venerdì 9 aprile 2021

IL RUMORE DEL TEMPO Julian Barnes

 

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IL RUMORE DEL TEMPO

Julian Barnes

La mattina del 29 gennaio 1936 la terza pagina della "Pravda" commentava la recente esecuzione al Bol'soj della "Lady Macbeth del distretto di Mcensk" di Dmitrij Sostakovic titolando "Caos anziche musica" e accusando l'opera di accarezzare "il gusto morboso del pubblico borghese con una musica inquieta e nevrastenica". Non si trattava solo della recensione negativa capace di rovinare la giornata di un artista. Neppure della stroncatura in grado di distruggergli la carriera. Nell'Età del terrore del compagno Stalin un editoriale del genere, e il conseguente stigma di nemico del popolo, poteva interrompere la vita stessa. E dunque puntuale, per il celebre Sostakovic, giunge il primo di una serie di colloqui con il Potere. È una trappola senza vie d'uscita, quella che gli si tende - piegarsi alla delazione o soccombere -, e Sostakovic si dispone all'attesa dell'ineluttabile. Al calar della notte, per dieci notti consecutive, esce dall'appartamento che divide con la moglie Nita e la figlioletta Galja e si sistema accanto all'ascensore che presumibilmente portera i suoi aguzzini, meditando fino all'alba sul suo destino e quello del suo tempo. Ma le vie dei regimi sono imperscrutabili, l'interrogatore può facilmente trasformarsi in interrogato e il reprobo salvarsi, addirittura essere "perdonato". 
IL RUMORE DEL TEMPO
 Julian Barnes 

Accadeva in pieno tempo di guerra, su una banchina ferroviaria piatta e polverosa come la sconfinata distesa che la circondava. Fermo a caldaia accesa, il treno diretto a ovest si trovava a un paio di giorni da Mosca, a due o tre dalla meta, a seconda dell’approvvigionamento di carbone e dei movimenti delle truppe. Era da poco passata l’alba, ma l’uomo – o per meglio dire, il mezzo uomo – già si sospingeva verso i vagoni letto a bordo del suo carrello piatto montato su ruote di legno. Non c’era modo di manovrarlo, quell’arnese, se non bloccandone di colpo l’estremità anteriore, e, per non essere catapultato in avanti, l’uomo aveva passato una corda sotto il carrello e se l’era fatta girare intorno alla cinta dei calzoni. Le sue mani erano fasciate con strisce di stoffa annerita e la pelle era coriacea a furia di mendicare all’aperto fra strade e stazioni.

Suo padre era stato un superstite della guerra precedente. Partito con la benedizione del prete per andare a combattere per la madrepatria e per lo zar, non aveva piú trovato, al ritorno, né prete né zar, e anche la madrepatria non era piú la stessa. La moglie si era messa a strillare vedendo quel che gli aveva fatto la guerra. Adesso se ne combatteva un’altra, ma l’invasore era lo stesso, anche se diversi erano i nomi, da tutte e due le parti. Per il resto, nessun cambiamento: stessi ragazzi martoriati dai colpi di fucile e poi grossolanamente tagliuzzati dai chirurghi. Come le sue gambe, amputate in un ospedale da campo tra alberi infranti. Il tutto per una nobile causa, esattamente come la volta precedente. Lui se ne fotteva. Che ci litigassero gli altri; il suo solo pensiero quotidiano era riuscire a tirar sera. Si era trasformato in un sistema di sopravvivenza. Al di sotto di una certa soglia è questo che diventano gli uomini: sistemi di sopravvivenza.

Pochi passeggeri erano scesi a prendere una boccata d’aria e di polvere; altri mostravano le facce ai finestrini. Avvicinandosi, il mendicante intonava a gola spiegata una canzonaccia da caserma. Qualcuno gli lanciava un copeco o due per l’intrattenimento; qualcun altro lo pagava perché andasse oltre. Certi gettavano apposta le monete in modo da farle cadere di taglio e rotolare via, per ridere di lui costretto a inseguirle, puntando forte i pugni contro la banchina di cemento. Capitava che la scena inducesse altri, per senso di pietà o per vergogna, a consegnargli il denaro direttamente. Lui vedeva solo dita, spiccioli e maniche di cappotti, ed era tetragono a ogni insulto. Lui era quello che beveva.

I due uomini che viaggiavano in vagone letto stavano al finestrino cercando di indovinare la località e la possibile durata della sosta: minuti, ore, l’intero giorno, forse. Nessuno li informava di nulla, e sapevano di non dover chiedere. Fare domande riguardo alla partenza di un convoglio ferroviario – anche se eri un passeggero – poteva segnalarti come sabotatore. Gli uomini, ormai sulla trentina, avevano piú che l’età per aver imparato lezioni come questa. Quello che sentiva era un tipo smilzo, nervoso, occhialuto; portava intorno al collo e ai polsi amuleti d’aglio. Il nome del compagno di viaggio non è rimasto negli annali della storia, sebbene fosse lui quello che ricordava.

Il carretto col mezzo uomo a bordo sferragliò verso di loro. Il mendicante berciava versi allegri su donne stuprate nei villaggi. Si interruppe e fece il gesto di chi vuole mangiare. Per tutta risposta, l’uomo con gli occhiali sollevò una bottiglia di vodka. Una cortesia superflua. Quando mai un mendicante aveva rifiutato della vodka? Un attimo dopo i due passeggeri si univano a lui sulla banchina.

E dunque adesso erano in tre, il numero tradizionale dei bevitori di vodka. Quello con gli occhiali reggeva ancora la bottiglia; il suo compagno, i tre bicchieri. Furono pressoché riempiti fino all’orlo e i viaggiatori, piegatisi in due, pronunciarono il consueto brindisi alla salute. Mentre facevano tintinnare il cristallo, lo smilzo nervoso reclinò il capo – mentre il primo sole del mattino gli incendiava in un lampo il vetro delle lenti – e mormorò qualcosa che fece ridere l’amico. Poi buttarono giú la vodka d’un fiato. Il mendicante alzò il bicchiere per averne ancora. Gliene diedero un altro cicchetto, poi gli presero il bicchiere e rimontarono in treno. Grato per la sferzata d’alcol che adesso gli scorreva nel moncone di corpo, il mendicante si spinse a tutta velocità verso il successivo gruppo di passeggeri. Quando gli uomini ebbero ripreso posto a sedere, quello dei due che sentiva aveva ormai quasi dimenticato quanto aveva detto. Quello che ricordava in compenso aveva appena cominciato a ricordare.

Sapeva solo che quella era la volta peggiore.

In piedi accanto all’ascensore da tre ore, si era acceso la quinta sigaretta e i pensieri gli ronzavano in modo convulso.

Facce, nomi, ricordi. Zolle di torba pesante sulle mani. Uccelli d’acqua svedesi in volo sopra di lui. Campi di girasoli. Fragranza di olio di garofano. Il profumo tiepido, dolce di Nita che lascia il campo da tennis. Sudore che gronda da una fronte incorniciata dall’attaccatura a cuore dei capelli. Facce, nomi.

Facce e nomi dei morti, anche.

Poteva portarsi da casa una sedia. Ma i nervi l’avrebbero comunque tenuto dritto in piedi. E sarebbe sembrato decisamente eccentrico, lí seduto ad aspettare l’ascensore.

La situazione gli era piombata addosso dal nulla, ma era perfettamente logica. Come tutto il resto della vita. Come il desiderio sessuale, per esempio. Anche quello ti piombava addosso dal nulla, ed era perfettamente logico.

Si sforzava di restare concentrato su Nita, ma i pensieri non gli ubbidivano. Erano come un moscone ronzante, promiscuo. Si posavano su Tanja, manco a dirlo. Ma subito dopo si spostavano su quella ragazza, quella Rozalija. Lo faceva arrossire, il ricordo di quell’episodio depravato, o gli procurava al contrario una segreta fitta d’orgoglio?

Anche l’appoggio del Maresciallo gli era piombato addosso dal nulla, pur essendo perfettamente logico. Valeva lo stesso anche per il destino del Maresciallo? Chi lo sa.

Il volto barbuto e bonario di Jurgensen e, con esso, il ricordo delle dita di sua madre che gli serravano il polso con rabbia, con ferocia. E suo padre, dolcissimo, adorabile, inutile, in piedi accanto al pianoforte a cantare Sono sfioriti da tempo i crisantemi.

La cacofonia di suoni nella sua testa. La voce di suo padre, i valzer e le polke che aveva suonato durante il corteggiamento di Nita, le quattro raffiche sonore della sirena di una fabbrica in Fa diesis, il latrato di cani che soverchia l’incertezza di un fagotto, un tumulto di percussioni e ottoni sotto un palco delle autorità rinforzato in acciaio.

A interrompere questi rumori ne arrivò uno dal mondo reale: l’improvviso ronzio brontolante dell’ascensore in funzione. Adesso era il suo piede a fremere, battendo contro la piccola valigia deposta accanto al polpaccio. Lui attese, di colpo svuotato dei ricordi e carico soltanto di paura. Poi l’ascensore si fermò a un piano inferiore e lui recuperò le facoltà mentali. Sollevò la valigia e sentí il contenuto spostarsi al suo interno. Il che gli riportò i pensieri alla storia del pigiama di Prokof’ev.

No, non come un moscone. Piuttosto come una zanzara, di quelle di Anapa. Che si posano ovunque, e succhiano sangue.

Si era detto, durante l’attesa, che sarebbe rimasto in controllo dei propri pensieri. Ma di notte, solo, sembrava fossero i pensieri a dominare lui. Beh, al proprio destino non si sfugge, come ci assicurava il poeta. E nemmeno ai propri pensieri.

Ricordò il dolore della notte prima che gli asportassero l’appendice. Aveva vomitato ventidue volte, scaricato su un’infermiera tutte le bestemmie a lui note e implorato un amico di far venire un soldato della guardia nazionale per mettere fine alla sua sofferenza. Fallo venire, che mi spari e metta fine alla mia sofferenza, aveva supplicato. Ma l’amico si era rifiutato di soccorrerlo.

Non gli servivano né un amico né un soldato, adesso. Non mancavano di certo i volontari.

Tutto era cominciato, esattamente, raccontò ai propri pensieri, la mattina del 28 gennaio del 1936, alla stazione ferroviaria di Archangelsk. No, ribatterono i pensieri, niente comincia proprio cosí, un certo giorno e in un certo posto. È cominciato tutto in tanti posti, e tante volte, alcune delle quali risalivano a prima del tuo venire al mondo, in paesi stranieri, e in pensieri altrui.

E anche dopo, qualunque cosa accadesse, sarebbe continuato tutto allo stesso modo, in altri posti, e in pensieri altrui.

Gli vennero in mente le sigarette: pacchetti di Kazbek, Belomor, Herzegovina Flor. Un uomo che sbriciola il tabacco di una mezza dozzina di papyrosi nel fornello della pipa, lasciando sulla scrivania avanzi di carta e piccoli cilindri di cartone.

Nell’attuale fase tardiva, era possibile riparare, invertire il corso del tempo? Conosceva la risposta: quel che il dottore aveva detto a proposito della possibilità di rimettere a posto Il Naso. «Certo che lo si può rimettere, ma vi assicuro, sarà solo peggio».

Pensò a Zakrevskij, e alla Grande casa, e a chi avrebbe potuto prendere il posto di Zakrevskij lí. Qualcuno si sarebbe trovato. Gli Zakrevskij non mancavano mai, non in quel mondo, strutturato com’era. Forse, una volta raggiunto il Paradiso, di lí a quasi precisamente 200 000 000 000 d’anni, dell’esistenza degli Zakrevskij non si sarebbe sentito piú il bisogno.

In certi momenti i suoi pensieri si rifiutavano di credere a quel che stava succedendo. Non è possibile, perché non potrebbe mai e poi mai esserlo, come disse il Maggiore quando vide la giraffa. Ma si dà il caso che invece potesse, e lo fosse.

Destino. Giusto un termine magniloquente per dire qualcosa che non si può modificare. Quando la vita ti dice: «E dunque…», tu annuisci e chiami quel dunque destino. E dunque, era stato suo destino chiamarsi Dmitrij Dmitrievič. Non ci si poteva fare nulla. Non che avesse memoria del proprio battesimo, ovviamente, ma non c’era ragione di dubitare della veridicità della storia. La famiglia al completo si era radunata nello studio di suo padre, al centro del quale era sistemato un fonte portatile. Il prete arrivò e chiese ai genitori che nome avessero in mente per il neonato. Jaroslav, risposero. Jaroslav? Al prete la cosa non piacque. Disse che era un nome estremamente insolito. Che ai bambini con nomi insoliti tocca sentirsi derisi e scherniti dai compagni di scuola: no, no, meglio non chiamare il piccolo Jaroslav. Suo padre e sua madre furono sorpresi da tanta franchezza nell’esprimere disaccordo e, d’altra parte, non volevano mostrarsi irrispettosi. Che nome suggeriva, allora, domandarono. Dategli un nome comune, disse il prete: Dmitrij, per esempio. Suo padre fece notare che lui stesso aveva già quel nome, e che Jaroslav Dmitrievič suonava molto meglio di Dmitrij Dmitrievič. Ma il prete non era d’accordo. E dunque lui divenne Dmitrij Dmitrievič.

Che importanza aveva un nome? Era nato a San Pietroburgo, per cominciare a crescere a Pietrogrado e diventare adulto a Leningrado. O a Sankt Leninsburg, come si divertiva a volte a chiamarla. Che importanza aveva un nome?

Aveva trentun anni. A pochi metri da lí era coricata sua moglie Nita con accanto la loro figlioletta Galina. Galja aveva un anno. Negli ultimi tempi, la sua vita pareva aver acquisito stabilità. Non aveva mai trovato semplice quel lato delle cose. Provava fortissime emozioni ma non aveva saputo sviluppare la capacità di esprimerle. Perfino alle partite di pallone gli capitava raramente di gridare o di perdere il controllo come tutti gli altri; gli era sufficiente constatare in silenzio la bravura di un giocatore, o la sua inettitudine. Alcuni ritenevano questo suo tratto tipico della formalità schiva del leningradese, ma lui sapeva di essere, oltre o prima ancora di questo, una persona ansiosa e timida. E con le donne, quando superava la timidezza, tendeva a mescolare un entusiasmo illogico con una sconcertante disperazione. Era come se vivesse sempre seguendo un metronomo predisposto su un tempo sbagliato.

E ciononostante, la sua esistenza aveva infine raggiunto una certa regolarità e con essa anche il battito giusto. Peccato che adesso fosse tornato tutto ancora una volta instabile. Instabile: per usare il colmo dell’eufemismo.

La valigetta appoggiata al polpaccio gli ricordò quella volta che aveva tentato di fuggire di casa. Quanti anni poteva avere? Sette, forse otto. Aveva anche allora una piccola valigia? Probabilmente no: l’ira di sua madre doveva essere stata repentina. Accadeva d’estate, a Irinovka, dove il padre svolgeva il proprio incarico di direttore generale. Jurgensen era il tuttofare della tenuta, l’uomo che faceva le cose e le riparava, l’uomo che risolveva i problemi come un bambino era in grado di capire. Che non gli dava mai ordini, ma gli permetteva di osservarlo mentre trasformava un pezzo di legno in un pugnale o in un fischietto. Che gli dava in mano una zolla di torba fresca da odorare.

Si era affezionato molto a Jurgensen. Perciò, quando le cose non erano di suo gradimento, come succedeva spesso, diceva: «D’accordo, allora io vado a stare da Jurgensen». Una mattina, pronunciò quella minaccia, o promessa, ancor prima di alzarsi dal letto. Per Sof’ja Vasil’evna fu sufficiente. – Bene, vestiti che ti ci porto, – aveva replicato. Lui aveva accolto la sfida (no, non c’era stato tempo per i bagagli) e sua madre lo aveva preso con forza per un polso per incamminarsi con lui attraverso il campo verso la casa di Jurgensen. Da principio lui si era mostrato risoluto nel proprio intento minaccioso, ciondolando al fianco di sua madre. A poco a poco, però, aveva cominciato a trascinare i tacchi, mentre il polso e poi la mano cercavano di sfilarsi dalla presa. Al tempo aveva creduto di essere lui a sottrarsi, ma adesso si rendeva conto che sua madre lo aveva lasciato andare, un dito dopo l’altro, finché non si era ritrovato libero. Non certo libero di andare a vivere con Jurgensen, bensí di fare dietrofront, scoppiare in lacrime, e correre a casa.

Mani, mani che ti stringono, che ti lasciano andare. Da bambino, aveva paura dei morti, temeva che potessero uscire dalla fossa e venire a ghermirlo, trascinandolo con sé dentro la fredda terra nera di cui i suoi occhi e la bocca si sarebbero riempiti. Quella paura era andata poi svanendo, perché le mani dei vivi si erano rivelate piú temibili. Le prostitute di Pietrogrado non avevano mostrato alcun riguardo per la sua innocente giovinezza. Piú i tempi si facevano difficili, e piú stretta era la presa delle mani. Tese a ghermirti l’uccello, il pane, gli amici, la famiglia, i mezzi di sostentamento, l’esistenza stessa. Aveva avuto paura delle prostitute, come dei bidelli. E anche dei poliziotti, comunque decidessero di farsi chiamare.

Ma c’era anche la paura opposta: quella di scivolare dalle mani che ti tenevano al sicuro.

Il Maresciallo Tuchačevskij lo aveva tenuto al sicuro. Per un po’. Fino al giorno in cui aveva visto il sudore colare copioso dalla fronte del Maresciallo. Mentre con quel fazzoletto svolazzante si tamponava, lui aveva capito di non essere piú al sicuro.

Il Maresciallo era l’uomo piú raffinato che gli fosse accaduto di incontrare. Il piú celebre stratega di tutta la Russia: i giornali lo definivano «Il Napoleone Rosso». Era inoltre appassionato di musica e liutaio dilettante; un uomo dalla mente aperta, intellettualmente curioso, che amava parlare di letteratura. Nel decennio in cui frequentò Tuchačevskij, spesso lo aveva visto perlustrare le vie di Mosca e Leningrado dopo il calar del buio in uniforme da maresciallo, un po’ per dovere di servizio, un po’ per gioco, mescolando la politica e il piacere; tra discussioni e chiacchiere, mangiate e bevute, desideroso di mostrare che aveva occhio per l’occasionale ballerina. Gli piaceva spiegare che un tempo aveva appreso dai francesi il segreto di bere champagne senza incorrere nei postumi da sbronza.

Quanto a lui, non sarebbe mai stato uomo cosí di mondo. Gli mancava la baldanza; e forse, pure l’interesse. Non era il tipo da piatti elaborati, reggeva male l’alcol. Certo, ai tempi in cui era studente, quando ogni cosa veniva ripensata e rinnovata, prima che il Partito assumesse su tutto il controllo assoluto, anche lui, come gran parte degli studenti, millantava una raffinatezza superiore alle sue effettive conoscenze. Prendiamo la faccenda del sesso, per esempio: occorreva ripensarla, ora che i costumi del passato erano morti; e qualcuno se n’era uscito con la cosiddetta teoria del «bicchier d’acqua». L’atto sessuale, asserivano i giovani sputasentenze, era come bere un bicchier d’acqua: se hai sete, bevi; se hai voglia, fai sesso. Lui non aveva niente in contrario in linea di principio, solo che bisognava poi vedere se le donne volevano con la stessa libertà con cui erano volute. Certe sí, e certe no. Di fatto l’analogia non ti faceva fare un passo in piú. Un bicchier d’acqua non accendeva il cuore.

Senza contare che a quel punto nella sua vita era già entrata Tanja.

Quando pronunciava la sua reiterata intenzione di trasferirsi da Jurgensen, i suoi dovevano presumere che si ribellava alle limitazioni imposte dalla famiglia, per non dire dall’infanzia stessa. Ripensandoci ora, non ne era tanto sicuro. C’era qualcosa di strano – qualcosa che proprio non andava – in quella loro casa estiva nella tenuta di Irinovka. Come a ogni bambino, le cose gli apparivano normali finché qualcuno non lo informava del contrario. Perciò fu solo sentendo gli adulti discutere e ridere che si rese conto di come in quella casa fosse tutto sproporzionato. Le stanze erano enormi e le finestre, in compenso, piccolissime. Tanto che un vano di cinquanta metri quadri poteva avere una sola finestrella minuscola. Secondo gli adulti i costruttori dovevano aver fatto confusione con le misure, scambiando metri per centimetri e viceversa. Certo che, una volta notato, l’effetto era allarmante per un bambino. Quella casa sembrava perfetta per il piú cupo dei sogni. E forse era da questo che aveva cercato di scappare.

Venivano sempre a prenderti nel cuore della notte. E dunque, piuttosto che farsi trascinare fuori dall’appartamento in pigiama, o essere costretto a vestirsi sotto lo sguardo sprezzante e imperturbabile di un agente dell’Nkvd, preferiva coricarsi vestito sopra le coperte, con la valigetta pronta per terra accanto al letto. Non dormiva quasi mai, e se ne stava sdraiato a immaginare le cose piú tremende. La sua irrequietezza per contro impediva a Nita di prendere sonno. Rimanevano lí immobili entrambi, fingendo; fingendo tra le altre cose di non percepire affatto il terrore dell’altro. In uno dei suoi incubi ricorrenti, gli uomini dell’Nkvd prendevano Galja e se la portavano – nella migliore delle ipotesi – in un brefotrofio speciale per figli dei nemici dello stato. Dove le avrebbero dato un altro nome e un’altra storia; dove avrebbero fatto di lei una cittadina sovietica modello, un piccolo girasole pronto a volgere il capo verso il potente sole della patria che si faceva chiamare Stalin. Aveva dunque stabilito di trascorrere quelle ore inevitabilmente insonni sul pianerottolo accanto all’ascensore. Nita aveva ostinatamente espresso la propria volontà di passare la loro eventuale ultima notte insieme l’uno a fianco dell’altra. Ma per una volta l’aveva spuntata lui.

La prima notte accanto all’ascensore, aveva deciso di non fumare. C’erano tre pacchetti di Kazbek nella valigetta ma Dio sa se ne avrebbe avuto bisogno durante l’interrogatorio. E, in caso, durante la successiva detenzione. Tenne fede a questo proposito per le prime due notti. Poi ebbe una folgorazione: e se gli avessero sequestrato le sigarette appena arrivati alla Grande casa? E se non ci fosse stato nessun interrogatorio, al di là del minimo indispensabile? Magari gli avrebbero semplicemente messo di fronte un foglio di carta da firmare. E se… Non spinse oltre i pensieri. In tutti i casi, le sue sigarette sarebbero andate sprecate.

E dunque non restava un solo motivo per non fumare.

E dunque fumò.

Osservò la Kazbek che stringeva fra le dita. Una volta Mal’ko aveva espresso un commento bonario, quasi ammirato, sulle sue mani definendole piccole, «non-pianistiche». Mal’ko gli aveva anche detto, in tono meno encomiastico, che non si esercitava abbastanza. Dipende dal significato che si attribuisce all’«abbastanza». Lui si allenava quanto gli occorreva. E Mal’ko faceva meglio a pensare al suo spartito e alla sua bacchetta.

A sedici anni era stato in un sanatorio in Crimea, convalescente dalla tubercolosi. Lui e Tanja avevano la stessa età e perfino la stessa data di nascita, con una lieve differenza: che lui era nato il 25 settembre del calendario sovietico, e lei il 25 settembre di quello giuliano. Tale virtuale sincronia corroborò la loro relazione; in altre parole, erano fatti l’uno per l’altra. Tat’jana Glivenko, con la sua zazzera di capelli corti, e come lui insaziabile di vita. Fu un primo amore, in tutta la sua flagrante naturalezza, in tutta la sua irrimediabilità. Sua sorella Marusja, nel ruolo di accompagnatrice sorvegliante, aveva spifferato tutto alla madre. A stretto giro di posta Sof’ja Vasil’evna mise in guardia il figlio da quella sconosciuta, da quel legame – da qualsiasi legame per la precisione. E con l’ampollosità di un sedicenne, lui espose alla madre i principî del Libero Amore. Come ciascuno dovesse essere libero di amare secondo desiderio; come l’amore carnale avesse vita breve; come i sessi agissero in assoluta parità; come il matrimonio andasse abolito a livello di istituzione e conservato a livello di prassi, come la donna avesse diritto a una relazione, se lo desiderava, e a ottenere il divorzio, se era sua volontà, e come l’uomo dovesse accettarlo e assumersi le proprie colpe; ma come, in tutto questo e a dispetto di ogni cosa, i figli fossero sacri.

La madre non replicò a quella sua visione della vita arrogante e dogmatica. In ogni caso, lui e Tanja si erano dovuti separare poco dopo essersi incontrati. Lei fece ritorno a Mosca; lui e Marusja a Pietrogrado. Continuò a scriverle costantemente, tuttavia; e dedicò a lei il suo primo trio con pianoforte. La madre continuò a non approvare. E infine, tre anni piú tardi, i due giovani trascorsero quelle settimane insieme nel Caucaso. Entrambi diciannovenni e non accompagnati; lui, forte dei trecento rubli guadagnati come concertista a Char’kov. Quelle settimane insieme ad Anapa… come sembravano lontane. Beh, lontane erano infatti: piú di un terzo della sua vita fa.

E dunque, tutto era cominciato molto precisamente la mattina del 28 gennaio 1936, ad Archangelsk. Era stato invitato a eseguire il suo primo concerto per pianoforte con l’orchestra locale diretta da Viktor Kubackij; insieme avevano eseguito anche la nuova sonata per violoncello. Un successo. L’indomani mattina andò alla stazione a comprarsi una copia della «Pravda». Dopo una rapida occhiata alla prima pagina, passò alle due successive. Fu, come ebbe a dire in seguito, il giorno piú memorabile della sua vita. Una data che scelse di commemorare ogni anno fino alla morte.

Non fosse che, controbattevano ostinati i suoi pensieri, niente ha mai inizio in modo tanto preciso. Tutto cominciò in svariati luoghi, e in svariate menti. Il vero punto d’inizio poteva coincidere forse con la sua fama. O con la sua opera. O forse con Stalin, che, essendo infallibile, era perciò stesso responsabile di ogni cosa. Ma la causa poteva anche risiedere in un dettaglio semplice come la disposizione degli strumenti in orchestra. Anzi, quello era probabilmente il modo migliore di considerare la vicenda: un compositore denunciato, umiliato e in seguito incarcerato e giustiziato, e solo per la disposizione degli strumenti in orchestra.

Se tutto era invece cominciato altrove, e nella testa di qualcun altro, allora forse poteva prendersela con Shakespeare, per aver scritto il Macbeth. Oppure con Leskov, per averne composto una versione russificata nel suo Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk. Macché, niente di tutto ciò. La colpa, palesemente, era tutta sua, per aver scritto quella pièce oltraggiosa. Colpa della sua opera e del grande successo ottenuto – in patria come all’estero – se si era destata la curiosità del Cremlino. Colpa di Stalin in quanto ispiratore e sostenitore – se non addirittura autore – dell’editoriale sulla «Pravda»: quest’ultimo conteneva una quantità di errori di grammatica sufficiente a suggerire che a redigerlo fosse stata la penna di qualcuno i cui svarioni non si potevano assolutamente emendare. E colpa di Stalin l’essersi pensato un mecenate e intenditore delle arti in prima battuta. Era noto a tutti come non si fosse perso una sola rappresentazione del Boris Godunov al Bol’šoj. Un interesse pressoché analogo a quello manifestato per Il principe Igor’ e per il Sadko di Rimskij-Korsakov. Come supporre che non avrebbe voluto ascoltare la tanto acclamata opera nuova dal titolo Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk?

E dunque, il compositore ricevette istruzioni di assistere alla rappresentazione del proprio spettacolo la sera del 26 gennaio 1936. Sarebbero stati presenti il compagno Stalin, e i compagni Molotov, Mikojan e Ždanov. Presero posto nel palco delle autorità situato, per sventura, precisamente sopra percussioni e ottoni. Sezioni d’orchestra che, in Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk, non avevano certo partiture schive e sommesse.

Ricordava di aver lanciato occhiate dal palco della regia, dove era seduto, al palco delle autorità. Stalin era nascosto dietro una piccola tenda, una presenza invisibile alla quale gli altri illustri compagni si volgevano con fare incensante, sapendosi osservati a loro volta. Date le circostanze, tanto il direttore quanto gli orchestrali erano comprensibilmente nervosi. Nell’intermezzo che precede le nozze di Katerina, legni e ottoni all’improvviso si misero in testa di suonare a volume piú forte di quello previsto dalle sue indicazioni. A quel punto fu come il diffondersi di un virus che attraversò tutte le sezioni. Se il direttore se ne accorse, non poté farci nulla. Dall’orchestra saliva un boato sempre piú assordante: e a ogni fortissimo delle percussioni – fragori sufficienti a mandare i vetri in frantumi – i compagni Mikojan e Ždanov rabbrividivano in modo dimostrativo prima di volgersi alla figura seduta dietro la tenda per formulare qualche commento beffardo. All’inizio dell’atto quarto, quando gli spettatori levarono gli occhi verso il palco delle autorità, dovettero constatare che era rimasto vuoto.

Dopo lo spettacolo, lui aveva preso la valigetta e raggiunto direttamente la Stazione Nord per prendere un treno per Archangelsk. Ricordava di aver pensato che il palco delle autorità era stato opportunamente rinforzato con placche d’acciaio per proteggere gli ospiti da eventuali attentati. Ma che il palco della regia non mostrava analoghi rinforzi. Non aveva al tempo ancora trent’anni, sua moglie era al quinto mese di gravidanza.

1936: era sempre stato superstizioso riguardo agli anni bisestili. Anche lui, come tanti, credeva che portassero sfortuna.

Ecco di nuovo il ronzio dell’ascensore. Quando si rese conto che aveva passato il quarto piano, prese la valigetta e se la tenne stretta al fianco. Attese l’aprirsi delle porte, la vista di un’uniforme, il cenno di riconoscimento e infine il paio di mani tese verso di lui, pronte a serrargli i polsi. In un gesto peraltro affatto superfluo, data la sua solerte disponibilità a seguire i visitatori, per allontanarli da lí, da sua moglie e dalla sua bambina.

Ma la porta dell’ascensore si aprí, ed era un vicino, con un diverso cenno di riconoscimento, studiato apposta per non lasciar trapelare nulla – neppure la sorpresa di vederlo uscire di casa a quell’ora. Lui reclinò il capo in risposta, entrò in ascensore, premette un pulsante a caso, scese di un paio di piani, attese qualche minuto e tornò infine al quinto dove uscí sul pianerottolo a riprendere la propria veglia. Era già successo altre volte, e sempre nello stesso modo. Non venivano mai pronunciate parole, perché le parole erano pericolose. Non era escluso che avesse l’aria di un uomo vergognosamente cacciato di casa dalla consorte notte dopo notte; o magari di un indeciso che da quella consorte notte dopo notte si allontanava, per poi tornare ogni mattina. Ma piú probabile ancora era che sembrasse esattamente ciò che era: un uomo come centinaia d’altri in giro per la città, in attesa, notte dopo notte, di essere arrestato.

Anni prima, intere vite orsono, il secolo passato addirittura, quando frequentava l’Istituto per fanciulle nobili di Irkutsk, sua madre e altre due compagne avevano danzato una mazurka tratta da Una vita per lo Zar dinanzi a Nicola II, al tempo principe ereditario. L’opera di Glinka era naturalmente improponibile a un pubblico sovietico, per quanto il tema trattato – quello moralmente istruttivo del povero contadino che abbandona la propria esistenza per servire un grande condottiero – sarebbe potuto andare a genio al compagno Stalin. «Un ballo per lo Zar»: si domandò se Zakrevskij ne fosse al corrente. Nei tempi andati, un figlio poteva trovarsi a pagare le colpe del padre, o della madre in effetti. Al giorno d’oggi, nella società piú progredita del pianeta, erano i genitori a poter pagare le colpe di un figlio, insieme a zie, zii, cugini, suoceri e cognati, colleghi, amici e perfino l’uomo che distrattamente ti rivolgeva un sorriso uscendo dall’ascensore alle tre del mattino. L’apparato del castigo era stato perfezionato parecchio, diventando assai piú capillare di una volta.

Sua madre era stata la colonna del proprio matrimonio, come Nina Vasil’evna lo era stata del loro. Il padre, Dmitrij Boleslavovič, era un uomo gentile, trasognato, un grande lavoratore che consegnava lo stipendio alla moglie trattenendo giusto il necessario per un po’ di tabacco. Aveva una bella voce tenorile e suonava brani a quattro mani al pianoforte. Cantava romanze gitane, canzoni come Ah, non sei tu ch’io amo ardentemente, e Sono sfioriti da tempo i crisantemi. Adorava i balocchi, i giochi da tavolo e i racconti polizieschi. Un nuovo modello di accendino come un qualunque rompicapo potevano divertirlo per ore. Aveva un modo obliquo di accostarsi alla vita. Si era fatto realizzare un timbro di gomma per poter apporre su ogni singolo libro della sua biblioteca queste parole in lettere violette: «Il presente volume è stato rubato a D. B. Šostakovič».

Uno psichiatra interessato ad analizzare il percorso del processo creativo una volta gli aveva domandato di Dmitrij Boleslavovič. Lui aveva risposto che suo padre «era un essere umano perfettamente normale». Non si trattava di un’espressione paternalistica: era un’abilità invidiabile di classificarsi come essere umano normale e svegliarsi ogni mattina con il sorriso sulle labbra. Inoltre suo padre era morto giovane, prima dei cinquant’anni. Un disastro per la famiglia e per coloro che gli volevano bene; ma forse non altrettanto per Dmitrij Boleslavovič stesso. Fosse vissuto piú a lungo, avrebbe assistito al guastarsi della Rivoluzione, al suo farsi paranoica e carnivora. Non che nutrisse particolare interesse per la Rivoluzione, intendiamoci. Ecco un altro dei suoi punti di forza.

Alla sua morte la vedova era rimasta senza fonte di reddito, con due figlie e un figlio quindicenne musicalmente precoce. Sof’ja Vasil’evna aveva accettato incarichi umili per mantenerli. Aveva lavorato come dattilografa all’Istituto pesi e misure, e dato lezioni di pianoforte in cambio di un tozzo di pane. Certe volte lui si domandava se tutte le sue angosce non fossero incominciate con la morte del padre. Ma preferiva non crederlo, perché gli pareva quasi di attribuire in questo modo una colpa a Dmitrij Boleslavovič. Quindi era forse piú corretto affermare che tutte le sue angosce si erano moltiplicate in seguito a quell’evento. Quante volte aveva annuito arrendevole a chi lo incoraggiava con le parole solenni «Ora devi essere tu l’uomo di casa». Parole che gli avevano scaricato addosso il fardello di aspettative e un senso del dovere per cui non era equipaggiato. Per giunta di salute era sempre stato cagionevole: anche troppo avvezzo ai palpeggiamenti, le auscultazioni, i picchiettii del dottore, alle indagini cliniche, al bisturi, al sanatorio. Continuava ad attendere il manifestarsi promesso della sua agognata virilità. Ma bastava poco a distrarlo, lo sapeva; inoltre era piú di temperamento testardo che di volontà risoluta. Da ciò la sua incapacità di trasferirsi a casa di Jurgensen.

Sua madre era una donna inflessibile, sia per carattere che per necessità. Lo aveva protetto, aveva sgobbato per lui, lo aveva caricato di tutte le sue speranze. Naturalmente lui l’amava – come pensare il contrario? – ma non senza… difficoltà. I forti non possono non esigere il confronto, che i meno forti non riescono a non sperare di evitare. Suo padre aveva sempre schivato gli ostacoli, coltivando l’ironia e un approccio indiretto tanto alla vita quanto alla moglie. E dunque il figlio, pur riconoscendo a se stesso una fermezza maggiore rispetto a Dmitrij Boleslavovič, di rado sfidava l’autorità materna.

Sapeva però che aveva il vizio di leggergli il diario. Quindi faceva apposta a scrivere, in date di un paio di settimane successive, «Suicidio». Oppure, qualche volta, «Matrimonio».

Non che lei non ricorresse a sua volta ad alcune minacce. Quando il figlio tentava di andarsene di casa, Sof’ja Vasil’evna diceva ad altri, ma badando che lui fosse presente: «Dovrà passare sul mio cadavere».

Nessuno dei due sapeva con certezza quanto l’altro parlasse sul serio.

Dietro le quinte della Sala piccola del Conservatorio, si era sentito umiliato e aveva provato pietà di sé. Non aveva ancora terminato gli studi e la prima esecuzione pubblica a Mosca di un brano di sua composizione non era andata bene: gli spettatori avevano evidentemente preferito Šebalin. Poi però un uomo in divisa militare era comparso al suo fianco con parole di conforto: cosí era nata la sua amicizia con il Maresciallo Tuchačevskij. Il Maresciallo era diventato il suo mecenate, riuscendo a procurargli sostegno economico dal comandante del Distretto militare di Leningrado. Si era mostrato generoso e leale con lui. Ancora di recente era andato ripetendo a tutti che, a suo giudizio, Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk era senza dubbio il primo classico di lirica sovietica.

Fino a quel momento aveva fallito una volta sola. Tuchačevskij era persuaso che un trasferimento a Mosca fosse il modo migliore per accelerare la carriera del suo protégé, e si era impegnato a organizzare il trasloco. Inutile dire che Sof’ja Vasil’evna si era opposta: il figlio era troppo delicato, troppo fragile. Chi avrebbe badato che bevesse il suo latte e mangiasse la sua zuppa d’avena, se non c’era la madre a tenerlo d’occhio? Tuchačevskij aveva potere, influenza e risorse finanziarie, ma Sof’ja Vasil’evna custodiva ancora la chiave d’accesso alla sua anima. E dunque lui era rimasto a Leningrado.

Come le sue sorelle, la prima volta che era stato messo davanti a una tastiera aveva nove anni. E fu allora che il mondo gli divenne chiaro. O comunque una parte del mondo, quanto bastava a sostenerlo per tutta la vita. Capire come funziona un pianoforte, capire la musica, era stato facile, almeno in confronto ad altro. Subito si era messo a lavorare di lena, perché farlo era semplice. E dunque, anche quel destino non era eludibile. E con il passare degli anni, gli era sembrato sempre piú prodigioso, considerando che gli aveva fornito un mezzo per mantenere madre e sorelle. Lui non era un uomo ordinario, né ordinaria era la sua famiglia, ma comunque… Talvolta, dopo il successo di un concerto per il quale aveva ricevuto applausi e denaro, si era sentito quasi in grado di trasformarsi in quella sfuggente entità che era l’uomo di casa. Altre volte, in compenso, anche dopo essersene andato e divenuto marito e padre, gli capitava di sentirsi ancora un bambino smarrito.

Chi non lo conosceva, e seguiva la musica solo da una certa distanza, doveva immaginare che quella fosse la sua prima battuta d’arresto. Che il geniale diciannovenne la cui Prima sinfonia era subito stata eseguita da Bruno Walter, e poi da Toscanini e da Klemperer, non avesse conosciuto altro che un decennio di terso e ininterrotto trionfo da quella prima del 1926. Costoro, poi, sapendo come la celebrità spesso conduca alla vanagloria e alla superbia, avrebbero potuto sfogliare la «Pravda» e convenire che spesso e volentieri ai compositori succede di discostarsi dal genere di musica che la gente ha voglia di ascoltare. E concludere, poiché tutti i compositori erano alle dipendenze dello stato, che ben faceva lo stato a intervenire per ricondurli a una maggiore armonia con i desideri del pubblico di cui avessero offeso la sensibilità. Era questione di assoluto buonsenso, no?

Non fosse che in molti si erano affilati gli artigli sulla sua anima sin dal principio: ai tempi in cui era ancora al Conservatorio, un gruppo di colleghi sinistroidi aveva cercato di farlo espellere e di fargli revocare la diaria. Non fosse che l’Associazione russa dei musicisti proletari e analoghe organizzazioni culturali si erano da sempre impegnate in campagne contro ciò che lui sosteneva, o meglio, ciò che credevano lui sostenesse. Era gente decisa a vincere la stretta mortale della borghesia sulle arti. Dunque i lavoratori dovevano essere addestrati a diventare compositori, e tutta la musica doveva essere al tempo stesso comprensibile e gradita alle masse. Čajkovskij era decadente, e il piú lieve accenno di sperimentazione veniva condannato come «formalista».

Non fosse che già nel lontano 1929 era arrivata la denuncia ufficiale con cui lo si informava che la sua musica si stava «allontanando dalla strada maestra dell’arte sovietica» e si provvedeva a licenziarlo dal suo impiego presso l’Istituto tecnico coreografico. Non fosse che quello stesso anno a Miša Kvadri, dedicatario della sua Prima sinfonia, toccò essere il primo dei suoi amici e conoscenti a subire arresto e fucilazione.

Non fosse che nel 1932, quando il Partito sciolse le organizzazioni indipendenti e assunse il controllo di tutte le attività culturali, l’esito non fu un attenuarsi di prepotenza, faziosità e ignoranza bensí l’esatto e sistematico contrario. E se il progetto di sradicare un operaio dalla miniera e trasformarlo in un compositore di sinfonie non aveva trovato precisamente attuazione, il contrario era in parte avvenuto. Al compositore si chiedeva di accrescere la propria produzione non meno che a un minatore; alla sua musica si chiedeva di scaldare il cuore del Popolo come il carbone del minatore ne scaldava i corpi. I burocrati gestivano la produzione musicale come ogni altra categoria di prodotto; esisteva al riguardo una normativa specifica, e pertanto anche violazioni della medesima.

