martedì 27 aprile 2021

DOSTOEVSKIJ Thomas Mann


DOSTOEVSKIJ
 

Thomas Mann 

È strano: nella mia vita di scrittore ho dedicato parecchi saggi, anche ampi, tanto a Goethe quanto a Tolstoj. Ma su due altre esperienze culturali della mia vita, nei confronti delle quali non sono meno debitore, che hanno influenzato in modo almeno altrettanto profondo la mia giovinezza e che nell’età matura non ho mai cessato di rinnovare e di approfondire, non ho mai scritto in modo organico: né su Nietzsche, né su Dostoevskij. Sono ancora debitore del saggio su Nietzsche che i miei amici spesso mi hanno incoraggiato a scrivere e che sembrava trovarsi proprio sul mio cammino. E solo a tratti, per subito scomparire di nuovo, si affaccia nei miei scritti «il volto profondo, di santo e di criminale, di Dostoevskij» (così mi espressi una volta).1  Da che cosa deriva questo mio ritrarmi, questo sfuggire e tacere, in contrasto con la loquacità senza dubbio insufficiente ma pure gioiosa che mi suscitò la grandezza di quegli altri due astri e maestri? Lo so bene. Espressioni di confidente omaggio, venate di entusiasmo e di delicata ironia, mi sgorgarono facilmente dinanzi alle immagini di quelle creature divine e benedette, dinanzi ai prediletti figli della natura nella loro alta semplicità e trionfante salute: dinanzi all’aristocratismo autobiografico di Goethe, fondatore di una regale cultura soggettiva, e dinanzi all’epico vigore d’orso, alla straordinaria energia naturale di Tolstoj, «il grande scrittore della terra di Russia», l’uomo dei tentativi goffi, poderosi e sempre falliti di spiritualizzare in senso moralistico la propria pagana corporeità. La mia soggezione, una soggezione profonda, mistica, che induce al silenzio, comincia dinanzi alla religiosa grandezza dei figli maledetti, dinanzi al genio come malattia e alla malattia come genio, dinanzi a colui che è visitato dalla sventura, all’ossesso, nel quale il santo e il criminale diventano una sola persona...

Del demoniaco, così io sento, si deve parlare in poesia, non dissertare. Faccia esso udire la propria voce, meglio se attraverso il velo dell’ironia, dal profondo dell’opera; ma dedicargli saggi critici mi sembra, per dirla nel modo più blando, un’indiscrezione. Forse, anzi probabilmente, questo è soltanto un modo di abbellire la mia pigrizia e la mia mancanza di coraggio. È senza confronto più facile e più confortante scrivere sulla salute divina e pagana piuttosto che sulla santa malattia. Parlare dei figli felici della natura, della loro ingenuità, può essere divertente; parlare dei figli dello spirito, dei grandi maledetti e peccatori, dei santi della malattia, non lo è. Mi sarebbe assolutamente impossibile scherzare su Nietzsche e Dostoevskij come ho fatto qualche volta parlando, nel romanzo, dell’egoismo da figlio privilegiato di Goethe e, nel saggio, di quella gigantesca fanfaronata che fu il moralismo di Tolstoj. Da ciò risulta che il mio rispetto per coloro che hanno confidenza con l’inferno, per i grandi santi e malati, è in sostanza ben più profondo – e solo perciò più silenzioso – di quello per i figli della luce. Ed è bene che ora esso sia costretto a una certa loquacità, per quanto praticamente limitata e infrenata.

