LE SABBIE DI MARTE
(The Sands Of Mars, 1951)
ARTHUR C. CLARKE
1
«Dunque è la prima volta che andate lassù!» disse il pilota appoggiandosi pigramente allo schienale del sedile che la sospensione cardanica manteneva in posizione orizzontale.
«Sì» rispose Martin Gibson, senza staccare gli occhi dal cronometro.
«Me l'ero immaginato. Nei vostri libri, infatti, non avete mai raccontato le cose come sono. Il fatto di svenire durante l'accelerazione è tutta una fesseria. Perché mai scrivere certe assurdità? Pregiudicano gli interessi finanziari, non trovate?»
«Scusatemi, ma credo che stiate parlando dei miei primi racconti» disse Gibson. «Allora il volo interplanetario non era ancora cominciato e io ero costretto a servirmi unicamente dell'immaginazione.»
«Uhm» fece il pilota, degnandosi di dare un'occhiata all'orologio. La lancetta dei secondi aveva ancora un giro da compiere. «Se fossi in voi, non mi aggrapperei a quel modo al sedile: è soltanto un impasto di berillio e manganese, e potrebbe piegarsi.»
Gibson lasciò subito la presa e si rilassò. Si rendeva conto di affrontare la situazione in uno stato d'animo per così dire sintetico.
«Certo non sarebbe molto divertente se dovesse durare più di qualche minuto...» riprese il pilota. «Ah, ecco che si mettono in moto le pompe del carburante. Non preoccupatevi quando il timone direzionale comincerà a fare scherzi strani e lasciate che il seggiolino giri come gli pare. Chiudete gli occhi, se questo può aiutarvi. Sentite? I razzi dell'accensione cominciano a miagolare. Ci vogliono circa dieci minuti per acquistare la velocità di fuga, ma a parte un po' di baccano, non succede mai niente. Basta abituarcisi.»
Ma Martin Gibson non sentiva più niente. Era già scivolato nell'incoscienza sotto l'effetto di un'accelerazione che pure non aveva ancora superato quella normale di un ascensore ultrarapido.
Rinvenne dopo pochi minuti, e a mille chilometri di distanza, vergognandosi terribilmente della brutta figura fatta.
Osservò il pilota, chino sul cruscotto e tutto intento a scrivere sul giornale di bordo. Il silenzio era totale, di tanto in tanto, però, si udivano come detonazioni stranamente soffocate, quasi scoppi in miniatura, che lasciavano Gibson alquanto disorientato. Tossicchiò, con discrezione, per annunciare il proprio ritorno alla coscienza e chiese al pilota che cosa fossero.
«Contrazioni termiche dei motori» fu la secca risposta. «Si sono riscaldati fino cinquemila gradi e adesso si stanno raffreddando a tutta velocità. Come vi sentite? Meglio?»
«Benissimo» rispose Gibson, ed era sincero. «Posso alzarmi?»
Psicologicamente, aveva toccato il fondo ed era rimbalzato alla superficie, ma si trovava in una posizione molto instabile, per quanto non se ne rendesse conto.
Provò una meravigliosa sensazione di euforia. Il momento che aveva tanto atteso era finalmente giunto. Si trovava nello spazio! Era una vera disdetta aver perduto il decollo, ma quando si sarebbe messo a scrivere avrebbe ritoccato abilmente quel punto con chiose e commenti opportuni.
Lontana mille chilometri, la Terra era ancora molto grossa... e offriva uno spettacolo alquanto deludente. Spiegabile, del resto: aveva già visto centinaia e centinaia di fotografie e di film presi da razzi in volo, e così gli era mancata la sorpresa. Notò le inevitabili fasce mobili di nubi nella loro lenta marcia intorno al mondo. Al centro del disco le separazioni tra terra e mare erano nettamente delimitate, e si potevano scorgere anche mille dettagli minuti, ma verso l'orizzonte ogni cosa si perdeva in una fitta foschia. Persino entro il cono di visuale chiarissima che si apriva, luminoso, verticalmente sotto di lui, quasi tutto era sfuocato e perciò privo di senso. Certo un meteorologo si sarebbe abbandonato a trasporti di gioia nel contemplare l'animata massa di vapori che si snodava là in basso, ma la maggior parte dei meteorologi abitava nelle stazioni spaziali, ormai, dalle quali si godeva una vista anche migliore. Gibson si stancò presto di frugare con gli occhi in cerca di città e altre opere dell'uomo. Era umiliante constatare come tanti millenni di civiltà non avessero prodotto alcun mutamento degno di rilievo nel panorama sottostante.
Di lì a poco si mise a cercare le stelle, ma provò una seconda delusione. Certo ce n'erano a centinaia, ma pallide e come spente, smorti fantasmi delle accecanti miriadi che lui si era aspettato di vedere. La colpa era da imputare al vetro scuro del finestrino: volendo attenuare la luce del sole avevano derubato le stelle de! loro fulgore.
Si sentì vagamente indispettito. Una cosa soltanto si era svolta secondo le sue previsione. La sensazione di essere sospeso a mezz'aria, di potersi sospingere da una parete all'altra col semplice impulso di un dito, questo, sì, era meraviglioso come lui aveva immaginato, benché lo spazio fosse un po' troppo angusto per tentare esperienze audaci. Adesso che erano state scoperte sostanze nuove che neutralizzavano gli organi preposti al senso dell'equilibrio, e la nausea spaziale era diventata solo un vago ricordo del passato, la mancanza di peso costituiva uno stato fisico delizioso, fatato. Ne fu molto contento. Come avevano sofferto, i suoi eroi!
«Molto strano» osservò in tono di sorpresa l'ufficiale medico, mentre lo scrittore, ormai completamente riavutosi, veniva sospinto attraverso il compartimento stagno. «Ha passato magnificamente tutti gli esami e tutte le prove fisiche, e certamente gli avranno fatte le solite iniezioni, prima di lasciare la Terra. Dev'essere un fatto psicosomatico.»
«I motivi non mi importano» disse, seccatissimo, il pilota, mentre accompagnava il corteo sino al cuore della stazione spaziale numero uno. «Mi interessa una cosa sola: chi ripulirà la mia carretta?»
Nessuno parve disposto a rispondere alla domanda che pure era stata espressa con tanto calore, e meno di tutti Martin Gibson, il quale era solo vagamente consapevole di uno scivolare di bianche pareti nel suo campo visivo. Subentrò quindi in lui, lentamente, una sensazione di aumento di peso, mentre un tepore carezzevole gli invadeva pian piano le membra. Infine prese pienamente conoscenza di ciò che lo circondava. Si trovava in una corsia d'ospedale, e una batteria di lampade infrarosse lo stava immergendo in un calore calmante che attraverso la pelle gli penetrava sin dentro le ossa.
«Come va?» chiese il medico.
Gibson sorrise debolmente.
«Mi dispiace per quello che è successo. Credete che potrà ripetersi?»
«Non so nemmeno come possa essere successo questa volta. È assolutamente insolito. Si ritiene che i rimedi usati ora siano infallibili.»
«Credo che sia tutta colpa mia» si scusò Gibson. «Vedete, io posseggo un'immaginazione fortissima, e mi ero messo a pensare ai sintomi della nausea spaziale...»
«Allora vi prego di non riprovarci» lo interruppe brusco il medico, «altrimenti saremo costretti a rispedirvi diritto filato sulla Terra. Non si possono tentare questi scherzi, quando si va su Marte. Resterebbe ben poco di voi, in capo a tre mesi!»
La stazione interna, stazione spaziale numero uno, come veniva solitamente chiamata, era situata esattamente a duemila chilometri dalla Terra, e compiva il giro del pianeta ogni due ore. Era stato il primo gradino costruito dall'uomo verso la conquista delle stelle, e benché ormai non fosse più tecnicamente necessaria al volo spaziale, la sua esistenza aveva ancora grande importanza per l'economia dei viaggi interplanetari. Tutte le partenze per la Luna o i pianeti avevano inizio da lì. Le goffe navi nucleari galleggiavano attorno a questo avamposto terrestre, mentre i carichi provenienti dalla madreterra venivano stipati nelle stive. Un servizio di traghetto con razzi a propulsione chimica collegava la stazione al pianeta sottostante, perché per legge nessun mezzo azionato da energia atomica poteva circolare a meno di mille chilometri dalla superficie terrestre. E molti ritenevano che anche questo margine di sicurezza fosse insufficiente.
La stazione spaziale numero uno si era talmente ingrandita col passare degli anni che i suoi primi ideatori non l'avrebbero certo riconosciuta. Intorno al nucleo centrale sferico erano sorti osservatori, laboratori per le comunicazioni, dotati di una fantastica rete di antenne, e veri labirinti di sezioni scientifiche di cui soltanto un esperto avrebbe saputo specificare il significato e l'uso. Ma nonostante tutte le aggiunte la funzione principale di questa luna artificiale consisteva tuttora nel rifornimento delle astronavi con le quali l'uomo sfidava la solitudine sterminata del sistema solare.
«Siete proprio sicuro di stare bene, adesso?» chiese il medico, mentre Gibson non osava ancora muoversi con disinvoltura.
«Mi sembra di sì» rispose Gibson, timoroso di compromettersi.
«Il polso risulta normale» borbottò l'ufficiale medico, come se la cosa gli seccasse. «Adesso vi porteremo nella stanza a gravità zero. Limitatevi a seguirmi e non stupitevi di quello che vi può capitare.»
Dopo questo avvertimento vago, precedette Gibson lungo un ampio corridoio illuminato intensamente che pareva incurvarsi all'insù alle due estremità. Gibson non ebbe il tempo di esaminare più a fondo il corridoio perché il medico aprì una porta laterale scorrevole e si avviò su per una rampa di gradini metallici. Gibson lo seguì automaticamente ma tutto a un tratto si avvide di quanto succedeva dinanzi a lui e si fermò lanciando involontariamente un grido di sorpresa.
Proprio sotto i suoi piedi l'inclinazione della scala era di quarantacinque gradi, ma subito diventava molto più rapida sino a che, dodici metri più in là, si alzava letteralmente in linea verticale. Poi, ed era uno spettacolo che avrebbe emozionato chiunque l'avesse visto per la prima volta, l'aumento del gradiente proseguiva inesorabile finché i gradini cominciavano a penderti sulla testa per scomparire finalmente alla vista al di sopra di te.
Nell'udire l'esclamazione di Gibson il medico si voltò a guardare, poi scoppiò in una risata.
«Non sempre bisogna credere ai propri occhi» spiegò. «Tenetemi dietro e vedrete che non è difficile.»
Gibson obbedì, e mentre avanzava si rese conto del verificarsi di due fenomeni assai caratteristici. Prima di tutto stava diventando gradualmente sempre più leggero, in secondo luogo, nonostante l'evidente irripidimento della scala, l'inclinazione sotto di lui restava costantemente di quarantacinque gradi. La direzione verticale infatti s'inclinava lentamente a mano a mano che lui procedeva, di modo che, malgrado la crescente curvatura, il gradiente di pendenza della scala non mutava mai. A Gibson non ci volle molto per giungere alla spiegazione di questo fenomeno. La gravità apparente era dovuta alla forza centrifuga prodotta dal lento roteare della stazione attorno al proprio asse, e a mano a mano che ci si avvicinava al centro la forza tendeva a zero. Anche la scala stessa si snodava internamente verso l'asse lungo una specie di spirale (una volta forse avrebbe saputo dirne il valore matematico) di modo che, nonostante il campo di gravità radiale, l'inclinazione sottostante rimaneva inalterata. Era un fenomeno al quale chi abitava nelle stazioni spaziali si abituava in fretta.
Al termine della scala non c'era più una sensazione precisa di su e giù. Adesso erano in una lunga stanza cilindrica, tutta attraversata da corde ma per il resto vuota; in fondo un fascio di luce solare entrava fiammeggiando da un finestrino d'osservazione. Sotto lo sguardo sorpreso di Gibson la spera luminosa si mosse rapida lungo le pareti di metallo, simile a un riflettore mobile, scomparve per un attimo, per ricomparire subito accecante a un altro finestrino. Era il primo indice, fornitogli dai suoi sensi, del fatto che la stazione ruotava effettivamente sul proprio asse. Calcolò il tempo impiegato dal fascio di luce solare a tornare nella propria posizione iniziale. Ilgiorno di quel minuscolo mondo artificiale durava meno di dieci secondi: il che era sufficiente a dare una sensazione di gravità normale in prossimità delle sue pareti esterne.
«Adesso vi lascerò qui per un po'» disse il medico. «Ci sono un sacco di cose da vedere. Ne sarete soddisfatto.»
Parzialmente nascosta dalla massa della stazione, la Terra era una grande falce che attraversava metà firmamento. Andava lentamente aumentando di mole a mano a mano che la stazione sfrecciava lungo la sua orbita: in capo a quaranta minuti circa la vista sarebbe stata piena, per diventare un'ora dopo assolutamente nulla, grande scudo nero che eclissava il Sole, mentre la stazione passava attraverso il suo cono di ombra. La Terra subiva tutte queste fasi, da nuova a piena e inversamente, nello spazio di due ore esatte. Il senso del tempo si deformava totalmente a questo pensiero.
A circa un chilometro dalla stazione, in movimento sincrono lungo la sua orbita ma in quel momento preciso non collegate ad essa in alcun modo, volteggiavano le tre astronavi che attualmente si trovavano in bacino. La prima era il minuscolo razzo a punta di freccia che un'ora prima aveva trasportato Gibson su dalla Terra con tanta sofferenza e disagio. La seconda era un mercantile diretto alla Luna. Doveva stazzare circa mille tonnellate lorde, calcolò Gibson. E la terza naturalmente era l'Ares,abbagliante nello splendore del suo rivestimento di alluminio verniciato di fresco.
Gibson non si era mai rassegnato al sacrificio delle aerodinamiche astronavi che erano state il miraggio dei primi anni del ventesimo secolo. Quello scintillante attrezzo ginnico, formato da due sfere unite da una sbarra, a forma di manubrio, non era il suo concetto di transatlantico spaziale, e anche se il mondo l'aveva accettato, lui ancora non ci si era abituato. Ne conosceva naturalmente le note giustificazioni: non occorreva una linea aerodinamica a un mezzo che non doveva entrare mai in nessuna atmosfera, e la forma quindi era suggerita da considerazioni di carattere puramente funzionale ed energetico. Poiché il congegno di propulsione potentemente radioattivo doveva essere situato il più lontano possibile dagli alloggiamenti dell'equipaggio, la doppia sfera e il lungo tubo di collegamento erano la soluzione più semplice.
2
A bordo dell'Ares,l'ufficio del Comandante era stato progettato per contenere tre uomini al massimo, quando la forza di gravità era in atto, ma c'era spazio più che sufficiente per sei quando la nave si trovava in un'orbita libera. Ci si poteva allora accomodare sulle pareti o sul soffitto, secondo i gusti. Tutti i componenti del gruppo raccolti intorno al capitano Norden, tranne uno, erano già stati nello spazio altre volte, e sapevano quello che ci si attendeva da loro, ma questa volta non si trattava di una riunione di normale amministrazione. Il volo inaugurale di una nuova astronave era sempre una solennità, e l'Ares era la prima astronave del suo genere; infatti era la prima nave spaziale costruita unicamente per il trasporto passeggeri, anziché per il solo carico. Era stata concepita con l'intento di trasportare un equipaggio di trenta uomini e circa centocinquanta passeggeri, i quali avrebbero potuto usufruire di comodità definibili, al massimo, spartane. Ma al suo primo viaggio le proporzioni si erano quasi invertite, e attualmente un equipaggio di soli sei uomini stava aspettando che salisse a bordo il loro unico passeggero.
«Io non ho ancora capito bene» disse Owem Bradley, lo specialista in elettronica «che cosa ce ne faremo di quello lì una volta che l'avremo a bordo.»
«Stavo appunto per parlarvene» disse il capitano Norden. «Immagino che conosciate tutti il signor Gibson.»
La domanda suscitò un coro di risposte.
«Io ho l'impressione che i suoi libri siano scemenze belle e buone» disse il dottor Scott. «Gli ultimi, perlomeno. Polvere marziana non era male, ma è completamente superato.»
«Storie!» protestò Mackay, l'astronomo. «Gli ultimi racconti sono di gran lunga i migliori! Adesso Gibson s'interessa finalmente solo alle cose fondamentali.»
Un tale scoppio d'indignazione da parte del mite scozzese era inconsueto, ma prima che qualcuno potesse controbattere, il capitano Norden riprese: «Se non vi dispiace, non ci siamo raccolti qui per fare i critici letterari. Avremo tempo d'avanzo per questo in seguito. Ci sono un paio di punti che la Società vuole che vi chiarisca prima che si cominci. Il signor Gibson è un personaggio molto importante, un ospite di riguardo, ed è stato invitato a compiere questo viaggio perché possa poi parlarne al ritorno. Non è il solito banale trucco pubblicitario: noi stiamo effettivamente facendo la storia, e il nostro viaggio inaugurale dovrebbe essere esaltato degnamente. Perciò cercate di comportarvi come gentiluomini, almeno per un po' di tempo: il libro di Gibson si venderà probabilmente con una tiratura di mezzo milione di copie, e la vostra reputazione avvenire può dipendere dal comportamento che terrete nei prossimi tre mesi.»
«Tutto questo mi sa maledettamente di ricatto» disse Bradley.
«Prendetela come vi pare» riprese Norden sorridendo. «Naturalmente spiegherò a Gibson che non potrà aspettarsi il servizio che avremo in seguito, quando a bordo ci saranno camerieri, e cuochi, e chissà quanta altra grazia di Dio.»
«Credete che ci aiuterà a lavare i piatti?» domandò qualcuno.
Ma prima che Norden potesse occuparsi di questo problema, dal quadro di comunicazione venne uno sfrigolio, e una voce cominciò a parlare attraverso la grata del citofono.
«Qui stazione numero uno: pronto Ares? Il vostro passeggero sta arrivando.»
Norden innestò una spina e rispose: «Va bene, lo aspettiamo.»
Martin Gibson si sentiva ancora alquanto euforico per aver superato l'ostacolo maggiore: l'ufficiale medico della stazione spaziale numero uno.
La perdita di gravità nel lasciare la stazione e nel passare sull'Ares entro il minuscolo carrello azionato ad aria compressa non gli aveva dato nessun malessere, ma lo spettacolo che si offrì ai suoi occhi appena entrato nella cabina del capitano Norden lo fece restare per un attimo col fiato sospeso. Anche quando ogni forza di gravità era scomparsa, ci si ostinava ugualmente a immaginare una direzione in basso,e sembrava naturale supporre che la superficie cui erano uniti tavolo e seggiole fosse il pavimento. Però i presenti sembravano pensarla diversamente, perché due membri dell'equipaggio penzolavano come stalattiti dal soffitto,mentre altri due si riposavano a mezz'aria agli angoli della stanza. Soltanto il capitano manteneva, secondo le concezioni di Gibson, la posizione giusta. A peggiorare le cose, la rapatura a zero dava a quegli uomini, di solito più che presentabili, una espressione vagamente sinistra, cosicché l'intero quadro offriva l'aspetto di una riunione di famiglia al Castello di Dracula.
«Questo» disse il capitano Norden, percorrendo con lo sguardo la cabina da sinistra a destra «è il mio ufficiale di macchina, tenente Hilton. Questo è il dottor Mackay, il nostro ufficiale di rotta... dottore in fisica, non medico, come quest'altro, il dottor Scott. Il tenente Bradley è il nostro specialista in elettronica, e Jimmy Spencer, che vi è venuto incontro all'uscita dal compartimento stagno, è la nostra riserva, e spera di diventare comandante d'astronave, quando sarà un po' cresciuto.»
Gibson fissò il piccolo gruppo con una certa sorpresa. Erano così pochi... cinque uomini e un ragazzo! La sua faccia dovette tradire il suo pensiero perché il capitano Norden rise.
«Non siamo in molti, vero?» disse. «Ma non dimenticate che questa nave è pressoché automatica e d'altronde nello spazio non succede mai niente. Quando inizieremo il servizio passeggeri regolare l'equipaggio sarà di trenta uomini.»
Gibson fissò con attenzione quei sei che sarebbero stati i suoi unici compagni nei tre mesi successivi. Il primo impulso (non si fidava mai dei primi impulsi ma se li annotava con cura) fu di sorpresa per il loro aspetto tanto comune, se si lasciavano da parte particolari trascurabili come la loro posizione e la temporanea calvizie.
A un cenno che Gibson non avvertì, gli altri si congedarono lanciandosi con precisione e senza sforzo attraverso il passaggio aperto. Il capitano Norden si rimise a sedere e offrì a Gibson una sigaretta. Lo scrittore l'accettò un po' incerto.
«Si può fumare?» chiese. «Non c'è pericolo, fumando, di sprecare ossigeno?»
«Succederebbe un ammutinamento se dovessi proibire il fumo per tre mesi consecutivi» disse Norden ridendo. «D'altronde il consumo di ossigeno è trascurabile.»
Gibson pensò che il capitano Norden non si adattava affatto al quadro che lui si era immaginato. Il Comandante di un transatlantico spaziale, secondo la migliore o perlomeno la più popolare tradizione letteraria, avrebbe dovuto essere un veterano coi capelli brizzolati e l'occhio acuto, che avesse passato metà della propria esistenza nell'etere e potesse navigare attraverso il sistema solare a fiuto.
Invece il comandante dell'Ares era certamente sotto i quaranta, e avrebbe potuto benissimo venire scambiato per un dirigente d'industria.
«Dunque, non siete mai stato nello spazio prima d'ora?» chiese Norden, fissando il suo passeggero.
«No, purtroppo. Ho tentato varie volte di salire sulla Luna, ma se non si hanno ragioni di affari è assolutamente impossibile. È un vero peccato che i viaggi spaziali siano ancora così tremendamente cari.»
Norden sorrise e deviò il discorso.
«Qui a bordo dell'astronave, tutto si chiude quando è notte. Ci pensano gli strumenti a fare tutto mentre noi dormiamo e così non siamo costretti a un continuo servizio di guardia e di osservazione. Ecco uno dei motivi che permette l'impiego di pochi uomini. In questo viaggio, poiché di spazio ce n'è finché se ne vuole, abbiamo ciascuno la nostra cabina separata. La vostra è una normale cabina per passeggeri: la sola che sia in ordine, tra l'altro. Spero che vi troverete bene. Il vostro bagaglio è già tutto a bordo? Quanto vi hanno lasciato portare?»
«Un centinaio di chili. È ancora nel compartimento stagno.»
«Cento chili!» Norden non riuscì a nascondere del tutto la sua sorpresa. Quello doveva aver deciso di emigrare per sempre e di portare con sé tutti i beni di famiglia! Norden aveva l'orrore congenito del vero astronauta per l'eccedenza di peso, ed era convintissimo che Gibson si fosse tirato dietro un sacco di roba inutile.
«Vi farò accompagnare nella vostra cabina da Timmy. Per questo viaggio lui sarà il vostro uomo tutto fare: così si guadagna il passaggio e impara qualche nozione di volo spaziale. Quasi tutti cominciano così, impegnandosi nei viaggi lunari durante le vacanze universitarie. Jimmy è un ragazzo molto in gamba. Ha già superato gli esami del second'anno.»
Ormai Gibson si stava abituando anche all'idea che il suo cameriere di cabina fosse un laureando. Segui Jimmy, che sembrava straordinariamente intimidito dalla sua presenza, verso il reparto passeggeri. Scivolavano come fantasmi lungo i corridoi vivamente illuminati che erano stati dotati di un accorgimento molto semplice ma che aveva contribuito largamente a rendere la vita più confortevole a bordo delle astronavi prive di forza di gravitazione. A pochi centimetri da ciascuna parete girava a velocità costante un nastro mobile munito a intervalli regolari di maniglie. Bastava allungare una mano e aggrapparsi alle maniglie per percorrere, senza il minimo sforzo, lunghi tratti. Occorreva soltanto una certa pratica agli incroci, per passare da una fascia all'altra.
La cabina era piccola, ma geniale nella sua impostazione, e arredata con ottimo gusto. Un gioco ingegnoso di luci e le pareti ricoperte di specchi davano l'illusione che fosse molto più spaziosa di quello che era in realtà, e il letto a perno poteva essere ribaltato durante ilgiorno,per servire da tavolo. Ben poco restava a ricordare la mancanza di gravitazione.
Gibson trascorse l'ora successiva a sistemare le Sue cose e a giocherellare incuriosito con gli aggeggi e gli interruttori disseminati un po' ovunque nella cabina. Ma il congegno che gli piacque di più fu uno specchio che, sollecitato in modo misterioso dalla pressione di un pulsante, si trasformava in un boccaporto dal quale si potevano ammirare le stelle. Si chiese come diavolo funzionasse.
Dopo un tempo imprecisato una serie di colpi discreti alla porta della cabina risvegliò bruscamente Gibson dal sonno in cui era sprofondato.
Si vide davanti Jimmy Spencer, un poco ansimante.
«Il capitano vi manda i suoi omaggi, signore, e vi chiede se desiderate assistere alla partenza.»
«Certo!» disse Gibson. «Aspetta che vado a prendere la macchina fotografica.»
Riapparve un attimo dopo con una Leica nuova fiammante che suscitò l'invidia di Jimmy, equipaggiata com'era di lenti, obiettivi ed esposimetro. Nonostante tutti quegli ingombri, riuscirono ugualmente a raggiungere abbastanza in fretta il ponte d'osservazione che correva come una fascia circolare intorno alla fusoliera dell'Ares.
Per la prima volta Gibson poté vedere le stelle in tutto il loro splendore, non più appannate dall'atmosfera o dai vetri scuri, poiché si trovava sul lato notturnodell'astronave e i vetri filtranti erano stati tolti. Contrariamente alla stazione spaziale, l'Ares non girava su un proprio asse ma era mantenuta ferma dal sistema di giroscopi, cosicché le stelle apparivano fisse e immobili nel cielo.
La stazione spaziale numero uno era un complicato giocattolo pulito e lucente che fluttuava nel nulla a pochi metri oltre il finestrino. Non c'era modo di giudicarne la distanza o le dimensioni, poiché la sua sagoma non aveva niente di familiare e il senso della prospettiva sembrava totalmente abolito. Terra e Sole erano entrambi invisibili, nascosti dietro la massa della nave.
Gibson trasalì al suono improvviso e vicinissimo di una voce disincarnata che uscì da un microfono nascosto.
«Mancano cento secondi al lancio. Tutti ai propri posti, per favore.»
Involontariamente Gibson s'irrigidì e si volse a Jimmy per averne un consiglio, ma prima che potesse formulare una domanda qualsiasi, la sua guida disse in fretta: «Devo tornare al mio posto» e scomparve con un elegante tuffo ad angelo, lasciando Gibson solo con i suoi pensieri.
«Venti secondi alla partenza. Occorreranno circa dieci secondi per acquistare la spinta necessaria...»
«Dieci secondi...»
«Cinque secondi, quattro, tre, due, uno...»
Con estrema dolcezza qualcosa afferrò Gibson e lo fece scivolare lungo il lato curvo della parete traforata del boccaporto verso quello che a un tratto era diventato il pavimento.
Fu difficile rendersi conto del ritorno all'alto e al basso e ancora più difficile collegare la loro ricomparsa con il tuono distante, soffocato, che aveva rotto improvvisamente il silenzio della nave, lontano, nella seconda sfera rappresentante l'altra metà dell'Ares,nel mondo misterioso e proibito di atomi morenti e di macchine automatiche dove nessun uomo poteva entrare e restare vivo, dove si erano scatenate le forze che avevano soggiogato le stelle stesse. Non si ebbe però quel senso di crescente, spietata accelerazione che sempre accompagna il decollo di un razzo a propulsione chimica. L'Ares aveva a disposizione lo spazio senza limiti entro cui manovrare: poteva prendersi tutto il tempo che voleva per uscire dalla sua orbita attuale ed entrare lentamente nella traiettoria iperbolica che l'avrebbe portata su Marte. In ogni caso, la potenza sconfinata della propulsione atomica poteva spostare la sua massa di duemila tonnellate con l'accelerazione di un solo decimo di gravità, o addirittura di un ventesimo, come in quel momento. I congegni a propulsione atomica operavano a temperature talmente alte che era possibile servirsene solo a bassi regimi energetici. Questo era uno dei motivi che rendeva impossibile il loro uso per brevi percorsi. Ma a differenza dei razzi chimici, a limitata autonomia, potevano mantenere il loro impulso per molte ore consecutive.
