mercoledì 28 aprile 2021

30 APRILE 1993 Filippo Facci


30 APRILE 1993

Filippo Facci 

Quella scena, questo libro

 La scena dell’Hotel Raphaël e delle monetine contro Bettino Craxi, l’uomo politico più influente degli anni ottanta, è considerata tipicamente il simbolo di un’epoca, forse il più noto simulacro di un periodo storico: la conoscono anche i più giovani, pur se magari non sanno spiegarne il contesto, come si dice; non sanno spiegare, cioè, il nesso tra un prima e un dopo, come se fosse il trailer di un film che non hanno visto. Da una parte, quindi, non si trova testo o documentario sul triennio 1992-1994 che non abbia epicentro in quell’immagine del 30 aprile 1993, spesso accompagnata da quella del cappio che fu sventolato in Parlamento due settimane prima; dall’altra si faticherà a credere, oggi, che la notizia dell’assedio dell’Hotel Raphaël, sulle prime pagine dei giornali del giorno successivo, non fu pubblicata. Non lo fu, e tantomeno nei giorni seguenti. L’unico ad averlo notato, venticinque anni dopo, è stato lo storico Giovanni Orsina in un articolo sulla «Stampa»: «I quotidiani quasi non ne parlarono. Eppure quell’evento è diventato il simbolo di Tangentopoli e Mani Pulite, e del collasso rovinoso della Repubblica dei partiti». Quell’assenza fu uno solo dei modi in cui la stampa fu corresponsabile. Sui quotidiani del giorno dopo, peraltro, non fu pubblicata neanche una foto dell’assedio, della stretta attorno alle auto: l’unica, poi vista e rivista negli anni a venire, fu scattata da un freelancer che si era arrampicato sulla pedana del ristorante Santa Lucia, a fianco dell’ingresso dell’hotel. Sui giornali l’immagine non apparve, e tantomeno apparve propriamente la «notizia» dell’assedio: in pochi articoli furono solo mimetizzati degli accenni, genere «la polizia presidia l’Hotel Raphaël», «monetine contro l’ex segretario Psi assediato nel suo albergo», «sotto le finestre di Craxi la rabbia della gente onesta». Sui giornali c’era, semmai, un’anticipazione di quella che venticinque anni dopo avrebbero chiamato «rivolta del Web» o del «popolo di Internet», ossia la trascrizione di centinaia di telefonate o telegrammi giunti nelle redazioni e pubblicati senza filtri. Dobbiamo quasi tutto alle immagini dei telegiornali: senza di quelle forse il caso non sarebbe esistito. Furono trasmesse a loro volta senza filtri: non erano come quelle che si vedevano normalmente nei notiziari, andarono in onda così com’erano, soprattutto su Raitre, e cioè senza editing, con le inquadrature sbollate e i livelli audio sfondati, pronte per una YouTube che non esisteva ancora. Un’altra anticipazione, un altro sgangherato salto in avanti rispetto a uno stile «social» ancora lontano. Non fu soltanto una giornata particolare: fu la dorsale tra un prima e un dopo, e ciò che accadde resta irrimediabile. Non era mai successo –notò Giuliano Ferrara –che la residenza privata di un personaggio pubblico fosse cinta d’assedio per un comportamento istituzionale e comunque democratico, cioè una decisione votata dal Parlamento. Quando c’era la guerra del Vietnam, i contestatori gridavano sotto il fortilizio dell’ambasciata, non sotto la casa privata dell’ambasciatore americano. Persino le Brigate rosse, che ammazzavano avvocati e magistrati, si premuravano di far sapere che le pallottole non erano rivolte agli uomini, ma alle toghe che indossavano. Quando il segretario comunista Enrico Berlinguer, ospite del congresso socialista del 1984, fu sonoramente fischiato, lo stesso Craxi si affrettò a spiegare che i fischi non erano diretti alla persona, «ma a una politica profondamente sbagliata». Il linciaggio di un uomo politico come Bettino Craxi, in un paese come l’Italia, suonò invece da autoassoluzione di massa per milioni di mandanti che per generazioni avevano potuto votare, accettare, legittimare, e che ora volevano bruciare anche i loro vizi nazionali, le elargizioni a pioggia, il debito morale e pubblico –poi attribuito a Craxi –e insomma, ciò che l’Italietta compromissoria aveva accumulato nei decenni. «Vogliono il rogo, non un processo», dirà Craxi. Chi era senza peccato scagliò la prima monetina di infinite. Qualcosa cambiò per sempre. Ciò che venne dopo non fu più politica: furono le forme della sua assenza. La tecnocrazia. L’illusione della società civile. La pan-penalizzazione integrale del vivere quotidiano. Il neopopulismo. Persino