sabato 10 aprile 2021

ESSERE UN GATTO Matt Haig


ESSERE UN GATTO 

Matt Haig 

Un segreto

Ecco un segreto che davvero non dovrei raccontarti, e invece lo farò perché non posso proprio farne a meno. È troppo grande. Troppo bello. Okay, mettiti a sedere, preparati spiritualmente, abbracciati e tieni a portata di mano qualche tavoletta di cioccolato d’emergenza. Strizza un grosso cuscino. Ecco qui:

I gatti sono magici.

Questa è pura verità.

I gatti. Sono. Magici.

Hanno dei poteri che io e te possiamo solo sognarci.

Ma perfino mentre te lo dico, posso vedere bene che cosa stai pensando. Stai pensando: No, non è vero. I gatti sono solo dei piccoli e graziosi animali da compagnia che se ne stanno tutto il giorno a dormire vicino ai termosifoni.

Al che ti risponderei: Questo è proprio quello che loro vogliono che tu pensi. E ora stai pensando: Queste sono le parole scritte in una storia da un qualche scrittore dal nome noioso, e agli scrittori non bisogna assolutamente credere, perché per vivere raccontano storie.

E qui un po’ di ragione ce l’hai.

Ma non sempre le storie sono bugie. Sono piuttosto cose immagazzinate nella nostra immaginazione – non a caso in inglese la parola «storie» è imparentata con la parola store, magazzino, ed è compito dello scrittore dar loro risalto. E alcune delle cose che immaginiamo sono più vere dei fatti che impariamo in matematica; si tratta solo di un tipo diverso di verità rispetto a 76 – 15 = 61.

Perciò, sì, qualsiasi gatto che abbia mai vagato sulla Terra è capace di fare alcune cose molto speciali. Per esempio è capace di:

  1. Comprendere migliaia di linguaggi animali (compresi quello dei gerbilli, delle antilopi e quello ridicolmente complicato dei pesci rossi).
  2. Stare in equilibrio su uno steccato.
  3. Fare pisolini ovunque: su una pancia, sul pavimento di cucina, sopra il televisore mentre sta andando a tutto volume la sigla del telegiornale.
  4. Sentire odor di sardine a tre chilometri di distanza.
  5. Fare le fusa (datemi retta, è una vera magia).
  6. Accorgersi, grazie alle vibrisse, dell’avvicinarsi di un cane.
  7. *********** **-*********** *** ******

Fermiamoci qui, al numero sette. Okay, dall’uno al sei sembrano cose banali. Forse sai che i gatti fanno alcune di queste cose, anche se non ti sei accorto che sono magiche. Il fatto è che, se ti capita di vedere abbastanza spesso delle magie, queste finiscono per sembrarti normali. E non fraintendermi, l’elenco non finisce assolutamente qui. In effetti la lista è così lunga da poter riempire una decina di libri come questo, e avresti gli occhi iniettati di sangue arrivato al numero 9.080.652: avere un radar per i termosifoni.

Ma il numero sette è un buon punto su cui soffermarsi. Questo settimo potere è quello più importante, almeno per la storia che sto per raccontarti. (Anche se, nel caso tu voglia leggere un libro sul radar felino per i termosifoni, ti raccomando caldamente il fantastico Zampecalde di A.B. Crumb, che in questo genere è decisamente il migliore.)

Ti potresti anche domandare che cosa sia effettivamente questo *********** **-*********** *** ******.

Be’, ci arriveremo, non essere precipitoso. Puoi avere un certo numero di segreti per capitolo, sai. Il fatto è che il numero sette è un bel problema. Ho dovuto mettere gli asterischi al posto delle lettere, perché dovevo stare molto attento a come te lo dicevo. Se te l’avessi svelato tutto d’un colpo, o non mi avresti creduto, oppure avresti ricevuto tante di quelle informazioni in un sol colpo da non comprenderne gli insiti pericoli.

Perciò non preoccuparti, a tempo debito te lo dirò. Insomma, voglio farti capire che quegli umani che ne fanno esperienza ne scoprono gli effetti terribili se non addirittura mortali, e di certo non guardano mai più un gatto nella stessa maniera. Una di queste povere vittime fu uno sfortunato ragazzo di nome Barney Willow, che ti attende già dalla prossima pagina.


Barney Willow

Barney non era il ragazzino più felice del mondo, ma non era nemmeno il più infelice. In Nuova Zelanda c’era un ragazzo che si chiamava Dirk Drudge che era ancor più infelice, per via di un colpo di fulmine e di uno sgradevole incidente che aveva avuto a che fare con una latrina e un ragno velenoso, ma questa è un’altra storia. In ogni modo Barney viveva con sua madre a Blandford, nel Blandfordshire, un posto talmente noioso che di sicuro non ne hai mai sentito parlare.

Grosso modo Barney era alto quanto te, ma con un bel po’ di lentiggini in più. Aveva le orecchie un po’ sporgenti, come se la sua testa fosse un’unità trasportabile e avesse bisogno di una maniglia di qua e una di là. Aveva anche dei capelli piuttosto ricci e ribelli che non riusciva mai a tenere a posto, e quel tipo di viso che le vecchie signore amano pizzicare, chissà perché, un tantino troppo forte, come se avesse avuto cinque anni invece che quasi dodici. Le stesse vecchie signore che spesso gli domandavano: «Ti sei perso?» quando in realtà si sapeva orientare benissimo. Semplicemente aveva quell’aria.

Il suo migliore amico – okay, l’unico – Rissa, era una ragazza, ma andavano così d’accordo che lui non aveva mai sollevato il problema.

I suoi genitori erano divorziati.

«Non sarebbe stato bello nei tuoi confronti, Barney» era solita dire sua madre, «se fossimo rimasti insieme a litigare come cane e gatto».

Ma non è questa la cosa orribile. In effetti ho intenzione di fare una promessa: andarmene e lasciare che sia la storia a raccontarti tutta la faccenda. Qualche volta la cosa è troppo commovente per l’autore.

La parte orribile della storia era questa: suo padre era sparito duecentoundici giorni prima (Barney teneva il conto). Il ragazzo non l’aveva più visto da allora, tranne che nei sogni.

In effetti, da quel giorno, Barney sognava molto spesso suo padre.

Lo stava sognando proprio in quel momento.

Si trovavano in una pizzeria, loro due soli, proprio come l’ultima volta che Barney l’aveva visto.

«Papà, non voglio parlare della pizza. Voglio parlare di te».

«Una pizza proprio squisita».

Ma improvvisamente una lingua gigantesca scendeva dal soffitto e spazzava via tavolo e pizza, strofinando rugosa la faccia di Barney.



A quel punto Barney si svegliò. E si ricordò vagamente che era il suo compleanno.

«No, Guster, fila via!»

Guster era il suo cane. Uno spaniel King Charles che suo padre aveva preso in un canile, e che non aveva dato a Barney nessun sospetto dei suoi propositi di svegliarlo ogni mattina saltando sopra al suo letto e di leccargli la faccia fino a rendergliela tutta appiccicosa di saliva canina.

«Guster, ti prego! Sto ancora dormendo!»

Naturalmente non era vero. Era solo una pia illusione. Ma Barney passava la vita a farsi pie illusioni, e questo era un grosso problema, come avrai presto modo di vedere.

Quello era il giorno del suo dodicesimo compleanno, ma non era una cosa che lo eccitasse granché. Dopotutto si trattava del primo compleanno senza suo padre. E come se questo non fosse abbastanza brutto, era anche il primo compleanno che doveva trascorrere in quello schifo della sua nuova scuola. E scuola significava Miss Whipmire, la direttrice che veniva dall’inferno. Barney non sapeva se questo fosse l’indirizzo esatto, ma certamente quella donna condivideva lo stesso codice postale. In ogni caso, Miss Whipmire era orribile. E odiava ogni singolo allievo della Blandford High. «Vedo il mio lavoro come quello di un giardiniere» aveva detto una volta in un’assemblea. «E voi siete le erbacce. Il mio compito è strapparvi e sradicarvi e rendere tutto tranquillo e perfetto come sarebbe questa scuola se fosse priva di tutti voi orribili ragazzi». Ma se Miss Whipmire non amava nessun ragazzo, sembrava però che odiasse Barney in modo particolare.

Solo la settimana prima Barney era finito nei pasticci quando lui e Gavin Needle erano stati spediti in direzione.

Gavin Needle aveva messo una puntina da disegno sulla sedia di Barney che, quando si era seduto, aveva strillato di dolore. L’insegnante di geografia li aveva spediti tutti e due nell’ufficio di Miss Whipmire, ma quando erano stati lì la direttrice aveva rimandato Gavin in classe e aveva concentrato tutta la sua perfidia su Barney. Se a essere punto fosse stato il sedere di chiunque altro, allora Miss Whipmire sarebbe stata felice di poter umiliare Gavin (che lei chiamava anche Gramigna), ma non quando il sedere in questione era quello di Barney.

Il che significava che Gavin era libero di continuare a mettere puntine da disegno sulla sedia di Barney. Oppure, in mancanza di puntine, di tirargli via la sedia da sotto un attimo prima che Barney si sedesse. Oh sì, Gavin aveva letto almeno cento volte il capitolo «La tortura della sedia» nel Manuale del bullo.

Così, tra Miss Whipmire e Gavin Needle, Barney non voleva pensare a ciò che quel giorno aveva in serbo per lui. Desiderava solo tenere gli occhi chiusi e far finta che fosse ancora notte. Cosa molto difficile, mentre una lingua umida e ruvida gli stava leccando la faccia.

Barney mise la testa sotto le lenzuola, senza che questo potesse fermare lo spaniel, che per trovarlo frugava al buio col corto naso e la lunga lingua.

E poi, come ogni mattina, la mamma lo esortò a uscire dal letto.

«Forza, Barney. Lo so che è il tuo compleanno, ma è ora che ti alzi. O farò tardi in biblioteca!»

Così Barney uscì dal letto e guardò sua madre aggirarsi per la casa alla sua consueta ipervelocità. Poi lavò, strofinò e vestì tutto quello che bisognava lavare, strofinare e vestire e scese dabbasso.

Nell’ingresso, Guster si strofinò contro le sue ginocchia. Barney guardò in basso e vide le orecchie pendule marroni del cane, e il naso orgogliosamente puntato all’insù.

«D’accordo, amico. Passeggiatina».

Essere un gatto

«Se proprio vuoi un cane devi essere pronto a prendertene cura» gli aveva detto la mamma prima di andare a prendere Guster al canile cinque anni prima. «E questo vuol dire portarlo fuori due volte al giorno».

A essere sinceri, a Barney non pesava portare fuori a passeggio Guster. Spesso era la parte più bella della giornata, specialmente se il tempo si comportava bene. Quel giorno invece cominciò a piovere mentre Barney, seduto su una panchina del parco, aspettava che Guster facesse quello che doveva fare. Si trattava di una pioggia scrosciante e sgradevole, che ignorava spudoratamente il fatto che Barney non aveva l’ombrello.

«Bel compleanno» mormorò Barney riagganciando il guinzaglio al collare di Guster.

Sapeva che si stava compatendo, ma non poteva farci niente.

Sulla via del ritorno, passò davanti a una casa di Friary Road con un vecchio gatto dal pelo argenteo comodamente acciambellato al calduccio dietro una finestra. Essere un gatto, rifletté. Quella sì, sarebbe una vita comoda.

Niente scuola.

Niente Gavin Needle.

Nessun bisogno di essere svegliato prima delle sette del mattino.

Libertà totale. E, diversamente da un cane, nessun bisogno di uscire sotto la pioggia.

Mentre Barney pensava a queste cose, la bestiola si voltò verso di lui, e Barney riconobbe lo stesso gatto che vedeva fissarlo quando tutte le mattine passava davanti a quella casa. Aveva un occhio solo. L’altra sua orbita era stata cucita con un filo bianco così spesso che Barney poteva vederlo perfino dalla strada.

Anche Guster individuò il gatto, diede uno strattone al guinzaglio e cominciò ad abbaiare.

«Dai, Guster, piantala di fare lo stupido. Tanto non spaventi nessuno».

Quasi sotto casa, Barney si imbatté nel postino. «C’è qualcosa per il numero diciassette?» domandò.

Il postino frugò nel mucchio della corrispondenza. «Oh, sì. Sì, c’è qualcosa». Barney prese le lettere e le fece passare rapidamente. C’era un biglietto d’auguri della zia Celia in mezzo alle buste marroncine delle bollette, ma niente da parte di suo padre. Sapeva che era stupido aspettarsi qualcosa e che sarebbe stato improbabile sperare di imbattersi in quella grafia che conosceva bene quanto la propria. Ma se suo padre era ancora vivo, Barney era sicuro che se si fosse messo in contatto con lui lo avrebbe fatto nel giorno del suo compleanno.

Ma no. Niente.

«Oh, altri conti da pagare» sospirò sua madre ricevendo la posta dal figlio.

«Non preoccuparti, mamma» disse Barney, cercando di essere convincente.

Sua madre gli diede un bacetto sulla guancia, in fretta e furia, poi infilò di corsa la porta di casa. «Farò tardi, ’sto pomeriggio» disse. «Ho una riunione. Tornerò verso le sette. Ma se ti viene fame c’è un po’ di carne fredda e insalata nel frigo».

Carne fredda?!

Il giorno del suo compleanno!

Sia chiaro, non che Barney si aspettasse una cena di dieci portate seguita da una gita in mongolfiera o roba del genere, ma forse qualcosina di più che un pomeriggio in solitudine a mangiare carne fredda e a fare i compiti.

Guardò sua madre infilarsi nella Mini e non poté fare a meno di pensare che ormai non era più davvero una persona. Era semplicemente una visione confusa sempre in movimento che solo qualche volta si fermava a sospirare.

La macchina partì.

E Barney restò sulla porta, a guardare la pioggia e a desiderare che suo padre fosse lì.

«Sta’ allegro, Barney Willow, hai solo dodici anni» disse una voce. «Non c’è nessun motivo di assomigliare già adesso a un adulto».

La voce era di Rissa Fairweather. Barney alzò gli occhi e vide di fronte a sé la sua migliore amica, alta e sorridente e con un ombrello a macchie di leopardo.

«Ciao, Rissa» la salutò, sorridendo per la prima volta nella mattina.


Rissa Fairweather

«Fatto da me» disse Rissa, porgendogli un biglietto d’auguri. «Sai, ogni tanto ci si annoia un po’ su un barcone in una sera nuvolosa».

Oh sì, cari lettori. Bisogna che vi dica – e quindi devo rompere la mia promessa e interrompermi ancora (non sono bravo con le promesse, mi fanno venire il prurito) – che la migliore amica di Barney era un tipo abbastanza singolare. Viveva proprio su un barcone. E non aveva la tv. Invece possedeva un telescopio, e passava buona le serate a guardare il cielo e a cercare costellazioni (finché non aveva incontrato Rissa, Barney credeva che la Cintura di Orione fosse un capo di abbigliamento).

Si potrebbe pensare che a una ragazzina così avrebbero potuto rendere la vita difficile, a scuola. Niente tv. Strano hobby. Vive su un barcone. Capelli da pirata. E almeno trenta centimetri più alta di tutti i suoi compagni di classe.

E invece no.

Contrariamente a Barney, a cui Gavin Needle e i suoi compari rendevano la vita un tormento quotidiano, Rissa era al cento per cento a prova di bullo. Volete conoscere il suo segreto? Non leimportava assolutamente niente di quello che la gente diceva di lei. Anzi, a dire il vero, se la gente la insultava ne era felice. La faceva sentire interiormente brillante.

Il primo giorno alla Blandford qualcuno le aveva gridato: «Spilungona» e «Barcaiola», ma questo l’aveva solo fatta sorridere. Teneva sempre a mente quello che le aveva detto sua madre: «Se qualcuno ti prende in giro è perché vede in te qualcosa che gli fa paura. Qualcosa di speciale, che questa gente non potrà mai avere, e che brilla dentro di te come un gioiello».

Se qualcuno provava davvero a offenderla, Rissa si immaginava un lucente smeraldo che diventava ancora più luminoso. Oppure, se era davvero scocciata per qualche ragione, Rissa pronunciava la parola «Marmellata» (il suo cibo preferito).

Può sembrare sciocco, ma era quello che le aveva suggerito di fare suo padre, e con lei funzionava.

Ma sto divagando.

E tu ti stai domandando cosa c’entri tutto questo con la magia dei gatti, non è così? Te lo leggo in faccia.

Be’, ci arriverai tra un attimo. O tra un centinaio di minuti. Dipende da quanto sei veloce nella lettura. Ma torniamo subito alla nostra storia e scopriamo qualcosa di più sullo sconvolgente compleanno di Barney a scuola. Anzi, permettetemi di farne uno specchietto. Hasta luego.

Specchietto del compleanno
semplicemente spaventoso
e sconvolgente di Barney

8.30 – 9 di mattina

Barney si avviò a scuola a piedi insieme a Rissa. Venne schizzato dal pulmino della scuola. Dai finestrini del pulmino tutti assistettero alla scena e risero di lui, compreso Gavin Needle che gli urlò: «Attento alla pozzanghera!» e scoppiò a ridere come se avesse appena fatto La-migliore-battuta-dell’anno.

Ore 9 – 9.30

Il vicepreside, Mr Waffler, prolisso di nome e di fatto, per la terza volta quell’anno superò il proprio record di Assemblea Più Noiosa, con un discorso sui vari tipi di muschio da lui scoperti durante una vacanza nel Lake District.

Ore 9.30 – 10.30

Matematica.

Ore 10.30 – 11

Intervallo. Durante il quale una piacevolissima conversazione con Rissa venne interrotta da Gavin Needle al grido di: «È la tua ragazza?»

Quando Barney decise di rispondere stupidamente: «No!», Gavin tornò a gridare: «Non dicevo a te. Dicevo a Rissa». A Barney non restò che commentare debolmente: «Spiritoso».

Ore 11 – mezzogiorno

Geografia. Nella quale Gavin dispiegò la sua consueta abilità togliendogli la sedia di sotto mentre Mrs Fossil stava parlando di vulcani.

Da mezzogiorno all’una

Barney trascorse l’ora di pranzo mangiando spaghetti troppo al dente in un ragù troppo cotto. Chiacchierò con Rissa che gli stava spiegando varie cose sulle stelle e su come il sole – la nostra stella più vicina – andava sempre crescendo e un giorno si sarebbe trasformato in una gigante rossa e avrebbe distrutto la Terra. E tutto questo sarebbe stato interessante se Barney non avesse sentito su di sé un calore d’un altro tipo – causato dallo sguardo di Miss Whipmire – che gli bruciò il collo fissandolo attraverso il vetro della porta della mensa.

Ore 1 – 2 del pomeriggio

Inglese. Dove Mr Waffler si dilungò a parlare dei brutti voti di Barney. («Una vergogna, per un ragazzo così fantasioso».)

Ore 2 – 3

Applicazioni tecniche. In cui Gavin e i suoi amici sembravano tramare qualcosa, visitando il sito web simpaticamente intitolato:

www.comemettereneipasticciuntiziochiamatobarneywillow.com.

Ore 3 – 4

Francese. In cui Gavin e i suoi compari erano misteriosamente assenti. Verso le tre del pomeriggio Barney andò in bagno. Proprio in quel momento, mentre percorreva il corridoio, l’allarme antincendio si mise a suonare. Barney si voltò e vide Miss Whipmire che lo fissava.

«Sei nei pasticci fino al collo, Barney Willow!»

«Non sono stato io! Vede bene che non sono vicino a nessun allarme antincendio».

Ma dieci minuti dopo, quando tutti furono allineati in cortile, Miss Whipmire si diresse verso Barney Willow e gli bisbigliò severamente nell’orecchio le tre parole più terrificanti dell’universo.

«In direzione. Subito!»

Il portapenne di Miss Whipmire

Barney avvertì un odore di pesce. L’odore di pesce sembrava provenire dalla scrivania di Miss Whipmire, sulla quale, però, non c’era altro che una lettera scritta a macchina e un portapenne.

Si trattava di uno strano portapenne. Nero e con due buchi, che lo fissavano come due occhi. Non però occhi di pesce.

Miss Whipmire gli aveva detto di aspettare lì, mentre lei usciva a controllare qualcosa.

Barney sapeva che al suo ritorno si sarebbe trovato nei pasticci. E sapeva anche che la lettera sulla scrivania gli avrebbe rivelato la dimensione di quei pasticci.

Si alzò, si sporse in avanti e cercò di dare un’occhiata a quello scritto rovesciato.

Ma questo fu tutto quello che riuscì a leggere prima di udire la porta che si apriva alle sue spalle. Si aprì, si richiuse, e lo scatto della serratura fu lo stesso suono sinistro dell’ultimo chiodo sul coperchio di una bara.

Barney tornò subito a sedersi. Non osò voltarsi, nonostante Miss Whipmire rimanesse per un momento dietro di lui, senza parlare.

Barney se la immaginò che lo guardava disgustata. I suoi occhi traboccanti odio che fissavano la sua schiena da sopra gli occhialini.

Desiderò che quella giornata potesse ricominciare, desiderò, dopo aver sentito la lingua di cartavetrata di Guster, di essersi di nuovo coperto la testa con il piumino e di essere rimasto così.

Questo era ciò che succedeva a Barney, in quei giorni.

Non faceva che desiderare.

Miss Whipmire si diresse alla sua scrivania e si sedette, pronta a parlare dell’allarme antincendio.

«E così, Barney Willow» disse Miss Whipmire con quella sua voce gelida e distaccata. «Barney Willow, Barney Willow, Barney Willow... sempreBarney Willow, Barney Willow... Allora, dimmi, perché hai fatto suonare l’allarme?»

Barney sedeva a disagio sulla sedia. Fissò ancora una volta lo strano portapenne sulla scrivania. «Io non c’entro».

Miss Whipmire fece un gran sospiro e rimase seduta dritta come un fuso sulla sedia. Sembrava irritata. Ma era sempre così, la bocca serrata in una piccola O, i capelli neri talmente tirati da spostare così in alto le sottili sopracciglia che i grandi occhi sottostanti davano l’impressione di voler rotolare sulla scrivania urtando i minuscoli occhialini che teneva inutilmente sulla punta del naso.

«Non sei stato tu?» La sua voce era minacciosa. «Ma certo. Non fai mai niente tu, non è vero, Barney? Non disturbi mai una riunione, non incidi mai graffiti nei bagni, non ti azzuffi mai con Gavin Needle».

Quest’ultima bugia era troppo grossa. Barney non riuscì a trattenersi dall’obiettare: «Gavin aveva messo una puntina da disegno sulla mia sedia. Come fa sempre. È la sua idea di scherzo. Come darmi uno spintone quando mi passa vicino è la sua idea di scherzo. È un bullo. È sempre stato un bullo».

Per un attimo Miss Whipmire sembrò d’accordo con lui. Di sicuro Gavin Needle non le piaceva. E mentre Barney parlava sembrò assentire mentre i suoi occhi si velavano di una certa tristezza. Ma la scacciò via subito. Odiava Barney: era chiarissimo. Non solo da quel giorno o da quella settimana, ma da sempre. Per esempio:

Barney era in quella scuola soltanto da un semestre scolastico eppure era stato cacciato da almeno una decina delle riunioni da lei convocate.

Una volta per aver esclamato «Ahi!» quando Gavin gli aveva dato uno schiaffo sull’orecchio, ma tutte le altre volte per un rumore provocato da qualcun altro.

Come quando Alfie Croker aveva ridacchiato.

(«Fuori, Barney Willow. In questa scuola non si tollerano risatine!»)

O quando Lottie Lewis, seduta a chilometri di distanza, aveva starnutito.

(«Barney Willow, se non sei in grado di controllare il tuo naso, esci subito di qui... Esci. SUBITO!»)

O quando Mr Waffler aveva sbadigliato rumorosamente.

(«Oh, Barney Willow, ti sto annoiando, eh? Bene, forse ti interesserebbe maggiormente rimanere più a lungo a scuola in punizione!»)

Una volta era stato punito in cortile, durante la ricreazione, perché stava leggendo il suo libro preferito, Bambini acquatici di Charles Kingsley. («Leggere durante la ricreazione! Come osi? Subito in direzione...»)

«Non sono qui per parlare di Gavin» proclamò Miss Whipmire. «Né di puntine da disegno. Sono qui per parlare di te. Cosa c’è che non va? Qual è il problema?» Fece un sorriso malvagio. «Ti manca il paparino?»

Barney sentì un impeto di rabbia salirgli dentro come roccia fusa. «Non può dire queste cose!»

«Oh, ma l’ho appena fatto. E, francamente, non posso biasimare tuo padre. Sarei scappata anch’io, se avessi avuto un figlio come te».

«Non è scappato!» Barney sentì salirgli una lacrima. Strinse forte le palpebre, chiudendola dentro.

«Oh, davvero? E allora che cosa è successo?»

Naturalmente, Barney non era in grado di rispondere a questa domanda. Tra l’altro, quand’era successo, suo padre non viveva con lui. I suoi genitori avevano divorziato un anno prima, perciò suo padre viveva da solo in un appartamento, e Barney lo vedeva solo quando uscivano per andare allo zoo o in pizzeria, in quei sabati che non si rivelavano mai divertenti come avrebbero dovuto essere.

E poi, l’estate precedente, era proprio scomparso.

Zac. Puff. Sparito, senza lasciare traccia.

Lasciando un buco tanto grande da contenere un miliardo di domande, senza nemmeno una risposta.

La polizia non aveva saputo risolvere il mistero.

La Blandford Gazette aveva pubblicato un articolo con una foto di suo padre e un grande punto interrogativo.

E la madre di Barney aveva cominciato a comportarsi in modo molto strano, come se qualcuno avesse pigiato un pulsante e l’avesse fatta andare a una velocità tripla.

Oh, e quello era stato anche il periodo in cui Barney aveva cominciato a fare i sogni. Qualche volta, semplicemente, di suo padre e lui insieme al ristorante come quello di quel mattino. Ma altre volte si trattava di incubi. E allora vedeva suo padre che gridava di dolore portandosi la mano sull’occhio, col sangue che gli scorreva tra le dita.

Subito dopo Barney era entrato alla Blandford High, e fin dalla prima settimana Miss Whipmire aveva cominciato a perseguitarlo, rimproverandolo per le risatine degli altri durante l’assemblea, o per le frasi scritte sui muri con una calligrafia che non era la sua.

«Che cos’è successo al tuo paparino?» tornò a domandare Miss Whipmire.

«Non si sa».

La direttrice fece una breve risatina nasale. «C’è sempre qualcuno che lo sa. Ma tu non cerchi nel posto giusto. Del resto non sei propio quello che si potrebbe definire una persona intelligente, no? Ho visto i voti che stai prendendo».

La direttrice si alzò, si avvicinò al suo schedario e ne estrasse una cartellina. «Sì, sei il peggiore del tuo anno. L’undicenne più stupido di tutta la scuola».

«Dodicenne» corresse Barney. «Oggi è il mio compleanno».

Miss Whipmire fece spallucce, come se l’età di Barney e il suo compleanno fossero le cose più insignificanti del mondo.

«Hai qualche idea sulla ragione di questi voti così bassi?»

Naturalmente Barney un’idea ce l’aveva. Fino a qualche mese prima prendeva sempre ottimi voti nei compiti a casa, adesso poteva considerarsi fortunato se arrivava vicino alla sufficienza, anche se si impegnava più duramente che mai.

«Forse perché è lei a giudicare tutti i miei compiti» azzardò Barney. «Quando ero come tutti gli altri, giudicato da insegnanti normali, andavo bene».

Miss Whipmire si infuriò. «Ho semplicemente degli alti standard di giudizio. Tutto qui».

«Credo che...»

Miss Whipmire richiuse il cassetto dello schedario e si voltò. «Silenzio. Questo è il mio ufficio. Non ti provare a fiatare se non te lo dico io». E si chinò a sussurrargli all’orecchio: «Capito?»