A Gibson non occorse molto per orientarsi. L'accelerazione della nave era talmente lenta (calcolò che a lui ne venisse un peso effettivo inferiore ai quattro chilogrammi), che i suoi movimenti erano tuttora praticamente illimitati. La stazione spaziale numero uno non si era mossa dalla sua posizione apparente, e lui dovette aspettare quasi un minuto prima di accorgersi che l'Ares stava veramente allontanandosi anche se con estrema lentezza. A un tratto si ricordò della sua macchina fotografica e si diede da fare per riprendere la partenza. Quando ebbe finalmente sistemato (così almeno sperava) il complesso problema della giusta esposizione per fotografare un oggetto piccolo e vividamente illuminato contro uno sfondo nero come inchiostro, la stazione era già a distanza notevole. In meno di dieci minuti diventò un lontano punto luminoso, appena discernibile dalle stelle.
Quando la stazione spaziale numero uno fu totalmente scomparsa Gibson girò sul lato diurno della nave per scattare qualche fotografia della Terra in fase di allontanamento. La prima volta che l'aveva vista gli era apparsa come una mezzaluna sottile e immensa, troppo grande perché l'occhio potesse abbracciarla tutta con un solo sguardo. Adesso, mentre l'osservava, vide che stava lentamente aumentando ancora di dimensioni. L'Ares infatti doveva compiere ancora un giro almeno, prima di staccarsene e partire a spirale verso Marte. Ci sarebbe voluta un'altra ora, prima che la Terra cominciasse sensibilmente a rimpicciolire.
Gibson era ancora al suo posto di osservazione quando, più di un'ora dopo, l'Ares raggiunse finalmente la velocità di fuga che le era necessaria per liberarsi della forza gravitazionale terrestre. Non era possibile dire quando quel momento fosse venuto, perché la Terra continuava a dominare tutto il cielo e dai motori giungeva sempre lo stesso suono rombante lontano e soffocato. Ci sarebbero volute ancora dieci ore di funzionamento continuo prima che il compito dei motori fosse finito e si potesse spegnerli per tutto il resto del viaggio.
3
Il medesimo spettacolo di stelle empiva tuttora il finestrino quando una serie di note squillanti che uscivano da un telefono interno risvegliò Gibson da un sonno senza sogni. Si vestì in fretta e corse sul ponte di osservazione, chiedendosi con curiosità che cosa fosse successo della Terra durante la notte.
Per un abitante del globo terrestre era davvero uno spettacolo sconcertante vedere nel cielo due lune contemporaneamente. Eppure erano là, l'una accanto all'altra, entrambe al loro primo quarto, e la prima grossa quasi il doppio della seconda. Trascorsero parecchi secondi prima che Gibson si rendesse conto di avere di fronte Luna e Terra insieme, e parecchi altri secondi ancora prima di comprendere finalmente che la falce più piccola e più lontana era il suo mondo.
Purtroppo l'Ares non passava molto vicino alla Luna, ma questa appariva ugualmente almeno dieci volte più grande di quanto Gibson l'avesse mai vista stando sulla Terra. Le catene intersecantisi di crateri erano chiaramente visibili lungo la linea dentellata che separava il giorno dalla notte, e il disco ancora opaco era visibile grazie alla luce terrestre che vi si rifletteva sopra.
Ma come mai...
Gibson si chinò bruscamente in avanti chiedendosi se i suoi occhi non stessero giocandogli un brutto scherzo. Eppure, nessun dubbio: laggiù, su quella superficie fredda e appena visibile, in attesa dell'alba che sarebbe giunta solo tra molti giorni, tenuissime faville di luce bruciavano come lucciole nelle tenebre. Cinquant'anni prima quelle luci non esistevano: erano le luci delle prime città lunari, e dicevano alle stelle che dopo un miliardo di anni la vita era giunta finalmente alla Luna.
Da un punto imprecisato venne un tossicchiare discreto che interruppe le fantasticherie di Gibson. Quindi una voce amplificata dal megafono disse in tono pacato:
«Se il signor Gibson vuole avere la bontà di scendere nel quadrato ufficiali troverà sulla tavola una tazza di caffè ancora tiepido e una fetta di porridge.»
Diede una rapida occhiata all'orologio. Aveva completamente dimenticato la colazione... fenomeno senza precedenti. Certo qualcuno doveva essere andato a cercarlo in cabina e non avendovelo trovato stava tentando di rintracciarlo attraverso il sistema di altoparlanti.
Quando riuscì infine a infilarsi come Dio volle nel quadrato ufficiali, trovò l'equipaggio impegnato in una discussione tecnica sui meriti dei vari tipi di navi interplanetarie. Ascoltò con attenzione mentre mangiava svogliatamente.
In quel momento stava parlando il dottor Scott. Scott gli parve uno di quei tipi sgradevoli che intendono imporre il proprio punto di vista su qualsiasi argomento. Il suo avversario più congeniale era Bradley, lo specialista in elettronica e in scienza delle comunicazioni, un personaggio cinico, asciutto, che sembrava prendere un piacere enorme a sabotare verbalmente il prossimo. Il piccolo matematico scozzese Mackay entrava ogni tanto nella battaglia esprimendosi con frasi brevi e precise, quasi pedanti.
Il capitano Norden, apparentemente, si comportava come un arbitro non del tutto disinteressato, sostenendo ora l'uno ora l'altro nel tentativo d'impedire una vittoria decisiva. Il giovane Spencer era già al lavoro, mentre Hilton, il solo membro dell'equipaggio che, Gibson non avesse ancora notato, non prendeva parte alla discussione. L'ingegnere se ne stava tranquillamente seduto a osservare gli altri con interesse distaccato. La sua faccia sembrò stranamente familiare a Gibson. Dove l'aveva già incontrato? Ma certo! Che imbecille a non capirlo subito! Quello era il famoso Hilton. Lo scrittore si girò sulla sedia per guardarlo meglio. Aveva completamente dimenticato la colazione consumata a metà, e guardava con rispetto misto a invidia l'uomo che aveva riportato l'Arcturus su Marte dopo la più grande avventura nella storia del volo spaziale.
Soltanto sei uomini erano arrivati fino a Saturno, e soltanto tre di loro erano ancora vivi. Hilton aveva sostato con i suoi compagni perduti su quei pianeti lontani, i cui stessi nomi sapevano di magia: Titano, Enceladus, Teti, Rea, Dione... Aveva visto lo splendore incomparabile dei grandi anelli che cerchiano simmetricamente il cielo e sembrano troppo perfetti per essere opera della natura. Era stato in quell'Ultima Thule in cui roteano i freddi giganti esiliati della dispersa famiglia solare, ed era tornato alla luce e al calore dei mondi interni.
Il gruppo si stava sciogliendo e i vari ufficiali se ne andavano volteggiando verso i loro posti, ma i pensieri di Gibson ruotavano ancora intorno a Saturno quando il capitano Norden gli si avvicinò interrompendo le sue fantasie.
«Non so che programma vi siete fatto» disse «ma credo che vi farà piacere dare un'occhiata alla nostra nave. Dopotutto, nei vostri romanzi fate spesso ricorso alla descrizione particolareggiata.»
Durante le due ore che seguirono, svolazzarono per il labirinto di corridoi che intersecavano in ogni senso come arterie il corpo sferico dell'Ares.
Poiché la forma della nave era sferica, la sua superficie, come quella della Terra, era stata suddivisa secondo meridiani e paralleli, cosicché esistevano utili punti di riferimentogeografici per muoversi al suo interno. Andare verso nord significava dirigersi alla cabina di comando e al reparto equipaggio. Un viaggio all'Equatore indicava una visita o alla grande sala da pranzo che occupava quasi tutto il piano centrale dell'astronave, oppure al ponte d'osservazione che correva tutto attorno alla nave. L'emisfero meridionaleera riservato quasi esclusivamente al serbatoio del carburante, oltre che ai ripostigli per l'immagazzinaggio di macchinario vario. Adesso che aveva cessato di servirsi dei suoi motori, l'Ares era stata fatta girare nello spazio in modo chel'emisfero settentrionale si trovasse in perpetua luce, e quello meridionale, disabitato,in perpetua oscurità. Esattamente al Polo Sud c'era un boccaporto di metallo che recava una serie di sigilli ufficiali e il seguente cartello: Da aprirsi soltanto per ordine espresso del capitano o del suo facente funzioni. Dietro quel boccaporto si stendeva il lungo e stretto tubo che collegava il corpo centrale della nave con la sfera più piccola, lontana un centinaio di metri, contenente l'impianto di energia e i complessi di propulsione. Gibson si chiese che funzione avesse quel portello se nessuno poteva mai servirsene, ma poi si disse che doveva pur esserci qualche mezzo per permettere agli automi addetti alla manutenzione e dipendenti dalla commissione per l'energia atomica di raggiungere il loro posto di lavoro.
Fatto abbastanza curioso, Gibson fu impressionato non tanto dalle meraviglie tecniche e scientifiche dell'astronove, che d'altronde aveva più o meno previste, quanto dagli alloggiamenti vuoti della sezione passeggeri, una specie di alveare di cabine, vicinissime le une alle altre, che occupavano quasi tutta la zona temperata settentrionale.
Quando rientrò finalmente nella propria cabina, Gibson era esausto sia fisicamente sia mentalmente. Norden era stato una guida anche troppo pignola.
Era disteso nella cuccetta, intento ad analizzare le proprie impressioni, quando sentì bussare discretamente alla porta.
«Chi è?»
«Jim... Jim Spencer, signor Gibson. C'è un radiogramma per voi.»
Il messaggio era breve e conteneva una sola parola superflua, la penultima:
"New Yorker, Revue des Quatre Mondes, Life Interplanetary vogliono pezzo venticinquemila battute ciascuna. Prego telegrafare domenica prossima. Affettuosità. Ruth."
Gibson sospirò Aveva lasciato la Terra talmente in fretta che non aveva neppure avuto il tempo per consultarsi con la sua agente, Ruth Goldstein, eccettuata un'affrettata conversazione telefonica da un capo all'altro del globo. Però si era espresso chiaramente: per quindici giorni almeno voleva essere lasciato in pace.
Afferrò il taccuino a fogli staccabili e mentre Jimmy teneva ostentatamente gli occhi fissi altrove, scribacchiò in fretta:"Spiacente. Diritti esclusivi già promessi custode porci et intenditore pollame Sud Alabama. D'ora in poi invierò notizie quando accomodami. Quando deciderai avvelenare Harry? Affettuosità. Mart".
Harry era la metà letteraria e antiaffarista della Goldstein e C., ed era felicemente sposato con Ruth da oltre vent'anni. Da circa quindici, Gibson non smetteva un istante di ricordare a entrambi che stavano affondando in un pantano dal quale era sempre più difficile uscire.
Jimmy Spencer scomparve con l'insolito messaggio, lasciando Gibson con i suoi pensieri. Certo si sarebbe messo presto al lavoro, ma intanto aveva seppellito la sua macchina da scrivere sotto il resto del bagaglio.
Le sue vacanze durarono una settimana intera, in capo alla quale la Terra era divenuta un semplice punto molto luminoso che ben presto si sarebbe perso nel bagliore del Sole. Gibson stentava a credere di aver conosciuto fino a poco tempo prima un'esistenza diversa da quella che conduceva attualmente nel piccolo chiuso mondo dell'Ares,il cui equipaggio ormai non era più composto da Norden, Hilton, Mackay, Bradley, Scott, ma da John, Fred, Angus, Owem, Bob.
Aveva imparato a conoscerli bene tutti, anche se in Hilton e Bradley aveva incontrato una strana riservatezza che gli riusciva difficile penetrare. Ognuno di quegli uomini era un individuo ben definito la cui personalità contrastava nettamente con quella degli altri: forse le sole cose che tutti avevano in comune erano l'intelligenza e la preparazione. A volte si sentiva prendere da un vago senso di vergogna ripensando agli equipaggi che aveva inventato per le sue astronavi immaginarie. Gli tornava alla mente il Mastro Pilota Graham, di Cinque Lune di troppo che pure era ancora uno dei suoi personaggi preferiti. Certo Graham era stato un uomo in gamba (non era riuscito una volta a sopravvivere per mezzo minuto nel vuoto prima di riuscire a infilarsi lo scafandro spaziale?) e si scolava regolarmente una bottiglia di whisky a! giorno. Ma quale diversità tra questo parto della sua fantasia e Angus Mackay, per esempio, dottore in fisica (astronomica), membro della Società Reale di Astronomia, il quale in quel preciso momento se ne stava seduto tranquillamente in un angolo, intento a leggere una copia irta di note dei Racconti di Canterbury,assaporando di tratto in tratto un sorso di latte da un recipiente a forma di bulbo!
Gibson era intento a una tranquilla partita a freccette con il dottor Scott quando Bradley entrò con un modulo del rapporto segnalazioni.
«Adesso non mettetevi subito in agitazione» disse con la sua voce raffinata «ma vi avverto che siamo seguiti.»
Lo guardarono tutti a bocca aperta. Mackay fu il primo a riprendersi.
«Ti prego di essere più esplicito» disse con il suo solito tono lievemente cattedratico.
«C'è un razzo catapultato, sigla Mark III, che ci sta venendo dietro a rotta di collo. È stato lanciato in questo momento dalla stazione esterna e ci dovrebbe raggiungere fra quattro giorni. Vogliono che lo si acchiappi al volo mentre passa, con il nostro controllo radio, ma con la deviazione che avrà subito a questa distanza ci stanno chiedendo un po' troppo. Sarà tanto se arriverà ad accostarci entro un raggio inferiore ai centomila chilometri.»
«E dietro a chi sta correndo?»
«Credo che trasporti soccorsi sanitari urgenti. Guarda, dottore, dai un po' un'occhiata qui.»
Il dottor Scott lesse attentamente il messaggio.
«Questo sì che è interessante. Pare che abbiano trovato un antidoto alla febbre marziana. Deve trattarsi di qualche siero: l'hanno scoperto all'Istituto Pasteur. Devono essere molto sicuri della sua efficacia, se si sono presi tutto questo disturbo per farcelo arrivare.»
«Insomma, in nome di Dio. si può sapere che cos'è un razzo sigla Mark III, per non parlare della febbre marziana?» esplose infine Gibson.
Ci pensò il dottor Scott a rispondere, prima che gli altri avessero avuto il tempo di aprire bocca.
«La febbre marziana non è in realtà una malattia tipica del pianeta Marte. A quanto pare, è causata da un organismo terrestre che siamo stati noi a portare lassù e al quale il nuovo clima è piaciuto più dell'antico. Si manifesta con sintomi molto simili a quelli della malaria...»
«Grazie mille. Adesso ricordo perfettamente. Ma, e il razzo?»
Hilton si inserì abilmente nella conversazione.
«È semplicemente un piccolo razzo automatico radiocomandato e dotato di una velocità terminale altissima. Viene impiegato per il trasporto di merci tra una stazione spaziale e l'altra, oppure per rincorrere le astronavi quando queste hanno dimenticato qualcosa. Quando entrerà nel raggio d'azione della nostra radio capterà le segnalazioni della nostra trasmittente e si dirigerà verso di noi. Ehi, Bob» chiese bruscamente «come mai non l'hanno spedito direttamente su Marte? Avrebbe potuto arrivarci molto prima di noi.»
«Perché i suoi minuscoli passeggeri avrebbero arricciato il naso a dover fare il viaggio tutti soli. Bisogna che predisponga per loro un po' di colture perché restino in vita, e che faccia loro da balia.»
Gibson stava riflettendo intensamente.
«Io ero fermo nel convincimento che la vita su Marte fosse molto sana, sia dal punto di vista fisico sia da quello fisiologico.»
«Non bisogna prestare fede a tutto quello che si legge nei libri» rispose Bradley strascicando le parole. «Perché poi la gente si ostini ad andare su Marte è una cosa che non mi entra in testa. È piatto, freddo, pieno di miserabili piante rachitiche che sembrano uscite da un incubo di Edgar Allan Poe. Ci abbiamo buttato miliardi per non ricavarne neanche un centesimo. Io dico che chi ci va senza esserci mandato, dev'essere un po' tocco nel cervello. Questo sia detto senza offesa per nessuno.»
Gibson si limitò a sorridere. Aveva imparato a fare una tara del novanta per cento almeno a tutto il cinismo di Bradley.
Norden lanciò al suo specialista in elettronica un'occhiata furibonda, poi disse: «Devo avvertirvi, caro Martin, che al giudizio di Bradley su Marte non va data troppa importanza poiché la sua opinione sulla Terra e gli altri pianeti non è molto diversa. Perciò non vi lasciate deprimere dalle sue considerazioni.»
«Neanche per sogno» disse Gibson ridendo. «Però c'è ancora una cosa che vorrei sapere.»
«Chiedi pure» sollecitò Norden, ansioso.
«Ecco, vorrei sapere se il signor Bradley ha anche di sé la scarsa opinione che manifesta per il resto dell'universo.»
«Ogni tanto» disse Norden. «Il che dimostra che qualche volta almeno il suo giudizio è esatto.»
«Toccato» mormorò Bradley, preso una volta tanto alla sprovvista. «Adesso mi ritirerò nei miei appartamenti a elaborare una risposta adeguata. Intanto, Mac, vuoi avere la cortesia di prendere le coordinate del razzo e farmi sapere quando entrerà in raggio?»
«Va bene» rispose Mackay in tono assente. Era più che mai immerso nella lettura di Chaucer.
4
Nei giorni che seguirono, Gibson fu troppo occupato dalle proprie faccende per interessarsi gran che alla vita sociale dell'Ares. Si era sentito rimordere la coscienza, come sempre gli capitava quando trascurava troppo a lungo il suo lavoro, perciò si era messo a scrivere accanitamente.
I suoi compagni di viaggio (da un pezzo Gibson non si considerava più come un passeggero privilegiato, e i suoi rapporti personali erano diventati amichevoli con tutti) ne rispettavano il volontario isolamento. In principio entravano nella sua cabina tutte le volte che passavano di là, a discorrere del più e del meno oppure a lamentarsi del tempo. Era stato molto piacevole, ma alla fine Gibson si era visto costretto a interrompere le continue visite dei compagni attaccando all'uscio della propria cabina il seguente cartello: Attenzione. Pericolo! Uomo al lavoro!Inutile dire che il cartello era stato subito infiorato di commenti ironici vergati nelle più varie calligrafie, ma era ugualmente servito allo scopo.
La macchina da scrivere era stata liberata dagli altri mille oggetti che l'avevano soffocata, e adesso occupava il posto d'onore nella minuscola cabina.
Dopo aver prodotto un paio di articoli per tener tranquilla Ruth, per un po' almeno (aveva ricevuto altri tre cablogrammi la cui asprezza di tono era andata ogni volta salendo con un crescendo rossiniano), si recò in direzione nord,all'Ufficio Segnalazioni. Bradley accolse i fogli dattiloscritti con freddezza scoraggiante.
«Immagino che d'ora in poi questa storia si ripeterà tutti i giorni» disse tetro.
«Spero di si ma temo di no. Tutto dipende dalla mia ispirazione.»
«C'è un verbo sbagliato, proprio qui, all'inizio della pagina due.»
«Magnifico. È quello che ci vuole nel giornalismo.»
«A pagina tre hai scritto centrifuga mentre avresti dovuto dire centripeta.»
«Dal momento che mi pagano a battuta non vedo che differenza faccia. Le due parole sono lunghe uguali, no?»
«A pagina quattro ci sono due frasi di seguito che cominciano tutte e due conperciò.»
«Senti, vuoi spedirmi questa maledetta roba, oppure devo arragiarmi da solo?»
Bradley rise.
Pur seguitando a parlare, Bradley aveva cominciato a far scivolare i fogli nel vassoio del trasmettitore automatico. Gibson li guardava, affascinato, sparire a uno a uno entro le viscere della macchina, per emergere cinque secondi dopo entro il collettore radiotelegrafico. Gli faceva un effetto curioso pensare che in quel momento le sue parole stessero già percorrendo lo spazio.
Stava raccogliendo nuovamente i suoi fogli dattiloscritti, quando dalla selva di quadranti, interruttori e cruscotti che coprivano praticamente l'intera parete del minuscolo ufficio risuonò il brusio di un cicalino. Bradley si tuffò su un ricevitore e cominciò a eseguire con la massima rapidità movimenti incomprensibili. Da un megafono uscì a un tratto un fischio lacerante.
«Il missile è finalmente entro il nostro raggio» disse Bradley, «ma è ancora molto lontano... così, a occhio e croce, credo che ci mancherà per un buon centomila chilometri.»
«Che cosa si può fare per richiamarlo?»
«Ben poco. Ho acceso il radiofaro, e se il razzo riuscirà a captare le nostre segnalazioni modificherà automaticamente la rotta navigando a pochi chilometri dal nostro raggio.»
«E se non ci riesce?»
«Pazienza! Seguiterà a tirare dritto finché sfreccerà fuori del nostro sistema, dato che viaggia abbastanza in fretta per sfuggire all'attrazione solare... Del resto può succedere anche a noi la stessa cosa.»
«Che allegria! E quanto tempo ci si mette?»
«A fare cosa?»
«A lasciare il sistema solare.»
«Un paio d'anni, pressappoco. Ma sarebbe meglio chiederlo a Mackay. Io non conosco la risposta a tutto, non sono uno di quei tipi che si trovano nei tuoi libri, sai?»
«Non è detto» replicò Gibson, e si ritirò.
L'avvicinarsi del razzo aveva prodotto un inatteso e gradito fermento di emozione a bordo dell'Ares. Esaurito il diversivo dato dalla novità, un viaggio interspaziale poteva diventare terribilmente monotono. Certo in avvenire sarebbe stato diverso, quando la grande astronave avesse brulicato di vita, ma adesso c'erano momenti in cui le sue cabine e i suoi saloni deserti e silenziosi diventavano opprimenti.
Le scommesse sulla sorte del razzo erano state organizzate dal dottor Scott, ma le quote erano state inesorabilmente fissate dal capitano Norden.
I calcoli di Mackay facevano prevedere che il proiettile avrebbe mancato l'Ares per centoventicinquemila chilometri, con un margine di trentamila chilometri in più o in meno. La maggior parte delle scommesse si basava sul margine più probabile, ma qualche pessimista si era spinto addirittura ai duecentocinquantamila chilometri. Naturalmente le poste non erano in denaro, ma consistevano in assai più pregevoli beni di consumo quali sigarette, dolci e altri generi di lusso.
Poiché il massimo peso individuale concesso a ciascun membro dell'equipaggio era strettamente limitato, questi oggetti erano assai più ricercati che non qualche banconota, anche se di grosso taglio. Mackay era giunto a mettere nel l'ondo comune persino una mezza bottiglia di whisky, assicurandosi così, in caso di vittoria, un volume di spazio del diametro di quasi ventimila chilometri.
«Entra, entra pure» disse Gibson senza neppure alzare gli occhi dalla macchina da scrivere. La porta si era aperta per lasciare volteggiare nella cabina Jimmy Spencer.
«Vi ho portato il libro, signor Gibson. Ci troverete tutto quello che vi serve. Si tratta diElementi di Astronautica di Richardson, edizione speciale superleggera.»
Posò il volume davanti a Gibson, il quale prese a sfogliarne le pagine trasparenti con un interesse che andò via via decrescendo a mano a mano che aumentava la difficoltà di comprendere le formule matematiche. Rinunciò definitivamente a qualsiasi tentativo quando giunse a una pagina la cui sola frase era la seguente: "Sostituendo il valore della distanza del perielio all'equazione 15,3 otteniamo...". Tutto il resto erano formule.
«Sei proprio sicuro che sia il libro più elementare che esista a bordo di questa nave?» domandò in tono dubbioso. Era rimasto un poro sorpreso quando aveva saputo che Spencer era stato nominato suo precettore ufficioso, ma non era poi così sciocco da non averne intuita la ragione: tutte le volte che c'era qualcosa che nessuno voleva fare finivano per accollarla a Jimmy.
«Sì, è abbastanza elementare. Se la cava senza notazioni di vettori e non tocca la teoria delle perturbazioni. Dovreste vedere i libri dove ogni equazione occupa un paio di pagine.»
«Un momento! Prima di andartene potresti forse chiarirmi un punto che è di attualità. Molta gente si preoccupa ancora delle meteore, e mi è stato chiesto di fornire qualche dato preciso sull'argomento. Sono davvero tanto pericolose come si dice?»
Jimmy rifletté un istante, poi rispose: «Su questo argomento potrei rispondervi solo approssimativamente. Vi consiglio di rivolgervi al signor Mackay. Lui ha tutte le tavole con le cifre esatte.»
«Va bene. Ne parleremo con Mackay.»
Gibson avrebbe potuto benissimo comunicare con Mackay mediante il telefono interno, ma tutte le scuse per piantare il lavoro erano buone.
Trovò l'astronauta intento a estrarre toni melodiosi da una grande macchina calcolatrice elettronica.
«Le meteore?» disse Mackay. «Ah, già, un argomento di estremo interesse. Ho l'impressione che sull'argomento siano state pubblicate una quantità di informazioni errate. Ancora poco tempo fa quasi tutti erano convinti che un'astronave sarebbe stata immediatamente disintegrata dalle meteore non appena avesse lasciato l'atmosfera.»
«E molti ne sono convinti ancora.»
Mackay emise un grugnito di sdegno.
«Le meteore sono molto meno pericolose dei fulmini, e le più grosse di solito hanno le dimensioni di un pisello.»
«Ma dopo tutto un'astronave ne è stata seriamente danneggiata!»
«Quale? Alludi alla Star Queen? Mi pare che un solo incidente grave in cinque anni costituisca un dato alquanto confortante. Ma il fatto è che nessuna astronave si è mai veramente perduta per colpa delle meteore.»
«E la Pallas?»
«Nessuno può dire che cosa le sia successo. È convinzione popolare che la causa sia stata una meteora, ma i tecnici la pensano diversamente.»
«Perciò posso dire tranquillamente al pubblico di non preoccuparsi?»
«Si capisce. C'è piuttosto la questione della polvere...»
«Della polvere?»
«Ecco, se per meteore s'intendono particelle abbastanza grandi, di un paio di millimetri o poco più, non è il caso di preoccuparsi. Ma la polvere è un vero disastro, soprattutto sulle stazioni spaziali. Ogni tanto bisogna che qualcuno esca a localizzare le forature, di solito troppo piccole per essere visibili a occhio nudo. Una molecola di polvere stellare che marcia alla velocità di cinquanta chilometri il secondo è capace di perforare una lastra metallica di grande spessore.»
Questa notizia parve a Gibson un tantino allarmante, ma Mackay si affrettò a tranquillizzarlo.
«La realtà è che non c'è proprio nessun motivo di preoccuparsi» ripeté alla fine. «Un minimo di dispersione nell'ossatura di un'astronave si verifica sempre, ma ci pensa il rifornimento dell'aria a compensarlo.»
Per quanto indaffarato fosse, o pretendesse di essere, Gibson trovava sempre il tempo per vagabondare irrequieto attraverso i labirinti pieni d'echi dell'astronave, o per sedersi a contemplare le stelle dal ponte d'osservazione equatoriale. Aveva preso l'abitudine di andarci durante il concerto quotidiano. Tutti i giorni alle 15.00 precise l'altoparlante della nave entrava in azione e per un'ora la musica terrestre sussurrava o rumoreggiava per i corridoi vuoti.
