DOPPIO SOGNO
Arthur Schnitzler
"Doppio sogno" racconta la crisi che colpisce una giovane coppia borghese nella Vienna degli anni venti, il medico Fridolin e la moglie Albertine; sarà quest'ultima a compiere, tramite il sogno che rappresenta il climax della storia, una sorta di viaggio liberatorio negli abissi della coscienza. La crisi della coppia borghese, con l'incomunicabilità del matrimonio che turba l'equilibrio uomo/donna, per Schnitzler è emblematica della crisi dell'individuo di fronte alla realtà dell'esistenza.[1]
[1] Giuseppe Farese, Nota su «Doppio sogno».
RISVOLTO
Un ballo in maschera, due misteriose figure in domino rosso, uno straniero insolente, qualche parola incomprensibile e allusiva: queste apparizioni gettano, una sera, «un’ombra di avventura, di libertà e di pericolo» nella vita di un medico e di sua moglie, giovani, belli e chiusi in un’ovattata felicità domestica. Da quel momento essi entrano, senza saperlo, in un intreccio speculare di peripezie notturne tanto inverosimili da sembrare oniriche e di sogni tanto invadenti da sembrare fatti reali: e, per tutti e due, i desideri segreti occuperanno la scena, per una notte, con una violenza e una fascinazione tali che li trascineranno inermi con sé, tra la voluttà e l’angoscia. Come in un film di von Stroheim, dalla Vienna borghese e tranquilla emergono inquietanti personaggi, le maschere dilagano, si aprono porte segrete, si svelano esseri equivoci, incombono giudici oscuri e feroci. Alla fine, un fascio di fredda luce clinica illuminerà il corpo bianco ed esanime di una sconosciuta, e in essa il protagonista riconoscerà «il cadavere pallido della notte passata, destinato irrevocabilmente alla decomposizione». Non senza, però, aver anche irrevocabilmente mutato la vita del giovane medico e della sua compagna.
Capitolo primo
«Ventiquattro schiavi mori sospingevano remando la sontuosa galera che doveva condurre il principe Amgiad al palazzo del califfo. Il principe tuttavia, avvolto nel suo manto purpureo, giaceva solitario in coperta, sotto il cielo notturno di un blu profondo tempestato di stelle, e il suo sguardo...».Fin qui la piccola aveva letto ad alta voce; ma ora, come di colpo, le si chiusero gli occhi. Sorridendo, i genitori si scambiarono un’occhiata, Fridolin si chinò su di lei, le baciò i capelli biondi e chiuse il libro che giaceva sulla tavola ancora in disordine. La bambina sollevò la testa di scatto, come colta in flagrante.«Le nove», disse il padre, «è ora di andare a dormire». Ora che anche Albertine si era chinata sulla bimba, le mani dei genitori s’incontrarono sulla fronte adorata e con un sorriso pieno di tenerezza, stavolta rivolto non soltanto alla bambina, i loro sguardi s’incrociarono. La governante fece il suo ingresso, invitando la piccola ad augurare la buonanotte ai genitori; lei si alzò obbediente, porse a mamma e papà le labbra da baciare e lasciò che la tata l’accompagnasse nella sua stanza senza fare storie. Fridolin e Albertine, rimasti soli sotto la luce rossastra del lampadario, provarono improvvisamente il bisogno di riprendere il discorso iniziato prima di cena, riguardante le reciproche impressioni sul ballo mascherato della sera precedente.Per loro quello era stato il primo ballo dell’anno, e si erano decisi a parteciparvi poco prima che terminasse il Carnevale. Per quanto riguardava Fridolin, appena messo piede nella grande sala, era stato salutato come un amico atteso con trepidazione da due personaggi in domino rosso, della cui identità non si era ancora saputo fare un’idea, nonostante essi avessero dimostrato di conoscere a menadito ogni sorta di storielle relative ai suoi anni di studio e praticantato ospedaliero. Dal palco dove lo avevano invitato ad accomodarsi con una cordialità piena di aspettative, si erano poi allontanati con la promessa di tornare assai presto, e senza la maschera, ma erano rimasti via talmente a lungo che Fridolin, spazientito, aveva preferito recarsi in platea, dove sperava di ritrovare i due misteriosi individui. Per quanto si fosse guardato intorno, però, non era riuscito a vederli da nessuna parte; si era sentito invece prendere il braccio da un’altra figura mascherata, di sesso femminile: sua moglie, appena disimpegnatasi da uno sconosciuto il cui aspetto malinconico e altero e l’accento straniero, presumibilmente polacco, l’avevano inizialmente intrigata, ma che di punto in bianco l’aveva offesa, anzi addirittura spaventata, rivolgendolesi inaspettatamente in maniera volgare e irrispettosa. E così moglie e marito, contenti in fondo di essersi sottratti a un deludente quanto banale gioco di maschere, si erano ritrovati una accanto all’altro nella sala del buffet, come due teneri amanti fra altre coppie d’innamorati, a gustare ostriche e champagne chiacchierando divertiti, neanche si fossero appena conosciuti, impegnati in una commedia di galanteria, ritrosia, seduzioni e concessioni; e dopo una rapida corsa in carrozza nella bianca notte invernale, una volta giunti a casa erano caduti l’uno fra le braccia dell’altra, preda di una passione amorosa così intensa come da tempo non era loro accaduto di provare. Un grigio mattino li aveva svegliati fin troppo presto. Il mestiere del marito lo reclamava di buon’ora al capezzale dei suoi malati; i doveri di padrona di casa e di madre di Albertine le lasciavano ben poco tempo in più da dedicare al riposo. Così erano trascorse le ore, monotone e prevedibili nel dovere quotidiano e nel lavoro, e la notte appena trascorsa, il suo inizio e la sua conclusione, erano pian piano impalliditi; solo ora, finita la giornata di entrambi, con la bambina già a letto e senza la possibilità di poter essere disturbati da chicchessia, le ombre del ballo mascherato si erano riproposte, il malinconico sconosciuto e i due personaggi in domino rosso, invadendo la sfera della realtà; e quelle trascurabili esperienze d’un tratto si erano magicamente e dolorosamente ammantate dell’ingannevole riverbero delle occasioni mancate. Innocui quesiti, che pure rimanevano in agguato nell’ombra, scaltre e ambigue risposte che si alternavano incessantemente; a nessuno dei due sfuggiva la velata riluttanza dell’altro ad aprire completamente il proprio cuore, e dunque entrambi si sentivano predisposti a una sorta di vendetta. Esagerarono le proporzioni dell’attrazione esercitata su di essi dai loro misteriosi partner al ballo, si burlarono degli impulsi di gelosia che l’altro lasciava trapelare, smentendo poi con decisione i propri. Ma dalle chiacchiere leggere sulle insignificanti avventure della sera precedente, finirono per passare a un discorso più serio sui desideri nascosti, appena intuiti che vanno talvolta a formare torbidi e pericolosi mulinelli persino nell’anima più limpida e pura, e parlarono di quei luoghi segreti dei quali percepivano appena il richiamo e dove per una volta l’imponderabile vento del destino avrebbe anche potuto condurli, sia pure soltanto in sogno. La loro intesa sentimentale e sensuale era tanto completa da renderli entrambi consapevoli che la brezza dell’avventura, della libertà e del pericolo non li aveva sfiorati per la prima volta la sera precedente. Turbati, in preda a una sorta di autolesionismo e di sleale curiosità, cercavano di estorcersi a vicenda confessioni e, avvicinandosi sempre più timorosi l’una all’altro, ognuno scandagliava nel proprio intimo alla ricerca di un fatto sia pure insignificante, di un’esperienza, per quanto futile, che potesse esprimere ciò che non veniva detto e la cui sincera confessione li avrebbe forse potuti liberare da una tensione e da una diffidenza che cominciavano a farsi insopportabili. Che fosse dunque la più impaziente, la più sincera o la più disponibile dei due, Albertine trovò per prima il coraggio di parlare apertamente; e con voce un po’ insicura chiese a Fridolin se si ricordava del giovane che, durante l’estate appena trascorsa sul litorale danese, si era trovato una sera seduto al tavolo vicino al loro insieme a due ufficiali, e che durante la cena aveva ricevuto un telegramma che lo aveva indotto subito a congedarsi dai suoi amici.Fridolin annuì. «Ebbene?», domandò.«Lo avevo già visto in mattinata», rispose Albertine, «mentre saliva le scale dell’albergo con la sua borsa da viaggio gialla. Mi ha rivolto un’occhiata distratta, ma poi, percorsi un paio di gradini, si è fermato, si è voltato verso di me e i nostri sguardi si sono incontrati. Non ha sorriso, anzi mi è parso che il suo volto s’incupisse, e credo di avere avuto una reazione simile alla sua, perché ho provato una commozione senza precedenti. Ho passato l’intera giornata sulla spiaggia, persa nei miei sogni. Se mi avesse chiamata – ne ero certa – non avrei potuto resistere. Mi credevo pronta a tutto; a rinunciare a te, alla bambina, al mio futuro, mi sentivo più che mai decisa a farlo, eppure – potrai mai capirlo? – in quel momento mi eri più caro che mai. Proprio quel pomeriggio, dovresti ricordartene, accadde che ci mettessimo a conversare amabilmente di mille cose, anche del nostro futuro, della nostra bambina, come non facevamo da molto tempo. Al tramonto, eravamo seduti sul balcone, tu ed io, lui passò sulla spiaggia senza alzare lo sguardo verso di noi, e nel vederlo provai un moto di felicità. Ma ti accarezzai la fronte e ti baciai i capelli, mentre al mio amore per te si mescolava una dolorosa compassione. Quella sera ero molto bella, tu stesso me lo dicesti, e portavo una rosa bianca alla cintola. Forse non fu un caso che lo straniero e i suoi amici fossero seduti proprio accanto a noi. Lui non mi guardava, ma io fantasticavo di alzarmi, avvicinarmi al suo tavolo e dirgli: “Eccomi qui, oh amato tanto atteso... prendimi con te”. In quel momento gli fu consegnato il telegramma, lui lo lesse, impallidì, sussurrò qualche parola all’orecchio del più giovane dei due ufficiali e sfiorandomi con uno sguardo enigmatico, lasciò la sala».«E allora?», chiese seccamente Fridolin, vedendo che taceva.«Nient’altro. So soltanto che la mattina seguente mi sono svegliata in preda a un senso di ansia. Cosa me la provocasse – il fatto che fosse partito o l’eventualità che potesse essere ancora lì – non lo so, non lo sapevo nemmeno allora. Ma quando non lo vidi nemmeno all’ora di pranzo, tirai un sospiro di sollievo. Non chiedermi altro, Fridolin, ti ho già detto tutta la verità. E anche tu hai vissuto qualcosa di memorabile su quella spiaggia... lo so».Fridolin si alzò in piedi, percorse la stanza in lungo e in largo per un paio di volte, poi disse: «Hai ragione». Si era fermato accanto alla finestra, col viso in ombra. «Al mattino», iniziò a dire con voce velata, leggermente ostile, «molto presto, talvolta, prima che tu ti alzassi, facevo una passeggiata lungo la spiaggia, spingendomi anche oltre i margini del paese; e, per quanto fosse presto, il sole splendeva sempre fulgido e forte sul mare. Laggiù, lungo la spiaggia, c’erano delle casette coloniche, ognuna, come sai, messa lì come un piccolo mondo a sé stante, alcune con giardinetti recintati, altre circondate dal bosco; la strada e un tratto di spiaggia separavano le cabine balneari dalle case. Quasi mai, a quell’ora, incontravo anima viva; e tantomeno bagnanti. Un mattino, però, la mia attenzione fu attratta all’improvviso da una figura femminile che, come materializzatasi dal nulla, si muoveva con cautela sull’angusto terrazzino di una delle cabine piantate nella sabbia, ponendo un piede davanti all’altro e tenendo le braccia tese all’indietro, appoggiate alla parete di assi. Si trattava di una ragazza molto giovane, forse di quindici anni, con i capelli biondi sciolti sulle spalle, che su un lato le ricadevano sul seno piccolo e delicato. La ragazza guardava dritto davanti a sé, lo sguardo puntato sull’acqua, scivolando lentamente lungo la parete, con gli occhi abbassati verso l’angolo opposto, e all’improvviso me la ritrovai proprio davanti; tese le braccia ancor più indietro, come se volesse aggrapparsi alla parete, alzò la testa e all’improvviso si accorse di me. Il suo corpo fu percorso da un fremito, come se fosse lì lì per cadere o per fuggire. Ma dato che sull’assito angusto avrebbe potuto muoversi soltanto con lentezza, decise di fermarsi... e rimase lì, dapprima con espressione spaventata, poi contrariata e infine imbarazzata. D’un tratto, però, mi sorrise, un sorriso meraviglioso; nei suoi occhi c’era un saluto, anzi, un invito... e allo stesso tempo una sorta di pacato scherno in come sfiorò per un attimo l’acqua che, ai suoi piedi, mi divideva da lei. Poi allungò verso l’alto il giovane corpo sottile ed elastico, come felice della propria bellezza, e, come facilmente s’intuiva, inorgoglita e dolcemente eccitata dal mio sguardo scintillante, che sentiva su di sé. Rimanemmo così, uno di fronte all’altra, forse per una decina di secondi, con le labbra semiaperte e gli occhi che brillavano. Senza nemmeno rendermene conto, spalancai le braccia verso di lei; nel suo sguardo c’era del fervore, della gioia. D’un tratto, però, scosse violentemente la testa, staccò un braccio dalla parete facendomi imperiosamente cenno di allontanarmi; quando vide che non le obbedivo all’istante, nei suoi occhi di bambina individuai una tale preghiera, un’implorazione così fervida da non lasciarmi altra scelta: mi voltai e me ne andai. Proseguii per la mia strada il più velocemente possibile; non mi voltai nemmeno una volta a guardarla, non per riguardo, obbedienza o spirito cavalleresco, in verità, ma piuttosto perché sotto il suo ultimo sguardo avevo percepito un’emozione talmente grande, più di ogni altra mai provata precedentemente, da sentirmi prossimo allo svenimento». Poi tacque.«E quante volte», volle sapere Albertine guardando fisso davanti a sé e senza alcuna inflessione particolare nella voce, «quante volte, in seguito, hai ripercorso la stessa strada?»«Quel che ti ho raccontato», rispose Fridolin, «si è casualmente verificato l’ultimo giorno della nostra permanenza in Danimarca. Nemmeno io saprei dire cosa sarebbe accaduto in circostanze diverse. E tu cerca di non chiedermelo, Albertine».Era ancora in piedi davanti alla finestra, immobile. Albertine si alzò, gli si avvicinò con gli occhi umidi e incupiti e la fronte leggermente aggrottata. «In futuro cerchiamo di raccontarcele subito, certe cose», disse.Lui annuì senza parlare.«Promettimelo».Lui l’attirò a sé. «Non ti fidi di me?», le chiese; ma la sua voce aveva conservato una certa asprezza.Lei gli afferrò le mani, le accarezzò e alzò su di lui gli occhi velati, nel cui fondo egli riusciva a leggere ogni suo pensiero. Ora Albertine stava pensando alle altre, più reali esperienze di Fridolin, quelle avute da ragazzo, alle quali era stata in parte iniziata poiché egli, cedendo fin troppo volentieri alla sua curiosità di donna gelosa, durante i primi anni del loro matrimonio le aveva confidato, anzi, come spesso gli era sembrato, confessato cose che avrebbe fatto meglio a tenere per sé. E in quel momento – lo sentiva – alcuni di quei ricordi stavano necessariamente riemergendo dentro di lei, ed egli non rimase molto stupito quando, come in un sogno, pronunciò il nome quasi dimenticato di una delle sue amanti giovanili. Gli parve però di udire nella voce di lei una sorta di rimprovero, persino una sommessa minaccia.Le prese le mani e se le portò alle labbra.«In ogni essere – credimi, anche se potrà sembrarti scontato affermarlo da parte mia – in ogni essere che ho creduto di amare, ho sempre cercato solo e soltanto te. E la mia convinzione in proposito va al di là di quanto tu possa mai comprendere, Albertine».Gli rivolse un sorriso opaco. «E se anch’io avessi voluto cercare, prima di conoscerti?», disse, mentre il suo sguardo cambiava, divenendo freddo e impenetrabile. Lui le lasciò le mani, come se l’avesse sorpresa a mentirgli, a tradirlo; ma lei disse: «Oh, se sapeste», poi tornò a tacere.«Se sapessimo? Che vuoi dire?».Con insolita durezza, gli rispose: «Più o meno quello che puoi immaginare, mio caro».«Albertine... C’è dunque qualcosa che mi hai tenuto nascosto?».Lei annuì, guardando fisso davanti a sé con uno strano sorriso stampato sulle labbra.Dubbi folli e inconcepibili cominciarono a farsi strada dentro di lui.«Non capisco», disse. «Quando ci siamo fidanzati non avevi ancora diciassette anni».«Sedici compiuti, è vero, Fridolin. Eppure» – lo guardò serenamente negli occhi – «non fu merito mio, se arrivai ancora vergine al matrimonio».«Albertine...!».E lei raccontò:«Accadde sul Wörthersee, poco prima del nostro fidanzamento, Fridolin, in una bellissima sera d’estate. Un ragazzo molto attraente si fermò davanti alla mia finestra, quella che dava sul grande prato, ci mettemmo a discorrere e durante quella conversazione pensai, già, senti cosa pensai: ma che giovane amabile, affascinante è mai questo... Gli basterebbe dire una parola, certo, la parola giusta, è chiaro, e io uscirei con lui sul prato per una passeggiata, seguendolo ovunque volesse andare... magari nel bosco; oppure, ancora meglio, potremmo prendere una barca e uscire sul lago... e stanotte egli potrebbe ottenere da me qualsiasi cosa desiderasse. Già, è proprio questo che ho pensato. Ma il giovane affascinante non pronunciò mai quella parola; si limitò a posarmi un delicato bacio sulla mano e il mattino successivo mi chiese... se volevo diventare sua moglie. E io risposi di sì».Fridolin le lasciò la mano, indignato. «E se quella stessa sera», disse, «alla tua finestra si fosse fermato per caso qualcun altro, al quale fosse venuta in mente la parola giusta, ad esempio...», rifletté in fretta su un nome da dirle, ma lei già protendeva le braccia in segno di diniego.«Un altro, di chiunque potesse trattarsi, avrebbe potuto dire quel che voleva... Non gli sarebbe servito a molto. E se il giovane fermatosi davanti alla mia finestra non fossi stato tu» – gli sorrise sollevando lo sguardo – «anche quella sera d’estate avrebbe perso tutto il suo fascino».Lui fece una smorfia di scherno. «Lo dici adesso, lo credi in questo momento. Ma...».Bussarono alla porta. La cameriera entrò annunciando che era giunta la portinaia della Schreyvogelgasse per condurre il dottore dal consigliere, che stava di nuovo molto male. Fridolin si recò in anticamera, dove la messaggera gli disse che il consigliere aveva avuto un attacco di cuore e che versava in pessime condizioni; le promise di recarsi immediatamente da lui.«Vuoi andartene, dunque?», gli chiese Albertine, mentre egli si preparava in fretta a uscire, rivolgendoglisi in tono talmente contrariato da sembrare che le avesse inflitto una grave quanto ingiusta punizione.Fridolin rispose, stupito: «Devo per forza».Lei emise un lieve sospiro.«Speriamo non sia tanto grave», disse Fridolin, «finora tre centigrammi di morfina sono sempre bastati a fargli superare la crisi».La cameriera portò la pelliccia, Fridolin baciò Albertine in maniera piuttosto distratta sulla fronte e sulle labbra, come se la conversazione dell’ultima ora fosse già scivolata nel dimenticatoio, e uscì di corsa.
Capitolo secondo
Per la strada dovette sbottonarsi la pelliccia. D’improvviso il tempo si era fatto umido e la neve sul marciapiede era quasi del tutto sciolta, mentre nell’aria aleggiava già il profumo della primavera incombente. Dall’abitazione di Fridolin nella Josefstadt, nei pressi del Policlinico, la Schreyvogelgasse distava poco meno di un quarto d’ora di cammino; così Fridolin si trovò ben presto a percorrere la tortuosa e male illuminata scala del vecchio palazzo fino al secondo piano, dove tirò il cordone della campanella esterna; ma prima ancora che risuonasse l’avito scampanellio, notò che la porta d’ingresso era solo accostata; attraversò l’anticamera immersa nella penombra ed entrò nel soggiorno, intuendo all’istante di essere arrivato troppo tardi. La lampada a petrolio schermata da un panno verde che pendeva dal soffitto basso gettava la sua luce fioca sulla coperta del letto, sotto la quale giaceva, supino e immobile, un corpo emaciato. Il viso del morto era in ombra, ma Fridolin lo conosceva talmente bene che gli parve di vederlo con tutta chiarezza... scavato, rugoso, con la fronte alta e la barba corta e bianca, le orecchie particolarmente brutte, dalle quali spuntavano ciuffi di peli canuti. Marianne, la figlia del consigliere, era seduta ai piedi del letto con le braccia abbandonate lungo i fianchi, come sopraffatta dalla stanchezza. C’era un odore di mobili vecchi, medicinali, petrolio e cucina; anche un lieve sentore d’acqua di colonia e sapone alla rosa, e in qualche modo Fridolin riuscì a percepire persino il profumo dolciastro e insipido di quella ragazza pallida e smunta, ancora giovane, che da mesi, anzi da anni, stava lentamente sfiorendo, prigioniera dei pesanti lavori domestici, delle assidue quanto sfiancanti cure al malato e delle veglie notturne.All’arrivo del dottore, ella aveva sollevato la testa, ma la scarsa illuminazione della stanza non gli aveva permesso di constatare se le sue guance si fossero colorite come sempre accadeva al suo apparire. La ragazza fece l’atto di alzarsi, ma un cenno della mano di Fridolin la dispensò dal farlo, ed ella si limitò a fare un cenno di saluto con il capo, guardandolo coi suoi grandi occhi intorbiditi dal dolore. Lui si avvicinò alla testata del letto, sfiorò meccanicamente la fronte del morto le cui braccia, in ampie maniche di camicia coi polsini aperti, erano appoggiate sulla coperta, poi incurvò le spalle, dispiaciuto e impotente, infilò le mani nelle tasche della sua pelliccia, fece vagare lo sguardo per la stanza e finalmente si soffermò su Marianne. I suoi capelli erano folti e biondi, ma secchi e aridi; il collo lungo e ben tornito, ma non del tutto privo di rughe e di colorito leggermente giallastro, e le labbra erano sottili, serrate, come a trattenere le troppe parole non dette.«Ebbene», sussurrò, quasi imbarazzato, «mia cara signorina, la cosa non l’avrà certo colta impreparata».Lei gli porse la mano. Lui la prese senza alcuna partecipazione, le chiese come di prammatica di descrivergli l’andamento dell’ultimo attacco, lei ne fece un rapido e preciso resoconto, passando poi a descrivere gli ultimi giorni, relativamente buoni, durante i quali Fridolin non aveva più visto il malato. Fridolin, che si era avvicinato una sedia, si sedette di fronte a Marianne e la consolò affermando che nelle ultime ore di vita suo padre non doveva aver sofferto molto; poi le chiese se avesse avvertito i parenti. Sì; la portinaia si stava già recando dallo zio, e in ogni modo presto sarebbe arrivato il dottor Roediger, «il mio fidanzato», precisò, fissando Fridolin sulla fronte anziché negli occhi.Fridolin si limitò ad annuire. Nel corso dell’ultimo anno gli era capitato di incontrare un paio di volte il dottor Roediger in quella casa. Il giovane, estremamente pallido e slanciato, con una corta barba bionda e gli occhiali, docente di storia all’università di Vienna, gli aveva fatto una buona impressione, senza però suscitare ulteriore interesse in lui. Marianne avrebbe avuto certo un aspetto migliore, pensò, se fosse stata la sua amante. I suoi capelli sarebbero stati meno aridi, le labbra più rosse e più piene. Quanti anni potrà avere?, si chiese ancora. Quando venni qui per la prima volta, tre o quattro anni or sono, aveva ventitré anni. A quell’epoca sua madre era ancora viva. Era più allegra, quando c’era ancora sua madre. Non aveva anche preso lezioni di canto, per un breve periodo? Dunque, sposerà quell’insegnante. Perché lo fa? Di certo non lo ama, e lui non deve nemmeno essere molto ricco. Che razza di matrimonio sarà? Beh, un matrimonio come migliaia di altri. Che cosa me ne importa? È assai probabile che io non la riveda mai più, non ho più alcun motivo di tornare in questa casa. Oh, quante persone non ho mai più rivisto, persone che mi erano molto più vicine di lei.Mentre era in preda a tutte queste riflessioni, Marianne aveva iniziato a parlare del defunto... con una certa insistenza, come se il semplice fatto di essere morto lo avesse reso automaticamente più interessante. Davvero aveva soltanto cinquantaquattro anni? Beh, certo, i numerosi crucci e le delusioni che aveva patito, la moglie sempre sofferente... e il figlio gli aveva dato tanti pensieri! Come, aveva un fratello? Certo. Lo aveva già detto una volta al dottore. Il fratello viveva da qualche parte all’estero; lì nello studiolo di Marianne c’era un quadro che egli aveva dipinto all’età di quindici anni. Raffigurava un ufficiale che galoppava lungo una collina. Il padre aveva sempre fatto finta di non vederlo, ma era un buon dipinto. Se ne avesse avuto l’opportunità, il fratello sarebbe potuto diventare qualcuno, in quel campo.Come sembra eccitata, pensò Fridolin, e come le brillano gli occhi! Febbre? Possibile. Negli ultimi tempi è dimagrita moltissimo. Catarro apicale, presumibilmente.Lei continuava a parlare, ma a lui sembrava che non sapesse bene a chi si stava rivolgendo; o che stesse parlando più a se stessa. Erano ormai dodici anni che il fratello se n’era andato di casa, già, lei era ancora una bambina, quando era sparito all’improvviso. L’ultima volta che aveva dato notizie di sé era stato quattro o cinque anni prima, a Natale, da una cittadina italiana. Strano, ne aveva dimenticato il nome. Continuò così, a parlare del più e del meno per qualche tempo, senza necessità di farlo, quasi senza nemmeno un filo logico, fin quando non ammutolì all’improvviso per rimanersene là seduta, inerte, con la testa fra le mani. Fridolin era stanco e ancor più annoiato, aspettava ansiosamente che arrivasse qualcuno, i parenti o il fidanzato. Il silenzio nella stanza si fece pesante. Era come se il morto stesse tacendo con loro; non perché ormai era impossibile che si mettesse a conversare; sembrava piuttosto che lo stesse facendo apposta, godendo dell’imbarazzo che si era creato.Lanciandogli un’occhiata obliqua, Fridolin disse: «In ogni caso, per come si sono messe le cose, è un bene per Lei, signorina Marianne, non dover rimanere ancora a lungo in questa casa», e dato che lei aveva sollevato un poco la testa, senza però guardare direttamente Fridolin, «il suo fidanzato otterrà presto una cattedra, immagino; alla facoltà di filosofia la situazione è più favorevole che da noi, in questo senso». Ripensò a come, anni addietro, egli stesso avesse tentato di intraprendere la carriera accademica, ma, tendendo a preferire un’esistenza più agiata, alla fine avesse scelto la libera professione; e all’improvviso provò un senso d’inferiorità nei confronti dell’ineffabile dottor Roediger.«Ci trasferiremo in autunno», disse Marianne, senza muovere un muscolo, «è stato designato a Gottinga».«Ah», disse Fridolin, e stava per farle gli auguri, ma poi la cosa gli sembrò poco indicata in quel momento e in quella circostanza. Lanciò un’occhiata alla finestra chiusa e, senza chiedere il permesso, come esercitando un diritto di medico, aprì entrambe le imposte, facendo entrare aria fresca, che, divenuta nel frattempo ancor più tiepida e primaverile, sembrò portare con sé un odore fresco e pulito dai boschi lontani, che andavano svegliandosi dal sonno invernale. Quando tornò a voltarsi nella stanza, vide gli occhi di Marianne puntati su di lui con espressione interrogativa. Le si avvicinò e disse: «L’aria fresca le farà bene, spero. La temperatura è salita, e ieri notte»... avrebbe voluto dire: siamo tornati in carrozza dal ballo in una tempesta di neve, ma riformulò in fretta la frase e la completò: «Ieri sera c’era ancora mezzo metro di neve sulla strada».Lei udì appena quel che stava dicendo. Le si inumidirono gli occhi, le guance furono percorse da grosse lacrime, e tornò a nascondere il viso fra le mani. Istintivamente, egli le appoggiò una mano sulla testa accarezzandole la fronte. Sentì il suo corpo che iniziava a tremare, poi Marianne cominciò a singhiozzare, dapprima in maniera sommessa, poi sempre più forte. All’improvviso scivolò dalla sedia, si gettò ai piedi di Fridolin, gli cinse le ginocchia con le braccia e vi affondò il viso. Poi alzò gli occhi, spalancati, pieni di dolore selvaggio, e sussurrò in tono appassionato e ardente: «Non voglio andarmene di qui. Anche se lei non tornerà mai qui, anche se non dovessi rivederla mai più; voglio vivere vicino a lei».Fridolin rimase più commosso che stupito; infatti aveva sempre saputo che era innamorata di lui, o almeno che credeva di esserlo.«Si alzi, Marianne, la prego», le disse piano, chinandosi su di lei per sorreggerla, mentre pensava: in tutto questo c’è anche una dose d’isterismo. Gettò uno sguardo obliquo sul padre morto. E se stesse sentendo tutto?, pensò. Magari è solo morte apparente, la sua. Forse ogni essere umano, in queste prime ore dalla dipartita, attraversa una fase di morte apparente... Tenendo Marianne fra le braccia, ma anche un po’ distanziata da sé, le stampò quasi automaticamente un bacio sulla fronte, cosa che gli parve dopo assai ridicola. Gli tornò fugacemente alla memoria un romanzo che aveva letto anni addietro, nel quale un uomo molto giovane, quasi un ragazzo, veniva sedotto, anzi a dire il vero violentato, da un’amica della madre accanto al letto di morte di quest’ultima. Nello stesso istante, senza sapere perché, dovette pensare a sua moglie. Sentì montare dentro di sé una grande amarezza nei suoi confronti e un rancore sordo contro l’uomo con la borsa da viaggio gialla sulle scale dell’albergo in Danimarca. Si strinse forte Marianne al petto, ma non provò alcuna eccitazione; piuttosto la vista di quei capelli aridi e opachi, l’odore dolciastro e stantio del suo vestito rimasto troppo a lungo al chiuso gli ispirarono una sorta di repulsione. In quel momento suonò il campanello ed egli si sentì come liberato da un peso, baciò velocemente la mano a Marianne, quasi con riconoscenza, e andò ad aprire. Sulla porta c’era il dottor Roediger, in soprabito grigio scuro, calosce, un ombrello in mano e un’espressione seria, del tutto consona alle circostanze. I due gentiluomini si salutarono con un cenno del capo, in maniera più confidenziale di quanto non fosse giustificato dal loro effettivo rapporto. Poi entrambi entrarono nella stanza, Roediger espresse le sue condoglianze a Marianne, dopo una breve occhiata desolata al morto; Fridolin si recò nello sudiolo adiacente per stilare il certificato di morte, alzò la fiamma della lampada a gas che ardeva sulla scrivania e lo sguardo gli cadde sull’immagine dell’ufficiale nella candida uniforme, che, brandendo la sciabola, galoppava lungo il pendio della collina, incontro a un invisibile nemico. La tela era stata fissata in una cornice sottile di oro antico e non sembrava nulla di meglio di una modesta oleografia. Col certificato di morte compilato, Fridolin tornò nella stanza accanto, dove i fidanzati erano seduti accanto al letto del padre, mano nella mano.Il campanello della porta tornò a suonare. Il dottor Roediger si alzò e andò ad aprire; nel mentre Marianne disse, in maniera quasi impercettibile e fissando il pavimento: «Ti amo». Fridolin le rispose limitandosi a pronunciare il suo nome, non senza una certa tenerezza. Roediger tornò con un coppia anziana. Erano lo zio e la zia di Marianne; furono scambiate alcune frasi di circostanza, con tutto l’imbarazzo che la presenza di una persona appena trapassata sembra infondere intorno a sé. La piccola stanza sembrò all’improvviso affollata di ospiti affranti, Fridolin si sentì inutile e fuori posto, si congedò e venne accompagnato alla porta da Roediger, cui corse l’obbligo di rivolgergli alcune parole di ringraziamento, esprimendo la speranza di poterlo rivedere presto