Barney fece cenno di sì, guardando un calendario appeso al muro. Sopra il mese di febbraio c’era l’immagine di un gatto. Un persiano bianco e peloso disteso al sole. Miss Whipmire si accorse che Barney lo guardava e sembrò contenta. Il sussurro nel suo orecchio si addolcì. «Quella sì, sarebbe una bella vita, non trovi? Essere un gatto, sdraiato al sole, senza tutte queste umane preoccupazioni...»

Barney si sentì come ipnotizzato da quelle parole. Essere libero. Non avere più spaventose convocazioni nell’ufficio di Miss Whipmire! Non avere più incubi! Non andare più nella stessa scuola di Gavin Needle!

Miss Whipmire prese la lettera sulla scrivania. «Ma tu non sei un gatto. Tu sei tu». E poi mise la lettera dentro una busta che era sotto la lettera. «E questa è per tua madre».

Barney si terrorizzò. L’ultima lettera a casa aveva fatto piangere sua madre. E per piangere intendo mugolare. E per mugolare intendo sedersi sugli scalini stringendo la balaustra e dondolarsi avanti e indietro. Barney aveva promesso che sarebbe stata l’ultima volta, anche se aveva litigato con Gavin per via di una puntina da disegno (e Miss Whipmire lo sapeva benissimo).

«Qui dentro spiego che questa è l’ultima lettera a casa prima di espellerti dalla scuola. Se esci fuori dalle righe anche solo di un baffo, hai chiuso con questa scuola».

«Espulso? Ma non ho fatto niente di male!»

Miss Whipmire sorrise. «Tua madre rimarrà scioccata, immagino. Sai, sono madre anch’io. Sono in pochi a saperlo. Tuttavia capisco fin troppo bene i dolori della maternità».

Barney prese la busta, con le mani che gli tremavano vedendo scritto Mrs Willow in caratteri grandi ed eleganti. L’ultimo tratto avvolgente della W finale sembrava guizzare verso l’alto come la coda di un gatto. Il vago odore di pesce mischiato al suo panico gli fece rivoltare lo stomaco.

Miss Whipmire gli indicò la porta, facendogli capire che doveva andarsene. «E ti conviene consegnargliela. Telefonerò per controllare».

Barney fissò un’ultima volta il calendario.

Miss Whipmire gli fece un piccolo gesto di saluto mentre usciva. «Miao» gli disse con una risatina sinistra.

Barney, sulla porta, si voltò: «Perché fa così?»

Miss Whipmire fece finta di riflettere. «Non saprei» rispose con lento e sinistro diletto. «Semplicemente ti disprezzo. Naturalmente tutti i ragazzi hanno diritto a essere disprezzati, ma con te semplicemente viene più facile. Ti basta? Oh, e ricordati di non correre a lamentarti dai tuoi insegnanti di come sono cattiva. L’ultima volta non ha funzionato. Lo sanno tutti come ho rivoltato questa scuola. Ha i migliori risultati di tutto il Blandfordshire. Be’, non grazie a te, naturalmente... Ora, se tu volessi andartene e ritornare alla tua piccola patetica esistenza, be’, sarebbe una buona cosa».

Barney lasciò l’ufficio della direttrice proprio mentre suonava la campanella. Gli alunni si slanciavano fuori dalle aule, felici di tornare a casa. Vide Gavin Needle e i suoi amici che ridacchiavano nella sua direzione.

«Mi dispiace, Barney» gli sussurrò Gavin. «Credevo davvero che ci fosse un incendio». Mimò il gesto di suonare l’allarme. «Oops!»

Gavin si voltò e vide Rissa che percorreva il corridoio. E poi, a voce altissima: «Oh, meglio andare, c’è la tua ragazza!»

E Barney divenne viola così in fretta che Gavin gli premette le mani sulle guance.

«Avevo ragione!» esclamò il bullo, sentendo il calore bruciante della vergogna di Barney. «Sì che c’era, l’incendio! Ce l’hai in faccia!»

Un piccolo, piccolissimo
istante di tempo

«Non prendertela troppo» disse Rissa, scendendo dall’autobus alla loro fermata. «La tua mamma è una brava persona. Non è il tipo che si mette a urlare nel giorno del tuo compleanno».

«Potrebbe anche darsi» ribatté Barney. «Ma non voglio proprio vederla crollare. Sarà sconvolta per colpa mia».

Rissa rifletté. «Senti, se vuoi che resti con te e le spieghi che Miss Whipmire è pazza...»

Barney fissò il volto di Rissa. Vide dai suoi occhi che era sincera. Ma non aveva intenzione di coinvolgerla in quella faccenda. «No. Non preoccuparti. Questo è un problema mio».

Quando erano quasi a casa di Barney, videro un gatto sdraiato proprio davanti al cancello di casa. Era un micio con un aspetto normalissimo. Non come quello col pelo argentato e un occhio solo che Barney vedeva tutte le mattine.

No. Questo era il classico, comunissimo gatto nero, con due occhi, anche se uno, il sinistro, era circondato da una macchia bianca.

«Ciao, gatto» disse Rissa, e si chinò ad accarezzarlo. «Mi piacerebbe tanto un gatto!»

«E perché non ne prendi uno?» domandò Barney.

«Oh, mamma e papà sostengono che sarebbe un po’ rischioso, visto che viviamo sul fiume. Ma io ribatto: ‘Andiamo, gente, i gatti non sono mica stupidi. Stanno in equilibrio sulle balaustre, quindi è improbabile che cadano giù da una barca’».

Barney rimase in piedi mentre Rissa continuava ad accarezzare l’animaletto.

«Come sarebbe bello» osservò Rissa, «starsene tutto il giorno sdraiati a farsi accarezzare da dei giganti, senza un pensiero al mondo!»

A quel punto il gatto guardò Barney, come se si aspettasse una risposta da lui.

«Eh, sì. Davvero».

«Be’, comunque sia, io devo andare, Signor Compleanno» disse Rissa alzandosi. Doveva fare ancora un chilometro abbondante di strada prima di arrivare a casa, ma non era un problema. A Rissa piaceva camminare. «Papà mi aspetta nel suo orticello per raccogliere delle verdure da cucinare al curry. Cibo vegetariano, naturalmente. Ma, se per caso tu non avessi niente di meglio da fare che ascoltare mio padre cantare vecchie canzonette, sei invitato. È stonatissimo».

Barney ci pensò un attimo. Era davvero tentato, specialmente perché i genitori di Rissa erano carini come riescono a esserlo dei genitori prima di sconfinare e diventare degli amici.

Ma si ricordò della lettera che aveva nello zaino – che glielo faceva sentire molto più pesante, molto più di quanto possano pesare un foglio e una busta. Il peso del terrore. «Mi converrà restare qui ad aspettare mia madre» disse alla sua amica. «Non voglio farla uscire dai gangheri più del dovuto».

«Nessun problema» disse Rissa con un caldo sorriso. E poi mise una mano sulla spalla di Barney. «Senti, Barns, sappi che io ci sono, okay? So che oggi ti potrebbe capitare qualche piccolo contrattempo come al ragno Incy-wincy della canzoncina, ma pensa che questo è un piccolo, piccolissimo istante di tempo. Pensa alle stelle. Pensa alla nostra stella. Il sole. È vecchio miliardi di anni. E continua a brillare, qualsiasi cosa succeda. Rifletti sul fatto che tra un anno questa storia non conterà nulla. Tra dieci anni, quando avrai una lunga barba, non te ne ricorderai nemmeno».

«Non voglio avere una lunga barba» protestò Barney. «E nemmeno una barba corta».

«Ehi, mio padre ce l’ha, la barba. Non c’è nadadi male, nelle barbe, e te lo dimostro. Pensa a tutti i grandi personaggi della storia: Gesù, l’imperatore Adriano... ehm... Babbo Natale, avevano tutti la barba».

«Non credo che starei bene peloso» osservò Barney. Poi vide che il gatto lo guardava. «Senza offesa».

Rissa si avviò. «Arrivederci a domani. Stessa ora, stesso posto».

«Okay. Arrivederci, Rissa, e grazie... Mi ha fatto molto piacere il tuo biglietto di auguri».

«Bene. Era il minimo che potessi fare, visto che tu l’hai fatto a me. E... in bocca al lupo per tua madre».

Barney la guardò allontanarsi, coi suoi capelli scarmigliati, il giaccone lungo e gli stivali neri con sopra le margherite. Invece di entrare in casa, Barney rimase immobile per un momento.

Stessa ora, stesso posto.

C’era qualcosa di terrorizzante in questo, rifletté Barney. Sul fatto che la vita era destinata a rimanere la stessa. Specialmente quando la vita riservava ingredienti come Gavin Needle e Miss Whipmire.

Il gatto continuava a guardarlo, e Barney si sentì un po’ a disagio, perciò entrò in casa e lesse la lettera.

Cara Mrs Willow,

le scrivo per informarla che Barney, suo figlio, è uno sciagurato. Il suo comportamento negli ultimi mesi è continuamente peggiorato, mi riferiscono i suoi insegnanti, e ora ha raggiunto livelli tali che mi obbligano a scriverle un’altra lettera. E, in un modo o nell’altro, questa lettera sarà l’ultima.

Oggi, quando doveva trovarsi nell’aula di francese, Barney ha fatto suonare l’allarme antincendio della scuola. Ho assistito personalmente alla scena, e sono sicura che non ci sia bisogno di dirle quanto ovvio e voluto scompiglio ciò abbia prodotto.

È perciò mio dovere dirle che se Barney commetterà ancora una volta un atto contro la scuola, verrà ESPULSO dalla Blandford High.

Orbene, in quanto sua madre, è suo dovere imporgli una ferma disciplina per prevenire un simile evento. Raccomanderei di sospendergli la paghetta e di proibirgli di guardare la televisione, assicurandomi che legga i libri giusti (lunghissimi e noiosi, per esempio dizionari) e che resti a lungo in camera sua a meditare su che ragazzo terribile è diventato.

La sua delusa

Miss P. Whipmire

Direttrice

Il desiderio

Barney appoggiò la lettera e vide il suo viso riflesso nel vecchio specchio dell’ingresso.

«Odio essere te» disse in un sussurro.

Poi gli venne un pensiero che lo fece sentire felice. Non era obbligato a consegnare la lettera a sua madre. Se mai Miss Whipmire avesse telefonato per controllare, era più che probabile che sua madre non fosse in casa. Perciò tutto quello che doveva fare era sbarazzarsi della lettera.

Nessuna lettera, nessuna preoccupazione.

Semplice.

Non doveva far altro che buttarla nella pattumiera. Sì, ecco che cosa doveva fare. Ma in quale pattumiera? Quella in cucina era troppo rischiosa, e anche quella in giardino non era sicura al cento per cento, specialmente con tutta la quantità di cose che sua madre perdeva ogni giorno, e che poi era costretta a cercare dappertutto. Perciò Barney uscì di nuovo fuori col suo zaino.

Questa volta il gatto non c’era. Barney si incamminò per la strada e svoltò l’angolo dirigendosi al cassonetto oltre l’edicola.

Tenne la lettera sopra il cassonetto. La lesse di nuovo. Sapeva che era male distruggere una prova, ma questa prova era sbagliata.

Perciò strappò la lettera, facendola a pezzettini grandi come coriandoli.

Mentre tornava a casa, minuscoli pezzetti bianchi della lettera sfuggirono portati dal vento, cadendo intorno a Barney come neve incapace di sciogliersi.

In quei frammenti colse qualche parola:

sciagurato

comportamento

Barney

ESPULSO

Barney fu particolarmente contento di vedere che l’ultimo pezzettino di carta – quello con la parola ESPULSO – andò a finire in una fangosa pozzanghera grigia.

Ma, proprio mentre stava per svoltare l’angolo di Dullard Street, udì un sommesso tintinnio alle sue spalle. Voltandosi vide di nuovo il gatto nero con una macchia bianca attorno a un occhio che lo guardava.

«Che cosa vuoi, gatto?»

Il gatto, essendo un gatto, non gli rispose – o per lo meno non in una lingua a lui comprensibile – e quindi Barney riprese a camminare. E lo stesso fece il gatto.

Poi, quando Barney arrivò nella sua via, vide qualcosa che gli fece sprofondare il cuore fino allo stomaco, per ancorarsi lì. Era la macchinetta rossa di sua madre che risaliva la via e si fermava davanti a casa. Barney guardò l’orologio.

16.25.

Sua madre sarebbe dovuta uscire dalla biblioteca più di due ore e mezzo più tardi.

Si irrigidì, pietrificato dal terrore.

Lo sa.

È l’unica spiegazione.

Immaginò che Miss Whipmire avesse telefonato in biblioteca e avesse detto: «Suo figlio ha una lettera per lei. Se la faccia dare!»

Poi Barney sentì qualcosa che gli strofinava la caviglia. Guardò il gatto ai suoi piedi e ricordò le parole di Miss Whipmire.

«Quella sì, sarebbe una bella vita, non trovi? Essere un gatto, sdraiato al sole, senza tutte queste umane preoccupazioni...»

Barney si accucciò dietro una siepe. Non seppe spiegarsi il perché. Per evitare sua madre, certo. Eppure sapeva di dover tornare a casa, prima o poi.

Ora, prima di raccontarvi il seguito, voglio precisare che Barney non aveva paura che la mamma gli facesse una scenata. Cioè, era sicuro che sua madre gli avrebbe fatto una scenata, e la cosa non sarebbe stata piacevole, ma ciò che Barney temeva di più era quello che sarebbe venuto un attimo dopo.

Il momento in cui sua madre si sarebbe messa a piangere. Che era anche il momento in cui Barney si sarebbe sentito così male da desiderare di trasformarsi in un granello di polvere.

O in un gatto.

Barney rimase accucciato e il gatto gli si avvicinò di nuovo, e a questo punto Barney si trovò ad allungare una mano e accarezzarlo.

Continuavano a risuonargli in testa le parole di Miss Whipmire.

«Essere un gatto... Essere un gatto...»

«Ti andrebbe di fare cambio?» propose. Stava scherzando, naturalmente, ma era anche serio. Specialmente quando disse le parole più importanti che avesse mai pronunciato in vita sua: «Vorrei essere te».

Il gatto rimase a fissarlo coi suoi occhi verdi, e improvvisamente Barney si sentì un po’ strano.

Stordito. Come se la via si fosse trasformata in una giostra. Ma questa non fu la cosa peggiore. La cosa peggiore fu proprio il gatto.

C’era qualcosa di strano nella macchia di pelliccia bianca intorno all’occhio. E Barney capì il perché: un secondo prima era intorno all’occhio sinistro del gatto. Si era spostata.

«Non essere stupido» si disse Barney ad alta voce. «È impossibile».

Intanto – e Barney non poteva assolutamente esserne certo – parve che anche nella via le cose stessero cambiando.

Tutto sembrava più vivido, più luminoso, vibrante di vita. Le foglie sugli alberi diventavano più verdi, i fiori nei giardini di fronte crescevano a vista d’occhio tutti impettiti, e una pianta – un vaso da fiori sul davanzale di una finestra contenente una pianta che Barney non riconobbe – parve scuotersi e tremare mentre si ingrandiva fino a far cadere il vaso mandandolo per terra in frantumi.

«Non sta succedendo questo» disse Barney. «È un sogno».

Il ragazzino si rialzò, o almeno cercò di farlo. La strada girava così vorticosamente che lui fece qualche passo indietro barcollando e finì per urtare una cassetta delle lettere.

«Ahi!»

Chiuse gli occhi.

Il mondo tornò a fermarsi.

Quando li riaprì, Barney vide che il gatto stava trotterellando via.

«Strano».

Poi si volse a guardare la strada e vide sua madre che usciva dalla macchina e si dirigeva verso casa.

Alle sue spalle si aprì una porta.

«Che cosa sta succedendo?»

Barney si volse e vide un vecchio che lo fissava, col volto increspato di rughe, un po’ per l’età, un po’ per la rabbia. Barney capì che era suo il vaso da fiori che era caduto ed era andato in pezzi.

«Non lo so» rispose Barney.

«Non lo so? Non lo so?»

«No. Davvero. Mi spiace».

«Conosco tua madre. Le dirò che vai in giro a rompere le piante degli altri».

«Non sono stato io. Non è stato nessuno. È successo e basta».

«Mi spiace, ma le piante non cadono da sole. A meno che non ci sia un uragano. E non mi pare ci sia un uragano, ti sembra?»

Barney scosse la testa. «No, non mi sembra».

Dopodiché il vecchio non disse più niente. Guardò Barney, e poi il vaso in frantumi, e la terra e la pianta per terra, ed emise un lungo sospiro che sembrava contenere i rimpianti di una vita intera, prima di tornarsene dentro casa.

L’infinita stanchezza

Una breve ondata di stanchezza avvolse Barney quando aprì la porta d’ingresso.

Sua madre stava passando l’aspirapolvere e non alzò gli occhi. Guster corse a salutarlo ma, stranamente, senza scodinzolare e con un lampo di diffidenza negli occhi.

Poi sua madre lo vide e spense l’aspirapolvere.

«Ciao» disse Barney. Ma lo pronunciò quasi come una domanda. «Ciao?»

Sua madre si limitò a guardarlo. Senza la minima traccia di arrabbiatura. «Oh, ciao, tesoro».

Tesoro?

«Come mai sei tornata così presto?» domandò Barney, cercando di non apparire sospettoso.

La mamma sospirò.

Ecco! Adesso avrebbe cominciato a dirgliene di tutti i colori!

E invece no.

«Mi sentivo un po’ in colpa per questa mattina» spiegò lei.

«A che proposito?»

«Be’, è il tuo compleanno, e io non ho trovato tempo per te. Così ho pensato di portarti da qualche parte».

Barney era perplesso. Per un attimo desiderò non avere strappato la lettera. Forse quello era il momento giusto per confessare. Del resto sua madre avrebbe certo scoperto tutto, e adesso sembrava particolarmente ben disposta. Cosa rara, di quei tempi.

«Mamma, io...»

«Pizza? Ti va di andare a mangiare una pizza?»

A Barney tornò in mente il sogno di quella notte. Di quando era in pizzeria con suo padre. «Io... ehm...»

«O preferisci curry?»

«Sì, un curry mi sta bene».

Poi la mamma gli porse un regalo. Era un libro intitolato Come migliorare le proprie abilità matematiche.

«So che non è il regalo più eccitante del mondo» osservò Mrs Willow. (Anche se suo padre e sua madre avevano divorziato, la mamma di Barney aveva mantenuto il cognome del marito perché col suo nome da ragazza si potevano fare dei giochi di parole con cui l’avevano perseguitata da piccola.) «Ma spero che possa aiutarti a migliorare i tuoi voti».

Barney avrebbe voluto spiegare che l’unico modo per prendere voti migliori sarebbe stato quello di trasferirsi in una scuola dove non ci fosse Miss Whipmire. Ma non volle sembrare ingrato.

«Oh, grazie».

E qui la madre di Barney sembrò sul punto di mettersi a piangere.

«Che cosa c’è?»

Lei fece un gran sospiro. «Niente. Solo che sembravi tutto perso nel tuo mondo... Come non detto, andiamo a prepararci. Telefonerò per prenotare un tavolo per le sei. Ho fame, e tu?»

E così uscirono a cena, e Barney mangiò i gamberetti al curry più deliziosi che avesse mai mangiato. Ma dopo si sentì un po’ strano. La stanchezza ritornò, insieme a una curiosa sensazione nelle ossa, come se qualcosa le schiacciasse. Aveva anche un po’ di nausea.

«Sei molto pallido» disse Mrs Willow, guardando il piatto vuoto di Barney. «Spero che non sia colpa dei gamberetti». Si alzò per andare subito a pagare il conto.

E fu allora che un’infinita stanchezza si impadronì di Barney, che si chinò in avanti e cadde addormentato sul suo piatto sporco.

Il sogno di Barney

Conosci l’espressione che ho appena usato, «cadde addormentato»? Be’, Barney la conosceva, ma non aveva mai capito bene che cosa significasse. Non fino a quel momento, con la testa sul piatto, mentre sprofondava attraverso strati e strati di un’oscurità appiccicosa. Cadeva giù, sempre più giù, e guardava una macchia che gli fluttuava attorno. Una forma bianca, che all’inizio gli parve una specie di nuvola. Ma ne riconobbe il contorno, una specie di confuso numero sei, e si rese conto che era identica alla chiazza bianca di pelo intorno all’occhio del gatto.

E questa forma crebbe sempre di più, finché alla fine la luce prese il posto del buio, e Barney si trovò a camminare attraverso un bianco paesaggio deserto, verso nessun posto in particolare. Era come procedere attraverso l’Artico, ma senza il freddo. Non che facesse caldo, però. Si trovava in un luogo oltre la temperatura.

Ma poi udì una voce.

«Barney!»

Era una voce che conosceva meglio di qualunque altra al mondo.

«Barney! Sono qui! Da questa parte!»

Barney si guardò attorno, ma non riuscì a vedere nessuno. Si sforzò di guardare, come per cercare una parola in un foglio bianco. Era inutile, ma continuò a sforzarsi. Era sempre più disperato, perché voleva assolutamente vedere la persona a cui apparteneva quella voce.

In una parola, voleva disperatamente vedere suo padre.

«Papà! Papà? Dove sei?»

«Sono ancora qui, Barney. Sono vivo!»

«Ma qui dove? Non riesco a vederti!»

«Mi troverai. Non preoccuparti!»

«Papà? Non riesco a vederti!»

E improvvisamente Barney si accorse che l’oscurità ricominciava a infiltrarsi nel biancore, scendendo in lenti movimenti circolari come migliaia di code di gatto. Continuava a sentire la voce del padre, che diventava sempre più fievole: «Ti vedrò presto» diceva. «Ti vedrò presto...»

«Eh?» domandò Barney.

Poi sentì qualcosa scuotergli le spalle, e alzando gli occhi vide sua madre.

«Barney? Stai bene?» domandò la mamma, fissando il suo viso pallido, imbrattato di curry. «Domani sarà meglio che ti tenga a casa da scuola».

Al che Barney annuì. «Sì» disse, o almeno ci provò. Quando aprì la bocca, l’unico suono che ne uscì fu uno strano rilascio d’aria.

Come un rantolo.

O come un sibilo.

Così ci riprovò. «Sì». E questa volta la voce venne.

Poi, tornato a casa, si ritrovò stranamente sveglissimo e corse in camera sua, sentendo il bisogno di mettere qualcosa per iscritto, come se fosse consapevole che in futuro non sarebbe più stato in grado di farlo.

ALCUNI FATTI RIGUARDANTI PAPÀ
di Barney Willow

Russava così forte che si poteva sentirlo attraverso DUE pareti.

Credeva di essere bravissimo a consultare le mappe, ma NON lo era.

Riusciva a sorridere anche quando era triste. Diceva che questo gli veniva dal fatto di essere un bravo venditore. (Aveva vinto il Premio per il Miglior Impiegato del Mese, presso il Garden Centre di Blandford, per aver venduto il maggior numero di piante in vaso.)

Sognava di essere il proprietario di un Garden Centre tutto suo.

Gli piaceva andare in vacanza in posti in mezzo al nulla e – possibilmente – freddi e bagnati. (Pura follia!)

Gli piacevano le lunghe passeggiate. (La sua passeggiata preferita era nel Bosco delle Campanelle.)

Gli piacevano i gatti, ma mamma non gli ha mai permesso di averne uno.

Sapeva un’infinità di cose sulle piante, e me le raccontava. Per esempio mi ha raccontato che c’è una pianta rara che cresce nelle Ande dell’America Meridionale chiamata Puya raimondii che non fiorisce fin quando non ha 150 anni. E poi muore.

I suoi fiori preferiti erano quelli semplici, come i narcisi e le campanule. («La natura è al suo meglio quando non deve mettersi in mostra» diceva.)

Era un bravo nuotatore, ma non sul dorso, perché finiva sempre contro i bordi della piscina.

Aveva gusti musicali ORRIBILI. Gli piacevano solo pezzi con tanta chitarra e poca parte vocale, che mamma diceva sempre che davano l’impressione che qualcuno stesse strangolando un gatto. (E aveva ragione.)

Aveva grosse sopracciglia cespugliose, che sembravano due cingolati.

Il suo cibo preferito era la torta sbrisolona alle mele e more che fa la mamma (con la crema). Era solito portarmi al cinema, anche se gli faceva venire il mal di testa. Non è da queste parti. Non riuscirò a trovarlo. È stato solamente un sogno. È STATO SEMPLICEMENTE UN ALTRO SOGNO.

I peli

Barney continuò a sentirsi ben sveglio dopo il suo profondo sonnellino al ristorante e, dato che era il suo compleanno, ebbe il permesso di restare alzato fino a tardi.

«È stato molto strano, da parte tua, addormentarti in quel modo» commentò sua madre. «Bisognerà portarti in ospedale per un controllo».

«Ora sto bene. Mi sento già meglio».

Ma poi, mentre era seduto sul divano a guardare la televisione insieme alla mamma, le braccia cominciarono a prudergli e lui cominciò a grattarsi.

«Barney, smettila. Ti farai male» disse la mamma, passando dagli orsi polari a un quiz.

«Non resisto». Barney si sbottonò un polsino, si arrotolò una manica e si mise a grattarsi direttamente la pelle. «Mi prudono».

Mentre si grattava, Barney vide uno, poi due, poi tre grossi peli neri sul braccio destro. Erano neri come l’ebano, molto più scuri del color castano topo dei suoi capelli. Ed erano disposti come degli aghi perfettamente allineati proprio sotto il polso.

«Mamma, guarda... questi peli».

«Oh sì, stai diventando un uomo. Insomma, ora che sei quasi un adolescente comincerai a riempirti di peli da tutte le parti».

«Ma sono strani. Sono neri. E io non ho i capelli neri. E ieri non c’erano. E non c’erano nemmeno oggi pomeriggio. Non voglio diventare uomo cosìin fretta».

La madre non lo stava ad ascoltare. Era troppo presa a guardargli la fronte.

«Cosa c’è?» le domandò Barney.

«Mio Dio, corro a prendere le pinzette» gli disse, prima di sparire in camera sua.

Nel frattempo Barney andò a guardarsi nello specchio dell’anticamera, per vedere di che cosa si trattava. Lì, proprio in mezzo alla fronte, c’era un altro spesso pelo nero.

«Bene» disse la mamma, correndo giù dalle scale. «Ho preso le pinzette. Tiriamolo via. Mettiti sotto la luce, così lo vedo bene».

Barney fece quello che la mamma gli chiedeva, guardando la lampadina, che emanava piccoli sbaffi bianchi di luce. Una parte di lui era felice di tutta l’attenzione che la mamma gli prestava. Ma un’altra parte era preoccupata.

«Mamma, che cosa mi sta capitando?»

«Non ti sta capitando niente» lo rassicurò la madre. «I corpi sono cose strane. Ti possono venire peli dappertutto».

«Ma io mi sento anche prudere. Le braccia e le gambe».

«Be’, non cominciare a grattartele ora» gli raccomandò la mamma. «Stai fermo, che ti togliamo questo».

Barney rimase fermo, anche se aveva l’impressione di essere stato punto da un centinaio di invisibili zanzare.

«Bene» disse sua madre. «Magari ti farà appena un po’ male».

Premette le estremità delle pinzette, imprigionando il pelo. E poi iniziò a tirare. E tirare.

tirare.

Una mano gliela teneva premuta contro la testa, con l’altra cercava di estrargli il pelo. Barney trasalì, gli occhi gli si riempirono di lacrime di dolore, mentre il pelo veniva stiracchiato, strappicchiato e tirato violentemente.

«Che strano» osservò perplessa la mamma. «Non vuole venire via».

Una scena orribile si formò nella mente di Barney. Si immaginò di arrivare a scuola, con Gavin che lo prendeva più in giro del solito. «Ehi, guardate il lupo mannaro!» O spiritosaggini simili.

Poi sua madre andò a prendere la crema che si metteva sul labbro superiore per eliminare i baffetti, ma non servì ad altro che ad aggiungere un cerchio rosso attorno al pelo nero, ammesso che non fosse già abbastanza visibile.