Gibson era seduto sul ponte d'osservazione, intento a scoprire quante Pleiadi sarebbe riuscito a individuare a occhio nudo, quando un minuscolo proiettile gli sfiorò l'orecchio sibilando e andò ad appiccicarsi con un ciacal vetro del finestrino, dove rimase attaccato vibrando come una freccia. Al primo momento, a Gibson era parsa veramente una freccia, e per un attimo lo scrittore si era chiesto se per caso i Cherokee non fossero tornati sul sentiero di guerra. Poi notò che la punta era stata sostituita da un grosso succhione di gomma, mentre dalla base, giusto dietro le piume, si snodava un lungo filo sottile, alla cui estremità c'era il dottor Robert Scott, laureato in medicina, che vi arrancava dietro simile a un grosso ragno che sta risalendo il suo nastro di bava.
Gibson stava ancora cercando un commento sarcastico, quando, come al solito, Scott lo prevenne.
«Non ti pare ingegnoso?» chiese. «Ha un'autonomia di venti metri, pesa soltanto mezzo chilo, e non appena ritorno sulla Terra lo faccio brevettare.»
«A che cosa serve?» chiese Gibson in tono rassegnato.
«Ma come, non capisci? Immagina di spostarti da un punto all'altro nell'interno di una stazione spaziale dove non esiste gravità rotazionale. Basta lanciare questo aggeggio su una qualsiasi superficie piatta prossima al tuo luogo di destinazione e poi avvolgere la funicella. Finché non avrai liberato il succhione potrai contare su un'ancora perfetta.»
«Ma che cosa c'è che non va nel sistema solito di muoversi?»
«Quando sarai stato nello spazio tutto il tempo che ci sono stato io, ti accorgerai quante siano le cose che non vanno» rispose Scott in tono saputo. «Su una nave come questa ci sono dappertutto maniglie alle quali ti puoi attaccare. Ma immagina di andare verso una parete liscia all'altro capo della tua stanza, e di lanciarti in aria dal punto in cui ti trovi. Cosa succede? Be', dovrai pure interrompere in qualche modo la caduta, con le mani, di solito, se non vuoi continuare a girare come una trottola. A proposito, sai qual è il disturbo più comune che un medico è costretto a curare a bordo di una nave interspaziale? Le slogature dei polsi. È naturale! Comunque, anche se raggiungi la mèta finisci regolarmente col rimbalzare all'indietro, a meno che tu non riesca ad aggrapparti a qualcosa. Del resto ti può persino capitare di rimanere bloccato a mezz'aria. A me è successo, una volta, nella stazione spaziale numero tre, in uno dei grandi capannoni. Il muro più vicino era distante quindici metri e non c'era verso che mi riuscisse di arrivarci.»
«Perché non ti sei fatto strada sputando nella direzione voluta?» chiese Gibson in tono serio. «Dicono che sia il sistema migliore per uscire da un impiccio come quello che mi hai descritto adesso.»
«Prova e poi mi saprai dire. In ogni caso non è un sistema igienico. Lo sai che cosa ho dovuto fare? Come al solito indossavo maglietta e calzoncini e avevo calcolato che quei due indumenti influivano per circa un centesimo sul peso della mia massa. Senza quegli indumenti avrei potuto raggiungere il muro opposto in un minuto. Perciò li ho tolti.»
«E ce l'hai fatta?»
«Sì. Ma quel giorno il direttore stava facendo visitare la stazione a sua moglie, quindi adesso capisci perché mi sono ridotto, per guadagnarmi da vivere, a scorrazzare su questa vecchia carretta trascinandomi di portello in portello. Fortuna che non mi hanno relegato in qualche sudicia ambulanza di astroporto.»
«Ho l'impressione che tu abbia sbagliato mestiere» disse Gibson. «A proposito, cosa fa Owem? È riuscito a mettersi in contatto col missile o non ancora?»
«No, e mi sembra che non ne abbia affatto l'intenzione. Mac dice che passerà a circa centoquarantacinquemila chilometri di distanza, in ogni modo fuori portata. È un vero peccato. Ci vorranno mesi prima che un'altra nave parta per Marte, e questa è appunto la ragione per la quale avevano tanta fretta di raggiungerci.»
«Owem è un tipo strano, vero?» osservò Gibson senza un motivo particolare.
«Quando lo si conosce bene si capisce che non è così male come sembra in principio. Non è affatto vero quello che dicono, cioè che abbia avvelenato la moglie. È lei che si è uccisa di sua spontanea volontà ingerendo un narcotico» rispose Scott tutto soddisfatto.
Owem Bradley, dottore in fisica, specialista in scienza elettronica, eccetera, eccetera, era profondamente annoiato dell'esistenza. Come chiunque altro a bordo dell'Ares era seriamente appassionato del suo lavoro, anche se ci scherzava sopra. Da dodici ore si era chiuso nella cabina comunicazioni, senza uscirne mai se non per pochi secondi, nella speranza che l'onda portante continua del razzo si spezzasse nella giusta modulazione rivelando che le sue segnalazioni erano state captate, e il razzo cominciava a virare in direzione dell'Ares. Ma sino a quel momento non era successo niente, e non c'era motivo di sperare che le cose potessero cambiare.
Bradley compose il numero dell'ufficio di astronavigazione sul quadro d'intercomunicazione della nave, e Mackay rispose quasi subito.
«Quali sono le ultime notizie, Mac?»
«Non credo che si avvicinerà più di così. Ho corretto la posizione il più possibile e ho ridotto al massimo gli errori. In questo momento si trova a centocinquantamila chilometri e viaggia lungo una rotta pressoché parallela. Nel punto più prossimo sarà a centoquarantaquattromila, fra tre ore circa. Perciò, io ho perso la scommessa, e credo che tutti quanti perderemo il missile.»
«Lo credo anch'io» borbottò Bradley. «Però finché c'è vita c'è speranza. Io vado giù all'officina.»
«A fare cosa?»
«A fabbricare un razzo monoposto per correre dietro a quell'aggeggio infernale. Per un'impresa simile, in un racconto di Martin ci vorrebbe meno di mezz'ora! Su, vieni ad aiutarmi.»
Mackay si trovava più vicino di Bradleyall'Equatore della nave, di conseguenza era giunto per primo al Polo Sud e stava aspettando con curiosità quando l'altro lo raggiunse tutto avvolto di rotoli di cavo coassiale prelevati nel magazzino. In poche parole Bradley espose il suo piano.
«Avrei dovuto muovermi prima, ma io sono di quelli che seguitano a sperare sino all'ultimo che le cose si risolvano da sole. Il guaio del nostro radiofaro è che irradia in tutte le direzioni... il che è giusto, naturalmente, perché noi non sappiamo mai da dove può provenire un missile. Perciò ho intenzione di costruire un equipaggiamento a raggi e di puntare tutta l'energia di cui dispongo sul nostro fuggitivo.»
Così dicendo mostrò lo schizzo sommario di una semplice antenna Yagi e in poche parole spiegò a Mackay il suo progetto.
«Questo aggeggio è il radiatore effettivo: gli altri sono congegni direzionali e riflettori. È un dispositivo antiquato, ma facile da fabbricare, e dovrebbe riuscire allo scopo. Chiama Hilton, se hai bisogno di aiuto. Quanto tempo ti ci vorrà?»
Mackay, che per essere uno scienziato di quella fatta possedeva un'abilità manuale incredibile, diede un'occhiata al disegno e al piccolo mucchio di materiale che Bradley aveva raccolto.
«Un'ora circa» rispose, già all'opera. «Tu dove vai adesso?»
«Devo salire sull'ossatura e disinnestare il filo del trasmettitore del faro. Porta l'equipaggiamento davanti al compartimento stagno appena sei pronto, d'accordo?»
Mackay se n'intendeva poco di radio, ma aveva capito con sufficiente chiarezza quello che Bradley intendeva fare. In quel momento il minuscolo radiofaro dell'Ares stava emanando la sua energia tutt'attorno; Bradley, invece, voleva dirigerne con mira precisa tutta la forza verso il missile in fuga.
Un'ora circa più tardi, Gibson s'imbatté in Mackay che correva frettoloso per la nave trascinandosi dietro una fragile struttura di fili di metallo paralleli, tenuti divisi da asticciole di plastica. Guardò stupefatto quella roba mentre seguiva Mackay al compartimento stagno dove Bradley lo stava già aspettando impaziente nella sua ingombrante tuta spaziale, il casco ancora penzolante dal collo.
«Qual è la stella più vicina al missile?» chiese Bradley.
Mackay eseguì un rapido calcolo mentale.
«In questo momento non si trova vicino a nessun punto dell'eclittica» rifletté. «Le ultime cifre che ho segnato... vediamo un po'... declinazione circa quindici nord, ascensione esatta verso le quattordici. Penso che sia... non riesco mai a ricordare queste cose!, in qualche punto in Boote. Ah, sì, non dovrebbe essere lontano da Arturo, a una distanza comunque di non oltre dieci gradi, così a occhio e croce. Ti faccio il calcolo esatto tra un minuto.»
«Per cominciare non c'è male. Io intanto giro il faro. Chi c'è nella cabina delle segnalazioni in questo momento?»
«Il Comandante e Fred. Li ho chiamati al telefono e sono in ascolto sul monitore. Mi terrò in contatto con loro per mezzo del trasmettitore dell'ossatura.»
Bradley si allacciò il casco e scomparve nel compartimento stagno. Gibson lo vide partire con una punta di invidia. Aveva sempre desiderato indossare una tuta spaziale, ma per quanto l'avesse chiesto ripetutamente a Norden, il capitano gli aveva sempre risposto che era contro il regolamento. Le tute spaziali erano meccanismi complessi e se lui avesse commesso un errore nel maneggiarne una... ci sarebbe stato da pagare un pozzo di quattrini e a loro sarebbe magari toccato di predisporre un funerale che si sarebbe svolto in circostanze alquanto insolite.
Bradley non si perdette certo ad ammirare le stelle, non appena fu uscito dal portello esterno. Avanzò lentamente lungo la scintillante superficie dello scafo manovrando i suoi dispositivi a reazione finché non raggiunse il tratto di fasciame metallico già rimosso in precedenza. Sotto, una intricata rete di cavi e di fili era esposta all'accecante luce solare, e un cavo era già stato tagliato. Eseguì un rapido collegamento provvisorio, scuotendo tristemente la testa nell'osservare l'orribile pasticcio che certamente avrebbe riverberato metà dell'energia dritto filato nel trasmettitore. Quindi localizzò Arturo e orientò il faro in quella direzione. Poi accese la radio inserita nel casco.
«C'è qualche speranza?» chiese ansiosamente.
Dall'altoparlante gli rispose la voce malinconica di Mackay.
«Nemmeno un briciolo. Ti metto in contatto con l'ufficio comunicazioni.»
Norden confermò quanto aveva detto Mackay.
«Il segnale seguita a pervenire regolarmente, ma niente fa pensare che ci abbia avvistati.»
Bradley non sapeva più che cosa pensare. Fino a quel momento era stato sicurissimo di farcela. Come minimo, grazie al suo sistema, la potenza del faro puntato in quell'unica direzione doveva essere almeno decuplicata.
Richiamò un'altra volta Mackay.
«Senti, Mac» disse in fretta «ho bisogno che tu mi controlli di nuovo quelle coordinate. Poi vieni qui a dare una mano. Io mi occuperò del trasmettitore.»
Non appena Mackay gli ebbe dato il cambio, Bradley tornò di volata nella cabina comunicazioni. Trovò Gibson e gli altri affollati con aria immusonita intorno al monitore da cui giungeva con monotonia esasperante il sibilo ininterrotto del missile lontanissimo e che s'allontanava sempre più.
In Bradley non c'era più traccia di quei suoi movimenti solitamente così pigri, quasi felini, mentre lui esaminava diagrammi di circuito a decine e faceva man bassa nel raccoglitore delle comunicazioni. Gli bastarono pochi secondi per far scorrere un paio di fili nel cuore del trasmettitore del faro. Seguitando a lavorare, bersagliò Hilton con un vero fuoco di fila di domande.
«Tu te ne intendi di questi razzi radiocomandati. Per quanto tempo bisogna inviare i segnali prima che possa dirigersi su di noi con precisione?»
«Molto dipende dalla sua velocità relativa e da parecchi altri fattori. In questo caso, siccome si tratta di una questione di accelerazione ritardata, almeno dieci minuti, secondo me.»
«Dopodiché non avrà importanza se il nostro radiofaro non funzionerà più?»
«No. Appena il missile avrà puntato verso di noi potrai benissimo spegnere. Naturalmente bisognerà mandare un altro segnale, quando ti passerà proprio vicino, ma questo dovrebbe essere facile.»
«Quanto credi che ci metterà ad arrivare, se riesco a captarlo?»
«Forse un paio di giorni, forse meno. Che cosa stai cercando di combinare, adesso?»
«Gli amplificatori di potenza di questo trasmettitore funzionano a settecentocinquanta volt. Sto grattando un migliaio di volt in più da un'altra parte, ecco tutto. Sarà una vita felice ma di breve durata, però racldoppieremo e magari triplicheremo la nostra forza, finché le valvole resisteranno.»
Girò il commutatore delle intercomunicazioni, e chiamò Mackay il quale, non sapendo che il trasmettitore era già stato chiuso da un bel pezzo, seguitava a tenere l'equipaggiamento accuratamente puntato su Arturo. Pareva un Guglielmo Tell in armatura che stesse prendendo la mira con la balestra.
«Ehi, Mac, sei ancora lì?»
«Come un sol uomo» rispose Mackay con dignità. «Per quanto tempo ancora...»
«Cominciamo proprio adesso. Ecco che parte.»
Bradley girò il commutatore. Gibson, il quale si era aspettato di vedere volare scintille, rimase deluso. Tutto sembrava esattamente come prima, ma Bradley, che la sapeva più lunga, guardò i suoi contatori mordendosi furiosamente le labbra.
Alle radioonde sarebbe bastato mezzo secondo per varcare l'abisso che li separava dal minuscolo lontanissimo razzo e dai suoi meravigliosi congegni automatici che sarebbero rimasti privi di vita per l'eternità a meno che la segnalazione di Bradley non li raggiungesse. Il mezzo secondo trascorse, ne trascorse un altro. Il piccolo proiettile aveva avuto tutto il tempo per rispondere, ma dall'altoparlante continuava a uscire ininterrotto, esasperante, l'inesorabile fischio di eterodina. Improvvisamente, un silenzio. Parve durare secoli. A centocinquantamila chilometri di distanza l'automa stava avvertendo il fenomeno nuovo. Gli ci vollero forse cinque secondi per decidersi... poi l'onda portante riprese la sua oscillazione, ma modulata questa volta in una serie interminabile di biip-biip-biip.
Bradley si affrettò a calmare l'entusiasmo dei compagni.
«Non possiamo ancora cantare vittoria» disse. «Ricordatevi che deve captare la nostra segnalazione per dieci minuti consecutivi prima di poter completare i suoi mutamenti di rotta.» Diede un'occhiata ansiosa ai contatori e si chiese per quanto tempo ancora le valvole avrebbero resistito in quella battaglia ineguale.
Durarono per sette minuti, ma Bradley ne aveva già pronte altre di ricambio e in capo a venti secondi riprendeva l'invio del segnale. Le nuove valvole funzionavano ancora quando l'onda portante del missile mutò nuovamente di modulazione, e con un sospiro di soddisfazione Bradley si affrettò a spegnere il povero radiofaro tanto maltrattato.
«Puoi rientrare, Mac» gridò nel microfono. «Ce l'abbiamo fatta.»
«Non ho capito come siate riusciti a togliere nuovamente il circuito» disse Gibson.
«Ci ha pensato il meccanismo di controllo del razzo» spiegò Bradley col tono di un professore che cerchi di far capire la lezione a uno scolaro lento di riflessi. «Il primo segnale ci ha fatto capire che il razzo aveva percepito la nostra onda, quindi sapevamo che si stava dirigendo automaticamente verso di noi. Per la correzione di rotta gli ci sono voluti parecchi minuti, dopo di che, compiuta la manovra, ha spento i motori e ci ha inviato il secondo segnale. Naturalmente si trova pressappoco alla stessa distanza di prima, ma ormai sta puntando verso di noi e dovrebbe raggiungerci tra un paio di giorni. Allora dovrò mettere di nuovo in azione il radiofaro, e questo lo porterà a un chilometro da noi e anche meno.»
«Un momento!» esclamò Gibson, allarmato. «Non c'è pericolo che ci venga addosso?»
«Stai tranquillo. I progettisti hanno pensato anche a questo. Quando ci sarà veramente vicino entrerà in funzione un grazioso aggeggio sensibile al gradiente del campo del faro. E poiché, come saprai, la forza di campo H è inversamente proporzionale alla distanza, appare subito ovvio che dH/dr varia inversamente al quadrato di r, e perciò è troppo piccola per essere misurata, a meno che tu non ci sia vicinissimo. Non appena il missile si accorgerà di poterla misurare, azionerà i freni.»
«Fantastico!» disse Gibson.
Dal fondo della stanza giunse un discreto colpo di tosse.
«Mi spiace di dovervi ricordare, signore...» cominciò Jimmy.
Norden scoppiò a ridere.
«Ho capito: pago. Ecco le chiavi. Armadietto ventisei. Che cosa intendi fare di quella bottiglia di whisky?»
«Stavo pensando di rivenderla al dottor Mackay.»
«Certo, questo momento richiede una serie di brindisi» disse Scott lanciando a Jimmy un'occhiata severa.
5
«Un'ora fa avevamo un solo passeggero» disse il dottor Scott mentre passava attraverso il compartimento stagno, stringendosi amorosamente al petto la lunga cassetta metallica. «E adesso ne abbiamo diversi miliardi.»
«Chissà come avranno sopportato il viaggio» disse Gibson.
«A quanto pare i termostati erano in perfetta efficienza, quindi dovrebbero stare benone. Li porto subito nelle culture che ho già preparato, dove spero che vivranno tranquilli e felici finché non saremo su Marte, perché li rimpinzerò da scoppiare.»
«Cosa succederà adesso a quel poveretto?» chiese Gibson al capitano Norden, indicando il missile.
«Ne ricupereremo il meccanismo di controllo e di guida e ne molleremo la carcassa nello spazio. Sarebbe un peccato consumare propellente per portare fin su Marte quel guscio inutile. Perciò, finché non riprenderemo l'accelerazione, avremo una nostra piccola luna personale.»
«Proprio come il cane nel racconto di Giulio Verne.»
«Quale? Quello intitolato Dalla Terra alla Luna? Non l'ho mai letto. Per dire la verità, mi ci sono provato una volta, ma non sono riuscito a continuare. Questo è il guaio di tutte le vecchie favole del buon tempo andato... non c'è niente che sia più morto dei racconti avveniristici di ieri.»
Gibson si sentì in dovere di difendere la sua professione.
«Dunque ritieni che la letteratura cosiddetta fantascientifica non potrà mai avere un valore duraturo?»
«Temo di no. Guarda che cosa è successo fino al sessanta, diciamo anche fino al settanta. A quell'epoca si scrivevano ancora romanzi intorno al primo viaggio sulla Luna. Oggi però sono illeggibili. Una volta raggiunta la Luna, per qualche anno ancora si scrisse intorno a Venere e a Marte. Ma oggi anche quei romanzi non si leggono più, se non per farci sopra matte risate. Può darsi che i pianeti esterni forniscano ancora un discreto investimento per un'altra generazione: ma le frottole interplanetarie care ai nostri nonni hanno avuto la loro definitiva sepoltura alla fine del settanta.»
«Tuttavia il tema del volo spaziale è oggi più popolare che mai.»
«Sì, ma non si tratta più di scrivere romanzi scientifico-avveniristici. O sono fatti, cronaca giornalistica, come quella che stai facendo tu adesso, oppure sono opere di pura fantasia. E infatti la maggior parte sono favole, nient'altro che favole, buone per incantare i bambini, e basta!»
«Contesto la tua argomentazione su due punti» ribatté Gibson. «Prima di tutto il pubblico, una gran parte almeno, legge ancora oggi le frottole di Wells, anche se sono vecchie di un secolo. E per passare dal sublime al ridicolo, leggono ancora persino le mie opere giovanili, Polvere Marziana per esempio, anche se ormai i tempi le hanno abbondantemente superate.»
«Wells faceva della letteratura sul serio. Le creazioni della fantasia pura si leggono nonostante le previsioni fatalmente errate, ma non a causa di queste.»
Seguì una breve pausa. Gibson si chiese se il suo interlocutore si stesse preparando ad attaccare il suo secondo punto. Infine Norden riprese: «Quando hai scritto Polvere Marziana?»
«Nel settantatré o nel settantaquattro.»
«Non sapevo che fosse un'opera tanto vecchia. Ma questo spiega in parte la cosa. Iviaggi interplanetari stavano per iniziare proprio allora, e tutti lo sapevano. Tu ti eri già fatto un nome con alcuni lavori letterari, ePolvere Marziana s'infilò molto opportunamente nella corrente del momento.»
Gibson sospirò, poco convinto. Poi scoppiò in una sonora risata.
«Si può conoscere il motivo di questa tua improvvisa allegria?» chiese Norden.
«Riflettevo sulla nostra conversazione. Mi stavo chiedendo che cosa avrebbe pensato Wells se avesse potuto immaginare che un giorno due terricoli avrebbero discusso le sue opere a metà strada fra Marte e la Terra.»
«Non esagerare adesso» fu la risposta di Norden. «Non siamo che a un terzo di strada, per il momento!»
La mezzanotte era passata da un pezzo quando Gibson si svegliò all'improvviso da un sonno senza sogni. Qualcosa l'aveva disturbato, un boato sordo che gli sembrò provenire da un'esplosione lontana, dai visceri dell'astronave. Si rizzò a sedere nel buio, irrigidendosi contro le larghe fasce elastiche che lo tenevano fermo al letto. Dallo specchio-finestrino gli giunse solo un luccichio di stelle, poiché la sua cabina si trovava sul lato notturno della nave. Rimase in ascolto, le labbra semiaperte, trattenendo il respiro per cogliere il minimo rumore.
Molti rumori echeggiavano per l'Ares,la notte, poiché l'astronave era viva, e il silenzio avrebbe significato per lei e per tutti coloro che ci vivevano la morte e il nulla, e quei rumori Gibson li conosceva tutti, ormai. Era meravigliosamente rassicurante il sospiro continuo, regolare delle pompe dell'aria che insufflavano gli alisei artificiali, creati dall'uomo, per quel minuscolo pianeta.
Ancora semiaddormentato, si affacciò sull'uscio della cabina e per qualche minuto rimase in ascolto nel corridoio. Tutto era perfettamente normale, e lui era l'unico sveglio a bordo.
Si era già rimesso a letto quando lo assalì un pensiero improvviso. Il rumore era stato poi così lontano? La sua era stata soltanto una prima impressione, e il rumore avrebbe anche potuto essere molto più vicino. Ma era stanco e non ci pensò più. Gibson nutriva una fiducia completa, addirittura commovente, nella perfetta strumentazione dell'astronave. Se davvero fosse successo qualcosa, gli allarmi automatici avrebbero svegliato tutti. Erano stati collaudati parecchie volte nel corso del viaggio, ed erano talmente assordanti da svegliare anche un morto. Quindi poteva riaddormentarsi tranquillamente, sicuro che la nave vegliava su di lui.
Gibson aveva perfettamente ragione, anche se era destinato a non saperlo mai. Il mattino seguente, del resto, aveva già dimenticato ogni cosa.
Norden si avvicinò tossicchiando nervosamente.
«Senti un po', Martin» disse il capitano, «ti ricordi che non mi lasciavi in pace perché volevi provare una tuta spaziale?»
«Certo. Ma mi hai sempre risposto che era severamente proibito dai regolamenti.»
Il Comandante parve imbarazzato, cosa alquanto insolita in lui.
«Già, e infatti lo è, in un certo senso. Ma questa volta non si tratta di un viaggio normale, e da un punto di vista tecnico tu non puoi essere definito un passeggero. Credo che dopotutto si possa fare, se t'interessa ancora.»
Gibson ne fu entusiasta. Si era sempre chiesto che effetto facesse indossare una tuta spaziale e starsene in piedi nel nulla, circondati dalle stelle. Non gli venne neppure in mente di chiedere a Norden come mai avesse cambiato idea, cosa di cui Norden gli fu molto grato.
La congiura era andata maturando durante un'intera settimana. Ogni mattina Hilton si recava nella cabina di Norden con i bollettini di navigazione in cui erano riassunti l'andamento della nave durante le ultime ventiquattro ore e il comportamento delle sue molteplici macchine. Di solito non c'era niente d'importante da segnalare, e dopo aver firmato i vari rapporti, Norden li univa al giornale di bordo. Una grana era davvero l'ultima cosa che avrebbe desiderato lassù nello spazio, ma gliene toccò una.
«Senti un po', Johnnie» disse Hilton una mattina (era il solo a bordo che chiamasse Norden con il nome di battesimo: per gli altri era sempre e soltanto il Comandante) «non ho più dubbi ormai sulla pressione d'aria. La diminuzione si può dire costante. Tra una decina di giorni avremo superato il limite di tolleranza.»
«Questo significa che dobbiamo assolutamente fare qualcosa. Speravo che fosse possibile resistere fino all'arrivo.»
«Temo invece che non sarà possibile. Naturalmente si tratta di livelli trascurabili: una fuga d'aria anche dieci volte maggiore non sarebbe in realtà pericolosa. Ma quando torneremo sulla Terra dovremo pur consegnare alla commissione per la sicurezza spaziale i nostri rapporti sulla pressione.»
«Dove pensi che avvenga la perdita?»
«Nell'ossatura, naturalmente.»
«Si tratta forse di quella vecchia apertura vicino al Polo Nord?»
«Ne dubito. È stato troppo improvviso. Temo che sia una foratura nuova.»
Norden ebbe un'espressione seccata. Di forature dovute a polvere meteorica se ne verificavano due o tre all'anno su un'astronave della mole dell'Ares. Di solito si lasciava che si accumulassero prima di pensare a ripararle, ma questa sembrava un po' troppo rilevante per venire ignorata.
«Questo è il guaio» disse Hilton. «Abbiamo un solo rivelatore, e ben cinquantamila metri quadrati di ossatura da ispezionare. Si possono perdere anche un paio di giorni. Ora, se si fosse trattato di un unico bel buco grosso avremmo potuto mettere in azione le paratie automatiche che ce l'avrebbero individuato subito.»
«Meno male che questo non è possibile» disse Norden ridendo. «Altrimenti una spiegazione qualsiasi avremmo dovuto pur darla!»
Jimmy Spencer, al quale come al solito venne affibbiato anche quell'incarico di cui nessuno si voleva occupare, trovò il guasto dopo tre giorni e dodici giri d'ispezione. Il minutissimo foro era appena visibile ad occhio nudo, ma il rivelatore supersensibile aveva immediatamente registrato che in quella parte dello scafo il vuoto non era a tenuta perfetta. Jimmy aveva segnato il punto col gesso ed era rientrato tutto soddisfatto nel compartimento stagno.
Norden andò a scovare le varie piante della nave. Basandosi sul rapporto di Jimmy localizzò con sufficiente approssimazione l'ubicazione dell'avaria. Subito emise un fischio significativo e i suoi occhi si levarono al soffitto.
«Jimmy» disse «il signor Gibson sa che cosa sei andato a fare all'esterno?»
«Nossignore» rispose Jimmy, «gli ho dato la solita lezione di astronautica, per quanto non sia molto facile fargli entrare in testa...»
«Bene. Adesso ascoltami con attenzione. Quella maledetta foratura è proprio nel bel mezzo della parete della sua cabina, e se tu gli ripeti anche soltanto una parola di quello che ti ho detto, ti scuoio. Intesi?»
«Sissignore» disse Jimmy, poi uscì a precipizio.
«E adesso?» fece Hilton, rassegnato.
«Dobbiamo sloggiare Martin con un pretesto qualsiasi e turare il buco il più in fretta possibile.»
«Curioso però che non se ne sia accorto. Deve aver fatto un gran baccano, quando è successo.»