Capitolo terzo Davanti al portone, Fridolin alzò lo sguardo verso la finestra che egli stesso aveva aperto poco prima; i battenti tremolavano leggermente nel vento che annunciava la primavera. Le persone rimaste lassù, sia i vivi che i morti, gli sembravano parimenti spettrali, irreali. Egli stesso si sentiva come sfuggito a qualcosa; non tanto a un’esperienza, quanto a una sorta di lugubre incantesimo che non era riuscito a far presa su di lui. Come unica conseguenza provava una strana riluttanza ad avviarsi verso casa. La neve nelle strade si era sciolta, a destra e a sinistra si erano stratificati piccoli mucchietti di poltiglia grigiastra, le fiamme a gas dei lampioni tremolavano, da una chiesa vicina il campanile batté le undici. Fridolin decise che prima di andare a dormire si sarebbe fermato ancora per una mezz’ora nel tranquillo caffè vicino casa sua e si avviò lungo la strada che attraversava il parco del municipio. Qua e là sulle panchine in penombra sedevano alcune coppie abbracciate, come se la primavera fosse davvero già arrivata e l’aria ingannevolmente tiepida non fosse gravida di pericoli. Sdraiato supino su una panchina, col cappello calcato sulla fronte, c’era un uomo dai vestiti piuttosto malconci. E se lo svegliassi, pensò Fridolin, e gli offrissi del denaro per trovarsi un posto dove passare la notte? Ma cosa avrei risolto, proseguì nella sua riflessione, allora dovrei procurargliene altro anche per domani, altrimenti la cosa non avrebbe alcun senso, e alla fine potrei essere sospettato persino di relazioni illecite con lui. Così accelerò il passo, come per sottrarsi il più velocemente possibile a ogni tipo di responsabilità e di tentazione. Perché proprio quello lì?, si chiese; nella sola Vienna esistono migliaia di poveri diavoli come lui. Se ci si dovesse preoccupare di tutti... del destino di tutti gli sconosciuti! E gli venne in mente il morto che aveva appena lasciato e pensò, non senza un brivido, anzi addirittura con ribrezzo, che in quel corpo magro, allungato sotto la coperta di flanella marrone, la decomposizione e il decadimento avevano già iniziato la loro opera sancita da leggi eterne e immutabili. E si rallegrò di essere ancora vivo, che molto probabilmente per lui tutte quelle orribili cose erano ancora lontane; che era ancora nel pieno della giovinezza, aveva una moglie affascinante e amabile e che poteva avere anche un’altra donna, o più d’una, se solo ne avesse avuto voglia. Per far questo, naturalmente, avrebbe avuto bisogno di più tempo libero di quanto non gli fosse concesso; e gli venne in mente che il mattino dopo avrebbe dovuto trovarsi in reparto alle otto, dalle undici all’una aveva le visite private, nel pomeriggio dalle tre alle cinque doveva essere in ambulatorio e che anche nelle ore serali aveva appuntamenti con altri pazienti. E non poteva che sperare di non ricevere altre chiamate in piena notte, come gli era accaduto oggi.Attraversò la piazza del municipio che baluginava come uno stagno dalle acque torbide e si diresse verso il suo quartiere, quello della Josefstadt. Da lontano udì il rumore sordo di passi regolari e, ancora a una certa distanza, vide un piccolo manipolo di studenti coi colori distintivi della loro corporazione svoltare l’angolo. Erano sei o otto al massimo e stavano venendo verso di lui. Quando i ragazzi passarono sotto la luce di un lampione, gli parve di riconoscere i distintivi azzurri degli Alemanni. Egli stesso non si era mai unito a un’associazione studentesca, ma ai suoi tempi aveva sostenuto un paio di duelli alla sciabola. In relazione a questo ricordo del suo periodo studentesco, gli tornarono in mente i due uomini in domino rosso che la sera precedente lo avevano attirato nella loggia per poi abbandonarlo lì da solo in maniera tanto brusca e repentina. Gli studenti erano molto vicini, ora, parlavano forte e ridevano fra loro; non gli sembrava forse di conoscerne un paio, di averli visti all’ospedale? In quella scarsa illuminazione, però, era praticamente impossibile scorgerne bene le fisionomie. Si dovette tenere rasente al muro, per non scontrarsi con loro; ecco, erano passati; solo l’ultimo del gruppetto, un tipo allampanato con il cappotto aperto e una benda sull’occhio sinistro, sembrò aver voluto rimanere indietro a bella posta e lo urtò di lato con il gomito. Non poteva essere un caso. Ma che diavolo gli è venuto in mente?, pensò Fridolin, bloccandosi istintivamente sul posto; l’altro, dopo due passi, fece lo stesso, e così, per qualche istante, i due si guardarono negli occhi da una certa distanza. Improvvisamente, però, Fridolin si voltò e proseguì per la sua strada. Dietro di sé udì una breve risata... Stava già per voltarsi di nuovo, ma percepì un insolito batticuore... proprio come gli era accaduto una volta dodici o quattordici anni prima, quando avevano bussato tanto forte alla sua porta mentre si trovava in compagnia di quella deliziosa giovane creatura che amava tanto fantasticare di un fidanzato che viveva lontano, e che probabilmente non esisteva nemmeno; in realtà, a bussare con tanta violenza era stato soltanto il postino. E ora sentiva battere il suo cuore proprio come allora. Che mi succede, si chiese irritato, accorgendosi che gli tremavano un poco le ginocchia. Sarei dunque un vigliacco?... Sciocchezze, si rispose. Dovrei forse mettermi a competere con uno studente ubriaco, io, un uomo di trentacinque anni, medico professionista, sposato, padre di una bambina!... La sfida! I padrini! Il duello! E alla fine, per un motivo tanto stupido, una ferita al braccio? Impossibilitato a lavorare per almeno due settimane?... O magari con un occhio cavato?... O magari con la setticemia?... E nel giro di otto giorni trovarsi nelle condizioni del signore sotto la coperta di flanella marrone della Schreyvogelgasse! Vigliacco lui?... Aveva sostenuto ben tre duelli alla sciabola, e una volta era stato pronto ad affrontarne persino uno alla pistola, e non era stato per sua iniziativa che la cosa si era risolta pacificamente. E il suo mestiere, poi! Pericoli da tutte le parti, a ogni minuto... Si continuava a dimenticarlo. Quanto tempo era passato da quando quel bambino malato di difterite gli aveva tossito in faccia? Tre o quattro giorni, al massimo. Era una cosa assai più preoccupante di una semplice scaramuccia alla sciabola. Eppure non ci aveva più pensato. Bene, se avesse incontrato ancora quel tipo, avrebbe provveduto a chiarire la faccenda. Non era certo obbligato, a mezzanotte, mentre tornava dal capezzale di un malato, o magari stava recandosi a visitare qualcuno, anche questo poteva essere... No, non era assolutamente obbligato a reagire a una stupida bravata da studenti. Se ad esempio in quel momento gli si fosse fatto incontro il giovane danese, col quale Albertine... Ma no, che cosa andava a pensare? Eppure... Non era diverso dall’essere stata di fatto la sua amante. Anzi, era peggio. Sì, era lui che adesso avrebbe voluto incontrare. Oh, sarebbe stato un vero godimento fronteggiare quel tipo in una qualche radura e puntare la canna di una pistola su quella fronte coperta dai capelli biondi e lisci.D’un tratto si rese conto di essere andato oltre la sua meta e di trovarsi in un vicolo angusto, popolato soltanto da un paio di misere prostitute impegnate nella loro caccia notturna ai clienti. Spettrale, pensò. E nella sua memoria anche gli studenti dai berretti azzurri divennero improvvisamente spettrali, così come Marianne, il suo promesso sposo, lo zio e la zia, che ora immaginava tutti riuniti, mano nella mano, intorno al letto di morte del vecchio consigliere; anche Albertine, che nella sua immaginazione aleggiava nelle sembianze di una donna profondamente addormentata, le braccia incrociate sotto la nuca... e persino sua figlia, che ora giaceva raggomitolata nel lettino d’ottone bianco e stretto, e la governante dalle gote rosse con la voglia sulla tempia sinistra..., tutti loro gli sembravano immersi in una dimensione spettrale. E questa sensazione, nonostante lo facesse un poco rabbrividire, aveva al contempo qualcosa di rassicurante, che sembrava affrancarlo da ogni responsabilità, persino da ogni relazione umana.Una delle giovani passeggiatrici lo invitò a seguirla. Era una creatura leggiadra, ancora giovanissima, assai pallida e con le labbra dipinte di rosso. Anche questo incontro potrebbe finire con la morte, pensò, solo non così subitanea! Anche questa era vigliaccheria? In fondo sì. Udì i suoi passi, e subito la sua voce dietro di sé. «Non vuoi venire con me, dottore?».Si voltò d’impulso. «Come fai a conoscermi?», chiese.«Non la conosco, signore», disse lei, «ma in questo quartiere sono tutti dottori».Era dal tempo del ginnasio che non aveva più avuto a che fare con una donna di quel genere. Stava forse regredendo agli anni della sua adolescenza, vista l’eccitazione suscitata in lui da quella creatura? Si ricordò di un lontano conoscente, un giovane assai elegante cui si attribuiva un favoloso successo con le donne, col quale, da studente, aveva diviso il tavolo in un locale notturno, dopo un ballo, e che prima di allontanarsi con una delle abituali frequentatrici del posto, aveva risposto all’occhiata un po’ stupefatta di Fridolin con le seguenti parole: «Continua a essere la via più comoda... e poi non sono di gran lunga le peggiori».«Come ti chiami?», chiese Fridolin.«Già, e come vuoi che mi chiami? Mizzi, naturalmente». Aveva già girato la chiave nella toppa del portone, era entrata nell’androne e stava aspettando che Fridolin la seguisse.«Forza, sbrigati!», gli disse, vedendolo esitare. D’improvviso egli le fu accanto, il portone si chiuse alle sue spalle, lei chiuse a chiave, accese una candela tozza e gli illuminò la strada. Sono forse impazzito?, si chiese. Non la toccherò con un dito, ovviamente.La stanza della ragazza era illuminata da una lampada a olio. Lei ne alzò il lucignolo, era una stanza assai confortevole, ben tenuta, e in ogni caso vi era un odore assai più gradevole che, ad esempio, a casa di Marianne. Ma già... qui nessun vecchio aveva languito ammalato per mesi. La ragazza sorrise, si avvicinò a Fridolin senza invadenza e lui la respinse con gentilezza. Allora gli indicò una sedia a dondolo, sulla quale lui si accomodò di buon grado.«Sarai certo molto stanco», ipotizzò. Lui annuì. E lei, spogliandosi senza fretta:«Eh già, un uomo come te, avrà un bel po’ da fare, per tutto il giorno. Da questo punto di vista, ce la passiamo meglio noi».Si accorse che le labbra di lei non erano affatto dipinte, ma naturalmente colorite di rosso, e le fece un complimento in proposito.«E perché dovrei truccarmi?», chiese lei. «Quanti anni credi che abbia?»«Venti?», tirò a indovinare Fridolin.«Diciassette», disse lei, gli si sedette sulle ginocchia e gli passò un braccio intorno al collo, come una bambina.Chi mai al mondo potrebbe immaginare, pensò lui, che io mi trovi in questa stanza, in questo momento? Io stesso lo avrei forse ritenuto possibile, un’ora, dieci minuti fa? E... perché? Perché? Lei cercò con le labbra quelle di lui, lui si ritrasse, la ragazza lo guardò stupita, con una leggera tristezza, e scivolò giù dalle sue ginocchia. Lui ne fu quasi dispiaciuto, perché nel suo abbraccio aveva percepito una grande e consolante tenerezza.La ragazza prese una vestaglia rossa appesa alla spalliera del letto, vi si infilò e si strinse le braccia sul petto, avviluppando l’intera figura nell’indumento.«Così va bene?», chiese senza ironia, quasi intimidita, come se si stesse sforzando di comprenderlo. Lui non seppe quasi cosa risponderle.«Hai indovinato», disse poi, «sono davvero stanco e trovo assai comodo starmene qui seduto sulla sedia a dondolo e starti semplicemente a sentire. Hai una voce così carezzevole e dolce. Parla, dunque, raccontami qualcosa».Seduta sul letto, la ragazza scosse il capo.«Hai solo paura», disse piano... E poi, fra sé e sé, in tono quasi impercettibile, «peccato!».Quell’ultima parola gli sferzò il sangue come un’ondata rovente. Le si avvicinò, tentò di abbracciarla, le spiegò che con lei si sentiva completamente a proprio agio, e senza mentire affatto, per giunta. La trasse a sé, la lusingò e corteggiò, come si fa con una ragazza qualsiasi, come si fa con la donna amata. Lei gli resistette, lui provò vergogna e finalmente rinunciò.Lei disse: «Non si può mai sapere, prima o poi può anche accadere. Hai ragione ad aver paura. E se poi capitasse qualcosa, mi malediresti».Le banconote che le offrì vennero respinte con tale determinazione da impedirgli d’insistere oltre. Lei si avvolse in un leggero scialle di lana celeste, accese una candela, gli fece strada accompagnandolo dabbasso e aprì il portone. «Oggi rimango a casa», disse la ragazza. Lui le prese la mano e la baciò in un gesto spontaneo. Lei lo guardò stupita, quasi spaventata, poi scoppiò in una risata d’imbarazzo e di piacere. «Come una vera signorina», disse.Il portone si chiuse dietro di lui e con un rapido sguardo Fridolin si stampò nella memoria il numero civico, per aver modo, il mattino seguente, di far recapitare a quella povera creatura del vino e qualche prelibatezza.
Capitolo quarto Nel frattempo la temperatura era aumentata ulteriormente. Il vento tiepido portava nel vicolo un profumo di prati bagnati e di una lontana primavera montana. E adesso dove si va? Pensò Fridolin, quasi la cosa più logica non fosse stata andare finalmente a casa a dormire. Ma non riusciva a decidersi a farlo. Dopo quell’orribile incontro con gli Alemanni si sentiva come un esiliato, come un reietto... O forse era così dalla dichiarazione di Marianne? No, già da prima... dalla conversazione serale con Albertine aveva cominciato ad allontanarsi sempre più dal contesto abituale del suo essere, diretto verso un mondo diverso, lontano, estraneo.Vagò a casaccio per le strade notturne, lasciò che il leggero vento caldo gli sfiorasse la fronte e finalmente, con passo deciso, come giunto a una meta lungamente agognata, s’infilò in una caffetteria dall’aria modesta, permeata della tradizionale intimità viennese, un ambiente non particolarmente spazioso, illuminato appena quanto basta e poco frequentato, vista l’ora tarda.In un angolo, tre uomini giocavano a carte: un cameriere, che finora era rimasto a guardarli, aiutò Fridolin a togliersi la pelliccia, prese l’ordinazione e gli portò alcune riviste illustrate insieme ai giornali della sera. Fridolin si sentì al sicuro, come protetto, e cominciò a sfogliare i giornali con aria distratta. Il suo sguardo si soffermava un po’ qui e un po’ là. In una città boema erano state divelte dai muri le targhe delle vie in lingua tedesca. A Costantinopoli si teneva una conferenza sulla costruzione di una ferrovia in Asia Minore, cui partecipava anche Lord Cranford. La ditta Benies & Weingruber era quasi fallita. La prostituta Anna Tiger, in un accesso di gelosia, aveva sfigurato la sua amica Hermine Drobizky col vetriolo. Quella sera c’era una degustazione di aringhe nelle Sophiensälen. Una giovane donna, Marie B., abitante in Schönbrunner Hauptstrasse 28, si era avvelenata col cloruro. Tutti questi fatti, sia quelli indifferenti che quelli tristi, nella loro asciutta quotidianità, contribuirono a far ritrovare a Fridolin una certa lucidità e tranquillità d’animo. La giovane donna, Marie B., gli fece compassione; il cloruro, che sciocchezza. In questo preciso momento, mentre lui è comodamente seduto al caffè e Albertine dorme tranquilla con le braccia incrociate sotto la nuca e il consigliere ha già abbandonato tutte le pene della vita terrena, Marie B., Schönbrunner Hauptstrasse 28, si sta contorcendo in preda ad atroci quanto inutili sofferenze.Sollevò lo sguardo dal giornale. Ed ecco che da un tavolo di fronte scorse due occhi puntati su di lui. Era mai possibile? Nachtigall...? Questi però l’aveva già riconosciuto, sollevò, felicemente sorpreso, entrambe le braccia e si avvicinò a Fridolin; era un uomo ancor giovane, alto, piuttosto massiccio, quasi goffo, con i capelli lunghi, leggermente ondulati, biondi e già un pochino brizzolati, e con un paio di baffi sempre biondi, spioventi alla polacca. Portava un soprabito grigio con sotto un frac leggermente unto, una camicia stropicciata con tre bottoni di strass, il colletto spiegazzato e una svolazzante cravatta di seta bianca. Aveva le palpebre arrossate, come per molte notti passate in bianco, anche se gli occhi brillavano cerulei della più autentica bonomia.«Tu qui a Vienna, Nachtigall!», esclamò Fridolin. «Ma allora non lo sai», disse Nachtigall con morbido accento polacco accompagnato da una vaga sfumatura ebraica. «Come facevi a non saperlo? Famoso come sono!». Scoppiò in una risata gioviale e chiassosa e si sedette di fronte a Fridolin.«Davvero?», chiese Fridolin. «Sei forse diventato chirurgo a mia insaputa?».Nachtigall rise ancor più forte. «Non mi hai appena sentito? Poco fa?»«Sentito? In che senso?... Ah già!». Soltanto ora Fridolin ricordò che al suo ingresso, ma già da prima, mentre si stava avvicinando al locale, aveva udito salire della musica di pianoforte da uno scantinato. «Allora eri tu?», esclamò.«E chi altri?», rise Nachtigall.Fridolin annuì. Ma certo; quell’attacco particolarmente energico, quegli accordi bizzarri, un po’azzardati ma piacevoli della mano sinistra gli erano giunti familiari fin dal primo momento. «Dunque ti ci sei dedicato completamente?», volle sapere. Ricordava che Nachtigall aveva definitivamente interrotto gli studi di medicina fin dal secondo preesame di zoologia, peraltro superato con successo, anche se dato con sette anni di ritardo. Ma poi si era diviso tra ospedale, sala anatomica, laboratori e aule di studio per un lungo periodo, e con la sua bionda testa d’artista, il suo colletto perennemente spiegazzato e la cravatta un tempo bianca e sempre svolazzante, era stato un personaggio indubbiamente notevole, popolare in senso buono, apprezzato non soltanto dai colleghi, ma anche da un discreto numero di professori. Figlio di un venditore di acquavite ebreo di una piccola cittadina polacca, a suo tempo aveva lasciato la madrepatria per trasferirsi a Vienna e studiare medicina. Il misero sostegno finanziario offerto dai genitori si era rivelato pressoché inutile fin dall’inizio e oltretutto si era ben presto interrotto, cosa che non gli aveva impedito di continuare a frequentare il Riedhof, dove un gruppo di studenti di medicina dei quali faceva parte anche Fridolin teneva le sue riunioni conviviali. Da un certo momento in poi, le sue consumazioni erano state pagate a turno dagli altri colleghi più benestanti. Anche i vestiti gli venivano talvolta regalati, e anche quelli li accettava volentieri, senza trincerarsi dietro un falso orgoglio. Già nella sua cittadina natale Nachtigall aveva appreso i primi rudimenti del pianoforte da un concertista fallito, e a Vienna, in qualità di studiosus medicinae, aveva avuto accesso al conservatorio, dove pareva venisse considerato un talento pianistico assai promettente. Ma anche qui non si era dimostrato abbastanza diligente e determinato da portare avanti gli studi come si deve; e ben presto si era accontentato del successo riscosso in seno alla sua cerchia di amicizie, o meglio del piacere e del divertimento che riusciva a procurar loro attraverso il suono del pianoforte. Per un certo periodo aveva lavorato come pianista in una scuola di danza nella periferia cittadina. I colleghi d’università e gli amici di bisboccia avevano tentato di introdurlo con la stessa mansione in ambienti sociali più elevati, ma in tali occasioni egli insisteva nel suonare soltanto quel che gli andava a genio sul momento e per il tempo che decideva lui stesso, si intratteneva in lunghe conversazioni non sempre innocenti, almeno per quanto lo riguardava, con affascinanti giovani donne, e beveva più di quel che poteva sopportare. Una volta aveva suonato in casa di un direttore di banca che aveva dato una festa da ballo. Dopo aver messo in imbarazzo, già prima della mezzanotte, con una serie di apprezzamenti allusivi e galanti, diverse giovani donne che gli passavano accanto ballando, e suscitando com’è naturale l’irritazione vivissima dei loro accompagnatori, si era fatto venire la bella idea di suonare un indiavolato cancan, cantandoci su una strofetta satirica piena di doppi sensi con la sua possente voce di basso. Il direttore di banca era intervenuto energicamente. Nachtigall però, come invaso da un beato senso d’euforia, si era alzato e lo aveva stretto in un abbraccio; questi, indignato, benché fosse egli stesso un ebreo, aveva investito il pianista in pieno volto con un insulto rivolto alla sua razza, che Nachtigall aveva immediatamente liquidato con un sonoro quanto improvviso ceffone... mettendo così la parola fine alla sua carriera all’interno dei migliori circoli sociali della città. In ambienti più intimi, in generale sapeva come comportarsi, benché anche in tali occasioni non capitasse di rado che in ora tarda si fosse costretti ad allontanarlo con la forza dal locale in questione. Ma il mattino dopo tali episodi tendevano a venir scusati e dimenticati da tutti i partecipanti. Un giorno, i suoi colleghi avevano ormai da tempo terminato gli studi, egli era improvvisamente sparito dalla città senza salutare nessuno. Per alcuni mesi erano arrivate delle cartoline di suo pugno da diverse città russe e polacche; e una volta Fridolin, cui Nachtigall aveva sempre riservato un posto speciale nel suo cuore, era stato sollecitato a ricordarsi dell’esistenza del suo amico non soltanto attraverso un semplice saluto, ma anche dalla preghiera d’inviargli una modesta somma di denaro, il tutto senza ulteriori spiegazioni. Fridolin aveva inviato i soldi senza indugio alcuno, senza però mai ricevere un ringraziamento, né qualsiasi altro segno di vita da parte di Nachtigall.Eppure in quel momento, all’una meno un quarto di notte, dopo otto anni, Nachtigall insistette per riparare a questa sua mancanza, ed estrasse l’esatto numero di banconote da un portafoglio piuttosto malconcio, che fra l’altro era ben fornito, tanto che Fridolin poté accettare il risarcimento senza rimorsi di coscienza...«Dunque te la passi bene», disse sorridendo, come per tranquillizzare se stesso.«Non mi posso lamentare», rispose Nachtigall. E appoggiando la mano sul braccio di Fridolin: «Ma dimmi un po’, come mai ti trovi qui nel bel mezzo della notte?».Fridolin spiegò la sua presenza in ora così tarda con l’impellente desiderio di sorbire ancora una tazza di caffè, dopo una visita notturna; non disse, però, senza sapere bene perché, di essere arrivato quando il paziente era già passato a miglior vita. Poi si espresse in generale sulla propria attività di medico presso il Policlinico e sulla sua pratica privata e disse anche di essere sposato, felicemente sposato, e padre di una bambina di sei anni.Ora toccava a Nachtigall fare rapporto. Come Fridolin aveva immaginato, aveva trascorso tutti quegli anni come pianista in tutte le possibili città e cittadine polacche, rumene, serbe e bulgare, a Leopoli viveva una donna che gli aveva dato quattro figli...; rise di cuore, come se avere quattro figli, tutti a Leopoli e tutti avuti dalla stessa donna, fosse una cosa oltremodo divertente. Dall’autunno precedente si era di nuovo trasferito a Vienna. Il variété che lo aveva ingaggiato era fallito quasi subito, ora suonava in ogni sorta di locali, dove capitava insomma, talvolta anche in due o tre posti diversi nella stessa serata, quaggiù, per esempio, nello scantinato... Niente di raffinato, certo, fece notare, piuttosto una sorta di pista per birilli, e per quanto riguardava il pubblico... «Ma quando si deve provvedere a quattro figli e a una moglie a Leopoli...», e rise di nuovo, un po’ meno allegramente di prima. «Faccio anche qualche festa privata», aggiunse subito. E quando notò il sorrisetto di rimembranza sul volto di Fridolin: «Non presso direttori di banche o simili, no, in tutti gli ambienti possibili, anche in circoli più estesi, sia pubblici che segreti».«Segreti?».Nachtigall puntò lo sguardo nel vuoto, in un’espressione tra il malinconico e il furbacchione. «Stanno per venirmi a prendere».«Come, suoni ancora a quest’ora?»«Sì, là s’inizia verso le due».«Una cosa particolarmente raffinata», disse Fridolin.«Sì e no», rise Nachtigall, riassumendo subito un’aria seria.«Sì e no...?», ripeté Fridolin, incuriosito.Nachtigall si piegò sul tavolo, sporgendosi verso di lui.«Oggi suono in una residenza privata, ma non so chi ne sia il proprietario».«Dunque ci vai stanotte per la prima volta?», domandò Fridolin, sempre più interessato.«No, è la terza. Ma probabilmente cambieremo di nuovo casa».«Non capisco».«Neanch’io», rise Nachtigall. «Meglio che tu non me lo chieda».«Mmm», fece Fridolin.«Oh, ti sbagli. Non è quel che pensi. Ne ho viste molte, sai, non ci si crederebbe, ma in certe piccole città... Soprattutto in Romania... se ne fanno di esperienze. Ma qui...». Spinse leggermente indietro la tendina gialla della finestra, gettò un’occhiata in strada e disse come fra sé e sé: «Ancora niente»; poi rivolto a Fridolin, come per spiegare, «la carrozza, intendo. Mi viene sempre a prendere una carrozza, e non è mai la stessa».«Mi incuriosisci, Nachtigall», disse Fridolin in tono freddo.«Ascolta», disse allora Nachtigall, dopo qualche esitazione. «Se c’è uno al mondo che mi piacerebbe... Ma come si fa...», e all’improvviso: «Sei coraggioso?»«Strana domanda», disse Fridolin col tono offeso di uno studente affiliato a una qualche associazione studentesca, pronto a raccogliere una sfida.«Non intendo in quel senso».«E in che senso, allora? Perché mai servirebbe del coraggio, in una situazione del genere? Cosa mai può succederti?». E fece una breve risata sprezzante.«A me niente; al massimo che oggi sia l’ultima volta... ma forse lo sarebbe ugualmente». Tacque e tornò a scrutare la strada da dietro la tendina.«Allora?»«Dicevi, scusa?», chiese Nachtigall, come uscito da un sogno.«Vai avanti col tuo racconto. Dal momento che l’hai iniziato... Una società segreta? Un circolo esclusivo? Invitati?»«Non lo so. L’ultima volta c’erano trenta persone, la prima soltanto sedici».«Un ballo?»«Certo che era un ballo». Ora sembrava pentito di aver parlato.«E tu suoni per farli ballare?»«Per farli ballare? Non so se suono per quello, davvero. Io suono, e suono... con gli occhi bendati».«Nachtigall, Nachtigall, che accidenti di canzone mi stai cantando1?».Nachtigall emise un lieve sospiro. «Purtroppo, però, la benda non viene stretta molto. Non abbastanza da impedirmi completamente di vedere, perlomeno. Infatti, attraverso la seta nera, riesco a scorgere le immagini riflesse nello specchio...». E di nuovo rimase in silenzio.«In poche parole», disse Fridolin impaziente e sprezzante, sentendosi però stranamente eccitato, «donnine nude».«Non dire donnine, Fridolin», rispose Nachtigall, come offeso, «donne come quelle non le hai mai viste in vita tua».Fridolin si schiarì la voce con un leggero colpo di tosse. «E quanto costa l’entrée?», chiese con aria apparentemente distratta.«Vuoi dire il biglietto o roba del genere? Ma come ti viene in mente?»«Allora, come si fa a entrare?», chiese Fridolin, con le labbra tirate e tamburellando con le dita sul tavolo.«Devi conoscere la parola d’ordine, e ogni volta è diversa».«E quella di oggi qual è?»«Ancora non lo so. Me la dirà il cocchiere».«Portami con te, Nachtigall».«Impossibile, è troppo rischioso».«Ma un minuto fa hai detto tu stesso che “se c’era una persona al mondo che ti sarebbe piaciuto...”. Ci sarà pure un modo!».Nachtigall lo squadrò con occhio critico. «Così come sei ora, non potresti assolutamente venire, là sono tutti mascherati, le dame e i cavalieri. Hai forse una maschera con te, o roba simile? Impossibile. Magari la prossima volta. Mi inventerò qualcosa». Drizzò le orecchie e tornò a sbirciare in strada da dietro la tendina, poi con un sospiro: «Ecco la carrozza. Addio».Fridolin lo trattenne per un braccio. «Non ti lascio andar via così. Devi portarmi con te».«Ma collega...».«Lascia che pensi io a tutto il resto. So bene che è “rischioso”... Forse è proprio questo ad attirarmi».«Ma come ti ho detto... senza un costume e una maschera...».«Si possono noleggiare».«All’una di notte!».«Stammi a sentire un momento, Nachtigall. All’angolo della Wickenburgstrasse c’è uno di questi posti. Ci passo davanti un paio di volte al giorno». E poi, concitato, con sempre maggiore eccitazione: «Tu rimani qui ancora per un quarto d’ora, Nachtigall, mentre io nel frattempo vado a tentare la sorte. Il proprietario del noleggio abita probabilmente nello stesso palazzo. In caso contrario... rinuncerò. Sarà il destino a decidere. Sempre nello stesso edificio c’è un caffè, Café Vindobona, mi sembra che si chiami. Tu dirai al cocchiere che hai dimenticato qualcosa in quel caffè, entri, io ti aspetto accanto alla porta, mi comunichi in fretta la parola d’ordine e rimonti in carrozza; io, una volta riuscito a noleggiare un costume, ne prenderò subito un’altra e ti verrò dietro... Il resto si vedrà. Ti do la mia parola d’onore, Nachtigall, che mi prenderò la responsabilità di ogni rischio che tu possa correre per colpa mia».Nachtigall aveva cercato più volte d’interrompere Fridolin, ma senza riuscirci. Fridolin lasciò sul tavolo il denaro delle loro consumazioni con una mancia più che generosa, come gli sembrava adeguato allo stile di quella notte, e uscì. Fuori c’era una carrozza chiusa; seduto a cassetta, immobile, c’era un cocchiere completamente vestito di nero, con in testa un cappello a cilindro; come un carro funebre, pensò Fridolin. Pochi minuti dopo, a passo di corsa, aveva raggiunto il palazzo che cercava, all’angolo della strada; suonò il campanello, s’informò presso il portinaio se il noleggiatore di maschere Gibiser abitasse in quell’edificio e sperò dentro di sé che così non fosse. Ma Gibiser abitava effettivamente lì, al piano sottostante il magazzino dei costumi, il custode non sembrava nemmeno troppo stupito di quella visita a tarda ora, anzi, favorevolmente disposto dalla lauta ricompensa offertagli da Fridolin, fece notare che durante il carnevale non era raro che la gente si presentasse anche in piena notte per noleggiare dei costumi. Rimase di sotto a far luce con una candela, finché Fridolin non ebbe raggiunto il primo piano e suonato alla porta. Il signor Gibiser venne subito ad aprire, come se fosse stato lì ad attenderlo; era magro, senza barba, calvo, portava un’antiquata camicia da notte a fiorellini e un berretto alla turca con la nappa, cosa che lo faceva sembrare un ridicolo vecchio uscito da una farsa teatrale. Fridolin gli disse cosa desiderava, sottolineando che non avrebbe badato a spese, al che il signor Gibiser rispose in tono quasi altezzoso: «Non pretendo più di quanto mi spetti».Condusse Fridolin per una scala a chiocciola, che portava di sopra, al magazzino. C’era odore di seta, velluto, profumi, polvere e fiori secchi; su un fluttuante sfondo scuro guizzavano lampi di rosso e d’argento; e all’improvviso, ecco accendersi una gran quantità di piccole luci fra gli armadi aperti di un lungo e stretto corridoio che si perdeva a ritroso nell’oscurità. A destra e a sinistra erano appesi costumi di ogni genere e tipo; da un lato cavalieri, scudieri, contadini, cacciatori, sapienti, orientali, giullari, dall’altra dame di corte, donzelle, contadine, cameriere, regine della notte. Sopra i costumi erano esposti i relativi copricapi, e a Fridolin sembrava di camminare lungo un viale di impiccati nell’atto di invitarsi vicendevolmente a ballare. Il signor Gibiser incedeva alle sue spalle. «Il signore desidera qualcosa di particolare? Louis Quatorze? Directoire? Antico tedesco?»«Mi serve un saio scuro con cappuccio e una maschera nera, nient’altro».In quel momento dall’estremità dal corridoio provenne un rumore di vetri infranti. Fridolin si volse spaventato verso il noleggiatore di costumi, come aspettandosi da lui un’immediata spiegazione. Gibiser rimase invece come raggelato egli stesso, arrancò verso un interruttore nascosto chissà dove... e il corridoio fu invaso da una luce accecante che lo illuminò fino in fondo, dove era situata una piccola tavola apparecchiata di tutto punto con piatti, bicchieri e bottiglie. Da ognuna delle due sedie, una a destra e una a sinistra, si alzarono in piedi due giudici della santa vema in talare rosso, mentre una delicata figurina chiara scompariva nello stesso istante. Gibiser si precipitò a grandi passi sulla scena, allungò un braccio sul tavolo e afferrò una parrucca bianca, mentre intanto, sgusciando da sotto il tavolo, una ragazzina molto giovane e carina, quasi una bambina, in costume da Pierrette con bianche calze di seta, percorreva di corsa il corridoio, raggiungendo Fridolin, che, messo alle strette, la catturò stringendola fra le sue braccia. Gibiser aveva lasciato cadere la parrucca bianca sul tavolo e stava trattenendo i due giudici della vema per il talare, uno a destra e uno a sinistra, gridando a Fridolin: «Signore, non faccia scappare la bambina». La piccola si strinse a Fridolin come in cerca di protezione. Il suo viso, piccolo e smunto, era incipriato di bianco e cosparso di vezzosi nei finti, dai suoi seni delicati saliva un profumo di rose e di cipria... e dai suoi occhi sorridenti traspariva un senso di maliziosa lussuria.«Signori», esclamò Gibiser, «voi rimarrete qui fin quando non vi avrò consegnato alla polizia».«Come si permette?», risposero i due di rimando. Poi, all’unisono: «Non abbiamo fatto altro che accettare l’invito della signorina».Gibiser li lasciò andare entrambi e Fridolin lo udì mentre diceva loro: «Di questo dovrete rendere conto in maniera più precisa: non vi siete accorti di avere a che fare con una demente?»; poi, rivolto a Fridolin: «Vogliate perdonare il contrattempo, signore».«Oh, non fa niente», disse Fridolin. Sarebbe rimasto volentieri lì tutta la notte, oppure si sarebbe portato via la piccola, in qualunque luogo... e qualunque ne fosse stata la conseguenza. Lei lo guardava con aria infantile e invitante, come affascinata. I giudici in fondo al corridoio stavano scambiandosi alcune frasi concitate. Gibiser si voltò verso Fridolin in atteggiamento pratico e gli chiese: «Desidera una tonaca, signore, un cappello da pellegrino, una maschera nera?»«No», disse la Pierrette, con gli occhi che scintillavano, «un mantello di ermellino, devi dargli, a questo signore, e un farsetto di seta rossa».«Tu non ti muovi dal mio fianco», disse Gibiser, indicando una tonaca scura appesa fra un lanzichenecco e un senatore veneziano. «Questa è della sua misura, ed ecco qui il cappello adatto, lo prenda, presto».I due giudici tornarono a farsi sentire. «Signor Chibisier, ora lei ci farà uscire immediatamente», pronunciarono il nome Gibiser con accento francese, con grande sconcerto di Fridolin.«Non se ne parla nemmeno», rispose il noleggiatore di costumi in tono beffardo, «per il momento dovrete avere la compiacenza di attendere qui il mio ritorno».Intanto Fridolin si infilò la tonaca, annodò le estremità del cordone bianco che pendeva dai fianchi, Gibiser gli porse, dall’alto di una stretta scala, il cappello da pellegrino ampio e nero, e Fridolin se lo piazzò sulla testa; ma tutto questo lo fece come sotto costrizione, poiché sentiva sempre più impellente il dovere di rimanere ad assistere la Pierrette, minacciata da un incombente pericolo. La maschera, che Gibiser gli stava ora consegnando, e che si provò immediatamente, era impregnata di un profumo bizzarro, vagamente disgustoso.«Vai avanti», disse Gibiser alla piccola, indicandole la scala con gesto perentorio. Pierrette si voltò, lanciò un’occhiata in fondo al corridoio e agitò la mano in un saluto d’addio allegro e nostalgico al tempo stesso. Fridolin seguì il suo sguardo; laggiù i giudici non c’erano più, sostituiti da due giovani signori alti e slanciati in frac e cravatta bianca, entrambi, però, ancora col viso coperto dalla maschera rossa. Pierrette fluttuò giù per la scala a chiocciola, Gibiser la seguiva da presso, e dietro di loro veniva Fridolin. Giù nell’anticamera Gibiser aprì una porta che conduceva nelle stanze interne e disse a Pierrette: «Per il momento fila a letto, creatura abietta, parleremo appena avrò fatto i conti con i signori di sopra».In piedi sulla soglia, la bianca e delicata creatura scosse sconsolata la testa, scoccando un’occhiata a Fridolin. Questi scorse in un grande specchio a muro sulla destra un pellegrino smilzo e asciutto che altri non era che egli stesso, e se ne meravigliò, soprattutto per la naturalezza con cui si erano svolte le cose.Pierrette era sparita, il vecchio noleggiatore di maschere chiuse la porta a chiave dietro di essa. Poi aprì la porta dell’abitazione e spinse Fridolin sul pianerottolo delle scale.