IL RACCONTO DELLA SERVA ZERLINA
Hermann Broch
Commento
Luigi Forte
Il racconto della serva Zerlina ebbe a suo tempo un’ammiratrice d’eccezione: Hannah Arendt. In una lettera a Hermann Broch del 5 novembre 1949, la studiosa dichiarò con entusiasmo: «La ballata della Zerlina è una delle più grandi storie d’amore che io conosca e personalmente quella che mi è forse più gradita. Qualcosa di così meraviglioso, scritto interamente dalla prospettiva di quell’indimenticabile che risalta solo nel materiale di ciò che si è dimenticato».1 Ancora anni dopo, le pagine di Broch le parvero «forse la più bella storia d’amore della letteratura tedesca», come scrisse nella sua introduzione a Poesia e conoscenza, un volume di saggi dell’amico.
La Arendt e Broch, ambedue profughi, si erano conosciuti durante l’esilio americano, nel maggio del 1946 a New York, a casa della comune amica Annemarie Meier-Graefe, che sarebbe diventata la seconda moglie dello scrittore. Lui, sessantenne, era all’apice della carriera, dopo romanzi di grande respiro come I sonnambuli e La morte di Virgilio, pubblicato l’anno prima sia in tedesco che in inglese; lei, di vent’anni più giovane, era all’inizio della sua attività scientifica. Condividevano l’interesse per la letteratura e la filosofia, mentre la drammatica esperienza personale li indusse a riflettere sia sul problema dell’assimilazione ebraica che sulla situazione politica europea, e a sviluppare teorie sui totalitarismi di destra e di sinistra. Il loro carteggio, durato ben cinque anni fino alla morte di Broch nel maggio del 1951, mostra un crescente interesse reciproco: lei non ha difficoltà a collocare l’opera dell’amico fra Proust e Kafka, fra un passato ormai irrecuperabile e un futuro dai contorni indefinibili e problematici. Più che il pensatore politico per la Arendt contava l’artista, lo scrittore che nei Sonnambuli aveva ripercorso il cammino dell’angoscia di un secolo ribadendo l’etica di un pessimista che ancora confidava nel valore umano. Lui, invece, nel mettere a punto il progetto degli Incolpevoli – romanzo in undici racconti, come recita il sottotitolo –, affronta il tema della colpa tedesca prendendo spunto, oltre che da Karl Jaspers, dal saggio della Arendt Colpa organizzata e responsabilità universalescritto nel gennaio del 1945 in concomitanza con la liberazione del lager di Auschwitz da parte dell’Armata rossa.
Il racconto della serva Zerlina, del 1949, è incastonato in quest’ultimo romanzo e i suoi personaggi, dalla protagonista ad A. (altrove citato come Andrea), da Hildegard alla baronessa e al defunto marito, il Presidente del tribunale, sono in realtà attori di una scena ben più vasta e di un divenire che sfocia in epiloghi drammatici. La genesi così come, in parte, la struttura non proprio unitaria dell’opera furono più un prodotto del caso che di un serio, programmato disegno, come lo stesso Broch ebbe modo di precisare in alcune lettere. Fra aprile e dicembre 1933 erano apparsi su riviste e giornali cinque racconti, che risalivano a un periodo precedente, raggruppabili in un progetto più o meno organico, quasi che la penna dello scrittore, come qualcuno suggerì, fosse stata guidata da una sorta di «subcosciente creativo». La stessa Arendt ricordò, nella sua prefazione a Poesia e conoscenza, che Broch aveva ricevuto nell’immediato dopoguerra la proposta di una casa editrice di pubblicare in volume quei vecchi racconti. Fu lo stimolo che indusse lo scrittore a ripensare, dopo la tragedia europea, a un’opera più organica in cui affrontare il problema della colpa di quel disastro epocale che aveva fatto seguito alla dissoluzione dei valori con la sconfitta del 1918, ancora ben presente nel mondo dei Sonnambuli, sondando il terreno da cui il nazismo aveva tratto le sue vere energie.
Nella sua forma definitiva Gli incolpevolivoleva essere un romanzo politico e forse, in tal senso, rispondeva alle ambizioni del tardo Broch che cercava di temperare il proprio pessimismo verso l’opera d’arte mediante la figura di un intellettuale non racchiuso nella torre d’avorio ma consapevole di un’ampia responsabilità sociale e forse anche attratto dal desiderio di dare nuova sostanza morale al mondo. Anche i personaggi degli Incolpevoli, figure del periodo prehitleriano apparentemente apolitiche, pur nell’autonomia di ogni racconto, vivono un processo di comune maturazione verso un’autoconsapevolezza che li pone di fronte alla propria responsabilità o all’aporia di un tragico destino. È il caso della giovane lavandaia Melitta, figlia adottiva dell’apicultore, che l’indifferenza di Andrea, con cui ha avuto una breve relazione, e le parole istigatrici e menzognere di Hildegard spingono al suicidio. Al vuoto del cuore e all’ipocrisia la ragazza diciannovenne – quasi un’icona fiabesca – oppone la purezza liberatoria della propria morte. Lo stesso Andrea, il personaggio più rilevante di questi racconti insieme a Zerlina, segue un percorso di rigenerazione attraverso la riconquista dell’immagine materna nelle spoglie dell’anziana baronessa e l’accettazione dei propri errori: lo speculatore, che ha fatto ottimi investimenti finanziari e immobiliari anche in Africa nel momento in cui l’Europa andava a fuoco, scopre nel suo disimpegno umano una dolorosa insufficienza, la profonda sostanza della propria colpa. «Io sono sempre rifuggito dal prendere decisioni» egli ammette di fronte al forestiero che altri non è se non l’apicultore giramondo nel racconto Il convitato di pietra. «Per questo non ho mai conosciuto vero amore: non ho mai amato. E quando mi si presentò una vera possibilità di fuga, io ho abbandonato la donna che amavo».2 Ecco la sua colpa: la mancanza di responsabilità. Il dialogo con l’apicultore è una sorta di seduta psicoanalitica che svela ad Andrea il suo più intimo Io e lo stimola a una franca e impietosa confessione, premessa di ogni vera penitenza. Ma il suo tragico itinerario è in realtà una forma di purificazione, come dice il forestiero, è la capacità di fare i conti con il problema del male e il pericolo di imbestiamento che sovrasta il mondo e che lo induce a dire: «vedo la mia colpa più grave e più meritevole di punizione in una generale indifferenza. Ed è l’indifferenza originaria, quella verso la propria umanità; l’indifferenza al dolore del prossimo non è che una conseguenza. Divenuto illimitato, l’uomo è per se stesso una forma vaga e indistinta, ed egli non vede più il suo vicino».3
Come sempre il narratore Broch usa le contraddizioni della realtà per sconfinare in una dimensione gnoseologica ed etica, nella quale i personaggi si fanno portatori, anche attraverso complesse elaborazioni concettuali, di un’utopia capace di riscattare il tempo vuoto dell’esistenza. Sono figure alla ricerca di un mondo nuovo, come Andrea, divenuto consapevole con gli anni di tutte le lacune della propria vita, e come la stessa Zerlina che nel fuoco della passione e dell’eros trova per un attimo il senso del proprio riscatto. Tuttavia il loro destino seguirà percorsi diversi, perché diversa è la sostanza di ciascuno di essi così come la missione che lo scrittore affida loro. Zerlina è la forza propulsiva, istintuale di tutto il romanzo che, come già nel caso di Huguenau nella terza parte dei Sonnambuli, non arretra nemmeno di fronte al crimine. Andrea è un’anima divisa tra felicità e mestizia, cosciente della realtà terrena e del fantasma della morte. Ma è anche colui che cerca sicurezza e sogna la protezione di una casa e di una figura materna, di cui avverte la mancanza (come lo stesso Broch) e che ora ritrova nella baronessa. Nel racconto Madre d’acquisto Andrea deciderà così di condurre con sé la nobildonna nel padiglione di caccia, dove un tempo viveva il diplomatico e seduttore von Juna, l’uomo da cui la baronessa aveva avuto la figlia Hildegard.
È strano e singolare il percorso delle figure del romanzo proiettate in un’atmosfera quasi magica, nella quale i legami con la realtà si allentano e si dissolvono in un gioco di ombre o sconfinano talvolta in dialoghi dal sapore metafisico. Si ha la sensazione, come è stato detto,4 di essere guidati in una sfera atemporale in cui la realtà si sfrangia in molte dimensioni per poi ricomporsi – attraverso figure come Zerlina e Hildegard, preda quest’ultima di un travolgente impeto erotico in Madre d’acquisto – in un irrefrenabile vitalismo. Ma non è nell’oblio di se stessi la formula del riscatto né nell’opinabile rinnovamento di generazioni come quella della baronessa, ormai priva di ogni sostegno reale, o quella della stessa Hildegard – la «bastarda», come la chiama Zerlina –, avvolta in un’aura aristocratico-borghese in cui dominano noia e sterili sentimenti.
Broch non perde di vista il proprio obiettivo, la polemica contro il crimine dell’indifferenza politica che è anche e soprattutto etica: questa è la colpevole incolpevolezza dei suoi personaggi preda di un vuoto interiore, irrelati nel tempo e senza nessi umani. Perché il male sta nella chiusura verso se stessi e verso il mondo. Di qui sembra ricevere risposta il problema di fondo sollevato dal romanzo, e cioè l’interrogativo sulle premesse che hanno condotto alla vittoria del nazionalsocialismo. Non è un caso che Gli incolpevoli si affacci su un’epoca che segue da vicino quella descritta nei Sonnambuli con la teoria della disgregazione dei valori.5 Sono personaggi come il fanatico Huguenau, il soggetto della sobria ragione strumentale che di lì a poco il nazismo avrebbe facilmente manipolato, a scivolare via disinvolti nel meccanismo di qualsiasi potere: la loro morale è la legge dell’egoismo, l’asservimento al proprio tornaconto. Huguenau anticipa per certi aspetti la figura dell’insegnante Zaccaria negli Incolpevoli, il quale incarna il tipo del filisteo, del piccolo borghese che la moglie Filippina maltratta e percuote – con masochistica partecipazione del consorte. E Andrea nell’assistervi è consapevole che in quella casa domina l’inferno, «non l’unico, certo, ma uno dei tanti che sono ripartiti nel mondo, in terra tedesca forse un poco più fitti che altrove, dovunque però collocati in terreno innocuo, mentre l’essenza minacciosa, infernale, resta incapsulata e nascosta».6 Non a lungo, perché proprio grazie a Hitler, personificazione assoluta dello spirito filisteo, essa emergerà con demoniaca violenza. Così vanno le cose in Germania, ripete lo scrittore, «in modo più avido, più ciecamente istintivo, più infernale che altrove».7 Forse per questo il sentiero della virtù, che Andrea sembra destinato a imboccare, e di cui Melitta è immagine ormai sbiadita accanto all’apicultore-veggente che tiene in vita la fiammella divina nell’uomo, si presenta come un cammino di angoscia, di paura e tormento. Una strada che Zerlina ha percorso in vari modi, in un gioco di pulsanti e terribili contraddizioni: pur muovendo da umile condizione ella assume il ruolo di un deus ex machina che modella impietosamente la realtà circostante con furore vendicativo e smania di potere. Ma la sua vittoria sulla baronessa, su Hildegard e sullo stesso von Juna sono poca cosa di fronte al fuoco della passione che per un attimo ha generato in lei un autentico e sincero sentimento.