Il pallido criminale: questo titolo di uno dei capitoli dello Zarathustra,2  un’opera di genio scritta, com’è noto, sotto l’ispirazione della malattia, io non posso leggerlo senza che mi compaia davanti la fisionomia sofferente e sinistra di Fëdor Dostoevskij, quale la conosciamo da una serie di buoni ritratti. Ma dirò di più: penso che essa comparisse anche all’ebbro solitario di Sils Maria tormentato dall’emicrania. L’opera di Dostoevskij ha avuto infatti una parte importantissima nella vita di Nietzsche, ed egli lo ricorda spesso nelle proprie lettere e nei propri libri (mentre non mi risulta che ricordi con una sola parola Tolstoj); lo chiama il più profondo psicologo della letteratura universale e, in una specie di slancio di modestia, il suo «grande maestro» – sebbene, in verità, il suo rapporto con il fratello slavo non sia affatto quello di un discepolo verso il maestro. Essi erano piuttosto fratelli in spirito, e, ben al di là di ogni mediocre misura, la loro affinità di destino li eleva, nonostante le differenze di origine e di tradizione, in una comune atmosfera insieme tragica e grottesca: il professore tedesco il cui genio luciferino si sviluppò (sotto lo stimolo della malattia) dalle premesse della cultura classica, dell’erudizione filologica, della filosofia idealistica e del romanticismo musicale, e il cristiano bizantino che da subito rinunciò a quei limiti della cultura umanistica che invece condizionarono Nietzsche. E se questi poté sentire il russo come il proprio «grande maestro» fu semplicemente perché Dostoevskij non era tedesco (il più ardente desiderio di Nietzsche fu infatti sempre quello di liberarsi della sua essenza tedesca); perché egli agì come un liberatore dalla morale borghese e costituì una conferma della volontà nietzscheana tesa all’affronto psicologico, al crimine della conoscenza.

Sembra impossibile poter parlare del genio di Dostoevskij senza che la parola «criminale» ci si affacci dinanzi imperiosa. L’insigne critico russo Merežkovskij l’adopera spesso nei suoi diversi studi sul poeta dei Karamazov, e in duplice senso: riferendola ora allo stesso Dostoevskij e alla «curiosità criminale della sua conoscenza», ora all’oggetto di questa conoscenza, il cuore umano, di cui lo scrittore svelò i moti più segreti e più criminali. «Quando lo leggiamo» egli dice «siamo talora spaventati dal suo sapere ogni cosa, da quella capacità di penetrare in un’altra coscienza. Incontriamo in lui i nostri pensieri reconditi, quelli che non solo non confesseremmo a nessun amico, ma nemmeno a noi stessi.» Solo apparentemente, però, si tratta di un’indagine e di un’intuizione obiettiva e, per così dire, clinica; in verità si deve parlare piuttosto di una lirica psicologica nel senso più vasto del termine, di una ammissione e terribile confessione, di un impietoso svelamento degli abissi criminali della propria coscienza: da ciò deriva lo spaventoso peso morale, la religiosa terribilità della psicologia di Dostoevskij. Basta prendere a confronto Proust e le sue nouveautés, le sorprese e le squisitezze psicologiche di cui brulica la sua opera, per accorgersi del diverso accento e della diversa intonazione morale. Le scoperte, le novità e le audacie psicologiche del francese sono un puro divertimento paragonate alle terree rivelazioni di Dostoevskij, un uomo che conobbe l’inferno. Avrebbe Proust potuto scrivere Delitto e castigo, il più grande romanzo criminale di tutti i tempi? Non gli mancava certo la conoscenza, ma la coscienza... E quanto a Goethe, anch’egli uno psicologo di prima grandezza dal Werther alle Affinità elettive, lui stesso dichiara con disinvolta franchezza di non aver mai sentito parlare di un delitto che egli stesso non si fosse sentito capace di commettere. Questa è la confessione di un discepolo dell’esame di coscienza pietista nel quale, tuttavia, prevale l’elemento dell’innocenza greca. È una confessione pacata, una sfida alla virtù borghese, è vero, ma è piuttosto fredda e superba che cristianamente mortificata, più ardita che profonda in senso religioso. Tolstoj era sostanzialmente simile a Goethe, a onta di tutte le sue velleità cristiane. «Non ho nulla da nascondere davanti agli uomini» era solito dire. «Sappiano pure tutto quel che faccio!» Si confrontino con questo le confessioni dell’eroe di Memorie dal sottosuolo, là dove egli parla delle proprie segrete dissolutezze. «Già allora» dice «portavo in me l’amore per la segretezza. Avevo una paura terribile che mi si potesse vedere, incontrare, riconoscere.» Sulla sua vita che non sopportava l’estrema sincerità, l’estremo abbandono dinanzi agli occhi del mondo, domina il segreto dell’inferno.