«Mi scusi», disse Fridolin, «quanto le devo...».«Lasci stare, signore, pagherà alla restituzione, mi fido di lei».Ma Fridolin non si mosse. «Mi può giurare che non farà nulla di male a quella povera bambina?»«Perché le interessa, signore?»«Poco fa l’ho sentita definirla demente... e poc’anzi creatura abietta. Una contraddizione assai notevole, non può negarlo».«Ebbene, signore», obiettò Gibiser in tono teatrale, «il demente non è forse una creatura abietta agli occhi di Dio?».Fridolin rabbrividì, inorridito.«Sia come sia», disse quindi, «su questo ci sarebbe molto da discutere. Sono un medico. Parleremo domani della faccenda».Gibiser si lasciò sfuggire una risata silenziosa e strafottente. Nell’androne delle scale avvampò improvvisamente la luce, la porta fra Gibiser e Fridolin si chiuse e subito vi venne fatto scorrere il chiavistello. Mentre scendeva le scale, Fridolin si tolse il cappello, la tonaca e la maschera infilandosi tutto sotto il braccio; il custode del palazzo aprì il portone, la carrozza funebre era proprio lì di fronte con a cassetta il cocchiere immobile. Nachtigall si stava accingendo a lasciare il caffè e non parve affatto compiaciuto della puntualità di Fridolin.«Dunque, ti sei davvero procurato un costume?»«Come vedi. La parola d’ordine?»«Insomma insisti a voler venire?»«Assolutamente».«Allora... la parola d’ordine è Danimarca».«Sei impazzito, Nachtigall?»«Perché?»«Niente, niente... Per caso, quest’estate sono stato sulla costa danese. Sali a bordo, dunque... ma non subito, dammi il tempo di trovare una carrozza, laggiù».Nachtigall annuì, si accese con calma una sigaretta, intanto Fridolin attraversò in fretta la strada, prese un fiacre e, in tono leggero, quasi scherzoso, ordinò al vetturino di seguire la carrozza funebre che stava muovendosi proprio in quel momento davanti a loro.Percorsero l’Alserstrasse, poi si diressero verso la periferia, passando sotto un viadotto ferroviario e proseguendo attraverso vicoli secondari scarsamente illuminati. Fridolin considerò l’eventualità che il vetturino della sua carrozza potesse perdere le tracce di quella che li precedeva; ma tutte le volte che sporgeva il capo attraverso il finestrino aperto, esponendosi all’aria innaturalmente tiepida, scorgeva l’altra carrozza precederli a distanza regolare, con seduto a cassetta, immobile come sempre, il cocchiere con il nero cappello a cilindro. Potrebbe anche andare a finir male, pensò Fridolin. Intanto gli sembrava di percepire ancora il profumo di rose e di cipria salitogli alle narici dai seni di Pierrette. In quale strana storia mi è capitato di imbattermi?, si chiese. Non avrei dovuto farmi convincere ad andar via, era mio dovere rimanere. Dove mi trovo ora?La strada procedeva leggermente in salita, snodandosi fra villette dall’aria modesta. Fridolin credette di orizzontarsi, ora; anni prima si era recato diverse volte da quelle parti per una passeggiata: doveva essere il Galitzinberg, quello che stavano risalendo. Nel pendio che si apriva alla sua sinistra vedeva la città immersa nella foschia, punteggiata di mille luci brillanti. Udì un rumore di ruote dietro di sé e si affacciò per guardare indietro. Erano seguiti da due carrozze, e la cosa gli giunse gradita, così non avrebbe destato sospetti nel cocchiere del carro funebre.D’improvviso, con uno scossone assai violento, la carrozza svoltò di lato e fra cancellate, mura e pendii, cominciò a scendere come in una forra. Fridolin si avvide che era più che mai arrivato il momento di mascherarsi. Si tolse la pelliccia, infilò la tonaca, proprio come faceva ogni mattina col camice in ospedale; e pensò come a una sorta di liberazione che fra poche ore, se tutto andava bene, si sarebbe trovato a camminare come ogni mattina fra i letti dei suoi pazienti... da quel medico coscienzioso e premuroso che era.La carrozza si arrestò. E se, pensò Fridolin, io non scendessi affatto? Se anzi preferissi tornare subito indietro? Ma dove? Dalla piccola Pierrette? O dalla puttanella in Buchfeldgasse? O da Marianne, la figlia del defunto? Oppure a casa? E con un leggero brivido sentì che l’ultima cosa che desiderava era proprio quella. Chissà, forse perché era la via più lunga da percorrere? No, non posso tornare indietro, si disse. Continuerò per la mia strada, a costo della vita. Avrebbe riso dell’enormità di quanto aveva pensato, ma in fondo non si sentiva poi tanto allegro.C’era un cancello di giardino spalancato. La carrozza funebre che li precedeva stava scendendo sempre più giù nella forra oppure nel buio che gli appariva come tale. Dunque Nachtigall era già smontato, in ogni caso. Fridolin saltò lesto dalla carrozza e disse al cocchiere di aspettare il suo ritorno più su, all’altezza di una certa curva, per tutto il tempo necessario. Come garanzia gli lasciò una generosa somma in pagamento anticipato, promettendogli altrettanto denaro per il ritorno. Le carrozze che li avevano seguiti stavano arrivando, una dopo l’altra. Dalla prima, Fridolin vide scendere una figura di donna velata; poi si inoltrò nel giardino e si mise la maschera; un sentiero stretto, illuminato dal palazzo portava fino al portone d’ingresso, due battenti si spalancarono e Fridolin si trovò in un piccolo atrio angusto e bianco. Udì il suono di un armonium, due servitori in livrea scura e maschera grigia erano in piedi alla sua destra e alla sua sinistra.«Parola d’ordine?», gli venne sussurrato da due voci contemporaneamente. E lui rispose: «Danimarca». Uno dei servitori prese subito in consegna la sua pelliccia e con essa sparì in una saletta attigua, l’altro aprì una porta e Fridolin fece il suo ingresso in una sala dal soffitto alto, in penombra, quasi buia, drappeggiata tutt’intorno di seta nera. Maschere in tenuta ecclesiastica camminavano su e giù, dalle sedici alle venti persone, suore e monaci. I suoni dell’armonium che arrivavano in dolci ondate, una melodia sacra italiana, sembravano risuonare dall’alto. In un angolo della sala sostava un gruppetto di persone, tre suore e due monaci; fra loro qualcuno si era voltato di scatto a guardarlo, per poi girarsi di nuovo dall’altra parte, come a ignorarlo intenzionalmente. Fridolin si accorse di essere l’unico con il capo coperto, si tolse il cappello da pellegrino e cominciò a camminare su e giù nella maniera più naturale e innocente possibile; un monaco gli sfiorò il braccio e fece un cenno di saluto con la testa; ma dietro la maschera uno sguardo penetrò a fondo gli occhi di Fridolin per la durata di un secondo. Venne avvolto da uno strano odore umido e piacevole, come di giardini del sud. Di nuovo qualcuno lo sfiorò con il braccio. Stavolta una suora. Come le altre, anche lei aveva un velo nero che le copriva la fronte, la testa e la nuca, sotto i merletti di seta nera della maschera scintillava una bocca rosso sangue. Dove mi trovo? Pensò Fridolin. In una compagnia di folli? O una congrega di congiurati? Sono forse finito al convegno di una setta religiosa? Che Nachtigall avesse ricevuto l’ordine, previa ricompensa, di introdurre un non iniziato di cui prendersi gioco? Ma per essere uno scherzo in maschera, il tutto gli pareva troppo serio, troppo monotono, troppo inquietante. All’armonium si era unita una voce femminile, un’antica aria sacra italiana risuonava per tutta la sala. Tutti si erano fermati, come intenti all’ascolto, anche Fridolin si lasciò catturare per qualche secondo dalla meravigliosa, suadente melodia. All’improvviso una voce femminile sussurrò alle sue spalle: «Non si volti a guardarmi. È ancora in tempo ad andarsene. Lei qui è fuori posto. Se la scoprono, potrebbe accaderle qualcosa di brutto».Fridolin ebbe un sussulto di spavento. Per un secondo, pensò di seguire il consiglio della sconosciuta. Ma la curiosità, la tentazione e soprattutto il suo orgoglio furono più forti di qualsiasi scrupolo. Ormai sono qui, pensò, vada come vada. E scosse la testa in un cenno di diniego, senza voltarsi.La voce alle sue spalle sussurrò: «Mi dispiacerebbe per lei».Decise allora di voltarsi. Vide la bocca rosso sangue scintillare fra i merletti, occhi scuri affondare nei suoi. «Rimango», disse in un tono eroico che non si riconosceva, e tornò a guardare altrove. Il canto stava aumentando d’intensità, l’armonium risuonava in modo nuovo, non più tanto ecclesiastico, ma più laico, mondano e brioso, come in uno scroscio di note d’organo; e guardandosi intorno, Fridolin notò che le suore erano tutte scomparse e che la sala era ormai popolata soltanto di monaci. Anche la voce della cantante nel frattempo era passata da una tetra serietà a un tono alto, quasi giubilante, passando per un elaborato quanto azzardato gorgheggio in crescendo; l’armonium era stato sostituito dal suono più terreno e insolente di un pianoforte. Fridolin riconobbe all’istante il tocco eccitante e sfrenato di Nachtigall, mentre la voce di donna, poco prima così nobile e femminile, si era innalzata verso il soffitto in un ultimo grido acuto e voluttuoso, perdendosi poi nell’infinito. A destra e sinistra si erano spalancate delle porte, da una parte, in penombra, Fridolin riconobbe al pianoforte i contorni indefiniti della figura di Nachtigall, la stanza di fronte invece era illuminata violentemente. Le donne erano lì, immobili, tutte con i loro veli neri sulla testa e intorno alla fronte e alla nuca, maschere di pizzo nero sul volto, ma per il resto completamente nude. Gli occhi di Fridolin scivolarono avidi dalle più formose alle più slanciate, dalle figure minute e delicate a quelle in piena voluttuosa fioritura; e che ognuna di quelle creature completamente scoperte rimanesse tuttavia un mistero e che dalle maschere nere i grandi occhi, mistero ancor più insolubile, posassero lo sguardo scintillante su di lui, tramutava l’indicibile voluttà del guardare in un torturante desiderio, quasi al limite della sopportazione. Ma anche gli altri uomini provavano le stesse sensazioni. I primi deliziati sospiri si tramutarono in gemiti che sembravano scaturire da abissi di sofferenza; si udì un grido provenire da qualche parte... E d’improvviso, come animali braccati, non più paludati nelle loro tonache monacali, ma in colorati costumi da cavalieri bianchi, gialli, blu e rossi, tutti gli uomini si precipitarono fuori dalla sala buia e entrarono in quella illuminata delle donne, dove vennero accolti da risate folli, quasi rabbiose. Fridolin, ancora in tenuta da monaco e leggermente spaventato, fu l’unico a rimanere indietro e si rifugiò nell’angolo più lontano, vicino a Nachtigall, che gli volgeva la schiena. Fridolin vedeva bene che Nachtigall aveva una benda sugli occhi, ma credette anche di intuire come dietro la benda i suoi occhi fossero puntati sullo specchio, dove i cavalieri variopinti volteggiavano nella danza, strettamente allacciati alle loro dame nude.D’improvviso una delle donne fu accanto a Fridolin e sussurrò – poiché nessuno, come se anche le voci dovessero rimanere segrete, pronunciava una sola parola ad alta voce –: «Come mai sei rimasto da solo? Perché ti escludi dalle danze?».Fridolin vide che da un altro angolo due cavalieri lo stavano scrutando attentamente, e immaginò che la creatura al suo fianco – una figura snella e piuttosto androgina – fosse stata da essi inviata per tentarlo e metterlo alla prova. Nonostante ciò, allargò le braccia per attirarla a sé, quando un’altra delle donne si staccò dal suo cavaliere, dirigendosi velocemente verso Fridolin. Capì immediatamente che si trattava della donna che poco prima lo aveva messo in guardia. Lei finse di vederlo per la prima volta e sussurrò, anche se in maniera tale da farsi sentire fino all’altro angolo della sala: «Sei tornato, finalmente?». E ridendo allegramente: «È tutto inutile, ti hanno riconosciuto». Poi, rivolta alla creatura androgina: «Cedimelo per due minuti soltanto. Dopo, se vuoi, potrai tenertelo fino a domattina». Quindi, sempre rivolta a lei, più piano e con una certa euforia gioiosa: «È lui, sì, proprio lui». E l’altra: «Davvero?», rispose, per poi fluttuare veloce nell’angolo dai cavalieri.«Non fare domande», disse la donna rimasta con Fridolin, «e non meravigliarti di nulla. Ho cercato di confonderli, ma ti avverto: alla lunga non può funzionare. Fuggi, prima che sia troppo tardi. E potrebbe essere troppo tardi da un momento all’altro. E stai attento che nessuno segua le tue tracce. Nessuno deve sapere chi sei. Avresti chiuso per sempre con la tranquillità, con la pace nella tua esistenza. Vai adesso!».«Ti rivedrò?»«Impossibile».«Allora rimango».Il corpo nudo della donna fu percorso da un fremito che gli si trasmise all’istante, annebbiandogli i sensi.«In gioco non può esserci nulla di più della mia vita», le disse, «e in questo istante tu per me la vali tutta». Le prese le mani, cercò di attirarla a sé.Lei sussurrò ancora, disperata: «Vai!».Lui rise e udì la propria voce, come la si ode in sogno. «Vedo bene dove mi trovo. Voi tutte non siete certo qui soltanto per far godere chi vi guarda! Ti stai solo divertendo in maniera bizzarra, con me, forse per farmi impazzire del tutto».«Non c’è più tempo, vai adesso!».Ma lui non voleva ascoltarla. «Non dovrebbero esserci delle stanze riservate, qui, dove si ritirano le coppie che si sono formate? Dovrei pensare che tutti i presenti prenderanno congedo gli uni dagli altri con un semplice baciamano? Non ne hanno affatto l’aria».E indicò le coppie che continuavano a danzare, al ritmo indiavolato del pianoforte, nella sala accanto, fin troppo illuminata, corpi bianchi e caldi allacciati a sete azzurre, rosse, gialle. Gli parve che nessuno si curasse di lui, ora, né della donna che aveva accanto; nella sala centrale, quasi buia, erano rimasti praticamente da soli.«Speranza inutile», sussurrò lei. «Qui non ci sono stanze come quelle che immagini tu. Hai ancora un minuto. Fuggi!».«Vieni con me».La donna scosse violentemente il capo, come disperata.Lui tornò a ridere senza riconoscere la propria risata. «Mi stai prendendo in giro. Questi uomini e queste donne sono forse venuti qui solo per infiammarsi a vicenda e poi respingersi? Chi può impedirti di venire via con me, se lo volessi?».Lei fece un profondo sospiro e chinò il capo.«Ah, ora capisco», disse lui. «Questa è la punizione che riservate a chi si insinua qui dentro senza invito. Non avreste potuto escogitarne una più crudele. Risparmiamela. Fammi la grazia. Castigami in un altro modo. Ma non farmi andar via senza di te!».«Tu sei pazzo. Non posso venir via con te... né con nessun altro, se è per questo. E chi tentasse di seguirmi avrebbe segnato il destino di entrambi».Fridolin era come ebbro, non solo di lei, del suo corpo profumato, delle sue labbra rosse e ardenti, non solo dell’atmosfera di quella sala, dei voluttuosi segreti che lo circondavano in quel luogo... Era ebbro e avido allo stesso tempo di tutte le esperienze che gli aveva riservato quella notte, nessuna delle quali era giunta a conclusione; di se stesso, della sua audacia, del cambiamento che sentiva avvenire dentro di sé. E con le mani sfiorò il velo che la donna aveva sulla testa, come se volesse strapparglielo.Lei gli afferrò le mani. «C’è stata una notte in cui a qualcuno è venuto in mente di strappare il velo a una di noi. Gli venne strappata la maschera dal volto e fu cacciato fuori a suon di frustate».«E... lei?»«Forse hai letto di una bella ragazza giovane... È storia di poche settimane fa, che ha ingerito del veleno il giorno prima delle nozze».Sì, ricordava tutto, anche il nome di lei. Lo disse. Non si trattava forse di una ragazza proveniente da famiglia nobilissima, fidanzata a un principe italiano?Ella annuì.All’improvviso vennero raggiunti da uno dei cavalieri, quello dall’aria più nobile di tutti, l’unico vestito di bianco; con un breve inchino, che, se pur cortese, parve leggermente autoritario, invitò a ballare la donna che stava conversando con Fridolin. A Fridolin sembrò che ella esitasse un attimo. Ma l’altro l’aveva già afferrata per la vita, trascinandola con sé nella sala illuminata, a volteggiare fra le altre coppie.Fridolin si ritrovò da solo e quell’improvviso abbandono lo sopraffece come una coltre di gelo. Si guardò intorno. In quel momento nessuno sembrava curarsi di lui. Forse quella era la sua ultima possibilità di allontanarsi impunemente. Cosa però lo trattenesse nel suo angolo, dove ora aveva modo di sentirsi inosservato e privato dell’attenzione altrui – il timore di una ingloriosa e vagamente ridicola ritirata, il torturante e insoddisfatto desiderio del meraviglioso corpo femminile il cui profumo gli aleggiava ancora intorno, o la considerazione che tutto ciò che era accaduto finora non fosse servito ad altro che a valutare il suo coraggio e che quella donna stupenda sarebbe stata il suo premio – non lo sapeva nemmeno lui. In ogni caso era certo che la tensione stava cominciando a diventare insopportabile e che doveva mettere fine a quella situazione ad ogni costo. Qualunque decisione avesse preso, non poteva certo costargli la vita. Forse quella gente era fuori di senno, forse erano dei libertini, comunque non si trattava certo di canaglie o criminali. E gli venne l’idea di unirsi a loro, dichiarandosi un intruso e mettendosi cavallerescamente a loro disposizione. Quella notte poteva terminare soltanto così, con un nobile accordo, se era destinata a significare qualcosa di più di un semplice e confuso susseguirsi di avventure deprimenti, squallide, volgari e lascive, nessuna delle quali, però, giunta a conclusione. Con un sospiro, si preparò a realizzare il suo intento.Ma in quel momento udì sussurrare accanto a sé: «Parola d’ordine!». Un cavaliere nero gli si era avvicinato di soppiatto, e visto che Fridolin non gli aveva risposto immediatamente, ripeté la sua domanda. «Danimarca», disse Fridolin.«Esatto, signore, questa è la parola d’accesso. Ma quella interna, se posso permettermi di chiedergliela?».Fridolin rimase in silenzio.«Dunque non vuole avere la compiacenza di dirci la parola d’ordine della casa?». Il tono era tagliente come la lama di un coltello.Fridolin si strinse nelle spalle. L’altro si portò al centro della stanza, alzò la mano, il pianoforte smise di suonare, le danze s’interruppero. Altri due cavalieri, uno in giallo e uno in rosso, si avvicinarono. «La parola d’ordine, signore», dissero all’unisono.«L’ho dimenticata», rispose Fridolin con un sorriso vacuo, sentendosi del tutto tranquillo.«È una vera disgrazia», disse l’uomo in giallo, «poiché qui da noi averla dimenticata o non averla mai conosciuta sono la stessa cosa».Le altre maschere maschili sciamarono all’interno e su entrambi i lati si chiusero le porte. Fridolin se ne stava lì, l’unico in tonaca monacale in mezzo a una schiera di cavalieri variopinti. «Giù la maschera!», gridarono alcuni senza por tempo in mezzo. Fridolin teneva le braccia tese davanti a sé, come per proteggersi. Essere l’unico a viso scoperto fra tanti mascherati gli pareva mille volte peggio che trovarsi completamente nudo fra gente vestita. E disse con voce ferma: «Se qualcuno fra lor signori dovesse sentirsi ferito nell’onore dalla mia presenza, mi dichiaro disposto a dargli soddisfazione nei modi consueti. Ma toglierò la maschera solo nel caso che anche tutti loro facciano altrettanto, miei signori».«Qui non si tratta di soddisfazione», disse il cavaliere in rosso, che finora non aveva ancora parlato, «ma di punizione».«Giù la maschera!», ordinò allora un altro in tono acuto e insolente, che ricordò a Fridolin il tono di comando di un ufficiale. «Quel che l’aspetta le va detto in pieno viso, senza l’impaccio di una maschera».«Non la tolgo», disse Fridolin in tono ancor più tagliente, «e guai a chi oserà toccarmi».Un braccio si protese all’improvviso verso il suo volto, come per strappargli la maschera, quando d’un tratto la porta della sala si spalancò e una delle donne – Fridolin non aveva alcun dubbio su chi potesse essere – si presentò sulla soglia vestita da suora, così come l’aveva vista la prima volta. Ma dietro di lei, nella sala eccessivamente illuminata si vedevano le altre, nude e col volto velato, strette l’una contro l’altra, mute, una schiera intimidita e spaventata. La porta, però, si richiuse subito.«Lasciatelo», disse la suora, «sono disposta a riscattarlo».Ci fu un breve silenzio di tomba, come se fosse appena accaduto qualcosa di immane, poi il cavaliere nero, quello che per primo aveva preteso la parola d’ordine da Fridolin, si rivolse alla suora con le parole: «Sai a cosa vai incontro, in questo modo».«Lo so».La sala fu attraversata da una sorta di profondo sospiro.«Lei può andare», disse il cavaliere a Fridolin, «lasci immediatamente questa casa e si guardi bene dall’indagare ulteriormente sui segreti nella cui anticamera si è insinuato. Nel caso cercasse di mettere qualcuno sulle nostre tracce, qualunque possa essere l’esito della sua ricerca... lei sarebbe perduto».Fridolin rimase immobile. «In che maniera questa donna dovrebbe... riscattarmi?», chiese.Nessuna risposta. Alcune braccia indicarono la porta, invitandolo ad allontanarsi immediatamente.Fridolin scosse il capo in segno di diniego. «Infliggetemi pure qualunque pena desideriate, non tollererò che sia un altro essere umano a pagare per me».«Il destino di questa donna», disse il cavaliere nero, ora in tono mite, «non potrebbe comunque cambiarlo. Una volta fatta una promessa, qui da noi non si torna più indietro».La suora annuì lentamente, a conferma di quanto veniva detto. «Vai!», disse a Fridolin.«No», rispose questi in tono alterato. «La vita non avrà più alcun valore, per me, se dovrò andarmene senza di te. Non ti chiedo di dirmi da dove vieni o chi sei. Che differenza può fare, per voi, miei sconosciuti signori, portare o no a compimento questa commedia di Carnevale, per quanto essa possa esser destinata a un finale serio e importante? Chiunque voi siate, miei signori, voi conducete un’altra esistenza, assai diversa da questa. Io invece non sto recitando una commedia, neanche qui, e se finora l’ho fatto per adeguarmi alla circostanza, sono pronto a smettere in questo stesso istante. Sento di esser caduto preda di un destino che non ha più nulla a che fare con questa mascherata, voglio dirvi il mio nome, voglio togliermi la maschera, assumendomi la piena responsabilità di ogni possibile conseguenza».«Guàrdatene bene!», esclamò la suora, «sarebbe la tua rovina e non servirebbe a salvarmi! Vai!». E rivolta agli altri: «Eccomi, sono qui, mi consegno a voi... tutti!».Il costume scuro le scivolò di dosso come per magia, ed ella rimase là, nel fulgore del suo corpo bianco, afferrò il velo che teneva avvolto intorno alla testa, la fronte e la nuca e con un movimento fluido e circolare lo svolse completamente. Questo cadde a terra, mentre i capelli bruni scendevano a coprirle le spalle, i seni e i fianchi... Ma, prima ancora che Fridolin potesse cogliere le fattezze del suo volto, braccia poderose lo afferrarono, lo trascinarono via e lo spinsero verso la porta; un attimo dopo si trovò nell’anticamera, la porta dietro di lui si chiuse, un servitore mascherato gli porse la pelliccia, aiutandolo a infilarla, e il portone del palazzo si aprì. Egli continuò a camminare, come trascinato da una forza invisibile, raggiunse la strada, la luce dietro le sue spalle si spense, si guardò indietro e vide la casa buia e silenziosa, con le finestre chiuse dalle quali non trapelava nemmeno un filo di luce. Devo imprimermi bene tutto nella mente, fu il suo pensiero principale. Devo ritrovare la casa, tutto il resto verrà da sé.La notte lo avvolgeva completamente, a una certa distanza sopra di lui, là dove doveva attenderlo la carrozza, brillava una lanterna dal cupo bagliore rossastro. Dal profondo del vicolo emerse la carrozza funebre, come se l’avesse evocata lui stesso. Un servitore aprì la portiera.«Ho la mia carrozza», disse Fridolin. Il servitore scosse la testa. «Se dovesse essersene andata, tornerò a piedi in città».Il servitore rispose con un gesto della mano così poco servile da escludere ogni tipo di protesta. Il cilindro del cocchiere si ergeva, ridicolmente lungo, nella notte. C’era un vento forte e il cielo era attraversato da nuvole di uno strano colore viola. In base alle esperienze avute finora, Fridolin non poteva illudersi, ormai, che gli rimanesse altro da fare che salire su quella carrozza, che non appena lo ebbe accolto a bordo si mise subito in marcia.Fridolin si sentiva più che mai deciso a intraprendere, appena possibile, qualsiasi cosa potesse condurlo a far luce su quell’avventura, a costo di qualunque rischio. La sua esistenza, così gli pareva, non avrebbe avuto più alcun senso se non gli fosse riuscito di ritrovare l’enigmatica donna che in quel momento stava pagando il prezzo della sua salvezza. Quale fosse quel prezzo, era fin troppo facile indovinarlo. Ma che motivo aveva avuto di sacrificarsi per lui? Sacrificarsi...? Era lecito pensare che si trattasse di una donna per la quale ciò che l’attendeva, la cosa che si era lasciata infliggere, poteva costituire un sacrificio? Se partecipava a quelle riunioni – e non poteva essere quella la prima volta, visto come si era mostrata avvezza alle usanze – cosa poteva importarle, in fondo, di abbandonarsi al volere di uno di quei cavalieri, o magari di tutti loro? Poteva essere qualcosa di diverso da una prostituta? Tutte quelle donne potevano mai essere altro? Prostitute... senza dubbio. Anche se tutte loro conducevano una seconda vita, per così dire borghese, accanto a questa, che era appunto una vita da prostituta. E se tutto quello che gli era appena capitato non fosse stato altro che un tiro infame che qualcuno si era preso la libertà di giocargli? Uno scherzo già previsto, preparato e magari anche studiato per il caso in cui un non iniziato si fosse introdotto senza invito al festino? Eppure, quando ripensava a quella donna, che lo aveva avvertito fin dall’inizio e che ora era pronta a pagare per lui... Nella sua voce, nel suo portamento, nella regale nobiltà del suo corpo svelato c’era stato qualcosa che era impossibile definire menzogna. O forse era stato semplicemente l’improvviso apparire di Fridolin a servire da miracoloso catalizzatore della sua trasformazione? Dopo tutto quel che gli era accaduto quella notte, riteneva – e pensandolo non ritenne di doverla considerare una vanità – che un miracolo di tal genere fosse affatto plausibile. Forse vi sono ore, notti, pensò, in cui uno strano e irresistibile fascino di tal guisa emana da uomini che in circostanze ordinarie non esercitano un potere particolare sull’altro sesso? La carrozza continuava a procedere in salita e, in situazione normale, da un pezzo avrebbe dovuto immettersi sulla strada principale. Cosa avevano in mente di fargli? Dove l’avrebbe condotto la carrozza? Quella commedia era dunque destinata ad avere anche un seguito? E di che tipo? Magari una sorta di rivelazione? Un allegro ritrovarsi in un altro luogo? Un premio dopo aver onorevolmente superato la prova, entrare a far parte della società segreta? Poter possedere indisturbati la bellissima suora...? I finestrini della carrozza erano chiusi, Fridolin cercò di sbirciare all’esterno; erano opacizzati. Tentò di abbassare i vetri, a destra, a sinistra, ma era impossibile; e altrettanto opacizzato nonché ermeticamente chiuso era il pannello di vetro che lo divideva dalla zona della cassetta. Bussò sul vetro, gridò, urlò, la carrozza continuò a procedere senza esitazione alcuna. Avrebbe voluto aprire uno sportello, a destra, a sinistra, ma nessuno dei due cedeva sotto la sua spinta, le sue rinnovate grida risuonarono mescolandosi al rumore delle ruote, si persero nel fruscio del vento. La carrozza prese a sobbalzare, si lanciò in discesa, sempre più veloce; Fridolin, ormai prigioniero della sua inquietudine, della paura, era ormai sul punto di frantumare il vetro di uno dei finestrini ciechi, quando all’improvviso la carrozza si fermò. Entrambe le portiere si aprirono contemporaneamente, neanche fossero comandate da un meccanismo, come se per ironia della sorte ora a Fridolin fosse concesso di scegliere fra lo sportello di destra e quello di sinistra. Saltò fuori dalla carrozza, le portiere si richiusero di scatto... e senza che il cocchiere si fosse minimamente curato di Fridolin, la carrozza si allontanò in aperta campagna, scomparendo nella notte.Il cielo era coperto, le nuvole s’inseguivano l’un l’altra, il vento soffiava, Fridolin era in piedi nella neve che spandeva tutt’attorno un pallido chiarore. Se ne stava lì da solo, con la pelliccia aperta sulla tonaca monacale, in testa il cappello da pellegrino, per nulla a proprio agio. A una certa distanza si snodava la strada principale. Una processione di lampioni dalla luce smorta contraddistingueva la parte che portava in città. Fridolin però s’incamminò dritto davanti a sé, tagliando la strada attraverso il campo innevato che digradava lentamente, per accorciare il cammino e arrivare il più presto possibile in un luogo popolato. Con i piedi completamente bagnati, raggiunse un vicoletto angusto, quasi privo di illuminazione, avanzando in un primo tempo lungo un’alta palizzata, con le assi che cigolavano nella tempesta; svoltato l’angolo, si ritrovò in una stradina un po’ più ampia, dove delle misere casette si alternavano ad aree fabbricabili vuote. Da un campanile rintoccarono le tre del mattino. Qualcuno gli stava venendo incontro, in giacca corta, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni, la testa incassata tra le spalle. Fridolin assunse subito un atteggiamento difensivo, ma inaspettatamente, il briccone fece un lesto dietrofront, allontanandosi di corsa. Cosa significa tutto ciò?, si chiese Fridolin. Poi realizzò che doveva avere un aspetto assai poco rassicurante, si tolse il cappello da pellegrino e abbottonò la pelliccia, sotto la quale la tonaca dondolava fino alle caviglie. Svoltò ancora un angolo; imboccò una strada principale periferica, un signore abbigliato da gentiluomo gli passò accanto e lo salutò come si saluta un prete. I raggi di luce di un lampione cadevano sulla targa stradale affissa al palazzo d’angolo. Liebhartstal..., dunque a poca distanza dalla casa che aveva lasciato non più di un’ora prima. Per un attimo ebbe voglia di tornare indietro, rimanendo nei pressi della casa, in attesa di ulteriori eventi. Ma rinunciò subito al progetto, valutando l’eventualità di cacciarsi in guai seri senza peraltro pervenire alla soluzione del mistero. La sola idea delle cose che in quel momento potevano svolgersi nella villa lo riempiva di livore, disperazione, vergogna e paura. Tale stato d’animo si fece talmente insopportabile da indurre Fridolin a rimpiangere quasi di non essere stato assalito dal balordo appena incontrato, a rimpiangere quasi di non trovarsi riverso ai piedi della palizzata con un coltello piantato nelle costole. Così quella nottata insensata, con le sue avventure bizzarre e incompiute avrebbe almeno acquistato una sorta di significato. Tornare a casa, così come stava facendo ora, gli sembrava persino ridicolo. Ma non tutto era ancora perduto. Domani era un altro giorno, dopotutto. Giurò a se stesso che non avrebbe avuto pace finché non avesse rintracciato la bellissima donna, la cui nudità lo aveva accecato e inebriato. Soltanto ora si sovvenne di Albertine..., ma come se dovesse ancora conquistare anche lei, come se non potesse, non dovesse più essere sua, senza che egli non l’avesse prima tradita con tutte le altre di quella notte, con la donna nuda, con Pierrette, con Marianne, con la prostituta del vicolo. E non doveva del resto darsi da fare anche per ritrovare lo sfacciato studente che lo aveva spintonato, per sfidarlo alla sciabola, anzi meglio ancora alla pistola? Che gli importava in fondo della vita di un altro, persino della propria? Era forse obbligatorio metterla in gioco sempre e soltanto per senso del dovere, del sacrificio, e mai per semplice capriccio, per passione, o semplicemente per misurarsi col destino?!E di nuovo gli sovvenne che molto probabilmente aveva già in corpo il germe della malattia mortale. Non sarebbe stato grottesco e ridicolo morire perché un bambino malato di difterite gli aveva tossito in faccia? Probabilmente era già malato. Non gli pareva di avere la febbre? Non si trovava forse a casa, nel suo letto, e tutto quello che aveva creduto di aver vissuto fino a quel momento non era altro che frutto del suo delirio?!Fridolin spalancò gli occhi il più possibile, si passò una mano su fronte e guancia, si tastò il polso. Appena accelerato. Tutto a posto. Era del tutto sveglio.Proseguì lungo la strada, diretto in città. Sentì arrivare dietro di sé un paio di carri del mercato che lo superarono sobbalzando, di tanto in tanto incontrava persone vestite miseramente, per le quali stava iniziando un nuovo giorno. Dietro la vetrata di una caffetteria, a un tavolo sul quale tremolava una fiammella a gas, era seduto un uomo corpulento con una sciarpa avvolta attorno al collo, la testa appoggiata sulle mani. Dormiva. Le case erano ancora immerse nell’oscurità, una fioca luce brillava in poche singole finestre. Fridolin credette di percepire il graduale risveglio della gente, gli sembrava di vederla stiracchiarsi nei propri letti, prepararsi alla loro triste e amara giornata. Anche lui ne aveva una davanti, ma non sarebbe stata né triste né amara. E con il cuore che gli batteva forte, realizzò con gioia che fra poche ore si sarebbe aggirato fra i letti dei suoi pazienti, paludato nel suo camice di lino bianco. Fermo al prossimo angolo di strada vide un fiacre, il cocchiere dormiva a cassetta, Fridolin lo svegliò, gli diede il suo indirizzo e salì a bordo.