«Probabilmente in quel momento non era in cabina. Mi sorprende invece che non abbia mai notato la fuga d'aria, che dev'essere piuttosto forte.»
«Ma probabilmente è mascherata dalla circolazione normale. Comunque perché tante storie? Perché non spiegargli tranquillamente quello che è successo? Mi sembra inutile usare tanti stratagemmi.»
«Davvero? Ne sei proprio sicuro? Immagina se Martin va a raccontare ai suoi lettori che una meteora di grandezza dodici ha bucato la nave... e seguita poi a sostenere che guai del genere si verificano un viaggio sì e uno no. Quanti tra il pubblico capiranno che non esiste un pericolo effettivo, e che per giunta anche quando succedono fatti del genere noi non ce ne preoccupiamo più che tanto?»
«E allora perché non dirglielo pregandolo soltanto di tenere la bocca chiusa?»
«Perché non sarebbe giusto. Chiedere proprio a un giornalista di tacere dopo settimane che non ha una sola notizia da raccontare!»
«E va bene» disse Hilton con un sospiro. «L'hai voluto tu. Non ti lamentare poi se andrà tutto a nostro danno.»
Gli aggeggi complicati avevano sempre affascinato Gibson, e la tuta spaziale era un aggeggio supernuovo da aggiungere alla già numerosa collezione di congegni che lui aveva studiato e descritto. Bradley era stato generoso di particolari per essere certo che lo scrittore ne avesse compreso bene il funzionamento. Non aveva nessuna voglia di portarlo fuori nello spazio e poi doverlo andare a cercare chissà dove.
Gibson si era dimenticato che i vestiti spaziali dell'Ares non avevano calzoni, ma che bisognava semplicemente sedercisi dentro, come in un sacco. Il che era alquanto sensato, dal momento che dovevano servire per muoversi in gravità zero e non già per camminare su pianeti senza aria.
La mancanza di gambali flessibili semplificava moltissimo la forma degli indumenti che erano semplici cilindri terminanti in un casco di perspex, materiale plastico molto più trasparente del vetro, e completati ai lati superiori da due braccia articolate. Lungo i fianchi correvano scanalature e rigonfi misteriosi entro cui si annidavano il condizionamento d'aria, una radio, i regolatori del calore, e un sistema di propulsione a basso regime. Nel loro interno, chi li indossava poteva godere una notevole libertà di movimenti: si potevano ritirare le braccia per maneggiare i vari controlli e persino per consumare un pasto leggero senza ricorrere a esercizi eccessivamente complicati.
Bradley aveva trascorso quasi un'ora nel compartimento stagno per accertarsi con il massimo margine di sicurezza che Gibson avesse ben compreso l'uso dei diversi controlli senza pericolo di commettere errori. Il giornalista aveva apprezzato la precisione del compagno, ma quando si accorse che la lezione non accennava a finire cominciò a dare segni palesi di impazienza. E quando Bradley attaccò la spiegazione sull'uso dei dispositivi igienici dello scafandro, Gibson minacciò addirittura un ammutinamento.
«Basta» protestò. «Non vorrai che si stia fuori tanto!»
Bradley rise.
«Ti sorprenderebbe il numero delle persone che commettono questo errore.»
Aprì uno sportello e dall'armadietto inserito nella paratia del compartimento tolse due rotoli di filo che assomigliavano in tutto e per tutto a rocchetti da pescatore, e li inserì saldamente in speciali dispositivi montati sulle tute in modo che non si potessero staccare per una causa accidentale.
«Questa è la misura di sicurezza numero uno» spiegò. «Bisogna sempre avere uno di questi fili di salvataggio che ti ancorino ben bene alla nave. Tutte le altre regole si possono infrangere, ma non questa. E per essere ancora più sicuro, legherò la tua tuta alla mia con altri dieci metri di corda.»
La porta esterna scattò automaticamente di lato. Gibson sentì gli ultimi refoli d'aria appigliarsi a lui nella loro fuga. Quel debole impulso lo sospinse verso l'uscita, e lui scivolò fuori dolcemente in mezzo alle stelle.
La lentezza di ogni movimento e l'assoluto silenzio resero quell'istante particolarmente solenne. L'Ares si allontanava alle sue spalle con spaventosa ineluttabilità. Lui stava sprofondando nello spazio, nello spazio vero, finalmente, e il suo unico legame con la vita era quel tenue filo che si dipanava dal suo fianco.
Tuttavia quell'esperienza, pur così nuova, gli risvegliò nella mente echi familiari.
La frizione del rocchetto arrestò il suo impulso quando la corda che lo legava a Bradley diede uno strattone. Si era quasi scordato il compagno. Bradley ora si stava allontanando a saetta dall'astronave grazie ai minuscoli razzi a gas situati alla base del suo scafandro, e si portava Gibson a rimorchio.
Gibson rimase letteralmente senza parole quando la voce dell'altro, ripercotendosi con eco metallica nel casco della sua tuta, sbriciolò il silenzio.
«Non mettere in moto i tuoi razzi a meno che non te lo dica io. Non dobbiamo acquistare velocità eccessiva, e dobbiamo stare attenti a non aggrovigliare i nostri due fili.»
«Va bene» disse Gibson, vagamente seccato di quell'intrusione nel suo sacrario privato. Si voltò a guardare la nave: era già a varie centinaia di metri di distanza, e stava rapidamente rimpicciolendo.
«Quanto cavo abbiamo a disposizione?» chiese con ansia. Ma non ebbe risposta e per un attimo fu colto da un lieve panico, poi si ricordò che doveva premere il pulsante ditrasmissione.
«Un chilometro circa» fu la risposta di Bradley non appena Gibson ebbe ripetuto la domanda. «È più che sufficiente per godersi in santa pace un po' di solitudine.»
«E se dovesse spezzarsi?» chiese Gibson in tono scherzoso, ma con una certa apprensione segreta.
«Non è possibile. Sopporterebbe tutto il tuo peso normale anche sulla Terra. E in ogni caso potremmo rientrare ugualmente grazie ai nostri razzi.»
«E se questi si esaurissero?»
«In tal caso non ti resterebbe che girare il commutatore dell'SOS e aspettare che qualcuno venga a prenderti. Ma dubito che in una simile circostanza si affretterebbero molto, perché chi fosse tanto stupido da cacciarsi in un guaio del genere non potrebbe certo pretendere molta comprensione.»
Ci fu uno strappo improvviso: erano arrivati alla fine del cavo. Bradley attutì il contraccolpo con i suoi razzi.
«Siamo parecchio lontani da casa, adesso» disse con la massima tranquillità.
A Gibson occorsero diversi secondi per individuare l'Ares. Si trovavano sul lato notturno dell'astronave e questa appariva quasi completamente in ombra: le sue sfere erano divenute due sottili mezzelune che avrebbero potuto benissimo essere scambiate per la Terra e la Luna viste da un milione di chilometri di distanza. La nave era adesso troppo piccola e fragile per poter essere ancora considerata un rifugio sicuro. Gibson era finalmente solo con le stelle. Le stelle erano così splendenti e così numerose che a tutta prima Gibson non riuscì a riconoscere nemmeno la costellazione più familiare. Ma ben presto individuò Marte, il corpo più luminoso nel cielo, dopo il Sole naturalmente, e riuscì a determinare il piano dell'eclittica. Adagio adagio, manovrando con estrema precauzione gli scoppi dei razzi a gas, si girò in maniera da avere grosso modo la testa verso la Stella Polare. Ecco che così era tornato diritto, a piedi in giù e testa in sù, e il disegno delle stelle era di nuovo facilmente riconoscibile.
Lentamente si fece strada verso lo Zodiaco, chiedendosi con meravigliato stupore quanti uomini nella storia avessero condiviso quella sua esperienza magica. Non era più possibile distinguere i pianeti dalle stelle a luce fissa, priva di qualsiasi tremolio, che rappresentava un riferimento tanto utile, anche se a volte assai pericoloso, per gli astronomi dilettanti. Gibson non tentò nemmeno di cercare la Terra o Venere, perché il bagliore del Sole l'avrebbe immediatamente folgorato se avesse osato volgere lo sguardo in quella direzione.
Gibson stava cercando Alpha del Centauro in mezzo alle costellazioni ignote dell'emisfero meridionale, quando vide qualcosa che per un attimo non riuscì a identificare. A una distanza incalcolabile un oggetto bianco, rettangolare, galleggiava sullo sfondo delle stelle. Questa almeno fu la sua prima impressione, ma quasi subito capì che il suo senso della prospettiva era sbagliato e che in realtà quello che vedeva era molto piccolo e si trovava a pochi metri da lui. Ma anche così gli ci volle un po' di tempo per riconoscere quell'oggetto interplanetario per quello che era realmente: un normalissimo foglio di carta dattiloscritto che si rigirava lentissimamente nello spazio. Niente poteva essere più banale, e più inatteso.
Stupito, Gibson guardò a lungo l'oggetto prima di convincersi di non essere vittima di un'illusione ottica. Poi accese la trasmittente e si mise in comunicazione con Bradley.
L'altro non si mostrò affatto sorpreso.
«Cosa c'è di strano?» disse con una punta d'impazienza. «Sono settimane che gettiamo i nostri rifiuti e poiché non imprimiamo nessuna accelerazione è naturale che qualcosa continui a galleggiarci intorno. Non appena cominceremo a frenare, ce ne staccheremo subito, e la nostra spazzatura se ne andrà sfrecciando fuori dal sistema solare.»
Certo, com'era semplice!
Per millenni dopo la sua morte, quel pezzo di carta avrebbe continuato a portare il proprio messaggio alle stelle, mentre lui ne avrebbe per sempre ignorato il contenuto...
Norden andò a riceverlo al compartimento stagno. Sembrava alquanto soddisfatto di sé, ma Gibson non era in condizioni di notare questo particolare. Era ancora sperduto tra le stelle e gli ci sarebbe voluto un po' di tempo prima di ritornare alla normalità.
«Ce l'avete fatta?» chiese Bradley agli altri, non appena Gibson fu lontano.
«Sì, e con quindici minuti di vantaggio. Abbiamo chiuso i ventilatori e abbiamo scoperto il foro con il sistema antidiluviano ma sempre efficace del fumo di candela. Una bella saldatura e un po' di vernice ad asciugatura rapida hanno compiuto il resto: in quanto allo scafo esterno lo tureremo quando saremo in cantiere, se proprio sarà necessario. Mac ha fatto proprio un bel lavoro.»
6
Il viaggio, ormai alle ultime settimane, era caratterizzato da un senso inevitabile di noia per il diminuito interesse che si sarebbe riacceso soltanto quando fossero entrati nell'orbita di Marte.
L'ultima avventura, per Gibson, era stato il momento in cui aveva definitivamente perso di vista la Terra. Di giorno in giorno si era andata avvicinando sempre più alle smisurate ali perlacee della corona, quasi si preparasse a immolare i suoi miliardi di esseri sulla pira funeraria del Sole. Una sera era apparsa ancora visibile al telescopio, simile a una minuscola favilla in lotta coraggiosa con lo splendore abbagliante entro cui era destinata a scomparire. Gibson aveva pensato che forse sarebbe stata ancora visibile il mattino seguente, ma durante la notte chissà quale colossale esplosione aveva gettato la corona mezzo milione di chilometri più in là nello spazio, e la Terra si era perduta sullo sfondo della cortina incandescente. Doveva trascorrere una settimana prima di vederla riapparire, e in quel breve tempo il mondo di Gibson si sarebbe trasformato così profondamente come sarebbe stato difficile prevedere.
Quando Gibson aveva cominciato a interessarsi seriamente di astronautica, Jimmy se l'era trovato davanti puntualmente un paio di volte la settimana, e aveva cercato allora di valutarlo, impresa tutt'altro che tacile, perché Gibson non era mai lo stesso per molto tempo di seguito. C'erano momenti in cui era riguardoso e attento, e in genere estremamente socievole, ma ce n'erano altri in cui si dimostrava talmente di cattivo umore e distratto che veniva spontaneo definirlo l'uomo più intrattabile dell'astronave.
Per quanto lo riguardava, Jimmy non era affatto sicuro dell'opinione di Gibson su di lui. A volte aveva la sgradevole sensazione che lo scrittore lo considerasse unicamente come materiale grezzo che un giorno forse avrebbe potuto acquistare qualche valore.
Una cosa che sorprendeva in Gibson era la sua solida preparazione tecnica. Quando Jimmy aveva iniziato i suoi corsi serali, come tutti a bordo li chiamavano, si era immaginato che Gibson fosse semplicemente preoccupato di evitare di commettere errori pacchiani negli articoli che radiodiffondeva alla Terra, ma che non nutrisse affatto un vero e profondo interesse per l'astronautica in sé. Ma ben presto si accorse che non era affatto così. Gibson dimostrava un desiderio quasi commovente di dominare branche della scienza così poco comuni, e chiedeva dimostrazioni matematiche che a volte mettevano in imbarazzo Jimmy. Il giornalista possedeva un bagaglio rilevante di cognizioni tecniche, frutto dei suoi studi giovanili. Si era certamente prodotto in dilettanteschi tentativi di affrontare teorie scientifiche un po' troppo avanzate per lui, e questo gli aveva dato una infarinatura su alcuni problemi, più tipica dei curiosi che dei competenti.
Pur non ammettendola di solito, a volte Gibson accettava con spiritosa rassegnazione il riconoscimento della sua ignoranza e cercava subito di cambiare argomento. Era un ottimo conversatore, con un fiuto infallibile per le notizie scandalistiche, ed era particolarmente abile nello scalzare la reputazione altrui, ma lo faceva senza la minima malizia, anche se più di un aneddoto da lui raccontato a Jimmy sui personaggi più in vista del momento fosse riuscito a scandalizzare il bravo ragazzo che era alquanto puritano.
Nonostante questa spregiudicatezza di Gibson, Jimmy affrontò con sufficiente disinvoltura il discorso su di sé. La lezione si era arenata sullo scoglio delle equazioni integro-differenziali, e sia all'allievo sia al maestro a un certo momento era sembrato più opportuno cambiare completamente discorso. Gibson era in uno stato d'animo gaio, e nel chiudere i libri con un sospiro si volse a Jimmy:
«Non mi hai mai parlato di te, Jimmy. Si può sapere almeno di che parte dell'Inghilterra sei?»
«Di Cambridge... Perlomeno, è là che sono nato.»
«La conoscevo bene Cambridge, una volta, vent'anni fa. Adesso non ci abiti più?»
«No. Quando avevo circa sei anni la mia famiglia si è trasferita a Lecds, e di lì non ci siamo più mossi.»
«Che cosa ti ha spinto a scegliere l'astronautica?»
«Non saprei nemmeno io. La scienza mi ha sempre interessato, il volo interspaziale è la grande avventura di questi anni, e io sento di possedere un'inclinazione naturale per queste cose. Se fossi nato cinquant'anni fa probabilmente mi sarei dedicato all'aeronautica.»
«Perciò t'interessi al volo spaziale come a un problema puramente tecnico, non, come dire?, a qualcosa che potrebbe rivoluzionare il pensiero umano con la scoperta di sempre nuovi pianeti e via di seguito. È così?»
Jimmy rise.
«Credo che abbiate abbastanza ragione. Certo anche queste idee mi interessano, ma quello che veramente mi affascina è il lato tecnico. Anche se fossi sicuro che sui pianeti non c'è niente, sarei ugualmente desideroso di riuscire a raggiungerli.»
Gibson scosse la testa con finta disperazione.
«Finirai col diventare uno di quegli scienziati freddi e astrusi che sanno tutto senza sapere niente. Un altro uomo di valore, completamente sprecato.»
«Mi fa piacere che pensiate così di me» disse Jimmy pronto. «Ma perché v'interessate tanto di scienza?»
Gibson rise, ma nella sua voce c'era una punta d'impazienza mentre rispondeva: «Io m'interesso alla scienza unicamente come mezzo, non come fine.»
La conversazione si svolgeva in un'atmosfera talmente amichevole e l'interessamento appariva così autentico, che Jimmy se ne sentì compiaciuto, e questo lo spinse a parlare ancora più liberamente e con maggior disinvoltura.
Parlò della sua infanzia e della sua prima adolescenza, e Gibson si spiegò le nubi che di quando in quando sembravano oscurare il carattere del ragazzo, solitamente allegro. La madre di Jimmy era morta lasciandolo poco più che in fasce, e suo padre l'aveva affidato alle cure di una sorella sposata. La zia era stata sempre affettuosa con Jimmy, ma questi non si era mai sentito di casa fra i cugini: aveva sempre avuto la sensazione di essere un estraneo. Suo padre non gli era stato di grande aiuto, perché viveva quasi sempre all'estero, ed era morto quando il ragazzo aveva circa dieci anni. Si aveva l'impressione che Jimmy ricordasse poco il padre, cosa alquanto strana, poiché il ricordo della madre, che pure lui aveva conosciuta appena, era invece oltremodo vivo nel ragazzo.
«Non credo che i miei genitori fossero veramente innamorati l'uno dell'altro» disse Jimmy. «Da quanto mi ha raccontato zia Helen, il loro matrimonio dev'essere stato un errore. C'era stato prima un altro uomo... Mio padre deve essere stato una specie di ripiego.»
«Capisco» disse Gibson con dolcezza, e sembrava che veramente sentisse quello che diceva. «Parlami ancora di tua madre.»
«Suo padre, cioè mio nonno, era professore universitario. Credo che mia madre abbia trascorso tutta la sua vita a Cambridge, dove frequentò la facoltà di storia. Oh, ma non credo che tutto questo possa interessarvi!»
«Certo che m'interessa» disse Gibson con calore. «Continua.»
Sembrava uno dei tanti romanzetti fra studenti che fioriscono e muoiono nel breve volgere di un paio d'anni e che tuttavia presi per se stessi sembrano un microcosmo di vita. Ma quello aveva avuto un carattere di particolare serietà. Durante l'ultimo trimestre scolastico la madre di Jimmy, il ragazzo non ne aveva ancora detto il nome, si era innamorata di un giovane studente d'ingegneria. Era stato un amore turbinoso, e nonostante che la ragazza avesse qualche anno più di lui, l'unione fra i due sembrava ideale. La cosa era giunta quasi allo stadio del fidanzamento quando... Jimmy non sapeva dire che cosa fosse successo esattamente. Il ragazzo si era ammalato gravemente, o aveva avuto un esaurimento nervoso, fatto sta che non era più tornato a Cambridge.
«Mia madre non si riebbe mai completamente dalla delusione patita» riprese Jimmy con voce grave, quasi intuisse, pur senza conoscerlo, il dramma materno. «Ma un altro studente era innamoratissimo di lei, e così si sposarono. A volte provo una sincera compassione per mio padre, perché lui doveva essere al corrente della vicenda. Io l'ho sempre visto poco perché... che cos'avete, signor Gibson, non vi sentite bene?»
Gibson tentò di sorridere.
«Oh, niente... un piccolo attacco di nausea spaziale. Mi prende di tanto in tanto, ma passa subito.»
Ecco che il momento della collisione era giunto: vent'anni si erano dileguati come un sogno, e lui si ritrovava all'improvviso a faccia a faccia con i fantasmi, che credeva dimenticati, del proprio passato.
«Martin ha qualcosa» disse Bradley, firmando con un gran ghirigoro il registro delle segnalazioni. «Non può essere colpa di qualche notizia che ha ricevuto dalla Terra perché le ho lette tutte. Credi che soffra di nostalgia?»
«Ha lasciato il vecchio pianeta forse un po' troppo avanti in età, se questa può essere una spiegazione» disse Norden. «Comunque arriveremo su Marte tra una quindicina di giorni.»
Un'occhiata di Bradley lo avvertì in tempo a non proseguire. Martin Gibson era entrato in quel momento, con un blocco per appunti in mano e l'aria di un cronista novellino al suo primo servizio.
«Allora, Owem, che cosa volevi farmi vedere?» domandò ansioso.
Bradley si avvicinò al quadro principale delle comunicazioni.
«Veramente non è una cosa straordinaria» disse, «però significa che abbiamo superato un'altra pietra miliare, e a pensarci mi fa sempre un certo effetto. Ascolta un po'.»
Girò la manopola del volume. La stanza fu inondata di fischi e di sibili, pareva il rumore di mille padelle sfrigolanti al momento di entrare in ebollizione. Era un rumore che Gibson aveva inteso infinite volte in quella cabina, e malgrado la sua invariabile monotonia era qualcosa che lo riempiva sempre di stupore e di meraviglia. Sapeva benissimo di stare ascoltando le voci delle stelle e delle nebulose, radiazioni che avevano iniziato il loro viaggio nell'infinito prima della nascita dell'Uomo. E nascosti nelle profondità di quel caos di scoppiettii e di sussurri potevano esserci, dovevano esserci, i suoni di civiltà lontanissime e ignote che parlavano tra loro attraverso gli oceani spaziali. Ma purtroppo le loro voci si perdevano senza possibilità di richiamo nel tumultuante sobbollimento d'interferenze cosmiche che la natura stessa aveva creato. Ma non era certo per ascoltare quei suoni che Bradley l'aveva fatto andare là. Con estrema delicatezza, la fronte aggrottata per la concentrazione, lo specialista eseguì alcune rilevazioni di frequenza col nonio.
«L'avevo captato un minuto fa... speriamo che non sia scomparso... ah, eccolo!»
A tutta prima Gibson non riuscì a distinguere alcun mutamento in quel bailamme di rumori. Poi notò che Bradley stava silenziosamente battendo il tempo con la mano, e piuttosto in fretta, al ritmo di due colpi al secondo.
Grazie a questa indicazione, Gibson sentì infine il fischio ondulato, infinitamente debole, che si faceva strada a fatica in mezzo alla tempesta cosmica.
«Che cos'è?» chiese, benché avesse già indovinato a metà.
«Il radiofaro di Deimos. Ce n'è uno anche su Phobos, ma non è così potente e non siamo in grado di captarlo. Quando saremo più vicini a Marte, riusciremo a fissarci nel raggio di poche centinaia di chilometri servendoci dell'uno e dell'altro. Per il momento siamo dieci volte più lontani dalla portata massima, però è sempre interessante sentire questi segnali.»
Sì, certo, era sempre interessante, pensò Gibson. Naturalmente quei radiosegnali non erano indispensabili quando era possibile vedere costantemente la propria destinazione, ma semplificavano in parte i problemi della navigazione spaziale.
«Credo che basti» disse Bradley, girando la manopola e restituendo alla stanza un gradevole silenzio. «Comunque dovrebbe darti qualche buono spunto per i tuoi scarabocchi... Ho l'impressione che da un po' di tempo ti stia annoiando, no?»
Mentre parlava tenne gli occhi fissi su Gibson, ma questi si guardò bene dal rispondere. Si limitò ad annotare poche parole nel suo taccuino, ringraziò Bradley con fare distratto e gentilezza insolita e lasciò la cabina.
«Hai proprio ragione» disse Norden quando Gibson se ne fu andato. «Dev'essergli successo qualcosa. Voglio parlarne col dottore.»
Gibson era in quello stato da circa una settimana. La prima emozione nello scoprire che Jimmy Spencer era il figlio di Kathleen Morgan si era un poco affievolita, ma adesso cominciavano a farsi sentire gli effetti secondari di questa emozione, tra cui un senso quasi di rabbia al pensiero che una simile esperienza fosse toccata proprio a lui. Era una grave violazione alle leggi della probabilità... un caso che non si sarebbe mai verificato in un suo romanzo. Ma la vita è così poco artistica, e alla sua mancanza di stile non c'è assolutamente alcun rimedio da opporre.
Non gli serviva fingere con se stesso, dirsi che in realtà non era cambiato niente, pensare lo sapevo che Kathleen e Gerald avevano avuto un figlio. Cosa me n'importa ormai? Invece gliene importava, eccome. Ogni volta che vedeva Jimmy gli tornava alla mente il passato e peggio ancora il futuro che avrebbe potuto essere e che non era stato. Comunque, il problema più urgente per lui adesso stava nell'affrontare i fatti con decisione, dominando con energia quella nuova situazione.
Jimmy era andato nell'Emisfero Meridionale,e stava ritornando lungo il ponte equatoriale d'osservazione quando vide Gibson seduto a un finestrino. Per un attimo ebbe l'impressione che lo scrittore non l'avesse visto, e aveva già deciso di non distoglierlo dalle sue meditazioni quando si sentì chiamare.
«Ehi, Jimmy! Hai un momento da dedicarmi?»
Per la verità, Jimmy aveva parecchio da fare, ma si era accorto che da qualche giorno Gibson aveva qualcosa che non andava, perciò si sedette sullo sgabello incastrato sotto l'oblò d'osservazione, e presto seppe tutta quella parte di verità che Gibson ritenne opportuno comunicargli nell'interesse di entrambi.
«Desidero dirti una cosa che solo pochi sanno» cominciò Gibson. «Ti prego di non interrompermi e di non farmi domande, almeno finché non avrò finito... Quand'ero ancora molto giovane, più giovane di te, avrei voluto diventare ingegnere. Ero uno studente alquanto brillante, a quei tempi, e non ebbi difficoltà a superare gli esami di ammissione all'università. E poiché non ero ancora ben sicuro di quale carriera avrei scelto, mi iscrissi a ingegneria fisica, una materia allora pressoché nuova. Durante il primo anno me la cavai piuttosto bene, tanto che mi sentii incoraggiato a lavorare ancora più sodo. Superai anche il secondo anno, meno brillantemente ma sempre meglio della media. Il terzo anno m'innamorai. Non era la prima volta, ma compresi che quella era la volta buona.
«Innamorarsi durante gli anni d'università può essere un bene e anche un male. Dipende dalle circostanze. Se si tratta solo di un capriccio passeggero, in generale non influisce né in bene né in male. Ma se si tratta di una cosa seria ci sono due eventualità. L'amore può agire come incentivo, può spingerti a fare ancora meglio per dimostrare alla donna del tuo cuore che vali più degli altri tuoi compagni. Oppure, ti puoi impegnare sentimentalmente a un punto tale da farti sembrare degno d'interesse soltanto il tuo amore, e allora lo studio va a farsi benedire. È quello che purtroppo è successo nel mio caso.»
Gibson s'interruppe e rimase a lungo assorto, in silenzio. Seduto nell'oscurità, a pochi passi da lui, Jimmy gli diede un'occhiata furtiva. Si trovavano sul lato notturno della nave, e le luci del corridoio erano state attenuate perché le stelle si vedessero nel loro incomparabile splendore.
È proprio vero, si chiedeva Gibson, che nessuno riesce mai a dimenticare niente? Gli pareva adesso che fosse davvero così. Rivedeva ancora, distintamente come se fosse tornato indietro di vent'anni, l'annotazione sul quadro degli avvisi della facoltà: "Il Preside della Facoltà d'Ingegneria desidera vedere il signor Gibson nel suo studio alle 3 pomeridiane di oggi". Naturalmente aveva dovuto aspettare il solito quarto d'ora accademico.
Gibson aveva sempre stimato e rispettato il Preside, malgrado la sua aria distaccata e la sua pedanteria, e la delusione nel sentirsi buttato a mare era stata ancora più dura da sopportare. Il Preside si era sbarazzato di lui con la tecnica più del rammarico che della collera, che anche questa volta si era dimostrata assai efficace.
A peggiorare la situazione, per quanto si vergognasse di ammetterlo, c'era stato il fatto che Kathleen aveva invece superato gli esami brillantemente. Quando erano stati pubblicati i suoi risultati finali, Gibson l'aveva evitata per vari giorni, e quando si erano rivisti lui l'aveva già identificata con la ragione del suo insuccesso.
Il resto era stato inevitabile. Avevano avuto un litigio durante la loro ultima gita in bicicletta, ed erano rientrati per strade separate. Poi le lettere che non erano state aperte, e soprattutto quelle che non erano state scritte. Il loro sfortunato tentativo di ritrovarsi, non fosse che per dirsi addio, durante la sua ultima giornata a Cambridge. Il suo biglietto non aveva raggiunto Kathleen in tempo. Lui aveva atteso fino all'ultimo momento, ma la ragazza non era venuta. Il treno affollato, gremito di studenti vocianti, era uscito rumorosamente dalla stazione lasciandosi dietro Cambridge e Kathleen. Gibson non avrebbe più rivisto né l'università né la radazza.