una medicalizzazione coattiva della cittadinanza, con un netto restringimento delle libertà costituzionali: qualcosa che è ben lungi dal vedere la fine –mentre scriviamo –ma che ha messo ancor più fuori gioco, se possibile, i partiti intesi come rappresentanti della fisiologia democratica. Le piazze, in futuro, non avrebbero più avuto neppure le monetine da tirare, e non solo per un indubbio impoverimento del paese, ma perché le piazze sarebbero diventate virtuali, e l’odio e l’invidia sociale avrebbero nascosto la mano nella solitudine domestica: la famosa folla solitaria. Doveva comunque succedere, probabilmente: il mondo è cambiato dappertutto. Ma solo da noi è cambiato in questo modo, con una cosiddetta «rivoluzione» a fare da abbrivio. Di tutte le profezie attribuite a Bettino Craxi, forse la più trascurata è contenuta proprio nel suo discorso alla Camera del 29 aprile 1993, giorno precedente alla scena del Raphaël: Una rivoluzione: così sono stati definiti e così molti concepiscono gli avvenimenti di casa nostra. Può darsi. Però allora è bene essere consapevoli che una rivoluzione è di per sé sempre una grande incognita e una grande avventura. Ma, soprattutto, una rivoluzione senza un ceto organico di rivoluzionari è destinata solo a distruggere e a preparare un fallimento certo. C’è stata violenza nell’uso del potere giudiziario, nell’uso dei sempre più potenti mezzi di comunicazione. C’è stato un eccesso di violenza nella polemica politica, nella critica, nel linguaggio e nei comportamenti. E la violenza non può far altro che generare violenza nei giudizi, nei sentimenti, nelle passioni, negli animi. Bene o male è l’Italia di oggi, che da allora ha fatto piazza pulita di partiti, istituzioni, simboli, reputazioni, rispetto dei ruoli, soprattutto ha smembrato quel poco di tessuto civico che la nostra giovane democrazia aveva faticosamente ordito, e che il detersivo rivoluzionario ci ha restituito bianco e pulito come un cencio inservibile. Siamo tornati a un misterioso anno zero. Magari, chissà, ci attende un futuro luminoso a cui stiamo opponendo una visione lamentosa e in classico ritardo culturale; nell’attesa, però, abbiamo la certezza che il nostro è l’unico paese europeo che non ha (più) un partito liberale, socialista, verde o democratico-cristiano. Il debito pubblico è più che triplicato, il ceto medio si è impoverito e proletarizzato, la crescita economica è all’ultimo posto d’Europa, le aziende più importanti sono espatriate o sono state vendute, quelle rimaste sono state maltrattate da una classe dirigente a dir poco neofita; e questo è accaduto assai prima di qualsiasi pandemia. Manca una «politica», termine ormai privo di senso, mancano i politici mentre «politica» e «politici» continuano a essere espressioni dispregiative. Spesso si incolpa un recente passato per giustificare il presente. Spesso, per esempio, si incolpa Craxi. Un vecchio modo di governare le nazioni, di cui Craxi era il perno, sono state spazzate via: non è accaduto in un giorno solo, ma se dovessimo sceglierne uno non avremmo dubbi. È il giorno in cui morì la politica. Dopodiché, sul quando e sul dove ebbe inizio il piano inclinato dal quale cominciammo a rotolare, si possono avere idee diverse: noi individuiamo senza dubbio la scena del Raphaël, che fu un linciaggio «simbolico» solo perché non riuscì. Non manca, in questo libro, la testimonianza di chi si dolse di non essere arrivato fino in fondo: «Dovevamo sbranare Craxi, avremmo dovuto farlo fuori a pezzi, gettare le sue…budella sulla porta del Raphaël e trascinarle fino al Parlamento». Parole pronunciate decenni dopo, come si vedrà. Le trasformazioni che dagli anni novanta hanno cambiato l’Italia e il mondo ci sarebbero state comunque: erano inevitabili. In Italia hanno coinciso con una brutale rivoluzione giudiziaria. Questo forse era evitabile. Quindi ora si può fare sociologia da due soldi, si può dire che quelle monetine siano state il battesimo dell’antipolitica, l’incipit di un populismo anticasta che si consacrerà nei Vaffa-Day di quindici anni dopo, passando dalla piazza fisica (il Raphaël) alla piazza mediatica (la tv urlata e quella berlusconiana) sino alla piazza virtuale del famigerato «popolo di Internet», perfezionamento del «popolo dei fax». Ma quella fu, in primo luogo, una violenza. Si potrà scegliere l’aggettivo che ne segue: ma il termine resta «violenza», ed