Capitolo secondo
Per la strada dovette sbottonarsi la pelliccia. D’improvviso il tempo si era fatto umido e la neve sul marciapiede era quasi del tutto sciolta, mentre nell’aria aleggiava già il profumo della primavera incombente. Dall’abitazione di Fridolin nella Josefstadt, nei pressi del Policlinico, la Schreyvogelgasse distava poco meno di un quarto d’ora di cammino; così Fridolin si trovò ben presto a percorrere la tortuosa e male illuminata scala del vecchio palazzo fino al secondo piano, dove tirò il cordone della campanella esterna; ma prima ancora che risuonasse l’avito scampanellio, notò che la porta d’ingresso era solo accostata; attraversò l’anticamera immersa nella penombra ed entrò nel soggiorno, intuendo all’istante di essere arrivato troppo tardi. La lampada a petrolio schermata da un panno verde che pendeva dal soffitto basso gettava la sua luce fioca sulla coperta del letto, sotto la quale giaceva, supino e immobile, un corpo emaciato. Il viso del morto era in ombra, ma Fridolin lo conosceva talmente bene che gli parve di vederlo con tutta chiarezza... scavato, rugoso, con la fronte alta e la barba corta e bianca, le orecchie particolarmente brutte, dalle quali spuntavano ciuffi di peli canuti. Marianne, la figlia del consigliere, era seduta ai piedi del letto con le braccia abbandonate lungo i fianchi, come sopraffatta dalla stanchezza. C’era un odore di mobili vecchi, medicinali, petrolio e cucina; anche un lieve sentore d’acqua di colonia e sapone alla rosa, e in qualche modo Fridolin riuscì a percepire persino il profumo dolciastro e insipido di quella ragazza pallida e smunta, ancora giovane, che da mesi, anzi da anni, stava lentamente sfiorendo, prigioniera dei pesanti lavori domestici, delle assidue quanto sfiancanti cure al malato e delle veglie notturne.All’arrivo del dottore, ella aveva sollevato la testa, ma la scarsa illuminazione della stanza non gli aveva permesso di constatare se le sue guance si fossero colorite come sempre accadeva al suo apparire. La ragazza fece l’atto di alzarsi, ma un cenno della mano di Fridolin la dispensò dal farlo, ed ella si limitò a fare un cenno di saluto con il capo, guardandolo coi suoi grandi occhi intorbiditi dal dolore. Lui si avvicinò alla testata del letto, sfiorò meccanicamente la fronte del morto le cui braccia, in ampie maniche di camicia coi polsini aperti, erano appoggiate sulla coperta, poi incurvò le spalle, dispiaciuto e impotente, infilò le mani nelle tasche della sua pelliccia, fece vagare lo sguardo per la stanza e finalmente si soffermò su Marianne. I suoi capelli erano folti e biondi, ma secchi e aridi; il collo lungo e ben tornito, ma non del tutto privo di rughe e di colorito leggermente giallastro, e le labbra erano sottili, serrate, come a trattenere le troppe parole non dette.«Ebbene», sussurrò, quasi imbarazzato, «mia cara signorina, la cosa non l’avrà certo colta impreparata».Lei gli porse la mano. Lui la prese senza alcuna partecipazione, le chiese come di prammatica di descrivergli l’andamento dell’ultimo attacco, lei ne fece un rapido e preciso resoconto, passando poi a descrivere gli ultimi giorni, relativamente buoni, durante i quali Fridolin non aveva più visto il malato. Fridolin, che si era avvicinato una sedia, si sedette di fronte a Marianne e la consolò affermando che nelle ultime ore di vita suo padre non doveva aver sofferto molto; poi le chiese se avesse avvertito i parenti. Sì; la portinaia si stava già recando dallo zio, e in ogni modo presto sarebbe arrivato il dottor Roediger, «il mio fidanzato», precisò, fissando Fridolin sulla fronte anziché negli occhi.Fridolin si limitò ad annuire. Nel corso dell’ultimo anno gli era capitato di incontrare un paio di volte il dottor Roediger in quella casa. Il giovane, estremamente pallido e slanciato, con una corta barba bionda e gli occhiali, docente di storia all’università di Vienna, gli aveva fatto una buona impressione, senza però suscitare ulteriore interesse in lui. Marianne avrebbe avuto certo un aspetto migliore, pensò, se fosse stata la sua amante. I suoi capelli sarebbero stati meno aridi, le labbra più rosse e più piene. Quanti anni potrà avere?, si chiese ancora. Quando venni qui per la prima volta, tre o quattro anni or sono, aveva ventitré anni. A quell’epoca sua madre era ancora viva. Era più allegra, quando c’era ancora sua madre. Non aveva anche preso lezioni di canto, per un breve periodo? Dunque, sposerà quell’insegnante. Perché lo fa? Di certo non lo ama, e lui non deve nemmeno essere molto ricco. Che razza di matrimonio sarà? Beh, un matrimonio come migliaia di altri. Che cosa me ne importa? È assai probabile che io non la riveda mai più, non ho più alcun motivo di tornare in questa casa. Oh, quante persone non ho mai più rivisto, persone che mi erano molto più vicine di lei.Mentre era in preda a tutte queste riflessioni, Marianne aveva iniziato a parlare del defunto... con una certa insistenza, come se il semplice fatto di essere morto lo avesse reso automaticamente più interessante. Davvero aveva soltanto cinquantaquattro anni? Beh, certo, i numerosi crucci e le delusioni che aveva patito, la moglie sempre sofferente... e il figlio gli aveva dato tanti pensieri! Come, aveva un fratello? Certo. Lo aveva già detto una volta al dottore. Il fratello viveva da qualche parte all’estero; lì nello studiolo di Marianne c’era un quadro che egli aveva dipinto all’età di quindici anni. Raffigurava un ufficiale che galoppava lungo una collina. Il padre aveva sempre fatto finta di non vederlo, ma era un buon dipinto. Se ne avesse avuto l’opportunità, il fratello sarebbe potuto diventare qualcuno, in quel campo.Come sembra eccitata, pensò Fridolin, e come le brillano gli occhi! Febbre? Possibile. Negli ultimi tempi è dimagrita moltissimo. Catarro apicale, presumibilmente.Lei continuava a parlare, ma a lui sembrava che non sapesse bene a chi si stava rivolgendo; o che stesse parlando più a se stessa. Erano ormai dodici anni che il fratello se n’era andato di casa, già, lei era ancora una bambina, quando era sparito all’improvviso. L’ultima volta che aveva dato notizie di sé era stato quattro o cinque anni prima, a Natale, da una cittadina italiana. Strano, ne aveva dimenticato il nome. Continuò così, a parlare del più e del meno per qualche tempo, senza necessità di farlo, quasi senza nemmeno un filo logico, fin quando non ammutolì all’improvviso per rimanersene là seduta, inerte, con la testa fra le mani. Fridolin era stanco e ancor più annoiato, aspettava ansiosamente che arrivasse qualcuno, i parenti o il fidanzato. Il silenzio nella stanza si fece pesante. Era come se il morto stesse tacendo con loro; non perché ormai era impossibile che si mettesse a conversare; sembrava piuttosto che lo stesse facendo apposta, godendo dell’imbarazzo che si era creato.Lanciandogli un’occhiata obliqua, Fridolin disse: «In ogni caso, per come si sono messe le cose, è un bene per Lei, signorina Marianne, non dover rimanere ancora a lungo in questa casa», e dato che lei aveva sollevato un poco la testa, senza però guardare direttamente Fridolin, «il suo fidanzato otterrà presto una cattedra, immagino; alla facoltà di filosofia la situazione è più favorevole che da noi, in questo senso». Ripensò a come, anni addietro, egli stesso avesse tentato di intraprendere la carriera accademica, ma, tendendo a preferire un’esistenza più agiata, alla fine avesse scelto la libera professione; e all’improvviso provò un senso d’inferiorità nei confronti dell’ineffabile dottor Roediger.«Ci trasferiremo in autunno», disse Marianne, senza muovere un muscolo, «è stato designato a Gottinga».«Ah», disse Fridolin, e stava per farle gli auguri, ma poi la cosa gli sembrò poco indicata in quel momento e in quella circostanza. Lanciò un’occhiata alla finestra chiusa e, senza chiedere il permesso, come esercitando un diritto di medico, aprì entrambe le imposte, facendo entrare aria fresca, che, divenuta nel frattempo ancor più tiepida e primaverile, sembrò portare con sé un odore fresco e pulito dai boschi lontani, che andavano svegliandosi dal sonno invernale. Quando tornò a voltarsi nella stanza, vide gli occhi di Marianne puntati su di lui con espressione interrogativa. Le si avvicinò e disse: «L’aria fresca le farà bene, spero. La temperatura è salita, e ieri notte»... avrebbe voluto dire: siamo tornati in carrozza dal ballo in una tempesta di neve, ma riformulò in fretta la frase e la completò: «Ieri sera c’era ancora mezzo metro di neve sulla strada».Lei udì appena quel che stava dicendo. Le si inumidirono gli occhi, le guance furono percorse da grosse lacrime, e tornò a nascondere il viso fra le mani. Istintivamente, egli le appoggiò una mano sulla testa accarezzandole la fronte. Sentì il suo corpo che iniziava a tremare, poi Marianne cominciò a singhiozzare, dapprima in maniera sommessa, poi sempre più forte. All’improvviso scivolò dalla sedia, si gettò ai piedi di Fridolin, gli cinse le ginocchia con le braccia e vi affondò il viso. Poi alzò gli occhi, spalancati, pieni di dolore selvaggio, e sussurrò in tono appassionato e ardente: «Non voglio andarmene di qui. Anche se lei non tornerà mai qui, anche se non dovessi rivederla mai più; voglio vivere vicino a lei».Fridolin rimase più commosso che stupito; infatti aveva sempre saputo che era innamorata di lui, o almeno che credeva di esserlo.«Si alzi, Marianne, la prego», le disse piano, chinandosi su di lei per sorreggerla, mentre pensava: in tutto questo c’è anche una dose d’isterismo. Gettò uno sguardo obliquo sul padre morto. E se stesse sentendo tutto?, pensò. Magari è solo morte apparente, la sua. Forse ogni essere umano, in queste prime ore dalla dipartita, attraversa una fase di morte apparente... Tenendo Marianne fra le braccia, ma anche un po’ distanziata da sé, le stampò quasi automaticamente un bacio sulla fronte, cosa che gli parve dopo assai ridicola. Gli tornò fugacemente alla memoria un romanzo che aveva letto anni addietro, nel quale un uomo molto giovane, quasi un ragazzo, veniva sedotto, anzi a dire il vero violentato, da un’amica della madre accanto al letto di morte di quest’ultima. Nello stesso istante, senza sapere perché, dovette pensare a sua moglie. Sentì montare dentro di sé una grande amarezza nei suoi confronti e un rancore sordo contro l’uomo con la borsa da viaggio gialla sulle scale dell’albergo in Danimarca. Si strinse forte Marianne al petto, ma non provò alcuna eccitazione; piuttosto la vista di quei capelli aridi e opachi, l’odore dolciastro e stantio del suo vestito rimasto troppo a lungo al chiuso gli ispirarono una sorta di repulsione. In quel momento suonò il campanello ed egli si sentì come liberato da un peso, baciò velocemente la mano a Marianne, quasi con riconoscenza, e andò ad aprire. Sulla porta c’era il dottor Roediger, in soprabito grigio scuro, calosce, un ombrello in mano e un’espressione seria, del tutto consona alle circostanze. I due gentiluomini si salutarono con un cenno del capo, in maniera più confidenziale di quanto non fosse giustificato dal loro effettivo rapporto. Poi entrambi entrarono nella stanza, Roediger espresse le sue condoglianze a Marianne, dopo una breve occhiata desolata al morto; Fridolin si recò nello sudiolo adiacente per stilare il certificato di morte, alzò la fiamma della lampada a gas che ardeva sulla scrivania e lo sguardo gli cadde sull’immagine dell’ufficiale nella candida uniforme, che, brandendo la sciabola, galoppava lungo il pendio della collina, incontro a un invisibile nemico. La tela era stata fissata in una cornice sottile di oro antico e non sembrava nulla di meglio di una modesta oleografia. Col certificato di morte compilato, Fridolin tornò nella stanza accanto, dove i fidanzati erano seduti accanto al letto del padre, mano nella mano.Il campanello della porta tornò a suonare. Il dottor Roediger si alzò e andò ad aprire; nel mentre Marianne disse, in maniera quasi impercettibile e fissando il pavimento: «Ti amo». Fridolin le rispose limitandosi a pronunciare il suo nome, non senza una certa tenerezza. Roediger tornò con un coppia anziana. Erano lo zio e la zia di Marianne; furono scambiate alcune frasi di circostanza, con tutto l’imbarazzo che la presenza di una persona appena trapassata sembra infondere intorno a sé. La piccola stanza sembrò all’improvviso affollata di ospiti affranti, Fridolin si sentì inutile e fuori posto, si congedò e venne accompagnato alla porta da Roediger, cui corse l’obbligo di rivolgergli alcune parole di ringraziamento, esprimendo la speranza di poterlo rivedere presto
Capitolo terzo Davanti al portone, Fridolin alzò lo sguardo verso la finestra che egli stesso aveva aperto poco prima; i battenti tremolavano leggermente nel vento che annunciava la primavera. Le persone rimaste lassù, sia i vivi che i morti, gli sembravano parimenti spettrali, irreali. Egli stesso si sentiva come sfuggito a qualcosa; non tanto a un’esperienza, quanto a una sorta di lugubre incantesimo che non era riuscito a far presa su di lui. Come unica conseguenza provava una strana riluttanza ad avviarsi verso casa. La neve nelle strade si era sciolta, a destra e a sinistra si erano stratificati piccoli mucchietti di poltiglia grigiastra, le fiamme a gas dei lampioni tremolavano, da una chiesa vicina il campanile batté le undici. Fridolin decise che prima di andare a dormire si sarebbe fermato ancora per una mezz’ora nel tranquillo caffè vicino casa sua e si avviò lungo la strada che attraversava il parco del municipio. Qua e là sulle panchine in penombra sedevano alcune coppie abbracciate, come se la primavera fosse davvero già arrivata e l’aria ingannevolmente tiepida non fosse gravida di pericoli. Sdraiato supino su una panchina, col cappello calcato sulla fronte, c’era un uomo dai vestiti piuttosto malconci. E se lo svegliassi, pensò Fridolin, e gli offrissi del denaro per trovarsi un posto dove passare la notte? Ma cosa avrei risolto, proseguì nella sua riflessione, allora dovrei procurargliene altro anche per domani, altrimenti la cosa non avrebbe alcun senso, e alla fine potrei essere sospettato persino di relazioni illecite con lui. Così accelerò il passo, come per sottrarsi il più velocemente possibile a ogni tipo di responsabilità e di tentazione. Perché proprio quello lì?, si chiese; nella sola Vienna esistono migliaia di poveri diavoli come lui. Se ci si dovesse preoccupare di tutti... del destino di tutti gli sconosciuti! E gli venne in mente il morto che aveva appena lasciato e pensò, non senza un brivido, anzi addirittura con ribrezzo, che in quel corpo magro, allungato sotto la coperta di flanella marrone, la decomposizione e il decadimento avevano già iniziato la loro opera sancita da leggi eterne e immutabili. E si rallegrò di essere ancora vivo, che molto probabilmente per lui tutte quelle orribili cose erano ancora lontane; che era ancora nel pieno della giovinezza, aveva una moglie affascinante e amabile e che poteva avere anche un’altra donna, o più d’una, se solo ne avesse avuto voglia. Per far questo, naturalmente, avrebbe avuto bisogno di più tempo libero di quanto non gli fosse concesso; e gli venne in mente che il mattino dopo avrebbe dovuto trovarsi in reparto alle otto, dalle undici all’una aveva le visite private, nel pomeriggio dalle tre alle cinque doveva essere in ambulatorio e che anche nelle ore serali aveva appuntamenti con altri pazienti. E non poteva che sperare di non ricevere altre chiamate in piena notte, come gli era accaduto oggi.Attraversò la piazza del municipio che baluginava come uno stagno dalle acque torbide e si diresse verso il suo quartiere, quello della Josefstadt. Da lontano udì il rumore sordo di passi regolari e, ancora a una certa distanza, vide un piccolo manipolo di studenti coi colori distintivi della loro corporazione svoltare l’angolo. Erano sei o otto al massimo e stavano venendo verso di lui. Quando i ragazzi passarono sotto la luce di un lampione, gli parve di riconoscere i distintivi azzurri degli Alemanni. Egli stesso non si era mai unito a un’associazione studentesca, ma ai suoi tempi aveva sostenuto un paio di duelli alla sciabola. In relazione a questo ricordo del suo periodo studentesco, gli tornarono in mente i due uomini in domino rosso che la sera precedente lo avevano attirato nella loggia per poi abbandonarlo lì da solo in maniera tanto brusca e repentina. Gli studenti erano molto vicini, ora, parlavano forte e ridevano fra loro; non gli sembrava forse di conoscerne un paio, di averli visti all’ospedale? In quella scarsa illuminazione, però, era praticamente impossibile scorgerne bene le fisionomie. Si dovette tenere rasente al muro, per non scontrarsi con loro; ecco, erano passati; solo l’ultimo del gruppetto, un tipo allampanato con il cappotto aperto e una benda sull’occhio sinistro, sembrò aver voluto rimanere indietro a bella posta e lo urtò di lato con il gomito. Non poteva essere un caso. Ma che diavolo gli è venuto in mente?, pensò Fridolin, bloccandosi istintivamente sul posto; l’altro, dopo due passi, fece lo stesso, e così, per qualche istante, i due si guardarono negli occhi da una certa distanza. Improvvisamente, però, Fridolin si voltò e proseguì per la sua strada. Dietro di sé udì una breve risata... Stava già per voltarsi di nuovo, ma percepì un insolito batticuore... proprio come gli era accaduto una volta dodici o quattordici anni prima, quando avevano bussato tanto forte alla sua porta mentre si trovava in compagnia di quella deliziosa giovane creatura che amava tanto fantasticare di un fidanzato che viveva lontano, e che probabilmente non esisteva nemmeno; in realtà, a bussare con tanta violenza era stato soltanto il postino. E ora sentiva battere il suo cuore proprio come allora. Che mi succede, si chiese irritato, accorgendosi che gli tremavano un poco le ginocchia. Sarei dunque un vigliacco?... Sciocchezze, si rispose. Dovrei forse mettermi a competere con uno studente ubriaco, io, un uomo di trentacinque anni, medico professionista, sposato, padre di una bambina!... La sfida! I padrini! Il duello! E alla fine, per un motivo tanto stupido, una ferita al braccio? Impossibilitato a lavorare per almeno due settimane?... O magari con un occhio cavato?... O magari con la setticemia?... E nel giro di otto giorni trovarsi nelle condizioni del signore sotto la coperta di flanella marrone della Schreyvogelgasse! Vigliacco lui?... Aveva sostenuto ben tre duelli alla sciabola, e una volta era stato pronto ad affrontarne persino uno alla pistola, e non era stato per sua iniziativa che la cosa si era risolta pacificamente. E il suo mestiere, poi! Pericoli da tutte le parti, a ogni minuto... Si continuava a dimenticarlo. Quanto tempo era passato da quando quel bambino malato di difterite gli aveva tossito in faccia? Tre o quattro giorni, al massimo. Era una cosa assai più preoccupante di una semplice scaramuccia alla sciabola. Eppure non ci aveva più pensato. Bene, se avesse incontrato ancora quel tipo, avrebbe provveduto a chiarire la faccenda. Non era certo obbligato, a mezzanotte, mentre tornava dal capezzale di un malato, o magari stava recandosi a visitare qualcuno, anche questo poteva essere... No, non era assolutamente obbligato a reagire a una stupida bravata da studenti. Se ad esempio in quel momento gli si fosse fatto incontro il giovane danese, col quale Albertine... Ma no, che cosa andava a pensare? Eppure... Non era diverso dall’essere stata di fatto la sua amante. Anzi, era peggio. Sì, era lui che adesso avrebbe voluto incontrare. Oh, sarebbe stato un vero godimento fronteggiare quel tipo in una qualche radura e puntare la canna di una pistola su quella fronte coperta dai capelli biondi e lisci.D’un tratto si rese conto di essere andato oltre la sua meta e di trovarsi in un vicolo angusto, popolato soltanto da un paio di misere prostitute impegnate nella loro caccia notturna ai clienti. Spettrale, pensò. E nella sua memoria anche gli studenti dai berretti azzurri divennero improvvisamente spettrali, così come Marianne, il suo promesso sposo, lo zio e la zia, che ora immaginava tutti riuniti, mano nella mano, intorno al letto di morte del vecchio consigliere; anche Albertine, che nella sua immaginazione aleggiava nelle sembianze di una donna profondamente addormentata, le braccia incrociate sotto la nuca... e persino sua figlia, che ora giaceva raggomitolata nel lettino d’ottone bianco e stretto, e la governante dalle gote rosse con la voglia sulla tempia sinistra..., tutti loro gli sembravano immersi in una dimensione spettrale. E questa sensazione, nonostante lo facesse un poco rabbrividire, aveva al contempo qualcosa di rassicurante, che sembrava affrancarlo da ogni responsabilità, persino da ogni relazione umana.Una delle giovani passeggiatrici lo invitò a seguirla. Era una creatura leggiadra, ancora giovanissima, assai pallida e con le labbra dipinte di rosso. Anche questo incontro potrebbe finire con la morte, pensò, solo non così subitanea! Anche questa era vigliaccheria? In fondo sì. Udì i suoi passi, e subito la sua voce dietro di sé. «Non vuoi venire con me, dottore?».Si voltò d’impulso. «Come fai a conoscermi?», chiese.«Non la conosco, signore», disse lei, «ma in questo quartiere sono tutti dottori».Era dal tempo del ginnasio che non aveva più avuto a che fare con una donna di quel genere. Stava forse regredendo agli anni della sua adolescenza, vista l’eccitazione suscitata in lui da quella creatura? Si ricordò di un lontano conoscente, un giovane assai elegante cui si attribuiva un favoloso successo con le donne, col quale, da studente, aveva diviso il tavolo in un locale notturno, dopo un ballo, e che prima di allontanarsi con una delle abituali frequentatrici del posto, aveva risposto all’occhiata un po’ stupefatta di Fridolin con le seguenti parole: «Continua a essere la via più comoda... e poi non sono di gran lunga le peggiori».«Come ti chiami?», chiese Fridolin.«Già, e come vuoi che mi chiami? Mizzi, naturalmente». Aveva già girato la chiave nella toppa del portone, era entrata nell’androne e stava aspettando che Fridolin la seguisse.«Forza, sbrigati!», gli disse, vedendolo esitare. D’improvviso egli le fu accanto, il portone si chiuse alle sue spalle, lei chiuse a chiave, accese una candela tozza e gli illuminò la strada. Sono forse impazzito?, si chiese. Non la toccherò con un dito, ovviamente.La stanza della ragazza era illuminata da una lampada a olio. Lei ne alzò il lucignolo, era una stanza assai confortevole, ben tenuta, e in ogni caso vi era un odore assai più gradevole che, ad esempio, a casa di Marianne. Ma già... qui nessun vecchio aveva languito ammalato per mesi. La ragazza sorrise, si avvicinò a Fridolin senza invadenza e lui la respinse con gentilezza. Allora gli indicò una sedia a dondolo, sulla quale lui si accomodò di buon grado.«Sarai certo molto stanco», ipotizzò. Lui annuì. E lei, spogliandosi senza fretta:«Eh già, un uomo come te, avrà un bel po’ da fare, per tutto il giorno. Da questo punto di vista, ce la passiamo meglio noi».Si accorse che le labbra di lei non erano affatto dipinte, ma naturalmente colorite di rosso, e le fece un complimento in proposito.«E perché dovrei truccarmi?», chiese lei. «Quanti anni credi che abbia?»«Venti?», tirò a indovinare Fridolin.«Diciassette», disse lei, gli si sedette sulle ginocchia e gli passò un braccio intorno al collo, come una bambina.Chi mai al mondo potrebbe immaginare, pensò lui, che io mi trovi in questa stanza, in questo momento? Io stesso lo avrei forse ritenuto possibile, un’ora, dieci minuti fa? E... perché? Perché? Lei cercò con le labbra quelle di lui, lui si ritrasse, la ragazza lo guardò stupita, con una leggera tristezza, e scivolò giù dalle sue ginocchia. Lui ne fu quasi dispiaciuto, perché nel suo abbraccio aveva percepito una grande e consolante tenerezza.La ragazza prese una vestaglia rossa appesa alla spalliera del letto, vi si infilò e si strinse le braccia sul petto, avviluppando l’intera figura nell’indumento.«Così va bene?», chiese senza ironia, quasi intimidita, come se si stesse sforzando di comprenderlo. Lui non seppe quasi cosa risponderle.«Hai indovinato», disse poi, «sono davvero stanco e trovo assai comodo starmene qui seduto sulla sedia a dondolo e starti semplicemente a sentire. Hai una voce così carezzevole e dolce. Parla, dunque, raccontami qualcosa».Seduta sul letto, la ragazza scosse il capo.«Hai solo paura», disse piano... E poi, fra sé e sé, in tono quasi impercettibile, «peccato!».Quell’ultima parola gli sferzò il sangue come un’ondata rovente. Le si avvicinò, tentò di abbracciarla, le spiegò che con lei si sentiva completamente a proprio agio, e senza mentire affatto, per giunta. La trasse a sé, la lusingò e corteggiò, come si fa con una ragazza qualsiasi, come si fa con la donna amata. Lei gli resistette, lui provò vergogna e finalmente rinunciò.Lei disse: «Non si può mai sapere, prima o poi può anche accadere. Hai ragione ad aver paura. E se poi capitasse qualcosa, mi malediresti».Le banconote che le offrì vennero respinte con tale determinazione da impedirgli d’insistere oltre. Lei si avvolse in un leggero scialle di lana celeste, accese una candela, gli fece strada accompagnandolo dabbasso e aprì il portone. «Oggi rimango a casa», disse la ragazza. Lui le prese la mano e la baciò in un gesto spontaneo. Lei lo guardò stupita, quasi spaventata, poi scoppiò in una risata d’imbarazzo e di piacere. «Come una vera signorina», disse.Il portone si chiuse dietro di lui e con un rapido sguardo Fridolin si stampò nella memoria il numero civico, per aver modo, il mattino seguente, di far recapitare a quella povera creatura del vino e qualche prelibatezza.