Alla stazione di Archangelsk, sfogliando la «Pravda» con dita intirizzite dal freddo, aveva trovato a pagina tre un titolo che definiva, condannandola, la devianza: CAOS ANZICHÉ MUSICA. Decise all’istante di rientrare a casa passando da Mosca, dove avrebbe chiesto consiglio. Sul treno, mentre il paesaggio immerso nel gelo gli scorreva accanto, rilesse l’articolo per la quinta o sesta volta. In un primo tempo, si era sentito sconvolto per la sua opera non meno che per la sua persona: dopo una denuncia del genere, Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk non sarebbe mai piú potuta andare in scena al Bol’šoj. Nel corso degli ultimi due anni, era stata applaudita ovunque, da Cleveland a New York, dall’Argentina alla Svezia. A Mosca come a Leningrado aveva incantato non solo pubblico e critica, ma anche i commissari politici. Durante i lavori del XVII Congresso del Partito le rappresentazioni dell’opera erano state catalogate come parte del prodotto ufficiale del distretto di Mosca, con l’ambizione di competere direttamente con le quote di produzione dei minatori del Donbass.

Ma tutto questo non significava piú nulla: il suo lavoro ormai era destinato a essere messo a tacere come si fa con un cucciolo uggiolante che abbia finito col seccare il padrone. Si sforzò di analizzare i diversi elementi dell’attacco nel modo piú lucido possibile. Prima di tutto, il successo stesso dell’opera, specialmente all’estero, si era trasformato in un capo d’accusa. Soltanto pochi mesi prima, la «Pravda» aveva patriotticamente riferito della prima americana al Metropolitan. Ora lo stesso giornale sosteneva che Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk aveva ottenuto accoglienza fuori dai confini dell’Unione Sovietica solo in quanto opera «priva di contenuto politico e confusa», e perché «accarezzava il gusto morboso del pubblico borghese con una musica inquieta e nevrastenica».

Subito dopo e in relazione a tutto ciò veniva quello che ritenne il giudizio critico del palco delle autorità, la traduzione in parole dei vari sbadigli e sorrisetti rivolti adulatoriamente alla sagoma nascosta di Stalin. Una musica che «grugnisce, ansima, sbuffa», lesse quindi a proposito della sua opera, la cui natura «nervosa, convulsa e spasmodica» derivava dal jazz, e rimpiazzava il canto con le urla. Era evidente che la musica era stata buttata giú frettolosamente al solo scopo di compiacere gli «esteti» che avevano perso ogni «sano gusto» musicale per prediligere «un flusso confuso di suoni». Quanto al libretto, esso si concentrava volutamente sugli aspetti piú sordidi della novella di Leskov: il risultato era «grezzo, primitivo e volgare».

Ma le sue colpe erano anche di natura politica. Pertanto l’analisi formulata dall’anonimo autore che di musica ne capiva quanto un maiale ne può sapere di agrumi, risultava infiorettata dalle consuete etichettature imbevute d’aceto. Piccolo borghese, formalista, «mejercholdista», sinistroide. Il compositore aveva programmaticamente prodotto un’anti-opera, nella quale la musica risultava scritta alla rovescia. L’autore si era abbeverato alla stessa fonte avvelenata dalla quale scaturivano «le distorsioni sinistroidi in ambito pittorico, poetico, pedagogico e scientifico». Qualora lo si fosse voluto definire con maggiore franchezza, ed era certo il caso, quel tipo di prassi sinistroide costituiva il contrario puro di «vera arte, vera scienza e vera letteratura».

«Chi ha orecchio può sentire», amava ripetere lui. Ma perfino a un uomo sordo dalla nascita non sarebbe potuto sfuggire il senso delle parole «Caos anziché musica», e immaginarne le conseguenze. Il testo conteneva tre frasi che miravano non soltanto a stigmatizzare la sua devianza teorica ma anche a screditare la sua persona. «A quanto pare il compositore non ha minimamente tenuto conto di ciò che il pubblico sovietico cerca e si aspetta dalla musica». Questo sarebbe bastato a fargli ritirare la tessera dell’Unione dei compositori. «Il pericolo di questa tendenza per la musica sovietica è chiaro». Questo era sufficiente a ritirargli in futuro il permesso di comporre e di esibirsi in pubblico. E infine: «Si tratta di uno scherzo di astuta ingenuità che può finire molto male». E questo bastava a ritirargli il permesso di vivere.

Ma era ancora giovane, sicuro del proprio talento e, fino a tre giorni prima, un uomo molto affermato. E pur non essendo né per carattere né per indole un politico, non gli mancavano conoscenze alle quali chiedere aiuto. A Mosca si rivolse per primo a Platon Keržencev, Presidente della commissione Affari culturali. Cominciò con l’esporgli il piano di reazione all’attacco che aveva messo a punto durante il viaggio in treno. Avrebbe scritto un’apologia dell’opera, contrastando ogni capo d’accusa in modo ben argomentato, per poi sottoporre l’articolo alla redazione della «Pravda». Ad esempio… Ma Keržencev, per quanto signore a modo e gentile, non lo lasciò neppure finire. Qui non si aveva a che fare con una recensione negativa, a firma di un critico la cui opinione potesse variare a seconda del giorno della settimana o di una piú o meno buona digestione. Quello era un editoriale della «Pravda»: non un giudizio fuggevole contro cui ci si potesse eventualmente appellare, bensí una dichiarazione programmatica proveniente dall’altissimo. Sacra scrittura, in altre parole. L’unica strada percorribile per Dmitrij Dmitrievič era fare pubblica ammenda, ripudiare i propri errori e spiegare che durante la composizione dell’opera gli eccessi balordi della giovinezza lo avevano allontanato dalla retta via. Inoltre avrebbe dovuto annunciare la propria intenzione di immergersi anima e corpo nei canti tradizionali dell’Unione Sovietica, che lo avrebbero aiutato a ritrovare il cammino verso tutto ciò che era autentico, popolare e melodioso. A detta di Keržencev, non c’era altro modo per sperare di poter nuovamente ottenere il favore perduto.

Non era credente. Ma aveva ricevuto il battesimo e talvolta, passando accanto a una chiesa aperta, entrava ad accendere un cero per i suoi cari. E conosceva piuttosto bene la Bibbia. Era dunque al corrente del concetto di colpa, come del meccanismo di pubblica ammissione che essa comportava. L’offesa, la piena confessione della stessa, il giudizio del sacerdote in merito, l’atto di contrizione, il perdono. Sebbene ci fossero circostanze in cui la colpa era troppo grave perché perfino un prete potesse perdonarla. Sí, era al corrente di formule e protocolli per ogni chiesa, qualunque ne fosse la denominazione.

La seconda visita la fece al Maresciallo Tuchačevskij. Al tempo non ancora cinquantenne, il Napoleone Rosso era un bell’uomo robusto con la fronte incorniciata dall’attaccatura a cuore dei capelli. Ascoltò tutto quello che era successo, analizzò in modo piú convincente la posizione del suo protégé e formulò una proposta strategica al tempo stesso semplice, audace e magnanima. Lui, il Maresciallo Tuchačevskij, avrebbe personalmente scritto una lettera di intercessione al compagno Stalin. Il sollievo di Dmitrij Dmitrievič fu profondo. Si sentí alleggerito nella mente e nel cuore mentre il Maresciallo sedeva alla scrivania e si sistemava dinanzi a un foglio di carta. Ma non appena l’uomo in divisa ebbe afferrato la penna per cominciare a scrivere, si verificò in lui una metamorfosi. Il sudore prese a colargli copioso da fronte e nuca giú nel colletto della camicia. Una mano agitava convulsa un fazzoletto, l’altra muoveva incerta la penna. Tanta apprensione, indegna di un uomo d’arme, non risultava affatto incoraggiante.

Avevano grondato sudore anche loro, ad Anapa. Faceva caldo nel Caucaso, e a lui il caldo non era mai piaciuto. Uno sguardo alla spiaggia della Baia Bassa l’avevano dato, ma non gli andava di rinfrescarsi con una nuotata. Passeggiarono nel bosco ombroso che sovrasta la città, dove le zanzare lo tormentarono di punture. Poi furono bloccati da un branco di cani che per poco non se li divoravano vivi. Nulla di tutto ciò ebbe alcuna importanza. Perlustrarono il faro del villaggio, ma mentre Tanja si allungava curiosa di vedere piú in alto, lui concentrava la propria attenzione sulla piega dolcissima della sua pelle alla base del collo. Visitarono l’autentica porta di pietra che era quanto restava della fortezza ottomana, ma lui pensava solo ai polpacci di Tanja e al movimento dei suoi muscoli a ogni passo. Non ci fu altro nella sua vita per quelle settimane che amore, musica e punture di zanzare. Con sede nel cuore il primo, nella testa la seconda e sulla pelle le punture. Nemmeno il paradiso poteva dirsi al riparo dagli insetti. Ma di certo non ce l’aveva con loro per questo. Le punture provvidenzialmente assestate in punti del corpo a lui inaccessibili; la lozione era a base di estratto di olio di garofano. Se a una zanzara doveva il fatto che le dita di lei gli accarezzassero la pelle e la facessero profumare di garofano, come avrebbe mai potuto prendersela con quell’insetto?

Avevano diciannove anni e credevano nel Libero Amore: turisti decisamente piú attratti dai corpi l’uno dell’altra che dalle bellezze del luogo. Si erano gettati alle spalle i comandamenti mummificati di chiesa, società e famiglia per vivere insieme da moglie e marito senza essere tali. Il che li eccitava quasi quanto l’atto sessuale stesso; o non era forse in alcun modo districabile da esso.

Poi però c’era tutto il tempo in cui non erano a letto insieme. Il Libero Amore poteva aver risolto la questione primaria, ma non si era occupato del resto. E loro si amavano, certo; ma stare ore e ore in compagnia l’uno dell’altra – nonostante i 300 rubli e la giovane gloria di lui – non era cosa banale. Quando componeva, sapeva sempre cosa fare; come prendere la decisione giusta riguardo a ciò che la musica, la sua musica, gli chiedeva. E se capitava che un direttore o un solista si domandassero garbatamente se questo o quello non fossero meglio altrimenti, lui rispondeva immancabile: «Avete senz’altro ragione voi. Ma per adesso lasciamo perdere. Di quel cambiamento mi occuperò la prossima volta». In tal modo loro erano soddisfatti, e lui pure, non avendo la minima intenzione di tenere in conto il suggerimento. Perché le sue decisioni e il suo istinto non si sbagliavano.

Ma fuori dalla musica… era tutto talmente diverso. Diventava nervoso, gli si confondevano le idee e a volte prendeva una decisione piú per archiviare un problema che sapendo davvero che cosa volesse. Forse la sua precocità artistica gli aveva precluso utili anni di normale crescita. Ad ogni buon conto, gli aspetti pratici della vita che comprendevano, naturalmente, anche quelli del cuore, lo vedevano perdente. E dunque ad Anapa, accanto agli entusiasmi d’amore e all’inebriante piacere sessuale, si trovò sulla soglia di un mondo del tutto nuovo, pieno di silenzi indesiderati, allusioni fraintese e progetti avventati.

Erano poi rientrati ciascuno nella rispettiva città, lui a Leningrado, lei a Mosca. Ma si facevano visita. Un giorno, mentre ultimava la scrittura di un pezzo, le aveva chiesto di stare con lui: la sua presenza gli dava sicurezza. Dopo un poco entrò nella stanza sua madre. Si rivolse a Tanja e le disse:

– Esci e aspetta che Mitja finisca il suo lavoro.

Lui ribatté: – No, voglio che Tanja rimanga. Mi aiuta, se resta.

Fu una delle rare occasioni in cui tenne testa a sua madre. Forse se l’avesse fatto qualche volta di piú, la sua vita sarebbe stata diversa. O forse no – chi può dirlo? Considerato che perfino il Napoleone Rosso aveva avuto la peggio con Sof’ja Vasil’evna, che speranza poteva restare a lui?

Il periodo trascorso ad Anapa era stato un idillio. Ma un idillio diviene tale, per definizione, solo una volta concluso. Lui aveva scoperto l’amore; ma aveva anche cominciato a scoprire che, lungi dal fare di lui «ciò che era», lungi dal procurargli un profondo appagamento come un balsamo all’olio di garofano, l’amore lo rendeva goffo, esitante. Amava Tanja con maggiore chiarezza soprattutto quando era lontano da lei. Quando erano insieme, emergevano da entrambe le parti aspettative che gli era complicato identificare e impossibile soddisfare. Per esempio, erano partiti per il Caucaso deliberatamente non come marito e moglie, bensí individui liberi e uguali. Possibile che il traguardo di tale avventura fosse finire davvero sposati? Gli pareva un assurdo.

No, cosí però non era onesto. Una delle incompatibilità fra loro – a dispetto di tutta l’uguaglianza sbandierata a parole da entrambi – era che lui l’aveva amata di piú. Cercava di farla ingelosire, raccontando amoreggiamenti con altre donne – addirittura seduzioni, reali o immaginarie –, ma la cosa sembrava farla piú arrabbiare che ingelosire. Era arrivato a minacciare il suicidio piú di una volta. Aveva perfino millantato di essersi sposato con una ballerina classica, cosa non del tutto inconcepibile del resto. Ma Tanja aveva liquidato tutto questo con una risata. E poi era stata lei a sposarsi. Cosa che lo fece innamorare ancora di piú. La implorò di chiedere il divorzio e di sposare lui; di nuovo, minacciò di ammazzarsi. Nulla di tutto ciò sortí alcun effetto.

Al principio della relazione lei gli aveva affettuosamente confidato di essere stata attratta dalla sua purezza e disponibilità. Ma se nessuna delle due virtú bastava a farlo amare quanto lui l’amava, tanto valeva allora che fosse diverso. Non che si sentisse particolarmente puro e disponibile. Gli sembravano definizioni fatte apposta per incasellarlo in un ruolo.

Si ritrovò a riflettere sul problema dell’onestà. Quella personale, come quella artistica. Sul loro rapporto reciproco, ammesso che fossero collegate. E su quanta di tale virtú toccasse a ciascuno, e su quanto a lungo la rispettiva riserva potesse durare. Agli amici aveva detto che il giorno in cui avesse ripudiato la sua Lady Macbeth, erano autorizzati a concludere che aveva esaurito la sua scorta di onestà.

Si considerava una persona incline a forti emozioni ma poco dotata nel comunicarle. Questo però significava mostrarsi troppo indulgente con se stesso; ancora una volta non era un atteggiamento del tutto onesto. In verità, era un nevrotico. Credeva di sapere che cosa voleva, otteneva quel che voleva, non voleva piú quel che aveva ottenuto, lo perdeva, tornava a volerlo. Naturalmente, spesso l’aveva vinta, perché era un cocco di mamma, e il fratello maschio di due sorelle; e per giunta un artista, dal quale ci si aspettava un «temperamento artistico»; e per giunta, un artista di successo, cosa che gli permetteva di comportarsi con l’improvvisa arroganza scatenata dalla celebrità. Mal’ko lo aveva già apertamente accusato di una «vanagloria crescente». Ma sotto la superficie, il suo stato d’animo era un’ansia poderosa. Era un nevrotico fatto e finito. No, anzi, di nuovo, era perfino peggio: era isterico. Da chi aveva ereditato un carattere simile? Né dal padre, né dalla madre. Beh, comunque, al proprio carattere non si sfugge. Fa parte del destino di un uomo anche quello.

In testa aveva ben chiaro quale fosse il suo ideale in amore…

L’ascensore però aveva superato il terzo, e poi anche il quarto piano, e si fermava adesso davanti a lui. Sollevò la valigetta, le porte si aprirono e uno sconosciuto uscí fischiettando la Canzone del contropiano. Trovatosi faccia a faccia con l’autore, si interruppe a metà strofa.

In testa aveva ben chiaro quale fosse il suo ideale d’amore. Si trovava perfettamente espresso in quel racconto di Maupassant sul giovane comandante di guarnigione di una cittadina fortificata della costa mediterranea. Antibes, per essere precisi. Dunque, il nostro ufficiale aveva l’abitudine di passeggiare nei boschi fuori città e si era piú volte imbattuto nella moglie di Monsieur Parisse, un funzionario dell’amministrazione locale. Manco a dirlo, il giovane si innamorò di lei. La donna rifiutò ripetutamente le sue attenzioni, fino a quando gli fece sapere che suo marito sarebbe stato in viaggio per qualche giorno. Venne organizzato un incontro, ma all’ultimo momento la signora ricevette un telegramma: l’impegno del marito si era concluso prima del previsto, permettendogli di essere di ritorno la sera stessa. Il comandante di guarnigione, folle d’amore, si inventò un’emergenza militare e diede ordine di sbarrare le porte della città fino al mattino seguente. Al suo rientro, il marito della signora fu scortato in punta di baionetta e obbligato a trascorrere la notte nella sala d’attesa della stazione ferroviaria di Antibes. Il tutto, allo scopo di consentire all’ufficiale di godersi in pace le sue poche ore d’amore.

Vero: non riusciva a immaginare se stesso nel ruolo di responsabile di una roccaforte, foss’anche soltanto della diroccata porta ottomana di un pigro centro termale sul Mar Morto. Ma il principio restava valido. Cosí si doveva amare: senza paura, senza ostacoli, senza darsi pensiero per il domani. E, a cose fatte, senza rimpianti.

Belle parole. Nobili sentimenti. Ma una condotta simile non gli si addiceva. In quei panni riusciva a figurarsi un giovane Sottotenente Tuchačevskij, se mai fosse stato comandante di una guarnigione. Quanto al suo personale caso di amore passionale… beh, ne sarebbe uscita una storia diversa. Era in tournée con Gauk, direttore non disprezzabile, ma borghese fino al midollo. Si trovavano a Odessa. Un paio di anni prima che lui e Nita si sposassero. Al tempo era ancora impegnato a cercare di ingelosire Tanja. E anche Nita, probabilmente. Dopo un buon pasto, era tornato al bar dell’hotel Londra dove aveva rimorchiato un paio di ragazze. O forse le ragazze avevano rimorchiato lui. Sta di fatto che si erano sedute al suo tavolo. Erano entrambe molto carine, ma ad attrarlo era stata immediatamente quella di nome Rozalija. Avevano conversato di arte e letteratura mentre lui le accarezzava le natiche. Le accompagnò a casa su una carrozza a cavalli e l’amica si prestò a fare la gnorri mentre lui ci dava dentro a palpeggiare Rozalija profusamente. Si era innamorato, questo gli era ben chiaro. Le giovani donne sarebbero partite in traghetto l’indomani per Batumi; andò a salutarle. Ma nessuna delle due superò mai la banchina del porto, dove l’amica di Rozalija fu arrestata per esercizio della prostituzione.

Il fatto lo aveva colto di sorpresa. Il che non gli impedí di continuare a provare un amore struggente per la sua Rozočka. Faceva stupidaggini come battere la testa nel muro, strapparsi i capelli, proprio come il protagonista di un romanzo dozzinale. Gauk lo mise seriamente in guardia dalle due donne, dicendo che erano entrambe del mestiere e anche inqualificabili troie. Ma questo non fece che favorire la sua eccitazione: era tutto talmente uno spasso. Già, talmente uno spasso che poco mancò che si sposasse Rozočka. Non fosse che quando arrivarono all’anagrafe di Odessa si rese conto di aver scordato i documenti in albergo. A quel punto, chissà come – non ricordava nemmeno perché – tutto si era precipitosamente risolto con lui che alle tre del mattino scappava sotto la pioggia battente da un piroscafo appena attraccato a Sukhumi. Come si era arrivati fin lí?

Il punto, comunque, era che non aveva nessun rimpianto. Nessun ostacolo, nessun pensiero per il domani. E come mai era quasi convolato a nozze con una prostituta professionista? Per via delle circostanze, si diceva, piú un pizzico di folie à deux. Oltre che per lo spirito di contraddizione che si agitava in lui. «Mamma, ti presento Rozalija, mia moglie. Sono sicuro che la cosa non ti sorprende, dico bene? Non hai letto la pagina del mio diario in cui avevo annotato “Matrimonio con prostituta”? Non credi sia un bene per una giovane donna avere un mestiere?» D’altronde, ottenere il divorzio non era difficile, quindi perché no? Era stato cosí innamorato di lei, e pochi giorni dopo stava quasi per sposarla, e pochi giorni dopo ancora fuggiva da lei sotto un diluvio. Frattanto, il vecchio Gauk al ristorante dell’hotel Londra cercava di decidere se ordinare una o due cotolette. E chi può sapere cosa sarebbe stato meglio? Lo si scopre sempre dopo, quando è ormai troppo tardi.

Era un uomo introverso attratto da donne estroverse. Che fosse quello, parte del problema?

Si accese un’altra sigaretta. Fra l’arte e l’amore, fra gli oppressori e gli oppressi, le sigarette non mancavano mai. Immaginò il successore di Zakrevskij porgergli da dietro la scrivania un pacchetto di Belomor. Lui avrebbe rifiutato, offrendo in cambio una delle sue Kazbek. L’interrogatore avrebbe rifiutato a sua volta, ciascuno avrebbe deposto sulla scrivania la sua marca d’elezione, e il balletto si sarebbe concluso. A fumare Kazbek erano gli artisti, perfino l’immagine sul pacchetto suggeriva un’idea di libertà: cavallo e cavaliere lanciati al galoppo, sullo sfondo del monte Kazbek. Si diceva che Stalin avesse personalmente approvato la grafica della confezione anche se il Grande Condottiero fumava una marca di sigarette speciale, le Herzegovina Flor. Venivano realizzate apposta per lui, con la terrorizzata precisione che non è difficile immaginare. Non che Stalin si concedesse un gesto banale come stringere fra le labbra una Herzegovina Flor. No, preferiva staccare il filtro in cartoncino e sbriciolare il tabacco nel fornello della pipa. Come riferivano i fortunati addentro alle segrete cose ai meno fortunati, la scrivania di Stalin era tutta ingombra di cartastraccia, tubi di cartoncino e cenere. Lo sapeva anche lui – o comunque, gli era stato detto piú di una volta – perché nulla che riguardasse il compagno Stalin era considerato troppo insignificante per fare notizia.

Nessun altro avrebbe osato fumare una Herzegovina Flor in presenza di Stalin, a meno che non fosse lui stesso a offrirgliela, nel qual caso avrebbe forse tentato con ogni astuzia di conservarla intatta per esibirla in seguito come una sacra reliquia. Gli esecutori materiali degli ordini di Stalin fumavano di norma Belomor. Le fumavano gli uomini dell’Nkvd. La grafica del pacchetto mostrava una mappa della Russia; un tratto rosso segnava il percorso del canale del Mar Bianco, quello che dava il nome alle sigarette. Per la costruzione della Grande Opera Sovietica dei primi anni Trenta era stata impiegata forza lavoro di detenuti. Curiosamente, il fatto ebbe un enorme rilievo in termini di propaganda. Si affermava che durante i lavori del canale i prigionieri non stessero solo collaborando al progresso della nazione, ma anche «riforgiando se stessi». Beh, i manovali impegnati furono dell’ordine del centinaio di migliaia, perciò non è escluso che qualcuno abbia tratto dall’impresa un’esperienza edificante; si dice tuttavia che un manovale su quattro morí, e per tutti costoro non si può certo dire che si fossero riforgiati. Si trattava semplicemente di trucioli volati via dal ciocco di legno che si andava sgrossando. Intanto gli uomini dell’Nkvd si accendevano l’ennesima belomorina e nella piccola nube di fumo sognavano di brandire ancora una volta la scure.

Senza dubbio stava fumando nel momento in cui Nita fece il proprio ingresso nella sua esistenza. Nina Varzar, la maggiore delle tre sorelle Varzar, che usciva dal campo da tennis trasudando risate e allegria. Atletica, sicura, amata, con quei capelli talmente biondi da far sembrare dorati perfino gli occhi. Laureata in fisica, eccellente fotografa con tanto di camera oscura personale. Non particolarmente interessata alle faccende domestiche, è vero; del resto non lo era nemmeno lui. In un romanzo, tutte le sue angosce esistenziali, il suo miscuglio di forza e debolezza, la sua tendenza agli eccessi isterici, ogni cosa sarebbe stata spazzata via da un vortice d’amore destinato a condurre alla quiete perfetta del matrimonio. Ma fra le numerose delusioni che riservava la vita c’era anche quella di non essere mai un romanzo, né di Maupassant né di chiunque altro. Beh, magari un racconto grottesco à la Gogol’.

E dunque lui e Nina si conobbero, e divennero amanti, ma lui ancora cercava di convincere Tanja a lasciare il marito, e poi Tanja rimase incinta, e allora lui e Nina fissarono la data del matrimonio, ma lui all’ultimo non se la sentí e decise di non presentarsi e sparire, ma non si lasciarono e qualche mese piú tardi in effetti si sposarono, e poi Nina si fece un amante e insieme decretarono che i problemi tra loro erano tali da suggerire la separazione e il divorzio, e poi lui si fece un’amante, e allora si separarono e presentarono domanda di divorzio, ma quando i documenti arrivarono, si resero conto di aver commesso un errore e dunque sei settimane dopo il divorzio si risposarono, pur non avendo ancora risolto i loro problemi. E in mezzo a tutto ciò, lui scriveva alla sua amante Elena: «Sono un uomo assai poco risoluto e non so se riuscirò mai a raggiungere la felicità».

E poi Nita rimase incinta e, giocoforza, tutto si andò stabilizzando. Non fosse che, quando Nita entrò nel quarto mese di gravidanza, ebbe inizio l’anno bisestile 1936 nel cui ventiseiesimo giorno Stalin decise di andare all’opera.

La prima cosa che aveva fatto dopo aver letto l’editoriale della «Pravda» era stata mandare un telegramma a Glikman. Chiese all’amico di recarsi alla Posta centrale di Leningrado e di aprire una casella di posta presso la quale ricevere tutti i pezzi giornalistici sulla questione. Glikman li avrebbe ritirati e portati ogni giorno al suo appartamento, dove li avrebbero letti insieme. Acquistò un grosso album e vi incollò in prima pagina l’articolo Caos anziché musica. Glikman definí il gesto indebitamente masochistico, ma lui disse: – È necessario che sia lí, deve essere lí –. Nelle pagine seguenti incollò via via che apparivano i nuovi interventi. Non si era mai dato la pena di conservare le recensioni, in passato; ma questa volta era diverso. Ora non si limitavano a recensire la sua musica, quello era un editoriale sulla sua stessa vita.

Notò come i critici che nei due anni precedenti si erano profusi in elogi per la sua Lady Macbeth, all’improvviso non vi trovassero piú nulla di buono. Certi ammettevano candidamente di essersi sbagliati, spiegando che l’articolo della «Pravda» aveva infine strappato il velo dinanzi ai loro occhi. Ahimè, quanto si erano lasciati ingannare dalla musica e dal compositore! Ora finalmente comprendevano quale pericolo formalismo, cosmopolitismo e sinistrismo rappresentassero per la vera natura della musica russa! Notò anche quali musicisti si esponessero ora con pubbliche dichiarazioni contro la sua opera, e quali amici e conoscenti scegliessero di prendere le distanze da lui. Con apparente invariata serenità lesse le lettere che gli giungevano da spettatori comuni, la maggioranza dei quali era casualmente a conoscenza del suo indirizzo privato. Molti di loro suggerivano che si provvedesse a mozzargli le orecchie d’asino, insieme alla testa. E infine ecco che sui giornali cominciò a comparire l’espressione che non lasciava scampo, magari inserita all’interno della piú innocua delle frasi. Per esempio: «Oggi è in programma un concerto di brani del nemico del popolo Šostakovič». Parole come quelle non erano mai impiegate per caso, né senza approvazione dei livelli piú alti.

Chissà come mai, si chiedeva, adesso il Potere concentrava la propria attenzione sulla musica, e su di lui. Da sempre il maggiore interesse delle alte sfere andava alla parola scritta piú che alle note: erano gli scrittori e non i compositori a essersi guadagnati il titolo di ingegneri dell’animo umano. La «Pravda» riportava le loro condanne in prima pagina, mentre ai compositori toccava la terza. Due pagine di distanza. Il che non era un nonnulla: poteva fare la differenza tra la vita e la morte.

Ingegneri dell’animo umano: espressione glaciale, meccanicistica. D’altra parte… di che cosa si occupava un artista se non dell’animo umano? A meno di voler essere puramente decorativo, nient’altro che il cane da salotto di ricchi e potenti. Personalmente era sempre stato un anti-aristocratico a livello politico, artistico e sentimentale. In quell’ora carica di ottimismo – in fondo erano passati cosí pochi anni – in cui il futuro dell’intera nazione, se non dell’umanità stessa, veniva rimodellato, era sembrato che tutte le arti potessero infine unire le forze al servizio di un unico grande, glorioso progetto. Musica, letteratura, cinema, teatro e architettura, danza e fotografia unite in un sodalizio dinamico, teso non soltanto a farsi specchio della società per criticarla e schernirla, quanto piuttosto a formarla. Gli artisti, di loro spontanea volontà e senza ubbidire ad alcuna direttiva di partito, avrebbero contribuito allo sviluppo e alla rinascita dell’animo umano.

Perché no? Era il piú antico sogno di ogni artista. O meglio, per come la vedeva adesso, la sua piú antica illusione. Giacché i burocrati si erano subito precipitati ad accaparrarsi il controllo del progetto, a svuotarlo di libertà e immaginazione e complessità e sfumature, senza le quali le arti in genere risultavano vanificate. «Gli ingegneri dell’animo umano». C’erano due grossi problemi. Il primo era che molti non volevano saperne di ingegneri alle prese con la manutenzione della loro anima, grazie lo stesso. Si accontentavano di conservare l’anima ricevuta in dotazione come era al loro ingresso nel mondo; e se uno cercava di indirizzarli, opponevano resistenza. Vieni al tale concerto all’aperto, compagno. Oh, pensiamo davvero che dovresti esserci anche tu. Sí, certo, nessun obbligo, ma non farsi vedere in giro potrebbe essere un errore…

E poi c’era il secondo problema con la manutenzione da parte degli ingegneri dell’animo umano, un problema ancor piú sostanziale: chi si occupava della manutenzione degli addetti alla manutenzione?

Ricordò un concerto all’aperto in un parco di Char’kov. La sua Prima sinfonia aveva scatenato i latrati dei cani di tutto il quartiere. La folla rideva, l’orchestra suonò piú forte, i cani abbaiarono ancora di piú, il pubblico rise ancora di piú. Ora la sua musica aveva svegliato cani piú grossi. La storia si ripeteva: la prima volta in forma di farsa, la seconda, di tragedia.

Non gli andava di trasformare se stesso in un personaggio drammatico. Ma certe volte, quando nel cuore della notte i pensieri gli si facevano inquieti, si diceva: dunque a questo traguardo è approdata la storia. Tutti gli sforzi, l’idealismo e la speranza e il progresso e l’arte e il sapere e la coscienza, tutto quanto è finito cosí: con un uomo accanto all’ascensore e la sua piccola valigia con sigarette, un cambio di biancheria e un po’ di polvere dentifricia ai piedi; un uomo che se ne sta fermo, in attesa di essere portato via.

Si costrinse a spostare il pensiero su un altro compositore e sul suo diverso bagaglio da viaggio. Prokof’ev aveva lasciato la Russia per raggiungere l’Ovest poco dopo la Rivoluzione; fece ritorno in patria la prima volta nel 1927. Era un uomo raffinato, Sergej Sergeevič, di gusti squisiti. Oltre che un membro della Chiesa scientista, ma questo non ha rilevanza nella nostra storia. Gli agenti di dogana al confine sovietico non erano invece altrettanto raffinati; per giunta, la loro testa era piena di spie, minacce di sabotaggio, attività controrivoluzionarie. Aprirono la valigia di Prokof’ev e, in cima alla pila degli abiti, trovarono un capo che li sconcertò: un pigiama. Lo presero, lo tennero in alto, lo rigirarono di qua e di là scambiandosi occhiate attonite. Forse Sergej Sergeevič si sentí in imbarazzo. Sta di fatto che lasciò alla moglie il compito di dare spiegazioni. Purtroppo, dopo tanti anni di esilio, Ptaška aveva dimenticato la parola russa per veste da notte. Alla fine, il contrattempo fu risolto a gesti, e i coniugi poterono passare il confine. Ma l’incidente era in qualche modo assolutamente tipico di Prokof’ev.

Il suo album. Che genere d’uomo si compra un album per raccogliere articoli pieni di insulti sul suo conto? Un folle? Un burlone? Un russo? Pensò a Gogol’ che, fermo davanti a uno specchio, ripete a voce alta il suo nome in tono indifferente e disgustato. A lui non pareva affatto il gesto di un folle.

Il suo status ufficiale era quello di «Bolscevico non iscritto al Partito». Stalin amava ripetere che la modestia era l’ornamento del bolscevico. Sí, certo, e la Russia è la terra degli elefanti.

Quando venne al mondo Galina, lui e Nita scherzarono sull’idea di battezzarla Sumburina. Voleva dire Piccolo Caos. Piccola-figlia-del-caos. Sarebbe stato un gesto di ironica provocazione. No, di follia suicida.

La lettera di Tuchačevskij a Stalin non ricevette risposta. Dal canto suo Dmitrij Dmitrievič non seguí il consiglio di Platon Keržencev. Non rilasciò alcuna dichiarazione, non chiese scusa per i suoi eccessi di gioventú, non fece pubblica abiura; ritirò invece la sua Quarta sinfonia, che a chi non avesse orecchie per intendere sarebbe senz’altro apparsa un mero miscuglio di grida, strepiti e starnazzamenti. Frattanto tutti i suoi balletti e le opere venivano eliminati dal repertorio. La sua carriera si era semplicemente bloccata.

E poi, nella primavera del ’37, ebbe il suo Primo Colloquio con il Potere. Non era certo la prima volta che comunicava con il Potere, o che il Potere comunicava con lui: c’erano stati funzionari, burocrati, membri del Partito con i loro suggerimenti, le proposte, gli ultimatum. Il Potere gli aveva parlato attraverso gli organi di stampa, a livello pubblico, e gli aveva sussurrato all’orecchio, a livello privato. Di recente, il Potere lo aveva umiliato, sottraendogli energia vitale e ingiungendogli di pentirsi. Il Potere gli aveva chiarito come ci si aspettava che componesse, e che vivesse. Ora forse insinuava l’ipotesi che, tutto considerato, fosse a questo punto piú auspicabile che non vivesse affatto. Il Potere aveva optato per un faccia a faccia con lui. Il nome in rappresentanza del Potere era quello di Zakrevskij, e la sede presso la quale il Potere si rivolgeva a individui come lui a Leningrado era la Grande casa. Molti di coloro che entravano alla Grande casa sulla Liteinij Prospekt non ne uscivano piú.

L’appuntamento era per un sabato mattina. Con famigliari e amici sostenne che si trattava senza dubbio di una formalità, forse una conseguenza automatica degli articoli contro di lui che continuavano a uscire sulla «Pravda». Personalmente non ci credeva, e dubitava che ci credessero gli altri. Non capitava a tanti di essere convocati alla Grande casa per discutere di teoria della musica. Va da sé che si presentò puntuale. E da principio, il Potere si mostrò civile e cortese. Zakrevskij gli chiese del suo lavoro, di come procedesse la sua vita professionale, di cosa avesse in mente di comporre nel prossimo futuro. In risposta, quasi sulla spinta di un riflesso condizionato, lui disse che stava preparando una sinfonia sul compagno Lenin, cosa peraltro del tutto plausibile. Ritenne poi prudente far cenno alla campagna di stampa contro di lui, e fu incoraggiato dal tono di quasi superficiale nonchalance dell’interrogatore sull’argomento. Poi vennero le domande sugli amici e sulle persone che frequentava con regolarità. Non sapeva che tipo di risposta fornire. Zakrevskij gli venne in soccorso.

– Ho sentito che lei conosce bene il Maresciallo Tuchačevskij. È cosí?

– Sí, lo conosco.

– Mi racconti come l’ha conosciuto.

Riferí dell’incontro avvenuto dietro il palco nella Sala piccola del Conservatorio di Mosca. Spiegò che il Maresciallo era un noto appassionato di musica, che aveva assistito a numerosi suoi concerti, che suonava il violino e addirittura costruiva violini per passatempo. Il Maresciallo lo aveva invitato a casa; avevano perfino suonato qualche pezzo insieme. Era un buon violinista dilettante. «Buono» davvero? Capace, sicuramente. E capace di migliorare.

Ma a Zakrevskij i progressi di tecnica dell’arco e della mano sinistra del Maresciallo non interessavano affatto.

– È stato a casa sua in molte occasioni?

– Di quando in quando, sí.

– Di quando in quando per un periodo di quanti anni? Otto, nove, dieci?

– Sí, piú o meno.

– Dunque, diciamo quattro o cinque visite l’anno? Per un totale di quaranta, cinquanta visite?

– Meno, direi. Non ho mai tenuto il conto. Ma direi di meno.

– Ma lei è un amico intimo del Maresciallo Tuchačevskij, giusto?

Tacque per riflettere. – No, intimo no, un buon amico.

Non accennò al fatto che il Maresciallo lo avesse sostenuto finanziariamente, gli avesse offerto consigli, che avesse scritto a Stalin prendendo le sue difese. I casi erano due, o Zakrevskij lo sapeva già oppure non sapeva.

– E chi altri era presente in queste quaranta o cinquanta occasioni, a casa del suo buon amico?

– Non molte persone. Tutti membri della famiglia.

– Tutti membri della famiglia –. Il tono dell’interrogatore si era fatto comprensibilmente scettico.

– E qualche musicista. Qualche musicologo.

– Qualche politico, per caso?

– No, nessun politico.

– Ne è proprio sicuro?

– Beh, vede, si trattava di riunioni talvolta piuttosto affollate. Non è che io… A dirla tutta, io ero spesso al pianoforte a suonare…

– E di cosa si parlava?

– Di musica.

– E di politica.

– No.

– Andiamo, andiamo, come si fa a non toccare l’argomento politica proprio con un uomo dello stampo del Maresciallo Tuchačevskij?

– Diciamo che era… fuori servizio. Circondato da musicisti e da amici.

– E le risulta che fossero presenti altri uomini politici… fuori servizio?

– No, mai. In mia presenza nessuno parlò mai di politica.

L’interrogatore gli rivolse un lunghissimo sguardo. Poi la sua voce subí un cambiamento, quasi a costruire la serietà minacciosa consona al ruolo.

– Allora, io credo che le convenga rinfrescarsi bene la memoria. Non può essere che in veste di «buon amico», come si definisce, lei sia stato in casa del Maresciallo Tuchačevskij regolarmente per un arco di tempo che copre gli ultimi dieci anni senza mai parlare di politica. Prendiamo ad esempio il complotto per assassinare il compagno Stalin. Che cosa sentí dire in proposito?

Fu a quel punto che seppe di essere un uomo morto. «Ed ecco avvicinarsi l’ora di un altro», solo che questa volta era la sua. Ripeté, il piú pacatamente possibile, che non si era mai parlato di politica dal Maresciallo Tuchačevskij; si trattava di serate dedicate esclusivamente alla musica; le questioni di stato restavano fuori dalla porta insieme a cappelli e cappotti. Non era certo che fosse il modo migliore per dirlo. Del resto Zakrevskij non gli prestava piú ascolto.

– Le suggerisco di ripensarci bene, – disse l’interrogatore. – Sulla questione del complotto abbiamo già la testimonianza di altri ospiti.

Si rese conto che Tuchačevskij doveva essere stato arrestato, che la carriera, e la vita stessa del Maresciallo, erano agli sgoccioli; che l’indagine era appena iniziata e che chiunque orbitasse intorno al Maresciallo sarebbe presto scomparso dalla faccia della terra. La sua personale innocenza era irrilevante. Quanto era stato deciso era stato deciso. E se agli interrogatori occorreva dimostrare che la cospirazione appena scoperta o appena inventata si era già cosí perniciosamente diffusa da coinvolgere perfino il piú celebre – ancorché di recente disonorato – compositore della nazione, ebbene, lo avrebbero dimostrato. Il che dava conto del tono sicuro con cui Zakrevskij concluse il colloquio.

– Molto bene. Oggi è sabato. In questo momento sono le dodici e lei può andare. Ma le concedo solo quarantotto ore. Entro lunedí alle dodici lei avrà senz’altro ricordato. Deve farsi tornare in mente ogni dettaglio di tutte le discussioni a proposito del complotto contro il compagno Stalin, delle quali lei è stato uno dei piú importanti testimoni.

Era un uomo morto. Raccontò a Nita quanto era stato detto e, al di là delle sue parole rassicuranti, capí che lei pure lo considerava un uomo morto. Sapeva di dover proteggere le persone piú vicine a sé e, per farlo, aveva bisogno di restare calmo, ma riusciva solo a essere agitatissimo. Bruciò tutto ciò che potesse risultare incriminante anche se, una volta che eri stato etichettato come nemico del popolo e complice di un noto assassino, non c’era piú nulla che non lo fosse. Tanto valeva appiccare il fuoco all’intero appartamento. Aveva paura per Nita, per sua madre, per Galja, per chiunque fosse mai entrato o uscito da casa sua.

