiume dell'esistenza.


      Una sera Maria Corsùnova batté al vetro della finestra, e, quando la madre ebbe aperto, le disse concitatamente:


      - Coraggio, Pelagheia, i piccioncini sono nei guai. Stanotte faranno una perquisizione da voi, da Masin, da Vièssovcicov...


      La madre udì soltanto le prime parole; il resto del discorso si confuse per lei in un unico suono, rauco, sinistro.


      - E da... e da...


      Maria sbatteva affrettatamente le grosse labbra, soffiava dal naso carnoso, ammiccava con gli occhi curiosi e irrequieti seguendo le mosse di un tale che passava per la strada.


      - Ricòrdati, che io non so niente, non ti ho mai detto niente e non ti ho mai vista in tutto il giorno, capito?


      E sparì.


      La madre chiuse la finestra e si mise lentamente a sedere, inerte, vuota. Ma, consapevole del pericolo che incombeva sul figlio, si rialzò immediatamente; si vestì in fretta, nascose la testa nello scialle e si precipitò da Fedia Masin, che sapeva a casa ammalato. Quando giunse da lui, lo trovò seduto sotto la finestra, intento a leggere; si reggeva con la sinistra l'altra mano, di cui faceva ruotare il pollice.


      Nell'udire la novità, diede un balzo e impallidì.


      - Mancava anche questa! E io che ho il dito in suppurazione, - borbottò.


      - Ora che facciamo? - domandò la Vlàssova, asciugandosi con mano tremante il sudore del viso.


      - Aspettate, non abbiate paura, - rispose Fedia, mentre si lisciava con la mano sana i capelli ricciuti.


      - Ma, se anche voi avete paura! - esclamò lei.


      - Io? - le guance gli avvamparono, e sorridendo imbarazzato rispose: - Sì, una paura del diavolo. Bisogna avvertire Pavel; adesso gli mando la mia sorellina. Voi andate pure... Non ci picchieranno, vero?


      Ritornata a casa riunì in un mucchio tutti gli opuscoli e stringendoli al petto esaminò lungamente ogni angolo della casa: dentro e sotto la stufa, nel tubo del samovàr, e persino nel mastello dell'acqua.


      Sperava che Pavel avrebbe interrotto il lavoro e sarebbe tornato subito a casa; ma, poiché tardava, stanca di aspettare, appoggiò il carico sulla panca della cucina e vi sedette sopra. E, non osando alzarsi, rimase in quella posizione finché Pavel e l'amico non furono rientrati dalla fabbrica.


      - Lo sapete? - domandò senza alzarsi.


      - Sì, lo sappiamo,- rispose Pavel sorridendo tranquillo. - Hai paura?


      - Oh sì, una paura...


      - E' inutile aver paura, - disse l'ucraino: - la paura non serve a niente.


      - Non ha messo sù nemmeno il samovàr! - osservò Pavel.


      La donna si alzò, e additando i fascicoli, spiegò con aria colpevole:


      - Non li ho abbandonati un momento.


      I due scoppiarono a ridere, e questo la rinfrancò.


      Poi Pavel scelse dal mucchio alcuni libri, e li andò a nascondere in cortile, mentre l'ucraino accendeva il samovàr e diceva:


      - Non c'è assolutamente niente di tragico, mammetta; soltanto, è vergognoso che la gente perda il tempo in simili sciocchezze: che uomini adulti tutti in grigio, con le spade al fianco e gli speroni vi invadano la casa e la mettano a soqquadro, ficcando il naso dappertutto, sotto il letto e sotto la stufa, persino nel granaio e nella cantina, se li avete. Si riempiranno il muso di ragnatele, sbufferanno, e se la prenderanno con voi, dandosi l'aria di essere profondamente malvagi, mentre in fondo si annoiano e si vergognano soltanto. Mestieraccio infame, il loro, lo sanno benissimo. Una volta a casa mia hanno fracassato ogni cosa, ma poi se ne sono andati con le pive nel sacco; un'altra volta invece, mi portarono via. Be', mi toccò passare quattro mesi al fresco: giorni e giorni di prigione. E, finalmente, ti chiamano in un ufficio, e sotto buona scorta ti accompagnano all'altro capo della città; là, poi, ti fanno un sacco di domande. Almeno avessero qualche senso! Alla fine ti riportano in prigione; e così vai e vieni. Devono pur dimostrare che, in qualche modo, se lo guadagnano, lo stipendio. Un bel giorno ti mollano. Tutto qua.


      - Che bel modo di parlare avete, Andriuscia! - scappò detto alla madre. In ginocchio presso il samovàr l'ucraino soffiava con impegno nel tubo. Alle sue parole alzò il viso rosso per lo sforzo e la guardò arricciolandosi con tutte e due le mani le punte dei baffi.


      - Bel modo? - domandò.


      - Come se nessuno vi avesse mai offeso.


      Si alzò, le si avvicinò e le sorrise scotendo la testa:


      - Chi, almeno una volta nella vita, non è stato offeso? A me ne han fatte tante che ormai non me la prendo più; d'altra parte non la puoi mica cambiare la gente. Io, se mi offendo, non riesco più a lavorare, e perciò cerco di aggirare l'ostacolo non prendendolo in considerazione. Così è la vita. In principio, ricordo, mi ci arrabbiavo moltissimo, poi ci ho pensato sù e ho capito che tutti hanno il cuore che sanguina; ciascuno sta in guardia e cerca di colpire gli altri per primo. Così è la vita, mammetta mia.


      Le sue parole fluivano tranquille e decise, allontanando dalla mente il pensiero della perquisizione; i suoi occhi sporgenti sorridevano con una luce triste. Tutta la sua persona, pur così sgraziata, sotto la apparente gracilità nascondeva la forza.


      La madre sospirò e gli fece un caldo augurio:


      - Dio voglia che siate felice, Andriuscia!


      L'ucraino s'avvicinò a larghi passi al samovàr, tornò ad accoccolarsi e borbottò tra sé:


      - Se sarò felice, tanto meglio; ma senza mendicare nulla né perdere tempo...


      E fischiettò.


      Pavel rientrò dal cortile e disse con voce sicura:


      - Non troveranno niente, - e cominciò a lavarsi.


      Poi asciugandosi energicamente le mani cominciò a dire:


      - Se voi, mamma, gli fate vedere che avete paura, che tremate tanto, penseranno subito che in casa c'è qualcosa da nascondere. Noi, invece, non abbiamo ancora fatto nulla, proprio nulla. Lo sapete anche voi che non vogliamo cose cattive; la verità è dalla nostra parte, e finché vivremo combatteremo in suo nome: tutta qui la nostra colpa. Che abbiamo da temere, dunque?


      - Vedrai, Pascia, che mi farò coraggio, - essa promise. Ma subito le scappò detto ansiosamente:


      - Almeno venissero presto!


      Quella notte non comparve nessuno. Il mattino successivo, per evitare che lo facessero gli altri, la madre cominciò a prendersi in giro da sola.


      La perquisizione avvenne quando meno essi se lo aspettavano, un mese all'incirca da quella famosa notte.


      Nicolai Vièssovcicov era venuto a trovare Pavel, e tutti e tre, con l'ucraino, s'eran seduti a discutere del loro giornale. Era tardi, quasi mezzanotte; la madre s'era già addormentata e attraverso il sonno ne udiva le voci sommesse e concitate.


      A un tratto Andrèi attraversò a passi cauti la cucina, e uscì accostando piano la porta dietro di sé. Nell'ingresso cigolò un secchio di ferro; poi la porta si spalancò e l'ucraino si precipitò in cucina.


      - Ehi, fuori si sente rumore di speroni! - annunciò con voce soffocata.


      La madre balzò dal letto, afferrando gli abiti con mano tremante, ma sulla porta comparve Pavel che le disse con calma:


      - Non alzatevi; siete indisposta!


      Nell'ingresso s'udì un brusio soffocato. Pavel s'avvicinò alla porta e aprendola di colpo domandò:


      - Chi è?


      Con notevole sveltezza l'una dopo l'altra s'insinuarono nella camera due figure alte e grigie di gendarmi. Spinsero indietro Pavel e gli si misero ai fianchi. Uno disse forte con voce di scherno:


      - Non ci aspettavate, eh?


      Chi aveva parlato così era un ufficiale alto e magro dai baffi radi e neri. Accanto al letto della madre comparve Fediachin, il poliziotto del villaggio; si portò la destra alla visiera, e, additando con l'altra mano la donna, disse con aria feroce:


      - Questa è sua madre, eccellenza - E, agitando la mano in direzione di Pavel, soggiunse: - E quello è lui.


      - Pavel Vlassov? - s'informò l'ufficiale socchiudendo gli occhi.


      Al cenno affermativo di Pavel annunciò, arrotolandosi un baffo:


      - Devo eseguire una perquisizione... Vecchia, alzati. E là chi c'è? - domandò osservando l'altra camera e entrandovi impetuosamente.


      - Come vi chiamate? - risuonò la sua voce.


      Dall'ingresso comparvero due testimoni, il vecchio fonditore Tveriacov e un suo pigionante, il fuochista Ribin, un contadino bruno e robusto; quest'ultimo disse con voce forte e grossa:


      - Salve, Nìlovna.


      Essa stava vestendosi e per darsi coraggio borbottò piano:


      - S'è mai visto, di notte... svegliar la gente sul più bello del sonno.


      Nella camera troppo affollata si sentiva un forte odore di cera. I due gendarmi e il commissario locale Rischin, muovendosi rumorosamente, toglievano i libri dalla scansia e li mettevano sulla tavola davanti all'ufficiale. Gli altri due tastavano con le nocche le pareti, guardavano sotto le seggiole; uno si arrampicò goffamente sulla stufa.


      L'ucraino e Vièssovcicov si tenevano stretti l'uno all'altro in un angolo. Il viso butterato di Nicolai s'era ricoperto di chiazze rosse; i suoi occhietti grigi seguivano ogni mossa dell'ufficiale. L'ucraino s'arricciolava i baffi e, quando la madre entrò nella camera, le fece un cenno affettuoso e le sorrise.


      Per darsi un contegno, essa cercava di correggere l'andatura sbilenca: dritta, il petto in fuori, la persona così tronfia e solenne, era davvero buffa; il suo passo era pesante e le tremavano le sopracciglia...


      L'ufficiale afferrava i libri con le dita sottili; li sfogliava, li scuoteva e con gesto disinvolto li buttava via. Qualche volta il libro cadeva per terra e si sfasciava.


      Tutti tacevano; si udiva l'ansito pesante dei gendarmi accaldati, il tintinnio degli speroni e a tratti una domanda pacata:


      - Qui hai già guardato?

    

  



  La madre si appoggiò alla parete accanto a Pavel, le mani conserte come lui, e lei pure fissò l'ufficiale. Le tremavano le ginocchia, aveva gli occhi aridi e come appannati.


  Improvvisamente, nel silenzio, Nicolai gridò con una voce che feriva i timpani:


  - C'è proprio bisogno di buttare i libri per terra?


  La madre sussultò. Tveriacov piegò la testa come se l'avessero colpito alla nuca, e Ribin tossì fissando attentamente Nicolai.


  L'ufficiale alzò la testa di scatto, socchiuse gli occhi e li appuntò per un secondo sul viso congestionato, butterato e immobile di Nicolai. Le sue dita sfogliarono le pagine con moto convulso; a volte sembrava che gli occhi grossi e grigi gli schizzassero dalle orbite, come se fosse oppresso da un dolore insopportabile e dal desiderio di urlare.


  I gendarmi si voltarono verso di lui, poi guardarono l'ufficiale. Egli rialzò la testa, squadrò dall'alto in basso la figura massiccia di Nicolai, e disse con voce nasale e strascicata:


  - Be', tira sù.


  Il gendarme si chinò e, guardando Vièssovcicov in tralice, raccattò i libri sparpagliati sul pavimento.


  - Se Nicolai tacesse, - bisbigliò la madre a Pavel.


  Egli si strinse nelle spalle. L'ucraino alzò il capo.


  - Che cos'è 'sto brusio? Zitti là! Chi legge la "Bibbia"?


  - Io, - rispose Pavel.


  - Ah, e di chi sono questi libri?


  - Miei, - egli rispose.


  - Già, già... - osservò l'ufficiale e, appoggiandosi alla spalliera della seggiola, fece scrocchiare le dita sottili, allungò le gambe sotto il tavolo, si aggiustò i baffi e domandò a Nicolai:


  - Sei tu Andrei Nacodca?


  - Sì, sono io, - rispose Nicolai, avanzando di un passo. L'ucraino allungò la mano, lo prese per la spalla e lo tirò indietro.


  - No, si sbaglia. Andrei Nacodca sono io!


  L'ufficiale minacciò Vièssovcicov col mignolo della mano alzata e gli disse:


  - Sta' attento, tu, - e ricominciò a rovistare tra le carte.


  La chiara notte lunare gettava nella stanza il suo sguardo indifferente. Qualcuno passò adagio sotto la finestra facendo scricchiolare la neve.


  - Tu, Nacodca, sei già stato denunciato per reati politici?


  - Sì, a Rostòv e a Saratov; ma, allora, i gendarmi mi davano del voi.


  L'ufficiale chiuse l'occhio destro, se lo strofinò e, mostrando i denti minuti, cominciò a dire:


  - E voi, Nacodca, sapreste per caso dirmi chi sono i mascalzoni che riempiono la fabbrica di quei maledetti proclami e opuscoli?


  L'ucraino si dondolò sulle gambe e stava per dire qualcosa col migliore sorriso, quando risuonò di nuovo la voce irritante di Nicolai:


  - I mascalzoni li vediamo noi ora per la prima volta...


  Si fece un gran silenzio; nessuno osava più muoversi.


  La cicatrice sulla fronte della madre impallidì, il sopracciglio destro si protese tutto verso l'alto. L a barba nera di Ribin era scossa da uno strano tremito; egli alzò la mano e a occhi bassi si mise a pettinarla con le dita.


  - Portatemi via questa carogna, - ordinò l'ufficiale.


  I due gendarmi presero Nicolai sotto braccio e lo spinsero brutalmente in cucina. Qui egli si fermò, puntò i piedi per terra e gridò:


  - Fermatevi, devo vestirmi!


  Il commissario entrò dal cortile e disse:


  - Non ho trovato proprio niente; abbiamo guardato dappertutto.


  - Si capisce! - esclamò l'ufficiale con un risolino. - Lo sapevo benissimo: qui c'è la mano di uno che la sa lunga, molto lunga...


  All'udire la voce fioca, tremante d'ira repressa dell'ufficiale, la madre guardò atterrita la faccia gialla di quell'uomo in cui sentiva un nemico spietato, un cuore pieno del disprezzo del ricco verso il povero. Tipi così ne aveva conosciuti pochi, in vita sua, e ora si era persino dimenticata che esistessero.


  <Ecco a chi diamo noia>, pensò.


  - Andrei Onìssimov Nacodca, di ignoti, vi dichiaro in arresto.


  - Perché? - domandò l'ucraino senza scomporsi.


  - Ve lo dirò poi, - rispose l'ufficiale con cordialità maligna; e, rivolgendosi alla Vlàssova, le chiese forte:


  - Sei analfabeta?


  - Sì, - rispose Pavel.


  - Non l'ho chiesto a te, - ribatté severo l'ufficiale, e ripeté la domanda:


  - Rispondi, vecchia: sei analfabeta?


  La madre, abbandonandosi suo malgrado al sentimento di odio che le ispirava quell'uomo, si raddrizzò di colpo, tremando tutta come sotto una doccia fredda. La cicatrice le si imporporò e il sopracciglio s'inarcò convulsamente.


  - Non gridate, - proferì adagio, tendendo la mano verso di lui. - Siete ancora giovane, non conoscete il dolore...


  - Calmatevi, mammina, - la interruppe Pavel.


  - Qui, mammetta, bisogna tenere il cuore coi denti e stringere forte, - soggiunse l'ucraino.


  - Lasciami, Pascia, - gridò la donna, slanciandosi verso la tavola. - Perché arrestate la gente?


  - Non vi riguarda, tacete, - urlò l'ufficiale alzandosi. - Venga avanti l'arrestato Vièssovcicov!


  E portandosi agli occhi un foglio, incominciò a leggere.


  Fu introdotto Nicolai.


  - Giù il berretto! - gridò l'ufficiale, interrompendo la lettura.


  Ribin si avvicinò alla Vlàssova e, toccandole la spalla, le disse sottovoce:


  - Non scaldarti, madre...


  - Come faccio a togliermi il berretto se mi tengono per le braccia? - domandò Nicolai, sopraffacendo con la voce la lettura del protocollo.


  L'ufficiale gettò il foglio sulla tavola.


  - Firmate!


  La madre li osservò mentre uno dopo l'altro firmavano il documento, e la sua animazione si spense; il cuore le cadde e i suoi occhi si riempirono di lacrime amare: si sentì umiliata, impotente. Aveva pianto così durante i vent'anni del matrimonio, ma negli ultimi tempi aveva quasi scordato il sapore aspro di quelle lacrime. L'ufficiale la guardò e osservò con una smorfia di disgusto:


  - Voi piangete troppo presto, signora mia. Tenetevi in serbo le lacrime.


  Di nuovo inasprita, essa disse:


  - Una madre ha sempre lacrime; sempre, vi dico. Se avete una mamma, lo saprà bene anche lei.


  L'ufficiale si affrettò a riporre le carte in una borsa di pelle nuova con la serratura lucente.


  - Quante arie, fra tutti, - disse al commissario.


  - Insolenti! borbottò il commissario.


  - Andiamo, - comandò l'ufficiale.


  - Arrivederci, Andrei; arrivederci Nicolai, - disse Pavel piano e con calore, stringendo la mano ai compagni.


  - Giusto, arrivederci! - esclamò l'ufficiale sorridendo ironicamente.


  Vièssovcicov si strinse silenziosamente la mano di Pavel tra le dita tozze, e tirò sù col naso; il collo taurino gli s'era arrossato, gli occhi brillavano di una collera astiosa. L'ucraino faceva cenni e sorrisi alla madre e le mormorava qualcosa. Essa lo segnò e lo benedì:


  - Dio sa chi è nel giusto.


  Finalmente il drappello in grigio si diresse verso l'uscita e si allontanò fra il tintinnio degli speroni. Ultimo uscì Ribin; sogguardò Pavel e disse sovrappensiero:


  - Be', arrivederci. - Poi tossì dentro la barba e uscì senza fretta.


  Con le mani dietro la schiena, Pavel camminava lentamente per la camera, fra i libri e la biancheria sparsi sul pavimento. Esclamò tetro:


  - Vedi, come fanno? Me, non mi hanno preso...


  Osservando perplessa la camera in disordine, la madre bisbigliò tristemente:


  - Perché Nicolai è stato così sgarbato con lui?


  - Si sarà spaventato, forse, - rispose piano Pavel. - Sì, con loro non si può parlare: non si può far nulla.


  - Vengono, ti pigliano sù e via! - mormorò la madre aprendo le braccia.


  Il figlio però le era rimasto: il cuore le si calmò, ma la sua mente non poteva distogliersi da quanto era accaduto e non riusciva ad afferrarne la portata.


  - Quel biondo ha un modo di prendere in giro, di minacciare...


  - Bene, mamma, - disse d'un tratto Pavel deciso. - Dammi una mano a mettere in ordine...


  Le diede del tu e la chiamò mamma con l'intonazione che usava nei momenti di affetto. Essa gli si accostò, lo guardò in faccia e gli domandò lentamente:


  - Ti hanno offeso?


  - Sì, - rispose. - E' una cosa abominevole, insopportabile! Meglio se prendevano anche me...


  Gli intravide negli occhi le lacrime e sentì confusamente che soffriva. Nell'intento di calmarlo, sospirò e disse:


  - Aspetta, prenderanno anche te.


  - Sì, - convenne lui.


  La donna tacque, poi osservò tristemente:


  - Come sei duro, Pavel! Almeno qualche volta mi tranquillassi... Invece, se io vedo nero, tu vedi ancor più nero di me.


  La guardò, le si fece più vicino e mormorò dolcemente:


  - Non posso altrimenti, mamma; non posso mentire: bisogna che ti abitui a questo...


  Essa sospirò e dopo un silenzio disse, cercando di dominare il proprio tremito:


  - E se vi torturano? Se vi malmenano, vi rompono le ossa? E' un pensiero che mi perseguita. Pascia, caro, è orribile.


  - Direi che fanno a pezzi l'anima, non il corpo. Si soffre di più quando ti frugano l'anima con quelle sporche mani.


 

  Il giorno dopo tutti sapevano che gli arrestati erano Buchin, Samòilov, Somov e altri cinque. Quella sera Fedia Masin andò di corsa dai Vlassov; avevano perquisito anche la sua casa, e ne era contento: si sentiva un eroe.


  - Hai avuto paura. Fedia? - gli domandò la madre.


  Impallidì, il viso gli si affilò, gli fremettero le narici.


  - Avevo paura che l'ufficiale mi picchiasse. Un omaccione che si gratta sempre la barba; sul naso ha un par d'occhiali scuri che non riesci a vedergli gli occhi. Gridava, pestava i piedi. <Ti farò marcire in prigione>, diceva. Nessuno mi ha mai picchiato me, né il papà, né la mamma, perché avevano me solo, e mi volevano bene; tutti i figli le prendono, ma io non le ho mai prese.


  Chiuse gli occhi per un attimo, si morse le labbra, con un rapido gesto si scompigliò i capelli, e, guardando Pavel con gli occhi arrossati, disse:


  - Se mai uno oserà picchiarmi, gli entrerò nella carne come un coltello: lo sbranerò, così almeno mi ammazzeranno subito!


  - Hai il diritto di difenderti, - osservò Pavel.


  - Sei troppo mingherlino, - esclamò la madre; - come vuoi riuscirvi?


  - Riuscirò, - rispose piano Fedia.


  Quando fu uscito, la donna disse piano a Pavel:


  - Sarà il primo a cedere!


  Pavel non rispose.


  Qualche minuto dopo la porta della camera si aprì lentamente ed entrò Ribin.


  - Salve, - disse sorridente - eccomi qua di nuovo. Ieri mi ci hanno portato, oggi vengo da me.


  Scosse energicamente la mano a Pavel, toccò la spalla alla madre e le domandò:


  - Mi offri una tazza di tè?


  Pavel guardò in silenzio il suo viso largo e bruno incorniciato dalla folta barba nera, e gli occhi scuri, intelligenti. Nello sguardo tranquillo gli brillava una strana espressione; tutta la sua persona massiccia rivelava la fermezza e la padronanza di sé. La madre andò in cucina a preparare il samovàr. Ribin sedette, si accarezzò la barba e, appoggiati i gomiti sulla tavola, alzò su Pavel gli occhi scuri.