è una violenza che va raccontata. Ora dopo ora. Perché di quei giorni resta l’accaduto, restano le parole che furono dette, restano i fatti che non conoscevamo, o che avevamo dimenticato, rimosso. In un suo libro, Presunto colpevole, l’ex corrispondente da Londra della «Stampa», Marcello Sorgi, ha raccontato che l’allora premier britannico Tony Blair, a casa di amici, gli chiese di spiegargli perché non si era riusciti a costruire un corridoio umanitario per Craxi, ossia a farlo rientrare in Italia per consentirgli una fine degna. Per Blair risultava incomprensibile ciò che era accaduto tra Roma, Milano e Hammamet tra la fine del 1999 e l’inizio del 2000, quando Craxi morì anche e soprattutto per mancanza di un’adeguata assistenza sanitaria. Il programma socialista del 1982 e le riforme introdotte dai governi Craxi, per i laburisti inglesi del 1994, erano diventate un riferimento tanto che si proponevano obiettivi simili; mentre all’estero provavano a imitare Craxi, cioè, in Italia lo lasciavano morire in quel modo. A Blair, Marcello Sorgi rispose che i governi italiani avevano trattato su tutto e con tutti: con il terrorismo interno e internazionale per salvare ostaggi, con i servizi segreti del mondo arabo per limitare i rischi di attentati, con i pentiti di mafia per combattere la criminalità, ma soltanto in due casi non era stato possibile trattare: con le Brigate rosse per Aldo Moro e con la magistratura italiana per Bettino Craxi, morto ad Hammamet il 19 gennaio 2000. La morte di Craxi , in realtà, ebbe inizio il 29 aprile 1993, verso le sette di sera. Qui si racconta questo.Craxi e io. Uno Conobbi Bettino Craxi semplicemente telefonandogli, proprio all’inizio del 1993. Avevo venticinque anni. Dopo aver collaborato con «l’Unità» e «la Repubblica», mi ero sposato per una pazzia giovanile e avevo poi fatto il servizio militare –in quest’ordine –e l’unico contatto che riuscii a procurarmi, in seguito, fu con la redazione milanese dell’« Avanti!», dove per un paio d’anni avrei lavorato da abusivo. Non ero un socialista, ero un radicale militante che ammirava Marco Pannella, conosciuto fuggevolmente anni prima, e mi importava solo di poter diventare un giornalista a tutto tondo. Tra i miei incarichi, quasi per caso, mi ritrovai a seguire l’inchiesta Mani pulite dopo che i nervi di una mia collega avevano cominciato a cedere, visto che il nostro era considerato il giornale dei ladri (i socialisti) e gli altri giornalisti lavoravano in pool, ovviamente escludendoci. Imparai in breve tempo che cosa potesse essere la solitudine professionale, ma la trovai congeniale al mio carattere. Ricordo quando entrai nella sala stampa del Palazzo di giustizia e tutti i colleghi uscirono per non aver nulla a che spartire con me, come capitò anche a un corrispondente del «Secolo d’Italia». Ricordo quando davanti a una clinica privata, dove un famoso finanziere era agli arresti ospedalieri, il gruppetto dei cronisti cambiava marciapiede a seconda della mia posizione. Quando mi capitò di pubblicare dei verbali d’interrogatorio che guastarono i piani di chi appunto scriveva in pool, poi, un collega della «Repubblica» mi disse a brutto muso che secondo lui i miei verbali erano falsi. Un altro cronista del «Giornale» mise in relazione la fuga notturna di un dirigente socialista con una mia possibile spiata. Fu tutto molto formativo, anche perché la sede romana dell’« Avanti!» vedeva nella redazione milanese un avamposto craxiano –ciò che era –e man mano che decresceva il potere di Craxi cresceva il tentativo di isolare noi ambrosiani. Io, formalmente, neppure esistevo: dopodiché il direttore di allora –Roberto Villetti, in seguito passato al Pds –prese a togliermi la firma dagli articoli, questo in un periodo in cui peraltro al giornale non arrivava più una lira (c’era la lira) perché le tangenti erano finite. Ma questo l’avrei appreso poi. L’« Avanti!» chiuse i battenti e io rimasi a spasso. Era la fine del 1992. La redazione era chiusa, ma spesso ci dormivo dentro perché aveva chiuso i battenti anche la mia breve stagione matrimoniale. Così, catturato da Mani pulite, mentre un paese intero invocava manette, cominciai a lavorare a una sorta di libro che nessuno mi aveva chiesto e che non nutrivo speranza di pubblicare, e continuai a seguire l’inchiesta e perciò a rivisitare la carriera di Antonio Di Pietro e la sua indagine devastante. Il