Avrebbe voluto dire alla mamma che bisognava proprio toglierlo, ma provò un’altra ondata di immensa stanchezza. Questa volta, però, riuscì a non crollare addormentato. Mormorò sbadigliando un «Buonanotte» e «Meglio che vada a letto» a sua madre, e lo attraversò la vaga idea che avrebbe dovuto confessarle della lettera, ma non ci riuscì. Non ne ebbe il coraggio. O l’energia.

Invece promise di lavarsi la faccia e i denti, e salì le scale in una specie di trance sonnacchiosa.

Poi andò a letto (senza essersi lavato né faccia né denti, e senza nemmeno chiudere le tende) crollando sul materasso e tirandosi il piumino sopra la testa prima di precipitare nel sonno più nero e profondo di tutta la sua vita.


Il risveglio

Prima ancora di aprire gli occhi per cominciare una nuova giornata, Barney si accorse che c’era qualcosa che non andava.

Sentiva la bocca asciutta come un deserto. Il suo cuore batteva forte ma con delicatezza, come il rullo basso di un tamburo. Tutto il suo corpo pareva diverso. Più caldo, tanto per cominciare, ma anche incurvato, come un pugno chiuso che non si riesce a riaprire.

Avvertiva una morbidezza su di sé. Una grossa e pesante morbidezza. Quando aprì gli occhi non ci fu nessuna differenza, perché era ancora buio completo. Presto, però, riuscì a distinguere delle forme, come se avesse improvvisamente sviluppato una visione notturna.

Ombre lunghe, nere, a forma di lacrima si stagliavano su uno sfondo grigio.

Sono dentro una tana.

Una tana soffice, bassa, e particolarmente calda.

Uscendo dal sonno, rifletté che era tutto così ridicolo! Decise che doveva trovarsi sotto il proprio piumino. Ma come aveva fatto, il piumino, a diventare così immenso?

Barney cercò di mettersi in piedi, ma non ci riuscì, almeno non come faceva di solito. Era alzato, eppure la sua schiena era ancora premuta contro la soffice, calda e gigantesca tana formata da un piumino.

Si mosse in avanti, ma le gambe e le braccia non lavorarono come erano abituate a fare. C’era qualcosa che non andava nella coordinazione. E dov’erano le ginocchia? Che fine avevano fatto? Era come se lo scheletro fosse un gigantesco puzzle rimescolatosi durante la notte. Cose che si sarebbero dovute piegare non si piegavano, altre che non avrebbero dovuto farlo lo facevano. E alcuni pezzi di questo puzzle di ossa erano nuovi. Particolarmente significativo era il fatto che poteva sentire qualcosa che strisciava alle sue spalle. Qualcosa che era in grado di muovere in vari modi, come se fosse fatto di una decina di gomiti uniti tra loro.

Mamma, disse, o tentò di dire. E poi, inutilmente, papà. Ma non riuscì a pronunciare parole, solo rumori.

Intrappolato com’era in quel suo strano nuovo corpo, cominciò a farsi prendere dal panico. Barney voleva assolutamente uscire dal buio, e l’unico modo in cui riusciva a pensare di farlo era di strisciare fuori da lì sotto. E così, trascinandosi in avanti sui suoi nuovi arti con la testa bassa e le gambe vicine al pavimento soffice, si fece strada per uscirne.

Ed eccolo là fuori, nella fredda luce del mattino.

Guardò giù e vide un’immensa vastità che a prima vista gli parve un oceano. La profondità del salto era almeno tre volte la sua altezza, per cui gli ci volle un po’ per rendersi conto che la grande estensione blu che stava guardando era il suo tappeto.

E quello era il suo letto.

Quella era la sua camera.

Ma tutto si era dilatato al di là del possibile. L’armadio aveva le dimensioni di una casa. La lampada sul comodino sembrava guardarlo dall’alto in basso come uno strano robot senza braccia. La porta era lontana chilometri. E l’uniforme della scuola appoggiata sulla sedia apparteneva a un gigante.

Poi vide qualcosa che aveva ancora meno senso.

Le sue mani, o i suoi piedi – non avrebbe saputo dire quali dei due – erano ricoperti di pelo. E non avevano dita. Voltò indietro la testa per vedere quello che fino a quel momento aveva solo avvertito. Una coda. Arricciata in una specie di vibrante punto interrogativo, come se il resto del suo corpo fosse una sorta di domanda in attesa di una risposta.

Era impossibile.

Lui era ancora Barney. La sua Barneità era ancora lì, dentro la sua testa, la sua mente era sempre la stessa valigia traboccante di ricordi e di emozioni. Ma nello stesso tempo aveva già la consapevolezza di non essere affatto lui. Di essere qualcosa d’altro. Qualcosa di così impossibile che pensò che doveva trattarsi di un sogno, come quello che aveva fatto su suo padre.

Batté le palpebre una volta, e poi un’altra ancora.

No, nessun dubbio.

Era sveglio.

Decisamente era sveglio come lo era sempre stato. Così, con orrore, dovette arrendersi a quello che gli occhi gli dicevano, e a quello che gli dicevano il pelo nero, e la coda e le zampe. E ciò che gli dicevano era questo: lui, Barney, poteva essere andato a letto come essere umano, ma si era svegliato indiscutibilmente, impensabilmente, inequivocabilmente gatto.

Il salto

Rumori.

Sua madre che tira fuori una posata dal cassetto della cucina. Una cosa che in una situazione normale non sarebbe mai stato in grado di sentire dal piano di sopra. Ora invece il suono era forte come se si fosse trovato in cucina anche lui.

La mamma stava dando da mangiare a Guster. Sentì il cucchiaio che batteva tre volte contro la ciotola di ceramica, mentre mescolava il cibo per cani.

Mamma! gridò Barney. Ma ovviamente non ci riuscì, perché la sua bocca non funzionava. Era una bocca di gatto, secca, che non riusciva a produrre che un debole miagolio.

Poi le sue vibrisse si arricciarono (magia felina numero sei, come ricorderai) e si misero a vibrare per la consapevolezza di un pericolo imminente: un pericolo che subito fece rizzare le centinaia di migliaia di nuovi peli che ricoprivano il suo corpo.

Guster.

Entro cinque secondi dal riempimento della sua ciotola, Guster avrebbe divorato la sua colazione. Subito dopo avrebbe fatto una o l’altra di queste cose. O si sarebbe addormentato di botto nella sua cuccia o, più probabilmente, sarebbe arrivato di corsa nella sua stanza a leccargli la faccia. Solo che quel giorno non avrebbe trovato la faccia di Barney. Avrebbe trovato la faccia di un gatto. E Barney sapeva che Guster stava ai gatti come un forno sta a un gelato.

Un flash gli attraversò la mente, Guster che rincorreva un gatto siamese al parco. Il gatto era sparito prima che lo spaniel potesse fare qualcosa, ma questo solo perché si era dimostrato un gatto superveloce, sparito come per magia in un istante.

Quella volta, quando era corso dietro a Guster, Barney aveva trovato divertente la cosa. Ma ora che era un gatto, non riusciva a cogliere il lato divertente.

Guardò giù verso il tappeto.

Salta. Devi saltare.

Se non esci di qui, Guster ti ammazzerà.

Ed eccolo che arrivava.

Il rimbombo mortale che si faceva sempre più vicino mentre Guster saliva le scale al galoppo.

Salta! si disse Barney un’ultima volta.

Chiuse gli occhi. Vide la faccia di suo padre sul bordo di una piscina, tanto tempo prima, che lo incoraggiava a tuffarsi dal trampolino. Ce la puoi fare, Barney. Udì lo scalpitio di pesanti zampe sul tappeto mentre il potenziale assassino di gatti saliva di corsa le scale.

Devi farlo. Al tre.

Uno, due...

Nell’oscurità autoimposta Barney saltò, con la facilità dell’acqua versata da un bicchiere.

Ma atterrò pesantemente e duramente, colpendo il tappeto con la sua curiosa testa. Le cose si annebbiarono, poi tornarono a riprendere bruscamente forma. Non c’è tempo di pensare. Ormai Guster era sul pianerottolo, e il suo respiro ansante era sempre più vicino.

Barney si mise a correre. Non sapeva come, trasformato com’era, ma ci riuscì con una certa facilità. Si appiattì nell’angolo della stanza, senz’altra compagnia che la sua paura, mentre Guster apriva la gigantesca porta con una spinta del naso.

La porta si aprì di slancio offrendo a Barney qualcosa dietro cui ripararsi, mentre si sforzava di non sentire la voce dei suoi dubbi che gli diceva che stava per morire.

Guster balzò sul letto, fiutando tracce di ragazzo, tracce di gatto, tracce di tutto ciò che c’era in mezzo. Poi, provocando quello che a Barney fece l’effetto di un breve terremoto, saltò giù dal materasso.

Non sta succedendo, si disse Barney. Non sono un gatto, io, sono un ragazzo. Un ragazzo di dodici anni. Tutto si...

Un umido naso canino esplorò lo spazio tra la porta e il muro, due nere narici simili agli occhi di una faccia mostruosa. Il naso restò un attimo immobile, cercando di cogliere qualcosa. E poi il naso stesso scostò la porta, e improvvisamente l’intero muso di Guster fu lì, col suo pelo un po’ bianco e un po’ color caramello e gli occhi lucenti, che sovrastavano Barney. Gli parve dieci volte più grande del normale. Un King Charles mostruoso.

Ed ecco la cosa più incredibile di tutte. Una voce. Una voce pomposa, quasi regale che proveniva da Guster: «Oh poffare! C’è da rimanere senza parole! Un orribile felino. In casa mia. Casa mia

«No, sono io» tentò di dire Barney e si accorse di essere compreso, da Guster quanto meno. «Sono Barney, Guster, davvero, mi devi credere. Non so cosa sta succedendo. Io semplicemente... durante la notte... qualcosa deve essere...»

«Cosa ci fai qui? Che intenzioni hai? Parla! Parla, voglio saperlo!»

C’era una stolta follia negli occhi di Guster. Pareva capace di tutto.

«Sono io!»

«Chiudi il becco!» abbaiò irascibile Guster. «Sai con chi stai parlando? Io sono uno spaniel King Charles. I miei antenati erano presenti alla restaurazione del re d’Inghilterra. Hanno fatto la loro parte nel rendere questo paese quello che è oggi. E, come tutta la mia nobile stirpe, ho una serie di sani principi che rispetto scrupolosamente. Della massima importanza è quello di non lasciare mai che un felino entri in casa senza essere invitato. Se dovesse accadere una cosa simile, non resterebbe altro da fare che uccidere detto felino. E dunque, peloso vagabondo, ti consiglio di prepararti a morire».

«Oh, Guster, cosa diavolo sta succedendo? Piantala di abbaiare!» Questa era la voce della mamma di Barney, che gridava dabbasso. «Mi hai fatto venire il mal di testa».

Mamma! tentò di gridare Barney. Mamma! Mamma!

Tre patetici miagolii, nemmeno degni di essere messi tra virgolette.

Guster ringhiò e mostrò i denti. Denti che aveva intenzione di usare.

«Guster, ascoltami» supplicò Barney, grato almeno del fatto che Guster potesse sentirlo. «Sono io, Barney. Fammi qualsiasi domanda. Su qualcosa che solo io e te sappiamo, e...»

Il cane si fece ancor più vicino, digrignando i denti. Barney indietreggiò contro il muro. Normalmente, da esseri umani, niente al mondo appare più bello e innocente di uno spaniel King Charles. Ma Barney in quel momento stava vedendo le cose da un punto di vista completamente diverso.

«Infido e insignificante felino che non sei altro!»

«Guster! Lo giuro, sono Barney. Ieri era il mio compleanno. Mio padre è sparito, forse morto. Lo conosci, mio padre, quello che ti ha liberato dal canile».

Guster parve infuriarsi di colpo a quell’accenno. «Canile? Che macchia al mio onore. Come osi? Devo tornare a ripetertelo: io sono uno spaniel King Charles. I miei antenati vivevano alla corte di re Carlo II, godendo di privilegi di cui nessun altro cane ha goduto. Canile! Che insulto».

Barney non sapeva cos’altro dire. «Ma è la verità. I tuoi precedenti padroni non ti hanno voluto più. Perciò ti abbiamo salvato noi. Papà ti ha salvato».

Guster esitò, come se stesse pensando a qualcosa. Per un istante Barney sperò che le sue parole avessero fatto breccia. Che avesse trovato in Guster un alleato. Ma no.

«Bugiardo-grrr!» ringhiò Guster.

E poi le sue fauci si spalancarono e si avventarono contro la nuova testa di Barney.

Sto per morire, sto per morire, sto per...

Barney chiuse gli occhi, aspettando che la sua testa venisse azzannata, ma non fu così.

Giganteschi denti erano a un pelo di vibrissa da Barney, quando il cane fu sollevato con uno strattone. Mrs Willow l’aveva afferrato per il collare appena in tempo, salvando la vita al figlio.

Barney aprì gli occhi su una gigantesca signora che torreggiava su di lui.

E anche sua madre lo vide. Solo, ovviamente, senza sapere chi stesse guardando.

«Ommioddio» esclamò. «Un gatto! Barney, vuoi avere la bontà di dirmi che cosa ci fa un gatto in camera tua? Barney? Barney...? Barney?»

Mrs Willow guardava il letto vuoto, domandandosi dove fosse suo figlio. Barney scorse la preoccupazione sul suo viso lontano, e lo vide rannuvolarsi.

«Barney, sei in bagno?» domandò Mrs Willow a voce alta. «Hai ancora problemi con quel pelo?»

No, rispose Barney. No, sono qui. Sono il gatto. Sono io. Mamma, ti prego, ascoltami. Mamma!

Alzò lo sguardo verso di lei. Era come cercare di convincere una cattedrale.

«Intruso bugiardo che non sei altro» scattò Guster. «Per favore, Mrs Willow, lasci che mi occupi io di questo vagabondo».

«Andiamo, Guster». La mamma trascinò via il cane. Lo portò nel vecchio ufficio del papà di Barney, che adesso era la camera degli ospiti. «Ora te ne resti qui buono» Barney la udì dire. «E non metterti a grattare la porta».

Un attimo dopo era di ritorno. Si piegò verso di lui, e Barney sentì la mano di lei sotto lo stomaco e poi, ooops, si sentì sollevare in aria. Cercò di aggrapparsi alla sua vestaglia, con gli unghielli sfoderati che si impigliarono alla stoffa.

«Non fare così, gattaccio» esclamò sua madre. «Ma insomma, dov’è Barney? Barney?! Dove sei? Non ho proprio tempo per queste cose!»

Sono qui! In braccio a te!

La mamma trasportò Barney per tutta la casa, e la sua stretta si faceva sempre più forte man mano che, una stanza dopo l’altra, non riusciva a trovare suo figlio.

Alla fine Mrs Willow aprì la porta di casa, staccò Barney dalla vestaglia e lo gettò a terra, fuori, nella gelida aria di febbraio.

Mamma! gridò Barney. Mamma, non devi preoccuparti! Io sono...

La gigantesca porta si richiuse con un rumore sordo, e Barney fu lasciato lì.

Freddo.

Confuso.

E infinitamente solo.

Il Senzasperanza

Barney per un po’ attese sotto la veranda sperando che sua madre, non trovandolo in casa da nessuna parte, collegasse le due cose. Ma la porta non si aprì: se ne rimase piantata lì, un gigantesco e ostile pezzo di legno verniciato tre anni prima da suo padre, quando ancora abitava con loro.

La via, di solito tranquilla, pareva piena di centinaia di rumori: uccelli cinguettanti, traffico in lontananza, sacchetti di patatine fritte che sfregavano il cemento sospinti dalla brezza.

Un altro rumore. Un fruscio, proveniente dal piccolo cespuglio di ginepro nel giardino. Due verdi occhi di gatto che lo fissavano.

«Salve».

«Chi sei?» domandò dolcemente la gatta, con un tono rassicurante e confortante come una cioccolata calda. «Non ti ho mai visto prima».

L’animale uscì dal cespuglio. Era una lustra gatta color cioccolato amaro che Barney riconobbe vagamente come quella di Sheila, la nuova arrivata al numero trentatré.

«E invece ci siamo già visti» affermò Barney, mentre la gatta si avvicinava e strofinava il muso contro la sua guancia. «Sono il ragazzo che vive qui. In questa casa. Il fatto è... sono cambiato... e non so perché».

«Oh» fece lei, e poi lo disse ancora (solo, questa volta, in corsivo). «Oh. Oh, poverino. Povera acciughina. Dunque sei uno di loro».

«Uno di chi? Aspetta un po’, è una cosa che capita anche ad altre persone?»

«Oh, sì, certo. Io, per inciso, sono Moka, e sono molto contenta di conoscerti». Cominciò a fare le fusa, ma poi il suo umore cambiò a una velocità felina e le fusa cessarono. E Moka prese un’aria ansiosa.

Ma Barney aveva bisogno di risposte. «Senti, tu sai perché sono così? Sai come posso tornare indietro? Potresti aiutarmi?»

Moka stava guardando oltre Barney, verso la strada. La sua coda si agitava e le sue vibrisse erano leggermente incurvate. Stava avvertendo qualcosa. «Credo, dolcezza, che ci stiano osservando».

«Cosa? Chi?»

«Brutticeffi, molto probabilmente».

«Brutticeffi? E chi sono?»

Moka si voltò verso Barney e gli diede una spiegazione precipitosa, la voce confortante come una cioccolata calda improvvisamente divenuta affannata e nervosa, come quella della mamma dopo troppi caffè. «Ci sono tre tipi di gatti» disse, e ne fece i nomi. «Ci sono i Brutticeffi, che sono violenti gattacci di strada, e che è bene che tu eviti. Poi ci sono gli Zampecalde, come me, che hanno un padrone e che in genere preferiscono restarsene in casa. Di regola, a meno che non cerchino di farci il bagno, non facciamo paura. Be’, tutti tranne il...» Esitò, quasi avesse timore di finire la frase. «Tranne il Terrorgatto».

«Il Terrorgatto? E chi è?»

Moka gli si fece più vicina, e gli parlò in un sussurro. «Spero che tu non debba mai scoprirlo».

«Perché? Cos’è che lo rende così terrorizzante?»

«Un tempo era un gatto normale, ma poi è cambiato, proprio come dopo il tramonto viene la notte» osservò Moka con un brivido. «Ha sviluppato dei poteri, poteri oscuri e malvagi, ed è diventato un’altra cosa. L’aspetto era lo stesso. Ma era molto, molto diverso...»

«Cos’è che l’ha fatto cambiare?»

Ma Barney era destinato a non ricever risposta su questo punto. Il fatto è che Moka aveva appena avvistato qualcosa: un gatto grasso e rossiccio con un’aria da teppista, sotto un’automobile parcheggiata dall’altra parte della strada, che li stava fissando. O meglio, che stava fissando Barney.

«È lui il Terrorgatto?»

«No, mio caro. Te ne accorgeresti subito se lo fosse. Questo è Pumpkin. Un Bruttoceffo. È stupido. Ma violento. E ha parecchi amici altrettanto stupidi e altrettanto violenti».

«Perché mi sta guardando?»

«Non lo so» rispose Moka. E subito parve meno interessata a fare amicizia con lui. «Ora, vedi, mi piacerebbe trattenermi, davvero, ma la mia padrona – Sheila – oggi parte per una vacanza e io andrò in una pensione per gatti, e non vorrei perdermela per niente al mondo».

«Credevo che ai gatti non piacessero le pensioni per gatti».

«Non questa. È una delizia».

La gatta cominciò a incamminarsi lungo il lato della casa.

«Ehi, aspetta» le gridò Barney. «Cosa mi dici sul terzo tipo di gatti? Me ne hai citati solo due».

Moka si fermò e si voltò a guardarlo, la coda contratta. «Quello è il tuo tipo. Umani intrappolati in corpi di gatto».

«Come ci chiamiamo?» domandò Barney, cercando di temporeggiare e di trattenere Moka perché restasse il più possibile con lui.

«I Senzasperanza» rispose tristemente Moka. «Perché è proprio così. Non avete nessuna speranza».

(Gigantesc)amica

Barney si guardò nervosamente attorno. Vide il gattaccio rosso che lo stava ancora fissando. Forse avrebbe dovuto seguire Moka. Ma no. Voleva rimanere lì, nella speranza di convincere la mamma che era proprio Barney, anche se ciò significava essere alla mercé di un Bruttoceffo.

Il grasso gatto rossiccio uscì da sotto la macchina. Fece un cenno di richiamo con la coda, e presto fu raggiunto da altri gatti. Gatti di strada di varie forme e colori, che si diressero minacciosi verso di lui.

«Bene, compari, questo è il ragazo» disse Pumpkin. «Facete del vostro pegio con lui».

I gatti lo circondarono.

«Ehi, un momento» disse Barney. «Per favore, non voglio guai».

«Be’, vedi, a noi ci piace i guai» disse Pumpkin con un ghigno. «È il nostro pane, i guai, vero ’mici? Guai. A noi ci piace metere zizzagna. E poi ci abiamo i nostri ordini da obedire».

«Chi vi ha dato ordini?» domandò Barney, spaventatissimo quando vide comparire sul vialetto altri tre Brutticeffi. Uno di questi, una gatta dall’aspetto malvagio con due orecchie enormi, sibilò in faccia a Barney: «Priparati a morire!»

Barney non aveva nessuna idea di come avrebbe potuto prepararsi a morire, perciò ritenne opportuno cercare di ritardare la cosa almeno per un po’. Indietreggiò verso il lato della casa. «Moka? Ci sei ancora? Avrei bisogno di aiuto».

Ma ammesso che Moka l’avesse ascoltato, di certo non pronunciò nemmeno una parola.

«Adeso, Bruticefi» disse il grasso gatto rosso, «facciamoci vedere a lui quanto vagliamo».

«Quanto che vaglie lui, vuoi dire» disse ridendo la gatta dalle grandi orecchie, sfoderando gli artigli.

«Lyka, danazone. Sono io che commando, qui».

Barney cercò di scappare, ma trovò a sbarrargli il passo un gran cumulo di compost. Cercò di scalarlo, ma le sue zampe cominciarono ad affondare in quella poltiglia fatta di foglie, terra ed erbacce, una parte delle quali probabilmente era stata accumulata là da suo padre due anni prima. Adesso c’erano cinque gatti sul vialetto, tutti col pelo ritto e gli artigli pronti all’azione.

E posso garantirvi che sarebbero passati all’azione, se non avessero udito qualcosa dietro di loro.

O meglio, qualcuno. Che canticchiava a bocca chiusa un motivetto.

«Pumpkin, cosa che dobiamo fare?» domandò Lyka, nel suo sibilo di gatta malvagia.

«Non possiamo matare nesuno se ci sono femine nei paracci. Conoscete le regole». Perciò, a un ordine di Pumpkin, i gattacci di strada fuggirono via, arrampicandosi sopra il cumulo di compost e sopra Barney, graffiandolo con gli unghielli mentre scappavano.

«Non ti priuccuparti» gli sibilò Pumpkin, prima di sparire oltre il cumulo. «Ci rivederemo presto».

Barney provava un senso di nausea. Le sue narici feline riuscivano a captare odori che a un naso umano sarebbero sfuggiti, e lì c’era un’infinità di odori disgustosi che provenivano dal mucchio di compost e che, mescolati alla sua paura, erano davvero troppo da sopportare.

Barney riuscì in qualche modo a riprendersi abbastanza da lasciare il vialetto e tornare indietro sul davanti della casa.

Avvistò un paio di stivali che riconobbe subito. Stivali neri con una margherita dipinta sulle caviglie, che in quel momento stavano girando attorno a una scala appoggiata per pulire le finestre e si dirigevano verso il vialetto.

Era Rissa.

Ovvio che era Rissa. Per lei e per chiunque altro quello era un normalissimo mercoledì mattina, alle... Barney calcolò che dovevano essere all’incirca le otto e un quarto, se Rissa era puntuale.

Rissa, chiamò Barney. Rissa!

Anche quando cercò di gridare il suo nome il più forte possibile, tutto quello che gli uscì fu un debole e sfiatato miagolio. Guardando i giganteschi piedi di Rissa avvicinarsi a lui sul vialetto a passo di T. Rex, Barney provò una greve tristezza allo stomaco. Avanzò strisciando verso di lei e diede una musatina alle sue caviglie.

Rissa si fermò e guardò in giù. Lentamente il suo viso si aprì in un gran sorriso.

Rissa, cominciò a dire Barney, pur iniziando a rendersi conto dell’inutilità della cosa. Sono io, Barney. Ti prego, cerca di capirmi... ti prego, cerca di capirmi...

La sua amica continuava a sorridere, ma di quel sorriso vacuo che si riserva agli animali, non agli esseri umani.

«Ehi! Ciao, gatto» disse.

Si accoccolò e prese ad accarezzare la testa di Barney. La sua mano sembrava massiccia, eramassiccia come quella di un mostro in un film in 3D sfuggito dalla quarta dimensione.

Non sono un gatto, disse sentendo uno strano prurito nell’orecchio. Sono il tuo migliore amico.

«Dove abiti?» domandò Rissa nel modo in cui gli umani fanno domande agli animali, senza aspettarsi una risposta. Ma Barney gliela diede ugualmente.

Lo sai dove vivo. Al 17 di Dullard Street. Proprio qui. In questa casa. Barney era terrorizzato, il ricordo di Pumpkin e dei Brutticeffi gli bruciava come i graffi sulla schiena. Ti prego, devi aiutarmi. È pericoloso qui fuori.

Rissa continuava a sorridere, poi si mise ad accarezzare sotto il mento il suo migliore amico, cosa che a lui parve piuttosto imbarazzante. Non che fosse colpa di Rissa, o roba simile. Come avrebbe potuto sapere, la sua amica, chi stava realmente accarezzando?

«Be’, ora devo andare» gli disse. «Sei fortunato, tu. Sei un gatto, non devi andare a scuola».

No, no, non sono per niente fortunato. Sono assolutamente scarognato. Rissa, per favore, sono io.

Rissa si rimise in piedi. Tornò a canticchiare un allegro motivetto umano, poi suonò alla porta.

Barney rimase un attimo immobile.

Poi arrivò a una conclusione. Rissa stava suonando il campanello di casa sua. La casa in cui non c’era, e la sua mamma avrebbe aperto la porta e le avrebbe detto che lui non c’era, e allora Barney si sarebbe messo a miagolare disperatamente e forse – solo forse – avrebbero capito.

O.D.I.O.

Barney aveva già un po’ provato quella sensazione, in passato, prima che i suoi genitori divorziassero. Ovviamente, allora non era diventato davvero un gatto, ma aveva sperimentato quella sensazione di non avere voce. O meglio, di non avere una voce che gli altri ascoltassero.

Il fatto era che la mamma e il papà di Barney continuavano a litigare. Litigavano praticamente su tutto. Litigavano quando erano in macchina. Litigavano perché il padre di Barney aveva lasciato nel frigo il latte andato a male. Litigavano su a chi toccava portare fuori Guster prima di andare a letto.

E dopo un po’ non c’erano state più pause tra un litigio e l’altro.

La mamma e il papà di Barney rimanevano intrappolati in interminabili discussioni, e nonostante le infinite volte in cui Barney diceva loro di smettere, o faceva loro promettere di non litigare più, loro continuavano a farlo.

Ed era orribile.

Quando era a letto, Barney aveva l’abitudine di tapparsi le orecchie con le mani e di strizzare gli occhi, cercando di cancellare tutto quel gridare. «Calmatevi» pregava in un sussurro. «Per favore, calmatevi».

Ma anche se odiava vedere i suoi genitori discutere continuamente, odiò ancor di più quando gli dissero che stavano per divorziare. Quando era più piccolo, non aveva ben chiaro cosa significasse la parola divorzio, ma sapeva che non era una cosa buona. E come avrebbe potuto esserlo, visto che nel suo anagramma conteneva la parola «odio»?

«Papà non abiterà più con noi» gli aveva annunciato la mamma.

«Cosa? Perché?»

«Perché crediamo che sarai più felice – e lo saremo tutti – se io e papà vivremo separati».