  - Sicuro, - disse, come riprendendo un discorso interrotto: - tu e io dobbiamo parlarci a cuore aperto. Ti ho osservato a lungo prima di venire qua. Stiamo quasi porta a porta; vedo che molta gente ti frequenta, te, ma nessuno che si ubriachi o faccia baldoria: questo è il primo punto e il più importante. La gente che si comporta bene si fa subito notare da tutti, sicuro. Anch'io, tutti lo sanno, faccio una vita ritirata, senza scandali, - parlava lento, ma senza intoppi, e le sue parole ispiravano fiducia. - Già, - continuò; - eri sulla bocca di tutti. I miei padroni dicono che sei un eretico, perché non vai in chiesa. Anch'io non ci vado. Poi sono comparsi quei famosi volantini. E' roba tua?


  - Sì, - rispose Pavel, senza distogliere lo sguardo da Ribin, che a sua volta guardava fissamente l'altro negli occhi.


  - Già, tu! - interloquì la madre agitata, affacciandosi alla porta. - Non soltanto tu...


  Pavel e Ribin scoppiarono in una risata.


  - Giusto! - disse il primo.


  La madre sospirò forte dal naso e tornò in cucina, un po' risentita che non avessero dato peso alle sue parole.


  - Una bella trovata, i volantini: fanno un grande effetto. Erano diciannove, no?


  - Diciannove, - rispose Pavel.


  - Allora li ho letti tutti, sicuro. Non sono sempre chiari, forse c'è dentro troppa roba... Be', quando uno non è abituato a parlare, come me, dice un sacco di parole a vanvera. - Ribin sorrise. Aveva i denti bianchi e forti. - Poi, la perquisizione, - riprese. - In quel momento avete conquistato la mia simpatia. Tu, l'ucraino e Nicolai, tutti e tre avete messo... - Non trovando la parola adatta, si tacque; guardò fuori dalla finestra, e tamburellò sulla tavola con le dita. - Avete messo le carte in tavola. Tu, gendarme, fa' pure il tuo gioco, noi faremo il nostro... Anche l'ucraino è un bravo ragazzo. Una volta l'ho sentito parlare in fabbrica e ho pensato: <Ecco uno dalla pelle dura, che non cede neanche se l'ammazzano. Un uomo di fegato...>. Mi credi, Pavel?


  - Sì, ti credo, - e Pavel annuì col capo.


  - Bene. Ho quarant'anni, il doppio della tua età, e un'esperienza venti volte maggiore; ho fatto il soldato per più di tre anni, mi sono sposato due volte: la prima moglie mi è morta, la seconda l'ho piantata... Ho vissuto nel Caucaso, ho conosciuto i ducoborzi (N.d.T.: Negatori dello Spirito Santo; setta russa): non la temono, la vita, no davvero!


  La madre beveva quelle parole. Si rallegrava che quell'uomo posato fosse venuto a trovare il figlio e gli parlasse come in confessione; ma le sembrava che Pavel fosse troppo asciutto con l'ospite, e per raddolcire quell'atteggiamento domandò a Ribin:


  - Vuoi mangiare qualcosa, Micaìl Ivànovic?


  - Grazie, madre, ho già cenato. E così, Pavel, pensi che tutto sia ingiusto a questo mondo?


  Pavel si alzò e cominciò a camminare per la camera, le mani dietro la schiena.


  - No, - replicò, - non tutto è ingiusto. Siete venuto da me e mi avete aperto l'animo. Noi che passiamo la vita a lavorare, ora cominciamo ad affratellarci, e un giorno ci ritroveremo tutti uniti. La vita è costruita su privilegi troppo gravosi per noi, ma dobbiamo proprio alla vita se possiamo aprir gli occhi sul suo amaro significato; la vita stessa ci insegna che dobbiamo affrettarci. Tutti noi viviamo come pensiamo.


  - Verissimo, ma aspetta, - lo interruppe Ribin. - Io penso che bisogna rinnovare gli uomini. Se uno ha la scabbia, lo butti nel bagno, lo strofini, gli cambi la biancheria e lo guarisci. Giusto? Ma se l'uomo s'infetta nell'animo, devi fare la stessa cosa; anche a costo di farlo sanguinare. Ecco come si ripulisce un uomo dal di dentro!


  Pavel parlò con aspre parole di Dio, dello zar, del governo, della fabbrica. Spiegò che all'estero gli operai stavano affermando i loro diritti. Ribin un po' sorrideva, un po' batteva col dito sulla tavola, sempre nello stesso punto. Non disse mai di sì.


  Una sola volta lo interruppe con una risatina:


  - Eh, sei giovane tu; conosci poco gli uomini.


  A quell'obiezione Pavel si fermò sui due piedi di fronte a lui e osservò serio:


  - Lasciamo stare chi è vecchio e chi è giovane; vediamo piuttosto chi ha ragione!


  - Tu pensi dunque che anche Dio sia un imbroglio? Già. Anch'io penso che la nostra religione sia falsa e nociva.


  La madre intervenne. Quando Pavel parlava di Dio e di tutto ciò che la fede gli attribuisce e che le era caro e sacro, cercava sempre d'incontrarne lo sguardo; avrebbe voluto chiedergli di non offenderle il cuore con quelle espressioni aspre e pungenti e incredule; ma, dietro l'ateismo del figlio, intuiva una fede, e ciò le dava pace.


  Le sembrava che anche Ribin, da uomo posato, fosse infastidito e offeso dai discorsi di Pavel. Ma quando anch'egli fece tranquillamente quella domanda, essa s'impazientì e disse breve ma irremovibile:


  - Andate adagio a parlare di Dio! Fate come vi pare, un giorno ne renderete conto... - Prese fiato e subito soggiunse con forza: - Se mi togliete anche Dio, a me, povera vecchia, che cosa resta?


  Gli occhi le si riempirono di lacrime; e mentre lavava i piatti le sue mani tremavano.


  - Non ci avete capito, mammina, - disse Pavel piano e carezzevole.


  - Perdonaci, madre! - aggiunse lentamente Ribin con voce grave, e guardò Pavel con l'ombra di un sorriso.


  - M'ero scordato che sei troppo vecchia per bruciarti i porri...


  - Io non mi riferivo al Dio buono e misericordioso in cui credete voi, - proseguì Pavel, - ma a quello che i preti adoperano contro di noi come un bastone; a quel Dio nel cui nome pretendono che gli uomini si assoggettino al volere malvagio dei pochi...


  - Sicuro, proprio così! - esclamò Ribin, tamburellando con le dita sul tavolo. - Persino Dio ci hanno guastato: non fanno niente che non sia a nostro danno. Ricordàtelo, madre, che Dio ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza: se l'uomo dunque è simile a Dio, anche Dio è simile all'uomo! Ma noi assomigliamo piuttosto a belve feroci che a Dio. Nelle chiese ci mostrano uno spauracchio... dobbiamo cambiare Dio, madre, purificarlo. L'hanno rivestito di menzogna e di calunnia, lo hanno sfigurato per ucciderci l'anima.


  Parlava piano ma distintamente; ogni parola del suo discorso si ripercuoteva nella testa della madre con un tonfo molle e pesante che la frastornava. Il grosso viso funebre di Ribin, incorniciato dalla barba nera, la intimoriva; non poteva sostenerne il cupo bagliore degli occhi: le metteva tristezza e le stringeva il cuore.


  - No, meglio che me ne vada! - disse, scuotendo la testa in segno di diniego. - Non riesco ad ascoltare queste cose... non posso. - E corse in cucina, inseguita dalle parole di Ribin:


  - Ho trovato, Pavel! Non è la ragione ma il cuore che conta; e certi sentimenti nascono soltanto dal cuore...


  - La ragione, - ribatté Pavel, - e solo la ragione può affrancare l'uomo.


  - La ragione non dà forza, - insistette Ribin, alzando la voce: - la forza viene dal cuore, non dal cervello, ti dico.


  La madre si svestì e si coricò dimenticandosi di pregare. Aveva freddo, e si sentiva a disagio.


  Ribin, che prima le era parso così intelligente e posato, ora risvegliava in lei una sorda irritazione.


  <Eretico, ribelle!>, pensava ascoltandone la voce monotona, che risuonava nel petto largo e rigonfio. <Ci mancava proprio lui!>.


  Intanto egli diceva calmo e convinto:


  - Un tabernacolo non può rimanere vuoto: Dio abita in un punto dell'animo, che diventa dolente quando lo scacci da te; e, al suo posto, rimane una ferita, ecco. Bisogna trovare una religione nuova, Pavel, e bisogna crearlo, Dio; un Dio né giudice né guerriero, ma amico di tutti gli uomini.


  - Come era Cristo! - esclamò Pavel.


  - Aspetta. Cristo era troppo debole; ha detto: <Bevi sino in fondo l'amaro calice>, e ha riconosciuto l'autorità di Cesare. Dio non può giustificare il potere di uno su tutti, in quanto lui solo ha questo potere; Dio non può dividere la sua anima in due parti: una di natura divina, l'altra di natura umana: se è venuto per affermare il principio divino, non può avere in sé nulla di umano. Ammise il commercio, approvò il matrimonio e maledisse a torto la pianta del fico perché, se fruttificava così, era per sua volontà. Perciò non è colpa dell'animo se non dà buoni frutti; siamo forse noi a seminarvi il male?


  Nella stanza risuonavano le due voci, ora concordi, ora discordi, in un giuoco alterno e continuo, appassionato e vivace. Pavel camminava in fretta facendo scricchiolare il pavimento. Quando parlava Pavel, la sua voce soffocava tutti gli altri suoni; la voce di Ribin, invece, pacata e lenta, lasciava udire il tic-tac della pendola e lo scricchiolio sordo del ghiaccio che si avvinghiava con i suoi artigli pungenti ai muri della casa.


  - Per dirtela da fuochista, Dio è simile al fuoco: non dà forza alle cose, ma la sua fiamma fonde e brucia; non edifica le chiese, ma anzi le riduce in cenere. Dio vive nel cuore degli uomini. Si dice che Dio è il verbo, e il verbo è puro spirito...


  - Ragione! - insistette Pavel.


  - E sia; il posto di Dio, dunque, è nel cuore e nella ragione, non in chiesa. Ecco il perché del dolore, della tristezza, della miseria umana; avendo separato il cuore dalla ragione, anche la ragione ha abbandonato l'uomo. L'uomo non è più perfetto. Dio forma l'uomo come un tutto compatto, rotondo al pari della terra, delle stelle e di tutto quanto vediamo. Le sottigliezze sono un'invenzione umana; la Chiesa è la tomba di Dio e dell'uomo.


  La madre s'era addormentata e non udì Ribin andarsene.


  Egli cominciò a venire di frequente, e se Pavel aveva visite, sedeva in un cantuccio e non parlava; solo, di tanto in tanto, diceva:


  - E' vero.


  Una volta, alzando sui presenti lo sguardo profondo, disse cupamente dal suo cantuccio:


  - Dobbiam parlare di ciò che conosciamo, non del futuro che ci è ignoto. Quando il popolo sarà libero, troverà da solo la sua strada; gli hanno già abbastanza riempito la testa di idee inutili. Meglio che sia lui a fare le proprie considerazioni; forse allora rinnegherà tutto, la vita e la scienza, e si accorgerà che ogni cosa è rivolta contro di lui, come, per esempio, il Dio dei preti. Fate soltanto che possa leggere e, ecco, troverà da sé nei libri la risposta. Basterà che arrivi a capire che più il giogo gli pesa sul collo e più il lavoro si fa gravoso.


  Ma, se Pavel era solo, subito ripigliavano a discutere, e non la finivano più, quantunque non litigassero mai. La madre ne seguiva in silenzio i discorsi, cercando ansiosamente di capire ciò che dicevano. A volte le sembrava che quel contadino barbuto e massiccio e il suo Pavel, così snello e forte, brancolassero come due ciechi nel buio, da un'estremità all'altra della cameretta, alla ricerca della luce e di una via d'uscita, afferrando a tentoni le cose con mani forti ma ignare, scostandole, rovesciandole, urtandovi contro, tastandole e poi buttandole via, e tutto questo con calma, senza mai perdere la fede e la speranza. L'avevano abituata a sentire un mucchio di parole, terribili perché semplici e temerarie, ma che già non la urtavano più con la violenza dei primi tempi, e alle quali aveva imparato a non dare ascolto. Eppure, più di una volta, dietro le frasi miscredenti, intuiva una fede profonda in Dio; allora sorrideva di un sorriso quieto e saggio, che tutto perdona. E sebbene Ribin continuasse a non andarle a genio, tuttavia non gli era più ostile.


  Ogni settimana portava alla prigione biancheria e libri per l'ucraino. Una volta ottenne il permesso di vederlo, e tornata a casa raccontò intenerita:


  - E' gentile e sta agli scherzi dei compagni come se non fosse là dentro ma a casa sua. Si direbbe che nel cuore ha sempre festa; eppure soffre e si sente oppresso, ma non vuol mostrarlo.


  - Questo è il modo! - osservò Ribin. - La sofferenza è una seconda pelle per noi: il dolore è come il nostro respiro, come il vestito che portiamo... Ma non è il caso di mostrarlo. Non tutti sono ciechi: c'è chi preferisce chiudere gli occhi. Se qualcuno è stupido, pazienza

  4. 


  La casa vecchia e grigia dei Vlassov ogni giorno di più attirava l'attenzione del villaggio; era un'attenzione prudente fatta di sospetto, di vaga ostilità, e insieme di curiosità e stima. Talvolta qualcuno entrava da Pavel e guardandosi attorno circospetto, gli diceva:


  - Tu, fratello, che leggi tanti libri e conosci le leggi, dimmi un po'...


  Si trattava sempre di qualche ingiustizia commessa dalla polizia o dall'amministrazione della fabbrica. Nei casi più complessi, Pavel consegnava un biglietto per un noto avvocato della città; quando invece gli era possibile, spiegava egli stesso come stavano le cose.


  La gente cominciava a sentire rispetto per quel giovane serio, che parlava di tutto con semplicità e coraggio, sorridendo raramente, e che si impegnava a risolvere con pazienza e attenzione i casi più intricati. Trovava sempre fra gli uomini un legame comune e ininterrotto, che, li univa formando molteplici nodi.


  La Vlàssova vedeva aumentare il prestigio del figlio. Cominciò a capire la vera ragione del suo lavoro e, di volta in volta, ne godeva con gioia infantile.


  Pavel s'innalzò ancor più nella considerazione della gente dopo la storia della <copeca dello stagno>.


  Al dì là della fabbrica, e quasi circondandola con un anello di putredine, si stendeva una vasta palude di abeti e di betulle, su cui stagnavano d'estate vapori densi e gialli; nugoli di zanzare apportatrici di febbre infestavano il villaggio. Lo stagno apparteneva alla fabbrica, e il nuovo direttore, per specularvi sopra, pensò di prosciugarlo e di ridurlo a torbiera. Siccome quel lavoro, dichiarò agli operai, avrebbe risanato la località con vantaggio di tutti, ordinò che sul salario di ciascuno venisse trattenuta una copeca per rublo.


  Gli operai cominciarono a mormorare: li indignava il fatto che gl'impiegati fossero esclusi dal pagamento del nuovo tributo.


  Quel sabato, quando l'ordinanza fu affissa, Pavel era a casa malato, e non ne sapeva nulla. Il giorno seguente dopo la messa, Sisov lo stagnino, un bel vecchio, e il fabbro Macotin, alto e rabbioso, andarono a trovarlo, e gli raccontarono il fatto.


  - Noi anziani ci siamo riuniti, - disse Sisov gravemente; - abbiamo discusso la cosa, e i compagni hanno incaricato noi due di venire da te. Tu, che sei una persona istruita, puoi direi se c'è una legge che permetta al direttore di combattere le zanzare con le nostre copeche.


  - Figurarsi! - esclamò Macotin, sfavillando dagli occhi stretti. - Quattro anni fa i malnati hanno fatto una colletta per il bagno: tremilaottocento rubli, hanno tirato sù, e dove sono finiti? Il bagno non c'è.


  Pavel li convinse che il tributo era ingiusto e che la fabbrica, da quella trovata, aveva tutto da guadagnare. I due se ne andarono rabbuiati. Dopo aver chiuso la porta, la madre disse sorridendo a Pavel:


  - Ecco, Pascia, adesso anche i vecchi vengono a consigliarsi da te.


  Senza rispondere Pavel, sedette al tavolo e si mise a scrivere. Di lì a poco le disse:


  - Fammi un piacere: va' subito in città e consegna questo biglietto...


  - E' una cosa pericolosa? - essa s'informò.


  - Sì, è per la tipografia del nostro giornale: bisogna assolutamente che la storia della copeca esca sul prossimo numero.


  - Bene, - ella disse, vestendosi in fretta. - Ci vado subito...


  Era il primo incarico che il figlio le affidava. Era contenta che egli le avesse spiegato apertamente di che cosa si trattava e di poter essergli utile.


  - Capisco, Pascia, - disse: - è un vero furto, questo. Come hai detto che si chiama quel tizio? Ieg¢r Ivànovic?


  Ritornò a sera inoltrata, stanca ma soddisfatta.


  - Ho visto Sàscenca, - raccontò al figlio: - ti manda a salutare. E quell'Iegòr Ivànovic, che sempliciotto! un vero burlone. Fa ridere quando parla.


  - Sono contento che ti piacciano, - rispose piano Pavel.


  - Gente semplice, Pascia. E' bello quando sono così. E come ti stimano!


  Il lunedì Pavel rimase ancora a casa; aveva mal di testa. Ma all'ora del desinare capitò da lui Fedia Masin, agitato e felice. Ansando per la corsa, dichiarò:


  - Vieni; tutta la fabbrica è in rivolta. Mi hanno mandato a prenderti... Sisov e Macotin dicono che puoi spiegare le cose meglio di ogni altro, Vedessi che pandemonio!


  Pavel cominciò a vestirsi in silenzio.


  - Sono accorse anche le donne, che strilli!


  - Tu non ti senti bene, - dichiarò la madre. - Vengo anch'io. Chi sa che cosa stanno combinando. Sù, andiamo.


  - Sì, vieni, - disse Pavel brevemente.


  Camminavano in fretta, senza parlare. La madre ansava per la fatica e l'agitazione: capiva che stava accadendo qualcosa di grave. Davanti al portone della fabbrica una folla di donne strillava e imprecava. Infilatisi nel cortile, i tre si trovarono di colpo confusi in una folla nera, compatta, urlante e inquieta. La madre notò che tutte le teste erano rivolte verso il reparto dei fabbri, dove, in piedi su un mucchio di ferrivecchi, contro lo sfondo dei mattoni rossi, stavano gesticolando Sisov, Macotin, Vialov e altri cinque operai anziani e influenti.


  - Ecco Vlassov! - qualcuno gridò.


  - Vlassov? Portatelo qua.


  Qualcuno afferrò e spinse avanti Pavel; la madre restò sola.


  - Silenzio! - si udì gridare qua e là.


  Le giunse da vicino la voce uguale di Ribin:


  - Protestiamo non per la copeca, ma per l'ingiustizia. Non che la nostra copeca sia diversa dalle altre: pesa di più, ecco. C'è dentro sangue di popolo, ma nel rublo del direttore, no. Non per la copeca, ma per questo sangue, per la verità, ecco.


  Le sue parole cadevano pesantemente sulla folla ed erano inframezzate da calde esclamazioni:


  - Giusto, hai ragione, Ribin.


  - Silenzio, demoni!


  - Dici bene, fuochista.


  - E' arrivato Vlassov.


  Sopra il pesante tramestio delle macchine, il faticoso ansimare del vapore e lo stridio dei cavi metallici, si alzavano quelle voci in un solo frastuono vorticoso. La gente accorreva da tutte le parti e s'univa gesticolando alla discussione, esaltandosi a vicenda con parole di fuoco; l'irritazione sorda che covava sempre in quegli animi stanchi, s'era risvegliata e stava per esplodere; già erompeva dalle labbra della folla e vagava trionfante per l'aria, allargando le sue nere ali e afferrando con forza sempre maggiore quegli uomini; divenuta ira furiosa, li trascinava con sé, li spingeva uno contro l'altro. Sopra quelle teste vagavano nuvole di fuliggine e di polvere; le facce ardevano lucide di sudore e la pelle del viso trasudava lacrime nere. In quei volti scuri splendevano gli occhi, brillavano i denti.


  Vicino a Sisov e a Macotin comparve Pavel, che subito fece udire il suo appello:


  - Compagni!


  La madre vide ch'era impallidito e aveva le labbra tremanti; e involontariamente fece un passo avanti, spingendosi nella calca. Qualcuno le disse irritato:


  - Dove vuoi ficcarti, vecchia?


  Ma, pur incontrando resistenza, non cedette; facendosi strada con le spalle e i gomiti, si avvicinò lentamente al figlio, attratta dal bisogno di essergli vicina.


  Pavel, lanciato quell'appello, per lui tanto significativo e importante, si senti stringere la gola da uno spasimo acuto di gioia combattiva; fu preso da un invincibile desiderio di abbandonarsi all'impeto della sua fede, di gettare agli uomini il proprio cuore ardente della fiamma della giustizia.


  - Compagni, - egli ripeté, attingendo energia ed entusiasmo da quella parola; - siamo noi che costruiamo le chiese e le fabbriche, che facciamo le catene e le monete, siamo noi la forza vitale che dà il pane e il divertimento agli uomini, da quando nascono a quando muoiono.


  - Giusto! - gridò Ribin.


  - Sempre e ovunque noi siamo i primi nel lavoro e gli ultimi nella vita. Chi si interessa di noi?... del nostro benessere? e ci considera uomini? Nessuno.


  - Nessuno! - fece eco una voce.


  Mentre Pavel, vinta la prima emozione, riprendeva parlare con calma e con semplicità, la folla si protendeva lentamente verso di lui. Un corpo solo dalle mille teste lo fissava con tutti gli occhi e beveva ogni parola.


  - La nostra sorte cambierà soltanto quando avremo imparato a essere solidali fra noi, e a volerci bene come i membri di una stessa famiglia. Una sola è la meta che ci accomuna tutti: la rivendicazione dei nostri diritti.


  - Vieni al sodo! - gridò villanamente qualcuno nei pressi della madre.


  - Non disturbare, silenzio! - protestarono a bassa voce altri due da parti diverse.


  Le facce nere di fuliggine si fecero diffidenti e cupe, decine di occhi si appuntarono su Pavel con espressione seria, pensosa.


  - E' socialista, ma non è stupido, - osservò qualcuno.


  - Eh, ha un bel coraggio, - disse alla madre un operaio, dandole di gomito.


  - Compagni, dobbiamo opporci alla cupidigia di chi vive sul nostro lavoro. E' venuto il momento di reagire, di renderci conto che dobbiamo aiutarci da soli. <Uno per tutti, tutti per uno> dev'essere la nostra divisa, se vogliamo vincere il nemico.


  - Ben detto, ragazzi! - gridò Macotin. - E' vero quello che dice! - e agitò il pugno nell'aria.


  - Bisogna chiamar subito il direttore, - proseguì Pavel. - Dobbiamo domandargli...


  La folla ondeggiò come scossa da un turbine, e decine di voci gridarono:


  - Vogliamo il direttore.