clima che ribolliva nel paese non mi piaceva, avevo un carattere riflessivo ma ardente e mi venne naturale raccogliere del materiale di cosiddetta «contro-informazione»: di giorno, quindi, seguivo la cronaca, e la sera ci ragionavo, approfondivo, scrivevo sino a tarda notte. Solo a una certa età si riesce a fare certe cose, a immergersi ossia in una passionale, irresponsabile e lucida disperazione: probabilmente fu anche una forma di rimozione della vita ordinaria –carriera, affetti, divertimento –, che avevo trovato una scusa per schivare. Cercavo intensità. A parte i due o tre colleghi e amici della redazione milanese, ero piuttosto isolato e mi era difficile spiegare a chicchessia che cosa stessi facendo nella vita. Per dire: a fronte di un mio garantismo giudiziario all’apparenza incomprensibile, mio padre intanto leggeva «L’Indipendente» diretto da Vittorio Feltri, sicuramente il quotidiano più forcaiolo del paese. Era il periodo dei governi che non riuscivano a governare, delle bombe a Milano e a Roma e delle speculazioni internazionali: l’atmosfera da torbido complotto era illuminata solo dalla mirabolante traiettoria di Mani pulite. Il mio libro fantasma era ormai denso e particolareggiato sino alla paranoia, centinaia di pagine che ingenuamente e nelle maniere più improbabili tentai di proporre a qualche casa editrice. Non interessò a nessuno, perché ero un perfetto sconosciuto e perché il periodo era quello che era. Poi, un giorno, mi telefonò un personaggio di una fantomatica casa editrice straniera, uno che diceva di aver saputo del mio dattiloscritto da qualche collega di Palazzo Marino, la sede del Comune di Milano. Si disse interessato. Ci vedemmo due volte in un bar del centro e nel secondo incontro mi mostrò anche un libro pubblicato da questa casa editrice straniera, la Marshall di Dublino. Nel trattenere una copia del mio lavoro, mi disse che uno scritto come il mio, in Italia, non sarebbe mai stato pubblicato, e con mio sbigottimento mi diede una busta che –verificai poi –conteneva un anticipo di quattro milioni in contanti. Gli lasciai anche due mie foto. Una, lo feci per scherzare, mi ritraeva che avevo circa un anno. Fui molto contento di quei soldi, perché ne avevo un drammatico bisogno. Ma per il resto, dimostrai un’ingenuità quasi commovente. Avevo venticinque anni, come detto. Passò qualche settimana, nulla accadde e allora pensai di mostrare il mio «libro» a Bettino Craxi, che non conoscevo. Sapevo solo che l’anno prima, una volta, aveva chiesto di me perché aveva notato un mio articolo sull’« Avanti!». Allora, appunto, gli telefonai all’Hotel Raphaël e chiesi se poteva richiamarmi, e lui lo fece. In seguito lo incontrai insieme a colui che per anni sarebbe stato il mio più grande amico e anche il mio «capo», Luca Josi. Craxi mi ricevette nella hall assieme a Josi e a un altro amico a cui sarei restato molto legato, Riccardo Pugnalin. Oggi –parentesi –Josi e Pugnalin siedono ai vertici di due note multinazionali concorrenti, Tim e Vodafone. A un certo punto, nella hall, restai solo con Bettino, che sfogliò le bozze del mio libro per poco meno di un’ora. Io poi me le ripresi perché non volli lasciargliele. Quel giorno nacque un rapporto, senz’altro favorito da una mia timida sfacciataggine e dalla sua attrazione per i giovani passionali. Avvenne pochi mesi prima che quasi lo linciassero all’Hotel Raphaël, cioè quando la sua impopolarità era ai massimi, ormai infarcito di avvisi di garanzia ed ex segretario di un partito in dissoluzione. Conobbi altre persone eccezionali, in quel periodo: uomini e ragazzi che difendevano storie che non erano le loro, e che dicevano follie che un giorno sarebbero state ovvie, o magari ammesse con disinvoltura soltanto nel ventennale della morte di Craxi, nel 2020. L’effervescenza di Mani pulite mi disvelò codardie raggelanti e dignità insospettabili. Quella che nacque con Craxi fu comunque una vera amicizia che si sarebbe protratta sino alla sua morte, nel 2000, anche se da un certo punto, quando lasciò l’Italia, divenne un rapporto per lo più telefonico. Craxi si spostò ad Hammamet nel 1994, ma in seguito andai a trovarlo non più di quattro o cinque volte. Riesce difficile distinguere un Craxi pubblico da un Craxi privato –perché era un totus politicus, direbbe il suo ex «delfino» Claudio Martelli –, ma preferisco ugualmente tralasciare aspetti del nostro rapporto