«Al proprio destino non si sfugge». E dunque, a lui sarebbe toccato morire a trent’anni. Piú di Pergolesi, in effetti, ma meno perfino di Schubert. E dello stesso Puškin, tra l’altro. Il suo nome e la sua musica sarebbero stati cancellati. Non avrebbe solo cessato di esistere, non sarebbe proprio mai esistito. Era stato un errore, prontamente corretto; un volto in una foto scomparso alla successiva stampa della stessa immagine. E se anche in futuro lo avessero riesumato, che cosa avrebbero trovato? Quattro sinfonie, un concerto per pianoforte, qualche suite per orchestra, due brani per quartetto d’archi ma non un solo quartetto terminato, alcuni pezzi per pianoforte, una sonata per violoncello, due opere, e qualche composizione per il cinema e per il balletto. Per che cosa lo avrebbero ricordato? Per l’opera che lo aveva compromesso, per la sinfonia che lui stesso aveva saggiamente ritirato? Forse la sua Prima sinfonia si sarebbe prestata a fare da lieto preludio ai concerti di compositori maturi che avessero avuto la fortuna di sopravvivergli.

Ma anche quella, si rese conto, era una ben magra consolazione. Quel che pensava lui era del tutto irrilevante. Al futuro decidere che decisione avrebbe preso il futuro. Ad esempio, che la sua musica non aveva alcuna importanza. O che lui avrebbe potuto affermarsi come compositore, se, per superbia, non si fosse lasciato trascinare in una proditoria cospirazione contro il capo dello stato. Chi poteva sapere come l’avrebbe pensata, il futuro? Ci aspettiamo troppo dal domani, sperando che sappia contrastare l’oggi. E chi poteva prevedere quale ombra la sua morte avrebbe gettato sulla sua famiglia? Immaginava una Galja sedicenne uscire da un orfanotrofio siberiano, convinta che i suoi genitori l’avessero crudelmente abbandonata e ignara che suo padre avesse mai scritto anche una sola nota di musica.

Alle prime minacce contro di lui aveva detto agli amici: «Se anche mi dovessero mozzare tutte e due le mani, continuerò a comporre, tenendo la penna tra i denti». Parole di sfida, pronunciate per tenere alti gli animi di tutti, compreso il suo. Ma nessuno intendeva mozzargli le mani, le sue piccole mani «non-pianistiche». Forse intendevano torturarlo, e lui avrebbe ceduto all’istante su ogni cosa, perché non aveva la minima resistenza al dolore. Gli avrebbero mostrato un elenco di nomi, e lui avrebbe tradito tutti. No, avrebbe provato brevemente a dire, per passare subito a Sí, Sí, Sí e ancora Sí. Sí, ero presente in quella circostanza in casa del Maresciallo; Sí gli sentii dire tutto ciò che ritenete abbia detto; Sí il tal generale e il tal politico presero parte alla cospirazione, li aveva visti e uditi personalmente. Ma non ci sarebbe stata nessuna cruenta e teatrale amputazione delle mani, giusto un pratico colpo di pistola alla nuca.

Quelle parole erano state da parte sua nient’altro che una sciocca bravata, o alla peggio un tanto per dire. E dei tanto per dire il Potere non sapeva che farsene. Il Potere badava solo ai fatti, e parlava una lingua composta di espressioni ed eufemismi adatti ora a mettere in luce ora a nascondere i fatti stessi. Nella Russia di Stalin non c’era posto per compositori costretti a scrivere con la penna tra i denti. D’ora in poi ci sarebbero state solo due categorie di musicisti: quelli vivi e terrorizzati, e quelli morti.

Era passato cosí poco tempo dall’ultima volta che si era sentito dentro l’indistruttibilità della giovinezza. La sua incorruttibilità, addirittura. E al di là di ogni cosa, sullo sfondo di ogni cosa, la certezza della verità e della rettitudine di qualunque talento gli fosse toccato, di qualsiasi musica avesse scritto. Tutto questo non risultava in alcun modo sconfessato. Era solo, al momento, di una irrilevanza assoluta.

Quel sabato notte, come pure la domenica, prese sonno bevendo. Non era difficile. Non reggeva l’alcol, e un paio di bicchieri di vodka spesso bastavano a stenderlo. Tale debolezza aveva i suoi vantaggi. Mentre gli altri andavano avanti a bere, lui era costretto a dormire. E il mattino dopo si ritrovava piú riposato, piú in forma per il lavoro.

Anapa era stata un centro famoso per la Cura dell’uva. Una volta, scherzando, aveva detto a Tanja che personalmente preferiva la Cura della vodka. E a essa dunque affidò quelle che potevano rivelarsi le ultime due notti della sua vita.

Il lunedí mattina salutò Nita con un bacio, prese Galja in braccio un’ultima volta e montò poi sull’autobus diretto al tetro edificio grigio sulla Liteinij Prospekt. Persona da sempre puntuale, sarebbe arrivato puntuale anche all’appuntamento con la sua morte. Contemplò per un istante il fiume Neva, che avrebbe continuato a scorrere dopo tutti loro. Giunto alla Grande casa si presentò alla guardia dell’ingresso. Il milite controllò l’elenco ma non ci trovò il suo nome. Gli chiese di ripeterglielo. E quando l’ebbe risentito, tornò a scorrere la lista.

– Perché è qui? Chi deve vedere?

– L’interrogatore Zakrevskij.

Il milite annuí lentamente. Poi, senza alzare gli occhi, disse: – Beh, può andarsene a casa. Lei non risulta in elenco. Oggi Zakrevskij non verrà, perciò nessuno la può ricevere.

E cosí ebbe fine il suo Primo Colloquio con il Potere.

Se ne tornò a casa. Immaginò dovesse trattarsi di una trappola: lo lasciavano andare per poterlo seguire e arrestare con lui tutti i suoi amici e colleghi. Scoprí invece che la vita gli aveva riservato un improvviso colpo di fortuna. Tra il sabato e il lunedí, lo stesso Zakrevskij era finito nell’elenco dei sospettati. Il suo interrogatore interrogato. L’arrestatore arrestato.

In ogni caso, se non era stata una trappola, l’allontanamento dalla Grande casa non poteva essere altro che un rinvio burocratico. Di sicuro la caccia a Tuchačevskij non era finita; pertanto la scomparsa di Zakrevskij costituiva un semplice intoppo temporaneo. L’incarico sarebbe passato al nuovo Zakrevskij di turno e le convocazioni sarebbero riprese.

Tre settimane dopo l’arresto il Maresciallo venne fucilato, insieme all’élite dell’Armata Rossa. Il complotto dei generali per l’assassinio del compagno Stalin era stato sventato appena in tempo. Fra le persone dell’entourage di Tuchačevskij a essere arrestate e fucilate compariva anche il comune amico Nikolaj Sergeevič Žiljaev, insigne musicologo. Forse esisteva anche una cospirazione dei musicologi che occorreva sventare al piú presto, magari seguita da un complotto dei compositori, e poi da uno dei trombonisti? Perché no? «Nient’altro che follia a questo mondo».

Pareva trascorso cosí poco tempo da quando avevano riso tutti assieme della definizione di musicologo proposta dal Professor Nikolaev. Immaginiamo di trovarci a mangiare un piatto di uova strapazzate, diceva il Professore. Il mio cuoco Paša le ha cucinate, voi e io le mangiamo. Quand’ecco che arriva un tale che non le ha cucinate, non le sta mangiando, ma ne parla come un grande esperto: quello è un musicologo.

Solo che non sembrava piú cosí divertente, ora anche i musicologi finivano fucilati. I crimini contestati a Nikolaj Sergeevič Žiljaev furono: devozione alla monarchia, spionaggio e attività terroristica.

E dunque ebbero inizio le veglie presso l’ascensore. Non era un caso isolato, il suo. Altri in città, volendo risparmiare ai propri cari lo spettacolo del loro arresto, si comportavano allo stesso modo. Ogni sera metteva in atto la medesima procedura: si liberava l’intestino, baciava la figlia addormentata, baciava la moglie insonne, prendeva dalle sue mani la valigetta e si chiudeva alle spalle la porta di casa. Quasi come un lavoratore del turno di notte. E in un certo senso lo era. Da quel momento restava fuori in attesa, a pensare al passato, temere il futuro e smaltire il presente fumando una sigaretta dopo l’altra. La valigia deposta ai suoi piedi era lí per rassicurarlo: una precauzione. Gli dava l’impressione di dominare gli eventi anziché esserne vittima. Coloro che uscivano di casa con una valigia di solito vi facevano ritorno. Chi invece veniva trascinato fuori dal letto in pigiama spesso non rientrava. Che fosse vero o no aveva poca importanza. Quel che contava era non apparire spaventati.

Ecco una domanda che gli ronzava continuamente in testa: starsene lí ad aspettarli era un atto di coraggio o di codardia? O di semplice buonsenso? Non si aspettava di venirne a capo.

Chissà se il successore di Zakrevskij avrebbe seguito lo stesso iter, partendo da garbati preliminari per poi irrigidirsi, farsi minaccioso e infine pronunciare l’invito a ripresentarsi con un elenco di nomi. Ma quale ulteriore testimonianza occorreva contro Tuchačevskij, dal momento che era già stato processato, condannato e giustiziato? Molto probabilmente l’indagine era destinata ad allargarsi lambendo la cerchia piú esterna di conoscenze del Maresciallo, visto che degli amici piú stretti ci si era già occupati. Gli avrebbero chiesto delle sue idee politiche, della famiglia, dei suoi contatti professionali. Ebbene, aveva un ricordo di sé ragazzo fuori dal condominio di via Nikolaevskaja, fiero della coccarda rossa appuntata al cappotto; e della corsa, piú tardi, con un gruppo di compagni di scuola verso la Stazione Finlandia per salutare il ritorno in Russia del grande Lenin. Le sue primissime composizioni, precedenti l’Opera Prima ufficiale, erano state una Marcia funebre per le vittime della Rivoluzione e un Inno alla libertà.

Purtroppo, subito dopo, i fatti cessavano di essere tali per trasformarsi in mere dichiarazioni soggette a letture divergenti. Ad esempio, l’essere stato compagno di scuola dei figli di Trockij e Kerenskij un tempo aveva costituito motivo d’orgoglio, poi di interesse e oggi, forse, di muto disonore. O ancora, suo zio Maksim Lavrentjevič Kostrikin, un Vecchio Bolscevico esiliato in Siberia per aver preso parte alla Rivoluzione del 1905, era stato il primo a incoraggiare le sue simpatie rivoluzionarie. Ma i Vecchi Bolscevichi, in passato vanto e benedizione della patria, erano visti ora piú di frequente come piaghe.

Al Partito non si era mai iscritto – né mai l’avrebbe fatto. La questione era molto semplice: non poteva entrare in un partito che ammazzava la gente. Ma in veste di «Bolscevico non iscritto al Partito» si era lasciato descrivere come convinto sostenitore del Partito stesso. Aveva scritto musica per il cinema, per il balletto, oratori che inneggiavano alla Rivoluzione e a tutte le sue conseguenze. La Seconda sinfonia era una cantata che celebrava il decennale della Rivoluzione, e vi aveva inserito alcuni versi discretamente ripugnanti di Aleksandr Bezymenskij. C’erano sue partiture che elogiavano la collettivizzazione e denunciavano gli atti di sabotaggio nelle fabbriche. La musica composta per il film Contropiano – la storia di un gruppo di lavoratori che spontaneamente propongono un piano d’accordo per accelerare i tempi di produzione – era stata un grandissimo successo. La Canzone del contropiano era stata fischiettata e canticchiata in tutto il paese, e lo era ancora. Al momento – forse da sempre, e di certo per tutto il tempo che si sarebbe reso necessario – era al lavoro su una sinfonia dedicata alla memoria di Lenin.

Dubitava che tutto ciò avrebbe convinto il successore di Zakrevskij. C’era una parte qualsiasi di lui che credesse nel Comunismo? Certo che sí, se l’alternativa era il Fascismo. Ma nell’Utopia, nella perfettibilità del genere umano, negli ingegneri dell’animo umano no, non credeva. Dopo cinque anni della Nuova politica economica di Lenin, aveva scritto a un amico che «il Paradiso in Terra verrà tra 200 000 000 000 di anni». Un’affermazione che ora però gli appariva esageratamente ottimistica.

Le teorie erano chiare, convincenti e comprensibili. La vita, caotica e piena di assurdità. Aveva messo in pratica la teoria del Libero Amore, prima con Tanja, e poi con Nita. Con entrambe contemporaneamente, anzi; le due ragazze gli si erano sovrapposte nel cuore e qualche volta continuavano a farlo. Scoprire però che la teoria dell’amore non si accordava con la realtà della vita era stata una faccenda lenta e penosa. Un po’ come pensare di saper scrivere una sinfonia perché hai letto un manuale di composizione. Per giunta, lui era indeciso, poco risoluto, tranne in quelle rare occasioni in cui si rivelava al contrario risoluto e deciso. Ma anche allora non necessariamente approdava alla scelta giusta. Dunque, la sua vita sentimentale era stata… come riassumerla nel modo piú efficace? Sorrise mesto tra sé. Ecco, trovato: era stata caos anziché musica.

Lui voleva Tanja; sua madre non era d’accordo. Lui voleva Nina; sua madre non era d’accordo. Le aveva tenuto nascosto il loro matrimonio per parecchie settimane, per non permettere che sentimenti malevoli potessero guastare la loro felicità nuova. Non era stato il gesto piú eroico della sua vita, tanto valeva ammetterlo. Quando poi si era deciso a confessare la notizia, sua madre aveva reagito come se lo sapesse da sempre – chissà, forse aveva letto il registro dell’anagrafe – e non vedesse motivo per concedere la propria approvazione. Aveva un modo di parlare di Nina che in apparenza era favorevole ma sotto sotto celava una critica. Magari, dopo la sua morte, che poteva non essere ormai lontana, si sarebbero ritrovate a vivere sotto lo stesso tetto. Madre, nuora, nipote: tre generazioni di donne. Famiglie simili erano sempre piú frequenti a quei tempi in Russia.

Poteva anche essersi sbagliato, ma non era un idiota, e nemmeno un totale sprovveduto. Sin dal principio aveva saputo che occorreva dare a Cesare quel che era di Cesare. Dunque perché adesso Cesare era in collera con lui? Nessuno poteva accusarlo di scarsa produttività: componeva in fretta e di rado non rispettava una scadenza. Era in grado di realizzare musica orecchiabile che appagava lui per un mese e il pubblico per una decina d’anni. Ma proprio questo era il punto. Cesare non si limitava a pretendere il tributo; voleva anche scegliere la valuta in cui lo si doveva erogare. Come mai, compagno Šostakovič, la sua nuova sinfonia non somiglia alla meravigliosa Canzone del contropiano? Come mai l’operaio delle acciaierie non ne fischietta il tema mentre ritorna a casa stanco dal lavoro? Sappiamo, compagno Šostakovič, come lei sia in grado di scrivere musica amata dal popolo. E dunque perché insiste con i suoi strepiti e starnazzamenti formalisti che il compiaciuto borghese tuttora padrone indiscusso delle sale da concerto si limita a fingere di ammirare?

Sí, era stato ingenuo a proposito di Cesare. O meglio, il modello a cui aveva fatto riferimento era ormai superato. Nei giorni andati, Cesare aveva preteso il tributo in denaro, la somma da versare in riconoscimento del suo potere: una data percentuale calcolata in base al relativo valore del contribuente. Ora però le cose avevano fatto passi avanti, e i nuovi Cesari del Cremlino avevano aggiornato il sistema: il tributo in denaro era attualmente calcolato al 100% del valore di base. Ove possibile, anche di piú.

Quando era studente – in quel tempo della vita fatto di speranze, spensieratezza e invulnerabilità – aveva sfacchinato per tre anni come pianista di cinema. Accompagnava le immagini sullo schermo del Piccadilly sulla Nevskij Prospekt, come pure dello Svetlaja Lenta e dello Splendid Palace. Il lavoro era duro, umiliante; certi proprietari particolarmente spilorci arrivavano a licenziare pur di non pagare il dovuto. Lui si sforzava di ricordare a se stesso che Brahms aveva suonato il piano in un bordello per marinai ad Amburgo. Il che, a dire il vero, poteva essere stato assai piú divertente.

Cercava di guardare lo schermo sovrastante e di suonare musica appropriata. Il pubblico preferiva le vecchie e arcinote melodie romantiche, ma lui spesso si annoiava e passava a suonare brani di sua composizione. I quali tuttavia non incontravano grande favore. Al cinema accadeva l’opposto che in sala da concerto: il pubblico applaudiva per mostrare disapprovazione. Una sera, accompagnando un documentario intitolato Uccelli acquatici e palustri della Svezia, si sentí di umore particolarmente burlone. Cominciò con l’imitare allo strumento il richiamo dei volatili; poi, mano a mano che gli uccelli acquatici e di palude spiccavano piú in alto il volo, anche la musica al piano costruí un crescendo sempre piú impetuoso. Partirono applausi sonori che, nella sua ingenuità, interpretò come dedicati a quella assurda pellicola; suonò quindi ancora piú forte. A spettacolo concluso, il pubblico si lamentò con il gestore: il pianista doveva aver bevuto, perché quel che suonava non era musica, bensí un insulto alla bellezza del documentario e al pubblico stesso. La direzione lo licenziò.

Ecco, ora si rendeva conto che l’episodio poteva darsi come il riassunto della sua carriera: lavoro duro, qualche successo, incapacità di adeguarsi alle norme musicali, disapprovazione ufficiale, sospensione della paga, licenziamento. Solo che quello in cui si trovava oggi era il mondo adulto, un mondo nel quale il licenziamento esprimeva una condizione ben piú definitiva.

Immaginava sua madre seduta in una sala di proiezioni mentre sullo schermo passavano immagini delle sue amate. Tanja: sua madre applaude. Nina: sua madre applaude. Rozalija: applauso ancora piú forte. Cleopatra, la Venere di Milo, la Regina di Saba, e sua madre, severa e imperturbabile, continua ad applaudire.

Le veglie notturne durarono dieci giorni. Nita ipotizzò – piú per spirito di ottimismo e determinatezza che sulla base di dati effettivi – che il pericolo immediato potesse dirsi superato. Nessuno dei due ci credeva, ma si era stancato anche lui di restare in attesa del ronzio sonoro dell’ascensore in funzione. Si era stancato della sua stessa paura. E dunque tornò a coricarsi nel buio vestito di tutto punto, con la moglie accanto, e la valigetta pronta vicino al letto. Pochi metri piú in là Galja dormiva il sonno degli innocenti, immemore delle questioni di stato.

E finalmente un mattino prese il bagaglio e lo aprí. Ritirò il cambio di biancheria nel cassetto, spazzolino e polvere dentifricia nello stipo del bagno, e i tre pacchetti di Kazbek sulla scrivania.

E tornò ad attendere che il Potere si decidesse a comunicare di nuovo con lui. Ma dalla Grande casa non gli giunse piú nulla.

Non per svogliatezza da parte del Potere. Molte persone della sua cerchia cominciarono a sparire, chi nei campi, chi nei luoghi di esecuzione. La suocera, il cognato, lo zio Vecchio Bolscevico, colleghi, un’ex amante. E di Zakrevskij, che non si era presentato al lavoro quel fatidico lunedí, che ne era stato? Nessuno ne seppe piú nulla. Forse la verità era che Zakrevskij non era mai esistito.

Ma al proprio destino non si sfugge; e il suo, a quanto pareva, per il momento, era quello di vivere. Di vivere e di lavorare. Senza concedersi mai il riposo. «Troviamo quiete solo nei sogni», come diceva Aleksandr Blok; anche se di quei tempi i sogni della gente erano tutt’altro che quieti. La vita tuttavia continuava: presto Nita fu incinta di nuovo, e presto lui ricominciò ad aggiungere numeri a un corpus di opere che aveva temuto potesse interrompersi alla Quarta sinfonia.

La sua Quinta, che compose nel corso di quell’estate, fu eseguita per la prima volta nel novembre del 1937 presso la Sala grande della Filarmonica di Leningrado. Un anziano filologo riferí a Glikman che un’unica altra volta gli era capitato di assistere a una cosí unanime e insistente ovazione da parte del pubblico; era accaduto quarantaquattro anni prima, quando Čajkovskij aveva diretto la prima della sua Sesta sinfonia. Un giornalista – folle? ottimista? benevolo? – descrisse cosí la sua Quinta: «La risposta creativa di un artista sovietico a critiche fondate». Lui non contestò mai la definizione; in tanti anzi giunsero a credere che la si potesse rintracciare scritta di suo pugno in capo alla partitura. Le parole piú celebri che avrebbe mai scritto, o meglio, che non scrisse mai. Non le volle mai contestare perché proteggevano la sua musica. Che se le tenga pure il Potere, le parole, che tanto non possono intaccare la musica. La musica sfugge alle parole: è questo il suo intento stesso, la sua maestà.

La frase permetteva inoltre agli ascoltatori dalle orecchie d’asino di udire quel che volevano nella sua sinfonia. Incapaci di cogliere l’ironia stridente del movimento finale, parodia di un trionfo, vi sentivano invece il trionfo autentico, la leale adesione della musica e della musicologia sovietica alla vita illuminata dal sole della costituzione di Stalin. Aveva concluso la sinfonia in fortissimo e in tonalità maggiore. E se avesse scelto invece un pianissimo e in minore? Cose del genere potevano decidere della vita di una o svariate persone. D’altronde, «Nient’altro che assurdità a questo mondo».

Il successo della Quinta sinfonia fu immediato e unanime. Tale inatteso fenomeno fu debitamente studiato dai burocrati del Partito e dai musicologi addomesticati, i quali giunsero a una definizione ufficiale dell’opera che assecondasse l’intelligenza del pubblico. Chiamarono la Quinta sinfonia «una tragedia ottimistica».


Sapeva solo che era quella la volta peggiore.

Una paura scaccia l’altra, come chiodo scaccia chiodo. Dunque, mentre l’aereo in decollo pareva picchiare contro solide cenge d’aria, si concentrò sulla paura presente, immediata: il martirio, la disintegrazione, l’istantaneo oblio. Di norma la paura scaccia anche ogni altra emozione, ma non la vergogna. Paura e vergogna insieme gli borbogliavano adesso allegramente nello stomaco.

Dell’aereo della American Overseas Airlines scorgeva l’ala e un’elica in vorticoso movimento; quello, e le nubi verso le quali erano diretti. Altri membri della delegazione, dotati di posti migliori e di maggior curiosità, premevano il viso contro il finestrino per lanciare un’ultima occhiata allo skyline di New York. A quanto sembra, erano tutti e sei in vena di festeggiamenti e ansiosi di veder comparire l’hostess per il primo giro di bevande alcoliche. Avrebbero brindato al grande successo della conferenza, rassicurandosi a vicenda sul fatto che era stato proprio il loro insistente avanzare le ragioni della pace a convincere il Dipartimento di stato guerrafondaio a revocare i loro visti e a rispedirli a casa in anticipo. Quanto a lui, non aspettava con meno ansia degli altri l’arrivo dell’hostess e dei drink, seppure per motivi diversi. Voleva dimenticare quanto era successo. Tirò le tendine in tessuto stampato del finestrino, quasi a oscurare ogni traccia di memoria. Impresa non facile, per quanto alcol buttasse giú.

«Ci sono due sole qualità di vodka: la buona e la buonissima; la vodka cattiva non esiste». Parole di saggezza popolare valide da Mosca a Leningrado, da Archangelsk a Kujbyšev. Ma c’era anche la vodka americana che, ora lo sapeva, risulta cerimoniosamente arricchita da aromi di frutta e servita con ghiaccio, limone e acqua tonica, in cocktail che ne coprivano del tutto il sapore. Dunque forse esisteva un liquido che rispondeva alla definizione di vodka cattiva.

Durante la guerra, se un lungo viaggio lo metteva in ansia, ricorreva talvolta a sedute di ipnoterapia. Come ne avrebbe desiderata una prima del volo di andata, e una per ogni giorno della settimana trascorsa a New York, e un’altra prima del viaggio di ritorno. O meglio ancora, potevano infilarlo in una gabbia di legno con provviste di vodka e salsicce sufficienti per una settimana, scaricarlo cosí com’era al LaGuardia e rimetterlo su un aereo quando fosse venuto il momento di ripartire. Dunque, Dmitrij Dmitrievič, come è stato il viaggio? Fantastico, grazie, ho visto tutto ciò che volevo vedere, e in gradevolissima compagnia.

Durante il volo d’andata il posto di fianco a lui era stato occupato dal suo protettore ufficiale, nonché guardiano, interprete e nuovo migliore amico a partire dalle ultime ventiquattr’ore. L’uomo, naturalmente, fumava Belomor. Quando ricevettero il menu in inglese e francese, lui aveva chiesto al compagno di tradurglielo. Sulla destra erano elencati cocktail, bevande alcoliche e sigarette. Sulla sinistra, aveva pensato, doveva esserci il cibo. No, gli rispose l’interprete, si trattava di altri articoli che poteva ordinare, e con un indice da esperto burocrate scorse la lista. Giochi di dama, domino, dadi, backgammon. Giornali, carta da lettere, riviste illustrate, cartoline postali. Rasoio elettrico, borsa del ghiaccio, nécessaire per cucito, cassetta del pronto soccorso, gomme da masticare, spazzolini da denti, fazzoletti di carta usa e getta.

– E quello? – aveva domandato indicando l’unico articolo non tradotto.

Si convocò un’hostess, che si produsse in una lunga delucidazione. Alla fine, gli fu risposto:

– Inalatore di benzedrina.

– Inalatore di benzedrina?

– È per capitalisti drogati che se la fanno sotto all’atterraggio e al decollo, – disse il suo nuovo miglior amico, con innegabile compiacimento ideologico.

Non immune a sua volta da un certo terrore non-capitalista in fase di atterraggio e decollo, se non fosse stato sicuro che la cosa sarebbe immediatamente finita nel suo dossier pubblico, l’avrebbe provata anche lui, quella decadente trovata occidentale.

Paura: che ne sapevano coloro che la infliggevano? Sapevano che funzionava, e anche come funzionava, ma non che effetto faceva. «Il lupo non può parlare del terrore della pecora», come si dice. Mentre lui attendeva l’arrivo di ordini dalla Grande casa di Sankt Leninsburg, Ojstrach a Mosca aspettava l’arresto. Il violinista gli aveva raccontato che, notte dopo notte, la polizia era venuta a prendere qualcuno nel suo condominio. Mai una retata; una sola vittima per volta, e un’altra la notte successiva: un sistema che accresceva, intensificandola, la paura di chi rimaneva, dei provvisori superstiti. Alla fine erano spariti tutti tranne gli inquilini del suo appartamento e di quello di fronte. La notte dopo si presentò il camion della polizia, sentirono sbattere le portiere giú in strada, e i passi avvicinarsi nel corridoio… e fermarsi davanti all’altro alloggio. Era da quel momento, gli disse Ojstrach, che non aveva piú smesso di avere paura, e non avrebbe smesso mai piú per il resto della vita, non aveva dubbi.

Al momento, e per la durata del volo di ritorno, il suo guardiano lo avrebbe lasciato in pace. Ci sarebbero volute qualcosa come trenta ore, prima di raggiungere Mosca, con scali a Terranova, Reykjavík, Francoforte e Berlino. Se non altro lo aspettava un viaggio comodo: buoni posti a sedere, livello di rumore accettabile, hostess ben addestrate. Servivano il cibo in stoviglie di ceramica con tovagliato di stoffa e posate pesanti. Gamberi enormi, lucidi e grassi come politici, affogati in abbondante salsa aurora. Una bistecca quasi tanto spessa quanto era larga, contorni di fagiolini e funghi e patate. Macedonia di frutta. Mangiò, ma soprattutto bevve. A differenza di quando era giovane, ora reggeva l’alcol. Tracannò uno scotch e soda dopo l’altro ma non riuscivano a metterlo fuori combattimento. Non c’era nessuno a fermarlo, né il personale di bordo né i suoi compagni palesemente festosi e, con ogni probabilità, intenti a bere non meno di lui. Poi, dopo che fu servito il caffè, la cabina sembrò farsi piú calda e tutti, compreso lui, crollarono addormentati.

Quali speranze aveva nutrito riguardo all’America? Quella di poter incontrare Stravinskij. Pur sapendola una velleità, anzi una chimera. Da sempre un devoto ammiratore della sua musica, si può dire che non si fosse perso una sola replica di Petruškaal teatro Mariinskij. Era stato secondo pianoforte per la prima russa delle Noces, aveva eseguito in pubblico la Serenata in La, e trascritto la Sinfonia di salmi per pianoforte a quattro mani. Se il ventesimo secolo aveva prodotto un solo grande compositore, era senz’altro Stravinskij. La Sinfonia di salmi era tra le opere piú geniali della storia della musica. Su tutto questo, non aveva difficoltà a esprimersi senza la minima esitazione.

Stravinskij però non era venuto. Aveva spedito un telegramma tanto offensivo quanto sbandierato: «Spiacente non potermi unire al comitato di benvenuto artisti sovietici in visita alla nazione. Ogni mia convinzione etica et estetica esclude tale eventualità».

E dall’America che cosa si era aspettato? Di certo non una folla di capitalisti da fumetto in tuba e panciotto a stelle e strisce in marcia sulla Quinta Strada per calpestare senza pietà il proletariato ridotto alla fame. Non piú di quanto si aspettasse la strombazzata terra di libertà: dubitava dell’esistenza di un posto simile a qualsiasi latitudine. Forse si era immaginato un misto di progresso tecnologico e conformismo sociale accompagnati dalle maniere pacate di un popolo di pionieri approdato al benessere. In seguito al loro viaggio in auto attraverso il paese, Il’f e Petrov avevano decretato che pensare all’America li rendeva malinconici, pur avendo i loro scritti l’effetto opposto sugli americani stessi. Riferivano anche come, contrariamente alla propaganda nazionale, gli americani si rivelassero tendenzialmente molto passivi, essendo ogni cosa per loro già pre-digerita, dal cibo alle idee. Perfino le vacche immobili sparse sui pascoli sembravano una pubblicità del latte condensato.

La prima sorpresa gliel’aveva riservata l’atteggiamento dei giornalisti americani. Una loro prima avanguardia gli aveva teso un’imboscata all’aeroporto di Francoforte durante il viaggio di andata. Berciando domande a gran voce e cacciandogli in faccia le macchine fotografiche, avevano manifestato una sorta di spensierata rozzezza fondata su una presunta superiorità di valori. Il fatto che non sapessero pronunciare un cognome era colpa del cognome stesso, non certo loro. Perciò lo abbreviavano.

– Ehi, Shosty, da questa parte! Saluta con il cappello!

Ma questo era successo dopo, al LaGuardia. Ubbidiente, si era levato il cappello e aveva salutato, come gli altri membri della delegazione.

– Ehi, Shosty, facci un sorriso!

– Ehi, Shosty, che te ne pare dell’America?

– Ehi, Shosty, preferisci le bionde o le brune?

Già, gli avevano domandato pure quello. Se in patria eri costantemente spiato da uomini che fumavano Belomor, qui in America era la stampa a controllarti. Dopo l’atterraggio, un giornalista aveva preso da parte un’hostess per intervistarla riguardo al comportamento della delegazione sovietica durante il volo. La donna riferí che i delegati avevano chiacchierato con gli altri passeggeri e che avevano molto apprezzato i martini dry e gli scotch e soda. Informazioni debitamente riportate sulle pagine del «New York Times» come se fossero di qualche interesse.

Prima le cose buone. La sua valigia era piena di dischi e di sigarette americane. Aveva ascoltato il Juilliard eseguire tre quartetti di Bartók e dopo il concerto aveva incontrato i musicisti. Aveva sentito la Filarmonica di New York diretta da Stokowski in un programma con musiche di Panufnik, Virgil Thomson, Sibelius, Chačaturjan e Brahms. Aveva suonato lui stesso – con le piccole mani, «non-pianistiche» – il secondo movimento della sua Quinta sinfonia al Madison Square Garden davanti a 15 000 persone. L’applauso era stato fragoroso, inarrestabile, agonistico. Del resto, l’America era il paese della competizione, e dunque è possibile che gli spettatori volessero dimostrare di poter applaudire piú a lungo e piú forte di un pubblico russo. La cosa aveva imbarazzato lui e, chissà, forse anche il Dipartimento di stato. Aveva incontrato alcuni artisti americani ricevendone un’accoglienza cordiale: Aaron Copland, Clifford Odets, Arthur Miller, un giovane scrittore di nome Mailer. Aveva ricevuto una vasta pergamena di ringraziamento per la sua visita, firmata da quarantadue musicisti, da Artie Shaw a Bruno Walter. E là finivano le cose buone. La sua cucchiaiata di miele in un barile di pece.

Aveva sperato in un certo anonimato, complici le centinaia di partecipanti, ma si era accorto con sgomento che il suo era il nome di richiamo della delegazione sovietica. Dopo il breve discorso pronunciato la sera del venerdí, c’era stato quello lunghissimo del sabato. Aveva risposto a domande e posato per le fotografie. Lo trattavano tutti bene; il bilancio era stato un successo di pubblico, e la piú grande umiliazione della sua vita. Non aveva provato altro che nausea e disprezzo di sé. Si era trattato della trappola perfetta, con l’aggravante che non c’era collegamento fra le due estremità. Di qua i comunisti, di là gli americani, e lui in mezzo. Senza altro scampo che attraversare di corsa i corridoi troppo illuminati dell’esperimento di cui era cavia, mentre una serie di porte si aprivano davanti a lui per poi chiudersi subito alle sue spalle.

Anche quella volta tutto era cominciato con la decisione di Stalin di recarsi a teatro. Una autentica beffa, no? Il fatto che l’opera non fosse neppure sua ma di Muradeli non aveva comportato la minima differenza, sin dal principio. Inutile dire che l’anno era bisestile: il 1948.

Era un luogo comune affermare che la tirannia capovolgeva le leggi del mondo intero, ma era anche la verità. Nei dodici anni tra il 1936 e il 1948 non si era mai sentito piú al sicuro che durante la Grande Guerra Patriottica. Un male venuto non solo per nuocere, come si dice. Si moriva a milioni, ma perlomeno la sofferenza era condizione piú condivisa, e in questo stava la temporanea salvezza. Perché, sebbene la tirannia possa essere paranoica, non necessariamente ha da essere stupida. Se fosse stupida, non potrebbe sopravvivere, come pure se si fondasse su qualche principio. La tirannia comprende il funzionamento di alcuni aspetti (i piú deboli) della gente. Per anni aveva ammazzato preti e fatto chiudere chiese, ma se i soldati combattevano piú risoluti con la benedizione di un prete, allora ai preti occorreva rinnovare l’incarico seppure a tempo determinato. E se in guerra la gente ha bisogno di musica per tenersi alto il morale, allora bisognava mettere sotto anche i compositori.

Lo stato non era il solo a scendere a compromessi, anche ai cittadini toccava fare la loro parte. Lui pronunciò discorsi politici scritti da altri, eppure – a dimostrazione di quanto si fosse capovolto il mondo – non gli sarebbe stato impossibile appoggiare lo spirito, se non il linguaggio, di quelle testimonianze. A un raduno di artisti antifascisti parlò della «nostra immane lotta contro la barbarie tedesca», e «della missione di liberare l’umanità dalla peste bruna». «Qualunque cosa a sostegno del Fronte», aveva ribadito con una dichiarazione del Potere stesso. Era sicuro di sé, eloquente, persuasivo. «Presto verranno tempi migliori», promise ai colleghi artisti, ripetendo a pappagallo le parole di Stalin.

La peste bruna riguardava anche Wagner – un compositore da sempre strumentalizzato dal Potere. Ora nel baratro ora sulla cresta dell’onda, a seconda della linea politica del momento. In seguito alla firma del patto Molotov-Ribbentrop, la Madre Russia si era abbandonata fra le braccia del nuovo alleato fascista con lo slancio che una vedova attempata può mostrare verso un giovane e aitante dirimpettaio, una passione resa ancor piú esaltata dal ritardo e dall’assoluta irragionevolezza con cui si manifesta. Wagner tornò a essere un grande compositore, e Ejzenštejn ricevette l’incarico di dirigere La Valchiria al Bol’šoj. Meno di due anni dopo, Hitler invadeva la Russia e a Wagner toccò assumere ancora una volta il ruolo di infame fascista, di classico esempio di morchia bruna.

Il tutto aveva contribuito alla scrittura di una recita a tinte fosche, che tuttavia continuava a far velo alla vera domanda essenziale. Puškin ne aveva messo le parole in bocca a Mozart:

Genio e malvagità

sono due cose incompatibili. Siete d’accordo?

Personalmente sí, era d’accordo. E Wagner aveva un animo palesemente malvagio. Era malvagio nel suo antisemitismo, e in altri atteggiamenti razzisti. Pertanto non poteva essere un genio, a dispetto dei corruschi bagliori della sua musica.

Aveva trascorso quasi tutti gli anni di guerra a Kujbyšev con la famiglia. Là erano al sicuro e, quando sua madre era riuscita a lasciare Leningrado e raggiungerli, lui si era sentito meno ansioso. Inoltre anche il numero di gatti che si affilavano le unghie sulla sua anima era andato calando. Va da sé che, come membro dell’Unione dei compositori, la sua presenza era spesso richiesta nella capitale. In quei casi metteva in valigia vodka e salsiccia all’aglio da bastargli per tutto il viaggio. «Il pollo migliore è la salsiccia», come si dice in Ucraina. I treni facevano soste di ore, a volte di giorni; non si poteva sapere quando movimenti improvvisi delle truppe o la mancanza di carbone ti avrebbero interrotto il viaggio.

Lui viaggiava in prima classe, il che era alquanto opportuno, dato che le carrozze economiche erano in pratica corsie d’ospedale ad alto rischio di contagio da tifo. Per prevenire l’infezione, portava amuleti d’aglio intorno al collo e ai polsi. «L’odore scoraggerà le ragazze, – spiegava, – ma in tempo di guerra certi sacrifici sono necessari».

Una volta, tornava da Mosca con… macché, non riusciva a ricordare. A un paio di giorni di distanza, il treno si era fermato su una lunga banchina polverosa. Avevano aperto il finestrino per sporgere la testa. Il sole del primo mattino li aveva colpiti agli occhi; alle orecchie, la sudicia canzone di un mendicante arrochito – che cosa gli avevano dato? Un po’ di salsiccia? Un sorso di vodka? Qualche copeco? Come mai gli tornava il vago ricordo di quella stazione e di quel mendicante fra le migliaia incontrate? C’era di mezzo una battuta scherzosa? Ma quale? Niente da fare, era inutile.

Non riusciva a recuperare il ricordo delle oscenità da caserma del mendicante. Continuava invece a venirgli in mente un canto militare del secolo passato. Non ne conosceva la melodia, solo le parole che gli era capitato di leggere mentre sfogliava l’epistolario di Turgenev.

Russia, la nostra adorata madre,

nulla ci strappa mai con la forza,

ma solo prende quanto le diamo

mentre ci tiene un coltello alla gola.

Turgenev non appagava i suoi gusti letterari: troppo perbene, non abbastanza immaginifico. Preferiva Čechov e Puškin, e piú di ogni altro Gogol’. Ma perfino Turgenev, nonostante i difetti, era dotato di un sano pessimismo russo. Anzi, sapeva che essere russi ed essere pessimisti era una cosa sola. Aveva anche scritto che, per quanto lo si strigli, un russo rimarrà sempre un russo. Ecco una verità che il buon Carletto Marx e tutti i suoi epigoni non avevano mai afferrato. Pretendevano di farsi ingegneri dell’animo umano, ma i russi, con tutte le loro magagne, non erano macchine. Perciò, piú che di manutenzione, si parlava nel loro caso di strigliatura. Avanti, strofina, strofina, cerchiamo di eliminare tutta la vecchia russaggine e di passarci sopra una lucida mano di sovieticità. Ma non funzionava: la vernice cominciava a scrostarsi ancor prima di essere asciutta.

Essere russi voleva dire essere pessimisti, essere sovietici, ottimisti. Per questo, il binomio Russia sovietica era una contraddizione in termini. Il Potere non l’aveva mai capito. Si era convinti che ammazzando una percentuale sufficiente di popolazione e tenendo i superstiti a una dieta stretta di propaganda e terrore, l’ottimismo sarebbe venuto. Ma dove stava la logica in questo ragionamento? Esattamente come quando avevano continuato a ripetergli, in varie forme e parole, attraverso i burocrati della musica e gli editoriali degli organi di stampa, che a loro serviva uno «Šostakovič ottimista». Altra contraddizione in termini.

Uno dei rari luoghi in cui pessimismo e ottimismo potevano allegramente coesistere – dove anzi la presenza di entrambi risultava necessaria alla sopravvivenza – era la famiglia. Dunque, ad esempio, lui amava Nita (ottimismo), ma non era sicuro di essere un buon marito (pessimismo). Era un ansioso, e la consapevolezza dell’ansia rende le persone egoiste e antipatiche. Nita andava al lavoro, ma non era ancora arrivata all’Istituto che già lui la chiamava per chiederle quando sarebbe tornata. Si rendeva conto di essere fastidioso, ma l’ansia aveva comunque la meglio.

Amava i suoi figli (ottimismo), ma non era sicuro di essere un buon padre (pessimismo). A volte aveva la sensazione che il suo amore per loro fosse eccessivo, se non morboso. Del resto, vivere non è una passeggiata per i campi, come si dice.