Non vi è dubbio che il subconscio e perfino la coscienza di questo creatore gigantesco siano stati perennemente oppressi da un grave senso di colpa, dal sentimento di ciò che è criminale, e che questo sentimento non fosse affatto di origine soltanto ipocondriaca. Esso era in connessione con la sua malattia, il male «sacro», il male mistico per eccellenza, cioè l’epilessia. Egli ne soffrì fin da giovane, ma il processo per congiura politica, che molto ingiustamente gli venne intentato quando aveva ventotto anni, e lo choc prodotto dalla condanna a morte (era già al palo dell’esecuzione e vedeva la morte dinanzi a sé quando, all’ultimo momento, la condanna fu commutata in quattro anni di lavori forzati in Siberia) peggiorarono tragicamente la malattia che, secondo lui, lo avrebbe condotto inevitabilmente all’esaurimento delle energie fisiche e spirituali, alla morte o alla pazzia. Gli accessi comparivano in media una volta al mese, ma potevano essere anche più frequenti, perfino due per settimana. Egli li ha spesso descritti direttamente o trasponendo la propria sofferenza su alcune figure dei suoi romanzi, figure dalla psicologia non comune: il terribile Smerdjakov, il principe Myškin protagonista dell’Idiota, il nichilista ed estatico Kirillov nei Demoni. Due elementi caratteristici sono, secondo le sue descrizioni, propri dell’epilessia: l’incomparabile sensazione di estasi, di illuminazione interiore, di armonia, di altissima voluttà che coglie alcuni istanti prima del grido inarticolato, che non ha più nulla di umano, con cui si annuncia l’attacco di convulsioni, e lo stato di terribile prostrazione, di profonda pena, di alterazione e devastazione mentale che gli succede. Questa reazione mi sembra ancora più significativa per l’essenza della malattia di quanto non lo sia l’estasi che precede l’attacco. Dostoevskij descrive quest’ultima come tanto intensa e tanto dolce «che per la beatitudine di quei pochi secondi si potrebbero dare volentieri dieci anni della propria vita o anche la vita intera». Ma lo stato successivo di estremo abbattimento dipendeva, secondo la confessione del grande malato, dal fatto che egli «si sentiva un criminale», quasi che su di lui gravasse una colpa sconosciuta, un grave misfatto.

Io non so quello che i neurologi pensano del «male sacro», ma, secondo me, esso ha le sue radici nella sessualità ed è una manifestazione esterna, selvaggia ed esplosiva, della sua dinamica, un atto sessuale trasferito in un’altra sfera e trasfigurato, un eccesso mistico. E, ripeto, la dimostrazione di ciò la scorgo nello stato successivo di rimorso e di annichilimento, nel misterioso senso di colpa più che nei secondi di voluttà precedenti l’attacco, «per i quali si darebbe tutta la vita». Certo è che, sebbene la malattia minacciasse le energie spirituali di Dostoevskij, il suo genio è a essa strettamente collegato e da essa influenzato, così come il suo essere iniziato ai misteri della psicologia, il suo sapere intorno al delitto e a ciò che l’apocalisse chiama le «profondità sataniche», soprattutto la sua capacità di suggerire l’idea di una colpa misteriosa e di farne il substrato dell’esistenza dei suoi personaggi in parte così terribili, sono tutti elementi indissolubilmente congiunti con la malattia. Nel passato di Svidrigajlov (in Delitto e castigo) c’è «una vicenda criminosa che ha un sapore di bestiale e, per così dire, una fantastica rozzezza, e per la quale egli con tutta probabilità sarebbe stato mandato in Siberia». Si lascia alla fantasia più o meno volenterosa del lettore indovinare di che cosa si tratta: secondo tutte le apparenze, di un delitto sessuale, probabilmente di uno stupro infantile: infatti questo è anche il segreto, o una parte del segreto, della vita di quella glaciale e sprezzante natura di tiranno, di quello Stavrogin, nei Demoni, che nature più deboli adorano prostrate nella polvere, il personaggio forse dal fascino più sinistro della letteratura universale. Possediamo un capitolo di questo romanzo pubblicato in seguito, la Confessione di Stavrogin,3  in cui questi racconta, fra l’altro, lo stupro di una bambina. Secondo Merežkovskij si tratta di un frammento potente, pieno di un realismo terribile che sembra travalicare i confini dell’arte. Evidentemente questo crimine osceno ha occupato la fantasia morale di Dostoevskij in modo durevole. Si dice che una volta egli abbia confessato al famoso collega Turgenev, da lui odiato e disprezzato per le sue simpatie occidentali, di avere commesso una colpa di questo genere: una confessione sicuramente mentita, con cui voleva solo spaventare e confondere Turgenev, così limpidamente umano e privo di satanismo. Una volta a Pietroburgo, uomo, a quell’epoca, sulla quarantina e festeggiato autore di un libro che aveva commosso lo stesso zar, mentre era ospite di una famiglia amica raccontò alla presenza dei figli, tra cui si trovavano anche delle bambine, di un progetto poetico della sua giovinezza, un romanzo in cui un proprietario, agiato, rispettabile, gioviale, improvvisamente si ricorda di quando una volta, vent’anni prima, dopo una notte di gozzoviglie, spinto dagli amici ubriachi aveva violentato una bambina di dieci anni.