che forse neppure interesserebbero. Per quel che conta, ero una persona a cui Craxi chiedeva informazioni, come pure ne chiedeva ad altri, anche se –appurai poi –non erano molti. Era più alto e più magro di quanto mi aspettassi, e decisamente scomposto e ingombrante nei suoi movimenti improvvisi, bruschi, fulminei. Non era una persona curata, indossava giacca e cravatta come una divisa malmessa, all’epoca fumava Salem al mentolo e avrei imparato a conoscere il suo sostanziale disprezzo per il denaro inteso come status, come fonte per lussi e sfoggi che detestava –non sopportava i cibi costosi e la servitù sovrabbondante, anche se aveva un amore disordinato per la bellezza e per l’arte. Nel tempo è restata l’unica personalità che io abbia conosciuto –ne avrei conosciute di celebri –che a mio dire irradiava un cosiddetto «carisma naturale», superficialmente amplificato da reverenze e ipocrisie che disprezzava anche in chi gli era devoto. C’è qualcosa che ancor oggi fatico a spiegare, ed è la maniera in cui io e Craxi entrammo all’istante in quel genere di confidenza naturale e rilassata che talvolta può scattare con l’uomo semplice, con chi non conosce altri registri, chessò, l’operaio, l’idraulico, il barcaiolo, insomma avemmo una facilità di dialogo che ad alcuni parve sfrontata. A pranzo era scombinato, si macchiava, ogni tanto prendeva il cibo con le dita non perché fosse un cavernicolo, ma perché lo aveva imparato dai tunisini. Con lui a capotavola, tutti osservavano una rispettosa distanza non tanto per il carisma, ma perché aveva l’abitudine di inforchettare nei piatti altrui quello che il suo diabete gli vietava. Avevo letto che nel 1979, quando il capo dello Stato Sandro Pertini chiamò Bettino per conferirgli l’incarico di formare il nuovo governo, Craxi si presentò al Quirinale in jeans. L’immagine corrispondeva. Pertini comunque gli disse di andare a cambiarsi. Nell’autunno 1993 riuscii a fare l’esame da giornalista solo grazie al praticantato d’ufficio, un riconoscimento legale che mi avrebbe permesso di affrontare le prove da professionista. A Roma feci l’esame scritto e scelsi un tema sul «nuovismo» maturato dopo Mani pulite, ma mi bocciarono. Quattro mesi dopo diedi di nuovo l’esame e scelsi tutt’altro argomento, prendendo il voto più alto di tutta la sessione. Per l’orale si doveva discutere una tesina a scelta, e la mia fu questa: Commistioni tra magistrati e giornalisti nell’inchiesta Mani pulite. Fui promosso con il minimo dei voti dopo un’ora drammatica che lasciò increduli gli altri esaminandi. La commissione era composta giust’appunto da magistrati e giornalisti. Un mattino mi segnalarono uno dei tanti scritti anonimi su Mani pulite che circolavano per le redazioni. C’era una copertina grigia con il titolo Gli omissis di Mani pulite e risultava edito da una certa «Marshall Ltd-Irlanda», firmato da «Anonimo giornalista». Centonovantadue pagine fitte. Era il mio libro, «Anonimo giornalista» ero io. Sulla retrocopertina, piccolina, c’era anche la mia foto di quando avevo un anno. Rimasi di sale. Da una parte la rabbia per quell’incredibile lavoro perduto nell’oceano degli anonimi, dall’altra un timore irrazionale di essere scoperto per aver fatto qualcosa che in realtà non volevo neppure nascondere. Fu difficile non parlarne con nessuno per mesi, per anni. Tanto più quando il settimanale «Panorama», poco tempo dopo, in un trafiletto, fece cenno al volume e titolò Veleni contro Mani pulite. Mi raccontarono che alcuni colleghi della giudiziaria si divertirono con la caccia all’autore, e seppi che non sospettarono di me perché non mi ritenevano all’altezza. Nella primavera del 1994, dopo un penoso peregrinare tra editori, riuscii a pubblicare un libro-intervista con l’ex sindaco di Milano Paolo Pillitteri, Io li conoscevo bene. Pillitteri l’avevo conosciuto a Mani pulite scoppiata, nell’autunno 1992, anche perché tutti lo rifuggivano come un appestato in quanto indagato ma anche cognato di Craxi. Passavamo insieme interi pomeriggi. «Panorama» dedicò una pagina al nostro libro, e altri articoli uscirono sulla «Stampa» e sul «Messaggero»: spesso neppure mi nominavano, ma fui contento perché si cominciava a parlare di Mani pulite anche da un altro punto di vista, e il libro rivelava per la prima volta certi legami imbarazzanti di Antonio Di Pietro, il simbolo dell’inchiesta. Una vita normale non riuscivo ad averla, e