A Galja e Maksim fu insegnato a non mentire mai e a essere sempre gentili. Sulle buone maniere non si stancava di insistere. Spiegò a Maksim sin da piccolo che è opportuno precedere una donna in salita e seguirla in discesa. Quando i bambini ebbero la bicicletta, impartí a entrambi lezioni sul codice della strada pretendendo che lo applicassero anche sui piú deserti sentieri fra gli alberi: braccio sinistro in fuori uguale svolta a sinistra, braccio destro, svolta a destra. A Kujbyšev sovrintendeva anche ai loro esercizi ginnici mattutini. Accendeva la radio e tutti e tre si mettevano in ascolto della voce stentorea di un tale Gordeev. «Bene, cosí! Piedi divaricati quanto le spalle. Primo esercizio…» E cosí via.

A parte questi exploit fisici genitoriali, non addestrava il suo corpo, limitandosi ad abitarlo. Una volta un amico gli aveva mostrato quel che chiamava ginnastica per l’intellighenzia. Si prendeva una scatola di fiammiferi e se ne gettava a terra il contenuto, quindi ci si chinava a raccogliere i fiammiferi, uno per uno. La prima volta che ci provò, perse la pazienza e ricacciò tutto dentro la scatola a manciate. Volle insistere ancora, ma proprio mentre stava per chinarsi squillò il telefono, lui dovette rispondere, e toccò alla domestica occuparsi di raccattare i fiammiferi.

Nita amava sciare e fare alpinismo: lui provava un senso di assoluto terrore appena sentiva l’insidiosa presenza della neve sotto gli sci. A Nita piacevano gli incontri di pugilato, lui non sopportava la vista di un uomo che ne picchia un altro fin quasi a ucciderlo. E nemmeno se la cavava nell’attività fisica piú vicina alla sua stessa arte, vale a dire la danza. Sapeva comporre una polka, suonarla con disinvoltura al pianoforte, ma non appena metteva piede su una pista da ballo, le gambe maldestre cessavano di ubbidirgli.

Lo divertiva invece fare solitari, perché lo calmavano; o giocare a carte con gli amici, a patto che si puntassero soldi. E, sebbene non fosse mai stato né abbastanza robusto né fisicamente dotato per praticare uno sport, gli piaceva arbitrare. Prima della guerra, a Leningrado, aveva ottenuto il brevetto da arbitro di calcio. E durante l’esilio a Kujbyšev organizzò e arbitrò un torneo di pallavolo. Pronunciava l’annuncio dell’incontro in tono solenne, ricorrendo a una delle poche frasi di inglese che avesse imparato: «It is time to play volleyball». Alla quale faceva seguire, in russo, una delle espressioni preferite dai cronisti sportivi: «L’incontro avrà luogo indipendentemente dalle condizioni atmosferiche».

Galja e Maksim venivano puniti raramente. Se si comportavano male o dicevano una bugia, vedevano i loro genitori ridursi in uno stato di estrema e immediata ansia. Nita assumeva un’espressione severa e rimproverava i figli con lo sguardo; lui si accendeva una sigaretta dopo l’altra passeggiando nervoso per la casa. Lo spettacolo di angoscia era spesso castigo sufficiente per i bambini. Senza contare che il paese era un’unica grande cella di punizione: dunque perché abituare un bambino tanto presto a qualcosa che avrebbe conosciuto in dosi piú che abbondanti per il resto della vita?

Ma qualche rara volta la birichinata eccedeva il limite. Come quando Maksim inventò una caduta in bicicletta, e finse di essersi fatto male, forse perfino di essere svenuto, per poi scattare in piedi e scoppiare a ridere di fronte allo spavento dei genitori. In casi del genere diceva a Maksim (perché quasi sempre di lui si trattava): «Sei pregato di venire da me nello studio. C’è una faccenda molto seria di cui ti devo parlare». E anche solo quelle parole procuravano al piccolo un bel po’ di pena. Nello studio, ordinava a Maksim di mettere per iscritto ciò che aveva fatto, aggiungendovi la promessa di non comportarsi mai piú in quel modo e apponendo in calce la data dell’evento e la firma. Se Maksim ci ricascava, lo convocava di nuovo in studio, estraeva la promessa scritta dal cassetto della scrivania e chiedeva a Maksim di leggerla ad alta voce. Il piú delle volte tuttavia la mortificazione del bambino era tale che il castigo pareva ricadere sul padre.

I ricordi migliori del periodo trascorso in esilio erano semplici: lui e Galja alle prese con una figliata di maialini, nel tentativo di acchiappare uno di quei fagottini di carne irsuti e sbruffanti; o Maksim impegnato nella celebre imitazione del poliziotto bulgaro che si allaccia gli scarponi. Passavano l’estate presso un’ex tenuta a Ivanovo, dove la Fattoria avicola collettiva numero 69 ospitava opportunamente la Casa della creatività. Fu in quella sede che compose la sua Ottava sinfonia, su un pancaccio inchiodato alla parete interna di un ex pollaio. Era sempre in grado di lavorare, incurante del caos e dei disagi che lo circondavano. Era la sua salvezza. Altri erano distratti dai suoni della vita di tutti i giorni. Prokof’ev avrebbe cacciato Maksim e Galja anche solo per essere stati nella sua stanza senza rispetto di adeguate distanze di sicurezza acustica; lui, al contrario, era inaccessibile al rumore. La sola cosa che lo irritava era il latrato dei cani: quel suono insistente e nevrotico attraversava la musica che si sentiva dentro la testa. Per questo ai cani preferiva i gatti. I gatti erano sempre disposti a lasciarlo comporre.

Chi non lo conosceva e seguiva la musica solo da lontano, doveva pensare che il trauma del 1936 appartenesse ormai saldamente al passato. Si era macchiato di una grave colpa componendo Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk, e il Potere l’aveva adeguatamente punito. Ravvedutosi, aveva composto la risposta creativa di un artista sovietico a critiche fondate. Dopodiché, nel corso della Grande Guerra Patriottica, aveva scritto la Settima sinfonia, il cui messaggio antifascista era risuonato per tutto il mondo. E dunque, aveva ottenuto il perdono.

Ma chi era al corrente di come funzioni la religione, e quindi il Potere, non si lasciava abbindolare. Perché sapeva che il peccatore si può ravvedere, ma questo non significa che la colpa sia stata cancellata dalla faccia della terra; anzi. Se il compositore piú celebre della nazione è potuto cadere in fallo, vuol dire che si tratta di un errore sommamente funesto e pericoloso per gli altri. Ecco perché occorreva dare un nome alla colpa, e non stancarsi di ribadire l’eterno monito contro la sua minaccia. In altre parole Caos anziché musicaera assurto a testo esemplare e inserito nei corsi di storia della musica al conservatorio.

Né d’altronde si poteva permettere che il peccatore originale proseguisse il proprio cammino senza una guida. Gli studiosi di teolinguistica, che avevano esaminato il lessico dell’editoriale della «Pravda» con tutta la meticolosa attenzione che meritava, non avrebbero mancato di rilevare un’allusione implicita alla musica da film. Stalin aveva espresso grande apprezzamento per la colonna sonora composta da Dmitrij Dmitrievič per la trilogia di Maksim; e si sapeva che Ždanov suonava ogni mattina alla moglie la Canzone del contropiano. Era opinione di persone ai massimi livelli che Dmitrij Dmitrievič Šostakovič non fosse una causa persa, ma che fosse capace, se opportunamente guidato, di produrre musica chiara, realista. L’arte apparteneva al Popolo, come Lenin aveva decretato; e il cinema risultava assai piú utile e prezioso per il popolo sovietico dell’opera lirica. E dunque Dmitrij Dmitrievič ebbe il privilegio di poter contare sull’opportuna guida, con il risultato che nel 1940 egli fu insignito dell’Ordine della Bandiera rossa del lavoro in speciale tributo alla sua musica da film. Se avesse continuato a calcare il sentiero giusto, l’elenco dei suoi onori era senz’altro destinato a crescere.

Il 5 gennaio 1948 – dodici anni dopo la sua fugace presenza in teatro per Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk – Stalin e i suoi stretti collaboratori tornarono al Bol’šoj, questa volta per La grande amicizia di Vano Muradeli. Il compositore, e presidente della Fondazione dei musicisti sovietici, si vantava di scrivere musica melodica, patriottica e conforme ai dettami del realismo socialista. La sua opera, commissionata per celebrare il trentesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, e sfarzosamente allestita, aveva già al proprio attivo due mesi di grande successo. Il tema trattato era il consolidamento del potere comunista nel Caucaso settentrionale durante la Guerra Civile.

Muradeli era un georgiano e conosceva la storia della sua terra; sfortunatamente per lui, anche Stalin era georgiano, e quella storia la conosceva ancor meglio. Muradeli aveva descritto i georgiani e gli osseti come ribelli contro l’Armata Rossa; Stalin al contrario – anche in quanto figlio di madre osseta – sapeva che tra il 1918 e il 1920 georgiani e osseti si erano in realtà uniti ai bolscevichi russi e avevano combattuto in difesa della Rivoluzione. Erano stati semmai i ceceni e gli ingusci a ostacolare con le loro attività controrivoluzionarie la costruzione della Grande Amicizia tra i molti popoli della futura Unione Sovietica.

Muradeli aveva combinato l’errore di tipo storico-politico a un’altra non meno imperdonabile mancanza musicale. Quella di inserire nell’opera una lezginka, che come di certo sapeva era la danza preferita di Stalin. Ma anziché sceglierne una autentica del repertorio esistente, celebrando cosí la tradizione folklorica del popolo caucasico, il compositore aveva narcisisticamente voluto inventare una sua danza personale «sulla falsariga di una lezginka».

Cinque giorni dopo, Ždanov convocava un’assemblea di settanta compositori e musicologi per discutere della persistente e distruttiva influenza del formalismo; e un mese piú tardi, il Comitato centrale pubblicava il giudizio ufficiale Sull’opera di V. Muradeli «La grande amicizia». Il compositore seppe cosí che la sua musica, lungi dall’essere melodica e patriottica come aveva creduto, era invece l’ennesima accozzaglia di strepiti e farfugliamenti. Definito anch’egli un formalista incline a produrre «mescolanze confuse e mentalmente malate», era accusato di arruffianarsi «una stretta cerchia di addetti ai lavori dal palato fine». Dovendo salvarsi la carriera, se non la pelle, Muradeli forní la spiegazione migliore di cui fu capace: era stato condotto fuori strada da altri. Sedotto e persuaso con l’inganno a imboccare il sentiero sbagliato, in modo particolare da Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, e ancora piú specificamente dall’opera Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di quel compositore.

Ždanov rammentò ai musicisti nazionali come il giudizio critico formulato nell’editoriale della «Pravda» del 1936 fosse tuttora valido: occorreva comporre Musica – armoniosa, elegante musica – e non Caos. Nominò i principali imputati: Šostakovič, Prokof’ev, Chačaturjan, Mjaskovskij e Šebalin. La loro musica fu paragonata a un assordante martello pneumatico, nonché al rumore proveniente da una «camera a gas musicale». La parola che Ždanov utilizzò fu dušegubka, vale a dire il nome che i nazisti davano al furgone sul quale, durante il trasporto, asfissiavano le proprie vittime con i gas di scarico.

Era tornata la pace, e dunque il mondo si era ancora una volta capovolto; si ripresentò il Terrore, e con esso l’insania. Durante un’assemblea straordinaria convocata dall’Unione dei compositori, un musicologo il cui crimine era stato scrivere un testo ingenuamente encomiastico su Dmitrij Dmitrievič implorò disperato che gli si riconoscesse almeno l’attenuante di non avere mai messo piede nell’appartamento del compositore. A suffragare la veridicità della sua affermazione chiamò il musicista Jurij Levitin, il quale dichiarò «in tutta coscienza» che mai e poi mai il musicologo aveva respirato l’aria contaminata dell’abitazione del formalista.

Durante l’assemblea, la sua Ottava sinfonia fu presa di mira, non meno della Sesta di Prokof’ev. Il tema di entrambe era la guerra, ed entrambe le composizioni rivelavano la consapevolezza di quanto la guerra fosse terribile e tragica. Come si sbagliavano i due compositori formalisti: la guerra era, al contrario, gloriosa e trionfante, un’esperienza da celebrare! Essi, invece, si erano piegati a un «morboso individualismo» nonché al «pessimismo». Lui aveva declinato l’invito all’assemblea. Era malato. In effetti, si sentiva di umore suicida. Inviò le sue scuse. Le scuse non vennero accolte. Anzi, i lavori dell’assemblea sarebbero durati finché il grande recidivo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič non fosse stato in grado di partecipare: se necessario, si sarebbero mandati dei medici ad accertare il suo stato di salute e occuparsi di curarlo. «Al proprio destino non si sfugge», e dunque si presentò. Ricevette istruzioni di formulare una pubblica abiura. Nel tragitto verso il palco, mentre si domandava che cosa mai avrebbe potuto dire, qualcuno gli mise in mano il testo di un discorso. Lo lesse in modo inespressivo. Promise di adeguarsi in futuro alle direttive del Partito e di comporre musica melodica per il Popolo. A metà della prolusione ufficiale, interruppe la lettura, sollevò la testa, si guardò attorno e, con voce esitante, disse: – A me è sempre parso che, se compongo con animo sincero e fedele a quello che provo, la mia musica non potrà essere «contro» il Popolo e che, dopotutto, anch’io, nel mio piccolo, dovrei potermi ritenere un… rappresentante del Popolo.

Dall’assemblea era tornato in condizioni di collasso. Gli fu revocato l’incarico di docenza presso il Conservatorio di Mosca, come pure quello di Leningrado. Si chiese se la scelta migliore non fosse il silenzio. Poi invece, per mantenersi sano di mente, decise di comporre una serie di preludi e fughe, sull’esempio di Bach. Va da sé che in principio furono condannati: lo si accusò di avere colpevolmente ignorato «la realtà circostante». Inoltre, non gli riusciva di allontanare dalla mente le parole – in parte sue e in parte di altri – che aveva pronunciato nelle ultime settimane. Non si era limitato ad accogliere il giudizio negativo sulla sua opera; l’aveva addirittura sottoscritto. Aveva, di fatto, ripudiato la sua Lady Macbeth. Ricordò ciò che una volta aveva detto a un collega a proposito dell’onestà artistica e personale e della relativa riserva di tale virtú di cui ciascuno di noi dispone.

Poi, dopo un anno in disgrazia, ebbe il Secondo Colloquio con il Potere. «Il rombo del tuono viene dal cielo, non da un mucchio di sterco», come dice il poeta. Era a casa con Nita e il compositore Levitin il 16 marzo 1949, quando squillò il telefono. Rispose, stette in ascolto, assunse un’aria grave e infine disse agli altri due:

– Sta per prendere la linea Stalin.

Nita si precipitò nella stanza accanto all’altro apparecchio.

– Dmitrij Dmitrievič, – esordí la voce del Potere, – come sta?

– Grazie, Iosif Vissarionovič, tutto bene. Giusto qualche fastidio di stomaco.

– Mi dispiace sentirlo. Dovremo trovarle un dottore.

– No, grazie. Non mi occorre nulla. Ho tutto il necessario.

– Tanto meglio –. Ci fu una pausa. Poi la poderosa cadenza georgiana, la voce trasmessa da un milione di radio e di altoparlanti, gli domandò se era a conoscenza del prossimo Congresso culturale e scientifico per la pace nel mondo che si sarebbe tenuto a New York. Disse che ne era a conoscenza.

– E che cosa ne pensa?

– Penso che la pace è sempre meglio della guerra, Iosif Vissarionovič.

– Bene. Dunque sarà lieto di partecipare in nostra rappresentanza.

– No, non posso, temo.

– Non può?

– Me lo ha domandato il compagno Molotov. Ho risposto che non mi sento abbastanza bene.

– In tal caso, come ho già detto, le manderemo un dottore per farla stare meglio.

– Non è solo questo. Patisco il mal d’aria. Non posso volare.

– Non è un problema. Il dottore le prescriverà qualche pillola.

– È davvero gentile.

– Dunque ci andrà?

Tacque per un momento. Una parte di lui era consapevole che una sola sillaba sbagliata l’avrebbe portato dritto in un campo di lavoro, mentre l’altra parte, con sua grande sorpresa, aveva superato la paura.

– No, Iosif Vissarionovič, proprio non posso. Per un altro motivo.

– Cioè?

– Non possiedo un frac. Non posso suonare in pubblico senza il frac. E temo di non potermene permettere uno.

– Beh, Dmitrij Dmitrievič, non sono io a occuparmi direttamente di queste cose, ma sono certo che la sartoria dei funzionari d’amministrazione del Comitato centrale non avrà problemi a confezionargliene uno di suo gradimento.

– La ringrazio. Ma temo rimanga un’altra ragione.

– Che non mancherà di chiarirmi, giusto?

Sí, esisteva in effetti una remota possibilità che Stalin non lo sapesse.

– Il fatto è, vede, che mi trovo in una posizione molto imbarazzante. In America, la mia musica viene eseguita spesso, e qui no. Me ne chiederebbero senz’altro conto. Dunque, come dovrei comportarmi in circostanze del genere?

– In che senso, Dmitrij Dmitrievič, la sua musica non viene eseguita?

– È proibita. Come quella di tanti colleghi dell’Unione dei compositori.

– Proibita? E da chi?

– Dalla Commissione centrale per i repertori. Dal 14 di febbraio dello scorso anno. Esiste un lungo elenco di opere che non possono essere eseguite. Ma come può immaginare, Iosif Vissarionovič, il risultato è che i direttori artistici non sono invogliati a inserire in programma nemmeno altre mie composizioni. E i musicisti hanno paura di eseguirle. Perciò, di fatto, sono sulla lista nera. Come altri colleghi.

– E chi ha dato un ordine simile?

– Deve essere stato un compagno ai vertici del Potere.

– No, – rispose la voce. – Da noi quell’ordine non è partito.

Lasciò al Potere il tempo di rifletterci su.

– No, non abbiamo mai dato quell’ordine. Si tratta di uno sbaglio. E come tale deve essere corretto. Nessuna delle sue opere è stata proibita. Si possono eseguire tutte, tranquillamente. Non è mai stato vero il contrario. Ci dovrà essere una sanzione ufficiale.

Qualche giorno piú tardi, assieme ad altri compositori, ricevette copia dell’ordine originale di divieto di esecuzione. Al foglio era stato pinzato un documento che sanciva l’illegalità della disposizione in oggetto e condannava la Commissione centrale per i repertori responsabile del divieto. La correzione era firmata «Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Urss, I. Stalin».

E dunque lui era andato a New York.

Nei suoi pensieri, tirannia e rozzezza erano state inseparabili. Non gli era sfuggito il fatto che Lenin, al momento di dettare il proprio testamento politico e di indicare un suo possibile successore, aveva individuato proprio nella «rozzezza» il difetto peggiore di Stalin. Quanto al suo mondo specifico, personalmente non gli andavano giú i direttori d’orchestra definiti in toni encomiastici dei «dittatori». Mostrarsi sgarbato con un orchestrale che si sforza di fare del proprio meglio era vergognoso. Ma questi tiranni, questi imperatori della bacchetta, gongolavano nel sentire utilizzare tale terminologia, quasi che un’orchestra potesse suonare bene solo se umiliata, irrisa, frustata.

Il peggiore era Toscanini. Non lo aveva mai visto in azione; lo conosceva solo dalle cronache. Ma in lui era tutto sbagliato – tempi, spirito, nuance… Toscanini tritava la musica come fosse un pasticcio di carne e poi ci scucchiaiava sopra una salsa schifosa. Il che lo faceva infuriare. Una volta, il «maestro» gli aveva mandato una registrazione della sua Settima sinfonia. Lui aveva risposto sottolineando i numerosi errori dell’illustre direttore. Non sapeva se Toscanini avesse mai ricevuto la lettera, né se, in caso affermativo, l’avesse capita. Doveva aver ritenuto che contenesse soltanto lodi, perché poco tempo dopo a Mosca giunse la trionfale notizia che lui, Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, era stato eletto membro onorario dell’Associazione Arturo Toscanini! E ancora qualche tempo dopo, aveva cominciato a ricevere in dono dischi di musica rigorosamente diretti dall’insigne negriero. Lui ovviamente non li ascoltava, ma li metteva da parte per farne futuri regali. Non per gli amici, s’intende, ma per un certo tipo di conoscenti, quelli di cui era sicuro che ne sarebbero stati entusiasti.

Non era soltanto una questione di amor proprio; e neppure un problema che riguardasse soltanto la musica. Quei direttori urlavano e imprecavano, facevano scenate, minacciavano di licenziare il primo clarinetto per essersi presentato in ritardo. E l’orchestra, costretta a tollerare un simile trattamento, reagiva raccontando aneddoti alle spalle del direttore – aneddoti che lo ritraevano come un «autentico personaggio». E infine arrivavano a convincersi di ciò che credeva l’imperatore della bacchetta in persona: e cioè che suonavano bene solo in virtú delle frustate ricevute. Facevano gregge compatto, nel loro masochismo, lanciandosi di quando in quando un commento sarcastico, ma di fatto ammirando la nobiltà e l’idealismo del loro maestro, la sua determinazione, la capacità di vedere orizzonti piú vasti di chi si limitava a strimpellare e soffiare dietro un leggio. Il maestro, per quanto costretto talvolta a mostrarsi duro, era un grande leader e andava seguito. A questo punto, chi avrebbe ancora potuto negare che un’orchestra fosse un microcosmo del sistema?

Dunque quando un direttore di questo tipo, impaziente perfino con la partitura che gli stava di fronte, ipotizzava un difetto o un errore, lui aveva pronta la garbata risposta formale messa a punto molto tempo addietro.

Perciò immaginava il seguente scambio di battute.

Potere: – Guardi che noi abbiamo fatto la Rivoluzione.

Cittadino Secondo Oboe: – Sí, e una rivoluzione meravigliosa, naturalmente. Enorme passo avanti rispetto al passato. Davvero un traguardo importante. Delle volte, però, mi chiedo… mi posso sbagliare, intendiamoci, ma era necessario in nome della Rivoluzione fucilare tutti quegli ingegneri, e i generali, gli scienziati, i musicologi? Spedire milioni di persone nei campi, utilizzare manodopera forzata da sfruttare fino alla morte, seminare ovunque il Terrore, estorcere false confessioni? Allestire un sistema nel quale, anche tra i piú defilati, sono centinaia gli uomini che ogni notte si aspettano di essere tirati giú dal letto e trascinati alla Grande casa o alla Lubjanka per subire torture o essere costretti ad apporre la propria firma sotto documenti di assoluta e completa invenzione e finire poi giustiziati con una pallottola alla nuca? Lei capirà, me lo sto solo chiedendo.

Potere: – Ma sí, ma sí, ho capito. Ha senz’altro ragione lei. Ma per adesso lasciamo perdere. Di quel cambiamento ci occuperemo la prossima volta.

Per alcuni anni, aveva ripetuto lo stesso brindisi a ogni Capodanno. La nazione era obbligata per trecentosessantaquattro giorni ad ascoltare l’insana, giornaliera insistenza con cui il Potere ribadiva che andava tutto splendidamente nel migliore dei mondi possibili, che il Paradiso era stato realizzato o sarebbe stato compiuto prestissimo, non appena si fosse provveduto a spaccare un altro po’ di legna grossa, facendo schizzare via un ulteriore milione di trucioli ed eliminando una volta per tutte qualche centinaio di migliaia di restanti sabotatori. Che tempi migliori erano dietro l’angolo – se non addirittura già arrivati. Perciò, in occasione del trecentosessantacinquesimo giorno, lui alzava il bicchiere e, con la piú solenne delle voci, diceva: «Brindiamo, con questo auspicio: che le cose possano smettere di migliorare!»

Certamente la Russia aveva conosciuto altri tiranni in passato; per questo sul territorio era cresciuto tanto il senso dell’ironia. «La Russia è la patria degli elefanti», come diceva il proverbio. La Russia ha inventato ogni cosa perché… beh, in primis perché è la Russia, il paese dove le illusioni sono normale amministrazione; e secondo, perché adesso era diventata la Russia sovietica, vale a dire la nazione socialmente piú all’avanguardia della storia, nella quale era naturale che si inventasse di tutto. Dunque, quando la Ford Motor Company interruppe la produzione del Modello A, le autorità sovietiche rilevarono l’intero impianto manifatturiero e, meraviglia delle meraviglie, ecco atterrare sul pianeta un autobus da venti posti o furgone leggero di progetto squisitamente sovietico! Idem dicasi per le fabbriche di trattori: una linea di produzione americana, importata dall’America e assemblata da tecnici americani, che all’improvviso sfornava macchine agricole sovietiche. O ancora: la copia di una macchina fotografica Leica che, voilà, si trasformava in una Fed, prendendo il nome dal suo fondatore Feliks Dzeržinskij: piú sovietica di cosí… Chi l’aveva detto che l’era dei miracoli apparteneva al passato? Il tutto realizzato a suon di parole dal potere di trasformazione, quello sí davvero rivoluzionario. Prendiamo ad esempio il pane francese. Come tale lo conoscevano tutti, e cosí lo chiamavano da anni. Poi un bel giorno, il pane francese sparí dai negozi. Era invece comparso il «pane di città» – identico all’altro in tutto e per tutto, ovviamente, ma assurto al rango di patriottico prodotto della megalopoli sovietica.

Quando la verità non si poté piú dire – perché farlo conduceva a morte immediata – fu necessario mascherarla. Nella musica tradizionale ebraica, la disperazione si traveste da danza. Ebbene, la maschera della verità è l’ironia. Giacché è raro che l’orecchio del tiranno sia sintonizzato su quelle frequenze. La generazione precedente – i Vecchi Bolscevichi che avevano fatto la Rivoluzione – non l’aveva capito, e in parte per questo erano periti in tanti. La sua generazione lo aveva intuito con maggior chiarezza. E dunque, il giorno dopo aver accettato di andare a New York, si dedicò alla stesura della seguente lettera:

Caro Iosif Vissarionovič,

prima di tutto mi lasci esprimere la mia sempiterna gratitudine per il colloquio che ha avuto luogo ieri. Ho ricevuto da lei un incoraggiamento enorme, stante la profonda angoscia in cui mi gettava la prospettiva del viaggio in America. Come non essere fiero della fiducia riposta in me? Pertanto farò il mio dovere. Essere il portavoce del nostro grande popolo sovietico in difesa della pace è per me un immenso onore. E la mia indisposizione non potrà ostacolare il compimento di una missione di tale portata.

Già all’atto della firma, dubitava che il Grande Condottiero e Timoniere l’avrebbe letta di persona. Forse gliene avrebbero riferito il contenuto prima che la lettera sparisse in qualche dossier d’archivio. Dove poteva giacere per anni, per generazioni forse, forse per 200 000 000 000 di anni; e allora qualcuno l’avrebbe letta domandandosi che cosa volesse dire, ammesso che volesse dire qualcosa.

In un mondo ideale, un giovane non dovrebbe essere ironico. A quell’età l’ironia ostacola la crescita, limita l’immaginazione. Meglio entrare nella vita con animo allegro e bendisposto, credendo negli altri, mostrandosi ottimisti e sinceri con tutti su ogni cosa. Solo dopo, quando si comincia a comprendere meglio la realtà e la gente, allora si può sviluppare il senso dell’ironia. Il cammino naturale dell’uomo procede dall’ottimismo al pessimismo; e il senso dell’ironia aiuta a smorzare il pessimismo eccessivo, creando equilibrio, armonia.

Purtroppo questo non era il mondo ideale, perciò l’ironia spuntava a casaccio e alla rinfusa. Nottetempo, come i funghi; rovinosamente, come un cancro.

Il sarcasmo costituiva un pericolo per chi lo utilizzava, essendo identificabile come il linguaggio del demolitore e del sabotatore. L’ironia invece – forse, talvolta, o cosí sperava – poteva permetterti di conservare qualcosa di prezioso, perfino quando il rumore del tempo si faceva abbastanza forte da mandare in frantumi i vetri delle finestre. A lui che cosa era prezioso? La musica, la famiglia, l’amore. L’amore, la famiglia, la musica. L’ordine dei fattori era soggetto a cambiamenti. E l’ironia, era in grado di proteggere la musica? Finché la musica rimaneva un linguaggio segreto che ti consentiva di far transitare messaggi al riparo da orecchie sbagliate. Ma non poteva esistere solo in forma di codice: c’erano volte in cui fremevi dalla voglia di dire le cose direttamente. Poteva proteggere i bambini, l’ironia? A dieci anni, a scuola, Maksim era stato obbligato a vilipendere suo padre in pubblico durante l’esame di musica. In circostanze simili, che potevano farsene Galja e Maksim dell’ironia?

Quanto all’amore – non il suo singhiozzo d’amore goffo, esitante, molesto, ma l’amore in genere –, beh, lui aveva sempre creduto che l’amore, in quanto forza della natura, fosse indistruttibile, e che, se minacciato, potesse essere protetto e ravvolto nella coperta dell’ironia. Ora però ne era meno convinto. La tirannia era diventata cosí esperta a distruggere che, volente o nolente, avrebbe distrutto per forza pure l’amore. La tirannia esigeva da tutti l’amore per il Partito, lo Stato, il Grande Condottiero e Timoniere, il Popolo. Ma l’amore del singolo – borghese e individualista – distraeva da simili «amori» nobili, grandi, impulsivi e ciechi. Di questi tempi inoltre, la gente era esposta al rischio costante di perdere la propria completa identità. Chi è terrorizzato quanto basta diventa una cosa diversa, piú limitata, piú elementare: un mero sistema di sopravvivenza. E dunque, quella che provava non era semplice ansia, ma spesso brutale terrore: il terrore che i suoi giorni d’amore fossero agli sgoccioli.

Quando si spacca la legna, i trucioli volano via: ecco una frase che i costruttori del socialismo amavano ripetere. Ma che succede se nel momento di deporre la scure uno si rende conto di aver ridotto l’intero deposito di legname a un ammasso di trucioli?

In pieno tempo di guerra aveva composto le Sei romanze su testi di poeti inglesi – una delle sue opere messe al bando dalla Commissione centrale per i repertori e poi restituite alla libera esecuzione da Stalin. La quinta romanza utilizzava il sonetto di Shakespeare numero 66: «Stanco di tutto questo, imploro da morte riposo…» Come ogni russo, amava Shakespeare e lo conosceva bene grazie alle traduzioni di Pasternak. Quando Pasternak leggeva in pubblico il sonetto 66, gli spettatori tenevano il fiato sospeso per i primi otto versi, in attesa del nono:

E il genio imbavagliato dall’autorità

A quel punto si univano alla recitazione, chi sottovoce, chi mormorando, i piú temerari con un fortissimo, ma tutti indistintamente, smentendo il contenuto del verso, rifiutandosi di farsi imbavagliare.

Sí, adorava Shakespeare; prima della guerra, aveva scritto le musiche per un allestimento teatrale dell’Amleto. Chi poteva dubitare che Shakespeare avesse una comprensione profonda dell’animo e della condizione umana? Esisteva forse un piú grandioso ritratto del crollo delle illusioni di quello proposto in Re Lear? Anzi, non era nemmeno proprio cosí: non si trattava di un crollo, perché il crollo comporta l’idea di un’unica grande crisi. No, alle umane illusioni succedeva piuttosto di sgretolarsi per inaridimento. Il processo era lungo, estenuante, come un mal di denti la cui infezione si scavi una via fino all’anima. Un dente però si può estrarre e tutto finisce lí. Con le illusioni è diverso, perché anche da morte continuano a marcire e puzzare dentro di noi. Impossibile sfuggirne il lezzo e il sapore. Ce le portiamo appresso sempre. O almeno era cosí per lui.

Come non amare Shakespeare? Dopotutto Shakespeare aveva amato la musica. I suoi drammi ne sono pieni, perfino le tragedie. C’è un momento in cui Lear si riprende dalla follia al suono della musica… E un altro nel Mercante di Venezia in cui Shakespeare dice che l’uomo che non ama la musica non è degno di fiducia; che sarebbe capace di compiere ogni nefandezza, compreso uccidere, compreso tradire. Dunque era naturale che i tiranni odiassero la musica, per quanto si sforzassero di fingere il contrario. Certo ancora di piú odiavano la poesia. Come avrebbe voluto essere presente a Leningrado a quella lettura pubblica di poesia durante la quale Anna Achmatova era salita sul palco e tutto il pubblico era istintivamente scattato in piedi per applaudirla. Un gesto per cui Stalin aveva domandato furioso: «Chi ha stabilito che si alzassero?» Ma ancora piú della poesia, i tiranni odiavano e temevano il teatro. Shakespeare reggeva uno specchio alla natura, e chi tollerava di vedere la propria immagine riflessa? Dunque l’Amleto fu proibito a lungo; Stalin lo detestava quasi quanto il Macbeth.

Eppure, nonostante tutto, benché ineguagliato nel tratteggiare figure di tiranni immersi in fiumi di sangue, Shakespeare restava un po’ ingenuo. Perché i suoi mostri avevano dubbi, facevano brutti sogni, provavano sensi di colpa, fitte di rimorso. Vedevano gli spiriti di coloro che avevano ucciso levarsi per ammonirli. Ma nella vita vera, in regimi di vero terrore, esiste il senso di colpa? Esistono, i brutti sogni? È una visione idealistica, figlia di un falso ottimismo, la speranza che il mondo sia come noi lo vorremmo e non come invece è. Chi spaccava la legna facendo volare via i trucioli, chi fumava Belomor dietro una scrivania della Grande casa, chi siglava gli ordini d’arresto e faceva le telefonate archiviando allo stesso tempo un dossier e una vita, oh, ben di rado faceva brutti sogni, né mai vedeva lo spirito dei morti levarsi per ammonirlo.

Avevano scritto Il’f e Petrov: «Amare il potere sovietico non basta. Occorre che l’amore sia ricambiato». E lui dal potere sovietico non sarebbe mai stato amato. Stirpe sbagliata: l’intellighenzia progressista di una città sospetta come Sankt Leninsburg. La purezza proletaria era per i sovietici non meno essenziale di quella ariana per i nazisti. Per giunta, lui manifestava la sventatezza, la stupidità di ricordare come ciò che il Partito aveva decretato ieri fosse spesso in netto contrasto con quanto sosteneva oggi. Il suo desiderio era che lo lasciassero in pace con la musica, la famiglia, gli amici: la cosa piú semplice da volere, e la piú difficile da ottenere. Perché gli ingegneri volevano sottoporlo alla stessa manutenzione riservata a tutti gli altri. Volevano che accettasse di essere «riforgiato», come un manovale ai lavori forzati sul canale del Mar Bianco. Pretendevano uno «Šostakovič ottimista». Anche se il mondo era immerso fino al collo nel sangue e nello stallatico, a te era richiesto di conservare il sorriso sulla faccia. Ma è nella natura dell’artista essere pessimista e nevrotico. Dunque, di fatto non ti volevano artista. Eppure ne avevano già a bizzeffe di artisti che artisti non erano! Come diceva Čechov: «Se ti servono un caffè, non sperare che sappia di birra».

Inoltre non disponeva di nessuna delle abilità politiche indispensabili: non era un appassionato leccapiedi, non sapeva quando complottare contro gli innocenti, né quando era il momento di tradire gli amici. Per lavori del genere ti ci voleva uno come Chrennikov. Tichon Nikolaevič Chrennikov: un compositore con l’anima del funzionario ammanicato. L’orecchio di Chrennikov per la musica era mediocre, ma quello per il potere, assoluto. Correva voce che fosse stato selezionato personalmente da Stalin, il quale aveva fiuto per quel genere di candidature. «Tra pescatori ci si riconosce da lontano», come dice il proverbio.

Chrennikov proveniva, manco a dirlo, da una famiglia di mercanti di cavalli. Considerava naturale prendere ordini – e linee guida per la composizione – da personaggi dalle orecchie d’asino. Sin dalla metà degli anni Trenta si era prodigato in attacchi contro artisti piú dotati di lui, ma quando Stalin gli affidò l’incarico di Primo Segretario dell’Unione dei compositori, nel 1948, il suo potere divenne ufficiale. Da quella posizione dichiarò guerra ai formalisti e ai déraciné cosmopoliti, utilizzando tutto un repertorio lessicale da far sanguinare le orecchie. Ci furono carriere distrutte, opere bandite, famiglie rovinate…

Ma la sua comprensione del funzionamento del potere restava ammirevole; in questo, non era secondo a nessuno. Nei negozi, al tempo, erano affissi dei cartelli che indicavano la condotta da osservare: IL CLIENTE E IL COMMESSO DEVONO COMPORTARSI IN MODO RECIPROCAMENTE CORTESE. Già, ma il commesso aveva un ruolo piú incisivo dei clienti; quelli erano tanti, e lui uno solo. Analogamente, numerosi erano i musicisti, ma uno solo il Primo Segretario. Nei riguardi dei colleghi, Chrennikov si comportava come un commesso di bottega che non avesse mai letto il cartello. Rendendo assoluto il suo misero potere: ora negando questo, ora elargendo quello. E, come ogni funzionario ammanicato che si rispetti, non dimenticava mai dove risiedesse il Potere con la P maiuscola.

Tra i compiti di Dmitrij Dmitrievič come docente al Conservatorio c’era stato anche quello di esaminare la preparazione degli allievi sull’ideologia marxista-leninista. In quelle occasioni sedeva, insieme all’esaminatore capo, sotto un enorme striscione che proclamava: L’ARTE APPARTIENE AL POPOLO – V. I. LENIN. Poiché la teoria politica non era propriamente il suo forte, rimaneva perlopiú in silenzio, finché un giorno il suo superiore non lo rimproverò accusandolo di scarsa partecipazione. Dunque, quando si presentò la studentessa successiva e l’esaminatore capo indicò con un cenno il suo assistente, questi formulò la domanda piú semplice che riuscí a concepire.

– Mi dica, a chi appartiene l’arte?

La studentessa apparve del tutto confusa. Per andarle incontro, le suggerí gentilmente:

– Vediamo, che cosa dice in proposito Lenin?

Ma la ragazza era troppo atterrita per cogliere l’indizio e, nonostante lui si slogasse il collo e rovesciasse gli occhi, non riusciva a localizzare la risposta.

A suo giudizio, l’esame era stato buono, perciò quando gli capitava di incrociare la ragazza nei corridoi o sulle scale del Conservatorio, cercava di rivolgerle un sorriso incoraggiante. Ma non essendo riuscita ad afferrare i suoi piú espliciti accenni, forse la studentessa si era convinta che quei sorrisi, non meno dei bizzarri rovesciamenti di orbite e degli scatti nervosi del capo, fossero tic facciali che l’insigne compositore non era in grado di controllare. Ad ogni buon conto, tutte le volte che la incontrava, gli echeggiava in mente la stessa domanda: «Mi dica, a chi appartiene l’arte?»

L’arte appartiene a tutti e a nessuno. L’arte appartiene a tutti i tempi e a nessun tempo in particolare. L’arte appartiene a chi la produce e a chi l’assapora. L’arte non appartiene piú al Popolo e al Partito di quanto una volta appartenesse all’aristocrazia e ai mecenati. L’arte è il mormorio della storia, udibile al di là del rumore del tempo. L’arte non esiste per sé: esiste per il pubblico. Ma quel pubblico, chi lo stabilisce? Aveva sempre pensato alla propria come una forma d’arte anti-aristocratica. Scriveva forse, come sostenevano i suoi detrattori, per un’élite borghese cosmopolita? No. Scriveva forse, come i suoi detrattori avrebbero voluto, per il minatore del Donbass sfinito dal turno di lavoro e bisognoso di un cicchetto corroborante? Nemmeno. Lui scriveva musica per tutti e per nessuno. Per chi meglio sapeva apprezzare le sue composizioni, indipendentemente dalle origini sociali. Scriveva musica per le orecchie in grado di intendere. E dunque sapeva come ogni vera definizione di arte debba essere circolare, mentre ogni definizione falsa attribuisca all’arte una funzione specifica.

Una volta l’addetto alla manovra della gru di un cantiere edile gli aveva spedito il testo di una sua composizione. La risposta di Dmitrij Dmitrievič diceva cosí: «La sua è una professione talmente nobile. Costruisce case di cui la gente ha immenso bisogno. Il mio consiglio è che lei torni a dedicarsi al suo indispensabile mestiere». Diede quella risposta non perché fosse convinto che un gruista non potesse scrivere una canzone, ma perché quel particolare aspirante compositore si era dimostrato in possesso dello stesso talento che avrebbe avuto lui se lo avessero infilato nella cabina di una gru ordinandogli di azionare le leve. E infatti sperava che se, ai tempi andati, un nobile gli avesse fatto recapitare una composizione di analogo valore, lui avrebbe avuto la forza d’animo di rispondere: «Sua Eccellenza, Ella ricopre una posizione talmente illustre e difficile: la responsabilità di mantenere da un lato la dignità del rango, e dall’altro il benessere di chi si affatica sulle Sue terre. Il mio consiglio è che Ella seguiti a dedicarsi al Suo imprescindibile compito».

Stalin adorava Beethoven. Era quanto egli stesso diceva e quanto riferivano numerosi musicisti. Stalin adorava Beethoven perché era un autentico rivoluzionario, un fuoriclasse eminente, come le montagne. Stalin adorava ogni forma di straordinaria eminenza, e per questo motivo adorava Beethoven. A lui veniva la nausea alle orecchie quando sentiva la gente dire cosí.