  - Che venga a spiegarci.


  - Portalo qua.


  - Mandategli una delegazione.


  - No.


  La madre si fece largo e guardò il figlio. Era fiera di lui, lassù in piedi fra gli operai più anziani e stimati, ascoltato da tutti; era contenta che fosse così calmo e parlasse sicuro, senza arrabbiarsi, né litigare o bestemmiare come facevano gli altri.


  Le esclamazioni, le bestemmie, le parolacce cadevano come grandine sul ferro. Pavel guardava la folla con gli occhi spalancati, come se cercasse qualcuno.


  - Una delegazione.


  - Mandate Sisov.


  - Vlassov.


  - Ribin! Sa mordere bene.


  Finalmente la scelta cadde su Sisov, Ribin e Pavel. Essi stavano già per andar a chiamare il direttore, quando nella folla si udì un bisbiglio.


  - Eccolo!


  - Il direttore.


  - Ah, ah!


  La calca si aperse, lasciando passare un uomo alto e asciutto, dal viso lungo e la barbetta a punta.


  - Permesso, - egli chiedeva, facendosi strada fra gli operai con un breve gesto, senza toccarli.


  Teneva gli occhi socchiusi e, con lo sguardo di un perfetto inquisitore, sondava il viso della gente.


  Al suo passaggio tutti si levavano il berretto e s'inchinavano: egli non rispondeva al saluto e camminava seminando silenzio e imbarazzo, sorrisi confusi ed esclamazioni sommesse, fra quegli uomini già pentiti, come bambini consapevoli di aver commesso una monelleria.


  Il direttore passò accanto alla madre sfiorandola con un'occhiata severa e si fermò vicino al mucchio di ferrivecchi. Qualcuno dall'alto gli porse la mano; non la prese, e con mossa decisa salì sui rottami, mettendosi davanti a Pavel e a Sisov. Poi domandò:


  - Che cos'è questa riunione? Perché avete lasciato il lavoro?


  Per qualche secondo nessuno fiatò; la folla ondeggiava come un campo di spighe. Sisov, togliendosi il berretto, si strinse nelle spalle e chinò la testa.


  - Io domando, - urlò il direttore.


  Pavel gli si drizzò al fianco e disse a voce alta, additando Ribin e Sisov.


  - Noi tre siamo stati autorizzati dai nostri compagni a chiedervi di togliere l'imposta della copeca.


  - Perché? - domandò il direttore, senza guardare Pavel.


  - Perché la giudichiamo ingiusta, - rispose Pavel forte.


  - Allora voi pensate che la mia intenzione di prosciugare la palude sia solo un mezzo per sfruttare gli operai, e non risponda affatto al mio desiderio di migliorare le vostre condizioni di vita? E' così?


  - Sì, - rispose Pavel.


  - Anche voi? - domandò il direttore a Ribin.


  - Siamo tutti dello stesso parere, - rispose quello.


  - Io consiglio di sospendere il lavoro finché non toglierà l'imposta della copeca.


  E chinando nuovamente la testa, Sisov sorrise con aria colpevole.


  Il direttore girò lentamente lo sguardo sulla folla stringendosi nelle spalle; poi scrutò Pavel e osservò.


  - Voi mi sembrate un uomo abbastanza intelligente. Possibile che non vediate l'utilità di queste disposizioni?


  Pavel rispose forte:


  - Se la fabbrica prosciugasse le paludi a sue spese, lo capiremmo tutti!


  - La fabbrica non si occupa di filantropia, - osservò seccamente il direttore. - Ordino a tutti di riprendere all'istante il lavoro! - Poi cominciò a discendere, muovendosi prudentemente sui rottami, senza guardare nessuno.


  Dalla folla s'alzò un brusio di malcontento.


  - Che c'è? - domandò il direttore fermandosi.


  Tutti tacquero. Da lontano una voce disse:


  - Lavora un po' anche tu!


  - Se fra un quarto d'ora non avrete ripreso il lavo vi multerò tutti, - dichiarò seccamente il direttore.


  E passò di nuovo tra la folla, ma alle sue spalle si alzava un mormorio sordo, sempre più forte quanto egli si allontanava.


  Ecco a cosa serve parlargli!


  Bell'e che sistemati i nostri diritti. Eh, che vitaccia!


  Volgendosi a Pavel, gli gridarono:


  - Ehi, giurista, che facciamo adesso?


  - Hai avuto un bel parlare, appena arrivato lui ha scompigliato tutto.


  - Be', Vlassov, come la mettiamo?


  Quando le grida si fecero più insistenti, Pavel dichiarò:


  - Io consiglio di sospendere il lavoro finché non ritirerà l'imposta della copeca.


  Le parole volavano eccitate.


  - Ci credi tanto stupidi?


  - Bisogna farlo.


  - Sciopero?


  - Per una copeca?


  - Perché no? Sì, lo sciopero!


  - Ci prenderanno per la gola...


  - Chi lavorerà?


  - Di gente ne trovano sempre.


  - Che gente? Crumiri?


  - Sbatter via per le zanzare tre rubli e sei grivni (N.d.T.: Grivna: moneta da dieci copeche) al mese...


  - Toccherà a tutti.


  Pavel discese e si mise accanto alla madre. Tutti intorno a lui discutevano, agitati e litigiosi.


  - Non riuscirai con lo sciopero, - disse Ribin avvicinandosi a Pavel. - La gente ha bisogno di quella copeca, ma ha troppa fifa. In trecento al massimo ti seguiranno: con un sol colpo di forca non riuscirai mai a sollevare un mucchio così grosso di letame...


  Pavel taceva. Davanti a lui s'agitava il viso nero della folla che lo scrutava, interrogativa, negli occhi. Il cuore gli batteva per l'agitazione; gli sembrava che quanto aveva detto ai compagni non avesse lasciato alcuna traccia, come rare gocce d'acqua cadute su una terra riarsa da lunga siccità.


  Gli operai, l'uno dopo l'altro, gli si avvicinavano per congratularsi del discorso ed esprimere dubbi sull'esito dello sciopero, deprecando l'incomprensione del popolo per i propri interessi e la propria forza. Pavel tornò a casa triste e stanco. Dietro a lui camminavano la madre e Sisov; Ribin al suo fianco gli diceva all'orecchio:


  - Tu parli bene, ma non parli al cuore, ecco. Bisogna scagliare la favilla nel più profondo del cuore; non prenderai mai la gente con la ragione: è come una scarpa troppo stretta e fine, che a calzarla si sforma e ti fa male, vedi.


  Sisov diceva alla madre:


  - Eh, Nìlovna, per noi vecchi è l'ora di andarcene; il mondo sta cambiando. Che vita abbiam fatto, noi? Strisciando sulle ginocchia e facendo inchini fino a terra. E adesso? Non che gli uomini siano cambiati, perché si sbagliano ancor più di prima, ma sono diversi da noi. Guarda un po' i giovani: parlano col direttore da pari a pari. Eh, se fosse vivo il mio Matvei! Arrivederci, Pavel Micàilovic; fai bene, ragazzo, a prendere le difese degli uomini. Che Dio ti aiuti; forse troverai la strada giusta... Speriamo in Dio.


  E se ne andò.


  - Andate tutti alla malora, - borbottò Ribin: - voi non siete uomini, siete stucco, di quello che serve per tappare i buchi. Hai visto come insistevano che tu fossi il delegato? Adesso vanno a dire che sei un socialista, un piantagrane: ecco come sono. Vorrebbero vederti licenziato; questo ti aspetta.


  - A modo loro hanno ragione, - rispose Pavel.


  - Anche i lupi hanno ragione quando sbranano un compagno.


  La faccia di Ribin era cupa, la voce gli tremava insolitamente.


  - La gente non si accontenta di sole parole: le vuole sofferte, bagnate nel sangue.


  Tutto quel giorno Pavel rimase preoccupato, stanco, stranamente nervoso; aveva gli occhi lucidi e inquieti.


  La madre, accortasene, gli domandò timidamente:


  - Che hai Pascia?


  - Mi duole la testa, - rispose distratto.


  - Va' a letto, ti chiamerò il medico.


  La guardò e si affrettò a risponderle:


  - No, non occorre: non è niente, passerà... - E d'improvviso rifletté: - Sono troppo giovane e incapace, io: questo è il fatto. Non mi hanno creduto e non vogliono seguire la mia idea, perché non sono riuscito a convincerli, mamma. E dire che, quando penso alla verità, il cuore mi brucia, tanto è forte e luminosa. Non ho saputo esprimerla con forza e con calore; e adesso è come se avessi perso qualcosa: mi sento a disagio, umiliato.


  Gli guardò il viso sconvolto; avrebbe voluto capire quelle parole, ma non riusciva. Nell'intento di calmarlo, disse dolcemente:


  - Aspetta, non tormentarti il cuore: se oggi non ti hanno capito, ti capiranno domani...


  - Sì, devo riuscirci! - esclamò egli con forza.


  - Anch'io comincio a capire la tua verità!


  Pavel le si avvicinò.


  - Tu, mamma, sei una brava donna.


  Ella sussultò deliziata da quelle sommesse parole, si portò la mano al cuore e uscì dalla camera, tenendo gelosamente stretta quella frase affettuosa.


  Di notte, mentre la madre dormiva e Pavel stava leggendo in letto, vennero i gendarmi e cominciarono a frugare rabbiosamente dappertutto, dal cortile al solaio. L'ufficiale dal colorito itterico fu come la prima volta: offensivo, beffardo; si divertì a schernire e a punzecchiare.


  La madre sedeva in un angolo, lo sguardo fisso sul figlio. Questi cercava di nascondere l'agitazione, ma ad ogni risata dell'ufficiale contraeva le dita nervosamente. La donna capiva quanto gli costasse non rispondere al gendarme, e sopportare quell'ironia. Lei, poi, non provava più solo l'orrore della prima volta, ma un odio ben più forte per quegli ospiti notturni in grigio con gli speroni, e il suo odio soffocava la paura.


  Pavel riuscì a sussurrarle:


  - Mi arresteranno...


  Essa fece un cenno d'assenso e rispose a bassa voce: - Capisco.


  Capiva che l'avrebbero messo in prigione per il discorso tenuto agli operai; ma, poiché tutti avevano approvato quelle parole, pensava che lo avrebbero difeso: non sarebbe stato in prigione a lungo. Aveva voglia di stringerlo, di abbandonarsi al pianto, ma l'ufficiale le stava vicino e la guardava con gioia maligna, socchiudendo gli occhi. Gli tremavano le labbra e i baffi, e a lei sembrava che quell'uomo aspettasse soltanto di vederla piangere e lamentarsi e implorare. Raccogliendo tutte le forze, e cercando di dire il meno possibile, strinse la mano al figlio e col fiato sospeso mormorò lentamente:


  - Arrivederci, Pascia; hai quello che ti serve?


  - Sì, non star in pena.


  - Cristo sia con te.


  Quando lo condussero via, essa sedette sulla panca e cominciò a lamentarsi piano, a occhi chiusi. Appoggiandosi con la schiena alla parete, come un tempo soleva fare il marito, rigidamente avvolta nel dolore e nell'umiliante consapevolezza della propria impotenza, si lamentò a lungo, col capo chino, riversando in quei gemiti sommessi e monotoni la pena del cuore ferito. Vedeva, come una macchia davanti a sé, la faccia giallastra dai baffetti radi e quegli occhi socchiusi in un'espressione di gioia maligna; sentiva il cuore affondare nel cupo groviglio dell'esasperazione e dell'ira, contro coloro che le avevano tolto il figlio solo perché diceva la verità. Faceva freddo, la pioggia batteva sui vetri vaghi fruscii correvano lungo le pareti; e grigi fantasmi coi volti rossi e larghi e con le mani adunche, sembravano spiare la casa nella notte; se ne udiva in lontananza il tintinnio degli speroni.


  <Oh, se avessero portato via anche me!>, pensò.


  L'urlo della sirena chiamò la gente al lavoro; quel giorno il suono era insolitamente sordo, basso e incerto. La porta si aprì e comparve Ribin. Si fermò davanti a lei e, asciugandosi col palmo della mano la barba bagnata di pioggia, le domandò:


  - L'hanno arrestato?


  - Sì, quei maledetti! - sospirò lei.


  - Bell'affare, - rispose Ribin con un triste sorriso. - Sono stati anche da me e hanno frugato dappertutto. Molti insulti, ma non mi hanno toccato... Sicché, hanno preso Pavel... Il direttore fa l'occhietto al gendarme, il gendarme capisce e l'uomo scompare: se la intendono, fra loro. Uno munge il povero, mentre l'altro lo tien fermo per le corna.


  - Ma voi dovreste difendere Pavel! - proruppe la madre alzandosi. - L'ha pur fatto per voi...


  - Difendere Pavel? Chi?


  - Tutti.


  - Figurarsi! Non è possibile: gli altri hanno accumulato forze da millenni, e trafitto il nostro cuore di chiodi; non possiamo insorgere tutt'a un tratto: prima dobbiamo toglierci i chiodi, i chiodi che c'impediscono di unire i cuori.


  Sorrise e se ne andò con l'andatura pesante, incupendo la pena della madre con le sue desolate parole.


  <E se lo picchiano? se lo tormentano?>.


  Si figurò il corpo del figlio massacrato di bòtte, lacerato, insanguinato, e l'orrore della fredda zolla le indugiò nel cuore, soffocandola. Le dolevano gli occhi.


  Non accese la stufa, non si preparò la cena e non bevve il tè. Solo a sera inoltrata mangiò un pezzetto di pane.


  Quando si coricò, le parve di non essere mai stata così offesa in vita sua, desolata, sola; s'era abituata, gli ultimi anni, ad aspettare che accadesse qualcosa di importante, di buono: aveva sempre d'attorno giovani rumorosi, pieni d'iniziativa, e sempre, davanti a sé, il viso serio del figlio, padrone e responsabile di quell'esistenza agitata ma essenzialmente buona. Adesso era scomparso e non le rimaneva più nulla.


  Passò lentamente un giorno, poi una notte insonne, poi di nuovo più lentamente un altro giorno: la madre sperava invano che venisse qualcuno. Giunse la sera; poi la notte. Una pioggia fredda strisciava sospirando lungo i muri, il vento soffiava nel camino e fischiava sotto il pendolo; l'acqua gocciolava dal tetto, e il monotono picchiettio si confondeva stranamente col battito della pendola: sembrava che la casa oscillasse piano piano, e che tutto intorno fosse inutilità, rigido squallore.


  Qualcuno bussò due volte ai vetri della finestra. Abituata a quei colpi che ora non la spaventavano più, tuttavia trasalì per una punta di gioia improvvisa. Una vaga speranza la fece balzare in piedi; si mise lo scialle e aprì. Sulla soglia comparve Samòilov seguito da un uomo con la faccia nascosta nel bavero del cappotto e col berretto calato fin sulle sopracciglia.


  - Vi abbiamo svegliato? - domandò Samòilov senza salutare; contrariamente al solito, sembrava cupo e preoccupato.


  - Non dormivo, - rispose, e li guardò in silenzio con gli occhi ansiosi di notizie.


  Il compagno di Samòilov aveva il respiro grosso e rauco; si tolse il berretto e, porgendo alla madre la mano larga e tozza, le disse con voce bassa e amichevole, come a una vecchia conoscente:


  - Buon giorno, comare; non mi conoscete?


  - Siete voi? - esclamò la Vlàssova, con un impeto improvviso di gioia. - Iegòr Ivànovic?


  - Proprio io, che diamine! - rispose, chinando la grossa testa dai capelli lunghi come quelli di un sagrestano, le sorrideva bonariamente, con la faccia piena e con gli occhietti grigi dallo sguardo affettuoso e limpido; sembrava un samovàr: ugualmente rotondo e schiacciato, col collo lungo e le braccia corte. Aveva la faccia lucida e splendente, e il respiro rumoroso, come se in petto qualcosa gli continuasse a bollire, a fischiare.


  - Entrate di là, mi vesto subito, - proseguì la madre.


  - Abbiamo una commissione per voi, - disse Samòilov con aria preoccupata, sbirciandola di sotto in su.


  Iegòr Ivànovic era entrato nell'altra camera e di là disse:


  - Stamattina, cara comare, è uscito di prigione il vostro conoscente Nicolai.


  - Era dentro anche lui? - s'informò la madre.


  - Tre mesi e undici giorni. Ho visto anche l'ucraino che vi saluta e Pavel che vi saluta pure e vi prega di non preoccuparvi; ha raccomandato di dirvi che, nella vita di un uomo, la prigione è un luogo di riposo... secondo il programma del nostro zelante governo. E adesso veniamo al sodo: sapete quante persone sono state acciuffate ieri?


  - No. Credevo soltanto Pascia! - esclamò la madre.


  - Lui è il quarantunesimo, - la interruppe Iegòr Ivànovic calmo; - c'è da aspettarsi che ne arrestino un'altra decina, anche questo signore...


  - Anch'io, - ripeté Samòilov cupo.


  La Vlàssova si sentì togliere un peso dal cuore...


  <Almeno non è solo>, pensò.


  Rivestita, entrò nella camera e sorrise coraggiosamente all'ospite.


  - Allora non il tratterranno un pezzo, se sono così tanti.


  - Naturalmente, - rispose Iegòr Ivànovic; - e, se saremo così furbi da guastargli i piani, ci faranno anche la figura degli stupidi. Ecco dunque, di che si tratta: se noi adesso cessiamo di introdurre i nostri opuscoli nella fabbrica, i poliziotti approfitteranno di questo triste fatto per poter accusare Pavel e gli altri compagni che sono dentro con lui.


  - Come mai? Perché? - proruppe agitata la madre.


  - Semplicissimo, cara, - rispose dolcemente Iegòr Ivànovic: - qualche volta anche i poliziotti ragionano giusto. Riflettete: con Pavel abbiamo gli opuscoli e i proclami; via lui, spariscono gli uni e gli altri: ciò significa che li distribuiva Pavel, non vi pare? E allora chi si salva più dalle loro grinfie? Perché coi metodi della polizia si fa presto a malmenare un uomo fino a ridurlo un mucchietto di stracci e un commosso ricordo.


  - Capisco, capisco, - disse la madre accorata. - Signore, come fare?


  - Ci hanno pescati quasi tutti, quei maledetti! Ora bisogna che noi facciamo come se niente fosse, se vogliamo salvarci, e soprattutto salvare i nostri compagni.


  - Nessuno di noi può farlo, - osservò Iegòr, con un triste sorriso. - Abbiamo un materiale di prima qualità, l'ho compilato io stesso; ma, chi può introdurlo nella fabbrica?


  - Perquisiranno tutti all'entrata, - intervenne Samòilov.


  La madre intuì che s'aspettavano qualcosa da lei, e s'affrettò a domandare:


  - Be', e allora? Come si fa?


  Samòilov apparve sulla porta e disse:


  - Voi, Pelagheia Nìlovna, conoscete la Corsùnova? quella donna che vende roba?


  - La conosco. Ebbene?


  - Provate a parlarle: forse potrà aiutarci.


  La madre fece un gesto di diniego con le mani.


  - Oh, no; è una chiacchierona. Se poi si venisse a sapere che l'idea è partita da questa casa, che ci sono io di mezzo... No, no. - D'un tratto fu come illuminata da un lampo, e disse con gioia: - Ma, datela a me, a me; mi arrangerò io, troverò bene la strada. Dirò a Maria che ho bisogno di guadagnarmi il pane e che mi prenda a lavorare con lei: porterò il mangiare agli operai. Lasciate fare a me... - Si stringeva le mani al petto e continuava a ripetere che avrebbe fatto tutto per bene, senza dar nell'occhio, e alla fine disse trionfante: - Vedranno loro! Pavel Vlassov è in prigione, ma la sua mano colpisce anche da lì. Vedranno!


  I tre si rianimarono. Iegòr, fregandosi forte le mani, sorrise e disse:


  - Splendido, comare! Ma ci pensate? E' un'idea meravigliosa; proprio affascinante.


  - Se riesce, quando mi metteranno in prigione, ci starò bene come su una poltrona, - osservò Samòilov ridendo e fregandosi le mani.


  - Siete una bellezza, comare! - esclamò Iegòr con voce rauca.


  La madre sorrise. Era chiaro: se i foglietti ricomparivano nella fabbrica, la direzione avrebbe dovuto convincersi che Pavel ne era estraneo. Sicura di poter assolvere il compito, tremava tutta di gioia.


  - Quando andate a trovare Pavel, - riprese Iegòr - ditegli che ha una brava madre!


  - Glielo dirò prima io, - promise Samòilov con un sorriso.


  - Ditegli che io farò tutto per bene. Che lo sappia!


  - E se non lo arrestano? - domandò Iegòr additando Samòilov.


  - Be', pazienza!


  Tutti e due scoppiarono in una risata, e, quando essa si accorse di aver preso un granchio, si mise a ridere anche lei, tra confusa e furba.


  - Le grane proprie fanno dimenticare quelle degli altri, - disse a occhi bassi.


  - Naturale! - esclamò Iegòr. - Ma, non preoccupatevi per Pavel: non siate triste. Uscirà dalla prigione meglio di prima: là dentro ci si riposa e si studia, cosa che la povera gente come noi non ha mai il tempo di fare. Io, per esempio, sono stato dentro tre volte, magari con scarso entusiasmo, ma sempre con indubbio vantaggio per la mente e per il cuore.


  - Fate fatica a respirare, - diss'ella, osservando benevolmente il suo viso aperto. - Perché?


  - Le ragioni non mancano, - rispose, alzando un dito. - Allora d'accordo, comare. Domani vi manderemo il materiale, e rimetteremo in moto la ruota che deve distruggere le tenebre secolari. Evviva la libertà di parola, evviva il cuore delle mamme! Per ora, arrivederci.


  - Arrivederci, - disse Samòilov, stingendole con forza la mano. - Io, con mia madre, non oserei nemmeno fiatare su un argomento simile.


  - Sono certa che capirebbe anche lei, - disse la Vlàssova, con intenzione gentile: - tutti lo capirebbero.


  Quando furono usciti, chiuse la porta, s'inginocchiò nel mezzo della camera e cominciò a pregare.


  La pioggia scrosciava. Pregava senza parole, intensamente, rivolgendo il pensiero agli uomini che Pavel aveva fatto entrare nella sua vita. Se li vedeva sfilare davanti agli occhi, nello spazio fra lei stessa e le icone che guardava, ed erano tutti così semplici, stranamente affini l'uno all'altro, e solitari.


  Il mattino seguente, di buon'ora, si recò da Maria Corsùnova.


  La donna, più chiassosa e sporca che mai, l'accolse con cordialità e con simpatia.