«Vi state separando per colpa mia?»

«No, Barney. Certo che no» aveva risposto sua madre.

«Ah, bene. Perché io voglio che state insieme. Perché non potete smettere di litigare? Non dovrebbe essere così difficile. A scuola ci hanno parlato dei monaci certosini che non parlano per anni. Non potreste semplicemente non parlarvi? Così non avreste modo di litigare».

Ma Barney non era riuscito a convincerla. E nemmeno, se è per questo, era riuscito a convincere suo padre, che gli aveva messo una mano sulla spalla e gli aveva detto: «Barney, qualche volta quella che sembra una brutta cosa in realtà è la migliore».

«Ma non ti vedrò più».

«Mi vedrai tutti i sabati. Ci divertiremo, insieme».

Barney non era convinto. Lui di sabato si divertiva già. Erano le domeniche, i lunedì, i martedì, i mercoledì, i giovedì e i venerdì che avevano bisogno di essere migliorati. E avere una casa senza babbo non li rendeva di certo migliori. Addirittura, Barney si scoprì a desiderare di sentire sua madre e suo padre litigare, perché sarebbe stato sempre meglio che sentir piangere la mamma da sola.

Trascorse circa un anno così.

I sabati li passava insieme al papà, che cercava in tutti i modi di essere Mister Papà Divertente, andando a visitare zoo e parchi a tema, e ad assistere a partite di calcio, cose che prima suo padre non avrebbe mai fatto.

«Ti sei divertito, vero?» domandava sempre il papà alla fine di ogni sabato.

«Sì» rispondeva Barney, e qualche volta lo diceva convinto, ma non era mai un divertimento tale da compensare gli altri sei giorni di non divertimento.

Il Barney-che-non-era-Barney

Mentre Barney rimaneva in attesa accanto alle sue caviglie, Rissa abbassò lo sguardo verso di lui, sempre con quel sorriso vacuo. Cosa mai poteva fare, Barney, per provarle che era lui?

«Sei ancora qui?» disse lei.

Barney si accorse di provare una strana sensazione al proprio interno, uno strano mormorio. E poi capì che stava facendo le fusa. Ma non ne fu felice. Anzi, l’esatto contrario. Eppure eccole lì, delle fusa che sembravano rumorose come un trapano. Perché le fusa, questo grande mistero che ha sempre sconcertato i biologi di tutti i tempi («Dipende dalla laringe!» «No! Non viene da lì!»), non hanno niente a che fare con la felicità. Hanno a che fare con la magia. E il suono delle fusa è il suono stesso della magia. O meglio, il suono del prodursi di capacità magiche.

La porta si aprì, ed ecco sua madre. Barney se l’era immaginata pallida e preoccupata. Dopotutto doveva essersi resa conto che suo figlio era scomparso. Ma non pareva minimamente preoccupata. In effetti stava sorridendo.

«Ciao, Rissa» disse. «Come stai?»

«Oh, bene, grazie, Mrs Willow. Barney è pronto?»

Ecco il momento.

Era arrivato il momento in cui si sarebbero accorte che qualcosa non andava.

Barney si aspettava che sua madre dicesse che quella mattina non l’aveva ancora visto, ma non successe. Il sorriso rimase al suo posto.

Ma, se il comportamento di sua madre era strano, quello che disse fu anche peggio.

«Sì» rispose. «Sta venendo. Barney! Barney! C’è Rissa».

Tutto questo non aveva senso.

Barney non stava venendo.

Non era possibile che venisse.

Barney si trovava lì, sul vialetto.

Eppure un attimo dopo Barney vide che qualcuno arrivava dal buio dell’ingresso.

Qualcuno con l’uniforme di Barney.

E poi eccolo lì, alla luce del sole che gli illuminava il viso.

Il viso di un dodicenne.

Pieno di lentiggini.

Coi capelli ricci e le orecchie leggermente sporgenti.

Barney riconobbe quel viso.

Era il viso che vedeva tutti i santi giorni riflesso nello specchio.

Il suo viso. Nel suo corpo. Nella sua uniforme.

E quel Barney-che-non-era-Barney abbassò gli occhi sul Barney-che-era-Barney e gli rivolse uno sguardo tranquillo che diceva:

Lo so.

Lo so che tu sei me e io sono te.

È quello che volevi.

«Ciao, Barns» lo salutò Rissa.

L’altro Barney lasciò la casa in silenzio e si mise a camminare per la strada, con Rissa che lo seguiva un po’ perplessa.

Barney, il vero Barney, non sapeva cosa fare. Perciò, per qualche lungo istante, non fece niente. Poi la porta si richiuse, e il suono di quella porta che sbatteva lo riportò in sé.

E fu a questo punto che decise di seguire Rissa e l’altro se stesso in strada.

«Il cielo era fantastico, stanotte» stava dicendo Rissa. «Sono riuscita a vedere l’Orsa Maggiore e anche l’Orsa Minore».

Il Barney-che-non-era-Barney sembrava perplesso.

«Be’, cosa ti ha detto tua madre della lettera?»

Non ricevette risposta.

«Barney? Stai bene? Mi sembri, come dire, un po’ assente. È per via di Miss Whipmire?»

Fu allora che accadde.

Il Barney-che-non-era-Barney si mise a correre, e a tutta velocità per giunta. Corse fino in fondo alla strada, e poi svoltò a destra in Marlowe Road.

«Barney!» gli gridò Rissa. «Cosa stai facendo? È perché ho nominato Miss Whipmire?»

Il Barney-che-non-era-Barney non le rispose e continuò a correre, perciò Barney gli corse dietro alla velocità che le sue zampe corte gli permettevano.

Frittella felina

Ecco qualche consiglio.

Se dovesse capitarvi di diventare un gatto – ed è più probabile di quanto immaginiate (c’è una possibilità su cinquemila, secondo le ultime stime) – non state a ragionare troppo sulle cose.

Mi spiego, non domandatevi Perché faccio le fusa?, altrimenti smettete di farlo. E di certo – di certo – non chiedetevi Come corrono i gatti?perché poi fareste fatica a procedere spediti. Proprio quello che stava succedendo a Barney, mentre correva per Marlowe Road cercando di trovare il ritmo giusto delle zampe – anteriore sinistra, posteriore destra, anteriore destra, posteriore sinistra – cercando di evitare che la sua testa sbattesse contro il marciapiede.

E per tutto il tempo continuava a osservare se stesso – il suo corpo, i suoi capelli, il suo zaino – che sempre più si allontanava da lui.

Quando Barney smise di domandarsi Come corrono i gatti? e corse davvero in stile gatto, era ormai troppo tardi.

Il Barney-che-non-era-Barney era sparito tra la folla di studenti alla fermata dello scuolabus, folla che comprendeva Gavin Needle.

«Ehi, Willow!» stava gridando Gavin al ragazzo che pensava fosse Barney. «Dove stai andando, sgorbio?»

Poi Gavin si fermò e abbassò lo sguardo su Barney. Quello vero. La versione col pelo e a quattro zampe.

«Quello non è...?» disse un’altra voce. Uno degli amiconi di Gavin. Barney non fece in tempo a fuggire, perché all’improvviso ricevette un gran colpo allo stomaco, come se l’avesse investito un camioncino. Però non si trattava di un camioncino, ma di uno scarponcino. Di Gavin. E Barney sentì una risata crudele mentre volava nell’aria, atterrando in mezzo alla via.

Barney si sentì gelare. Un’automobile gli stava venendo addosso a tutta velocità. Ma l’unica parte di lui che si muoveva erano gli unghielli aggrappati all’asfalto mentre l’auto si dirigeva precisamente contro di lui, con le gomme che lo mancarono per un pelo.

E poi Gavin disse qualcosa al ragazzo. Qualcosa del tipo: «Cosa ci fai qui?» È possibile che ci avesse aggiunto qualche parolaccia, ma Barney non stava ascoltando attentamente. Era troppo preso a cercar di capire da che parte fosse andato il suo clone, ma non riusciva a vederlo. C’erano incroci e semafori, ed era impossibile sapere dove fosse andato quell’altro Barney.

Avanti dritto verso la città? A sinistra per Coleridge Road, la strada che seguiva l’autobus per portarli a scuola? O a destra lungo Friary Road, in direzione del parco?

Non lo sapeva.

Poi dal marciapiede gli giunse un’altra voce. Rissa, che ansimava forte: «Attento, micio!»

Era corsa dietro al Barney-che-non-era-Barney, e adesso era con tutti gli altri alla fermata dell’autobus.

Barney si girò.

Lo scuolabus stava arrivando dritto contro di lui, le due ruote di sinistra pronte a travolgerlo mentre accostava alla fermata.

Il conducente non l’aveva visto. Perché era troppo concentrato sulla sua colazione. Stava mangiando una barretta di cioccolato, come faceva ogni mattina.

Frittella di gatto.

Barney, pietrificato, si sentì gelare il sangue.

Quello prodotto dal bus era il rumore più forte che avesse mai udito.

Sto per morire.

E davvero credette che quello sarebbe stato il suo ultimo pensiero.

Ma non lo fu.

Perché stava continuando a pensare, in particolare a quella mano umana sotto il suo stomaco che l’aveva sollevato rapida in aria, mentre la fiancata dello scuolabus gli sfiorava il muso.

Davvero troppo vicino.

Per un attimo Barney si domandò di chi fosse quella mano, ma poi si accorse di avvertire il freddo metallo degli anelli di Rissa e, di sicuro, sentì la sua voce nell’orecchio.

«Che cosa combini, gatto? Stava per ammazzarti».

Se lo tolse dalla spalla, e lo guardò negli occhi.

Non sono un gatto, tentò ancora di dirle. Rissa, sono Barney.

Questa volta, solo per un istante, Barney pensò che lei avesse capito. Un barlume di comprensione brillò nei suoi occhi. Ma il barlume scomparve, come il sole dietro una nuvola, e Rissa tornò a posarlo per terra.

«Non andare sulla strada. È molto, molto, molto pericoloso» disse. «Gli autobus e i gatti non vanno affatto d’accordo. In effetti, sono incompatibili. Ricordatelo».

Gavin mi ha dato un calcio e mi ha mandato in mezzo alla strada. Non ho potuto farci niente.

Rissa si rialzò e seguì gli altri studenti della Blandford High sullo scuolabus.

Aspetta!

Barney cercò di riflettere.

Non aveva la minima possibilità di raggiungere il Barney-che-non-era-Barney. E non aveva senso tornare a casa davanti a una porta chiusa. E anche se la porta non fosse stata chiusa, la mamma l’avrebbe sbattuto fuori di nuovo. E anche se la mamma non l’avesse fatto, Guster avrebbe ancora cercato di ucciderlo.

Perciò rimaneva...

Rissa.

Ora come ora era la sua unica speranza. In fondo, gli aveva appena salvato la vita.

Così, senza pensarci troppo, si diresse verso il bus, si nascose dietro l’ultimo paio di gambe umane – quelle di Rissa – e saltò a bordo.

Lo scuolabus

Barney prendeva lo scuolabus tutti i giorni, perciò sapeva che i ragazzi occupavano sempre gli stessi posti.

Le gemelle, Petra e Petula Primm (le cocche di tutti gli insegnanti), sedevano sempre sui sedili davanti. Gavin Needle e i suoi amici si mettevano sempre nelle ultime due file.

Rissa e Barney sedevano sempre vicini, tre sedili dietro Petra e Petula Primm, ma dall’altra parte del corridoio, di fronte a Piagnone (che in realtà si chiamava Oscar Williams e non Piagnone, come l’aveva soprannominato Miss Whipmire, perché era molto grasso, e perché aveva la comprensibile tendenza a mettersi a piangere quando veniva schiaffeggiato in faccia dai bulli).

Perciò Barney sapeva dove dirigersi, mentre si teneva il più possibile attaccato alle calcagna di Rissa.

Il guaio era che il conducente aveva finito il cioccolato, e perciò era più attento. E l’autista era sicuro di aver visto qualcosa strisciare furtivamente dietro quella strana ragazza alta e capellona (così definiva tra sé Rissa).

Guardò nel largo specchio rotondo che rifletteva tutti i passeggeri, ma non vide niente. E nessun altro si accorse di niente, nemmeno Petula Primm che aveva avvertito qualcosa di soffice e peloso sfiorarle la gamba, ma era così intenta a parlare in toni eccitati e segreti con la sorella di una recente visita alla zia, che non ci aveva fatto caso.

Nemmeno Rissa ci fece caso, troppo presa com’era a domandarsi perché mai Barney fosse scappato via da lei e anche dallo scuolabus.

Che cosa stava succedendo? Prima i suoi silenzi, e adesso questo.

Forse è semplicemente preoccupato a causa di Miss Whipmire.

O forse ha solo nostalgia di suo padre.

O forse è improvvisamente impazzito durante la notte.

Rissa non possedeva un cellulare, perciò chiese a Oscar di prestarglielo e chiamò la mamma di Barney. Dopo qualche squillo partì la segreteria telefonica.

«Salve, Mrs Willow, sono Rissa...»

Barney stava ascoltando da sotto il sedile, sforzandosi di mantenere l’equilibrio mentre l’autobus faceva le curve, e provando ancora quel prurito nell’orecchio.

«... Senta, Mrs Willow, non voglio certo mettere Barney nei guai o qualcosa del genere. Ma sono un po’ preoccupata per lui...»

Fu a questo punto che Gavin si mise a gridare, dal suo posto in fondo al bus.

«Signor autista! Signor autista!» chiamò, facendo una voce da santerellino. «C’è una ragazza che usa il cellulare sul bus!»

Quello di cui si accorse subito dopo Barney fu che l’autista aveva frenato, spedendolo contro le gambe di Rissa.

Il viso di lei gli si parò davanti, capovolto. «Tu!»

L’autista le batté sulla spalla.

«Credo che tu conosca le regole sull’uso del cellulare sullo scuolabus, signorina!»

«Sì» rispose Rissa. «Ma è una cosa importante. Il mio amico è appena scappato».

L’autista sogghignò. «Non mi sorprende, con quei capelli».

Rissa sentì la risata dietro di lei, ma non si lasciò scoraggiare. «Mi creda, è importante».

«Mi dispiace. Le regole sono regole. Usare il cellulare sullo scuolabus favorisce le rapine. Lo sanno tutti».

«Be’, mangiare cioccolato mentre si guida favorisce gli incidenti stradali» ribatté Rissa. «Anche questo lo sanno tutti. Prima stava per mettere sotto un gatto. E, comunque, io non uso mai il cellulare. Preferisco parlare con qualcuno guardandolo in faccia. Ma questa è un’emergenza».

«Non ha nemmeno un cellulare» spiegò Oscar.

«Taci, tu, Piagnone» lo canzonò Gavin dall’ultima fila.

L’autista non stava a sentire né Gavin, né Oscar. Stava pensando a quello che aveva detto Rissa, e stava riflettendo a ciò che gli era parso di vedere salire sul bus.

«Un gatto?»

La coda di Barney si stava rizzando per la paura, come le code dei gatti sono solite fare. E Rissa fu pronta di spirito. Sapeva che se l’autista si fosse accorto di lui, il gatto sarebbe stato subito scaraventato fuori dal bus, a chilometri di distanza da casa, così si affrettò a nasconderselo dietro le gambe.

«Mi... mi dispiace» disse Rissa, cambiando tono. «Scusi se ho usato il cellulare sul bus. Non lo farò più».

La cosa funzionò.

L’autista si fece consegnare il telefonino e lo restituì a Oscar, ammonendoli entrambi, e poi ritornò al suo posto.

«Mi dispiace, Oscar» si scusò Rissa.

«Non preoccuparti» fece lui.

Barney ringraziò la sua migliore amica nell’unico modo in cui poteva farlo, strofinandole il muso sulle caviglie.

Gatto in fuga

Rissa fece scendere Barney dallo scuolabus nascondendolo nel suo giaccone, dove lui poté sentire il battito del suo cuore. Poi, quando tutti furono spariti oltre il cancello della scuola, Rissa lo tirò fuori nell’aria fredda, di cui Barney si accorse agitando le vibrisse.

«Allora» disse la ragazzina. «Perché non hai un collare?»

Rissa era incerta su cosa fare. Barney se ne rese conto. In effetti, per un breve istante, lui poté vedere i suoi pensieri quasi come dei pesci in uno stagno. Rissa si stava domandando se fosse il caso di chiedere in prestito un cellulare e telefonare alla Protezione Animali. Questo a Barney non garbava. Avrebbe significato essere rinchiuso in una gabbia, senza nessuna possibilità di provare a qualcuno chi era veramente.

Allora formulò un piano. Se correva davanti a Rissa, poteva entrare a scuola e raggiungere la propria classe, e di lì andare a sedersi al suo banco.

Perché mai un gatto avrebbe dovuto attraversare la scuola e sedere al banco di Barney, a meno che non fosse proprio lui?

Okay, potevano esserci altre ragioni, probabilmente, ma questo era il piano migliore che avesse, così appoggiò le sue zampe posteriori addosso a Rissa, e si slanciò in un salto, rendendosi improvvisamente conto di quanto piccolo fosse diventato, e che aveva un bel volo da fare. Tremò, aspettandosi una caduta rovinosa, ma non fu così. In effetti, con suo grande stupore, la sua caduta fu fluida, e si trovò ad atterrare sulle quattro zampe. Dovette riconoscere che era molto piacevole muoversi come un gatto.

Ma proprio mentre si metteva a correre, Barney vide che un altro gatto lo fissava sospettoso dall’altro lato della strada. Un gatto rosso che si leccava le zampe anteriori e lo studiava con attenzione. Pumpkin! Lo sconcerto lo fece esitare.

La mano di Rissa sfiorò il suo dorso, pronta a sollevarlo di nuovo, perciò Barney corse a tutta velocità dentro il cancello della scuola e verso le porte del grande e moderno edificio.

Era sempre stato grande, ma adesso era infinito. Barney non riusciva a vederne la fine, da qualunque parte guardasse. Solo finestre e cemento, finestre e cemento, finestre e cemento...

«Gatto, gatto, vieni qui» gli stava gridando Rissa, sempre più vicina.

Bene, pensò Barney, incoraggiato dal fatto che fino a lì il suo piano stava funzionando, e godendosi la sensazione della corsa nel suo corpo di gatto.

Aveva davanti un ragazzo dell’ultima classe che Barney riconobbe, un ragazzo scarruffato pieno di foruncoli che aveva sempre avuto un atteggiamento amichevole nei suoi confronti. Stava cercando di rimboccarsi la camicia, mentre si faceva strada attraverso le due porte che si aprivano sul corridoio centrale.

I battenti si richiusero lentamente, permettendo a Barney di infilarsi dentro. Il ragazzo dell’ultima classe notò Barney quando questi gli passò accanto, sfiorandolo. «Oh, un gatto» osservò con aria assonnata, come se fosse normale vedere degli animali correre nel corridoio della scuola alle nove del mattino.

Barney poteva avvertire i passi di Rissa sul pavimento lucidato e puzzolente, ma continuò a procedere, con la determinazione che avrebbe avuto partecipando alle olimpiadi feline. Superò la segreteria, l’ufficio di Miss Whipmire, la sala professori, sfrecciando tra le gambe degli studenti già arrivati che percorrevano il corridoio.

«Che cos’era?» domandò uno.

«Che cos’era cosa?» domandò un altro.

«Mi è parso un... gatto».

Barney sterzò verso sinistra, superò di corsa il laboratorio di scienze in quel momento vuoto, svoltò a un altro angolo e si trovò a breve distanza da dove voleva essere, rincorso dai passi di Rissa, sempre più vicini. Ed eccola finalmente. L’aula 7°R. La porta era aperta, e Mrs Lavender, la più deliziosa insegnante di tutta la scuola, era già lì. Stava china sopra la cattedra, a mettere grandi segni rossi e a scrivere Molto bene sul compito di qualcuno.

Nell’aula c’erano già alcuni alunni seduti nei banchi a chiacchierare. Barney vide, guardando i loro piedi, che Gavin non era ancora arrivato. E questa era una buona cosa. Una cosa meno buona fu invece che qualcuno dei presenti si era accorto di lui.

«Guardate» esclamò Lottie Lewis, masticando un chewing gum. «C’è un gatto».

«Oddio!» esclamò la migliore amica di Lottie, Aaliyah. «Com’è carino

Lottie – che era probabilmente la ragazza più carina e più popolare della scuola – si chinò ad accarezzarlo sul dorso.

«Sei bellissimo» disse sollevandolo da terra.

Fantastico, pensò Barney. È la prima volta che Lottie Lewis si accorge di me, e sono un gatto.

Ora anche Rissa era entrata, senza fiato. «’Sto gatto era sullo scuolabus» spiegò. «Lontano chilometri da casa sua».

Così non andava bene. Rissa continuava a pensare che fosse un gatto, e ora Mrs Lavender si era accorta di quel che succedeva.

«Oh cielo, cielo! Di chi è questo gatto? È tuo, Lottie?»

«No, l’ho trovato qui».

Rissa spiegò ancora che il gatto era stato trovato vicino alla fermata dello scuolabus, mentre Barney osservava il viso di Lottie e le sue ciglia gigantesche come i petali di una pianta esotica. In quel momento era distratta, perciò Barney si divincolò dalle sue braccia e spiccò un salto fino al banco di lei, oltre quello di Aaliyah.

Poi balzò sul pavimento e corse verso il suo banco, intenzionato a sedersi sulla propria sedia. Si preparò allo slancio ma non fece in tempo.

Mrs Lavender l’aveva afferrato, appoggiandolo sul suo cardigan violetto che sapeva di fiori. Profumava, in effetti, come il Bosco delle Campanelle, e questo gli ricordò crudelmente di quando, a nove anni, vi aveva fatto una lunga passeggiata domenicale con i suoi.

«Bene, ragazzi, per favore, sedetevi. Devo parlare con Miss Whipmire per questa faccenda» disse Mrs Lavender.

E portò Barney fuori dall’aula, carezzandogli dolcemente il coppino, senza avere il minimo sospetto di chi fosse colui che stava portando nell’ufficio di un’assassina.

L’enigmatica Miss Whipmire

Come abbiamo già detto, Miss Whipmire era la direttrice più tremenda di tutto il Blandfordshire. Bastava pronunciare ad alta voce il suo nome per portare la temperatura a qualche grado sotto lo zero. Ma la cosa più strana di tutte era quanto poco la gente sapesse di lei.

In verità tutti conoscevano il suo aspetto.

Sapevano che era una donna molto alta e molto ossuta.

Sostanzialmente uno scheletro ricoperto di pelle, con un paio di occhialini sulla punta del naso che le permettevano di guardare dall’alto in basso chiunque stesse parlando con lei.

Sapevano anche che sembrava molto vecchia. In effetti dimostrava duecento anni. Ma ovviamente non li aveva. Semplicemente viveva il «Tempo dell’Infelicità». (Se ancora non lo sapete, Tempo dell’Infelicità significa che la gente che soffre diventa vecchia molto prima delle persone felici. Pensieri sgradevoli in testa vi fanno assomigliare quanto prima a una noce in salamoia.)

Naturalmente, qualche volta sapeva anche sorridere. Ai genitori. E alle autorità scolastiche. Ma sorridere non le piaceva. Anzi, pareva che le facesse male, però era qualcosa che le toccava fare di tanto in tanto per mantenere il proprio ruolo.

Si sapeva che veniva a scuola con la lustra automobile argentata che aveva acquistato qualche mese prima, ma nessuno era più andato a trovarla a casa sua all’incirca da quando era stata promossa direttrice. Nessuno era mai stato invitato da lei e probabilmente, se mai fosse stato invitato, avrebbe trovato una scusa per non andarci.

A quanto pareva, prima dell’arrivo di Barney, Miss Whipmire era stata un’insegnante brava e impegnata. Questo finché era stata vicedirettrice. Una persona che non alzava mai la voce se non quando era strettamente necessario, e che non aveva mai guardato la gente come se fosse un grumo di sporco che andava grattato via, come adesso Miss Whipmire faceva coi ragazzi della sua scuola.

Ma pochi giorni dopo essere stata promossa era cambiata. E tutti si erano accorti che era diventata molto più bisbetica.

Nessuno sapeva da dove le fosse venuta tutta quella rabbia. Tutti però erano arrivati alla conclusione che avesse qualcosa a che fare con la sua promozione a direttrice.

Come ho già detto, però, nessuno sapeva molto di Miss Whipmire. E men che meno Mrs Lavender, che col gatto ora aveva raggiunto la porta del suo ufficio.

Mrs Lavender bussò. Attese con un certo nervosismo. Come chiunque altro, aveva paura del suo capo. In effetti la notte precedente si era svegliata in preda ai sudori freddi per via di un incubo nel quale Miss Whipmire l’aveva convocata nel suo ufficio per rimproverarla di mettere troppi segni sui compiti degli allievi.

«Ti piacciono i segni, e allora te li do io, i segni» le diceva nel sogno Miss Whipmire, scagliandole contro un esercito di pulci e lasciando la poveretta a terra, piena di prurito dappertutto.

E Mrs Lavender non era certo l’unica a essere nervosa in quel momento. Anche Barney era spaventato a morte. Di sicuro non era mai stato felice trovandosi dietro la porta dell’ufficio di Miss Whipmire, ma questa volta si sentiva peggio del solito. Aveva il pelo ritto e le vibrisse contratte in attesa di quello che sarebbe successo.

Aveva un presentimento. Ma non capiva bene di che cosa.

Bisogna capire che quando si diventa un gatto si hanno tantissime sensazioni feline, ma il problema è che non si sa come utilizzarle né come capire che cosa significano. È come sentir parlare in una lingua sconosciuta. Si odono le parole, ma non si sa come tradurle. Tutto quello che Barney capiva era che aveva sfoderato gli unghielli e che si aggrappava disperatamente a Mrs Lavender.

La maniglia della porta si abbassò.

Un istante dopo ecco la direttrice, intenta a guardare il gatto, perplessa. Addirittura un po’ speranzosa.

«Cos’è questo?»

«È un gatto» spiegò Mrs Lavender. «Mi dispiace sempre molto disturbarla. Ma non sapevo cosa fare con lui. È entrato nella mia classe».

«Nella sua classe? Be’, Mrs Lavender, ho sempre sostenuto che lei spinge i ragazzi a comportarsi come degli animali, e vedo che sta migliorando, non trova?»

Mrs Lavender non capiva se Miss Whipmire stesse scherzando. Perciò emise una risatina molto tranquilla, nascosta nel fondo della sua gola, come un topo morto sotto un tappeto.

«Ho creduto opportuno portarlo a lei» spiegò Mrs Lavender, «perché, volendo, potrebbe chiamare qualcuno, la Protezione Animali o un centro per gatti randagi o qualcosa di simile».

Miss Whipmire aspirò aria dalle narici, come faceva sempre quando cominciava a infuriarsi. Ma non si infuriò. Era troppo furba per farlo. «Senz’altro. Ha perfettamente ragione, Mrs Lavender. Il suo ragionamento non fa una piega, come invece farebbe una piega lei se la segassi in due e le togliessi tutta la parte sinistra del corpo. Mi rivolgerò senz’altro alle autorità competenti».

«Bene».

Seguì un lungo silenzio. Lungo abbastanza per permettere a Barney di dire le sue preghiere e a Miss Whipmire per sbraitare contro un ritardatario dell’ottava classe che si stava dirigendo a passi strascicati verso la sua aula e che aveva cercato di mettere il naso dentro per capire che cosa stesse succedendo. «Se vuoi che i tuoi occhi si prendano una vacanza dalle tue orbite continua a guardare, stupido rimbambito che non sei altro» ringhiò, mentre il ragazzo si allontanava spaventato.

«Non è stata un po’ troppo dura?» domandò Mrs Lavender, intervenendo in difesa del povero alunno.

«Lo spero proprio!»

«Ma...»

«Mrs Lavender, questi ragazzi, tutti i giovani umani, sono dei bruti spregevoli. Sono erbacce velenose. Se si mette ad annaffiarle teneramente, allora sì che si ritrova un bel giardino. Bisogna tagliarle, farle a pezzettini, sradicarle, ecco cosa bisogna fare».