data la mia direzione ostinata e contraria non so neppure come avrei potuto trovare un lavoro normale, soprattutto da giornalista. Continuai a occuparmi d’altro. Da ex radicale bussai alla porta di vari avvocati e cercai di raccogliere storie di malagiustizia non per forza legate a Mani pulite, e, nel luglio 1994, nei giorni del disgraziato decreto Biondi che voleva limitare –nelle intenzioni –gli abusi della custodia cautelare, il mio amico Luca Josi mi propose di presentare le mie storie sotto forma di libro in via di pubblicazione, anche se non c’era il libro e non era prevista la pubblicazione. Ma almeno erano esempi che si contrapponevano a quanti, a fronte delle lagnanze garantiste sullo Stato di diritto violato, invocavano ogni volta casi concreti. Nella saletta di un hotel romano intervennero Vittorio Sgarbi, l’avvocato Nicolò Amato e il professor Paolo Ungari. Ne uscìun trafiletto sul «Giornale» e uno sul «Corriere della Sera»: fu un risultato, dati i tempi. Qualche giorno dopo si fece vivo l’amministratore della Larus di Bergamo, editrice scolastica ma con incursioni nell’attualità: aveva già pubblicato dei libri di Vittorio Sgarbi, tra gli altri. Aveva letto il trafiletto sul «Corriere» e disse che il libro gli interessava molto, ma tutto venne rimandato a settembre. Gli credetti. Passai l’intero agosto a lavorarci sopra. In settembre, dopo ripetuti rinvii, l’amministratore della Larus si rese irreperibile e compresi poi perché: stava per pubblicare Costituzione italiana. Diritti e doveri commentata da Antonio Di Pietro e con una presentazione di Francesco Cossiga. Presto avrebbe dato alle stampe due testi di educazione civica sempre firmati dall’ex magistrato. Questo amministratore cercò di convincermi che aveva grandi progetti e che non avrebbe avuto problemi a pubblicare anche me, perché lui era un liberale: la cosa incredibile è che io credetti pure a questo. Continuai perciò a lavorarci. Il mio ultimo appuntamento alla Larus di Bergamo fu nel febbraio 1995. Attesi due ore in una saletta e poi eccomi nell’ufficio dell’amministratore, dove appesa al muro c’era una gigantografia di Antonio Di Pietro firmata dal fotografo Bob Krieger. Mi spiegò che non poteva permettersi di pubblicare il mio lavoro perché l’aveva mostrato all’ex magistrato. In sostanza aveva cercato di farsi bello con lui bloccando il mio libretto. Questo disse. Quando raccontai tutto a Craxi, per telefono, lui rise. Non con amarezza: rise proprio. Prima dal 17 febbraio 1992 al 28 aprile 1993 L’Italia, all’inizio del 1992, era un castello di carte che aspettava solo un refolo di vento. Nel paese stava culminando una crescente e giustificata intolleranza verso il degenerare della «partitocrazia», intesa come predominio dei partiti nella società, e questa insofferenza era vellicata da una forte crisi economica e si era ormai consolidata anche nella cultura popolare, quindi sulla stampa, nelle arti, al cinema, ovunque i partiti non avessero ingessato tutto con la lottizzazione, cioè la spartizione delle cariche di potere. Bettino Craxi, per anni, era stato un uomo da bruciare per larga parte della sinistra italiana, ma ora stava diventando un uomo da bruciare e basta, come in Italia è sempre avvenuto –in tempi e piani diversi –per ogni personaggio che abbia accompagnato una forte carica innovativa a una certa sicurezza dei propri mezzi. Riesce molto difficile immaginare il biennio 1992-1993, ora. L’inchiesta milanese Mani pulite fu presto emulata da molte altre procure italiane che indagarono su un vasto sistema di finanziamento illecito dei partiti, che comprendeva episodi di corruzione e arricchimento personale. Passate come «processo alla prima Repubblica», le indagini in realtà contemplarono solo un periodo inferiore ai tre anni e cioè non precedente al 24 ottobre 1989, data in cui era stata varata un’amnistia che aveva compreso anche il reato di violazione al finanziamento pubblico dei partiti; la demarcazione tese a escludere molte dazioni irregolari che i due schieramenti principali, la Dc e il Pci, avevano probabilmente ricevuto da nazioni straniere. A distanza di anni, e al di là del costume e di qualunquismi senza età, pare chiaro che a Milano e in tutto il paese il finanziamento illegale fosse oltremodo degenerato. Ogni appalto doveva sovvenzionare la politica in quote prestabilite a tutti i partiti che contavano (secondo il consenso