Capitolo quarto Nel frattempo la temperatura era aumentata ulteriormente. Il vento tiepido portava nel vicolo un profumo di prati bagnati e di una lontana primavera montana. E adesso dove si va? Pensò Fridolin, quasi la cosa più logica non fosse stata andare finalmente a casa a dormire. Ma non riusciva a decidersi a farlo. Dopo quell’orribile incontro con gli Alemanni si sentiva come un esiliato, come un reietto... O forse era così dalla dichiarazione di Marianne? No, già da prima... dalla conversazione serale con Albertine aveva cominciato ad allontanarsi sempre più dal contesto abituale del suo essere, diretto verso un mondo diverso, lontano, estraneo.Vagò a casaccio per le strade notturne, lasciò che il leggero vento caldo gli sfiorasse la fronte e finalmente, con passo deciso, come giunto a una meta lungamente agognata, s’infilò in una caffetteria dall’aria modesta, permeata della tradizionale intimità viennese, un ambiente non particolarmente spazioso, illuminato appena quanto basta e poco frequentato, vista l’ora tarda.In un angolo, tre uomini giocavano a carte: un cameriere, che finora era rimasto a guardarli, aiutò Fridolin a togliersi la pelliccia, prese l’ordinazione e gli portò alcune riviste illustrate insieme ai giornali della sera. Fridolin si sentì al sicuro, come protetto, e cominciò a sfogliare i giornali con aria distratta. Il suo sguardo si soffermava un po’ qui e un po’ là. In una città boema erano state divelte dai muri le targhe delle vie in lingua tedesca. A Costantinopoli si teneva una conferenza sulla costruzione di una ferrovia in Asia Minore, cui partecipava anche Lord Cranford. La ditta Benies & Weingruber era quasi fallita. La prostituta Anna Tiger, in un accesso di gelosia, aveva sfigurato la sua amica Hermine Drobizky col vetriolo. Quella sera c’era una degustazione di aringhe nelle Sophiensälen. Una giovane donna, Marie B., abitante in Schönbrunner Hauptstrasse 28, si era avvelenata col cloruro. Tutti questi fatti, sia quelli indifferenti che quelli tristi, nella loro asciutta quotidianità, contribuirono a far ritrovare a Fridolin una certa lucidità e tranquillità d’animo. La giovane donna, Marie B., gli fece compassione; il cloruro, che sciocchezza. In questo preciso momento, mentre lui è comodamente seduto al caffè e Albertine dorme tranquilla con le braccia incrociate sotto la nuca e il consigliere ha già abbandonato tutte le pene della vita terrena, Marie B., Schönbrunner Hauptstrasse 28, si sta contorcendo in preda ad atroci quanto inutili sofferenze.Sollevò lo sguardo dal giornale. Ed ecco che da un tavolo di fronte scorse due occhi puntati su di lui. Era mai possibile? Nachtigall...? Questi però l’aveva già riconosciuto, sollevò, felicemente sorpreso, entrambe le braccia e si avvicinò a Fridolin; era un uomo ancor giovane, alto, piuttosto massiccio, quasi goffo, con i capelli lunghi, leggermente ondulati, biondi e già un pochino brizzolati, e con un paio di baffi sempre biondi, spioventi alla polacca. Portava un soprabito grigio con sotto un frac leggermente unto, una camicia stropicciata con tre bottoni di strass, il colletto spiegazzato e una svolazzante cravatta di seta bianca. Aveva le palpebre arrossate, come per molte notti passate in bianco, anche se gli occhi brillavano cerulei della più autentica bonomia.«Tu qui a Vienna, Nachtigall!», esclamò Fridolin. «Ma allora non lo sai», disse Nachtigall con morbido accento polacco accompagnato da una vaga sfumatura ebraica. «Come facevi a non saperlo? Famoso come sono!». Scoppiò in una risata gioviale e chiassosa e si sedette di fronte a Fridolin.«Davvero?», chiese Fridolin. «Sei forse diventato chirurgo a mia insaputa?».Nachtigall rise ancor più forte. «Non mi hai appena sentito? Poco fa?»«Sentito? In che senso?... Ah già!». Soltanto ora Fridolin ricordò che al suo ingresso, ma già da prima, mentre si stava avvicinando al locale, aveva udito salire della musica di pianoforte da uno scantinato. «Allora eri tu?», esclamò.«E chi altri?», rise Nachtigall.Fridolin annuì. Ma certo; quell’attacco particolarmente energico, quegli accordi bizzarri, un po’azzardati ma piacevoli della mano sinistra gli erano giunti familiari fin dal primo momento. «Dunque ti ci sei dedicato completamente?», volle sapere. Ricordava che Nachtigall aveva definitivamente interrotto gli studi di medicina fin dal secondo preesame di zoologia, peraltro superato con successo, anche se dato con sette anni di ritardo. Ma poi si era diviso tra ospedale, sala anatomica, laboratori e aule di studio per un lungo periodo, e con la sua bionda testa d’artista, il suo colletto perennemente spiegazzato e la cravatta un tempo bianca e sempre svolazzante, era stato un personaggio indubbiamente notevole, popolare in senso buono, apprezzato non soltanto dai colleghi, ma anche da un discreto numero di professori. Figlio di un venditore di acquavite ebreo di una piccola cittadina polacca, a suo tempo aveva lasciato la madrepatria per trasferirsi a Vienna e studiare medicina. Il misero sostegno finanziario offerto dai genitori si era rivelato pressoché inutile fin dall’inizio e oltretutto si era ben presto interrotto, cosa che non gli aveva impedito di continuare a frequentare il Riedhof, dove un gruppo di studenti di medicina dei quali faceva parte anche Fridolin teneva le sue riunioni conviviali. Da un certo momento in poi, le sue consumazioni erano state pagate a turno dagli altri colleghi più benestanti. Anche i vestiti gli venivano talvolta regalati, e anche quelli li accettava volentieri, senza trincerarsi dietro un falso orgoglio. Già nella sua cittadina natale Nachtigall aveva appreso i primi rudimenti del pianoforte da un concertista fallito, e a Vienna, in qualità di studiosus medicinae, aveva avuto accesso al conservatorio, dove pareva venisse considerato un talento pianistico assai promettente. Ma anche qui non si era dimostrato abbastanza diligente e determinato da portare avanti gli studi come si deve; e ben presto si era accontentato del successo riscosso in seno alla sua cerchia di amicizie, o meglio del piacere e del divertimento che riusciva a procurar loro attraverso il suono del pianoforte. Per un certo periodo aveva lavorato come pianista in una scuola di danza nella periferia cittadina. I colleghi d’università e gli amici di bisboccia avevano tentato di introdurlo con la stessa mansione in ambienti sociali più elevati, ma in tali occasioni egli insisteva nel suonare soltanto quel che gli andava a genio sul momento e per il tempo che decideva lui stesso, si intratteneva in lunghe conversazioni non sempre innocenti, almeno per quanto lo riguardava, con affascinanti giovani donne, e beveva più di quel che poteva sopportare. Una volta aveva suonato in casa di un direttore di banca che aveva dato una festa da ballo. Dopo aver messo in imbarazzo, già prima della mezzanotte, con una serie di apprezzamenti allusivi e galanti, diverse giovani donne che gli passavano accanto ballando, e suscitando com’è naturale l’irritazione vivissima dei loro accompagnatori, si era fatto venire la bella idea di suonare un indiavolato cancan, cantandoci su una strofetta satirica piena di doppi sensi con la sua possente voce di basso. Il direttore di banca era intervenuto energicamente. Nachtigall però, come invaso da un beato senso d’euforia, si era alzato e lo aveva stretto in un abbraccio; questi, indignato, benché fosse egli stesso un ebreo, aveva investito il pianista in pieno volto con un insulto rivolto alla sua razza, che Nachtigall aveva immediatamente liquidato con un sonoro quanto improvviso ceffone... mettendo così la parola fine alla sua carriera all’interno dei migliori circoli sociali della città. In ambienti più intimi, in generale sapeva come comportarsi, benché anche in tali occasioni non capitasse di rado che in ora tarda si fosse costretti ad allontanarlo con la forza dal locale in questione. Ma il mattino dopo tali episodi tendevano a venir scusati e dimenticati da tutti i partecipanti. Un giorno, i suoi colleghi avevano ormai da tempo terminato gli studi, egli era improvvisamente sparito dalla città senza salutare nessuno. Per alcuni mesi erano arrivate delle cartoline di suo pugno da diverse città russe e polacche; e una volta Fridolin, cui Nachtigall aveva sempre riservato un posto speciale nel suo cuore, era stato sollecitato a ricordarsi dell’esistenza del suo amico non soltanto attraverso un semplice saluto, ma anche dalla preghiera d’inviargli una modesta somma di denaro, il tutto senza ulteriori spiegazioni. Fridolin aveva inviato i soldi senza indugio alcuno, senza però mai ricevere un ringraziamento, né qualsiasi altro segno di vita da parte di Nachtigall.Eppure in quel momento, all’una meno un quarto di notte, dopo otto anni, Nachtigall insistette per riparare a questa sua mancanza, ed estrasse l’esatto numero di banconote da un portafoglio piuttosto malconcio, che fra l’altro era ben fornito, tanto che Fridolin poté accettare il risarcimento senza rimorsi di coscienza...«Dunque te la passi bene», disse sorridendo, come per tranquillizzare se stesso.«Non mi posso lamentare», rispose Nachtigall. E appoggiando la mano sul braccio di Fridolin: «Ma dimmi un po’, come mai ti trovi qui nel bel mezzo della notte?».Fridolin spiegò la sua presenza in ora così tarda con l’impellente desiderio di sorbire ancora una tazza di caffè, dopo una visita notturna; non disse, però, senza sapere bene perché, di essere arrivato quando il paziente era già passato a miglior vita. Poi si espresse in generale sulla propria attività di medico presso il Policlinico e sulla sua pratica privata e disse anche di essere sposato, felicemente sposato, e padre di una bambina di sei anni.Ora toccava a Nachtigall fare rapporto. Come Fridolin aveva immaginato, aveva trascorso tutti quegli anni come pianista in tutte le possibili città e cittadine polacche, rumene, serbe e bulgare, a Leopoli viveva una donna che gli aveva dato quattro figli...; rise di cuore, come se avere quattro figli, tutti a Leopoli e tutti avuti dalla stessa donna, fosse una cosa oltremodo divertente. Dall’autunno precedente si era di nuovo trasferito a Vienna. Il variété che lo aveva ingaggiato era fallito quasi subito, ora suonava in ogni sorta di locali, dove capitava insomma, talvolta anche in due o tre posti diversi nella stessa serata, quaggiù, per esempio, nello scantinato... Niente di raffinato, certo, fece notare, piuttosto una sorta di pista per birilli, e per quanto riguardava il pubblico... «Ma quando si deve provvedere a quattro figli e a una moglie a Leopoli...», e rise di nuovo, un po’ meno allegramente di prima. «Faccio anche qualche festa privata», aggiunse subito. E quando notò il sorrisetto di rimembranza sul volto di Fridolin: «Non presso direttori di banche o simili, no, in tutti gli ambienti possibili, anche in circoli più estesi, sia pubblici che segreti».«Segreti?».Nachtigall puntò lo sguardo nel vuoto, in un’espressione tra il malinconico e il furbacchione. «Stanno per venirmi a prendere».«Come, suoni ancora a quest’ora?»«Sì, là s’inizia verso le due».«Una cosa particolarmente raffinata», disse Fridolin.«Sì e no», rise Nachtigall, riassumendo subito un’aria seria.«Sì e no...?», ripeté Fridolin, incuriosito.Nachtigall si piegò sul tavolo, sporgendosi verso di lui.«Oggi suono in una residenza privata, ma non so chi ne sia il proprietario».«Dunque ci vai stanotte per la prima volta?», domandò Fridolin, sempre più interessato.«No, è la terza. Ma probabilmente cambieremo di nuovo casa».«Non capisco».«Neanch’io», rise Nachtigall. «Meglio che tu non me lo chieda».«Mmm», fece Fridolin.«Oh, ti sbagli. Non è quel che pensi. Ne ho viste molte, sai, non ci si crederebbe, ma in certe piccole città... Soprattutto in Romania... se ne fanno di esperienze. Ma qui...». Spinse leggermente indietro la tendina gialla della finestra, gettò un’occhiata in strada e disse come fra sé e sé: «Ancora niente»; poi rivolto a Fridolin, come per spiegare, «la carrozza, intendo. Mi viene sempre a prendere una carrozza, e non è mai la stessa».«Mi incuriosisci, Nachtigall», disse Fridolin in tono freddo.«Ascolta», disse allora Nachtigall, dopo qualche esitazione. «Se c’è uno al mondo che mi piacerebbe... Ma come si fa...», e all’improvviso: «Sei coraggioso?»«Strana domanda», disse Fridolin col tono offeso di uno studente affiliato a una qualche associazione studentesca, pronto a raccogliere una sfida.«Non intendo in quel senso».«E in che senso, allora? Perché mai servirebbe del coraggio, in una situazione del genere? Cosa mai può succederti?». E fece una breve risata sprezzante.«A me niente; al massimo che oggi sia l’ultima volta... ma forse lo sarebbe ugualmente». Tacque e tornò a scrutare la strada da dietro la tendina.«Allora?»«Dicevi, scusa?», chiese Nachtigall, come uscito da un sogno.«Vai avanti col tuo racconto. Dal momento che l’hai iniziato... Una società segreta? Un circolo esclusivo? Invitati?»«Non lo so. L’ultima volta c’erano trenta persone, la prima soltanto sedici».«Un ballo?»«Certo che era un ballo». Ora sembrava pentito di aver parlato.«E tu suoni per farli ballare?»«Per farli ballare? Non so se suono per quello, davvero. Io suono, e suono... con gli occhi bendati».«Nachtigall, Nachtigall, che accidenti di canzone mi stai cantando1?».Nachtigall emise un lieve sospiro. «Purtroppo, però, la benda non viene stretta molto. Non abbastanza da impedirmi completamente di vedere, perlomeno. Infatti, attraverso la seta nera, riesco a scorgere le immagini riflesse nello specchio...». E di nuovo rimase in silenzio.«In poche parole», disse Fridolin impaziente e sprezzante, sentendosi però stranamente eccitato, «donnine nude».«Non dire donnine, Fridolin», rispose Nachtigall, come offeso, «donne come quelle non le hai mai viste in vita tua».Fridolin si schiarì la voce con un leggero colpo di tosse. «E quanto costa l’entrée?», chiese con aria apparentemente distratta.«Vuoi dire il biglietto o roba del genere? Ma come ti viene in mente?»«Allora, come si fa a entrare?», chiese Fridolin, con le labbra tirate e tamburellando con le dita sul tavolo.«Devi conoscere la parola d’ordine, e ogni volta è diversa».«E quella di oggi qual è?»«Ancora non lo so. Me la dirà il cocchiere».«Portami con te, Nachtigall».«Impossibile, è troppo rischioso».«Ma un minuto fa hai detto tu stesso che “se c’era una persona al mondo che ti sarebbe piaciuto...”. Ci sarà pure un modo!».Nachtigall lo squadrò con occhio critico. «Così come sei ora, non potresti assolutamente venire, là sono tutti mascherati, le dame e i cavalieri. Hai forse una maschera con te, o roba simile? Impossibile. Magari la prossima volta. Mi inventerò qualcosa». Drizzò le orecchie e tornò a sbirciare in strada da dietro la tendina, poi con un sospiro: «Ecco la carrozza. Addio».Fridolin lo trattenne per un braccio. «Non ti lascio andar via così. Devi portarmi con te».«Ma collega...».«Lascia che pensi io a tutto il resto. So bene che è “rischioso”... Forse è proprio questo ad attirarmi».«Ma come ti ho detto... senza un costume e una maschera...».«Si possono noleggiare».«All’una di notte!».«Stammi a sentire un momento, Nachtigall. All’angolo della Wickenburgstrasse c’è uno di questi posti. Ci passo davanti un paio di volte al giorno». E poi, concitato, con sempre maggiore eccitazione: «Tu rimani qui ancora per un quarto d’ora, Nachtigall, mentre io nel frattempo vado a tentare la sorte. Il proprietario del noleggio abita probabilmente nello stesso palazzo. In caso contrario... rinuncerò. Sarà il destino a decidere. Sempre nello stesso edificio c’è un caffè, Café Vindobona, mi sembra che si chiami. Tu dirai al cocchiere che hai dimenticato qualcosa in quel caffè, entri, io ti aspetto accanto alla porta, mi comunichi in fretta la parola d’ordine e rimonti in carrozza; io, una volta riuscito a noleggiare un costume, ne prenderò subito un’altra e ti verrò dietro... Il resto si vedrà. Ti do la mia parola d’onore, Nachtigall, che mi prenderò la responsabilità di ogni rischio che tu possa correre per colpa mia».Nachtigall aveva cercato più volte d’interrompere Fridolin, ma senza riuscirci. Fridolin lasciò sul tavolo il denaro delle loro consumazioni con una mancia più che generosa, come gli sembrava adeguato allo stile di quella notte, e uscì. Fuori c’era una carrozza chiusa; seduto a cassetta, immobile, c’era un cocchiere completamente vestito di nero, con in testa un cappello a cilindro; come un carro funebre, pensò Fridolin. Pochi minuti dopo, a passo di corsa, aveva raggiunto il palazzo che cercava, all’angolo della strada; suonò il campanello, s’informò presso il portinaio se il noleggiatore di maschere Gibiser abitasse in quell’edificio e sperò dentro di sé che così non fosse. Ma Gibiser abitava effettivamente lì, al piano sottostante il magazzino dei costumi, il custode non sembrava nemmeno troppo stupito di quella visita a tarda ora, anzi, favorevolmente disposto dalla lauta ricompensa offertagli da Fridolin, fece notare che durante il carnevale non era raro che la gente si presentasse anche in piena notte per noleggiare dei costumi. Rimase di sotto a far luce con una candela, finché Fridolin non ebbe raggiunto il primo piano e suonato alla porta. Il signor Gibiser venne subito ad aprire, come se fosse stato lì ad attenderlo; era magro, senza barba, calvo, portava un’antiquata camicia da notte a fiorellini e un berretto alla turca con la nappa, cosa che lo faceva sembrare un ridicolo vecchio uscito da una farsa teatrale. Fridolin gli disse cosa desiderava, sottolineando che non avrebbe badato a spese, al che il signor Gibiser rispose in tono quasi altezzoso: «Non pretendo più di quanto mi spetti».Condusse Fridolin per una scala a chiocciola, che portava di sopra, al magazzino. C’era odore di seta, velluto, profumi, polvere e fiori secchi; su un fluttuante sfondo scuro guizzavano lampi di rosso e d’argento; e all’improvviso, ecco accendersi una gran quantità di piccole luci fra gli armadi aperti di un lungo e stretto corridoio che si perdeva a ritroso nell’oscurità. A destra e a sinistra erano appesi costumi di ogni genere e tipo; da un lato cavalieri, scudieri, contadini, cacciatori, sapienti, orientali, giullari, dall’altra dame di corte, donzelle, contadine, cameriere, regine della notte. Sopra i costumi erano esposti i relativi copricapi, e a Fridolin sembrava di camminare lungo un viale di impiccati nell’atto di invitarsi vicendevolmente a ballare. Il signor Gibiser incedeva alle sue spalle. «Il signore desidera qualcosa di particolare? Louis Quatorze? Directoire? Antico tedesco?»«Mi serve un saio scuro con cappuccio e una maschera nera, nient’altro».In quel momento dall’estremità dal corridoio provenne un rumore di vetri infranti. Fridolin si volse spaventato verso il noleggiatore di costumi, come aspettandosi da lui un’immediata spiegazione. Gibiser rimase invece come raggelato egli stesso, arrancò verso un interruttore nascosto chissà dove... e il corridoio fu invaso da una luce accecante che lo illuminò fino in fondo, dove era situata una piccola tavola apparecchiata di tutto punto con piatti, bicchieri e bottiglie. Da ognuna delle due sedie, una a destra e una a sinistra, si alzarono in piedi due giudici della santa vema in talare rosso, mentre una delicata figurina chiara scompariva nello stesso istante. Gibiser si precipitò a grandi passi sulla scena, allungò un braccio sul tavolo e afferrò una parrucca bianca, mentre intanto, sgusciando da sotto il tavolo, una ragazzina molto giovane e carina, quasi una bambina, in costume da Pierrette con bianche calze di seta, percorreva di corsa il corridoio, raggiungendo Fridolin, che, messo alle strette, la catturò stringendola fra le sue braccia. Gibiser aveva lasciato cadere la parrucca bianca sul tavolo e stava trattenendo i due giudici della vema per il talare, uno a destra e uno a sinistra, gridando a Fridolin: «Signore, non faccia scappare la bambina». La piccola si strinse a Fridolin come in cerca di protezione. Il suo viso, piccolo e smunto, era incipriato di bianco e cosparso di vezzosi nei finti, dai suoi seni delicati saliva un profumo di rose e di cipria... e dai suoi occhi sorridenti traspariva un senso di maliziosa lussuria.«Signori», esclamò Gibiser, «voi rimarrete qui fin quando non vi avrò consegnato alla polizia».«Come si permette?», risposero i due di rimando. Poi, all’unisono: «Non abbiamo fatto altro che accettare l’invito della signorina».Gibiser li lasciò andare entrambi e Fridolin lo udì mentre diceva loro: «Di questo dovrete rendere conto in maniera più precisa: non vi siete accorti di avere a che fare con una demente?»; poi, rivolto a Fridolin: «Vogliate perdonare il contrattempo, signore».«Oh, non fa niente», disse Fridolin. Sarebbe rimasto volentieri lì tutta la notte, oppure si sarebbe portato via la piccola, in qualunque luogo... e qualunque ne fosse stata la conseguenza. Lei lo guardava con aria infantile e invitante, come affascinata. I giudici in fondo al corridoio stavano scambiandosi alcune frasi concitate. Gibiser si voltò verso Fridolin in atteggiamento pratico e gli chiese: «Desidera una tonaca, signore, un cappello da pellegrino, una maschera nera?»«No», disse la Pierrette, con gli occhi che scintillavano, «un mantello di ermellino, devi dargli, a questo signore, e un farsetto di seta rossa».«Tu non ti muovi dal mio fianco», disse Gibiser, indicando una tonaca scura appesa fra un lanzichenecco e un senatore veneziano. «Questa è della sua misura, ed ecco qui il cappello adatto, lo prenda, presto».I due giudici tornarono a farsi sentire. «Signor Chibisier, ora lei ci farà uscire immediatamente», pronunciarono il nome Gibiser con accento francese, con grande sconcerto di Fridolin.«Non se ne parla nemmeno», rispose il noleggiatore di costumi in tono beffardo, «per il momento dovrete avere la compiacenza di attendere qui il mio ritorno».Intanto Fridolin si infilò la tonaca, annodò le estremità del cordone bianco che pendeva dai fianchi, Gibiser gli porse, dall’alto di una stretta scala, il cappello da pellegrino ampio e nero, e Fridolin se lo piazzò sulla testa; ma tutto questo lo fece come sotto costrizione, poiché sentiva sempre più impellente il dovere di rimanere ad assistere la Pierrette, minacciata da un incombente pericolo. La maschera, che Gibiser gli stava ora consegnando, e che si provò immediatamente, era impregnata di un profumo bizzarro, vagamente disgustoso.«Vai avanti», disse Gibiser alla piccola, indicandole la scala con gesto perentorio. Pierrette si voltò, lanciò un’occhiata in fondo al corridoio e agitò la mano in un saluto d’addio allegro e nostalgico al tempo stesso. Fridolin seguì il suo sguardo; laggiù i giudici non c’erano più, sostituiti da due giovani signori alti e slanciati in frac e cravatta bianca, entrambi, però, ancora col viso coperto dalla maschera rossa. Pierrette fluttuò giù per la scala a chiocciola, Gibiser la seguiva da presso, e dietro di loro veniva Fridolin. Giù nell’anticamera Gibiser aprì una porta che conduceva nelle stanze interne e disse a Pierrette: «Per il momento fila a letto, creatura abietta, parleremo appena avrò fatto i conti con i signori di sopra».In piedi sulla soglia, la bianca e delicata creatura scosse sconsolata la testa, scoccando un’occhiata a Fridolin. Questi scorse in un grande specchio a muro sulla destra un pellegrino smilzo e asciutto che altri non era che egli stesso, e se ne meravigliò, soprattutto per la naturalezza con cui si erano svolte le cose.Pierrette era sparita, il vecchio noleggiatore di maschere chiuse la porta a chiave dietro di essa. Poi aprì la porta dell’abitazione e spinse Fridolin sul pianerottolo delle scale.«Mi scusi», disse Fridolin, «quanto le devo...».«Lasci stare, signore, pagherà alla restituzione, mi fido di lei».Ma Fridolin non si mosse. «Mi può giurare che non farà nulla di male a quella povera bambina?»«Perché le interessa, signore?»«Poco fa l’ho sentita definirla demente... e poc’anzi creatura abietta. Una contraddizione assai notevole, non può negarlo».«Ebbene, signore», obiettò Gibiser in tono teatrale, «il demente non è forse una creatura abietta agli occhi di Dio?».Fridolin rabbrividì, inorridito.«Sia come sia», disse quindi, «su questo ci sarebbe molto da discutere. Sono un medico. Parleremo domani della faccenda».Gibiser si lasciò sfuggire una risata silenziosa e strafottente. Nell’androne delle scale avvampò improvvisamente la luce, la porta fra Gibiser e Fridolin si chiuse e subito vi venne fatto scorrere il chiavistello. Mentre scendeva le scale, Fridolin si tolse il cappello, la tonaca e la maschera infilandosi tutto sotto il braccio; il custode del palazzo aprì il portone, la carrozza funebre era proprio lì di fronte con a cassetta il cocchiere immobile. Nachtigall si stava accingendo a lasciare il caffè e non parve affatto compiaciuto della puntualità di Fridolin.«Dunque, ti sei davvero procurato un costume?»«Come vedi. La parola d’ordine?»«Insomma insisti a voler venire?»«Assolutamente».«Allora... la parola d’ordine è Danimarca».«Sei impazzito, Nachtigall?»«Perché?»«Niente, niente... Per caso, quest’estate sono stato sulla costa danese. Sali a bordo, dunque... ma non subito, dammi il tempo di trovare una carrozza, laggiù».Nachtigall annuì, si accese con calma una sigaretta, intanto Fridolin attraversò in fretta la strada, prese un fiacre e, in tono leggero, quasi scherzoso, ordinò al vetturino di seguire la carrozza funebre che stava muovendosi proprio in quel momento davanti a loro.Percorsero l’Alserstrasse, poi si diressero verso la periferia, passando sotto un viadotto ferroviario e proseguendo attraverso vicoli secondari scarsamente illuminati. Fridolin considerò l’eventualità che il vetturino della sua carrozza potesse perdere le tracce di quella che li precedeva; ma tutte le volte che sporgeva il capo attraverso il finestrino aperto, esponendosi all’aria innaturalmente tiepida, scorgeva l’altra carrozza precederli a distanza regolare, con seduto a cassetta, immobile come sempre, il cocchiere con il nero cappello a cilindro. Potrebbe anche andare a finir male, pensò Fridolin. Intanto gli sembrava di percepire ancora il profumo di rose e di cipria salitogli alle narici dai seni di Pierrette. In quale strana storia mi è capitato di imbattermi?, si chiese. Non avrei dovuto farmi convincere ad andar via, era mio dovere rimanere. Dove mi trovo ora?La strada procedeva leggermente in salita, snodandosi fra villette dall’aria modesta. Fridolin credette di orizzontarsi, ora; anni prima si era recato diverse volte da quelle parti per una passeggiata: doveva essere il Galitzinberg, quello che stavano risalendo. Nel pendio che si apriva alla sua sinistra vedeva la città immersa nella foschia, punteggiata di mille luci brillanti. Udì un rumore di ruote dietro di sé e si affacciò per guardare indietro. Erano seguiti da due carrozze, e la cosa gli giunse gradita, così non avrebbe destato sospetti nel cocchiere del carro funebre.D’improvviso, con uno scossone assai violento, la carrozza svoltò di lato e fra cancellate, mura e pendii, cominciò a scendere come in una forra. Fridolin si avvide che era più che mai arrivato il momento di mascherarsi. Si tolse la pelliccia, infilò la tonaca, proprio come faceva ogni mattina col camice in ospedale; e pensò come a una sorta di liberazione che fra poche ore, se tutto andava bene, si sarebbe trovato a camminare come ogni mattina fra i letti dei suoi pazienti... da quel medico coscienzioso e premuroso che era.La carrozza si arrestò. E se, pensò Fridolin, io non scendessi affatto? Se anzi preferissi tornare subito indietro? Ma dove? Dalla piccola Pierrette? O dalla puttanella in Buchfeldgasse? O da Marianne, la figlia del defunto? Oppure a casa? E con un leggero brivido sentì che l’ultima cosa che desiderava era proprio quella. Chissà, forse perché era la via più lunga da percorrere? No, non posso tornare indietro, si disse. Continuerò per la mia strada, a costo della vita. Avrebbe riso dell’enormità di quanto aveva pensato, ma in fondo non si sentiva poi tanto allegro.C’era un cancello di giardino spalancato. La carrozza funebre che li precedeva stava scendendo sempre più giù nella forra oppure nel buio che gli appariva come tale. Dunque Nachtigall era già smontato, in ogni caso. Fridolin saltò lesto dalla carrozza e disse al cocchiere di aspettare il suo ritorno più su, all’altezza di una certa curva, per tutto il tempo necessario. Come garanzia gli lasciò una generosa somma in pagamento anticipato, promettendogli altrettanto denaro per il ritorno. Le carrozze che li avevano seguiti stavano arrivando, una dopo l’altra. Dalla prima, Fridolin vide scendere una figura di donna velata; poi si inoltrò nel giardino e si mise la maschera; un sentiero stretto, illuminato dal palazzo portava fino al portone d’ingresso, due battenti si spalancarono e Fridolin si trovò in un piccolo atrio angusto e bianco. Udì il suono di un armonium, due servitori in livrea scura e maschera grigia erano in piedi alla sua destra e alla sua sinistra.