«Fëdor Michajlovič!» gridò la padrona di casa, levando le mani al cielo. «Abbia pietà! I bambini ascoltano!»

Un uomo ben strano anche per i suoi contemporanei deve essere stato, questo Fëdor Michajlovič...

La malattia di Nietzsche non fu l’epilessia, sebbene ci si possa facilmente immaginare l’autore dello Zarathustra e dell’Anticristo come epilettico. Egli ebbe il destino comune a molti artisti e, in modo particolare e strano, a molti musicisti (e in un certo senso lo si può ben annoverare tra questi): fu condotto allo sfacelo da una paralisi progressiva, una malattia d’indubbia origine sessuale, visto che da molto tempo, ormai, la medicina ha riconosciuto in essa una conseguenza dell’infezione luetica. Osservata da un punto di vista medico-naturalistico, ovvero da un punto di vista assai limitato, l’evoluzione spirituale di Nietzsche non è altro che la storia di una degenerazione e disinibizione paralitica: è, in altre parole, la storia di un uomo proiettato in alto, fuori da una splendida normalità, nelle sfere gelide e grottesche di una conoscenza che uccide, di una moralità che isola, di un grado di sapere orribile e criminale per il quale una natura gentile e benigna come la sua, piena in ogni senso di delicatezza e d’indulgenza, non era assolutamente nata, ma chiamata soltanto, come quella di Amleto.4 

«Criminale»: ripeto la parola per sottolineare l’affinità psicologica fra Nietzsche e Dostoevskij. Non a caso Nietzsche si sentì così potentemente attratto verso Dostoevskij da chiamarlo il suo «grande maestro». L’eccesso, lo scatenamento ebbro della conoscenza, a cui si aggiunge un moralismo religioso, cioè satanico, che in Nietzsche prende il nome di anti-moralismo, è comune a entrambi. La mistica coscienza della colpa del grande epilettico, alla quale abbiamo accennato, Nietzsche, è vero, non l’ha conosciuta. Ma che il suo senso personale della vita gli rendesse familiare quello del criminale risulta da un suo aforisma che sul momento non so ritrovare, ma di cui mi ricordo con sicurezza. In esso egli dice che ogni isolamento ed estraniamento spirituale dalla norma riconosciuta dal mondo borghese, ogni indipendenza e spregiudicatezza del pensiero sono affini alla forma di esistenza del criminale e permettono una diretta conoscenza di essa.5  Io trovo che si possa andare oltre e dire che ogni originalità creatrice, ogni attività artistica nel senso più ampio fanno ciò. Il pittore e scultore francese Degas ha detto una volta che un artista deve avvicinarsi alla sua opera nello stesso stato d’animo in cui il criminale compie il suo delitto.