Ma l’amore di Stalin per Beethoven non era privo di conseguenze. Il grande tedesco, naturalmente, era vissuto in tempi borghesi, capitalisti; dunque la sua solidarietà con il proletariato, il suo desiderio di vederne i rappresentanti liberarsi dal giogo della servitú, doveva scaturire per forza da una consapevolezza politica pre-rivoluzionaria. Beethoven era stato un precursore. Ma ora che la tanto attesa Rivoluzione era una realtà, ora che sul pianeta esisteva la società politicamente piú avanzata di tutti i tempi, ora che Utopia, il Giardino dell’Eden e la Terra Promessa coesistevano in un unico sistema, in base a ogni logica non poteva non affacciarsi alla Storia un Beethoven Rosso.

Da dovunque fosse zampillata questa ridicola idea – forse, come molte altre, direttamente dalle meningi del Grande Condottiero e Timoniere –, il fatto è che, una volta articolata, doveva trovare una realizzazione. Dove stava il Beethoven Rosso? Ed ecco scattare una caccia all’uomo di proporzioni nazionali e senza precedenti dai giorni di quella attuata da Erode per stanare il Bambin Gesú. Dopotutto, se la Russia era la patria degli elefanti, non si vedeva perché non avrebbe potuto esserlo anche di un Beethoven Rosso.

Stalin assicurava che tutti gli uomini erano viti e rotelle nel meccanismo statale. Ma il Beethoven Rosso sarebbe stato un ingranaggio possente, difficile da tenere nascosto. Va da sé che dovesse essere un membro del Partito e di stirpe rigorosamente proletaria. Condizioni che fortunatamente escludevano Dmitrij Dmitrievič Šostakovič. Indicando invece come temporaneo candidato Aleksandr Davidenko, che era stato uno dei capi dell’Associazione russa dei musicisti proletari. La sua canzone Ci volevano sconfitti, composta per celebrare la trionfale vittoria dell’Armata Rossa sull’esercito cinese nel 1929, era stata perfino piú popolare della Canzone del contropiano. Eseguita da solisti come da cori affollati, da pianisti, violinisti e quartetti d’archi, aveva emozionato ed entusiasmato la nazione per un intero decennio. C’era stato un momento in cui pareva addirittura destinata a soppiantare ogni altra musica in circolazione.

Le credenziali di Davidenko erano impeccabili. Insegnante presso un orfanotrofio moscovita, aveva sovrinteso alle attività operistiche dell’Unione degli operai calzaturieri, dell’Unione dei lavoratori del tessile e perfino della Flotta del Mar Nero, a Sebastopoli. Aveva composto un’opera schiettamente proletaria in tributo alla rivoluzione del 1905. Eppure, eppure… con tutti questi titoli di prestigio restava ostinatamente noto come l’autore di Ci volevano sconfitti. Componimento adeguatamente melodico, senza dubbio, e affatto scevro da qualsivoglia tentazione formalista. Purtroppo tuttavia Davidenko non ce l’aveva fatta ad andare oltre, producendo l’unico grande capolavoro e guadagnandosi il titolo che Stalin non vedeva l’ora di assegnare. Il che del resto poteva essere stata la sua fortuna. Chi garantiva che, una volta incoronato, il Beethoven Rosso non potesse fare la stessa fine del Napoleone Rosso? O quella di Boris Kornilov, autore del testo del Contropiano? Tutte le amatissime parole che riversò nella Canzone, e tutte le gole da cui erano fuoriuscite, non bastarono a evitargli di essere arrestato nel 1937 e, come piaceva dire, purgato nel 1938.

La ricerca del Beethoven Rosso avrebbe potuto ascriversi al genere comico; non fosse che nulla intorno a Stalin ebbe mai a che vedere con la commedia. Il Grande Condottiero e Timoniere poteva serenamente decretare che il mancato palesarsi del Beethoven Rosso sulla scena musicale sovietica non aveva niente a che vedere con eventuali difetti del sistema, e dipendeva invece interamente dalle attività di disfattisti e sabotatori. E chi poteva aver interesse a sabotare la ricerca del Beethoven Rosso? Ma i musicologi formalisti, naturalmente! Bastava concedere il tempo necessario agli agenti dell’Nkvd e di sicuro la congiura dei musicologi sarebbe stata sventata. E anche in quel caso ci sarebbe stato ben poco da ridere.

Secondo quanto riferito da Il’f e Petrov, in America non esistevano reati politici, ma soltanto crimini; e Al Capone, durante il periodo trascorso in cella ad Alcatraz, aveva scritto articoli antisovietici per la Hearst Press. Fra le altre curiosità segnalate c’era inoltre che gli americani avevano «abilità gastronomiche da cavernicoli e un dinamismo sessuale ripetitivo e non meno primordiale». Su quest’ultimo punto non aveva modo di giudicare, sebbene durante un intervallo a concerto gli fosse capitato un incidente bizzarro con una signora. Si trovava in una zona della sala transennata da corde, quando udí una voce femminile chiamare con insistenza il suo nome. Supponendo che volesse parlare della sua musica, fece cenno che la lasciassero passare. La donna gli si piazzò davanti e, in tono di schietta e vivace cordialità, disse:

– Salve. Sa che somiglia moltissimo a mio cugino?

La dichiarazione faceva pensare alla parola d’ordine di un primo contatto fra spie, e perciò lo mise sulla difensiva. Domandò se il cugino fosse per caso russo.

– No, – rispose lei. – Americano al cento per cento. Anzi, al centodieci per cento.

Lui attese un accenno alla sua musica – o a quella del concerto al quale entrambi avevano assistito – ma la signora aveva pronunciato il suo messaggio, e con un secondo schietto e vivace sorriso se ne andò. Lo lasciò sconcertato. Dunque somigliava a un altro. Oppure un altro somigliava a lui. Voleva dire qualcosa, o assolutamente nulla?

Quando aveva accettato di prendere parte al Congresso culturale e scientifico per la pace nel mondo, sapeva bene di non avere altra scelta. Sospettava anche che potessero voler fare di lui il pubblico portavoce dei valori sovietici. Si era aspettato accoglienza benevola da parte di alcuni americani, e ostile da parte di altri. Lo avevano informato che, dopo la conferenza, il viaggio sarebbe proseguito fuori New York per consentirgli di presenziare a manifestazioni per la pace a Newark e Baltimora; inoltre avrebbe parlato e suonato alle università di Yale e di Harvard. Non lo sorprese scoprire che alcuni di questi inviti erano già stati annullati prima dell’atterraggio al LaGuardia; né lo deluse che il Dipartimento di stato autorizzasse il loro rientro. Tutto ciò era prevedibile. Ciò a cui non si era preparato era che New York potesse rivelarsi il luogo deputato alla sua piú assoluta umiliazione e al disonore morale.

L’anno prima, una giovane impiegata del consolato sovietico si era gettata da una finestra in un gesto di estrema richiesta di asilo politico. Dunque, nel corso della conferenza, ogni giorno, un tale sfilava avanti e indietro all’ingresso del Waldorf-Astoria mostrando un cartello che diceva: ŠOSTAKOVIČ! SALTA ANCHE TU! Qualcuno era arrivato a proporre di installare delle reti intorno all’edificio che alloggiava la delegazione russa, cosí da permettere a chi si fosse voluto lanciare di atterrare davvero nel mondo libero. Entro la fine della conferenza, la tentazione di fare il salto l’aveva sentita anche lui, ma unita alla consapevolezza che, in caso, avrebbe fatto molta attenzione a evitare ogni rete.

Ma no, non era del tutto vero; non era onesto dire cosí. Non avrebbe mai mirato al lastrico, anzi, non sarebbe mai saltato. Quante volte negli anni aveva minacciato il suicidio? Un’infinità. E quante volte ci aveva davvero provato? Mai. Non che gliene mancasse l’intenzione. Sul momento si sentiva determinato a suicidarsi, ammesso che si possa parlare di autentica risolutezza suicida senza passare mai all’atto. In un paio di occasioni si era perfino comprato i farmaci giusti, ma non era mai riuscito a tenerselo per sé, il che aveva comportato ore di discussioni dolorose e, infine, la confisca delle pasticche. Aveva minacciato sua madre di suicidio, e Tanja e poi Nita. Slanci perfettamente sinceri, ma non per questo meno immaturi.

Di quelle minacce Tanja aveva riso, mentre Nita e sua madre le avevano prese sul serio. Al ritorno dall’umiliazione subita al congresso dei compositori, era stata Nita a occuparsi di lui. Ma non era solo alla forza morale della moglie che doveva la propria salvezza, bensí per una volta anche alla consapevolezza di quanto stava davvero facendo. Non sarebbero state Tanja, Nita o sua madre le destinatarie del gesto, questa volta stava minacciando il Potere. Diceva all’Unione dei compositori, a tutti i gatti che si affilavano le unghie sulla sua anima, a Tichon Nikolaevič Chrennikov e a Stalin stesso: Guardate a cosa mi avete ridotto; presto la mia morte macchierà di sangue le vostre mani e le vostre coscienze. Ma si era reso conto che la minaccia era vuota, e che la risposta del Potere sarebbe stata quanto di piú prevedibile: Perfetto, accomodati, e subito dopo noi racconteremo al mondo la tua storia. La storia del tuo pesantissimo coinvolgimento nel complotto assassino di Tuchačevskij, dei decenni di trame per danneggiare la musica sovietica, del tentativo di corrompere giovani compositori sovietici e di reinsediare il capitalismo in Urss, del tuo ruolo di guida all’interno della congiura dei musicologi che presto sarà resa nota al mondo. Tutte cose confermate del resto dal tuo messaggio di addio. Ecco perché non poteva uccidersi: perché gli avrebbero rubato la sua storia e l’avrebbero riscritta. E a lui, in un modo disperato e forse nevrotico, era indispensabile credere di avere voce in capitolo in quella vita, in quella storia.

A provocare il suo disonore era stato un certo Nabokov. Nicolas Nabokov. Compositore a sua volta, di modeste capacità, aveva lasciato la Russia negli anni Trenta per stabilirsi in America. A detta di Machiavelli, degli esuli è opportuno diffidare sempre. Questo in particolare era probabilmente un collaboratore della Cia. Il che non migliorava di certo le cose.

Al primo incontro pubblico tenutosi al Waldorf-Astoria, Nabokov sedeva in prima fila proprio davanti a lui, talmente vicino che le loro ginocchia quasi si sfioravano. Con insolente cordialità, il russo in giacca americana di tweed di buon taglio e capelli impomatati gli fece notare che la sala conferenze in cui si trovavano si chiamava Perroquet Room. Per aggiungere subito che Perroquet vuol dire Pappagallo. Tradusse il termine in russo, e si esibí in un sorrisetto beffardo come se l’ironia dovesse essere palese a tutti. La facilità con cui aveva trovato posto in prima fila lasciava supporre che agisse in effetti al soldo delle autorità americane. Il che aveva reso Dmitrij Dmitrievič ancor piú nervoso di quanto già non fosse. Non riusciva ad accendersi una sigaretta senza spezzare il fiammifero e, una volta accesa, per distrazione la lasciava a consumarsi fino a spegnersi da sola. Ogni volta, l’uomo in tweed si precipitava a soccorrerlo con un accendino, che gli faceva scattare tranquillamente sotto il naso come a dire: Salta Anche Tu, Šostakovič, e ti sarai guadagnato un accendino lucido e bello come il mio.

Chiunque fosse dotato di una minima cognizione politica avrebbe capito che i discorsi che tenne in pubblico non li aveva scritti lui, tanto quello breve del venerdí quanto quello lunghissimo del sabato. Gli vennero consegnati in anticipo con l’ordine di prepararsi a pronunciarli. Va da sé che lui non li preparò. Se avessero dovuto riprenderlo, avrebbe fatto notare che era un compositore e non un conferenziere. Il discorso del venerdí lo lesse in un rapido farfugliamento monocorde che accresceva l’impressione della sua totale estraneità con le parole del testo. Ignorò la punteggiatura come se non esistesse e non osservò mai pause a effetto, o in attesa di una reazione. I suoi modi non facevano che ripetere: tutto questo non ha assolutamente nulla a che vedere con me. E mentre il traduttore procedeva nella lettura della versione inglese, lui evitò lo sguardo di Mr Nabokov, e non si accese mai una sigaretta per timore di fallire nell’intento.

Il discorso dell’indomani era diverso. Ne sentiva la lunghezza dal peso nelle mani e dunque, senza avvisare chi si preoccupava della sua sorte, ne lesse soltanto la prima pagina prima di risedersi e lasciare il testo completo alla voce del traduttore. Durante la lettura della versione inglese, seguí sull’originale russo, curioso di scoprire le proprie trite opinioni sulla musica, la pace e i pericoli per l’una e l’altra. All’inizio attaccava i nemici della convivenza pacifica e le attività bellicose di un gruppo di militaristi e incitatori all’odio, decisi a scatenare un terzo conflitto mondiale. Nello specifico accusava il governo americano di costruire basi militari a migliaia di miglia dal paese, di calpestare volutamente accordi e trattati internazionali, e di lavorare alla messa a punto di nuove armi di distruzione di massa. Il paragrafo, traboccante inqualificabile villania, ricevette un gran giro di applausi.

Piú avanti spiegava paternalisticamente agli americani perché il sistema musicale sovietico fosse superiore a qualunque altro sulla faccia della terra. L’enorme quantità di orchestre, bande militari, gruppi folkloristici e cori erano prova dell’uso attivo della musica nella promozione del progresso sociale. Ad esempio, i popoli dell’Asia Centrale Sovietica e dell’Estremo Oriente Sovietico si erano, in anni recenti, liberati dalle ultime vestigia della condizione coloniale alla quale le loro culture erano state sottoposte nel periodo zarista. Uzbechi e tagichi, assieme ad altre popolazioni alla remota periferia dell’Unione Sovietica, potevano vantare un livello e una qualità nello sviluppo musicale senza precedenti. A quel punto, si prendeva espressamente la pena di attaccare Mr Hanson Baldwin, commentatore militare del «New York Times», per aver scritto parole sprezzanti sulle popolazioni dell’Asia sovietica in un recente articolo che lui, ovviamente, non aveva mai letto e di cui non aveva nemmeno sentito parlare.

Tali eventi, proseguiva, avevano senz’altro prodotto un maggiore avvicinamento e una piú profonda condivisione tra il Popolo, il Partito e i compositori sovietici. Se è vero che il compositore aveva il compito di guidare e ispirare il Popolo, è ugualmente vero che il Popolo, attraverso il Partito, doveva fare altrettanto. Esisteva uno spirito critico energico e costruttivo capace di mettere il compositore in guardia da eventuali scivoloni nel culto abietto della personalità, da arroganti individualismi, formalismi, cosmopolitismi; dal rischio, in breve, di perdere via via contatto col Popolo. Lui stesso non era immune da tali colpe. Si era allontanato dal sentiero della verità, dai grandi temi e dalle immagini di una contemporaneità adatta al compositore sovietico. Aveva perduto il contatto con le masse, cercando di compiacere una ristretta fascia di sofisticati musicisti. Il Popolo tuttavia non poteva restare indifferente a simili devianze, e dunque gli aveva riservato un severo processo pubblico che lo aveva riportato sulla retta via. Si era macchiato di errori per i quali aveva chiesto e chiedeva ora di essere perdonato. Ripromettendosi di fare meglio in futuro.

E fin lí, tutte banalità, o cosí almeno si augurava suonassero a orecchie americane. Giusto l’ennesima necessaria ammissione di colpa, seppure in ambiente esotico. Poi però l’occhio gli corse avanti e la mente si raggelò. Aveva scorso nel testo il nome del piú grande compositore del secolo, verso il quale avanzava a passo di marcia la voce dall’accento americano. Prima veniva la generale condanna di tutti i musicisti che credevano nella teoria dell’arte per l’arte, anziché in quella dell’arte per le masse; una tendenza che aveva portato alle ben note perversioni in campo musicale. Esempio eminente di tale perversione, si sentí dire, era l’opera di Igor’ Stravinskij, il quale aveva tradito la sua madrepatria e si era allontanato dalla sua gente per unirsi a una conventicola di reazionari musicisti moderni. In esilio, il compositore aveva manifestato la propria aridità morale, come ampiamente dimostravano i suoi scritti di stampo nichilistico nei quali egli liquidava la massa definendola «un’entità quantitativa che non ha mai interferito con le mie valutazioni» e si gloriava senza pudore del fatto che «la mia musica non esprime alcunché di realistico». In tal modo confermando la specifica insulsaggine e assenza di contenuto delle sue creazioni.

Il presunto autore di quelle parole sedeva immobile e impassibile, mentre dentro si sentiva travolto da ondate di vergogna e disistima. Come aveva fatto a non prevedere la situazione? Avrebbe potuto cambiare qualcosa, apportare alcune modifiche, anche soltanto nel testo russo, mentre lo andava leggendo. Si era stolidamente convinto che l’ostentata indifferenza alle sue stesse parole sarebbe passata per neutralità sul piano morale. Un’idea stupida quanto ingenua. Era come inebetito, a stento in grado di concentrarsi sulla sua voce americana che intanto richiamava l’attenzione sul caso Prokof’ev. Anche Sergej Sergeevič si era di recente allontanato dalla strada maestra del Partito, e correva il fiero rischio di cedere al formalismo se non si atteneva alle direttive del Comitato centrale. Ma laddove Stravinskij era una causa persa, per Prokof’ev, a condizione che stesse in guardia, c’era ancora speranza che potesse assurgere a grande successo creativo, recuperando la retta via.

Il discorso proseguiva infine con una ricapitolazione generale in cui le ardenti speranze per la pace del mondo si mescolavano a un ignorante moralismo sul fronte musicale, il che gli guadagnò un altro scrosciante applauso. In pratica, un’ovazione sovietica. Ci furono alcune domande innocue da parte del pubblico, che affrontò con l’aiuto dell’interprete e di un affabile suggeritore materializzatosi accanto al suo orecchio. Ma a quel punto vide la figura in giacca di tweed alzarsi in piedi. Non piú in prima fila, bensí in una posizione dalla quale il pubblico potesse vedere e ascoltare l’intervista che seguí.

Mr Nicolas Nabokov esordí spiegando, con soave aggressività, che capiva perfettamente come il ruolo ufficiale del compositore in quella sede comportasse che le opinioni espresse nel suo discorso fossero quelle di un portavoce del regime di Stalin. A lui tuttavia interessava rivolgere alcune domande non al delegato ma al compositore, da collega a collega, in sostanza.

– Lei sottoscrive la totale biliosa condanna della musica occidentale che risulta quotidianamente espressa dagli organi di stampa come dal governo sovietico?

Percepiva la presenza del suggeritore accanto all’orecchio, ma non ebbe bisogno del suo aiuto. Sapeva che cosa rispondere perché non aveva alternativa. Era stato condotto attraverso il labirinto fino alla cella finale, dove non c’era ricompensa in forma di cibo, ma solo una botola sotto le zampe. E dunque, mormorò con voce monotona:

– Sí, personalmente sottoscrivo tali opinioni.

– Lei personalmente sottoscrive la messa al bando della musica occidentale nelle sale da concerto sovietiche?

La domanda gli concedeva un minimo spazio in piú di manovra, e rispose:

– Se la musica è buona, viene eseguita.

– Lei personalmente sottoscrive la messa al bando dalle sale da concerto sovietiche delle opere di Hindemith, Schönberg e Stravinskij?

Ora sentí il sudore cominciare a colargli dietro le orecchie. Nella pausa che si concesse ascoltando l’interprete, ripensò per un attimo al Maresciallo con la penna stretta nel pugno.

– Sí, personalmente sottoscrivo tali misure.

– E personalmente sottoscrive le opinioni espresse nel suo discorso di oggi a proposito della musica di Stravinskij?

– Sí, personalmente sottoscrivo tali opinioni.

– E personalmente sottoscrive le opinioni espresse dal Ministro Ždanov a proposito della musica sua e di alcuni altri compositori?

Ždanov, che lo aveva perseguitato dal 1936, che lo aveva messo al bando e irriso e minacciato, che aveva paragonato la sua musica al baccano di un martello pneumatico e di una camera a gas su ruote.

– Sí, personalmente sottoscrivo le opinioni espresse dal Presidente Ždanov.

– La ringrazio, – disse Nabokov, guardandosi intorno come se si aspettasse un applauso. – Adesso ci è tutto perfettamente chiaro.

Girava una storia su Ždanov, soprattutto negli ambienti di Mosca e Leningrado: la storia della lezione di musica. A Gogol’ sarebbe piaciuta; anzi, avrebbe perfino potuto scriverla. Nel ’48, dopo il decreto del Comitato centrale, Ždanov aveva dato disposizioni affinché i massimi compositori del paese si riunissero presso il suo ministero. Secondo alcune versioni, si era ritrovato solo con Prokof’ev; secondo altre, era invece presente l’intera masnada di malfattori e canaglie. I convenuti vennero introdotti in un salone; su una predella stavano un podio per oratori e, poco lontano, un pianoforte. Nessun rinfresco: niente vodka a mitigare le fitte di terrore, niente tartine a placare i crampi di stomaco. Furono tenuti in attesa per qualche tempo. Finalmente comparve Ždanov con un paio di giovani funzionari. Ždanov raggiunse il podio e contemplò il mucchio sottostante di disfattisti e sabotatori della musica sovietica. Li intrattenne con l’ennesimo discorso sulla loro insensatezza, corruzione e fatuità. Disse chiaro che, se non si fossero ravveduti, il loro scherzo all’insegna di ingegnosi espedienti sarebbe potuto finire molto male. Dopodiché, quando ormai era riuscito nell’intento di farli cacare sotto, si produsse in un coup de théâtre. Sedette al piano e dispensò loro una lectio magistralis. Questa era musica decadente, formalista, disse picchiando a caso sui tasti, in un baccano di strepiti e schiamazzi. Questa invece – e intanto era passato a una svenevole melodia neoromantica, di quelle che in un film avrebbero potuto accompagnare la scena in cui la classica ragazza altezzosa è finalmente costretta a confessare il proprio amore –, questa era l’elegante musica realistica del tipo che il Popolo desiderava e il Partito esigeva. Si alzò, fece un mezzo inchino scherzoso, e congedò i presenti con un gesto della mano. I compositori della nazione erano usciti alla spicciolata, chi promettendo di fare meglio, chi a testa bassa per la vergogna.

Non era mai successo, ovviamente. Ždanov li aveva indottrinati da far sanguinare le orecchie, ma era troppo intelligente per permettere che le sue dita grassocce dissacrassero tanto una tastiera. Cionondimeno, la storia guadagnò credibilità a ogni ripetizione, finché qualcuno dei compositori in teoria presenti al fatto non arrivò a confermare che, sí, le cose erano andate esattamente in quel modo. D’altronde una parte di costui avrebbe voluto che quel colloquio in cui il Potere si era arrogato il diritto di utilizzare l’arma dei propri avversari avesse avuto luogo davvero. In ogni caso, non ci mise molto a finire nel canzoniere dei miti attendibili che circolavano al tempo. Quel che importava non era tanto se una certa storia era del tutto vera, quanto ciò che la storia significava. Senza contare che la veridicità di un racconto aumentava di pari passo col suo diffondersi.

Lui e Prokof’ev erano stati attaccati, umiliati, estromessi e reintegrati insieme. Eppure, a suo giudizio, Sergej Sergeevič non aveva mai fino in fondo capito che cosa stava accadendo. Non che fosse un codardo, nella vita come nella musica, ma leggeva ogni cosa – perfino i folli attacchi mortali di Ždanov all’intellighenzia – come problemi personali per i quali era sempre possibile rimediare una soluzione. Da una parte c’era la musica, e il suo particolare talento d’artista; dall’altra il Potere, la burocrazia, e le teorie politico-musicologiche. Era solo questione di scovare un accordo che gli permettesse di continuare a scrivere musica senza tradire se stesso. Oppure, per dirla in altre parole: Prokof’ev non riusciva assolutamente a cogliere le proporzioni tragiche di quanto lo circondava.

Un altro aspetto positivo del viaggio a New York: il frac era stato un successo. Gli andava a pennello.

Mentre l’aereo iniziava la discesa su Reykjavík, si chiese se non fosse il caso di chiamare l’hostess e farsi portare un inalatore di benzedrina. A quel punto, che differenza poteva mai fare?

Non era del tutto escluso, si diceva, che Nabokov, seguendo un percorso tortuoso, volesse mostrargli solidarietà per la sua spiacevole situazione e cercare di illustrare agli altri delegati la vera natura di quella pubblica mascherata. In tal caso tuttavia poteva trattarsi soltanto di un burattino prezzolato o di un politicante imbecille. Allo scopo di dimostrare la mancanza di libertà individuale sotto il sole della costituzione staliniana, era lieto di sacrificare la vita di un individuo. Perché era questo che stava facendo: non ti va di saltare dalla finestra? Allora che ne diresti di infilare il collo nel cappio che ti ho preparato? Perché non dire la verità e poi morire?

Uno dei dimostranti all’ingresso del Waldorf-Astoria reggeva un cartello con su scritto: NOI TI CAPIAMO, ŠOSTAKOVIČ! Quanto poco capivano invece, perfino quelli che, come Nabokov, avevano conosciuto seppur brevemente il potere sovietico. E con quanto compiacimento sarebbero tornati alle loro belle case americane, lieti di poter vantare al proprio attivo una buona giornata di lavoro al servizio di virtú, libertà e pace nel mondo. Non avevano idea, né immaginazione, questi impavidi filantropi occidentali. Arrivavano in Russia in zelanti drappelli armati di voucher per pranzi, cene e stanze d’albergo; ciascuno di loro risultava ufficialmente approvato dalle autorità sovietiche; ciascuno deciso a incontrare dei «veri russi» per scoprire «come stavano davvero» e «in che cosa davvero credevano». Il che naturalmente era l’ultima cosa che avrebbero sentito, perché non occorreva essere paranoidi per sapere che ogni gruppo avrebbe contenuto un informatore, senza considerare che anche le guide avrebbero debitamente fatto rapporto sul loro conto. Una di queste comitive ebbe un incontro con Anna Achmatova e Michail Zoščenko. Ecco un altro dei trucchi di Stalin. Avete sentito dire che certi artisti russi sono perseguitati? Niente affatto, è solo propaganda dei vostri governi. Volevate incontrare Achmatova e Zoščenko? Perfetto, eccoli qua, chiedete loro quel che volete sapere.

Fu cosí che il gruppo di filantropi occidentali, già saldo nel proprio disarmante entusiasmo per Stalin, non seppe farsi venire in mente altro da domandare ad Anna Achmatova se non quale fosse la sua opinione riguardo alle accuse espresse dal Presidente Ždanov e dal Comitato centrale contro di lei. Ždanov aveva dichiarato che Achmatova avvelenava la coscienza della gioventú sovietica con lo spirito marcio e putrescente della sua poesia. Anna Achmatova si alzò in piedi e rispose che reputava tanto il discorso del Presidente Ždanov quanto la risoluzione del Comitato centrale assolutamente impeccabili. Dopodiché gli impegnati visitatori lasciarono la sala stringendo fra le mani i loro buoni pasto e ripetendosi l’un l’altro che la visione del mondo occidentale sull’Unione Sovietica era soltanto una malevola fantasia; che non solo in Russia gli artisti erano trattati bene, ma che avevano addirittura la possibilità di intrattenere costruttivi scambi di opinioni critiche con i massimi rappresentanti del Potere. Il che non faceva che confermare quanto l’arte lí fosse piú apprezzata che nelle loro patrie decadenti.

Ma a dargli il voltastomaco ancora di piú erano i famosi filantropi occidentali che venivano in Russia per raccontare a chi ci viveva che quello era il paradiso. Malraux, che tessé le lodi del canale del Mar Bianco senza nemmeno accennare al fatto che i suoi costruttori venivano sfiniti a morte. Feuchtwanger, che si profuse in elogi per Stalin, sostenendo di «comprendere» come i processi farsa costituissero un passaggio necessario sul cammino della democrazia. Il cantante Robeson, col suo fragoroso plauso alle esecuzioni politiche. Romain Rolland e George Bernard Shaw, che lo nauseavano ancora di piú perché avevano il fegato di apprezzare la sua musica senza preoccuparsi del trattamento che il Potere riservava a lui e ad altri artisti. Rolland, si era rifiutato di incontrarlo dandosi malato. Ma dei due il peggiore era Shaw. La fame in Russia?, aveva chiesto in tono retorico. Stupidaggini, a me non è mancato niente, come in qualunque altro paese del mondo. Ed era stato ancora lui a dire: «Non crediate di spaventarmi con la parola “dittatore”». Insomma, da quel babbeo sprovveduto che era, stare gomito a gomito con Stalin non gli era bastato a capire alcunché. E d’altronde perché mai avrebbe dovuto spaventarlo la parola «dittatore»? In Inghilterra non ne avevano uno dai tempi di Cromwell. Lui aveva ricevuto istruzioni di mandare a Shaw la partitura della sua Settima sinfonia. Alla firma sull’intestazione avrebbe dovuto affiancare anche il numero dei contadini morti di fame mentre il drammaturgo si abbuffava a Mosca.

Poi c’erano quelli che capivano un po’ meglio e ti appoggiavano, ma allo stesso tempo si dicevano delusi dal tuo atteggiamento. A costoro non era dato di afferrare un fatto unico e semplice, e cioè che in Unione Sovietica era impossibile dire la verità e sopravvivere. Questa era gente che pensava di sapere come funziona il Potere ma desiderava che tu lo combattessi come era convinto che avrebbe fatto ognuno di loro al tuo posto. In altre parole, gente che voleva il tuo sangue. Che aveva bisogno di martiri per provare la ferocia del regime. Peccato che il martire designato fossi tu e non loro. E quanti martiri ci sarebbero voluti per provare che il regime era veramente, mostruosamente, rapacemente criminale? Di piú, sempre di piú. L’artista doveva farsi gladiatore, lottare in pubblico contro bestie feroci, versare il proprio sangue nell’arena. Ecco che cosa voleva, quella gente: «Morte totale, sul serio», secondo le parole di Pasternak. Ebbene, personalmente avrebbe cercato di deludere tali idealisti il piú a lungo possibile.

Quello che non vedevano i sedicenti amici era la loro stessa somiglianza col Potere: per quanto uno fosse disposto a dare, volevano di piú.

Da lui tutti si erano sempre aspettati piú di quanto fosse in condizioni di dare. Mentre lui dal canto suo avrebbe voluto dare solo musica.

Ah, se le cose potessero essere cosí semplici.

Nelle conversazioni immaginarie che talvolta intratteneva con tali sostenitori delusi, esordiva spiegando un fatto modesto, elementare, di cui erano quasi certamente all’oscuro: che in Unione Sovietica non potevi acquistare carta da musica se non eri un membro dell’Unione dei compositori. Ne erano al corrente? Ovviamente no. Ma, Dmitrij Dmitrievič, avrebbero senz’altro replicato, uno può sempre comprare fogli bianchi e, con righello e matita, farsi la propria carta da musica, no? Non vorrà dire che è cosí facile distoglierla dalla sua arte…

D’accordo, avrebbe ribattuto lui, proviamo allora a prenderla per l’altro verso. Se ti dichiarano nemico dello stato, come era capitato a lui una volta, l’accusa appanna e contagia anche chi ti sta intorno. Famigliari e amici, naturalmente. Ma anche il direttore d’orchestra che esegue, o ha eseguito o suggerito di eseguire un tuo brano; anche i membri di un quartetto d’archi; la sala da concerto, per quanto di modeste proporzioni, che ospita un tuo lavoro; il pubblico stesso. Quante volte, nel corso della sua carriera, gli era successo che direttori e solisti all’improvviso e all’ultimo momento rinunciassero all’incarico? In certi casi per innata paura o comprensibile prudenza, in altri su consiglio del Potere. Chiunque, da Stalin fino a Chrennikov, aveva facoltà di vietare l’esecuzione della sua musica su tutto il territorio nazionale e a tempo indeterminato. Avevano già soffocato la sua carriera di compositore d’opera. All’inizio erano in molti a credere, lui compreso, che fosse proprio la lirica il genere nel quale avrebbe eccelso. Ma dacché la Lady Macbeth del distretto di Mcensk era stata assassinata, non aveva piú prodotto nuove opere, né concluso quelle già iniziate.

Ma, Dmitrij Dmitrievič, potrebbe sempre comporre di nascosto in casa, e far circolare la sua musica, farla eseguire tra amici, farla arrivare clandestinamente in Occidente come i manoscritti di poeti e romanzieri, no? Sí, grazie tante, splendida trovata: un suo brano inedito, proibito in Russia ed eseguito in Occidente. Avevano la piú pallida idea della rapidità con cui un gesto simile avrebbe fatto di lui un bersaglio politico? Sarebbe stata la prova incontestabile che stava cercando di riportare il sistema capitalistico in Unione Sovietica. Ma non le è impedito comporre musica, giusto? Sí, poteva ancora comporre musica mai eseguita e ineseguibile. Si dà il caso però che la musica nasca per essere ascoltata nel tempo in cui è scritta. La musica non è mica come le uova centenarie cinesi: non migliora stando sepolta anni e anni.

Suvvia, Dmitrij Dmitrievič, non sia pessimista. La musica è immortale, durerà per sempre e non cesserà di essere indispensabile, la musica è in grado di dire ogni cosa, la musica… e cosí via. Lui si copriva le orecchie mentre quelli gli illustravano la natura della sua stessa arte. Tanto di cappello al loro idealismo. E sí, la musica in effetti sarà anche immortale ma, ahimè, i musicisti non lo sono. Ridurli al silenzio non è complicato, e ancor meno difficile eliminarli. Quanto poi all’accusa di pessimismo, non era la prima volta che gliela rivolgevano. Ed ecco che quelli protestavano: Ma no, no, lei non capisce, noi vogliamo solo aiutarla. E cosí, alla visita successiva se ne arrivavano dai loro paesi ricchi e sicuri stracarichi di carta da musica.

In tempo di guerra, viaggiando tra Kujbyšev e Mosca a bordo di treni lenti e infestati dal tifo, aveva l’abitudine di portare al collo e ai polsi amuleti d’aglio: lo avevano aiutato a sopravvivere. Ora però avrebbe dovuto tenerseli sempre addosso, e non contro il tifo, bensí contro il Potere, i nemici, gli ipocriti e perfino contro i tanto bene intenzionati amici.

Ammirava coloro che avevano il coraggio di dire la verità al Potere. Li ammirava per l’audacia e l’integrità morale. E talvolta li invidiava, ma il sentimento era complesso, perché parte di ciò che invidiava era la loro morte, il loro essere stati graziati dal tormento della vita. Mentre aspettava che le porte dell’ascensore si aprissero al quinto piano di via Bol’šaja Puškarskaja, il terrore si mescolava al fremente desiderio di essere portato via. Aveva provato anche lui la tentazione di un coraggio provvisorio.

Solo che quegli eroi, quei martiri la cui morte era spesso fonte di una duplice soddisfazione (per il tiranno che l’aveva ordinata, e per le nazioni che stavano a guardare con il desiderio di mostrarsi solidali ma anche con la presunzione di sentirsi superiori), non morivano da soli. Molti intorno a loro sarebbero caduti in conseguenza del loro eroismo. Ecco perché non era facile, anche quando era chiaro.

D’altro canto, la ferrea logica del sistema funzionava anche in senso inverso. Salvando te stesso, potevi salvare anche chi ti stava intorno, le persone che amavi. E poiché avresti fatto qualsiasi cosa al mondo pur di salvare chi amavi, facevi qualsiasi cosa al mondo per salvare te stesso. E poiché la scelta non esisteva, non c’era neppure speranza di evitare l’abiezione morale.

Si era trattato di un tradimento. Aveva tradito Stravinskij e, con lui, la musica. In seguito confidò a Mravinskij che quello era stato il momento peggiore di tutta la sua vita.

Quando raggiunsero l’Islanda, l’aereo ebbe un guasto e dovettero aspettare due giorni il pezzo di ricambio. A quel punto il maltempo impedí lo scalo a Francoforte e furono dirottati a Stoccolma. I musicisti svedesi furono entusiasti dell’arrivo inatteso del loro insigne collega. Tuttavia, quando gli chiesero di fare i nomi dei suoi compositori svedesi preferiti, si sentí come un bimbetto in calzoni corti, o come quella studentessa che non sapeva a chi appartenesse l’arte. Stava per nominare Svendsen ma si ricordò che Svendsen era norvegese. Gli svedesi comunque erano gente troppo civile per aversene a male, e l’indomani trovò nella sua stanza d’albergo un grosso pacco di dischi di compositori locali.

Non molto tempo dopo il ritorno a Mosca, sulla rivista «Novyj Mir» comparve, a suo nome, un articolo. Curioso di scoprire le sue presunte parole, lesse dell’enorme successo della conferenza, e della furibonda decisione del Dipartimento di stato di abbreviare il soggiorno della delegazione sovietica. «Durante il viaggio di ritorno ho molto riflettuto su questo fatto, – lesse di aver scritto. – Certo, i politici di Washington temono la nostra letteratura, la nostra musica, i nostri discorsi sulla pace, e li temono perché la verità in ogni forma ostacola le loro trame diversive contro la pace».

«Vivere non è una passeggiata per i campi»: questo era anche il verso finale di una lirica di Pasternak su Amleto. Preceduto da un altro che diceva: «Sono rimasto solo: tutto intorno a me annega nella menzogna».

Sapeva solo che quella era la volta peggiore di tutte.

La peggiore, non necessariamente la piú pericolosa. Perché non necessariamente la piú pericolosa è quella in cui si è esposti al massimo pericolo.

Ecco una verità che in passato gli era sfuggita.

Seduto nell’auto con chauffeur, osservava il paesaggio allontanarsi a scossoni alle sue spalle. E intanto si faceva una domanda. Questa:

Lenin trovava la musica deprimente.

Stalin era convinto di capirla e di saperla apprezzare.

Chruščëv la disprezzava.

Che cosa era peggio per un compositore?

Ci sono domande per le quali non esiste risposta. E comunque, la domanda si dissolve quando chi la formula muore. Solo la fossa guarisce la gobba, amava ripetere Chruščëv. Lui gobbo non era nato, ma forse lo era diventato, moralmente, spiritualmente. Un gobbo assillato dalle domande. E forse la morte cura le domande insieme a chi le fa. Cosí che le tragedie, col senno di poi, sembrano farse.

Per l’arrivo di Lenin alla Stazione Finlandia, Dmitrij Dmitrievič era accorso con un gruppo di compagni a salutare il ritorno dell’eroe. Chissà quante volte aveva raccontato quella storia. E tuttavia, essendo stato un bambino cagionevole e molto sorvegliato, è poco probabile che lo si fosse lasciato andare cosí. Piú plausibile invece che ad accompagnarlo alla stazione ci fosse lo zio, il Vecchio Bolscevico Maksim Lavrentjevič Kostrikin. Anche quella versione aveva ripetuto tante volte. Entrambi i racconti davano lustro alle sue credenziali rivoluzionarie. Il piccolo Mitja di soli dieci anni, alla Stazione Finlandia a farsi ispirare dal Grande Condottiero! L’immagine non era stata d’impaccio agli esordi della sua carriera. C’era però una terza possibilità: e cioè che non avesse affatto visto Lenin e che non si fosse mai trovato nelle vicinanze di quella stazione. Poteva avere semplicemente fatto suo il racconto di un compagno spacciandolo per un’esperienza vissuta. Ultimamente, non sapeva piú con certezza a quale versione credere. C’era proprio stato alla Stazione Finlandia? c’era stato veramente? Beh, come dice il proverbio, non c’è peggior bugiardo del testimone oculare.

Si accese un’altra sigaretta proibita e fissò l’orecchio dell’autista. Se non altro era un dettaglio tangibile, reale: l’autista era dotato di un orecchio. E, sebbene non fosse in condizione di vederlo, era certo che ne avesse uno anche dall’altra parte. Quest’ultimo dunque era un orecchio destinato a esistere solo nella sua memoria o, piú precisamente, nella sua immaginazione, fino a quando non avesse potuto tornare a vederlo. Deliberatamente, si sporse di lato finché padiglione e lobo dell’orecchio non comparvero alla vista. Altra domanda che trovava una risposta, per il momento.

Da piccolo, il suo eroe era stato Nansen, l’esploratore artico. Crescendo, la sola presenza della neve sotto un paio di sci lo terrorizzava, e il massimo dell’avventura era per lui affrontare il viaggio fino al paese in cerca di cetrioli, su richiesta di Nita. Adesso che era vecchio, si faceva scarrozzare in giro per Mosca, spesso da Irina, ma a volte da un autista professionale. Era diventato un Nansen delle Periferie.

Sul suo tavolino da notte, sempre: una cartolina del Cristo della moneta di Tiziano.

Secondo Čechov si può scrivere qualunque cosa, tranne un atto d’accusa.

Povero Anatolij Bašaškin. Denunciato come tirapiedi di Tito.

Anna Achmatova diceva che sotto Chruščëv, il Potere era diventato vegetariano. Può darsi, anche se si può benissimo strozzare qualcuno ingozzandolo di ortaggi non meno che utilizzando i metodi tradizionali del passato carnivoro.