Il monologo di Zerlina nel racconto di Broch ha un forte impatto drammaturgico. Non a caso fu adattato, a più riprese, per il teatro. Lo interpretò come atto unico Hilde Krahl a Vienna nel 1983, mentre Klaus Michael Gruber lo mise in scena al Festival d’Automne di Parigi nel dicembre del 1986 con Jeanne Moreau nel ruolo della serva e Hans Zischler in quello di Andrea. Storia incalzante sul filo di una passione demoniaca e di una feroce sete di rivalsa, il racconto di Zerlina ha il ritmo vorticoso di una finale resa dei conti: con la propria vita, innanzi tutto, e con i personaggi che l’hanno pesantemente condizionata, ma anche, in prospettiva più ampia, con un’epoca al tramonto affacciata sul baratro dell’abiezione morale. Un’epoca in cui il suo interlocutore, l’olandese A., che si è sistemato nella decadente ma suggestiva casa della baronessa, ha fatto fortuna, investendo già anni prima con ottimi profitti i soldi dell’eredità paterna e mettendo poi a segno una serie di redditizie operazioni nonostante la grave crisi economica. Come si legge nel racconto Il convitato di pietra egli «ha saputo liberarsi quasi completamente dalle proprietà immobiliari, soprattutto dalle tedesche, ha largamente liquidato le sue speculazioni commerciali e ha investito la maggior parte del suo capitale in depositi americani».8 In tempi tanto difficili, con Hitler ormai al potere e una situazione mondiale prossima alla guerra, occorreva conservare freddezza e lucidità. L’abile affarista Andrea si è adagiato nel frattempo in un’indifferenza che solo l’apicultore, il cui arrivo si preannuncia nelConvitato di pietra con un suggestivo canto proveniente dal bosco, riuscirà a stanare facendo emergere nel giovane gli strati più profondi della sua coscienza. Non è un caso che la figura dell’anziano padre di Melitta sia nelle intenzioni di Broch, che ammicca al Don Giovanni, «un serio messaggero del cielo in senso mozartiano».9
Ma nel Racconto della serva Zerlina A. vive in uno stato di dormiveglia e passività generato dalla fede nel destino, fino a ora più che mai in sintonia con le sue esigenze. Un atteggiamento opposto all’attivismo della serva, che ridisegna nella propria narrazione tutta la platea dei personaggi e, nella ricerca di un’improbabile autenticità, ne mette a fuoco la vera sostanza. È un mondo dominato da passioni impietose, da turbamenti disumani. Su quello sfondo lo stesso A., pur nella sua inerzia spirituale e nell’alienante sicurezza economica, porta in sé le stimmate di un possibile ma doloroso rinnovamento. Importante è che egli sappia riconoscere la propria colpa, dirà il «padre di Melitta», perché solo così potrà diventare un eletto e forse ottenere un’inattesa ricompensa. La lezione di Zerlina è una delle tappe di tale processo, un lento inabissarsi nel delirio erotico come strumento di consapevolezza, a cui A. sembra non poter accedere; lui, ascoltatore perplesso che alla fine, nell’incerto ondeggiare di pensieri e idee che sfociano inevitabilmente nel desiderio materno, torna ad appisolarsi, mentre la serva si allontana in silenzio con tutto il suo carico di ricordi.
Il racconto di Zerlina ripercorre le tappe di una vita e mette a nudo l’identità di personaggi che animano l’intera scena del romanzo. E tutto avvolge nella dimensione del piacere, che è la forza segreta e spesso inconfessata di queste anime coinvolte in un inconsapevole gioco dalla solerte e perfida serva. La sua figura rientra in una casistica ben precisa indicata da Broch nell’Autobiografia psichica, là dove egli decise di mettere a nudo la propria anima parlando di trauma infantile e di gravi sintomi nevrotici. A sua volta egli proiettò sul personaggio di Andrea quel costante bisogno di amore materno che gli era stato negato (la madre preferiva il secondo figlio, più giovane). Una privazione che gli procurò uno spaventoso complesso d’inferiorità nei confronti sia del padre che del fratello, e da cui scaturì un senso di impotenza anche fisico, tale da fargli ammettere molti anni dopo: «è un’idea così ben radicata in me da avermi accompagnato – nonostante le tante prove contrarie – per tutta la mia vita».10 Ma la propria nevrosi, grazie anche alla scoperta dell’ Io pensante, si trasformò felicemente in creazione artistica. «Il solitario, il non-uomo» egli confessò «divenne all’improvviso, in virtù del suo pensiero, un autentico “creatore di mondi”, ossia un filosofo platonico la cui missione consiste nel ricreare la realtà appunto attraverso le idee».11 In quella realtà si colloca una dualistica tipologia femminile, presente nello scrittore sin dall’infanzia con un primo modello plasmato sull’immagine materna: padrona di casa, donna di alta estrazione sociale che colpisce per la sua bellezza e la sua capacità di comando. Il tipo che corrisponde al Super-Io, con cui Broch manifesta il suo masochismo. Il secondo tipo, riprodotto in vario modo nella figura di Zerlina, evoca cameriere e governanti: è l’immagine della donna di servizio sulla quale si proiettano i primi desideri erotici. Da queste ragazze, di regola rotondette, bionde e «ariane» Broch ebbe la tenerezza che la madre riservò solo al fratello; esse rientrano in un’altra categoria, quella dell’Es pulsionale con cui egli manifesta il suo sadismo. È quanto mai verosimile che tale dualismo risenta dell’influenza del filosofo viennese Otto Weiniger che per lo scrittore fu un modello fin dalla giovinezza, modello grazie al quale Broch costruì tipologie femminili contrapposte già nei Sonnambuli (si pensi ai binomi Ruzena-Elisabeth e Ilona-Mutter Hentjen) e che ora ritrovano spazio anche negli Incolpevoli con la coppia Melitta-Hildegard, l’una semplice e generosa dispensatrice di amore, l’altra erotomane che azzera la libido maschile.
La figura di Zerlina ha una funzione molto più complessa e paradossale, non solo per quella segreta lotta di potere che si instaura fra lei e la baronessa, ma anche per una sorta di scambio di ruoli, grazie a cui la serva sviluppa una sicurezza e una disinvoltura che le permettono di dominare. La stessa educazione di Hildegard, di cui si fece carico, sottolinea tale impegno. Una prospettiva che Broch aveva già suggerito nel racconto Ofelia del 1920, in cui l’eroina shakespeariana, sensibile e passiva, maturava un atteggiamento di superiorità nei confronti di Amleto. Apparentemente Zerlina, la quale giovanissima era già stata a servizio presso la madre della baronessa, è un semplice oggetto di desiderio che non si sottrae agli approcci maschili e si compiace del fatto che il barone, a quel tempo non ancora Presidente di tribunale, le rivolga insistenti attenzioni: «... avrebbe dovuto vedermi allora,» confessa ad A. «tutto era sodo in me, e i miei seni stavano su da soli, così bene che tutti volevano allungare le mani».12 Proprio la figura del barone che di lei non volle mai approfittare si erge alla fine del racconto a icona di un sentimento vero, generato dalla rinuncia e dal rispetto, rappresentando così il volto di un amore che avvolge il desiderio nella tensione utopica. Può sembrare singolare che dopo tante avventure Zerlina si spinga a confessare a un A. sonnacchioso: «In me c’era l’immagine del Presidente, indelebile, fin dal primo giorno, e quell’immagine è cresciuta, cresciuta... Chi è la sua vedova, da quando lui è morto? Chi, se non io? Sono passati oltre quarant’anni da quando lui mi ha palpato il seno, e da allora io l’ho amato, per tutta la vita, con tutta l’anima».13
Il barone e von Juna, l’amante che lei stessa ha invischiato in un desiderio assoluto, sono i due estremi nella fenomenologia brochiana dell’amore: il santo e il diavolo con cui questa serva, che pensa e parla con filosofica maturità, trasportata simbolicamente ad altezze vertiginose, delinea un itinerario di consapevolezza. È un lento, costante processo che attraversa varie fasi, ma in nome di un unico ideale: la difesa della vita contro la morte. Qui il piacere, su cui Zerlina tiene una vera e propria arringa, trova la sua più immediata giustificazione. Ma ci vuole tempra e forza per liberarne tutte le potenzialità e lasciare che investa l’intero essere in un’avventura di convulso vitalismo, che la stessa baronessa, pur vittima del lascivo von Juna, non ha saputo coltivare sino in fondo. Lei, come sua figlia Hildegard, è ben più simile a coloro che per distinzione o debolezza «cercano di stordire il piacere dei sensi con la grancassa dell’anima, perché non lo ritengono abbastanza fine sul piano spirituale».14 Non è certo il tamburo dell’amore che la serva suona a letto con von Juna, ma quello dell’eros che li sospinge, come dice lei, per giorni e notti sull’orlo dell’abisso.
Personaggio emerso dal mito di Don Giovanni e in qualche modo capovolto, Zerlina risponde a una ritualità di ribellione ed erotismo, ma nella sua enfatica descrizione del coito, che cela uno stretto legame fra eros e thanatos, è lei a godere del piacere che l’amante le procura. Von Juna può soltanto servire, ribaltando così il ruolo del vero seduttore, mentre la serva ha in pugno la situazione, e mai si sognerebbe di chiedere aiuto, come la contadinotta mozartiana che di fronte a un Don Giovanni deciso a portarla via con sé urla: «Soccorretemi, o son morta!...». Zerlina è piuttosto, come confessò Broch in una lettera alla moglie del suo editore Daniel Brody, «una femmina vivacissima, molto sveglia (anche sessualmente) e assai scaltra».15
Dunque nel testo di Broch l’amante è solo uno strumento, anche se per Zerlina, che ha soppiantato un’altra donna nel padiglione di caccia, egli diventa medico, maestro e servo al tempo stesso. Anche von Juna è dominato come il mitico Don Giovanni dalla coazione a ripetere, che certo non lo porterà mai al vero riscatto. Lo dice con una sorta di paradosso la stessa domestica nel suo travolgente racconto: «Un uomo simile non è capace di amare, sa solo servire, e in ogni donna che incontra serve quell’unica che non esiste, e che lui potrebbe amare, se esistesse, mentre così è solo uno spirito maligno che lo rende schiavo».16 Ecco l’inferno del seduttore che rischia di spalancarsi e travolgerlo quando la sua vecchia amante, dopo la partenza di Zerlina, viene trovata morta nel padiglione di caccia. Forse è lui il responsabile; ci sono lettere scambiate con la baronessa Elvira in cui ambedue minacciavano di commettere un assassinio. Lettere che la serva ha trafugato e che invia al Presidente del tribunale per evitare che, di fronte a prove poco consistenti, egli possa o debba lasciare libero proprio l’uomo che aveva sedotto sua moglie. Ma i calcoli di Zerlina si rivelano errati: il barone rifiuta qualsiasi forma di vendetta e il seduttore viene prosciolto. La serva sognava l’apocalisse e si ritrova a riflettere sulle proprie responsabilità.
Tutto il racconto si snoda come una grande confessione per liberare l’anima da un peso insopportabile che anche le sbiadite vittorie di Zerlina non hanno rimosso. Ha soggiogato von Juna con un empito sessuale che la baronessa non conobbe mai, e si è guadagnata uno spazio ben più ampio del suo stabilendo lei stessa le regole del gioco. Disprezza il sogno romantico della padrona Elvira, la ridicola regina degli Elfi infatuata di von Juna, come uno schifo solenne, una grancassa dell’anima e dei sentimenti. Zerlina invece non viene meno alla difesa del piacere, il suo vitalismo potrebbe essere forse meglio compreso sullo sfondo della riflessione che Hannah Arendt annotò nell’ottobre del 1950 nel suo Denktagebuch parlando dell’eros nella grecità come forza aggregante fra gli uomini, un legame profondo capace di saldare insieme singoli e comunità, e ormai disperso come lo è la fede nel Dio cristiano. Il risultato è una «sconfinata solitudine, l’abbandono di Dio in un permutabile massificato intreccio di individui senza rapporti né contatti».17Insomma la sicurezza di sé si è trasformata in un senso di desolante abbandono.
Il messaggio di Zerlina si muove nella direzione opposta, privilegiando il bisogno dell’altro, in una fusione che generi calore e vicinanza per rifocillare l’animale anarchico che è in lei. È il fuoco della passione, di cui ancora parla la Arendt nelle sue annotazioni diaristiche citando Aristotele: non esperienze psichiche o mentali, ma un coinvolgimento totale, quindi anche fisico, della creatura nel suo essere nel mondo. Anche se tale passione, correlata con la brama di potere, suggerisce alla serva comportamenti poco lusinghieri. Ma qui è la visione ideale di Broch a modellare il personaggio e la sua consapevolezza delle ingiustizie compiute. Il racconto di Zerlina comprende così anche la confessione della colpa commessa nel giorno in cui ella decise di mandare in forma anonima al barone le lettere della moglie e di von Juna. Del resto lei stessa, sia pur indirettamente, si sentiva coinvolta se, com’era probabile, l’amante del diplomatico era stata uccisa proprio a causa sua. «Era terribile la prova» ella confessa «che avevo imposto [al Presidente] e che lui doveva affrontare in nome della giustizia, perché io potessi credere ancor di più nella sua grandezza e nella sua santità. Per questo ero disposta a pagare con la vita, eppure è stato un atto di perfidia che continuo a non capire».18 Il racconto sfocia dunque in autoaccusa e Zerlina, spesso indifferente come altri ai mali del mondo o addirittura complice, rivela ora, ansiosa del proprio riscatto, una maturità e un giudizio guidati dall’ispirazione brochiana: «Perché» ricorda ad A. «insieme con la nostra perfidia continua a crescere, diventando più grande di noi, anche la nostra responsabilità, e quanto più profondamente l’uomo deve immergersi nella propria perfidia per trovare se stesso, tanto più deve assumersi la responsabilità dei delitti che non ha commesso».19 Qui è Broch che parla e come sempre in questi racconti, e altrettanto nei romanzi, la sua concezione del mondo, proiettandosi su un piano simbolico, finisce per snaturare un po’ i personaggi, innalzandoli a portatori di idee che vanno ben al di là della loro prosaica vita quotidiana. Zerlina è certo più verosimile quando descrive i suoi amori, tuttavia non meno affascinante quando divaga sul tema della memoria piena di buchi che non si possono rattoppare. «Ciascuno di noi dimentica il proprio impegno quotidiano» confessa la serva-filosofa. «E persino il piacere di cui ho goduto è diventato una spazio vuoto, avulso dallo scorrere delle stagioni».20Eppure proprio in quel coacervo di oblio che a volte è la vita sopravvive e cresce l’indimenticabile che Broch ritiene «un dono che la morte fa a noi».21 Per Zerlina è stata la passione che la travolse, l’attimo inestinguibile, un minuto frammento di utopia nella dissoluzione del tempo. «Perché l’indimenticabile» confessa con tono ispirato «è un frammento di futuro, è quel frammento di atemporalità che ci è stato donato in anticipo; un’atemporalità che ci sorregge e attutisce la nostra caduta nel buio, sino a renderla un fluttuare».22 Ancora una volta le ragioni della vita vengono contrapposte al rituale della morte. Anche se snaturate dagli anni, perché nel passato sopravvive per la vecchia Zerlina la luce del domani e non importa se prima o poi dovrà spegnersi. Non è la morte qui a vincere, ma la forza dell’eros che rende più lieve il suo inesorabile appello.