  - Sei triste? - le domandò, battendole con la mano grassa sulle spalle. - Non te la prendere: in fondo te l'hanno soltanto portato via; non è un guaio come quando mettevano dentro la gente perché rubava. Adesso la mettono dentro perché vuole sapere la verità; e Pavel avrà detto qualcosa che non andava, ma ha difeso la causa comune: la gente lo sa. Molti non parlano, ma tutti sanno distinguere il buono dal cattivo. Avevo proprio in mente di passare da te, ma dimmi tu se ho mai tempo: tutto il giorno a cucinare e a vendere, eppure di sicuro morirò povera. I miei innamorati mi sfruttano, maledetti loro! Sembrano scarafaggi intorno a un budino; giusto quando ho da parte una decina di rubli, arriva uno di quegli eretici e se li pappa. Brutto affare, esser donna; e sporco destino il nostro... E' già difficile pensare a sé; in due poi...


  - Sono venuta a chiederti se mi prendi a lavorare con te, - disse la Vlàssova, interrompendo quello sproloquio.


  - In che modo? - domandò Maria, e ascoltata l'amica, chinò la testa annuendo. - Va bene. Ricordi quando venivo a nascondermi da te per sfuggire a mio marito? Be', adesso tocca a me darti una mano. Tutti hanno il dovere di aiutarti, giacché tuo figlio è nei guai per una causa comune. Hai un bravo ragazzo, e tutti lo compiangono. Ti dico che questi arresti meneranno gramo al governo. Hai visto che cosa succede in fabbrica? Ne dicono di cotte e di crude. I padroni credono che con le maniere forti tutto vada a posto... ma invece ne colpiscono dieci, e ne scatenano cento. Bisogna andar piano con gli operai: sono pieni di pazienza, ma un bel giorno scoppiano.


  Il risultato di quella conversazione fu che il giorno dopo, all'ora del desinare, la Vlàssova andò in fabbrica con due cesti pieni di cibi cotti, preparati da Maria, e questa andò invece a vendere al mercato.


  Gli operai notarono subito la novità. Alcuni si avvicinarono alla Vlàssova, e dopo averle domandato con simpatia se si era rimessa a lavorare, cercarono di consolarla, dicendole che Pavel sarebbe uscito presto perché era dalla parte del giusto. Altri la resero ancora più triste con le loro prudenti espressioni di condoglianza; altri ancora imprecarono con aperta ostilità contro il direttore e i poliziotti, e le suscitarono in cuore un'eco di simpatia.


  Alcuni però la guardarono con gioia maligna; il tabelliere Issaì Gorbov disse fra i denti:


  - Se fossi io il governatore, tuo figlio lo impiccherei. Altro che tirar fuori di strada la gente!


  A quell'aspra minaccia ella provò un freddo mortale, ma non rispose nulla; solo alzò gli occhi e osservò la faccia piccola, lentigginosa di Issaì. Vedeva che la fabbrica era in subbuglio. Gli operai si fermavano in crocchio a confabulare, e i caporeparto correvano avanti e indietro con aria preoccupata. A tratti qualcuno lanciava una bestemmia, o scoppiava in una risata nervosa.


  Due poliziotti le passarono accanto: in mezzo a loro camminava Samòilov, tenendo una mano nella tasca e lisciandosi con l'altra i capelli rossicci. Una folla di operai, circa un centinaio, li seguiva lanciando improperi e beffe all'indirizzo dei poliziotti.


  - Vai a spasso, eh, Griscia? - gridò qualcuno.


  - Che onore! - esclamò un altro. - Ci dànno anche le guardie del corpo, - e bestemmiò forte.


  - Si vede che i ladri non gli rendono più abbastanza, - gridò rabbiosamente un operaio alto e curvo: - adesso se la prendono con la gente onesta...


  - Almeno aspettaste di notte! - soggiunse un altro operaio. - Invece, in pieno giorno... spudorati mascalzoni!


  I poliziotti camminavano in fretta e con aria arcigna, cercando di non vedere e di non sentire le esclamazioni che giungevano da ogni parte. Dalla direzione opposta avanzarono tre operai reggendo una grossa sbarra di ferro, e gridarono minacciosamente:


  - Attenti, pescatori!


  Nel passare davanti alla Vlàssova, Samòilov le fece un cenno e le sorrise, dicendo:


  - Ora acchiappano anche un povero servo di Dio come me...


  Essa s'inchinò profondamente senza dir nulla. Quei giovani onesti, seri e intelligenti che andavano in prigione col sorriso sulle labbra la intenerivano e risvegliavano in lei un senso materno di compassione. E poi, le faceva piacere sentir criticare così aspramente le autorità, poiché quei commenti rivelavano l'influsso del suo figliuolo.


  Uscita dalla fabbrica andò subito da Maria, dove trascorse il resto della giornata, aiutandola nel lavoro e ascoltando le sue ciance. A sera tarda, quando rientrò nella casa vuota, fredda e inospitale, si senti sperduta: non trovava pace e non sapeva che fare. Presto sarebbe stata notte, e Iegòr Ivànovic non aveva ancora portato i volantini come aveva promesso. Attraverso la finestra si vedevano cadere i fiocchi pesanti e grigi della neve autunnale; battevano mollemente sui vetri e si scioglievano lungo la lastra, lasciando una traccia bagnata. Pensava al figlio...


  Qualcuno picchiò piano alla porta. Accorse subito e tirò il paletto. Entrò Sascia. La madre non la vedeva da un pezzo, e osservò subito la strana rotondità della ragazza.


  - Buon giorno, - disse, contenta che qualcuno fosse venuto a rompere la sua solitudine. - Da quanto tempo non vi vedo! Eravate via?


  - No, ero in prigione, - rispose sorridendo la ragazza; - insieme con Nicolai Ivànovic, ve lo ricordate?


  - Certo che lo ricordo! - esclamò la madre. - Proprio ieri ho saputo da Iegòr Ivànovic che l'hanno rimesso in libertà... Ma di voi non sapevo niente; nessuno mi aveva detto che eravate in prigione...


  - Per quel che conta! Ma ora dovrei cambiarmi, prima che venga Iegòr Ivànovic, - disse la ragazza guardandosi intorno.


  - Siete tutta bagnata.


  - Ho portato gli opuscoli.


  - Date, date qua, - disse premurosamente la madre.


  - Subito.


  La ragazza si sbottonò svelta il cappotto, si scrollò e una pioggia di carte le cadde di dosso svolazzando come le foglie di un albero. La madre si mise a ridere, e raccattandole disse:


  - A vedervi così grossa pensavo che vi foste sposata e aspettaste un bambino... Oh, quanta roba! Siete venuta a piedi?


  - Sì, - rispose Sàscenca (N.d.T.: Diminutivo di Sascia) ritornata snella e sottile come una volta.


  La madre notò le sue guance afflosciate, gli occhi enormi cerchiati di viola.


  - Appena uscita di prigione dovevate riposare, invece di fare sette verste caricata a quel modo, - disse la madre sospirando e scuotendo la testa.


  - E' il mio dovere, - rispose la ragazza, rabbrividendo: - Ma, ditemi, come se l'è presa Pavel Micàilovic? E' rimasto calmo?


  Mentre parlava, Sàscenca evitava di guardare la madre; a testa bassa si aggiustava i capelli con le dita tremanti.


  - Calmissimo, - rispose la madre; - state certa che non mollerà.


  - E' robusto vero? - mormorò la ragazza


  - Non è mai stato ammalato, - disse la donna. - Ma voi tremate tutta. Vi darò subito una tazza di tè con la marmellata di lamponi.


  - Che bello! Ma perché volete disturbarvi? è tardi, Posso farlo io...


  - Stanca come siete? - la rimproverò la donna, affaccendandosi intorno al samovàr.


  Sascia la seguì in cucina, sedette sulla panca, si allacciò le mani dietro la testa e disse:


  - Sì, mi piace molto... Certo, la prigione indebolisce... non c'è niente di più deprimente di quel maledetto ozio forzato; passano le settimane, i mesi, e fuori c'è tanto lavoro che ti aspetta, tanta gente che ha bisogno di esser istruita. Sai che puoi dar molto, e ti tocca star chiusa in gabbia, come una bestia feroce: è una cosa proprio seccante.


  - Chi vi ricompenserà per tutto questo? - domandò la madre. Poi sospirò e soggiunse fra sé: - Soltanto Iddio! E voi, avete fede in Dio?


  - No, - rispose brevemente la fanciulla, scotendo la testa.


  - Non posso credervi! - proruppe la madre, con subitanea agitazione. E, ripulendosi in fretta nel grembiule le mani sporche di carbone, riprese cori foga: - Ignorate la vostra fede, voi. Come potreste vivere a questo modo se non credeste in Dio?


  Nell'ingresso risuonarono dei passi pesanti, e s'udì una voce sonora. La madre sussultò, la ragazza balzò in piedi e mormorò in fretta:


  - Non aprite. Se è la polizia, fate finta di non conoscermi; dite che ho sbagliato porta e sono entrata qui per caso; poi sono svenuta, voi mi avete svestita e avete trovato i libri... Capito?


  - Cara, e perché? - domandò la madre commossa.


  - Aspettate, - disse Sascia tendendo l'orecchio: - mi sembra che sia Iegòr...


  Era infatti lui, fradicio e ansimante per la stanchezza.


  - Ah, il samovàr, - esclamò: - è quanto di meglio ci sia al mondo, comare! Oh, Sascia, siete già arrivata?


  Il suono rauco della sua voce riempiva la cucinetta; si tolse lentamente il cappotto pesante e disse tutto d'un fiato:


  - Eccovi, mammetta, una ragazza che dà del filo da torcere alle autorità. Un giorno che l'ispettore del carcere le ha mancato di rispetto, gli ha dichiarato che se non le chiedeva scusa, piuttosto moriva di fame; e infatti è stata per otto giorni senza mangiare, che quasi ci lasciava la pelle. Mica male, no? ma guardate qua che pancia ho messo su!


  Chiacchierando e reggendo con le mani corte il ventre orribilmente pendulo, attraversò la camera e uscì tirandosi dietro la porta.


  - Avete davvero digiunato per otto giorni? - domandò la madre stupita.


  - Volevo che mi chiedesse scusa, - rispose la ragazza, stringendosi freddolosamente nelle spalle. Quella calma, quella fermezza echeggiarono nell'animo della madre come un rimprovero.


  <E' proprio così>, pensò e poi tornò a domandare: - E se foste morta?


  - Pazienza! - esclamò piano la ragazza. - Lui però si è scusato. Non bisogna perdonare le offese...


  - Sì, - disse lentamente la madre.


  - Invece la vita di noi donne è una continua offesa.


  - Mi sono scaricato, - annunciò Iegòr, aprendo la porta. - E' pronto il samovàr? Lasciate, ve lo porto di là io.


  Sollevò il samovàr e, mentre lo portava nell'altra camera, disse:


  - Mio padre beveva non meno di venti bicchieri al giorno e perciò è vissuto fino a settantatré anni senza malanni né fastidi. Pesava otto "pudi" (N.d.T.: "Pud": sedici chilogrammi e mezzo circa.) e faceva il sagrestano nel villaggio di Voscresènie.


  - Siete il figliuolo di padre Ivàn? - esclamò la madre.


  - Io in persona; ma, come lo sapete?


  - Sono di Voscresènie anch'io.


  - Allora siamo compaesani. Come vi chiamate?


  - Seriòghina; abitavamo vicino a voi.


  - Siete la figlia di Nil lo zoppo? Lo conoscevo bene... Quante volte mi ha tirato gli orecchi...


  In piedi, l'uno di fronte all'altra, ridevano e si tempestavano di domande. Sàscenca li guardava sorridendo e versava il tè. Il rumore delle tazze richiamò la madre alla realtà.


  - Oh, scusatemi! Chiacchiera e chiacchiera... fa così piacere incontrare un compaesano.


  - Io devo scusarmi per aver fatto da padrona. Ma sono già le undici e ho molta strada da fare.


  - Dove andate? In città? - domandò stupita la madre.


  - Sì.


  - Ma no; è buio, piove... e siete stanca. Perché non vi fermate? Iegòr Ivànovic può dormire in cucina, e noi due qui.


  - No, devo andare, - disse brevemente la ragazza.


  - Sicuro, compaesana, è necessario che la signorina si eclissi. Qui la conoscono, e se domani la vedessero per le strade, sarebbe un bel guaio, - dichiarò Iegòr.


  - Come farà? Andrà sola?


  - Sì, - annuì Iegòr con un breve sorriso.


  La ragazza si versò il tè, prese un pezzetto di pan di segale, lo salò e si mise a mangiare, guardando penosamente la madre.


  - Come fate, voi e Natascia, ad andar sole? Io non ci andrei, avrei paura, - disse la Vlàssova.


  - Anche lei ha paura, - osservò Iegòr: - non è vero, Sascia?


  - Sì, è vero, - rispose la ragazza.


  La madre guardò prima lei poi Iegòr, e osservò timidamente:


  - Come siete... rigidi!


  Bevuto il tè, Sàscenca strinse in silenzio la mano a Iegòr e andò in cucina. La madre la seguì.


  In cucina Sàscenca disse:


  - Se vedete Pavel Micàilovic, salutatelo da parte mia, ve ne prego.


  Già stava girando la maniglia della porta, quando improvvisamente si voltò e disse a mezza voce:


  - Posso darvi un bacio?


  La madre l'abbracciò senza parlare e la baciò affettuosamente.


  - Grazie, - disse piano la ragazza e uscì salutando col capo.


  Ritornata nella camera, la madre guardò preoccupata dalla finestra. La tenebra fitta e umida era rotta dalla neve che cadeva a fiocchi pesanti e acquosi.


  - Ricordate i Prosorov, quelli della bottega? - domandò Iegòr, seduto a gambe larghe e soffiando rumorosamente sul bicchiere di tè. Aveva il viso rosso, sudato e contento.


  - Sì, me ne ricordo, - disse la madre, sovrappensiero, mentre si avvicinava alla tavola con la sua andatura storta. Poi sedette e, guardando Iegòr con gli occhi pieni di tristezza, disse strascicando la voce:


  - Ohi, ohi, povera Sàscenca, come farà ad arrivare?


  - Certo è una bella strapazzata, - convenne Iegòr. - La prigione l'ha conciata forte, prima era più robusta; e poi ha sempre vissuto negli agi, e a quanto pare si è già rovinata i polmoni.


  - Ditemi, chi è? - s'informò piano la madre.


  - E' la figlia di un ricco possidente, lei dice che è un tipaccio. Lo sapete, comare, che vogliono sposarsi?


  - Chi?


  - Lei e Pavel. Ma, pare un destino: quando lei è fuori, lui è dentro, e viceversa.


  - Non ne sapevo nulla, - rispose la madre dopo un momento di silenzio. - Pascia non mi parla mai di sé.


  Adesso la ragazza le faceva ancor più pena.


  - Potevate accompagnarla, - disse lentamente, guardando l'ospite con involontaria ostilità.


  - Impossibile, - rispose l'altro senza scomporsi. - Ho ancora un mucchio di lavoro da sbrigare e domattina dovrò alzarmi prestissimo e girare tutto il giorno; cosa poco indicata con la mia asma.


  - E' una brava ragazza, - continuò la madre vagamente, pensando a ciò che Iegòr le aveva detto.


  Si sentiva umiliata di aver avuto quelle notizie da un estraneo invece che dal figlio. Serrò le labbra e aggrottò le sopracciglia.


  - Sì, è una brava ragazza, - annuì Iegòr. - Un po' troppo signora, ma va migliorando. Mi pare che ve la pigliate molto per lei. E' un guaio, cara la mia comare; non vi basterà il cuore, se vi lasciate impietosire dalle disgrazie di ciascuno di noi: la vita è diventata piuttosto difficile per i ribelli. Ultimamente un mio amico è tornato dall'esilio: quando lui è passato per Nizni, sua moglie e il bambino lo aspettavano a Smolensk, e quando lui è arrivato a Smolensk, la moglie era già in prigione a Mosca: vanno in Siberia a turno... Anche mia moglie era una donna meravigliosa, ma cinque anni di una vita simile l'hanno portata alla tomba.


  Vuotò d'un fiato il bicchiere di tè e continuò a raccontare. Elencò gli anni e i mesi passati in prigione o in esilio, ricordò disgrazie di ogni genere, i massacri nelle carceri, la fame in Siberia. La madre lo ascoltava, osservando con stupore la calma e la naturalezza con cui parlava di quella vita piena di sofferenze, di persecuzioni, d'insulti.


  - Ma ora veniamo un po' a noi, - disse cambiando voce, e facendosi più serio.


  Per prima cosa le domandò come pensava d'introdurre gli opuscoli nella fabbrica, ed essa notò con stupore che egli aveva studiato l'argomento nei minimi particolari.


  Quando si furono messi d'accordo, ricominciarono a parlare del paese natale. L'uomo scherzava, la madre rievocava pensosamente il passato: le pareva di vedere una palude, cosparsa di macchie di terra, dalle quali si alzavano esili pioppi tremuli, scossi di continuo come da un brivido di paura, abeti bassi, e qua e là bianche betulle che stentavano a crescere su quel terreno mobile e putrido, e dopo qualche anno cadevano e marcivano al suolo... Contemplò quel quadro e provò un dolore intollerabile. L'immagine della ragazza col viso sottile e deciso le stava sempre davanti agli occhi; le pareva di vederla camminare nel buio, avvolta nei fiocchi di neve molle, sola e stanca. Vedeva il figlio in una celletta munita di sbarre alla finestra: forse vegliava ancora e pensava a una persona che gli stava più a cuore della madre. Un nugolo di pensieri tormentosi e sconnessi le gravava sul cuore.


  - Siete stanca, comare? Io direi di andare a letto, - propose Iegòr sorridendo.


  Lo salutò, avviandosi verso la cucina col passo sbilenco e cauto. Aveva in cuore un senso di pungente amarezza.


  Al mattino, mentre prendevano il tè, Iegòr le domandò:


  - E se vi pescano e vi domandano dove avete preso tutti questi opuscoli eretici?


  - Dirò che non li riguarda, - rispose.


  - E' una risposta che non gradiranno molto, - osservò Iegòr. - Sono perfettamente convinti che la cosa li riguarda da vicino, e non la finiranno più d'interrogarvi.


  - Io non risponderò.


  - Vi metteranno in prigione.


  - Che importa? Grazie a Dio servirò finalmente a qualcosa, - disse, sospirando. - Chi ha bisogno di me? Nessuno... E poi mi hanno detto che non torturano.


  - Ehm... - disse Iegòr, osservandola attentamente, - no, non vi tortureranno... Ma una brava donna come voi deve tenersi da conto.


  - Senti chi parla! - rispose la madre con una risata.


  Iegòr passeggiò in silenzio per la camera, poi le si avvicinò e disse:


  - Voi soffrite, comare, lo sento quanto soffrite.


  - Tutti soffrono, - rispose, alzando la mano. - Forse un po' meno quelli che capiscono... anch'io comincio ora a capire che cosa vogliono le persone buone.


  - Se lo capite davvero, comare vuol dire che siete necessaria a tutti noi... a tutti, - disse Iegòr serio e compreso.


  .Gli gettò un'occhiata e sorrise silenziosamente.


  Quando fu mezzogiorno s'imbottì tranquillamente il seno di opuscoli. I suoi gesti erano cosi decisi e disinvolti che Iegòr schioccò la lingua soddisfatto, e dichiarò:


  - "Sehr gut!" come direbbe un buon tedesco dopo aver vuotato un secchio di birra. Voi, comare, la letteratura non vi ha guastata per niente. Siete la solita brava donna anziana, alta e grossa. Benedicano gli dèi i vostri primi passi.


  Mezz'ora dopo, curva sotto il peso che portava addosso, ma calma e fiduciosa, era davanti al portone della fabbrica. Due guardiani, esasperati dai motteggi degli operai, perquisivano villanamente tutti quelli che entravano dal portone, tra lanci reciproci di bestemmie.


  In disparte v'erano un poliziotto e un uomo dalle gambe sottili, il viso rosso e gli occhi irrequieti. La madre, passandosi la stanga con le marmitte da una spalla all'altra, lo osservava con la coda dell'occhio: sentiva che era una spia.


  Un giovanottone ricciuto, col berretto calato sulla nuca, gridava ai guardiani che lo perquisivano:


  - Cercate un po' in testa, maledetti, invece che nelle tasche!


  Uno dei due gli rispose:


  - Per trovarci soltanto dei pidocchi?


  - E' la caccia che fa per voi, - ribatté l'operaio.


  La spia lo sfiorò con una rapida occhiata e sputò.


  - Lasciatemi passare, - pregò la madre. - non vedete che ho la schiena rotta dal peso?


  - Sù, passa, - gridò il guardiano arrabbiato. - Quante chiacchiere!


  La madre andò al suo posto, depose le marmitte e, asciugandosi il sudore, si guardò intorno.


  Subito le si avvicinarono i fratelli Gussiev, ambedue fabbri, e Vassili, il maggiore, le domandò forte, aggrottando le sopracciglia:


  - Hai "piroghì"?


  - Li porterò domani, - essa rispose.


  Era la parola d'ordine. Le facce dei due fratelli si rasserenarono; Ivàn, che moriva d'impazienza, esclamò:


  - Oh, che brava donna!


  Vassili si accoccolò per guardare nella marmitta e si trovò subito in seno un mucchio di opuscoli.


  - Ivàn, - disse ad alta voce, - invece di andar a mangiare a casa, possiamo comprare la roba qui da lei, - intanto si riempiva il grembiale di opuscoli. - Bisogna dar incremento al commercio!


  - Certo, - approvò Ivàn, scoppiando in una risata.


  La madre si guardava intorno con aria circospetta e intanto gridava:


  - Cavoli, minestra calda, arrosto!


  Continuava a tirar fuori prestigiosamente un pacco dietro l'altro e li passava nelle mani dei fratelli; a ogni pacco consegnato, una luce, gialla come quella di uno zolfanello in una stanza buia, le si accendeva davanti agli occhi, e sembrava la faccia malaticcia e beffarda dell'ufficiale dei gendarmi: a lui essa diceva mentalmente a ogni pacco con gioia maligna: <To', prendi questo... e anche questo>.


  A volte si avvicinava un operaio con la ciotola in mano, e quando era vicino, Ivàn Gussiev scoppiava in una risata. La Vlàssova, imperturbabile, interrompeva il lavoro, versava nella ciotola la minestra di cavoli, mentre i Gussiev dicevano scherzosamente:


  - E' svelta, la Nìlovna, eh?


  - La miseria aguzza l'ingegno, - osservò un fuochista cupamente. - Le hanno tolto l'unico sostegno, porci! Sù, dammi tre copeche di minestra... Coraggio, madre, te la caverai.


  - Grazie per la buona parola, - gli rispose sorridendo.


  L'uomo, allontanandosi, borbottò tra sé:


  - Una buona parola costa poca fatica.


  - Se trovi qualcuno che la meriti, - osservò un fabbro beffardamente. E scrollando le spalle con finta meraviglia, soggiunse: - Vedete, ragazzi, com'è la vita? nessuno a cui dire una parola buona... C'è infatti qualcuno che ne sia degno?


  Vassili Gussiev si alzò, si chiuse bene il cappotto e disse:


  - Ho mangiato roba calda, ma ho freddo.