Al ritorno da New York aveva composto Il canto delle foreste, su un testo tronfio e magniloquente di Dolmatovskij. Tema dell’oratorio era il rimboschimento delle steppe e la trasformazione di Stalin, da Maestro e Condottiero, Amico dei Fanciulli, Grande Timoniere, Grande Padre della Nazione e Grande Ingegnere Ferroviario, nell’attuale Grande Giardiniere. «Copriamo la Patria di foreste!» – un’esortazione che Dolmatovskij non esitava a ripetere una buona dozzina di volte. Con Stalin, sottolineava l’oratorio, perfino i meli crescevano piú coraggiosi, sbaragliando gli assalti del gelo come l’Armata Rossa aveva fatto con i nazisti. La roboante banalità dell’opera ne aveva garantito l’immediato successo. E contribuí ad assicurare a lui il quarto Premio Stalin: 100 000 rubli e una dacia. Riconoscendo a Cesare il dovuto, Cesare aveva saputo ricambiare con generosa riconoscenza. Complessivamente vinse il Premio Stalin sei volte. E ricevette l’Ordine di Lenin a regolare cadenza decennale: nel 1946, nel 1956 e nel 1966. Nuotava nelle onorificenze come un gamberetto nella salsa aurora. E si augurava di arrivare morto all’appuntamento con il 1976.

Forse il coraggio era come la bellezza. Una bella donna che invecchia vede soltanto ciò che è andato perso; gli altri, quello che rimane. Alcuni si congratularono con lui per la sua indefettibile resistenza, il rifiuto di lasciarsi soggiogare, il nocciolo duro sotto la superficie nevrastenica. Lui vedeva solo quel che non c’era piú.

Lo stesso Stalin non c’era piú da tempo. Il Grande Giardiniere era andato a curare l’erba e a irrobustire i meli dei Campi Elisi.

Le rose rosse sulla tomba di Nita, sparse ovunque. Ogni volta che andava a visitarla. Rose che non aveva mandato lui.

Glikman gli aveva raccontato un aneddoto su Luigi XIV. Il Re Sole era stato un sovrano assoluto, come Stalin. Ma sempre disposto a riconoscere il dovuto agli artisti, ad ammetterne la segreta magia. Uno di essi era il poeta Nicolas Boileau-Despréaux. Ebbene, Luigi XIV, dinanzi all’intera corte di Versailles, aveva annunciato, come se si trattasse di una verità corrente: «Monsieur Despréaux possiede una cognizione della poesia migliore della mia». Senza dubbio si erano levate risa servilmente incredule da coloro che, in privato come in pubblico, si affannavano ad assicurare al grande monarca che la sua cognizione della poesia – come della musica, e della pittura e dell’architettura – non avesse rivali sul pianeta dai tempi dei tempi. E forse il commento conteneva dal principio una sorta di modestia diplomatica. Nondimeno era stato formulato.

Stalin, dal canto suo, poteva vantare tali e tanti vantaggi rispetto al vecchio re. Una profonda padronanza della teoria marxista-leninista, l’intuitiva comprensione del Popolo, l’amore per la musica tradizionale, il fiuto infallibile per le congiure formaliste… Oh, basta, basta. C’era abbastanza da far sanguinare le orecchie.

Ma perfino il Grande Giardiniere, nelle vesti di Grande Musicologo, non era riuscito a scovare il Beethoven Rosso. Davidenko si era rivelato una delusione – già solo morendo ben prima dei quarant’anni. Il Beethoven Rosso, insomma, non comparve mai.

Gli piaceva raccontare la storia di Tinjakov. Un bell’uomo, un bravo poeta. Abitava a Pietroburgo e scriveva d’amore, di fiori e d’altri temi elevati. Poi venne la Rivoluzione, che in breve fece di Tinjakov il poeta di Leningrado che non scriveva piú di amore e fiori, ma della sua orrenda fame. E col passare del tempo le cose si misero male al punto da costringerlo a piazzarsi su un angolo di strada con un cartello al collo che diceva POETA. E siccome i russi tengono in conto i loro poeti, i passanti gli davano qualcosa. Tinjakov amava sostenere di aver guadagnato assai di piú chiedendo l’elemosina che componendo versi, tanto che ogni sera era in grado di rifocillarsi in un buon ristorante.

Sarà stato vero anche l’ultimo dettaglio del racconto, si chiedeva? Del resto, ai poeti è concesso esagerare. Quanto a lui, non aveva bisogno di un cartello – aveva intorno al collo tre Ordini di Lenin e sei Premi Stalin e cenava regolarmente al ristorante dell’Unione dei compositori.

Un uomo bruno dall’aria scaltra, con un rubino pendulo a un orecchio, stringe una moneta fra il pollice e l’indice. La mostra a un altro uomo, piú pallido di carnagione, e questi non la tocca, limitandosi a guardare dritto negli occhi il primo.

C’era stato quel periodo bizzarro nel quale il Potere, avendo stabilito che Dmitrij Dmitrievič era un caso recuperabile, aveva messo in atto una nuova strategia. Anziché aspettare il prodotto finito – una composizione completa che avrebbe poi dovuto passare al vaglio di esperti politico-musicologi per essere definita apprezzabile o condannabile –, il Partito, nella sua saggezza, si portava avanti, giudicandola sin dall’inizio in termini di zelo ideologico. In un gesto di generosa intelligenza l’Unione dei compositori nominò un tutore, il compagno Trošin, sociologo affermato e serio, con l’incarico di aiutare Dmitrij Dmitrievič a chiarirsi i principî del marxismo-leninismo, e a riforgiarsi. Gli fu fatto pervenire un certo numero di volumi tutti rigorosamente opera del compagno Stalin, quali Marxismo e questioni di linguistica e Problemi economici del socialismo in Urss. In un secondo tempo, Trošin si presentò al suo appartamento per spiegargli il proprio ruolo. L’avevano mandato perché perfino i piú illustri compositori, ahimè, andavano soggetti a gravi errori, come era stato ampiamente dimostrato in anni recenti. Onde evitargli la possibilità di ricadere nei medesimi errori, occorreva accrescere il suo livello di competenza politica, economica e ideologica. Il compositore accolse la dichiarazione d’intenti dell’ospite non invitato con la debita gravità, ed espresse il proprio rincrescimento di non essere ancora riuscito a ultimare la lettura di tutti i volumi tanto cortesemente recapitatigli, in quanto impegnato su una nuova sinfonia dedicata alla memoria di Lenin.

Il compagno Trošin passò in rassegna con lo sguardo lo studio del compositore. Non era né un uomo ambiguo né intimidatorio, solo uno dei tanti funzionari diligenti e acritici che ogni regime è in grado di produrre.

– Dunque è qui che lavora.

– Già.

Il tutore si alzò, fece qualche passo in ogni direzione, lodò il generale arredo della stanza. Infine, con un sorriso impacciato, disse:

– Purtroppo manca una cosa, per essere lo studio di un illustre compositore sovietico.

L’illustre compositore sovietico si alzò a sua volta, diede un’occhiata alle librerie e alle pareti che ben conosceva e scosse il capo con aria di imbarazzate scuse, dispiaciuto nel disattendere la prima richiesta del tutore.

– Non c’è il ritratto del compagno Stalin alle pareti.

Seguí un silenzio sgomento. Il compositore si accese una sigaretta e prese a vagare per la stanza come se cercasse di localizzare la causa del suo odioso errore, o come se potesse scovare l’indispensabile icona dietro un cuscino, sotto un tappeto. Infine assicurò Trošin che avrebbe provveduto immediatamente a procurarsi il miglior ritratto in commercio del Grande Condottiero.

– Bene, tutto a posto, – ribatté Trošin. – Mettiamoci al lavoro, allora.

Di quando in quando gli era richiesto di stendere un testo che riassumesse la formidabile saggezza di Stalin. Glikman fu lieto di occuparsene per lui, e dunque le riflessioni patriottiche del compositore riguardo all’opera del Grande Giardiniere gli venivano regolarmente recapitate per posta da Leningrado. Di lí a qualche tempo l’elenco dei testi irrinunciabili fu accresciuto di ulteriori volumi, come I requisiti della creatività nell’arte di G. M. Malenkov, una ristampa del discorso tenuto al XIX Congresso del Partito.

La presenza indefettibile e zelante di Trošin nella sua vita ebbe da parte di Dmitrij Dmitrievič un’accoglienza che mescolava garbata elusività e segreta irrisione. Interpretavano i rispettivi ruoli di istruttore e allievo ostentando espressioni serie: senz’altro Trošin non ne avrebbe avuta un’altra da mettere a disposizione. Credeva con sconcertante indiscutibilità all’intento virtuoso del proprio compito, e il compositore gli riservava un trattamento educato, consapevole che quelle visite indesiderate gli garantivano in fondo una sorta di protezione. Cionondimeno entrambi sapevano che la loro pantomima poteva avere conseguenze anche gravi.

In quel periodo giravano due frasi – una in forma di domanda e l’altra di affermazione – capaci di far cacare sotto e sudare copiosamente anche omoni robusti. La domanda era: «Stalin lo sa?» E l’affermazione, ancor piú allarmante, era: «Stalin lo sa». E giacché a Stalin erano riconosciuti poteri sovrannaturali – non commetteva mai errori, dominava ogni cosa ed era dappertutto –, le semplici creature sublunari sotto il suo potere condividevano la percezione, o la fantasia, di avere il suo sguardo costantemente puntato addosso. Dunque, che succedeva se il compagno Trošin falliva nel veicolare in modo soddisfacente i precetti di Carletto Marx e di tutti i suoi epigoni? Che succedeva se il suo pupillo, all’apparenza compreso dal ruolo ma in cuor suo irriducibile, falliva nell’apprendimento? Che ne era in quei casi dei vari compagni Trošin del mondo? Se il tutore offriva protezione al pupillo, il pupillo aveva a sua volta una certa qual responsabilità nei confronti del tutore.

C’era poi una terza frase fatta che la gente mormorava sul suo conto, come in passato era accaduto con altri, per esempio con Pasternak: «Stalin dice che non lo si deve toccare». La dichiarazione poteva essere una realtà, come pure una teoria campata in aria o un’ipotesi carica di invidia. Come aveva potuto sopravvivere un protégé del traditore Tuchačevskij? Come era sopravvissuto all’affermazione «Questo scherzo può finire molto male»? Come mai era vivo dopo essere stato definito nemico del popolo dagli organi di stampa? Come mai Zakrevskij era scomparso nel nulla tra un sabato e il lunedí successivo? Come mai Dmitrij Dmitrievič era stato risparmiato quando tanti intorno a lui erano stati arrestati, esiliati, assassinati o erano svaniti in una nebbia destinata a diradarsi solo decenni piú tardi? Era una sola la risposta a tutti questi interrogativi: «Stalin dice che non lo si deve toccare».

Se cosí stavano le cose – e non aveva modo di saperlo, non piú di coloro che pronunciavano la frase fatta – sarebbe stato un pazzo a credere che questo gli garantisse protezione a tempo indeterminato. Il solo fatto di essere notato da Stalin costituiva un pericolo di gran lunga maggiore rispetto a un’esistenza di oscuro anonimato. I favoriti di rado conservavano il favore, era solo questione di quando sarebbero caduti. Quanti ingranaggi essenziali della macchina sovietica avevano col tempo rivelato, al minimo mutamento della luce, la propria natura di ostacoli al funzionamento degli altri ingranaggi?

L’auto rallentò a un incrocio, e subito dopo si sentí il clangore del dente d’arresto mentre l’autista tirava il freno a mano. Gli tornò in mente l’acquisto della loro prima Pobeda. Al tempo, il regolamento imponeva che il compratore fosse presente alla consegna della vettura. Avendo ancora una patente rilasciata prima della guerra, si era recato da solo al garage a ritirare l’auto. Lungo il tragitto verso casa, le prestazioni della Pobeda lo avevano lasciato alquanto tiepido, tanto da domandarsi se non gli avessero rifilato una fregatura. Parcheggiò e prese ad armeggiare con la chiave quando udí un passante urlargli: – Ehi, dico a lei, con gli occhiali, che problema ha la sua macchina? – Dalle ruote sboccava fumo: aveva guidato dal garage fino a casa con il freno a mano inserito. La verità è che le macchine non andavano d’accordo con lui.

Ricordava un’altra ragazza che aveva esaminato in veste di professore di Ideologia bolscevica al Conservatorio. L’esaminatore capo si era momentaneamente allontanato dalla stanza lasciandolo unico responsabile della procedura. La studentessa, un fascio di nervi, si torceva tra le mani il foglio delle domande di cui doveva conoscere a memoria le risposte, e lo aveva impietosito.

– Allora, – le disse, – mettiamo da parte tutti i quesiti ufficiali. Le voglio domandare invece: che cosa è il Revisionismo?

Perfino lui avrebbe saputo rispondere. Quello del Revisionismo era un concetto talmente sacrilego e odioso che la parola stessa mostrava le corna del maligno.

La ragazza rifletté un momento prima di rispondere con sicurezza: – Il Revisionismo è il piú alto livello di sviluppo del marxismo-leninismo.

E, con un sorriso, lui le attribuí il massimo dei voti.

Quando tutto il resto veniva meno, quando sembrava non esserci che assurdità nel mondo, allora si aggrappava a questo: che la buona musica sarebbe stata sempre buona, che la grande musica non era violabile. Si potevano suonare i preludi e le fughe di Bach a qualunque tempo e con qualsiasi dinamica: sarebbero rimasti grande musica, baluardo contro gli scalzacani che suonavano con i piedi. E ugualmente refrattaria a qualsiasi cinismo nell’esecuzione.

Nel 1949, mentre imperversavano gli attacchi contro di lui, aveva composto il suo quarto quartetto per archi. Il Quartetto Borodin lo aveva studiato ed eseguito per il Direttivo degli istituti musicali del ministero della Cultura, incaricato di approvare qualunque opera nuova prima che potesse essere eseguita in pubblico, e prima che il compositore potesse ricevere un compenso. Date le condizioni precarie della sua reputazione, Dmitrij Dmitrievič non si poteva considerare fiducioso ma, con sorpresa di tutti, l’audizione fu un successo: il brano venne autorizzato e il compenso elargito. Di lí a breve cominciò a circolare la storia che il Quartetto Borodin avesse imparato a suonare il pezzo in due modi diversi, vale a dire in modo autentico e in modo strategico. Il primo era quello che rispettava le intenzioni dell’autore, mentre il secondo, messo a punto per superare le forche caudine dell’ufficialità, sottolineava gli elementi «ottimistici» del brano e i punti di accordo con le esigenze dell’arte socialista. Il racconto divenne un esempio perfetto dell’uso dell’ironia come arma di difesa contro il Potere.

Non era mai successo, naturalmente, però la storia fu ripetuta abbastanza spesso da renderne accettata la veridicità. Ma erano tutte sciocchezze: non era, e non poteva essere vero, perché in musica non è dato mentire. Il Quartetto Borodin poteva solo eseguire il brano secondo le intenzioni del compositore. La musica, la buona, grande musica, possiede una purezza adamantina, irriducibile. Può essere amara, disperata e pessimistica, ma non sarà mai cinica. Quando la musica è tragica, chi ha orecchie d’asino la accusa di essere cinica. Ma se un compositore è amaro, disperato o pessimista, questo significa che crede ancora in qualcosa.

Che cosa poteva contrapporre al rumore del tempo? Solo la musica che viene da dentro – la musica del nostro essere – che alcuni sanno trasformare in musica reale. E che se nei decenni a venire sarà abbastanza forte e pura e autentica da annegare il rumore del tempo, si trasformerà nel mormorio della storia.

Ecco, si aggrappava a questo.

Intanto le sue garbate, tediose e fraudolente conversazioni con il compagno Trošin proseguivano. Un pomeriggio il tutore era in uno stato d’animo di particolare esaltazione.

– È vero, – domandò, – è vero quello che mi è stato di recente riferito, e cioè che alcuni anni fa Iosif Vissarionovič le ha personalmente telefonato?

– Sí, è vero.

Il compositore indicò il telefono a parete, sebbene non fosse quello che era stato usato. Trošin osservò l’apparecchio come se dovesse già trovarsi in un museo.

– Che uomo straordinario, il compagno Stalin! Con tutti i problemi dello stato, con tutto ciò di cui deve occuparsi, è anche informato su un certo Šostakovič. Governa una metà del pianeta, ma trova il tempo anche per lei!

– Ma sí, infatti, – concordò con lui, con ostentato zelo. – Davvero stupefacente.

– Lo so che lei è un celebre compositore, – proseguí Trošin, – ma cosa può valere, a paragone con il nostro Grande Condottiero?

Supponendo che il tutore non conoscesse a memoria il testo della romanza di Dargomyžskij, il compositore replicò serio: – In confronto a Sua Eccellenza sono un verme. Solo un verme.

– Esatto, un verme. Che bella cosa sentire che finalmente lei dà prova di possedere un sano senso di autocritica.

E, quasi ansioso di volersi guadagnare altri simili elogi, lui aveva ripetuto con tutta la serietà di cui era capace: – Sí, un verme, nient’altro che un verme.

Quel giorno Trošin se ne andò soddisfatto dei progressi conseguiti dal pupillo.

Ma lo studio del compositore non esibí mai il miglior ritratto di Stalin in vendita a Mosca. A pochi mesi appena dall’inizio della rieducazione di Dmitrij Dmitrievič, le circostanze oggettive della realtà sovietica mutarono. In altre parole, Stalin morí. E le visite del tutore si interruppero.

L’autista frenò e la vettura accostò sulla sinistra. Una Volga, discretamente comoda. Avrebbe sempre voluto un’auto straniera. Molto precisamente, avrebbe sempre voluto una Mercedes. Possedeva una somma in valuta straniera in deposito presso l’ufficio per i diritti d’autore, ma non gli era mai stato concesso di utilizzarla nell’acquisto di un’auto non sovietica. Che cos’hanno che non va le auto sovietiche, Dmitrij Dmitrievič? Non la portano forse da un luogo all’altro, non sono affidabili, non sono forse fabbricate tenendo conto della viabilità sovietica? Che impressione darebbe se il nostro piú illustre compositore offendesse l’industria dell’auto nazionale acquistando una Mercedes? Le risulta che i membri del Politburo circolino a bordo di veicoli capitalisti? Lei dunque capirà che si tratta di una cosa improponibile.

A Prokof’ev era stato concesso di importare una nuova Ford dall’Occidente. Sergej Sergeevič ne fu molto soddisfatto fino al giorno in cui l’auto si rivelò troppo difficile per lui da manovrare e, in pieno centro di Mosca, investí una giovane donna. In un certo senso, l’incidente era tipico di Prokof’ev: un uomo che pareva destinato a entrare sempre nel mondo dalla direzione sbagliata.

Certo, nessuno muore proprio al momento giusto: chi troppo presto, chi troppo tardi. Alcuni centrano grossomodo l’anno, ma poi crollano rovinosamente nella scelta della data. Povero Prokof’ev: andare a morire lo stesso giorno di Stalin! Sergej Sergeevič ebbe un ictus alle otto di sera e si spense alle nove. Stalin moriva cinquanta minuti dopo. Morire senza neanche sapere che anche il Grande Tiranno se n’era andato! Beh, questo dice tutto di Sergej Sergeevič. A dispetto della sua puntualità cronometrica, fu sempre mezzo passo indietro rispetto alla Russia. E la sua morte brillò per imbecillità di sincronia.

I nomi di Prokof’ev e Šostakovič sarebbero stati costantemente abbinati. Ma tale ammanettamento non bastò a farne due amici. Perlopiú si stimavano reciprocamente sul piano musicale, ma l’Occidente aveva penetrato troppo a fondo l’animo di Sergej Sergeevič. Aveva lasciato la Russia nel 1918 e, a parte qualche breve rientro (come quella volta imbarazzante del pigiama), era rimasto all’estero fino al 1936. A quel punto aveva ormai perso contatto con la realtà sovietica. Immaginare che il suo ritorno patriottico avrebbe avuto un’accoglienza trionfale, che il regime avrebbe mostrato gratitudine: si può essere piú ingenui di cosí? E quando si trovarono accusati assieme dinanzi ai tribunali dei burocrati musicologi, Sergej Sergeevič non pensò ad altro che a proporre soluzioni musicali. Gli avevano domandato che cosa non andasse nell’Ottava sinfonia del suo collega Dmitrij Dmitrievič. Niente che non si possa sistemare, aveva replicato, pragmatico come sempre: occorre solo una livrea melodica piú chiara e l’eliminazione del secondo e del quarto movimento. Di fronte poi alle critiche rivolte alla sua stessa opera, la reazione fu: signori, dispongo di molteplici stili compositivi, non dovete fare altro che indicarmi quale preferite che adotti. Era fiero di tanta arrendevolezza, ma dovette scoprire che non era quanto gli veniva richiesto. Al Partito non bastava un’adesione fasulla ai gusti ordinari e agli insulsi slogan della critica ufficiale; pretendeva che l’accusato ci credesse veramente. Pretendeva la sua complicità, la compiacenza, la corruzione. E Sergej Sergeevič non l’aveva mai capito fino in fondo. Sostenne – e farlo fu temerario da parte sua – che quando un brano era accusato di estremo «formalismo» era solo «questione di non riuscire a comprenderne il valore al primo ascolto». Era uomo di uno strano, sofisticato candore. Ma a dirla tutta, aveva l’anima di un’oca.

Pensava spesso a Sergej Sergeevič durante l’esilio in tempo di guerra; lo immaginava intento a vendere i suoi completi europei di buon taglio al mercato di Alma-Ata. Dicevano che fosse bravo a contrattare e che strappasse sempre il prezzo migliore. Chissà quali spalle scaldavano adesso quelle giacche. Comunque non era solo questione di abito: Prokof’ev cedeva a tutte le tentazioni del successo. E aveva un’idea occidentale della gloria. Amava utilizzare l’aggettivo «dilettevole». Nonostante l’elogio pubblico riservato a Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk, quando ne scorse la partitura in presenza del compositore, definí l’opera appunto «dilettevole». Ecco una parola che meritava di essere bandita fino al giorno successivo alla morte di Stalin. Giorno che Sergej Sergeevič non fece in tempo a vedere.

Personalmente, la vita all’estero non era mai stata una tentazione per lui. Era un compositore russo che viveva in Russia. Si rifiutava di ipotizzare altre opzioni. Pur avendo avuto il suo attimo di celebrità occidentale. A New York era entrato in una farmacia per comprare dell’aspirina. Dieci minuti dopo aver lasciato il negozio, un commesso fu visto affiggere alla vetrina un cartello con su scritto: DMITRIJ ŠOSTAKOVIČ SI SERVE IN QUESTA FARMACIA.

Non si aspettava piú di essere ucciso; quella paura apparteneva a un passato remoto. Ma essere ucciso non era mai stata l’ipotesi peggiore. Nel gennaio del 1948 il suo vecchio amico Solomon Michoels, direttore del Teatro nazionale ebraico di Mosca, fu assassinato per ordine di Stalin. Il giorno in cui la notizia divenne nota, lui aveva trascorso cinque ore a farsi intimidire da Ždanov per aver distorto la realtà sovietica e mancato di celebrare le gloriose vittorie della nazione dei cui nemici aveva invece accolto supinamente le scelte. Subito dopo si era recato a casa di Michoels per abbracciare la figlia dell’amico e il marito di lei. Infine, dando le spalle alla folla muta dei presenti afflitti e spaventati, quasi nascondendo il viso nello scaffale dei libri, aveva dichiarato sottovoce: – Come lo invidio –. Il che voleva dire: la morte è preferibile al terrore cronico.

Il terrore cronico durò tuttavia altri cinque anni. Fino alla morte di Stalin e all’arrivo di Nikita Chruščëv. Con la promessa di un disgelo, una cauta speranza, un’incauta euforia. Sí, le cose in effetti si fecero piú facili e qualche scandalo cominciò a emergere, ma non certo per un’improvvisa, idealistica adesione alla verità, quanto piuttosto per la consapevolezza che un’apertura poteva recare vantaggi a livello politico. Per il resto, il Potere non venne meno, semplicemente cambiò. L’attesa terrorizzata accanto all’ascensore e il proiettile sparato alla nuca diventarono cose del passato. Ma il Potere non perse interesse per la sua persona; c’erano ancora mani tese verso di lui, e sin dall’infanzia Dmitrij Dmitrievič aveva avuto orrore delle mani che volevano ghermirlo.

Nikita, l’uomo della pannocchia. Colui che lanciava invettive contro «pederasti e astrattisti», considerandoli ovviamente una cosa sola. Esattamente come Ždanov aveva un tempo denunciato Achmatova definendola «monaca e sgualdrina insieme», Nikita la pannocchia aveva sentenziato a un incontro di scrittori e artisti, a proposito di Dmitrij Dmitrievič: «Oh, la sua musica non è altro che jazz: fa venire il mal di pancia. Altro che applaudire! A me il jazz dà le coliche». Sempre meglio che sentirsi accusare di mangiare nel piatto dei nemici della nazione. Tant’è che, nell’attuale era piú tollerante, chi si trovava in presenza del Primo Segretario aveva il permesso, seppur con la dovuta deferenza, di esprimere un parere contrario. C’era perfino stato un poeta impavido (o folle) abbastanza da sostenere che ci fossero alcuni grandi artisti fra i seguaci dell’astrattismo. E aveva fatto il nome di Picasso. Un’affermazione che l’uomo della pannocchia aveva liquidato dichiarando:

– Solo la fossa guarisce la gobba.

Ai vecchi tempi, un simile scambio di battute si sarebbe potuto concludere con qualcuno che ricordava al poeta insolente come il suo scherzo rischiasse di finire molto male. Ma Chruščëv era fatto cosí. Le sue sparate facevano dondolare il capo ai vari lacchè dalla faccia di bronzo, ma nessuno aveva da temere immediatamente per il proprio futuro. Un giorno l’uomo-pannocchia poteva annunciare che la tua musica gli procurava il mal di pancia e l’indomani, dopo un lauto banchetto alla conferenza dell’Unione dei compositori, era capace di tessere le tue lodi. Quella sera l’aveva menata su come non avesse problemi ad ascoltare un po’ di musica alla radio, sempre che fosse roba appena passabile, che non sembrasse insomma un gracchiar di cornacchie… E mentre i lacchè dalla faccia di bronzo se la ridevano, l’occhio gli era caduto sull’illustre compositore di jazz scatenacoliche. Per fortuna il Segretario era di umore benevolo, per non dire misericordioso.

– Oh, ecco Dmitrij Dmitrievič: un uomo che ha saputo vedere la luce in fondo al tunnel sin dall’inizio della guerra, con la sua… come è che si chiama, ah, sí, la sua sinfonia.

All’improvviso non era piú in disgrazia, e Ljudmila Ljadova, grande assemblatrice di canti popolari, gli andò incontro per baciarlo e annunciare senza ironia quanto tutti gli volessero bene. Beh, poco importava comunque, perché ormai le cose non erano piú le stesse di una volta.

Ma era proprio qui che si sbagliava. Prima, era la morte; ora, la vita. Prima, la gente si cacava sotto; ora, poteva dissentire. Prima, esistevano gli ordini; ora, i suggerimenti. Dunque i suoi Colloqui col Potere divennero, senza che in un primo momento se ne accorgesse, piú pericolosi per l’anima. Prima, misuravano i confini del coraggio; ora, quelli della vigliaccheria. E procedevano con metodo e competenza, con una professionalità energica ma a conti fatti disinteressata, come preti impegnati a salvare l’anima di un moribondo.

Personalmente ne sapeva pochissimo di arti visive, e non avrebbe perciò potuto discutere con quel poeta sul tema dell’astrattismo; ma conosceva Picasso come un bastardo e un vigliacco. Facile fare il comunista per uno che non viveva sotto il comunismo! Picasso aveva passato la vita a dipingere la sua merda e a inneggiare al potere sovietico. Ma diononvoglia che un povero piccolo artista schiacciato dal regime si azzardasse a dipingere come Picasso. Lui era libero di dire la verità; allora perché non la diceva a nome di chi era imbavagliato? Macché, preferiva spassarsela da riccone a Parigi e nella Francia meridionale dipingendo mille volte la stessa squallida colomba della pace. Non la sopportava, quella cazzo di colomba. E non sopportava la schiavitú delle idee tanto quanto quella del corpo.

Oppure Jean-Paul Sartre. Una volta aveva accompagnato Maksim all’ufficio per i diritti d’autore vicino alla Galleria Tret’jakov e, proprio accanto alla cassa, ecco il grande filosofo, intento a contare meticolosamente il suo grosso malloppo di rubli. Al tempo i diritti d’autore per autori stranieri erano casi del tutto eccezionali. Per spiegare la circostanza a Maksim, gli aveva sussurrato: – Non lesiniamo incentivi anche sul piano materiale a chi sia pronto ad abbandonare il mondo reazionario per abbracciare il progresso.

Altra faccenda era Stravinskij. L’amore e la stima reverenziale che nutriva per la sua musica non avevano mai conosciuto vacillamenti. Ne era prova la grande foto del maestro che Dmitrij Dmitrievič teneva sotto il vetro della scrivania. La rimirava ogni giorno ricordando il salone dorato del Waldorf-Astoria; ricordando il proprio tradimento, la vergogna morale di cui si era macchiato.

Quando venne il Disgelo, si tornò a eseguire la musica di Stravinskij, e Chruščëv, che di musica ne capiva quanto un maiale ne può sapere di agrumi, fu convinto a invitare il celebre esule in visita in patria. Sarebbe stata un’importante mossa propagandistica, al di là di tutto. Forse si sperava di poter persuadere Stravinskij ad abbandonare il proprio cosmopolitismo per tornare a essere unicamente un compositore russo. E non è escluso che, per parte sua, Stravinskij sperasse di riscoprire le vestigia della vecchia Russia che si era lasciato alle spalle tanto tempo prima. Se queste erano le speranze, furono entrambe deluse. Qualche soddisfazione tuttavia Stravinskij se la prese. Per decenni era stato accusato dalle autorità sovietiche di comportarsi da servo del capitalismo. Dunque, quando il burocrate di turno gli si avvicinò con un sorriso fasullo e la mano tesa, anziché ricambiare il gesto, Stravinskij offrí al funzionario il pomo del proprio bastone da stringere. Il messaggio era inequivocabile: chi è servo, adesso?

Ma un conto era umiliare un burocrate sovietico ora che il Potere era diventato vegetariano; tutt’altra cosa, invece, protestare ai tempi in cui era carnivoro. Stravinskij aveva trascorso decine di comodi anni in vetta al proprio Olimpo americano, altero, egocentrico, indifferente al destino di scrittori, artisti e rispettive famiglie che frattanto venivano perseguitate in patria e subivano la prigionia, l’esilio, la condanna a morte. Aveva forse proferito mai una sola parola di pubblica protesta mentre respirava l’aria della libertà? Quel silenzio era esecrabile; perciò, tanto stimava Stravinskij per le sue composizioni, quanto lo disprezzava per le sue idee. Ecco, era probabilmente questa la risposta alla domanda sull’onestà personale e l’onestà artistica; la mancanza della prima non necessariamente contagiava la seconda.

Si erano incontrati due volte nel corso della visita dell’esule. Nessuna delle due occasioni era stata un successo. Tanto lui si era mostrato ansioso e intimorito quanto Stravinskij era stato sfrontato e tracotante. Che cosa mai potevano dirsi? Dunque aveva finito per domandargli:

– Che ne pensa di Puccini?

– Lo detesto, – aveva replicato Stravinskij.

E lui di rimando: – Anch’io.

Chissà se uno dei due diceva sul serio, se la pensava davvero in modo tanto lapidario. Era poco probabile. Uno aveva assunto un ruolo istintivamente autoritario, e l’altro automaticamente sottomesso. Ecco il guaio dei cosiddetti «incontri storici».

Gliene era capitato un altro, di questi «incontri storici», con Anna Achmatova. L’aveva invitata in visita a Repino e lei ci era venuta. Lui era rimasto seduto in silenzio, e l’ospite aveva fatto altrettanto; dopo una ventina di minuti, Anna Achmatova si era alzata e se n’era andata. In seguito aveva commentato: «È stato perfetto».

Non erano pochi i lati positivi del silenzio, il luogo in cui vengono meno le parole e comincia la musica; ma dove anche la musica può venir meno. Certe volte paragonava la propria situazione a quella di Sibelius che, per l’ultimo terzo della vita, non compose piú nulla, limitandosi a incarnare la Gloria del Popolo Finlandese. Non era un brutto modo di campare; solo che dubitava di possedere la forza necessaria al silenzio.

A quanto pare Sibelius era estremamente insoddisfatto e deluso di sé. Si raccontava che il giorno in cui diede alle fiamme i suoi manoscritti superstiti avesse provato un grande sollievo. È plausibile. Come pure è plausibile il legame tra il disprezzo di sé e il ricorso all’alcol, dove l’uno istiga all’altro. Conosceva anche lui, e perfino troppo bene, quel legame e quella reciproca istigazione.

Circolava un’altra versione della visita a Repino di Anna Achmatova. In questa, le cose erano riferite come segue: «Abbiamo parlato per venti minuti. È stato perfetto». Se davvero disse cosí, fantasticava. Ma ecco il guaio degli «incontri storici». A cosa dovevano credere i posteri? Certe volte gli sembrava che esistesse una duplice versione di ogni cosa.

Mentre discuteva con Stravinskij della direzione d’orchestra, aveva confessato: – Non so come fare a non avere paura –. Al tempo credeva di riferirsi solo all’argomento in questione. Adesso non ne era piú tanto sicuro.

Non temeva piú di essere ucciso, questo era vero e avrebbe dovuto costituire un vantaggio. Sapeva che gli avrebbero concesso di vivere e di ricevere le migliori cure mediche. Eppure, in un certo senso, era anche peggio. Perché un vivo lo si può sempre trascinare piú in basso. Mentre non si può fare altrettanto con un morto.

Si era recato a Helsinki per ritirare il Premio Sibelius. Quello stesso anno, solo tra maggio e ottobre, era stato nominato membro dell’Accademia di Santa Cecilia a Roma, Commandeur de l’Ordre des Arts et des Lettres a Parigi, dottore honoris causa presso l’Università di Oxford e membro della Royal Academy of Music di Londra. Nuotava nelle onorificenze come un gamberetto nella salsa aurora. A Oxford conobbe Poulenc, che si trovava lí per ricevere a sua volta una laurea ad honorem. Furono accompagnati a rimirare un pianoforte che doveva essere appartenuto a Fauré. Rispettosamente, entrambi suonarono alcuni accordi.

Occasioni simili avrebbero gratificato chiunque: una persona normale le avrebbe vissute come piacevoli e meritate consolazioni dell’età. Ma normale Dmitrij Dmitrievič non era, e mentre lo si copriva di onori, lo si strozzava anche ingozzandolo di ortaggi. Che argute differenze rilevava negli attacchi che gli riservavano adesso. Regolarmente corredati da ampi sorrisi, annaffiati da bicchieri di vodka e rallegrati da battute di spirito sul mal di pancia che la sua musica aveva procurato al Primo Segretario; poi venivano le lusinghe, e le adulazioni, e i silenzi, e le aspettative… e qualche volta lui era ubriaco, e qualche volta non si rendeva neanche conto di quel che succedeva finché non tornava a casa, o si rifugiava da un amico per poter sfogare in lacrime, singhiozzi e urla il proprio disprezzo di sé. Era arrivato al punto di aborrire la sua persona, quasi quotidianamente. Sarebbe dovuto morire anni e anni prima.

Non solo: avevano assassinato Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk una seconda volta. L’opera era stata bandita per vent’anni, da quella sera in cui Molotov, Mikojan e Ždanov l’avevano accolta con smorfie beffarde e sghignazzi, mentre Stalin se ne stava imboscato dietro una tenda. In seguito alla morte di Ždanov e di Stalin, una volta iniziata ufficialmente la stagione del Disgelo, si era deciso a rivedere l’opera con l’aiuto di Glikman, suo amico e collaboratore sin dai primi anni Trenta. Glikman, lo stesso che gli era stato accanto il giorno in cui incollava sul suo album il testo di Caos anziché musica. La nuova versione passò al teatro Malyj di Leningrado, che fece richiesta dell’autorizzazione a metterla in scena. La procedura tuttavia andava per le lunghe, e qualcuno gli suggerí che la mossa migliore per accelerare i tempi fosse che il compositore scrivesse di suo pugno una lettera di sollecito al Primo Vicepresidente del Consiglio dei ministri sovietico. Il che si rivelò naturalmente umiliante, considerando che il Primo Vicepresidente del Consiglio dei ministri sovietico altri non era se non Vjačeslav Michajlovič Molotov.

Scrisse comunque la lettera e il ministro della Cultura incaricò una commissione di prendere in esame la nuova stesura dell’opera. In segno di riguardo per il piú illustre compositore della nazione, i membri della commissione si sarebbero riuniti nella sua casa in Možajskoe Šosse. Erano presenti Glikman, il direttore del teatro Malyj e il direttore d’orchestra. La commissione comprendeva i compositori Kabalevskij e Čulaki, il musicologo Chubov e il direttore d’orchestra Celikovskij. Prima del loro arrivo si sentí molto nervoso. Distribuí copie dattiloscritte del libretto. Poi eseguí l’intera partitura cantando tutti i ruoli, mentre Maksim sedeva al suo fianco e gli voltava le pagine.

Seguí una pausa che si estese in un silenzio imbarazzato; poi la commissione diede inizio ai lavori. Erano passati vent’anni; questi non erano rappresentanti del potere seduti in un palco blindato; no, questi erano quattro uomini di musica, persone raffinate, dalle mani non lorde di sangue, riuniti nell’appartamento privato di un collega. Eppure pareva che nulla fosse cambiato. Confrontarono quanto avevano ascoltato con ciò che era stato scritto due decenni prima e decretarono l’opera altrettanto manchevole. Poiché il contenuto di Caos anziché musicanon era mai stato ufficialmente ritrattato, essi sostennero che i principî espressi nell’articolo fossero tuttora applicabili. Secondo uno di questi, la sua musica era una mescolanza affannosa di urla, strepiti e schiamazzi. Glikman tentò di intervenire ma fu zittito in malo modo da Chubov. Kabalevskij lodò alcune sezioni dell’opera giudicandola tuttavia nel complesso moralmente deprecabile in quanto giustificava le azioni di un’assassina e per di piú meretrice. I due rappresentanti del teatro Malyj tacevano; quanto a lui, seduto a occhi chiusi sul divano, ascoltò i membri della commissione fare a gara tra loro nell’escogitare ingiurie.

Votarono unanimi contro l’ipotesi di riproporre al pubblico l’opera, in considerazione delle sue vistose debolezze artistiche e ideologiche. In uno sforzo di cordialità, Kabalevskij gli disse:

– Perché tanta fretta, Mitja? Non è ancora il momento giusto per questo tuo lavoro.

Né sarebbe, secondo lui, mai arrivato. Dopo aver ringraziato la commissione per il «parere critico» espresso, raggiunse insieme a Glikman una saletta privata del ristorante Aragvi, dove si sbronzarono alla grande. Ecco uno dei pochi vantaggi dell’età: non crollava piú dopo un paio di bicchieri. Poteva continuare a ubriacarsi per tutta la notte, se gli andava.

Djagilev insisteva nel tentativo di convincere Rimskij-Korsakov a raggiungere Parigi. Il compositore continuava a resistere. Alla fine, il divino impresario escogitò uno stratagemma che rese ineluttabile l’assenso del musicista. Rassegnato, Korsakov gli spedí una cartolina con su scritto: «Se si deve andare, andiamo, come disse il pappagallo al gatto che lo trascinava per la coda giú dalle scale».

Ecco, la sua vita gli era sembrata spesso cosí. Quanti, quanti erano stati gli scalini sui quali aveva battuto la testa.

Era da sempre un tipo scrupoloso. Andava dal barbiere ogni due mesi e altrettanto di frequente dal dentista, perché era anche apprensivo, oltre che scrupoloso. Si lavava le mani di continuo; svuotava il posacenere ogni due mozziconi di sigaretta. Gli piaceva sapere che ogni cosa funzionava a dovere: acqua, luce, impianto idraulico. Sul suo calendario erano segnati i compleanni di famigliari, amici e colleghi, e non mancava mai di spedire un biglietto o un telegramma alle persone che comparivano in elenco. Quando arrivava nella sua dacia fuori Mosca, per prima cosa si mandava una cartolina per verificare l’affidabilità del servizio postale. Talvolta la tendenza sfiorava l’ossessione, ma gli era comunque indispensabile. Quando il nostro controllo non ha presa sulla realtà, è importante assicurarsi di esercitarlo sugli spazi possibili. Per quanto irrisorie ne siano le proporzioni.

Il suo corpo era rimasto nervoso come sempre, se non di piú. Ma la mente aveva smesso di agitarsi; adesso arrancava giudiziosa da un’ansia all’altra.

Si domandò che cosa avrebbe pensato il giovane dalla mente febbrile di quel vecchio con lo sguardo fisso sulla strada dal sedile posteriore della sua auto con chauffeur.

Si domandò come andava a finire il racconto di Maupassant che lo aveva tanto colpito da ragazzo: quella storia d’amore sfrenato, passionale. Il lettore scopriva le conseguenze del sensazionale convegno dei due amanti? Doveva controllare se riusciva a ritrovare il libro.

Credeva ancora nel Libero Amore? Forse sí, a livello teorico; per i giovani, gli intraprendenti, gli spensierati. Ma quando arrivano i figli, non è dato a entrambi i genitori di perseguire il proprio piacere; non senza procurare danni di immense proporzioni. Aveva conosciuto coppie talmente concentrate sulla propria libertà sessuale che i figli erano finiti in istituti per l’infanzia abbandonata.