«Parola d’ordine?», gli venne sussurrato da due voci contemporaneamente. E lui rispose: «Danimarca». Uno dei servitori prese subito in consegna la sua pelliccia e con essa sparì in una saletta attigua, l’altro aprì una porta e Fridolin fece il suo ingresso in una sala dal soffitto alto, in penombra, quasi buia, drappeggiata tutt’intorno di seta nera. Maschere in tenuta ecclesiastica camminavano su e giù, dalle sedici alle venti persone, suore e monaci. I suoni dell’armonium che arrivavano in dolci ondate, una melodia sacra italiana, sembravano risuonare dall’alto. In un angolo della sala sostava un gruppetto di persone, tre suore e due monaci; fra loro qualcuno si era voltato di scatto a guardarlo, per poi girarsi di nuovo dall’altra parte, come a ignorarlo intenzionalmente. Fridolin si accorse di essere l’unico con il capo coperto, si tolse il cappello da pellegrino e cominciò a camminare su e giù nella maniera più naturale e innocente possibile; un monaco gli sfiorò il braccio e fece un cenno di saluto con la testa; ma dietro la maschera uno sguardo penetrò a fondo gli occhi di Fridolin per la durata di un secondo. Venne avvolto da uno strano odore umido e piacevole, come di giardini del sud. Di nuovo qualcuno lo sfiorò con il braccio. Stavolta una suora. Come le altre, anche lei aveva un velo nero che le copriva la fronte, la testa e la nuca, sotto i merletti di seta nera della maschera scintillava una bocca rosso sangue. Dove mi trovo? Pensò Fridolin. In una compagnia di folli? O una congrega di congiurati? Sono forse finito al convegno di una setta religiosa? Che Nachtigall avesse ricevuto l’ordine, previa ricompensa, di introdurre un non iniziato di cui prendersi gioco? Ma per essere uno scherzo in maschera, il tutto gli pareva troppo serio, troppo monotono, troppo inquietante. All’armonium si era unita una voce femminile, un’antica aria sacra italiana risuonava per tutta la sala. Tutti si erano fermati, come intenti all’ascolto, anche Fridolin si lasciò catturare per qualche secondo dalla meravigliosa, suadente melodia. All’improvviso una voce femminile sussurrò alle sue spalle: «Non si volti a guardarmi. È ancora in tempo ad andarsene. Lei qui è fuori posto. Se la scoprono, potrebbe accaderle qualcosa di brutto».Fridolin ebbe un sussulto di spavento. Per un secondo, pensò di seguire il consiglio della sconosciuta. Ma la curiosità, la tentazione e soprattutto il suo orgoglio furono più forti di qualsiasi scrupolo. Ormai sono qui, pensò, vada come vada. E scosse la testa in un cenno di diniego, senza voltarsi.La voce alle sue spalle sussurrò: «Mi dispiacerebbe per lei».Decise allora di voltarsi. Vide la bocca rosso sangue scintillare fra i merletti, occhi scuri affondare nei suoi. «Rimango», disse in un tono eroico che non si riconosceva, e tornò a guardare altrove. Il canto stava aumentando d’intensità, l’armonium risuonava in modo nuovo, non più tanto ecclesiastico, ma più laico, mondano e brioso, come in uno scroscio di note d’organo; e guardandosi intorno, Fridolin notò che le suore erano tutte scomparse e che la sala era ormai popolata soltanto di monaci. Anche la voce della cantante nel frattempo era passata da una tetra serietà a un tono alto, quasi giubilante, passando per un elaborato quanto azzardato gorgheggio in crescendo; l’armonium era stato sostituito dal suono più terreno e insolente di un pianoforte. Fridolin riconobbe all’istante il tocco eccitante e sfrenato di Nachtigall, mentre la voce di donna, poco prima così nobile e femminile, si era innalzata verso il soffitto in un ultimo grido acuto e voluttuoso, perdendosi poi nell’infinito. A destra e sinistra si erano spalancate delle porte, da una parte, in penombra, Fridolin riconobbe al pianoforte i contorni indefiniti della figura di Nachtigall, la stanza di fronte invece era illuminata violentemente. Le donne erano lì, immobili, tutte con i loro veli neri sulla testa e intorno alla fronte e alla nuca, maschere di pizzo nero sul volto, ma per il resto completamente nude. Gli occhi di Fridolin scivolarono avidi dalle più formose alle più slanciate, dalle figure minute e delicate a quelle in piena voluttuosa fioritura; e che ognuna di quelle creature completamente scoperte rimanesse tuttavia un mistero e che dalle maschere nere i grandi occhi, mistero ancor più insolubile, posassero lo sguardo scintillante su di lui, tramutava l’indicibile voluttà del guardare in un torturante desiderio, quasi al limite della sopportazione. Ma anche gli altri uomini provavano le stesse sensazioni. I primi deliziati sospiri si tramutarono in gemiti che sembravano scaturire da abissi di sofferenza; si udì un grido provenire da qualche parte... E d’improvviso, come animali braccati, non più paludati nelle loro tonache monacali, ma in colorati costumi da cavalieri bianchi, gialli, blu e rossi, tutti gli uomini si precipitarono fuori dalla sala buia e entrarono in quella illuminata delle donne, dove vennero accolti da risate folli, quasi rabbiose. Fridolin, ancora in tenuta da monaco e leggermente spaventato, fu l’unico a rimanere indietro e si rifugiò nell’angolo più lontano, vicino a Nachtigall, che gli volgeva la schiena. Fridolin vedeva bene che Nachtigall aveva una benda sugli occhi, ma credette anche di intuire come dietro la benda i suoi occhi fossero puntati sullo specchio, dove i cavalieri variopinti volteggiavano nella danza, strettamente allacciati alle loro dame nude.D’improvviso una delle donne fu accanto a Fridolin e sussurrò – poiché nessuno, come se anche le voci dovessero rimanere segrete, pronunciava una sola parola ad alta voce –: «Come mai sei rimasto da solo? Perché ti escludi dalle danze?».Fridolin vide che da un altro angolo due cavalieri lo stavano scrutando attentamente, e immaginò che la creatura al suo fianco – una figura snella e piuttosto androgina – fosse stata da essi inviata per tentarlo e metterlo alla prova. Nonostante ciò, allargò le braccia per attirarla a sé, quando un’altra delle donne si staccò dal suo cavaliere, dirigendosi velocemente verso Fridolin. Capì immediatamente che si trattava della donna che poco prima lo aveva messo in guardia. Lei finse di vederlo per la prima volta e sussurrò, anche se in maniera tale da farsi sentire fino all’altro angolo della sala: «Sei tornato, finalmente?». E ridendo allegramente: «È tutto inutile, ti hanno riconosciuto». Poi, rivolta alla creatura androgina: «Cedimelo per due minuti soltanto. Dopo, se vuoi, potrai tenertelo fino a domattina». Quindi, sempre rivolta a lei, più piano e con una certa euforia gioiosa: «È lui, sì, proprio lui». E l’altra: «Davvero?», rispose, per poi fluttuare veloce nell’angolo dai cavalieri.«Non fare domande», disse la donna rimasta con Fridolin, «e non meravigliarti di nulla. Ho cercato di confonderli, ma ti avverto: alla lunga non può funzionare. Fuggi, prima che sia troppo tardi. E potrebbe essere troppo tardi da un momento all’altro. E stai attento che nessuno segua le tue tracce. Nessuno deve sapere chi sei. Avresti chiuso per sempre con la tranquillità, con la pace nella tua esistenza. Vai adesso!».«Ti rivedrò?»«Impossibile».«Allora rimango».Il corpo nudo della donna fu percorso da un fremito che gli si trasmise all’istante, annebbiandogli i sensi.«In gioco non può esserci nulla di più della mia vita», le disse, «e in questo istante tu per me la vali tutta». Le prese le mani, cercò di attirarla a sé.Lei sussurrò ancora, disperata: «Vai!».Lui rise e udì la propria voce, come la si ode in sogno. «Vedo bene dove mi trovo. Voi tutte non siete certo qui soltanto per far godere chi vi guarda! Ti stai solo divertendo in maniera bizzarra, con me, forse per farmi impazzire del tutto».«Non c’è più tempo, vai adesso!».Ma lui non voleva ascoltarla. «Non dovrebbero esserci delle stanze riservate, qui, dove si ritirano le coppie che si sono formate? Dovrei pensare che tutti i presenti prenderanno congedo gli uni dagli altri con un semplice baciamano? Non ne hanno affatto l’aria».E indicò le coppie che continuavano a danzare, al ritmo indiavolato del pianoforte, nella sala accanto, fin troppo illuminata, corpi bianchi e caldi allacciati a sete azzurre, rosse, gialle. Gli parve che nessuno si curasse di lui, ora, né della donna che aveva accanto; nella sala centrale, quasi buia, erano rimasti praticamente da soli.«Speranza inutile», sussurrò lei. «Qui non ci sono stanze come quelle che immagini tu. Hai ancora un minuto. Fuggi!».«Vieni con me».La donna scosse violentemente il capo, come disperata.Lui tornò a ridere senza riconoscere la propria risata. «Mi stai prendendo in giro. Questi uomini e queste donne sono forse venuti qui solo per infiammarsi a vicenda e poi respingersi? Chi può impedirti di venire via con me, se lo volessi?».Lei fece un profondo sospiro e chinò il capo.«Ah, ora capisco», disse lui. «Questa è la punizione che riservate a chi si insinua qui dentro senza invito. Non avreste potuto escogitarne una più crudele. Risparmiamela. Fammi la grazia. Castigami in un altro modo. Ma non farmi andar via senza di te!».«Tu sei pazzo. Non posso venir via con te... né con nessun altro, se è per questo. E chi tentasse di seguirmi avrebbe segnato il destino di entrambi».Fridolin era come ebbro, non solo di lei, del suo corpo profumato, delle sue labbra rosse e ardenti, non solo dell’atmosfera di quella sala, dei voluttuosi segreti che lo circondavano in quel luogo... Era ebbro e avido allo stesso tempo di tutte le esperienze che gli aveva riservato quella notte, nessuna delle quali era giunta a conclusione; di se stesso, della sua audacia, del cambiamento che sentiva avvenire dentro di sé. E con le mani sfiorò il velo che la donna aveva sulla testa, come se volesse strapparglielo.Lei gli afferrò le mani. «C’è stata una notte in cui a qualcuno è venuto in mente di strappare il velo a una di noi. Gli venne strappata la maschera dal volto e fu cacciato fuori a suon di frustate».«E... lei?»«Forse hai letto di una bella ragazza giovane... È storia di poche settimane fa, che ha ingerito del veleno il giorno prima delle nozze».Sì, ricordava tutto, anche il nome di lei. Lo disse. Non si trattava forse di una ragazza proveniente da famiglia nobilissima, fidanzata a un principe italiano?Ella annuì.All’improvviso vennero raggiunti da uno dei cavalieri, quello dall’aria più nobile di tutti, l’unico vestito di bianco; con un breve inchino, che, se pur cortese, parve leggermente autoritario, invitò a ballare la donna che stava conversando con Fridolin. A Fridolin sembrò che ella esitasse un attimo. Ma l’altro l’aveva già afferrata per la vita, trascinandola con sé nella sala illuminata, a volteggiare fra le altre coppie.Fridolin si ritrovò da solo e quell’improvviso abbandono lo sopraffece come una coltre di gelo. Si guardò intorno. In quel momento nessuno sembrava curarsi di lui. Forse quella era la sua ultima possibilità di allontanarsi impunemente. Cosa però lo trattenesse nel suo angolo, dove ora aveva modo di sentirsi inosservato e privato dell’attenzione altrui – il timore di una ingloriosa e vagamente ridicola ritirata, il torturante e insoddisfatto desiderio del meraviglioso corpo femminile il cui profumo gli aleggiava ancora intorno, o la considerazione che tutto ciò che era accaduto finora non fosse servito ad altro che a valutare il suo coraggio e che quella donna stupenda sarebbe stata il suo premio – non lo sapeva nemmeno lui. In ogni caso era certo che la tensione stava cominciando a diventare insopportabile e che doveva mettere fine a quella situazione ad ogni costo. Qualunque decisione avesse preso, non poteva certo costargli la vita. Forse quella gente era fuori di senno, forse erano dei libertini, comunque non si trattava certo di canaglie o criminali. E gli venne l’idea di unirsi a loro, dichiarandosi un intruso e mettendosi cavallerescamente a loro disposizione. Quella notte poteva terminare soltanto così, con un nobile accordo, se era destinata a significare qualcosa di più di un semplice e confuso susseguirsi di avventure deprimenti, squallide, volgari e lascive, nessuna delle quali, però, giunta a conclusione. Con un sospiro, si preparò a realizzare il suo intento.Ma in quel momento udì sussurrare accanto a sé: «Parola d’ordine!». Un cavaliere nero gli si era avvicinato di soppiatto, e visto che Fridolin non gli aveva risposto immediatamente, ripeté la sua domanda. «Danimarca», disse Fridolin.«Esatto, signore, questa è la parola d’accesso. Ma quella interna, se posso permettermi di chiedergliela?».Fridolin rimase in silenzio.«Dunque non vuole avere la compiacenza di dirci la parola d’ordine della casa?». Il tono era tagliente come la lama di un coltello.Fridolin si strinse nelle spalle. L’altro si portò al centro della stanza, alzò la mano, il pianoforte smise di suonare, le danze s’interruppero. Altri due cavalieri, uno in giallo e uno in rosso, si avvicinarono. «La parola d’ordine, signore», dissero all’unisono.«L’ho dimenticata», rispose Fridolin con un sorriso vacuo, sentendosi del tutto tranquillo.«È una vera disgrazia», disse l’uomo in giallo, «poiché qui da noi averla dimenticata o non averla mai conosciuta sono la stessa cosa».Le altre maschere maschili sciamarono all’interno e su entrambi i lati si chiusero le porte. Fridolin se ne stava lì, l’unico in tonaca monacale in mezzo a una schiera di cavalieri variopinti. «Giù la maschera!», gridarono alcuni senza por tempo in mezzo. Fridolin teneva le braccia tese davanti a sé, come per proteggersi. Essere l’unico a viso scoperto fra tanti mascherati gli pareva mille volte peggio che trovarsi completamente nudo fra gente vestita. E disse con voce ferma: «Se qualcuno fra lor signori dovesse sentirsi ferito nell’onore dalla mia presenza, mi dichiaro disposto a dargli soddisfazione nei modi consueti. Ma toglierò la maschera solo nel caso che anche tutti loro facciano altrettanto, miei signori».«Qui non si tratta di soddisfazione», disse il cavaliere in rosso, che finora non aveva ancora parlato, «ma di punizione».«Giù la maschera!», ordinò allora un altro in tono acuto e insolente, che ricordò a Fridolin il tono di comando di un ufficiale. «Quel che l’aspetta le va detto in pieno viso, senza l’impaccio di una maschera».«Non la tolgo», disse Fridolin in tono ancor più tagliente, «e guai a chi oserà toccarmi».Un braccio si protese all’improvviso verso il suo volto, come per strappargli la maschera, quando d’un tratto la porta della sala si spalancò e una delle donne – Fridolin non aveva alcun dubbio su chi potesse essere – si presentò sulla soglia vestita da suora, così come l’aveva vista la prima volta. Ma dietro di lei, nella sala eccessivamente illuminata si vedevano le altre, nude e col volto velato, strette l’una contro l’altra, mute, una schiera intimidita e spaventata. La porta, però, si richiuse subito.«Lasciatelo», disse la suora, «sono disposta a riscattarlo».Ci fu un breve silenzio di tomba, come se fosse appena accaduto qualcosa di immane, poi il cavaliere nero, quello che per primo aveva preteso la parola d’ordine da Fridolin, si rivolse alla suora con le parole: «Sai a cosa vai incontro, in questo modo».«Lo so».La sala fu attraversata da una sorta di profondo sospiro.«Lei può andare», disse il cavaliere a Fridolin, «lasci immediatamente questa casa e si guardi bene dall’indagare ulteriormente sui segreti nella cui anticamera si è insinuato. Nel caso cercasse di mettere qualcuno sulle nostre tracce, qualunque possa essere l’esito della sua ricerca... lei sarebbe perduto».Fridolin rimase immobile. «In che maniera questa donna dovrebbe... riscattarmi?», chiese.Nessuna risposta. Alcune braccia indicarono la porta, invitandolo ad allontanarsi immediatamente.Fridolin scosse il capo in segno di diniego. «Infliggetemi pure qualunque pena desideriate, non tollererò che sia un altro essere umano a pagare per me».«Il destino di questa donna», disse il cavaliere nero, ora in tono mite, «non potrebbe comunque cambiarlo. Una volta fatta una promessa, qui da noi non si torna più indietro».La suora annuì lentamente, a conferma di quanto veniva detto. «Vai!», disse a Fridolin.«No», rispose questi in tono alterato. «La vita non avrà più alcun valore, per me, se dovrò andarmene senza di te. Non ti chiedo di dirmi da dove vieni o chi sei. Che differenza può fare, per voi, miei sconosciuti signori, portare o no a compimento questa commedia di Carnevale, per quanto essa possa esser destinata a un finale serio e importante? Chiunque voi siate, miei signori, voi conducete un’altra esistenza, assai diversa da questa. Io invece non sto recitando una commedia, neanche qui, e se finora l’ho fatto per adeguarmi alla circostanza, sono pronto a smettere in questo stesso istante. Sento di esser caduto preda di un destino che non ha più nulla a che fare con questa mascherata, voglio dirvi il mio nome, voglio togliermi la maschera, assumendomi la piena responsabilità di ogni possibile conseguenza».«Guàrdatene bene!», esclamò la suora, «sarebbe la tua rovina e non servirebbe a salvarmi! Vai!». E rivolta agli altri: «Eccomi, sono qui, mi consegno a voi... tutti!».Il costume scuro le scivolò di dosso come per magia, ed ella rimase là, nel fulgore del suo corpo bianco, afferrò il velo che teneva avvolto intorno alla testa, la fronte e la nuca e con un movimento fluido e circolare lo svolse completamente. Questo cadde a terra, mentre i capelli bruni scendevano a coprirle le spalle, i seni e i fianchi... Ma, prima ancora che Fridolin potesse cogliere le fattezze del suo volto, braccia poderose lo afferrarono, lo trascinarono via e lo spinsero verso la porta; un attimo dopo si trovò nell’anticamera, la porta dietro di lui si chiuse, un servitore mascherato gli porse la pelliccia, aiutandolo a infilarla, e il portone del palazzo si aprì. Egli continuò a camminare, come trascinato da una forza invisibile, raggiunse la strada, la luce dietro le sue spalle si spense, si guardò indietro e vide la casa buia e silenziosa, con le finestre chiuse dalle quali non trapelava nemmeno un filo di luce. Devo imprimermi bene tutto nella mente, fu il suo pensiero principale. Devo ritrovare la casa, tutto il resto verrà da sé.La notte lo avvolgeva completamente, a una certa distanza sopra di lui, là dove doveva attenderlo la carrozza, brillava una lanterna dal cupo bagliore rossastro. Dal profondo del vicolo emerse la carrozza funebre, come se l’avesse evocata lui stesso. Un servitore aprì la portiera.«Ho la mia carrozza», disse Fridolin. Il servitore scosse la testa. «Se dovesse essersene andata, tornerò a piedi in città».Il servitore rispose con un gesto della mano così poco servile da escludere ogni tipo di protesta. Il cilindro del cocchiere si ergeva, ridicolmente lungo, nella notte. C’era un vento forte e il cielo era attraversato da nuvole di uno strano colore viola. In base alle esperienze avute finora, Fridolin non poteva illudersi, ormai, che gli rimanesse altro da fare che salire su quella carrozza, che non appena lo ebbe accolto a bordo si mise subito in marcia.Fridolin si sentiva più che mai deciso a intraprendere, appena possibile, qualsiasi cosa potesse condurlo a far luce su quell’avventura, a costo di qualunque rischio. La sua esistenza, così gli pareva, non avrebbe avuto più alcun senso se non gli fosse riuscito di ritrovare l’enigmatica donna che in quel momento stava pagando il prezzo della sua salvezza. Quale fosse quel prezzo, era fin troppo facile indovinarlo. Ma che motivo aveva avuto di sacrificarsi per lui? Sacrificarsi...? Era lecito pensare che si trattasse di una donna per la quale ciò che l’attendeva, la cosa che si era lasciata infliggere, poteva costituire un sacrificio? Se partecipava a quelle riunioni – e non poteva essere quella la prima volta, visto come si era mostrata avvezza alle usanze – cosa poteva importarle, in fondo, di abbandonarsi al volere di uno di quei cavalieri, o magari di tutti loro? Poteva essere qualcosa di diverso da una prostituta? Tutte quelle donne potevano mai essere altro? Prostitute... senza dubbio. Anche se tutte loro conducevano una seconda vita, per così dire borghese, accanto a questa, che era appunto una vita da prostituta. E se tutto quello che gli era appena capitato non fosse stato altro che un tiro infame che qualcuno si era preso la libertà di giocargli? Uno scherzo già previsto, preparato e magari anche studiato per il caso in cui un non iniziato si fosse introdotto senza invito al festino? Eppure, quando ripensava a quella donna, che lo aveva avvertito fin dall’inizio e che ora era pronta a pagare per lui... Nella sua voce, nel suo portamento, nella regale nobiltà del suo corpo svelato c’era stato qualcosa che era impossibile definire menzogna. O forse era stato semplicemente l’improvviso apparire di Fridolin a servire da miracoloso catalizzatore della sua trasformazione? Dopo tutto quel che gli era accaduto quella notte, riteneva – e pensandolo non ritenne di doverla considerare una vanità – che un miracolo di tal genere fosse affatto plausibile. Forse vi sono ore, notti, pensò, in cui uno strano e irresistibile fascino di tal guisa emana da uomini che in circostanze ordinarie non esercitano un potere particolare sull’altro sesso? La carrozza continuava a procedere in salita e, in situazione normale, da un pezzo avrebbe dovuto immettersi sulla strada principale. Cosa avevano in mente di fargli? Dove l’avrebbe condotto la carrozza? Quella commedia era dunque destinata ad avere anche un seguito? E di che tipo? Magari una sorta di rivelazione? Un allegro ritrovarsi in un altro luogo? Un premio dopo aver onorevolmente superato la prova, entrare a far parte della società segreta? Poter possedere indisturbati la bellissima suora...? I finestrini della carrozza erano chiusi, Fridolin cercò di sbirciare all’esterno; erano opacizzati. Tentò di abbassare i vetri, a destra, a sinistra, ma era impossibile; e altrettanto opacizzato nonché ermeticamente chiuso era il pannello di vetro che lo divideva dalla zona della cassetta. Bussò sul vetro, gridò, urlò, la carrozza continuò a procedere senza esitazione alcuna. Avrebbe voluto aprire uno sportello, a destra, a sinistra, ma nessuno dei due cedeva sotto la sua spinta, le sue rinnovate grida risuonarono mescolandosi al rumore delle ruote, si persero nel fruscio del vento. La carrozza prese a sobbalzare, si lanciò in discesa, sempre più veloce; Fridolin, ormai prigioniero della sua inquietudine, della paura, era ormai sul punto di frantumare il vetro di uno dei finestrini ciechi, quando all’improvviso la carrozza si fermò. Entrambe le portiere si aprirono contemporaneamente, neanche fossero comandate da un meccanismo, come se per ironia della sorte ora a Fridolin fosse concesso di scegliere fra lo sportello di destra e quello di sinistra. Saltò fuori dalla carrozza, le portiere si richiusero di scatto... e senza che il cocchiere si fosse minimamente curato di Fridolin, la carrozza si allontanò in aperta campagna, scomparendo nella notte.Il cielo era coperto, le nuvole s’inseguivano l’un l’altra, il vento soffiava, Fridolin era in piedi nella neve che spandeva tutt’attorno un pallido chiarore. Se ne stava lì da solo, con la pelliccia aperta sulla tonaca monacale, in testa il cappello da pellegrino, per nulla a proprio agio. A una certa distanza si snodava la strada principale. Una processione di lampioni dalla luce smorta contraddistingueva la parte che portava in città. Fridolin però s’incamminò dritto davanti a sé, tagliando la strada attraverso il campo innevato che digradava lentamente, per accorciare il cammino e arrivare il più presto possibile in un luogo popolato. Con i piedi completamente bagnati, raggiunse un vicoletto angusto, quasi privo di illuminazione, avanzando in un primo tempo lungo un’alta palizzata, con le assi che cigolavano nella tempesta; svoltato l’angolo, si ritrovò in una stradina un po’ più ampia, dove delle misere casette si alternavano ad aree fabbricabili vuote. Da un campanile rintoccarono le tre del mattino. Qualcuno gli stava venendo incontro, in giacca corta, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni, la testa incassata tra le spalle. Fridolin assunse subito un atteggiamento difensivo, ma inaspettatamente, il briccone fece un lesto dietrofront, allontanandosi di corsa. Cosa significa tutto ciò?, si chiese Fridolin. Poi realizzò che doveva avere un aspetto assai poco rassicurante, si tolse il cappello da pellegrino e abbottonò la pelliccia, sotto la quale la tonaca dondolava fino alle caviglie. Svoltò ancora un angolo; imboccò una strada principale periferica, un signore abbigliato da gentiluomo gli passò accanto e lo salutò come si saluta un prete. I raggi di luce di un lampione cadevano sulla targa stradale affissa al palazzo d’angolo. Liebhartstal..., dunque a poca distanza dalla casa che aveva lasciato non più di un’ora prima. Per un attimo ebbe voglia di tornare indietro, rimanendo nei pressi della casa, in attesa di ulteriori eventi. Ma rinunciò subito al progetto, valutando l’eventualità di cacciarsi in guai seri senza peraltro pervenire alla soluzione del mistero. La sola idea delle cose che in quel momento potevano svolgersi nella villa lo riempiva di livore, disperazione, vergogna e paura. Tale stato d’animo si fece talmente insopportabile da indurre Fridolin a rimpiangere quasi di non essere stato assalito dal balordo appena incontrato, a rimpiangere quasi di non trovarsi riverso ai piedi della palizzata con un coltello piantato nelle costole. Così quella nottata insensata, con le sue avventure bizzarre e incompiute avrebbe almeno acquistato una sorta di significato. Tornare a casa, così come stava facendo ora, gli sembrava persino ridicolo. Ma non tutto era ancora perduto. Domani era un altro giorno, dopotutto. Giurò a se stesso che non avrebbe avuto pace finché non avesse rintracciato la bellissima donna, la cui nudità lo aveva accecato e inebriato. Soltanto ora si sovvenne di Albertine..., ma come se dovesse ancora conquistare anche lei, come se non potesse, non dovesse più essere sua, senza che egli non l’avesse prima tradita con tutte le altre di quella notte, con la donna nuda, con Pierrette, con Marianne, con la prostituta del vicolo. E non doveva del resto darsi da fare anche per ritrovare lo sfacciato studente che lo aveva spintonato, per sfidarlo alla sciabola, anzi meglio ancora alla pistola? Che gli importava in fondo della vita di un altro, persino della propria? Era forse obbligatorio metterla in gioco sempre e soltanto per senso del dovere, del sacrificio, e mai per semplice capriccio, per passione, o semplicemente per misurarsi col destino?!E di nuovo gli sovvenne che molto probabilmente aveva già in corpo il germe della malattia mortale. Non sarebbe stato grottesco e ridicolo morire perché un bambino malato di difterite gli aveva tossito in faccia? Probabilmente era già malato. Non gli pareva di avere la febbre? Non si trovava forse a casa, nel suo letto, e tutto quello che aveva creduto di aver vissuto fino a quel momento non era altro che frutto del suo delirio?!Fridolin spalancò gli occhi il più possibile, si passò una mano su fronte e guancia, si tastò il polso. Appena accelerato. Tutto a posto. Era del tutto sveglio.Proseguì lungo la strada, diretto in città. Sentì arrivare dietro di sé un paio di carri del mercato che lo superarono sobbalzando, di tanto in tanto incontrava persone vestite miseramente, per le quali stava iniziando un nuovo giorno. Dietro la vetrata di una caffetteria, a un tavolo sul quale tremolava una fiammella a gas, era seduto un uomo corpulento con una sciarpa avvolta attorno al collo, la testa appoggiata sulle mani. Dormiva. Le case erano ancora immerse nell’oscurità, una fioca luce brillava in poche singole finestre. Fridolin credette di percepire il graduale risveglio della gente, gli sembrava di vederla stiracchiarsi nei propri letti, prepararsi alla loro triste e amara giornata. Anche lui ne aveva una davanti, ma non sarebbe stata né triste né amara. E con il cuore che gli batteva forte, realizzò con gioia che fra poche ore si sarebbe aggirato fra i letti dei suoi pazienti, paludato nel suo camice di lino bianco. Fermo al prossimo angolo di strada vide un fiacre, il cocchiere dormiva a cassetta, Fridolin lo svegliò, gli diede il suo indirizzo e salì a bordo.