  E si allontanò, seguito quasi subito da Ivàn, che corse via fischiando. La Vlàssova sorrideva cordialmente e gridava:


  - Cibi caldi, cavoli, pasta e minestra!


  Pensava al momento in cui avrebbe descritto a Pavel quella prima impresa; e vedeva sempre davanti a sé la faccia gialla dell'ufficiale, con l'aria incredula e cattiva, i baffi neri che si muovevano confusamente, e sotto il labbro superiore, sollevato dalla stizza, la chiostra bianca dei denti. Un'acuta felicità le cantava nel cuore con un fremito d'ali, ed ella, inarcando furbescamente le sopracciglia, faceva con disinvoltura il lavoro, e ripeteva fra sé: <To', questo, e to', questo ancora>.


  Per tutto il giorno una sensazione nuova e piacevole le accarezzò il cuore. La sera, ritornata a casa dopo il lavoro da Maria, stava bevendo il tè quando udì sotto la finestra lo scalpitare degli zoccoli di un cavallo nel fango, e una voce nota la chiamò. Essa sussultò e corse in cucina. Qualcuno era entrato frettolosamente nell'ingresso. La vista le si offuscò; si appoggiò allo stipite della porta e la spinse col piede.


  - Buona sera, mammetta, - disse una nota voce strascicata, e due mani lunghe e secche le si posarono sulle spalle. La vista di Andrei le riempì il cuore di delusione e di gioia; ma subito i due sentimenti si fusero in uno solo, nobile e ardente, che la immerse in un'onda di calore. Si trovò col viso contro il petto di Andrei, e questi la strinse forte, con le mani tremanti. La madre piangeva in silenzio, mentre lui le accarezzava i capelli e le diceva quasi cantando:


  - Non piangete, mammetta, non tormentatevi così. Vi dò la mia parola d'onore che presto uscirà anche lui; non possono provare nulla, e i ragazzi sono muti come pesci lessi.


  Circondando col lungo braccio le spalle della madre, la guidò nella camera. Essa si stringeva a lui col gesto rapido di uno scoiattolo, si asciugava il viso bagnato di lacrime e beveva avidamente con tutto l'animo le parole cantanti.


  - Pavel vi saluta; sta bene ed è di buon umore, per quel tanto che può. La prigione è zeppa: hanno arrestato più di un centinaio di persone, tra i nostri e quelli della città, e li hanno messi in tre o quattro per cella. Il personale del carcere non è cattivo, e poi è stanco, con tutto il lavoro che gli hanno procurato quei gendarmi del diavolo. Non sono troppo severi e dicono in continuazione: <Parlate più piano, signori, non metteteci nel guai>; perciò le cose filano via lisce. Si chiacchiera, ci si passa i libri da leggere e la roba da mangiare: proprio una bella prigione! Vecchia e sporca, ma comoda; anche i penali sono brava gente, e ci aiutano molto. Siamo usciti in sei, io, Buchin e altri quattro: non avevano più posto. Vedrete che presto verrà fuori anche Pavel. Soltanto Vièssovcicov starà dentro più degli altri, perché sono furibondi contro di lui: insolentisce tutti da mattina a sera; i gendarmi non lo possono soffrire: vedrete che un giorno o l'altro gli appiopperanno un processo o lo copriranno di bòtte. Pavel ha un bel dirgli di smetterla, che anche a insultarli quelli non cambiano. Ma lui strepita: "Bisogna pulirlo tutto sto marciume", continua a strepitare. Pavel si comporta molto bene, è giusto e fermo con tutti; verrà presto a casa, ve lo dico io...


  - Presto, - ripeté la madre più tranquilla, sorridendogli affettuosamente; - lo penso anch'io, presto!...


  - Oh, così va bene! Sù, datemi il tè e raccontatemi come ve la siete cavata.


  La guardò allegramente, con l'aria buona e familiare, e negli occhi rotondi gli brillò una trepida luce d'amore.


  - Vi voglio molto bene, Andriuscia, - disse la madre sospirando profondamente e osservando il suo viso magro cosparso di ridicoli ciuffetti pelosi.


  - Io mi contento di un po' d'affetto. Lo so che siete tanto buona e che nel vostro cuore avete posto per tutti, anche per me, - rispose l'ucraino dondolandosi sulla seggiola.


  - No, a voi voglio bene in un modo speciale, - insistette lei. - Se aveste una madre, tutti le invidierebbero un figlio come voi!



  L'ucraino scosse la testa e se la strinse tra le mani.


  - Anch'io ho una madre da qualche parte, - disse piano.


  - Sapete che cosa ho fatto oggi? - esclamò lei e, ansando dalla gioia, cominciò a raccontargli in fretta e con un po' di esagerazione come aveva fatto a introdurre gli opuscoli nella fabbrica.


  Egli dapprima sgranò gli occhi, poi scoppiò in una risata, dimenò le gambe, si picchiò in testa con le dita e gridò allegramente:


  - Brava mammetta, avete fatto un bellissimo lavoro; chi sa come sarà contento Pavel! Bene, bene davvero, per Pavel e per tutti i suoi compagni di prigione!


  Schioccava le dita dall'entusiasmo, fischiava e si dimenava tutto, e la sua gioia si comunicò a lei pienamente.


  - Come siete caro, Andriuscia! - esclamò, aprendo il cuore a un torrente di parole, che scorrevano via limpide, scherzose, vive, serenamente gioiose - Ho pensato alla mia vita... Signore Iddio! Perché ho vissuto? Bòtte e lavoro; non vedevo che mio marito e non conoscevo che la paura... Non so come sia cresciuto Pascia e ignoro se gli volevo bene o no, quando era vivo mio marito. Non avevo altro pensiero e altra preoccupazione che dar da mangiare alla mia belva, al padrone della mia vita; cercavo col cibo buono, abbondante e servito a tempo, di evitare che s'impazientisse e mi picchiasse, sempre sperando che una volta almeno avrebbe avuto pietà di me; ma non ne ha mal avuta. Mi picchiava come se avesse voluto sfogare su me l'odio che provava per la vita; e così sono passati vent'anni, e di ciò che è successo prima del matrimonio non ricordo nulla: ricordo senza vedere, come se fossi cieca. Poco fa è stato qui Iegòr Ivànovic, che è un mio compaesano; mi parlava di questo e di quello, e io ricordavo le case e le persone, ma come vivessero, ciò che facevano o dicevano, l'ho tutto dimenticato, non so vederlo più. Ricordo soltanto due incendi. Credo che, a furia di bòtte, dentro di me non sia rimasto più niente: l'anima mi è diventata ottusa, sorda e cieca. - Qui tirò il fiato, e, ansimando come un pesce fuor d'acqua, si piegò in avanti e proseguì a voce più bassa: - Morto mio marito, mi sono attaccata al ragazzo; ma lui si è messo per questa strada, e io era continuamente in pena. Se gli succedeva qualcosa, che cosa avrei, fatto da sola? Quante paure, quante ansie! Mi si spezzava il cuore, quando pensavo al suo destino... - Tacque e, scotendo lentamente il capo, disse con espressione: - Noi donnette non sappiamo voler bene per davvero: ci affezioniamo a quello di cui abbiamo bisogno. Ma, se guardo voi... perché avete tanta nostalgia di vostra madre? a che vi serve? Molti di voi soffrono per il popolo, vanno in prigione e in Siberia; molti muoiono, anche impiccati; vedo ragazze che girano sole di notte, nel fango, nella neve e con la pioggia, e per arrivare in città ci sono sette verste. Chi le obbliga? Questo è amore, amore vero: hanno la fede, Andriuscia. Io, invece, non posso: so amare solo ciò che mi appartiene, che mi è vicino.


  - Sì, che potete, - rispose l'ucraino, e allontanando il viso da lei, si fregò col solito gesto la testa, la guancia e gli occhi. - Tutti amiamo ciò che ci è vicino, ma per un cuore grande le distanze non esistono. Voi potete amare molto, avete un grande cuore di madre...


  - Dio volesse! - mormorò lei. - Capisco anch'io che è bello vivere così. A voi, per esempio, voglio molto bene, forse più che a Pascia. E' tanto chiuso lui... come adesso che vuol sposare Sàscenca e a me, sua madre, non ha mai detto nulla...


  - Non è vero, - replicò cupamente l'ucraino: - io so che non è vero... Si amano, ma non si sposeranno mai. Lei vorrebbe, ma Pavel non può e non vuole.


  - Ah, sì? - disse piano la madre, riflettendo. I suoi occhi si posarono con tristezza sul viso dell'ucraino: - Già capisco: gli uomini sanno rinunciare... alla propria felicità.


  - Pavel è un uomo come pochi, - disse sommessamente l'ucraino: - è di ferro.


  - Adesso che è in prigione, - proseguì la madre, sovrappensiero, - anche se sono sempre ansiosa e spaventata, non è più come prima: qualcosa è cambiato nella mia vita; e mi spavento, anche, in modo diverso da prima. Ora tutti mi tengono in ansia e mi fanno pena... il mio cuore è cambiato. La mia anima ha aperto gli occhi e soffre e gode di ciò che vede. Non capisco molto, e forse per questo mi sento offesa e amareggiata che non crediate in Dio; ma purtroppo è così, e d'altra parte capisco che siete brava gente, vi siete votati a una vita difficile per il bene del popolo e per l'amore della verità. Anch'io ho imparato a capire la vostra verità: fin quando esisteranno i ricchi, non ci sarà né giustizia né felicità per il popolo... E' così, Andriuscia. Ecco, io vivo in mezzo a voi, e quando di notte mi càpita di ripensare al passato e rivedo me stessa così giovane e forte, caricata di bòtte e avvilita fino in fondo al cuore, mi faccio compassione da sola. Be', ora vivo meglio... e ogni giorno imparo a conoscermi un pochino di più.


  L'ucraino si alzò, e si mise a camminare per la stanza, cercando di muovere compostamente la sua persona allampanata e distratta.


  - Avete parlato molto bene! - esclamò sommessa mente. - A Kerse c'era un ragazzo ebreo che componeva versi; una volta scrisse questi:



  La forza della verità risuscita


  chi fu ucciso senza colpa.



  Anche lui è stato ucciso dalla polizia, lì, a Kerse, ma non ha importanza: conosceva la verità e l'ha diffusa fra gli uomini. Anche voi siete stata uccisa senza colpa... E' un verso giustissimo.


  - Adesso, quando parlo, - proseguì la madre, - mi ascolto e non credo a me stessa. Ho taciuto per tutta la vita, preoccupandomi soltanto di tenermi in disparte e di non aver seccature; adesso invece tutti mi stanno a cuore. Forse non capisco bene i vostri ideali, ma vi sento vicini e soffro per voi, e vorrei che foste contenti. Voi, Andriuscia, in modo particolare!


  Le si avvicinò e le disse:


  - Grazie, ma non parliamo di me...


  Le prese la mano, la strinse forte fra le sue, e si voltò bruscamente. Sopraffatta dall'emozione, la madre si mise a lavare lentamente le tazze; taceva. Un sentimento caldo e vitale le riscaldava il cuore.


  L'ucraino, camminando per la camera, le disse:


  - Perché, comare, non cercate di essere più affettuosa con Vièssovcicov? Suo padre è in prigione: è un vecchietto poco raccomandabile, e Nicolai lo vede dalla finestra e lo insulta. Non è bello! Nicolai è buono: vuol bene ai cani, ai topi, a tutte le bestie, ma agli uomini no. A questo può ridursi un uomo!


  - Sua madre è sparita senza lasciar traccia, suo padre è un ladro ubriacone... - rispose la donna sovrappensiero.


  Quando Andrei andò a dormire, gli fece di nascosto il segno della croce. Mezz'ora dopo gli domandò sottovoce:


  - Dormite, Andriuscia?


  - No, perché?


  - Nulla. Buona notte!


  - Grazie, mammetta, grazie, - rispose lui piano e con riconoscenza. 


 

 

  5. 


  Il giorno dopo quando la vecchia giunse col carico davanti al portone della fabbrica, i guardiani le imposero villanamente di deporre le pentole e la perquisirono.


  - Mi fate raffreddare la roba, - osservò lei senza scomporsi, mentre le frugavano gli abiti.


  - Taci, - ordinò arcigno un guardiano.


  L'altro le diede un colpetto sulla spalla, e disse tranquillamente:


  - Sono sicuro che li buttano dal disopra del muro!


  Appena dentro le si avvicinò il vecchio Sisov e le domandò furtivo:


  - Hai sentito, madre?


  - Che cosa?


  - Sono ricomparsi gli opuscoli: li hanno sparsi come il sale sul pane, Dopo tanti arresti e perquisizioni! Mio nipote Masin è in prigione, tuo figlio pure: adesso è chiaro che loro non c'entrano! - Sisov si lisciò la barba, e soggiunse: - Non si tratta degli uomini, ma delle idee, e le idee non si prendono come le pulci. - Sollevò la barba, la guardò e allontanandosi disse: - Perché non vieni da me? Ti annoierai, da sola...


  Lo ringraziò e, mentre annunciava la merce gridando, osservava attentamente l'insolita animazione della fabbrica. La gente aveva l'aria felice: era un continuo andirivieni di operai da un reparto all'altro; le voci erano eccitate, le facce allegre e contente. Nell'aria piena di fuliggine palpitava un soffio di energia e di vita; qua e là risuonavano grida di approvazione, parole di scherno e di minaccia.


  I giovani erano addirittura esaltati, gli anziani sorridevano appena; gli impiegati erano affaccendatissimi, i poliziotti passavano di corsa. Vedendoli, gli operai si disperdevano, oppure, se rimanevano fermi, smettevano di parlare, guardandone in silenzio le facce inquiete, furibonde. Gli uomini sembravano ripuliti di fresco; fra tutti spiccava per l'altezza il maggiore dei Gussiev, mentre il minore, col suo passo d'anitra, camminava e rideva di gusto.


  Il capo-fucina Vavilov e il tabelliere Issaì passarono lentamente accanto alla madre. Issaì era un ometto mingherlino, che teneva la testa un po' inclinata a sinistra, guardando il viso impassibile e altezzoso del capo-fucina e dicendogli rapidamente con la barbetta tremolante:


  - Ridono, Ivàn Ivànovic: sono tutti contenti, anche se si tratta di un reato contro lo Stato, come ha detto il signor direttore. Qui, Ivàn Ivànovic, non basta strappare le erbacce, bisogna affondare l'aratro nel terreno.


  Vavilov camminava con le mani dietro la schiena e le dita contratte.


  - Stampa pure quello che vuoi, figlio di puttana, - gridava, - ma, guai a te, se mi tiri in ballo!


  S'avvicinò Vassili Gussiev e disse:


  - Sono venuto a comprare un po' di roba. E' buona davvero, - e, a voce più bassa soggiunse ammiccando: - Vedete che effetto? Bene, madre, molto bene!


  La madre gli fe' un cenno amichevole: era contenta che quel giovanotto, il primo attaccabrighe del villaggio, le parlasse con aria d'intesa, dandole del voi; le piaceva l'eccitazione che regnava nella fabbrica e pensava: <Se non ci fossi stata io!>.


  Poco lontano s'erano fermati tre manovali, e uno di loro disse piano, con aria delusa:


  - Non sono riuscito a trovarlo.


  - Bisognerebbe ascoltare; io non so leggere, ma vedo che hanno colpito nel segno, - osservò il secondo.


  Il terzo si guardò in giro e propose:


  - Andiamo nella fucina, se volete vi leggo io.


  - Funziona! - le sussurrò Gussiev con un cenno d'intesa.


  La Vlàssova ritornò a casa allegra: aveva visto coi propri occhi l'effetto degli opuscoli.


  - Si rammaricano di essere analfabeti, - disse a Andrei. - Io da giovane sapevo leggere, ma me ne sono dimenticata...


  - Perché non provate di nuovo? - propose l'ucraino.


  - Alla mia età? Farei ridere...


  Ma Andrei prese un libro dallo scaffale e segnando con la punta del coltello una lettera della copertina, le domandò:


  - Che cos'è?


  - Erre! - essa rispose ridendo.


  - E questa?


  - A...


  Si sentiva a disagio, umiliata e come triste, aveva l'impressione che gli occhi di Andrei la prendessero apertamente in giro, e ne sfuggiva lo sguardo. Ma all'orecchio la voce dell'ucraino le sonava dolce, pacata; lo guardò con la coda dell'occhio e vide che era serio.


  - Davvero, Andriuscia, volete insegnarmi a leggere? - domandò sorridendo suo malgrado.


  - Perché no? - rispose. - Provate: se sapevate già leggere, vi sarà più facile. <Niente miracolo niente danno, ma se succede, tanto meglio>, come dice il proverbio.


  - Ma ce n'è anche un altro: <A guardare l'immagine non si diventa santi>, - osservò la madre.


  - Eh, - ribatté l'ucraino, - di proverbi ce n'è tanti... <Meno sai e più dormi sodo!>, che c'è di più vero? Lo stomaco pensa coi proverbi: sono le briglie di cui si serve per guidare l'anima dove vuole: <La pancia ha bisogno di quiete, l'anima di spazio>... E questa che lettera è?


  - Gente, - lesse la madre.


  - Bene, qui sono troppo ingarbugliate... Be', e questa?


  Aguzzando la vista e inarcando forte le sopracciglia, si sforzò di ricordare le lettere dimenticate, e, tutta presa dallo sforzo, si smarrì. Ma presto gli occhi le si affaticarono, cominciando a lacrimare; poi le lacrime si fecero tristi e inzupparono la pagina.


  - Imparare a leggere vecchia come sono? - singhiozzò. - Ora che sono con un piede nella fossa?


  - Sù, non piangete, - mormorò l'ucraino carezzevole; - la vostra vita è stata grama, ma almeno ve ne rendete conto; quante persone, invece, che sarebbero in condizioni migliori di voi, vivono come bestie e se ne vantano! Come se lavorare per mangiare, un giorno via l'altro, finché si campa, fosse un gran bel vivere! Lavorano e mettono al mondo dei figli... e fin quando son piccoli li trovano anche divertenti, ma appena crescono e l'appetito aumenta, s'arrabbiano perché mangiano troppo e gli gridano dietro: - <Sù, mangiaufo, spicciatevi a crescere e a lavorare anche voi!>. Vorrebbero trasformare i figliuoli in bestie da soma; ma quelli pensano alla pancia, e si ricomincia da capo. Mai un palpito di gioia, ma un pensiero che entusiasmi e esalti: gli uni vivono come accattoni, mendicando tutto, gli altri come ladri, arraffando a destra e a sinistra. Le leggi sono a nostro danno, e si sono armati apposta degli uomini per difenderle; infatti sono leggi comode, ché permettono di succhiare il sangue del popolo. Stringono l'individuo in una morsa di ferro, e se questo resiste, gli stortano l'animo con princìpi sbagliati, sino a togliergli l'ultimo barlume di ragione! - Dimenandosi sulla seggiola, guardava la madre coi suoi occhi pensosi, e diceva come senza darvi peso: - Soltanto chi tenta di spezzare le catene che imprigionano il corpo e la mente dei suoi simili è un vero uomo. Anche voi, ora, avete trovato questo coraggio.


  - Be', che c'entro io? - esclamò lei. - Che ho fatto?


  - Sicuro! Anche una pioggerella ristora il grano con le sue gocce. E appena saprete leggere...


  Egli si mise a ridere, si alzò e riprese a camminare per la stanza.


  - Sì, dovete imparare. E quando verrà Pavel... eh, eh...


  - Oh, Andriuscia, - disse la madre, - i giovani vedono tutto facile; ma, quando s'invecchia, i dolori crescono, le forze diminuiscono, e si diventa stupidi.


  La sera l'ucraino uscì. Essa accese la lampada e sedette alla tavola con la calza; ma, quasi subito, s'alzò, girò indecisa per la stanza, andò in cucina, chiuse la porta col paletto, e tornò indietro, contraendo spasmodicamente le sopracciglia; poi calò le tendine e, preso un libro dallo scaffale, sedette di nuovo guardandosi intorno, si piegò sul libro e mosse le labbra. Quando udiva rumore in strada, copriva sussultando il libro con la mano, e ascoltava attentamente; poi riprendeva il mormorio, ora aprendo, ora chiudendo gli occhi.


  - Vita, terra, nostro...


  Con monotonia implacabile e assente la pendola scandiva lo scorrere del tempo.


  Qualcuno bussò. La madre balzò in piedi, nascose il libro nella scansia e avvicinandosi alla porta domandò inquieta:


  - Chi è?


  - Io...


  Era Ribin. Entrò, salutò la donna, e si lisciò bene la barba, guardandosi in giro coi suoi occhi cupi.


  - Prima aprivate senza chiedere, - osservò. - Siete sola?


  - Sì.


  - Bene; pensavo che ci fosse l'ucraino. Oggi l'ho visto. La prigione non guasta la gente; è la stupidità quella che ci rovina, noi, ecco! - attraversò la stanza, sedette e disse alla madre: - Parliamo un po', noi due. Sai? Ho un indovinello per te.


  Il suo sguardo, pieno di sottintesi e di misteri, ispirò alla donna una confusa inquietudine; gli sedette di fronte e aspettò in silenzio.


  - Tutto costa, a questo mondo, - cominciò lui, con la sua voce pesante; - persino nascere e morire. Dunque, anche gli opuscoli e i volantini costano. Me lo dici tu da che parte vengono i soldi?


  - Non so, - sussurrò la madre, in allarme.


  - Bene; neppure io. Secondo: chi scrive i volantini?


  - Le persone colte.


  - I signori! - tagliò corto l'uomo. Il viso gli si faceva sempre più duro; la faccia barbuta, sempre più tesa, rossa. - I signori dunque scrivono i volantini e li mandano in giro; ora, siccome queste pubblicazioni sono contro i signori, dimmi un po' tu: a che scopo lo faranno spendere tempo e danaro per mettersi il popolo contro?


  La vecchia sbatté forte le palpebre, poi spalancò gli occhi e gridò impaurita:


  - Che cosa pensi? che cosa?


  - Oh, - continuò Ribin, dimenandosi sulla seggiola come un orso, - ecco: anch'io, quando sono arrivato a questo, mi sono sentito il freddo addosso.


  - Ma che dici? Hai saputo qualcosa?


  - E' una trappola. Non so nulla, ma la trappola c'è; ecco. I signori hanno un piano, e io non ci casco. Voglio la verità; e lo so, io, dov'è. Coi signori non mi ci metto: si servono di te per il proprio comodo e passano sul tuo corpo come su un ponte.


  Le cupe parole, nelle quali vibrava una forza aspra, ostinata, calavano grevi sul cuore della madre.


  - Dio mio! - esclamò angosciata. - Possibile che Pascia non capisca? E tutti quelli che vengono dalla città? - Si vide balenare davanti i visi seri e onesti di Iegòr, di Nicolai Ivànovic, di Sàscenca, e il cuore le sussultò. - No, no, - proruppe, scotendo la testa in segno di diniego; - non posso crederlo... E' gente coscienziosa, onesta; non hanno cattive intenzioni, no.