«Sono gli stati d’eccezione» ha detto lo stesso Nietzsche, «che condizionano l’artista: tutti quelli che sono profondamente apparentati e intrecciati con fenomeni morbosi, sicché non sembra possibile essere artisti e non essere malati.»6  Il pensatore tedesco non ha probabilmente conosciuto il carattere della propria malattia, ma ha saputo benissimo ciò di cui le era debitore: i suoi scritti, le lettere come le opere, sono pieni di esaltazioni eroiche del valore della malattia per la conoscenza. È proprio della paralisi, probabilmente per iperemia delle parti del cervello attaccate dal male, suscitare sensazioni inebrianti di felicità e di forza, il senso di un accrescimento soggettivo delle forze vitali e un aumento effettivo, anche se patologico dal punto di vista medico, della capacità produttiva. Prima di sommergere la sua vittima nella tenebra della follia e di ucciderla, la malattia le dona ingannevoli – ingannevoli nel senso della salute e della normalità – sensazioni di forza e di sovrana leggerezza, di illuminazione e di felice entusiasmo; il malato è allora preso da un brivido di ammirazione per se stesso, si convince che qualcosa di simile non si è avuto da secoli e arriva a sentirsi un nunzio del divino, un vaso della grazia, addirittura un dio. Abbiamo descrizioni di questa tragica euforia e dell’ispirazione travolgente che essa porta con sé nelle lettere di Hugo Wolf;7  ma sappiamo anche come a quei periodi ne seguissero poi altri di vuoto spirituale e di impotenza artistica. La descrizione più grandiosa dell’estasi paralitica si trova, ed è un capolavoro di stile, nell’Ecce homo di Nietzsche, nel terzo paragrafo del capitolo sullo Zarathustra. «C’è qualcuno che alla fine del diciannovesimo secolo abbia un concetto chiaro di ciò che i poeti delle epoche forti chiamavano “ispirazione”? Altrimenti lo spiegherò io.»8  Si vede che egli sente la propria esperienza come qualcosa di atavico, di demoniaco, di remoto, appartenente ad altri stadi dell’umanità, «più forti» e più vicini al divino, qualcosa che va al di là delle possibilità psichiche della nostra età debole e razionale. E parallelamente descrive «secondo verità» – ma che cos’è la verità? L’esperienza o la medicina? – quel distruttivo stato di eccitazione che, quasi a scherno, precede il collasso paralitico.

Probabilmente la sua concezione dell’«eterno ritorno», a cui egli dava un peso così straordinario, è un prodotto dell’euforia poco controllato intellettualmente e nemmeno suo proprio, ma una reminiscenza. Già Merežkovskij aveva fatto notare come il pensiero del «superuomo» compaia già in Dostoevskij, precisamente nei discorsi dell’epilettico Kirillov nei Demoni. «Allora sorgerà un uomo nuovo» dice il veggente nichilista di Dostoevskij, «ogni cosa sarà nuova. La storia si dividerà in due epoche: dal gorilla all’annientamento di Dio, dall’annientamento di Dio alla trasformazione fisica della terra e dell’uomo», vale a dire alla comparsa dell’uomo-dio, del superuomo. Mi pare invece che non sia stato rilevato il fatto che anche l’idea dell’eterno ritorno si trova già in Dostoevskij, e precisamente nei Karamazov, nel colloquio di Ivan con il diavolo. «Oh sì, tu pensi sempre alla nostra terra nel suo stato attuale!» dice il demonio. «Ma la nostra terra attuale si è ripetuta forse bilioni di volte: era decrepita, congelò, si fendette, si separò, si scompose nei suoi elementi, di nuovo l’acqua “ricoprì le terre”, di nuovo la cometa, di nuovo il sole, di nuovo dal sole la terra... quest’evoluzione si è forse ripetuta infinite volte e tutto sempre in un unico e stesso modo fin nei più piccoli particolari... e questa è la noia più indecente!»

Per bocca del diavolo, Dostoevskij chiama «la noia più indecente» quel che Nietzsche, con dionisiaca enfasi, benedice, e a cui rivolge il suo «poiché io ti amo, o eternità!». Ma il pensiero è il medesimo, e mentre nel caso del superuomo credo a una coincidenza di spiriti fraterni, sono incline a ritenere l’«eterno ritorno» il frutto di una lettura, una inconsapevole reminiscenza dostoevskijana colorata di entusiasmo. 

Del resto, può darsi che io qui sia incorso in un errore cronologico: lascio l’esame del caso agli storici della letteratura. Quello che m’interessa è, in primo luogo, un certo parallelismo nel pensiero dei due grandi malati, e inoltre il fenomeno della malattia come grandezza o della grandezza come malattia, ovvero le diverse prospettive dalle quali la malattia può essere vista: come diminuzione o come accrescimento di vita. Davanti alla malattia come grandezza, alla grandezza come malattia il punto di vista puramente medico si rivela filisteo e inadeguato, per lo meno unilateralmente naturalistico: la questione presenta un aspetto spirituale e culturale che è in rapporto con la vita stessa, con il suo potenziamento e la sua crescita, e del quale il puro biologo e il medico malamente s’intendono. Diciamolo pure: un’umanità sta maturando, o riemergendo dall’oblio, pronta a togliere dalle mani della biologia, convinta di averne essa l’esclusivo diritto, il concetto della vita e della salute e a impossessarsene per usarne in maniera più libera, più religiosa e, soprattutto, più veritiera. L’uomo infatti non è soltanto un essere biologico.