1 Nachtigall, in tedesco, significa “usignolo” (n.d.t.).
Capitolo quinto Erano le quattro del mattino quando salì la scalinata che portava a casa sua. Prima di tutto, si recò nel suo studio, ripose con cura il costume in un armadio e, volendo evitare di svegliare Albertine, si tolse anche le scarpe e i vestiti prima di entrare in camera da letto. Con cautela, accese la luce bassa della sua lampada da comodino. Albertine giaceva tranquilla al suo posto, le braccia incrociate dietro la nuca, le labbra socchiuse, circondate da ombre dolorose; era un’espressione, la sua, che Fridolin non conosceva. Si chinò sulla sua fronte, che subito, come sfiorata da qualcosa, si aggrottò, i lineamenti irrigiditi in maniera singolare; e all’improvviso, sempre dormendo, scoppiò in una risata alta e stridula, che spaventò Fridolin. D’impulso, la chiamò per nome. Lei tornò a ridere come in risposta, in maniera del tutto estranea, quasi inquietante. Fridolin la chiamò ancora, più forte. Stavolta lei aprì gli occhi, lentamente, con fatica, li spalancò e si mise a fissarlo come se non lo riconoscesse.«Albertine!», la chiamò per la terza volta. Solo ora ella sembrò tornare alla realtà. Nei suoi occhi apparve un’espressione di ripulsa, di paura, si sarebbe detto quasi di raccapriccio. Allungò le braccia verso l’alto, in una sorta di incongruo gesto di disperazione, mentre la bocca rimaneva aperta.«Che ti succede?», chiese Fridolin col cuore in gola. E dato che lei lo guardava ancora terrorizzata, aggiunse per tranquillizzarla: «Sono io, Albertine». Lei respirò profondamente, cercò di sorridere, fece ricadere le braccia sulla coperta del letto, e, come da lontano, gli chiese: «È già mattina?»«Quasi», rispose Fridolin. «Sono le quattro passate. Sono appena tornato a casa». Lei rimase in silenzio. Lui proseguì: «Il consigliere è morto. Era già in agonia quando sono arrivato... e naturalmente... non ho potuto lasciare subito i parenti».Lei annuì, ma sembrava quasi non averlo udito o compreso, fissava nel vuoto, attraverso di lui e Fridolin ebbe l’impressione, per quanto gli sembrasse subito assurda quell’idea, che lei dovesse in qualche modo sapere ciò che gli era accaduto quella notte. Si chinò su di lei e le sfiorò la fronte. Albertine rabbrividì leggermente.«Che cos’hai?», le chiese di nuovo.Lei scosse lentamente la testa. Le accarezzò i capelli. «Albertine, che cos’hai?»«Stavo sognando», disse lei, come assente.«Che cosa?», le chiese in tono pacato.«Tante cose, non ricordo esattamente».«Forse invece sì».«Era tutto così confuso... e sono stanca. Anche tu sarai stanco, immagino».«Per nulla, Albertine, non credo che andrò a dormire. Lo sai, quando torno a casa così tardi... la cosa più ragionevole, in realtà, sarebbe sedersi subito alla scrivania... proprio in queste ore del mattino...». S’interruppe. «Ma non volevi raccontarmi cosa avevi sognato?». Fece un sorriso un po’ forzato.Lei rispose: «Dovresti sdraiarti un pochino, invece».Lui esitò un attimo, poi seguì il suo consiglio e si sdraiò al suo fianco. Ma si guardò bene dallo sfiorarla. Una spada tra noi, pensò, ricordando un’affermazione semiseria dello stesso tipo che una volta gli era sfuggita in una situazione analoga. Tacquero entrambi, sdraiati con gli occhi aperti, percependo la reciproca vicinanza, la reciproca distanza. Dopo qualche tempo, egli appoggiò la testa sul braccio e si mise a osservarla, a lungo, come se in realtà riuscisse a vedere molto più dei suoi semplici lineamenti nella penombra.«Il tuo sogno!», tornò a dire all’improvviso, e fu come se lei non avesse aspettato altro che quell’invito. Allungò una mano verso di lui; egli la prese e come d’abitudine, più distrattamente che teneramente, intrecciò giocosamente le sue dita affusolate con le proprie. Lei però prese a dire:«Ricordi la stanza nella piccola villa sul Wörthersee, dove abitavo coi miei genitori durante l’estate del nostro fidanzamento?».Lui annuì.«È così infatti che iniziava il sogno, entravo in quella stanza, proveniente non so da dove... come un’attrice che entra in scena. Sapevo soltanto che i miei genitori erano in viaggio e che mi avevano lasciata sola. La cosa mi stupiva molto, perché il giorno seguente doveva essere quello del nostro matrimonio. Ma il vestito da sposa non era ancora arrivato. O forse mi stavo sbagliando? Aprii l’armadio per controllare e invece del vestito da sposa vi vidi appesa una serie di altri vestiti, costumi, in realtà, abiti da opera, sontuosi, orientaleggianti. Quale indossare per il matrimonio?, pensai. E all’improvviso l’armadio si chiuse, o sparì del tutto, non ricordo bene. La stanza era molto illuminata, ma fuori, dietro la finestra, era notte fonda... Tutt’a un tratto apparisti tu, gli schiavi di una galera ti avevano portato fin lì remando, li vidi sparire nel buio. Eri vestito in maniera assai sfarzosa, in oro e seta, portavi al fianco un pugnale con dei ciondoli d’argento e mi calasti fuori della finestra. Ora anch’io ero vestita con sfarzo, come una principessa, ci trovavamo entrambi all’aperto, nella luce crepuscolare, e brandelli di nebbia grigia fluttuavano intorno alle nostre caviglie. Era il paesaggio a noi familiare: laggiù c’era il lago, davanti a noi le montagne, vedevo anche le case coloniche, come uscite da una scatola di giocattoli. Noi due, però, tu ed io, fluttuavamo, anzi, volavamo sulla nebbia, ed io pensavo: questo è dunque il nostro viaggio di nozze. Ben presto, però, smettemmo di volare, percorrevamo un sentiero nel bosco, quello che conduce alla Elisabethhöhe, e all’improvviso ci trovammo in alta montagna, in una sorta di radura, circondata dal bosco su tre lati, mentre dietro di noi si stagliava una ripida parete rocciosa. Ma sopra le nostre teste c’era un cielo stellato di un blu così intenso e così esteso come non ne esistono in natura, e quello era il soffitto della nostra stanza nuziale. Poi tu mi prendesti fra le braccia e mi amasti con passione».«Spero che anche tu abbia fatto altrettanto», disse Fridolin con un impercettibile risolino cattivo.«Credo anche molto di più», rispose Alberine, seria. «Ma, come posso spiegartelo... Nonostante l’amplesso pieno di trasporto, la nostra intimità aveva un che di malinconico, come un presagio di dolore. D’un tratto venne il mattino. Il prato era luminoso e pieno di colori, il bosco all’intorno cosparso di rugiada, e sulla parete rocciosa tremolavano i raggi del sole. E adesso noi due saremmo dovuti tornare nel mondo, fra la gente, era arrivato il momento. Ma era accaduto qualcosa di terribile. I nostri vestiti erano spariti. Venni assalita da un terrore senza pari, una vergogna bruciante, fino all’intima distruzione, e allo stesso tempo provavo una gran rabbia nei tuoi confronti, come se fossi tu l’unico responsabile di quella disgrazia; e tutto questo insieme di sentimenti: orrore, vergogna, rabbia... nella sua veemenza non era assolutamente paragonabile a qualsiasi cosa mi fosse mai accaduto di provare da sveglia. Tu invece, nella consapevolezza della tua colpa, ti precipitasti, nudo com’eri, giù a valle per procurarci dei vestiti. E appena te ne fosti andato, il mio morale si risollevò. Non provavo né compassione, né ero preoccupata per te, ero solo contenta di essere sola, così presi a correre felice sul prato cantando: era la melodia di un ballabile che abbiamo ascoltato alla festa mascherata. La mia voce aveva un suono celestiale e desiderai che mi si potesse udire fin giù in città. Questa città io non la vedevo, ma sapevo che c’era. Era laggiù, sotto di me, ed era circondata da un’alta muraglia; una città del tutto fantastica, che non so descrivere. Né orientale, né una vecchia città tedesca in senso stretto, ma un po’ l’una e un po’ l’altra, in ogni caso una città scomparsa da tempo e per sempre. Io però mi trovai all’improvviso distesa sul prato, sotto il sole... molto più bella di quanto non sia mai stata in realtà, e mentre me ne stavo così sdraiata, dal bosco emerse un signore, un uomo giovane con un vestito chiaro, di taglio moderno, simile, me ne rendo conto solo ora, a quel danese di cui ti parlavo ieri. Andò per la sua strada, salutò cortesemente passandomi accanto, senza però degnarmi di uno sguardo di troppo, si diresse dritto alla parete rocciosa e la osservò con attenzione, come se stesse valutando il modo per superarla. Allo stesso tempo, però, vedevo anche te. Nella città scomparsa vagavi freneticamente di casa in casa, di negozio in negozio, a volte sotto dei pergolati, a volte attraverso una specie di bazar turco, comperando le cose più belle che potevi trovare per me: vestiti, biancheria, scarpe, gioielli;... e tutte queste cose le infilavi in una piccola borsa di cuoio giallo, dove però entrava ogni cosa. Tuttavia eri costantemente inseguito da una moltitudine che io non vedevo, ma di cui riuscivo solo a sentire il cupo e minaccioso boato. Ed ecco ricomparire l’altro, il danese, che prima era rimasto fermo davanti alla parete di roccia. Di nuovo, si dirigeva verso di me, uscendo dal bosco... ed io sapevo che nel frattempo egli aveva fatto il giro del mondo. Aveva un aspetto diverso, eppure era lo stesso uomo. Come la prima volta, si fermò davanti alla parete rocciosa, scomparve di nuovo, e di nuovo tornò a sbucare dal bosco, scomparve, riemerse dal bosco; la cosa si ripeté due o tre o cento volte. Era sempre lo stesso e sempre diverso, ogni volta salutava passandomi accanto, ma poi finalmente si fermò davanti a me, mi guardò valutandomi, io risi in maniera assai seducente, come mai ho riso in vita mia, lui protese le braccia verso di me, ora avrei voluto fuggire, ma non osavo... ed egli si lasciò cadere sul prato accanto a me».Tacque. Fridolin aveva la gola secca, nel buio della stanza vide Albertine che nascondeva il volto fra le mani.«Un sogno davvero strano», disse. «Ed è finito così?». E vedendola scuotere il capo in segno di diniego: «Continua a raccontare, allora».«Non è facile come pensi», riprese. «In realtà certe cose si stenta a esprimerle a parole. Dunque... avevo l’impressione di vivere innumerevoli giorni e notti, non c’era né tempo né spazio, né mi trovavo più nella radura delimitata dal bosco e dalla parete rocciosa, bensì in una vasta pianura sconfinata tempestata di fiori colorati, che si perdeva all’orizzonte da ogni lato. E da tempo ormai – strano questo “da tempo” – non ero più sola con quell’uomo sul prato. Ma se oltre a me vi fossero state altre tre o dieci o persino cento coppie, se io le vedessi o no, se appartenessi a quel singolo uomo o anche ad altri, non saprei dire con precisione. Eppure, proprio come la precedente sensazione di orrore e vergogna era stata di gran lunga superiore a qualsiasi cosa vissuta da sveglia, così non c’è sicuramente nulla nella nostra esistenza cosciente che possa essere paragonato alla sensazione di leggerezza, libertà e felicità che provai in quel momento nel sogno. E tuttavia non smettevo nemmeno per un attimo di seguire la tua sorte. Anzi, ti vedevo, vedevo come venivi assalito da alcuni soldati, penso vi fossero anche dei sacerdoti fra essi; qualcuno, un uomo gigantesco, ti legava le mani e io capivo che avresti dovuto essere giustiziato. Ne prendevo atto senza provare alcun senso di compassione, né raccapriccio, completamente distaccata. Venivi condotto in un cortile, una specie di corte di un castello. Eri lì, in piedi, con le mani legate sulla schiena e completamente nudo. E così come io ti vedevo, benché mi trovassi in un altro luogo, mi vedevi anche tu, nonché l’uomo che mi teneva fra le braccia, e tutte le altre coppie, quest’infinita marea di nudità, che mi avvolgeva nella sua schiuma e della quale io e l’uomo che mi teneva avvinta rappresentavamo insieme soltanto un’onda. E dunque, mentre tu ti trovavi nella corte del castello, fra le tende rosse di un’alta finestra ad arco apparve una giovane donna con un diadema sul capo, avvolta in un mantello color porpora. Era la principessa di quella regione. Abbassò lo sguardo su di te, con espressione severa e interrogativa al tempo stesso. Tu eri da solo, gli altri, quanti erano, si tenevano in disparte, addossati alle pareti, udivo un mormorio, un sussurro maligno e minaccioso. Ed ecco che la principessa si piegò in avanti, sporgendosi oltre il parapetto. Si fece un gran silenzio e la principessa ti fece un segnale, come se ti ordinasse di salire da lei, ed io ebbi la certezza che fosse determinata a concederti la grazia. Ma tu non notasti il suo sguardo, o forse non volesti notarlo. D’improvviso, però, ancora con le mani legate, ma avvolto in un mantello nero, ti trovasti al suo cospetto, ma non in un ambiente chiuso, bensì all’aria aperta, entrambi fluttuanti nel vuoto. Lei teneva in mano un foglio di pergamena, la tua sentenza di morte, che conteneva l’elenco delle tue colpe e i motivi della tua condanna. Ti chiese – non udivo le parole, ma lo sapevo – se eri disposto a diventare il suo amante, in qual caso avresti evitato la condanna a morte. Tu scuotesti la testa in segno di diniego. Io non mi stupii, era scontato e non potevano esserci dubbi che tu mi rimanessi fedele in eterno e nonostante mille pericoli. Allora la principessa si strinse nelle spalle, fece un cenno nel vuoto con la mano, ed eccoti improvvisamente trasferito in una cantina sotterranea, delle fruste si abbattevano su di te, senza che io vedessi chi le impugnava. Sul tuo corpo il sangue scorreva a rivoletti, lo osservavo scendere, mi rendevo conto della mia crudeltà, senza però meravigliarmene. Poi la principessa ti venne incontro. Aveva i capelli sciolti e lunghi a coprirle il corpo nudo, teneva il diadema con entrambe le mani e te lo porgeva... e io sapevo che si trattava della ragazza sulla spiaggia danese, quella che un giorno avevi visto nuda sulla terrazza di una cabina balneare. Non disse una parola, ma il senso della sua presenza in quel luogo e per assurdo del suo silenzio, consisteva nel chiederti se volevi divenire suo consorte e principe della regione. E dal momento che tornasti a rifiutare, ella sparì all’improvviso, mentre al contempo io assistevo alla preparazione di una croce a te destinata; ma non la stavano allestendo giù nella corte del castello, no, era invece sul prato immenso e tempestato di fiori, dove io riposavo fra le braccia di un amante, in mezzo a tutte le altre coppie di innamorati. Tuttavia vedevo te intento a procedere da solo fra antichi vicoli, senza alcuna sorveglianza, pur rendendomi conto che stavi seguendo un itinerario preordinato e che ogni fuga ti era preclusa. Ora risalivi il sentiero di montagna. Ti aspettavo con ansia, ma senza compassione. Il tuo corpo era coperto di piaghe, che però avevano smesso di sanguinare. Continuasti a salire, sempre più in alto, il sentiero divenne più ampio, su entrambi i lati il bosco si ritirò e finalmente raggiungesti il limitare del prato, a una distanza immane, incomprensibile. Eppure mi salutasti sorridendo con gli occhi, come a segnalare che avevi portato a termine quanto da me richiesto, recandomi tutto ciò di cui avevo bisogno: abiti e scarpe e gioielli. Io però trovai il tuo comportamento oltremodo folle e insensato e fui tentata di prenderti in giro, di riderti in faccia... e proprio perché, per restarmi fedele, avevi rifiutato la mano di una principessa, sopportato atroci torture e ora ti eri trascinato fin lassù per affrontare una morte orribile. Ti corsi incontro, anche tu affrettasti l’andatura, sempre di più... Io cominciai a fluttuare, e anche tu fluttuasti nell’aria; ma all’improvviso ci perdemmo di vista e capii che, volando, ci eravamo passati accanto senza afferrarci. Desiderai allora che tu mi udissi almeno ridere, proprio mentre venivi inchiodato alla croce. E così scoppiai in una risata, la più forte e stridula di cui fui capace. Ed era la risata, Fridolin, con la quale mi sono svegliata».Tacque e rimase completamente inerte. Anche lui rimase immobile e ammutolito. In quel momento qualsiasi parola sarebbe apparsa opaca, menzognera e pusillanime. Più ella si era inoltrata nel suo racconto, più le proprie avventure, almeno fin dove si erano protratte fino a quel momento, gli erano apparse ridicole e insignificanti, ed egli giurò a se stesso di portarle tutte a termine per poi riferirgliele fedelmente, vendicandosi infine di una donna che nel suo sogno si era rivelata per quella che era, infedele, crudele e traditrice, e che in quel momento egli credeva di odiare più intensamente di quanto l’avesse mai amata.Si accorse a un tratto che teneva ancora le sue dita fra le mani e che, per quanto fosse intenzionato a odiarla, per quelle dita affusolate, fredde, a lui così familiari, provava ancora una tenerezza immutata, solo divenuta più malinconica; e d’impulso, si potrebbe dire contro la propria volontà... prima di sciogliere dalla stretta la cara mano, egli la sfiorò delicatamente con le labbra.Albertine teneva ancora gli occhi chiusi, Fridolin credette di vedere la sua bocca, la sua fronte, tutto il suo viso sorridere con espressione felice, rasserenata e innocente, e provò l’impulso, inspiegabile persino a se stesso, di chinarsi su Albertine e posare un bacio sulla sua fronte pallida. Ma si trattenne, riconoscendo che si trattava solamente della fin troppo comprensibile stanchezza dovuta agli sconvolgenti eventi delle ultime ore, che nell’ingannevole atmosfera del talamo aveva assunto le sembianze di una struggente tenerezza. Ma comunque stessero le cose in quel momento... qualunque tipo di decisioni avesse preso nel corso delle prossime ore, l’opzione che più prepotentemente si imponeva ora al suo animo era quella di rifugiarsi almeno per un breve periodo nel sonno e nell’oblio. Persino la notte successiva alla morte di sua madre aveva dormito, era riuscito a immergersi in un sonno profondo e senza sogni, e dunque perché non avrebbe dovuto fare altrettanto anche adesso? Si sdraiò dunque accanto ad Albertine, che sembrava essersi di nuovo assopita. Una spada tra noi, tornò a pensare. E poi: siamo qui, sdraiati uno accanto all’altra, come nemici mortali. Ma era soltanto una frase fatta.
Capitolo sesto Il bussare leggero della cameriera lo svegliò alle sette del mattino. Lanciò una breve occhiata ad Albertine. Talvolta, non sempre, quei lievi colpetti alla porta riuscivano a svegliare anche lei. Oggi continuava a dormire immobile, fin troppo immobile. Fridolin si preparò in fretta. Prima di uscire, voleva vedere la figlioletta. Giaceva tranquilla nel suo letto tutto bianco, le manine chiuse a pugno, nell’atteggiamento tipicamente infantile. Le diede un bacio sulla fronte. E di nuovo, in punta di piedi, scivolò fino alla porta della stanza da letto, dove Albertine stava ancora riposando, immobile come prima. Poi uscì. Nella sua borsa nera da medico, ben nascosti, portava con sé il saio e il cappello da pellegrino. Aveva progettato l’andamento della giornata con grandissima precisione, anzi, si potrebbe dire con una certa pedanteria. In primo luogo doveva visitare un giovane avvocato gravemente ammalato che abitava lì vicino. Fridolin lo esaminò con estrema cura, constatò che le sue condizioni erano leggermente migliorate, espresse con sincero rallegramento la sua soddisfazione e rinnovò la solita ricetta, apponendovi l’usuale repetatur. Poi si diresse senza indugio verso l’edificio nel cui scantinato Nachtigall aveva suonato il piano la sera precedente. Il locale era ancora chiuso, ma la cassiera del caffè situato al piano di sopra sapeva che Nachtigall alloggiava in un piccolo albergo della Leopoldstadt. Un quarto d’ora più tardi, Fridolin era sul posto. Si trattava di un albergo assai misero. L’atrio odorava di letti non arieggiati, grasso rancido e caffè di cicoria. Un portiere dall’aspetto quanto mai sgradevole, con degli occhietti maliziosi orlati di rosso e dall’aria irrequieta, come in costante attesa di una perquisizione della polizia, si dimostrò disposto a fornire informazioni. Il signor Nachtigall quella mattina era rientrato alle cinque, in compagnia di due signori resisi quasi irriconoscibili – forse intenzionalmente – con delle sciarpe sollevate sul volto. Mentre Nachtigall si era recato in camera sua, i signori avevano saldato il conto delle ultime quattro settimane; quando, dopo una buona mezz’ora, non l’avevano visto riapparire, uno dei due signori era andato a prelevarlo personalmente, dopodiché tutti e tre si erano recati in carrozza alla stazione Nord. Nachtigall gli era sembrato molto agitato; addirittura – perché non avrebbe dovuto dire tutta la verità a un signore dall’aria tanto perbene e affidabile? – aveva cercato di passare al portiere una lettera, cosa che però i due signori avevano subito impedito. Le lettere indirizzate al signor Nachtigall che fossero arrivate in futuro – essi avevano spiegato – da quel momento in poi sarebbero state ritirate da una persona autorizzata a farlo. Fridolin fu felice di avere con sé la sua borsa da medico, quando uscì dal portone; almeno non lo si sarebbe potuto scambiare per un ospite di quell’albergo, ma magari per un funzionario o un impiegato. Dunque, per il momento niente da fare, con Nachtigall. Erano stati molto cauti ed evidentemente avevano le loro ragioni.Si recò dunque al noleggio costumi. Fu Gibiser in persona ad aprirgli. «Le ho riportato il costume noleggiato», disse Fridolin, «e desidero saldare il mio debito». Il signor Gibiser pretese una cifra assai modesta, prese in consegna il denaro, registrò l’operazione in un grosso libro contabile e dal suo scrittoio lanciò a Fridolin un’occhiata piuttosto stupita, visto che questi non accennava a congedarsi.«Sono qui anche», disse Fridolin, col tono di un ufficiale giudiziario, «per scambiare con lei qualche parola riguardo la signorina sua figlia».Ci fu un fremito attorno alle narici del signor Gibiser; disagio, tracotanza o irritazione, non si sarebbe potuto dire.«Cosa intende il signore?», chiese, in un tono parimenti neutro e indefinibile.«Ieri lei ha affermato», disse Fridolin, appoggiando sullo scrittoio una mano con le dita allargate, «che la signorina sua figlia non sarebbe del tutto sana di mente. La situazione in cui l’abbiamo sorpresa non farebbe che confermare tale sospetto. E dal momento che il caso ha voluto rendermi partecipe, o perlomeno spettatore di tale scena bizzarra, vorrei consigliarle, signor Gibiser, di ricorrere al consiglio di un medico».Rigirando fra le dita un pennino innaturalmente lungo, Gibiser squadrò Fridolin con un’occhiata impertinente.«E il signor dottore avrebbe forse la compiacenza di assumersi personalmente il compito di visitarla?»«La prego di non mettermi in bocca», ribatté Fridolin tagliente, ma in tono leggermente arrochito, «frasi che non ho pronunciato».In quel momento si spalancò la porta che conduceva alle stanze interne e ne uscì un giovane signore con un soprabito aperto sul frac. Fridolin intuì immediatamente che non poteva trattarsi che di uno dei due giudici della santa vema di quella notte. Non c’era dubbio che provenisse dalla stanza di Pierrette. Quando si avvide della presenza di Fridolin parve leggermente imbarazzato, ma si riprese subito, salutò velocemente Gibiser con un cenno della mano, poi indugiò per accendersi una sigaretta, servendosi all’uopo di un accendino che si trovava sullo scrittoio, e lasciò l’abitazione.«Ah, è così dunque», commentò Fridolin, abbassando gli angoli della bocca in un’espressione di disprezzo e con un sapore amaro sulla lingua.«Cosa intende il signore?», chiese Gibiser con aria del tutto indifferente.«Dunque, ha rinunciato, signor Gibiser», e alternò lo sguardo altero dal portone di casa all’altra porta, dalla quale era uscito il giudice, «ha rinunciato a chiamare la polizia».«Ci si è accordati in altra maniera, dottore», fu la fredda risposta di Gibiser, che si alzò in piedi, come a conclusione di un’udienza. Fridolin si voltò, accingendosi ad andare; Gibiser aprì zelante la porta e disse con espressione impassibile: «Se il signor dottore dovesse aver bisogno di qualche altra cosa... Non deve trattarsi necessariamente di un saio, stavolta».Fridolin si sbatté la porta alle spalle. Questione chiusa, pensò con un sentimento d’ira che a lui stesso parve ingiustificato. Scese di corsa le scale, si diresse senza particolare fretta verso il Policlinico e prima di ogni cosa telefonò a casa per informarsi se qualche paziente l’avesse mandato a chiamare, se fosse stata recapitata la posta, quali altre novità ci fossero. La cameriera aveva appena finito di rispondergli, quando Albertine si fece passare il ricevitore per salutare Fridolin. Ripeté tutto quel che la cameriera aveva già detto, poi gli disse disinvoltamente di essersi appena alzata dal letto e di avere intenzione di fare colazione con la bambina. «Dalle un bacio per me», disse Fridolin, «e buon appetito a tutte e due».Gli aveva fatto piacere sentire la sua voce, e proprio per questo aveva tagliato corto con la conversazione. In realtà avrebbe voluto chiedere che progetti avesse Albertine per quella mattina, ma erano forse affari suoi? In fondo all’anima aveva chiuso con lei, in qualunque modo fosse proseguita la vita nella sua apparenza. L’infermiera bionda lo aiutò a togliersi la giacca e gli porse il camice bianco. Nel farlo, gli indirizzò un vago sorriso, come fanno un po’ tutte, che le si notasse o meno. Un paio di minuti più tardi era in corsia d’ospedale. Il primario aveva fatto sapere di dover partire all’improvviso per una conferenza, che i signori assistenti facessero pure senza di lui il giro delle visite. Fridolin provò qualcosa di molto simile alla felicità, mentre, seguito da uno stuolo di studenti, passava in rassegna i pazienti da un letto all’altro, visitandoli, redigendo prescrizioni e ricette, intrattenendosi professionalmente con medici ausiliari e infermiere caporeparto. Le novità erano molteplici. Il garzone di fabbro, Karl Röder, era deceduto durante la notte. L’autopsia era prevista per quel pomeriggio alle cinque. Nel reparto donne si era liberato un letto, immediatamente occupato da un’altra paziente. Si era dovuto trasferire la paziente del letto diciassette al reparto chirurgico. Nel frattempo furono sfiorati anche argomenti riguardanti il personale. La nuova nomina di direttore del reparto oftalmico doveva essere presa in esame dopodomani; Hügelmann, attualmente professore a Marburg, soltanto quattro anni prima ancora assistente di Stellwag, aveva il maggior numero di probabilità di ottenerla. Una carriera-lampo, pensò Fridolin. Io non verrò mai preso in considerazione per la direzione di un reparto, tanto per cominciare mi manca la libera docenza. Troppo tardi. Ma perché, poi? Si trattava soltanto di ricominciare il lavoro scientifico, o riprendere le ricerche già avviate con maggiore impegno e serietà. L’attività privata, in fondo, lasciava abbastanza tempo a disposizione.Pregò il dottor Fuchstaler di sostituirlo alla testa del giro ambulatoriale, confessando a se stesso che avrebbe preferito di gran lunga rimanere lì che recarsi sul Galitzinberg. Eppure doveva farlo. Si sentiva obbligato ad andare a fondo della questione, e non solo nei confronti di se stesso; c’erano tantissime altre cose da fare, in giornata. Così decise che per sicurezza avrebbe affidato al dottor Fuchstaler anche le visite serali. La ragazza con quel preoccupante catarro apicale, laggiù nell’ultimo letto, gli stava sorridendo. Era la stessa che ultimamente, in occasione di una visita, gli aveva sfregato i seni contro una guancia con aria tanto confidenziale. Fridolin ricambiò per un attimo il suo sguardo, poi, aggrottando le sopracciglia, si voltò dall’altra parte. Tutte uguali, pensò con amarezza, e Albertine è come tutte le altre... la peggiore di tutte. Mi separerò da lei. Non c’è più niente da fare.Sulle scale scambiò ancora qualche parola con un collega del reparto chirurgico. Allora, come stavano le cose con la paziente trasferita durante la notte? Lui, da parte sua, non era del tutto convinto che sarebbe stato necessario operarla. Potevano fornirgli i risultati dell’esame istologico? «Naturalmente, collega».All’angolo della strada, prese una carrozza. Consultò la sua agenda, una ridicola farsa a tutto beneficio del cocchiere, come se dovesse decidere la sua meta in quel momento. «A Ottakring», disse quindi, «la strada che va verso il Galitzinberg. Le dirò io dove fermarsi esattamente».Una volta all’interno della carrozza, fu invaso di nuovo da un’eccitazione dolorosa e sensuale al tempo stesso, quasi un senso di colpa per aver pensato così poco alla sua bella salvatrice nel corso delle ultime ore. Sarebbe riuscito a ritrovare il palazzo? Beh, non avrebbe dovuto essere tanto difficile. La questione era: cosa fare, dopo? Una denuncia alla polizia? Avrebbe potuto provocare spiacevoli conseguenze proprio per la donna che forse si era sacrificata per lui, o che comunque si era mostrata disposta a farlo. E se si fosse rivolto a un investigatore privato? Gli sembrava fin troppo banale, una cosa poco dignitosa. Ma che alternative aveva? Personalmente, non aveva né il tempo, né probabilmente il talento necessari a svolgere delle indagini accurate. Una società segreta? Sì, certo, che fosse segreta era indubbio. Ma i vari membri si conoscevano fra loro? Aristocratici, magari addirittura nobili signori di corte? Pensò a certi arciduchi, cui si potevano di gran lunga attribuire scherzi del genere. E le signore? Probabilmente... provenienti da case di tolleranza. Oddio, non era del tutto sicuro. In ogni caso, tutta merce selezionata. Ma la donna che si era sacrificata per lui? Sacrificata? Perché continuava a voler pensare che si fosse davvero trattato di un sacrificio? Una commedia! Ma naturale, era stata tutta una commedia! In realtà avrebbe dovuto felicitarsi con se stesso per essersela cavata così a buon mercato. C’era da dire che aveva mantenuto un comportamento dignitoso. I cavalieri si erano sicuramente accorti che lui non era un tipo qualsiasi, il primo venuto. E comunque anche lei doveva essersene accorta. Probabilmente teneva più a lui che a tutti quegli arciduchi, o qualunque cosa fossero.Alla fine del Liebhartstal, dove la strada cominciava a salire con maggior incisività, scese dalla carrozza e per precauzione disse al cocchiere di andarsene. Il cielo era di un azzurro pallido, con nuvolette bianche, e il sole splendeva emanando un calore primaverile. Si guardò indietro... Nulla di sospetto in vista. Niente carrozze, niente persone a piedi. Cominciò lentamente a salire. Il cappotto divenne troppo pesante; lo sfilò e se lo appoggiò sulle spalle. Arrivò al punto in cui, a destra, doveva diramarsi la stradina secondaria sulla quale si trovava la misteriosa casa; non poteva sbagliare; era in discesa, anche se non così ripida come gli era parsa quella notte a bordo della carrozza. Una stradina tranquilla. Nel giardino antistante una casa vi erano dei roseti avvolti nella paglia, in un altro giardino attiguo campeggiava una carrozzina; un bambino tutto vestito di lana celeste sgambettava avanti e indietro; dalla finestra del pianterreno una giovane donna lo osservava ridendo. C’era quindi uno spiazzo senza costruzioni, poi un giardino recintato lasciato allo stato selvatico, una piccola villa, un prato erboso, e infine, senza alcun dubbio... quello era l’edificio che stava cercando. Non aveva per nulla un aspetto maestoso o imponente, si trattava di una villa a un piano in sobrio stile impero, evidentemente sottoposta a un recente restauro. Le persiane verdi erano tutte chiuse, nulla indicava che la villa potesse essere abitata. Fridolin si guardò intorno. Nella stradina non c’era nessuno; solo un po’ più giù, due ragazzini si allontanavano con dei libri sottobraccio. Era fermo davanti all’entrata del giardino. E adesso? Far finta di niente e tornare indietro a piedi? La cosa gli sarebbe sembrata troppo ridicola. Cercò il campanello elettrico. E se l’avessero fatto entrare, cosa avrebbe detto? Beh, molto semplicemente... se fosse possibile affittare per l’estate quella graziosa casa di campagna! Ma ecco aprirsi da sé il portone del palazzo e sbucarne un vecchio servitore in livrea da giorno, che si diresse lentamente verso il cancello. Teneva in mano una lettera e senza dire una parola la porse attraverso le sbarre a Fridolin, il cui cuore batteva all’impazzata.«Per me?», chiese trattenendo il fiato. Il servitore annuì, si voltò, rifece il percorso a ritroso e il portone si chiuse dietro di lui. Che significa?, si chiese Fridolin. Da lei? La casa apparteneva forse proprio a lei? Ripercorse rapidamente la stradina in salita, e solo allora si accorse che sulla busta, in una calligrafia alta e severa, era vergato il suo nome. La aprì strappandone un angolino, spiegò il foglio e lesse: «Rinunci alle sue indagini, del tutto inutili, e consideri queste parole come un secondo avvertimento. Speriamo, nel suo interesse, che in futuro non ne occorrano altri». Abbassò il foglio.Quel messaggio lo deludeva sotto ogni punto di vista; in ogni caso, però, era molto diverso da quello che aveva stoltamente ipotizzato. Tuttavia, il tono era stranamente docile, totalmente privo di asprezza. Lasciava intuire che le persone che avevano spedito quel messaggio non si sentivano affatto sicure.Secondo avvertimento? Perché mai? Ah già, ne aveva ricevuto già uno durante la notte. Perché però il secondo... e non l’ultimo? Volevano forse mettere ancora una volta alla prova il suo coraggio? Avrebbe dovuto sostenere un esame? E come facevano a conoscere il suo nome? No, questo forse non era poi tanto strano, probabilmente avevano costretto Nachtigall a rivelarglielo. E fra l’altro – sorrise spontaneamente della sua sbadataggine – nella fodera della sua pelliccia erano cuciti il suo monogramma e l’indirizzo completo.Ma, anche se non aveva fatto molti passi avanti rispetto a poco prima, la lettera lo aveva in certo qual modo tranquillizzato senza che sapesse dire esattamente il perché. In particolare era convinto che la donna il cui destino lo aveva tanto preoccupato fosse ancora viva e vegeta e che trovarla sarebbe dipeso solo ed esclusivamente da lui, se avesse agito con cautela e destrezza.Quando arrivò finalmente a casa, un po’ affaticato ma di umore curiosamente rasserenato, che gli sembrava però al tempo stesso ingannevole, Albertine aveva già finito di pranzare insieme alla bambina tuttavia gli tenne compagnia mentre si disponeva a consumare il suo pasto. Eccola lì, seduta davanti a lui, la donna che quella notte lo aveva fatto crocifiggere senza battere ciglio, col suo sguardo angelico da brava madre e casalinga modello, e con sua grande meraviglia sentì che non la odiava. Si gustò invece il cibo, sentendosi di umore seppure leggermente eccitato, tendenzialmente sereno e allegro, e come era nel suo stile, parlò vivacemente dei piccoli episodi verificatisi durante la giornata sul lavoro, soffermandosi soprattutto sulle questioni relative al personale medico, delle quali teneva sempre minuziosamente informata Albertine. Le raccontò che la nomina di Hügelmann era ormai praticamente certa e parlò del suo personale proposito di riprendere gli studi scientifici con maggior vigore ed energia. Albertine conosceva bene quel tipo di entusiasmo, sapeva che di solito non durava troppo a lungo, e un sommesso sorriso tradì i suoi dubbi. Fridolin si accalorò e Albertine gli carezzò dolcemente i capelli con la mano. Lui trasalì leggermente e si rivolse alla bambina, sottraendo così la fronte a ulteriori imbarazzanti contatti. Prese la piccola sulle ginocchia e stava accingendosi a farla dondolare giocosamente quando apparve la cameriera, annunciando che c’erano già alcuni pazienti in attesa. Fridolin si alzò come liberato da un peso, consigliò distrattamente ad Albertine di prendere la piccola e andare a godersi il sole del pomeriggio facendo una bella passeggiata e scomparve nel suo studio.Durante le due ore che seguirono Fridolin doveva visitare sei vecchi pazienti e due nuovi. Fu completamente concentrato su ogni singolo caso, esaminò, prese appunti, prescrisse... e si congratulò con se stesso di sentirsi così meravigliosamente lucido e riposato dopo ben due notti passate quasi completamente in bianco.Terminate le visite, come sempre tornò da moglie e figlia constatando, non senza una certa soddisfazione, che Albertine stava ricevendo sua madre, mentre la piccola era impegnata nelle lezioni di francese con la governante. E solo quando fu sulla scala gli sovvenne che tutto quell’ordine, tutto quell’equilibrio, tutta quella sicurezza nella sua esistenza non erano altro che apparenze e menzogne.Nonostante avesse cancellato la visita pomeridiana, fu irresistibilmente attratto dal suo reparto in ospedale. Vi si trovavano due casi di particolare interesse per il lavoro scientifico che aveva in mente di riprendere, e di essi si occupò in maniera più approfondita di quanto non fosse mai accaduto prima di allora. Ci fu poi un’altra visita a domicilio, nel centro cittadino, e quando di ritrovò davanti alla vecchia casa nella Schreyvogelgasse, erano ormai le sette di sera. Mentre rialzava lo sguardo verso la finestra di Marianne, la sua immagine, nel frattempo sbiadita, si ravvivò più di ogni altra. Ebbene... qui non poteva fallire. La sua opera di vendetta avrebbe potuto iniziare senza troppi sforzi, qui per lui non vi erano difficoltà, né pericoli; e quello che forse avrebbe fatto desistere altri uomini, il tradimento di un fidanzato, esercitava su di lui un fascino ancora maggiore. Ma sì, tradire, ingannare, mentire, recitare la commedia, di qua e di là, davanti a Marianne e davanti ad Albertine, davanti al buon dottor Roediger, davanti al mondo intero; condurre una sorta di doppia vita, essere il bravo, affidabile e promettente medico, buon marito e padre di famiglia, e allo stesso tempo un libertino, un seduttore, un cinico che giocava con le persone, uomini e donne parimenti, a seconda delle proprie voglie e del proprio umore. Questo gli sembrava adesso desiderabile, delizioso; e la cosa più deliziosa di tutte era proprio che in seguito, quando Albertine si fosse sentita già da lungo tempo al riparo di una tranquilla vita familiare e coniugale, egli le avrebbe confessato, con un freddo sorriso, tutti i suoi misfatti, vendicandosi in tal modo delle esperienze amare e umilianti che lei gli aveva fatto patire in sogno.Sul pianerottolo si ritrovò al cospetto del dottor Roediger, che gli porse la mano con cordiale ingenuità. «Come sta la signorina Marianne?», chiese Fridolin. «Si è calmata un pochino?».Il dottor Roediger si strinse nelle spalle. «Da tempo ormai era preparata al peggio, dottore... Solo che, quando oggi verso mezzodì sono venuti a prendere il feretro...».