  - Di chi parli? - domandò Ribin pensoso.


  - Di tutti quelli che conosco, dal primo all'ultimo; - il viso le si coprì di sudore, le mani tremarono.


  - Devi guardare oltre, madre, - disse Ribin, abbassando la testa: - quelli che noi conosciamo da vicino, forse non sanno niente neppur loro; sono in buona fede e credono nella verità. Probabilmente, dietro a loro, altri hanno un secondo fine... Nessuno va contro il proprio interesse, senza una ragione. - Con la testardaggine dei contadini, da secoli nutriti di diffidenza, egli proseguì: - Non avremo mai nulla di buono dai signori, mai.


  - Perché hai queste idee? - domandò la madre, oppressa nuovamente dal dubbio.


  - Perché? - Ribin la guardò di sfuggita, tacque e poi disse. - Bisogna star lontani dai signori, ecco. - Tacque di nuovo, col viso cupo, contratto. - Io parto, madre. Volevo parlare coi ragazzi, mettermi con loro; vado bene per queste cose, io: so leggere e scrivere, sono ostinato e tutt'altro che stupido, e soprattutto so come parlare alla gente, ecco. Be', adesso me ne vado via... non posso restare, perché non ho fiducia. Io so che gli uomini sono intimamente corrotti; vivono d'invidia, e hanno una fame insaziabile; ma il boccone è magro e ciascuno spia l'occasione di mangiare il suo simile. - Chinò la testa assorto. - Visiterò i villaggi e le campagne; solleverò il popolo: bisogna che si muova da sé, e quando l'avrà capito, troverà la sua strada. Io cercherò di mettergli ben in testa che deve sperare soltanto in se stesso, e credere soltanto nel proprio cervello, ecco.


  Essa provò per quell'uomo un senso di pena e di paura. Antipatico come le era sempre stato, ora, a un tratto, se lo sentì più vicino e più affine.


  <Pascia parte da un estremo; lui da quello opposto... Per Pascia sarà più facile>, pensò involontariamente, e disse piano:


  - Ti arresteranno...


  Ribin la guardò e le rispose calmo:


  - Poi mi lasceranno andare, e ricomincerò,


  - Gli stessi contadini ti tradiranno, e ti faranno arrestare.


  - Mi faranno arrestare e poi uscirò, andrò dentro ancora e così via. In quanto ai contadini, mi tradiranno una volta o due, ma finiranno col capire che gli conviene ascoltarmi. Io gli dirò che non occorre mi credano, basta che mi ascoltino, e quando mi daranno ascolto mi crederanno.

Parlavano tutti e due lentamente, quasi tastando la parola prima di dirla.


  - Io, madre, non trovo in questo mondo di che essere felice. Ho trascorso qui gli ultimi tempi e ne ho trangugiate molte; sì, ho capito certe cose, e adesso mi sembra di seppellire un bambino.


  - Ti vuoi rovinare, Micaìl Ivànovic, - essa mormorò scotendo tristemente la testa.


  La guardò coi suoi occhi cupi e profondi, interrogativi e ansiosi; teneva il corpo robusto piegato in avanti, le mani appoggiate sul piano della seggiola; quel viso abbronzato sembrava pallido nella nera cornice della barba.


  - Sai quel che ha fatto Cristo a proposito del seme? <Se non morirai, non risusciterai in una nuova spiga>. L'uomo è il seme della verità, ecco... Ma la morte ha da aspettarmi ancora un pezzo: sono furbo, io!


  Si agitò sulla seggiola e si alzò senza fretta.


  - Andrò un po' all'osteria a vedere se c'è qualcuno. Come mai l'ucraino non viene? Ha ricominciato i soliti traffici?


  - Sì, - rispose la madre sorridendo: - tutti uguali, sono. Appena fuori, non perdono tempo.


  - E' giusto. Digli di me...


  A fianco a fianco andarono lentamente in cucina, scambiandosi brevi parole, senza guardarsi in faccia.


  - Glielo dirò, - promise la donna.


  - Addio, dunque.


  - Addio... Ti sei già licenziato?


  - Sì.


  - Quando parti?


  - Domattina presto. Addio.


  Si curvò per passare nell'andito, goffo, a malincuore. La madre indugiò un attimo davanti alla porta, ascoltando perplessa il rumore dei passi pesanti che si allontanavano; poi si volse quetamente, andò alla finestra, sollevò le tendine e guardò fuori. Le tenebre erano immobili, quasi in agguato, spalancando le fauci piatte e senza fondo.


  <Vivo di notte>, pensò: <solo di notte>.


  Quel contadino barbuto della steppa le faceva pena; così largo e forte, eppure così indifeso... come tutti, del resto.


  Presto ritornò Andrei, animato e allegro.


  Quando seppe di Ribin, esclamò:


  - Oh, se ne va? Forse ha ragione: andrà nelle campagne a diffondere la verità e a scuotere la gente; stava male con noi; si è fatto le sue idee. E nelle nostre prigioni si sta fin troppo stretti.


  - Mi ha parlato dei signori: c'è qualcosa che non va, - osservò prudentemente la madre. - Non pensate che ci truffino?


  - Ti ha toccata sul vivo? - gridò l'ucraino. - Eh, mammetta, il danaro! Se ne avessimo... Abbiamo sempre bisogno di tutti: Nicolai Ivànovic guadagna settantacinque rubli al mese e ce ne dà cinquanta, e così molti altri; certi studenti poveri in canna ogni tanto fanno una colletta e mandano qualcosa, risparmiando sul centesimo. In quanto ai signori, si sa, non sono tutti uguali: c'è chi truffa, e chi si tira indietro; abbiamo con noi i migliori, e li avremo fino al giorno della vittoria. - Batté le mani, l'una contro l'altra, e continuò con forza: - Ma quel giorno è ancora lontano, e noi, intanto, stiamo combinando un piccolo primo maggio. Sarà divertente,


  Le parole e l'animazione dell'ucraino dissiparono le ansie della madre. Egli camminava per la stanza, soffregandosi con una mano la testa, con l'altra il petto, e guardando per terra.


  - Sapete, - proseguì, - a volte si prova una sensazione meravigliosa: ti sembra che, ovunque tu vada, la gente ti sia amica, condivida il tuo entusiasmo, sia allegra, simpatica, buona; ci si capisce senza parole e nessuno sente il bisogno di offendere: è un coro, in cui ogni cuore canta una canzone, e ogni canzone è un ruscello, e tutti confluiscono in un fiume ampio e libero sboccante nel mare: il mare di una vita nuova, serena e gioconda. Sarà così, indubbiamente, deve esserlo, se noi vogliamo; ed è così bello, che ti senti mancare il cuore e ti vien voglia di piangere.


  La madre stava immobile, per non disturbarlo, per non interromperlo. Quel modo di parlare semplice, efficace e commovente, riusciva ad avvincerla più di qualunque altro. Anche Pavel guardava all'avvenire; e come avrebbe potuto essere altrimenti, per uno che seguiva quella strada? Ma contemplava il futuro in solitudine e non diceva mai ciò che vedeva. L'ucraino invece sembrava immettervi una parte del cuore; le sue parole raccontavano la bella fiaba della felicità di cui un giorno tutti avrebbero goduto sulla terra; una fiaba che chiariva alla madre le ragioni della vita e del lavoro di Pavel e dei compagni.


  - Ma, quando ci si riscuote, - proseguì l'ucraino crollando la testa e lasciando cadere le braccia lungo i fianchi, - e ci si guarda intorno, che senso di freddo e di sudicio: tutti sono stanchi, esacerbati, la vita è come un cibo masticato... - Si fermò di fronte a lei e con uno sguardo tristissimo scrollò la testa e proseguì piano, con dolore: - E' umiliante, eppure bisogna diffidare degli uomini, averne paura e a volte odiarli: l'uomo si sdoppia e cade in contraddizione con se stesso. Vorresti soltanto amare, ma è impossibile. Puoi forse perdonare a chi ti aggredisce come una bestia feroce, e ti tratta a pugni in faccia quasi tu fossi un essere insensibile? Guai a perdonare! Se si trattasse di me soltanto, sopporterei qualsiasi offesa; ma non voglio fare il giuoco dei violenti, non voglio che ci si serva della mia schiena per insegnar a bastonare il prossimo. - I suoi occhi brillavano di una luce fredda. Chinò risolutamente la testa e soggiunse con voce aspra: - Non devo perdonare il più piccolo torto, anche se personalmente non mi tocca; non ci sono io solo al mondo! Se oggi permetto che mi si offenda e mi accontento di buttarla in ridere, domani l'offensore, sentendosi forte, andrà a cavar la pelle a un altro. Bisogna distinguere fra uomo e uomo, e riconoscere con animo fermo gli amici dagli estranei. Bisogna farlo anche se è triste.


  La madre pensò senza volerlo all'ufficiale e a Sàscenca, e sospirando disse:


  - Com'è la farina, così è il pane.


  - Questo è il guaio, - esclamò l'ucraino. - Bisogna usare due misure diverse: in petto ti battono due cuori, l'uno che ti spinge ad amare tutti, l'altro che te lo proibisce. L'uomo si logora...


  - Sì, - intervenne la madre. Le riaffiorò alla memoria la figura cupa e opprimente del marito, come un macigno ricoperto di muschio. Si raffigurò l'ucraino sposato a Natascia, e suo figlio a Sàscenca...


  - E la ragione, - continuò l'ucraino animandosi, - ridicolmente chiara, sta nel fatto che gli uomini si considerano diversi fra loro. Proviamo invece a metterli sullo stesso piano e a distribuire equamente i frutti dell'intelletto e del lavoro manuale: cesseremo d'essere schiavi della paura e dell'invidia, prigionieri dell'avidità e della stupidaggine.


  Da quel giorno in poi parlarono spesso a quel modo.


  Andrei fu riassunto nella fabbrica; passava alla madre tutto il guadagno, ed essa lo accettava come se fosse stato Pavel.


  Talvolta Andrei le diceva, sorridendo con gli occhi:


  - Sù, mammetta, leggiamo un po'...


  Ella rifiutava con scherzosa fermezza, turbata e un po' offesa da quel sorriso.


  <Perché me lo chiede se lo faccio ridere?>, pensava.


  L'ucraino aveva cominciato a notare che la madre gli domandava sempre più spesso il significato dell'una o dell'altra parola, guardando altrove e con voce indifferente. Capì che studiava da sola, e, intuendo che si vergognava di dirlo, cessò di offrirle il suo aiuto.


  Un giorno gli confessò:


  - Mi si indebolisce la vista, Andriuscia; avrei bisogno degli occhiali.


  - Giusto, - rispose: - domenica, quando andremo in città, vi porterò da un bravo dottore e li prenderemo.


  Era già stata tre volte in città a chiedere il permesso di vedere Pavel. Ogni volta il generale dei gendarmi, un vecchietto calvo col nasone e le guance paonazze, glielo aveva benevolmente rifiutato.


  - Non prima di una settimana, "màtusca"; vedremo tra una settimana... per ora è impossibile.


  Era rotondo, ben nutrito e le faceva venire in mente una susina troppo matura e già ricoperta da un velo di muffa; aveva l'abitudine di frugarsi tra i denti bianchi e minuti con uno stecchino appuntito e giallo; i suoi occhietti piccoli e verdastri sorridevano affabili, mentre la voce risonava cordialmente amichevole.


  - Com'è gentile! - disse lei pensosamente all'ucraino. - Sorride sempre... Secondo me non è una bella cosa: col mestiere che fa non dovrebbe mettere tanto in mostra i denti.


  - Sì, sì, - rispose l'ucraino: - hanno l'aria da nulla, loro, sorridono sempre. Se gli dicono: <Prendete quest'uomo onesto e intelligente e impiccatelo perché è pericoloso>, sorridono e lo impiccano, e poi ricominciano a sorridere.


  - Quello che ha fatto la perquisizione da noi era meglio, andava più per le spicce.


  - Non sembrano neppure uomini: fanno venire in mente dei martelli che a furia di colpi rendono scema la gente: sono strumenti di cui si serve lo Stato per piegare il popolo al proprio volere e sembrano fatti su misura per questo scopo, infatti eseguono ciecamente qualsiasi lavoro gli dànno, senza domandarsi né chiedere a che serve.


  - Ha una bella pancetta...


  - Eh, già, più il ventre è liscio, più l'anima è sporca.


  Finalmente ottenne il permesso; e una domenica varcò la soglia del carcere e sedette modestamente in un cantuccio della cancelleria; altre persone, oltre a lei, aspettavano il turno nella stanzetta sporca e bassa. Evidentemente erano già stati lì altre volte e si conoscevano tutti; una conversazione pigra e lenta s'era intrecciata fra loro, sottile e attaccaticcia come una ragnatela.


  - Avete sentito? - diceva una donna grossa, con la faccia vizza e una borsa da viaggio sulle ginocchia. - Stamattina alla prima messa il maestro del coro ha quasi strappato un orecchio a uno degli allievi.


  Un uomo anziano, con la divisa da militare, si raschiò rumorosamente la gola e osservò:


  - Quei ragazzi del coro sono scavezzacolli.


  Un uomo calvo e basso, con le gambe corte, le braccia lunghe e la mandibola forte, correva affannato in sù e in giù per la cancelleria, e diceva con voce stridula e agitata:


  - La vita continua a rincarare, per questo la gente diventa più cattiva. Il bue di seconda qualità costa quattordici copeche la libbra, il pane è tornato a due e cinquanta...


  Entravano i detenuti, vestiti uniformemente di grigio, con grosse scarpe di cuoio; entrando nella camera più chiara sbattevano gli occhi. Uno aveva le catene ai piedi.


  Vi era una calma strana e di una semplicità esasperante, come se ognuno si fosse abituato da tempo a quello stato. Alcuni sedevano tranquilli, altri nervosamente pigri, altri ancora stanchi del proprio zelo.


  La madre palpitava d'impazienza e si guardava attorno tra perplessa e stupita da quella opprimente normalità.


  Al fianco le sedeva una vecchietta col viso tutto rugoso e gli occhi giovanili; girando il collo sottile ascoltava i discorsi e guardava la gente con l'aria irritata.


  - Chi ci avete qui? - le domandò la Vlàssova.


  - Mio figlio studente, - rispose subito la vecchietta, ad alta voce. - E voi?


  - Un figlio anch'io; è operaio.


  - Come si chiama?


  - Vlassov.


  - Non lo conosco. Da quanto è dentro?


  - Da sette settimane.


  - E il mio da dieci mesi, - disse la vecchietta, e in quella voce la Vlàssova colse un'espressione strana, quasi di fierezza.


  - Sì, sì, - diceva in fretta il vecchietto calvo; - si perde la pazienza: tutti si impazientiscono e gridano... I prezzi vanno sù, e gli uomini vanno giù; nessuno sa più parlare con calma.


  - Verissimo, - convenne il militare: - è una vergogna. Ci vuole una voce energica che faccia star zitti tutti; è assolutamente necessario. Una voce energica!


  La conversazione divenne generale e animata; tutti volevano dir la loro, ma parlavano a mezza voce, e la madre li sentiva estranei. A casa, i suoi parlavano in modo più semplice e chiaro e a voce più alta.


  Un guardiano grasso con la barba rossa e quadrata gridò il suo nome, la esaminò da capo a piedi e si avviò zoppicando, ordinando di seguirlo.


  Essa camminava a lunghi passi e aveva voglia di spingerlo per farlo andare più in fretta. Pavel l'aspettava in piedi in una stanzuccia, sorridendo e con la mano tesa.


  La madre l'afferrò, rise, sbatté forte le palpebre e disse sommessamente, non trovando altre parole:


  - Ciao, ciao.


  - Ma, càlmati, mamma, - pregò Pavel stringendole la mano.


  - Non è nulla, non è nulla.


  - Madre! - disse il guardiano sospirando. - Be', a proposito, non state così vicini: lasciate un po' di spazio tra voi, - e sbadigliò rumorosamente.


  Pavel s'informò della sua salute e della casa. Essa si aspettava altre domande e lo scrutava con aria interrogativa, ma invano: Pavel era calmo come il solito, solo un po' più pallido, e gli occhi sembravano più grandi.


  - Sascia ti saluta, - disse la donna.


  Pavel trasalì e abbassò le ciglia; il viso gli si raddolcì in un sorriso luminoso. Una pungente amarezza bruciò il cuore della madre.


  - Vedrai che presto ti faranno uscire, - esclamò improvvisamente irritata. - Perché ti hanno arrestato? Gli opuscoli sono comparsi di nuovo...


  Gli occhi di Pavel brillarono di gioia.


  - Di nuovo? - s'affrettò a chiedere.


  - E' proibito parlare di queste cose, - dichiarò il guardiano pigramente. - Si può parlare solo di faccende familiari...


  - O, che non sono familiari? - replicò la madre.


  - Io non so: so soltanto che è proibito; è permesso parlare della biancheria e di roba da mangiare. Di nient'altro! - insistette il guardiano, ma la sua voce era indifferente.


  - E va bene! - disse Pavel. - Parlami della famiglia, mamma. Che cosa fai?


  Animata da una collera quasi gioviale, ella rispose coraggiosamente:


  - Porto nella fabbrica tutta questa roba... - Si fermò un momento, e sorridendo riprese: - Cavoli, polenta, tutta la mercanzia di Maria, e cibi d'altro genere.


  Pavel comprese. La faccia gli tremò dal riso represso; si passò una mano tra i capelli e con una voce carezzevole, quale essa non gli aveva ancora udito, disse:


  - Mamma cara, benissimo! E' una bella cosa che tu abbia un'occupazione, e ti distragga un po'. Non ti annoi, vero?


  - Quando i foglietti sono riapparsi, hanno perquisito anche me, - dichiarò la donna, non senza una punta di orgoglio.


  - Daccapo! - esclamò il guardiano offeso. - Vi ho detto che non si può. Si mette uno in prigione apposta perché non sappia niente, e tu, testarda! Bisogna capire quello che non si può.


  - Be', mamma, lascia perdere, - disse Pavel. - Matvei Ivànovic è un brav'uomo, non bisogna irritarlo; siamo amici, lui e io. Oggi è qui per caso; di solito ai colloqui assiste il vice-direttore; per questo Matvei Ivànovic ha paura che tu parli troppo...


  - L'ora è passata, - dichiarò il secondino, guardando l'orologio.


  - Be', mamma, grazie, - disse Pavel; - grazie, carissima. Non preoccuparti, vedrai che uscirò presto.


  L'abbracciò stretta, la baciò, ed essa, commossa e felice, si mise a piangere.


  - Basta! - disse il guardiano, e mentre accompagnava fuori la donna, borbottò: - Non piangere; uscirà; escono tutti, la prigione è troppo piena...


  Quando fu a casa, disse subito all'ucraino, sorridendo di gioia e muovendo vivacemente le sopracciglia:


  - E' stato facile dirglielo: ha capito subito!


  Sospirò tristemente e ripeté:


  - Sì, ha capito; sennò, non sarebbe stato così affettuoso: non lo era mai stato prima.


  - Eh, voi! - rise l'ucraino. - Tutti cercano qualcosa, ma alle mamme basta un po' d'affetto.


  - Che gente, Andriuscia! - proruppe lei d'un tratto con aria stupita. - Forse ci avranno fatto l'abitudine: gli portano via i figli, glieli mettono in prigione, e loro, niente; vanno a trovarli, aspettano, chiacchierano. Se fa così la gente istruita, che cosa dovrà mai fare il popolo ignorante?


  - Non c'è da stupirsi, - disse l'ucraino col solito sorrisetto: - la legge, nei loro riguardi, è più benevola che nei nostri, e poi li protegge davvero. E se qualche volta li striglia un po', si accigliano, ma non troppo: è un bastone di famiglia che picchia meno sodo. Per loro la legge è una certa difesa, mentre per noi è una corda intorno al collo, che c'impedisce di ribellarci.


  Una sera la madre sedeva alla tavola e lavorava a maglia, mentre l'ucraino leggeva ad alta voce un libro sulla rivolta degli schiavi di Roma. Qualcuno bussò forte; Andrei andò ad aprire, e si vide davanti Vièssovcicov inzaccherato fino alle ginocchia, con un involto sotto il braccio e il berretto sulla nuca.


  - Passando di qui, ho visto la luce e ho pensato di entrare a salutarvi. Sono uscito dalla prigione, - disse con una voce strana, e afferrata la mano della Vlàssova, la scosse energicamente.


  - Pavel vi saluta, - disse.


  Poi, sedendosi con aria indecisa, diede alla camera un'occhiata cupa e sospettosa.


  Non piaceva alla madre: nella sua testa angolosa e rapata e negli occhi piccoli, v'era qualcosa che le faceva paura; tuttavia si rallegrò di vederlo e gli disse affettuosamente, sorridendo tutta:


  - Sei dimagrito. Qua, Andriuscia, diamogli il tè.


  - Sto già accendendo il samovàr, - esclamò l'ucraino dalla camera.


  - Be', e Pavel? Sono usciti anche altri o soltanto tu?


  Nicolai chinò la testa e rispose:


  - Pavel è ancora dentro e aspetta; hanno rilasciato soltanto me, - alzò gli occhi in faccia alla madre e proferì lentamente fra i denti: - Gli ho detto, a quelli: "Se non mi mandate fuori, ammazzo qualcuno... e poi mi uccido"; così sono uscito.


  - Ah, - disse la madre, facendo un passo indietro, e sbatté involontariamente gli occhi, incontrando quelli stretti e pungenti di lui.


  - E Fedia Masin? - gridò l'ucraino dalla cucina. - Scrive versi?


  - Sì, è una cosa che non capisco, - rispose Nicolai, scotendo il capo. - E' un lucherino, forse? Lo mettono in gabbia e canta... Io so soltanto che non ho voglia di andare a casa.


  - Ma che forse è una casa, la tua? Vuota, con la stufa spenta, fredda...


  Egli tacque, socchiudendo gli occhi; poi levò di tasca una scatola di sigarette, ne accese lentamente una e, guardando il grigio di fumo che gli si diradava davanti agli occhi, ridacchiò col ringhio di un grosso cane:


  - Sì, sarà certamente fredda e col pavimento pieno di scarafaggi congelati, anche i topi saranno congelati... Lasciami dormire da te, Pelagheia Nìlovna, permetti? - domandò sordamente, senza guardarla.


  - Ma certo, caro, non occorre che tu me lo domandi, - rispose la madre precipitosamente. Con lui si trovava a disagio, in soggezione; non sapeva di che parlare. Ma fu lui a parlare, con una voce orribilmente abbaiante.


  - E' un'epoca, la nostra, che i figli si vergognano dei genitori...


  - Come? - domandò la madre sussultando.


  Egli la guardò, chiuse gli occhi e il suo viso butterato sembrò cieco.