1. H. Arendt-H. Broch, Carteggio 1946-1951, trad. it. di V. Punzi, Marietti, Genova-Milano, 2006, p. 207 (traduzione lievemente modificata).
2. H. Broch, Gli incolpevoli, trad. it. di G. Gozzini Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino, 1963, p. 244.
3. Ibid., p. 248.
4. Cfr. H.J. Weigand, Zur Einführung, in H. Broch, Die Schuldlosen. Roman in elf Erzählungen, in Gesammelte Werke, Rhein Verlag, Zürich, vol. V, 1950, pp. 5 sgg.
5. Cfr. M. Durzak, Die Entstehungsgeschichte von Hermann Brochs Die Schuldlosen mit bisher ungedruckten Quellen, in «Euphorion»,63, 1969, pp. 400 sgg.
6. Broch, Gli incolpevoli, cit., p. 160.
7. Loc. cit.
8. Ibid., p. 232.
9. H. Broch, Briefe von 1929 bis 1951, a cura di Robert Pick, in Gesammelte Werke, cit., vol. VIII, 1957, p. 362.
10. H. Broch, Autobiografia psichica, a cura di R. Rizzo, Il capitello del sole, Bologna, 2002, p. 16.
11. Ibid., p. 43.
12. Cfr. sopra.
13. Ibid., p. 56.
14. Ibid., p. 23.
15. Broch, Briefe, cit., p. 362.
16. Cfr. sopra.
17. Cit. in H. Mahrdt, «Hannah Arendt und Hermann Broch», in M. Kessler, a cura di, Hermann Broch. Neue Studien, Stauffenberg, Tübingen, 2003, p. 2011.
18. Cfr. sopra.
19. Ibid., p. 55.
20. Ibid., pp. 26-27.
21. Ibid., p. 27.
22. Loc. cit.
In città gli orologi dei campanili avevano appena battuto le due in una confusa eco di suoni – solo le note da carillon barocco provenienti dalla chiesa del castello, situata in cima a un dolce declivio nel punto più alto della città, spiccavano per la loro maggior limpidezza. La domenica estiva aveva giusto allora imboccato la curva discendente, un declinare più uggioso e forse anche più lento che in qualsiasi altro giorno della settimana, e A., disteso sul canapè della sua stanza, ne prendeva atto: la noia domenicale è di natura atmosferica; l’interruzione della universale operosità si trasmette all’aria, e chi non vuole esserne contagiato dovrebbe riempire le sue domeniche lavorando il doppio o addirittura il triplo. Durante i giorni feriali, anche nell’inattività più completa, non si sentono gli orologi delle chiese battere le ore.
Lavoro? A. pensava all’ufficio che aveva aperto nel quartiere commerciale della città, dove di tanto in tanto dava prova di un’intraprendenza addirittura inesausta; il più delle volte però lasciava semplicemente scorrere i giorni senza far nulla, anche se, beninteso, i suoi pensieri non smettevano mai di girare attorno al denaro e alle svariate possibilità di guadagnarne. E questo lo irritava. Quel fiuto nel far soldi che gli era connaturato aveva in sé qualcosa di sospetto. Certo, gli piaceva mangiar bene, bere del buon vino, e amava in qualche misura gli agi della vita. Ma non amava il denaro in quanto tale; anzi, era per lui un piacere poterlo regalare. Perché dunque questa facilità sospetta con cui lo attirava a sé, ben oltre i propri bisogni? Investire il denaro in modo adeguato e sicuro era sempre stato per lui più difficile che non guadagnarne. Adesso si accaparrava terreni e immobili: pagati con il marco svalutato, gli costavano poco o nulla. Ma era tutt’altro che felice per aver concluso questo genere di affari: era come adempiere a un dovere fastidioso.
Le persiane erano ancora abbassate a protezione del sole mattutino, e lui, benché con il pomeriggio fosse arrivata l’ombra, era stato troppo indolente per decidersi a rialzarle. Certo, poco male: in quella luce scialba la stanza sarebbe rimasta più fresca, e alla sera si sarebbero pur dovute aprire le finestre. Ogni volta la pigrizia tornava a suo vantaggio. La sua d’altronde non era nemmeno vera indolenza; era solo una certa ritrosia di fronte a qualsiasi decisione. Non gli piaceva estorcere qualcosa al destino, no, era il destino che doveva decidere per lui, e a quella decisione lui si sottometteva, mantenendo – beninteso – una certa vigilanza, anzi una certa astuzia, tanto più necessaria, in quanto quell’istanza decisionale aveva architettato un curioso sistema per guidarlo: lo minacciava con ogni sorta di pericoli, dai quali lui doveva fuggire, e proprio quella fuga gli fruttava denaro. La sua folle paura dell’esame di maturità – la paura degli esaminatori pronti a coglierti in errore e ai quali il destino ha concesso il potere di incutere spavento, perché costoro conoscono i più riposti segreti dell’esaminando e riescono così a svuotarlo di tutto il suo sapere, come se nulla egli avesse mai appreso –, quella folle paura dell’esame lo aveva indotto a fuggire in Africa, quindici anni prima. Senza un centesimo – il padre, furibondo per il comportamento del figlio, aveva pagato la traversata, ma niente di più – era sbarcato sulle coste del Congo, con la sua ritrosia a decidere e senza soldi, ma felice, perché l’imprevisto non implica esaminatori, bensì fede nel destino: e da allora lui aveva cominciato a credere nel destino, una disposizione d’animo che aveva preso la forma di un vigile e sonnolento lasciarsi vivere, e proprio per questo – forse a causa della vigilanza, forse a causa del sonnolento lasciarsi vivere – da allora in poi non fu mai più a corto di denaro. Che lavorasse come aiuto giardiniere, che servisse ai tavoli in una taverna o fosse stato assunto come impiegato in un’azienda, egli svolgeva queste sue mansioni in modo soddisfacente – e all’inizio ne ebbe una lunga serie –, solo finché nessuno gli faceva domande sulla sua idoneità e sulla sua preparazione: se interrogato, lasciava subito il posto, ogni volta certo con un po’ più di denaro in tasca, dato che ogni volta, come accade appunto nelle colonie, gli era capitata l’occasione di svolgere tante piccole attività secondarie, e ben presto le attività secondarie divennero quella principale. Si ritrovò così a Città del Capo, poi a Kimberley, e infine in una società diamantifera, di cui divenne socio, ed era sempre il suo destino a trascinarlo ora qua ora là, era quella sua predisposizione a eludere le seccature, a eludere le spiegazioni che – altrove – avrebbe dovuto fornire; non ricordava d’aver mai messo davvero in gioco la sua volontà, era sempre stata piuttosto quell’irresolutezza così simile all’indolenza, quell’indolenza operosa, di cui era fatta la sua fede nel destino e grazie alla quale se l’era sempre cavata. «Indolente assimilazione della vita, indolente assimilazione del destino» gli disse una voce interiore che lo ricondusse, soddisfatto di sé, al momento attuale: scorra pure via la domenica e si disperda come acqua nella sabbia, restino pure chiuse le persiane, andrà tutto per il meglio.
Ed ecco che – forse dopo un timido bussare – la porta si socchiuse e nello spiraglio apparve, proteso in avanti come quello di un uccello, il capo carico d’anni della domestica Zerlina: «Il signore sta dormendo?».
«No, no... entri pure».
«Lei di là sta dormendo».
«Lei, chi?». Una domanda stupida. Naturalmente non poteva essere altri che la vecchia baronessa.
Fra le rughe passò, scaltro, un guizzo; pareva quasi un soffio di spregio: «Quella là dentro... quella dorme sodo». E subito aggiunse, da un lato a garanzia che quel pomeriggio non sarebbero stati disturbati, dall’altro per introdurre il primo punto del suo programma: «La Hildegard è uscita... la bastarda».
«Che cosa?».
Ormai era entrata in camera sua, si teneva a rispettosa distanza, ma per via del ginocchio deformato dall’artrosi si appoggiava con una mano al bordo del cassettone: «Se l’è fatta fare da un altro,» rivelò «Hildegard è una bastarda».
Nonostante la gran voglia di saperne di più, lui non poteva però darle corda: «Mi senta bene, Zerlina, io qui sono a pigione, e queste cose non mi riguardano... non voglio nemmeno stare ad ascoltarla».
La donna abbassò gli occhi su di lui scuotendo la testa: «Eppure ci sta pensando... a che cosa sta pensando?, lo dica».
Quello sguardo indagatore lo irritava e suscitava in lui inquietudine. Che i pantaloni non fossero ben abbottonati? Si sentì colto in flagrante, ed era sgradevole. Stava per dirle che era completamente assorto nei suoi problemi finanziari. E nondimeno: come diamine poteva passare per la testa, a quella lì, che lui le dovesse delle spiegazioni? Tacque.
Lei avvertì il suo imbarazzo e non demorse: «La riguarderanno, la riguarderanno, il giorno in cui se la ritroverà nel letto».
«Ma dica un po’, Zerlina, che cosa le prende?».
Lei seguitò imperterrita: «Sempre se la svigna, quella lì, mentre, se avesse un vero amante con cui andare a letto, si risolverebbe tutto; sarebbe finalmente una vera donna... ma quella è un’ipocrita di tre cotte... recita la parte della vera donna, di una che corre in segreto dall’amante e che, non sapendo far di meglio, nasconde le scappatelle sotto goffe menzogne... anche la goffaggine dunque è tutta scena; e lei si porta appresso il libro di preghiere, come se andasse in chiesa, mentre tutti sanno benissimo a che ora si celebrano le funzioni e quindi non possono non capire, debbono ben capire che ciò che lei vuole è evidente... ha in bocca bugie fittizie e quindi bugie doppie, dietro le quali si nasconde quanto di più ripugnante esista al mondo... che cosa ci faccia, poi, con il libro di devozioni nel letto in cui va di fretta a coricarsi, non voglio neanche saperlo, e comunque lo scoprirò... riesco a scoprire tutto, io».