acquisito) e le imprese a loro volta potevano pianificare i vincitori delle varie gare in barba al libero mercato, formando così un «cartello» che escludeva altra concorrenza e falsava i costi. Maggioranze e opposizioni conducevano un gioco delle parti che dietro le quinte diveniva complicità e spartizione degli affari: capitava, per determinati appalti, ci fosse un cassiere unico che poi ridistribuiva agli altri partiti. In concreto «era un sistema», come avrebbe detto Bettino Craxi il 3 luglio 1992 in un suo celebre discorso alla Camera, o nondimeno una «dazione ambientale», come la descrissero i magistrati di Milano. Un meccanismo talmente oliato da rendere difficile comprendere chi, tra le imprese e i politici, avesse il coltello dalla parte del manico: gli imprenditori si definirono come ricattati dai politici, i politici come assediati da imprenditori ansiosi di offrire. Ma non c’è dubbio che, nel 1992 e in parte del 1993, passò la linea dei primi. Complice il ruolo dei grandi giornali, detenuti in maggioranza dalle imprese via via coinvolte, uno strabismo mediatico individuerà le responsabilità per lo più nei partiti. Dirà anni dopo il pm Piercamillo Davigo, «Dottor Sottile» dell’inchiesta milanese: Le imprese si sono sempre giustificate dicendo che erano state costrette a farlo, che erano concusse, ma quello che si è appurato nei processi o nei patteggiamenti, con le innumerevoli condanne, mi fa propendere per l’altra ipotesi, quella di una prevalente corruzione. Anche perché, molte volte, al versamento delle tangenti si accompagnavano sistematiche pratiche di alterazione delle gare attraverso gli accordi tra le imprese stesse. Insomma, molti imprenditori costituivano una categoria di soggetti abituati a vivere di protezione, al riparo dalla concorrenza, con un mercato privilegiato in cui gli appalti venivano suddivisi e spartiti al loro interno; in questa situazione il costo delle tangenti era rappresentato, a ben vedere, da cifre tutto sommato modiche rispetto ai benefici che se ne ottenevano. Più colorata ma non diversa l’opinione di Mario Chiesa, il primo arrestato dell’inchiesta milanese: Tangentopoli non nasce solo per la prepotenza dei politici. Di imprenditori estorti non c’è nemmeno l’ombra…Corruttori pronti a prendere calci nel culo, a subire ogni vessazione, sempre pronti a presentarti ventisette donne pur di non uscire dalla loro nicchia ed evitare di misurarsi col libero mercato…Una logica da gironi danteschi: nel primo c’erano le imprese garantite per i lavori a cavallo del miliardo, nel secondo quelle per opere sui tre miliardi…Sino alla Cupola, sei o sette imprese che si riuniscono e pianificano investimenti e leggi ad hoc per dividersi gli appalti secondo una logica mafiosa. Quel periodo fu oltretutto lo sfondo di episodi drammatici come le stragi di Capaci e via d’Amelio, in cui la mafia uccise i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Riesce nondimeno difficile, oggi, ricordare come l’immagine dei due celebri magistrati fosse distante da quella simbolica a cui oggi si intitolano scuole, vie e monumenti. La strumentalizzazione dell’assassinio di Giovanni Falcone, in particolare, fu una delle pagine più disgustose della retorica di quegli anni. Falcone, sempre minacciato e perciò attorniato da una nutrita scorta, non era amato neppure dai vicini di casa: alcuni condomini del giudice, in via Notarbartolo, a Palermo, scrissero al «Giornale di Sicilia» nel timore che un attentato potesse tirarli in mezzo. Era un giudice eccezionale, un riferimento mondiale, tanto che il 16 dicembre 1987, quando grazie a lui la Corte d’assise di Palermo, al cosiddetto «maxiprocesso», comminò diciannove ergastoli a importanti boss mafiosi (cosa che pochi credevano possibile), era opinione diffusa che sarebbe dovuto diventare il nuovo consigliere istruttore di Palermo; ma il Csm (Consiglio superiore della magistratura) il 19 gennaio gli aveva preferito un altro, Antonino Meli, seguendo il criterio dell’anzianità. Già da allora avevano cominciato a voltargli le spalle in tanti. Il democristiano Leoluca Orlando, tuonando contro la corrente legata a Giulio Andreotti, era diventato sindaco di Palermo e aveva inaugurato una cosiddetta «primavera» che auspicava un gioco di sponda tra procura e istituzioni, anzi una «sinergia», come aveva detto Falcone stesso. Sarebbe durata sino all’estate del 1989, quando il pentito