Un costo decisamente troppo alto. Dunque, bisognava trovare una forma di accomodamento. In questo consisteva la vita, una volta superata la fase in cui tutto profuma di olio di garofano. Per esempio, un partner poteva darsi al Libero Amore mentre l’altro si occupava dei figli. Piú spesso era l’uomo a prendersi quel genere di libertà; ma capitava a volte che fosse la donna. Cosí sarebbe apparso il suo caso agli occhi di chi non conoscesse a fondo i dettagli. Un simile spettatore a distanza avrebbe visto Nina Vasil’evna assentarsi parecchio, per lavoro e diporto, o tutte e due le cose insieme. Non era fatta per le mura domestiche, Nita, né per temperamento né per abitudine.

Uno poteva credere in tutta sincerità ai diritti dell’altro, al diritto di praticare il Libero Amore. Di fatto però, la strada fra il principio e la sua attuazione spesso era lastricata di angoscia. E dunque lui si era rifugiato nella musica, che assorbiva tutta la sua attenzione e in quel modo lo consolava. Anche se quando era concentrato sulla musica inevitabilmente trascurava i figli. E talvolta, è pur vero, anche lui si era concesso qualche avventura. Piú che avventure. Insomma, aveva cercato di fare del suo meglio; che altro si voleva?

Nina Vasil’evna era una donna talmente gioiosa e vitale, talmente espansiva e a proprio agio con se stessa che non lo sorprendeva affatto che altri se ne potessero innamorare. Era questo che lui si ripeteva e che trovava vero e comprensibile sebbene, a tratti, penoso. Ma sapeva anche che Nita lo amava e che lo aveva protetto da molte cose che lui non sapeva o non voleva gestire personalmente; e sapeva inoltre che era fiera di lui. Tutto questo era fondamentale. Perché lo spettatore esterno, quello che non comprendeva, avrebbe compreso ancor meno ciò che accadde quando Nita morí. Si trovava in Armenia con A. in quel periodo e all’improvviso cadde malata. Lui la raggiunse in aereo con Galja, ma Nita era morta poco dopo il loro arrivo.

Veniamo ai fatti: lui rientrò in treno con Galja. Il corpo di Nina Vasil’evna fu caricato in aereo e scortato a Mosca da A. Al funerale fu un tripudio di neri e bianchi e scarlatti: la terra, la neve e le rose rosse disposte da A. Nel cimitero lui si tenne accanto ad A., e accanto gli rimase, o meglio accanto a sé lo tenne per tutto il mese successivo. Anche in seguito, quando andava a far visita a Nita, spesso trovava sparse sulla tomba le rose rosse che le portava A. Vederle gli dava conforto. Certe persone non lo avrebbero capito.

Una volta aveva chiesto a Nita se pensava di lasciarlo. Ridendo, lei gli aveva risposto: – No, a meno che A. non scopra una nuova particella e vinca il Nobel –. E aveva riso anche lui, senza saper calcolare le probabilità di nessuna delle due ipotesi. Certe persone non avrebbero capito come facesse a ridere. Il che non sorprende.

Una cosa c’era che lo irritava. Quando erano tutti sul Mar Nero, di solito alloggiati in vari centri termali, A. si presentava a bordo della sua Buick per portare Nita a fare un giro. Non erano le gite il problema. Lui aveva comunque la sua musica; riusciva a scovare un pianoforte ovunque andasse. A. non aveva la patente, quindi aveva l’autista, ma nemmeno l’autista era il problema. No, il problema era la Buick. A. l’aveva comprata da un ex esule armeno, gli avevano concesso di farlo. Il problema era questo. Prokof’ev aveva avuto la sua Ford; A. la Buick; Slava Rostropovič si era potuto prendere una Opel, poi un’altra Opel, una Land Rover e alla fine una Mercedes. Lui, invece, Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, non poteva possedere una macchina straniera. Nel corso degli anni aveva potuto scegliere al massimo tra una KIM 10-50, una GAZ-M1, una Pobeda, una Moskvič e una Volga… Dunque, sí, invidiava ad A. la sua Buick per tutte le cromature e gli interni in pelle e le luci speciali e le pinne, e per il rumore diverso che faceva e per l’entusiasmo che suscitava ovunque andasse. Era quasi una creatura viva, quella Buick. E sua moglie, Nina Vasil’evna, con i suoi occhi d’oro, ci viaggiava sopra. E anche questo, a dispetto di tutti i suoi principî, a volte era un problema.

Trovò la novella di Maupassant, quella sull’amore senza confini, senza pensieri per il domani. Ciò che aveva scordato era che l’indomani il giovane comandante di guarnigione era stato severamente redarguito per aver inventato un’emergenza inesistente, e che il suo intero battaglione era stato punito con un trasferimento al capo opposto della Francia. Maupassant si era poi concesso una riflessione sul proprio racconto. Forse non si trattava, come aveva in un primo momento creduto, di una vicenda amorosa degna di Omero e dei Classici, ma piuttosto di una storia moderna e ordinaria à la Paul de Kock; e forse il comandante non aveva mai smesso di gloriarsi con una manica di ufficiali della sua risma del proprio gesto sensazionale e della ricompensa erotica che ne aveva tratto. Tali contaminazioni romanzesche erano piú che probabili nel mondo moderno, concludeva Maupassant; anche se lo slancio iniziale e la notte d’amore restavano, e conservavano comunque una loro purezza.

Dmitrij Dmitrievič esaminò il racconto ripensando ad alcune cose che erano successe a lui, nella vita. La felicità che Nita provava nel farsi ammirare da un altro; la sua battuta a proposito del Premio Nobel. E finí per domandarsi se non avrebbe dovuto guardare se stesso sotto una luce diversa: vedersi come Monsieur Parisse, il marito indaffarato, relegato fuori le mura, costretto in punta di baionetta a passare la notte nella sala d’attesa della stazione ferroviaria di Antibes.

Riportò l’attenzione sull’orecchio dello chauffeur. Nel mondo occidentale, uno chauffeur era un servo. In Unione Sovietica, al contrario, svolgeva una professione dignitosa e ben retribuita. Dopo la guerra, molti autisti erano ingegneri con esperienza militare. Tutti sapevano di doverli trattare con rispetto. Senza mai esprimere commenti negativi sulla loro guida e sulle condizioni della vettura perché la critica anche piú velata poteva risolversi in quindici giorni di auto ferma in rimessa per qualche guasto non meglio identificato. Era inoltre buona norma ignorare il fatto che, quando era libero dal servizio, lo chauffeur fosse probabilmente impegnato a lavorare in proprio, guadagnando soldi extra. Dunque ci si rimetteva alla sua autorità, il che era giusto, perché in un certo senso lo chauffeur godeva di maggior prestigio del trasportato. Ce n’erano di quelli talmente affermati da potersi permettere uno chauffeur a loro volta. C’erano forse compositori tanto affermati da potersi permettere che altri componessero per loro? Forse sí; le dicerie al riguardo erano diffuse. Si diceva ad esempio che Chrennikov fosse cosí impegnato a farsi adulare dal Potere da avere solo il tempo di abbozzare la propria musica che altri orchestravano per lui. Magari succedeva sul serio, ma in tal caso, non avrebbe avuto molta importanza: perché la musica non ci avrebbe guadagnato né perso nulla se l’avesse scritta personalmente.

Chrennikov era ancora in auge. Il tirapiedi di Ždanov, il collaboratore zelante pronto a minacciare, angariare, perseguitare perfino il proprio ex maestro Šebalin; l’uomo che si comportava come se da lui in persona dipendesse la firma di ogni singolo buono d’acquisto per carta da musica. Chrennikov, l’uomo eletto da Stalin, con il fiuto infallibile di un pescatore che ne riconosce da lontano un altro.

Fra coloro che si vedevano costretti a svolgere il ruolo di clienti nella bottega di Chrennikov circolava una storia sul suo conto. Un giorno, il Primo Segretario dell’Unione dei compositori fu convocato al Cremlino per discutere delle candidature al Premio Stalin. L’elenco come sempre era stato stilato dai membri dell’Unione, ma la scelta finale era appannaggio di Stalin. Quella volta, e per ragioni ignote, Stalin decise di non recitare la parte del paterno Timoniere, ma di rammentare al sottoposto il suo umile incarico. Chrennikov fu fatto entrare; Stalin lo ignorò, fingendosi indaffarato. L’ansia di Chrennikov crebbe finché Stalin non alzò gli occhi. Chrennikov farfugliò qualcosa riguardo all’elenco dei candidati. Per tutta risposta Stalin lo fulminò con lo sguardo, come si dice. E Chrennikov se la fece sotto, subito. Balbettò qualche scusa e fuggí in preda al panico dal cospetto del Potere. Appena fuori, trovò un paio di robusti infermieri, ben avvezzi a quel genere di reazione e pronti a prenderlo di peso, condurlo in un apposito locale, lavarlo con un tubo di gomma, pulirlo, dargli il tempo di ricomporsi e restituirgli i calzoni.

Tale comportamento non era affatto straordinario. E di certo nessuno si sarebbe sognato di disprezzare per una debolezza d’intestino un uomo al cospetto di un tiranno che poteva eliminare chicchessia per capriccio. No, il motivo per disprezzare Tichon Nikolaevič Chrennikov era un altro: quello di ricordare l’esperienza vergognosa con entusiasmo.

Ora Stalin non c’era piú, e non c’era piú Ždanov, e la tirannia era stata ripudiata, ma Chrennikov, inamovibile, continuava a leccare il culo ai nuovi potenti come aveva fatto coi vecchi; ammettendo che, sí, forse qualche errore c’era stato ma che a tutto si era posto felicemente rimedio. Chrennikov senza dubbio li avrebbe superati tutti quanti in durata, ma un giorno o l’altro anche lui sarebbe morto. A meno che questa specifica legge di natura a lui non si applicasse: a meno che Tichon Chrennikov fosse destinato a vivere per sempre, simbolo imperituro e necessario dell’uomo che ama il Potere e che sa come farsi ricambiare il sentimento. E se non Chrennikov in persona, allora i suoi doppi e i suoi eredi: sarebbero vissuti per sempre, senza curarsi di quanto potesse cambiare il mondo.

Gli piaceva pensare di non aver paura della morte. Era la vita a spaventarlo, non la morte. Secondo lui la gente avrebbe dovuto riflettere di piú sulla morte, abituarsi all’idea. Permetterle di insinuarsi di nascosto nella vita non era la soluzione migliore. Bisognava imparare a conoscerla. Scriverne, a parole, oppure, nel suo caso, in musica. Era sua convinzione che se si fosse cominciato a pensare alla morte per tempo nella vita, si sarebbero commessi meno errori.

Non che lui ne avesse commessi pochi, intendiamoci.

Anzi, a volte pensava che ne avrebbe commessi altrettanti anche senza farsi tante preoccupazioni sulla morte.

E altre volte pensava che forse era proprio la morte invece a terrorizzarlo piú di tutto il resto nella vita.

Il secondo matrimonio: ecco uno dei suoi sbagli. Nita era morta e, nemmeno un anno dopo, era morta anche sua madre. Le due presenze femminili piú forti della sua esistenza: le sue guide, maestre, protettrici. Si era sentito cosí solo. La sua opera poi, assassinata per la seconda volta. Sapeva di non essere capace di intraprendere relazioni superficiali con una donna: aveva bisogno di una moglie al fianco. E dunque, mentre svolgeva l’incarico di presidente di giuria per il Migliore canto di massa al Festival mondiale della gioventú, il suo sguardo si era posato su Margarita. A detta di alcuni, assomigliava a Nina Vasil’evna, ma lui non trovava. Lavorava per l’Unione della gioventú comunista e non è escluso che fosse stata messa deliberatamente sul suo percorso, il che comunque non costituiva un’attenuante. Per la musica aveva competenze nulle e interesse scarso. Aveva tentato di accontentarlo, ma non ci era riuscita. Non piaceva a nessuno dei suoi amici, i quali disapprovarono il matrimonio, che ovviamente ebbe luogo all’improvviso e in segreto. Galja e Maksim non l’accettarono – del resto che cosa poteva pretendere, per una donna che aveva preso il posto della madre cosí presto? –, e di conseguenza lei non accettò loro. Un giorno, mentre si stava lamentando dei bambini, lui le disse con aria serissima:

– Perché non li ammazziamo e poi viviamo per sempre felici e contenti?

Margarita non comprese il commento, e nemmeno parve coglierne l’ironia.

Si separarono, e poi divorziarono. Non era colpa di lei, ma tutta e solo sua. L’aveva messa a forza in una condizione insostenibile. Nella sua solitudine, si era spaventato. Beh, non si poteva dire che fosse una novità.

Oltre a organizzare un torneo di pallavolo, era anche stato arbitro di tennis. Una volta, in un centro termale per funzionari statali in Crimea, si era ritrovato ad arbitrare un incontro che coinvolgeva il Generale Serov, al tempo capo del Kgb. Ogniqualvolta il generale contestava un net o una palla fuori, lui si compiaceva della propria temporanea autorità. «Con l’arbitro non si discute», dichiarava. Ecco uno dei rarissimi colloqui con il Potere che lo avevano divertito.

Era stato un ingenuo? Certamente. D’altronde, si era cosí abituato a minacce e intimidazioni e ignobili brutalità da non riuscire a sospettare di elogi e parole benevole come avrebbe dovuto. E comunque, non si trattava solo di lasciarsi abbindolare. Ora che Nikita la pannocchia aveva stigmatizzato il Culto della Personalità, ora che gli errori di Stalin erano stati riconosciuti e alcune delle sue vittime riabilitate, seppure a posteriori, ora che la gente cominciava a fare ritorno dai campi e veniva pubblicata Una giornata di Ivan Denisovič, come potevano uomini e donne non sperare? Pazienza se la fine di Stalin significava la riabilitazione di Lenin, pazienza se i cambiamenti di linea politica avevano spesso il mero scopo di ingannare gli oppositori, e se il racconto di Solženicyn, a suo giudizio, presentava una realtà che ne mascherava una autentica dieci volte peggiore; in ogni caso, come potevano uomini e donne non sperare, o non credere che i nuovi governanti fossero meglio di quelli passati?

E naturalmente fu proprio a quel punto che le mani del Potere tornarono a tendersi per ghermirlo. Guardi come sono cambiate le cose, Dmitrij Dmitrievič, consideri la messe di onori che le è riservata, a conferma del ruolo di vanto della nazione che le si riconosce, pensi a come le è concesso di viaggiare all’estero e di ricevere premi e lauree in veste di ambasciatore dell’Unione Sovietica – guardi quanto sappiamo apprezzarla! Confidiamo che la dacia e lo chauffeur siano di suo gradimento, c’è qualcos’altro di cui ha bisogno, Dmitrij Dmitrievič, prego, ancora un goccio di vodka, l’auto la aspetterà comunque, per quanti brindisi possiamo fare. La vita sotto il Primo Segretario è talmente migliorata, non le pare?

E qualunque parametro di giudizio si applicasse, era innegabile che fosse migliorata. Lo era, nella misura in cui la vita di un detenuto in isolamento è migliorata se gli si concede un compagno di cella e gli si dà la possibilità di arrampicarsi fino alle sbarre e di riempirsi i polmoni di aria dell’autunno, e se la guardia non sputa piú nella minestra, o almeno non sotto gli occhi del prigioniero stesso. Sí, in questo senso era migliorata. Ed è per questo, Dmitrij Dmitrievič, che il Partito vuole stringerla al petto. Noi tutti ricordiamo le persecuzioni a cui è stato sottoposto durante l’era del Culto della Personalità, ma il Partito ha svolto un lungo e fruttuoso processo di autocritica. Oggi viviamo tempi piú felici. Dunque ciò che desideriamo è un riconoscimento da parte sua di quanto il Partito sia cambiato. Non è chiedere molto, no, Dmitrij Dmitrievič?

Dmitrij Dmitrievič. Tantissimi anni prima era nato per essere Jaroslav Dmitrievič. Finché suo padre e sua madre non si erano lasciati convincere dalla prepotenza di un prete a cambiargli nome. Si potrebbe dire che i suoi genitori si stessero solo mostrando beneducati e dovutamente tolleranti sotto il proprio tetto. Ma si potrebbe anche dire che lui era nato, o quantomeno che era stato battezzato, sotto una stella vigliacca.

L’uomo che scelsero per il suo Terzo e Ultimo Colloquio con il Potere fu Pëtr Nikolaevič Pospelov. Membro del Comitato centrale della Rsfsr, capo ideologo del Partito per l’intero decennio degli anni Quaranta, ex caporedattore della «Pravda», autore di uno dei volumi che lui non era riuscito a leggere ai tempi in cui il compagno Trošin si occupava di istruirlo. Una faccia plausibile con uno dei suoi sei Ordini di Lenin all’occhiello. Pospelov era stato convinto sostenitore di Stalin finché non era diventato un convinto sostenitore di Chruščëv. Era in grado di illustrare con eloquenza come la sconfitta impartita da Stalin a Trockij avesse preservato la purezza del leninismo in Unione Sovietica. Oggi come oggi Stalin era in disgrazia, ma Lenin era tornato in auge. Ancora qualche giro di ruota e a cadere in disgrazia sarebbe stato Nikita, l’uomo-pannocchia; qualche altro giro ancora e, chissà, forse Stalin e lo stalinismo avrebbero riacquistato consensi. Intanto, i vari Pospelov del mondo – come i Chrennikov – avrebbero continuato a fiutare i mutamenti prima che si manifestassero, tenendo un orecchio incollato a terra, l’occhio sempre vigile e l’indice inumidito puntato in aria per non farsi sfuggire il minimo cambiar del vento.

Ma poco importava. Contava solo un fatto: che Pospelov era il suo interlocutore in quell’ultimo e devastante Colloquio col Potere.

– Ho ottime notizie per lei, – annunciò Pospelov, prendendolo da parte durante un ricevimento al quale aveva deciso di andare perché non c’era verso che smettessero di invitarlo. – Nikita Sergeevič ha personalmente annunciato di voler promuovere la sua nomina a presidente dell’Unione dei compositori della Rsfsr.

– Un onore decisamente troppo grande, – aveva ribattuto lui, d’impulso.

– Ma che di certo non potrà rifiutare, se a proporlo è il Primo Segretario.

– Non ne sarei degno.

– Forse non spetta a lei giudicare i suoi meriti. Nikita Sergeevič gode in tal senso di prerogative migliori.

– Non potrei mai accettare.

– Andiamo, andiamo, Dmitrij Dmitrievič, lei ha accettato grandi onorificenze da tutto il mondo, e noi siamo stati lieti di stare a guardare. Dunque non riesco proprio a immaginare come potrebbe rifiutarne una in patria.

– Purtroppo non dispongo di molto tempo. Sono un compositore, non un presidente.

– Non le porterebbe via molto tempo. Faremmo in modo che non accada.

– Sono un compositore, non un presidente.

– Uno dei nostri piú grandi compositori viventi. Acclamato come tale in modo unanime. I suoi anni bui sono alle spalle. Per questo è cosí importante.

– Non la seguo.

– Dmitrij Dmitrievič, sappiamo tutti come abbia subíto certe conseguenze durante l’era del Culto della Personalità. D’altra parte, se mi posso permettere, è altrettanto vero che è stato piú protetto di moltissimi altri.

– Le posso assicurare che non era questa la mia percezione.

– Ecco perché è essenziale che ora accetti la presidenza. Per dimostrare che il Culto della Personalità è finito. Sarò franco con lei, Dmitrij Dmitrievič: i cambiamenti realizzati dal nostro Segretario hanno bisogno, per essere garantiti, dell’appoggio di pubbliche testimonianze e del conferimento di cariche come quella che le viene proposta.

– Sarò sempre lieto di firmare una testimonianza.

– Lei sa bene che non è questo che le sto chiedendo.

– Non ne sono degno, – aveva ripetuto, prima di aggiungere: – Non sono altro che un verme a paragone del Primo Segretario.

Dubitava che l’allusione potesse essere raccolta da Pospelov, il quale infatti si limitò a ridacchiare incredulo.

– Sono certo che saprà superare la sua innata modestia, Dmitrij Dmitrievič. Ma ne parleremo ancora, a tempo debito.

Ogni mattina, anziché recitare una preghiera, si ripeteva due poesie di Evtušenko. Una si intitolava La carriera e raccontava come si vive all’ombra del Potere:

C’era un altro scienziato, suo coetaneo,

di Galilei non meno perspicace.

Costui sapeva che la Terra gira,

ma aveva purtroppo famiglia.

La poesia parlava di coscienza e opposizione.

Ma, come sempre dimostra il tempo,

il piú insensato è il piú saggio.

Era proprio cosí? Non ne fu mai sicuro. La lirica si concludeva sottolineando la differenza tra ambizione e sincerità artistica.

Io mi sto facendo una carriera

appunto col non farla1!

Questi versi lo confortavano e lo confondevano allo stesso tempo. A dispetto di tutte le sue ansie e i timori e le buone maniere leningradesi, era in fondo un testardo che aveva cercato di perseguire in musica la verità per come l’aveva vista.

Ma la poesia La carriera parlava essenzialmente di coscienza; e la sua lo accusava. Dopotutto, a che serve la coscienza se, come la lingua con le carie ai denti, non va cercando debolezze, ambiguità, vigliaccherie, illusioni? Se lui andava dal dentista ogni due mesi sempre sospettando di avere qualcosa che non andava in bocca, beh, all’esame di coscienza procedeva quotidianamente, sempre sospettando di avere qualcosa che non andava nell’anima. Erano tante le cose di cui poteva accusarsi: omissioni, mancanze, compromessi, il tributo versato a Cesare. Certe volte vedeva se stesso come Galileo e contemporaneamente come l’altro scienziato, quello con la famiglia da sfamare. Era stato eroico quanto glielo consentiva la sua indole; ma la coscienza non mollava, e si accaniva a ripetere che si sarebbe potuto mostrare piú coraggioso.

Sperò e cercò, nelle successive settimane, di evitare Pospelov, ma una sera, eccolo di nuovo che gli veniva incontro fra chiacchiere, ipocrisie e calici traboccanti.

– Allora, Dmitrij Dmitrievič, ha avuto modo di riflettere?

– Oh, non merito tanto, come ho già detto.

– Ho comunicato a Nikita Sergeevič il suo consenso a prendere seriamente in considerazione la presidenza, aggiungendo che a trattenerla è solo la sua modestia.

Dmitrij Dmitrievič tacque per considerare quanto fosse stata manipolata e distorta la conversazione precedente, ma intanto Pospelov incalzava.

– Andiamo, andiamo, Dmitrij Dmitrievič, oltre un certo limite la modestia si può trasformare in presunzione. Confidiamo che lei voglia accettare, e lei accetterà. Naturalmente, sappiamo entrambi che in gioco qui non c’è solo la presidenza dell’Unione dei compositori della Rsfsr. È per questo motivo che non ho difficoltà a comprendere la sua esitazione. Ma siamo del parere unanime che adesso è proprio giunto il momento.

– Che momento?

– Beh, non penserà di poter diventare presidente dell’Unione senza entrare nel Partito. Andrebbe contro tutte le regole della costituzione. Ma non occorre certo che glielo dica io. È per questo che ha esitato. Posso tuttavia assicurarle che non incontrerà il minimo ostacolo. Si tratta giusto di mettere una firma su un apposito modulo. Del resto ci occuperemo noi.

All’improvviso si sentí come se gli avessero svuotato il corpo di ogni soffio d’aria. Come, perché non aveva capito dove si andava a parare? Per tutti gli anni del terrore, si era almeno potuto dire di non avere mai cercato di rendersi la vita piú facile iscrivendosi al Partito. E adesso, alla fine, ora che la grande paura era passata, erano venuti a reclamare la sua anima.

Cercò di ricomporsi prima di rispondere, ma ciò che disse proruppe comunque fuori a precipizio.

– Pëtr Nikolaevič, non sono adatto, né degno, non possiedo un’indole politica. Devo confessare di non aver mai afferrato appieno i principî base del marxismo-leninismo. A dirla tutta, una volta mi assegnarono perfino un tutore, il compagno Trošin, e io lessi doverosamente tutti i volumi che mi furono forniti, compreso, se non ricordo male, uno anche suo, ma i miei progressi furono talmente scarsi che temo si dovrà aspettare che mi attrezzi meglio.

– Dmitrij Dmitrievič, siamo tutti al corrente dell’incarico sciagurato e, me lo lasci dire, anche superfluo affidato al suo tutore politico. Che mortificazione per lei; un espediente davvero tipico della vita durante il Culto della Personalità. Ragione di piú per dimostrare quanto siano cambiati i tempi e come ai membri del Partito non necessariamente si richieda una profonda comprensione della teoria politica. Al giorno d’oggi, con Nikita Sergeevič, respiriamo tutti piú liberamente. Il Primo Segretario è un uomo ancora giovane i cui progetti coprono un vasto arco di tempo futuro. Per noi è importante che lei approvi pubblicamente la nuova via intrapresa, la nuova libertà che si respira.

Di sicuro al momento ne percepiva poca di libertà nell’aria, e tentò un’altra linea di difesa.

– La verità, Pëtr Nikolaevič, è che io sono un uomo religioso, e mi risulta che la fede non sia compatibile con l’appartenenza al Partito.

– Si tratta di una fede che lei ha saggiamente tenuto per sé per molti anni, com’è evidente. E dunque, non essendo nota, non costituisce un problema da superare. Non le manderemo certo un tutore che l’aiuti a liberarsi di questa, come posso dire, stravaganza anacronistica.

– Sergej Sergeevič Prokof’ev era un seguace del Cristianesimo scientista, – ribatté lui, pensoso. Consapevole che la battuta fosse poco pertinente, domandò: – Non mi dirà che intendete riaprire le chiese.

– No, non è questo che dico, Dmitrij Dmitrievič. Ma ora che circola un’aria tanto piú mite, chissà che cosa saremo presto liberi di discutere. Liberi, intendo, di discutere con il nostro nuovo e illustre capo del Partito.

– E comunque, – obiettò lui, virando dallo spirituale al personale, – e comunque, mi corregga se sbaglio, ma non esiste alcun motivo preciso per cui un presidente dell’Unione debba essere per forza membro del Partito.

– Sarebbe inconcepibile il contrario.

– Eppure Konstantin Fedin e Leonid Sobolev sono rappresentanti illustri dell’Unione degli scrittori, senza essere iscritti al Partito.

– È vero. Ma in quanti hanno sentito parlare di Fedin e Sobolev in confronto a quanti conoscono il nome di Šostakovič? No, quello che lei dice non ha senso. Lei è il piú famoso, il piú celebrato dei nostri compositori. Non sarebbe concepibile pensarla presidente dell’Unione e non membro del Partito. A maggior ragione se si considerano i grandi progetti che Nikita Sergeevič ha in serbo per lo sviluppo futuro della musica in Unione Sovietica.

Fiutando una possibile via di scampo, chiese: – Quali progetti? Non ho letto nulla a proposito di progetti musicali.

– Sfido io. È proprio lei che sarà invitato a formularli in collaborazione con una adeguata commissione.

– Ma come posso iscrivermi a un partito che ha messo al bando la mia musica?

– Di quale musica sta parlando, Dmitrij Dmitrievič? Mi perdoni, ma non…

– Di Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk. Fu messa al bando nell’era del Culto della Personalità, una prima volta, e una seconda, dopo che il Culto della Personalità era stato rovesciato.

– Sí, – replicò suadente Pospelov, – mi rendo conto che questo possa sembrare un problema. Ma lasci che le parli da uomo che bada alla sostanza delle cose. Il modo migliore e vincente per vedere la sua opera tornare in scena è quello di iscriversi al Partito. A questo mondo bisogna essere disposti a dare se si vuole avere qualche cosa in cambio.

La disonestà di quell’individuo lo mandava in bestia. E decise dunque di giocarsi la sua ultima carta.

– Allora lasci che anch’io le parli da uomo che bada alla sostanza delle cose. Io ho sempre detto, è stato anzi uno dei principî base della mia esistenza, che non mi sarei mai iscritto a un partito che ammazzava la gente.

Pospelov non si perse d’animo. – Ma è proprio questo il punto, Dmitrij Dmitrievič. Noi, il Partito, siamo cambiati. Oggi come oggi nessuno ammazza piú nessuno. Mi potrebbe fare il nome di una persona che sia stata uccisa sotto il regime di Nikita Sergeevič? Anche una sola? Al contrario, le vittime del Culto della Personalità tornano finalmente alla vita normale. I nomi dei reietti vengono riabilitati. Abbiamo bisogno di proseguire il nostro lavoro. Le forze reazionarie sono sempre in agguato e non devono essere sottovalutate. Ecco perché le chiediamo il suo aiuto, invitandola a unirsi alle forze progressiste.

Al termine di quell’incontro era sfinito. Ma ce ne fu un altro. E poi un altro ancora. Aveva l’impressione, ovunque si voltasse, di ritrovarsi di fronte Pospelov che gli si avvicinava con un bicchiere in mano. L’uomo si insinuò addirittura nei suoi sogni, con quella sua parlata melliflua, la voce pacata che pure rischiava di farlo ammattire. Aveva mai chiesto altro che di essere lasciato in pace? Si confidò con Glikman, ma non con la sua famiglia. Beveva, non riusciva a lavorare, aveva i nervi a pezzi. C’è un limite a quello che un uomo può sopportare nella vita.

1936; 1948; 1960. Erano venuti a cercarlo ogni dodici anni. Anni, naturalmente, tutte le volte bisestili.

«Non era in grado di vivere con se stesso». Ecco una frase fatta che può rispecchiare esattamente la verità. Sotto la pressione del Potere, il sé scricchiola, cede. Il vigliacco pubblico convive con l’eroe privato. O viceversa. Anzi, ancora piú spesso, il vigliacco pubblico convive con il vigliacco privato. Ma questa è una semplificazione: l’idea di un uomo spaccato in due a colpi di scure. Piú accurata l’immagine di un uomo ridotto in innumerevoli frantumi, che cerca invano di ricordare come essi un tempo costituissero un insieme.

Il suo amico Slava Rostropovič sosteneva che a maggiore talento artistico corrispondesse una superiore capacità di resistere alle persecuzioni. Forse era vero per gli altri, di certo lo era per Slava il quale, comunque, era un ottimista di natura. E poi piú giovane, e quindi ignaro di come fossero stati i decenni precedenti. O di cosa volesse dire sentirsi calpestare l’anima, i nervi. Una volta saltati, i nervi non potevano essere sostituiti come corde di violino. Veniva meno qualcosa in fondo all’anima, e che ti restava in cambio? Giusto una specie di scaltrezza strategica, la capacità di recitare la parte dell’artista fra le nuvole, e la ferma decisione di proteggere la tua musica e la tua famiglia ad ogni costo. Beh, pensò alla fine, in uno stato d’animo totalmente svuotato di ogni energia e volontà, forse il prezzo di oggi è proprio questo.

E dunque, cedette a Pospelov, come un moribondo cede al prete. O come un traditore, la mente annebbiata dalla vodka, cede al plotone di esecuzione. Contemplò l’ipotesi del suicidio, naturalmente, quando ebbe di fronte le carte da firmare; ma poiché già stava commettendo un suicidio morale, che utilità avrebbe avuto quello fisico? Non era neppure che gli mancasse il coraggio di comprare e nascondere e ingerire delle pillole. Piuttosto che, a quel punto, gli era venuta meno anche l’autostima necessaria per togliersi la vita.

In compenso era abbastanza vigliacco da scappare, come quando da bambino si sottraeva alla stretta della madre, in prossimità della casa di Jurgensen. Firmò il modulo di iscrizione al Partito e fuggí a Leningrado per andare a rintanarsi dalla sorella. Che si prendessero dunque l’anima, ma non il corpo. Che annunciassero pure che l’illustre compositore aveva dato prova di essere un autentico verme ed era entrato nel Partito per aiutare Nikita la pannocchia a realizzare le sue fantastiche quanto perfettamente vuote idee sul futuro della musica sovietica. Il suo decesso morale, tuttavia, sarebbe stato annunciato in sua assenza. Lui intendeva restare con la sorella, fino a cose fatte.

Poi cominciarono ad arrivare i telegrammi. L’annuncio ufficiale avrebbe avuto luogo a Mosca un certo giorno. La sua presenza non era auspicata, bensí richiesta. Non importa, pensò, io resto a Leningrado; se mi vogliono a Mosca dovranno legarmi e trascinarmi di peso. Il mondo doveva vedere come erano reclutati i nuovi iscritti al Partito: costretti e sballottati come sacchi di cipolle.

Che sprovveduto, che ingenuo: un coniglio spaventato. Spedí un telegramma nel quale diceva che non stava bene e si dichiarava dispiaciuto di non poter presenziare alla propria esecuzione. Risposero che in tal caso per l’annuncio si sarebbe atteso che si rimettesse in salute. Nel frattempo, è ovvio, la notizia era filtrata e si era diffusa in tutta Mosca. Telefonavano amici, giornalisti: di quali aveva piú paura? E dunque, al proprio destino non si sfugge. E dunque, fece ritorno a Mosca e lesse l’ennesima dichiarazione scritta per lui, nella quale dava conto di aver richiesto l’iscrizione al Partito e di aver ricevuto l’assenso. A quanto pare il Potere sovietico aveva infine deciso di amarlo: mai nella vita gli era toccato un abbraccio piú untuoso.

Quando aveva sposato Nina Vasil’evna, la paura gli aveva impedito di farlo sapere a sua madre se non a cose fatte. Quando si iscrisse al Partito, la paura gli impedí di dirlo ai figli. La linea della vigliaccheria era la sola che attraversasse dritta e leale la sua intera esistenza.

Maksim vide il padre piangere due volte soltanto: alla morte di Nina e quando entrò nel Partito.

E dunque, era un vigliacco. E dunque, ci si affanna a girare nella ruota come un criceto. E dunque, l’avanzo di coraggio che restava l’avrebbe messo tutto nella musica, destinando alla vita la vigliaccheria. No, troppo… consolatorio. Dire: Oh, perdonate, purtroppo sono un vigliacco e non ci posso fare niente; capirete, no, Vostra Eccellenza, compagno, Grande Condottiero, vecchio amico, moglie, figlia, figlio? Avrebbe semplificato le cose, e la vita non è mai semplice. Per esempio, aveva avuto terrore del potere di Stalin, ma non dell’uomo Stalin, né al telefono né di persona. Per esempio, era in grado di intercedere per altri laddove non sarebbe mai riuscito a farlo per se stesso. Certe volte sapeva sorprendersi. Dunque forse non era un caso del tutto disperato.

Ma essere un vigliacco non è facile. Molto piú facile essere un eroe. A un eroe basta mostrarsi coraggioso per un istante: quando estrae la pistola, quando lancia la bomba, attiva il detonatore, fa fuori il tiranno e poi se stesso. Essere un vigliacco significa invece imbarcarsi in un’impresa che dura una vita. Mai un po’ di riposo. C’è da anticipare l’occasione successiva in cui si dovrà tergiversare, mostrarsi servili, giustificarsi, riabituarsi al gusto di nuovi stivali da leccare e all’amarezza di constatare la propria rovinosa abiezione. Essere un vigliacco richiede costanza, fermezza, impegno a non cambiare, il che si risolve in una certa qual forma di coraggio. Sorrise tra sé e si accese un’altra sigaretta. Il piacere dell’ironia non l’aveva ancora del tutto abbandonato.

Dmitrij Dmitrievič Šostakovič si è iscritto al Partito comunista dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Non è possibile, perché non potrebbe mai e poi mai esserlo, come disse il Maggiore quando vide la giraffa. Ma si dà il caso che invece potesse, e lo fosse.

Aveva sempre amato il gioco del pallone, per tutta la vita, e a lungo aveva sognato di comporre un inno sportivo. Era un arbitro professionista. Teneva un apposito taccuino sul quale annotava i risultati della stagione calcistica. Da giovane era stato un tifoso della Dinamo e una volta era andato in aereo fino a Tbilisi per assistere a una partita. Era quello il punto: essere presenti all’evento mentre succedeva, circondato da folle di persone euforiche e urlanti. Al giorno d’oggi la gente guardava il calcio in televisione. Per lui, era come bere acqua minerale anziché vodka Stolichnaya, qualità oro da esportazione.

Il calcio era puro, e per questo in principio lo aveva amato. Un mondo fatto di onesta fatica e momenti di bellezza, un mondo in cui a decidere cosa era giusto e cosa sbagliato bastava un istante, il fischio dell’arbitro. Gli era sempre sembrato lontano dal Potere, dall’ideologia e dalla retorica vacua, capace di avvilire l’animo umano. Purtroppo, anno dopo anno, a poco a poco, si rese conto che era tutto frutto della sua fantasia, della sua idealizzazione sentimentale del gioco. Il Potere aveva strumentalizzato il calcio come tutto il resto. Dunque: se la società sovietica era la migliore e la piú progredita nella storia del mondo, era logico aspettarsi che il calcio rispecchiasse tale primato. E se non sempre poteva risultare al primo posto, doveva quantomeno essere migliore delle squadre di nazioni che avevano ignominiosamente perso di vista il luminoso sentiero del marxismo-leninismo.

Ricordava i Giochi olimpici di Helsinki nel 1952, quando l’Unione Sovietica aveva giocato contro la Jugoslavia, feudo di quello sgherro revisionistico della Gestapo che era Tito. Con sgomento e orrore generale la vittoria era andata agli jugoslavi, 3 a 1. Tutti si aspettavano di vederlo distrutto da quel risultato che aveva appreso dal notiziario radiofonico del mattino a Komarovo. Lui invece si era precipitato alla dacia di Glikman e insieme si erano scolati una bottiglia di cognac Fine Champagne.

In quell’incontro c’era stato ben di piú del semplice punteggio finale; era la prova della sozzura che pervadeva ogni ambiente, sotto la tirannia. Il caso Bašaškin-Bobrov: entrambi prossimi ai trenta, entrambi colonne della squadra. Anatolij Bašaškin, capitano e difensore; Vsevolod Bobrov, fulmineo autore di ben cinque reti nei primi tre incontri della nazionale. Nella partita che vide la sconfitta sovietica contro la Jugoslavia, una delle reti avversarie era stata in effetti il risultato di un errore madornale da parte di Bašaškin. E Bobrov gli aveva gridato, sia in campo che dopo la partita:

– Servo di Tito!

Un applauso unanime aveva accolto il commento, che poteva apparire solo come una battuta idiota se non fossero state note le possibili conseguenze di accuse del genere. E se Bobrov non fosse stato il migliore amico di Vasilij, il figlio di Stalin. Insomma, il servo di Tito contro Bobrov, il grande patriota. Una farsa che lo aveva disgustato. Il rispettabile Bašaškin perse il ruolo di capitano, mentre Bobrov assurse al rango di eroe sportivo nazionale.

Ecco il punto: qualcuno là fuori nel mondo, qualche giovane compositore, o pianista, qualche ottimista, qualche idealista senza macchia, come poteva aver giudicato Dmitrij Dmitrievič Šostakovič per aver richiesto l’iscrizione al Partito ed esserne stato accolto? Come il servo di Chruščëv?

Lo chauffeur suonò il clacson a un’auto che pareva puntare all’improvviso verso di loro. L’altra vettura fece altrettanto. Niente di piú: due suoni, semplicemente un paio di rumori meccanici. Ma Dmitrij Dmitrievič era in grado di cavare musica da quasi ogni combinazione e concomitanza sonora. La sua Seconda sinfonia conteneva quattro raffiche di sirena di fabbrica in Fa diesis.

Aveva una passione per gli orologi a pendolo. Ne possedeva un discreto numero e gli piaceva immaginare una dimora in cui tutte le pendole suonassero contemporaneamente. Al battere dell’ora ci sarebbe stata una perfetta armonia di suoni, la versione domestica, d’interni, di ciò che nelle vecchie cittadine e città russe doveva verificarsi quando tutte le campane delle chiese suonavano insieme. Sempre che lo facessero. Trattandosi della Russia, è probabile che una metà fosse in ritardo e l’altra metà in anticipo.

Nel suo appartamento moscovita, c’erano due orologi che battevano nello stesso preciso istante. Non per caso. Accendeva la radio un paio di minuti prima del segnale orario. Galja faceva in modo di trovarsi in sala da pranzo con lo sportello dell’orologio aperto, pronta a trattenere il pendolo con un dito. Lui intanto, in studio, faceva lo stesso con l’orologio sulla sua scrivania. Quando partiva il segnale radio entrambi lasciavano andare il pendolo e gli orologi suonavano insieme. Tanta metodica accuratezza non mancava mai di procurargli piacere.

Una volta era stato a Cambridge, ospite dell’ex ambasciatore britannico a Mosca. Anche in quella casa c’erano due pendole, che annunciavano la propria rispettiva presenza a un paio di minuti una dall’altra. Il che lo aveva disturbato. Si offrí di porre rimedio all’inconveniente adottando il metodo messo a punto con Galja per recuperare sincronia. L’ambasciatore lo ringraziò con garbo, ma disse che preferiva che gli orologi battessero l’ora separatamente: se capitava di non sentire bene il primo, si poteva sempre contare sull’altro, che di lí a poco avrebbe chiarito se erano, chessò, le tre o le quattro. Sí, certo, comprendeva, ma il fenomeno non smise di irritarlo. A lui piaceva che le cose battessero all’unisono. Era alla base del suo temperamento.

Aveva anche una passione per i candelabri. Lampadari muniti di candele anziché lampadine elettriche, e candelieri con la loro singola fiammella tremolante. Gli piaceva allestirli: assicurarsi che ogni candela fosse perfettamente verticale, e accendere lo stoppino una prima volta per un istante prima di soffiarci sopra, solo perché risultasse piú facile riaccenderlo quando si presentava la grande occasione. Al suo compleanno, ad esempio: una candela per ogni anno di vita. E gli amici sapevano quale fosse il dono piú gradito. Chačaturjan una volta gli regalò uno splendido candeliere a doppio braccio, in bronzo e gocce di cristallo.