Attese un istante e, di fronte al silenzio di A. che aveva chiuso gli occhi, quasi a significare che non intendeva essere coinvolto, la donna avanzò di qualche passo, facendo scivolare una mano lungo il bordo del cassettone e lasciando pendere, un po’ rigida, l’altra: «Tutto riesco a scoprire, io, e ho anche scoperto come la vec..., come la baronessa sia riuscita allora a farsi fare la figlia... e sono riuscita a scoprirlo pure in fretta. D’altronde, tanto giovane e tanto stupida, a quel tempo non lo ero più, anche se di anni ne sono già passati parecchi, più di trenta. All’epoca, sì all’epoca ero ancora dalla moglie del generale... la madre buonanima della baronessa. Quella sì che era una casa distinta. Io ero la prima cameriera, e la seconda era per così dire la mia aiutante di campo, e poi avevamo anche una cuoca e una sguattera. E finché fu in vita sua Eccellenza il generale, per i lavori più pesanti in casa c’era l’attendente, che aiutava anche nel servire a tavola. Ma a quell’epoca sua Eccellenza il generale era già morto, e un bel giorno, eravamo a febbraio, e me ne ricordo ancora come se fosse ieri, con la neve bagnata che si appiccicava ai vetri delle finestre, insomma... la moglie di sua Eccellenza fa suonare il campanello e, quando arrivo su da lei, dice “Zerlin”, “Zerlin,” mi dice “tu sai che qui in casa dobbiamo ridurre un po’ le spese, però non voglio perderti del tutto”... sì, sì, ha detto proprio
questo... “non vorresti andare da mia figlia? Aspetta un bambino, e io preferirei che in casa con mio nipote ci fossi tu, piuttosto che una balia sconosciuta”. Sì, queste sono state le sue parole e io, ubbidiente, ci sono andata. Anche se a malincuore. Non ero più giovanissima, e Dio sa se non avrei preferito mettere al mondo dei figli miei da poter accudire. Ma se una ragazza va a servizio, deve togliersi certe idee dalla testa; andare a servizio significa rinunciare a tutto questo, e un figlio è solo un incidente da cui guardarsi. Peccato per me: sarei andata bene per una decina di figli. Quando ho preso servizio dalla moglie di sua Eccellenza, ero una rosa in boccio...» – con il braccio fece un gesto civettuolo che doveva significare trionfo, ma ricordava piuttosto un dipinto del Goya – «... avrebbe dovuto vedermi allora, tutto era sodo in me, e i miei seni stavano su da soli, così bene che tutti volevano allungare le mani. Perfino il signor barone, che a quei tempi non era ancora presidente di Corte d’Assise, ma solo pretore, persino lui non aveva potuto resistere. Lei magari pensa che non avrebbe dovuto farlo perché si era sposato da poco, e quindi per uno fresco di nozze è una cosa che non sta bene? Ma va, non era mica per questo. Lui era uno di quelli che stanno ben al di sopra del piacere e che, per la salvezza dell’anima, non dovrebbero mai abbandonarsi al desiderio di una donna. Probabilmente nemmeno quella,» – e con il pollice fece segno alle sue spalle verso la porta – «nemmeno quella lì l’ha mai desiderata. Be’, quella non era certo il tipo da grandi godurie, eh. Io, sì, io sì che lo avrei fatto godere, ma non volevo, anche se era un bell’uomo; lo avrebbe guastato nell’anima. Me la spassavo invece con gli attendenti di sua Eccellenza e, per quanto ne abbia più o meno sempre tratto piacere, alla fin fine non era cosa che andasse bene. Quasi mai in un vero letto, sempre e solo con i vestiti addosso, in fretta e furia nella stanza buia, nel salotto, quando i signori erano a teatro. Per una ragazza che va a servizio in città, il giro è questo. Al paese gli attendenti hanno la morosa, e non importa se magari con me si divertivano di più e se io magari ero più bella di quell’altra; chi aspetta ha maggiori diritti. È andata così. Gli anni della giovinezza in fiore» questa era evidentemente una citazione «trascorsero in fretta. Sono rimasta più di dodici anni dalla moglie di sua Eccellenza, e poi quella» – e con il pollice indicò di nuovo dietro di sé – «quella lì si è fatta ingravidare, mica io. Ero pur sempre e di gran lunga più attraente. Ma ha vinto lei. E io ho accettato il posto in casa sua, accanto alla sua bastarda».
Fece una pausa per tirare un lungo sospiro. Quindi, senza badare troppo all’ascoltatore, che si era messo a sedere, proseguì:
«Quando la piccola, la Hildegard, venne al mondo, il barone era già sulla cinquantina e, giusto in quel periodo, lo avevano nominato presidente di Corte d’Assise. Forse non era contento che fossi a servizio da loro perché, al pari di me, non poteva essersi scordato di quella volta in cui mi aveva palpato il seno. Sono cose che il tempo non segna, ma restano. Certo ormai, anche se mi portavo ancora bene ed ero una bella donna, lui non aveva più occhi per me. Era divenuto quello cui era predestinato, un uomo che non prova più desiderio per le donne. E persino se non avesse più potuto possedere una donna, non lo avrebbe provato quel desiderio: ci sono quelli, infatti, che non possono e proprio per questo vogliono. E sono i più disgustosi. In lui invece il non-potere nasceva dal non-volere, e perciò diventava sempre più bello. Se Hildegard fosse figlia sua, sarebbe una bella donna».
A questo punto A. non poté fare a meno di protestare: «Ma è una bella donna, e quando ho visto per la prima volta il ritratto del Presidente in sala da pranzo, mi ha subito colpito la loro somiglianza».
Zerlina ridacchiò: «Quella somiglianza dipende solo da me. Sono stata io, soltanto io a condurre di continuo la bambina davanti al ritratto e a insegnarle a guardare come fa lui sulla tela... lo sguardo è tutto».
La cosa era comunque sorprendente. A. si fece pensoso: «Ma allora, insieme con lo sguardo, avrebbe dovuto ereditarne anche l’anima».
«Era giusto quello che volevo, eccome, proprio così... ma è una donna, e ha il sangue dell’altro».
«Chi era l’altro?». L’aveva detto suo malgrado e in tono molto più perentorio di quanto avrebbe comportato la semplice curiosità.
«L’altro?» Zerlina sorrise. «Già, l’altro. Veniva di tanto in tanto a prendere il tè da sua Eccellenza la moglie del generale, e sulle prime non avevo minimamente notato la quasi immancabile presenza della baronessa, per di più senza il marito. Ma che l’altro, il signor von Juna, fosse anche lui un gran bell’uomo, questo l’ho notato subito: aveva un pizzetto castano ramato, e castano ramati erano anche i riccioli, la pelle era come spuma di mare brunita, e le movenze, quelle di un ballerino. Sì, questo bisogna riconoscerglielo, la baronessa aveva saputo fare la scelta giusta. Solo che, a guardarlo bene, dietro quel bel pizzetto, anzi persino dietro quelle belle labbra, s’affacciavano in lui le ripugnanti fattezze del non-poter-mai, il non-poter-mai e il voler-sempre, la ripugnante lascivia in cui alberga la debolezza. Un tipo così è facile da conquistare, e se solo avessi voluto, lo avrei...» – e schiacciò fra le dita una pulce immaginaria – «lo avrei avuto come niente fin dal primo giorno. La moglie di sua Eccellenza diceva che lui era sempre in viaggio per missioni diplomatiche, come le chiamano loro, che era dunque un diplomatico. Va be’. Aveva preso alloggio nel vecchio padiglione di caccia, là fuori nel bosco» – il braccio di lei indicò un qualche luogo lontano – «ma non per la caccia, per le donne di cui si circondava. La gente – questo è naturale – mormorava più di quanto sapesse; lui d’altronde faceva di tutto per risvegliarne la curiosità, con il suo improvviso apparire e scomparire, e con quel giro di donne. Ero curiosa anch’io. E dalla moglie del guardiacaccia, che badava alla casa, non c’era verso di cavar nulla. Teneva la bocca ben chiusa, quella, e mi sarei stupita se lui se la fosse lasciata scappare; una persona simile potevi ben metterla sotto. Così viveva dunque il signor von Juna, e fin da subito la bambina gli assomigliò. Ma come riuscire, adesso, a farli incontrare? Ero ansiosa di vedere in che modo sarebbe accaduto. Ebbene: lei riuscì a combinare tutto alla perfezione; al compimento dei due mesi la nipotina avrebbe fatto visita alla nonna. Ecco la trovata! Siamo dunque andate dalla moglie di sua Eccellenza, la piccola è stata messa a dormire nella stanza degli ospiti, e io non me ne sarei andata di lì per tutto l’oro del mondo perché sapevo benissimo che, prima o poi, come per caso lui sarebbe comparso. E che in quel momento lei si sarebbe tradita: mi ero già immaginata la scena in ogni dettaglio. Non ho avuto bisogno di aspettare a lungo, e c’è mancato poco che mi mettessi a ridere per la puntualità con cui lei lo ha condotto nella stanza, e ho dovuto addirittura mordermi le labbra per non scoppiare in una risata, nel vedere lui, il papà, che si china sul lettino, mentre lei non riesce a nascondere la commozione e gli prende la mano. Era una commozione sincera, ma anche falsa. Lui naturalmente è stato scaltro; si è accorto che li osservavo, e uscendo – quasi potesse così spogliarsi della sua paternità – mi getta un’occhiata con cui mi dice che quella giusta per lui sono io, non lei. E io, senza esitare, gli faccio capire che ho inteso».
Il sorriso che era stato allora la risposta di lei tornò a inondarle il volto quasi per magia, lo illuminava come l’eco di sé, che la vecchiaia aveva reso grinzosa e vizza, e, così prosciugato, era qualcosa di perenne, una risposta imperitura:
«Gliel’ho fatto capire, e io stessa ho capito che quell’intesa era entrata in lui e gli aveva tolto la pace; sì, lui la pace non l’avrebbe più ritrovata fino a quando non fosse venuto a letto con me. Ed era quello che volevo. A tal punto ero presa di lui anch’io, per quanto, sulle prime, nessuno dei due pensasse che sarebbe finita così. È proprio a buon mercato la gente. E non sono soltanto le povere ragazze di campagna come me, che si prendono con poco, no, è così per tutti; solo chi è santo non ha bisogno, grazie alla propria saggezza e alla propria forza, di buttarsi via. Ma anche per il piacere dei sensi, sia pure a buon mercato, occorre forza, e i peggiori sono quelli che, per mera debolezza o incapacità di godere, vorrebbero negare di costar poco anche loro. Vorrebbero alzare il prezzo e valgono ancora meno degli altri, questi furbastri, questi bugiardi per distinzione o debolezza, tutti coloro che cercano di stordire il piacere dei sensi con la grancassa dell’anima, perché non lo ritengono abbastanza fine sul piano spirituale o, più spesso ancora, perché non lo conoscono affatto e credono di poterlo attirare e trattenere con quel frastuono. Servendosi dell’anima, sperano di riuscire ad accaparrarsi il piacere e, al tempo stesso, si sentono in dovere di soffocarlo. E la baronessa? Di giorno non una parola, ma di notte la sua anima – sono pronta a scommetterlo –, di notte... grancassa a tutto volume. Naturalmente bisogna tener conto che una vera donna non lo era mai stata e che dal barone, vista l’austera santità dell’uomo, mai avrebbe potuto imparare a diventarlo. C’era dunque da aspettarselo che si lasciasse catturare da quell’altro, dal libidinoso. La bambina l’ha fatta con lui, durante l’ultimo soggiorno alle terme; le date coincidono alla perfezione. E allora? Perché non se n’è andata con lui? Perché non è corsa da lui al padiglione di caccia? Lo so io il perché. Il suo desiderio era troppo esile, troppo forte la sua paura, lei stessa troppo debole e non abbastanza sincera. Sarebbe stato come proporle di andare a letto con lui sulla pubblica piazza. Eppure avrei voluto aiutarla, a scapito – diciamo così – del mio stesso piacere, senza tener conto della gelosia che provavo per lei, ma non riuscivo a farglielo capire. Alla fine, una volta in cui il Presidente era a Berlino, sono andata diritta allo scopo. “Signora baronessa” le ho detto “Signora baronessa, ogni tanto bisognerebbe pur invitare qualcuno”. Al che lei scioccamente risponde: “Invitare qualcuno? Chi?”. E io la butto lì, di sfuggita: “Be’, ad esempio il signor von Juna”. Lei allora mi guarda diffidente, un po’ di traverso e dice: “No, lui no”. E allora, lasciamo perdere, mi dico. Invece la cosa ha continuato a maturare, e un paio di giorni dopo lei lo invita a cena. A quei tempi avevamo ancora la bella villa; e i saloni e i salotti, insieme con la sala da pranzo, erano al pian terreno – mica l’intasamento di mobili che abbiamo qui, dove urti in continuazione contro gli spigoli e non hai mai finito di mettere in ordine, tanto più che da Hildegard non arriva il minimo aiuto. Insomma, era una vera sala da pranzo, e la baronessa sedeva a tavola con lui, ma erano a una bella distanza l’uno dall’altra; io ho servito la cena senza rispondere alle occhiate del signor von Juna, e subito dopo ho chiesto il permesso di ritirarmi. Anche la mia cameretta, nella mansarda, era naturalmente molto più bella della stanza che ho adesso qui. Quando più tardi sono scesa, furtiva, per controllare la situazione, era tutto come prima: se ne stavano seduti, vicini e perfettamente tranquilli, ma questa volta in salotto. Con i suoi begli occhi languidi lui guardava fisso davanti a sé, un po’ annoiato, e nemmeno quando lei si è alzata per versagli un’altra tazza di caffè, nemmeno in quel caso ha cercato di toccarle la mano, o magari di accarezzargliela. Pure questo si è giocata, mi sono detta fra me; se le gambe a letto battono il materasso al solo ritmo dell’amore e mai al ritmo del piacere, le cose vanno a finir male. Grande scialo di ranno e di sapone, e in fondo mi facevano pena tutti e due, soprattutto lui, perché erano comunque legati per via della bambina. Ma più in fondo ancora, naturalmente, gongolavo, e per questo ero già lì ad attenderlo fra i cespugli del giardino davanti a casa: lui ha avuto appena il tempo di varcare la soglia, ed ecco che noi – fulminei, senza esitazione, senza neppure una parola – ci siamo ritrovati uniti in un bacio. Con le labbra, con i denti, con la lingua mi sono abbarbicata alla sua bocca, sfogando una veemenza tale che per poco non ho perso i sensi, e tuttavia gli ho resistito. Non riuscivo a capire perché non mi fossi semplicemente gettata con lui in mezzo all’erba, e ancor meno perché non lo avessi trascinato su da me nella mansarda quando lui, con voce roca, me lo aveva chiesto, e perché mi fossi invece sentita in dovere di rispondergli: “Nel padiglione di caccia”; ma quando, alla mia risposta, ho visto l’orrore nei suoi occhi, la paura folle dell’animale, a dirmi chiaro e tondo che laggiù doveva esserci una donna e che io quindi avevo preteso l’impossibile, allora ho capito in un lampo che la mia resistenza voleva opporsi a quell’impossibilità, voleva spezzarla, e che la curiosità dura e spietata per il padiglione di caccia mi solleticava ancor più della mia voglia, e che di quella voglia, nonostante tutto, faceva parte come una nota agra e ineluttabile».