Poi Barney fu afferrato sgarbatamente per la collottola e strappato con violenza dal cardigan di Mrs Lavender e dal suo profumo di caldi prati estivi per finire nelle braccia fredde e ossute di Miss Whipmire.

Barney, mentre veniva accarezzato con troppa energia, immaginò Miss Whipmire con uno dei suoi penosi sorrisi mentre diceva: «Non si preoccupi, ci penso io. Può andare, adesso». E vide Mrs Lavender voltarsi e uscire, e udì il suono dei suoi passi svanire lentamente lungo il corridoio fino a sparire del tutto.

Una strana scoperta

Barney si trovava sopra una sedia, dove l’aveva messo Miss Whipmire. Era la stessa sedia dove era stato seduto il giorno prima, quando aveva creduto che la vita non gli potesse riservare di peggio. Si era sbagliato di grosso. Seguì con gli occhi la scheletrica direttrice che si dirigeva verso la porta e la chiudeva a chiave, domandandosi perché lo facesse.

Miss Whipmire si voltò e gli rivolse una strana occhiata. Non amichevole, certo, ma nemmeno adirata.

«Chi sei?» domandò la direttrice in un sussurro.

È vero che gli umani fanno sempre domande agli animali. Se per esempio un cane avesse deciso di fare i suoi bisogni sul tappeto, potresti ben domandargli: «Cosa ti prende?» Oppure se un pesce rosso galleggiasse a pancia in su sul pelo dell’acqua, il suo proprietario potrebbe ben domandargli: «Sei morto?» Ma quando un essere umano pone una domanda a un membro di un’altra specie, non è che di norma si aspetti una risposta, proprio come Rissa quella mattina.

Barney però ebbe l’impressione che Miss Whipmire si aspettasse proprio una risposta.

La direttrice si avvicinò e si chinò a guardarlo dritto negli occhi. «Non startene lì seduto. Rispondimi, devo esserne sicura».

È matta, pensò Barney respirando il suo odore di pesce.

«Be’» rispose, convinto che la direttrice non l’avrebbe capito, «non sono un vero gatto. Sono Barney Willow e, per quanto mi riguarda, lei è la peggior direttrice dell’universo».

Barney si aspettava che lei lo guardasse senza capire.

Stava parlando nella lingua dei gatti, non degli umani.

Ma Miss Whipmire non lo guardò perplessa. Stava sorridendo, senza nessun segno di dispiacere. E subito il sorriso divenne un riso, e questo riso crebbe fino a che il suono non riempì tutta la stanza. Era una risata orribile. Del tipo che si mette in bocca alle streghe chine sopra i loro calderoni e intente a pronunciare malvagi incantesimi. Ma Miss Whipmire non era una strega. Non una vera strega, comunque. Era qualcosa d’altro. Qualcosa di altrettanto strano. E di doppiamente malvagio.

Ora si stava premendo la bocca con la mano e cercava disperatamente di trattenere in gola quella risata, ma senza riuscirci. Crollò a terra, raggomitolata, in preda a un riso irrefrenabile.

«L’ha fatto!» esclamò davanti a un Barney perplesso e confuso. «C’è riuscito!»

Circa un minuto più tardi si rialzò. «Oh, questa sì che è bella. È così appagante... Barney Willow! Tu sei Barney Willow!»

Barney restò titubante, domandandosi se parlare ancora, ma le parole gli uscirono di bocca prima che se ne rendesse conto. «Sì, sono io. Come fa a capirmi?»

Miss Whipmire aveva compreso il suo miagolio – anche le sfumature di intonazione (e, sì, tutte quelle parole equivalevano a un solo miagolio) – ma preferì non rispondere. Non in quel momento, almeno.

«Quando?» domandò, lì lì per scoppiare di nuovo a ridere.

«Cosa?»

«Sempre il solito tonto, eh, Barney Willow? Ti ripeterò piano la domanda». Chiuse gli occhi e pronunciò con cura ogni parola. «Quando. Sei. Diventato. Un. Gatto?»

«Stamattina» rispose Barney. «Era da un po’ che mi sentivo strano, ma è da questa mattina che sono diventato... così».

(Tre miagolii, prolungati e sofferti.)

«Questa mattina... questa mattina...» ripeté pensierosa Miss Whipmire, riflettendo e tamburellandosi il mento con le dita come se stesse suonando un pianoforte silenzioso.

E poi pose un’altra domanda. «E dunque dove sei?»

Barney non capiva. «Sono qui».

«No, cretino, l’altro te. Il te migliore. Il gatto dentro il tuo corpo».

«Non lo so. Stava andando verso lo scuolabus con Rissa e poi è scappato».

«Bene». Miss Whipmire assentì, come siamo soliti fare quando tutto sta andando secondo i nostri piani. «Bene, bene. Gli ci vorrà un po’ di tempo per ambientarsi, come gli ho suggerito. Quindi starà arrivando qui. Molto bene... Ma non per te, naturalmente. Male, molto male per te. Tu il tuo biglietto te lo sei giocato».

«Che biglietto?» domandò Barney osservando una busta sulla scrivania da cui uscivano quelli che sembravano dei biglietti.

«Oh, non questi» disse la direttrice agitando la busta. Barney poté leggerne l’indirizzo:

Miss Polly Whipmire

63 Sycamore Terrace

Blandford

Blandfordshire

BL1 3NR

«Questi sono biglietti veri. I miei biglietti. Miei e del mio unico amore. Via di qui per sempre. Domani a quest’ora sarò in viaggio verso l’antico Siam, la Thailandia. Sto parlando del biglietto che ritorna a te. A te te, intendo».

«Non capisco».

«Certo che non capisci» disse sprezzante Miss Whipmire, mentre le sue labbra sottili si incurvavano in un gelido sorriso. «Dopotutto, il fatto che tu abbia l’aspetto di un gatto non significa che tu abbia il cervello di un gatto, no?» Si chinò su di lui, vicinissima. Barney sentì sfoderarsi gli artigli, che prudevano dalla voglia di graffiarle il naso. Ma era troppo spaventato per fare qualcosa.

«Lo sai quant’è il quoziente d’intelligenza medio di un gatto?» gli domandò.

«No».

«Millesei. Vale a dire novecentosei punti in più di un umano medio». Miss Whipmire fece una pausa, e si leccò le labbra come se pregustasse qualcosa. «Comunque succede più spesso di quanto non si pensi. Io sono un gatto, sai. Ero un gatto. Oh sì, proprio così: la Blandford High School ha per direttrice una gatta siamese da un po’ di tempo a questa parte». Mentre Barney cercava di digerire la follia di ciò che gli veniva raccontato, Miss Whipmire sorrise ancora. «E sai una cosa? Questa scuola non ha mai avuto risultati migliori!»

Sardine

Barney sentì che gli si rizzavano tutti i peli neri della sua nuova pelliccia.

Miss Whipmire era un gatto!

«Oh sì, vero come una coda, come diciamo noi gatti» disse balzando dietro la scrivania e aprendo un cassetto. Ne estrasse una scatoletta di sardine.

«Lo sai quante scatole di sardine si possono comprare con uno stipendio da direttrice?» gli domandò aprendo il coperchio e infilandosi in bocca uno di quei pesci grondanti olio.

«No, non lo so» rispose Barney, ricordandosi dell’odore di pesce che aveva sentito il giorno prima, da umano, seduto su quella stessa sedia. Un odore che oggi era molto più forte, ora che aveva narici feline.

«Tantissime» continuò Miss Whipmire, senza neppure preoccuparsi di chiudere la bocca mentre masticava la sardina. «Mmm, che delizia. Meglio del cibo per gatti, non c’è dubbio. Cibo per gatti. Puah. Ecco che cosa mi toccava mangiare. E non un cibo per gatti qualsiasi. No, il più disgustoso di tutti quelli venduti al discount: rognone di coniglio».

La direttrice, al ricordo, sembrò sul punto di vomitare. Invece fu presa dalla rabbia e batté il suo pugno umano sopra la scrivania, rovesciando dappertutto le penne contenute in quel suo strano portapenne.

«Sai, erano tutti convinti che Miss Whipmire – la vera Miss Whipmire – fosse così amabile» disse amara. «Polly Whipmire amabile! Già due giorni dopo aver ricevuto l’incarico, era chiaro che sarebbe stata una pessima direttrice, ma a nessuno importava, perché era una persona così meravigliosa! Che girava sulla sua biciclettina, che era dolce e gentile con tutti i ragazzi, che amava la sua gattina siamese...» Scosse la testa. «Be’, non era così che la vedevo io. Non col suo rognone di coniglio, e la minuscola cucina dove mi teneva rinchiusa».

Si mangiò una sardina, e un’altra, e un’altra ancora e un’altra, l’ultima, che divorò a occhi chiusi con gran gusto.


«Ma adesso non mi dà più fastidio» disse con un tono di voce molto particolare. Una voce che pareva fredda come una tomba di notte. «Oh, no che non mi disturbi più, non è vero, Polly?»

Barney si accorse che non lo stava più guardando. Stava fissando la scrivania. In un primo momento Barney pensò che guardasse la scatola di sardine vuota.

E invece no.

Miss Whipmire stava fissando il portapenne lì vicino. Quello nero, dalla strana forma, con i due buchi. Si chinò a prendere una delle penne della scuola; quella su cui c’era scritto: BLANDFORD HIGH SCHOOL. TUO FIGLIO È IL NOSTRO MONDO. Poi la direttrice studiò il viso di Barney mentre faceva tintinnare la penna sul portapenne. Il portapenne a forma di un teschio.

Un teschio di gatto, pensò Barney, mentre cominciava a capire davvero cosa Miss Whipmire – o meglio la gatta che era diventata Miss Whipmire – fosse capace di fare.

La povera Polly

«Naturalmente ho dovuto tagliare la calotta» spiegò doverosamente Miss Whipmire, ammirando la sua creazione. «E l’ho dipinto per camuffarlo. Comunque funziona bene, che dici?»

«Io... io... io... Lei è un mostro».

La direttrice scosse la testa. «No, Barney. Posso assicurarti che la precedente Miss Whipmire se l’è passata molto bene nel mio corpo di gatta anziana. Le ho raccontato delle belle storie sull’antico Siam e l’ho tenuta al caldo e al sicuro». Sorrise, pensosa. «Naturalmente non le ho dato da mangiare o da bere ma questo, paragonato al rognone di coniglio che mi propinava, era farle un vero favore. Però, povera Polly! Vederla deperire così. È stato duro. Comunque mi resta sempre questo suo piccolo ricordo a tenermi compagnia».

Batté ancora una volta sul portapenne.

Gli angoli della sua bocca ebbero un guizzo, come la coda di un gatto. «Il problema è che io ho tante penne. Ne uso molte. È una delle prerogative della mia carica. Ma questa vecchia testa non è abbastanza grande per contenerle tutte». Di nuovo la sua bocca ebbe il guizzo di un sorriso. «Ciò che sto dicendo ha a che fare con la necessità di procurarmi un nuovo portapenne. Capisci?»

E, nel caso in cui Barney non avesse capito, si tamburellò la testa con un dito e poi lo puntò verso di lui. «E penso che la tua sia anche un po’ più capiente. Sì, credo di poterci tenere perfino dei pennarelli».

«Lei è matta» disse Barney saltando giù dalla sedia e rinculando verso la porta. «Lei è completamente matta».

«No, ti dico io che cosa sarebbe stato essere completamente matta» sibilò la direttrice. «Rimanere una gatta. Questo, sì, avrebbe significato essere matti. Essere gatti non è divertente... Che cosa non ho passato nelle mani degli umani... quando ero la piccola Caramel, bah... e non solo con Polly Whipmire. Oh no. Lei è stata solo l’ultima. Devi sapere che Polly aveva dei vicini, i Freeman, e questi vicini avevano dei figli. Dei torturatori, ecco cos’erano. Una volta, nella notte dei falò, quelli... quelli...»

Si interruppe. Chiuse gli occhi strizzandoli come se il ricordo fosse un pezzo di vetro appuntito in una scarpa.

«Be’, mettiamola così. Quella notte sono uscita di casa con la mia coda e sono ritornata senza. E naturalmente sono stata molto sollevata quando ho sentito che i Freeman se ne andavano all’estero, in Thailandia, per combinazione, la terra dei miei antenati. Ma la tristezza è rimasta, ogni volta che mi giravo e vedevo lo spazio dove c’era stata la mia coda.

«E tuttavia avrei potuto riconciliarmi con tutto questo... avrei potuto riconciliarmi con tutto se fossi stata insieme a...»

La direttrice si arrestò per un attimo, fece un gran sospiro, e proseguì: «Come ti dicevo, il giorno in cui persi la mia coda giurai di vendicarmi su di loro, sugli umani, tutti gli umani, specialmente i ragazzi. E così mi rammentai di una di quelle storie tramandata di bocca in bocca dai miei antenati nell’antico Siam. La storia del gatto che divenne re. Un re che terrorizzò gli umani che avevano cucinato e mangiato i suoi genitori. Be’, non sono molti, oggigiorno, i ragazzi che si fanno terrorizzare da un re... ma da un capo d’istituto? Questa cosa era perfetta, tanto più che io vivevo con una persona che lo era appena diventata!»

La coda di Barney strofinò contro la porta. Doveva uscire da quell’ufficio prima che Miss Whipmire (continueremo, tra parentesi, a chiamarla così, perché chiamarla col suo nome da gatta, Caramel, vi farebbe pensare a qualcosa di bello, dolce, rassicurante e zuccheroso, che non è proprio il caso) finisse la sua storia. Ma come sarebbe potuto fuggire Barney? La porta era chiusa a chiave. La finestra era chiusa e, comunque, troppo alta da raggiungere. Era senza speranza.

«Per favore, non mi faccia del male».

Miss Whipmire non lo ascoltava. Si alzò e da dietro la sua scrivania si mosse verso Barney, con la postura dritta e perfetta di una ballerina classica.

«Così aspettai che, nel suo nuovo e impegnativo lavoro, avesse una brutta giornata. Non dovetti attendere a lungo. Sapevo quello che dovevo fare. Sapevo che dovevo farle credere che la mia fosse una vita molto molto piacevole. Perciò mi sdraiai sul tappeto accanto al caminetto, e infine venne. Il desiderio. E io pensai a ciò che gli umani mi avevano tolto e desiderai a mia volta, riflettendo su come sarei riuscita a rimettere tutto a posto».

Barney poteva udire gli allievi che sul campo da gioco si preparavano alla prima partita di rugby della giornata. Una volta tanto desiderò di essere in mezzo a loro. «Ma io non sono mai stato crudele con un gatto» protestò miagolando Barney.

«Tu sei un umano, non importa cosa sembri» osservò Miss Whipmire con una voce fredda come una gelata mattutina. «E per un umano un gatto è solo un gatto, e una formica è solo una formica, e un albero è solo un albero. E così anch’io adesso sono come te. Giudico una torta da una fetta. Sei un ragazzo umano e quindi meriti di essere punito, come tutti i ragazzi».

«Ma perché proprio io? Ce l’ha sempre avuta con me in particolare. Perché?»

«Oh, vuoi un motivo? Come sei dolce. Com’è umano tutto questo. Va bene, te ne darò uno, se questo ti farà felice. Io ho buona memoria. Mi ricordo che quando ero una gattina ancora giovane sono stata inseguita da uno spaniel King Charles al parco. Mi ricordo un orrido ragazzetto pieno di lentiggini che rideva, senza prendersi nemmeno il disturbo di richiamare il suo cane. Ecco. Adesso cos’hai da dire?»

Barney rivisse la scena. «Ma io non ridevo del gatto... voglio dire, di lei... Io ridevo di Guster, il mio cane. E ridevo perché sapevo che non sarebbe mai riuscito a prenderla. È solo un piccolo spaniel. Non avrebbe potuto farle del male...»

Ma già mentre pronunciava quelle parole con deboli e flebili miagolii, Barney ripensava alla gigantesca faccia di Guster sopra di lui quella mattina, una faccia che era stata pronta a uccidere. Non gli era parso «un piccolo spaniel» in quel momento.

«Mi dispiace» provò a scusarsi Barney.

«Oh, sarai certo dispiaciuto. Più tardi, quando ti porterò a casa e comincerò a lavorare al mio nuovo portapenne...»

Barney sentì un rumore di passi nel corridoio dietro la porta. Era il familiare ticchettio delle scarpe alte indossate dalla segretaria della scuola, di cui Barney ignorava il nome.

Aiuto! supplicò. Aiuto! Aiuto!

Era disperato. Ma chissà, magari tra il personale della scuola ci poteva essere chi un tempo era stato un gatto, e forse non era malvagio. E a prescindere da ciò, forse qualcuno si sarebbe preoccupato del miagolio di un gatto dietro una porta chiusa. Miss Whipmire doveva pensarla certo così.

«Shhh!» esclamò in uno dei suoi sussurri urlati, chinandosi e allargando le braccia nel caso in cui Barney si fosse messo a correre. «Silenzio!»

Aiuto! Aiuto!

La donna allungò le mani verso di lui, le unghie lunghe come artigli.

Fuori, i passi si fermarono. Non svanirono. Si fermarono.

E la cosa preoccupò Miss Whipmire.

E poi eccolo. Un bussare gentile alla porta, debole come un colpetto dato con la testa da un topolino.

Miss Whipmire sospirò, furiosa. «Sì?» Poi si mise un dito sulla bocca, facendo segno a Barney di tacere. Ma Barney sapeva che questa poteva essere la sua ultima possibilità.

Aiuto! supplicò miagolando più forte che poteva, e gli uscì un disperato miaaaooo, che per una persona amante dei gatti sarebbe stato difficile ignorare.

«Mi scusi... ho sentito una specie di miagolio» disse la segretaria da dietro la porta chiusa.

Miss Whipmire alzò gli occhi al cielo. Poi si arrese e aprì la porta.

«No, Daphne, lei non ha sentito nessun gatto» disse seccamente. «E ora, per favore, sparisca e vada a fare qualche cosa da segretaria. Vada. Batta a macchina qualcosa».

Barney non attese nemmeno un attimo. La porta non sarebbe rimasta aperta a lungo. Perciò si mise a correre, o almeno tentò di farlo.

Ma Miss Whipmire doveva averlo visto e, con qualche riflesso ancora intatto del gatto siamese, aprì ancora di più la porta, schiacciando il corpo di Barney contro lo schedario.

«Non... riesco... a respirare» ansimò lui.

«Cos’è stato?» domandò Daphne cercando di guardare nell’ufficio di Miss Whipmire.

«È il sistema di riscaldamento» mentì la direttrice. «Fa questo rumore. C’è qualcosa che non va nei tubi. Ho già chiamato un tecnico. E ora, se non c’è altro...»

«No» disse Daphne. «Mi scusi se l’ho disturbata».

Barney sentì la speranza svanire. Quando la porta si chiuse, l’aria gli ricominciò a tornare nei polmoni. Mentre stava ancora tossendo, sentì le lunghe unghie di Miss Whipmire affondargli nella collottola e sollevarlo in aria.

«Adesso dai un’occhiatina fuori dalla finestra» gli disse la donna con finta tenerezza. «Immagino che sarà l’ultima volta che vedrai la luce del sole».

Barney ebbe una rapida visione di ragazzi che giocavano a rugby, degli alberi dietro il campo da gioco che delimitavano la strada e di automobili che sfrecciavano. Delle nuvolette bianche nel cielo si facevano beffe di lui come in un bel sogno. Un attimo dopo era tutto scomparso. Fu lasciato cadere su una fredda superficie metallica, accanto a una vecchia cartelletta piena di fogli. Alzò gli occhi e vide la faccia della direttrice che guardava giù verso di lui, sorridendo come se gli stesse facendo un favore. Poi Miss Whipmire richiuse il cassetto dello schedario, lasciando Barney nell’oscurità più assoluta che avesse mai conosciuto.

Nello schedario

Ecco qua, un ottimo inizio per un dodicenne. Trasformarsi in un gatto ed essere rinchiuso nello schedario della propria psicopatica direttrice didattica che in precedenza era stata un gatto.

«Mi faccia uscire!»

Poi gli giunse la voce di lei, dura e fredda come il metallo che lo conteneva. «Oh, mi dispiace, ma dovresti proprio ringraziarmi. Vedi, sto facendo quello che sono pagata per fare. Ti sto educando. Ti sto dando una lezione di orrore, e ti sto insegnando che avresti dovuto essere molto prudente nei tuoi desideri. Oh, e la storia che i gatti hanno nove vite, be’, è una bugia. Te ne accorgerai quando ti porterò a casa mia».

«Ma la mia mamma! Non è giusto nei suoi confronti. È già scomparso mio padre. Se scompaio anch’io non avrà più nessuno».

«Ti stai dimenticando una cosa» ribatté Miss Whipmire. «Tu sei un gatto. Perciò, anche se ti lasciassi libero – cosa che, per inciso, non succederà – tua mamma non saprà mai che sei tu. E tu non sarai mai più capace di tornare indietro, perché sei troppo debole».

«Un momento... posso tornare indietro?» chiese Barney.

«No, stupido. Non mi hai sentito?»

«Sì, ma lei ha detto che non sarei potuto tornare indietro perché ero debole. Il che significa che se fossi abbastanza forte, potrei...»

«Anche se tu vivessi cent’anni (cosa che non puoi fare, essendo un gatto) non sarai MAI forte abbastanza».

Barney non aveva la minima idea di cosa intendesse dire Miss Whipmire, ma cominciava a capire che i suoi piani non avevano solamente a che fare con la vendetta. «Ma lei diceva che c’è un modo di tornare indietro, giusto?»

Senza poterlo vedere, riuscì a intuire un sorriso da parte della direttrice. «Sfortunatamente per te, ciò è molto improbabile. Vedi, il ragazzo che si è trasformato in te sarà molto più felice di quanto tu non sia mai stato. Hai cambiato il tuo corpo con quello di un gatto che odia gli umani almeno quanto me, Barney Willow. Non c’è un biglietto di ritorno per te».

Barney non sapeva se la direttrice stesse mentendo. O se davvero non ci fosse modo di tornare a essere un umano.

«Vedi» proseguì Miss Whipmire, «tu hai perso la tua opportunità. Perché questa è la vita, una grandiosa opportunità. E le opportunità sono come le gattaiole. Non stanno sempre aperte... Ma non ti preoccupare troppo di questo. I morti non hanno rimpianti».

Miss Whipmire sembrò divertirsi alle proprie parole.

Barney non aveva alternative se non starsene lì tra le graffette, con nient’altro che oscurità e odore di stantio, e il suono pietrificante di un riso di gatto che proveniva da una bocca umana.

E poi non ci fu che silenzio.

Barney aspettò e aspettò, cercando di pensare a un piano.

Nessuno venne.

Anche quando udì Miss Whipmire uscire per un attimo dalla stanza, Barney non seppe che cosa fare. Non c’era nessuna possibilità di aprire dall’interno un cassetto chiuso, e con delle zampe al posto delle dita non avrebbe avuto alcuna speranza di far scattare un lucchetto servendosi di graffette.

Perciò miagolava continuamente, in uno stato che era una via di mezzo tra il sonno e la veglia mentre riascoltava, molto debolmente, la voce del padre da tempo perduto che proveniva da un sogno.

Andrà tutto bene, andrà tutto bene, andrà tutto bene...

L’eroico ritorno dell’Autore

Salve. Eccomi qua. Ancora l’Autore. Ho cercato di stare alla larga da questa storia, e di lasciare che procedesse per conto suo (a un certo punto bisogna lasciare che le proprie creature, figli o libri che siano, camminino con le loro gambe). Credo proprio che sia una buona regola: ogni tanto qualche piccolo incidente di percorso, poi si rimettono in piedi. Il fatto è che secondo me questo è il momento giusto di richiamare l’attenzione sul numero sette. Ricordi? Nel primo capitolo? Quell’elenco che ti ho fatto? Bene, penso sia giunto il momento di parlarne apertamente.

METAMORFOSI BI-DIREZIONALE FRA SPECIE

Vale a dire, la capacità che ha un gatto di tramutarsi in uomo, e di trasformare quell’uomo nel gatto che era prima. Così, per esempio, Caramel era diventata Miss Whipmire, e la vera Miss Whipmire si era trasformata in Caramel e... ehm, poi in un portapenne.

Ehi, un momento, starai pensando (ci giurerei), se i gatti si possono trasformare in umani potrebbero anche raccontarlo.

Be’, qui c’è un problema. Se qualcuno venisse da te e ti raccontasse di essere stato un gatto, gli crederesti?

Commenteresti: «Oh, che bello. Tu prima avevi l’abitudine di essere un gatto, come io avevo l’abitudine di odiare i funghi. Uau, ci stai a diventare amici»?

Dubito molto.

Risponderesti: «No, non avevi l’abitudine di essere un gatto, perché è impossibile. È evidente che sei un po’ toccato, e credo che adesso dovrei proprio tornare a casa. Ciao, ti saluto».

Può anche darsi che tu non lo dica ad alta voce. Sei troppo carino e gentile per dire queste cose. Ma comunque lo penseresti.

Perciò nessuno ha creduto a quei gatti che adesso sono umani e che l’hanno raccontato. E quelli che non l’hanno confessato, non si sono mai sentiti rivolgere una domanda come: «Eri un gatto?» Quanto a quegli umani che si sono trasformati in gatti, be’, cercano spesso di dirlo, ma nessuno li ascolta. Emettono solo dei miagolii.

Okay, ho detto quello che dovevo dire. Tolgo il disturbo. Lascio la storia di nuovo a scuola, e la faccio camminare sulle sue gambe. Avanti, storia. Vai per la tua strada.

Fa’ la brava.

Storia

Rissa Fairweather amava la storia.

Che non era però la sua materia preferita. La sua materia prediletta era scienze. Non proprio tutte le scienze. Solo la parte che riguardava, ad esempio, il perché le stelle brillano e quella che ti racconta che ogni volta che alzi gli occhi al cielo stellato stai guardando al passato, a stelle che sono esistite fin da prima dei dinosauri, fin da prima della storia stessa.

Ma anche la storia era interessante. Interessante quanto arte e musica, le altre sue materie preferite. E i vichinghi, di cui quel giorno stava parlando Mr Crust, erano particolarmente avvincenti con le loro lunghe imbarcazioni, le asce, i gabinetti esterni e la violenza sanguinaria.

Ma quel giorno Rissa non stava prestando la minima attenzione. Invece continuava a pensare a quella sedia vuota accanto a lei e agli stessi interrogativi. Perché Barney era scappato in quel modo? E perché non le aveva rivolto nemmeno una parola mentre facevano la strada insieme?

Forse era triste per via di suo padre. Si ricordava bene, Rissa, di quando Barney aveva saputo della scomparsa di suo padre. Se ne era stato silenzioso per settimane. Molto più silenzioso di quando i suoi genitori avevano divorziato, perché c’erano molti più interrogativi inquietanti. Suo padre era scappato? Era stato rapito? Era morto in un fosso dove nessuno l’avrebbe mai più trovato?

Erano interrogativi, questi, che probabilmente si ingigantivano sempre di più nella mente di un ragazzo, fino a impedirgli perfino di parlare. E Barney, in quegli ultimi mesi, era stato davvero molto silenzioso.

Rissa non era affatto sicura che Barney avesse superato la cosa.

«Rissa, ti sto annoiando?»

Per un attimo la ragazzina smise di pensare ai possibili problemi di Barney e alzò gli occhi per scoprire che la faccia grinzosa di Mr Crust la stava fissando.

«No, signore» rispose.

«Bene, allora non ti dispiacerebbe parlarci delle rune?»

«Mi dispiace. Ero distratta...»

La classe ridacchiò, ma Rissa non si scompose.

La mamma di Rissa diceva sempre: «Nessuno può farti sentire a disagio se tu non glielo permetti». In altre parole, se non potevi controllare quello che gli altri dicevano di te, potevi almeno controllare la tua reazione a quanto ti veniva detto.