Era inutile parlare a Jimmy dei mesi di nera disperazione che erano seguiti. Non c'era bisogno di fargli sapere il vero significato di quelle semplici parole: "Ho avuto un esaurimento nervoso e sono stato consigliato di non riprendere gli studi". Il dottor Evans l'aveva rappezzato con molta abilità, e di questo gli sarebbe stato eternamente grato. Era stato Evans a spronarlo a scrivere durante la convalescenza, con risultati che avevano sorpreso entrambi.
Evans gli aveva dato una personalità nuova e una vocazione grazie alla quale aveva riguadagnato la fiducia in se stesso. Ma non aveva potuto restituirgli l'avvenire che aveva perduto. Per tutto il resto della sua esistenza, Gibson avrebbe sempre invidiato gli uomini che erano riusciti a portare a termine quello che lui aveva soltanto iniziato, gli uomini che potevano aggiungere al proprio nome titoli e qualifiche che lui non avrebbe mai avuti, e che avrebbero trovato la loro ragione di vita in sfere di attività di cui lui sarebbe rimasto soltanto spettatore.
Se il guaio fosse stato tutto li, non avrebbe poi avuto grande importanza. Ma gettando la colpa su Kathleen per salvare il suo orgoglio, si era rovinato l'esistenza. Lei, e con lei tutte le altre donne, erano state identificate da lui con l'insuccesso e la vergogna. Tranne qualche relazione effimera, Gibson non si era più innamorato, e sapeva che ormai la sua vita sentimentale era conclusa. Ma conoscendo il motivo del suo male era stato perlomeno in grado di trovare il rimedio.
Quando ebbe finito, Gibson fu sorpreso di constatare con quanta nervosa impazienza attendesse la reazione di Jimmy.
Non poteva distinguere la faccia di Jimmy, perché il ragazzo era in ombra, e quando finalmente questi parlò gli parve che fosse trascorsa un'eternità.
«Perché mi avete detto tutto questo?» chiese con voce calma, assolutamente neutra, scevra sia di comprensione sia di rimprovero.
«Non lo so, ma ho sentito che dovevo farlo» rispose Gibson con calore. «Non avrei più avuto pace se non ti avessi parlato. E poi ho avuto la sensazione che forse questo avrebbe fatto del bene anche a te.»
Seguì un nuovo silenzio. Infine Jimmy si alzò lentamente.
«Bisognerà che ci pensi, a quanto mi avete detto» disse con l'identica voce di poco prima, completamente priva di qualsiasi emozione. «Per il momento non so che cosa rispondervi.»
E si dileguò lasciando Gibson in uno stato di estrema incertezza e confusione, a chiedersi se per caso non si fosse comportato come un imbecille rammollito.
7
«Sono completamente impazziti?» tuonò Norden con il tono di un capo vichingo preso da furia bellica. «Bisognerà pure che ci diano una spiegazione! Non è tanto facile sbarcare su Deimos. Come pretendono che si possa scaricare? Adesso chiamo il Presidente e scateno un inferno!»
«Se fossi in te non lo farei» disse Bradley con il suo accento strascicato. «Non hai notato la firma? Questi non sono ordini che vengono dalla Terra via Marte. Sono partiti proprio dall'ufficio del Presidente. Il vecchio sarà un selvaggio, ma non agisce mai alla leggera, perciò avrà le sue buone ragioni.»
«Dimmene una, almeno!»
L'altro si strinse nelle spalle.
Norden allungò una mano verso il quadro di comando e girò un interruttore.
«Ehi, Mac... qui parla il Comandante. Mi senti?»
Seguì una breve pausa, poi dalla griglia uscì la voce di Hilton.
«Mac non c'è in questo momento. Devo riferirgli qualcosa?»
«Va bene, diglielo tu. Abbiamo ricevuto ordine da Marte di cambiare strada. Ci hanno proibito di sbarcare su Phobos, senza darci spiegazioni. Di' a Mac di calcolare un'orbita per Deimos, e di avvertirmi non appena è pronto.»
«Non capisco. Su Deimos sono tutte montagne senza neanche un...»
«Sì, sì, lo sappiamo benissimo! Può darsi che si degnino di darci una spiegazione quando saremo là. Di' a Mac di mettersi in contatto con me non appena può, capito?»
Il dottor Scott riferì la notizia a Gibson mentre il giornalista stava dando gli ultimi ritocchi al suo solito articolo settimanale.
«Nessuno sa il perché?»
«No. Siamo circondati dal più assoluto mistero. Abbiamo chiesto, ma Marte si rifiuta di rispondere.»
Gibson si grattò la fronte, vagliando e respingendo una mezza dozzina di ipotesi. Sapeva che Phobos, la luna interna, era stata allestita come base sin dalla prima spedizione marziana. A soli seimila chilometri dalla superficie del pianeta, e con una gravità inferiore a un millesimo di quella terrestre, rappresentava l'ideale per tale scopo. Le navi interspaziali costruite in lega superleggera potevano atterrare sicure su un mondo dove il loro peso totale era inferiore a una tonnellata e dove occorrevano vari minuti per una caduta di pochi metri. Un piccolo osservatorio, una stazione radio, qualche edificio pressurizzato costituivano le uniche costruzioni del minuscolo satellite che aveva un diametro di soli trenta chilometri. Su Deimos, la luna più piccola e più lontana, invece, non c'era niente a eccezione di un radiofaro automatico.
L'Ares doveva atterrare entro una settimana. Già Marte si presentava come un piccolo disco sulla cui superficie si vedevano anche a occhio nudo numerosi rilievi. A bordo vi era un gran da fare per scrutare il pianeta attraverso il telescopio mentre si svolgevano innumerevoli discussioni attorno a mucchi di carte e di fotografie. Gibson si era fatto prestare una proiezione di Mercatore su grande scala del pianeta e si era messo a studiarne la toponomastica.
Entro qualche giorno i motori dell'Ares avrebbero dovuto frenare la velocità di marcia dell'astronave. Il mutamento di velocità necessario per deflettere l'orbita di viaggio da Phobos a Deimos era trascurabile, ciononostante Mac aveva fatto calcoli per ore e ore.
Ogni pasto era condito da discussioni sullo stesso argomento: quello che si poteva fare non appena giunti su Marte. Gibson, il signore in vacanza, se ne sarebbe potuto andare subito, ma i lavoratori, come gli facevano rilevare gli altri, si sarebbero dovuti fermare su Deimos diversi giorni per la revisione della nave e per badare che il carico venisse sbarcato senza incidenti.
I progetti di Gibson si potevano riassumere in una sola frase: vedere il più possibile. Era forse un po' ottimistico sperare di conoscere un intero pianeta nello spazio di due soli mesi, malgrado le reiterate affermazioni di Bradley che due giorni dedicati a Marte fossero anche troppi.
Il trambusto e l'emozione di quegli ultimi giorni di viaggio avevano distratto Gibson dai suoi problemi personali, almeno sino a un certo punto. Aveva rivisto Jimmy circa una decina di volte ai pasti e durante alcuni incontri occasionali, ma nessuno dei due aveva ripreso il delicato argomento di quella sera. Per un certo tempo Gibson aveva avuto il sospetto che il ragazzo lo evitasse di proposito, ma si rese quasi subito conto che non era affatto così. Come il resto dell'equipaggio, anche Jimmy era indaffaratissimo per i preparativi che preludevano alla fine del viaggio. Norden era ben deciso ad atterrare con la nave in perfetta efficienza, e per ottenere questo scopo bisognava fare una quantità enorme di controlli e di revisioni continue. Tuttavia, nonostante le multiformi attività che gravavano su di lui, Jimmy aveva riflettuto, e molto, a quanto gli aveva detto Gibson. In un primo momento aveva provato un senso di amarezza e di risentimento per l'uomo che era stato responsabile, anche se non intenzionalmente, dell'infelicità di sua madre. Ma poi aveva cominciato a immedesimarsi anche nel punto di vista di Gibson, e aveva finito col capirlo almeno in parte.
Faceva un effetto curioso riprendere peso a poco a poco e risentire di nuovo il rombo lontano dei motori. Le manovre per le ultime delicate correzioni di rotta occuparono oltre ventiquattr'ore. Quando tutto fu sistemato, Marte era diventato grande dodici volte la Luna, mentre Phobos e Deimos apparivano visibili come minuscole stelle i cui movimenti erano facilmente individuabili dopo pochi minuti di osservazione.
Gibson non si era mai reso pienamente conto sino a che punto fossero rossi i grandi deserti. Ma il semplice aggettivo rosso non dava un'idea esatta della multiforme gamma di sfumature che distinguevano il disco che ingrandiva lentamente. Alcune regioni apparivano quasi scarlatte, altre erano d'un giallo rossiccio, mentre la tinta forse più diffusa era quella che solitamente va sotto il nome di rosso mattone.
Nell'emisfero meridionale era primavera inoltrata, e la calotta polare era ridotta a pochi luccicanti puntini candidi là dove la neve indugiava ancora, cioè sulle alture più elevate. La vasta fascia di vegetazione tra il polo e il deserto era per la maggior parte di un verde bluastro, sfuocato. Su quel disco variegato era possibile trovare le più impensabili sfumature di colore.
L'Ares stava avanzando entro l'orbita di Deimos a una velocità relativa inferiore ai mille chilometri orari. Dinanzi all'astronave, la piccola luna era già perfettamente visibile, e con il trascorrere delle ore crebbe tanto che, vista a poche centinaia di chilometri di distanza, sembrava grande quanto Marte. Ma quale contrasto col pianeta principale. Lì, niente rossi né verdi opulenti, bensì un nero caos di rocce accatastate alla rinfusa, di montagne a picco svettanti verso le stelle in ogni senso, in un triste universo di gravità praticamente nulla.
Lentamente le rocce aguzze scivolarono di fianco a loro mentre l'Ares si dirigeva sicura verso il radiofaro di cui Gibson aveva udito il segnale alcuni giorni prima.
Poco dopo, a pochi chilometri sotto di sé, lungo una zona quasi livellata, Gibson vide i primi segni che rivelavano il passaggio dell'uomo su quel mondo desolato. Due file di pilastri verticali si alzavano dal suolo, e tra questi si intersecava tutta una fitta rete di cavi. Quasi impercettibilmente l'Ares calò verso Deimos. I razzi principali erano stati spenti da parecchio perché il peso della nave era ormai ridotto a poche centinaia di chili.
Non fu possibile avvertire con esattezza l'attimo del contatto: solo l'improvviso silenzio quando i propulsori ausiliari vennero spenti segnalò a Gibson che il viaggio era terminato e che l'Ares si riposava finalmente nella culla che le avevano preparata. Mancavano ancora ventimila chilometri per arrivare a Marte, e lui avrebbe raggiunto il pianeta soltanto il giorno successivo con uno dei piccoli razzi appositamente adibiti al collegamento fra il pianeta e il suo satellite, e che già si apprestava a raggiungerli. Ma per quello che riguardava l'Ares,la traversata era finita.
Lasciò il ponte d'osservazione e si affrettò verso la cabina di comando, che in quelle ultime ore di lavoro intenso aveva evitato di proposito. Non era più tanto facile muoversi nell'interno dell'Ares,poiché la forza gravitazionale di Deimos, per quanto debole, era sufficiente a disturbare i movimenti ai quali si era abituato. L'equipaggio era riunito al tavolo delle carte di navigazione e tutti avevano l'aria contenta e soddisfatta.
«Sei arrivato giusto in tempo, Martin» gli gridò Norden in tono d'allegria. «Ci stiamo preparando a un piccolo festeggiamento. Vai a prendere la tua macchina fotografica e divertiti pure a far fotografie mentre noi berremo un goccio alla salute della nostra vecchia caravella!»
«Ehi, mi raccomando, non vi scolate tutto mentre non ci sono io!» ammonì Gibson e filò via in cerca della sua Leica. Quando rientrò il dottor Scott stava tentando un esperimento interessante.
«Sono stufo di sorbire la mia birra da un recipiente a forma di bulbo» spiegò. «Voglio cercare di versarla come si conviene in un bicchiere vero, adesso che ne abbiamo di nuovo la possibilità.»
«Si appiattirà prima di arrivare al fondo» lo avvertì Mackay. «Un momento, lasciami pensare. G equivale a circa mezzo centimetro secondo per secondo... Tu versi da un'altezza di...» Si concentrò in un silenzio denso di meditazione.
Ma l'esperimento era già in atto. Scott stava reggendo la latta di birra forata a un'altezza di circa trenta centimetri dal bicchiere, e per la prima volta in tre mesi la parola altezza acquistò valore, anche se irrilevante. Sia pure con incredibile lentezza, il liquido ambrato colò dalla latta, tanto lentamente che lo si sarebbe potuto scambiare per sciroppo. Un'esile colonna si allungò verso il basso, colando dapprima con moto quasi impercettibile, quindi con lenta accelerazione. Sembrò che passasse un tempo incalcolabile prima che la birra riuscisse finalmente a raggiungere il fondo del bicchiere, e non appena si verificò il primo contatto, e il livello del liquido prese a salire, da tutti i presenti si levò un evviva fragoroso.
Gibson si diresse al suo posto preferito, sul ponte di osservazione.
Marte era di fronte a lui. Certo laggiù fervevano i preparativi per riceverli, e i minuscoli razzi dovevano essere già partiti. In quel momento stavano probabilmente arrancando invisibili verso Deimos per poi traghettarli sul pianeta. A 14.000 chilometri in basso, ma sempre a 6.000 chilometri sopra Marte, Phobos stava passando davanti alla faccia in ombra del pianeta. Gibson si chiese con un senso quasi di timore che cosa stesse succedendo sulla piccola luna. Be', presto l'avrebbe saputo. Intanto avrebbe dato una rispolverata alla sua aerografia. Ecco: quella era la biforcazione del Sinus Meridiani (facilissimo da individuare, dato che si trovava giusto sull'equatore e a longitudine zero), e quella laggiù a oriente la Sirte Maggiore. Quel giorno il Margaritifer Sinus si distingueva benissimo, ma che cumulo di nubi c'era su Xanthe e...
«Signor Gibson!»
Si girò di scatto, quasi con un sussulto.
«Oh, Jimmy! Ne hai avuto abbastanza anche tu?»
Il ragazzo era rosso in faccia e appariva accaldato: evidentemente era venuto anche lui in cerca di una boccata d'aria fresca. Un po' malfermo sulle gambe, si sedette a fatica nella sua solita nicchia e per un attimo fissò Marte in silenzio, come se lo vedesse per la prima volta. Infine scosse la testa con aria di disapprovazione, e senza rivolgersi ad alcuno in particolare sentenziò: «È troppo grande!»
«Ma se è molto più piccolo della Terra!» protestò Gibson.
«Può darsi, ma è troppo grande. Tutto è troppo grande.»
La conversazione minacciava di girare in tondo senza alcun costrutto. Gibson prese una decisione: cambiare argomento.
«Che cosa hai intenzione di fare quando sarai su Marte? Dovrai trovare il modo d'impiegare un paio di mesi prima che l'Ares torni a casa!»
«Mah! Forse farò delle escursioni intorno a Porto Lowell e andrò ad ammirare un po' i deserti. Mi piacerebbe fare qualche piccola esplorazione.»
Gibson trovò che il progetto era molto interessante, ma sapeva che esplorare Marte con una certa ampiezza di raggio non era un'impresa facile. E non era molto probabile che Jimmy potesse unirsi alle spedizioni scientifiche che di tanto in tanto si allontanavano dalle località abitate.
«Ho un'idea» disse. «A quanto pare hanno l'intenzione di farmi vedere tutto quello che voglio. Può darsi che riesca a organizzare qualche gita a Hellas o ad Esperia, dove non c'è ancora andato nessuno. Ti piacerebbe venire con me? Potremmo incontrare qualche Marziano.»
Naturalmente quella dei Marziani era la storiella che circolava tra gli abitanti della Terra sin dal tempo in cui erano tornate le prime astronavi con la deludente notizia che il pianeta gemello era completamente disabitato. Tuttavia parecchi erano ancora fermamente convinti, malgrado tutte le prove contrarie, che in qualche angolo dei monti ancora inesplorati del pianeta si annidasse qualche forma di vita intelligente.
«Già» disse Jimmy, «sarebbe davvero magnifico. Comunque nessuno potrà impedirmi di fare quello che voglio, perché quando sarò su Marte avrò a mia disposizione tutto il tempo che mi parrà e mi piacerà. C'è sul contratto.»
Seguirono alcuni minuti di silenzio. Poi Jimmy cominciò a staccarsi con estrema lentezza dal finestrino d'osservazione e a scivolare lungo le paratie in pendenza della nave. Gibson lo acchiappò al volo prima che si allontanasse troppo, e lo assicurò al sedile con due solide maniglie elastiche in modo che il ragazzo potesse dormire tranquillamente. Era troppo stanco per trascinarlo fino alla sua cuccetta.
Il giorno seguente Gibson fu risvegliato da un frastuono infernale. Pareva che l'Ares stesse cadendo a pezzi. Si affrettò a vestirsi e a uscire nel corridoio. La prima persona che vide fu Mackay, il quale gli urlò con quanto fiato aveva in gola, mentre si allontanava di corsa: «Sono arrivati í razzi! Il primo riparte fra due ore! Dovresti spicciarti... Credo che ti manderanno su con quello!»
Perplesso, Gibson si grattò la fronte.
«Qualcuno avrebbe anche potuto avvertirmi» borbottò. Poi si ricordò che in realtà l'avevano avvertito, quindi doveva rimproverare soltanto se stesso se non era ancora pronto. Tornò di corsa in cabina e si mise a fare frettolosamente le valigie. Ogni tanto l'astronave era scossa da un forte tremito intenso che si trasmetteva al suo corpo. Gibson era curiosissimo di sapere cosa stesse succedendo.
Davanti al compartimento stagno incontrò Norden. Il capitano aveva l'aria stanca. Con lui c'era il dottor Scott, già equipaggiato per la partenza, il quale reggeva tra le mani, con precauzione estrema, una massiccia cassetta di metallo.
«Vi auguro di fare una traversata magnifica» disse Norden. «Ci rivedremo tra un paio di giorni, non appena avremo sbarcato tutto il carico, perciò sino a quel momento... Oh, quasi me ne dimenticavo! Mi hanno detto di farti firmare questa roba.»
«Che cos'è?» chiese Gibson in tono sospettoso. «Io non firmo mai niente che non sia stato preventivamente approvato dal mio editore.»
«Leggi e vedrai» disse Norden ridendo. «È un documento storico.»
E così dicendo gli tese una pergamena su cui c'era scritto:
"CON IL PRESENTE DOCUMENTO SI CERTIFICA CHE MARTIN M. GIBSON, SCRITTORE, È STATO IL PRIMO PASSEGGERO A VIAGGIARE SULLA NAVE SPAZIALE ARES, DURANTE IL VIAGGIO INAUGURALE DALLA TERRA A MARTE".
Seguivano la data e uno spazio vuoto per le firme di Gibson e degli altri componenti dell'equipaggio. Gibson firmò.
«Immagino che questo papiro andrà a finire un giorno o l'altro in qualche Museo d'Astronautica, quando si decideranno a costruirne uno» disse.
Per la seconda volta Gibson s'infilò una tuta spaziale. Gli pareva d'essere ormai un veterano di simili avventure.
«Naturalmente tu comprendi benissimo» gli spiegò Scott «che quando il servizio sarà organizzato in modo regolare raggiungeranno il traghetto attraverso un tunnel di collegamento. Altrimenti, con questo sistema nessuno si muoverebbe più di casa e per la società sarebbe il fallimento sicuro.»
«Perderanno però un'esperienza interessantissima» disse Gibson mentre eseguiva un rapido controllo dei manometri disposti sul piccolo quadro comandi della tuta.
Di fronte a loro si aprì il portello esterno, e gli uomini vennero lentamente proiettati fuori, sulla superficie di Deimos. L'Ares,trattenuta entro la sua culla di funi (che dovevano essere state preparate in tutta fretta durante la settimana precedente), sembrava assalita da una intera squadra di smantellatori. Finalmente Gibson capiva la ragione dei colpi assordanti e del frastuono che l'avevano svegliato. Quasi tutta la rivestitura metallica dell'Emisfero Meridionale era stata rimossa per permettere di entrare nella stiva, e i membri dell'equipaggio, in tuta, erano adesso impegnati a sbarcare il carico che veniva via via ammucchiato sulle rocce intorno alla nave.
A cinquanta metri dall'Ares si dondolavano i due piccoli razzi alati giunti da Marte durante la notte. Nel primo si stava già procedendo al carico della merce, mentre il secondo, molto più piccolo, era evidentemente destinato al trasporto dei passeggeri. Mentre si avvicinava al traghetto seguendo Scott con lentezza e cautela, Gibson si sintonizzò sulla lunghezza d'onda normale per dare un ultimo saluto ai suoi compagni di viaggio.
Gli fece un effetto curioso vedere finalmente una faccia nuova. Il pilota del razzo entrò nel compartimento stagno per aiutarli a togliersi le tute che vennero poi deposte con cura sul suolo di Deimos per essere riutilizzate in un'altra occasione. Quindi li accompagnò nella minuscola cabina e li consigliò di sdraiarsi sui sedili imbottiti.
«Siccome siete vissuti per un paio di mesi in regime di non gravità» disse «cercherò di portarvi su il più piano possibile. Mi servirò soltanto della normale gravità terrestre, ma vi avverto che anche così sembrerà di pesare una tonnellata. Siete pronti?»
«Sì» rispose Gibson, cercando di non pensare all'esperienza precedente.
Si udì un rombo sommesso, lontano, e qualcosa lo premette in giù e lo tenne saldamente ancorato al suo sedile. Le rocce e le montagne di Deimos scomparvero rapidamente e Gibson ebbe appena il tempo di cogliere un'ultima visione fuggevole dell'Ares,lucido manubrio d'argento contro un ossessionante incubo di cime vertiginose.
Era bastato uno scoppio d'energia della durata di un secondo per strapparli alla forza d'attrazione della piccola luna, e adesso galleggiavano intorno a Marte in caduta libera. Per vari minuti il pilota studiò gli strumenti mentre riceveva istruzioni via radio dal pianeta sottostante e azionava i giroscopi. Quindi inserì di nuovo il contatto dell'accensione e i razzi ripresero a tuonare per qualche secondo. La navicella era uscita dall'orbita di Deimos e adesso scendeva verso Marte. Tutta l'operazione era stata una replica esatta, in miniatura, di un vero e proprio viaggio interplanetario. Erano cambiati soltanto i tempi e le durate: avrebbero impiegato tre ore anziché tre mesi a raggiungere la loro meta, e invece di milioni di chilometri ne dovevano percorrere soltanto qualche migliaio.
«Dunque» disse il pilota chiudendo i comandi e girandosi sul sedile. «Com'è andato il viaggio?»
«Ottimamente, grazie» rispose Gibson. «Certo non abbiamo avuto molte distrazioni: tutto è andato liscio come l'olio.»
«Come ve la passate su Marte di questi tempi?» domandò Scott.
«Al solito. Molto lavoro e poco svago. La novità del giorno è la nuova cupola che stanno costruendo a Lowell. Trecento metri di diametro. Quasi quasi si riesce a immaginare di essere ancora sulla Terra. Stanno studiando per vedere se è possibile crearvi piogge e nubi artificiali.»
«Che cos'è tutto questo pasticcio di Phobos?» chiese Gibson, sempre in caccia di notizie. «Ci ha procurato un sacco di noie.»
«Niente di grave. Di preciso non sa niente nessuno, tranne che in questo momento lassù c'è un sacco di gente a costruire un laboratorio gigante. La mia impressione è che Phobos sia destinato a restare puramente una stazione di ricerche, e perciò non vogliono avere un continuo movimento di va e vieni che disturberebbe i loro strumenti a causa delle radiazioni connesse al traffico di astronavi e razzi.»
Marte si trovava ormai a meno di duemila chilometri di distanza, e Gibson dedicò tutta la sua attenzione al panorama sottostante che andava allargandosi sotto i suoi occhi. Ora stavano passando rapidamente sopra l'equatore, e si abbassavano entro gli strati esterni dell'atmosfera del pianeta. A un tratto, e non fu possibile cogliere il momento esatto, Marte cessò di essere un corpo celeste fluttuante nello spazio e diventò un mondo, anche se ancora lontano, con un suo paesaggio nettamente distinguibile. Sotto di loro fuggivano deserti e oasi: la Sirte Maggiore comparve e disparve prima che Gibson avesse il tempo di riconoscerla. A cinquanta chilometri d'altezza ebbero la prima avvisaglia che l'atmosfera intorno a loro si stava infittendo. Un sospiro lontano, debolissimo, che non aveva un preciso punto d'origine, riempì la cabina. L'aria rarefatta si aggrappava con esili dita al missile che filava a velocità incredibile, ma la sua forza stava aumentando rapidamente, e in caso di navigazione difettosa sarebbero stati guai. Gibson avvertì gli effetti della decelerazione a mano a mano che la navicella riduceva la propria velocità, e il sibilo dell'aria era divenuto ora così impetuoso, che lo si udiva anche attraverso le paratie insonorizzate, e nella cabina non sarebbe stato facile sentirsi parlando in tono normale.
Il tutto durò in realtà pochi minuti, ma Gibson ebbe la sensazione che non finisse mai. A poco a poco infine il gemito del vento diminuì lentamente. Il razzo aveva scaricato tutto il suo eccesso di velocità contro la resistenza dell'aria e presto il materiale refrattario del suo muso e delle sue ali a forma di coltello si sarebbe raffreddato perdendo la tinta rosso-ciliegia. Non più nave spaziale ma semplicemente aliante ad alta velocità, il minuscolo missile sfrecciava sopra il deserto a circa mille chilometri all'ora, seguendo il segnale costante di Porto Lowell.
La colonia apparve a Gibson come una minuscola macchia bianca all'orizzonte, candida contro lo sfondo nero dell'Aurorae Sinus. Il pilota azionò un comando facendo compiere al missile una larga virata in direzione sud, e contemporaneamente la quota e la velocità diminuirono. Nell'attimo in cui il razzo s'inclinava di lato, Gibson ebbe la visione fugacissima di mezza dozzina di grandi cupole circolari strettamente raggruppate l'una vicino all'altra. Poi il suolo salì a incontrarli. Seguì una serie di piccole scosse e la macchina rollò a lungo e poi si fermò.
«A quanto pare hanno organizzato un comitato di ricevimento» disse il pilota. «Vedo fuori l'intera squadra trasporti. Non sapevo che avessero tanti mezzi a disposizione!»
Due piccole macchine tozze con enormi ruote sferiche erano corse loro incontro. La cabina di guida, pressurizzata, era sufficiente a contenere due persone, ma almeno una decina di persone erano riuscite a salire sui minuscoli mezzi aggrappandosi ad apposite maniglie esterne. Dietro, venivano due grandi autocarri con ruote direttrici e cingoli posteriori, anch'essi zeppi di gente. Gibson non si era aspettata tanta folla e si preparò a improvvisare un breve discorso.
«Credo che non siate ancora abituato a usare questa roba» disse il pilota mostrandogli due respiratori. «Ma dovrete tenerli solo per un minuto solo, il tempo di arrivare alle pulci.» Alle che cosa?, pensò Gibson. Ah, già, quei trabiccoli dovevano essere le famose pulci del deserto marziane, cioè i comuni mezzi di trasporto del pianeta. «Ve lo sistemo io. Arriva l'ossigeno? Bene, andiamo. Può darsi che all'inizio vi sentiate un po' a disagio.»
L'aria uscì lentamente, sibilando, dalla cabina finché la pressione esterna e interna non fu eguale. L'esposizione improvvisa della pelle all'aria diede a Gibson un senso sgradevole di prurito; infatti l'atmosfera che lo circondava era più rarefatta di quanto lo sia l'aria terrestre sulla cima dell'Everest. Gli erano stati necessari due mesi di lenta acclimatazione sull'Ares,e tutte le risorse della scienza medica moderna per consentirgli di mettere piede sulla superficie di Marte con l'unica protezione di una maschera ad ossigeno.