L’eccitazione, di cui ancora era preda, la obbligò a sedersi: i gomiti puntati sul piano del tavolo e la testa stretta fra i pugni, rimase per qualche istante in silenzio. Quando riprese il racconto, la sua voce era completamente mutata: era un sussurro, un salmodiare sussurrante, quasi che un altro parlasse al suo posto:
«È a buon prezzo la gente. E hanno la memoria piena di buchi, che non rammenderanno mai più. Ma quanto di ciò che si dimentica per sempre deve comunque essere fatto, affinché possa reggere quel poco che la nostra mente trattiene per sempre... Ciascuno di noi dimentica il proprio impegno quotidiano. Nel mio caso erano tutti quei mobili che spolveravo, giorno dopo giorno, tutti quei piatti da rigovernare, e come chiunque mi sono seduta regolarmente a tavola, ma come chiunque so di averlo fatto senza ricordarmelo davvero, quasi fosse accaduto a prescindere dal tempo, bello o brutto fa lo stesso. E persino il piacere di cui ho goduto è diventato uno spazio vuoto, avulso dallo scorrere delle stagioni, e pur essendomi rimasta la gratitudine per ciò che è vivo, i nomi e i volti che un tempo hanno significato per me piacere o persino amore si dileguano sempre più, tutto si dilegua in una gratitudine cristallina, ormai priva di ogni contenuto. Cristalleria vuota, vuoti recipienti. E tuttavia, se non ci fosse il vuoto, se non ci fossero le cose dimenticate, l’indimenticabile non avrebbe potuto crescere. A mani vuote le cose dimenticate sorreggono l’indimenticabile, e dall’indimenticabile noi stessi veniamo sorretti. Con le cose dimenticate nutriamo il tempo, nutriamo la morte, mentre l’indimenticabile è un dono che la morte fa a noi, e nell’istante in cui lo riceviamo siamo ancora qui, proprio nel punto in cui ci troviamo ora e, al tempo stesso, siamo già là dove il mondo precipita nel buio. Perché l’indimenticabile è un frammento di futuro, è quel frammento di atemporalità che ci è stato donato in anticipo; un’atemporalità che ci sorregge e attutisce la nostra caduta nel buio, sino a renderla un fluttuare. E un dono della morte, con la sua dolcezza oscura e senza tempo, fu tutto ciò che avvenne fra il signor von Juna e me, e un giorno mi aiuterà a sprofondare lievemente, sorretta dalla pienezza del ricordo. Si dirà che è stato amore, amore fino alla morte. No, non ha nulla a che fare con l’amore, tanto meno con la grancassa dell’anima. Molte cose possono diventare l’indimenticabile, possono sorreggerci accompagnandoci e accompagnarci sorreggendoci, senza essere mai state amore, senza nemmeno poterlo mai diventare. L’indimenticabile è l’istante della maturità, scaturito dagli infiniti momenti preparatori e dalle infinite somiglianze preparatorie, e che da questi momenti e da queste somiglianze viene a sua volta sorretto; è l’istante in cui percepiamo che dando forma veniamo formati, siamo stati formati. È pericoloso scambiarlo per amore».
Questo è ciò che A. aveva udito, ma che Zerlina avesse parlato proprio così non poteva esser dato per certo. Molte persone anziane cadono talvolta in una glossolalia salmodiante, e in questi casi viene facile ricamarci sopra con l’immaginazione, soprattutto in un pomeriggio domenicale, con il caldo estivo e le persiane chiuse. A. voleva esserne sicuro e attese che la cantilena riprendesse, ma Zerlina era tornata al suo solito modo di parlare, quello delle vecchie:
«Va da sé che là, in mezzo ai cespugli di quel giardino immerso nella notte, lui sarebbe riuscito a vincere la mia resistenza. Se lo avesse fatto, probabilmente con il passar del tempo lo avrei dimenticato, come è accaduto con molti altri. Ma lui non lo ha fatto. In genere i deboli sono anche calcolatori, ma poco importa che si sia lasciato cacciar via per debolezza o per calcolo, la cosa mi ha comunque messo una gran rabbia addosso. Lui non si era ancora allontanato del tutto, e io già precipitavo in un’attesa furente, ed è stato un miracolo che sia riuscita a dominarmi, che non gli abbia scritto di tornare subito indietro fino in camera mia, fin dentro di me. In ogni caso, un bel miracolo. Infatti, ancor prima che finisse la settimana, già mi arrivava una sua lettera. Non ho potuto fare a meno di mettermi a ridere. L’indirizzo lo aveva scritto in stampatello su una busta commerciale, perché la baronessa non si accorgesse che scriveva anche a me, e il biglietto diceva che l’indomani sera mi avrebbe aspettato fuori porta, vicino al capolinea del tram, per una passeggiata con il calesse da caccia. E anche se ai piani di sotto la signora baronessa aveva sicuramente ricevuto una sua lettera e la stava leggendo, io avevo comunque riportato una vittoria su di lei, e anche se nel biglietto indirizzato a me non si menzionava il padiglione di caccia, a conferma che quella donna era ancora là in pianta stabile, a maggior ragione io mi sono fatta trovare l’indomani nel luogo convenuto e, ancor prima di montare a cassetta al suo fianco, gli ho detto tutto in faccia senza tanti complimenti; lui si è rifiutato di rispondere e, poiché questa era già una mezza confessione, l’ho baciato e gli ho ordinato: “Su, parti, andiamo dove vuoi, tranne che al padiglione di caccia, purtroppo”. Lui allora mi risponde: “La prossima volta al padiglione di caccia”. A questo punto gli domando se è una promessa e lui dice di sì. “La manderai via davvero?” gli chiedo e lui dice di nuovo: “Sì”. E per esserne proprio sicura, mi informo se la donna ha mani ben curate. “Sì,” risponde lui, piuttosto sorpreso, “perché?”. Io allora mi tolgo i guanti e, sulla bella coperta damascata da viaggio, che tenevamo distesa sulle ginocchia, poso le mie mani arrossate dicendo: “Mani da lavandaia”. Lui abbassa lo sguardo sulle mie mani, senza dare a vedere come ha incassato la botta, e dice: “Ogni uomo ha bisogno di una mano buona e forte, che lavi le sue colpe”. Poi mi prende le mani e le bacia, ma ai polsi e non là dove sono rosse, e a quel punto ho capito quanto lo avevo impressionato, tanto che sono riuscita a dire solamente: “Parti, una buona volta!”. Altrimenti avrei pianto tutte le mie lacrime. Abbiamo dunque viaggiato lungo la stretta pista che si inoltrava in mezzo ai campi coltivati, e io passando li guardavo, e guardavo anche in basso verso la sottile striscia d’erba fra i due solchi polverosi delle ruote, dove i nostri cavalli lasciavano le tracce fresche degli zoccoli e di tanto in tanto un po’ di sterco. Tale e quale era anche da noi a casa, in campagna. Che avesse fatto attaccare una coppia di morelli, però, non mi piaceva; il morello non è un cavallo da lavoro, con cui si arano i campi; è un cavallo su cui l’uomo corre verso le tenebre. Ma quando glielo dico, lui si mette a ridere: “Tutto sei tu, il mio campo e le mie tenebre”, e questa frase mi ha fatto talmente bene che mi sono stretta al suo fianco. Ancor oggi, vecchia come sono, sento la vampa del desiderio che s’accese allora in me, sento il desiderio del figlio che da lui avrei dovuto avere, e non uno soltanto, ma molti, molti figli. Non dirmi che lo amavo. Farlo mio, questo volevo, ma amarlo, no; era tenebroso e straniero, ed era un peccatore. E neanche dopo, sul limitare del bosco dove l’aria era fresca e già s’avvertiva il sopraggiungere della notte, che pure era ancora sospesa, invisibile, in mezzo ai tronchi, neanche allora ho ceduto al mio desiderio; lui ha fermato la carrozza, ma io non sono scesa e, per fare del male a entrambi, gli ho ricordato che la sua bambina mi stava aspettando e che non potevo trattenermi oltre. “Sciocchezze!” ha esclamato lui, e poiché non erano sciocchezze, io, inesorabilmente, giravo il coltello nella piaga: “Se avrò figli da te, non avrò più bisogno di quell’altra”. Mi ha fissata sgomento, negli occhi lo stesso sguardo di terrore, di orrore, e questa volta perché probabilmente aveva capito di essersi accollato una terza donna, ancora un’altra donna con ancora altre pretese, per quanto a una serva non sia consentito di averne, di pretese: così, per rimettere sullo stesso piano il signor von Juna e la serva, e poiché s’era accesa una dura lotta fra la sua bramosia e il suo terrore, io l’ho baciato con passione travolgente, quasi fosse stato un addio. Docile e senza ribattere, lui allora mi ha riaccompagnata al tram e, benché fossimo d’accordo che nella lettera successiva mi avrebbe dato appuntamento al padiglione di caccia, io – che pur bruciavo dal desiderio di riceverla – non ho mai creduto che quella lettera sarebbe arrivata».
Evidentemente era giunto il momento di inserire una nuova pausa per aumentare la tensione, e in quegli istanti la donna s’inumidì con la lingua le labbra ormai stanche, quindi riprese il discorso:
«E poiché non avevo mai sperato in quella lettera, ero doppiamente risentita che la baronessa, la quale al pensiero del padiglione di caccia veniva colta dal terrore più che dal desiderio, continuasse invece a ricevere le sue lettere. E nel mio risentimento, carico di gelosia, volevo entrarne in possesso. Naturalmente erano lettere fermo posta, ma chissà che non riuscissi a recuperare una busta con il nome in codice. Per farla breve: ho frugato tutti i giorni nel cestino della carta della baronessa, e non mi ci è voluto molto a trovare il codice. Timorosa sì – ma prudente, no di certo. Non occorreva nemmeno la notifica. E per rendere la cosa ancora più palese, avevano trasformato Elvire, che è il nome della baronessa, in Ilvere: questo era dunque il codice. Da quel momento in poi, ogni volta che uscivo per la spesa o per fare un giro con la carrozzina, ritiravo io quasi tutte le lettere allo sportello, le aprivo con cautela tenendole sospese su una nuvola di vapore e, dopo averle lette, le imbucavo nella cassetta con un francobollo nuovo. Ne ho rubate un paio. Ma per uno schifo del genere non si può nemmeno parlare di furto. Che schifo! Che grancassa dell’anima! A parte la regina degli Elfi a cui era assurta la regina Elvira, era un unico brulichio di santità e casta maternità, di bimbetta-piccolo-elfo e bimbetta-del-Buon-Dio, e intanto l’elfo bambinello strillava lì accanto a me perché si sentiva bagnato! Il peggio, però, erano le starnazzanti lamentele all’indirizzo di quella donna laggiù, al padiglione di caccia. Queste lettere me le sono impresse bene in mente e ho rubato le più spudorate. Quella donna è una “piattola che non ti stacchi più di dosso”, è un “peso del destino”, una “che non vuole sgombrare il campo”, una “ricattatrice, che approfitta della mia imperdonabile debolezza”, ed eccolo poi alle minacce: “troverò i mezzi per estirpare il male alla radice”; sì, lo ha proprio scritto e, per finire in bellezza, si augura che “anche tu, amore mio, riesca a fare lo stesso con quel tiranno di tuo marito”. Naturalmente lo diceva anche a bella posta: solo con la grancassa dell’anima poteva adempiere ai suoi doveri verso una persona come la baronessa e nel contempo tenerla a distanza; ma che lui non vedesse l’ora di mandare al diavolo quell’altra, al padiglione di caccia, non ho stentato certo a crederlo, soprattutto da quando per causa sua non poteva venire a letto con me. E ciò nonostante la cosa mi dava il voltastomaco. Che schifo, quel voler fare la frittata senza rompere le uova! Sì, io, una ragazza di campagna, senza istruzione, mi vergognavo con tutta l’anima per la falsità di cui faceva mostra quel signore istruito, e tanto più me ne vergognavo in quanto era lui l’uomo che accendeva i miei sensi. Ero quasi contenta di non essere abbastanza raffinata, ai suoi occhi, per quelle lettere piene di fandonie, e di non averne ricevuta manco una. E invece la lettera è arrivata, l’ho avuta in mano, all’improvviso, soltanto due righe in cui mi chiede quando voglio trovarmi con lui al padiglione di caccia. Ero al settimo cielo, Dio solo lo sa. Aveva tenuto fede alla parola data. E, dopo tutte le schifezze che avevo letto di lui in quelle settimane, questo era importante per me; talmente importante poterlo rispettare e non esserne di nuovo delusa, che ho tenuto a freno l’impazienza selvaggia, esplosa allora dentro di me, e mi sono imposta di attendere ancora tre giorni. Volevo intercettare infatti la lettera che lui avrebbe scritto ora alla baronessa. Se si fosse gloriato dicendole di aver fatto sloggiare quella donna dal padiglione di caccia per amor suo, io non lo avrei più voluto vedere. Tremavo nel ritirare la lettera allo sportello; e mentre la aprivo per poco non mi cadeva nell’acqua bollente, e poiché non c’era davvero nulla sulla defenestrazione della donnaccia... lì per lì non me ne capacitai. Ma alla fine ci ho dovuto credere e sono corsa su, dalla baronessa, a chiederle le ferie per tornare a casa. Quattro settimane le ho chiesto, me ne ha concesse tre».