Oh, e quando poi Rissa era davvero stressata, seguiva il consiglio di suo padre e pronunciava sottovoce la parola che aveva il potere di rasserenarla magicamente.

Marmellata.

Tante volte aveva ripetuto tutto questo a Barney, ma sapeva che loro due erano molto diversi. Intuiva sempre la sua rabbia ogni volta che Gavin lo chiamava Weeping Willow, e cioè Salice Piangente, da quando lo aveva scoperto ad asciugarsi una lacrima il giorno del compleanno del padre.

Rissa sapeva di avere molte cose di cui essere grata, e questo le era d’aiuto. Sapeva che, per quanto pesante potesse essere la sua giornata, sarebbe tornata a casa dai suoi genitori, che l’avrebbero tirata su di morale cantando canzoni (suo padre era molto bravo con la chitarra) e, nelle notti limpide, parlando delle costellazioni visibili col suo telescopio. Altrimenti avrebbero mangiato hamburger di fagioli al peperoncino con patatine fatte in casa, seguiti da una delle deliziose torte di carote di sua madre con un ricciolo del suo ingrediente speciale – marmellata.

Ecco tutto quello che ci voleva per essere felici.

Cibo. Musica. Una notte limpida e un telescopio.

E amore.

Tanto, tanto, tanto amore.

Nel frattempo, Mr Crust continuava a parlare: «... le pietre runiche sono stele che solitamente venivano piantate nel terreno dai vichinghi per ricordare grandi battaglie o uomini defunti. Per lo più sono state trovate in Scandinavia, ma ce ne sono alcune nelle isole britanniche, come in Northumbria o l’isola di Man. E sulla stele veniva incisa l’illustrazione di una battaglia o il ritratto del morto. Ma talvolta queste ‘iscrizioni runiche’, come venivano chiamate, raffiguravano un animale. In genere venivano rappresentati dei cavalli, che spesso morivano insieme ai loro padroni, ma un numero sorprendente di pietre runiche sono dedicate ai gatti. Magari stavate pensando che si tratti di un’usanza gentile, ma la cosa strana è che, anche se talvolta i vichinghi li tenevano per ammazzare i topi, in realtà non li consideravano animali da compagnia E dunque questo rimane un fitto mistero per gli storici e gli archeologi...»

Le divagazioni di Mr Crust fecero tornare in mente a Rissa il gatto che quella mattina era entrato a scuola con lei. E, per qualche strana ragione che non riuscì a identificare, questo la portò a pensare nuovamente a Barney.

Qualcosa decisamente non andava. Barney non era mai scappato via in quel modo, prima d’allora. Perché l’aveva fatto? Che cosa l’aveva spaventato così tanto?

Continuò a rimuginare fino al suono della campanella.

Ora di pranzo.

A mensa Rissa sedette a un tavolo da sola, mangiando l’unico piatto vegetariano – pizza con formaggio e pomodoro, preparata con quella che nelle intenzioni doveva essere una pasta lievitata, ma che in realtà assomigliava molto di più a una spugna da bagno. Be’, rimase sola finché non arrivarono Petra e Petula Primm a sedersi con lei.

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Le gemelle erano due ragazze dall’aspetto molto lindo, con lucidi capelli neri dal perfetto taglio alla maschietta. Ed erano assolutamente identiche, salvo che Petra indossava sempre la cravatta dell’uniforme, mentre Petula, come molte altre ragazze, optava per un golfino girocollo. Normalmente non si erano mai interessate a Rissa, perché a Petra e a Petula non piaceva l’idea che qualcuno potesse vivere su un barcone, specialmente dato che loro abitavano in una casa molto grande vicino alla biblioteca, piena di qualunque cosa venisse loro in mente di chiedere al paparino. Quel giorno, invece, sembravano molto interessate a parlare con lei.

«Che cosa è capitato a Barney stamattina?» domandò immediatamente Petra, appoggiando il suo vassoio sul tavolo.

«Perché è scappato via?» continuò Petula, facendo altrettanto.

Rissa fece spallucce, e ingoiò un altro po’ di spugna. «Non lo so. È strano». Non era sicura se fosse il caso di aggiungere una cosa. Ma lo fece. «Penso che possa avere qualche cosa a che fare con suo padre».

Notò che le gemelle si scambiavano uno sguardo d’intesa, con occhi che brillavano di complicità.

«Che cosa...» cominciò Petula

«...te lo fa pensare?» completò Petra.

«Be’, non saprei. Immagino che senta la mancanza di suo padre».

«Oppure...» buttò lì Petra, lasciando continuare Petula, «...potrebbe aver visto suo padre».

Rissa ingoiò un altro boccone e fissò le gemelle. Sapeva che morivano dalla voglia di dirle qualcosa. «Suo padre è sparito» obiettò. «Nessuno l’ha più visto da mesi».

Le gemelle si scambiarono un’altra di quelle occhiate.

«Facciamoglielo vedere» propose Petra.

«Sì». Petula non stava più nella pelle. «D’accordo».

E le gemelle estrassero i loro cellulari identici come se fossero armi minacciose. Erano telefonini incredibilmente lucidi e brillanti e avevano impresse sul retro le loro iniziali, PP.

Rissa guardava preoccupata i pollici delle gemelle che scorrevano sugli schermi.

«Eccolo» esclamò Petula.

«Ci sono anch’io!» esclamò Petra.

Entrambe girarono lo schermo verso di lei, perché potesse vedere la foto. Quella sul cellulare di Petula mostrava un uomo barbuto, ma era un po’ mossa e troppo scura, per cui Rissa non avrebbe saputo dire che cosa si aspettavano che vedesse.

La foto sul cellulare di Petra era molto più chiara. Si trattava dello stesso uomo. Un tipo coi capelli castani e la stessa barba cespugliosa. Era seduto dietro una specie di bancale e sulla parete alle sue spalle c’era un dipinto. Era il dipinto a olio di un gatto.

Ma non volevano che guardasse il dipinto.

Bensì l’uomo.

Rissa l’aveva già visto, ma non avrebbe saputo dire dove.

«Togli la barba, e chi è?» le chiese Petula.

Quando Rissa provò a immaginare l’uomo senza la barba restò senza fiato. Ricordava quel viso dalle elementari. Rivedeva quell’uomo, il giorno delle gare sportive, che faceva il tifo per Barney alla corsa nei sacchi. No. Non può essere lui.

Ma poi Petula estrasse qualcosa dalla tasca – un foglio di giornale ripiegato – e lo fece scivolare sul tavolo verso Rissa. Rissa lo aprì e vide che era un ritaglio dalla Blandford Gazette.

«Era nel giornale di papà» disse Petula, ricordando a Rissa che il padre era il caporedattore della Blandford Gazette.

«Che cos’è?»

Ma Rissa non ebbe bisogno di una risposta. Una volta aperto il foglio aveva visto la foto dell’uomo che aveva riconosciuto, questa volta in bianco e nero. E sotto la foto c’erano il suo nome e un breve riassunto dell’articolo.

Neil Willow, anni 44, è scomparso due giorni fa dalla propria abitazione in Bradbury Drive. Viveva solo dopo la separazione dalla moglie, avvenuta qualche mese fa. Nessuno ha idea di dove possa essere andato.

«Il padre di Barney» disse Rissa.

«E leggi qua» disse Petula.

Ma Petra lo stava già facendo, con somma delizia. «Nessuno ha idea di dove possa essere andato!» esclamò. E poi aggiunse: «Finora!»

E questo mentre Rissa tornava a guardare le foto sui cellulari delle gemelle, e poi ancora la foto sul ritaglio di giornale.

«Togligli la barba, e chi è?» ripeté ancora Petula. «E noi abbiamo scattato queste foto proprio ieri... Perciò capisci cosa significa, no?»

Non c’era da sbagliarsi. Era proprio lo stesso uomo. Gli stessi occhi, lo stesso naso. Tutto.

«Dunque il padre di Barney è vivo...?» domandò Rissa, sconvolta.

Le gemelle annuirono, elettrizzate.

«Eravamo da nostra zia per il weekend e siamo andate nella pensione per gatti vicino a casa sua. La zia era andata a riprendersi la gatta. Si trova a Edgarton, a una trentina di chilometri da qui. Il posto dove lavora Mr Willow, voglio dire».

«Ha l’aria di diventare una notizia bomba. Troppo buona per il giornalino della scuola. Papà ci ha promesso che se riusciamo a svelare il mistero diventiamo le sue giornaliste di punta. Avremo il nostro articolo in prima pagina sulla Blandford Gazette

Ma Rissa non le stava quasi neanche a sentire. Rifletteva sullo strano comportamento di Barney quella mattina, e sul possibile collegamento tra le due cose.

Naturalmente quello che le gemelle Primm stavano dicendo poteva essere considerato una buona notizia. Ma mentre loro continuavano a sorridere, lo stomaco di Rissa si contrasse per la paura.

C’era qualcosa che non andava, in tutto questo, lo sentiva.

E dunque depose coltello e forchetta, salutò le gemelle e lasciò in gran fretta la sala.

La decisione di Rissa

Rissa non amava particolarmente Miss Whipmire.

Ovvio che non l’amava. Nessuno poteva amare Miss Whipmire. Molto semplicemente, era impossibile amarla, come era impossibile apprezzare una pizza-spugna.

Ma Miss Whipmire era la direttrice, e il compito di una direttrice era sapere che cosa si doveva fare.

Questo è ciò che Mrs Lavender disse quando Rissa andò a parlarle di Barney. All’inizio, su insistenza di Rissa, l’insegnante aveva cercato di telefonare alla mamma di Barney in biblioteca, ma aveva trovato occupato.

«Se sei così preoccupata devi, devi assolutamente andare a parlarne a Miss Whipmire».

Rissa, a questa proposta, aveva fatto una smorfia. «Miss Whipmire non può vedere Barney» aveva obiettato.

«Oh, non dire sciocchezze. Barney le è simpatico, invece. E anche ammesso che non lo sia, sono certa che non vorrebbe che gli capitasse nulla di male... Conosci il motto della nostra scuola: ‘Tuo figlio è il nostro mondo’. L’ha coniato proprio lei».

Così Rissa acconsentì riluttante ad andare a parlarle, e percorse i corridoi deserti diretta all’ufficio della direttrice, sapendo che l’avrebbe trovata lì. Una delle cose strane riguardo a Miss Whipmire era che sembrava non mangiare mai. Di certo non si univa agli altri professori in sala da pranzo, con i loro piatti presi alla mensa o portati da casa. Ma ancora Rissa non sapeva del cassetto delle sardine.

Arrivò davanti alla porta.

Attese nervosamente, e mormorò sottovoce: «Marmellata. Marmellata. Marmellata».

Poi bussò.

Dall’interno udì un suono roco e rabbioso. «Sì?»

«Salve... sono Rissa Fairweather. Io... sono un’alunna di questa scuola. Del settimo anno. Io... ehm, volevo solo parlarle di una cosa... Mrs Lavender mi ha detto... di parlarne con lei».

«Non ora!»

Rissa fece per allontanarsi. Ma si fermò. Barney poteva essere in pericolo, e lei doveva fare tutto il possibile.

Perciò tornò indietro, si guardò intorno per assicurarsi che nessuno stesse ascoltando, e poi disse con la voce più ferma che riuscì a trovare: «Si tratta di Barney Willow».

La porta si aprì così in fretta che Rissa trasalì.

«Vieni dentro» sibilò Miss Whipmire, con un’espressione di paura mista e rabbia negli occhi sporgenti. «Ora!»

Il disperato miagolio

Rissa entrò nell’ufficio di Miss Whipmire, mentre la porta veniva chiusa, chiusa a chiave, dietro di lei. Non era mai entrata prima, lì dentro, e le parve uno strano posto. L’odore di pesce, il calendario col gatto, le strane piante, il poster di un oscuro paesaggio esotico (Chao Phraya – Thailandia, c’era scritto) appeso sul retro della porta, la pelle di pecora drappeggiata sullo schienale della sedia di Miss Whipmire, il brutto portapenne che straripava di penne. Pareva quasi che l’ufficio non facesse parte della scuola, come una verruca su un dito non sembra far parte di una mano.

«Cos’hai da dire su Barney Willow?» domandò Miss Whipmire, voltandosi a fulminare Rissa con uno sguardo malevolo.

«Barney... ehm, oggi non è venuto a scuola».

«Ah, dunque vieni a fare la spia. È proprio vero il detto: È una grande verità, topi e ragazzi non hanno lealtà».

«No, è solo che sono preoccupata per lui».

«E perché mai? È un ragazzaccio. Uno dei peggiori. Tutti i ragazzi sono una razza dannata, quindi definirlo il peggiore è appropriato».

«No!» protestò Rissa, sentendo che la voce le tremava. «Non è vero. È un buon amico. Il migliore, in effetti. Mi domandavo solo se ci fosse qualcosa che possiamo... o che lei può fare».

Miss Whipmire esitava. Per qualche ragione che Rissa non comprendeva stava fissando preoccupata lo schedario. Poi disse con voce più dolce: «Ci sono molti ragazzi che oggi non sono a scuola, e ragazze. Senza offesa, siete tutti dei lumaconi pigri. Fossi in te, non starei a riempire la tua testolina di mollusco con questi problemi».

Rissa sentì qualcosa. O almeno ebbe l’impressione di sentire qualcosa. Una sorta di debole e triste miagolio. E questo rumore fece irrigidire il viso di Miss Whipmire. Ma poi quel suono svanì, e quindi la ragazzina decise di concludere quanto era venuta a dire. «Ho visto Barney, stamattina. Ma si è comportato in modo bizzarro. Stava zitto. Non ha detto una parola. E poi, proprio quando stavamo per arrivare alla fermata dello scuolabus, è corso via».

«Oh, strano» disse Miss Whipmire, con uno dei suoi sorrisi inquietanti. «Bene, non preoccuparti. Stai tranquilla che farò di tutto per chiarire la faccenda. E adesso, se mi vuoi scusare... vorrei cominciare a fare un po’ di telefonate».

Rissa era riluttante ad abbandonare la stanza. C’era qualcosa di strano e di falso nell’improvvisa disponibilità di Miss Whipmire. Sospettò che la sua unica vera preoccupazione fosse quella di cacciarla dal suo ufficio.

Effettivamente Miss Whipmire aveva spalancato la porta e stava facendo grandi gesti per farla uscire. Ma Rissa esitava. «Ho tentato di telefonare alla mamma di Barney, ma non sono ancora riuscita a parlarle».

Ancora una volta si domandò se fosse il caso di dire quello che stava per dire. Ma poi si decise, perché sapeva che sarebbe stato ancora più difficile parlarne a Mrs Willow, e perché voleva che Miss Whipmire capisse quanto fosse seria la situazione.

«Un’ultima cosa» cominciò a dire. «Si tratta del padre di Barney. È vivo e c’è chi sa dove si trova. Lavora in una pensione per gatti a Edgarton. Ho appena visto una sua foto. Ho il sospetto che questo abbia qualcosa a che fare con lo strano comportamento di Barney».

Miss Whipmire non parve sorpresa da questa informazione. Ma le sue sopracciglia si inarcarono irritate, come se fosse seccata che ciò venisse detto a voce alta davanti allo schedario. «Bene, okay, sono convinta che siano tutte scemenze...» disse cercando di spingere Rissa fuori dall’ufficio con una serie di «d’accordo» e di «vedrò cosa potrò fare».

Ma poi eccolo.

Di nuovo quel suono.

Solo che questa volta non c’era possibilità di sbagliarsi.

Un miagolio disperato. Un miagolio di gatto. E proveniva dallo schedario.

Le voci nel buio

Nel buio del cassetto, Barney aveva ascoltato ogni parola.

Mio padre!

Vivo!

Tutti pensieri che gli venivano col punto esclamativo, ma che ben presto divennero domande.

Mio padre?

Vivo?

E la più grande di tutte era: se suo padre era davvero vivo, perché non si era mai fatto sentire e non aveva nemmeno telefonato o mandato un’e-mail per dire che stava bene?

Ma qualunque fosse la risposta, non avrebbe potuto scoprirla restando rinchiuso nel buio di uno schedario. E nemmeno se fosse morto.

Perciò miagolò con il miagolio più forte che gli riuscì di fare, un miagolio che fece male alla sua nuova e asciutta gola felina e che richiese tutta la poca aria che gli rimaneva nei polmoni. Ma un miagolio che raggiunse il suo scopo.

Sentì questo dialogo.

Prima Rissa. Nervosa. «Cos’è stato?»

Poi Miss Whipmire. Forse inizialmente un po’ troppo nervosa. «Cos’è cosa?»

«Questo rumore. Sembrava...»

«Problemi all’impianto di riscaldamento!»

«No. In realtà sembrava proprio un... un gatto».

Barney miagolò ancora. Aiuto! Rissa, sono io! Sono io. Sono qui!

«È proprio un gatto» affermò Rissa.

«Hai sentito male. E adesso torna in classe».

«È ora di pranzo. Non devo tornare in classe».

«Se non te ne vai dovrò scrivere ai tuoi genitori».

Ah! pensò Barney. Era chiaro che Miss Whipmire non conosceva Rissa – o, quanto a questo, i suoi genitori – se pensava che la minaccia di una lettera a casa la potesse fermare.

«Con tutto il rispetto» obiettò Rissa, «mia madre e mio padre se la prenderebbero molto di più con me se lasciassi un gatto dentro un armadio, che non se ricevessero una sua lettera a casa...» Poi Barney la udì pronunciare qualcosa sottovoce: «Marmellata, marmellata, marmellata».

Forza, Rissa! miagolò Barney, fiero della sua migliore amica.

«Abbassa la voce» provò a farla tacere Miss Whipmire, richiudendo la porta. O meglio, cercando di richiuderla. Ma a quanto pareva la direttrice aveva richiamato l’attenzione di Mr Walker, che stava passando di lì.

«Va tutto bene, Miss Whipmire?» Barney lo sentì domandare con la sua voce profonda.

«Sì» rispose pronta la direttrice con una voce stridula e acuminata quanto un paio di forbici. «E la cosa non la riguarda per niente, Mr Walker! Per niente! Ritorni al suo Shakespeare».

Mr Walker scivolò via. La porta si chiuse completamente. Ma adesso Rissa era in vantaggio.

«C’è un gatto chiuso nell’armadio» affermò, e Barney riuscì a cogliere la determinazione che spingeva la sua amica a parlare. «E ho la sensazione che si tratti del gatto che le ha affidato Mrs Lavender. Il gatto che mi ha seguito fino a scuola. E non so proprio perché... si trovi dove si trova... e so che lei è il capo d’istituto e che io dovrei fare come dice lei, ma io credo nei diritti degli animali, e credo che sia i gatti sia gli esseri umani non debbano essere imprigionati al buio».

Miss Whipmire scattò come una molla. «Non sono creature affatto uguali! I gatti sono infinitamente superiori a degli stupidi umani come te!»

«Be’» osservò Rissa, «se lei lo credesse davvero, non ne terrebbe uno rinchiuso in un armadio».

E poi Barney udì Miss Whipmire sul punto di rivelare la verità. «Quello non è mica un...»

Avanti, lo dica!

Glielo dica!

Lo dica, lo dica, lo dica che non sono un gatto!

«Che cosa non è...?» domandò Rissa.

Miss Whipmire si affrettò a rimediare all’errore. «Non è un armadio. È uno schedario. È una distinzione umana, ma dato che io sono umana...»

Rissa fece una faccia stupita. «Be’, comunque si chiami, lo può aprire per farmi dare un’occhiata?»

Ci fu silenzio, ma Barney ne avvertì la tensione nelle vibrisse. Poi le voci tornarono, ma troppo attutite perfino per le orecchie feline di Barney.

Poi ancora silenzio.

Barney rimase in attesa, senza neppure miagolare. Quello che doveva succedere stava per succedere. Sarebbe rimasto chiuso lì dentro nell’oscurità e avrebbe atteso ciò che Miss Whipmire avrebbe stabilito per lui. Oppure avrebbe trovato la salvezza con Rissa.

Dopo quelli che gli sembrarono un centinaio di battiti del suo cuore minuscolo e frettoloso, Barney sentì la voce della direttrice. «Te ne pentirai, ragazza. Parola mia». Poi Barney sentì girare la chiave e, mentre il cassetto si apriva con un sussurro metallico, si ritrovò di nuovo alla luce, e tra le braccia della sua migliore amica, che gli sussurrò affettuosamente «marmellata» nell’orecchio.

«Provati a dire anche solo una parola su questo increscioso malinteso e renderò la tua vita un inferno» sibilò Miss Whipmire. «Stai certa che nessuno crederà alla parola di una sciamannata dodicenne contro quella della sua direttrice».

Mentre veniva portato fuori, Barney si guardò indietro, da sopra le braccia di Rissa. Fece in tempo a vedere Miss Whipmire che lo fissava, indicando il teschio portapenne e bisbigliando: «Sei il prossimo».

Un brutto presentimento

Rissa uscì da scuola, fuori dai cancelli, e Barney notò (cosa che Rissa non fece) che Pumpkin era ancora lì sul marciapiede. E che lo stava ancora fissando.

Mentre Rissa camminava, Barney poteva sentire il battito del suo cuore, non affrettato ma intenso, come un toro contro una cancellata. Era preoccupata. E ne aveva tutte le ragioni, ovviamente. Stava uscendo da scuola a metà giornata. E inoltre si era fatta una terribile nemica nella persona di Miss Whipmire.

E, a proposito dell’ex gatta siamese, eccola lì adesso, fuori di scuola. Barney riusciva a vederla, a circa duecento metri da loro. A quella distanza era appena un puntino. Ma li stava guardando mentre percorrevano Albert Street, la strada lunga e dritta di casette a schiera. Ma era proprio così?

No.

Non stava guardando verso di loro, era accovacciata. Perché?

Poi Barney capì.

Miss Whipmire era china accanto a Pumpkin. Gli stava dicendo qualcosa. E poi fu proprio il gattaccio rosso a fissare Barney e Rissa. E continuò a farlo finché non svoltarono in Hitchcock Road.

Barney ricordava quello che Pumpkin gli aveva detto quel mattino: «E poi noi ci abiamo i nostri ordini da obedire».

«Va tutto bene, piccolo gatto» gli stava sussurrando Rissa all’orecchio. «Miss Whipmire è solo una vecchia signora molto triste e amara. La maggior parte degli umani non sono come lei. Vedrai...»


Barney capì dove stavano andando. Si stavano avvicinando al fiume, e questo voleva dire che Rissa aveva intenzione di portarlo sul suo barcone. Il che avrebbe significato cibo, acqua e sicurezza.

Ma avrebbe comportato un lungo percorso attraverso i sobborghi cittadini, in mezzo a strade tranquille e case vuote, essendo i loro occupanti a scuola o al lavoro. Circa cinque chilometri che, anche al passo svelto di Rissa, significavano almeno un’ora di cammino.

E non erano al sicuro.

Barney non avrebbe saputo spiegare bene perché non erano al sicuro, avvertiva il pericolo nell’aria. Piccoli segnali invisibili provenienti da chissà dove, colti dalle sue vibrisse proprio come le antenne colgono il suono della musica in una radio.

Ho un brutto presentimento, miagolò rivolto a Rissa. I Brutticeffi e Miss Whipmire... mi vogliono morto.

Rissa si limitò a fargli pat pat sulla testa e continuò a camminare, senza accorgersi che erano osservati.

O seguiti.

Rissa si prende un bello spavento

Cominciò in modo strano.

Una gatta dal pelo maculato color bronzo e nero seduta sul muretto basso di un giardino. Mentre Rissa e Barney si avvicinavano questa li seguì con gli occhi, poi, quando l’ebbero superata, Barney capì che si trattava di uno dei Brutticeffi con cui si era scontrato al mattino.

Sicuro come l’oro, la gatta li stava seguendo. E non era sola. A qualche passo di distanza da lei c’era Pumpkin.

Rissa!, esclamò Barney. Ci stanno seguendo.

Ma ovviamente lei non capì. Continuò a camminare senza accorgersi che ce n’erano due... no, adesso tre... anzi, quattro... no, cinque... sei. E che dire di quegli altri tre? Nove gatti che procedevano in un gruppo minaccioso, tenendo gli occhi fissi su Barney.

Poi Rissa si fermò.

Un semaforo. La ragazzina premette il pulsante e attese.

Intanto i gatti si raggruppavano alle sue spalle, minacciosi come una nuvola carica di pioggia che insegue il sole. Barney esaminò attentamente quell’assembramento. Sembrava fossero almeno il doppio di quanti erano stati al mattino. Barney notò la gatta con le orecchie a pipistrello e un unico dente a zanna che le sporgeva in fuori. Si ricordò che si chiamava Lyka.

«Perché lo fate?» domandò Barney.

Nessuno rispose.

Rissa, con lui in braccio, attraversò la strada, e i gatti dietro.

Via via che si allontanavano dal centro della città le strade erano meno trafficate, finché non ci fu più nessuno. Niente automobili, niente persone, solo gatti. E più di nove, adesso. Una ventina come minimo.

Abbastanza per far voltare Rissa.

«Uau!» esclamò la ragazza, e Barney udì un profondo colpo di tamburo risuonare per la paura nel suo petto, prima che Rissa si calmasse rendendosi conto che si trattava solo di gatti. Ma quasi subito cominciò a perdere le staffe, quando tutti si misero a fare le fusa e a strofinare le teste sulle sue gambe.

«Okay, buoni, gatti... bravi... io adesso me ne vado».

Barney non capiva. Perché i gattacci la mattina avevano avuto paura ad attaccarlo davanti a Rissa, e ora non se ne preoccupavano più? Poi si ricordò di Miss Whipmire che sussurrava qualcosa a Pumpkin. Ora le cose cominciavano ad avere un senso.

Rissa cercò di sfuggire ai gatti senza far loro del male, sollevando un piede e cercando di riappoggiarlo in uno spazio vuoto sul marciapiede. Ma quelle creature insistenti non glielo permisero perché, non appena lei sollevò la gamba, tre o quattro gatti almeno le artigliarono le calze e la pelle cercando di fargliela riabbassare.

«Ahi!»

Per liberarsi dai felini Rissa fece un balzo, ma ricadde lo stesso sulla zampa di uno di loro.

«Mi spiace» fece rivolta al Bruttoceffo che aveva calpestato.

Quasi subito i gatti tornarono a raccogliersi intorno alle caviglie di Rissa, e si misero a graffiarla come se fosse stata un tronco d’albero.

«Via! Mi fate male!»

Una gatta, Lyka, fece un salto così alto da arrivare alla mano di Rissa. I suoi lunghi unghielli le artigliarono la pelle, facendole così male che Rissa lasciò cadere Barney addosso a Pumpkin.

«’Cidenti, Lyka, mi hai fato vedare le stele!»

Barney tentò di rimettersi in piedi.

I Brutticeffi lo circondarono.

Barney comprese che nemmeno Rissa poteva salvarlo.

Forse ci sarebbe riuscita se avesse saputo chi era in realtà, ma in quanto gatto, be’, le cose stavano diversamente. Che i gatti si azzuffassero tra loro era un fatto naturale, e c’erano volte in cui bisognava lasciare che la natura facesse il suo corso. È vero che Rissa provò a battere i piedi, ma questo non sortì alcun effetto. Perciò Barney si mise a correre più veloce possibile, aprendosi un varco tra Lyka e la gatta maculata. Udì dietro di sé Pumpkin che gridava: «Forza, gente, ciapatelo. Non fatelo scapare ’ncora!»

Barney si lanciò al galoppo verso una staccionata entrando in un giardino pieno di piante e di nascondigli. Spiando attraverso la staccionata si rese conto di non essere più inseguito. Nascosto dietro alcuni cespugli di rododendro vide i Brutticeffi ancora sulla strada, questa volta impietriti dalla paura.

«È lui!» ansimò Lyka.

«Il Terrorgatto» esclamò gravemente Pumpkin.

«Quello ti fonde il cervello se lo guardi nell’occhio!» disse la gatta maculata.

«Con un movimento delle vibrisse ti fa fermare il cuore» piagnucolò un altro, e il panico si diffuse rapidamente in tutti gli altri.