Malattia – prima di ogni altra cosa, tutto dipende da chi è malato, pazzo, epilettico o paralitico: un comune imbecille, nel caso del quale la malattia è senza dubbio priva di aspetti spirituali e culturali, oppure un Nietzsche, un Dostoevskij. Nei loro casi la malattia mette in luce qualcosa che per la vita e il suo sviluppo è più importante e più utile di qualsiasi normalità sanzionata dalla scienza medica. La verità è che la vita da quando esiste non è riuscita mai a fare a meno dell’elemento morboso e difficilmente si può trovare sentenza più stupida di quella che dice: «Dalla malattia può derivare soltanto la malattia». La vita non è schizzinosa e si può ben dire che le è mille volte più cara la malattia creatrice, dispensatrice di genio, la malattia che prende con sé sul suo cavallo gli impedimenti e ardita balza di rupe in rupe, che non la salute, la quale si trascina a piedi comodamente. La vita non ha gusti difficili e non pensa minimamente di fare una qualche differenza morale fra malattia e salute. Afferra l’audace prodotto della malattia, lo divora, lo digerisce, e facendolo suo lo trasforma in salute. Un’intera orda e generazione di giovani sanissimi e ricettivi si getta sull’opera del genio malato, dell’uomo reso geniale dalla malattia, e ammira, loda, eleva, porta con sé, trasforma, affida in eredità alla cultura, che non vive soltanto del casalingo pane della salute. Tutti costoro giureranno sulla parola del grande malato, e grazie alla sua follia non sentiranno più la necessità di essere folli essi stessi. Della sua follia essi godranno nella loro salute, ed egli diventerà sano in loro.

In altre parole: certe conquiste dell’anima e della conoscenza non sono possibili senza la malattia, la follia, il crimine spirituale; i grandi malati sono dei crocifissi, delle vittime offerte all’umanità e alla sua elevazione, all’ampliamento della sua capacità di sentire e di conoscere, in breve, alla sua più alta salute. Da ciò deriva quell’aura religiosa che così palesemente avvolge l’esistenza di simili uomini e che influisce in modo così profondo sulla loro consapevolezza di sé. Da ciò derivano anche, però, i sentimenti di forza, di vittoria e di una vita straordinariamente elevata pur in mezzo a ogni genere di dolori che queste vittime conoscono, per così dire, in anticipo, sentimenti di trionfo che si possono dire ingannevoli solo in un senso banalmente medico: essi sono nella loro essenza un connubio di malattia e di forza che si fa beffe dell’abituale associazione fra malattia e debolezza e che, con il proprio paradosso, contribuisce a tingere in senso religioso la loro esistenza. Essi ci costringono a concepire diversamente le idee di «malattia» e di «salute», il rapporto fra malattia e vita; ci insegnano la prudenza nei confronti del concetto di malattia cui siamo anche troppo inclini a dare un contrassegno biologicamente negativo. Proprio di ciò parla Nietzsche in un appunto postumo, relativo alla Volontà di potenza: «Salute e malattia: si usi prudenza! Il criterio rimane il rigoglio del corpo, l’elasticità, il coraggio e l’allegria dello spirito; ma, naturalmente, anche quanto di malato esso sappia prendere su di sé e superare – sappia trasformare in salute» (il corsivo è di Nietzsche). «Ciò che rovinerebbe gli uomini più delicati fa parte degli stimolanti della grande salute.»9 

Nietzsche si è sentito sempre sano, di quella sanità altissima per la quale la malattia diventa uno stimolante. Ma mentre nel suo caso il rapporto fra malattia e forza si presenta in modo da far apparire quella sensazione di una forza infinita e il risultato concreto di essa come un prodotto della malattia (fenomeno che risponde alla natura della paralisi), nel caso di Dostoevskij, l’epilettico, siamo quasi costretti a vedere nella malattia il prodotto di una forza esuberante, un’esplosione e un eccesso di una salute enorme, e a convincerci del fatto che la più alta vitalità può avere i tratti di una terrea infermità.