All’improvviso Zerlina tornò in sé dal passato, e si rese conto di dove fosse. Prese allora a spianare freneticamente il centrino di cretonne steso sul tavolo sotto un vaso di fiori, come se lì ci fosse una piega segreta che lei – volendo conferire un senso al gesto senza senso – avrebbe dovuto far apparire per magia. Ma il sogno del passato non l’aveva ancora abbandonata del tutto: «È una storia che mi traghetta attraverso gli anni, e gli anni passano, e la storia resta, anche se la racconto mille volte; non riesco, non riesco proprio a liberarmene». Poiché A. stava già per dire la sua, lei – divertita – lo fermò con un cenno: «Ma voglio davvero liberarmene?». E poi riprese a raccontare:
«Tu forse non mi crederai, ma la baronessa mi faceva pena – e già da un pezzo, già da allora: quando stavo sempre a origliare alla porta della camera da letto senza udire nemmeno un cigolio; e anche se mi faceva piacere che, tutto preso dal suo rigore, il barone non ammettesse deroghe, lei era comunque in debito con se stessa e con lui, e già avvertivo che c’era qualcosa di misero e sconveniente, qualcosa che suscitava la mia pietà. E quando mi sono venute sotto gli occhi quelle cartacce bugiarde, allora, anche se mi faceva male che il signor von Juna scrivesse a lei, e le scrivesse giusto certe cose, la mia compassione è cresciuta ancora, perché lei non ci arrivava proprio e perché le sue risposte – quelle che allora ho anche voluto leggere, è naturale – dovevano per forza essere di una falsità ancora più odiosa. Non ero addirittura ricca io, in confronto a lei?!».
Guardò A. con aria trionfante. E A. comprese che la donna stava raccontando della più grande vittoria da lei riportata nella vita. Ma comprese altresì che le lettere del signor von Juna non erano affatto così mendaci, come sosteneva la vecchia Zerlina. Infatti, il carattere demoniaco della libidine, dalla quale quell’uomo era posseduto, racchiude per un verso – e questa è la sua parte migliore – la severa gravità, in cui la libidine trova il suo soddisfacimento e che costituisce anche la sua infallibile integrità; d’altro canto però quello stesso carattere racchiude la coscienza della colpa, inerente a tutto ciò che è demoniaco quando l’io è obnubilato, e perciò chi è preda della libidine può anche, inorridito, ritrarsi a buon diritto davanti alle menzogne della donna frigida, e tuttavia agli occhi di lui, dell’obnubilato, la frigidità di lei – soprattutto se questa imperfezione si ribalta nella maternità, e per così dire in qualcosa di più etereo, che a lui non è dato comprendere – acquisterà allora un’aura misteriosa, magica, elfica, cui la sua stessa materialità deve votarsi. In ogni uomo, e non solo nel libertino, c’è una vaga idea di tutto questo, ed ecco perché A. capiva il signor von Juna e gli dava ragione. Senza mettere minimamente in dubbio la versione di Zerlina, ciò nondimeno anche lui vedeva, soffuso intorno alla figura della baronessa, un fulgore da regina degli Elfi. Ma comunque fosse, il racconto di quella vittoria proseguì:
«Lui aveva tenuto fede alla parola data, e io mi sentivo ricca, anche se quella che avevo con me era solo la valigetta di una domestica; sarei potuta partire già la mattina, ma volevo arrivare quando calava la notte, e infatti era piuttosto buio, ormai. Anche stavolta lui mi attendeva al capolinea del tram, con i morelli. Eravamo seri tutti e due. La ricchezza rende seri. Nel mio caso era proprio vera ricchezza, e speravo che fosse lo stesso anche per lui. Certo, come fai a sapere che cosa rende serio un altro... Diffidente com’ero, mentre andavo a sedermi anch’io a cassetta gli avevo preannunciato solo dieci giorni di ferie. Se le cose vanno bene, mi dicevo, posso sempre confessargli di averne altri dieci e, se il buon Dio è misericordioso, anche tutta la vita, anche l’eternità. Sulle prime però lui era così silenzioso e così serio, che ho dovuto ingoiare rapidamente la mia delusione vedendo che non dava alcun segno di rincrescimento per la brevità di quei dieci giorni. “Non prendere la strada diretta” l’ho pregato. Così, al passo, siamo entrati nel bosco e saliti su per la collina; era la via dei taglialegna e ormai stava venendo buio – una nera frescura. Lui non ha cercato di allungare le mani, né l’ho fatto io. In alto, sulla cima, c’era l’ultima luce del crepuscolo. Per qualche istante siamo ancora riusciti a vedere
le campanule, che tappezzavano la radura, ma poi, di chiaro non rimase altro che il cielo, dove già spuntavano le prime stelle. E, sul bordo della radura, anche le cataste degli alberi abbattuti scomparvero presto nell’oscurità, ne era rimasto solo l’odore, come se il frinire dei grilli lo avesse catturato. Infatti, qualsiasi cosa fosse – il frinire dei grilli, le campanule o le stelle –, ciascuna sosteneva l’altra, senza che fra loro vi fosse alcun contatto. Lì dentro eravamo: con il nostro calesse, e io ho serbato il ricordo di ogni cosa e lo serberò per l’eternità, perché ne sono stata sorretta e continuo a esserlo. E tutto quanto c’era in quel luogo apparteneva al nostro desiderio più ardente; il suo era sospeso al mio e il mio al suo, e la sua mano non ha toccato la mia, né la mia la sua. In quel momento ho detto: “Va’ a casa”. Adesso, scendendo, era ancora più buio. I morelli appoggiavano gli zoccoli con cautela, e quando urtavano un sasso, si sprigionavano scintille. Il freno era tirato al massimo; le ruote slittavano; ora il pietrisco scricchiolava ora un ramo mi colpiva in faccia con le sue foglie umide: nulla dimenticherò mai di tutto questo. E poi, di colpo, lui lascia andare il freno, ed eccoci in piano, davanti alla casa, dove non una luce è accesa: con la sua oscurità, la casa sembrava librarsi nell’oscurità della notte. In me però brillava la luce vivida della mia ricchezza. Lui mi ha aiutata a scendere e poi ha portato il calesse nella scuderia; se non mi fosse giunto dall’assito il battito degli zoccoli, avrei potuto pensare che non sarebbe più ritornato da me, tanto era buio anche là fuori. Ma lui è tornato, e in casa non abbiamo acceso neanche una luce. E non ci siamo scambiati neanche una parola, tanto eravamo compresi di ciò che stava accadendo».
La sua voce si era fatta roca per l’eccitazione, e se ne udì di nuovo la cantilena salmodiante:
«Era il migliore degli amanti; nessun altro reggeva il confronto. Come uno che, con cautela, va cercando la propria strada, così lui cercava il mio piacere. Lo travolgeva l’impazienza di possedermi; come violenti brividi di febbre, l’impazienza lo faceva tremare, e tuttavia non ne è stato sopraffatto, né lui mi ha sopraffatta, ma ha atteso finché non è riuscito a condurmi con sé sull’orlo dell’abisso, là dove l’essere umano sente che gli si spalanca davanti l’ultimo precipizio. Se era una piena a portarmi, lui quell’empito lo sentiva e lo spiava. Ero nuda, e lui mi ha resa ancora più nuda, come se persino la nudità potesse venir spogliata di altri indumenti. Perché il pudore è ancora una sorta di indumento. E lui mi ha spogliata d’ogni pudore residuo, con una tale cautela che l’esser soli è diventato nella sua più profonda segretezza un essere due. Mi ha trattata con la delicatezza di un dottore, ma del mio piacere è stato maestro; al mio corpo ha insegnato a esprimere desideri e a impartire ordini, rudi e teneri, perché il piacere ha molte sfumature, e ciascuna reclama i suoi diritti. Medico è stato e maestro e, al tempo stesso, servo del mio piacere. Per sé, infatti, non provava quasi altro piacere che non fosse il mio; quando il piacere mi faceva gridare, questo era il premio di cui lui aveva bisogno, di cui aveva bisogno il suo desiderio più ardente, per esserne sempre e di nuovo spronato. Era forte e impetuoso per debolezza. E tutto questo sempre più ci pungolava, sino a fare di noi una cosa sola. E come una cosa sola siamo rimasti insieme sull’orlo dell’abisso in quelle notti e in quei giorni. Eppure sapevo che questo era male. Perché è la donna che deve servire il piacere dell’uomo, non viceversa; ed era più giusto quello che facevano gli attendenti quando, senza curarsi del mio piacere, mi mettevano sotto per abbandonarsi al loro piacere. Anzi, persino i discorsi d’amore di quei ragazzi erano più schietti; per toccare una simile schiettezza i suoi avevano bisogno, invece, della mia bramosia rozza e nuda – quanto più rozze le mie parole, tanto più autentico il suo amore. Da questo però ho capito come mai le donne gli si attaccavano e non lo volevano più lasciare, ma ho anche capito che io non ero una di loro, e che dovevo andarmene, nonostante la violenza del desiderio che provavo per lui.
«Ero un tipo sveglio, io» fece un cenno d’intesa a se stessa e al suo ascoltatore, senza peraltro attenderne l’assenso. Il bisogno di raccontare la incalzava:
«La moglie del guardaboschi non la vedevo mai. Ma quando voglio, ho il sonno leggero; veniva a far pulizia alle cinque del mattino e mi lasciava anche le provviste per la giornata sul tavolo della cucina. Quello che mi dava più fastidio era che, non appena uscivamo a passeggio, lei s’infilava subito in casa; proprio perché la camera da letto la riordinavo io, mi accorgevo immediatamente se anche lei toccava qualcosa. Ma lui, come riusciva ad avvertirla che stavamo per uscire? Ogni cosa funzionava fin troppo bene, un ottimo addestramento con tutte quelle visite femminili, ma con un simile via vai ogni donna non può non mettersi a spiare. E questo fu per me piuttosto facile. La casa era vecchia, e i mobili erano vecchi; che si trattasse di un armadio o di una scrivania, per far scattare le serrature malandate bastava forzarle appena. Per di più, un uomo che dà tutto se stesso, senza riguardarsi, ha un sonno pesante. E sono stata io allora a non aver riguardi per lui. L’unica cosa che mi dispiaceva era dovermene allontanare: nel sonno il suo volto era privo di lascivia, bello e senza macchia; così mi sedevo spesso sul bordo del letto e contemplavo a lungo quel volto, prima di passare al lavoro di spionaggio. Era un lavoro triste, che metteva rabbia. La donna, come per mostrare che quella era casa sua, aveva lasciato tutti i vestiti negli armadi, e io ero sicura che il furore nei suoi confronti, da cui lui era pervaso, non gli avrebbe certo impedito di darsi a lei, anzi lo avrebbe addirittura attizzato in tal senso, se lei gli avesse di nuovo chiesto di soddisfare le sue voglie. E se in precedenza ero stata così curiosa di leggere le lettere della baronessa, ora al pensiero di replicare provavo solo disgusto. Erano lì nei cassetti alla rinfusa, insieme con le lettere delle altre sue donne, e poiché lui non si sarebbe sicuramente accorto che mancavano, ho preso tutte quelle che mi sono venute sotto mano. Aspetta, te ne leggo una».
Frugando nella tasca del grembiule per tirar fuori gli occhiali e un paio di lettere stropicciate, si avvicinò alla finestra:
«Stammi bene a sentire, e capirai con quale inutile, vacua grancassa dell’anima la gente riempie la vacuità della sua vita e della sua noia; senti quanta miseria nella baronessa. Senti quanta miseria, quanto vuoto in questa malvagità: stammi bene a sentire!