«Ah, dunque si è già proceduto?».Il dottor Roediger annuì. «I funerali avranno luogo domani pomeriggio alle tre...».Fridolin guardava fisso davanti a sé. «Ci sono... dei parenti con la signorina Marianne?»«Non più», rispose il dottor Roediger, «in questo momento è da sola. Sarà sicuramente contenta di rivederla, dottore. Domani, infatti, la porteremo a Mödling, mia madre ed io», e in risposta a un cortese sguardo interrogativo di Fridolin: «I miei genitori hanno una casetta da quelle parti. La devo salutare, dottore. Ho ancora un mucchio di cose cui provvedere. Davvero incredibile quanto possa dar da fare un... avvenimento del genere! Spero di trovarla ancora di sopra al mio ritorno». E in men che non si dica era uscito in strada.Fridolin esitò un istante, poi si avviò lentamente su per le scale. Suonò il campanello; e fu Marianne stessa ad aprirgli. Era vestita di nero, al collo portava una collana di giaietto nero che non le aveva mai visto. Il suo viso s’imporporò lentamente.«Mi ha fatto aspettare a lungo», disse sorridendo debolmente.«Scusatemi, signorina Marianne, oggi ho avuto una giornata particolarmente faticosa».La seguì nella stanza del morto, dove il letto era ormai vuoto, e poi nello studiolo attiguo, dove il giorno prima egli aveva compilato il certificato di morte del consigliere, sotto il dipinto con l’ufficiale in uniforme bianca. Sullo scrittoio ardeva già una piccola lampada, così che la stanza si trovava in penombra. Marianne gli fece cenno di accomodarsi sul divano di pelle nera, lei stessa prese posto alla scrivania, di fronte a lui.«Ho appena incontrato il dottor Roediger, sul pianerottolo... Dunque già domani partirete per la campagna?».Marianne lo guardò come meravigliata del tono freddo delle sue domande e le sue spalle si abbassarono, quando egli proseguì con voce quasi dura: «La trovo una cosa assai assennata». E precisò con aria professionale quanto l’aria buona e il nuovo ambiente le avrebbero giovato alla salute e al morale.Lei rimase seduta immobile, le guance bagnate di lacrime. Lui la osservò senza emozione, piuttosto con una sorta di impazienza; e l’idea che forse, di lì a un minuto, ella avrebbe potuto ritrovarsi ai suoi piedi, rinnovando la dichiarazione del giorno prima, lo riempì di terrore. Vedendo poi che rimaneva in silenzio, egli si alzò bruscamente in piedi. «Mi duole molto, signorina Marianne, ma...». Guardò l’orologio.Lei sollevò il capo, fissò lo sguardo su Fridolin e le sue lacrime continuarono a scorrere. Le avrebbe detto volentieri qualche parola di conforto, ma non ne era in grado.«Senza dubbio rimarrà in campagna per qualche giorno», iniziò a dire, imbarazzato. «Spero voglia farmi avere Sue notizie... Il dottor Roediger mi ha detto fra l’altro che il matrimonio avrà luogo quanto prima. Mi permetta di esprimerle fin d’ora i miei più sentiti auguri».Lei non si mosse, come se non avesse affatto preso in considerazione i suoi saluti, i suoi auguri. Fridolin le porse la mano, che lei non prese, e in tono quasi di rimprovero, le ripeté: «Dunque, rimango in fiduciosa attesa di sue notizie. Arrivederci, signorina Marianne». Lei rimase lì seduta, come impietrita. Fridolin si accinse ad andare, rimase per un secondo fermo sulla porta, come concedendole l’ultima occasione di richiamarlo indietro, ma sembrò piuttosto volgere il capo dall’altra parte, e finalmente lui si chiuse la porta alle spalle. Fuori, sul pianerottolo, provò qualcosa di simile al rimpianto. Per un attimo provò l’impulso di tornare indietro, ma capì che sarebbe apparso ridicolo.Ma cosa fare, adesso? Tornare a casa? E dove, se no! Per oggi non avrebbe più potuto intraprendere nulla. E domani? Cosa fare domani? E come? Si sentiva impacciato, indifeso, tutto sembrava scorrergli via fra le dita; tutto diveniva irreale, persino la sua casa, sua moglie, sua figlia, la sua professione, persino lui stesso, mentre percorreva meccanicamente le strade, immerso in pensieri fluttuanti.L’orologio della torre del municipio batté le sette e trenta. Del resto, non aveva importanza, che ora fosse; aveva tanto di quel tempo, davanti a sé! Non gli importava nulla di niente e di nessuno. Provò una vaga compassione per se stesso. Così, di sfuggita, non come un vero e proprio proponimento, gli venne l’idea di recarsi in una stazione qualunque, partire per un luogo qualsiasi, scomparire alla vista di tutti coloro che lo conoscevano, riemergere da qualche parte in terra straniera e cominciare una nuova vita da persona diversa, nuova. Si ricordò di certi strani casi patologici di cui aveva letto nei libri di psichiatria, le cosiddette doppie vite: un uomo scompariva improvvisamente da una situazione del tutto ordinaria e regolare, veniva dato per disperso, tornava dopo mesi o anni, senza ricordare egli stesso dove fosse stato in quel periodo, ma in seguito veniva riconosciuto da qualcuno che lo aveva incontrato da qualche parte, in un paese lontano, e il reduce non sembrava saperne assolutamente nulla. Certo, succedeva raramente, ma comunque era capitato. E, in forma più blanda, non erano pochi quelli che vivevano esperienze simili. Ad esempio quando si tornava alla realtà dopo un sogno? Certo, ci si rammentava... Ma vi erano senza dubbio anche dei sogni che venivano completamente dimenticati, dei quali non rimaneva altro che una strana atmosfera, un misterioso stordimento. Oppure li si ricordava in seguito, molto dopo, e non si riusciva più a capire se si trattava di esperienze vissute davvero o soltanto di sogni. Soltanto... Soltanto!E mentre continuava a procedere in tal modo, prendendo automaticamente la direzione di casa, si ritrovò nei pressi del vicolo buio e piuttosto malfamato nel quale meno di ventiquattr’ore prima aveva seguito una creatura perduta fino al suo misero eppure accogliente alloggio. Ma era davvero perduta, quella ragazza? E il vicolo poteva davvero definirsi malfamato? Strano come, sedotti dalle parole, si continuasse a etichettare e giudicare strade, destini e persone per indolenza e senso dell’abitudine. In definitiva, fra tutte le donne con cui, per delle strane coincidenze, si era incontrato nella notte scorsa, quella giovane non era stata forse la più leggiadra, ma sì, persino la più pura? Pensando a lei, sentì una sorta di commozione. E in quel momento si ricordò anche del suo proposito del giorno prima; con determinata sollecitudine, acquistò nella bottega più vicina ogni sorta di cibarie; e mentre costeggiava le mura dei palazzi col pacchetto in mano, provò qualcosa di molto simile alla felicità, nella consapevolezza di essere in procinto di compiere un’azione quantomeno assennata, se non addirittura lodevole. Tuttavia, entrando dal portone, si tirò su il bavero, fece diversi gradini alla volta nel salire le scale, il campanello di casa gli risuonò stridulo e fastidioso nell’orecchio; e quando una donna dall’aspetto assai sgradevole gli annunciò che la signorina Mizzi non era in casa, tirò un sospiro di sollievo. Ma prima che la donna avesse avuto modo di prendere in consegna il pacchetto per l’assente, un’altra donna ancora giovane, per niente male in arnese e avvolta in un accappatoio, fece il suo ingresso in anticamera dicendo: «Chi cerca il signore? La signorina Mizzi? Non tornerà a casa tanto presto».La vecchia le fece cenno di tacere; ma Fridolin, come desideroso di un’immediata conferma a quanto aveva in un certo modo già immaginato, osservò semplicemente: «Si trova all’ospedale, vero?»«Beh, dal momento che lo sa già. Ma noialtre siamo sane, grazie a Dio», esclamò gioiosamente e si avvicinò a Fridolin con le labbra socchiuse e inarcando il corpo prosperoso con una mossa ardita, che provocò l’apertura dell’accappatoio. Fridolin precisò: «Ero di passaggio e sono salito soltanto per portare qualcosa a Mizzi», sentendosi improvvisamente come un liceale. Poi, in tono diverso, più pratico, domandò: «In che reparto è stata ricoverata?».La giovane gli fece il nome di un professore, nella cui clinica Fridolin aveva svolto, anni addietro, l’attività di assistente. Poi la donna aggiunse bonariamente: «Lo dia a me, il pacchetto, glielo porto domani. Può fidarsi, non rubacchierò nulla. E la saluterò anche da parte sua, le dirò pure che non l’ha tradita».Intanto, però, gli si avvicinava sempre più, sorridendogli. Quando però lui si ritrasse leggermente, rinunciò subito, sottolineando a mo’di consolazione: «Fra sei, otto settimane al massimo, ha detto il dottore, potrà tornare di nuovo a casa».Quando Fridolin uscì di nuovo in strada, sentì un groppo alla gola; sapeva però che non si trattava di commozione, ma di un sintomo indicativo del progressivo crollo dei suoi nervi. Assunse di proposito un’andatura più veloce e scattante di quanto non fosse consono al suo umore. Che questo episodio fosse un ulteriore, ultimo segnale del suo completo fallimento? Perché? L’essere scampato a un tale pericolo poteva essere anche un buon segno. Ed era dunque proprio di questo che si trattava: scampare ai pericoli? Ce n’erano molti altri che ancora lo aspettavano. Non pensava nemmeno lontanamente a rinunciare alle indagini relative alla bellissima donna della notte appena trascorsa. Ora, naturalmente, non c’era più tempo. E oltretutto, bisognava valutare con precisione in che modo portare avanti tali indagini. Ah, avere qualcuno con cui consultarsi! Ma non avrebbe saputo a chi rivolgersi, per confidare a cuor leggero le avventure della notte precedente. Da anni, ormai, si confidava esclusivamente con sua moglie, e in questo caso non poteva certo chiederle consiglio, né in questo, né ormai in nessun altro. Infatti, comunque la si mettesse, una cosa era certa: quella notte lei aveva lasciato che lo inchiodassero a una croce.E ora sapeva perché i suoi passi lo stavano portando automaticamente in direzione del tutto opposta a quella di casa. In quel momento non voleva, non poteva trovarsi al cospetto di Albertine. La cosa più giusta da fare sarebbe stata rimanere fuori per cena, poi recarsi al reparto per controllare i suoi due casi – e a nessun costo tornare a casa – “a casa”!, prima di essere assolutamente certo che Albertine fosse già a letto addormentata.Entrò in un caffè, uno dei più signorili e tranquilli nei pressi del municipio, telefonò a casa per dire che non lo aspettassero per cena, fu lesto nel troncare la comunicazione per evitare che Albertine venisse al telefono, poi si sedette presso la finestra e chiuse le tendine. In un angolo remoto stava prendendo posto un signore in soprabito scuro, e comunque abbigliato in maniera poco appariscente. Fridolin ricordò di aver già visto quei lineamenti nel corso della giornata. Naturalmente poteva trattarsi anche di una semplice coincidenza. Prese un giornale della sera e cominciò a leggere, così come aveva fatto la sera precedente in un altro caffè, qualche riga alla rinfusa: cronaca di avvenimenti politici, teatro, arte, letteratura, piccoli e grandi incidenti di ogni tipo e genere. In una città americana, mai sentita nominare prima di allora, c’era stato un incendio in un teatro. Lo spazzacamino Peter Korand si era gettato dalla finestra. A Fridolin sembrò assai curioso che anche gli spazzacamini, a volte, si suicidassero, e gli venne spontaneo chiedersi se prima l’uomo si fosse ben lavato o se si fosse gettato nel vuoto sporco e nero com’era. In un lussuoso albergo del centro quella mattina una donna si era avvelenata, una signora registratasi pochi giorni prima col nome di baronessa D., donna di notevole avvenenza. Subito Fridolin si sentì pervadere da un presago senso di coinvolgimento. La signora era tornata in albergo alle quattro del mattino, in compagnia di due gentiluomini che si erano congedati da lei sul portone d’ingresso. E verso mezzogiorno l’avevano trovata priva di conoscenza – così continuava l’articolo – nel suo letto, con i sintomi di una grave forma di avvelenamento. Una giovane donna di notevole avvenenza... Ebbene, ve ne erano, di giovani donne di notevole avvenenza... Non c’era motivo di supporre che la baronessa D., o meglio la donna che si era registrata in albergo col nome di baronessa D., e una certa altra signora potessero essere la stessa persona. Eppure... il cuore cominciò a battergli forte, e il giornale e tremargli fra le mani. In un lussuoso albergo del centro... Quale? Perché tanti misteri? Tanta discrezione?...Abbassò il foglio e notò come, nello stesso momento, il signore nell’angolo opposto facesse scivolare la sua rivista, un grande foglio illustrato, davanti al viso come un sipario. Anche Fridolin si affrettò a riprendere in mano il suo giornale e in quel preciso istante ebbe la certezza che la baronessa D. non poteva essere altri che la donna di quella notte... In un lussuoso albergo del centro... Non ce n’erano poi molti che potessero essere presi in considerazione... da una baronessa D. E adesso accadesse pure quel che doveva accadere... Quella traccia andava seguita. Chiamò il cameriere, pagò e uscì. Sulla porta si voltò ancora a guardare il signore sospetto al tavolo d’angolo. Ma stranamente, era sparito...Grave avvelenamento... Ma era ancora viva... Nel momento in cui era stata trovata, era ancora viva. E tutto sommato non c’era motivo di supporre che non si fosse salvata. Comunque, che fosse viva o morta... lui l’avrebbe rintracciata. E l’avrebbe vista – in ogni caso – viva o morta che fosse. L’avrebbe vista, già; nessuno al mondo poteva impedirgli di vedere la donna che per causa sua, anzi, al posto suo, aveva affrontato la morte. Era lui il responsabile della sua morte – lui solo – se si trattava di lei. Sì, doveva essere lei. Tornata in albergo alle quattro del mattino in compagnia di due gentiluomini! Probabilmente gli stessi che un paio d’ore più tardi avevano accompagnato Nachtigall al treno. Non dovevano avere la coscienza tanto pulita, quei gentiluomini. In piedi sul vasto piazzale antistante il municipio, si guardò intorno. C’erano solo poche persone all’interno del suo campo visivo, l’uomo sospetto del caffè non era fra queste. E anche se fosse... I gentiluomini avevano paura, era lui il più forte. Fridolin continuò a camminare veloce, sul Ring prese una carrozza, si fece portare prima all’hotel Bristol e s’informò presso il portiere, come se ne fosse autorizzato o addirittura incaricato, se la signora baronessa D., che, com’era noto, quel mattino si era avvelenata, avesse soggiornato in quell’albergo. Il portiere non sembrò affatto sorpreso, probabilmente ritenne che Fridolin fosse della polizia o comunque un pubblico ufficiale, in ogni caso rispose cortesemente che il triste episodio non si era verificato lì, bensì all’hotel Erzherzog Karl...Fridolin si fece portare immediatamente all’albergo in questione, dove gli venne detto che la baronessa D. era stata trasportata al Policlinico subito dopo il rinvenimento. Fridolin volle sapere come si fosse verificata la scoperta del tentato suicidio. Quale motivo vi fosse stato di preoccuparsi già a mezzogiorno di una signora che era andata a dormire alle quattro di mattina? Ebbene, era molto semplice: due gentiluomini (ancora due gentiluomini, dunque!) avevano chiesto di lei verso le undici. Dal momento che la signora non aveva risposto alle ripetute chiamate telefoniche, la cameriera aveva bussato alla sua porta; ma dato che anche in quel caso non aveva risposto nessuno, e che la porta era chiusa a chiave dall’interno, non era rimasta altra scelta che forzarla, e così la baronessa era stata trovata priva di sensi nel letto. Si era provveduto a chiamare immediatamente il pronto soccorso e la polizia.«E i due signori?», chiese Fridolin con aria decisa, sentendosi come un agente segreto.Già, i signori, la cosa era apparsa abbastanza strana, perché nel frattempo erano spariti senza lasciare tracce. Fra l’altro, non si trattava affatto della baronessa Dubieski, col cui nome la signora si era fatta registrare in albergo. Era la prima volta che scendeva in quell’albergo, e non esisteva nessuna famiglia con quel nome, o almeno nessuna famiglia nobile.Fridolin ringraziò per le informazioni, si allontanò piuttosto di fretta, dal momento che uno dei direttori dell’hotel, appena giunto sul posto, aveva cominciato a osservarlo con una certa curiosità; rimontò in carrozza e si fece portare all’ospedale. Pochi minuti più tardi, all’accettazione, venne a sapere non solo che la presunta baronessa Dubieski era stata ricoverata nella seconda clinica di medicina interna, ma anche che alle cinque del pomeriggio, nonostante gli sforzi compiuti dai medici – e senza aver mai ripreso conoscenza – era deceduta.Fridolin fece un respiro profondo, almeno così credette, anche se in realtà si era trattato di un pesante sospiro sfuggitogli dal petto. L’impiegato di servizio lo guardò con un certo stupore. Fridolin riprese subito il controllo, si congedò cortesemente e un minuto dopo fu di nuovo all’aperto. Il giardino dell’ospedale era quasi deserto. In un viale attiguo, sotto un lampione, stava passando un’infermiera in camice a righe bianche e celesti e cuffietta bianca. «Morta», mormorò Fridolin fra sé e sé. Se si tratta di lei. E se non fosse lei? Se è ancora viva, come faccio a ritrovarla?Dove si trovasse in quel momento il cadavere della sconosciuta era una domanda cui poteva rispondere con facilità. Essendo deceduta soltanto da poche ore, l’avevano sicuramente portata alla camera mortuaria, a poche centinaia di metri da lì. In qualità di medico, egli non avrebbe avuto alcuna difficoltà ad accedervi, anche in un’ora tarda come quella. Eppure... a cosa sarebbe servito? Conosceva soltanto il suo corpo, non ne aveva mai visto il volto, ne aveva colto soltanto un vago bagliore nell’attimo in cui, quella notte, aveva lasciato la sala da ballo, o per meglio dire, ne era stato cacciato fuori. Ma che finora non avesse mai preso in considerazione tale eventualità era da attribuirsi al fatto che in tutte queste ultime ore, da quando aveva letto la notizia sul giornale, aveva immaginato la suicida, di cui non conosceva il volto, con le fattezze di Albertine, anzi addirittura, come riconobbe soltanto ora con un brivido, al fatto che nell’inconscio aveva sempre raffigurato la donna che cercava come sua moglie. E ancora una volta tornò a chiedersi a cosa sarebbe servito andare nella camera mortuaria. Se l’avesse ritrovata viva, oggi, in mattinata... negli anni, in qualsiasi momento e ovunque fosse stato... l’avrebbe saputa riconoscere infallibilmente, si disse, dal suo incedere, dal portamento, soprattutto dalla voce, ne era certo. Ora invece non ne avrebbe visto che il corpo, un corpo di donna morta e un viso di cui non conosceva altro che gli occhi... occhi ormai senza sguardo. Sì... solo quegli occhi aveva conosciuto, e i capelli scioltisi in quell’ultimo istante, prima che lo si cacciasse dalla sala, caduti a coprire il suo corpo nudo. Sarebbe bastato questo a fargli capire con sicurezza se si trattava o no di lei?Lentamente, dunque, con passo esitante, imboccò la strada che attraverso i cortili a lui familiari conduceva all’istituto di anatomia patologica. Trovò il portone aperto e non ebbe bisogno di suonare il campanello. Il pavimento di pietra riecheggiò sotto i suoi passi, mentre percorreva il corridoio fiocamente illuminato. Fu avvolto dall’odore familiare, in un certo senso intimo, di ogni sorta di prodotti chimici, che soverchiava l’odore intrinseco di quell’edificio. Bussò alla porta del gabinetto istologico, dov’era possibile che vi fosse ancora un assistente immerso nel suo lavoro. Dopo un “avanti” piuttosto brusco, Fridolin fece il suo ingresso nella sala dal soffitto alto, illuminata quasi a festa, al centro della quale, appena allontanato l’occhio dal microscopio, e come Fridolin si era quasi aspettato, si stava alzando dalla sedia il suo vecchio compagno di studi, l’assistente dell’istituto, il dottor Adler.«Oh, caro collega», lo salutò il dottor Adler, leggermente infastidito gli parve, ma allo stesso tempo meravigliato, «a cosa devo l’onore, a un’ora così tarda?»«Scusa il disturbo», disse Fridolin. «Vedo che sei proprio nel bel mezzo del lavoro».«Effettivamente», rispose Adler nel tono mordace che ben si adeguava al carattere che Fridolin gli aveva conosciuto fin da giovane. Poi aggiunse, più leggero: «Che cos’altro si potrebbe fare, altrimenti, a mezzanotte, sotto queste sacre volte? Ma tu, ovviamente, non mi rechi il minimo disturbo. Come posso esserti utile?».E dal momento che Fridolin tardava a rispondere: «Addison, quello che ci avete consegnato oggi, giace ancora laggiù, intonso. Dissezione prevista per domattina alle otto e trenta».E in risposta a un gesto di diniego di Fridolin: «Ah, ho capito! Il tumore alla pleura! Dunque... l’inconfutabile responso dell’esame istologico è sarcoma. Inutile dunque che vi ci facciate venire i capelli bianchi».Fridolin scosse di nuovo la testa. «Non si tratta di una questione... di servizio».«Beh, meglio così», disse Adler, «stavo già pensando che fosse la coscienza sporca, a condurti quaggiù nelle ore notturne».«La cosa ha in qualche modo a che fare con la coscienza sporca, o perlomeno con la coscienza in genere», ribatté Fridolin.«Oh!».«Per farla breve», cercò di assumere un tono asciutto e neutrale, «vorrei notizie di una donna, deceduta stasera nella seconda clinica a causa di un avvelenamento da morfina e che ora dovrebbe trovarsi quaggiù, una certa baronessa Dubieski». E proseguì ancora più in fretta: «Sospetto infatti che questa sedicente baronessa Dubieski sia una persona che ho conosciuto fuggevolmente anni fa. E mi interesserebbe sapere se i miei sospetti sono fondati».«Suicidium?», chiese Adler.Fridolin annuì. «Infatti. Si è tolta la vita», tradusse, come tentando di restituire alla questione il suo carattere privato.Adler puntò scherzosamente l’indice contro Fridolin. «Un amore non ricambiato verso la Vostra Augusta Persona?».Fridolin scosse la testa, leggermente irritato. «Il suicidio di questa baronessa Dubieski non ha minimamente a che fare con la mia persona».«Per carità, non volevo essere indiscreto. Ce ne possiamo sincerare all’istante. Che io sappia, in serata non è giunta alcuna richiesta da medicina legale. Dunque, in ogni caso...».Autopsia legale, fu il termine che balenò nella mente di Fridolin. Poteva anche essere. Chissà se il suo gesto era stato volontario? Ripensò ai due gentiluomini spariti tanto in fretta dall’albergo dopo aver appreso del tentativo di suicidio. Tutta quella faccenda poteva anche trasformarsi in un caso criminale di prima categoria. E se lui – Fridolin – fosse stato chiamato a testimoniare... Anzi, in realtà non sarebbe stato suo dovere presentarsi spontaneamente alla giustizia?Seguì il dottor Adler oltre il corridoio, fino alla porta dirimpetto, semiaperta. La stanza, fredda e sguarnita, era fiocamente illuminata dalle fiammelle basse di un lampadario a gas a due bracci. Soltanto pochi dei dodici o quattordici tavoli anatomici erano occupati. Alcuni dei corpi giacevano nudi, su altri erano stati stesi dei teli mortuari. Fridolin si avvicinò al primo tavolo accanto alla porta e sollevò con cautela il lenzuolo dalla testa del cadavere. Il fascio di luce della lampada tascabile del dottor Adler la colpì all’improvviso. Fridolin vide un viso d’uomo, giallastro e dalla barba grigia; e lo ricoprì immediatamente col telo. Sul tavolo accanto giaceva il corpo nudo e mingherlino di un ragazzo molto giovane. Da un altro tavolo, il dottor Adler disse: «Qui c’è una donna fra i sessanta e i settanta, dunque non sarà nemmeno questa».Fridolin però, come attratto all’improvviso da qualcosa, si portò in fondo alla sala, da dove un corpo femminile emanava un vago lucore riflesso. Il capo era inclinato; lunghe ciocche scure di capelli pendevano quasi fino al pavimento. D’istinto, Fridolin allungò la mano per raddrizzare la testa, ma tradendo una certa soggezione, a lui generalmente estranea in quanto medico, ebbe un moto di esitazione. Il dottor Adler si era avvicinato e fece notare, indicando lo spazio alle sue spalle: «Nessuno che possa essere preso in considerazione... Dunque è questa?». E puntò la lampadina elettrica sulla testa della donna, che Fridolin, superando la ritrosia, aveva appena afferrato con entrambe le mani, sollevandola un poco. Quello che vide fu un viso bianco con le palpebre semichiuse. La mandibola cascante, il labbro superiore, sottile e rialzato, lasciava intravedere le gengive bluastre e una chiostra di denti bianchi. Se quel viso un tempo, o magari anche solo fino a ieri, fosse stato bello, Fridolin non avrebbe saputo giudicare; ora era un volto completamente insignificante, vuoto, un volto morto. Poteva appartenere tanto a una diciottenne quanto a una trentottenne.«È lei?», chiese il dottor Adler.Fridolin si chinò meccanicamente sul cadavere, come se il suo sguardo penetrante avesse potuto strappare una risposta a quei lineamenti irrigiditi. E intanto si rendeva conto che anche se quello fosse stato davvero il suo volto, i suoi occhi, gli stessi occhi che il giorno prima avevano fissato il loro sguardo brillante e pieno di vita nei suoi, egli non avrebbe potuto, anzi in fondo non avrebbe voluto saperlo. Con delicatezza, ripose la testa sul pianale e fece scivolare lo sguardo lungo il corpo esanime, lasciandosi guidare dal fascio luminoso della lampadina elettrica. Era il suo corpo?... quel corpo meraviglioso, fiorente, fino a ieri tanto dolorosamente concupito? Vide un collo giallastro, rugoso, vide due seni piccoli, da ragazza, eppure un poco afflosciati, fra i quali, come se l’opera della decomposizione avesse già cominciato a progredire, lo sterno si delineava con crudele evidenza sotto la pelle pallida; vide la curva arrotondata del pube di un opaco colore castano, vide come da un’ombra scura ormai privata di ogni senso e di ogni mistero le cosce ben tornite si aprivano indifferenti, vide la curva delle ginocchia, leggermente divaricate, gli spigoli marcati degli stinchi e i piedi slanciati con gli alluci incurvati. Tutto questo ricadeva progressivamente nel buio, mentre il cono di luce della lampadina elettrica percorreva a ritroso il suo itinerario a velocità moltiplicata, fermandosi finalmente sul viso esangue con un leggero tremore. Senza rendersene conto, piuttosto come costretto e guidato da una forza invisibile, Fridolin sfiorò con entrambe le mani la fronte, le gote, le spalle, le braccia della donna priva di vita; poi, come in un vezzo amoroso, intrecciò le sue dita con quelle della morta, e, rigide com’erano, gli sembrò tuttavia che tentassero di muoversi, di afferrare le sue; anzi, gli parve persino che sotto le palpebre semichiuse errasse uno sguardo remoto e incolore, alla ricerca del suo; e, come magicamente attratto, si chinò verso il basso.All’improvviso, alle sue spalle, udì un sussurro: «Ma che cosa fai?».Fridolin si riprese di colpo. Sciolse le sue dita da quelle della morta, afferrò i suoi polsi delicati e appoggiò con cura, si sarebbe detto con una certa pedanteria, le braccia gelide lungo i lati del torso. E gli parve che la donna fosse morta proprio allora, in quel preciso istante. Poi si voltò, raggiunse la porta, attraversò il corridoio dove echeggiavano i suoi passi e rientrò nel laboratorio che avevano lasciato poco prima. Il dottor Adler lo seguì in silenzio, chiudendosi poi la porta alle spalle.Fridolin si avvicinò al lavabo. «Tu permetti», disse, e si lavò accuratamente le mani col Lysol e col sapone. Nel frattempo, il dottor Adler sembrò voler riprendere senza complimenti il lavoro testé interrotto. Dopo aver ripristinato l’illuminazione precedente, cominciò a far ruotare la vite del micrometro e appoggiò l’occhio sul microscopio. Quando Fridolin gli si avvicinò per congedarsi, il dottor Adler era nuovamente immerso nel suo lavoro.«Ti va di dare un’occhiata al preparato?», domandò.«Perché?», fece Fridolin, assente.«Beh, per metterti la coscienza a posto», rispose il dottor Adler, come se dopotutto potesse ritenere che la visita di Fridolin avesse avuto uno scopo esclusivamente medico-scientifico.«Ti ci raccapezzi?», chiese, mentre Fridolin osservava dal microscopio. «Perché si tratta di un metodo di colorazione abbastanza nuovo».Fridolin annuì, senza allontanare l’occhio dalla lente. «Direi davvero ideale», commentò, «un’immagine dai colori sgargianti, viene quasi da dire». E s’informò sui singoli particolari della nuova tecnica.Il dottor Adler gli fornì le delucidazioni che desiderava, e Fridolin espresse la convinzione che questo nuovo metodo gli sarebbe probabilmente stato molto utile per un lavoro che aveva in mente di portare a termine prossimamente. Chiese il permesso di poter tornare l’indomani o il giorno dopo ancora, per chiedere ulteriori chiarimenti in materia.«Volentieri, sempre al tuo servizio», disse il dottor Adler, accompagnò Fridolin sulle rimbombanti mattonelle di pietra fino al portone, che nel frattempo era stato chiuso, e lo aprì con la sua chiave personale.«Tu rimani ancora?», chiese Fridolin.«Ma certo», rispose il dottor Adler, «sono queste le ore di lavoro più belle... da mezzanotte o giù di lì fino all’alba. Almeno, si può esser quasi certi che nessuno verrà a disturbare».«Insomma», disse Fridolin con un sorriso vago, come colpevole.Il dottor Adler posò una mano sul braccio di Fridolin come per tranquillizzarlo, poi gli chiese con un certo imbarazzo: «Allora... era lei?».Fridolin esitò un istante, poi annuì senza parlare, quasi senza rendersi conto che quell’affermazione probabilmente non rispondeva alla realtà. Infatti, che la donna che in quel momento giaceva nella camera mortuaria fosse la stessa che egli aveva tenuto nuda fra le braccia ventiquattr’ore prima, al suono indiavolato del pianoforte di Nachtigall, o che quella morta fosse una qualsiasi, una sconosciuta, una donna a lui totalmente estranea, che non aveva mai incontrato prima, egli aveva acquisito l’assoluta certezza che, se anche la donna che egli aveva cercato, bramato – e per lo spazio di un’ora forse anche amato – fosse stata ancora in vita e avesse continuato comunque a vivere la sua vita, quello che giaceva là, dietro di lui nella sala dal soffitto a volte, sotto la luce delle vacillanti fiammelle a gas, ombra fra le ombre, privo di senso e di mistero come quelle... per lui rappresentava, non poteva rappresentare altro che il pallido cadavere della notte appena trascorsa, ormai destinato a un’irrevocabile decomposizione.
Capitolo settimo Si affrettò verso casa attraverso i vicoli bui e vuoti e pochi minuti più tardi, dopo che, come ventiquattr’ore prima, si fu spogliato nel suo studio, entrò in camera da letto cercando di fare meno rumore possibile.Udì il respiro tranquillo e regolare di Albertine e vide i contorni del suo capo che si delineavano sul morbido guanciale. Il suo cuore fu pervaso da un sentimento di tenerezza, di sicurezza addirittura, come non si sarebbe mai aspettato. E si ripropose di raccontarle al più presto, forse anche domani stesso, la storia della scorsa notte, tuttavia in modo tale da far sembrare tutto ciò che aveva realmente vissuto, un semplice sogno... Poi, soltanto quando lei avesse percepito e riconosciuto la totale futilità delle sue avventure, le avrebbe confessato che erano state realtà. Realtà?, si chiese... e in quell’attimo scorse, vicinissimo al viso di Albertine, qualcosa di scuro, delineato, come le linee ombreggiate di un volto umano adagiato sul proprio guanciale. Il cuore sembrò fermarglisi in petto per un breve istante soltanto, in quello successivo seppe già di che cosa si trattava; protese la mano verso il guanciale e afferrò la maschera che aveva indossato la notte precedente, che, nell’avvolgere il fagotto quella mattina, gli doveva essere inavvertitamente scivolata via per essere poi ritrovata dalla cameriera o da Albertine stessa. Non poteva dunque dubitare che dopo quel ritrovamento Albertine avesse cominciato a sospettare qualcosa, probabilmente qualcosa di molto più grave di quanto era realmente accaduto. Il modo, tuttavia, in cui aveva cercato di farglielo capire, la trovata di appoggiare la maschera scura sul guanciale accanto a sé, come se avesse ormai a rappresentare il volto del marito divenutole improvvisamente enigmatico, quel modo scherzoso, quasi spavaldo, nel quale sembravano esprimersi al contempo un blando avvertimento e la disponibilità al perdono, dava a Fridolin la salda speranza che Albertine, memore del suo stesso sogno, fosse incline a non drammatizzare, qualunque cosa potesse essere accaduta. Fridolin però, esaurite d’un tratto tutte le sue forze, fece scivolare a terra la maschera e scoppiò in dolorosi e alti singhiozzi, sorprendendo persino se stesso; si accasciò accanto al letto e soffocò il pianto nei cuscini.Pochi secondi dopo percepì una mano che morbidamente gli accarezzava i capelli. Sollevò la testa ed ecco sprigionarsi dal profondo del suo cuore: «Voglio raccontarti tutto».Dapprima lei sollevò la mano, come in un silenzioso gesto di diniego; lui gliela prese, la tenne fra le sue, sollevò verso di lei lo sguardo interrogativo e al tempo stesso implorante, lei annuì e lui iniziò a raccontare.Il mattino filtrava grigio dalle tende quando Fridolin terminò il suo racconto. Albertine non lo aveva interrotto nemmeno una volta con domande curiose o impazienti. Sentiva che egli non aveva intenzione di tacerle nulla, né avrebbe potuto farlo. Se ne stava tranquillamente sdraiata, le braccia incrociate sotto la nuca, e rimase ancora a lungo in silenzio anche dopo che Fridolin ebbe finito di parlare. Finalmente – era sdraiato al suo fianco – si chinò su di lei, e nel suo viso immobile con i grandi occhi chiari, nei quali in quel momento sembrava sorgere anche il giorno, domandò esitante e speranzoso al contempo: «Cosa dobbiamo fare, Albertine?».Lei sorrise e dopo una breve esitazione rispose: «Essere grati al destino, immagino, che ci ha concesso di uscire senza danni da tutte le nostre avventure... Da quelle reali e da quelle sognate».«Ne sei davvero certa?», le chiese.«Talmente certa da intuire che la realtà di una notte, sì, non dico nemmeno quella di un’intera vita umana, rappresenti al contempo anche la sua più intrinseca verità».«E nessun sogno», sospirò piano lui, «è completamente sogno».Lei gli prese la testa fra le mani, appoggiandola dolcemente sul proprio seno. «Ma ora siamo svegli», disse, «...e lo saremo per molto tempo».Per sempre, avrebbe voluto aggiungere lui, ma prima che potesse pronunciare le parole, lei gli pose un dito sulle labbra e, come parlando a se stessa, sussurrò: «Mai chiedersi come sarà il futuro».Stettero entrambi in silenzio, cadendo a tratti nel dormiveglia e rimanendo vicini uno all’altra, senza sognare... fin quando, come ogni mattina, alle sette bussarono alla porta e con i consueti rumori provenienti dalla strada, con un vittorioso raggio di luce dalla fenditura della tenda e una cristallina risata di bimba dalla stanza accanto, ebbe inizio il nuovo giorno
Fine