Si sentì lusingato nel vedere quanta gente si fosse mossa per dargli il benvenuto. Certo non succedeva tutti i giorni che su Marte arrivasse un ospite di tanto riguardo, ma lui sapeva che l'indaffaratissima colonia non aveva tempo da sprecare in molte cerimonie.
Il dottor Scott usci a sua volta dal razzo, sempre reggendo tra le mani la cassetta di metallo che aveva custodito con tanta cura durante il viaggio. Non appena lo vide, un gruppo di coloni gli si precipitò incontro ignorando totalmente Gibson. Le loro voci, alterate dall'aria rarefatta, erano quasi incomprensibili.
«Salve, dottore, felici di rivedervi. Permettete! Lasciate che ve la portiamo noi!»
«Tutto è pronto. All'ospedale ci sono attualmente dieci casi. Tra una settimana si dovrebbe sapere se è efficace o no!»
«Su, andiamo, salite sull'autocarro. Parleremo in seguito!»
Prima che Gibson riuscisse a capire quello che stava succedendo, Scott era scomparso, armi e bagagli. Un motore potente lanciò un gemito acuto e l'autocarro si allontanò a tutta velocità in direzione di Porto Lowell, lasciando Gibson solo e con la sensazione di aver fatto la parte del perfetto imbecille come non mai.
Si era dimenticato completamente del siero. Per Marte l'arrivo del siero era infinite volte più importante della visita di un romanziere e giornalista terrestre, per quanto famoso. Aveva ricevuto una lezione che non avrebbe dimenticato facilmente.
Per sua buona sorte però non era stato lasciato solo. Da una delle due pulci del deserto smontò un uomo che gli andò incontro cordialmente.
«Il signor Gibson? Io sono Westerman del Tempo,del Tempo Marziano,naturalmente. Lietissimo di conoscervi. Questo è...»
«Henderson. Ho la sovrintendenza dei servizi aeroportuali» lo interruppe un uomo alto, dalla faccia che sembrava tagliata con l'accetta, e con l'espressione chiaramente seccata per essere arrivato soltanto secondo. «Ho dato ordine perché provvedano a ritirare il vostro bagaglio. Salite pure.»
Era chiaro che Westerman avrebbe preferito portare lui Gibson, ma dovette fare buon viso e accettare le disposizioni dell'altro. Gibson salì dunque sulla pulce di Henderson attraverso la sacca di materiale plastico flessibile che costituiva il semplicissimo ma efficace compartimento stagno del veicolo, subito raggiunto nella cabina di guida dal suo ospite. Provò un vivo sollievo nel togliersi la maschera: quei pochi minuti trascorsi all'aperto lo avevano spossato. Si sentiva pesante e intontito, esattamente l'opposto di quello che si sarebbe aspettato di provare su Marte. Ma per lunghi mesi non aveva più conosciuto alcuna sensazione di gravità, e gli ci sarebbe voluto un po' di tempo per riabituarsi a possedere sia pure un terzo del suo peso terrestre.
Il veicolo prese a correre lungo la pista d'atterraggio, verso le cupole del Porto lontane circa due chilometri. Per la prima volta Gibson notò tutt'attorno a sé il luminoso verde marezzato delle piante tigliose, coriacee, che rappresentavano la più diffusa forma di vita marziana. Sulla sua testa il cielo non era più nero ma splendeva di un azzurro radioso, intenso. Il sole era vicino allo zenit, e i suoi raggi, sorprendentemente caldi, penetravano nella cabina attraverso la cupola in plastica.
Gibson scrutò la volta celeste, sperando di individuare la minuscola luna sulla quale i suoi compagni erano tuttora al lavoro. Henderson notò la direzione del suo sguardo e togliendo per un attimo la sua mano dal volante puntò l'indice in direzione del Sole.
«Eccola» disse.
Gibson si fece schermo con le mani. A un tratto vide, sospesa alla volta celeste come una lontana lampada ad arco, una stella brillantissima, lievemente scostata in direzione ovest rispetto al sole. Era troppo piccola anche per essere Deimos, ma quasi subito si rese conto che il suo compagno si era ingannato sull'oggetto delle sue ricerche.
Quella luce ferma, immobile, che brillava inaspettatamente nel cielo diurno, era adesso, e tale sarebbe rimasta per molte settimane, la stella mattutina di Marte. Ma era meglio nota col nome di Terra.
8
«Mi scuso di avervi fatto aspettare» disse il maggiore Whittaker, «spero che mi perdonerete. Il Presidente è in seduta da oltre un'ora e sono appena riuscito ad avvertirlo del vostro arrivo. Da questa parte. Prenderemo la strada più breve attraverso gli Archivi.»
Avrebbe potuto essere un ufficio qualsiasi di Londra. Sulla porta era scritto soltanto Presidente. Non c'era il nome: non era necessario. Tutti gli abitanti del sistema solare sapevano benissimo chi governava Marte, poiché in realtà era difficile pensare al pianeta senza che venisse subito in mente il nome di chi ne reggeva le sorti, cioè Warren Hadfield.
Quando lo vide alzarsi dalla scrivania, Gibson notò con sorpresa che il Capo Supremo marziano era molto più piccolo di quanto non si fosse immaginato. L'aveva sempre giudicato dalle sue opere attribuendogli, così, almeno cinque centimetri in più di altezza. La figura sottile e vibrante, però, e la faccia mobilissima, espressiva, lievemente grifagna, erano esattamente come se le era raffigurate.
Il colloquio ebbe inizio con molta prudenza da parte di Gibson, poiché per lui molto dipendeva dalla prima impressione che avrebbe dato. Tutto gli sarebbe stato infinitamente più facile se avesse avuto il Presidente dalla sua. Se invece si fosse fatto un nemico, di Hadfield, avrebbe anche potuto tornarsene subito a casa.
«Spero che Whittaker si sia preso cura di voi» disse il Presidente dopo il primo scambio di cortesie. «Mi scuserete se non vi ho potuto vedere prima, ma sono tornato solo in questo momento da un'ispezione. Come vi sentite qui?»
«Benissimo» rispose Gibson sorridendo. «Credo di aver rotto una mezza dozzina di oggetti per la pessima abitudine presa a bordo dell'Ares di lasciarli sospesi a mezz'aria, ma piano piano mi sto riabituando a vivere in un mondo dotato di gravità.»
«E che cosa pensate della nostra piccola città?»
«Mi sembra che rappresenti uno sforzo straordinario. Non so come abbiate fatto a realizzare tanto in così poco tempo.»
Hadfield lo stava osservando attentamente.
«Siate del tutto schietto: è più piccola di quello che immaginavate, non è vero?»
Gibson esitò un attimo prima di rispondere.
«Ecco, per essere completamente sincero, sì... ma dovete pensare che io sono abituato a metropoli come Londra e New York! Dopotutto, anche sulla Terra duemila persone formerebbero soltanto un piccolo paese. Inoltre la maggior parte di Porto Lowell si trova sottoterra, e anche questo contribuisce a non averne immediatamente la dimensione esatta.»
Il presidente non mostrò né sorpresa né dispetto.
«Tutti provano una delusione quando arrivano qui» disse. «Però tra una settimana la nostra città tascabile crescerà di parecchio grazie alla nuova cupola che stiamo costruendo. Ma ditemi, quali sono i vostri progetti, adesso che siete qua? Probabilmente sapete che io non ero favorevole alla vostra venuta.»
«Così mi hanno detto sulla Terra» balbettò Gibson, colto alla sprovvista. Avrebbe scoperto presto che la sincerità era una delle principali virtù del Capo Supremo marziano, una qualità che non lo rendeva certo simpatico a molta gente. «Temevate che vi avrei dato fastidio?»
«Sì. Ma adesso che siete qui faremo quello che potremo per voi. E mi auguro che voi farete altrettanto per noi.»
«In che senso?» chiese Gibson mettendosi sulla difensiva.
Hadfield si protese in avanti intrecciando le mani in un gesto febbrile.
«Siamo in guerra, signor Gibson. Siamo in guerra con Marte e con tutte le sue forze ostili: il freddo, la mancanza d'acqua, la mancanza d'aria. E siamo in guerra con la Terra. Una guerra burocratica, si capisce, ma che ha ugualmente le sue vittorie e le sue sconfitte. Sto combattendo una campagna a un capo di una linea di rifornimento lunga, come sapete, cinquanta milioni di chilometri. I generi più urgenti impiegano almeno cinque mesi ad arrivare, e io li ricevo solo se sulla Terra hanno deciso che proprio non posso arrangiarmi altrimenti. Certamente sapete per che cosa lotto, e che il mio scopo principale è l'indipendenza economica. Ricorderete che la prima spedizione dovette portare con sé tutto. Ebbene, oggi possiamo provvedere alle necessità basilari dell'esistenza grazie alle nostre sole risorse, ma esistono strumenti particolarmente complessi, che soltanto la Terra può fornirci, e finché la nostra popolazione non sarà aumentata di almeno dieci volte, in questo campo potremo fare ben poco. Tutti, su Marte, sono specializzati in qualcosa, ma certo esistono più mestieri sulla Terra che abitanti su questo pianeta, e voi mi insegnate che con l'aritmetica non si discute. Vedete questi grafici? Li ho cominciati cinque anni fa. Mostrano il nostro indice di produzione per alcuni materiali di prima necessità. Abbiamo raggiunto un livello di autosufficienza che ci rende indipendenti al cinquanta per cento. Spero che tra altri cinque anni saranno poche le cose che dovremo ancora importare dalla Terra. Ma la nostra necessità impellente rimane la mano d'opera, ed è in questo che forse voi potete aiutarci.»
Gibson si sentiva alquanto a disagio.
«Non posso fare nessuna promessa» disse. «Non dimenticate per favore che io qui sono un semplice giornalista. Sentimentalmente sono con voi ma la situazione obiettiva è diversa.»
«Apprezzo la vostra schiettezza. I fatti però non sono tutto. Mi auguro che vorrete spiegare alla Terra più quello che ci proponiamo di realizzare che i risultati già raggiunti. I progetti sono molto più importanti, ma potremo realizzarli soltanto se la Terra ci darà il suo appoggio. Purtroppo non tutti quelli che vi hanno preceduto se ne sono resi conto.»
Era verissimo, rifletté Gibson. Ricordava perfettamente tutta una serie di articoli comparsi sul Daily Telegraph un anno prima. I fatti erano stati riportati con esattezza scrupolosa, ma un resoconto analogo sulle imprese dei primi colonizzatori del Nord America durante il loro primo quinquennio nel Nuovo Mondo sarebbe stato altrettanto scoraggiante.
«Credo di capire i due aspetti del problema» disse Gibson. «Voi dovete rendervi conto che dal punto di vista terrestre Marte è molto lontano, costa un sacco di quattrini, e non offre niente in cambio. Il primo interesse per le esplorazioni interplanetarie si è calmato, e adesso la gente si chiede: "Noi cosa ci guadagniamo da tutto questo?". Per ora la risposta è stata una sola: "Poco". Io sono più che convinto che la vostra opera è estremamente importante, ma nel mio caso si tratta più di un atto di fede che di una questione logica. Molto probabilmente l'uomo medio terrestre pensa che qui si stanno spendendo miliardi che potrebbero essere impiegati meglio a migliorare il pianeta d'origine, ammesso che l'uomo medio pensi a queste cose, voglio dire.»
«Comprendo le vostre difficoltà, ma non è facile trovare una soluzione. Ecco, cercherò di spiegarmi più chiaramente. Immagino che tutte le persone intelligenti riconoscerebbero l'importanza di una base scientifica su Marte, che si dedicasse puramente a lavori di ricerca e di indagine, non è esalto?»
«Indubbiamente»
«Eppure queste stesse persone intelligenti non riuscirebbero mai a capire lo scopo di creare quassù una base autosufficiente che potrebbe diventare col tempo una civiltà indipendente!»
«È appunto questo il guaio. Non credono che sia possibile, oppure, anche ammessane l'eventualità, la ritengono un'esperienza inutile. Si leggono spesso articoli nei quali si dice che Marte sarà sempre una palla al piede, per via delle spaventose difficoltà naturali nelle quali si è costretti a operare.»
«Non vi sembra che ci sia qualche analogia tra Marte e le prime colonie americane?»
«Il paragone non è molto calzante. Dopo tutto, quando arrivarono in America i lontani pionieri vi trovarono aria che potevano respirare e cibo che potevano mangiare!»
«Questo è vero, ma anche se il problema della colonizzazione di Marte è infinitamente più complesso, non bisogna dimenticare che oggi abbiamo a nostra disposizione forze infinitamente maggiori di allora. Purché ci sia concesso tempo e materiali, possiamo fare di questo mondo un paese facile e comodo da abitare quanto la Terra. Già adesso non sono molti coloro che desiderano tornare indietro, perché capiscono l'importanza di quello che stanno creando. Forse la Terra oggi non ha ancora bisogno di Marte, ma un giorno ne avrà.»
«Vorrei potervi credere» disse Gibson senza molta convinzione. E indicò la lussureggiante distesa verde che lambiva come un oceano affamato la cupola pressoché invisibile della città, la sterminata pianura che fuggiva con tanta rapidità oltre il limite dell'orizzonte stranamente angusto, l'arco di alture vermiglie nelle cui braccia si adagiava la piccola colonia. «Marte è un mondo interessante, bello anche. Ma non potrà mai essere come la Terra.»
«E perché dovrebbe esserlo? E poi che cosa intendete per Terra,prima di tutto? Intendete forse le pianure del Sud America, i vigneti di Francia, le isole coralline del Pacifico, o le steppe siberiane? Perché Terra è ciascuno di questi luoghi! Ovunque l'uomo riesca a trovare una possibilità di esistenza, là è la sua terra. Ebbene, presto o tardi gli uomini saranno in grado di vivere su Marte senza bisogno di tutta questa roba.» E con ampio gesto indicò la cupola che racchiudeva la città e le dava vita.
«Credete davvero che gli uomini riusciranno ad adattarsi all'atmosfera esterna?» disse Gibson. «Ma se vi riuscissero non resterebbero più tali per molto tempo: si trasformerebbero radicalmente!»
Per un attimo il Presidente non rispose. Quindi disse con voce calma: «Io non ho parlato della possibilità per gli uomini di condizionarsi a Marte. Non avete mai riflettuto invece alla eventualità che possa essere Marte a condizionarsi a noi?»
Lasciò a Gibson giusto il tempo sufficiente per meditare su queste parole, quindi, prima che il suo ospite avesse la possibilità di formulare le domande che gli si affollavano nella mente, Hadfield si alzò.
«Bene, spero che Whittaker si occuperà di voi come si deve, e vi mostrerà tutto quello che avete interesse di vedere. Vi renderete certamente conto che la situazione dei trasporti è alquanto difficile, ma vi porteremo ugualmente a visitare tutte le località più lontane purché ci diate il tempo per predisporre i preparativi necessari. Fatemi sapere se incontrerete difficoltà.»
Il congedo era cortese ma definitivo. L'uomo più importante di Marte aveva concesso a Gibson una larga parte del suo tempo, e gli interrogativi che il giornalista era così ansioso di porgli dovevano aspettare un'occasione migliore, per avere una risposta.
«Che cosa pensate del Capo, adesso che l'avete conosciuto?» chiese il maggiore Whittaker quando Gibson tornò nell'anticamera.
«È stato gentilissimo e pieno di premure» rispose cauto Gibson. «Mi sembra un entusiasta di Marte, vero?»
Whittaker si morse le labbra.
«Credo che entusiasta non sia la parola esatta. Ritengo piuttosto che il Presidente consideri Marte come un nemico da sconfiggere. E così lo consideriamo tutti, naturalmente, ma lui ne ha più motivo di noi. Avete saputo di sua moglie, vero?»
«No.»
«È stata una delle prime persone a morire di febbre marziana, due anni dopo il suo arrivo qui.»
«Oh, capisco» disse Gibson, pensoso. «Ecco perché gli interessa tanto trovare un rimedio.»
«Infatti ci tiene moltissimo. D'altronde quella febbre è una grave minaccia per noi. Su Marte non possiamo permetterci il lusso di ammalarci.»
Quest'ultima osservazione, rifletté Gibson nell'attraversare Broadway (così chiamata perché era la strada principale della cittadina, con una larghezza di ben quindici metri), riassumeva perfettamente la situazione della colonia. Non si era ancora riavuto del tutto dalla delusione iniziale nel constatare quanto fosse piccolo Porto Lowell e sino a che punto mancasse delle comodità e dei lussi a cui era abituato sulla Terra. Con le sue file di piccole case di metallo tutte uguali e i pochi edifici più grandi, nonostante che gli abitanti avessero fatto del loro meglio per rallegrarlo con fiori terrestri, Porto Lowell sembrava più un accampamento militare che una città. E a proposito dei fiori, a causa della scarsa gravità, essi avevano raggiunto proporzioni smisurate, tanto che Oxford Circus era adesso tutto un'esplosione di girasoli alti tre volte un uomo; e benché cominciassero a essere ingombranti nessuno aveva il coraggio di proporne la rimozione. Ma se avessero continuato a crescere con quel ritmo, presto ci sarebbe voluto un taglialegna esperto per abbatterli senza mettere in pericolo l'ospedale cittadino.
Gibson percorse pensosamente la Broadway sino al Marble Arch, che rappresentava il punto d'incontro delle Cupole Uno e Due. Come si era accorto subito, quello era un punto d'incontro obbligato, perché lì sorgeva, in posizione strategica, in prossimità dei molti compartimenti stagni, il George's,cioè l'unico bar di Marte.
«Salute, signor Gibson» disse George «Voglio sperare che il Capo sia stato di buon umore.»
Gibson aveva lasciato gli uffici amministrativi da meno di dieci minuti, ebbe quindi l'impressione che a Porto Lowell tutte le notizie circolassero con una estrema rapidità e con una strana tendenza a convogliarsi da George.
George era un tipo interessante. Poiché i baristi erano considerati un elemento di importanza relativa per il benessere del Porto, George esercitava due professioni ufficiali. Sulla Terra era stato impresario teatrale, ma le irragionevoli pretese delle tre o quattro mogli sposate in successivi slanci d'entusiasmo giovanile l'avevano spinto a emigrare. Attualmente gli era stata affidata la Sovnntendenza del Teatro del Porto e sembrava essere soddisfattissimo della sua nuova esistenza. Aveva già passato da qualche anno la quarantina e poteva considerarsi tra gli uomini più vecchi di Marte.
«Avremo spettacolo, la settimana prossima» disse dopo aver servito Gibson. «Ci sono un paio di numeri mica male. Spero che vorrete onorarci della vostra presenza.»
«Certamente» disse Gibson. «Pregusto già l'idea. Quante rappresentazioni date, in genere?»
«Una al mese. Quanto a spettacoli cinematografici ce ne sono tre alla settimana. Non ce la passiamo troppo male.»
«Sono contento che Porto Lowell offra un po' di vita notturna.»
«Se sapeste tutto ne restereste sorpreso. Ma non voglio essere indiscreto, altrimenti chissà che cosa mi andate a scrivere sui giornali!»
«Io non scrivo per i giornali a cui pensate» disse Gibson sorseggiando lentamente la birra locale, che non era affatto cattiva benché fosse di produzione sintetica.
Il bar era completamente deserto, perché a quell'ora tutti a Porto Lowell stavano lavorando accanitamente. Gibson prese di tasca il taccuino e si mise ad annotare con cura le sue impressioni, mentre fischiettava un'arietta. Era una sua pessima abitudine, della quale però non si rendeva affatto conto, e che George contrattaccò accendendo la radio.
Gibson finì l'elenco delle numerose domande che voleva fare. Si sentiva ancora un pochino come l'allievo nuovo tra un gruppo di anziani: tutto era talmente strano, diverso, inconsueto. Si stentava a credere che venti metri al di là di quella bolla trasparente ti aspettava una spaventosa morte per soffocamento. Quel pensiero, invece, sull'Ares non l'aveva tormentato mai. Lo spazio era privo di atmosfera ovunque, ma lì, quando sotto gli occhi si stendeva una pianura rigogliosa, sembrava che la mancanza d'aria non fosse una cosa giusta.
A un tratto Gibson provò un vivo desiderio di abbandonare le strette strade soffocanti e di uscire sotto il cielo aperto. Forse per la prima volta sentì una vera e propria nostalgia della Terra e anelò al pianeta che, così aveva creduto sino a quel momento, aveva ormai tanto poco da offrirgli.
«George» disse all'improvviso, «da quando sono arrivato qui non sono ancora uscito. A quanto pare non sono autorizzato a muovermi senza la scorta di un competente. I vostri primi clienti arriveranno tra un paio d'ore, non prima. Fate il bravo e portatemi fuori attraverso il compartimento stagno, su andiamo, per dieci minuti soltanto!»
Certo, pensò subito Gibson, un poco pentito per essersi lasciato andare così, George doveva considerare la sua richiesta alquanto insensata. Ma si sbagliava: George aveva avuto tante volte quella richiesta da considerarla ormai naturalissima. Dopo tutto il suo mestiere consisteva nell'assecondare i desideri dei clienti, e tutti i nuovi arrivati, dopo qualche giorno passato sotto la cupola, provavano lo stesso desiderio. Il barista si strinse nelle spalle con filosofia, e disparve nel suo misterioso retro-bar per tornarne quasi subito con due maschere a ossigeno e relativi accessori.
«Con una bella giornata come questa non avremo bisogno di tutti gli altri aggeggi strani» disse, mentre Gibson si sistemava la maschera con gesti goffi. «Assicuratevi bene che il tubo di gomma giri esattamente intorno al collo. Benissimo, così. Andiamo. Ma per non più di dieci minuti, mi raccomando!»
Gibson lo seguì pronto come un cane pastore segue il padrone, fino all'uscita della cupola. In quel punto c'erano due compartimenti stagni, il primo, lungo e largo, portava alla Cupola Due, il secondo, più piccolo, sboccava all'aperto. Era un semplice condotto metallico, del diametro di tre metri circa, che conduceva all'esterno attraverso il muro di vetrocemento che ancorava al suolo il flessibile involucro di materiale plastico di cui era fatta la cupola.
Nel condotto c'erano tre porte sistemate a distanza regolare, nessuna delle quali poteva essere aperta se le altre due non erano ben chiuse. A Gibson parve che passassero ore prima che l'ultima porta si aprisse davanti a lui rivelandogli la scintillante pianura verde. La pelle esposta all'aria rarefatta bruciava per la pressione ridotta, però l'atmosfera era sufficientemente calda, e in breve lui si sentì del tutto a suo agio. Completamente dimentico di George si tuffò in quel basso, denso mare vegetale, chiedendosi mentre procedeva, per quale ragione si stringesse così fittamente intorno alla cupola. Forse la vegetazione era attratta dal calore, forse anche dalla debole fuoriuscita dell'ossigeno che inevitabilmente filtrava sia pure in piccolissime quantità dall'interno della cupola.
Dopo poche centinaia di metri si fermò sentendosi finalmente liberato dall'oppressione della cupola. La sua testa era anche adesso completamente chiusa in una specie di scatola, ma questo non aveva molta importanza. Si chinò a osservare le piante che gli arrivavano al ginocchio.
Aveva già visto numerose fotografie di piante marziane. In realtà non avevano niente di straordinario, e la sua cultura botanica era troppo limitata perché lui potesse apprezzarne le caratteristiche. A dire il vero, se si fosse imbattuto in piante come quelle in qualche angolo sperduto della Terra, forse non le avrebbe degnate neppure di un'occhiata. Nessuna gli arrivava oltre la cintola, e quelle che crescevano lì attorno sembravano fatte di lucidi fogli di pergamena verde, sottilissimi ed estremamente resistenti, ed erano foggiate in modo da captare quanta più luce solare possibile senza perdere il loro prezioso contenuto d'acqua. A Gibson sarebbe piaciuto qualche fiore che desse un tocco di colore contrastante a tutta quella massa uniforme di verde smeraldo, ma su Marte non esistevano fiori.
Forse ce n'erano stati, tanto tempo prima, quando l'atmosfera era sufficientemente densa da sostenere il volo degli insetti. Ora la riproduzione avveniva senza fecondazione.
George lo raggiunse e rimase lì a contemplare il panorama con indifferenza. A un tratto si scosse dai suoi pensieri per dire a Gibson con voce esile ma ancora chiaramente udibile a quella breve distanza: «Questo sì che è divertente! State fermo per favore e osservate quella pianta coperta dalla vostra ombra.»
Gibson obbedì alla bizzarra ingiunzione. Per un attimo non accadde niente. Poi vide che con estrema lentezza i fogli di pergamena si piegavano gli uni sugli altri. L'intero processo si svolse in circa tre minuti, al termine dei quali la pianta si era trasformata in una palla di carta verde, tutta spiegazzata e ridotta a un quarto delle sue dimensioni normali.
«Crede che sia notte» disse George, ridendo. «Se adesso vi muovete ci penserà su almeno mezz'ora prima di decidersi a riaprire bottega. Se seguitaste con questo trucco per tutta la giornata finireste col provocarle un esaurimento nervoso!»
«Queste piante servono a qualcosa?» chiese Gibson. «Intendo dire, sono commestibili oppure contengono qualche sostanza chimica importante?»
«Commestibili no di sicuro, perché anche se non sono velenose possono procurare disturbi gravi. Vedete, in realtà non hanno niente delle piante terrestri. Il loro verde è una semplice coincidenza. Non si tratta di... come si chiama quella roba?»
«Quale? La clorofilla?»
«Appunto. Non hanno bisogno di aria come le nostre piante, e tutto quello che serve lo prendono dal suolo. Infatti potrebbero benissimo crescere nel vuoto assoluto, come le piante della Luna, purché avessero un terreno adatto e luce solare a sufficienza.»
Un vero trionfo dell'evoluzione, pensò Gibson. Ma a quale scopo?, si chiese. Perché la vita si era aggrappata con tanta tenacia a quel piccolo mondo, nonostante tutto il male causatole dalla natura? Forse il Capo Supremo marziano aveva tratto una parte del suo ottimismo dalla lezione impartita da quelle piantine ostinate e risolute.
«Andiamo» disse George. «È ora di tornare.»
Gibson lo seguì docilmente. Non si sentiva più oppresso dal senso di claustrofobia che l'aveva angustiato prima. Coloro che si erano trasferiti su Marte per svolgervi un lavoro preciso e non avevano avuto quindi il tempo per immalinconirsi, probabilmente avevano superato quello stadio senza accorgersene. Lui invece era stato mandato lì apposta per raccogliere le proprie impressioni, e per il momento l'impressione dominante era un senso di smarrimento e d'impotenza, se confrontava il pochissimo che sino a quel momento l'uomo era riuscito a fare su Marte con gli smisurati problemi che ancora andavano risolti. Per cominciare, tre quarti del pianeta erano tuttora inesplorati. E questo dava in un certo senso la misura di quello che ancora restava da fare!
I primissimi giorni a Porto Loweìl erano stati per lui densi di emozioni e sensazioni nuove. La domenica, la passò col maggiore Whittaker il quale impiegò il suo tempo libero per accompagnarlo personalmente nel giro della città. Avevano cominciato dalla Cupola Uno, la prima a essere stata costruita, e il maggiore gli aveva descritto con orgoglio l'espandersi della cittadina (fondata da soli dieci anni) da un primo nucleo di baracche pressurizzate. Era divertente, e anche commovente notare che i coloni avevano usato, ovunque era stato possibile, i nomi familiari di strade e di piazze delle loro lontanissime città natali. C'era anche un sistema scientifico di numerazione delle strade, a Porto Lowell, ma nessuno se ne serviva mai.