Nulla si presta meglio a confondere i concetti biologici che la vita di quest’uomo, un vibrante fascio di nervi, soggetto ogni momento alle convulsioni, «così sensibile come se gli fosse stata strappata la pelle e già il semplice contatto dell’aria gli cagionasse dolore» (la citazione è da Memorie dal sottosuolo), il quale riuscì nondimeno a raggiungere i sessant’anni (1821-1881) e nei quattro decenni produttivi della sua vita innalzò un’opera colossale, di novità e di audacia inaudite, di una pienezza tumultuante di passioni e di visioni, un’opera che, oltre al furore «criminale» della conoscenza e della confessione, con cui ampliò il nostro sapere sull’uomo, contiene in sé una ricchezza stupefacente di baldanzosa allegria, di comicità fantastica e di «giocondità dello spirito». Perché questo crocifisso fu, tra le altre cose, anche un grandissimo umorista.

Se Dostoevskij non avesse scritto altro che i piccoli romanzi che qui vengono presentati, al suo nome spetterebbe senza dubbio un posto notevolissimo nella storia della novellistica mondiale. Ma essi non formano nemmeno la decima parte di quel che egli ha scritto. Amici a cui era familiare l’intima storia delle sue creazioni ci assicurano che Fëdor Michajlovič non scrisse nemmeno un decimo di tutti i romanzi che egli portava, per così dire, già compiuti in sé e dei quali sapeva esporre con entusiasmo ogni particolare. Per dar vita a questo numero infinito di progetti gli mancò semplicemente il tempo. E poi dovremmo credere ancora alla malattia come espressione di un impoverimento vitale! [...]

Lo stesso rapporto che intercorre tra questa edizione e l’opera complessiva di Dostoevskij e, a sua volta, tra l’opera che egli compì e quella che avrebbe potuto e voluto creare se non glielo avessero impedito i limiti posti alla vita umana, lo stesso rapporto intercorre tra ciò che ho qui detto su questo russo straordinario e quello che su di lui propriamente si dovrebbe dire. Dostoevskij con misura, Dostoevskij con saggia limitazione: questa è stata la parola d’ordine. Quando esposi a un amico la mia intenzione di scrivere una prefazione a questo volume egli mi disse ridendo: 

«Stia in guardia! Finirà per scrivere un libro su di lui!»

Sono stato in guardia.


* Il saggio qui riprodotto (titolo originale: Dostoewski – mit Maßen) è tratto da: La nobiltà dello spirito e altri saggi, a cura di Andrea Landolfi, Mondadori, Milano 1997 (traduzione di Bruno Arzeni). Fu pubblicato per la prima volta, in traduzione inglese, come introduzione a The Short Novels of Dostoevsky, New York 1945.1 Nel saggio Antologia russa, in Nobiltà dello spirito e altri saggi, cit., p. 856.

2 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, I, 6, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano 1964 sgg., VI, 1, p. 39.

3 Si tratta del capitolo nono della seconda parte dei Demoni, intitolato Da Tichon ma più noto come Confessione di Stavrogin, pubblicato integralmente solo nel 1922 perché a suo tempo rifiutato dall’editore per il suo contenuto scabroso.

4 Cfr. Tonio Kröger, 4, trad. di E. Castellani, in Romanzi brevi, a cura di R. Fertonani, Milano 1977, p. 92: «Il caso di Amleto, del danese, di questo prototipo del letterato. Egli sapeva che cosa significhi essere chiamato al conoscere, senza esservi nato».

5 Probabilmente Mann si riferisce al paragrafo 45 di Scorribande di un inattuale, intitolato Il criminale e quel che gli è affine, in Crepuscolo degli idoli, in Opere, cit., VI, 3, p. 145.

6Frammenti postumi 1888-1889, in Opere, cit., VIII, 3, p. 145.

7 Hugo Wolfs Briefe an Oskar Grohe, Berlin 1905, da Mann utilizzati nel capitolo venticinquesimo del Doktor Faustus.

8 Ecce homo. Così parlò Zarathustra, 3, in Opere, cit., VI, 3, p. 348.

9 Frammenti postumi 1885-1887, in Opere, cit., VIII, 1, p. 96.