  - Dico che i figli cominciano a vergognarsi dei genitori, - ripeté e sospirò dal profondo del cuore. - Non temere, non lo dico per te: Pavel di te non si vergognerà mai. Io mi vergogno di mio padre; e nella sua casa non ci voglio più andare. Sono senza padre, senza casa; e, se non fossi sotto la sorveglianza della polizia, andrei in Siberia: penso che ci sia molto da fare, là, per un uomo che non si risparmi. Aiuterei i forzati a fuggire, organizzerei le evasioni...


  La madre sentì per intuito che quell'uomo soffriva, ma non riuscì a impietosirsi.


  - Naturalmente, se è così, sarebbe meglio che te ne andassi, - disse, per non offenderlo col suo silenzio.


  Dalla cucina uscì Andrei, che domandò ridendo:


  - Che cosa stai predicando?


  La madre si alzò e rispose:


  - Andrò a preparare qualcosa per la cena.


  Vièssovcicov fissò l'ucraino e dichiarò bruscamente:


  - Io penso che certa gente è meglio ucciderla.


  - Oh, oh, perché? - s'informò.


  - Per toglierla di mezzo.


  - Hai il diritto, tu, di fare una cosa simile?


  - Sì; me l'hanno dato gli uomini.


  L'ucraino, alto e asciutto, si dondolò sulle gambe nel mezzo della stanza, e osservò Nicolai dalla testa ai piedi, tenendo le mani in tasca. Nicolai sedeva immobile nella seggiola, immerso in una nuvola di fumo; il viso grigio gli si era coperto di chiazze rosse.


  - Gli uomini, gli uomini, - ripeté stringendo i pugni: - se mi prendono a calci, anch'io ho il diritto di picchiarli... sul muso, sugli occhi, i vigliacchi! Non mi tocchino, e io non li toccherò; mi lascino vivere, come voglio io, in pace, e non darò noia a nessuno, lo sa Iddio. Forse mi piacerebbe vivere nei boschi. Mi farò una capanna sopra un burrone, col ruscello che scorre in fondo: è sempre bella la solitudine...


  - Vacci dunque, e buona fortuna, - disse l'ucraino, alzando le spalle.


  - Adesso? - domandò Nicolai. Scosse la testa negativamente e rispose, battendosi un pugno sul ginocchio. - Adesso non posso.


  - Chi te lo impedisce?


  - Gli uomini, - rispose Vièssovcicov: - gli sono legato fino alla morte; mi hanno riempito il cuore di odio e avvinto a loro col male: è un legame saldo. Li detesto e voglio restare qui per rendergli difficile la vita; come hanno fatto con me. Io mi ritengo responsabile delle mie azioni, delle mie soltanto; e, se mio padre è un ladro...


  - Ah, - mormorò l'ucraino, avvicinandosi a Nicolai.


  - E vedrai se non spaccherò la testa a Issaì Gorbov.


  - Perché? - domandò l'ucraino.


  - Fa la spia e denuncia la gente. E' stato lui a rovinare mio padre; e ora mio padre, per colpa sua s'è messo con la polizia, - rispose Vièssovcicov con profondo odio, guardando Andrei.


  - Ah, capisco, - esclamò l'ucraino; - ma te, chi t'incolpa? Soltanto gli sciocchi!


  - Sciocchi e sapienti sono fatti della stessa pasta, - ribatté Nicolai con forza. - Tu e Pavel, che siete intelligenti, mi trattate forse come Fedia Masin o Samòilov? O come uno di voi due considera l'altro? Non mentire, tanto non ci credo: tutti mi respingete, mi buttate in un canto...


  - Hai l'anima malata, Nicolai, - mormorò l'ucraino dolcemente, sedendoglisi vicino.


  - Sì, ma anche voi ce l'avete; solo che le vostre piaghe vi sembrano più nobili delle mie. Sai che cosa ti dico? Che siamo tutti canaglie, l'uno per l'altro. Puoi negarlo, forse?


  Fissò Andrei coi suoi occhi acuti e aspettò a denti stretti; la faccia segnata era immobile, ma le grosse labbra tremavano, come per lo spasimo di una scottatura.


  - Non ho nulla da dirti, - proferì l'ucraino, alzando affettuosamente sulla faccia ostile di Vièssovcicov i suoi occhi azzurri, pieni di un sorriso luminoso e triste: - discutere con un uomo che ha il cuore ferito e sanguinante è come volerlo offendere, lo so benissimo, fratello.


  - Già, con me non si può discutere; io non ne sono capace, - borbottò Nicolai, abbassando gli occhi.


  - Io penso, - proseguì l'ucraino, - che tutti siamo passati a piedi nudi su schegge di vetro, e abbiamo avuto le ore nere in cui soffrivamo come soffri tu...


  - Non sai dirmi nulla, - disse Vièssovcicov, lentamente. - Nulla! La mia anima ulula come quella di un lupo.


  - Non so e non voglio. So soltanto che ti passerà; forse non del tutto, ma ti passerà. - Poi rise e, battendo una mano sulla spalla di Nicolai, prosegui: - E' come una malattia dei bambini, fratello: una specie di rosolia. Tutti la passiamo: più leggera chi è più robusto, più grave chi è delicato; uno ne è sopraffatto nel momento in cui si accorge di esistere, ma ancora non conosce la vita e non sa che cosa deve fare. Ma se uno ignora qual è il suo compito, non è neppure in grado di valutare le proprie forze; si sente un bel cetriolino che tutti vogliono divorare in un boccone. Un bel giorno però ti accorgerai che gli altri non sono peggiori di te, e allora ti sentirai meglio; proverai anche un po' di rimorso. Perché darsi aria di campana, quando si è solo un campanellino dal suono così esile che non sa neppure chiamare i fedeli a raccolta? Poi capirai che, unito agli altri, il tuo suono si sente; ma, da solo, è sopraffatto da quello delle vecchie campane. Soffoca, come una mosca caduta nel grasso; capisci quello che voglio dire?


  - Credo di sì, - rispose Nicolai, con un cenno del capo; - ma sono poco convinto.


  L'ucraino rise, s'alzò in piedi rumorosamente e si allontanò.


  - Anch'io non ci credevo. Sei un carro...


  - Perché un carro? - domandò Nicolai, guardando l'ucraino con un cupo sorriso.


  - Gli assomigli.


  Improvvisamente Vièssovcicov scoppiò in una risata sonora e aperta.


  - Che ti succede? - domandò l'ucraino stupito, fermandosi di fronte a lui.


  - Pensavo che chi ti vuole offendere è uno stupido.


  - In che modo potrebbe offendermi? - esclamò l'ucraino alzando le spalle.


  - Non so, - rispose Vièssovcicov, con un ghigno fra il bonario e il condiscendente. - So soltanto che dovrebbe vergognarsi d'averti offeso...


  - Questa poi! - disse l'ucraino ridendo.


  - Andriuscia, - chiamò la madre dalla cucina, - il samovàr è pronto; venite a prenderlo.


  Andrei uscì dalla stanza.


  Rimasto solo Vièssovcicov si guardò in giro, allungò una gamba calzata di un grosso stivale, si piegò a osservarla, si palpò il polpaccio robusto; dopo sollevò la mano al viso, guardò attentamente prima il palmo poi il dorso: era una mano grossa e tozza, ricoperta da una lanugine gialla. L'agitò nell'aria e si alzò.


  Quando Andrei entrò col samovàr, Vièssovcicov stava davanti allo specchio e lo accolse con queste parole:


  - Non mi vedevo la grinta da un pezzo; - sorrise e soggiunse scotendo la testa: - Ho una ben brutta grinta...


  - E che te ne importa? - domandò Andrei, guardandolo incuriosito.


  - Sàscenca dice che il viso è lo specchio dell'anima, - proferì Nicolai lentamente.


  - Non è vero! - esclamò l'ucraino. - Lei ha un naso a uncino, gli zigomi a forbice e l'anima lucente come una stella.


  Sedettero a bere il tè.


  Vièssovcicov prese una grossa patata, salò abbondantemente un pezzetto di pane e cominciò a masticare, con la calma e la lentezza di un ruminante.


  - E qui come vanno le cose? - domandò con la bocca piena.


  Quando Andrei, entusiasta, gli riferì i recenti successi della propaganda socialista nella fabbrica, si rabbuiò di nuovo, e concluse:


  - La facciamo troppo lunga, così: bisogna spicciarsi...


  La madre lo guardò, e in fondo al cuore ebbe un moto di antipatia per lui.


  - La vita non è un cavallo che si possa domare con la frusta, - disse Andrei.


  Vièssovcicov scosse la testa ostinato.


  - E' lunga, e io non sono paziente. Che posso farci?


  Allargò le mani con gesto d'impotenza, guardò l'ucraino e tacque, aspettando una risposta.


  - Tutti abbiamo il dovere di studiare e di far studiare gli altri, - proferì, Andrei, abbassando la testa.


  Vièssovcicov gli domandò:


  - Quando verremo al sodo?


  - Sta' sicuro che prima di quel giorno le prenderemo, e più di una volta, - rispose l'ucraino con un lieve sorriso. - Non so proprio dirti quando verrà il giorno della riscossa. Vedi, io penso che prima delle mani bisogna armare il cervello.


  Nicolai tacque e ricominciò a mangiare. La madre osservava con la coda dell'occhio quella faccia larga, sforzandosi di scoprire nella figura quadrata e massiccia di Vièssovcicov qualcosa di simpatico; e, incontrando lo sguardo acuto dei suoi occhietti, alzava le sopracciglia. Andrei si teneva la testa tra le mani ed era irrequieto; parlava e rideva, poi smetteva bruscamente di parlare e cominciava a fischiettare. Alla madre sembrava di capire la causa della sua agitazione. Nicolai invece era taciturno, e quando l'ucraino gli domandava qualcosa, rispondeva a monosillabi, con palese malgarbo.


  La madre e Andrei si sentivano soffocare in quella cameretta, e tutti e due lanciavano fuggevoli occhiate all'ospite. Questi finalmente si alzò e disse:


  - Sono stato seduto troppo tempo, e ho perso l'abitudine di camminare. Sono stanco...


  Andò in cucina, e per un poco lo udirono muovere; poi, di colpo, si fece un silenzio di tomba. La madre, ascoltando quel silenzio, mormorò ad Andrei:


  - Starà pensando cose orribili.


  - E' un giovane difficile, - convenne l'ucraino, scotendo la testa; - ma gli passerà; anch'io ero così. Quando la fiamma del cuore arde male, vi si accumula molta fuliggine... Sù, mammetta, andate a dormire, io mi fermo a leggere ancora un po'.


  Essa si ritirò nel proprio angolo, dietro la tenda di cotone che nascondeva il letto, e Andrei, seduto alla tavola, ne udì per un pezzo i sospiri e il fervido sussurrio delle preghiere.


  Sfogliando avidamente le pagine di un libro e trasportato dall'entusiasmo, si asciugava la fronte, si torceva i baffi con le lunghe dita e stropicciava i piedi per terra.


  La pendola scandiva il solito tic-tac; fuori il vento frusciava sui vetri. Risonò, quieta, la voce della madre:


  - Oh, signore, quanta gente a questo mondo, e ognuno sospira a modo suo... Ma c'è qualcuno felice?


  - Sì, c'è, - rispose l'ucraino; - e presto saranno molti, moltissimi! 


 

  6.



La vita scorreva veloce, varia e interessante; ogni giorno portava con sé qualcosa di nuovo, ma la madre non si turbava più. Sempre più spesso persone estranee venivano a trovare Andrei; parlavano sottovoce animatamente e se andavano a notte tarda, sgusciando in silenzio nelle tenebre, col bavero del cappotto rialzato e il berretto calato sugli occhi. In ognuno di loro si sentiva una segreta eccitazione, come il desiderio di cantare e di ridere; ma non c'era il tempo per questo, avevano fretta.


  Seri o beffardi, focosamente allegri o quieti e pensierosi, avevano tutti, agli occhi della madre, la stessa fede tenace; e, per quanto i loro visi fossero diversi, essa ne vedeva uno solo, fermamente deciso, illuminato da uno sguardo carezzevole e severo: uno sguardo come quello di Cristo sulla strada di Emmaus.


  La madre li contava, raccogliendoli mentalmente attorno a Pavel, e pensava che, fra tanti, egli sarebbe passato inosservato all'occhio del nemico.


  Un giorno giunse dalla città una ragazza vispa, coi capelli ricci; portava un rotolo per Andrei. Nell'andarsene disse alla Vlàssova, con gli occhi luccicanti di gioia:


  - Arrivederci, compagna.


  - Addio, - rispose la madre, trattenendo un sorriso.


  Accompagnata la ragazza alla porta, si avvicinò alla finestra e guardò ridendo quella <compagna>, fresca come un fiorellino di primavera e lieve come una farfalla, che se ne andava per la strada a piccoli passi frettolosi.


  - Compagna! - ripeté, quando l'ospite si fu dileguata. - Eh, cara mia, che Dio ti conceda un compagno onesto per tutta la vita.


  La gente di città aveva spesso un'aria infantile, che la faceva sorridere di compatimento; ma la profondità della loro fede, di cui si rendeva sempre più conto, la commuoveva, riempiendola di lieta meraviglia. Ascoltandoli fantasticare sul trionfo della giustizia, provava un dolce conforto e sospirava di inconscia tristezza; ma soprattutto, trovava commovente la semplicità e il nobile disprezzo che essi avevano per la propria persona. Ormai seguiva abbastanza bene i loro ragionamenti; capiva che avevano realmente scoperto la causa dell'infelicità umana e condivideva quel modo di pensare; nell'intimo, tuttavia, dubitava che sarebbero riusciti a trasformare il mondo a modo loro e che sarebbero stati abbastanza forti per trascinare con sé tutta la classe lavoratrice. La gente vuol mangiare tutti i giorni; nessuno accetterà di mangiare fra una settimana, quando può farlo subito: pochi si sarebbero sentiti di seguire una strada così lunga e difficile, pochi avrebbero saputo intravedervi in fondo il regno favoloso della fratellanza. Ecco perché tutte quelle brave persone, nonostante le barbe e i visi spesso affaticati, sembravano tanti bambini.


  <Poveri cari!>, pensava, scotendo la testa.


  Tutti però stavano già vivendo una vita buona, seria e intelligente, parlavano del bene ed erano ansiosi d'insegnare agli altri ciò che avevano imparato, senza risparmio di energie.


  Essa capiva come si potesse amare una simile vita, nonostante i pericoli. Guardava sospirando al proprio passato, che le si svolgeva davanti agli occhi come un nastro scuro e piatto: poco per volta le si formava nell'animo la tranquilla convinzione di servire anch'essa a qualcosa. Mentre prima non s'era mai sentita necessaria a nessuno, ora vedeva con chiarezza il contrario; ed era una sensazione nuova e piacevole che la faceva camminare a testa alta...


  Portava regolarmente gli opuscoli nella fabbrica ed era convinta che fosse il suo dovere; aveva anzi escogitato parecchi piccoli trucchi.


  I guardiani s'erano abituati a vedersela d'attorno e non le facevano più caso. La perquisirono parecchie volte, ma sempre il giorno successivo alla comparsa degli opuscoli; infatti essa, quando il carico era innocente, attirava apposta l'attenzione, e quelli la fermavano e la palpavano minuziosamente. Fingeva di offendersi, litigava e alla fine li lasciava scornati, fiera della propria scaltrezza.


  Il giuoco cominciava a piacerle.


  Vièssovcicov non poté tornare in fabbrica, e fu assunto da un mercante di legname; faceva il carrettiere e portava al borgo carichi di travi, assicelle e legna da ardere. La madre lo incontrava spesso: due morelli secchi e ossuti avanzavano adagio, puntando faticosamente le zampe al suolo e tremando per lo sforzo; dondolavano la testa stanca e triste e sbattevano gli occhi appannati dalla fatica; dietro veniva un carro traballante colmo di assi e di travi fradice d'acqua, che sbattevano ai due estremi le una contro le altre; di fianco, con le redini allentate, camminava Nicolai, lacero, sporco, con gli stivali pesanti, il berretto sulla nuca, goffo come un ceppo appena sradicato. Anch'egli dondolava la testa e teneva gli occhi bassi per non veder nessuno; e i suoi cavalli andavano ciecamente addosso ai carri e ai passanti che procedevano nel senso opposto; attorno a lui s'udiva un vocio furibondo di bestemmie e di grida irose che laceravano l'aria; egli non alzava neppure la testa e non rispondeva, ma lanciava un fischio assordante e borbottava ai suoi cavalli:


  - Sù, dàlli!


  Ogni volta che i compagni si riunivano da Andrei per leggere l'ultimo giornale estero o un nuovo opuscolo, Nicolai sedeva in un angolo e ascoltava in silenzio per due, tre ore. Finita la lettura, i giovani discutevano a lungo, ma Vièssovcicov si teneva sempre in disparte: lasciava uscire tutti e a tu per tu con Andrei gli domandava scontrosamente:


  - La colpa maggiore di chi è?


  - Vedi, la colpa maggiore ce l'ha l'uomo che disse per primo: "Questo è mio"; però è morto qualche migliaio di anni fa e non vale la pena di prendersela con lui, - rispondeva l'ucraino scherzosamente, ma il suo sguardo era inquieto.


  - E i ricchi? e quelli che li sostengono? Hanno forse ragione?


  L'ucraino si prendeva la testa fra le mani, si torceva i baffi e cominciava un lungo discorso sulla vita e sugli uomini. Le parole erano semplici: per lui tutti erano responsabili allo stesso modo. Ciò non piaceva a Nicolai, che serrava le grosse labbra, dichiarava scotendo la testa che, per lui, non era affatto così, e se ne andava di cattivo umore.


  Un giorno disse:


  - No, la colpa è di quelli là, te lo dico io. A noi ci tocca arare tutta la vita un campo pieno di erbacce.


  - Le stesse parole che una volta ha detto di voi Issaì! - esclamò la madre.


  - Issaì? - domandò Nicolai, dopo una pausa.


  - Sì; è cattivo: osserva tutto e fa un mucchio di domande. Ora passa sempre davanti a casa nostra e ci spia dalla finestra.


  - Dalla finestra? - ripeté Nicolai.


  La madre era già coricata e non poteva vedere la sua faccia; ma si accorse di aver parlato troppo, perché l'ucraino s'affrettò a dire con aria conciliante:


  - E lasciatelo fare: avrà tempo da perdere...


  - No, aspetta, - disse sordamente Nicolai: - il colpevole è lui.


  - Di che? - domandò in fretta l'ucraino. - Di essere stupido?


  Ma Vièssovcicov non gli rispose e uscì.


  L'ucraino si mise a camminare per la stanza, strascicando fiaccamente le lunghe gambe da ragno. S'era tolto gli stivali come faceva sempre per non disturbare la Vlàssova; ma essa era sveglia, e quando Nicolai se ne fu andato, disse ansiosamente:


  - Mi fa paura: è come una stufa troppo accesa che, invece di scaldare, brucia.


  - Sì, - convenne lentamente l'ucraino con voce strascicata: - è un ragazzo collerico. Voi, mammetta, non parlategli mai di Issaì: è una spia sul serio e lo pagano.


  - Bella scoperta! Ha il compare nella polizia, - rispose la madre.


  - Temo che Nicolai lo ammazzi, - proseguì l'ucraino preoccupato. - Vedete che bella educazione morale dànno i nostri padroni ai subalterni? Quando un tipo come Nicolai sente l'offesa e perde la pazienza, che succede? Il sangue sprizza fino al cielo, e arrossa la terra.


  - E' strano, Andriuscia! - esclamò piano la madre.


  - Se si comportassero meglio, la gente non uscirebbe dai gangheri, - disse Andrei dopo una pausa. - Credetemi, mammetta, ogni goccia del loro sangue è lavata anticipatamente da laghi di lacrime dei poveri... - improvvisamente fece una risatina e soggiunse: - Però è una magra consolazione!


 

  Una domenica la madre, ritornando dalla spesa, stava entrando in casa, quando si sentì improvvisamente avvolta da una gioia dolce come una pioggia d'estate: aveva udito nell'interno la voce di Pavel.


  - Eccola! - gridò l'ucraino.


  Vide Pavel voltarsi di scatto, il viso acceso da un'emozione che prometteva molto.


  - Eccoti finalmente... a casa, - mormorò smarrita, e cadde a sedere.


  Egli si chinò su di lei, pallido, le labbra tremanti, e due piccole lacrime gli brillarono agli angoli degli occhi; tacque un istante ed anche la madre lo guardò in silenzio. L'ucraino passò davanti a loro a testa bassa e uscì fischiettando.


  - Grazie, mamma, - disse Pavel con voce profonda, commossa, stringendole la mano con dita tremanti. - Grazie, cara.


  Scossa per l'espressione e le parole di Pavel, gli accarezzò la testa, e cercando di soffocare il battito del cuore, mormorò:


  - Cristo ti benedica. Grazie... perché?


  - Perché aiuti la nostra grande causa, - rispose. - E' una fortuna rara che un uomo possa chiamarsi anche spiritualmente figlio di sua madre.


  Beveva avidamente quelle parole e contemplava il figlio, beata di vederlo così contento e vicino.


  - Io tacevo, mamma; capivo che il mio modo di vivere ti urtava in molte cose: mi facevi pena, ma non potevo farci nulla, non ne ero capace. Pensavo che non saresti mai andata d'accordo con noi, sino a fare tuoi i nostri pensieri... e che ci avresti sopportato in silenzio, come hai sempre fatto nella tua vita. Era greve.


  - Andriuscia mi ha fatto capire molte cose, - lo interruppe lei, cedendo al desiderio di ricordare l'amico.


  - Mi ha parlato di te, - disse Pavel ridendo.


  - Anche Iegòr: siamo compaesani. Andriuscia voleva anche insegnarmi a leggere...


  - Ma tu ti sei vergognata e hai studiato di nascosto.


  - Allora mi ha spiato! - esclamò lei confusa. Si sentiva scoppiare il cuore di gioia, e di nuovo disse a Pavel: - Chiamiamolo. E' andato via apposta per non disturbare; non ha la mamma...


  - Andrei, - chiamò Pavel, aprendo la porta dell'ingresso: - dove sei?


  - Son qui; spacco la legna...


  - A quest'ora! Vieni qua.


  - Vengo.


  Ma indugiò ancora un momento, ed entrando dalla cucina disse da buon amministratore:


  - Bisogna che Nicolai ci porti un po' di legna; non ne abbiamo quasi più. Avete visto, mammetta, come sta bene Pavel? Invece di punire i ribelli, lo Stato li ingrassa.


  La madre rise; si sentiva ancora svenire di dolcezza, era ebbra di gioia, ma già cominciava a desiderare, per un misto di prudenza e d'avarizia, che il figlio si calmasse e ritornasse quello di prima. Avrebbe voluto conservare intatta per sempre nel cuore la prima gioia della sua vita, e nel timore che si affievolisse, si affrettò a nasconderla, come un uccellatore che abbia casualmente preso un uccello raro.


  - Sù, mangiamo. Tu, Pascia, non hai ancora mangiato, vero? - gli domandò affettuosamente.