La maggior parte delle case d'abitazione erano strutture uniformi in metallo, a due piani, dagli angoli arrotondati e con le finestre piuttosto piccole. In ognuna alloggiavano due famiglie, e non offrivano molto spazio, perché a Porto Lowell il tasso di natalità era il più alto di tutto l'universo, il che non doveva stupire, dato che la quasi totalità della popolazione oscillava tra i venti e i trent'anni al massimo, con qualche rara punta di quaranta per alcuni dirigenti amministrativi. Ogni casa aveva un bizzarro portico che incuriosì molto Gibson finché non gli spiegarono che in caso d'emergenza poteva funzionare da compartimento stagno.
Per prima cosa Whittaker l'aveva portato alla sede degli uffici, il principale e più alto edificio della città. Dal suo tetto si poteva, allungando una mano, toccare la cupola che gli si incurvava sopra. L'Amministrativo, come lo chiamavano, non offriva in sé niente d'interessante: era identico ai tanti palazzi d'amministrazione che si costruiscono sulla Terra, pieno di file di scrivanie, di macchine da scrivere e di schedari d'archivio.
Molto più interessante invece era il Centro Aria. Quello sì che era il vero cuore di Porto Lowell: se per un attimo avesse cessato di funzionare, la città e tutti i suoi abitanti sarebbero subito diventati una massa inerte, senza vita. Le nozioni di Gibson su come la colonia veniva rifornita di ossigeno erano sempre state alquanto vaghe. A un certo momento gli era parso anzi di capire che venisse estratto dall'aria circostante, ma aveva dimenticato che l'atmosfera rarefatta del pianeta conteneva meno dell'uno per cento del prezioso elemento.
Il maggiore Whittaker gli aveva mostrato l'enorme cumulo di sabbia rossa che era stata trasportata all'interno della cupola. Tutti la chiamavano "sabbia", ma in realtà aveva ben poco a che fare con la familiare sabbia terrestre. Si trattava di una complessa miscela di ossidi metallici.
«L'ossigeno che ci serve si trova tutto in questi minerali» spiegò il maggiore Whittaker indicando col piede il mucchio della polvere compressa. «Posso aggiungere che contengono anche quasi tutti i metalli conosciuti. Su Marte abbiamo avuto un paio di colpi di fortuna, e questo è certamente il più grosso.»
Si chinò e raccolse una zolla più compatta delle altre.
«In geologia non sono un gran competente» disse, «ma osservate un po' questa roba. È quasi tutto ossido di ferro, mi dicono. Il ferro serve poco, naturalmente, ma gli altri metalli sono preziosissimi. L'unico o quasi che si può estrarre direttamente da queste sabbie è il magnesio. Le sabbie sono tutto quello che resta dell'antico Ietto marino. In Xanthe per esempio ci sono distese saline spesse un centinaio di metri, e quando serve sale basta andare là e prendere la quantità di cui si ha bisogno.»
S'inoltrarono nel basso edificio vivamente illuminato, verso cui confluiva su un trasportatore a nastro un fiume ininterrotto di sabbia. In realtà non c'era molto da vedere, e benché l'ingegnere di turno fosse più che disposto a spiegare all'ospite tutto il processo di trasformazione fin nei dettagli più minuti, Gibson si accontentò di imparare che i minerali venivano scissi in fornaci elettriche, dopo di che l'ossigeno veniva estratto, purificato, e compresso, mentre le diverse poltiglie metalliche erano sottoposte a tutto un susseguirsi di processi più complicati. Lì si produceva inoltre una notevole quantità d'acqua, sufficiente per i bisogni della colonia, per quanto sul pianeta esistessero anche altre fonti di questo liquido indispensabile.
«Oltre all'immagazzinamento dell'ossigeno dobbiamo badare a che la pressione atmosferica sia mantenuta al suo livello normale, e a sbarazzarci dell'anidride carbonica» spiegò il maggiore Whittaker. «Vi rendete conto, immagino, che la cupola si regge unicamente grazie alla pressione interna senza l'ausilio di altri sostegni.»
«Certo» disse Gibson. «Se la pressione venisse a mancare, tutto l'involucro si affloscerebbe come un pallone sgonfiato.»
«Proprio così. D'estate manteniamo una pressione di centocinquanta millimetri, d'inverno la alziamo leggermente. Questo ci consente di ottenere quasi la stessa pressione di ossigeno dell'atmosfera terrestre. In quanto all'anidride carbonica, ce ne liberiamo lasciando lavorare le piante per noi. Ne abbiamo importate apposta parecchie, poiché le piante marziane non seguono il processo di fotosintesi.»
«È questa la funzione dei girasoli ipertrofici di Oxford Circus, immagino.»
«Quelli veramente erano destinati più a uno scopo ornamentale, e temo che stiano diventando un po' troppo ingombranti. Bisognerà che mi decida a farli togliere, altrimenti seguiteranno a spargere semi dappertutto! Ma adesso muoviamoci di qua e andiamo a dare un'occhiata alla fattoria.»
La definizione di fattoria che stava a indicare il grande impianto alimentare che occupava tutta la Cupola Tre in realtà era assai impropria. Nell'edificio l'atmosfera era umidissima e la luce solare era stata rafforzata da parchi di lampade fluorescenti in modo che la crescita potesse continuare notte e giorno ininterrottamente. Gibson se n'intendeva pochissimo di culture idroponiche, cosicché le cifre che il maggiore Whittaker gli andava orgogliosamente sciorinando gli fecero poco effetto. Riuscì tuttavia a capire che il problema più urgente era quello della produzione di carne, e ammirò l'ingegnosità con cui si era parzialmente ovviato a questo bisogno mediante la coltura di tessuti su vasta scala in grandi tinozze di fluido nutriente.
«Sempre meglio che niente» osservò con malinconia il maggiore. «Che cosa non darei per una costoletta di agnello genuina! Il guaio di una produzione naturale è che prenderebbe troppo spazio, e questo è un lusso che non ci possiamo permettere assolutamente. Tuttavia, non appena sarà terminata la nuova cupola, avvieremo una fattoria modesta con qualche pecora e un paio di mucche. Chissà come si divertiranno i bambini. Non hanno mai visto un animale vivo, capite?»
Il che però non era del tutto esatto, come Gibson avrebbe scoperto in seguito, perché il maggiore si era momentaneamente dimenticato di due tra i più notevoli residenti di Porto Lowell.
Alla fine della visita d'ispezione Gibson si sentì la testa parecchio stanca. I meccanismi della vita cittadina erano troppo complicati, a Porto Lowell, e il maggiore si era preoccupato di mostrargli assolutamente tutto. Perciò lo scrittore fu contento quando il giro della città ebbe finalmente termine e poterono rientrare a casa del maggiore per la cena.
«Credo che per oggi ne abbiate avuto abbastanza» disse Whittaker, «ho voluto farvi vedere il più possibile perché domani saremo tutti occupatissimi e quindi non potrò dedicarvi molto tempo. Il Capo è assente, come forse saprete, e sarà di ritorno soltanto giovedì, quindi dovrò occuparmi io di tutto.»
«Dove è andato?» domandò Gibson, più per cortesia che per curiosità vera e propria.
«Oh, su Phobos» rispose il maggiore dopo una brevissima esitazione. «Non appena tornerà, sarà lieto di vedervi.»
La conversazione era stata poi interrotta dall'arrivo della signora Whittaker e dei figli, e per tutto il resto della serata Gibson fu costretto a parlare esclusivamente della Terra. Era la sua prima, e non sarebbe stata certamente l'ultima, esperienza dell'interesse insaziabile dimostrato dai coloni per il pianeta d'origine. Un interesse che di rado ammettevano apertamente, fingendo anzi un'ostentata indifferenza per il vecchio mondo e le sue vicende. Ma le domande e soprattutto le pronte reazioni alle critiche e ai commenti terrestri tradivano il loro reale atteggiamento.
Era strano parlare a bambini che non avevano mai conosciuto la Terra, che erano nati e avevano trascorso la loro breve esistenza sempre ed esclusivamente al riparo delle grandi cupole. Gibson si chiedeva che significato avesse per loro la Terra. Era forse più reale, per loro, dei regni immaginari delle favole? Tutto quello che avevano appreso del mondo dal quale i loro genitori erano emigrati, era di seconda mano, derivato da libri o da fotografie e immagini. Per quello che riguardava i loro sensi, la Terra era soltanto un pianeta sconosciuto e lontanissimo, oggetto forse di qualche pensiero ma non di desiderio.
Eppure quei bambini, malgrado l'ambiente completamente artificiale da cui erano circondati, avevano un aspetto sano e felice, e sembravano serenamente inconsapevoli delle molte cose che a loro mancavano e che non avevano mai avuto. Gibson si chiese quali sarebbero state le loro reazioni se un giorno fossero andati sulla Terra. Sarebbe stato un esperimento estremamente interessante, ma per il momento nessun bambino nato su Marte era ancora abbastanza adulto per poter essere separato dai genitori.
Quando Gibson lasciò la casa del maggiore, al termine della giornata marziana, le luci della città si stavano spegnendo. Parlò pochissimo mentre Whittaker lo riaccompagnava all'albergo: aveva l'animo troppo gonfio di impressioni confuse e contrastanti. L'indomani mattina avrebbe cercato di esaminarle e catalogarle.
Per il momento la sua sensazione era che la maggiore città marziana fosse soltanto un grosso villaggio-giocattolo supermeccanizzato.
Al di là del riparo della cupola, oltre le alture vermiglie, oltre il limite della pianura di smeraldo... il resto di quel mondo era ancora un mistero inviolato e ignoto.
9
«Mi fa davvero piacere rivedervi finalmente tutti quanti» disse Gibson, trasportando cautamente le bibite dal piano del bar. «E adesso chissà che cosa combinerete qui a Porto Lowell. Immagino che la prima mossa sarà quella di rimettervi in contatto con le ragazze del posto.»
«Il che non è mai un'impresa facile» disse Norden.
«Di solito, da un viaggio all'altro le ritroviamo sposate, quindi bisogna andarci con molto tatto. A proposito, George, che ne è della signorina Mackinnon?»
«Vuoi alludere alla signora Henry Lewis, comandante» lo corresse George, «madre di un bambino molto bello.»
«Pazienza!» sospirò Norden. «Speriamo che mi abbiano lasciato una fetta di torta nuziale. Alla tua salute, Martin.»
«E a quella dell'Ares» soggiunse Gibson facendo tintinnare il bicchiere contro quello dell'amico. «Mi auguro che l'abbiate rimessa insieme a dovere. Quando vi ho lasciati era alquanto malridotta.»
Norden rise.
«Le rimetteremo a posto la corazza solo dopo che avremo rifatto il carico. Ma non c'è pericolo che si rovini per eccesso di pioggia.»
«Che ne pensi di Marte, Jimmy?» chiese Gibson. «Tu sei il solo nuovo qui, oltre a me.»
«Non ho ancora visto quasi niente» rispose Jimmy con prudenza. «Però tutto, qua dentro, mi sembra di dimensioni ridotte.»
«Ricordo che quando eravamo su Deimos dicevi giusto il contrario, ma probabilmente te ne sei dimenticato. Quella volta eri leggermente sbronzo.»
«Non sono mai stato sbronzo in vita mia!» protestò Jimmy sdegnato.
«Allora ti faccio i miei complimenti perché in quell'occasione hai fatto una perfetta imitazione dell'ubriaco; e io ci sono cascato in pieno. Ma m'interessa quello che dici perché io ho avuto la tua stessa impressione subito dopo i primi due giorni, cioè dopo aver visto tutto quello che c'era da vedere dentro le cupole. C'è un solo rimedio: uscire e sgranchirsi le gambe. Per il momento ho girellato solo un po' a piedi qua attorno, ma adesso sono finalmente riuscito a mettere le mani su una pulce del deserto della società trasporti. Domani voglio andare a fare una bella corsa fra le colline. Vuoi venire anche tu?»
Gli occhi del ragazzo brillarono di gioia.
«Oh, grazie! Ne sarei felicissimo!»
«E noi?» disse Norden.
«Voi ci siete già stati» disse Gibson. «Ma siccome c'è un terzo posto, giocatevelo ai dadi per decidere chi deve venire. Bisogna che ci prendiamo un autista autorizzato altrimenti non ci permetteranno di viaggiare con uno dei loro preziosi veicoli, e in fondo non si può dar loro torto.»
Fu Mackay a vincere la gita offerta da Gibson, dopo di che gli altri si affrettarono a dichiarare che in fondo non ci tenevano, perché non avevano nessuna voglia di muoversi.
«Be', questo sistema tutto» disse Gibson. «Trovatevi alla sezione trasporti, Cupola Quattro, domattina alle dieci. Adesso devo lasciarvi. Ho tre articoli che mi aspettano, o per essere esatti, un articolo con tre titoli diversi.»
Gli esploratori s'incontrarono in perfetto orario, dotati di tutto l'equipaggiamento protettivo che avevano ricevuto al loro arrivo ma che sino a quel momento non avevano avuto occasione di usare, e che comprendeva un casco, i cilindri per l'ossigeno, un purificatore d'aria, insomma tutto quello che era necessario per una gita all'aperto su Marte durante una giornata calda, nonché una tuta termica fornita di speciali pile a secco grazie a cui si poteva stare caldi e a proprio agio anche se la temperatura esterna scendeva a cento sotto zero, e che portarono con sé in quella gita solo per misura precauzionale, nel caso che un guasto alla pulce li costringesse a un'assenza prolungata dalla città.
Il pilota dell'automezzo era un giovane geologo dall'aspetto particolarmente robusto, il quale affermava di aver trascorso più di metà del suo tempo, da quando si trovava su Marte, all'aperto, fuori di Porto Lowell. Dava l'impressione di sapere il fatto suo, e Gibson non trovò difficoltà ad affidargli la sua preziosa esistenza.
«Queste macchine si guastano spesso?» chiese mentre salivano sulla pulce.
«No, state tranquillo. Hanno uno straordinario margine di sicurezza ed è veramente molto difficile commettere un errore di manovra. Certo, qualche volta capita che un guidatore inesperto si insabbi, ma anche in questo caso è facile tirarsi fuori da soli usando la manovella a mano. Nel mese scorso è successo soltanto un paio di volte che qualcuno abbia dovuto tornare indietro a piedi.»
«Speriamo di non essere noi i terzi» disse Mackay, mentre il veicolo s'infilava nel compartimento stagno.
«Io non me ne preoccuperei» disse il conducente ridendo, mentre aspettavano che si aprisse la porta esterna. «Non ci allontaneremo molto dalla base, quindi potremo sempre tornare indietro senza troppa fatica anche se succedesse qualche inconveniente.»
Sospinti da un colpo di corrente percorsero velocemente l'ultimo tratto del compartimento e uscirono dalla città. Nel vivido e basso tappeto vegetale era stato tagliato un passaggio, una specie di viottolo che circondava la cupola e da cui partivano altre strade che portavano alle vicine miniere, alla stazione radio, all'osservatorio in cima a un'altura, e alla pista di atterraggio dove in quel preciso momento si stava procedendo allo scarico della merce dell'Ares trasportata con i razzi-traghetto in continuo viavai da e per Deimos.
«Ecco» disse il conducente fermandosi al primo incrocio. «Sono a vostra completa disposizione. Da che parte volete andare?»
Gibson stava litigando con una carta geografica troppo grande per le proporzioni della minuscola cabina.
La loro guida diede un'occhiata di disprezzo alla carta.
«Non so proprio dove abbiate scovato quella roba» disse. «Probabilmente ve l'hanno data all'Amministrativo, ma ha l'età di Adamo ed Eva. Se mi dite dove volete che vi porti, vedrete che me la caverò benissimo senza bisogno di consultare quella roba.»
«Come volete» disse Gibson. «Io direi di salire un po' sulle colline e di dare un'occhiata intorno. Andiamo all'Osservatorio.»
La pulce si lanciò con un balzo all'assalto della strada e ben presto il verde luminoso che li circondava si confuse in una macchia stemperata, priva di contorni.
«Che velocità raggiungono questi aggeggi?» chiese Gibson quando fu riuscito a districarsi dalle ginocchia di Mackay sulle quali era andato a finire.
«Su una strada buona possono fare i cento; ma siccome di strade buone su Marte non ce ne sono, dobbiamo rassegnarci a un'andatura da lumaca. Adesso siamo sui sessanta, ma su terreno accidentato si è fortunati a mantenere una media di trenta.»
«E che autonomia hanno?» chiese Mackay, con una evidente punta d'inquietudine.
«Un buon migliaio di chilometri con una sola carica, compresa l'energia per il riscaldamento, la cucina eccetera. Ma per viaggi lunghi di solito ci portiamo dietro un rimorchio con batterie di ricambio. Il massimo sinora raggiunto è di circa cinquemila chilometri. Io personalmente ne ho percorsi tremila, quando facevo rilievi e misurazioni di terreno ad Argyra. In occasioni del genere però i rifornimenti vengono paracadutati.»
Erano in viaggio solo da pochi minuti, ma già Porto Lowell stava scomparendo all'orizzonte.
Riapparve di lì a poco, non appena la pulce cominciò a salire l'altura. Le colline intorno a Porto Lowell non raggiungevano i mille metri d'altezza, ma costituivano comunque un ottimo riparo contro i freddi venti invernali che soffiavano da sud, e nello stesso tempo offrivano buone posizioni per la stazione radio e l'Osservatorio.
Raggiunsero la stazione radio mezz'ora dopo aver lasciato la città. Sentendo che era venuto il momento di sgranchirsi un poco le gambe si misero le maschere e scesero dalla pulce passando a uno a uno dall'angusto compartimento stagno di materiale plastico pieghevole.
Non si poteva certo dire che il panorama fosse straordinario. A nord, le cupole di Porto Lowell galleggiavano come bolle di spuma lattea su un mare di smeraldo. Verso occidente Gibson colse una rapida visione vermiglia del deserto che fasciava l'intero pianeta. Poiché le creste delle colline lo sovrastavano, sia pure di poco, non riuscì a spingere lo sguardo a sud, ma sapeva che in quella direzione la verde striscia vegetale si allungava per parecchie centinaia di chilometri sino a perdersi nel Mare Erythraeum. Lì sul ciglio delle colline non c'erano piante, forse per la mancanza di umidità.
Si diresse verso la stazione radio, che essendo completamente automatizzata non gli diede la possibilità di chiacchierare con gli addetti come era solito fare. Si riteneva però sufficientemente preparato da intuirne il funzionamento. Il gigantesco riflettore parabolico era in posizione quasi orizzontale, puntato un poco a est rispetto allo zenith, puntato cioè verso la Terra che in quel periodo distava dal pianeta soltanto sessanta milioni di chilometri e si trovava tra Marte e il Sole.
La voce di Mackay, resa curiosamente sottile dall'atmosfera rarefatta, lo fece volgere di scatto. «Qualcuno sta per atterrare laggiù, verso destra.»
Gibson ebbe qualche difficoltà a individuare il piccolo razzo a freccia che si muoveva velocissimo nel cielo. Il traghetto si librò sulla città e si perse dietro le cupole per raggiungere la pista di atterraggio. Gibson si augurò che gli portasse il resto del bagaglio, dal quale era rimasto separato troppo a lungo.
L'Osservatorio sorgeva quattro o cinque chilometri più a sud, proprio sul ciglio della collina, dove le luci di Porto Lowell non correvano il rischio di disturbare l'opera degli scienziati. Gibson aveva sperato di vedere le specole scintillanti che sulla Terra contraddistinguono il luogo di lavoro degli astronomi, ma lì la cupola era costituita dalla solita bolla in materiale plastico dei quartieri di abitazione. Gli strumenti si trovavano all'aperto, e soltanto nel rarissimo caso di maltempo venivano ricoperti.
Il posto, a mano a mano che la pulce si avvicinava, sembrava completamente deserto. Si fermarono accanto allo strumento principale, un riflettore a specchio del diametro inferiore a un metro. Era sorprendentemente piccolo per far parte delle installazioni astronomiche del massimo osservatorio marziano. C'erano poi due minuscoli rifrattori, e un complicato aggeggio orizzontale. Mackay spiegò che era un telescopio a specchio girevole sull'asse orizzontale. Oltre alla cupola pressurizzata, non c'erano altri edifici.
All'interno però doveva esservi qualcuno, perché davanti all'ingresso era ferma una piccola pulce del deserto.
«Sono gente molto socievole» disse il giovane geologo mentre fermava il veicolo. «Qui la vita è assai monotona, e loro sono sempre felici di vedere qualcuno. Inoltre, sotto la cupola avremo la possibilità di sgranchirci le gambe e di mangiare in santa pace.»
«Ma non possiamo pretendere che ci preparino loro il pranzo» protestò Gibson, al quale seccava moltissimo di dover incorrere in obblighi che non gli era possibile ricambiare immediatamente.
Il giovane scienziato lo guardò sorpreso, quindi scoppiò in una sonora risata.
«Qui non siamo sulla Terra, sapete? Su Marte tutti si aiutano a vicenda... per forza. Altrimenti non si concluderebbe mai niente. Io però ho portato un po' di provviste. Mi basta soltanto usare la loro cucina. Cucinare nell'interno di una pulce con quattro persone a bordo è alquanto scomodo.»
Come il geologo aveva preannunciato, i due astronomi di turno li accolsero con entusiasmo, e poco dopo, l'impianto d'aria condizionata della piccola cupola di plastica fu sottoposto a un superlavoro per sbarazzare l'ambiente degli odori della cucina. Mackay aveva subito agganciato l'astronomo più anziano, intavolando con lui una discussione tecnica sul lavoro dell'Osservatorio. Gibson non ne capiva quasi niente ma cercò lo stesso di assorbire il più possibile e di far tesoro di quella conversazione.
A quanto pareva la maggior parte del lavoro sbrigato nell'Osservatorio riguardava l'astronomia di posizione, cioè consisteva nel compito noioso ma importantissimo di trovare le latitudini e le longitudini, controllare l'esattezza dei segnali orario eccetera. Di lavoro d'osservazione se ne faceva pochissimo: di questo se ne occupavano già da molto tempo gli strumenti installati sulla Luna terrestre, e i piccoli telescopi dell'Osservatorio marziano, che erano oltretutto intralciati dalla presenza di un'atmosfera, non potevano certo competere con quelli. Erano state misurate le parallassi di alcune stelle più vicine, ma la maggior precisione offerta dalla più vasta orbita marziana era talmente lieve da rendere pressoché inutili gli sforzi in questo senso.
Dopo il pasto, gli ospiti furono invitati a dare un'occhiata nel grande riflettore. Poiché si era alle prime ore del pomeriggio, Gibson non avrebbe mai immaginato che ci fosse molto da vedere, ma era un glosso errore da parte sua, come non doveva tardare ad accorgersi.
Sospesa nel campo visivo, contro al cielo quasi nero, vicino allo zenith, Gibson vide una bellissima falce perlacea simile a una luna di tre giorni. Sul tratto illuminato recava chiaramente visibili alcuni rilievi, ma per quanto lo scrittore aguzzasse gli occhi al massimo non gli fu possibile di individuarli. Troppa parte del pianeta era in ombra perché lui potesse discernere i continenti maggiori.
Non molto lontano, ma assai più piccola e più pallida, aleggiava un'altra mezzaluna, lungo il cui orlo Gibson poté distinguere con facilità qualcuno tra i crateri più noti. Formavano davvero una bella coppia i corpi gemelli Terra e Luna, ma apparivano talmente remoti ed eterei che Gibson non provava più alcuna nostalgia e alcun rimpianto per tutto quello che vi aveva lasciato.
Uno dei due astronomi gli stava parlando, il casco vicinissimo al suo.
«Quando è buio si possono vedere le luci delle città, sul lato notturno. New York e Londra si distinguono benissimo. Lo spettacolo più bello però è il riflesso del sole sul mare. Lo si nota vicino all'orlo del disco quando non c'è nuvolaglia... è come una stella brillantissima e tremula. Adesso però non è visibile perché quello che si vede sul tratto della falce è quasi tutta terraferma.»
Quando non ci fu proprio più niente di nuovo da vedere, si accomiatarono dai due astronomi che li salutarono con un po' di tristezza quando la pulce si allontanò seguendo la cresta della collina. Il giovane geologo disse che intendeva fare un piccolo giro per raccogliere alcuni campioni di roccia, e poiché per Gibson una parte di Marte equivaleva all'altra, lo scrittore non fece obiezioni.
Sulle colline non esistevano vere e proprie strade, ma in epoche remotissime ogni asperità del suolo era stata livellata cosicché il terreno appariva ora perfettamente liscio e piano. Qua e là qualche masso ostinato sporgeva ancora dalla superficie uniforme del pianeta, offrendo un contrasto caleidoscopico di colori e forme, ma erano ostacoli facilmente aggirabili. Un paio di volte notarono piccoli alberi, se così si potevano chiamare, di una specie che Gibson non aveva mai visto prima. Più che alberi sembravano rami di corallo, rigidi e pietrificati. A detta del geologo, la loro età era incalcolabile poiché, per quanto fossero certamente vivi, nessuno era ancora riuscito a calcolarne la velocità di crescita. Certo non potevano avere meno di 50.000 anni. Il loro sistema di riproduzione era un mistero assoluto.
Verso la metà del pomeriggio, giunsero a una bassa roccia splendidamente colorata. Ponte dell'Arcobaleno la chiamò il geologo, e richiamò irresistibilmente alla memoria di Gibson un fiammeggiante canyon dell'Arizona, anche se in scala minore. Smontarono dalla pulce,e mentre lo scienziato raccoglieva i suoi campioni, Gibson scattò tutto un rullino di pellicola a colori portata con sé appunto per occasioni simili.
«Sarà bene avviarci, se vogliamo essere a casa per l'ora del tè» disse a un certo punto il geologo. «Possiamo ritornare per la stessa strada oppure girare dietro le colline. Che cosa preferite?»
«Perché non passiamo per la pianura? Sarebbe il percorso più diretto» suggerì Mackay, il quale cominciava a essere un po' annoiato della gita.
«Ma anche il più lento... bisogna procedere a passo d'uomo, attraverso quei cavoli troppo cresciuti.»
«Io detesto tornare sui miei passi» disse Gibson. «Giriamo dietro le colline e vediamo un po' quello che troviamo da quelle parti.»
La giovane guida rise.
«Non illudetevi con speranze inutili. Di qui o di lì è pressappoco lo stesso. Su, si parte!»
La pulce balzò in avanti e il Ponte dell'Arcobaleno scomparve presto alle loro spalle. Il percorso si snodava ora attraverso una regione completamente brulla, dove anche gli alberi pietrificati erano scomparsi. A volte Gibson notava chiazze verdi, che credeva vegetazione, ma non appena si avvicinavano scopriva invariabilmente un ennesimo giacimento minerale. Era però un paesaggio straordinariamente bello, un vero paradiso geologico, e Gibson sperò in cuor suo che gli uomini non osassero mai saccheggiarlo con i loro scavi e le loro ricerche scientifiche e minerarie, perché certamente quella zona era una delle località più interessanti di Marte.
Viaggiavano da forse mezz'ora quando le colline presero a digradare entro una lunga valle serpeggiante che presentava senza possibilità di equivoco tutte le caratteristiche di un antico corso d'acqua. Cinquanta milioni di anni prima circa, spiegò il geologo, un grande fiume scorreva in quel letto per portare le sue acque nel Mare Erythraeum, uno dei pochi mari marziani, se così si potevano definire. Fermarono il mezzo e osservarono l'alveo vuoto con un misto di sentimenti contrastanti. Gibson tentò d'immaginare come doveva essere la regione in quei tempi remoti, nel periodo in cui i grandi rettili dominavano la Terra e l'Uomo era ancora una larva dall'imperscrutabile, lontanissimo futuro. Le rocce rosse non dovevano essere molto diverse da allora. In mezzo alle rocce, il fiume si era certamente aperto un varco verso il mare, con moto lento e pigro per effetto della debole gravità. Uno spettacolo quasi terrestre, ma lì era mai stato visto o percepito da esseri intelligenti?