Giuseppe Pellegriti accusò il democristiano Salvo Lima di essere il mandante di una serie di delitti palermitani: Falcone fiutò la calunnia, ma Orlando si convinse –o meglio pensò di affermare –che il giudice volesse proteggere Andreotti. Durante una puntata di Samarcanda, primo grande talk show trasmesso in prima serata e condotto da Michele Santoro, Orlando scagliò l’accusa: Falcone –disse –ha dei documenti sui delitti eccellenti ma li tiene chiusi nei cassetti. Questa menzogna verrà ripetuta a ritornello da altri esponenti della Rete (neopartito fondato da Orlando) come Carmine Mancuso e Alfredo Galasso. È di quel periodo, peraltro, un primo e sottovalutato attentato a Falcone, una bomba ritrovata nella sua casa in affitto al mare all’Addaura, una spiaggia dietro Palermo. Era il 21 giugno 1989 e il magistrato era in compagnia dei colleghi svizzeri Carla Del Ponte e Claudio Lehmann, impegnati in un’inchiesta sul narcotraffico. In mattinata tuttavia fu trovata in spiaggia, dalla scorta, una borsa contenente cinquantotto candelotti di esplosivo. È una vicenda di cui non si è mai parlato molto, ma ci sono stati dei processi giudiziari; dopo il primo e secondo grado, il 19 ottobre 2004, si è espressa chiaramente anche la Cassazione. La sentenza, in ottantanove pagine, ha confermato pesanti condanne per Totò Riina, Salvatore Biondino e Antonino Madonia, e ha sancito che i servizi segreti di Stato –sempre incolpati, allora e in seguito –non c’entravano niente, perché la responsabilità fu evidentemente di Cosa nostra. Altre pagine della sentenza misero nero su bianco quello che venne definito «l’infame linciaggio» subito da Falcone, che in buona sostanza in quel 1989 fu accusato di essersi piazzato la bomba da solo. Si citano con nomi e cognomi esponenti della Rete di Orlando oltre a magistrati e alti esponenti dei carabinieri: Falcone avrebbe agito per farsi pubblicità. «Sono emersi con drammatica evidenza», si legge nella sentenza, «i perversi giochi di potere realizzati contro le legittime aspettative di Giovanni Falcone». Per il giudice le cose peggiorarono quando accettò l’invito del ministro di Grazia e giustizia Claudio Martelli a dirigere gli Affari penali. L’obiettivo di Falcone era creare strumenti come la Procura nazionale antimafia (oggi ritenuta fondamentale), ma fu accusato di essersi venduto al potere politico. Si scagliò contro di lui ad esempio il «Giornale di Napoli»: «Dovremo guardarci da due Cosa Nostra, quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma». Scrisse Sandro Viola sulla «Repubblica»: «Non si capisce come mai Falcone non abbandoni la magistratura…S’avverte l’eruzione d’una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste dei guitti televisivi». «L’Unità», due mesi prima che il magistrato saltasse in aria, fece scrivere un corsivo al membro del Csm Alessandro Pizzorusso, e questo fu il titolo: Falcone superprocuratore? Non può farlo, vi dico perché. Cosa nostra aveva già deciso di saldare il conto dopo che la Cassazione, il 30 gennaio 1992, aveva confermato gli ergastoli del maxiprocesso ai boss mafiosi. Mentre Roma discuteva su come impedire qualsiasi nomina di Falcone, il futuro pentito Giovanni Brusca stava facendo dei sopralluoghi sull’autostrada Palermo-Punta Raisi: Sono responsabile della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, ho commesso e ordinato oltre 150 delitti, ho strangolato parecchie persone, ho sciolto i cadaveri nell’acido muriatico, e, prima di farlo, molti li ho carbonizzati su graticole costruite apposta…Il mio risentimento nei confronti di Falcone era identico a quello di tutti gli affiliati a Cosa Nostra: era il primo magistrato, dopo Chinnici, che era riuscito a metterci seriamente in difficoltà. Era riuscito a entrare dentro Cosa Nostra, sia perché ne capiva le logiche, sia perché aveva trovato le chiavi giuste. Lo odiavamo, lo abbiamo sempre odiato. Fu Giovanni Brusca, il 23 maggio 1992, a far saltare in aria Falcone e tutta la sua scorta. Brusca ha messo queste cose a verbale e nel 1999 le ha pure raccontate in un libro. A macerie fumanti, il tentativo di sfruttare la morte di Falcone per portare acqua all’inchiesta Mani pulite fu impressionante per sfacciataggine. Quando Falcone morì era sabato 23, come detto. Il 25, «la Repubblica» uscì in edizione straordinaria (ai tempi il lunedì non usciva) con il titolo L’ultima telefonata con Di Pietro.