  - No; appena il guardiano ieri mi ha detto che sarei uscito oggi, non ho più mangiato né bevuto. Il primo che ho incontrato qui è stato il vecchio Sisov, - raccontò Pavel: - appena mi ha visto, ha attraversato la strada per salutarmi; gli ho detto che doveva essere più prudente, perché sono un individuo sospetto, un sorvegliato speciale. <Non fa niente>, mi ha risposto. E sai che cosa mi ha chiesto del nipote? <Fiodor, si comporta bene?>. <Che significa, comportarsi bene in prigione?>. <Be'>, dice, <non ha detto qualcosa che potesse nuocere ai compagni?>. Quando gli ho risposto che Fedia è un uomo onesto e intelligente, si è accarezzato la barba e mi ha detto con orgoglio: <Noi Sisov siamo tutti brava gente>.


  - Ha cervello, quel vecchio! - esclamò l'ucraino, approvando con la testa. - Noi due parliamo spesso insieme; è un brav'uomo. E Fedia, quando verrà fuori?


  - Tutti verranno fuori presto, penso. Non hanno altre prove che le deposizioni di Issaì. E lui che cosa poteva dire?


  La madre andava avanti e indietro e guardava il figlio. Andrei, in piedi accanto alla finestra, con le mani dietro la schiena, ascoltava i discorsi dell'amico. Pavel passeggiava per la camera. Gli era cresciuta la barba, e riccioli fitti e morbidi gli coprivano le guance, addolcendo il colore bruno della pelle; gli occhi si erano incupiti e guardavano severamente.


  - Sedetevi, - pregò la madre, mettendo sulla tavola i cibi caldi.


  Durante il pasto Andrei raccontò di Ribin. Quand'ebbe finito, Pavel esclamò con rammarico:


  - Se ero a casa, non lo lasciavo andare via così. Che cosa ha portato con sé? Un senso di smarrimento e un guazzabuglio di idee.


  - Be', - rispose l'ucraino con una risata, - quando uno ha quarant'anni e continua a cacciare orsi nell'anima, è difficile che cambi.


  A questo punto s'iniziò fra loro una discussione così difficile che la madre non riuscì a capirli. Avevano già finito di mangiare che ancora discutevano accanitamente, assalendosi con una gragnuola di parole difficili. Qualche volta parlavano in modo chiaro.


  - Dobbiamo andare dritti per la nostra strada, senza deviare mai, - disse Pavel con forza.


  - E sbarrare il passo a qualche decina di milioni di uomini che penseranno di doverci combattere.


  La madre ascoltava la discussione e capiva che l'ucraino, al contrario di Pavel, amava i contadini e si schierava dalla loro parte, sostenendo che bisognava insegnare anche a loro la verità. Lo capiva e gli dava ragione, ma trepidava a ogni sua parola, e aspettava ansiosamente la risposta del figlio, temendo che potesse offendersi. Eppure, nonostante le liti impiccate, quei due erano sempre buoni amici.


  Talvolta la madre domandava a Pavel:


  - E' vero, Pascia? - ed egli rispondeva sorridendo:


  - Sì, mamma.


  - Signore mio, - diceva l'ucraino con affettuosa malizia, - avete mangiato troppo in fretta e v'è andato un boccone di traverso. Bevete un sorso d'acqua.


  - Non far lo scemo, - rispondeva Pavel.


  - Sono serio come un funerale.


  La madre rideva, scotendo la testa.


  Stava avvicinandosi la primavera; la neve si scioglieva, mettendo in luce il sudiciume e la fuliggine delle ciminiere, finora ammantate di bianco; la sporcizia aumentava di giorno in giorno, e il sobborgo aveva un aspetto cencioso e sudicio. Di giorno la neve sgocciolava dal tetti, e i muri grigi delle case trasudavano un vapore lento; di notte tutto si ricopriva di bianchi ghiaccioli scintillanti. Il sole splendeva sempre più a lungo; i ruscelli cominciavano a mormorare, correndo allo stagno, e a mezzogiorno il sobborgo era tutto un fremito di primavera, un canto di speranza: ci si preparava a festeggiare il primo maggio. La fabbrica e il villaggio pullulavano di volantini illustranti la ricorrenza, e quei giovani che la propaganda lasciava di solito indifferenti, esclamavano leggendoli: - Dobbiamo festeggiarlo anche noi!


  Vièssovcicov gridava con un risolino arrabbiato:


  - Basta, è finito il tempo di giocare a rimpiattino!


  Fedia Masin aveva l'aria esultante; era molto dimagrito, e per il nervosismo dei gesti e dei discorsi rassomigliava a un'allodola in gabbia. Lo si vedeva sempre in compagnia di Jacob Somov, un ragazzo taciturno e fin troppo serio per i suoi anni, il quale lavorava temporaneamente in città. Samòilov uscito dal carcere coi capelli più rossi che mai, Vassili Gussiev, Buchin, Dragunov e alcuni altri dicevano che bisognava armarsi per il corteo; Pavel, l'ucraino, Somov e altri sostenevano il contrario, Iegòr arrivava sempre trafelato, stanco, sudato, e diceva scherzando:


  - Compagni, la rivoluzione sociale è un'opera grande, ma per il suo maggiore successo bisogna che io mi compri un paio di stivali nuovi, - e mostrava le scarpe rotte e bagnate. - Anche le soprascarpe sono irreparabilmente finite, e ogni giorno m'inzuppo i piedi. Non voglio finire sotto terra prima di aver rinnegato pubblicamente e apertamente il vecchio sistema, per cui declino l'invito del compagno Samòilov per una dimostrazione armata, e propongo che mi armi di un robusto paio di stivali, ché sono profondamente convinto che ciò serva la causa del socialismo meglio di qualsiasi pestaggio.


  Usando lo stesso stile fiorito, raccontava agli operai la storia di molti altri popoli che avevano tentato di migliorare la propria sorte. La madre lo ascoltava con piacere, e quei discorsi le facevano una strana impressione: i peggiori nemici del popolo, quelli che lo ingannavano più spesso e più crudelmente erano certi ometti panciuti e rubicondi, avidi e sleali, furbi e crudeli. Quando stavano male sotto i re, aizzavano il popolo alla rivolta, e quando il popolo s'era sollevato e impadronito del potere gli subentravano con l'inganno, relegandolo nei vecchi tuguri; se poi il popolo osava ribellarsi, ne facevano un'ecatombe. Un giorno la madre si fece coraggio e gli descrisse ciò che vedeva attraverso i suoi discorsi; poi sorrise timidamente e gli domandò:


  - E' così, Iegòr Ivànovic?


  Egli rise fino alle lacrime, stralunò gli occhi e si fregò il petto con le mani.


  - Proprio così, comare: avete preso per le corna il toro della storia. Su questo sfondo grigiastro ci sono ornamenti o ricami, ma non cambia nulla: gli ometti col pancino sono i veri colpevoli, gl'insetti più velenosi che succhiano il sangue del popolo; i francesi li chiamano con un nome azzeccato <bourjois> (N.d.T.: In russo "bur": trapano; "jui" è voce del verbo opprimere); ricordatevelo, mammetta cara, <bourjois>... Essi ci opprimono, ci succhiano.


  - Allora sono i ricchi? - domandò la madre.


  - Sicuro, questo è la disgrazia loro. Se mettessimo tutti i giorni un po' di rame nel cibo di un bambino, il suo scheletro non crescerebbe più e rimarrebbe un nano; se avveleniamo un giovane con l'oro, la sua anima diventerà piccola, fiacca e grigia come una palla di gomma da cinque soldi.


  Una volta Pavel, parlando di Iegòr, disse:


  - Sai, Andrei, le persone che scherzano di più, sono sempre le più tristi.


  L'ucraino tacque e socchiudendo gli occhi rispose:


  - Eh no; se fosse così, tutta la Russia morirebbe dal ridere.


  Venne anche Natascia; era stata in prigione in un'altra città, ma appariva sempre la solita. La madre notò che l'ucraino era più allegro in sua presenza, scherzava e stuzzicava tutti con affettuosa malignità, suscitando le risate della ragazza; ma appena essa usciva, si metteva a fischiettare le interminabili nenie e a passeggiare per la camera strascicando i piedi. Spesso capitava Sascia, sempre accigliata e frettolosa e sempre più angolosa e brusca. Un giorno che Pavel l'accompagnò fuori lasciando aperta la porta, la madre udì un breve dialogo:


  - Portate voi la bandiera? - domandò piano la ragazza.


  - Sì.


  - Avete proprio deciso?


  - Sì, ne ho il diritto.


  - Vi metteranno in prigione.


  Pavel tacque.


  - Non potreste... - essa cominciò, e s'interruppe.


  - Che cosa? - domandò Pavel.


  - Lasciarla a un altro.


  - No, - rispose lui secco.


  - Pensateci, siete così influente, tutti vi voglion bene. Voi e Nacodca siete i primi qui: pensate quanto sareste utili. Lo sanno e vi manderanno lontano, per un pezzo.


  Alla madre parve di sentire, nella voce della ragazza, angoscia e paura; quelle parole le cadevano sul cuore come goccioline di neve gelata.


  - No, ho deciso, - confermò Pavel: - nessuna ragione al mondo potrebbe farmi cedere.


  - Neppure se vi pregassi io, se io...


  Pavel replicò subito molto severamente:


  - Non dovete parlare così. Che vi prende? Non dovete.


  Ma anch'io sono un essere umano, - ribatté lei sommessa.


  - Voi siete buona, - mormorò Pavel quasi ansimando; - e io vi voglio bene. Per questo... per questo non dovete parlare così.


  - Addio, - disse la ragazza.


  Dal rumore dei tacchi la madre capì che camminava in fretta come se fuggisse. Pavel la inseguì nel cortile.


  Una pesante angoscia oppresse il cuore della madre; non aveva afferrato il senso delle loro parole, ma capì che incombeva su di lei una nuova grande sciagura. La sua mente formulò la domanda: <Che vorrà mai fare?>, e quel pensiero le si infisse nel cervello come un chiodo.


  Pavel rientrò dal cortile con Andrei, che disse, scotendo la testa:


  - Eh, Issaì, Issaì, che dobbiamo fare di lui?


  - Bisognerebbe consigliargli di piantarla, - disse Pavel cupamente.


  - Pascia, che vuoi fare? - domandò la madre a testa bassa.


  - Quando, adesso?


  - Il primo di maggio...


  - Ah, - esclamò Pavel abbassando la voce, - porterò la bandiera in testa al corteo; e probabilmente mi ficcheranno dentro di nuovo.


  La madre si sentì bruciare gli occhi; aveva la bocca arida. Pavel le prese una mano e l'accarezzò.


  - Credimi, devo farlo; è per la mia felicità.


  - Io non dico niente, - essa protestò, alzando lentamente la testa, ma quando vide il bagliore ferreo dei suoi occhi, abbassò lentamente lo sguardo.


  Pavel le lasciò cadere la mano, sospirò e disse in tono di rimprovero:


  - Invece di rattristarti dovresti essere contenta: verrà mai il giorno che le madri accetteranno con gioia il sacrificio del figli?


  - Hop hop, - brontolò l'ucraino, - cavalca il nostro "pan" (N.d.T.: Signore), avvolto nel "caftàn"!


  - Ti ho forse detto qualcosa? - ripeté la madre. - Non t'impedisco nulla, io; ma è naturale che una madre stia in pena, - disse con voce dura, tagliente.


  - C'è un genere di amore che impedisce all'uomo di vivere...


  Tremando per la paura che le dicesse altre parole offensive, la madre esclamò precipitosamente:


  - Taci, Pascia, io capisco: devi farlo per i compagni...


  - No, - rispose: - devo farlo per me. Potrei anche rifiutare; ma voglio andare e andrò.


  Sull'uscio comparve Andrei. Ritto nel vano della porta come in una cornice troppo piccola, teneva le ginocchia stranamente piegate, una spalla contro l'architrave, e l'altra spalla, il collo e la testa sporti in avanti.


  - Smettetela con queste chiacchiere a stravento, signor mio, - disse guardando minacciosamente Pavel con gli occhi sporgenti. Sembrava una lucertola nella spaccatura di un sasso. La madre aveva voglia di piangere, e per non farsi vedere da Pavel mormorò in fretta:


  - Ah, santissimi, avevo dimenticato di...


  Andò nell'ingresso, e nascondendo la faccia contro un angolo, diede libero sfogo alle lacrime. Piangeva in silenzio la sua umiliazione, e si sentiva svenire, come se insieme alle lacrime le uscisse tutto il sangue dal cuore. Attraverso la porta semichiusa le giunse il suono smorzato di una lite.


  - Ti diverti a tormentarla? - domandò l'ucraino.


  - Non hai il diritto di parlare così, - proruppe Pavel.


  - Sarei un bell'amico, se tacessi vedendo le tue stupide impennate da capra. Perché le hai parlato così? Me lo spieghi?


  - Bisogna dire sempre le cose come stanno; sì o no!


  - A lei?


  - A tutti. Rifiuto l'amore e l'amicizia se devono essere una catena al piede.


  - Che eroe! Pulisciti il naso, e va' a raccontare queste cose a Sàscenca: a lei dovresti dirlo!


  - Gliel'ho detto.


  - Non è vero: con lei sei stato tenero, affettuoso; lo so come se avessi sentito. Con tua madre, invece, sfoderi l'eroismo... sicuro! Ma sappilo, asino, che il tuo eroismo non vale un soldo!


  La Vlàssova s'asciugò in fretta le lacrime dalle guance, temendo d'un tratto che l'ucraino potesse offendere Pavel. Ancora tremante e piena di dolore e d'angoscia, spalancò la porta della cucina e disse forte:


  - Ma che freddo; eppure è primavera!


  Nell'intento di soffocare la discussione, si mise a spostare rumorosamente gli arnesi di cucina, e proseguì alzando la voce:


  - Tutto va alla rovescia: gli uomini sono diventati più accesi e il tempo più freddo; in questa stagione di solito si sta già bene, c'è il sole...


  Nella camera si fece silenzio. Si fermò in mezzo alla cucina e tacque.


  - Hai sentito? - chiese piano l'ucraino. - Cerca di capire, asino! E' molto più ricca lei di te...


  - Volete il tè? - domandò la madre con voce tremante, e per dissimulare l'agitazione, esclamò, senza aspettare la risposta:


  - Chi sa perché ho così freddo?


  Pavel le si avvicinò lentamente; la guardava con gli occhi bassi, e un sorriso colpevole gl'increspava le labbra.


  - Perdonami, mamma, - supplicò a mezza voce: - sono un ragazzaccio stupido...


  - Lasciami stare! - esclamò lei dolorosamente, e si strinse al petto la testa dei figlio. - Non dir nulla... Dio sia con te. La tua vita è affar tuo; ma non tormentare questo cuore: una mamma sta sempre in pena, e io sto in pena per tutti voi, perché siete tutti cari e degni. Nessuno si preoccupa per voi come me; tu sei il primo e gli altri ti seguono, e nessuno si guarda indietro, nessuno.


  Un'idea grande le infiammava il petto, e un sentimento di esaltazione dolorosa le faceva palpitare il cuore, ma era incapace di esprimersi, e agitava la mano come una muta, guardando il figlio con un'intensa sofferenza negli occhi.


  - Bene, mamma; vedo che mi hai perdonato, - mormorò lui chinando la testa; poi la guardò di sfuggita sorridendo, si volse dall'altra parte, e soggiunse commosso: - Non me ne dimenticherò, parola d'onore.


  Lo spinse via e, cercando con gli occhi Andrei, gli disse gentilmente:


  - Andriuscia, non sgridatelo: siete maggiore di lui, in fondo...


  L'ucraino le voltava la schiena ed era immobile. A un tratto mugghiò con voce insolitamente buffa:


  - Uh, lo sgriderò ben bene, e lo picchierò.


  Essa gli si avvicinò tendendogli la mano e disse:


  - Caro ragazzo...


  L'ucraino si volse, abbassò la testa come un toro, e nascondendo le mani dietro la schiena, le passò davanti, andando in cucina; di là risonò la sua voce beffarda:


  - Va' via, Pavel, se non vuoi che ti rompa la testa. Sto scherzando, mammetta! Ora metto il samovàr; accidenti che carbone bagnato!


  Poi tacque. Quando la madre entrò in cucina, lo trovò seduto per terra, intento a soffiare nel samovàr. Senza guardarla, l'ucraino riprese:


  - State tranquilla, non gli farò nulla: lo sapete che sono buono e molle come una rapa cruda. E io... ehi, eroe, non ascoltare... e io gli voglio bene, ma non mi piace il suo panciotto. Vedete, si è messo un panciotto nuovo di cui è molto fiero, e cammina con la pancia in fuori dando spintoni alla gente per farsi rimirare; è certo un bel panciotto, anche senza urtoni... si sta già stretti abbastanza.


  Pavel domandò con una risatina:


  - Ne hai per un pezzo? Non ti basta la strigliata che mi hai dato?


  Seduto per terra col samovàr fra le gambe allungate, l'ucraino lo guardò. La madre, ferma sull'uscio, osservò affettuosamente la testa curva e la nuca rotonda di Andrei. Questi buttò la testa all'indietro, e puntando le mani sul pavimento, guardò la madre e il figlio con gli occhi lievemente arrossati, e ammiccando disse:


  - Siete due brave persone...


  Pavel si curvò e gli prese la mano.


  - Non tirare, - ordinò l'ucraino sordamente, - sennò mi fai cadere.


  - Di che vi vergognate? - osservò la madre accorata. - Dovreste abbracciarvi e darvi un bacio.


  - Vuoi? - domandò Pavel.


  - Se credi. - rispose l'ucraino sollevandosi, mentre Pavel si lasciava cadere in ginocchio. Si abbracciarono strettamente, e per un attimo si fusero in un'anima sola, in cui ardeva la calda fiamma dell'amicizia. Lievi tracce di lacrime rigavano ancora il volto della madre; se le asciugò e disse vergognosa:


  - Le donne piangono volentieri; piangono di dolore e anche di gioia.


  L'ucraino allontanò gentilmente Pavel, e asciugandosi gli occhi con le dita mormorò:


  - Basta, i vitelli hanno folleggiato abbastanza, sono maturi per l'arrosto. Accidenti alla legna: a furia di soffiare non ci vedo più!


  Pavel sedette alla finestra e mormorò a testa bassa:


  - Non dobbiamo vergognarci di queste lacrime.


  La madre si avvicinò e gli sedette accanto; il suo cuore si era riscaldato e rinfrancato; ella si sentiva triste, ma paga e tranquilla. <Non importa>, pensò, accarezzando la mano di Pavel. <E' giusto che sia così, non potrebbe fare diversamente>; le venivano alla bocca molte altre parole, ma nessuna poteva rendere ciò che essa viveva in quel momento.


  - Apparecchio io; voi, mammetta, state pur seduta, - proferì l'ucraino alzandosi da terra e andando nell'altra camera. - Riposatevi, vi abbiamo turbato abbastanza. - Di là disse più forte, strascicando la voce: - Lodarsi non è bello, eppure noi abbiamo vissuto un bel momento: un momento di vita vera, di comprensione e di amore.


  - Sì, - disse Pavel, sbirciando la madre.


  - Mi sembra un altro mondo! - esclamò lei. - Anche il dolore e la gioia hanno cambiato aspetto. Non so, non capisco che cosa sta succedendo, e mi mancano le parole...


  - Ma, è naturale che sia così, intervenne l'ucraino; - perché l'umanità sta formandosi un nuovo cuore, mia cara mammetta, un nuovo cuore. Il cuore degli uomini è dilaniato dall'ingiustizia sociale, roso dalla cupidigia, punto dall'invidia; è un cuore straziato, ferito, marcio, pieno di menzogne e di viltà, e l'umanità è malata, ha paura di vivere, cammina come nella nebbia: ognuno pensa soltanto ai propri fastidi. Ma ora è venuto un uomo (N.d.T.: Allusione a Lenin) che ci porta la luce della ragione e che ci grida: <Sveglia, scarafaggi, sappiate che un solo interesse vi lega, e che tutti avete il diritto di vivere e di crescere>. Quest'uomo è solo e grida che ha bisogno di amici perché, da soli, la vita è triste e squallida. La parte sana che è in ciascuno di noi ha sentito il suo richiamo e così si forma un cuore immenso, forte, profondo, sensibile come una campana d'argento, il cui squillo ci annuncia: <Unitevi, uomini di tutto il mondo, in una sola famiglia: l'amore, non l'odio, è la base della vita>. Fratelli miei, io sento questo richiamo universale.


  - Anch'io, - disse forte Pavel.


  La madre serrò le labbra perché non tremassero e chiuse gli occhi per non piangere.


  - Quando sono in letto o cammino in compagnia dei miei pensieri, sento questo continuo richiamo, ed è una sensazione piacevole: la terra è stanca di menzogna e di dolore; anch'essa risuona tutta come una campana annunciante la buona novella, e sussulta dolcemente incontro al nuovo sole che sorge nel cuore dell'uomo.


  Pavel si alzò in piedi, sollevò la mano come per dire qualcosa, ma la madre lo tirò per il braccio e lo fece nuovamente sedere, sussurrandogli:


  - Non interromperlo...


  - Sapete? - chiese l'ucraino, ritto nel vano della porta e con gli occhi scintillanti: - la gente dovrà patire ancora molti guai, e mani avide spremeranno ancora molto sangue, ma tutto questo non ha importanza; il mio sangue e il mio dolore valgono assai meno di ciò che già mi si agita nel petto, nel cervello, nel midollo delle ossa: sono ricco come una stella lucente, e potrò sopportare e resistere a tutto, perché nulla e nessuno è in grado di distruggere la gioia che è in me. Questa è la mia forza.


  Bevvero il tè, e fino a mezzanotte rimasero seduti a discorrere, analizzando in buona armonia i problemi dell'uomo e del suo avvenire. Quando la madre afferrava una nuova idea, sospirava di sollievo e, pensando a qualche cupo ricordo del proprio passato, si levava un peso dal cuore e lo buttava a rafforzare la nuova idea. Nel piacevole calore della conversazione la sua paura svaniva, non esisteva più; le pareva di esser tornata a quel lontano giorno in cui suo padre le aveva detto burberamente: <E' inutile che tu torca il naso: c'è uno stupido che ti vuole in moglie. Va' con lui: tutte le ragazze si maritano, tutte le donne fanno figli, e tutti i figli sono la disperazione dei genitori. Tu sei forse diversa dalle altre?> Dopo quel discorso s'era vista davanti una strada senza scappatoie che girava intorno a un deserto buio. Sapeva che non c'era altra via: s'era passivamente rassegnata, e adesso era la stessa cosa. Ma, intuendo prossimo un nuovo dolore, l'offriva dentro di sé a qualcuno: <Ecco questo è per te!>, e ciò le alleggeriva la pena del cuore palpitante come una corda tesa. Nell'intimo dell'animo, turbato dalla penosa aspettativa, ardeva, come una tenue fiammella, la speranza che anche se le avessero tolto tutto, qualcosa le sarebbe sempre rimasto... 


 

 

  7.