«E con un movimento della coda ti arresta il respiro!»

«Ti fa sentire la pelliccia bagnata per tutto il resto della tua vita!»

«Ha il suo personale esercito di rottweiler ipnotizzati!»

«È il MALE assoluto!»

«Voglio la mamma...»

Poi si voltarono e se la diedero precipitosamente a gambe insieme agli altri gatti di strada, mentre Rissa se ne andava via riluttante nell’altra direzione, e Barney non faceva assolutamente niente. Si limitò a restare immobile e senza fiato, guardando attraverso i bei fiori per cercare di dare un’occhiata al Terrorgatto.

Era il vecchio gatto argentato che lo guardava sempre dal vetro di una finestra. Quello con l’occhio cucito. E benché sapesse che avrebbe dovuto essere terrorizzato, Barney non si sentiva così. Mentre fissava il gatto – uno Zampecalde, secondo la definizione di Moka – che si leccava le zampe anteriori, non riuscì a rintracciare nel proprio cuore la minima traccia di paura. Anzi, ebbe l’impressione di trovarsi davanti a un vecchio amico. L’occhio lo stava guardando dritto in faccia, ma a Barney non sembrò che gli si stesse fondendo il cervello. Anzi, ebbe l’impressione completamente opposta. Intuì della gentilezza, perfino dell’amore.

«Chi sei?» bisbigliò Barney, troppo piano perché il Terrorgatto lo udisse.

Il Terrorgatto sembrava triste, e Barney provò l’impulso di andargli vicino e di confortarlo. Ma sapeva anche che doveva essere molto prudente. Perciò, quando il felino argenteo si alzò e se ne andò, Barney non lo seguì. Rimase invece nascosto finché quello non fu fuori dalla visuale e poi con grande prudenza e cautela uscì dal giardino attraverso la staccionata.

Sulla strada c’era una pozza grande quanto uno stagno. Acqua ferma illuminata da un pallido sole. Barney guardò in quell’acqua prodotta dall’acquazzone del giorno prima e vide una faccia che riconobbe. Il muso di un gatto, con una macchia bianca attorno all’occhio sinistro.

Era il gatto che aveva visto il giorno del suo compleanno. Quello che lo aveva fatto confondere. Quello che Barney aveva desiderato di essere, per non dover affrontare sua madre.

Essere un gatto...

E fu in quel momento che Barney ebbe la conferma del terribile sbaglio che aveva commesso.

Un sussurro

Prese a sinistra. Senza sapere perché. Semplicemente la sinistra gli parve migliore della destra. Istinto. E la sinistra, in effetti, era migliore, perché Barney riconobbe la strada che aveva raggiunto, con case a schiera più grandi e alberi alti fino al cielo. Era lì che vivevano le gemelle Primm, ma non era per questa ragione che conosceva bene quella strada. La conosceva perché era una strada dove era stato non si sa quante volte. Perché portava alla biblioteca di Blandford. Dove lavorava la sua mamma.

Dove la sua mamma lavorava in quel preciso momento.

Poteva andarci.

Sì.

Sarebbe andato lì e avrebbe fatto in modo che lei capisse. In qualche modo sarebbe riuscito a dirle la verità.

Che suo figlio adesso era un gatto.

Un gatto che Miss Whipmire e una buona metà dei Brutticeffi di Blandford volevano morto.

Oh, e suo padre era vivo.

Sì, e spiegarglielo avrebbe richiesto molta fatica.

Una donna gigantesca si parò dinnanzi a Barney.

Era una delle amiche di sua madre, che stava tirando fuori dal portabagagli della sua automobile dei pesanti sacchi della spesa.

Claire! chiamò Barney. Claire! Claire! Claire!

Barney si avvicinò ai suoi piedi. Miagolando. Val la pena di tentare, pensò. Dopotutto Miss Whipmire non sarà l’unica persona che si è trasformata in gatto, da queste parti...

Ma non funzionò.

Claire non abbassò nemmeno lo sguardo su di lui, anzi poco ci mancò che lo urtasse con uno dei sacchetti che dondolava sopra la sua testa, pieno di scatole di fagioli grandi quanto un boiler.

Barney proseguì nel suo cammino, sentendosi terribilmente piccolo.

Camminare sulla strada che portava alla biblioteca era come trovarsi giù giù in fondo a una valle, con enormi macchine parcheggiate accanto a lui e grandi case sull’altro lato. Quelle case, come tutte quelle di Blandford, si erano improvvisamente trasformate in grattacieli. Era strano. Quelle erano le strade che lui conosceva meglio al mondo, eppure era come trovarsi su un altro pianeta.

Provò di nuovo la sensazione che qualcuno lo stesse osservando. Si voltò ma non vide nulla tranne una coda marrone scuro che sporgeva fuori dalla gomma di un’auto parcheggiata. La coda scomparve prontamente.

Devo affrettarmi, si disse Barney.

Si affrettò, trotterellando come un vero felino, verso la biblioteca, voltandosi ogni volta che sentiva il suono di un campanellino.

Poi udì un sussurro.

«Ti stanno seguendo» disse una voce.

Barney si guardò intorno, ma riuscì a vedere solo la ruota di un’auto.

«Chi, i Brutticeffi?»

«Obbediscono a Caramel» disse la gatta marrone scuro la cui coda aveva visto dietro l’auto e che, tra parentesi, era sorella di Moka, nata dalla stessa cucciolata (anche se non vedeva la sorella da sette anni). «Caramel ricompensa la loro lealtà con sardine ed erba gatta. E questi, a loro volta, la proteggono dai peggiori gattacci di Blandford».

«Oh» esclamò Barney, ripensando a quanto aveva visto fuori dai cancelli della scuola. «Stai parlando di Miss Whipmire».

«Si stanno avvicinando. Nasconditi». E subito dopo se la diede a gambe. Una confusa visione di pelo marrone scuro.

A Barney ormai rimanevano un piccolo tratto di strada e il campo di bocce, ma si sentiva esposto e fu preso dal panico, lo stesso tipo di panico che gli era capitato di osservare negli insetti quando rivoltava una pietra o sollevava dei vasi in giardino.

Non voglio mai più far spaventare un insetto, si disse. Se è così che si sentono.

E poi raggiunse la biblioteca.

Uno degli edifici più grandi di Blandford, fatto di vetro come una gigantesca serra. Non certo il posto migliore per nascondersi, ora che ci pensava. Lì, nel parcheggio, c’era la Mini di sua madre.

Attraversò una pozzanghera prodotta dall’ultima pioggia, e alzò gli occhi ai gradini che portavano alle porte automatiche. Aveva molti dubbi che potessero aprirsi al suo passaggio. Ma in quel momento vide arrivare una donna con il suo bambino. Li aspettò e sgattaiolò dietro di loro, cercando dappertutto sua madre con gli occhi.

Una città di libri

Era una città di libri.

Ogni corsia tra i torreggianti scaffali aveva le dimensioni di una strada. Gli stessi scaffali parevano incredibilmente alti, ma almeno lì non lo vedeva nessuno. Barney aveva scelto apposta una corsia senza nessuno. Alzando gli occhi vide la stessa etichetta su tutti gli scaffali: Classici della Letteratura. Autori S-Z.

Vide libri che avevano il dorso lungo e largo come una porta, con grandi nomi sopra: William Shakespeare, Lev Tolstoj, Mark Twain, Voltaire. Barney non poteva sapere che tutti e quattro questi grandi autori defunti erano stati, chi prima chi poi, dei gatti. O che uno di loro aveva addirittura ammesso di essere stato un gatto. (L’autore in questione era Mark Twain, che aveva scritto libri straordinari su Tom Sawyer e Huckleberry Finn, che erano entrambi dei ragazzi, ma si comportavano più come gatti selvatici e avventurosi, grazie all’esperienza da gatto di strada che lo stesso Mark Twain aveva fatto in gioventù.) In effetti, come credo di avervi già detto, molte delle persone più geniali che siano esistite prima o poi sono state dei gatti. E questa è la ragione per cui molti dei grandi geni felini erano scocciatissimi di non avere, almeno finché erano in un corpo di gatto, quel tipo di pollice opponibile e di dita snodate che permettono di scrivere un libro.

Sapete, quando si dice: «Non so proprio da dove ciò gli (o le) derivi» intendendo con quel «ciò» immaginazione, talento o perfidia? Be’, potete star sicuri che a quel lui (o a quella lei) questo deriva dall’essere stati in qualche momento della propria genealogia un gatto. O dalla conoscenza o dall’amore per qualcuno che è stato un gatto.

Queste, comunque, sono tutte divagazioni. Perciò torniamo a...

Barney.

Stava tentando di allungare il più possibile il collo, per riuscire a guardare oltre la fila di libri più bassa. Vide il bancone, ma lì c’era solo un uomo. Un uomo dai capelli arancione e dai baffi arancione che mangiava un’arancia. Barney l’aveva già incontrato quando era venuto in biblioteca con sua madre. Si ricordò che l’uomo si chiamava Jeremy, e che era un po’ burbero.

Aveva ancora l’aria burbera, a dire il vero, mentre masticava l’arancia e osservava seccato una bimbetta chiassosa che stava con la sua mamma in un angolo a guardare libri illustrati.

«UFFA!» stava gridando la bambina mentre la mamma le mostrava un libro sui coccodrilli. «Voio dvd!»

Quella parola le doveva piacere molto, perché continuò a ripeterla come una litania: «dvd! dvd! dvd!»

Barney tornò a voltarsi. Se non avesse trovato subito sua madre, era molto probabile che qualcuno avrebbe trovato lui e lo avrebbe cacciato fuori in balia di quei malefici gattacci dotati di superpoteri.

Oh, eccola là!

Tre scaffali più avanti. Barney riconobbe i suoi jeans. Doveva aver rimesso a posto dei libri. Ma il problema era che non c’era modo di raggiungerla senza farsi vedere dall’uomo arancione. E, comunque, non poteva andare da sua madre senza un piano. Come avrebbe potuto dimostrarle chi era? Poi ebbe un’ispirazione.

Trovato!

Perfetto!

E un colpo di fortuna favorì il suo piano. Barney sentì uno strillo acutissimo proveniente dalla sezione libri illustrati. La bambina si era messa a piangere e a urlare e a scagliare libri da tutte le parti.

«No piace crocco-dilli! No piace ossa-chiotti! dvd! dvd! dvd!»

Sua madre, una signora bionda con un trucco pesante, era china su di lei e muoveva nervosamente le mani, come se la figlia fosse una bomba molto complicata e pericolosa.

«Calmati, Florence. Va tutto bene. Vieni, tesoro. Andiamo a casa e guardiamo un dvd. Puoi guardare Princess Piglet. È il tuo preferito. E ti darò anche qualche caramella di gelatina!»

«No voio gettina! Voio CIOCCO-LATTO!»

«Ti darò un po’ di cioccolato. Ma ora per favore tirati su da terra».

«No, mama! No! No-ooo!»

Nel frattempo l’uomo arancione, Jeremy, aveva finito di mangiare la sua arancia e stava uscendo da dietro il bancone per andare a prendersela con la bambina vestita di rosa e la sua mamma.

Quello era il momento buono.

Barney si mise a correre, veloce e appiattito, continuando a sentirsi come una formica impazzita, lungo la corsia, superando un libro caduto da uno scaffale: Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate. Poi raggiunse la sua mamma. Guardandola in viso si accorse che aveva un’aria preoccupata. Quello che Barney non sapeva era che la mamma aveva già ricevuto il messaggio che quella mattina Rissa aveva lasciato nella loro segreteria telefonica, anche se non aveva fatto in tempo a dire molto. Rissa era stata costretta a interrompere la comunicazione, perciò Mrs Willow non aveva idea di cosa si trattasse.

La mamma di Barney aveva subito cercato di richiamare, ma non aveva ricevuto risposta. Perciò aveva chiamato a scuola, e la segretaria le aveva passato Miss Whipmire in persona (con cui la mamma di Barney non aveva nemmeno chiesto di parlare).

«Oh, sì, non si preoccupi» le aveva detto Miss Whipmire con una voce quanto mai rassicurante. «È qui a scuola. L’ho visto giusto un momento fa. Ma mi dispiace dirle che tornerà a casa molto tardi, visto che è incorso in un piccolo problema nel corridoio della scuola».

«Un problema?»

«Sì, ha fatto il bullo. Ha attaccato briga con un altro ragazzo della settima classe».

«Ha fatto il bullo? Barney non è proprio il tipo».

E Miss Whipmire si era messa a ridere. «Cosa? Dopo la faccenda dell’allarme antincendio?»

«Allarme antincendio? Che allarme antincendio?»

«Senta, so bene che a nessuna madre piace scoprire che suo figlio potrebbe essere un piccolo mostro. Ma mi lasci dire che Barney si è comportato da piccolo mostro negli ultimi due giorni. L’ho constatato personalmente... Perciò non posso far altro che affibbiargli una punizione. Non tornerà a casa prima delle otto di stasera».

«Le otto? Quattro ore di punizione? Mi sembra un po’ eccessivo».

«Atti eccessivi richiedono provvedimenti eccessivi, Mrs Willow».

Era stata una strana conversazione. E questa era la ragione per cui Mrs Willow appariva turbata quando Barney si rivolse a lei miagolando.

Mamma. Guarda. Guarda giù. Guardami.

E lei guardò giù, mentre infilava uno smilzo volume di poesie su uno scaffale alto.

«Sei tu!» esclamò.

L’aveva riconosciuto! Ma poi Barney ebbe un colpo al cuore quando lei proseguì: «Il gatto di stamattina. Che cosa ci fai qui dentro? I gatti non possono entrare in biblioteca».

Barney aspettò che sua madre si chinasse a prenderlo, e all’ultimo istante schizzò via per farsi inseguire. Alzò gli occhi sui fianchi degli scaffali finché non trovò quello che stava cercando.

Classici: A-K.

Si inoltrò in quella corsia guardando disperatamente le costole dei libri

Jane Austen, Orgoglio e pregiudizio... Emily Brontë, Cime tempestose... Samuel Taylor Coleridge, La ballata del vecchio marinaio...

E poi lo raggiunse, lo scaffale della lettera K.

Il suo piano era di trovare il suo libro preferito, Bambini acquatici, di Charles Kingsley. Era un vecchio libro che lui aveva scoperto una sera, e che la biblioteca non aveva più dato in prestito dal 22 agosto 1982. Era una storia un po’ assurda, di un bambino che cade in uno stagno e si trasforma in una strana creatura chiamata Bambino Acquatico. Comunque, strano o no, a Barney piaceva, e l’aveva letto almeno dieci volte nel periodo in cui i suoi genitori avevano divorziato. E un altro paio di volte in seguito.

E sua madre sapeva che quel libro gli piaceva, perché le aveva chiesto di prenderlo in prestito dalla biblioteca per lui tantissime volte. Perciò Barney pensava che, se si fosse avvicinato a quel libro e l’avesse toccato con le zampe o se fosse addirittura riuscito a tirarlo fuori dallo scaffale, allora sua madre forse avrebbe potuto capire che si trattava di suo figlio. Barney sapeva anche che avrebbe trovato il libro nello scaffale più basso, perché era lì che era sempre stato.

Il guaio era che Bambini acquatici non era visibile da nessuna parte, cosa molto strana visto che Barney era sicuro di essere l’unica persona ad averlo preso in biblioteca. Almeno dal 1982 in avanti. Perciò si guardò in giro per trovare un altro titolo che gli piacesse, ma non trovò nulla tranne Il libro della giungla di Rudyard Kipling, che non è che gli fosse piaciuto alla follia, ma se non altro sua madre sapeva che lui l’aveva letto. Si trovava nel terzo ripiano, per cui Barney spiccò un salto. Ma non riuscì a raggiungere il libro che cercava. Riuscì solo a far cadere a terra un altro volume, un libro rilegato che gli cadde addosso. Sulla copertina, in minacciose lettere maiuscole riuscì a leggere KAFKA e LA METAMORFOSI prima che il libro gli cadesse in testa.

Così il suo piano era fallito.

Barney era riuscito solo a fare la figura di un gatto schizzato, e ora le mani di sua madre erano sopra le sue costole, nel tentativo di sollevarlo dal tappeto che i suoi unghielli si rifiutavano di lasciare.

Lei avanzò tenendolo in braccio, accanto a tutti quei libri fatti appositamente per mani umane, libri che

Barney sapeva che forse non avrebbe mai più avuto l’occasione di sfogliare. E ora c’era qualcun altro.

Jeremy.

L’uomo arancione.

«Cosa ci fa, questo, qui?» domandò con aria disgustata.

«Non lo so» rispose la mamma di Barney. «Che tu ci creda o no, sono quasi sicura che è lo stesso gatto che era in casa mia stamattina. Sai, quello di cui ti ho parlato».

«Strano» osservò Jeremy. «Oh, be’, questo comunque non è uno zoo».

Indicò con la mano le porte automatiche, per invitare la collega a buttarlo fuori dalla biblioteca. E così sarebbe avvenuto se non fosse stato per la bimbetta vestita di rosa. Quella che poco prima strillava: «Voio dvd».

Florence.

«Mammina, guadda! Guadda mammina! GUADDA ORA!»

Sua madre guardò.

«Perbacco! È Maurice».

Maurice?

Chi è Maurice?

Barney le vide avvicinarsi a sua madre e dire a lei e a Jeremy che il gatto apparteneva a loro.

«Come facciamo a sapere che il gatto è proprio vostro?» domandò Jeremy sospettoso.

La madre di Florence tirò fuori il cellulare e poco dopo mostrò loro la foto di un gatto nero con una macchia di pelo bianco intorno all’occhio sinistro. Con orrore Barney notò che il micio indossava un costume da fatina completo di ali, e appariva molto infelice.

«Voio iamo casa» piagnucolò Florence. «Voio iamo casa vedere Ga-Ga!»

«Prendetevelo» disse Mrs Willow, consegnando suo figlio a una perfetta sconosciuta.

Mamma, sono io!

Per la millesima volta.

Barney vide le porte automatiche richiudersi dietro di lui, e sua madre dentro la biblioteca che lo guardava andar via.

Ti voglio bene, disse, perché aveva la sensazione che fosse passato molto tempo dall’ultima volta che gliel’aveva detto, e perché non sapeva se avrebbe mai più avuto l’occasione di dirglielo.

Non che significasse qualcosa.

Era semplicemente un altro debole miagolio che si perse nel vento.


La pensione per gatti

Salve. Sono di nuovo l’autore. Ora, devi sapere che so che cosa ti stai domandando. Ti stai domandando: Ehi, che cosa è successo alla gatta di cui mi hai parlato un centinaio di pagine fa? Quella Moka o come diavolo si chiamava.

Oh, davvero non te lo stai domandando? Ohibò, vuol dire che il kit che mamma mi ha regalato per Natale («Leggi nella mente dei tuoi lettori») non funziona poi tanto bene. Pazienza, ti parlerò lo stesso di Moka, perché raccontandoti di lei ti dirò in realtà qualcosa di molto più importante.

Moka si trovava nella sua gabbia in quella pensione per gatti. Quando dico «gabbia» intendo una stanza calda e confortevole, con un panorama di colline digradanti fuori dalla finestra. E quando dico «pensione per gatti» intendo un palazzo elegante. La Pensione per Gatti Edgarton era davvero come il più bell’hotel di lusso in cui tu sia mai stato. Soltanto ancora meglio. Per via dei giochi e di tutto il resto. I topolini di peluche, i tronchetti per affilare gli unghielli, le lettiere, che al posto di quella sgradevole ghiaietta avevano l’immagine di un cane da guardare mentre i gatti facevano i loro bisogni proprio sopra quel povero muso canino.

Proprio in quel momento Moka si stava godendo un pranzetto fuori orario a base di sardine grigliate e di topo di campagna impanato, accompagnati da una ciotola di doppia panna. È vero che la compagnia avrebbe potuto essere migliore. Non era granché divertente ascoltare i discorsi dei gatti vicini di stanza. Uno, un Senzasperanza che ora era un vecchio soriano chiamato Tiddles ma che un tempo era stato un umano, un commercialista di nome Peter Michael Thimblethwaite, raccontava lamentoso di aver fatto una scappata al campo da golf di Blandford per vedere suo fratello e di non essere stato riconosciuto. «Mi ha fatto cacciar fuori a pedate da quel dannato posto. Pensare che se non fosse stato per me non l’avrebbero nemmeno accettato come membro!»

L’altro vicino di gabbia era uno Zampecalde chiamato Elton, un persiano bianco dal pelo soffice che si stava lamentando per essere andato troppo presto in pensione.

«Ero un gatto da calendario, sapete... oh sì, gli umani mi fotografavano sempre sdraiato al sole nell’erba... la mia faccia adorna le pareti di moltissime case, sapete... be’, almeno per un mese all’anno... Ma a quanto pare ora mi considerano troppo vecchio... la mia pelliccia è sciupata e infeltrita... i miei occhi hanno perso la loro lucentezza... e poi i persiani non sono più di moda, dicono... ‘Hai l’aria troppo opulenta... fa troppo anni Ottanta... adesso vogliamo gatti trasandati...’ E non scherzano! Avete visto i modelli, di recente? Sono Brutticeffi... Dico davvero, dov’è andata a finire la classe? Sono solo pulci e sudiciume! Pulci e sudiciume!»

Elton andò avanti così per ore. Ma Moka non ci fece caso, concentrando altrove i propri pensieri, per esempio sulla ragazza alta che stava parlando col padrone della pensione, che tutti i gatti conoscevano solo come L’Uomo Infinitamente Gentile. Una persona per la quale tutti i felini provavano affetto, pur senza capirne il perché.

Se ne stava lì, la ragazza umana, china sopra il bancone a scrutare il viso dell’uomo. Moka l’aveva già vista, quella ragazza. Era passata accanto alla sua casa, una volta, insieme a Barney Willow. E ora stava parlando concitatamente con l’Uomo Infinitamente Gentile.

«Ma lei gli assomiglia come una goccia d’acqua» gli stava dicendo la ragazza, ottenendo in risposta solo uno sguardo impacciato.

«Allora... lei come si chiama, se il suo nome non è Neal Willow?»

«Mi chiamo Smith».

«Solo Smith?»

«Per favore, ho tante cose da fare e...»

Moka osservò l’Uomo Infinitamente Gentile battere qualcosa a macchina, cercando di apparire indaffarato. Ma non c’era modo di fermare quella ragazza alta e coi capelli selvaggi.

«Suo figlio è molto preoccupato per lei. Ha paura che lei sia morto... Io sono Rissa, Rissa Fairweather. Sono la migliore amica di Barney».

«Non sono la persona che cerchi».

«Ma lei gli assomiglia molto. Il padre di Barney... è scomparso. Barney potrebbe essere venuto a cercarla».

«Qui non è venuto nessun ragazzo, te l’assicuro...»

Rissa stava cercando di non arrabbiarsi. «Be’, può darsi che lei ci possa aiutare lo stesso. Potrebbe fare un pubblico annuncio alla tv locale e dire che è tornato o qualcosa del genere».

L’Uomo Infinitamente Gentile era, si disse Moka, anche l’Uomo Infinitamente Paziente. Infatti fece un sospiro di comprensione e parve davvero preoccupato per la ragazza. «Credimi, il ragazzo che cerchi potrebbe non essere scomparso».

«Cosa? Ma certo che è scomparso».

«Potrebbe essere venuto da te senza che tu l’abbia riconosciuto. Dammi retta, apri la mente all’impossibile e scoprirai la verità».

Rissa non aveva la minima idea di cosa stesse dicendo quell’uomo. «Senta, se lo vede mi può contattare?» Gli porse un biglietto spiegazzato.

A quel punto l’uomo fissò Rissa con uno sguardo che non poteva essere più sincero. «Naturalmente».

Rissa parve incerta, ma proprio in quel momento entrò una donna con un gatto birmano di nome Lapsang, che Moka conosceva attraverso le staccionate. «Salve, sono Mrs Hunter» disse la donna. «Ho prenotato due settimane per Lapsang... abbiamo sentito dire meraviglie di questa pensione».

L’Uomo Infinitamente Gentile sorrise dolcemente, cercando di ignorare la presenza di Rissa. «Be’, faccio tutto il possibile perché i gatti qui si trovino bene».

Nel frattempo Lapsang si stava guardando tutt’intorno da sopra la spalla di Mrs Hunter, miagolando di piacere. «Oh, questa sì che è una bella cosa. Oh, Moka, mia dolcissima, non ti avevo vista». Poi lo sguardo di Lapsang si posò su qualcun altro, un gatto grigio piuttosto scarmigliato in una gabbia vicino all’entrata. Aveva un orecchio rovinato da un morso. «Oooh» miagolò con disgusto. «Un Bruttoceffo».

«Non sei affatto gentile» protestò il micio grigio sbuffando. «Non sono un randagio, sono un gatto smarrito, di buona famiglia. C’è una bella differenza...»

Ma Moka continuava a osservare Rissa. La ragazza aveva l’aria confusa e addirittura sconfitta mentre lasciava quel luogo domandandosi che cosa fosse meglio per il suo amico.

Molto più che strano

Rissa prese l’autobus per tornare a casa.

Tutto questo non è solo strano, si diceva. Tutto questo è una montagna di stranezze.

Guardò fuori dal finestrino le case che scorrevano veloci. Sapeva che quell’uomo assomigliava moltissimo al papà di Barney, ma c’era qualcosa che non quadrava. Quando lo aveva guardato dritto negli occhi, aveva avuto la precisa sensazione di fissare uno sconosciuto.

Tutte quelle stranezze la facevano sentire più che mai in pensiero per Barney. Scese alla fermata più vicina a casa sua e attraversò varie strade diretta al sentiero lungo il fiume dove era ancorato il suo barcone. Salì a bordo e chinò la testa per scendere i gradini di legno che portavano in coperta e alle piccole cabine retrostanti.

I suoi genitori non c’erano.

Rissa si diresse verso il piccolo frigorifero vecchio e ammaccato su cui era attaccato l’adesivo di un arcobaleno. Lo aprì e vide che era rimasto qualcosa della speciale torta di carote fatta dalla mamma. Normalmente Rissa non ne avrebbe mai avuto abbastanza, ma ora si rese conto che non sarebbe stata in grado di mandar giù un solo boccone, anche se a pranzo aveva lasciato nel piatto quasi tutta la pizza.

Andò nella sua camera da letto. «Camera da letto» non era proprio la parola giusta. Era piuttosto una piccola cabina con un piccolo oblò e con un futon al posto del letto e un grosso puff al posto di una sedia. Ma a Rissa piaceva. Lo sciabordio dell’acqua contro il fianco dell’imbarcazione di solito aveva il potere di calmarla.

Di solito.

Non quel giorno, però.

Sul pavimento accanto al futon c’era un libro che suo padre aveva preso per lei in biblioteca. Era un libro di cui le aveva tanto parlato Barney, per cui anche lei aveva deciso di leggerlo.

Bambini acquatici di Charles Kingsley.

Aveva cominciato a leggerlo la sera prima, e aveva deciso che non le piaceva il fatto che il personaggio del ragazzo fosse così perfetto, e quello della ragazzina così orribile. Le piaceva invece come lo scrittore aveva saputo rendere l’acqua così magica. Guardar fuori dal suo oblò la notte e vedere la luna riflettersi sulla superficie del fiume era sufficiente a far credere che la vita fosse piena di indicibili meraviglie. Era lo stesso sentimento che Rissa provava guardando attraverso il suo telescopio stelle scomparse milioni di anni prima, ma la cui luce era sopravvissuta.

Vide il libro e subito le venne in mente la biblioteca. Ma certo.

Chiamò la biblioteca e chiese di parlare con Mrs Willow.

«Oh, Rissa, ciao. Cosa c’è che non va?»

Rissa si domandò se fosse il caso di raccontare alla mamma di Barney della sua visita alla pensione per gatti, ma non sapeva proprio cosa dirle. La signora aveva visto o no Mr Willow? Perciò rispose: «Si tratta di Barney».