«“Mio dolce amore, il nostro legame diventa ogni giorno più ricco, anche se tu sei lontano. Nella nostra piccina tu mi sei sempre accanto, e lei è per me il pegno di quella vita che trascorreremo per sempre insieme e che, come scrivi tu, prima o poi dovrà pur cominciare. Abbi fiducia. Il cielo è ben disposto verso coloro che si amano, e ti aiuterà a liberarti da quella donna infame, che ha piantato in te i suoi artigli facendoti tanto soffrire. Oh, potessi liberarmi anch’io, potessi sciogliermi dal mio matrimonio! Pur essendo in fondo un uomo nobilissimo, il mio consorte non si è mai accorto del mio cuore ferito. La spiegazione che avrò con lui sarà dolorosa, ma troverò la forza di affrontarla: il tuo amore per me e il mio per te, che sempre mi accompagna, mi danno questa fiducia nel futuro. In tanta fidente certezza, bacia i tuoi begli occhi che tanto ama:
la tua Elvira, regina degli Elfi”
«Mi sei stato a sentire per bene? Ne ha cacciate fuori a caterve, di simili fandonie, quell’oca giuliva, e lui lo ha sopportato, magari con ira e disgusto, però lo ha sopportato. Avrei potuto odiarlo per questo. Ma perché lo ha sopportato? Solamente perché era uno di quegli uomini che delle donne hanno un’opinione troppo alta e al tempo stesso troppo bassa, e che perciò devono servirle con il proprio corpo, mentre là dove è in gioco l’anima non hanno di loro alcuna considerazione. Un uomo simile non è capace di amare, sa solo servire, e in ogni donna che incontra serve quell’unica che non esiste, e che lui potrebbe amare, se esistesse, mentre così è solo uno spirito maligno che lo rende schiavo. E poiché sapevo di non avere la forza per salvarlo da quell’inferno – e quindi dovevo scappar via –, la tenerezza dissolveva l’odio, e io tornavo nel letto, per avvinghiarmi a lui con braccia e gambe, spietata per odio, spietata per tenerezza, ma forse anche per far sì che lo sfinimento rendesse più facile a entrambi l’imminente separazione. E tuttavia, trascorsi i dieci giorni, gli ho chiesto se potevo restare ancora; sarei riuscita a prolungare il permesso. Al suono delle mie parole, nei suoi occhi è di nuovo comparso quel subitaneo terrore, quell’orrore come allora in giardino, e lui ha balbettato: “Meglio più avanti, fra qualche settimana, appena sarò di ritorno dal mio viaggio”. Era una bugia, e io gli ho furiosamente urlato in faccia: “Qui non mi vedrai più, se prima non sgomberi la roba di quella lì!”. E allora finalmente è stato un uomo, ma anche in questo caso solo per viltà; mi ha sbattuta sul letto e, senza preoccuparsi del mio piacere, mi ha presa in modo così selvaggio, che l’ho baciato come quella volta in giardino. Naturalmente non è servito a nulla: l’odio era palpabile. E la sera, in silenzio, siamo tornati in calesse sino alla fermata del tram, con la mia valigetta da domestica sistemata sul retro della vettura».
La storia era dunque finita? Niente affatto, anzi sembrava che il bello dovesse arrivare solo adesso, con la voce di Zerlina che s’era fatta molto ferma e chiara:
«Può darsi che l’odio fosse soltanto da parte mia. Può darsi che la mia minaccia di non tornare più lo avesse scosso, perché lui l’aveva sentito che quella non era grancassa dell’anima. Può darsi che volesse liberarsi davvero della donnetta che, probabilmente già l’indomani, sarebbe tornata al suo guardaroba, e ai fornelli in cucina con le provviste destinate a me. Per farla breve, poche settimane dopo, l’intera città era in subbuglio perché, al padiglione di caccia, la misteriosa amante del signor von Juna era morta all’improvviso. Be’, roba del genere non capita poi così di rado, e tuttavia si cominciò subito a vociferare che lui l’avesse avvelenata. Non fui certo io a mettere in giro quelle voci; io ero ben contenta che non mi avessero tirata in ballo e che non dovessi menzionare né le lettere, né il gran numero di flaconi e boccette conservati laggiù, e per me alquanto sospetti. Ma le dicerie si amplificano facilmente, e non c’è nulla di più facile che riportarle. Certo, non mi sono lasciata scappare l’occasione di riferire alla baronessa le notizie che correvano di bocca in bocca. È diventata bianca come un cencio, e ha detto solo: “Non è possibile”; con un’alzata di spalle le ho risposto: “Tutto è possibile”. Che alla Hildegard potesse scorrere nelle vene il sangue di un assassino, ha suscitato in me un qualcosa di aspro e selvaggio. Nel frattempo la gente continuava a ripetere che bisognava portare il signor von Juna in tribunale, e in effetti pochi giorni dopo lo hanno arrestato. Per quel che mi riguarda, quanto più rimuginavo, tanto più mi convincevo che era stato lui a ucciderla; anzi, oggi ne sono, se possibile, ancor più convinta di allora. Ma poiché lui lo aveva fatto per me, e perciò io, pur con tutto il mio odio, non volevo veder rotolare la sua testa, fui molto contenta quando si cominciò a insinuare che non c’erano prove sufficienti per condannarlo. Si venne a sapere infatti che la tizia, un’attrice di Monaco, ci andava giù duro con la morfina e riusciva a tenersi a galla solo grazie alle iniezioni e a pesanti sonniferi. Un organismo in quello stato crolla facilmente, e perfino una dose eccessiva di sonnifero poteva essere comunque imputata al caso, oppure a una volontà suicida, e quindi il delitto era quasi impossibile da provare. Solo le lettere avrebbero potuto metterlo seriamente nei guai, e quelle prove le avevo rubate io. Che fortuna per lui! Che fortuna per la baronessa! Per qualche tempo ho pensato di aver compiuto un gesto nobile, finché non mi è venuto in mente all’improvviso che, per sbarazzarsi di quelle carte, lui non avrebbe avuto bisogno di me: anzi, prima di essere arrestato aveva probabilmente dato fuoco a tutta la sua corrispondenza, e ora si stava torturando il cervello perché mancavano proprio le lettere più pericolose. E nei suoi occhi ho visto con una tale chiarezza quell’espressione di terrore e orrore, che ho finito per esserne contagiata. Allora ho fatto ciò che avrei dovuto fare già da un pezzo: ho preso le lettere e le ho portate subito ai suoi due difensori, uno dei quali era venuto apposta da Berlino: così avrebbero potuto liberarlo dal suo tormento e dalla sua incertezza. Gli avvocati mi hanno offerto parecchio denaro, ma io l’ho rifiutato, perché mi ero messa a sognare: fantasticavo che per gratitudine lui, non appena assolto, mi avrebbe sposata; e Dio solo sa che colpo sarebbe stato questo per la sua vanità. E ancora più grave sarebbe stato il colpo per la baronessa, che avrebbe addirittura dovuto felicitarsi con la serva. E proprio per questo alcune lettere, quelle più compromettenti, le avevo tenute per me. Intanto, nessuno era in grado di verificare se le lettere che avevo restituito fossero davvero tutte, meno che mai il signor von Juna. Quanto avevo consegnato era più che sufficiente per placare le sue tormentose paure. Ciò che avevo trattenuto, invece, mi serviva per continuare con le mie fantasticherie sul matrimonio; a chi vuole sposarsi torna molto comodo avere in mano un piccolo mezzo di pressione; mezzo che, anche nella vita coniugale, mi sarebbe stato di grande utilità».
«È bello che lei abbia salvato il signor von Juna» interloquì A. «Non dovrebbe però riservare sempre così tanta durezza alla povera baronessa». Ma Zerlina non amava le interruzioni: «Non siamo ancora arrivati al punto» controbatté, e aveva ragione. Passando dalla chiamata in causa all’accusa e all’autoaccusa, il suo racconto trascendeva ormai i propri limiti:
«In quei sogni di matrimonio c’era già di per sé molta perfidia, ma io me li ero semplicemente inventati, per ingannarmi su una mia perfidia ben peggiore, che di quelle lettere aveva bisogno. Avevo smarrito la retta via, e non lo sapevo. E chi aveva fatto sì che mi smarrissi? Juna forse?, perché ce l’avevo nel sangue pur non amandolo? o la baronessa con quella bastarda della figlia? o addirittura il signor Presidente, perché non ho mai potuto sopportare che fosse becco, e che lui, nella sua santità, fosse pure sordo, cieco e ignaro di quanto accadeva? Soltanto io gli avrei potuto aprire gli occhi, e quando per di più corse voce che lui in persona avrebbe celebrato il processo Juna, allora mi sentii ancor più smarrita. Per bocca sua sarebbe forse stato assolto colui che gli era entrato proditoriamente in casa per rifilargli una bastarda? Non lo sopportavo, e non sopportavo più di esserne a conoscenza; mi pareva quasi complicità, e dietro la complicità c’era qualcosa di peggio ancora, c’era la perfidia. E quello che volevo urlare a pieni polmoni sino a liberarmene non era il mio esserne a conoscenza, non era la complicità, no, era la perfidia, perché solo così avrei superato il mio smarrimento e ritrovato me stessa. Ma dovevo affondare ancora di più in quella perfidia, per poter ricomporre alla luce del giorno l’unità del mio essere, insieme con la mia perfidia. E tuttavia ciò che ho fatto resta incomprensibile. Come se qualcuno me lo avesse ordinato, ho riunito alla svelta tutte le lettere che mi erano rimaste – sia quelle di lui sia quelle della baronessa –, lettere in cui entrambi pronunciavano minacce di morte, e le ho spedite anonime e con l’indirizzo scritto in stampatello al Presidente. Ho dovuto farlo, e nel farlo ero consapevole delle conseguenze: in fondo le lettere erano destinate al pubblico ministero, affinché il Presidente, per via dello scandalo che avrebbe investito la baronessa, fosse costretto a dare le dimissioni, mentre allo Juna, gli avrebbero tagliato la testa. E mi ero forse anche augurata che, in preda alla disperazione, il Presidente avrebbe finito per uccidere la baronessa, la bastarda e poi se stesso. E poiché intendevo confessare tutto – la mia parte di colpa, la sottrazione delle lettere nel padiglione di caccia e nella stanza da letto della baronessa – mi stava bene che uccidesse anche me. Quella sarebbe stata vera giustizia, perché al padiglione di caccia quella donna era stata uccisa a causa mia, e non della baronessa, e avrei voluto poter ammirare il Presidente per un simile atto di superiore giustizia. Era terribile la prova che gli avevo imposto e che lui doveva affrontare in nome della giustizia, perché io potessi credere ancor di più nella sua grandezza e nella sua santità. Per questo ero disposta a pagare con la vita, eppure è stato un atto di perfidia che continuo a non capire».
La donna respirò profondamente. Era vero, qui stava il punto: si era trattato di una confessione – la più grave ammissione di colpa fatta nella sua vita – e come confessione, non per parlare della vittoria sulla baronessa, che pur riecheggiava nel racconto e non poteva certo essere ignorata, come confessione Zerlina aveva evidentemente raccontato l’intera storia. E in effetti ora pareva sollevata. Dopo aver letto il biglietto della baronessa, era rimasta in piedi accanto alla finestra, e solo adesso si sarebbe capito che lo aveva fatto a ragion veduta. Con piglio cerimonioso tornò a inforcare gli occhiali, trasse di tasca un altro foglio e, dopo un nuovo profondo respiro, la sua voce riprese vigore e fermezza:
«Il plico con le lettere era stato spedito al Presidente, e io aspettavo, temevo, speravo che accadessero cose terribili. Ma i giorni passavano senza che accadesse nulla. E nemmeno fui convocata per un interrogatorio, anche se solo io potevo essere l’anonimo mittente. Fui colta da una profonda delusione: anche lui si rivelava un vigliacco al quale, più che la giustizia, stavano a cuore il posto e la reputazione, anzi, per salvarli ambedue era addirittura disposto a tollerare in casa sua la bastarda di un assassino. Ma dovetti ricredermi, e in modo radicale. Perché quell’uomo, che di solito era così taciturno, un giorno a tavola comincia a parlare a voce alta di delitti e pene, e questo proprio mentre sono di servizio e quindi obbligata a sentire l’intero discorso. Ho registrato mentalmente ogni singola parola e subito dopo l’ho trascritta. Adesso ti leggo ciò che ha detto, perché anche tu ne prenda nota. Sta’ ben attento!