Dunque, era un uomo che aveva una passione per gli orologi a pendolo e per i candelabri. Possedeva un’auto privata da prima della Grande Guerra Patriottica. Aveva uno chauffeur e una dacia. In casa sua c’erano da sempre dei domestici. Era un membro del Partito comunista e un Eroe del lavoro socialista. Abitava al settimo piano dell’edificio sede dell’Unione dei compositori sulla Neždanova. Da quando era deputato della Rsfsr, era sufficiente che scrivesse due parole al direttore del cinema di zona perché Maksim ricevesse subito un paio di biglietti omaggio. Aveva accesso ai negozi privati dove si servivano i membri della nomenklatura. Aveva fatto parte del comitato organizzatore per i festeggiamenti del settantesimo compleanno di Stalin. Spesso le autorizzazioni del Partito su questioni culturali recavano la sua firma. Compariva in immagini fotografiche che lo mostravano in compagnia dell’élite politica. Era tuttora il piú celebre compositore di Russia.

Chi lo conosceva, lo conosceva. Chi aveva orecchio poteva sentire la sua musica. Ma come poteva apparire a coloro che non lo conoscevano, ai giovani che cercavano di capire come funziona il mondo? Come avrebbero potuto non giudicarlo? Del resto, che impressione avrebbe fatto ora al se stesso di un tempo, se da un marciapiede avesse visto la sua faccia spiritata passare a bordo di un’auto dello stato? Forse era questa una delle tragedie che la vita ordisce contro di noi: che sia nostro destino diventare in vecchiaia ciò che in gioventú abbiamo piú disprezzato.

Partecipava alle riunioni del Partito secondo le direttive. Durante quegli interventi interminabili lasciava la mente libera di vagare, limitandosi ad applaudire quando lo facevano gli altri. In una particolare occasione, un amico gli chiese come mai avesse applaudito un discorso nel quale Chrennikov lo aveva violentemente attaccato. L’amico era convinto che volesse fare dell’ironia, o al contrario mortificarsi. La verità era che non aveva ascoltato.

Chi non lo conosceva e seguiva la musica solo a distanza, avrebbe comunque potuto constatare che il Potere aveva tenuto fede al patto di cui Pospelov si era fatto portavoce. Dmitrij Dmitrievič Šostakovič fu accolto nel sacro tempio del Partito, e poco piú di due anni dopo, la sua opera – ora ri-intitolata Katerina Izmajlova – fu autorizzata e messa in scena a Mosca. La «Pravda» commentò religiosamente che durante il Culto della Personalità il lavoro in questione aveva subíto un’ingiusta campagna denigratoria.

Seguirono ulteriori allestimenti, in patria e all’estero. Ogni volta, lui aveva modo di immaginare le opere che avrebbe composto se quella parte della sua produzione non fosse stata assassinata. Avrebbe potuto mettere in musica non soltanto il racconto Il naso, ma l’opera omnia di Gogol’. O perlomeno Il ritratto, che da tempo lo affascinava tornandogli ossessivamente in testa. Era la storia di un certo Čartkov, pittore di talento pronto a vendere l’anima al diavolo in cambio di un sacchetto di monete d’oro: un patto faustiano in grado di garantire all’artista successo e popolarità. Alla sua carriera fa da contrasto quella di un collega che si è allontanato molto tempo prima per andare a studiare e lavorare in Italia, e la cui rettitudine risulta direttamente proporzionale alla scarsa notorietà. Pur non facendo mai ritorno in patria, questi spedisce all’Accademia un unico dipinto capace tuttavia di gettare un’ombra di vergogna sull’intera opera di Čartkov, e Čartkov ne è consapevole. La morale pressoché biblica del racconto è: «Chi racchiude in sé la fiamma dell’ingegno, deve essere piú puro nell’animo di chiunque altro».

Nel racconto Il ritratto è evidente la doppia possibilità di scelta: integrità o corruzione – dove l’integrità risulta simile alla verginità che, una volta perduta, non è piú recuperabile. Ma nel mondo reale, specie nella sua versione estrema che Dmitrij Dmitrievič aveva attraversato, le cose stavano diversamente. Era data infatti una terza alternativa: integrità e corruzione. Era possibile essere al tempo stesso Čartkov e il suo mortificante alter ego. Proprio come si poteva essere tanto Galileo quanto l’altro scienziato.

Ai tempi dello zar Nicola I un ussaro aveva rapito la figlia di un generale. Peggio – o meglio ancora: se l’era poi anche sposata. Il generale andò a protestare dallo zar. Nicola risolse la vertenza decretando prima di tutto che il matrimonio era nullo; e, in secondo luogo, che la ragazza era tornata vergine. Era tutto possibile nella terra degli elefanti. E ciononostante, lui non credeva esistesse un uomo di potere né un miracolo in grado di restituirgli la verginità.

A posteriori le tragedie somigliano a farse. Lo diceva da sempre, ci aveva sempre creduto. Il suo caso non era diverso. In certi momenti la sua vita, come quella di tanti altri, come quella del suo paese, gli era sembrata una tragedia; una tragedia il cui protagonista aveva a disposizione solo il suicidio, per risolvere il proprio dilemma intollerabile. Lui però non lo aveva fatto. No, non era un eroe shakespeariano lui. Cosí, adesso che era vissuto anche troppo a lungo, cominciava a vedere perfino la propria esistenza come una farsa.

A proposito di Shakespeare: col senno di poi si chiese se non era stato ingiusto nel giudicarlo. Lo aveva considerato un sentimentale perché i suoi tiranni provavano sensi di colpa e rimorsi, facevano brutti sogni. Adesso che sulla vita la sapeva piú lunga, che era stato assordato dal rumore del tempo, gli pareva invece che Shakespeare potesse aver avuto ragione, che potesse aver raccontato la verità; seppure solo per i suoi tempi. Nella giovinezza del mondo, quando a dominare erano magia e religione, non era impossibile che i mostri avessero una coscienza. Non oggi tuttavia. Il mondo era progredito, aderendo sempre di piú alle leggi della scienza e della realtà, e sempre meno al potere delle vecchie superstizioni. Anche i tiranni non erano gli stessi. Forse, essendo venuta meno la funzione evoluzionistica della coscienza, si era proceduto a eliminarla per selezione. Provate a insinuarvi sotto la pelle di un tiranno moderno, a scendere in profondità, strato dopo strato, e scoprirete che la consistenza non cambia, che sotto il granito c’è altro granito; che non esiste caverna nella quale si annidi alcuna coscienza.

Due anni dopo il suo ingresso nel Partito, si sposò un’altra volta, con Irina Antonovna. Suo padre era stato una vittima del Culto della Personalità; lei stessa era cresciuta in un istituto per figli dei nemici dello stato; ora lavorava nell’editoria musicale. Qualche inconveniente c’era: Irina aveva ventisette anni, appena due piú di Galja, ed era già sposata con un uomo piú anziano di lei. Va da sé inoltre che anche questo terzo matrimonio fu improvviso e segreto come gli altri. La novità per Dmitrij Dmitrievič era invece avere una moglie che amava la musica e la vita domestica, una donna tanto pratica ed efficiente quanto adorabile. E che fece di lui un marito timidamente, teneramente devoto.

Avevano promesso di lasciarlo in pace. Non lo fecero mai. Il Potere continuò a parlargli, ma non si trattava piú di colloqui, bensí di discorsi a senso unico e di una quotidiana banalità: lusinghe, velate insistenze, richieste. Ormai una scampanellata notturna alla porta non annunciava piú la presenza dell’Nkvd, del Kgb o dell’Mvd, ma piuttosto di un messo zelante che gli recapitava il testo di un suo articolo per la «Pravda» in uscita il mattino dopo. Un articolo che non aveva mai scritto, ovviamente, ma sul quale era necessaria la sua firma. Non gli dava neppure un’occhiata, limitandosi a scarabocchiarci sopra le iniziali. E lo stesso accadeva per articoli piú ambiziosamente accademici che comparivano a suo nome sulla «Sovetskaja muzyka».

– Ma questo cosa vorrà dire, Dmitrij Dmitrievič, quando pubblicheranno i suoi scritti completi? – Vorrà dire che non varrà la pena leggerli. – Ma la gente comune sarà portata a fraintendere. – Considerate le proporzioni attuali dei malintesi ai quali è stata indotta la gente comune, direi che un articolo di ambito musicologico spacciato per opera di un compositore che al contrario non ne sia l’artefice, farà pochissima differenza. Quanto a me, se dovessi leggerli e apportare alcune correzioni qua e là, mi sentirei molto piú compromesso.

Ma c’era di peggio, di molto peggio. Aveva firmato un’odiosa lettera pubblica contro Solženicyn, sebbene ammirasse lo scrittore e rileggesse continuamente i suoi romanzi. Poi, qualche anno piú tardi, altra odiosa invettiva, contro Sacharov questa volta. La sua firma compariva accanto a quelle di Chačaturjan, Kabalevskij e, naturalmente, di Chrennikov. Una parte di lui si illudeva che nessuno avrebbe creduto – che nessuno potesse credere – che quanto era scritto su quelle lettere corrispondesse davvero al suo pensiero. La gente invece ci credette. Amici e colleghi si rifiutarono di stringergli la mano, gli voltarono le spalle. C’erano dei limiti alla forza dell’ironia: non puoi firmare una lettera tappandoti il naso e incrociando le dita dietro la schiena, dando per scontato che gli altri intuiscano il tuo livello di dissociazione. E dunque, aveva tradito le indicazioni di Čechov: aveva scritto un atto d’accusa. Aveva tradito se stesso, e la buona opinione che gli altri conservavano di lui. Era vissuto troppo a lungo.

Aveva anche imparato come si può distruggere l’anima di un uomo. Beh, vivere non è una passeggiata per i campi, come si dice. Un’anima può essere distrutta in uno dei seguenti tre modi: attraverso ciò che ti fanno gli altri; attraverso ciò che gli altri ti costringono a fare a te stesso; e attraverso ciò che tu stesso decidi di farti. Ognuno di questi metodi è di per sé sufficiente; certo in presenza di tutti e tre, il risultato è impareggiabile.

Pensava alla propria vita come strutturata in cicli di sventura a cadenza dodecennale. 1936, 1948, 1960… Altri dodici anni e si arrivava al 1972, anno ineluttabilmente bisestile, e dunque data in cui si aspettava proprio di poter morire. Di sicuro lui fece del proprio meglio. La sua salute, da sempre cagionevole, era peggiorata al punto da non permettergli di salire nemmeno un piano di scale. Gli erano stati proibiti alcol e sigarette, divieti che da soli sarebbero certamente bastati a uccidere un uomo. Inoltre, il Potere vegetariano cercava di rendersi utile, ordinandogli di spostarsi da un confine all’altro della nazione, ora per una prima teatrale, ora per ritirare qualche onorificenza. Alla fine dell’anno era ricoverato in ospedale per calcoli renali, senza farsi mancare la radioterapia per una cisti polmonare. Era stoico, come ammalato; ad angosciarlo non era tanto il suo stato di salute quanto le reazioni della gente. La pietà lo metteva a disagio non meno degli elogi.

Tuttavia, a quanto pare doveva aver frainteso: la sventura che il 1972 aveva in serbo per lui non era quella di morire, bensí di continuare a vivere. Ce l’aveva messa tutta, ma la vita non aveva ancora finito, con lui. La vita era il gatto che trascina il pappagallo per la coda giú per le scale facendogli battere la testa a ogni gradino.

Quando saranno passati questi tempi… se mai passeranno, non prima di 200 000 000 000 di anni. Il buon Carletto e i suoi successori si affannavano a denunciare le contraddizioni interne del capitalismo che avrebbero indiscutibilmente, logicamente condotto il sistema allo sgretolamento. Eppure il capitalismo reggeva. Chiunque dotato di occhi si sarebbe accorto delle contraddizioni interne del comunismo; ma chi poteva sapere se sarebbero bastate a farlo crollare? La sola cosa che gli era chiara era che quando, e se, quei tempi fossero passati, la gente avrebbe voluto una versione semplificata di come erano andate le cose. In fondo, era un loro diritto.

Uno per sentire, uno per ricordare, uno per bere, come dice il proverbio. Dubitava che sarebbe riuscito a smettere di bere, comunque la pensassero i medici; smettere di sentire era fuori questione, e soprattutto, peggio che mai, non poteva smettere di ricordare. Quanto avrebbe voluto poter disinnescare la memoria a piacere, come si mette in folle il motore di un’auto. Lo facevano una volta gli chauffeur quando si trovavano in cima a una salita, o avevano raggiunto la velocità massima: viaggiavano in folle per risparmiare carburante. Peccato che, con la memoria, non sia dato di fare lo stesso. Il suo cervello opponeva resistenza ad accogliere fallimenti, umiliazioni, decisioni sbagliate, disprezzo di sé. Avrebbe preferito ricordare solo quel che voleva: la musica, Tanja, Nina, i suoi genitori, gli amici sinceri e leali, Galja che gioca con il maialino, Maksim che imita il poliziotto bulgaro, un bel tiro in rete, la gioia, le risate, l’amore della sua giovane moglie. E tutto questo, in effetti, lo ricordava, ma troppo spesso era soffocato e inestricabile da ciò che non avrebbe voluto invece ricordare. Era quella impurità, quella contaminazione della memoria, a tormentarlo.

Col passare degli anni i suoi tic nervosi e i gesti automatici aumentarono. Riusciva a restare calmo e in silenzio solo quando era con Irina; ma gli bastava trovarsi su un palco, o a una cerimonia ufficiale, perfino a una riunione di gente solidale con lui, e a stento gli riusciva di stare fermo. Si grattava la testa, si stringeva il mento nel pugno, si premeva indici e mignoli nella carne della guancia; scattava e si agitava come chi aspetti di essere preso e messo agli arresti. Quando ascoltava la propria musica, a volte si copriva la bocca con entrambe le mani, quasi a significare: Non date retta a quel che può uscire dalla mia bocca, fidatevi solo di ciò che vi dicono le orecchie. Oppure si sorprendeva a pizzicarsi il petto, come per assicurare se stesso di non essere finito in un sogno, o come per alleviare il prurito di improvvise punture di zanzare.

Suo padre, di cui doverosamente portava il nome, era spesso nei suoi pensieri. Un uomo gentile, spiritoso, sempre col sorriso sulle labbra: lui sí che era uno «Šostakovič ottimista» se mai ce n’era stato uno. Dmitrij Boleslavovič non si presentava mai nei ricordi del figlio senza un gioco in mano e un canto in gola: sempre a scrutare da sopra il pince-nez un mazzo di carte o un rompicapo metallico; sempre a fumare la pipa, a guardare i suoi figli crescere. Un uomo che non visse abbastanza a lungo da poter deludere gli altri né da lasciarsi deludere dalla vita.

«Sono sfioriti da tempo i crisantemi nel giardino…», e poi, come continuava? Ah, sí, «Ma l’amore rimane nel mio cuore malato». Sorrideva anche il figlio, ma non come il padre. Aveva il cuore malato di un altro male, e gli erano già toccati due attacchi. Un terzo era in arrivo, perché ormai era in grado di riconoscerne il segno premonitore: quando bere vodka non gli procurava piú alcun piacere.

Suo padre era morto l’anno prima che lui conoscesse Tanja: giusto? Tat’jana Glivenko, il suo primo amore, che gli diceva di amarlo per la sua purezza. Si erano mantenuti in contatto e, piú avanti negli anni, lei era solita dire che se solo si fossero incontrati qualche settimana prima al sanatorio, l’intero corso delle loro vite sarebbe stato diverso. Il loro amore sarebbe stato abbastanza saldo da non temere di essere estirpato quando fosse giunto il momento di separarsi. Era stato quello il loro destino mancato, il futuro di cui una pura casualità di giorni sul calendario li aveva derubati. Forse. Lui sapeva anche quanto la gente ami romanzare la propria esistenza e ossessionarsi a posteriori su decisioni che a tempo debito aveva preso senza riflettere. Sapeva inoltre che il Destino con la maiuscola è tutto racchiuso nelle parole E dunque.

In ogni caso erano stati il primo amore l’uno dell’altra e lui continuava a pensare a quelle settimane trascorse ad Anapa come a un idillio. Sebbene un idillio divenga tale solo una volta concluso. Nella dacia di Žukovka era stato installato un ascensore che dall’ingresso saliva direttamente alla sua camera. Ma trattandosi dell’Unione Sovietica, leggi e regolamenti imponevano che ad azionare un ascensore, ancorché all’interno di una residenza privata, fosse un addetto qualificato. Dunque, che cosa si fece venire in mente Irina Antonovna, che si occupava di lui in modo cosí straordinario? Di iscriversi all’apposita scuola per ottenere la certificazione necessaria. Chi avrebbe mai detto che il suo destino fosse di ritrovarsi sposato con un’addetta qualificata al funzionamento di un ascensore?

Non che facesse confronti fra Tanja e Irina, fra primo e ultimo amore; il punto non era quello. Voleva molto bene a Irina, che faceva di tutto per rendergli la vita sopportabile e relativamente buona. Al momento tuttavia le sue possibilità di azione si erano enormemente ridotte. Mentre nei giorni trascorsi sul Caucaso erano senza limite. Ma è solo il tempo che ci fa questo, nient’altro.

Prima di raggiungere Tanja ad Anapa c’era stata l’esecuzione della sua Prima sinfonia nei giardini di Char’kov. Un vero disastro, qualunque parametro di giudizio si volesse applicare. Gli archi erano fiacchi; il pianoforte in pratica non si sentiva; i timpani soverchiavano tutto; il primo fagotto era scarso in modo imbarazzante, e il direttore compiaciuto; al principio l’intera popolazione canina della città si era unita al concerto, suscitando un’ilarità incontenibile fra gli ascoltatori. Ciononostante si parlò di un grande successo. Un pubblico di ignoranti applaudí forte e a lungo; il compiaciuto direttore incassò gli elogi; l’orchestra tenne in piedi l’illusione di una certa qual competenza, e intanto si chiese al compositore di salire sul palco e profondersi in inchini di ringraziamento rivolti a tutti e a ciascuno. La cosa lo irritò parecchio, è vero, ma altrettanto vero è che era abbastanza giovane da gustarsi l’ironia del momento.

«Un poliziotto bulgaro che si allaccia gli scarponi», annunciava Maksim agli amici di suo padre. Quel bambino aveva da sempre una passione per gli scherzi e gli sfottò, come per fionde e fucili ad aria compressa, e nel corso degli anni aveva messo a punto il suo numero comico alla perfezione. Si presentava con i lacci che pendevano dagli scarponi, e aggrottando la fronte trascinava una sedia fino al centro della stanza, badando a sistemarla nella posizione migliore. Dopodiché assumeva un’espressione tronfia e, usando tutte e due le mani, sollevava il piede destro e lo appoggiava sulla sedia. Si guardava intorno con aria compiaciuta per la semplicità del suo trionfo. Infine, con una manovra impacciata di cui a tutta prima il pubblico non afferrava il senso, si chinava ignorando il piede sulla sedia per allacciare l’altra scarpa, quella del piede a terra. Immensamente soddisfatto del risultato, cambiava gamba sollevando il sinistro in posizione, prima di chinarsi ad allacciare lo scarpone destro. Quando aveva finito, tra scrosci di risa degli astanti, si alzava quasi sull’attenti, si controllava gli scarponi allacciati con successo, annuiva e rimetteva a posto la sedia, con lenti gesti solenni.

La gente lo trovava tanto spassoso, secondo lui, non solo perché Maksim era un commediante nato, non solo perché le battute sui bulgari piacevano a tutti, ma anche per un’altra ragione, piú profonda: perché quella scenetta era immensamente significativa. Rappresentava manovre complicatissime per raggiungere il piú banale dei fini; era stupidità, autocompiacimento, impermeabilità all’opinione altrui, ripetizione dello stesso errore. E tutto questo, moltiplicato e diffuso su milioni e milioni di esistenze, non rispecchiava forse il modo in cui funzionavano le cose sotto il sole della costituzione staliniana: un interminabile catalogo di farsette che, per accumulo, davano vita a un’immensa tragedia?

Oppure, volendo utilizzare un’immagine diversa, un’immagine tratta dalla sua infanzia: la loro casa estiva di Irinovka, quella sulla tenuta dal terreno ricco di torba. La casa uscita da chissà quale sogno o incubo, con le sue stanze spaziose e le finestre piccolissime che facevano ridere gli adulti e rabbrividire di paura i bambini. Adesso si rendeva conto che era cosí anche il paese dove lui era vissuto per tanto tempo. Era come se, nel realizzare il progetto della Russia sovietica, gli architetti fossero stati attenti, seri, meticolosi e bene intenzionati, ma avessero fallito a livello di competenze elementari, scambiando metri per centimetri o talvolta viceversa. Con il risultato che la Casa del Comunismo aveva proporzioni sbagliate, fuori scala rispetto alle misure umane. Procurava sogni, procurava incubi e terrorizzava tutti quanti, gli adulti non meno dei bambini.

Quell’espressione utilizzata dagli zelanti burocrati e musicologi incaricati di esaminare la sua Quinta sinfonia sarebbe stata perfetta per la Rivoluzione stessa, e per la Russia che ne era uscita: una tragedia ottimistica.

Come non era in controllo del proprio rammemorare, allo stesso modo non si poteva impedire un costante, e vano, interrogarsi. Gli ultimi quesiti della vita di un uomo restano senza risposta; è nella loro natura. Si limitano a gemergli nella testa, come sirene di fabbrica in Fa diesis.

E dunque: il tuo talento si stende sotto di te come uno strato di torba? Quanto ne hai raccolto? Quanto ne rimane intatto? Solo pochi artisti si limitano a coglierne le parti migliori; sempre che le riconoscano come tali. Quanto a lui, trent’anni prima se non di piú, vi avevano eretto una recinzione di filo spinato tutto attorno, con tanto di cartello che ammoniva: VIETATO SUPERARE QUESTA LINEA. Chi era in grado di dire che cosa si trovava, o si sarebbe potuto trovare, al di là della recinzione?

Altra domanda collegata alla prima: quanta cattiva musica è concessa a un buon compositore? Un tempo, pensava di avere la risposta; adesso, invece, non aveva idea. Aveva scritto tanta cattiva musica per un mucchio di brutti film. In un certo senso si poteva sostenere che la pessima qualità della sua musica, peggiorando anche quella dei film, avesse reso un servizio alla verità e all’arte. O erano soltanto dei sofismi?

Il lamento finale che aveva nella testa riguardava la sua vita come la sua arte. Ed era questo: a che punto il pessimismo gira in disperazione? I suoi ultimi brani di musica da camera si occupavano di articolare l’interrogativo. Al violista Fëdor Družinin disse che il primo movimento del Quindicesimo quartetto andava suonato in modo che «le mosche morissero stecchite in volo e il pubblico abbandonasse la sala dalla noia».

Si era affidato da sempre all’ironia. Immaginava che quel suo tratto avesse origine dove di solito si genera: vale a dire nel vuoto tra come immaginiamo o supponiamo o speriamo si risolva la nostra vita e come di fatto si risolve. L’ironia diventa dunque un’arma di difesa del sé e dell’anima; concede il respiro un giorno dopo l’altro. In una lettera definisci qualcuno «persona meravigliosa» e il destinatario sa di dover interpretare l’opposto. L’ironia permette di fare il verso al gergo del Potere, di leggere discorsi inani scritti a tuo nome, di mostrarsi contrito per l’assenza del ritratto di Stalin nel tuo studio mentre dietro la porta socchiusa tua moglie rischia di soffocare in una risata proibita. Accogli con entusiasmo l’insediamento di un nuovo ministro della Cultura commentando che i circoli musicali progressisti andranno in estasi all’annuncio, avendo da sempre riposto nella persona le loro piú alte speranze. Componi il movimento finale della tua Quinta sinfonia come se dipingessi la smorfia di un pagliaccio sul volto di un cadavere, e poi ascolti con fare compassato la reazione del Potere: «Ecco, si vede bene che è morto nella gioia, certo della giustizia e dell’ineluttabile trionfo della Rivoluzione». E una parte di te si persuade che fino a quando riuscirai a contare sull’ironia ce la farai a sopravvivere.

Prendiamo l’anno in cui si era iscritto al Partito, quando aveva composto il suo Ottavo quartetto: agli amici disse che in cuor suo l’opera era stata scritta «in memoria del compositore». Il che chiaramente sarebbe stato visto dalle autorità come un inaccettabile gesto pessimista ed egocentrico. Perciò, nello spartito pubblicato, la dedica alla fine recitava: «In Memoria delle Vittime del Fascismo e della Guerra». Un’incommensurabile miglioria, l’avrebbero senz’altro giudicata. In realtà, lui si era limitato a volgere al plurale il dedicatario singolare.

Ma quella sicurezza gli era venuta meno. Poteva celarsi qualche vanità, nell’ironia, come, nella protesta, una dose di compiacimento. Un moccioso di campagna che lancia un torsolo di mela alla vettura con autista di passaggio. Il mendicante sbronzo che si cala i pantaloni e snuda il deretano per mostrarlo a gente rispettabile. L’illustre compositore sovietico che contrabbanda raffinatezze ironiche dentro una sinfonia o un quartetto per archi. C’era qualche differenza, nel movente, come nell’effetto?

L’ironia, gli aveva reso noto l’esperienza, non era meno vulnerabile alla vita e al tempo di qualsiasi altro senso. Una mattina ti svegli e non sai piú se sapresti ironizzare e, anche in caso affermativo, se avrebbe ancora importanza e se qualcuno se ne accorgerebbe. Pensavi di gettare fasci di luce ultravioletta ma ti chiedi: e se fosse passata inosservata perché eccede lo spettro luminoso di chiunque ti circondi? Nel suo primo concerto per violoncello aveva inserito un’allusione a Suliko, la canzone preferita da Stalin. Ma Rostropovič ci aveva suonato sopra senza accorgersene. Se il riferimento doveva essere segnalato a Slava, chi altri al mondo avrebbe mai potuto coglierlo?

Inoltre, l’ironia aveva i suoi limiti. Non esistevano ad esempio torturatori ironici, e nemmeno torturati ironici, del resto. Analogamente, non ci si poteva iscrivere con ironia al Partito. Lo si poteva fare in modo onesto, o cinico, ma erano le sole alternative. Senza contare che, agli occhi di un esterno, forse la differenza non aveva alcun significato perché entrambe le modalità potevano risultare esecrabili. Il suo se stesso di un tempo, dal ciglio della strada, avrebbe visto un vecchio girasole appassito nel retro di un’auto, non piú rivolto al sole della costituzione staliniana magari, ma pur sempre eliotropico, pur sempre attratto dalla fonte di luce del Potere.

Se le volti le spalle, l’ironia si guasta in sarcasmo. E a che serve, a quel punto? Il sarcasmo è l’ironia dopo che ha perduto l’anima.

Sotto il vetro della sua scrivania nella dacia di Žukovka c’era un’enorme foto di un Musorgskij immusonito e orsino che lo esortava a mettere da parte i lavori scadenti. Sotto il vetro della scrivania nell’appartamento di Mosca c’era un’enorme foto di Stravinskij, sommo compositore del secolo, che lo esortava a scrivere la miglior musica possibile. Inoltre sempre, sul comodino da notte, stava la cartolina che aveva portato da Dresda, il Cristo della moneta di Tiziano.

I farisei avevano tentato di imbarazzare Gesú domandandogli se i giudei dovessero versare le tasse a Roma. Nel corso della storia, sempre i Potenti avevano cercato di imbrogliare e corrompere coloro da cui si sentivano minacciati. Lui stesso aveva fatto il possibile per evitare le trappole del Potere; e lui certo non era Gesú Cristo, solo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič. E mentre la risposta di Gesú al fariseo che gli mostrava l’effigie dorata di Cesare era stata di fatto convenientemente ambigua – non specificando con esattezza che cosa appartenesse a Dio e che cosa a Cesare –, nel suo caso non poteva utilizzare la battuta. «Date all’arte quello che è dell’arte»? Ma quello era il credo di estetismo, formalismo, pessimismo egocentrico, revisionismo, e di tutti gli altri -ismi che gli avevano sbattuto in faccia nel corso degli anni. Frattanto, la risposta del Potere sarebbe stata sempre identica: «Ripetete dopo di me, – avrebbe detto: – L’ARTE APPARTIENE AL POPOLO – V. I. LENIN. L’ARTE APPARTIENE AL POPOLO – V. I. LENIN».

E dunque, sarebbe morto di lí a poco, entro il prossimo anno bisestile probabilmente. Poi, uno a uno, sarebbero morti tutti quanti: i suoi amici come pure i nemici; chi comprendeva la complessità della vita sotto una tirannia e chi lo avrebbe preferito un martire; chi conosceva e amava la musica e un manipolo di anziani che ancora fischiettava la Canzone del contropiano senza nemmeno sapere chi l’avesse scritta. Tutti sarebbero morti, tutti, tranne, forse, Chrennikov.

Negli ultimi anni utilizzò sempre piú spesso l’indicazione di «morendo» nei suoi quartetti per archi; come uno spegnersi, come un’agonia. A specchio della sua esistenza, in effetti. D’altronde poche vite si concludono con un fortissimo e in maggiore. E nessuno se ne va al momento giusto. Musorgskij, Puškin, Lermontov: tutti e tre morti troppo presto. Čajkovskij, Rossini, Gogol’, e fors’anche Beethoven, morti al contrario troppo tardi. Non si trattava naturalmente di un problema che riguardasse solo scrittori celebri e compositori, ma anche i comuni mortali: il guaio di sopravvivere al proprio tempo migliore, di raggiungere un punto della vita che non può piú procurare nessuna gioia, ma solo delusioni ed eventi catastrofici.

Dunque, a lui era toccato vivere abbastanza da sconcertare se stesso. Capitava di frequente agli artisti: di soccombere alla vanagloria, finendo col pensarsi piú grandi di quanto non sia vero, oppure alla delusione. Negli ultimi tempi, lui era incline a reputarsi un compositore scialbo, mediocre. L’insicurezza del giovane è niente in confronto a quella del vecchio. Ed era questo, forse, il loro trionfo definitivo su di lui. Anziché ucciderlo, gli avevano concesso di vivere e, cosí facendo, erano riusciti a ucciderlo. Eccola, l’estrema irrefutabile ironia della sua vita: che lo avessero ucciso, permettendogli di vivere.

E dopo la morte? Provava l’impulso a levare silenziosamente il calice in un brindisi: «Con l’augurio che adesso le cose smettano di migliorare!» Se la morte giungeva come un sollievo dalla vita e dalle sue umiliazioni bordate di astrakan, non si aspettava comunque che le cose diventassero meno complicate dopo. Prendi quel che era successo al povero Prokof’ev. Cinque anni dopo la sua morte, giusto quando si procedeva a montare le targhe commemorative in giro per Mosca, la prima moglie aveva dato indicazione agli avvocati affinché annullassero il secondo matrimonio del compositore. E su quali basi, poi! In virtú del fatto che dal suo ritorno in Russia, nel 1936, Sergej Sergeevič era stato impotente. Pertanto il secondo matrimonio non poteva essere stato consumato, pertanto lei, la prima moglie, risultava unica coniuge legale e pertanto unica legale erede. La signora richiedeva al medico che aveva visitato Sergej Sergeevič qualcosa come vent’anni prima una deposizione scritta giurata che dichiarasse l’impotenza del paziente un fatto incontestabile.

Era cosí che succedeva. Venivano a rovistarti fra le lenzuola. Ehi, Shosty, preferisci le bionde o le brune? Erano a caccia di qualsiasi debolezza, di qualunque macchia. E qualcosa scovavano immancabilmente. Pettegoli e inventori di storie avevano una loro definizione di formalismo, come diceva Sergej Sergeevič Prokof’ev; l’atteggiamento da parte loro è il seguente: qualsiasi cosa non capiscano al primo ascolto ha buone probabilità di essere immorale o ripugnante. Dunque avrebbero fatto quello che volevano con la sua vita.

Quanto alla musica, non era vittima dell’illusione che il tempo avrebbe saputo separare il grano dalla pula. Non vedeva perché i posteri avrebbero dovuto saper misurare la qualità meglio di coloro per i quali la sua musica era stata scritta. Era troppo scettico per credere a una cosa simile. I posteri avrebbero manifestato le proprie preferenze, come tutti. Conosceva anche troppo bene l’altalena cui era sottoposta la reputazione dei compositori; come certi fossero ingiustamente dimenticati e altri assurgessero misteriosamente all’immortalità. Il suo personale, modesto desiderio per il futuro era che la canzone Sono sfioriti da tempo i crisantemi continuasse a commuovere la gente, per quanto mal cantata e diffusa in un misero caffè da un altoparlante che gracchiava; e che, in tempi un poco piú lontani, un pubblico potesse emozionarsi in silenzio all’ascolto di un suo quartetto per archi e che forse, un giorno non troppo remoto, i due tipi di pubblico potessero sovrapporsi e mescolarsi fra di loro.

Alla famiglia aveva dato istruzioni di non preoccuparsi della sua «immortalità». La sua musica doveva farsi strada per merito e non grazie a chissà quale campagna postuma. Fra i numerosi postulanti che attualmente lo assediavano c’era la vedova di un ben noto compositore, il cui ritornello era: «Mio marito è morto e io non ho nessuno». Non faceva che ripetergli che a lui sarebbe bastato «alzare la cornetta» e dire a questo o quello di eseguire la musica del suo povero marito. L’aveva fatto cosí tante volte, in principio per compassione e cortesia e in seguito giusto per liberarsi dell’incomodo. Ma non bastava mai. «Mio marito è morto e io non ho nessuno». Ed ecco che per l’ennesima volta si trovava a sollevare la cornetta.

Un giorno tuttavia le solite parole avevano scatenato in lui un’esasperazione diversa dal consueto. E, solennemente, aveva ribattuto: – Già, già. Johann Sebastian Bach invece aveva venti figli e tutti pronti a promuovere la sua musica.

– Esatto, – aveva concordato la vedova. – Per questo l’opera di Bach si esegue ancora oggi!

La speranza era che la morte avrebbe liberato la sua musica, che l’avrebbe liberata dal legame diretto con la vita insomma. Il tempo sarebbe passato, e anche se i teorici del ramo avrebbero continuato a discutere, a poco a poco l’opera si sarebbe trovata un posto autonomo nel mondo della musica. Storia e biografia erano destinate a sbiadire: un giorno forse Fascismo e Comunismo sarebbero diventati semplici parole da manuali per la scuola. A quel punto, se avesse conservato un proprio valore – se ancora ci fossero state orecchie ad ascoltare –, la sua musica sarebbe stata… musica e nient’altro. Un compositore non poteva sperare di meglio. A chi appartiene la musica, aveva domandato alla studentessa tremebonda, e sebbene la risposta fosse scritta a caratteri cubitali sullo striscione alle spalle dell’interrogatore, la ragazza non era stata in grado di rispondere. Non essere in grado di rispondere era la risposta esatta. Perché la musica, a conti fatti, appartiene alla musica. Non c’era altro da dire, né da desiderare.

Il mendicante doveva essere morto ormai da un pezzo, e Dmitrij Dmitrievič aveva scordato quasi subito che cosa avesse detto. Ma colui il cui nome è scomparso dalla storia ricordava. Era lui quello capace di comprendere, capire. Si trovavano nel cuore della Russia, in piena guerra, al centro delle sofferenze di ogni tipo che la guerra produceva. C’era una lunga banchina ferroviaria sulla quale era appena comparso il primo sole. C’era un uomo, un mezzo uomo per la precisione, che si sospingeva a bordo di un carrello, grazie a una corda passata intorno alla cinta dei calzoni. I due passeggeri avevano una bottiglia di vodka. Scesero dal treno. Il mendicante smise di berciare la sua canzonaccia. Dmitrij Dmitrievič reggeva la bottiglia, lui i bicchieri. Dmitrij Dmitrievič versò la vodka nei bicchieri; un bracciale di spicchi d’aglio gli spuntò dal polso. Non era esperto, perciò il livello della vodka era leggermente diverso in ciascun bicchiere. Il mendicante vedeva solo il liquido che fuoriusciva dalla bottiglia, mentre lui pensava come Mitja fosse sempre ansioso di rendersi utile agli altri e caratterialmente incapace di rendersi utile a se stesso. Ma Dmitrij Dmitrievič ascoltava, e sentiva, come sempre. Dunque, quando i tre bicchieri diversamente colmi si erano uniti a produrre un solo tintinnio, lui aveva sorriso reclinando la testa da una parte, cosí che un lampo di sole gli aveva incendiato per un istante le lenti degli occhiali, e aveva mormorato:

– Una triade.

Ecco cosa aveva memorizzato quello che ricordava. Guerra, terrore, miseria, tifo e sporcizia, ma in tutto questo, al di sopra, al di sotto e attraverso tutto questo, Dmitrij Dmitrievič aveva sentito una triade perfetta. Prima o poi senza dubbio la guerra sarebbe finita – sempre che non durasse in eterno. Il terrore sarebbe durato, invece, come pure la morte ingiustificata, e la miseria, la sporcizia, forse anche queste in eterno, chi lo sa. Eppure una triade prodotta da tre bicchieri non molto puliti e dal loro contenuto di vodka era un suono che si diffondeva libero dal rumore del tempo, e che sarebbe sopravvissuto a tutto e a tutti. E in fondo, forse, era questa la sola cosa che contava.

1  Evgenij Evtušenko, La carriera, in Nuovi poeti sovietici, a cura di Angelo Maria Ripellino, Einaudi, Torino 1961, pp. 185-86 [N.d.T.].

Šostakovič morí il 9 agosto 1975, a cinque mesi dall’inizio di un nuovo anno bisestile.

Nicolas Nabokov, l’uomo che lo afflisse con le sue domande al Congresso per la pace di New York, era in effetti finanziato dalla Cia. L’assenza di Stravinskij dal Congresso non fu solo una scelta «etica et estetica», come si leggeva nel suo telegramma, bensí anche politica. Secondo il suo biografo Stephen Walsh, «Come ogni rifugiato bianco nell’America postbellica, Stravinskij non aveva nessuna intenzione di compromettere il proprio stato di leale cittadino americano conquistato con fatica, dando la benché minima impressione di sostenere la propaganda filosovietica».

A differenza di quanto Šostakovič (nella creazione narrativa) credeva, Tichon Chrennikov non si rivelò immortale; ma ripiegò sulla migliore alternativa possibile, dirigendo l’Unione dei compositori sovietici dalla sua rifondazione nel 1948 fino allo scioglimento nel 1991, data del crollo del regime sovietico tout court. Quarantotto anni dopo il 1948, Chrennikov continuava a rilasciare interviste di untuosa mitezza, nel corso delle quali definiva Šostakovič un uomo di temperamento gioviale che non aveva nulla da temere. (Come ebbe a commentare il compositore Vladimir Rubin, «Il lupo non può parlare del terrore della pecora»). Chrennikov non perse mai la propria visibilità politica, né l’amore per il Potere: nel 2003, fu decorato da Vladimir Putin. Morí infine nel 2007, all’età di novantaquattro anni.

Šostakovič fu narratore multiplo della sua stessa vita. Di alcuni episodi esistono diverse versioni, rielaborate e «perfezionate» nel corso degli anni. Di altri invece – ad esempio di quanto accadde alla Grande casa di Leningrado – ne esiste una soltanto, raccontata molti anni dopo la morte del compositore, da un’unica fonte. In termini piú generali, la verità non era istanza di accesso facile, o ancor piú duraturo, nella Russia di Stalin. Neppure sui nomi esiste assoluta univocità: l’interrogatore di Šostakovič alla Grande casa risulta rispondere ora al nome di Zančevskij, ora di Zakrevskij, o di Zakovskij. Tutto ciò è senz’altro sconcertante per un biografo, ma al contrario una cuccagna per un romanziere.

La bibliografia su Šostakovič è vastissima; i musicologi non faticheranno a riconoscere le mie due fonti principali: il testo esemplare e poliedrico di Elizabeth Wilson Shostakovich: A Life Remembered (1994; edizione rivista nel 2006) e il volume di Solomon Volkov dal titolo Testimony: The Memoirs of Shostakovich(1979). Alla sua pubblicazione, il testo di Volkov suscitò molto scalpore all’Est come all’Ovest, scatenando per decenni le cosiddette «guerre di Šostakovič». Personalmente, ne ho fatto l’uso che si addice a un diario privato, vale a dire a un testo che pretende di riferire la completa verità, ma che è solitamente scritto alla stessa ora del giorno, tendenzialmente nello stesso stato d’animo e con gli stessi pregiudizi e le stesse dimenticanze. Altre fonti utili sono state per me l’epistolario di Isaak Glikman (Story of a Friendship, 2001) e le interviste di Michael Ardov ai figli del compositore, raccolte nel volume dal titolo Memories of Shostakovich(2004).

Il contributo essenziale al romanzo resta tuttavia quello di Elizabeth Wilson, la quale non soltanto mi ha fornito una quantità di materiale che non avrei avuto altrimenti modo di reperire, ma ha inoltre suggerito una serie di correzioni e letto il dattiloscritto. Questo è comunque il mio libro. E se non vi ha convinti, vi consiglio di leggere il suo.

J. B.

Maggio 2015.