«Barney? Ho telefonato poco fa a scuola e ho parlato con Miss Whipmire. Mi ha detto che è a scuola e sta bene. Solo che si è comportato un po’ male».

Rissa esitò un attimo. Qualcosa non le tornava. «No» disse. «Non è venuto a scuola, oggi. È scappato via. Ho cercato di dirglielo nel mio messaggio, ma l’autista dello scuolabus mi ha tolto il cellulare».

Una pausa. Rissa sentì il respiro affannoso di Mrs Willow produrre un suono confuso nella cornetta. «Miss Whipmire mi ha assicurato che c’era».

«Be’» disse Rissa, non sapendo come altro dirlo, «mi spiace ma Miss Whipmire è una bugiarda».

Princess Piglet e il suo pazzesco
e principesco party

(e altre forme di tortura)

Sarebbe stata una grande casa anche secondo criteri umani ma, vista dalla prospettiva di un gatto, era come entrare nel palazzo più grande che si possa immaginare.

All’interno tutto era color crema. I tappeti, le pareti, il paralume e il divano del soggiorno. Era lì che Barney era seduto a guardare il diciassettesimo episodio in successione (Princess Piglet e il suo pazzesco e principesco party). E questa sarebbe già stata una tortura sufficiente, anche senza i tentativi di Florence di cavargli gli occhi tra un episodio e l’altro e la stretta con cui lei lo teneva, per cui Barney non riusciva quasi nemmeno a respirare.

La mamma di Florence entrò dopo un po’. «Andiamo, Florence, lascia in pace ’sto povero gatto» disse, e con gran sollievo di Barney lo tirò via dalle braccia della bimba.

«No, mammina! Voio gatto! Voio i occhi! Ca-melle».

«Florence» disse pacata sua madre. «Gli occhi dei gatti non sono caramelle. E neanche gli occhi dei cani. Povero Leonard! Tra te e tuo fratello!» E poi guardò Barney. «Non c’è da stupirsi, se sei scappato, non è vero, Maurice?»

Oh no! pensò Barney.

Florence aveva un fratello.

Un fratello che, a quel che Barney capiva, doveva essere terribile come la sorella.

Fra tutti e due (e forse anche per via del cane) lo avevano spinto a fuggire, o meglio avevano spinto Maurice a fuggire.

È fuggito.

Almeno era quello che loro pensavano. Ma Barney non poteva sapere se le cose erano andate così. Il gatto se n’era andato di casa e si era imbattuto in Barney dopo che lui aveva stracciato la lettera di Miss Whipmire. Ma era davvero fuggito di casa? La mamma di Florence, non vedendolo più, pensava che l’avesse fatto. Invece non l’aveva visto più perché era diventato un umano, e perché Barney si era trasformato in lui, Maurice. E se esisteva un modo per Barney di ritornare nel proprio corpo allora Maurice, il Barney-che-non-era-Barney, doveva conoscerlo.

Mentre veniva deposto sul tappeto, a Barney venne in mente un pensiero. Un pensiero suggestivo e geniale.

Maurice poteva essere tornato a casa.

Perciò Barney uscì dalla stanza per andare in cerca, in quell’immensa casa, di qualche segno della presenza del suo corpo.

Ma non trovò nulla di utile. C’erano mobili, una gran quantità di mobili, ma nient’altro. Non trovò nessuna traccia di sé al pianterreno. Ma in cucina, vicino alla cuccia del gatto, trovò qualcosa di molto preoccupante.

Una cuccia più grande, con una sbiadita e puzzolente coperta scozzese che ricadeva sul pavimento.

Una cuccia di cane. E anche grosso, a giudicare dalle dimensioni.

Barney si guardò intorno per cercare una via di fuga. Ne vide una.

Una gattaiola vicino al frigorifero.

Sbarrata.

Sentì che il coraggio gli veniva meno, ma poi lo ritrovò. Guardò il cibo che la mamma di Florence aveva tirato fuori per lui. Nella piccola scodella faceva mostra di sé della carne in gelatina, disgustosa all’aspetto come all’odore.

Poi pensò una cosa.

I cani parlano il linguaggio dei gatti.

I gatti parlano il linguaggio dei cani.

E non tutti i cani sono come Guster.

Pensando a questo Barney decise di salire le scale per cercare di trovare spiegazioni. Ma al piano di sopra non c’erano spiegazioni. C’erano solo un tappeto che lo fece starnutire, un bagno col pavimento scivoloso, e parecchi giocattoli sparsi dappertutto.

Bambole gigantesche, orsetti mutilati, Barbie senza braccia. Mentre camminava sul pianerottolo, Barney ebbe la sensazione di osservare un campo di battaglia dopo una guerra assolutamente unilaterale.

Vide quattro camere da letto. Ce n’era una con un letto matrimoniale ben rifatto e un ritratto della mamma di Florence con un uomo che Barney immaginò essere il padre di Florence. Gli tornò in mente la foto dei suoi genitori in vacanza nel Sud della Francia. Una foto che la mamma aveva strappato in occasione del divorzio e che poi aveva rincollato quando suo padre era scomparso. C’era anche un’altra foto, di Florence con suo fratello. Barney non riuscì a vederla bene perché era piazzata in alto sopra un cassettone, e inoltre il sole entrava dalla finestra e si rifletteva sul vetro nella cornice; ma ebbe comunque l’impressione di aver già visto il fratello da qualche parte.

La stanza di Florence conteneva ancora più feriti del pianerottolo. C’era un’ambulanza giocattolo, molto adatta alle circostanze, un’infinità di animali di plastica della fattoria e personaggi di Princess Piglet, insieme a un gigantesco stetoscopio. La camera da letto successiva era la camera degli ospiti e pareva vuota, perciò Barney non si prese la briga di ispezionarla. Ma di fronte c’era una porta semiaperta. Dev’essere la camera del fratello.

Un odore tremendo di calzini puzzolenti e di deodorante spray lo assalì, facendogli raggricciare le vibrisse per il disgusto.

Entrando, Barney si sentì fremere i nervi, anche se a tutta prima non vide nulla di troppo preoccupante. Solo manifesti di automobili e scaffali di videogame. Lesse qualche titolo.

GUERRA INFINITA IV: DISTRUZIONE TOTALE
APOCALISSE ALIENA
JOE L’EROE
LA TERRA DELLA VIOLENZA INFINITA

Mentre si guardava intorno nella stanza – il pallone in terra, l’immenso apparecchio tv e il computer nuovo di zecca, la maglia da rugby sulla sedia – provò una sensazione molto penosa.

Si ricordò le parole di Florence.

Ga-Ga.

Guardò la porta.

C’era attaccato un adesivo su cui era scritto:

ATTENZIONE! ATTENZIONE! QUESTA STANZA CONTIENE
TRACCE DI

Gavin
ENTRATE A VOSTRO RISCHIO E PERICOLO!

Al piano di sotto squillò un telefono. «Sì, sono Mrs Needle... mi dica».

Needle.

Gavin.

Needle.

No.

No no no no no.

Eppure tutto questo aveva un senso preciso e terribile. Spiegava perfettamente la perfidia di Florence. Era una Needle! La sorellina di Gavin.

Marmellata, si disse. Ma questo servì solo a fargli pensare a Rissa, e a ricordargli quanto fosse solo.

Come sono stato ingrato! pensò. D’accordo, non avevo un papà. Ma avevo Rissa. E avevo mamma. E questo mi rendeva il doppio più felice di adesso.

Dopo aver pensato questo, Barney notò che un po’ dei suoi peli si erano staccati dal muso e dal collo ed erano caduti sul tappeto, formando una piccola nuvola nera.

Una visita per Miss Whipmire

La mamma di Barney aveva incontrato Miss Whipmire solo una volta, quando Barney era stato accusato di aver provocato scompiglio durante un’assemblea scolastica.

In quell’occasione le aveva creduto.

Ma ora, nell’ufficio di Miss Whipmire, non era più molto sicura di aver fatto bene.

«Sì, Mrs Willow, cosa posso fare per lei?» C’era qualcosa di strano. La direttrice non si era voltata dalla finestra da cui stava guardando fuori, una finestra che offriva la vista di un triste cielo di febbraio e di verdi campi da gioco dove le ragazze della decima classe erano impegnate in una rumorosa partita di hockey. Non c’erano riflessi sul vetro. Eppure aveva capito subito chi era entrato nella stanza dopo aver bussato.

«Ehm, salve... sono io, la mamma di Barney. Elaine. Ho qualche perplessità su qualcosa».

Miss Whipmire si voltò di scatto. «Perplessità? Non capisco».

Mrs Willow annusò l’aria e si accorse che sapeva di pesce. Sardine, si sarebbe detto. «Be’, insomma, si tratta di... Barney. Mi è stato detto da una sua cara amica che oggi non è venuto a scuola» disse, notando un orribile portapenne sulla scrivania. «Così, non vorrei proprio contraddirla, ma credo che lei si sia sbagliata».

Miss Whipmire non disse nulla, mentre il suo viso tradiva emozioni diverse. Prima sorpresa, poi ira che saliva fino a diventare rabbia totale, per poi scendere a una generale irritazione, poi pensosità, quindi preoccupazione prima di lasciare il posto a un’espressione di sconfortato imbarazzo.

«Oh, mi dispiace» disse, con l’innocenza di un agnellino. «Spero di non aver commesso un terribile errore... Andrò subito a parlare con l’insegnante responsabile della sua classe».

Miss Whipmire uscì e la mamma di Barney restò ad aspettare, guardando il calendario della direttrice. «Gatti» osservò ad alta voce, ripensando allo strano filo conduttore di quella giornata.

Ma Miss Whipmire non era andata a cercare Mrs Lavender. Stava guardando oltre i cancelli della scuola nel tentativo di scambiare qualche parola con qualcuno dei suoi accoliti felini.

Vide Pumpkin seduto sul muretto di fronte con l’aria vergognosa e contrita. E ne aveva ben donde, quel cretino col cervello di una pulce.

Barney era ancora libero, comprese Miss Whipmire. Per due volte questi Brutticeffi incapaci hanno fatto fiasco.

Barney era vivo e stava tentando di tornare umano, e in quel caso con tutta probabilità avrebbe cercato di dire al mondo – o come minimo agli amministratori della scuola – la verità sul suo conto.

Ma lei aveva un piano. Ed era un piano così bello che le brillò nella mente come una sardina immersa nell’olio dentro la sua scatoletta. E con questo piano in testa uscì dai cancelli della scuola per scambiare due parole col suo accolito più fedele.

Qualche informazione su Pumpkin

Miss Whipmire attraversò la strada per andare a parlare con Pumpkin.

Se tu per caso fai parte di quella categoria di lettori che vogliono sapere proprio tutto di ogni personaggio del libro, ti racconterò qualcosa di questo particolare Bruttoceffo. Innanzitutto era stupido. Stupido abbastanza da fare tutto quello che Miss Whipmire voleva. Si erano conosciuti quando lei era una gatta siamese e lui non l’aveva trovata neanche molto simpatica, perché lei era una Zampecalde e tra Brutticeffi e Zampecalde non corre mai buon sangue. Inoltre lei aveva trovato da ridire sulle sue capacità atletiche. Ma Caramel era una brava lottatrice e Pumpkin ammirava molto chi sapeva combattere, specialmente se si trattava di uno Zampecalde. E poi, dopo che lei era diventata umana, lui ne era rimasto ancora più affascinato. Era utile avere amici tra gli umani, specialmente se ti rifornivano di sardine in olio d’oliva aromatizzato al limone, le sue preferite in assoluto. (Quando si tratta di pesce, perfino il più rozzo dei Brutticeffi ha gusti raffinati.) Ed essere il cocco di un GADZ (gatto a due zampe, come nel linguaggio di strada venivano definiti i gatti trasformati in umani) procurava molto prestigio. I GADZ erano l’esatto contrario dei Senzasperanza – gli umani trasformati in gatti – di cui credo di avervi già parlato. Non che Pumpkin aspirasse a diventare un GADZ. Era perfettamente felice di essere un gatto rosso che scorrazzava per i giardini, tramava agguati, si spulciava, si strusciava sulle gambe di anziane signore per avere in cambio del latte e flirtava con Lyka (che non dimostrava nessun interesse).

Dove eravamo rimasti?

Ah, sì: subito fuori dalla scuola.

A Miss Whipmire che attraversava la strada per parlare con Pumpkin.

Vedendola, il gatto capì che era più che mai arrabbiata con lui per non essere riuscito di nuovo ad acchiappare il gatto Barney. Perciò si preparò una scusa.

«Ascolta, tuto bene... Okay, il fatto è, ragaza mia, che non ci ce l’abiamo fata» provò a scusarsi. «Non ci ce l’abiamo fata. Io, non mi ce l’ho fata. Ma non che cera gniente da poter fare. È arivato il Terorgato. Era lì per tirare fuori i suoi poteri, eperciò siamo scapati...»

Pumpkin, del resto, era un gatto conciso e infilò tutto quanto detto sopra in un miao e mezzo, più una grattatina all’orecchio.

Miss Whipmire non aveva tempo per le chiacchiere.«Trova Maurice» ordinò. «E digli di venire nel mio ufficio».

Pumpkin era confuso. «Mi pareva che avevi detto che ciaveva da stare in casa tua fino che quando il gato Barney non moriva».

Miss Whipmire lo guardò furiosa, per una volta incurante che qualcuno la potesse vedere dalla sala professori.

«Be’, Barney sarebbe morto, a quest’ora, se tu non fossi stato un tale idiota, non credi? E tanto perché tu lo sappia, se avessi voluto discutere con qualcuno, mi sarei trovata un gatto con un pedigree» sibilò, con le unghie frementi, quasi si fossero dimenticate che non erano più unghielli. «Mi serve Maurice perché si dà il caso che abbia in ufficio Mrs Willow, che si domanda dove sia suo figlio. E adesso esegui. Muoviti!»

Pumpkin partì.

Miss Whipmire alzò gli occhi e vide una ragazza della decima classe fissarla mentre lei stava gridando contro il gatto.

«E tu, ragazza, che cosa fai fuori di scuola?» le domandò con asprezza.

«La scuola è finita, Miss Whipmire. Stavo rientrando per le prove del coro».

«Oh, certo, tu sei la cantante terribile. Ti sei truccata?»

«No».

«Be’, dovresti farlo. Oppure prova con un sacchetto di carta. Senza buchi per gli occhi. Hai un aspetto orribile».

E mentre la ragazzina correva verso la scuola piangendo, Miss Whipmire sospirò piena di disgusto. «Umani!»

Un’accurata descrizione

«Suo figlio sarà qui tra poco» disse Miss Whipmire al suo ritorno in ufficio. «È... ehm, impegnato in una partita di rugby, in questo momento».

«Ah sì?» esclamò Mrs Willow, guardando fuori dalla finestra le ragazze che giocavano a hockey. «Non sapevo che avesse una partita, oggi».

La direttrice chiuse le tende e si accomodò sulla sua sedia, appoggiando la schiena contro la pelle di pecora.

«Bene, non c’è da preoccuparsi. Come le ho detto, tra poco sarà qui».

Chiacchierarono del più e del meno per un po’, poi rimasero in silenzio per circa mezz’ora.

Miss Whipmire si rendeva conto che la madre di Barney si sentiva orribilmente a disagio seduta in quella stanza, e questo le procurava piacere.

«Le piacciono i gatti, Mrs Willow?»

«Ehm, no. Non particolarmente».

Un sorriso di condiscendenza da parte della direttrice. «Non me l’immaginavo».

«Be’, insomma».

«Io ho perso il mio gatto».

«Oh, davvero?»

«Sì» rispose Miss Whipmire, comportandosi in tutto e per tutto come la padrona preoccupata di un gatto smarrito. «Si chiama Patch, perché ha una chiazza di pelo bianco attorno all’occhio sinistro».

«Che strano! Ho appena visto un gatto così».

Ci avrei giurato, pensò Miss Whipmire. «Veramente?»

«Sì, ma quello che ho visto io apparteneva a un’altra persona. Una signora che era in biblioteca l’ha visto e reclamato come suo».

«Oh?» Il viso di Miss Whipmire si contrasse di finto dolore. «Oddio, per favore, oh no, non mi dica che ‘apparteneva’ a una signora bionda, truccata pesantemente».

La mamma di Barney rifletté, e la sua espressione rivelò che si trattava di una descrizione molto accurata. «A dir la verità, sì».

«Dunque il mio caro piccolo Patch è da lei?»

«Quella signora ha detto che il nome del gatto era Maurice».

Miss Whipmire ebbe una forte tentazione di far sentire colpevole Mrs Willow, così, tanto per divertirsi, ma decise di no. Aveva tutte le informazioni che le servivano, e complicare le cose avrebbe potuto far nascere dei sospetti. E i sospetti dovevano attendere almeno fino a che Barney Willow non fosse morto.

La mamma di Barney sorrise. «Oh, non deve preoccuparsi. Sono sicura che si trattava di un altro gatto».

E più o meno in quel momento bussarono alla porta.

«Avanti» disse Miss Whipmire.

Entrò un ragazzo che assomigliava in tutto e per tutto a Barney. Mrs Willow si alzò e corse ad abbracciarlo. «Sono stata così in pensiero per te!»

«Gliel’avevo detto, io, che stava bene. Vede, è tutto rosso e sudato perché ha giocato a rugby».

Maurice colse il suggerimento. «Sì, mamma, ero a giocare a rugby».

«Bene» disse Miss Whipmire in modo piuttosto tagliente, «ho parecchio lavoro da sbrigare. Parlerà con Barney più tardi, non si preoccupi».

E dunque Mrs Willow se ne andò, un po’ perplessa ma molto sollevata, dirigendosi verso la sua macchina. Nell’ufficio della direttrice, intanto, Miss Whipmire stava toccando il viso di Maurice.

Il viso di suo figlio.

«Oh, mio caro, ce l’hai fatta! Ce l’hai fatta! Il mio ragazzo così in gamba!»

E Maurice sorrise dolcemente. Era contento di vedere sua madre, e felice di non appartenere più ai Needle, ma ancora non si trovava bene nella sua nuova pelle. «Sì, mamma, ti voglio bene».

Sua madre non lo udì, perché quelle parole coincisero col suono della campanella che annunciava la chiusura della scuola.

«Ascolta» disse rivolta al figlio. «Ho un piano».

Il Cuscino Consigliere,
ovvero The Warney Pillow

Barney si guardò intorno nella stanza di Gavin con quella strana sorta di terrore e di eccitazione che viene dal trovarsi in territorio nemico quando il nemico non è nei paraggi. Stava per uscire quando notò qualcosa sul letto. Qualcosa di soffice, di grigio e dallo sguardo triste. Un asinello! Ih-Oh! Gavin Needle teneva sul letto un vecchio peluche di Ih-Oh, l’asinello amico di Winnie the Pooh!

Questa sembrò a Barney una notizia così straordinaria che per un attimo si dimenticò di essere un gatto. Ma se ne ricordò non appena sentì un rumore. Quel tipo di suono che quando sei un gatto non puoi certo permetterti di ignorare.

Non era forte.

Solo un uggiolio, in realtà, che proveniva da qualche altra parte.

Il cane.

Leonard.

Barney si fermò.

Sarebbe stato semplicissimo per lui uscire furtivamente dalla stanza e scendere dabbasso, ma ricordò a se stesso che era salito al piano di sopra per trovare risposte.

Così, con una determinazione che gli faceva battere più forte il cuore e agitare la coda, uscì dalla stanza e seguendo quel suono arrivò fino alla camera degli ospiti.

Roba da pazzi!

Quando mai è un gatto ad andare in cerca di un cane?

Attraversò il tappeto e avvertì un debole ma puzzolente odore di sudore canino. Un paio di grandi occhi marroni sporgenti lo guardavano da sotto il letto. Un gigantesco e scheletrico mostro dalla pelliccia nera e marrone. Un dobermann. Barney cercò di non perdere la testa.

«Ciao» disse Barney. «Io sono Barney».

«Cosa?» Leonard pareva nervoso, addirittura disperato. «Hai dimenticato il tuo nome. O... o...»

«Non me lo sono dimenticato. Solo che non sono quello che tu pensi che sia... Non sono Maurice».

«Sto diventando matto! Prima i cuscini, e adesso questa storia».

Barney non capiva. «I cuscini?»

«Sì. Si sono rivoltati contro di me. Quelli sul letto. Mi guardano sempre corrucciati. Cercano di farmi sentire strano. Dai un’occhiata. Sono ancora lì?»

Barney fece qualche passo indietro e guardò sopra il letto. In effetti c’erano dei cuscini. Due. Due normali cuscini quadrati e spiegazzati.

«Non mi sembrano corrucciati» fece Barney, cercando di rassicurare il cane spaventato. «Mi sembrano solo spiegazzati».

«Spiegazzati? È quello che vogliono farti credere».

Barney cominciò ad arretrare. Era chiaro che Leonard era troppo pazzo per poter essere di qualche aiuto.

«Non lasciarmi di nuovo solo» supplicò Leonard. «Ti prego».

Barney esitò. «Mi spiace, ma questa non è casa mia. Ne ho una altrove». Si volse, era quasi arrivato alla porta.

«Non andare dai Whipmire!» implorò Leonard.

«Cosa?»

Il cane non lo ascoltava. «Lo raccontavo prima al termosifone. Gli dicevo: ‘Non sa parlare d’altro. Mammina Caramel Whipmire, Mammina Caramel Whipmire’».

«Hai appena detto Caramel?»

«Avevo un lavoro, io!» esclamò il cane, aumentando la confusione di Barney.

«Cosa?»

Il cane strizzò gli occhi. «Ero qualcuno, io. Lavoravo nella Sicurezza. Ma penso mai di tornare indietro? Eh? No! Sì! No! No! Sì! Ma non lo faccio. Non posso. I cuscini non me lo permetterebbero. E anche se lo facessero non lo farei io, perché ormai ho degli altri padroni. E accetto la cosa». E a quel punto Leonard parve molto più triste che matto. «Devo accettarlo».

«Ascoltami, ti prego. Devi aiutarmi» esclamò Barney cercando di esprimersi nel modo più dolce e rassicurante possibile.

Il cane lo ignorò, e si mise a recitare un brano lento e triste di poesia dobermanniana.

Oh, chi mai potrà amare

un cane come me, che non capita di ammirare

nei salotti o in tv,

non ha un pelo dorato da accarezzare,

ed è triste, e nero, e sempre giù

di morale?

No, non sono un labrador,

né un agile terrier

dalle corte zampette,

che vien da accarezzare

e nutrire a polpette,

sempre pronto a giocare

con te.

Sono un cane d’altra razza

con un triste destino,

un cane da ammirare

solo se incute terrore

in chi gli sta vicino

compreso il suo padrone

ahimè.

Il dobermann sembrava lontanissimo, perso nei suoi tristi e folli pensieri.

Ma Barney ebbe un’idea. «Ascoltami, ti prego. Devi aiutarmi. I... ehm, i cuscini dicono che mi devi aiutare».

Il dobermann si fece subito attento. «Cosa?Hanno detto così?»

«Sì» ribadì Barney, concentrato a pensare. «Hanno detto che devi dirmi tutto quello che sai di Maurice. Vogliono che tu mi dica perché pensi che sia scappato».

«Per vedere sua madre» disse il cane, leccandosi le zampe anteriori. «Come se tutti noi non volessimo vedere le nostre mammine!»

«Caramel?»

«Caramel! Caramel! Caramel! Tutto il giorno Caramel...»

Barney rifletté. Caramel. Miss Whipmire. «Maurice è il figlio di Miss Whipmire!»

Il cane lo guardò con attenzione. Per un attimo Barney riuscì a immaginarsi il Leonard di una volta, il responsabile cane da guardia. «È venuto qualcuno, un giorno. Un gatto rosso. Portava un messaggio».

«Che messaggio era?»

«Non lo so. Un messaggio sussurrato. Tutto quello che so è che da allora Maurice non è più stato lo stesso. Diceva che voleva scappare. Doveva trovare un pillow, un cuscino».

«Un cuscino

«O un Billow. Un Warney Billow o Pillow. E questo avrebbe rimesso tutte le cose a posto».

Warney Billow.

Barney Willow.

Barney capì che il pomeriggio del giorno prima il gatto non si era trovato lì per caso. «Dunque era tutto premeditato. Mi ha preso di mira di proposito. Ma perché io?»

«Non lo so. Ti supplico, di’ ai cuscini che mi dispiace».

«Loro... ti perdoneranno» lo rassicurò Barney. «Mi sembrano cuscini molto comprensivi».

E Barney arretrò, lontano da quegli occhi impazziti sotto il letto, e uscì dalla stanza, avendo capito che ciò che era stato sussurrato in quel messaggio avrebbe spiegato tutto.

Poi si ricordò di qualcosa che Miss Whipmire aveva detto sventolando quella busta indirizzata a lei. «Questi sono biglietti veri. I miei biglietti. Miei e del mio unico amore. Via di qui per sempre. Domani a quest’ora sarò in viaggio verso l’antico Siam, la Thailandia».

Se Barney voleva trovare Maurice, adesso sapeva da dove partire: doveva per forza andare a fare una visita a casa di Miss Whipmire. Ma sapeva anche che non gli restava molto tempo prima che il suo involucro umano salisse su un aereo diretto dall’altra parte del mondo.

Poi il coraggio di Barney subì un altro colpo quando sentì aprirsi e richiudersi la porta di casa, e Florence che strillava felice. «Ga-Ga casa! Ga-Ga casa!»

Un bagno di guai

Gavin era tornato da cinque minuti, e per tre di questi minuti aveva schiacciato la coda di Barney.

Barney si era nascosto in bagno. Il guaio era che Gavin doveva sempre correre in bagno quando tornava a casa da scuola, e la suola della sua scarpa sinistra (o sarebbe meglio dire scarpone) stava schiacciando così forte l’osso della coda di Barney da procurargli un dolore tale da fargli pensare con simpatia, al confronto, a una mischia su un campo da rugby.

«Ooo» stava dicendo Barney (l’unica parola uguale nel linguaggio felino e in quello umano).

«Scusa, non ho capito» diceva ridendo Gavin. «Qual è il problema, Maurice?»

Per favore, spostati dalla mia coda.

«Non capisco proprio di cosa stai parlando».

Sì che lo sai, malvagio psicopatico che non sei altro. Per favore. Mi fai male.

E Gavin abbassò gli occhi a guardare in faccia Maurice. «Sembri diverso. Più imbranato. Sembri...» Scosse la testa, come per scacciare uno stupido pensiero. «Comunque sia, che cosa ci facevi stamattina alla fermata dello scuolabus? Non voglio che il mio gatto mi segua fino a scuola. Mi fa sembrare buono. E io non voglio sembrare buono. Perché io sono Gavin. E Gavin è una parola che viene dal greco e vuol dire roccia». (Tra parentesi, non è affatto vero, ma Gavin era un povero scemo.) «E così sono io. Una grande roccia».

Potrei definirti diversamente.

«Perciò non farlo di nuovo, faccia pelosa, o sei morto» proseguì Gavin. «Mi hai capito? Sei M.O.R.O. Morto».

M.O.R.T.O., se non ti spiace, precisò miagolando Barney.

Gavin non sapeva di essere rimproverato dal suo gatto, ma a ogni buon conto gli pestò più forte la coda, per divertimento.

Perciò fu un dolce sollievo per Barney quando al piano di sotto suonò il campanello, e la pressione sulla coda diminuì.

«Chi sarà?» si domandò a voce alta Gavin, mentre staccava una gran quantità di carta igienica.

Poi: «Gavin! Gavin?! Puoi andare tu ad aprire? Sono sulla cyclette».

«Ugh» esclamò Gavin in cavernicolese.

Gavin finì quello che doveva fare e scese, e Barney si affrettò dietro di lui, alle sue calcagna. «Salve» disse un uomo che vendeva piumini e stracci per la polvere. «Potrei parlare con la padrona di casa, giovanotto?»

Barney non udì mai la risposta di Gavin. Era uscito in strada e si era messo a correre. Perché sapeva di non avere un secondo da perdere.