«“Le nostre Corti di Assise sono un’istituzione importante e ciò nondimeno pericolosa, pericolosa in quanto i giudici popolari si lasciano facilmente influenzare da ragioni emotive. E proprio nei casi più gravi, di competenza dei giurati, e dunque soprattutto nei processi per omicidio, può accadere che il sentimento della vendetta, che accompagna in fin dei conti qualsiasi pena venga inflitta, si insinui di nascosto e abbia la meglio. Ma se si arriva a questo punto, si finisce spesso per dimenticare che anche l’errore giudiziario può essere omicidio, e non si riflette più sull’obbrobrio della pena capitale:
a subentrare, allora, è l’assenza di scrupoli, quell’assenza di scrupoli che troppo spesso, e solo per soddisfare un bisogno di vendetta, ha valutato erroneamente certe prove. Un giudice ha quindi il dovere di esercitare la massima attenzione nell’accogliere gli elementi probatori e nell’utilizzarli durante il dibattimento, affinché nulla del genere prevalga. Perfino gli scritti autografi o a firma dell’imputato si possono prestare a false interpretazioni. Se ad esempio qualcuno scrive che vorrebbe ‘togliere di mezzo’ una persona o ‘sbarazzarsene’, questo è ancora ben lungi da una vera intenzione omicida. A non leggervi altro che una simile volontà sarà solo il bisogno di vendetta; quel bisogno di vendetta che invoca la scure del boia ed è assetato del sangue della vittima”.
«Queste le sue parole; e io le ho capite, le ho capite così bene che hanno cominciato a tremarmi le mani e per poco non ho fatto cadere il piatto con l’arrosto. Quell’uomo era ancora più grande, ancora più santo di quanto una sciocca donnicciola come me avesse mai potuto immaginare. Aveva indovinato che era mia intenzione indurlo alla vendetta, alla vendetta del boia – e si era opposto. Sapeva tutto. Ma la baronessa, aveva capito pure lei, o anche per arrivare solo a questo era troppo vuota? Se si fosse minimamente ricordata delle lettere che aveva ricevuto, espressioni come “togliere di mezzo” e “sbarazzarsi” avrebbero dovuto colpirla. Anche il Presidente la guardava, il suo sguardo era pieno di bontà, e se lei gli fosse caduta davanti in ginocchio, non mi sarei stupita. Ma lei non si è mossa, né ha dato segni di emozione; le labbra, tutt’al più, le si sono impallidite. “Oh, la mannaia” dice “la pena di morte, che istituzione orribile”. Questo fu tutto, e il Presidente aveva di nuovo abbassato gli occhi sul piatto, mentre io servivo il dessert. Così era la baronessa, vuota. E ciò che è accaduto in seguito non mi ha più riservato nessuna sorpresa. Poco prima di Natale si è celebrato il processo, e gli avvocati difensori hanno avuto buon gioco, perché il Presidente li aiutava e teneva a freno il pubblico ministero; non venne prodotta alcuna lettera. L’assoluzione da parte della Corte fu quasi unanime, ossia undici giurati contro uno, e l’unico voto contrario avrebbe potuto essere il mio. Ciò nonostante ero contenta che il signor von Juna fosse stato assolto, e ancora più contenta che, senza ringraziarmi né dirmi addio, fosse partito subito per stabilirsi all’estero, in Spagna, credo».
Era la fine del racconto, e Zerlina sospirò: «Ecco, questa è la mia storia e quella del signor von Juna, e io non la dimenticherò mai. È sfuggito alla mannaia, ed è sfuggito a me, e quest’ultima è stata per lui una fortuna ancora più grande di quell’altra. Perché se fosse stato un animo nobile e mi avesse sposata, gli avrei fatto patire le pene dell’inferno, e se adesso fosse ancora in vita sarebbe ancora sposato con me, vecchia come sono: guardami soltanto». Ma prima che A. potesse dire la sua, era già cominciato l’ultimo assolo:
«La sentenza ha fatto molto scalpore. I giornali hanno attaccato il Presidente, quelli dei rossi più di tutti: lo accusavano di giustizia di classe. Era prevedibile che lui si ritraesse sempre più nella solitudine. Non usciva quasi mai dal suo studio, e ben presto in quella stanza ho dovuto preparargli anche il letto. Un anno dopo si è dimesso, per motivi di salute. Il motivo vero però era la morte, che gli faceva la posta. Non aveva ancora sessant’anni, quando se lo portò via; e qualsiasi cosa abbiano detto i medici, la verità è che è morto di crepacuore. A lei invece, a lei e alla sua bastarda, è stato concesso di vivere. Ed è per questo, per via di questa ingiustizia, che ho allevato Hildegard così come l’ho allevata. Doveva diventare la vera figlia del Presidente, perché lui tornasse ad ammantarsi di dignità e la sua casa smettesse di ospitare la bastarda di un assassino. Dal sangue dell’assassino che le scorre nelle vene non ho potuto liberarla, naturalmente, ma proprio per questo lei ha dovuto imparare a mostrarsi degna figlia di tanto padre. Se fosse stata cattolica, l’avrei messa in convento: così invece non potevo far altro che mostrarle la casta santità del defunto, spronandola a imitarlo. Via via che la rendevo simile a lui, lei espiava la propria colpa, e tanto più veniva espiata la colpa di sua madre, pur essendo quest’ultima irredimibile in eterno. Ma la figlia l’ha presa su di sé. Ovvero, quanto più assimilava lo spirito del padre, tanto più la volontà di vendetta s’impadroniva di lei, quella vendetta che lui non ha voluto compiere in ossequio al sacro rigore verso se stesso. In questo mimetismo anche lei si asservisce; a ciò dunque l’ho asservita, ma nessuno è mai riuscito a insegnarle la santità, e senza la santità lei è obbligata a trasmettere ad altri il proprio asservimento; così se ne stava con quella tacita, ipocrita vendetta, insita nell’accudire qualcuno – e con la madre asservita alla penitenza. Una cosa implica l’altra, ed è quello che volevo; dunque l’ho educata perché espiasse la colpa. Naturalmente a questo lei si ribella con tutto l’impeto del suo laido sangue assassino, che non vuol farsi carico di nessuna penitenza, ribellarsi però non le serve a niente».
«Ma per l’amor del cielo» esclamò A. «per quale motivo dovrebbe espiare? Quale sarebbe la sua colpa? Non si può far ricadere su di lei la responsabilità di ciò che hanno commesso i suoi genitori naturali, tanto più che non sarebbe giusto definire crimine l’amore della baronessa per il signor von Juna!». Uno sguardo di condanna lo trafisse, forse non tanto per la sua osservazione, anche se Zerlina doveva esserne rimasta parecchio contrariata, quanto piuttosto perché lui l’aveva interrotta durante l’ultimo assolo:
«Non starai già per cedere alla sua lascivia? Bada bene. Prenditi piuttosto una ragazza vera, con la quale ti piaccia andare a letto e alla quale piaccia venire a letto con te, e persino mani un po’ rosse sono meglio di tanta manicure e grancassa dell’anima. Lo sai perché non voleva averti a pigione? Ebbene, non c’è stato qui un solo pigionante davanti alla cui porta – e indicò alle sue spalle la porta della stanza – lei, notte dopo notte, non si fermasse, e notte dopo notte l’imperativo del padre, che non era suo padre, la paralizzava, sicché finiva per restare sempre e soltanto sulla soglia. E se non ci credi questa sera, come ho già fatto tante volte, spargo un po’ di farina in anticamera: così domani vedrai le impronte dei suoi passi esitanti. Ecco come la tormenta la sua colpa; non lasciarti abbindolare. Perché insieme con la nostra perfidia continua a crescere, diventando più grande di noi, anche la nostra responsabilità, e quanto più profondamente l’uomo deve immergersi nella propria perfidia per trovare se stesso, tanto più deve assumersi la responsabilità dei delitti che non ha commesso: questo è un fardello che grava su tutti, su di te, su di me, su Hildegard, e a lei tocca pagare per la colpa dei suoi genitori carnali. La baronessa, invece, che è prigioniera di noi due, vorrebbe sfuggire all’asservimento, e implora l’aiuto di un pigionante dopo l’altro. Solo e soltanto grancassa dell’anima, in tutte e due, madre e figlia; e per farla rintronare nelle loro orecchie, l’ho amplificata, quella grancassa, sino a renderla un baccano d’inferno, e un inferno lo è davvero, questa casa, sotto la sua patina di quiete e raffinatezza. Il santo e il demonio, il signor Presidente e il signor von Juna – anche lui sarà morto ormai – due ombre minacciose che non si allontanano mai dal fianco di quelle lì, e sono il loro strazio. Ma forse sono anche il mio. E a nulla mi è servito essermi presa altri amanti dopo il signor von Juna, all’unico scopo di non restargli fedele; talmente a poco mi è servito che ben presto mi sono vista costretta a cercarmene di sempre più giovani: alla fine erano poco più che ragazzini, e io li cullavo sul mio petto per tacitare in loro la paura della donna e perché potessero conoscere il piacere, l’umano appagamento. Quando me ne sono resa conto, ho smesso una volta per tutte. Ma è stato solo quello il motivo? No. Già da un pezzo avrei dovuto smettere e, se non ci fosse stata la baronessa, probabilmente non avrei ceduto nemmeno al signor von Juna. In me c’era l’immagine del Presidente, indelebile, fin dal primo giorno, e quell’immagine è cresciuta, cresciuta... Chi è la sua vedova, da quando lui è morto? Chi, se non io? Sono passati oltre quarant’anni da quando lui mi ha palpato il seno, e da allora io l’ho amato, per tutta la vita, con tutta l’anima».
Ecco come finiva quella storia, e A. un po’ si stupì di non averlo previsto. Zerlina invece, alquanto prostrata, come era normale alla sua età, lasciò vagare per qualche istante il suo sguardo nel vuoto, prima di dire con la cortesia e con la voce che ci si attende da una persona di servizio: «Ma io, con le mie chiacchiere, l’ho strappata al suo riposo pomeridiano, signor A. Spero che possa ancora recuperare». E con la sua schiena curva, uscì zoppicante dalla stanza, chiudendone piano e con cautela la porta, quasi che all’interno ci fosse già qualcuno che dormiva.
A. si era lasciato ricadere sul canapè. Sì, Zerlina aveva ragione. Perché non concedersi ancora un sonnellino? In fin dei conti non era poi così tardi: gli orologi della città avevano appena battuto le quattro. Ottima idea riprendere i pensieri insonnoliti che l’arrivo di Zerlina aveva disperso. Ma ancora una volta, apposta per innervosirlo, le questioni finanziarie tornarono in primo piano. E ancora una volta lui si vide costretto a raccontare a se stesso come aveva cominciato a far soldi, allora, nella Provincia del Capo, e come da quel momento il denaro, senza che lui ci avesse messo molto del suo, lo avesse condotto da un continente all’altro, da una Borsa all’altra, e – volendo considerare il Sudamerica un continente a sé – si era trattato di sei continenti in quindici anni; il che vuol dire due anni e mezzo per continente. E a decidere era sempre stato il caso. Da bambino, per la sua collezione, aveva tanto desiderato, ma invano, il francobollo triangolare «Capo di Buona Speranza», e da allora gli era rimasto quel desiderio struggente del Sudafrica. I francobolli non sarebbero un cattivo investimento, ma in lui la passione del collezionista era venuta meno. Che cosa voleva veramente? Una casa, una moglie, dei figli? Il piacere di stare con i bambini lo provano in fondo soltanto le nonne. Per chi ama la vita comoda la prole è solo una seccatura, e le storie d’amore lo sono ancora di più, sono incomprensibili. La baronessa aveva semplicemente commesso una stupidaggine; se l’avesse conosciuta allora – ma allora lui era appena nato – l’avrebbe invitata a Città del Capo, salvandola da quel tipo e dal suo vergognoso comportamento. Sì, le donne non ci vanno volentieri fin laggiù, e questo implica una certa scarsità di donne, e relativi drammi nei campi diamantiferi. Laggiù il signor von Juna non avrebbe potuto far collezione di donne. La vita di quell’uomo non è certo stata tutta rose e fiori. Sarebbe piuttosto da invidiare il Presidente, allora? Se a quel becco i due avessero almeno fatto un figlio maschio... Magari anche quello gli sarebbe scappato subito in Africa, nonostante l’inanità di qualsiasi tentativo di fuga; perché la vedova resta a casa, resta prigioniera. Si dovrebbe poter essere figli di se stessi. Lui, dopo la morte del padre, non aveva forse chiesto alla madre di raggiungerlo a Città del Capo, dove le avrebbe costruito una casa? Se lei lo avesse fatto, sarebbe sicuramente ancora in vita; in ogni caso avrebbe dei nipoti. Per i bambini bisogna iniziare una collezione di francobolli; anche quello triangolare del Capo di Buona Speranza se lo procurerà di certo. Purché la domenica scorra via e si disperda come acqua nella sabbia: ecco un buon progetto di vita.
Certo, è proprio così che bisognerebbe pianificarsi la vita, questo A. lo sapeva ancora con assoluta certezza. Ma d’essersi frattanto addormentato, questo ormai non lo sapeva più.