L'antico fiume aveva lasciato in retaggio qualcosa di assai prezioso perché lungo le propaggini più basse della valle resisteva ancora una certa umidità, e una stretta striscia di vegetazione segnava in quel punto le rive dell'Erythraeum, e il suo verde smagliante formava un vivido contrasto col cremisi delle rocce. Le piante erano le stesse che Gibson aveva visto sull'altro versante delle colline, ma qua e là ne spiccavano di nuove. Erano anche sufficientemente alte da poter essere definite alberi, però non avevano foglie ma soltanto rami sottili, a forma di frusta, che vibravano di continuo malgrado l'immobilità dell'atmosfera. Gibson pensò che erano tra gli oggetti più inquietanti che lui avesse mai visto in vita sua. Gli sembrava che dovessero inaspettatamente, minacciosamente, allungare quei loro ripugnanti tentacoli a ghermire il passante ignaro. Invece erano piante assolutamente innocue, come tutto quello che si trovava su Marte.
Avevano attraversato la valle a zig-zag e si stavano inerpicando sul pendio opposto quando la loro guida fermò improvvisamente la vettura.
«Oh, questa è curiosa!» disse. «Non sapevo che ci fossero lavori in corso da queste parti!»
Per un attimo Gibson, che non era poi così buon osservatore come si illudeva di essere, non seppe dove guardare. Finalmente notò un solco di ruota appena visibile, perpendicolare con la direzione seguita da loro.
«Devono essere passati degli automezzi pesanti di qui» proseguì la guida. «Sono sicuro che questo solco non c'era l'ultima volta che sono venuto da queste parti... quando è stato? Vediamo... circa un anno fa. E da quella volta non c'è stata nessuna spedizione all'Erythraeum.»
«Dove conduce?» chiese Gibson.
«Risalendo la valle e passando sull'altra parte si torna a Porto Lowell. È quello che avevo intenzione di fare io. Nel senso opposto invece si va al mare.»
«Abbiamo ancora tempo. Andiamo un po' da quella parte!»
Il geologo acconsentì di buon grado. Girò la pulce e puntò verso il fondo valle. Di tanto in tanto, nei tratti di terreno formato da roccia levigata, la pista scompariva per riapparire però quasi subito. A un certo punto però la persero definitivamente.
La guida fermò l'automezzo.
«Adesso capisco» disse. «Può essere andato soltanto da quella parte. Avete notato un passo, a un chilometro circa da qui? Scommetto dieci contro uno che si è diretto là.»
«E cosa c'è da vedere, là?»
«Questo è il curioso: si tratta di un vero e proprio vicolo cieco. C'è, è vero, un interessante anfiteatro naturale del diametro di due chilometri circa, ma non è possibile uscirne se non dalla parte da cui si è entrati. Ci ho passato un paio d'ore, una volta, quando abbiamo cominciato a fare i primi rilievi della regione. È un posto gradevole, ben riparato, e che in primavera offre un po' d'acqua.»
«Un ottimo rifugio per contrabbandieri» osservò Gibson.
La stretta gola aveva certo ospitato un tempo un affluente del fiume principale, e percorrerla era assai più difficile di quanto non fosse stato viaggiare lungo la valle centrale. Bastarono comunque pochi metri per capire che avevano indovinato: la pista infatti era ricomparsa subito chiarissima.
«Qui hanno fatto saltare qualcosa» disse il geologo. «Questo tracciato non esisteva quando sono venuto qui la prima volta. Ricordo che ho dovuto compiere un giro vizioso su per quel pendio, e che ho rischiato di dover abbandonare la pulce.»
«Chissà che cosa stanno facendo» disse Gibson, elettrizzato dalla curiosità professionale.
«Non lo so. Ci sono alcuni piani di ricerche talmente specializzate che se ne sente parlare molto poco. Certe cose non si possono fare vicino alla città, capite? Può darsi che stiano costruendo un osservatorio magnetico, almeno così ho sentito dire ultimamente. A Porto Lowell i generatori sarebbero ottimamente schermati dalle colline. Ma non credo che si tratti di questo perché se fosse così me l'avrebbero detto... Ehi, ma che cos'è quello?»
Di fronte a loro si stendeva un ovale di verde quasi perfetto, fiancheggiato dalle basse colline color ocra. Forse quella conca aveva raccolto un tempo un pittoresco lago alpino, e ancora oggi offriva un conforto all'occhio stanco di tutta quella roccia multicolore ma priva di vita. Per il momento però Gibson non degnò neppure di uno sguardo lo smagliante tappeto vegetale, perché era rimasto a fissare trasognato un assembramento di cupole raggruppate al limite della piccola pianura. Parevano una riproduzione in miniatura di Porto Lowell.
Proseguirono in silenzio lungo la strada che era stata aperta attraverso il vivo tappeto verde. Fuori dalle cupole non c'era nessuno, ma un grosso veicolo da trasporto, grande almeno cinque volte la loro pulce,sostava all'esterno indicando chiaramente che dentro qualcuno doveva pure esserci.
«Ma questo è un impianto in piena regola» disse lo scienziato, sempre più sorpreso, mentre si sistemava la maschera. «Avranno certamente avuto le loro buone ragioni per spendere chissà quanto. Aspettate qui che io vado a dare un'occhiata.»
Lo videro scomparire nel compartimento stagno della cupola principale e agli impazienti passeggeri parve che la sua assenza si prolungasse per un tempo lunghissimo. Infine videro la porta esterna riaprirsi e la loro guida uscirne e avviarsi lentamente verso di loro.
«Allora?» domandò Gibson mentre il giovane risaliva sull'automezzo. «Cosa vi hanno detto?»
Il geologo non rispose. Senza parlare avviò il motore, e la pulce del deserto cominciò a muoversi.
«Be'? E la tanto decantata ospitalità marziana?» protestò Mackay.
«Non ci hanno invitati a entrare?»
Il geologo sembrava estremamente impacciato. La sua faccia aveva l'espressione di chi si è reso conto di aver commesso una fesseria. Almeno così parve a Gibson. Il giovane si schiarì nervosamente la voce.
«È una stazione di ricerche» disse, cercando accuratamente le parole. «È poco che l'hanno impiantata, e per questo io non ne sapevo niente. Non possiamo entrare perché tutto è completamente sterilizzato, e non vogliono correre il rischio che i visitatori portino dentro delle spore. Avremmo dovuto cambiarci da capo a piedi e fare un bagno nel disinfettante.»
«Capisco» disse Gibson. Qualcosa gli diceva di non insistere con le domande. Grazie al suo infallibile intuito aveva capito che la sua guida gli aveva detto solo una parte della verità, e la meno importante. In quel momento tutti i dubbi che si erano accumulati nella sua mente si riproposero alla sua attenzione. Tutto era cominciato ancora prima del suo arrivo su Marte, era cominciato con il dirottamento dell'Ares da Phobos. E adesso era andato a inciampare in questa stazione segreta di ricerche. Era stata una sorpresa non soltanto per loro ma persino per il geologo che pure si vantava di essere al corrente di tutto quello che succedeva sul pianeta, e che ora cercava, in modo davvero commovente, di rimediare alla sua involontaria indiscrezione.
Qualcosa stava bollendo in pentola. Che cosa, Gibson non poteva immaginarlo, ma doveva essere certamente qualcosa di grosso perché interessava non soltanto Marte ma anche Phobos. Era qualcosa che la maggior parte dei coloni ignorava, e che si affrettava a tenere nascosta non appena ne veniva involontariamente a conoscenza.
Marte dunque nascondeva un segreto. E a chi lo teneva nascosto se non alla Terra?
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Il Grand Hotel marziano aveva ora ben due residenti, il che imponeva al suo personale improvvisato uno sforzo non comune. Gli altri compagni di viaggio di Gibson si erano sistemati chi qua e chi là presso privati, ma poiché Jimmy non conosceva nessuno a Porto Lowell aveva deciso di accettare l'ospitalità offertagli dal giornalista. Gibson si chiedeva se l'esperimento sarebbe riuscito. Non aveva alcuna intenzione di forzare troppo la loro amicizia finora alquanto superficiale, e se Jimmy lo avesse frequentato troppo i risultati avrebbero potuto essere disastrosi. Ricordava un epigramma lanciato una volta al suo indirizzo dal suo peggiore nemico: "Può darsi che Martin sia un tipo in gamba, ma è certo che è meglio stargli alla larga". In quella frase c'era una certa dose di pungente verità, e Gibson non desiderava esperimentarne l'esattezza proprio in quella particolare occasione.
La sua vita nella cittadina aveva ormai preso un ritmo normale. Il mattino lo dedicava al lavoro, a mettere cioè sulla carta le sue impressioni marziane. Un'impresa alquanto presuntuosa considerate le poche esperienze avute sino a quel momento. Il pomeriggio era riservato invece ai giri di ispezione e ai colloqui e interviste con gli abitanti del Porto.
Una volta l'intero equipaggio dell'Ares andò ad assistere ai progressi compiuti dal dottor Scott e dai suoi colleghi nella lotta contro la febbre marziana. Era ancora troppo presto per trarre conclusioni positive, ma Scott sembrava alquanto ottimista. «Avremmo bisogno di una bella epidemia in grande stile» disse fregandosi le mani. «Solo così potremmo provare veramente l'efficacia di questa roba. Per il momento i casi di febbre sono troppo scarsi.»
Jimmy aveva due motivi per accompagnare Gibson nei suoi giri per la città. Prima di tutto il giornalista aveva il permesso di andare quasi ovunque, e così il ragazzo poteva visitare tutti i posti più interessanti che a lui invece sarebbero stati certamente preclusi. Il secondo era puramente personale, e consisteva nel suo crescente interesse per la personalità di Martin Gibson.
Per quanto ora fossero quasi sempre insieme, non avevano più riaperto la conversazione di quel giorno sull'Ares. Jimmy aveva compreso che Gibson desiderava essergli amico nel tentativo di rimediare, per quanto gli era possibile, a quello che gli era accaduto in passato. E Jimmy accettava queste profferte di amicizia abbastanza freddamente, da calcolatore, comprendendo bene quanto Gibson potesse essergli utile nella sua carriera. Gibson sarebbe forse rimasto sgomento se avesse saputo con quanta freddezza il ragazzo aveva valutato i vantaggi che gli sarebbero derivati dalla sua protezione.
Il fatto che portò nella vita di Jimmy un elemento nuovo e del tutto inatteso fu assolutamente banale. Era uscito solo, un pomeriggio, e poiché aveva sete era entrato nel locale di fronte al Palazzo dell'Amministrazione. Per sua disgrazia non aveva scelto il momento giusto, perché aveva appena iniziato a gustare lentamente la sua tazza di tè quando il locale era stato bruscamente invaso. Si trattava dell'intervallo di venti minuti durante i quali ogni lavoro cessava di colpo su Marte. Tale regola, che il Presidente aveva messo in vigore nell'intento di ottenere da tutti il massimo rendimento, non soddisfaceva più. La gente avrebbe preferito invece andare a casa venti minuti prima.
Jimmy fu subito letteralmente assediato da un esercito di ragazze che lo squadravano con imbarazzante candore e un'assoluta mancanza di diffidenza. Con le donne erano entrati anche una mezza dozzina d'uomini i quali si erano riuniti a un unico tavolo, quasi cercando mutua protezione, e a giudicare dalle loro espressioni assorte sembravano ancora immersi nelle preoccupazioni appena lasciate. Jimmy decise di finire in fretta il suo tè e di andarsene.
Di fronte a lui si era seduta una donna dall'aspetto alquanto autoritario, sulla trentina, probabilmente una segretaria di direzione, la quale stava chiacchierando con una ragazza molto più giovane di lei e che si era seduta al lato del tavolo più vicino a Jimmy. Sgusciare tra tutta quella folla senza travolgere nessuno fu una vera impresa, e mentre si faceva strada a fatica nello stretto passaggio fra i tavolini, Jimmy inciampò in un piede. Sentendosi cadere, si aggrappò disperatamente all'orlo del tavolo riuscendo a evitare un disastro completo, ma al grave prezzo di un sinistro scricchiolio del gomito finito con forza contro il piano di vetro. Nella confusione, e per il dolore, si dimenticò di non essere più a bordo dell'Ares,e sfogò la propria rabbia con un paio di parole tutt'altro che convenienti, quindi arrossendo furiosamente, si diresse verso l'uscita. Ma pur nella furia fece in tempo a notare che la donna più anziana faceva sforzi per non ridere mentre la ragazza, giudicando evidentemente stupido esercitare l'autocontrollo per un motivo così futile, sghignazzava allegramente senza il minimo ritegno.
Poco dopo però se n'era già dimenticato.
Fu Gibson a provocargli per puro caso, la seconda scarica emotiva. Stavano parlando della rapida crescita della città in quegli ultimi anni e chiedendosi se sarebbe continuata anche per l'avvenire. Gibson aveva messo in rilievo l'anormale distribuzione d'età causata dal fatto che nessuno al di sotto dei ventun anni aveva finora avuto il permesso di emigrare su Marte, così che sul pianeta esisteva un vuoto tra l'età di dieci e quella di ventuno, vuoto che però l'alto incremento demografico della colonia avrebbe presto colmato. Jimmy era stato ad ascoltare alquanto distrattamente, ma una frase di Gibson gli fece improvvisamente drizzare le orecchie.
«È curioso, però» disse. «Proprio ieri ho visto una ragazza che non poteva avere più di diciott'anni.»
Ma subito s'interruppe. Come una bomba a scoppio ritardato, il ricordo della faccia ridente della ragazza mentre lui usciva in modo tanto maldestro dal bar gli esplose nella mente.
Non intese neppure quello che Gibson gli disse, e che cioè doveva essersi ingannato. Sapeva una cosa sola: chiunque fosse e da qualsiasi parte venisse, quella ragazza lui doveva rivederla.
In un posto con le dimensioni di Porto Lowell, ritrovarsi era unicamente questione di tempo. Ma Jimmy non aveva intenzione di aspettare che le incerte leggi del caso gli venissero in soccorso. Il giorno seguente, poco prima del consueto intervallo, era là, nel piccolo bar.
La mossa, non eccessivamente astuta, gli aveva procurato una certa ansietà. Prima di tutto avrebbe potuto sembrare troppo ovvia. Ma, in fondo, non poteva essere lì anche lui con gli altri visto che quasi tutti i dipendenti dell'Amministrazione andavano in quel locale? L'obiezione più grave era stato il ricordo della pessima figura fatta il giorno precedente. Comunque Jimmy si fece coraggio ricordando una certa citazione che gli pareva facesse al caso suo e in cui si parlava di cuori teneri e di belle dame.
Tutti i suoi scrupoli si rivelarono inutili. Attese fino a quando il bar non fu nuovamente vuoto, ma né la ragazza né la sua compagna si fecero vive. Forse erano andate da un'altra parte.
Per un giovane pieno di risorse come Jimmy, quello era soltanto uno scacco temporaneo. La ragazza doveva certo lavorare nel Palazzo dell'Amministrazione, dove era facilissimo entrare con una scusa qualsiasi. Pensò di andarci a chiedere informazioni sul suo stipendio, per quanto questo motivo difficilmente l'avrebbe portato nei meandri dell'archivio dove quasi sicuramente la ragazza doveva lavorare in qualità di stenografa.
La cosa migliore sarebbe stata di tenere d'occhio l'edificio all'ora in cui il personale entrava o usciva, anche se non sarebbe stato facile mettersi lì di guardia senza farsi notare. Ma prima ancora di aver pensato uno stratagemma qualsiasi, ecco che entrò nuovamente in gioco il destino, ancora una volta travestito da un Martin Gibson sbuffante e affannato.
«Ti ho cercato dappertutto, Jimmy. Ti consiglio di correre subito a cambiarti. Lo sai che c'è uno spettacolo stasera? Bene, siamo stati tutti invitati a cena dal Presidente, prima del teatro, cioè fra due ore.»
«Che cosa si indossa su Marte per i pranzi ufficiali?» domandò Jimmy.
«Pantaloncini neri e cravatta bianca» rispose Gibson incerto. «O il contrario? Comunque ce lo diranno all'albergo. Spero che riescano a scovare qualcosa che si possa infilare senza scoppiarci dentro.»
Ci riuscirono, giusto per un pelo. L'abito di società su Marte, dove per il calore e l'aria condizionata i vestiti erano ridotti al minimo, consisteva in una camicia di seta bianca con due file di bottoni di madreperla, una cravatta nera a farfalla, e un paio di pantaloncini di raso nero guarniti di una larga cintura a maglia, di alluminio, cucita su un sostegno elastico. L'effetto era tutt'altro che inelegante, ma quando fu vestito Gibson si sentì qualcosa a metà tra un boy-scout e il Piccolo Lord. Norden e Hilton invece stavano benissimo, Mackay e Scott un po' meno. In quanto a Bradley se ne infischiava altamente, come al solito.
La residenza del Capo era la più vasta abitazione privata esistente su Marte, anche se sulla Terra sarebbe stata considerata una casa meno che modesta. Prima della cena si riunirono nel soggiorno a fare due chiacchiere e bere uno sherry, sherry autentico. Era stato invitato anche il maggiore Whittaker, seconda autorità dopo Hadfield, e nell'ascoltarli mentre parlavano con Norden, Gibson capì per la prima volta con quanto rispetto e ammirazione i coloni considerassero quegli uomini che rappresentavano il loro unico legame con la Terra. Hadfield stava facendo il panegirico dell'Ares con veri e propri accenti lirici per la sua velocità e il suo carico utile, e per i risultati che se ne sarebbero tratti a favore dell'economia marziana.
«Prima di passare in sala da pranzo» disse poi, quando ebbero terminato lo sherry «desidero presentarvi mia figlia. È di là a occuparsi che tutto sia in ordine. Scusatemi un attimo che vado a chiamarla.»
Tornò di lì a pochi secondi.
«Questa è Irene» disse con un tono che rivelava l'orgoglio paterno. La presentò agli ospiti, lasciando Jimmy per ultimo.
Irene guardò il giovane, poi gli disse col più dolce dei sorrisi: «Credo che noi due ci conosciamo già.»
Jimmy diventò rosso, ma si riprese subito e le restituì il sorriso.
«Lo credo anch'io» rispose.
Era stato un vero imbecille a non averci pensato. Se soltanto avesse riflettuto un po', avrebbe capito chi era la ragazza del bar. L'unico che poteva infrangere le regole, su Marte, era chi le aveva istituite. Jimmy aveva effettivamente inteso dire che il Presidente aveva una figlia di diciott'anni, ma non aveva collegato le due cose. Adesso tutto combaciava perfettamente: quando Hadfield e sua moglie si erano trasferiti su Marte avevano portato con sé la loro unica figlia. Era stato specificato appositamente in una clausola del contratto, e a nessun altro era stato poi concesso di fare altrettanto.
La cena fu ottima, ma per quel che riguardava Jimmy fu completamente sprecata. Non aveva esattamente perso l'appetito, sarebbe stato impossibile, ma mangiava distratto, svogliato. Poiché era seduto all'estremità della tavola, riusciva a vedere Irene solo se allungava il collo in un modo che non poteva affatto essere definito elegante e distinto. Fu soddisfatto quando la cena, come Dio volle, ebbe termine e tutti passarono nell'altra stanza per il caffè.
Gli altri due componenti della famiglia del Presidente marziano erano già in salotto in attesa degli ospiti, e naturalmente avevano occupato i posti migliori. Si trattava di una splendida coppia di gatti siamesi che scrutarono i visitatori con i loro occhi insondabili. Vennero presentati come Topazio e Turchese, e Gibson, il quale adorava i gatti, si mise subito ad accarezzarli per cattivarsene l'amicizia.
«A voi piacciono, i gatti?» chiese Irene a Jimmy.
«Oh, sì» mentì Jimmy che li odiava. «Da quanto tempo sono qui?»
«Da un anno circa. Pensate, sono gli unici animali di Marte! Chissà se apprezzano questo privilegio.»
«Marte comunque l'apprezza. Ma non sono un po' viziati?»
«Non si lasciano viziare, sono troppo indipendenti. Non credo che vogliano veramente bene a nessuno, neppure a mio padre, per quanto lui si ostini a sostenere il contrario.»
Con grande diplomazia, sebbene a uno spettatore estraneo sarebbe apparso evidente, Jimmy riuscì a portare la conversazione su un terreno più personale. Scoprì così che Irene lavorava nella sezione contabile, ma era informatissima su tutto quello che si svolgeva al reparto amministrativo dove sperava di occupare un giorno un importante posto di direzione. Jimmy pensò che forse, in un certo senso, l'alta posizione del padre le era di ostacolo. Anche se per certi versi questo doveva averle reso la vita più facile, per altri invece doveva averle creato svantaggi innegabili, perché Porto Lowell era molto democratica.
Ma era molto difficile mantenere Irene sull'argomento Marte: la ragazza era assai più desiderosa di parlare di Terra, del pianeta che aveva lasciato bambina e che quindi aveva nel suo ricordo una irrealtà di sogno. Jimmy fece del suo meglio per rispondere a tutte le domande in modo esauriente, ben felice di discorrere di qualsiasi cosa che potesse tenere desto l'interesse della ragazza. Le parlò delle grandi metropoli terrestri, delle montagne e dei mari, dei cieli azzurri solcati di nubi, dei fiumi e degli arcobaleni... di tutte le cose insomma che Marte non aveva. E mentre parlava si sentiva sempre più preso dal fascino degli occhi ridenti di Irene. Ridenti. Non c'era altro modo per descriverli. Pareva che la ragazza condividesse con l'interlocutore una misteriosa allegria segreta.
A un certo punto Jimmy si accorse, che intorno a loro si era fatto un gran silenzio. Tutti guardavano lui e Irene.
«Se voi due avete finito di chiacchierare» disse il Presidente, «sarà meglio muoversi. Lo spettacolo comincia tra dieci minuti.»
Tutto Porto Lowell sembrava essersi pigiato nel minuscolo teatro. Il maggiore Whittaker, che li aveva preceduti per fissare i posti, li aspettava all'ingresso, e li accompagnò alle rispettive poltrone, un blocco di posti che occupavano quasi tutta la prima fila. Gibson, Hadfield e Irene erano al centro, fiancheggiati da Norden e Hilton, con grande dispiacere di Jimmy, al quale non restò altra alternativa che ammirare lo spettacolo.
Come tutte le rappresentazioni dilettantistiche anche quella era buona solo in parte. I pezzi musicali erano ottimi e c'era una mezzo soprano che avrebbe potuto dare dei punti a qualsiasi collega professionista terrestre. Gibson perciò non rimase sorpreso quando lesse accanto al suo nome, sul programma: "Ex artista del Teatro Reale dell'Opera del Covent Garden".
Seguiva quindi un intermezzo drammatico, con la classica eroina in pericolo e il solito cattivo che alla fine veniva punito. Al pubblico piacque, e i vari interpreti furono applauditi e fischiati a turno, a seconda della parte che interpretavano, e non mancarono i consigli e gli epiteti di rito a questo e a quello.
Si presentò quindi alla ribalta il più formidabile ventriloquo che Gibson avesse mai udito, finché verso la fine, giusto un attimo prima che l'attore rivelasse spontaneamente il trucco, si accorse che si trattava in realtà di un registratore nascosto dietro le quinte.
Il pezzo successivo era una satira bonaria di vita cittadina, talmente zeppa di allusioni locali che Gibson poté apprezzarla solo in minima parte. Comunque i lazzi del personaggio principale, un funzionario in preda a un continuo esaurimento nervoso, evidentemente ricalcato sul modello del maggiore Whittaker, strapparono al pubblico scoppi frenetici di risa, che aumentarono ancora quando il personaggio cominciò a essere assediato da un tale che lo tempestava di. domande idiote, segnandosi le risposte in un libriccino misterioso (che perdeva continuamente), e che tra una domanda e l'altra si affannava a fotografare tutto quello che vedeva.
Ci. volle un po' prima che Gibson capisse a chi volevano alludere, e quando finalmente lo capì, diventò rosso come una roccia marziana, poi si rese subito conto che c'era una sola cosa da fare: ridere più forte degli altri.
Lo spettacolo si concluse con un coro generale, tipo di divertimento per il quale Gibson non aveva molte simpatie. Lo trovò però meno insopportabile di quello che si sarebbe aspettato, e mentre univa la sua voce a quelle degli altri nei ritornelli, si sentì prendere da un'improvvisa onda di emozione che gli impedì di continuare. Per un attimo rimase così, unico in silenzio fra tutta la folla cantante, a chiedersi che cosa diavolo gli fosse successo.
Ma le facce che vedeva intorno gli diedero subito la risposta: erano facce di uomini e di donne uniti da una causa comune, che andavano verso una comune mèta, e ognuno dei quali sapeva che la sua opera e il suo impegno erano essenziali per la vita della comunità. Quella gente provava un senso di pienezza che pochi sentivano sulla Terra, dove da tempo tutte le frontiere erano state raggiunte e superate. Era un sentimento ingigantito e reso ancor più intimo dal fatto che Porto Lowell era ancora talmente piccolo che i suoi abitanti si conoscevano uno per uno.
Fu forse in quell'attimo che Martin Gibson rinunciò alla Terra per Marte. Nessuno lo seppe mai. Anche quelli che aveva vicini, se pure si accorsero di qualcosa, notarono forse soltanto che lui aveva smesso di cantare ma per tornare subito a unirsi al coro con raddoppiata energia.
A gruppi di due o tre, chiacchierando, ridendo e cantando, il pubblico si disperse lentamente nella notte. Gibson e i suoi amici, dopo aver salutato il Presidente e il maggiore Whittaker, tornarono verso l'albergo. I due uomini che virtualmente governavano Marte lì accompagnarono con lo sguardo finché li videro sparire nelle anguste strade, poi Hadfield si rivolse alla figlia.
«Adesso corri a casa» le disse con dolcezza. «Io e il maggiore Whittaker andiamo a fare due passi. Rientreremo tra mezz'ora.»
Rimasti soli i due uomini attesero ancora per un po', rispondendo ai saluti che venivano loro rivolti dai passanti. Infine la minuscola piazza restò deserta. Il maggiore che aveva intuito di che cosa Hadfield voleva parlargli, aspettava con un po' di apprensione.
«Ricordami di congratularmi con George per lo spettàcolo di stasera» cominciò Hadfield.
«Già» disse Whittaker. «Niente male la botta rivolta al nostro comune rompiscatole, Gibson. Immagino che aprirai subito un'inchiesta sulla sua ultima prodezza.»
A un'allusione talmente diretta il Presidente rimase alquanto sconcertato.
«Veramente è un po' troppo tardi... e in fondo non ci sono prove che ne sia venuto un gran guaio. Però sto pensando a quello che bisogna fare per impedire che in futuro succedano altri incidenti del genere.»
«Non si può neppure farne una colpa al conducente. Era completamente all'oscuro del Progetto ed è stato per pura e sfortunata combinazione che è andato a ficcare il naso dove non doveva.»
«Credi che Gibson sospetti qualcosa?»
«Francamente non lo so. È un tipo piuttosto astuto, che sa dissimulare con molta abilità.»
«Guarda un po' se mi doveva capitare tra i piedi un giornalista proprio adesso. E lo sa il cielo quello che ho fatto per tenermelo alla larga!»
«È probabile che non ci metta molto ad accorgersi che qui sta maturando qualcosa. Secondo me c'è un'unica soluzione.»
«Quale?»
«Parlargli schiettamente. Non dirgli tutto, magari, ma qualcosa sì. L'essenziale, almeno.»
Proseguirono in silenzio per alcuni metri. Poi Hadfield disse: «Mi sembra una decisione drastica. Questo presuppone una fiducia completa in Gibson.»
«L'ho seguito parecchio in queste ultime settimane. Sostanzialmente è dalla nostra parte. Noi stiamo facendo proprio quello di cui Gibson ha scritto per tutta la vita, anche se non ne è del tutto convinto. Sarebbe invece deleterio lasciarlo tornare sulla Terra con un sospetto. Molto meglio dirgli almeno in parte di che cosa si tratta.»
«Ci penserò» disse Hadfield tornando sui propri passi. «Naturalmente molto può dipendere dalla rapidità con cui si attuerà il progetto.»